Amore Tossico

di the_black_wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO PRIMO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO SECONDO ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO TERZO ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO QUARTO ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO QUINTO ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO SESTO ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO PRIMO ***


                
 “Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. E' proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. “
                                                                                                       [Cit. F. Petrarca]

La prima volta che la vidi fu a ventitré anni.
In realtà, i miei occhi si erano posati sulla sua figura più volte; scambiandola sempre per una senzatetto, una disgraziata o un’anziana donna fuggita di casa ( sempre ne avesse una). Vesti informi e scure la coprivano e confondevano: stando sempre chinata verso il basso, non ero mai riuscito a scorgerne il volto. Quel pomeriggio, tuttavia, dal cielo color piombo cadevano pesanti gocce d’acqua che rendevano ancor più tristi le vie della mia città ed io mi stavo affrettando a tornare a casa dopo il lavoro di cameriere in un ristorante di lusso ( mi era indispensabile per gestire le  spese dei miei studi). Avrei infatti dovuto incontrarmi con la ragazza che frequentavo da un po’ in quel periodo. Correva l’anno 1966 : lo ricordo bene perché mia madre cercava di convincermi che quello fosse un anno maledetto in quanto, stando a lei, le ultime due cifre si avvicinavano molto al numero del diavolo.
Sciocchezze, direte voi. Ma forse non si sbagliava del tutto.
Quella sera, come ogni giovane uomo in balia di quel che era effettivamente la mia età, la mia mente era assalita da domande e quesiti indispensabili ma di difficile risoluzione.
Valutavo l’idea di prendere in sposa la ragazza con la quale mi vedevo. Era senza dubbio molto dolce e gentile, però non la trovavo affatto …gradevole agli occhi. Non ch’io fossi un uomo molto attraente ma quegli occhietti scuri, da topo, quella carnagione olivastra e poi quella dentatura storta…
Dopotutto, però, ero io il primo con cui aveva fatto l’amore. Era stata  la sua prima volta e ricordo ancora quando, con voce mista tra passione e dolore, si sforzava di dire che sarei stato io e solo io l’uomo al quale si sarebbe donata… Che amava me.
Certo, anche io l’amavo: mi pento di non averla sposata. In fondo, era una brava ragazza. Onesta, sincera, altruista. Non come lei.
Neanche quando rimase incinta il suo aspetto migliorò: a soli vent’anni la gravidanza la stava stremando e nonostante mantenesse sempre quell’aria gentile e dolce nei miei confronti, in silenzio ne soffriva. Oggi le devo tanto, povera donna. Spero in cuor mio che non mi odi, e se tanto dovrò restare qua dentro ancora a lungo (fino alla morte ci deve stare , vecchio mio) vorrei realmente che le fruttasse quel poco che è rimasto dei miei averi.
Al tempo l’abbandonai, poveretta, per via del suo aspetto: è quando gli occhi sono giovani che non sono ancora in grado di guardare oltre la carne e il corpo di una donna : non riescono a coglierne il calore dell’anima e del cuore.
Fu il mio più grande sbaglio.
Proprio quella sera, mentre tornavo a casa, incrociai per un istante lo sguardo di colei che avevo sempre scambiato per un’anziana o per una senzatetto. Non era affatto ciò che pensavo.
La ragazza che stavo ammirando era di una bellezza ineguagliabile , con la quale era impossibile creare un qualsiasi paragone tra più immense le bellezze naturali di questo mondo. Dovetti fermarmi e restare immobile per qualche istante.
Pelle chiarissima, labbra grandi e scarlatte ,screpolate a causa del freddo. Viso e collo allungati, capelli lunghi, ricci e bagnati, di un color biondo cenere/castano. I suoi occhi non osservavano me, si limitavano a fissare nella mia direzione, in attesa di un dialogo.
Quando  la ragione torno in me, mi accorsi che la ragazza sembrava molto debole, stanca, denutrita e sola nonostante il suo aspetto così bello.
“Qual è il tuo nome?” domandai.
Sublime estasi mi invase quando, per un momento, mi guardò negli occhi per rispondermi: tanto erano chiari e limpidi i suoi che i miei, al confronto sembravano carbone nero.
“Io sono Viola” rispose.
Viola.
Viola.
Bel nome, pensai. L’ho amata sin da allora e, anche adesso che se dovessi diventare albero sarei la più anziana delle grandi querce maestose e solitarie, al solo sentir quel nome il cuore inizia a scalpitare e ardermi nel petto, quasi volesse fuggire dal corpo e ricongiungersi alla donna tanto amata.
Oh Viola…. Perché mi hai fatto questo? Giorni tristi e strazianti sono seguiti dal momento in cui te ne sei andata e in verità ti dico che la tua presenza ( se così mi è dato di chiamarla) non ha mai portato eventi lieti nella mia vita. Sei morta da giovane, da egoista e da vigliacca, non hai pensato che a te stessa e a non si sa cosa mentre decidevi di morire; mentre è toccato ai tuoi cari e a coloro che ti volevano bene soffrire per la tua morte e portare il tuo ricordo anche nella vecchiaia. Ricordarti è l’unico modo per fare in modo che la tua anima non muoia mai e credimi, mi sembri reale a volte visto come, nonostante morta, la parte che io ricordo di te mi fa soffrire fino a recarmi del male.
Viola, sei la causa del mio dolore.
Eppure non posso neanche odiarti, ho rispetto per i morti.
Ti amo invece, eccome.
E adesso,  dopo tanti anni, hai deciso di tornare. Per burlarti di me forse? Oppure ti senti in colpa? Ho deciso di ascoltarti e seguire i tuoi piani, come ho sempre fatto quando eri in vita. Andrò in fondo a questa storia.
Racconterò di te, dal principio.
Racconterò la mia storia.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO SECONDO ***


 
"Chi si dà all'altro nel modo in cui un soldato si dà prigioniero deve prima consegnare tutte le armi. E così privato di ogni difesa, non può fare a meno di chiedersi quando arriverà il colpo ."
                                                                                                                                                      [Cit. M. Kundera]



