Dear Marco

di Gio_Snower
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Il mio nome è... ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Scruta dentro te stesso ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Oltre l'amicizia ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Camminare ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Non si torna indietro ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: Ti Amo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: PTSD ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Andiamo Insieme ***
Capitolo 9: *** Epilogo: Accettazione ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Il mio nome è... ***


Capitolo 1 : Il mio nome è...
 
 
Set me alight
We'll punch a hole right through the night
Everyday the dreamers die
To see what's on the other side
In God's Country, U2


Jean Kirshtein non era un ragazzo come tanti.
Aveva un aspetto nella norma, ma non si era mai paragonato agli altri, anzi, aveva sempre cercato qualsiasi minuscola cosa lo contraddistinguesse e l'aveva valorizzata come gli era sempre stato insegnato.
Così, all'età di diciannove anni, si ritrovava con un carattere ostico ed una lingua lunga che faceva invidia anche alle più maligne tra le pettegole.
Una sola parola gli era sempre stata scagliata contro: antipatico.
Certo, qualche volta era stata variata con sinonimi più o meno coloriti a seconda di chi l'avesse accusato, ma da lì non ci si smuoveva. Però Jean non pensava di essere nel torto, bensì credeva di aver ragione.
Come dargli torto, d'altronde?
Suo padre, il Generale Kirshtein, aveva un carattere ben peggiore ed aveva educato il figlio con severità, indottrinandolo fin dalla più tenera età, se non dalla sua stessa nascita, che gli uomini della famiglia Kirshtein dovevano portar alto il nome della famiglia arrivando ad essere esempi fra le tante persone, nullità al loro confronto. Insomma, c'era una buona ragione dietro al carattere del ragazzo, sebbene fosse un po' antipatico e irritabile di natura. 
Sacca in spalla, fisico asciutto e leggermente muscoloso, capelli di un castano chiaro, più scuri verso la radice ed un  viso virile su cui spiccavano un naso lungo e leggermente all'insù, occhi stretti ed una bocca larga contornata da due labbra fini, ma ben cesellate. 
Davanti al cancello, che sbarrava l'accesso al campo d'addestramento militare, c'erano due soldati in divisa e un casello con dentro un uomo.
Jean si diresse a grandi passi decisi verso il casello e lanciò un'occhiata di sufficienza all'uomo di mezz'età che aspettava una sua parola.
«Jean Kirshtein, Recluta», disse con fare arrogante.
L'uomo trasalì collegandolo immediatamente con il nome di suo padre; Jean sorrise compiaciuto nel vedere che lo riconoscevano come il figlio del Generale Kirshtein e l'erede della grandiosa e conosciuta famiglia di militari.
«Può entrare!», esclamò l'uomo al microfono. Jean fece per andarsene, quando l'uomo lo fermò.
Indispettito di girò, pronto a minacciarlo.
«Scusi, signor Kirshtein, ma ho bisogno di una firma qui», spiegò l'uomo porgendogli una cartellina ed una penna biro nera.
Jean scribacchiò velocemente il suo nome completo sul primo foglio e la gettò indietro all'uomo che la prese al volo, sorpreso.
Il cancello intanto era stato aperto, Jean poté entrare tranquillamente.
Fissava con ostilità chiunque lo guardasse anche se, dentro di sé, ne era compiaciuto.
Era come se quelle persone riconoscessero la sua superiorità, ma era una cosa ovvia, no?
Perfino gli animali sapevano riconoscere chi era loro superiore.
I capannoni grigi erano i depositi, mentre gli edifici erano i dormitori per le reclute ed affianco, ma non troppo, c'era l'edificio principale con gli uffici e le camere da letto dei superiori. Suo padre, ovviamente, non c'era. Lui era un Generale e soprattutto apparteneva ad un'antica famiglia, non avrebbe speso tempo ad addestrare reclute prima dei settant'anni. 
Si avviò verso il campo dove attrezzature di ogni genere erano disposte creando più percorsi per allenarsi.
Trovò un Tenente che probabilmente stava esaminando le attrezzature e si diresse verso di lui.
«Signore», lo chiamò, rivolgendosi ad un superiore di gradi come suo padre gli aveva insegnato, «sono Jean Kirshtein», si presentò facendo il saluto militare.
«Si diriga verso gli alloggi, Recluta», disse l'uomo sorridendo.
Jean annuì e si avviò verso gli edifici grigi. 
Quando entrò nelle camerate si guardò intorno schifato. Letti a castello di legno, scomodi e probabilmente poco igenici, lenzuola bianche che sarebbero state cambiate ogni due settimane...
Era scioccante e scocciante per uno che aveva dormito in una camera da letto sempre pulita ed in un letto sempre comodo e regale, come ci si aspettava da uno della sua famiglia.
Ma non importava, avrebbe conquistato il suo obiettivo e sarebbe diventato quel ragazzo per cui suo padre l'aveva cresciuto, quel Jean che aveva sempre sperato insieme a sua madre. Alcune sacche erano già sistemate e qualche ragazzo era disteso sui letti a riposare, a mettere a posto i propri indumenti, a leggere una qualche rivista ed altro. 
Si avvicinò ad un letto che gli sembrava pulito e appoggiò la sacca sul letto sopra.
Un ragazzo dai capelli neri ed con il viso pieno di lentiggini gli si avvicinò. 
«Posso prendere il letto sotto?», gli chiese. Aveva una voce calma e gentile, pacata.
Jean rispose con un verso, una specie di bofonchio per comunicare che sì, poteva farlo, ma che non gli importava poi molto finché non lo infastidiva.
«Il mio nome è Marco Bodt, è un piacere conoscerti!», esclamò il ragazzo dopo essersi sistemato, la mano tesa nel consueto gesto dello stringersi la mano fra conoscenti.
Lo fissava con grandi occhi pieni d'aspettativa, ingenui e puri, come quelli dei cuccioli.
Jean lo odiò.
Lo odiò dal primo momento, dalla prima parola. 
Odiava le persone come quel tizio, le conosceva; persone così, erano tutte inquadrate e calme, sempre pronte a scusarsi se erano in lizza, pronte a sorridere anche nei momenti più difficili, persone stupide, insomma.
Mentre fissava la mano tesa con evidente ostilità ricordò le parole del padre: “Sfrutta qualunque persona tu possa sfruttare, ne hai il diritto, Jean”.
Addolcì lo sguardo e mise su un sorriso falso, prese – non senza pentimento – la mano di quel ragazzo e la strinse vigorosamente, ma non troppo. 
«Il mio nome è Jean Kirshtein», si presentò.
Avrebbe usato quel ragazzo finché gli sarebbe potuto servire e poi l'avrebbe rilegato di nuovo al posto che gli spettava, ovviamente, senza che lui se ne accorgesse. 


Un grande ringraziamento a sara20 che ha betato questi capitoli!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Scruta dentro te stesso ***


Capitolo 2 : Scruta dentro te stesso 
 
 "Aspetta da molto?"
 "Non importa quanto si aspetta, ma chi si aspetta."
A qualcuno piace caldo
 
 

L'addestramento era iniziato già da tre mesi. In quei mesi Jean aveva conosciuto Eren, un ragazzo di origine ebrea, dai capelli nerissimi e dagli occhi azzurro-blu; c'aveva litigato quasi subito con Eren e tutt'ora gli capitava di litigare con lui.
Eren gli toglieva quel contegno che aveva acquisito con anni. Lo guardava come se davanti a lui ci fosse una persona qualunque e non l'erede dei Kirshtein. Odiava quello sguardo.
Non capiva proprio come osasse quel ragazzo far prediche sui suoi ideali da eroe aspettandosi pure che la gente lo appoggiasse.
La gente normale non voleva essere un eroe, i ragazzi normali volevano difendere il proprio paese, ma prima di tutto la propria vita. 
E molti, molti di loro, non erano entrati nell'esercito nemmeno per i loro paese, bensì per l'ambizione. Volevano far carriera e quella militare era sicuramente una delle più redditizie. 
Così, dopo uno di quegli ennesimi scontri, Jean uscì dalla mensa – luogo in cui aveva litigato con Eren – e se ne andò verso la torretta più piccola, quella che solitamente era sempre vuota.
Si mise lì, a fissare un cielo scuro pieno di stelle ed a rilassarsi per un solo momento, un piccolo relax che gli sarebbe costato caro in un'altra situazione, ad esempio se suo padre l'avesse scoperto. 
Qualche momento dopo sentì dei passi lievi e sicuri e seppe chi era ancor prima che il ragazzo entrasse chiedendogli un retorico “Posso?”.
«Che vuoi, Marco?», gli chiese Jean irritato.
Il volto dell'amico era invece sereno ed i suoi occhi scuri lo guardavano tranquilli, senza alcuna traccia di agitazione. Marco sorrise e gli si sedette accanto, ma non troppo. Sapeva che Jean preferiva mantenere le distante, ma Jean lo sapeva?
«Litighi sempre con Eren», commentò Marco senza remore. 
Jean sbuffò. «Non lo sopporto», borbottò. Era sorpreso della sua poca reticenza a parlar con Marco, ma non smise. La cosa, in un certo senso, lo faceva sentir... bene. 
«Non è vero», rispose Marco. 
Jean si girò, stupito ed arrabbiato. Come poteva saperlo? Come poteva arrogarsi il diritto di sapere se era o non era vero quello che diceva? Lui non era nessuno.
«E tu che ne sai?!», ribatté irato stringendo gli occhi.
«Ne so più di quanto pensi su di te, Jean», rispose Marco mentre abbassava lo sguardo, indeciso su quali parole usare per non sollevare ulteriormente la collera dell'altro.
«Ti sbagli», borbottò il ragazzo mentre appoggiava il volto sulle braccia incrociate. 
Poi stettero lì in silenzio, ad osservare il cielo e le sue stelle brillanti che lo impreziosivano come mille e più gioielli; la luna sembrava sorridere a quei due ragazzi che sedevano l'uno di fianco all'altro e che, probabilmente, pensavano tutt'ora alle parole che s'erano scambiati.
La risposta di Marco arrivò più tardi, prima che ritornassero nel dormitorio.
«Jean, io ho visto cosa c'è dentro di te, non prenderla a male», gli disse con un lieve sorriso imbarazzato.
In quel momento, Jean vide Marco per quel che era veramente, un ragazzo gentile, ma acuto. Quel volto pieno zeppo di lentiggini, che prima odiava, ora gli sembrava famigliare, quasi rassicurante... era il volto di un amico.
Jean aveva accettato Marco come amico, come suo primo vero amico, anche se Marco non l'avrebbe mai saputo.
Jean scosse la testa e si avvicinò a Marco, gli posò una mano sulla spalla e con un lieve sorriso gli fece cenno di muoversi. L'amico gli sorrise di rimando mentre lo guardava con quei suoi occhi scuri, prima gentili ed ingenui, poi – come per magia – acuti e intensi. 
Sdraiato sul letto, prima di addormentarsi, con le braccia sopra il cuscino come appoggio per la sua testa, Jean rifletté. 
«Ehi, Marco...», lo chiamò sussurrando piano. 
Il ragazzo ci mise un po' a rispondere. 
«Sì, Jean?», chiese con voce assonata. 
«Non sei male come amico...», disse sottovoce Jean. Marco, sdraiato sul letto di sotto, sorrideva e lui lo sapeva. 
«Grazie», rispose Marco sbadigliando.
«...per essere uno normale, ovviamente», continuò Jean.
Sentì il calcio sferrato da Marco al suo materasso e ridacchiò.
«Buonanotte, dolce Jean», lo prese un po' in giro Marco, vendicandosi una volta tanto.
Jean arrossì. «Oh, e dormi per una buona volta!», rispose l'altro goffamente.
Fu il turno di Marco di ridacchiare ed il sonno lo prese proprio mentre finiva di ridere a bassa voce.
Dopo qualche minuto di respiri intervallati e calmi, tipici di chi sta dormendo, Jean si sporse per controllare che l'altro avesse preso davvero sonno.
Marco dormiva con mezza faccia schiacciata sul cuscino, la frangetta nera sparpagliata sul cuscino bianco.
Sorrise, rassicurato e sistemandosi mormorò un «Notte, Marco», poi s'addormentò. 

