Rinascita

di SoleSun
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dentro una bolla ***
Capitolo 2: *** Reminescenze ***
Capitolo 3: *** Arrampicarsi sui vetri ***
Capitolo 4: *** Nuova vita ***



Capitolo 1
*** Dentro una bolla ***


La prima cosa di cui fu consapevole era il buio.

Buio esterno: non un filo di luce arrivava alla sua mente; buio interno: non percepiva il suo corpo. Era, senza nome, senza spazio, senza ricordi. Galleggiava nell'oscurità, nel nulla.

Non seppe mai per quanto era rimasto lì sospeso, immobile e senza pensieri, conscio solo del buio. Ore? Giorni? Secoli? Intere galassie avrebbero potuto essere nate e poi distrutte nell'arco del periodo in cui la sua coscienza galleggiò nel nulla.

E poi, dopo infiniti eoni, un chiarore tenue, rossastro, percorse le sue terminazioni nervose fino a colpire il cervello.

E lui osservò quel chiarore, lo studiò, ci vide infiniti mondi ed infinite galassie, particelle danzanti, fuochi artificiali che fiorivano e morivano.

Poi il chiarore, dopo essersi intensificato e via via affievolito, svanì di nuovo.

E fu ancora il buio, ma stavolta era pieno di particelle e fuochi artificiali.

Quando il chiarore tornò, venne accompagnato dalla percezione di un qualcosa che fremeva, colpito dalla luce.

Non era più solo una coscienza che fluttuava nell'etere, ma aveva, da qualche parte, un corpo, e da quel corpo ora arrivava un debole, tenue segnale.

La consapevolezza di avere un corpo portò il primo ricordo, collegato alla luce: acqua, un lago incastonato in mezzo alle montagne aride, con il sole riflesso che riverberava fastidiosamente nei suoi occhi. Quel ricordo diede la stura a un fiume in piena: la sua terra d'origine, col suo unico sole e la sua unica luna, le lacrime di sua madre al momento di salire sull'astronave e lasciare per sempre il pianeta natio, il lungo, infinito viaggio nello spazio nero e profondo, dove solo le stelle spezzavano la monotonia del nero, il mondo d'adozione coi suoi due soli, le mille lune e la terra rossa e polverosa, la città coi grattacieli altissimi dalla cima dei quali si vedeva per chilometri e chilometri nel deserto di pietra.

Un ricordo portava all'altro, panorami, edifici, stanze, oggetti.

Rivide la sua stanza di bambino sulla Terra, con la tenda ad ossigeno azzurra con gli orsacchiotti. Rivide la sua cuccetta sull'astronave, poco più di un buco con a malapena lo spazio per scendere dal letto. La sua stanza di ragazzo a casa dei genitori su Dubhia, tutta monitor e impianti telecinetici, quella nel campus dell'università, divisa con altri due ragazzi.

Le scuole elementari sulla Terra, le medie in astronave, le superiori e l'università su Dubhia. Il suo ufficio.

E i volti, quelli dei genitori, di sua sorella, quelli nebulosi dei nonni rimasti sulla Terra, del suo amico Kyer.

E Clara. Clara...

Clara in bikini sul bordo della piscina, la prima volta che erano usciti insieme. Il suo corpo un piccolo miracolo, nata dall'improbabile unione tra un Dubhiano e un'immigrata terrestre.

Lei tra le lenzuola sfatte della prima notte insieme, con gli occhi assonnati e soddisfatti; lei vispa e ansimante dopo una corsa; lei con l'abito tradizionale dubhiano il giorno del loro matrimonio. Lei. Lei. Lei.

Lei non c'era più.

Dolore, dolore ovunque, un'esplosione di sofferenza che saturava tutto il suo percepire e il suo essere. Un unico grido d'angoscia: Clara!

Per ore, giorni, millenni tutto ciò che lo attraversò fu dolore puro, senza forma, senza scampo. Straziante. Poi una sequenza di immagini, che avrebbe voluto strapparsi dalla mente per non doverle rivedere mai più.