Ragazza solitaria, problematica, diffidente. Non sapevo bene come definirti. Quel pomeriggio ti portai in casa mia poichè era mio dovere di essere umano ( nonchè di gentiluomo) offrirti il mio aiuto. Non pronunciasti una parola e neanche mi guardasti in volto a dir la verità! Eri troppo impegnata nello scrutare con interesse la mia dimora. "Hai bisogno di qualcosa"? "Posso aiutarti in qualche modo?" "Non esitare a chiedere!" Ma tu zitta. Se non mi avessi parlato poco prima avrei certamente creduto tu fossi muta! Passarono, tuttavia, pochi giorni e le cose andarono meglio. Iniziasti a parlarmi, raccontarmi che non avevi una famiglia perchè questa ti aveva cacciato, lasciata sola,non avevi nessuno da cui stare ed eri in una situazione molto dura. Nonostante fossi colpito dalla calma apparente con cui parlavi delle tue disgrazie , non ti chiesi nulla per educazione ed andò a finire che ti invitai a restare a casa mia per i giorni necessari.
 I giorni ,tuttavia ,diventarono settimane, le settimane mesi, e ormai tutto ciò che era mio era diventato da tempo anche tuo.
Il mio cuore?
Ti apparteneva senza dubbio alcuno.
Ero ossessionato dal tuo essere anche se non ne sapevo molto.
Non tanto la tua bellezza quanto i tuoi modi di fare così misteriosi e sensuali mi mandavano in estasi. Potevo resistere alla dea dell'amore? Potevo resistere a una donna capace di farmi mancare il respiro solo sfiorandomi accidentalmente la mano? I miei amici, la mia famiglia, i miei conoscenti non capivano... Si chiedevano come potessi aver abbandonato la mia quasi moglie, incinta di mio figlio, per una ragazza che per il momento non era niente di più che un'amica. Ma è vero anche che non si può comprendere realmente ciò che prova un uomo fino al momento in cui non ci si trova a camminare nelle sue scarpe percorrendo lo stesso cammino. Non ero ancora riuscito a baciarti perchè sembravi estremamente distante e quasi irraggiungibile.
Eppure già allora mi pareva di scorgere in te un qualcosa di angosciante, un'anomalia del sistema, un valore sballato.
 Non era normale tutta quella tua freddezza, quel tuo carattere assurdo e fin troppo riservato e quella strana sensazione che nutrivo nei tuoi confronti.
Mi sembrava che ci fosse altro da sapere su di te, qualcosa di importante e che non mi avresti mai detto se non avessi calcato un pò la mano. Iniziai a farti domande sul tuo passato, alle quali rispondevi in modo vago o mentivi spudoratamente. Ti confondevi da sola a volte.
 Io ero, però, ossessionato all'idea di riuscire a conoscerti , poterti amare ed essere ricambiato. Così, organizzai una mia strategia. Per quanto mi dispiacesse causarti il benché minimo fastidio, il più piccolo dolore, ti avrei fatto sentire a disagio, non gradita e inadeguata in modo che tu mi avessi raccontato di più su di te e fosse più facile per me farti cadere tra le mie braccia. Ammetto di non aver sempre avuto un comportamento corretto nei tuoi confronti... Ma io ero innamorato di te Viola, innamorato perso! Iniziai a parlarti di colei che era incinta di mio figlio e lì notai la tua prima, spaventosa stranezza. Ormai ti muovevi come un felino nella mia dimora: pienamente sicura di te e della tue movenze ma attenta a restare, per quanto possibile, nell'ombra. Cercavi di non fare rumore.
 Iniziai ( lo ricordo bene) a parlarti così:
"Mi sembra giusto dirti che prima di te vi è stata un'altra donna al mio fianco."
"Si. Ne ero a conoscenza."
 Risposi tu, molto fredda.
 Continuai: "Perfetto. E mi sembra anche giusto dirti che lei ha in grembo un bambino che è mio e che tra pochi mesi verrà alla luce. Non voglio affrettare le cose tra di noi... Sarebbe lecito ,però, che tu fornissi una risposta alle mie domande. Cosa siamo noi? Io nutro un forte interesse per te... Sono ricambiato? Dimmi cosa dovrei fare!"
 Silenzio.
Silenzio.
Attendevo una tua risposta mortificata mentre tu fissavi il vuoto.
Improvvisamente, sbattesti una mano sul tavolo creando un rumore fortissimo, ti alzasti di scatto, tremando dalla rabbia e mi guardasti con odio. Odio estremo, puro e devastante. Odio nutrito da tutta la cattiveria di cui un essere umano è capace e forse anche di più. Urlando iniziasti a parlarmi così:
" NON MI SEMBRA CHE TU ABBIA IMPIEGATO TEMPO A PENSARE SE AIUTARMI O NO. NON MI SEMBRA CHE TU ABBIA RIFIUTATO UNA SOLA VOLTA LA POSSIBILITÀ DI GUARDARMI E NON MI SEMBRA CHE TU SIA INDECISO NEI MIEI CONFRONTI!"
Riprendesti, più calma, il discorso:
 " Se hai realmente la necessità di scegliere, fallo pure. Ma lo hai già fatto. Dentro di te c'è già una risposta. Un nome , il mio ,inciso dall'interno, tra le costole e i polmoni, vicino al cuore. Così che tu possa ricordarlo SEMPRE." La mia angoscia aumentò di molto quando, improvvisamente divenuta allegra, frivola e gioiosa , tra una risata, un sorriso fin troppo accentuato e uno sguardo euforico pronunciasti queste parole:
" se è tuo futuro figlio la causa delle tue preoccupazioni, non preoccupartene. Il bambino morirà."
Sentii il gelo attraversarmi le vene e le vene stesse divennero di pietra. Un brivido di orrore mi risaliva la schiena come un ragno dalle zampette corte e veloci.
" VIOLA... come sai questo?"
 Alla mia domanda continuavi a sorridermi con una dolcezza e una calma inquietante. Avevi appena predetto la morte di mio figlio e, vero o meno, mi avevi spaventato a morte!
" VIOLA RISPONDIMI PER FAVORE" Ti dissi a gran tono in preda all'isteria.
 "Intuito, professore."
