«All the stories are true»

di Fuck Duck
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Non un'altra volta. ***
Capitolo 3: *** Cosa porta la marea? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


SEBASTIAN POV

Il cielo era grigio e cupo, di una tonalità deprimente, che tendeva al grigio topo e contribuiva a rendere il luogo, già scuro e opprimente, ancora più soffocante. Tuttavia era un cielo terso e privo di nubi, che diffondeva la sua luce grigiastra su ogni cosa che gli occhi di Jonathan Morgenstern, o Sebastian, come ora si era autoproclamato, riuscivano a scorgere. Il freddo era paralizzante. Se non fosse per l’orgoglio che lo infiammava –e qualcosa di più profondo che gli scorreva nelle vene- probabilmente avrebbe iniziato a lamentarsi come un bambino. Ma Sebastian non poteva apparire debole adesso, nemmeno con sé stesso, non dopo aver subito una sconfitta simile. Al pensiero il ragazzo si appoggiò alla ringhiera di ferro, l’unica cosa che lo separava dal mare in tormento, e abbassò le palpebre. Una brezza gelida gli scompigliò i capelli argentei, quasi come la carezza di una mano paterna. Se chiudeva gli occhi, il ricordo era stampato a fuoco sulle palpebre: i capelli rossi, gli occhi color smeraldo, la spada in pugno, un vortice rosso che colpiva il ragazzo che amava e contemporaneamente gettava all’aria il piano di suo fratello, ovvero lui stesso. Allora aveva pensato di tenere Clary per sé, una volta portato a termine il tutto. Aveva creduto che se non altro col tempo sarebbe riuscito a catturare il suo affetto. Conosceva bene quel sentimento, perché suo padre l’aveva istruito per anni sulle emozioni umane, sapeva quanto era facile ed efficace sfruttare un sentimento come l’amore e quanto potere aveva sull’uomo, ma non l’aveva mai provato in prima persona. Tutto ciò che era in grado di provare era odio, rabbia e rancore, orgoglio, soddisfazione e furore. Ma non riusciva a provare nient’altro. Quello nei confronti di Clarissa era solo una smania di possedere, la sensazione che quella cosa era sua, e l’avrebbe riavuta. Se la sarebbe ripresa, di questo era certo. E poi…e poi lei avrebbe supplicato fino a lacerarsi le corde vocali per quello che lui le avrebbe inflitto. Far fuori quel biondino cotonato sarebbe stato il supplizio più facile da sopportare, forse sarebbe stato persino piacevole in confronto a ciò che aveva in serbo per lei. Sorrise e si allontanò dalla ringhiera. Il mare era agitato come non mai, nero e torbido. Una folata di vento quasi lo spazzò via. Il gelo si insinuò sotto gli abiti invernali e con suo disappunto lo fece rabbrividire. Il suo sguardo era dritto verso l’orizzonte. Sebastian si trovava a Wales, in Alaska, nella città più occidentale del continente americano. Era qui che le cartine dei planisferi si fermavano, prima di ricollegarsi al continente Russo nell’estremo opposto. Ma guardando in là per lo stretto di Bering Sebastian sapeva che, esattamente come Idris, c’era qualcosa che nessun planisfero segnava. Un continente che era in mezzo; a lui piaceva considerarlo come il confine del mondo. Nessuno Shadowhunter e men che mai nessun mondano era consapevole di un secondo triangolo delle Bermuda, ben più pericoloso di quello noto ai turisti e ai falsi avventurosi. Restò a guardare impaziente la distesa d’acqua che borbottava minacciosa, consapevole di non poter accelerare l’incontro con colui che l’aveva chiamato in quel posto desolato. Quando fu quasi totalmente spazientito, eccola arrivare, quasi da lontano, poi sempre più presente e più costante. Una musica ormai nota invase l’aria tutt’intorno a lui. Sembra quasi la sigla di una serie televisiva, incalzante e insistente. E poi eccola lì, la sagoma di un uomo, sempre più tangibile; una proiezione o qualcosa di simile. L’uomo era non troppo alto, con candidi capelli e un elegante abito bianco, una rosa bianca fuoriusciva dal taschino. L’unica nota stonata in quell’armonia di colori era il nero degli occhi, che ricopriva anche quella parte che normalmente sarebbe stata bianca.
«Whitelaw! Ma che piacere incontrarti, o quasi. Forse ora dovrei chiamarti “Presidente Snow”, preferisci? Certo che un cognome più originale potevi anche trovartelo» capitolò Sebastian con un ghigno, ponendosi davanti alla proiezione. La spiaggia era deserta, e non si udiva alcun rumore fatta eccezione per il rimbombare cupo delle onde.
