Racconti africani

di Marge
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giorno di caccia ***
Capitolo 2: *** La seconda moglie ***



Capitolo 1
*** Giorno di caccia ***


GIORNO DI CACCIA




Il giorno in cui mi prendono è un giorno come gli altri, al villaggio. Le mie sorelle maggiori sono andate a prendere l’acqua al pozzo, mia madre pesta il miglio con energia nel mortaio, io controllo Madjen. Lui piange e si dimena.
“È la pancia, gli fa male” mi spiega mia madre. “Succede a tutti i neonati.”
“Sono gli spiriti che visitano il suo corpo per controllare che sia tutto in ordine” dice mia zia, che dal suo posticino in ombra sotto il baobab non si perde una foglia di ciò che accade o viene detto nel nostro cortile. Intreccia della paglia: sua figlia maggiore, Ngoné, si sposerà la prossima settimana e lei vuole prepararle un paravento per la capanna dove andrà ad abitare. Quel matrimonio la rende felice e lavora velocemente: Ngoné sposerà un giovane del nostro stesso villaggio, un tipo affidabile, finirà ad abitare poche capanne più in là e potrà continuare la sua vita accanto a noi, anche se lascerà la nostra famiglia per quella di Mamadou.
In quel momento arriva proprio lei, Ngoné; è raggiante e ci mostra il gris-gris che le è stato donato dalla madre di sua madre: aiuterà a gonfiarle il ventre più e più volte, affinché possa partorire figli sani, belli e possibilmente maschi. Fa scorrere tra le dita il cordoncino di pelle di montone e perline come se stesse contando tra sé e sé i giorni che la separano dal matrimonio.
È in quel momento che udiamo le urla.
“Bianchi, bianchi!”
“Cacciatori!”
Quelle due terribili parole si rincorrono di capanna in capanna.
“Seny, prendi Madjen e scappate nella foresta, presto!” dice mia madre. Ngoné viene spinta dalla sua e ci ritroviamo a correre fianco a fianco, saltando rami e cespugli. Madjen mi pesa e strilla, sbuffo e quasi mi cade. Ngonè me lo toglie dalle braccia e mi incita: “Forza, Seny, corri!”
Corriamo. Ho il fiato così corto che quasi non riesco più a respirare e un dolore lancinante al fianco mi fa chiudere gli occhi. Cado in ginocchio, Ngoné mi viene vicino e si accoccola.
“Siamo abbastanza lontane” commenta. Ci guardiamo attorno: solo gli alberi attorno a noi. Tiriamo un sospiro di sollievo, e perfino Madjen sembra calmarsi. Lei lo culla, poi si slaccia il pagne e si lega il bambino sulla schiena. Lui adora quella posizione: si addormenta all’istante.
È proprio in quel momento, quando mi rilasso e mi sdraio in terra per riposare i muscoli doloranti, che il gruppo di cacciatori bianchi compare davanti a noi, a fucili spianati.