 Se ero in grado di sopportare il soprannome con il quale spesso mi chiamavi visto il percorso dei miei studi, non riuscì (e non riesco ancora) a mandar giù quella tua reazione così contorta e spaventosa unita a quei tuoi modi di fare unici, quasi paradossali. Ammetto che, con cuor di coniglio, da quel giorno cercai di parlarti il meno possibile e ti lasciai libera di andare dove più volevi, tornando a casa mia solo e quando ciò ti faceva comodo. Vederti era una gioia per me, il mio cuore ogni volta esplodeva nel petto, ma avevo un certo rispetto, una certa paura di te, così come il più valoroso dei gatti teme la lince o il leone. Una sera , tuttavia , non rientrasti a casa, e fu così per le quattro sere seguenti. Mi preoccupai molto, certo, ma non sapevo come avrei potuto rintracciarti. Il cognome che mi avevi detto di essere il tuo era probabilmente un falso e non avrei saputo spiegare a nessuno il motivo per il quale tu abitassi a casa mia. La tua assenza mi rendeva furioso e allo stesso tempo avevo una gran paura di rispondere alle numerose chiamate che mi arrivavano ogni giorno perchè temevo di saperti morta. Rincasasti la quinta sera, abiti sfatti e uno strano odore addosso. All'inizio non riuscivo a capire... Ma poi mi parve ovvio! Odore di un altro uomo. Non potevo sopportare l'idea che tu fossi scappata da me, che ti avevo offerto ogni cosa, per recarti dal primo sconosciuto e amare lui al posto mio. Che persona eri? Tanto falsa quanto crudele da prenderti così amaramente gioco del mio cuore? E di nuovo quella tua inspiegabile allegria, quel tuo brio che ti accompagnava in ogni movimento. Enormi sorrisi ed occhi spalancati, carezze , coccole e abbracci a me dopo che eri stata con un altro e neanche ti sforzavi di nascondermelo.
" Non sei in grado di resistermi, professore! Non sei in grado neanche di farmi fare ciò che vuoi tu!" "Ahahahaha professore, quanto sei stupido!"
Oh ,Viola...Parlavi con te stessa includendomi nella conversazione quando ti faceva comodo. Ti accarezzavi i capelli mentre mi mostravi i denti sorridendo in modo fin troppo falso e spaventandomi a morte. Un momento prima eri dolce e gentile e dopo un secondo eri in preda all'ira e urlavi correndo per tutta casa. Ero impietrito dallo spavento, parevi posseduta. Chi eri tu? Improvvisamente, ti fermasti al centro della sala da pranzo, vicino alla cucina nella quale le tue mani non avevano mai osato lavorare come era tipico per voi donne del tempo. Iniziasti a tremare: un tremolio lieve e perenne unito a qualche scossa più forte, che partiva dalle caviglie e raggiungeva le cosce. Sguardo fisso verso il basso e dita che si contorcevano. Ad un tratto, senza preavviso, spalancasti i tuoi occhi freddi verso di me e mi sorridesti con malignità estrema. L'improvviso suono del telefono mi fece sussultare per lo spavento. "Chiamata inopportuna in un momento inopportuno" pensai, con una sorta di sarcasmo di chi è in preda alle fauci del terrore e della paura.
 " Risponda al telefono, professore! Vedrà che sorpresa!" dicesti tu prima di scoppiare in una sonora risata. Alzai la cornetta. Chiamavano dall'ospedale.
 Ciò che era successo, ahimè, preferirei averlo scordato per sempre e non esser qui a raccontarlo a voi. Eppure una sola è la vita e comprende tutti i suoi dettagli e le sue sfumature. Se io non vi raccontassi che quel giorno parlai al telefono con il padre della donna che avevo abbandonato , incinta di mio figlio, non vi racconterei la mia storia.
 E se non vi dicessi che fu proprio lui , con il massimo disprezzo nei miei confronti di cui si riteneva capace, ad avvisarmi che la figlia aveva perso il bambino che portava nel grembo a causa di un aborto spontaneo a cui i dottori non davano una spiegazione ,vi racconterei la vita di un altro.
Mio figlio era morto. Morto. Prima ancora di essere realmente vivo.
 E se c'è cosa più orrenda di questa è che io stesso ero innamorato di un essere proveniente da chissà quale luogo infernale che poteva essere a conoscenza di questa e chissà quante altre atrocità prima di un chiunque mortale. Cosa altro avresti potuto farmi Viola? Il dolore per la morte di mio figlio fu reale, sentivo come morta per sempre una parte di me, eppure il tutto era offuscato e placato dal mio amore per te, mia Viola. Come un lampo, il pensiero che tu e le tue chissà quali mostruose capacità fossero coinvolte nella morte del mio piccolo mi balenò alla mente e mi fece provare rabbia nei tuoi confronti.
 Avevo bisogno di soffrire per mio figlio.
 Avevo bisogno di tornare in me, senza il tuo nome fisso in mente e senza l'oppressione che sentivo solo nel guardarti a distanza. Mi rendevi prigioniero e io ne ero stanco. Ti amavo si, ti amo ancora, ma prima di precipitare nell'abisso ti guardai in quei tuoi occhi freddi ( bellissimi, così speciali ,misteriosi...) e ti dissi di andartene, sparire da casa mia e tornare solo quando saresti stata disposta ad amarmi realmente.
Neanche una lacrima da parte tua.
Neanche una frase di scuse o una parola dispiaciuta.
 Non un accenno a me, a noi oppure a un semplice saluto.
Non una parola di ringraziamento o di protesta.
 Ti avvicinasti alla porta d'ingresso, dandomi le spalle.
La apristi ,lentamente ,e accennasti un passo. Per un ultima volta potei scorgere i tuoi lineamenti nel modo in cui voglio ricordarmene e mentre i tuoi occhi ,perennemente congelati, apparivano adesso incendiati, roventi, rossi come quelli di un demone a causa dell'odio che ribolliva all'interno del tuo corpo, parlasti così: "Sia fatto ciò che hai chiesto."
E te ne andasti.
 
