Redemption.

di Dave1994
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Colui che giunge con la tempesta. ***
Capitolo 2: *** La profezia. ***
Capitolo 3: *** Penombre. ***
Capitolo 4: *** La Città Nera. ***
Capitolo 5: *** Voci nell'ombra. ***
Capitolo 6: *** Nictofobia. ***
Capitolo 7: *** Al chiaror dell'alba. ***
Capitolo 8: *** Nella tana del lupo. ***
Capitolo 9: *** Il travaglio. ***
Capitolo 10: *** Sulla fede e la ragione. ***
Capitolo 11: *** Gambetto di donna. ***
Capitolo 12: *** Liberi,fatali. ***
Capitolo 13: *** Fuoco. ***
Capitolo 14: *** Esequie in mare. ***
Capitolo 15: *** In catene. ***
Capitolo 16: *** La porta. ***
Capitolo 17: *** In fuga. ***
Capitolo 18: *** Fatalità. ***
Capitolo 19: *** Il nero vessillo. ***
Capitolo 20: *** La Caduta di Arlathan. ***
Capitolo 21: *** La voce del vento. ***
Capitolo 22: *** La quiete prima della tempesta. ***
Capitolo 23: *** Nightfall. ***
Capitolo 24: *** Zenit. ***
Capitolo 25: *** Oltre il Velo,oltre il cuore. ***
Capitolo 26: *** Predestinazione. ***
Capitolo 27: *** L'Inquisizione. ***
Capitolo 28: *** Avviso ai naviganti lettori. ***



Capitolo 1
*** Colui che giunge con la tempesta. ***


Il vento gelido mi sferzava il volto con violenza, mentre i carcerieri attorno a me sogghignavano nel trascinarmi lungo il suolo innevato, legato ad una dura tavolta di legno. Provavo sì dolore per lo sfregare delle corde che mi legavano le mani sulla pelle, ma mai intenso quanto la rabbia che provavo segretamente nel mio cuore: per Akatosh, avrei voluto strappare loro gli occhi dalle orbite.

Valutai le mie possibilità.

Quattro soldati imperiali, tra i quali un Alto Generale dell'esercito, armati di spade, guardinghi ed attenti.

Avevano scomodato i pezzi grossi per me.

- Ehi, ragazzi – urlai, beffardo – che ne dite di andarci a bere tutti insieme qualcosa qua vicino? Se non sbaglio Solitude non è tanto lontana da qui. -

Il più grosso, una medaglia esposta tronfiamente sul petto, mi schiaffeggiò violentemente con il dorso della mano e all'istante sentì il dolorosamente familiare retrogusto di ferro e sangue. Ne sputai un grumo, ma non per questo mi fermai.

- Che ti prende, Marcantonio? Non sai fare di meglio? Andiamo, alla Fortezza i tuoi amici sapevano andarci molto più pesante. - dissi, provocandolo. Per fortuna nessuno di loro udì l'insicurezza nella mia voce, come quella di un giocatore che abilmente bluffa quando il piatto si fa particolarmente alto.

- Capitano – disse l'omaccione, portando con noncuranza la mano sull'elsa della spada – è proprio necessario portarlo fino a Ponte del Drago? -

L'individuo in testa alla fila si voltò e, con la coda dell'occhio, ne scorsi lo sguardo diffidente. Addirittura quasi selvaggio, come un animale che valuta le possibilità prima di attaccare la preda.

- Gregorius deve interrogarlo, Hadlen – disse, la voce rotta dal fischiare del vento – pare che sia in possesso di informazioni...preziose, non è così? -

- Oh, ci puoi scommettere – gli risposi astiosamente – chi non vorrebbe sapere quanto è dannatamente brava tua madre a letto? -

- Ignoratelo. - sentenziò Gamlen, voltando nuovamente la testa avanti a sé. Skyrim era piena di pericoli e non valeva la pena rischiare la vita per rispondere ad un detenuto.

L'ordine fu eseguito alla lettera e persino il Marcantonio di nome Hadlen si voltò dall'altra parte, limitandosi a strattonare la corda alla cui estremità erano legate le mie manette. Ah, solo una corda di duro tessuto mi separava dalla libertà! Se avessi avuto un coltello, od anche una forcina...

Ma per mia sfortuna non avevo niente di tutto questo e mi rassegnai, chinando la testa. Muschi e licheni danzarono davanti ai miei occhi, mentre gli unici suoni percepibili furono per un po' l'ululare del vento ed il rumore degli stivali appartenenti ai soldati imperiali sulla terra innevata. Volsi lo sguardo al cielo e mi parve così bianco che nemmeno la neve attorno a me avrebbe mai potuto avere la stessa tonalità.

Per gli Dei, non sarei sopravvissuto alle prossime ore. Me lo sentivo dentro di me.

Sapevo cose. Cose che all'Impero facevano scomodo e per questo sarei stato semplicemente tolto di mezzo.

Diamine, era tutto iniziato con quello stramaledetto Ulfric. Lui e i suoi folli ideali di libertà e giustizia! Mi ero fatto trascinare in qualcosa dal quale uscirne era semplicemente impossibile: una volta che fai parte dei Manto della Tempesta, sei marchiato a vita.

L'Impero non ama i dissidenti.

Eppure, lo Jarl di Windhelm aveva ragione.

L'Impero era una minaccia per la libertà delle genti di Skyrim, la quale appartiene ai Nord da sempre.

E poi, l'avevo vista.

La folle brama di potere negli occhi dell'Imperatore.

Avrebbe messo a ferro e fuoco questa terra solo per il suo puro tornaconto personale. Avrebbe schiavizzato o massacrato coloro che si sarebbero opposti a lui, senza nemmeno permetter loro di proferire parola.

Non mi accorsi che il rumore assordante del vento gelido, che fino a poco prima mi ronzava nelle orecchie, era cessato all'improvviso.

Guardai interrogativo il Capitano, che guardingo si mosse impercettibilmente sulla difensiva.

Qualcosa non quadrava: l'atmosfera si era fatta all'improvviso greve e pesante. Il Marcantonio di nome Hadlen si guardò attorno, la mano chiusa a pugno.

- Capitano... -

- Shhht. - sussurrò lui, facendo guizzare gli occhi qua e là per la radura. In un attimo sfoderò la lunga spada, scintillante alla luce del sole per gran parte coperto dalle nubi.

Qualcosa non quadrava decisamente: questo era evidente a tutti noi. Non solo il mondo intero sembrava essersi acquietato attorno a noi, ma perfino la stessa aria che respiravamo sembrava essersi rarefatta notevolmente. Inoltre, il mio acuto e ben addestrato sesto senso strillava a squarciagola la presenza di un pericolo imminente.

- Capitano, è opera di magia? - chiese un membro del quartetto imperiale, che prima nemmeno mi aveva degnato di uno sguardo: in quel preciso momento mi accorsi del suo naso aquilino e del colorito brunastro chiaro della sua pelle. Un Atmer di sicuro.

Il razzismo è alquanto raro a Skyrim, ma in quel momento un'improvvisa vampata mi odio mi colse in pieno. L'Impero stava sottomettendo e uccidendo la sua gente: possibile che avesse il coraggio di schierarsi dalla sua parte e di servirlo fedelmente, come un cagnolino cieco ai desideri del suo padrone?

- L'orso caga nel bosco? - gli sputai quasi contro, ma mi ignorò bellamente. Hadlen mi fulminò con lo sguardo, per poi tornare ad attendere un qualunque ordine del capitano.

- In guardia. -

Al suo ordine, tutti scattarono in formazione difensiva. Intanto, mi chiesi chi diamine potesse mai sprecare il suo tempo nell'attaccarci: erano forse i Manto della Tempesta, venuti in mio soccorso?

No”, mi risposi, “loro ci avrebbero attaccato frontalmente in preda a una furia incontrollata, urlando insulti e affronti alle madri dei soldati intorno a me”.

L'unico esponente di spicco nelle vicinanze,il capitano e generale dell'Ottava Brigata Imperiale Gamlen Thediàs, digrignò i denti: nella sua lunghissima esperienza sul campo di battaglia mai era stato sopraffatto e questa volta non sarebbe stato da meno alla sua reputazione. Insieme a un pugno di soldati, era riuscito a radere al suolo un intero plotone di Manto della Tempesta prima di battere in ritirata.

Quasi mi sorpresi che l'Impero mi desse tanta importanza.

Nell'esatto momento in cui giunsi a queste considerazioni, qualcuno stramazzò rumorosamente a terra. Era proprio l'Atmer che poco prima aveva parlato: i suoi occhi, strabuzzati e scioccati, parevano esprimere tutta la sorpresa e lo stupore di questo mondo.

- Ma che diavolo...? - urlò il capitano, quando una voce spezzò il silenzio angoscioso che era venuto a formarsi.

- Accogli tra le tue amorevoli braccia questa creatura smarrita, o Creatore dell'universo. -

 

 

- CI ATTACCANO! -

L'urlo del capitano infranse la rigidità dei suoi sottoposti, mentre il rumore di spade che vengono estratte con violenza dal fodero fendette l'aria, minaccioso.

Qualcuno comparve a meno di dieci metri da noi, confuso in mezzo agli alberi. Poi ricomparve alle nostre spalle, un'ombra sfuggente che si divertì a scomparire alla nostra vista nuovamente.

Hadlen torse il polso agitando al contempo le dita della mano destra e un'esplosione di luce e calore improvvisi mi costrinse a socchiudere gli occhi, accecato dal riverbero della neve circostante. Quando li riaprii, una figura umanoide avvolta completamente da lingue di fuoco mi si stagliò davanti, furibonda e terribile. L'Atronach sollevò le sue esili braccia fiammeggianti e incendiò gli alberi attorno a noi semplicemente guardandoli: l'aria intorno a noi si riscaldò in maniera insopportabile, facendomi scendere rivoli di sudore lungo la schiena, mentre l'arcana presenza mi causava nello stesso momento brividi freddi lungo la schiena.

Mentre la radura veniva inghiottita dalle fiamme, una figura umana ne attraversò le lingue di fuoco alte più di due metri e fu in quel momento che vidi per la prima volta quello che sarebbe stato il mio salvatore: era un uomo dalla lunga tunica svolazzante, il cui colore non riuscì a identificare a causa della luce generata dal fuoco attorno a noi. Nella sua mano imbracciava un'asta di legno nero formato da due serpenti intrecciati tra loro, recanti quella che pareva la scheggia di una gemma nella loro bocca: l'assalitore valicò la barriera di fiamme creata dall'Atronach e puntò il suo bastone contro l'essere, che si disgregò in un oceano di scintille. Gamlen e Hadlen si lanciarono all'attacco, la spada sopra la loro testa pronta a cadere su quella dello stregone, mentre il terzo imperiale preferì prendere la mira con l'arco preso da dietro la sua schiena. Mentre l'uomo misterioso disegnava un arco di centottanta gradi sul terreno con il suo bastone, ebbi modo di constatare come fossero folti i suoi capelli neri, spettinati e sconvolti dalla battaglia, e la sua barba culminante in lunghe e selvagge basette. Ma furono i suoi ad attrarre la mia attenzione: erano di un azzurro intenso, come può esserlo solo il cielo delle migliori giornate primaverili o l'oceano visto dall'alto, sopra le nuvole.

Come la punta del suo bastone si staccò da terra dopo aver tracciato una semicirconferenza davanti a sé, creste di ghiaccio alte quanto lui si sollevarono improvvisamente frenando l'avanzata dei soldati imperiali: l'immagine del suo volto si riflesse davanti a loro come in uno specchio, un'espressione calma e paradossalmente compassionevole dipinta sul viso.

- In nome dell'Impero! - sbraitò Gamlen, battendo la sua spada sulla superficie ghiacciata a pochi centimetri dal suo volto – arrenditi, o... -

- Basta compromessi. - sussurrò l'uomo, sfilandosi uno stiletto dalla tunica e scagliandolo con indicibile violenza contro il terzo imperiale che cadde a terra con la lama conficcata in un occhio, la freccia appena incoccata nell'arco. Poi aggirò l'ostacolo da lui stesso creato per fermare i due soldati e agitando il suo bastone colpì alla nuca Hadlen, stendendolo: con un'altra rotazione ne puntò l'estremità inferiore contro Gamlen e vidi che recava una sottile lama d'acciaio, dall'aspetto mortale. Il capitano non rimase a guardare e sferrò un fendente orizzontale perfezionato da anni di carneficina e massacri, ma come la punta della sua spada si avvicinò al mago parve arrestarsi da sola, sospesa nell'aria. Gamlen osservò stupefatto quell'incredibile prodigio e questo gli fu fatale: l'uomo lo trafisse in pieno petto, trapassando acciaio, carne e ossa. Mentre l'aria stupefatta dipinta fino a pochi istanti prima sul suo volto andava tramutandosi in una maschera di orrore e paura, rivoli di sangue cominciarono a scendere dalla bocca del capitano, in un gorgoglio cupo e terribile che andò accentuandosi in un urlo quando lo stregone sfilò lentamente dal suo petto l'estremità del bastone magico. La lama sottile, prima di metallo rilucente, ora era tinta di rosso vermiglio.

Il corpo morto di Gamlen cadde al suolo, come una marionetta cui erano stati tagliati i fili all'improvviso. Hadlen, ripresosi dal colpo alla testa, tese la mano sinistra contro l'assalitore e scintille si diramarono dalla punta delle sue dita, dirette contro l'uomo dalla lunga tunica. Ora riuscivo a riconoscerne il colore: era di un blu scuro, quasi nero, pari a quello che del cielo notturno: ghirigori dorati la attraversavano da parte a parte, serpeggianti. La sua sola vista mi affascinava, ipnotizzandomi.

L'uomo batté il suo bastone per terra e le scariche dirette verso di lui colpirono il duro legno nero, senza tuttavia danneggiare il suo possessore: la scheggia alla sommità del bastone si illuminò brevemente di una luce sanguigna e lo stregone riversò contro il soldato imperiale il suo stesso potere, amplificato di mille volte: Hadlen stramazzò al suolo, carbonizzato per metà, mentre un terribile lezzo di carne bruciata invadeva le mie narici.

La radura bruciava ancora tra le fiamme e le punte di ghiaccio evocate magicamente, alte quasi due metri, iniziavano a sciogliersi al calore dell'incendio.

L'uomo roteò il bastone magico per poi riporlo dietro la sua schiena. Mi osservò con un'espressione indecifrabile, arcana: dubitai fin da subito del fatto che fosse lì per uccidere anche me.

- Chi sei? - gli chiesi, cercando di forzare i legacci che mi tenevano prigioniero alla tavola di legno gelata cui ero saldamente legato. Lo stregone sollevò la mano destra e quelli si spezzarono da soli, come per magia.

Un mago in mio soccorso? Assurdo”, pensai. I Manto della Tempesta diffidano da sempre della magia: avrebbero mandato una dozzina di buone mazze a salvarmi, piuttosto che uno stregone dall'aspetto terrificante. Anche a metri di distanza, riuscivo ad avvertire il suo potere: era come essere investiti a più riprese da una doccia prima fredda e poi calda, una pulsazione invisibile che mi attraversava da parte a parte scombussolandomi nel profondo del mio animo.

- Non ti servirebbe saperlo – mi rispose, avanzando lentamente verso di me – ciò che conta è che ti ho salvato. Ti avrebbero torturato e poi ucciso, e questo lo sai. -

- Invero. Ti ha mandato Ulfric? -

- A mandarmi, fratello – disse, sorridendo impercettibilmente – è stato il Creatore. -

Lo guardai di traverso, come se fosse ammattito improvvisamente. Di che diavolo stava parlando, quell'uomo?

- Non conosco il Creatore di cui parli, stregone. Parli di Akatosh, Padre di Tutti? -

- Col tempo, avrai modo di giungere alla verità. - concluse, passandosi una mano sui capelli e mandandoli all'indietro – ma ora credo dovremmo andare, se non vuoi che altri come loro ti diano la caccia. -

E mi indico i quattro cadaveri al suolo, dagli occhi vacui e senza vita.

- Non so nemmeno chi sei. Perché dovrei seguirti? -

- Perché sono la tua unica salvezza, e tu la mia. -

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Capitolo 2
*** La profezia. ***


Di vento e ghiaccio infuriavano le strida, assordanti e quasi insopportabili. Alle spalle del mio salvatore procedevo, senza vacillare o esitare: per una qualche strana ragione riponevo un'incrollabile fiducia in quell'uomo dalla folta criniera castana. Pareva quasi un leone, in mezzo a queste foreste senza tempo.

Cominciai a tremare da capo a piedi, indolenzito dalla marcia e dal freddo impietoso: in un attimo vi fu uno schioccar di dita e delicate fiamme si affiancarono a me, timide ma irraggianti un confortante senso di calore.

- Così va meglio? - domandò lo stregone, la tunica svolazzante al vento impetuoso proveniente da ovest. Non pareva sentire minimamente la morsa del freddo e anzi, sembrava irridere gli elementi stessi con quella luce così particolare nel suo sguardo. Dalla sua figura emanava un potere incredibile, quasi percepibile al tatto: lo sentivo attraversare il mio corpo come una corrente elettrica.

- Sì – risposi, senza più battere i denti – ti ringrazio. -

Lui annuì, proseguendo lungo la strada innevata.

- Dove siamo diretti? - domandai, mentre uno struggente appetito mi faceva contorcere le budella. Dio, quanto avrei voluto addentare un delizioso Skeever arrosto.

- In qualsiasi posto che non sia questo. Abbiamo molto di cui parlare. -

Rimasi in silenzio, senza capire. Da un momento all'altro questo sconosciuto era entrato nella mia vita, salvandomi da un'esecuzione quasi certa: sosteneva di essere stato inviato da un qualche dio pagano e mi aveva indicato come “la sua speranza”.

Ironico, quando io stesso ne avevo ben poca riguardo al futuro in serbo per me.

- Come ti chiami? - chiesi semplicemente, ansioso di conoscere un nome con il quale chiamarlo nei prossimi tempi a seguire.

L'uomo si voltò verso di me e incrociai involontariamente il suo sguardo: a folgorarmi, più del nocciola delle sue iridi, fu la profondità di quella luce così misteriosa e sconosciuta.

- I nomi sono una cosa potente, Sebastian – disse, e io sobbalzai a quelle parole – sono piccoli e sembrano insignificanti, ma in realtà celano un potere tutto loro. -

Lo stregone tornò a guardare la strada, camminando lentamente sulla superficie ghiacciata del terreno.

Come conosceva il mio nome?

Poi si arrestò all'improvviso e sussurrò:

- Ma se lo desideri, puoi chiamarmi Tevinias. -

 

 

Due ore dopo, giungemmo a una locanda sperduta tra le montagne, apparentemente da qualche parte intorno a Morthal. Potevo vedere il severo profilo della città stagliarsi all'orizzonte, di poco sotto di noi. Entrammo e la solita accoglienza nord ci si prospettò davanti: nessuno sembrò far caso al bizzarro abbigliamento del mio compagno di viaggio. Ci sedemmo un tavolo e io ordinai una bella bottiglia di idromele, di quello fatto con le more e capace di stordirti al solo guardalo: Tevinias chiese invece dell'acqua, sotto gli occhi sprezzanti dell'oste.

Poi, l'uomo mi guardò negli occhi e rimase in quella posizione per una ventina di secondi, quando finalmente decisi di fare qualcosa a riguardo.

- Nel caso te lo stessi chiedendo, ho una moglie che mi aspetta a Windhelm. -

Per la prima volta da che l'avevo incontrato, lo stregone rise di gusto e io percepì in quella risata una gamma di emozioni totalmente contrastanti, dalla gioia alla malinconia più profonda. Poi, sorridendo, bevve dal suo calice e incominciò a parlare.

- Non sono quel genere d'uomo, non temere. E' solo che pensavo fosse...qualcun'altro. -

- Qualcun'altro cosa? -

- Insomma, quando c'è di mezzo una profezia, ci si aspetta un cavaliere armato di tutto punto e dal nome altisonante. Un eroe con tutti i crismi. -

- Una profezia? - domandai, attonito. O quell'uomo stava dando i numeri, o era maledettamente serio.

- E' una storia così lunga, amico mio – rispose, gli occhi sognanti e persi in qualche ricordo noto soltanto a lui – così vecchia che nemmeno immagini. Inoltre, non penso mi crederesti. -

- Direi che a questo punto non puoi più tirarti indietro, no? - osservai, sorseggiando l'idromele. Nel frattempo, mi chiesi se l'Impero avesse già incominciato a cercarmi. Mi immaginai da qualche parte, là fuori, soldati ornati del rosso dell'Impero intenti a darmi la caccia, la spada in mano e lo sguardo da aquile voraci puntato all'orizzonte.

No, non dovevano trovarmi. Le informazioni che portavo con me erano troppo preziose: sarei morto per proteggerle.

Le basi tattiche dei Manto della Tempesta, i vari depositi di armi lungo la regione, tutto quanto! La ribellione sarebbe stata possibile solo grazie a tutto quello e questa conoscenza in mano all'Imperatore sarebbe risultata fatale per Ulfric e per tutti i suoi.

E mentre riflettevo su tutto ciò, lo stregone parlò.

- Sapevo di trovarti in quel posto, alla precisa ora di quest'anno. Il Creatore me l'ha detto. -

- Questo è...bizzarro. E poi? -

- Basta, tutto qui. -

Alzai un sopracciglio, cercando di giudicare la situazione. Non aveva per niente senso, tutto ciò.

- Fingiamo anche solo per un attimo che tu sia realmente convinto di quello che dici e che una qualche divinità ti abbia riferito dove e quando trovarmi. Quello che mi viene da chiedermi è: perché? -

- E' quello che vorrei scoprire anch'io. -

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Capitolo 3
*** Penombre. ***


E mentre i due uomini dialogavano, gli alberi attorno alla loro locanda vibravano all'incessante potenza del vento proveniente da Ovest, sempre crescente ogni secondo che passava: sembrava che Akatosh stesso fosse intento a soffiare con il suo gelido fiato su tutta Skyrim, spezzando il silenzio delle sue enormi lande deserte.

Poco distante, ombre avanzavano fameliche lungo il Passo della Roccia Fredda: nessuno le avrebbe individuate, immerse quali erano in quella terribile tempesta. Spire di tenebra, ombra indomata! Avvolgevano tutto ciò che si trovava sul loro cammino, fagocitandolo per poi distaccarsene con un cupo gorgoglio. Neri filamenti, scuri come la notte stessa: un'entità antichissima, forgiata nel fuoco dell'odio e della vendetta.

L'essere si avviluppò attorno ad un albero e scrutò l'orizzonte con quella che pareva essere la copia deformata di una testa umana: orbite vuote, senza vita, sembrarono divorare il paesaggio con crescente avidità.

- Hai sentito qualcosa? - chiese una voce dal tono incerto: l'ombra si rizzò in un guizzo nervoso, scattando sull'attenti. Poi plasmò la sua forma e la adeguò al tronco del pino ove era adagiata.

Due avventurieri, ornati del rosso dell'Impero.

- Come diavolo sei riuscito a sentire qualcosa sopra il frastuono del vento? A malapena riesco a udire la tua voce. -

Il più basso si grattò la testa, mentre il suo fiato andava condensandosi davanti al suo viso. L'altro, un Argoniano, fece serpeggiare la lingua a mezz'aria.

- Giuro che ho sentito qualcosa. -

- Tieni a posto quell'affare – disse l'altro, un basso e paffuto Redguard – potresti cavare l'occhio a qualcuno. -

- Ti dico che c'è qualcosa. E se fosse un troll? - disse la lucertola, furiosa. L'ombra approfittò del breve istante di passaggio dei due soldati sotto il suo albero per sporgersi furtivamente nella loro direzione, scivolando pian piano lungo la corteccia e infine sul suolo gelato. Se uno dei due si fosse girato in quel preciso momento l'avrebbe vista, scura e appiattita come una vipera tra le rocce: ma così non fu ebbe perciò la possibilità di avanzare

ancora un poco

verso di loro.

- Non ha senso che dobbiamo essere noi a cercare il fuggitivo, quando da solo ha ucciso tutti gli altri. -

- Non era da solo...qualcuno è intervenuto. Mi sembrava evidente, anche per un pelleliscia come te – rispose l'Argoniano, stizzito dal vento – e più probabilmente dalla presenza del suo compagno -.

- A maggior ragione. -

- Perché non torni tu dal comandante e gli dici che ci siamo fatti scappare il ribelle? E poi, non devono essere andati lontani. Il vento li avrà sfiancati, almeno quanto sta sfiancando noi. -

L'altro grugnì un cenno di assenso e l'ombra restò immobile per diversi secondi.

Possibile che fosse...?

- E' pazzesco che uno stregone possa fare un disastro del genere senza nemmeno invocare un qualche spirito. – disse il Redguard, voltandosi per sicurezza dietro di sé: a Skyrim non si poteva essere mai certi di cosa

l'ombra si nascose lungo il fianco della strada, tra la vegetazione irrigidita dal freddo

attende dietro alle tue spalle.

- Non gli sarà rimasta nemmeno una goccia di magicka, dopo lo scontro. - rispose la lucertola e si fermò, avvertendo chiaramente qualcosa stavolta, poco distante da lei.

- Stavolta l'ho sentito. Qualcuno ci segue. -

E detto, sguainò la spada, gli occhi puntati lungo la strada.

L'ombra restò ferma lì dov'era, valutando attentamente la situazione.

Dopodiché agì e si solidificò all'istante, crescendo in altezza fino a raggiungere la statura di un essere umano normale ed assumendone in tutto e per tutto le sembianze: mentre prima non vi era altro che vento e alberi, adesso in mezzo alla tempesta avanzava un uomo apparentemente ricurvo su sé stesso, ingobbito dal peso degli anni.

- Chi è là? - tuonò l'Argoniano, avvistando l'uomo di poco distante. Da dove diavolo era apparso?

- E' solo un vecchio – rispose l'altro, togliendo mano all'arco sulla sua schiena – non c'è bisogno che scatti per ogni minuscola cosa. -

Il vecchio continuò ad avanzare verso di loro, indisturbato. Sebbene la sua imitazione fosse a dir poco perfetta, qualcosa cominciò a vacillare nella stessa: i suoi contorni si fecero più indefiniti, quasi liquidi. Nessuno dei due soldati se ne accorse: erano ancora troppo lontani per scorgere la graduale metamorfosi.

Anziché camminare, ora l'apparizione sembrava...scivolare lungo il terreno: l'Argoniano non lo vide e fece per parlare.

- Ha bisogno di.... -

Ora è abbastanza vicino a noi” pensò il Redguard, apparentemente senza motivo.

Tuttavia, così era: come un castello di carte crolla al tocco più leggero, così le sembianze umane che l'ombra aveva assunto per avvicinare i due soldati svanì, sostituite da una tenebra informe, una macchia nera ondeggiante al contatto con l'aria. Liquide protuberanze fuoriuscirono dalla massa incorporea e avvolsero il soldato Argoniano, riversandosi in ogni anfratto della sua armatura. La creatura strillò e l'essere ne approfittò per insinuarsi nella sua gola, facendo tacere la lucertola all'istante. Furono istanti eterni per il suo compagno, che non credeva ai suoi occhi: sguainò il pugnale appeso alla sua cintola e fece per colpire quell'oscurità ora priva di alcuna sembianza, ma questa lo disarmò con un tentacolo la cui consistenza parve al Redguard essere pari a quella della pietra. L'entità sollevò il suo braccio improvvisato sopra la testa dell'uomo e né mutò la forma, affilandola alle estremità: dopodiché, calò la mannaia improvvisata con crudele ferocia.

Il Redguard cadde a terra. O meglio: caddero a terra le due metà esatte del suo corpo, separato dalla cima del cranio all'inguine. I due monconi cominciarono a sanguinare sul terreno creando una pozza, la quale si allargava sempre di più fino a lambire i cigli opposti della strada.

L'ombra ridisegnò la sua forma, i suoi contorni fino a formare un'oscura matassa filiforme: poi, avvolse il soldato Argoniano in un bozzolo nero, lucido come la pelle tesa all'estremo.

La macabra marionetta si sollevò in piedi, esitante. Fece serpeggiare la lingua nell'aria gelida e i suoi occhi, neri come l'abisso, scrutarono un mondo ora più colorato e al contempo sinistro. Poi, un passo dopo l'altro, si mise in movimento.

Dietro di lei, le due metà del cadavere del Redguard fissavano stupefatte il cielo di Skyrim con occhi vacui e privi di vita.

 

 

- Cioè, tu non sai il perché di tutto questo? - sussurrai, attonito. Il discorso del mio stravagante compagno di viaggio cominciava sempre di più ad assumere note del tutto prive di senso, complice anche l'alcool che a ogni sorso si portava via una fetta del mio normale raziocinio.

- Qualcuno millenni fa definì il concetto di fede, Sebastian – disse Tevinias, allargando le braccia con fare imperioso – si può credere senza vedere, ma ci è impossibile vedere senza credere. La mia storia è talmente assurda, così fuori dal comune che mai riuscirebbe a convincerti della mia sincerità. -

- Devi fidarti di me. -

E detto questo, congiunse le dita delle mani e mi guardò negli occhi sorridente: nel fondo di questi scorsi la stessa luce che avevo intravisto poco prima e istantaneamente mi chiesi quale fosse il passato di quest'uomo e perché da lui trasparisse una tale aura di timore, reverenza e...

vergogna?

- Tu sei pazzo. - risposi, e feci per alzarmi: veloce come un serpente mi afferrò per la manica e con una forza a dir poco sconcertante mi trattenne.

- Posso mostrarti tutto. -

Lo guardai, stupefatto.

Di cosa diavolo stava parlando?

Tevinias si alzò e si avvicinò a me: ebbi paura, ma il tocco delle sue mani sulle mie tempie ebbe lo stesso effetto che ha il vento ghiaccio delle Montagne Innevate sulla Gola del Mondo e rimasi paralizzato, senza poter far nulla.

- Chiudi gli occhi, e osserva attentamente. Ecco, questo è il peso della mia colpa. -

Socchiusi le palpebre e...

...volai lontano dal mio corpo, fluttuando in una nebbia di ricordi e sensazioni che dapprima mi atterrì, poi mi disorientò totalmente.

Ero nella mente dello stregone e stavo scrutando con i miei occhi la sua stessa anima.

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Capitolo 4
*** La Città Nera. ***


In principio, vi era la più nera oscurità, come se fossi sprofondato nel baratro più tetro del cosmo. Poi un tenue chiarore cominciò a diffondersi pian piano, qua e là, e l'ambiente attorno a me si mostrò in tutta la sua estraneità: era come se stessi fluttuando, ma sotto di me potevo percepire chiaramente un suolo all'apparenza morbido come una soffice coperta di lana.

Dopo qualche secondo, mi resi conto di non essere solo: altri cinque uomini mi seguivano, tutti abbigliati nella stessa identica maniera.

Una veste da stregone e bastoni d'ogni fattura stretti nel pugno.

Tuttavia, vi era ancora qualcosa di strano...poi capii.

Le loro forme...erano trasparenti, come eteree: ebbi l'impressione di scorgere in loro l'ombra di ciò che è erano realmente altrove, nella loro fisicità incontestabile. Non erano spiriti: il mio istinto mi urlava a gran voce che quelli davanti a me erano persone non ancora trapassate.

E dunque, dove mi trovavo?

- Mio Signore – disse il più vicino a me, chinando il capo in segno di riverenza – ci siamo. L'incantesimo è compiuto. -

Lo scrutai attentamente e in quel preciso momento mi resi conto di non poter muovere gli occhi né a destra e né a sinistra. Provai a voltarli verso l'alto, ma anche questo mi risultò impossibile.

Fino al momento in cui compresi di essere imprigionato all'interno del mio stesso corpo, etereo e diafano come un vetro scintillante. Provai subito una fortissima sensazione di panico e cercai di gridare, ma le labbra erano come saracinesche abbassate e sigillate tra loro.

Cosa diavolo stava succedendo?

- Siate forti, compagni miei – pronunciai a mia assoluta sorpresa, senza potermi opporre alle mie labbra all'improvviso redivive – il cammino è aspro, ma il successo ci arriderà. E poi l'unico limite sarà il cielo. -

Espressioni arroganti e fiere sbocciarono sul volto dei presenti, mentre io,beh...stavo morendo di paura. Poi il mio corpo si mosse, quasi all'improvviso possedesse vita propria, e le gambe cominciarono a susseguirsi l'un l'altra con passo affrettato ma deciso. Ero spettatore di quella strana visione e la stavo vivendo dal punto di vista di uno degli stregoni. A giudicare dal cenno di deferenza che l'individuo ammantato alla mia destra mi aveva rivolto, dovevo ricoprire una carica particolarmente importante, forse persino il leader di quella stravagante combriccola.

Avanzammo così in avanscoperta lungo quella che pareva essere una strada fatta di rocce e sterpi, ma qualcosa non tornava...quella sensazione di fluttuare nel nulla ancora permaneva e sebbene non riuscissi a muovere alcun arto, né ad avere alcun controllo sul corpo nel quale mi ritrovavo prigioniero, potevo percepire il mondo attorno a me attraverso i suoi sensi. Il sentiero sotto i miei piedi era leggiadro, come precario sul suo asse improvvisato: l'intero mondo attorno a me parve privo di senso e se ne avesse posseduto alcuno, questi era a me del tutto alieno. Dove stavo andando?

Pensai a mia moglie, lontana chissà quante leghe e interi mondi: quello attorno a me non sembrava trovarsi nemmeno sulla Terra. Windhelm pareva ormai un ricordo lontano e la mia bella Lydia, con quei capelli così biondi e gli occhi così castani, mi sembrava solo un sogno. Come quello che stavo vivendo in questo momento. Ogni cosa, dalla Ribellione all'Impero, sembrò svanire di alcuna reale importanza: la mia conoscenza logistica di ogni risorsa, sia armata che non, dei Manto della Tempesta mi parve assolutamente inutile.

O almeno cominciò a sembrarlo al percepire una sensazione incomprensibile, alla quale sarei riuscito ad associare solamente una parola.

Timore.

- Eccola, è là. - disse un altro stregone, dalla pelle scura come l'ebano delle foreste di Rorikstead – la Città Dorata. -

I miei occhi si mossero da soli, al fine di focalizzare un punto in lontananza. Dapprima non vidi niente, ma poi...

Guglie altissime si stagliavano verso il cielo, quasi con l'intenzione di volerlo perforare. Quella che pareva essere la più grande opera dell'architetto più geniale mai esistito sembrò attendere, prima di mostrare la sua reale magnificenza: un palazzo quasi privo di confini fisici dominò improvvisamente l'orizzonte, sbucando dal nulla. Colonne, archi e pinnacoli danzarono davanti ai miei occhi, dai contorni sfuggenti come fumo: tuttavia, c'era qualcosa nella stessa definizione di Città Dorata che non riuscii a comprendere.

La costruzione soprannaturale e misteriosa era nera di una tonalità che non riuscii ad associare alla normale definizione di “nero” a tutti comune: come si può descrivere un colore? Quello che stavo vedendo non era più la risultante di tutte le gamme cromatiche, bensì la totale assenza di qualsiasi umana emozione: non v'era speranza, gioia, dolore o rassegnazione in quell'oceano oscuro, solo un inerte senso di potere silenzioso ed immobile, come un gigante che respira nel sonno e fa tremare la terra sotto di lui.

- E' completamente nera... - sussurrò uno stregone alle mie spalle, forse lo stesso che mi aveva interpellato qualche minuto prima – non riesco quasi a distogliere lo sguardo da... -

Non ebbe modo di terminare la frase. La massa che componeva quell'immenso costrutto parve sciogliersi come cera fusa e ricomporsi attorno a noi, fino a creare angoli impossibili e geometrie sconosciute: la marea nera ci avvolse ed ebbi la consapevolezza di essere totalmente impotente. A nulla servì tentare di sollevare il bastone magico nella mia mano destra, poiché nemmeno in un momento di tale pericolo il mio corpo mi obbedì. Vidi però lampeggiare tutto intorno a me bagliori di luce, globi incandescenti e fiamme di un blu elettrico insopportabile agli occhi.

- Arconte! - urlò uno dei miei compagni, guardando verso di me: dunque, era questo il mio titolo? Mentre cercai di interrogarmi, la terra svanì sotto ai nostri piedi e tutti e sei cominciammo a cadere, diretti verso il vuoto più assoluto. Zampilli di materia nera trafissero i miei compagni nel centro del petto e li vidi mutare orribilmente davanti ai miei occhi, mentre i loro tratti andavano sempre di più deformandosi...

 

...e vidi in quel momento una landa infuocata davanti ai miei occhi, alberi spezzati e sterpi in fiamme all'avanzare di un'orda di mostri, famelici e spietati.

La Prole Oscura era nata quel giorno, ed era tutta colpa nostra...

 

Un bagliore di luce mi avvolse. Cercai di oppormi, ma scivolarci dentro era inevitabile, come lo è respirare...

E la rividi un'ultima volta.

Quella spaventosa città, profanata dai nostri indegni occhi.

Quel luogo alieno, di timore e alterigia, nel quale nessun uomo avrebbe mai dovuto mettere piede.

 

 

Ripresi coscienza urlando, pronto ad avvertire nuovamente quella sensazione di precipitare in mezzo al nulla che ancora non avevo scordato. Tuttavia mi accorsi subito di essere sdraiato sul pavimento, rivoltato da un lato: Tevinias lo stregone era sopra di me, con un'espressione mesta e indecifrabile.

Faticai ad alzarmi e anche se trovai il braccio del mio compagno a sorreggermi, ancora dovevo...

...riabituarmi?

...a come si usavano le gambe.

- E' tutto a posto - disse lo stregone ad alta voce, rivolto agli altri presenti nella locanda – ha avuto un attacco, ma ora sta bene. -

Riuscii a intravedere un Khajiti e un Nord intenti a scrutarci con finto interesse, prima di essere voltato dall'altra parte. L'oste, un Bretone dal profilo particolarmente affilato, ci raggiunse e ci chiese se ci serviva una mano, ma Tevinias lo ringraziò mandandolo via con un cenno della mano. Intanto la visione di poco prima ancora occupava ogni mio pensiero e quasi non mi resi conto di quegli occhi castani così profondi intenti a fissarmi, come in attesa di qualcosa.

- L'hai vista? -

- Che cosa? - gli domandai, anche se in cuor mio già sapevo la risposta. Ancora stavo cercando di dare una spiegazione a quello che avevo visto.

- La Città Nera, amico mio. Le hai viste anche tu, quelle guglie così imponenti: non riesci a immaginare quale magnificente entità possa averle create? -

- Io...io...non ne ho idea. -

Tevinias sorrise e per l'ennesima volta scorsi quella strana luce nel fondo dei suoi occhi, quell'ombra di...

bramosia? Cupidigia?

...senza farci però troppo caso. Ero ancora terribilmente scosso nel profondo e una marea di interrogativi mi assalì, quasi levandomi il fiato. Lo stregone sorrise fino a mostrare i denti e stavolta mi chiesi davvero se fosse in realtà completamente pazzo.

- Il Creatore, figliolo. Lui stesso risiede in quella città. -

 

 

Era abbastanza vicino da fiutarne l'invisibile traccia.

L'ombra mosse come un marionetta il collo dell'Argoniano, irto di punte sul retro, facendolo voltare verso est. Poi ne fece scattare le gambe in un'orrenda avanzata, al contempo disarticolata e spedita, mentre la postura andava sempre di plasmandosi con l'ausilio degli arti superiori: mentre prima pareva essere un soldato imperiale quello a camminare sul sentiero di rocce e neve, ora lanciata all'inseguimento vi era una belva dall'aspetto rettilesco, le zanne dischiuse e la lingua serpeggiante nell'aria.

Sì, era vicino.

Lo avrebbe preso di sorpresa, prima che potesse fuggire come le altre volte.

La notte calò su Skyrim e raggi di una luna ancora non piena illuminarono la foresta, proiettando ombre sinistre sul terreno.

Era la notte giusta, pensò la creatura all'interno del cadavere rianimato. Se lo sentiva nell'anima.

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Capitolo 5
*** Voci nell'ombra. ***


Ashlotte socchiuse gli occhi, prendendo la mira con cura. La lama del coltello posta tra l'indice e il medio della sua mano destra scintillò alla fievole luce della torcia, quasi ammiccando come un gatto. Tese i muscoli del braccio, trattenne il respiro ed escluse ogni pensiero dalla sua testa.

- Ssssssscommetto cinquanta ssssssovrane che fa centro di nuovo. - sussurrò flebilmente una voce poco distante, da qualche parte dietro le sue spalle. A giudicare dal timbro sibilante e trascinato, doveva trattarsi di Veezara.

Non sapeva che il lucertolone avesse il vizio del gioco.

- Io ne scommetto sessanta che stavolta lo manca. - rispose Nazir, accennando un risolino – dopotutto, è l'ottavo che lancia. -

Ashlotte non ci fece caso. Mantenendo l'impenetrabile espressione che sempre l'aveva contraddistinta, scaricò tutta la sua forza nel braccio destro facendogli compiere un arco perfetto: il pugnale roteò instancabilmente, rilucendo cinereo agli occhi dei presenti...