Finalmente ci tirano fuori dalla cella buia. Il sole mi ferisce gli occhi, devo sbatterli tra loro più volte.
“Ngoné, Ngoné!” piagnucolo; riesco a trovare la sua mano e mi appendo al suo braccio.
Dopo un po’ provo a mettere a fuoco: un cortile, tante donne. Tutte quelle che erano nella cella, ma lì non potevo vederle, e ora mi sembrano tantissime.
Un uomo bianco urla qualcosa in francese.
“Dice di far silenzio” ci traduce una ragazza. È con noi nella cella da sempre, ha avuto modo di raccontarci la sua vita: viene da un villaggio molto lontano, ha attraversato così tante terre che alla fine è riuscita a capire qualcosa di quella lingua delicata. Parlare con lei è stata una delle poche consolazioni di questi giorni infiniti, il cui conto mi è sfuggito dalle mani. Non tutte le donne della cella parlano wolof, alcune vengono da paesi così lontani che non ho mai sentito neanche nominare; e ora che posso guardarle alla luce del sole mi rendo conto di quanto siano diverse, la loro pelle sia di un marrone più chiaro, gli zigomi più alti, il corpo più longilineo; e ve ne sono altre invece basse e larghe, scure come noi ma dal volto differente. Non avevo mai visto tanta diversità in vita mia.
Poi mi guardo attorno, fino a che, in fondo, scorgo un’altra cancellata come la nostra, sbarrata, al di là della quale un mucchio di bambini ci guarda in silenzio, appeso alle sbarre.
“Ngoné, guarda, i bambini!” esclamo puntando il dito. “Madjen potrebbe essere lì con loro!”
Lei scuote la testa e gli occhi le si bagnano. Non vediamo Madjen da quando siamo state catturate. Mi viene in mente mio padre, così felice quando finalmente era nato un bambino maschio. Lo rivedrò mai? Cosa è accaduto a mia madre? E le mie sorelle? Perché non ci siamo ritrovate tutte nella stessa cella? Quanti cacciatori bianchi esistono?
Sono piena di domande e avrei voglia di urlare e allo stesso tempo non ne posso più, vorrei le risposte, qualsiasi esse siano. In tutto quel tempo , nella cella, non abbiamo fatto altro che sognare, ma ciò che veramente accade non è mai ciò che abbiamo pensato.
Il più diverso di tutti è sicuramente l’uomo bianco. Urla, punta il fucile, ci colpisce finché non capiamo che dobbiamo formare una fila di fronte a lui; cammina avanti e indietro, ogni tanto strappa via il pagne a qualcuna, la valuta per bene a corpo nudo. Nessuna di noi osa fiatare, nonostante la vergogna.
Non è per il corpo nudo, non è per la sporcizia, non è per la paura che proviamo: la vergogna è per la rabbia che abbiamo ma che non riusciamo a esprimere, verso quest’uomo pallido che ci sceglie, una a una. Vorrei alzare gli occhi e gridargli contro, quando si ferma di fronte a me, ma il terrore mi incatena a terra.
Forma il suo gruppo, io sono tra queste.
Ngoné scoppia in lacrime, io urlo, cerco di divincolarmi e raggiungerla, dimentico la paura perché Ngoné è quanto mi resta di tutta la mia vita, ma un colpo alla schiena mi fa cadere. L’uomo è su di me e mi parla con le sopracciglia aggrottate, i denti scoperti. Mi sputa addosso e mi spinge indietro con la canna.
“Stai buona, Seny!” mi dice la ragazza che capisce il francese, mentre si china per aiutarmi. “O qui finisce male!”
“ Non voglio andar via!” piagnucolo. Delle donne scelte ogni volta, nessuna ritorna: si dice che una nave venga a prenderle per portarle dall’altra parte del mondo. La paura mi fa ritrarre contro il suo corpo, mentre uomini bianchi radunano le altre e le spingono nuovamente verso la cella. Riesco a guardare Ngoné per un’ultima volta, poi scompare nel buio.
“Non è giusto!” singhiozzo ancora.
“Smettila di piangere o ti massacreranno di botte” ripete lei, e ha una voce più dura, adesso. Mi stringe un braccio.
“Voglio solo tornare al mio villaggio! Perché ci è accaduto tutto questo? È perché sono una…” comincio a dire, ma lei mi mette una mano sulla bocca.
“Non pronunciare quella parola,” sussurra. “Mai.”
Mi fermo a pensare, la guardo dritto negli occhi. Cos’è che sono? Perché Allah, che è grande e ha creato il mondo, e gli spiriti che lo governano, hanno lasciato che mi portassero via dal mio villaggio?
Mentre mi asciugo occhi e naso ci convogliano in un corridoio stretto e buio. L’uomo bianco urla e la ragazza che conosce il francese traduce, a bassa voce, per le altre che sono in fila con noi. Camminare, fare silenzio, non fare cose stupide: sempre le stesse parole.
In fondo compare un rettangolo azzurro vivo.
“Quella è la porta del viaggio senza ritorno” dice. La voce le trema, mi stringe una mano.
Udiamo il rumore del mare che sbatte insistente contro gli scogli.
Varco la porta.