«Jonathan Morgenstern, ringrazia l’amicizia che mi legava a tuo padre, perché è solo quella che mi consente di sopportare con tanta clemenza la tua insolenza!» ribattè indispettito il Presidente Snow, rosso in viso. Sebastian lo osservò un secondo prima di rispondere. «Non credo che tu sia nella posizione di lamentarti, vecchio. Devi ringraziare solo me per quella tua maledetta pellaccia! Fatto uccidere da una ragazzina, non riesco a credere che tu abbia perso tanti colpi, Whitelaw!». Sebastian avvertì la proiezione irrigidirsi e quasi gonfiarsi e arrossarsi ancor di più. Quando aveva conosciuto quell’uomo, anni prima, l’aveva visto solo di rado e sempre sottoforma di proiezione. Un ribelle, con gli stessi ideali e obbiettivi di Valentine Morgenstern, più debole e ugualmente ostinato. Ma non si potevano avere due capi; ben presto nacquero degli scontri. Gli era parso un uomo grintoso e ambizioso, desideroso di potere, avido. I dissapori si estinsero con una stretta di mano. Dopo aver scoperto quel luogo che oggi era chiamato Panem, totalmente distrutto dai demoni, il patto stretto tra Snow e suo padre era stato chiaro: il paese sarebbe stato per sempre nascosto alle cartine geografiche -mondane e non-, assoggettato alla guida e al controllo di un unico uomo: uno Shadowhunters, decaduto, un capo, rinato e potente. Quell’uomo aveva spezzato la discendenza del suo cognome, Whitelaw, che ora sopravviveva solo in linea femminile, modificandolo in “Snow”. In cambio Valentine avrebbe avuto la certezza che nessun altro rivale al di fuori del Conclave avrebbe ostacolato la sua ascesa al potere, e delle forze armate provenienti da Capitol City pronte al suo servizio per qualsiasi evenienza. Ma quando aveva scelto come propria sede quel territorio, c’era una cosa che Whitelaw non sapeva e Sebastian sì. Un territorio pericoloso, addormentato ma quanto mai letale.
«Ringraziarti?! Hai idea di ciò che quelle bestiacce hanno fatto al mio corpo? Hai idea di cosa ho dovuto passare per riavere qualcosa di solo lontanamente simile alla vita?! E ora, guardami, sono una specie di ibrido, mezzo mo..» si interruppe, rendendosi conto della persona che aveva di fronte. Sebastian serrò i pugni, ma prima che riuscisse ad aggredirlo l’uomo lo precedette: «Non importa, Jonathan. Ti ringrazio per questa possibilità. Riconquisterò Panem, ristabilirò l’ordine e Katniss Everdeen sarà eliminata, una volta e per tutte. Avremmo dovuto farlo tempo fa, ma Seneca Crane ha avuto troppa paura o troppo cuore. In entrambi i casi, è stata la rovina del mio sistema e io…».
La pazienza di Sebastian era agli sgoccioli, e il rumore costante e ripetitivo delle onde che si infrangevano sugli scogli sommato alle parole sprezzanti del decaduto Nephilim non avevano giovato all’umore del ragazzo. Quell’uomo era davvero peggiorato, rifletté Sebastian.
«Che cosa vuoi, Whitelaw? Non credo tu sia qui solo per parlarmi della tua tormentata esistenza» tagliò corto.
Snow rimase per un momento stordito dalla brusca interruzione, ma immediatamente si riscosse. «Sono qui per avvisarti, Morgenstern. Un gruppo di quei cosi, di quei demoni, cel’ha fatta. E’ arrivata a Capitol City. Erano in dieci; otto sono stati sedati, resi inoffensivi ed utilizzati come rifornimento per l’energia demoniaca che consente l’utilizzo di tutta la tecnologia di Panem. Ma due non sono stati ritrovati. Non credi che siano riusciti a trovarci, vero?» la faccia del presidente era impallidita come un cencio.
«E’ impossibile, Whitelaw. Tutti i demoni sono sotto il mio controllo» ribattè Sebastian, punto sul vivo. Quell’omuncolo dubitava del suo potere?
«Non ne dubito, fatto sta che dieci demoni sono stati ritrovati a Panem e questo non era nei patti» la proiezione vibrò «non ho più tempo; accertati dei termini del patto e fai in modo di rispettarli. Io rispetterò i miei: le forze di Panem schierate per te, nella tua battaglia per il potere» Snow chinò il capo e, mentre lo rialzava verso Sebastian, la proiezione svanì.
Il ragazzo si strinse nel cappotto pesante: possibile che Snow avesse ragione? Dei demoni erano davvero sfuggiti al suo controllo? Impossibile. Eppure, doveva essere per forza così. Anche perché l’alternativa era decisamente più preoccupante. Più pericolosa e distruttiva, ma, Sebastian ne era consapevole, di gran lunga più probabile.
Quel luogo da secoli addormentato, in profonda pace, quel luogo su cui Panem parassitava e si sviluppava sempre più si era davvero risvegliato? E se così fosse, sarebbe stato tanto distruttivo da disintegrare la Terra stessa?