«Questo, da oggi in poi, sarà il vostro nuovo istruttore!», annunciò Pixie, il loro precedente istruttore, dai baffoni ben curati e dalla capa pelata.
Il nuovo istruttore era molto più basso del vecchio e di molte delle nuove reclute, ha i capelli neri, divisi in mezzo e una strana frangetta che gli ricade sulla fronte piccola; il suo stesso viso è piccolo, così come i suoi occhi grigi e gelidi che sembrano trapassare ed esaminare ognuno di loro in un istante, come se già li conoscesse. 
Il volto, quasi totalmente inespressivo, non aiutava.
Marco, vicino a Jean, sobbalzò leggermente quando gli occhi del nuovo istruttore passarono su di lui, mentre Jean, invece, abituato agli sguardi freddi di suo padre, rispose con uno sguardo altrettanto gelido.
«Caporale Levi Ackerman», si presentò semplicemente l'uomo. Aveva una voce profonda, stranamente accordante alla sua immagine scostante e distaccata.
Un brusio si diffuse fra le reclute.
Chi, d'altronde, non conosceva QUEL Levi?
Nessuno, probabilmente.
Tutti erano a conoscenza delle sue gesta, della sua intera e grande – piccola nel senso letterale – persona.
Era un Eroe.
«Ci sono domande?», chiese Pixie sorridendo maligno.
Marco avanzò di un passo.
«Sissignore!», disse, chiedendo la parola.
Pixie gliela concesse con un cenno del capo.
«Dica, Recluta Bodt». 
Marco deglutì per schiarirsi la voce, un rivolo di sudore freddo gli comparve sulla tempia. «Perché questo cambio di istruttore, Signore? Non è cosa consueta, se posso chiederlo e dirlo, Signore». I suoi occhi neri erano fissi in quelli grigi di Levi.
Levi avanzò di un passo e poi un altro ancora, fino ad arrivare a due passi di distanza da Marco.
«Questi sono gli ordini», disse freddamente «e gli ordini non si discutono».
Quella frase scioccò le Reclute, nessuno si sarebbe mai aspettato una risposta simile da un  Eroe come lui.
Marco deglutì nuovamente ed annuì.
Levi ritornò sui suoi passi, si girò e con voce forte urlò: «Per oggi è tutto!».
Le Reclute poterono tornare nei loro spazi per poter, così, spettegolare un po' su quello che era successo. 

«Sei impazzito, Marco?», gli chiese Jean greve.
Il troppo addestramento gli aveva forse fatto perdere il senno?
«Hai visto quanto era gelido?», esclamò con occhi brillanti ed intimoriti, fissandolo «Pensavo m'avrebbe ghiacciato sul posto! Sai, come quei cubetti di ghiaccio!», rise caldamente.
Jean scosse la testa, non capiva davvero cosa passasse per la testa di Marco.
«Comunque...».
«Sì?».
«È davvero basso», affermò Jean guardando Marco negli occhi, un sorriso ironico sul volto, lo stesso che aveva l'altro.
Scoppiarono a ridere, Marco di quella sua risata allegra ed aperto, Jean di quella sua risata un po' ironica, un po' maligna e roca, ma non brutta.
«Domani vederemo di che pasta è fatto», disse Jean appoggiandosi alla finestra della torretta, diventata ormai il loro posto segreto e personale.
«Su questo ti sbagli. Abbiamo già visto com'è», rispose Marco.
Jean lo osservò e vide un luccicare in quegli occhi scuri, così, capì che Marco aveva ragione.
Anche l'ultima volta, sul fatto di comprendere sé stesso ci aveva preso. Jean sapeva davvero poco di sé e ne era venuto a conoscenza, sebbene l'avesse infastidito quella sera.
Dopo quella notte, infatti, aveva passato molto tempo a riflettere sul tipo di persona che era e non v'aveva trovato molto che gli piacesse, però non l'avrebbe, ovviamente, mai ammesso. 
Specialmente ad alta voce.
Particolarmente a Marco.
D'altronde l'avrebbe capito da solo, no?
«Spero che nessuno scopra che questo posto è vuoto e ci si può rilassare», disse Marco guardando un punto lontano dietro Jean.
«Perché?», domandò.
«È più bello se a sapere di questo segreto siamo solo noi due, no?», sussurrò.
«Forse hai ragione», rispose Jean con un sorriso stampato sul volto che non poté minimamente impedire.
Marco gli sorrise in risposta.
Avere un amico era davvero piacevole. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: Oltre l'amicizia ***


Capitolo 3 : Oltre l'amicizia 

L'amore è come l'elettricità,
tutti la usano ma nessuno sa come funziona.
Tandem, 2000

 

Da qualche tempo, quando Marco si girava e sorrideva, Jean era convinto di vedere una specie di aura luccicante circondarlo insieme a fiori, spesso margherite e poteva giurare di sentire a pelle il momento esatto in cui l'altro avrebbe pronunciato il suo nome, con la solita intonazione dolce e semplice della sua voce pacata; questa cosa lo innervosiva e lo faceva arrabbiare con intensità tali da farlo scostare immediatamente dall'amico che, non capendo, ci rimaneva male e, così, pure Jean soffriva.
Possibile che non capisse?
Ma come poteva, d'altronde, dare la colpa a Marco se neanche lui capiva bene quel suo comportamento? Quel suo arrossire? Quel suo cuore che accelerava il battito ad ogni sorriso di Marco? Poteva, per il semplice fatto che era Jean.
Fin dall'infanzia gli era stato insegnato che non era mai colpa sua, non poteva esserlo.
Lui era un membro della famiglia Kirshtein ed i membri di quella nobile famiglia non commettevano mai e poi mai, errori.
Era innaturale per loro, tutto qui.
Quindi, non era di certo colpa sua quel strano comportamento che aveva assunto, né quel suo evitare Marco.
Venne il giorno della visita dei familiari alle giovani Reclute, ma Jean sapeva che nessuno sarebbe venuto né per lui né per Marco, quindi optò per l'oziare sul letto con gli occhi chiusi, riposando il corpo per l'eventuale e quasi sicuro addestramento del giorno dopo.
Si sorprese sentendo un gran vociare di primo mattino, così si alzò e uscì dai dormitori.
Vide Eren, Armin, Reiner (soprannominato Rey), Berthold (detto Berty) e quell'idiota di Conny che parlavano circondando delle persone.
Decise di avvinarsi per vedere meglio, era curioso di sapere cosa stesse succedendo.
Marco dietro di lui lo seguiva, anch'esso interessato all'episodio che si stava svolgendo.
Quando fu lì, la vide.
Una ragazza dai capelli nerissimi, dai tratti orientali, ma delicati e dalla pelle scura, ma non troppo. Occhi neri e diretti.
Arrossì, sorprendendosi lui stesso. 
Era bellissima.
Ma chi era?
La donna si avvicinò ad Eren e gli mise una mano sul braccio con fare protettivo. 
«Mikasa! Smettila, non siamo più bambini», protestò Eren. Si chiamava Mikasa.
Ma Eren, come poteva parlarle così?
Notò le altre ragazze vicino a lei, una alta e lentigginosa, una bionda e piccola di statura, un'altra bionda e dal naso a forma di becco e dagli occhi azzurri gelidi e una ragazza dagli occhi marroni ed i lunghi capelli castano scuro raccolti in una coda di cavallo.
«Chi sono?», chiese Jean a Reiner mostrandosi indifferente quando in realtà era ansioso di sapere che rapporto avesse Mikasa con Eren.
«La sorella di Eren con le loro amiche», rispose Reiner, scostandosi un po' dal gruppo.
«Fratelli?! Non si assomigliano minimamente!», obiettò Jean.
«Da quello che so, lei è stata adottata dal padre di Eren. Sai che suo padre è un medico dell'esercito, no?», spiegò Reiner.
Jean annuì, ascoltando con un interesse che non riusciva più a mascherare... o almeno non del tutto.
«Be', a quanto pare sua madre era una centralinista dell'esercito che cooperava con i soldati durante le missioni e suo padre un maggiore. Morirono tutti e due durante un attacco terroristico, lei si salvò per miracolo. Si mormora che Eren e lei uccisero i pochi terroristi rimasti nella base dopo l'attacco. La cosa sorprendente era la loro età», finì Reiner lanciando verso Mikasa ed Eren uno sguardo pieno di rispetto.
Jean capì in quell'esatto momento che Eren e Mikasa sarebbero sempre stati legati. La cosa non gli piacque. 
Ringraziò Reiner con un cenno del capo e si avvicinò a Mikasa. 
Lui era Jean Kirshtein, non si sarebbe di certo tirato indietro. 
«Ti chiami Mikasa, vero?», le domandò. Lei annuì, fissandolo con quei suoi occhi neri, profondi come pozzi.
Jean pensò ad altri occhi neri, occhi puntati su di lui che sembravano infiniti, che sembravano risucchiarlo come buchi neri.
Gli occhi di Marco.
Si rimproverò per quel pensiero e sorrise accattivante e, nella sua mente, bellissimo. 
«Il mio nome è Jean Kirshtein. Hai dei capelli bellissimi», le disse.
Lei annuì. «Piacere di conoscerti. Grazie per il complimento», rispose seriamente. La sua voce era più dolce di quello che aveva immaginato ed era leggermente roca.
Si sentì lusingato.
Più tardi scoprì il nome delle altre.
La ragazza alta e con le lentiggini si chiamava Ymir ed a quanto pareva stava sempre con Christa, la ragazza minuta e bionda dall'aspetto delicato ed angelico.
La ragazza bassa e dai gelidi occhi azzurri si chiamava Annie mentre l'altra, quella con una lunga coda di capelli castano scuro ed un'espressione stupida dipinta sul volto, era Sasha; quell'espressione stupida gli ricordò Conny.
Forse quei due starebbero bene, insieme, pensò Jean, ma anche pensandolo non è che gli interessasse poi molto. 
Si girò e trovò Marco che lo guardava, quando i loro occhi si incrociarono lui sorrise.
Un sorriso complicato, fragile ed intenso.
Il cuore di Jean sobbalzò prima di battere furiosamente nel suo petto mentre arrossiva violentemente.
Oh, merda, pensò, consapevole finalmente di quel qualcosa che aveva cercato di evitare.
Quel qualcosa su cui aveva ostinatamente chiuso gli occhi.
Distolse lo sguardo, imbarazzato e confuso.
Lui, un membro della famiglia Kirshtein, provava quei sentimenti verso una persona che suo padre non avrebbe mai considerato all'altezza della famiglia e, per di più, maschio.
L'unico pensiero che gli folgorò in mente in quel momento fu: adesso sono fottuto.

