L'atlante di Arhal di Yumao (/viewuser.php?uid=689641)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'accademia ***
Capitolo 2: *** Le cucine ***
Capitolo 3: *** La biblioteca ***
Capitolo 4: *** I bagni ***
Capitolo 5: *** I dormitori ***
Capitolo 6: *** La mensa ***
Capitolo 7: *** Lo studio ***
Capitolo 8: *** L'archivio ***
Capitolo 9: *** Sianel ***
Capitolo 10: *** Latcho Drom ***
Capitolo 1 *** L'accademia ***
L'accademia b
L'accademia
I
passi dell’uomo che la stava trasportando rimbombavano sulle
pareti del cunicolo sotterraneo, coprendo quasi ogni altro rumore,
eccetto l’insistente gocciolio dell’acqua che si faceva
più forte man mano che avanzavano. Al di fuori del cerchio di
luce della torcia era completamente buio e lei era molto spaventata.
Nascose il viso contro la spalla dell’uomo e il dolce dondolio
della sua andatura rischiò quasi di farla addormentare, ma lei
aveva tutte le intenzioni di restare sveglia. Voleva sentire cosa si
stavano dicendo gli adulti, voleva capire dove stavano andando e
perché l’avevano strappata dal suo letto quella notte.
«Capisco che non te la senti di prenderti cura della bambina, ma
devi almeno tenerla con te. Lui l'avrebbe voluto.»
Sua
madre rimase zitta, come al solito. Camminava dietro di loro,
silenziosa come un’ombra, ma poteva vederla sbirciando da dietro
la spalla di quell’uomo grande e grosso che sapeva di sudore.
«Abbiamo pensato a tutto. Si è liberato un appartamento
sopra casa degli Acquafredda. Ti aiuteranno a badare a lei e ti
troveranno un lavoro. Hanno anche un figlio della sua età,
sarà più semplice per la bambina.»
Adesso
stavano salendo dei gradini e l’uomo iniziava ad avere il fiato
corto. Quando si trovarono all’aria aperta socchiuse gli occhi
alla luce grigia e piatta che precedeva l’alba e sentì un
forte odore di fiume.
«Non
raccontarle nulla… troppo rischioso… basso
profilo…» Ormai non riusciva più a seguire il
discorso. Un attimo dopo stava già dormendo.
Ancora
non si era spento il rimbombo del primo dei sei rintocchi di campana,
che Emma aveva spalancato gli occhi e calciato via le coperte come se
l’avessero attaccata. Abituata per gran parte della sua vita a
svegliarsi nel silenzio totale, essere destata da quel rumore cupo
che vibrava nelle ossa per lei era ancora un trauma.
Lanciò
un’occhiata in tralice alla sua compagna di stanza. Yuri non
aveva il suo stesso problema, e se lei non l’avesse svegliata
personalmente e costretta ad alzarsi, avrebbe continuato a dormire
tutta la mattina. La cosa era notevole, visto che la loro stanza era
nella torre del campanile e il rumore era tale da far vibrare le
finestre.
Si
alzò in fretta mettendo i piedi scalzi sul pavimento di pietra,
ignorando i brividi di freddo che le risalirono per la spina dorsale, e
fece i tre passi che la separavano dal letto di Yuri saltellando
agilmente per evitare i libri sparsi sul pavimento dalla sera prima. «Yuri,
la campana!» Urlò inutilmente per cercare di sovrastare il
rumore della campana stessa. Le scosse una spalla per svegliarla e le
strappò le coperte di dosso, mentre lei si contorceva e si
copriva gli occhi.
Gli
altri studenti dell’accademia avrebbero avuto tutto il tempo di
alzarsi con calma, fare il bagno, vestirsi, parlare dei compiti e delle
lezioni della mattina facendo colazione con latte, pane fresco e, chi
poteva permetterselo, frutta. Emma e Yuri, invece, avevano il tempo
molto risicato: gli studenti dei rioni dovevano rispettare delle
corvè massacranti, per ripagare le divise e i pasti alla mensa
che diversamente non avrebbero potuto permettersi. "E se Yuri non si da una mossa anche oggi saltiamo la colazione". Pensò Emma scocciata.
Si
diede due colpi di spazzola, letteralmente, senza nemmeno guardarsi
nello specchietto crepato appeso sopra il catino, poi si legò i
capelli castani in una coda corta, che le rimase dritta sulla nuca in
modo leggermente ridicolo. Si infilò la divisa, badando a stento
che non fosse a rovescio e, pronta per uscire, si girò verso
Yuri, la quale era ancora seduta sul letto disfatto, con le gambe
incrociate e le ginocchia magre che spuntavano da sotto la candida
veste da notte, che si guardava intorno con aria confusa, gli occhi
grigi pieni di sonno. «YURI!» Urlò esasperata,
mentre Yuri sussultava e la guardava stupita, come per chiedersi che ci
facesse un’estranea in camera sua. Poi con l’espressione di
chi ha avuto un’epifania improvvisa sembrò ricordarsi chi
era quell’estranea impaziente con cui condivideva la stanza da
tre anni, e che la buttava giù dal letto tutte le mattine da
allora. «‘Giorno!» disse con il sorriso rilassato di
chi ha tutto il tempo del mondo e i bei capelli rossi che la
incorniciavano come un’aureola.
Emma
sospirò, le prime ciocche di capelli avevano già iniziato
a sfuggire dal nastro, incorniciandole disordinatamente il viso.
Yuri
si alzò senza scomporsi e iniziò a pettinarsi con cura e
a intrecciare i capelli anche troppo lunghi. Emma nel frattempo aveva
un gran voglia di prendere a testate la porta, ma siccome sarebbe stato
controproducente, decise di iniziare ad andare senza la compagna. Anche
perché la porta era, come tutte le cose che si trovavano in
quell’area del collegio, piuttosto precaria e malconcia,
probabilmente non avrebbe retto a una sua testata.
«Cerca
di sbrigarti, ci vediamo alla scala.» La esortò uscendo e
sapendo benissimo che sarebbe arrivata che il lavoro era quasi finito.
Il ballatoio di legno dava sul chiosco più grande
dell’edificio, con un prato ben curato dagli sforzi congiunti dei
giardinieri e degli studenti dei rioni. Divideva in due la scuola, la
parte femminile da quella maschile, ed era uno dei pochi posti in cui
gli studenti di sesso opposto potevano incontrarsi, sotto lo sguardo
attento dei sorveglianti. Attraversò il ballatoio senza guardare
il cortile vuoto e si diresse decisa verso la scalinata
dell’ingresso.
Emma
non amava quel compito. Il problema non era pulire le scale in
sé, anzi: la scalinata principale era di lucida pietra chiara,
resa molto liscia e scivolosa dall’uso. Strofinare quei gradini
con la spazzola e vederli tornare al loro candore naturale dava un
senso di soddisfazione, e passare la mano sulla pietra levigata era
rilassante.
Il
problema era che la mattina a quell’ora gli studenti che
abitavano nel Cuore della città passavano di lì per
andare a lezione, e non perdevano occasione per schernire chiunque
dovesse svolgere quelle umili mansioni.
Quando
si trattava di Emma, poi, erano particolarmente attenti a non perdere
l’occasione di punzecchiarla e di calpestare il più
possibile gli scalini ancora bagnati, in modo da sporcarli. Alcuni,
soprattutto i più giovani, facevano su e giù dalle scale
tante volte da farsi venire il fiatone, con una determinazione
ammirevole nel loro intento di dare il più fastidio possibile.
Emma si era chiesta più volte perché farle svolgere quel
lavoro a quell’ora del mattino, quando tutti gli studenti
facevano su e giù dalle scale. Non aveva evidentemente nessuna
utilità, e più tardi, mentre tutti sarebbero stati a
lezione, una donna di servizio avrebbe dovuto pulirle da capo.
«Lavoro
inutile» Borbottò arrabbiata fra sé, strangolando
lo straccio innocente. Da sempre aveva il sospetto che il punto delle
corvè non fosse contribuire alla manutenzione della scuola, ma
ricordare agli studenti più poveri che per quante ambizioni potessero avere e per quanto
potessero studiare le loro origini umili sarebbero rimaste tali. Per
sempre.
Yuri
la raggiunse ovviamente tardissimo e iniziò a canticchiare
dolcemente mentre lavorava a testa bassa. Molti ragazzi passando di
lì cominciarono a girare la testa di quasi centottanta gradi per
osservarla il più a lungo possibile. Era piegata in avanti sui
gradini e il suo petto offriva uno spettacolo evidentemente gradito dal
pubblico maschile, facendo sì che a chi continuava a passare con
l’unico intento di sporcare si aggiungesse un nutrito gruppo di
ragazzi interessati alle grazie di Yuri.
Come fa ad essere sempre così allegra? Pensò
quasi con rabbia, provando una strana voglia di tirarle lo straccio.
Era sicurissima che una persona sempre di buon umore non poteva essere
normale, anzi, era il genere di persona che la inquietava di
più: i tizi sempre serafici e sorridenti alla fine, con matematica certezza, impazziscono e uccidono qualcuno. Questione di giorni, di sicuro.
E lei sarebbe stata la vittima.
O forse era solo invidiosa.
Sospirò,
lanciando un’occhiataccia a Yuri, che stava osservando lo
straccio con un sopracciglio sollevato in un’espressione di
profondo interesse. «Secondo te uno straccio è contento di
essere uno straccio?» Emma ormai era abituata a queste domande
bizzarre e non ci faceva più molto caso. Ogni volta però
doveva trattenersi dal dare una risposta caustica. «Dovresti
chiederlo allo straccio.»
«Non so parlare con gli stracci.» La informò Yuri un po’ dispiaciuta riprendendo a strofinare.
Lo
stomaco di Emma gorgogliò forte, come a volerle risparmiare la
fatica di rispondere. «Certo che sei sempre molto affamata
Emi.» Osservò Yuri con cortese distacco, come se non fosse
colpa sua se era il terzo giorno di fila che saltavano la colazione.
Emma
si limitò a sorridere e a scrollare le spalle. «Forse in
una vita passata eri un orso, e l’anima dell’orso vive
ancora nel tuo stomaco. Spiegherebbe tante cose.» Se chiunque
altro le avesse detto una cosa del genere forse si sarebbe offesa, ma
l’assoluta mancanza di malizia di Yuri la lasciava sempre
disarmata. Si limitò a un mugolio che poteva significare tutto e
niente e portarono secchi, strofinacci e spazzoloni nel locale di servizio.
Le
zone di servizio erano completamente diverse dal resto della scuola,
tanto che era difficile credere che facessero parte dello stesso
edificio. I locali frequentati dagli studenti erano caratterizzati da
larghi corridoi, stanze luminose e ben arieggiate, pavimenti di
piastrelle lucide e muri intonacati e decorati da elaborati stucchi e
dipinti murali. I locali di servizio, così come le stanze degli
studenti dei rioni, erano fatti di legno scheggiato, pietra e mattoni
di terracotta. Erano bui e caotici, corridoi stretti che si
incastravano fra le intercapedini dei muri e scale nascoste dietro ad
arazzi.
Ovviamente
serviva a non far incrociare le strade degli studenti e della
servitù, e questo diminuiva un po’ l’aria di
mistero, ma Emma amava quella faccia nascosta della scuola, e preferiva
prendere questi passaggi piuttosto che quelli normali. Anche se a volte
le allungavano un po’ la strada, avevano l’indiscusso
pregio di essere deserti. E poi, per quanto fosse un po’
infantile, si sentiva privilegiata nel conoscere il volto segreto della
scuola meglio di quanto qualsiasi studente del cuore della città
potesse mai sognare. O desiderare, ma questo era un dettaglio
trascurabile.
Lo
stomaco le gorgogliò dolorosamente. La cena della sera prima, a
base di pane nero e zuppa di verdure con un vago sentore di carne, era
un ricordo lontanissimo e il suo stomaco era desolatamente vuoto. A
pranzo erano di turno in cucina, per cui era difficile che non
riuscisse a sgraffignare nemmeno un pezzo di pane, si ricordò
per consolarsi. Solo sei ore… lo
ripeté mentalmente come un mantra, mentre si arrampicavano per
una ripida scala di legno dal locale di servizio al piano delle aule,
mettendo nel “solo” molta più enfasi di quanto in
realtà sentisse.
Ehilà!
Avevo già pubblicato questa storia, ma visto che la sto
ristrutturando e cambiando i nomi ecc ecc, ho deciso di cancellarla e
ricominciarla da capo. Chiedo scusa a chi stava seguendo la vecchia
versione, cioè non tanti, a dir la verità XD
Spero che questa versione 2.0 sia più interessante! Fatemi sapere qualcosa!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Le cucine ***
2 - Le cucine
Le cucine
«Secondo me è un po’ stupida.» Commentò Anton con
una vocetta petulante, guadagnandosi uno scapaccione da sua madre. Una sberla
leggera, quasi una carezza. Ben diversa dalle sberle che le dava la sua, di
madre. «Ma non dice una parola! Secondo me non sa parlare.»
«Ma certo che sa parlare! È solo un po’ timida.
Vero?»
Si limitò a guardare nel suo piatto in perfetto
silenzio. Cenava sempre a casa della signora Agnes, al piano di sotto. Era una
donna gentile, che però puzzava di pesce, come tutte le persone che aveva
incontrato nella nuova casa.
Anche suo figlio Anton di solito era un bambino
simpatico, che faceva di tutto per coinvolgerla nei suoi giochi spericolati,
però quella sera era un po’ petulante. Doveva essere perché il tatuaggio faceva
male anche a lui.