 

Buongeorge a tutti voi! Questa è la mia prima fan fiction in assoluto, e spero che non stia venendo troppo, troppo male. Da ossessionata di libri e di saghe fantasy quale sono, non sono mai riuscita a rispondere alla domanda “se potessi scegliere un libro in cui vivere, quale sceglieresti?”. No, ragazzi, non vi so rispondere. E allora mi sono detta: perché diamine non potrei vivere in una realtà in cui tutto si fonde, in cui tutto è reale allo stesso tempo? Spero che questo prologo vi abbia incuriosito, perché ho già scritto il primo capitolo!
Ho avuto tante di quelle idee da impazzire, comunque mi sono divertita molto ad immaginare come si potrebbero incastrare tutte le saghe che amo. Mi farebbe piacere ricevere le vostre recensioni e i vostri pareri sulla storia, anche critche costruttive o consigli.
Ah, una piccola nota per i prossimi capitoli: ho cercato di riprendere la scrittura di ciascuno scrittore, a seconda della saga di cui parliamo. Spero che le parole siano in grado di trascinarvi nella storia e di farvela vivere, anche se non sono così sicura di essere riuscita nell’intento. Grazie per aver letto questo prologo e se avrete voglia di sapere come continua la storia: Buona lettura!
Prongs (è il mio soprannome, sì)


 

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Capitolo 2
*** Non un'altra volta. ***