 Dopo sei giorni, la scomparsa di due bambine allarmò l'intera città. Partirono le ricerche, cani della polizia in ogni angolo e agenti ovunque. I genitori delle piccole, che erano sorelle, si dichiaravano disperati e da tutti i piccoli paesi vicini arrivavano lettere di conforto. Il nono giorno dopo che Viola se ne era andata, venne trovato il suo cadavere in un lago, putrefatto e quasi irriconoscibile a causa della permanenza in acqua. Orrenda fu la vista delle due bambine scomparse , ritrovate in una delle sponde dello stesso lago che adesso si davano la mano, davanti a quell'osceno spettacolo e fissavano ciò che restava della mia amata con occhi fissi nel vuoto.
Ancora , che sono trascorsi trent'anni, rivedo la scena nei miei incubi.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO TERZO ***


                                                                                                                      
                                                                    "È uno strano dolore... Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai.”
                                                                                                                                                                                  [Cit. A. Baricco]
 
Correva il 14 settembre 1997. Trent’anni Viola. Trent’anni che ti vidi per l’ultima volta, ormai morta, in quel lago.
Con tempo e fatica ho finito gli studi, insegno a ragazzi e ragazze da molto tempo e ho alternato periodi bui a periodi in cui, tutto sommato, il mio mestiere è stato in grado di rallegrarmi.
Vivo solo. Non ho più voluto una donna accanto a me. Non sono riuscito a dimenticarti ( a questo punto dovrei iniziare a rassegnarmi) e sono sempre stato convinto che cercare ciò che sei stata in un’altra sarebbe prima di tutto un affronto verso la tua persona e in secondo luogo una scorrettezza nei confronti dell’immaginaria e possibile compagna che vivrebbe solo dietro alla tua ombra.
Devo ammettere che sarebbe disonesto  mentire affermando che dopo la tua morte, io abbia sofferto talmente tanto da vedere la felicità , il successo e il raggiungimento dei miei obbiettivi come niente più che un vano tentativo della mia mente per distrarmi da te e dal dolore che mi hai causato. C’è stato un periodo, mia cara Viola, in cui il dolore  causato dalla  la tua perdita non è realmente stato così assillante, così forte e opprimente. C’è stato un periodo in cui il ragazzo che ero si era illuso di poter, un giorno, dimenticarti e iniziare nuovamente a vivere come si deve e come è giusto fare. Nel periodo che seguì la tua morte, il nero dolore  e la nostalgia che mi perseguita ancora oggi non si erano ancora affacciati alle porte del mio cuore. Non riuscivo a non mostrarmi infuriato,  facile all’ira e impaziente con chiunque mi si presentasse davanti e il tutto era causato dalla tua assenza. La mia ira non era rivolta verso di te ,mia amata, ma nei confronti di me stesso. Mi odiavo, mi odiavo a tal punto che desideravo  morire per poterti raggiungere e vederti di nuovo, anche solo una volta, se mai fosse esistito realmente il minimo frammento di ciò che si racconta esista dopo la morte . Ero disposto, onestamente, anche a rischiare di sprecare la mia vita pur di tentare… La mia rabbia, inoltre, non era causata dal fatto di essermi comportato in maniera scorretta o di aver sbagliato; la mia rabbia era causata dall’idea di non aver sbagliato affatto!
Se avessi avuto qualcosa di cui incolparmi l’avrei fatto volentieri e avrei sicuramente espiato i sensi di colpa optando per una macabra e drastica soluzione….Io, però, non avevo sbagliato niente con te! Le mie scelte e le mie decisioni non sono mai state affrettate e ogni mossa che ho fatto è stata completamente dettata dal forte amore provato nei tuoi confronti.
Se non sono stato un amante e compagno perfetto, ci sono comunque andato molto vicino.
Quando la rabbia svanì e giunse questo maledetto, atroce dolore, persi ogni speranza di poter tornare ad essere felice. Mi manchi a tal punto che ,a volte, la mia mente si inganna da sola e ha la sensazione di sentirti, di vederti nelle occasioni più assurde.
La notte, talvolta, non riesco ad addormentarmi in alcun modo in quanto, nonostante quasi impercettibile, sembra giungermi il suono delle tue risate dettate dall’isteria o il rumore dei colpi, di pugni e calci che tiravi un tempo ai mobili per destare la mia attenzione.
Una volta, mentre stavo per scivolare nel sonno, fui costretto ad alzarmi per controllare di persona che tu non fossi in casa. Percepivo da minuti, ore o chissà quanto, un flebile suono molto simile al rumore delle tue dita nel momento in cui  le picchiettavi sul tavolo, in preda alla noia.
Non credermi stupido o folle,Viola, ho sempre attribuito questi fenomeni a scherzi della mente e nulla di più. Ognuno vive nel proprio mondo e non è giusto spiare al di là del recinto.
La mia convinzione, tuttavia, cominciò a vacillare proprio quel 14 settembre 1997.
La riapertura delle scuole non è mai stata piacevole: odiata dagli studenti quanto dagli insegnanti in maniera press’ a poco identica. La mia classe non era esageratamente impegnativa in quanto i ragazzi, una seconda liceo. I futuri adulti, a quindici e sedici anni, hanno abbastanza fantasia da essere in grado di non farti annoiare e abbastanza spirito di adattamento, sottomissione ,serietà e diligenza inculcati all'interno delle loro menti nei precedenti nove ( se non più) anni di apprendimento. E' incredibile a quale amara realtà si debbano trovare gli studenti in un'età così inadeguata: convincersi che quasi nessuno di loro farà strada seguendo i propri sogni e  accontentarsi di divenire niente di più che futuri lavoratori infelici o eterni sognatori disoccupati... Forse il mondo è veramente crudele come dicono, e non lo è stato solo con me. Tornando a noi (anzi, a me), la classe di quest’anno era quasi identica alla precedente, se non per una disgrazia avvenuta a una delle alunne.
La madre di Rebecca, alunna diligente, vogliosa di apprendere e sempre disponibile ad aiutare i compagni, era morta durante l’estate e stando alle parole del padre, la personalità e il carattere della giovane Rebecca sembravano averne risentito molto.
Con questa premessa, cercai in principio di evitare di alimentare lo sconforto e l’estrema tristezza della ragazza dovuti alla morte della madre e cercai di lasciarla fantasticare, nel suo mondo, almeno durante le mie ore di lezione. Poteva saltare quanti compiti e interrogazioni avesse voluto; ciò che m’importava era la sua serenità.
Col tempo però, la situazione degenerò. Rebecca era diventata una ragazzina insopportabile, maleducata ed arrogante , che faceva di tutto per attirare l’attenzione e mi irritava molto. Nonostante mi dispiacesse fui costretto a riprenderla più volte fino a quando, un giorno, le dissi così:
“Rebecca, ti piacerebbe venire con me da tuo padre, in modo che io possa parlare con lui e raccontargli ciò che accade mentre sei a scuola?”
I compagni di Rebecca erano spaventati dal mio richiamo, mentre la ragazza si mostrava, come al suo solito, impassibile a ogni sorta di minaccia.
“Onestamente, professore, preferirei recarmi altrove con lei.”
Alle parole della ragazza la classe emise una risata sommessa. Non capivo dove volesse arrivare ma seguii comunque il suo gioco e domandai così:
“E dove le piacerebbe andare assieme alla mia persona, signorina?”
La risposta che mi diede fu agghiacciante e probabilmente chiunque, me compreso, ne dubiterebbe se non l’avesse ascoltata con le proprie orecchie.
“ AL LAGO.”
“Mi piacerebbe molto andare al lago con il mio professore, un’ultima volta, anche se, in effetti, forse i laghi la spaventano da morire , professore.”
Stupida, bastarda, insulsa e miserabile ragazzina! Come era a conoscenza di questa storia? Della MIA storia?
Lo spavento che provai fu indescrivibile in quanto mi sentivo come un minuscolo topo grigio intrappolato in un angolo da un famelico gatto. Quella mente perfida, con appena quindici anni di esperienza, poteva mettere alle strette un uomo laureato, con il mio passato e con una discreta età?
Lascai cadere il discorso e mentre quegli occhi scuri , vacui e profondi al tempo stesso mi fissavano con sguardo vispo, fiero e potente come volessero lanciarmi una sfida di cui solo noi saremmo potuti esserne a conoscenza.
Dopo poco tempo dalla nostra discussione , Rebecca mi chiese il permesso di uscire ed io, entusiasta all’idea di non vederla per quel che restava della lezione, acconsentii.
Eppure, cara Viola, un qualcosa di stranamente familiare mi pareva di scorgere in quella sua andatura così svelta ed elegante , in quell’espressione persa nel vuoto e in quel suo sguardo autorevole. Un qualcosa di assurdo accadde tra i muri di quella classe quando, anche se solo per un istante, la voce di Rebecca non mi apparve molto diversa dalla voce che meglio ricorderò fino al giorno della mia morte e i suoi modi di fare altezzosi mi ricordavano incredibilmente i tuoi. E una volta, ma solo una volta, con la scusa di restituirle un compito lasciato completamente  in bianco analogamente alle volte precedenti, provai sulla pelle quell’inebriante estasi che già avevo provato con te. Per un secondo, sfiorando lei, mi era apparso di toccar te e il mio cuore aveva iniziato a battere. Si spaventò molto la ragazza che tanto ti assomigliava, nel momento in cui le strinsi la stessa mano con cui aveva sfiorato la mia poco prima  con tutta la forza che avevo in corpo poiché, dentro di me ,sentivo che se avessi tenuto ben stretta la presa su ciò che era così familiare per i miei sensi, probabilmente i miei sensi mi avrebbero fatto credere che tu fossi nuovamente qui.
La mia ,Viola, non era altro che disperazione! Disperazione legata al fatto di averti amata così tanto e vissuta così poco e volevo, in tutti i modi, comprendere la causa delle così numerose somiglianze e affinità che quella ragazzina portava dentro di sé!
Tu ,Viola, ovviamente eri già a conoscenza di tutto ciò che era al tempo e che sarebbe successo in seguito e seguitare a raccontarti questa storia potrebbe quasi annoiarti….
Per la prima volta, tuttavia, cercherò di pensare solo a me e di riportare ciò che avvenne in seguito  per condividere con queste pagine gli orrori e le assurdità che avvennero.
Se tu non fossi così fredda e manipolatrice, cara Viola, ti consiglierei di non ascoltare una sola parola in più di ciò che sto per dirti!
Credo che potresti spaventarti.
Spaventarti molto.
 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO QUARTO ***


                                                                                                                  

“Siamo lenti a smettere d'amare, perché speriamo di essere amati…”
[Cit. Ovidio]