La signora Agnes li aveva accompagnati a ricevere
la runa quella mattina, in mezzo a un gruppo di bambini che urlavano e
piangevano mentre l’ago trapassava la loro pelle delicata. Anche Anton aveva
pianto e urlato, ma lei no. Era rimasta zitta e ferma, e aveva ricevuto un
sacco di lodi.
«Perché ce l’hanno fatto?» Quasi non si accorse
di aver parlato, ma la prima frase che diceva dopo più di un mese non poteva
passare inosservata. «Ecco, vedi che parla? Hanno fatto cosa, tesoro?»
Allungò il braccio, mostrando il disegno sinuoso. «Questo.»
«Quello è il simbolo del nostro rione, Sianel.
Serve perché così tutti ti riconoscono, e tu non ti dimentichi mai di dove sei
nata. In più ti protegge dalle cose brutte.»
«Ma io non sono nata qua.»
«Beh… non importa, perché sei qua adesso, ed è
qui che andrai a scuola e diventerai grande.» Spiegò con tono ragionevole. «Ma
io voglio tornare dov’ero prima…» Dov’era prima? Iniziava a dimenticarlo.
Ricordava solo fiori e risate, invece del silenzio che c’era in casa sua
adesso.
Un rumore li fece sobbalzare tutti e tre, mentre
un uomo grande e grosso entrava in casa sbattendo la porta. Di solito Luis
Acquafredda era un uomo tranquillo, con la faccia accartocciata dal sole e da
un perenne ghigno furbesco, ma quella sera sembrava agitato.
«La accompagno di sopra. Tu metti a letto Anton.»
Disse subito Agnes, alzandosi da tavola e facendole cenno di seguirla. Le trotterellò
dietro fuori dalla porta, nella strada buia, e poi su dalle scale sconnesse che
portavano all’appartamento cercando di non far rumore. «Ricorda, se tua mamma
si arrabbia vieni giù da me. Non starle fra i piedi. Capito?» Annuì, seria, e
Agnes le diede una rapida carezza, prima di tornare al piano di sotto.
Emma
stava giocherellando distrattamente con la penna, fissando il soffitto
affrescato. Dei bambini con delle alucce bianche grassi come polli arrosto
facevano capolino da alcuni striscioni, recanti apologie sul patrono Aristides
II che aveva fatto costruire quell’ala dell’accademia tanti secoli
prima.
Ironico
che proprio il costruttore di quel luogo non l’avesse mai visitato: i membri
della famiglia patronale non potevano mai abbandonare il palazzo e i suoi
giardini. Al massimo, nelle occasioni speciali, si affacciavano al balcone.
La
lezione di etica politica era certamente quella che le piaceva meno, e non
riusciva a impedire alla sua mente di divagare. Forse era meglio così: se si
fosse concentrata sarebbe stata costretta a sentire le continue frecciatine che
la professoressa Bramhs lanciava a lei e a Yuri, per il tremendo crimine di
essere uscite dalla loro cerchia sociale originale.
Ogni
anno solo otto persone provenienti dai quattro rioni avevano la possibilità di
iscriversi all’accademia. Sempre ammesso che raggiungessero i severi requisiti
per ottenere la borsa di studio, quindi di solito erano solo in sei: era
rarissimo che qualcuno di Sianel ci riuscisse. O anche solo che ci provasse: erano troppo orgogliosi per sopportare lo snobismo delle gilde e dei
nobili rampolli del Cuore, quindi, saggiamente, si tenevano lontani dai guai.
Da
quel che sapeva lei erano almeno dieci anni che nessuno del suo rione veniva ammesso
alla scuola, e questo l’aveva resa l’ultimo gradino della scala sociale. Quello
su cui tutti si puliscono gli stivali sporchi di cacca di cavallo. La cosa
positiva, però, era che se i professori potevano fingere di non averla in
classe lo facevano, quindi nessuno l’avrebbe rimproverata se si fosse
distratta.
Stava
dedicando qualche piacevole minuto a pensare al pranzo imminente, quando un
pezzetto di carta che le colpiva il gomito la strappò ai suoi sogni di pane
fragrante, carne succosa e pasta con le vongole, come quella che preparava
Agnes nei giorni di festa.
La
voce monotona della professoressa, che spiegava come l’amministrazione centrale
stabiliva in maniera assai saggia ed equilibrata le quote di produzione che i
rioni dovevano raggiungere, si aprì sgradevolmente un varco nella sua mente. Si
guardò attorno per vedere chi le aveva lanciato il bigliettino, e vide Yuri che
le faceva segno di leggere.
“Ti ho fatto arrabbiare?”
Emma
la guardò perplessa, sollevando un sopracciglio. Non avrebbe mai sospettato che
a Yuri interessasse se era arrabbiata o no. Non avrebbe mai sospettato nemmeno
che Yuri sapesse cos’è la rabbia.
Tutta
quell’attenzione al suo stato d’animo, così, da un giorno all’altro? Da parte
di una persona che non chiede a nessuno “come va”, nemmeno per formalità?
Decisamente strano. Trattenne un sospiro e aggiunse la cosa alla lunga lista
delle stranezze di Yuri, cercando di assumere un’aria più allegra, e negò
decisa, con un solo movimento del capo. Yuri parve subito rincuorata e non
indagò oltre.
Per
quanto fosse stata carina a preoccuparsi, preferiva mantenere un certo
distacco: se qualcuno si preoccupa per te come minimo devi restituire il
favore, ed Emma non avrebbe saputo da che parte iniziare.
Appena
finite le lezioni Yuri ritirò le sue cose leggermente più in fretta del solito,
tanto che Emma dovette aspettare solo un paio di minuti prima che la seguisse
nei tortuosi corridoi secondari che conducevano alle cucine.
Le
piacevano le cucine: il vapore, l’odore di fumo e di cibo, la folla di cuoche
che chiacchieravano… tante cose che rendevano facile passare inosservata e
rubare un po’ di cibo extra per rifarsi di quello perso a colazione. Infatti
appena entrarono, allungò una mano verso il cestino del pane, pronto per essere
portato in refettorio, quando qualcosa la fece bloccare a metà del gesto.
Anche Yuri,
a giudicare dall’espressione attonita, si era accorta che qualcosa era diverso
dal solito. Almeno metà delle massaie erano raccolte attorno a Jane, che
singhiozzava con discrezione. Le altre lavoravano con la solita efficienza, ma
in silenzio.
Jane
era una delle cameriere più giovani: aveva al massimo una decina d’anni più di
loro, ed era sempre allegra ed energica, con il volto lentigginoso e gli occhi
scuri.
Raggiunsero
la loro postazione di pelapatate in silenzio, mentre Emma, incuriosita,
aguzzava le orecchie.
«Ci
siamo passate tutte… doveva succedere prima o poi… sacrificio necessario…»
Non ci
volle molto perché Emma capisse. «Secondo figlio.» Osservò Yuri dando voce ai
suoi pensieri con insolita acutezza.
I
figli secondogeniti erano destinati ad essere un tributo alle mura, come gli
orfani, i bambini illegittimi e i figli dei criminali. Nell’inverno del loro
terzo anno di vita venivano marchiati con la runa che li indicava come morti
viventi e portati via. Venivano allevati nelle zone interdette fra la cinta di
mura interna e quella esterna, per poi diventare soldati o minatori.
Un sacrificio doloroso ma necessario, che ogni
cittadino coscienzioso deve compiere per la sicurezza e la prosperità della città
stessa. Era
scritto così in tutti i libri di storia, con ridicole parole pompose.
Emma
non si capacitava di come potesse essere possibile mettere al mondo un figlio
solo per vederlo sparire dietro le mura, mandato a combattere… cosa? Ignoti
nemici dell’umanità, di cui non era nemmeno permesso parlare? Era soprattutto quello
che non sopportava, il non sapere. Per quello aveva deciso di non avere figli e
di non avere una famiglia, barattando queste cose con il sapere che l'accademia le offriva.
«Oh …
ahia» Emma sussultò, strappata ai suoi pensieri, e si girò verso Yuri, che si
osservava assorta un lungo taglio sul dito. «Fai attenzione Yuri, almeno quando
maneggi i coltelli!»
Le
premette un panno da cucina sulla mano tremante. Era difficile vederla meno che
impassibile, ma a quanto pare quello era un giorno di prime volte. Il
canovaccio si macchiò in fretta di sangue.
«Che
combinate voi due?» La capo cuoca si avvicinò a grandi passi. «Vai a farti
medicare bimba. A nessuno piacciono le patate al sugo di sangue.» Yuri annuì,
stringendosi il dito ferito. «E tu accompagnala.» Aggiunse più bruscamente,
rivolta ad Emma. «Non sembra che stia molto bene.»
Emma
uscì a testa bassa tenendo la compagna per il gomito. «Mi dispiace Emy. Ti
faccio saltare anche il pranzo.»
Aveva
un tono così triste che la fece preoccupare. Bisognava mettere un freno a
quell’atmosfera da confidenze. «Non importa.» Rispose secca e decisa.
Una
persona normale avrebbe cercato di capire qual era il vero problema… Forse
avevano ragione quando dicevano che gli abitanti di Sianel avevano la
sensibilità di una triglia dall’occhio spento.
L’infermeria
era vuota, Emma pensò con un po’ d’invidia che l’infermiera probabilmente stava
pranzando, mangiando riso e stufato… chiudendo gli occhi ne sentiva ancora
l’odore.
Aspettò
un minuto, impaziente, poi frugò nei cassetti, si servì abbondantemente di
bende e disinfettante e si sedette davanti alla compagna, prendendole la mano. Non
poteva lasciarla lì se non voleva essere affettata dalla capocuoca (Yuri era la
sua aiutante preferita), ma nemmeno aveva voglia di aspettare per tutta la
pausa pranzo.
Yuri
non protestò e non disse nulla. «Hai fratelli o sorelle?» Lo chiese così, senza
rendersi conto di aver parlato, guidata da una curiosità che l’aveva tradita
più di una volta.
Stai zitta, cosa ti salta in mente di chiedere? Si rimproverò irritata,
maledicendosi. Se non voleva confidenze, ecco, quella era proprio la domanda da
non fare.
Yuri
rimase in silenzio, ed Emma si stava chiedendo sollevata se l’avesse offesa e
se il discorso sarebbe morto lì, ma nonostante lo sguardo un po’ velato Yuri
parlò con la stessa voce soave di sempre. «Un fratellino. Adesso avrebbe sette
anni.»
Avrebbe, non ha. La sua sensazione venne
confermata: Yuri era turbata perché vedere Jane piangere per il secondo genito
doveva aver risvegliato ricordi dolorosi.
L’aveva
sempre considerata una specie di buffo animaletto distratto, incapace di
emozioni profonde, e improvvisamente si sentì in colpa.
Voleva
dire qualche frase di conforto, tipo è un
onore poter difendere le mura, però le risultò impossibile. Qualcosa le
fece credere che se avesse detto una cosa del genere le corde vocali le
sarebbero andate a fuoco per protesta, per cui rimase zitta finché non ebbe
finito di medicarle il taglio.
«Comunque…
non ero arrabbiata oggi. Sto bene.» Assicurò un po’ goffamente ricordando il
bigliettino.
Yuri
sorrise «Meno male!» Poi iniziò a canticchiare e a far dondolare le gambe.
Beh,
se la sua crisi di tristezza passava così in fretta, allora era davvero una
specie di buffo animaletto. Un buffo animaletto psicopatico.
Le
venne da ridere, una risata strana e improvvisa che non riuscì a trattenere, e
provò un’ancora più inaspettata ondata d’affetto per quella strana ragazza.
E ora cosa pensi di fare? Vi volete fare le
treccine a vicenda scambiandovi confidenze sui ragazzi più carini della scuola?
La rimproverò
irritata una voce forte e chiara nella sua testa. Si sentì improvvisamente in
imbarazzo, e quando ebbe finito di mettere via tutto e si ritrovò senza nulla
da fare il suo imbarazzo crebbe ancora di più. «Emy, vai pure … se ti sbrighi
trovi ancora qualcosa da mangiare.»
«E tu
non vieni?» Yuri scosse la testa sorridendo. «Ho delle cose da fare.»
Emma
non perse l’occasione per scappare veloce come un fulmine e mettere più
distanza possibile fra lei e una qualsiasi manifestazione umana di sentimenti. Fino
a quel momento era andata abbastanza d’accordo con Yuri proprio perché il loro
rapporto mancava di qualsiasi profondità. Si tolleravano, si salutavano e
avevano gli stessi turni di corvè.
Ed era
determinata a fare in modo che le cose restassero esattamente così, diversamente
sarebbe stato deludente e doloroso per tutte e due. Poi ovviamente Yuri voleva
stare sola. Lei avrebbe voluto stare sola, lo voleva sempre. Era il suo più
intimo desiderio essere lasciata in pace, a bollire nel suo brodo senza doversi
preoccupare di chi le stava intorno.
Ma vorrei anche che qualcuno, almeno ogni tanto, si
rifiutasse di lasciarmi e mi rimanesse accanto. Pensò chiudendosi la porta
alle spalle. Che le stava succedendo? Stava diventando sentimentale? Da un
momento all’altro si sarebbe ritrovata a leggere stucchevoli poesie d’amore e a
giurare amicizia eterna a chiunque le dicesse “ciao”? No, quella non era lei. Di
sicuro Yuri sarebbe stata bene. Era Yuri, non una persona comune.
