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di Patrice Walsh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Chapter I ***
Capitolo 3: *** Chapter II ***



Capitolo 1
*** Prologue ***




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PROLOGUE




 
Dublino, 17 novembre 2013
SERA

La pioggia iniziò a battere verso le sei del pomeriggio. Goccioline sempre più pesanti gli caddero sulle guance, a confondersi col sudore che scivolava e solcava la sua pelle: pallida, accentuata e rifinita nei piccoli dettagli del suo volto.
Aveva piccole fessure, Evan, lì al posto degli occhi, un naso importante e labbra sottili.
«Sei identico a tuo padre», osava ripetergli la madre ogni giorno, come a ricordargli quello che era stato un tempo.
Un tempo, nella vita di Evan Murray, corrisponde a quando aveva compiuto diciassette anni, tre anni prima.
Perse suo padre in quell’incidente; e la pioggia, come ora, batteva decisa, incessante, sulla carne, sul cuore.
Rincasò accelerando il passo: uno, due, uno, due.
La porta sbatté contro lo stipite in legno, dando spazio ad un rumore che si perse nel canto lamentoso del vento che, agonizzante, sfiorava gli infissi delle finestre.
Salì le scale a due a due, chiudendosi in camera in meno di un minuto.
Aveva la strana abilità di dileguarsi in un tempo non cronometrabile, motivo per cui sua madre aveva la possibilità di osservarlo solo la sera, quando crollava vittima del sonno.
Il primo ed ultimo bacio era riservato a suo figlio, in quel preciso istante della giornata, quando la notte inghiottiva anche l’ultimo briciolo di amore che era riservato ad Evan.
Era diventato così chiuso, distaccato, insofferente.
Amava star da solo, leggere di vite altrui e trascurare la propria.
Quando hai vent’anni dovresti esser in giro fino a tarda notte e far preoccupare tua madre perché non rincasi, non perché sei fin troppo dentro casa.
Come da routine si fece una doccia veloce, troppo anche solo per passare in rassegna tutti i pensieri che gli offuscavano la mente.
Si distese sotto le lenzuola fresche di bucato e cominciò a leggere.
“Se la musica è l'alimento dell'amore, seguitate a suonare, datemene senza risparmio, così che, ormai sazio, il mio appetito se ne ammali, e muoia.”
Sibilò ogni singola parola, schiudendo appena le labbra di qualche misero millimetro.
Shakespeare era il suo autore preferito ed aveva un ragionevole motivo per pensarlo: parlava d’amore. Amore per se stessi, per gli altri, per la musica, per la vita, con la consapevolezza che il tempo ha una sua scadenza e va vissuto appieno.
Era realista e ad Evan ciò affascinava quasi più delle parole stesse.
Quella quotidiana recita di versi si protrasse per circa un’ora quando decise di rimettersi in pari con la vita.
Navigò in rete, scrisse qualche breve verso su un foglio elettronico ed ascoltò musica. Musica che si diffuse dallo stereo alle sue spalle, tenendo il tempo al ritmo dei pensieri.
Non amava i social, a partire dalla parola stessa.
Lui non voleva socializzare con nessuno. Non ne aveva bisogno o, forse, questo era quel che gli serviva credere per continuare a sopravvivere.
Zero notifiche, una richiesta d’amicizia, novantanove persone online.









 
Note d'Autore: Questo piccolo prologo è stato scritto con l'aiuto di una persona a me cara, mia sorella: Hanna Lewis. Senza di lei, probabilmente, tutto ciò sarebbe restato chissà per quanto tempo ancora scritto sulle pagine elettroniche di un computer. La ringrazio infinitamente per esserci stata e per avermi resa orgogliosa, per la prima volta, di qualcosa di mio. Completamente editato e betato da lei, è un pò come se fosse il nostro libro, non solo il mio. Dedicato a te, piccolina.

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Capitolo 2
*** Chapter I ***




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CHAPTER I


 


Dublino, 17 novembre 2013
SERA
 
Zero notifiche, zero richieste d’amicizia, cento persone online.
 