Avete mai provato la gioia di esser guariti miracolosamente da una malattia? Aver scampato la morte per un soffio? Aver trovato risposta al più infimo dei misteri presenti in un enigma senza un preciso motivo? Mia madre diceva sempre che se fosse accaduto uno qualsiasi tra questi eventi , sarebbe stato sempre necessario guardarsi bene alle spalle: non sia mai che il Demonio abbia a voler risaldare i conti dopo lo spiacevole sgambetto ricevuto. Eppure , adesso che ho finalmente fatto luce sull’oscura ombra che ha delineato la mia vita, non temo nessun conto da saldare: sono euforico, salto e rido tra i muri di questa  claustrofobica cella nonostante i miei 72 anni. Pensare che sarei  potuto morire senza conoscere l’atroce inganno che mi fu riservato…
Ma torniamo al punto in cui eravamo rimasti. Gli anni della scuola corrono ormai lontani dal momento in cui sto scrivendo adesso, ma sono sempre presenti nella mia mente, in particolare l’ultimo. Quella ragazzina, così maligna e perfida ma così simile alla mia amata… Era come un’ossessione. Anzi, lo era nel senso più proprio del termine. A livello fisico, era ancora una bambina, provavo ribrezzo all’idea di poter desiderare il corpo di una mia alunna: non sarebbe mai stato possibile altrimenti da uno come me. Nutrivo una così grande attrazione, un così grande timore se consideravo la sua mente e le cose di cui era capace. Era come se guardando le persone, riuscisse a leggervi dentro, sfruttando le cose che vedeva a suo vantaggio. Ignorava i compagni se non per lanciar loro frecciatine crudele che in pochissimi, oltre ai diretti interessati del momento riuscivano a comprendere pienamente. Una volta, in preda alla rabbia, un alunno che stava all’ultimo banco si arrabbiò a tal punto per un offesa ricevuta che rinfacciò a Rebecca della madre morta davanti a tutti i compagni di classe. Io, che temevo una reazione esplosiva ed estremamente violenta da parte della giovane ,rimasi sconcertato nel vedere l’indifferenza in quei suoi occhietti marroni, resi quasi arancioni da un raggio di sole che filtrava dalla finestra e batteva su metà del suo viso, senza provocare in esso alcuna reazione o fastidio. Il vero spavento attraversò il mio corpo quando Rebecca trascorse un’intera mattinata fissandomi il petto, seguendo ogni mio spostamento. Tutti se ne erano accorti, me compreso, ovviamente; ma nel momento in cui stavo per domandare a Rebecca cosa stesso guardando Rebecca, balenò nella mia mente un pensiero, un ricordo, una frase che credevo ormai sepolta sotto il peso degli anni.
“Dentro di te c'è già una risposta. Un nome , il mio ,inciso dall'interno, tra le costole e i polmoni, vicino al cuore. Così che tu possa ricordarlo sempre!”… VIOLA! Non potei trattenere un gemito di terrore, come era possibile? Ancora più inquietante fu il momento in cui Rebecca mi guardò dritto negli occhi e iniziò a ridere, mostrando i suoi denti bianchi.
Erano sempre stati così bianchi?
<<  L’aveva scordato, professore? Se lo ricordi sempre! >> aveva detto . Nessuno capì, tranne noi due. Non potevo più fingere che le mie preoccupazioni e le mie idee non fossero altro che fantasie, c’era qualcosa di anormale e spaventoso in tutto ciò. Iniziai a fare domande, cercare tra i vecchi articoli di giornale della zona, mettere insieme dicerie e testimonianze vere e proprie. In più di un anno di lavoro, ero riuscito a tracciare un quadro della vita perfetta di Rebecca. O almeno così pensavo. I suoi studi terminarono quando andai in pensione, era abbastanza grande da poter interrompere gli studi. Sapevo molte cose di lei, le quali, nella maggior parte dei casi, mi sembravano completamente assurde e impossibili. Il suo comportamento strano ( o meglio, familiare) aveva avuto inizio con la tragica morte della madre. Si era tagliata le vene di fronte agli occhi della figlia non ancora quindicenne; probabilmente, un attacco di isteria. Molte volte parlai di questo fatto col padre di Rebecca;  e molte volte scoppiò a piangere davanti a me. Era stato un duro colpo, pover’uomo: conosceva la donna con cui si era sposato fin dai tempi delle Medie ed era sempre rimasto abbagliato dai suoi modi di fare eleganti, sensuali, sinuosi… Certo, non era stato tutto rosa e fiori: a un’età non così superiore a quella di Rebecca, la madre di quest’ultima si era trovata a dover affrontare la morte di una sorella… Ma non se ne era mai parlato tanto. Si era sposata, era nata Rebecca e tutto andava per il verso giusto. Pochi mesi dopo il parto, tuttavia, la moglie del mio interlocutore aveva iniziato a dire cose senza senso, riserbare frasi cattive per tutti i suoi conoscenti e scoppiare in pianti disperati o risate euforiche da un momento all’altro. Il padre della mia alunna era spaventato a morte, mi par giusto, ma che fare? In fin dei conti era ancora innamorato e aveva con sé una bimba molto piccola che aveva ancora bisogno della madre… Così aspettò. Attese che le cose migliorassero. Rebecca crebbe con un padre affettuoso e innamorato di una bambola, una donna finta, la quale non sembrava ricordare cosa fosse il batticuore e la voglia di amare i suoi familiari, intesi  piuttosto come guardiani della sua salute, persone pronte ad accudirla, sostenerla e sopportarla all’infinito. La morte del suo corpo, era avvenuta in pochi attimi. Eppure la sua persona era sparita molto tempo prima, dissolta nel nulla a poco a poco… Mi sorprese vedere come Rebecca, alla luce delle mie scoperte, iniziò a confidarsi con me. Si mostrò debole di fronte ai miei occhi, nuda di ogni barriera o muro di confine tra la sua mente controversa e il resto del mondo in un mondo in cui tu, Viola, non avevi mai fatto. Provavo affetto  e compassione nei suoi confronti, poiché conoscevo la sua storia; per un periodo sembrò che tutti i mesi precedenti non fossero mai esistiti e che quella povera e sfortunata ragazza non avesse nulla a che vedere con te. Iniziavo a dubitare delle mie stesse certezze, e forse, dopo tutto, si erano verificate solamente spiacevoli coincidenze… Ma un giorno, in piena estate, nel momento in cui io e la mia particolare ex alunna stavamo discutendo dell’attribuzione , propria o meno, dell’opera intitolata “ Lo scudo di Eracle” al grandioso Esiodo, la ragazza interruppe la conversazione  in maniera brusca e mi chiese di chiamarla col suo vero nome. Finsi di non capire e la guardai negli occhi, aspettando una sua mossa. << Sono tornata, professore. Sono pronta ad amarti per davvero, come non ho fatto a tempo debito.
Viola. Mia amata Viola. Erano forse vere le tue parole? Poco importava delle labbra da cui fossero uscite, dopo più di trent’anni di attesa la mia adorata era tornata da me ed era pronta ad amarmi. Una lacrima mi scese sul viso, calda e lenta, come fosse fatta di sangue. Io ti parlavo, tu mi rispondevi. Eri lì accanto a me…

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Capitolo 5
*** CAPITOLO QUINTO ***


                                                                                                        -CAPITOLO QUINTO-
                                                                               
                                                                             "L'amore non dà la felicità, ma la sua fatale illusione."      
                                                                                                                                     [Cit. R. Gervaso]      
               