Solo
una cosa adesso avrebbe potuto aiutarla ad allontanare subito quella sgradevole
ondata di umanità: la biblioteca.
Hohey!!
Ho
pubblicato il secondo capitolo in due giorni, poi probabilmente
sparirò per un po' perché parto e non so se potrò
usare internet o no.
Potrei
non farmi più viva per due-tre settimane. Vi appioppo sti due
capitoli revisionati (se riesco magari anche tre) e poi ci vediamo
quando torno! Se torno.
Buone vacanze! ---- 羽毛
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** La biblioteca ***
3 - La biblioteca
La biblioteca
«Ti dico che non è strana! L’ho sentita io, parla
benissimo!»
«Sì che è strana, non importa se parla. Non vedi
che ha gli occhi strani?»
Osservò Anton litigare con i monelli di strada
sbattendo gli occhi incriminati, di un azzurro intenso, la forma allungata e il taglio diagonale,
così diversi dagli occhi scuri e rotondi dei monelli dei canali. «E allora? A
me piacciono. Sei solo geloso!»
Ci stava facendo l’abitudine ormai. Più o meno da
quando era arrivata, più di un anno prima, ogni volta che uscivano a giocare
senza la supervisione degli adulti Anton si accapigliava almeno tre volte al
giorno con gli altri bambini Sianelesi, per difenderla dalle prese in giro. Gli
aveva detto che non le importava, ma per lui difendere il suo onore sembrava
essere il massimo del divertimento.
Lasciò i due ragazzini ai loro giochi e si
allontanò dalle vie sopraelevate, dove le case erano costruite su complicate
impalcature di legno per tenerle lontane dall’umidità dei canali, scendendo
delle strette scalette e correndo per viuzze secondarie.
In realtà le era stato raccomandato dalla signora
Agnes di stare lontano da quei bassifondi, dove si respirava aria cattiva e si
rischiava di incontrare gente poco raccomandabile, ma a lei piaceva sentire i
sentieri di solido acciottolato sotto i piedi, tanto per cambiare. Le piaceva
cercare i fiori che crescevano fra le crepe e tirare i sassi nei canali
secondari per guardare i pesci che affioravano sperando di trovare qualcosa da
mangiare.
Sentì delle voci e si infilò in una viuzza
secondaria per non farsi scoprire. A quell’ora tutti gli abitanti dei canali
erano a pesca, chi poteva essere?
Sbirciò da dietro una botte per la raccolta
dell’acqua piovana e vide il capomastro del rione, Maurus Bondesan, confabulare
con una figura grigia incappucciata davanti a un pontile seminascosto. «Ma
certo… ma certo, siamo sempre al servizio della vostra congrega… come volete,
stanotte. Troverete la barca pronta, proprio qui.»
Rimase perplessa nel vedere Maurus balbettare
agitato. Di solito era un omone baffuto, allegro e rumoroso, la cui voce si
sentiva spiccare chiara e forte anche sopra il rumore della folla raccolta
nella piazza, per l’assemblea domenicale.
Rimase accucciata dietro alla botte finché Maurus
e l’uomo in grigio non furono scomparsi, poi corse a cercare Anton.
«Quello era un frate grigio!» Esclamò con
ammirazione Bruno, il monello con cui si stava azzuffando fino a un minuto
prima. Anton lo guardò scettico. «I frati grigi non esistono, scemo! E nemmeno
quelli neri!»
«Ti dico di sì, cretino! Ho sentito mia mamma che
ne parlava con una sua amica!»
«Cos’è un frate grigio?» Intervenne veloce, prima
che ricominciassero a litigare. «Sono un po’ dei maghi, un po’ degli studiosi.
Super intelligenti, leggono tanti libri… stanno in un posto nel centro della
città e non escono quasi mai, a meno che non devono fare degli incantesimi
sulle mura.» Spiegò Bruno dandosi un tono. «Ti dico che non esistono!» Insistette
Anton. «Sì, invece. Se non mi credi stasera andiamo al posto dove l’ha visto
Emma e li spiamo. Così li vedi con i tuoi occhi.»
«Se ci sono per davvero giuro che mi bevo l'acqua del canale Grando!»
«Ancora
ricerche per quello strano professore eh?» Emma annuì, con
i gomiti appoggiati
all'alto bancone del bibliotecario e il sorriso più educato ed
innocente che riuscì a produrre. Lo strano professore era
Phyllis Astropher, anziano
ometto canuto ma energico, unico professore proveniente dai rioni
nonché unica
altra persona in tutta la scuola ad essere Sianelese. Non a caso
insegnava la
materia più denigrata di tutta la scuola: scienze geografiche.
In
effetti a che servivano le scienze geografiche quando lo spazio abitabile era
così ristretto da poterlo conoscere palmo a palmo? Di certo non c’era il
bisogno pratico di orientarsi con le stelle. In più ogni tanto parlava di cose
che sconfinavano nella mitologia, se non nell’eresia: diceva che quelle
conoscenze erano un retaggio di un’epoca in cui i loro antenati erano stati
esploratori e avventurieri, epoca che secondo i dogmi che tutti imparavano fin
da bambini non poteva essere esistita. Ogni anno la sua materia rischiava di
essere cancellata e se si era salvata fin ora era stato grazie all’intercessione
del patrono, che si diceva fosse segretamente appassionato delle leggende sul
mondo di fuori.
Forse
per solidarietà fra derelitti, forse perché l’accento Sianelese del professore
le attenuava la nostalgia di casa, Emma aveva eletto scienze geografiche a sua
materia preferita e ogni anno sceglieva il professor Astropher come tutor per
la tesi finale.
Il
bibliotecario scosse la testa con disapprovazione. «Una signorina come te non
dovrebbe farsi riempire la testa di grilli in questo modo.» Emma rimase in
silenzio, sorridendo educatamente e insultandolo mentalmente, mentre il
bibliotecario la scrutava dall’alto del suo scranno. «Avanti, fila, la strada
la sai!» Si rassegnò alla fine, azionando il meccanismo che apriva il cancello.
Emma
si avventurò fra le alte file di scaffali in legno scuro,
facendo scorrere la
mano destra sulle coste dei libri quasi potesse percepire le storie che
avevano
da raccontare solo sfiorandoli. Man mano che avanzava e che i suoi
passi risuonavano leggeri sul pavimento in pietra i libri si facevano
più vecchi, malconci e
impolverati. I libri nelle altre sezioni erano frequentemente
ristampati dalla
gilda dei tipografi, ma quelli erano codici vecchi di svariate decine
di anni e
non venivano sostituiti finché non cadevano a pezzi.
Stava
cercando i libri assegnatele dal professore quando il suo sguardo cadde
su un
grosso libro di pelle con delle borchie ai lati, che si trovava sullo
scaffale
più alto. Non sapeva perché attirasse così tanto
la sua attenzione. Forse per
l’aspetto antico e misterioso, o forse solo perché
sporgeva un po’ dallo
scaffale, o perché mancava il titolo. Circondato da libri molto
più piccoli e di materiale più scadente, sembrava essere
stato messo sullo scaffale sbagliato.
Non
sapendo resistere alla curiosità si guardò attorno cercando una scaletta. Ne
trovò una pochi scaffali più in là, in legno di noce come la libreria, con dei
ganci metallici in cima per agganciarla allo scaffale. La sollevò con qualche
difficoltà e, inciampando un po’, la posizionò accanto al libro che aveva
notato. Cercò di convincersi che probabilmente era solo un libro noioso, un
catalogo o un testo di vecchie poesie scritte male da qualche nobilotto
borioso, ma mentre si arrampicava non riuscì a soffocare uno strano senso di
aspettativa. Prese il libro dallo scaffale, notando con un angolo della mente
che non era impolverato come gli altri. Era così grande e pesante che era
difficile da maneggiare. Scese la scaletta stringendolo a se con un braccio e
andò a cercare un angolino appartato della biblioteca. Trovò una finestra a
incasso con un divanetto che faceva proprio al caso suo, in fondo alla già poco
frequentata ala di geografia e aprì la prima pagina con un timore reverenziale.
Atlante storico di Arhal e delle sue genti.
Il titolo la confuse. Aveva sentito dire che
Arhal era il nome con cui qualche studioso si riferiva alla terra emersa su cui
sorgeva la città, e aveva visto anche qualche mappa. Ma perché atlante storico?
E cosa voleva dire con “le sue genti?”
Un
rumore nella corsia accanto la fece sobbalzare e chiudere il libro di scatto.
Senza sapere bene perché nascose il libro sotto al divano e se stessa dietro
una tenda. Anzi, sapeva perché si era nascosta dietro la tenda: aveva
riconosciuto la voce di Rebecca Stieber e non voleva essere vista da lei in un
posto isolato e con un’espressione così colpevole stampata in faccia.
Con
suo orrore scoprì che Rebecca era in compagnia di un ragazzo. «Dai, qualcuno potrebbe
vederci…» stava dicendo il poverino con aria terrorizzata. Anche lei sarebbe
stata terrorizzata ad avere Rebecca così vicina. Era una ragazza carina, non la
bellezza prorompete di Yuri, una bellezza più sobria ma comunque apprezzabile.
Peccato
che fosse una delle persone più perfide che Emma avesse mai incontrato, ed essendo
nella sua stessa classe era sicura di parlare con cognizione di causa. A quanto
pare essere parte di una delle famiglie più potenti della Città fa questo
effetto.
«Non
ci vedrà nessuno bello. Questo è il reparto geografico.» da come lo disse lei,
“geografico” sembrava un’imprecazione ben peggiore di quelle che si sentivano a
Sianel. E a Sianel sapevano imprecare come da nessun’altra parte.
«Certo
tu sei tranquilla… se ci scoprono tu te la caverai con un rimprovero e una punizione. Io
invece…» “Bello” esitava molto nel parlare, come se Rebecca avesse potuto
staccargli la testa da un momento all’altro. Per un attimo se la immaginò come una
grossa mantide religiosa, come quelle che osservava da bambina sui pochi fili d’erba
che crescevano sulle rive dei canali. Effettivamente aveva uno strano modo di
tenere le mani quando camminava che rendeva il paragone con l’insetto ancora
più azzeccato. Chissà cosa avrebbe avuto da dire Yuri.
Ovviamente
a Rebecca non importava nulla di quello che sarebbe successo all’amico se li
avessero beccati, perché dal disgustoso rumore di risucchio pareva che gli si
fosse attaccata come una ventosa.
Le relazioni
fra studenti erano proibite, ma Rebecca era praticamente intoccabile quindi non
si curava molto di seguire le regole, anzi: le infrangeva solo per dimostrare
che lei poteva farlo.
Improbabile
che si potesse dire lo stesso per il povero Bello, Rebecca non era stupida e
non avrebbe mai giocato così con un suo pari. Emma cercò di trattenere un
sospiro e sbirciò fuori dalle tende. I due ragazzi erano circa a sei metri da
lei, appoggiati al muro in fondo alla fila di scaffali. Con un raro moto
d’orgoglio, decise che lei aveva diritto di essere lì tanto quanto Rebecca, e
che non si sarebbe nascosta come una ladra solo per paura di una ragazzina
viziata. E poi sembravano piuttosto impegnati, probabilmente sarebbe riuscita a
scivolare via senza farsi vedere.
Fece
qualche passo trattenendo il respiro. Era arrivata quasi al corridoio, poi
poteva sparire dietro un’altra fila di scaffali e… «Cos’è stato?»
Maledisse
con tutto il cuore Bello, la sua ipervigilanza e la piastrella sconnessa che l’aveva
tradita producendo un lieve tonfo, poi si girò piano cercando di sembrare tranquilla, anche se era sicura
di avere la stessa faccia rassegnata di una mucca con il cappio al collo.
Rebecca la vide ed emise un verso rabbioso.
«Cosa
ci fa qua dentro una stupida carpa come te? Dovevi proprio venire a
disturbarmi?»
Tu dovevi proprio venire qui a tormentare Bello,
con tutti i posti che potevi scegliere? Sarebbe
stato poco saggio rispondere in modo del genere, a meno che non avesse deciso
di passare il resto della sua vita come schiava in una miniera di carbone, così
si affannò cercando una risposta che non suonasse irrispettosa. «Io… leggevo?»
la frase le uscì come una domanda un po’ balbettante, che la fece vergognare di
sé. «L’ho capito che leggevi, siamo in una biblioteca! Sei più cretina di
quanto pensassi.» La guardò con disprezzo, riflettendo, mentre Emma si fissava
le scarpe. «O forse pensi che sia cretina io?» Aggiunse con tono minaccioso.
Era un
colpo basso, quello. Cioè, sì, pensava che fosse un po’ cretina, ma Rebecca
aveva una così alta opinione di sé che non avrebbe mai veramente creduto che
qualcuno la considerasse meno che perfetta, stava solo cercando di metterla in
difficoltà. «No… io…»
Non essere vigliacca, tirale un pugno! Un pugno
sul naso! O hai paura? La
accusò una voce in un angolo della sua mente, mentre cercava di decidere cosa
dire.
Non è che ho paura, è che non voglio guai.
Sì, hai paura.
Ok, ho paura, ma sono giustificata. Questa è
una squilibrata.
E allora rompile il naso.
Sì certo, quando vorrò essere arrestata e
impiccata nella pubblica piazza per aver aggredito una Stieber.