Clara sorridente davanti al portone del loro palazzo, il bacio rapido che si erano dati, l'ultimo. Poi lei era salita sul suo velivolo, e lui sul proprio. Si erano alzati in volo insieme, diretti verso il 3Dbowling lui e casa dei propri genitori lei. La navetta di Clara era poco sopra la sua, più avanti sulla destra, quando un pazzo lanciato a folle velocità contromano l'aveva centrata in pieno. La navetta era stata avvolta dalle fiamme e da un fumo nero, e l'onda d'urto aveva fatto sbandare anche quella di lui, che si era trovato a lottare coi comandi. Quando aveva rialzato lo sguardo, quella palla di fumo e fiamme che era stato il velivolo di sua moglie stava precipitando, per schiantarsi infine a terra poco lontano dal punto da cui era decollata.

L'urlo disumano che gli era uscito dalla gola risuonava ancora adesso nella sua mente, l'angoscia e il dolore di quel primo istante ancora vivi e veri dentro di lui.

Non gliel'avevano fatta vedere.

Non aveva avuto più voglia di vivere.

E ora la consapevolezza di quel peso lo rese conscio che aveva degli occhi, e che dalle palpebre serrate scivolava fuori, lentamente, un fiume di lacrime.

Pianse il male e la solitudine e la sofferenza, pianse la nostalgia delle cose perdute e l'ingiustizia dell'essersele viste strappare via. Pianse fino a singhiozzare, e allora si rese conto di avere una bocca, una gola, un petto straziato dal pugno del dolore.

Si accorse di avere un naso, chiuso e colante, e guance percorse dalle lacrime.

Si accorse di avere mani strette a pugno, e spalle contratte per chiudersi in sé stesso.

Aprì gli occhi.

La luce improvvisa ferì le sue pupille avvezze al buio, accecandolo. Istintivamente serrò di nuovo le palpebre.

Le riaprì piano piano, sbattendole, lottando contro l'impulso di serrarle ancora.

A poco a poco il bruciore scemò, e i suoi occhi si adattarono alla nuova condizione.

La prima cosa che vide fu la crepa nel vetro davanti a sé. Oltre a quella, una stanza polverosa, illuminata da un raggio di sole proveniente da un buco nella parete, in alto e un po' sulla sinistra rispetto a lui. Buco evidentemente dovuto a un crollo, visto che a terra sotto di esso c'era un mucchietto di calcinacci, pezzi di malta e mattoni rotti.

Tutt'intorno banconi pieni di ragnatele, ricoperti da attrezzature e strumenti impolverati o che cadevano in pezzi. O entrambe le cose.

Osservò tutto questo con distacco, come se la cosa non lo riguardasse, e in quel momento non lo riguardava, tutto ripiegato com'era nel suo dolore.

Osservò il gioco del raggio luminoso che lentamente si spostava e diventava via via meno forte, oro poi arancio poi rosato e infine spariva.

E allora, consumato fin nel profondo, dormì.

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Capitolo 2
*** Reminescenze ***