I tanti anni di cui portavo il peso, sembravano essere spariti.  Anche se con un corpo differente da quello nel quale ti avevo conosciuta, Eri finalmente mia, al mio fianco, di nuovo. E parlavamo, parlavamo, parlavamo. Sorridevi vedendo il mio imbarazzo e alle mie carezze sulla pelle che conteneva il tuo essere.  Mi stupivo di quanto, in realtà, adorassi il tuo carattere ;  la bellezza che possedevi quando eri in vita , ovviamente non potevo più vederla… ma questo non mi importava. I miei sogni, i miei incubi erano terminati perché potevo parlarti e tu eri sempre pronta a rispondermi. Non ero più solo e non lo sarei mai tornato.
Alla mia felicità, tanto ambita e quasi raggiunta, mancava soltanto un particolare. L’amore che provavo per te era immenso, ti amavo, ti desideravo, ti ammiravo come ti amo, ti desidero e ti ammiro tutt’ora, anche nel tuo essere spietata. Sapevo di essere vicino a te, Viola. Se mi impegnavo, potevo quasi scorgere una sorta di luce chiara negli occhi scuri con cui mi osservavi: Sull’iride sinistro, vicino alla pupilla, scorgevo come una piccola macchia celeste, del colore dei tuoi VERI occhi. Quel corpo da ragazzina, l’aspetto infantile e la voce troppo acuta erano solo un involucro, niente di più. Dentro il corpo di Rebecca, in realtà c’eri tu . Dicevi  però di sentirti prigioniera di questo nuovo corpo,  eri poco più che una bambina e non ti ricoprivo delle attenzioni che meritava una donna…
Verissimo, senza dubbio. Ma come avrei potuto “amare “ una bambina? Se vi era una cosa che, oltre alla sofferenza e alla nostalgia, si era formata durante il corso di questi interminabili anni, era il decoro, la decenza, la bontà d’animo. Molte volte ti avvicinavi a me in un modo ambiguo, come un leone vicino alla sua preda. Resisterti era difficile, ma era giusto. Tutto sommato, ero già vecchio e mi accontentavo di quegli amori platonici, in cui il desiderio e la passione  non trovano spazio. Quante ragazzine avevo visto crescere durante gli anni della scuola! Qualcuna, nei primi anni, aveva lasciato lettere romantiche tra i miei appunti o altre, si erano sforzate di far colpo sulla mia figura di “eterno infelice” con resoconti scolastici brillanti o domande attente durante le mie spiegazioni. Ad esse, ovviamente, non donai mai un centimetro del mio cuore: erano soltanto delle bambine e l’amore malato che mai avrei potuto offrire loro le avrebbe soltanto infettate, tanto il mio cuore era avvelenato dai ricordi. Per questo, le avevo semplicemente ignorate, felice di vedere con quanta facilità e in quale modo ingenuo i giovani potessero innamorarsi. Ricordiamoci, inoltre, che agli occhi sprezzanti del mondo sarei apparso io come leone e tu come preda, visto il tuo corpo di semplice ragazzina.  Ero sicuro della mia scelta, non avrei cambiato idea per niente al mondo e oggi, ringrazio il Cielo per quella poca lucidità che mi concesse. 
Ma il motivo per cui non violai in nessun modo quel corpo da ragazzina, vogliate crederci o meno, fu un altro.  Se avessi ceduto alle tue tentazioni, Viola, amandoti in quel corpo di bambina ( che forse, ormai, si avvicinava più a esser quello di una donna), cosa avrei raccontato al padre di Rebecca? Ne aveva subite già tante, pover’uomo...                                                        Forse averlo visto piangere e disperarsi in balìa dei ricordi, forse aver pensato così tante volte a quanto il mio dolore assomigliasse al suo  , mi aveva spinto a considerare quell’uomo come un qualcosa di simile.. a un amico.
A pensarci bene, di amici non ne avevo più neanche uno.
Nessuno.
Da quando avevo iniziato ad avvicinarmi a Viola, se ne erano andati in molti e i pochi rimasti, li allontanai io. Mio padre aveva smesso di parlarmi, non voleva più vedermi e mi considerava completamente fuori di senno. Mia madre, povera donna, era morta dopo pochissimi giorni dalla tua fuga da casa mia, da casa nostra. Avrei voluto partecipare al suo funerale e piangerne  la  morte insieme ai suoi cari, ma se tu fossi tornata e io non ci fossi stato?  Credevo che non vedendomi, avresti pensato a un abbandono, ne avevi già subiti molti…
Così ,Viola, mi eri rimasta soltanto tu e non volevo perderti.
Dopo mesi in cui ti supplicavo di non fare ciò che tanto mi chiedevi, scendemmo a un compromesso. Io avrei dovuto liberarti da quel corpo, quella prigione di carne. Sapevamo entrambi come fare.                                 Ci accorgemmo entrambi di una possibile soluzione nei confronti di questa tremenda barriera che ci separava e ti faceva sentire vittima del tuo stesso corpo.
Un giorno, mentre  passeggiavamo di sera, per la periferia della città ( sia mai che ci avessero visto insieme! Quante lingue di serpente ne avrebbero parlato e sparso la voce!) , ti fermasti davanti a una piccola chiesa, facendomi una richiesta strana.
Mi chiedesti se fosse possibile entrare nella chiesa e soffiare sulle candele accese per i defunti, in modo tale che si spegnessero. Ti dissi che senza dubbio era un atto scorretto, ma se volevi farlo, non potevo impedirtelo.
A questo punto, tuttavia, un pensiero mi balenò nella testa. L’anno prima, durante un colloquio con il padre di Rebecca, un fatto strano mi aveva scosso terribilmente. Egli raccontava di come, una sera, il padre di Rebecca avesse accolto la figlia disperata in casa. La madre non stava bene, certo, ma quel giorno aveva tremendamente insistito per recarsi in Chiesa con Rebecca. Dentro di sé, il mio confidente ne era entusiasta! Sperava che con l’aiuto della fede, la moglie potesse guarire o per lo meno migliorare. Era tanto che non la vedeva così risoluta nell’ottenere qualcosa. Rebecca volle accompagnare la madre, sperando che restando sole durante il viaggio ella le avrebbe riservato almeno una parte delle attenzioni che durante l’infanzia le erano state negate. Al momento in cui la piccola Chiesa del paese si presentò davanti alle due donne, accade, tuttavia, un fatto inquietante. La madre di Rebecca, che era stata fino a quel momento molto calma e serena, iniziò a disperarsi. Tremava tutta, la paura le si leggeva negli occhi, scuri come quelli di Rebecca. La figlia la incitava, la teneva per mano sussurrandole parole  dolci o risolute. Ogni tentativo appariva vano. Alla fine la madre riuscì a salire un gradino, poi un secondo, ma non riuscì a metter piede sul terzo ed entrare nella Chiesa vera e propria. Eppure non si era sposata proprio in quella Chiesa tanti anni prima? Non aveva tanto insistito per tornarvici quella sera con la figlia? La situazione, cari lettori, era assurda. Figuriamoci poi per quella povera bambina, che al tempo non disponeva che di tredici miseri anni d’esperienza sulle spalle. Madre e figlia dovettero tornare a casa  e nonostante il percorso fosse identico a quello già attraversato all’andata, il viaggio di ritorno apparve lungo almeno il doppio. Rebecca non chiese spiegazioni alla madre, e questa non gliene diede. La donna era troppo impegnata a piangere, trattenere urla composte d’un misto di spavento e rabbia. Le poche parole che pronunciava, erano confuse a causa dei singhiozzi e delle lacrime. Tutto ciò che Rebecca riuscì a comprendere (e in seguito riferire al padre) , fu una frase apparentemente senza senso. “Sempre meglio di lei… che neanche poteva vederla da lontano.” Ma lei chi? Chi non poteva vedere la chiesa neanche da lontano? Nulla aveva senso. Mi ripresi dai miei pensieri e con orrore mi accorsi di un particolare agghiacciante. Ero davanti a una Chiesa, con tre gradini all’ingresso.
“Non può essere… Non può essere…” risuonava nella mia mente nello stesso momento in cui le mie gambe, vecchie e stanche, superavano con un sol balzo i tre gradini della Chiesa, all’interno della quale ti vidi perfettamente in piedi davanti ad alcune candele accese. Non si sentiva un rumore e tutto era perfettamente immobile, illuminato da una luce fioca e tremula. Gli affreschi e i dipinti riservati al Signore e ai Santi apparivano quasi inquietanti e per un attimo, giuro che tutti gli occhi delle piccole statue, dei quadri e degli affreschi sui muri fossero tutti puntati su quel piccolo corpo di adolescente. Su di te, Viola.
Mi avvicinai lentamente, con cautela, avevo paura che tu potessi girarti di scatto e spaventarmi a morte; un oscuro presagio mi attraversava la mente. Ti chiamavo e non ti giravi, rimanevi immobile davanti alle tue candele. Nel momento in cui, con estremo coraggio, riuscii a raggiugerti, vidi la tua bocca contorcersi nel tentativo di soffiare e spegnere quelle piccole fiammelle. Le  mani ti tremavano leggermente, sembravi sconvolta. Iniziasti a disperarti, ad agitarti e piangere. I singhiozzi ti facevano sussultare.                                                                                                               Poi accadde.
Ti girasti verso di me e potei vederti di nuovo, viva.
I sublimi ricci lungo la schiena , gli occhi chiari e bellissimi nonostante le lacrime. Le tue labbra..
“E’ il momento, professore, devi farlo!” disse la mia amata.   
“Per noi!” aggiunse.                                                
Ora, ciò che non vi ho detto è estremamente semplice. Semplice e spaventoso nell’esser semplice. Viola mi disse che l’unica soluzione che avevamo per poterci amare in ogni modo che ci fosse parso e vivere il nostro amore alla luce del Sole, sarebbe stata quella di liberarsi di quel fastidioso corpo da adolescente. Se io avessi ucciso quella ragazzina  senza farmi scoprire, allora Viola sarebbe finalmente stata  libera di mostrarsi a me nel suo vero aspetto. Ormai avevo già intuito un qualcosa di strano nella mia amata, e lei me lo confermò. Disse che le anime delle persone morte, vagano vicino al corpo che hanno appena lasciato per diverse ore. In seguito iniziano a sentirsi sempre più leggere fino a sparire del tutto e risvegliarsi in Cielo o in altri luoghi. A  lei però, questo non era mai accaduto, poiché l’amore percepito nei miei confronti e i sensi di colpa per il suo comportamento scorretto le avevano impedito di lasciarsi la vita alle spalle. Così aveva aspettato molti anni e, per motivi misteriosi, era riuscita a risvegliarsi nel corpicino appena nato di una bambina. Rebecca. Poi, il resto, lo conoscete. In questo modo Viola mi aveva convinto ad accettare la sua proposta. Il grosso, era fatto. Restava soltanto da posare le mani su quel candido collo e ,a malincuore, stringere forte. Sempre più forte. Così pian piano mi avvicinai per compiere il macabro gesto. Sentivo il battito del cuore di quel corpo sempre più veloce, pronto a spegnersi sotto la forza delle mie grandi mani. Mancava poco, lo sentivo, mancava sempre meno…
Lasciai la presa.
“CHE COSA FAI?” urlò Viola.
 Capii tutto.