***

NOTE

Non ne metto mai, ma questa volta credo siano d’obbligo.
La storia è ambientata in Senegal e in particolare è ispirata dalla Maison des Esclaves (Casa degli Schiavi) che si trova sull’isola di Gorée, oggi museo e patrimonio dell’UNESCO. La schiavitù nelle colonie francesi in Africa continuò fino al periodo della Rivoluzione Francese e l’isola di Gorée è famosa per essere stata punto di raccolta e smistamento degli schiavi provenienti da tutta l’Africa.
Il wolof è la lingua dell’etnia principalmente rappresentata in Senegal.
Il gris-gris è un talismano, una specie di collana di diversi materiali, che si indossa sui fianchi sotto i vestiti e può avere diversi significati a seconda dei materiali(salute, fecondità, etc).
Il pagne è un tessuto di forma rettangolare che si avvolge attorno al corpo a formare una veste che copre da sotto il seno fino alle caviglie; sopra si indossa un boubou (una specie di larga maglietta) o un altro pagne; questo accade soprattutto oggi, ma sono portata a credere che anche secoli fa gli abiti tradizionali fossero questi.
La religione maggiormente diffusa in Senegal è l’Islam, ma sovente si mescola alle religioni tradizionali animiste dalle cui risulta essere molto contaminata.

Questa storia, sebbene fosse nella mia testa da parecchio è stata scritta per il Contest dei libri non letti di M4RT1 con il pacchetto Divergent e per il LimitaPrompt della piscinadiprompt con:
- Prompt: Originale, Storica, schiavitù
- Limitazione: Una storia composta da un numero di parole con cifre in crescita o decrescita (Es: 345 parole, 6543 parole e via dicendo)
Wordcount: 1235.

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Capitolo 2
*** La seconda moglie ***


LA SECONDA MOGLIE





Où tu seras, je serai à tes côtés
{trad. Dove tu sarai, io sarò al tuo fianco }
[Alors d’accord – Le Roi Soleil OST]



Adji ed io siamo nate a poche ore di distanza, durante una notte nella stagione delle piogge, lei prima ed io subito dopo la mezzanotte.
Il travaglio di sua madre, mia sorella Seynabou, è durato quasi due giorni, racconta la nonna (nonna mia, sua?), perché era alla prima gravidanza. Suo padre, Amadou, disse: “C’è tempo per fare i maschi.”
Io invece sono l’ultima figlia di mia madre, perché prima di me sono nati ben nove bambini, e dopo solo Mamou, che però era stupido ed è vissuto poco. La nonna dice che, per questo motivo, mia madre non ha quasi sentito le doglie, presa com’era dal travaglio della sua prima figlia, e mi ha sputata fuori senza accorgersene subito dopo essersi assicurata che Seynabou e la piccola stessero bene. Mio padre disse: “Due femmine in una sola notte, ci riempiranno la casa di strilla” ma era felice, perché tra me e Seynabou erano nati solo maschi.
E così, mentre Adji ed io strillavamo davvero una accanto all’altra e mia madre e mia sorella si riposavano, mio padre e Amadou andarono a festeggiare, perché comunque stavamo bene tutte e quattro.


Quando è morto Mamou, Adji è venuta da me e ha detto: “Posso essere tua sorella, adesso, invece che tua zia?”
E siccome mi sentivo triste, perché Mamou nonostante il suo testone e i suoi occhi strani era dolce e mi mancava, accettai subito. Del resto, Adji e io siamo nate nella stessa notte nella stessa famiglia.


Mia sorella Seynabou aveva avuto la grande fortuna di sposare un uomo del villaggio. Mia madre aveva insistito, perché era l’unica figlia femmina ed aveva ancora bisogno di aiuto in casa per tirare su gli altri sette maschi.
Seynabou e suo marito abitavano in una capanna nel cortile di fronte al nostro, la casa d’origine di Amadou. A me bastava attraversare due volte il recinto di rami intrecciati per trovare Adji.
“Vado da Adji” dicevo mille volte al giorno, e mia madre, ben felice, mi dava qualcosa da portare di là; e Seynabou, ugualmente, diceva: “Tornate di là da mamma? Brave bambine, portate questo” e passavamo la giornata a fare la spola. Oppure ci dicevano: “Su, andate insieme a prendere l’acqua al pozzo” ed era sempre Adji a salire in piedi sulle pietre, lanciare il secchio fino a sentire il tonfo e tirarlo su; io avevo paura di quel buco nero di cui non vedevo il fondo, e mi limitavo a prenderlo dalle sue mani colmo fino all’orlo e svuotarlo nelle nostre bacinelle colorate.
Tornavamo cantando la canzone del leone, sotto il sole cocente, con le bacinelle piene sulle teste. “Ecco le due gemelle” dicevano gli uomini seduti sotto al baobab a sorseggiare l’attaya, all’ingresso del villaggio, e noi ci guardavamo e sorridevamo felici.


