E finalmente, ora, faccio parte della vita

di Honodetsu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 6 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** 28 ***
Capitolo 29: *** 29 ***
Capitolo 30: *** 30 ***
Capitolo 31: *** 31 ***
Capitolo 32: *** 32 ***
Capitolo 33: *** 33 ***
Capitolo 34: *** 34 ***
Capitolo 35: *** 35 ***
Capitolo 36: *** 36 ***
Capitolo 37: *** 37 ***
Capitolo 38: *** 38 ***
Capitolo 39: *** 39 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Fantastico...

Un ragazzo, da un buffo ciuffo che gli sbucava da sotto il cappello, girava tra le vie di una Madrid bianca. Faceva molto freddo, il ramato si strinse nelle spalle.

Perché doveva accadere proprio adesso?

Sospirò, ed un alone di vapore gli si formò davanti. Si fermò in mezzo a quel via vai di persone.

E pensare che aveva abbandonato l'Italia per gli studi. Era andato all'estero per dimostrare che anche lui valeva qualcosa e sembrava, in un primo momento, che ci stesse anche riuscendo. Romano strinse le mani sui manici delle valige e rimase in silenzio a fissare il marciapiede innevato. La gente che passava continuava a finirgli addosso, ma lui la ignorò completamente. Era arrivato al quinto anno di università, l'ultimo, gli sarebbe mancato un ultimo esame e sarebbe riuscito a guadagnarsi il dottorato in chimica.

Già, il sogno di una vita, il desiderio, sfumato con solo tre parole.

Fuori di qui...

Ripensarle gli fece crescere una forte irritazione. Il proprietario del suo vecchio appartamento lo aveva cacciato. Romano sbuffò per il fastidio. Era difficile da mandar giù. Ed adesso? Che doveva fare? Solo l'idea di dover ripresentarsi, dopo cinque anni di assoluto silenzio, a casa dei suoi lo faceva star male.

Tornare in Italia sarebbe stato come un atto di egoismo. Si morse un labbro e guardò la vetrina di un negozio. A breve si sarebbe avvicinato natale. Guardò le lucine come ipnotizzato.

L'ennesimo natale passato da solo.

All'improvviso, qualcuno, lo distolse dalle sue riflessioni. Gli finì adosso, cadendo e portandosi dietro anche Romano.

-”Ah! Dannazione! Ma guarda dove vai!”-fece irritato l'italiano.

-”Ma sentilo!”-fece l'altro-”Che cavolo fai fermo in mezzo al marciapiede?”-

Romano lo guardò infastidito. Il ragazzo raccolse in tutta fratta il capello che, nella caduta, gli si era sfilato, mostrando i ricci neri. In qualche modo l'italiano rimase sorpreso dal verde intenso dei suoi occhi, ma in quel momento era troppo arrabbiato.

L'altro si alzò in piedi e guardò l'orizzonte preoccupato. Romano si chiese che stesse cercando. Si alzò anche lui e si ripulì il capotto. Adesso che faceva, lo ignorava?

Gli occhi del riccio sembravano aver trovato quello che cercavano, poiché si spalancarono.

-”Scusa...!”-fece posandogli una mano sulla spalla senza staccare gli occhi dalla sua eventuale “preda”. Romano lo guardò allucinato.

-”Ma cosa...?”-

Troppo tardi, era già ripartito. Scomparì tra la calca di persone.

Ma guarda tu che tipo...

Rimase per qualche secondo a guardare la folla di gente che camminava tranquilla. Si girò stizzito. Ma che gli importava? Aveva ben altro a cui pensare. Per esempio, trovarsi un posto dove passare la notte.

Ed intanto si era già fatta sera.

Ricominciò a vagare per le strade senza sapere dove andare. La depressione più totale lo aveva invaso. Dunque tutti i suoi sforzi per apparire migliore erano stati vani?

Arrivò in un parchetto buio. Si sedette su l'unica panchina illuminata dalla luce di un lampione.

Aveva abbandonato la sua città natale solo cinque anni fa. Così pochi per rimostrarsi a casa ma, ugualmente, tanti. Troppi.

Ormai tra lui e la sua famiglia si era formato un muro. Una barriera che, sia lui che i suoi famigliari, avevano costruito insieme. Un muro invisibile, che gli permetteva di guardarsi ogni tanto e, perciò di litigare. Ma anche se invisibile, un muro, pur sempre c'era. E lui, di certo, non voleva abbatterlo.

Guardò con occhi stanchi la neve sotto i suoi piedi.

Era da tutto il giorno che stava cercando un appartamento, ma nulla. Chiuse gli occhi. Non voleva passare un'altra notte in mezzo alla strada.

Li riaprì con depressione. Come avrebbe voluto nascere ricco. Di certo non avrebbe avuto tutti quei problemi. Tanto per cominciare avrebbe potuto pagare l'affitto con puntualità e, perciò, non sarebbe mai stato cacciato. Ma ora che ci pensava, se fosse nato ricco, di certo non sarebbe andato all'estero e non avrebbe preso una casa in affitto in uno schifosissimo quartiere.

Sospirò, stufo di quella vita. Di quel continuo studiare, lavorare, pagare. Lavorava in un bar, era un part-time. Odiava dover servire ai tavoli. Odiava dover sorridere ed essere gentile se la vita gli andava uno schifo. Si portò le mani alla testa esasperato, incapace di trovare una soluzione al suo problema.
L'unica soluzione era tornare in Italia. Si morse un labbro.

Per qualche insolito destino infame il suo sguardo si posò su quel lampione, che ormai da ore, aveva la suo fianco ad illuminargli la panchina.

Non fu il lampione, di per sé, a farlo sospirare ironico ed infastidito, quanto quel foglietto che ballava a tempo con gli spifferi gelidi del vento.

Si alzò come punto da una vespa e guardò inorridito quel foglietto.
"AFFITASI", gridava a caratteri cubitali . Una rabbia crescente lo invase.

-”Tu, dannato...”-farfugliò posando una mano sul lampione e guardando con odio quel foglietto-”Da quanto stavi lì, in silenzio, a deridermi?”-

Lesse con attenzione mentre il cuore gli batteva all'impazzata. A quanto sembrava l'appartamento aveva ben cinque stanze e costava anche poco. Lo guardò insospettito. C'era la fregatura, vero?

Continuò a leggere, ed un sorriso amaro gli si delineò sul volto.

C'è già un inquilino... Dovrei dividerla con un tizio che non conosco?

Tutta l'emozione e l'incredulità si poco prima, scomparve. Sbuffò, facendo svolazzare una ciocca. Continuò a leggere moggio.

Chiamare il numero...

Sbuffò ancora nel vedere che, già, dei bigliettini con il numero di telefono erano stati presi. Si portò una mano sul mento. Che doveva fare?

Certo l'idea di dividere la stanza con qualcuno non lo entusiasmava molto ma, in fondo, era una cosa temporanea, no?

Finiva gli studi, si trovava un lavoro decente e tanti cari saluti. Tanto di offerte di lavoro, nel capo della chimica, ne aveva ricevute moltissime in quegli anni. Sarebbe stato facile, almeno sperava, trovarlo dopo l'università, dopo gli studi.

Guardò ancora quel foglietto. Un appartamento gli serviva. Doveva averlo. Si morse un labbro mentre continuava a fissarlo. Tanto i soldi per pagarlo li aveva e, giurò a sé stesso, che li avrebbe avuti anche in futuro.

Strappò il numero di cellulare e rimase a guardarlo.

-”Mmmh...”-fece osservandolo indeciso su che fare-”Ma, sì, forza!”-si frugò nelle tasche alla ricerca del cellulare-”Tanto peggio di così non può andare.”-

 

Si sbagliava. Evidentemente non c'era un limite al peggio.

Guardò la scena che gli si presentava d'inanzi con raccapriccio. Il salone era un disastro. Cibo scaduto e vestiti sporchi regnavano ovunque in quella povera stanza.

Il suo povero salone.

Ed in più, a peggiorare il tutto, chi erano quei due tipi che se ne stavano comodi a scolare birra sul suo divano? Li guardò schifato e con fastidio.

Il suo divano.

-”Chi diavolo siete?”-chiese indicandoli, ancora con adosso il capotto.

I due ragazzi si girarono verso di lui. Lo guardarono calmi. Uno dei due, che aveva dei capelli chiarissimi e degli occhi che gli incutevano terrore, sorrise ammiccante all'italiano.

-”Mi sa che è quello nuovo...”-disse al compagno dai capelli lunghi e biondi.

-”Oh! Un nuovo compagno di giochi.”-fece il biondo sorridendo malizioso. Romano rabbrividì al quel sorriso.

-”Non mi avete risposto, chi siete?”-ripeté infastidito-”E che avete fatto al mio appart...”-

Ad interromperlo fu il rumore di uno sciacquone.

-”Francis, Gilbert, rimettiamo a posto adesso, tra poco verrà quello nuovo e non voglio che...”-un ragazzo uscì dalla porta di quello che, intuì Romano, fosse il bagno. Si interruppe nel vedere Romano ed i due amici seduti sul divano incasinato.

-”Oh...”-fece-”E' già qui.”-

Romano, già scioccato di suo per la situazione, guardò ammutolito il ragazzo appena comparso.

Cosa?! Ma lui... Lui...

Capelli ricci e neri, occhi verde smeraldo e carnagione scura. Orrore, era lui!

-”Tu sei quello che mi è finito adosso ieri!”-disse quasi urlando l'italiano.

I due, seduti sul divano, spostarono contemporaneamente il capo verso l'altro ragazzo. Come se stessero aspettando la risposta divertiti.

Il ragazzo, lì per lì, rimase sorpreso.

-”Oh... E' vero...”-fece ricordando, poi sorrise solare-”Bhè, piacere, Antonio.”-fece avvicinandosi e porgendogli la mano.

Romano lo guardò infastidito. Era un'idiota, lo si intuiva dalla sua faccia da schiaffi e da quei suoi “oh” continui.

L'italiano gli strinse la mano sbuffando.

-”Romano.”-rispose infastidito. Antonio continuò a sorridere.

-”E' un nome interessante, sei italiano vero?”-chiese. Lui lo guardò sorpreso per quella domanda. Annuì, non voleva dargli troppa confidenza.

-”Che bella l'Italia, ci sono stato un paio di volte.”-fece solare. Non sembrava nemmeno lontanamente la persona che aveva incontrato l'altra sera.

-”Loro sono Gilbert e Francis, due miei amici. Anche loro sono stranieri. Gil è delle Germania mentre Francis è francese.”-continuò.

Gilbert si alzò e posò la birra sul tavolino.

-”Piacere. Per te sono anche semplicemente il Magnifico.”-fece sorridendo accattivante. Già da quel sorriso, e da quelle parole, Romano capì che doveva essere un tipo molto sicuro si sé, forse anche troppo. Lo guardò ironico, per ora appariva solo come un “magnifico” idiota.

-”Sì... Preferisco Gilbert...”-fece cercando di liberare la mano dalla stretta ferrea di lui.

-”Sì, capisco che il Magnifico possa confondere troppo le vostre menti plebee.”-fece alzando le spalle e sedendosi sul bracciolo del divano -”Non mi aspetto molto, Gilbert va benissimo.”-

Romano sorrise nevrotico. Dio, come odiava quel tipo, gli sarebbe tanto piaciuto rispondergli a tono ma si contené. Doveva mantenere la calma, non poteva perdere anche quell'appartamento a causa del suo dannato caratteraccio.

-”Lascialo perdere, lui fa sempre così.”-fece il biondo, che doveva essere Francis-”Molto felice di conoscerti, chérì.”-fece prendendogli una mano e stringendogliela con entrambe.

Romano ritirò la mano un po' a disagio. Quel francese lo terrorizzava, sembrava quasi che qualsiasi cosa dicesse avesse uno sfondo erotico.

Sorrise con circostanza, cercando di riprendersi. Forse era solo una sua impressione.

-”Un momento,”-fece Romano-”siete in tre...? Io sapevo solo di un inquilino.”-fece allarmato. I due guardarono Antonio.

-”L'inquilino sono io, tranquillo.”-tornò a sorridere cordiale-”Sai, prima ero solo, allora passavano a farmi compagnia. Loro non vivono qui.”-

Romano si sentì un po' sollevato.

Molto bene, adesso qui ci vivo anche io, col cavolo che quei due rimetteranno piede qui dentro. Non voglio un maniaco ed un egocentrico per casa, già sopporto a mala pena te!

Avrebbe voluto dirlo ma significava litigare e perdere l'appartamento.

-”Qual è la mia stanza?”-chiese sperando di chiudercisi dentro e di cominciare a studiare, allontanandosi da quel casino del salone.

Francis sorrise.

-”Proprio di là, chérì.”-disse indicando una porta infondo alla stanza.

Chérì? Dio, ma che si credeva quel maniaco? Romano si avviò spedito verso la sua ultima salvezza. Aprì la porta quasi con timore, come se si aspettasse di vederla ridotta anche peggio del povero salone.

Ma la stanzetta sembrava illesa. Accese la luce con terrore. Già, illesa. Non gli parve vero. Tornò a guardare quei tre.

-”Bene, devo sistemare le mie cose...”-tirò le valige dentro-”Ci si vede...”-fece irritato e freddo, fregandosene altamente di quei tre, e chiudendo loro la porta in faccia.

I ragazzi rimasero in silenzio a guardare la porta chiusa. Gilbert prese una delle miliardi di bottiglie di birra e se la portò alle labbra.

-”Bhè, simpatico.”-fece alzando le sopracciglia, buttò giù un sorso di birra e diede una pacca sulla spalla dello spagnolo-”Buona fortuna e facci sapere.”-continuò il tedesco mentre si avviava alla porta, seguito dal francese.

Prima che uscissero, Francis, si voltò e sorrise ad Antonio.

-”E' molto carino. Per me, nonostante il carattere scontroso, vi troverete bene insieme...”-fece enigmatico e malizioso, mentre lo spagnolo scuoteva la testa e sorrideva.

-”Ci vediamo Francis.”-fece continuando a sorridere.

-”Vedrai se ho torto!”-disse scherzando mentre si richiudeva la porta alle spalle-”Vedrai, chérì!”-urlò mentre si sentivano i loro passi, del tedesco e del francese, allontanarsi e farsi sempre più flebili.

Antonio scosse la testa e si guardò in torno. Che disastro, ed adesso avrebbe dovuto rimettere tutto a posto. Guardò la camera, una volta vuota, in cui risiedeva quel Romano. Sorrise divertito mentre cominciava a riordinare il salone.

Può anche essere carino, ma a me gli uomini non interessano...

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Note

Bene, bene... Ed ecco l'inizio di una nuova e lunga ff. Spero che, già da qui, in voi sia nata una briciola d'interesse... Bhè, in fondo, se così non fosse avreste già chiuso il capitolo, no? *annuisce, quasi voglia autoconvincersi*
Comunque, un bacione a tutti e, mi auguro, al prossimo capitolo!!

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Capitolo 2
*** 2 ***


Romano finì di sistemare le sue cose. Continuava a sentire rumori sospettosi provenire dal salone, ma cercò di ignorarli. Mise l'ultimo vestito nell'armadio. Non era brutta la sua camera, per nulla. Sorrise tra sé, compiaciuto. In fin dei conti non sembrava tanto male, almeno per ora. Certo, quei tre tipi erano parecchio strani, ma lui tanto doveva convivere con quello meno strano del gruppo.

O almeno sperava.

Prese il libro di chimica. Mancavano poche settimane al suo prossimo ed ultimo esame, doveva studiare. Si mise a sedere sulla sua bella e ordinata scrivania, con il libro in mano.

Guardò il tavolo liscio e pulito sorridente. Sapeva perfettamente che non sarebbe durato molto in quello stato, almeno non con lui. Sicuramente già dopo un paio di settimane la scrivania ne sarebbe uscita completamente in disordine.

Sospirò rasserenato. Finalmente aveva un letto dove dormire, un lavoro, una sedia comoda e del tempo per studiare.

Ma non appena posò lo sguardo sul suo bel capitolo, di chissà quante pagine, si sentì un rumore assordante, seguito da un gemito, provenire dal salone. Si irrigidì.

Cosa...?!

Aprì la porta della camera e rimase ammutolito nel vedere quell'Antonio fissare come un ebete i pezzi di vaso rotti ai suoi piedi.

Lo spagnolo vide Romano, sorrise appena.

-”Mi è scivolato...”-fece come per scusarsi, poi sorrise. L'italiano sembrò piccato da quel suo continuo sorridere.

Che cavolo hai da essere tanto allegro?

Guardò con sofferenza il libro che aveva lasciato sul letto. Sbuffò. Addio momento di pace, avrebbe studiato dopo.

-”Ti sei fatto male?”-gli chiese richiudendo la porta della sua camera dietro di sé.

-”Oh, no, sto bene.”-fece-”Mi sa di essermi graffiato.”-disse tenendosi la mano in questione. Romano gli si avvicinò.

-”Ma sei scemo o cosa?!”-gli fece nel vedere la mano sanguinare-”Ma quale graffio, qui ci stavi per rimettere la mano!”-fece prendendogli la mano e guardando attonito lo squarcio sanguinolento che gli si era delineato sul palmo. Antonio continuava a sorridere tranquillo.

-”Non è niente, mi capita spesso di tagliarmi così...”-disse ritirando la mano e dirigendosi in cucina. L'italiano lo seguì un po' preoccupato. E lui doveva essere il più normale del gruppo?

Si misero seduti intorno al tavolo della cucina. Antonio cominciò a medicarsi sotto lo sguardo stufo di Romano. Che stava facendo lì?

Lo spagnolo sembrava cavarsela benissimo da solo. Ma sì, era meglio andare a studiare. Fece per alzarsi quando Antonio gli porse la mano. Romano la guardò con un sopracciglio inarcato.

-”Bhè?”-chiese guardandolo ironico. Antonio gli fece vedere le bende sul tavolo.

-”Non ci riesco da solo. Non è che puoi...”-fece sempre con tranquillità. L'italiano prese le bende senza staccare gli occhi da dosso quel ragazzo.

Aveva una strana tranquillità. Era troppo calmo, sorridente. Nonostante i suoi comportamenti freddi quello spagnolo non sembrava esserne infastidito. Anzi, sembrava quasi cercasse la sua compagnia.

-”Allora... Che cosa fai nella vita?”-chiese Antonio mentre l'altro lo fasciava.

Romano avrebbe preferito non parlare.

-”Sono uno studente. Lavoro in un bar.”-fece lapidario. Sperò che la conversazione finisse lì.

-”Studente, eh?”-disse pensieroso l'altro-”Cosa studi?”-

Ma perché insisteva nel volergli parlare?

-”Chimica.”-disse infastidito mentre girava la benda intorno alla sua mano.

-”Chimica.”-ripeté l'altro sorridente-”Ah, non ci capisco molto.”-fece ridacchiando-”Io e le materie scientifiche non ci capiamo proprio.”-

Romano alzò le sopracciglia.

Ah, sì? E cosa capisci?

-”Da quanto hai iniziato l'università?”-riprese imperterrito. Romano strinse, senza rendersene conto, la mano ferita dello spagnolo.

-”Ah! Piano!”-fece lui lamentandosi. L'altro si morse un labbro imbarazzato.

-”Oh, scusa!”-fece tornando a fasciargliela bene.

-”Allora? Da quanto?”-riprese l'altro. L'italiano sbuffò.

-”Questo è l'ultimo anno. Ma perché ti interessa tanto, scusa?”-sbottò.

Antonio non sembrò scomporsi.

-”Bhè, da oggi cominceremo una convivenza, quindi credevo...”-non riuscì a finire che Romano partì in quarta.

-”E credevi male!”-disse alzandosi di scatto dalla sedia-”Non è così importante che tra noi due nasca un'amicizia, chiaro? Viviamo sotto lo stesso tetto ma facciamo cose diverse. Io ho i miei studi e tu...”-rimase per qualche secondo a guardarlo nevrotico-”Tu...”-

Già, lui cosa faceva?

-”Già, io lavoro in un pub e non vado all'università.”-lo spagnolo sorrise per poi chiudere gli occhi ed alzare le sopracciglia-”Sì, insomma, cose che a te non interessano, due vite completamente diverse...”-

Romano lo guardò piccato.

-”Certo che sei fastidioso. E' inutile che insisti...”-fece guardandolo irritato.

-”Visto? Già sai una cosa del mio carattere, sono fastidioso. Tremendamente ed irritantemente fastidioso.”-fece sorridendo ammiccante. Aveva un tono scherzoso, un tono che parve amichevole alle orecchie dell'italiano e che, perciò, lo prese alla sprovvista-”Ecco, un'altra cosa che devi sapere su me è che sono insistente. Parecchio insistente.”-

Romano sbuffò.

-”Immagino che devi avere molti amici, allora.”-fece sempre più irritato, cercando di dare una risposta secca e di andarsene lasciandolo solo.

-”Non sai quanti.”-fu la risposta pronta dell'altro. Romano, più che dal senso delle parole, fu infastidito dalla risposta di per sé. Nessuno gli aveva mai tenuto così testa.

Di solito rinunciavano a parlare con lui o finivano per alzare le mani.

-”...”-avrebbe voluto rispondere ma non gli venne niente in mente. Divenne rosso per la rabbia. Gli puntò un dito contro-”Questa volta hai vinto tu! Ma non temere, ho molto tempo per gustarmi la mia rivincita.”-fece rancoroso. Nel vedere quel sorriso calmo e divertito dello spagnolo la rabbia sembrò straripare violenta.

O-di-o-so!

-”Vado in camera mia!”-fece uscendo irritato dalla cucina-”Muori dissanguato, idiota!”-

Antonio lo seguì con lo sguardo.

-”Hai ragione!”-strillò mentre l'altro apriva la porta della sua stanza-”Abbiamo molto tempo per conoscerci, amigo!”-

La risposta fu lo sbattere della porta. Antonio ridacchiò.

Francis aveva ragione: era una tipo interessante quel Romano. Si guardò la mano fasciata.

Avrebbe fatto di tutto pur di farselo diventare amico. Si stiracchiò per bene mentre si dirigeva verso il salone. Era un tipetto al quanto ostile ma Antonio, in quel suo modo di fare disinteressato, aveva intuito qualcosa. Un qualcosa che, però, faceva trapelare un lieve interesse.

 

Che si credeva quel dannato spagnolo?

Non lo sopportava, era odioso, impiccione ed anche cocciuto.

Fantastico, come primo giorno già aveva fatto il pieno. C'era qualcosa in lui che lo attirava ma che, anche, lo rendeva insopportabile.

Maledetto, maledetto, maledetto!

Non sopportava l'idea di aver perso contro di lui. Fino ad allora non gli era mai capitato di perdere: se l'era sempre cavata bene con le parole, aveva una lingua molto tagliente; ma, a quanto sembrava, ne aveva trovata un'altra come la sua.

Sempre diretta, come la sua, ma meno rude. Dannazione, con quelle parole così strafottenti, e quel tono divertito e diplomatico, aveva vinto su tutta la linea.

Lo aveva del tutto spiazzato.

Mai, davvero, mai gli era capitato davanti un tipo del genere. Romano affondò il libro di chimica sul viso. Mai nessuno gli aveva parlato così rimanendo, ai suoi occhi, in qualche assurdo modo attraente. Già, perché nonostante tutto, nonostante quel dannato carattere luminoso e quelle parole aspre, quel “qualcosa” c'era ancora.

Quel “qualcosa”, a confondere i suoi sentimenti di odio verso Antonio, c'era ancora. E la cosa gli bruciava ancora di più. Strinse con fastidio il piumone sulla quale era steso.

Ma perché si scaldava tanto?

Sospirò e posò il libro sul ventre.

In fondo che gli importava, non era nessuno. Non voleva conoscerlo e non voleva essere suo amico. Lui stava meglio da solo, come era sempre stato.

Con lo sguardo fisso sul soffitto si scoprì triste. Stranamente e dolorosamente triste. Non c'era un motivo per esserlo, giusto? Aveva trovato un appartamento, quello che smaniava tanto di possedere.

Si riscosse portandosi una mano sul viso. No, probabilmente lui confondeva la stanchezza con la tristezza. Ma sì, era solo stanco.

Dalla posizione supina si mise seduto, portandosi le gambe al petto. Strinse le braccia intorno alle ginocchia, quasi stesse cercando di proteggersi da qualcosa. Chiuse gli occhi e sospirò.

Posò la fronte sulle ginocchia.

Sono solo stanco, solo stanco...

 

Antonio si buttò sul letto disordinato. Cacciò un enorme sospiro e sorrise soddisfatto. Quel giorno si era divertito. Era stato per tutta la mattinata a lavoro, con Gilbert che continuava a bere come un assatanato. Lo spagnolo sorrise ricordando l'ubriacatura del tedesco.

Quando era ubriaco diventava ancora più euforico di quello che era normalmente. Si stiracchiò sul letto e ringraziò mentalmente Francis, il suo amico francese non ché suo capo, di avergli fatto fare un cambio turno. Non gli sarebbe per niente andato di alzarsi, in quel momento, dal suo bel letto per andare in quel locale da matti. Non che odiasse il suo lavoro, anzi, si divertiva molto lì. Il fatto era che, superato un certo “tot” di ore, non ne poteva più.

Tutto quel casino era troppo, alla lunga, persino per uno come lui. All'improvviso gli tornò in mente il nuovo inquilino.

C'era un qualcosa di tremendamente divertente nel farlo arrabbiare. Ridacchiò fra sé. Era un tipo scontroso, se ne era accorto, proprio il tipo di persona che lui non aveva mai sopportato.

Ma quell'italiano sembrava in qualche modo diverso, non sapeva ancora bene in cosa di preciso, ma era diverso.

Si alzò dal letto e cominciò a svestirsi. Voleva conoscere meglio Romano, anche se dentro di sé non si aspettava di trovare qualcosa di speciale in lui.

Era solo curioso di scoprire il perché di quella corazza, di quella corazza che indossava per nascondere i suoi sentimenti al resto del mondo.

Probabilmente era solo una persona timida forse aveva difficoltà a socializzare con persone nuove, a fare amicizia. Magari con il tempo si sarebbe aperto di più.

Ma già così, visto a colpo d'occhio, non si diceva per niente una persona amichevole. Anzi, non sembrava una di quelle persone con molti amici.

Si chiese perché fosse così scontroso. Si infilò la maglietta del pigiama e si sdraiò di nuovo sul letto.

Aveva così tanto tempo per conoscerlo in fin dei conti.

Guardò il soffitto ed attese che il sonno lo stringesse nelle sue spire.

 

Teneva convulsamente le mani strette intorno alla tazza. Guardò più volte l'ora sull'orologio attaccato alla parete davanti a sé.

Perché quello spagnolo non la finiva mai di parlare?

-”Hai detto di essere all'ultimo anno, vero? Quando darai il prossimo esame?”-

Romano sospirò. Si era svegliato da poco, era venuto in cucina solo per fare colazione, non per rispondere all'ennesimo interrogatorio.

-”Tra poche settimane.”-rispose irritato.

Antonio si mise seduto davanti alla sua tazza di caffè fumante.

-”Sembra stressante.”-fece guardandolo comprensivo.

-”Tu lo sei di più.”-

-”Sei crudele.”-rispose guardandolo contrito.

L'altro sbuffò.

-”Non devi andare a lavorare?”-chiese amareggiato.

Antonio sorrise.

-”Ce l'hai ancora con me per ieri?”-fece divertito. Romano lo guardò in cagnesco. Si alzò di scatto.

-”Come non ti sopporto!”-sbraitò. Antonio ridacchiò.

-”Ma dai che in fin dei conti ti piaccio!”-disse sorseggiando il suo caffè. Per l'italiano quelle parole furono il colmo.

-”No! Non mi piaci! Non ti sopporto e non voglio essere tuo amico, chiaro?”-fece sbattendo le mani sul tavolo e guardandolo esasperato. Per un attimo Antonio sembrò preoccupato. Spalancò la bocca e si alzò di scatto.

-”E' tardi, dannazione!”-esclamò guardando l'orologio.

Romano rimase per qualche secondo a guardarlo basito mentre andava cercando, avanti ed in dietro, per tutto l'appartamento.

-”Dannazione non trovo le chiavi del pub.”-brontolò mentre cercava sotto i cuscini del divano.

Ben presto lo stupore di Romano venne rimpiazzato dal sadismo. Si mise seduto sul divano a guardarlo divertito. Antonio increspò le labbra in una espressione che doveva essere piccata.

-”Certo, potresti anche darmi una mano...”-fece fissandolo.

-”Scherzi?”-chiese l'altro-”Dove sarebbe il divertimento, se no?”-ammiccò un sorretto fastidioso. Antonio era troppo in ritardo per permettersi di rispondere. Sbuffò e ritornò alla sua ricerca.

-”Seriamente, dove potrebbero essere?”-chiese disperato mentre cercava nella sua stanza. Romano, che intanto se ne stava sbracato sul divano, sbuffò.

-”Hai guardato in cucina?”-chiese.

-”Sì...”-fece tra i rumori sospetti.

-”E lì, in camera tua, non ci sono?”-chiese poco interessato mentre si grattava la pancia.

-”No...!”-disse comparendo alla porta già esausto. L'italiano si alzò dal divano e si diresse in cucina.

-”Questo è perché sei disordinato.”-disse provocatorio-”Dovresti essere un po' più come me.”-

Antonio lo guardò ironico.

-”Vorresti farmi credere che sei ordinato?”-

A quella domanda, detta con tanta ironia, Romano non seppe che rispondere. Grugnì.

-”Ma non hai niente da fare?”-fece mentre apriva il frigo alla ricerca di qualcosa da mangiare-”Mi sembra che stessi cercando le...”-non riuscì a finire la frase che rimase di sasso. Guardò inabilito il contenuto del frigo. Antonio si avvicinò frettoloso.

-”E ora che ti prende?”-gli chiese agitato-”Oh...”-fece capendo.

-”Già... Oh...”-disse l'altro schifato e scioccato-”Che cavolo ci fanno nel frigo le chiavi del pub?! E queste...”-fece terrorizzato-”Queste sono mutande?!”-

Già, sotterrate sotto uno strato ben congelato di mutande si trovavano le chiavi. In quel frigo tutto c'era a parte che cibo o, per lo meno, cibo sano.

Romano guardò lo spagnolo negli occhi, alla ricerca disperata di un qualcosa che potesse dare un senso a quello che aveva appena visto.

Lo vide sorridere divertito.

-”Chissà come ci sono arrivate...”-fece grattandosi il capo. Romano perse un battito.

-”Dimmi che il latte che mi hai fatto bere non l'hai preso da questo contenitore degli orrori!”-urlò esasperato. Antonio afferrò le chiavi e se le infilò in tasca.

-”Roma,”-fece guardando l'orologio e controllando se aveva tutto-”è tardi, devo andare.”-sorrise appena-”Continueremo dopo, ci vediamo sta sera. Ah, comunque quelle mutande non sono mie, chiaro?”-ci tené a precisare.

L'italiano era ancora sotto shock.

-”Tu vuoi uccidermi, dì la verità...”-fece sperduto e con lo sguardo ancora fisso su quello strato congelato di biancheria-”Oddio... Mutande!”-fece portandosi le mani sul viso incredulo.

Antonio lo guardò con un sopracciglio inarcato.

-”Così mi preoccupi, Roma...”-fece fissandolo. L'italiano posò uno sguardo omicida su di lui.

-”Non dirlo come se fossi matto, non sono io quello con le mutande nel frigo!”-disse nevrotico. Lo spagnolo ridacchiò.

-”Ci vediamo sta sera!”-

Dicendo così, finalmente, riuscì ad uscire dall'appartamento.

Oh, mio Dio! Ci morirò qua dentro... Mutande... Santo cielo...

 

La musica era alta ed assordante ma ormai Antonio c'era abituato. Così come era abituato a quelle luci fioche del locale e a quello strato di fumo perenne, a quell'odore di alcool.

Era più affollato del solito e pensare che erano solo le cinque del pomeriggio. Preparò l'ennesimo cocktail e lo posò sul bancone, davanti al cliente.

-”Battiamo la fiacca, oggi, eh?”-fece Gilbert urlando allo spagnolo, cercando di sovrastare la musica e il chiacchiericcio della gente che ballava e che parlava.

L'altro gli sorrise.

-”Sono un po' stanco, tutto qui.”-disse mentre ripuliva il bancone dai bicchieri sporchi. Il tedesco sorrise mentre preparava degli alcolici.

-”Se continui così vincerò io. Cosa che accade sempre, però...”-fece porgendo distrattamente i bicchieri ai clienti mentre guardava ammiccante l'amico. Già, facevano questo stupido gioco: chi serviva più clienti vinceva. Un gioco che, di solito, divertiva entrambi.

-”Oggi non ho le forze per concentrarmi... Seguo i miei tempi.”-fece continuando a sorridere.

Gilbert sbatté distrattamente altri alcolici sul balcone, facendoli quasi cadere e meritandosi un paio di linciaggi da parte di alcuni clienti.

-”Diamine, quel tuo nuovo inquilino già ti sta prosciugando le energie?”-fece sghignazzando. Antonio sospirò e scosse la testa.

-”Ah, quello là proprio non lo capisco.”-fece mentre prendeva l'ordinazione di un gruppo di ragazze -”Arrivo subito.”-disse loro con un largo sorriso. Loro ridacchiarono.

-”Che ha che non va?”-continuò Gilbert alzando un sopracciglio vedendo quel gruppetto di ragazze fissare Antonio interessate.

-”Davvero me lo stai chiedendo?”-fece mentre preparava l'ordinazione-”E'... E' irritabile, troppo irritabile. Davvero non riesco a capire il suo distaccarsi continuo. Non riesco ad avvicinarlo a me, mi capisci?”-disse posando i primi bicchieri davanti alle ragazze che intanto, sentendo le sue parole, si guardarono sorprese.

Gilbert guardò prima Antonio poi le ragazze. Scoppiò a ridere. Lo spagnolo, rendendosi conto che le tre avevano frainteso, arrossì.

-”Non è come sembra. A me piacciono le donne!”-fece ridacchiando nervoso. Le tre lo guardarono e sorrisero un po' a disagio.

-”Non sono affari nostri, grazie, ciao...”-fece una per tutte, svignandosela e portandosi via i drink.

Antonio rimase ammutolito mentre Gilbert continuava a ridere.

-”Sei davvero un'idiota!”-gli sbatté una mano sulla spalla mogia-”Stai cominciando a perdere già colpi, Antonio?”-

Lo spagnolo si riscosse e lo guardò placido.

-”Che figura del cavolo...”-farfugliò.

-”Eh?”-chiese Gilbert continuando a ridacchiare-”Non riesco a sentirti con questa musica.”-

L'altro sbuffò e si lasciò andare sul bancone.

-”Dio, come sono stanco!”-esclamò depresso-”Voglio tornare a casa!”-

-”Sì, dal tuo Romano.”-lo provocò l'altro.

-”Falla finita, Gil!”-fece esausto.

-”Non chiamarmi così!”-fece mentre sorrideva concentrato e preparava più drink-”Questa sera, più che mai, sono il Magnifico!”-

-”Sì, certo...”-brontolò Antonio.

E, nonostante tutto, si ritrovò a pensare all'italiano. Di sicuro era a casa a studiare. Sbuffò. Possibile che non avesse amici da invitare per far vedere il nuovo appartamento?

Gli sembrava un ragazzo così solo.
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Note

Salve! Ecco a voi il secondo capitolo. Antonio sembra parecchio interessato alla vita di Romano ma, l'italiano, non sembra molto ricambiare la sua premura... Cosa sarà nascosto dietro al suo caratteraccio ed al suo, apparente, disiteresse?
Un bacione a tutti ed al prossimo capitolo! :D

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Capitolo 3
*** 3 ***


La casa era silenziosa. Il lontano soffiare del vento arrivava flebile in quelle stanze buie. Romano, nell'unica stanza con la luce accesa, se ne stava sulla sua scrivania piegato sui libri.

Mai in tutta la sua vita aveva studiato in quel modo. Aveva sempre odiato studiare ma aveva capito che, se voleva mettere a frutto la sua più grande passione, doveva farlo.

E poi quello che stava scorrendo lento ed inesorabile era il suo ultimo mese da universitario. Già, quello era il suo ultimo anno. Quello che si stava avvicinando minaccioso era il suo ultimo esame prima della laurea.

Cercò di rimanere concentrato sul suo capitolo ma le parole sembravano muoversi, quasi stessero ballando su tutto il libro.

Sentì una pesantezza gravargli sulle palpebre. Ma come, già aveva sonno? Che ore erano?

Cercò di mantenersi sveglio e si portò il cellulare sotto gli occhi.

Le 20.00.

Bhè, non era mica tardi. Tornò al suo libro.

Ce l'avrebbe fatta a laurearsi? Sarebbe riuscito a trovare un lavoro, dopo?

Sentì una strana sensazione nel petto. Una sensazione alla quale non riusciva ancora a dare un nome, che non riusciva ancora a riconoscere, ma che lo stava perseguitando da mesi, da anni.

Devo smetterla di comportarmi come una femminuccia... Devo riguadagnarmi una faccia per poter tornare a casa in futuro... In Italia...

Chiuse gli occhi, posando le braccia sul tavolo ed affondandoci sopra il viso. Lui non era un debole. Sarebbe tornato con una laurea, sarebbe tornato con qualcosa in mano, avrebbe dimostrato di valere qualcosa. Forse non molto ma, almeno, qualcosa.

Sarebbe tornato fiero e, tutti quegli anni passati a soffrire e a faticare, si sarebbero dissolti nel nulla. Provò ad aprire gli occhi ma le palpebre non volevano saperne di collaborare.

E' ancora presto... Perché sono così stanco?...

La voglia di studiare sprofondò nelle spire del sonno, così come il dovere. Il soffiare del vento lontano, lo accompagnò ipnotico in un dolce torpore.

 

Era bello camminare in quelle vie del suo bel paesino. Certo, era piccolo, si conoscevano tutti; ma era davvero bello. C'era un profumo di buono, nell'aria, arrivati al pomeriggio.

In particolare adorava quella specie di corridoio naturale, formato da alberi, che vi era poco distante dalla sua casa.

Era arrivato l'autunno e le foglie secche giacevano morte, creando una specie di soffice e colorata coperta per la nuda terra di quel corridoio, creando una specie di contrasto tra il vivo dei colori delle foglie ed il morto degli alberi spogli e delle stesse foglie morte.

Il piccolo bimbo camminava imbozzolato nel suo capotto. Dal capello sbucava un buffo ciuffo, che se ne stava lì dritto, come a testimonianza della sua vivacità.

In lontananza si udivano voci di bimbi, che urlavano e che ridevano. Al bambino moro parve di udire le risa del fratello più piccolo.

Niente di nuovo, Feliciano si divertiva sempre con i suoi migliaia di amici. L'unica cosa che lo sorprendeva era il fatto che ne avesse così tanti e tutti diversi e che lui ne avesse così pochi. Non gli sembrava che il paese avesse così tanti abitanti, forse venivano da fuori.

Si avvicinò al parchetto da cui provenivano le voci. Svoltò il muretto e guardò incolore lo spettacolo che gli si presentava d'inanzi.

Dei bambini si lasciavano scivolare dallo scivolo, altri si spingevano sulle altalene, altri ancora si rincorrevano.

Per un attimo quella scena sembrò scaldargli il cuore.

Una nuova risa si aggiunse alle altre. Una risata conosciuta, amata ed odiata allo stesso tempo. Feliciano.

Quel medesimo calore si spense.

Smise di guardarli, abbassò lo sguardo. Tornò al corridoio di alberi morti e di foglie colorate.

Non sapeva il perché, ma odiava stare con il fratellino. Insomma, gli voleva bene ma stare con lui in presenza di altri faceva sempre così male.

Come sei carino, Feli!” dicevano sempre tutti accarezzandogli il capo mentre lui se ne stava in disparte.

Come sei diventato alto, Feli!”

Mentre a lui, che era il maggiore, nemmeno notavano il cambiamento di voce.

Come disegni bene!”

Mentre lui era negato per il disegno.

Sei molto educato e dolce!”

Mentre lui era sempre quello pestifero ed iroso.

Romano si mise a sedere su un masso con lo sguardo concentrato sulle foglie morte e colorate. Per la prima volta, nei suoi tredici anni di vita, si chiese come ci si potesse sentire a far parte del paesaggio. Ad essere una foglia o magari un albero.

Si chiese cosa si provasse a far parte della vita stessa ma essere ai margini. Stare lì ma non esserci davvero, non essere costretti ad ascoltare le lamentele degli altri su come ci si doveva comportare.

Stare lì e basta.

Stare lì e fare l'albero, fare la foglia.

Ma forse lui già faceva l'albero, già faceva la foglia, visto che nessuno lo considerava se non per criticarlo.

Allora avrebbe voluto avere la loro coscienza: cioè non possederla.

Insomma, un albero di certo non voleva essere un umano. L'albero era un albero, non conosce niente oltre il suo spazietto di prato. Non può volere quello che non conosce.

Sì, avrebbe voluto essere un albero. Vivere poco, magari, ma essere lasciato in pace.

Far parte della vita ma stare ad i margini.

Quel suo stesso pensiero lo spaventò un poco. Perché lui non poteva essere come tutti i bambini delle sua età? Perché a lui non bastava mettersi seduto su un'altalena per sentirsi felice?

 

Un rumore lontano lo estirpò dal dolce dolore di quel sogno. Aprì lentamente gli occhi, confuso, incontrando davanti a sé la parete bianca. Si accorse, solo in quel momento, di avere una coperta sulle spalle.

E questa?

Ancora quel rumore.

-”Antonio? Sei tu?”-chiese mentre si passava una mano sugli occhi assonnati. Vide la porta della sua stanza aprirsi.

-”Roma, ti ho svegliato, scusa.”-fece sorridendo imbarazzato. Romano, probabilmente ancora intontito per il sonno, si dimenticò di trattarlo male.

-”Ma che ore sono? Sei tornato da poco?”-

-”Sono tornato da un po' ed ho visto che stavi dormendo. E' tardi, torna pure a dormire, scusa.”-disse sorridendo. Romano guardò la coperta. Allora era stato lui a coprirlo.

-”Ma che cavolo era quel rumore?”-si stiracchiò e si alzò dalla sedia.

-”Ho sbattuto.”-fece.

-”Che idiota.”-lo guardò scettico.

-”Perché devi essere sempre offensivo?”-disse sbuffando.

-”E' la tua faccia da tonto che mi ispira.”-disse, sorridendo sinceramente divertito. Antonio rimase sorpreso da quel sorriso. Romano posò il viso sulla scrivania.

-”Ma tu torni sempre così tardi da lavoro?”-chiese insonnolito. Lo spagnolo lo guardò cercando di capire da cosa fosse venuta tutta quella voglia di comunicare. Decise di approfittarne.

-”Non sempre, solo quando lavoro nel pomeriggio.”-disse sempre con i suoi sorrisi. L'italiano sembrò perso nei suoi pensieri.

-”Capito... Quindi hai smesso di studiare?”-riprese, con la faccia posata sulla scrivania e gli occhi fissi sulla parete. Antonio lo guardò con un misto di soddisfazione e confusione.

-”Già. Non sono per niente un tipo studioso, sono più per il lavoro.”-

-”Per il lavoro, eh?”-sussurrò l'altro sospirando.

Come vorrei trovarne uno decente anche io... Ho paura di accettare quelle proposte che mi arrivano, voglio finire gli studi prima... Ma sei poi, alla fine dell'università, tutte quelle proposte scompariranno?

-”Anche tu ti sei trovato un lavoro per mantenerti gli studi, vero?”-chiese sedendosi sul letto-”Cosa avevi detto che facevi?”-

-”Lavoro in un bar, sono un part-time...”-

Antonio annuì. Rimase per qualche secondo a guardarlo, come se non sapesse se dire quello che stava pensando o meno.

-”Come mai, dall'Italia, sei venuto in Spagna?”-

Quella domanda lo trapassò di netto. Ed una ferita dolente si riaprì. Romano si morse un labbro. Fece per aprire bocca ma si fermò.

Con un po' di irritazione si rese conto, finalmente, di star parlando della propria vita a quel “coso”. Si voltò appena verso lo spagnolo sorridente.

-”Ci hai provato di nuovo, eh? Adesso alzati dal mio letto, è finito il momento della chiacchierata, fuori.”-disse lapidario alzandosi dalla sedia e stiracchiandosi.

-”Uffa! Proprio ora che ti stavi un po' aprendo!”-contestò l'altro. L'italiano si sentì piccato.

-”Sparisci, idiota!”-

-”Dannazione, andava tutto così bene...”-sbuffò alzandosi dal letto-”E poi sono curioso di...”-

-”Non sono affari tuoi.”-lo interruppe. Questa volta nella sua voce non c'era solo più nervosismo. C'era dell'altro. Era la voce di chi non vuole sentire ragioni.

Antonio lo guardò in volto ma incontrò un muro gelido a dividerli. Un muro che gli mise paura, così come quel tono freddo ed i suoi occhi.

-”Scusa, io...”-rimase a guardare quegli occhi.

Sembravano così ostili, così pieni di rancore, di rabbia. Di una rabbia repressa da chissà quanto tempo. Antonio non riuscì a mantenere lo sguardo.

Evidentemente troppo tempo.

-”...Non volevo risultare così invadente...”-

Romano non staccò lo sguardo da quello di Antonio, ma lo spagnolo giurò di averlo visto vacillare di colpo. Quella rabbia e quel rancore sembravano di colpo scomparsi ma; lui lo sapeva con certezza, c'erano ancora. Nascosti chissà dove, in quel castano quasi verde delle sue iridi. Gli bastò uno sguardo per poter comprendere che cosa avesse.

-”Nah! Voglio...”-fece stancamente l'italiano-”Voglio solo dormire, ora.”-disse mentre guardava altrove. Il riccio sorrise distrattamente.

-”Sì, certamente. Mi dispiace, buonanotte.”-

Già, mi dispiace che tu ti senta così solo...

 

Era passata una settimana da quella famosa sera del suo arrivo in quell'appartamento. Mancavano pochissimo tempo al suo esame.

Romano, sdraiato sul divano, leggeva e rileggeva il suo libro. Ormai, quelle pagine, le conosceva a memoria ma la paura di scordarle lo tormentava.

Antonio, che era da giorni che lo vedeva così, rimase per qualche secondo indeciso sul da farsi; sulla soglia del salone se ne stava a fissarlo.

Non usciva mai, se non per andare a lavorare. Non parlava mai con nessuno, se non quando lo spagnolo lo costringeva a parlare con lui. Nessuno lo veniva mai a trovare e lui non chiamava mai nessuno. Continuava a guardarlo, gli dava le spalle.

Possibile che non avesse nessun tipo di contatto? Nemmeno con la sua famiglia?

-”Hai finito di fissarmi come un idiota?”-disse nervoso, stringendo convulsamente il libro tra le mani e continuando a fissarne le pagine. Antonio si riscosse e gli si avvicinò.

-”Non ti stavo fissando.”-disse un po' stufo di quella situazione, scacciando le gambe dell'italiano dal divano, e sedendocisi sopra.

-”Ehi!”-fece quest'ultimo-”Ma che vuoi?”-gli chiese mettendosi comodo.

-”Hai intensione di continuare a studiare?”-lo ignorò. Romano rimase a fissarlo sorpreso. Ma che diavolo voleva da lui? Tornò al suo studio.

-”Sì.”-

-”Ma ormai lo saprai a memoria. Perché non provi a distrarti per un po'?”-gli disse sorridendo.

-”L'esame sarà tra poche settimane, non posso.”-rispose lapidario, nascondendo il viso dietro al libro. Sperò che bastasse per farlo andare via. Lo spagnolo sbuffò.

-”Uffa, capisco che sei in ansia per l'esame, ma prenditi una pausa!”-disse sfilandogli il libro dalle mani-”Così ci morirai qua sopra.”-

Romano lo fulminò.

-”Non posso permettermelo.”-

-”Sì che puoi.”-sorrise e gli strappò il libro di mano.

Lo guardò con fastidio, cercando di capire cosa stesse cercando di fare, cosa stesse cercando di raggiungere, con quel gesto.

-”...”-aprì bocca, ma l'altro lo fermò.

-”Perché non vieni da me, sta sera?”-chiese, illuminandosi all'improvviso.

-”Cosa?”-chiese scocciato l'altro.

-”Ma sì, tra poco dovrò andare a lavorare, perché non vieni e non ti diverti un po'?”-insisté.

Romano sgranò gli occhi con preoccupazione. Cosa? Avrebbe dovuto lasciare la sua bella casa calda per andare in quel pub di pazzi?

-”Tu sei fuori come un balcone!”-esclamò buttandosi sopra di lui e cerando si riprendersi il libro, ma inutilmente. Antonio gli posò una mano sulla faccia, cercando di fermarlo ed allontanando il libro verso l'alto.

-”Dai, che sarà divertente!”-disse già euforico-”Così ti farai un po' di amici, come Francis e Gilbert. Li conoscerai meglio.”-

Romano gli afferrò il polso e si tolse quella fastidiosa mano dalla faccia. Lo guardò infastidito.

-”C'è qualcosa che non va in te, vero?”-disse acido. Antonio lo guardò provocatorio mentre continuava a tenere il braccio, con il libro, teso verso l'alto.

-”Sequestrato, fino a nuovo ordine.”-

L'italiano sbuffò e si rimise a sedere per bene.

-”Ti odio.”-

L'altro ridacchiò.

-”Sai benissimo che non è vero.”-

E per la prima volta, quell'affermazione dello spagnolo, la sentì corrispondere un poco al vero.

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Note

...Dal prossimo capitolo, tempesta in arrivo...

Honodetsu:D

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Capitolo 4
*** 4 ***


Il vento era forte, così come il freddo. La ragazza si strinse nel capotto. La temperatura si stava abbassando in quei giorni e, a breve, sarebbe arrivato natale e con lui l'anno nuovo.

In circostanze normali, la cosa, l'avrebbe resa in quel che modo serena e contenta. Ma, in quel momento, lei era tutt'altro che serena.

Passata davanti ad una vetrina, si fermò a guardare i vestiti esposti senza un vero interesse. Già, per poter affermare di essere felice in quel momento, accanto a lei, ci doveva essere quella persona.

Quella persona con cui, poche settimane fa, aveva discusso irrimediabilmente. O almeno, così lui aveva affermato.

La sua attenzione passò quasi subito, dai vestiti, al proprio riflesso sulla vetrina colorata e luminosa.

Era una ragazza davvero graziosa. Capelli corti e castani chiari, quasi biondi, soffici al contatto e luminosi. Possedeva degli occhi grandi e di un verde molto chiaro, che andava quasi sul giallo.

Insomma, era una bella donna: tratti sottili e delicati, un visino da bambina. Una bambina che però sembrava tutt'altro che ingenua.

Era molto bella, aveva fascino, piaceva.

Allora perché lui non riusciva a perdonarla?

Si diede una ravvivata infastidita ai capelli chiari e riprese la sua camminata. Erano passate settimane da quella sera litigiosa e lui ancora non si era fatto sentire. Allora parlava seriamente quando aveva affermato che era finita. No, impossibile.

Infilò le mani belle e diafane nelle tasche. Non avrebbe mai rinunciato a lui, mai e poi mai.

Chi si credeva di essere? Non poteva mica ignorarla così per una simile sciocchezza. Lei non aveva fatto proprio nulla per meritarsi i suoi silenzi ostinati.

Lo aveva chiamato così tante volte ma invana. Non aveva mai risposto. Quanta delusione e dolore aveva provato ad ogni squillo ignorato, ad ogni chiamata persa.

Ma se pensava di aver vinto si sbagliava di grosso. Sorrise soddisfatta, adesso sapeva cosa fare. Finalmente quell'indecisione l'aveva abbandonata.

Sarebbe andata da lui e gli avrebbe gridato in faccia che era un'idiota, che aveva torto marcio e che se voleva riaggiustare il loro rapporto avrebbe dovuto chiederle scusa. Sorrise impettita.

Sì, aveva ragione lei.

 

Gilbert posò il boccale di birra sul bancone, sorridendo ammiccante a quella bella ragazza che aveva di fronte.

-”Non te l'ho chiesta.”-disse la ragazza castano-bionda.

-”Offre la casa.”-rispose, guardandola con sfida-”Piuttosto, che ci fai qui? Pensavo che tra te ed Antonio fosse finita.”-

Lei contorse il viso in una smorfia.

-”Ti ha detto così lui?”-

Gilbert scosse la testa ed alzò le spalle.

-”Sono un uomo intelligente, lo sai, no?”-disse compiaciuto. La ragazza si portò la birra alle labbra. Avrebbe preferito non berla, non le piaceva, ma se avesse rifiutato quel gesto da parte di Gilbert; lui non l'avrebbe ascoltata. Si bagnò appena le labbra con quel liquido amaro.

Il ragazzo passò altri alcoolici ad una coppia di ragazzi. Il suo sguardo finì sul viso amareggiato delle ragazza. Ridacchiò e tornò a parlarle.

-”Se non ti piace non la bere.”-fece prendendole il boccale che le posava sulle labbra-”In fondo sei una donnina sofisticata tu, no, Bella?”-fece un po' acido.

La Belga si innervosì un poco.

-”Non ti sono mai stata simpatica, vero?”-chiese ingogliando quel rospo e posando la pinta sul bancone, cercando di restare calma. Il ragazzo schioccò la lingua sul palato e guardò il soffitto, come per pensare. Si riprese e scosse la testa.

-”No, ineffetti no.”-dichiarò in fine. Bella sospirò stanca.

-”Non ho mai fatto niente per farmi apparire antipatica.”-sputò acida verso quell'albino. Gilbert la guardò scettico. La belga indossava un capottino rosa, dei guanti morbidi ed anch'essi rosa, e con quel visino arrabbiato gli pareva di star per discutere con un confetto imbronciato. Sbuffò, certo che alla fine, quella discussione, gli avrebbe provocato solo una fastidiosa carie.

Si voltò e prese a pulire dei bicchieri.

-”Devo mettermi ad elencare tutte le idiozie che hai fatto per cercare di allontanare l'ormai, irrefrenabile, giorno del giudizio? Cioè quello in cui Antonio ti avrebbe cacciato dalla sua vita a suon di calci al popò reale?”-fece con un'enfasi quasi teatrale.

Bella non si scompose, lasciò che il tedesco parlasse.

-”Ma sai una cosa, principessina?”-fece buttando nel lavandino la pezza per i bicchieri, e voltandosi verso di lei-”Quel giorno è arrivato. Diciamo che ormai è superato.”-alzò le sopracciglia scettico -”Sai è passato una settimana da quel giorno.”-

Lei sbatté le mani sul bancone, nella confusione generale del locale. Gilbert non si scompose, rimase a guardare quella belga che lo fissava dritta negli occhi.

-”Non sono affari tuoi gli alti ed i bassi della vita privata, mia, e del mio fidanzato!”-disse acida tra le note ed il chiacchiericcio generale. Gilbert scosse la testa.

-”Ti sbagli. Antonio è un mio carissimo amico e, perciò, sono diventati anche affari miei da quando l'ho cominciato a veder soffrire a causa tua.”-gli puntò un dito contro con rabbia-”Tu non hai idea di quanto la vostra relazione lo abbia consumato. Non hai idea di quanto male gli hai fatto!”-Bella lo guardò con acidità-”Voi due non state più insieme. E' finita.”-terminò.

La mascella della belga si contrasse.

-”Voglio parlare con lui...”-

-”Voglio che sparisci dalla sua vita.”-

-”Dannazione, voglio parlare con lui , adesso!”-fece quasi urlando. Gilbert si sporse dal bancone con uno scatto, avvicinando di colpo il viso terrificante al suo; spaventandola.

-”Tu non vuoi nulla!”-gli sibilò terrificante ad un non nulla dal volto-”Sei solo una bambina viziata che desidera tutto senza un motivo. Vuoi solo un giocattolo di cui ti possa stancare subito.”-

Bella rimase ammutolita. Quegli occhi rossi parvero risucchiarla completamente.

-”Antonio non è un giocattolo. Mettitelo bene in testa, bambolina, chiaro?”-sibilò con un ghigno. La belga fece un passo indietro ancora un po' scossa.

-”Non...”-sussurrò spaventata ed innervosita-”Non puoi dirmi quello che devo o non devo fare!”-sembrò riacquistare coraggio-”Sei...”-

Era così arrabbiata che non riuscì a terminare la frase. Strinse i pugni, cercando di mostrare un po' di contegno, senza scomporsi.

-”Sei il solito presuntuoso!”-gli urlò in faccia.

Gilbert ridacchiò.

-”Sì, sì.”-disse divertito mentre si avvicinava ad i suoi prossimi clienti-”Forse è meglio che torni a casa a leggere il copione, così forse ricorderai le battute!”-

La vide mordersi un labbro e guardarlo impotente. Bella si strinse nel capotto e gli diede le spalle. Se lui ed Antonio pensavano che fosse finita si sbagliavano di grosso.

 

L'appartamento numero 126, del sesto piano, appariva silenzioso. Rumori molesti, però, diedero quasi subito la prova del contrario.

-”Smetti di studiare, dai!”-la voce calma ed alta del francese.

-”Ah! Lasciatemi in pace!”-

Il povero italiano non riuscì a capacitarsi di essere finito in quella situazione. Fino a pochi minuti fa se ne stava calmo sul divano a studiare, quando era stato aggredito da quei due idioti.

-”Non ti fa mica bene restare tutto il giorno a leggere e rileggere questa robaccia...”-fece il biondo mentre si portava nella coda la ciocca riccia e teneva, in una mano, il libro in questione. Lo spagnolo ridacchiò divertito. Romano, che intanto era tenuto fermo da Antonio, lo fulminò.

-”Idiota, quel libro è il mio futuro!”-

Francis sorrise malizioso.

-”E questo è il tuo presente...”-disse portandosi dietro la schiena il libro, sotto lo sguardo truce di Romano-”Sai, hai proprio ragione Antonio, questo qui ha bisogno di staccare la spina.”-

L'italiano cercò di liberarsi dalla presa.

-”Ma vuoi vedere come te la stacco io la spina?”-ululò, cercando di saltargli al collo ma la stretta del moro era ferrea. Francis ed Antonio sembravano divertiti da quella scena.

-”Che ti dicevo? E' un fissato con lo studio.”-fece lo spagnolo ignorandolo completamente. Francis sorrise, fissando l'italiano con interesse.

-”Vieni con noi sta sera, ti va?”-gli propose Francis. Finalmente Antonio lasciò la presa e Romano si allontanò da lui infastidito.

-”Sto bene a casa, grazie.”-rispose lapidario.

-”Avanti, se continui così ne esci matto.”-esclamò Antonio. Francis annuì convinto. L'italiano li guardò con il sangue alla testa.

-”Ma sì, dai, vieni!”-

-”Sarà divertente!”-

-”...”-

Ma che diavolo volevano? Perché tenevano tanto alla sua presenza?

-"Magari potrebbe succedere anche qualcosa di interessante..."-fece pensieroso e con voce maliziosa, il francese. Antonio ridacchiò.
-"Possibile che tu riesca a pensare solo a quello?"-

Sembravano aver già deciso tutto, come se quello che pensava lui non fosse importante. Romano li guardò mentre ridevano. Lui non sarebbe mai stato come loro, non ci sarebbe mai riuscito. Mai come in quel momento si sentì tanto distante dalla normalità.
Eppure se avesse allungato una mano avrebbe potuto sfiorarli. E se li avesse toccati forse si sarebbe sentito un pò più vivo. Strinse la mano, con gli occhi ancora posati su di loro. No, il problema non era sentirsi vivo, perché lo era; lo sapeva. Il problema era riuscire a far parte della vita.
Strinse la mascella, stufo di quel loro ridacchiare e scherzare.

-”Dannazione, ma a voi che importa se rimango a casa? Che vi cambia?”-esplose.

Ci fu un attimo di silenzio in cui Romano attendeva con fastidio crescente la risposta. Francis fece per aprire bocca, si fermò.

Già, era vero, perché lo facevano? Guardò Antonio come se aspettasse anche lui di scoprirlo. Lo spagnolo guardò a terra.

-”Bhè... Ecco...”-non lo sapeva-”...”-

Non lo sapeva.
Romano, probabilmente, rimase un po' deluso dalla mancata risposta. Si morse un labbro e sospirò irato.

-”Appunto... Francis, ridammi il libro.”-disse porgendo la mano verso il biondo. Quello rimase per un attimo in deciso sul da farsi. Antonio si passò una mano sulla nuca, a disagio.

Il francese si chiese cosa avesse all'improvviso, era stato lui a chiamarlo, a dirgli di venire ad aiutarlo a persuadere l'italiano. Ed adesso non diceva nulla?

La cosa lo insospettì ma decise di non dire nulla. Ridiede il libro a Romano.

-”Bhè, scusate, ma ho lasciato Gilbert da solo al pub, meglio che vada.”-disse studiando entrambe le espressioni dei due.

Romano fissava lo spagnolo, mentre Antonio riusciva a malapena a reggere lo sguardo. Francis si stupì di quello che vide.

Quell'Antonio docile ed imbarazzato non lo aveva mai visto, almeno non quando non c'era una donna di mezzo. Comunque non erano affari suoi. Sorrise e salutò.

-”Va bene, ciao.”-fece rivolto verso Romano-”Ci vediamo sta sera Antonio, ok?”-disse sulla soglia.

Antonio annuì poco convinto.

-”Sì, a sta sera.”-sorrise un po' imbarazzato.

Romano si rimise seduto sul divano mentre la rabbia scemava del tutto. Ma perché Antonio rompeva così tanto? Si conoscessero almeno da tanto, capirebbe.

Lo spagnolo, dal canto suo, non riusciva a spiccicare parola. Era rimasto fermo al centro del salone. Che figura del cavolo che aveva fatto. Si morse un labbro.

Non sapeva il perché, ma nonostante la figuraccia, gli era rimasto dell'amaro in bocca. Perché Romano non voleva venire? Perché non era riuscito a dare una risposta a quella domanda?

Si morse un labbro, rendendosi conto di non riuscire a spiccicare parola.

-”Vuoi restare lì in piedi come un idiota ancora per molto?”-fece Romano sentendosi a disagio.

Lo spagnolo si riscosse dai suoi pensieri.

Sospirò, come se vederlo piegato, ogni volta, su quel libro gli facesse male. E la cosa lo sorprese. Gli dava, realmente, una forte sensazione di fastidio e di dolore. Un dispiacere, così forte, che gli era del tutto nuovo.

-”Meglio che vada...”-fece, cercando di riprendersi da quel colpo ed indicando, con lo sguardo basso, la sua stanza-”Vado in camera...”-

Romano sembrò, di nuovo, rimanere male per le sue parole. Si rese conto di volere dentro di sé che, invece, lo spagnolo rimanesse.

Lo guardò entrare nella sua stanza in assoluto silenzio.

Dove vai, idiota?

Gli parve di vederlo a rallentatore.

Vorresti davvero farmi credere che non insisterai?

Vedere quella porta chiudersi sembrò ferirlo nel profondo. Provò una sorta di amarezza, di rabbia, ma non perché Antonio fosse stato indiscreto, ma proprio perché non lo era stato abbastanza.

Cercò di ignorare quel fastidio.

Rimase a fissare la porta e si ritrovò a sperare che uscisse. Distolse lo sguardo, mascherandosi con il disinteresse e tornando al suo studio.

Al diavolo, lui, e la sua dannata insistenza fasulla: quello spagnolo era un completo idiota.

Sbuffò portandosi il libro sotto gli occhi. Non era lui quello che tanto desiderava farselo amico? E non era sempre lui, quello che, sarebbe stato disposto a tutto; anche di disturbarlo, pur di riuscire nell'impresa?

Ed allora perché non lo aveva preso di petto, come era solito fare, e non aveva risposto alla sua dannata domanda? Dannazione, non si aspettava una risposta seria ma almeno se ne aspettava una.

In mezzo a quel turbinio di pensieri ed emozioni, la piccola, tenue e sciocca speranza che Antonio comparisse all'improvviso nel salone e, come era solito fare con quel suo maledetto sorriso, venisse a disturbarlo; impedendogli di studiare, lo invase.

Si vergognò di quel piccolo desiderio. Cercò di distrarsi con lo studio.

Una parte di sé gli diceva di andare al pub con loro, quella sera. L'altra invece, orgogliosa, voleva non avere niente a che fare con quei tipi e rimanere a studiare.

Rimase per qualche secondo a fissare incolore le parole del libro. Ed eccola di nuovo arrivare. Quella strana sensazione indescrivibile che gli gravava sul petto.

Perché la sua vita era così... Non seppe come definirla.

Ma perché era così?

Sentì un rumore alle sue spalle ma, immaginandosi che fosse il moro, cercò di ignorarlo. Sentì i suoi passi fermarsi a poca distanza dallo schienale del divano. Ci fu un attimo di silenzio assoluto in cui Romano si chiese se fosse ancora lì o se se ne fosse andato.

-”...Insisto tanto perché non voglio che tu rimanga da solo...”-

Il silenzio si ruppe.

Quelle parole lo costrinsero a voltarsi come punto da una vespa. Incontrò il viso serio di Antonio. Un viso che non riuscì a ricondurre all'idea che si era fatto di lui.

Lo stesso volto di quando, quella sera di qualche tempo fa, gli era finito addosso e che, con lo sguardo terribilmente serio e concentrato, guardava tra le folla di gente. Quegli occhi verde scuro gli misero i brividi. Come se potessero leggerlo nel profondo.

Fece per controbattere ma lo spagnolo lo interruppe con decisione.

-”Mi da fastidio sapere che tu te ne stai a casa ad ammazzarti di studio mentre io sono a lavoro. So che magari è una cosa egoista, ma vorrei che staccassi per un po'...-”si sentì liberato da un peso”- Ecco perché insisto. Ecco perché mi importa: perché mi dà fastidio.”-

Romano rimase sorpreso da quelle parole pesanti, che lo imbarazzarono terribilmente, dette con tanta leggerezza. A dire il vero non seppe il perché del proprio imbarazzo.

Si morse un labbro e guardò il libro che teneva tra le mani. Voleva davvero rimanere da solo a casa in compagnia di quella dannata sensazione?

-”Sì, è vero, è egoista...”-disse guardandolo a pena.

Sospirò e guardò altrove. Adesso lo riconosceva, era tornato alla carica. Sorrise ammiccante, cercando di ignorare quella confusione che gli si era creata nella testa.

-”E tu sei stato tutto questo tempo di là, a pensarci su, per poi venire qui e dirmi questa idiozia?”-chiese cercando, per l'ennesima volta, di nascondersi dietro al suo scudo.

Antonio scrollò appena le spalle.

-”Comunque, sì, è meglio che stacchi per un po'...”-disse posando il libro sul comodino. Incrociò nuovamente gli occhi seri dello spagnolo, si sentì letto nel profondo.

-”Non lo faccio perché me lo hai detto tu, sia chiaro!”-fece scuotendo le mani con imbarazzo-”E' inutile che mi guardi in quel modo, scemo!”-

Antonio arricciò il naso.

-”Ti è così difficile essere meno aggressivo con le persone e, magari, rispondere con un semplice “grazie”?”-chiese alzando le spalle e tornando con il suo sguardo gentile. L'italiano si lasciò sfuggire un lieve rossore.

-”Idiota...”-farfugliò-”Io sono gentile... Non con tutti, ma lo sono.”-

Non sapeva perché ma quegli occhi addosso lo imbarazzavano.

-”Ah, sì? Ne dubito...”-lo provocò l'altro.

-”Con mio fratello lo sono, più o meno...”-

-”Hai un fratello?”-chiese compiaciuto da quella sua dichiarazione. Romano sembrò rendersi conto, solo ora, di quello che aveva appena detto. Sbuffò e cercò di non guardarlo in volto.

-”E' più grande?”-chiese interessato, sedendosi accanto a lui sul divano.

-”E' il minore.”-

-”Wow!”-fece soddisfatto Antonio-”E' bello vedere che un pochino cominci a confidarti.”-

Romano alzò gli occhi al cielo.

-”Scemo, non dire certe idiozie.”-strinse il libro tra le mani e sorrise maligno-”Potrebbe tornarmi la voglia di studiare.”-

Che poteva farci, in fin dei conti si sentiva bene quando parlava con lui.

-”Ah, no!”-fece afferrando il libro e sequestrandoglielo-”In questa giornata dovrai solo rilassarti.”-fece sorridendo e scuotendogli un dito davanti al viso-”Perciò, aspettando che arrivi la sera per andare al pub, faremo la cosa più faticosa di questo mondo.”-fece enigmatico e divertito.

Romano lasciò cadere inerme le difese. Sbuffò.

-”Cosa?”-gli chiese con poco interesse, alzando gli occhi al cielo. Antonio sembrò divertito dal disinteresse apparente dell'amico.

-”Non faremo un cavolo per tutto il giorno!”-

I due si guardarono l'un l'altro in silenzio assoluto. Uno con un sorrisone enorme e l'altro con uno sguardo velato dall'ironia.

-”Pigro.”-dichiarò l'italiano.

-”Masochista.”-lo sfidò l'altro.

-”Impiccione.”-esclamò offeso.

-”Asociale.”-sorrise solare.

Romano lo guardò irritato nel profondo. Forse la cosa che lo irritava di più era il fatto che gli veniva da ridere.

-”Ah! Idiota, piantala!”-

Antonio ridacchiò soddisfatto mentre l'italiano sbuffava.

-”Ti va di parlare un po'?”-chiese lo spagnolo con un sorriso intenerito dal disagio dell'altro. Romano rimase sorpreso da quel sorriso. Da quel suo sguardo. E per la prima volta in vita sua, si ritrovò a riconoscere che il colore dei suoi occhi era terribilmente bello; quasi fossero degli occhi di una graziosa ragazza.

Seriamente, perché era così dannatamente gentile con lui?

-”Credevo che non avremmo fatto un cavolo per tutto il pomeriggio.”-esclamò, un po' confuso da quel viso. Antonio sorrise ancora. Sembrava non avere intensione di smettere e, Romano, si ritrovò ad arrossire interiormente.

Perché provava quel misto di disagio e piacere, quando parlava con lui?

-”E così sarà.”-fece con voce da bimbo-”Dai, parliamo solo del più e del meno.”-insisté.

-”...”-rimase interdetto-”Io non ho nulla da raccontare.”-disse mogio. Antonio alzò un sopracciglio.

-”Allora facciamo così:”-sorrise-”io comincio con una domanda e poi tu ne fai una a me.”-

-”Una domanda ciascuno?”-chiese l'italiano con un sopracciglio inarcato. Antonio annuì.

-”Sì, e niente bugie, non sono ammesse.”-sorrise contento. L'ennesimo sorriso che Romano trovò fastidiosamente bello.

-”Che idiozia.”-commentò.

-”Bene comincio io...”-disse tutto eccitato lo spagnolo-”Da quanto sei qui in Spagna?”-

Romano lo guardò omicida. Ecco, per la centesima volta voleva tentare di sapere di più della sua vita privata.

-”Cinque anni.”-rispose.

Antonio si sistemò meglio sul divano. Abbassò il capo in senso di approvazione.

-”Bene...”-sorrise-”Prego, domanda pure quello che vuoi.”-

Romano sospirò. Che idiozia questa storia delle domande. Si portò una mano al viso per pensare. Non sapeva esattamente che chiedergli.

-”Da quanto conosci Gilbert e Francis?”-

Antonio rimase sorpreso da quella domanda. Ma forse non c'era molto da sorprendersi.

-”Li conosco da quando ero piccolo.”-affermò-”Come mai ti interessa?”-

-”Così...”-rispose-”Sappi che hai appena sprecato il tuo turno con questa domanda.”-lo provocò.

-”No, dai!”-fece imbronciato lo spagnolo. Romano ridacchiò.

-”Da quale città italiana vieni?”-chiese. Quella domanda sembrò far vacillare un poco l'italiano, ed Antonio se ne accorse.

-”Da un paesino della Campania.”-rispose, ricordando quei posti, ricordando quel corridoio ricoperto di alberi e foglie.

-”Perché hai lasciato la tua casa?”-

-”Perché volevo allontanarmi da quei posti...”-fece con lo sguardo basso, distante-”Perché volevo essere migliore di quello che apparivo...”-strinse le mani-”Ma forse mi sbagliavo...”-

Pareva quasi che, con la mente, stesse ripercorrendo le strade del suo paese.

Antonio si rese conto che quello che era nascosta nei suoi occhi, era tristezza. E si sentì male per lui. Ne ebbe paura.

-”Perché tutta questa distanza dai tuoi famigliari, dai tuoi amici?”-chiese serio, quasi con dolore.

Le ferite di Romano si riaprirono violente. Non voleva confidarsi con lui, o almeno non così presto. Non così.

-”Ehi, il tuo turno è finito. Già mi hai fatto due domande...”-cercò di troncare la conversazione. Antonio sembrò insistere.

-”Perché non esci mai? Perché ti massacri di studio? Per...”-

-”Perché, perché perché!”-sbottò, alzandosi dal divano con uno scatto-”Sai dire solo questo! Dannazione, cosa ne puoi sapere tu di quello che ho passato? Che cosa ti importa? Cos'hai da giudicare tanto il mio modo di vivere?”-

Antonio si alzò dal divano e gli si mise davanti.

-”Io sto solo cercando di capire...”-disse cercando di calmarlo.

-”No, smettila!”-gli urlò in faccia-”Odio quando la gente mi compatisce! Non voglio che tu ti impicci degli affari miei, finiresti per compatirmi anche tu, e non voglio.”-disse con amarezza, lasciando uscire dalla bocca quello che pensava realmente.

Antonio rimase sorpreso. Quindi l'italiano non voleva aprirsi con lui per paura di non essere più considerato una persona “normale”?

-”Io non sono certo qui per compatirti.”-chiarì, cercando di addolcirsi.

Romano lo guardò indeciso. La rabbia sembrò sbollire ed al suo posto salì l'imbarazzo, l'impotenza.

-”Che diavolo ti importa della mia vita...?”-chiese con voce tremante.

-”Sei mio amico.”-

-”Ma non mi conosci per niente!”-disse portandosi le mani al viso e lasciandosi cadere sul divano. Antonio si fece di nuovo serio in volto.

-”Sono qui per questo.”-

I due scivolarono nel silenzio di quel salone.

-”Perché tieni così tanto ad avere la mia amicizia?”-chiese in un sussurro-”Non sono niente di speciale, te lo posso assicurare... Penso che te ne sia reso conto, no?”-

Antonio sembrò percepire, fin troppo chiaramente, la sua sofferenza. Cos'era, di preciso, che lo aveva reso così? Cos'era che gli impediva di mostrare i suoi sentimenti alle persone?

-”Odio avere in torno persone tristi.”-affermò sorridendo e fingendosi scocciato-”E poi, anche se non ci crederai...”-fece una pausa in cui cercò il suo sguardo-”Mi stai simpatico.”-

Romano rimase impietrito. Gli venne da ridere, nonostante si sentisse completamente a disagio. Scosse la testa e sorrise amaro.

-”Che scemo che sei, dannazione.”-disse, cercando di non guardarlo negli occhi. L'altro rise.

-”Tra tutte e due è una bella gara.”-

Romano sorrise.

-”Tra poco sarà ora di andare...”-disse l'altro, guardando fuori dalla finestra. Era già buio-”Tu vieni, vero?”-chiese tornando all'italiano.

-”Sì...”-disse cercando di nascondere gli occhi lucidi-”Vado a posare il libro in camera mia...”-

Antonio lo guardò alzarsi dal divano e dirigersi verso la sua stanza. Come gli sembrò insicuro e tenero in quel momento. Sorrise e fece per muoversi.

-”Antonio?”-

Lo spagnolo si voltò, incontrando solo le spalle di Romano, che, intendo nell'aprire la porta, guardava verso il basso.

-”Grazie. Ora posso davvero ritenerti un amico...”-

Aveva sentito bene?

-”Ro... Romano...”-sussurrò sorpreso.

-”Forse...”- fece leccandosi le labbra-”Forse un giorno riuscirò a confidarmi con te... Scusa...”-disse mentre sentiva gli occhi bruciargli. Non voleva piangere davanti a lui come un'idiota. Entrò nella stanza e, prima di richiudere la porta, si voltò di poco e gli sorrise appena, cercando di nascondere gli occhi lacrimosi. Sorrise un pochino divertito, nel vedere la faccia spaesata dello spagnolo.

-”Non fare quella faccia da idiota, però.”-sussurrò con voce incrinata.

Richiuse la porta ed il silenzio tornò placido nell'appartamento.

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Note

Ok, finalmente si intravede uno sfiraglio di luce nel fronte italiano/spagnolo... Ma Bella...? Qual è la sua storia?
E con questi interrogativi vi lascio ;)
Un bacione enorme,

Honodetsu:D

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Capitolo 5
*** 6 ***


Probabilmente era un'idiozia quella che stava per compiere ma non poteva sopportare, anche solo l'idea, di restare altri cinque minuti in più lì, fermo, senza fare nulla.

Si diresse verso il bagno dove, vedi un po', si trovava anche il tavolo della bella ragazza di poco prima. Posò la schiena su una colonna in penombra, cercando di non dare nell'occhio e per decidersi sul da farsi.

-”Sei nuovo di qui?”-la voce leggere di quella ragazza.

Decisamente era un'idiota, si scoprì ad arrossire. Possibile che si fosse già accorta di lui?

-”Non ti ho mai visto in questo locale.”-continuò lei.

Romano uscì dalla penombra e si fece avanti.

-”Ineffetti, sì...”-disse con un po' di imbarazzo. Era davvero una donna molto bella-”Ho un amico che lavora qui come barista, perciò sono passato anche io...”-

Lei si fece interessata, sorrise, e lui per poco non si sciolse.

-”Prego siediti...”-

-”Romano.”-terminò lui con un sorriso, rosso per l'emozione e per l'imbarazzo.

Lei annuì e gli sorrise ancora candidamente.

-”Allora, prego, siediti Romano.”-gli porse la mano mentre lui si sedeva davanti a lei-”Io mi chiamo Bella. Piacere di conoscerti...”-

Lui sorrise ancora, ammaliato da tanta luminosità e, probabilmente, anche da tutto quel rosa che portava addosso. Strinse la mano.

-”Il piacere è mio.”-

Bella si diede una ravvivata ai capelli chiari. Romano la trovò davvero stupenda, stupenda ed irraggiungibile. Eppure era lì, seduto davanti a lei.

Per un attimo gli parve come se non si sentisse più lui. Come se quella persona, che se ne stava a sorridere e a parlare allegramente con quella dolce ragazza, non fosse lui ma qualcun altro. Per la prima volta dopo tanto si sentì felice. Una felicità che non provava da tanto e che, perciò, lo sorprese nel profondo.

-”Non sei spagnolo, vero?”-gli chiese lei sorridendo. Il ramato scosse la testa.

-”E' vero, sono italiano.”-rispose-”Ma anche tu non sei di qui, giusto?”-

Lei alzò un sopracciglio senza togliere quel sorriso.

-”Dici?”-chiese lei-”E secondo te di dove sono?”-fece posando delicatamente il palmo sulla guancia. Come poteva una donna essere così dannatamente attraente?

Romano si morse un labbro per poi sorridere, cercando di nascondere il suo interesse per quelle labbra stupende, tirate in un sorriso altrettanto ipnotico.

-”Bhè, hai una pronuncia particolare.”-disse lui-”Sei francese, forse?”-

Bella lo guardò per un attimo stupita, poi rise.

-”Ci sei andato vicino.”-si portò una mano alla bocca, cercando di contenere, elegantemente, le risa. Romano, che di solito si innervosiva non appena qualcuno ridesse di lui, non poté fare a meno di credere che la sua risata fosse dolcissima.

-”Sono belga.”-continuò lei.

-”Belga?”-chiese un po' sorpreso-”E come mai sei qui a Madrid?”-le chiese.

Il suo sorriso si fece più piccolo.

-”Qualche anno fa ero venuta qui per lavoro, e ci sono rimasta per molto tempo. Qualche settimana fa, invece, ho poi deciso di tornarmene a casa.”- affermò.

Lui seguì le sue parole come oro colato. Si sentì un po' sciocco ma non poteva farne a meno.

-”E come mai sei nuovamente qui?”-

Il suo sguardo si fece duro, Romano se ne accorse.

-”Ho dei conti in sospeso.”-fu la risposta semplice. L'italiano annuì, non facendo altre domande. Che cosa gli era preso a Bella?

-”Ma parlami di te.”-fece lei tornando quella di prima-”Coma mai un italiano è venuto fin qui?”-chiese guardandolo intensamente. Lui si grattò la nuca.

-”Per lo studio. Sono all'ultimo anno di università.”-

Lei alzò le sopracciglia interessata. L'ennesimo largo sorriso si espanse sul suo volto.

-”Wow!”-fece, probabilmente, molto colpita-”In che campo?”-

-”Chimica.”-rispose cercando di non fissare così intensamente le sue labbra. Lei sembrò accorgersi del suo smarrimento. Sorrise nuovamente, questa volta però con un po' di scherno ma Romano non sembrò accorgersi di nulla.

Ci fu un momento di silenzio, in cui la musica del locale regnò sovrana.

-”Io comincio ad avere sete.”-fece lei mettendosi più comoda sullo schienale della sedia sulla quale era seduta-”Tu no?”-

Romano si alzò.

-”Vuoi che ti porti qualcosa?”-fece lui cercando di apparire servizievole. Bella sorrise ed annuì.

-”Che prendi?”-le chiese prima di lasciare il tavolo. La belga alzò le spalle e sorrise provocatoria in modo da farlo arrossire.

-”Fai tu.”-

-”Torno tra poco.”-

Si allontanò dal tavolo con il vuoto nella mente. Improvvisamente si rese conto che il cuore tamburellava imperterrito nel petto. Chissà da quanto tempo pompava così e lui lo stava ignorando. L'ennesimo sorrisino idiota gli si delineò sul volto.

Si sentiva bene, si sentiva diverso, sì, si sentiva un'altra persona. E quello gli bastava per sentirsi felice, essere un altro, anche solo per una sera.

Si presentò davanti al bancone con un viso completamente spaesato e contento. Gilbert, che lo aveva appena visto, rimase per qualche secondo a guardarlo senza dire una parola.

-”Romano?”-

-”Oh, Gilbert, amico!”-sorrise felice-”Perché non mi prepari due pinte di birra?”-

Il tedesco per poco non ruppe i bicchieri che teneva tra le mani.

-”Eh?”-fece.

Come lo aveva chiamato? “Amico”? Lo guardò esterrefatto. L'italiano intanto continuava a guardarlo con una faccia da chi era appena sceso dalle montagne russe.

-”Ehm...”-si guardò in torno, come in cerca di aiuto-”Ma non eri andato in bagno?”-

Romano lo guardò non capendo.

-”Come?”-vedendo che non rispondeva lo ignorò-”Allora, me le fai queste due birre?”-chiese, cominciando ad essere ansioso.

Gilbert prese a riempire le pinte, sempre con lo sguardo su quello strano individuo. Il tedesco si ritrovò ad analizzare due possibilità sul comportamento del ramato. O era estremamente soddisfatto di come erano andate le sue cose in bagno, oppure, era successo dell'altro; dell'altro che, di certo, non riguardava una porta ed un gabinetto.

-”Come mai due? Mi sembri già bello che ubriaco...”-affermò preoccupato e con le sopracciglia alzate. Romano lo guardò innervosito.

-”Ma che dici, non ho bevuto.”-gli fece segno di muoversi-”E poi non sono tutte e due per me.”-afferrò le birre dalle mani dell'albino. Dopo quelle parole, qualcosa sembrò passare nel cervello di Gilbert.

-”Come, come?”-fece sbattendo le mani sul bancone-”Hai rotto il ghiaccio con qualcuno?!”-

Romano arrossì piccato.

-”Perché lo dici come se fosse una cosa impossibile?”-dicendo così girò i tacchi e se ne andò con le sue birre.

Il tedesco lo seguì con lo sguardo tra la folla di persone che ballavano, finché non lo vide sedersi ad un tavolo. Con il cervello ormai fumante, cercò di capire chi fosse quella donna, sicuramente di facili costumi, che aveva trovato il coraggio di parlare con quel ragazzo. L'unica cosa che riconobbe da quella distanza, e che lo mise in allarme, fu il capotto rosa che portava.

Sentì una mano toccargli la spalla facendolo trasalire.

-”Ehi, Gil!”-fece Francis tutto euforico-”Che diavolo combini! C'è una marea di gente, non startene con le mani in mano...”-il suo entusiasmo finì non appena si accorse del suo sguardo fisso.

-”Che succede?”-chiese.

Il viso incredulo del tedesco si voltò verso di lui.

-”Quella...”-fece indicando con lo sguardo un punto lontano-”Quella seduta davanti a Romano non è Bella, vero? Vero?!”-
Il francese rimase qualche secondo ad osservere il viso isterico del prussiano, per poi passare al punto del pub in questione. Per poco non svenne. Che diavolo faceva ancora qui quella dannata belga? Ma soprattutto che ci faceva Romano con lei?

-”Non è possibile...!”-fece scuotendo la testa incredulo.

-”Cosa non è possibile?”-

La voce di Antonio. I due amici si voltarono come punti da un ago.

-”Dov'è Romano?”-chiese di nuovo il moro mentre si passava una mano sulla fronte sudata. Francis sospirò ed alzò le spalle.

-”Sembra che la serata stia per prendere una brutta piega...”-

Gilbert annuì addolorato. Antonio li guardò interrogativo.

-”Si può sapere che succede?”-

 

Bella gli sorrise nel vederlo tornare.

-”Sai,”-fece bagnandosi appena le labbra con la birra-”anche io conosco uno dei baristi.”-

Romano si fece attento, posò un gomito sul tavolino.

-”Chi?”-chiese con un lieve dispiacere. Lei, con discrizione, spostò la pinta di birra da un lato. Che sapore orribile, così amara. Ma perché finiva sempre per berla? Tornò all'italiano, gli sorrise nuovamente ad alzò le spalle.

-”Bhè, diciamo che li conosco tutti.”-ridacchiò con un po' di imbarazzo-”Però, quello che conosco meglio, è Antonio.”-

L'italiano rimase di sasso. Antonio. Voltò la testa verso il bancone e vide lo spagnolo parlare con Francis e Gilbert. Sorrise, cercando di nascondere lo stupore ed un lieve fastidio.

Possibile che quell'idiota conoscesse una simile bellezza?

Tornò a guardarla. Ora che ci pensava non era poi tanto strano. Lui era così gentile e popolare, perciò, non era poi tanto difficile credere che si siano conosciuti.

E poi aveva detto che si conoscevano bene. La cosa lo fece un po' arrossire. Bene quanto? Possibile che lei fosse quella famosa ragazza che aveva fatto soffrire lo spagnolo?

No, impossibile. Più la guardava sorridere più si rendeva conto che mai, una ragazza tanto dolce come lei, avrebbe potuto far soffrire qualcuno. Se mai il contrario.

-”Come mai vi conoscete?”-chiese d'istinto. Nel vedere l'imbarazzato rossore che si delineò, con una dannata grazia, sul volto di Bella si sentì scoppiare il cuore-”No, ecco, è solo curiosità.”-sorrise un po' in agitazione-”Io sono il suo inquilino...”-non seppe perché lo disse, si diede dell'idiota.

Lei sorrise, sempre con quel lieve imbarazzo sulle candide guance.

-”Come ti ho già detto, sono venuta per la prima volta qui in Spagna qualche anno fa... E' stato proprio nel periodo più duro della mia carriera che ho incontrato Antonio e gli altri. Antonio è un così bravo ragazzo, sai? Penso che te ne sia accorto, visto che vivete insieme. E' molto gentile...”-sorrise persa, come se fosse tornata indietro nel tempo.

Romano si sentì un po' escluso. Possibile che più cercasse di farsi una vita, più si rendeva conto, che quella di Antonio, occupava gran parte del mondo?

-”Ma parliamo di te.”-fece lei, tornando quella di prima-”E bene, sei qui da cinque anni, sono difficili gli studi?”-

L'italiano sorrise, ringraziando mentalmente la belga di essere così gentile. Probabilmente si era accorta del suo disagio.

-”Bhè, questo ultimo anno lo è parecchio.”-disse portandosi la birra alle labbra-”Non vedo l'ora di riuscire a laurearmi, così questa tortura finirà.”-

Lei sorrise ed alzò le spalle.

-”Dopo dovrai trovarti un lavoro, però...”-

Il viso di Romano si fece più rigido. Era vero, lo sapeva. Sarebbe stata dura anche dopo gli studi. Sospirò. Ma quando mai la sua vita era stata facile?

-”Tutto bene?”-gli chiese Bella, vedendolo sospirare in quel modo. L'altro si irrigidì.

-”Come...?”-nel vedere il viso accigliato della belga, non poté che arrossire leggermente. Scosse le mani e sorrise-”Certo, figurati. Tutto bene...”-

Lei sembrò di colpo rattristarsi.

-”Scusa, è per qualcosa che ho detto, vero?”-chiese mortificata-”Non volevo risultare invadente.”-

Lui scosse la testa, sorpreso da quel suo comportamento.

-”Ma no, figurati.”-le sorrise-”Non è per colpa tua, non centri nulla.”-

Lei sembrò riacquistare un lieve sorriso.

-”Allora cos'hai?”-gli chiese sfiorandogli una mano. L'italiano si sentì percorrere da un brivido leggero, da una sensazione di benessere che non aveva mai provato.

Possibile che tutte quelle belle emozioni fossero causate solo dal suo tocco? La guardò spaesato, come se cercasse di ritrovarsi in quegli occhi.

-”Cos'è che ti rende triste?”-gli chiese ancora-”Ti ho visto, sai? Davanti al bancone, poco prima, sembravi così giù...”-

Lui arrossì. Lo stava osservando? Non se ne era accorto. Certo, era troppo impegnato a fissare Antonio. Si chiese quale fosse stato il motivo che lo aveva spinto a guardare lo spagnolo con tanto interesse. Non riusciva più a ricordarlo.

Ora nella mente aveva solo i suoi occhi. Non sentiva più la fastidiosa musica, né l'odioso odore del fumo. L'unica cosa che riusciva a percepire chiaramente era la sua mano sfiorata da quella della della belga, le parole gentili della ragazza rivolte verso di lui.

Possibile che quella donna riuscisse a fargli percepire delle simili emozioni?

Sensazioni ed emozioni ormai così sconosciute, così lontane e remote, che, nel sentirle arrivare tutte insieme, si sentì in qualche modo spaesato. Come se fosse entrato in una specie di sonno velato che lo rendeva leggero e felice. Si sentiva un altro. Come se un “altro Romano” fosse nel suo corpo, come se “quest'altro” fosse un lui migliore, più felice.

Come avrebbe voluto rimanere per sempre “quell'altro”. Com'era dolce quella sensazione.

Com'è dolce Bella...

-”Ti è forse successo qualcosa?”-insisté dolcemente lei-”Non ho mai visto degli occhi così tristi.”-disse atteggiando le labbra ad un sorriso dolce.

-”E' che...”-si fermò, sorpreso dal semplice e doloroso fatto che voleva dirglielo, che voleva confidarsi con lei. Lei, una semplice sconosciuta, mentre poco più in là c'era un Antonio che moriva dalla voglia di farsi suo confidente.

Antonio...

Per un attimo il leggero pensiero dello spagnolo sembrò persuaderlo dal raccontare tutto a Bella ma, ormai, quegli occhi grandi sembravano leggerlo nel profondo.

Come se lei potesse leggere tra le righe, come se lei riuscisse a capire perfino i suoi silenzi. Ciò gli mise paura ma, inaspettatamente, in qualche modo gli piacque.

-”E' che...”-

Assolutamente, il pensiero rivolto, poco prima, ad Antonio era scomparso. Scomparso in quella valanga di emozioni.

-”...Ho parecchi problemi che non riesco a risolvere e parecchi ricordi che non riesco a cancellare...”-

Che stava facendo, che stava dicendo, davvero voleva dirglielo?

Lei strinse la mano sulla sua e Romano sentì un brivido lungo la schiena.

-”Che tipo di ricordi?”-chiese lei interessata. L'italiano si scoprì ad aprire bocca, si scoprì stufo, stanco di tenersi tutto dentro e volenteroso di parlare, di confidarsi. Eppure dentro di sé c'era ancora qualcosa che lo frenava.

Davvero lo sto facendo...?

-”Ricordi legati alla mia infanzia, a tutta la mia vita fin ora...”-abbassò il capo sconvolto. Lo aveva detto, lo aveva ammesso. Mai aveva detto a qualcuno questi suoi pensieri.

Dentro di sé qualcosa si ruppe e ne uscì del sangue ma, a nascondere il dolore, venne immediatamente quella dannata e stupenda sensazione di liberazione, che, come una droga, attutì completamente i suoi sensi ed il suo dolore.

Tutto quello che provava era un qualcosa di ovattato, di lontano, ed il dolore non si sentiva, non che non ci fosse.

-”Vuoi parlarne? Magari dopo ti sentirai meglio...”-

Bella lasciò la sua mano per andare ad alzargli il volto basso. Lo prese aggraziatamente dal mento, portandogli il viso alla sua altezza.

-”Vuoi?”-gli chiese ancora dolcemente, come se volesse cullarlo.

Romano arrossì ma non si ritrasse al suo tocco. Cosa che avrebbe sicuramente fatto, un tempo. Ma lui, non era più lui.

Non posso, non posso!

Le prese la mano, combattuto, e la strinse. Sospirò e chiuse appena gli occhi.

-”Sei disposta ad ascoltarmi?”-chiese lui con la morte nel cuore.

Non posso farlo! Non posso!

-”Certamente...”-confermò lei cercando di capire che gli passasse per la testa.

Non posso farlo...! Almeno non con lei...

La sua coscienza gridava disperata, come se in una parte dentro di sé, ci fosse ancora il “vecchio lui”. Come se ci fosse ancora il Romano triste, il Romano ormai rassegnato, arreso.

Le lasciò la mano, ancora confuso, ed abbassò il capo. Bella lo guardò per un attimo pensierosa, poi gli sorrise benevola.

-”Tranquillo, non voglio metterti in difficoltà.”-gli disse-”Se non vuoi parlarne non fa nulla.”-

Per lui quelle parole furono come ritornare a respirare improvvisamente.

-”Te ne sarei grato.”-disse infine.

Lei rise e lui la trovò ancora più bella.

 

 

No, si rifiutava di crederlo. Si morse un labbro ed attraversò la marea di gente con furia.