Katniss POV
 

Il vecchio giubbino da caccia di mio padre pizzica. Non ricordo che l’abbia mai fatto prima. Ma forse è solo la mia pelle martoriata. Mi sforzo di non grattarmi, altrimenti mi si staccano interi pezzi e ho promesso a Peeta che non l’avrei più fatto. La recinzione attorno al Prato c’è ancora,priva di ogni tipo d’elettricità,ma c’è. E questo mi ricorda i vecchi tempi,prima che la mia vita venisse in qualche modo masticata e risputata in un grosso,spinoso groviglio. Prima. Quando aveva ancora senso andare a cacciare. Andare a cacciare con Gale, per sfamare la mia famiglia. Quando passo per lo squarcio nella recinzione mi sembra di poter sentire di nuovo quella sensazione. Quel brivido che mi attraversava quando sapevo che avrei passato una giornata simile con Gale. Per un attimo penso di poterlo raggiungere e cacciare insieme a lui un’altra volta, portare la cacciagione al Forno e farci qualcosa. Forse potremmo anche trovare qualche fragola per Madge. Poi il momento passa. Gale è lontano. Il Forno non esiste più. Non c’è nessuna famiglia da sfamare. Prim è morta. Mia madre ha abbastanza soldi da provvedere a sé stessa. Non c’è nessuna famiglia da sfamare. Respingo le lacrime. Il tempo di piangere è finito da un pezzo, e io sono rimasta indietro.
Tiro fuori arco e frecce dal tronco di un albero. Qualcuna è sopravvissuta. Ho paura a toccare quell’affare. All’inizio le mie dita tremano,sono giorni che lo fanno. Ai primi era terribile. Un attimo prima di colpire qualcosa,la preda assumeva davanti ai miei occhi le sembianze di  Rue,o di Prim,o di Finnick,o di Tresh...Quando la mia freccia uccideva l’animale le urla non avevano fine. Non fino a quando mi bruciava la gola e Peeta mi trovava accucciata contro un albero o un sasso, la testa fra le mani, porzioni di pelle lacerate. Ora va meglio. Riesco a tenere dritto l’arco e a guardare fisso la preda,che tende a trasformarsi sempre più raramente.
Sono arrivata dove gli alberi sono più fitti adesso. Ho lasciato dietro di me parecchie trappole nel caso qualche scoiattolo o qualche coniglio ci si infili dentro.
Ci so ancora fare. In pochi minuti abbatto non meno di tre animali e devo ancora controllare le trappole.
E poi un rumore mi fa rizzare i peli sulla pelle e non so perché.
«Peeta? Sei tu?» qualche volta viene a vedermi cacciare,nonostante gli abbia detto mille volte che per lui è pericoloso. A parte il fatto che mi fa scappare la selvaggina.
Però Peeta non risponde.
Sto cominciando a pensare di essermi immaginata tutto. Poi sento il rumore,di nuovo.
Molti piedi che corrono e poi Snap! Snap!. Qualcosa di molle si muove in mezzo agli alberi e questo non è normale. Sto pensando di correre. Ma sono abbastanza lucida per capire che è troppo tardi per correre. Quello Snap è troppo vicino. Troppo frequente. E’ un rumore frusciante, di qualcosa che viene trascinato… trascinato verso di me.
Estraggo una freccia dalla faretra ma non la incocco.
Ho lo stomaco contratto,ma perché? Non c’è nulla che io non conosca qui dentro.
E poi guardo in basso.