Probabilmente
aveva mantenuto uno sguardo vitreo per tutta la durata di questo piccolo dialogo
mentale. Unito al boccheggiare in cerca di una giustificazione doveva farla
sembrare una replica piuttosto fedele di una carpa.
Ora
Rebecca si trovava a circa cinque centimetri dal suo naso e la cosa la metteva un
po’ a disagio. Parecchio a disagio.
«Se
osi dire a qualcuno quello che hai visto ti ributto nel canale a cui appartieni.»
Disse glaciale. Evidentemente era già stufa di giocare con lei. Emma aveva
bisogno di deglutire ma si impose di non farlo. Guardò un attimo Bello da sopra
la spalla di Rebecca e non poté che provare pena per lui. Non lo conosceva:
frequentava troppo poco le aree comuni per conoscere i ragazzi della scuola.
La
cravatta rossa lo identificava come uno dell’ultimo anno, e lo stemma sulla
giacca come uno della gilda dei tipografi. Era piuttosto bello in effetti:
biondo, occhi turchesi, delicato… sembrava decisamente terrorizzato. «Non dirò
nulla a nessuno.» Disse decisa guardando Bello negli occhi per un attimo. Se non altro perché mi dispiace per te. Lui
sembrò sollevato ed Emma si aggrappò all’idea che se non denunciava il rapporto
illecito di Rebecca non era per paura delle conseguenze ma per generosità d’animo.
Solo Rebecca
non sembrava molto soddisfatta, forse avrebbe preferito che lei provasse a
denunciarla, così avrebbe avuto una scusa per farla cacciare fuori. Probabilmente
era anche per quello che l’aveva provocata tanto, sperando di spingerla oltre
al limite.
Se ne
andò con un passo marziale, lasciando lei e il ragazzo soli nel corridoio per
un attimo.
Bello
la fissava. Emma fissava il pavimento come se fosse la cosa più interessante
che avesse mai visto.
Dopo
un minuto, che evidentemente era il tempo di sicurezza che doveva aspettare
prima di seguire Rebecca da qualche parte, se ne andò anche lui, passandole
molto vicino. Emma faceva molta fatica a credere di averla passata liscia, ed
era abbastanza sicura che avrebbe subito altre ripercussioni in futuro. Si
affrettò a cercare sugli scaffali i libri che servivano e a tornare a scuola
prima che chiudessero i cancelli, prima del tramonto. Rimanere fuori dai
cancelli voleva dire passare la notte all’aperto, e se l’avessero trovata
sarebbe potuta finire nei guai. E guai, per la gente dei rioni che aveva la
fortuna di frequentare l’accademia, voleva dire guai molto brutti: peggio dell’espulsione.
Amavano usarli come esempio del perché la gente semplice non deve avere
ambizioni, appena ne avevano occasione.
In
camera trovò ad aspettarla una Yuri tornata completamente alla normalità, che
leggeva canticchiando seraficamente. Come facesse a leggere e contemporaneamente
a canticchiare per Emma era un mistero, ma il mistero era parte integrante di Yuri,
e lei la preferiva così che sconvolta. Forse.
«Ehilà!»
la salutò sorridente prima di reimmergersi nel suo libro. Poi fece un balzo
come se uno scorpione l’avesse punta. «Oh, Emy, ho una cosa per te!»
Prima o poi dovresti dirle che odi essere
chiamata così.
Preferisco non anticipare il momento in cui mi
sgozzerà nel sonno con la penna d’oca. Può chiamarmi come vuole.
Yuri frugò
nella borsa che usava per portare i libri a lezione e tirò fuori un tovagliolo.
Emma lo aprì e vide che era pieno di biscotti. Gli occhi le luccicarono voraci.
«Mi
dispiace averti fatto saltare così tanti pasti, così ho chiesto alla capo cuoca
se poteva darmi dei biscotti. Lei mi adora.» Emma sentì un’onda di calore
partirle dallo stomaco gorgogliante e arrivare al viso, fino a pungerle gli
occhi. Regalarle del cibo era il modo migliore di guadagnarsi la sua
riconoscenza. Specie se si trattava di dolci, cosa di cui la sua vita era
sempre stata tristemente priva. «Grazie…»
Avrebbe
voluto aggiungere altro… ma non sarebbe stato da lei. E poi poteva sembrare
esagerato reagire così per qualche biscotto. Aveva già la bocca piena quando
pensò che sarebbe stato educato dividere.
«Nhe
voi unho?» Chiese cercando di non sputacchiare troppe briciole e ignorando la
voce che le urlava “taci e divorati tutti
i biscotti”.
Con
suo grande sollievo Yuri declinò l’offerta ed Emma poté finire di abbuffarsi in
pace.
Ed ecco che è venuto
fuori questo misterioso atlante del titolo! Ma perché svelare
tutto subito quando può apparire la str**za di turno a far stare
tutti sulle spine? Sì, è un po' stereotipa in stile le
sorellastre di Cenerentola, ma visto che Emma ha conosciuto solo questo
lato di lei e che la storia è raccontata dal suo punto di vista
ho trovato appropriato rappresentarla così.
Avrei tanto voluto che Emma
avesse ascoltato la sua voce interiore e le avesse tirato un pugno sul
naso, ma più che altro per istinto di sopravvivenza ha preferito
evitare. Yuri sembra aver trovato la strada più diretta per il
cuore di Emma! Sarà stato un caso o una mossa calcolata?
Chissà! XD ----- 羽毛
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** I bagni ***
4 - i bagni
I bagni
Nessun Sianelese si ritirerebbe da una sfida, e i
bambini ancora meno degli adulti. Per quello uscì di casa in punta di piedi,
attenta a non fare il minimo rumore. Le riusciva bene, muoversi in silenzio e
senza farsi vedere: Agnes la paragonava spesso a un topolino silenzioso.
Anton la aspettava nascosto nel vicolo e assieme
corsero via nella fresca notte primaverile. C’era la luna piena a rischiarare i
loro passi, ma la luce non avrebbe raggiunto i bassifondi, che sarebbero stati
bui e spaventosi. La paura la attraversò con un brivido quasi piacevole mentre
ci pensava.
Bruno li raggiunse nella piazzetta dove i ragazzi
si trovavano sempre per giocare, strisciando contro il muro per restare in
ombra, e assieme scesero nei bassifondi senza dire una parola.
Se un qualsiasi adulto li avesse visti in giro a
quell’ora li avrebbe rispediti a casa così in fretta che la loro ombra non
avrebbe fatto in tempo a seguirli.
Poco dopo erano nascosti nel vicolo, dietro la
botte piena di acqua e di moscerini morti, a scrutare il pontile deserto. «Hai
visto? Non c’è nessuno, te l’avevo detto.» Esultò Anton, prima che lei gli
tappasse bruscamente la bocca con una mano.
Un’ombra scura stava salendo i gradini che conducevano
direttamente all’acqua, come se fosse sorta dal canale stesso. Fu seguita
subito da altre due ombre nere e da una figura più minuta, coperta da capo a
piedi di una veste bianca che brillò quando catturò un singolo raggio di luna,
riflettendolo.
Da dove erano arrivati? Non c’era nessuna barca
ormeggiata in quel momento, e i quattro erano perfettamente asciutti, non
potevano essere arrivati a nuoto. Avrebbe voluto correre via, ma al pari dei
suoi amici era paralizzata dal terrore.
Maurus arrivò pochi secondi dopo, coperto dalla
mantellina blu tipica dei pescatori sianelesi, spingendo la barca con una lunga
pertica. I quattro salirono in perfetto silenzio e si allontanarono fra lo
sciabordio dell’acqua e il lieve scricchiolio del legno.
Anton aveva la bocca spalancata e Bruno era
pallido come un fantasma. Lei si alzò subito con le gambe tremanti e andò a
guardare il punto da cui le quattro figure sinistre erano comparse.
I gradini scendevano di un metro e mezzo circa, e
finivano direttamente nell’acqua. Erano veramente comparsi dal nulla. Anton e
Bruno arrivarono alle sue spalle. «Te l’avevo detto che esistevano. E anche che
sono maghi.»
Anton tenne fede alla promessa davanti a una
folla di marmocchi che lo incitavano, e poi passò a letto un’intera settimana
con fortissimi crampi alla pancia.
Per i
giorni che seguirono Emma evitò Rebecca con più attenzione del solito, cercando
di non incrociare il suo sguardo in classe e infilandosi a tutta velocità in
qualche corridoio secondario appena le lezioni finivano.
Yuri
l’accompagnava fedelmente senza dare segno di accorgersene, eccetto il fatto
che fosse diventata insolitamente lesta nel raccogliere i libri e seguirla dopo le lezioni.
Nonostante
la sua attenzione non riuscì a evitare di incorrere negli incidenti più strani,
come ricevere secchiate d’acqua quando lavorava nel cortile, essere urtata con
un’insolita frequenza da ragazzine che correvano avanti e indietro nei
corridoi senza una meta apparente, o inciampare in gambe tese in strane attività ginniche.
Per
ora la sua evasività e la sua prontezza di riflessi le avevano
evitato la
maggior parte delle cadute rovinose o delle secchiate d’acqua, ma
ormai aveva i
nervi a pezzi per il continuo guardarsi le spalle. Rebecca le aveva
aizzato
contro tutta la scuola e non era al sicuro nemmeno in sua assenza. Non
è che non ricevesse scherzi di cattivo gusto anche prima, ma il
fatto che fossero così frequenti la stava lentamente logorando,
rendendola intollerante e irascibile.
Marzo
volgeva al termine e, nonostante piovesse quasi tutti i giorni, l’aria era
tiepida e sapeva di polline. Gli studenti della scuola passavano i pomeriggi
seduti sui muretti sotto i portici del chiosco grande, a guardare la pioggia
che scendeva, parlare, studiare, i più grandi anche a fumare. Emma lo evitava
come se fosse stato il focolare di un’epidemia di peste.
Un
pomeriggio rientrò in camera solo per trovare la scrivania sgombra e i suoi
libri scomparsi. Lo stomaco le si attorcigliò sgradevolmente. Qualcuno doveva
essere entrato per farli sparire. Il bibliotecario le avrebbe fatto
passare dei momenti decisamente poco piacevoli per quei libri scomparsi. Avrebbe dovuto
spazzare i pavimenti della biblioteca tutta l’estate per ripagarli… tutte le estati della sua vita, anzi.
Rassegnata
salutò Yuri e decise di andare in biblioteca. Tanto presto o tardi avrebbe
dovuto affrontare il problema, non valeva la pena di rimanere indietro con lo studio solo per
rimandare l’inevitabile.
Quando
arrivò allo scranno del bibliotecario e chiese l’accesso aspettò con la
sensazione di aver ingoiato una grossa pietra che lui, sfogliando i registri,
si accorgesse che aveva dei libri da restituire.
«Allora,
sempre reparto geografico?» Chiese con tono di disapprovazione. Emma alzò gli
occhi stupita. Si era aspettata un tono arrabbiato, dei rimproveri, o anche
solo che le facesse notare che doveva restituire i libri prima di prenderne
altri.
Sbirciò
il registro e vide, accanto al suo nome e alla runa di Sianel, l’elenco dei
libri che aveva perso coperti dal timbro che li indicava come restituiti.
Che
razza di scherzo stupido era rubarle i libri solo per restituirli alla
biblioteca?
«Allora
signorina! Pensi che abbia tutto il giorno?» Emma si riscosse all’improvviso,
arrossendo.
«Oh…
umh… sì. Geografico.»
«Tsk. Lo
sapevo io. Già è diventata mezza tonta a furia di leggere stupidaggini.»
Borbottò fra sé e sé aprendo il cancello. Emma non se ne curò e scappò via,
dimenticandosi dello strano episodio, già rapita dall’odore dei libri.
Fece
il percorso tortuoso che portava all’area geografica, proprio in fondo alla
biblioteca, in una zona nascosta e desolata.
Fu
quando arrivò alla finestra a incasso che, sentendo una scossa percorrerle
tutta la spina dorsale, si ricordò dell’Atlante. Se ne era accorto qualcuno? Si
abbassò e guardò sotto al divanetto. Era lì, in mezzo alla polvere dei secoli.
Lo tirò fuori con un po’ di fatica e si sedette. Si guardò
intorno furtiva e, appurato che non c’era nessuno a pomiciare nei paraggi,
allungò le gambe sul divano, mettendosi di lato perché la poca luce che c’era illuminasse
bene il libro.
Per
un
attimo si sentì in pace col mondo: nessuno lì
l’avrebbe disturbata questa
volta, era il suo territorio. Rebecca non sarebbe tornata in un giorno
così
piovoso, avrebbe rischiato di rovinarsi i capelli. Il pannello
più alto della finestra era aperto ed entrava l’odore del
glicine. Aprì delicatamente la prima pagina e si soffermò
un secondo sul
titolo, poi con il cuore in gola e la paura di essere di nuovo
interrotta, girò
la pagina.
Era
pergamena spessa e pesante, come quella dei libri molto antichi. Ormai erano
secoli che la carta era leggera e di qualità peggiore, ma più economica. L’aveva
studiato al corso di filologia: una carta di quel genere indicava che il libro
era vecchio di almeno quattrocento anni, constatò con timore reverenziale.
C’era
una cartina che occupava tutte e due le pagine, che rappresentava la terra.
Aveva già visto una mappa della grande terra emersa su cui si trovava la città,
ma mai così. Le mappe che aveva visto rappresentavano nei dettagli la città,
sulla costa ovest, e i campi esterni che le appartenevano verso sud, le miniere
un po’ più lontane, a est. Tutto il resto era indicato come un deserto.