...e si conficcò in mezzo agli occhi del manichino di legno posto a otto metri dall'assassina con tale violenza che la lama penetrò quasi fino all'elsa.

Un vociare confuso si sollevò tra il pubblico: chi si lasciava andare in cenni di complimento, chi in un contenuto stupore. Nazir batté le mani quattro volte, con enfasi.

- Eccezionale, come sempre! Mio rettilesco amico, pare che ti debba di nuovo dei soldi. - esclamò l'uomo, scoppiando in una bonaria risata. Fece correre la mano sul borsello appeso al suo fianco destro, vi rovistò dentro e ne estrasse una manciata di pesanti monete d'oro. Dopodiché, le fece cadere nel palmo dell'Argoniano intento ad osservarle con avidità: come potergliene fare una colpa, quando si trattava della minore delle colpe dei presenti in quella sala?

L'assassina dagli occhi azzurri fece scorrere lo sguardo lungo i suoi confratelli, soffermandosi ancora una volta su quelle toghe così nere, quasi simboleggianti la totale assenza di alcuna emozione. Ma sapeva che non era così: erano assassini votati a Sithis, mercenari senza nessuna pietà, ma dietro quegli occhi freddi e calcolatori si nascondevano persone da un passato difficile e tormentato.

E cosa più importante, lei lo sapeva. Sapeva leggere le persone, sin da quando era bambina. Veezara, per esempio, quando era ancora un cucciolo era stato l'unico sopravvissuto della sua famiglia, sterminata per mano di predoni delle lande ghiacciate. Aveva vagato per settimane, poi per mesi, nella più orrenda solitudine e in preda ad un dolore terribile.

Nazir, invece, proveniva dalle terre poste oltre il deserto di Alik'r, esiliato a vita da un rivale d'onore impadronitosi delle sue ricchezze.

Scrutò ognuno di loro, percependo all'istante la fitta trama di emozioni celate dietro la loro invisibile maschera. Sua madre le aveva sempre detto che si trattava di un dono prezioso, un acuto istinto di sopravvivenza.

La capacità di saper distinguere un individuo pericoloso da uno compassionevole a prima vista.

- Ehi, figliola – disse Festus, posandole una mano sulla spalla – è tutto a posto? Sembri pensierosa. -

La ragazza sorrise, ricambiando lo sguardo apprensivo dello stregone. Poi gli indicò il manichino poco distante, rivolta alla mortale ferita che gli aveva appena inflitto.

- La tua magia sarà potente, nonnino, ma questo non lo sai fare. -

L'anziano soppesò attentamente le parole di Ashlotte, come se questa gli avesse rivolto un problema di difficile risoluzione. Poi sollevò il palmo della mano destra all'altezza del suo volto, ne distese le dita e una fiamma di forma sferica guizzò ardente al centro di esso. Con uno scatto del braccio scagliò la palla di fuoco improvvisata nella direzione del manichino e un boato ruggì all'interno della caverna sotterranea: tutti si voltarono per osservare la scena.

Il manichino ora bruciava, emanando un delicato aroma di cedro affumicato. Lingue fiammeggianti lo avvolsero sempre di più, gradualmente, finché non fu ridotto ad una massa annerita e carbonizzata.

- Hai ragione, piccola mia – sussurrò, con un sorriso – ma questo è molto meglio. -

 

 

- Ottima dimostrazione quella di oggi, Ashlotte. Stai migliorando a vista d'occhio. - disse una voce calda e vellutata. Tuttavia, l'acuita percezione di Ashlotte le rivelò il tono falsamente cortese celato dietro le buone maniere e la diffidenza che Astrid oramai le riservava sin da quando era entrata a far parte della Confraternita Oscura.

La ragazza distolse lo sguardo dal caminetto davanti a lei e si voltò verso la sua superiore, scorgendo immediatamente la freddezza negli occhi dell'assassina. Non erano mai arrivate a odiarsi, questo no: tuttavia Astrid non aveva preso di buon grado la sua Iniziazione. Lo sguardo di Ashlotte di fece più penetrante e...

...ne scorse il timore, la paura di essere scavalcata con il tempo...

...accennò un sorriso.

- Ti ringrazio, Astrid: spero tu abbia scommesso su di me, a quanto pare Nazir ci è andato già pesante oggi. - rispose, lisciandosi i lunghi capelli biondi. In quel momento la persona alla testa della Confraternita si rese conto che quella ragazza era di una bellezza mozzafiato, quasi glaciale: era l'espressione perfetta della loro terra, l'incarnazione della bellezza selvaggia e immensamente variegata della stessa Skyrim. Scacciò tuttavia questi pensieri con facilità e si concesse una mezza risata, senza tuttavia abbassare la guardia.

- Non ho avuto questo piacere, purtroppo. Tuttavia non sono qui per una visita di cortesia: sto per affidarti il tuo secondo incarico. -

L'attenzione di Ashlotte fu subito ben desta: con un movimento rapido e aggraziato balzò in avanti e afferrò la busta sigillata in mano ad Astrid. Con l'unghia dell'indice ne fece saltare la ceralacca ed un diamante grosso quanto un occhio ne scivolò fuori, tra le dita dell'assassina.

- Pagamento anticipato? -

- Così pare. -

Ashlotte srotolò l'usuale foglio di pergamena utilizzato per contratti di questo genere e lo lesse con attenzione, senza tradire alcuna emozione.

- Sebastian Orion, di età venticinque anni. Viaggia in compagnia di un uomo nell'Hjaalmarch, molto probabilmente diretto verso Morthal. Di stirpe Nord, robusto e -

- “Molto probabilmente”? E' un territorio decisamente vasto. Come faccio a trovarlo? - domandò seccata l'assassina. Poi, l'occhio gli cadde sul nome del committente.

Gregorius.

L'attenzione di Ashlotte si focalizzò subito sullo stile di scrittura impiegato dall'uomo. Ne valutò il carattere sinistrogiro, con particolare attenzione agli occhielli delle g e delle d: la pressione esercitata sulla carta era leggera, quasi ricercata. Uno sconfinato egocentrismo pervadeva il soggetto autore di quella lettera, la consapevolezza di un'indubbia importanza per sé e per gli altri, forse una carica prestigiosa.

Poteva forse essere quel Gregorius...?

- Hai visto l'uomo che ha consegnato questa mandata? - chiese Ashlotte, dubbiosa. Si domandò se si potesse essere sbagliata, ma questo difficilmente era mai successo.

- No. Hanno eseguito il Rituale Oscuro e all'arrivo Gabrielle ha trovato solo questo. -

- Astrid...è mai successo che un membro dell'Impero commissionasse un omicidio per mano nostra? -

La donna corrugò le sopracciglia in un'espressione confusa. Raramente questo accadeva mai.

- Non...che io sappia, perché dici questo? -

Poi prese la missiva e socchiuse gli occhi, al pari di un gatto.

- Perché credi che si tratti del Gregorius tirapiedi dell'Imperatore? -

- I tratti delle consonanti e gli occhielli arricciati mostrano arroganza, sicurezza di sé fin quasi all'estremo. Potere? Forse una carica politica. - rispose Ashlotte e mentre parlava non si accorse dello stupore dipinto sul volto di Astrid.

Quella ragazza era davvero formidabile, ammise.

- La politica non ci riguarda – sentenziò la donna, con tono tagliente – le faccende dell'Impero e i Manto della Tempesta non ci riguardano. Sempre che la tua osservazione sia giusta. -

Ashlotte rimase assorta per qualche secondo ancora, poi ripiegò con cura la lettera in pergamena.

- Comunque sia, partirò tra un'ora, il tempo di rifocillarmi un po'. -

Le fiamme scoppiettavano nel camino, riscaldando la stanza dalle pareti di pietra. Mentre la luce del fuoco illuminava il volto di Astrid, questa posò una mano sulla spalla dell'assassina di fronte a lei, i capelli di un oro scintillante.

- Buona fortuna, consorella. -

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Capitolo 6
*** Nictofobia. ***


Col passare dei minuti il vento si acquietò, calando di numerose ottave il suo interminabile ruggito. A muovere le fronde degli alberi gelati ed intorpiditi non ne restò che un sospiro, un leggerissimo fiato delicato come il sussurro di un bambino. Quelle stesse nubi che fino a poco prima erano state portatrici di bufera si diradarono, lasciando il posto ad un cielo di un blu più scuro degli stessi fondali oceanici: una nitida luna si stagliava al centro di esso, simile all'occhio di un gatto che ammicca nella penombra.

Vacillai non appena il mio compagno di viaggio di posò al suolo: le mie gambe cedettero e solo la sua salda stretta mi salvò da una caduta inevitabile. La mia incredibile escursione in quel mondo dalle fattezze così aliene, dalla natura così mutabile, ancora si ripercuoteva sul mio intero essere.

- Tevinas... -

- Avrai molte cose da chiedermi, immagino. - mi interruppe lo stregone, con un sorriso bonario. Batté il bastone una volta per terra e dalla sua punta ne scaturirono lingue di fuoco brillanti, le quali contribuirono a donare un po' di tepore alle mie ossa gelate.

- Che...che cos'era quel luogo? Ma soprattutto...cosa vuoi da me? -

L'uomo di fronte a me sospirò paziente, volgendo lo sguardo verso quella luna così risplendente nell'oscurità della volta notturna.

Si bloccò, come se qualcosa di importante lo avesse folgorato lì sul posto.

- E' quasi notte. - sussurrò, paralizzato. Sul suo viso era dipinta un'espressione indecifrabile, di timore e....

...paura?

- A dire il vero, dev'essere già una certa ora. Tra poco queste foreste brulicheranno di creature e a giudicare da questa luna piena, credo che... -

- Dobbiamo andare. -

- Subito. -

Guardai Tevinas negli occhi e stavolta ne fui certo.

Era terrorizzato.

 

 

V'è un preciso momento della sera, quando le tenebre cominciano a calare sul mondo, chiamato crepuscolo, nel quale si ha la precisa percezione di un crescente morire degli ultimi barlumi di luminosità, lontano all'orizzonte. E sebbene siano in molti a trovare poetico questo sottile bilanciarsi di luce ed ombra, è solo perché alla gente piace vedere quello che vuole: c'è invece chi guarda con angoscia l'approssimarsi dell'oscurità.

Ed era proprio lo stesso tipo di angoscia quello che ora aleggiava nell'aria, osservò l'entità con i sensi mortali che aveva preso in prestito al corpo senza vita del soldato imperiale ora adibito ad un mero contenitore, uno specchietto per le allodole. Pungente e acre, crescente d'intensità di metro in metro.

L'Argoniano redivivo saggiò l'aria con la sua lingua guizzante e sibilò, pregustando la dolcezza dell'antica condanna.

 

 

- Non pensare, corri e basta! - urlò lo stregone, scattando di lato. Le sue gambe, lunghe e flessuose, percorrevano con ampie falcate il terreno e la sua veste svolazzava davanti a me, una macchia viola e nera dai contorni indefiniti. Fiacco e ancora spossato cominciai anche io a correre, il fiato gelido intrappolato nel petto: sentivo il sudore freddo lungo la mia schiena e in quel momenti ebbi la sensazione...

o la certezza?

...che ci fosse qualcosa alle nostre spalle, lanciato al nostro inseguimento.

- NON VOLTARTI! CORRI! - gridò una voce terrorizzata, ma disobbedii e lanciai di sfuggita un'occhiata tra gli alberi

mentre una crescente penombra andava lambendoli, come una macchia d'olio caduta per terra.

Pagai caro per quell'errore: un sasso traditore si frappose tra me e il mio compagno ed io non lo vidi. Sentii una fitta lancinante al piede destro e stramazzai al suolo graffiandomi il volto sul suolo gelato, mentre una sempre più forte sensazione di calore mi faceva avvampare la guancia e l'orecchio. Imprecai, cercando di rialzarmi e in quel momento lo sentii.

Qualcosa stava correndo nel mezzo degli alberi, qualcosa dal passo leggero e felpato. Il rumore che producevano le sue zampe a contatto con il terreno era leggerissimo, ma percepibile: chiusi gli occhi dalla paura, rassegnato...

...e un lupo bianco apparve dal nulla, saltandomi e procedendo la sua rocambolesca falcata. Prima che mi superasse ebbi modo di scorgere il lampo arancione dei suoi occhi selvaggi e ne percepii una paura ben più terribile di quella che abbia mai provato in vita mia: questa era primordiale, radicata negli strati più bassi della coscienza. Qualcosa che attende per tutta la vita di venir fuori, come una belva incatenata contro la sua volontà.

Mi rialzai di scatto e corsi come mai avevo corso prima d'ora.

Quel lupo stava scappando.

Qualcosa doveva averlo terrorizzato oltre ogni dire.

 

 

- Tevinas! - urlai, cercando il mio compagno di viaggio con lo sguardo. Il mio cuore batteva all'impazzata, al ritmo di un tamburo di guerra: sentivo la testa pulsare e mi resi conto di essere assolutamente disorientato. Dove mi trovavo?

Dove diavolo si era cacciato Tevinas?

Improvvisamente vidi un'ombra, poco distante da me, una sagoma umana che non tardai a raggiungere.

Troppo tardi mi resi conto del mio errore madornale.

- Eccoti, finalmente ti ho... -

Mi interruppi, mentre l'essere davanti a me si voltava rivolto nella mia direzione. Un Argoniano vestito del porpora imperiale, più brillante del cinabro, stava silenzioso ed immobile al centro di un'oceano sconfinato di foglie...

morte, oramai del tutto prive di alcuna vita

...fredde e ghiacciate.

La mia mano corse istantaneamente al coltello appeso alla cintola, sebbene ebbi la strana sensazione dell'inutilità di quest'ultima azione. Puntai l'arma contro il soldato imperiale, che mi scrutò con occhi smorti e senza luce. Poi mosse una zampa dietro l'altra: il rintocco dei suoi passi sul terreno aveva un che di gutturale e tetro. come la percezione che emanava da quell'essere.

D'un tratto, fui assolutamente sicuro che non vi era nulla di umano in quella diabolica apparizione. Il mio istinto urlava a gran voce di fuggire a gambe levate, senza mai guardarmi indietro.

Ero paralizzato, incapace di muovermi, come nella visione che Tevinas mi aveva procurato. Il mio corpo sembrava essersi incantato, rapito da quegli occhi così magnetici: sentii ossa e muscoli pietrificarsi pian piano, ogni secondo che passava.

Furono attimi immensi ed interminabili, fino a quando l'ombra di quello che un tempo era stato un Argoniano fedele alla causa dell'Impero fu abbastanza vicino da permettermi di vedere il riflesso stesso del mio volto nelle sue orbite nere.

La creatura estrasse i suoi artigli affilati, spalancando le zanne. Vidi nel suo sguardo una totale assenza di speranza...

...la stessa sensazione che avevo provato nell'ammirare l'altera maestosità della Città Nera, con le sue guglie quasi intente a perforare la volta celeste.

Mi rassegnai al mio destino nel momento stesso in cui la creatura fendette l'aria con un sibilo graffiante.

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Capitolo 7
*** Al chiaror dell'alba. ***


- SEBASTIAN! -

Feci per voltarmi, ma i muscoli del collo avevano cessato di rispondere ai miei comandi. Riuscivo solo a mantenere lo sguardo fisso su quella cosa dalle sembianze rettilesche, sebbene in qualche recondito anfratto della mia coscienza sapevo benissimo di trovarmi davanti a una mera illusione, una maschera portata in bella vista. E i suoi occhi, così neri e senza vita, parevano essere senza fondo: sclera, iride e pupilla erano ora riunite in un unico abisso senza luce, privo di qualsiasi emozione.

Mi sentivo prosciugato. Dove prima avrei normalmente provato paura, timore o anche solo il ben più primordiale istinto di sopravvivenza, adesso non vi era altro che vuoto, la più barbara apatia: avrebbe potuto farmi a pezzi e non me ne sarebbe importato niente.

Improvvisamente un boato riecheggiò in tutta la foresta, permeando alberi, foglie e radici: la creatura di fronte a me venne scagliata all'indietro, contro il tronco di un pino. Stramazzò a terra come una marionetta cui vengono tagliati i fili.

Mi voltai, mentre gradualmente il mio corpo tornava ad essere sotto controllo. Tevinias, il mio ben due volte salvatore, si ergeva al mio fianco: lessi nei suoi occhi la paura di chi rivede i fantasmi del passato. Il legno nero del suo bastone scintillava di magia e i serpenti sulla sua sommità, finemente intrecciati, sembravano quasi...

no, dovevo aver visto male

...possedere vita propria.

- È me che vuoi, non lui! - ruggì lo stregone, riponendo il magico bastone sulla propria schiena. Poi mi afferrò rudemente per una spalla, scuotendomi dalla mia momentanea paralisi.

- Dobbiamo fuggire, maledizione! Dobbiamo... -

Si interruppe e non dovetti nemmeno sprecare del tempo nel domandarmene il perché.

Entrambi udimmo il sinistro scricchiolio alle nostre spalle. Poi un altro, ed un altro ancora.

Come una cerniera che viene aperta a scatti.

- ...dobbiamo andarcene, subito... -

Ma non riuscivo a muovermi. Vedevo qualcosa in mezzo agli alberi erigersi a dismisura, fino a raggiungere un'altezza di diversi metri. Vidi quella cosa lambire gli alberi circostanti, come se volesse fagocitarli: nere propaggini percorrevano le cortecce legnose con avidità, fin quasi ad avvolgerle del tutto.

Mai in vita mia avevo visto qualcosa del genere.

L'ombra avanzò verso di noi, una marea nera priva di contorni e di alcuna forma: ne avvertivo la bramosia, l'urgenza di...

di che cosa? Di divorarci? Di inghiottirci per poi farci sprofondare nel Vuoto primordiale?

...prenderci.

Scappammo a gambe levate, come se non ci fosse un domani.

Cosa diavolo era quell'essere?

I nostri passi echeggiavano nell'aria, eppure continuavo a percepire quell'orrenda presenza dietro di noi. Più di una volta provai l'impulso di voltarmi, eppure il mio buonsenso – minato oramai alla base da tutti gli ultimi avvenimenti – mi gridò ogni volta di continuare a correre, fosse anche per tutta l'eternità.

Corremmo per interi minuti nel bel mezzo della foresta, fino a uscirne del tutto. Un inospitale ghiacciaio si stagliava davanti a noi.

Senza esitazione lo attraversammo: ero giovane, eppure Tevinias era molto più agile e scattante di me sebbene sembrasse aver superato da tempo ormai la quarantina.

Quell'uomo nascondeva ben più di un segreto.

- SEBASTIAN! - mi gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, buttandolo fuori con foga: questo si condensò a contatto con l'aria, formando minuscoli cristalli.

Mi fermai e caddi in ginocchio, sentendo la milza scoppiare: ero certo che solo un'immensa scarica di adrenalina fosse in grado di tenermi ancora in piedi.

- Fermati...non ce la faccio...più... -

- Che diavolo fai?! - ruggì, raggiungendomi e scrollandomi per le spalle – dobbiamo continuare a correre! -

- Non ho più fiato... -

Lo stregone imprecò, voltando la testa in direzione della foresta. Poi una luce comparve nei suoi occhi e guardò istantaneamente il cielo invernale sopra di noi.

- Quanto può mancare ancora all'alba? -

- Io...non lo so... -

- Maledizione, rispondi! - urlò, scrollandomi ancora una volta con forza – quanto, più o meno? -

Alzai lo sguardo verso il cielo, soffermandolo sull'orizzonte.

Era forse un accenno di luce, quello laggiù in fondo, oltre l'oceano stesso?

- Non lo so...forse un'ora o due? -

Tevinias annuì, l'aria concentrata come su qualcosa di terribilmente importante. Poi mi aiutò a rialzarmi, i suoi occhi fissi sui miei.

- Ti chiedo di resistere fino ad allora. -

- E di fidarti di me, ancora una volta. -

Esitai, la testa piena di dubbi. Poi udii uno schianto in direzione degli alberi e istintivamente voltai la testa.

Qualcosa si stava facendo largo in mezzo alla vegetazione senza riguardo alcuno: corvi, civette e cornacchie volavano in ogni direzione mentre gli alberi sotto di loro sembravano piegarsi come fuscelli.

Guardai il mio compagno e il suo sguardo si era fatto ora quasi implorante.

Ancora una volta mi affidai completamente a lui.

Ma ad una condizione.

- Voglio che tu mi dica ogni cosa, quando l'avremo scampata. Oppure puoi tornartene a vagabondare come prima che m'incontrassi. -

La sua espressione si fece prima esitante, poi accondiscendente.

Riprendemmo a scappare nell'esatto momento momento in cui un'ombra sinistra lambiva l'iniziare del lago ghiacciato.

Ed una forma apparve per la prima volta in quella tenebra senza fine.

Un uomo smilzo e senza volto, dalle braccia lunghe fin quasi alle caviglie. L'essere scrutò in lontananza le sagome dei due fuggitivi e seppur non avesse una bocca, chiunque si fosse trovato nelle sue vicinanze avrebbe giurato di sentirlo gridare di rabbia.

Poi la marea nera riprese la sua avanzata, stavolta più veloce e decisa.

Mancava poco, e poi avrebbe dovuto attendere ancora.

No, doveva ghermire l'eretico prima del sorgere del sole.

 

 

Quando raggiungemmo l'estremità opposta del lago, una tenue luce già cominciava a farsi largo nel cielo sopra le nostre teste. Scorsi i confini di una città, in lontananza.

Ne riconobbi le forme e tremai. Stavamo per finire nelle zanne del lupo.

- Quella è Solitude... - dissi, con un filo di voce. Improvvisamente senza più desiderio di correre ancora.

Tevinias mi guardò, impassibile.

- Dobbiamo farlo, Sebastian. Oppure la sorte che ci aspetta è talmente orribile che nemmeno riusciresti ad averne idea. -

- Ma io non...l'Impero... -

Lo stregone fece per ribattere, ma fu troppo tardi. Ci voltammo e vedemmo quell'oceano nero avanzare sul ghiaccio con innaturale silenzio. L'ombra si ricompose e una forma umanoide ci osservò con i suoi occhi invisibili.

- TROPPO TARDI! - ruggì Tevinias trionfante, sollevando il bastone sopra la sua testa – CHE L'ALBA TI PRENDA, E SIA DI FUOCO PER TE! -

Alle parole dell'uomo un timido raggio di sole proiettò la sua luce sul ghiaccio sotto i nostri piedi, come incerto sul da farsi. Poi ne seguì un altro, e poi un altro ancora: un sole mattutino fendette le nuvole lontano ad Est, segnando l'inizio di un nuovo giorno. Una sottile striscia di luce ci divideva ora dalla creatura, che sollevò la testa priva di lineamenti e forme alcune ruggendo di rabbia: quel grido mi scosse da cima a fondo, incutendomi un timore reverenziale senza precedenti.

L'ombra tuttavia non parve volersi arrendere: un tentacolo nero come la notte saettò verso di noi, dall'estremità affilata come la lama di una spada. Non appena attraversò il fascio di luce solare, tuttavia, si liquefece come burro disfacendosi davanti ai nostri occhi: la creatura strillò, agitando un'infinita di filamenti, protuberanze e arti diabolici dal dolore. Poi si voltò verso di me e mi fissò negli occhi.

Il suo volto non possedeva né bocca, né naso, né orbite e nemmeno zigomi: era come una faccia ancora da impastare, un foglio bianco ancora da scrivere. Ed era nero, di quel nero che avevo visto nella Città della mia allucinante visione.

La creatura mi promise silenziosamente vendetta, dopodiché si scompose nuovamente in una massa liquida ed informe: con un urto incredibilmente violento infranse la superficie del ghiaccio e scomparve nelle profondità del lago, trascinando con sé pigri rivoli di materia oscura.

Mi voltai verso il mio compagno, dall'aria ora terribilmente stanca e affaticata.

- Come facevi a saperlo? -

 

 

In una locanda come tante, senza nome e perduta in mezzo alle foreste.

Alfingham il Bretone era oste di quella locanda da anni, oramai. L'aveva sempre tenuta con cura, ostello di riposo per gli stanchi viaggiatori nelle pericolose e selvagge terre di Skyrim: con fatica l'aveva tenuta splendente e sempre fornita di ogni bene, di anno in anno.

La gente riconosceva i suoi sforzi e gli era sempre riconoscente, aggiungendo quella moneta d'oro tintinnante che distingueva una generosa mancia. Sarebbe potuto andare avanti per anni così, e quando un giorno sarebbe stato vecchio avrebbe lasciato la sua locanda ai figli con la richiesta di portarla avanti ancora in futuro: oramai le si era affezionato. Era come un caldo rifugio nelle gelide notti, un'amante sempre fedele.

In quel momento una donna varcò la soglia, dai capelli biondi come il grano che cresce fuori Whiterun in piena estate, quello che reca con sé mille promesse riguardi l'avvenire, quello che precede il profumo del pane appena sfornato. Alfingham, impegnato com'era nel pulire un maestoso boccale, non fece caso alla nuova arrivata: se il suo sguardo si fosse soffermato sugli occhi della donna, ne sarebbe stato indubbiamente rapito.

- Salve - disse con fare amichevole il Bretone, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro – cosa desidera? -

- Un arrosto di cervo, se possibile, e una forma di formaggio Eidar. E se ce l'avete, dell'idromele. -

- Arriva in un attimo. Si sieda pure dove trova posto. - rispose il Bretone, sollevando lo sguardo: ma oramai la nuova arrivata le dava le spalle e l'uomo ne scorse il cappuccio nero tirato all'indietro. Portava inoltre una lunga tunica nera e un arco finemente decorato catturò il suo sguardo.

Una cacciatrice da quelle parti?

Mise da parte il boccale ancora macchiato di birra qua e là e prese un grosso pezzo di carne dal banco per infilzarlo sullo spiedo: il fuoco vivo cominciò a cuocerlo lentamente e l'oste lo girò con cura per un minuto buono. Mentre preparava la carne, impugnò un coltello e tagliò il formaggio. Poi prese con pochi gesti, raffinati e perfezionati nel corso degli anni, un piatto pulito dallo scaffale e ci dispose sopra le cibarie, aggiungendoci sopra un pizzico di lavanda.

Dava quel sapore unico, tipico delle contrade di Skyrim.

Prima di raggiungere la donna, afferrò al volo l'idromele e si incamminò verso il tavolo in fondo alla locanda.

- Ecco a lei. - disse alla donna, con voce gentile – buon appetito. -

- Grazie. - rispose una voce suadente da sotto quella massa bionda riccioluta.

Alfingham sorrise e ritornò al banco, stavolta osservando di sottecchi ogni tanto la nuova arrivata portarsi alla bocca un pezzo di carne e sorseggiare l'idromele.

Chissà cosa la portava, da quelle parti.

Dieci minuti più tardi la donna si alzò dal tavolo e raggiunse il bancone in pochi secondi. Si muoveva in maniera incredibilmente silenziosa, pensò Alfingham, tanto che quando finalmente ebbe pulito il boccale non si accorse della sua presenza.

- Oh, perdonami. Non ti ho vista arrivare. -

- Non ti preoccupare, sono in molti a dirmelo. - rispose lei e per la prima volta l'uomo ne scorse gli occhi, rimanendone folgorato.

Le iridi della ragazza erano più blu dell'oceano oltre le terre di Skyrim, più del cielo sereno in una perfetta giornata d'estate. Due zaffiri splendenti alla luce delle torce lo fissavano, impassibili.

- Ha degli occhi bellissimi...gliel'hanno mai detto? - farfugliò Alfingham, pietrificato da quella vista.

- A dire il vero, la ringrazio. – sussurrò la ragazza, poi si avvicinò di poco al volto dell'oste.

- Avrei un favore da chiederle. Una richiesta particolare, se non le dispiace. -

- Mi...mi dica tutto. -

Ashlotte sorrise e guardò l'uomo con fare complice.

- Per caso ha visto due uomini in viaggio da soli? Uno dei due è un Nord, intorno ai venticinque anni. L'altro è... -

- Sì che li ho visti. - rispose il Bretone con un filo di voce. Normalmente avrebbe ricordato con difficoltà il volto di un singolo cliente della sua locanda, ma lo sguardo di quella donna lo teneva inchiodato lì dov'era costringendolo a riflettere con grande attenzione.

Mai avrebbe voluto deluderla, tanto era stata carina.

E una vocina nella sua coscienza gli suggerì che sarebbero potute accadere cose, brutte cose se questo fosse successo.

- Davvero? -

- Uno dei due è svenuto sul pavimento. Ho chiesto se avevano bisogno di una mano ma l'altro ha gentilmente risposto che poteva farcela benissimo da solo: aveva folte basette castane, occhi nocciola e un bastone dalla strana fattura sulle spalle. -

La donna ascoltò tutto impassibilmente, assorbendo ogni informazione utile al suo compito.

Uno stregone, dunque. Non aveva previsto di dover fronteggiare un avversario con capacità magiche. Le dita della mano destra scivolarono al suo collo, tastando la liscia superficie dell'amuleto donatole da Festus.

Per fortuna che lo portava sempre con sé.

- E sai anche dove sono andati? - chiese. Ad Alfingham il passaggio dal lei al tu passò inosservato, rapito com'era dallo sguardo della donna.

- Non...non lo so con certezza. Li ho visti dalla finestra incamminarsi in direzione di Solitude. -

Ashlotte annuì, socchiudendo per un attimo gli occhi. Come per magia la mente di Alfingham fu sgombra e libera di poter pensare con facilità.

Che diavolo era successo?

- Ti ringrazio. - disse la donna, lasciando cadere sul bancone un pesante sacchetto di cuoio legato con dello spago. Doveva essere colmo di monete d'oro.

Poi fece per andarsene, ma si fermò. Mise una mano nella tasca della sua tunica e ne estrasse un pugno di pietre preziose, luccicanti e dai colori vivaci, per infine poggiarle sul tavolo accanto a lei.

- Gran bella locanda. Potresti farne delle altre, così. -

Senza attendere risposta alcuna, uscì dalla locanda e ad Alfingham parve di non avere mai visto in vita sua una donna dagli occhi così belli.

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Capitolo 8
*** Nella tana del lupo. ***


Ogni passo era sempre più faticoso, ogni metro percorso sempre più aspro: stanchezza, sonno e fame si facevano ora sentire implacabili, sempre più forti con il passare dei secondi, terribili al passare dei minuti. Non prestai praticamente nessuna attenzione alle mura oramai vicine della città dai vasti e svolazzanti drappeggi rossi: colsi solo all'ultimo una torre di guardia puntata verso il cielo, quasi con l'intenzione di volerlo sfidare.

- Tevinias... - sussurrai, esanime. In più di un'occasione rischiai di crollare sulle mie gambe: le sentivo cedere pian piano, come colonne erose dal tempo e dalle intemperie. Il mio compagno di viaggio intervenne per sorreggermi sulle sue spalle ad ogni mio cedimento, ma riusciva a scorgere chiaramente quanto fossi ormai debilitato nel fisico, ma soprattutto nello spirito.

- Sebastian... -

- Non ho il diritto di chiederti altro. Dormi, se vuoi: penserò io ad ogni cosa. -

Presi quelle parole alla lettera e pian piano avvertii le mie palpebre socchiudersi, pesanti come macigni.

L'ultima impressione che ebbi fu quella di essere sorretto da due possenti braccia. L'oblio del sonno mi accolse prima di varcare i cancelli dell'altera Solitude.

L'ultimo posto a Skyrim dove sarei voluto finire.

Eravamo scappati dalla tana del lupo e ora stavamo finendo dritti nelle sue fauci.

 

 

- Salute, forestiero. Non credo di averti mai visto prima. - disse la guardia, scrutando il nuovo arrivato dall'interno dell'elmo metallico. Dita agili corsero all'impugnatura della spada al suo fianco, lisciandone l'argenteo pomello.

- Cerco un luogo dove rifocillarmi, vengo da molto lontano. -

- Vedo, vedo. - borbottò il primo, facendo scorrere lo sguardo lungo la veste sudicia e lacera in alcuni punti dell'uomo davanti a lui. Un mago, forse? I ricami lungo la sua tunica lasciavano presupporre la sua provenienza dalla rinomata Accademia.

- Winterhold, eh? Non devo aspettarmi problemi, vero? -

- Non sono qui per combinare guai. -

- Lo spero. -

La guardia si fece da parte per permettere allo stregone di entrare in città, poi esitò un istante e indicò quello che sarebbe sembrato un sacco di stracci, se non fosse per stato per le due gambe pendenti lungo il fianco del viaggiatore.

- Che gli è successo? - chiese, con fare sospetto.

- Idromele. Così impara a scolarsene due di fila. -

La guardia fischiò, stupita. Quell'uomo aveva un bel fegato...in tutti i sensi.

- Potete entrare. Portalo alla Locanda dello Skeever Ammiccante: Corpulus ha un resuscitamorti con i fiocchi. -

- Ti ringrazio. - disse il forestiero: poi, con passi tardi e lenti, avanzò fino alla pesante porta in legno battuta e la spalancò, entrando nel cuore stesso dell'Impero.

 

 

L'alce sollevò la testa rivolgendola dapprima verso gli alberi verdi e frondosi, poi verso il timido sole mattutino che ora andava stagliandosi all'orizzonte: si tuffò in quella fresca luce, beandosi del suo tepore, per poi tornare a brucare muschi e licheni sulle cortecce degli alberi. Se solo avesse potuto scorgere il luccichio traditore di quello stesso sole, nel quale poco prima si era specchiato vanitoso, sulla sommità in metallo della freccia puntata contro di lui, sarebbe corso via a zampe levate.

Tuttavia, così non fu. E ancora una volta l'inevitabile legge della sopravvivenza ebbe la meglio nel mondo.

Ashlotte tese l'arco al massimo, socchiudendo quasi del tutto l'occhio sinistro: la sua vista era a dir poco perfetta e la sua precisione letale, in questa materia. Rilasciò la freccia con grazia, senza il solito strattone che spesso i tiratori danno nel momento decisivo del gesto, subito dopo la flessione della corda: vi fu un sibilo e l'animale voltò lo sguardo verso la fonte di quello strano rumore. Se solo avesse saputo!

La freccia lo colpì al collo, trapassando carotide e giugulare: lacerò le carni e arrivò fino all'osso, uccidendo la bestia prima ancora che il suo primordiale intelletto potesse domandarsi sul cosa fosse appena successo. Dopodiché, l'alce stramazzò a terra, senza vita.

Passarono alcuni secondi. L'assassina volle essere sicuro di aver ucciso l'animale al primo colpo, sperando di non dover infliggere ulteriori sofferenze alla creatura: se ne sarebbe dovuta cibare per il viaggio, questo era inevitabile.

Tuttavia, a dispetto di quel che si sarebbe detto, non amava infliggere dolore: se era suo dovere togliere la vita, era altresì suo desiderio farlo nel modo più veloce possibile.

 

Così come si nasce nel mezzo di un istante, così dev'essere anche nel momento in cui si intraprende l'ultimo viaggio della nostra vita.”

 

Ashlotte ritrasse l'arco ricamato, posando la faretra per terra: raggiunse l'animale ed estraendo un pugnale si preparò per scuoiarlo. Un compito ingrato, rivoltante ed orribile, ma necessario.

Dieci minuti dopo ne preparò le carni sul fuoco e in breve tempo cenò. Fu un pasto consumato in fretta e il silenzio attorno a lei le sembrava ogni tanto assordante.

Per rimediare a ciò, frugò nel suo zaino e ne estrasse un'ocarina, non più grande di sette centimetri di diametro e dal color grigio perla spiccato: la superficie era liscia, levigata dal tempo e dalle mani della ragazza. Con, con un profondo respiro, Ashlotte se la portò alle morbide labbra e cominciò a suonare.

Dolci note percorsero la foresta, avvolgendo gli alberi e tutti gli animali, dai picchi dormienti agli skeever rintanati nei loro buchi sotterranei. Era una musica celestiale, degna di un re: la donna teneva gli occhi chiusi, mentre le sue dita scivolavano con incredibile grazia lungo lo strumento musicale.

Il silenzio non faceva per lei, pensò nell'intimità dei suoi pensieri. Sebbene molti dei suoi confratelli preferissero la cieca e smorta voce del Vuoto a quella di un essere umano, lei non avrebbe mai potuto fare a meno della musica: era l'unica cosa che le restava del suo passato, un ultimo ricordo della sua infanzia.

Nell'apice della sua melodia, ricordò le parole di Astrid, prive di alcuna emozione.

 

I tuoi genitori ti abbandonarono a Falkreath, davanti ai cancelli della città.”

 

Chissà chi era stato a posare per terra quel fagotto così minuscolo e innocente, se suo padre o sua madre. Li aveva mai avuti?

No.

Oramai i suoi unici familiari erano i suoi fratelli: sua madre era ora Astrid, una donna che provava per lei qualcosa più vicino alla diffidenza che alla reale ammirazione. Nazir non era mai stato ciò di più somigliante alla figura di un padre: ma se questo significa mettere la propria figlia in guardia contro i pericoli del mondo ed istruirla a dovere, allora aveva svolto il suo compito egregiamente. Doveva molto a lui, come a tutti gli altri: e quanti notti aveva pianto, accettando con rassegnazione il destino profilatosi davanti ai suoi occhi!

 

Eri sola, ma adesso hai noi.”

 

E a quella frase apparentemente amorevole e protettiva, seguirono gli addestramenti, il sangue, il sudore, la fatica. Gli omicidi vennero dopo, quando sembrò finalmente matura agli occhi di Astrid: immagini fugaci le apparvero davanti agli occhi, un pugnale luccicante alle fiamme di una torcia solitaria, una baracca in riva all'oceano, un vecchio dagli occhi avari e sospettosi.

 

Chi sei, ragazza?”

 

Non una risposta, solo una gelida pugnalata nel cuore. Non un grido, né urla di dolore: solo un tonfo confuso, come di sacchi pesanti lasciati cadere per terra.

E quel vecchio era morto, ucciso non tanto dalla sua lama

quanto da un foglio di pergamena intriso d'inchiostro e sigillato con la cera.

Un contratto era un contratto e Ashlotte l'aveva rispettato in ogni suo punto: la notte dopo era sicura di averla passata tra gli incubi, ma oramai non se lo ricordava più.

E di fatto, di notti insonni non ne aveva mai avute da quella del suo primo omicidio.

 

Chi sono?”

 

L'interrogativo non aveva mai smesso di torturarla fino nei più reconditi anfratti della sua coscienza. Aveva cercato di creare un legame fin dall'inizio con il suo passato per potersi riconoscere in qualcosa: per essere sicura di avere un'identità.

Ma questo sembrava volerla respingere ogni volta.

Quella sera Ashlotte suonò una melodia particolarmente triste, udita oltre che da lei solamente dagli animali selvaggi e dagli alberi ancora intirizziti dal freddo. Nemmeno un goccio di idromele riuscì a scacciare quella sensazione di diffuso malessere interiore, quella melanconia dello spirito che talvolta era per lei più velenosa dell'aconito stesso.

Ashlotte socchiuse gli occhi e si addormentò, mentre una goccia di rugiada cadeva sui suoi capelli: un meraviglioso acero protendeva i suoi rami sopra di lei, come per proteggerla.

 

 

- Del vino rosso, mio signore. - disse l'uomo dalla lunga livrea nera, fissando impassibile l'individuo seduto sulla poltrona davanti a lui. Gregorius gli porse un elegante bicchiere e il servitore lo riempì fin quasi all'orlo. L'uomo lo congedò e sorseggiò pigramente quel nettare divino, continuando a fissare le fiamme guizzanti nel caminetto. Sembrava assortò in chissà quali pensieri, intanto che un folto gruppetto di persone discuteva concitatamente alle sue spalle.

- Siamo già impegnati in molteplici fronti diversi, aprirne un altro significherebbe lo scavarci la fossa da soli - disse un uomo vecchio e barbuto, vestito del rosso imperiale – e non sappiamo nemmeno dove si trovi Wulfric. -

- Questo perché non intensifichiamo le ricerche! - strillò una donna e Gregorius prestò pochissima attenzione alle sue parole. Mille dubbi annebbiavano i suoi pensieri: la finestra a fianco del camino catturò per un breve attimo la sua immagine, riflettendola negli occhi dell'uomo.

Era giovane, bello e potente: la sua ascesa al potere sarebbe stata inevitabile, come lo è il sorgere stesso del sole dopo la notte. Eppure per la prima volta provava una strana inquietudine.

Stava per accadere qualcosa, ne era certo.

- ...Gregorius? -

- Gregorius? -

L'attenzione del giovane fu finalmente catturata e questi si voltò, passandosi una mano tra i capelli neri come l'ebano: un gesto apparentemente banale, che però ultimamente era diventato sempre più ricorrente.

- Sì? -

- Beh, ti ho chiesto cosa ne pensi. Per ben due volte. -

Gregorius fece una smorfia. Erano vecchi e tanto inaciditi dall'invidia da emanare quasi un puzzo insopportabile: poteva leggere negli occhi il loro desiderio di sopraffarlo nel tentativo di arraffarsi sempre più onore e vanto. Per cosa? Per compiacere forse l'Imperatore?

Parassiti.

- Stavamo riflettendo su... - iniziò la donna, ma Gregorius la interruppe con un gesto eloquente: una vampata d'indignazione arse nei suoi occhi, ma non proseguì il suo discorso.