Arrivò presto la sera.
Mikasa e le sue amiche erano andate via ore prima. La ragazza dai scuri capelli aveva lanciato ad Eren uno sguardo esitante e pieno di premura a cui il ragazzo aveva risposto annuendo, poi lei si era voltata e se n'era andata, sebbene a malincuore.
Jean, ora, fissava il vuoto pensando ai quei capelli neri ed a quegli occhi penetranti, simili a quelli di chi evitava.
«Ti piace quella ragazza, Jean?», domandò Marco con un sussurro.
«Sì, è molto carina, non trovi?», rispose Jean, esitando solo per un istante. «Anche se è imparentata con Jaeger», sbuffò.
Il silenzio di Marco era chiaro e scese come un muro fra loro due. Jean si girò su un lato e sospirò. 
«Domani...», iniziò Jean.
«Sì?», chiese Marco con un bisbiglio.
«Andiamo nel nostro solito posto, dopo l'addestramento con il Caporale Levi», disse.
Marco non rispose, né Jean si sporse verso di lui, eppure sapeva che il quel momento il moro stava sorridendo, un sorriso che, ne era certo, gli avrebbe fatto sobbalzare il cuore.


Il grigio e freddo sguardo del Caporale Ackerman li seguiva costantemente, senza lasciarli mai. Le Reclute, sotto quell'esame attento e feroce, si sentivano come prede braccate da una fiera, elegante e superiore a loro perfino nel cacciare.  
Il Caporale Ackerman poteva essere pur basso di statura, ma aveva una gran fama che nessuno aveva mai messo in dubbio e Jean aveva capito subito il perché.
Nonostante i suoi modi diretti, mascherati con eleganza naturale e intelligenza, Levi Ackerman era una persona molto prudente e riflessiva. I suoi occhi esaminavano ogni cosa attentamente, diffidando di ognuno, di ogni singolo elemento; possedeva inoltre un carattere ambiguo e scostante, sembrava sempre infastidito od incazzato.
E spesso, troppo spesso, i suoi occhi grigi brillavano in cerca di sangue, una smania che metteva i brividi alle povere Reclute sotto la sua supervisione.
Quel mattino, Jean correva inseguito da quegli occhi attenti e vigili.
«Buone capacità fisiche», commentò Levi, ma Jean sapeva che non era un complimento, piuttosto un commento positivo nei suoi confronti, e basta, finita lì. 
Non dovevi aspettarti niente di più di quel che mostrava, perché Levi portava su di sé le speranze di troppi.
«Cooperativo e bravo nel conquistare la fiducia di altri, un buon soldato», commentò Levi quando toccò a Marco.
Lui deglutì, davanti al Caporale, intimorito da quel suo solito cipiglio. 
Levi lo ignorò e passò ad altri.

Jean si precipitò alla torretta, certo che Marco lo stava già aspettando là.
Quando varcò la soglia, infatti, lo vide: era lì, seduto sulla cornice della finestra, la testa rivolta verso destra e leggermente verso l'altro, gli occhi scuri puntanti su qualcosa e non su di lui.
Calmò il fiatone e si diede un contegno, poi si schiarì la voce.
Marco, che fino a pochi secondi prima era perso nei suoi pensieri, si riscosse e puntò i suoi occhi neri in quelli di Jean.
Sorrise, di quel suo sorriso sincero, il volto leggermente in controluce, i capelli scuri, gli occhi neri fissi su Jean, le guance ricoperte di lentiggini lievemente arrossate.
Era bellissimo.
Si sentì d'un tratto rassicurato, tranquillo, in pace.
Solo stando lì, in quel momento, solo guardando quel sorriso chiedendosi se era giusto ricambiarlo o meno.
S'avvicinò a Marco, quasi correndo e senza che se ne rendesse conto, quasi, le sue labbra erano su quelle di lui, la sua mano stringeva a sé quella di Marco ed i loro corpi erano l'uno contro l'altro, vicini come mai prima.
Le loro labbra a contatto, ruvide e morbide, fini e piene.
Jean si sentì completo, poi aprì gli occhi e si staccò, allontanandosi da Marco che lo guardava, senza dir niente.
Silenzio.
«Aaaah!», urlò Jean accovacciandosi e mettendosi le mani sulla testa, quell'insopportabile silenzio fra loro lo esasperava.
Poi la risata di Marco lo ruppe.
Quella risata calda, leggera, roca e timida.
«Mi hai sorpreso!», esclamò tra una risata e l'altra «Non me l'aspettavo proprio questo tuo assalto!», continuò.
Jean arrossì. 
«Vuoi dirmi qualcosa, Jean?», gli domandò Marco fissandolo. Di nuovo quello sguardo acuto e serio, un sorrisetto sulle labbra.
«Tu...», disse «...mi piaci», mormorò pianissimo Jean. «Forse», aggiunse.
«Non ho sentito bene», annunciò Marco, prendendolo in giro volutamente.
«Cos-?! Tu-», Jean diventò rosso in volto, livido d'imbarazzo. «Hai sentito benissimo!», lo accusò.
«Invece no», insistette Marco, ridacchiando.
Jean si tirò su e si grattò la testa, decidendo il da farsi. 
Distolse lo sguardo da Marco ed arrossendo ancora un po', mormorò: «Tu mi piaci, credo... ecco».
Non si aspettava una risposta, se non un rifiuto, ma Marco lo sorprese come suo solito.
«Anche tu mi piaci, Jean», rispose Marco.
Jean si sbalordì. Poi ghignò.
«Era ovvio», rispose. Marco rise mentre arrossiva leggermente.


«A causa degli attacchi terroristici avvenuti in questa nazione, il Generale ha dato l'ordine di mobilitare le reclute, facendole scendere in campo come risorsa speciale in una missione altrettanto speciale e delicata», spiegò Pixie «Domani partiremo per il campo di battaglia e sarà diverso dall'addestramento. Alcuni di voi potrebbero morire, lo sapete?», disse, guardandoli ad uno ad uno negli occhi. Nessuno distolse lo sguardo.
«Bene, domani partiremo per la prima linea», finì. 
«Capito?».
Jean guardò Marco e Marco guardò Jean, poi distolsero i loro sguardi, slegandoli dall'intreccio che aveva appena intessuto con essi.
«Sissignore!», rispose le Reclute in coro.
Il destino li voleva lì, a combattere per la patria.
D'altronde, erano gli ordini e gli ordini andavano rispettati.
Jean era preoccupato, preoccupato per la vita di Marco più che per la sua. 
Dopotutto, la sua vita gli appariva di così poco valore rispetto a quella dell'altro.
No, non doveva lasciarsi andare ai pensieri cupi, alla paura, alla debolezza.
Doveva essere forte ed aver fiducia in Marco.
Andò a preparare le sue cose con un brutto presentimento.


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Capitolo 4
*** Capitolo 4: Camminare ***


Capitolo 4: Camminare 
 
Un dolore autentico, indiscutibile, è capace di rendere talvolta serio e forte,
sia pure per poco tempo, anche un uomo fenomenalmente leggero;
non solo, ma per un dolore vero, sincero,
anche gli imbecilli son diventati qualche volta intelligenti,
pure, ben inteso, per qualche tempo.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
 
Il mattino era arrivato presto per loro; quando l'alba era iniziata tutti erano già svegli, veramente in pochi erano riusciti a dormire e Jean e Marco non erano tra loro. Avevano passato la notte senza parlare, ad ascoltare però il respiro dell'altro e degli altri, pensando alla loro vita, che avrebbero rischiato durante la missione ed a quella dell'altro. 
Marco, ad un certo punto, si era girato ed aveva leggermente sospirato, un sospiro pesante, esalato a fatica da polmoni che si sentivano oppressi, da un ragazzo giovane che iniziava ad avere paura, ma non per lui stesso – sebbene ne provasse anche per lui – ma per Jean, il ragazzo che amava.
Anche per Jean era stata difficile la notte, mille e più pensieri avevano riempito la sua mente, rapendolo dalle braccia rassicuranti di un sonno senza sogni. La porta si aprì ed una figura si stagliò in controluce, essa in quel momento apparve enorme sebbene il suo proprietario non lo fosse altrettanto: era il Caporale Levi Ackerman.
Levi aveva la sua solita espressione dura, i taglienti occhi grigio-azzurri si puntarono subito su tutte le reclute che si sbrigarono a farsi trovare pronte.
«Buongiorno, Reclute», esordì, ma la sua espressione la diceva lunga. Odiava i convenevoli e la cosa traspariva. Non ne era proprio il tipo.
Jean ancora una volta si domandò come poteva essere che l'Eroe fosse una persona dal carattere così cupo e ritroso, ma dall'altra parte lo ammirava. Sapeva che Levi era un grande soldato, ma questo non lo rassicurava. Se non fosse stato per il padre e per la sua stirpe, avrebbe intrapreso la carriera militare?, si domandò.
«Fra due minuti, vi voglio tutti sul camion», li informò e se ne andò dopo aver lanciato un'ultima occhiata penetrante e scocciata.
«È formidabile», commentò Marco, i suoi occhi scuri brillavano d'ammirazione.
«Se lo dici tu», rispose Jean, ma in realtà era d'accordo. 
Si avviarono insieme a Conny, Reiner, Berthold e gli altri e salirono sul camion come gli era stato ordinato. Ora che stavano per partire per la missione si sentivano ancora più agitati, così il silenzio calò fra le Reclute. Il Caporale, seduto con loro, sembrò apprezzare più quel silenzio indotto dalla paura e dall'aspettativa che il solito mormorio ed il suo viso si fece via via più calmo. Jean, osservandolo, capì: il Caporale Levi si stava preparando alla battaglia.
Si chiese perché era su quel maledetto camion, perché lui e Marco stavano per essere catapultati in una missione pericolosa dove avrebbero rischiato le loro vite, le loro stramaledette vite... E per cosa? Per difendere la patria? Non era così patriottico, lui. Forse Marco, ma lui non lo era mai stato. 
Per il buon nome della famiglia? Era forse stupido? 
Per suo padre? Era diventato idiota tutto d'un tratto o la cosa andava avanti da una vita?
Per la prima volta in diciannove anni si sentì a disagio con le sue idee. L'unica cosa fissa nella sua vita, mentre cambiava continuamente idea in tutto tranne in quello, era stato proprio il suo futuro, la sua idea per il suo futuro. 
Ricordava quando andava incontro al padre, ancora bambino, che ritornava dopo mesi spesi per l'esercito e gli si avvicinava, sorridente ed il padre gli accarezzava la testa di malavoglia e gli ripeteva, con sguardo severo, che un giorno anche lui sarebbe diventato un soldato.
E Jean? Quel piccolo lui era fiero di poter diventare come il padre che ammirava e temeva, ma allo stesso tempo si chiedeva perché suo padre non lo coccolava come i padri coccolavano i suoi compagni di scuola, perché non lo prendeva mai in braccio né lo faceva girare in aria. 
Perché diavolo era lì? Non riusciva a trovare una risposta. 
In quel momento iniziò a piovere e il rumore delle gocce lo distolse dai suoi pensieri, girò il volto ed incontrò gli occhi scuri di Marco che lo guardavano determinati. Ricambiò lo sguardo e decise. Era ora di combattere, di dare tutto sé stesso per sopravvivere, non era l'ora per i ripensamenti. 
Arrivarono alla piccola base cinque ore più tardi, vicini al confine di circa venti minuti e scesero dal camion compatti ed infreddoliti. 
Levi scese con espressione ancora più cupa del solito, i capelli del caporale, in assenza di un cappuccio, si erano bagnati tutti e la frangetta, solitamente alta e stravagante, gli si era appiccicata alla fronte. Se il Caporale non avesse avuto un carattere tanto chiuso e consono all'ira fredda e letale, tutte le Reclute avrebbero riso e scherzato con lui su quel taglio di capelli, ma purtroppo non era così. Eren scese dal camion e vedendo la frangetta del Caporale si lasciò scappare un “pfft” che gli costò un'occhiata molto significativa da parte di Levi. 
«Quell'occhiata significa che se ti vede sul campo mezzo morto ti lascia lì», bisbigliò Reiner. 
«Se non ti ammazza direttamente lui, prima», aggiunse Berthold, stando al gioco. 
Jean si ritrovò a sorridere leggermente di quella prospettiva. Non voleva la morte di Eren e non lo odiava nemmeno così tanto, però un bel pestaggio su Eren da parte di uno violento come Levi... no, non gli sarebbe dispiaciuto per niente.
Non era odio quello che provava nei confronti di Eren Jaeger, bensì quella semplice antipatia che ogni persona prova nei confronti di quella dalle idee e dai valori contrari ai propri. Non era nemmeno colpa sua, era semplicemente una cosa umana.
«Non rilassatevi», ingiunse Levi, nemmeno a voce troppo alta, con cupezza. Bastò quella semplice frase per far ritornare tutti sull'attenti. 
«Jean», lo chiamò Marco, vicino a lui, appoggiando la mano sulla sua spalla.
«Uhm?», chiese, le labbra strette in una morsa ferrea.
«Andiamo», disse, sorridendo un poco, il suo volto, ricoperto di lentiggini, sembrava più rilassato di quelli di molti altri. 