Sfiorò
con il dito la zona di costa dove avrebbe dovuto esserci la città. Vuota.
Quella mappa risaliva a prima che le mura fossero costruite. Le avevano sempre
insegnato che la storia iniziava con la costruzione delle mura, messe lì da una
divinità benigna da cui discendeva in linea diretta il Patrono.
Prima
delle mura gli uomini erano selvaggi disorganizzati, che vivevano in
accampamenti di tende e morivano prima dei trent’anni. Senza cultura, senza
coscienza, senza morale, senza anima, che si arrabattavano per sopravvivere in
un deserto ostile.
Ma
quella mappa sembrava pensarla diversamente.
Ebbe
l’impressione che qualcuno le avesse infilato della neve nel colletto della
camicia, una scossa elettrica le fece solleticare la nuca e rizzare i capelli.
Quello era sicuramente un libro proibito. Non poteva essere una cosa
accessibile a tutti gli studenti. Erano proibite cose molto più innocue di
quella, quella era praticamente eresia. Un rumore improvviso e un lampo di luce
la fecero quasi urlare.
Un
fulmine era caduto molto vicino, sul campanile della biblioteca. Calmati… cercò di calmare la
respirazione e il tremito delle mani.
Ormai il libro l’ho visto, pensò. Tanto vale andare avanti. In realtà avrebbe dovuto fermarsi, e
fermarsi subito. Rimettere il libro dove l’aveva trovato e fingere di non
averlo mai visto. Ma la curiosità la teneva incollata alle pagine come un
magnete.
Dove
ora sorgeva la città non c’era nulla, ma più a nord
c’era una folta massa di
alberi, disegnati con un leggero tratto di china verde. Al limite sud
c’era un
puntino con una scritta: Khot. Aveva l’aria di essere una
città, anche se
infinitamente più piccola. Grande al massimo come una delle
gilde. A nord c’erano delle montagne, che spuntavano dalla
foresta. Sopra di esse erano segnati altri puntini, altri nomi.
Così come sulla
costa. Il centro della terra emersa sembrava essere un altopiano, lo
capiva
dalle linee isometriche, disegnate con inchiostro rosso. Non sembravano
esserci
alberi lì, se non vicino al fiume dove erano segnati altri due o
tre puntini,
con accanto i rispettivi nomi. Nel centro esatto c’era un
massiccio, da cui
nasceva il fiume Golyn che attraversava la Città ancora oggi.
La
costa est sembrava caratterizzata da scogliere frastagliate, altre
città, altre
zone boscose. A sud i boschi erano ancora più fitti, mentre a
nord c’erano
montagne e ghiaccio azzurrino. Si soffermò a lungo su ogni nome,
cercando di memorizzarlo. Erano suoni insoliti, che non aveva mai
sentito e che non era sicura di saper pronunciare, ma in qualche modo
cercò di ripeterli più e più volte nella sua
mente, cercando di ricordare con precisione il punto in cui li aveva
visti sulla mappa.
Il
suono della campana le fece di nuovo scorrere un fiume di panico attraverso le
gambe. Quanto tempo era rimasta a guardare la mappa? Era tardissimo, stavano
per chiudere i cancelli! Mise il libro sotto il divano un’altra volta e iniziò
a correre, stupita del fatto che anche se si sentiva le gambe fatte di gelatina,
tutto sommato erano ancora funzionanti.
Si
lanciò scivolando oltre al cancello che già si stava chiudendo, sopportando uno
sguardo di rimprovero da parte delle guardie. Ansimando fece vedere i documenti
e le due rune sull'avambraccio, e appena ricevette il via libera ricominciò a correre.
Arrivò
in camera gocciolante e stravolta. Yuri sembrava essersi preoccupata per il suo
ritardo, perché appena Emma entrò nella stanza sollevò lo sguardo dal libro che stava
leggendo e la studiò con attenzione. «Emy stai bene?»
«Benissimo.»
disse decisa. Non poteva raccontare a nessuno del libro, soprattutto a Yuri. Conoscendola,
sarebbe andata in giro canticchiando “la mia compagna di stanza ha letto un
libro proibito” senza nemmeno rendersene conto. E poi non le piaceva tanto l’idea
di metterla nei guai.
«Non
hai preso i libri.» Le fece notare con tono leggero.
«Piove.»
Disse cercando di giustificare il fiato corto e l’aria sconvolta.
«Avevo
notato anch’io.» Disse Yuri con comica mancanza di ironia, guardando fuori
dalla finestra. La loro stanza era proprio sotto un doccione, e quando pioveva
una rumorosissima cascata d’acqua scorreva proprio fuori dalla loro finestra
per andare a schiantarsi in strada tre piani più sotto. Faceva così tanto
rumore che dovevano parlare molto forte per capirsi.
«Sì,
piove.» Aggiunse Emma più decisa. «È perché piove che non ho preso i libri, si sarebbero
bagnati e sono rimasta fino a tardi perché qui non avrei potuto studiare ecco…»
Fece un respiro profondo. Aveva parlato così in fretta che le era mancato il
fiato prima di finire. «Ecco perché non ho preso i libri.»
Le
sembrò di vedere un sorriso diverso dal solito sol volto di
Yuri, quasi di
trionfo o di divertimento. Ebbe la netta sensazione che la sua compagna
sapesse qualcosa che a lei sfuggiva. Durò appena un attimo, poi
tornò allo sguardo stralunato di sempre. «Ah
– ha.» Commentò prima di rimettersi a studiare,
indifferente. Sto diventando seriamente paranoica, decise
Emma. Un rischio che si corre quando si leggono libri proibiti.
Si
sentiva gelare fino nelle ossa, e non solo perché era completamente bagnata.
«Vado
a lavarmi. Ci vediamo a cena.» Annunciò cercando di mettere assieme tutta la
compostezza e la dignità che riuscì a racimolare. Mise un asciugamano e una
divisa asciutta in un cesto e partì di corsa alla volta del bagni.
I
bagni c’erano su ognuno dei tre piani di dormitorio e la prima volta che li
aveva visti, abituata a lavarsi a secchiate con l’acqua del pozzo, aveva quasi
pianto dalla commozione.
C’erano
due grosse vasche di acqua, una fredda e una bollente. L’acqua veniva attinta
da una sorgente calda con un ingegnoso sistema di tubi, che servivano anche a
scaldare l’edificio, e poi scaricata nel fiume. Di solito li usava a notte
fonda, appena prima che svuotassero le vasche, quando era sicura di non trovare
nessuno, ma adesso aveva veramente bisogno di stare a mollo nell’acqua calda.
Fu
fortunata: nell’anticamera c’erano solo un paio di cestini contenenti le
uniformi pulite, riposte con cura sullo scaffale apposito. Sistemò anche la
sua, avendo cura di metterla in modo che lo stemma blu e arancione, simbolo di
Sianel, non fosse visibile.
Poi
si
spogliò lasciando l’uniforme bagnata di pioggia nella
cesta del bucato ed entrò
nella stanza calda e piena di vapore. Le due ragazze già
presenti
chiacchieravano in un angolo, lavandosi la schiena a vicenda. Erano del
primo
anno, due ragazze della gilda dei farmacisti. La guardarono appena.
Senza
vestiti, con il fisico minuto e il viso tondo, nessuno avrebbe mai
detto che
era già al terzo anno. A stento sembrava una del primo. Se a
questo si aggiunge il fatto che difficilmente i suoi lineamenti
restavano impressi nella memoria, contò sul vapore e
sull’assenza
della divisa per mascherare la sua identità, e si immerse in
fretta in acqua
dando le spalle alle ragazze per sicurezza.
Appoggiò
la testa sulle braccia incrociate sul bordo della vasca e chiuse gli occhi. In
pochi istanti il calore le entrò fino nelle ossa, lasciandole le membra
piacevolmente intorpidite e la mente un po’ annebbiata. L’acqua calda e il
chiacchiericcio sommesso erano riusciti a farla rilassare un pochino, anche se
aveva ancora la sensazione di avere un’ancora sul petto.
Non
riusciva a togliersi la mappa dalla mente. Poteva essere pericoloso dire a
qualcuno che l’aveva vista. Le persone venivano mandate nelle miniere e nei
campi esterni per molto meno, e le poche persone che aveva visto tornare dai
campi esterni erano ridotte a gusci vuoti, scheletri con lo sguardo fisso. Era
una pena peggiore della morte.
Come
il nonno di Anton.
Le venne
una fitta allo stomaco ricordando il suo amico. Non parlava con lui da quando aveva
iniziato la scuola, tre anni prima. Stava bene o si era messo nei guai? Le
avrebbero scritto se gli fosse successo qualcosa? Si strofinò gli angoli degli
occhi, poi tuffò la testa sott’acqua.
Le
ragazzine erano andate via ed Emma uscì dall’acqua per insaponarsi. Doveva
essere tardi. Quel giorno il tempo sembrava scorrere a velocità doppia… O forse
era lei, appesantita da tutti quei pensieri, a funzionare a velocità dimezzata.
Dopo
essersi sciacquata si avvolse nell’asciugamano e uscì.
Qualcosa
era profondamente sbagliato, se ne accorse subito, ma ci volle un attimo perché
capisse cosa non andava, e quando lo realizzò un’ondata di puro panico partì
dal centro del suo stomaco e le inondò le gambe e le braccia, dandole la
sensazione di avere un grosso sacco di farina legato ad ogni arto.
L’anticamera
era deserta. La sua uniforme era sparita. Il suo cesto era desolatamente vuoto.
Con le gambe che tremavano e una seria voglia di piangere di rabbia guardò nel
cesto della biancheria sporca. Sparita anche quella.
Doveva
uscire e tornare in stanza solo con l’asciugamano, che la copriva a stento? Ma avrebbe dovuto passare
dal ballatoio per arrivare in camera sua, l’avrebbe vista chiunque, anche i
ragazzi: a quell'ora erano tutti radunati nel chiosco. Avrebbe dato spettacolo. Magari sarebbe stata espulsa per
comportamento osceno.
Poteva
chiamare qualcuno, ma nessuno l’avrebbe aiutata: l’unico risultato sarebbe
stato radunare un folto gruppo di studenti che assistesse alla sua pubblica
umiliazione.
Aveva
l’impressione che una forza premesse da sotto la sua pelle in ogni direzione,
cercando di liberarsi. Un mostro imprigionato in uno spazio troppo stretto che
si dibatteva disperatamente cercando di uscire, a costo di farla esplodere in
minuscoli coriandoli, e lei avrebbe voluto lasciarlo fare.
Ridotta
in coriandoli avrebbe risolto la maggior parte dei suoi problemi.
Però
evidentemente la sua pelle era troppo dura per il mostro, che poteva solo
dibattersi e farla stare ancora peggio. Urlò frustrata, tirando un pugno al
muro, poi sibilò fra i denti un rosaio di imprecazioni fra le migliori di
Sianel, massaggiandosi le nocche ammaccate. Non era servito a nulla.
Se invece di tirare un pugno al muro l’avessi
tirato a Rebecca, come ti avevo suggerito, sicuramente ti avrebbe fatto stare
meglio e a quest'ora non saresti qui.
No, a quest'ora sarei in una cassa da morto nel forno crematorio.
Si
accucciò in un angolo della sala, le ginocchia strette al petto, rassegnata ad
aspettare che arrivassero le donne che avrebbero dovuto svuotare la vasca, a
notte fonda. Intanto il mostro ancora si dibatteva, facendole male.
«Emy
sei ancora qui?» Emma sollevò la testa con il sollievo che la invadeva come
un’onda bollente, più calda dell’acqua del bagno. Saltò subito in piedi
cercando di apparire calma e padrona della situazione, per non perdere del
tutto quella poca dignità che le era rimasta, ma la voce le tremava.
«Mi
hanno rubato la divisa mentre facevo il bagno, non sapevo come uscire e…» Si
interruppe prima che la sua voce cedesse un po’ troppo, e scrollò le spalle con una
nonchalance perfettamente simulata. O almeno era quello che sperava. «E niente, stavo aspettando che arrivassero le inservienti a
svuotare la vasca.»
Yuri
la abbracciò affettuosamente, senza preavviso e senza darle il tempo di capire
cosa stesse succedendo e di scansarsi. Nonostante quell’abbraccio fosse stato
decisamente non richiesto, Emma sentì il nodo della tensione accumulata in
quelle settimane sciogliersi dentro di il petto e si trovò pericolosamente
vicina alle lacrime.
Si
tirò indietro bruscamente, tirando su col naso e cercando di riprendere il
controllo. Coglierla di sorpresa a quel modo era quantomeno scorretto.
«Va
tutto bene, te ne vado a prendere una subito.» La rassicurò con fare materno
dandole dei colpetti sulla spalla e lasciandola ancora più basita.
Yuri
sparì di corsa e tornò un minuto dopo, dandole appena il tempo di ricomporsi.
«Mi
sono preoccupata non vedendoti arrivare per cena. Magari se corriamo facciamo
ancora in tempo.» Spiegò mentre Emma si rivestiva con la divisa invernale. Era
un po’ troppo pesante, di lana spessa, ma quelle primaverili erano sparite
chissà dove. Con un po’ di fortuna le avrebbe ritrovate in lavanderia.
«Non
ho fame… sono troppo stanca.» Yuri sgranò gli occhi. Poi si avvicinò e le posò
una mano fresca sulla fronte. Emma si ritrasse. Cos’era, la giornata cittadina
del contatto fisico indesiderato? «Non ho la febbre.»