- State perdendo tempo, ecco. – sentenziò con voce grave il giovane, sollevandosi dalla poltrona e avanzando verso i suoi interlocutori: un tavolo stava tra loro, con sopra un'enorme mappa raffigurante l'intera Skyrim.

- Ah, sì? - disse una voce tra loro, diffidente e sarcastica. Gregorius non vi fece caso.

- Doveva essermi portato ieri un prigioniero della massima importanza. Non è tipico di Gamlen tardare così tanto, così ho mandato due soldati in perlustrazione. Non sono mai tornati. -

- E con questo, Gregorius? Cosa vuoi dirci? - domandò con voce roca il vecchio barbuto, fissando negli occhi il giovane di fronte a lui: Gregorius mal sopportò l'interruzione e solo l'appellarsi alla sua già minata pazienza lo salvò dal perderla definitivamente del tutto.

- Qualcuno aiuta i Manto della Tempesta, qualcuno di esterno alla ribellione: mai oserebbero avvicinarsi così tanto ai cancelli di Solitude, quei vermi striscianti. -

- Il fuggitivo, leggo dal rapporto davanti a me – continuò Gregorius, srotolando una pergamena consunta – è Sebastian Orius. E' in ottimi rapporti con Wulfric e conosce la posizione di tutte le basi strategiche e dei rifornimenti nemici. La sua cattura è fondamentale, se volete sconfiggere i Manto della Tempesta. -

- “Volete?” - chiese la donna, prendendo parola. Le sue trecce bionde ondeggiarono lievemente e da esse emanava un profumo dolciastro, che a Gregorius cominciava a dare la nausea – non è forse anche la tua causa, questa? -

- Certo che sì. - disse il giovane con un sorriso, fingendo interesse. Poi si separò del gruppo, diretto verso la porta. Prima di spalancarla, si voltò verso gli uomini alle sue spalle e li guardò con un'espressione di aperta sfida.

- Fareste bene ad essere preparati ad ogni evenienza – disse, sogghignando – non si sa mai cosa potrebbe succedere. -

E detto questo, uscì dalla stanza. 

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Capitolo 9
*** Il travaglio. ***


Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali”
a lungo, lentamente, nel mio cuore: Speranza
piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra

infilza nel mio cranio il suo vessillo nero.

 

(Charles Baudelaire,”I fiori del male”)

 

 

 

 

La stanza non era certo delle più confortevoli, ma a Tevinias non dispiaceva: aveva un delicato odore di legno affumicato che a lui ricordava tanto...

la sua terra natia.

Lo stregone volse lo sguardo e lo posò su un Sebastian dormiente, esausto dopo gli ultimi eventi.

Quante cose aveva già sopportato, e quante doveva ancora sopportarne!

Se solo avesse saputo la verità, sarebbe stato più facile.

 

Tuttavia, non è meglio talvolta un'innocente menzogna all'amara verità?”

 

Chi meglio di lui poteva saperlo.

Aveva sacrificato tutto per perseguirla: la rivelazione ultima, il significato di tutte le cose esistenti ed esistite. E di quelle che ancora sarebbero giunte, coerentemente con un disegno divino che procedeva incontrastato fin dall'alba dei tempi.

Mentre misurava con passi lenti la stanza della locanda, tutto il peso della sua intera esistenza gli crollò addosso, pesante come un macigno. Era così insopportabile, talvolta...

E poi lo vide. Lo specchio in fondo alla camera.

Avrebbe voluto distogliere gli occhi, ma una morbosa attrazione glielo impediva. Era disgustato da ciò che stava ora fissando, ma ne era anche affascinato: fin dove poteva spingersi la magia? Quali erano i suoi limiti?

Avanzò lentamente verso la superficie di vetro, rapito da quella visione, da quella prova!

 

La sua sola esistenza era un'ode al Creatore!

 

Compiaciuto sollevò la sua mano destra all'altezza degli occhi e la scrutò, lasciando scivolare lo sguardo lungo la sua pelle così liscia e le sue dita levigate e nodose, leggermente storte.

Poi fissò il suo riflesso e ancora una volta ne fu voluttuosamente catturato. Osservò l'immagine della sua mano dentro lo specchio e la ruotò leggermente e la sua sensazione fu quella di chi osserva un cadavere. Ne era disgustato, ma non poteva fare a meno di distogliere lo sguardo.

Le sue labbra si incurvarono e sul suo volto incominciò a profilarsi l'abbozzo di un sorriso: sarebbe voluto scoppiare a ridere, stordendosi con il suono stesso del suo timbro vocale reso pazzo e incontrollato. Sghignazzare fin quasi a perdere i sensi, fino ad aggrapparsi alla mobilia in preda ad una lucida follia.

Talvolta era così difficile sopportare il peso dei suoi ricordi, dei suoi segreti, che avrebbe voluto togliersi la vita, se fosse solo servito a qualcosa.

Improvvisamente un cupo borbottio risuonò alle sue spalle: Sebastian, grugnendo, stava per svegliarsi. Questo riportò Tevinias alla realtà: distolse lo sguardo dalla sua immagine distorta, da quell'infausto specchio e si voltò verso il suo compagno di viaggio, raggiungendolo in pochi attimi.

- Dormito bene? - gli domandò, riempendo d'acqua un bicchiere là vicino e porgendoglielo con premura.

 

 

Diamine, mi sembrava di essere rotolato giù da una rupe e calpestato da una mandria di buoi! Sentivo dolermi ogni muscolo del corpo e le lancinanti fitte dell'acido lattico mi spezzarono il fiato, quando tentati di muovere le gambe.

- Che diavolo ne so, dormivo. - risposi con un filo di voce – ahi! -

- Fossi in te aspetterei ancora un po', prima di alzarmi. - osservò lo stregone, ora seduto sul letto – ciò che hai fatto non è da tutti, scappare così all'Ombra. Incredibile. -

Le sue parole risvegliarono in me in fiume di ricordi, emozioni e sensazioni e una in particolare mi soffocò in ogni mia fibra d'essere.

Una cocente disperazione, la totale assenza di speranza che può provare soltanto chi è in punto di morte, trafitto al cuore da una freccia avvelenata: c'è paura, sì, ma è solo qualcosa di artificiale, un raffinato e ingannevole costrutto della mia mente. E' l'apatia più nera, la morte di ogni sentimento la cosa più terrificante.

- Per quanto ho dormito? -

- Quasi un giorno intero, amico mio. Tra qualche ora sarà buio, ma il fatto che siamo dentro Solitude un poco mi conforta. Lei non ama farsi vedere dagli altri. -

Quasi non lo ascoltai. Registrai soltanto una parola da lui pronunciata, un nome proprio che ogni volta mi metteva i brividi.

Solitude.

- Sei pazzo. - sentenziai, e lo pensavo davvero. Eravamo nella capitale stessa dell'Impero e oramai il mio volto doveva aver fatto il giro di Skyrim.

Ero un ricercato ed ero nella tana del lupo, come se mi stessi offrendo ai miei persecutori su un piatto d'argento.

Poi guardai Tevinias e qualcosa non mi convinse fin da subito: impiegai qualche attimo nel cercare di capire cosa non andasse in lui e quando me ne accorsi il mio cuore fece un tuffo.

Nei suoi occhi ardeva quella strana luce che avevo già percepito in altre occasioni. Provai una sensazione di disagio in presenza di quello sguardo così sbagliato ed ebbi la sensazione di scrutare in un abisso particolarmente profondo, provando il desiderio di vedere cosa sarebbe successo se il mio piede si fosse sporto anche solo di un poco.

Lo stregone sbatté le palpebre e l'incantesimo fu spezzato: al posto di quegli occhi malati e morti ricomparvero le sue iridi marroni di sempre e provai un caloroso senso di protezione, confortante come una soffice coperta di lana.

- Ricordi sulla sponda di quel lago ghiacciato, cosa ti promisi? - mi sussurrò, sorridendo. I miei pensieri tornarono a quella creatura e fui sicuro di tremare per un attimo, appena un po'.

- Sì. -

- Ti ho promesso che ti avrei detto ogni cosa. E così ho intenzione di fare. -

Detto questo si alzò dal letto e fu allora che accadde una cosa strana. Il suo sguardo si posò sullo specchio in fondo alla stanza e l'uomo rimase ad osservarlo per diversi secondi come interdetto. Notai la sua espressione assente, la bocca leggermente aperta in una piccolissima O.

- … Tevinias? -

Le mie parole lo strapparono a quell'improvviso e misterioso torpore e lo stregone tornò a guardarmi, ancora con quel suo sorriso di prima.

Quest'uomo è malato.

Non tanto nel corpo, quanto nello spirito.

- Eccomi. Ebbene, sei pronto a sentire tutta la storia? -

- Dal momento che il tuo silenzio per poco non ci ha uccisi – risposi, risentito – direi di sì. Ti ascolto. -

- D'accordo, dunque. -

Le sue mani afferrarono i braccioli di una sedia, portandola dietro le sue gambe: ci si sedette con dolcezza e mi parve che i suoi fossero i movimenti di un vecchio che teme di andare in pezzi da un momento all'altro.

- Io non provengo da questo mondo. -

- In che... -

- Ti prego. - mi interruppe sollevando una mano con fare imperioso – non interrompermi. E' una cosa già abbastanza difficile da comprendere senza che le tue domande debbano rendere il tutto ancora più complicato. Solo, ascolta e basta. -

Rimasi in silenzio, aggiustando con pochi e mirati movimenti del collo il cuscino sotto la mia testa. Se era una storia lunga quella che stavo per ascoltare, almeno volevo essere comodo.

- Come stavo dicendo, io non provengo da questo mondo. La mia terra è...oh, nemmeno io so dove si trovi adesso. Al di là del tempo? Oltre il confine dell'orizzonte? Non ne ho idea. So solo che si chiama Thedas. E' immensa, proprio come questa: potrebbe contenere l'intera Skyrim centinaia e centinaia di volte. -

- Ed io sono un re di quel mondo. Io sono il fondatore del suo impero più grande, la nazione padre di tutte le nazioni! Ho creato l'Impero Tevinter dal nulla, ergendolo a unificatore di popoli! Ti rendi di cosa significhi, essere investiti di una tale carica? Io sono stato il primo di tutti i suoi Arconti, la figura di maggior potere all'interno di esso! Nel vostro mondo sarei paragonabile a un Re dei Re. -

- E questo cosa fa di te, alla fine? - lo interruppi, ignorando il suo precedente monito – sei come me. Vanti un potere che oramai non hai più. -

La sua espressione impassibile mi testimoniò quanto in realtà quello che avevo davanti era un uomo lacerato nell'interno, pieno di mille rimpianti e dubbi. Abbassò lo sguardo, incapace di incrociare il mio.

- Le tue parole dicono il vero – sussurrò, scrutando il pavimento – oramai non sono più nulla e ormai credo che ad oggi l'Impero Tevinter non esista nemmeno più. O forse no e ancora i Magister dettano legge dall'alto: o ancora, forse dovrà ancora esistere e sarò io stesso a fondarlo. Come posso sapere in che direzione scorre il fiume del tempo, sempre ammesso che di un fiume si tratti? Potrebbe essere in realtà un immenso oceano e noi solitarie caravelle intente nel navigarlo, sballottate qua e là dalla tempesta. Comunque sia, giunsi su Skyrim molti anni or sono. -

Fui tentato dal domandargli da quanto tempo vagasse per queste terre ghiacciate, ma un lampo nei suoi occhi ora tornati a me mi fece cambiare idea.

- Ricordi la visione che ti ho mostrato ieri? -

- Sì... -

- Cosa ci hai visto? -

- ...non saprei come spiegarlo. - risposi, spiazzato. Quel mondo così privo di ogni confine e di ogni certezza ancora eludeva la mia comprensione.

Lo stregone annuì, come se si aspettasse la risposta.

- Quando ero re, insieme a un manipolo di miei fedeli accoliti, tentati di interpretare le mille verità del regno spirituale posto al di là della realtà sensibile. Noi lo chiamammo “l'Oblio” e questa denominazione fu largamente accettata da ogni studioso del regno. Ed il nome rende perfettamente la sensazione di disorientamento che si prova al suo interno, non è così? - mi chiese, sorridendo. Stavolta aspettava una mia risposta, come se del resto ce ne fosse un qualche bisogno.

- Già. -

Tevinias si alzò dalla sedia e cominciò a gesticolare, mentre le sue labbra tentavano di formulare un discorso.

- Mettemmo a punto un rituale magico in grado di spalancare le porte verso quel piano terreno e attraversare così il Velo. E sai perché, Sebastian? -

Non ebbi bisogno di sentire la risposta. Già sapevo a cosa lo stregone stava facendo riferimento: il ricordo di quella Città Nera ancora mi tormentava. La stessa sensazione che avevo provato in presenza in quell'orrenda creatura il giorno prima mi sembrò quasi familiare.

- Il Creatore abitava nel cuore stesso dell'Oblio, colui che aveva creato ogni cosa millenni prima da un granello di cosmo. -

 

 

Quando le luci di Solitude apparvero in lontananza, Ashlotte seppe all'istante che il suo viaggio era arrivato al termine. Le tracce lasciate dai due fuggitivi erano ancora evidenti per terra e sulla superficie ghiacciata del lago che ora le si stagliava davanti. Orme regolari e distanziate, come se i due uomini avessero percorso con ampie falcate quel tragitto, correndo

come da qualcosa alle loro spalle.

Un brivido percorse la schiena della donna che si voltò all'istante, gli occhi di un falco intenti a scrutare il folto della boscaglia dietro di lei.

C'era qualcosa di strano, in quel luogo. Un presentimento aleggiava nell'aria stessa, come avvertendo tutti coloro decisi ad attraversare quella landa

che il Male stesso si nascondeva al di sotto di essa.

Ashlotte impugnò l'arco ed incoccò una freccia, preparandosi a qualsiasi evenienza. Poi, avanzò con cautela posando il piede destro sul ghiaccio.

Non avvertì nessun cedimento: la superficie del lago era stabile.

Eppure, quella strana sensazione ancora metteva in allarme tutti i suoi sensi da assassina sviluppati nel corso degli anni. La luce del sole ancora splendeva in alto del cielo, sebbene entro qualche ora sarebbe sopraggiunto il tramonto.

E allora perché quel lembo di terra sembrava avvolto in una soprannaturale oscurità? Ai suoi occhi le parve che il ghiaccio stesso su cui ora stava lentamente procedendo possedesse un'innaturale tonalità scura: tutto intorno a lei emanava una tetra impressione di morte e decadenza.

C'erano forze ben al di là della sua comprensione in azione, sotto i suoi piedi.

L'assassina ebbe paura e questo era di per sé un fatto molto raro: non vide l'ora di attraversare quel lago ghiacciato al più presto.

 

Lesta corri, o bell'assassina:

corri, prima che l'ombra nera

zitta zitta ti porti via.

 

Fu stupita delle sue stesse farneticazioni e affrettò il passo mentre un vento proveniente da Est, odorante misteriosamente di carogne in decomposizione, le scompigliò i capelli biondi come il grano. Se qualcuno l'avesse vista, in quel momento! Era forse lei, la vera ombra nera, con quella veste scura e pronta a confondersi tra le ombre della notte? Il ghiaccio sotto di lei scricchiolò e con grazia scattò, socchiudendo gli occhi.

Aveva paura, sì, ma si riconosceva in quella terra putrida e decadente. Era proprio come lei, apparentemente dolce e graziosa, ma dall'anima più buia di una notte senza stelle e senza luna, corrotta dagli omicidi: voluttuosamente si compiacque di quelle acque così tetre e nere ed ebbe la sensazione che gli alberi circostanti il pianoro stessero incominciando ad avvizzire. Querce malate donavano le loro foglie morenti alla terra, soffocando all'incessante stretta sempre più crescente di una forza viva, quasi desiderosa di rinvigorire quella terra esausta e decadente.

Senza che se ne accorse il suo piede, anziché posarsi sul ghiaccio, raggiunse la terra al confine del lago ghiacciato e rapita si voltò per osservarlo.

Eppure sembrava così normale adesso, quel luogo così strano: perché prima aveva avuto la sensazione di varcare la soglia di un altro mondo?

Decise di non porsi più interrogativi. Ripose l'arco alle sue spalle e s'incamminò verso Solitude, dopo aver dato un rapido sguardo agli alberi alle sue spalle.

Non stavano avvizzendo, né le loro foglie giacevano morte e malate per terra.

Ne fu rassicurata e si allontanò, fin quasi a scomparire oltre il sentiero verso la città. In quel momento una nuvola oscurò momentaneamente il sole, gettando la radura nell'oscurità.

Un'ombra sembro quasi lambire quegli stessi alberi delimitanti i confini del lago maledetto.

Se qualcuno vi si fosse avvicinato, avrebbe potuto percepire distintamente un penetrante puzzo di morte e decomposizione.

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Capitolo 10
*** Sulla fede e la ragione. ***


- Io...non capisco. -

- E per questo non ti biasimo, amico mio – sussurrò Tevinias, socchiudendo per un attimo gli occhi – se fossi io quello che ascolta ed un altro a raccontarmi questa storia assurda, lo accuserei di essere pazzo. Quello che ho visto io, Sebastian, va ben oltre la comprensione umana: laddove la ragione non può seguirci, dove ogni cosa è sfumata e appare velata ai nostri occhi, solo la fede può farci da porto sicuro. Ti chiedo di credere, di avere fiducia. E' molto da chiedere, lo so. -

Sospirai, confuso. Avevo un fastidioso prurito al naso che non riuscivo assolutamente a placare: per fortuna l'uomo di fronte a me non fece caso ai miei buffi tentativi di placare lo sfogo.

Poi una domanda mi ronzò in testa. Non mi resi nemmeno conto di averle dato voce, quando le mie labbra parlarono da sole e posero quel lapidario interrogativo allo stregone.

- E l'avete incontrato? Il Creatore? -

Tevinias non rispose subito. Si alzò e camminò intorno alla stanza, con uno sguardo perso: quando finalmente si voltò verso di me, i suoi occhi tradivano un'emozione da tempo repressa.

- Hai visto quello che ho visto io. Quello che abbiamo visto noi. Era il Creatore, quella...quella cosa? -

- Cos'era in realtà la Città Nera? -

L'interrogativo mi lasciò senza parole, memore delle sensazioni provate attraverso il corpo e lo spirito di Tevinias.

Davvero in presenza di un dio si era assaliti da una tale assenza di speranza? Un dio creatore del mondo, amorevole e padre di ogni cosa?

Tevinias allargò le braccia, come per difendersi davanti ad un giudice in una sentenza nella quale è in gioco la vita.

- Volevamo imparare, Sebastian. Volevamo conoscere la fonte di quel potere così incommensurabile non per fini malvagi, no: la luce del Creatore avrebbe potuto cambiare il mondo in meglio. -

- E invece no. Siamo stati condannati e perseguitati dalle sue tenebre: i maghi che erano con me sono tornati nel mio mondo, trasformati tuttavia in abomini di inconcepibile orrore. Né morti e né vivi, condannati a vagare sulla terra senza uno scopo infestandola con la loro abietta presenza. E invece, io? Braccato da una creatura tanto oscura e maligna da corrompere il suolo stesso dove posa piede? -

- Sono stato forse più fortunato? -

Era una domanda retorica. Nemmeno per un secondo mi passò per la testa di dare una risposta a quell'uomo tormentato, dall'aria così stanca e sofferente. E tuttavia, sebbene le sue parole criptiche e assurde scatenassero in me un fiume di altri interrogativi, qualcosa nel tono della sua voce scricchiolò alle mie orecchie.

Perché se le sue labbra, i tratti del suo viso, sembravano essere convinti di quello che diceva, i suoi occhi invece erano di tutt'altro parere. Quelle iridi arrossate e consunte dall'angoscia, dalla paura...

...dalla follia?

Non era la prima volta che mi ponevo questo dubbio. Tevinias doveva aver vagato per anni solo e in un luogo sconosciuto, lontano da casa: chiunque sarebbe finito per impazzire, prima o poi. Eppure, sebbene lampi di lucida nevrosi avessero attraversato quello sguardo così perso in più di un'occasione, l'uomo davanti a me aveva sconfitto un manipolo di soldati imperiali pronti a torturarmi per ore e giorni interi, senza interruzione: Tevinias mi aveva salvato, così come lo aveva fatto davanti a quella creatura d'ombra sul lago ghiacciato vicino Solitude al levarsi dell'alba. Come avrei fatto senza di lui?

Probabilmente non sarei sopravvissuto abbastanza per chiedermelo.

- Da quanti anni, Tevinias? -

- Per quanto tempo hai vagato in questo mondo? -

Le mie parole furono lapidarie. Le mie parole tagliarono il silenzio come una lama e colpirono Tevinias laddove il suo spirito si batteva ancora, dove ancora si rifiutava di arrendersi. Al cuore.

- Troppo tempo perché io ne abbia memoria. - rispose l'uomo, distogliendo lo sguardo. Il suo fare evasivo mi indusse nella tentazione di insistere e domandargli per quanti anni fosse rimasto intrappolato a Skyrim, ma un sentimento di pietà me ne dissuase.

Con un tono serio, dispiaciuto e privo di inflessioni di sarcasmo scelsi di rivolgergli la domanda più importante di tutte.

- Perché io, Tevinias? Cosa c'entro in tutta questa storia? -

- Perché mentre cadevo, sprofondando negli abissi più remoti dell'Oblio, ti ho visto. Ho visto te, i soldati che ti avevano catturato e quella vallata senza tuttavia riuscire a comprenderne il significato: sapevo solo che da te dipendeva la mia stessa esistenza. Per quanti giorni ho visitato quel luogo, attendendoti! Per quanti anni! A volte dubitavo che le mie stesse azioni avessero un senso e mi chiedevo se il mio non era stato altro che un sogno: ma come poteva esserlo? Io non ti conoscevo, né ti avevo mai visto. -

- Io non so chi tu sia, Sebastian. Non so come tu possa aiutarmi e non so perché sei comparso nella mia mente quell'infausto giorno, ma ho fede nell'ineffabilità del Creatore. Può forse avermi condannato all'esilio, braccato al pari di una bestia, ma il Canto della Luce mi insegna che a tutti è concessa una seconda possibilità. -

- Sebastian...io credo che sia tu la mia seconda possibilità. - concluse lo stregone, trafiggendomi con il suo sguardo. Percepivo nella sua voce una nota di esasperato imploramento, più che una profetica certezza.

Quell'uomo voleva credere di avere fede. Ma come avrei potuto deluderlo? Aveva sofferto così tanto e così a lungo per incontrarmi: non potevo dirgli che si era sbagliato per tutto quel tempo. Forse potevo non credere nel Creatore e nella sconfinata fede del mio compagno di viaggio, ma ero grato a Tevinias per tutto quello che aveva fatto e provavo compassione nei suoi confronti.

Io stesso non avrei retto tutta quella sofferenza, il peso stesso dell'esilio.

E se invece avesse avuto ragione?

Se esisteva davvero un disegno divino, nel quale ricoprivo un ruolo primario?

Non ci insegna forse Akatosh che la fede che non dubita di sé stessa non è fede?

L'interrogativo mi lasciò interdetto.

Ma come potevo io, Sebastian Orius, nulla di più che un uomo invischiato in faccende politiche più grandi di lui, cambiare la vita di quest'uomo?

- Non ha alcun senso. - sussurrai con voce distante, rapito dai miei stessi pensieri. Tevinias sorrise, incrociando le dita delle mani.

- Dove finisce la ragione, incomincia la fede. - rispose, con un'espressione malinconica.

- Non posso aiutarti, Tevinias.... - incominciai.

- Non... -

- ...ma puoi seguirmi, se vuoi. Chissà che in fondo tu non abbia ragione. - conclusi, alzandomi dal letto. Mai vidi in vita mia qualcosa di più sorprendente della sua espressione, un misto di stupore e felicità, traboccanti come oro fuso dalla forgia dei migliori fabbri di Whiterun.

- Seguirti, Sebastian? E dove? -

- Non te ne sei reso conto, amico mio? - gli domandai, alzandomi dal letto e porgendogli la mano – Skyrim è sull'orlo di una guerra civile e io non sono che un pedone sull'immensa scacchiera sotto i nostri piedi. Genti libere si battono per il loro diritto alla tradizione, per la difesa della loro terra: l'Impero è alle porte e minaccia di mettere a ferro e a fuoco la nazione. Vuole fare credere di portare innovazione e unità, ma io ho visto gli occhi dell'imperatore e credimi quanto ti dico che i suoi fini sono ben altri. -

 

 

Profondo disprezzo.

Gregorius ne era pervaso: avrebbe voluto sprofondare nell'ipocrisia e nella mediocrità dei membri appartenenti al Consiglio, ottusi e ciechi come talpe. E il modo con cui si rivolgevano a lui gli dava la nausea. Avrebbe voluto scrollarli fin quasi a far perdere loro i sensi, ricordando loro come fosse stato solamente merito suo la conquista di gran parte di High Rock: avrebbe voluto ricordare loro chi era uno dei pochi a poter sedere allo stesso tavolo dell'Imperatore, a Cyrodiil. Sebbene fossero in pochi quelli davvero disposti ad ammetterlo, fosse per invidia o per diffidenza, gran parte del potere dell'Impero era stato costruito sul suo genio militare: era uno stratega nato e quello che a lui pareva un'intuizione come un'altra agli altri, volenti o nolenti, si mostrava come la scelta perfetta. La conquista di High Rock era durata anni, prima del suo arrivo: in poche e semplici mosse lui aveva sbrogliato la situazione e vinto la campagna militare in appena tre mesi. Era animato da un fervido entusiasmo per la causa imperiale, ma ora gli appariva tutto talmente banale e vuoto che aveva difficoltà ad ascoltare i lunghi discorsi del Generale Tullius. E se un tempo poteva vantare del grado di Alto Generale ai tempi di High Rock, ora il suo disinteresse non era passato inosservato e gli era costato il declassamento a Comandante dell'Ottava Legione.

Gregorius non aveva ancora mandato giù l'umiliazione e, per un qualche strano motivo, i suoi uomini lo capivano e gli davano ragione. Ancora non si era reso conto del tuo incontrastabile carisma, che pian piano aveva prima conquistato e poi rapito l'animo dei suoi soldati.

Se solo avesse avuto il comando, quello vero, era certo di poter porre fine alla guerra in poco tempo. Sbaragliare i Manto della Tempesta, in realtà, poteva essere un gioco da ragazzi: sarebbe bastato scoprire la locazione delle loro risorse, che fossero economiche o politiche, e spazzarli via come il vento di una bufera.

Ma quella guerra ora lo interessava talmente poco...! Gregorius avrebbe voluto mirare a qualcosa di più. A lungo aveva considerato il ruolo di imperatore, ma l'idea di gestire l'insieme caotico e multiforme dal nome di Legione Imperiale gli era in antipatia.

La sua brama di potere, frustrata e inespressa, andava ben oltre.

Senza che potesse accorgersene, il fiume in piena delle sue emozioni si canalizzò incarnandosi al suo fianco in un crepitio di scintille azzurrine. Laddove vi era fino a poco prima una nebbia magica, un lupo dai contorni sempre più netti e meno evanescenti apparve all'improvviso: aveva il pelo argenteo come la superficie di una lama e gli occhi di un giallo malato, stranamente profondi.

- Angust. E immagino anche Jasper. -

Non si sorprese nell'avvertire un leggero peso sulla sua spalla destra. Inclinò la testa e scorse un corvo nero appollaiato su di lui, il becco nero tozzo e ricurvo. La sensazione di un corpo che si strusciava sulla sua gamba lo invase e l'uomo trasse conforto da quel contatto, mentre lisciava il soffice piumaggio di un Jasper ora impegnato a gracchiare animatamente.

- Oh, solo voi riuscite a capirmi. -

Continuò a camminare, diretto apparentemente in nessun luogo in particolare: sarebbe sopraggiunta la notte entro qualche ora al massimo e lui amava girovagare senza una meta, in compagnia dei suoi due famigli.

Due.

Fin da piccolo gli era stata indicata come un'eccezionalità verificatasi solamente in qualche raro caso, nel passato: era comune che in ogni essere umano, sepolto nel subconscio, risiedesse una creatura detta tramite, un collegamento tra la natura umana e quella spirituale. Un famiglio, come chiamato dagli stregoni di Tamriel, che rifletteva la personalità e l'anima della persona.

Era raro, molto raro, che qualcuno ne possedesse due.

Le ombre stavano per calare su Solitude e un altro anonimo giorno stava per giungere al termine. L'esistenza di Gregorius si trascinava in un'infinita, ciclica sequenza di noia, assenza di passione: voleva una ragione dal mondo.

Un senso alla sua esistenza.

Quando passò davanti alla Locanda dello Skeever ammiccante, scorse una donna in lontananza, seduta su una fredda panchina in pietra. Aveva i capelli più biondi del grano e un arco dietro la schiena, la faretra elegantemente riposta accanto a lei. Sembrava addormentata, le braccia incrociate in grembo.

Il sesto senso di Gregorius pizzicò, inducendolo ad un analisi più approfondita dell'avventuriera. Non era addormentata.

A tradire la sua veglia fu la postura del corpo, non rilassato ma bensì vigile e sull'attenti, come in attesa di un qualche segno. Il geniale intuito di Gregorius concluse che la donna era in osservazione e l'uomo notò che da quella piazza si poteva godere di una vista quasi assoluta sulle strade principali di Solitude.

Le si avvicinò, incurante del rumore prodotto dai suoi passi sopra la selce che costituiva il lastricato della strada. Un impercettibile vibrazione del sopracciglio sinistro sul volto della donna fu il segnale che aveva percepito Gregorius.

- Qui, a Solitude? Davvero? Mi sembra quasi impossibile. - sussurrò nell'orecchio della donna, ben notando la mano destra pericolosamente vicina all'impugnatura del coltello da caccia appeso alla cintola dell'assassina.

Ashlotte rimase interdetta per diversi secondi. Le si gelò il sangue.

Come era possibile?

- Hanno affidato a te il contratto? -

- Chi sei? - chiese la donna, con un filo di voce. La lama del pugnale nella sua mano scintillò alla luce del sole, sebbene oscurato per metà dall'ombra di Gregorius.

Jasper gracchiò, sollevandosi in volo. L'assassina non ebbe alcuna reazione, restando impassibile.

- Il committente. - rispose Grgeorius, con un mezzo sorriso. Era tuttavia sorpreso dal fatto che il suo prigioniero si trovasse nella sua stessa città: a quel punto avrebbe potuto catturarlo lui stesso.

- Come hai fatto a riconoscermi? -

- Non farci caso, e pensa piuttosto a trovare il mio uomo. E ricordati, mi serve vivo per interrogarlo. Non voglio assolutamente che venga ucciso, mi sono spiegato? -

Ashlotte aprì gli occhi, sinceramente presa di sorpresa forse per la prima volta in vita sua. L'assassina guardò Gregorius e disse, stupita:

- Veramente nel contratto si era parlato di omicidio. -

 




__________________________________________
NOTE DEL LETTORE:

E' un capitolo leggermente più lento degli altri a causa della sua natura esplicativa. Non è stato facile profilare il complesso rapporto tra Tevinias e Sebastian e chiedo venia se sono risultato prolisso e difficile nell'insieme. Vi prometto che i prossimi sviluppi saranno molto più movimentati.
Un fedele grazie a tutti i lettori di questa modesta long,
Dave.

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Capitolo 11
*** Gambetto di donna. ***


- Che cosa? -

L'assassina strabuzzò gli occhi sbattendo le palpebre, una volta sola. L'ombra della sua abituale impassibilità stava già per riaffacciarsi nei tratti del suo volto, pietrificandoli in una maschera di insondabile bellezza.

- Nella mia lettera ho richiesto specificatamente la cattura dell'uomo. Dell'altro puoi farne ciò che vuoi. - sentenziò a bassa voce Gregorius, improvvisamente furente. Angust e Jasper erano svaniti, probabilmente non appena intravista l'assassina seduta in solitudine. Pensò a come diavolo potesse essere successo: un simile frainteso era impossibile. Era stato molto preciso nella stesura del contratto.

Ashlotte estrasse dalla tasca della veste, di un cuoio più leggero di una piuma e dal profumo di legno affumicato, una pergamena gialla e arrotolata, legata in una semplice corda di spago. La srotolò e la consegnò all'uomo davanti a lei, i cui tratti del viso si erano oramai deformati tradendo un profondo stato di alterazione emotiva.

L'assassina lo scrutò attentamente.

Ad una prima sua analisi la postura, la gestualità e il tono di voce dell'uomo confermarono l'estrema sicurezza di sé che aveva già percepito nella scrittura e nei tratti osservati nella missiva. Tuttavia, qualcosa non tornava.

Egocentrismo? Arroganza? Forse quel Gregorius davanti a lei, tanto famoso nella cerchia delle altre sfere imperiali, non era certo l'individuo più umile dell'universo, ma sconfinatamente presuntuoso ed egocentrico..?

Senza pensarci due volte estrasse una piuma d'oca dalla tasca, spiegazzata e di un bianco cangiante. Non aveva però l'inchiostro.

Il suo sguardo corse al pugnale alla sua cintola, mentre Gregorius analizzava la lettera. Forse avrebbe potuto usare una goccia del suo sangue per...

- Questa non è la mia scrittura. -

La voce dell'uomo interruppe il corso dei suoi pensieri, confermando i suoi sospetti.

- Significa che... -

- Significa che qualcuno ha sostituito un'altro contratto con il mio. Eppure non riesco a capire, ho controllato che nessuno mi avesse seguito! -

Ashlotte si alzò dalla panchina, avvertendo all'improvviso i sintomi di una non indifferente stanchezza. Aveva attraversato metà dell'Hjaalmarch per uccidere un uomo che adesso aveva scoperto essere solamente un prigioniero in fuga prezioso per l'Impero. Da vivo.

- Non è un problema mio. - disse, con tono freddo e distaccato – i patti erano chiari. Se non sei stato tu a richiedere l'omicidio, allora è stato qualcun'altro. Il contratto ha comunque valore. -

- NO! - ruggì Gregorius, portando la mano all'elsa della spada rinfoderata lungo il suo fianco sinistro. Un gesto troppo veloce, troppo evidente: il sistema nervoso di Ashlotte rispose all'istante e con un guizzo nervoso estrasse il pugnale d'ebano appeso alla sua cintola, portandolo alla gola dell'uomo.

Una goccia di sangue color cinabro stillò lungo la punta della lama, ma Gregorius non tradì alcuna emozione.

Quest'uomo ha sangue freddo”.

- Voglio sottoscrivere un altro contratto. - disse, gli occhi fissi in quelli color ghiaccio di Ashlotte, la mano destra elegantemente appoggiata sulla spalla di Gregorius. A chiunque fosse passato di là sarebbero sembrati una normale coppietta intenta a baciarsi nel tardo pomeriggio, oramai prossimo quasi al crepuscolo.

Se solo non si fossero accorti della lama puntata alla gola dell'uomo.

- Leva la mano dall'impugnatura della spada. - sussurrò l'assassina, aumentando di poco la pressione sul coltello. Gregorius non rispose e lasciò cadere il braccio lungo il fianco.

Ashlotte lasciò andare la presa e ripose l'arma nella cintola, senza distogliere lo sguardo dall'uomo. Una parte di lei osservò che quell'uomo era terribilmente imprudente a minacciare un membro della Confraternita.

Un'altra parte, invece, notò che Gregorius era molto bello. Aveva i capelli neri come l'ebano, rigogliosi e con una ciocca sbarazzina quasi davanti agli occhi: per un momento ebbe la tentazione di scostargliela, ma si trattenne.

L'uomo si passò una mano tra i capelli, ordinandoseli all'indietro.

Poi Ashlotte fece più attenzione ai suoi occhi. Un frammento di ricordo emerse all'improvviso nella sua mente.

Gli occhi sono lo specchio dell'anima.”

Come doveva interpretare quelli di Gregorius? Vi si leggeva una certa sete di potere, sì, ma non quella terribile che aveva scorto nel testo del contratto. Era un uomo nato e cresciuto nei vizi e negli agi, riverito e coccolato: non certo come lei, che aveva dovuto sopravvivere per anni nel freddo e nel pericolo delle terre di Skyrim.

Mostravano anche una maledetta intelligenza, quelle piccole finestre che davano sull'oceano della sua anima, di quella fine e calcolatrice che se usata male può causare un disastro dopo l'altro.

- Voglio contrattare. - disse all'improvviso, serio.

- Non si può annullare un contratto, nemmeno se è lo stesso mandante a richiederlo. Una volta in azione, la Confraternita non si ferma davanti a niente. -

- Risparmiami la prosopopea da assassina, per favore – rispose Gregorius, interrompendo la donna con un gesto della mano – non sei certo la prima che incontro, né a cui commissiono un omicidio. Dalle parti di Cyrodiil sono mille volti più discreti, efficienti e implacabili di voi. -

Ashlotte si morse un labbro, punta nel vivo dell'orgoglio. Aveva dato tutta sé stessa per rendere la Confraternita più forte e temuta che mai e un uomo ora si permetteva di sminuire il suo operato?

- Scegli con cura ogni parola con me, politico imperiale che altro non sei – sputò l'assassina, sprezzante – potrebbe essere l'ultima. -

- Calmati. Voglio solo parlare. -

Gregorius si sedette sulla panchina e fece cenno alla sua interlocutrice di fare lo stesso. Ashlotte non lo fece e l'uomo parve non farci nemmeno caso.

- Posso pagare di più, molto di più. -

- La Confraternita non cattura fuggitivi. Semmai, li uccide. - fece notare freddamente l'assassina, notevolmente irritata da quell'uomo e dalla piega che avevano preso gli eventi negli ultimi minuti.

- E tu, invece? Tu ami uccidere? -

La domanda spiazzò totalmente Ashlotte, lasciandola senza parole.

Se amava uccidere?

Ricordava ancora quando, sola al mondo, era costretta a vagare per le contrade mendicando il pane e vivendo alla giornata di qualunque lavoro riuscisse a trovare. Non si era mai prostituita, questo no: aveva un sacro rispetto del proprio corpo e mai lo avrebbe venduto in quel modo.

C'era stato un momento, però, in cui il mondo pareva seriamente intenzionato a rifiutarla ovunque lei andasse. Era sola e senza un posto dove andare, costretta a cibarsi dei resti dei cani e delle tigri.

La Confraternita l'aveva salvata, accogliendola tra le sue braccia. Erano stati premurosi con lei e le avevano donato un letto, un cibo, ma soprattutto un posto da chiamare casa.

Tutto questo pretendendo in cambio da lei solamente una cosa: fedeltà. L'unica che Ashlotte avrebbe potuto dispensare loro per sempre, oltre che ad una cieca gratitudine.

Uccidere le era parso un giusto prezzo per la sua salvezza.

Ma aveva mai amato davvero quello che faceva?

Non rispose a quell'ultima domanda né a sé stessa, né all'uomo dinnanzi a lei.

- Cosa vuoi? - disse invece, con un filo di voce.

- Voglio che catturi quell'uomo. Mi basta solo questo: trovalo, rendilo inoffensivo e comunicami la sua posizione. Manderò qualcuno a prenderlo. -

- E l'altro contratto? - osservò la donna, diffidente.

- Te lo ripagherò molto di più, almeno dieci volte tanto. Basta che fai finta di non averlo mai ricevuto. -

- La Confraternita... -

- Racconta una bugia. - la interruppe Gregorius – dì che l'hai ucciso e che hai trovato questi sul suo corpo. Potreste comprarci nuove armi, armature e magari abbellire il luogo dove vivete. -

Detto questo una mano dell'uomo scivolò all'interno della tunica rossa che indossava e ne estrasse un pugno di pietre preziose, luccicanti alla morente luce del sole. L'occhio attento ed esperto di Ashlotte riconobbe due zaffiri, tre smeraldi, un diamante ed una manciata di sancofiti, genchi, furleroni e murchine di svariata grandezza. Poi, come se non bastasse, si sfilò una collana di oro lavorato finemente con incastonato in un medaglione un rubino color del sangue, mettendolo affianco agli altri piccoli tesori.

- So che per alcuni di voi è una questione di religione – aggiunse Gregorius, fissandola dritto negli occhi – e se fosse così anche per te, nemmeno tenterei di convincerti. Magari non avete nemmeno bisogno di fondi... -

- ...in quel caso potresti donarli a chi ne ha più bisogno di voi, magari... -

- ...ad un bambino o ad una bambina soli al mondo e senza niente. -

Fu come una pugnalata al cuore. Quell'uomo le aveva lacerato il cuore e l'anima con poche, precise parole.

Lo sapeva? No, ma era facilmente intuibile. Gli assassini della Confraternita difficilmente provenivano dai ceti alti della società.

Ashlotte sospirò, guardando assorta quel cumulo di meraviglie davanti a lei. Anche solamente un solo smeraldo avrebbe potuto dare speranza ad una decina di bambini per molto tempo.

Chissà, magari uno di loro poteva essere una bambina come lei. Sola e rassegnata ad una vita di prostituzione e furto.