-”Aspetta, Antonio!”-gli urlò Francis da dietro il bancone ma fu ignorato. Ancora con adosso la divisa da lavoro cominciò a farsi largo a spintoni.

Cos'era quell'improvvisa voglia di urlare? Non riusciva più a controllarsi, non sapeva più che pensare o cosa fare; si sentiva completamente disorientato. L'unica cosa certa era che non poteva lasciarla lì. Non con Romano.

Maledetta. L'aveva rifiutata ed adesso, oltre a ripresentarsi come se niente fosse, voleva torturare anche Romano?

Mai e poi mai le avrebbe permesso di fargli del male come aveva fatto con lui. Aveva sofferto così tanto a causa sua, a causa di quel suo dannato carattere. L'avrebbe cacciata, l'avrebbe cancellata definitivamente dalla sua vita.

E finalmente quella terribile sensazione di “nulla”, di disorientamento, sarebbe terminata una volta per tutte. Ecco, pochi metri e sarebbe arrivato al loro tavolo, ma proprio mentre stava per aprire bocca e parlare qualcosa lo frenò. Si fermò all'improvviso, vicino alla colonna in penombra, poco più indietro di loro.
Fermi, quello che adesso stava provando cos'era?

Dolore, sorpresa, rabbia?

Quello che si era formato, così naturalmente, sul viso di Romano era forse un sorriso? Le gambe gli si paralizzarono, così come le parole gli si gelarono nella gola.

Quel desiderio di urlare, quella rabbia ceca, sembrava essersi dissolta. Al suo posto solo una placida tristezza, delusione.

Dolore.

Sembrava così felice mentre parlava con lei, sembrava così sciolto e socievole. Sentì la rabbia scemare definitivamente, ed al suo posto, farsi lentamente e dolorosamente strada una nuova ed atroce sofferenza. Una sofferenza sorda, lontana, ma presente. Quante settimane aveva dovuto aspettare prima che Romano parlasse con quel trasporto, anche con lui?

Qualcosa dentro si lui si ruppe, un qualcosa che sarebbe stato difficile riparare.

Ma adesso, che lo guardava ridere e scherzare con Bella, si rendeva pienamente conto che, per lui, mai ci sarebbe stato un sorriso del genere; mai ci sarebbero state quelle risa e quelle parole.

E la cosa gli fece sorprendentemente male.

Si portò una mano sul grembiule del bar e strinse la stoffa.

Lei era sempre uguale. Era bellissima, di una bellezza mozza fiato, così come lo erano i suoi sorrisi. Quei sorrisi che, magari, sembravano sinceri ma che in realtà nascondevano molto.

Bhè, lei è bella, lei è una donna, mentre io sono solo un semplice ragazzo...E' normale che sia così.

Quel suo stesso pensiero non seppe come leggerlo.

Come capiva Romano, eppure, come non riusciva a comprenderlo.

Il desiderio di andare lì e portarlo via era grande, ma come poteva mettersi in mezzo? Come poteva portarlo via se, lei, era l'unica che era riuscita a farlo sorridere in quel modo?

Sentì come se l'aria intorno a lui fosse divenuta all'improvviso irrespirabile. La presa sul grembiule si fece più forte e sofferta.

Fu un attimo.

I loro occhi si incrociarono.

Bella alzò lo sguardo, notandolo. Da prima, nei suoi occhi, notò lo stupore. Poi una felicità crudele, poi derisione, poi divertimento.

Già, perché poi alla fine era quello che importava: il divertimento.

Il suo divertimento. E proprio in quell'attimo lei gli sorrise. Uno di quei suoi sorrisi che svelavano quello che era realmente.

Fu troppo.

Diede le spalle a quella scena. All'improvviso sentì il dolore di tutti i gironi passati cadergli adosso, tutte le esperienze negative che era stato costretto a passare.

Si allontanò, immergendosi nuovamente nella folla di gente. La testa bassa, lo sguardo fioco, velato. Francis e Gilbert lo videro tornare.

-”Antonio...”-questa volta parlò il tedesco.

-”No...”-sussurrò lo spagnolo senza guardarlo in volto. Si tolse il grembiule-”No.”-ripeté scuotendo la testa-”Esco un attimo...”-lo lanciò dietro il bancone.

-”Aspetta, dove vuoi andare?”-insisté Gilbert.

Antonio non rispose, si diresse verso il retro del locale a gran passi, tanto che, i due amici rimasti a guardarlo, rimasero in silenzio.

E la musica, come ormai faceva da troppo tempo lì dentro, tornò ad oscurare quei silenzi intrisi di domande inascoltate.
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Note

La domanda ora è: avrà mai fine tutto questo soffrire?

Honodetsu:D

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Capitolo 6
*** 5 ***


Dannazione, si era mostrato così debole agli occhi dello spagnolo. Affondò il viso nel cuscino, cercando di fermare le lacrime che continuavano a spingere.

Che vergogna, maledizione. Non gli era mai capitato di sentire quel dannato ed improvviso bisogno di piangere, o almeno, non gli era mai capitato davanti a qualcuno.

Le parole di Antonio avevano risvegliato in lui qualcosa di assopito da ormai troppi anni. Si portò una mano sul petto. Ecco la solita oppressione.

Odiava provarla, odiava non capire che fosse, a cosa fosse dovuta.

In qualche assurdo modo, però, lo spagnolo lo aveva fatto sentire meglio. Nonostante in lui, il ricordo di quei tristi tempi dell'infanzia si fossero risvegliati, da una parte si sentiva davvero meglio.

Come se adesso a condividere quel peso sul petto non fosse più solo lui. Come se, una piccola parte di peso, adesso; la portasse anche Antonio.

Si vergognò di quel pensiero. Si vergognò di essersi confidato con lui. Certo, ancora non gli aveva detto nulla ma si sentiva come se lo spagnolo sapesse già tutto. Come se lo conoscesse da sempre.

Possibile che sapesse come trattarlo? Come comportarsi con lui?

Nessuno c'era mai riuscito. Nemmeno suo fratello, Feliciano, era mai riuscito a comprenderlo. Che avesse finalmente trovato qualcuno che riusciva a capirlo?

Sentì come il cuore scoppiare e le lacrime farsi sempre più amare e dolorose.

No, forse non dolorose, forse non amare. Ma forse più leggere, dolci, addirittura. Come se quel pianto lo stesse purificando completamente.

E lui, lo sapeva, aveva molto da farsi purificare.

 

Antonio prese la chiavi del pub e se le mise in tasca. Forse aveva un po' esagerato con Romano. Non avrebbe dovuto insistere in quel modo con lui. Insomma, se non voleva parlarne non poteva mica insistere così tanto.

Non sapeva perché, ma vederlo in quello stato gli faceva male. Un male terribile. Quegli occhi tristi e velati, quella sua dannata ed impenetrabile armatura.

Ormai aveva capito che il motivo di quella sua tristezza era dovuto ad un qualche episodio della sua infanzia, del suo passato.

Ma cosa? Cosa poteva sconvolgere così tanto una persona da ridurla in quello stato?

Forse un abuso, forse un lutto, forse un qualcosa di traumatico. Antonio rimase ad analizzare ogni possibilità. Si ritrovò ad arrossire tra sé nel rendersi conto che stava esagerando.

Romano era una persona normalissima, era solo scontroso e non aveva molti amici. Non era mica un caso clinico.

Si sedé su una sedia e non poté fare a meno di ripensare all'espressione di Romano, di poco prima. Erano state una sorpresa per lui quelle parole sincere da parte dell'italiano.

Posò una guancia sul palmo. Forse, però, non aveva fatto poi così tanto male ad insistere. Era vero che dopo quella conversazione ne era uscito distrutto, quasi in lacrime, ma era anche vero che aveva affermato che ora lo riteneva un amico.

Sospirò, sapendo che ancora gli sfuggiva qualcosa.

Bhè, prima o poi si confiderà con me... Tutti hanno bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, persino quel testone di Romano...

Sorrise intenerito da quelle lacrime che aveva cercato, invano, di trattenere. Più passava il tempo, più si rendeva conto di tenere sempre di più a Romano.

Giurò a sé stesso che avrebbe spazzato via quell'infelicità dal cuore dell'italiano. Non seppe darsi un significato al quel pensiero, a quel desiderio, sapeva solo che non poteva più sopportare di vederlo così. Il cellulare prese a vibrargli nella tasca.

-”Sì?”-rispose mentre si dirigeva verso il salone.

-”Ciao, sono di nuovo io, ho parlato con Gil.”-era la voce del francese. Antonio aggrottò la fronte. Cos'era quel tono preoccupato che aveva assunto?

-”Che succede?”-

-”...Sembra che Bella ti abbia cercato.”-

L'aria sembrò raggelarsi di colpo.

No, non lei...

-”Ah, sì?”-chiese incolore, con il cuore che aveva preso a pompare all'impazzata-”Che ti ha detto?”-

Francis sembrava indeciso, un po' in difficoltà. Prese coraggio.

-”Non ci ho parlato io. E' venuta al pub mentre io ero da te...”-fece l'ennesima pausa-”Ha parlato con Gilbert e sembra che, lei, voglia vederti...”-

Il viso di Antonio divenne cupo.

-”Parlare, eh...?”-si ripeté. Chiuse gli occhi con stanchezza infinita-”Che vorrà ancora...?”-disse, ma senza rivolgersi realmente al francese. Forse era una domanda a cui non c'era un destinatario preciso. Così come non ce ne era una risposta.

-”Forse vuole farsi perdonare.”-fece Francis tornando con la sua aria calma.

Nel ricordare tutto quello che gli aveva fatto passare quella donna si sentì mancare. Mai l'avrebbe perdonata e mai le avrebbe parlato di nuovo. Che cosa voleva ancora? Che pretendeva?

Lo aveva già consumato da molto tempo, tutt'ora non riusciva ancora a riprendersi. Sorrise amaro.

-”...Ormai è tardi, non voglio più vederla.”-disse, cercando di mantenere un tono calmo-”Gilbert l'ha cacciata? Le ha detto di non farsi più vedere?”-chiese con una voce strana, che tradiva il suo tentativo di apparire sereno. Una voce che, Francis capì, era ormai arrivata al limite.

-”Sì...”-sorrise appena, cercando di far viso a cattivo gioco-”Ma sai come è fatta...”-

Antonio posò la schiena contro la parete. Cos'era quel vuoto improvviso che stava provando nello stomaco?

-”E' molto probabile che insisterà, perciò, ti consiglio di ascoltarla una volta per tutte e di spiegarle che tra voi è finita...”-

A quelle parole sgranò gli occhi. Come poteva dire una cosa del genere? Lui c'era, aveva visto quello che gli aveva fatto quella donna; come poteva parlare così?

Strinse le dita intorno al cellulare.

-”Al diavolo!”-lo interruppe alzando la voce.

Il francese rimase sorpreso da quello scoppio improvviso. Antonio alzò nuovamente la voce.

-”Quello che dovevo dirle l'ho già detto parecchio tempo fa.”-i suoi occhi erano furenti di una rabbia repressa da mesi-”Non voglio più vederla, non voglio più parlarle!”-

Sentì la porta della stanza di Romano aprirsi, ed un italiano affacciarsi preoccupato. Appena lo vide cercò di calmarsi. Si morse un labbro e gli diede le spalle.

Non ora, non ora!

Arrossì e serrò gli occhi per la vergogna.

-”Antonio... Credimi, capisco benissimo quello che provi, chérì.”-disse assumendo un tono dolce ma non malizioso. Un tono che assumeva solo con i suoi amici più cari-”Ma cerca di capire: fuggire non servirà a nulla.”-

Lo spagnolo posò una mano sul muro, sperando di nascondere il viso all'italiano ma inutilmente, poiché Romano si richiuse la porta alle spalle ed entrò definitivamente nel salone.

Antonio sorrise amaro, un sorriso che, il ramato, trovò terribilmente triste. Un sorriso che non apparteneva allo spagnolo che conosceva.

-”Sarà anche vero...”-sussurrò al telefono, cercando di ignorare lo sguardo curioso e preoccupato dell'amico-”Ma sono così stufo di soffrire per lei...”-

A quelle parole l'italiano si irrigidì, capendo di essere di troppo. Lo vide per l'ennesima volta sfuggire al suo sguardo. Si sentì un tale impiccione.

Cercò di posare immediatamente lo sguardo altrove, cercando di far finta di nulla, e dirigendosi nuovamente verso la sua camera. Antonio lo seguì appena con lo sguardo.

Come avrebbe voluto fermarlo per raccontargli tutto. Come avrebbe voluto sfogarsi con lui. Ma, in fondo, perché avrebbe dovuto desiderarlo? Lo conosceva da così poco, eppure già sentiva il bisogno di doverlo rendere partecipe all'evento più doloroso della sua vita.

-”Antonio, sei ancora lì?”-la voce del francese.

Non chiuderti in quella fortezza... pensò mentre l'italiano apriva la porta della sua stanza ...Ti prego, mostrati un po' più interessato, ne ho bisogno...

-”Antonio?!”-

Ti prego!

Superò la soglia.

Non seppe perché ma il suono di quella porta che si chiudeva gli fece un gran male.

-”Sì, sono ancora qui...”-

 

Lei?!

Romano se ne stava con la schiena posata sulla porta per l'imbarazzo e lo stupore.

Lei?!

Chi era la persona per la quale, lo spagnolo, era stufo di soffrire? Insomma, chi era questa “lei”?

Si sorprese di essere terribilmente curioso. Sorrise malizioso. C'era una tragica storia d'amore alle spalle di Antonio? Ridacchiò tra sé, divertito anche solo dal fatto di poterlo immaginare con qualche ragazza. La voglia di deriderlo e ridere finì nel ricordare quel sorriso. Quell'espressione.

Si diresse verso la scrivania disordinata. La guardò con fastidio. Ecco, lo sapeva, quello che una volta era un ripiano liscio ed ordinato, ora era un disastro. Si mise a sedere sul letto e fissò la porta.

Perché quegli occhi lo avevano colpito in quel modo?

Allora anche lui aveva i suoi problemi, non lo aveva mai visto così. Dovette ammettere a sé stesso che, lì per lì, si era spaventato. Gli aveva fatto paura quello sguardo vuoto. Forse avrebbe dovuto smetterla di trattarlo in quel modo freddo e distaccato.

Probabilmente anche Antonio aveva bisogno di qualcuno con cui confidarsi. Un momento, con questo si stava praticamente dicendo da solo che, anche lui, aveva bisogno di sfogarsi?

Si riscosse, dandosi dell'idiota.

Non aveva bisogno di nessuno, non si era mai confidato con nessuno e non voleva di certo cominciare ora. Si morse un labbro e guardò le pieghe delle coperte.

Nonostante non volesse, non riusciva a dimenticare quello sguardo. Gli era sembrato così triste.

-”Ehi, Roma, sei pronto?”-la voce, fin troppo allegra, di Antonio. Guardò scettico la porta. E meno male che era giù di corda.

-”Sì, dobbiamo andare?”-chiese scendendo dal letto ed avviandosi nel salone. Eccolo, gli dava le spalle. Si girò ed annuì-”Pronto a divertirti?”-

E quel sorriso cos'era? Dov'era finito quello sguardo triste? Dov'erano finiti quegli occhi velati? Lo guardò sorpreso e sospettoso. Nel vederlo così provò una profonda irritazione. E lui che si stava preoccupando tanto.

-”Andiamo scemo, prima che cambi idea.”-

 

Una confusione micidiale. Una puzza di fumo ed alcool che impregnava i vestiti, che entrava a forza nelle narici. Quelle furono le prime cose che notò l'italiano.

Poi, la luce fica e la molta gente, troppa.

Si mise seduto al bancone, guardandosi disorientato in torno. Ovunque c'era gente che ballava e che beveva. Quell'atmosfera lo metteva un poco a disagio.

-”Allora, vuoi qualcosa? Offre la casa...”-fece Gilbert mentre serviva un cocktail dopo l'altro.

Romano posò lo sguardo sullo spagnolo, che intanto serviva un poco più in là. Continuava a sorridere, a tutti, nessuno escluso. Nemmeno a clienti, che magari, si meritavano una rispostaccia.

Ma forse è proprio per questo che è un bravo barista... Sorride sempre... Io non ne sarei capace...

Ma c'era qualcosa di diverso del solito nel suo sorridere.

-”Dammi quello che vuoi...”-fece un po' rigido, mentre posava la guancia sul palmo e continuava a seguire distrattamente, Antonio, con lo sguardo.

Gilbert lo guardò appena.

-”Cavolo, avrai mica troppo entusiasmo?”-brontolò sbattendogli davanti una pinta di birra-”Avanti, bevi, tirati un po' su. Si può sapere che hai?”-gli chiese.

Romano lo guardò placido.

-”Perché che ho?”-

-”Sei...”-fece asciugandosi le mani con un canovaccio-”...Sei rigido!”-

-”Cosa?”-farfugliò l'altro guardandolo piccato.

Gilbert ridacchiò.

-”Sì, insomma, cerca di essere più rilassato.”-alzò le spalle-”Sorridi, conosci gente, divertiti...”-lo guardò serio-”Ma soprattutto trovati una ragazza, ne hai un estremo bisogno.”-

Romano per poco non si strozzò con la birra.

-”Ehi, che vorresti dire?”-lo guardò male-”Che sono un rompi palle?”-

Ridacchiò.

-”Per quanto mi riguarda mi diverto un mondo a farti arrabbiare. Comunque, io lo dico per te.”-alzò le spalle-”Poi decidi tu!”-

L'italiano lasciò scivolare lo sguardo sulla schiuma della birra. Sorrise tra sé.

-”In questo periodo non sono molto interessato ad impegnarmi in una relazione seria. Ho troppo da fare con lo studio...”-

Il biondo platino si mise proprio davanti a lui.

-”Antonio ha ragione, sei proprio un tipo strano.”-sorrise. Romano alzò un sopracciglio. Antonio parlava di lui? Nuovamente il suo sguardo cadde sullo spagnolo e la cosa lo innervosì. Tornò al tedesco.

-”E' forse successo qualcosa ad Antonio?”-chiese cercando di apparire poco interessato. Gilbert si voltò a guardare lo spagnolo. Sorrise un po' rassegnato.

-”Te ne sei accorto persino tu che lo conosci da poco, eh?”-fece mentre puliva dei bicchieri. Romano alzò le spalle, cercando di mostrarsi il meno curioso possibile. Gilbert si voltò verso di lui.

-”Eh, bhè, pene d'amore!”-disse con enfasi, sorridendo malizioso.

Qualcosa sembrò passare negli occhi dell'italiano.

-”E' innamorato di qualcuno?”-

-”Forse... Non è molto chiara la situazione.”-disse annuendo-”Già, è piuttosto complicato.”-

A questo punto Romano non riuscì più a contenere l'interesse.

-”Cosa è successo?”-

Gilbert si alzò lo sguardo dai bicchieri a lui. Quegli occhi rossi lo trapassarono da parte a parte. Sorrise in modo ambiguo.

-”Come mai così curioso?”-chiese, continuando con quel sorriso terrificante. Fece per aprire bocca ma non riuscì a dire nulla, si rese conto di essere arrossito.

-”E' che...”-cercò di riprendere il suo colorito naturale e di giustificarsi. Un momento, giustificarsi per cosa? Lo guardò omicida-”Ah! Vuoi parlare, idiota?”-

Gilbert lo guardò un poco offeso.

-”Non dovresti trattare così le persone da cui vuoi qualcosa... Dì che sono il migliore e forse te lo dirò.”-disse con aria altezzosa e con uno stupido sorriso. Romano alzò un sopracciglio.

-”Gilbert...”-

-”...Prova a chiedermelo in modo gentile.”-fece con superiorità. L'italiano sentì il sangue salire alla testa. Si portò una mano alla fronte.

Mi ero scordato che è un'idiota egocentrico...

-”Gilbert...”-ripeté con fastidio-”Perché sei così...”-non seppe come definirlo.

-”...Così magnifico?”-completò per lui.

-”No, assolutamente.”-fu la risposta secca e scettica dell'altro-”Tutto tranne quello.”-

-”Ehi, non ti conviene trattarmi così, no? Non volevi sapere qualcosa?”-sorrise, soddisfatto di riuscire a tenerlo in pugno. Romano sbuffò ed alzò gli occhi al cielo.

-”Oh, sua Magnificenza Gilbert, vuole cortesemente non rompere le palle e parlare?”-disse con asprezza. Il tedesco sorrise divertito.

-”Sì, è decisamente troppo divertente farti arrabbiare.”-commentò.

Romano sentì i nervi pulsare.

-”Tu vuoi litigare, vero?”-

L'altro rise. Dannazione, come lo faceva mandare ai matti.

-”Comunque, seriamente...”-tornò serio-”Sembra che qualche mese fa, Antonio, abbia conosciuto questa ragazza e che se ne sia follemente innamorato.”-

Romano annuì, ancora un po' irritato per prima.

-”Si misero insieme, poiché anche lei sembrava molto presa dal loro rapporto. Stettero bene insieme, devo ammettere che erano una bella coppietta quei due.”-

L'italiano alzò le spalle.

-”Allora dov'è il problema?”-

Gilbert si fece cupo.

-”Che hanno cominciato a litigare. Litigavano continuamente, anche per le cose più futili. Antonio era molto innamorato, perciò lei se ne approfittava continuamente.”-sorrise tra sé-”Quel ragazzo è troppo buono, questa sua bontà lo sta uccidendo...”-

Romano rimase sorpreso da quelle parole. Già, lui era così gentile. Abbassò lo sguardo sulla pinta mezza vuota.

Lui sorride sempre... Lui è sempre pronto ad ascoltare...

-”Questa relazione lo stava davvero consumando.”-affermò poco dopo-”Non hai idea di come era ridotto. Soffriva davvero tanto.”-sembrò rattristarsi-”Io e Francis siamo stati così in pena per lui. Molte notti le abbiamo passate a casa sua, per fargli compagnia, negli ultimi tempi.”-

Romano dentro di sé si dispiacé per Antonio.

-”Sai, la cosa strana è che, da quando sei arrivato tu, sembra essersi ripreso magicamente.”-

L'italiano alzò lo sguardo sorpreso, ed incontrò un Gilbert sorridente.

-”Davvero?”-chiese.

-”Già, sembri tenerlo impegnato.”-disse divertito mentre riponeva i bicchieri dietro di lui. Romano lo guardò infastidito.

-”Ehi, che sono un cane?”-chiese mentre guardava appena Antonio sorridere ad una ragazza. Sentì distrattamente la risata di Gilbert confondersi con la musica del locale.

Aveva una sorriso così bello. Aveva degli occhi così belli. Era così gentile con tutti. Così pronto a tutto pur di dare una mano. Era sempre pronto a farsi nuovi amici.

Ma, soprattutto, Antonio c'era sempre per lui. Cosa che nessuno aveva mai fatto per l'italiano.

Nonostante non avesse voluto, Romano, si ritrovò a spiarlo da lontano. Cos'era che rendeva Antonio così interessante ad i suoi occhi?

L'italiano non riuscì a darsi una risposta e la cosa gli diede fastidio. Si portò la birra alle labbra e proprio in quel momento vide Francis cominciare a conversare con Antonio.

Riposò la pinta osservandoli.

Come sembrano uniti quei due... Parlano molto e ridono spesso insieme...

Qualcosa, in quella scena che gli si presentava d'inanzi gli diede fastidio.

Lo colpì nel profondo, turbandolo. Se ne chiese il motivo, infondo Francis ed Antonio erano vecchi amici d'infanzia, perché gli dava così fastidio il fatto che lo spagnolo gli sorridesse?

Io non potrei mai farlo star bene così...
Distolse lo sguardo, deciso dal fatto che non lo avrebbe più riposato su quei due per il resto della serata. Gilbert era andato più in là, a servire ad altri clienti.

Si guardò in torno sconsolato.

Meno male che dovevano rimanere con lui, che non dovevano lasciarlo solo. Sbuffò e diede le spalle al bancone.

C'era davvero tanta gente quella sera. Tante belle ragazze. Ne guardò alcune, che ballavano, in silenzio. Un tempo forse si sarebbe alzato e sarebbe andato da loro, ad attaccare bottone, ma adesso non ne aveva più voglia.

Un tempo avrebbe sorriso di più. Un tempo sarebbe stato capace di telefonare a casa, in Italia, per sapere come andavano le cose.

Già, un tempo ci sarebbe riuscito a fare tutte queste cose, sarebbe riuscito a vivere una vita normale.

Ma lui aveva smesso di avere una vita normale cinque anni fa.

Una ragazza diversa dalle altre entrò nel locale, attirandolo. Aveva un cappotto rosa e delicato, dei capelli corti che andavano sul biondo.

Era bella, bella davvero. La vide prendere posto ad un tavolo nella penombra, tra la musica forte. La cosa che la colpì furono i suoi occhi: grandi e belli.

Si rese conto di fissarla da troppo solo quando i loro sguardi si incrociarono. A quel contatto improvviso, Romano, arrossì e distolse lo sguardo.

Riportò le spalle alla pista da ballo e gli occhi al bancone.

Spero che non mi abbia notato...

-”Ehi, Roma, che hai?”-fece Gilbert-”Sei tutto rosso.”-disse distrattamente mentre preparava delle bevande. Romano si morse un labbro. Che voleva fare?

Rimanere seduto lì come uno sfigato o provare ad attaccare bottone? Il solo pensiero lo fece dubitare di sé stesso.

Aventi, scemo! Devi farcela!

Si alzò, posando le mani sul bancone.

-”Uh?”-fece il tedesco-”Te ne vai?”-chiese nel vederlo allontanarsi. Romano sorrise nervoso.

-”Vado un attimo in bagno.”-

Il tedesco annuì e tornò al suo lavoro.

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Note

...E che i giochi abbiano inizio...

Honodetsu:D

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Capitolo 7
*** 7 ***


Posò la schiena sul muro, lasciandosi andare completamente.

Era andato sul retro del locale, un vicoletto buio, illuminato solo dalla luce fioca di un lampione. Accanto alla porta si trovava il cassonetto dei rifiuti, mezzo rotto per via degli atti vandalici e della vecchiaia. Guardò incolore il muro sporco difronte a sé.

Quella donna. Quella dannata donna.

Di sicuro era tornata per lui. Di sicuro era qui per portare altro scompiglio nella sua vita.

Piegò le gambe e portò il peso del corpo sulle punte dei piedi, posò i gomiti sulle ginocchia e lasciò che il vuoto lo invadesse definitivamente.

Già il vuoto, anche perché, di dolore, ne aveva provato già troppo. Abbassò il capo riccioluto ed il ricordare arrivò puntuale come ogni sera.

 

Le risa dei due ragazzi erano forti, tali da rimbombare moleste per le strade silenziose di Madrid.

-”Sei sicuro di poter lasciare il lavoro?”-fece la ragazza bionda, cercando di moderare la sua risata-”Non passerai dei guai?”-

Antonio la strinse a sé.

-”Ma che guai, quel poltrone di Francis non si accorgerà di nulla!”-ridacchiò e la baciò di sfuggita accanto alle labbra-”E poi, non sei forse stata tu ad insistere tanto?”-

Lei sorrise maligna, allontanandolo un po' da sé. Alzò le spalle compiaciuta e, sotto lo sguardo innamorato e divertito dell'altro, ridacchiò.

-”E' vero...”-ammise.

Le si avvicinò e lo baciò appassionatamente. Antonio, nel mentre, la strinse a sé. Sciolse il bacio e posò la fronte sulla sua con gli occhi chiusi. Bella lo guardò in silenzio, cercando di capire, un po' infastidita, il perché di quella interruzione.

-”Ti amo...”-dichiarò piano lui.

Lei sorrise un po' divertita. Lo ripeteva continuamente.

-”Sì, sì, lo so...”-e tentò di baciarlo nuovamente, cercando di farlo stare zitto. Lui aprì gli occhi e la lasciò fare.

-”Davvero, Bella, io ti amo moltissimo.”-insisté-”E ti amerò per sempre.”-

Lei rise, prendendolo in giro.

-”Antonio, stai diventando monotono, lo ripeti continuamente!”-gli accarezzò il volto e ridacchiò tra sé-”L'ho capito, sai? Anche io ti amo.”-lo disse come per fargli un piacere.

Dentro di lui rimase male per quelle parole, ci soffrì molto. Ma l'amava troppo per poterglielo dire, amava troppo quei baci.

L'amava troppo per potersi rendere conto che lei, invece, non lo era davvero.

 

Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse stato ingenuo. La cosa che gli faceva più male era il rendersi conto che, adesso, aveva paura. Aveva paura di affrontarla adesso che c'era anche Romano in mezzo. Non ne sapeva a pieno il motivo ma, quell'italiano, lo innervosiva.

Non riusciva a comprenderlo e vedere che qualcun altro, invece, riuscisse addirittura a farlo ridere non riusciva ad accettarlo.

Lui è mio...

Ancora una volta non riuscì a comprendere i suoi stessi pensieri. La mente lo riportò al ricordo di poco prima. Sospirò tornando nel vuoto che lo aveva inghiottito fin troppe volte e, che ormai, non gli era nuovo.

Lui l'aveva amata tanto.

Gli occhi verdi si oscurarono ed il suo viso sembrò d'un tratto sciuparsi.

Lui ne era stato seriamente innamorato, sarebbe stato anche disposto a passare il resto della sua vita accanto a lei. E non aveva perso l'occasione di dirglielo.

I suoi lineamenti si indurirono non appena ricordò quel dannato giorno. Quel giorno in cui le aveva chiesto la sua mano.

Alzò finalmente la testa, come se tutto quel ricordato gli avesse infine ridato la ragione. Sorrise amaramente tra sé. Com'era possibile soffrire ancora per un qualcuno che non si amava più?

Già, se lo era chiesto più volte ed non era ancora riuscito a trovare risposta. Non che l'amasse ancora, certo, era riuscito a riprendersi; ma rivederla seduta in quel tavolo lo aveva ferito.

Aveva come sentito una vecchia ferita riaprirsi, scucirsi ed infettarsi.

Ma lui era stufo di soffrire, era stufo di quella dannata ferita. Era arrivato il tempo di disinfettarla e ricucirla una volta per tutte.

E poi, Romano, doveva confessarsi con lui solamente.

Solo con lui.

Si alzò barcollante e, con una forza a lui sconosciuta, riuscì a trascinarsi fino al pub.

Ed ecco il caro puzzo di fumo ed alcool inebriargli i sensi. Avrebbe voluto cacciare la belga e riprendersi quell'italiano ma, nel ricordare quei suoi sorrisi, la forza gli mancò.

Perché non gli era stato più dietro quella sera? Se lo avesse fatto, a quest'ora, starebbero litigando al bancone e perciò, di certo, non sarebbe stato con Bella.

Con Bella...

La sua mascella si contrasse.

No, nonostante gli bruciasse quella sera non avrebbe fatto nulla, nonostante il suo cuore sanguinasse li avrebbe lasciati stare.

Ma solo per quella sera.

Prima di tornare a lavoro diede una controllata al tavolo in cui risedevano i due. Sgranò gli occhi incredulo nel notare che non erano più lì.

Tornò al bancone con una sorta di agitazione nel cuore, continuando a guardare quel tavolo vuoto.

Dov'è finita?

-”Oh, eccoti Antonio!”-la voce stranamente allegra di Romano-”Volevo farti vedere una persona.”-

Si voltò verso di lui ed il suo cuore perse un colpo nel vedergli Bella accanto. La belga sorrise indecifrabile.

-”Ciao, che piacere rincontrarci.”-

Non rispose subito a quel saluto. Il suo sguardo cadde su Francis e Gilbert che, dietro al bancone, guardavano la scena inermi.

-”Che fai qui?”-chiese duro, tornando a Bella.

Romano lo guardò interrogativo. Perché le aveva parlato con quel tono? Non era per niente carino ma, la belga, sembrò ignorarlo. Gli sorrise.

-”Passavo di qui ed ho deciso di venirti a trovare.”-affermò con uno sguardo dolce che allo spagnolo diede il volta stomaco-”Non sei felice di vedermi?”-

Come avrebbe voluto sputagli in faccia tutto il veleno che aveva in corpo, ma, nel vedere lo sguardo di rimprovero dell'italiano, si sforzò di sorridere. E bene, Romano, sembrava tenerci.

Il cuore del moro vibrò ancora una volta, minaccioso di rompersi.

-”No, sono felice di vedere che stai bene.”-ed ecco il sorriso tirato.

Lei, nel vederlo in difficoltà sembrò gongolare interiormente. Romano guardò sperduto i due. Cos'era quella brutta atmosfera?

Fece per aprire bocca ma fu preceduto dal tedesco.

-”Sì, davvero, stupendo!”-fece uscendo da dietro il bancone e dirigendosi verso Antonio-”Siamo tutti molto felici di rivederti, credimi, ho la felicità che mi esce da tutti i pori.”-enfatizzò alzando le sopracciglia ed allargando le braccia-”Ma adesso basta con tutte queste emozioni.”-posò un braccio intorno alle spalle irrigidite di Antonio-”E' meglio che vai o finiresti con l'ucciderci con tutta questa felicità.”-disse annuendo. Romano lo guardò con stupore e con rimprovero.

Ma che dice?

Cercò di dirgli con lo sguardo di finirla, ma fu ignorato completamente da quest'ultimo. Francis ridacchiò da dietro il bancone mentre, Antonio, non faceva altro che starsene zitto.

Il sorriso cordiale di Bella sembrò essersi un tantino ammaccato.

-”E' bello vedere che non sei per niente cambiato, Gil.”-affermò, cercando di mantenere un tono allegro. Il prussiano si incupì.

-”Gilbert...”-

Lei sorrise appena e mise un po' la testa di lato, con lo sguardo interrogativo. Aveva l'espressione da bambola, in un certo senso faceva paura.

-”Come?”-

Ma mai come provocava terrore, in quel momento, il tedesco.

-”Per te sono Gilbert.”-continuò sempre con quello sguardo torvo. Romano ridacchiò nevrotico, cercando di far tornare l'aria respirabile.

-”Ok, calmiamoci un po'...”-le parole gli morirono in gola nel vedere lo sguardo stanco di Antonio. Ancora quegli occhi, gli stessi di quel pomeriggio.

I suoi pensieri vennero interrotti dalla risata di scherno di Francis. Bella lo guardò infastidita.

-”Cos'hai da ridere tanto?”-gli chiese neutra.

-”No, nulla, chérì...”-disse ridacchiando con fare malizioso-”Pensavo a quando la tua bella pelle diafana, una volta tornata a casa, ti si sarà rovinata a forza di tutti quei sorrisini.”-lo disse in tono drammatico e divertito-”In un certo senso è uno spreco.”-

La belga cercò di contenere la rabbia. No, non poteva scoppiare ora, non davanti a Romano. Per ora era importante rimanere calmi.

-”Non sei molto carino...”-rispose cercando di metter su un sorriso credibile.

Gilbert serrò la mascella.

-”Benissimo, se per te non siamo abbastanza “rosa” o “carini” puoi anche andare; lì è la porta.”-

Romano posò una mano sulla spalla di Bella.

-”Bella, mi spiace... Forse è meglio...”-la ragazza lo ignorò, fece un passo avanti.

-”Antonio...”-

Lo spagnolo fu coperto dal prussiano.

-”Lo capisci che te ne devi andare?”-sbottò Gilbert.

-”Non ce l'ho con te. Voglio parlare in privato con lui.”-i suoi occhi divennero duri, di una freddezza che stupì Romano e che mise in difficoltà il tedesco.

Lo spagnolo posò una mano sulla spalla dell'albino e guardò la ragazza con dolore immenso.

-”Vattene, ti prego.”-fece una pausa in cui Bella si morse un labbro-”Se vuoi parlare in privato con me passa un'altra volta. E che sia l'ultima.”-

La ragazza gli si avvicinò e gli posò una mano sul viso. I muscoli di Romano si irrigidirono nel vedere quella scena.

-”Perdonami se ti ho fatto del male...”-gli disse con un'espressione dispiaciuta ma quelle parole sembravano scivolare sulla frustrazione del riccio.

La ragazza gli sorrise dolce-”Passerò domani, va bene?”-

Lui gli tolse con delicatezza la mano dal suo viso sotto gli sguardi duri di Francis, Gilbert e; quello sorpreso, di Romano.

-”Va bene.”-disse calmo, cercando di non lasciar trasparire nulla. I due rimasero a guardarsi negli occhi, in silenzio. Lo spagnolo non avrebbe mai abbassato lo sguardo, anche se aveva paura, anche se soffriva, non avrebbe perso. E così fu, la ragazza gli sorrise compiaciuta e fece un passo indietro.

Guardò Romano e gli sorrise.

-”Grazie,”-gli disse alzandosi sulle punte e baciandogli una guancia in un modo un po' troppo intimo-”è stata una bella serata...”-

L'italiano arrossì mentre i tre spettatori la guardarono infastiditi.

-”Allora ci vediamo domani...”-insisté la bella belga-”Verrai anche tu, vero?”-chiese stringendo a sé il braccio del ramato. Lui sorrise in soggezione ed annuì.

-”Certamente.”-

-”No, lui deve studiare.”-

Tutti guardarono stupiti Antonio.

Ma che...? fu il pensiero del francese e del prussiano.

-”Come?”-chiese appena la belga, come se avesse appena captato qualcosa.

-”Già, come?!”-chiese infastidito Romano.

Gilbert e Francis lo guardarono interrogativi. Che gli era preso all'improvviso?

Antonio non si scompose, si morse un labbro facendosi forza. Rimase con lo sguardo fisso su quello della bionda. Ben presto lo sguardo della Belga mutò in uno sguardo divertito, come se avesse appena capito qualcosa. Bella strinse di più a sé il braccio dell'italiano.

-”Ah, ho capito...”-fece rivolta a Romano-”E' la tua mamma?”-

Il ramato arrossì.

-”Bhè,”-fece sussurrandogli all'orecchio-”cerca si studiare bene la mattina e di farti dare il permesso di uscire dalla mamma, capito?”-

Romano non riuscì a rispondere ma il suo rossore contava più di mille parole.

-”Bene, ci conto.”-disse allontanandosi da lui e salutando gli altri-”A domani, Antonio...”-fece guardandolo provocatoria.

Lo spagnolo sentì i nervi saltare.

 

Prese a camminare allegra tra l'aria fredda di Madrid.

Le venne da ridere. Com'era facile rigirarsi quel Romano ma la cosa che rendeva il tutto più comico era veder Antonio morire di gelosia nel quando gli si avvicinava.

Cercò di soffocare una risata.

Inizialmente credeva che fosse geloso di Romano, per il fatto che lei prestasse così stante attenzioni solo all'italiano e non a lui, poi si era resa conto con stupore e divertimento che era il contrario.

No, la situazione è pazzesca!

Posò la mano sul muro di un palazzo e l'asciò che la risata passasse. Ignorò gli sguardi della gente e continuò a ridere a crepapelle.

Non era possibile che Antonio, quell'Antonio, tenesse così tanto ad un ragazzo.

Che c'è, abbiamo cambiato gusti?

Si portò una mano davanti alla bocca e tentò di riprendersi. Riprese a camminare ancora un po' traballante per via delle risate. A quanto sembrava Antonio si era affezionato a quell'italiano.

Lei ci rideva su ma, in cuor suo, ebbe un po' di timore nel ricordare quegli occhi che la guardavano severi di quando aveva stretto a sé il braccio del ramato.

Adesso le risa erano finite, al suo posto una sola domanda che si trasformava quasi in desiderio.

Quello sguardo d'odio era per via della loro amicizia, vero? Non era nient'altro... No?

 

-“Perché ti sei comportato in quel modo?”-

Era da quando erano usciti dal pub che Romano continuava a perseguitarlo. Antonio serrò la mascella, cercando di non guardarlo in viso.

-”Non urlare, è tardi, sveglierai tutto il palazzo.”-disse mentre infilava la chiave nella toppa.

L'italiano, che fino a quel momento era in cerca di risposte, si zittì di colpo. Abbassò il capo ramato ed entrò nell'appartamento, seguendo Antonio.

Lo aveva capito, sì. Quella era la “presunta ragazza” che aveva fatto soffrire l'amico. Guardò lo spagnolo, stava posando le chiavi sul tavolino e, perciò, gli diede le spalle.

Come sembravano basse e stanche da dietro.

Sentì il dolore invadergli l'animo. Gli dispiaceva vederlo così ma si rifiutava di credere, in cuor suo, che Bella potesse essere capace di far soffrire qualcuno.

Eppure, a giudicare dagli sguardi degli altri e di Antonio, sembrava essere tutto il contrario.

-”Ehi, dove vai?”-gli chiese, vedendolo aprire la porta della sua camera. Antonio nemmeno si voltò.

-”E' tardi, vado a dormire, dovresti fare lo stesso anche tu...”-affermò con una durezza che non gli aveva mai udito uscire da quelle labbra.

Si preoccupò, davvero, ma in quel momento si sentiva così confuso. Così confuso ed irato.

-”Certo, quando la situazione è difficile è meglio scappare, no?”-chiese con una cattiveria che arrivò dritta al cuore dell'altro. Lo vide stringere debolmente lo stipite della porta e spostare appena il capo verso di lui.

-”Credimi, è meglio che tu la pensi così...”-un sorriso triste.

La porta si chiuse ed, inevitabilmente, anche il cuore di Romano.

Idiota, perché non vuoi parlarmi? Perché non vuoi che io capisca? O forse dirmelo non è vantaggioso per te? Pensi che sia un inetto? Pensi che non potrei capire? Come puoi anche solo immaginare che possa credere che Bella ti abbia fatto del male?

Non è che al contrario sei stato tu, a fare il passo più lungo della gamba?!

Dannazione, devi rispondermi! Parlami!

Sentì la rabbia giungere a livelli disumani, il cuore pompare imperterrito e la delusione farsi sorda. Ah, e bene, lo spagnolo, poteva impicciarsi della sua vita privata mentre, lui, che voleva solo capirci qualcosa, no?

Si mise a sedere sul divano.

Bella era la cosa più buona che gli fosse capitata in tutta la sua esistenza. Era lo spiraglio di luce in quei cinque anni di buio.

Ricordò con nostalgia quella sensazione che aveva provato nell'avvicinarla, nel riuscire a parlarci. Lui non era così, lo era stato, ma ora non più.

Quel “lui” che diventava con la belga era la sua unica salvezza in una vita dolorosa. Quando era “lui”, si sentiva bene, quando era “lui” il vecchio Romano moriva.

E Romano non sopportava essere quello che era.

Si sdraiò sul divano, ricordando i tempi in cui avrebbe dato di tutto pur di riuscire a superare quel momento di tristezza; ed ora c'era riuscito.

Grazie a lei, gli sembrava quasi che quel senso di oppressione fosse svanito.

Chiuse gli occhi, no, si rifiutava di credere che Bella, quell'angelo caduto dal cielo, fosse realmente un demonio.

 

Come era suo solito fare era uscito da solo.

Già, da solo. Era insolito per un quattordicenne, certo, ma lui era diverso.

Perché non aveva veri amici e, quelli che “aveva”, non li sopportava. Falsi, solo dei falsi, ma a lui non importava. Stava meglio da solo.

Perché i suoi genitori non lo capivano? Perché trovavano così strano quel suo voler stare solo?

Erano stati loro a renderlo così, in fondo. Erano stati loro a farlo crescere nell'ombra del fratellino più piccolo. Ed adesso, lui, voleva restarsene nell'ombra.

Sì, lui voleva far parte della vita ma non prendervene realmente parte.

Lui voleva solo mettere fine a tutti quei litigi, a tutte quelle discussioni. Lui voleva solo restarsene tranquillo e, magari un giorno, riuscire ad incontrare qualcuno che lo capisse e che lo apprezzasse. Riuscire a divertirsi come gli altri, riuscire a ridere per qualsiasi idiozia gli capitasse.

Allora, sì, solo in quel caso avrebbe potuto affermare, con estrema sicurezza, di riuscire finalmente a prendere parte alla vita.

 

Si rigirò sul divano, ancora addormentato ma con la mente stranamente lucida. I ricordi erano dolorosi, avrebbe voluto svegliarsi, avrebbe voluto smettere di sognare ma il cervello glie lo impediva.

 

L'ennesima discussione.

Era stufo di suo padre, di quel dannato uomo. Perché continuava ad insistere? Perché continuava a paragonarlo a Feliciano?

Feliciano era Feliciano e lui era lui.

E bene sì, lui probabilmente era inferiore al fratello minore, ma come poteva quell'uomo, che diceva di essere suo padre, continuare a rinfacciarglielo in quel modo?

Era così stufo, così stanco, ma anche così fuori di sé dalla rabbia. Odiava quell'uomo, glie l'avrebbe fatto vedere.

Voleva che fosse più socievole? Bene, lo avrebbe fatto.

Voleva che fosse più piacevole come persona? Meglio, lo farà.

Voleva che smettesse di essere così spesso a casa? Ottimo.

Ma lo avrebbe fatto a modo suo.

 

Ancora una volta si movve nel sonno, sperando di svegliarsi prima di arrivare a quello che, sapeva, era il ricordo più doloroso.

 

Ed adesso che voleva?

Aveva ormai sedici anni, poteva fare quello che desiderava. E poi non era stato forse lui a dirgli di essere più socievole?

Adesso le accuse erano fondate sul fatto che lui non era mai a casa, che non prendeva le cose sul serio e che spendeva troppi soldi.

L'unica affermazione che era rimasta uguale era il paragone con suo fratello.

Ma che volevano quei tre?

Già, perché adesso ci si era messo anche Feliciano. Aveva solo quattordici anni, quel moccioso, e già gli faceva la predica.

Sua madre, ormai, era diventata per lui lontana, irraggiungibile. Una donna così diversa ed inspiegabile, non c'era alcun rapporto. E con suo padre, la situazione, non era poi tanto diversa.

Finalmente era riuscito a trovarsi degli “amici”. Sapeva perfettamente che erano falsi, e la sua famiglia non aveva mancato di farglielo notare.

Ma a lui non importava. Aveva sempre vissuto così male, così nell'ombra, ed ormai era stufo di quella sua filosofia di vita.

Voleva divertirsi.

Voleva finalmente essere lui il migliore.

 

Sentì le lacrime arrivare nel sonno. Sapeva che stava per arrivare il peggio. Serrò gli occhi già chiusi e mugolò nelle odiose e soporifere spire del sonno.

 

Occhi spalancati.

No...”

Così come la bocca.

Lui...”

Le fiamme si scuotevano ancora furiosamente sotto il getto d'acqua. Mentre un'alta e calda cortina di fumo si alzava al vento. Entrando nelle narici, penetrando nei polmoni.

Ma ormai i polmoni di Romano erano già belli che ostruiti da quel fumo, da quell'odore penetrante di bruciato.

Lui...”continuava a ripetere la sua mente, incapace di dir nient'altro, così come la sua bocca. Intanto i suoi occhi andavano alla ricerca, in tutta quella confusione di urla e fumo, di lui. Di lui. L'unico che ancora non era riuscito a scorgere da quell'inferno di fiamme.

La paura e l'ansia gli impedivano di ragionare.

Ma non la paura del fuoco, non la paura di quell'incendio, ma la paura che lui non ce l'avesse fatta. L'incendio fu spento sotto i suoi occhi sgranati e stanchi.

Con le ginocchia sbucciate a terra e le braccia fuligginose che pendevano ai fianchi.

La sua bella casa era distrutta, ma non era quello che gli causava quel vuoto terribile. Le sue cose erano andate in fumo, ma nemmeno quello sembrò preoccuparlo minimamente.

Sentì alle sue spalle una donna scoppiare a piangere.

Era sua madre, lo sapeva, non si voltò nemmeno per andare da lei, per calmarla, per capire il motivo del suo pianto improvviso; così disperato.

Ma Romano già aveva capito.

Romano già lo sapeva.

Con lo sguardo fisso su quelle macerie, su quei pezzi ineriti dal fumo che una volta componevano la sua casa, si scoprì dannatamente distrutto, triste.

Dannatamente disperato.

Sentì una mano sulla spalla. Gli occhi sgranati per un attimo si distolsero da quello scempio e si posarono su di essa.

Feliciano.

Feliciano in lacrime.

Feliciano che piangeva in silenzio.

Romano non riuscì a dire nulla. Quegli occhi di un semplice quattordicenne, così opachi, così gonfi, lo stupirono.

Posò la mano sulla sua, che continuava ad essere posata debolmente sulla spalla del maggiore. Gli diede una carezza e poi la fece ricadere verso il fianco. Le ginocchia cedettero, facendolo scivolare sul sedere, e lo sguardo tornò in quella cenere.

-”Ro... Romano...”-provò a dire Feliciano ma la voce si spezzò per le lacrime. Le urla di dolore della madre continuavano a farsi sentire violente.

Il maggiore non disse nulla, lo sguardo disperato ed il corpo martoriato.

-”...”-gli sfuggì un gemito.

Un gemito che gli fece notare improvvisamente quanto la sua morte lo stesse sconvolgendo.

-”Io...”-si portò le mani sotto gli occhi-”Io ho provato ma...”-gli morì in gola ogni sorta di giustificazione.

Sentì il fratello scoppiare improvvisamente a piangere e abbracciarlo in cerca di comprensione. Romano rimase inerme sotto le braccia di Feliciano.

-”Romano!”-urlò nel pianto-”E' morto! E' morto!”-

E fece male sentirselo confermare.

E fece stupore scoprire improvvisamente che, in fondo, gli voleva bene.

Lui...”

 

Le lacrime premevano amare sulle palpebre chiuse dal sonno. L'urlo di straziante dolore era bloccato da una coscienza lontana ma sempre presente.

Il sonno, solo in quel momento, decise di abbandonare le viscere di Romano.

Gli occhi si aprirono lentamente e delle lacrime scivolarono lente, ma le strappò con rabbia, con fastidio. Si mise a sedere bene.

Odiava ricordare certe cose. Odiava ricordare la sua morte.

Eppure da lì era cominciato tutto. Dopo la morte del padre aveva cominciato a lavorare, a soli sedici anni. Mentre lavorava continuava con gli studi. Riprese a non uscire più, riprese a non frequentare più nessuno.

Riprese a far parte della vita ma senza prendervene parte.

Guardò l'ora, era dannatamente tardi. Si trascinò con rabbia verso la sua stanza, cercando di ignorare quella solita oppressione.

Non devo sentimi così... Domani rincontrerò Bella e tutto finirà...

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Note

Ecco il settimo capitolo! Un bacio a tutti quelli che mi seguono, a quelli che mi recenziscono (sappiate che mi rendete immensamente felice) ed anche a chi, solamente, legge ed apprezza!
Alla prossima,

Honodetsu:D

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Capitolo 8
*** 8 ***


Si rigirò nel letto.

Si sentiva così privo di forze, come se tutto il corpo fosse intorpidito e fragile. Ogni singola parte di lui vibrava per il dolore, come se stesse in un perenne stato febbrile.

Eppure il sonno non si decideva ad invadergli la mente che, nonostante la stanchezza lo stesse stremando, continuava imperturbabile a ragionare.

Un leggero e fioco raggio di luna entrava dalle tende socchiuse.

Si sentì un pazzo nel rendersi conto che, in fondo, era così contento di aver visto Romano sorridere. Già, era contento di averlo fatto distrarre un po' dalla sua serietà, ma a che costo?

Nessuno dei due ci avrebbe ricavato nulla.

L'italiano, probabilmente, era molto attratto da Bella e, Antonio lo sapeva, lei gli andava dietro solo per i suoi loschi fini.

E lui si sarebbe ritrovato a soffrire per la seconda volta. Sarebbe tornato in quell'oblio, in quel dolore senza limiti e senza freni.

Non voleva, non voleva soffrire ancora, ma sapeva che non poteva permettersi di ignorare quella donna. Sarebbe stato stupido mettersi un paraocchi.

E poi non voleva lasciargli Romano.

Romano...

Si portò una mano al petto. Perché il suo cuore batteva così forte quando pensava a lui? Aprì lentamente gli occhi velati e guardò il buio. No, probabilmente la domanda giusta era un'altra.

Perché si preoccupava e pensava continuamente a lui?

 

La luce del sole entrò devastante dalla finestra, ricadendo con terribile fatalità sugli occhi di un italiano felicemente addormentato.

Aprì gli occhi lentamente, ed un luminoso fascio di luce lo ferì, uccidendo già il suo possibile buon umore.

Si rese conto di ritrovarsi in una posizione parecchio innaturale: la testa ciondolava alla fine del letto mentre le gambe, divaricate, posavano là dove una volta c'era il cuscino.

Si tirò su, grattandosi, ancora insonnolito, la testa. Dov'era finito il suo piumone? Possibile che sia riuscito a dormire senza, con tutto questo freddo?

Oh, eccolo...

Lo alzò da terra e lo posò con lentezza sul materasso. Si sfregò le mani, ineffetti aveva freddo. Andò alla ricerca di qualche vestito da mettere.

Quella notte era proprio sprofondato nel letto per il sonno. Dopo aver fatto quel sogno non avrebbe mai immaginato di riuscire a dormire così bene.

Si grattò di nuovo la testa, non voleva assolutamente pensarci.

Si diresse verso il salone mentre ancora si abbottonava distrattamente la camicia. Entrò in cucina sbadigliando e con tutti i bottoni messi nei buchi sbagliati. Si mise a sedere.

-”'Giorno...”-disse placidamente e si accasciò sul tavolo. Possibile che quella mattina non riuscisse proprio a svegliarsi?

Antonio si voltò appena dalla sua posizione. Sorrise e prese il latte.

-”Buongiorno.”-disse posando il suo cappuccino sul tavolo. Romano alzò lo sguardo assonnato sullo spagnolo. Aveva una brutta cera. Il viso pallido e gli occhi gonfi.

Sì sentì in qualche modo preoccupato per lui. Continuò a fissarlo mentre si apprestava a mangiare la sua colazione.

Che avesse pianto?

Quegli occhi gonfi stonavano così tanto con il suo viso.

O che non avesse dormito?

Bhè, in ogni caso non stava bene. Romano si passò una mano sugli occhi, cercando di strapparne il sonno e di essere più presente a sé stesso.

-”Non sembri stare bene...”-fece con la voce ancora impastata.

Il tentativo di approccio non sembrò andare bene, anche se, il viso stanco di Antonio sembrò finalmente rilassarsi in un sorriso divertito.

-”O, bhè, nemmeno tu.”-fece indicando la sua camicia-”Che c'è, hai perso l'uso delle mani?”-gli chiese prendendolo in giro. Romano si guardò il petto. Arrossì di colpo.

-”Per non parlare dei capelli.”-riprese posando la guancia sul palmo e sorridendo stancamente. Romano si passò nervosamente le mani tra i capelli.

-”Ah! Odioso, dovevi proprio farmelo notare?!”-

Antonio rise e si alzò dalla sedia, avvicinandosi.

-”Dai, fermo, che ti aiuto...”-

Non appena posò la mano sui suoi capelli, Romano fu percorso da un brivido. Allontanò un po' la testa, stordito. Antonio lo guardò sorpreso.

-”Tutto bene?”-

L'italiano lo guardò con imbarazzo. Aprì la bocca ma non riuscì a dire nulla, si rese conto di non sapere come controbattere. Gli sembrò dannatamente difficile riuscire a guardarlo in volto.

-”Io? Se sto bene io?!”-chiese nevrotico e rosso-”Piuttosto, tu, che diavolo hai?!”-

Antonio lo guardò sempre più spaesato.

-”Sei sempre più strano, sai?”-fece lo spagnolo sorridendo appena e tornando al suo posto.

Il ramato abbassò il capo con imbarazzo e prese a risistemarsi la camicia. Non seppe il motivo, ma farsi vedere in quello stato dal moro lo metteva in agitazione.

Le mani presero a sudargli ed i bottoni gli sfuggivano dalle dita. Decise di lasciarli perdere, lasciò la camicia abbottonata a metà sotto lo sguardo accigliato dell'altro ed ignorando il freddo.

-”Davvero, ti senti bene?”-chiese Antonio passandosi una mano sul viso pallido.

Romano non riuscì a guardarlo in faccia.

-”Sto benissimo.-rispose lapidario.

Si alzò e si diresse verso il frigo, cercando di far finire quella situazione imbarazzante. Davanti al frigo, finalmente, riuscì a chiudersi quella maledetta camicia. Sospirò ed aprì lo sportello.

Ma che mi prende...?

-”Roma, il latte è già qui.”-

L'italiano si raggelò e posò la bottiglia di latte che aveva appena afferrato.

Dannazione...

-”No... Non stavo prendendo il latte...”-farfugliò-”Stavo... Stavo cercando uno yogurt...”-

Antonio sorrise un po' confuso. Non sapeva cosa avesse, né cosa pensasse, ma era troppo divertente.

Si passò la mano sugli occhi e sospirò.

-”Questa mattina sei davvero strano, lo sai che non abbiamo yogurt.”-disse, stiracchiandosi.

Romano ridacchiò nervoso.

-”Eh, eh!”-chiuse il frigo ed afferrò una tazza-”Ma dai, non è vero...”-si rimise seduto e si versò del latte. Il silenzio sprofondò tra i due.

Non riusciva a comprenderne il motivo ma si sentiva strano, come se gli occhi dello spagnolo su di lui lo agitassero. Come, anche solo la sua presenza, lo turbasse. Quel pensiero lo fece arrossire. Cosa gli prendeva? Adesso arrossiva anche come un'idiota?

Finalmente riuscì ad alzare lo sguardo. Era così pallido ed aveva un'espressione dannatamente triste in volto. Nonostante, poco prima, avesse riso si era reso conto che non erano sorrisi spontanei.

-”Antonio...”-lo spagnolo alzò lo sguardo su di lui, tanto che l'italiano, fremette sotto quegli occhi verdi-”Hai dormito questa notte?”-

Il riccio abbassò lo sguardo. Si morse un labbro per poi sorridere tristemente.

-”Adesso sei tu a voler sapere di più su di me, eh?”-chiese cercando di non apparire tanto stravolto. Romano arrossì nuovamente, ma riuscì a contenersi.

-”Mi stai dicendo che tu ci hai rinunciato?”-

-”Figurati, mi sono preso una pausa.”-

-”E allora che vuoi?”-gli chiese alzando le spalle-”Anche io ho il diritto di impicciarmi.”-

Antonio non sembrò molto convinto.

-”Non penso che ti interessi davvero.”-

Romano sembrò offendersi.

-”E perché?”-

L'altro alzò le spalle, sorrise.

-”Hai detto di non volermi conoscere.”-

Romano sorrise.

-”Ho detto molte stupidaggini, anche quella di affermare di trovarti un amico.”-lo guardò divertito.

Lo spagnolo sorrise e scosse la testa.

-”Quando ti ci metti, anche tu, sei parecchio insistente.”-

L'altro sorrise.

-”Certamente.”-

Ancora silenzio. Antonio prese a passarsi tra le mani la tazza vuota. In cuor suo, era felice che l'italiano si interessasse a lui ma non voleva parlargli di Bella.

Non voleva dirgli quello che aveva passato, lui sembrava così contento di lei, e poi non voleva litigarci come l'ultima volta.

-”Questa notte ho dormito male, tutto qui.”-fu la risposta tanto attesa. Romano lo guardò negli occhi, in un modo che sorprese Antonio.

-”Perché non vuoi parlarmene?”-gli chiese con serietà.

Il riccio sentì perdersi in quegli occhi. Gli sembrò di essere risucchiato da quel ragazzo. Cosa gli prendeva? Perché, improvvisamente, aveva questo dannato desiderio di sfiorargli il volto?

Come se volesse testarne la morbidezza, come se volesse confermarne la purezza e la bellezza. Si sentì dannatamente confuso in un momento in cui non poteva permetterselo.

-”Non è che non voglio parlartene, è che...”-non trovò le parole.

Romano lo guardò interrogativo, come se si stesse sforzando di trovare la fonte del suo dolore attraverso i suoi occhi.

-”E' che...?”-lo incalzò. Antonio abbassò il capo.

-”E' che non è importante.”-

-”Riguarda Bella?”-

Il solo sentir pronunciare quel nome dalle sue labbra lo mise in crisi. Sentì il cuore prendere martellargli nel petto, impedendogli di essere pienamente lucido.

-”Sì...”-riuscì solo a dire.

-”Lei è la tua ex, vero?”-chiese di nuovo, incolore.

L'altro sgranò gli occhi. Come lo sapeva, lui non glie ne aveva mai parlato.

-”Come...?”-chiese stralunato.

-”Me lo ha detto Gil... O meglio, mi aveva parlato di questa tua relazione ma non mi aveva detto che fosse Bella. L'ho capito dal tuo comportamento di ieri.”-

Antonio alzò le sopracciglia ed allargò appena le braccia.

-”Complimenti. Allora sai già tutto.”-confermò abbassando lo sguardo stanco-”Non c'è nient'altro da sapere.”-

Romano sospirò. Già, lui sapeva tutto, ma non avrebbe voluto. Avrebbe voluto sentirsi dire che, no, non era andata come sembrava, ma che Bella è una brava e graziosa ragazza. Lo desiderava ardentemente, non voleva credere che quella donna fosse un qualcosa di sbagliato.

Insomma, l'altra sera aveva suscitato in lui delle emozioni ormai assopite da tempo. Aveva bisogno di lei per poterle provare nuovamente, non voleva che l'immagine che si era fatto della belga svanisse. Ne aveva troppo bisogno.

-”Che cosa ti ha fatto per meritarsi quel trattamento?”-gli chiese.

Antonio si morse un labbro e sospirò.

-”E' stata una lunga storia che è finita male... E' normale che i nostri rapporti si siano allontanati.”-disse e sperò che bastasse.

-”Lei mi ha parlato così bene di te...”-disse piano, quasi se la cosa gli dispiacesse-”Mi ha detto che sei un bravo ragazzo...”-abbassò lo sguardo-”Gilbert ha detto che ti ha fatto molto soffrire, ma mi rifiuto di credere che, lei, sia quel tipo di persona...”-

Antonio sentì i muscoli irrigidirsi.

-”Perché lo pensi?”-chiese duro. L'altro lo guardò negli occhi-”Tu credi che lei sia una brava persona ma ti posso assicurare che non lo è. Anche io ci sono cascato, proprio come te, ed ho finito per innamorarmene.”-strinse la presa sulla tazza-”Te lo posso assicurare, è viscida, farebbe di tutto pur di procurarsi del piacere, del divertimento!”-

Romano si fece più distante.

-”Solo perché ti brucia il fatto che non stiate più insieme non puoi parlarne così male.”-

Il viso di Antonio si contorse in una smorfia.

-”Ti sbagli, non mi brucia, il nostro allontanamento è stato la cosa più giusta che mi sia mai capitata!”-disse quasi urlando-”Non hai idea di quello che ho dovuto passare! Non hai idea di quello che ho dovuto subire a causa sua!”-

Lo sguardo duro di Romano si fece freddo, gelido, e distante. Avrebbe voluto essere dalla parte del riccio, ma il ricordo di Bella glie lo impediva.

Il suo egoismo glie lo vietava.

Era stata così gentile con lui, così carina, come poteva descriverla così negativamente? Come poteva parlare male della donna che, invece, era la sua salvezza?

-”Questa sera che farai?”-gli chiese, cercando di non guardarlo. Antonio si morse un labbro con disperazione. Come avrebbe voluto fargli capire chi era, davvero, quella donna.

-”Le parlerò.”-

-”Le parlerai...? E che le dirai?”-

Antonio si alzò e posò la tazza nel lavandino, dandogli le spalle.

-”Di non farsi più vedere.”-

Romano alzò uno sguardo allarmato su di lui.

-”Prima di ciò, voglio parlarle anche io.”-disse senza guardarlo in volto. Antonio si voltò verso si lui con un dolore mascherato dall'indifferenza.

-”Perché?”-chiese solamente. Romano abbassò lo sguardo.

-”Perché io tengo a lei.”-

Per un attimo il respiro dello spagnolo parve farsi più sofferto. Guardò a terra con gli occhi velati da un dolore sordo.

-”...”-si voltò completamente verso di lui-”L'hai conosciuta solo ieri, come puoi dire di tenerci? Come puoi pensare di capirla? Di pretendere che tipo sia?”-chiese quasi disperato.

Romano si irrigidì di fronte a tutte quelle parole dannatamente vere, dannatamente logiche, ma mai come il motivo che lo spingeva a ciò.

Un motivo che, sapeva, Antonio non avrebbe mai compreso. Sentì la rabbia crescere nel rendersi conto di non sapere come rispondere.

Dentro di sé, sapeva che aveva ragione, non poteva giudicare. Ma ammetterlo significava dover dubitare di Bella e, perciò, anche alla sua unica via di salvezza da tutto quel buio.

-”Sei...”-lo guardò, con una rabbia ceca-”Sei ridicolo, sappilo!”-sbatté le mani sul tavolo e si alzò dalla sedia-”Bella è l'unica che mi fa sentire bene, che mi fa sentire un altro! E non puoi venire a dirmi certe cose su di lei! Non puoi impedirmi di incontrarla... Dici che Bella ti ha fatto soffrire e poi non vuoi dirmi cosa ti abbia fatto! A questo punto comincio a pensare che tu abbia la coda di paglia, dì la verità, sei stato tu a fare qualcosa di sbagliato, vero?”-lo disse con crudeltà, come se volesse che ogni singola parola lo ferisse nel profondo, che gli facesse male.

Antonio rimase a guardarlo ad occhi sbarrati.

-”Come puoi anche solo pensarlo?”-sussurrò, ferito.

Romano trovò odioso quel suo compiangersi, quel suo non controbattere adeguatamente, quel suo sfuggire ai chiarimenti.

-”Non...”-serrò i pugni e gli occhi-”Non ti sopporto!”-

-”Ro... Romano!”-allungò una mano verso di lui ma era tardi.

-”Non voglio più vederti!”-

Uscì dalla cucina furioso sotto lo sguardo spaesato di Antonio.

 

Idiota, idiota, idiota!

Perché doveva fare così, quel dannato spagnolo? Perché non voleva dirgli quello che era successo?

Sbatté la porta alle sue spalle e si lanciò con rabbia sul letto.

Perché non vuole che le parli?

Era arrabbiato, terribilmente arrabbiato. Si portò una mano al petto, cercando di controllarsi. No, non era solo quello. Non poteva essere solo rabbia. Strinse la camicia tra le dita.

No, quella era anche tristezza, senso di colpa.

Già, perché dentro di sé quegli occhi verdi gli avevano messo paura. Quello sguardo flebile, oltre alla rabbia, lo aveva spaventato.

Perché non puoi semplicemente ignorarla? Se proprio la odi, basta che non ci parli... Perché addirittura mandarla via? Perché impedirmi di vederla? Io ho bisogno di lei...

E mentre pensava ciò si sentì anche peggio.

Sono un dannato egoista...

 

Avrebbe dovuto afferrarlo, impedirgli di uscire da quella cucina.

Si passò le dita sulla, ormai, sottile cicatrice della mano. Quella che si era tagliato a causa di un vaso. Quanto era passato da quel giorno?

Una settimana? Due?

Avrei dovuto fermarlo...

Si portò le mani al volto, coprendosi gli occhi che gli chiedevano pietà; che gli chiedevano una pausa da tutto quel trattener di lacrime.

Avrebbe voluto riuscire a dormire, dormire seriamente. Avrebbe desiderato riuscire a sdraiarsi e fissare il soffitto, come faceva una volta; senza pensieri.

Arrivare a quel momento, tanto atteso della giornata, in cui ci si sdraia e non si pensa più a nulla. Come gli mancavano quei momenti. Da quanto non dormiva più tranquillo?

Poco dopo l'arrivo di Romano sembrava essersi ristabilito, pensava di aver superato quel momento e che Bella non sarebbe più tornata.

Invece...

Dal viso, portò le mani ai capelli, stringendo i ricci neri con sconforto, con stanchezza. Non ne poteva più di soffrire, davvero, era esausto.

Aveva già perso quell'amore che provava per Bella, quell'amore che lo aveva fatto tanto sognare e penare. Ora non voleva perdere anche Romano.

Romano...

Non voleva che l'italiano pensasse a lui come uno di quei ragazzi che fanno soffrire le donne. Posò la schiena contro la parete.

Non sapeva da dove fosse nato quel bisogno che aveva. Quel dannato ed indispensabile bisogno di avere accanto a sé Romano, di potergli parlare almeno qualche ora al giorno, di sorridergli.

Non sapeva da dove comparisse quel desiderio di sapere tutto di lui, ogni singola cosa, a partire dal suo passato per finire con il suo futuro.

Voleva sapere tutto di lui, anche la cosa più sciocca, in modo che potesse vantarsi di conoscerlo, di potergli stare accanto. Voleva essere l'unico a vedere i suoi sorrisi, voleva essere l'unico a riuscire a farlo sentire bene, a farlo sentire unico.

Sì stupì, nel rendersi conto, che, in fondo, lui voleva solo far parte del suo futuro.

Eppure, non aveva mai visto un sorriso sincero da parte dell'italiano, o almeno, non destinati a lui. Non si era mai confidato con lui e non aveva mai riso con lui a canto.

Si strinse le braccia intorno allo stomaco, come se tutta quella situazione gli stesse creando, proprio lì dentro, un enorme buco nero.

Un buco nero che risucchiava tutto, gioia, speranze, serenità, tutto. Tutto tranne la tristezza.

Sgranò gli occhi, cosa significavano quei bisogni che lo legavano, così, all'italiano?

Cosa stava diventando, per lui, Romano? Era forse più che amicizia?

...No, non è possibile...

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Note

Antonio starà finalmete riuscendo a comprendere quello che prova per l'italiano? E Romano? Romano è innamorato di Bella?

Honodetsu:D

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Capitolo 9
*** 9 ***


Gilbert si sdraiò sul letto sbuffando, ciò infastidì il francese, che, con i suoi mille prodotti per la pelle se ne stava proprio seduto su di esso.

-”Ah! Non ne posso più!”-gracchiò molesto, come se cercasse con una sorta di soddisfazione di infastidire Francis. E ci stava riuscendo alla grande.

-”Cos'è che ti disturba...?”-chiese irritato l'altro, che intanto si spalmava la crema sul viso. Gilbert lo guardò schifato.

-”Che sei, una space di donnicciola venuta male? Perché ti spalmi quella cosa bianca sulla faccia?”-

Quelle affermazioni sembrarono disturbare nel profondo il francese.

-”Mai sentito parlare di creme idratanti?”-chiese isterico, mentre continuava a spalmarla su tutto il viso. Il prussiano rimase per qualche secondo a fissare quel miscuglio espandersi sulla faccia dell'amico. Sembrò per un attimo perdersi in quelle onde bianche.

-”Sembra che abbia vita propria...”-disse imbambolato mentre lo fissava-”Fa veramente schifo...”-

Francis gli tirò un cuscino, colpito nell'orgoglio.

-”Falla finita!”-ululò quasi sull'orlo di una crisi isterica-”Che ti credi, fa schifo anche a me!”-ammise guardandosi le dita sporche di quella porcheria.

Gilbert strinse il cuscino sul petto, come per nascondersi da quella crema. Alzò un sopracciglio inorridito.

-”Allora perché te la spalmi?”-gli chiese prendendo con due dita la confezione ed annusando il contenuto, fu costretto a richiuderla subito-”Puzza anche!”-

Francis glie la strappò dalle mani e lo guardò saccente.

-”Chi bello vuole apparire un po' deve soffrire, no?”-cinguettò sotto lo sguardo incupito dell'altro. Il francese si alzò dal letto e richiuse la scatola.

-”E poi voglio anche io quella pelle liscia...”-disse serio, probabilmente riferendosi alla pelle della belga, mentre si dirigeva verso il bagno.

Gilbert scattò in piedi.

-”No, no!-gli puntò un dito contro-”Non voglio quella porcata nel mio bagno!”-

Francis sorrise e congiunse le mani.

-”E dai!”-piegò la testa di lato-”Siamo amici, condividiamo tutto, no?”-

Il prussiano lo guardò omicida.

-”Non dirlo quando hai la faccia ricoperta di bianco in quel modo, metti i brividi... Sembri un effeminato!”-piegò le braccia al petto-”E poi che cavolate spari sulla pelle liscia?”-

Francis si fece cupo.

-”Non sono cavolate. Hai visto la pelle di Bella, no?”-a quelle parole le gambe di Gilbert parvero cedere-”La voglio anche io così!”-

-”No... Cos'é che non va in te? Cosa?!”-si sedette sul letto esasperato.

-”Chissà che prodotti usa...”-farfugliò portandosi un dito sul mento bianco.

Gilbert si sdraiò completamente, sbuffando stufo.

-”Tu ti preoccupi della pelle e, nel frattempo che tu ti spalmi quello schifo sulla faccia, c'è Bella che fa il bello e il cattivo tempo con Antonio!”-

Francis ridacchiò.

-”Ma dai, non è così stupido da ricaderci una seconda volta. Secondo me, sia tu che Antonio, vi preoccupate troppo...”-

Gilbert sospirò.

-”Forse hai ragione... Ma hai visto come cambia il suo sguardo quando c'è lei?”-chiese preoccupato.

Il francese si fece di colpo serio, alzò le spalle.

-”Bhè, è ovvio che sia arrabbiato con lei... Insomma, tutti se la sarebbero almeno un tantino presa, se, il giorno del proprio matrimonio, la sposa non si presentasse, no?”-

Gilbert annuì.

-”Questo lo so, ma non intendevo solo quello...”-si alzò dalla posizione supina e lo guardò dritto negli occhi azzurri-”Hai notato come protegge Romano?”-

A quelle parole il francese sembrò irrigidirsi, scosse la testa.

-”Ma no, ti starai sbagliando!”-fece ridendo e muovendo la mano come per scacciare quel pensiero. Gilbert scosse la testa.

-”Lo avevi detto anche tu, all'inizio, no? Hai detto che si sarebbero trovati bene insieme, nonostante il caratteraccio di Romano, no?”-

Francis scosse la testa.

-”Ma dai, lo sai che lo dico sempre! Non lo detto, di certo, perché lo pensavo davvero!”-disse, cercando di escludere immediatamente quell'ipotesi velata che gli stava introducendo il prussiano -”Insomma, se fossero amanti, Antonio, ce lo avrebbe detto, non ti pare?”-

Gilbert congiunse le braccia al petto, pensieroso.

-”E se fosse un amore segreto?”-fece sorridendo. Francis lo guardò di sbiego.

-”Lo dici come se la cosa ti emozionasse...”-scosse le mani ed il capo, insistendo-”E poi, no, ad Antonio piacciono le donne, non gli uomini.”-

Gilbert sembrò incupirsi.

-”La storia si fa interessante... Sarà divertente...”-

Francis alzò un sopracciglio.

-”Sei uno schifosissimo sadico, tu, eh?”-lo accusò inorridito -”E poi di solito non sono io quello che si interessa a questo tipo di cose?”-chiese con un sorrisino malizioso.

Gilbert alzò le spalle altezzoso e soddisfatto.

-”E ora che tu lo accetti Francis, io sono il migliore...”-

Ghignò.

 

Non si erano parlati per tutta la mattinata.

Antonio se ne stava sdraiato sul divano a leggere mentre Romano sistemava le sue cose per la casa.

Lo spagnolo, benché fosse ancora in un muto litigio con lui, ogni tanto era costretto a staccare gli occhi dal suo libro e a posarli su quell'italiano arrabbiato che trotterellava per casa.

Perché ha queste fisse?

Era già da un bel po' che stava cercando di far partire la lavatrice, senza molti risultati. Nonostante, Antonio, se ne stesse in salone, e lui in bagno, non riusciva a concentrarsi con tutti quei rumori di sottofondo. L'ennesima botta e l'ennesima imprecazione uscì dalle labbra dell'italiano.

Basterebbe chiedermi una mano...

-”Maledetto aggeggio...”-brontolò.

Fu tentato dall'alzarsi ed andare ad aiutarlo ma qualcosa lo fermò. Perché doveva aiutarlo se, poco prima, Romano aveva affermato di non volerlo più intorno?

Già, quell'affermazione gli aveva lasciato l'amaro in bocca ed in qualche modo, non per forza verbalmente, doveva fargliela pagare.

-”Ah! Che palle!”-

Sorrise. Sì, ineffetti dava una certa soddisfazione.

Un rumore atroce, causato probabilmente dal calcio isterico dell'italiano contro la lavatrice, lo fece trasalire.

Sì, ma così me la rompe...

Si alzò dal divano e si affacciò al bagno.

Ed eccolo, Romano, in tutto il suo splendore da uomo di casa, piegato ad osservare quella enorme quantità di tasti e funzioni. Lo fissò intensamente, con un misto di divertimento e d'indifferenza. Romano lo guardò a pena.

-”Ti diverti?”-chiese rancoroso tornando a guardare la lavatrice. Antonio sorrise bonariamente, scosse la testa.

-”Vuoi una mano?”-

Romano grugnì e si mise seduto a terra.

-”Ce la faccio anche da solo...”-

Non riusciva a guardarlo negli occhi, non dopo quella discussione. Antonio si passò una mano sulla nuca, sorridendogli.

-”Avanti, devi imparare, se no finisci per romperla.”-disse avvicinandosi.

Come poteva assumere un tono così gentile dopo le parole crudeli che gli aveva rivolto?

Gli si mise dietro, e gli mostrò la quantità da utilizzare di detersivo e quali pulsanti premere. Per un attimo la schiena dello spagnolo sfiorò quella di Romano.

-”Ecco...”-disse-”E' fatta...”-

Un inevitabile rossore si delineò sulle guance dell'italiano.

Ecco, di nuovo quelle strane sensazioni di sta mattina... Che mi succede con questo qui?

Antonio sorrise e gli posò una mano sulla testa, cosa che lo fece rabbrividire.

-”...”-farfugliò l'italiano.

Romano lo guardò nervoso ma, non appena incontrò il suo sguardo basso, si chiese cosa gli prendesse all'improvviso.

-”Ora che hai?”-gli chiese brevemente, togliendosi la sua mano dalla testa.

-”Lo pensi davvero quello che hai detto questa mattina?”-chiese come se si fosse rabbuiato di colpo. Il ramato lo guardò stupito ed imbarazzato.

-”Ma che dici, idiota... A che ti riferisci?”-

Antonio sospirò e si alzò in piedi.

-”Ma sì, continua pure ad insultarmi se ti fa sentire meglio, continua ad evitare le mie domande...”-lo guardò placidamente-”Che ti importa se ci rimango male, giusto? Tanto a te non te ne frega nulla, no?”-scosse le spalle stancamente-”Tanto qui si parla solo di te... Di quanto tu abbia bisogno di Bella, di quanto tu stia soffrendo...”-

Romano lo guardò con dolore. Che gli prendeva di colpo? Era come se all'improvviso fosse lui quello a volerlo ferire, come se questa volta fosse lo spagnolo a volerlo attaccare. Cercò di metter su la sua solita aria indifferente, si alzò in piedi davanti a lui.

-”Perché parli in questo modo, ora? Pensavo...”-

-”No, Romano, tu non pensi!”-lo interruppe-”Se tu pensassi un po' di più, ti renderesti conto che lei, l'altra sera, ti stava solo prendendo in giro! Ti renderesti conto che lei è una persona da tenere alla larga!”-lo prese per le spalle-”Io lo dico per te, Roma, davvero... Lo dico per non farti soffrire in futuro... Non voglio che tu faccia la mia stessa fine...”-

Gli occhi verdi dello spagnolo sembravano così vuoti in quel momento. Erano gli occhi di chi aveva perso tutto, di chi era stanco, di chi voleva farsi ascoltare. E Romano ne ebbe paura. O meglio, “l'altro lui”, ne ebbe paura. Perfino quelle mani che gli stringevano le spalle lo facevano stare male, tutto in quello spagnolo lo faceva fremere. Ogni singola parola dura nei suoi confronti, detta da lui, faceva più male di quanto potesse immaginare e comprendere.

-”Lasciami!”-urlò confuso, sbattendo la schiena contro il muro. Antonio non distolse lo sguardo, rimase a fissarlo con quegli occhi privi di espressione.

Romano avrebbe voluto parlare ma non ci riuscì. Sentì come un groppo alla gola.

Dannazione, perché si sentiva così dannatamente fragile? Perché non alzava la testa e non gli gridava in faccia di lasciarlo stare? Che non erano affari suoi?

Si sentiva così confuso, non sapeva cosa volesse e non riusciva nemmeno a comprendere cosa stesse provando di preciso.

Sapeva che Antonio aveva ragione ma mai lo avrebbe ammesso a sé stesso, poiché significava rinunciare a quel briciolo di speranza che gli rimaneva.

La speranza di rifugiarsi, anche per poche ore, nel suo subconscio e lasciare che uscisse “l'altro lui”. Quell'altro sé stesso che almeno gli lasciava un momento per riprendersi da quella sofferenza, dalla sua vita. Perché Antonio insisteva a metterlo all'erta?

E bene, anche se Bella fosse una persona senza scrupoli, a lui che importava? Aveva bisogno solo di sentirsi bene per un po'.

Lo spagnolo si avvicinò, posò una mano sul muro, vicino al suo viso. Romano non riuscì a nascondere a sé stesso quel brivido d'emozione che gli percorse la schiena.

Arrossì di rabbia e di vergogna nel vedere il suo viso così vicino. Cercò di recuperare coraggio.

-”La mia vita non è affar tuo...”-gli sibilò ad un non nulla dal volto.

Antonio si morse un labbro.

-”Perché?”-gli chiese-”Perché non vuoi che qualcuno ti aiuti? Perché non vuoi afferrare la mano che ti porgo?”-

Vi fu un momento di silenzio. L'italiano abbassò il capo.

-”Una mano ha già sfiorato la mia... Ed era quella di Bella.”-alzò lo sguardo con una decisione nuova-”Non puoi impedirmi di fare quello che voglio.”-

Antonio abbassò il capo e sbatté il pugno sul muro, a canto al viso dell'italiano. Sospirò.

-”Spero che tu ti renda conto di quello che stai facendo prima che sia troppo tardi...”-

Mai quelle parole gli furono sembrate così vere. Sapeva perfettamente a cosa andava in contro. Ma non poteva più sopportare di vivere così.

Aveva bisogno di non sentirsi più lui.

-”Ti prego, Antonio... Lascia che le parli...”-

 

Dentro di sé sperò davvero che Romano capisse, che non si affezionasse più di tanto a Bella. Con lui era successa la stessa identica cosa.

L'aveva incontrata per puro caso in un locale e dopo aver passato tutta la serata con lei aveva cominciato già a provare qualcosa nei suoi confronti. Un qualcosa che poi si era rivelato grande e sofferto. Pulì l'ennesimo bicchiere, cercando di ignorare la musica forte.

Non gli aveva mai recato così tanto fastidio come quella sera, sembrava che tutto, quel giorno, fosse creato per recargli irritazione.

Ti prego, Antonio... Lascia che le parli...”

Antonio sopirò, già stanco di quella serata che, sapeva con certezza, sarebbe durata anche troppo.

Guardò appena Romano, che se ne stava seduto davanti al bancone a parlare con Gilbert. Quei due sembravano aver fatto amicizia. In qualche modo si sentì sollevato: almeno se lui non riusciva a stragli a canto, c'era pur sempre il prussiano.

Certo, non che fosse la persona migliore del mondo, ma era un buon amico. E poi era sempre meglio che Bella.

Bella...

Sospirò. Da lì a pochi minuti sarebbe entrata da quella porta e lui avrebbe dovuto affrontarla.

Si morse un labbro. Che le avrebbe detto?

A Romano gli aveva confermato che l'avrebbe fatta uscire definitivamente dalla sua vita, che l'avrebbe mandata via. Ma davvero lo voleva?

L'italiano sembrava tenerci così tanto alla Belga. Posò le mani sul bancone, guardando il locale ancora semi vuoto.

Era vero, lei gli aveva fatto del male, ma se Romano ne era innamorato non poteva, di certo, impedirgli di vederla. Insomma, lui non voleva farlo soffrire ma se poi lo lasciasse fare di testa sua sarebbe lei a ferirlo. E non voleva, non poteva fargli questo. Con una terribile rabbia soffocata si portò le mani al volto.

Dannata situazione! Sembra tutto così pazzesco, così irreale!

Ma Romano aveva ragione, lui non poteva decidere della sua vita. Se voleva stare con Bella non poteva impedirglielo. E poi perché si scaldava tanto?

Perché si preoccupava così? Magari Bella era tornata per chiarire, per chiedere scusa, e magari conoscendo pian piano l'italiano si sarebbe affezionata anche lei.

Già, magari è qui per chiudere la questione... Magari anche lei ha sofferto... Di certo non intendo perdonarla ma se con Romano sarà un'altra persona...

In un'altra situazione, probabilmente, quell'ipotesi l'avrebbe calmato.

Ma lui non era in una situazione normale, perciò, anche quella semplice probabilità, gli procurava solo dolore e dispiacere.

Inevitabilmente i suoi occhi caddero su di Romano. Sembrava così allegro. Perfino con Gilbert e Francis riusciva a ridere in quel modo naturale, perché con lui no? Perché con lui, che faceva di tutto per essergli amico, no? Non vi era risposta alle sue domande.

E faceva maledettamente male.

-”Ehi, Tonio, a breve ci sarà il pienone, perciò è meglio che ti prepari...”-era Francis ma in quel momento la sua voce sembrava distante, gli occhi ancora sulla figura dell'italiano.

-”Ehi, Antonio?”-gli posò una mano sulla spalla e lo scosse. Lo spagnolo sembrò rinvenire dopo un lungo sonno. Si girò verso di lui.

-”Sì, scusa...”-farfugliò, tornando a sistemare le varie stoviglie sugli scaffali-”Ho lavato tutto.”-

Il francese sorrise intenerito.

-”Sei nervoso?”-gli chiese togliendogli dalle mani il canovaccio, prese a pulire il bancone. Antonio si irrigidì a quelle parole. Sorrise, Francis si accorgeva sempre di tutto.

-”Faccio pietà, vero?”-gli chiese con un mezzo sorriso. Il biondo lo guardò serio ma incontrò solo le sue spalle. Sembrò rattristarsi di colpo. Scosse la testa sorridendo, e tornò a pulire.

-”No, non fai pietà.”-sospirò e buttò il canovaccio sotto il bancone-”Piuttosto, parliamo di cose serie...”-Antonio si voltò a guardarlo-”Non trovi che la mia pelle sia più liscia del solito?”-

Lo spagnolo rimase per qualche secondo a fissarlo spaesato. Sorrise grato.

-”E' vero...”-ammise, cercando di apparire allegro come Francis-”Hai svaligiato il reparto femminile di un qualche negozio?”-

Francis rise e gli strinse un braccio intorno alle spalle.

Il francese era davvero un ottimo amico, Antonio lo sapeva. Avrebbe fatto di tutto pur di farlo sorridere, anche mettersi in ridicolo.

Ma in quel momento il moro, per potersi sentire meglio, aveva bisogno solo delle parole di un certo italiano scontroso ed irritabile.

 

Come aveva predetto anche Francis il locale si riempì di colpo. Romano si ritrovò spiaccicato tra il bancone e la marea di gente che, ballando, gli finiva addosso.

Perché proprio oggi doveva essere così affollato questo maledettissimo pub?!

Francis gli porse sotto il naso una birra.

-”Prego...”-gli disse con fare da gentiluomo. Romano si sentì rabbrividire, odiava quando il francese assumeva quel tono, sembrava quasi gli volesse saltare adosso.

-”Grazie.”-disse mentre sentiva, alle sue spalle, la folla scatenarsi nei balli più sfrenati.

Per qualche secondo rimasero in silenzio. Romano assorto nella sua birra e Francis a fissare sorridente la gente ballare.

-”Quindi è tuo, questo locale...”-cercò di instaurare una conversazione l'italiano, odiava quei silenzi in cerca di argomenti, lo mettevano a disagio. Il francese accolse con un sorriso quella richiesta di argomentazione.

-”Già, ce l'ho da un bel po'... L'ho ereditato da mio padre.”-disse posando il gomito sul bancone. Romano annuì. Doveva essere bello avere già tutto pronto. Avere un padre che, alla sua morte, ti lascia qualcosa. Si morse un labbro.

Suo padre cosa gli aveva lasciato?

-”Non è per niente male.”-ammise Romano portandosi la pinta alle labbra-”Davvero...”-

Francis ridacchiò.

-”Bhè, rispetto a come me lo aveva lasciato mio padre, sicuramente.”-sorrise, un sorriso che parve semplice e stupendo all'italiano-”Sai, quando era lui ad essere il proprietario, il locale, era uno schifo. Non veniva mai nessuno, era sempre vuoto.”-alzò le spalle con un sorriso-”Ricordo che da bambino venivo spesso qui a fare i compiti, era un posto così tranquillo.”-ridacchiò-”Persino più tranquillo di casa mia. I miei litigavano di continuo.”-

Nonostante quelle parole, di per sé tristi raccontate da chi le aveva vissute davvero, Francis sembrava tranquillo. Anzi, stava addirittura sorridendo.

Il ramato sorrise sincero. Neanche per lui, allora, non doveva essere stata facile.

-”E' stata dura, eh?”-gli chiese. Ora gli sembrava di vederlo sotto tutt'altra luce. Il francese alzò le spalle e sospirò sorridente.

-”Mai come la vita di Gilbert, orfano di padre e di madre.”-affermò. Romano rimase di stucco.

-”Davvero?”-chiese sorpreso. L'altro annuì.

-”Già, era stato adottato da una famiglia, ma non erano molto buoni con lui ed il suo fratellino.”-

Adesso Romano era ancora più sorpreso.

-”Ha un fratello?”-

-”Sì, vive in Germania. In fondo è la sua terra natia.”-

-”Perché, allora, lui vive in Spagna? Non è forse anche lui tedesco?”-chiese al francese. L'altro sorrise di fronte al suo interesse.

-”Dopo che i due fratelli vennero adottati si trasferirono a Madrid, non so per quale motivo. Quando i genitori adottivi morirono allora Ludwig, il fratello minore di Gil, tornò a vivere in Germania.”-

Romano annuì. E bene nemmeno Gilbert aveva avuto una vita facile. Ed Antonio?

Lì per lì avrebbe voluto chiederlo ma si vergognava. Ma poi che gli importava di quello scemo? Sbuffò innervosito e stese le braccia sul bancone, posando il mento su di esse.

-”Ora cos'hai?”-gli chiese Francis.

-”Niente...”-

-”Ti sei depresso di colpo.”-notò l'altro.

-”E' una tua impressione...”-dichiarò mogio l'altro. Il biondo scosse la testa mentre lo osservava.

-”No, non credo.”-

Lo sguardo dell'italiano si posò su Antonio. Un Antonio che, più serio che mai, usciva da dietro il bancone e si avvicinava ad una Bella ancora più rosa e splendente dell'ultima volta.

Romano sobbalzò e Francis per poco non morì di infarto.

-”Ed ora cos'hai?”-fece portandosi una mano al petto terrorizzato. L'italiano ritrovò il sorriso.

-”E' arrivata Bella!”-sussurrò tra sé. Il biondo guardò là dove lo sguardo di Romano si concentrava. Già, era arrivata, ed Antonio sembrava così teso. Il francese sperò che andasse tutto per il meglio.

Sospirò, cercando di non apparire preoccupato, poi sorrise.

-”Sì è vero...”-fece distrattamente-”Dicevamo...?”-.

 

Antonio nel vederla per poco non svenne. L'aveva vista avvicinarsi, facendosi largo tra la folla di gente euforica. E proprio nel mentre, lo spagnolo era uscito di fretta dal bancone e gli era andato in contro, dicendole che era meglio parlare fuori.

Ed ora, uno davanti l'altro, in sul retro del locale, si guardavano in silenzio.

Bella era sempre uguale, stupenda in ogni minimo particolare. Forse era ciò a piacergli tanto di lei quando stavano insieme, adorava quei suoi modi sofisticati ed aggraziati nel movimento.

Era bella, davvero. Di una bellezza molto rara ma Antonio aveva imparato a guardare oltre. Oltre quella pelle chiara, oltre quei sorrisi apparentemente sinceri e dolci, c'era tutt'altro mondo.

Un mondo che si era ritrovato a scoprire tutto d'un tratto e che lo aveva sconvolto, facendogli comprendere improvvisamente che, la persona che lui aveva sempre affermato di conoscere e di amare, in realtà era a lui sconosciuta, estranea.

Se c'era qualcosa di positivo in quella loro relazione era che, adesso, riusciva a comprendere quando gli mentiva. Ed ora, mentre guardava quegli occhi grandi e belli, si rendeva conto che quello sguardo gentile, in realtà nascondeva qualcosa.

-”Ti sono mancata?”-gli chiese lei con tenerezza, candidamente. Quelle parole gli fecero un gran male, cercò di non mostrarlo.

-”Perché volevi parlarmi?”-chiese, cercando di non guardarla troppo a lungo negli occhi. Lei si strinse le mani coperte da dei soffici guanti rosa.

-”Per poter chiarire una volta per tutte...”- non finì nemmeno di parlare che vide lo spagnolo scuotere la testa, ma lei insistette-”E magari per riuscire a riparare il danno creatosi e tornare come una volta.”-si fece avanti, cercando di sfiorarlo ma lui si allontanò di un passo.

Lei, a quello scostarsi, parve rimanerci male.

-”Antonio...”-sussurrò.

-”Sai benissimo che ormai quel che è successo è successo. Non si può più tornare indietro, o almeno io non intendo tornarci.”-

La belga strinse i pugni.

-”Come puoi dire così?”-i suoi occhi sembravano tristi ed il suo viso malinconico-”Non ti manca risvegliarti la mattina con me accanto? Non ti mancano più quelle piccole cose, caratteristiche della nostra relazione?”-

Antonio ancora una volta si sentì ferire dalle sue parole.

-”Bella, non ho nessuna intenzione di tornare con te.”-

Ma la belga non si scoraggiò di fronte al suo ostinarsi.

-”Non sei stufo si soffrire? Io sì, davvero.”-riuscì a prendergli la mano e a stringergliela-”Ho bisogno di sapere che ti riavrò accanto, o so che impazzirò.”-

Come avrebbe voluto ritirare quella mano, come avrebbe voluto andarsene e lasciarla lì. Era così stufo di sentire le sue bugie, le sue invenzioni. Sentì la rabbia vibrargli in tutto il corpo.

-”Avresti dovuto pensarci prima di scappare.”-disse, cercando di trattenere l'ira. Gli occhi di Bella si riempirono di lacrime.

-”Antonio...”-sussurrò accennando un sorriso-”Mi avevi chiesto di sposarmi, non ero pronta...”-

Lui tolse, irritato, la mano da quella della belga. La guardò, fuori di sé.