E’ accucciata sul suolo. Una creatura lunga, coperta di scaglie, con un grappolo di occhi neri al centro del cranio tondo. Una specie di incrocio tra un coccodrillo, un millepiedi e uno scorpione. Ha un muso tozzo e piatto e una coda uncinata che serpeggia minacciosamente da un lato all'altro.
Mi immobilizzo. Non mi ha visto.
Ma io ho visto lui.
La pelle brucia più che mai e un solo pensiero si fa strada nel mio cervello ardente: ibrido.
Ma non è possibile, non è possibile!
Non ci sono ibridi nel Prato. Gli ibridi sono in un solo posto. Gli ibridi non esistono. Gli ibridi vengono creati per i tributi, nell’arena, negli Hunger Games. Gli ibridi vengono creati dagli strateghi, per i tributi, per noi.
Improvvisamente il mondo inizia a girare. Il terreno scivola da sotto i miei piedi e inizio a capire.
Era tutta una allucinazione. Era tutto una finzione. Era tutta un’ilusione creata da Snow.
Sono ancora nell’Arena, devo esserci,per forza.
Sono ancora nell’Arena.
La paura non mi attanaglia le viscere. Credo non ci siano neanche più, le viscere.
Sono ancora nell’Arena.
Peeta.
E’ stato anche lui una finzione? Non importa,devo avvisarlo.
Tutto gira e io non ci vedo più. Non ci vedo più.
Sono ancora nell’Arena.
Faccio un passo.
E improvvisamente lui mi vede.
Qualcuno urla. No, sono io che urlo. E’ la cosa più stupida da fare, eppure lo faccio. Urlo.
Una serie di zampe si raccolgono sotto quell'essere mentre si prepara a scattare.
Voglio scappare, ma è troppo tardi per correre. Estraggo una freccia dalla faretra e cerco di posizionarla sulla corda dell’arco, ma invece di una sola corda ne vedo tre, ci riprovo ma non ci riesco. Non ci riesco. Non ci riesco.
Sono inerme. Aspetto il colpo, quando Peeta si precipita fuori dal folto. Urla il mio nome. La creatura si gira verso di lui, ma nemmeno lui la vede. Mi viene vicino e io alzo un dito. Quando vede l’essere sul suo volto c’è tutto quello che ho provato io.
La creatura è ancora là sbavante e disorientata.
-Peeta- sibilo.
Mi tiro su. Devo salvarlo. Ad ogni costo.
Cerco di capire se siamo nei 74° o nei 75° giochi, ma non ha importanza adesso.
-Corri!-   urlo –Corri!-
Lo allontano con un violento spintone e lui corre.
E poi mi giro, proprio nel momento in cui la creatura si lancia su di me.
Rotolo di lato lungo il tronco di un albero. E poi corro prima che quella cosa di rimetta in piedi.
Corro. Corro. E ormai sono al di là del terrore più puro.
Ma la bestia è più veloce di me e me la ritrovo davanti.
Afferro una freccia, che decido di usare a mo’ di coltello e in qualche modo riesco a conficcarla nella zampa della creatura. Questa fa un passo indietro e io fuggo, ancora.
Corro,tenendo stretto l’arco e la faretra, sbattendo contro alberi che appaiono dal nulla, inciampando mentre cerco di riacquistare l’equilibrio. Il mondo inizia a deformarsi, quando qualcosa mi viene incontro. Cado e sento un peso sopra di me. E’ lì, la bestia. Mi agito e cerco di scrollarmelo di dosso. Ma è troppo pesante. Troppo pesante. Sento un dolore lancinante allo sterno e non riesco più a respirare. Poi il terreno svanisce e, mentre precipito, perdo conoscenza.
 