“I can't believe the news today… I can't close my eyes and make it go away…”
Indietreggiò con la sedia girevole, facendo forza sulle braccia per slanciarsi verso lo stereo, ed alzò così tanto il volume della radio da far risuonare quella canzone all’interno delle quattro mura della propria stanza.
Era stato grazie agli U2 che Evan aveva desiderato di imparare a suonare il basso, qualche anno prima.
Suo padre, Shay Murray, gliel’aveva regalato in occasione del suo sedicesimo compleanno.
«A cosa ti servirà mai una chitarra?», gli aveva domandato l’uomo qualche settimana addietro, alzando le sopracciglia a tono quasi per incitarlo a rispondere.
«E’ un basso», aveva schiuso le labbra di qualche millimetro, mormorando quelle parole.
Non avevano mai avuto un bel rapporto; non da quando avevano cambiato città, causa trasferimento lavoro del padre, motivo per cui avevano continuato a rivolgersi la parola per necessità, evitando rigorosamente conversazioni di qualsiasi tipo.
Ma, nonostante la freddezza con cui era mutato quel rapporto, sentiva costantemente la sua mancanza: al mattino, al pomeriggio, alla sera.
Spesso amava stare in silenzio proprio per questo; credeva di poter udire ancora il respiro del padre contro la propria fronte, come quando era piccolo e, prima di rimboccargli le coperte, gli dava un bacio sul capo. Ed Evan rideva per quel contatto così intimo, così naturale, di cui non riusciva a far a meno. Era in momenti come questi, quando i pensieri riecheggiavano in mente e non vi era alcun modo di scacciarli, che ci pensava la musica.
Troppo alta per poter udire qualsiasi suono che provenisse dall’esterno della sua camera.
Troppo alta per poter anche solo formulare un pensiero coerente con lo stato d’animo in cui versava.
Prese nuovamente posto sulla sedia girevole, indossando gli occhiali da vista riposti nel comodino a sinistra della scrivania e guardando lo schermo luminoso dinanzi a sé.
Qualcuno, probabilmente inconsciamente, aveva avuto la strana idea di mandargli una richiesta d’amicizia che su un social è quanto di più falso possa esserci, pensava.
«Norah… Powell…», ripeté il nome della ragazza più volte, ma scosse il capo qualche attimo più tardi, non riconoscendolo. Poggiò la mano destra sul mouse e cliccò “conferma”, senza pensarci due volte.
Non ebbe modo di poter spulciare tra le foto della ragazza che sentì chiamare il proprio nome.
Capì che doveva essere sua madre, così si alzò e si diresse verso la porta, girando la chiave nel senso opposto e sporgendo il capo verso l’esterno.
«Evan, maledizione! E’ pronta la cena», esclamò la donna con le braccia conserte in fondo alle scale, scuotendo il capo e farfugliando chissà quali parole tra sé.
Il ragazzo scese qualche minuto dopo, sospirando ed apparecchiando la tavola come faceva di consuetudine ogni sera, da quando suo padre era venuto a mancare.
Fu difficile anche solo mangiare, o pensare di farlo, all’inizio, ma capirono, col tempo, che le loro vite dovevano andare avanti o più semplicemente essere vissute.
La signora Murray lo fece, per se stessa e per il bene del figlio che invece continuava a crogiolarsi nella solitudine e nell’odio verso se stesso ricordando, da allora, ancora il giorno dell’incidente.
«Hai compilato i moduli per l’università?», chiese lei, afferrando la mano sinistra del ragazzo, adagiata a lato del piatto.
Alzò il capo, Evan, ma non rispose. Si costrinse a scuotere il capo negativamente, piuttosto, volendo in quel modo darle una risposta.
«Hai vent’anni… devi provvedere a te stesso, Evan!», Sospirò, pronunciando quelle parole, eppure non l’accusò di nulla.
Rimasero in silenzio, lasciando che l’unico rumore presente nella stanza fosse provocato dal ticchettio delle forchette nei piatti, o dai bicchieri riposti sul tavolo dopo aver bevuto un sorso.
Era la routine, quella, ed Evan vi era abituato; era sempre stato così, da tre anni a questa parte. Loro mangiavano, si guardavano, commentavano persino le loro giornate, quando succedeva qualcosa di bello e, poi, tutto finiva. Ognuno per sé; Evan sparecchiava e molte delle volte intimava alla madre di salire in camera a riposarsi.
Era paziente con lei e lei lo era con lui.
Ellen, questo era il suo nome, sapeva di avere un figlio disturbato della società e dal corso degli eventi della vita che, qualche volta, non vanno come dovrebbero.
Qualche minuto più tardi, Evan richiuse anche la sua, di porta e, stanco, si spogliò dei vestiti, infilandosi a petto nudo sotto le coperte e respirandone il profumo.
Poi si lasciò cullare per qualche breve attimo dal silenzio che, dopo tanto tempo, non gli faceva più paura.