“Adji, Adji!”
“Smettila di urlare” disse Seynabou da dentro la capanna del braciere. Mi avvicinai. Mia sorella sorvegliava la cottura del riso, seduta su un mattone.
“Dov’è Adji?”
“Oggi è andata a Rufisque con suo padre.”
“E a fare cosa?”
“Nulla, ad accompagnarlo. Amadou aveva delle cose da fare laggiù.”
Amadou non era come mio padre, che con i suoi polli aveva sempre provveduto alla famiglia senza mai uscire dal villaggio – era un mio fratello che li andava a vendere in giro. Amadou faceva affari, ma se qualcuno provava a chiedere a Seynabou di che tipo, lei rispondeva seccata che ognuno avrebbe dovuto badare ai fatti propri. Amadou aveva sempre qualcosa da fare in qualche villaggio vicino, faceva continuamente su e giù e spesso spariva per settimane intere. Tuttavia, ciò giovava anche a Seynabou: solo un mese prima il marito le aveva portato metri di una bellissima stoffa nuova e lei aveva cucito un abito per sé e uno per Adji. Avevo chiesto un abito uguale a mia madre, ma lei mi aveva risposto che quello che avevo andava ancora benissimo. E durante l’ultimo Tabaski Amadou aveva comprato un montone per sé e uno per suo fratello, così nel loro recinto ve ne erano due, mentre mio padre ne aveva comprato uno solo. Quando avevo accompagnato Adji a portare i resti del montone alle famiglie che non erano riuscite a comprarlo, mi ero vergognata perché il suo vassoio era molto più pieno del mio, ma Adji, non appena svoltato l’angolo, aveva riequilibrato i due piatti.
“Siamo sorelle, siamo parte della stessa famiglia” aveva spiegato con un sorriso.
Quando tornarono quella sera, con loro c’era un’altra ragazza. Li vidi da lontano, camminavano a piedi lungo la strada e arrivarono che il sole era già tramontato. Provai a sgattaiolare di là, ma mia madre mi intercettò e dovetti lavare le stoviglie.


“Adji! Che ci fai qui? ” Ero sorpresa perché di solito ero io, terminati i miei compiti, ad andare a cercarla.
“Ciao” disse lei. Mollai le pentole e la seguii.
Adji mi stava portando dietro il grande baobab in fondo alla strada, un posto dove andavamo spesso perché era di solito ben deserto. Lì, in un cestino nascosto sotto una radice, conservavamo i nostri tesori: un osso di capra, un pezzo di vetro verde, bellissimo, gli spaghi che riuscivamo a mettere da parte, qualche brandello di stoffa. Un giorno Adji e io avremmo aperto un negozio in cui avremmo venduto di tutto, e saremmo state ricche e benvolute da tutti.
“Mio padre è tornato oggi con due novità” esordì accoccolandosi accanto alla nostra radice.
“Belle?”
“Una sì, ma una non lo so. A mia madre non piace.”
La incitai con lo sguardo a proseguire, perché ero davvero curiosa. “Abbiamo comprato un cellulare.”
Mi misi a ridere a quella parola strana, pronunciata in francese.
“Un cosa?”
“È un telefono, come quello che sta alla cabina giù all’incrocio, ma è personale! È solo di mio padre e tutti quelli che vogliono possono chiamarlo lì.”
“E chi lo chiama?”
“Beh, tutti quelli con fa i suoi affari. Dice che con questo cellulare sarà molto più facile e faremo molti più soldi.”
“E perché Seynabou non è contenta?”
Adji strappò un filo d’erba e si mise a masticarlo.
“Non è di questo che non è contenta. Hai visto la ragazza che è venuta con noi?”
Annuii.
“Mio padre l’ha presa come seconda moglie. Oggi siamo andati a registrare il matrimonio, poi siamo passati a prenderla e ora vive con noi. Le hanno dato la capanna vuota.”
Rimasi senza parole. Ecco perché Seynabou era arrabbiata!
“Mia madre è furiosa, ma ovviamente non ha detto nulla. Mio padre ha guadagnato tanti soldi ed è giusto che abbia una seconda moglie, oltretutto l’ho sentito dire che magari così avrà un figlio maschio, visto che noi siamo tre femmine. E con il cellulare potrà fare tanti soldi.”
Anche mio padre aveva più di una moglie.
“Ma Seynabou resterà sempre la prima” dissi. Mia madre lo era e le altre due non erano mai state così importanti agli occhi di mio padre quanto lei.
“Tuo padre è diverso. Lui non va in giro a fare affari, lui alleva i suoi polli. Mia madre dice che è diverso e ha paura. Non era per niente contenta.” Mi prese una mano e la strinse forte. “Ha detto che verrà a dormire da voi, per qualche giorno, perché mio padre passerà le notti nella capanna con la seconda, e lei lì non ci vuole rimanere.”
Quella notizia, nonostante fosse tanto tragica per mia sorella Seynabou, mi fece illuminare: “Allora puoi venire anche tu! Dì a tua madre che vuoi venire, ti prego! Dormiremo insieme come due vere sorelle!”