Non disse nulla. Prese ogni singola pietra, fino anche alla più piccola, e si mise al collo quella splendida collana d'oro. Magari quella l'avrebbe tenuta per sé: era davvero maledettamente bella.

- E va bene. - sussurrò. Emozioni contrastanti si alternavano nel suo cuore, che quel giorno appariva più caldo e pulsante del solito.

Ne possedeva davvero uno o si era oramai spento da tempo, soffocato dalla nera nebbia dell'omicidio?

- Sono felice che ci siamo intesi. - rispose Gregorius e per la prima volta sorrise. Era bello quando sorrideva.

L'uomo si alzò e fece per allontanarsi, quando ebbe un ripensamento e si fermò.

- Quando avrai fatto, sali su un tetto e guarda il cielo. Avrai presto mie notizie. -

Ashlotte rimase impassibile alle parole dell'uomo, senza tuttavia realmente comprenderle. Si sedette sulla panchina e tornò in attesa, gli occhi come quelli di un falco intenti a osservare la piazza di Solitude.

Poco dopo un corvo nero e dal becco tozzo e ricurvo si sollevò in volo, gracchiando. Un uomo vestito di rosso e dai capelli neri come l'ebano lo osservava allontanarsi.

- Confido in te,Jasper. -

 

 

Ero steso sul letto, lo sguardo assorto nelle vistose crepe del soffitto. Dio, quanto diavolo era vecchia questa locanda? Secoli?

Non riuscivo proprio a levarmi dalla testa le parole di Tevinias. Tutta questa storia mi sembrava ancora assurda e senza senso.

Eppure, era riuscita ad estraniarmi totalmente dalla mia vita di ogni giorno. Non avevo più cercato mia moglie, Alexandra, a Windhelm. Non avevo più contattato Ulfric o uno dei suoi generali.

Era come se la guerra tra l'Impero e i Manto della Tempesta mi stesse scivolando addosso, tenuta viva solamente dalla paura che provavo nei confronti dei piani dell'Imperatore. Sentivo di essere stato chiamato a qualcosa di più alto, una lotta più antica del tempo stesso.

Chi era il Creatore?

Ero sempre cresciuto nella religione dei Nove Divini: Akatosh rappresentava per me il creatore di questo mondo, il fautore dell'uomo e di ogni altra creatura.

E adesso questo Creatore senza nome mi veniva presentato senza alcun preavviso. Avrei voluto non crederci, ma come ignorare un incantesimo di tale portata? Nemmeno per un attimo avevo dubitato delle parole di Tevinias. Avevo scrutato nella sua mente, vissuto i suoi ricordi.

Lo stregone diceva il vero.

E allora qual'era la verità? Esistevano più dei?

Infinite divinità, che silenziosamente governavano infiniti mondi?

Mi apparve alla mente l'immagine di una bolla di sapone, che in sé ne accoglieva altre centinaia di migliaia. Un brodo primordiale cosmico in continua mutazione, mai saturo di sé stesso.

Il divenire che compone la realtà, statica solamente in questo principio.

Il divenire stesso.

Tutto questo pensare mi aveva fatto venire malditesta. Mi alzai dal letto, guardandomi attorno: Tevinias era andato a comprare qualcosa da mettere sotto i denti al piano di sotto. La fame mi stava lentamente divorando.

Un timore mi nacque nel cuore all'improvviso, quando i miei occhi caddero sulla finestra.

La notte stava per giungere, di nuovo. Il ricordo di quell'oscurità viva e concreta ancora mi tormentava, nei miei sogni.

Avrei voluto che le tenebre non giungessero mai più, che a Skyrim e nel mondo intero regnasse un giorno eterno, bagnato dal sole e sgombro dalle nuvole.

Avevo paura di quelle ombre, paura che potessero ghermirmi nel sonno.

Senza che me ne potessi rendere conto mi addormentai, mentre un rumore di passi riecheggiava lungo i gradini della scala appena fuori dalla porta.

Ero già quasi sopito quando Tevinias entrò con tre forme di formaggio e un poco di manzo freddo. Mi resi conto appena di come mi sprimacciò il cuscino e mi rimboccò le coperte con mani calde e premurose.

 

 

Lo stregone guardò quell'uomo quasi addormentato, invidiandolo senza volerlo davvero. A lui era da tempo immemore negato il privilegio del sonno.

Avrebbe voluto versare una lacrima, ma le aveva finite da tempo. Non restava che andare avanti, impassibile: la sua rassegnazione era ormai vecchia di centocinquanta anni. Un'eternità per lui, ma nulla se paragonato all'incessante scorrere del tempo stesso.

Cercò di non lasciar cadere lo sguardo sullo specchio alle sue spalle. Non voleva concedere ai suoi demoni personali quello spiraglio in più, lo avrebbero distrutto. Da tempo ormai le sue difese giacevano erose dalla follia e dalla maledizione, erette ora solamente a monumenti della sua imprudenza, della sua blasfemia.

Avrebbe dovuto resistuire quel tempo rubato contro la sua volontà, prima o poi. Di questo ne era certo. L'arrivo di Sebastian, l'avverarsi della sua visione, gli aveva donato speranza: una sensazione di calore si fece largo nel suo petto.

E se avesse davvero avuto quella seconda possibilità che tanto aveva sperato?

Tevinias si alzò, avanzando lentamente verso il centro della stanza. Si inginocchiò in silenzio, avvertendo solamente un vago senso di indolenzimento alle gambe, segno di una stanchezza che ancora lo attanagliava nel profondo.

E fece quello che continuava a fare da ormai più di un secolo e mezzo.

Tevinias pregò il Creatore socchiudendo le palpebre e con voce bassa, dolce e infinitamente morbida.

 

Padre mio, perdonami

perché ho peccato.

Ho peccato così tanto

al punto da perderne la memoria.

Perdona il mio peccato

e tribolami finché devi,

affinché possa la salvezza infine

arridere al mio destino.

Ti prego, o padre mio...”

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Capitolo 12
*** Liberi,fatali. ***


Vi è un qualcosa di infinitamente morbido e dolce, precisamente al calar del crepuscolo, come un profumo più inebriante del caprifoglio nell'aria della sera.

Me ne resi conto scrutando l'orizzonte, dalla finestra di quell'appartamento fatiscente e trascurato sopra la Locanda dello Skeever Addormentato. Solitude alle mie spalle era sì fonte di rumore, ma la vista del sole morente oltre il risplendente lembo del Mare dei Fantasmi riusciva a infondermi un certo senso di pace e di meraviglia, come il suono prodotto da un'orchestra di superbi violini.

La luce del tramonto mi carezzò il volto e socchiusi gli occhi, godendo di quell'ameno spettacolo più che potevo. Erano così radi oramai i momenti di vera tranquillità, oramai!

Ero solo.

Un pigolio della mia remota coscienza mi suggerì il contrario. Avevo Tevinias al mio fianco, seppur stolidamente devoto ad una qualche sua fede pagana.

Tuttavia, era già qualcosa. Per tutta la vita mi ero accontentato di andare avanti, senza alcuna ambizione. E adesso che avevo trovato quanto di più simile ad un amico, un'anima affine alla mia, ancora esitavo.

D'un tratto, ripensai alla mia fanciullezza. Del resto, chi poteva mai essere Sebastian Orion?

Era solo un nome, nulla di fronte al prorompente scorrere della Storia. Un fiume eterno, travolgente, che muta ogni cosa.

Ripensandoci, non possedevo molti ricordi di me da bambino. Frammenti di immagini vorticarono convulsamente nella mia mente, una spensieratezza persa in fretta: sebbene fosse tutto sepolto oramai da tempo, ciò che più riuscì a colpirmi fu il profondo silenzio che aveva invaso la mia vita da un giorno all'altro.

Quelli dei miei genitori erano volti oramai sbiaditi, impossibili da rievocare con precisione. Eppure da loro avevo ereditato una caratteristica, una vocazione che presto o tardi mi sarebbe pesata sulle spalle più del greve acciaio di una mazza.

Erano dissidenti dell'Impero. Il loro odio per il dispotismo dell'Imperatore li aveva fatti incontrare, amare e subito dopo morire. Tuttavia, non prima che potessero mettere al mondo il frutto della loro unione. Me.

Un figlio unico, al quale venne presto strappato l'amore dei genitori. Scomparvero dalla mia vita con la stessa velocità con cui si erano incontrati, impiccati sotto il sole pallido di un qualunque giorno di una normale estate.

Da quel giorno la mia vita, quella di un innocente bambino di cinque anni, fu una lunga e ininterrotta sequenza di confusione, disorientamento, vuoto e domande alle quali mai qualcuno si degnava di dare una risposta: amici di famiglia si preoccuparono di me, sebbene sia impossibile definire un loro un autentico amore. Provavano per me un discreto affetto, che tuttavia mai mi colmò quanto il sentimento che ogni bambino dovrebbe provare lungo la sua crescita.

Un gatto passò in mezzo alla strada sotto ai miei occhi, mentre ero intento nel tentativo di ricordare quanto più potevo dei primi anni della mia vita. Lo vidi attraversare con pigra lentezza il marciapiede, fino a raggiungere il confine della boscaglia che costeggiava Solitude ad ovest. Sembrava vagare senza meta, poco risoluto nel trovarne una.

Un po' come me.

Tornai ad osservare il mare in lontananza, notando come la mia vita si fosse rivelata in realtà una mediocre sequenza di eventi collegati tra loro da una crudele logicità. L'odio per l'Impero mi era stato tramandato dai miei stessi genitori e da chi viveva con loro, militando alle spalle di quella belva immensa e soffocante al pari di un lembo di stoffa premuto sul volto.

Ero automaticamente entrato a far parte dei Manto della Tempesta, lasciando che fosse qualcun'altro a colmare i vuoti causati dal dubbio e dall'incertezza nella mia mente. In particolare era stato il carisma di Ulfric ad affascinarmi: la prima volta che lo ascoltai non potei fare a meno di esclamare tra me e me “diamine, non può essere che così!”, e da lì il passo nel diventare uno di loro a tutti gli effetti fu breve

Sì, l'Impero era pericoloso e l'uomo alla sua testa era un folle assetato di potere. Ma era lui, la vera minaccia?

D'un tratto mi venne in mente come ad infiammare il mio animo per la prima volta fu il concetto di libertà evocato da Ulfric durante il suo discorso. Lo fece con leggerezza, ignaro dell'effetto che le sue parole stavano facendo su di me. Disse qualcosa sul diritto alla libertà di religione, di pensiero e di parola, ma lo diceva senza realmente essere conscio della profondità di ogni parola pronunciata.

Mi interrogai sul vero significato di libertà qualche giorno dopo, mentre ero in viaggio verso un avamposto Manto della Tempesta al fine di segnarne gli effettivi armamenti e uomini. Essere liberi non significava impedire che qualcun'altro potesse usurpare i nostri costumi e le nostre tradizioni.

Quel giorno mi dissi che essere liberi voleva dire convivere in pace con le proprie scelte.

E secondo questo ragionamento, potevo forse definirmi libero? Un uomo che di scelte, alla fine, non ne ha mai davvero fatta alcuna?

Il mio compagno di viaggio, il buon Tevinias, era forse più libero di me sotto questo punto di vista. Braccato come una bestia, nel suo rimorso verso il passato aveva raggiunto un lucido stato di sovrannaturale percezione. Aveva delegato ad un altro ente naturale, un non meglio precisato fato comune, la possibilità di compiere delle scelte. Nella sua elegante follia, probabilmente era più in pace con sé stesso di quanto lo ero io.

E se noi eravamo il riflesso delle nostre scelte, allora io che cos'ero? L'immagine di altre persone?

Il pensiero stesso di una risposta mi dava i brividi.

 

 

Tevinias seppe di essere seguito nel momento stesso in cui richiuse alle proprie spalle la porta d'ingresso alla Locanda.

Era una sensazione pungente e ben precisa, di quelle che non si possono spiegare. Lo sapeva e basta, e la cosa lo infastidiva non poco.

Chi mai poteva darsi la briga di tendergli un agguato? Forse un ladro attratto soltanto dal suo sfoggio di potere e sicurezza?

Salì le scale della locanda con pacata quietezza, senza agitazione. Quando aprì la porta dell'appartamento affittato il giorno prima, vide Sebastian affacciato alla finestra aperta, lo sguardo perso all'orizzonte.

L'uomo si voltò verso di lui, sorridendo.

- Oh, finalmente. Credevo ti fossi perso. -

- Vedo che ti sei ripreso dal viaggio – osservò lo stregone, dando una benevola pacca sulla spalla dell'amico – bene, perché credo che a breve dovremo ripartire. La nostra sosta qua a Solitude è durata anche troppo, e non è passata nemmeno inosservata. -

- Che intendi dire? - domandò Sebastian, all'improvviso con un'espressione di profondo sconcerto. Nella sua mente si affacciò l'antica ombra della paura di essere catturato nuovamente e condotto al Palazzo Blu in catene.

- Qualcuno mi ha seguito fino a poco fa. Spero che si trattasse di banale furfante. -

Nonostante le calme parole del mago, quel funereo presentimento non cessò di abbandonare Sebastian.

 

 

Era stato facile per Ashlotte identificare Tevinias come il compagno di viaggio della sua preda. La veste da stregone sudicia e lacera sugli orli poteva essere caratteristica solamente di chi ha fatto un lungo e faticoso viaggio: inoltre, sapeva che a Solitude non vi erano stregoni ufficiali e l'uomo di qualche ora prima, quel Gregorius, l'aveva avvertita di un mago in viaggio con il fuggitivo.

L'Impero non si fidava particolarmente dell'arte magica, vista come sovversiva e irta di pericoli.

Silenziosamente l'aveva pedinato, scivolando di vicolo in vicolo come un'ombra furtiva. Era sicura di non essersi mai tradita e del resto era un'esperta in quell'arte.

E ora, eccola là. Davanti alla Locanda dello Skeever Addormentato.

Un attimo prima era una persona come tante, nella mischia generale del viavai cittadino. Poco dopo non c'era più, come un fantasma dai movimenti silenziosi e invisibili.

Prima o poi sarebbero dovuti uscire. Lo sapeva.

La sua mano scivolò nella tasca del suo abito in pelle leggera, l'ideale per muoversi inosservati e senza troppo baccano, e strinse i freddi gioielli che Gregorius le aveva dato poco prima per corromperla. Letteralmente.

Si fece coraggio, pensando che era per una giusta causa, e aspettò.

 

 

- E quindi, quando partiamo? - chiesi, con un pizzico di impazienza nella voce. Non vedevo l'ora di andarmene da quella città maledetta: ogni secondo passato in più era una mia probabile condanna a morte.

- Tra qualche ora. - rispose lo stregone, rovistando tra un mucchio di oggetti dei più disparati. Fecero capolino nell'inventario un paio di tende da viaggio, provviste, bussole e mappe di gran parte di Skyrim.

- La vera domanda è: dove andiamo, amico mio? -

La domanda mi lasciò spiazzato. Effettivamente ancora non avevo pensato a quale potesse essere la nostra metà. Certo era che più vicino a Windhelm e all'esercito di Ulfric, meno era probabile che un manipolo di scagnozzi dell'Impero ci sorprendesse nel cuore della notte.

- Windhelm, Tevinias – esclamai distrattamente, ripensando agli eventi delle notti precedenti – là saremo al sicuro per qualche tempo e potrò confrontarmi con Ulfric riguardo alla situazione attuale. Prima gli porto il resoconto delle sue truppe e meglio è. -

- Sta bene. -

Da quel momento in poi la conversazione si spense quasi del tutto, sebbene nella mia testa ancora continuassero a ronzare una miriade di dubbi.

Cosa ne sarebbe stato di noi?

 

 

Quando Ashlotte vide i due uomini uscire dalla locanda, ebbe un leggerissimo sussulto di trionfo. Era da un'eternità che aspettava e in tutta sincerità cominciava a sentire un terribile torpore alle natiche: era seduta su quella panchina da ore e il solo pensiero di un po' di movimento la elettrizzava. Non perse però la concentrazione e si mosse all'istante, celando la propria sagoma dietro un muro vicino: un distinto puzzo di fognature giunse alle sue narici, facendole storcere il naso.

Si sporse di un poco, senza dare nell'occhio. I due si stavano allontanando dalla piazza, diretti verso la porta ovest di Solitude.

Con uno scatto colmò la distanza che li separava da lei e se qualcuno fosse riuscito a udire i suoi passi, si sarebbe sorpreso di quanto risultassero leggeri sul lastricato della strada asserendo invece che sembrava scivolasse lungo il suolo.

Il sole era oramai tramontato e l'aria della sera già era calata su Skyrim. Ashlotte inspirò a piene narici ed estrasse l'arco, incoccando sul posto una freccia. Badò accuratamente di non ferirsi con la punta in metallo di questa: l'aveva intinta poco prima in una speciale sostanza, una firma della Confraternita Oscura.

Era sicura che avrebbe dato filo da torcere allo stregone.

L'assassina tese la corda, sollevando l'arco fino a stabilizzarlo orientato lungo una perfetta linea orizzontale le cui estremità andavano da lei all'uomo più alto dei due, un bastone di duro legno nero portato con fare sicuro dietro le spalle.

Con un breve sorriso lanciò la freccia, lasciando andare la corda con un leggero strattone. Un errore causato dalla stanchezza, ma per fortuna non grave: con un sibilo fendette l'aria...

...fino a colpire nel mezzo della schiena lo stregone, attraversandolo da parte a parte come se niente fosse.

Ashlotte sollevò un sopracciglio.

Come diavolo...?

 

 

Due uomini fuggivano furtivamente lungo il pendio del promontorio a fianco della città imperiale, diretti verso il porto.

- Secondo te c'era davvero qualcuno ad aspettarci fuori dalla locanda? - chiese il primo, guardandosi attorno con fare sospetto. Il più alto sorrise, dandogli una sonora pacca sulla spalla.

- Se sono furbo almeno la metà di quello che penso, mio caro Sebastian, credo che la mia illusione non ingannerà i nostri inseguitori a lungo. Dobbiamo sbrigarci. -

- Hai intenzione di rubare una nave? -

- Nessuno si accorgerà che abbiamo fatto sparire un brigantino. -

- Se lo dici tu... - disse Sebastian, poco prima di lasciarsi cadere lungo un dislivello erboso e irto di ciottoli. Avrebbe lamentato dolori per settimane.

- Ci aspetta un lungo viaggio, amico mio. - sussurrò Tevinias, indicando l'orizzonte lontano – attraverseremo il Mare dei Fantasmi e costeggeremo Winterhold. Spero che tu non soffra il mal di mare. -

- Ci conosciamo da poco, ma già ti detesto. -

 

 

Ashlotte era furiosa. Mai prima d'ora era stata ingannata a tal punto, e da un paio di ridicole illusioni! Nemmeno un leggerissimo sfarfallio, o un tremolare delle due immagini davanti a lei!

Corse a perdifiato in direzione della locanda, seguendo semplicemente l'istinto. Parecchio sopra la sua testa un corvo seguiva il suo inseguimento, gracchiando pigramente di quando in quando.

Avrebbe ucciso lo stregone per questo. Quella che a lei pareva in tutto e per tutto una vera offesa al suo onore le bruciava terribilmente all'interno del petto: gliel'avrebbe fatta pagare dieci volte tanto!

L'unico modo per lasciare Solitude senza passare dalle quattro porte poste agli angoli della città era il porto e una vocina nella testa di Ashlotte le urlava a gran voce che le sue prede erano andate da quella parte.

Quando arrivò là regnava il silenzio più assoluto lungo le varie navi ormeggiate sul molo. Anzi, adesso era sceso persino un discreto velo di nebbia e le prime morse del freddo attraversarono gli indumenti in pelle leggera di Ashlotte come se fossero cartapesta.

Poi, gli occhi dell'assassina si soffermarono su un brigantino solitario impegnavo ad abbandonare Solitude senza fare nemmeno un rumore. Scivolava sull'acqua velocemente e se non fosse stato per la sua sagoma, in controluce rispetto alle torce piazzate qua e là lungo il porto, Ashlotte nemmeno l'avrebbe visto.

Senza esitazioni raggiunse l'estremità del rilievo roccioso sopra il quale si trovava e spiccò un balzo aggraziato. Durante la sua discesa l'aria le scompigliò tutti i capelli, facendoli danzare attorno al suo volto: quando raggiunse il livello dell'acqua il suono del suo impatto contro la superficie liquida fu presto inghiottito dallo scrosciare delle onde contro gli scogli.

In pochi attimi Ashlotte incrociò la traiettoria del brigantino diretto ad est. Estrasse un primo pugnale dalla cintola e lo conficcò profondamente nel legno, ancorandosi saldamente alla chiglia della nave. Con una seconda lama cominciò una selvaggia arrampicata lungo il fianco dell'imbarcazione, che ora le parve quello di un'enorme balena.

Il momento era finalmente giunto.

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Capitolo 13
*** Fuoco. ***


- Abbiamo rubato una nave per davvero. E io che pensavo stessi scherzando. - dissi, guardando con timore l'inquieta superficie d'acqua davanti ai miei occhi, liscia come la seta di un abito da sposa. Era quasi notte fonda e non c'era una stella che brillava solitaria nel cielo, mentre una mesta e grigia nebbia aleggiava tutta intorno a noi: era tanto fitta che talvolta pareva inghiottirci completamente, risputandoci fuori poco dopo averla attraversata. Mi voltai e vidi Tevinias impegnato a maneggiare il timone del brigantino con una maestria tale che ebbi l'impressione lo avesse fatto per una vita intera, come se il mare fosse stata la sua autentica vocazione.

Uno stregone e contemporaneamente lupo di mare? Mi sembrava difficile a credersi. Avevo sempre immaginato i maghi come vecchi dalla lunga barba bianca, ispida e igienicamente trascurata, chini su volumi polverosi rilegati in pelle di vitello e con occhi consumati come tizzoni ardenti dopo un'intera nottata passata ad ardere senza sosta. E Tevinias aveva questo aspetto in tutto e per tutto.

- Ti stupiresti di quanto me la cavo con queste. - esclamò a piena voce il mago, sorridendo affabile. Con una sonora scrollata ruotò di cent'ottanta gradi il timone e la nave cambiò immediatamente direzione, puntando verso l'alto mare. La brusca correzione di rotta mi fece andare a sbattere contro l'albero di prua causandomi una leggera fitta nella schiena e mentalmente imprecai contro il mio buon compagno di viaggio, augurandomi una sofferenza che riguardava in qualche modo foglie d'ortica e una totale assenza di carta igienica. Una sorte che sinceramente non avrei augurato nemmeno al mio peggior nemico.

- Non ne dubito – sussurrai piano, poi tornai a sporgermi dal parapetto situato verso dritta cercando di ignorare il profondo senso di vertigine che puntualmente tornava a farsi sentire ogni trenta secondi e concentrandomi su altro. Tingere il ponte con la mia bile non era esattamente in cima alla lista dei miei progetti, al momento.

Scrutando il mare davanti a me, pensai che il Mare dei Fantasmi era l'ultimo posto a Skyrim dovrei avrei trascorso una bella vacanza. Era maledettamente inquietante e come se non bastasse il nome a chiarire la sua natura, ero sicuro di scorgere in continuazione movimenti improvvisi sotto il pelo dell'acqua. Dopo qualche minuto, un terribile senso di nausea tornò ad attanagliarmi le viscere e feci del mio meglio per tenere la cena di qualche ora prima al suo posto.

Che diamine, se Akatosh avesse voluto l'essere umano capace di solcare le acque, gli avrebbe dato un paio di pinne e una vescica natatoria, anziché quattro arti, una dubbia protuberanza e peli in quantità esagerata! Prefereii tuttavia tenere questi pensieri per me, piuttosto che esplicarli al mio compagno di viaggio. Soprattutto la parte sulla protuberanza.

Urgh.

- Spero che tu non soffra di mal di mare! - mi urlò Tevinias, socchiudendo gli occhi per poter scorgere meglio attraverso il fitto velo di nebbia davanti alla nave. Per sicurezza nessuna fonte luminosa era stata accesa sull'imbarcazione: qualcuno avrebbe potuto vederci da lontano e puntare verso di noi, scorgendo nelle tenebre il profilo dell'imbarcazione rubata. Come se qualcuno non avesse niente di meglio da fare che alzarsi a notte fonda e guardare il mare davanti a casa propria...ma forse la prudenza non era mai troppa. Quante volte l'avevo fatto io stesso, dopotutto.

Un leggero alito di vento mi carezzò il collo. La nostra velocità non era in fondo tutta questa gran cosa, ma di certo eravamo ormai già distanti diverse leghe da Solitude.

Sentii un peso svanire nel mio petto.

Finalmente, eravamo liberi.

Quella città...non appena ci avevamo messo piede, un profondo senso di costrizione mi aveva assalito scuotendomi nell'animo. Solitude emanava un'aria terribile, visibile fin quasi da lontano, come un'aura putrescente e inquietante, un odore che penetra nelle narici e ti stordisce paralizzandoti. Ciò nonostante il mio senso di profondo sollievo non bastò ad attenuare il mio stato d'animo attuale. Ancora qualcosa non quadrava; avevo un brutto presentimento e non ero riuscito a levarmelo fin dal momento in cui a Tevinias era venuta quest'idea balzana e assolutamente folle. Inquieto mi voltai più e più volte guardandomi intorno, ma senza mai vedere nulla.

Niente. Solo acqua sotto di noi e paratie in legno ovunque volgessi lo sguardo. Oltre che ad un discreto puzzo di pesce e marciume, unito al pungente aroma della polvere da sparo. Su cosa diavolo viaggiavamo, una bomba a orologeria convertita in brigantino peschereccio?

Se non fosse che c'eravamo solo noi su quella nave, avrei giurato che qualcuno mi stesse osservando, e Tevinias era troppo impegnato nel scrutare l'orizzonte. Sentivo come se...

- SEBASTIAN, ATTENTO! -

 

 

Ashlotte sollevò l'arco, puntandolo in direzione di Sebastian. La freccia incoccata e intinta in un veleno paralizzante era diretta però soltanto alla sua gamba, in modo da renderlo inoffensivo: non era più suo compito ucciderlo e questo rendeva le cose molto più difficili. Catturare un nemico vivo comportava l'impedirgli di poter nuocere in alcun modo e trasportarlo lungo svariate distanze, con tutti i disagi che questo comportava. Maledì sé stessa per aver accettato quell'incarico fin dall'inizio e tese la corda.

Tuttavia, non ebbe mai modo di scagliare quel colpo. Un bagliore improvviso risplendette poco distante e una cortina di fiamme e fumo esplosero subito dopo davanti al volto dell'assassina disorientandola momentaneamente e facendola quasi cadere dal parapetto della nave, appollaiata com'era su di esso quasi al pari di un corvo.

Quando riaprì gli occhi, ebbe modo di constatare che il dardo infuocato dello stregone non l'aveva ferita in alcun modo, esplodendo prima che potesse venire a contatto con il suo corpo. Attonita, si chiese come diavolo potesse essere possibile e ringraziò la sua buona sorte che l'aveva protetta da un pericolo neanche minimamente considerato. Che imperdonabile svista! Astrid l'avrebbe coperta di ridicolo, se avesse saputo che non aveva pensato di munirsi con una qualche protezione magica in vista del probabile combattimento contro un mago come quello che vedeva ora fulminarla con lo sguardo, dall'aspetto così terribile e maledettamente imponente.

 

 

Un Tevinias ora furente e sconcertato squadrò la donna poco distante con un'espressione terribilmente seriosa. Come era riuscita a proteggersi dal suo attacco? Doveva avere un qualche tipo di protezione magica indosso: la palla di fuoco, prima di scontrarsi contro un muro invisibile posto di fronte all'assassina, aveva deviato leggermente la sua traiettoria proiettando l'illusione di una superficie sferica incolore. Una barriera magica che rendeva le cose difficili, ma lo stregone non se ne crucciò particolarmente.

Oltretutto non era mai stato molto incline a dialogare, durante un duello con un avversario dalle motivazioni sconosciute, perciò non perse nemmeno tempo a chiedere spiegazioni e si preparò a combattere con tutto sé stesso come non faceva dai tempi di Arlathan...

L'uomo impugnò con forza il suo bastone magico, canalizzando l'energia magica incatenata in esso all'interno del proprio corpo e provando ancora una volta quella sensazione oramai diventata terribilmente familiare, la stessa che ogni volta lo lasciava al contempo estasiato ed euforico. Sentiva scorrere quel fiume di energie nelle proprie vene con la potenza di una cascata, permeare ogni singolo neurone del suo cervello esaltandone la reattività e la percezione del mondo attorno a sé, e con un ruggito le espulse con foga agitando con un gesto secco e preciso il suo bastone in direzione dell'avversaria. L'aria tremò improvvisamente e Sebastian, ancora scioccato dall'improvviso assalto condotto da quella donna bionda e sfuggente, sentì un forte sapore di ferro in gola mentre Tevinias scagliava l'equivalente di un fulmine in miniatura davanti a sé, dal suono terribilmente sfrigolante e sinistro.

Per istinto Ashlotte schivò il colpo, che andò a schiantarsi per buona parte sull'albero maestro dietro di lei: l'energia racchiusa in quell'attacco lo distrusse quasi interamente facendo saltare una miriade di minuscole scheggie taglienti e appuntite, incendiandone la parte in legno e successivamente la vela sopra di questa. Incurante di tutto questo l'assassina estrasse due pugnali dalle maniche e li lanciò con precisione maniacale verso lo stregone, avendo cura di non essere vista mentre ne preparava un altro paio. Sentiva il suo cuore, impegnato a pompare adrenalina a iosa nelle vene, battere all'impazzata all'interno del petto come un tamburo di guerra.

Con un agilità che tradiva l'apparenza Tevinias li evitò scartando di lato e i suoi occhi videro i prossimi coltelli in arrivo, ancora riposti nelle mani della donna. Anticipò la sua avversaria e scagliò quattro dardi magici in rapida successione, ognuno più intenso dell'altro, i quali stavolta riuscirono a perforare le difese magiche dell'assassina: ci fu un leggero scricchiolio e l'aria attorno ad Ashlotte, che sembrava innaturalmente compatta fin dal suo primo attacco, si disperse al primo fiato di vento.

La donna non perse tempo nel domandarsi l'origine di quell'arcana difesa e colmò rapidamente la distanza che la separava dallo stregone, rinunciando all'idea di scagliare i suoi pugnali. Optò invece per un combattimento ravvicinato, decisa a sfidare quell'uomo su un terreno dove era indubbiamente più esperta e abile di lui.

Fu una questione di pochi secondi e Sebastian guardò i due cominciare a scambiarsi veloci fendenti. Sarebbe dovuto intervenire? Le sue abilità in combattimento non potevano minimamente eguagliare quelle del suo compagno di viaggio, a quanto poteva vedere da come riusciva ogni volta a respingere gli affondi della sua avversaria, o nemmeno competere con lei: con tutta probabilità doveva essere una sicaria dell'Impero. Forse la Confraternita Oscura? Non si poteva mai sapere.

La sua mano corse incerta verso l'impugnatura della sua lama, una daga maneggevole e leggera, l'ideale per uno stile rapido e ravvicinato. La estrasse e con un gridò si lanciò in direzione di Ashlotte, preparata tuttavia all'evenienza. Con un movimento elegante si portò sul fianco dello stregone, pronta a far fronte ad un nuovo avversario, e continuò a cercare sistematicamente l'affondo con le sue due lame contro Tevinias, stupendosi di quanto l'uomo fosse abile a combattere anche senza ricorrere ai suoi poteri magici ed affidandosi semplicemente all'agilità del suo bastone in duro legno nero, capace di resistere ai colpi delle sue indistruttibili lame d'ebano lavorato.

Dopo qualche istante anche il secondo uomo, la sua preda, si fece sotto con attacchi però meno calcolati ed esperti. Per nulla in difficoltà Ashlotte lo colpì con l'elsa del pugnale proprio sotto il mento, strappandogli un gemito strozzato, per poi affondargli il ginocchio in pieno petto. Sebastian stramazzò a terra, mentre un arco invisibile disegnato dalla traiettoria del bastone di Tevinias si abbatteva con violenza sulla spalla destra della donna che si sottrasse troppo tardi alla portata dell'arma nemica di scatto, stringendosi la parte offesa con la mano sinistra. Ondate di dolore si irradiavano dalla sua spalla fino al suo braccio e per un attimo temette di essersela lussata.

Quel bastone sembrava più duro dell'acciaio!

Tevinias sogghignò, battendo una volta soltanto l'asta nella sua mano destra per terra. L'aria mugghiò di energia e a Sebastian, ancora riverso per terra, tremarono i denti nelle gengive mentre un altro fulmine magico, stavolta di violenza e luminosità superiore al precedente, veniva scagliato contro un Ashlotte ora priva di alcuna ignota protezione arcana e l'avrebbe uccisa senza alcun dubbio, se solo questa non si fosse spostata più per mero istinto che per vera intenzione. L'assassina sentiva le sue forze calare, mentre lo stregone di fronte a lei non sembrava neppure affaticato dall'enorme dispendio di energia magica che aveva impiegato negli ultimi minuti.

- Chi ti manda? - ruggì Tevinias, sollevando il bastone e portandolo in posizione orizzontale rispetto al resto del suo corpo. Minuscole scintille di un vivo colore blu elettrico danzavano attorno a lui provocando un cupo ronzio nell'aria, mentre un vento arrivato dal nulla e che non aveva niente a che fare con quello che soffiava nelle vele della nave poco prima fischiava con violenza inaudita scompigliandogli i capelli e le folte basette castane.

Ashlotte non rispose, concentrando invece le forze in un ultimo, disperato attacco. Caricò il peso del suo corpo sul braccio sinistro ancora sano e ignorò la dolorosa pulsazione che le stava rapidamente annebbiando la mente: ci fu un movimento fluido e, chinandosi con un guizzo nervoso, estrasse un pugnale da lancio da uno stivale e lo scagliò con tutta sé stessa, urlando dallo sforzo. La lama ruotò febbrilmente, intrisa di energia cinetica, e fendette l'aria con un sibilo rabbioso.

L'espressione di Tevinias, dapprima sicura e seriosa, si tramutò in una smorfia quando il coltello lo colpì in pieno petto, scaraventandolo all'indietro e facendolo crollare per terra con un tonfo attutito dal pavimento in legno della nave. La presa che manteneva il bastone magico poco prima saldamente afferrato nella mano destra dell'uomo cessò e questo rotolò per diversi metri, prima di scontrarsi con un barile posto sulla sua traiettoria.

Sebastian guardò la scena con gli occhi sbarrati. Solo allora si rese conto che l'albero maestro stava venendo divorato dalle fiamme, che tutte e tre le vele stavano bruciando e che Tevinias era appena stato trafitto al cuore da quell'assassina sul cui volto ora era dipinta un'espressione di gelida soddisfazione. 

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Capitolo 14
*** Esequie in mare. ***


Ashlotte avanzò lentamente verso il corpo dello stregone riverso per terra, le braccia spalancate come per farsi notare da qualcuno sopra di lui da qualche parte lassù nel cielo. I suoi erano passi malfermi, insicuri, come di chi non sa bene come scaricare il proprio peso sul piede giusto per evitare di stramazzare svenuto al suolo. La spalla non aveva cessato di mandare ogni tanto sporadiche ondate di un dolore sordo, penetrante come la lama di un pugnale dalla quale però differiva su un solo aspetto. Non provava una sensazione di gelo come quello trasmesso dal metallo, ma un pulsare caldo e rivoltante proveniente da qualche centimetro sotto l'attaccatura tra clavicola e scapola: mosse il braccio destro fino a formare un angolo di novanta gradi con la spalla affianco e ringhiò di dolore al pari di una bestia, avvertendone una scarica pungente come se mille frammenti di vetro le fossero stati posti in quel punto. Il mago doveva averle spezzato sicuramente qualche osso, altro che lussazione!

Intanto attorno a lei la nave stava rapidamente bruciando. Lingue di fuoco sempre più alte si alzavano progressivamente dagli alberi di mezzana, di tronchetto e da quello maestro, alimentandosi del legno e delle vele soprastanti come un demone famelico e crudele dai riflessi rossastri e sinistri. Tra poco l'incendio avrebbe lambito anche il ponte, per poi divorarlo interamente assieme a carena e chiglia. Della nave non ne sarebbe rimasto niente di più che uno scheletro annerito e bruciato, condannato a vagare alla deriva per il mare fino a schiantarsi contro gli scogli di una costa dal nome sconosciuto.

Doveva fare in fretta. Non era odore di polvere da sparo quello che sentiva permeare l'aria? Quei due scellerati avevano rubato un brigantino da trasporto di armamenti imperiali e lei non si era data nemmeno la briga di controllare. Sarebbero saltati in aria, se non avesse fatto in fretta.

Ma come diavolo poteva trasportare il prigioniero, prima fuori dall'imbarcazione in fiamme e poi fino a Solitude, in quelle condizioni?

Non avrebbe mai dovuto accettare quel lavoro. Si era rivelato un'autentica fregatura fin dal primo momento, e la paga non valeva assolutamente tutto quel trambusto.

...beh, forse non era del tutto vero. E in fondo, a lei del denaro non interessava granché: preferiva darne un po' a chi, come lei un tempo, ne aveva un gran bisogno e non poteva fare nulla per cambiare la sua condizione.

Forse si era stancata di quella vita, pensò, mentre osservava Tevinias accasciato sul freddo pavimento in legno del ponte di poppa. L'elsa del suo pugnale sporgeva dal petto dello stregone, immerso in una pozza di sangue.

Si chinò e lo estrasse dal corpo dell'avversario, ammettendo a sé stessa come in realtà si fosse rivelato un avversario terrificante. Poche volte in vita sua aveva affrontato un avversario capace di lanciare incantesimi e ogni volta era rimasta delusa, ripensando ai leggendari stregoni delle favole, dai poteri eccezionali e smisurati. Quell'uomo aveva saputo mostrarle il lato di verità nascosto dietro la leggenda, il vero volto della magia. Selvaggio, prorompente e brutale.

Con la coda dell'occhio vide il suo bastone magico poco distante, rotolato fino al corrimano della nave. Festus l'avrebbe sicuramente gradito moltissimo, c'era tanta di quella magia là dentro che ad Ashlotte formicolava la pelle solamente a trovarcisi vicino.

La donna fece per allungarsi e raccoglierlo, quando una stretta d'acciaio le cinse il braccio. Il suo cuore fece un tuffo e quando si rese conto che il braccio aggrappato al suo era quello dello stregone, redivivo e con un ghigno terrificante stampato sul volto, ebbe davvero paura come mai l'aveva provata prima.

 

 

Accadde tutto in un secondo. Quando vidi Tevinias afferrare il braccio dell'assassina e alzarsi mantenendo salda la presa, rimasi semplicemente senza parole. Ero paralizzato da quella visione, certo che il cuore mi si fosse fermato dentro al petto.

Guardai il mio compagno di viaggio poco distante negli occhi e la scorsi ancora una volta.

Quella luce terribile, nera come l'oscurità più fitta, paragonabile soltanto ad una notte senza stelle e senza luna. Cercai disperatamente di distogliere lo sguardo da quell'abisso

che minacciava quasi di ingoiarmi, senza che potessi fare nulla per impedirlo

ma non ci riuscii. L'espressione dipinta sul volto dello stregone mi sconvolse profondamente, tinta di una crudeltà che mai avrei pensato un singolo uomo potesse provare in vita. La donna dai capelli biondi, ancora agghiacciata dall'improvvisa reazione dell'uomo, non sembrava in grado di muoversi o di rispondere in alcun modo a quell'evidente violazione di ogni legge naturale. Dopo qualche secondo di inerte terrore tentò di divincolarsi dalla stretta dell'uomo, senza successo. Tevinias si mosse e con una rapidità sovrannaturale le affondò un tremendo pugno nello stomaco che le strappò in grido e la buttò all'indietro.

Feci per raggiungere il mago, ma la naturalezza dei suoi movimenti mi terrorizzava. Come se non fosse successo assolutamente nulla l'uomo raccolse il suo bastone magico da terra che al suo tocco crepitò di un'energia sinistra e malvagia, quel sorriso terribile ancora impresso sul viso: lo sollevò al cielo, come in una silenziosa preghiera diretta verso di esso.

E le nuvole risposero.

Un fulmine si abbatté su Tevinias, attratto dalla decorazione posta sulla cima del bastone. I due serpenti dai corpi finementi intrecciati tra di loro parvero muoversi alla luce di quel lampo inaspettato, come se avessero acquistato vita propria, e risplendettero proiettando mille ombre diverse e sinistre sul pavimento in legno della nave. Linee appartententi ad una fitta trama a forma di cupola scintillante avvolsero lo stregone, scaricando per terra tutto la loro enorme differenza di potenziale.

Passarono pochi secondi e al fulmine seguì il tuono: fu un rompo squassante, che mi fece tremare i denti nelle gengive e davanti al quale avrei solamente voluto rannicchiarmi in un angolo con la testa stretta tra le braccia. L'emozione terribile sul volto del mago si incupì ancora di più, se possibile, e i suoi occhi tradirono ancora quella paurosa luce

di follia e morte

che avevo appena incominciato a conoscere, o meglio a temere.