 

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Capitolo 6
*** CAPITOLO SESTO ***


                                                                                                                                           -CAPITOLO SESTO-
                                                                                                               “Sei un fumo nocivo per me. Riempimi di male”
                                                                                                                                                                      [Cit. Eleonora S.]
 
Tribunale di Verona, ore 11 :35, 22 Gennaio 1999.
“ Che abbia inizio l’accusa contro il professor Antonio Gradi.                        
Signora testimone, è chiamata in causa. Può raccontarci cosa ha visto la sera del 4 Novembre 1998?”
“Certamente.” Rispose la testimone. “La sera del 4 Novembre dell’anno passato, mi trovavo vicino a una piccola Chiesa affacciata sulla strada che stavo percorrendo la sera, prima di tornare a casa. Non sono stata  fuori molto, il tempo necessario per far prendere un po’ d’aria alla mia piccolina…” disse con amore la donna puntando gli occhi su una bambina molto piccola tenuta in braccio da un uomo adulto, presumibilmente il compagno o il marito. “Deve sapere, signor giudice, che ero al nono mese di gravidanza e non mi era permesso uscire di casa… Sa, mio fratello è ginecologo e consiglia alle sue pazienti  di non affaticarsi mai troppo durante il periodo della gravidanza, altrimenti il bambino ne potrebbe…”
“Sia sintetica!” esclamò il giudice spazientito da tutte quelle chiacchere.
“Senz’altro, Onorevole. Dunque, dicevo… Mi trovai a superare quella piccola Chiesa senza darvi troppo peso, sembrava vuota. Ma poi sentii dei rumori, come dei passi rapidi di qualcuno, e mi affacciai per vedere meglio. C’era un uomo di una certa età,  i capelli già bianchi, esattamente il professor Gradi. Stava immobile, fisso davanti a un qualcosa che non riuscivo a distinguere… Così salì quei pochi gradini per entrare nella chiesa, e vidi che accanto al professore c’era una ragazzina, quella vicina al signor avvocato.” Disse la testimone indicando Rebecca.
“Che cosa è successo quella sera? Può raccontarcelo?” Chiese l’avvocato con fare deciso e risoluto.
“Un attimo, un attimo! Avete tutti fretta qui…Nel mio paese natale c’è un detto riguardante la fretta, può sembrar stupido ma posso garantire che…” Ma  questa volta la donna si zittì da sola, grazie a una severa occhiata da parte del compagno e un’ancor più severa occhiata da parte del giudice.
“Va bene. Vidi la ragazzina bisbigliare qualcosa al professore, nulla di molto lungo però, giuro che mi sembra di aver letto sulle labbra di lei le parole “ è il momento”. E dopo pochi istanti, che orrore! Il professore iniziò a stringerle il collo con cattiveria, sempre più forte! E nel mentre che lei lo guardava disperata, lui stringeva sempre di più! Che assassino! Così non potei più resistere ed entrai per fermarlo. Che madre imprevidente sono stata, quell’uomo poteva ferire la mia piccina ancora nel mio grembo! Ma non potevo non far nulla… Fortunatamente non appena mi ha visto, Antonio Gradi ha lasciato il collo della ragazza”
Il processo proseguì come potete immaginare. Il professore non rispose, non cercò di difendersi in alcun modo, neanche quando venne chiesto a Rebecca ( a Rebecca, ahimè, venne chiesto ben poco! Meglio sarebbe se dicessimo a Viola! ) a cosa fosse riferito quel “ è il momento” e lei rispose che si riferiva al momento giusto per tornare a casa dal padre, visto che il professore aveva insistito tantissimo per portarla in quella chiesa, nonostante lei non volesse. Il professore non disse nulla, neanche una parola su ciò che sapeva. Se qualcuno fosse stato disposto a credergli, allora nessuna pena gli sarebbe stata inflitta. Sarebbe bastata una persona un po’ più sensibile delle altre, un uomo o una donna avvezzo al paranormale, all’occulto… Ma il professore non parlò, e le sue parole non volarono mai via dalle sue labbra.
Scrisse soltanto una lettera a me, ed io voglio raccontarvela. Ho tanto odiato Antonio Gradi, quasi per tutta la vita . Soltanto adesso, che ho più di settant’anni, sono riuscita a sostituire il mio odio con una pena incredibile nei confronti di quest’uomo, nei confronti del mio primo amore. Tanti anni fa se ne andò, lasciandomi sola con un bambino… che non ho mai partorito. Adesso ne ho tre, più un nipotino, ma odiai tanto quell’uomo per il gesto che fece. Solo ora poso capirlo… E’ stato ingannato. Nella lettera  che mi scrisse, mi raccontò le cose che già conoscete di quel mostro che si fa chiamare Viola, ed io non starò a scriverle di nuovo perché credo sarebbe soltanto uno spreco di carta. Tutto ciò che dovete sapere, per comprendere cosa è realmente successo, lo trovate nelle righe seguenti. Leggetele con calma. Oppure non fatelo.
 