Seynabou aveva davvero trascinato il suo materasso nella stanza di mia madre, ma alla fine si era deciso che avrebbero dormito loro due insieme con i bimbi più piccoli sul lettone e Adji e io fummo ben felici di dividercelo.
“Non puoi comportarti a questo modo a lungo” sentii che diceva mia madre. “Amadou è tuo marito e devi tornare di là, domattina al massimo.”
“Ci tornerò,” rispose mia sorella, “ma quando lo dirò io. Non appena Amadou tornerà a dormire con me.”
“Io non lo voglio un marito” bisbigliò Adji al mio orecchio. “Non voglio andar via da casa mia. Se mi sposano con qualcuno di un altro villaggio, come faremo a vederci?”
Non avevo mai pensato a quella prospettiva e fui sommersa dalla paura. “Puoi sposare qualcuno di qui!” proposi.
“Mi fanno tutti schifo. E poi, metti che sarai tu ad andar via? No, Ndeye Fatou, noi non dobbiamo sposarci, dobbiamo rimare insieme.”
Sentii un brivido attraversarmi da capo a piedi. “Ma come potremmo fare? Non ce lo permetteranno mai.”
Cominciai a giocare nervosamente con il bimbiri che avevo attorno alla vita, intrecciando le dita tra le perline e la fettuccia di cuoio. Quel talismano di fertilità mi fece venire in mente un’ulteriore obiezione: “E se non ci sposiamo e non facciamo figli, che altro faremo?”
“Senti Ndeye Fatou, proprio oggi, mentre andavo in giro con mio padre, ho avuto un’idea: il mondo è tanto grande! Oltre l’incrocio alla fine della strada c’è un’altra strada, che porta a tantissimi altri villaggi. Possiamo andare via, insieme, e trovare un posto dove possiamo vivere senza sposarci.”
“Non credo esista un villaggio del genere.”
“E allora non sarà un villaggio! Sarà una città, o qualcos’altro! Potremmo anche aprire il nostro negozio.”
Non risposi subito, perché mi sembrava impossibile riuscire in quell’impresa. Poi m’illuminai: “Ma non potremmo semplicemente sposarci allo stesso uomo? Puoi fare la prima moglie se vuoi, visto che sei nata prima! Così staremmo insieme, in qualsiasi villaggio.”
“Non vuoi proprio capire, eh!” ribatté lei; si voltò di spalle e si chiuse in un silenzio offeso.
Mi addormentai triste, perché proprio quella notte in cui potevamo dormire insieme, Adji ed io avevamo litigato per la prima volta nella nostra vita.