Erano a pochi metri di distanza dal campo, uno accanto all'altro, un piccolo gruppo di soldati; davanti a loro, il Caporale Levi li guardava con disprezzo senza però emettere un solo suono. Non era proprio e vero disprezzo quello che Jean vedeva nel suo sguardo, ma una sorta di rassegnato, altezzoso e sarcastico, quasi, fastidio. 
Jean sapeva che, da un certo punto di vista, Levi aveva ragione. Erano Reclute, uomini addestrati alla guerra, ma non questo in realtà non li portava su un piano superiore rispetto agli uomini di tutti i giorni, ancora intatti e ingenui. Erano così le Reclute, erano uomini stupidi agli occhi di Levi, uomini che stavano andando a combattere – a rischiare la loro vita – per ideali, per fama, per soldi. Tre cose, tre cose che Levi non poteva sopportare. Jean lo sapeva, non era della sua stessa idea, ma grazie alla sua influente famiglia aveva iniziato a capire i pensieri degli altri, anche di quelli meno potenti, di quei sudici e mediocri uomini. 
Avrebbe accettato questa sua abilità? Non proprio, ma era consapevole che prima o poi l'avrebbe usata. Si era chiesto perché riuscisse a capire così bene i sentimenti dei mediocri.
Certo, lui stesso era stato un mediocre, una persona stolta ed incapace di superare la vetta, ma grazie allo stato della sua famiglia ed al suo addestramento era riuscito a superare la soglia della mediocrità. O almeno era questo quello di cui era convinto. 
«Entreremo nella base in una missione folle e quasi suicida. Il nostro compito speciale è recuperare una dottoressa». A “dottoressa” un lampo passò in negli occhi grigi del Caporale e le sue labbra, anche solo per un secondo, sembrarono più imbronciate di prima. «La dottoressa Hanji Zoe, specializzata nella sperimentazione», specificò Levi, mostrando una foto che ritraeva una donna dai capelli scuri, dal viso largo ed un naso altrettanto largo, occhi scuri quanto i capelli ed occhiali neri, posati maldestramente sul naso. 
La conosce, capì Jean in uno dei suoi sprazzi di arguzia. 
«Uccidete a vista qualsiasi persona, tranne lei. Capito, Reclute?», disse duramente Levi.
Tutti annuirono e poi la missione iniziò. 


Prima di entrare nella struttura, si erano divisi in gruppi e Marco era stato smistato insieme ad altri. Uno sguardo da parte di lui gli aveva comunicato che tutto andava bene, che non importava, ma Jean ricordava ancora il brutto presentimento che aveva avuto il giorno prima.
Entrarono, stupendosi della facilità con cui erano riusciti ad introdursi nell'edificio. Ovviamente non erano passati per la porta sorvegliata, ma tramite un passaggio segreto e poi si erano arrampicati sul muro fino ad arrivare ai condotti d'aria, larghi quanto bastava per far entrare un qualsiasi uomo. Reiner ci stava un po' stretto con le spalle, ma riuscì sorprendentemente a passare anche lui. 
Poi i gruppi si separarono e Jean vide Marco lanciargli uno sguardo prima di andarsene con il suo. 
Si concentrò. Non era il momento di pensare a Marco, non era proprio il momento. Doveva calmarsi, concentrarsi, affinare i propri sensi ed il proprio corpo tralasciando qualsiasi altra opzione non necessaria in quegli attimi.
Appena scesero furono circondati da terroristi, uomini con maschere a coprirgli il volto, probabilmente dalla pelle scura. Sparò, senza esitazione. Sparò. Non voleva morire, non voleva. Corse, sparò, sopravvivere era diventato il suo unico scopo.
Quando si ritrovò davanti la dottoressa Hanji Zoe si sorprese. 
«Dottoressa, mi segua!», ringhiò. Poi avvisò Reiner e Berthold d'averla trovata. I tre iniziarono ad incamminarsi verso l'uscita, sparando a manetta e con la dottoressa che li seguiva con aria risoluta. 
Trovarono il gruppo capitanato da Levi Ackerman e pure quello di Eren ed Armin e ripulirono l'area dai terroristi a poco a poco. 
Tre ore e mezza dopo la base era stata ripulita.
Jean poté staccarsi dal gruppo e cercò Marco, ma non lo vide. 
Quando si girò, vide una barella con un ragazzo, ancora vivo, sopra. Quel ragazzo non aveva le gambe. Quel ragazzo era Marco. 


Jean si sentì mancare. Quel ragazzo nella barella era Marco. Si avvicinò, chiamando il suo nome. Uno di quelli che tenevano la barella sollevata lo guardò.
«Ha perso conoscenza, non può risponderti. Ha salvato un suo compagno da una pallottola, ma è finito su una bomba...», disse con ammirazione e pietà.
Jean si fermò, il cuore batteva forte nel suo petto, tanto forte da sembrare per star esplodere e sentiva il suo rumore nelle orecchie. Era confuso, ferito, consapevole. 
Non pianse e le lacrime non rigarono il suo volto, ma se ne stette lì, scioccato, impietrito, finito.
«Se la caverà, credo», disse l'uomo. «Potrai venire a trovarlo all'ospedale. Per ora le prime medicazioni sono state fatte», lo informò e poi se ne andarono. 
Jean rimase lì. Fermo.
Non si mosse per molto tempo e non proferì parola; il suo petto s'abbassa e s'alzava leggermente, segno che respirava, che era ancora vivo, sebbene i suoi occhi ambrati fossero spenti e non vedessero il mondo, le persone intorno a lui.
Marco non avrebbe più potuto correre né camminare con quel suo passo gentile. Lui non avrebbe potuto muoversi senza una sedia a rotelle. Non avrebbe potuto muovere le dita dei piedi mentre provava piacere, né ballare sotto la luna. E non avrebbe più potuto battere il piede a terra nei momenti di noia né piegare leggermente il ginocchio verso l'interno mentre pensava. Quei piccoli dettagli che aveva imparato, quei dettagli che aveva amato, quelle piccole cose che lui ora non avrebbe più potuto fare. La mente di Jean era piena di quei pensieri e di tristezza, profonda tristezza e sconvolgimento. 
Quando riuscì a riprendersi era seduto su una sedia nella camera della base. Non ricordava nulla, non ricordava il ritorno, né se aveva mangiato o bevuto dalla battaglia. 
Nei suoi occhi ambrati c'erano solo mille e più immagini di Marco, ma quella che odiava di più era quella più vivida nella sua mente in quel momento: Marco svenuto in una barella senza gambe.
Si alzò di scatto ed uscì dal dormitorio, iniziò a correre ed ad un certo punto si ritrovò per terra. Lì pianse ed urlò tutto il suo dolore, urlò il nome di Marco alla luna maledicendo quella loro scelta. 

Dopo aver pianto pensò tutta la notte a Marco, a quella loro scelta, a sé stesso. Superò lentamente lo shock e prese una sua decisione. 
I suoi occhi ambrati brillarono pieni di volontà, la volontà di non arrendersi, di portare le cose a compimento a modo suo. L'avrebbe fatto e non se ne sarebbe pentito. Aveva capito, o almeno pensava di aver capito e non si sarebbe arreso, mai più. 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5: Non si torna indietro ***


Capitolo 5: Non si torna indietro 
 

L'Irreparabile rode col suo dente maledetto 
la nostra anima, pietoso monumento,
e spesso attacca, come la termite,
la struttura dal basamento.
L'Irreparabile rode col suo dente maledetto!
Charles Baudelaire, L'irreparabile


«Qual è il tuo nome, Recluta?», domandò l'ufficiale seduto alla scrivania davanti a lui.
«Jean Kirshtein, Signore.», rispose con tranquillità Jean, sfidandolo con lo sguardo, quasi. Era pronto alla reazione dell'ufficiale nel sentire il suo cognome che, infatti, non arrivò a tardare; l'Ufficiale alzò un sopracciglio e lo fissò, cercando di nascondere quella breve confusione derivata dalla consapevolezza. 
«È il figlio del Generale Kirshtein?», chiese infatti l'uomo.
Jean sorrise ed annuì.
«Suo padre è d'accordo con questa scelta?», insistette l'ufficiale.
«Non m'importa se è d'accordo o meno, Signore. Questa è una mia scelta», rispose Jean, storcendo la bocca in un smorfia. 
Che diritto aveva suo padre di decidere la sua vita? Questa era stata una delle domande che si era posto durante la notte, e la risposta era stata chiara, tanto da sorprenderlo: Nessuno.
«Perché vuole lasciare l'Esercito?», domandò l'ufficiale a malincuore, mentre pensava alle possibile conseguenze nella sua carriera. E tutto per colpa di quel ragazzo e della sua famiglia. Sospirò, sconsolato. D'altro canto, benché rimproverasse in cuor suo la scelta di Jean, dall'altra parte l'ammirava per il coraggio di essa; non doveva esser stato facile crescere in una famiglia simile.
Jean lesse quei pensieri nella mente dell'ufficiale, come a capire l'empatia dell'uomo e gli sorrise, sprezzante come suo solito, un sorriso quasi affascinante per la sua forza ed arroganza. 
«Penso di aver fatto il mio dovere e, sinceramente, non credo di essere tagliato per fare il soldato, Signore. Quindi richiedo il congedo», ribatté con decisione. E con questo, no, da prima ancora, da quando aveva fatto il primo passo fuori dal dormitorio quel giorno, aveva intrapreso la strada verso l'indipendenza. 
L'ufficiale annuì.
«Le faremo sapere, fra due settimane dovrebbe sapere il responso...», lo informò l'uomo, «Nel frattempo sarà messo a riposo – pagato –  e potrà andare in città», finì.
Jean fece il saluto, s'inchinò in segno di rispetto, ed uscì, senza riuscire a nascondere il lieve sorriso che gli si era disegnato sulle fini labbra.