 

Salve a tutti amici! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che la vostra curiosità sia cresciuta. Spero anche di essere riuscita a farvi perdere fra le parole perché è questo che io amo quando leggo una storia! Beh, fatemi sapere che cosa ne pensate perché, il prima possibile, arriverà anche un secondo capitolo! E speriamo anche un terzo, un quarto, un quinto.. grazie di aver continuato a leggere questa folle storia, apprezzo tutti i vostri consigli e anche critiche costruttive. (Scusate per la modesta lunghezza del capitolo)
Prongs

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Capitolo 3
*** Cosa porta la marea? ***


PERCY POV

Non pensate che non ci sia niente di più bello di svegliarsi con le ossa piegate in strane angolazioni e con il tuo migliore amico che ti sbava addosso? Beh, io credo di sì.
«Ah, Grover sposta la tua bava lontano da me!» Cercai di spintonarlo, ma non ci riuscii.
So cosa starete pensando. Cavolo, devo essere piuttosto flaccido per non riuscire a levarmi di dosso un ragazzo che dorme (sbavando sulla mia maglietta!). Ma , ehi, è molto più pesante di quello che sembra con quel suo culo peloso, gli zoccoli e tutto il resto.
Continuai a spingerlo per un po’, finchè lui non mugugnò qualcosa e aprì gli occhi.
«Nachos?»
«No, amico» gli risposi «Niente nachos».
Mi alzai stiracchiandomi le gambe. Io e Grover eravamo sul molo di fronte al mare, nel Campo Mezzosangue. La sera prima avevamo passato la sera con Annabeth, la mia ragazza, e qualche altro semidio del Campo a parlare e ridere e passare del tempo insieme. Cosa di cui avevamo bisogno, considerando il fatto che nemmeno sette giorni prima avevamo tutti rischiato di finire ridotti in pezzettini da un’enorme Titano che risponde al nome di Crono. Poi tutti se n’erano andati ed eravamo rimasti in tre, io, Annabeth e Grover. A quanto pareva anche Annabeth era andata via.
Osservai la macchia di saliva che Grover aveva lasciato sulla mia maglia arancione e sospirai.
Nel giro di pochi secondi la macchia svanì, come risucchiata da qualcosa di invisibile. Grazie a mio padre io non sono mai bagnato, anche dopo un tuffo nelle acqua più profonde. Fa schifo, eppure lui mi ha lasciato anche questo “potere”: il meraviglioso potere di asciugare la saliva. Mio padre, a proposito, è Poisedone. Le sa fare queste cose.
Mi girai verso Grover che si era appena alzato in piedi e mi guardava con aria assonnata.
«Che cosa ci facciamo qui? Dobbiamo andare al padiglione. Ho fame. Dov’è finita Annabeth? » disse tutto d’un fiato mentre si voltava per andare verso il padiglione centrale. E soprattutto verso la colazione. Io, quando il mio stomaco borbottò, lo seguii.
Il sole splendeva alto nel cielo. Ottimo. Sembrava che Zeus fosse di buon umore e questo era sempre un bene.
Passando in mezzo al campo notai che era molto più affollato. Gli dei stavano rispettando la loro parola: riconoscere tutti i loro figli mezzosangue…o quasi.
Nel padiglione, al tavolo riservato ai figli di Poseidone non vidi Tyson, il mio fratellastro ciclope, che al momento era occupato a guidare un gruppo di ciclopi operai per ricostruire nientepocodimenoche l’Olimpo. La cosa un po’ mi dispiacque, ma mi sedetti lo stesso. Non c’erano altri figli del dio del mare. Almeno, non ancora. Guardandomi intorno, cercai Annabeth con lo sguardo, preoccupato di non averla trovato affianco a me sul molo, ma non la trovai. Aggrottai le sopracciglia e udii un’inconfondibile risata di scherno provenire dal tavolo di Ares.
«Sta tranquillo, piccioncino, nessuno tel’ha rapita. E’con Chirone in armeria»
« Con Chirone? In armeria?» ripetei.
Okay, domande da idiota visto che lei me l’aveva appena detto, ma…ehi: ero agitato.
Decisi che non avevo più fame e lasciai Grover alla sua lattina.
Mi irritava il fatto che Chirone e Annabeth stessero parlando di qualcosa che io non sapevo. Forse era un po’ egoistico come comportamento, ma il tutto mi turbava. Mi resi conto che i piedi mi avevano riportato sul molo e nello scorgere il mare mi inchiodai di colpo. Era agitato. Turbolente onde lo percorrevano, mediamente alte e frequenti. E se il mare era in movimento, mio padre non era dell’umore giusto. Mi avvicinai alla riva, immergendo le scarpe in acqua, un po’ incerto. «Papà?».