Lo svegliò la luce di un nuovo giorno, con un chiarore che si espandeva dal buco verso l'interno. Aprì le palpebre, e improvvisamente fu molto più consapevole del proprio corpo rispetto al giorno prima. Una sensazione di costrizione alla nuca e al petto, e il resto del corpo che fluttuava. Mosse le mani, una fatica immane. Erano immerse in un liquido viscoso, o forse era solo acqua e lui era debole. Mosse la testa, ma si accorse che poteva solo girarla lievemente di lato. Bloccata. Provò a muovere i piedi, che si agitarono liberi nel fluido. Li mosse con più convinzione, e gli sembrò di sfiorare una superficie sotto di sé. Per quanto poteva vedere, intorno aveva lastre di vetro. Era rinchiuso! In preda al panico prese ad agitarsi, lottando col fluido che lo circondava, con legacci e costrizioni che non poteva vedere ma che percepiva intorno al collo e al torace. Gridò per la paura, ma uscì solo un rauco squittio dalla sua gola bloccata dallo scarso utilizzo. Il suono riverberò in modo strano, e si accorse per la prima volta che qualcosa gli riempiva la bocca. Mosse le labbra, la lingua, il naso, e alla fine capì che indossava qualcosa sulla parte bassa del volto, che gli copriva il naso e gli entrava in gola. E allora lo colpì un nuovo ricordo, l'ultimo prima del buio infinito. Era in un laboratorio, pieno di medici e di tecnici, di strumentazioni elettroniche e di computers. L'avevano imbragato, legandogli il petto e passandogli un sostegno intorno al collo, gli avevano messo una maschera molto aderente sulla parte inferiore del viso, con un tubo che gli entrava in bocca; poi l'avevano calato in una teca, parte di una fila di altre quattro, piena di un liquido denso e freddo, che si era chiuso sopra la sua testa. Dal tubo entrava aria e un anestetizzante: si era addormentato, per svegliarsi qui, in questa situazione. Perché era successo tutto questo? Lui l'aveva voluto. Dopo l'incidente che gli aveva portato via la sua Clara (Oh dei! Clara!). E la scintilla di vita che forse portava in grembo. Gli vennero alla mente come un incubo i giorni e i mesi passati come un automa, funzionante per quanto riguardava il lavoro, ma morto dentro. Immerso nel dolore e nella desolazione, distaccato da parenti e amici che ormai erano poco più di figure fumose e fastidiose che si muovevano ai margini della sua consapevolezza, con l'immagine di lei sorridente che si sovrapponeva a quella della palla di fuoco che aveva avvolto il suo velivolo. Strazio e angoscia gli riempirono di nuovo l'animo. Si fece forza, andando avanti a ricordare. Aveva sentito di un nuovo programma di crioconservazione in studio presso l'Università della sua città. Gli scienziati cercavano volontari che volessero farsi congelare per un numero definito di anni. L'idea l'allettò da subito: qualche decina di anni congelato, in un oblio in cui non provare dolore. Poi al risveglio un mondo diverso, senza più nessuno che gli ricordasse Clara e ciò che aveva perso. La possibilità di un nuovo inizio, più sereno. Aveva scelto di fare la cavia per il periodo di conservazione di 80 anni. Di certo mentre chiudeva gli occhi in attesa che gli venissero iniettate le sostanze per crioconservare la sua vitalità e che la temperatura nella teca scendesse a 50°C sotto lo zero Celsius non immaginava che al risveglio avrebbe trovato...questo. Un laboratorio abbandonato da tempo, forse anni, in condizioni disastrose. Com'era possibile che la sua teca fosse sopravvissuta più o meno intatta fino a quel momento? Ricordò che ogni teca era alimentata con un pannello solare di ultima generazione al quale era collegata direttamente, a differenza del resto delle attrezzature che si alimentavano dalla rete normale dell'Università. Probabilmente il pannello della sua e i cavi di collegamento non si erano danneggiati insieme al resto. Se concentrava la sua attenzione, cosa molto difficile visti gli anni – quanti? - di assenza di qualsiasi pensiero, riusciva a sentire un refolo d'aria proveniente dal tubo in gola e un vago ronzio sopra la sua testa. Si accorse che il livello del liquido era più o meno all'altezza della sua bocca. Lo sforzo di pensare, di capire, di muovere il collo e le braccia, ma soprattutto il dolore l'avevano spossato. Clara non c'era più, e forse nemmeno tutte le persone che conosceva. Anche se al momento del congelamento era quello che aveva voluto, ora che si trovava davanti a questa desolazione, solo, non poté che farsi prendere dallo sconforto. Non era forse meglio morire? Ma forse sarebbe morto lo stesso, di fame e sete. E avrebbe raggiunto la sua Clara. Nuove lacrime, stanche, dolenti, presero a scorrergli lungo le guance. Di nuovo scivolò nel benedetto oblio del sonno.

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Capitolo 3
*** Arrampicarsi sui vetri ***


Quando riaprì gli occhi, presumibilmente la mattina dopo dato che la luce era ancora molto tenue ma andava via via aumentando, si sentiva più lucido, più riposato.

Voleva uscire da lì.

Iniziò a gridare, per cercare di attirare l'attenzione di qualcuno. Ma chi?

I primi suoni che uscirono dalla sua gola furono flebili e rochi come quello del giorno prima. Ma poi man mano che scaldava e faceva vibrare le corde vocali bloccate dal disuso, il volume crebbe, e il suono si fece più limpido. Gridò e gridò nella maschera, ma forse per i troppi strati che impedivano alla sua voce di propagarsi nella stanza, forse perché non c'era nessuno di abbastanza vicino, tutto il suo urlare non ebbe alcun effetto se non quello di stancarlo. Alla fine si arrese e tacque.

Faticosamente mosse le mani intorno a sé per capire la distanza delle pareti di vetro anche nelle direzioni che non poteva vedere, poi le sollevò al petto per tastare l'imbracatura, alla gola per seguire i contorni del sostegno e ancora più su. Il liquido gli arrivava a metà del collo: era sceso rispetto al giorno prima. Probabilmente più sotto c'erano altre crepe. Il fluido che lo circondava sembrava opporre meno resistenza, oggi, come se fosse meno viscoso...o forse era semplicemente lui ad essere più in forze.