-”Ah, sì? Non eri pronta?”-gli chiese quasi urlando-”Allora non avresti dovuto dirmi di sì! Perché lo hai fatto se non lo volevi? Io non ti ho obbligata!”-

Bella abbassò il capo, impaurita, cercando di trattenere le lacrime.

-”Come potevo dirti di no...?”-

Antonio rimase ammutolito. E bene gli aveva detto di sì solo perché non voleva creargli un dispiacere. Fece un passo indietro e si portò una mano al volto. Scosse la testa sconvolto.

Una profonda ferita sembrò squarciargli di netto quel briciolo di orgoglio che gli rimaneva.

-”...Come hai potuto abbandonarmi sull'altare?”-disse a stento.

Bella si strinse le mani al petto.

-”Te l'ho detto, non ero pronta ad un passo del genere!”-gli disse con voce tremante e con le lacrime agli occhi. Il riccio rimase in silenzio, cercando qualcosa, con lo sguardo, che riuscisse a farlo rimanere nella realtà, che non lo facesse sprofondare nel vuoto di quelle parole.

Scosse la testa e serrò gli occhi.

-”Perché sei tornata in Spagna? Vorresti farmi credere che ora sei pronta a sposarmi?”-la guardò con dolore-”E cosa sarebbe cambiato rispetto a qualche settimana fa?”-

Bella strinse la mascella, probabilmente non riuscendo a trovare le parole per rispondergli adeguatamente. Antonio sorrise nel suo dolore.

-”Lo immaginavo.”-alzò le spalle-”Sei qui solo per divertimento, per torturarmi un altro po' prima di scomparire nuovamente.”-sorrise-”Ma sai una cosa? Sta volta no.”-

Lei alzò gli occhi lacrimosi ed increduli su di lui.

-”Sta volta non ci cascherò.”-le si avvicinò e l'afferrò leggermente per il mento-”Questa volta i tuoi sorrisi falsi non mi cattureranno. Reciti bene, come sempre, ma ti sei scordata che con me ormai non funziona più.”-

Lei rimase per qualche secondo a guardarlo negli occhi, come se non avesse ascoltato una sola parola di quello che aveva appena detto.

-”Ti amo...”-gli sussurrò fatalmente Bella. Gli occhi verdi d'Antonio di velarono. Sorrise amaro.

-”Già, sei terribilmente brava.”-si morse un labbro e lasciò la presa dal mento di lei-”Ma te l'ho detto, ormai il divertimento è finito.”-

Vi fu un nuovo scambio di sguardi, in cui rimasero in silenzio. Le mani della belga si posarono sul suo viso. Posò il capo biondo sul suo petto. Antonio perse un battito.

-”Tu mi ami ancora, lo so...”-gli sussurrò con una nota maligna nella voce. Antonio cercò di scostarla da sé, ma, prima che potesse fare qualsiasi qualcosa, lei alzò il capo e lo baciò.

Le loro labbra si sfiorarono per poco ma tanto bastò, ad Antonio, per capire che non gli sarebbero mai più mancate. La scostò subito, sorpreso ed amareggiato. Si portò una mano alla bocca.

-”Come hai potuto? Ti ho appena detto di finirla, non voglio!”-le chiese indietreggiando. Lei si morse le labbra non capendo.

-”Non ti è piaciuto?”-gli chiese stringendo i pugni congiunti sul petto. Lui la guardò inabilito.

-”Bella, non so più come dirtelo, non voglio riallacciare i rapporti con te. Non dopo quello che mi hai fatto.”-disse duro-”E non voglio più ripeterlo...”-

La belga si morse le labbra amaramente, guardando altrove preoccupata, come se stesse pensando ad altro. Ad un qualcosa che la impensieriva ormai da giorni.

-”Dimmi che non è come penso.”-disse duramente e tornando a guardarlo negli occhi. Antonio la guardò interrogativo-”Dimmi che non mi stai rifiutando a causa di quell'italiano.”-

... Ro... Romano...?

Adesso cosa c'entrava Romano?

Rimase a guardarla, incapace di aprir bocca. Scosse la testa ma prima che riuscisse a dire qualunque cosa la bionda lo precedette.

-”Dimmi che lui non c'entra.”-

Antonio, ancora una volta, tentò di capire quella sua espressione. Quella dipinta sul volto della belga era davvero preoccupazione? Cioè, sì, lo era, ma era vera? Non stava recitando?

Fece fatica a capire se fosse reale il suo dispiacere e fece altrettanta fatica a capire il senso delle sue parole. Si riscosse, ancora confuso.

-”Cosa c'entra Romano, ora? ”-

Il volto di Bella diventò duro.

-”C'entra eccome!”-affermò piccata, strappandosi le ultime lacrime dagli occhi-”Non ti starai mica affezionando un po' troppo a lui?”-

Antonio arrossì di colpo. Lui, innamorato di Romano?

-”Sei forse diventata pazza?”-scosse le mani e fece un passo indietro-”Che assurdità dici? Ti sembro il tipo?”-il suo tono di voce cominciava ad essere irritato. Bella sospirò irata e rimase ad analizzarlo.

-”Bhè, però ha proprio quel tipo di carattere che piace a te... E' carino, gentile...”-

Antonio la guardò sorpreso.

-”Romano gentile?!”-sarebbe probabilmente scoppiato a ridere se la situazione non avesse preso quella piega stramba. Bella lo guardò confusa.

-”Quel tipo è tutt'altro che gentile!”-disse con irritazione, ripensando a quel pomeriggio-”Ma continuo a non capire cosa c'entri lui con noi due.”-

La bionda sorrise soddisfatta.

-”Allora vedi che c'è un noi?”-

Lui la guardò male.

-”Perché insisti tanto? Ti ho detto di no, finiscila.”-

Si formò l'ennesimo silenzio. Entrambi tenevano lo sguardo basso, ognuno assorto nei propri pensieri. Allo spagnolo sarebbe tanto piaciuto capire cosa fosse quella strana sensazione che gli si era instaurata nello stomaco. Ci si passò una mano sopra, cercando di mettere a tacere quel turbinio di emozioni. Si morse un labbro.

-”Ti ho fatto soffrire così tanto?”-

La voce di Bella lo interruppe dalle sue riflessioni. Sospirò, adesso che cosa aveva in mente?

-”Ormai è fatta.”-

La bionda strinse i pugni guantati.

-”Voglio che le cose tornino come prima e non intendo rinunciarci!”-alzò il viso su di lui-”E' vero, ti ho fatto del male, ma non ho paura di strapparti tutto quello che ti è più caro per riaverti!”-

Antonio si fece duro in volto.

-”Insomma, per riavermi saresti disposta a farmi ancora del male? E' questo che stai dicendo?”-chiese alzando un sopracciglio, scosse la testa-”E dici anche di amarmi.”-

Lei non si lasciò intimidire.

-”Sai che c'è, sarai tu a tornare da me strisciando!”-alzò la voce-”Te l'ho detto, ti strapperò quello che hai di più caro.”-

Antonio rise provocatorio.

-”Bella, forse è meglio che la finisci.”-

Nel vederla così convinta ed arrabbiata, sospirò. Le si fece vicino ed assunse un'aria dolce.

-”Torna a casa, in Belgio. Fidati, è meglio per entrambi.”-

La belga strinse la mascella. Era sull'orlo delle lacrime, ma sul serio questa volta. Probabilmente, per la prima volta da quando la conosceva, stava per assistere ad un suo pianto reale.

In un certo senso gli dispiaceva.

Le prime lacrime scivolarono dolorose e copiose dai suoi grandi e bei occhi. La vide abbassare la testa vergognosa e tentare di frenare i singhiozzi.

Possibile che si fosse ridotta in quello stato?

Gli parve così dannatamente pazzesca la situazione. Lui per settimane aveva pianto per la belga, pensando di essere il solo a soffrire e a desiderare che la loro relazione ricominciasse.

Sospirò e guardò per terra, come se stesse cercando la forza ed il coraggio per compiere quell'azione di cui da lì a poco, sapeva già, si sarebbe pentito.

-”Bella...”-gli sussurrò, lei affondò la testa tra le spalle-”Dai, smetti di piangere...”-

Le cinse delicatamente le spalle e l'abbracciò.

-”Perché non vuoi tornare con me?”-gli chiese tentando di frenare le lacrime.

-”Siamo arrivati al limite, non pensi?”-chiese sentendo anche lui le lacrime arrivare-”Non posso tornare con te... Non riuscirei a guardarti in faccia senza ripensare a quel giorno... E poi, anche tu, se avessi davvero voluto stare con me saresti rimasta, no?”-

Bella strinse le braccia intorno alla sua vita. Non voleva più lasciarlo. Lui era suo, non avrebbe permesso a nessuno di toccarlo. Si morse le labbra morbide.

-”Farò in modo di farti cambiare idea, lo giuro...”-

A quelle parole, Antonio, gli venne da sorridere amaro.

Perché, dentro di me, continuo a pensare che forse ha ragione lei? Che, forse Romano, qualcosa per me vale?
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Note

...Ed il peggio deve ancora venire...

Honodetsu:D

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Capitolo 10
*** 10 ***


Romano cominciava a non poterne più di tutta quella confusione, e poi, non riusciva a capirne il motivo, cominciava a sentirsi strano, triste. Si alzò, deciso ad uscire a prendere un po' d'aria.

-”Ehi, dove vai?”-

L'italiano si girò verso il bancone, era Gilbert. Tirò su un sorriso forzato.

-”Esco un attimo, qui non si respira.”-

Non gli diede nemmeno il tempo di rispondere, girò i tacchi e se ne andò.

 

Era una sera serena, calma, con un'aria fredda che penetrava nelle ossa. Per un attimo ritornare nel silenzio lo disorientò, abituato a tutta quella confusione del pub. Posò la schiena sul muro e prese aria. Già, era una serata tranquilla, per strada non c'era molta gente.

Le vetrine ancora erano illuminate dalle lucine natalizie, tutto intorno a lui sembrava così soffice, così dolce. Vedere quelle luci e quelle famiglie girare frettolose per i marciapiedi innevati gli procurava uno strano calore nel petto.

Un calore che si formava solo vicino natale.

Sospirò, ed una nuvoletta di vapore gli si delineò davanti al viso. Non seppe perché, ma vedere tutto quel bianco gli fece tornare in mente il fratello.

Feliciano adorava la neve. Non avrebbe mai capito cosa ci trovasse quel moccioso a correre in quel gelo bianco per poi ritrovarsi tutto inzuppato e freddo.

No, lui decisamente era più un tipo estivo. Ma ora che ci pensava, spesso, si lamentava anche di quello: troppo caldo, troppo umido.

Nel rendersi conto di tutti queste sue fisse si diede fastidio da solo.

Ora che ci pensava non riusciva a trovare nemmeno una cosa che gli piacesse seriamente, che non gli desse fastidio, che non avesse mai criticato.

Il vuoto gli invase le membra nel rendersi conto di non riuscire a trovare nulla.

Già, non va mai bene nulla, niente è come mi piacerebbe che fosse...

Per la prima volta nella sua vita si ritrovò a pensare che forse non erano le cose intorno a lui ad essere sbagliate, ma lui stesso.

Questa riflessione non fece che peggiorare la situazione, quella strana sensazione di tristezza che gli aveva invaso l'animo sembrò crescere. Rimase in silenzio, ripensando alla discussione con Antonio. E solo in quel momento si rese conto che quel trattamento, lo spagnolo, non se lo meritava.
Solo in quel preciso e dannato momento si rese conto di averlo ferito con le sie parole. Cavolo, lui chi era per giudicarlo? Lui chi era per poter dire certe cose su di lui o su di Bella?

Era così stanco di farsi problemi, di discutere, ma anche solamente di pensare. Gli sarebbe semplicemente piaciuto riuscire a vivere tranquillamente, dare il suo ultimo esame, trovarsi un lavoro e continuare la sua vita, finalmente, con serenità.

Eppure c'erano così tante cose a cui pensare, l'esame, il lavoro. All'improvviso sentì che non ce l'avrebbe mai fatta, che tutto sarebbe finito male.

Si portò una mano al petto, stringendo la stoffa con terrore.

Perché non riusciva ad accettare la morte del padre? Perché non riusciva ad accettare di avere ancora una famiglia in Italia? Perché non si accettava?

Il desiderio di aprirsi a qualcuno lo invase. Aveva bisogno di parlare, di confidarsi con qualcuno. Si guardò intorno, confuso ed impaurito. Sentì le lacrime salirgli.

Era solo, come sempre del resto.

 

Antonio e Bella passarono silenziosi davanti al francese ad al tedesco, con gli sguardi bassi ed i volti tirati. Senza nemmeno degnarsi di una parola, lo spagnolo si diresse verso il bancone mentre la belga si avviò all'uscita del locale. I due amici guardarono la scena con l'ansia nel petto.

Era finita? Era davvero finita?

Videro Antonio riallacciarsi il grembiule intorno alla vita e sul collo. Mai, quei due, lo avevano visto così stanco, così giù. Il riccio nel vederli si voltò verso di loro. Un sorriso stanco, tirato, ma sincero gli si delineò sul volto, cercando di farsi vedere allegro come suo solito.

-”Ehi, che avete intenzione di fare?”-li rimproverò scherzoso-“Non vedete che c'è un'infinità di gente, qui?”-si rimboccò le maniche-”I clienti hanno sete!”-

Mai, Francis e Gilbert, lo ammirarono tanto per quel suo stupendo carattere.

 

La porta del locale si spalancò di scatto, spaventandolo. Una Bella nervosa si delineò davanti a lui che, non appena lo vide, si affrettò a cambiare espressione.

-”Romano...?”-mormorò con un sorriso-”Sei venuto alla fine.”-

L'italiano nel vederla così interessata arrossì.

-”Bhè, avevo del tempo libero.”-

Si misero al lato del locale, in modo da non intralciare la strada ai passanti.

Il volto della bionda si fece un po' più stanco, malinconico, un viso che Romano, nonostante tutto, trovò affascinate e bello.

-”Sono contenta di vederti...”-gli disse guardandolo intensamente, allungando una mano e stringendo quella del ramato-”Almeno, grazie alla tua compagnia, mi sentirò meglio.”-

Per l'ennesima volta, ritrovatosi a sbattere contro i suoi sguardi ed i suoi contatti, si sentì scoppiare per l'emozione.

Possibile che ogni singolo e semplice tocco lo sconvolgesse così tanto?

Per un attimo si sentì confuso. Anche con i brevi ed imprevisti contatti con Antonio provava qualcosa. Si morse leggermente un labbro.

No, non significava niente. Era normale che provasse qualcosa al tocco di una ragazza e, magari, quel qualcosa che sentiva all'avvicinarsi dello spagnolo era solo soggezione.

Sì, probabilmente era quello, ma non si sentiva molto sicuro, tanto gli bastò da farlo deconcentrare, suo malgrado, da quella mano che teneva stretta la sua.

Perché pensava a lui se davanti a sé aveva Bella?

Perché nonostante lei ci fosse, “l'altro lui”, non veniva a prendere il posto di Romano?

-”Hai parlato con Antonio?”-chiese lui, cercando di soffocare tutti quei pensieri.

Bella abbassò lo sguardo tristemente, annuì.

-”Stavate insieme, voi due, vero?”-richiese con un tentennamento nella voce. Non sapeva bene il motivo, ma sapeva con estrema certezza che sentirglielo confermare anche da lei lo avrebbe ferito.

-”Antonio ti ha parlato di me, eh?”-fece lei guardandolo con un mezzo sorriso-”Ti avrà detto delle cose orribili sul mio conto...”-

All'arrivo degli occhi lucidi, Romano, sentì l'animo riempirsi d'agitazione.

-”No, lui...”-blaterò cercando di guardarla in faccia mentre le teneva le mani sulle spalle-”Lui mi ha solo detto che prima stavate insieme... Insomma, è un pochino arrabbiato e stanco...”-disse, parafrasando,ma diciamo anche inventando, le parole del moro.

Lei sospirò, asciugandosi gli occhi.

-”Sai, ha ragione, io e lui siamo stati insieme per più di tre anni... Siamo stati molto bene insieme.”-disse, come stesse ripetendo un copione già scritto e riscritto. Ma l'italiano non sembrò accorgersi di nulla-”Ormai, più di due settimane fa, mi chiese di sposarlo...”-

Qualcosa, all'arrivo di quelle parole, gli si formò nello stomaco. E bene, Antonio, le aveva chiesto di sposarlo. La cosa sembrò ferirlo con sua stessa sorpresa.

-”Di... Di sposarti?”-chiese, cercando di mentire a sé stesso, cercando di ignorare quel velato dispiacere. Lei annuì.

-”Gli dissi di sì, ma non mi sentivo per nulla pronta ad un passo del genere...”-affondò il viso nella sciarpa rosa e bianca-”...Non mi presentai alla cerimonia... Partii per il Belgio senza avvertirlo...”-

A quelle parole l'italiano la guardò scioccato. Cercò di rimanere calmo.

-”Perché non gli hai detto nulla?”-qualcosa dentro di lui gli gridava di difendere Antonio-”Perché gli hai detto di sì, se non eri pronta?”-

Si sentì così sciocco, per questo Antonio si comportava in quel modo. Abbassò lo sguardo, non aveva capito nulla. Come al solito aveva pensato subito che, quello dalla parte del torto, fosse lo spagnolo invece si era dimostrato il contrario.

Bella abbassò il viso e si portò le mani agli occhi. Un solo mugolio uscì dalle sue labbra.

-”Mi dispiace tanto per quello che ho fatto... Se potessi tornare indietro non lo farei mai...”-farfugliò a testa bassa. Romano la guardò confuso. Aveva così tanti pensieri per la testa, provava così tante emozioni contrastanti.

Ma, per la prima volta, tutte emozioni dedicate interamente allo spagnolo.

-”...Quindi sei tornata per lui?”-le chiese. Bella alzò gli occhi umidi sulla sua figura. Scosse la testa con un piccolo sorriso.

-”No, solo per chiedergli scusa...”-

Il nodo che gli si era formato nello stomaco sembrò allentarsi.

-”Ma, a quanto pare, lui non ne vuole sapere nulla.”-disse con frustrazione. Il ramato sospirò abbassando lo sguardo.

Era comprensibile che Antonio non la perdonasse. Lo capiva, solo ora riusciva a capirlo. Si sentì così sciocco. Perché, d'un tratto, la solita e monotona pesantezza al petto si era fatta più greve?

Perché era così preoccupato per il riccio?

La mano di Romano venne sfiorata nuovamente da quella di Bella.

Quando riposò gli occhi su di lei, la belga, si era fatta più vicina. Aveva la mente poco lucida, non riusciva nemmeno più a prestare attenzione allo sguardo di Bella, al suo bel viso.

Nella mente solo gli occhi di Antonio, velati da quella stanchezza placida e dolorosa.

-”Ti senti bene, Roma?”-

La voce di Antonio.

Cosa?!

Finalmente la sua mente tornò a funzionare, davanti a lui Bella, nessuna traccia dello spagnolo.

-”Ti senti bene, Roma?”-ripeté la belga.

Solo in quel momento si rese conto che i loro visi erano vicini. Per un attimo si alzò un vento freddo, per poi riabbassarsi di colpo.

Roma...?

Normalmente era lo spagnolo a chiamarlo con quel diminutivo. La belga sorrise appena.

-”Romano...?”-sussurrò lei, avvicinando ancora il viso al suo. L'italiano nel vederla avvicinarsi non si ritrasse, rimase fermo, impassibile sotto il suo tocco leggero e le sue labbra morbide.

Il contatto con quella bocca così soffice lo sorprese. Cosa stava accadendo? Cos'era successo?

Appena sentì una strana euforia inebriargli i sensi, non tentò più di trovare un senso alla situazione. Socchiuse gli occhi, quasi cercasse di perdersi in quel bacio, perdersi e non ritrovarsi più.

Le cinse i fianchi e lasciò che quella sensazione lo portasse alla deriva.

Non voleva più svegliarsi, non voleva che finisse, non voleva tornare in quel turbinio di problemi quale era la sua vita. Non voleva sentirsi continuamente insicuro e solo.

Serrò gli occhi.

Non voleva più pensare ad Antonio.

Le labbra di Bella si fecero più avide.

Allora perché gli sembrava di averlo sempre accanto?

 

Che fosse davvero finita?

Insomma, dopo quella conversazione con Bella si sentiva così leggero e scombussolato, come se fosse appena uscito da un bagno termale.

Ma, diciamo, che quello si erano detti sul retro del locale, di certo, non era nemmeno paragonabile ad un bagno termale.

Eppure si sentiva meglio, stanco, ma ugualmente sollevato.

Dentro di lui non riusciva a smuovere l'orribile sensazione che non sarebbe mai finita, ma gli sembrava meno forte a confronto di quella leggerezza che non provava da settimane, da mesi. Il locale era ancora parecchio affollato ed il lavoro di certo non mancava. Preparò l'ennesimo cocktail, che qualcuno gli finì adosso. Per poco non gli scivolò il bicchiere dalle mani.

-”Scusa, Tonio!”-Gilbert gli sorrise appena mentre posava l'ordinazione sul bancone-”Ecco a voi!”-disse, cercando di sovrastare la musica.

Antonio scosse la testa e sorrise debolmente.

-”Sta più attento...”-disse, posando il bicchiere pieno di fronte al cliente.

-”Per caso hai visto Romano?”-

Lo spagnolo si voltò verso di lui, che intanto era indaffarato. Ingogliò della saliva.

-”Credevo fosse tornato a casa...”-

Gilbert si voltò verso di lui.

-”Non so... Mentre tu eri a parlare con Bella lui è uscito un attimo, non penso sia tornato all'appartamento.”-

Antonio sembrò preoccuparsi ed il prussiano lo notò. Nel vederlo fissare la porta sorrise.

-”Avanti,”-gli posò una mano sulla spalla-”Sarà come dici tu... Sarà tornato a casa, sembrava annoiarsi qui. Meglio così, no?”-

Lo spagnolo sbuffò, facendo svolazzare una ciocca riccioluta.

-”Meglio tornare a lavorare...”-

Si allontanò senza dargli il tempo di riflettere. Gilbert sospirò. Possibile che Antonio non riuscisse a trovare pace? Non appena finiva di torturarsi con qualcosa, ne trovava subito un'altra.

Sentì dei clienti chiamarlo.

-”Sì, sì, arrivo...”-rispose placido-”Accidenti, ma perché lavoro in questo schifo di posto?”-si chiese infastidito.

 

Bella continuava ad accarezzargli il viso ed a guardarlo.

-”Sei sicuro di stare bene? Mi sembri strano...”-

Romano cercò di stirare un sorriso.

-”Certo, sto bene... Sono... Sono solo confuso, insomma...”-la belga gli posò un dito sulle labbra.

-”No, ti prego, non esserlo...”-gli sussurrò, sfiorandogli con le labbra una guancia. Romano sentì sciogliersi sotto quei baci. Arrossì.

-”Che... Che stiamo facendo?”-chiese con un sorriso rassegnato, rendendosi conto della situazione. Bella posò il viso sul suo petto, stringendo tra le mani il suo capotto.

-”Quello che vogliamo, no?”-disse semplicemente-”Tu non lo vuoi?”-

L'italiano irrigidì i muscoli.

-”No! Cioè, io...”-

Bella rise e gli accarezzò nuovamente il volto.

-”Sei davvero tenero, sai?”-

Romano sorrise con un lieve imbarazzo.

-”Ma che dici...”-

Lei lo strinse a sé.

-”Ti amo...”-

Quelle due parole, dette in quel modo, sembravano così leggere, così poco grandi. Romano sgranò gli occhi. Il viso di Bella era posato sul suo petto, le mani strette sul suo capotto: tutto sembrava così perfetto, così dannatamente perfetto. Aveva quello che desiderava. Aveva Bella.

Allora perché non riusciva ad essere felice?

E' sempre questo il problema... Niente mi sta bene, niente è come lo voglio...

Ed ancora la mente volò ad Antonio.

Lui.

Lui era l'unico che andava bene. L'unico che in qualche modo riusciva a comprenderlo e, allo stesso tempo, non capirlo affatto.

No, strinse le braccia intorno a Bella ed affondò il viso nei suoi capelli. Basta pensare, basta soffrire, finalmente sarebbe riuscito a vivere tranquillamente.

Sì, con lei accanto ci sarebbe riuscito, avrebbe trovato la pace, si sarebbe sentito finalmente vivo.

-”Anche io ti amo...”-

E questa volta, era lui, a possedere quegli occhi velati.

 

Finalmente il locale prese a svuotarsi lentamente, fino a rimanere deserto. A breve sarebbe arrivata l'ora di chiusura. Lo spagnolo finì di ripulire gli ultimi bicchieri.

Sospirò, era da tutta la serata che aveva quel chiodo fisso nella mente. Cercò con lo sguardo il biondo e lo vide qualche metro più avanti, mentre puliva i tavoli. Posò il canovaccio sul bancone.

-”Ehi, Francis, per caso sai se Romano è tornato all'appartamento?”-

Il francese, si voltò verso un Antonio irrequieto. Gli sorrise, cercando di non fargli notare di aver capito la sua agitazione. Alzò le spalle.

-”Da quello che mi aveva detto era andato a prendere un po' d'aria... Ma visto che non è tornato credo proprio sia andato a casa.”-gli sorrise di nuovo.

-”...”-Antonio cercò di non mostrare la sua apprensione.

Guardò l'orologio, era tardi. Si slacciò il grembiule, piegandolo.

-”E' tardi, hai bisogno di una mano qui o posso andare?”-chiese in modo macchinoso. In un modo, che fece intendere al francese, di volersela dare a gambe.

Dopo averlo analizzato per qualche secondo con lo sguardo, fingendo di continuare a pulire i tavoli, scosse il capo con uno dei suoi soliti sorrisini maliziosi.

-”No, no, vai pure, non ti preoccupare.”-gli disse-”Qui ci penso io.”-

Quelle parole furono uno spiraglio di luce per lo spagnolo. Fece per andare a prendere il capotto che qualcosa lo frenò. Tornò a guardare il biondo.

-”Ma qui c'è un disastro, hai bisogno di me.”-

Già, prima venivano gli amici e poi i testoni che abbandonavano i pub. Finalmente Francis interruppe il suo lavoro. Si portò una ciocca ribelle dietro un orecchio. Gli parve così assurdo ed, in un qualche modo stranamente divertente, tutta quella preoccupazione. Allora Gilbert aveva detto bene, dicendo che tra quei due c'era qualcosa.

Gli sorrise comprensivo.

-”Avanti, va...”-disse scuotendo la testa-”Un giorno mi spiegherai come tu abbia cambiato gusti in modo così radicale.”-

Quella frase lo colpì nel profondo, scuotendolo fin dalle fondamenta. Arrossì.

-”Che stai dicendo?!”-

Il francese ridacchiò e gli fece un occhiolino.

-”Dai, vai. Qui ci pensiamo io e Gilbert...”-

Proprio in quel momento si sentì il rumore di uno sciacquone. Il prussiano uscì dal bagno sbadigliando, e, sentendo invocare il suo nome, li guardò con una placida curiosità.

-”Che succede qui? Ho sentito pronunciare il mio nome invano.”-fece distrattamente, si chiuse la cerniera dei pantaloni e la porta alle sue spalle. Antonio non poté che rabbrividire a quella scena mentre Francis ridacchiò.

-”Antonio sta andando.”-spiegò il proprietario del locale. Gilbert sembrò riacquistare vitalità, la quantità giusta per poter protestare come si deve.

-”Ma come? Lui se ne va a casa a dormire mentre a me mi tocca pulire i tavoli?!”-

Il senso di colpa si mischiò all'agitazione di Antonio. Francis intervenne, prima che il moro potesse aprire bocca.

-”Ma su, Gil, tu sei il Magnifico, no? Puoi resistere altri cinque minuti, mentre Antonio è solo un comune mortale. E poi anche io rimango con te, contento?”-

Il prussiano si accasciò sul bancone, strofinando con lentezza e stanchezza la pezza bagnata sulla superficie. Grugnì, dando, in qualche modo, il suo consenso.

Antonio guardò dispiaciuto sia Gilbert che Francis.

-”Scusate... Prometto che vi ripagherò!”-dicendo così, prese il capotto e si avviò all'uscita.

 

Non seppe come, ma quel momento di leggerezza, di tranquillità, sembrò dissolversi in un attimo. L'assurda idea che potesse essere finita si sgretolò al vento.

L'agitazione e la preoccupazione per l'italiano fu ingogliata da un qualcosa di più profondo, di più intenso. E mai avrebbe immaginato che si potesse provare una cosa del genere e che, un essere umano, potesse sopportare un simile dolore.

Era come se il proprio cuore fosse stato punto da milioni di spilli, ma no, non solo il cuore, ogni centimetro del proprio corpo.

Era come se, dopo aver ricongiunto i pezzi di un vaso rotto, lo stesso vaso si rompesse nuovamente in mille pezzi. Bhè, in quel caso, le schegge lo avevano ferito; creando piaghe ben più profonde e dolorose delle precedenti.

E mentre osservava con occhi increduli quella scena, gli sembrò di vedersi in terza persona. Già, gli sembrò di vedere sé stesso che guardava pietrificato quei due, abbracciati.

Ma l'abbraccio era solo l'inizio di un qualcosa di più intimo, di un qualcosa di più doloroso. I loro visi erano troppo vicini, le loro labbra si cercavano. I loro corpi erano come fusi.

...Romano...

Nel panico più totale si sentì cadere a pezzi. Quel dolore atroce lo aveva colto all'improvviso, non dandogli nemmeno il tempo di farsi delle domande, di chiedersi il perché vi fosse rimasto così male.

No, in quel momento la mente non si decideva a ragionare.

Romano...

Sembrava così rilassato mentre stringeva a sé la belga, sembrava così felice e così naturale il modo in cui accarezzava le sue labbra.

Romano...

Una felicità ed una naturalezza che mai, lui, avrebbe potuto donargli. Già, lui come avrebbe potuto abbracciarlo a sé e rassicurarlo in quel modo? Come avrebbe potuto guarire le sue ferite se non sapeva nemmeno guarire le proprie?

Volse le spalle a quella scena, abbassando lo sguardo ancora sgranato a terra, con ancora negli occhi quel bacio. Il dolore era immenso ma nemmeno una lacrima rigava il suo viso, nemmeno un lamento uscì dalla sua bocca.

Questo non faceva di lui un uomo forte, questo non faceva di lui un menefreghista. Strinse gli occhi, riuscendo a riprendere possesso di parte delle sue facoltà. Prese a camminare con lentezza verso la via di casa, ignorando la scena alle sue spalle. Lo sguardo incolore guardava dritto avanti a sé.

Assolutamente, questo non faceva di lui un uomo forte.

Questo faceva di lui, un uomo disperato.

 

Gilbert mise a posto l'ultima sedia.

-”Ah! Finalmente abbiamo finito!”-sbuffò e si lasciò andare sulla medesima sedia-”Non so te ma sono sfinito!”-

Francis si infilò il capotto e prese le chiavi del locale. Indicò con gli occhi l'uscita e sorrise stanco.

-”Sì sono distrutto anche io, andiamo.”-

Il prussiano prese la sua giacca e lo seguì. Uscirono dal locale ed il binodo si accinse a chiuderlo, mentre Gilbert guardava il cielo di una Madrid addormentata.

-”Oggi Antonio era davvero stanco...”-fece il prussiano-”Secondo te è riuscito davvero a mettere la parola fine a tutto?”-

Francis chiuse a chiave la serranda del pub, dichiarandolo ufficialmente chiuso fino alla sera seguente. Sorrise stancamente.

-”Non lo so, ma avevi ragione tu.”-affermò infilandosi le chiavi in tasca con un misto di fastidio divertito-”Dannazione, è un reato che tu lo abbia capito prima di me.”-

Gilbert sembrò capire di colpo, ghignò.

-”Ah, ti riferisci a Romano ed Antonio.”-

Il francese annuì.

-”Ormai è palese che Antonio provi qualcosa nei confronti di Romano. Chissà se lui stesso se ne è reso conto...”-affermò serio.

La cosa sembrò sorprendere il prussiano, togliendogli quel sorrisino soddisfatto dal volto.

-”Quindi, Tonio, è davvero innamorato di un uomo...”-disse, cercando di non fare suonare tanto assurda quella frase alle sue stesse orecchie. Francis lo guardò con un sopracciglio inarcato.

-”Perché tanto stupore, eh, “Magnifico”?”-lo prese in giro-”Lo hai detto tu stesso per primo, no?”-

Gilbert si fece serio.

-”Sì, ma sentirlo confermare con certezza da te, vuol dire che è proprio ufficiale, che è vero.”-sospirò-”Insomma, mi viene difficile credere che Antonio, quel ragazzo che fino a poche settimane prima soffriva per una donna, adesso vada dietro ad un uomo.”-

Francis sospirò per poi sorridere, sfregandosi le mani per il freddo.

-”L'amore è l'amore... E noi siamo suoi amici, dobbiamo accettarlo.”-

Quell'affermazione, in qualche strano modo, sembrò bastare al prussiano.
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Note

Bene... questo era "il peggio" (non uccidetemi XD)

Honodetsu:D

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Capitolo 11
*** 11 ***


Era tardi e la città era buia.

Buia come il cuore di Romano.

Continuava a tenerla per mano, mentre passeggiavano. Continuava a sorriderle, continuava a baciarla quando glie lo chiedeva.

Ma cosa pensava realmente?

Vuoto.

Ormai la sua mente si rifiutava perfino di farsi delle domande.

-”Sono così felice di averti incontrato...”-gli disse stringendosi al suo braccio. L'italiano sorrise.

Già, lei era felice, e lui?

-”Ormai si è fatto tardi...”-disse lei guardando il cielo buio-”Perché non vieni a dormire da me questa notte?”-

Gli sorrise, guardandolo negli occhi. Qualcosa, forse quel poco che era rimasto della sua ragione, si accese. La guardò un po' preoccupato, non sapendo che fare.

-”Forse è meglio di no... Insomma, Antonio sarà preoccupato, non sa dove sono finito. Mi avrà dato per disperso.”-disse accennando appena un sorriso.

Lei lo strinse a sé.

-”Non ho alcuna intensione di lasciti andare! Tu sei mio, mica di Antonio, sai?”-disse in tono provocatorio. Lui arrossì, non tanto per quella sua dichiarazione d'affetto, quanto quell'affermazione di lui e lo spagnolo.

-”Che stai insinuando, eh?”-fece alzando un sopracciglio.

Lei ridacchiò.

-”Dai, fammi contenta!”-congiunse le mani come se stesse pregando-”Ho voglia di stare con te.”-

L'italiano rimase a guardarla combattuto.

Che doveva fare? Insomma, era vero, quando stava con lei non provava alcuna sofferenza, si sentiva un altro. Però aveva un po' di timore. Come se quella donna lo sconvolgeva, ancora non aveva capito se positivamente o negativamente.

Sospirò.

-”Antonio mi ucciderà domani mattina...”-disse scuotendo la testa, sorrise-”Va bene, vengo.”-

Lei si alzò sulle punte e lo baciò di sfuggita.

-”Grazie!”-sorrise-”Ti prometto che non te ne pentirai...”-

 

La casa della belga non era per niente male. Era di medie dimensioni e molto accogliente. Appena entrò nel salotto si sentì in qualche modo rincuorato.

C'era un'atmosfera serena in quelle mura, che sapeva di casa e che lo tranquillizzò un poco. Si guardò un po' intorno, come stesse cercando di capire quello che stesse facendo.

Che aveva intenzione di fare?

-”Dammi pure il capotto, ci penso io...”-era Bella. Romano si voltò a guardarla. Indossava un vestito che le arrivava fino alle ginocchia, dall'aspetto caldo e soffice, e, le calze che le coprivano le gambe, ne definivano la lunghezza e la grazia. Si ritrovò a pensare che era davvero bellissima, aveva un ché di infantile nel modo di vestire che si ritrovò ad adorare.

-”Grazie...”-disse, cercando di non apparire tanto teso, porgendole il capotto e sorridendole.

Si sentiva strano, fuori posto, come se tutto quello che aveva fatto fino a quel momento con la belga fosse stato solo un errore.

Si stupì nel rendersi conto che, in fondo, quello che voleva era solo tornarsene nel suo appartamento. Gli sarebbe tanto piaciuto tornarsene a casa, affondare il viso nel cuscino, ed aspettare che quella strana sensazione lo abbandonasse.

Si sentì abbracciare da dietro. Le mani di Bella lo stringevano amorevolmente a sé, il viso posato sulla sua schiena.

Perché quell'abbraccio non gli diceva nulla? Perché quelle mani non gli facevano più lo stesso magnifico effetto?

L'italiano fu preso per le spalle e girato verso di lei. L'ennesimo bellissimo sorriso lo accolse, facendogli dimenticare ogni dubbio, facendo tornare quella sua indecisione nell'abisso che si era andato a formare nel suo cuore.

-”Perché sei così distante?”-chiese lei sfiorandogli le labbra con un altro dei suoi dolci baci-”Ancora ti tormentano i tuoi problemi?”-

A quelle domande si sentì così inerme.

-”Come me ti puoi confidare, lo sai, vero?”-gli sussurrò avvicinando il petto al suo. Romano arrossì al quel contatto inaspettato e dolce.

-”Sono solo sciocchezze, non c'è niente da dire.”-l'abbracciò e le sorrise. Lei sembrò non crederci.

-”Non sembra da come sei ridotto.”-

Quel suo insistere gli ricordò Antonio. Un dolore sordo gli invase il petto.

-”...”-la strinse più forte a sé-”Ti amo, Bella...”-

La belga sorrise soddisfatta.

 

Qualcosa in lui sembrava essersi spento. Non sentiva nulla, e questo lo spaventava. Quel dolore assordante era svanito, al suo posto una strana sorta di smarrimento.

Non riusciva a prendere sonno ed i suoi occhi non la finivano di fissare il vuoto. Nelle pupille, girava ancora inesorabile la stessa scena.

Sembrava non avesse alcuna intenzione di dargli una tregua.

L'appartamento era silenzioso, nessun rumore interrompeva quel vuoto che era andato a crearsi. Sembrava quasi che, in quelle mura, il tempo si fosse fermato per sempre.

Per la prima volta da quando era arrivato a casa gli sfuggì un sospiro sofferto, riuscendo ad interrompere quella sorta di bolla di nulla che lo avvolgeva.

Con esso, arrivarono le lacrime.

Si portò le mani agli occhi, in un pianto silenzioso e tremendamente sofferto.

Perché piangeva? Perché tutto quel dolore?

Un gemito uscì dalle sue labbra, mentre nel suo cuore continuava a crescere quella sofferenza sconosciuta ed orribile.

Perché Bella era arrivata a tanto? Voleva lui, perché aveva messo in mezzo anche Romano?

Ormai la schiacciante verità, che nulla era terminato, lo stava uccidendo. Era solo un illuso, davvero credeva che sarebbe bastato parlarle per poter chiudere quella dannata storia?

Le lacrime finalmente si fermarono, lasciandogli gli occhi gonfi e doloranti.

Ma perché Romano? Perché doveva illudere proprio lui? Perché doveva far soffrire anche lui?

Per un attimo la sua mente si fece silenziosa.

In quel bacio l'italiano sembrava essersi perso, le sue labbra sembravano così avide. Non lo aveva mai visto così. Ciò gli portò un'inspiegabile rossore sulle gote.

Già, perché nonostante tutto, la figura del ramato, gli era parsa così bella.

I suoi pensieri si arrestarono con l'arrivo di una sola domanda. Di una muta e sofferta domanda che lo stava perseguitando da quando aveva visto quella scena. Aggrottò le sopracciglia, sconvolto da sé stesso e lasciò che un'ultima lacrima gli scivolasse lungo il viso.

Perché non poteva essere lui, quello, al posto di Bella?

Dopo quel momento di stupore, gli parve di comprendere. Sorrise con amarezza, mentre le lacrime si facevano sentire ancora. Un nuovo dolore si insinuò nel suo cuore.

In fin dei conti lo aveva sempre saputo. In fin dei conti il suo inconscio glie lo aveva detto in tutti i modi. Chiuse gli occhi, lasciando che quella sofferenza lo portasse via.

Lo amo...

Già, lo amava, ma ammetterlo non migliorava di certo la situazione.

Romano se ne era andato già prima che potesse nascere qualcosa. E poi cosa si aspettava? Era normale che l'italiano provasse qualcosa nei confronti di Bella. Insomma, lei era una ragazza.

Anche senza il suo ritorno, tra loro, non sarebbe mai potuto nascere nulla.

Schiuse gli occhi, lasciando che l'ennesimo sospiro gli sfuggisse di bocca. Quanti sospiri sprecati. Sprecati, per un'amore, per un qualcosa d' impossibile. Gli venne da ridere.
Lui, innamorato di un uomo.

Lui, innamorato di Romano.

Una risata soffocata gli sfuggì dalle labbra.

Innamorato di Romano!

Non riuscì più a fermarsi.

Gli parve così folle la situazione. Possibile che uno come lui, che fino a poche settimane prima soffriva per una donna, adesso soffrisse per un uomo? Non aveva mai avuto nessun interesse per i ragazzi, non li aveva mai trovati attraenti.

Eppure.

La sua risata si interruppe.

Eppure se il pensiero correva a Romano non poteva fare a meno di ricordare i suoi bei occhi verdi chiari, il suo ciuffo particolare, il suo viso perennemente imbronciato ma ugualmente stupendo.

Al suo modo di parlargli quando era arrabbiato, a tutte le volte che gli aveva dato del cretino, a quando lo aveva ringraziato.

Tutti pensieri e ricordi che non potevano far altro che fargli notare quanto quell'essere potesse essere perfetto nella sua imperfezione.

Ed allora la sua rista si spense del tutto. Ed allora l'arrivo della ragione lo spiazzò completamente.

Lo amo... Lo amo davvero... Io...

Non poteva permettere a Bella di fargli del male, non poteva permetterle di portarglielo via. Non pretendeva di averlo tutto per sé, non pretendeva di essere ricambiato, ma...

...Non posso perderlo, non ora che so di amarlo...

 

Le labbra di Bella e le sue carezze parvero in qualche modo riuscire a distrarlo dalla realtà. Lasciò che lo baciasse e che lo toccasse senza freni, senza chiedere nemmeno sé stesso quello che aveva realmente intenzione di fare.

Il fatto era che non voleva fare nulla. Già, lui voleva solo che, per una volta, riuscisse a non pensare a nulla, che ogni singola preoccupazione svanisse, che ogni piccolo senso del dovere morisse con la sua dannata ragione.

Voleva baciarla e lasciarsi baciare, per una volta voleva avere lui il controllo della situazione, senza sentirsi dire che quello che stava facendo era sbagliato. Voleva sentirsi felice e voleva che quella felicità restasse per sempre.

Perciò la sdraiò sul letto morbido, continuando a baciarla. Sentì le mani della belga strette sulla sua maglietta, e niente, come quel contatto, gli parve tanto bello.

Le accarezzò i fianchi mentre lei cominciava a svestirlo.

Davvero aveva intenzione di farlo? Davvero voleva spingersi così oltre?

Bella prese a baciargli il collo e lui la lasciò fare desideroso. Per un attimo gli parve di sentire qualcosa uscire dalle labbra della bionda, ma non riuscì ad intuire le parole.

Prese ad accarezzarle la schiena nuda, era così morbida sotto le dita, quella pelle chiara. Chiuse gli occhi, cercando di non pensare a nulla e di lasciarsi andare a quei piaceri. Presto cominciò a sentire caldo, ma lo ignorò con ostinazione. La strinse nuovamente a sé, sperando; che in quell'abbraccio, potesse scomparire per sempre.

E, per un attimo, gli parve quasi di provare della felicità.

Cosa avrebbe fatto l'indomani, quando, quella strana e falsa felicità sarebbe scemata? Già, sapeva perfettamente che era falsa, ma l'idea che sarebbe svanita nuovamente lo spaventò, mandandolo nel panico. Le si mise sopra tornando a baciarla ed accarezzarla.

No, lui aveva bisogno di quella felicità, anche se era sbagliata, anche se era dipendente e malata, ne aveva bisogno. Un estremo bisogno.

Sentì le mani di Bella stringersi sulla sua schiena. Improvvisamente i pensieri si spensero, così come la ragione. Lasciò che il piacere gli inebriasse i sensi.

Ne ho bisogno...

 

-”Bonjour!”-

-”'Giorno!”-

Quelle voci parvero penetrargli nella scatola cranica come un trapano. La porta della sua stanza si spalancò di colpo, facendolo sobbalzare dal letto. Cadde a terra portandosi dietro il piumone.

Un francese ed un tedesco, estremamente divertiti, lo guardavano con un largo sorriso, poggiati con leggerezza sul muro. Antonio si portò una mano sul viso pallido, sospirò.

-”Che vi dice il cervello?”-la voce ancora assonnata ma parecchio irritata.

-”Abbiamo suonato più volte il campanello...”-parlò Gilbert, guardando preoccupato lo strato di abiti che si estendeva su tutto il pavimento.

-”...Ma non ci hai aperto, perciò di abbiamo pensato da soli.”-continuò per lui Francis, mostrando il doppione della chiave dell'appartamento.

Lo spagnolo rimase a fissare quell'oggetto scintillante con odio.

-”Cavolo, credevo che me li avesse ridati i doppioni...”-brontolò alzandosi da terra e rimettendo, in malo modo, il piumone sul letto. A giudicare da quel movimento stizzito, i due, compresero che doveva essere parecchio irritato.

Si formò uno strano silenzio, in cui Antonio sospirò, perso in chissà quali pensieri.

-”Vuoi fare colazione?”-chiese il francese con uno dei suoi sorrisi-”Così la facciamo anche noi con te, vero, Gil?”-

Il prussiano sorrise ed annuì, mentre Antonio tentò di non sembrare triste.

 

Non era colpa loro, assolutamente, ma si sentiva irritato, irritato e perciò di cattivo umore. Vederli sorridere e preoccuparsi per lui gli faceva piacere, ma in quel momento avrebbe preferito restare da solo. Avrebbe preferito rimanere a pensare ancora un altro po' a quello che era successo e a quello che aveva provato l'altro giorno.

-”Sai che Gilbert continua a russare come un maiale? E' così poco aggraziato!”-fece portandosi le mani tra i capelli, il biondo. Il prussiano sembrò non dare peso a quelle parole.

-”Russare e da uomini, anzi, mi stupisce il fatto che tu non lo faccia.”-fece impettito e fiero.

Davvero, si sforzava di apparire allegro. Si sforzava di sorridere, ma difronte alla loro ilarità si sentiva anche peggio.

-”Russare e da rozzi!”-bofonchiò l'altro.

-”Dì la verità, sei invidioso!”-ghignò.

Una volta forse sarebbe scoppiato a ridere di fronte a discorsi simili, avrebbe sorriso. Ma adesso nella mente aveva solo quel dannatissimo bacio. Antonio abbassò lo sguardo sul suo cappuccino, perdendosi in quella schiuma. Finalmente, i due, capirono che lo spagnolo ormai non li seguiva più.

Tacquero, concedendogli pochi minuti di silenzio.

-”Hai dormito questa notte, Tonio?”-chiese il prussiano, addentando distrattamente la sua ciambella.

Francis guardò con interesse il riccio, attendendo incuriosito una sua risposta.

-”Sì, ma non molto bene...”-riuscì ad alzare la testa, sforzando un sorriso terribilmente falso -”Scusate se oggi non sono di grande compagnia, davvero...”-

I due amici lo guardarono con preoccupazione, sospirarono. Francis tentò una mossa azzardata.

-”Romano dov'è? Nell'appartamento non c'era...”-

Gilbert lo fissò con uno sguardo, da prima, sorpreso poi omicida. Gli occhi di Antonio lo guardarono di sfuggita, poi tornarono al cappuccino.

-”Non è tornato questa notte.”-

All'improvviso, Gilbert e Francis, sembrarono comprendere quel suo strano comportamento.

-”Ah, capisco...”-sfuggì una parola di troppo al povero prussiano.

Il corpo dello spagnolo si irrigidì, mentre il biondo guardò con rimprovero l'albino.

-”Che vorresti dire?”-gli chiese incolore.

Gilbert prese a sudare freddo. Ma perché non riusciva a tacere per una volta? Tentò di evadere dalla situazione con un sorriso ammiccante.

-”Niente, solo: 'ah, capisco...'”-si morse un labbro-”Nient'altro.”-alzò le spalle tornando a sorridere nervoso. Francis si portò una mano alla fronte, come se stesse desiderando ardentemente di scomparire di scena.

Ne seguì un silenzio pesante.
Al riccio sfuggì un sorriso stanco e rassegnato.

-”Sei stato tu a capirlo per primo, vero?”-chiese rivolto al francese. Il biondo sembrò intuire, sbuffò e si morse un labbro contrito e rassegnato.

-”No...”-brontolò-”E' stato Gil a rendersene per primo conto...”-lo disse quasi in modo dispiaciuto, con un tono così infantile che fece scappare il primo sorriso vero, della giornata, ad Antonio.

Il prussiano li guardò entrambi con un sorriso di circostanza: evidentemente non sapeva come comportarsi, non sapeva se starsene zitto ad annuire oppure cominciare a vantarsi come di sua consuetudine. Lo spagnolo lo guardò per un attimo, tanto che l'albino si sentì sotto processo.

-”Sì, cioè, lo avevo sospettato ma questo non significa nulla, sei tu che devi confermare, no?”-disse come cercando di giustificarsi. Francis, nel veder annaspare l'amico, lo guardò compiaciuto.

Si formò il silenzio.

-”Credo...”-disse, per poi rifermarsi a riflettere nuovamente. I due lo guardarono con discrezione, cercando di non apparire troppo curiosi. Antonio abbassò gli occhi.

-”...Credo mi piaccia...”-continuò, in un soffio-”Credo di...”-la voce gli si ruppe nella gola.

Amarlo...?

Come era difficile dirlo, come era difficile ammetterlo. Gilbert e Francis rimasero in silenzio ad attendere le sue parole, capendo che dietro a quella confessione sofferta, e a quel cattivo umore, ci fosse dell'altro.

“Dell'altro” che lo stava torturando dalla sera dell'altro giorno. Le labbra di Antonio si incresparono in un sorriso amaro, ed i suoi occhi divennero cupi e spenti. Entrambi lo guardarono con dolore.

-”Lo so, è pazzesco... Anche io stento a crederlo...”-disse portandosi il cappuccino alle labbra -”Romano... Per me, Romano...”-per l'ennesima volta la voce si rifiutò di collaborare. Posò la tazzina del cappuccino sul bancone del bar in cui si trovavano, una strana confusione interiore lo stava dilaniando. Uno smarrimento che Francis parve vedere fin troppo bene.

-”...E' speciale.”-disse, continuando la frase al suo posto. Gli posò una mano sulla spalla e gli sorrise-”Non cercare spiegazioni, abbiamo capito cosa provi...”-

Aveva uno sguardo gentile, che trasmetteva sicurezza. Perché era così gentile? Come faceva ad essere così forte? Non importava quale fosse la situazione, Francis, sapeva sempre cavarsela, grazie alla sua forza. Ma come faceva a possederne così tanta? C'era forse un segreto? Perché se era così avrebbe voluto conoscerlo, per poter soffrire di meno.

Non gli rispose, si limitò ad abbassare il capo, cupo. Sapendo che, se anche avesse parlato, non sarebbe bastato a farsi comprendere a pieno. Con il tempo aveva compreso che Francis aveva imparato ad ascoltare e a comprendere i suoi silenzi, più delle stesse parole.

Come se fossero legati da una tacita intesa.

Gilbert rimase in silenzio a guardare quei due. Non aveva idea di cosa dire, lo spagnolo ed il francese sembravano capirsi alla perfezione, tanto che lui cominciò a chiedersi con un po' di irritazione che ci stesse facendo lì. Li guardò un po' annoiato.

-”Scusate se non riesco a leggere nella mante, come voi due...”-brontolò-”Poteri capire anche io perché Antonio è così giù? Grazie.”-

Francis ridacchiò, posando lo sguardo sull'albino.

-”Ti senti escluso?”-

-”Scemo.”-lo liquidò, il prussiano. Antonio sorrise appena, sospirò.

-”Ieri sera, quando sono uscito dal bar, ho visto Romano e Bella...”-ancora una volta le parole gli parvero inutili. Le lacrime salirono prepotenti agli occhi, senza che nemmeno se ne accorgesse.

Gilbert si sentì rabbrividire allo scorgere degli occhi lucidi dell'altro.

-”Antonio, che è successo?”-gli chiese in tono dolce. Un tono che stonava un po' con il suo carattere ma che in quel momento rassicurò, in qualche strano modo, l'amico.

Il riccio si strappò le lacrime dagli occhi, cercando un po' di contegno; coprendosi il viso per non farsi vedere dalle altre persone nel locale. Sorrise amaro.

-”Forse, sarebbe stato meglio, che non staccassi prima da lavoro. Forse sarebbe stato meglio che fossi rimasto con voi a riordinare il pub...”-la voce gli tremava.

Gilbert lo guardava senza capire, con una confusione totale nella mente. Francis, invece, sembrava assorto nell'osservare il viso piangente di Antonio. Dopo un attimo di silenzio, in cui il riccio tentava inutilmente di frenare le lacrime, Francis, parve intuire qualcosa.

Batté di colpo il pugno sul palmo e guardò serio lo spagnolo, sotto lo sguardo accigliato dell'albino.

-”Li hai visti mentre si baciavano, vero?”-gli chiese di colpo, quasi compiaciuto dal suo arrivarci da solo. Quelle parole, dette con tanta rudezza, ebbero l'effetto di una zappata sui piedi.

Annuì solo, riabbassando il capo e asciugandosi le ultime lacrime. Gilbert guardò con una sorta di stupore e paura il biondo.

-”Come hai fatto a capirlo?”-

Francis alzò le spalle e sorrise.

-”E dai, sono le solite cose, è così scontato! E poi si vedeva che Romano era attirato da Bella, no? Quell'italiano non vedeva l'ora di potersi permettere il lusso di toccare quelle belle labbra!”-

Ancora una volta, quelle parole, ferirono Antonio. Il francese parve accorgersi, solo in quel momento, di aver detto una parola di troppo. Guardò l'amico, mortificato.

-”Non avrei dovuto dirlo... Scusa...”-borbottò a sguardo basso, come un bambinetto. Gilbert posò il gomito sul tavolino e sghignazzò.

-”Idiota!”-fece divertito. Francis lo fulminò con lo sguardo. Antonio sospirò, ancora più cupo.

-”Possibile che riusciate a fare solo i bambini?”-chiese, sforzandosi di sorridere. Si alzò dal tavolino, tentando di ignorare la voglia di piangere.

-”Meglio che vada a casa.”-si infilò il capotto-”Ho bisogno di pensare un po'...”-

Gilbert si alzò dal tavolino, come se stesse cercando di bloccarlo.

-”Aspetta, non andare!”-gli afferrò il polso con poca convinzione-”Che cosa vorresti fare a casa? Ti deprimeresti e basta, resta ancora un po' qui, dai.”-non seppe il motivo, ma il tono che aveva assunto sembrava indeciso, traballante, come se non credesse davvero a quello che stava dicendo.

L'albino tentò di non far vacillare lo sguardo, di non mostrarsi insicuro. Non capiva, si sentiva strano, come se non riuscisse più a parlare normalmente con lo spagnolo.

Ciò, gli mise paura.

Il riccio, difronte a quel suo smarrimento sorrise amaro, nascose il viso e si liberò in malo modo dalla stretta. Il prussiano ed il francese lo guardarono stupiti.

-”Forse per voi è solo un passa tempo, ma questa è la mia vita...”-le parole gli morirono in gola-”Magari a voi può apparire scontato quello che mi sta accadendo ma, vi posso assicurare,”-alzò lo sguardo furente sui due-”che per chi lo vive in prima persona non lo è affatto!”-

A quelle parole il francese abbassò gli occhi, sentendosi chiamato in questione. Dopo tanti sforzi lo sguardo di Gilbert vacillò, fino a cedere completamente.

Antonio rimase a guardarli attonito. Possibile, che gli unici due veri amici che possedeva, non lo capissero? Possibile che non riuscissero ad accettarlo?

Rimase a guardarli, quasi sperando l'arrivo delle loro parole. Sperando che gli dicessero qualcosa. Ma quelle parole non si fecero udire. Sospirò e scosse il capo.

-”Non capisco... Quando stavo male per Bella, andava bene, non era scontato...”-ingogliò della saliva con dolore ed amarezza, come se avesse appena mandato giù dell'acido-”Mentre, adesso, con Romano...”-strinse i pugni, fino a far divenire le nocche bianche. I due rimasero in silenzio, non avevano idea di cosa dire.

-”Ma sapete una cosa?”-disse alzando lo sguardo e guardandoli con sicurezza. Francis lo guardò, contraendo la mascella.

-”Non importa...”-si chiuse il capotto-”Continuate a pensarla come vi pare, continuate pure a non accettare quello che provo, continuate pure ad ignorarlo. Ma non ritenetevi più miei amici.”-

Uscì dal locale, lasciando dietro di sé una scia di dolore e rabbia. Ne seguì un silenzio carico di tensione. Francis sembrò tornare a respirare solo in quel momento.

-”L'abbiamo fatta grossa sta volta, vero?”-chiese sorridendo debolmente. Gilbert non rispose subito. La schiena posata sullo schienale della sedia, le braccia lasciate cadere debolmente sul ventre.

-”La cosa che mi brucia di più è che ha ragione...”-

Francis lo guardò interrogativo, con un misto di stupore e preoccupazione. I loro sguardi si incrociarono, gli occhi azzurri di lui contro gli occhi rossi dell'altro.

-”...Non riesco più a vederlo come prima...”-

La mascella del francese si contrasse.

 

Finalmente la mente era silenziosa, calma. Movve appena gli occhi sotto le palpebre chiuse, quasi stesse per aprirli, ma ci ripensò.

Sentiva come una calma e una completezza che non provava da anni. Sentì con piacere il piumone accarezzargli la pelle nuda.

Non sentiva freddo, non sentiva caldo. Si sentiva bene, in pace. Tutto gli appariva calmo e tiepido e, ciò, gli instaurò una piccola sorta di felicità.

Una felicità che sembrò scomparire non appena sentì delle mani toccarlo.

Aprì di colpo gli occhi, impaurito, come se non sapesse chi fosse a emanare quel calore accanto a lui. Romano si mise a sedere, fissando attonito una Bella dormiente. Ingogliò della saliva mentre il primo barlume di coscienza, di ragione, lo invase. I muscoli gli si irrigidirono, alzò appena il piumone, guardandosi il corpo. Nudo. Lo riabbassò smarrito.

Si portò le mani al capo, cercando di capacitarsi di quello che, l'altra sera, aveva fatto.

Allora non era un sogno...

La guardò di nuovo, come alla ricerca di una di quelle poche emozioni di piacere che aveva provato con lei, poche ore prima. Ma non vi trovò nulla. Serrò la mascella.

No, doveva esserci qualcosa, se no non si sarebbe mai spinto a fare l'amore con lei, no? La belga si movve nuovamente nel sonno, facendolo rabbrividire. Sentì le sue braccia avvolgergli i fianchi.

-”Buongiorno...”-sussurrò, ancora assonnata.

Lui sorrise.

-”Buongiorno.”-

Un bacio intenso lo accolse immediatamente, facendogli quasi venire un infarto.

-”Dormito bene?”-

Eppure lui non riusciva a trovarvi nulla.

-”...”-annuì, cercando di apparire deciso, nascondendo quel senso di amarezza che stava crescendo smisurato in lui-”Forse...”-fece, coprendosi l'inguine nudo, nel tentativo di afferrare la sua biancheria a poca distanza da lui.

-”Forse è meglio che vada, Antonio si sarà preoccupato già abbastanza.”-

Bella lo afferrò per un braccio, imbronciata.

-”Ancora con Antonio? Possibile che tu non faccia altro che pronunciare il suo nome?”-sorrise, rasserenandosi-”Pensa, piuttosto, a rilassarti, ora sei qui con me...”-

Non seppe perché ma, quelle parole, parvero instaurargli un'ansia atroce. Si morse un labbro.

-”Non è vero che pronuncio sempre il suo nome...”-borbottò, infilandosi i pantaloni e la maglia-”Ad ogni modo devo andare, ho da superare un ultimo esame a breve.”-

Bella alzò le spalle rassegnata, sistemandosi meglio il piumone sul seno nudo.

-”Va bene...”-sorrise-”Tra quanto darai l'esame?”-

Romano sembrò incupirsi. Era da un paio di giorni che non toccava libri, che non studiava. Sospirò e si sistemò la maglia stropicciata.

Si sentiva l'odore di Bella addosso e ciò lo innervosiva.

-”Tra pochi giorni...”-si passò una mano sulla nuca, cercando di non guardarla in volto-”Scusa ma devo proprio andare.”-

Bella rimase a guardarlo con un sorriso indecifrabile sul volto.

-”Va bene. Vorrà dire che mi farò viva io, qualche volta.”-

L'italiano si voltò a guardarla, le sorrise confuso.

-”Allora ci sentiamo.”-
-------------------------------
Note

Antonio ormai ha compreso di amare l'italiano ma quando lo dice a Francis e a Gilbert, i due, sembrano non prenderla seriamente... O almeno, così sembra. E Bella? Quale sarà la sua prossima mossa?

Honodetsu:D

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Capitolo 12
*** 12 ***


Non riusciva più a capire nulla, non sapeva cosa desiderare o cosa temere. A passo spedito si diresse verso il suo appartamento.

L'unica cosa che sapeva fin troppo bene, era che tra pochi giorni avrebbe dovuto fare il suo ultimo esame e l'idea di essere bocciato non lo attirava per nulla.

Con la mente confusa premette il tasto dell'ascensore. Quella notte passata con Bella lo aveva sconvolto, lo aveva in qualche assurdo modo risucchiato, impedendogli di rilassare la mente.

Nonostante facesse freddo continuava a provare un fastidioso calore, una fastidiosa mancanza d'aria. In più, l'ascensore, non si decideva ad arrivare. Guardò infastidito il pulsante.

Occupato, diceva.

Sbuffò, già di malumore per conto suo. Qualche idiota doveva aver chiuso male la porta dell'ascensore. Diede un calcio sul muro e prese a salire la rampa di scale con fastidio.

Nonostante tutto continuava a provare quel calore, delle mani di Bella, sulla pelle, il suo odore, il sapore delle sue labbra. Ma con sorpresa non gli procurarono gioia quelle sensazioni, solo una profonda ed irrimediabile angoscia.

Accelerò il passo, passandosi continuamente le mani stizzito sulle braccia e sul petto. Dannazione, voleva solo un po' di pace, era chiedere tanto?

Arrivò all'ennesimo pianerottolo. Maledizione, il sesto piano non arrivava più?

E va bene, probabilmente quello che aveva fatto con Bella era stata una sciocchezza. Prese a salire le scale con ancora più trasporto.

Forse era stata anche più che una semplice sciocchezza, forse era stato un madornale errore. Presto prese a correre per le scale.

Perché finiva sempre così? Perché ogni singola volta che gli sembrava di riuscire davvero a vivere succedeva qualcosa che lo faceva retrocedere?

Perché non cadeva mai in piedi?

Un piede prese male lo scalino, facendolo scivolare faccia avanti. Un tonfo preoccupante invase l'edificio, seguito da un gemito.

Si tirò su con la forza delle braccia, con la caviglia che gli pulsava per il dolore.

L'ultima volta che aveva tentato di vivere come gli altri suo padre era morto, chi altro doveva morire questa volta? Forse lui?

Si ritrovò a pensare con ironia che forse non era poi nemmeno tanto assurdo. Le conosceva fin troppo bene le storie come la sua, ed il finale, per il protagonista, non era certo tra i migliori.

Si tirò su, aggrappandosi allo scorrimano e posando il primo piede a terra. Non appena posò l'altro un'ondata di dolore lo colse.

Si costrinse a salire l'ultimo gradino, goffamente, per poi prendersi una pausa sul pianerottolo. A che piano era? Si guardò intorno. Di certo non il suo.

Chiuse gli occhi stanco, per poi riaprirli. Il suo sguardo cadde sulla porta dell'ascensore. Su quella dannata porta accostata e non chiusa.

Serrò la mascella con rabbia, trattenendosi dal non urlare per la collera e la disperazione. Zoppicò fino all'ascensore, ci si infilò a fatica dentro e premette il tasto del sesto piano.

Si posò su una delle pareti ed aspettò che le sue ante si riaprissero, portandolo a casa.

Romano sospirò. Aveva così tanto desiderato avere Bella, ed adesso che l'aveva avuta si sentiva così angosciato, così stanco, così già stufo.

Aveva creduto che con lei sarebbe riuscito a provare della felicità, magari quell'euforia che tanto bramava. E nei primi giorni in cui l'aveva conosciuta gli era anche sembrato di scorgerla.

Ma, con la stessa velocità con cui si era presentata, era anche scomparsa.

L'ascensore si fermò suonando e le sue ante si aprirono, lasciandolo lì, fermo, ad osservare il grigio di quella porta chiusa. Sospirò.

Cosa avrebbe trovato una volta aperta quella porta?

Bhè, era ovvio, il suo pianerottolo, il suo appartamento, la sua stanza, i suoi libri e...

Antonio...

Così come quel nome era sorto dalla sua mente, scomparve. No, non era vero, non pensava sempre a lui, non pronunciava sempre il suo nome. Aprì la porta con decisione.

-”Ehi, piano!”-

La porta fu fermata da una mano dal colorito stranamente familiare. L'italiano finì quasi per cadere ma, sempre quelle stesse mani, lo sorressero.

-”Romano...?”-una voce stupita.

Il ramato alzò la testa e quello che vide lo mise ancor più in agitazione.

-”A...Antonio!”-ingogliò della saliva. Il riccio sembrava sconvolto, aveva una faccia che trasmetteva stanchezza al solo vederla.

-”Tutto... Tutto bene?”-gli chiese rimettendosi in equilibrio sul piede sano. Dal corpo teso dello spagnolo uscì un unico respiro, come se solo in quel momento fosse riuscito a prendere ossigeno da portare ai polmoni.

-”Sei tornato...”-sussurrò, fissandolo intensamente. L'altro sembrò perdersi nei suoi occhi. Cos'era quell'espressione tanto preoccupata? Cos'erano quegli occhi.

-”Sì... Sono qui...”-si riscosse, ricordandosi di rindossare il suo caratteraccio-”Ma che cavolo ti prende? Che mi rappresenta quella faccia?”-

Antonio parve per un attimo arrossire, poi i suoi occhi incrociarono la caviglia dell'italiano. Aggrottò le sopracciglia.

-”Che ti è successo? Ti fa male?”-

L'altro tentò di dare poca importanza alla cosa, sventolando una mano con noncuranza, chiuse la porta dell'ascensore dietro di sé, sbattendola con forza e decisione. Lo spagnolo lo guardò allarmato.

Il ramato non si lasciò intimidire.

-”Così si chiude la porta dell'ascensore, tutti in questo cavolo di palazzo sanno che questa dannata porta e guasta e che per chiuderla ci vuole solo un po' di forza. Cavolo, ci vuole così tanto a capirlo?”-

A quelle parole così acide lo spagnolo gli scappò un sorriso.

-”Sei caduto dalle scale, vero?”-

L'altro lo fulminò con lo sguardo.

-”Lo trovi divertente?”-

Alzò le spalle e gli porse una mano, avvicinandosi per aiutarlo ma l'italiano rifiutò.

-”Faccio da me.”-

-”Ma se ti reggi a mala pena in piedi da solo.”-

Romano sbuffò, cercando di non far notare molto che si tenesse in piedi solo grazie al supporto della parete.

-”Scemo.”-

-”Dai, fatti aiutare.”-

L'italiano allungò una mano verso la sua.

-”Va bene, ma solo perché ho fretta di andare a studiare.”-

Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, Antonio, si sentì sollevato dal sapere che doveva studiare. Almeno per un po' lo avrebbe avuto sicuramente a casa.

-”Va bene, va bene.”-

Posò appena il piede dolorante ma la caviglia sembrò rimproverarlo immediatamente, facendolo scivolare sul petto dello spagnolo.

Si aggrappò alla sua camicia, ormai incapace di riacquistare equilibrio, e pauroso di provare nuovamente quel dolore atroce. Sentì le mani di Antonio sulla schiena.

-”Ehi, non avere fretta...”-lo strinse più a sé, nel tentativo di sollevarlo, ma ciò procurò solo l'imbarazzo dell'italiano ed, in cuor suo, un ombra di piacere. Il ramato arrossì.

-”Dannazione, non ho fretta, voglio solo studiare!”-ringhiò. Antonio, che tanto avrebbe voluto ancora stringerlo tra le braccia, si costrinse a tirarlo su. Finalmente riuscirono ad entrare in casa.

-”Ecco...”-fece lo spagnolo facendolo sedere sul divano. L'italiano si lasciò andare completamente su quel morbido.

-”Oh! Finalmente!”-

Sentì la scarpa slacciarsi, guardò allarmato il suo piede.

-”Che stai facendo?”-chiese con un sopracciglio inarcato. Antonio ignorò le sue parole e gli sfilò la scarpa con noncuranza.

-”Guardo i danni che ti sei procurato, tonto.”-sbuffò-”Guarda qua! E' goffissima!”-

Romano per l'ennesima vola arrossì, abbassò lo sguardo.

-”Non ti preoccupare, faccio da me...”-farfugliò, ma venne ignorato. Lo spagnolo si diresse verso la cucina con fare spedito.

-”Aspetta, prendo del ghiaccio. Ah! Devi stare più attento!”-

A quelle parole Romano esplose per l'irritazione. Ferito e per di più rimproverato.

-”Ti ho detto che faccio da me, cavolo!”-

La voce di Antonio, nonostante arrivasse da un'altra stanza, fu recepita chiaramente.

-”Non hai voce in capitolo, taci!”-

A quel punto non gli restò che starsene zitto e corrodersi nel suo bile.

 

-”Dove hai passato la notte?”-gli chiese premendo il ghiaccio sulla caviglia gonfia. Romano si irrigidì per il dolore.

-”Bhè, ecco...”-perché tentennava? Lui poteva fare quello che gli pareva della sua vita-”Sono stato da Bella.”-

Quelle parole, che tanto aveva già immaginato da sé, lo tagliarono come una lama affiliata. Ingogliò della saliva.

-”Oh...”-cercò di apparire indifferente. Romano sbuffò.

-”Sì, sì, lo so: non la conosci davvero, come puoi fidarti di lei e eccetera, eccetera...”-fece alzando gli occhi al cielo per poi riposare lo sguardo su di lui. Ma questa volta, nel volto di Antonio, non vi trovò quello che si aspettava. Non vi trovò fastidio o rabbia, ma solo una fredda e distaccata indifferenza. Sotto il proprio sguardo attonito lo vide alzare le spalle.

-”No, non ho intenzione di dire niente di simile. Sono felice che tu abbia trovato una ragazza, perché questo è, no?”-a questo punto la voce parve incrinarsi, ma Romano non vi fece caso-”La tua ragazza...”-

L'italiano sembrò rimanere deluso da quelle parole. Abbassò il capo.

-”Sì...”-ora che ci pensava era vero-”Lei è la mia ragazza...”-

Confermare un qualcosa di simile avrebbe dovuto fargli fremere il cuore, farlo sentire felice, eppure non provò nulla. Solo un'immensa e schiacciante delusione. Antonio gli donò uno dei suoi sorrisi, che lo ferì nel profondo.

-”La cosa importante è che vi amiate...”-continuò, facendogli stendere la gamba sul divano e lasciandogli posato sulla caviglia il ghiaccio-”Tu...”-disse facendosi coraggio-”Tu l'ami vero?”-

Quella domanda avrebbe dovuto imbarazzarlo, farlo arrossire, avrebbe dovuto farlo sorridere innamorato ma, ancora una volta, nessuna emozione gli trapassò il cuore.

Ingogliò della saliva.

-”Sai...”-disse guardandosi il ventre con occhi spenti-”E' una periodo in cui mi sento parecchio giù...”-Antonio lo guardò sorpreso-”Come se la mia vita fosse un continuo ripetersi, come se continuassi a commettere sempre gli stessi errori.”-alzò lo sguardo su di Antonio. I suoi occhi si intristendo di speranza e dolore.

-”Spero solo che Bella non sia uno dei soliti errori... Anzi, spero che lei sia la risoluzione...”-

Antonio sorrise appena, confuso e colpito da quella sua strana confessione.

-”Non capisco... Errore, soluzione... Che errori avrai mai commesso di così irrimediabili da non poter risolverteli da solo?”-chiese cercando si mantenere il sorriso solare.

Romano sospirò amaro, con un lieve sorriso. Scosse leggermente il capo.

-”Meglio non far riaprire vecchie ferite.”-guardò per terra con un sorriso accennato-”Ma chissà, forse un giorno te lo dirò.”-una strana gioia velata gli invase l'animo-”Infondo sei riuscito ad impicciarti già così tanto della mia vita...”-

Antonio lo guardò con stupore, come se quel ragazzo che gli si presentava davanti, d'un tratto, non fosse più l'italiano che conosceva. Lo guardò negli occhi e per un attimo gli parve di intendere tutto il dolore e la solitudine che aveva passato in quegli anni.

Cosa, di così terribile, poteva averlo reso così?

Gli si mise seduto accanto, delicato, cercando di non procurargli dolore alla caviglia.

-”Sai, forse parlarne ti farebbe bene...”-

Romano lo guardò confuso. Cos'era quel senso di calma, di completezza, che provava nell'animo? Sembrava folle, ma la voglia di parlargli, di confidarsi, stava diventando grande, indispensabile.

-”Io...”-si perse nel verde dei suoi occhi-”...Io...”-abbassò lo sguardo, sentendosi nudo davanti a lui-”Non ho mai avuto un buon rapporto con la mia famiglia. Diciamo che sono sempre stato il figlio problematico...”-

La ragione diceva di fermarsi ma, ormai, i ricordi erano straripati. E lui non riusciva più a fermarli. Tutto ciò che poteva fare era abbassare il capo e parlare.

Parlare, parlare, parlare.

-”Sono sempre stato il figlio venuto male, il figlio da tenere in disparte... Ero sempre il bambino che non giocava con gli altri, ed ero sempre quello che litigava con tutti...”-strinse le mani sulla stoffa dei pantaloni-”Qualunque cosa facessi non era quella giusta...”-strinse la mascella-”Qualunque cosa accadesse era colpa mia...”-

E mentre quel mare di emozioni straripava, abbattendo ogni sorta di difesa, una piccola parte dentro di lui, ancora cosciente, gridava.

Perché glie lo sto dicendo?

-”Quello perfetto era sempre mio fratello!”-

Perché non riesco a fermarmi?

-”Il più buono...”-

Basta!

-”...Il più educato, il più gentile... Non c'era mai fine alle sue lodi mentre, per me, non c'era mai fine ai miei rimproveri...”-finalmente il suo sfogo arrivò alla fine.

Silenzio.

All'improvviso gli parve che il solito peso sul petto fosse scomparso, così come il doloroso nodo nelle membra. Mai, il semplice poter parlare, gli aveva fatto così bene.

Una mano gli sfiorò la testa, scompigliandogli amorevolmente i capelli e riscaldandolo. Quel contatto lo irrigidì ma non alzò il capo.

-”Ci voleva tanto a dirlo...?”-sussurrò.

E mai un sussurro gli parve tanto dolce. Sentì le lacrime arrivare, un sospiro gli sfuggì. La mano dello spagnolo si strinse delicatamente sul suo capo.

-”Testone, non posso credere che tu stia così male per una simile sciocchezza...”-gli parve di intravederlo sorridere. Romano arrossì nervoso e contrasse la mascella, lo spagnolo lo vide.

-”Ah...”-fece sorridendo e socchiudendo gli occhi-”Allora non è solo questo, c'è dell'altro...”-

Gli occhi dell'italiano si sbarrarono. Come poteva leggerlo così nel profondo? Finalmente alzò lo sguardo e lo guardò. Aveva un'espressione così gentile.

-”...”-le parole gli mancarono.

Ed ora che mi prende?

-”...”-

Perché ora che avrebbe voluto parlare non ci riusciva? Ingogliò della saliva, sapendo perfettamente che se fosse anche solo riuscito a far uscire dalla sua bocca una singola vocale, sarebbe scoppiato a piangere. Strinse i denti, in difficoltà.

Perché sono così? Perché?

La mano di Antonio scivolò via lenta dal suo capo. Si ritrovò a riconoscere, con sorpresa, che quel calore già gli mancava.

-”Non ti preoccupare.”-gli sorrise-”Non devi per forza dirmelo ora...”-si alzò dal divano-”Abbiamo tempo, no?”-

Romano lo guardò spiazzato. Cosa? Non insisteva?

-”Ora è meglio che vada...”-fece dei passi verso la porta di casa-”Dovevo andare a fare la spesa poco prima di incontrarti.”-

Romano lo guardò ancora con il cuore a mille. Perché sembrava che volesse fuggire? Come se stesse scappando da lui?

-”Se vuoi vengo con te.”-

Lo spagnolo scosse le mani e sorrise nervoso.

-”No, che dici? Con quella caviglia?”-

L'italiano guardò distrattamente gonfiore. Si morse un labbro.

-”...”-non riuscì a dire nulla. L'altro si infilò la giacca, gli sorrise.

-”A dopo.”-

Non andare, idiota...

-”Ok, fa come ti pare...”-fece distante.

No. Forse sono io l'idiota...

 

Da quando era uscito da quel bar, Francis, non poteva fare a meno di ripensare alle parole di Antonio e di Gilbert. Perfino dopo aver riaccompagnato a casa il prussiano, rimasto da solo, la mente continuava a rimuginare. Aveva creduto che dopo un po' quel maledetto senso di colpa scomparisse, invece. Sbuffò e si avviò verso il suo pub. Era ancora presto per l'apertura, ma voleva sistemare le ultime cose.

La cosa che lo disturbava, non era tanto il fatto che lo spagnolo fosse innamorato di un uomo, ma il fatto stesso di esserne rimasto sorpreso.

Si fermò davanti al pub chiuso e lo guardò con poco interesse. No, non era stata solo sorpresa quella che aveva provato, ma anche dispiacere.

Un grande dispiacere.

E ciò gli creava un atroce fastidio. Insomma, allora aveva ragione Gilbert, nemmeno lui riusciva più a vederlo come prima. Aprì il pub con nervosismo ed entrò.

Ma come poteva lui, amico di una vita del riccio, non comprenderlo, non essere felice con lui? Cos'era, pregiudizio? Ribrezzo? O paura?

L'ultima opzione sembrò farlo tentennare. Si mise seduto e sorrise amaro. Già, paura di perderlo, paura che il suo piccolo Antonio non fosse più suo. Sorrise, si conoscevano da così tanto tempo.

Lui c'era sempre stato, gli era sempre stato accanto. Lo spagnolo era sempre presente quando aveva bisogno d'aiuto. Si fregò nelle tasche, alla ricerca delle sigarette.

Cavolo, e pensare che dentro di sé lo aveva già capito da tempo, lo aveva capito dal primo giorno, che la comparsa di quell'italiano, avrebbe portato qualcosa con sé. Ma, tutt'ora, non riusciva a comprendere se disgrazia o fortuna.

Prese una sigaretta e l'acese, portandosela alle labbra. Ne aspirò l'aroma per poi buttare via il fumo. Sorrise nuovamente. Se Antonio lo avesse visto fumare lo avrebbe rimproverato.

Per colpa di quel riccio altruista era da più di due mesi che non toccava una sigaretta. Si morse le labbra mentre fissava il pacchetto posato sul bancone.

Ehi, devi smetterla! Questo vizio ti ucciderà!”

Chiuse gli occhi, sorridendo. Antonio era sempre stato così, pensava più a gli altri che a sé stesso.

Che debole, non sarebbe mai riuscito a smettere per così tanto tempo se non le avesse tenute sempre in tasca. Non averle dietro lo angosciava, facendogli venire ancora più voglia.

Dammi quel pacchetto, avanti. Vedrai che un giorno mi ringrazierai!”

Si portò una ciocca bionda dietro l'orecchio. Sapeva perfettamente che aveva mandato in frantumi la promessa che aveva fatto al riccio, e gli dispiaceva, ma in quel momento aveva un dannato bisogno di fumare. Per un attimo il viso sorridente dello spagnolo gli comparve davanti agli occhi. Buttò via l'ennesima boccata di fumo e prese a darsi delle piccole bottarelle sulla tempia.

-”Perché non riesco ad accettarlo?”-sussurrò a sé stesso-”Perché?”-

Parve notare solo in quel momento la scritta dietro il bancone. “Vietato fumare”, diceva. Gli scappò una lieve risata. Scosse il capo, sorridendo.

-”Ma che sto facendo...?”-

Prese un bicchiere e ci spense dentro la sigaretta. Un ultimo filo di fumo scivolò nell'aria, per poi disperdersi e scomparire. Francis sbuffò.

Contento? Hai vinto...

Prese il pacchetto di sigarette e lo buttò nel cestino vicino alla sua sedia. L'ennesimo sorriso gli si delineò sul volto, congiunse le mani.

Che sciocco che sono. Come posso non darti il mio appoggio? In fondo stiamo sempre parlando di problemi sentimentali, no?

Il solito sorriso da playboy gli si disegnò in volto.

E andiamo, ragazzi. Come posso rinunciare a questa nuova storia?

Mai avrebbe abbandonato Antonio.

 

Affondò il viso nei libri, nella speranza di distaccarsi dal mondo e di concentrarsi solo nello studio. Ma la cosa non sembrò funzionare.

Voglio la mente sgombra!

Strinse le dita sulla carta, tentando di concentrarsi il più possibile.

Non voglio più pensare a niente! Non voglio avere ripensamenti, non voglio avere sensi di colpa!

Si alzò nervoso dal divano e si diresse zoppicando verso la sua stanza. Afferrò il calendario in tutta fretta. Non aveva più tempo per le sue fisse, non aveva più tempo per lamentarsi di tutto e di tutti. Sentì qualcosa, nel suo petto, sciogliersi ed arrivare le lacrime.

Tre giorni...

Scivolò a terra, posandosi con le mani sulla scrivania. La caviglia riprese a perseguitarlo.

Tra tre giorni ci sarà l'esame...

Abbassò il capo, lasciando scorrere le lacrime, tenendo le mani strette sulla scrivania.

Tra tre giorni la mia vita cambierà completamente...

Sospirò, lasciando finalmente la stretta ferrea e portandosi le mani agli occhi lacrimosi. Basta, non poteva più perdere tempo con i suoi sentimenti.

Quale sarà il mio futuro? Dopo l'università che farò? Non potrò per sempre lavorare in un bar... Insomma, non voglio, non sono venuto fin qui, a Madrid, per questo...

Le lacrime sembrarono interrompersi con il vibrare del cellulare sulla sua scrivania. Osservò il telefonino muoversi impazzito per qualche secondo, per poi tornare silenzioso ed immobile come sempre. Si passò la manica sugli occhi lacrimosi, alzandosi a fatica e tentando di non sforzare troppo la caviglia. Non appena i suoi occhi toccarono lo schermo il suo sguardo si fece duro, quasi timoroso, e l'aria sembrò raggelarsi di colpo. Un'unica domanda nella mente ormai silenziosa.

Perché?

Chiuse il messaggio e sbatté innervosito il cellulare sul ripiano. Si morse un labbro, pensieroso ed agitato. Si sentiva così stremato, non sapeva più cosa provare. Gli occhi ricaddero sul cellulare.

Perché mi cerchi ancora?!

Tornò placidamente nel soggiorno, tentando di ignorare quel senso di disorientamento. Afferrò il libro ed all'improvviso tutto, intorno a lui, sembrò fermarsi.

Non aveva davvero più tempo da perdere.

Al diavolo i sentimenti, al diavolo la felicità, la gioia, la spensieratezza. Ormai lo aveva capito, ormai lo sapeva bene. Vivere significava questo: lavorare e soffrire.

Eppure, c'era ancora un qualcosa, un qualcuno, dentro di lui, che continuava a sussurrargli che non era così. Che vivere era ben diverso di far parte della vita.

O forse, quel qualcosa o qualcuno, era solo una futile speranza.

 

I getti d'acqua calda gli scorrevano per tutto il corpo, ed al loro passaggio gli parve di provare piccoli brividi tiepidi. L'iride rossa appariva meno accesa in mezzo a tutto quel vapore.

Chiuse gli occhi ed immerse il viso nel getto d'acqua, sperando che quel calore potesse annullare ogni tipo di pensiero.

Continuate a pensarla come vi pare, continuate pure a non accettare quello che provo, continuate pure ad ignorarlo. Ma non ritenetevi più miei amici...”

Si strinse i capelli tra le mani, serrando la mascella e riaprendo appena gli occhi. Dannazione, sapeva perfettamente che Antonio aveva ragione, sapeva che non si stavano comportando da amici con lui. Aspetta.

Lasciò la presa dai capelli e posò una mano sul muro umido e freddo. Ciò gli creò un netto contrasto tra l'ambiente caldo ed il muro gelido. Sorrise come se all'improvviso avesse intuito tutto.

No, quello che sta sbagliando su tutta la linea sono io... Quella che dubita più di tutti su di lui, non è Francis... Sono io...

Chiuse il getto d'acqua, facendo piombare la casa nel silenzio. Posò la schiena nuda sul muro umido mentre nella doccia la temperatura stava già cambiando.

Scivolò verso il basso, rannicchiando le gambe al petto e avvolgendole con le braccia.

Perché non lo accetto? Perché lo trovo tanto strano?

Si morse un labbro. Dopo tutto anche il suo fratellino minore, adesso, viveva felicemente con il suo ragazzo italiano in Germania. Posò la fronte sulle ginocchia. Perché, con Ludwig, non c'erano stati problemi e, con Antonio, sì?

Sospirò mentre l'aria, una volta calda, si stava raffreddando. Rialzò lo sguardo, il vapore era già svanito. Come avrebbe voluto che anche quel vapore formatosi nel suo cuore, che gli impediva di accettare un amico, svanisse.

La cosa che non riusciva a sopportare, oltre al fatto di star sbagliando, era l'assurda consapevolezza di saperlo, di riuscire a capirlo.

Antonio aveva fatto molte cose per lui, era un amico fedele e caro. Come poteva ripagarlo in quel modo? Posò il capo bagnato sul muro.

Si era innamorato di un uomo, e allora?

Era innamorato di Romano, e quindi?

Cosa aveva intensione di fare? Non parlargli più, come uno sciocco ragazzino delle elementari? Non voleva più frequentarlo per una simile normalità, una simile sciocchezza?

Scosse il capo e sghignazzò.

Eh, no, non sarebbe una cosa da me... Insomma, il Magnifico non potrebbe mai farlo...

Scoppiò a ridere sprezzante.

Solo in quel momento si rese conto di quanto, quell'amore, non fosse per niente scontato.

 

Si sentiva estremamente soddisfatta del suo operato. Perché non avrebbe dovuto? Insomma, la faccia di Antonio, la sera prima, era stata impagabile. Bella si infilò gli stivali e si lasciò trasportare, con la sua malefica bellezza, dai bei ricordi di quei giorni.

Quel Romano era incredibilmente facile da gestire, era bastato un semplice bacio per farlo cedere, era bastato così poco per poterlo portare nel suo letto e, di conseguenza, nelle sue spire.

Avere l'italiano dalla sua, ne era sicura, avrebbe fatto cedere Antonio.

Sorrise, cercando di ricordare con più nitidezza l'espressione del riccio. Dovette ammettere che quel bacio non doveva, almeno per quella sera, avere una certa rilevanza.

Lo aveva fatto solo per divertimento, tanto per abbonarsi maggiormente Romano. Ma mai, mai, avrebbe immaginato che proprio in quel fatale momento comparisse Antonio. Ed allora quel semplice bacio divenne immediatamente rilevante, quel semplice atto di trastullamento divenne un qualcosa di terribilmente e stupendamente divertente ed importante.

Quello che aveva intravisto negli occhi di Antonio l'aveva fatta sentire importante, l'aveva fatta sentire incredibilmente decisa, forte. Come se adesso lei potesse tutto, come se adesso quella “manciata” di persone che abitavano Madrid fossero solo burattini nelle sue mani esperte. Le sfuggì una lieve risatina.

Da lì a poco, Antonio, sarebbe tornato suo.

 

Debole.

Tutto quello che aveva fatto, tutto quello che era, poteva essere riassunto in una semplice parola: debole. E solo adesso, che girava con le mani in tasca ed i piedi nella neve, se ne rendeva perfettamente conto.

Si ritrovò a chiedersi, con gli occhi inaspettatamente asciutti ed il cuore stranamente calmo, se avrebbe reagito diversamente alle confidenze di Romano, se non ve ne fosse innamorato.

Probabilmente lo avrebbe abbracciato, rincuorato, come avrebbe fatto con tutti del resto, e, probabilmente, gli avrebbe sorriso e gli avrebbe risposto con parole di conforto.

Come faceva con tutti, no?

Ed anche con lui lo avrebbe fatto, se solo il suo cuore avesse smesso di perseguitarlo, anche solo per un secondo, e avesse smesso di gridargli di asciugargli le lacrime e di baciarlo. Sarebbe rimasto a rassicurarlo e a parlargli, se solo fosse stato un po' meno debole. Arrestò la sua camminata non appena si ritrovò d'inanzi al supermercato.

Staccò gli occhi, che per tutto il tragitto erano stati posati sulla neve, e guardò con poco interesse le porte automatiche aprirsi al suo passaggio.

Una dolce aria natalizia lo invase. Il supermercato era allegro, decorato con decori natalizi e illuminato da miriadi di luci.

Che spreco di energia...

Ritrovatosi a pensare certe cose si diede dello stupido. Fino allo scorso natale aveva sempre amato quelle inutili lucine, aveva sempre amato quegli inutili addobbi.

Ma, arrivato a quel giorno, si ritrovò a riconoscere che effettivamente erano terribilmente inutili. Ma facevano parte di quell'inutilità accettabile, carina, che lo avevano sempre fatto sorridere.

Perché comincio a vedere solo le cose negative...?

Perfino le cassiere con il capellino da Babbo Natale in testa cominciò a guardarle con ironia. Sbuffò, infastidito da sé stesso.

Cominciava a diventare come Romano. Gli venne da sorridere. No, impossibile, nello stesso mondo non potevano esistere due esseri tanto testardi, si sarebbe rotto l'equilibrio della vita. Si diede una bottarella sulla guancia. Forse era meglio tornare ad essere l'Antonio di sempre.

Prese del pane e lo mise distrattamente nel carrello.

Forse sarebbe stato meglio tornare l'Antonio innamorato delle ragazze, l'Antonio allegro e sempre disponibile. In fondo, sarebbe stato meglio per tutti: sia per lui che per i suoi amici. Sospirò, già amici. Però forse era davvero sbagliato quello che provava per Romano, altrimenti sia Gilbert che Francis non avrebbero mai reagito in quel modo.

Insomma, lo sapeva già da sé che non era un passaggio tanto semplice quello che aveva compiuto. Era passato dall'innamorarsi perdutamente ed irrimediabilmente di una donna, fino ad arrivare con il ferirsi ancora più profondamente con l'amore per un uomo.

Quanto poteva essere assurdo agli occhi degli altri? Ma quando poteva, allo stesso tempo, essere così dannatamente logico per lui?

Romano lo aveva fatto sentire bene. Parlargli, ascoltare le sue arrabbiature, in un modo tutto suo era riuscito a fargli provare qualcosa di unico.

Un qualcosa che nessuna donna era riuscito a donargli: quel dolce fastidio.

Già, poteva sembrare assurdo, ma era proprio quel fastidio a mantenere vivo l'amore che nutriva nei suoi confronti. Vederlo giorno dopo giorno piegato sui libri, vederlo così testardo ed irremovibile sulle sue decisioni, gli creava un fastidio immenso. Ma mai avrebbe potuto affermare di amarlo se Romano non fosse così, se in lui non scovasse quel fastidio.

Mai avrebbe potuto affermare, che senza quel suo dannato caratteraccio, Romano; fosse davvero Romano. Sospirò. Era incredibile come un semplice ragazzo, in così poco tempo, sia riuscito a sconvolgergli la vita.

Guardò distrattamente la data di scadenza del litro di latte che teneva tra le mani. L'italiano non lo amava e non lo avrebbe mai amato, lo sapeva. Il suo sguardo si fece buio.

Lui amava Bella.

Bella...

Ma forse era meglio così, era meglio che Romano provasse qualcosa per una donna, piuttosto che per un uomo. Sbatté con fastidio il latte nel carrello. E forse era meglio se, anche lui stesso, tornasse quello di prima. Strinse le mani sui lembi del capotto.

Ma come avrebbe potuto dimenticare Romano? Come e dove avrebbe trovato la forza per lasciarlo a Bella? Lei, dopo tutto, lo stava usando solo per arrivare a lui.

Sbuffò. Di certo non poteva fare nulla per fargli capire che tipo fosse quella donna. Insomma, non più di quello che aveva già fatto. Sospirò, Romano era davvero un testardo. Si ritrovò a sorridere amaro.

Un dannatissimo e dolcissimo testardo...

 

Erano le sette di sera e, come di consuetudine, Francis aveva cominciato ad avviarsi verso il pub. Essendo il proprietario doveva essere lui quello ad aprirlo, doveva essere lui il primo ad arrivare.

E, di certo, non voleva arrivare in ritardo. Non che non fosse puntuale ma era successo che, un paio di volte, fosse arrivato dopo di Gilbert. E la cosa non gli era piaciuta per niente.

A parte il fatto che il prussiano non aveva mancato un secondo per farglielo notare, aveva preso a prenderlo in giro per via di quel suo ritardo.

E mai, si giurò, avrebbe fatto un altro ritardo in vita sua. Odiava doversi subire i deliri e le provocazioni di quell'egocentrico, anche se si trattava di uno dei suoi migliori amici. Soprattutto se in quel momento, l'egocentrico in questione, aveva anche ragione.

L'aria fredda gli provocò un lieve pizzicorio al naso, facendogli provare una sensazione orribile per tutto il volto. Si strofinò una mano sul viso gelido, possibile che al solo tocco gli dolevano gli zigomi, faceva così freddo?

Un qualcosa posato sulla serranda abbassata del pub richiamò la sua attenzione. Il francese socchiuse gli occhi, come per poter vedere meglio.

Da quella distanza riusciva a riconoscere solo una capigliatura chiara, quasi bianca, avvolta in molteplici strati neri. Storse il naso freddo ed intirizzito.

Non è possibile...