Jean stava mettendo i suoi vestiti in valigia, pronto per trasferirsi in un piccolo appartamento in città, quando la porta fu spalancata con violenza; sulla soglia, in controluce, si stagliò un'alta figura di uomo: il Generale Kirshtein.
L'uomo avanzò di un passo e scandagliò la stanza con lo sguardo, finché non individuò quel che cercava: suo figlio Jean che lo guardava negli occhi, per nulla spaventato. In due passi, fu di fronte al figlio, con la sua divisa verde piena di lastrine che indicava il suo grado militare, alto più di lui di una decina di centimetri, viso spigoloso, capelli color stoppa ed affilati occhi marroni su un volto pieno di rughe di espressione che gli davano una traccia di acidità e durezza, questo era suo padre. 
Jean lo fissò con decisi occhi ambrati, ereditati dalla madre, la valigia finita aperta sul letto che doveva solo esser chiusa. 
«È la verità, Jean?», iniziò suo padre con tono severo, «È vero che hai chiesto il congedo?»
«Sì, Signore», rispose Jean.
«Tu... Come puoi?», tuonò il Generale con un'espressione tutt'altro che benevola. Tutte le Reclute presenti nel dormitorio seguivano con interesse quel confronto, stando ben attenti però a non intromettersi fra i due vista l'aria tesa che correva fra loro.
«Voglio decidere la mia strada, Signore», disse Jean, semplicemente.
«La tua strada l'hai già decisa: l'Esercito. Ricordi? Quindi perché ora vorresti cambiare questa scelta?», domandò l'uomo, poi affilò lo sguardo, «Non sarà mica per quel ragazzo, vero? Quel tuo “amico”», continuò. Jean aprì la bocca per poi ridere amaramente, era ovvio che suo padre l'avesse fatto seguire! Il Generale Kirshtein non avrebbe mai permesso che il suo Erede si divertisse con gente che non era del suo calibro.
«Perché non l'ho scelta io quella strada, ma tu. Anzi, no, l'ha scelta la nostra famiglia ed io non voglio intraprenderla. Voglio decidere io della mia vita», rispose Jean fissandolo con sfida. «E per quanto riguarda Marco, questo è il suo nome, è un mio amico e questo non cambierà» precisò.
«Pensi che te lo lascerò fare?», mormorò a denti stretti suo padre, avvicinandosi. 
«Se interverrai mi appellerò a chi è più in alto di lei, Signore», ringhiò a bassa voce Jean, freddamente. 
«Ho capito, è per lui, è per il tuo “amico” che vuoi lasciare la tua strada, bé, non te lo permetterò!», affermò suo padre, «È in ospedale ora, giusto? Lo contatterò più tardi per sapere quanto vuole per lasciarti in pace», disse, come se stesse parlando di quale cibo comprare per la spesa. 
Jean sorrise. 
«Tu sei un uomo arido», gli disse. «Provaci, e vedrai la risposta di Marco, ma», continuò con foga, lo sguardo affilato e duro così simile a quello del padre, «ricorda che se gli farai qualcosa di male, te la farò pagare»
«Sei un disonore per la famiglia Kirshtein!», tuonò suo padre.
Jean si limitò a richiudere la valigia, a prenderla, ed a oltrepassarlo, lasciandosi dietro i rimpianti e superando quel suo io inutile.
«Arrivederci, Signore», mormorò, poi, un passo dopo l'altro, se ne andò; valigia in mano, testa alta e sguardo deciso. Mai più avrebbe rischiato la vita per qualcosa in cui non credeva, mai più si sarebbe lasciato traviare da altri: ora gli ideali erano suoi, la vita era sua e avrebbe fatto di tutto per viverla come voleva, solo allora avrebbe potuto essere felice del suo essere Jean. 
Quando oltrepassò la cancellata, si sentì stranamente libero, maturo – che sciocchezza, avrebbe pensato poi – e sé stesso... O almeno stava percorrendo la strada per diventare sé stesso. Aveva preso la sua scelta, e nonostante fosse arrivato ad essa per Marco, era sua e solo lui ne era responsabile.

La città era piccola, ma ben organizzata; le strade erano lastricate ed asfaltate bene, qua e la sul marciapiede erano impiantati degli alberi nel mezzo di spazi di terra quadrati e, sempre in giro, c'erano fiori. Molti balconi e terrazze avevano piante, verdi o fiorite, che decoravano quelle case dai muri colorati o bianchi, nessuna dall'aspetto mal curato. 
Era una bella e piccola città e Jean l'apprezzò. 
Era differente dalle grandi città a cui era abituato, però, ne era sicuro, si sarebbe ambientato benissimo. Potrei pure viverci in un posto simile, pensò. Insieme a Marco...
L'appartamento che aveva affittato era vicino all'ospedale, da quanto sapeva, e si sorprese nel trovare una casa dai muri bianchi e dalla porta blu con un grosso leone il cui naso era il campanello; lo schiacciò senza esitazione ed una donna gli aprì la porta. 
Era la classica nonna della porta accanto, premurosa e dall'aspetto bonario, sembrava di certo uscita da un film americano degli anni '50.
«Oh, povero caro!», esclamò vedendolo, cosa che fece aggrottare ancora di più le sue sopracciglia, «Tu devi essere Jean, vero?», si spostò con un sorriso. «Entra, su».
Jean entrò e si ritrovò in un ambiente rustico per i suoi standard, ma normale ed accogliente. In un certo senso le scelte mobiliari e dei ninnoli sopra di essi erano azzeccate per quell'ambiente per chi ci viveva, non gli dispiaceva troppo alla fin fine trovarsi in una casa simile. 
La donna andò in cucina e ne uscì con un vassoio con sopra del tè e svariati dolcetti. 
«Su, mangia caro, sei così magro!», esclamò la donna, invitandolo a sedersi nel salottino con un cenno del capo, indirizzandolo.
Jean la seguì, valigia alla mano, e si ritrovò in un salotto piccolo in cui campeggiava un divano verde, due poltrone marroni, una televisione vicino, un piccolo tavolo nel mezzo del cerchio che costituivano i vari mobili ed un caminetto verso il fondo della stanza. 
Gli venne da ridere, ma si trattenne. Dove diavolo sono finito?! Pensò, pieno di simpatia per quell'anziana donna tutta chiesa e catechismo – sì, perché non aveva potuto ignorare il crocifisso attaccato alla parete in fondo. 
Bevve il tè velocemente e rifiutò di mangiare, sebbene la donna insistesse tanto, specialmente rimproverandolo per quel suo fisico ossuto, ma muscoloso; probabilmente il suo non essere quasi per niente in carne la impensieriva. 
«Grazie per il tè, Signora», disse educato, «Può indicarmi la mia stanza? Ho da fare», la informò. Si sentiva terribilmente a disagio, comunque. Non era abituato a persone così premurose nei suoi confronti.
La signora gli sorrise, pensando forse che era stanco dopo il viaggio che aveva fatto per arrivare nella loro cittadina, e quindi acconsentì a mostrargli la stanza che si trovava al piano superiore, a sinistra. Quando Jean entrò nella sua stanza si ritrovò un'ampia camera che avrebbe potuto ospitare benissimo due persone, dal letto ampio, un grande armadio ed una scrivania. 
«Tutto il piano superiore è tuo, come d'accordi», gli disse la signora e Jean la guardò stupefatto, visto che quella era solo una delle quattro stanze del piano superiore, «Io vivo da sola quindi non ci saranno problemi», finì la donna con un sorriso.
Jean non poté evitare di abbracciarla. 
«La ringrazio!», disse. Per poi staccarsi arrossendo, mortificato; la donna rise di quella sua goffaggine, sembrava aver già capito che tipo di ragazzo fosse Jean e sembrava apprezzare quella sincerità che animava il suo animo. Con un sorriso gli mise una mano sulla spalla, quasi a confortarlo, gli porse la chiave e scese; almeno casa sua sarebbe diventata più viva. 

Jean scoprì che per arrivare all'ospedale doveva prima percorrere un parco, un parco che in quella determinata stagione era verde, ma che preso sarebbe diventato rosso a causa delle foglie e della stagione autunnale imminente. 
Camminò per quel parco pensando a quanto sarebbe stato bello stare con Marco lì, in una calma che non conoscevano o che, forse, avevano dimenticalo, lui da molto tempo. 
Arrivò all'ospedale, pulito e non troppo piccolo, e chiese al banco d'informazione il numero della stanza di Marco Bodt. L'infermiera gli disse il numero e lo guardò con uno sguardo triste che lo fece pensare. 
La porta bianca della stanza di Marco gli sembrò un enorme ostacolo ed iniziò a sudare, preoccupandosi di questo o quello, di come l'avrebbe visto, e chiedendosi se si fosse già ripreso. Quando mise la mano sul pomello della porta fu chiamato improvvisamente da una voce sconosciuta che lo fece sobbalzare, trascinandolo via da una certa concentrazione che aveva richiamato per superare la soglia di quella stanza. Si girò e si ritrovò davanti un uomo in camice bianco, un dottore. 
«È un suo parente?», domandò l'uomo. Jean scosse la testa. 
«È un suo... amico?», riprovò il dottore, Jean annuì, le parole bloccate in gola ed uno sguardo vicino alla supplica.
«Non si è ancora ripreso, ma presto si riprenderà e...», il dottore guardò verso il basso, «sarà scioccato», finì.
Jean aspettò che continuasse, certo che ci fossero altre cose da sentire. 
«Dovrà stargli accanto in questa situazione delicata», disse solo questo il medico e se ne andò, lasciandolo lì davanti a quella porta bianca. 
Girò il pomello dopo qualche secondo, deglutendo, e varcò la soglia; Marco era disteso in un letto bianco, un camice azzurro sotto le lenzuola semi-trasparenti. Stava dormendo, probabilmente sedato dopo le operazioni subite; di fianco a lui c'era una sedia, che Jean si sbrigò ad occupare, prendendo la sua mano inerte e stringendola come se volesse sostenerlo. 
Il volto pieno di lentiggini era sorprendentemente bianco, fin troppo considerando la carnagione leggermente più scura di Marco, tanto che le lentiggini sembravano molto più evidenti. Quel bianco impensieriva Jean, scioccato dalla vista di quel volto smunto e tormentato; non sembrava più il suo spensierato, ma serio, Marco. 
«Marco...», mormorò, continuando a stringergli la mano. «Starò accanto a te finché non ti sveglierai, Marco», pronunciò quelle parole ad un tono di voce così basso che si sarebbero potute scambiare per il fruscio delle foglie.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6: Ti Amo ***