Queste considerazioni gli portarono alla mente un altro ricordo: il liquido conteneva in sospensione sostanze nutritive che lui assimilava attraverso la pelle, in quantità sufficiente per durare più di 80 anni. Ricordò di aver letto sul sito dell'esperimento che la quantità di nutritivi che filtrava attraverso la pelle era inversamente proporzionale alla temperatura: da congelato, e anche a 50°C sotto zero ne passava a sufficienza per non far deperire il corpo immobile e addormentato. Ora che si era sciolto, il corpo ne assorbiva di più. Per questo ora era meno debole e più riposato.

Era quindi necessario uscire prima che il liquido colasse fuori del tutto, o sarebbe morto davvero di fame. Si rese conto di non volerlo. Questa nuova, dolorosa rinascita gli aveva messo in corpo la smania di uscire, di vedere cos'era successo, di vivere.

Si concentrò, tornando con il pensiero ai minuti precedenti l'ibernazione.

Quando gli avevano imbracato il torso, aveva sentito un click. Si sforzò di pensare a quel rumore, e gli vennero in mente le parole del tecnico: “L'imbracatura ha una chiusura meccanica progettata sul modello di quelle antiche perché non siamo sicuri che dopo tutti quegli anni nel fluido congelato una consueta chiusura elettronica funzionerà ancora.”

Anche il sostegno del collo ne aveva una analoga.

Sollevò a fatica le mani, tastandosi il petto fino a trovare le cinghie dell'imbracatura e infine la fibbia. Lo studiò goffamente con la punta delle dita, trovando dopo diversi tentativi i punti in cui era cedevole: quelli da premere per aprirlo. Erano in una posizione difficile per lui, poiché la chiusura era fatta in modo che fosse comoda da aprire per qualcuno che stava davanti a chi la indossava, ma pensava di potercela fare. Poi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, riposandole, prima di sollevarle ulteriormente e indagare il sostegno del collo. Qui il fermaglio era di lato e avrebbe fatto più fatica. Nella sua mente iniziò a formarsi un piano: prima avrebbe slacciato il collo, di modo che il resto dell'imbraco lo sostenesse. Poi con una mano avrebbe slacciato il petto, sostenendosi alle corde con l'altra. Non pensava di riuscire a galleggiare a lungo, era troppo debole.

Ora doveva solo capire come aprire o rompere la teca una volta libero. Se avesse rotto la teca in basso, la sospensione nutritiva si sarebbe rovesciata fuori. Se invece fosse riuscito ad uscire dall'alto, il liquido si sarebbe conservato, dandogli la possibilità di rientrarci per sostentarsi ancora un poco se avesse scoperto che fuori c'era qualche problema. Tutto quel silenzio e quell'aria di abbandono non promettevano bene.

Decise di cambiare il piano d'azione: doveva slacciare il fermo del collo per poter muovere meglio la testa e guardare anche sopra e dietro di sé.

A fatica sollevò di nuovo le mani e armeggiò con la chiusura. Le dita impacciate e irrigidite dal mancato uso scivolavano sui minuscoli componenti, non riuscivano a fare forza per premere, complice anche la posizione scomoda e il fatto che il sostegno del collo stesso gli impediva di sollevare del tutto le braccia.

Tentò e ritentò, mentre un senso di impotenza e folle irritazione si impadroniva di lui, rendendo i suoi gesti stizzosi. Avvertiva un prurito in tutto il corpo, una voglia di lasciarsi andare ad urla isteriche. Stringendo i denti tentò un'ultima volta.

Click.

L'apertura scattò. Una pressione sul collo di cui non si era reso conto finora si allentò impercettibilmente. Abbassò le braccia doloranti e si concesse un po' di riposo.

Si svegliò molto più tardi, probabilmente intorno a mezzogiorno. Non sapeva se dello stesso giorno o di chissà quale giorno successivo. Ma ogni volta che si svegliava, si svegliava un po' di più. Si sentiva sempre più forte e lucido.

Il pensiero corse fuggevolmente al passato, ai suoi genitori, a Clara...ma riuscì a scacciare le immagini che gli si stavano formando nella mente. Non poteva permettersi di lasciarsi andare: doveva liberarsi da quella prigione di vetro, uscire, capire cos'era successo al laboratorio. Trovare qualcosa da mangiare e vedere com'era, ora, il mondo fuori.