Quando si ritrovò a pochi metri dalla figura in questione, sbuffò.

-”Come mai già qui?”-chiese tirando fuori le chiavi-”E' ancora presto, Gil.”-

Il tedesco si scostò dalla serranda, permettendo a Francis di aprirla. Gli sorrise lievemente ed abbassò il capo.

-”Sono un'idiota, vero?”-

Il biondo lo guardò appena, capendo a cosa si stesse riferendo. Cos'era quel debole tono di voce che gli era uscito dalle labbra? Questa volta fu lui a sorridere.

-”Non dire così...”-fece, posandogli una mano sulla spalla. Gli parve di intravedere, in quegli occhi rossi ed intensi, tutta la vergogna ed il rimorso di questo mondo.

-”Sai, fino ad ora non sono riuscito smettere di pensarci...”-continuò Gilbert a testa bassa-”E se fossimo stati noi al suo posto? Lui ci avrebbe trattati in quel modo?”-

Francis rimase a guardarlo, come ad attendere un seguito. Un seguito che non tardò ad arrivare.

-”Dannazione...”-si posò una mano sulla testa e sorrise amareggiato-”E' stato così poco fico da parte mia...”-gli scappò una lieve e debole risata che contagiò anche il francese.

-”No, la nostra reazione è stata normale... Insomma, è normale sentirsi confusi difronte ad una rivelazione simile...”-

Gilbert scosse le spalle e sbuffò.

-”Ciò non giustifica il modo in cui mi sono comportato... Quella indecisione...”-abbassò il capo preoccupato per poi tornare a guardarlo-”Era come se, all'improvviso, non riuscissi più ad accettarlo, capisci?”-

Il biondo sospirò, riuscendo a comprendere l'amico. Quello che aveva provato il prussiano era diverso dal suo ma, ugualmente, riuscì ad immedesimarsi.

Era riuscito a leggere con fin troppa chiarezza la paura e il disorientamento, in quegli occhi rossi, difronte alle parole d'Antonio. Così, come adesso, riusciva a scorgere il rimorso.

-”Tu...”-la voce di Gilbert lo fece tornare in sé-”Tu cosa ne pensi?”-

Il francese si voltò a guardarlo. Già, cosa ne pensava? Cosa pensava veramente? Gli sorrise maliziosamente.

-”Bhè, è pur sempre amore. E poi quell'italiano non è così male.”-lo disse, ma la sua stessa voce gli parve così falsa, così lontana e contrastante con quello che provava realmente. L'albino, a quelle parole, sorrise e scosse le spalle.

-”Cavolo, siamo stati così idioti...”-ridacchiò infastidito-”Proprio ora che Antonio ha bisogno di noi, lo pugnaliamo alle spalle...”-

Le labbra sorridenti del francese parvero incurvarsi appena. Una curva impercettibile, ma che pur sempre era presente.

-”A tutto c'è rimedio. Vedrai che ci perdonerà.”-

Gilbert lo guardò insospettito.

-”Tutto qui? Non riesci a dire nient'altro?”-

Il francese alzò le sopracciglia, senza che quel dannato sorriso abbandonasse il suo volto. Ma quanto poteva sembrare credibile quel buon umore? Ma quanto poteva sembrare sciocco quel suo autoconvincersi?

-”Non so di cosa tu stia parlando...”-scrollò le spalle con leggerezza-”Ormai non c'è più niente da dire, bisogna passare ai fatti. Bisogna far comprendere ad Antonio che siamo con lui.”-

Per la prima volta, da quando era iniziata quella loro conversazione, si stupì nel ritrovarsi a credere fortemente alle parole appena dette.
-------------------
Note

*Ok, scusate per il ritardo, ma ieri sono stata tutto il giorno fuori. E' stata una pessima giornata! ^^"" Ma almeno, per qualche minuto, scrivere e pubblicare mi distrare dall'atroce giornataccia passata! XD*

Il nostro spagnolo finirà per diventare santo di questo passo! Quante gliene vuole ancora far passare Romano? E Bella? Bella sembra non voler demordere, anzi, ci appare parecchio compiaciuta di sé stessa e della situazione creatosi.
Passando al fronte francese/tedesco: Gilbert ha compreso quanto sciocca ed inutile fosse stata la sua indecisione nell'accettare "il nuovo Antonio"... Ed anche Francis lo accetta... Ma ancora qualcosa lo fa tentennare.
...
Che cosa?

Honodetsu:D


 

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Capitolo 13
*** 13 ***


Parole sussurrate in una sera invernale, fredda ed umida.

-”Cos'hai Roma? Avanti, a me puoi dirlo...”-

Nella stanzetta buia regnava il silenzio, se non fosse per quei leggeri e dolorosi singhiozzi che impedivano al maggiore dei fratelli di dormire.

-”Avanti, ti sentirai meglio dopo...”-

Ancora quella vocina infantile a rendere il suo pianto meno sofferto. Nonostante non volesse parlare si ritrovò a voltare il viso verso il letto del fratellino.

Era buio ma riuscì a distinguere con chiarezza le fattezze del volto di Feliciano, abbozzolato tra le coperte e con gli occhi fissi su di lui.

-”Allora, fratellone? Vuoi parlarmi di quello che è successo?”-sussurrò ancora, timoroso di farsi sentire dai genitori che, qualche stanza più in là, dormivano rilassati-”Tranquillo, non lo dirò a mamma e papà...”-

Romano, a quella premura, sentì il nodo; formatosi nel suo petto, sciogliersi, procurandogli una nuova forma di dolore.

-”Feli...”-gli uscì solo dalle labbra impastate dal pianto. Lo vide scendere dal letto ed avvicinarsi al suo capezzale. Gli sorrise infantilmente.

-”Ne hai combinata un'altra, eh?”-gli fece inginocchiandosi e posando il visetto sul materasso-”Hai fatto arrabbiare così tanto mamma e papà che per un attimo ho avuto paura...”-

Romano nascose il viso lacrimoso. Odiava farsi vedere debole dal fratellino ma allo stesso tempo adorava quelle sue premure.

-”Io non ho fatto proprio niente di male...”-

Feliciano lo guardò con rimprovero.

-”Hai fatto male ad un tuo compagno di classe, Roma...”-

Il maggiore affondò il viso nelle coperte.

-”Se l'è cercata.”-

Feliciano si mise seduto sul letto, vicino al fratello.

-”Lo pensi davvero?”-chiese infantile. Romano annuì da sotto le coperte.

-”Non ne sono per niente pentito...”-la sua voce arrivò ovattata alle orecchie del minore. L'ennesimo sorriso gentile si delineò sul volto di Feliciano. Si accoccolò vicino a lui, fissando il suo viso coperto dal piumone.

-”Allora perché piangi?”-

Gli occhi verdastri del maggiore si spalancarono, ma incontrarono solo il buio. Si scostò appena le coperte dal viso.

-”...”-non riuscì a dire nulla, le lacrime parlarono per lui. Feliciano sorrise e lo abbracciò.

-”Tranquillo, Roma... Piangi, dopo ti sentirai meglio...”-

Era sempre così, nonostante fosse il minore alla fine era lui quello a consolare. L'ennesimo singhiozzo lo scosse.

-”Feli... Pensi...”-disse con rabbia tra le lacrime-”Anche tu pensi che sia stata colpa mia?”-

Il minore sciolse un poco l'abbraccio, gli sorrise.

-”No, Romano. Non lo penso...”-

 

La porta dell'appartamento sbatté, facendolo sobbalzare dal divano.

-”Romano, ti eri addormentato?”-

Antonio si affacciò nel salone mentre l'italiano si passò una mano sul volto. Si alzò a fatica dal divano, ma, non appena posò il piede per terra, la caviglia gli lanciò una fitta terribile.

-”Ah!”-gli sfuggì un gemito. Lo spagnolo lasciò la spesa a terra ed andò subito ad aiutarlo. Lo prese

per un braccio e lo fece sedere.

-”Va meglio?”-gli chiese preoccupato. Romano annuì, ancora mezzo addormentato.

-”Che bel risveglio... Grazie...”-brontolò. L'altro sbuffò.

-”Mica l'ho fatto a posta. E poi non dovevi studiare?”-lo guardò con rimprovero e sfida. Romano sospirò, ignorando quello sguardo. Si passò una mano sul viso. Antonio rimase in silenzio a guardarlo. Cos'era quella strana espressione?

-”Roma, ti senti bene?”-

No! No che non mi sento bene! Dannazione, sono così dannatamente confuso e distratto!

-”Sto bene...”-mentì spudoratamente. Ed il moro se ne accorse ma non disse nulla. Si morse un labbro, quasi non sapesse più come comportarsi con lui.

Da quando aveva scoperto di amarlo non riusciva più a vederlo normalmente. Era come se ogni singola cosa, ogni suo singolo gesto, lo attirasse, lo risucchiasse in un'ondata di atroce piacere e desiderio. Gli occhi verdi si posarono sul viso ancora assonnato del ramato.

Capelli arruffati, volto pallido e tirato, occhi velati. Davvero, cosa gli prendeva? Non poteva fare a meno di preoccuparsi. Non riusciva a non provare quel desiderio atroce di stringerlo a sé.

Gli guardò la caviglia. Era terribilmente gonfia, la sfiorò, nel tentativo di guardarla meglio.

Il ramato rabbrividì sotto quel leggero tocco. Scostò le gambe imbarazzato, portandosele al petto, come per proteggersi, come se temesse un qualcosa, persino a lui, sconosciuto. Quella reazione sorprese Antonio.

-”Posso... Posso vedere...?”-chiese all'altro guardandolo interrogativo.

Romano sembrò irrigidirsi. Si mise meglio seduto ed ingogliò della saliva.

-”Sto... Sto bene, ti dico.”-lo interruppe, cercando di non farsi toccare nuovamente. Antonio serrò la mascella, un poco ferito da quel suo sfuggirgli. Sforzò un sorriso.

-”Non ti faccio mica nulla, sai...?”-disse con un tono che doveva essere scherzoso ma, che Romano, trovò dannatamente insolito, indecifrabile.

Si alzò dal divano, senza nemmeno attendere una risposta, forse temendola.

-”E' meglio che sta sera tu rimanga a casa.”-lo disse più per sé che per lui. Aveva bisogno di non vederlo per un po', aveva bisogno di togliersi di dosso quella dannata voglia di baciarlo, di sfiorarlo.

Quelle parole tranquillizzarono un poco Romano.

-”Non puoi certo venire al pub. C'è troppa gente, finiresti col farti ancora più male.”-fece, indicando con lo sguardo la caviglia. Ma sì, aveva solo bisogno di tempo. Piano piano quel desiderio sarebbe scomparso. Sì, perché era solo desiderio, vero? Solo una sbandata.

L'italiano annuì.

-”Hai ragione...”-ammise, tremendamente a disagio.

Nel silenzio che era andato a formarsi, il cellulare del ramato, vibrò; spaventandoli entrambi. Presto lo sguardo del moro si posò sul ramato.

-”Vuoi... Vuoi che te lo prenda io?”-gli fece vedendolo allungarsi faticosamente verso il tavolino. L'altro sbuffò, ancora stranamente imbarazzato e confuso. Riuscì ad afferrarlo da sé.

-”Risolto...”-borbottò, tentando di allontanarlo un po'. Non riusciva a capire, la sua presenza lo uccideva, lo tormentava. Lo metteva in agitazione. Lo spagnolo, dopo essere rimasto qualche secondo ad analizzare la sua espressione, gli diede le spalle.

-”Se hai bisogno di qualcosa sono in cucina a riordinare la spesa.”-

Romano si sentì terribilmente in colpa.

-”Tra un attimo vengo a darti una mano...”-

Faceva sempre da solo le faccende di casa, era arrivato il momento di rendersi almeno un poco utile. Antonio lo guardò appena, cercando di capire che cosa gli passasse per la testa ramata.

Perché si comportava in quel modo strano e distante se poi voleva aiutarlo?

Sorrise un po' amareggiato. Non lo avrebbe mai capito, ma forse era meglio così. Forse era meglio non insistere, forse era meglio non tentare più di avvicinarsi all'italiano. Tanto, quello che soffriva, era solo lui stesso. Scosse il capo: sì, era decisamente, solo, una sbandata.

-”Pensa a studiare e non ti preoccupare di nulla...”-

Non aggiunse altro, il cuore glie lo impediva.

Dannazione, come faceva male il rendersi conto di non poter fare nulla. Già, perché, anche se continuava a ripeterselo, anche se cercava di renderlo reale, non sarebbe mai riuscito a riprendersi.

Sì, perché quella non era una semplice sbandata, ed era inutile continuare a ripeterselo.

Perché, ugualmente, il suo amore non sarebbe mai cessato, così come non sarebbe mai stato ricambiato. Com'era sciocco, com'era debole. Com'era innamorato.

Si diresse verso la spesa abbandonata a sé stessa.

Romano lo osservò prendere le buste ed entrare nella cucina. Si sentì strano, come se quel lungo silenzio lo avesse in qualche modo “intriso” di parole, confondendolo.

Come se, improvvisamente, solo ora riuscisse a percepire il vero silenzio.

Sciocchezze, solo sciocchezze...

Si morse un labbro e riportò l'attenzione al cellulare. Non appena posò lo sguardo sul messaggio sbuffò stanco, ormai in capace di provare ancora rabbia o frustrazione per quella dannata persona che aveva pregato di non farsi più sentire. Si lasciò scivolare sul divano inerme.

...Come ti vanno le cose? Sei riuscito a finire gli studi? Ti prego, rispondimi...”

Era il centesimo messaggio che riceveva. Perché aveva ripreso a parlargli così all'improvviso? Strinse il cellulare tra le mani. Non voleva più rapporti con il passato, niente più ponti, niente più comunicazioni, era stato chiaro.

Eppure, perché lui, perché Feliciano, insisteva tanto?

 

Gli occhietti azzurri guardavano le poche persone nel locale. Il bambinetto sbirciava, con vergogna e timore da dietro il bancone, alzandosi sulle punte. C'era sempre così poca gente eppure quel posto emanava lo stesso quel dannato odore di sporco.

L'odore forte dell'alcool, le risate alte e sprezzanti, la musica assordante. Tutto era come sempre. Le solite poche persone, per lo più amici di famiglia, se ne stavano rumorosamente a bere.

Accompagnati dalla musica si udivano le voci urlanti, dei suoi genitori, provenire dal retro del pub.

Era tutto normale, tutto nella quotidianità della sua vita.

Allora cos'era quella sensazione di esasperazione che provava nel petto?

Il bambino biondo si accovacciò sotto il bancone, sperando ardentemente che nessun conoscente provasse a parlargli. Odiava quando quei tipi, che i genitori chiamavano amici, gli mettevano gli occhi addosso. Eppure non si era mai lamentato difronte ai loro sguardi maliziosi, non si era mai lamentato direttamente con loro o con i suoi.

Si strinse le gambe al petto mentre le urla, dal retro, si facevano più prepotenti e minacciose.

Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Nascose il viso tra le ginocchia. Lui era solo un moccioso, come era solito definirlo il padre. Era solo un moccioso inutile.

La sua unica dote era il possedere un bel visetto, di possedere un bel corpo. Strinse con esasperazione la stoffa dei pantaloni.

Ma sì, perché lamentarsi, ora? Aveva passato la sua intera esistenza, fino a quel momento, a vivere in quel modo; perché avrebbe dovuto lamentarsene ora?

In fondo quella era la normalità, no?

 

-”Antonio è in ritardo...”-

Francis sembrò cascare improvvisamente dalle nuvole.

-”Eh...?”-bofonchiò con ancora tra le mani un drink. Gilbert lo guardò perplesso, indicò appena il bicchiere che aveva tra le mani.

-”...Quello è meglio che lo lasci sul bancone, se no che lo hai fatto a fare?”-lo prese in giro.

Il francese parve rendersi finalmente conto di quello che stava facendo. Posò il drink davanti al cliente e gli rivolse un sorriso di circostanza. La risposta del ragazzo fu uno sguardo torvo ma che lui ignorò completamente.

-”Che stavi dicendo, scusa...?”-disse con estrema naturalezza, tornando a guardare il tedesco. Gilbert sospirò amaro.

-”E' bello sapere che la gente ti ascolta...”-il biondo ridacchiò di rimando-”Dicevo,”-disse guardandolo male-”che Antonio è in ritardo.”-

Francis si scosse una ciocca riccia, platealmente.

-”Non mettergli fretta, magari è riuscito a concludere qualcosa con Romano!”-disse portandosi maliziosamente una mano alla bocca. Gilbert sorrise un po' in soggezione.

-”Certo, non hai un minimo di pudore tu, eh?”-ridacchiò-”Nemmeno la consapevolezza di star parlando di un amico frena certe tue immaginazioni, vero?”-

Al francese scappò una risatina maligna.

-”Suvvia, che il primo a sperarci è proprio Antonio!”-dicendo così si sciolse nell'ennesima risata malefica. Il prussiano scosse il capo rassegnato.

-”Non so quanto piacere gli possa dare sentirtelo dire, sai?”-

La risata del biondo cessò con un sorriso appena accennato. Un sorriso che tradiva quella gaiezza che aveva dimostrato fin ora ma, per sua fortuna, il prussiano non parve accorgersene. Alzò le spalle mentre riordinava le tazze sporche.

-”Vedrai che tra poco sarà qui...”-quelle parole gli costavano fatica. Perché continuava a preoccuparsi tanto per Antonio? Era libero di amare chi voleva, no?

Eppure il suo cuore non gli dava tregua. Non riusciva a sentirsi tranquillo, come se il fatto che lo spagnolo non fosse lì lo turbasse.

Insomma, che cosa stava facendo? Era ancora nel suo appartamento, possibile? Stava con Romano? E cosa stavano facendo di preciso quei due, insieme?

Si riscosse da tutti quei pensieri. Era preoccupato, dannatamente e tremendamente preoccupato per quello sciocco moretto solare.

Già, Antonio era uno di quei ragazzi disposti a tutto pur di comprendere il prossimo, pur di farsi accettare dalla persona amata.

Nemmeno quando Bella lo aveva abbandonato all'altare lo spagnolo si era dato per vinto. Aveva sofferto molto, lo aveva visto consumato, stanco. Ma mai lo aveva visto cedere, mai. Mai lo aveva visto rimpiangere sé stesso, quello che era.

Il locale si faceva sempre più pieno e rumoroso ma, in quel momento, Francis il rumore nemmeno lo sentiva. Da ormai troppo tempo puliva lo stesso bicchiere, con lo sguardo fisso sul lavandino e la mente che volava altrove.

Antonio era sempre stato quello più forte del gruppo. Ognuno di loro, in quel trio, sembrava ricoprire uno stupido ed assurdo ruolo: Gilbert appariva come l'egocentrico schizzato ed un po' pazzoide, sempre sicuro di sé e delle proprie scelte. Antonio come il ragazzo solare, pronto ad aiutare tutti, pronto a sacrificare ogni cosa pur di averti come amico.

Mentre, lui, il maniaco per eccellenza, lo svitato, una persona non molto raccomandabile per via di quei suoi sguardi e di quei suoi approcci maliziosi. Si ritrovò a strofinare con più forza la superficie del bicchiere, ormai fin troppo pulita.

Idiozie, pure e semplici idiozie.

Perché la gente si fermava a guardare solo da fuori?

Si morse un labbro con frustrazione. Già, se magari la gente non fosse poi così schizzinosa, così piena di pregiudizio, forse avrebbe capito che, no, Gilbert non era solo un egocentrico schizzato e che, no, non era poi così tanto sicuro di sé. Forse si sarebbero resi conto che dietro alla gentilezza di Antonio c'era mancanza d'amore, bisogno di essere ricambiato, di essere capito.

Forse avrebbero capito che lui, che Francis, non era solo un dannato maniaco e che, quando un amico aveva bisogno di confidarsi, lui c'era.

Sì, dannazione, lui c'era. Lui non era solo un maniaco, lui non era solo un giocattolo. Strinse la presa sul bicchiere, strofinando con forza.

Perché la gente non riusciva ad osservare oltre il proprio naso?

Mai nessuno era riuscito a scorgere il suo lato buono, a parte Antonio.

Certo, anche Gilbert lo capiva, era suo amico e si volevano bene, ma quello spagnolo era stato il primo a scavare così nel profondo il suo animo.

Era stato l'unico a riuscire a leggere tra le righe. E per questo gli era immensamente grato.

In quel periodo lui c'era, lui c'è sempre stato per me...

La stretta intorno al bicchiere doveva essere decisamente troppo forte, poiché, si ruppe, ferendolo leggermente. Un mugolio di dolore gli sfuggì di bocca.

-”Tutto bene?”-

La voce del prussiano. Francis si voltò e gli sorrise falso.

-”Sì, chérì!”-

 

Non era stato tanto vedere un bambino, poco più piccolo di lui, in quel posto a sorprenderlo; quanto quel largo e quasi stupido sorriso che gli ricambiava in continuazione.

Perché gli sorrideva così? Nemmeno lo conosceva.

Francis si mise sulle punte, cercando di osservare meglio, da dietro il bancone, quel bambino sorridente seduto ad un tavolino del locale.

Accanto a lui c'erano uomini che bevevano e che fumavano ilari. Che ci faceva lui, quel bimbo riccioluto, lì in mezzo?

Era forse figlio di uno di quegli uomini, di quegli amici del papà? Possibile. Ma allora perché non lo aveva mai visto prima?

Quegli occhi verdi lo scrutavano, ma non maliziosamente, come era ormai solito a farsi squadrare, ma con interesse da bimbo, con pura e semplice voglia di giocare e di conoscere.

Il biondo lo osservò fingendo noncuranza. Che intenzioni aveva quello spagnolo in miniatura? Quanti anni avrà avuto? Di certo non otto come lui, sembrava molto più piccolo.

Lo vide posare per la centesima volta lo sguardo su di lui, ne seguì l'ennesimo sorriso. Francis si riscosse, guardando altrove. Che moccioso che era quel bambinetto, che si credeva? Lui era grande, non poteva permettersi di perdere tempo con i suoi futili ed infantili sorrisi.

Sentì dei passi leggeri sovrastare la musica ed una mano sfiorargli la spalla. Si voltò placidamente, senza che quel senso di irritazione coinvolgesse la sua espressione che, come ormai da troppi anni, era solita a rimanere impassibile.

-”Come ti chiami?”-

Sorriso.

Nonostante lo trovasse così poco “adulto” parlare con lui, rispose alla sua domanda. Dopo tutto lui era educato, no?

-”Francis. E tu?”-

Il moro mise un poco la testa di lato e ciò provocò un lieve movimento dei riccioli.

-”Antonio.”-

Ancora un sorriso.

-”Vuoi diventare mio amico, Francis?”-

Sorriso.

No, non era vero. Lui era esperto in queste cose, era un esperto nei sorrisi della gente. E quello, quello non era per niente un sorriso infantile. Anzi, dietro di esso sembrava celarsi un qualcosa di tremendamente ed irrimediabilmente adulto. Come se quel bambino avesse imparato a fingere così bene che ormai lo faceva anche involontariamente.

Ma no, si ritrovò a riconoscere quel biondo già troppo grande per la sua età; quel sorriso sembrava appartenere a chi ormai era al disopra della falsità. Di chi, ormai, ne aveva viste troppe e che perciò non mancava una singola opportunità per poterle dimenticare e sorridere.

Ma cosa mai poteva aver visto un bambino così piccolo? Cosa poteva aver mai visto quell'Antonio che lui, che Francis, non avesse ancora affrontato?

Il biondo si guardò intorno. Bhè, in fondo anche quello spagnolo era in quel locale, anche lui era nel suo stesso incubo; era lì, accanto a lui.

Forse fu proprio a causa di quelle riflessioni, di quel sorriso, che il piccolo Francis gli sorrise.

-”Sì, voglio diventare tuo amico...”-

Dopo tutto erano entrambi nella stessa barca. Dopo tutto entrambi vivevano, da piccoli, in un modo da grandi.

 

Antonio entrò frettoloso nel locale. Dannazione, era maledettamente tardi, c'era già il pienone e lui arrivava solo ora. Scorse la chioma chiarissima del prussiano tra il delirio del locale.

Sembrava terribilmente indaffarato e stanco. Si muoveva nevrotico su e giù per tutto il bancone, cercando di servire più persone possibili. Lo spagnolo si mosse veloce verso l'appendi abiti accanto alla porticina del bancone, vi ci appese il capotto e si infilò il grembiule.

Se lo legò alla meglio, vinto dalla fretta, mentre osservava Gilbert muoversi come un robot. Ma dov'era Francis? Perché il tedesco era da solo? Posò una mano sulla spalla testa ed agitata dell'amico. Quegli occhi rossi lo guardarono in cagnesco.

-”Oh, buongiorno principessina!”-brontolò amaro, posando la centesima pinta di birra della giornata sul ripiano-”Abbiamo finito di scodinzolare dietro a quell'italiano irriconoscente?”-

Antonio lo guardò un po' in imbarazzo, ricordando la loro discussione, tra lui, il prussiano ed il francese, di quella mattina.

Normalmente avrebbe risposto con un sorriso, oppure ci avrebbe scherzato su, buttandola sulla burla. Ma, sapendo che Gilbert non approvava il suo amore “strambo”, non seppe come reagire.

-”Dov'è Francis?”-riuscì solo a dire.

Il prussiano sghignazzò nevrotico.

-”Ha usato la scusa del bagno...”-disse passando frettolosamente lo straccio sul lavello sporco-”Ma, sai, è già da un po' che sono qui da solo.”-

Antonio sembrò preoccuparsi di colpo.

-”E' successo forse qualcosa?”-

Gilbert si fermò nella confusione del locale e per un attimo i due rimasero a fissarsi. Il prussiano si passò la manica della maglia sulla fronte sudata ed accaldata.

-”Non mi è sembrato...”-

Tra i due ragazzi piombò il silenzio, un silenzio che venne riempito dalle risate e dalla musica insopportabilmente alta. Entrambi, probabilmente, pensavano la stessa cosa ma il timore di tirare in ballo quel discorso era troppo. Insomma, si erano ripromessi si non parlarne più.

Lo spagnolo prese a pulire i bicchieri e a sistemarli con una strana agitazione nel petto. Possibile che in quel periodo andasse tutto male?

-”Pensi che sia di nuovo per quella storia?”-

Per poco un bicchiere non scivolò via dalle mani del riccio. Guardò il prussiano con stanchezza infinita. Sperò dentro di sé che, insieme al dolore che provava per la relazione tra Bella e Romano, non si aggiungesse anche quella vecchia storia.

Quella lontana e vecchia storia che, tutt'ora, continuava a perseguitare quel povero francese. Sospirò, addolorato al solo ricordo.

-”Ti è sembrato giù in questi giorni?”-chiese accennando un sorriso stupido. Il tedesco sbuffò.

-”Dannazione!”-sbottò, sbattendo una mano sul bancone e facendo saltare un povero ragazzo che, seduto poco più in là, se ne stava tranquillamente a bere-”Non lo so, Antonio! Non so più nulla!”-

Lo spagnolo lo guardò stupito mentre gli indugiava davanti, come se non sapesse come continuare quel suo scoppio improvviso. Prese un grande sospiro, si avvicinò e tentò di spiegarsi.

-”Il ritorno di Bella, tu che ti innamori di Romano...”-scosse il capo con confusione-”Non ci sto capendo più nulla! E' tutto un dannato casino!”-

Il moro rimase ancora in silenzio a guardarlo con pazienza, come se stesse aspettando che il suo sfogo trovasse fine. Ma quello sfogo non sembrava avere fine, in realtà non sembrava avere nemmeno inizio. Quanta confusione c'era negli occhi del prussiano. Una confusione che, sapeva, lui non era in grado riordinare.

-”Gilbert...”-tentò di dire, ma fu interrotto da un gesto placido.

-”No, scusa...”-bofonchiò tornando in sé-”Non avrei dovuto aggredirti così. Tu hai già così tanti problemi...”-si passò una mano sul viso.

-”E' che sono un po' stanco. Ci sono stati così tanti cambiamenti in questo periodo ed io mi sento ancora indietro...”-sorrise un po' amaro-”Come se tutto cambiasse ed io rimanessi lo stesso... Cavolo, sono pensieri così poco fichi...”-

Antonio gli posò una mano sulla spalla. Come riusciva a capirlo, come riusciva dannatamente bene a capire la sua confusione. Ma, in fondo, lui era sempre stato bravo a capire i problemi altrui.

-”Ce la fai a continuare un altro po' da solo?”-il prussiano lo guardò placidamente-”Vado a vedere che sta combinando quel maniaco in bagno.”-sorrise-”Di sicuro non è niente di ché, ci stiamo preoccupando per niente. Magari lo ritrovo nel bagno delle donne a spiare qualche bella ragazza!”-scherzò e quelle parole fecero sfuggire una risata dalle labbra del prussiano.

-”Ma sì,”-fece sbattendosi le mani sul petto-”ci stiamo preoccupando per nulla!”-finalmente quei suoi sorrisi ammiccanti tornarono-”Vai, ci pensa il Magnifico qui!”-

E dicendo così gli diede le spalle, tornando a servire.

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Note

Ebbene... In quale lontana e dolorosa storia è irrimediabilmente legato Francis?

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Capitolo 14
*** 14 ***


Maledetto cervello. Maledetto e stupido cervello. Perché ora, dopo tanto di quel tempo, tornavano i ricordi? Posò le mani sul lavandino e rimase a fissare allungo il suo riflesso sul vetro.

Perché gli erano tornati in mente quei sorrisi? Perché gli era tornato in mente quel dannato umorismo pungente che tanto lo aveva fatto penare? Insomma, cosa centrava lui con Antonio?

Francis rimase a guardarsi, perso nei suoi stessi lineamenti.

Erano passati anni dalla loro ultima chiacchierata ed era passato ancora più tempo dal loro ultimo bacio. Le mani sul lavello si strinsero. Allora perché il ricordo del suo viso era tornato a perseguitarlo?

Chiuse gli occhi, nella ormai flebile speranza che tutto potesse finire non appena riaperti, ma, come ormai aveva testato fin troppe volte, non vi fu conforto. Tornò a studiare con più attenzione il suo stesso viso, quasi volesse trovarvi con desiderio un difetto.

Occhi di un azzurro intenso, limpido, labbra carnose e morbide, viso sottile e raffinato, capelli lunghi e setosi, di un biondo invidiabile.

Si guardava, si guardava e quello che vedeva era bello. Di una bellezza fastidiosa, di una bellezza ormai risaputa e mandata all'infinito.

Basta...

Si guardava e più lo faceva più provava rabbia.

Basta...

Più provava frustrazione.

Basta...

Cosa gli aveva mai portato di buona quella dannata bellezza? Solo malizia ed abusi da parte della gente. A cosa mai gli erano serviti quegli occhi azzurri se non per incantare qualcuno? Se non per ingannare?

Strinse i denti ed abbassò lo sguardo, stufo di vedere quel dannato viso. Stufo di vedersi. A cosa serviva tutta quella bellezza se poi lui non c'era più?

Sorrise amaro, mentre sentiva farsi ormai inevitabile il desiderio, il bisogno, di piangere.

L'amore di Antonio nei confronti di Romano aveva risvegliato, nel francese, un qualcosa di assopito da ormai troppi anni.

Già, assopito, ma mai svanito.

All'improvviso gli parve di capire tutto: ecco perchè quella preoccupazione, ecco perché non era riuscito subito ad accettare completamente quell'amore.

Perché lui ci si ritrovava, si ritrovava terribilmente in Antonio. Aveva paura per lui, paura che per l'ennesima volta soffrisse. Come era successo a lui, del resto.

Si diede dello stupido. Perché aveva questa brutta abitudine di paragonare i proprio problemi con quelli degli altri? Non era certo il momento di pensare a sé stessi questo, lo spagnolo aveva bisogno di lui, aveva bisogno di un appoggio.

Era così dannatamente egoista pensare a sé stessi quando, dall'altra parte di quella porta, c'era un amico in difficoltà. Lo sapeva, davvero, lo sapeva fin troppo bene.

Eppure era così difficile levarsi dalla testa quel viso.

Sentì bussare alla porta. All'improvviso parve tornare in sé. Da quanto tempo era chiuso lì in bagno?

-”Un attimo...”-disse, tentando di ricomporsi per poi uscire.

-”Francis, sono io, Antonio...”-

Il biondo chiuse gli occhi e sospirò silenzioso. Basta compiangersi, basta ricordare. Quando li riaprì quel dannato specchio già rifletteva un'altra persona.

-”Oh, amico!”-fece allegro-”Scusate se vi ho lasciati a voi stessi...”-si portò una mano alla nuca-“Un attimo ed arrivo!”-

-”Posso entrare?”-

-”Non ce n'è bisogno, ora esco...”-

Vi fu un attimo di silenzio, da sottofondo la musica e le risate della gente. Ne seguì il sospiro dello spagnolo, dall'altra parte della porta.

-”Francis...”-disse piano.

Quel tono preoccupò il francese: significava che aveva intuito qualcosa. Si morse un labbro, indeciso sul da farsi. Bhè, inutile dirlo, la cosa più giusta da fare era aprire quella dannata porta, sorridere e far finta di nulla. Così avrebbe spazzato via ogni dubbio, ogni sospetto, di Antonio e lui avrebbe evitato di creargli altri problemi.

Eppure la sua mano, stretta convulsamente intorno alla maniglia, non si decideva ad aprire la porta. Non se la sentiva di fingere, non ce la faceva. Sentiva che se avesse tirato quella maniglia sarebbe scoppiato a piangere come un'idiota. Già, perché, lo sapeva bene, lui era capace di fingere con tutti ma non a quegli occhi verdi.

-”Vai pure, ora arrivo...”-tentò nuovamente, ma lo spagnolo non sembrava voler cedere.

-”Francis...”-ripeté, più preoccupato sta volta. Ed all'udire pronunciare con quel tono il proprio nome, gli parve di sentire vagamente come un “stai bene?”.

Francis sospirò, sorrise debolmente.

-”Ehi, sto bene... Ti ho detto di andare.”-disse scherzoso.

Ma lui non stava bene, no, per nulla. Ed Antonio se ne era accorto.

-”...Centro io?”-chiese lui, pacatamente, dall'altra parte. Francis sospirò. Chiuse gli occhi e posò la fronte sulla porta. Fantastico, ormai non poteva più uscirne. Si diede dell'idiota.

-”No...”-fu l'unica cosa di senso compiuto che gli uscì di bocca.

-”Allora... E' per quella vecchia storia... Vero?”-chiese incerto ed un po' preoccupato.

A quelle parole, una risata amara, sfuggì dalle labbra del francese. Sentì cercare di aprire la porta.

-”E' inutile, è chiusa...”-fece Francis, senza smettere di sorridere.

-”Allora aprila.”-

Anche quelle parole gli apparirono come dell'altro, come se dentro di esse si nascondesse un altro messaggio: “allora dimentica”.

Sentì le lacrime spingere alle porte delle palpebre.

-”Non posso...”-gli uscì come un lamento.

Già, non poteva dimenticare. Non quelle labbra, non quegli occhi, non lui. Non quei baci.

-”Provaci.”-lo disse con decisione. Una decisione che fece invidia al francese. Strinse la presa sulla maniglia. Sospirò. Come sempre, nonostante fosse il primo nei guai, nonostante fosse il primo a soffrire, Antonio era lì per aiutarlo.

E la cosa gli fece male.

Dovresti essere tu quello chiuso in un bagno a compiangersi ed io dovrei essere quello alla porta ad incoraggiare...

-”Come va con Romano...?”-chiese, cercando di mettere da parte sé stesso. Gli parve come di riuscire ad intravedere, attraverso la porta chiusa, il corpo dello spagnolo fremere.

-”Non è di questo che stavamo parlando...”-fu la risposta.

-”Ma è di questo che dovremmo parlare!”-urlò quasi il francese, tentando di trattenere il tono di voce e di non scoppiare a piangere-”Dovremmo parlare di te, non di me! Sei tu quello in difficoltà, dannazione!”-

Antonio non rispose subito. Le lacrime ormai scendevano prepotenti dagli occhi azzurri del biondo, scivolando con fatalità sulle morbide e super idratate guance.

-”Ma in questo momento non sono io quello chiuso in bagno a piangere...”-

Il cuore di Francis fece una capriola nella cassa toracica.

-”...”-

-”Te lo ripeto... Apri questa dannata porta e lasciati consolare.”-

-”...”-

-”Francis...”-fece in tono di dolce rimprovero.

La porta si aprì con uno scatto leggero della maniglia. Davanti agli occhi appannati del francese comparve uno spagnolo super sorridente.

-”Ecco...”-il sorriso si fece più largo-“Ci voleva tanto?”-

 

...Qui in Germania fa davvero freddo, però la neve è molto bella. Soprattutto di sera, rende questa città più pura. Come se, qualsiasi peccato che avesse commesso in passato, venisse punito e dimenticato... Sai, è davvero bella Berlino, prima o poi dovrai venire a visitarla...”

L'ennesimo messaggio privo di senso di Feliciano. Romano sbuffò, rileggendolo più volte con fastidio. Da quanto tempo era cominciato questa storia? Due, tre mesi?

E quanto tempo doveva passare ancora prima che il fratellino lo lasciasse stare?

Perché insisteva così? Mai, da quando era cominciata questa sua fissa, aveva risposto ad un suo messaggio. Non gli importava più nulla della famiglia, non gli importava più nulla dell'Italia.

Gli occhi scivolarono sul cellulare.

Quindi Feliciano viveva in Germania, non lo sapeva. Una sorta di depressione lo invase. Effettivamente era alquanto deprimente non sapere niente del proprio fratello.

Non sapeva se era fidanzato, se era sposato, se aveva un lavoro, una casa, se stava bene. Non sapeva niente di niente. L'unica cosa che sapeva di lui era che era vivo e che stava in Germania.

In Germania...

Non aveva mai amato molto quel paese, troppo freddo e troppo rigido per i suoi gusti. Lui amava il caldo, amava le giornate soleggiate. E, soprattutto, non amava i tedeschi.

Sospirò, un po' preoccupato per questo strano avvicinamento da parte di Feliciano nei suoi confronti. Ma per adesso, il fratellino era l'ultimo dei suoi problemi.

Si passò una mano sul viso mentre il ricordo della notte passata con Bella tornava a perseguitarlo. Scosse il capo. Basta, dannazione, stava sbagliando tutto.

Quello che aveva fatto con la belga era sbagliato, la loro relazione era sbagliata. Lo sapeva, ma cosa poteva fare? Il danno lo aveva fatto.

Possibile che quel desiderio, quel dannato bisogno di lei, fosse già terminato? Con la stessa velocità con la quale era nato ora era morto.

Perché ora non provava più le stesse strane e forti emozioni quando stava con lei? Eppure, dopo la scorsa notte, sarebbero dovute amplificarsi.

Invece.

Lo sguardo cadde sulla porta d'ingresso. Che fosse stata la verità sulla passata relazione tra lei ad Antonio a farlo tornare sui suoi passi?

Scoprire che la belga lo aveva abbandonato sull'altare gli aveva procurato una strana amarezza. Si diede dello stupido, ancora non aveva chiesto scusa ad Antonio.

Si portò le mani sulla testa, mordendosi le labbra con forza.

Stupido, stupido! Come hai potuto trattarlo così? Come hai potuto trattare in quel modo l'unica persona che ti capisce? Che ti capisce davvero?

Qualcosa nel suo cuore gli urlò delle strane sensazioni. Rimorso, dolore, rabbia.

Strinse le dita tra le ciocche ramate, con forza, arrivando quasi a graffiarsi il capo. Com'era stato stupido, stupido ed avventato.

Rimorso.

Non avrebbe dovuto digli quelle cose, non avrebbe dovuto trattarlo così male.

Sono un'idiota!

Dolore.

Chissà cosa aveva pensato di lui, Antonio. Forse che era uno stupido, che credeva a qualsiasi cosa gli venisse detta, che giudicava le persone solo dall'aspetto.

Ma, in fondo, era vero. Lui era andato dietro a Bella senza nemmeno conoscerla davvero. No, forse lui era anche peggio: dopo tutto c'era andato a letto anche dopo aver scoperto la verità.

Si morse con più forza il labbro. Lo aveva tradito, aveva tradito Antonio. Il suo unico amico, il suo unico confidente.

Rabbia.

Che sciocco, che stupido, che ingenuo. Come aveva potuto lasciarsi trasportare così? Come aveva potuto ignorare gli avvertimenti dello spagnolo?

Era vero, fin ora Bella non si era dimostrata così crudele come diceva lui, ma avrebbe potuto evitare di andarci a letto almeno per rispetto nei confronti dell'amico.

Avrebbe potuto pensare un po' di più a come si sentiva Antonio, invece di pensare sempre e solo a sé stesso.

Già, perché era questo il problema. Era un dannato egoista. Un fifone e stupido egoista.

Si guardò la caviglia gonfia che gli pulsava senza fine. La guardò con fastidio, sperando che quell'odioso dolore finisse. Affondò il viso tra le ginocchia.

Devo chiedergli scusa... Devo farlo... Al diavolo l'orgoglio, quel dannato spagnolo se lo merita...

 

Per il resto della serata, Antonio, cercò di dimenticarsi di Romano. Tra un'ordinazione e l'altra si lasciava scappare un sorriso, una risata.

Il tempo sembrava durare un'eternità, ma lui non vi faceva caso.

Sorrideva, rideva, scherzava.

Era troppo impegnato per potersi permettere di essere triste: doveva lavorare e, allo steso tempo, doveva incoraggiare un amico.

Ma sì, al diavolo Romano, quel dannato testone italiano. Lì al pub c'era tutto quello di cui aveva bisogno. Gilbert, Francis, clienti da servire e ragazze da essere corteggiate.

Sorrideva, rideva, scherzava.

Ma ce ne fosse stato uno, tra quei sorrisi, tra quelle risate e quegli scherzi, che fossero stati sinceri, che non fossero stati forzati.

Con quella maschera di cera, ritrovatosi sul viso per caso, continuava a mostrarsi alla gente.

-”Ehi, Antonio, tutto ok?”-

Lo spagnolo si voltò verso Gilbert con il solito sorriso falso.

-”Certamente...”-gli posò con energia una mano sulla spalla-”Avanti, vediamo quanti clienti riesci a servire, ti sfido a battermi!”-dicendo così si sciolse in una rista.

Una rista che fece preoccupare terribilmente il tedesco. Gli diede le spalle, tornando al suo lavoro, mentre l'albino lo fissava con preoccupazione.

Volse lo sguardo verso il francese, sperando di riuscire a trovare conforto in lui. Ma Francis in quel momento non era di grande aiuto.

Con la pinta strapiena di birra continuava a versarcene altra, imperterrito, fissando un punto lontano davanti a lui. Gilbert gli voltò le spalle e si sbatté una mano sulla fronte.

Sbuffò, stanco di essere circondato da amici strani. Possibile che, lui, che era sempre stato il più strano del gruppo, adesso apparisse come quello più normale?

Si morse un labbro, un po' piccato per essersi fatto rubare il primato. Tornò a guardare con finta noncuranza il francese. Sentì un brivido di puro fastidio nel rendersi conto che era ancora nel stessa situazione di poco prima.

Si diresse a gran passi verso di lui e gli strappò di mano la pinta di birra.

-”Direi che è piena.”-fece abbrutito. Sbatté il bicchiere fin troppo pieno sotto il naso del cliente, che, intanto, era rimasto per qualche secondo ad osservare la scena senza parole.

-”A te, amico...”-brontolò il tedesco. Nel vederlo ancora fissare incredulo il biondo dietro di lui, sbatté una mano sul bancone.

-”Bevi e sparisci!”-

Il poveretto sobbalzò e si affrettò a bere. Gilbert sbuffò ed alzò gli occhi al cielo, per poi tornare a guardare con rimprovero Francis.

Il biondo gli sorrise colpevole, passandosi una mano sulla nuca.

-”Gil...”-

-”No.”-fece lapidario l'altro, intuendo cosa voleva dire.

-”Ma...”-tentò di nuovo, sorridendo appena.

Il prussiano posò le mani sui fianchi.

-”No!”-ripeté-”E non sorridere in quel modo, sai!?”-fece puntandogli un dito contro.

-”Ma è così...”-disse sospirando, senza togliere quel sorriso.

Il tedesco scosse il capo.

-”Già ce n'è ho uno depresso, ok?”-fece indicando con lo sguardo Antonio, che se ne stava poco più in là a servire-”Non ti ci puoi mettere anche tu!”-

Francis alzò le spalle dispiaciuto, con lo sguardo basso.

-”Lo so... E' un periodo del cavolo. Ma non sono io a decidere...”-

Gilbert a quelle parole si addolcì.

-”E per via di quella storia, vero?”-sospirò-”Per via di quell'inglese?”-

A sentirlo nominare Francis si irrigidì. Gli sorrise.

-”Mi passerà...”-si voltò un poco-”Piuttosto, che ne facciamo di quello lì?”-disse scherzando, riferendosi ad Antonio-”Ce lo siamo giocato, vero?”-

Gilbert rise scuotendo il capo. Com'era sciocco quel francese. Era inutile cambiare discorso in quel modo. Gli sorrise, decidendo di lasciarlo perdere almeno per quella sera.

-”Temo di sì.”-alzò le spalle-”E' per via di Romano.”-sbuffò-”Quel ragazzo finirà per consumarlo! Non so se è poi tanto meglio di Bella...”-

Francis sorrise, guardando lo spagnolo.

-”No... E' diverso.”-tornò a guardare Gilbert-”Dai, c'hai parlato anche tu con Romano. E' scontroso ed acido, alle volte, ma non farebbe mai soffrire apposta una persona.”-scosse il capo-”No, non è come Bella. E' solo molto confuso...”-

Il prussiano sbuffò.

-”Ah, sarà pure, ma per me questa storia finisce male...”-alzò le spalle-”Insomma, non è detto che anche lui provi qualcosa per Antonio. Da come guarda Bella la vedo un po' complicata la situazione. Non trovi?”-

Francis rimase per un attimo in silenzio, come se stesse pensando. Aprì bocca per poi richiuderla e sorridere in modo ambiguo. Gilbert, nel vederlo, scosse il capo e sorrise.

-”Ah! No, no! Cos'hai in mente?”-

Il biondo sorrise, guardandolo dritto negli occhi.

-”C'è meno gente ora... Pensi che in due ce la possiamo fare?”-

Il tedesco sorrise, capendo quello che voleva fare. Scosse il capo e lo guardò scherzoso.

-”Anche se lo lasci andare cosa ti aspetti? Cosa dovrebbe essere cambiato da questa mattina? Non ti aspetterai mica che, se adesso lo fai andare, tra quei due succederà qualcosa, vero? ”-

Francis lo guardò malizioso.

-”Non sfidare l'amore.”-

Gilbert lo guardò con un sopracciglio inarcato. Avrebbe tanto voluto fargli notare che non lo sapevano se, anche Romano, ricambiava l'amore di Antonio, ma preferì tacere. In fondo era il francese l'esperto.

Alzò le spalle ed arricciò la bocca in un sorriso strafottente.

-”Sai che dovrai pagarlo di meno questo mese, vero?”-

Francis ridacchiò.

 

Antonio, più confuso che mai, si ritrovò a camminare verso il suo appartamento.

...Vattene,” avevano detto”non vogliamo gente depressa qui dentro. Vattene a casa e risolvi la questione una volta per tutte...”

Erano state quelle le parole minacciose che gli avevano rivolto quei due pazzi. Sorrise, sbuffando. Che si aspettavano quei due?

Per risolvere la questione avrebbe dovuto confessarsi. E per confessarsi avrebbe dovuto, prima di tutto, trovare il coraggio e poi si sarebbe dovuto beccare una reazione poco carina da parte di Romano. Si infilò le mani in tasca e per un po' tentò di non pensarci. Impossibile, quelle parole gli ronzavano nella testa. Si morse un labbro, infastidito.

Risolvere la questione, eh?

Effettivamente non era un così brutto consiglio, aveva già una mezza idea di come fare.

Arrossì di colpo. Si vergognò di sé stesso.

Ok, bocciata...

Però avevano ragione, non poteva andare avanti così. Amava follemente Romano, più di quanto potesse immaginare, e proprio per questo non poteva accettare il fatto di farselo portare via da Bella. Arrossì, rendendosi conto di essere geloso come una stupida donnicciola.

E va bene, forse non lo avrebbe mai avuto accanto a sé, non sarebbero mai stati insieme come una vera e propria coppia, ma almeno lo avrebbe avuto come amico.

Si posò una mano sul petto, sospirò.

Sì, gli avrebbe spiegato una volta per tutte che tipo di persona era Bella, raccontandogli quello che gli aveva fatto. Avrebbe detto tutto, anche se si vergognava. Doveva dirglielo.

Devo salvarlo da Bella... Devo salvarlo da sé stesso...

Si ritrovò davanti all'appartamento senza nemmeno rendersene conto. Infilò le chiavi nelle toppa, deciso a farsi valere. Girò due volte con decisione e la porta si aprì con uno scatto, finendo per poco addosso a qualcuno.

-”Ro...”-le parole gli morirono in gola nel vederla.

No...!

-”Bella...?”-sussurrò quasi.

La belga, probabilmente sorpresa almeno quanto lui, rimase a fissarlo incapace di dire qualsiasi cosa. Un Romano barcollante si affacciò dietro di lei.

-”A... Antonio!”-fece, arrossendo di colpo-”Ecco... Bella se ne stava andando...”-

La ragazza, riprendendosi dalla sorpresa, gli sorrise poco convinta.

-”Sì, è vero.”-si voltò verso l'italiano e lo baciò veloce sulle labbra-”Ci vediamo, amore...”-

Un brivido d'irritazione percorse lo spagnolo, strinse i pugni ed abbassò il capo, mettendosi di lato per lasciarla passare. Romano si morse un labbro, probabilmente dispiaciuto di essersi fatto vedere con la belga proprio davanti a lui.

-”Ci vedia...”-

Antonio non gli diede nemmeno il tempo di terminare che chiuse la porta. Lasciando fuori una Bella tremendamente compiaciuta di sé stessa e di come stavano andando le cose.

-”Antonio...”-farfugliò vedendolo posare il capotto.

Senza dire una parola, lo spagnolo si diresse verso il divano. Cercò di ingogliare l'irritazione. Odiava vederlo baciarsi con lei, odiava doverlo vedere tra le braccia di qualcun altro.

-”Come va la caviglia?”-gli chiese con la rabbia che gli ribolliva. L'italiano si sentì a disagio, si mise seduto accanto a lui, rigido, sembrava quasi una statua.

-”...”-lo scrutò un po' preoccupato. Sembrava così serio, come non lo aveva mai visto. I suoi occhi si posarono sul suo viso. No, non era solo serio. Era arrabbiato, triste, amareggiato.

E' per colpa mia, dannazione... Lo credo bene, me la spasso con la sua ex ragazza...

Quel pensiero gli procurò un dolore indicibile. Lui non voleva “spassarsela” con Bella. Lui non voleva farlo soffrire.

Non voleva.

Quando vide lo spagnolo cominciare a giocherellare nervoso con le mani, si morse una labbro.

-”Sei tornato presto, oggi...”-non vi fu risposta. Sospirò, un po' dispiaciuto-”Tutto bene?”-tentò.

-”Perché era qui?”-

Un muro sembrò crearsi tra i due. Romano chiuse gli occhi e lasciò poggiare placidamente e stancamente la schiena sul cuscino del divano.

-”Mi dispiace...”-fu la risposta. Antonio sbuffò irritato e ferito, guardò altrove.

-”E ti chiedo scusa per la mia superficialità...”-per un attimo gli parve di vedere una sorta di piccolo interesse nascere in Antonio, nonostante continuasse a fissare ostinatamente la parete davanti a sé.

-”E' stato crudele e stupido, da parte mia, mettermi con la tua ex ragazza senza nemmeno parlartene. Ed è stato ancora più orribile dirti tutte quelle cattiverie...”-si morse un labbro-”Non conoscevo la storia della vostra relazione, non avevo il diritto di criticare. Anzi, di criticarti...”-

Un qualcosa di profondamente doloroso si espanse nel petto dello spagnolo. Allora Romano sapeva.

-”Ora so come è andata... E mi dispiace.”-posò una mano sul cuscino del divano, vicino alla sua gamba-”Posso capire benissimo che è stata una cosa dolorosa, anzi, lo so per certo. Bella è stata davvero scorretta, non lo metto in dubbio... Ma...”-per un attimo esitò. Perché Antonio non diceva nulla? Perché non lo guardava in faccia?

-”... Ma, ti prego, perdonala! Lei è davvero pentita!”-

Le mani del moro si strinsero con dolore. Perché? Perché le stesse parole che aveva detto quella dannata belga, ora, si ripetevano sulle labbra di Romano?

Faceva male, faceva dannatamente male vederlo diventare sempre di più schiavo di quella donna. Non disse nulla, nemmeno lo guardò. Faceva davvero troppo male, ora, guardare quel viso.

-”Perciò,”-Romano continuava imperterrito-”ti prego, accetta la nostra relazione.”-

Non puoi chiedermelo...

-”Accetta il fatto che noi due stiamo insieme...”-

Non puoi chiedermelo davvero, non puoi...

-”Antonio, dimmi qualcosa...”-fece disperato sfiorandogli una gamba. Un terribile peso si instaurò nel petto del riccio, un peso che gli impediva di muoversi, di parlare, di piangere, di urlare.

Cosa vuoi che ti dica?!

-”Ti prego, rispondimi...”-

Vuoi che ti lasci andare?

-”Antonio...”-

-”L'ami davvero...?”-chiese in un sussurro doloroso. Romano tentò di guardarlo in volto ma non vi riuscì. Sospirò. Strinse i pugni, non sapendo che rispondere.

Dire che l'amava era una bugia. Ma dire di no sarebbe stato un controsenso. Ormai era andato troppo in là per poter tornare indietro. Non amava Bella, amava solo quei momenti brevi ed intensi di serenità che sapeva donargli.

Non l'amava, ma in fondo lui non era in cerca dell'amore, no? Lui era in cerca di serenità, di calma.

-”Io...”-si preparò a mentire.

Una calma che non avrebbe mai trovato senza di lei. Una serenità che nessuno avrebbe saputo donargli. Eppure dentro di lui sentiva di sbagliare.

-”Sì, l'amo.”-

Ecco, aveva mentito.

Aveva mentito all'unica persona a cui non avrebbe mai dovuto mentire. Al suo amico, al suo confidente. All'unico, dopo di Bella, che, con un semplice tocco, sapeva farlo mandare in confusione. Una confusione a cui, nemmeno lui, sapeva dare una spiegazione.

Finalmente Antonio alzò lo sguardo su di lui. E Romano ebbe paura di quegli occhi, ebbe paura di quello sguardo serio e di rimprovero.

Lo vide improvvisamente sorridere e per poco non si sciolse.

Che mi prede? Perché mi sento così strano?

-”Che c'è...?”-disse lieve, arrossendo e sentendo improvvisamente caldo. Il riccio scosse il capo sconsolato, sempre con quelle labbra amaramente tirate.

-”E' che non sai mentire.”-

Il cuore di Romano sembrò fermarsi per un attimo ed il rossore sulle gote si fece più intenso.

-”Cosa?”-

Una strana luce si accese negli occhi verdi di Antonio.

-”Non sai mentire, Roma!”-gli si fece vicino, velocemente. Senza nemmeno accorgersene, l'italiano, si ritrovò con le labbra schiuse del riccio sulle sue.

Da prima fu stupore, sorpresa, sbalordimento. Una strana sensazione di pace, di assoluto piacere lo invase. Partendo dal cuore ed espandendosi per tutto il corpo, procurandogli una estrema sensibilità sulla bocca, che si manifestava ad ogni singolo tocco di quelle labbra sulle sue.

Nella confusione più totale non riuscì a pensare a nulla. Solo un pensiero galleggiava lento in quel mare di emozioni.

...Finalmente...

Quando sentì l'arrivo, soffice ed umido, della sua lingua si sentì mancare la forza negli arti. Il cervello non gli funzionava più, probabilmente. Sentì le mani grandi e calde di Antonio accarezzargli i capelli, le guance. Sentì il suo fiato dolce sulle labbra, sul collo, sul viso.

E tutto quello che riusciva a fare era rispondere con imbarazzo e confusione, schiudendo semplicemente un poco le labbra e lasciandolo fare.

-”Ti amo... Ti amo, Roma, ti amo da impazzire...”-sussurrava desideroso mentre lo stringeva a sé.

E per la prima volta, l'italiano, si ritrovò a sentire il bisogno di rispondere. Di rispondere con sincerità. Un sospiro accaldato e stanco gli uscì di bocca, per poi essere di nuovo baciato con foga. Si ritrovò ad aprire le gambe. Appena sentì un leggero tocco sul cavallo, rabbrividì.

Gli parve, solo in quel momento, di riuscire a ragionare.

Ma cosa sto facendo...?

Allontanò il viso, strinse un poco le gambe, e fece una leva placida sul suo petto con le braccia.

-”A... Aspetta, fermo, che succede...?!”-chiese confuso come non mai tra un bacio rubato e l'altro.

-”Ti prego, basta domande, basta indecisioni.”-gli sussurrò stanco ed addolorato Antonio.

Romano arrossì per la vergogna.

-”A... Antonio, tu...”-

Nel vedere quegli occhi tanto amati fissarlo imbarazzato e confuso, il moro, non poté che arrossire. Come era dannatamente bello quel ramato.

-”Io ti amo, Romano...”-

Gli occhi dell'altro si sgranarono.

-”Ma... Ma io sono un uomo...”-farfugliò, cercando di allontanarsi. Ciò sembrò spiazzare il moro. Era vero, era un uomo, proprio come lui. E allora? Sentì le lacrime salirgli agli occhi. Lo abbracciò, stringendolo a sé.

-”Lo so, Roma, lo so...”-sussurrò con dolore-”Ma ti amo e non posso ignorarlo...”-
Sentì i suoi muscoli fremere sotto le proprie braccia.

-”No... Io....”-blaterò l'altro. Tentò confusamente di evadere da quell'abbraccio, vi riuscì.

Si alzò febbricitante dal divano, con una mano posata con forza sulla bocca. Che stava accadendo? Davvero lo aveva baciato? Davvero lo aveva toccato in quel modo?

-”No, non ti avvicinare!”-disse allarmato Romano, facendo un passo indietro nel vederlo alzarsi.

-”Romano...”-

-”No!”-

Sentì le lacrime avanzare ed un'enorme angoscia invaderlo fin nel profondo. Non poteva essere vero, no. Si strinse nelle braccia, come per proteggersi. Ogni singola parte, del suo corpo, toccata da quel riccio sembrava bruciare.

-”Antonio, tu...”-non riuscì a trovare le parole-”Perché?!”-riuscì solo a dire. La sua mente sembrò andare in tilt, nel cervello sempre e solo la stessa scena. Sulle labbra ancora quel calore e quel sapore, tentò più volte di estirparne le sensazioni con la manica della maglia. Perché, dentro di lui, sentiva come il bisogno di averne ancora? Come se volesse di nuovo testare il sapore di quelle labbra? Provò vergogna e paura.

-”Ti amo, Romano. Ti amo da troppo tempo. Dovevo dirtelo...”-fu la giustificazione.

Come gli parve stupida, come gli parve così poco logica quella risposta. Romano scosse la testa, sentendo l'arrivo delle lacrime.

-”Tu...”-gli scappò una risata sofferta-”Tu, dovevi dirmelo?!”-

Antonio allungò le mani verso le sue spalle ma l'italiano scattò indietro.

-”Non mi toccare, maledetto!”-gli urlò, con le lacrime agli occhi-”Dovevi dirmelo?!”-ripeté frustrato-”Non hai pensato a me? Non hai pensato che forse questo non era il modo più giusto di farlo?!”-le parole uscivano da sole, affilate ed acide come non mai. E lo spagnolo sembrò tagliarsi a quelle accuse, sembrò corrodersi. Eppure non voleva essere così pungente, eppure non voleva ferirlo così profondamente. Ma ormai, la mente di Romano, non riusciva più a frenare la confusione.

Perché provo questa strano desiderio? Perché? Che mi succede?!

-”Perdonami, Roma, io... Io... Ho perso il controllo...”-disse addolorato ed imbarazzato. Tentò nuovamente di toccarlo ma vi fu l'ennesimo rifiuto, seguito da uno schiaffo sulle mani.

-”Al diavolo, Antonio!!”-sbottò ancora. Le lacrime scorrevano come un fiume in piena sul suo viso e mai, mai, il moro provò tanto sconforto e dolore nel vedere qualcun altro piangere-”Mi hai baciato, capisci? Baciato?!”-

Il riccio abbassò lo sguardo, addolorato, sapendo di aver sbagliato.

-”Dannazione, io non volevo sapere... Perché lo hai fatto, perché?”-si lasciò scivolare a terra, con la caviglia dolorante-”Egoista! Non hai pensato a quello che avrei provato io?!”-

Qualcosa di molto pesante si movve nell'animo di Antonio, lasciandogli una sensazione di vuoto opprimente.

-”Continuamente, dannazione!”-

Questa volta fu lui ad urlare, l'italiano alzò lo sguardo lacrimoso e sorpreso su di lui. Il volto del moro si tirò in un'espressione sofferta ed irosa.

-”Ogni dannato giorno ho pesato ai tuoi sentimenti! Ogni singolo momento di queste fottute giornate, ci ho pensato!”-la voce sembrò incrinarsi ma non rinunciò, strinse i denti e continuò quello che doveva dire-”Non ce stata mattina, fino ad oggi, in cui mi sono alzato da quel dannatissimo letto senza ripetendomi che quello che provavo era sbagliato! Senza mai smettere di dirmi e di ricordarmi a come ci saresti potuto rimanere tu!”-

Romano non riuscì a controbattere di fronte a simili parole, di fronte a lui. Strinse le labbra amaramente e rimase ad ascoltare quello sfogo, incredulo.

-”Perciò non darmi dell'egoista! Non ne hai il diritto!”-continuò Antonio, sentendo il cuore esplodere in mille pezzi. L'italiano abbassò il capo rendendosi conto di essere un'idiota.

La rabbia era sorda, il dolore era indicibile. Essere rifiutati era orribile ma essere, per giunta, rifiutati ed insultati era anche peggio. Strinse i pugni con collera.

Ed eccolo, Romano seduto per terra a testa bassa, ai suoi piedi. Avrebbe anche potuto non dire nient'altro, quello che doveva fargli sapere lo aveva detto.

Ma quella rabbia, quell'amarezza gli impediva di essere lucido. Come poteva lasciarlo lì senza dire altro? Insomma, quel ramato doveva sapere quello che aveva provato in quei giorni, doveva sapere quello che pensava. Doveva fargli capire quanto doloroso fosse stato il suo dolore, il suo amarlo in silenzio. Si abbassò alla sua altezza, gli strinse i baveri della maglia e lo tirò a sé. Romano non si scompose, rimase con lo sguardo basso stretto in quella presa.

-”Non hai il diritto di darmi dell'egoista se sei il primo ad andare a letto con una sconosciuta solo per il proprio piacere!”-

Quell'affermazione colpì nell'orgoglio l'italiano.

-”Taci...”-farfugliò.

-”Tu non ami davvero Bella! E lei non ti ama, lo fa solo per arrivare a me!”-

-”Taci...”-

-”Tu hai solo un dannato bisogno di andare, per qualche minuto, in vacanza da te stesso! Lontano dal tuo continuo pessimo umore, dal tuo dannatissimo caratteraccio!”-

Romano strappò con rabbia le mani di lui dal suo petto, si alzò a fatica da terra e, con una terribile decisione, guardò in faccia Antonio.

-”Pensi che non lo sappia?! So benissimo che Bella non mi ama!"-quell'affermazione spiazzò Antonio-"Ma chi cazzo sei tu per giudicarmi? Chi? Dici di amarmi ma poi mi critichi. Chi ami davvero? Me o il mio corpo? Vedi, non sei poi tanto diverso da me! Anche tu lo fai solo per piacere e non per amore. Tu non mi ami, Antonio!”-

Lo spagnolo sorrise amaro, scosse la testa, con gli occhi terribilmente lucidi.

-”Vedi, è proprio questo il problema...”-lo sguardo di Romano si fece sorpreso-”Che nonostante tutto non riesca ad odiarti...”-le prime lacrime scesero, sotto lo sguardo stralunato dell'italiano-”Che nonostante tutto io ti ami terribilmente!”-

A quel punto le parole sembravano inutili. Cosa avrebbe dovuto dire? Romano non lo sapeva. Era solo così confuso. Nella sua testa girava solo una enorme e fastidiosa confusione. Antonio gli strinse le mani nelle sue, costringendolo a posare lo sguardo sul suo.

-”... So perfettamente che non sei abituato ad essere aiutato, che non è facile per te accettare l'idea che qualcuno ti conosca, che ti voglia bene... Ma ti prego, non lo dico per me, fatti aiutare...”-Lo sguardo dell'italiano era perso in quel verde spento degli occhi del riccio.

I suoi occhi non erano così o, almeno, lui non era abituato a vederli in quel modo. Non voleva vederlo così, non voleva farlo soffrire.

-”... Lascia Bella...”-

L'italiano lasciò stendere i muscoli. Quelle parole sembravano così facili, così semplici da mettere in atto. Non disse nulla, rimase a guardarlo con la morte nel cuore, incolore.

-”Lasciala e vedrai che starai meglio.”-

Il ramato scosse il capo.

-”Tu non capisci...”-

-”No, io capisco fin troppo bene.”-il suo sguardo si fece più dolce, tanto che Romano sentì sciogliersi sotto il tocco leggero delle sue mani sulle proprie-”So perfettamente che sei stanco e che la vita non è stata dolce con te, in passato. So che non ti sopporti, so che non ti piaci, che odi la tua casa e rinneghi la tua famiglia.”-

Romano lo guardò con dolore e sorpresa, timoroso di quelle parole e di quello spagnolo che sapeva così tanto di lui senza che ne avessero mai realmente parlato. Una lacrima capricciosa scivolò lenta dalla sua guancia.

-”...”-tentò di parlare ma qualcosa glielo impediva. Antonio sorrise dolcemente per poi stringerlo lievemente a sé, e l'italiano non poté fare a meno di provare piacere a quel contatto improvviso con il suo petto. Non poté che provare un qualcosa di caldo e di grande espandersi per tutti i suoi arti.

Come fa a sapere tutto questo? Come può avermi capito così tanto? Non gliene ho mai parlato...

-”... Adesso, devo ammetterlo, non so il motivo di tutti questi tuoi sentimenti negativi verso la tua famiglia e te stesso... E non pretendo nemmeno di saperlo, sia chiaro. Ma so per certo che non risolverai i tuoi problemi fuggendo, evitando il discorso. E, soprattutto, non li risolverai andando a scaldare il letto di Bella...”-

Una nuova voglia di piangere lo invase ma questa volta sembrava diversa dalle altre. Questa volta, la voglia di piangere, sembrava quasi procurargli una sorta di sollievo.

Come se avesse una lieve certezza che, una volta cessato il pianto e le lacrime, si sarebbe finalmente sentito bene.

-”Come... Come fai a dire certe cose? Come fai a sapere così tanto di me?”-disse spingendo il viso sul suo petto, come se, all'improvviso, avesse un dannato bisogno della sua vicinanza.

Antonio sorrise, questa volta con gioia, con felicità. Finalmente riusciva ad essere sé stesso, poteva dire quello che pensava, quello che per settimane aveva tenuto chiuso nel suo cuore.

-”Perché ti amo Roma. E quando si ama una persona si sa tutto di lei, anche se in questo caso, la persona in questione, è un testone che tende a tenersi tutto dentro.”-lo sentì fremere per i singhiozzi tra le sue braccia-”E' vero, non mi hai mai detto nulla direttamente... Ma, sai, per poter conoscere davvero una persona basta solo avere la pazienza di capirla...”-

Romano sgranò gli occhi, intimorito da quelle parole che gli suonarono così assurdamente vere. Possibile che nonostante il suo dannato caratteraccio, nonostante avesse fatto di tutto per non farsi avvicinare, Antonio, non solo era riuscito a capirlo, ma stava diventato sempre più terribilmente fondamentale per lui. Sì, era fondamentale, perché nonostante lo trattasse male lui c'era. Perché nonostante la sua falsa indifferenza, ogni mattina lui era lì.

Sentì un dolore sordo nel cuore. Già, Antonio era lì anche quando era lui a non esserci. Quanto era stato crudele con lui. Ed ora, dopo tutto il male che gli aveva fatto, diceva di amarlo.

Come poteva amarlo? Come poteva? Insomma, perché lui? Perché proprio la persona peggiore di questo mondo doveva possedere l'amore dello spagnolo più dolce ed altruista di Madrid?

Cosa aveva fatto, Romano, per meritarselo?

Aveva forse fatto qualcosa di buono per lui?

Gli aveva forse rivolto qualche parola dolce o che non fosse stata crudele?

Niente di tutto questo.

E allora perché?

Dannazione!

Doveva esserci per forza un errore, un qualcosa di sbagliato. Quel riccio non poteva amarlo davvero. Insomma, nessuno poteva davvero amarlo.

Nemmeno Bella lo amava e lui lo sapeva. Lo aveva sempre saputo. Strinse le braccia introno allo spagnolo, premendo con più forza il viso sul suo petto.

Ma di Bella non gliene importava nulla.

Invece di Antonio sì.

E proprio per questo non poteva accettare che lo amasse. Perché amarlo, significava sprofondare nell'oblio di quella monotona e triste vita che lui viveva ogni giorno. No, non poteva permettere che anche Antonio diventasse come lui.

-”... Sei un dannato idiota...”-disse debolmente tra le lacrime, sciogliendo quell'abbraccio ed asciugandosi le lacrime mentre si allontanava.

Lo guardò negli occhi.

-”Cosa ti aspetti che faccia?”-

Antonio rimase a fissarlo in silenzio.

-”Che lasci Bella?”-

Nessuna risposta, solo lo sguardo incolore del riccio.

-”Che ti dica che ti amo? Cosa?”-

Antonio abbassò lo sguardo, stirò un sorriso. Un sorriso vero, finalmente felice.

-”Voglio che tu sia libero.”-

Gli occhi di Romano si spalancarono.

-”Voglio che tu sia libero da questo dannato peso che ti porti sempre dietro: voglio che ti lasci il passato alle spalle. Voglio vederti felice.”-si interruppe per un attimo, mettendosi seduto sul divano -”Non voglio forzarti ad amarmi, voglio solo vederti sorridere davvero.”-

L'italiano strinse i pugni.

-”Non capisco... Perché tutto questo, perché quella tua confessione, se poi non vuoi che io ricambi i tuoi sentimenti?”-

Antonio si passò le dita sulle labbra, sorrise perso.

-”Te l'ho detto: perché era giusto che tu sapessi quello che provo. Non pretendo nulla in cambio... Voglio solo che tu faccia la cosa giusta.”-

Sorrise.

-"... Voglio solo che tu faccia davvero parte della vita..."-

All'improvviso la mente si fece silenziosa, liscia, come una distesa di prato, calma come non era mai stata. Solo un qualcosa parve scuotere quel nulla, quel vuoto. Un qualcosa che partì dal petto, espandendosi. E faceva un gran male.

-”Io...”-fece dai passi indietro-”Io sto facendo la cosa giusta... Sto bene...”-lo guardò sperduto-”Io... Forse è meglio scordarsi di questa assurda serata, forse è meglio andare a dormire e far finta di nulla. Vuoi?”-

A quelle parole, Antonio, si sentì fremere dal dolore. Abbassò lo sguardo. In fondo cosa si aspettava? Che gli si gettasse tra le braccia?

-”E'... E' meglio... E' meglio così...”-farfugliò ancora Romano, più per sé stesso che per lo spagnolo. Prese a dirigersi, ancora impacciato per via della caviglia ed anche per il disagio, verso la sua stanza. Il riccio rimase di sasso, incapace di dire qualsiasi cosa, di poter comunicare.

No, non così... Reagisci come vuoi, ma non così...! Non così, maledizione!

-”Buona... Buonanotte...”-blaterò, poi si chiuse la porta alle spalle, portandosi con sé anche quel briciolo di speranza che era rimasta ad Antonio.

E lasciando aleggiare nella stanza una placida ed invisibile sofferenza.

Ti prego... Almeno pensa alle mie parole. Puoi anche non amarmi mai ma, ti prego, salvati da te stesso...

----------------------------------------
Note

*si lascia morire sulla scrivania*
Ce l'ho fatta!! *parte una musichetta vittoriosa* Uf! Scusate il ritardo, ma sembra che questo periodaccio non voglia più finire!! Ma nemmeno io demordo ^^"... Chi vincerà? Vabbé, passando alla ff...

Qualcosa turba il cuore del francese, un qualcosa che gli impedisce di dimenticare una vecchia storia legata ad un inglese particolarmente acido ed irresistibile. Per quanto riguarda Antonio, finalmente, si è confessato... E' riuscito, se pure sofferto, a rubargli un bacio.
Ed adesso, quale sarà la prossima mossa di Romano? E di Bella?

Honodetsu:D

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Capitolo 15
*** 15 ***


Nella sua mente aleggiava una strana calma, una calma malata, che sapeva di vuoto, di nulla. Infatti non pensava nulla, non diceva nulla, non faceva nulla.

Eppure, nonostante la sua mente ed il suo fisico gli dicevano di tacere e di lasciarsi trasportare in quel silenzio ovattato, dentro di lui sentiva il disperato bisogno di pensare, di darsi delle spiegazioni. Nonostante non volesse, il desiderio di ragionare, si fermava lì, alle porte della sua mente ormai lasciata alla deriva. Era possibile non pensare a nulla? Bhè, Romano ci stava riuscendo alla grande, senza nemmeno volerlo.

La vibrazione del cellulare nella sua tasca ruppe quella spessa cortina di nulla. Solo in quel momento si rese conto di essere ancora in piedi, davanti alla porta d'ingresso della sua camera.

Si portò meccanicamente la mano in tasca, alla ricerca del cellulare, senza nemmeno chiedersi da quanto tempo stesse lì in piedi, perso in quel vuoto della sua mente. Ed ecco, la prima espressione da quando era entrato in quello stato febbrile.

Un'espressione infastidita.

Ancora Feliciano.

Sai, stavo pensando di tornare in Italia a trovare mamma ma non me la sento di andarci da solo... Se solo tu ci fossi. Roma, da quanto non ci vediamo?”

Strinse il cellulare tra le mani. Da tanto, da troppo. Ma adesso non era Feliciano il problema. Buttò infastidito il cellulare sul letto. Già, non era lui il problema, qual'era allora?

Solo in quel momento la sua mente uscì completamente da quel tunnel di vuoto.

Ti amo, Roma!”

Si portò le mani alla testa, stringendosela con forza.

No, non è vero! Non può essere!

Si lasciò scivolare a terra, accanto al letto. Ed ecco, di nuovo la sensazione di quelle labbra toccarlo, di quelle mani sfiorarlo. Si strinse nelle spalle e si odiò nel rendersi conto di aver provato piacere a sentirlo così vicino.

Non può essere vero! Non Antonio! Non io!

Eppure nonostante continuasse a negarlo era successo. Antonio l'amava e lui, inevitabilmente, aveva provato qualcosa in quelle sue carezze.

Gli occhi verdastri si spalancarono, ve ne uscirono acide lacrime. Ogni singolo tocco di quello spagnolo lo aveva sempre messo in confusione, ogni singolo sguardo.

Si sentì immensamente stupido. Che voleva dire questo? Che in realtà, anche lui, lo aveva sempre amato? Gli venne da ridere. No, ne conosceva tante di storie come questa. Storie così strambe e sciocche che non stavano nemmeno in piedi da sole.

Che si credeva di essere in un film? Per innamorarsi di qualcuno non bastano, di certo, poche settimane, non basta un bacio.

Eppure qualcosa in Romano sembrava essersi accesso. Un qualcosa di cui aveva immensamente paura e che, perciò, cercava di spegnere.

 

Era già da un po' chiuso in bagno. Con l'acqua che scorreva, a riempire la vasca, faceva da sottofondo malato al suo silenzio. Al silenzio di quell'appartamento.

Gli occhi rossi, il viso pallido e voglia di piangere ancora ed ancora. Probabilmente con tutte quelle lacrime avrebbe potuto riempire anche la vasca.

Continuava a guardarsi allo specchio, quasi nel tentativo disperato di scorgere il suo riflesso invece che quello di Romano.

Romano...

Già, Romano.

Lo voleva, lo desiderava più di ogni altra cosa. Quel bacio gli aveva creato ancora più desiderio. Per un attimo gli era anche sembrato che, quel contatto frettoloso e sentito, gli sarebbe bastato per sempre. Invece, no. Non gli era bastato per niente.

Aveva bisogno di baciarlo, di stringerlo a sé. Ma soprattutto aveva il disperato bisogno di essere ricambiato. Di riuscire a sentire, tra una carezza e l'altra, le mani dell'italiano rispondere alle sue premure. Aveva bisogno di sentirsi dire quelle parole tanto desiderate e tanto odiate.

Probabilmente non avrebbe mai dovuto dichiararsi ma come avrebbe potuto non farlo? Ma, soprattutto, il ramato, come aveva fatto a non rendersene conto?

Ogni volta che lo vedeva si sentiva scoppiare e diventava rosso, ogni singola volta che aveva bisogno di qualcosa, c'era.

Tutte cose che, evidentemente, Romano non aveva mai notato.

Antonio si tolse la felpa con stanchezza e dolore. Era così sbagliato amare un uomo? O meglio, era così sbagliato amare Romano?

Già, perché quell'italiano non era un semplice uomo. Gli altri uomini non erano come lui. Gli altri uomini non erano in grado di farlo salire in paradiso, o sprofondare all'inferno, con una singola parola come faceva lui.

Provò un'immensa rabbia nel rendersi conto che quell'essere era dannatamente importante per lui. Provò un'immensa vergogna per quello che aveva fatto. Va bene dichiararsi ma quel bacio.

Forse non avrebbe dovuto farlo.

Forse avrebbe reagito diversamente...

Si morse un labbro.

Forse avrebbe reagito meglio...

Sospirò stancamente per poi finire di svestirsi completamente ed immergersi nell'acqua calda.

O forse no...

 

Il sassolino saltellò sul pelo dell'acqua con velocità e grazia. A seguire il sorriso soddisfatto e pieno di sé di Francis. Si piegò e ne raccolse un altro.

Adorava lanciare i sassolini piatti sull'acqua, facendoli rimbalzare. Il modo in cui saltavano gli metteva allegria e leggerezza.

Un tonfo secco lo distolse dal suo gioco. Alzò lo sguardo, alla ricerca della causa di quel rumore che per poco non lo aveva fatto morire.

Ma la riva del laghetto era calma e quasi del tutto deserta, se non fosse per quelle poche persone che camminavano serene. Solo un ragazzo, dall'aria delusa e infastidita, se ne stava a fissare l'acqua irritato. Francis lo vide prendere un sasso e lanciarlo nel lago ma, a quanto sembrava dalla sua espressione, il tonfo e lo schizzo d'acqua limpida che ne seguì, non sembrò soddisfarlo.

Lo vide sbuffare e mettersi seduto irato.

Il biondo ridacchiò fra sé: come credeva di far rimbalzare sul pelo dell'acqua un sasso così grande? Distolse lo sguardo dal ragazzo in questione e si guardò intorno. Era solo? Possibile?

Di solito la gente, in quel parco, non veniva mai da sola, a parte lui. Eppure nessuno si avvicinava a quel ragazzo biondo imbronciato. Quell'espressione lo fece sorridere, com'era buffo.

Già, sembrava davvero essere solo.

Nel vederlo, per la terza volta, tentare di lanciare una pietra nel lago, Francis, decise di avvicinarsi un poco.

A passi discreti si avvicinò a lui che, intanto, si appropinquava a fare il suo lancio.

-”Quel sasso è troppo grosso...”-il ragazzo si raggelò-”Non rimbalzerà mai, devi lanciare questi. Sono più piccoli e leggeri, sai?”-

Il ragazzo si voltò verso il francese, mostrando le iridi verdi acido ed il viso perfettamente ovale e dai lineamenti dolci. Già, dolci, se non fosse per quell'espressione accigliata che sembrava non riuscire a cambiare.

-”...”-indugiò un poco, poi posò lo sguardo sul sassolino sul palmo di Francis.

-”Avanti, puoi prenderlo.”-gli fece sorridendo il francese.

-”G... Grazie...”-borbottò, per poi arrossire e prenderlo. Si voltò verso la distesa d'acqua e lo lanciò. Il sassolino uscì di scena con un leggero tonfo.

I due rimasero ammutoliti a fissare i cerchietti d'acqua andati a formarsi.

-”Vuoi che ti insegni a farli rimbalzare?”-

Il ragazzo arrossì, un po' diffidente.

-”Avanti, non ti faccio nulla, sai?”-ridacchiò. Quell'affermazione non sembrò far molto piacere all'altro-”Si fa così, guarda...”-

Lo lanciò ed il sassolino rimbalzò ben sei volte, per poi immergersi. Il ragazzo provò di nuovo, questa volta riuscendo a farlo rimbalzare un paio di volte.

-”Oh, complimenti, impari in fretta!”-si voltò a guardarlo e lo vide sorridere.

Un sorriso che, fin da subito, intuì speciale.

 

-”Avanti, Francis! Hai voluto mandare via Antonio? Adesso te la vedi anche tu! Muoviti! C'è tanta gente!”-

Il francese posò le bibite e sbuffò. Nonostante detestasse ammetterlo, Gilbert, aveva ragione. Forse sarebbe stato meglio non lasciar andare Antonio, c'era davvero troppa gente. E lui non c'era con la testa, non riusciva ad aiutare il povero prussiano.

-”Perdonami Gil, eccomi!”-

Già, la testa volava altrove. In ricordi lontani ed inutili. A cosa serviva tutto quel ricordare? A cosa se poi l'unica cosa che riusciva a fare e soffrirne?

Sbuffò, rendendosi conto di essere ridicolo. Eppure, nonostante sapesse di sbagliare, non riusciva a lasciar andare i ricordi una volta per tutte.

Cosa gli costava lasciarlo andare? Senza di lui, nella testa, sarebbe stato sicuramente meglio. Perché era così legato ad una persona che non vedeva da più di tre anni?

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Note

Chiedo perdono per la lunghezza di questo capitolo (lo so, è parecchio più corto rispetto agli altri) ma, ve l'ho detto, ho una marea di cose da fare ed il tempo è sempre poco... Perciò, scusate!

Honodetsu:D

 

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Capitolo 16
*** 16 ***


Era arrivato.

Era arrivato il gran giorno.

Era arrivato il giorno cerchiato sul calendario da ormai troppo tempo.

Era arrivato il giorno dell'esame.

Romano quella mattina si alzò presto, preparando tutto l'occorrente e ripassando, di tanto in tanto, gli argomenti. Aveva una terribile agitazione nelle membra.

Ecco, era pronto, adesso l'unica cosa da fare era uscire dalla camera, arraffare qualcosa in cucina, e fuggire via da quell'appartamento. Già, fuggire. Non che fosse tardi o altro ma proprio perché, al di là di quella porta, si trovava Antonio.

Sbuffò. Da quanto non si parlavano? Anzi, da quanto non gli parlava?

Per un attimo, l'angoscia dell'esame, fu ingogliata da quella per lo spagnolo. L'ultima volta che aveva avuto un dialogo con lui era stato qualche giorno fa, durante la dichiarazione del riccio.

Al ricordo la mascella si contrasse.

No, non poteva farsi distrarre ora, non adesso. Afferrò la tracolla e la indossò. No, quel giorno doveva essere tutto perfetto, non poteva farsi distrarre da nessuno.

Ma l'idea che, aperta quella porta, avrebbe dovuto affrontare, anche se con quei silenzi, lo spagnolo; si sentiva un gran male nel petto.

Non ci ho pensato per giorni, non ci ho parlato... Perché devo preoccuparmene proprio ora?

Ciò sembrò convincerlo. Aprì la porta con decisione ma non appena vide il riccio, sdraiato sul divano dandogli le spalle, sentì l'ansia assalirlo.

E va bene, ho mentito, ho mentito! In questi giorni non ho fatto altro che pensarci, non ho fatto altro che pensare alle sue parole! E' impossibile che oggi riesca ad essere tranquillo!

Lo vide muovere placidamente la testa sul bracciolo, tanto che, il ramato,si irrigidì; pronto sia ad attaccare che a proteggersi.

Solo dopo gli ultimi dieci secondi che ne seguirono, finalmente, si rese conto che stava dormendo. Stese i muscoli e prese un sospiro di sollievo. Un sollievo che ci mise pochissimo a scomparire.

Si passò una mano sul viso, infastidito e confuso. Possibile che tutta quell'angoscia, quell'ansia, non fosse per l'esame ma per quello spagnolo sbracato sul divano?

Si avvicinò al suo giaciglio, incuriosito e allo stesso tempo timoroso. Ed eccolo, il volto di Antonio in tutta la sua stanchezza. Gli occhi erano chiusi ma quelle occhiaie non sembravano essere d'accordo, il volto era ancora pallido. Da quanto non vedeva più il suo colorito naturale, quell'olivastro che tanto adorava inconsciamente?

Da troppo tempo, evidentemente, ma la colpa era sua. Lui, Antonio, aveva sofferto solo per colpa sua. Anzi, non “aveva”, continuava a soffrire per lui.

E Romano, l'unica cosa che era riuscito a digli era stata: “dimentichiamoci di questa sera, è meglio per tutti.” Si abbassò alla sua altezza, completamente assorto in quei lineamenti.

Era questo il volto che, pochi giorni fa, l'aveva baciato?

Gli occhi, inevitabilmente, si posarono sulle labbra.

Erano state queste labbra, che apparivano così carnose e morbide, a baciarlo?

Ed erano state quelle mani, che adesso posavano pesantemente sul ventre, a toccarlo in quel modo? Erano state loro a fargli provare quelle emozioni?

A quei ricordi non poté che arrossire e provare, per l'ennesima volta, qualcosa. Ma, non seppe perché, non tentò di fermarla. Non tentò di fermare quell'emozione travolgente che lo stava percorrendo da capo a piedi.

Non tentò di arrestarla, non si sentì sciocco, non si sentì imbarazzato.

L'unica cosa che provò era attrazione. Attrazione e desiderio. Un desiderio enorme di quelle labbra sulle sue, di quelle mani sul suo cavallo, di quel viso posato sul suo.

Provò tutto questo e, per la prima volta da quando era iniziato tutto, non ebbe paura nel sentirlo. Anzi, per un attimo si sentì assurdamente felice.

Far parte della vita... E' dunque questo...?

Un pensiero sciocco ma che, in quel momento, gli parve così logico, così semplice. E bene, era questo vivere, rimanere a fissare quello spagnolo addormentato.

Si portò una mano al petto, confuso.

Non riusciva a darsi una spiegazione a tutte quelle emozioni, non riusciva e non voleva. Eppure la ragione glie lo gridava.

E' amore, è amore!

E non smetteva mai.

E' amore, è amore!

Ma, in quel momento, era troppo perso in tutte quelle emozioni, come drogato, tanto che non riuscì ad udire quella realtà.

E' amore, è amore!

 

Antonio si svegliò di colpo dall'udire sbattere la porta di casa. Si stropicciò gli occhi e guardò l'ingresso allucinato.

-”Romano...?”-borbottò assonnato.

Non vi fu risposta.

Che sia uscito?

Sospirò, come ormai di consuetudine non lo aveva nemmeno salutato. Scese dal divano e fece per dirigersi verso la cucina ma, un qualcosa, attirò la sua attenzione.

Fissò intensamente la porta della camera di Romano. Come lo attirava quella stanza, non ci entrava molto spesso da quando l'italiano era venuto a vivere lì dentro.

Inevitabilmente, senza nemmeno pensare a quanto il ramato si sarebbe potuto arrabbiare, posò i polpastrelli sul legno familiare della porta.

Sapeva benissimo che entrare gli avrebbe fatto solo male, vedere gli oggetti ed i vestiti di Romano quando nemmeno riusciva a rivolgergli la parola, che tristezza.

Ingogliò della saliva e si fece coraggio.

Spinse placidamente la porta che si aprì lentamente.

Davanti a lui si aprì un mondo completamente in disordine. Sorrise intenerito. Quell'italiano era un disastro. Entrò con timore ed attenzione, come se quel luogo fosse in qualche modo sacro, cercando di non disturbare la quiete di quel disordine stranamente organizzato.

Sì, organizzato, anche perché aveva in sé una sua logica. I vestiti, se pure ammucchiati, erano radunati tutti da una parte, così come i libri, i fogli.

Il letto...

Si arrestò difronte al giaciglio.

Il suo letto...

Il letto in cui tutte le notti dormiva. Quel momento di strana adorazione terminò nel notare che, anche su quel materasso in disordine, c'erano altri libri, matite.

Sbuffò, un po' infastidito da quel caos. Romano era davvero un disastro. La sua attenzione fu rapita da un calendario sbattuto malamente al suolo. Sospirò, lo aveva tutto spaginato, quel tonto.

Lo raccolse e lo rimise a posto. Ecco, al mese di dicembre.

Guardò con sorpresa tutti i giorni sbarrati, con una penna rossa, di quel mese. Con gli altri non lo aveva fatto, osservò. Tornò alla pagina di dicembre e gli occhi finirono sul l'ultimo giorno sbarrato.

“Esame Finale” gridava a caratteri cubitali.

Il calendario gli scivolò di mano.

O... Oggi...

Volse lo sguardo verso la porta.

-”Oggi è il giorno dell'esame!”-

 

Non ci aveva pensato su molto. In certe situazioni bisogna solo agire, giusto? E quella era una di quelle situazioni.

Con il gelo del vento invernale sul volto correva per la strada, nella ricerca disperata di quel ramato.

Va bene che avevano discusso, va bene che il loro rapporto, probabilmente, non sarebbe mai più tornato come prima ma, dell'esame, avrebbe anche potuto ricordarglielo.

Con il cuore che gli batteva all'impazzata sperò di trovarlo alla solita fermata che prendeva. Quante probabilità aveva di trovarcelo? Molte poche.

Si fermò di scatto, sbattendo contro un paio di persone.

-”Ma guarda questo!”-si lamentò uno, ma Antonio non vi fece caso. Posò lo sguardo sull'ora del suo cellulare. Se non ricordava male per il suo esame era ancora presto. Perciò doveva essere andato a fare colazione.

Per un attimo smise di respirare.

Sarà al pub?

Si morse un labbro. Non restava che provare, non voleva lasciarlo andare senza augurargli il suo "in bocca al lupo".

 

-”Ah! Perciò finalmente si è dichiarato! Ecco perché in questi giorni era un po' giù.”-esclamò Gilbert, posando i gomiti sul bancone.

Il pub era ancora chiuso ma sia il tedesco che il francese avevano deciso di andare al locale per parlare e bere un po'. E, proprio mentre preparavano da bere, si erano ritrovati l'italiano.

-”Ma come finalmente?”-esclamò Romano confuso ed agitato-”Volete dire che voi sapevate tutto?”-

Il tedesco sbuffò, stufo della durezza di comprendonio dell'amico.

-”Diciamo che se ne sono accorti un po' tutti.”-ridacchiò Francis.

Romano abbassò lo sguardo.

Tutti... Tutti? Tutti?!

-”Io non lo avevo capito...”-riuscì solo a dire, con la testa in confusione. Gilbert sbatté più volte il bicchiere sul bancone, infastidito.

-”Ah, ma che cavolo te ne frega? Ora lo sai! Perciò devi dargli una risposta!”-

L'italiano si sentì attaccato dalle sue parole.

-”Ma che diavolo dici, egocentrico del cavolo? Io già glie l'ho data una risposta a quello scemo di uno spagnolo! E poi sono a mala pena le nove del mattino e tu sei già ubriaco!?”-

Ciò sembrò zittire l'albino che, con sguardo distaccato e menefreghista, fissava avanti a sé. Le guance arrossate dall'alcool gli donavano un aspetto quasi bambinesco.

-”Perché c'è un'ora precisa della giornata per ubriacarsi?”-borbottò più per sé stesso che per gli altri.

Francis gli posò una mano sulla testa e ridacchiò.

-”Dai, Roma, non ti scaldare così, non vedi che ormai è andato?”-

Il ramato si morse un labbro. Adesso che gli prendeva? Alzava la voce con gli ubriachi? Sospirò e scosse il capo, nervoso.

-”Scusa è che...”-sbuffò, sotto lo sguardo di comprensione del francese-”...Non ci capisco più niente. Sono così dannatamente confuso...”-

Francis posò i gomiti sul bancone, sporgendosi in avanti, proprio davanti a lui. Romano fu costretto a guardarlo negli occhi ad una distanza che non gli piaceva molto.

-”Cerchi conferme?”-gli chiese allora, molto vicino al suo viso-”Ti posso assicurare che Antonio ti ama. Fidati, ti ama molto, fattelo dire da chi lo conosce.”-

L'italiano abbassò lo sguardo, arrossendo.

-”Già, da chi lo conosce...”-le spalle gli si abbassarono per lo sconforto-”Ma io non lo conosco! O almeno non lo conosco come lo conoscete voi due!”-fece indicando il biondo, davanti a lui, ed il prussiano che, intanto, se ne stava sbracato sul bancone poco più in là.

Francis sorrise.

-”Mi stai dicendo che fin ora non lo hai conosciuto?”-

Romano lo guardò disperato.

-”Come posso dire di conoscerlo, non è ancora passato nemmeno un mese da quando sono arrivato...”-

Il biondo, senza togliere quel sorriso, decise di andarci un poco più duro.

-”Però questo poco tempo ti è bastato per accettare Bella.”-

L'italiano rimase di sasso davanti quelle parole così dannatamente pesanti. Lo fissò, quasi volesse capire dove voleva arrivare con quell'affermazione crudele. Lo guardò, ed in quegli occhi vide solo un'immensa sofferenza, mascherata quasi alla perfezione, se solo non fosse che, in certi piccoli momenti, si lasciasse andare, mostrandola. Romano avrebbe voluto scoprire il motivo del suo soffrire. Ma come poteva scoprirlo se non riusciva nemmeno a capire i propri, di problemi?

Ed ecco, il francese era in attesa di una risposta alle sue parole che, più di un'affermazione, sembravano una domanda.

Romano lo sapeva, sapeva perfettamente che quello che c'era stato e che, in qualche strano modo, c'era ancora, con Bella, era sbagliato.

-”Con Bella è diverso...”-riuscì solo a dire. A Francis sfuggì una risata stanca.