Un’onda che doveva essere alta un metro e mezzo andò in risacca quasi a ridosso della riva e mi inzuppò dalla vita in giù.
No, decisamente qualcosa non andava. Con la mano destra sfiorai la tasca dei pantaloni e potei sentire il rigonfiamento provocato dalla mia micidiale penna a sfera, Vortice. Sì, ho una micidiale penna a sfera, è così. Provate a togliere il cappuccio e vi ritroverete in mano una micidiale spada di bronzo celeste. Anzi, ripensandoci, non fatelo mai.
Estrassi Vortice dalla tasca e la tenni in mano, senza aprirla ma pronto a farlo al minimo segnale di pericolo.
E poi WOOSH. Eccola ancora; un’altra onda mi bagnò dalla punta dei capelli a quella dei piedi, con l’unica sottile differenza che questa era alta per lo meno il doppio dell’altra. Tre metri di acqua mi si schiantarono in testa, e in quel momento seppi che se non fossi stato il figlio del dio del mare, sarei sicuramente stato trascinato sul fondo dell’oceano, senza alcuna speranza di salire in superficie. Ma, per fortuna, i miei piedi rimasero incollati al terreno e la potenza del colpo mi indusse solo a indietreggiare.
Rimasi totalmente scioccato. L’acqua non si ribellava mai a me. Provai a controllarla, come avevo già fatto in più occasioni. Sentii una potente stretta allo stomaco, tanto forte da togliermi il respiro, ma capii che era contro mio padre che cercavo di lottare. E nella mia vita da semidio, avevo imparato che semplicemente non puoi controllare l’acqua contro il volere del dio del mare.
Sdraiato sulla schiena con Vortice in pugno, bagnato, bagnato fradicio, invocai di nuovo mio padre.
Non mi aspettavo una risposta. E infatti tutto quello che mio padre mi mandò fu, con mia grande gioia, una terza onda. Un muro d’acqua alto quattro metri si abbattè con un boato da far battere i denti a tutto il Campo, ne ero sicuro.
Ma non fu quello a farmi saltare in piedi di colpo, e a togliere il cappuccio a Vortice. No, non fu l’onda alta quattro metri; fu la sagoma del ragazzo che ne spuntò fuori.
Man mano che l’acqua si andava ritirando potevo vederlo sempre meglio. Alto, atletico, con la pelle dorata, i capelli color bronzo e due occhi incredibili. Sembrava spaesato e si fece avanti riluttante, come se fosse arrivato su un pianeta alieno. Alzò quello sguardo verdemare su di me e notai che i suoi occhi sembravano, se possibile, ancor più oceanici dei miei. Okay, lo ammetto, nonostante la situazione assurda –non capita tutti i giorni di trovarsi davanti un ragazzo sputato dalla risacca- una fitta di invidia stritolò il mio stomaco. Andiamo, quel tipo sembrava una personificazione di non so quale statua greca… o un divo di Hollywood. Con degli occhi che mi inquietavano terribilmente. Uno da far crollare un intero manipolo di ragazze ai suoi piedi, insomma.
«Hey, laggiù! Chi sei? Qual è il tuo nome?» chiesi in tono diffidente.
Sì, grande. Complimenti, Percy, sicuramente ti risponderà. Domanda intelligente.
Avanzai di un passo e tenni la mia spada davanti a me, in posizione di attacco o di difesa, non lo capivo nemmeno io. Ma mi accorsi presto che lui era disarmato. Disarmato e ferito. Sembrava che fosse stato colpito ripetutamente: un graffio percorreva tutta la lunghezza del viso, senza riuscire però ad oscurare la bellezza -aye- di quel volto, e numerosi altri gli ricoprivano braccia e gambe.
Quando fece un passo verso di me, alzando le mani, capii che zoppicava. Per poco non cadde.
Quando si raddrizzò, con mia sorpresa mi rispose.
«Il mio nome…è Finnick Odair».



 

Saaalve gente! Ecco un altro capitolo di questo folle, folle crossover! Scusate se ci ho messo un po’ per aggiornare ma tra varie partenze e l’inizio delle vacanze è stato tutto un po’ un casino. Spero che questo capitolo (un po’ cortino) vi sia piaciuto! Mi fa sempre piacere sapere ciò che pensate, anche se si tratta di critiche costruttive!
Grazie di continuare a seguire questa piccola follia insieme a me,
Prongs

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