Era stato un uomo forte e determinato, prima. Prima dell'incidente. Doveva tornare ad esserlo, o sarebbe morto. E dentro di sé ora qualcosa si ribellava al pensiero di morire.

Con mani più forti e dita più sicure aprì di più il collare, senza sfilarlo del tutto. Così poteva girare la testa. Si guardò intorno, ma a parte una visuale migliore sulle teche adiacenti non scoprì nulla di nuovo. Provò a sollevare la testa ma la maschera gli impediva il movimento. Imprecò, frustrato.

Si accorse però che il livello del liquido era sceso ulteriormente nel tempo in cui era stato addormentato, segno che da qualche parte c’era una fessura. Decise allora di togliere anche la maschera. Anche in questo caso dovette armeggiare un po’, riposando un paio di volte le braccia, ma alla fine ce la fece. Sfilando il tubo dalla bocca sentì le mascelle indolenzite che si rilassavano.

Inspirò una boccata di aria dal vago sentore di sale e polvere. Si leccò le labbra: anche esse erano salaticce. Residui della sospensione nutritiva, indubbiamente.

Finalmente riuscì a reclinare il capo all’indietro e a guardare sopra di sé, seppur con qualche difficoltà. I cavi che lo sostenevano e quello cui era appesa la maschera si infilavano in un “soffitto” molto più vicino di quel che pensasse, attraversato da un solco che dal punto in cui sparivano i cavi tagliava il coperchio verso destra. Se tirava su le braccia il più possibile consentito dal sostegno del collo, lo sfiorava.

Afferrò la maschera, per usarla come “prolunga” e provare a spingere i pannelli che chiudevano la teca. Sollevò di nuovo le braccia, che iniziavano ad essere indolenzite, e tentò di spingere. Sembrava che qualcosa si muovesse.

Decise di abbassarle nella sospensione nutritiva per riposarle un pochino prima di ritentare.

Nel farlo, lasciò vagare i pensieri e iniziò a prendere una coscienza molto più netta della parte inferiore del suo corpo. Iniziava ad avere freddo. Probabilmente l'intorpidimento del congelamento aveva abbandonato del tutto le sue estremità, e ora si rese conto del leggero tremito che lo pervadeva, di come teneva contratti i muscoli delle spalle e del torso per contrastare il freddo, della sensazione della pelle che si raggrinziva sempre di più al contatto con l'acqua. Non solo: percepiva il fastidio dello stare appeso tutto quel tempo, nonostante l'imbracatura studiata per essere il più confortevole possibile.

Concentrato sui pensieri dolorosi di prima, e sugli sforzi per uscire, nei momenti di veglia precedenti aveva dato poco ascolto al suo corpo, che ora iniziava a protestare per la situazione in cui era posto.

Doveva uscire di lì, e in fretta. O l'essere sopravvissuto alla morte di Clara, l'aver scelto di farsi congelare per tentare di rifarsi una vita, sarebbero stati inutili.

Era sempre più chiaro in lui che nonostante il dolore quasi insopportabile, voleva vivere. E che era stato quell'istinto di sopravvivenza a indurlo ad aderire all'esperimento sull'ibernamento.

Sapeva che avrebbe vissuto per sempre con un peso sul cuore, col ricordo del sorriso di Clara che gli trafiggeva il petto ad intervalli regolari, ma poteva accettarlo: finché lui era in vita, sarebbe vissuta anche lei attraverso i suoi ricordi.

Una nuova lacrima gli solcò una guancia, ma stavolta era un pianto di accettazione.

Quando il dolore fu tornato a livelli accettabili, provò di nuovo a sollevare le braccia, afferrare la maschera e spingere verso l'alto. Qualcosa cedette per un istante, poi il peso vinse perché lui non aveva dato una spinta sufficiente, e il soffitto ricadde.

Ma ora sapeva cosa fare.

Si aggrappò alle corde con una mano, mentre con l'altra puntava la maschera contro il soffitto. Scalciando con le gambe si diede lo slancio per sollevarsi e spinse con tutte le sue forze. Il coperchio si sollevò di qualche centimetro poi prese a scorrere di lato, verso sinistra. Mancando una spinta in quella direzione, esso si bloccò e cominciò a tornare indietro.

L'uomo allora raccolse di nuovo le forze e spinse verso sinistra. Il coperchio riprese a scorrere e, una volta apertosi del tutto, ricadde di lato andando a sbattere contro il fianco della teca, rimanendo lì appeso.