Capitolo 6: Ti Amo


Il vero amore è quando il tuo cuore e la tua mente dicono la stessa cosa.
Leanna Bartram


Jean si svegliò quando una mano gli toccò la spalla, con leggerezza, scrollandolo. Alzò il volto e vide una donna a lui sconosciuta che lo guardava con una dolce tristezza, come se lo compatisse ed ammirasse allo stesso tempo, e probabilmente era così. Per quell'infermiera lui non era altro che uno dei tanti amici, parenti, legami, di quei pazienti malati o feriti, che nel suo dolce cuore compativa e che era felice di curare, di poter essere d'aiuto L'infermiera certamente non immaginava che quei suoi pensieri fossero un po' ipocriti e stantii, che profumassero come quei vecchi vestiti ingialliti, mangiati dalle tarme. 
Jean scosse la testa, no, quei pensieri acidi era dovuti solo allo stress ed alla stanchezza di quel giorno, un giorno terribilmente lungo. Annuì all'infermiera e si alzò, ma non prima d'aver stretto la mano di Marco ancora una volta.
«Tornerò domani, Marco», sussurrò e poi, un passo dopo l'altro, uscì dalla stanza e successivamente dall'ospedale, dirigendosi verso il suo nuovo appartamento.
Entrato in casa fu accolto dalla signora Bossard che gli offrì tè e pasticcini, che lui rifiutò nuovamente con garbo. La donna, capendo la stanchezza che grava sulle giovani spalle di Jean, lo lasciò andare dopo qualche raccomandazione.
Arrivato in camera da letto, si tolse il cappotto leggero e lo posò sull'appendi abiti, si tolse le scarpe da ginnastica, lanciò i jeans con le gambe, dopo aver tolto la cintura e si sfilò la maglietta velocemente, rimanendo così in boxer.
Si lanciò sul letto e con un sospirò alzò la mano davanti a lui, guardandola, chiedendosi cosa avrebbe potuto afferrare con quelle sue mani magre e sgraziate dalle dita lunghe e scheletriche. Cosa avrebbe potuto fare con esse?
Quella notte la luce della luna, lieve, filtrò nella camera attraverso le tendine leggere, illuminando il viso di Jean, ancora sveglio, che rifletteva su cosa fare il giorno dopo. Alla fine si addormentò e le sue sopracciglia, sempre aggrottate quando era sveglio, si poterono distendere sulla sua ampia fronte e perfino il rude volto di Jean sembrò dolce agli occhi della notte. 


Il giorno dopo si svegliò sottosopra, un cuscino era finito a terra, non si sapeva come, e lui era messo in una posa bizzarra, quasi sottosopra, con una leggera bava che si era solidificata vicino alle sue labbra. Aveva dormito profondamente, come non gli succedeva da molto tempo e si scoprì più riposato di quanto s'aspettasse; forse quel faccia-a-faccia con il padre era servito veramente a qualcosa. Si preparò velocemente, deciso ad andare in ospedale di prima mattina, e scese la scale con vigore.
«Buongiorno, Jean caro!», lo salutò la signora Bossard, vestita di un bellissimo abito azzurro a fiori bianchi, molto anni '50. La donna anziana era, infatti, il tipico esempio di nonna premurosa e gentile, educata e signorile. Era così diversa e calda dall'ambiente in cui era cresciuto, era simile a sua madre. 
«'Giorno, Signora!», la salutò di rimandò, aprendo la porta e precipitandosi fuori. Fece tutto il parco di corsa, ignorando il paesaggio e deciso ad essere vicino a Marco il più velocemente possibile. 
Cinque minuti dopo era davanti alla porta della camera di Marco, giusto in tempo per l'orario di visita della mattina. 
Deglutì ed aprì, stampandosi in faccia un sorriso sicuro ed arrogante che non sentiva di poter sfoggiare veramente. Marco, però, era ancora incosciente. 
La sua figura, massiccia rispetto a quel letto fine, si stagliava chiaramente sotto le lenzuola bianche semi-trasparenti ed il camice da paziente di un azzurro chiaro, quasi verde.
Si sedette nella solita sedia di fianco a Marco, prendendogli la mano e stringendola forte, riscaldando la fredda mano di lui con la sua, calda. A volte chiudeva gli occhi, aspettando di sentire la voce di Marco, che però non arrivava; solo il sordo vociare ed il silenzio in quella stanza ed il leggero “bip” continuo delle macchine, a segnalare che Marco era ancora vivo. 
Arrivò l'ora di pranzo ed un'infermiera consigliò a Jean di andare a mangiare almeno una panino nel bar vicino, assicurandogli che l'avrebbero avvisato se il suo amico si fosse svegliato. All'inizio non volle, ma si lasciò persuadere dalle parole dell'infermiera.
Uscì dalla stanza sussurrando un: «Torno dopo, Marco». 
Andò al bar e mangiò un panino, sentendosi a disagio. Si ritrovò a pensare a come sarebbe stato con Marco al suo fianco, le facce del suo amico nel vederlo mangiare un panino semplice, nel sentirlo parlare con foga di cibo migliore e nel vedere le sue, di facce; sentendo la sua risata leggera e spensierata, roca e gentile che l'avvolgeva e lo riscaldava.
Finì per mangiare solo quel panino, nonostante ne avesse ordinati due e tornò in ospedale subito dopo aver pagato, portandosi dietro una bottiglietta d'acqua.
Era vicino alla stanza quando le sentì: delle urla.
E non erano urla qualsiasi, erano sue, di Marco. Avrebbe riconosciuto la sua voce ovunque. Urlava disperato, cose senza senso, sembrava terribilmente spaventato e sofferente. Corse, veloce, senza pensare e fu lì, davanti a quella porta affollata, il passaggio sbarrato dai medici che coprivano anche la visuale dell'interno della stanza. 
«Cosa succede?», chiese agitato al primo medico in camice bianco che si ritrovò davanti. 
«Shock psicologico dovuto al trauma, è confuso», spiegò l'uomo, «Ma ora se ne vada, si allontani».
Jean lo spintonò e pressò su tutti gli altri finché non riuscì ad entrare nella stanza. Marco era circondato e due medici lo tenevano fermo mentre urlava, gli occhi neri saettavano, confusi e spaventati, il volto cinereo. Jean corse e – allontanando i medici – abbracciò Marco che si agitò. 
«Marco!», lo chiamò, urlando. 
Ed il silenzio calò. Marco smise di urlare e pian piano, nei suoi occhi scuri, si accese una luce di riconoscimento. 
«J-Jean», mormorò con la voce spezzata, i grandi occhioni neri lucidi. Jean lo strinse a sé per poi mettere la sua fronte contro quella di lui per guardarlo negli occhi.
«Bentornato», disse, le lacrime gli solcavano il volto e il suo tipico ed arrogante sorriso sembrava fragile come vetro cristallino. «Andrà tutto bene, Marco».
«Jean», lo chiamò di nuovo Marco, sorridendo leggermente fra le lacrime che rigavano il suo volto pallido e lentigginoso. 
«Non guardare giù, per ora», gli sussurrò lui. 
Marco scosse la testa. 
«Lo so già, Jean», rispose e stavolta sorrise davvero mentre sollevava una mano e con un dito asciugava una lacrima sulla guancia dell'altro. 
I medici borbottarono fra loro, ma se ne andarono, tutti tranne uno che toccò leggermente la spalla di Jean, facendogli segno di spostarsi e lui, arricciando il naso e aggrottando le sopracciglia, si spostò a malincuore così che il medico visitasse Marco. Quando finì di visitarlo, se ne andò, ma non prima di fare un cenno con il capo rivolto a Jean, a segnalargli che andava tutto bene. 
«Mi dispiace», disse Jean, nel silenzio che si era creato fra loro, guardando Marco con quei suoi occhi ambrati. 
Marco gli accarezzò il volto con la mano, ruvida su una pelle spaventosamente morbida. Fece un sorriso dolce, come se pensasse “Jean, come diavolo è possibile che la tua pelle sia così morbida?!”.
«Perché mi chiedi scusa, Jean?», gli domandò, gentilmente, con una voce flebile, diversa dalla sua solita voce calma, poiché doveva riprendersi ancora del tutto; specialmente dopo aver urlato. Quel pensiero, quella consapevolezza di esser uscito di testa, anche se per poco e a causa dello shock subito, lo fece arrossire d'imbarazzo. 
«Io...», mormorò Jean. Ora che aveva davanti il volto pieno di puntini – lentiggini – di Marco non riusciva più a pensare a qualcosa, che fosse una cosa seria o meno. Era troppo felice, troppo calmo, troppo... in lui. 
«Non è stata colpa tua, Jean», continuò Marco. «In effetti mi sono messo io in questa situazione...», rise leggermente grattandosi la testa. «Sono uno stupido, vero?» domandò, con voce flebile e gentile, guardando gli occhi ambrati di Jean contornati dalle folte ciglia scure e rossi all'interno a causa del pianto. 
«Sei stato meraviglioso», gli disse Jean, distogliendo lo sguardo, «Ho sempre saputo della tua stoffa, Marco, ho sempre saputo della tua forza, ma...», si rilassò sulla sedia ed incrociò le braccia, sorridendo quasi sarcasticamente. «Sei un fottuto Eroe – per quanto stupido tu sia stato – e io sono fiero di te», poi si alzò in piedi e muovendosi impacciatemene sbuffò ed urlò un : “Aaah cosa mi fai dire! Queste cose... imbarazzanti!”. 
«Jean», lo chiamò Marco, con un enorme sorriso. 
Il ragazzo dai capelli color stoppa si girò, il volto leggermente rosso, specialmente la punta del suo naso. 
«Che vuoi?», domandò l'altro mettendo il muso, imbarazzato dalle cose – dolci – che aveva appena detto. Non era abituato e non ne aveva mai pronunciate così tante di fila, a voce alta, a Marco... anche se le aveva sempre pensate. 
«Ti amo». 
Jean diventò rosso, un rosso così forte che Marco scoppiò in una fragorosa e divertita risata, tanto che poco dopo le lacrime spuntarono al limitare dei suoi occhi con Jean che strepitava con voce stridula di smetterla, di finirla di prenderlo in giro. 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7: PTSD ***


Capitolo 7: PTSD
 
L’amore è un’emozione che nasce dall’ignoto
e entra d’improvviso nella nostra vita.
È una felicità che fa sorridere il cuore
e ci dà l’illusione di non essere più soli.
È un sentimento capace di infonderci gioia,
energia e cancellare immagini lontane e negative.
Romano Battaglia, Fra le braccia del vento


Marco si era risvegliato ormai da qualche giorno, ma la preoccupazione di Jean rimaneva costante, quasi un brutto presentimento lo tormentasse. I brutti presentimenti di Jean erano come denti cariati, dolorosi e costantemente presenti, causavano eccessi di ira o di scontrosità nel ragazzo dai capelli color stoppa. Marco ovviamente notava questo suo comportamento, ma preferiva non dire niente, perché sapeva che se avesse provato a farglielo notare Jean sarebbe scoppiato, offendendosi pure. 
C'erano cose che non si potevano far notare a Jean così apertamente, quindi servivano dei trucchetti. 
Marco aveva confessato a Jean i suoi sentimenti, anche se sapeva che dirlo a parole non cambiava nulla, poiché le loro emozioni erano evidenti e solo le loro azioni potevano esprimere pienamente quello struggente amore che provavano l'uno per l'altro.
Correte, correte!
«Cosa?», domandò Marco.
Jean si girò, stava mettendo al loro posto dei fiori inviati dalla famiglia di Marco e lo guardò con un sopracciglio sollevato, in segno di perplessità.
«Marco?», chiese in risposta.
TARATATTATARATATTATARATATTA. 
“Abbassati Marco!”