«Oh…
allora hai mal di stomaco?»
«Non
ho nemmeno mal di stomaco!» Emma cominciava ad essere un po’ offesa. «Non posso
non avere appetito senza essere malata?» Dallo sguardo di Yuri, che la
osservava come se dovesse manifestare da un momento all’altro i primi segni di
una malattia mortale, era evidente che la pensava proprio così.
«Tranquilla,
sto bene. Sono solo stanca. Sbrighiamoci con la corvè così posso andare a
letto.»
Oheyyy!!!
Che dire? In questo capitolo viene fuori qualche lato in più di
Emma. A suo modo piuttosto fifona, ma troppo curiosa per farsi fermare
dalla paura. Cosa che ammiro, visto che in una situazione del genere,
onestamente, proverei profondo disinteresse per qualsiasi cosa potesse
mettere in pericolo la mia vita. E nonostante sia una tosta che
sopporta stoicamente qualsiasi maltrattamento (in fondo lo sapeva che
l'accademia sarebbe stata così) ha anche lei un punto di rottura
in cui diventa quasi umana. Certo non era una situazione senza via
d'uscita la sua, prima o poi qualcuno sarebbe arrivata ad aiutarla in
ogni caso, ma è stato uno scherzo abbastanza antipatico secondo
me. Per fortuna che c'è Yuri, più presente di quello che
sembra.
Certo che, un abbraccio così a sorpresa... che cosa sleale! tsk!
Grazie
mille a chi ha letto fin qui, recensendo o leggendo in silenzio! Le
opinioni, positive o negative che siano, fanno sempre piacere, ma anche
vedere che ci sono tante visualizzazioni mi fa felice ^^
Alla prossima! 羽毛
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** I dormitori ***
Il dormitorio
I dormitori
Nota: in
questo capitolo il "piccolo Anton" avrà un dialogo più
lungo del solito con Emma, e sono venute fuori tutte le sue carenze
grammaticali. Un po' perché qui ha solo sei anni, un po'
perché proprio di suo non ne azzecca una. E non sapete
quanto la cosa faccia sentire Emma frustrata! Povera, la capisco.
Comunque vogliate per favore essere pazienti con lui <3 <3. --- 羽毛
Si
svegliò nel cuore della notte, sentendo qualcuno urlare. Un urlo
disarticolato, che aveva poco di umano. Sua madre si era messa a sedere
sul letto, poi evidentemente aveva deciso che la fonte del rumore non
le interessava un granché, ed era tornata a dormire. Nel giro di
un minuto il suo respiro era tornato regolare.
Sua madre non si interessava molto di niente. Mai. Soprattutto se riguardava lei.
Avrebbe
voluto essere rassicurata, quel grido l’aveva spaventata, ma
sapeva di non poter trovare conforto presso sua madre. Dal piano di
sotto ancora arrivavano dei gemiti, che le facevano rizzare i capelli
sulla nuca. Decise che l’unico modo di calmarsi e tornare a
dormire era andare a vedere chi faceva quei rumori e dimostrare a
sè stessa che c'era una spiegazione assolutamente razionale. In
fondo aveva sei anni, presto avrebbe iniziato la scuola. Non aveva
più l’età per raggomitolarsi sotto le coperte e
piangere di paura.
Uscì
in punta di piedi, senza produrre il minimo rumore. Ormai era
bravissima ad andare e venire senza che sua madre la sentisse.
Aprì la porta di uno spiraglio e scivolò fuori. Quasi
urlò di paura quando andò a sbattere contro
un’ombra nera. «Shhht, sono io!» Bisbigliò
Anton prima che lei potesse emettere un fiato.
«Cosa
succede a casa tua?» Chiese sedendosi sui gradini e cercando di
spiare al di là della ringhiera di legno un po’ marcio.
Anton sembrava molto a disagio. «Sono arrivati i miei
nonni.»
«I
tuoi nonni? Pensavo che avessi solo una nonna.» Anton scosse la
testa e fece la classica espressione cospiratrice che assumeva prima di
rivelarle un segreto. Lo sapeva anche senza bisogno vedere bene il suo
volto.
«Mio
nonno era nei campi esterni, perché era un ribelle. Adesso non
può più lavorare perché è troppo vecchio e
malato e l’hanno mandato a casa a morire.»
Fece una smorfia scettica. «Non poteva essere un ribelle. I ribelli li uccidono subito, non li mandano nei campi.»
«Era
un ribelle ti dico!» Insistette Anton oltraggiato. «Gli
hanno tagliato la lingua e l’hanno mandato a lavorare fuori.
È peggio della pena di morte. Ed è perché era un
ribelle fortissimo, la pena di morte non bastava.»
Era
ancora un po’ scettica. Aveva sentito dire che i ribelli, o
almeno quei pochi che c'erano stati, venivano impiccati davanti a tutti.
«E
allora perché l’hanno rimandato a casa, se era un ribelle?
Potrebbe ribellarsi di nuovo, no?» Chiese con una smorfia. Anton
assunse un tono sinistro.
«Perché
così gli altri ribelli vedono che è diventato matto, e
che non ha più la lingua, e si spaventano.»
«Ah.»
Si limitò a commentare. Aveva senso. Infilò le gambe
negli spazi della ringhiera e le lasciò dondolare nel vuoto,
fissando la strada sotto di loro. Anton si sedette sul gradino sopra di
lei.
«Io
non ho paura però. Mia nonna dice che gli somiglio tanto. Non
come è adesso, senza lingua e senza capelli e
tutto…» Esitò un attimo. «… Tutto
magro. Dice che sono uguale a lui quando era giovane. Anche io da
grande divento un ribelle, come lui.» Annunciò fiero.
«Non dire scemenze! Vuoi che ti taglino la lingua?»
«Voglio che vedono che non ho paura di loro, anche se hanno fatto male a mio nonno.»
Rimasero
in silenzio un po’. Aveva sentito raccontare che anche solo a
parlare dei ribelli, se si veniva sentiti dalla persona sbagliata, si
potevano ricevere punizioni tremende, ed ebbe paura per Anton. Un
ragazzino con cui Anton giocava spesso aveva raccontato loro che un
amico di suo cugino, solo perché aveva raccontato in giro delle
storie su alcuni ribelli che vivono nel sottosuolo, era stato picchiato
da due guardie finché non aveva ammesso fra le lacrime che i
ribelli non esistono e che si era inventato tutto. Gli avevano rotto il
braccio e ancora adesso era tutto storto e non funzionava bene.
Rabbrividì, immaginando Anton che piangeva col volto
insanguinato e un braccio che penzolava con un angolo innaturale, e
pregò che facesse più attenzione.
«Perché
tuo nonno è venuto qui? Non può vivere con tua
nonna?» Anche sapendo che era il nonno del suo amico,
Emma avrebbe preferito che quell'uomo se ne andasse da qualche
altra parte a gridare nel cuore della notte. Ovunque, basta che fosse
fuori portata di udito. Quelle urla la spaventavano ancora parecchio.
«Perché
è diventato matto, e la nonna non riesce a occuparsi di lui da
sola. Rischia di farle male.» Rimasero in silenzio ancora un
po’.
«E
perché sei qui sulle scale?» Gli chiese con un sorriso
malizioso. «Hai paura di lui? Per il modo strano in cui urla
vero?» Nonostante la debole luce lunare le guance di Anton si
imporporarono visibilmente.
«Paura? No, certo che no!» Anton si sforzò di ridere. «Sono venuto a vedere se TU avevi paura!»
«Io
non ho paura!» Protestò lei, punta sul vivo. «Ho
sentito urlare e pensavo ci fossero dei ladri. Sono uscita per venire a
difenderti!» Si rimbeccarono a vicenda per un po’ e senza
accorgersene alzarono la voce, finché Agnes non li sentì
e andò a trascinare via Anton per un orecchio, suggerendo anche
a lei di tornare a letto.
Poche
settimane dopo, al modesto funerale che la famiglia di Anton aveva
messo su per suo nonno, sentì Agnes raccontare a una signora che
suo suocero non aveva mai avuto niente a che fare coi ribelli. Aveva
solo parlato a sproposito, fatto una battuta di spirito su una delle
famiglie del Cuore, ed era stato sentito dalla persona sbagliata. Anton
non stava ascoltando, stava lanciando sassi nel canale qualche metro
più in là, studiando con espressione corrucciata i cerchi
che si formavano nell’acqua.
Per
un attimo pensò di raccontargli tutto, ma poi decise di mordersi
la lingua. Anche se aveva solo sei anni sapeva già che tutti,
per crescere nei rioni, avevano bisogno di un eroe da ammirare. Non
sarebbe stata lei a portarglielo via.
Comunque, alla fine, era proprio come pensava. I ribelli li uccidono subito.
Le
preoccupazioni di Yuri sulla sua salute si rivelarono fondate quando la
mattina dopo venne svegliata dalla compagna che la scuoteva.
«Emy, Emy siamo in ritardo!»
Sentire il panico nella voce della compagna le face capire che erano veramente in ritardo, e veramente nei guai. Quand’era stata l’ultima volta che non aveva sentito la campana? Non lo ricordava nemmeno.
Scattò
in piedi e si rese conto che le gambe non la reggevano. Cercò di
non dare a vedere quanto le girasse la testa e si vestì.
Nonostante la divisa fosse troppo pesante per l’aria tiepida che
soffiava in quei giorni, sentiva brividi freddi correrle lungo la
schiena. Non poteva permettersi di perdere la giornata, già il
giorno prima non aveva aperto nemmeno un libro. "Anzi, un libro l’ho aperto." Pensò
col groppo in gola ricordando il grosso tomo nascosto sotto al divano
della biblioteca. Si precipitarono a lezione correndo, ormai troppo in
ritardo per la corvè, e arrivarono che la campanella era appena
suonata.
«Siete
in ritardo voi due.» osservò il professore con tono
severo. In realtà doveva ancora arrivare parecchia gente, ma
siccome gli altri ritardatari non erano dei rioni, era irrilevante.
«Ci
scusi professor Weimer. La mia compagna si è sentita male e
l’ho accompagnata in infermeria.» Mentì Yuri
prontamente, con una dolcezza e un candore che sciolsero il cuore del
professore istantaneamente. Il professor Weimer era un falso cattivo.
Sesto figlio di una famiglia nobile, magro come il manico di un
rastrello e interessato solo alla matematica, le rimbrottava sempre con
severità, ma bastava che una studentessa gli sorridesse
perché lui arrossisse e si dimenticasse quello che stava facendo.
Se
la studentessa era Yuri, comunque, erano pochi i professori immuni. Le
vecchie superstiziose di Sianel avrebbero detto che quella ragazza era
una strega. «Si sente meglio, signorina Creuza? Non farebbe
meglio a restare in infermeria tutta la giornata?»
Emma
scosse la testa, guardando a terra imbarazzata consapevole dello
sguardo delle sue compagne di classe. «Solo un malore passeggero
professore.»
Il
professore non se ne interessò nemmeno un secondo di più,
e si limitò a fare un cenno nervoso con una mano verso i loro
banchi in fondo alla classe, perché si sedessero in fretta.
Rischiò
di addormentarsi più volte nel corso della lezione, la campana
del pranzo era un miraggio lontano. Più lontano del solito,
almeno.
Comunque,
realizzò all'improvviso profondamente demotivata, prima di
potersi riposare avrebbe dovuto pulire il ballatoio dei tre piani dei
dormitori, il ché non era certo una prospettiva allettante: era
un lavoro lungo che faceva venire mal di schiena. Cercò di
sbrigarlo il più in fretta possibile, ma ci vollero comunque
quaranta minuti, alla fine dei quali era molto intirizzita.
Avrebbe
voluto saltare il pranzo ma sapeva che la cosa avrebbe fatto
preoccupare Yuri, così si costrinse a mangiare della zuppa calda
e poi arrancò più in fretta che potè fino in
camera, dove, dopo aver lanciato un’occhiata nostalgica al letto,
si impose di sedersi alla scrivania: aveva un mucchio di compiti da
recuperare.
I
raggi di sole passavano attraverso le foglie degli alberi. La luce era
strana, calda e densa. Lei camminava, gli stivali calpestavano foglie
bagnate sollevando profumo di terra. I pantaloni avevano uno strappo
dove si era impigliata in un rovo. Il cuore le pulsava in petto con una
fretta che era dovuta solo in parte alla camminata. Era spaventata,
sì, e nervosa... ma anche elettrizzata. All’improvviso gli
alberi finirono. Davanti a lei c’erano delle colline brulle, con
poche chiazze di cespugli o alberelli rachitici. All’orizzonte,
dietro una collina lontana, c’era un fronte di nuvole nere,
nonostante il libeccio avesse spazzato via le nubi su tutto il resto
della costa. Le sembrò di vedere qualcosa che superava la cresta
di una collina. Qualcosa di squadrato. Opera dell’uomo. Il suo
cuore fece un buffo sobbalzo, come se fosse inciampato dopo tutto quel
correre. Là. È là che ci sono le mura, che
corrompono tutto.
«Emma?»
Emma si sveglio di soprassalto, con la schiena dolorante e scossa dai
brividi. «Mettiti a letto se sei stanca.» Le disse Yuri con
voce dolce e bassa, come a non volerla disturbare troppo.
Fuori
era già buio e pioveva ancora. Di nuovo non aveva studiato quasi
nulla. Le colline brulle del sogno erano ancora impresse nel retro
delle sue palpebre. Aveva la testa più pesante che mai,
così accettò il consiglio e si infilò sotto le
coperte.