Il colpo fece riverberare tutto il contenitore,e nuove crepe si formarono sul vetro.

Doveva uscire prima che si rompesse del tutto: se si fossero staccati pezzi affilati in alto, si sarebbe tagliato e non avrebbe avuto modo di fermare un'eventuale emorragia.

Sollevando di nuovo lo sguardo vide che i cavi che lo sostenevano e il tubo della maschera erano appesi ad un soffitto molto lontano. Doveva cercare di risalirli per un po' per potersi aggrappare al bordo superiore della teca e uscire. E per poterlo fare si doveva togliere del tutto il sostegno del collo, che gli impediva di sollevare bene le braccia. Armeggiò un po' con le due parti, riuscendo infine ad aprirle.

Scalciò di nuovo con le gambe, per quanto permettevano gli stretti confini della teca, e spostò una mano più su lungo i cavi. Altro movimento delle gambe, altra mano più su.

Lentamente, faticosamente si sollevò, pochi centimetri alla volta. Alla fine si ritrovò col viso all'altezza del bordo superiore.

Stringendo convulsamente le corde con una mano, protese l'altro braccio verso destra. Sì! Riuscì ad afferrare il bordo. Senza mollare le corde, e cercando di sostenersi un po' con l'aiuto delle gambe che scalciavano in un liquido che ora gli arrivava poco più supra dell'ombelico, si protese sempre più verso la parete, fino a riuscire ad agganciarvisi con l'ascella.

Rimase lì parecchio tempo, ansimando per lo sforzo ma soddisfatto di avercela fatta. Ora doveva riuscire a sganciarsi – con una mano sola! - dall'imbracatura che lo tirava verso il centro della teca, e ad oltrepassare il bordo. Più semplice a dirsi che a farsi!

Le dita goffe e indolenzite dallo stringere i cavi faticarono a trovare il fermaglio dell'imbraco, per non parlare dell'aprirlo. Ci tentò per quelle che parvero ore, mentre un senso di irritazione e di angoscia prendeva sempre più piede in lui, rendendo i suoi movimenti stizzosi e meccanici.

Gridò di frustrazione, e forse lo sfogare la tensione in quel modo gli fu d'aiuto: al tentativo successivo, la chiusura cedette, la fibbia si slacciò e la costrizione al petto si fece meno forte.

Rabbiosamente l'uomo si contorse per liberarsi dal fastidioso impiccio, cambiando con non poco sforzo il braccio col quale era appeso al bordo.

Alla fine, stanchissimo, riuscì a togliersi di dosso tutte le cinghie.

Si riposò ancora, valutando come fare per oltrepassare la cima della parete. Decise di raggiungere il bordo opposto, dove il coperchio ribaltato e il meccanismo cui era attaccato rendevano la superficie di appoggio più ampia.

Faticosamente, poco alla volta, percorse tutto il bordo fino a raggiungere la meta. Dopo una nuova fase di riposo puntò i piedi sui lati della teca, scoprendo che se spingeva con sufficiente forza l'attrito era tale da non farli muovere troppo, offrendo un puntello che si rivelò sufficiente per sollevarlo con l'ombelico poco più in alto del bordo.

Si reclinò come un sacco di patate, poi con un ultimo sforzo si girò di sbieco sollevando una gamba, che riuscì a sollevare oltre il bordo. Si ritrovò semisdraiato a cavalcioni di vetro e coperchio, coi cardini che gli premevano fastidiosamente contro il torso e il pube.

Ansimando, si abbandonò in quella posizione, con tutti i muscoli che tremavano per gli sforzi e il freddo. La luce proveniente dal buco si stava facendo via via sempre più rossastra, segno che il tramonto dei soli gemelli era in arrivo. Non poteva restare lì sopra col buio, o sarebbe caduto.

Raccogliendo per l'ennesima volta le forze, afferrò il bordo con entrambe le mani, stringendolo convulsamente con le dita. Sperò ardentemente che i muscoli provati da tutti gli sforzi compiuti per arrivare fino a lì fossero in grado di reggere il suo peso per qualche istante.

Fece un respiro profondo, e lasciò scivolare giù le gambe, cercando di frenarsi contro il coperchio.