Con l'energia di un fulmine vero e proprio e il roboare di quello sfrigolante vortice azzurrino di scintille magiche, l'aria vibrò appesantendosi di colpo e crepitò come braci sul fuoco attorno ad un Tevinias che ora stava ridendo di una tremenda felicità. Puntò il bastone contro l'assassina, ancora incapace di reagire e scioccata dalla piega che avevano preso gli eventi. L'apparizione di quella splendente e maestosa saetta non aveva fatto altro che sconvolgerla ancora di più.

Una voce ruggì in mezzo a quella tempesta e solo dopo qualche secondo mi resi conto appartenere a Tevinias. Vedevo la sua bocca muoversi ma mi parve quasi una visione, come quella che mi aveva mostrato qualche giorno prima in quella locanda. Questo doveva essere un sogno, per forza.

- Benedetti coloro che si ergono davanti alla malvagità e alla corruzione senza vacillare! Possa il Creatore guidare la mia mano! - ruggì la voce, tanto spiritata e profonda che mi sembrò provenire da un altro mondo. Poi il bastone in mano a Tevinias splendette come il sole stesso e linee di energia magica lo attraversarono dalla base fino alla punta.

No.

Dovevo impedire a quel mostro dentro Tevinias di prenderne il controllo. Perché oramai poteva trattarsi solo di questo: qualunque cosa fosse davvero successa a quell'uomo, c'era qualcosa dentro di lui che lottava per uscire ogni volta che la forza di Tevinias vacillava, stanca ed esausta. Quella luce così sinistra che ogni tanto i suoi occhi tradivano ne era la prova, l'ombra di quell'aberrazione celata negli angoli più oscuri della sua anima.

Dovevo fermarlo, ad ogni costo. Non avrei permesso che consumasse il mio amico, il mio compagno di sventura. Così, incurante del mio stesso gesto, mi lanciai frapponendomi tra Tevinias e l'assassina mentre l'odore sempre più penetrante della polvere da sparo mi permeava le narici.

Allargai le braccia, cercando di assumere un aspetto imponente. Dubito ci fossi davvero riuscito: il crepitare di quel bastone puntato contro di me, come un parafulmine carico di energia elettrica, mi terrorizzò ulteriormente e sentii lunghi brividi freddi percorrermi la spina dorsale nonostante il calore delle fiamme stesse avvolgendo la nave intera, divorandone il legno vivo.

- No. -

Solo dopo qualche secondo mi resi conto di essere stato io a parlare. La mia voce era stata in gran parte contrastata dal ruggire della tempesta elettrica attorno a noi e dal crepitare del legno inghiottito dalle fiamme, ma risuonò indubbiamente perentoria, forte e sicura. Capii che Tevinias mi aveva sentito dalla smorfia di disagio che comparve improvvisamente sul suo volto. L'uomo digrignò i denti, senza accennare ad abbassare il suo bastone magico.

- Ti prego, Tevinias. Torna in te, o finirai con il distruggere tutto quanto. -

- Me incluso. -

Non seppi mai se a spezzare quell'alone di dubbio fu il tono della mia voce, ora elevatosi a ruggito imponente, oppure le mie stesse parole. Vidi i primi sintomi di un tremendo sforzo affacciarsi sul volto dello stregone: minuscole gocce di sudore gli imperlarono le sopracciglia e le tempie, lasciandomi intuire quanto grande fosse il suo tentativo di resistenza

verso chi, o che cosa?...

e di forza di volontà. L'assassina dietro le mie spalle era rimasta nella sua stessa posizione, un'espressione indecifrabile in viso. Sembrava che il suo spirito ci avesse lasciato per fuggire altrove, lasciando là il corpo a farne le veci.

- Coraggio, Tevinias! Puoi FARCELA! - urlai e un ruggito bestiale proruppe dalla bocca dello stregone, che con un violento strattone agitò il bastone sprigionando gran parte l'energia contenuta in esso e disperdendola disegnando un arco invisibile con il suo movimento: la nave intera tremò e con un boato si spezzò in due per il largo, cedendo sotto la forza unita delle fiamme e dello squilibrio magico provocato dalla brusca interruzione dell'incantesimo che avrebbe distrutto completamente me e la donna dai capelli biondi, insieme probabilmente a tutta la nave e a quella zona del mare. L'aria attorno a noi vibrò nuovamente e infinite spire di magia ci avvolsero provenienti da ogni parte per poi dirigersi verso il cielo, come per ritornare dal luogo dal quale erano venute; come se non bastasse, seppi che l'incendio aveva lambito i barili di polvere da sparo sotto di noi nel momento in cui un fiume di fuoco e legna carbonizzata eruttò dal ventre squarciato dell'imbarcazione.

Mi coprii gli occhi, desiderando di essere intangibile, e come se i miei desideri fossero stati realizzati non una minuscola favilla mi toccò, deviata da un invisibile muro di forza. Incredulo, solo dopo qualche secondo mi resi conto di due braccia avvinghiate ciecamente a me: l'assassina piangeva, rannicchiata dietro le mie spalle. Le sue unghie mi ferirono la pelle lasciandomi lunghi graffi e con uno strillo di dolore tentai di scacciarla, mentre la metà della nave sulla quale ci trovavamo stava cominciando a sprofondare nelle acque gelide del Mare dei Fantasmi.

Mi guardai intorno cercando con lo sguardo Tevinias e quando lo vidi restai a bocca aperta. Lo stregone era sospeso a mezz'aria, con la testa china intenta a guardare verso la superficie liquida e increspata dal naufragio della nave sotto di lui: per un attimo, solo uno soltanto, ebbi come l'impressione di un movimento fugace alle sue spalle, una presenza invisibile e sfuggente. Cercai di mettere maggiormente a fuoco, ma non riuscii a vedere nulla oltre che l'orizzonte solcato da nubi nere e minacciose.

Eppure, avrei giurato di aver visto qualcosa.

Scorsi Tevinias muovere lentamente le labbra, sussurrando qualcosa noto soltanto a lui. Un secondo dopo, l'incantesimo attorno a lui si spezzò definitivamente e la barriera magica attorno a me si dissolse nel nulla. L'uomo cadde in mare precipitando sgraziatamente, sparendo infine tra le acque.

Gridai il suo nome, senza tuttavia avere alcuna risposta. Solo la cima del ponte di prua separava dal mare me e la mia inaspettata compagna di disgrazie, ora intenta a...pregare.

Tesi le orecchie, cogliendo tra le sue parole i nomi “Tsun” e “Akatosh”.

Un'assassina che prega? Segnai mentalmente quella stranezza aggiungendola alla lista di cose che mai mi sarei aspettato di vedere, poi tornai a posare gli occhi sul lembo di mare dove era scomparso Tevinias.

Sarebbe mai più tornato?

 

 

Nel bel mezzo dell'infuriare di quella tempesta magica, Ashlotte aveva provato per la prima volta cos'era davvero la paura di morire. Era una sensazione opprimente, asfissiante, che avrebbe voluto stracciare e buttare a terra continuando a pestarla con i piedi. L'aveva ingabbiata all'improvviso, mentre lo stregone puntava contro di lei l'equivalente di un ruggente inferno in miniatura, con tanto di fiamme e fulmini. Le orecchie le avevano ronzato per minuti interi, rendendola quasi sorda: quando si era ripresa, aveva visto quell'uomo frapporsi tra lei e il mago. Aveva urlato qualcosa, ma Ashlotte non lo ricordava più ormai. Avrebbe voluto soltanto dormire per una settimana intera e il torpore che pian piano l'aveva assalita ne era la prova.

E invece era lì, rannicchiata contro il parapetto di prua della nave quasi completamente affondata.

Le fiamme erano scomparse, sostituite dal fumo e da un ronzio indistinto che ancora permeava l'aria. Tossii convulsamente più volte, mentre una goccia le cadeva sul naso. Poi un'altra, e un'altra ancora.

Stava piovendo. Una vocina dentro la testa della donna le suggerì che quella pioggia non era naturale, ma bensì era causata dall'enorme quantità di calore e di elettricità salita nel cielo dopo l'esplosione incontrollata di magia per mano di quell'uomo, Tevinias. Tuttavia non vi fece troppo caso e socchiuse le palpebre, godendosi quel dono divino che pareva rinfrescare il mondo intero e spazzar via la sua paura di morire, il suo istinto di mera sopravvivenza.

A dispetto di tutto, un profondo senso di pace la pervase.

 

 

Quasi non mi resi conto del tonfo attutito causato dell'impatto tra il legno del parapetto, spezzato e annerito dal fuoco, sul quale eravamo aggrappati io e la donna e la roccia di uno scoglio. Mi ridestai dal mio profondo torpore e aguzzai lo sguardo senza degnare neanche minimamente di un'attenzione l'assassina accanto a me, che doveva essere profondamente addormentata o svenuta. C'era una spiaggia, poco distante da noi: riverso sulla sabbia dorata giaceva il corpo di Tevinias, trascinato fin là dalla corrente e sospinto sulla terraferma dalle onde. Il Mare dei Fantasmi si stagliava lontano all'orizzonte, inquieto e spumeggiante. Una tempesta dagli strani, inquieti colori lo agitava, infilzando le acque con fulmini e saette.

Presto sarebbe giunta fino a noi. Dovevamo trovare un riparo, al più presto.

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Capitolo 15
*** In catene. ***


La brezza del vento sulla mia pelle, i granelli di sabbia sotto i miei piedi nudi e sporchi. Percepivo un indistinto ronzio fischiarmi piano nelle orecchie, come se avessi temporaneamente perso la capacità di udire il mondo intorno a me. Sottili rivi di sangue stillavano dai numerosi graffi sulle mie braccia: l'esplosione della nave aveva proiettato frammenti di legno qua e là, escoriandomi in diversi punti del corpo. Ma il dolore non era che una sensazione estranea in quel momento dettata solo da un riflesso incondizionato del mio sistema nervoso, impegnato a gridarmi a squarciagola cosa voleva realmente dire il concetto di istinto di sopravvivenza.

Quando vidi il corpo di Tevinias riverso sulla sabbia, le braccia spalancate come in un affettuoso abbraccio, ebbi un tuffo al cuore e silenziosamente maledii un fato crudele e perverso. Poteva forse un uomo soffrire a tal punto? Dov'era la giustificazione nello spaventoso peso che gli gravava invisibilmente sulle spalle?

Quale colpa poteva comportare tanta sofferenza?

- Ehi – gli sussurrai scrollandolo, con un filo di voce. Avrei pianto, se solo non mi fosse stato insegnato come atto di profonda debolezza. Ma io non ero debole, no: ero commosso da tanta eroica resistenza alle avversità della vita. Tevinias sopportava da moltissimo tempo le conseguenze del suo gesto, il suo orribile sacrilegio.

Quale dio misericordioso e compassionevole poteva punire con tanta crudeltà uno dei suoi figli?

- Ehi...Tevinias. -

Vidi i suoi occhi aprirsi lentamente, rivelando iridi castane come l'ebano giovane delle foreste di Markarth. Era uno sguardo stanco e rassegnato il suo, tanto che mi domandai quanto a lungo potesse aver desiderato la morte. Chi sa che in qualche occasione non aveva persino provato a darsela da sé.

- Sebastian? -

- Sì. -

- E' finita? - mi domandò, con un tono di voce che lasciava più lo spazio ad una silenziosa implorazione. Vidi le sue mani, pallide e dalle dita nodose e contorte come radici, cercare alla cieca il tocco confortante del suo bastone trovandolo infine poco distante, appena vicino alla rotula sinistra. Minuscole scintille cominciarono a rilucere attorno al suo corpo, rinfrancandolo dal terribile sfoggio di potere che poco prima aveva mostrato su quella nave imperiale, ora ridotta a poco più che un relitto carbonizzato e semidistrutto.

Poi, lo vidi per la prima volta. Mi apparve alla vista in un baleno, facendomi ritrarre di scatto per il ribrezzo: dalla foga inciampai quasi sulle mie gambe e ci mancò poco che non finissi per terra, se non fosse stato per un provvidenziale arbusto afferrato all'ultimo momento.

Tevinias imprecò a bassa voce alzandosi in piedi, mostrando il suo vero aspetto a quella landa dimenticata da Dio. La pelle, gialla e tesa come un tendine laddove ancora ricopriva il volto, lasciava intravedere qua e là i capillari sottostanti e nella zona intorno agli occhi creava un sinistro affossamento, rendendo le sue orbite oculari quanto di più simile a un pozzo dilavato dal tempo.

- Perdonami, Sebastian – mi disse, sogghignando involontariamente e mostrando denti bianchi come perle lavorate – avrei dovuto dirtelo. -

Cercai di muovere le labbra, ma scoprii che la lingua mi si era incollata al palato. Parte della mascella sinistra dello stregone era esposta all'aria aperta, come una ferita orribilmente incancrenita.

Un teschio ricoperto di pelle. Fu quell'immagine a venirmi in mente per prima, e probabilmente anche la meno disgustosa. Dove la stoffa della sua tunica da mago non copriva il corpo, che intuii essere in condizioni sicuramente peggiori del suo volto, la pelle giaceva raggrinzita e annerita, pendendo qua e là bellamente come se fosse la cosa più normale del mondo.

- Tu...sei... - biascicai, ma Tevinias alzò una mano e vidi chiaramente le articolazioni trasparire dal sottile strato di pelle che le ricopriva. A quella visione mi morì il fiato in gola, negandomi ogni possibilità di favella.

- No, non sono morto. - disse, quasi sussurrando – anche se ne ho tutto l'aspetto, non lo sono. Non vedi che ti sto parlando? Che intendo e penso come te? -

- Necromanzia - risposi, nel disperato tentativo di resistuire razionalità alla piega che avevano preso gli eventi – stai usando una qualche forma di magia nera, ma in realtà sei morto. -

- Nemmeno questo. - disse lo stregone, avvicinandosi lentamente a me. Avrei voluto ritrarmi, orripilato dalla vicinanza di quell'essere disgustoso e nemico di ogni legge logica naturale, ma non riuscii a trovarne la forza. Ero troppo stanco e abbattuto per potermi opporre a quel nuovo stravolgimento cui era sottoposta la mia mente.

Vidi come al rallentatore la sua mano sfiorarmi il volto in una silenziosa carezza. Per quanto la sua pelle fosse incartapecorita e tesa come una pergamena di vitello, il contatto con essa fu dolce e leggero: dal suo corpo non traspariva nessun puzzo caratteristico della decomposizione e solamente un sottile aroma di gelso e di sorbo mi raggiunse le narici.

- Questo è il miracolo operato dal Creatore, Sebastian – sentenziò Tevinias, con occhi forti rinnovati – il mio dono, la mia maledizione. Sono morto, ma vivo ancora. E probabilmente, sarà così ancora per molto, molto tempo. -

Ero scioccato, ma una domanda mi tormentava da tempo e in quel preciso istante tornò più forte che maia d affacciarsi sull'interminabile e frenetico corso dei miei pensieri.

- Da quanto, Tevinias? Per quanto hai vagato errabondo e solitario in questo mondo? -

- Sebastian... -

- Ti ho fatto una domanda. - sentenziai, con voce dura. Volevo risposte, le volevo sin da quando quell'uomo mi aveva liberato dai miei carcerieri: ora più che mai sentivo il bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto, che fosse per me un'incrollabile certezza.

- Da quanto? -

Tra noi due cadde il silenzio e un tuono lontano rimbombò cupo nell'aria, avvertendoci del sopraggiungere di una tempesta. Tra poco si sarebbe abbattuta là dove ci trovavamo e ancora eravamo alla ricerca di un qualsiasi riparo.

Quando lo stregone rispose, cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia. Pesavano come macigni laddove mi colpivano sulla pelle oppure si limitavano a pungermi come api, sottili e fitte.

- Duecento anni. Se il computo del mio mondo equivale al vostro, sono intrappolato su Nirn da due secoli. Mica robetta, eh? - disse, sorridendo.

Tacqui. Il suo sarcasmo mi spezzò in due come un fuscello portato via dal vento.

Intanto, dietro di noi, sentii l'assassina avanzare cautamente sulla sabbia. Vidi lo sguardo di Tevinias correre per fissarsi in un punto oltre le mie spalle e mi voltai lentamente, pronto ad affrontarla una volta per tutte.

 

 

- Gregorius, tu sai bene che prima di formulare un'accusa grave conviene avere delle prove valide. Non si sa mai che potresti irritare qualcuno. - disse il più anziano degli uomini seduti al tavolo, accendendo un cero per illuminare quella stanza semisepolta nell'oscurità. Mezzanotte era passata da poco e Solitude intera dormiva, ad eccezione delle persone riunite al primo piano della Guarnigione Imperiale. Erano pochi, ma ognuno di loro era un membro di spicco dell'Impero e il fatto che fossero stati convocati tutti assieme così precipitosamente era sintomo di un'eccezionale rarità.

- Io dico, Grigori – sentenziò il più giovane, dai capelli corvini e gli occhi astuti come quelli di una volpe – che tra noi vi è un sabotatore, colpevole di aver quasi boicottato il mio incarico, faccio notare affidatomi dal Generale Tullius in persona. -

Vi fu un breve rumore di vesti mosse per un gesto affrettato e una donna dalla pelle scura si sporse quanto più il tavolo potesse permetterlo verso Gregorius, gli occhi colmi di sdegno e di ira.

- Come ti permetti di accusare i tuoi colleghi? Non sei altro che un moccioso arrivista e... -

- Fran, ti prego – la interruppe l'uomo dal nome di Grigori, massaggiandosi con entrambe le mani le tempie doloranti e segnate da una calvizia dettata dall'età – non siamo qui per insultarci a vicenda. Piuttosto, dobbiamo cercare di capire perché Gregorius ci accusa di tradimento. E farà il possibile per chiarirsi, non è così? - aggiunse, con un tono di sottile intendimento. Ci voleva poco per capire che dentro quella stanza era l'uomo di maggior prestigio e sebbene celasse i suoi intrighi dietro una patina di apparente ragionevolezza, ognuno dei presenti era al corrente di come si fosse fatto strada per arrivare fin lì. Era metodico e spietato, quando si trattava di eliminare un'opposizione sul nascere. Gregorius si augurò che lui e quell'uomo non dovessero trovarsi in futuro sui lati opposti della scacchiera.

- Grazie, Grigori. - disse, cercando di fingere sicurezza. Quando si tratta di accusare qualcuno, pensò, non poteva mai sapersi a chi appartiene il coltello diretto alla tua gola.

La donna dalla pelle scura tacque, senza tuttavia smettere di fissare Gregorius con il suo terribile sguardo. Qualcuno tossì, come facendo cenno di continuare.

- Ebbene, per svolgere il delicato incarico affidatomi dai nostri superiori – incominciò Gregorius, aggiustandosi l'armatura scarlatta da sempre contrassegno dell'Impero – ho dovuto ricorrere a mezzi...insoliti, dopo aver constatato il fallimento della mia squadra di recupero. Ho perso un valente soldato quale era Gamlen Thediàs ed è inutile che ricordi a tutti i presenti gli onori legati alle sue gesta. -

Tacque, in attesa di eventuali osservazioni. Non parlò nessuno e decise continuare con il suo racconto.

- Dalle informazioni in mio possesso, il prigioniero noto come Sebastian Orius è stato aiutato dall'esterno. Un singolo uomo, che tuttavia è riuscito a sbaragliare il corpo da me assemblato. -

- Ho sempre pensato che ti circondassi di nullità, Gregorius – lo interruppe la donna di nome Fran, con un sogghigno – questo conferma le mie supposizioni. -

L'uomo non rispose a quella frecciata, aggiungendola all'infinita lista di umiliazioni e affronti subiti da parte di quei meschini ipocriti. Con un gesto svolazzante banalizzò l'interruzione e continuò a parlare.

- E' stato uno stregone a sconfiggere i miei uomini. Il luogo dello scontro riverbera ancora di energia magica in tale quantità da farmi supporre il coinvolgimento di un esponente di Winterhold: mi risulta difficile credere che un mago tanto abile se ne vada in giro così, slegato da qualsiasi limitazione giuridica. -

- Abbiamo già controllato – osservò Grigori, incrociando le dita all'altezza del volto – non ci è stato segnalato nessun intervento da uno dei feudi. Gli unici maghi di corte e apprendisti a Skyrim si trovano sempre al loro posto. -

- Comunque sia – continuò Gregorius, consapevole di essere arrivato al nocciolo della questione – davanti a questi improvvisi stravolgimenti ho ritenuto opportuno adottare...certe misure. -

Tra i presenti cadde il silenzio, invisibile come una cappa di fumo. Una voce si sollevò dal nulla con un timbro diffidente e sospettoso.

- Quali misure? -

Gregorius cercò di identificare il padrone di quella voce, ma non lo trovò e si rassegnò a dover rispondere come se l'avessero domandato tutti insieme. Fissò fiero negli occhi Grigori, sostenendo il suo sguardo inquisitore.

- Ho chiesto aiuto alla Confraternita Oscura. -

Un brusio si sollevò tra i presenti e Fran si sollevò, battendo i pugni sul tavolo.

- Questo è inaccettabile! Grigori, come puoi permettere una cosa del genere? Rivolgerci ad una banda di squallidi mercenari come la Confraternita per una missione ufficiale?! -

- Ti prego, Fran – disse Grigori a denti stretti, con un tono di voce che non ammetteva repliche – siediti. E voialtri, tacete per un momento. -

- Ascoltate... -

- No, ascolta tu - intervenne nuovamente l'uomo anziano, fissandolo con uno sguardo gelido – quello che hai fatto va contro il Codice e tu lo sai bene. -

- Ma... - tentò di dire Gregorius, trovando però davanti a sé soltanto una cortina di disprezzo. Ogni membro in quella stanza lo stava fissando, accusandolo ad alta voce.

- Non ho bisogno di sentire altro. - disse Grigori, alzandosi e indicando Gregorius con l'indice della mano destra, un'espressione terribile dipinta sul volto.

- Io ti accuso, Gregorius, di alto tradimento e di connivenza con organizzazioni extraimperiali. Sarai normalmente processato e se la corte lo riterrà opportuno, verrai giustiziato così come il Codice lo richiede. -

- Come osi...? -

- Oh, io oso. Troppo a lungo siamo stati costretti a sorbirci la tua torbida parlantina e per troppo tempo i tuoi mezzucci da quattro soldi hanno recato disonore a questa Legione. - sentenziò l'uomo anziano, mentre tutti intorno a lui ora vociavano animatamente, infervorati e sdegnati – guardie, portatelo nelle prigioni. Dichiaro da questo momento Gregorius un traditore e un bugiardo: rimarrà nelle segrete del palazzo fino a giudizio. Andate, ora! -

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Capitolo 16
*** La porta. ***


- Ehi, Marty – disse l'omone brutto e dal volto unto di sudore – passami un altro idromele. -

Il ragazzo che rispondeva al nome di Marty esitò pensoso, la gola non poco riarsa dal calore emanato dalle torce disposte sulle pareti metalliche attorno a loro che risplendevano alla luce del fuoco come piccoli soli in miniatura.

- E se facessimo a metà? -

L'altro lo guardò in maniera eloquente, un'espressione di disapprovazione dipinta sul volto.

- Devo forse ricordarti chi è che fa il lavoro sporco tra di noi? - sentenziò infine, afferrando una coscia di pollo e divorandone metà in un sol boccone. Rivoli di sugo e condimento gli colarono lungo il mento, fermandosi tra i peli del suo folto pizzetto nero.

- Dio, Boss – sussurrò Marty, ritraendosi a quello spettacolo – almeno impara a mangiare come si deve. Ecco, tieni. -

L'omone annuì soddisfatto, afferrando al volo la bottiglia di idromele lanciatagli dall'amico. Con la coscia di pollo nella mano destra e la bevanda nella sinistra, stappò l'idromele con un leggerissimo movimento del pollice e la scolò come se avesse vagato assetato nel deserto di Alik'r per mesi. Guardò Marty con un sorriso ebete e ruttò in segno di ringraziamento.

- Sei un animale. -

Il più giovane, dal profilo aquilino e i tratti slanciati, quasi scattanti, tornò a guardarsi intorno. Quella notte avevano deciso di accamparsi nel primo posto che avevano trovato, un luogo che se le mappe non mentivano doveva corrispondere al nome di Alftand: un complesso di rovine Dwemer abbandonato da tempo, persino dagli studiosi più accaniti. Gli unici ad abitare quei luoghi dimenticati dagli dei erano ormai i banditi, che ne facevano le loro basi dove rifocillarsi tra una scorribanda e l'altra.

- Boss, ci credi mai alle antiche leggende? -

- Non fare il cagasotto anche stavolta, Marty – disse l'omone, pulendosi la bocca con un panno sporco e sfilacciato qua e là sugli angoli di quella che un tempo doveva essere sembrata della seta – o stanotte dormi fuori al freddo. -

- Piantala. Dico sul serio? -

- Dio, quali leggende vuoi che ci siano?! - sbottò Boss, leggermente irritato. Ai suoi occhi tutto quello che non poteva toccare con mano poteva anche non esistere, per quello che ne sapeva. E questa sua filosofia, pensò, non era mai stata smentita in nessuna occasione nel corso della sua vita.

- Si dice che... - cominciò Marty, abbassando il tono di voce rendendolo quasi un lievissimo sussurro

- Marty...! -

- ...che chi profani questi luoghi vada incontro ad una morte orribile. - concluse il più giovane, afferrando una torcia vicina e stringendola tra le proprie mani ponendole all'altezza del petto. Il tutto avrebbe dovuto contribuire a dargli un'aria spiritata, ma agli occhi di Boss parve solo un'idiota che stava per darsi fuoco involontariamente.

- Piantala - disse l'altro, afferrando la torcia e rimettendola al suo posto – o sveglierai gli antichi Dwemer che costruirono questo luogo. -

- Vedi che lo pensi anche tu?! -

- No – disse Boss, affondando la sua faccia tra le mani – ti prendevo solo in giro. -

- Oh. -

Fu l'ultima battuta tra i due, dopodiché cadde il silenzio in quell'angusto e anonimo corridoio d'ingresso a quelle che erano le rovine di Alftand. Entrare là dentro era stata una sciocchezza: sebbene i cancelli fossero chiusi e sprangati dall'interno, numerose brecce erano presenti nel muro laddove non era fatto di quel metallo nanico che i due avevano verificato essere davvero indistruttibile come dicevano i fabbri delle città più importanti. Insieme avevano preso una spada e l'avevano battuta più e più volte contro le pareti dal color giallo ocra, ottenendo solo di spezzarne il filo e deformarne i tratti.

- Pazzesco. Se trovassimo qualche oggetto fatto di questa roba, potremmo rivenderlo dalle parti di Whiterun. - aveva osservato Boss, i tratti del volto alterati da un'espressione di profondo stupore.

Tuttavia, nonostante le loro ricerche, gli unici frutti dei loro sforzi giacevano ora abbandonati vicino alla sacca dove tenevano i loro viveri e consistevano in qualche septim e due o tre set di banalissime frecce in ferro. Ci sarebbe stato da chiedersi cosa diavolo ci facessero in un luogo come quello, abbandonato da tutti ed evitato dai viandanti come se praticamente non ci fosse.

 

 

Marty si svegliò di soprassalto, il fiato grosso rimbombante nel petto e uno sgradevole velo di sudore sulla schiena e sotto le ascelle. Ancora intorpidito dal sonno afferrò violentemente dell'idromele e lo tracannò in pochi sorsi con il cuore a mille.

Aveva fatto un incubo orrendo, ma non riusciva a ricordarselo. Gli era rimasta solamente impressa una profonda e terribile sensazione di gelo caustico che lo attanagliava in tutte le parti molli, come un'invisibile morsa decisa a non lasciarlo più.

Non faceva incubi così da quando era bambino, pensò. E non ricordava di essersi sentito così a disagio da quando aveva bagnato il letto per la prima volta, abbastanza cosciente da rendersi conto di quello che aveva fatto.

- Psss, Boss – sussurrò rivolto all'amico, ma non ricevette nessuna risposta. Decise così di sgranchirsi un po' le gambe, in modo da dimenticare la sensazione di quel sogno così angosciante, così si alzò e percorse lentamente il corridoio dove lui e Boss si erano accampati quella notte.

Era breve e dopo qualche metro svoltava a destra, ma il buonsenso frenò Marty dall'intraprendere quella deviazione: conosceva bene i racconti che aleggiavano su quei luoghi così antichi e misteriosi e cosa ancora più preoccupante, sapeva di numerosi avventurieri morti, storpiati o sfregiati dalle trappole costruite dai loro architetti. Tempo prima conosceva uno che giurava di aver visto un uomo segato in due da una lama circolare sbucata fuori dal pavimento a Mzinchaleft, durante una precipitosa fuga dalle guardie imperiali. Il tutto era avvenuto in meno di un secondo e nel più assoluto silenzio.

Un brivido, che nulla aveva a che fare con il freddo del metallo su cui posava i suoi piedi scalzi, percorse la schiena di Marty.

Tuttavia la curiosità era sempre stata una brutta bestia e il giovane l'aveva ereditata dalla sua famiglia come era venuto al mondo, così si avvicinò in punta di piedi allo svicolo sporgendosi di poco fino ad avere una buona visuale del percorso davanti a lui.

Un altro corridoio si profilava ai suoi occhi, identico in tutto e per tutto a quello precedente e fatto suo da lui e Boss per quella notte. Era una buona idea esplorarlo?

La precauzione non era mai troppa, pensò Marty. Quando si rese conto di avere ancora in mano la bottiglia di idromele, vuota per tre quarti, la lanciò con circospezione sul pavimento e nel fragore generale ne osservò i frammenti spargersi ovunque, affilati e taglienti.

Non accadde nulla. Né fiamme, lame nascoste o frecce velenose fuoriuscirono da una qualunque fessura nelle pareti. Attese cinque secondi per maggior sicurezza, senza ottenere però alcun risultato.

Sollevato, decise di proseguire facendo attenzione ai cocci di vetro sparsi per terra. In un'occasione sentì una leggera fitta risalirgli lungo la pianta dei piedi e quanto ne vide conficcato nella giuntura del suo alluce imprecò, pulendo il minuscolo rivolo di sangue con la manica.

Non gli ci vollero più di trenta secondi per attraversare il corridoio e sbucare infine su una vasta sala a due piani, dai colori dorati e riflessi metallici qua e là dove era illuminata dalla luce proveniente da un paio di finestre poste sul soffitto, i profili squadrati e non più grandi di un bambino di appena sei anni.

- Wow. - sussurrò, rapito dalla magnificenza che gli antichi Dwemer non esitavano mai a sfoggiare. I suoi occhietti esperti e allenati percorsero la stanza alla ricerca di preziosità rivendibili a qualche avido ricettatore, senza tuttavia trovarne: a catturare il suo sguardo furono tuttavia....

- Marty!? - sussurrò una voce dal tono apprensivo. Il giovane si voltò e vide Boss poco distante da lui, intento a sbracciarsi per attirare la sua attenzione.

- Vieni a vedere! Credo ci sia della roba, qua! -

- Torna subito qui! Non eri tu quello delle leggende? Chissà quali assurde trappole ci sono in questo posto, non fare cazzate! - disse con un filo di voce Boss e Marty si rese conto che il suo amico era davvero preoccupato per lui. Un sorriso gli apparve sul volto e un'espressione di infantile curiosità lo accese.

- Ho già controllato, non c'è nulla! E smettila di sussurrare – disse, ridendo – chi diavolo vuoi che ci senta qua? -

Boss non parve troppo convinto delle parole dell'amico, ma si fidò come aveva sempre fatto e avanzò lentamente lungo il corridoio, entrando infine nella sala. Raggiunse l'amico in pochi secondi e lo strattonò per il braccio destro.

- Che diavolo ti è saltato in mente? -

- Guarda, cosa sono quelli secondo te? - chiese Marty, indicando due oggetti di forma sferica apparentemente sospesi a ridosso del muro davanti ai due. Erano fatti dello stesso materiale di cui erano composte le pareti e grandi quanto un grosso cane, rilucenti alla luce naturale come tenui stelle dorate.

Boss esaminò i due oggetti, avvicinandosi un poco per osservarli meglio.

- Devono valere una fortuna, sai? - disse, pensoso – se sono davvero di metallo nanico, potremmo sistemarci per mesi facendoli fondere ad una fucina. -

- Li prendiamo? - chiese Marty e il sorriso dell'amico fu più eloquente delle sue stesse parole.

- E me lo chiedi anche? -

Fecero per percorrere la distanza che li separava dai due manufatti, quando questi si mossero tremando impercettibilmente. Il cuore di Marty fece un tuffo, maledicendo la propria avventatezza: ci fu uno scatto metallico e le due sfere si aprirono come un carillon, rivelando due figure dal profilo in parte umanoide. Sebbene poggiassero su ruote circolari poste in parallelo, quello che più doveva assomigliare ad un torso di ergeva sopra di queste e sottili braccia meccaniche partivano da questo, le estremità ornate di strani e affilati meccanismi.

- Merda, Marty – sussurrò Boss, arretrando di scatto – te l'avevo detto, io. -

Quando la trasformazione fu completa, i due Animunculi mostrarono un volto fuso in un tutt'uno con i loro elmi metallici. Ingaggiarono una posizione di attacco e con un gesto lame sottili e dorate fuoriuscirono dai loro arti, mentre le ruote che avevano come arti inferiori cominciavano a girare facendo avanzare le due sfere naniche.

Marty non perse tempo e si voltò velocemente, cominciando a correre come un forsennato. Sentii l'amico Boss ansimare vicino a lui, quando improvvisamente inciampò in una piastrella sporgente sul pavimento: stramazzò a terra e un dolore lancinante gli risalì la gamba partendo dalla caviglia.

- Marty! - urlò Boss, mentre alle sue spalle i due automi avanzavano velocemente nella loro direzione. Minuscoli pennacchi di fumo fuoriuscivano dai congegni posti sulla loro schiena e bagliori rossi, alieni e privi di qualsivoglia emozione, rilucevano laddove ci sarebbero trovati gli occhi, in un essere umano.

- Cazzo, Boss, devo essermi slogato una caviglia – disse Marty, digrignando i denti per il dolore – non pensare a me e... -

In meno di un secondo l'omone afferrò il più giovane e lo caricò sulla spalla destra, come un sacco di patate: il gesto provvidenziale dell'amico spezzò il fiato di Marty facendolo tossire convulsamente, abbandonando le braccia lungo la schiena del compagno.

Quando alzò la testa vide i due Animunculi non più distanti di tre metri e si dimenò come un'anguilla appena pescata.

- Diamine, muoviti! - gridò rivolto all'amico – ci stanno quasi addosso! -

- Là! C'è una porta aperta! - disse Boss, senza che Marty potesse effettivamente vederla. L'omone accelerò la sua andatura fino a che i suoi piedi parvero non toccare nemmeno più il pavimento, nonostante avesse l'amico sulle spalle. I due entrarono in un secondo corridoio, diverso da quello che avevano intrapreso per raggiungere la stanza delle sentinelle, e Marty si chiese come avesse fatto a non notarlo.

No, non è che non l'aveva notato.

Quel secondo passaggio non c'era proprio, fino a poco prima. Quando poteva essere apparso? Il giovane non ne aveva assolutamente idea.

Come furono entrati in quell'ingresso nascosto, ci fu uno scatto e la porta dietro di loro si richiuse

separandoli quasi fisicamente dalle due guardie meccaniche, che furenti sferragliarono agitate menando fendenti contro la parete metallica. I loro tentativi di forzare l'accesso furono inutili, tuttavia non se ne andarono: fischi, clangori e rintocchi meccanici segnalavano ancora la presenza.

- Certo che sono delle piccole bastarde insistenti. - disse Boss, prendendo finalmente fiato. Sudava copiosamente e il suo volto era rosso per lo sforzo quasi quanto un pomodoro maturo.

- Dici che qui siamo al sicuro? - sussurrò Marty, voltandosi in direzione dell'amico. L'espressione perplessa di Boss parlò al suo posto.

Incerto sul da farsi il giovane scrutò l'ingresso, che nulla aveva a che fare con lo stile appartenente al resto delle rovine. Laddove prima c'erano riflessi dorati e metallo nanico ovunque, rilucente come una statua di bronzo appena lavorata, ora non c'era che nuda pietra. Poco più avanti un profondo pozzo si apriva sotto il passaggio in un abisso nero come la pece, senza che si potesse vedere per quanto fosse esteso: ciononostante la stanza non era buia, affatto.

Un tenue lucore azzurrino proveniva dalla porta in fondo al ponte in pietra, di forma perfettamente rettangolare. I profili erano perfettamente squadrati, prova di una precisione maniacale, quasi diabolica.

Marty vide lo sguardo di Boss intento a scrutare il corridoio e lo fissò esitante.

- Che si fa? - chiese.

L'amico sembrò riflettere per un attimo, mentre dietro di loro suoni sinistri ricordavano ai due la presenza delle guardie meccaniche ancora in attesa di stanarli. Non c'era nulla da fare, pensò Boss.

La direzione da prendere poteva essere solo una.

- Andiamo uno alla volta – disse, sostenendo l'amico dolorante e aiutandolo ad alzarsi – ce la fai ad attraversarlo? -

Marty fissò il ponte. Non era poi tanto lungo, anche se le fitte di dolore provenienti dalla caviglia gli facevano apparire ardua anche la più breve distanza.

- Posso provarci. -

- Andiamo. - concluse Boss e lo condusse fino all'imboccatura del passaggio, non più largo di due metri. Poi, con delicatezza, lasciò scivolare l'amico e gli porse la spada smussata e dal profilo irregolare con la quale avevano testato la resistenza del metallo nanico cui erano fatte le pareti delle rovine di Alftand qualche ora prima.

- Non è il massimo, ma prova a usarla come sostegno. -

- Grazie. - sussurrò Marty, afferrando la stampella improvvisata. Poi si voltò, fissando lo sguardo sul passaggio stretto e angusto. Intorno a lui non si riuscivano a vedere i contorni delle pareti, dando l'impressione della sconfinata vastità oscura e tenebrosa intorno e sotto di loro.

Il giovane fece un passo, caricando il peso sulla spada e gioendo di come non sentisse più quel dolore lancinante, sostituito ora da un sordo ronzio localizzato in tutto il piede destro.

- Ce la faccio! - esclamò Marty, avanzando di quattro passi. Sembrava un coniglio ferito così com'era, costretto a ricorrere talvolta a piccoli saltelli, ma l'impresa non era poi così difficile come aveva temuto che fosse.

- Bene. Dimmi quando arrivi alla fine, così parto io. -

Dopo cinque minuti, lui e Boss avevano attraversato il passaggio sospeso nel nulla e adesso, laddove prima c'era l'ingresso presidiato dai due Animunculi di guardia, solo un fievole bagliore arancione ne delimitava i contorni. Gli schiocchi e i rumori prodotti dalle due macchine non erano più udibili, sostituiti da un pesante e greve silenzio.

Proseguirono per circa un minuto, talvolta protendendo le mani in avanti per accertarsi di non sbattere contro ostacoli non visti. Erano guidati solamente da quella fioca luce azzurra in fondo al tunnel, di una tonalità quasi eterea e inconsistente.

Quando varcarono l'ultima porta di quel corridoio, rimasero semplicemente senza fiato.

Era una stanza dal soffitto ovale, come ricavato da una grotta preesistente.

Se non fosse stato che le pareti erano interamente fatte di una scintillante roccia blu, dalle sfumature infinitamente screziate di blu e indaco: ovunque volgessero il loro sguardo quel materiale dominava la vista, tramutando i loro volti in espressioni di profondo stupore.

- Marty – tornò a sussurrare Boss, quasi in un tono di timore reverenziale – la senti anche tu? -

- La musica... - biascicò Marty, rapito da quello spettacolo. Sentiva qualcosa, in quel silenzio misterioso e sacro, una sottilissima sequenza di note dolci e soavi. Non riusciva a riconoscere appartenenti a nessuno strumento quei suoni ultraterreni, come provenienti da un altro mondo. Si sentiva portare lontano da quel luogo non appena si concentrava su quella musica ipnotica, viaggiando in lande esotiche e lontanissime. Doveva fare un enorme sforzo di volontà per rimanere con i piedi per terra.

E poi, lo videro. Avrebbero dovuto scorgerlo certamente, prima o poi, essendo la stanza piccola e l'oggetto esattamente al centro di essa, poco più alto di Boss e appena meno largo delle sue spalle.

Uno specchio dalla cornice dorata, riccamente ornata di decorazioni e iscrizioni indecifrabili, apparve ai loro occhi.

Marty si avvicinò un poco, per poterlo esaminare. Era fissato su una base di argilla solidificata, inclinato rispetto al suolo di circa quarantacinque gradi così che i frammenti di vetro posti sulla sua superficie non potessero cadere: i cocci erano circa una sessantina, delimitati tra di loro da vistose e profonde crepe nere.

- Boss...cos'è? -

- Uno specchio, no? - sussurrò l'omone, sollevando l'indice della mano destra e solcandone la cornice dorata. Un brivido gli attraversò la spina dorsale e si affrettò a ritrarre la mano, intimorito dal contatto.

Quell'oggetto era magico. Anche senza toccarlo, avrebbe potuto osservarlo da come l'aria riverberava attorno ad esso, come piegandosi alla sua prossimità.