«Aspetta!», urlò Marco, coprendosi le orecchie. 
«Marco?», disse Jean con preoccupazione. Si stava avvicinando a lui lentamente.
Uomo vestito di nero, volto coperto, solo gli occhi visibili.
Giubbotto antiproiettile e mitra.

Nemico.
«Fermo!», gridò Marco.
Jean fece un altro passo, preoccupato. Cosa stava succedendo?
«NO!», implorò il ragazzo tremando, le lacrime gli rigavano il volto improvvisamente pallido. Jean non sapeva che fare, era rimasto di sasso, non capiva cosa stesse succedendo, perché Marco... era improvvisamente impazzito. Ed ora piangeva tremando.
Quando gli occhi neri si puntarono di nuovo su di lui, sembrarono riconoscerlo.
«Jean, cosa mi sta succedendo?», mormorò Marco con voce flebile.
 Jean scosse la testa e deglutì.
«Non lo so, ma...». 
Andrà tutto bene?, poteva davvero dire una cosa simile? Non lo credeva, quindi si zittì. 
«Vado a chiamare un medico o un'infermiera, aspetta qui», disse Jean mentre si avviava verso la porta.
«Jean!», lo chiamò Marco. Sembrava voler aggiungere qualcosa, ma non trovava la forza di farlo.
«Marco, aspetta, dobbiamo farlo. Non stai bene... non capisci?», mormorò Jean distogliendo lo sguardo da quegli occhi neri fragili. «Ti prego», continuò.
Marco non parlò più e Jean se ne andò alla ricerca di un qualche medico. 
Era davvero preoccupato per lui e non riusciva a togliersi dalla testa la sua espressione confusa ed il suo grido pieno di tristezza ed impotenza. Pensava alle possibili cause di quel comportamento, ma non ne trovava nessuna, o almeno nessuna che lo convincesse. Doveva trovare al più presto un medico così avrebbe saputo – o almeno lo sperava – capire cos'aveva Marco e cosa gli stesse succedendo. Vide un camice bianco con la coda dell'occhio e corse verso di lui. 
«Scusi! Marco Bodt, il paziente della camera...», sciorinò il numero, parlando velocemente, «non so cosa sia successo, ma ha urlato», spiegò Jean, «e mi ha ingiunto di allontanarmi da lui... Non sembrava se stesso».
Il medico annuì e si avviò velocemente verso la stanza di Marco con Jean che lo seguiva a ruota, in silenzio e con la mascella tesa, chiedendosi se avesse fatto la cosa giusta. Poco prima di entrare, sentirono un tonfo. 
Poi un urlo, agghiacciante e terrificante. Disperato.
Jean aprì la porta ed entrò dentro correndo. 
«Marco?!», lo chiamò.
Marco era disteso a terra, una mano sulle gambe e le lacrime che gli rigavano il volto mentre mormorava cose incoerenti. 
Il dottore schiacciò il tasto rosso vicino al letto e prese il telefono.
«Servono degli infermieri, il paziente potrebbe essere violento, è in stato di shock», disse pragmatico prima di riattaccare.
Jean si avvicinò a Marco, ma il medico lo fermò, trattenendolo per una spalla e scuotendo la testa in segno di diniego. 
«Cosa gli sta succedendo?», domandò, gli occhi lucidi e fissi in quelli dell'uomo davanti a lui.
«Soffre di PTSD», spiegò l'uomo con calma.
«Che diavolo è?», chiese Jean, sconvolto.
«PTSD, Disturbo dello Stress Post-Traumatico», chiarì il dottore, «È un disturbo psicologico chiamato “disturbo del soldato” o “nevrosi da guerra”, proprio perché è spesso riscontrato nei soldati», disse. 
Jean lo fissava sbalordito; quest'uomo gli stava spiegando che Marco aveva un disagio psicologico e lui non sapeva minimamente che rispondere. 
«Je...an?», lo chiamò una voce flebile, quella di Marco.
Jean si girò verso Marco, stando attento a non avvicinarsi; non voleva causargli un'altra crisi.
«Sono qui, Marco...», mormorò, «A-Andrà tutto bene, te lo assicuro...».
In quel momento arrivarono gli infermieri ed aiutarono Marco a risalire sul letto, stando attenti a non far rumori forti e a non spaventarlo.
«Signor Kirshtein», lo chiamò il medico, Jean si girò, «Venga con me».
Jean annuì e seguì il medico fuori dalla stanza.
«Vorrei parlare con lei delle cure che dovrà seguire il Signor Bodt», esordì il medico. 
Cosa mi sta chiedendo quest'uomo?, si domandava Jean confuso, era successo tutto in pochi secondi, troppo poco perché metabolizzasse il tutto con prontezza. Si appoggiò alla parete e, dopo aver preso qualche respiro profondo, guardo l'uomo. 
Era un uomo come tanti, occhi scuri, capelli ingrigiti, volto normale, né attraente né brutto e dalla stazza nella media – erano alti uguale, più o meno – e con un po' di pancia data dall'età. 
«Mi dica», disse risoluto. Non poteva aiutare Marco senza sapere cosa avesse e come poterlo veramente aiutare, doveva ascoltare.
«La PTSD comporta vari disturbi, quali la poca affettuosità, la rassegnazione, la depressione e il distacco dagli altri», chiarì l'uomo con calma, «I sintomi sono vari e molti, ad esempio la difficoltà ad addormentarsi – causata dalla paranoia e dalla paura degli incubi – poi c'è l'irritabilità, gli scoppi improvvisi di ira o di paura, le esagerate risposte di allarme causate dalle allucinazioni...», deglutì, «La durata del disturbo è superiore ad un mese, potrebbe durare anni, se non è “acuto”, ma è “cronico”, comprende fino a qui?», domandò il medico.
Jean annuì. Tutto questo lo stava sconvolgendo, ma comprendeva: gli era difficile da assimilare, ma lo stava già accettando. Avrebbe fatto di tutto per agevolare la guarigione di Marco.
«Per curare questo disturbo Marco dovrà fare molte sedute con psicologi e psicoterapeuti, dovremo cercare desensibilizzarlo ai suoni forti, fargli raccontare l'evento traumatico più volte, finché non lo accetterà e insegnargli a gestire lo stress, anche se sembra già capace di farlo in parte, quindi l'aiuto – su questa questione – sarà minimo...», spiegò il medico. 
Jean annuì.
«Lo accompagnerò io stesso alle sedute», disse, dal suo tono di voce si capiva benissimo che non avrebbe accettato un “no” come risposta. Il dottore annuì, simpatizzando per quel ragazzo che stava facendo così tanto per il suo amico. Si misero d'accordo per spiegare a Marco di questa nuova cura da seguire il giorno seguente. 

«Quindi soffro di questo...disturbo?», domandò Marco.
«Sì, ma tranquillo, puoi guarire», lo rassicurò il medico. 
Jean d'altro canto, vicino a Marco,  lo guardava con serietà. 
«Starò con te finché non ti riprenderai», disse con un sussurro, per poi arrossire lievemente ed assumere un'espressione imbarazzata e scocciata. 
Marco sorrise ed accettò.

Il giorno dopo Marco iniziò la cura e pian piano,  gli incubi di cui non aveva parlato prima d'allora, andarono scemando e imparò anche a gestire i rumori forti che gli ricordavano l'esplosione. 

TARATARATARATARATATA.
“Bodt, che fai!”.

«Io...», mormorò Marco.
“Muoviti!”.
«Non da... quella parte... NO!», gridò Marco.
Una mano si posò e lo riscosse dal sogno. 
Quando aprì gli occhi il volto che trovò davanti era coperto da una maschera nera e lo fissava. 
«Vattene!», urlò Marco, «Vai via!».
La mano dell'uomo gli toccò leggermente il volto ed una lacrima scese dal lato del suo occhio, unica.
Marco strinse gli occhi e iniziò a respirare a fondo. È un'illusione, pensava, è solo un'illusione...
«Ti amo», disse Jean, le sopracciglia aggrottare, la bocca semi-aperta ed una sola lacrima che gli rigava il volto; ma Marco non lo poteva sentire.
«Vai via», mormorò Marco, Jean se ne andò, pronto a tornare quando si sarebbe calmato.
Era stato un suo errore provare a svegliarlo mentre stava avendo un incubo su quel giorno.