Al sorgere del sole ogni contrasto sembrava dimenticato; Adji ed io andammo a scuola, quella costruita dai toubab, e ripetemmo la lezione sedute vicine, come sempre.
Dopo qualche giorno Seynabou tornò a casa sua; nel villaggio, tra le donne al pozzo o lungo la strada dei venditori di pesce, si mormorava che la seconda moglie fosse effettivamente vergine prima del matrimonio – numerose donne avevano controllato il suo sangue – , quindi degna di considerazione da parte di tutti. Timidamente la ragazza cominciò a comparire alla boutique per comprare dei pezzi di sapone; io la vidi per la prima volta camminava verso la scuola con un bel vestito arancione che le era stato regalato da Amadou il giorno delle nozze. Le sorrisi e lei mi rispose con un cenno.
“Io la odio” diceva Adji, ma solo perché Seynabou continuava a essere furiosa e riversava sulle tre figlie la colpa di tutto. Non sarebbero potute nascere maschi?, diceva. “Io l’avrei fatto, se mi avessero detto come” continuava a dire Adji; sembrava che la pazzia si fosse impossessata di entrambe, Seynabou e Adji, tanto che chiesi a mia madre di fare qualcosa.
“Le passerà” rispose lei. “Ci sono passata anche io. È una cosa comune a tutte le prime moglie, e alle seconde quando poi viene presa la terza, e alla terza quando arriva la quarta. È sempre stato così.”
“Quindi è meglio essere l’ultima?” chiesi io. Mia madre mi guardò con uno sguardo strano, a metà tra il divertito e il rassegnato: “È meglio non sposarsi affatto” disse. Rimasi sorpresa, perché non sembrava un discorso da mia madre, quanto piuttosto da Seynabou. Mia madre era una vera donna senegalese e non aveva mai detto una parola contro le nostre tradizioni.
Cominciai a pensare al progetto di Adji di andar via insieme: forse si poteva fare! L’idea di non sposarmi affatto mi sembrava davvero strana, perché tutte le ragazze, prima o poi, lo fanno, ma se persino mia madre era d’accordo…


Ero decisa a comunicare ad Adji che potevamo cominciare a decidere la nostra meta. Quella mattina non era venuta a scuola, quindi non appena la maestra ci lasciò andare, corsi con ancora lo zainetto e il grembiule verso la sua capanna, sorridendo a me stessa per il messaggio che portavo. Adji ed io avremmo cominciato di nuovo a fare progetti, avremmo raccolto nuovi tesori, li avremmo nascosti sotto al nostro baobab e fra qualche anno ce ne saremmo andate insieme alla scoperta del mondo. Non c’era bisogno ci sposassimo, l’aveva detto persino mia madre.
Arrivai giusto in tempo per udire un urlo acuto lacerare l’aria.
Entrai di corsa nel recinto e inorridii: la seconda moglie, quella ragazzina dal sorriso timido, era accasciata a terra con le mani sul volto e ululava come un animale; di fronte a lei Seynabou urlava, con il pagne slacciato che minacciava di cadere a terra, il capo scoperto e le trecce dritte in ogni direzione. Aveva ancora in mano la pentola di olio bollente che aveva gettato in viso all’altra ma non sentiva le bruciature sulla pelle. Tutte le donne accorsero e cominciarono a urlare a loro volta tutte insieme; ci fu una grande confusione finché non arrivò mio padre che mise fine a quella cagnara. Io fui spedita a chiamare il marabut per guarire le ferite al volto della seconda moglie e per togliere il diavolo in corpo a Seynabou ma, quando tornammo insieme di corsa, si era già deciso di portarle entrambe al più vicino poste de santé, perché la situazione era grave.
Rimasi in piedi al centro del cortile senza sapere che fare. Le donne erano tornate ognuna ai propri affari, l’olio era stato assorbito in fretta dalla sabbia e in terra rimaneva solo una macchia scura.
Cominciai a cercare Adji con gli occhi ma non la vidi da nessuna parte; cercai anche nelle capanne, tornai di corsa nella mia, ma non era neanche lì.
Mia madre piangeva mentre pestava il miglio in un angolo del cortile.
“Non riesco a trovare Adji” dissi.
Lei non rispose. Corsi via verso il nostro baobab.