- Qualcuno deve averlo infranto. Guarda, hanno cercato di rimettere al loro posto tutti i frammenti. - disse Marty, allungando una mano pronto a imitare l'amico.

- Non toccarlo - esclamò l'omone, afferrando il braccio di Marty al volo – potrebbe essere pericoloso. -

- Andiamo, Boss – fece Marty, osservando rapito le iscrizioni tracciate nella cornice – è solo uno specchio. -

Non aveva mai visto nulla del genere, quei simboli non sembravano appartenere a nessuna lingua conosciuta. E soprattutto, quella stanza sembrava essere più antica del tempo stesso.

No, non l'avevano costruita i Dwemer, pensò Marty.

Quello non era per niente il loro modo di fare.

Quasi i due non si resero conto del sottile filo di fumo nero sollevatosi alle loro spalle dal pavimento, ondeggiante come un serpente che si prepara ad attaccare la preda. Senza emettere nemmeno un suono la cortina intangibile si espanse, ramificandosi in un'infinità di sottili propaggini. Queste si protesero verso i due, facendo come per avvolgersi in un denso bozzolo. Quando Marty se ne rese conto cercò di gridare, senza tuttavia riuscirci. L'invisibile presenza gli entrò in gola, percorrendogli le vie respiratorie e diretta ai polmoni: si sentì soffocare, sbracciandosi nel disperato tentativo di farsi notare dall'amico che involontariamente colpì con il dorso della mano.

Boss si voltò di scatto verso di lui, spalancando la bocca davanti all'inconsistente velo di oscurità formatosi attorno al giovane. Istantaneamente ruggì, scrollandolo violentemente per le spalle mentre di Marty oramai era visibile solamente il bianco degli occhi.

Quella cosa lo stava soffocando.

L'omone digrignò i denti e sferrò un destro micidiale al suo amico, precisamente nell'addome: l'impatto fu talmente violento che Marty buttò fuori tutta l'aria che gli era rimasta nei polmoni, assieme a quella tenebra nera e senza contorni. Continuò a tossire, mentre la presenza si raggrumava in una figura umanoide alta più o meno quanto lui dal volto senza lineamenti, liscio come il mare in un giorno di calma piatta.

- SCAPPA, MARTY! - urlò Boss, impugnando la spada smussata che l'amico aveva usato come stampella poco prima e affondandola nel velo d'ombra davanti a lui trapassandolo come se fosse stato niente più che uno sbuffo di fumo. L'amico non rispose, stringendosi la caviglia e gemendo per il dolore: ciò nonostante strisciò e tentò di afferrare l'entità per i piedi, senza tuttavia riuscirci.

- Vai tu, io non posso... -

- MARTY! -

- Ho detto VAI! - strillò il giovane, sollevandosi in piedi con uno sforzo immane e fronteggiando la creatura fatta d'ombra. Cosa diavolo era?

Boss esitò, lasciando infine cadere la spada e fuggendo via a gambe levate. Marty lo osservò scappare lungo il corridoio, pregando che le guardie meccaniche davanti alla porta se ne fossero ormai andate.

Si voltò, osservando l'essere davanti a lui. Sebbene la forma assomigliasse a grandi linee a quella di un essere umano, i contorni erano in continuo mutamento e riccioli di materia oscura danzavano con grazia ed eleganza attorno all'ammasso d'ombra.

Prima che il giovane potesse fare qualsiasi cosa, l'entità lo avvolse inghiottendolo in una cortina impenetrabile. L'ultima cosa che Marty vide fu la superficie di un lago ghiacciato contornato da alberi e querce, una città dai profili austeri in lontananza. Solitude? Prima che potesse avere risposta a quella domanda cessò di esistere, svanendo in un abisso scuro e senza fondo.


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Bentornati a tutti i cari lettori e una buona Pasqua di cuore dal sottoscritto! :)
Questo è di gran lunga uno dei capitoli più importanti della trama e,incredibilmente,risulta essere anche più lungo dei precedenti: vi chiedo perciò di leggerlo con cura verso il finale,ogni dettaglio è ASSOLUTAMENTE importante per la comprensione della trama stessa. (:
Alla prossima,amici miei! Un abbraccio di cuore!
Dave.

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Capitolo 17
*** In fuga. ***


- Fermatevi...non potete andarvene. - biascicò la donna, i capelli biondi scompigliati dalla brezza la cui intensità andava crescendo di minuto in minuto: nubi nere, tanto grandi da estendersi oltre l'orizzonte, stavano cominciando a vorticare attorno ad un unico punto con un fare sinistro. La violenza dei tuoni lontani e dei boati improvvisi che percepivo esplodere periodicamente ogni minuto mi facevano tremare i denti nelle gengive e fui certo del fatto che nel raggio di qualche ora una bufera di proporzioni colossali sarebbe infuriata cancellando ogni cosa là dove ci trovavamo, immobili e ancora scossi dall'esplosione di poco prima.

- Non so chi tu sia, ma ti do un suggerimento – dissi, inarcando un sopracciglio – fossi in te mi allontanerei in fretta. La vedi quella? E' una tromba d'aria, e a giudicare dalle proporzioni dev'essere di quelle parecchio cattive. -

- Io...devo... -

L'assassina fu costretta a interrompere la frase quando qualcosa la colpì in pieno petto, scagliandola all'indietro e facendola stramazzare al suolo con un tonfo sordo. Sbigottito mi voltai verso Tevinias e lo vidi avanzare con passo malfermo e zoppicante verso di lei, il pugno sfrigolante di magia.

- Aspetta, Tevinias... -

- Tra un secondo. - rispose lui, sollevando il palmo della mano destra: il corpo della donna si sollevò in aria, come una marionetta a cui vengono strattonati i fili.

- Qual'è il tuo nome? - ringhiò stancamente Tevinias, provato dallo sforzo. Dal suo corpo cominciavano a svanire le piaghe causategli dalla misteriosa maledizione che lo attanagliava senza tregua e laddove fino a qualche istante prima un sottile velo di pelle gialla incartapecorita ricopriva i suoi muscoli, ora un nuovo e florido aspetto era tornato ad avvolgerlo come una calda coperta e tessuti sani rinascevano ogni secondo di più con una rapidità disumana rigenerando quell'involucro quasi morto e corrotto in uno stupefacente spettacolo di auto-guarigione, dall'aspetto di un vero e proprio miracolo.

- A-Ashlotte. -

- Così sia, allora. -

Balzai istantaneamente verso lo stregone vedendolo chiudere gli occhi e distendere le dita della mano sinistra e quando le prime scintille cominciarono a danzare tra di esse io mi ero ormai frapposto tra lui e la donna, più incosciente che lucida. Un rivolo di sangue le solcava il volto per poi cadere in forma di minuscole gocce sotto i suoi piedi, dove abbandonata sulla nuda e fredda terra giaceva una bellissima collana d'oro la cui catenina sembrava essersi spezzata, un rubino rosso carminio incastonato nel medaglione affisso ai minuscoli anelli. La raccolsi senza pensarci e me la misi in tasca.

- Aspetta, Tevinias. - lo implorai, cercando di distogliere lo sguardo dalla sua mano sinistra. Non volevo pensare a quello che mi sarebbe successo se quelle scariche elettriche mi avessero colpito, trapassandomi da parte a parte come una spada su un abito di seta.

- Aspettare cosa, Sebastian? Questa donna ha cercato di ucciderci, la sto soltanto ricambiando! - proruppe il mio compagno di viaggio con veemenza, guardandomi come se fossi appena ammattito. Cosa che mi parve perfettamente verosimile del resto, poiché non avevo idea del perché stessi agendo in quel modo.

Tacqui, mentre i primi dubbi cominciavano ad affiorare nella mia mente.

Perché diavolo stavo rischiando la vita per lei?

- Ti prego, solo un minuto. - riuscii a dire soltanto, con fare supplichevole.

Un'espressione profondamente contrariata apparve sul volto dello stregone, che recise il fiume di magia all'interno del suo corpo lasciando cadere per terra Ashlotte, gemente dal dolore. Doveva essersi lussata la spalla o peggio, a giudicare dall'angolazione impossibile che questa e il suo braccio avevano assunto.

Mi avvicinai alla donna riversa per terra su un fianco, gli abiti in cuoio laceri e infangati: la scossi dolcemente, guadagnandomi la sua attenzione.

- Perché ci hai attaccato? - le chiesi, avvicinandomi un poco al suo volto. Era davvero bella, notai, e i suoi capelli sembravano avere davvero la tonalità dell'oro lavorato laddove il fango e la sporcizia non li ricoprivano.

- Così...mi era stato richiesto. - sussurrò debolmente, cercando di sollevarsi per mettersi a sedere senza tuttavia riuscirci. Con un'espressione sofferente si lasciò ricadere per terra e per un attimo, uno soltanto, ebbi quasi compassione di lei e delle condizioni in cui versava.

- Il mio compagno ha intenzione di ucciderti – sentenziai con voce grave – dammi solo una buona ragione per cui dovrei farlo desistere dal suo intento. -

- Io... - disse, per poi interrompersi: le palpebre le si richiusero progressivamente e perse conoscenza nel momento stesso in cui Tevinias si avvicinava a noi con un cipiglio scuro e diffidente.

- Allora? Sei riuscito a cavarle qualcosa? -

- Ha bisogno di cure. Dobbiamo portarla con noi, si scatenerà l'inferno qua tra poco. -

- Stai scherzando?! - ruggì Tevinias, indicando con un indice accusatore la donna riversa per terra e priva di sensi – è un'assassina, ha cercato di ucciderci e tu vuoi risparmiarla? In nome di che cosa, Sebastian?! -

- La portiamo con noi... - dissi, lo sguardo perso nel vuoto - ...oppure ognuno va per la sua strada. Sono stato abbastanza chiaro? -

Per una decina di secondi la tensione fu quasi palpabile tra me e il mio compagno di viaggio e più di una volta temetti stesse invece per decidere di farla finita, dandomi le spalle.

Tuttavia così non fu e lo stregone chiuse gli occhi in un cenno di assenso.

- La porti tu, però. Faccio strada. - bofonchiò, accendendo un fuoco fatuo e sollevandolo sopra le nostre teste. Dopodiché si allontanò, il sentiero davanti a lui rischiarato dalla fonte di luce incantata.

Con un grugnito mi caricai la donna sulle spalle, facendomi coraggio e cominciando ad incamminarmi nel fitto del bosco davanti a noi.

 

 

Gregorius fissò le pareti della sua cella, fredde e ricoperte di muschio. Dell'acqua gocciolava ogni tanto dal soffitto e il puzzo di umidità e di chiuso aveva investito le sue narici non appena aveva messo piede là dentro, stordendolo per una decina di minuti buoni.

Era seduto, le mani intrecciate sul grembo e il volto contratto dalla concentrazione. Come poteva uscire di lì? Ma soprattutto: come poteva riscattare il suo buon nome?

Una voce lo riportò alla realtà, strappandolo dal corso dei suoi pensieri.

- Non pensavo avresti mai vuotato il sacco davanti all'intera assemblea. Certo che ne hai, di coraggio. -

- Grigori. - disse il prigioniero, senza nemmeno voltarsi per accogliere il nuovo arrivato, l'anziano dalle calvizie incipienti, che ora pareva intento ad osservarlo come si fa con una bestia in gabbia.

- Credevi fosse Fran, vero? - sussurrò con un ghigno il vecchio, rischiarando il volto segnato da una leggera barba incolta di Gregorius – in effetti con tutto l'odio che quella donna prova per te, la cosa non mi sorprenderebbe più di tanto. -

- Che cosa vuoi? - disse infine il più giovane, alzandosi in piedi e afferrando con forza le sbarre della cella – denaro? Puoi averlo, ma fammi uscire di qua. -

- Per essere così tanto intelligente, Gregorius, non sembri dimostrarlo affatto – disse Grigori, sorridendo e inclinando la testa da un lato – ho tutto l'oro che mi serve. Io e qualche altro interessato desideriamo solo...metterti da parte, ecco. Giusto per essere un filo più sicuri che tu non possa usurpare il posto di qualche altro meritevole candidato alla promozione sul campo. -

- Avvoltoi! - esclamò Gregorius, ricevendo in tutta risposta una risata di scherno da parte del vecchio. Sentì una cocente frustrazione lambirgli il petto, come la coda irta di spire di una belva ghignante e famelica, e l'odio che provò in quel momento gli fece desiderare di avere la gola di Grigori sottomano.

- Si vedrà. Ti auguro un confortevole soggiorno, amico mio... - disse l'altro, allontanandosi infine dalla cella. Gregorius non provò nemmeno a gridare: non sarebbe servito a nulla, isolato com'era nelle segrete più recondite del Castel d'Our. Tornò a sedersi, la faccia stretta tra i palmi delle mani.

Passarono i secondi, lenti come minuti.

Inesorabili sembrarono trascorrere le ore e solo la raffinatezza sublime del suo intelletto impedì a Gregorius di morire consunto dalla fame e dalla noia. Doveva concentrarsi, tenere occupata la mente.

Ci era arrivato troppo tardi. Qualcuno dei leccapiedi di Grigori doveva averlo seguito e falsificato il contratto per la Confraternita chiedendo l'uccisione dei bersagli, così che lui non avesse avuto nessun prigioniero da interrogare e a cui estorcere preziose informazioni: il rischio che vuotasse il sacco non poteva che condannarlo ad un'inevitabile condanna per alto tradimento nei confronti dell'Impero, istituzione che Gregorius cominciava a odiare sempre di più ogni minuto trascorso.

Tutta quella burocrazia, tutta quella sete di potere! Aveva logorato l'anima dei generali più nobili, corrompendoli nel profondo e declassandoli quasi al grado di bestie che si contendono il territorio e la preda.

Guardò il corridoio oltre le sbarre, illuminato dalla fievole luce di una torcia. Doveva scappare da lì, fuggire da Solitude e catturare con le sue sole forze i due ribelli per portarli all'Imperatore stesso o al Generale Tullius, sempre che non fosse invischiato anche lui in poco nobili intrighi politici.

Scappare...il solo pensiero lo rendeva alquanto perplesso. Certo, ne sarebbe stato anche in grado...ma poi, dove sarebbe andato? Dove avrebbe trovato i mezzi per agire da solo?

Gregorius si alzò in piedi con rinnovato vigore, inspirando ed espirando lentamente fino a raggiungere uno stato di profonda calma.

Erano problemi che sarebbero venuti soltanto dopo. Per ora, l'importante era fuggire da quella prigione umida e tetra e non sarebbe stato solo: poteva sempre contare su un aiuto che gli era stato donato fin dalla nascita.

- Angust. - sussurrò, mentre un'onda di affetto gli avvolgeva il petto. Dalle ombre della stanza emerse un lupo dal pelo argenteo, scintillante alla luce delle torce, tanto esile e slanciato da poter passare attraverso le sbarre con estrema facilità.

La belva uscì in corridoio, guardando il suo padrone con fare interrogativo con i suoi sinistri occhi gialli.

- Le chiavi sul tavolo. Mi faresti un gran favore. - disse Gregorius, stiracchiandosi le membra indolenzite. Era ora di mettere a frutto il suo tanto rinomato intelletto sopraffino, soprattutto perché presto o tardi sarebbe arrivato qualcuno a controllare le sue condizioni.

Angust tornò dopo una decina di secondi, una piccola chiave in ferro stretta tra le fauci: Gregorius mise la mano all'esterno delle sbarre e la infilò nella toppa, girando e gioendo all'udire lo scatto metallico della serratura.

Era ora di fuggire da lì il più in fretta possibile.

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Capitolo 18
*** Fatalità. ***


La donna sollevò una palpebra con fare incerto, come risvegliandosi da un profondo sonno. Inspirò silenziosamente incamerando aria fresca nei polmoni, così da schiarirsi la mente, e istantaneamente si rese conto che qualcuno la stava reggendo su una spalla. I rintocchi regolari dei passi sul suolo le rimbombavano in ogni muscolo, ridestando di tanto in tanto fitte pungenti lungo tutto il braccio destro: quasi si stava voltando per poter vedere in che direzione stavano procedendo, ma cambiò idea all'ultimo momento. Non voleva che i due si accorgessero che era rinvenuta, seppure ancora ferita e provata dallo scontro con lo stregone che intuì essere a capo della fila.

- In nome di Akatosh, Tevinias – brontolò una voce calda e chiara, proveniente da qualche parte poco distante dal suo fondoschiena – si può sapere dove diavolo siamo? E soprattutto, sarà almeno un'ora che camminiamo senza sosta. Perché hai tanta fretta? -

Non vi fu nessuna risposta, solo il grattare indistinto della carta di pergamena srotolata su sé stessa.

- Siamo nel Pale, ormai. E per rispondere alla tua sciocca domanda, c'è una bufera coi fiocchi poco distante da qui: se il vento mantiene la stessa direzione, sarà su di noi in men che non si dica. Perciò datti una mossa. -

- Facile a dirsi per te, che hai dietro solo il tuo bastone. Hai idea di quanto pesa? Perché non mi dai il cambio, o semplicemente lanci uno dei tuoi incantesimi e risolvi il problema? - ribatté la prima voce con fare seccato e in quel preciso istante Ashlotte avvampò dalla rabbia.

Le stava dando della grassa? Questa non l'avrebbe passata liscia, quel Nord irriverente. Poteva starne certo.

- Sei tu che hai insistito tanto, io l'avrei fatta fuori dopo tutti i problemi che ci ha causato. - rispose l'uomo di nome Tevinias e Ashlotte si stupì nel constatare come la sua voce fosse incredibilmente profonda e ipnotica, come se parte del suo potere riverberasse persino attraverso le sue corde vocali.

E in un lampo i suoi pensieri corsero agli eventi della notte prima, all'esplosione della nave e alla terribile furia del mago. La donna non aveva mai avuto molta familiarità con la magia e tuttavia non ci voleva certo un esperto per capire che quell'uomo, quel Tevinias, non era uno stregone come gli altri.

Niente, neanche i più epici e conosciuti racconti delle gesta compiute degli arcimaghi di Winterhold, lasciava intendere che un potere simile potesse esistere: la magia aveva da sempre giocato un certo ruolo nella storia del mondo, ma senza mai imporsi prepotentemente su di esso. Semplicemente esistevano maghi dotati e capaci di incredibili imprese e altri che si limitavano a dilettare i viandanti con simpatici giochi di prestigio. Ma quello di cui era stato capace lo stregone, un simile potere di distruzione...

Ashlotte rabbrividì al solo pensiero di come quel fulmine, sceso dalle nuvole per abbattersi sulla terra, si fosse piegato al volere del mago donandogli la sua forza e scatenandosi con rabbia contro di lei, sopravvissuta per un soffio a quell'orchestra di morte e devastazione.

- Ehi – disse la prima voce, interrompendo il corso dei pensieri di Ashlotte – quella là in lontananza è per caso Dawnstar? -

- Sì. Abbiamo bisogno di rifornirci, le nostre provviste sono andate perse...sulla nave. - rispose Tevinias, esitante.

Sapeva dunque il disastro che aveva causato? La donna avrebbe voluto essere nella sua testa per conoscere le emozioni provate dall'uomo. Era attanagliato dai sensi di colpa? Temeva il suo stesso potere? Era per caso conscio...

- Sebastian, perché non chiedi alla tua amica se conosce qualcuno da queste parti in grado di darci una mano? Io non ho un septim in tasca e credo sia lo stesso anche per te. -

Ashlotte raggelò all'istante. L'uomo sapeva che era sveglia e li stava osservando, valutando la situazione prima di agire.

- Ma.. -

- Ci sta ascoltando, e anche da un bel po'. - sussurrò Tevinias, afferrando saldamente il manico del suo bastone stregato dalla cui sommità proruppe una fontana di scintille magiche.

Lo sfrigolio prodotto dal bastone del mago fece risuonare tutti i campanelli d'allarme nella testa di Ashlotte che, con un colpo di reni, si staccò dalla flebile presa di Sebastian eseguendo un'elegante piroetta a mezz'aria e atterrando poco meno di un metro distante da lui, la spalla destra dolorante e i denti serrati in una smorfia di dolore. Avrebbe dato battaglia, se necessario: sebbene non sentisse più il confortante peso dei suoi pugnali lungo i fianchi, possedeva ancora qualche asso nella manica che ogni assassino dovrebbe avere sempre a disposizione.

Sebastian imprecò voltandosi verso di lei mentre qualcosa scintillava alla luce della luna, ben stretto nel suo pugno. L'uomo le puntava contro il suo pugnale dall'elsa d'ebano finemente decorata con fare insicuro.

Questo qui non deve aver tirato molto di scherma nella sua vita” pensò Ashlotte, maggiormente concentrata invece sullo stregone poco distante da lei, il bastone ben saldo e ostentatamente tenuto lungo l'asse formata da mano, braccio e spalla. Un'espressione indifferente era dipinta sul volto dell'uomo e Ashlotte sentì la gelida morsa della paura afferrarle il cuore all'interno del petto.

- Ehi! - le urlò l'uomo che l'aveva sorretta lungo il viaggio con fare implorante – fermati subito e cerca di calmarti... -

- Andiamo – sussurrò lo stregone, catturando il suo sguardo con i suoi occhi magnetici – colpiscimi con forza, fammi male. Vediamo se ne sei capace. -

Ashlotte si rese conto di non riuscire a muovere nemmeno un muscolo del suo corpo. Ogni grammo della sua essenza, ogni suo pensiero era fisso su quello sguardo terribile che come una profonda ipnosi le impediva di pensare ad altro, di fare qualsiasi altra cosa: contemporaneamente percepì una presenza estranea a lei, come se il ronzio di mille api nella sua testa la stesse assordando facendole tremare i denti nelle gengive dalla violenza della vibrazione. La donna credette di gridare, convinta che la testa le si sarebbe spaccata in due se quell'assalto fosse continuato ad oltranza.

Non sei più tanto sicura di te stessa ora, non è così?

Ti sei finalmente resa conto con chi tu abbia a che fare?

Ashlotte sentì un urto secco riverberarsi sulle sue gambe e fu conscia del fatto che era crollata in ginocchio, la testa stretta tra le mani e il volto contratto da una smorfia orribile. Sentì i tratti del suo viso storpiarsi deformandosi in mille direzioni diverse mentre scariche di dolore la attraversavano da cima a fondo e in quel preciso momento fu sicura che sarebbe morta, quando...

- TEVINIAS! -

 

 

Il dolore era cessato. Ashlotte si rese conto di potersi alzare in piedi e sbatté più e più volte le palpebre, dissolvendo gli ultimi resti del profondo sconvolgimento psichico cui era stata sottoposta: quando vide Sebastian, la mano testa e rivolta verso il terreno, di fronte a Tevinias non comprese subito ciò che era successo.

Poi, non appena vide un rossore indistinto diffondersi sul volto dello stregone a partire dalla sua guancia sinistra, raggelò.

Uno schiaffo.

Quell'uomo, quel Sebastian, aveva appena schiaffeggiato il suo compagno.

- Perché?! - sbraitò, inveendo contro il mago – dimmi perché! -

Tevinias non rispose, massaggiandosi invece la superficie del suo viso lesa dall'improvviso colpo del suo compagno con un'espressione incerta, esitante.

- Mi hai colpito. -

- Sì, l'ho fatto. - rispose Sebastian, ancora furente. Richiuse la mano a pugno, pronto a ripetere il suo gesto nel caso fosse stato ancora necessario.

- Perché? -

- Non sembravi più tu. -

Lo stregone rimase in silenzio, allontanandosi dal compagno all'improvviso con un volto incupito e rabbuiato. Ripose il bastone sulla schiena e gli voltò le spalle, percorrendo il sentiero con passi lenti e quasi strascicati.

Il cuore di Ashlotte smise di battere all'impazzata e la donna si rilassò, sentendosi come se un peso morto gli fosse caduto dal petto. Osservò lo stregone allontanarsi pian piano, mentre tutt'intorno il vento sembrava crescere d'intensità ogni minuto che passava.

- L'hai fatta proprio grossa – disse Sebastian, massaggiandosi le tempie contratte da una smorfia di dolore – la prossima volta, ti sconsiglio di fare movimenti bruschi in sua presenza. Non credo gli sia ancora passata. -

- Lo terrò a mente. - rispose Ashlotte e in quel momento si rese conto che era la prima volta che rivolgeva la parola a quell'uomo se escludeva il fulmineo scambio di parole di qualche ora prima sulla spiaggia, in fin di vita e in pericolo sotto tiro degli incantesimi di Tevinias.

Sebastian grugnì un cenno di assenso, facendo per raggiungere il compagno, quando qualcosa pungolò Ashlotte nel profondo dell'animo.

- Aspetta. - disse, con un tono di voce terribilmente incerto.

L'uomo si voltò verso di lei, un'espressione interrogativa impressa sul viso.

- Sì? -

- ….grazie. -

Sebastian sorrise, poi si voltò e s'incamminò lungo il sentiero.

- Cerca di renderti utile come puoi, se proprio vuoi rendermi il favore. - disse, prima di scomparire nel folto della boscaglia.

Ashlotte rimase immobile, perplessa: quell'uomo non assomigliava per niente ad un Nord, nemmeno nell'aspetto fisico.

Si mosse per raggiungerlo, quando un brivido la percorse.

Non voleva ammettere a sé stessa di avere una paura folle.

Paura di Tevinias.

 

 

Il fruscio dei pini mossi dal vento, l'aroma delicato dei cedri fuori dalla città e perfino il puzzo pungente delle fogne di Solitude parvero a Gregorius la composizione più armonica che avesse mai percepito. Comparato al freddo penetrante e all'umidità della cella, l'uomo si sarebbe gettato anche nei canali di scarico pur di scordare quelle segrete anguste nelle quali era stato confinato per almeno mezza giornata.

Senza più un'arma, a piedi nudi e vestito soltanto di una tunica di seta grezza, Gregorius si aggirava furtivamente tra le vie della città che da qualche tempo era divenuta la sede principale della Legione.

Doveva fuggire quanto prima possibile da lì, la probabilità che iniziassero a cercarlo entro qualche ora era parecchio alta.

Quando finalmente riuscì ad uscire dalla città attraverso un sentiero poco battuto che dava direttamente sul porto, l'uomo tirò un sospiro di sollievo e si concesse qualche minuto per radunare i pensieri.

Doveva rimediare all'equivoco venutosi a creare con la Legione screditando allo stesso tempo Grigori: eliminarlo sarebbe stata un'automatica ammissione di colpa. Catturando i fuggitivi e riportandoli a Castel d'Our, sarebbe invece riuscito a riottenere quella reputazione che tanto lo aveva reso famigerato tra i suoi colleghi e forse avrebbe persino ottenuto una promozione sul campo.

Eppure, per la prima volta nella sua vita, l'idea non lo elettrizzava più di tanto. Gli eventi degli ultimi giorni stavano logorando in lui la convinzione e la dedizione che avevano sempre caratterizzato la sua carriera.

All'improvviso, udì uno schianto secco di sterpi dietro le sue spalle.

Stava per voltarsi, quando...

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Capitolo 19
*** Il nero vessillo. ***


- Dawnstar. - sussurrò Tevinias, battendo una volta il bastone per terra. I suoi occhi, rossi e affaticati, tradivano la lunghissima marcia da loro compiuta nell'arco di quella giornata infernale: fugacemente si osservò i piedi, notando come stivali e calzature fossero lacerati in più punti. Le piante gli pulsavano, martoriando ulteriormente le sue gambe indolenzite e fu certo del fatto che il lungo viaggio gli avesse procurato delle vesciche.

Nel frattempo, anonimi e grigi pennacchi di fumi si sollevavano pigri dalle abitazioni della città davanti a loro, sottolineando quasi l'immobilità implicita che Dawnstar aveva sviluppato nel corso degli anni. Aveva iniziato a nevicare da qualche ora e già la i fiocchi stavano cominciando a raggrumarsi in spessi strati sopra i tetti delle case, seppellendo la città sotto il torpore di una bianchissima coltre.

- Sebastian? - lasciò cadere lo stregone con fare interrogativo, rivolto al compagno di viaggio stremato e affamato. Da quanto tempo non mangiavano? Francamente Tevinias non se lo ricordava.

- Ci sono, ci sono. - brontolò Sebastian, voltandosi indietro e scorgendo Ashlotte avanzare debolmente tra gli alberi e i radi cespugli e osservò come quella donna avesse una volontà d'animo straordinaria.

- Non mi hai ancora detto – disse Tevinias, senza voltare lo sguardo verso il compagno – perché ci sta seguendo. Non dovrebbe far ritorno da qualsiasi posto provenga? -

- Credo...voglia rendersi utile. -

- Mhhh. - commentò lo stregone, senza cambiare espressione. Poi indicò un'abitazione più grande delle altre, vicino allo specchio d'acqua intorno cui era edificata la città.

- Quella è una locanda. Là potremo rifornirci e fare una breve sosta. -

- Andiamo, allora. -

Lo stregone scese lungo la collina, mentre la sua tunica a tratti bruciata e lacera turbinava sotto l'incessante morsa del vento gelido. Sebastian ebbe cura di trattenersi quel tanto che bastava da distanziarsi una ventina di metri dall'uomo e attese a braccia conserte che l'assassina lo raggiungesse.

- Volevi parlarmi? - disse lei, accorgendosi di come il suo tono si fosse fatto più spigliato e meno incerto sull'atteggiamento di Sebastian: avvertì l'eco di una fitta indistinta alla spalla e strinse i denti, cercando di nasconderne una smorfia di dolore.

- Mi stavo chiedendo perché ci segui ancora. Sei della Confraternita, no? - chiese Sebastian e la domanda spiazzò completamente la donna, per quanto fondata e veritiera.

Ashlotte sarebbe dovuta tornare dalla sua famiglia adottiva, accettare il suo fallimento e compiangersi nella finta indifferenza dei suoi confratelli. Probabilmente Astrid avrebbe persino gioito dell'accaduto, se solo non fosse stata al corrente del fatto che si era lasciata corrompere da quell'uomo adornato del rosso dell'Impero.

Questo era ciò che più le faceva vergogna e sarebbe morta piuttosto che ammetterlo davanti agli altri, le persone che l'avevano cresciuta insegnandole i precetti della Confraternita. Ma cosa voleva fare, allontanarsi per sempre dall'unica famiglia che aveva, dalla casa che sola l'aveva accolta e nutrita per anni e anni?

- Sì. - fu capace di rispondere soltanto, il cuore in gola e la mente corrosa dal dubbio.

- E allora perché non ci ritorni? -

- Io...non credo di poterlo fare. -

- E' perché hai fallito il compito che ti era stato assegnato? - azzardò Sebastian, mentre il tono della sua voce veniva smorzato dal crescente sibilo del vento attorno a loro. Stavano congelando, là fuori.

- Io... -

- Dimmi la verità. -

Ashlotte lo guardò incerta sulla risposta da dare e si domandò dove fosse finita la sicurezza dell'assassina che era insita in lei dal giorno del suo primo omicidio, quando il gelido acciaio della sua lama aveva trapassato la gola di quell'uomo senza nome e senza dimora: una prova spietata che Nazir imponeva a tutti i nuovi arrivati per testare la loro morale, la forza della loro dedizione.

Se mai uccidere un innocente avesse potuto dimostrare qualcosa del genere.

- Non posso tornarci. Ho trasgredito alla regola. - disse semplicemente, ripensando allo sguardo di Gregorius mentre riportava alla luce nelle profondità del suo animo rimorsi sopiti e istinti da tempo sepolti sotto una patina di indifferenza e professionalità. Per uccidere non occorrevano e in quell'occasione ne aveva fatto volentieri a meno.

- E dunque, cos'hai intenzione di fare? Potresti andare ovunque, uccidere un nobile ricco e derubarlo per comprare una modesta casetta a Markarth o a Morthal. Cosa ti trattiene qui? -

Ashlotte non rispose, abbassando lo sguardo per terra. Istantaneamente ripensò al folle sguardo di Tevinias su quella nave, mentre tutto intorno a lei bruciava prima di essere inghiottito dalle gelide fauci del Mare dei Fantasmi.

- Non lo so. -

- Beh, in tal caso... - disse Sebastian e in meno di un secondo poggiò una mano sulla spalla dell'assassina, quella ancora sana. Il gesto inconsulto fece ritrarre di scatto la donna, che tuttavia rimase lì dov'era sotto lo sguardo dell'uomo: qualcosa in esso le ispirava un'ignota fiducia.

- In tal caso – continuò l'uomo, regalandole un sorriso stanco e tirato – potresti darci una mano. Akatosh solo sa quanto ci servirebbe aiuto. Chi sa che tu non sia qua proprio per questo, no? -

- Io, beh... - cercò di rispondere Ashlotte, ma Sebastian si voltò incamminandosi verso Dawnstar senza darle il tempo di formulare una frase di senso compiuto.

Rimase da sola, gli stivali ammantati consunti dalle fatiche del viaggio e lo stomaco brontolante.

Non vedeva davvero l'ora di un pasto caldo.

 

 

Se il dialogo con Sebastian l'aveva spiazzata, il semplice contatto visivo con lo stregone la terrorizzava come mai prima d'ora. Era entrata una trentina di secondi dopo di loro e nonostante questo fu certa che qualcosa fosse cambiato dall'ultima volta che si erano ritrovati fianco a fianco tutti e tre.

Era forse diventato solo leggermente meno diffidente lo sguardo del mago? La sua postura pareva davvero essere più distesa, rilassata e meno chiusa in sé stessa?

- Oscure e imperscrutabili appaiono ai mortali le trame del Creatore – commentò Tevinias enigmatico, osservando l'assassina dall'alto al basso – e non prima che sia calato il sole nell'ultimo Giorno dei Giorni esse dischiuderanno ai nostri occhi il loro più intimo senso. -

Ashlotte non rispose, assolutamente sprovvista di parole adatte alla situazione. Il provvidenziale intervento di Sebastian la risparmiò da una situazione terribilmente imbarazzante, come quella che deve sopportare un bambino che si aggrega ad una compagnia di giochi a lui sconosciuta.

- Ho i piedi a pezzi. Potrei intenerire un orco, se gli mostrassi le vesciche che ho là sotto. E questo freddo...! Ancora una notte al gelo e mi si staccherà la pelle dall'alluce. - disse sorridendo, tra un sorso di idromele e l'altro. Tevinias, seduto davanti a lui e alla donna, strappò un grosso pezzo dall'arrosto di cervo nel suo piatto e lo ingoiò in un sol boccone.

- Sebastian, ti prego. Sto cercando di mangiare. -

- E tu, invece? - disse Sebastian, rivolto ad Ashlotte – come va la spalla? -

Quasi la donna si strangolò con del pollo grigliato. Doveva cercare di vincere assolutamente il profondo imbarazzo che la paralizzava lì seduta com'era, in compagnia di quei due uomini che fino ad un giorno prima doveva catturare e ancor più tempo addietro era convinta avrebbe dovuto uccidere.

- Bene, credo...- azzardò, suscitando una certa nota scettica nello sguardo indagatore dello stregone. Quell'uomo a tratti le faceva ancora una terribile paura.

- Ne dubito. Hai un paio di legamenti spezzati di netto, a giudicare dalla postura del tuo braccio, e credo parte della clavicola sia rotta o incrinata. Posso vedere? -

Ashlotte esitò un attimo di troppo. Avrebbe voluto allontanarsi da quell'uomo e dato tutto pur di non incrociarne nuovamente lo sguardo, come aveva fatto qualche ora prima...

- Vedi se riesci a rimetterla a posto, Tevinias. Mi stupisce non sia rivolta a terra, contorcendosi dal dolore. Certo che vi addestrano proprio bene, a voi. - disse Sebastian, interrompendo il corso dei suoi pensieri. Il lasso di tempo sufficiente a registrare quello che aveva appena detto e la donna si distrasse abbastanza da non notare lo stregone spostatosi al suo fianco nell'arco di mezzo secondo: per avere quell'aspetto così vecchio e arcano, sembrava essere guizzante e fresco come un assassino nel fiore dei suoi anni.

- Fammi vedere la spalla. - sentenziò freddamente, scuotendo la testa davanti al gesto della donna si muoversi appena verso di lui.

- Non riesco a vedere se hai l'armatura indosso. Scostala quel che basta da permettermi di valutare l'entità del danno. -

Ashlotte credette di aver sentito male. Non solo aveva dovuto cercare di imbastire una parvenza di normalità alla presenza dello stregone, ma adesso doveva anche svestirsi in parte davanti a lui? Sarebbe morta dal dolore, piuttosto.

- Fossi in te lo ascolterei. - commentò Sebastian con fare neutro, addentando un grosso pezzo di formaggio Eidar. Più per prevenire il dolore che per assecondare il buonsenso Ashlotte si levò la pettiera che costituiva la parte superiore dell'armatura in pelle che aveva indosso: nel farlo sentì barbigli di dolore avvolgerle la spalla intera, percorrendole il braccio come una scarica elettrica.

- A quanto pare ero ottimista. - disse Tevinias e Ashlotte si voltò fino ad avere una visuale completa della sua spalla nuda, scoperta dall'uomo che le aveva scostato il colletto della tunica nera che aveva ora indosso. Segretamente si rese conto di come il contatto con le mani dello stregone la inorridisse e di quanto fosse grande la tentazione di ritrarsi da questo, se non fosse stato per l'enorme livido violaceo che le si distendeva a macchia d'olio lungo tutta la pelle, raggrumandosi qua e là in sinistre macchie nere.

- Puoi fare qualcosa? - chiese Sebastian, osservando a lungo lo sguardo implorante della donna rivolto verso di lui.

- Non sarei sopravvissuto tutti questi anni in questa terra selvaggia se non fossi stato capace di medicare le ferite del mio corpo, Sebastian. - replicò con voce grave lo stregone, distendendo le mani sopra la spalla di Ashlotte. L'uomo socchiuse gli occhi mormorando parole incomprensibili alle orecchie della donna, intenta a fissare la ferita con occhi persi e incerti.

Un lieve calore si diffuse in profondità nella spalla di Ashlotte, che pian pian avvertì come un fuoco sotto la sua pelle: non era una sensazione spiacevole, ma nemmeno del tutto confortante. Un prurito crescente le fece venir voglia di grattarsi laddove il mago aveva imposto le sue mani evocando scintille guizzanti di magia e nel giro di una ventina di secondi non v'era più traccia del sangue rappreso sotto i tessuti. Ashlotte sollevò il braccio incurante della scollatura che portava ora e lo ruotò più volte per saggiarne l'effettivo funzionamento.

- Ehi, ora riesco a fare questo. - disse, flettendo il braccio destro come per sfidare un anonimo avversario ad una sfida a braccio di ferro. Si voltò verso lo stregone e mormorò un timido grazie, naufragata nelle profondità abissali del suo sguardo indecifrabile.

- Prego. - rispose l'uomo e sollevando la forchetta mise in bocca un altro pezzo di arrosto, gli occhi bassi sul suo piatto. Ashlotte non aveva francamente idea di cosa fare per distendere un po' la rigida cortina che si era formata tra lei e quell'uomo: l'aver tentato di ucciderlo non sembrava essere di troppo aiuto al suo problema.

Intanto, dietro di lei, tre avventori della locanda parevano essersi accalcati attorno ad un uomo dalle vesti tinte di un arancione acceso, probabilmente un elfo scuro a giudicare dai tratti del volto. Le loro espressioni, notò Ashlotte, tradivano una profonda preoccupazione e vistose occhiaie contornavano i loro occhi rossastri.

- Deve essere una maledizione! - disse il primo, più robusto e dalla barba incolta – me ne voglio andare da questa città! -

- Calmatevi, vi prego – rispose l'elfo scuro, cercando di contenere l'irruenza dei tre agitando forsennatamente le braccia – non c'è nulla che possa fare per voi, lo sapete. -

- Ma gli incubi, Erandur...non siamo i soli! Tutta Dawnstar ne soffre orribilmente! - urlò il secondo, afferrando per le maniche l'elfo davanti a lui – la gente ha paura di addormentarsi! -

- Secondo voi cosa sta succedendo? - chiese Sebastian, incuriosito dal dialogo tra quelle persone e intento a pulirsi l'angolo della bocca con un fazzoletto.

- Non lo so – rispose Tevinias, osservando insistentemente l'elfo di nome Erandur – ma qualunque cosa sia, non ci riguarda. Siamo solo di passaggio qui e ora che lo noto tira una brutta aria qua in giro. Ho una strana sensazione. -

- Che vuoi dire? - chiese Ashlotte, azzardando un timido tentativo di approccio con lo stregone così da evitare altre situazioni dello stesso genere.

- Non saprei – rispose Tevinias quasi sussurrando, senza far caso al fatto che a porgergli quella domanda fosse stata proprio la donna – avverto qualcosa di strano, come...una presenza, credo. -

- Forse dovremmo aiutarli, Tevinias. Quell'uomo mi sembra davvero terrorizzato - disse Sebastian, frugandosi le tasche con crescente agitazione – ehi, non ho un septim. -

- Non è un nostro problema e dato che le cose stanno così vorrei andarmene prima di mezzogiorno. E, diamine, pensavo fossi tu quello munito dell'oro. -

- Lo ero...prima che l'esplosione sulla nave si lacerasse la tunica. Devono essermi cadute tutte le monete in mare. - osservò Sebastian guardando nelle profondità di ogni tasca e perdendosi così quel brevissimo cambio di espressione sul volto dello stregone, dall'impressione di un profondo senso di colpa.