 
“… e così, ahimè, dopo il processo mi ritrovai in questa cella, fredda e triste, come quel che era giusto mi spettasse. I primi mesi ero spaventato, volevo poter fare qualcosa… Ma cosa? Così pian piano iniziai a domandare qua e là se in prigione si poteva far qualcosa… anche perché ormai, la mia mente ne stava risentendo! I muri sembravano avvicinarsi di più a me giorno per giorno, come se la stanza si stesse stringendo. Stupidi scherzi della mente? Senz’altro… Ma iniziai a spaventarmi seriamente una mattina, quando al mio risveglio mi ritrovai qualcosa di fastidioso in bocca, come un filo…Era un capello biondo, riccio. Volevo conservarlo per mostrarlo alla guardia, e lo tenni stretto tra le dita più di un’ora. Poi improvvisamente non lo ritrovai più, cerca ,cerca ma nulla: era sparito.
Così decisi di farla finita. Per la prima volta, accettai di scoprire la verità. Mi documentai su libri, vecchi giornali, e con la supervisione di una guardia , utilizzai addirittura un computer. In molti anni, ho ricostruito una storia agghiacciante, ancora più spaventosa poiché diventata la mia ossessione in questi anni di prigionia. Sarò sintetico, il più possibile. Ricordi quando ho parlato, poche righe più in alto, di quelle due bambine che sono state ritrovate a fissare il corpo morto di Viola nel lago? Ho raccolto testimonianze, interviste qua e là, resoconti scolastici, e i genitori delle bimbe affermano che la più grande ne uscì molto turbata. Era diventata fredda, spietata e gelida, approfittatrice. Spaventava tutti con scatti di isteria. L’altra sorella la odiava, ne parlava sempre male e cercava di evitarla il più possibile.. Fino a quando rimase figlia unica. La sorella maggiore, “la matta”, era stata trovata morta impiccata nell’armadio della sorella, la quale ne esordì con una frase su una sfida con delle candele e una chiesa e iniziò sempre di più a imitarla nei comportamenti. Sai chi era questa giovane? Ma chi se non la madre di Rebecca? Quando anche lei si uccise, infatti, davanti agli occhi della figlia, non capitò anche a Rebecca uno strano cambiamento? Non spiccarono aspetti del suo carattere nuovi e inquietanti? Una catena di violenza, di morte, di malvagità, questo è accaduto. Un germe nero che ha iniziato a dilagare partendo da Viola, o chissà da quanto prima… Ma come può esser possibile? Per molto tempo non sono riuscito a ottenere risposta, poi ho avuto un’intuizione. Un così perfetto disegno no n poteva certo essere affidato al caso… Così ho capito che a capo di questo gioco spietato, doveva esservi un’entità. Un’entità malvagia, con ben poco di umano. Ho iniziato a cercare, sfogliare libri dell’occulto e orrori del genere. Poi l’ho trovata. Si tratta di un’entità malevola, che vive togliendo ogni speranza agli uomini. Non posso riportarne il nome, perché solo il suono mi congela il sangue. Però posso affermare che, dalle immagini che ho visto, non  ha nulla in comune con Viola… Ha occhi completamente neri, tagliati a metà da due scaglie rosso fuoco, paiono occhi di un gatto. La pelle è marcia, grigia e verdastra, cosparsa qua e là di peli neri ed escrescenze. Le mani… quanto mi hanno spaventato! Artigli lunghissimi e sporchi, pronti ad aggrapparsi ai sogni … MI HA INGANNATO! Nulla a che vedere con le mani morbide e sempre curate di Viola, il suo aspetto fiorente e il suo portamento signorile. Questa belva mi ha ingannato, mi ha tirato dentro al suo gioco mostrandomi ciò di cui avevo bisogno, approfittando del mio entusiasmo… della mia gioia…  E deve aver capito, che dopo ogni morte il suo potere era sempre maggiore… Ogni corpo utilizzato, poteva spingersi più in là del precedente. Per questo voleva che uccidessi quella povera ragazzina! Povero me, che stavo per farlo! Ma quando ho visto entrare e guardarmi con spavento quella donna incinta, che ho rincontrato al mio processo, ho avuto la certezza che a Viola , o quel che è, importasse di quella creaturina non ancora nata. Ho visto il desiderio e  l’ingordigia negli occhi del corpo che stavo per uccidere, e lo sguardo non era fisso su di me, ma su quella donna, sul suo ventre e su ciò che vi era dentro. Se avessi strinto un altro po’, un altro innocente sarebbe stato tirando dentro la trappola, come un topo, come me! La mia vergogna, il mio timore, l’angoscia di aver sprecato una vita, sono troppo grandi. Così ho deciso che sono troppo vecchio, e non ho più voglia di altre angosce. Ho ancora un unico dubbio che mi affligge: Era tutto previsto? Ho molta paura di rispondere, perché temo di conoscere già la risposta .Ho notato un certo affiatamento tra la donna che ha testimoniato al mio processo e Rebecca, con quell’oscura presenza che le risiede dentro. Nessuno proverebbe pena per un demone, ma è facile provarne per una povera ragazzina aggredita da un vecchio professore con chissà quali orrendi propositi. Spero vivamente che questa entità non sfrutti il corpo di Rebecca per avvicinarsi alla piccola bambina della donna che ha testimoniato, spero che quest’ultima non lasci mai Rebecca sola con la figlia.. Se la creatura malvagia di cui ti sto parlando, dovesse veramente rinascere un’altra volta , son certo che riuscirebbe a spegner tutte le candele di qualsiasi chiesa, per poi passare a molto peggio. Ma non voglio più pensarci.. Ho capito che nonostante tutto, mi sento ancora legato ( completamente perso, pazzo, innamorato,  nasconderlo?) a una ragazza che probabilmente non è mai esistita, non tanto per la sua bellezza e i suoi modi di fare maestosi, quanto per la pena che mi ha suscitato il vederla così “diversa” , così “incompatibile con le persone” , così estremamente “sola”. Questo è ciò che forse mi ha più condizionato, la sensazione di dover aiutare, dover fare qualcosa, dover salvare una persona.. insalvabile. Però adesso, finalmente. la notte non riserba più incubi per me, ma sogno di trovarmi con un bambino vivace, che ti somiglia molto. Ogni notte riesco a starci un pochino di più, ma i vivi devono stare con i vivi, non possono certo andar di qua e di là nel mondo dei morti! Per questo ho deciso di lasciar perdere la mia vita in prigione, dedicandomi a mio figlio. Non ha mai visto la luce del giorno sul nostro mondo, ma ti assicuro che “oltre la morte”, c’è una luce bianca, a cui fa un baffo la luce del Sole! Spero che potrai perdonarmi, o per lo meno che leggerai questa lettera. Domattina non mi sveglierò, perché starò rincorrendo farfalle colorate con un bambino bellissimo. Addio.”
 
Così, la mattina del 23 Febbraio  2015, il professor Antonio Gradi mantenne la sua parola, e venne trovato inerme sul letto della sua cella. E se un osservatore attento si fosse trovato a fissare quel corpo in quel momento, avrebbe certamente notato un sorriso lieve e pacato , nascosto dalle rughe e dalla pelle stanca.

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