Adji era lì. Era in piedi, a cavallo di una grande radice sporgente, appoggiata di spalle alla corteccia. Il nostro tesoro era ai suoi piedi, disseminato sulla sabbia.
Quando mi vide non si mosse e non disse nulla.
“Ti sto cercando da tantissimo tempo!” esclamai. Mi dovetti piegare sulle ginocchia per riprendere fiato.
“Dicono che perderà un occhio” rispose lei.
“Seynabou?”
“Ma no, l’altra.”
Non muoveva il viso, mentre parlava; sembrava non le importasse nulla, fissava l’orizzonte.
“E ne sei contenta?!” sbottai allora. “Quella povera ragazza non aveva fatto nulla! Amadou l’ha scelta, magari lei non avrebbe neanche voluto sposarlo! Cosa ne puoi sapere tu?”
Adji finalmente spostò i suoi occhi su di me.
“Se domani mio padre mi darà in sposa a un uomo che ha già altre mogli, credi sia giusto che una di loro mi butti in faccia dell’olio bollente?”
Scosse la testa. Tornò a guardare lontano.
“Io me ne vado” annunciò. Si chinò a raccogliere i nostri tesori sparsi e ad accumularli nel fazzoletto che aveva tolto dalla testa.
Mi vennero le lacrime agli occhi: “Non puoi” dissi.
“Ah no? E chi mi fermerà?” ribatté alzando gli occhi neri contro di me.
“Non puoi” ripetei con voce rotta. “Quelli sono anche miei…” Lo dissi senza crederci. Avevo bisogno di una scusa qualsiasi per far rimanere Adji lì con me. Dove sarebbe andata, da sola? Come avrei fatto a trovarla?
“Puoi venire con me” disse. Quando vide che non rispondevo, ma restavo lì in piedi a singhiozzare, mi mise il fagotto in mano. “Tienili, allora, me ne frego. Ciao, Ndeye Fatou.”
Adji se ne andò ed io rimasi ai piedi del baobab a piangere fino al tramonto.
Quando tornai trovai mia madre disperata: la seconda moglie era in ospedale, avrebbe davvero perso un occhio e Seynabou era stata portata via dalla polizia. Per questo motivo si accorsero della sparizione di Adji solo due giorni più tardi e, quando cominciarono le ricerche, io dissi che non sapevo nulla e non l’avevo vista dalla sera precedente all’incidente dell’olio.


La notte, prima di andare a dormire, contavo i pezzi di spago, il vetro verde, le stoffe e l’osso di capra. “Ci sono tutti, li sto tenendo per quando tornerai” pensavo.
Poi un giorno la maestra mi disse che ero molto brava ed era un peccato che terminassi la scuola, e io chiesi a mia madre di poter andare alle medie, e magari poi anche al liceo. Non disse niente, ma quella sera stessa udii mio padre discutere con lei, sentii distintamente le parole “matrimonio” e “città”, ma anche “Adji”, di cui nessuno pronunciava il nome da mesi.
Quando uscì dalla capanna, mia madre venne da me e disse solo: “D’accordo.”
“Sto arrivando, Adji” pensai io.





NOTE
Questa storia è ambientata in Senegal e fa parte della mia raccolta “Racconti africani”. Il tema principale di cui vuole trattare è la poligamia, che in questo paese è permessa e tradizione antica; ad oggi, secondo le mie conoscenze, è legale avere fino a quattro mogli.


Qualche termine ripreso dal wolof, la lingua locale:

- Bimbiri: collana di diversi materiali utilizzata come talismano che si indossa alla vita sotto i vestiti.
- Toubab: i bianchi.
- Pagne: tessuto di forma rettangolare che si avvolge attorno al corpo a formare una veste che copre da sotto il seno fino alle caviglie.
- Attaya: bevanda a tipo thé.
- Marabut: santone che si occupa, oltre alle pratiche religiose, anche della medicina tradizionale.
- Poste de santé: il termine è francese e indica dei piccoli ambulatori medici gestiti dallo Stato. In molte regioni rurali sono l’unico luogo in cui è possibile trovare un medico.
- Tabaski: festa religiosa islamica che si riferisce il sacrificio di Abramo e Isacco; in questa occasione ogni famiglia deve sacrificare e mangiare un montone (o di più, se può permetterselo). È tradizione regalare alcune parti del montone alle famiglie povere del proprio villaggio/quartiere e sono i bambini a portare i pezzi in giro.


Questa storia è stata scritta per il CONTEST “I Significati Nascosti dei Film di Miyazaki” con il Pacchetto “La Collina dei Papaveri: Tema: Speranze e Aspirazioni”.
Inoltre mi sono ispirata al prompt “Où tu seras, je serai à tes côtés {trad. Dove tu sarai, io sarò al tuo fianco } [Alors d’accord – Le Roi Soleil OST]” della piscinadiprompt.

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