-”E cosa? Il fatto che lei è una donna?”-

Ancora una volta rimase ferito dalle sue parole.

-”Oppure il fatto che Bella non l'ami mentre, Antonio, sì?”-

Proprio in quel momento il cellulare del ramato suonò nella sua tasca. Lo prese e nel leggere il nome sullo schermo avrebbe voluto non rispondere.

-”E' lei, vero?”-chiese Francis.

Romano non disse nulla, lo guardò come se fosse stato appena messo in trappola.

-”Allora rispondi.”-lo invitò duro-”Hai detto che l'ami, che con lei è diverso. Allora perché non rispondi?”-

L'italiano si morse un labbro, irato. In quel momento sentì di odiare profondamente il francese.

Il cellulare continuò a suonare nel silenzio del locale.

Lo odiava perché aveva fottutamente ragione.

-”Allora?”-lo stuzzicò ancora.

La suoneria continuava senza tregua mentre il ramato cercava di capire cosa volesse fare. Il biondo lo fissava serio, mettendolo sotto pressione.

Dannazione! Dannazione!

-”Oh, ma che cavolo! Volete zittire quel dannato aggeggio!? Mi sta trapanando il cervello!”-brontolò un Gilbert completamente annientato dall'alcool.

Proprio in quell'attimo il cellulare si zittì.

Silenzio.

-”Grazie!”-fece stizzito, lasciandosi cadere inerme dietro il bancone, sotto lo sguardo dei due. Francis, senza dire una parola, tornò a guardare l'italiano. Romano prese un grande sospiro per poi ricambiare.

-”Questa è una risposta?”-gli chiese, Francis-”La lascerai?”-

Il ramato si lasciò sfuggire un sorriso amaro.

-”Certo che la lascerò...”-scosse il capo-”Non l'ho mai davvero amata. Che sciocco...”-sussurrò posandosi una mano sulla fronte.

Era così dannatamente irritante ed imbarazzante doversene accorgere completamente davanti a quel maniaco. Eppure sentiva che, in qualche modo, lo aveva aiutato.

-”Che farai con Antonio?”-

Romano si sentì percorrere da una ventata di gelo. Si sentì nuovamente insicuro.

-”Non lo so...”-ammise.

-”Lo ami?”-

-”Come faccio a saperlo?”-

-”Bhè, io di certo non lo posso sapere. Ma se dici così allora qualcosa provi.”-

Romano serrò la mascella, buttano via anche l'ultima difesa, la sua ultima corazza, mostrandosi completamente nudo a quegli occhi azzurri.

-”Da cosa dovrei intuirlo...?”-sussurrò, ripensando con preoccupazione alle emozioni che aveva provato quella mattina. Quella domanda sorprese il francese.

Sorrise. Già, da che doveva intuirlo? Non lo sapeva, nemmeno lui sapeva come aveva fatto a capire di amare quel dannato inglese, anni prima. Sapeva solo che succedeva.

E quando succedeva erano guai.

Ma, Francis lo sapeva, a Romano era già successo. Lui già sapeva di amarlo. Com'era sciocco quell'italiano, amare una persona che lo ricambiava con tutto il cuore e non dichiararsi per orgoglio, per paura. Perché chi aveva le possibilità per essere felice non le sfruttava?

-”Romano, tu che ancora puoi, dovresti dirglielo...”-gli disse dolce.

Il ramato aggrottò le sopracciglia, sentendosi letto nel profondo. Era come se il francese gli fosse entrato nella testa.

-”E che dovrei dirgli?”-fece mentendo perfino a sé stesso.

-”Che lo ami, che vuoi vivere per sempre al suo fianco.”-

Vivere.

Vivere...

Lui che ne sapeva di “vivere”? Non aveva mai vissuto, non davvero. Come poteva dire di voler fare una cosa che non aveva mai fatto? Come poteva dirglielo se, nemmeno lui stesso, ne era sicuro?

-”Io...”-tentò di dire.

-”Non dire che non lo vuoi, sarebbe una bugia.”-lo rimproverò immediatamente.

Romano scosse il capo.

-”Come puoi dire di sapere certe cose di me se nemmeno mi consoci?”-

Francis sorrise.

-”Ma io ti conosco Romano. Tu sei l'italiano che vive nell'appartamento di Antonio, tu sei il ragazzo irritabile ed impaurito dalla vita, dalla felicità. Hai un gran cuore, anche se temi di mostrarlo. Non ho bisogno di conoscere il tuo passato per capirlo. Perché tu sei qui, davanti a me.

Sembra che sia tu, l'unico, a non conoscerti davvero.”-

L'italiano rimase colpito nel profondo. Qualcosa dentro di lui si mosse, un qualcosa che non sarebbe mai più tornata al suo posto originario.

-”Il primo ad averti davvero apprezzato è stato Antonio.”-Romano lo ascoltò con attenzione ed agitazione nel cuore-”Il primo ad averti davvero compreso è stato lui, vero?”-sorrise-”E' fatto così, sai? Entra nel cuore delle persone e lo purifica.”-

Romano si morse un labbro. Era vero, Antonio entrava nei cuori.

Antonio era speciale.

Antonio era il suo confidente.

Antonio era il suo irritante impiccione.

Antonio era il suo fastidioso amico.

Antonio era suo.

Suo, era solo suo.

Improvvisamente una porta si aprì davanti ai suoi occhi, come se d'un tratto tutto fosse divenuto più chiaro, più lucido e semplice.

Un sorriso si dipinse sul suo volto, un sorriso speciale, unico. Un sorriso che colpì il francese.

-”Antonio è la mia felicità...”-sussurrò, come se quelle parole fossero il segreto più grande del mondo. Francis sorrise confuso, non capendo.

-”Cosa?”-

Romano tornò a guardarlo.

-”Sono stato così stupido...”-disse, ancora con quel sorriso fatalmente bello-”Grazie!”-urlò quasi, stringendogli le mani nelle sue-”Grazie, ora so cosa fare!”-

Francis si sentì un po' confuso.

-”Bhè, di nulla... Sono contento di averti aiutato!”-

-”Ah! La fate finita!? Sto morendo per il mal di testa qui sotto!”-gracchiò Gilbert.

Romano non riusciva più a smettere di sorridere, si sporse da davanti al bancone, scorgendo la figura del prussiano.

-”Gil!”-fece sorridendo. L'ariano contorse la faccia in un'espressione di puro fastidio.

-”Ti prego non parlare così forte...”-brontolò distrutto.

-”Lo amo!”-fu l'affermazione dell'italiano.

Il francese fremette a quelle parole.

-”Lo amo!”-scoppiò a ridere-”E non ho paura di ammetterlo! Non ho paura di dirlo!”-

Francis rimase a guardarlo ridere, sentendosi felice per lui.

Sembra quasi un bambino...

-”Lo amo!”-

-”Sì, sì, ho capito! Ho capito!”-fece esasperato il prussiano-”Perché non vai ad urlarlo in faccia ad Antonio e la finisci di trapanarmi i timpani?”-biascicò ubriaco.

Ciò zittì l'italiano.

-”Dichiararmi...?”-sussurrò, voltandosi verso Francis.

-”Dio Santo, stai dicendo che non ci avevi pensato?”-borbottò, tirandosi su a fatica. Sbatté le mani sul bancone-”Smettila di rompere le palle e vai da lui!”-

Romano tornò a guardare sorpreso Gilbert.

-”Antonio sta soffrendo! Se davvero lo ami devi renderlo felice!”-fece con una serietà che però appariva grottesca mischiata con l'alcool.

Francis ridacchiò.

-”Touché!”-fece divertito-”Ha ragione lui, Roma. Va da Antonio e dichiarati. Hai molto da farti perdonare.”-fece malizioso. Romano arrossì.

-”Ehi, non ti aspettare niente di che, depravato.”-brontolò imbarazzato.

Ridacchiò ancora, afferrò il giaccone dell'italiano e glie lo lanciò. Romano lo afferrò.

-”Vai.”-tornò serio-”E rendilo felice, se lo merita...”-

Il ramato si infilò il giaccone, sorridendogli.

Poco prima di uscire dal locale si voltò a guardarlo.

-”Non so cosa ti sia successo ma sei una brava persona, Francis...”-gli sorrise-”Anche tu ti meriti tutta la felicità di questo mondo.”-

Il francese sentì le lacrime spingere agli occhi. Si sforzò di sorridere.

-”Grazie, Romano...”-disse con sincerità.

Ma io, la felicità, penso di averla persa tre anni fa...

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Note

Alleluia!! Il nostro italiano si è svegliato! Ci sono ancora molte cose da sistemare ma questo è già un passo avanti per Romano. Si dichiarerà davvvero, o avrà altri ripensamenti? Vi lascio con questo dubbio, alla prossima pubblicazione (anzi, mi scuso per il ritardo ^^""), baci a tutti!

Honodetsu:D

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Capitolo 17
*** 17 ***


Dovette riconoscere che era successo tutto molto in fretta ma non per questo si sentiva insicuro. E ciò lo riempiva di gioia. Per la prima volta nella sua vita non aveva dubbi, non aveva paura.

Lo amava e tanto gli bastava per farlo sentire calmo e sicuro di sé. Era vero, aveva tanto da farsi perdonare e tanto da confessare.

Sentì una voglia esasperata di vederlo.

Ok, con calma... E' vero, lo amo, ma non per questo comincerò a correre come un'idiota per la strada...

Ma intanto le gambe fremevano.

No, ho detto che non lo farò... Ho pur sempre un contegno, io...

Che cosa gli avrebbe detto una volta che se lo sarebbe ritrovato davanti?

Ecco, il primo segno di indecisione.

Scosse il capo. No, non ora, non ora. Non poteva avere paura ora, non adesso che stava finalmente cominciando a far parte della vita.

Basta soffrire, basta essere soli. Poteva far finire tutta questa sofferenza con un semplice “ti amo”, con un semplice “perdonami, sono un'idiota”.

Ma come la metteva con Bella?

Forse prima di confessarsi ad Antonio avrebbe dovuto chiudere definitivamente con lei. Già, in modo che la sua confessione avesse più senso, più credibile.

Arrestò la sua camminata verso l'appartamento.

Già, probabilmente era meglio fare così. Prese il cellulare dalla tasca. Dannazione, cominciava ad essere tardi e lui doveva dare il suo ultimo esame.

Guardò la via per l'appartamento con dolore. Certo, però prima di andare avrebbe voluto vederlo, sentirlo. Bhè, in fondo se lo meritava. Antonio aveva sofferto tanto, toccava un po' anche a lui.

Diede le spalle all'appartamento, con il cuore dolorante, dirigendosi verso il suo futuro.

 

La porta del locale si aprì con un rumore molesto. Uno spagnolo affannato e provato si accigliò sulla soglia.

-”Romano!”-

Ma quel che vi trovò non fu l'italiano.

-”Oh, no, non anche lui! Ma che volete da me? Dannazione che brutto giorno per ubriacarsi...”-brontolò ancora ubriaco il prussiano, portandosi una mano alla bocca sentendo l'alcool tornare su.

Antonio, con sguardo sbigottito, guardò ammutolito Gilbert.

Il rumore di uno sciacquone interruppe il silenzio, seguito dalla porta del bagno aprirsi. Ne uscì il francese. Non appena vide la figura dello spagnolo sorrise. Fece per aprire bocca che Gilbert si precipitò in bagno. Ancora silenzio, come colonna sonora il vomitare del tedesco.

Dopo un paio di secondi tornò la pace.

-”Ehm...”-fece Francis, cercando di ignorare quella scena-”Che piacere vederti. Come mai qui?”-

Antonio si riscosse.

-”Ce... Cercavo Romano, lo hai visto?”-gli chiese, avvicinandosi al bancone. Poi passò lo sguardo verso il bagno-”Ma sta bene, Gilbert?”-

Il francese sorrise ed alzò le spalle.

-”Sì è ubriacato, se l'è cercata... Comunque, sì, è passato di qui Romano. Ma se ne è andato qualche minuto fa.”-

-”Cavolo!”-imprecò, sbattendo un pugno sul bancone.

Il francese gli sorrise complice, attendendo che cominciasse il suo sfogo. Lo spagnolo sospirò.

-”Scusami...”-fece riferendosi al pugno-”E' che speravo di incontrarlo, sai oggi c'è il suo ultimo esame e... E volevo augurargli buona fortuna...”-

Lo sguardo di Francis valse più di mille parole. Antonio sbuffò. Si era dimenticato che con lui era inutile fingere. Posò i gomiti sul ripiano, passandosi disperatamente le mani tra i capelli-”Ma chi voglio prendere in giro... Volevo solo parlargli, volevo vederlo... Non mi parla più da quando... Da quando...”-faceva così dannatamente male.

-”Da quando ti sei dichiarato a lui?”-terminò al suo posto il biondo.

Antonio alzò lo sguardo su di lui.

-”Come...?”-lo stupore fu ingoiato dalla rassegnazione-”Te l'ha detto lui, vero?”-

Chiuse gli occhi con dolore, come se riuscisse ad immaginare il volto, imbarazzato e terrorizzato di Romano, nel raccontare quell'episodio.

-”Chissà che cose orrende ti avrà detto...”-sussurrò, poi.

Francis sospirò, un po' indeciso sul da farsi. Era vero, si divertiva come un cane nel ritrovarsi ad essere il cupido della situazione, ma in questo caso era diverso.

Ma Romano non era andato da lui a cercarlo? Non avrà mica rinunciato?!

-”No, non ha detto niente di cattivo si di te, era...”-gli sorrise appena-”Era solo molto confuso...”-

Finalmente Antonio alzò lo sguardo, sollevando un poco il capo verso di lui. Quel sorriso grande ed esasperato fece fremere il francese.

-”Però, sai, sono felice.”-Francis aggrottò le sopracciglia-”Sono felice di averglielo detto, adesso, dopo tanto tempo, riesco di nuovo a guardarmi allo specchio.”-dai suoi occhi, stranamente ed assurdamente felici, uscirono delle lacrime. Delle lacrime che però, il francese capì con stupore, erano davvero di gioia.

Di una gioia che non riusciva a comprendere, di una felicità che gli dava quasi fastidio.

-”...Dirglielo è stato come riuscire finalmente ad accettare il “nuovo” me stesso...”-

Perché era così contento? Perché, se Romano non lo aveva ricambiato?

-”Ed anche se non mi amerà mai, io gli devo molto...”-

Come può dirlo? Non deve proprio niente a quel tonto italiano! Anzi, è proprio Romano che deve tanto a lui!

-”Perché mi ha reso quello che sono.”-

Quell'affermazione troncò di netto ogni pensiero di Francis. Lo aveva reso quello che era. Come poteva essergli debitore? Come poteva amarlo ugualmente se lo aveva rifiutato in quel modo?

Ma, soprattutto, come poteva provare quella gioia?

Era così assurdamente pazzesco, impossibile. Eppure lui era felice. Cos'era quel qualcosa di fastidioso che provava nel guardarlo?

Invidia?

Guardò intensamente lo spagnolo, quasi cercasse di rapirne la gioia.

Perché anche lui non poteva sentirsi così? Perché a lui non bastava aver avuto quell'inglese tra le braccia? Dopo tutto, il francese, aveva avuto il suo amore per molto più tempo di Antonio.

Lo aveva baciato più volte di lui, lo aveva stretto a sé più volte di lui. Ma, nonostante questo, quel riccio era dannatamente felice.

-”Stai dicendo che non insisterai...?”-la voce gli uscì flebile alle sue stesse orecchie. Antonio lo guardò corrucciato, quasi cercasse di capire il motivo di quel tono di voce tanto debole.

-”Stai dicendo che è finita?”-gli chiese, questa volta cercando di non apparire tanto coinvolto interiormente. Vide lo spagnolo fremere sotto la pesantezza di quelle parole. Allora anche lui soffriva. C'era della sofferenza sotto quella felicità.

-”Romano non mi ama.”-fu la risposta tirata-”Gli farei solo del male. Tu insisteresti?”-

Francis lo guardò sconsolato, come se non si aspettasse quella risposta. Com'era possibile che quell'Antonio, quel riccio che conosceva da una vita, rinunciasse così.

-”Certo!”-rispose buttando all'aria la sua copertura e mostrandosi fin troppo coinvolto-”Certo che lo farei! Non potrei mai rinunciare! Non lo faccio tutt'ora!”-

“Non lo faccio tutt'ora”.

Quella sorta di confessione sorprese lo spagnolo, così come sorprese sé stesso. Serrò i denti, rendendosi conto che ormai era troppo tardi per starsene zitti, adesso avrebbe dovuto continuare. Ed, infatti, continuò.

-”Per quanto possa essere doloroso essere rifiutati, per quanto faccia male vederlo accanto a Bella, non puoi rinunciare!”-lo spagnolo sembrava come ipnotizzato da quelle parole e da quello sguardo così pieno di dolore e rancore-”Perché niente può far più male, niente è più doloroso, di vederlo andare via...”-

Antonio sospirò addolorato, capendo che stava parlando della sua stessa esperienza. Forse avrebbe dovuto non rispondere, forse avrebbe dovuto stare zitto, ma non vi riuscì.

-”Amore significa lasciare andare la persona che si ama... Per il suo bene, no?”-l'ennesimo sorriso accennato, finto. Così dannatamente finto.

Francis si zittì all'istante. Era vero, o almeno tutti affermavano così. Se si ama qualcuno bisogna pensare al suo bene.

Ed al mio, di bene? Al mio bene chi ci pensa, se non io stesso?!

-”Tutte stronzate...”-affermò, scuotendo la testa con rabbia, il francese. Antonio lo guardò con stupore. Cosa? Il romantico per eccellenza, diceva che erano tutte stronzate?

-”Mi rifiuto di accettare una simile idiozia! Mi rifiuto di credere che dopo tutto quello che si è costretti a sopportare, innamoramento, corteggiamento ed eccetera; mi debba ritrovare a frignare e a ripetermi “se lo amo, devo pensare prima al suo bene!”. Mi rifiuto! Non mi basta una simile affermazione! Una simile scusa!”-sbatté con rabbia i palmi sul bancone-”Perché devo essere costretto a vedere la persona che amo con un'altra? Perché devo essere costretto a vederla andare via?”-a quel punto la voce rancorosa prese a tremargli-”Fa fottutamente male... Ma tanto, che ci importa... Lui sta bene... La persona che si ama sta bene...”-

Abbassò il capo con dolore, tornando a pensare alla sua di pena, al suo di amore difficile.

Antonio si ritrovò a sorridere amaro. Quelle affermazioni erano i suoi stessi pensieri trasformati in parole. Parole che trovava terribilmente, irrimediabilmente, vere ma che, proprio per questo, non avrebbe mai detto. Strinse la mano contratta di Francis, tentando di rassicurarlo.

Infondo entrambi soffrivano per amore. Entrambi soffrivano per un uomo. Si sentì così sciocco, così idiota: lui, sempre stato il corteggiato di turno, ora piangeva per un uomo.

-”Vorrei avere la tua stessa fortuna...”-

Antonio lo guardò.

-”Quale fortuna?”-

Francis lo fissò dritto negli occhi, con sguardo stanco. Scosse il capo e sorrise. Si allontanò un poco.

-”Forse è meglio andare a tirare fuori dal bagno Gilbert...”-sorrise appena-”O quel che ne resta...!”-

Lo spagnolo rimase a fissarlo poco convinto.

-”Sì, forse è meglio...”-

Si passò una mano sugli occhi ancora umidi, scoprì che gli dolevano al contatto. Sentì la porta del bagno aprirsi ed i due amici parlare tra di loro.

Antonio sospirò.

Quale fortuna ho io?

 

Ricordo tutto...

La sensazione della carta tra le dita.

So tutto...

La sensazione di ruvido, di profumato e buono.

Non devo avere paura...

Le voci appena udibili che attraversavano le mura, fino a giungere alle sue orecchie.

Non devo averne...

Aprì gli occhi, quello che vide lo fece tornare all'assurda e dolorosa realtà. Davanti a lui la porta che apriva sulla stanza in cui avrebbe dovuto dare il suo esame.

Il suo ultimo esame.

La laurea.

La laurea!

Scosse il capo, distogliendo lo sguardo da quella porta e tornando agli appunti sulle sue ginocchia. Strofinò ancora i polpastrelli sulle ruvide pagine.

Aveva una paura folle.

Intorno a lui c'era altra gente, che condivideva la sua stessa paura. Eppure per lui era come se gli altri non esistessero. Per Romano era come se in quel mondo, in quell'istante che era andato a crearsi, esistessero solo lui e quella porta.

Intorno solo vuoto, solo buio. Lui galleggiava in un enorme spazio buio, con davanti quella flebile luce, la porta. La porta che apriva al futuro.

Una leggera vibrazione lo distrasse dalla sua paura, costringendolo a portare la mano in tasca. Nel leggere sullo schermo del cellulare in nome del fratello, si sentì stranamente sollevato, come se, per un lungo attimo, si sentisse rassicurato.

Aprì il messaggio proprio nel mentre, l'angoscia dell'esame, stava tornando per divorarlo.

Sai, Roma, stavo pensando che il motivo per cui non ti sei mai trovato bene a casa è che sei diverso. Diverso da noi, dalla famiglia e dalle tradizioni. Ma non in senso negativo, sai? Anzi, tu eri il “nuovo”, in tutte le sue forme, sia negative che positive. Forse per questo non sei mai stato apprezzato in pieno... Forse è per questo che non sei mai riuscito a vivere serenamente. Però, sai, alle volte per poter davvero vivere la vita, bisogna crearsela da soli. E sai, io spero tanto che tu ci stia riuscendo.”

Richiuse il cellulare con uno scatto, infilandoselo meccanicamente nella tasca.

Ecco, la paura ora era del tutto scomparsa.

-”Romano Vargas...?”-

L'italiano si asciugò gli occhi stanchi. Si alzò dalla sedia con serietà e decisione.

-”Eccomi.”-

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E Bella, in tutto questo evolversi, che fine farà?
Ed Antonio? Rinuncierà davvero a Romano, proprio ora che l'italiano si è reso conto di amarlo?
.... Ma soprattutto... Come è andata questa dannata storia tra il francese e l'inglese?

Honodetsu:D

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Capitolo 18
*** 18 ***


-”Pensi che sia giusto quello che facciamo?”-

Francis aprì gli occhi intorpiditi. Davanti a lui si mostrava la bellezza fatta uomo. Gli passò una mano sul volto, con delicatezza, come se fosse la persona più delicata di questo mondo. Lo strinse a sé, facendo scivolare il lenzuolo dal petto fragile e nudo dell'inglese.

-”A cosa ti riferisci, Arthur?”-

Le iridi verdastre si fecero più luminose, le sue guance si arrossarono.

-”Ecco... A quello che è successo questa notte... Io...”-

Francis sorrise a quella sua dolce indecisione.

-”Sei stato bene?”-gli chiese. Arthur si irrigidì sotto le sue braccia.

-”Io...”-

-”Sì...?”-aspettò con pazienza, gustandosi la sua presenza tiepida vicina al corpo. L'inglese mugolò qualcosa, un qualcosa che il biondo prese per un sì. Chiuse gli occhi azzurri.

-”Allora non c'è niente di sbagliato. E' tutto dannatamente perfetto.”-

Arthur affondò il viso sul suo petto.

-”Francis...?”-

-”Sì, amour?”-gli chiese con gli occhi ancora chiusi.

-”Credo di amarti...”-

 

Strinse le mani intorno al bicchiere.

-”Fra... Francis... Questa dannata nausea non mi passa più!”-brontolò Gilbert dal bagno. Il biondo accennò un sorriso falso.

-”Hai detto tu di voler bere, te la sei cercata! Lo sai che ti succede.”-gli urlò da dietro il bancone. La risposta fu l'ennesimo conato.

Francis tornò ai suoi pensieri dolci e tristi. Come avrebbe voluto non ricordare, eppure, mentre lo faceva, riusciva a sentire tutte quelle maledette sensazioni che gli mancavano.

Allora, debole di carattere com'era, chiuse appena gli occhi; lasciandosi trasportare dalla corrente dei ricordi.

 

-”Dannato francese! Ma perché perdo tempo con te?”-brontolò Arthur con le valige tra le mani. Francis sembrava fuori di sé per la gioia. Lo baciò frettolosamente sulle labbra.

-”Che fai, idiota!? Siamo all'aeroporto, c'è gente!”-

-”Ma che ti importa, amour? E' da tanto che non di vediamo, mi sei mancato terribilmente...”-fece malizioso, scrutandolo dall'alto al basso.

L'inglese sembrò arrossire.

-”E' vero... Ma quest'estate rimarrò di più qui in Spagna.”-sorrise con uno di quei sorrisi che non regalava spesso-”Ci rifaremo del tempo perso.”-disse distrattamente, cercando di non fargli notare quanto ci tenesse a stargli accanto. Francis sorrise innamorato.

-”Quando potrai trasferirti a Madrid?”-

Arthur sembrò incupirsi.

-”Io...”-

 

L'ennesimo conato, seguito da uno strano rumore, lo distolse dal suo ricordo. Sbuffò un po' infastidito, posando il bicchiere che aveva tra le mani.

-”Gil, sei ancora vivo?”-chiese irritato.

-”Vorrei non esserlo...”-borbottò esausto.

Francis sospirò.

Non riuscirò mai a dimenticarlo...

Quel fantastico inglese conosciuto un'estate al parco, per pura fortuna. Quel fantastico inglese di cui si era innamorato perdutamente. Quell'Arthur che, ogni fine estate, lo lasciava con la promessa che, alla prossima bella stagione, sarebbe tornato.

E lui lo aspettava, lo aspettava con un'amore ed una pazienza immensa.

Come soffriva ogni volta che quel dannato ultimo giorno estivo arrivava e doveva accompagnarlo all'aeroporto, dirgli addio. Dirgli ti amo così tante volte, sperando che non se lo fosse mai scordato.

Sentirsi distrattamente ogni tanto al cellulare, durante il resto dell'anno.

Ormai tutto quello, che era partito come una cosa temporanea all'attesa del suo trasferimento a Madrid, era entrato a far parte della routine.

Finché, anche quegli ultimi contatti si ruppero. Finché non si ritrovò ad aspettare invano, una tragica estate; l'arrivo di Arthur.

Strinse gli occhi, nella speranza che quel ricordare, un giorno, cessasse.

 

Era finita, era davvero finita.

L'ultimo esame di Romano era quel giorno e, molto probabilmente, una volta concluso se ne sarebbe andato. Avrebbe lasciato l'appartamento, quella stanza tanto incasinata sarebbe tornata vuota e silenziosa e lui sarebbe rimasto solo.

Solo.

Solo nel suo immenso dolore, nella sua immensa stupidità.

Era meglio tacere, Romano non doveva sapere...

Più lo pensava e più si rendeva conto che, no, invece era stato immensamente felice di dirglielo. Più si dava dello stupido più continuava a pensare al suo italiano.

Al suo ramato.

Perché “suo”? Chi l'aveva deciso? Romano non era suo e non lo sarebbe mai stato. Romano era di Bella. Sentì una rabbia crescente invadergli le membra.

Si fermò, in mezzo al marciapiede innevato. La gente passava tranquilla, senza preoccupazioni, ignorandolo. Già, ignorandolo. Si portò una mano sul petto.

Ma lui esisteva? Oppure la sofferenza lo aveva reso invisibile, inesistente? La gente poteva vederlo? Poteva toccarlo? Poteva amarlo?

Sentì le gambe cedergli. Chi, mai in tutta la sua intera esistenza, lo aveva davvero amato? Chi? Antonio rimase immobile, senza riuscire a percepire niente al di fuori dei suoi interrogativi. Il vento, che in quel momento soffiava appena, gelido; non riusciva nemmeno a percepirlo lontanamente. La stessa cosa con la neve sotto i suoi piedi.

Gli sembrava di essersi ritrovato in un vuoto pallido e malato, in una caduta perpetua.

Chi mai mi ha davvero amato? Nemmeno i miei genitori... Bella, le ragazze passate... Nessuno...

Continuava a sentire quella terribile sensazione di cadere nel vuoto, ritrovandosi a sperare, con decisione disperata, di riuscire a toccare finalmente il fondo.

Di arrivare alla fine di tutto quel vuoto e, magari, di riuscire a rialzarsi.

Ma non sembrava esserci fine alla sua caduta.

Dannazione, quello che volevo era solo trovare qualcuno che mi amasse, così come amo io, ma in un modo un po' più speciale...

La gente continuava a passare per il marciapiede, finendogli qualche volta, per errore, addosso. Ma non si fermavano di certo, continuavano la loro camminata tranquilli e decisi, verso la loro meta.

Quello che volevo era essere la persona speciale di qualcuno...

L'ennesima spallata lo fece squilibrare in avanti, rompendo quella caduta interiore. Si voltò, come se si fosse reso conto, solo in quel momento, che la vita continuava. E che lui, irrimediabilmente, ne faceva parte.

-”Antonio...”-

Lo spagnolo fissò il volto di Bella, con neutralità.

Che ci fa lei qui?

Guardò a terra.

Ah, giusto, qui vicino c'è l'appartamento... Sarà venuta qui per Romano. Perciò nemmeno lei sapeva dell'esame...

Lo pensò con placidità, come se quei pensieri non lo toccassero minimamente. Ma dentro, moriva.

-”Ti senti bene...?”-chiese. Lo spagnolo tornò a guardarla incolore. Sembrava preoccupata.

Lo sei davvero, Bella? Sei davvero preoccupata per me?

Già, se lo chiese, ma capì che in realtà non gliene fregava niente. Che fosse sincera o meno quell'espressione, non gliene poteva importare nemmeno minimamente.

Si voltò, dandole le spalle, senza nemmeno degnarla di una risposta. Camminando placidamente verso casa. Non è che non avesse la forza, o il coraggio, di parlarle e che gli sembravano così inutili le parole, arrivati a questo punto.

-”Ehi, Tonio, cos'hai? Aspetta!”-fece lei, stringendo un lembo del suo giaccone, nella speranza di essere ascoltata. Ma lo spagnolo si liberò dalla presa con facilità, riprese a camminare.

La belga prese a comminargli accanto.

Perché mi segue, cosa vuole?

La guardò appena, con la morte nel cuore.

-”Non ti posso vedere così, si può sapere cos'hai?”-

Un solo sospirò uscì dalle sue labbra.

Ma non era questo il tuo obbiettivo? Ridurmi così?

Arrivato al palazzo, accelerò un po' il passo, tentando di farle capire di rinunciare. Ma Bella non demordeva. Arrivò fino all'ascensore, credendo finalmente di essere riuscito a liberarsene ma, evidentemente, di sbagliava.

La belga riuscì ad entrare proprio poco prima che le ante si chiudessero.

Fantastico, sei piani chiuso lì dentro in compagnia di quella donna malefica. Posò la schiena su una parete dell'ascensore.

-”Cosa vuoi?”-chiese debolmente, senza nemmeno guardarla.

-”Cos'hai?”-fu la risposta.

Antonio la guardò con uno strano sorriso.

-”Che c'è? Speri che stia così per te?”-gli scappò una debole risata. Bella lo guardò seria-”Ti sbagli, sai? E' molto meglio che tu te ne vada.”-

La bionda gli sfiorò una mano.

-”Perché devi rendere tutto più difficile?”-gli sorrise-”Tutto questo soffrire potrebbe finire immediatamente... Basterebbe solo ammettere di amarmi.”-

Dal viso del moro scomparì anche quel misero sorriso che era rimasto. Scosse il capo.

-”Io non ti amo, Bella.”-

La belga contrasse leggermente la mascella. Sorrise nuovamente, uno dei suoi soliti sorrisi falsi.

-”Sei masochista o cosa?”-

A quel punto le ante dell'ascensore si aprirono. Antonio posò la mano sulla porta, alzò le spalle.

-”Me lo chiedo anche io...”-

L'aprì velocemente, ritrovandosi sul suo pianerottolo con la belga dietro.

-”Davvero, è meglio che tu vada, adesso...”-

Bella si irritò.

-”Non sono qui per te.”-disse solo, con tono di sfida.

Antonio infilò le chiavi nella toppa. Sospirò.

-”Lui non è qui...”-

Bella alzò un sopracciglio.

-”Lui...”-non riusciva a dire il suo nome-”Aveva un esame da dare...”-

La bionda sembrò turbata dalla scoperta. Per forza, non gli aveva detto niente Romano.

-”...”-sembrava non saper cosa dire-”Aspetterò qui.”-

-”No.”-

Aprì la porta dell'appartamento e fece per chiuderla ma, anche questa volta, Bella riuscì a fermarlo.

-”Antonio, si vede che sei al limite, rinuncia! Torniamo insieme, ti manco, si vede!”-

Lo spagnolo tentò di tirare a sé la porta, lasciandola fuori.

-”Non sai quello che dici, vattene, Bella! Sul serio!”-

-”No!”-

Riuscì ad entrare. La porta si chiuse con una botta secca e terrificante. Entrambi rimasero a fissarsi, senza trovare niente da dirsi.

-”Torna da me.”-

Antonio alzò gli occhi al cielo.

-”No.”-

-”Perché?”-

-”Perché è tardi, ormai.”-

-”Non è mai troppo tardi.”-

-”E questa dove l'hai sentita?”-gli chiese con un sorriso lieve, Antonio-”Te l'ha detto uno dei tuoi tanti spasimanti, poco prima che tu te ne andassi, nella speranza che non lo lasciassi?”-

Bella si morse un labbro, facendolo sbiancare.

-”Antonio...”-

-”E' tardi, ti dico.”-di portò le mani al capo-”Per certe cose non si può rimediare, anche se lo si vuole!”-disse, riferendosi ad altro-”Io... Vorrei solo che tu sparissi!”-

Bella scoppiò, mostrandosi finalmente per quello che era.

-”Non mi ami, non mi ami! Allora perché stai così male?”-gli si fece vicina-”Allora perché soffri quando sto con Romano? Perché non riesci più a sorridere?”-

Lo spagnolo fremette.

Non pronunciare il suo nome...

-”Come puoi dire di non amarmi se, quando Romano mi si avvicina, ti innervosisci?”-

Ti ho detto non non pronunciarlo...

-”Perché sei rimasto così sconvolto quando ci hai visti baciarci?”-

Antonio la fissò intensamente. Il ricordo di quella sera si fece intenso. Quel bacio, quel Romano. Quel Romano così simile, a come lo conosceva, ma così diverso.

Ma perché sentiva di amarlo in tutte le sue forme? Che siano giuste o che siano sbagliate. Che siano dolorose o che siano piacevoli. Amava tutto di lui, ogni singola cosa.

-”... Perché hai scelto proprio lui?”-chiese flebile, con nella mente il suo volto-”Perché proprio quel ragazzo?”-

Perché? Lui non se lo merita! Lui vale tanto!

Bella cominciò a temere quelle parole. Che cosa stava dicendo? Scosse le spalle.

-”Perché no? Uno vale l'altro.”-

Antonio la guardò con rabbia e sorpresa.

Uno vale l'altro, eh?

Uno vale l'altro...

-”Allora anche io... Anche io non sono importante, vero? Anche io valgo come gli altri, per te, giusto?”-Bella fece per parlare ma il riccio l'anticipò-”Allora lasciami libero. Lasciami stare. Ama Romano!”-finalmente era riuscito a pronunciare il suo nome.

Bella fece un passo indietro, confusa ed umiliata.

-”Sciocco, è ovvio che tu per me sei speciale. Ma... Ma perché tiri sempre fuori Romano? Cosa centra? Che ti importa di lui? Perché ti preoccupi tanto?”-

Perché lo amo, lo amo, lo amo!

-”Tu non lo conosci, non hai idea di quale persona meravigliosa tu possegga! Ama lui, amalo davvero. Fallo sentire speciale e fargli aprire gli occhi, fagli capire quanto sia bella la vita.”-sentì gli occhi inumidirsi.

Ma sì, è la cosa più giusta da fare... Romano ama Bella... La natura dice così: donne con uomini e uomini con donne...

-”Amalo come dici di amare me... Ti prego...”-

Donagli l'amore che io non posso donargli...
La belga lo guardò appena.

-”Mi stai pregando di amarlo? Ti rendi conto di quello che dici?”-gli chiese confusa.

Lui sospirò. Effettivamente suonava un po' folle così. Ma, infondo, che importava? Tanto tutta la situazione che era andata a crearsi era folle.

-”Perché dovrei farlo? Io, tutto questo, l'ho fatto per avere te, non Romano.”-

Antonio strinse la mascella.

-”Bella...”-tentò di parlare.

-”Non sarà che...”-si fermò, scrutandolo con timore. Il riccio non abbassò lo sguardo. Sapeva che aveva capito, aveva capito tutto.

-”Ti prego... Abbine cura...”-

Gli occhi della belga si sgranarono.

-”No... Antonio, no...”-farfugliò esterrefatta-”Non può essere vero. Dimmi che non è come penso!”-

Lo spagnolo arrossì, abbassando un poco lo sguardo. Non riusciva a dire niente. A cosa serviva confermarlo o negarlo? Ormai Bella se ne era accorta. Sapeva del suo amore per Romano.

-”Ti prego, vattene.”-riuscì a dire, con una decisione che fu sconosciuta perfino a sé stessa.

Bella abbassò il capo, capendo finalmente tutto. Ecco il perché di quegli sguardi, ecco perché quella gelosia velata negli occhi del riccio.

Lo guardò.

-”Da quanto?”-chiese, ancora scioccata.

-”E' importante?”-chiese lui.

Lei abbassò il capo, pensierosa. Effettivamente aveva sospettato qualcosa ma mai avrebbe immaginato che fosse vero. Si portò una mano alla bocca.

Ecco perché Romano parlava sempre di lui.

-”Lui...”-Antonio alzò lo sguardo su di lei-”Lui, Romano... Ricambia?”-

Antonio la guardò strano. Lo stava prendendo in giro?

-”Lui ama te.”-fu la risposta imbarazzata ed irritata del moro.

Bella cominciò a sentirsi a disagio.

Non è vero... Lui... Lui non mi ama. Anche lui mi stava usando, mi stava usando solo per sé stesso...

Si portò entrambe le mani al viso, rendendosi conto che, per la prima volta, era stata lei quella ad essere usata. Per la prima volta, un suo amante, voleva qualcun altro quando aveva lei.

Si sentì umiliata nel più profondo delle sue membra. Abbassò lo sguardo, quasi timidamente. Credeva di avere tutto tra le mani, credeva di avere tutto sotto controllo. Invece.

Guardò con occhi diversi Antonio. Adesso quello che vedeva era un ragazzo stupendo, un ragazzo che desiderava ardentemente. Adesso, per la prima volta in vita sua, guardava e desiderava un uomo che, sapeva, non sarebbe mai stato suo.

Sentì gli occhi bruciare.

Per la prima volta stava provando dolore. Per la prima volta stava provando dolore per amore. Cercò di tornare in sé e di frenare le lacrime.

Guardò ancora Antonio. Sembrava così provato.

Ma che stava facendo? Lo stava facendo soffrire così tanto. Come aveva potuto lasciarlo, tempo addietro? Come aveva potuto ferirlo così?

Si portò le mani al cuore e, con sorprese immensa, lo sentì battere acceleratamente. Si portò le mani al viso e si scoprì calda, imbarazzata, impotente.

L'ho perso...

Che cosa stava facendo ancora lì? Era inutile continuare a recitare, la sua maschera era caduta.

Ora era nuda.

Era nuda di fronte ad un uomo che nemmeno la desiderava.

-”Hai ragione.”-si diresse verso la porta con vergogna e smarrimento-”E' meglio che vada...”-

Antonio rimase a fissarla. Non l'aveva mai vista così.
Lei, che era così arrogante e piena di sé, aprì la porta, silenziosa, ed uscì umile.

 

Romano uscì dall'edificio che era ormai pomeriggio inoltrato. Si sentiva terribilmente svuotato. Guardò la laurea che teneva tra le mani.

E' mia...

Rimase a fissare dritto davanti a sé, un qualcosa, che solo lui sembrava poter vedere.

E' fatta...

Si passò una mano sul viso.

E' fatta!

Un sorriso enorme gli si delineò sul volto.

Oh, mio Dio!

Scoppiò a ridere, stanco e terribilmente felice. Aveva finito in grande stile, aveva terminato quei cinque anni di studio. Si strinse nelle spalle, cercando di contenere la felicità.

Antonio!

Afferrò il cellulare per chiamarlo ma si fermò. Non poteva, prima di parlargli doveva sistemare la questione con Bella. Sorrise. Sì, prima terminava con la belga e prima sarebbe andato da Antonio.

Chiuse gli occhi, incapace di contenere tutta quella gioia.

Non poteva crederci. In così poco tempo era riuscito a laurearsi ed ad innamorarsi perdutamente di quello spagnolo. Arrossì. Capendo quanto idiota fosse stato in quel mese.

Prese a camminare verso l'appartamento di Bella. Per la strada luci natalizie e musica. Si sentiva così sciocco ma gli veniva da ridere.

Mai, come in quel momento, amò tanto quelle lucine e quelle musichette natalizie. Mai amò così tanto la neve, il vento freddo sul volto, i bambini che ridevano e le mamme che li rimproveravano.

E si rese conto che l'unico che doveva ringraziare era Antonio. Era lui che lo aveva fatto svegliare, era l'amore che provava per lui che gli aveva fatto aprire gli occhi.

Mai, si rese conto, aveva amato così tanto la vita.

La mia vita!

 

Arrivò davanti alla porta aperta dell'appartamento di Bella, che trovò solo valigie. Aggrottò le sopracciglia. Che stava succedendo?

-”Bella?”-chiese affacciandosi.

Una belga in lacrime si delineò nella penombra dell'appartamento vuoto.

-”Ehi,”-chiese confuso, avvicinandosi a lei-”che succede?”-

Bella, solo in quel momento, sembrò rendersi conto della sua presenza. Lo guardò con rabbia e fastidio. Chiuse anche l'ultima valigia e la mise di lato.

-”Che sei venuto a fare?”-chiese gelida, asciugando velocemente le lacrime. Romano sentì il fiato mancargli. Posò nuovamente lo sguardo sulle valigie.

-”Cosa sono quelle?”-

Lei serrò la mascella.

-”Bagagli, valigie, non vedi?”-disse stizzita.

L'italiano le si avvicinò ancora un po'. Che diavolo le prendeva?

-”Dove te ne vai?”-

-”A casa, in Belgio.”-rispose lapidaria.

-”Perché?”-

Lei lo fissò rancorosa, con rimprovero.

-”Mi stai prendendo in giro?!”-alzò la voce.

-”Calmati, Bella, io...”-

-”No, non mi calmo!”-afferrò le ultime cose e portò le valigie fuori-”Vattene via, il tuo posto adesso non è qui!”-disse con una nota di apprensione e dolore.

Romano sgranò gli occhi seguendola con lo sguardo.

-”Che intendi dire? Aspetta, Bella, calmati... Che cosa ti è successo?”-

Lei si girò verso di lui in lacrime.

-”Perché sei qui?”-fece esasperata-”Non dovresti consolare me, cavolo!”-

Romano rimase di sasso, incapace di spiccicare parola. La belga si passò le mani sul viso in lacrime.

Prese un grande sospiro.

-”L'ho perso, d'accordo?”-fece, tornando dura e gelida-”L'ho perso per causa tua.”-Romano si sentì percorrere da un'ondata di dolore misto a piacere-”Per sempre...”-

Deve aver scoperto quello che è successo con Antonio...
-”Mi dispiace...”-abbassò un poco il capo. Infondo, riusciva a comprendere il suo dolore. Bella si morse un labbro. Come odiava Romano, come lo odiava e come lo invidiava.

-”Non è vero...”-l'italiano la guardò interrogativo-”Come potresti?”-sorrise appena-”Io non lo sarei al tuo posto.”-prese un sospiro-”Già... Non lo sarei per niente...”-

Per un attimo si sentì indeciso sul da farsi. Cosa doveva dire? Infondo, Bella faceva bene ad odiarlo.

Le prese una mano.

-”Voglio chiederti scusa.”-

Lei sembrò sinceramente sorpresa di quelle parole.

-”Voglio chiederti scusa per essere stato con te nonostante avevo ben altri pensieri...”-arrossì per la vergogna-”Ti ho usata... Perdonami.”-

Bella rimase a fissarlo con dolore. Come poteva chiederle scusa? Insomma, chiedeva scusa a lei, la sua becchina? La donna che aveva complicato tanto il suo rapporto con lo spagnolo? Lei che li aveva missi l'uno contro l'altro?

Ciò la umiliò ancora di più. Afferrò le valigie.

-”Spero che sarete felici insieme.”-disse solo, neutrale.

Romano la fissò allontanarsi.

-”Non accetti le mie scuse?”-le chiese appena.

Lei fermò la sua camminata ma non si voltò. Dannazione, Antonio aveva ragione. Era una brava persona quell'italiano.

E proprio per questo lo odiava ancora di più.

-”Vattene da Antonio.”-voltò appena il viso-”Adesso sta soffrendo... Rendilo felice.”-

Riprese a camminare. Il ramato continuò a fissarla.

-”Sai, nonostante tu abbia fatto quello che hai fatto, non ti odio.”-

La belga si sentì colpita. Non si fermò di nuovo.

-”Capito, Bella?”-le urlò quando scese in strada-”Non ti odio!”-

Va al diavolo, tu quell'idiota di Antonio!

Una lacrima di dolore, ed amore immenso, le rigò il viso.
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Note

Bella è uscita di scena... Adesso come si risolveranno le cose?

Honodetsu:D

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Capitolo 19
*** 19 ***


Idiota!

I muscoli stesi allo spasmo, i piedi affondavano nella neve.

Sono un'idiota!

Per troppo tempo aveva mentito a sé stesso, per troppo tempo aveva ignorato i segnali che il suo cuore gli aveva inviato.

Come ho fatto a non rendermene conto?!

Ogni singola volta che quello spagnolo gli si avvicinava, ogni suo singolo tocco, gli facevano dimenticare i suoi problemi.

Davvero, come ho potuto mentire a me stesso per tutto questo tempo?

Ogni singolo sorriso, ogni singolo sguardo, gli facevano sobbalzare il cuore.

Dalla prima volta che lo aveva visto, quella sera che si erano scontrati per strada; e dopo ancora, nell'appartamento, il suo cuore aveva intuito qualcosa.

Aveva provato qualcosa.

Un qualcosa di così intenso e grande che era impossibile non notare. Eppure.

Come ho potuto?!

Eppure lui lo aveva sempre ignorato. Aveva sempre messo da parte quell'emozione, forse per orgoglio, forse per paura.

Paura...

Già, per paura, per insicurezza, per vergogna. Per stupidità.

Li aveva ignorati, quei sentimenti, senza nemmeno accorgersi che, così facendo, stava ignorando anche quelli di Antonio. Quante volte, per semplice vergogna ed orgoglio, lo aveva trattato male anche se non se lo meritava?

Quante cattive e velenose parole gli aveva rivolto?

“Non ti impicciare”, “ma cosa te ne importa a te?”: queste erano le risposte crudeli a semplici domande su di lui, sulla sua vita.

Ma Romano lo sapeva.

Già, lo sapeva, lo sapeva bene. Soprattutto ora che se ne stava a correre, proprio in barba al suo orgoglio che; solo poche ore prima, gli aveva gridato di non farlo, se ne rendeva pienamente conto.

Per poterlo abbracciare, per poterlo rassicurare, avrebbe fatto di tutto. Per potergli gridare tutte quelle cose che non gli aveva mai detto, per donargli tutte le cose che si era sempre meritato e che non gli aveva mai dato. Già, ora se ne accorgeva completamente, con il fiato spezzato ed i muscoli che gli dolevano.

Antonio era la sua salvezza.

Antonio era la sua vita.

Una vita che aspettava solo di essere vissuta e Romano era lì, sì, per la prima volta lui c'era, lui era lì; in prima fila. Per la prima volta correva verso il futuro, verso la vita, con la testa alta e con un sorriso. Un sorriso fottutamente largo, fottutamente sicuro.

Perché niente ora poteva più fermare il suo vivere, il suo amore. Niente. Nessun incendio, nessuna morte, niente.

Davanti a lui solo una distesa bianca, innevata, cosparsa di luci ed odori natalizi. Di gente che rideva e che andava su e giù.

E per la prima volta Romano si sentiva far parte di essa, far parte della vita; del paesaggio, ma non come semplice albero, non come semplice arredo.

Ma come persona.

Lui, finalmente, faceva parte della vita.

E proprio mentre si rendeva conto di questo, si scontrò contro un semplice inglese. Passato di lì, forse per caso; come continuava a ripetersi tanto.

Il povero biondo cadde a terra, affondando nella neve, ed ignorato da quell'italiano completamente inebriato di vita.

 

Ormai era sera. Il cielo si era oscurato, rendendo la sua solitudine ancora più nera ed intensa. Seduto sul divano, continuava a guardare nervoso la porta d'ingresso.

Cosa avrebbe fatto quando Romano sarebbe tornato? Cosa gli avrebbe detto?

Lo sguardo scivolò sul cellulare tra le sue mani. Dannazione, come avrebbe voluto chiamarlo. Come avrebbe voluto sapere come era andato il suo esame. Si passò una mano sul viso tirato. Sentì un'ondata di dolore avvolgerlo.

Se ne sarebbe andato, Antonio lo sapeva. Sapeva che una volta comparso da quella porta, Romano, avrebbe fatto le valigie e se ne sarebbe tornato in Italia.

Già, in Italia.

Non voglio che se ne vada... Non ce la farei a riprendermi... Già non ce la farei, ora che lui mi è così vicino...

Vicino. No, non era vero. Non gli era vicino per niente. Se no, in quel momento, sarebbe stato lì, accanto a lui. Eppure, Romano non c'era.

Si portò le dita alla bocca, ricordando con una sorda nostalgia quelle calde labbra sulle sue. Lo amava, lo amava alla follia. Strinse le mani tra i capelli.

Perché doveva andare così? Perché, se non doveva essere ricambiato, doveva amarlo così tanto? Non era giusto, non era corretto.

Si stese sul divano, affondando il viso sul bracciolo, nella speranza di distaccarsi per qualche secondo dal mondo.

Che ore erano? Era tardi, doveva andare a lavorare. Tentò di alzarsi ma non vi riuscì. Ma come poteva? Come poteva andare a lavorare sapendo che la ragione del suo vivere, da un momento all'altro, sarebbe tornato per poi sparire?

Sentì la disperazione farsi viva e l'amaro, da prima raggruppato tutto nella sua gola, espandersi ovunque, amareggiandolo completamente, irrimediabilmente.

Maledizione! Perché ti amo così, Romano?! Perché non posso odiarti?

La porta si aprì ed il suo cuore perse un battito.

Antonio non si movve, rimase sdraiato sul divano, a pancia in giù, fingendo di dormire. Non lo sentì dire nulla. L'unico suono che invase la stanza, fu quello dei passi dell'italiano che si avvicinavano.

Lo sentì poggiarsi appena sul bracciolo, a poca distanza dal suo capo riccioluto. L'angoscia prese a tormentare il povero spagnolo che, non avendo abbastanza coraggio per affrontarlo, continuava a tenere gli occhi chiusi.

-”... Antonio...”-sussurrò Romano. Ed il cuore dello spagnolo si riempì di una gioia sofferta.

Quella voce.

Quella voce bassa e stupenda.

Da quanto non la sentiva? Da quanto non gli parlava?

Nonostante, da una parte, avesse voluto rispondere; rimase in silenzio. Gli parve quasi di sentirlo sorridere.

-”Non importa.”-continuò calmo-”Se non vuoi, rimani ad occhi chiusi... Probabilmente sarà meglio per entrambi.”-

La mascella di Antonio si contrasse leggermente. Gli occhi ancora irrimediabilmente chiusi.

-”Sei disposto ad ascoltarmi?”-

-”...”-uscì un lieve mugolio, quasi un sospiro, dalle labbra del moro. Romano avvicinò una mano verso il suo capo, quasi nel tentativo di accarezzarlo. Ma la forza gli mancò, arrossì e riportò la mano sulla coscia. Prese un grande sospiro.

-”... Mio padre morì quando avevo solo sedici anni...”-

Gli occhi di Antonio si aprirono con uno scatto. Romano sospirò ancora, puntando lo sguardo sulla parete davanti a sé, cercando di mantenere alto il coraggio.

-”Vi fu un incendio al paese... Un incendio che non riuscirono a domare.”-

Antonio alzò lo sguardo ma si accorse che l'italiano non lo stava guardando.

-”A casa non c'era nessuno...”-sul suo volto continuava ad esserci un sorriso tirato-”Mia madre era andata al mercato, mio fratello a giocare al parco. Era rimasto solo mio padre a casa...”-gli occhi gli si fecero lucidi. Antonio tornò a posare la guancia sul cuscino del divano.

-”E tu...? Tu dov'eri...?”-chiese flebile.

Romano chiuse gli occhi, tentando di far cessare la voglia di piangere, per poi riaprirli.

-”Io...”-sorrise tristemente-”Ero con degli amici.”-scosse il capo-”Stavamo scrivendo sui muri di una casa.”-ridacchiò stanco, scuotendo appena il capo-”Lo facevamo spesso, scrivevamo sempre sulla stessa casa. Mandavamo ai matti quel pover uomo che viveva lì.”-

Antonio si lasciò sfuggire, a malincuore, un sorriso triste.

-”Sai,”-fece, riprendendo fiato, mentre la voce gli si incrinava-”ho sempre creduto che, se una nostra persona cara sta per correre un rischio, in qualche modo, dentro il nostro cuore, ce ne accorgevamo...”-l'ennesima lacrima scivolò lenta-”Ma sai anche un'altra cosa?”-abbassò lo sguardo verso Antonio, che intanto era tornato a guardarlo serio-”E' una stronzata...”-

Chiuse gli occhi ed abbassò lievemente il capo.

-”Una stronzata...”-sussurrò con dolore.

Lo spagnolo si tirò su, mettendosi a sedere per bene. L'italiano alzò le spalle, sorridendo, mentre le lacrime scendevano senza tregua.

-”Per la miseria, mentre lui se ne stava a morire, io, ridevo e scherzavo con i miei amici, quando avrei potuto benissimo starmene a casa!”-

-”Saresti morto anche tu...”-disse placidamente Antonio, turbato da quella confessione. Una lieve e debole risata uscì dalle labbra serrate dell'italiano.

-”Ah, morto, dici?”-alzò le spalle, tentando di mantenere le lacrime ed i singhiozzi-”E come fai a dirlo? Forse avrei potuto salvarlo, forse avrei potuto evitare che morisse in un modo così orribile.”-

Antonio avrebbe tanto voluto abbracciarlo, stringerlo a sé.

-”L'ultima volta che ci parlammo avevamo litigato...”-lo sguardo disperato di Romano si posò su di Antonio-”L'ultima cosa che gli dissi fu che lo odiavo.”-

Lo spagnolo fremette.

-”E mentre lo dicevo ci credevo, credevo davvero di odiarlo, capisci?”-le mani, posate debolmente sul ventre, si strinsero-”Credevo davvero che, senza di lui, la mia vita sarebbe stata migliore, che io sarei stato meglio...! ”-

Quegli occhi verdastri, così spalancati e pieni di lacrime, fecero crescere nel moro una voglia atroce di baciarlo; di zittirlo, e di fargli affogare quei dannati ricordi nel suo amore.

-”Romano...”-sussurrò, sentendo un enorme dispiacere invaderlo.

-”La cosa assurda è che quel giorno piansi...”-continuò l'italiano, chiudendo gli occhi con vergogna-”La cosa assurda è che, quando venni a sapere della sua morte, ci rimasi male...”-

Il ramato contorse il viso in un'espressione di pura vergogna e dolore.

-”Ci rimasi dannatamente male!”-

Antonio rimase ammutolito. L'unica cosa che poté fare fu quella di rimanere a fissarlo piangere. Che altro avrebbe dovuto fare, d'altronde?

Non poteva di certo avvicinarsi a lui, non poteva sfiorarlo, no. Almeno non senza fermarsi ad un semplice tocco di mano d'incoraggiamento.

No, lui non avrebbe voluto solo incoraggiarlo. Lui avrebbe voluto strappargli via quel dolore, quelle lacrime e quella vergogna a forza di carezze, a forza di baci.

Avrebbe tanto voluto farlo suo, stringendolo forte, facendogli capire che non era solo, che il suo dolore, con il tempo, si sarebbe affievolito.

Avrebbe voluto. Ma la realtà era diversa. La realtà gli gridava con crudeltà che Romano era come in un mondo distante ed irraggiungibile per lui.

Ma perché, l'italiano, si stava confidando con lui se da giorni non gli parlava? Perché aveva deciso, all'improvviso, di confidarsi?

Lo guardò ancora, incontrando solo il suo sguardo basso e lacrimoso.

-”Perché hai deciso di confidarti, così, all'improvviso?”-

Vide il volto del ramato contrarsi ed, irrimediabilmente, arrossire. Un colpo di dolorosa sorpresa invase il cuore del moro. Come poteva essere così dannatamente bello anche in lacrime?

-”Perché fino ad adesso ho sbagliato tutto...”-disse piano, quasi vergognoso. Antonio tentò di trovare un senso in quelle parole.

-”Hai sempre voluto sapere di me, del mio passato e del perché sono così...”-non riuscì a dirlo. Prese fiato-”Così solo e scontroso...”-

Romano raccolse tutto il suo coraggio e lo guardò in volto.

-”Ecco, ora lo sai.”-appena vide quegli occhi verdi, posati su di lui, sentì la forza mancargli. Arrossì-”Insomma, io...”-

Piombò il silenzio. Antonio che lo fissava e l'italiano che tentava di sfuggire al suo sguardo.

-”Mi dispiace per tuo padre...”-riuscì solo a dire, dopo tanto pensare, poi fece cadere lo sguardo.

Tutto qui?

Insomma, solo questo diceva? Lui, che per tutto quel tempo aveva insistito tanto, gli diceva solo che gli dispiaceva?

Romano sospirò. Ma certo, come poteva continuare ad interessarsi a lui dopo tutto quello che gli aveva fatto? Lo guardò con dolore, ritrovandosi a sperare che quegli occhi verdi tornassero a guardarlo. Ma non tornarono.

-”E' tardi per rimediare, vero?”-chiese in un sussurro.

Antonio si voltò a guardarlo. Scosse il capo e sorrise stanco.

-”Rimediare? E come?”-sospirò-”Tu vuoi solo essermi amico, o peggio, vuoi tornartene in Italia... Ed io...”-ridacchiò ironico-”Ed io, idiota che non sono altro, non riesco a far altro che pensare a come sarebbe averti tra le mie braccia...”-

Romano arrossì a quelle parole, si asciugò le ultime lacrime.

-”Te ne vuoi andare, vero? Per questo hai deciso di raccontarmi del tuo passato, solo per farmi un piacere... Per addolcirmi la pillola...”-

L'italiano arricciò il naso.

-”Chi ha detto che me ne voglio andare?”-

Antonio lo guardò sorpreso.

-”Perché dovrei andarmene? Qui si sta bene...”-arrossì, non sentendosi più sicuro sul fatto di volersi dichiarare-”C'è un tetto, c'è un letto, un bellissimo divano...”-lo guardò ed arrossì-”... Ci sei tu...”-

Il moro rimase a fissarlo sorpreso, tanto che Romano dovette abbassare lo sguardo.

-”Mi dispiace... Mi dispiace per averti rifiutato in quel modo. E mi dispiace anche per tutto quello che ti ho fatto passare... Non era mia intensione...”-

Lo spagnolo abbassò lo sguardo ed arrossì.

-”Cos'è, una specie di “scusa” gentile dirmi che mi vedi solo come un amico?”-sorrise-”Per tentare di non farmici rimanere troppo male?”-

Romano arrossì, vergognoso ed infastidito.

-”Cosa…? No, ma che ti inventi...!?”-borbottò nervoso-”Ah, ma ti stai zitto e mi fai finire?!”-

Il riccio si zittì all'istante. In quegli occhi verdastri intravide una flebile decisione. Una decisione che, seppur debole, lo fece trasalire.

-”Non me ne andrò. Quello che voglio è qui a Madrid... Quello che voglio...”-si bloccò, rosso e nervoso. Perché non riusciva a dirlo? Perché? Era il momento della verità. Doveva, doveva dirlo.

Antonio lo guardò confuso. Una strana e forte emozione gli invase l'animo, facendolo sentir di colpo più leggero. Ma così come venne, svanì.

Che voleva fare, quell'italiano? Se continuava a dire certe cose, il moro, avrebbe anche potuto cominciare a sperarci. E questa era l'ultima cosa che voleva: tornare a sperare ad un loro probabile futuro insieme. Un futuro che, sapeva, non ci sarebbe mai stato.

-”Non c'è nient'altro da dire, mi pare...”-ridacchiò, alzandosi dal divano-”Sono contento per te: ti sei laureato, sei così sicuro di te... Di quello che vuoi, ti sei finalmente aperto a qualcuno...”-sorrise, con uno di quei sorrisi solari che donava a tutti-”Lo sono davvero. Ma ora devo andare a lavoro...”-

Ma Romano non voleva quei sorrisi.

Non voleva quei fastidiosissimi, se pur sempre belli, sorrisi solari.

Lui voleva quei sorrisi dolci e grandi al punto giusto. Voleva quei sorrisi provocatori che donava solamente a lui.

Voleva il suo personale sorriso.

Il moro gli diede le spalle, andando verso l'ingresso. Ma, una presa decisa ed esasperata, lo fermò.

-”...”-non riuscì a dire nulla nel vedere la mano dell'italiano stretta intorno alla sua manica. Non riuscì a dire nulla quando lo vide avvicinarsi troppo.

Sentì le mani del ramato sui fianchi. All'improvviso la ragione si spense. L'unica cosa che vedeva era il viso, fatalmente bello ed arrossato di Romano, sempre più vicino al suo. L'unica cosa che riusciva a percepire chiaramente era il calore che il suo corpo emanava.

Un calore che sapeva di casa, che sapeva di sicuro.

Antonio sentì una terribile voglia di piangere.

Perché lo aveva desiderato tanto, davvero.

Perché, quello che stava accadendo in quel preciso momento, lo aveva desiderato da moltissimo tempo. E non gli sembrava vero, tanto che, nemmeno si chiese il perché di quel gesto da parte dell'italiano. Sentì le sue labbra morbide e schiuse sulle sue, ancora chiuse ed impreparate.

Le aprì subito, frettoloso ed emozionato, quasi temesse che Romano, impaurito da quel suo divieto, se ne andasse, smettendo.

Ma quel bacio sembrava non voler smettere. Antonio strinse i fianchi dell'italiano. Era bellissimo, incredibilmente dolce, incredibilmente naturale. Baciarlo gli trasmetteva emozioni mai provate. Romano si allontanò un poco dal suo viso e, Antonio, dovette smettere a malincuore.

-”Hai capito, ora?”-sussurrò il ramato, rosso in viso-”Io ti amo...”-

Dagli occhi dello spagnolo scivolò una lacrima, incredula e tremendamente felice.

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Note

Novità... Novità in arrivo dall'Inghilterra!

Honodetsu:D

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Capitolo 20
*** 20 ***


Quanto era passato dal suo trasferimento?

Due? Tre mesi?

Allora perché non riusciva a chiamarlo? Perché non riusciva ad avvertirlo?

Si strinse nelle spalle, sperando che quel dannato freddo invernale, prima o poi, si facesse meno intenso. Un brivido gelido gli percorse il corpo.

Perché aveva troncato i rapporti con lui? Non lo ricordava più. Era successo.

Da quanto non si parlavano?

Tre anni? Sì, dovevano essere tre anni. Ma gli era passata. Sì, gli era passata, non gli importava più niente di lui.

Allora perché ci pensava ancora? Allora perché si era trasferito a Madrid?

Il biondino alzò il capo verso il cielo scuro, notando i primi fiocchi di neve scendere placidamente al suolo innevato.

Allora perché, ogni singola volta che sentiva il cellulare squillare, sperava fosse lui?

Il ragazzo si riscosse. Che idiota che era. Se era arrivato a quel punto la colpa era solo sua. Era stato lui a troncare i ponti, era stato lui ad allontanarsi.

Si passò le dita tra i capelli, sentendoli soffici tra i polpastrelli. Gli occhi verdi acido si fecero tristi.

Non era vero, ricordava il perché lo avesse lasciato. Lo ricordava benissimo.

Un'amore sbagliato...

Un'amore sbagliato, già. Insomma, aveva rapporti intimi con un uomo, con un francese, per giunta. Si strinse nelle spalle, lui aveva sempre odiato i francesi. Ma quel Francis gli era apparso diverso. Forse era quel suo inglese terribilmente pulito, ma anche terribilmente sensuale; o forse era il vederlo parlare con gli altri in spagnolo, una lingua che, ai tempi, Arthur; non parlava bene.

Sì, forse era stata quella sua voce, quel suo modo di esprimersi, che lo aveva attirato tanto. Ora che ci pensava non lo aveva mai sentito parlare nella sua lingua madre. Mai una parola in francese.

Arrossì nel rendersi conto di starci a pensare troppo.

Lo aveva amato, ma allora era ancora giovane. Allora era ancora uno stupido bamboccio ricco e viziato, che passava le sue vacanze estive, per puro capriccio, in Spagna. Ma da allora era passato molto. Arthur non era più quello di un tempo.

Riprese a camminare.

Ma a farlo cambiare era stato proprio quel dannato francese. Sbuffò, infastidito dal suo stesso ricordare.

Come ogni dannata sera, si ritrovò a passare davanti a quel pub. Si affacciò appena alla finestra che dava all'interno, fingendo disinteresse.

Si odiava. Come si odiava.

Già, continuava a ripetersi che era passata, che non lo amava più, eppure.

Eppure, ecco lì, come ogni sera; affacciato a quelle dannata finestra di quello stramaledetto pub. Nella speranza di vederlo, di non dimenticare mai quei suoi lineamenti.

Questa è l'ultima volta. E' l'ultima volta che vengo qui, idiota, è l'ultima...

Ma era ormai da due mesi che continuava a ripeterlo. O erano tre?

Ed ecco, nella confusione generale del locale, spuntare un chioma bionda di media lunghezza, raccolta in una coda sfatta e tremendamente sublime.

Il cuore dell'inglese prese ad accelerare. Sorrideva in modo sensuale ai clienti e preparava da bere. Gli occhi di Arthur si fecero spenti nel vedere il solito albino giungere in suo aiuto.

Lo vide sorridergli sprizzante, lo vide toccarlo amichevolmente. Come odiava quel ragazzo dalla chioma chiarissima e dagli occhi dal colore tanto insolito. Come lo invidiava.

Come avrebbe voluto essere al suo posto.

Come avrebbe voluto essere lui quello a poterlo toccare in quel modo.

Come avrebbe voluto parlarci ogni giorno.

Strinse i pugni, sentendo giungere un dolore sordo dalla viscere. Diede le spalle, con fastidio e rabbia, a quella scena. No, non gliene importava nulla.

Non gliene importava più niente.

Quella era l'ultima volta, l'ultima volta che passava “per caso” in quella via, l'ultima volta che passava “per caso” davanti a quel pub. Prese a camminare a passo spedito verso casa.

Faceva così male, così maledettamente male.

Al diavolo quel francese.

Al diavolo quell'albino.

Al diavolo quel pub.

Per questo lo aveva lasciato, per questo si era allontanato. Per il semplice e fatale fatto che non sapeva niente di lui. Non gli aveva mai detto che avesse un pub, non gli aveva mai presentato i suoi amici, non aveva mai sentito parlare di quell'albino.

L'unica cosa che sapeva di lui era dove abitava, l'unica cosa che conosceva bene era il suo letto.

Non gli aveva mai raccontato del suo passato e, viceversa, Francis non gli aveva mai chiesto niente del suo. Sentì ribollire lo sconforto.

Per questo se ne era andato.

Erano estranei l'uno all'altro, nessuno dei due avrebbe saputo dire che vita vivesse l'altro.

E per quanto ne poteva sapere, Francis chissà quante volte lo aveva tradito. Chissà quante volte era andato a riscaldare letti di altri in sua assenza. Forse quello stesso albino era un suo amante.

No...

No, non poteva sopportare una simile relazione.

Non poteva sopportare l'idea di essere semplicemente e dolorosamente usato d'estate e poi essere dimenticato d'inverno. Che cos'era, un'animale da macello?

No, non poteva, soprattutto se quello che provava nei confronti del suo macellaio era amore.

Era l'ultima volta. L'ultima...

Continuava a ripetersi mentre saliva le scale.

L'ultima... Non lo voglio rivedere mai più...

Aprì la porta del suo appartamento.

L'ultima...

Si ridisse, chiudendo placidamente la porta alle spalle. Sentì una lacrima scivolare giù dagli occhi.

Già, l'ultima volta...

Si lasciò cadere a terra, scoppiando a piangere disperatamente. Nella testa ancora le stesse parole, le stesse dannate bugie.

Era l'ultima volta, l'ultima volta, l'ultima volta! Lo giuro!

Bugie che mentivano perfino a sé stesse.

 

-”Antonio non è ancora arrivato...”-brontolò Gilbert, mentre serviva da bere.

Francis tentò di ignorarlo.

-”...C'è tanta gente...”-brontolò ancora il prussiano.

Il francese continuò a non rispondere. L'albino ghignò.

-”...Sono stanco...”-fece nuovamente, guardandolo di sottecchi. Vide le spalle del biondo fremere, ne seguì un grugnito. Il tedesco sorrise tra sé, soddisfatto, per poi lasciarsi sfuggire un sospiro rumorosamente plateale, che arrivò come un calcio sui nervi, già tesi, di Francis.

Continuò con voce lamentosa.

-”Che fatica, come vorrei fare una paus...”-

-”Gilbert, non rompere!”-sbottò, nevrotico il francese, guardandolo in cagnesco. L'altro sbottò a ridere, forse terribilmente compiaciuto del suo operato.

-”Mi diverto troppo quando ti arrabbi.”-

Il francese sbuffò, ancora infastidito.

-”Sei un'idiota, Gil...”-fece, tentando di rimanere serio. Cosa terribilmente difficile se, davanti a sé, si ha un'idiota che continua a guardarti con uno sguardo tipicamente da ritardato.

Le labbra del biondo si stavano per tirare in un sorriso. Posò una mano sulla faccia dell'albino.

-”Finiscila di guardarmi così...”-disse, tentando di nascondere la voglia di ridere. Non voleva dargliela vinta.

-”E dai, fattela una risata!”-fece il prussiano, senza nemmeno levarsi la mano di Francis dalla faccia -”Non ti si regge più così musone!”-

Francis ascoltò distrattamente le sue parole.

-”Altri clienti, muoviti!”-fece lasciandogli la faccia e precipitandosi verso il suo lavoro. Gilbert per poco non cadde in avanti. Prese equilibrio, sbuffò e si grattò la testa.

Uffa, possibile che quando Antonio manca da lavoro, Francis, non gli dice niente; quando lo faccio io per poco non mi uccide...

Si diresse verso nuovi clienti con una faccia da cucciolo bastonato. Si fermò davanti ad un ragazzo che, già da un po', lo stava fissando, sperando di essere notato e servito. L'albino sbuffò e si trascinò fino a lui.

-”Che vuoi...?”-gli biascicò, quasi sbracandosi sul bancone. L'altro gli sorrise appena, notando immediatamente la stranezza di quell'individuo.

-”Due pinte di birra.”-fece, ignorando il fatto che il prussiano, tutto faceva, tranne che guardarlo in faccia. Il prussiano sembrò pensarci un po' su. Il ragazzo continuò, vedendo che non reagiva-”Sa, per me e per...”-

-”Sì, sì, ora arrivano...”-lo interruppe, uscendo dai suoi pensieri e preparando da bere.

Il poveretto rimase a guardarlo stralunato. Lo vide armeggiare con le pinte, tentando di non far cadere la birra ma con scarso successo. Quando l'ennesimo litro di birra gli cadde dai bicchieri, sbuffò esasperato. Si voltò nevrotico verso il collega.

-”Sai, Francis, Antonio non è qui. Sai per caso, dov'è?”-borbottò infantile e nevrotico, come stesse cercando di denunciare alla legge un crimine.

Il francese nemmeno si voltò a guardarlo, continuò con il suo lavoro. Sbuffò esasperato.

-”Bravo, Gil, hai fatto bene a farmelo notare. E' un cattivo bambino, che ci si può fare...”-posò i cocktail sul bancone-”Ma tu sei bravo, perciò dopo la mamma ti premierà con una caramella, ma ora non rompere!”-

Gilbert ridacchiò tra sé.

-”Grazie, mammina.”-rispose, bambinesco.

Riuscì finalmente a posare quelle due pinte di birra sul bancone. Sorrise al suo cliente che, intanto, lo guardava incredulo.

Gilbert continuava a sorridergli.

Vi fu un continuo scambio di sguardi. Il prussiano si irritò un poco, ma non tolse il sorriso.

-”Mi si sta slogando la mascella,”-fece sempre con le labbra tirate-”prendi queste due birre e sparisci, per favore?”-fece, cordiale.

Il ragazzo, afferrò meccanicamente le due pinte e, senza togliergli gli occhi di dosso, se ne andò. Quando scomparì tra la folla, il sorriso del prussiano scomparve, al suo posto la solita espressione stufa. Sbuffò, massaggiandosi la mascella.

-”Ecco, bravo...”-borbottò.

-”Gilbert, non puoi spaventarmi i clienti. Ti sei giocato la caramella, sappilo...”-

-”No...”-fece moggio, lasciando cadere le spalle.

Voglio andare a casa... Come invidio Antonio...
 

L'intera scena si poteva descrivere con una semplice parola.

Incredibile.

Tutto il suo soffrire sembrava essersi dissolto nel nulla, come se fosse stato ingoiato da quel benessere interiore.

Sentire il corpo caldo di Romano sul proprio lo aveva fatto sentire dannatamente bene. E si chiese come, fino ad allora, avesse fatto a vivere senza quelle labbra, senza quelle mani.

Era dannatamente morbida la sua pelle, erano dannatamente soffici i suoi capelli. Il suo profumo di buono gli inebriava i sensi, ubriacandolo, rendendolo pazzo.

Mi ama... Incredibile, mi ama...

Romano ora posava il capo sulla sua spalla. Gli occhi chiusi ed il viso rosso. Irrimediabilmente rosso. Non poteva crede di averlo fatto.

Dopo avergli detto quelle due famose parole, lo spagnolo aveva pianto. Arrossì al ricordo di quelle lacrime di gioia.

Nessuno aveva mai versato una lacrima di felicità per lui, nessuno.

E dopo lo aveva stretto a sé, sussurrandogli di amarlo alla follia. E mai qualcuno era riuscito a farlo sentire così speciale.

Per questo aveva capito che lui era quello giusto. Per questo aveva capito che, quello che provava nei confronti di Antonio, non era una bugia. Non era un qualcosa di sbagliato. Ed ora, stesi sul letto, e stretto tra le sue braccia si sentiva incredibilmente bene.

-”Roma...”-sussurrò lo spagnolo. L'italiano alzò appena il viso arrossato che, una mano del moro, lo prese delicatamente sotto il mento; dirigendolo con premura verso le sue labbra.

Ed ancora una volta il tempo di fermò.

-”Era da tanto che desideravo questo momento...”-

Il ramato arrossì.

-”Smettila di ripeterlo...”-fece rude.

Antonio sorrise davanti al suo imbarazzo.

-”Ti amo tanto...”-sussurrò, accarezzandogli le guance. Romano si sentì morire sotto quel tocco, così flebile e caldo.

Chiuse gli occhi, incapace di dire o fare altro, gustandosi quella carezza sublime. Si sentì così sciocco, arrossì. Affondò il viso nella sua spalla, stringendosi più a lui.

-”Ehi, che fai...?”-lo rimproverò dolcemente, Antonio-”E' inutile che scappi.”-

Allontanò un poco il petto dal suo viso. Posò la fronte sulla sua.

-”Sei stato tu a provocarmi con quel “ti amo” e con quel bacio... Ora devi subirne le conseguenze. Ehi, guardami in faccia...”-fece, con quel fatale sorriso.

Romano alzò appena lo sguardo.

-”Smettila, ti prego...”-fece flebile e sempre più rosso, riferendosi a quei sorrisi.

-”Di fare cosa?”-chiese innocente lo spagnolo-”Questo?”-

Gli baciò con una dolcissima lentezza le labbra. In modo che ogni singolo tocco fosse sentito e ripieno d'amore. In modo che le sue guance diventassero più rosse.

Antonio allontanò un poco il viso. Ecco, come aveva desiderato le sue gote erano ancora più arrossate. Sentì un moto di desiderio invaderlo.

Adorava vederlo così imbarazzato. Romano abbassò il capo, con il fiato corto.

-”I... Idiota...”-riuscì solo a dire, tentando di riprendere fiato.

-”Hai ragione...”-ammise il riccio, infilando una mano sotto la maglia e sfiorandogli gli addominali. Romano si irrigidì, arrossendo maggiormente.

-”Sono un'idiota...”-continuò senza smettere di sfiorargli il petto. Lo strinse a sé-”Non ho nemmeno avvertito che oggi non sarei andato a lavoro...”-sussurrò, prendendo a baciargli il collo.

Il corpo di Romano si fece caldo e lento.

-”Do... Dovresti... Avvertire, scemo...”-fece, tentando di apparire arrabbiato. Il moro gli fu sopra. Alzò le spalle e si leccò appena le labbra.

-”Penso che ormai se ne siano accorti...”-

Gli sorrise.

Uno di quei maledetti sorrisi che gli impedivano di reagire.

Lo afferrò per la maglia e lo tirò a sé, baciandolo con immensa vergogna ed amore. Come odiava quel maledetto idiota, riusciva sempre a zittirlo. Sentì nuovamente le mani d'Antonio, sul suo petto. Si sentì sciogliere. Lo strinse a sé con maggior desiderio.

Dannazione... E' vero... Lo amo e devo subirne le conseguenze...

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Note

Prego, lettori, abbiamo di tutto!
Abbiamo, un'italiano ed uno spagnolo, ormai catturati dall'amore... Abbiamo, un'inglese ed un francese, ancora terribilmente innamorati l'uno dell'altro ma, anche, terribilmnete ottusi... Ed, infine, abbiamo un prussiano che ci rallegra la giornata con la sua pazzia!
A voi i commmenti!

Honodetsu:D

 

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Capitolo 21
*** 21 ***


Il risveglio fu dolcissimo. Il leggero movimento, di quel corpo caldo accanto al suo, lo fece emergere con aggraziata semplicità da quel torpore.

Aprì lentamente gli occhi, ed il viso rilassato dello spagnolo si delineò nella sua perfezione.

Romano arrossì inconsapevolmente. Era un reato il fatto che, fin a quel momento, non si fosse mai reso conto di quando attraente fosse quello spagnolo.

Dannato orgoglio.

Dannata paura.

Dannata testardaggine.

Perché era stato così idiota? Perché non si era subito lasciato andare nelle sue braccia, come l'altra sera? Chissà quante sofferenze si sarebbero risparmiate, sia sue che del moro. Socchiuse gli occhi, senza distogliere lo sguardo da quel riccio felicemente addormentato. Antonio si mosse nuovamente nel sonno, stringendolo più a sé.

-”...Sei sveglio, Roma...?”-sussurrò assonnato, ancora ad occhi chiusi. L'italiano ingoiò della saliva. Cos'era quel sordo desiderio che lo aveva invaso? Arrossì, dandosi dello stupido.

-”Sì...”-

Gli occhi verdi del riccio si aprirono lentamente. Gli sorrise e gli accarezzò una guancia.

-”Hai dormito bene...?”-

Romano arrossì. Dormito? Non è che quella notte avessero dormito molto. Stava forse scherzando? Ridacchiò nervoso, non sapendo come rispondere. Antonio lo guardò senza capire.

-”Ora che ti prende?”-sorrise.

Ancora quel sordo desiderio, Romano serrò gli occhi, nella speranza che passasse. Si alzò veloce dal letto, scoprendosi appena dal piumone ma, con vergogna, si rese conto di essere nudo.

Si fermò, sedendosi sul materasso fumante per la vergogna, si coprì l'inguine e gli diede le spalle nervoso. Antonio rimase per qualche secondo a fissarlo annoiato.

Oh, mio Dio! Lo abbiamo fatto! Lo abbiamo fatto!

Il viso di Romano stava diventando così rosso che sembrava stesse per esplodere.

-”Che c'è, ci stai ripensando?”-chiese placidamente, quasi con una delusione velata, lo spagnolo. L'italiano si voltò verso di lui.

-”Come...?”-chiese in un sussurro. Antonio serrò la mascella, tirandosi su e mettendosi a sedere.

-”Sì, è successo. Abbiamo fatto l'amore ma lo abbiamo voluto entrambi.”-lo sguardo del riccio si fece duro-”L'ho voluto io come lo hai voluto tu...”-

Romano rimase di sasso, riflettendosi in quel verde intenso.

-”Perché mi guardi così...?”-nel suo tono duro e sicuro di prima, comparve una nota di preoccupazione-”Vuoi tirarti indietro...?”-ora sembrava quasi una muta supplica.

Sembrava quasi un: “ti prego, non andare”.

Gli occhi di Romano si fecero dolci. Indossò il suo sorriso migliore.

-”Come potrei...?”-fece, lo guardò provocatorio-”E poi finiscila di essere così insicuro.”-gli fece la linguaccia e si alzò, cominciando a rivestirsi frettolosamente, tentando di riuscire a mantenere quell'aria di sfida. Allo spagnolo sfuggì un sorriso intenerito. Lui insicuro? Senti chi parla. Gli sfuggì una lieve risata. Si alzò dal letto e si infilò le mutande, avvicinarsi alla schiena nuda dell'italiano, intento nell'infilarsi una maglia ma con scarso successo.

Lo abbracciò e per poco il ramato non svenne per lo spavento.

-”Ed ora che ti prende?”-chiese, tornando vergognosamente rosso. Antonio gli baciò delicatamente la spalla nuda.

-”Niente...”-lo strinse forte-”Ti amo...”-

Romano mutò l'espressione vergognosa con una infastidita. Quanto lo metteva in soggezione quando faceva così. Ma, allo stesso tempo, come lo adorava.

-”Ma vattene...”-brontolò.

Una suoneria, particolarmente molesta, invase la stanza. I due si raggelarono.

-”E' il tuo cellulare...”-fece nevrotico l'italiano, scansandosi e infilandosi per bene la maglia. Antonio sospirò. Ma perché proprio ora? Rimase un attimo indeciso sul da farsi. Fino a pochi secondi prima, la morbida pelle di Romano, era sotto le sue dita; avrebbe volentieri ignorato il cellulare per poterlo riavere sotto le mani. Rimase a fissarlo con desiderio, un po' deluso.

L'italiano si voltò a guardarlo.

-”Ti vuoi muovere?”-fece acido-”Questa suoneria è insopportabile...”-

Il riccio increspò le labbra, sospirò.

Che diavolo, però...

-”Sì...?”-fece con delusione una volta portato il telefono all'orecchio. Una voce isterica per poco non gli ruppe il timpano.

-”Brutto traditore, infame, nulla facente, lussurioso, pigro, inutile...”-

-”Ciao, Gil...”-lo interruppe lo spagnolo, passandosi disperatamente una mano sulla faccia.

-”Come ciao?!”-strillò l'altro-”Ciao? Ciao?!”-

Il moro si lasciò scivolare debolmente sul letto sfatto.

-”Ieri non sei venuto a lavoro! Non hai idea di quanta gente ci fosse, non hai davvero idea!”-

Si morse un labbro e sospirò, lasciandolo parlare nel tentativo di calmarlo.

-”Avresti anche potuto avvertire, sai? Sì, insomma, con quella cosa sconosciuta chiamata telefono. E' una bella invenzione, sai? Si alza la cornetta e si schiacciano i tasti!-”brontolò, lamentoso ed infantile”-Ho dovuto praticamente lavorare per due! Tu che non c'eri, quell'altro che era depresso! Io non vi sopporto più! Che sono, una specie di intermezzo comico?!”-sbottò nevrotico.

Silenzio, il fiato corto dell'albino dall'altro capo. Antonio si passò una mano sulla fronte.

-”Finito...?”-chiese, sorridendo. Gilbert sembrò indugiare.

-”Sì... Finito...”-borbottò.

-”Perdonami, ieri ho avuto un po' da fare... Davvero, avrei telefonato, ma non mi è stato possibile...”-mentì, ma non del tutto, posando lo sguardo su di Romano che, intanto, lo guardava con un misto di rimprovero ed imbarazzo.

-”...”-incespicò il prussiano-”Mi stai dicendo che...”-sembrava non avere parole.

Antonio sorrise timidamente.

-”Mi farò perdonare sta sera, giuro.”-disse, tentando di tornare al discorso d'origine.

-”...”-

-”Ok?”-gli chiese, non ricevendo risposta.

-”...”-

-”Gil?”-

-”...”-

-”Gil...?”-chiese un po' preoccupato.

-”L'avete fatto?!”-chiese d'un tratto, quasi emozionato. Lo spagnolo divenne porpora-”Per questo non sei venuto, eh?”-ridacchiò, tornando sprizzante ed allegro-”Hai fatto centro! Bravo, bravo!”-continuava a gridare nella cornetta, mentre Romano fissava quello spagnolo morto per la vergogna.

-”Ti prego, Gilbert!”-esclamò esasperato, ma anche un po' divertito, Antonio.

Ancora l'ennesima forte risata da parte del tedesco.

-”Allora sei perdonato, amico!”-

Romano si sedé accanto allo spagnolo.

-”Che succede...?”-chiese sospettoso. Antonio scosse il capo nervoso, coprendosi con il piumone.

-”Scusa, Gil, ora devo andare!”-fece frettoloso-”Ci sentiamo, ciao!”-

-”Aspetta, devi dirlo a Francis, ne sarà entusias...”-

Tak.

Guardò l'italiano e gli sorrise colpevole.

-”Non mi piace quello sguardo...”-brontolò il ramato-”Di che stavate parlando?”-

Antonio prese a giocherellare con le mani.

-”Ecco, noi...”-lo guardò. Era bellissimo, anche da sospettoso, da arrabbiato, da disperato, da felice, sempre. Le sue labbra si allargarono in un enorme sorriso. Adesso, Romano, era suo. Solo suo.

Allargò le braccia e si buttò su di lui, facendolo scivolare sul materasso.

-”Ti amo, Roma!”-

-”Ah! Lasciami, pervertito!”-urlò furibondo, schiacciato sotto il suo peso-”Sei nudo!”-

-”No, ho le mutande...-”disse, come per giustificarsi”-Ed anche se fosse?”-chiese, continuando a stritolarlo, felice-”Anche sta notte lo ero!”-

Romano divenne porpora.

-”Basta!”-sbottò-”Mollami! Non ne voglio più sapere di te! Idiota!”-

Antonio ridacchiò.

-”Ti amo, Romano!”-

 

Il prussiano continuava a stare con il cellulare posato sull'orecchio. Fissava incredulo il muro davanti a sé. Nel cervello continuava a rimbombare quel suono.

Tu, tu, tu.

Attaccò con fastidio. Come aveva osato interrompere la conversazione in quel modo? Lasciando, lui, quel fantastico essere cui era; solo, come un emerito imbecille.

Si passò una mano tra la chioma chiara, quasi cercasse di auto consolarsi. E per qualche secondo rimase così, fermò con la mano sulla fronte e a fissare il vuoto.

Perché l'appartamento era così silenzioso? Come mai Francis non era lì? Di solito, il francese, dormiva e stava da lui. Sbuffò, sentendo quel silenzio farsi quasi insopportabile.

Si morse un labbro.

Ehi, cos'era quella strana sensazione? Si schiaffeggiò il viso e si alzò di scatto dal letto. E no, eh. Sembrava quasi tristezza. Scosse il capo.

No, lui non poteva essere triste, era contro la sua natura. Si fermò la testa con entrambe le mani. Un enorme sorriso terrificante gli si delineò sul volto.

-”Francis!”-afferrò il cellulare.

Sì, doveva chiamarlo, doveva aggiornarlo su gli ultimi pettegolezzi. Odiava sparlare di queste faccende amorose ma sapeva anche che, Francis; invece adorava parlottarne. Sembrava quasi che, all'udire di quel chiacchiericcio terribilmente femminile, il biondo si sentisse in pace con sé stesso. Ed il francese, soprattutto per com'era d'umore in quel periodo, aveva assolutamente bisogno di sentirsi in pace con sé stesso.

 

-”Capisci, Francis?!”-fece euforico il prussiano, accompagnando il discorso con gesti plateali -"Romano ed Antonio hanno...”-

-”Non urlare così, Gil.”-lo interruppe placidamente il francese. Il tedesco lo guardò ammutolito. Rimasero per qualche secondo a guardarsi.

-”Stai scherzando, vero?”-chiese sbigottito-”Ti sto portando la notizia più calda di tutta Madrid e tu mi dici di non urlare!”-terminò con un sorriso soddisfatto.

-”Già, non urlare!”-fece afferrandolo per la manica della giacca e dirigendosi verso una panchina -”Cosa vuoi che importi agli altri?”-

Gilbert si lasciò trasportare dall'amico fino alla panchina. Aveva un'aria così triste il biondo, ancora più del solito. Fino a quanto tempo una persona può sopportare una simile tristezza?

Il tedesco se lo chiedeva ma non riusciva a darsi risposta. Francis sembrava non riuscire più a riprendersi. Probabilmente, se avesse avuto la certezza che qualcuno sapesse la risposta, avrebbe fatto di tutto pur di venirne a conoscenza.

I due si sederono. Scivolò un lieve silenzio.

-”Sono contento per Antonio, se lo meritava...”-lo disse, probabilmente con sincerità, ma la sua faccia sembrava lasciare intendere che stesse a pensare tutt'altre cose. Gilbert strinse il pugni.

No, probabilmente un'altra domanda, a cui avrebbe dato di tutto pur di sapere la risposta, era:

Fino a quanto tempo una persona può sopportare di vedere, un proprio caro, soffrire?

Fino a quanto?

-”Già, sono davvero contento.”-sorrise tristemente.

Fino a quanto?! Quanto?

-”Finalmente non saremo più costretti a ritrovarci il solito musone tra i piedi.”-scherzò.

Fino a quanto potrai continuare a mentire a te stesso?

-”Che bello, quel ragazzo è tornato a sorridere.”-

Fino a quanto riuscirai a far credere agli altri che stai bene? Fino a quanto riuscirai a trattenere le lacrime, a tenere la voce calma e pacata mentre menti?

Francis posò lo sguardo su Gilbert e lo vide tormentato. Gli posò una mano sulla spalla.

Fino a quanto riuscirai a fingere che, degli altri, ti importa ancora qualcosa?

Tirò uno dei suoi sorrisi migliori, dei suoi sorrisi più falsi. E fece male, al prussiano, vedere che sembrava dannatamente vero.

-”Sto bene, Gil, non stare così male...”-ma gli tremò la voce.

Fino a quanto riuscirai a mantenere la voce calma e pacata mentre menti?

Gilbert gli sorrise con dolore. Annuì greve.

Fin ora.

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Note

*Si butta in ginocchio*
Chiedo perdono per il mostruoso ritardo!! Ma di casini ne sono successi parecchi in questi giorni (anche se la cosa non mi giustifica molto .-.)...
Comunque, vorrei ringraziare chi mi segue e chi ha recenzito fin ora: non mi è mai capitato di raggiungere le 70 recenzioni in una ff (ok, che scrivo da poco su EFP, però è un bel traguardo... almeno per me), per questo vorrei ringraziare di cuore tutti quelli che mi hanno lasciato un commento positivo o negativo che fosse :) Davvero, senza di voi, che mi recenzite e mi spingete ad impegnarmi, non sarei mai riuscita ad arrivare ad un numero così alto,di capitoli e di ritrovarmi a saper già cosa voler scrivere in quelli successivi...
Perciò, grazie. Ma grazie anche a chi legge solamente che, certamente, non sono da tenere in bassa considerazione :)
Ancora tanti grazie, tanti baci e tanti abbracci! Al prossimo capitolo ;)

Honodetsu:D 

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Capitolo 22
*** 22 ***


La cosa assurda non era stata tanto il fatto che si fosse lasciato trasportare, in tal modo, da un uomo. Era stato con altri ragazzi, in passato, Francis non era stato per lui il primo. Perciò, no, non era questo a sconvolgerlo tanto.

La cosa assurda era il fatto di come, quella loro stramba relazione, fosse durata tanto. Di come, confuso e timoroso, aveva deciso di allontanarsi, di tagliare i ponti con il francese.

E di come si era ritrovato a rimpiangerlo.

In cuor suo, Arthur, aveva sempre avuto un debole per gli uomini, nonostante credesse che questo suo desiderio fosse sbagliato. Già, lui disprezzava quello che era ma, non per questo, rinunciava ad i suoi piaceri. Aveva sempre avuto storielle da poco, per di più di una, un paio di notti, al massimo.

Mai si era veramente innamorato di un uomo, se non dell'aspetto fisico. Mai si era affezionato a qualcuno di quei bei ragazzi con cui aveva condiviso i piaceri di quel sesso sporco.

Sì, perché era sporco.

L'inglese passeggiava con le mani in tasca, proteggendosi dal freddo.

Lui stesso era sporco, era intriso di tristezza, di impurità, di rimpianti e di paure. Ma la colpa di chi era? Di chi poteva essere se non sua?

Il biondo sbuffò ed un alone di vapore gli si creò d'inanzi al viso, fino a scomparire.

Chi incolpava il destino, delle loro disgrazie, era un'idiota. Un'idiota, un debole ed irrimediabile idiota. Tirò fuori dalla tasca destra un pacchetto di sigarette.

Perché dare la colpa ad una qualcosa che non esiste? Si portò la sigaretta accesa alla bocca e ne aspirò placidamente l'aroma.

Bhè, certo doveva essere più facile prendersela con un qualcosa di irreale, di non concreto, piuttosto che con sé stessi.

Buttò via il fumo.

Per lui non era così, non aveva bisogno di incolpare nessuno. Sapeva già che il suo unico nemico era sé stesso. In certi casi, prima lo si accetta e meglio si sta.

Aveva così tanti rimorsi.

Di famiglia ricca, di nobile aspetto e di grande intelligenza. O almeno così gli avevano sempre detto le persone intorno a lui. Ma, a giudicare delle scelte che aveva fatto nella sua vita, Arthur per primo; ammetteva di non esserlo.

Con il solito sguardo spento e schivo, si ritrovò a passeggiare per le stradine di un parco.

Aveva rinunciato ad andare all'università, aveva rinunciato a trovarsi un lavoro degno di questo nome, a tutto; solo per il semplice divertimento.