Prese una botta tremenda col fianco contro una sporgenza, poi proseguì la corsa facendo un pendolo che gli fece quasi perdere la presa, ma con la pura forza di volontà impose alle mani di restare dov'erano. Rimase appeso a penzoloni, con la sporgenza del coperchio che gli affondava nello stomaco, i piedi ad un metro da terra e gli arti superiori che urlavano per lo sforzo. Non aveva scelta, doveva lasciarsi cadere. Il rischio di slogarsi o rompersi una caviglia, di incrinarsi un tallone, di cadere all'indietro e sbattere contro la teca tutta crepata dietro di sé con conseguenze nefaste era altissimo, ma non poteva resistere a lungo in quella posizione.

Aprì le mani.

Cadde.

L'impatto col suolo fu tremendo per il suo corpo disabituato a reggere il peso sugli arti inferiori. Le ginocchia si piegarono per il contraccolpo e lui finì in avanti, picchiando la fronte e il naso contro il vetro, e poi ricadde all'indietro, sbattendo la schiena e la nuca sul pavimento.

Vide le stelle, tutta la stanza prese a girargli intorno. Rimase così, senza muoversi, sentendo le proteste di tutto il suo corpo che gli martellavano nella testa ammaccata.

Il respiro usciva rotto, e lui emise un gemito che era quasi un vagito.

Molto tempo dopo, con la stanza ormai quasi immersa nel buio, si rese conto di essere steso su qualcosa di simile a un tappeto. Senza pensare, agendo solo d'istinto, se ne arrotolò un lembo addosso, si raggomitolò e si lasciò andare ad un sonno esausto.

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Capitolo 4
*** Nuova vita ***


Stavolta a svegliarlo fu il brontolio del suo stomaco. Il laboratorio era già illuminato dai raggi di sole mattutino che entravano dal buco.

Sbatté le palpebre per liberarle dalle crosticine del sonno e lasciò che lo sguardo vagasse sul proprio corpo.

Si rese conto di essersi arrotolato in un pezzo di moquette impolverata che si era sollevata e staccata dal bordo. E realizzò, anche se l'aveva comunque già notato, di essere completamente nudo. Prima di andare a cercare altre persone, avrebbe dovuto trovare qualcosa da mettersi addosso, fosse anche un frammento di quella stessa moquette arrotolato intorno ai fianchi. I dubhiani, se non erano cambiati nel corso degli anni, non erano un popolo pudico, ma molti terrestri invece lo erano eccome.

Si guardò intorno. Ora che era fuori dal vetro vedeva tutto con maggiore chiarezza. E fu così che si accorse del contenuto delle altre teche, molto più crepate della sua. Il liquido nutritivo era colato fuori tutto, e appese alle imbracature c'erano le forme rinsecchite e mummificate di coloro che erano stati i suoi compagni di esperimento. Un senso di gelido orrore si arrampicò lungo la sua spina dorsale facendogli rizzare tutti i peli del corpo, paralizzandolo. Il fiato gli si bloccò in gola, e solo con uno sforzo riuscì ad emettere un lungo respiro strozzato e singhiozzante. Anche la sua teca aveva molte crepe che correvano lungo tutta l'altezza, ma erano fini e poco liquido colava. Un sottile strato di vetro incrinato era stato tutto quello che si era interposto tra lui e la morte.

Se c'era un dio da qualche parte in quell'immenso universo, stava sicuramente guardando lui.

Non doveva sprecare la sua fortuna! Se era sopravvissuto al dolore dell'incidente di Clara, e anche al cataclisma che aveva colpito il laboratorio, avrebbe lottato per sopravvivere ancora.

Appoggiandosi allo spigolo della teca, un po' alla volta si alzò in piedi. Ondeggiò, con la testa che gli girava, la vista annebbiata e il cuore in gola per lo sforzo. Le gambe gli tremavano da matti e per un momento temette che non l'avrebbero retto. Le sue dita si contrassero sul vetro, e l'angolo si piantò dolorosamente nella carne. Strinse i denti, ma non cedette.

E piano piano il battito si calmò, la vista si schiarì, la testa smise di girare e le gambe si fecero più sicure.

Mentre riprendeva fiato e si preparava per il prossimo passo, cioè tentare di camminare, osservò meglio il laboratorio. I banconi erano ricoperti di strumentazioni di varie tecnologie, tutte spente, alcune evidentemente rotte o addirittura in pezzi. Lungo un lato c'era una fila di grossi armadi e un appendiabiti da cui spenzolava un camice. Perfetto! Almeno avrebbe avuto qualcosa da mettersi! Non gli avrebbe tenuto caldo, probabilmente si sarebbe capito che sotto non portava nulla, ma era sempre meglio di niente.