 
Londra, 17 novembre 2013
MATTINA

Norah Powell non era nessuno nella grande ed immensa Londra degli anni duemila; ma era qualcuno nel distretto in cui abitava.
L’East Ham era uno dei trentacinque maggiori centri della Grande Londra e lei, lei lì era qualcuno.
La prima delle tre figlie di un noto bancario londinese, conduceva una bella vita, forse fin troppo bella.
Non le mancava mai nulla, di materiale, eppure sentiva di esser destinata a qualcosa di più grande, di più vero.
Non riconosceva come propria quell’esistenza, e fu principalmente questo a spingerla ad iscriversi al King’s College per studiare medicina.
Lei voleva salvare gli altri, prendersi cura di loro, prima che di se stessa.
Quella mattina, più cupa e uggiosa del solito, decise di lasciarsi cullare dalle gocce che, incessanti, accarezzavano i vetri opachi della finestra, in camera sua.
La domenica mattina era il giorno che preferiva: i suoi genitori uscivano per far compere, portando con sé le sorelle minori di Norah e, in questo modo lei aveva tutto il tempo per godersi le attenzioni di cui necessitava.
Respirava a pieni polmoni l’aria salmastra proveniente dalla finestra, appena socchiusa, aprendo e chiudendo gli occhi con lentezza, come per prendere un primo contatto con la luce mattutina.
Si alzò poco dopo, indossando una vestaglia che goffamente stringeva sulla vita e, con i capelli ancora scompigliati, scese a fare colazione.
La domenica le piaceva anche per un altro motivo: non c’era la cameriera, per cui poteva preparare da sola la colazione che più desiderava, a base di latte e cereali.
Una volta terminato quel rito, risalì in camera, spogliandosi della biancheria ed infilandosi sotto la doccia.
Anche quello, come la colazione, era un lusso che poteva permettersi una volta a settimana perché a differenza degli altri giorni, in cui era costretta a sbrigarsi, la domenica poteva prendersi del tempo, anche solo per rischiarare i pensieri; e così fece.
Passò a rassegna l’intera settimana: la litigata con suo padre, l’incidente ai fornelli della domestica, il brutto voto in biologia della sorella Kate e il trenta all’esame di chimica che aveva preso quel lunedì, all’università.
E, se prima le si era formata una smorfia, al ricordo di quel successo scolastico sorrise compiaciuta di se stessa.
Era sempre stata caparbia, attiva, in qualsiasi cosa facesse.
Aveva sempre creduto che, migliorandosi, avrebbe migliorato gli altri.
Voleva diventare medico con l’unico scopo di curare e prendersi cura di chi realmente ne aveva bisogno, perché, della sua famiglia, se n’era già occupata abbastanza.
Quando uscì dal tepore della vasca da bagno, si strinse nelle spalle dall’impatto con la freddezza della propria stanza.
Zampettò fino alla finestra, forzando il pomello per richiuderla.
Sorrise con spontaneità nel notare alcuni bambini giocare nel cortile di una casa vicina; un attimo dopo, si rivestì dinanzi allo specchio.