Posò distrattamente una spalla su un tronco d'albero freddo.

Sì, perché lui non si era mai sentito davvero bene in tutta la sua vita. Ridacchiò ironicamente. Dio, come la sua vita assomigliava alle solite storielle scritte e riscritte, raccontate e raccontate.

Ma la realtà è che, anche se a sentirle narrare ci si annoiava, quando la si viveva davvero era anche peggio. Ci si sentiva degli idioti, degli idioti già raccontati e raccontati.

Buttò a terra la sigaretta consumata, pestandola con fastidio.

La sua vita era sempre stata come uno di quei vecchi dischi in vinile, sempre a girare e a tirare dritto, a fare casino ed ancora a girare, girare, girare.

Finché, diavolo, non era arrivato quel maledetto francese. Quel maledetto e dannatissimo biondo dagli occhi di cielo che, con già con un semplice sorriso, sapeva mandarlo in estasi.

Tutte quelle inizio estati in cui andava da lui, in Spagna, e tutte quelle fine estati in cui se ne tornava in Inghilterra dicendosi che, no, mai più sarebbe tornato da quell'illuso di un francese.

E così era andata avanti, per parecchio tempo, finché, non arrivò l'ultima estate.

E da lì, il suo disco in vinile era arrivato alla fine delle sue canzoni più belle. Continuava a girare e a girare, senza meta, senza ragione. Senza suono.

Arthur si portò una mano sulla fronte, quasi volesse placare quel suo ruotare perpetuo.

Che diavolo ci faccio io in Spagna? Che cosa ho intensione di fare? Chi voglio prendere in giro?

 

-”Continui a pensarci, vero?”-chiese Gilbert, diventando dannatamente serio. Il francese sorrise, chiuse gli occhi e scosse le spalle.

-”Non ha importanza...”-

-”Evidentemente, sì.”-

Il biondo aprì piano gli occhi, guardandolo di sfuggita.

-”...”-non riuscì a dire nulla.

-”Vuoi parlarne?”-

-”No.”-

Il prussiano aggrottò la fronte.

-”Perché?”-

-”Perché non c'è niente da dire.”-

I due scesero nel silenzio. Gli occhi bassi del tedesco sfiorarono la figura del biondo.

-”Invece c'è molto da dire...”-tornò a guardare la neve sporca sotto i suoi piedi-”Non ti sei mai sfogato da quando lui non è più tornato.”-

La mascella di Francis si contrasse.

-”Perché dovrei farvela pesare a voi? Sono affari miei, dopo tutto, no?”-rispose semplicemente, nascondendo il viso. Quell'affermazione fece male al prussiano. Strinse i pugni.

-”Credi di essere Antonio?”-fece duro-”Lui magari può permettersi di pensare agli altri mentre soffre, di fare il figo, e di riuscirci ma tu...”-Francis si strinse nelle spalle-”Tu, tu sei Francis. Tu non sei così, tu hai bisogno d'aiuto...”-sorrise, addolcendosi un po'-”Perfino quel dannato spagnolo, alla fine, ha bisogno di noi...”-

Francis si irrigidì.

-”Dove vorresti arrivare, scusa?”-fece infastidito-”Cosa pensi di concludere dopo tutto il discorsetto sulla vita che vorresti farmi? Cosa?”-strinse i pugni-”Io continuerei a stare così mentre lui continuerebbe a non essere qui: non cambierebbe niente di niente! Quindi, per favore, risparmiami il discorso!”-sbottò.

Il sorriso di Gilbert morì. Guardò l'amico, in cerca di quel poco che era rimasto del vecchio lui, del Francis che conosceva. Del Francis malizioso, sorridente e scherzoso.

E rimase a guardarlo per molto tempo, scavando in quella barriera che, il biondo, continuava a voler ergere tra di loro.

-”Allora, dì un po', tu cosa pensi di concludere così?”-fece in tono rancoroso e serio. Il corpo del biondo parve fremere a quelle parole-”Pensi che continuare a pensare a lui e a torturati notte e giorno ti aiuterà a farlo tornare?”-

Il francese si morse un labbro, guardando con distacco d'inanzi a sé, tra la vegetazione innevata. C'era parecchia gente, quel giorno, nel parco.

-”Pensi che facendo così, un giorno, te lo ritroverai davanti?! Sì, certo, come no.”-fece ironico.

-”...”-gli occhi del francese di spalancarono, posò con uno scatto una mano sul braccio dell'amico che, di conseguenza, si prese un colpo-”Gil?!”-

Quasi per ironia, qualcosa di biondo aldilà del laghetto ghiacciato davanti a loro, camminava avanti ed indietro.

 

No, non mi ha visto...?

Dava le spalle al laghetto ghiacciato, tremante di paura. Possibile che quel dannato francese se ne stesse appostato proprio sull'altra riva?

Si morse un labbro. Possibile che non lo avesse visto prima? Prese a torcersi le mani, fingendosi lì per caso. Prese a camminare avanti ed indietro, cercando di fare qualcosa per non fargli intuire che si fosse accorto di lui.

Ma magari mi preoccupo troppo, probabilmente non mi ha nemmeno riconosciuto...

A quel pensiero qualcosa in lui si spense. Si sorprese infastidito di sé stesso. Lui desiderava, anzi voleva ardentemente, che Francis si fosse accorto di lui.

Si portò una mano al petto, incapace di tornare a guardare quell'uomo che tanto amava e desiderava nonostante tutto. Diede un'occhiata di sbiego e notò con fastidio che non era solo. Sbuffò.

Ancora quel ragazzo...

Gli sfuggì una risata amara.

Bhè, mi pare normale. Uno come lui non può certo sentire la mancanza di uno come me... O, in tal caso, per farsela passare basta solo spassarsela con qualcun altro, giusto?

Peccato, sarebbe piaciuto anche ad Arthur riuscire a dimenticare così facilmente.

Sono geloso... E' così dannatamente patetico...

Si voltò a guardarlo, fregandosene dell'essere scoperto. Era così dannatamente bello. Lo guardava basito, con gli occhi azzurri spalancati e le labbra delicate appena aperte. Sorrise interiormente nel notare quella solita barba sfatta ed affascinate.

Come gli mancava.

Come era stupido quel sentimento.

Come era sbagliato ed inutile.

Rimasero per qualche secondo a guardarsi. In quel momento sembravano esserci solo loro. Come se l'intero mondo si fosse fermato e tutte le altre persone fossero scomparse. C'erano solo loro.

Francis ed Arthur.

Arthur e Francis.

Francis, Arthur e... ah, giusto, c'era pure quel ragazzo.

Un moto di fastidio lo fece tornare alla triste realtà. Strinse i pugni e posò lo sguardo su quel ragazzo dai capelli chiarissimi.

Dannazione, come ti invidio! Come ti invidio!

Diede le spalle ad i due e prese a camminare verso l'uscita. Sentì la rabbia ribollire. Come aveva potuto portare un altro in quel posto, in quel parco?

Quello, da dopo il loro primo incontro, era diventato il loro parco. Loro, non suo e di quel tipo. Strinse la mascella, tentando di non piangere.

-”Aspetta! Aspetta!”-

Era lui che urlava? Era Francis?

Il dubbio c'era, ma non si voltò. Continuò a camminare.

-”Ehi, aspetta, tu! Ti ho detto di aspettare!”-la sua voce si faceva sempre più vicina, stava vendendo verso di lui. Davvero, quello era Francis? Era la sua voce?

-”Arthur, ti prego!!”-

I piedi si fermarono come se fosse all'improvviso entrati in sciopero. Sentì le gambe intorpidirsi.

Ti prego, no... Non ora... No...Non voglio parlargli...

-”Arthur...”-la voce sorpresa, quasi incredula, ed affannata-”Sei tu...?”-sussurrò alle sue spalle-”Dio, sei davvero tu...!?”-

L'inglese non riuscì a girarsi, non riuscì a dire nulla. Abbassò il capo e riprese a camminare.

-”No, aspetta!”-fece allarmato l'altro-”Aspetta, ti dico, fermo, Arthur!”-lo afferrò per un braccio e lo costrinse a guardarlo in faccia. Gli occhi dell'inglese luccicarono di una flebile luce quando incontrarono il volto del francese. Era così dannatamente vicino, riusciva a scorgere ogni particolare del suo viso. Ogni particolare che, fino ad allora, erano stati solo un malinconico ricordo.

-”Oh, cielo...”-sorrise incredulo, Francis. Aveva gli occhi lucidi, l'inglese se ne chiese il motivo-”Sei davvero tu... Sei tu...”-sembrava non riuscire a dire nient'altro.

-”Lasciami!”-fece distaccato Arthur ma il francese lo ignorò, anzi, lo strinse con più forza a sé.

-”Da quanto tempo...”-sussurrò abbracciandolo-”Sei... Sei tornato da me?”-

L'inglese arrossì.

-”Che diavolo dici? Ma chi ti conosce più? Anzi, chi mai ti ha conosciuto?!”-ringhiò, cercando di uscire da quell'abbraccio che, sapeva benissimo, sarebbe mancato anche a lui.

-”Ti ho aspettato per tanto tempo, Arthur... Finalmente...”-

Quelle parole sembrarono placare per un attimo l'inglese.

-”Ehi, Francis! Aspetta!”-la voce di un ragazzo squarciò quel momento di calma. Ma non come la squarciò quando si delineò davanti agli occhi verdi acidi del biondo inglese.

-”Oh...!”-fece, vedendoli così vicini. Abbassò il capo-”Apposto... Bhè, penso che sia meglio che vada... Vero?”-ridacchiò nevrotico, guardando appena Francis.

Ma perché mi ritrovo sempre coinvolto in situazioni pazzesche?! Perché?!
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Note

Bhè, finalmente si sono incontrati... Ed ora?


Honodetsu:D

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Capitolo 23
*** 23 ***


Non c'era tempo per le spiegazioni. Non c'era tempo per le parole, per le scuse. Non c'era tempo per niente, se non per le carezze e per i baci passionali.

Sentì le mani di Francis invaderlo, il suo corpo sul proprio. Si ritrovò a gemere per il piacere sotto i suoi tocchi, sotto il suo sguardo.

E mentre Arthur si ritrovava a sprofondare tra le spire di quel francese si chiese se stesse facendo bene. Si chiese se quello che stava accadendo fosse giusto.

No, non lo è...

Ma le labbra di Francis continuavano a cercare le sue, le sue mani lo sfioravano con esperienza e bravura: come poteva essere sbagliata quella perfezione?

 

Era suo, finalmente.

Era passato così tanto. Gli sembrava quasi impossibile poter sfiorare quella pelle tanto desiderata e bella. Gli sfilò velocemente i pantaloni, continuando a baciarlo.

Impossibile, era impossibile che Arthur fosse davanti a lui.

Gli sfiorò con delicato desiderio l'inguine. Lo baciò ancora rovente sul viso e si ritrovò a sorridere, pieno di gioia e nostalgia, nel notare quel suo rossore. Presto l'inglese cominciò a respirare affannosamente, cosa, che Francis, trovò terribilmente dolce.

Lui è qui...

E mentre continuava a spogliarlo e a spingerlo a sé non si perdeva nessuna sua espressione.

Quel viso era come un libro aperto, riconosceva ogni sua singola espressione, e rivederle tutte, in quel momento, gli creò una gioia sorda.

Ti amo, ti amo!

 

Antonio non si sarebbe mai alzato se non fosse stato per il bussare alla porta. Già, non si sarebbe mai alzato da quel letto, soprattutto con quel Romano che continuava a dormire splendido sul suo petto. Lì per lì, sperò che chiunque fosse rinunciasse e se ne andasse; ma al sentir insistere con il campanello temette lo svegliarsi dell'italiano.

Meglio che vada, se si sveglia, finisce per prendersela con me...

Perciò fu costretto ad alzarsi lentamente da quel letto da sogno ed ad infilarsi dei jeans ed una maglia. Prima di richiudere la porta della camera guardò ancora Romano.

Dormiva tranquillo, il piumone che gli copriva a metà il corpo nudo. Si ritrovò ad arrossire desideroso ed intenerito.

Devo proprio andare ad aprire?

L'ennesimo bussare gli diede la triste risposta.

-”Antonio...”-

Lo spagnolo guardò il prussiano che gli si era delineato d'inanzi. Sembrava abbastanza provato. Gli sorrise solare.

-”Che succede?”-

Gilbert entrò nell'appartamento senza nemmeno chiedere il permesso. Arricciò il naso e lo guardò cupo.

-”Smettila di sorridere in quel modo...”-brontolò-”Dà sui nervi...”-

Il riccio alzò le spalle sospirando, richiuse la porta e lo guardò stufo.

-”...”-rimase in silenzio a guardarlo con le braccia piegate sul petto. Il prussiano lo guardò interrogativo, alzò un sopracciglio chiaro.

Antonio scrollò le spalle, sentendo il terrificante bisogno di cacciare quel tonto e di tornare tra le braccia di Romano.

-”Ebbene?!”-chiese un po' nervoso il moro-”Come mai qui?”-

-”Ah, pensi che sia il tipo che viene a trovare un amico solo in cerca d'aiuto?”-fece offeso-”Grazie, mi fa piacere sapere che pensi questo di me...”-

Antonio sentì i nervi tremare. Cercò di contenersi, apparendo calmo e gentile.

-”Ma no, Gil. Lo so che non sei il tipo...”-fece, cercando di nascondere i sospiri esasperati.

Silenzio.

I due rimasero in silenzio senza nemmeno guardarsi. Lo spagnolo si ritrovò a guardare con ansia la porta della stanza in cui Romano dormiva, temendo che, proprio quest'ultimo, ne uscisse.

Sicuramente, sentendosi in imbarazzo nell'essersi fatto trovare mezzo addormentato, avrebbe cominciato a lamentarsi della presenza del tedesco e, dopo, avrebbe cominciato ad insultare il povero riccio. Sentì un brivido percorrergli la schiena.

-”Allora, Gil?!”-chiese accennando un sorriso nervoso.

L'ariano guardò placidamente in giro per l'appartamento. Alzò le spalle e si infilò le mani in tasca.

-”Bhè... Niente di che...”-si avvicinò ad un mobile e ci passò una mano sopra-”Sembra che sia ricomparso quell'inglese...”-fece distrattamente.

Antonio si irrigidì.

-”Come...?”-

Il prussiano si voltò a guardarlo.

-”Hai capito.”-

Ingogliò della saliva.

-”Ne sei sicuro?”-

Gilbert annuì.

-”Li ho visti insieme...”-

 

-”Perché ti stai rivestendo?”-

Arthur si chiuse la cerniera dei pantaloni con imbarazzo e freddezza, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.

-”Perché non mi sarei mai dovuto svestire...”-

Quelle parole lo ferirono ma tentò di ignorarle. Sorrise per poi perdersi in un sospiro.

-”Cosa ti prende all'improvviso? Non mi sembrava che mentre facevamo l'amore avessi questo brutto umore...”-

Arthur si morse un labbro, quasi cercasse la forza per fare qualcosa che, sapeva, gli avrebbe fatto male. Si voltò e lo guardò duro.

-”Noi non abbiamo fatto l'amore. Noi abbiamo fatto sesso, niente di più.”-

Ancora una volta, dal cuore del francese, sgorgò del sangue. Abbassò il capo biondo.

-”Perché ora mi tratti così?”-chiese appena-”Si può sapere cos'hai? Se pensi che non ci sia nulla tra di noi, perché sei tornato?”-

Arthur sorrise strafottente.

-”Lo vedi?”-ridacchiò, sotto lo sguardo spento dell'altro-”Prima mi ospiti nel tuo letto, poi mi chiedi perché sono tornato...”-lo guardò con cattiveria-”Secondo te perché dico che tra noi non c'è nulla?”-

Francis abbassò il capo. Faceva male ricevere quelle risposte aspre.

-”Ammettilo, ti sono mancato, se no non saresti qui.”-

L'altro alzò appena le spalle.

-”Non più di quanto non mi siano mancati altri ragazzi con cui sono stato...”-

Il francese lo guardò ferito.

-”Sei crudele a dirmi così...”-

-”Sono realista.”-

-”No, sei solo falso e crudele.”-

L'inglese non seppe come controbattere. Schioccò la lingua sul palato e diede le spalle a Francis.

-”Bhè, dopo questo bel pomeriggio, ti ringrazio.”-alzò una mano in segno di saluto-”Posso pure tornarmene a casa...”-

A casa...?!

-”Arthur...”-sussurrò-”Non tornerai in Inghilterra.”-

Si voltò a guardarlo.

-”E tu che ne sai? Ero solo di passaggio qui a Madrid.”-mentì.

Francis sorrise.

-”Lo so...”-socchiuse appena gli occhi-”Le tue espressioni... Le conosco tutte, so quando menti o meno. Ed adesso stai mentendo...”-

Arthur si ritrovò ad arrossire.

-”Dì meno stronzate.”-lo ammonì.

-”Anche tu dovresti dirne di meno, sai?”-gli sorrise debolmente-”Ammettilo, ti sono mancato terribilmente.”-

L'inglese strinse i pugni.

-”Ti ho detto che tra noi c'è solo sesso, nient'altro.”-confermò nuovamente.

-”Arthur...”-

-”Nient'altro, ti dico!”-

Scivolò il silenzio. Il francese sorrise appena.

-”Non dovresti mentire così...”-

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Note

Mi scuso per la lunghezza del capitolo (o dovrei dire "brevezza" O.o ma non si può sentire ^^"") ma, per colpa della scuola, è già tanto se trovo il tempo per pubblicare! 
Comunque , grazie a tutti per star leggendo questa lunga ff :)
Al prossimo capitolo,

Honodetsu:D

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Capitolo 24
*** 24 ***


Gilbert riprese a camminare verso casa. La testa confusa ed una strana sensazione nel cuore.

Forse Antonio ha ragione... Forse dovremmo lasciarli stare...

Già, esattamente quelle erano state le parole usate dallo spagnolo a proposito di Francis ed Arthur. Il prussiano scosse la spalle.

Lasciarli stare, farli parlare e farli chiarire.

Chiarire...

Sbuffò, non sopportando più quella valanga di problemi che stava diventando la sua vita. Prima Antonio con Romano e Bella, adesso Francis. Si passò una mano sul volto.

In nessuno dei due casi era mai riuscito a dare una mano ai due amici. Con il riccio non era stato in grado di proteggerlo da quella belga maledetta. E, proprio nel momento di massimo bisogno, non era riuscito ad accettare subito i sentimenti che provava per Romano.

Si morse un labbro, provando ancora quell'immenso senso di colpa.

Ed ora con Francis stava accadendo la stessa identica cosa.

Non riusciva a proteggerlo da quell'inglese.

Strinse i pugni. Già, perché era stato quel maledettissimo inglesino del cavolo a far soffrire in quel modo il suo amico. Era stato sempre lui quello a lasciare il francese senza preavviso, senza un avvertimento. Aveva preso un aereo, come ogni fine estate, per tornarsene in Inghilterra; per poi non tornare mai più.

Sì, scomparso.

E Francis aveva sofferto tanto, Gilbert lo sapeva. Aveva sofferto tanto cercando di nasconderlo il più possibile agli occhi degli amici.

Finalmente davanti alla porta di casa, infilò le chiavi nella toppa e girò due volte.

Perché la gente fa così...? Perché mente...?

I suoi occhi si velarono.

A cosa dovrebbe servire fingere di stare bene quando si sta male? A cosa...?

La porta si aprì e fu dentro. Si ritrovò a sorridere stanco, annoiato e provato.

Perché, nonostante cerchi di aiutare, non ci riesco mai?

Si trascinò fino al divano, sdraiandocisi sopra con una strana pacatezza nei movimenti. Si sentiva così vuoto, così inutile, così inesistente.

Lasciarli fare...

E se non servirebbe a nulla? Se non bastasse lasciarli parlare? Se la cosa degenerasse? Francis finirebbe per soffrirne ancora. Gilbert si ritrovò a fissare il soffitto già da qualche minuto.

La mente si fece improvvisamente silenziosa e stranamente pesante, come se i pensieri; racchiusi con forza in un angolo, tentassero di spingere e di farsi ascoltare.

Ma il prussiano non voleva ascoltare quei pensieri, non voleva pensare a nulla. Voleva continuare a sentire quel vuoto, quel silenzio, per sempre.

Strinse la mascella.

Lui senza i suoi amici non era nulla. Senza Antonio e senza Francis lui non sarebbe Gilbert. Sentì gli occhi pizzicare. Lui al di fuori del pub non conosceva nessuno.

Nessuno.

Gli sfuggì un ghigno sbilenco.

Se ad andare male è la vita di Antonio o di Francis allora, di conseguenza, anche io starò male... E la mia di vita? La mia vita come va?

Farsi queste domande gli fece un gran male, un dolore che però lo sorprese. La sua vita. Come andava la sua di vita? Già, come gli andava?

Chiuse gli occhi con pacatezza ed un lacrima, che pareva rossa come le sue iridi, scivolò giù per le guance.

Io non ho una vita...

 

Una ragazza del tutto normale camminava per le vie innevate. Una ragazza normalissima, con dei lunghi capelli castani lasciati ricadere con leggerezza sulle spalle e con degli occhi verdi che sembravano splendere ad ogni sguardo.

Camminava spedita, quasi preoccupata, verso una meta ignota.

 

Finalmente era riuscito ad uscire di casa, non che gli dispiacesse rimanere così tanto tempo con Antonio. Il problema era che quello spagnolo gli impediva di ragionare e lui, per fare quello che voleva fare, aveva bisogno di concentrazione.

Si fermò su una panchina e prese un grande sospiro.

Devo farlo...

Portò la mano in tasca ma una strana angoscia lo fermò.

Forza...Devi farlo...

Finalmente sentiva di aver trovato la pace, la serenità. Antonio era tutto quello di cui aveva sempre avuto bisogno, era il suo presente ed il suo futuro. Ma... Ma Feliciano era stato il suo passato.

E, Romano, non poteva rinnegare il passato. Non poteva rinnegare suo fratello.

La realtà era che, quel dannato perfettino di suo fratello, lo aveva aiutato tanto anche in quegli ultimi tempi. In qualche modo doveva ringraziarlo. Ingogliò della saliva, sentendosi terribilmente in difficoltà. Posò lo sguardo sulla tasca della giacca, le dita sfioravano il cellulare ma non riuscivano a prenderlo. Perché improvvisamente, quella mano, si era fatta così pesante? Perché non rispondeva più agli ordini?

Sono davvero così stupidamente egoista?

Strinse la mano a pugno, riuscendo ad afferrare il cellulare. L'immagine del fratellino gli invase la mente agitata, riuscendo stranamente a tranquillizzarlo.

Quel corpo piccolo e snello, ancora da ragazzino, quegli occhi grandi ed ambrati, quei capelli chiari; così simili ma così diversi dai suoi.

Feliciano...

Così lo ricordava, così come lo aveva lasciato cinque anni fa, in Italia: ancora un piccolo ragazzino abbandonato in un mondo immenso e crudele, un mondo che continuava a cambiare.

Gli occhi verdastri dell'italiano parvero intristirsi visibilmente.

Feliciano non aveva mai avuto il tempo di essere bambino, non aveva mai avuto abbastanza tempo per i giochi. Così come non ne aveva mai avuto lui stesso.

Il fratellino, al contrario di Romano, era sempre stato quello più maturo nella sua infantilità. Nonostante avesse sempre avuto tratti bambineschi, comportamenti da poppante, quel dannato ragazzino era sempre stato un passo avanti a lui.

Il ramato strinse la presa sul cellulare.

Feliciano era sempre il migliore... Feliciano era sempre quello più bravo in tutto...

Si morse un labbro, riuscendo a capire con una mostruosa facilità che, infondo, era dannatamente vero. Era vero, Feliciano, era migliore di lui.

Feliciano si impegnava nello studio e riusciva bene in ogni materia.

Feliciano era bravo a parlare, a socializzare.

Feliciano aveva tanti amici, anche più grandi di lui.

Feliciano, nonostante fosse il minore, era sempre stato pronto a proteggerlo ed a rincuorarlo.

Romano strinse gli occhi con dolore.

Perché, a persone così, che hanno sicuramente la stoffa e la forza per un grande futuro; non vengono date mai occasioni? Perché persone così sono costrette a dover vivere delle vite così difficili? Si portò una mano agli occhi.

Il suo fratellino non aveva meritato quella vita, forse lui stesso sì, ma non Feliciano. Lui avrebbe meritato una famiglia calda e dolce. Lui avrebbe meritato un fratello maggiore più responsabile e la presenza di un padre.

Sentì un nodo formarglisi alla fola.

Tutte cose che Romano, invece, aveva avuto.

Feliciano aveva sempre ricoperto il ruolo di fratello maggiore, mentre loro padre, proprio per via di quel suo caratteraccio; era sempre stato dietro al ramato più che al minore.

E senza rendersene conto, Romano, aveva rubato la vita del fratellino; credendo, ugualmente, di non riuscire a farne parte.

Aveva sempre creduto che fosse lui quello a vivere male, quello ignorato, quello messo in disparte. Ma Feliciano? Feliciano come poteva sentirsi?

Non ci aveva mai pensato. Almeno non fino a quegli ultimi cinque anni che non lo vedeva più. Almeno non dopo il ricordo del suo viso triste ed infantile, ma anche fatalmente adulto, del giorno in cui lasciò l'Italia.

Ho lasciato l'Italia solo per puro egoismo... Senza nemmeno pensare a quanto deve essere stato difficile per te: un semplice ragazzino a capo di una famiglia distrutta, che si faceva sempre più piccola...

 

Perché continuava a sbagliare così?

Con lo sguardo basso e passo frettoloso si diresse verso casa. Che cosa stava facendo ancora a Madrid? Cosa?

Aveva sempre saputo che ci sarebbe stato il pericolo di incontrarlo, aveva sempre saputo che seguirlo da lontano, con lo sguardo, non era un qualcosa di giusto.

Per poco non scivolò a causa della neve ma riacquistò equilibrio sorreggendosi ad un muro. E per qualche secondo rimase fermo, con il capo abbassato e la confusione nella mente.

La gente camminava, chi frettolosa e chi spensierata, e lui si sentiva così estraneo alla quella calma, a quella normalità.

Che cosa ci faccio qui...? Davvero, cosa ho intensione di fare?! Di tornare da lui? Da quel fottuto francese?!

Il cuore batteva forte ed ad ogni battito sembrava fare sempre più male.

L'ho fatto ancora, come tre anni fa... Sono finito nel suo letto... Prima il sesso e dopo le parole...

Si passò una mano sullo stomaco. Ogni singola parte del suo corpo, toccata da Francis, sembrava addormentata, febbricitante.

Arrossì, senza nemmeno volerlo, al ricordo di quelle mani invaderlo, di quelle labbra sfiorarlo con tanta premura. Sì, premura, amore, dolcezza.

Scosse il capo.

No. Come poteva anche solo sperare che Francis potesse ricambiare il suo amore segreto? Quello che il francese nutriva nei suoi confronti era solo attrazione fisica, così come sarebbe dovuto essere per lui.

No, non era amore quello di Francis. Non era premura, non era dolcezza. Era solo sporco desiderio. Sentì le lacrime spingere ed il cuore spezzarsi. Una parte di lui ancora gridava.

Perché non accetto di amarlo e basta? Perché non mi butto e provo?

Ma la ragione gli diceva di ignorare quelle parole. Perché lui conosceva già le storie come quella. E sapeva anche come andavano a finire.

Si asciugò le lacrime.

Non è amore... Non è amore...

 

-”Pronto?”-

Quella voce chiara e fatalmente familiare.

-”Pronto?”-ripeté nuovamente, ma Romano non sembrava cogliere il senso di quella parola. La ragione si fermava al suono. Gli occhi gli si fecero spenti.

-”Romano...? Sei tu...?”-

L'italiano tremò a quelle parole. Gli venne l'irrefrenabile voglia di terminare quella chiamata ed andarsene per la sua vita. Ma quella voce dolce e calma, quella nota di infantilità, lo aveva fatto desistere. Ma quello dall'altro capo era davvero Feliciano? Possibile che ci stesse parlando proprio in quel momento? Provò vergogna di sé stesso: dopo cinque anni di puro silenzio si faceva vivo solo ora. Si morse un labbro.

-”Parlo con Feliciano Vargas?”-domanda idiota, dato che quello che aveva digitato e salvato sul cellulare era proprio il suo numero.

Il ragazzo, dall'altro capo, sembrò tentennare per un attimo.

Silenzio.

Un silenzio che, alle orecchie di Romano, sapeva di dolore, sapeva di rabbia. Sì, di rabbia, chiunque si sarebbe almeno un po' arrabbiato per quegli anni di egoismo. Anche Feliciano, per quanto clemente potesse essere.

Ma, per sua sorpresa, quel silenzio pesante si addolcì immediatamente.

-”Sì, sono io...”-rispose con premura, probabilmente accennando un sorriso.

Feliciano...

Com'era stato egoista.

Com'era stato ingiusto.

Eppure, il fratellino continuava a trattarlo come un fratello.

Non lo merito...

Lo aveva abbandonato.

Scusa!

Lasciato solo in Italia con la madre, sola e distrutta dal dolore per la morte del marito. Gli aveva lasciato così tante responsabilità.

Scusa!

-”Come mai hai deciso di chiamarmi?”-chiese con naturalezza e dolcezza, come se quei cinque anni di lontananza, non ci fossero mai stati. Gli occhi del maggiore si riempirono di lacrime.

-”...”-nulla uscì dalle sue labbra. Sentendo sprofondare la domanda nel vuoto, Feliciano, si lasciò sfuggire l'ennesimo sorriso. Romano lo immaginò ancora come ce lo aveva allora, sperando con segretezza che non fosse cambiato quel suo bel sorriso.

-”Sei ancora in Spagna, vero?”-continuò il minore, sempre gentile-”Sei riuscito a laurearti, in fine?”-

-”Sì...”-fu la semplice risposta sofferta.

Feliciano sospirò, comprensivo.

-”In cosa?”-

-”Chimica.”-

-”Chimica?”-

-”Sì...”-

Di nuovo un attimo di silenzio.

-”Sono immensamente felice per te, Romano.”-disse con allegra sincerità.

-”...”-

Come poteva essere così gentile con lui? Come poteva trattarlo così bene dopo tutto il male che gli aveva fatto passare?

-”Scusa...”-disse solo.

Il fratello minore rimase in un silenzio di dubbio.

-”Che dici, Roma?”-gli chiese, assumendo un tono di dolce rimprovero.

L'italiano abbassò il capo, sfregandosi gli occhi umidi con il palmo libero. Si lasciò sfuggire un sospiro sofferto.

-”Mi spiace non aver risposto ai tuoi messaggi per tutto questo tempo e mi dispiace anche di non essermi fatto vivo in questi anni, di essermene andato in quel modo... Mi dispiace tanto, credimi.”-la voce gli tremò. Feliciano si lasciò scappare una lieve risata.

-”Quante sciocchezze che dici.”-fece spensierato-”Conosco il motivo per cui te ne sei andato, conosco il motivo per cui non ti sei tenuto in contatto con i parenti, in Italia. Conosco i motivi, sono tuo fratello...”-quell'affermazione la sentì corrispondere dannatamente alla verità-”Ed è per questo motivo che non ti rimprovero di nulla... Anzi, ti capisco.”-fece una pausa-”Dopo tutto anche io me ne sono andato.”-

Romano si morse un labbro.

-”Ciò non toglie che ti abbia abbandonato!”-protestò rancoroso-”Come puoi essere così gentile con me dopo quello che ti ho fatto passare?”-

-”Tu non mi hai fatto passare nulla... Tu vivevi la tua vita ed io la mia.”-fu la semplice risposta-”Nessuno sbaglio, nessuna cosa pienamente giusta: questa è la vita.”-

-”...”-

Romano rimase in silenzio. Ammutolito da quelle parole. Come avrebbe voluto ricominciare da capo, come avrebbe voluto cancellare e riscrivere tutto.

Si morse un labbro, rendendosi conto che, nonostante i periodi difficili passati, la sua vita era dannatamente bella.

-”Che cosa farai ora?”-chiese il fratellino-”Ti sei laureato: tornerai in Italia o resterai lì in Spagna?”-

Il ramato tentò di ricomporsi.

-”Ho deciso che resterò qui... Mi piace Madrid.”-disse, con un sorriso sincero sul volto. Il primo, dopo tanti anni. Feliciano, sentendo uscire dalla bocca del fratello parole simili, non poté che rimanerne sorpreso.

-”Ti sei affezionato, eh?”-

Il maggiore degli italiani arrossì improvvisamente. Strinse le dita intorno al cellulare.

-”Ma sei idiota? Chi ti dice che voglia rimanere per qualcuno?!”-sbottò nervoso. L'altro rise.

-”Romano, calmati, io non ho mica detto che ti sei affezionato a qualcuno...”-ridacchiò ancora-”Intendevo che ti sei legato al posto, a Madrid.”-

A quella spiegazione il ramato sprofondò nella vergogna.

-”Bhè... Ecco, io...”-brontolò, non sapendo come giustificarsi-”Sei tu che non sei chiaro.”-decise in fine. Vi fu l'ennesimo momento di pausa nella conversazione.

-”Roma, lì con te c'è qualcuno che ti vuole bene...?”-

L'italiano rimase sorpreso da quel tono di voce adulto che aveva impostato. Gli sfuggì un sorriso inconsciamente innamorato.

Antonio...

-”Perché me lo chiedi?”-

-”Perché è brutto restare da soli.”-rispose, sempre con quel tono-”Te lo posso assicurare...”-

Quell'ultima frase sembrava sentita, come se per un lungo periodo di tempo, perfino lui, avesse sofferto tanto. Romano sorrise dolcemente.

-”E tu, Feli? Tu hai qualcuno che ti vuole bene lì in Germania?”-

A quella domanda, la voce in risposta, già sembrava appartenere ad un'altra persona.

-”Sì, c'è una persona che mi vuole bene.”-la voce era tornata infantile ed allegra-”Che mi ama, come tu vuoi bene a me.”-

Romano sorrise.

-”Come si chiama? E' una tedesca?”-chiese interessato. Feliciano sembrò non sapere come rispondere. Il maggiore si chiese cosa gli prendesse.

-”Veramente è un tedesco...”-fece un po' preoccupato-”Si chiama Ludwig!”-aggiunse riprendendo il suo tono allegro.

Romano rimase di sasso.

Cosa?! Anche lui?! Anche Feliciano?!

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Note

Lo so, sono imperdonabile: c'ho messo una vita a pubblicare questo capitolo. Per vari motivi (che non starò qui ad elencare, per vostra fortuna) ho dovuto mettere, con mio rammarico, in secondo piano la pubblicazione di questa ff. Ma ora, giuro, che tenterò in tutti i modi di non metterci più così tanto tempo. Detto questo, spero che la storia continui ad interessarvi ed ad entusiasmarvi :)
Bacioni,

Honodetsu:D

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Capitolo 25
*** 25 ***


Perché adesso le giornate sembravano tutte uguali?

Svegliarsi al mattino, mangiare, lavarsi. Indossare quel falso buonumore ed uscire. Da quando la sua vita era diventata così?

Oramai era la solita monotonia: raggiungere il pub, anche molto prima dell'apertura, farsi qualche drink con Francis o con Antonio.

Ma, adesso, nemmeno più quello.

Antonio aveva Romano, adesso stavano più spesso insieme e vederli l'uno accanto all'altro gli creava una sorta di tranquillità. Già, tranquillità, benessere, serenità; nonostante litigassero continuamente e facessero pace subito dopo.

Mentre Francis era tutto preso da Arthur. Da quel dannato inglese che continuava a fargli del male. Buffò, rendendosi conto che ormai, nelle vite dei suoi amici, non c'era più spazio per lui.

Tanto Francis è un ragazzo forte... In qualche modo ne uscirà...

Già, il francese ne sarebbe uscito; come gli aveva detto anche Antonio. Ne sarebbe uscito, da solo. Senza il suo aiuto.

Provò a pensare a cosa facesse prima di incontrare quei due ma si ritrovò a riconoscere, con sconcerto, che non riusciva a ricordare niente.

Pensava alla famiglia? Comparivano quei due. Pensava alle giornate estive e soleggiate, od anche a quelle fredde ed invernali, e comparivano sempre loro.

Loro.

Sono sempre stato tutto per me Antonio e Francis... I miei genitori, i miei amici, i miei fratelli... Tutto...Tutto...

Ed adesso si ritrovava a condividerli con altri e ciò gli creava un po' di fastidio. Il fatto che qualcun altro potesse ridere con loro, scherzare, o faceva sentire vuoto.

Come se lui, come se Gilbert, in tutti quegli anni non ci fosse davvero mai stato. Come se fosse il “numero tre” di un gruppo che, in realtà, era solo un duo.

 

-”Voglio spiegazioni.”-

La ragazza sembrava fuori di sé per la rabbia e la frustrazione. Arthur sbuffò.

-”Perché sei venuta fin qui, ragazzina? Tornatene a casa.”-accelerò il passo ma la castana non si fece intimidire. Prese a seguirlo.

-”Per ricordarti i tuoi doveri.”-

Un moto di fastidio lo invase, la guardò scettico.

-”Pensa ai tuoi.”-dichiarò acido. Imboccò una stradina ma fu afferrato per una manica, con forza e prepotenza. L'inglese si voltò innervosito, pronto ad aggredirla. Ma qualcosa lo fece tentennare. Forse quegli occhi di un verde acceso ed acquoso, forse quell'espressione ostinata e stanca. Possibile che quella ragazzina fosse cambiata ancora? Si ritrovò a riconoscere che, no, non era più davvero una ragazzina.

-”Arthur, non sei più un bamboccio, dannazione!”-sbottò lei-”Ormai sei un adulto, nostro padre è sempre andato troppo leggero con te. E' tempo di crescere e di rendersi utili!”-

Il biondo serrò la mascella, liberando energicamente la manica dalla presa ferrea di lei.

-”Non accetto critiche dalla ragazzine...”-distolse lo sguardo acido.

La ragazza lo guardò con occhi duri.

-”Smettila di chiamarmi così...”-

-”Sei solo una bambina cresciuta troppo in fretta.”-sputò acido-”Che cosa pensavi di dimostrarmi venendo fin qui? Che sai prendere un aereo? Ma brava!”-le diede le spalle e riprese a camminare.

La ragazza non sembrò ferita da quelle parole, le ignorò.

-”Finiscila, era da quando eravamo bambini che mi prendi in giro per non essermi mai allontanata da Londra. I tuoi insulti, le tue parole non mi fanno più male.”-dichiarò con una calma glaciale.

Il biondo di fermò.

-”Eliza... ”-si morse un labbro-”Tornatene a casa.”-

La ragazza ingoiò della saliva.

-”Non posso.”-

-”E perché?”-si voltò a guardarla-”Ti ha mandato lui?”-

Lo disse in un modo terribilmente e fastidiosamente infantile che, alle orecchie della ragazza, sembrava amplificarsi per mille. Un'ondata di profondo fastidio l'avvolse.

-”Come pensi che mi abbia mandato lui?!”-gli urlò con dolore-”Sono qui di mia iniziativa! Perché a casa, a Londra, c'è nostro padre malato e tu non ci sei!”-fece acida, sperando che, un minimo, quelle parole lo avessero sfiorato.

Il ragazzo strinse i pugni. Ma che si credeva quella bambinetta? Di potergli fare la predica? Di potergli spiegare come trattare suo padre?

-”Smettila di fare l'angelo, non ti si addice!”-fece un passo verso di lei, l'afferrò con rabbia per un braccio e la tirò a sé. I volti erano vicini-”E smettila di fingerti mia sorella, smettila di continuare a ripetere “nostro padre ha bisogno di te”. Tu non sei mia sorella e lui non è nostro padre. Lui è mio padre, non anche il tuo.”-sputò con acidità, quasi volesse farle un male profondo.

Per la prima volta da quando era iniziata quella conversazione, la decisione di Eliza sembrava tentennare. Anzi, i suoi occhi rabbiosi e duri sembravano essersi inumiditi.

Si morse un labbro, facendolo sbiancare. Arthur, nel vederla così, si rese conto di aver esagerato. Ma ormai non poetava più tornare indietro.

-”Perciò smettila di fingere di provare interesse per la mia famiglia. Smettila di fingerti la mia sorellina perfetta. Non lo sei, vattene via!”-

I loro volti erano ancora vicini. Il volto duro e rancoroso di lui, la fissava come per criticarla. Ma la ragazza, benché ferita, non distolse lo sguardo.

-”...”-aprì bocca ma era come se le parole non riuscissero più ad uscire-”Sarà anche vero...”-farfugliò, riuscendo a stabilizzare la voce e a frenare la voglia di scoppiare a piangere-”Non sarò davvero tua sorella e lui non sarà davvero mio padre, voi non sarete davvero la mai famiglia, ma...”-ingoiò della saliva, improvvisamente il suo sguardo tornò duro e deciso-”Ma non ho mai finto interesse o affezione verso la tua famiglia. Mai.”-gli diede una spinta carica di rancore che lo fece squilibrare indietro-”Tutto quello che ho fatto, tutti i sacrifici, erano solo per il vostro bene: per il tuo e per quello di papà.”-gli diede un'altra spinta che lo fece sbattere contro il muro alle sue spalle.

-”Hai ragione, non sono davvero tua sorella!”-sbottò, urlando con rabbia-”E sai un'altra cosa? Non mi interessa.”-gli urlò in faccia-”Non mi interessa essere accettata da te, per me puoi anche andare al diavolo, puoi rovinarti la vita come ti pare! Ma non ti permetterò di fare del male a tuo padre.”-sibilò-”Non te lo permetto.”-

Arthur teneva lo sguardo basso. Lo afferrò per i baveri.

-”Lui ha bisogno di te”-lo strattonò con forza-”Ha bisogno di suo figlio!”-urlò.

Il biondo uscì dalla sua presa.

-”E lasciami! Se sei tanto brava pensaci tu a lui. Se tieni tanto a far parte della famiglia tienitelo stretto! Ma non mettermi in mezzo...”-

Gli diede nuovamente le spalle, ricominciando la sua camminata. Eliza rimase ferma, con lo sguardo basso e furente.

-”Che tu lo voglia o no, ci sei in mezzo...”-Arthur si fermò, non si voltò a guardarla-”Sei suo figlio...”-

Il biondo si infilò le mani in tasca.

-”No.”-disse pacato-”E stato lui stesso a rinnegarmi, ricordi?”-

Riprese a camminare, ignorando la ragazza dietro di sé.

 

-”Come anche il fratello?”-chiese Gilbert sorpreso. Antonio ridacchiò.

-”Sì, sembra che persino il fratellino di Romano abbia certi gusti...”-porse il bicchiere stracolmo di birra all'amico. Il prussiano lo afferrò, spiazzato.

-”Bhè...”-alzò le spalle-”Cacchio, non finiscono più le sorprese...”-

Lo spagnolo annuì, buttando giù un altro sorso di birra.

-”Ah, sembra anche che viva in Germania.”-aggiunse.

Gilbert sembrava essersi perso nei suoi pensieri.

-”Chi...?”-

Antonio sbuffò.

-”Feliciano, Gil, Feliciano.”-lo guardò e, vedendo ancora quello sguardo interrogativo, gli caddero le braccia-”Il fratello di Roma, Gilbert. Vive in Germania.”-ripeté, cercando di farglielo entrare bene nella testa.

-”Ah, bene...”-rispose annuendo e tornando alla sua pinta.

In Germania, eh?

Bevve un altro sorso.

Feliciano... Feliciano... Dove ho già sentito questo nome? Dove...?

-”Sai, da quello che mi ha detto Roma, pare che quel Feliciano sappia ben quattro lingue...”-

Feliciano, Feliciano... Dov'è che lo sentito...?

-”L'italiano, l'inglese, lo spagnolo ed il tedesco...”-il riccio ridacchiò-”E' pazzesco, io conosco a mala pena la mia!”-

Feliciano... Felic...!

Per poco non sputò la birra.

-”Ma che diavolo di prende adesso, Gil?!”-fece allarmato.

-”Cacchio, ecco dove l'ho sentito questo nome!”-urlò quasi. Si alzò di scatto dallo sgabello davanti al bancone. Guardò con uno strano sguardo lo spagnolo-”Come hai detto che si chiama il compagno di questo Feliciano?”-

Il riccio lo guardò interrogativo.

-”Non l'ho detto perché non lo so.”-

Non lo sa?!

Gilbert si accasciò sul bancone.

-”Ma come non lo sai?”-dalla sua bocca uscì uno strano suono, simili ad un animale sul punto di morte-”Romano non te lo ha detto? Siete tutti pucci pucci e poi non vi dite queste piccole cose?”-

Antonio arrossì e lo guardò imbarazzato.

-”Noi non siamo... Pucci, pucci...”-borbottò, quasi non credendo nemmeno lui alle sue stesse parole. Gilbert lo guardò schifato. Come erano mielosi quei due. Non certo come lui e... Un momento, lui e chi? Lui non aveva nessuno\nessuna con cui poterlo criticare. Una cosa molto simile ad un attacco di depressione lo invase. Avrebbe tanto voluto dare una testata contro qualcosa di molto duro.

-”Ricordi mio fratello, Ludwig?”-chiese tentando di cambiare discorso. Il riccio annuì-”Bene, lui vive in Germania con un ragazzo italiano di nome Feliciano...”-

Il riccio fischiò, capendo.

-”Già.”-commentò il prussiano-”Dov'è ora Roma?”-

-”A fare un colloquio...”-

Gilbert alzò le sopracciglia sorpreso.

-”Già, si è da poco laureato e già lo hanno convocato.”-sorrise orgoglioso-”E' proprio forte il mio Romano.”-fece stringendosi nelle spalle.

Gilbert sbuffò e lo guardò ironico.

-”Sembri quasi sua madre da come ne parli...”-scuoté le mani-”Oh! E' proprio forte il mio Roma!”-gli rifece il verso in modo un po' più effeminato.

Antonio lo guardò in cagnesco. Si alzò dallo sgabello.

-”Ora devo andare a prendere Romano. Ho promesso che avrei pranzato con lui.”-lo fulminò con lo sguardo-”Gli chiederò per questa faccenda di tuo fratello...”-

-”Sì, ma bravo abbandonami per il tuo nuovo amichetto...”-fece con voce rotta dal dolore, e stringendosi le mani al petto. Il moro raccolse le sue cose, scuotendo il capo sconsolato.

-”Finirai mai di prendermi così in giro?”-

Gilbert gli stirò un sorriso.

-”Meglio che corri se no lo farai arrabbiare.”-fece provocatorio.

Il riccio ridacchiò.

-”Stammi bene, Gil...”-

-”Sì, sì.”-fece sprizzante, fingendo disinteresse.

Come se fosse facile...

 

Quelle parole gli avevano fatto un gran male. Un dolore atroce che, più passava il tempo, più si tramutava in rabbia.

Era vero, lei non faceva parte di quella famiglia. Lei era la semplice figlia della domestica deceduta, ed adottata dal capo famiglia solo per compassione.

Eliza si mise a sedere sul letto dell'albergo in cui alloggiava. La sua infanzia era stata dura e, dopo la morte della madre, lo era stata ancora di più. Ma, quell'uomo, il padre di Arthur gli aveva offerto una casa, gli aveva offerto calore ed amore.

Quell'uomo le aveva dato modo di studiare e di vivere come tutti i bambini della sua età, le aveva ridonato il sorriso. E lei non poteva che essergli grata per tutto il bene che le aveva donato.

Era per questo che, ora che lui era diventato anziano, Eliza si prendeva cura di lui. In un qualche modo doveva ripagarlo.

Poi c'era Arthur.

Arthur, il “fratello” che aveva sempre temuto e rispettato da bambina. Da quando ne aveva memoria non erano mai andati d'accordo ma, dentro di sé, Eliza sapeva che quel ragazzo scostante aveva un gran cuore. In molte occasioni lo aveva dimostrato, era solo molto insicuro e solo.

Già, solo. Perché se lei aveva avuto tutto l'amore del padre adottivo, Arthur; per via del suo carattere scostante e duro, non era mai riuscito a recepirlo chiaramente.

Eppure, lei poteva confermarlo, quell'uomo amava in un modo dolcissimo il figlio. Era vero, in passato entrambi avevano sbagliato: sia Arthur che il padre.

Ma perché continuare ad avercela così tanto tra di loro?

Come si poteva ignorare il lamento di un padre che stava per morire? Che stava per essere portato via dalla malattia? E come poteva un uomo ignorare le esigenze disperate di un figlio?

Come?

Eliza se lo era sempre chiesta ma non vi aveva mai trovato risposta.

L'unica cosa che sapeva era che quei due si volevano un bene dell'anima nonostante continuassero a non volersi vedere, a non volersi parlare.

Ed alla ragazza faceva un gran male.

Sì, faceva male vedere come padre e figlio fossero così simili nella loro stupidità. Come li trovava sciocchi quei due. Lei, se avesse avuto la possibilità di riavere indietro sua madre; anche solo per poco, sarebbe stata più che felice.

Invece, quei due idioti, che potevano vedersi e chiarirsi una volta per tutte non lo facevano.

Si sdraiò sul letto, con lo sguardo spento fisso sul soffitto. Le sfuggì un sorriso stanco. Sapeva che preso sarebbe arrivato quel momento.

Il momento in cui suo padre adottivo avrebbe chiuso gli occhi e non li avrebbe più riaperti. Com'era invecchiato da quando la malattia lo aveva avvolto nella sua aria malsana.

Quante rughe si erano aggiunte al suo viso pallido e smorto. Non poteva più alzarsi dal letto, non poteva più correre, non poteva più camminare.

Sorpresa, un tumore al cervello.

Ormai non riusciva nemmeno più a dire cose di senso compiuto. Chiuse gli occhi, ricordando i tempi in cui, quell'uomo, era ancora lucido, quando era ancora forte.

Sentì le lacrime premere contro le palpebre.

Quell'uomo dei suoi ricordi non era che l'ombra di quel corpo che adesso giaceva su un misero letto a Londra. Eppure era stato un uomo importante una volta, era stato un grande.

Possibile che la sua fine dovesse essere così misera? Eliza sentì il fiato mancarle. E quando sarebbe arrivato quel giorno cosa avrebbe dovuto fare? Lui non ci sarebbe più stato e lei sarebbe rimasta sola. Ora le lacrime sembravano così tante che sentì come gli occhi corrodersi.

Possibile che Arthur non riesca a capire?
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Note

Nessuna decisione è semplice... Ma come si possono lasciare le cose così?
*perdonate l'atroce ritardo ^^""*

Honodetsu:D

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Capitolo 26
*** 26 ***


Lo rivoglio indietro...

Perché quello a dover sbagliare doveva essere sempre lui? Perché, per una volta, non potevano essere in due ad aver fatta un errore?

Dal modo in cui Arthur lo aveva guardato, dal modo in cui gli aveva parlato, sembrava voler dire: “E bene? Ora cosa vuoi? Cosa vai cercando? Quello che c'è stato tra di noi era solo sesso... Se poi ti sei innamorato è stato un tuo errore.”

Un mio errore...

Ma allora perché ogni singola volta che ripensava a quei tempi, negli occhi verdi di quell'inglese, vedeva amore? Perché ogni volta che ricordava, e riviveva quelle fantastiche emozioni, riusciva a rivederle, con una dannata chiarezza, anche nel volto di Arthur?

Lo rivoglio indietro...

Già, lo rivoleva indietro.

Rivoleva indietro l'Arthur di quei tempi. L'Arthur che, seppur con indecisione e vergogna, lo amava e non aveva paura di dimostrarlo.

Si strinse una mano sul petto, come se, proprio in quel punto, vi si fosse aperta una voragine. Come poteva, quell'inglese, aver detto con tanta fermezza cose simili? Come poteva davvero credere che quello tra di loro era solo sesso? Come?

Sentì come lo straziante desiderio di smettere di ragionare, di pensare. Si lasciò scivolare lentamente sul letto, con gli occhi chiusi e gli arti molli.

Perché non sono riuscito a parlargli? A dirgli quello che provo, quello che ho provato durante tutto questo tempo senza di lui...? Perché non gli ho chiesto spiegazioni?!

Strinse con forza gli occhi e la mascella.

Perché, invece che lasciarsi trasportare dal desiderio, non gli aveva parlato? Perché, come al solito, aveva pensato prima al piacere?

 

Il rumore della porta d'ingresso che si apriva molesta.

Gilbert, con la testa posata sul bancone e coperta dalle braccia, non fece il minimo movimento.

Dannazione, credevo di aver chiuso la porta... Adesso chi diavolo sarà?

Non si mosse, non alzò la testa per vedere chi fosse. Dei passi indecisi si fecero più vicini. Bhè, chiunque fosse non aveva intensione di andarsene.

Il prussiano sbuffò. Ma perché, quando non voleva essere disturbato, le persone sembravano addirittura andare a fare la fila per importunarlo?

-”Ehi, tutto bene...?”-chiese una voce femminile. Gilbert alzò il capo, stupito dall'udire la voce di una donna. Quello che si ritrovò davanti era decisamente un bel vedere.

-”Allora?”-chiese lei.

Capelli castani, occhi verdi, viso ovale, pelle chiara, corpo snello e slanciato: impossibile non notarla. La guardò con occhio critico. Era troppo bella, l'esperienza gli diceva che doveva esserci, per forza, qualcosa di sbagliato in lei.

-”Ehi...?”-ripeté la ragazza, fissandolo.

-”Scusa...?”-chiese lui con placidità, guardandola con disinteresse.

Dopo un attimo di esitazione, la castana, si mise a sedere sullo sgabello. Lo guardò quasi con un velo di ironia.

-”Vorrei da bere.”-disse. Lui le diede le spalle.

-”E' chiuso.”-

La ragazza sbuffò, rumorosa.

-”Puoi chiudere un occhio?”-

-”Mi piacerebbe, ma credo che non sia possibile.”-

-”Avanti, ormai sono qui seduta.”-disse un po' dura.

Gilbert sembrò cominciare ad irritarsi. Si voltò, incontrando uno sguardo che lo colpì e che, allo stesso tempo, lo innervosì. Cercò di rimanere calmo, stirò un sorriso forzato.

-”Così come ti sei seduta, tesoro, puoi rialzarti.”-

-”Guarda che ti pago.”-

-”Non sono corrompibile, spiacente.”-

La castana alzò un sopracciglio.

-”Corrompibile?!”-fece cinica-”Ma sei serio? Sei un barista del cavolo, cosa ti aspetti che facciano i tuoi clienti se non pagarti?”-

A quelle parole, Gilbert, si girò piccato.

-”Barista del cavolo?!”-fece nevrotico-”Chi ti credi di essere, biondina?”-

-”Non sono bionda, sono castana.”-affermò lapidaria.

-”Fa lo stesso, sempre un'arrogante rimani.”-le ringhiò.

Lo guardò aspra. Rimasero per qualche secondo a guardarsi in cagnesco. Poi lei sembrò abbassare un poco la guardia.

-”Sono naturali quei capelli?”-gli chiese-”E quegli occhi...?”-fece indicandolo distrattamente con un dito. L'aria irritata e dissociata di Gilbert scomparì nel suo imbarazzo.

-”Ehi, ma che centra?!”-chiese, arrossendo e portandosi le mani sui capelli chiari, come per coprirsi-”Vedi di smammare, piuttosto!”-

Lei sorrise, posando con leggerezza la guancia su un palmo.

-”Sembri un tipo solo...”-ridacchiò, sotto lo sguardo sorpreso dell'altro-”Ma è meglio così, sai? Si diventa più forti...”-abbassò lo sguardo ed a Gilbert, per un attimo, gli parve di scorgere dell'altro in quel verde-”E soprattutto non si è legati a nessuno...”-tornò a guardarlo, sorridendo. Il prussiano si chiese da dove avesse tirato fuori quel sorriso. Quelle labbra tirate in un sorriso, né troppo grande, né troppo piccolo. Gli porse una mano.

-”Mi chiamo Eliza, vengo dall'Inghilterra.”-

-”Eliza...?”-chiese lui, confuso da quella ragazza e dai suoi sorrisi.

-”Sì,”-fece lei-”sta per Elizaveta...”-sorrise ancora, con uno dei suoi sorrisi carismatici-”Ho origini ungheresi, da lì deriva il nome. Ma sono nata a Londra.”-

Fantastico... Un'altra inglese...

Si ritrovò a stringerle la mano assorto, fissandola incapace di dire nulla. Si riscosse.

-”Ma... Ma che mi frega di chi tu sia!?”-disse, dicendolo più per sé stesso che a lei-”Che mi frega della storia della tua vita!? E' chiuso, sparisci!”-fece, liberando la mano e sbuffando. Ma la ragazza non sembrò prestare molto peso a quelle parole.

-”Dai, preparami qualcosa...”-fece lei, ignorandolo, e stirando le braccia in avanti-”Qualunque cosa, a te la scelta.”-

Il tedesco la guardò malissimo. Eliza sorrise.

-”E poi ti giuro che me ne vado.”-

Rimase qualche altro secondo a fissarla. Ma chi diavolo si credeva di essere quella tipa? Un qualche componente della famiglia reale spagnola?

Sbuffò, rendendosi conto che, effettivamente, non la voleva tra i piedi ma che non la trovava poi nemmeno tanto fastidiosa. Le diede le spalle e grugnì.

-”Birra in arrivo...”-bofonchiò.

Lei annuì soddisfatta.

-”Ottimo.”-

Gli sembrò così strano, ma sentiva il disperato bisogno di qualcuno intorno. Anche di qualcuno che gli desse fastidio, che lo prendesse in giro: tutto andava bene, purché non rimanesse da solo. E poi in quella ragazza c'era qualcosa di strano. Un qualcosa che lo attirava e che al tempo stesso gli istigava fastidio.

E si ritrovò a guardarla con descrizione tra un movimento e l'altro, mentre la castana continuava ad osservare il locale intorno a lei. Forse erano quei suoi sorrisi, quel suo modo di fare arrogante. La guardò meglio e si ritrovò quei due pozzi verdi ricambiarlo. Rabbrividì interiormente.

No, erano quegli occhi ad averlo in qualche modo colpito.

-”E' tuo il locale?”-chiese.

Ecco che cominciava con le domande. Alzò gli occhi al cielo e si grattò infastidito una spalla.

-”No.”-rispose secco. La guardò male-”Ma che ti frega?”-

-”Era per parlare di qualcosa...”-si giustificò candidamente la ragazza, guardandolo con sguardo indagatore. Il prussiano sbuffò.

-”Ecco...”-fece sbrigativo, posandole la pinta sotto il naso in modo molto rude-”Bevi e smamma.”-le diede le spalle e finse di ripulire qualche bicchiere.

Eliza si portò la birra alle labbra, lo guardò piccata.

-”Sarai troppo gentile con i clienti?-

Un'ondata di irritazione gli percorse la spina dorsale. Ecco, era esattamente quello, il “qualcosa”, che lo faceva uscire fuori di sé per il fastidio.

-”Non con quelli che si imbucano negli orari di chiusura.”-rispose-”Che cavolo vieni a bere una birra alle quattro del pomeriggio?!”-

La ragazza ridacchiò.

-”E tu che ci fai qui dentro, tutto solo, se il locale è chiuso e non è nemmeno tuo?”-chiese, con aria divertita. Ciò, spiazzò il tedesco.

-”Ecco, io...”-ci pensò su. Era vero, che faceva lì dentro da solo? Se lo chiese e non seppe darsi risposta. La realtà era che, oltre a quel posto, non sapeva dove andare.

Eliza continuava a guardarlo, come sinceramente interessata ad una eventuale risposta. Gilbert rimase a guardarla, rendendosi conto che oramai era arrivato davvero al limite.

Ignorato dai suoi amici, privo di una propria vita e reclutato, di sua stessa folle volontà, all'interno di quel pub, con una cliente improvvisa e parecchio anormale.

Sono davvero un perdente... Altro che mitico... Altro che magnifico...

-”Non dovresti fare certe domande...”-brontolò nervoso. Sospirò, rendendosi conto di star toccando il fondo-”Ci potrebbero essere delle risposte...”-

Eliza rimase colpita da quelle parole dette con tanta stanchezza. Si ritrovò a riconoscere che, in un certo senso, potevano avere una loro logica. Buttò giù un po' di birra.

-”Ho capito... Devi essere uno di quei tipi infelici che passano il loro tempo a scolarsi alcolici su alcolici, credendo che così la loro vita migliori.”-

Qualcosa di molto pesante sembrò precipitare sulla testa di Gilbert. Sbuffò e ridacchiò amaro.

-”Wow, sembro davvero quel tipo di persona?”-chiese, diventando di colpo più socievole.

-”Già, sembri il peggio del peggio con quella faccia lunga...”-rispose.

Quando diavolo poteva essere diretta quella donna?

L'ennesima pugnalata per la sua autostima. In quel periodo stava avendo un calo mostruoso.

-”Ti sbagli, sono una persona completa e felice.”-fece alzando le sopracciglia e ridacchiando.

-”Tutte balle, nessuno lo è davvero.”-

Gilbert alzò un sopracciglio.

-”Scusa?”-stava cominciando davvero a trovarla fastidiosa.

-”Non esiste una persona, in questo maledettissimo mondo, che sia davvero felice.”-

Il prussiano si passò una mano sulla fronte. Ecco, gli era capitato la tipa più strana di tutta Londra, probabilmente.

-”Ma quanto siamo ottimisti, signorina.”-fece ironico.

-”Sono solo realista.”-fece acida.

Lui sospirò. Capiva quello che intendeva dire ma come poteva accettarlo? Come poteva accettare che non esistesse davvero la felicità? Che era impossibile raggiungerla?

Sorrise amareggiato.

-”Sono proprio le persone come te le più infelici, sai?”-rispose lui, sorprendendola. Eliza cercò di ricomporsi. Si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

-”Ah, sì?”-stirò un sorriso che doveva sembrare allegro.

-”Già, andate dicendo che la vita è dura e triste, che lo sarà sempre. A nessuno escluso...”-abbassò lo sguardo sul bancone, assorto-”Ma come potete confermarlo? Infondo voi vivete solo la vostra di vita, che ne sapete di quella degli altri? Voi potete fermarvi solo alle vostre di esperienze. Vi fermate a confermare solo quello che avete raggiunto voi... O meglio, a quello che non siete riusciti a raggiungere.”-l'ungherese rimase a fissarlo intensamente.

Dietro a quel caratteraccio ostile e solitario le parve di intravedere dell'altro. E si sorprese a scoprire che, proprio quel ragazzo dalle iridi rosse che ispirava tanto pregiudizio e sembrava il male fatto persona, le si delineò in tutt'altra forma.

Rimase a fissarlo, analizzando ogni singolo particolare del suo viso assente. Quei capelli chiarissimi, quasi bianchi, non le parvero poi così anormali. Così come quegli occhi.

Persino i suoi lineamenti, prima tirati in un'espressione di perenne arroganza, adesso apparivano dolci, rilassati. Si sentì persa in quel silenzio che era andato a crearsi, persa in quel viso, persa in quella strana aura che sprigionava quel corpo davanti a lei.

-”Bene,”-fece lui, tornando a guardarla con un sorriso strafottente-”ora puoi anche pagarmi ed andartene.”-

-”...”-

Quella frase aveva appena squarciato ogni singolo pensiero, che poteva essere positivo, su quel ragazzo. Sbatté una banconota sul bancone e si alzò di scatto.

-”Grazie tante per l'intrattenimento, amico!”-esclamò irata, dirigendosi a gran passi verso l'uscita.

Il tedesco si chiese che le prendesse all'improvviso.

-”Ehi, è troppo!”-tentò di dirle.

-”Al diavolo, tanto a breve me ne tornerò in Inghilterra, tieniti il resto.”-dirò a sé la porta con fastidio ed uscì.

E Gilbert tornò di nuovo solo, in quel silenzio opprimente.

Dannazione... Perché se ne è andata davvero...?
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Note

Perché, tentare di raggiungere la felicità, è così difficile?

Honodetsu:D

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Capitolo 27
*** 27 ***


Era già da parecchio che quella ragazzina cocciuta stava sotto la sua finestra, attendendolo calma. Arthur scostò lievemente le tende, guardando, con una speranza vana, che avesse rinunciato. Ed invece, eccola, posata al muretto che circondava il palazzo con le braccia piegate sul petto.

Al biondo venne quasi da piangere. Perché insisteva così? Perché non se ne tornava in Inghilterra? Per un attimo aveva creduto che la loro ultima discussione l'avesse in qualche modo turbata, infastidita. Insomma, aveva sperato che almeno, dopo quelle parole acide e dure che le aveva rivolto, non volesse più avere niente a che fare con lui.

Ed invece si sbagliava.

Ma quando mai aveva ragione? Quando mai almeno una delle sue ipotesi diventavano realtà? Sbuffò, distogliendo lo sguardo da quella figura imbronciata di cinque piani più in basso.

Niente di quello che si era programmato era riuscito a rimanere, anche solo lontanamente, nei piani. Venire in Spagna, rimanere giusto un paio di giorni, chiudere con questa assurda fissa di quel francese e tornarsene una volta per tutte tranquillo a Londra. A vivere la propria vita.

Ce ne fosse stato almeno uno, tra quei paletti che si era prefissato, che avesse seguito e portato a termine.

Infatti, arrivato a Madrid con l'intensione di chiudere un capitolo disastroso della sua vita, si era ritrovato con una casa in affitto. Si era ritrovato a stare lì per mesi, passando sempre per le stesse strade. Passando sempre, per casualità; o almeno così lui si ripeteva, davanti a quel maledetto pub; la cui esistenza, era stata scoperta solo da poco.

Già.

Francis aveva un pub.

Francis aveva parecchi amici.

Francis era uno stronzo.

Ma quello probabilmente lo sapeva già da tempo.

Eppure faceva male. Sì, faceva male scoprire che, quella persona di cui sapeva ogni singola cosa di noi, che si era sempre creduta vicina; in realtà ci era distanti anni luce.

Ma Arthur lo aveva sempre saputo, alla fine. Lo sapeva anche quando si ritrovava lì, nel suo letto, entrambi sdraiati a guardare il soffitto e a scambiarsi dolci baci; mentre gli parlava e gli diceva di lui, della sua vita; di suo padre, del suo modo di vivere.

Sì, già lo sapeva, lo sapeva anche nel momento in cui gli si denudava davanti, raccontandogli ogni singola cosa di lui.

Sapeva che in realtà Francis gli era lontano.

Lontano.

Lontanissimo.

Distante più mondi, rispetto al suo.

Così distante che, anche se lo aveva d'inanzi, gli sembrava che, allungando una mano, potesse toccare solo il vuoto.

Ed anche se lo aveva sempre saputo non aveva cercato di porre rimedio, non aveva mai cercato di intromettersi poi più di tanto nella sua vita.

Non aveva mai insistito più di tanto nel farsi dire come tirava avanti, quali amici frequentasse. Niente, tutto quelle che conosceva di lui erano quegli occhi, quei capelli e quella stanza.

Quella stanza e quel letto.

Ciò gli procurò un'immensa amarezza.

Perché? Perché deve essere così? Perché non ho provato ad insistere di più? Perché in quelle estati, quando ero ancora in tempo, non ho cercato di conoscerlo?

Ed ecco, ora era lì. Conosco degli errori commessi ed incapace di risolverli, incapace di dimenticarli ed andare avanti.

Aveva due vie davanti a lui: o scostare quelle tende ed accettare il panorama offerto da Eliza, oppure accettare quello offerto da Francis.

Sbuffò, già, alla fine la cosa da fare era solo quello di accettare panorami: o una casa lussuosa a Londra, con un padre malato, oppure uno squallido letto di Madrid; con un francese pronto ad accoglierlo a braccia aperte.

Quanto sono egoista?

Stupida domanda, la risposta già si sapeva.

Si morse un labbro, sapendo che quel suo stupido capriccio di voler andare a Madrid stava solo compromettendo la salute del padre.

Perché non vuoi aiutarlo?!”

Quante volte Eliza glielo aveva gridato in faccia, esasperata?

Perché insisti a remare contro? Perché non ti comporti da figlio e non lo aiuti?! Non vedi che sta morendo?!”

E dopo aver urlato quell'ultima parola si era fermata, forse rendendosi conto anche lei, all'improvviso; dell'assurda realtà di quella frase.

Ed era scoppiata a piangere.

Già, stava morendo.

Morendo...

La morte. Che assurda e sciocca compagna di vita.

Gli venne da sorridere amaro.

Non voglio che muoia... Non voglio...

Una lacrima gli rigò il volto.

Ma come posso ripresentarmi a lui dopo tutto quello che gli ho fatto passare? Come posso andargli davanti e dirgli che va tutto bene? Che io sono tornato sulla retta via, che amo le donne e che amo la vita? Come posso farlo?!

Lui non amava le donne.

Lui non amava la vita.

Avrebbe volentieri rinunciato alla sua per poterla donare al padre. Lo avrebbe fatto, davvero, perché lui gli voleva bene. Gli voleva bene anche quando gli urlava in faccia parole crude. Anche quando lo guardava con occhi duri.

E se adesso muore...?

Vuoto nella sua mente, vuoto nel cuore.

Se fosse morto come avrebbe potuto dirgli tutto quello che realmente provava per lui? Come avrebbe potuto fargli capire che, in realtà, gli voleva bene?

Scoppiò a piangere e pianse forte, rumoroso, senza ritegno.

Non lo voleva pensare, perché gli dava fastidio anche solo accennare a crederlo. Ma lo sapeva, perciò o pensò lo stesso.

Ho bisogno di Francis...

 

Poteva credere quello che voleva.

Poteva dire che era un'idiota, che era uno stupido maniaco e menefreghista. Poteva dire che era pieno di difetti, di contraddizioni.

Ma non poteva dire che quello che c'era stato tra di loro non era amore.

E proprio per questo che adesso si trovava a camminare a gran passi sotto quel palazzo, dirigendosi spedito verso l'entrata.

Sapeva che era lì, era un appartamento che si era preso per tutte le volte che, d'estate, veniva a Madrid. Era vero, non aveva certezze che Arthur avesse continuato a pagare l'affitto per tenersi una casa che, da tre anni, nemmeno vedeva: ma lo conosceva.

E sapeva, se lo sentiva, che se lo avesse trovato in quell'appartamento avrebbe potuto affermare con assoluta certezza che ancora lo amava.

Che lo amava nonostante tutto quello che dicesse.

Perciò, arrivato al quinto piano, si ritrovò a fissare la porta silenzioso. Rimase qualche secondo lì, fermo, in ascolto, sentendo di tanto in tanto dei rumori provenire dall'appartamento.

Dei rumori che sembravano quasi dei singhiozzi.

Posò una mano sulla porta con estrema delicatezza, quasi immaginasse di poter toccare Arthur. Chiuse gli occhi.

Quanti sbagli e quanto dolore in questi anni...

Sorrise e li riaprì.

E' tempo di cancellare tutto, di riscrivere da capo e di mettere un bel lieto fine... Non è vero, Arthur? Tu non la pensi così?

Ancora singhiozzi, ora li distingueva bene. Gli parve come di poterlo vedere, attraverso la porta, seduto sul divano a piangere. Con la faccia coperta dalle ginocchia, come se si volesse nascondere al mondo. Ma era una persona troppo bella, era una persona troppo buona da poter essere tenuta nascosta al mondo.

E furono questi pensieri che lo spinsero a bussare.

Silenzio.

Ora i singhiozzi erano cessati, tutto scivolava in una quiete malata.

Francis sorrise nell'immaginarlo ignorare quel suo bussare, nel suo rimanere fermo ed aspettare che; chiunque fosse aldilà della porta, se ne andasse.

Ma lui non aveva intensione di andarsene, perciò bussò ancora.

Niente.

Ancora un altro colpo.

Silenzio.

Un altro ancora.

Nessun movimento.

Il francese sorrise. Tanto avevano tutto il giorno.

All'ennesimo bussare qualcosa cambiò.

-”Chi è?”-chiese incolore.

-”Lo sai...”-

Silenzio.

-”Cosa vai cercando...?”-chiese con una voce che doveva apparire aggressiva ma che non gli riuscì.

-”Te.”-

-”...”-probabilmente avrebbe voluto parlare ma nulla uscì dalle sue labbra. Forse avrebbe voluto chiedergli come avesse fatto a trovarlo, come sapesse quell'appartamento fosse ancora suo.

Ma non disse nulla. Tanto che Francis sorrise tra sé, aspettando, da un momento o l'alto, una qualche forma di cedimento da parte dell'inglese.

-”Vattene, ti prego...”-ma ricevette solo una supplica.

In quelle parole sembrava averci intriso tutto il suo dolore.

-”Ti va di parlare?”-

-”...”-

-”Non c'è bisogno di aprire la porta, possiamo parlare anche così.”-continuò calmo, Francis.

-”Non c'è niente da dire. E' tutto uno sbaglio...”-

Il francese sospirò, soffrendo un poco per quelle parole dette con tanta sofferenza.

-”Arthur...”-fece diventando all'improvviso serio e duro-”Io voglio amore.”-

L'inglese tacque, forse chiedendosi cosa volesse dire quello svitato.

-”Voglio amore.”-ripeté-”Voglio il tuo amore.”-strinse le mascelle, posando convulsamente la mano sulla porta-”Cosa c'è di sbagliato in questo?”-

-”...”-sembrava che qualcosa trattenesse l'inglese. Forse l'orgoglio, forse la paura.

Forse le lacrime.

-”Tutto!”-sbottò, ormai non tentando nemmeno più di trattenere il pianto-”Tutto, dannazione! Ci fosse anche solo una cosa giusta! Tu non dovresti essere qui, io non dovrei essere qui!”-

Francis si morse un labbro.

-”Però ci siamo, ed ora?”-lo interruppe-”Ed ora che vogliamo fare? Continuare a piangerci addosso per come sono andate le cose, oppure porre rimedio?”-

Silenzio.

Francis sospirò, cominciando a sentirsi male. Posò la fronte sulla porta, non sapendo cosa dire.

-”In questi tre anni...”-la voce dell'inglese arrivò flebile. Si interruppe-”Mio padre scoprì il motivo per cui tutte le estati venivo qui...”-

Francis ingoiò della saliva.

-”Lo scoprì e mi disse di non andare più, di smetterla di correre dietro a certi stimoli...”-ridacchiò con dolore-”Lui li aveva definiti impuri.”-gli occhi di Francis si chiusero con dolore-”Sai, lo avevo sempre pensato anche io, sì; insomma, lo avevo pensato tutte le volte che passavo da un letto all'altro di un ragazzo di verso; lì a Londra...”-prese una pausa sofferta-”Ma dopo averti incontrato... Ecco, non so... Questa mia maledizione, questo mio non essere puro... Ecco...”-probabilmente si era avvicinato alla porta, poiché la voce si era fatta più forte e vicina-”Non mi sentivo più sporco. Con te mi sentivo normale, come se quello che avevo fatto con tutti gli altri fosse stato solo uno sbaglio; mentre quello che facevo con te fosse giusto, fosse buono...”-

Francis sospirò.

-”Allora perché non sei più tornato...?”-

-”Forse fu il sentirselo dire... “Impuro”... O forse fu il fatto del sentirselo dire dal proprio padre... Non so.”-ennesima pausa-”Ma finii per crederci davvero.”-

Il pugno del francese si strinse.

-”Finii con il credere che tu eri stato l'errore più grande mai commesso. E decisi di chiudere i ponti, di interrompere le comunicazioni... Di non tornare più...”-

Tutto piombò nuovamente nel silenzio.

-”Lo pensi ancora?”-chiese il francese.

Arthur sospirò.

-”Che importa?”-chiese placidamente-”Io non ti conosco davvero, non so chi tu sia. Non so niente di te. Del tuo passato.”-

Francis si morse un labbro.

-”E' così importante...?”-

Quelle parole sembrarono fare malissimo ad Arthur.

-”Se è importante?!”-ripeté-”Dannazione, tu sai tutto di me, perché io non dovrei sapere nulla di te?”-gli urlò, irato e stanco. Francis strinse i pugni, sentendosi piccato.

-”E cosa diavolo vorresti sapere, dannazione?!”-sbottò-”Che sono un poveraccio? Che ho sempre vissuto in un dannato e schifosissimo appartamento in affitto, fin da bambino?! Che non son mai stato amato, seguito? Che sono sempre stato usato? Che ho sempre avuto una vita da schifo?! Cosa vuoi che ti dica, eh, Arthur?”-l'inglese sembrò intimidito da quelle parole-”Vuoi sentirti dire che non stai messo poi così male? Hai bisogno di sentirti dire che qualcun altro sta peggio di te per sentirti meglio?!”-

-”Sai benissimo che non intendevo questo...”-disse a mezza voce, l'inglese.

-”E bene, sì.”-lo interruppe, ignorandolo-”Stai meglio tu, hai avuto una vita migliore della mia e continui ad averla. Tu hai potuto studiare, avresti potuto continuare gli studi, tu vivi in una villa che detesti con tutto te stesso, vivi con un padre che ti ama e che si preoccupa per te!”-sbatté le mani contro la porta-”Sì, cazzo! Tu hai una vita migliore della mia! Ti senti meglio, ora?!”-

Silenzio.

Francis riprese fiato. Si morse un labbro, cercando di calmarsi. Si rese conto che forse aveva un po' esagerato.

-”No...”-fece, Arthur. Il francese aggrottò le sopracciglia-”No, non mi sento meglio...”-

-”Nemmeno io...”-confessò il biondo, a mezza voce, sul pianerottolo.

Serrò gli occhi. Ma che gli era saltato in mente? Lo aggrediva? Era venuto fin lì per portare pace, non battaglie.

-”Perdonami, Francis...”-

-”...”-non riuscì a rispondergli.

-”Dovresti essere tu quello arrabbiato, quello stanco...”-sospirò-”Scusa davvero, devo averti ferito... Tre anni, maledizione... Tra anni...”-

-”...”-avrebbe voluto parlare, ma tutto il dolore di quegli anni sembrava essersi concentrato nella gola.

-”Davvero, scusa... Sono stato un'idiota... Sono un'idiota...”-ora doveva essere proprio davanti alla porta-”Me ne sono andato credendo che l'unico a soffrirne sarei stato io... Invece...”-

-”Amami...”-

-”Cosa?”-chiese l'inglese.

-”Allora, amami...”-fece serio-”Se ti dispiace, torna ad amarmi.”-

-”...”-

-”Torniamo come un tempo.”-sorrise, sentendosi d'un tratto sereno, rappacificato-”Anzi, facciamo di meglio. Ricominciamo d'accapo: ci riconosceremo a vicenda e ci ameremo come non mai!”-

-”Francis...”-fece debolmente.

-”Ti prego, Arthur!”-fece stringendo le mani sulle maniglia della porta-”Riproviamoci!”-

-”...”-

-”Arthur!”-

-”Non posso, Francis...”-

-”Perché?!”-

-”...”-

-”Arthur...? Perché?”-

Ancora silenzio.

-”Mio padre è malato...”-

Il francese scosse la testa.

-”Mi dispiace... Ma...”-

-”Cosa centra?”-lo interruppe, l'inglese. Francis annuì, con imbarazzo-”Centra che io non doveri essere qui... Che dovrei essere a Londra con lui...”-

 

-”Sì... Si chiama Ludwig...”-borbottò l'italiano-”Perché me lo fai ricordare ancora? Come se non fossi abbastanza sotto shock...”-

Antonio si grattò la testa.

-”Romano, amore mio...”-ridacchiò-”Forse è meglio che ti siedi un attimo...”-

Il ramato lo guardò truce.

-”Che c'è? Che ti prende ora?”-

-”Tu fa come ti dico...”-lo fece sedere e lo baciò veloce sulle labbra, facendolo arrossire. Gli si avvicinò all'orecchio.

-”Pare proprio che, questo fantomatico Ludwig, sia il fratello minore di Gilbert...”-

Silenzio.

Tutto sprofonda in un oblio di silenzio.

Gli occhi si spalancano la bocca per poco non tocca terra.

-”Coooosaaaa??!”-
----------------------------------
Note

Sorpresa!! XD

Honodetsu:D

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Capitolo 28
*** 28 ***


Tanta gente... Troppa gente... E troppo caldo...

Il pomeriggio era scivolato via lento sotto il suo naso, quel giorno. Non che la cosa gli avesse in qualche modo dato fastidio. Eppure si sentiva strano, come se, nonostante tutto si muovesse con un'oscena velocità intorno a lui, stesse ancora da solo in quel pub.

Nella penombra di quel pomeriggio e nella solitudine.

Eppure, no, non era più solo. Intorno a lui c'era gente, tantissima. Forse era per questo che si sentiva soffocare. Forse era per questo che sentiva tutto questo caldo.

Posò i bicchieri sul bancone, davanti a dei clienti. Quante volte, quella sera, aveva ripetuto quel gesto? Quante?

Il cervello scoppiava, la testa pesava, gli arti erano deboli.

Da troppo, evidentemente.

Si guardò intorno sorpreso, come se solo in quel momento si fosse reso conto che tutta quella gente emetteva una gran confusione. E la sua testa urlava per il dolore.

Si passò una mano sulla fronte e si scoprì sudato. Lo sguardo tornò a vagare, alla ricerca di qualche faccia conosciuta. Ma incontrò solo quella di Antonio.

-”Ehi, Gil, sei pallido, ti senti bene?”-chiese, vedendolo barcollare.

Il tedesco si passò una mano sulla nuca sudata, tentando inutilmente di apparire calmo. Fece una smorfia ed alzò le spalle.

-”Hai sentito Francis?”-

Lo spagnolo scosse il capo, posando delle bibite.

-”Non lo sento da un po'...”-

Il prussiano si passò una mano sul volto, sospirò. Gli mancava l'aria. Il riccio tornò a guardarlo. La già chiara carnagione di Gilbert gli parve ancora più pallida. Sbuffò.

-”Da quanto sei qui dentro?”-chiese, distrattamente, ma con una nota di rimprovero.

-”Uhm...”-grugnì, guardando altrove. Antonio non lo guardò, continuò a preparare da bere, serio.

-”Quanto sono arrivato, tu eri già qui... Dov'eri oggi pomeriggio?”-

Gilbert si guardò le mani. Erano rovinate e piene di calli, tutta colpa della polvere e del detersivo per piatti. Anche quella domanda fu destinata a cadere nel vuoto.

Lo spagnolo, non sentendo risposta, si addolcì. Sospirò, lasciando morbide le spalle.

-”Ok...”-sorrise-”Non vuoi parlarne, vero?”-diede le bibite ad i clienti e si asciugò le mani su un canovaccio, guardandolo calmo e sereno.

Gilbert strinse la mascella.

-”Parlare di cosa...?”-fece, quasi intimorito dal fatto che Antonio avesse, in qualche modo, intuito qualcosa del suo malessere interiore.

Antonio rimase per qualche momento a guardarlo, quasi divertito, studiandolo. Osservando ogni sua minima espressione.

-”Già...”-fece, dopo un po'-”Non vuoi proprio parlarne, eh?”-

Il biondo platino rimase in silenzio, non sapendo cosa dire. L'unica cosa che riuscì a fare fu quella di scuotere con arroganza e menefreghismo le spalle, stirando le labbra in uno dei suoi soliti ghigni.

No, forse sta volta non era proprio uno dei suoi soliti sorrisi strafottenti.

No, decisamente, no.

Sta volta, nascosta, c'era una nota di dolore.

 

Il rumore di pugni che sbattevano contro una porta.

-”Arthur, aprimi!”-

-”Dannazione, ti ho detto di no, che non posso, vattene!”-

-”Arthur...!”-

-”No!”-urlò.

E le lacrime silenziose di chi aveva avuto la maledizione di essere nato forte.

-”Sei patetico!”-sputò l'inglese, dietro alla porta-”Da quanto sei lì a pregarmi di farti entrare? Da ore?! Che c'è, non ti basta? Vattene!”-

Francis strinse i pugni, fino a far diventare le nocche bianche.

-”Aprimi, ti prego...”-fece con una nota sofferta-”Voglio parlarne per bene...”-

-”Ci siamo già detti tutto...”-

Il francese scosse il capo.

-”No, non è vero!”-sbatté nuovamente le mani contro la porta-”Non mi hai detto nulla! Non mi hai detto che cosa farai!”-

Come avrebbe voluto piangere. Ma come poteva? Era lui il più forte dei due, se si mostrava debole era finita.

-”...”-

-”Parlami...”-lo supplicò.

-”...”-

-”Arthur, maledizione...”-

Perché quell'inglese era così maledettamente difficile da capire? Perché era così maledettamente difficile da raggiungere? Odiava l'idea di averlo a pochi passi, odiava avere quella porta a dividerlo da lui. Aveva bisogno di vederlo in faccia, aveva bisogno di vederlo in faccia mentre gli diceva di andare via, mentre lo cacciava.

All'improvviso provò rabbia, una rabbia improvvisa e potente. Perché doveva complicarsi così tanto la questione? Perché?

-”Arthur, tu mi ami... Lo so...”-fece duro, tutto ad un tratto-”Perché deve essere tutto così difficile?”-

-”Francis...”-per un attimo gli parve di avere la tentazione di aprire quella porta. Di aprirla e di abbracciarlo, di urlargli che se ne fregava dei suoi doveri di figlio e che voleva rimanere con lui. Per sempre.

Ma non lo fece.

Piuttosto posò la fonte sulla porta, chiudendo gli occhi.

-”Niente è facile... Tutto è difficile...”-

-”Se siamo noi, i primi a volerlo, diverrà facilissimo...”-rispose il francese. Strinse la mano sulla maniglia, facendola girare involontariamente. Arthur rimase a guardare quel movimento del pomello, quasi ipnotizzato.

-”Basta solo che mi apri...”-continuò.

-”Non posso lasciarti entrare nella mia vita...”-sussurrò con dolore, l'inglese-”Non di nuovo, sento che non riuscirei più a cancellarti, dopo...”-

Una fitta al cuore. Francis si portò una mano sul petto. Si morse un labbro.

-”Nessuno verrà cancellato...”-

-”Vattene, ti dico.”-

Francis sentì il fiato mancargli. Sospirò con amarezza, staccandosi dalla porta. Davvero voleva questo? Davvero voleva chiuderla così, in quel modo?

Sentì come se un qualcosa lo stesse dilaniando dall'interno. Ma non doveva piangere, non poteva. Era lui il forte tra i due, anche perché, sapeva con una certezza immensa, che dietro quella porta Arthur stava piangendo. E piangeva lacrime amare.

Già, lui non era un debole.

Diede le spalle alla porta, sorridendo amaro, mentre la prima lacrima gli solcava il viso.

-”Eppure, ti amo tanto...”-disse, più per sé stesso che per l'inglese.

Dopo qualche secondo, proprio mentre aveva appena sceso il primo scalino, la porta si aprì inaspettatamente.

 

-”Non mi sembra per niente una buona idea.”-

Un tedesco, alto e biondo, fissava severo un italiano piccolo e gracile. Il ramato sembrava indaffarato a preparare i bagagli, emozionato.

-”Ehi, mi stai ascoltando?”-lo afferrò per un braccio, l'uomo.

L'italiano lo guardò con uno sguardo da bambino. Gli sorrise in un modo che per poco non lo fece sciogliere.

-”Sì, ti ho sentito.”-

-”Quindi?”-gli diede un'occhiata torva.

L'altro gli sorrise alzando le spalle.

-”Quindi andiamo a trovare i nostri fratelli!”-

In risposta uno sbuffo.

-”Brutta idea, Feliciano.”-

Il ramato sembrò intristirsi.

-”E perché?”-

Il biondo arrossì, portandosi una mano sulla nuca.

-”Insomma... Avevamo aspettato a lungo questi giorni di ferie ed adesso che sono arrivati...”-Feliciano lo guardò interrogativo e ciò, fece diventare ancora più rosso, Ludwig.

-”Insomma, pensavo che le avessimo passate insieme...”-

L'italiano arrossì leggermente, lasciando la bocca incresparsi in un largo sorriso. Allargò le braccia e strinse il tedesco a sé. Com'era piccolo rispetto al biondo.

-”Oh, Lud...”-fece con amore-”Ma staremo insieme...”-

L'altro sbuffò nervoso, però felice di quel contatto inaspettato.

-”Intendo da soli.”-fece rancoroso.

Feliciano si lasciò trasportare da una risata felice. Era così terribilmente goffo il suo compagno. Finita la risata rimase in silenzio, ancora accoccolato tra le braccia del tedesco.

-”Si tratta si mio fratello, Lud...”-disse, sempre sorridendo, ma con una nota di dolorosa nostalgia -”Si tratta dei nostri fratelli...”-

In quelle due frasi il tedesco lesse tutto il dolore del mondo. Tutto il rimpianto, tutto il senso di colpa. Sospirò pensieroso, stringendolo dolcemente a sé e accarezzandogli il capo.

Perché Feliciano si sentiva così in colpa per il fratello? Perché aveva così tanti rimpianti verso quel fratello che, aveva sempre descritto, come arrogante e cocciuto?

Se lo era chiesto spesso, Ludwig, come si era chiesto del perché, di tanto in tanto, si ritrovavano a parlare di questo Romano se poi, in Feliciano, cresceva questa grande tristezza.

Già, tutte le volte che parlava del fratello, l'italiano, sembrava di colpo stare male. Eppure lui non lo spingeva a parlarne, lui non tirava mai l'argomento, era lo stesso ramato ad intraprendere il discorso.

Ma aveva letto dell'altro, oltre quella tristezza velata e dolorosa, negli occhi del compagno.

Ed era nostalgia.

Ed era amore, gioia, felicità.

Parlava del fratello e gioiva, infondo. Ludwig non era mai riuscito a capire a pieno quello strano miscuglio di emozioni che animavano Feliciano ma, sapeva con estrema certezza, che voleva un bene infinito al fratello.

Solo che aveva dei rimpianti.

Ma cosa c'entrava lui con i problemi del fratello maggiore? Cosa c'entrava lui se quel Romano era tanto sciocco da non riuscire a vivere felicemente? Perché si dava tante colpe?

Sentiva il respirare calmo del ramato, sentiva il suo calore sul petto e le sue braccia intorno ai fianchi.

Perché stai tanto male per un qualcuno che non vedi e non senti da più di cinque anni?

Feliciano alzò il capo verso di lui, con un largo sorriso infantile. Ancora una volta il cuore del tedesco ebbe un fremito.

-”...”-lo guardò con uno sguardo dolce a cui, sapeva, Ludwig; non sapeva resistere. Il biondo sorrise amaro alla vista di quegli occhi color ambra guardarlo. Quell'italiano era la sua condanna.

Lo guardò ancora.

Ma in fin dei conti sarebbe stato anche contento di scontarla.

Sorrise.

-”...”-sbuffò, fingendosi stufo-”E quando dovremo partire?”-

 

Feliciano aveva un amante.

Romano continuava a fissare il vuoto d'inanzi a sé, scandalizzato.

Un amante...

Si riscosse, tentando di darsi un contegno. Ma si sentiva così confuso: non gli era mai sembrato che il fratellino avesse certe inclinazioni. Arrossì e si diede dello stupido.

In fin dei conti nemmeno lui stesso sapeva di avere “certe tendenze”. Che si sorprendeva a fare? Le persone sono sconosciute persino a sé stesse.

Ma si sentiva ugualmente male.

Insomma... Non conosco per niente mio fratello, benissimo...

Non poté fare a meno di pensare che avrebbe dovuto accorgersene, che; in un qualche modo, avrebbe dovuto notare questa preferenza, di Feliciano, agli uomini.

Ma una volta pensato non poté che darsi dell'idiota: di certo, il fatto che non se ne fosse mai reso conto, non era una mancanza come fratello. Le mancanze erano altre. E Romano le conosceva pure troppo bene. Guardò a terra amaramente.

Subito l'immagine del fratello accanto ad un qualsiasi uomo lo invase. Tentò di mandarla via.

Chissà che tipo era questo Ludwig. Si portò un dito sul mento. Forse era un tipo un po' come Feliciano: piccolino, sempre sorridente ed allegro.

Sì, poteva anche essere così, dopotutto. Ma poi ricordò che stava parlando del fratello di Gilbert. Rabbrividì, ricordando i modi di fare del prussiano, e sperò che; almeno questo Ludwig, fosse una persona normale.

Per un attimo la sua mente si fece più calma. Si ritrovò a fissarsi allo specchio davanti a sé, con le chiavi dell'appartamento in mano. Da lì a pochi minuti sarebbe dovuto uscire ed andare al pub, da Antonio e Gilbert. Lo spagnolo lo aveva chiamato al cellulare dicendogli di venire urgentemente ma non gli aveva detto di cosa si trattasse.

Sbuffò.

Non gli andava per nulla.

Un ultimo sguardo al sé stesso riflesso sullo specchio. Si guardò quel fastidiosissimo ciuffo castano. Si morse un labbro rabbioso, a suo modo nostalgicamente.

Chissà come diavolo è diventato quel perfettino di mio fratello...
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Note

Ok, ci ho messo una vita ad aggiornare; sono imperdonabile, lo so bene... Però vi chiedo scusa lo stesso ^^"
Comunque, questo è il capitolo, per chi ancora mi segue e mi legge; cercherò di aggiornare il prima possibile!!! (sul serio)
Tanti baci e tanti grazie per la panzienza,

Honodetsu:D

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Capitolo 29
*** 29 ***


Neanche morto.

Lo aveva ripetuto più volte nel corso della serata davanti alle richieste dello spagnolo. Richieste fastidiose del tipo: “si gentile con i clienti”, “sorridi di più”, “svelto a preparare da bere”.

Neanche morto...

E continuava a ripeterselo, continuava a pensarlo nonostante indossasse qual fastidioso grembiulino intorno alla vita. Antonio gli si avvicinò piano, quasi timoroso di farlo arrabbiare più del necessario.

-”Roma...”-

Ma già quel semplice sussurro, lo fece quasi arrossire di rabbia.

-”Perdonami se ti ho fatto correre fin qui per farti lavorare... E' che non ho proprio idea di dove sia Francis e Gilbert, come se non bastasse, non connette bene sta sera...”-

Romano si rifiutò di guardarlo in faccia. Continuò con il suo lavoro, sapendo benissimo che il povero moro lo seguiva in ogni suo piccolo movimento.

-”Dai, non essere arrabbiato...”-

Quante volte glielo aveva ripetuto quella sera?

-”Sorridi, dai...”-

Troppe volte.

-”Non arrabbiarti...”-

E tutte le volte che glie lo ripeteva si sentiva ancora più irritato.

-”Roma, dai...”-prima di poter finire la frase, l'italiano si girò verso di lui di colpo.