Decise però di guardare in tutti gli armadi e nei cassetti di tutti i banconi, alla ricerca di oggetti che potessero essergli utili.

Ogni cosa, come aveva già notato in precedenza, era ricoperta da uno strato piuttosto spesso di polvere, mista a calcinacci. Tutto il locale aveva l'aria di essere abbandonato da anni.

Oh beh, si disse per cercare di farsi animo e contrastare il senso di sconforto che lo stava pervadendo, almeno così nessuno si lamenterà se mi porto via qualcosa!

Con calma, concentrato, mosse un passo, senza lasciare andare del tutto la teca. Barcollò, ma si sentiva abbastanza stabile. Lasciò lo spigolo, e rimase in piedi da solo. Ondeggiò un attimo ma si riprese. Spostò il piede in un altro tentennante passo. Poi un altro ancora. E alla fine si stava muovendo in giro per il laboratorio quasi con scioltezza.

Dopo aver indossato il polverosissimo camice si diede da fare per esplorare lo spazio che lo circondava alla ricerca di qualsiasi cosa gli fosse utile.

Il primo armadio si rivelò pieno di supporti di memoria ricoperti dall'onnipresente polvere. Nel secondo c'erano pezzi di ricambio per i macchinari rotti, insieme ad una cassetta degli attrezzi dalla quale prese un grosso cacciavite e le forbici, che intendeva usare come armi di difesa.

Nel terzo, camici puliti. Beh, più o meno...impolverati anche loro.

Le ante successive erano contrassegnate ciascuna con una targhetta con scritto “Teca n°...” e un numero da 1 a 4. Quello che c'era dentro lo colpì come un pugno. Gli effetti personali suoi e dei suoi tre compagni di avventura ora defunti.

Stringendo tra le dita i propri vestiti fu catapultato ancora una volta nel periodo di angoscia e dolore tra la morte di Clara e il congelamento. Da una tasca scivolarono fuori delle foto. Della sua famiglia, dei suoi amici...di sua moglie.

Gemette alla vista del suo volto sorridente, e nuove lacrime gli solcarono le guance mischiandosi con la polvere, imbrattandogliele.

Tirando su col naso se le asciugò con le mani. Sarebbe mai finito questo dolore?

Scosse la testa come per scacciarlo, e si concentrò sui problemi presenti. Rapido indossò i vestiti, che gli andavano molto larghi: era dimagrito parecchio nella teca! Si infilò le calze e le scarpe. Poi guardò nella borsa che era riposta insieme alle altre sue cose: niente di utile, solo un portafogli e dei documenti elettronici. La posò di nuovo nell'armadio.

Nei cassetti trovò solo scartoffie e un coltello, che intascò rapidamente insieme al cacciavite e alle forbici.

Fece un respiro profondo: non c'era altro, lì dentro, che potesse servirgli.

Si mise di fronte alla porta: ovviamente non si sarebbe aperta grazie al sensore di movimento, che sicuramente aveva smesso di funzionare molto tempo prima, ma tutte le porte avevano, sul lato che dava verso l'interno di una stanza o di un edificio, uno sblocco meccanico di sicurezza per evitare che in caso di guasto le persone restassero intrappolate. Armeggiò un po' con la scatoletta di controllo alla base, e alla fine i due pannelli presero a scorrere di lato, aprendosi su un corridoio silenzioso, buio ed impolverato come il laboratorio. Un nuovo respiro. Mosse il primo passo verso l'esterno ma ebbe un ripensamento.

Tornò all'armadio, aprì la borsa e guardò i documenti. C'era scritto il suo nome lì sopra, un nome che non si era ricordato finché non l'aveva visto stampigliato sulla tessera identificativa.

Un nome che apparteneva a prima, alla sua vita passata. Che non gli apparteneva più.

Era rimasto in gestazione in un liquido amniotico per un tempo infinito, collegato ad una fonte di energia attraverso un cordone ombelicale. Si era partorito con fatica, lasciando la culla che l'aveva incubato dopo un lungo travaglio, e, nudo ed inerme come quando era uscito dal grembo materno, era tornato alla vita.

Rinato.

Gettò nell'armadio i documenti di quell'altra persona che era stato e con passo sicuro si diresse verso la porta. Verso la sua nuova vita. Qualsiasi cosa gli riservasse.



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