L'espressione non sfuggì tuttavia ad Ashlotte. Era forse compassione quella che provava nei suoi confronti?

- Non ho intenzione di star qua a pulire la locanda per tutta la notte, diamine! - esclamò Tevinias battendo un pugno sul tavolo – possibile tu non abbia proprio nulla? -

- Non...non credo sia un problema. - sussurrò Ashlotte interrompendo la discussione tra i due. Ficcò una mano nella tasca della propria tunica e ne trasse fuori un piccolo smeraldo dai contorni irregolari, come sbozzato e raffinato in fretta da un fabbro incauto: ciò nonostante, quella pietra aveva un modesto valore e anche se ad esso avessero sottratto il costo del pasto ne sarebbe rimasto comunque abbastanza da potersi permettere un giro extra di viveri e bevande per qualche settimana. La donna mise lo smeraldo sul tavolo e rimase a crogiolarsi negli sguardi sorpresi e attoniti dei due uomini.

- Oh. - furono le sole parole proferite da Tevinias. Sebastian, dal canto suo, si prodigò in un gran sorriso.

- Direi che con questo la nostra conversazione a riguardo è conclusa, Tevinias – disse, alzandosi dal tavolo e prendendo in una mano la pietra verde brillante – vado a pagare. -

Qualche secondo dopo, mentre Sebastian si allontanava dal tavolo in direzione del bancone, Ashlotte osservò Tevinias con fare interrogativo.

- Quale conversazione? -

 

 

- E dunque, amico mio? Qual'è la nostra meta, adesso? - chiese Tevinias con voce profonda, stiracchiandosi e facendo scrocchiare le dita delle mani tra di loro.

- Ah, sono certo che ti piacerà. - esclamò Sebastian con una risata cristallina, prendendo dallo zaino improvvisato poco prima una mappa e srotolandola davanti agli sguardi interrogativi dei suoi due compagni di viaggio. La mappa intera di Skyrim comparve sotto i loro occhi, rivelandosi in tutta la sua manifesta grandezza.

- Ora, miei cari – disse l'uomo e Ashlotte si rese conto solo dopo qualche secondo del plurale utilizzato da Sebastian – non ci resta che da attraversare per intero il feudo di Winterhold. Sarà dura, soprattutto attraversare la catena montuosa e aggirare il Monte Anthor, ma dovremmo farcela: abbiamo provviste a sufficienza e volendo possiamo tagliare fino alla città di Winterhold, per poi proseguire verso sud. La strada verso Windheld è lunga e ne resta ancora moltissima da percorrere. -

- Sta bene - fu l'unico commento di Tevinias, che si voltò verso Ashlotte squadrandola dall'alto al basso – e tu, cosa hai intenzione di fare? -

Ashlotte impietrì di colpo, cercando una risposta adatta alla domanda appena postale dallo stregone. Stava per mormorare qualcosa di confuso quando Sebastian intervenne per lei.

- Verrà con noi, dal momento che non può fare ritorno alla Confraternita. Sai, si è rifiutata... -

- Di portare a termine il contratto – concluse il mago, con un sorrisino di sufficienza – so come funziona, sai. -

Fece per incamminarsi, senza far caso all'espressione attonita dell'assassina alle sue spalle.

Come faceva a sapere tutte quelle cose?

- Aspetta! - esclamò improvvisamente la donna, rivolta a Tevinias. L'uomo si voltò con un cipiglio scuro sul volto che incrinò non poco l'atteggiamento sicuro di Ashlotte.

- Credo di meritarmi qualche spiegazione, dopo tutto quello che è successo. E se devo far parte del vostro gruppo, non ho intenzione di rimanere all'oscuro di chi siete, cosa fate o dove andate. O no? - disse, concitata.

Tevinias la scrutò attentamente, avanzando pian piano verso di lei con fare minaccioso: Ashlotte non desistette e mantenne fisso lo sguardo, fino a ritrovarsi il volto dello stregone a pochi centimetri di distanza dal suo.

Passarono diversi secondi e Sebastian cominciò a preoccuparsi, mettendo mano al pugnale d'ebano della donna rimasto in suo possesso dall'incidente sulla nave. Fece per richiamare l'attenzione del compagno quando questo sollevò una mano e diede un colpo leggero con l'indice e il medio uniti sulla fronte della donna, che stramazzò a terra scompostamente.

- Che diavolo fai?! - urlò il Nord, scuotendo il compagno di viaggio con forza – perché? -

- Pensavo fosse molto meglio – rispose Tevinias, voltandosi e dando le spalle a Sebastian – mostrarle tutto quanto, no? -

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Capitolo 20
*** La Caduta di Arlathan. ***


Qualcuno spense ogni luce del mondo e, d'improvviso, sopraggiunse l'oblio a sostituire ogni altra cosa. Colore e materia si amalgamarono istantaneamente compenetrandosi l'uno nell'altro, fino a riformare un mondo del tutto nuovo attorno ad Ashlotte, fatto di impressioni e di mancate intenzioni: rocce diafane e sagome evanescenti vorticarono in una danza senza tempo disegnando motivi a spirale incomprensibili alla mente umana.

Dove sono?

L'assassina tremò di terrore quando percepì la sua voce trasformarsi un puro pensiero e le sue corde vocali rimanere immobili, come sopite e inutilizzabili. Ci volle qualche secondo perché Ashlotte potesse comprendere di non possedere più un corpo, ma solamente una fugace immagine di esso, come una fedele riproduzione che prende vita autonomamente nutrendosi di idee e concetti. Volle muoversi e fuggire, ma non ci riuscì e rimase lì dov'era persa in quell'oceano di nulla, con la unica compagnia di sé stessa.

O almeno, questo è quello che pensava.

- Arconte – disse una voce – è quella, la Città... -

Ancora un sussulto delle invisibili e ineffabili maglie del cosmo e ogni cosa mutò nuovamente d'aspetto, serpeggiando sinuosa attorno ai contorni della mente di Ashlotte.

E ancora una volta la terrificante Città Nera si manifestò in tutta la sua fulgida gloria, fendendo l'orizzonte con le sue guglie e le sue geometrie impossibili. La donna percepì in quella presenza un'arcana nota di desolazione e solitudine, una silenziosa morte del suo stesso animo e non appena il vortice originato dal modificarsi di quelle spigolose forme le passò accanto si sentì morire dentro, sprofondando in un baratro buio e apparentemente privo di fondo.

Quale dio crudele può concepire qualcosa del genere?

Queste parole non erano sue, pensò Ashlotte: le sentì fluire dentro di sé senza tuttavia appartenere alla sua coscienza. E improvvisamente vide in quel velo di disperazione un lontano barlume di luce, situato non al di là della Città ma bensì in un qualche punto imprecisato dietro di sé, come poco oltre la sua nuca.

Fu allora che Ashlotte l'afferrò con tutta sé stessa per trarsi fuori da quell'oscura catarsi che pareva prosciugarla di ogni emozione umana e lentamente si sentì risucchiare fuori dal proprio corpo mentre sotto di lei sembrava che l'inferno si fosse abbattuto infuriando sul mondo. Udì delle grida di dolore e di paura mentre con la coda dell'occhio vide figure tenebrose agitarsi e sfumare continuamente di forma e la stessa voce di poco prima parlò nel profondo del suo animo.

Il mondo è ora corrotto, irrecuperabile. Siamo tutti perduti.

 

 

Un baluginio confuso e indistinto, poi la terra nuda e dura. Stavolta, osservò Ashlotte, era tutt'altro che sfuggente: il contatto con essa le strappò un gemito di dolore e ne sarebbe rimasta indolenzita per tutta la durata del sogno, fino a conservarne una vaga impressione al momento del suo risveglio.

C'era un sole splendente, tanto da fare quasi male agli occhi. La donna si coprì la linea dello sguardo con le mani congiungendone la punta delle dita e apparve davanti a lei la visione di una terra fiorente e dalla vegetazione lussureggiante, solcata in volo da dozzine di migliaia di uccelli di ogni razza strana e mai vista prima, che le incusse un malcelato senso di stupore e meraviglia.

Poi, come d'incanto, un boato sinistro squarciò l'aria abbattendosi sul mondo con furia soprannaturale.

Per la sorpresa la donna emise un grido coprendosi le orecchie e voltandosi intorno cercando la fonte di quel rumore e quando la trovò, non riuscì a trovare le parole adatte per descrivere quello che vedeva.

Una decina di uomini situati poco lontano da lei tendevano le mani al cielo e qualcuno di loro impugnava bastoni dalle forme più svariate raffiguranti serpenti, draghi o ornati di pietre e figure geometriche stravaganti: insieme mormoravano una strana nenia, incomprensibile alle orecchie della donna ma tuttavia vibrante di un potere sconosciuto.

Poi, il più anziano avanzò lasciandosi gli altri dietro le spalle e in quel momento Ashlotte lo riconobbe all'istante. Come avrebbe potuto confonderlo con qualcun'altro, tanto era il terrore che quell'individuo le faceva?

Tevinias congiunse le mani sul bastone portandolo sopra la propria testa, gli occhi chiusi e la bocca spalancata a guisa di un grido bestiale, e lo abbatté per terra provocando un sinistro tremolio dell'aria attorno a lui che fece piegare la forma sferica del sole in alto nel cielo e i contorni di qualsiasi figura nel raggio di diversi metri. Ashlotte era terrorizzata e percepiva la presenza un potere sconosciuto, primordiale e mugghiante di energia: ci fu uno sfarfallio e la donna intravide la lama di un coltello nella mano sinistra dello stregone, il bastone magico saldamente stretto nell'altra. Con un ruggito l'uomo si ferì volutamente il braccio e rivoli di sangue scarlatto sprizzarono dalla ferita con una pressione innaturale, disegnando attorno a lui vortici e turbinii convulsi. A ruota lo seguirono tutti gli altri stregoni e fiumi di sangue scorsero attorno a loro, sollevandosi in fumose volute e sfrigolando di magia.

E come nel peggiore degli incubi quella verde e lussureggiante terra venne inghiottita dalle fauci della terra, dischiuse attraverso voragini e abissi inconcepibili. Agli occhi della donna apparvero all'improvviso figure umanoidi in lontananza evidentemente sconcertate e disorientate, in fuga di angolo in angolo in quel paradiso terrestre come per trovare rifugio da un'invisibile minaccia piovuta dal cielo.

Quelle persone, notò Ashlotte, erano in fiamme. Molte di loro stramazzavano dimenandosi al suolo dopo qualche secondo, immobili come formiche incenerite dalla dispettosa lente di un bambino: fu l'impressione di un momento, poi quel lembo foresta svanì interamente inghiottito dalle profondità della terra vorace e insaziabile.

La donna era inorridita e si voltò verso gli stregoni solo dopo aver udito le loro risa strazianti, contorte e sinistre come l'ombra dei rami di un albero proiettata dalla luna sul terreno e non vide facce ed espressioni umane, ma smorfie bestiali e livide di trionfo...

 

 

...e come se nulla fosse successo, Ashlotte si risvegliò per terra con i fiocchi di neve che le si depositavano sul volto come un bianco e candido lenzuolo. Inizialmente disorientata trovò un braccio porto verso di lei a sorreggerla, il volto di Sebastian terminante alla sommità di esso, e lo afferrò con forza issandosi in piedi e trovandosi di fronte all'espressione confusa e impaurita del compagno.

- Che diavolo è successo?! - urlò Sebastian scrollandola per le spalle e la donna non comprese, almeno finché non vide Tevinias in ginocchio a qualche metro da lei, le mani giunte sul bastone magico come in adorazione ad un invisibile altare.

- Io...non...cosa?! - esclamò Ashlotte, staccandosi dalla presa del Nord e voltandosi verso lo stregone singhiozzante. Lacrime bagnavano il duro terreno gelato sotto di lui e uno strano colorito pallido andava pian piano impadronendosi delle mani di Tevinias.

- Ehi, è... -

- Non avresti...dovuto. Come ci sei.... - farfugliò incoerentemente il mago, sollevandosi poi in piedi come aveva fatto Ashlotte pochi istanti prima e voltandosi minacciosamente verso di lei: a Sebastian si accesero in testa tutti i campanelli d'allarme quando riconobbe quella sinistra luce negli occhi dell'amico, la stessa che aveva imparato a temere dall'incidente sul brigantino imperiale. In un attimo si fiondò verso lo stregone trattenendolo per un braccio, lo sguardo teso alla ricerca degli occhi dell'amico.

- Tevinias, è...tutto a posto. Ritorna in te, ti prego – sussurrò implorante, intravedendo una scarica di scintille vagabonde percorrere le mani dell'uomo – ti prego. -

Il cuore martellante nel petto dello stregone e risuonante lungo il suo polso sembrò attenuarsi di un poco, fino a svanire lentamente nell'arco di una ventina di secondi. Senza rendersene conto Sebastian rilasciò tutto il fiato che aveva nei polmoni: non si era accorto di aver trattenuto il respiro per un interminabile frazione di momento, pregando che ancora una volta la sua voce riuscisse a calmare l'animo del compagno di viaggio e a far sì che la parte più razionale e luminosa del suo spirito potesse prevalere su quella più oscura e furibonda, intrisa di un'innaturale follia.

Ma per quanto ancora sarebbe riuscito a rimandare l'inevitabile?

Sarebbe arrivato infine il giorno in cui i suoi tentativi di poter placare gli scoppi d'ira di Tevinias si sarebbero mostrati inutili?

Sebastian pregò di non doverlo mai scoprire.

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Capitolo 21
*** La voce del vento. ***


Gregorius si voltò, la testa pulsante per l'afflusso di sangue pompato dal cuore: avvertiva all'interno del proprio petto un rumore simile ai colpi profondi di un possente tamburo e sperò con tutto sé stesso che alle sue spalle ci fosse soltanto il suo famiglio dalle fattezze lupesche, anziché una delle sentinelle del Castel D'Our. Con un guizzo delle sue sinapsi cercò la coscienza di Jasper e fu ottenebrato all'istante da immagini sfocate e confuse: una nave in fiamme, tre figure naufragate su una spiaggia senza nome, una città dal vessillo nero e inquietante.

Avrebbe indagato dopo su quelle strane visioni, legate senza alcun dubbio ai due fuggitivi cui gli era stato affidata la cattura.

Un secondo. Tre figure?

Possibile che l'assassina...

- Concittadino, è tutto a posto? - squittì una voce timida e Gregorius si voltò con naturalezza, senza tradire alcuna emozione e recidendo con veemenza il corso dei suoi pensieri. Dagli incavi della sua espressione di pietra i suoi occhi si soffermarono su quel giovane che non doveva avere più di diciotto anni, imporporato nel volto e nei drappi che la sua armatura leggera portava.

Una guardia della città, proveniente dall'anello più esterno. A giudicare dal passo felpato con cui si era portato alle sue spalle, quell'uomo doveva appartenere al settore sorveglianza e da questo Gregorius ricavò che la sua abilità nel combattimento corpo a corpo dovesse essere scarsa, compensata tuttavia con un'ottima mira con l'arco e qualche rudimentale nozione di incantesimi di Illusione o Alterazione.

Non bene, pensò Gregorius. Lui era disarmato e in quel momento poteva contare solo sulla sua forza bruta, sperando al massimo in un provvidenziale intervento del suo lupesco famiglio.

Stava per rispondere, quando qualcosa nello sguardo attento del ragazzo si spezzò per lasciar spazio ad un'espressione sottomessa e di venerazione, un fervore che l'uomo davanti a lui ricordava bene: uno sguardo colmo d'ammirazione all'insegna cremisi della Legione, tanta voglia di dare il proprio contributo per la grandezza della patria natale e la voglia di diventare qualcuno. Era quell'inebriante amalgama di arroganza, sete di potere e grandezza patriottica che faceva di ogni giovane un potenziale elemento per la Legione...e da lì in poi, a seconda dell'arguzia di ognuno, il limite nella scalata gerarchica era solo il cielo.

- Comandante! Siete...voi? - domandò assorto il giovane, facendo scorrere lo sguardo incredulo dall'alto al basso lungo la tunica grezza e i sandali di cuoio portati da Gregorius.

Il ragazzo l'aveva riconosciuto.

Non bene.

Gregorius stava per rispondere, quando un'idea lo fulminò sul posto e anziché biascicare formalità e rituali privi al momento di alcuno scopo tirò fuori la tonalità della sua voce più concitata possibile.

- Soldato, sono stato appena assalito! Dei briganti mi hanno portato via ogni cosa, attaccandomi alle spalle! - latrò, imitando quanto più gli era possibile lo sguardo di un pazzo – Nord selvaggi, in combutta con i Manto della Tempesta! -

- ...briganti qua, a Solitude? -

- Cos'hai, le orecchie foderate di formaggio? - lo rimproverò Gregorius, calando di un ottava il tono della voce – non stare lì impalato, aiutami a prenderli! -

Per il giovane quelle parole furono come una doccia fredda: sobbalzò balbettando parole di scusa e mise mano all'impugnatura della sua spada, dal pomello di uno sgargiante rosso rubino. Prevedendo davanti a sé un lungo viaggio, Gregorius era intenzionato ad affrontarlo preparato a dovere e non si fece scrupoli quando chiese al giovane la sua armatura e la sua arma.

- Come, comandante? Vuole tutto il mio equipaggiamento? - sussurrò il giovane, leggermente sbigottito. L'uomo davanti a lui gli vide in volto un'espressione scettica e aumentò il livello delle sue capacità di recitazione, fingendosi adirato e mostrando occhi di fuoco con il suo sottoposto.

- Ho c-capito, sissignore! - gridò il soldato e si slacciò in fretta e furia l'armatura, slacciando dapprima il corpetto metallico e poi i bracciali, scintillanti alla ribollente luce del sole mattiniero. Infine, porse a Gregorius il fodero e l'uomo ne estrasse la lama, facendola roteare pericolosamente e con meticolosa perizia lungo tutto il fianco.

- Come ti chiami, giovanotto? -

- S-seamus, signore. Quarta cerchia delle mura... -

- Ho un grosso favore da chiederti. Hai degli spiccioli? -

- Come...signore? -

- Monete, soldato. - latrò Gregorius, fingendosi impaziente – septim. Potrei averne bisogno da qui a qualche ora. -

- Ma non doveva inseguire...? -

- Non fare domande, ragazzo. Ti garantisco che riavrai tutto al mio ritorno e anzi, magari vedrò di metterci dentro qualcosa di ringraziamento per il disturbo. -

Passò un minuto e Gregorius contò le monete all'interno dei sacchetti di cotone legati alla sua cintola. Cinquecento septim dovevano bastare per l'immediato futuro: avrebbe pensato in seguito a come fare dopo.

- Ti ringrazio, soldato – disse Gregorius, sinceramente grato a quel ragazzo di cui conosceva solo il nome e la divisione – mi hai tirato fuori dai pasticci. Un giorno avrò modo di ringraziarti a dovere per l'enorme favore che mi hai fatto.

- Si figuri, signore. Lei...lei è una leggenda tra le nuove reclute, sa? - rispose il ragazzo e qualcosa dentro Gregorius si lacerò, come una bestia che si morde la coda.

- E perché mai? Che cosa posso avere mai fatto di tanto speciale da affascinarvi tutti quanti?

Il giovane davanti a lui non rispose, limitandosi a sorridere con aria sornione.

Come se Gregorius avesse raccontato la barzelletta più divertente del mondo.

- Le sue imprese sono mirabolanti, comandante. Lei è fonte di ispirazione per centinaia di nuove leve della Legione. -

Ma l'uomo davanti a lui non stava più ascoltando. All'improvviso udiva quella voce così lontana, come proveniente da un altro pianeta...

E ripensò alla sua vita fino ad allora.

Che cosa ho fatto finora?

Ho servito l'Impero, si rispose. La sua campagna militare ad High Rock e la conquista fulminea che ne conseguiva era destinata a essere tramandata nelle ballate e nelle memorie di guerra per secoli.

E concretamente...cosa ho fatto finora?

Gregorius non voleva dare risposta a quell'inquietante interrogativo.

Si allontanò da quel giovane stupito e incredulo in silenzio, con passo lenti e quasi strascicati per terra.

 

 

Scaglie di gelo nelle ossa, pungenti come lame affilate.

Me le sentivo nella carne, le avvertivo penetrare nel cuore trafiggendolo. Non mi sarei sorpreso più di tanto se all'improvviso tastandomi il petto avessi sentito scorrere il mio stesso sangue lungo la mano, caldo e di un rosso spiccante sul bianco brillante della neve.

La tempesta infuriava intorno a noi, miseri viandanti dispersi nella bufera. A guidarmi restava solo la sagoma indistinta del mio eterno compagno di viaggio, Tevinias, una figura ricurva e appoggiata debolmente sul suo bastone di duro legno nero.

Dove eravamo? Sembravano trascorse ore e ore da quando avevamo lasciato Dawnstar e per tutto questo tempo vidi soltanto distese innevate e rocce solitarie affioranti sulla superficie ghiacciata. D'improvviso inciampai, annaspando nell'aria come un ubriaco in preda ai suoi deliri.

Un braccio mi sorresse, forte e sicuro, impedendo che mi accasciassi al suolo.

- Sebastian – sussurrò Tevinias, mentre il suo fiato si condensava in minuscoli cristalli ghiacciati – ce la fai? -

- Io...non lo so, fa così freddo. -

- Resisti, amico mio. -

Un bagliore infuocato avvampò davanti al mio volto e riconobbi in quelle lingue di fiamma un'altra delle magie dello stregone. Stava attingendo alle sue forze rimaste per me, per impedirmi di congelare e morire assiderato.

- Grazie. -

Tevinias non rispose, socchiudendo invece gli occhi per minimizzare l'effetto del vento ghiacciato. Anche senza sapere chi stesse cercando nella bufera, potevo leggere la sua espressione dal suo volto come se fosse un libro aperto.

Ashlotte ci raggiunse pochi istanti dopo, taciturna e quasi richiusa a riccio nelle sue spalle.

Lo stregone non proferì verbo, continuando invece la sua marcia verso l'orizzonte. Il globo magico accanto a me si gonfiò, fino ad assumere l'estensione di uno scudo d'acciaio: mi ci avvicinai il più possibile, godendo delle lingue di fiamma che solleticandomi la pelle senza tuttavia scottarmi mi riscaldava piacevolmente al pari di una coperta di lana in una notte fredda e solitaria.

Con la coda dell'occhio vidi la donna dai capelli biondi accoccolarmisi accanto, come dimenticando le divergenze che ci separavano. Osservandola più attentamente, vidi sul suo volto le prime macchie grigie sintomi dell'assiderazione.

- Credo che questa – dissi, facendomi da parte facendo un cenno verso la palla di fuoco – serva più a te che a me. -

Ashlotte bofonchiò un grazie sommesso, senza tuttavia muoversi di un passo soltanto. Feci per porgerle una mano e mi accorsi che stava tremando terribilmente.

- Tevinias... - sussurrai, quasi certo che il fischiare del vento gelido attorno a noi avesse coperto ogni mia parola. Ma così non fu: lo stregone si fermò, come in attesa di un segno.

- Guardala... - lo implorai, senza tuttavia ricevere nessuna risposta.

Passarono i secondi e quella donna che fino a poco tempo prima aveva cercato di ucciderci – o peggio, consegnarci alla Legione – batté i denti come un'indemoniata.

Lo stregone non si mosse, né fece cenno di aver compreso le mie parole.

- ABBI PIETA', ALMENO! - ruggì con tutta il fiato che mi restava nei polmoni, buttando fuori tutta la rabbia che la sua stolida arroganza provocava in me ogni maledetta volta.

Tevinias si voltò e continuò a camminare, riprendendo la sua marcia. Infuriato feci per alzarmi e raggiungerlo, quando un gemito mi colse di sprovvista alle spalle e voltandomi vidi sparire il globo infuocato in un guizzo colorato: scintille e baluginii arancioni avvolsero la donna in un soffice manto dal tepore confortante, propagandosi da lei come i raggi di luce attorno al sole.

Feci trascorrere qualche secondo, poi non riuscii più a trattenere quella domanda.

- Si può sapere cosa è successo fra voi due? Sembrava aveste chiarito. -

- Io...ho visto... - sussurrò, con un filo di voce.

- Cosa? -

- Non...non lo so. -

- Mhh. -

Guardai davanti a me, intravedendo il limitare del colle che avevamo quasi finito di percorrere. Sopra di me il cielo era un terribile bianco lattiginoso, inframmezzato di tanto in tanto solo da nubi scure e promettenti tempesta.

Una bufera coi fiocchi, come si dice dalle parti di Riverwood.

- Dove stiamo andando? - domandò la donna, stringendosi nel suo improvvisato soprabito di cotone. Sarebbe morta di freddo, se avesse continuato ad indossare la sua armatura leggera in cuoio a cui tanto era affezionata.

- Windhelm. - esalai, cercando Tevinias con lo sguardo – ma credo dovremo far tappa nuovamente per fare rifornimento. Abbiamo bisogno di abiti molto, molto più pesanti. -

- Se quella là in fondo è Saaarthal – disse una voce, che riconobbi immediatamente appartenere al mio compagno di viaggio, intendo a scrutare l'orizzonte con occhi attenti ed uno sguardo meticoloso – possiamo fermarci a Winterhold, e da lì proseguire a sud. -

- Dobbiamo allungarci così tanto? Di questo passo ci metteremo almeno cinque giorni per raggiungere Ulfric. -

- Sebastian, non possiamo proseguire in queste condizioni. -

E aveva ragione. Akatosh solo sapeva quanto fossimo stremati da quella traversata in mezzo alle lande ghiacciate che separando il Pale e Winterhold.

- Inoltre – sussurrò lo stregone, con aria angosciata – credo che qualcuno ci stia seguendo. Una presenza che mi pizzica la nuca. -

- ...E' lei? - chiesi, praticamente senza voce. Il ricordo di quell'entità senza forma, di quell'abisso senza confini mi attanagliava la mente e mi soffocava il fiato nel petto.

L'oscurità ci avrebbe colto di sorpresa quella notte, e stavolta nessuno stratagemma ci avrebbe salvato.

Nessuno.

- Non...non lo so, Sebastian. Prega che non sia così, non mi resta una goccia di magicka per difenderci. -

- Di chi state parlando? - intervenne Ashlotte, sinceramente incuriosita dalle nostre espressioni preoccupate. Tevinias fece una smorfia, guardando la donna dritta negli occhi.

- Nulla che tu possa anche solo lontanamente comprendere. -

- ...E' quella cosa, vero? Quella della visione? -

Il silenzio cadde tra i due, spesso come una coltre. Solo il vento ghiacciata spezzata l'atmosfera tesa con il suo lento, sommesso e inarrestabile fischiare.

Uuuuuu-uuuuu.

E di nuovo.

Uuuuu-uuuuu.

- Lascia che ti dica una cosa, assassina – fece Tevinias con un tono di profondo disprezzo – se quell'essere, quell'Ombra, ci raggiungesse...non esiste arma, incantesimo o amuleto in grado di fermarla. Possiamo sperare solo nella luce dell'alba, ma è una possibilità praticamente irrisoria: non si farà cogliere da questo trucco una seconda volta. -

- Ma che cosa... -

- Vuole lui. - la interruppi, senza darle la possibilità di finire la frase.

- E' una storia lunga da spiegare, ma quella cosa gli dà la caccia e lo vuole morto. -

- Morto è un parolone – rispose Ashlotte, con un'espressione mesta – dopo quello che ho visto sulla nave. -

- Ragazzina – disse Tevinias, avvicinandosi alla donna e fulminandola con occhi di brace. Ashlotte fu certa di vedere in quegli specchi profondità insondabili, che mai avrebbe voluto attraversare: desiderava soltanto distogliere il suo sguardo da quello dello stregone, ma scoprì con suo enorme rammarico di non riuscirci affatto.

- Ci sono cose ben peggiori della morte. - concluse l'uomo, ritraendosi e lasciando in disparte Ashlotte e Sebastian. Poi continuò per la sua strada, lasciando i due in preda a mille domande.

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Capitolo 22
*** La quiete prima della tempesta. ***


- Si può sapere di che cosa diavolo stai parlando?! -

Grigori era spazientito e lo fece notare a tutti presenti battendo con forza una mano sul tavolo, scuotendo tutti i boccali e facendo cadere una pila di documenti da dove era riposta. L'uomo davanti a lui andava blaterando di cose senza senso da fin troppo tempo e le chiacchere facevano venire un malditesta tremendo a quell'uomo di già così poca pazienza. La sua mente corse al suo pari chiuso nelle celle sotto i loro piedi e un sorriso solitario attraverso il volto irato di Grigori. In fin dei conti, non era stata una giornata poi così brutta.

- Glielo giuro, signore – balbettò quasi Boss stringendosi la testa tra le mani con aria disperata, praticamente accasciato sul tavolo dalla disperazione – è la verità. Perché dovrei mentirle su una cosa del genere? -

- Fammi capire bene...tu vuoi che inviamo un distaccamento dei nostri soldati migliori, nel bel mezzo di una guerra civile, per dare la caccia a degli spauracchi? Io dico che o sei un bugiardo, o eri probabilmente ubriaco. -

Boss fece per rispondere, poi scoppiò in lacrime davanti a Grigori. Vedere un uomo di quella stazza piangere come una bambina non era uno spettacolo comune, pensò il comandante.

Stava ripensando a Marty, a come quella cosa se l'era portato via. Gli vennero i brividi lungo la schiena mentre tentava di rievocare mentalmente l'immagine di quell'essere diabolico, in quella stanza delle rovine naniche conosciute come Alftand. Ancora non riusciva a credere lui stesso come fossero stati possibile tutti quegli avvenimenti, eppure era la realtà nuda e cruda. Il suo migliore amico era morto e lui non aveva più chiuso occhio da allora, tormentato da spaventose visioni non appena scivolava nella fase di dormiveglia.

Quello specchio...il modo in cui scintillava alla luce originata da quelle pareti così strane, i cocci di vetro così accuratamente riposti sulla superficie liscia e dalla cornice così riccamente decorata di strani ghirigori...

Preso com'era dai suoi pensieri, quasi non udì le parole dell'uomo davanti a lui, scuro e terribile in volto.

- MI STAI ASCOLTANDO?! -

Il tono della voce di Grigori riportò Boss nel mondo reale, lontano dai suoi angosciosi ricordi. Dietro di lui una donna di pelle scura lo fissava in silenzio, immobile come una statua di pietra. Boss sentiva il suo sguardo trapassargli il collo come il filo di una lama e mai come in quel momento si sentì profondamente a disagio..

- Se quello che dici è vero – disse Grigori, avvicinandosi ancora di più al volto dell'uomo con occhi inquisitori – come fai a essere qui, vivo e incolume? -

- Sono scappato, signore. Ho raggiunto Winterhold di corsa senza voltarmi mai indietro e da lì ho preso una carovana. Ho detto il nome della prima città che mi è venuta in mente, pensavo che la Legione potesse... -

- Dare ascolto ai vaneggiamenti di un ubriaco? Esilarante. -

Grigori rise sguaiatamente e con un cenno liquidò la questione in un istante. La donna di nome Fran si fece avanti afferrando violentemente Boss per le spalle e, sebbene l'uomo fosse grande almeno una volta e mezzo lei, lo sollevò in piedi e lo condusse all'uscita.

- La prego, signore! La scongiuro di credermi, MARTY E' MORTO PER SALVARMI! NON PERMETTERO' CHE SIA STATO TUTTO INUTILE! - ruggì l'omone, divincolandosi dalla stretta della donna e mandandola a sbattere contro il muro: Grigori si voltò e vide nei suoi occhi lo sguardo determinato di un folle, che non ha più nulla da perdere.

E fu in quel momento che un'idea attraverso in un baleno la mente del comandante.

E se quello che dice fosse vero?

No, impossibile. Alftand era stata un tempo avamposto imperiale e i soldati stanziati lì non avevano mai notato nulla di strano, fatta eccezione per qualche automa Dwemer ancora in funzione. La normalità, insomma, in luoghi così antichi e inesplorati.

- La prego... - sussurrò Boss, crollando in ginocchio. I capelli, unti e trascurati, gli ricaddero sulle spalle inerti.

Mi creda. -

Grigori lo osservò con occhi di falco, riflettendo sul da farsi. Non si sarebbe mai privato di uomini preziosi in quel momento, tesa com'era la situazione fra la Legione e il resto della popolazione di Skyrim: una rivolta o un attacco diretto alla città non era un'eventualità da non considerare e avere ogni uomo in prima linea possibile una garanzia di difesa.

In fin dei conti, tuttavia, non gli sarebbe costato nulla stilare invece un normalissimo rapporto e inviarlo formalmente a Cyrodiil. Probabile che gli ammucchiascartoffie imperiali lo avrebbero ignorato del tutto, accatastandolo insieme ai molti altri provenienti da ogni parte di Tamriel.

- Invierò la questione a Cyrodiil, nulla di più. -

- No! Dovete mandare subito qualcuno, al più presto... -

- Giovanotto. – sussurrò Grigori e Boss ammutolì istantaneamente, terrorizzato dalla nota minacciosa insita nella sua voce. Era un tono che non ammetteva assolutamente repliche e l'uomo sentì un grosso peso scendergli dal cuore quando sentì scomparire dalle parole successive quel velo apertamente di minaccia.

- Ho già preso una decisione. Il mio tempo è finito, ho affari molto più importanti di cui occuparmi. -

- Come osi mettere le mani addosso a un ufficiale dell'Impero?! - strillò Fran, sguainando la spada e puntandola alla gola dell'omone davanti a lui. La lama scintillò alla luce delle torce, pronta a recidere la giugulare di Boss al primo cenno del comandante che invece agitò una mano con fare quasi seccato.

- Fran, rinfodera la tua spada. E' tutto a posto. -

Le parole di Grigori ci misero qualche attimo prima di fare effetto e la donna eseguì l'ordine solo quando il suo superiore aveva già incominciato a redarre un rapporto formale da inviare al Palazzo Imperiale. Vide la penna d'aquila impugnata dall'uomo muoversi sulla pergamena come indemoniata e, una volta finito di scrivere, Grigori schioccò le dita attirando l'attenzione di una delle guardie poste all'esterno della stanza, che avevano osservato tutta la scena senza muovere nemmeno un dito. Non che ce ne fosse bisogno, del resto: il comandante e la sua luogotenente erano perfettamente in grado di difendersi da soli.

Soprattutto lei, a giudicare dallo sguardo fiammeggiante con cui stava trafiggendo l'uomo dalla mole considerevole in quel preciso momento.

- Mandatela su alla piccionaia. - ordinò Grigori con voce perentoria, rivolto al soldato davanti a lui – deve essere recapitato a Cyrodiil. -

- Subito, signore. - disse l'uomo dal volto coperto da un elmo e filo via, portando con sé il messaggio del suo comandante.

- Fran, accompagna il nostro ospite all'uscita del palazzo. Credo sia abbastanza, per oggi. -

Non fece caso ai due che si allontanavano dietro le spalle. Non faceva mai caso alle inezie.

Grigori sospirò, buttando fuori tutta la mediocrità che avvertiva nel profondo del cuore. Per Akatosh, era mai possibile che dovesse circondarsi di soli incapaci?

Ma almeno, pensò con un sogghigno, il pesce più sfuggente era ora sotto chiave con un'accusa ufficiale di alto tradimento. Non poteva desiderare nulla di meglio: la carriera di Gregorius era ormai praticamente finita e presto o tardi la sua divisione sarebbe passata a lui, incrementando il suo potere e il suo prestigio presso l'Imperatore e la Legione.

E chissà...da lì in poi il limite era soltanto il cielo.

Era ancora felicemente perso nei suoi pensieri quando un messaggero entrò nella stanza praticamente senza fiato, le gote arrossate per la corsa e la fretta nel riferire ciò che aveva da dire.

Ottimo, così dev'essere la Legione. Una macchina perfetta, efficiente e scattante, pronta a giocare d'anticipo sull'avversario.”

Con un cenno accolse l'uomo e gli indicò una sedia, dove avrebbe potuto riprendere fiato per una manciata di secondi.

- Quali buone notizie mi porti, messaggero? Respira profondamente e parla, ho molte faccende da sbrigare. -

- Signore! - ansimò il messaggero, strofinandosi la fronte sudata con l'avambraccio e tamponandosi il volto con un lembo della sua tunica (Grigori fece una smorfia, mascherandola tuttavia subito con un sorriso accondiscendente).

- Ti sei ripreso, adesso? -

- Il prigioniero è fuggito. Le sentinelle hanno visto un lupo aggirarsi nei dintorni del castello, credono che sia in qualche modo legato a... -

Il ruggito rabbioso di Grigori che conseguì a queste parole venne udito fino ai battenti del Castel D'our, dove non poche guardie si voltarono sconcertate in direzione degli uffici del comandante. Infuriato, l'uomo avrebbe ribaltato ogni mobile nella sua stanza sotto gli occhi sempre più atterriti e spaventati del messaggero che gli aveva portato nolente quell'infelice notizia.

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Capitolo 23
*** Nightfall. ***


La terra nuda, dura e fredda al contatto, le graffiava la pelle. Il giaciglio improvvisato all'interno della tenda di fortuna non era assolutamente in grado di donare loro il riposo che si meritava dopo tutta la strada che aveva fatto e Ashlotte corrugò la fronte in un'espressione di dispiacere, raggomitolandosi ancora di più nel tentativo di godere il più possibile del proprio calore corporeo.

Fuori, la bufera infuriava ancora. Impietosa, senza cuore, come se fosse sua intenzione strappare fino all'ultimo brandello di carne dalle creature di Skyrim. Non era mai stata nel feudo di Winterhold, ma certo non si sarebbe mai immaginata un clima così impietoso: quella in cui erano incappati era la peggiore delle bufere che l'assassina avesse mai visto e Akatosh solo sapeva come fosse possibile che le loro misere tende non avessero ancora preso il volo, veleggiando all'orizzonte come le ali di un gabbiano.

Lì, sola e in preda alle angosce, Ashlotte meditò sulla sua vita e sulle sue azioni.

Perché aveva intrapreso questo viaggio? Nemmeno aveva mai conosciuto Sebastian e Tevinias, anzi, era suo compito catturarli vivi fino a qualche giorno prima. Eppure, era come se...

Come se fosse destino.

La donna sorrise.

Poteva davvero esistere qualcosa del genere? Era già scritto da qualche parte che la sua vita da assassina sarebbe sfociata in un pellegrinaggio cieco e senza meta alla ricerca di un senso ultimo?

Oh, sì, perché l'aveva avvertita nettamente. Quella mistica sensazione di trascendenza proveniente dallo stregone, come una folata di vento notturno in una magica notte di luna piena. Era davvero così? Non erano altro che bambole messe in mano al destino e sballottate qua e là per capriccio divino?

In silenzio si alzò in piedi, inquieta. Uscì dalla tenda ed osservò assorta le lande desolate di Winterhold, sepolte nel ghiaccio e ricoperte di neve: vide in lontananza una manciata di sagome indistinte, forse in viaggio come lei.

In quell'atmosfera arcana ripensò ad una canzone della propria giovinezza, la sua preferita. Amava mormorarla sempre nel buio della notte, interrotta solo dal battito del proprio cuore.

 

E' un eroe, un'eroe dal cuore guerriero”

 

Ashlotte sorrise, rendendosi conto di come fosse un vero peccato dar voce a quelle parole solo nella sua mente. Così si guardò intorno e non vedendo nessuno intonò il suo canto.

 

Ascoltate, ascoltate, è il Sangue di Drago”

Il suono della Voce lo rende un Nord fiero”

Udite, udite...è il Sangue di Drago”

 

Come andava avanti? Il tempo aveva eroso quasi irrimediabilmente i ricordi d'infanzia di Ashlotte che si concentrò ripensando alle notti gelide di Falkreath, sola e in mezzo a persone davvero poco raccomandabili. Ci avrebbe messo degli anni per riconoscere in loro la parvenza di una vera famiglia.

Un'illuminazione improvvisa e Ashlotte mormorò a bassa voce:

 

Dei nemici di Skyrim il fato è segnato”

Attenti, attenti, è il Sangue di Drago”

 

- Rotta la tenebra, la leggenda è forte. -

Il cuore di Ashlotte ebbe un tuffo e la donna fu sicura le fosse salito in gola, dallo spavento che si era presa. Si voltò di scatto e vide Tevinias ad un metro di distanza, intento ad osservarla.

Era stato lui a parlare?

- Perché il Sangue di Drago – continuò lo stregone, sollevando gli occhi al cielo – non teme la morte. -

L'assassina di fronte a lui era senza parole.

Come faceva quell'uomo a conoscere le parole di quella canzone?

- Non c'è nulla di meglio di una bella canzone per sollevare lo spirito nei periodi difficili, non è così? -

Ashlotte annuì con un cenno della testa, incerta sul cosa dire a quell'uomo che in fondo le faceva ancora paura. Eppure non v'era traccia del mostro che aveva visto sulla nave in fiamme, qualche giorno prima: i suoi occhi non lasciavano trasparire quella terribile luce folle e la sua espressione era serafica, esausta, come quella di un vecchio appassito dal trascorrere del tempo.