-”Smettila di ripeterlo, smettila di dirmi di starmene calmo, dannazione!”-urlò, quasi, tanto che attirò l'attenzione di un paio di clienti.

Antonio abbassò lo sguardo, quasi come un bambino che era appena stato sgridato. Si mordicchiò il labbro inferiore e sospirò in modo plateale.

-”Scusa...”-farfugliò contrito.

Romano lo guardò allucinato. Cos'era quell'espressione docile che aveva assunto, cos'era quell'abbassare lo sguardo. L'italiano non poté fare a meno di arrossire.

Per una volta era Antonio quello ad abbassare il capo e a tacere. Ciò gli instaurò una strana euforia, quasi una sorda soddisfazione mischiata a desiderio.

Già, desiderio.

Come lo odio... Perché proprio ora?

Come poteva, quel dannatissimo spagnolo, procurargli proprio in quel momento una voglia atroce di baciarlo?

Sbuffò contrariato, fingendosi offeso fin nel profondo.

-”Mi hai chiamato per farmi sgobbare qui dentro...!”-disse ripetendosi, non sapendo che altro dire per mostrare il suo disappunto.

-”Ti ho già chiesto scusa, Roma!”-fece docilmente, l'altro.

Romano, difronte a quel suo modo di fare conciliante, si sentì disarmato. Sbuffò ancora, grattandosi la testa ed addolcendosi un po'.

-”E va bene, ti perdono...”-borbottò, distogliendo lo sguardo dal riccio che, intanto, aveva increspato le labbra in un largo sorriso. Lo sguardo ambrato cadde su di Gilbert.

-”...”-rimase a fissarlo. Era veloce e frizzante come al solito nel servire ma c'era qualcosa in lui che non andava.

-”Cos'ha oggi Gilbert?”-chiese, continuando a guardarlo.

Antonio si rabbuiò di colpo. Sorrise amaro ed alzò le spalle.

-”Pensa.”-

Romano alzò un sopracciglio, fissando lo spagnolo cinicamente.

-”Pensa...?”-

-”Già.”-fu la risposta pacata.

Tornò a guardare l'albino, confuso.

-”Pensa...”-si ripeté incredulo. Cercò nuovamente, nello spagnolo, una spiegazione concreta ma lui era già tornato al suo lavoro.

 

Pensava.

Già, per la prima volta in vita sua pensava a qualcosa. Ad un qualcosa a cui non aveva mai dato peso, ad un qualcosa che mai aveva sfiorato i suoi pensieri.

Pensava e ragionava.

Chi sono veramente? Qual è la mia vita? Cosa voglio dal mio futuro, da me stesso? Che sogni, che aspirazioni, ho?

E tutto quel pensare si perdeva nel vuoto, riecheggiando nella sua mente e tartassando il suo povero cervello. Erano domande strane, mai fatte e mai pensate fin ora.

Lui era Gilbert. Lui era il ragazzo che lavorava al pub e amico di Antonio e Francis.

Già, lui era quello e gli era sempre bastato.

Eppure.

Eppure, perché non mi basta più?

Chi era Francis?

Francis era l'amico su cui si poteva contare, era il proprietario di un pub, era il biondino sempre sorridente e malizioso che stravedeva per quell'inglese.

Chi era Antonio?

Antonio era l'unico spagnolo che gli fosse mai stato davvero simpatico, era il ragazzo che soffriva insieme a te quando stavi male e che gioiva, con te, quando eri felice. Antonio era il ragazzo che aveva trovato l'amore.

Francis era Francis, così come Antonio era Antonio.

Ed io?

Già, e lui chi era?

Lui era lui.

Già, ma quel “lui” cosa stava a significare?

Vuoto.

La cosa strana era che non provava tristezza, non provava dolore nel rendersi sempre più conto di non essere nessuno. Di non essere, davvero, altro che il ragazzo dai capelli chiarissimi e dalle iridi rosse, dietro al bancone del pub.

Sentì una fitta dolorosissima invadergli l'animo. Lui non voleva essere solo quello, non voleva. Eppure non si sentiva triste e ciò lo spaventava.

Sentiva solo una forte forma di disagio, un qualcosa che gli gridava, dentro, che ciò che era non andava bene.

 

Era inutile continuare a mentire a sé stessa.

Arthur non sarebbe mai tornato a Londra per il padre malato e lei lo sapeva. Lo sapeva dannatamente bene. Lo aveva intuito ormai da tempo, anche prima che partisse per Madrid.

Lo aveva intuito in tutti quei pomeriggi passati accanto al capezzale di quell'uomo, sola, abbandonata, disperata. Già da allora aveva capito.

E allora che ci faceva in Spagna? Che cosa ci faceva lì, quando, a Londra; c'era l'unico uomo che l'avesse mai amata? Che cosa faceva lì? Perché non era con lui ad aiutarlo?

Non lo sapeva, o meglio, così preferiva credere.

Si guardò intorno, nel buio della sera. Natale era passato e a breve ci sarebbero state le feste di fine anno. Provò un grande dolore nell'immaginare, quel povero uomo malato, solo in una casa così grande. Eliza si passò una mano tra i capelli castani, allisciandoli. Lo faceva spesso quando era sovrappensiero.

Ed adesso? Cosa avrebbe dovuto fare?

 

Non vado bene, non vado bene, non vado bene...

Scosse il capo, nella completa confusione di quel locale. Che gli prendeva? Odiava sentirsi così. Non era da lui, non era da Gilbert. Ma ormai chi era lui? Chi era Gilbert?

Gli scivolò un bicchiere di mano, che si ruppe rumoroso non appena toccò terra. Romano ed Antonio si voltarono a guardarlo, preoccupati. Uno sguardo ai clienti.

Tutto bene, nessuno stava guardando, erano troppo impegnati a parlare e a divertirsi. Tutto tranquillo, tutto bene. Allora perché Gilbert continuava a fissarsi le mani?

Romano gli posò una mano sulla spalla, facendolo sobbalzare.

-”Oi, Gil...”-l'ariano lo guardò con occhi sorpresi, quasi non capisse dove fosse-”Tutto...”-ingoiò della saliva-”Tutto bene?”-

Il tedesco si riscosse, strinse le mani a pugni, lasciandoli scivolare lungo i fianchi.

-”S...Sì...”-passò lo sguardo intorno a lui, quasi cercasse di evadere dalla situazione. Si abbassò di scatto e fece per raccogliere i pezzi di vetro ma, si accorse solo in quel momento, che una mano gli sanguinava.

Romano guardò il sangue scivolare piano dal palmo, un brivido gli percorse la spina dorsale. A farlo sentire a disagio non era stata tanto la vista del sangue, quando la reazione di lui. Infatti, Gilbert si coprì la ferita con l'altra mano e tornò a guardarlo con un sorriso strafottente.

-”Eh, eh!”-ridacchiò-”Che scemo che sono...!”-si tirò su e per poco non rischiò di cadere-”Forse...”-borbottò, tentando di rimanere allegro-”Forse è meglio che mi allontani un attimo... Ci pensi tu?”-

Romano annuì, fissandolo ammutolito.

-”Grazie, Roma...”-sorrise, dandogli una pacca sulla spalla e dirigendosi verso il retro del locale.

-”A... Aspetta... Gil!”-tentò inutilmente l'italiano.

Ma il tedesco era già andato.

 

La realtà era che non ne poteva più nemmeno lei. La realtà era che non ce la faceva più ad essere l'unica a doversi occupare di lui.

Era così maledettamente doloroso dover aiutare, anche nelle più piccole cose, un uomo che un tempo era lucido e grande.

Era così brutto vederlo, giorno dopo giorno, peggiorare. E man mano che il tempo passava si rendeva sempre più conto che, il tempo che passava con lui, non sarebbe bastato per ringraziarlo di tutto quello che aveva fatto per lei.

Si strinse nelle spalle. L'uomo che aveva tanto amato e rispettato si stava spegnendo.

E niente, davvero niente, poteva fare più male.

 

Diede un calcio rabbioso e disperato al secchio dell'immondizia d'inanzi a lui. L'urto risuonò nel vicoletto, molesto ed inascoltato.

Proprio così come i suoi pensieri.

Perché si era lasciato andare? Non avrebbe dovuto. Perché aveva tutti questi dubbi? Perché?

Si passò una mano tra i capelli, tirandoseli forte, facendosi male. All'improvviso, tante di quelle domande, gli invasero la mente.

Perché io sono qui a Madrid? Perché non ho avuto anche io il coraggio, come Ludwig, di lasciare questa città? Perché non sono riuscito a farmi una vita? Perché sono l'unico a non sapere cosa voglio dal futuro?

E sentì gli occhi pizzicargli in un modo truce.

Chi sono io?? Chi sono?!

Non lo sapeva.

Non lo sapeva e ciò, stranamente, lo spaventava.

Ora provava dolore.

Ora provava tristezza.

Tutta insieme, perciò gli parve amplificata al doppio.

Si rifiutò di piangere. Sbatté i pugni contro il cassonetto, tentando di darsi un contegno.

Al diavolo... Non saprò chi sono ma so benissimo chi sono stato fin ora... E perciò non piangerò...

Sentì la musica ovattata uscire dal locale davanti a lui.

Aveva bisogno di lasciare quel pub, almeno per un po'.

 

Imboccò la stradina di un parco, che la portò davanti ad un laghetto. C'era poca luce ad illuminare quella piccola distesa d'acqua.

Ciò, finalmente, gli portò un po' di calma nel cuore. Ma anche una flebile ed appena palpabile tristezza. Si mise a sedere su una panchina, con lo sguardo fisso su quel gioco di luci e riflessi, del pelo dell'acqua.

La realtà è che sono scappata da Londra...

Gli occhi verdi le si velarono.

La realtà è che non ne potevo più di vederlo scivolare nell'abisso...

Sospirò, alzando le sopracciglia.

La realtà è che sono scappata da lui...

 

-”Fatti fasciare la mano, almeno!”-insisteva Romano, tentando di farlo desistere dal lasciare il locale. Ma il tedesco sembrava fremere dalla voglia di andarsene.

Antonio posò l'ordinazione sul bancone. Sospirò nel vedere quella scena.

-”Roma, amore, ci penso io a Gil... Tu continua pure...”-

L'italiano lì per lì, annuì, poi; forse rendendosi conto di quello che aveva appena detto, arrossì.

-”Smettila di chiamarmi così, ti ho detto più volte che mi infastidisce.”-

Antonio ridacchiò, posandogli amorevolmente un braccio intorno alle spalle. La solita indifferenza di Gilbert, difronte a quella scena quotidiana, vacillò.

Perché non posso avere anche io quella felicità...?

 

Eliza si posò le mani sulla fronte, sforzandosi di non piangere.

 

Gilbert strinse i denti, impedendo al dolore di invadergli i sensi.

 

Quella sera, due perfetti sconosciuti pensarono la stessa identica cosa.

La realtà, è che voglio solo una vita felice...

 

La porta si era finalmente aperta, per poi richiudersi alle sue spalle.

Francis ora guardava in faccia Arthur. E quello che vedeva era un'ardente desiderio di pace, di tranquillità. Un qualcosa che, probabilmente, il francese avrebbe potuto donargli se solo glielo avesse permesso.

Avrebbe rinunciato a tutto per lui.

Alla sua vecchia vita.

Al suo pub.

A tutto.

Ed ora che lo guardava in faccia lo sapeva ancora con più sicurezza.

-”Ti amo, Arthur...”-

Sì.

Avrebbe rinunciato a tutto per farlo felice.

Se solo, l'inglese, glielo avrebbe permesso.
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Note

Bhè... Come dovrebbe finire, arrivati a questo punto...?

Honodetsu:D

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Capitolo 30
*** 30 ***


Da molto non vedeva quelle pareti, quel divano, e quell'atmosfera. Da molti anni non rientrava in quell'appartamento. Ed ora che ci si ritrovava si sentiva strano, come se non riuscisse più a riconoscere, in quello, il luogo dei suoi sogni.

Il luogo in cui, lui ed il suo Arthur, potevano stare in intimità.

Certo, rivederlo in quelle circostanze, faceva male. Forse era per questo che l'atmosfera che gli donava era così triste e buia, così lontana da quella che ricordava.

Francis tremò nel rendersi conto che ormai la battaglia era iniziata. Già, una battaglia alla quale non avrebbe potuto tirarsi indietro od, almeno, non più.

Arthur...

Sorrise con dolore.

Ma ora che poteva vedere di nuovo quegli occhi verdi, ora che poteva vedere quel viso imbronciato ed indeciso, si sentiva come se avesse già vinto. Si guardò in torno, allargando le braccia.

-”Era da tanto che non venivo qui...”-disse nostalgico.

L'inglese strinse la mascella. Aveva gli occhi umidi e bassi, quasi temesse lo sguardo del francese. E Francis se ne accorse.

-”...”-prese un grande sospiro-”Mio padre sta male...”-

Questa volta fu l'altro a sospirare.

-”Mi spiace.”-

-”A me no...”-

-”Cosa?”-chiese, quasi impaurito da quelle parole. Arthur sorrise appena, perso in chissà quali pensieri. Che dicesse sul serio?

-”Almeno non più...”-continuò-”Ormai è come se fosse già morto...”-

Quelle parole caddero pesanti in quel silenzio. Era una frase crudele e dura, tanto che fece paura a Francis e ferì lo stesso inglese.

Il francese analizzò la sua espressione.

-”Che cosa farai, adesso...?”-chiese con un fil di voce-”Insomma, dici di non poter rimanere qui per via della malattia di tuo padre, eppure affermi che lo pensi già spacciato...”-si morse un labbro-”Affermi di non voler restare, eppure sei ancora qui.”-fece una pausa, osservando la sua espressione-”Dici di non amarmi...”-gli si fece vicino-”eppure mi hai aperto tu stesso quella porta.”-

Arthur indietreggiò davanti alla sua avanzata così decisa.

-”Smettila, fermo!”-gli posò le mani sul petto, fermandolo-”Ti ho fatto entrare solo per chiarire la questione una volta per tutte...”-

Francis rimase a guardarlo, neutro, mentre l'inglese si sentiva sempre peggio. Perché si sentiva così debole? Perché non riusciva ad alzare la testa e a parlargli?

-”Ti ascolto...”-

-”...”-

Perché la lingua si aggrovigliava, davanti a lui?

-”Ecco, io...”-

Perché lo stomaco si annodava?

-”Sì...?”-

Perché le mani sudavano?

Francis gli sfiorò una guancia con i polpastrelli, gli occhi azzurri lo fissavano intensamente, persi.

Perché le guance si arrossavano?

Gli avvicinò il corpo al suo, i petti si sfiorarono, così come le gambe ed i visi. Arthur continuava a guardarlo contrariato, non riuscendo a fare altro.

Perché gli arti formicolavano al suo tocco?

Gli posò le mani sui fianchi, baciandogli con una placida lussuria le guance, il collo, l'orecchio. Sentì il suo respiro calmo nel timpano, lo sentì, e per poco non lo fece diventare pazzo. Ed eccolo tornare, a ritroso, a baciargli il collo, le guance.

-”Avanti, Arthur,”-gli sussurrò, continuando a baciarlo bollente sul collo, accarezzandogli la schiena con desiderio ed amore-”ti ascolto... Chiariamo la questione una volta per tutte...”-

L'inglese provò una profonda rabbia, mischiata a desiderio. Non lo allontanò, non lo rimproverò. Rimase in silenzio, chiudendogli occhi e stringendo i pugni. La mano del francese sfiorò la sua.

-”Non fare così...”-gli sussurrò ancora, interrompendo quella catena di baci, ad un non nulla dal suo viso-”Non chiudere gli occhi... Non cercare di scappare ancora...”-

Lo fece indietreggiare, fino a farlo sedere sul divano.

-”N... No, no... Francis... No...”-sussurrò inutilmente, l'inglese, sotto il suo enorme carisma.

Il francese lo baciò con foga sulle labbra, accarezzandogli l'intimità, ormai fin troppo dura per poter essere ignorata.

Non di nuovo... No...

Eppure quel vorticare di emozioni gli impediva di allontanarlo, di parlare, di urlare. Già, urlare, di disappunto, di rabbia, di incomprensione, di dolore.

Sì, perché faceva male.

Faceva male vedere che, come sempre, non ci poteva essere dialogo tra di loro.

-”Fra... Francis...”-

Niente, non si fermava.

Perché? Perché?

-”N... No...”-

Perché affermava di amarlo se poi non lo ascoltava? Se non riuscivano nemmeno a scambiare due parole senza che arrivassero a quel punto?

Sentì le lacrime oscurargli la vista del francese.

Possibile che, per poter parlare tranquillamente, avessero bisogno di essere divisi da una maledettissima porta?

Dannazione! No! Non di nuovo! Basta!

Gli morse un labbro con rabbia, lo afferrò con decisione sul bavero della maglia e lo spinse lontano da lui.

-”Ti ho detto di smetterla, dannazione!”-urlò, dopo averlo fatto cadere a terra. Francis lo guardò sorpreso, portandosi la mano sul labbro ferito. L'inglese si alzò dal divano, stringendosi nelle spalle.

Si sentiva così maledettamente a disagio, così incompreso, così ferito ed umiliato.

Arrossì, vergognoso di quello che era diventato.

Arthur non era sempre stato così.

Lui non era sempre stato quel dannato nullafacente cui era.

Lui una volta aveva degli interessi.

Lui una volta studiava.

Lui una volta aveva un futuro.

Lui una volta non era così impuro.

Francis si sentì morire alla vista di quelle lacrime acide. Sentì il mondo crollargli addosso nel vederlo voltargli le spalle e singhiozzare.

Allungò una mano verso di lui, quasi nella speranza di poterlo toccare.

Arthur...

Avrebbe voluto chiamarlo, ma si rese conto che era inutile. L'ennesimo singhiozzo gli lacerò il cuore. Abbassò lo sguardo a terra.

Che stavo facendo...?

Lo stava trattando come un qualsiasi amante. Lo stava trattando come un oggetto. Si portò le mani al viso, scioccato da sé stesso.

Arthur. Il suo Arthur.

Come aveva potuto anche solo pensare di poterlo fare? Come aveva potuto mettergli le mani addosso in quel modo?

Aveva sbagliato tutto. Come pretendeva di riaverlo se si comportava così? Si alzò da terra, ancora incapace di darsi una spiegazione a quel suo modo di agire.

-”Perdonami... Io...”-si avvicinò a lui e fece per toccarlo ma Arthur si allontanò di scatto.

-”No! Non mi toccare!”-urlò, stringendosi nella spalle e mostrando il viso lacrimoso. Sentirlo piangere faceva male ma vedere quelle dannatissime lacrime, scivolare dal suo volto duro, era un qualcosa di indescrivibilmente doloroso.

-”Arthur...”-sussurrò, non riuscendo più a guardarlo.

-”E dici di amarmi?!”-fece con dolore-”E dici che quello che provi per me sia puro, che sia buono?”-scosse il capo, indietreggiando ancora-”Allora spiegami cosa c'era di bello in quello che stava per accadere, spiegami dove sarebbe nascosto questo fantomatico amore di cui parli, dannazione!”-le parole gli uscirono a fatica, quasi come uno sfogo indispensabile-”Non riusciamo a dire due parole senza rischiare di ritrovarci su un letto o su un divano, non riusciamo a parlarci senza che uno dei due ne soffra!”-

Francis strinse gli occhi.

-”Dov'è l'amore in tutto ciò?!”-

Silenzio.

Un dannatissimo silenzio fece da risposta ai suoi interrogativi.

-”Pensi di essere l'unico a soffrire?”-

Arthur lo guardò con odio, cercò di riprendere fiato.

-”Davvero pensi che non stia male anche io?”-ora era la voce del francese a tremare-”Cinque anni, Arthur! Cinque maledettissimi anni!”-

L'inglese scosse il capo, stanco.

-”Per tutti questi anni mi sono chiesto che cazzo di fine avessi fatto, dannazione! Non una telefonata, non un messaggio, niente.”-strinse i pugni-”E mentre me ne stavo qui come un'idiota, ad aspettare che tu un giorno potessi tornare, ci fosse stata anche solo una dannata volta; anche solo una, che avessi provato a rifarmi una vita con qualcun altro. Che avessi provato a cancellarti ed ad andare avanti!”-sbatté le mani contro una parete-”Ce ne fosse stata anche solo una, di volta!”-urlò, stringendo i denti con dolore, trattenendo a stento le lacrime.

Arthur si morse un labbro.

-”E poi, dopo tutto questo tempo, rieccoti qui: tutto calmo a passeggiare per un parco...”-lo guardò intensamente ed Arthur ebbe l'impulso incontrollabile di nascondersi.

-”Sai quali sono stati i miei primi pensieri quando ti ho visto...?”-

Non vi fu risposta, solo un silenzio che sapeva di dolore.

-”...'Forse è qui per ricominciare'...”-abbassò lo sguardo-”Ho pensato questo...'Forse anche lui è stato male durante tutti questi anni. Ci sarà un motivo per tutto questo tempo di assenza...'”-

Arthur continuava a tenere lo sguardo basso.

-”Ed invece,”-continuò acido, Francis-”Sembra non esserci nessun motivo...”-scosse il capo, sospirando-”Perché sei qui, Arthur? Perché sei tornato qui se, come dici, dovresti essere a Londra da tuo padre?”-

L'inglese lo guardò con dolore.

-”Ah, ora vuoi parlare?”-chiese con acidità-”Non vuoi più portarmi a letto?”-

Quelle parole, dette con tanta cattiveria, lo colpirono in pieno.

-”Rispondi alle mie domande, Arthur...”-disse in un soffio, ignorando quel suo attacco.

Perché continuavano a fare così? Erano entrambi distrutti, stremati, perché erano così sciocchi? L'inglese sembrò, improvvisamente, sciogliersi.

-”E' perché ti amo...”-la voce gli tremò ed una lacrima scivolò via-”Perché ti amo, dannazione...”-

Il cuore del francese fremette.

-”Perché nonostante credessi che la nostra relazione fosse sbagliata, non riuscivo a dimenticarti. Per questo sono qui, perché; nonostante continui a credere che tu sia un maledettissimo cretino, io ti amo... Ti amo e so che questo non cambierà mai, maledizione...”-

Francis si avvicinò a lui, stringendogli il viso tra i palmi.

-”E allora perché continuiamo a complicarci la vita? Perché? Perché se ci amiamo?”-questa volta non riuscì a trattenere le lacrime.

L'inglese si liberò dalla stretta dei suoi palmi, lasciandosi consolare tra le sue braccia e stringendolo stretto a sé affondò il viso sul suo petto, piangendo lacrime amare.

-”Come possiamo fare?!”-disse disperato tra i singhiozzi-”Come possiamo riparare l'irreparabile?”-

Francis sorrise, riuscendo a domare le lacrime.

Finalmente.

Finalmente lo stringeva a sé sul serio. E mentre lo faceva non provava desiderio, non provava lussuria.

Solo un immenso amore.

-”Arthur...?”-sussurrò piano. L'inglese sembrò riuscire a placare un poco il pianto.

-”Credo di amarti infinitamente.”-

Il corpo dell'inglese, da prima rigido, si fece più rilassato. I polpastrelli seguirono la linea della schiena di Francis.

-”...”-si strinse di più a lui-”Anche io... Infinitamente...”-

Il francese sorrise.

-”Allora cosa vedi di irreparabile in questo?”-

 

Finalmente era fuori da quel pub rumoroso.

L'aria era ancora fredda e l'atmosfera di quella sera era cupa. Gilbert sospirò. Aveva bisogno di pensare. Aveva bisogno di una tregua.

Da cosa, di preciso, non lo sapeva.

Forse aveva bisogno di staccarsi un po' dal mondo. Forse quello che davvero cercava era di uscire da quel mondo frenetico e doloroso, per rifugiarsi in sé stesso.

Sì, aveva bisogno di respirare. Aveva un dannato bisogno che l'aria fredda gli sfiorasse la pelle, che lo facesse sentire vivo.

Le gambe presero a camminare da sole, mentre la mente finalmente era più calma. Il parchetto intorno a lui era deserto e calmo. Superò un paio d'alberi e si ritrovò difronte al laghetto.

Quella piccola distesa d'acqua lo accolse luccicante. Alzò lo sguardo ed una figura attirò la sua attenzione. Si infilò le mani infreddolite in tasca, continuando a circumnavigare il lago.

Era una figura tutta imbozzolata in una sciarpa, seduta su una panchina, a fissare l'acqua come rapita. Guardò meglio, sembrava una ragazza. Si ritrovò a pochi metri da lei ed i loro sguardi si incrociarono. Un lungo brivido percorse la schiena di Gilbert.

Era la ragazza di quel pomeriggio o la mente gli giocava brutti scherzi?

Dal suo sguardo stupito doveva essere proprio lei. Sorrise ironico.

-”Uh, ma tu sei la biondina di questo pomeriggio...”-fece, facendo spallucce.

La ragazza alzò gli occhi al cielo.

-”Castana...”-disse placida.

-”E' uguale.”-

Lei sbuffò e lui ridacchiò, poi, si formò il silenzio.

-”Puoi anche venire a sederti qui, se vuoi...”-fece lei, fissando ancora quella distesa d'acqua, sbattendo leggermente il palmo sul legno della panchina.

Gilbert parve indeciso.

-”Perché dovrei accettare un invito da parte di un'estranea?”-chiese, arricciando il naso. Eliza si voltò a guardarlo per poi rimanere in silenzio. Fece spallucce.

-”Fa un po' come ti pare...”-tornò a fissare il lago.

Il prussiano rimase a fissarla. Aveva un bel profilo quella ragazza. La frangetta castana le ricadeva con delicatezza sulla fronte, le ciglia lunghe le facevano da cornice a degli occhi di un verde meraviglioso, il naso era sottile e raffinato e la bocca era carnosa, appariva così morbida.

Ancora qualche secondo di silenzio ed indecisione.

Gilbert ghignò.

-”Ma, sì, mi siedo.... Ma solo perché insisti tanto.”-si sedé molesto accanto a lei. Eliza lo guardò un po' infastidita. Com'era strano quel ragazzo.

-”Sei l'anticristo della delicatezza tu, eh?”-

Lui ridacchiò.

Scivolò di nuovo il silenzio.

-”Come mai sei qui? Non è un po' tardi per una ragazza?”-

Eliza non gli rispose subito, anzi, sembrava piuttosto presa da altro. Chissà a cosa stava pensando.

-”Ehi?”-fece, offeso.

-”E' successo...”-fu la risposta-”E tu?”-

Rimase a fissarla. L'espressione offesa scomparve, al suo posto tristezza.

-”Anche per me è lo stesso... E' successo...”-

Eliza socchiuse gli occhi per un attimo.

-”Ti è mai capitato di provare una stanchezza immensa?”-gli chiese.

Gilbert rimase colpito da quella domanda, aggrottò la fronte.

-”Una di quelle stanchezze che nemmeno il sonno riesce a toglierti. Di quelle che ti impediscono di vivere tranquillamente.”-si voltò verso di lui-”L'hai mai provata?”-

Non seppe che risponderle.

-”Ecco, io...”-la guardò ironico-”Non capisco di che parli...”-

Eliza rimase per qualche secondo a studiarlo, poi sorrise.

-”...”-scosse il capo-”Scusa, è logico, non puoi mai averla provata...”-

La ragazza sembrò rattristarsi di colpo. Gilbert la guardò ancora. Sembrava così triste, così infelice, così stanca di un qualcosa anche a lei poco chiaro.

-”E' solo,”-ricominciò a parlare, sorridendo amaramente-”che ogni tanto vorrei che finisse, o almeno vorrei che qualcuno mi capisse... Così, solo per fare in modo di poterla condividere con qualcuno... Solo per essere un po' meno stanca...”-

Gilbert la guardò colpito nel profondo, tentando di comprendere cosa stesse cercando di dirgli.

-”Che fai nella vita, Eliza?”-le chiese.

Lei lo guardò negli occhi.

-”Quale vita?”-gli chiese sorridendo amara-”Di quale maledettissima vita stai parlando?”-scosse il capo-”Questa non è la mia vita, insomma, mi rifiuto di possederne una simile. Io non ho una vita.”-

Il cuore di Gilbert scricchiolò a quelle parole. Tentò di ricomporsi, si grattò la nuca, sorrise appena.

-”Wow, vedo che sei una tipa positiva...”-

Lei sorrise.

-”E tu sei un buon attore...”-affermò. Lui la guardò interrogativo. Eliza sospirò.

-”Vorrei essere anche io capace di fingere come te, davanti agli altri...”-alzò le spalle-”Ma non ci riesco... Nonostante mi sforzi, non ci riesco...”-

Gilbert scosse il capo, sorridendo.

-”Non capisco dove vuoi arrivare, biondina...”-

Lei sospirò.

-”Non è puoi più di questa vita maledetta, anche tu sei stufo di quello che sei, di quello che sei dovuto diventare e di quello che hai dovuto lasciare per diventare il te stesso di ora...”-

La mente di Gilbert si fece d'un tratto buia e silenziosa.

-”E sai una cosa...?”-aggiunse Eliza, sorridendogli-”Provo le stesse identiche cose, anche io...”-

Il cuore del prussiano fece due salti mortali all'interno della cassa toracica.

...Voglio solo una vita felice...
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Note

...Mi scusi, signore... Mi sa indicare la strada per la felicità...?...

Honodetsu:D

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Capitolo 31
*** 31 ***


-”Ma come tutto risolto?!”-chiese Gilbert, guardando allucinato il biondo davanti a sé. Francis sembrava piuttosto divertito, sereno, quasi in pace con sé stesso.

Si limitò ad annuire misterioso.

Il prussiano guardò lo spagnolo, che intanto se ne era rimasto zitto. Possibile che la notizia non lo avesse almeno un po' scosso? Insomma, era da anni che Francis se ne stava depresso per quell'inglese, ed ora; felice come una pasqua, veniva tranquillo tranquillo a dire che era tutto risolto.

Tornò con lo sguardo a lui.

-”...”-non sapeva che dire. Davvero, quel francese era pessimo-”...E... E quando avresti risolto, scusa?!”-chiese isterico.

L'altro sorrise enigmatico.

-”Ieri sera...”-

Ieri sera.

Quelle parole piombarono come una pugnalata al cuore.

Ieri sera.

Sembrava quasi un'enorme presa per il culo.

Ieri sera.

Lo guardò malissimo.

Ieri sera.

La stessa giornata in cui, lui, aveva passato la sera più brutta della sua vita.

Fece per aprire bocca e cantargliene quattro, quando un piccolo suono uscì dalla bocca di Antonio. Una piccola risata trattenuta aveva attraversato le labbra dello spagnolo.

Gilbert guardò l'iberico in fare assassino.

-”Ecco dove te ne eri andato.”-disse, solare, quasi divertito-”Certo, avresti anche potuto avvertire, sai?”-

Quella frase, che doveva essere di rimprovero, era stata detta con troppa leggerezza. Gilbert sbuffò. Possibile che non lo rimproverasse nemmeno un pochino? Aveva saltato il lavoro, senza avvertire per giunta, solo per parlare con quell'inglese idiota.

-”Hai ragione scusami... Ma è successo tutto così in fretta che nemmeno io ci ho capito molto...”-fece sorridendo.

Oh, e questo dovrebbe giustificarti, immagino...

Il cinismo del prussiano stava raggiungendo apici indicibili.

-”E come è andata, quindi?”-fece con interesse, Antonio-”Cosa hai fatto e detto per convincerlo?”-

Il francese ridacchiò malizioso.

-”Eh, eh!”-alzò le spalle con classe-”Che domande fai? Cosa vuoi che abbia fatto...?”-

Lo spagnolo rise divertito.

Ma, sì, dai... Ridiamoci, su... Ma che ci frega...

Gilbert non disse nulla, si limitò a guardarli con ironia.

-”Dai, sul serio... Cosa hai fatto?”-

-”Segreti del mestiere...”-

-”E, dai, Francis...!”-

-”Eh, eh!”-

Come potevano, quei due, discuterne così come se niente fosse? Facevano sul serio? Provò del lieve fastidio nei loro confronti.

Si alzò dal divano, rumorosamente. I due si voltarono verso di lui. Oh, ecco, ora aveva la loro attenzione finalmente?

-”Bene, io vado... Ho un po' di cose da fare.”-

Francis sembrò dispiaciuto.

-”Ma dai, non puoi rimandarle? Stiamo un po' insieme, su, tutti e tre.”-

Antonio lo guardò con rimprovero ed indicò il bagno, da cui proveniva lo scosciare dell'acqua della doccia.

-”In quattro...”-disse, offeso, riferendosi a Romano. Francis sorrise.

-”Ma sì, sì. In quattro.”-tornò a guardare Gilbert-”Allora?”-

Il prussiano li guardò indeciso. Non sapeva bene nemmeno lui cosa voleva ma sapeva, con assoluta certezza, che se fosse rimasto con loro non sarebbe riuscito a stare dietro al loro divertimento, al loro parlare. Si portò la mano fasciata sulla nuca.

Non sapeva perché ma si sentiva irritato, non riusciva a stare con le persone, non riusciva a stare con i suoi amici. Scosse il capo.

-”No, meglio che vada.”-scosse il capo-”Ho davvero parecchie cose da fare.”-mentì.

I due si guardarono tra di loro, non sapendo che dire.

-”Oh...”-fece il biondo-”Ok... Però ci vediamo sta sera, va bene?”-

Antonio rimase in silenzio a guardarlo, sempre con quel sorriso accennato di chi aveva intuito tutto. Ma questa volta, si ritrovò a riconoscere con dispiacere Gilbert, Antonio non aveva capito proprio nulla. Niente di niente.

Gilbert ricambiò con un sorriso falso.

-”A sta sera, allora...”-

Antonio allargò il suo sorriso.

-”Va benissimo, a sta sera!”-rispose solare. Gilbert accennò un saluto per poi dirigersi verso la porta dell'appartamento.

No... Questa volta non hai capito proprio nulla...

 

Si passò l'asciugamano tra i capelli ramati. Dopo quella doccia si sentiva decisamente meglio, ne aveva bisogno. Il vibrare improvviso del suo cellulare gli instaurò un po' di irritazione.

Per poco non scivolò sui vestiti lasciati a terra.

-”Pronto?!”-rispose irritato, senza nemmeno guardare sul display chi fosse.

-”Ehi, Roma!”-

L'italiano rimase per un attimo interdetto.

-”Feliciano...?”-

-”Sì, sono io.”-rispose allegro-”Ti disturbo?”-

Il maggiore scosse il capo.

-”N... No, dimmi...”-disse un po' impacciato-”E' forse successo qualcosa?”-chiese timoroso.

Il minore rimase per un attimo in silenzio, poi scoppiò a ridere.

-”Perché deve essere successo per forza qualcosa?”-chiese tra una risata e l'altra-”Ti ho solo chiamato!”-

Romano arrossì, sentendosi uno scemo.

-”No... Vabbé... Insomma...”-bofonchiò. Per un attimo gli parve di percepire Feliciano sorridere. Uno strano silenzio si instaurò tra i due fratelli.

-”Effettivamente c'è un motivo a questa telefonata...”-ricominciò il più piccolo, sembrava timoroso. Romano alzò un sopracciglio.

-”Dimmi...”-lo incalzò.

-”...”-non disse nulla, tanto che il maggiore cominciò a pensare che si fosse rimbecillito-”E' da tanto che non ci vediamo, vero?”-chiese, in fine.

Un fremito percorse la schiena di Romano.

-”...”-perché quel tono che aveva assunto, non gli diceva nulla di buono? Ingogliò della saliva -”Feli... cos'hai in mente...?”-

 

...Quale vita? Di quale maledettissima vita stai parlando? Questa non è la mia vita, insomma, mi rifiuto di possederne una simile. Io non ho una vita...”

Quelle parole ancora gli rimbombavano nella testa, impedendogli di pensare ad altro. Si sdraiò sul letto, facendo cigolare le molle. Quella ragazza era davvero strana, aveva detto parole così cupe rimanendo composta. La cosa che più di tutte le aveva colpito era quel suo sguardo. Così pacato e buio. Aveva paura di quei suoi occhi, aveva paura di quelle sue parole.

...Ti è mai capitato di provare una stanchezza immensa?...”

Sospirò.

Sì, gli era capitato. Troppe volte, in quel periodo, si era sentito stanco. Provò un brivido. Ma questo non significava che era depresso, no, mai.

Scosse il capo, quasi infastidito ed impaurito dall'assomigliare a quella strana ragazza.

...Scusa, è logico, non puoi mai averla provata...”

Perché, quando gli aveva detto quelle parole, si era sentito irritato? Strinse i denti, per poi sbuffare. Forse perché quella ragazza, quell'Eliza, gli era sembrato che si sentisse un po' troppo superiore; come se solo lei potesse provare certe cose, come se gli altri non capissero nulla. Ci pensò un po' su. Sì, forse era per quello che aveva provato del fastidio.

O forse, lo aveva provato, proprio perché, invece; quella stanchezza gli era troppo vicina. Lo aveva provato, probabilmente perché; quelle stesse parole, avrebbe voluto dirle lui.

Quelle stesse identiche parole, Gilbert, avrebbe voluto urlarle in faccia ad Antonio ed a Francis.

L'ennesimo brivido attraversò la sua mente.

...E' solo che ogni tanto vorrei che finisse, o almeno vorrei che qualcuno mi capisse...”

Ripensarci gli metteva disagio, ripensare a lei gli creava confusione.

...Così, solo per fare in modo di poterla condividere con qualcuno...”

Si portò le mani sul capo, stringendo forte la testa tra i palmi, sperando quasi che ciò bastasse a placare quei pensieri.

Ma non bastava.

Aveva così tanti dubbi.

Così tanti problemi che in realtà non esistevano.

Serrò gli occhi.

Chi diavolo era quella ragazza? Come faceva a parlare di certe cose con un estraneo? E soprattutto perché, quando parlava, gli sembrava di sentire sé stesso?

...Solo per essere un po' meno stanca...”

Si morse un labbro ed un gemito di dolore spezzò il silenzio.

Anche lui avrebbe voluto condividere un po' della sua stanchezza con qualcuno.

 

-”Scusa, non riesco a capire dove sia il problema...”-chiese sorridendo, Antonio, sdraiato sul divano. Romano lo guardò con fastidio. Come poteva essere così ottuso quello spagnolo?

Strinse i pugni, spalancò la bocca e fece per dare sfogo a tutta la sua rabbia ma decise di non farlo. Fece un paio di sospiri.

-”Antonio...”-fece, cercando di rimanere calmo. Lo spagnolo lo guardò un po' preoccupato, capendo che si stava arrabbiando-”Mio fratello, già, proprio quel fratello che cinque anni fa ho abbandonato in Italia in quella nostra famiglia disastrata, mi ha chiesto di voler venire qui in Spagna, qui a Madrid, per rincontrarmi...”-sorrise nevrotico-”E adesso, tu, mi vieni a dire 'non capisco dove sia il problema?! ' Mi stai prendendo in giro?!”-

Antonio ridacchiò, un po' preoccupato ma allo stesso tempo divertito da quel suo modo di essere. Si alzò dal divano e gli sfiorò una mano serrata.

Lo abbracciò, nonostante sotto le sue braccia fosse rigido, e gli baciò delicatamente una guancia.

Come era debole il suo Romano. Nonostante continuasse ad urlare e a prendersela per ogni minima cosa, temeva di rivedere il fratellino.

O forse non era debolezza la sua, era sensibilità e paura.

-”Sai di essere un tonto?”-gli chiese, scostando un po' il viso dal suo, per poterlo guardare bene in volto-”Non devi avere paura di rivederlo.”-gli sorrise solare-”Dopo tutto è un'idea di Feliciano, no? Vuol dire che ci tiene a rivederti.”-

Romano sbuffò, grattandosi il capo a disagio.

-”Lo so, ma...”-abbassò il capo e sospirò-”...Ho paura...”-sussurrò.

Il moro sorrise, abbracciandolo.

-”Lo so...”-

Gli accarezzò il capo.

-”Lo so...”-ripeté.

Le mani dell'italiano si strinsero sulla sua maglietta.

-”Ma non devi averne.”-

 

Il sole era sorto da poco, splendeva sereno e tiepido sulle case del paese.

Romano amava quel sole primaverile ma quella mattina non ci fece caso, o meglio, lo notò; ma non gli sembrò poi tanto bello.

Chiuse la valigia con lentezza, quasi volesse che quel momento non finisse mai. Serrò gli occhi. Eppure era stato lui a volere questo, era lui che voleva andarsene. E continuava a volerlo, certo, però l'idea di uscire da quella stanza ed incontrare sua madre e suo fratello gli faceva male.

Guardò la porta della sua stanza con dolore.

Doveva andarsene per gli studi, così aveva giustificato la sua voglia di andarsene da quella casa alla madre, doveva diventare un adulto.

Già, così aveva detto.

Ma perché sentiva che non era tutta la verità?

Dei passi svelti e pesanti, che salivano le scale, e la porta si spalancò. Romano serrò gli occhi, non c'era bisogno di voltarsi per riuscire a capire chi fosse.

Perché tutto doveva essere così dannatamente complicato?

-”R... Romano...”-sussurrò a fatica il ragazzo alle sue spalle.

-”Che cosa fai in piedi, Feliciano?”-il maggiore sollevò la valigia dal letto e la posò a terra-”Dovresti essere a letto a dormire, è ancora presto.”-si voltò e quello che vide gli fece male.

Malissimo.

-”...”-

Lacrime.

-”Te ne vai davvero...?”-

Troppe lacrime.

-”Te ne vai così...?”-

Troppe per un semplice bambino.

Romano rimase di sasso. Cosa dire in casi come questi? Scosse il capo, si riprese.

-”Ti prego, Feli, vai a dormire.”-afferrò la valigia e sorpassò il fratello, uscendo dalla stanza.

-”Romano...”-sussurrò di nuovo.

Una forte ondata di frustrazione lo invase. Si girò di scatto.

-”Dannazione, Feliciano! Smettila di rompermi, cresci un po'!”-

Il ragazzino rimase ammutolito.

Romano rimase a guardare la sua reazione, quasi temesse che scoppiasse in un pianto disperato.
Ma ciò, per sua sorpresa, non successe.
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Note

*Olè!! Ennesimo ritardo folle ^^"" PerdonatemiPerdonatemiPerdonatemiPerdonatemiPerdonatemiPerdonatemi!!!!!!*
...
I due fratelli prima o poi si dovranno incontrare... Quali saranno le reazioni di Romano all'arrivo di Feliciano e di questo fantomatico Ludwig?

Honodetsu:D

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Capitolo 32
*** 32 ***


-”Non vi è parso diverso dal solito, in questo periodo, Gil?”-chiese Francis, sbracato sul divano a fissare il soffitto. Romano lo fulminò con lo sguardo, odiava quando si accomodava con tanto trasporto sul suo bellissimo sofà. Antonio sorrise dandogli le spalle, forse per la domanda del francese o forse per aver visto il fastidio dell'italiano.

Alzò le spalle.

-”No.”-affermò posando dei libri sul tavolino, Antonio. Francis sbuffò.

-”Non so, mi sembra più distaccato, meno sbruffone...”-ci pensò su, non sapendo come definirlo-”Insomma, meno Gilbert.”-

Romano, che fino a quel momento stava dando una mano al moro a riordinando i libri negli appositi scaffali, si voltò a guardare il biondo.

-”Hai ragione.”-fece, sincero. Guardò Antonio-”Non ride più tanto spesso e non fa più battute di cattivo gusto.”-

-”Non mi è sembrato...”-fu la semplice risposta.

I due non seppero che dire, rimasero entrambi a fissare le spalle dell'iberico. Francis scosse il capo.

-”Possibile che non se ne sia accorto?”-chiese Romano, alzando un sopracciglio, al francese.

Il biondo alzò le spalle.

-”Infatti...”-tornò a guardare le spalle indaffarate dello spagnolo-”Non eri forse tu quello che aveva occhio su queste cose una volta?”-

Antonio arrestò il suo lavoro per un attimo. Alzò le spalle.

-”Vi dico che non ha nulla.”-si voltò verso di loro, svelando un sorriso comprensivo e carico d'affetto per quel tedesco. Romano arrossì lievemente a quel bel sorriso.

Perché non sorrideva più spesso così? Non che non fossero belli i suoi sorrisi ma, alle volte, superava sé stesso. Scosse il capo con fastidio.

-”Che ti prende? Ignori l'evidenza?”-borbottò in difficoltà l'italiano-”Non ti importa più niente di come si sente Gilbert?”-

Francis rimase in silenzio ad osservare la scena.

Antonio si morse un labbro, continuando a sorridere mesto.

-”...”-guardò Romano-”Lo conosco benissimo e so che se interverrei peggiorerei solo le cose.”-si passò una mano sul capo riccioluto-”Sta provando per la prima volta in vita sua dei dubbi.”-sorrise intenerito-”Insomma, si fa semplici e stupide domande a cui non riesce a dare risposta, e questo lo mette in difficoltà.”-

Romano e Francis lo guardarono ammutoliti.

-”Che stia passando una specie di adolescenza...?”-ridacchiò, sinceramente divertito. Tornò serio -”Non possiamo intrometterci, se vuole aiuto, deve venire lui da noi.”-

Francis guardò un po' preoccupato Romano.

-”Però...”-fece pensieroso.

-”Ma gli passerà presto.”-continuò il moro, tornando al suo lavoro-”Prestissimo...”-

 

Che strana forma di depressione la sua, davvero strana. Probabilmente faceva invidia ad i depressi.

Un attimo, chi aveva detto che era depressione? In ogni caso, qualunque cosa fosse, era strana. Stranissima.

Prima lo faceva sentir male, indeciso, sfiducioso e poi si ritrovava a vagare per le strade senza una meta precisa. Assolutamente una brutta malattia mentale la sua.

Ci si ritrovò a pensare su proprio mentre mangiava del soffice zucchero filato. Ci immerse il viso con trasporto, concentratissimo nel pensare alla sua condizione mentale.

Mah, infondo non si gli era mai capitato di essere così giù di corda, forse era il suo modo per affrontarlo, niente di più e niente di meno.

Sì, decise che era quello, che non doveva preoccuparsene più di tanto, mentre riemergeva da tutto quel mare di zucchero.

Io non sono messo così male, non sono depresso...

Tentennò un attimo.

Non sono come quella ragazza...

Già, quella ragazza.

Come sembrava spenta, come sembrava essersi arresa. Ma arresa a cosa? Gilbert ci pensò su. Cosa, di così terribile, poteva toglierti il sorriso?

Insomma, era vero, anche lui era giù in quel periodo ma di certo non era così musone e scontroso come quell'Eliza.

Più ci pensava e più si sentiva a disagio.

Mandò giù l'ultimo filo di zucchero e guardò il bastoncino che gli era rimasto in mano con dolore.

Ma parliamoci chiaro, a cosa serviva essere così depressi? A cosa?

Guardò con ironia il taglio che si era fatto sul palmo. Insomma, cos'erano tutti questi dubbi su chi fosse, su quale fosse il suo futuro, la sua vita.

Lui era lui.

Era Gilbert, dannazione, e ciò doveva bastare per un'eventuale presentazione ad un pubblico. All'improvviso si sentì così sciocco. Valeva davvero la pena rischiare di diventare un sociopatico depresso solo per tentare di rispondersi a due o tre domande?

Scosse il capo, rabbrividendo.

Al diavolo quegli stupidi interrogativi.

Tornò al bastoncino, una volta avvolto da quel buonissimo zucchero filato.

Ed all'improvviso si rese conto di fregarsene di tutti i suoi problemi esistenziali.

Ed all'improvviso gli parve di provare il vero dolore, il vero male.

Guardò con occhi pieni di nostalgia quel legnetto: il suo zucchero, il suo amato zucchero filato era finito. Sghignazzò come un'idiota.

...Questo è il vero dolore...

 

Già, non successe quello che si aspettava. O meglio, non successe quello che di solito succedeva quando lo trattava in quel modo.

Non uno sguardo intimorito, non un gemito, sfuggì a Feliciano. Romano osservò spaesato, quasi spaventato, il fratellino.

Cos'era quello sguardo deciso e duro che gli si era dipinto in volto?

 

Romano posò l'ultimo libro sullo scaffale, sospirando. Si voltò verso il salone vuoto, come sottofondo le voci di Antonio e Francis provenienti dalla cucina. Si avvicinò lentamente al divano e, pensieroso, ne sfiorò un bracciolo.

Posò lo sguardo sul muro bianco davanti a lui, ma i suoi occhi sembravano vedere tutt'altra cosa.

 

Avrebbe voluto che la smettesse di guardarlo in quel modo duro. Avrebbe voluto che lo capisse, che non lo odiasse così tanto come sembrava.

Ma Feliciano non smise di guardalo così nemmeno quando scesero al piano di sotto, nemmeno mentre Romano prese la valigia e, salutata la madre, si incamminò verso la sua nuova vita.

Ti prego smettila di guardarmi così...”

Sentiva i suoi occhi adosso, ed erano lì anche mentre ormai era troppo lontano per esser visto, erano lì per giudicarlo.

 

Strinse la mano intorno al bracciolo del divano senza nemmeno rendersene conto. Per la prima volta dopo tanto stava provando nuovamente il dolore di quegli anni.

Senso di colpa.

L'ho abbandonato...

Dolore.

Era ancora così piccolo...

Rabbia.

Sono un dannatissimo idiota!

Oppressione.

Ed adesso lui tornerà, Feliciano tornerà...

Ansia.

Come sarà diventato? Come starà? Sarà lo stesso bambino che ho lasciato cinque anni fa in Italia?

Paura.

No, non voglio rivederlo... Non voglio!

Egoismo.

Entrambi stiamo meglio quando stiamo lontani... Sì, non dovrebbe venire, sta sbagliando...

 

Basta!

Quegli occhi, quelle lacrime, continuavano a perseguitarlo! Come poteva averlo abbandonato? Come poteva averlo lasciato lì?

 

Per un attimo gli parve quasi di avere un capogiro, perse l'equilibrio ed il peso cadde tutto su una gamba. Si sbilanciò in avanti e si sorresse con una disperata determinazione al divano.

Serrò gli occhi, nell'attesa agognata che quel vortice di emozioni e di ricordi terminassero. Ma non sembravano avere più fine.

 

Un mostro.

Era un mostro, un pessimo fratello, un pessimo figlio!

 

-”Romano?”-la voce calda ed allegra dello spagnolo.

Per l'italiano fu come ricominciare a respirare. Riaprì gli occhi, lasciandosi scivolare sul divano. Puntò lo sguardo verso la porta socchiusa della cucina, dalla quale proveniva la voce dei due.

-”S... Sì...?”-chiese con un filo di voce, senza fiato.

 

Era dannatamente strano Feliciano.

Bhè, effettivamente lo aveva sempre saputo, ed anche per questo ne era tanto attratto. Adorava quei suoi modi buffi ed originali e quel suo stile di vita molto personalizzato, anche se non lo avrebbe mai ammesso all'italiano.

Ludwig si era reso conto, dopo uno studio molto approfondito, che ogni singolo gesto del ramato; anche quello più strano, aveva sempre un senso.

Me se c'era un qualcosa di molto strano e particolarmente privo di logica o senso, in quell'italiano bassetto e magro, era decisamente quella strana e prorompente voglia mischiata a paura che aveva nel dover rincontrare suo fratello.

Già, Ludwig, aveva da sempre notato quel particolare rapporto tra i due ma non era mai riuscito a comprendere, ora lo sapeva chiaramente, cosa Feliciano pensasse di Romano.

Insomma, all'inizio gli era sembrato di scorgere nei suoi racconti solo rabbia e rassegnazione ma con l'andare avanti degli anni gli era sembrato di capire che invece volesse davvero molto bene a suo fratello maggiore.

Ma adesso?

Adesso cos'era quell'ansia di doverlo rincontrare? Cos'era quel timore?

Anzi, si ritrovò a notare il tedesco, quello di Feliciano non era semplice timore, non era la semplice preoccupazione di chi, dopo anni, doveva rincontrare suo fratello.

Ma era paura.

La paura di chi tremava al solo pensiero di doverlo rivedere.

La paura di chi era terrorizzato dal non voler deludere.

Ed allo stesso tempo vedeva dell'altro.

Vedeva l'irresistibile desiderio di rivederlo, riabbracciarlo e di parlargli con il cuore in mano di tutto quello che aveva provato in quegli anni di lontananza.

Cinque anni...

Ludwig si ritrovò a pensare che effettivamente erano molti. Ma poi si ritrovò a sbuffare. D'altronde anche lui era parecchio che non vedeva suo fratello, non poteva certo criticare.

Sospirò, un po' in pena per quel suo fratellone scatenato.

Gil... Chissà come stai... Sembra che ti rivedrò a breve...

 

Il cellulare squillava già da un po' e sul display guizzava quel nome da ormai parecchio tempo. Aveva atteso da così tanto quel momento, quella telefonata.

Ed ora? Che faceva, non rispondeva? Che le prendeva? Non era stata lei a volerlo? Non era stata forse lei quella ad insistere, a tormentarlo? A dirgli di farsi vivo e di ripensarci, di chiamarla e di tornare a Londra con lei?

Ed intanto il cellulare squillava. Ed in tanto Arthur, dall'altro capo, aspettava. Era come se lo vedesse, seduto sul suo divano, serio ed imbronciato ad aspettare che gli rispondesse.

Si morse un labbro.

Sì, era stata proprio lei a volerlo. Eppure la mano non si decideva ad allungarsi verso quel dannato telefono, non si decideva a farla rispondere alla chiamata.

Finalmente la suoneria si arrestò.

L'appartamento fu invaso da uno strano silenzio.

Solo in quel momento si rese conto che il suo cuore stava battendo all'impazzata. Si portò una mano al petto e si scoprì a respirare faticosamente.

Si lasciò scivolare sul letto, dandosi una pacca sulla testa, rabbiosa.

Perché sono così, dannazione?! Perché sono così?!

Le sue domanda scivolarono nel vuoto di quella stanza tanto che, Eliza, si ritrovò a piangere di una rabbia ceca.
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Note

E finalmente ecco il 32esimo capitolo :)
Un grazie immenso a chi legge, a chi mi segue e a chi resencisce <3

Honodetsu:D

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Capitolo 33
*** 33 ***


Come avrebbe voluto trovarsi altrove in quel momento. Odiava, dover arrivare poco prima dell'apertura del pub, e sistemare il locale.

Odiava farlo, si ritrovava da solo in quel silenzio. E poi, anche se arrivava mezz'ora prima dell'apertura, avrebbe preferito rimanersene a casa con il suo Romano, a parlare.

Ci pensò su, un po' malizioso.

Ma, no, non solo parlare: anche a fare “altro”.

Scosse il capo, cercando di non lasciarsi trasportare da tutti quei pensieri piacevoli. Ridacchiò, imbarazzato, tra sé e ricominciò a preparare i tavoli.

Sbuffò un po' seriamente infastidito dal dover rinunciare ad i suoi piaceri. Ma, dopo tutto, quella tortura di venire prima non gli capitava spesso.

Il più delle volte era Francis ad occuparsi di queste cose, dopo tutto era lui il proprietario del locale, ma quando non era lui a farlo c'era Gilbert. Già, Gilbert era sempre disponibile.

Si stiracchiò un attimo, chiedendosi come mai il tedesco accettasse sempre di venire qualche minuto prima. Certo, non mancava mai a qualche lamentela, lagnandosi di non volerlo fare ma alla fine accettava sempre. Si grattò la testa e sorrise, sapendo che quel prussiano sarebbe sempre rimasto un mezzo interrogativo per lui.

Tornò dietro al bancone, piegandosi per sistemare le stoviglie. Era un'impressione o qui era tutto messo in disordine? Lasciò uscire dalle labbra uno sbadiglio annoiato.

Un momento, l'ultimo a sistemare qui dentro era stato proprio l'ariano. Si grattò la testa riccioluta. Certo, Gilbert non era certamente un tipo ordinato, ma aveva sempre svolto più o meno bene i suoi incarichi. Si ritrovò a sorridere pensieroso. Che facesse parte, anche quel disordine, a quel suo periodo triste? Si morse appena un labbro, chiedendosi se davvero fosse meglio aspettare che Gilbert chiedesse il suo aiuto piuttosto che andare lui dal tedesco. Ci pensò per un attimo mai poi si costrinse a tornare alla realtà. Una realtà che non gli piaceva per nulla: il lavoro.

-”Uffa...”-borbottò tra sé-”Come vorrei essere con Romano...”-

La porta del locale si aprì rumorosa.

E' ancora presto... Sarà Francis?

Ma dal rumore delle scarpe dell'ospite inatteso, sembrava un donna. Si alzò un poco, facendo sporgere il capo, e ciò che scorse da dietro il bancone era un qualcuno di molto bello.

Capelli castani, gambe lunghe ed occhi verdi: la ragazza si guardava intorno, un po' imbronciata, quasi con un'aria perennemente stanca.

Il riccio si chiese a cosa fosse dovuta quell'espressione. Sembrava più adulta di quello che era. Eppure era così giovane.

Guardava l'interno del locale, come se stesse cercando qualcuno e, nel non vedere quel qualcuno, sembrò delusa. Lo spagnolo si ritrovò a guardarla divertito, quasi la stesse studiano per svelarne i segreti più nascosti. Era più forte di lui, quando vedeva una persona voleva, anzi; doveva, conoscerla fin in fondo.

Antonio si alzò completamente, sfoderando un sorriso radioso.

-”Benvenuta.”-

La ragazza per poco non saltò per lo spavento. Si voltò verso di lui quasi offesa ed arrabbiata ma, non appena lo vide, rimase a guardarlo spaesata.

-”Oh...”-le uscì di bocca.

Antonio sorrise nuovamente.

Già, decisamente si aspettava di veder spuntare qualcun altro.

-”Mi scusi, ancora non è aperto, vero?”-chiese, un po' vergognosa, rendendosi conto della figura appena fatta-”Forse è meglio che vada...”-

Antonio scosse il capo e sorrise.

-”No, no, prego.”-fece indicando con un mano lo sgabello davanti al bancone-”Accomodati, a breve il pub aprirà, non preoccuparti.”-

Lei rimase per un attimo indecisa sul da farsi. Quel ragazzo era molto gentile, certo, ma lei in quel momento sperava in tutt'altra persona. Sorrise un po' intimidita da quei suoi sguardi gentili.

-”Avanti, accomodati, tranquilla...”-le ripeté, caldamente. La castana si arricciò una ciocca con un dito. Continuava a darle del tu e ciò la metteva un po' in soggezione.

Annuì, spaesata, avvicinandosi al bancone ancora con la speranza che quella persona potesse spuntare da qualche parte.

-”Oh, eccoci qui!”-affermò soddisfatto una volta che la vide seduta davanti a sé, sorrise-”Che ti preparo?”-

Lei continuava a guardarsi intorno. Ma era lo stesso pub dell'altra volta?

-”Eh...?”-fece distratta al moro. Antonio si morse un labbro, tentando di trattenere un sorriso.

-”Ok, faccio io. Ora arriva il drink...”-le diede le spalle e cominciò a preparare il tutto. La castana annuì, cominciando a darsi mentalmente dell'idiota: che stupida, non sarebbe dovuta venire.

Ma che le diceva la testa?

-”Come ti chiami? Non sei di qui, vero?”-

Lei tornò a guardarlo, leggermente infastidita.

-”No. Vengo da Londra, mi chiamo Elizaveta.”-lo disse quasi come una cantilena, come se ormai fosse stufa di continuare a ripeterlo ovunque andasse.

-”Il mio nome è Antonio, piacere.”-diede uno sguardo alla ragazza. Capì che era meglio non insistere sulle presentazioni.

Ci fu un lungo silenzio.

-”Scusa...”-questa volta fu Eliza a parlare-”In questo pub quante persone lavorano?”-

Lo spagnolo la guardò per un attimo sorpreso, poi sorrise interessato da quella domanda. Per un attimo la castana temé che gli chiedesse il motivo di tale domanda, poiché, non avrebbe saputo dare con estrema sincerità una risposta.

-”Siamo in tre.”-

Ma non successe.

-”Siamo tre ragazzi.”-sorrise.

Eliza cominciava a trovare incredibilmente belli quei sorrisi. Distolse lo sguardo dal moro e lo posò sul bicchiere che, pochi minuti prima, lui le aveva posato davanti.

-”In tre, eh...?”-chiese distante, come se la mente volasse altrove. Posò dei soldi sul bancone e si alzò dallo sgabello-”Ti ringrazio per il drink, ora devo andare.”-

Antonio sorrise.

-”Grazie a te, è stato un piacere.”-

Eliza fece per avviarsi alla porta.

-”Per caso, conosci uno degli altri due ragazzi che lavorano qui?”-

La castana sembrò raggelarsi di colpo, poiché si fermò subito.

-”Perché?”-chiese sorridendo appena, guardandolo.

-”Non so, mi era parso stessi cercando qualcuno...”-

Accidenti, quell'Antonio era sveglio. Eliza si lasciò scappare un sospiro rassegnato. Possibile che le si leggesse tutto in faccia?

La porta del locale si aprì con uno scatto ed i due saltarono per lo spavento. Un albino dall'aria molto sciocca, proruppe nel locale.

-”Ma salve!”-gridò quasi a squarcia gola. I due rimasero raggelati a fissarlo.

Probabilmente solo in quel momento, Gilbert, si rese conto della figura appena fatta. Si passò una mano dietro la nuca e sghignazzò un po' in soggezione.

Aveva fatto una delle sue solite figuracce davanti ad un cliente, era da un po' che non succedeva. Guardò contrito Antonio che, spesso, si arrabbiava quando lo faceva. Affermava che così i clienti non sarebbero più voluti venire.

Ma qui non si parlava di un semplice cliente.

-”Biondina?!”-fece incredulo, finalmente mettendo a fuoco l'aspetto del cliente. La ragazza lo guardò malissimo, alzò gli occhi al cielo.

-”Non sono bionda sono castana, accidenti!”-affermò infastidita.

Gilbert guardò infantile Antonio, quasi cercasse conferma a quelle parole. Lui lo guardò male, sospirò stancamente ed annuì.

-”Effettivamente è castana, Gil...”-si ritrovò ad affermare.

Il prussiano sembrò rimanere male a quella dura realtà, ma non si lasciò abbattere. Tirò su uno dei suoi sorrisi strafottenti e tornò ad Eliza.

-”Dovevo immaginarmi che eri tu.”-affermò maligno-”Solo una rompi scatole come te poteva venire prima dell'apertura.”-

Lei sembrò ignorare quelle parole.

-”E' questo il modo in cui si trattano i clienti?”-

Gilbert fece per controbattere ma fu fulminato dall'occhiataccia di Antonio. Un suono molto simile ad un guaito uscì dalle sue labbra.

-”Accidenti, che nervi...”-borbottò-”Per sta volta hai vinto tu!”-

Eliza sembrò soddisfatta e fece per congedarsi.

-”Come mai vi conoscete, voi due?”-chiese lo spagnolo che le impedì, per la seconda volta, di uscire di scena. L'ungherese cominciava a non poterne più, aveva un disperato bisogno di andarsene da lì dentro. Gilbert le lanciò un'occhiata veloce.

-”E' solo una depressa che viene a rompere nell'orario di chiusura.”-fece, sfottendola.

Eliza si voltò verso di lui come punta da una vespa.

-”Io depressa?!”-sbottò lei, rossa in viso-”Ma senti chi parla, troglodita!”-

Gilbert ridacchiò divertito.

-”Dura la realtà, eh, biondina?”-le fece la linguaccia. Lei le assestò un bel cazzotto su una spalla e si avviò all'uscita. Antonio abbozzò un sorriso.

-”Eh, eh... Torna a trovarci...”-solo dopo averlo fatto si rese conto di aver detto un'idiozia.

Gilbert si voltò verso la porta che stava per chiudersi.

-”Non mi hai fatto nulla!”-mentì spudoratamente.

La risposta fu lo sbattere della porta che si chiudeva.

Passarono cinque secondi di silenzio in cui il prussiano si massaggiò una mano sulla spalla colpita, poi si rese conto dello sguardo di rimprovero dello spagnolo.

Ingoiò della saliva.

-”Ma dico, l'hai vista?”-gli fece, fingendosi sconvolto-”E' una violenta, ma tu guarda...”-

 

Madrid.

Ludwig appena scese dall'aereo non riuscì a trovare un aggettivo per descrivere quella città. C'era stato un paio di volte in passato, giusto il tempo di andare a verificare che il fratello fosse ancora vivo, e poi via.

Ma per tutte le volte che vi era stato non era riuscito a farsela piacere. Cioè, non che la trovasse brutta, anzi, era una città bellissima. Il problema era che non era casa sua, tutto qui.

-”Non ero mai stato a Madrid...”-affermò l'italiano sorridente-”Mi piace...”-

Il tedesco scosse il capo, sospirando. Lo aveva immaginato. Che cosa, a Feliciano, non piaceva? A parte stare lontano dal fratello per cinque anni? Si direbbe niente.

Sorrise nel vederlo allegro e solare per ogni singola cosa che lo circondava.

-”Guarda che bello, Lud, stiamo a Madrid!”-

Già, Madrid. Perché lui non riusciva a sentirsi così euforico?

-”Guarda che bello, Lud, la gente è così allegra! Che bella, Madrid!”-

Aveva capito e allora? Cosa c'era di così entusiasmante?

Più se lo chiedeva e più non vi trovava risposta. L'italiano continuava a guardarsi in torno ed a sorridere soddisfatto e felice. E, dovette ammettere, che gli bastava quello.

Gli bastava vederlo felice, felice come non lo aveva mai visto, per essere contento anche lui.

E bene, Madrid era una bella città, non lo attirava particolarmente. Ma se c'era Feliciano al suo fianco, qualsiasi cosa acquistava dell'interesse e del bello.

Arrivarono ad al loro albergo e posarono le valigie.

Dannazione, chissà come sarà questo Romano... Sono un po' nervoso...

 

Il cuore le tamburellava nel petto, veloce come non mai. A passo svelto si dirigeva verso il suo appartamento. Non era tardi, poteva rimanere un altro po' in quel locale, ma in quel momento aveva un dannato bisogno di fuggire via da quel pub e di buttarsi sul letto.

Eliza si strinse nelle spalle.

Perché improvvisamente, quel pomeriggio, le era venuta quella dannata voglia di tornare in quel pub? Si sentì le guance arrossarsi.

Scosse il capo con decisione e rabbia.

No, no e no...

Non poteva essere così.

Non è come sembra...! Non succederà più, tanto!

Ripensò a Gilbert e provò una rabbia mischiata ad imbarazzo. Si fermò e posò una mano su un muro. Si morse un labbro con un vivido rossore sulle guance.

No, cazzarola, non è come sembra!

E se, invece, era proprio come sembrava?

 

Per quella sera non avrebbero incontrato nessuno, ormai era tardi per far visita ad i loro fratelli, perciò decisero di andarsi a trovare un bel ristorante.

Per la gioia di Feliciano trovarono un piccolo ristorante spagnolo, l'italiano teneva molto a mangiare qualcosa del posto. Entrarono, si accomodarono ed ordinarono.

-”E' davvero bella, Madrid, vero?”-fece, sorridendo l'italiano ma questa volta con un po' meno entusiasmo. Ludwig sembrò accorgersene.

-”Lo hai detto molte volte, oggi, sai?”-fece, quasi rimproverandolo. Feliciano sorrise. Quante volte aveva sentito quel tono da parte del tedesco? E quante volte quella voce calda e decisa era destinata per un rimprovero? Si ritrovò a sorridere ironico: molte poche volte.

Troppe poche volte per uno come lui, abituato a combinare pasticci su pasticci. Ed anche quella volta, quel tono, non era di rimprovero. Non avrebbe saputo dire a cosa di preciso assomigliasse ma sapeva per certo che, anche se non lo stava facendo, gli stesse sorridendo con uno dei suoi sorrisi migliori. Ed a Feliciano bastava.

Bastava quel tono, bastava quello sguardo calmo e distaccato.

Perché solo lui riusciva a leggerlo dentro, solo lui riusciva a capire cosa realmente provasse, pensasse od intendesse dire.

Dopo tutto, tre anni di convivenza, non sono certo pochi. Congiunse le mani al disotto del mento.

-”Sei per caso nervoso, Lud?”-ridacchiò-”Dopo tutto domani rivedrai tuo fratello.”-

Il tedesco lo guardò intensamente. Si sbagliava, lui non era per niente nervoso. O forse l'italiano lo sapeva. Forse era uno dei suoi mille modi per dirgli che era, invece lui, agitato e nervoso.

Si chiese perché stesse cercando di nascondergli la sua ansia, di solito non mancava l'attimo per far straripare tutte le sue emozioni.

Che queste emozioni lo stiano così dilaniando da impedirgli di mostrarle...?

Si ritrovò a non capirci nulla, lui non era bravo con i sentimenti. Anzi, diciamo che era un frana ma stava pian piano conoscendo ogni parte di Feliciano.

E quella, sì quella, era una parte di lui che ben pochi conoscevano. Quella in stava zitto e sorrideva, fingendo di essere felice. Quella in cui le preoccupazioni le teneva per sé.

Sì, insomma, tutta un'altra persona.

Lo vide sorridergli.

-”Non devi esserlo, Lud.”-gli disse stringendogli la mano-”E' tuo fratello, vedrai che non ti avrà dimenticato. Vedrai che ti vorrà bene come un tempo.”-sembrava dirlo più a sé stesso che al tedesco. Ludwig strinse la mano del compagno ed annuì.

-”Hai ragione.”-gli sorrise, uno dei suoi rarissimi sorrisi spontanei-”Non devo essere nervoso.”-

Gli occhi di Feliciano sembrarono inumidirsi, posò lo sguardo altrove, sempre con il solito sorriso sulle labbra. Le loro mani ancora strette l'une alle altre.

-”Già, non devi...”-sussurrò tra sé e sé, l'italiano.

Ludwig si ritrovò a sospirare. Com'era strano quel ramato, alle volte, aveva quella strana abitudine di non raccontare nulla. Aveva la tempesta dentro e nessuno lo notava.

A parte lui, ovviamente.
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Note

Scusate l'ora tarda dell'aggiornamento (00:38 ^^"") ma non ho molto tempo durante il giorno, dannazione! E pensare che sono iniziate le vacanze -.-
Vi lascio con questo capitolo, spero che sia di vostro gradimento.
Fatemi sapere che ne pensate, baci, baci,

Honodetsu:D

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Capitolo 34
*** 34 ***


-”In questi giorni sei nervoso...”-

Arthur mugolò, senza staccare gli occhi dal cellulare. Francis rimase a fissarlo per qualche istante, quasi cercando di capire che gli accadesse.

-”Arthur...”-ritentò, ma non vi fu risposta. Il francese sbuffò molesto, colpito nell'intimo da quel silenzio, e si lasciò scivolare sul letto, accanto a quell'inglese odiosamente taciturno.

-”Eh...?”-rispose in ritardo, l'altro. Ancora a controllare, chissà che, su quel dannato telefono. Cosa aveva di così interessante quel display da poter mettere Francis in secondo piano?

Il francese non se lo spiegava. Sbuffò una seconda volta, offeso. Arthur, finalmente, tornò a guardarlo. Ciò che vide fu uno sguardo torvo.

-”Ora che diavolo hai?”-gli chiese, arrossendo sotto i suoi occhi azzurri. Francis lo guardò malissimo.

-”Ah, io, che ho?”-chiese infastidito-”Piuttosto, tu!”-fece con voce teatrale-”Stiamo insieme e mi ignori!”-si portò una mano sulla fronte, quasi non potesse sopportare tutto quel dolore-”Non è mai successo, non me ne capacito...!”-disse tragicamente, più a sé stesso che all'inglese. Arthur, intanto, si era alzato dal letto, ignorando quelle parole.

-”Ehi!”-si alzò di scatto Francis-”Si può sapere dove vai, ora?”-

-”Al bagno, smetti di urlare, per favore?”-fece, trattenendo l'irritazione.

Il biondo rimase per un attimo interdetto. Lo guardò inerme mentre si dirigeva verso il bagno. Sbuffò e si mise a sedere sul letto sfatto. Un qualcosa di molto simile ad un rantolo gli uscì di bocca. Si grattò infastidito il mento. Sorrise tra sé.

Ok, ora basta fare gli stupidi...

-”Arthur...?”-lo chiamò, una volta tornato in sé.

L'inglese rimase stupito da quel tono di voce. Arrossì, all'improvviso. Perché era diventato serio tutto d'un tratto? Avrebbe preferito che continuasse a fare lo scemo, così non si sarebbe sentito così in soggezione.

-”S... Sì?”-

Si buttò dell'acqua gelida sul viso.

-”Perché stai sempre a controllare il cellulare?”-

Non vi fu una risposta. Si asciugò il viso con il primo asciugamano che trovò. Posò i palmi sul lavandino e fissò la sua immagine riflessa sullo specchio.

Eh... chissà perché lo controllo sempre...

La domanda del francese continuava ad aleggiare nell'aria ma, l'inglese, sembrava non farci caso.

Perché, all'improvviso, quella cocciuta non mi chiama più? Non era lei quella che chiedeva con tanta insistenza di dover tornare?

-”Arthur?”-lo richiamò, Francis.

Si riscosse.

-”Sì, scusa...”-rispose-”Sono qui.”-

-”Allora?”-

L'inglese sorrise amaro.

-”Allora niente...”-alzò le spalle ed aprì la porta del bagno. Lo guardò negli occhi-”Aspettavo che una persona si facesse viva...”-

Una persona? Ciò allarmò Francis. Chi? E perchè?

-”Ma pazienza.”-continuò, Arthur.

Quelle parole, però, placarono la sua paura. Il francese si alzò dal letto, gli prese le mani e gliele strinse con amore.

-”Già, pazienza...”-gli sussurrò il francese poco prima di baciarlo.

L'inglese, per l'ennesima volta, arrossì.

 

-”Ti prego, Roma...”-

Confusione.

-”Romano...”-

Troppa confusione.

-”Romano...!”-

Troppa confusione, persino per uno come lui.

-”Romano, accidenti!”-

L'italiano finalmente la finì di blaterare, rimase a fissarlo ammutolito. Gli occhi grandi e verdastri lo fissavano smarrito e spaventato.

Antonio sbuffò, stanco di tutta quell'ansia. Era entrato di botto nell'appartamento ed aveva cominciato ad urlare e a camminare su e giù per il salone, borbottando qualcosa su un fratello.

Lo spagnolo si grattò la testa, non aveva capito nulla.

-”Adesso prendi aria e rispiega tutto da capo.”-lo guardò serio-”Con calma, però.”-

Romano scivolò inerme a terra.

-”E' qui a Madrid, Antonio, capisci?”-si portò una mano sulla fronte-”E' qui!”-

-”Ma chi è qui, Roma?”-lo guardò, confuso.

-”Feliciano, zuccone! Feliciano!”-urlò-”E' arrivato ieri sera! Ed oggi vuole che ci incontriamo!”-

All'improvviso, Antonio, capì il motivo del suo comportamento. Alzò gli occhi al cielo e sorrise. Si avvicinò al suo italiano e lo abbracciò. Lo sentì rigido sotto le sue braccia. Gli diede un dolce bacio, riuscendo a calmarlo almeno un pochino.

-”Sapevi che questo momento sarebbe arrivato, no?”-gli chiese.

Romano annuì come un bambino.

-”Lo so... Però...”-

Il riccio sorrise.

-”Però hai lo stesso paura, ed è normalissimo.”-

L'italiano strinse le dita intorno alla sua maglia.

-”Antonio...”-lo guardò negli occhi e lo spagnolo vide tanto dolore-”Lui non è più mio fratello, vero?”-

Il moro corrucciò la fronte.

-”Cosa...?”-

-”L'ho perso, vero?”-gli occhi si inumidirono-”L'ho perso cinque anni fa, giusto? Lui non è più il mio Feliciano... Lui non è più il mio piccolo Feliciano, il mio piccolo fratellino...”-

Antonio lo guardò sorpreso. Aveva davvero detto “il suo”? Non lo aveva mai sentito parlare in quel modo. Per cinque secondi buoni non riuscì a dire una parola.

Fu Romano a spezzare quella sua confusione, stringendosi disperatamente al suo petto, chiedendogli con una celata disperazione del conforto.

-”Roma... Ma cosa dici?”-

-”E' vero... Adesso lui ha una vita così lontana e differente dalla mia!”-

-”Ma come puoi dirlo se nemmeno lo sai?”-gli chiese sorridendogli dolcemente, nonostante dentro stesse morendo-”Non lo hai ancora incontrato!”-

-”Già lo so!”-affermò con ostinata convinzione-”Già lo so!”-

Antonio lo strinse forte a sé.

-”Che bambino che sei...”-gli sussurrò.

-”Non posso incontrarlo... Non posso!”-

-”Sì che puoi.”-

Romano mugolò.

-”Con che faccia mi ripresento dopo cinque anni...?”-sussurrò con dolore.

Antonio si morse un labbro.

Possibile che fosse così distrutto solo all'idea di doverlo rivedere? Lui, di certo, non avrebbe mai potuto capire quello che provava. Dopo tutto era figlio unico.

-”Sai...”-fece, Antonio, allontanandogli un po' il viso dal proprio petto-”Forse è come dici tu: probabilmente avrete due vite completamente diverse e distanti, probabilmente molte cose saranno cambiate, però...”-Romano lo guardò con vergogna e dolore. Lo spagnolo gli asciugò una lacrima -”Però è stato lui a voler venire fin qui.”-gli sorrise-”E questo vuol dire che ci tiene a riavvicinarsi a te, vuol dire che lui è ancora il tuo piccolo fratellino.”-

-”...”-probabilmente rimase senza parole, poiché rimase a fissarlo smarrito, quasi stesse ancora ragionando su quelle parole appena dette dal moro.

-”Vai all'appuntamento e smettila di lamentarti...”-gli passò una mano tra i capelli-”E' sicuro che Feliciano ha una voglia atroce di rivederti.”-

-”...”-

Ancora silenzio.

Infondo che si aspettava il moro? Come potevano quelle semplici parole rassicurarlo, farlo sentire più confortato? Come, se a dirle era lui, e non Feliciano?

Sentì la sua mano scapigliargli maggiormente i capelli.

-”Ti sei convinto?”-chiese in tono gentile.

Romano lo guardò perso.

-”...”-sembrò pensarci su-”S... Sì...”-

No, non era convinto, Antonio lo vedeva. Ma, d'altronde, come poteva dargli torto?

 

Si vedeva benissimo che aveva una paura folle. Nei suoi occhi si scorgeva una voglia innata di rinunciare. Eppure c'era qualcosa di diverso in lui, qualcosa che si distingueva dal comportamento dell'altra sera.

Ludwig lo guardò attentamente, anche mentre si guardava allo specchio per giudicare il suo aspetto. Già, diverso, il suo comportamento era così diverso ma così simile a quello dell'altro giorno.

C'era qualcosa di diverso nel suo modo di muoversi, era più leggero, più delicato nei movimenti, quasi stesse compiendo un rito sacro.

Lo vide mentre si sistemava la camicia con una cura maniacale. Anche nella sua voce continuava a esserci, come nell'altra sera, tensione ed ansia ma qualcosa era cambiato. Sembrava quasi si sentisse più calmo. Già, ora che Ludwig lo guardava in silenzio se ne rendeva pienamente conto.

La paura c'era ancora, l'ansia anche, ogni singola emozione provata l'altro giorno, c'era ancora. Il tedesco rispose, al suo voltarsi e sorridergli, con un altrettanto falso sorriso.

La bravura era tutta lì: quella di saper recitare bene, di saper fingere.

E Feliciano, come sapeva bene il biondo, era il re dell'inganno. Sapeva, con una terrificante dolcezza, far vedere solo alcune parti del suo carattere, quelle che preferiva, nascondendo, alle volte, il vero sé stesso. Ludwig lo guardò con una calma da studioso, quasi cercasse di analizzarlo.

Chissà se quel suo modo di fare era inconscio o voluto.

-”Lud,”-lo guardò con una calma spaventosa, Feliciano. Gli sorrise, bellissimo-”vado, ci sentiamo più tardi, ok?”-

Il tedesco non disse nulla, si alzò dalla sua sedia e si avvicinò all'italiano. Lo cinse con dolcezza nella sue braccia, gli baciò la fronte.

-”Buona fortuna...”-gli sorrise appena-”Nervoso...?”-chiese.

L'altro, fisso nei suoi occhi, gli sorrise infantile.

-”No.”-

Ludwig lo strinse più forte a sé, sorridendo appena. L'aveva fatto di nuovo e ciò, doveva ammetterlo, lo feriva un pò. Sospirò, scompigliandogli amorevolmente i capelli.

-”Sicuro?”-chiese, quasi sperando ad una risposta negativa.

-”Certo, perché non dovrei esserlo?”-chiese allegro.

Il silenzio salì leggero e spontaneo mentre i loro corpi erano ancora vicini.

Ludwig sospirò.

Feliciano era decisamente il re dell'inganno.

 

Si videro in lontananza. Da prima, ad attirare l'attenzione di Romano, fu il ciuffo ma, man mano che la figura imbacuccata si avvicinava, più provava timore.

Era lui, ed a pochi metri.

Era come se improvvisamente tutto si fosse fermato, l'unica cosa che era in grado di udire erano i passi di quella figura avvicinarsi.

Come poteva essere arrivato a questo punto?

 

-”Ehi, Roma, giochiamo, ti va?”-

Il bambino lo guardava sorridente, quasi pendendo dalle sue labbra. Romano non sopportava quando lo guardava così. Quello sguardo significava ammirazione e rispetto e, di conseguenza, presa in giro: come poteva provare rispetto di uno come lui? Come poteva provare ammirazione se, proprio il bimbetto piagnucolone, era migliore in tutto rispetto a lui?

 

La prima cosa che riconobbe, appena lo vide meglio, furono gli occhi. Quegli occhi dolci da bimbo, quegli occhi che lo guardavano con amore e rispetto.

Un rispetto di cui non si era mai reso pienamente conto.

Le gambe gli tremavano. Era arrivato il momento, il momento di fare i conti con il passato.

 

-”Gioca con qualcun altro, che vuoi da me, moccioso?”-

-”...”-

La risposta fu un semplice sorriso.

 

Poi riconobbe il volto, così perfettamente ovale e così dolcemente perfetto nei lineamenti, ed il sorriso. Gli occhi gli si appannarono improvvisamente. Com'era cambiato, era un adulto ora. Ma qualcosa del Feliciano bambino era rimasto in lui.

E quel sorriso faceva parte di quel qualcosa.

Il volto del fratello minore si scompose minimamente alla sua vista, almeno non negativamente. Anzi, il suo sorriso sembrava essersi ingrandito. Romano si sentì morire, si sentì aggredito da quelle labbra tirate.

Avrebbe tanto voluto andargli incontro ma sapeva perfettamente che, se lo avesse fatto, le gambe non gli avrebbero retto.

Perciò rimase fermo, attendendolo con angoscia mortale nel cuore.

Feliciano gli si fermò davanti, alto e snello e come lo aveva lasciato. Gli occhi di Romano sembrarono non volersi decidere di collaborare, si passò alla svelta una mano sulla guancia, cancellando le tracce di una piccola lacrima sfuggita al suo controllo, sperando che il fratello non lo avesse notato.

Il minore non disse nulla, si limitò a guardarlo calmo e sorridente. Gli prese le mani e gliele strinse. Il maggiore non riusciva a tenere lo sguardo, quel contatto improvviso lo aveva spiazzato, tanto che, abbassò subito lo sguardo.

-”Cinque anni...”-sussurrò, Feliciano.

Romano si sentì morire.

-”Cinque anni...”-ripeté.

Il ramato fece per aprire bocca e scusarsi nuovamente ma fu zittito dall'abbraccio spontaneo del fratello. Rimase di sasso.

-”...Non sei cambiato per niente, Romano!”-esclamò, con una gioia sorda.

E l'altro si lasciò stringere tra quelle braccia deboli ma così dannatamente forti, ancora incredulo, ancora dolcemente rapito da quella nuova presenza.

-”Per niente!”-scoppiò a ridere. Quella risata, come gli era mancata quella risata-”Sei sempre il mio solito fratellone!”-

A quell'affermazione il cuore di Romano si scaldò.

Avrebbe voluto rispondere, avrebbe voluto dirgli che, invece lui, era cambiato moltissimo ma qualcosa glielo impediva.

Sentì la forza mancargli.

Si era perso tutto. Tutto. Ogni singola cosa che Feliciano poteva donargli della sua vita, lui, se l'era persa. Si era perso la sua adolescenza, si era perso i suoi drammi in amore, che non per forza doveva averli avuti; ma, dopo tutto, tutti gli adolescenti ne hanno avuti.

Si era perso tutto, ogni singola cosa. Avrebbe fatto l'impossibile per poter tornare indietro.

Lo strinse forte a sé.

-”Scusa...”-riuscì solo a dire, tra le lacrime silenziose-”Sono stato così egoista... Devi esserti sentito solo...”-

Ed intanto Feliciano sorrideva, sorrideva e taceva.

-”Non deve essere stato facile... Perdonami se puoi, perdona tuo fratello...”-

Questa volta non vi furono parole di conforto per Romano, come in passato accadeva spesso, no, questa volta no. E ciò fece capire al maggiore quanto, il fratellino, doveva aver sofferto a quel suo abbandonarlo.

Lo strinse ancor più forte, quasi temesse che stesse sognando.

Feliciano lo scostò gentilmente,lo guardò in volto continuando a sorridergli.

-”Ti voglio bene, Roma...”-ed in quella frase intuì tutto il rispetto che nutriva nei suoi confronti.

Le parole di un fratello devoto. Di un fratello che, nonostante il dolore e la delusione, non aveva mai smesso di ammirarlo.

Romano rimase immobile, scioccato ed amareggiato della proprio idiozia. Feliciano lo strinse a sé.

-”... E ti perdono...”-un sussurro.

Un semplice sussurro che sciolse come nulla quel poco dolore che era rimasto di quei cinque anni di buio.

Si riabbracciarono e per la rima volta dopo tanto si ritrovarono davvero vicini, si ritrovarono completi.

Una lieve e stanca rista uscì dalle labbra di Romano, fino a coinvolgere anche il fratello.

Dopo tutto, ci si abbraccia, per ritrovarsi interi.
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Note

Sì, lo so, sono tornata dopo anni, perdonatemi (scusate ma sono stata trascinata in campeggio all'improvviso O.o sono riuscita a pubblicare questo capitolo per pura fortuna)...
Bhè, spero solo che qualcuno a seguirmi sia rimasto, fatemi sapere che ne pensate!
Baci,

Honodetsu:D

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Capitolo 35
*** 35 ***


Si era quasi ripreso dal suo periodo nero, era quasi riuscito a trovare una via di scampo, ed ora ci si metteva di mezzo quella stramba ragazza.

Gilbert sbuffò rumorosamente, camminando su e giù per l'appartamento.

Già, quasi riperso. Anche perché appena rivedeva quella Eliza, quella bionda, sì, perché per quanto ne dicesse lei; era bionda, si sentiva risucchiare nuovamente dalle sue insicurezze.

Si fermò al centro della stanza, con i pugni stretti e le sopracciglia aggrottate per l'impotenza: perché non riusciva a controllarsi quando c'era quella dannata ungherese?

Gli salì un dubbio.

Aspetta, era inglese od ungherese...?

Quella domanda che, lì per lì, gli parve di vitale importanza si trasformò immediatamente in puro fastidio ed in pura irrilevanza, fino a far giungere una risposta che, fino a quel momento, gli rimbombava nel cervello silenziosa:

-”Ah! Ma chi se ne frega!”-urlò quasi, con un'irritazione crescente.

Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche.

Quella ragazza lo agitava, punto. Poi al diavolo di che nazione fosse. Lo agitava e tanto bastava a farlo sentire debole ed inadeguato.

Tutti sentimenti che, per uno come lui, erano del tutto nuovi.

Strinse i denti, confuso e frustrato.

E, come si sa, il nuovo fa sempre paura.

 

Cos'è? Non ti fai più sentire? Ti sei forse offesa? Oppure hai semplicemente rinunciato?”

Non riusciva a smettere di leggere e rileggere quel messaggio.

Già, mi sono arresa...?

Non lo sapeva nemmeno lei. Strinse il cellulare tra le mani.

Che brutta situazione...

Non riusciva a ragionare con calma, si sentiva in trappola, come se, ormai, la sua vita fosse stata decisa molto tempo prima della sua nascita.

Strinse i denti.

Perché doveva essere lei ad occuparsi di un padre non suo?

Perché doveva essere lei quella riconoscente se, dopo tutto, era sempre stata trattata come una schiava? Si ritrovò a sorridere amara.

Già, infondo lei era solo la “figlia della domestica” come, d'altronde, tutte le altre colleghe della madre defunta, usavano chiamarla.

Aveva sempre odiato Londra, ma nonostante questo non vi si era mai allontanata. E lo aveva fatto solo ed unicamente per il padre di Arthur, per quell'uomo che le aveva donato tutto.

Ma che le aveva anche impedito, allo stesso tempo, di avere una sua vita.

Eliza sospirò, cominciando a credere che quel trattamento gentile da parte sua sia stato per compensare altro. Sbuffò, già, forse per compensare la mancanza del figlio.

Dopo tutto Arthur non aveva mai dimostrato molto interesse per il padre.

Già, ora se ne rendeva conto, lei era la sostituta, lei era la “seconda scelta”. Gli occhi le si socchiusero.

Ciò, stranamente non la sconvolse come, giustamente, avrebbe dovuto. Ma probabilmente, lo aveva sempre saputo, dopo tutto.

Sorrise ironicamente.

Già, lo aveva sempre saputo. Anche quando le accarezzava dolcemente il capo da bimba, anche quando le faceva i complimenti per quanto fosse stata brava ad arrampicarsi sul ramo più alto: sempre.

Sempre.

Era solo pietà la sua, solo il bisogno prerrompente di sostituire un figlio che lui aveva già definito “perso”.

Allora qual'era il suo compito, in tutta quella storia? Qual'era la sua parte? Cominciava a rifiutarsi di credere di dover fare la figlia devota al posto di Arthur.

Era grata a quell'uomo, le dispiaceva quello che stava passando.

Ma perché lei doveva soffrire così tanto per un uomo che, magari l'aveva anche amata, ma che l'aveva fatto solo per sé stesso? Per non sentirsi abbandonato?

Improvvisamente si rese conto che non sarebbe tornata a Londra. Improvvisamente si rese conto che il suo più grande desiderio era quello di rimanersene lì dov'era e di crearsi una vita.

Dopo tutto era ancora giovane.

Sorrise tra sé, sapendo che, comunque, per un qualche destino infame lei non sarebbe mai stata del tutto felice.

Per avere una vita felice bisogna nascere ricchi, bisogna nascere con un qualcuno che ti ama davvero...

Ma lei non aveva avuto niente di tutto questo. Chissà se mai avrebbe trovato un uomo, un giorno, che l'avrebbe amata davvero?

Sospirò tristemente.

Un'immagine attraversò la sua mente, arrossì.

Che stupida!

Si schiaffeggiò imbarazzata.

Dovrei smetterla di sognare ad occhi aperti!

Ma, dopo tutto, quel sogno poteva anche diventare realtà. Solo che lei ancora non poteva saperlo.

 

Quello che si ritrovò davanti lo spiazzò, lo fece sentire nettamente inferiore.

Un metro e ottanta di puri muscoli.

Lo fissò senza dire una parola per poi passare a dare una rapida occhiata ad i suoi: così piccoli ed insignificanti rispetto a quella montagna che aveva d'inanzi.

Sospirò impercettibile. Eppure, lui, non era messo tanto male in quanto a fisico.

Occhi chiarissimi, di un celeste intenso.

Non di certo come i suoi, di quel colore insolito, così volgare.

Capelli chiari, di un biondo che più biondo non si poteva, di una di quelle tonalità che ricordavano la splendidezza del sole e delle spiagge calde.

Di certo non come i suoi, così biondi da sembrare bianchi, opachi. Come odiava i suoi capelli, come odiava i suoi occhi rispetto a quelli del fratello.

Lo vide accennargli un sorriso timido, con scarso successo, come se le altre persone all'interno del pub gli creassero un leggero disagio.

Gilbert scosse il capo, non riuscendo ad impedirsi di sorridere intenerito. Gli fece segno di aspettarlo fuori, e così il biondo fece.

Antonio e Francis si volsero in quel momento verso il prussiano. Lo spagnolo visibilmente sconvolto ed il francese entusiasmato.

-”...”-Gilbert li guardò spaventato.

-”Ma quello era Ludwig?!”-chiese, allarmato il moro ma subito Francis lo sorpassò.

-”Sì è fatto un bel ragazzone, eh?”-fece civettuolo, portandosi una mano sulle labbra e ridacchiando malizioso. L'albino lo guardò con disgusto.

-”Tieni le tue manacce da maniaco lontane dal mio fratellino, chiaro?”-fece puntandogli un dito contro mentre si toglieva il grembiule dalla vita ed usciva da dietro il bancone. Francis ghignò, perso in chissà quali pensieri poco pudici.

-”Aspetta, Gil!”-si accigliò preoccupatissimo l'iberico, mettendo da parte l'amico accanto a lui. Gilbert si voltò-”Che ne hai fatto del piccolo e timido Lud? Quel ragazzetto piccolo e biondino che ti stava sempre in torno?! Ma non mi avevi detto che era cambiato così tanto!”-

Il prussiano alzò un sopracciglio.

-”E allora?”-alzò le spalle, arrossendo, un po' piccato-”Che c'è piace per fino a te, Tonio?”-lo disse un poco deluso-”Credevo che tu fossi diverso da quel maniaco!”-

Ed intanto, il “maniaco”, continuava a sghignazzare tra sé. Rimasero entrambi a guardarlo pacati. Non c'erano parole per la sua idiozia, preferirono tornare ai loro discorsi senza dirgli nulla.

Antonio scosse una mano, come per scacciare quelle parole.

-”Ma che dici?”-fece annoiato per poi preoccuparsi maggior mente-”Hai idea di cosa succederà ora?”-fece mordendosi un labbro.

Gilbert lo guardò confuso ed innervosito, alzò le spalle e le sopracciglia, scuotendo la testa.

-”Che cosa?”-fece esasperato. Antonio gli afferrò i baveri della maglia da dietro il bancone.

-”Ma sei scemo o cosa?”-fece-”Quell'omone alto due metri e tutto muscoli, alias tuo fratello, è il fidanzato di Feliciano, il fratello di Romano!”-

Il prussiano lo guardò senza riuscire a seguirlo più di tanto.

-”E allora?!”-

-”E allora?!”-ripeté l'altro esasperato.