Aveva lunghi capelli castani, Norah, e grandi occhi verdi, che cambiavano colore a seconda della luce riflessa che li colpiva.
Un corpo snello, asciutto, ma non privo di forme; il seno appena accennato e la pelle chiara come la luna, più bianca del bianco.
Le piaceva osservarsi, toccarsi; le piaceva cercare errori ed imprecisioni sul corpo, però non era capace di trovarne nessuno.
L’ego e l’orgoglio, almeno in parte, le erano stati utili per superare gli anni del liceo senza alcun intoppo. Si piaceva così com’era e piaceva agli altri per questo.
Una volta, su un libro di letteratura, ebbe modo di leggere una citazione di Leopardi, di cui fece tesoro.
“L'impressione di piacere”, recitava l’autore, “può rimanere tale fino a quando non si è certi di piacere soprattutto a se stessi.”
Una filosofia di vita che adottò come propria. Era questo, essenzialmente, il motivo per cui amava la letteratura tanto quanto la medicina. Perché, sebbene l’ultima salvasse gli altri, la prima salvava sempre e comunque se stessi.
Un altro momento della domenica che preferiva era la sera.
Nonostante i suoi facessero ritorno nel pomeriggio, riusciva in ogni caso a ritagliarsi qualche ora dopo la cena.
Indossò con nonchalance gli occhiali da vista, tanto grandi da coprirle due quinti del volto, ed iniziò a leggere un libro dopo l’altro, tenendo le gambe ferme in posizione orizzontale per non far traballare il computer adagiato su di esse.
Digitò qualche citazione al computer, per poterle rileggere nel tempo, e, nel mentre, contattò qualche compagno di corso per organizzare una serata prevista per il venerdì sera della settimana entrante.
«Andrò al concerto di mio cugino Mitch. Suona in un locale appena fuori Londra. Ti va di venire?», le chiese Collin.
Norah digitò velocemente la risposta, sbadigliando apertamente.
«Certo… Mitch… Mitch… Lo conosco?», domandò.
«Non credo. Vive a Dublino e viene con la sua band per il fine settimana», rispose. «Lui e Evan, il suo migliore amico, si fermeranno in città qualche altro giorno. Puoi aggiungerli se vuoi», aggiunse il ragazzo.
Cliccò sui link esterni che Collin le passò ed aggiunse dapprima Mitch, distrattamente, non facendo molto caso al ragazzo in sé.
Fu poi la volta di Evan. Sorrise ingenuamente, per un motivo ancora poco chiaro, persino a se stessa.
«E’ carino!», constatò, ridacchiando.
«Se lo dici tu… Ma stai attenta. E’ un tipo… particolare», ribatté l’amico.
«Particolarità è sinonimo di unicità», mugugnò tra sé, sibilando nel mentre quelle parole.
«Ora stacco, Col! A domani.» Mise in stand-by il computer, sporgendosi stancamente verso il comodino, sul quale l’adagiò.
Sfilò gli occhiali, infine, e si rannicchiò contro il cuscino, stringendolo convulsivamente. Aprì e chiuse gli occhi più volte, stavolta, per abituarsi al buio presente in camera, schiudendo le labbra per respirare.
«Particolare…», sibilò, abbozzando un sorriso sbilenco.
Si rigirò tra le lenzuola fresche di bucato, abbandonandosi al sonno solo dopo qualche minuto.