- Come la conosci? Avevi detto di provenire da molto lontano. - chiese invece, sedendosi su una roccia e legandosi i capelli biondi formando un'elegante coda di cavallo.

- Ho passato talmente tanto tempo qui a Skyrim...è difficile che non sappia qualcosa di questa terra. – rispose Tevinias, con uno strano sguardo trasognato. Ashlotte non riuscì neanche lontanamente a immaginare la solitudine che quell'uomo doveva aver provato e d'improvviso lo stregone le fece un po' pena.

- … -

- ...ti va di parlarmene? -

Tevinias scrutò la donna con sospetto e questa si chiese se non erano state troppo avventate da parte sua quelle parole, soprattutto ripensando allo sguardo intriso di odio che l'uomo le aveva riservato appena qualche ora prima, dopo l'allucinante visione che era riuscita a rubare dalla sua mente.

Poi, lo stregone la sorprese per la prima e non ultima volta. Si sedette accanto a lei e disse una sola parola.

- Sì. -

Poi aggiunse:

- Sento che hai qualcosa da chiedere. -

- Che cos'era quel ricordo? Perché quelle persone bruciavano e la terra sprofondava nel baratro dell'abisso? -

Lo stregone sospirò, affondandosi il volto nelle mani. Ashlotte notò per la prima volta quanto fosse rigogliosa la sua barba e folte le sue basette, rese ancora più selvagge dall'incuria del lungo viaggio intrapreso.

- Quella che hai visto...era Arlathan, la terra natale degli elfi. -

- Non conosco nessuna Arlathan. -

- Perché non appartiene al vostro mondo. - rispose Tevinias e Ashlotte rimase senza fiato. Che cosa volevano dire quelle parole? Possibile che...

- Io vengo da un altro tempo, Ashlotte, perso a sua volta in un altro universo. Sono duecento anni che vago... -

- ...duecento cosa? - domandò la donna incredula, ripensando all'immagine di Tevinias che aveva intravisto sulla spiaggia, quella di un essere corroso dal tempo e abbandonato dagli dei.

Un abominio della natura, una violazione delle leggi naturali.

Poi comprese e fece un'altra domanda:

- Tu sei...immortale? -

- Credo proprio di sì. - rispose lo stregone, osservando la donna con noncuranza – il mio corpo invecchia come qualsiasi altro, ma senza mai spiccare il balzo nel baratro. E il mio spirito, beh...se ho ragione, sono imprigionato in questa vita forzata. O non vita, trai tu le tue conclusioni. -

- Ma... - biascicò Ashlotte, cercando di dare un senso a tutte quelle informazioni strampalate – perché mai qualcuno dovrebbe essere condannato a vivere così, in eterno? -

- Perché...ho commesso azioni terribili. E' questa è la mia punizione. -

Tevinias non aggiunse nulla e il silenzio cadde tra i due, rotto solo dal vociare del vento attorno a loro. Ashlotte era ancora assorta nei suoi pensieri, scioccata dal peso di quelle rivelazioni.

- Tu hai ucciso quella gente. -

Lo stregone non si voltò nemmeno verso di lei, mentre una lacrima solitaria gli scendeva lungo la guancia.

- Sì. -

- Perché? C'erano donne e bambini tra di loro. Come hai potuto fare tutto ciò? -

Tevinias non rispose ancora, scegliendo di rimanere in silenzio.

Ma non era che la punta dell'iceberg: Ashlotte ripensò alla visione che lui le aveva donato e comprese cosa realmente aveva fatto quell'uomo.

- Per Akatosh. -

Lo stregone la guardò interrogativamente.

- Eravate là per conquistarla. -

- La Città Nera. -

 

 

- Come l'hai capito? - sussurrò lo stregone, con un filo di voce. Dietro di lui una volpe solitaria avanzava furtiva, cercando di capire se valeva la pena oppure no cercare nel loro accampamento di fortuna qualcosa di cui cibarsi.

- Il ricordo di quella terra, Arlathan...era collegato a quello della Città Nera. Eravate là per invadere quel luogo, come avete fatto a quella povera gente. -

Le parole uscivano dalla bocca di Ashlotte come un fiume in piena. Era orripilata, disgustata quanto non mai: nemmeno la prima volta che aveva provato la sensazione di uccidere una persona era stato tanto brutto, quanto quello che ora sentiva nel cuore.

L'uomo davanti a lei era un mostro.

- E poi cos'è successo? -

- Mi sono ritrovato qui, in questa terra fredda e senza speranza – disse Tevinias, afferrando un tozzo di pane dalla borsa che portava a tracolla e gettandolo alla volpe, che lo accolse quasi con uno sguardo di sentiti ringraziamenti – solo e braccato. -

- Braccato? -

- Dalle ombre che abitano il mio cuore. - concluse Tevinias, poi si voltò e vide Sebastian in piedi dietro di lui, gli occhi arrossati dalla fatica e dal sonno. Lo stregone si domandò quanto avesse sentito della conversazione tra lui e la donna, ma si rese poi conto che non gli importava affatto. Il Creatore solo sapeva quanto avesse imparato a convivere con i suo sensi di colpa.

- Puoi ancora redimerti, Tevinias – disse Sebastian, poggiando una mano sulla spalla del compagno del viaggio – l'hai detto tu stesso, quando ci siamo incontrati. -

- Ma hai sentito cosa ha fatto... -

- E' passato tanto tempo. Ora è una persona diversa, lo so. - rispose Sebastian, rivolgendosi all'assassina dallo sguardo sconcertato. In quel momento provò una leggera fitta di insofferenza: come poteva parlare lei stessa, quando la sua anima era macchiata del sangue di innumerevoli innocenti? Ipocrita.

- Non lo sai, Sebastian. - rispose Tevinias e Ashlotte si rese conto che lo stregone le aveva rubato le parole di bocca. Sebastian non prese bene quest'ultima affermazione e scrollò per le spalle il suo compagno.

- Andiamo, Tevinias! Guarda che cosa hai fatto ultimamente, invece. Mi hai salvato la vita più di una volta! -

- Ho cercato anche di togliervela, involontariamente. O almeno, questo è quello che mi risulta. -

- E con questo? -

- E' solo che... - rispose Tevinias, cercando di nascondere un velo di vergogna nel suo sguardo – credo che saresti più al sicuro lontano da me. -

- Oh, non dire... -

Non ebbe modo di finire la frase. Sull'ultima parola Sebastian notò qualcosa muoversi dietro la donna e la sua mano corse al pugnale d'ebano che le aveva rubato sulla spiaggia.

- C'è qualcuno. -

- E' solo una volpe – disse Tevinias, voltandosi per scrutare con i suoi occhi la landa ghiacciata dietro le loro spalle – le ho lanciato un tozzo di... -

- No, non era una volpe. Mi è parso fosse qualcosa di più grosso. - sussurrò Sebastian, avanzando di qualche metro: dietro di lui Ashlotte scattò con un guizzo animale, allenata al pericolo e all'imprevisto.

- Sebastian... - fece Tevinias, per poi sfoggiare ai suoi amici una maschera di puro orrore.

Una densa coltre nera osservava i tre viaggiatori con occhi liquidi, protraendosi in oscure propaggini turbinanti e dalle volute disegnanti motivi incomprensibili. Stava rannicchiata sul ramo di un pino intirizzito dal freddo, avvolgendosi ad esso con un'infinità di filamenti che si estendevano dalla sua massa nera come i tentacoli di un polpo.

- SCAPPATE! - ruggì lo stregone, poi l'Ombra spiccò un balzo verso Sebastian come per divorarlo e l'uomo ebbe appena il tempo di spalancare la bocca dalla sorpresa.

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Capitolo 24
*** Zenit. ***


Sogno o son desto?

Stava accadendo tutto nella mia mente?

Furono le ultime parole alle quali riuscii a pensare fino ad un attimo prima che quella cosa, l'abominevole velo di pura oscurità che per giorni interi aveva terrorizzato i miei sonni, mi avvolgesse inghiottendomi nella sua notte senza fine. Cieche propaggini mi incatenarono nel buio e inutilmente cercai di scrollarmi, boccheggiando come un pesce fuor d'acqua.

Stavo per morire. La certezza di questo assoluto spezzò qualcosa dentro di me, senza tuttavia che soffrissi o mi disperassi dalla paura. Questa era la cosa più strana di tutte.

Era forse la voce di Tevinias, quella che udivo di sottofondo? Mi sforzai di capire, ma fu del tutto inutile: caddi, scaraventato in un abisso senza forma. Mentre prima la luce del giorno bagnava la mia pelle di tenui e smorti bagliori, attutiti dall'infuriare della bufera, ora c'era un nulla privo di spazio e tempo, fine soltanto a sé stesso.

Che diavolo, mi sarei aspettato una fine più dignitosa dal destino. Era un'ingiustizia morire così, senza neanche avere la possibilità di difendersi.

Eppure, potevo ancora pensare, concepire parole ed immagini. Ciò significava che non ero ancora morto, anche se non avvertivo più il mio corpo né lo spazio circostante. Laddove fino a poco prima c'erano i miei compagni di viaggio, ora anonime spirali di tenebra vorticavano convulse precludendomi una lucida visione dell'ambiente attorno a me.

Sogno o son desto?

- Lasciami andare. - mormorai, privo di labbra e con una voce di per sé inconsistente. Non mi sarei sorpreso nello scoprire che quell'intenzione di parole era rimasta semplicemente puro pensiero, destinato a rimanere esclusivo della mia mente.

Fu allora che la reclamai per la prima volta nella mia vita, con tutta la volontà che avevo in corpo e in ogni fibra del mio essere.

La libertà.

Volevo essere libero da quella paralisi, affermare la mia dignità e scuotermi fino a far tremare quella cortina nera attorno a me. Volevo gridare affinché anche l'ultimo uomo su Tamriel potesse sentirmi, fino a non avere più fiato in gola.

Gridare, fino a estinguere anche l'ultima scintilla della mia anima.

E così feci, ruggendo contro quell'Ombra imperturbabile dinnanzi a me: la guardai dritto in fronte, libero da ogni paura, e le rivoltai ribollendo di sdegno tutta la mia forza d'animo, la mia volontà di vivere.

E il Nulla ascoltò la mia rabbia, perplesso e sconcertato.

 

 

- SEBASTIAN! - ruggì Tevinias, terrorizzato dalla vista dell'Ombra davanti a lui. L'essere avvolse il suo compagno di viaggio nel giro di un attimo e lo sollevò a quasi un metro da terra, come una marionetta strattonata per i fili dal suo controllore. Vide gli occhi vacui e senza vita di Sebastian e accecato dalla rabbia accantonò ogni istinto di sopravvivenza, lanciandosi contro quell'abominio del Creato.

Se era la sua vita che l'essere voleva, l'avrebbe avuta. Sebastian non c'entrava nulla, era stata tutta colpa sua averlo trascinato in questa spirale di perdizione e mistero, alla ricerca di qualcosa...

...che non sarebbe mai arrivato.

Stava davvero per sacrificarsi, gettando al vento oltre duecento anni passati a nascondersi e sopravvivere. Solo la furia che lo invadeva era in grado di sopraffare quella profonda disperazione che taciturna abitava i più reconditi anfratti del suo animo.

- E' ME CHE VUOI! LASCIALO! -

L'Ombra vorticò su sé stessa, volgendo verso lo stregone ciò che più assomiglia ad una protuberanza provvista di volto: tagli orizzontali lungo la superficie liquida e nera si aprirono, mostrando opali di tonalità più scura e profonda. Gli occhi della creatura si riversarono in quelli di Tevinias, instillandogli la più terribile delle paure mai sperimentate dall'uomo e spegnendo in lui ogni accesso d'ira.

Poi, una lama scintillante fendette l'aria del giorno e trafisse in pieno l'essere di pura oscurità. Il coltello fuoriuscì dalla parte opposta del suo corpo senza consistenza o forma, andando a conficcarsi fino all'elsa nel tronco di un pino subito dietro.

L'Ombra ruggì, agitando i suoi filamenti tutto intorno a lei, affilati come lame: quando vide Ashlotte poco distante, ancora sulla difensiva dopo il lancio del suo pugnale, la riconobbe all'istante. E così fu per la donna.

Il ricordo di quel lago ghiacciato le tornò alla mente, insieme agli abeti e ai cedri morenti e in putredine, corrotti dall'oscurità morta cui era composto quell'essere. Sentì la paura afferrarle il cuore, ma si costrinse a non cedere e sfoderò un altro coltello.

- Lascialo andare!- urlò una voce che sembrava non essere la sua, mentre si preparava a lanciare la sua arma. Si chiese per un solo attimo che senso avesse rischiare la vita per un uomo che aveva conosciuto da neanche due giorni...

...e si ricordò poi come le avesse salvato la vita in due diverse occasioni, e di quanto la sua causa fosse diventata anche la sua.

Uno schianto secco echeggiò davanti a lei e brandelli di tenebra si separarono dal resto della creatura davanti alla potenza dell'urto dell'incantesimo improvvisato di Tevinias. L'aria compressa scalfì ben poco l'essere nel complesso, ma servì a distrarlo. Forse sarebbero riusciti a dividerlo da Sebastian, pensò lo stregone, concentrandosi e accumulando altra energia magica.

Poi accadde l'impensabile.

 

 

Sebastian.

L'uomo udì quella voce nel bel mezzo della notte e in tutta sincerità più che udire fu come se una carezza l'avesse fiorato all'improvviso, tiepida e leggera. Cercò di voltarsi, ma intorno a lui c'erano soltanto ombre, paure e angoscia, moltissima angoscia: se l'inferno esisteva davvero, Sebastian era certo che fosse quanto più simile a quello in cui era finito.

Sebastian.

E poi, vi fu la luce.

Un improvviso bagliore che rischiarò la notte, splendendo con la forza di mille soli.

Fu allora che l'uomo la vide per la prima volta.

Una mano tesa verso di lui, dai contorni come abbozzati da un bambino di quattro anni.

Prendi la mia mano.

Sebastian l'afferrò con tutte le sue forze, e da quel momento il suo mondo, la sua intera vita cambiò per sempre.

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Capitolo 25
*** Oltre il Velo,oltre il cuore. ***


Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.””

 

[Salvatore Quasimodo, “Acque e terre”, 1930]

 

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Fu il bagliore di un cero fatto risplendere nell'ombra più profonda, un improvviso raggio di sole nella coltre della notte. Un battesimo fatto nel fuoco e nella luce, vivido come il ricordo sepolto di quando si vede il mondo con occhi lucidi per la prima volta.

Fu l'esultanza di un attimo e Sebastian ne fu inebriato, lasciando che ogni fibra del suo animo ne fosse pervasa: sentì la sensazione ribollente del piombo fuso nelle vene e urlò in un estatico mix di gioia e dolore, tendendo all'inverosimile ogni muscolo ed ogni tendine del suo corpo.

E poi la Voce ritornò a parlare, il timbro possente come il rimbombo di un tuono poco distante. Al suono di quelle parole sembrò che il mondo dovesse rovesciarsi all'improvviso, come un calzino dismesso, e inabissarsi sotto la spuma del mare al pari di un cielo sotto l'oceano sconfinato.

Hai vissuto così a lungo nell'ombra di uomini più grandi e sicuri di te da restarne smarrito, Sebastian.

Ma è ora che sia tu a scrivere la Storia.

Accoglimi, e l'unico limite sarà dettato dalla tua immaginazione. Restituiremo la libertà ai popoli che la bramano, destituiremo i despoti e i tiranni che usurpano il potere affidatogli da coloro che ciecamente credevano in loro.

Alzati, Sebastian.

E' ora di andare.

 

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Sebastian aprì gli occhi di scatto e ruggì, lacerando a mani nude le nere propaggini che ora gli si avvolgevano attorno alla vita, lisce al tatto e da indecifrabili moti turbinanti lungo la superficie. La creatura che lo teneva prigioniero nei più reconditi anfratti della sua mente esitò, senza però lasciare la presa che aveva sull'uomo; poco distante, uno stregone corroso dal tempo e un'assassina logorata dall'incertezza e da mille dubbi osservavano la scena con occhi sgranati, senza che nessuna parola potesse riassumere ciò che stava capitando davanti a loro.

Lingue di fuoco bianco avvolgevano ora Sebastian danzando attorno a lui come dervisci aggraziati ed eleganti, celando tuttavia in sé una carica ultraterrena: l'aria sfrigolava al passare dell'uomo e al contatto dei suoi piedi il ghiaccio sublimava in fumose e vaporose volute spiraleggianti.

Ashlotte cercò con gli occhi il compagno, ma sentì morirgli il fiato in gola quando vide il biancore accecante che aveva preso il posto di sclera e iride nelle orbite di Sebastian. Di quale stregoneria era mai vittima?

Non stregoneria” disse una voce all'interno della sua testa “bensì d'una liberazione”.

 

 

Mi sentivo risplendere di una luce immensa, come se un frammento del sole stesso mi bruciasse nell'anima: strinsi con viva forza quella massa informe, talmente scura da dare l'impressione di non poterne intravedere il fondo all'interno e la strappai con un gesto secco, dettato dalla foga e dall'ira che avvertivo rimbombare possenti nel mio cuore, trasformato in un'incandescente massa che mi ardeva senza sosta all'interno del petto.

Fu allora che l'Ombra emise, ancora una volta, quel verso agghiacciante e stridente che poco tempo prima mi aveva privato del sonno per intere notti.

Tuttavia, stavolta non indietreggiai impaurito, né invocai l'aiuto degli idei davanti a quell'abisso di oscurità. Mi feci avanti, stringendo tanto forte i pugni da conficcarmi le unghie nei palmi delle mani, ora in preda ad un calore di viva fiamma. Sentivo ancora il freddo pungente dell'aria attorno a me unito al fresco della notte, ma in me sentivo distintamente ribollire un fuoco inestinguibile e per un attimo fui convinto che se solo lo avessi voluto sarei stato capace di ardere il mondo intero.

- Sebastian... -

Flebile come un soffio di vento, non capì mai a chi appartenesse quella voce, se a Tevinias o ad Ashlotte. Mi lanciai con uno scatto contro l'Ombra sollevando il braccio destro e tendendo le dita come artigli e questa si ripiegò su se stessa, incerta sul da farsi. Poi, un tentacolo nero come la notte fuoriuscì dal suo corpo e prima che potesse raggiungermi menai il colpo con il taglio della mano: grande fu la mia sorpresa quando lo vidi recidersi davanti ai miei occhi, ma soprattutto quando vidi

quella lucente aura bianca lungo il contorno della mia mano, sottile e affilata come la lama di una spada

e la creatura d'ombra indietreggiare davanti alla mia luce. Mi resi conto di risplendere letteralmente come mille lanterne all'interno di una stanza buia e i raggi da me scaturiti donavano alla superficie caotica e turbinante dell'essere una tonalità opaca, come un vetro sporco ricoperto da uno spesso strato di polvere.

E gliela lessi in quelle cavità che a guisa di essere umano sarebbero dovute essere gli occhi.

La paura più profonda, una sensazione nuova per chi ha sempre provato gusto nell'incuterla alle sue vittime.

Ora era L'Ombra ad avere paura di me, e non più io di lei.

 

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Ashlotte era semplicemente stupefatta, poiché mai aveva visto qualcosa del genere.

La cosa che più la lasciava interdetta era quel bagliore che traspariva all'improvviso da Sebastian e non semplicemente attraverso lui, bensì come se provenisse da sotto la sua stessa pelle.

L'uomo si mosse verso l'oscurità, lasciando dietro a sé l'impressione un alone luminoso, come un faro nella nebbia. Nulla in lui sembrava tradire paura o esitazione: nel giro di qualche secondo quell'uomo era divenuto l'incarnazione del coraggio, della

libertà dalla paura.

Ashlotte assaporò il significato di quell'espressione e la rivide appieno nell'uomo che ora aveva lacerato quel velo di tenebra in due, un'espressione impavida dipinta in volto.

- Arrivo, Sebastian. - sussurrò, estraendo il suo coltello d'ebano dalla fondina sullo stivale e scagliandolo con violenza contro la creatura trapassandola nuovamente da parte a parte. L'Ombra la fissò stillando odio da tutti i pori, quando un altro passo nella sua direzione di Sebastian le rimbombò in tutta l'essenza; la luce del Nord la trafisse e l'essere ruggì di dolore, scivolando di lato e assumendo una consistenza simile all'acqua.

L'Ombra serpeggiò tra la neve, diretta verso il precipizio poco distante dal nostro accampamento di fortuna: poi, con un scatto, si alzò in posizione eretta e prima di lanciarsi oltre l'orlo del baratro si voltò ad osservare Tevinias.

Lo stregone ne fu terrorizzato e cercò di combattere quella paralisi che stringeva il suo cuore, senza successo. Poi, vide con la coda dell'occhio quella luce angelica trasparire da Sebastian, ora fisso e a pochi metri di distanza da lui.

- Non lasciarglielo fare. -

- Non permettere che la paura ti controlli, Sebastian. Opponiti. -

- Sebastian, io... -

La creatura esitò, come incerta sul da farsi, quando il bagliore proveniente dal Nord e con esso quelle terribili lame di luce capaci di fendere anche l'oscurità più fitta la colpirono un'ennesima volta e, ruggendo nuovamente di dolore, si lasciò andare all'indietro svanendo nelle innumerevoli distese innevate di Skyrim e alla vista dei tre compagni, scossi e ancora turbati.

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Capitolo 26
*** Predestinazione. ***


Tevinias sollevò gli occhi al cielo, le lune oramai visibili in quell'oceano di stelle. Avrebbe tanto voluto salpare in quella direzione e perdersi nell'universo sconfinato, approdando di tanto in tanto al primo porto possibile...

- Sta ancora dormendo. -

Lo stregone annuì impercettibilmente, senza voltarsi verso quella donna così affascinante e meravigliosamente tormentata. Poteva quasi percepirne i turbamenti, i dubbi e le insicurezze, pungenti come l'odore agrodolce della vigna oramai matura.

Ashlotte si sedette accanto a lui, ma non troppo vicino. Sebbene quasi ogni barriera e timore fossero ormai scomparsi tra i due, il fuggevole ricordo di ciò che era accaduto sulla nave riaffiorava a sprazzi nella mente dell'assassina.

Ma ce la stava mettendo tutta, questo era sicuro. Tevinias era certo del fatto che qualcosa si stava pian piano spezzando nell'animo di lei, false sicurezze rafforzatesi negli anni e ora destinate a cadere rinsecchite come le foglie d'autunno, sospese dalla brezza del vento.

- Tevinias... -

- No. -

La donna lo guardò con aria interrogativa, rannicchiandosi nel confortante calore del proprio corpo. Faceva freddo, quella notte, e sebbene a Skyrim fosse una cosa normale quella era la gelata più intensa che Ashlotte avesse mai avvertito nelle ossa.

oppure era il ricordo di quella creatura, di quell'Ombra a farla rabbrividire così?

Ashlotte tremò sottilmente, per poi riprendere il controllo di se stessa.

- Non ho idea di che cosa sia accaduto a Sebastian. -

- Come puoi non saperlo? Dopotutto, tu sei... -

- Non importa ciò che sono - la interruppe nuovamente lo stregone, sospirando e vedendo il suo fiato cristallizzarsi ad un palmo dal suo naso – Sebastian ha fatto qualcosa...che non è neanche in mio potere compiere. Senza la luce dell'alba, senza la forza del Sole, non sarei mai riuscito a scacciare...quell'essere. E' da secoli che mi dà la caccia e mai sono riuscito a sconfiggerlo, né a ricacciarlo indietro. -

- Ma sulla spiaggia...tu non puoi morire. Perché allora scappi? -

- Ci sono cose ben peggiori della morte, assassina. - rispose Tevinias, guardandola negli occhi. Ad Ashlotte quello sguardo incuteva timore, sembrava che potesse scorgerle fin nei più reconditi anfratti della sua anima e questo la metteva parecchio a disagio.

Perfino quando lei stessa aveva soggezione di scrutare a fondo dentro di sé, l'idea che qualcun altro potesse leggerla meglio di un libro aperto la spaventava.

Era così difficile per tutti comprendersi, o era un destino riservato solo a lei?

- Non capisco. - ebbe il coraggio di ribattere la donna, dopo un lungo istante di silenzio. Aveva mietuto dozzine di vite nella sua vocazione di assassina e mai aveva conosciuto qualcosa di più spaventoso e terribile della paura di morire, il languido guizzo di un pesce agonizzante, il cavallo stramazzato sul suolo duro e aspro e ad un passo dall'oblio.

- E' nella natura di tutti gli esseri viventi avere paura – sussurrò lo stregone, allargando le braccia come a voler abbracciare quella distesa sconfinata davanti a lui fatta solamente di neve, ghiacci e roccia – il terrore dell'oblio ci pervade, ci rende ciechi, spingendoci a fare cose che mai penseremmo di fare normalmente. Eppure, vi sono destini ancora più crudeli: dopotutto la morte fa parte del ciclo naturale, nessuno può sfuggirle. E' giusto morire, per lasciare il posto a coloro che verranno. -

- Ma gli dei... -

- Anche loro moriranno. Un giorno. L'immortalità non esiste, Ashlotte, è solamente il protrarre molto a lungo un'esistenza vuota e vana. -

- Non hai risposto alla mia domanda. -

Tevinias lasciò scorrere qualche secondo, facendosi coraggio. Evidentemente quell'idea lo spaventava a morte e la donna non ebbe dubbi sul perché quell'uomo avesse passato gli ultimi duecentocinquanta anni a scappare.

- Credo che quell'ombra desideri il mio corpo, voglia vestirsi di me. Letteralmente. -

- Intendi...una possessione? -

- Sì, più o meno è lo stesso concetto che avete qui su Tamriel. Nel mio mondo - e qui lo stregone fece una pausa, lasciando trasparire un denso velo di nostalgia e tristezza – gli spiriti cercano i maghi per prenderne i corpi e vagare sulla terra, seminando caos e devastazione. Immagina cosa potrebbe fare quell'essere con la mia carne indosso, i miei sconfinati poteri... -

- E quindi è per questo che ti dà la caccia. -

- Già. -

Ashlotte rimase in silenzio, per poi trovare finalmente il coraggio di dirlo. Quello che pensava fin da quando aveva conosciuto lo stregone.

- Mettendo in pericolo chiunque è al tuo fianco. -

Tevinias non rispose, ma la donna aveva fatto breccia: era questa la sua più intima debolezza, il suo rimorso più grande. Lo stregone fissò con fare distaccato una volpe destreggiarsi tra i ghiacci poco lontano, il pelo candido e le orecchie appuntite adatte ad incorniciare un muso furbo e sfuggente. Avrebbe tanto voluto lasciarsi tutta quella maledetta sua storia alle spalle e scorrazzare indisturbato, come un animale selvaggio...

- Tevinias... -

- E va bene! - sbottò l'uomo, facendo spaventare a morte Ashlotte – se è quello che vuoi sentire, l'avrai. Chiunque viaggia con me è destinato a morire, o peggio. L'Ombra, il riflesso della corruzione che vidi in quella Città, mi dà la caccia e non esita a mietere chiunque sguaini la spada per me o si metta sulla sua strada. Ti stai pentendo di avermi seguito solo adesso? Tu non sai... -

- No. -

- No cosa? -

- Non mi sto pentendo di aver seguito te e Sebastian. -

Tevinias osservò la donna strabuzzando gli occhi, come se avesse davanti a lui un curioso esemplare di skeever balbuziente.

- Vorrai scherzare? Vuoi dirmi che l'assassina che ha cercato di uccidere me e Sebastian sulla nave... -

- Ero io, tuttavia non ero io allo stesso tempo. -

- Certo che dovresti farti proprio vedere, sai? -

Il silenzio cadde tra i due, interrotto solo dal ruggire del vento gelato tra le fronde dei pochi alberi solitari in quell'accampamento sperduto nel nulla. Sentirono anche lo sfrigolare della legna che ardeva senza sosta in quel salvifico e confortante fuoco alle loro spalle, ma non aveva importanza in quel momento. Lo presero come un dato di fatto senza soppesarne particolarmente la natura, come chi rapito dallo scrosciare dell'acqua di un fiume si fa trasportare nell'immaginazione dai flutti dimenticando tutto il mondo attorno a lui.

- Non ti piace la tua vita? - domandò Tevinias dopo un po',

- Non è che non mi piace, è che... -

- Ti domandi cosa ti rimane dopo anni passati a togliere vite alle persone. -

- Come fai a... -

- Hai ucciso talmente tante persone che il ricordo di ogni vita che si spezza ti è rimasto attaccato addosso, impedendoti di andare avanti. -

- Ma che... -

- Oh, non fare caso a me – proruppe Tevinias in una risata profonda – avevo un amico, molto tempo fa. Si sentiva proprio come ti senti tu, addirittura lo chiamò “il morbo del tagliagole” e da un giorno all'altro mollò tutto e tutti acquistando una nave. Salpò verso il Mare dei Fantasmi, diretto a Nord, e nessuno lo vide mai più su Tamriel. -

- Davvero? - domandò Ashlotte, ferita nell'animo da quelle parole così veritiere e taglienti – e non ti ha mai più cercato? Forse non era un vero amico. -

- Forse era stanco del mondo e del fardello che portava, almeno quanto lo sono io. - rispose Tevinias, e Ashlotte non trovò le parole adatte per controbattere quell'oscura profezia.

 

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Finalmente li aveva trovati.

Attraverso gli occhi di Jasper Gregorius scrutò l'accampamento dall'alto, volteggiando nell'aria fino a disegnare una progressione di archi discendenti grazie al piumaggio aerodinamico delle sue ali da corvo. Poi, ritraendo la propria coscienza da quella del famiglio, tornò nel suo corpo umano e valutò quanto ancora fosse distante dai fuggiaschi.

Una domanda però l'assillava: perché l'assassina era con loro? L'aveva fatta forse prigioniera?

- Non ha importanza, non ha importanza. L'unica cosa che conta è che li porti come miei prigionieri a Solitude, così da scagionarmi da tutte le accuse di tradimento e incastrare quel farabutto di Grigori. Capito, Angust? Questa volta non possiamo permetterci di fallire. - disse, accarezzando il morbido pelo del lupo che giaceva immobile come una statua al suo fianco: il suo secondo famiglio inclinò la testa e ululò rivolto versò la luna, un suono che il suo padrone adorava e temeva allo stesso tempo. Era il richiamo delle creature notturne, dei cacciatori che attendono la loro preda al varco.

L'uomo cominciò ad incamminarsi, mentre la sua manifestazione spirituale dalla forma di corvo si posava sulla sua spalla. A dividerlo dai tre viaggiatori c'erano sì e no trecento metri e stavolta li avrebbe catturati sul serio.

Fece per fare un altro passo, quando l'oscura consapevolezza dell'inutilità delle sue azioni gli affondò nel petto pesante come un maglio. Per cosa stava facendo tutto questo, per compiacere i suoi superiori ed avere una promozione sul campo? Oltre che per riscattarsi dalle infamanti accuse di un arrampicatore sociale come Grigori?

- Ma cosa mi resta se non quello che ho già? Questa è la mia vita, quella che ho scelto di portare avanti, non posso fare nulla per cambiare le cose. Il fato ormai è dettato... - sussurrò rivolto a nessuno in particolare, mentre i suoi passi sprofondavano nella profonda coltre di neve caduta la notte prima.

Con sempre meno motivazione e poco convinto delle ragioni per le sue azioni Gregorius avanzò ancora e ancora fino a lambire il dislivello della collina sulla cui sommità si erano accampati i suoi prigionieri, i viaggiatori del destino.

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Capitolo 27
*** L'Inquisizione. ***


Il suo prigioniero ero fuggito e di lui non v'era nessuna traccia. Grigori era furioso di come nessuno sembrasse averlo visto nemmeno di sfuggita: come poteva un uomo uscire dalla città di Solitude senza farsi notare?

- E' semplicemente ASSURDO. - ruggì l'uomo sprizzando rabbia da tutti i pori e urtando con violenza un boccale di vetro adagiato alla sua sinistra sul tavolo, mandandolo ad infrangersi sul pavimento. Si alzò istintivamente dal tavolo e a gran voce convocò immediatamente il sottoposto di guardia alla porta, il quale lo guardò con aria esterrefatta.

- Voglio che mobilitiate ogni soldato che abbiamo in città e negli avamposti vicino all'Hjallmarch e al Pale! - sbraitò, con quella che forse poteva apparire ad occhi esperti una vena di paura e paranoia negli occhi. L'uomo davanti a lui annuì e corse via, mentre la donna dalla pelle scura di nome Fran lo osservava con fare distaccato e attese pazientemente che non ci fosse nessuno nei paraggi, prima di proferire parola.

- E ora cosa hai intenzione di fare? Gregorius non si lascerà catturare facilmente. -

- Lo so, non c'è bisogno che tu me lo dica – rispose Grigori, velenoso – ma con almeno un terzo della Legione Imperiale alle spalle, non c'è pericolo che possa sfuggirci di nuovo. -

- Ma se Tullius sapesse che abbiamo distaccato un reggimento per un solo uomo, anziché sopprimere la rivolta dei Manto della... -

- Tullius non lo verrà a sapere, infatti. Ho la tua parola? Qua ci stiamo giocando molto più della carriera, Fran. -

La donna rimase interdetta per qualche secondo, perdendosi negli occhi bui e senz'anima di Grigori e si chiese fin dove quell'individuo potesse spingersi per soddisfare la propria brama di potere.

- Sarà fatto. Nessuno saprà... -

All'improvviso la porta si aprì di colpo e un soldato fece il suo ingresso nella stanza, trafelato in volto e praticamente senza fiato. A Grigori ritornò in mente un fastidiosissimo deja vù e seccato pregò i Nove che anche quell'uomo non fosse foriero di brutte notizie.

- Per quale motivo ci interrompi, soldato? Non vedi che questa è una riunione... -

- Comandante! - latrò il soldato e sembrava avesse esaurito le parole adatte per esprimere l'intensissima emozione che avvertiva nel profondo del petto, un misto di meraviglia e incredulità – è qui! La Cavalleria Corazzata al gran completo! -

Fran strabuzzò gli occhi, semplicemente scioccata, mentre il suo collega si limitò ad impallidire profondamente.

- ...cosa? -

- L'Ottava Divisione dell'Impero è appena approdata al porto! -

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- Solitude, eh? Non siamo un po' troppo lontani? -

- Ha ragione, signore. Ma gli altri porti ci erano purtroppo preclusi per ragioni politiche... -

- Capisco. - rispose l'elfo al suo comandante in seconda, più interessato alla cura di un risvolto della manica del suo lungo abito nero che alla conversazione. Una volta che ebbe sistemato il tutto si ritenne soddisfatto del suo aspetto specchiandosi nell'acqua del mare alle sue spalle, piatta come una tavola. Intorno a lui un gran baccano creato dallo sferragliare di armi, corazze e attrezzature segnalava lo sbarco di centinaia di uomini, tutti adornati dell'effigie rosso scarlatta dell'Impero.

Eppure, chiunque guardandoli non li avrebbe mai scambiati per dei normali soldati. Si narravano storie tra i soldati sulla Cavalleria Corazzata e l'Ottava Divisione da ancora prima che fosse stilato il Concordato Oro Bianco, dai primi tentativi di sperimentazione di un'unità nuova mista composta dai migliori della Legione: tra discussioni, incomprensioni e cavilli legislativi aveva infine visto la luce un'organizzazione nuova, protesa verso la perfezione bellica e la ricerca tecnologica.

Ciò nonostante, tutti loro conoscevano i membri della Divisione con un altro nome, conferitogli dopo anni di oscuri misfatti e sanguinosi sviluppi.

Gli Inquisitori avevano lasciato Cyrodiil, la capitale dell'Impero, per sbarcare a Solitude un giorno come tutti gli altri.

Non poteva per certo essere una visita di cortesia, e questo fu compreso all'unisono da tutti le persone che assistettero a quell'evento così fuori dal comune.

- Preparate subito i cavalli – parlò nuovamente l'elfo, scrutando lontano verso l'orizzonte – ne abbiamo di strada da fare. Se le informazioni in nostro possesso sono esatte, la nostra direzione è la rovina Dwemer conosciuta come Alftand. Non appena saremo lì voglio una quarantena istantanea e la zona dev'essere sigillata nel raggio di una lega almeno. Intesi? -

- Sissignore. -

- E tenete lontani quelli dell'Accademia di Winterhold dal sito. Non voglio intrusioni di nessuna natura. -

L'Inquisitore congedò con un cenno il suo corpo militare privato e questi si allontanarono, alla ricerca dei loro cavalli. Senza soste e spingendo i cavalli alla massima velocità sarebbero potuti giungere alle porte di Winterhold entro poco più di mezza giornata di dura marcia: notò l'efficienza delle sue truppe e i primi incursori della sezione esplorativa già lanciati verso le porte della città. Sarebbero stati i primi e si sarebbero tenuti costantemente in contatto con lui tramite piccioni viaggiatori.

L'elfo fece per salire in sella al cavallo più vicino, quando vide un uomo e una donna accorrere a gran velocità verso di lui. Sbuffò, pronto all'ennesima seccatura di quella giornata.

- Cosa significa tutto questo?! - ruggì l'uomo e Fenyarel, l'Inquisitore, notò che portava indosso lo stemma della Legione. Calcolò il numero di fiamme cremisi e dedusse che questi era un Comandante di media rilevanza, senza curarsene più di tanto.

- E così voi dovete essere Grigori, eh? - rispose l'elfo, squadrandolo dall'alto in basso – giù a Cyrodiil abbiamo ricevuto la vostra missiva. -

- Di cosa state parlando, per la miseria? -

- Mi riferisco alla vostra segnalazione su un luogo situato nella regione di Winterhold, una rovina nanica nota come Alftand. Siamo interessati a fare un sopralluogo il più in fretta possibile. -

- Per quale motivo?! - domandò la donna dalla pelle scura e Fenyarel rimase impassibile come il mare alle sue spalle, senza tradire alcuna emozione.

- Informazioni riservate. Per migliorare l'efficienza delle operazioni di terra assumo il comando di ogni singolo soldato della Legione presente in questa città, da qui a tempo indeterminato. Voglio inoltre che tutte le unità stanziate qui siano spostate al luogo interessato... -

- La smetta di dare ordini! - ruggì Grigori, avvicinandosi pericolosamente all'elfo ammantato di nero – chi sei tu per dare ordini a me? -

Fenyarel avanzò a sua volta fino a fronteggiare l'uomo, sovrastandolo di diversi centimetri: Grigori avvertì irradiarsi da lui una pericolosa aura di minaccia e provò improvvisamente una strana nota di paura nel cuore.

- Il mio nome è informazione riservata. Sono a capo dell'Ottava Divisione e abbiamo interesse nel presidiare le rovine di Alftand fino a che non ci riterremo soddisfatti. Rispondo solamente all'Imperatore in persona... -

- ...perciò ti suggerisco di farti da parte e avvisare tutti gli uomini sotto il comando che sono passati a me...proprio adesso. -

Grigori non trovò le parole giuste per ribattere e l'elfo lo batté sul tempo, voltandogli le spalle e salendo in sella al suo cavallo.

Fenyarel si lanciò al galoppo, intenzionato a quantomeno precedere di qualche ora il corpo esplorativo della Divisione. Amava arrivare per primo quando le cose cominciavano a farsi interessanti.

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Capitolo 28
*** Avviso ai naviganti lettori. ***


Buongiorno, miei cari lettori.

Amici miei, dico senza remore: tra chi condivide il meraviglioso legame che solo la scrittura e la lettura di un'opera sanno donare vi è un sottile gaudio, una segreta consapevolezza che solo l'amicizia riesce ad eguagliare.

Vi scrivo oggi per comunicarvi che dopo tanto tempo e moltissimi impegni la stesura di questa storia ha incontrato non pochi ostacoli e diverse ingiustizie da parte mia e non, dovute principalmente a tutte quelle attività che esigono la dedizione ed il tempo di un qualsiasi ragazzo ventenne. Il dispiacere è molto nel vedere che questa long fiction sarebbe potuta essere di più, molto di più, con la giusta attenzione e il tempo dovuto.

Per questo ho deciso di fare un reboot della stessa.

Redemption verrà qua e là riscritto, risteso ed editato così da rendergli maggiore giustizia, riparando ad un anno di impegni e trascorsi lontano da EFP e dal web. La storia originale resterà comunque qui, a disposizione di tutti coloro disposti a provare comunque il brivido di un'avventura nell'ignoto, un salto nel buio con la sola certezza di quella presenza che ogni volta ci conforta: la virtù dei suoi protagonisti, i loro vizi e l'intreccio delle loro vite.

Mi auguro vivamente che abbiate il desiderio di seguirmi in questa nuova avventura. Vi garantisco che le emozioni che avete provato (sempre che le abbiate provate come le ho provate io, amici miei) rimarranno le stesse, se non addirittura maggiori. E chi vivrà vedrà, come si suol dire.

A presto, miei cari lettori. Sebastian e Tevinias vi salutano momentaneamente, per fare ritorno fra qualche tempo più vispi che mai.

 

 

Davide

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