Aveva
il fiato corto e le spalle doloranti per il peso dello zaino.
C’era sempre meno luce, i suoi passi risuonavano sulla ghiaia.
Poi una gran confusione, uomini armati, senza capelli, con i vestiti
dello stesso colore della terra delle colline, saltarono fuori
all’improvviso, circondandoli.
Il
giorno dopo si svegliò e la prima cosa che vide fu che il sole
era alto. Presa dal panico saltò in piedi per chiamare Yuri e si
accorse che non c’era. C’era un biglietto sul suo letto
rifatto.
“Emy, resta pure a dormire. Ti giustifico io con il professore. Rimettiti in salute, ci vediamo a pranzo!”
Un
vago ricordo di mani sulla fronte e di sapore di medicina le
affiorò nella mente, facendole provare un certo imbarazzo. Era
stata male tutta la notte?
La
cosa che ricordava meglio erano sogni agitati e comunque confusi di
sangue, battaglia e corsa su un terreno friabile. Sentiva ancora la
sensazione delle mani e delle ginocchia sbucciate che bruciavano, si
sentiva dolorante come se avesse effettivamente combattuto, ma era
abbastanza sicura di non avere più la febbre.
Sulla
scrivania c’era del latte ancora tiepido e del pane, che
sbocconcellò guardando il sole che splendeva sul palazzo del
Patrono, uomo misterioso che di rado compariva in pubblico.
L’aveva visto quattro anni prima, durante i festeggiamenti per i
sedici anni del suo erede. Non ricordava con esattezza il suo volto, ma
ricordava bene l'erede, un ragazzo non molto più grande di lei,
con occhi violetti e capelli argentati. Si dice che quando nasce
qualcuno con quelle caratteristiche nella famiglia reale seguono molti
anni di prosperità e grandi cambiamenti.
Si
dice anche che i regnanti con gli occhi violetti abbiano un carattere
instabile e i poteri di un dio. Decisamente non la migliore delle
combinazioni. Ma ovviamente questo non veniva mai detto ad alta voce.
Cercò
di rimuovere gli ultimi flash della nottata facendo colazione, poi
raccolse i libri che aveva trascurato per due giorni e si mise a
studiare, con la coperta di lana grigia buttata sulle spalle.
Ad ora di pranzo la porta si aprì piano e Yuri mise la testa dentro.
«Meglio?»
Emma annuì e Yuri parve sinceramente contenta. Mangiò con
una certa voracità la scodella di pasta in brodo che le aveva
portato, mentre Yuri la osservava seduta sul suo letto, con una postura
protesa verso di lei e l’espressione di chi aveva qualcosa da
chiedere.
«Sì?» Chiese Emma incuriosita, invitandola a parlare.
«Sta notte parlavi nel sonno.» Imprecò
mentalmente, usando parole che pronunciate ad alta voce le avrebbero
fatto crollare il soffitto in testa. «Hai parlato di un
atlante.»
Emma
cercò disperatamente di controllare l’espressione del
viso, cosa in cui riusciva malissimo. Infatti aveva l’aria di
qualcuno che sta ingoiando un piccione vivo e molto combattivo. "Ecco
fatto. Ora verrà qualcuno ad arrestarmi. Verrò deportata
nelle miniere… con la mia corporatura esile sarei perfetta per i
tunnel più angusti, mi manderebbero ad esplorare i peggio posti
finché non rimarrò incastrata o crollerà un
soffitto e io farò la morte del ratto…"
«Deliravo.»
disse asciutta, cercando di mettere a tacere la parte della sua mente
che farneticava in preda al panico e ingoiando una grande sorsata di
brodo bollente che le ustionò gravemente la gola.
«Sì,
un po’.» Riconobbe cortesemente Yuri. «Capita quando
si legge la mappa per la prima volta.»
«Ne
ho viste parecchie di mappe. Studio geografia.» Emma
continuò ostinatamente a bluffare, più concentrata sulla
necessità di allenarsi davanti allo specchio a fare una faccia
normale che su quello che Yuri stava dicendo.
«Ma
quello era diverso. Non negare. L’ho visto anch’io.»
Emma rinunciò ad ogni contegno e strabuzzò gli occhi,
boccheggiando alla ricerca di qualcosa da dire. Fu Yuri a rompere il
silenzio.
«Non
l’hai portato in camera vero?» Emma scosse la testa e Yuri
sospirò di sollievo. «Non devi farlo vedere a nessuno,
ok?»
Emma
si sentiva abbastanza confusa. Yuri era molto diversa dal solito, seria
e concentrata. Ricordò il lampo di trionfo che l’aveva
attraversata due sere prima, quando era tornata dalla biblioteca
sconvolta. «Tu già sapevi che lo stavo leggendo,
vero?» Yuri si morse le labbra, sembrava stesse soppesando le
parole.
«Sospettavo che l’avessi trovato, ma non potevo dirti niente finché non fossi stata sicura.»
«Che cosa sai di quel libro?»
Yuri
si alzò, guardò nervosa fuori dalla porta, poi la
richiuse e si sedette accanto a lei, trascinando la sedia dalla sua
scrivania a quella di Emma. La sensazione di essere parte di una
cospirazione si fece più forte.
«Compare
periodicamente in biblioteca, in aeree diverse... ma soprattutto in
quella di geografia. Ogni tanto uno studente lo trova e lo legge. Poi
scompare, per un mese, un anno, tre anni, non c’è una
regola. L’hai letto tutto?»
«No, ho solo visto la mappa.»
«L’hai
lasciato sullo scaffale?» Emma negò di nuovo, gli occhi
spalancati fissi in quelli grigi e seri della compagna.
«L’ho nascosto sotto un divano.»
«Bravissima,
questo è molto importante!» Disse Yuri sorridendo
entusiasta, di nuovo se stessa, per poi tornare seria un attimo dopo.
«Se l’avessi messo sullo scaffale non l’avresti
più trovato. Intendi tornare a leggerlo vero?»
Emma
non sapeva cosa rispondere. «Tu l’hai letto tutto?»
Yuri annuì, guardando distrattamente fuori dalla finestra.
«Che mi consigli di fare?»
«Dipende.»
Emma
si passò le mani fra i capelli, cercando di non cedere alla
tentazione di mettersi a letto e dormire fino alla vecchiaia.
«Dipende da cosa?» Chiese cercando di non perdere la
pazienza.
«Da
tante cose.» Iniziò a dire Yuri con voce assorta. Poi,
forse vedendo lo sguardo esasperato di Emma, sorrise con dolcezza.
«Dipende da quanto ti interessa sapere la vera storia, da quanti
rischi sei disposta a correre per conoscerla... Soprattutto da quanto
sei felice delle cose così come stanno.»
«Da quanto sono felice? Cosa centra questo?»
«Se
pensi le tue prospettive per il futuro siano buone, se ti sta bene
avere meno opportunità degli altri solo perché sei nata
in un rione, se pensi che la Città venga gestita nel migliore
dei modi… Allora ti consiglio di andare in biblioteca e
rimettere il libro sullo scaffale. La mattina dopo non lo troverai
più, potrai continuare con la tua vita come se niente fosse
successo.»
Emma
tacque pensosa, mentre una serie di immagini si susseguì nella
sua mente, troppo confusa per esprimersi a parole. Pensò a Jane
che piangeva in cucina, al nonno di Anton, al dolore dell’ago
sulla pelle ogni volta che le rinnovavano le rune, una volta
l’anno, e alle catene che legavano ognuno nel proprio angolino di
terra. All’ombra delle mura che incombeva sulla loro vita, a come
le aveva viste in sogno, spuntare da sopra le colline brulle. Corrompere tutto.
No, quello non centrava. Era solo un sogno, e avrebbe fatto meglio a scordarsene.
Forse
in quel libro era nascosto un segreto per uscire dagli schemi che
avevano regolato la sua vita da quando era nata? Yuri le lesse la
risposta negli occhi.
«Allora leggilo. Devi sapere come stanno veramente le cose, se vuoi sperare di cambiarle.»
Emma
sospirò e lasciò cadere la testa sulla scrivania con un
sonoro tonfo. Qualcosa le diceva che conoscere la verità non
sarebbe stata una cosa priva di rischi. Poi, come colta da una
rivelazione improvvisa, guardò Yuri a bocca spalancata.
«Che
cosa c’è?» Chiese toccandosi i capelli rossi, come
per cercare un insetto che ci fosse rimasto incastrato. Emma scosse la
testa, scioccata. «Niente è che… ti facevo molto
più… svampita.» Yuri le fece l’occhiolino,
divertita.
«È una cosa che prima o poi mi dicono tutti.»
Hey!!
Yuri
ha rivelato qualcosa in più su di sé, cioè che
è ancora più incasinata di quanto si pensi °___°
Viene
fuori anche il cognome di Emma, che non era mai stato pronunciato
prima. L'avevo deciso fin dall'inizio ma ora lo sapete anche voi
:p
Piccola
curiosità: il suo cognome viene dalla canzone Creuza de Ma, di
De Andrè, che è un po' il mio personale tormentone
estivo, tanto che ci ho scritto sopra pura una one shot XD. La canzone
non c'entra nulla con la storia e aver messo parte del titolo come
cognome della protagonista è solo un omaggio. Comunque, visto
che farsi una cultura musicale non è mai mala cosa, vi lascio il
link della canzone, nel caso non l'aveste mai sentita. <3https://www.youtube.com/watch?v=KoVxtw5V3GQ
P.S:
Le immagini le scelgo da deviant art, cercando qualche cosa che renda
una vaga idea dell'atmosfera e dell'ambiente. Non sono state fatte
apposta quindi non sempre coincidono con le cose come descritte nella
storia, ma soprattutto non le ho create io. Se schiacciate con il
pulsante destro sull'immagine troverete l'URL originale. Non è
assolutamente mia intenzione prendermi il merito per i disegni, anche
perché so disegnare solo omini stecchino e verrei sgamata
subito. Love <3 --- 羽毛
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** La mensa ***
La mensa
La mensa
Aveva
ancora sulla lingua il sapore della colazione speciale preparata da
Agnes in occasione del loro primo giorno di scuola. Chissà come,
si era procurata dello zucchero e aveva preparato una torta, un
po’ secca e friabile ma dolce. Le era piaciuta tantissimo,
distraendola per qualche attimo dall’ansia che provava da giorni.
Le sembrava impossibile imparare a dare un senso a tutti quei simboli
che vedeva incisi sui cartelli o scarabocchiati su manifesti
dall’aria ufficiale. Era sicura che sarebbe stata una frana.
«Fate
quello che vi viene detto senza discutere e state quieti. Tu
soprattutto, disgraziato!» Consigliò loro Agnes, lanciando
uno sguardo severo al figlio mentre dava manate energiche alla divisa
di Emma.
«Porca
la miseria fradicia! Questa roba è così stinta che sembra
che ti sia rotolata nella polvere.» Onestamente Emma pensava che
i colori stinti fossero il minore dei problemi di quella divisa. Le
maniche della giacchetta di lana blu erano rimboccate parecchie volte
ed erano state strappate e ricucite tanto da farla sembrare grinzosa
come una grattugia, mentre la parte inferiore dell’abito di tela
sottile, nonostante i trenta centimetri di orlo, le arrivava ben oltre
al ginocchio ed era più lungo da un lato che dall’altro.
Per non parlare delle scarpe. Preferiva proprio evitare di pensarci,
alle scarpe.
Anton,
per dimostrarle solidarietà, aveva provveduto a rotolarsi un
paio di volte sul pavimento, ma non aveva ottenuto altro effetto che
quello di ricevere una sberla sulla nuca ed essere paragonato a un
triglia di fango.
Adesso
era impegnato a guardare in cagnesco tutti quelli che avevano intorno e
a lamentarsi tirando il braccio di sua madre, imbronciato. «Lo
odio già questo posto. Portami a casa!» Agnes non si
sprecò nemmeno a dirgli di no, impegnata ad abbracciare il
cortile con uno sguardo carico di nostalgia.
Nemmeno
se avesse voluto (ed Emma era certa che non voleva) Agnes avrebbe
potuto far saltare la scuola ad Anton. La scuola era obbligatoria per
tutti, dai sei fino ai tredici anni. Aveva sentito parlare di un
uomo che qualche anno prima aveva ceduto alle suppliche del figlio e,
invece di portarlo a scuola, l'aveva portato a pesca di rane. "L'ultimo
giorno, prima che il suo bambino diventasse una qualsiasi formichina
all'interno del formicaio." Si era giustificato. Aveva dovuto pagare
una multa salata e ancora adesso i funzionari lo controllavano da
vicino, nell'attessa che facesse un passo falso per poterlo cogliere in
fallo. Ed era solo questione di tempo.
Ad Emma invece non dispiaceva iniziare la scuola, se non si soffermava troppo a pensare alla sua divisa.
Era
un vecchio edificio in pietra leggermente trasandato, che sorgeva su
un’isoletta nel mezzo del braccio principale del fiume, e si
sentiva quasi privilegiata a poter scendere finalmente le scale che dal
soppalco del terzo livello portavano direttamente lì. Il cortile
poi, un largo spiazzo di terra polverosa che con le piogge primaverili
sarebbe diventato un pantano, vantava ben sei dei dieci alberi che si
potevano vedere a Sianel. Le piacevano gli alberi, e una delle prime
cose che avrebbe fatto, appena Agnes l’avesse lasciata libera,
sarebbe stato correre ad esaminarli da vicino.