 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8: Andiamo Insieme ***


Capitolo 8: Andiamo insieme


Le radici sono importanti, nella vita di un uomo,
ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici,
e le gambe sono fatte per andare altrove.
Pino Cacucci, Un po' per amore, un po' per rabbia


Da quando Marco s'era risvegliato, le infermiere ed i medici dovevano costringerlo – con delle maniere quasi forti – ad andarsene dall'ospedale ad ogni fine dell'orario di visita. In quei casi, Jean, scocciato ed infelice, se ne andava a malincuore, ma non senza prima aver promesso a Marco di ritornare il giorno dopo o per l'orario di visita successivo. 
Le infermiere, vedendo i due, avevano subito capito – o meglio, fantasticato – l'amore che tutti e due provavano per l'altro e così, senza saperlo, i diretti interessati erano diventati una delle coppie più dolci e mormorate dell'intero ospedale. Solo i medici, di sesso maschile ed etero, insistevano sul fatto che la loro fosse solamente amicizia, ma non per pregiudizio, bensì per il semplice fatto che conoscevano l'immensa creatività delle donne, che, senza pensarci due volte, partivano in particolari viaggi mentali densi di dettagli. Un giorno, le infermiere e le dottoresse decisero di provare a scoprire la storia di quei due, pensando a quanto dovesse essere affascinante e terribile, viste le conseguenze. Di Marco e Jean sapevano una cosa per certo: erano soldati.
O almeno lo erano stati, visto che Marco aveva ricevuto poco tempo prima una lettera di congedo ed una medaglia al valore. Ovviamente avrebbe ricevuto per tutta la vita una pensione di invalidità e le spese ospedaliere le avrebbe pagate il governo, lui doveva solo star tranquillo e rimettersi. 
Così, tentarono di scoprire di più approcciando Marco, che sebbene sembrasse ingenuo, fu attento a non farsi scappare una parola. Sbalordite da quel risvolto, avvicinarono Jean e, dopo un'attenta lavorazione, cantò l'intera storia, ingenuo com'era. 
Raccontò dell'allenamento, del nascondiglio – anche se non in particolare come le infermiere avrebbero voluto e, per giorni, continuò il racconto, a pezzettini, dando sempre quella suspense che tanto piaceva alle donne. Si accattivò un'ora in più nell'ospedale, oltre l'orario di visita e non capendone nemmeno il perché alla fine, ma ne fu felice. 
Le infermiere ormai consideravano Jean l'ideale di uomo premuroso e virile e Marco come l'altro ideale, dolce e gentile. 
Erano una coppia bellissima, questa fu il responso finale. 
I due, quando seppero infine la storia, ci risero sopra. 
Un mese dopo il suo risveglio, Marco iniziò la terapia psicologica e di riabilitazione. Gli esercizi fisici erano stancanti, ma non troppo e, avvantaggiato dal suo fisico allenato, riuscì in poco tempo – in circa un mese e mezzo – a riacquistare forza nelle braccia e nelle mani. A quel punto iniziava però la parte difficile visto che il medico gli chiese: “Vuoi provare con delle protesi?”, ma lui non seppe cosa rispondere. 
«Quindi potresti tornare a camminare, provandoci?», chiese Jean, con le solite sopracciglia aggrottate e le labbra atteggiate in una smorfia. 
«Non è certo», rispose Marco con un lieve sorriso. Il colorito stava già tornando sul suo volto, così che le lentiggini sembravano ritornare alla blanda decorazione sulla pelle leggermente scura.
«Marco, potresti tornare a camminare!», esclamò Jean, felice, «Capisci?».
«Non credo di volerlo fare, Jean», disse Marco, sorprendendo il compagno.
«Perché?», domandò infatti, ma lo sguardo scuro di lui gli diede le risposte. 
Capisco, pensò Jean. 
Un leggero sorriso, dolce rispetto al suo tipico sorriso, gli incurvava le labbra fini. 
«La scelta è tua, Marco», gli disse, «e non cambierà nulla».
«Mi dispiace, Jean», mormorò il ragazzo dai capelli neri. «Avrei voluto davvero andare in molti bei posti con te».
«E ci andremo, razza d'idiota!», esclamò Jean, stavolta fu il turno di Marco di stupirsi. 
«Ti ci porterò io, anche in braccio se serve». 
La naturalezza con cui Jean aveva detto quella frase intenerì Marco.
«Jean, ti hanno mai detto che sei davvero dolce?», domandò.
Jean diventò di un acceso color rosso, la punta del suo naso sembrò essere in fiamme tanto era rossa.
«Tu! Cos- Defi- Io-!», borbottò, incapace di rispondere per il troppo imbarazzo. 
Marco scoppiò a ridere, divertito dalla goffaggine di quel ragazzo.
«Oddio, ti voglio uccidere!», esclamò Jean quando si fu ripreso, facendolo ridere ancora più fragorosamente.
Alla fine la risposta che Marco diede al medico fu: “No, ma la ringrazio per avermi offerto questa possibilità”.
Jean, nel frattempo, aveva salutato la Signora Bossard – ringraziandola per quanto aveva fatto e per la gentilezza con cui l'aveva trattato – e aveva affittato una casa al piano terra per lui e Marco, arredandola secondo i suoi gusti e pensando a cosa gli sarebbe piaciuto.
Qualche volta portò una rivista o due, facendo scegliere a Marco una determinata cosa. 
Dopo cinque mesi da quando era stato ricoverato, Marco uscì dall'ospedale. 
Jean lo portò al parco e osservarono il viale ricoperto di foglie rosse mentre spingeva la sedia a rotelle su cui Marco era posato. 
La vita si prospettava difficile, ma i due avrebbero superato qualunque ostacolo, bastava che fossero insieme. 

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Capitolo 9
*** Epilogo: Accettazione ***


La vita non si misura dal numero di respiri che fate, ma dai momenti che il respiro ve lo tolgono.

Anonimo



Epilogo: Accettazione 

ᴥ Tre Mesi Dopo ᴥ



Jean stava preparando il caffè quando il telefono di casa squillò, facendolo sobbalzare. Posò il barattolo e spense la macchina prima di avviarsi verso il salotto dove, su un tavolino, era posato il telefono bianco. Alzò la cornetta ed un po' scocciato chiese:
«Pronto?».
«Jean, tesoro, come stai?», chiese una voce femminile.
«Bene», rispose con gioia, «Tu?»
«Qui? Tutto bene, come al solito», ribatté la donna, «Lui è un vecchio orso brontolone, ma sta accettando l'idea», lo informò con fare cospiratorio.
In quel momento arrivò Marco, diventato abile ormai a muovere la sua sedia a rotelle, aveva rifiutato energicamente un qualsiasi altro mezzo, nonostante Jean volesse comprargli una di quelle nuovo sedie elettriche. 
«Chi è?», domandò Marco, sorridendo.
«Mia madre», replicò Jean con tranquillità.
«È per caso arrivato Marco, Jean?», domandò la donna, «Se sì, passamelo subito!».
«Tieni, vuole te», sbuffò Jean passando la cornetta a Marco. Che razza di madre preferiva il compagno del figlio al figlio stesso? Be', sua madre era quel tipo di donna.
Non sapendo se essere più geloso di sua madre o di Marco, se ne tornò a fare il caffè mentre dalla cucina ascoltava il suo compagno parlare al telefono con dolcezza e serenità.
I primi momenti erano stati duri, Marco durante la notte si svegliava spesso in preda agli incubi, causati dal PTSD – e pure lui ne aveva fatti di terribili, tanto da svegliarsi con il viso rigato di lacrime e Marco che lo guardava preoccupato – ma dopo qualche tempo erano andati sbiadendo, annunciando la vittoria di Marco sulla malattia. Erano riusciti perfino a scoprire un modo per unirsi e nonostante le ritrosie di Marco nei primi tempi a causa del suo corpo sfregiato, alla fine l'avevano fatto. Ogni volta che i loro corpi si toccavano, si sfioravano, unendosi, Jean pensava che quegli attimi, quelle ore passate con lui, fossero le più belle di tutta la sua vita. Era estremamente felice della vita che stava conducendo ora e sua madre aveva accettato la sua relazione con Marco; perfino suo padre, il Generale Kirshtein, stava accettando l'idea e, dopo aver saputo del suo intento nel laurearsi via internet in legge, aveva acconsentito a riaccettarlo come figlio. 
Unica condizione posta dal Generale era che venisse a trovare i genitori qualche volta, almeno sua madre – e Jean scommetteva che questa condizione l'aveva imposta lei a suo padre, innamorato perso com'era della moglie – e lui era già andato lì per Natale con Marco. 
A dispetto di tutto la testardaggine della famiglia Kirshtein aveva vinto di nuovo. 
Forse amare così tanto il proprio partner, tanto da essere persi senza di lui, è un'altra caratteristica di famiglia, pensò. 
Marco mise giù il telefono.
«Tua madre è una donna dolcissima!», esclamò con un sorriso. 
Jean borbottò. 
«Perché non l'hai mai vista quand'è arrabbiata, Marco», ribatté Jean scettico. 
Ultimamente Jean era pieno di pensieri, specialmente uno lo preoccupava: non riusciva a dire “ti amo” a Marco. Ogni volta che ci provava le parole gli si bloccavano in gola e un senso di disagio cresceva in lui, come se avesse paura di perderlo dicendole. 
Marco, però, lo sapeva e aspettava pazientemente. Anzi, non le credeva nemmeno necessarie visto che era a conoscenza del sentimento di Jean nei suoi confronti – che ricambiava – e pensava che Jean lo dimostrasse pienamente; era passionale, premuroso, stupido e terribilmente dolce per lui. 
Jean finì di preparare il caffè e lo posò sul tavolo vicino al divano, aiutò Marco a sedersi e gli passò la tazza mentre il ragazzo prendeva un cuscino e se lo posava sui moncherini rimastegli. 
«Marco, come procede il lavoro?», domandò Jean.
Marco sorrise. 
«Sta procedendo», rispose. Dopo esser uscito dall'ospedale Marco aveva iniziato a scrivere sulla sua esperienza e quella pagine di sfogo infine erano diventate il primo libro che successivamente era stato pubblicato da una famosa casa editrice. Il libro era stato spedito da Jean in gran segreto, cosa che fece all'inizio arrabbiare Marco, che però non riuscì a tenere il broncio a quel ragazzo idiota e pentito, che sembrava estremamente triste ed arrabbiato senza di lui. 
«Che film metto?», chiese Jean mentre scorreva la lista dei film presenti su my sky.
«Qualunque», rispose Marco mentre si accoccolava con la testa sul braccio disteso da Jean sul divano. I due erano pronti a trascorrere una nuova giornata insieme. 
La vita è difficile, lo sapevano: è piena di fatti, dolori, gioia, eventi, ma finché sarebbero rimasti insieme, finché il loro amore sarebbe esistito, la vita sarebbe stata dolce e tutta da vivere. 
«Jean!», lo chiamò Marco.
«Sì?», domandò Jean.
«Ti amo», disse Marco con serietà ed un leggero sorriso che gli faceva risplendere il volto.
«Anch-anch'io ti amo», bofonchiò Jean arrossendo.
Marco arrossì e, posando la tazza sul tavolino con velocità, si portò il cuscino al volto, completamente rosso.
Dopo un po' sbirciò e notò che Jean stava sorridendo furbescamente. 
Gli tirò un cuscino. 
«Oh, ma smettila!», urlò. 
Jean rise e tornò a sedersi vicino a lui per vedersi Una Notte da Leoni.
La vita per loro sarebbe stata bellissima d'ora in avanti. Ogni volta era un inizio, un piccolo passo verso qualcosa di nuovo e sarebbero andati verso quel qualcosa insieme. 

Fine.




 

Salve a tutti!
Qui è Giò, l'autrice della storia, che vi parla. 
Siamo arrivati alla conclusione di questa fic e spero vi sia piaciuta.
Da parte mia ci ho messo tutto l'impegno possibile, rompendo le balle praticamente quasi tutti i giorni
alla mia beta-reader, Sara20, che ringrazio dal profondo del cuore, perché è grazie a lei se questa storia non contiene orribili ripetizioni. 
In "cantiere" ho già altre JeanMarco e spero di poterle "partorire" al più presto e vi giuro che mi dedicherò solo a lora, qual'ora si presentasse l'occasione. 
Se volete, lasciate una recensione, un commentino.
Mi farebbe un enorme piacere sapere se la storia vi è piaciuta, se i personaggi erano IC, se avete adorato Jean come l'ho adorato io e se avete amato Marco come lo ama Jean. 
Detto tutto, sparisco.
Alla prossima,
Vostra 
Giò_Snower

 

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