Note d'Autore: Salve a tutti! Finalmente, dopo quasi due settimane, ho aggiornato con un nuovo capitolo, il primo per l'esattezza. Come sempre è stato betato e corretto da Hanna Lewis che, per chi non lo sapesse, è mia sorella.
Vi ringrazio infinitamente per il sostegno che mi avete dato in ognuna delle vostre recensioni al Prologo. Voleva essere una sfida verso me stessa, per capire fino a che punto sarei riuscita a spingermi con l'introspezione.
Ad ogni modo, spero restiate soddisfatti del risultato. Il percorso è lungo ma sono sicura che con la dedizione e con il vostro supporto, potrò fare tanto e scrivere tanto.
A presto, cari lettori.


Patrice Walsh

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Capitolo 3
*** Chapter II ***




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CHAPTER II





Londra, 22 novembre 2013
MATTINA

 
«Norah!» Si sentì chiamare e girò il busto all’indietro, sorridendo nel vedere Collin.
«Accipicchia! Da quant’è che corri?», domandò, aggrottando lievemente le sopracciglia e poggiando una mano sulla spalla sinistra del ragazzo.
«Ti seguo da un po’.» Sorrise, ricomponendosi. «Ti cercavo per confermare l’uscita di stasera, ricordi? Mio cugino Mitch sarà con la sua band in città. Suonano al Dublin Castle, a Parkway Street.»
Alzò le sopracciglia, annuendo alle sue parole. «Oh, giusto… Mh, con Evan, vero…?», chiese conferma all’amico.
«Vero! Allora… ci vediamo lì», aggiunse, sporgendosi oltre la ragazza e facendo un cenno con la mano ad un amico. «Ci conto!». Detto ciò, si dileguò.
Indietreggiò, allungando le labbra in un sorriso impacciato ed urtando una ragazza.
«Sta’ attento!», gli sussurrò Norah, ridacchiando per quanto era goffo.
Scosse infine il capo tra sé e sé, raggiungendo l’aula di biologia.
L’ora tenuta dal professore Jones sembrò durare in eterno e, nonostante avesse un esame di lì a poco, non fece altro che pensare alla serata che l’attendeva, quel pomeriggio, sul tardi.
Sì, perché da quando aveva iniziato l’università, Norah non si era ancora concessa un’uscita. Aveva preferito ambientarsi e dar sfoggio della voglia di studiare.
Voleva diventare qualcuno e lasciarsi scivolare da dosso quel cognome che, nel contesto in cui era cresciuta, rappresentava una garanzia. Suo padre, alla sua età, aveva studiato con impegno e dedizione per diventare quel qualcuno che desiderava tanto essere. Fu ad un corso di legge ad Oxford che fece la conoscenza di quella che divenne la signora Powell.
Sarah, questo il nome della donna, crebbe le proprie figlie a suon di decreti costituzionali, infondendo loro quella stessa voglia e dedizione che, col marito, si era prefissata di imporre. Norah, la prima figlia, fu senz’altro una sorpresa per i coniugi Powell che, invece, non poterono dire lo stesso delle figlie minori, Sophia e Samantha. Difatti, quest’ultime, erano propriamente estranee ai discorsi che si affrontavano alla sera, quando la famiglia si riuniva a cena.
Norah era ambiziosa, al contrario delle sorelle, che avevano come unico cruccio quello di non saper quale vestito scegliere per il ballo della scuola o, peggio – a detta del signor Powell – da quale ragazzo farsi accompagnare.
Fu essenzialmente quello il motivo che spinse Tom Powell a seguire la figlia maggiore con più attenzione, nello studio e non. E, come di conseguenza, arrivò il momento in cui Norah non seppe reggere la pressione e sbottò. Era agosto, quando parlò a tu per tu col padre, nel suo ufficio.
«Voglio studiare medicina», aveva sibilato convinta delle proprie parole, sfidando lo sguardo del padre. L’uomo, oramai sulla sessantina, aveva fatto ricadere le lenti da vista sulla punta del naso, sbarrando lo sguardo in direzione della figlia. «Come scusa?», aveva domandato, per esserne certo.
«Voglio studiare medicina e non legge, come te e la mamma.» Aveva contratto le labbra a quelle parole, sentendo di averli delusi, se così poteva definirsi quel cambio di rotta. «Voglio aiutare le persone», aveva provato a giustificarsi, notando lo sguardo assente del padre, come fosse perso nei meandri di qualche remoto ricordo. «… Lo so che non siete d’accordo ma…» Aveva intrecciato le mani, gesticolando come suo solito dal nervosismo e guadagnandosi un sorriso beffardo del padre.
«Va bene», aveva aggiunto il signor Powell, alzandosi e raggiungendola in fondo alla porta. «Se è quello che vuoi… va bene.»