Ma cosa vuoi da me...?

-”E allora Romano mi romperà le scatole come pochi con sta storia!”-il prussiano lo guardò terrorizzato.

Cosa vuoi dalla mia vita...?

-”Era già terrorizzato per il fatto che il suo piccolo fratellino fosse con un uomo, non hai idea di quante storie ha fatto!”-disse, scuotendolo.

Aiuto, questo è fuori!!

-”Adesso diventerà insopportabile, una volta che avrà visto il tuo “fratellino”!”-disse acido e continuando a scuoterlo. Gilbert se lo staccò di dosso. Antonio rimase ammutolito.

-”Senti, Tonio, mi spiace davvero tanto, anche se non ho ben chiara la situazione...”-camminò all'indietro fino all'uscita-”Davvero, mi dispiace, però ora devo andare... Ne parliamo dopo, ok?”-

Uscì di fretta dal pub, senza dargli tempo di rispondere.

Antonio rimase lì, in piedi, ancora ammutolito. Francis, che doveva essersi ripreso da poco dai suoi pensieri poco dignitosi, si avvicinò allo spagnolo con molta nonchalance.

-”Ehi, ma dove è andato...?”-

Antonio si portò le mani tra i capelli, ignorando completamente l'amico.

-”Sono rovinato.”-

 

Gilbert abbracciò il fratello con trasporto.

-”Ehi, ehi!”-ridacchiò felice di rivederlo-”Qual buon vento ti porta qui?”-

Ludwig, senza mai abbandonare la sua compostezza, cercò di far passare il rossore sulle guance e di rispondere all'abbraccio come meglio poteva.

-”Ma come, Antonio non ti aveva avvertito?”-

Gilbert sciolse l'abbraccio e lo guardò un attimo interrogativo. Per almeno qualche secondo rimasero a fissarsi negli occhi. Ludwig in attesa di una risposta e Gilbert con uno sguardo idiota sul volto. Dopo essere arrivati a dieci secondi buoni di silenzio, il minore dei fratelli, sbuffò.

-”Te lo sei scordato, vero?”-chiese sconsolato, portandosi una mano sugli occhi.

Gilbert, avvertendo nella sua voce quella nota dolente, scosse le mani e tirò su un sorrisetto difensivo.

-”Ehi, ehi, no, aspetta... Non me lo sono scordato, è solo che...”-si passò una mano sulla nuca-”Solo che ho bisogno un po' di tempo per pensarci...”-

Ludwig lo guardò.

Ecco, era quello lo sguardo. Era quello lo sguardo che lo metteva in crisi, che lo faceva sentire così imperfetto. Così poco sé stesso.

All'improvviso la voglia di scherzare si dissolse con quello sguardo.

-”Riguardava qualcosa con il tuo ragazzo, giusto?”-chiese, imponendosi di non mostrarsi troppo serio-”Doveva incontrare Romano, suo fratello, no?”-

Ludwig sorrise amichevole, gli portò un braccio intorno alla spalla e lo scosse leggermente.

-”Sai, Gil, un po' mi sei mancato in questi anni.”-

Il prussiano lo squadrò da capo a piedi.

-”Che ti succede ora?”-fece un passo indietro, spostando il suo braccio dalla spalla-”Sei troppo amichevole.”-

Il minore sospirò, accennò uno strano sorriso. Gilbert, questa volta, non riuscì a comprendere lo sguardo del fratello, che guardava oltre, quasi stancamente. Lo vide prendere un grande sospiro.

-”Gil,”-fece con voce magnetica, tanto che l'albino si sentì risucchiato-”sai, non avrei mai creduto di arrivare a questo punto.”-si portò una mano sulla nuca. Chiuse gli occhi, sereno, poi li riaprì-”Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo il male che ci hanno fatto, credevo che non mi sarei mai ripreso.”-gli occhi di Gilbert si abbassarono di colpo sul terreno. La neve di stava sciogliendo, la primavera era alle porte. Il prussiano sospirò, perchè ora il fratello gli stava facendo quel discorso?

-”Eppure, eccomi qui.”-fece, il biondo, allargando le braccia-”Vivo in Germania e sto con un bellissimo ragazzo che, tra l'altro, amo molto.”-

Gilbert si morse il labbro, sapendo benissimo dove voleva arrivare a parare. Le grandi spalle di Ludwig si posarono appena contro il muro del pub.

-”Ero arrivato a Berlino con la morte nel cuore. Portando con me la flebile speranza che ce la potessi fare, che persino io ce la potessi fare. Ma se anche, in me, ci era stato questo piccolo desiderio, quante possibilità potevo avere, realmente, di riuscirci? Di riuscire a riprendere in mano la mia vita, di riuscire, magari, a costruirmene una migliore.”-

Gilbert si portò una mano tra i capelli, scompigliandoli.

-”E per anni ho creduto che, se ce l'avessi fatta, avrei dovuto ringraziare solo me stesso. Ma mi sbagliavo. Perché con me c'era Feliciano”-diede uno sguardo veloce al fratello che, intanto, ascoltava in silenzio-”Quando lo incontrai ero una persona vuota, pensavo solo al lavoro e a nient'altro.”-il tedesco sorrise, impercettibile, nel ricordare l'arrivo dell'italiano nella sua vita.

-”Lui mi ha cambiato, Gil, incredibile, ma c'è riuscito. Per questo sento che, se dovessi ringraziare qualcuno per come è cambiata la mia vita, ringrazierei Feliciano.”-

Gilbert si morse un labbro, amareggiato.

-”Ti prego, Lud, non dopo tutto questo tempo che non ci vediamo, non puoi...”-fu interrotto.

-”Sono preoccupato per te, Gilbert.”-affermò, finalmente. Il maggiore lo guardò sorpreso, non si sarebbe mai aspettato tutta quella schiettezza.

Sorrise amaro.

-”Non devi esserlo.”-fece, abbassando lo sguardo, mostrandosi sereno. Il minore lo guardò con preoccupazione. Aveva le sopracciglia appena aggrottate, Gilbert lo notò, e, lì dove le sopracciglia cominciano, gli si era formata una ruga. Piccola e live. A vederla gli si strinse il cuore. Come gli era mancata quella ruga. Come gli era mancato suo fratello.

Ludwig sorrise, vedendo che il fratello, come sempre, non intendeva ragionare. Si staccò dal muro ed alzò le spalle.

-”Va bene, finiamola qui.”-disse, sospirando.

-”Ti ringrazio.”-fece l'altro, ghignando appena-”Dai, vieni con me, ti voglio far vedere il mio appartamento, te lo ricordi, no? Ecco, ho fatto delle modifiche ora è molto meglio.”-

Ludwing si lasciò trascinare dal maggiore. Nel vederlo così allegro e spensierato, gli parve di tornare a quel tempo buio e triste. A quel periodo in cui loro, soprattutto Gilbert, ridevano e scherzavano nonostante tutto, tutto, gli andasse male.

Lui non aveva mai avuto la forza di volontà del fratello maggiore, mai. Eppure era riuscito ad uscirne, invece, lui, ancora no.

Gli si strinse il cuore a vederlo ghignare in quel modo strafottente.

Ma cosa pensi?... pensò, mentre osservava il fratello …Pensi che se fai buon viso a cattivo gioco ti sentirai meglio? Che tutti quelli che sorridono sono felici?...

Lo vide scoppiare in una risata.

Ti sbagli...

Lo afferrò per una manica e lo portò all'interno del suo appartamento, mostrandolo con orgoglio.

Ti sbagli!

Lo portò in cucina e lo fece accomodare, poi si diresse verso il frigo per prendere qualcosa da bere. Ludwig lo guardò con amore e dolore. Doveva sentirsi così solo, così vuoto. Proprio come si era sentito lui anni prima. Aggrottò appena le sopracciglia, preoccupato, e, di nuovo, gli si andò a formare quella ruga.

Tutto quello che voglio per te, Gil, è che ti riesca a trovare una persona buona...

Il fratello maggiore gli sbatté sotto il naso una birra fresca.

Una persona che, un giorno, potrai ringraziare...

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Note

Ed ecco il 35esimo capitolo... :S Cavolo, solo ora mi rendo conto che sono parecchi, eh? Bhè, penso sia giunto il momento di ringraziare chi mi segue, chi mi lascia ogni tanto un commentino ed anche, semplicemente, a chi legge ed apprezza in silenzio.
Non sapete quanta gioia mi dà vedere che c'è gente che ama quello che scrivo!
Tanti baci ed ancora tanti grazie!
Al prossimo capitolo,

Honodetsu:D

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Capitolo 36
*** 36 ***


Lo scrosciare dell'acqua si interruppe all'improvviso, al suo posto, lo scquillare inquieto di un cellulare. Eliza uscì dalla doccia, ignorando quel sono che, ormai da giorni, riempiva le sue giornate.

Come trovava terribilmente sciocco quel suo tentare di ignorare l'evidenza. Strinse le mani sul lavabo, incrociando con lo sguardo la sua figura riflessa nello specchio.

Quella musichetta ancora svolazzava fastidiosa nell'appartamento.

Tutto ciò che voglio è che questo finisca... Voglio solo vivere la mia vita, voglio davvero vivere...

 

Arthur buttò con fastidio il cellulare sul letto. L'appartmaneto era silenzioso, l'unico rumore era prodotto dallo stridire degli ingranaggi del cervello dell'inglese.

Era da parecchio che Eliza non gli rispondeva. Sbuffò, chiedendosi se era davvero arrivato il momento di fare una piccola visitina a suo padre.

Gli occhi si posarono su una delle tante camicie bianche che, quello scemo di Francis, lasciava stropicciate sul letto. Si passò tra le dita la stoffa candida, quasi lo aiutasse a ragionare.

Ne aveva parlato molto con il francese, nonostante si vergognasse terribilmente. Avevano parlato molto sulla possibilità di una sua partenza per Londra.

L'inglese sbuffò acido, ritrovandosi a riconoscere con ironia che ora, effettivamente, c'era molto dialogo tra di loro. Certo, il soggetto dei loro “colloqui” non era tra i migliori, ma almeno adesso potevano essere definiti una coppia.

Francis gli aveva detto tante volte che se avesse sentito la necessità di partire, lui, non lo avrebbe fermato, a patto che, questa volta, si sarebbe fatto sentire.

Gli sfuggì un sorriso.

Era ironica la sua situazione: prima scappava da Londra e da suo padre ed ora sentiva, invece, che avrebbe almeno dovuto saluarlo prima della sua morte.

Non era stato un buon padre, non era stato nemmeno un brav uomo. L'unica cosa che era riuscito a fare era quella di aver imbambolato quella ragazzina.

Strinse le dita intorno alla camicia.

Già, l'aveva così tanto ingannata e raggirata che lo aveva portato a farla odiare da Arthur. Sentì il cuore stringersi all'interno del suo petto.

Sospirò.

La realtà era che la pensavano entrabi in modi differenti: nessuno era buono, nessuno era cattivo. Nessuno aveva torto e nessuno aveva ragione.

La realtà era che nessuno dei due era mai riuscito a sopportare la morte dell'unica donna che, entrambi, avessero mai amato.

La madre di Arthur e, di conseguenza, la moglie dell'uomo che aveva sempre odiato.

Sbuffò, sdraiandosi pacidamente sul letto e stiracchiandosi.

Già, una sera, una di quelle fantastiche e poche sere in cui il padre riusciva a liberarsi in tempo dal lavoro per la cena. Una di quelle fantastiche volte in cui, lui e sua madre, potevano ricordarsi di avere rispettivamente un padre ed un marito.

Da sempre, Arthur e la madre erano abituati a magiare insieme, solo loro due. Ed al piccolo bambino gli era sempre bastato, gli bastava avere lei, quella fantastica donna, per sentirsi bene.

Quante volte Arthur aveva visto la madre felice e, con altrettanta gioia, gli aveva comunicato che, per pura fortuna, quella sera con loro ci sarebbe stato anche il padre a cenare? Quante volte l'aveva vista sorridere solare attendendo la sera?

Quante volte, in fine, l'aveva vista corrugare la fronte e mordicchiarsi il labbro nello scoprire che, no, pultroppo quella sera il padre non avrebbe fatto in tempo?

Già, si ritrovò ad ammettere amaro, troppe volte.

Peccato che, proprio in una di quelle sere, quella a mancare all'appello era proprio sua madre.

Gli sfuggì un grugnito, molto simile ad una lieve risata stroncata sul nacere.

Fottutissima fortuna...

 

Molti anni erano passati, eppure era come se non si fossero mai lasciati.

Feliciano gli parlò della sua vita a Berlino, di come nevicava nelle giornate invernali e di come il sole splendeva nei giorni estivi. Gli parlò del suo lavoro e di come lo amava.

Era un restauratore di opere d'arti, un lavoro che, fin da bambino, lo aveva sempre affascinato. Romano si ritrovò a riconoscere che, effettivamente, il ragazzino piccolo e solare che aveva lasciato in Italia, ora, se lo ritrovava anche lì a Madrid. Solo in versione un pochino più cresciuta.

Era ancora piccolo di corporatura, né troppo basso né troppo alto, aveva il solito sorriso che contagiava ed i soliti occhi infantili.

Eppure il suo volto non era più tonto ed infantile come quello che ricordava, ora era perfettamente ovale, forse ancora un pochino paffuto, va bene, ma da adulto.

Il maggiore dovette ammeterlo: ear diventato davvero un bel ragazzo. Motivo in più per essere più attenti a quel tipo, ecco, come si chiamava?

-”E poi c'è Ludwig...”-

Quel nome lo trapassò da parte a parte, quasi impedendogli di respirare.

-”Ludwig?”-fece, sorridendo appena-”Ma, sì, parlami di lui. Come vi siete conosciuti?”-

No, la sua non era semplice cortesia, lui voleva sapere come quel tedesco avesse conosciuto il suo Feliciano.

Il minore sorrise, sapendo di essere arrivato su un argomento delicato, arrossì un pò.

-”Come mai ti interessa?”-chiese vergognoso.-” Non credevo fossi un tipo romantico.”-lo prese in giro. Romano increspò le labbra in quello che doveva essere un sorriso accondiscendente.

Sembrava, più che altro, un aborto di un sorriso.

-”Non farti pregare, fretellino...”-fece, tentando di non esplodere per la vergogna. Feliciano rise, capendo che l'argomento sembrava imbarazzare più lui che il diretto interessato.

-”In un museo.”-dichiarò.

Romano era riuscito finalmente a prendere fiato.

-”Cosa?”-chiese, non capendo.

Il più piccolo dei due italiani sorrise intenerito.

-”Ad un museo.”-ripeté-”Lui era lì per piacere ed io anche, se si può dire.”-sorrise, nel ricordare quell'episodio-”Ma direi che ero lì per lavoro.”-

Romano rimase in silenzio ad ascoltare.

-”Mi avevano mandato lì, insieme ad altri colleghi, per restaurare delle statue...”-riamse un attimo in silenzio, quasi rapito da un ricordo improvviso-”Anzi, ora che ci penso erano ridotte davvero male quelle statue,”-Romano si portò una mano sulla fronte, lo aveva perso-“il museo le aveva tenute per parecchio tempo nello scantinato. Un vero peccato per quel che valgono, per questo avevano decis...”-

-”Feliciano, ti prego, risparmiami!”-lo interruppe, tentando di farlo tornare alla realtà.

Il minore rise, rendendosi conto di aver esagerato.

-”Scusa...”-si grattò la nuca-”Ma quando mi ritrovo a parlare del mio lavoro... “-non riuscì a terminare. Sospirò, tentando di controllare l'ansia, dopo tutto stava parlando con il farello che non vedeva da anni. Già, la paura non gli era ancora passata, nonostante avesse notato che, quello ad averne di più, sembrava essere Romano.

Però il sorriso amichevole del fratello maggiore gli fece riaquistare tranquillità. Sospirò, per poi tornare a sorride solare.

-”Insomma, lui se ne stava là, a fingere di osservare la mostra mentre io fingevo di lavorare.”- riprese, in fine.

-”Mi sembra di capire che, già dal primo sguardo, vi piacevate.”-continuò per lui, Romano.

-”Sì.”-arrossì Feliciano-”A dire la verità lui era venuto più volte, in diversi musei, ed il caso volle che ci fossi anche io in tutte le mostre che lui era andato a visitare.”-

Il maggiore sembrò improvvisamente interessarsi a quella storia.

-”All'inizio ci vedevamo solo di sfuggita, tempo di alzare gli occhi ognuno dalle proprie attività, e vedersi.”-nel raccontarlo il viso nel fratellino sembrava diventare sempre più dolce-”Ma, man mano che il tempo passava, man mano che continuavamo a vederci per puro caso, comminciammo a scambiarci sorrisi, accenni di saluto.”-si ritrovò a ridacchiare tra sé-”Come eravamo schicchi, impacciati e terribilmente dolci.”-

Romano ora era letteralmente risucchiato dalle sue parole. “Impacciati”, “sciocchi, “dolci”. Lui ed Antonio erano mai stati così?

Impacciati, forse.

Schiocchi, sicuramente.

Ma dolci?

Vuoto.

-”Un giorno decisi di andare, aldilà del mio lavoro, in un museo. Mi ripetei tante di quelle volte la scusa che ci andavo solo per passare del tempo, che finii quasi con il crederci.”-ridacchiò ancora, allegro. Romano lo trovò dolcissimo-”La realtà, mi sembra ovvia, ci andavo solo nella speranza di poter incontrare Ludwig.”-

Il fratello sorrise.

-”Sì, ovvio...”-confermò, teneramente.

Feliciano si morse un labbro, riuscendo finalmente a palpare quella bellissima e malinconica confidenza tra fratelli.

-”Per pura fortuna lo incontrai. Quando lo vidi mi venne quasi un mancamento.”-si portò le mani al petto-”E quando mi vide mi sentii anche peggio, come se un fulmine mi avesse preso in pieno.”- rise. E questa volta, nella risata, lo accompagnò anche il fratello.

-”E così, dopo mesi in cui ci vedevamo solo di sfuggita senza esserci mai realmente parlati, passammo un'intera giornata a insieme.”-

Romano sorrise.

-”Ruba cuori, scommetto che non è stato il solo a farti il filo.”-gli fece la linguaccia.

Feliciano arrossì ma non smise di sorridere.

-”E' vero, molte persone, sia donne che uomini, hanno tentato di avvicinarsi a me in questi anni...”-ammise con vergogna-”Però, ti sbagli, Ludwig era visibilmene interessato a me, però...”- rimase in silenzio a pensare per un attimo, quasi tentasse di trovare le parole giuste-”Però non lo ha mai detto esplicidamente e non ha mai cercato di farlo notare...”-

Romano sgranò gli occhi.

-”Era come se a lui bastasse anche il solo avermi lì, come amico.”-

Era una storia così diversa dalla sua, così opposta, così dolce. Si morse un labbro. Così priva di dolore. Lui, invece, quando aveva dovuto soffrire? Quanto aveva dovuto far soffrire, prima di riuscire a capire di amare un uomo?

-”Fui io quello a mostrarsi interessato.”-sorrise-”Ed il risultato lo sai.-

Romano accennò un sorriso.

-”È una storia dolcissima.-corfermò, infine-”Fa quasi venire la nausa per quanto è dolce.”-gli diede una pacca sulla spalla e gli sorrise. Feliciano a quelle parole si lasciò sfuggire una lieve risata.

-”Invece, te?”-sorrise-”Non mi hai ancora detto come hai conosciuto il tuo 'lui'!”-lo prese in giro -”Sono curioso.”-

Romano arrossì.

-”Ecco, lui...”-

Era tutto così difficile da spiegare, c'era da raccontare di Bella, di come aveva sofferto e di come aveva fatto stare male le persone in torno a lui.

-”Sì?”-

Sospirò. Sarebbe stato dannatamente difficile spiegarglielo.

-”Sì...?”-ripetè, Feliciano, con maggiore curiosità.

Bhè, decise di partire dalla parte più facile, cioè, dall'inizio.

-”Il suo nome è Antonio. In realtà l'ho sempre amato, ma...”-

 

Aveva dannatamente bisogno d'aria.

Infatti, sulla panchina e davanti al laghetto di quel famossissimo parco, Gilbert osservava l'acqua scorrere lenta.

Se ne stava lì, nell'attesa disperata di un qualcosa d'ignoto.

Dopo la visita di Ludwig le sue “maledettissime crisi depressive”, così lui le chiamava, erano tornate.

Perché lui era lì mentre il fratello era in Germania?

Perché Ludwig aveva trovato l'amore e lui no?

Perché viveva quella vita così dannatamente monotona?

Si portò le mani alla testa, come tentando di afferrare quei pensieri e di poterli buttare via, lontano. Invece rimanevano lì, piantati nel suo cervello, a torturarlo e a persegurarlo in una estenuante ricerca di risposte.

Risposte che, Gilbert, non avrebbe mai saputo trovare.

Perché lui ha i capelli così luminosi e biondi ed io così opachi e bianchi? Perché lui è destinato ad avere degli occhi così belli ed io degli occhi così spaventosi? Perché lui è così alto rispetto a me? Perché lui è così, ed io no?

Tutte domande terribilmente sciocche ma che per lui, in quel momento, parvero fondamentali. Di vitale imporanza.

Perché lui riesce ad essere calmo anche nelle situazioni difficili ed io no? Perché lui ha una vita migliore della mia? Perchè, se siamo partiti entrambi da orribili condizioni, lui è riuscito a vivere?

Avrebbe voluto avere una forza che non gli apparteneva, una calma che non consoceva ed una vita felice che non avrebbe mai avuto.

Era sul punto di scoppiare, eppure intorno a lui c'era una calma malata. Possibile che, mentre lui dentro di sé stesse morendo, intorno era tutto così calmo?

Una qualsiasi persona, passando in quel preciso momento, non avrebbe notato niente.

Eppure, Gilbert sentiva caldo.

Eppure, a Gilbert mancava il respiro.

Sentì dei passi dieto di lui e per un attimo gli parve di riuscire a respirare. Ma si sbagliava.

-”Ehi, ti senti bene?”-la voce allarmata di qualcuno.

Ma di chi?

-”Ehi, Gilbert!”-

Sapeva il suo nome. Ma chi era? Sentì di essere strattonato per un braccio. Non seppe il motivo, ma sentì il disperato bisogno di liberarsi da quella presa. Scivolò a terra, nella confusione più totale, ancora quella strana presenza intorno a lui.

Ma si poteva sapere chi diavolo era a tormentarlo in quel modo, chiamandolo e toccandolo? Spalncò gli occhi in cerca di un qualcosa, di un paesaggio, di un viso, ma tutto ciò che riuscì a vedere era solo buio. Strinse le dita in quello che, intuì, doveva essere il prato.

-”Ehi, che ti prende?”-

Un respito, due respiri, tre respiri.

-”Gilbert!”-

Ancora niente aria. Strinse gli occhi ed i pugni delle mani.

-”Cosa diavolo hai?!”-la voce si era fatta più preoccupata.

Che insistenza, giusto il tempo che i polmoni si gonffiassero d'aria e che l'ossigeno arrivasse al cervello, ed avrebbe risposto.

Cosa che, fortunatamente, avenne.

-”Eliza...?”-si era voltato, con il fiatone ed il sudore che gli colava lungo la fronte.

La ragazza lo guardava preoccupata, ancora con la mano stretta intorno alla manica della sua giacca. Gilbert si alzò a fatica, sotto gli occhi esterrefatti della ungherese. Rimasero per qualche secondo a guardarsi. I muscoli del viso della ragazza di contrassero in un'espressione di collera.

-”Grandissimo imbeccile...!”-

Lo schiaffo di Eliza arrivò forte e chiaro. Lo fece sbattere contro il posa schiena della panchina con un fianco.

-”Ma che cavolo ti prende?”-le urlò contro alzandosi in piedi e strattonadola per le spalle. Gli occhi della ragazza si illuminarono. Gilbet ebbe timore di quella lucentezza.

-”Imbeccille, che cavolo stavi facendo?”-lo spinse via-“Volevi morire davanti a me?”-

Gilbert riprese equilibrio.

-”Mi... Mi stai prendendo in giro?”-le urlò contro-”Mi schiaffeggi perché stavo per morire?”-la guardò sconvolto-”E poi non stavo per morire! Stavo pensando, scema!”-

Eliza lo guardò con una strana apprenzione.

-”C'è una bella differenza tra pensare e rischiare di morire soffocati, sai?”-Gilbert rimase a guardarla ammutolito, come se non capisse di che cosa stesse parlando-”Non respiravi, cretino! Se soffri d'asma, almeno, portati qualcosa dietro che ti salvi la vita!”-

Asma?!

-”E, soprattutto, se qualcuno cerca di aiutarti, non spingerlo via in quel modo!”-gli urlò, di nuovo.

Il prussiano si passò una mano sulla guancia colpita. Gli occhi che guardavano il vuoto e la mente che viaggiava.

Eliza sembrò finalmente riuscire a calmarsi. Rimase a guardarlo mordersi il labbro inferiore con insistenza. Sbuffò.

-”Dai, siediti e respira.”-gli disse, mettendosi seduta sulla panchina. Lui, ancora confuso, fece come gli era stato detto.

Vi fu un lungo momento di silenzio, in cui il prussiano continuava a torturarsi le mani. La ragazza, esasperata, lo bloccò. Solo in quel momento Gilbert parve tornare alla realtà.

-”Falla finita...”-gli disse, guardandolo negli occhi, fino a specchiarsi in quelle iridi rosse. Gilbert, dal canto suo, osservò il verde dei suoi occhi. Quel verde gli ricordava qualcosa.

Antonio...

Ma no, si sbagliava. Quegli occhi non potevano nemmeno essere lontanamente paragonati a quelli di Antonio. Erano troppo belli per essere come quelli di un uomo.

Ehi, che gli prendeva? Cos'era all'improvviso quella voglia di sfiorarle una guancia e di sorriderle.

-”Adesso che ti prende...?”-gli chiese, senza staccare lo sguardo dal suo, un po' preoccupata. Lui scosse la testa, gli sfuggì un sorriso amaro.

-”Niente...”-sospirò-”Garzie e scusami se sono stato violento, non ero in me...”-

Eliza rimase interdetta. Probabilmente non si aspettava una simile dichiarazione da un tipo come lui. Si morse l'interno di una guancia.

-”T... Tranquillo...”-gli disse, incerta. Ancora un attimo di esitazione. Passò uno sguardo veloce sul profilo del prussiano. Sembrava aver ripreso colore. Tornò a guardarsi le mani.

-”Non avevo mai visto un attacco d'asma così...”-confessò. Lui sbuffò, la guardò irritato.

-”Nessuno ha detto che sia stato un attacco d'asma, l'hai deciso solo tu.”-fece con fastidio. La ragazza sembrò piccata da quelle parole. Alzò gli occhi al cielo.

-”Allora, cos'era?”-chiese, mettendolo in difficoltà.

-”Non...”-si morse un labbro confuso ed infastidito-”Non lo so...”-confessò in fine.

Lei alzò nuovamente gli occhi al cielo.

-”Allora come fai a dire che non sia un attacco d'asma?”-

Gilbert si alzò dalla panchina, stufo di quella sua fissa.

-”Perché io non soffro d'asma.”-la guardò provocatorio-”Ti sembro forse una donnicciola? Ti sembro il tipo che possa soffrire d'asma?”-e concluse il tutto con un sorriso strafottente.

Eliza gli diede una rapida occhiata. Odioso, terribilmente odioso, sembrava un animale che mostrava i denti.

Eppure.

Eppure quel ghigno, quell'animale che le si presentava a pochi centimetri da lei, le parve così bello.

-”Che idiota.”-confermò, cercando di soffocare quei segreti pensieri.

Lui sorrise, forse aspettandosi una risposta simile.

-”Allora, di grazia, ti prego di lasciare stare questo idiota.”-la guardò con finto fastidio-”Perché, questo idiota, preferisce morire piuttosto che farsi aiutare da te!”-

A quel punto Eliza divenne paonazza. Forse per il fastidio o per la vergogna, fatto sta che divenne rossa e che, perciò, il prussiano scoppiò a ridere.

-”Brutto, ingrato, se non ci fossi stata io a quest'ora saresti sotto terra!”-puntò un dito verso il prato, quasi tentasse di rendere il concetto più chiaro.

Gilbert ridacchiò di gusto, cominciando a pensare, tra sé, che forse non era poi tanto male questa ungherese (o era inglese? Non lo capirà mai).

-”Ah! Se ti riaccadrà ed io ti starò davanti, stanne certo, che non ti aiuterò, anzi, girerò i tacchi e me ne andrò per la mia strada!”-lo disse ma mentì, sia a lui, che a sé stessa.

Ed intando Gilbert si voltò nuovamente a guardarla.

Già, diversamente dalle altre volte, ora la vedeva bella. Sorrise amaro, che fosse stato quell'attacco di poco fa a fargli quell'effetto?

Si portò una mano al capo, scoprendo che gli doleva. Lo sguado ancora su di lei.

Probabilmente era vero, se non ci fosse stata in quel momento, sarebbe morto. Sospirò, per poi lasciarsi andare ad un ghigno strafottente.

Già, probabilmente non era tipo da soffrire d'asma.

-”Smettila di sorridere come un deficente, dico sul serio!”-gli urlò lei.

Gilbert si portò una mano sul petto, sentendo il cuore battere regolare.

Ma probabilmente era tipo da attacchi di panico e, ciò, non gli piaceva per niente.

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Note

Ok, rieccomi! Spero che qualcuno tra di voi sia tornato dalle vecanze e che abbia tempo\voglia di continuare a seguirmi! Ecco qui il seguito, spero che la storia continui a piacervi, fatemi sapere quello che ne pensate!
Baci a tutti,

Honodetsu:D

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Capitolo 37
*** 37 ***


 

Antonio fissava incolore il muro bianco del soggiorno. Com'era calmo l'appartamento, com'era magnificamente silenzioso. Musica per le sue orecchie, rispetto al chiasso del pub.

Musica, dolce e pura musica.

Peccato che, se lo sentiva, a breve quel dolce equilibrio sarebbe stato spezzato. Si ritrovò a sospirare e sorridere arrendevole. Lo sguardo si posò sulla porta d'ingresso.

A breve sarebbe comparso Romano, fresco frsco dall'incontro con il suo adorato fratellino che non vedeva da anni, e, sapeva con assoluta certezza, si sarebbe sfogato.

Cosa che ci poteva anche stare, dopo tutto. Peccato che Romano non usava sforgarsi come tutte le persone normali. Lui inprecava, lui urlava e, soprattutto, lui si arrabbiava e se la prendeva con il povero Antonio.

Gli sfuggì un altro sospiro.

Ma dopo tutto lo sapeva, quindi era già preparato. Ed in più non era certo suo diritto lamentarsi del fidanzato: lui aveva tanto penato per averlo ed ora se lo teneva, con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti.

Ed ecco, l'equilibrio spezzato dalla chiave che girava nella toppa. Dei passi e la porta si richiuse.

Silenzio.

Ad Antonio non parve quasi vero.

-”Roma... Sei tu?”-chiese, incerto.

La chioma castana ramata dell'italiano fece capolino nel soggiorno.

-”Sì...”-entrò definitivamente nel soggiorno, fermandosi proprio davanti all'iberico. Rimasero a fissarsi. Antonio che, con un po' di timore, cercava di capire che avesse con il solo sguardo e Romano che fissava il pavimento pensieroso, ciondolando un poco sui piedi.

Oh, cielo... Questo è molto peggio di un qualsiasi attacco isterico... Che gli prende?

Antonio gli sorrise, si mise meglio seduto sul divano, sentendosi un po' sulle spine.

-”Allora? Come è andata?”-gli chiese con la voce più allegra e spensierata che gli riuscì.

Romano non rispose, grugnì debbolmente. Il moro alzò le sopracciglia, come cercando di intuire quel che avesse detto. L'italiano sospirò ed allargò le braccia.

-”Bene.”-ripeté, sta volta più sicuro.

-”...”-lo fissò, l'iberico. L'italiano continuava a stare in piedi davanti a lui-”Ehm...”-gli sorrise-”Vuoi raccontarmi?”-

Romano annuì, fissando il pavimento imbarazzato, ed arrossendo leggermente. Antonio lo trovò immensamente dolce.

-”Dai siediti.”-

Romano obbedì e, con immensa sorpresa di Antonio, gli si accoccolò accanto, con la testa posata sulla sua spalla. Subito dopo la sorpresa, ecco arrivare il tiepido ed tanto amato calore del suo corpo. Il moro chiuse gli occhi, inebriato da quella presenza.

Quando li riaprì quel dolcissimo torpore fu invaso dalla ragione.

Ok, che succede qui? Che gli prende?

Decise ugualmente di approffitarne: dopo tutto non capitava spesso. Gli accarezzò dolcemente il capo, spingendosi perfino a baciarlo tra i capelli. Incredibile, Romano sembrava non lamentarsi. Anzi sembrava addirittura piacergli.

Davvero incredibile.

-”Allora?”-lo incalzò, dandogli un altro bacio sulla testa e stringendolo forte a sé-”Dimmi tutto!”-fece in tono allegro.

Romano alzò un po' la testa verso di lui, quel poco per intravedere il suo sguardo. Aveva degli strani occhi, si preoccupò nel vederli. Ma i suoi pensieri e le sue preoccupazioni furono inghiottite da un leggero bacio dato a fior si labbra. Romano, con la stessa leggerezza con la quale di era avvicinato alla sua bocca, si allontanò.

Il volto di Antonio rimase per qualche secondo immobile, pura confusione ed estasi lottavano sulla sua espressione.

-”Sai, è un restauratore di opere d'arte.”-cominciò l'italiano, alzando le spalle un poco e mettendosi comodo sulla spalla del compagno.

Il moro sembrò riprendersi in quel momento. Alzò le sopracciglia.

-”Oh...!”-si portò due dita sulle labbra, come se vi sentisse sopra ancora quel tocco leggero, poi le fece scendere sul mento-”È un bel lavoro... Deve... Deve esserne soddisfatto...”-cercò di increspare le labbra in un sorriso. Ma il risultato non era come quello sperato, per sua fortuna Romano non lo stava guardando.

-”Già, gli piace molto.”-commentò lui, si strinse nelle spalle-”È così che ha incontrato quel Ludwig...”-

Il moro, sentendo uscire dalle sue labbra il nome del fratello di Gilbert, trasalì.

-”Ah?”-fece un po' nervoso-”Erano colleghi?”-

-”No...”-la voce di Romano si abbassò, così come il suo capo. Sembrava triste, lo spagnolo tentò di guardarlo in faccia.

-”Ah, no...?”-chiese, ma non gliene imortava più di tanto, la cosa che gli importava era vedere se stava bene. Romano schiacciò il viso sul suo petto, impedendogli, così, di fargli vedere la sua espressione.

-”No... Si sono incontrati delle volte per caso a dei musei. Feliciano per lavoro e quel tedesco per passare il tempo.”-per un attimo Antonio credette di vederlo sorridere, ma difficile a dirsi-”Da allora si sono incontrati tante volte, sempre per pura fortuna... Ma non si erano mai parlati, finchè...”-si interruppe un attimo, come se ci stesse pensando. Lo spagnolo rimase in attesa.

-”Finchè, una volta si incontrarono in circostanze diverse...”-le mani di Romano si strinsero intorno alla stoffa dei jeans-”La loro è una storia dolce e tenera da far venire la nausea, da far venire il diabiete, quel genere di storie che, se narrate nei film, la gente impazzisce... Quel genere di storie dove non si è costretti a soffrire per riuscire ad amare.”-lo disse quasi con rabbia. Antonio osservò le mani strette del fidanzato. No, si ritrovò a pensare, quella non era rabbia. Era gelosia.

L'iberico sospirò, poi gli sorrise. Gli portò il viso vicino al suo. Un'espressione amaeggiata e triste gli si presentò d'innanzi. Il moro rise.

-”Era per questo che sei venuto ad accoccolarti vicino a me?”-gli diede un buffetto-”Mi sembrava strano da parte tua.”-

Romano arrossì, per poi tentare di nascondere il viso ma Antonio glie lo impedì.

-”Ehi, ehi, fermo...”-gli accarezzò una guancia e gli sorrise. Gli occhi verdastri dell'italiano si erano fatti lucidi-”Perchè sei geloso della loro storia, se noi abbiamo la nostra?”-gli chiese con dolcezza.

Romano si morse un labbro.

-”Quanto abbiamo dovuto soffrire noi due?”-gli chiese, ed Antonio lo guardò interrogativo-”Quanto ti ho fatto soffrire prima di rendermi conto di amarti?”-

-”Che cosa c'entra questo?”-

-”C'entra! C'entra, accidenti!”-serrò gli occhi e si allotanò un poco da lui-”Se io non fossi stato così stupido, ci saremmo risparmiati tante di quelle sofferenze...”-

Antonio scosse il capo.

-”Ma che dici?”-gli sorrise-”Noi stiamo bene insieme, no?”-

Romano arrossì.

-”Sì, ma la nostra storia poteva cominciare anche meglio di come è cominciata...”-lo borbottò, ma alle orecchie di Antonio arrivò forte e chiaro. Non poté fare a meno di ritenersi soddisfatto di quella sua dichiarazione. In fondo gli faceva piacere senirglielo dire ma, non perché gli dava ragione, perché così riusciva a capire quanto tenesse al loro amore.

-”Ehi, Roma...”-cominciò-”Nessuna storia d'amore è semplice, nessuna storia d'amore è perfetta e soprattutto nessuna comincia felicemente.”-l'italiano rimase ad osservarlo con imbarazzo e dolore -”Insomma, è normale che all'inizio si abbia dei dubbi, delle incomprensioni... E scommetto che anche tuo fratello e quel Ludwig devono avercene avute.”-

Il ramato si morse un labbro.

-”Lo so, però...”-non riuscì a dirlo.

Però è colpa mia...

-”Nessun però, non lo ammetto.”-scherzò, avvicinandosi al suo amore. Romano sembrava indeciso.

È colpa mia se noi due abbiamo avuto incomprenzoni, dubbi, o altro...

-”A me non me ne imporata nulla di quello che ho dovuto passare per riuscire ad abbracciarti come faccio ora.”-gli sorrise-”E nemmeno a te dovrebbe importarene...”-gli toccò il naso con un dito.

È colpa mia se non siamo riusciti ad essere felici subito...

-”Adesso siamo felici e stiamo insieme...”-gli baciò dolcemente una guancia. Romano fremette sotto quel leggero tocco.

-”Pensiamo adesso a rendere la nostra storia fantastica!”-gli sorrise solare-”Perché, stanne certo, nessuna storia sarà mai come la nostra.”-

Già, è solo colpa mia...

-”Nemmeno quella di Feliciano e Ludwig.”-

Romano sorrise.

Però... Forse...

-”Nessuna.”-

Le loro labbra si toccarono, sigillando le loro parole per sempre.

Però, forse, tu potrai perdonarmi...

I loro corpi si avvicinarono fino a diventare un'inica entità.

Forse riuscirò a farmi perdonare in futuro...

 

Le iridi rosse seguivano le goccioline di pioggia che sbattvano violente contro il vetro. Un bambino, seduto stancamente sul davanzale della finestra chiusa, fissava una Madrid che aveva imparato a conoscere da soli due mesi.

Non aveva mai amato i giorni di pioggia ma, ormai da troppo tempo, aveva cominciato a non riuscire più a distinguerli dai giorni di sole.

Posò il visetto perennemente pallido supra gli avambracci. Che triste sorte la sua: un semplice bambino di nove anni, orfano, ed affidato ad una famiglia terribile.

Un tuono risuonò molesto, illuminando la stanza. Si morse un labbro.

Che cosa aveva fatto per meritarsi tutto questo?

Si portò una mano sulla spalla che gli doleva. Eppure lui aveva dei sogni, come tutti i bambini, lui aveva delle ambizioni.

Perché Dio gli stava facendo passare tutto questo?

Però, in fondo, non gli importava. Era fermamente convinto che, nonostante tutto quello che gli stavano facendo e che gli avrebbero fatto, lui non avrebbe mai ceduto, nn avrebbe mai perso.

Dopo tutto, aveva forse altra scelta?

L'ennesimo tuono, seguito, subito dopo, da un lamento. A Gilbert non servì voltarsi per capire chi fosse, non gli servì avvicinarsi a lui e sollevargli la maglietta per scovarne i grandi lividi e le ferite.

Non ne aveva bisogno, perché già lo sapeva.

Il bimbo biondo, di soli tre anni più piccolo di lui, se ne stava rintanato sul suo letto. Le gambe, strette convulsamente dalle braccia, al petto e la testa immersa nelle gionocchia, il corpo scosso dai singhiozzi e dal pianto silenzioso. O quasi.

-”Non devi piangere, Ludwig...”-gli disse, con una pacatezza che uccideva la sua tenera età-”Così vinceranno loro.”-

In quel preciso istante il minore smise di sighiozzare. Ammirava troppo il fratello per non eseguire un suo ordine.

-”Gil...”-sussurrò il bimbo, osservando il girarsi della figura in contro luce del fratello ed aciugandosi le lacrime-”Un giorno smetternanno di picchiarci?”-

Gilbert gli si avvicinò e, con quella sua mano da bambino, gli scompigliò i capelli biondi. Gli occhi celesti di Ludwig guardavano ammirati quelli rossi accesi del fratello.

-”Ehi, moccioso, stai ancora piangendo.”-gli fece con uno dei suoi sorrisi strafottenti-”Ti ho detto che è vietato piangere!”-

 

Gli occhi del prussiano si spalancarono. Si guardò intorno allarmato, con il fiato corto ed il sudore che gli scendeva giù dalle tempie. Quasi non ricordasse dove fosse e come ci fosse arrivato, osservò instupidito il divano su cui era seduto.

Ancora un altro paio di sguardi.

Stava nel suo appartamento, niente di strano. Gli venne da ridere, non si trattenne. Si portò una mano sulla fronte e, finalmente, gli parve di riuscire a regolare il respiro.

Che gli prendeva? Si sentiva confuso ed accaldato. Per un attimo una sorda paura lo invase. Un'altro attacco come quello dell'ultima volta?

Si portò una mano al petto, quasi volesse sentire i batti del suo cuore che si fermava. Il fiato gli si spezzò in gola.

Chi lo avrebbe potuto salvare questa volta?

Come un lampo, gli passò davanti agli occhi l'immagine di Eliza.

Improvvisamente una botta di ossigeno gli arrivò ai polmoni. Spalancò la bocca, respirando affannosamente, cercando di calmarsi.

Finalmente, aria.

Si sdraiò sul divano, chiudendo gli occhi sfinito, godendosi quell'attimo di pace. Che cavolo gli prendeva in quel periodo? Gli stava succedendo troppo spesso. Cominciò a chiedersi se avesse un qualche problema fisico.

Riaprì gli occhi e serrò le labbra.

No, non era un problema fisico. Il suo era un problema mentale e basta. Si portò le mani tra i capelli. Doveva smetterla di pensare al passato, doveva smetterla di pensare alle differenze tra la sua vita e quella del fratello: gli faceva male.

Il pensiero volò nuovamente ad Eliza. Increspò le labbra ed aggrottò le sopracciglia. Perché aveva pensato a lei?

Arrossì.

Significava forse qualcosa?

Che ti sei fottuto il cervello, amico...

Non c'era una ragione. Un sorriso amaro li sfuggì di bocca.

Sta succedendo di nuovo...

Si portò le mani al viso.

Ho di nuovo quei maledetti attacchi...

Socchiuse gli occhi.

Proprio come allora...

Si passò con disperazione le mani tra i capelli e sul volto, credeva di aver chiuso con quella storia. Già, anche da piccolo, li aveva avuti.

 

Feliciano, una volta entrato nella camera d'albergo, si stiracchiò con gusto. Si sentiva decisamente meglio ora che aveva rivisto suo fratello.

Si guardò intorno, rendendosi solo in quel momento conto che Ludwig non c'era. Sbuffò infantile e dispiaciuto. Avrebbe voluto vederlo e parlargli di quello che era successo.

Si sentiva così euforico, aveva bisogno di parlare.

Sentì in quel momento la porta della stanza aprirsi, si volse verso entrata con un largo sorriso.

-”Lud!”-gli saltò praticamente addosso, stringendolo in un abbaccio.

Il tedesco sorrise.

-”Sei allegro, eh?”-l'italiano rise-”Ne deduco che l'incontro con tuo faratello sia andato bene.”-

-”Sì!”-e per rendere il tutto più convincente annuì, facendo saltellare il ciffo di capelli che aveva sul capo-”È stato bellissimo rivederlo!”-

Ludwig sorrise appena, ma agli occhi di Feliciano quello era uno dei suoi più dolci sorrisi.

-”Ne sono felice.”-disse solo, dopo tutto non c'era nient'altro d'aggiungere. Non ce ne era bisogno. L'italiano lo strinse più forte a sé.

-”Avere una famiglia è bellissimo, Lud!”-disse allegro. Il tedesco rispose all'abbraccio, sorrise-”Mi ero scordato cosa signficasse averne una...”-alle orecchie del biondo quelle parole arrivarono dolenti. Gli accarezzò il capo.

-”Non devi più pensarci, Feli, ora è tutto passato.”-

Il castano si scostò un poco.

-”Promettimi che ti terrai più spesso in contatto con tuo fratello, Ludwig.”-gli fece apprenzivo, guardandolo con occhi da bimbo impaurito.

-”Ma adesso cosa c'entra il rapporto tra me e Gilbert?”-chiese, le sopracciglia aggrottate.

Il volto di Feliciano si rilassò un poco. Un largo sorriso dolce invase il suo volto.

-”Niente... Ma tu promettimelo.”-Ludwig lo guardò senza capire-”...Non è bello non sentirsi con i propri cari per troppo tempo...”-

Il biondo rimase ad osservarlo per qualche secondo, l'ennesimo sorriso gli sfuggì. Gli accarezzò una guancia.

-”Non preoccuparti, Feliciano...”-

 

Gli sguardi si incrociarono con stupore. Ci fu un momento di silenzio da entrambe le parti: un Feliciano sorrideva estasiato, mentre, un Ludwig tentava di apparire calmo, un Antonio con un sorriso teso ed, infine, lo sguardo spaesato di Romano sopraa quella montagna di muscoli.

Sarà stato un metro ed ottanta, aveva notato inorridito l'italiano, o forse anche di più. Un tic ervoso gli fece trabballare l'occhio sinistro.

Un metro ed ottanta di pura e semplice razza tedesca: biondo, occhi azzurri e muscoli.

Tanti muscoli...

Rimase a fissarlo allungo, quasi non gli importasse di essere scoperto.

Troppi muscoli...

Rabbrivì, più per fastidio più che stupore.

Quando quei due pezzi di ghiaccio incontrarono il suo sguardo, sentì, per un attimo, il vacillare della sua sicurezza. Ma nel notare il suo repentino gardare alrove si sentì riguadagnare pista.

-”Tu devi essere Antonio, guisto?”-la voce solare, accompagnata dal solito sorriso, di Feliciano. Gli occhi di Romano si staccarono finalmente dal tedesco. Per Ludwig fi quasi una benedizione.

-”Oh, sì, è un piacere conoscere il fratello di Romano!”-esclamò l'iberico, fin troppo allegro per i guasti del compagno-”E tu sei Feliciano, giusto?”-gli sorrise-”Tuo fratello mi ha parlato molto di te.”-lo disse, ma per poco non fu fulminato dallo sguardo di Romano.

Il minore tra gli italiani parve interdetto e segretamente allegro a quella scoperta.

-”Ah, sì?”-chiese guardando infantile il fratello.

L'altro di conseguenza arricciò il naso, quasi a sottolineare quanto quel discorso gli desse fastidio. Tornò a fissare Ludwing che, sotto il suo sguardo, trasalì.

Il tedesco, per un attimo, temette che quel Romano di fosse accorto del suo nervosismo. Si maledisse mantalmente per essere così teso.

È un semplicissimo incontro, niente di più... Calmati, Ludwing...

-”E bene, Ludwing,”-quel “Ludwig”, uscito dalle labbra di Romano, gli parve così calcato-”Tu sei il fratello di Gilbert...”-

Per un attimo il biondo entrò nel panico: era una domanda od una affermazione. Gli parve di arrossire, sperò che non se ne accorgesse. Optò per una risposta semplice e coincisa.

-”Già...!”-ed accompagnò il tutto con un timido sorriso. Sperò che bastasse e, che per un po', non lo fissasse più in quel modo. Ma Romano sembrava non voler demordere.

-”Non vi assomigliate per nulla... Adottato?”-

Ci fu un attimo di sgomento, Feliciano sembrò rimanere di sasso, quasi non sapesse se prenderla a ridere o se preoccuparsi. Ludwig, dal canto suo, sperò di non aver udito bene. Lo guardò allucinato per qulche istante.

-”E... Eh...?”-commentò, quasi stupidamente il biondo. Antonio si irriggidì, per poi scoppiò in una risata nevrotica.

-”Perdonalo, Lud, lui scherza sempre.”-fissò male Romano-”Piuttosto,”-sorrise, tornando al tedesco -”Noi due ci siamo incontrati un paio di volte in passato, ricordi?”-

Ludwig sembrò sentirsi già più a suo agio.

-”Sì, ricordo.”-sorrise spontaneo, per la prima volta in quell'incontro-”E' stato parecchio tempo fa.”-

-”Allora eri così piccolo e gracile.”-continuò il moro-”Adesso sei tutto il contrario, guardati!”-

Antonio tentò di ignorare le frecciatine omicide del compagno, continuando a sorridere.

Ah, bastardo, tu lo avevi già incotrato, non me lo avevi detto, eh? Questa me la paghi...

Feliciano lo abbracciò infantile.

-”Già, Lud è molto informa!”-ridacchiò, ma non con malizia come poteva sembrare. Romano però sembrò cogliere solo quella.

-”Informa, eh?”-commentò il maggiore-”Già, già, molto informa... E molto alto, eh?”-

Dannazione! Come può un tipo come lui stare con Feliciano?! Il mio piccolo fratellino!
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Note


Ed eccomi tornata dopo secoli! ^^" Chiedo perdono! Spero di tornare presto a pubblicare! 
Bacioni,

Honodetsu:D
 

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Capitolo 38
*** 38 ***


-”Sei cresciuto davvero tanto, Ludwig! Mi ricordo ancora di quando, timidamente, ti nascondevi dietro tuo fratello!”-
Antonio sembrava parecchio allegro, nonstante le occhiatacce di Romano, continuava a sorridere ed a coinvolgere quel tedesco nei suoi discorsi.
L'italiano non se ne capacitava.
-”Sul serio, sei diventato davvero un bel ragazzo.”-continuò. Il ramato rizzò le orecchie. Aveva udito bene? Bel ragazzo? Se prima il suo sguardo era di rimprovero, adesso era omicida.
Gli diede un pizzicotto dietro la schiena. Il volto di Antonio sembrò rabbuiarsi di colpo, quasi come se, all'improvviso, si fosse ricordato della sua situazione.
Ma durò solo pochi secondi, poi tornò il suo solito sorriso. Forse un po' nervoso, sì, ma sempre accogliente e travolgente. Ludwig, sentendosi al centro dell'attenzione, si portò una mano dietro alla nuca ed arrossì lievemente. Guardò di sfuggita Feliciano che, a sua volta, lo osservava sorridente.
-”Sì, da piccolo,”-tornò a guardare imbarazzato l'iberico-”ero molto timido...”-
Romano grugnì.
-”Ma non mi dire...”-brontolò, ma nessuno, stranamente, sembrava averlo udito. O meglio, fu udito, ma felicemente ignorato.
-”Romano mi ha raccontato, più o meno, come vi siete conosciuti.”-continuò Antonio, portando un braccio intorno alle spalle del fidanzato. L'italiano lo guardò allarmato-”Mi ha molto colpito.”-
A Feliciano brillarono gli occhi, sorrise con amore e guardò Ludwig.
-”Davvero?”-chiese allegro allo spagnolo-”Ti ringrazio molto, ma se c'è una storia d'amore sorprendente è la vostra.”-
Il largo sorriso d'Antonio si fece un poco più piccolo, la sorpresa si dipinse sul suo volto nel vedere, negli occhi ambrati dell'italiano, una luce. Una luce forte e misteriosa.
Rimase ad osservarlo con sorpresa, mentre gli sorrideva spontaneo e bello. Era così simile ma così diverso da Romano.
-”Avete dovuto superare tanti di quei problemi.”-continuò, Feliciano, gardando il fratello sempre con quella strana luce negli occhi-”Siete davvero sorprendenti... Nonostante tutti i dispiaceri che avete dovuto sopportare non vi siete mai allontanati l'uno dall'altro.”-lo sguardo ora si posò su di Antonio. E lo spagnolo riuscì a vedere, a palpare, la sua ammirazione, il suo rispetto, il suo riuscire a comprendere la loro relazione.
Non seppe il perché, ma non poté che provare un moto di forte riconoscenza. I suoi occhi non giudicavano, i suoi occhi non commentavano. Quella luce che vi vedeva, era un qualcosa di talmente bello da spezzare il fiato. Gli sorrise con uno dei suoi sorrisi più belli.
È la persona più dolce e buona che abbia mai conosciuto...
-”Ti ringrazio tanto.”-guardò Romano, ma non vide nulla nel suo sguardo. Che fosse rimasto commosso, un minimo, anche lui? Impossibile capirlo, come sempre.
Ludwig, strinse dolcemente la mano di Feliciano, e per un attimo si guardarono negli occhi, in silenzio. Sembrava quasi parlassero un linguaggio che potessero comprendere solo loro due.
Romano, osservò gli occhi rapiti del fratello nell'osservare quell'uomo. E non poté che provare tenerezza ed un po' di delusione: un tempo, quegli occhi, guardavano solo lui. C'era stato un tempo in cui, Feliciano, pendeva dalle sue labbra.
Ma quei tempi, evidentemente, erano finiti. Già, finiti, svaniti, volati via con il vento con la sua partenza, e conseguente abbandono, da Feliciano.
Però, come poteva anche solo pensare, che tra di loro non c'era amore? Come poteva guardarli e giudicare? Come poteva credere che la loro relazione, così dolce, fosse sbagliata?
Eppure più li guardava, più provava malinconia.
Feliciano, il suo piccolo fratellino. Il fratellino che aveva abbandonato in Italia, che aveva abbandonato, apparentemente, senza un futuro, senza una sola possibilità di poter diventare qualcuno. Eppure eccolo, sapeva parlare perfettamente quattro lingue e faceva un lavoro rispettabile. Si era costruito un futuro, era diventato qualcuno. E completamente da solo.
Nel vederlo parlare e sorridere, si sentì terribilmente in colpa.
Lui non c'era stato per il fratello quando era partito per la Germania in cerca di lavoro, lui non c'era stato quando aveva avuto dei momenti tristi, i primi successi. Lui non c'era stato.
E come ne soffriva per questo.
Eppure Ludwig, per Feliciano, c'era stato eccome.
Romano osservò il tedesco. Come guardava il suo fratellino, come lo toccava delicatamente, come gli rispondeva. E, nell'unire quelle piccole premure, sentì il cuore scoppiare.
Ludwig c'era stato per Feliciano, era stato presente nei suoi momenti più difficili. E come lo invidiava per questo.
Ma, nonstante l'invidia, nel vederlo toccargli la spalla, nel vederlo sorridere ed arrossire ad i suoi abbracci così spontanei e così infantili, nonstante l'invidia, provava anche tanto riconoscimento.
Già, tanto, tanto, infinito riconoscimento.
Perché senza di lui, Feliciano, non sarebbe mai diventato quello che era adesso.
Un uomo così alto, così robusto, così chiuso, così privato e così diverso dal fratello: eppure poteva esserci amore più spontaneo del loro?
Per la prima volta da quando lo aveva visto, sentì che poteva anche sopportare la sua presenza. Anzi, sentì che, con il passare del tempo, avrebbe anche potuto acettarlo. Lo osservò sorridere e parlare con Antonio, lo studiò attentamente.
Per un attimo incrociò lo sguardo del fratello. Gli sorrise, quasi gli stesse chidendo silenziosamente cosa ne pensava. Romano gli sorrise e gli fece l'occhiolino.
Ciò, sembrò procurargli un'enorme gioia: si mose un labbro, quasi incapace di contenere tutta quella felicità, e gli sorrise ancora.
E Romano riconobbe quel sorriso.
E Romano sentì il cuore urlare.
Sentì il disperato bisogno d'abbracciarlo.
Quello era il sorriso di riconoscenza ed ammirazione che, quando erano piccoli, Feliciano gli donava sempre.
Grazie, Feli... Grazie per non essere cambiato... Spero che Ludwig ti possa rendere davvero felice..


Ok, era ufficialmente un'idiota.
Era da più di un'ora che girava per strada nella dannata speranza di incontrarla. Si grattò la testa con fastidio, facendosi anche male.
Ma perché? Perché? Non ha senso, non lo ha!
Gilbert sbuffò rumoroso. Era da tutta la mattina che non faceva che pensare a lei. Per un quale motivo poi, che gli era sconosciuto.
Insomma, l'aveva vista un po' di volte per puro caso, avevano parlato, ed il fatto che, per puro caso, lei gli avesse indirettamente salvato la vita, durante uno dei suoi attacchi, non era mica importante.
Sbuffò.
No, non lo è, dannazione...
Eppure era uscito di casa ed, inconsciamente, stava girando proprio nei posti in cui, casualmente, l'aveva incontrata più spesso.
E poi, non è vero... Chi dice che sono uscito per lei? Chi? Io sto solo gironsolando per le strade...
Sbuffò nuovamente. Quel giorno sembrava non riuscire a fare altro.
Ed ecco, in mezzo alla folla, spiccò una ragazza dai capelli castani. Era voltata, camminava calma verso una vetrina. Un tuffo al cuore.
Era lei? Era davvero lei?
Sentì il cuore cominciare a pompare imperterrito. Uno stupido sorrisino gli si delineò sul volto. Fece per fare il primo passo per avvicinarsi quando, la ragazza, si voltò casualmente dalla sua parte.
Fissò quel volto sconosciuto e, tra l'altro anche un po' bruttino, con sgomento. Si sistemò il giaccone sulle spalle con fastidio e, con nonchalance, si schiarì la voce.
Falso allarme...Meno male.
Perchè mentiva a sé stesso?
-”Ehi, Gil!”-
Un altro colpo al cuore. Questa volta era lei, vero? Si voltò con gli occhi che brillavano. Prima cosa che notò: capelli biondi, occhi azzurri, barba incolta. Sentì un tic nervoso invadergli l'angolo della bocca. No, decisamente non era lei.
-”Ah... Ciao, Francis...”-fece deluso. Il francese lo guardò con un sopracciglio inarcato.
-”Oh, quanta gioia!”-ridacchiò-”Non pesavo di esseti così simpatico.”-
Gilbert lo guardò ironico.
-”Aspettavi qualcuno?”-gli chiese. Il prussiano si guardò intorno. Un ultimo sguardo tra la folla di gente. Ma che faceva? Davvero la stava cercando? Si diede fastidio da solo. Tornò a guardare l'amico.
-”No, stavo solo girando un po'.”-mentì.
-”Capisco.”-sorrise-”Ti inviterei a bere, amico, ma ho un appuntamento importantissimo con il mio Arthur!”-fece malizioso. Gilbert si lasciò sfuggire un sorriso accantivante.
-”Allora non ti trattengo.”-gli diede una pacca sulla spalla-”A sta sera, amico, divertiti.”-
Francis ridacchiò e riprese la sua camminata.
-”A sta sera!”-
Gilbert voltò le spalle, sospirò.
Lo sguardò menegregnista scomparve, al suo posto una lieve tristezza. Si guardò un poco in giro, speranzoso. Nulla. Niente di niente, non c'era.
-”...”-si morse un labbro.
Perché non poteva aver incontrato lei al posto di Francis?


Era un pomeriggio come tanti altri, una luce opaca filtrava dall'enorme finestra davanti a lei. Era da molto tempo che l'avevano lasciata lì dentro sola, seduta su quella morbida poltrona. Le dita affusolate da bimba passarono sulla stoffa del bracciolo.
Sentì un rumore provenire dalla stanza accanto, dei passi svelti e goffi sul pavimento incerato. Gli occhi verdi diedero una sbirciatina veloce alla porta in legno d'acero.
Niente, ancora silenzio.
La sua attenzione tornò al bracciolo morbido. Come amava quella poltrona, come l'amava. Ai suoi occhi era sempre apparsa grande e morbida, così autoritaria e solenne. Era da anni che aveva provato a sedercisi sopra od anche solo a sfiorarla, ma non vi era mai riuscita. Posò il viso sullo schienale morbido, aspirandone l'odore.
Chissà, per quale motivo, non l'avevano mai fatta avvicnare a quella poltorna. Non vi sedeva mai nessuno, se ne stava lì, immortale negli anni, inusata.
Era buffo come ogni singola domestica in quella casa non l'avesse mai fatta nemmeno avvicinare a quella poltrona mentre, ora, l'avevano fatta sedere tranquillamente, dicendole di rimanere zitta e di aspettare.
Già, era buffo, molto buffo.
Ma ad Eliza non scappò nemmeno un sorriso. Anzi, al solo ricordare di come, poco prima, l'avevano trattata con estrema gentilezza, si sentiva in agitazione.
Si portò una ciocca dietro l'orecchio, benché portasse i capelli corti, in quel momento, era come se non riuscisse a gestirli. Le cadevano davanti agli occhi, irritandola ancora di più.
Quanto era passato da quando era entrata lì dentro?
Una mezz'ora?
Probabile, la tensione la stava torturando.
Cominciò a guardare con ostinazione la porta. Nonostante tentasse in tutti i modi di controllarsi continuava ad avere un'irrefrenabile senso di panico ed ansia.
Che cosa stava succedendo? Perché tutti erano stati così gentili con lei? Perché era chiusa in quella stanza?
Doveva essere per forza successo qualcosa, se no tutto ciò non era spiegabile, non era comprensibile. Cominciò a mordersi spasmoticamente un labbro.
Non le avevano mai rivolto attenzioni le altre domestiche, non le aveva mai rivolto attensioni il padrone della casa, anzi, non lo aveva mai nemmeno visto quell'uomo.
E bene? Cosa era successo?
Cominciò a mancarle l'aria, come se tutto l'ossigeno di quella stanza fosse terminato. Sentì il panico invaderla, la paura invaderle la ragione dei suoi dieci anni di vita.
Dov'era sua madre? Perché l'avevano fatta sedere su quella poltrona?
Non seppe il perché ma le rimbombavano nel cervello le parole della cameriera che, molto prima, l'aveva accompagnata in quella stanza.
Vieni piccola, su... Adesso rimani qui, da brava. Guarda, ti faccio sedere anche qui su questa poltrona che ti è sempre piaciuta tanto...”
Gli occhi di Eliza si riempirono di lacrime. Come erano state buttate giù a caso quelle parole, come era falsa quella gentilezza. Si stropicciò il lembo della gonna, per poi tornare a torturare la stoffa della poltrona.
Dov'era sua madre? Da quanti giorni non la vedeva? Due, tre? Non era mai successo che non si vedessero per così tanto tempo.
...Rimani qui e sta calma... Risolviamo il problema e poi tornerà tutto alla normalità...”
Strinse i polpastreli intorno ai braccioli della poltrona. Risolvere il problema, aveva detto. Strinse così tanto i denti che le parve di sentirli scricchiolare minacciosi.
Stava pensando ad un qualcosa di orribile, un qualcosa che non voleva, non poteva, essere la realtà.
No, no... Mi sbaglio, non può essere, non può essere...”
Ma la porta d'acero si aprì, maledetto portale di crudeltà, ed i suoi pensieri furono smentiti clamorosamente.
-“...Mamma...”-un sussurro strozzato, carico di una speranza vana.
Ciò che ne seguì dopo furono lacrime.
Fu dolore.
-”Mi dispiace...”-fu la risposta falsa.
Eliza, da quel giorno, odiò profondamente quella poltrona.


-”Smettila di ignorarmi, Elizaveta!”-urlò, sbattendo forte i pugni contro la porta-”Dobbiamo parlare, ora!”-
Eliza, con gli occhi serrati, posava i palmi sopra il lavandino del bagno, tentando inutilmente di non udire quelle urla.
Vattene! Vattene! Vattene!
-”Eliza!”-
Che cosa voleva? Cosa?
-”Ti prego, apri!”-
Aprì appena gli occhi, il suo riflesso nello specchio la fece inorridire. Odiava il suo aspetto, era così debole. Serrò di nuovo gli occhi con rabbia e disperazione.
Vattene, dannazione! Vattene!!
-”Non eri tu quella che voleva parlare, un tempo?”-insisteva Arthur, da dietro alla porta di ingresso -”Dai, aprimi e risolveremo tutto, so che mi ascolti, so che sei in casa!”-e, nell'udire quella voce così aspra ma allo stesso tempo preoccupata, le parve quasi che Arthur fosse tornato quello di un tempo. Che fosse tornato il solito bimbo biondo e scontroso della sua giovinezza. La castana strinse i polpastrelli.
Ma era solo un'inutile illusione.
No! Ti sbagli, io non sono a casa! Io non sto ascoltando! Vattene!
-”Eliza...!”-
Poi regnò il silenzio per qualche minuto. La ragazza si staccò dal lavello, quasi speranzosa che potesse essere finito tutto, che potesse essersene andato via. Si impose di reagire, si schiaffeggiò un paio di volte le guance, riprendendosi un poco.
Si sporse dal bagno, fino ad arrivare davanti alla porta d'ingresso. Con mani tremanti d'ansia, guardò dallo spioncino. Si ritrasse subito, era ancora lì. Sbatté involontariamente contro il legno della porta.
-”Eliza...”-
Dannazione, perché era così goffa? Si maledisse.
-”Ti prego, scusa...”-
La ragazza fissò sbalordita la porta.
-”Cosa?”-chiese, come se non potesse credere a quello che aveva appena udito. Ci fu un attimo di silenzio, come se Arthur fosse rimasto, anche lui, sorpreso.
-”...”-le parve di sentirlo sorridere attraverso il legno-”Sai, questa situazione mi ricorda una cosa successa un po' di tempo fa...”-
La castana aggrottò la fronte.
-”Vattene! Non mi interessa, non voglio avere più nulla a che fare con te ed i tuoi problemi!”-gli urlò dura, anche se molto confusa.
-”Anche io, come te, sono fuggito, sai?”-continuò imperterrito, con una voce dolce mai udita da Eliza -”Anche io, come te, mi sono ritrovato a parlare da dietro ad una porta con un'altra persona.”-
Gli occhi verdi della ragazza si abbassarono.
-”... Perché me lo stai dicendo...?”-chiese, quasi immaginandosi la scena.
-”Perché credevo che farti sapere che anche io ci sono passato potesse aiutarti.”-
-”...”-rimase ammutolita, si morse un labbro-”Non sei mai stato così gentile...”-
-”Le persone cambiano.”-
La sentì ridacchiare da dietro la porta.
-”Oh, non credo! Almeno non tu.”-
Arthur sorrise amaro.
-”Dannazione, devo essere stato proprio pessimo, eh? ”-
Eliza non rispose, almeno non subito.
-”...Da cosa eri scappato, Arthur?”-chiese con durezza, quasi volesse far capire che, quel tentativo dell'inglese di avvicinarssi a lei, era inutile.
Vi fu un attimo di silenzio, tanto che Eliza temette che non le rispondesse e che il suo caratteraccio sarebbe tornato.
-”Non “da cosa”... Ma “da chi”...”-prese un sospiro-”Dalla persona a me più cara al mondo...”-fu la risposta inaspettata.
In quel momento il suo astio scomparve.
-”Dalla più cara...?”-chiese lei, quasi assorta da quelle parole.
Chi era una persona cara?
Lei non avrebbe saputo dirlo.
Sua madre? No, lei al massimo lo era stata un tempo.
Il padre di Arthur? No.
E allora chi?
Lei non aveva persone care.
-”Sì e sono stato uno sciocco...”-vi fu una pausa, in cui Eliza tentò di arrestare i pensieri che correvano nella sua mente-”Però poi tutto si è risolto.”-
Lei chiuse gli occhi con stanchezza. Risolto. Già, come avrebbe voluto che anche i suoi, di problemi, si risolvessero.
Riaprì gli occhi, dentro vi si poteva scorgere un forza sconosciuta perfino a sé stessa.
-”E come?”-
-”Ho aperto la porta.”-
Silenzio.
Ed in quel silenzio Eliza per poco non morì per il dolore.
-”Arthur...?”-tentò di rimanere lucida.
-”Sì?”-
-”Prometti che se apro questa porta non mi giudicherai?”-
All'inglese scappò una risata.
-”Chi sono io per giudicare se sono il primo a sbagliare. E poi, per cosa dovrei giudicarti? Non hai fatto nulla di sbagliato.”-
-”Davvero?”-chiese lei, alzando un sopracciglio, scettica. Eliza strinse la mano intorno al pomello della porta e, con rabbia, la spalancò.
-”E bene, io non ho nessuna intensione di tornare a Londra.”-
Lo disse con decisione, con voce ferma e con gli occhi asciutti. Arthur la guardò da prima con sorpresa, poi con tenerezza. Era diventata davvero una bella donna.
Sorrise amaro.
Chissà quante ne aveva passate quella ragazza. Chissà quante cose aveva dovuto sopportare al suo posto. Sospirò, i suoi occhi verde acido si fecero più dolci.
-”Mi dispiace, sai?”-gli sussurrò-"Scusa..."-
Eliza lo guardò interrogativo, senza smettere di assumere quell'atteggiamento deciso: sapeva che se si fosse lasciata andare sarebbe scoppiata. E non poteva permetterselo, non ora.
-”...Hai dovuto prenderti cura di un uomo che non è nemmeno tuo padre, come se fossi una semplice badante...”-continuò lui, non avendo nemmeno in coraggio di guardarla negli occhi.
Che gli prendeva? Era venuto con l'intenzione di urlarle contro e di farsi ascoltare, ed ora? Ora dov'era finita tutta quella decisione? Dov'era finita tutta quella voglia di urlare?
Svanita. Svanita in quegli occhi decisi e duri. In quegli occhi di un verde gelido. Non sopportava il suo sguardo, era così duro, quasi lo stesse rimproverando silenziosamente.
Eliza si fece dura in volto, decisa a non cedere.
-”E bene, ora...?”-lo incalzò.
Ma Arthur, dopo tutto, si meritava tutto il suo odio.
-”Ed ora nulla.”-sorrise amaro, alzò lo sguardo su di lei-”Ed ora basta.”-alzò le sopracciglia-”Se non vuoi tornare io non ti costringerò, non ne ho il diritto.”-
Sebbene il suo viso non dimostrò alcuna emozione, il cuore della castana tremò per la felicità.
-”...”-
-”Quello che hai dovuto sopportare è stato enorme...”-sembrava non trovare le parole, quasi, nell'averla così vicina davanti a sé, lo mettesse in difficoltà. Eliza rimase a guardarlo in silenzio.
In quel momento rivide il bambinetto dai pugnetti chiusi e dalgi occhi cattivi, ma anche tremendamente dolci, che la trattava male e che la insultava.
Rivide, anche, quello stesso bambino che, in uno dei suoi giorni migliori, si lasciava andare e le parlava quasi fosse un fratello.
-”Insomma... Io...”-farfugliò.
Eliza si ritrovò a sorridere.
Non seppe nemmeno lei dove trovò la forza, od il coraggio, per sorridere in quel momento.
-”Tranquillo.”-gli fece sorridente, toccandogli la spalla-”Dopo tutto ti sei già scusato una volta... Mi va bene così.”-
Arthur la fissò ammutolito, quasi gli sembrasse di esser tornato indietro nel tempo. Nei periodi in cui vivevano insieme, nei periodi in cui la trattava sempre male e che, nel momento di scusarsi, era sempre lei quella a fare la prima mossa.
Solo in quel preciso istante si rese conto di quanto fosse stato crudele con lei.
Si morse un labbro, fingendo di essere distaccato e menefreghista.
-”Ora finiscila di montarti la testa.”-fece acido-”Sono solo venuto a dirti che devi fare pace con il cervello!”-la guardò di sbiego-”Sei venuta fin qui per farmi cambiare idea e l'unica cosa che hai ricavato è stato un tuo ripensamento. Ora cosa farai, mocciosa?”-
Lo disse con voce crudele ma alle orecchie di Eliza apparve come un rimprovero fraterno. Sorrise, scuotendo la testa. Possibile che avesse ancora bisogno di ricorrere a certi trucchi per far trasparire i suoi sentimenti?
Sospirò amara.
-”Non ho alcuna intenzione di tornare, Arthur...”-disse calma. Il biondo la guardò serio e, per qualche secondo, rimase a fissarla in silenzio.
-”Nemmeno io...”-fu la risposta.
Quell'affermazione fece male ad Eliza.
-”Però non posso chiudere i conti così.”-sbuffò-”Temo che, prima che il vecchio muoia, mi toccherà fargli visita.”-fece acido, quasi infastidito. Ma anche in quel tono di voce Eliza lesse dell'altro: preoccupazione e tristezza.
-”Mi dispiace.”-gli disse, lei.
-”Non devi.”-
-”Ma...”-
-”Non devi.”-la interruppe.
Rimasero a fissarsi negli occhi. Negli occhi dell'inglese c'era riconoscenza, c'era tristezza per il padre, c'era paura, timore. C'erano tante cose ma, se non fosse stato per il fatto che Eliza lo conoscesse bene, probabilmente non se ne sarebbe mai accorta.
Le sorrise e lei rimase stupefatta da quel sorriso.
-”Stammi bene, Elizaveta.”-gli fece un cenno del capo, le voltò le spalle e fece per scendere le scale. La castana si strinse un lembo della maglia.
-”Aspetta! Ma come farai con...!”-
-”Non preoccuparti.”-la interruppe-”So che potrebbe ferirti la cosa ma... Probabilmente, malato com'è, il vecchio nemmeno si ricorderà di te.”-posò una mano sulla ringhira delle scale.
Eliza sembrò rattristisi di colpo.
-”...”-face per aprire bocca.
-”Sshh...”-le sorrise di nuovo, prese a scendere le scale-”Ora sei libera di vivere la tua vita come meglio credi.”-ormai era scomparso dalla sua visuale-”Buona fortuna!”-
Il cuore della ragazza ebbe un tremito.
Già, non era più legata ad Arthur ne a suo padre. Sorrise malinconica, triste. Guardò per l'ultima volta, prima di rientrare, le scale dalla quale era sceso l'inglese.
Eliza ebbe l'impressione che, per la prima volta nella sua vita, Arthur, fosse riuscito a mostrare il lato migliore del suo carattere.
È vero, ora era libera.
Ma la liberà aveva il suo prezzo.
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Note

E bene, signore e signori... il trentottesimo caitolo!

Honodetsu:D

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Capitolo 39
*** 39 ***


-”Ci incotriamo sempre più spesso noi due, eh?”-

Eliza si voltò dietro di lei.

-”Gilbert...?”-chiese sorpresa.

Lui rispose con un ampio sorriso strafottente.

-”Già, biondina.”-gli scompigliò i capelli sotto il suo sguardo truce. Si scansò con fastidio.

-”Ehi, cos'è tutta questa confidenza?”-si risistemò i capelli arruffati-”Tieni giù le mani, idiota!”-

In tutta risposta, lui, le ridacchio in faccia.

-”Esagerata!”-disse, alzando le spalle e gli occhi verso il cielo. Tornò a guardarla con un sorriso accennato-”Dove stavi andando di bello?”-

Lo sfrecciare delle macchine faceva da sottofondo. Eliza abbassò lo sguardo, quasi tentasse di nascondere il viso. L'albino rimase a guardarla, chiedendosi cosa le prendesse all'improvviso. Ma poi rieccola alzare lo sguardo, uno sguardo rancoroso e triste.

-”A te che importa? Ma guarda che rompi palle.”-brontolò, dandogli le spalle. Per un attimo Gilbert rimase a guardarla allontanarsi. Che le prendeva? Non l'aveva mai vista così.

Le corse dietro più deciso che mai e la fermò, fingendosi offeso da quella risposta.

-”Potrei esserci rimasto male, sai?”-fece, dicendolo con una voce piagnucolosamente montata ed una faccia da cucciolo bastonato. Eliza rimase a fissarlo per qualche secondo. L'espressione corrucciata sembrava scomparire piano piano, lasciando spazio ad un qualcosa che non riusciva a controllare. Dovette mordersi un labbro per cercare di trattenere una risata, ma un sorriso le sfuggì ugualmente.

-”Ah!”-fece indicandole il viso-”Hai sorriso!”-

Lei si coprì la bocca, imbarazzata e leggermente infastidita.

-”Sono un grande, ci sono riuscito! Sono davvero il Magnifico!”-fece con un'allegria esagerata. Eliza rimase a guardarlo confusa. Ancora non riusciva a capire cosa provasse per quel ragazzo, non capiva se era fastidio o se era altro.

Eppure, nel vederlo ridere in quel modo solo per l'essere riuscito a farla sorridere, non poté che provare “dell'altro” per lui.

Ora, il fatto, era capire cosa fosse “quell'altro” che provava.

Rimase a fissare il suo viso soddisfatto, osservò come le sue sopracciglia si alzassero quando rideva di gusto e di come, invece, i bordi di esse si abbassassero quando sorrideva ammiccante.

E nell'osservarlo si perse in quei piccoli particolari, fino a rimanere incantata, fino ad analizzare ogni suo singolo lembo di pelle.

Il contatto della sua mano sulla guancia la fece sobbalzare.

-”E... Ehi, che combini...?”-gli chiese, imbarazzata. Lui la guardò dritta negli occhi, quasi stesse vedendo la cosa più interessante sulla faccia della terra.

Ed in quel momento Eliza si sentì letta dentro, tanto che temette che riuscisse a scoprire ogni suo più piccolo segreto, ogni sua sfaccettatura.

Non starmi così vicino...

Il cuore cominciò a pompare troppo sangue, lo stomaco cominciò a formicolare. La sua mano sulla guancia era tiepida, i suoi occhi rossi le sembrarono casa.

Amo questi occhi...

Rimase incantata dai suoi lineamenti, quasi li notasse per la prima volta. Poi la mano si allontanò dal suo viso e l'incanto si spense.

-”I tuoi occhi...”-disse lui serio. Eliza si portò il palmo sulla guancia, la sentì incandescente, ancora confusa lo guardò.

-”E... Eh?”-fu tutto quello che riuscì a dire. Lui sorrise come mai lo aveva visto sorridere ed abbassò lo sguardo. Un sorriso spontaneo, della giusta grandezza, splendido, e non strafottente.

-”Niente...”-rialzò gli occhi su di lei-”Per un attimo mi era sembrato di vederci qualcosa di brutto ma mi sbagliavo.”-

Lei lo guardò senza capire. Tentò di tornare in sé, si morse un labbro. La infastidiva il sentirsi così spaesata.

-”L'unica cosa brutta che può esserci nei miei occhi è il tuo riflesso.”-gli disse, trovandosi in difficoltà. Gilbert si portò una mano al petto, strinse lievemente la stoffa, come se gli dolesse. Un altro sorriso accennato, leggermente provocatorio. Le fece la linguaccia.

-”Che crudele, dai, questa non me la meritavo, no?”-lasciò scivolare la mano giù dal petto, fino a farla ciondolare giù per il fianco-”In fondo ero solo preoccupato per te.”-

Eliza si imbarazzò ancora di più, lo stomaco ricominciò a formicolare. Le parve quasi stesse per bruciare. Si sentì del tutto esposta e ciò le fece paura. Che diavolo voleva quel tipo? Come osava toccarla? Come osava parlare in quel modo? La paura si tramutò in rabbia.

-”E... E poi se c'è qualcuno che ha degli occhi che non vanno quello sei tu!”-biascicò con cattiveria -”Tsk! Che scherzo della natura sono?!”-

All'improvviso la rabbia si spense, al suo posto una strana calma apatica.

Che cosa sto dicendo...?!

Eliza vide farsi strada nel volto di Gilbert un forte imbarazzo, gli occhi, che fino o a quel momento teneva puntati su di lei, si abbassarono veloci, vergognosi. La mascella dell'albino si contrasse.

Per un attimo le sembrò quasi che cercasse di nascondere il viso alla sua vista, come se avesse timore di turbarla con il suo aspetto alieno.

Nel cuore della castana si insinuò una punta di amaro pentimento.

...Io... Io amo quegli occhi...

Lui, intanto, voltò il viso verso una vetrina, senza nemmeno degnarla di un reale interesse, infilò le mani in tasca. Il volto inespressivo tradiva il suo dolore interiore, il suo odiare sé stesso. Vederlo reagire in quel modo inaspettato le procurò una stilettata di dolore.

Perché apro bocca e le do' fiato?

Eliza provò vergogna per la sua idiozia, abbassò gli occhi e fece per parlare ma fu anticipata.

-”Hai ragione, scusa.”-fu la risposta imbarazzata, si portò una mano al volto, come per coprirsi. L'ungherese si sentì rabbrividire-”Ho degli occhi orribili, fanno paura...”-lo disse con orrore, come se trovasse davvero raccapricciante l'idea di avere quelle iridi rosse. Fece una pausa, non la guardava in volto. Anzi, non la guardava affatto-”...Io...”-la voce gli si ruppe in gola.

La castana rimase di sasso. Che le prendeva? Come le era saltato in mente di dirgli una cosa simile? A lui, poi, che voleva solo tirarle su il morale. E poi, come poteva Gilbert avvallare quell'idiozia che aveva appena detto? Come poteva, addirittura, chiederle scusa?

-”Non è affatto vero!”-lo guardò basita-”Non lo penso davvero e nemmeno tu!”-disse quasi rimproverandolo. Gilbert la guardò di sfuggita, confuso ed intimorito.

-”No, insomma...”-fece lui, sorridendo con uno dei suoi soliti sorrisi ironici-”Capisco che possano turbare po' la gente e...”-

-”No!”-lo interruppe Eliza-”No...”-fece scuotendo il capo. Gilbert, nonostante si imponesse di non guardala negli occhi, si ritrovò ad incrociare il suo sguardo-”Non trovo i tuoi occhi orribili e chiunque lo pensi è un'idiota.”-disse con amarezza e rabbia-”Ti chiedo scusa per aver fatto la stronza.”-aggiunse poi.

I due rimasero per un po' in silenzio, in mezzo a quel marciapiede trafficato. A Gilbert venne improvvisamente da ridere. Eliza rimase a guardarlo come una scema.

-”Che ti ridi, deficiente? Sono seria!”-

-”Ti perdono. Camminiamo un po'?”-disse lui, tra le risate. Prese la sua camminata e lei rimase per un attimo a fissare la su schiena avanzare tra la folla. C'era una qualcosa di veramente affascinante in quelle spalle. Si riscosse ed arrossì, che diamine diceva? Si sbrigò a raggiungerlo.

La passeggiata per i primi minuti fu silenziosa. Ogni tanto Eliza gli lanciava uno sguardo, tentando di capire se era arrabbiato o meno. Ma il suo volto era indecifrabile. Sorrideva, ma non si sarebbe detto a cosa stesse pensando.

-”Come mai così gentile, oggi?”-gli chiese, accennando un sorriso, tentando di aprire una breccia nel muro che sembrava esserci tra di loro.

Lui si voltò verso di lei, rimase a fissarla per qualche secondo. Alzò le spalle e sbuffò.

-”Potrei dire lo stesso di te.”-la schermì. Ed Eliza di sentì in colpa, lui ridacchiò. Tornò serio-”Sarà perché ho rincontrato da poco mio fratello.”-ed ecco tornare i suoi sorrisi tremendamente affascinanti-”Mi avrà trasmesso indirettamente un po' di buon senso.”-alzò le spalle-”Sai, lui è quello “giusto” ed io quello “sbagliato”, per così dire.”-disse scherzando, o forse no.

Eliza non poté fare a meno di sorridere, subito dopo si sentì una stupida. Perché aveva sorriso? Non c'era nulla per cui sorridere.

-”Si può sapere cos'hai?”-chiese lui, tornando serio. Lo guardò spaventata. Perché si interessava a lei? L'idea di dover condividere le sue paure con qualcuno la terrorizzava.

-”Niente.”-rispose aspra, tentando di chiudere la conversazione.

-”Non è vero.”-

-”E tu che ne sai?”-gli chiese, tentando di rendersi il più sgradevole possibile.

-”Lo so.”-fu la risposta.

Perché insisteva tanto?

-”E allora perché me lo chiedi, se lo sai?”-

Gilbert rimase a fissarla un po' infastidito. Sbuffò.

-”Odio quando mi metti con le spalle al muro, biondina.”-si portò una mano dietro al nuca, sorridendo.

-”Ed io odio quando mi chiami biondina ma non ne faccio un dramma, semplicemente, non si può avere tutto dalla vita.”-

Gilbert la guardò inorridito.

-”Sei sempre più cattiva.”-

Lei sorrise.

-”Che ci posso fare, le cattiverie me le tiri fuori di bocca.”-si voltò, cominciando a camminare e sorridendo crudele. Lui la guardò con altri occhi, quasi la vedesse per la prima volta.

-”Allora continua pure ad insultarmi.”-

Lei si voltò a guardarlo, scoppiò a ridere, acida.

-”Oh, cielo! E perché?”-

-”Almeno continueresti a sorridere.”-

Che risposta scontata. Se in quel momento fosse stata più lucida gli sarebbe scoppiata a ridere in faccia. Ma in quel momento, Eliza, non era lucida, no. E per questo la risata le morì in gola. Lo guardò allucinata, quasi sperasse (o temesse?) di averle immaginate quelle parole. Ma quegli occhi rossi e decisi confermavano il tutto, la sua espressione non tralasciava dubbi.

Maledizione, non guardarmi così! Non guardarmi! Mi vergogno così tanto di me stessa...

In quel momento di silenzio, probabilmente, Gilbert avrebbe voluto che lei dicesse qualcosa. Un grazie, ma anche un insulto, qualsiasi cosa. Ma l'unica cosa che riuscì a fare, l'ungherese, fu quella di abbassare lo sguardo a terra.

-”Vuoi dirmi che cos'hai?”-riprese lui, imperterrito-”Hai ragione, sono un grande imbecille, un rompi palle magari, anche un'invadente...”-fece una pausa, si portò una mano agli occhi-”... Sarò strano...”-a quell'affermazione Eliza non poté che tremare per il dolore-”...Però so ascoltare se voglio.”-lo sguardo di Eliza si perse in quel rosso delle sue iridi-”Certo, Antonio, il mio amico che hai incontrato al pub, è molto più bravo di me a dare consigli ed ad ascoltare la gente, però...”-la guardò imbarazzato, riprese aria e continuò-”Però, sarò felice di aiutarti.”-

La castana scosse leggermente il capo, sorrise appena.

-”Cos'è, non hai nulla da fare? Cerchi svago?”-ridacchiò, per poi mordersi il labbro imponendosi di non piangere, di rimanere calma. Lui annuì.

-”Esattamente, non ho un cavolo da fare, cerco svago, ed oggi ho scelto proprio te come mia vittima.”-rispose serio, con una serietà che la fece rabbrividire.

Eliza sospirò ed abbassò il capo.

-”Gilbert... Non c'è nulla di interessante in me...”-la voce si era incrinata.

Improvvisamente l'albino sentì qualcosa rompersi nel petto. E bene? Dov'erano finite tutte quelle belle parole che aveva detto fino a poco fa? Perché non riusciva più a dire nulla?

Era come se nel vederla così, con il capo rivolto vero il basso quasi a voler dire di essere del tutto stufa della vita, si sentisse del tutto inerme. Pietrificato. Non riusciva nemmeno a comprendere il perché di tutta quella disponibilità che aveva nei confronti di quella ragazza.

Perché, fino a quel momento, non aveva fatto altro che vagare e sperare di incontrarla?

Perché teneva tanto a parlarle ancora?

Perché voleva di nuovo vedere quei bellissimi capelli castani e quegli occhi verdi?

Perché la stava consolando?

Non lo sapeva. Si morse un labbro.

Fino a quel momento si era ripetuto tra sé che lo stava facendo solo per una questione di principio: nessuno delle persone che frequentava dovevano essere tristi.

Eppure Eliza non la vedeva spesso. Gli arrivò una fitta al cuore. E bene, che voleva dire questo? Che avrebbe, quindi, voluto frequentarla più spesso? Che avrebbe voluto che facesse parte della sua vita? Prese a sudare freddo.

Ma che ne facesse parte come?

-”Assolutamente niente di interessante...”-sussurrò Eliza, mentre il rancore sembrava impossessarsi di lei-”Niente, niente, niente!”-

Come ne faceva parte Antonio?

-”Sono inutile!”-

Non dirlo...

Come ne faceva parte Francis?

-”Sono una dannata fifona!”-

Non dire certe cose...

Come ne faceva parte Romano?

-”Scappo dalle situazioni come una bambina impaurita, sono inutile, inaffidabile!”-

Finiresti con il crederci...

Come un'amica?

E con il ferirmi...

-”Ogni giorno che passa mi odio sempre di più, mi faccio schifo! Perciò Gilbert, davvero, non sono certamente un buono svago, credimi!”-

-”Ti prego, smettila!”-scoppiò, Gilbert.

Eliza lo guardò allarmata, gli occhi che le stavano diventando sempre più lucidi e le guance rosse per la vergogna. Il prussiano, nel vederla fissarlo in quel modo, rabbrividì. Si grattò la testa e guardò altrove.

-”Insomma...”-brontolò a disagio-”Nessuno è inutile... Persino io sono utile in qualche modo.”-tentò di scherzare. La ragazza sorrise debolmente.

-”No, Gil, tu non hai capito...”-scosse il capo-”Non sono una brava persona...”-

Gilbert la guardò tristemente.

-”Hai svaligiato una banca?”-fece serio, con una caricatura di un'espressione inorridita.

Lei lo guardò interrogativa, le venne quasi il desiderio di sorridere, ma non lo fece.

-”No...!”-si affrettò a rispondere, lei.

-”Hai ucciso qualcuno?”-fece, serio, sempre la stessa espressione.

-”... No...”-fece corrucciata.

La sua espressione grottesca si addolcì fino a sfociare in un sorriso strafottente.

-”E allora non sei una persona cattiva.”-

Il cuore di Eliza tremò.

-”Non pretendo di sapere cosa ti è successo e, se devo essere sincero, nemmeno mi interessa se non vuoi dirmelo.”-gli accarezzò il capo dolcemente, come mai aveva fatto con qualcuno. Si stupì di sé stesso, non si credeva capace di tanta delicatezza-”L'unica cosa che mi importa è che le persone che mi circondano siano felici.”-

Dannazione come era falso, che stupida ed inutile difesa aveva alzato.

-”Non voglio intorno a me gente depressa, chiaro?”-sorrise debolmente.

Come era falso, come mentiva a lei e a sé stesso. Un tempo prendeva in giro gli altri per come mentivano continuamente. Eliza si rifletté in quegli occhi rossi ed intensi, si lasciò trasportare dalle carezze.

Ma chi è quest'uomo...? Come fa a rendermi così vulnerabile?

Gilbert le sorrise ancora, sentendo il cuore martellargli nel petto. Come avrebbe voluto dirle la verità, come avrebbe voluto dirle che, al diavolo tutti gli altri, l'unica cosa che gli importava era la sua felicità.

La vide abbassare lievemente il capo. Il suo cuore tremò, si morse un labbro.

Non si era mai sentito così, era instabile. Sentiva le gambe molli e la bocca asciutta, ma nonostante questo sentiva il bisogno inaudito di doverla rassicurare.

-”E' gentile da parte tua, Gilbert...”-Eliza alzò lo sguardo, sembrava essere tornata quella di sempre. Niente occhi lucidi, niente rossore sulle guance. Non era rimasto niente a testimonianza del suo attimo di debolezza.

Gli sorrise.

-”Ma, davvero, ho ancora dei problemi da risolvere... Insomma, devo ancora decidere che fare della mia vita...”-la vide mordersi un labbro malinconicamente-”Ho ancora delle ferite aperte e difficili da guarire...”-lo guardò negli occhi-”Mi capisci?”-

Gilbert annuì, serio, quasi concentrato.

-”Mi dispiace.”-affermò lui, non sapendo che altro dire.

-”Anche a me.”-gli fece un cenno del capo, come per salutarlo e fece per voltarsi ed andarsene.

-”Aspetta!”-

Eliza si voltò a guardarlo.

-”...”-non trovò le parole.

-”Cosa?”-lo incalzò lei, alzando un sopracciglio.

-”Hai per caso intensione di tornare in Inghilterra, Eliza?”-le chiese, quasi timoroso di far trasparire la sua ansia. Lei rimase per un attimo in silenzio, quasi non sapesse che rispondere. Sospirò.

-”Ancora non lo so, Gil...”-sorrise-”Non so niente.”-

Gilbert la guardò ironico.

-”Sei troppo enigmatica, lo sai, vero?”-

Le uscì una mezza risata.

-”Probabilmente hai ragione.”-

Nel sentirla ridere, il prussiano, si sentì meglio. Le sorrise strafottente.

-”Ti va di venire, sta sera, al pub?”-le chiese entusiasta-”Così ti faccio conoscere i miei amici e ti distrai un po' dalle tue “ferite”, eh, biondina?”-la prese in giro.

Eliza rise più vivace.

-”Non renderei il tuo pub un mortorio?”-lo stuzzicò.

Lui alzò le spalle.

-”Non c'è problema...”-sorrise maligno-”Te l'ho detto: non è il mio pub, io ci lavoro e basta!”-

Rise di nuovo e per Gilbert parve dolce musica.

-”Allora va bene.”-sorrise serena-”Ci vediamo sta sera.”-

Lui le sorrise.

-”Ottimo.”-

-”Ottimo.”-ripeté lei-”A sta sera!”-

Si voltò.

-“Un'ultima cosa Eliza...”-le disse, passandole la mano sul capo-”Se deciderai di partire o meno, me lo dirai, vero?”-concluse con un sorriso.

Una lacrima, che aveva trattenuto fino a quel momento, scivolò lenta dalla guancia della ragazza. Eliza non si voltò, non voleva rivedere il suo viso, quegli occhi. Sapeva che se lo avesse fatto ne sarebbe stata risucchiata.

Ed in quel momento le tornò in mente il discorso sulle persone care fatto da Arthur. Annuì, e sorrise mentre quell'unica lacrima le scorreva giù per la guancia.

-”Sì, te l farò sapere.”-disse, prendendo a camminare-”A dopo!”-

-”Bene!”-sorrise felice, Gilbert-”A più tardi!”-

Elizaveta non capì come, ma sentì di aver appena trovato la sua persona speciale.

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