Ne rimase allibita, Norah, allungando conseguenzialmente le labbra in un sorriso genuino e gettando le braccia al collo dell’uomo.
«Grazie! Grazie! Grazie!», aveva esclamato sul colletto della camicia, che aveva macchiato di lucidalabbra. Era quel ricordo che, il più delle volte, le attanagliava la mente.
Se l’aveva deluso per non aver scelto la facoltà alla quale era iscritta fin dalla nascita, non voleva di certo far rammaricare i suoi genitori per il mancato impegno nello studio. Medicina era difficile, ma alla portata della caparbietà di Norah.
Aveva, dall’inizio del semestre, già dato un esame con grande successo, a detta del docente.
Ben presto, l’ora del professor Jones terminò e poté far ritorno a casa; il tempo di uno spuntino veloce, preparato da Marlene, la cameriera, che fece ritorno in camera, dove vi rimase segregata sino alle sette, quando fece buio.
Inviò un messaggio a Collin prima di entrare in doccia, per avvisarlo del ritardo a cui, inevitabilmente, sarebbe andata incontro.
Ne uscì dieci minuti dopo, lasciando cadere i lunghi capelli sulle spalle e asciugandosi repentinamente il corpo. Indossò un vestito corto alle ginocchia ed un cappottino, lasciato aperto sul davanti.
«Non bere, non fumare e torna a casa per le undici, intesi?», raccomandò Tom, dandole un bacio sulla fronte. Sbuffò, Norah, facendo roteare gli occhi con fare impaziente. «E non baciare gli sconosciuti», aggiunse il signor Powell, guadagnandosi un’occhiataccia dalla moglie.
«Libertà!», ridacchiò tra sé ingenuamente, avviandosi a passo svelto verso il locale menzionatogli da Collin, stringendo la tracolla convulsamente nella mano destra. Arrivò nel giro di qualche minuto, riconoscendo l’amico di spalle, dinanzi al palco allestito per la serata.
«Ehi, Norah!» L’accolse in un abbraccio, tenendo in una mano una bottiglia di birra. «Ti presento Jessica e Ben, sono qui come te, per ascoltare Mitch e gli altri», aggiunse, facendole posto in piedi tra la gente, accalcata l’una addosso all’altra.
«Oh, piacere.» Sorrise, buttando un occhio al palco. «Sono in tempo?», domandò, notando sporgersi alcuni ragazzi da dietro le quinte.
«Sì, Mitch e gli altri suonano tra qualche istante», le sussurrò all’orecchio, poggiando la mano libera con fare tutt’altro che amichevole sul fianco della ragazza.
«Ti porto da bere?» Poggiò le labbra sul bordo della bottiglia di birra, mandandone giù pesantemente.
«No!», squittì per farsi sentire, guardandosi intorno come per trovare un modo di dileguarsi dalla presa dell’amico.
«Vado un attimo al bagno, torno… subito.» Tirò un sospiro di sollievo, dirigendosi a destra del palco, in cerca della toilette.
«Ahi!» Inciampò distrattamente sul corpo di un tizio inginocchiato a terra.
«Attenta!», mormorò con voce roca lui, continuando ad estrarre dalla custodia lo strumento. Norah si ricompose, squadrandolo da capo a piedi una volta ritrovatoselo dinanzi.
«Io, ehm… cercavo il bagno», rise nervosamente, gesticolando goffamente per quella situazione.
Il ragazzo la guardò impassibile, prestando ben poca attenzione alle parole della ragazza e voltandosi ripetutamente indietro.
«Te l’ho forse chiesto?», sibilò, guardandola poi negli occhi verdi.
«No, ma… scusami», si preoccupò di dirgli, vedendolo ritornare dietro le quinte. «Deficiente!», mormorò poi tra sé e sé, raggiungendo il bagno. Si specchiò, sistemandosi dietro l’orecchio qualche ciuffo ribelle che le cadde sul volto e controllando eventuali sbavature di lucidalabbra.
Poco dopo fece ritorno nel locale, scorgendo a fatica Collin, perso tra la folla.
Le luci si spensero prima che potesse dir qualcosa. Sentì solo le urla della gente che, euforica, incitava il prossimo gruppo a salire sul palco.










Note d'Autore: Finalmente ci sono riuscita, ho aggiornato! Questo era quasi un POV di Norah, per permettere a tutti voi di conoscerla meglio. E' la protagonista femminile, per cui, ha grande rilevanza nella storia, come nel rapporto con Evan. Come sempre la storia è stata betata da mia sorella,
Hanna Lewis, che non ringrazierò mai abbastanza per quanto mi sia stata d'aiuto e mi abbia supportata.
Vi ringrazio infinitamente per le recensioni che avete lasciato e, spero in questo modo, di avere tanti altri consensi al capitolo.
Un abbraccio a tutti.

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