Un
uomo che non aveva mai visto uscì per fare l’appello. Era
abbastanza evidente che non era nato lì, dal momento che aveva
la pelle ancora più chiara della sua e capelli molto lisci,
precocemente ingrigiti. Si schiarì la voce e tutti si zittirono
istantaneamente.
«Buon
giorno a tutti, e buon inizio di anno scolastico. Per chi non mi
conoscesse sono Zlatan Jenen, direttore di questa scuola rionale da ben
quindici anni…»
Anton
scoppiò subito a ridere, una delle sue risate sonore e
contagiose. «Non solo questo tizio parla strano, ma ha pure un
nome assurdo!» Bisbigliò nell’orecchio di Emma prima
che Agnes lo prendesse per un orecchio torcendolo lievemente e
riducendolo subito al silenzio. “Quando sarà grande avrà le orecchie lunghissime” Pensò
Emma oziosamente, mentre il direttore Jenen proseguiva il suo
interminabile discorso di presentazione, in sostanza una sviolinata
sull’importanza di studiare a fondo le leggi e la storia della
città per diventare cittadini responsabili.
Anton
adesso era inginocchiato a disegnare nella polvere, come a voler
mettere in chiaro da subito che lui era lì contro la sua
volontà e che non aveva la minima intenzione di diventare un
cittadino responsabile. Forse Agnes l’avrebbe richiamato, ma
anche lei, come chiunque fosse nel cortile in quel momento, guardava il
vuoto con aria distratta, senza ascoltare una parola.
Emma
aveva imparato presto che la soglia dell’attenzione bassissima
era prerogativa della gente di quel rione, ma nemmeno lei riusciva a
seguire il discorso noiosissimo del direttore. In realtà
sembrava che nemmeno il direttore seguisse con attenzione il suo stesso
discorso.
Un paio di ragazze dell’ultimo anno stavano bisbigliando qualcosa poco lontano.
«È per questo che è così una merda con gli studenti allora?»
«Sì ti dico! È stato mandato qui per punizione dopo l’accademia…»
«Ohi,
Em, guarda qui!» La chiamò Anton tutto fiero, mostrandole
una caricatura del direttore con il sedere al vento e una specie di
refolo d’aria che gli usciva dal di dietro. Emma ridacchiò
sommessamente mentre Agnes, tornando a posare lo sguardo sul figlio,
gli tirò un sonoro coppino, che Anton incassò
dignitosamente.
Poi
il direttore iniziò l’appello, catturando finalmente
l’attenzione degli studenti che, uno per uno, andarono a mettersi
in fila davanti allo stendardo con il simbolo del patrono per
pronunciare il giuramento mattutino.
Era
stata la conversazione più seria che aveva mai avuto con Yuri,
dopodiché tutto sembrò tornare normale e lei
ricominciò a comportarsi come al solito, anche se tutte le volte
che sorprendeva Emma osservarla con tutta la sua perplessità
stampata in faccia sorrideva e faceva l’occhiolino con aria
complice, come se loro due stessero condividendo un segreto ignoto a
tutti gli altri. Cosa che in effetti era, ma Emma non poteva fare a
meno di essere perplessa per le stranezze della sua compagna di stanza.
Comunque questo era già un miglioramento da quando temeva di svegliarsi una mattina e scoprirsi morta.
Quello
che era ben lontano da essere normale era il fatto che Emma, ora ancora
più consapevole della pericolosità di quello che stava
facendo, sgattaiolava ogni giorno in biblioteca, recuperava il libro
sotto al divano e lo leggeva.
La
prima volta, il pomeriggio successivo a quello in cui aveva parlato con
Yuri, era rimasta un po’ interdetta nel trovare una parola che
non conosceva come titolo della prima sezione del libro: “Guida
etnografica di Arhal”. Sperando di capire comunque il senso di
quanto avrebbe letto, scoprì che il misterioso autore non faceva
altro che confrontare le strane popolazioni che aveva trovato
sull’isola (non aveva mai considerato Arhal un’isola, e
questo fatto da solo era stato un trauma culturale non indifferente)
con le proprie usanze, abbastanza simili a quelle che anche Emma
conosceva. Il dizionario più vecchio che era riuscita a trovare
aveva trovato posto sotto al divano, accanto al libro, ma spesso non
trovava il significato di tutte le parole oscure e arcaiche che
l’atlante conteneva.
Però
c’erano molte immagini, dipinte a colori vivi, di persone strane
intente in attività quasi incomprensibili. Il primo popolo di
cui trovò la descrizione era un popolo nomade, gli Yubo.
Non
coltivavano la terra, si spostavano una volta ogni stagione con grosse
mandrie di armenti e di pecore e si limitavano a raccogliere quello che
trovavano in natura e a produrre latte e formaggio.
Una
natura molto più generosa di quella che Emma aveva sempre
immaginato, a cui gli uomini dovevano strappare nutrimento attraverso
sangue e sudore.
Gli
Yubo erano disegnati con occhi allungati, ancora più di quelli
di Emma che comunque erano notevolmente lunghi, e si diceva che
avessero la pelle chiara e occhi e capelli neri. I loro vestiti, quasi
tutti di lana, erano tinti a colori sgargianti e avevano forme
insolite, con bottoni molto lunghi e cappucci squadrati.
Ma più di qualsiasi altra cosa, l’aveva colpita una nota che occupava più o meno metà pagina.
Gli
stregoni degli Yubo sono più potenti di quelli di ogni altro
popolo di questa terra. Anche un semplice apprendista può
comunicare con estrema facilità con i numi della prateria.
«Stregoni!»
Sibilò a Yuri quando tornò in camera quella sera.
«Parla di stregoni come se fossero comuni come cavoli negli
orti!» Yuri sorrise, assente.
«Sarebbe
strano non credi? Nascere pian piano spuntando dalla terra ed essere
costretti a restare immobili sapendo che qualcuno da un momento
all’altro può raccoglierti e mangiarti. Se fossi un cavolo
non credo che sarei contenta di nascere in un orto…» Emma
sbuffò e le lanciò il cuscino.
«Non fare la finta tonta, tu. Ormai non attacca più!» Yuri fece un’espressione confusa.
«Non
so proprio di cosa stai parlando.» Emma sbuffò e si
lasciò cadere sul letto, a braccia aperte e con la faccia
premuta contro al materasso. «Andiamo a cena, dai.» Le
disse Yuri con il tono dolce di quando parlava sul serio, sporgendosi
per darle un paio di colpetti affettuosi sulla nuca. Emma si
tirò su stancamente e la seguì strascicando i piedi,
mentre Yuri sproloquiava su una teoria secondo cui quello che lei
vedeva lilla, forse agli occhi di qualcun altro era verde pallido, ma
che tutti e due avrebbero continuato a chiamare lilla quel colore
perché così avevano imparato da bambini. E se il cielo
fosse stato rosso e lei avesse sempre conosciuto il “rosso”
col nome di “azzurro”?
Per
qualche motivo quella possibilità turbò Emma
profondamente, distraendola per qualche strano momento da quello che
aveva letto durante la giornata. Per una volta ascoltò le
dissertazioni strambe di Yuri con autentica curiosità, tanto che
non si accorse di un ragazzo della gilda dei bottegai, Danilo Torres,
che aveva allungato la gamba per farla inciampare. Emma non
riuscì a recuperare l’equilibrio ma, con una mossa agile,
riuscì a girarsi a mezz’aria e a tenere alta la ciotola di
minestrone, rovesciandosene addosso solo poche gocce.
Dovette
pagare il salvataggio della cena con una craniata considerevole sul
pavimento, ma pazienza. Il bernoccolo sulla nuca sarebbe sparito, la
minestra versata non si poteva raccogliere.
Yuri
le prese la ciotola di mano e aspettò pazientemente che Emma si
rialzasse, mentre Danilo, noto per essere una delle persone più
moleste dell’intera accademia, rideva divertito assieme ai suoi
vicini di tavolo.
Un
ragazzo del rione degli allevatori, Alì, si era fermato a
guardare la scena accanto a Yuri. «Certo che la tua amica
sacrificherebbe la vita pur di non perdere la cena.»
Commentò perplesso guardandola massaggiarsi la nuca con lo
stesso interesse con cui dei bambini esaminerebbero un insetto strano
mai visto prima. Yuri annuì pensosa. «Meno male che non
può mangiarsi da sola, o l’avrebbe già fatto.»
Emma
era piuttosto seccata e decise che lo spettacolo era finito. Si
tirò in piedi di scatto, stizzita, prese la ciotola dalle mani
di Yuri e si diresse a passo marziale verso la scala di servizio che
portava alle cantine. Era lì seduta che mangiava da un paio di
minuti quando Yuri la raggiunse.
«Di
solito non mi faccio i fatti tuoi, so che ti dà fastidio.»
Annunciò scavalcandola per sedersi sul gradino sotto al suo.
«E
io lo apprezzo molto.» Commentò Emma laconica, con
l’implicita speranza che le cose restassero così il
più possibile. Yuri invece calpestò quella speranza e
procedette a farsi i fatti suoi, come se la compagna non avesse mai
aperto bocca.
«Però ammetto di essere curiosa di sapere che hai fatto a Rebecca Stieber per meritarti tutto questo.»
Emma
sbuffò. «Non ho fatto nulla. L’ho vista per sbaglio,
mentre era con uno… sai il bel biondino dell’ultimo anno?
Quello dei tipografi?»
«Etienne. Etienne Rolan.» Emma la guardò con una smorfia, un po’ stupita un po’ irritata.
«Ecchiccavolo ti
ha detto come si chiama?» Yuri la guardò sospirando e le
diede due colpetti amichevoli sulla cima della testa. «Ahh Emma,
Emma. Lo sanno tutti qui come si chiama il ragazzo più
promettente e simpatico della scuola. Vivi proprio fra le nuvole.»
La
cosa detta da lei le fece rizzare i capelli sulla nuca, lasciandola
sempre più irritata e con una gran voglia di insultare qualcuno.
Guardò il proprio cucchiaio e lo ficcò nella ciotola come
se il povero utensile avesse appena paragonato un suo amico intimo a un
mucchio di letame. Yuri non colse la minaccia implicita nella foga del
gesto e continuò a parlare. «Però hai strane
priorità, tu. Scommetto che il nome del ragazzo ritenuto
più insopportabile lo sai.»
«Pensavo
di essere io quella più impopolare!» Esclamò Emma
quasi offesa, ritenutasi ingiustamente spogliata dal suo titolo.
«No,
tu non conti, ovviamente. Nessuno ti considera. Intendevo quello coi
baffi spelacchiati che ti ha fatto lo sgambetto prima.»
Yuri
aveva ragione, ma Emma era abbastanza determinata a non dargliela
vinta, soprattutto perché l'indelicatezza di Yuri stava passando
il limite. Decise che preferiva parlare dei fatti propri piuttosto che
continuare quella discussione, con la piega che stava prendendo.
«Insomma lei era lì in mezzo alla biblioteca a pomiciare
col suo ragazzo-giocattolo e se la prende con me solo perché li
ho visti per sbaglio. Ti sembra giusto?»
«Certo
che no!» Esclamò Yuri indignata. «È una cosa
stupida! Pensavo che fosse scivolata sul pavimento perché avevi
usato troppo sapone, o cose così, non che l’avessi vista
con Etienne. Pensa di intimidirti con degli sgambetti?» Scosse la
testa, bevve con calma un sorso di minestrone e poi corrugò la
fronte. «Per ridurre qualcuno al silenzio io userei metodi
più eleganti, tipo lasciare delle lettere minacciose in camera,
oppure un messaggio sulla porta della tua stanza scritto col sangue di
pollo o una ciocca di capelli di tua madre sul tuo cuscino, o cose
così. Gli sgambetti sono una cosa infantile.»
Emma lasciò cadere il cucchiaio nella minestra con un sonoro tonfo e guardò la compagna orripilata.
«Facevo
per dire.» Si affretto a rassicurarla dandole un altro paio di
colpetti sulla testa, con aria divertita. «Comunque ti
sbagli.» Annunciò Yuri con voce leggera, ricominciando a
sorbire il minestrone.
Emma
aprì e chiuse la bocca un paio di volte prima di riuscire a
parlare, distratta dalla vocina che in qualche angolo della sua testa
le suggeriva di arretrare lentamente e senza sbattere le palpebre.
«Mi sbaglio su cosa?»
«Non è il suo giocattolo. Sono seri.»
Sbuffò
scettica e ricominciò a mangiare. Non ci avrebbe creduto per
nulla al mondo che Rebecca fosse seriamente innamorata di Bello.
Cioè, di Etienne.
In ogni caso la paura di essere uccisa nel sonno era tornata come nuova.
Sempre accogliente fu l’isola di Arhal con profughi e migranti, tanto che numerose genti abitano questa terra.
Profughi e migranti. Altre due parole sconosciute.
Chiuse
il dizionario con un tonfo mandando alla malora quell’antico
scrittore figlio di un capperaio mezzo deficiente, che aveva scritto
quella cosa assurda usando parole cretine solo per dimostrare che era
più intelligente di lei, povera disgraziata nata come minimo
quattrocento anni dopo.
Poi
si rese conto che stava perdendo un po’ di lucidità, dopo
più di due ore che leggeva l’atlante sobbalzando ad ogni
minimo rumore e dovendo cercare tre parole ogni due righe. Aveva
bisogno di respirare un po’ d’aria pulita e di rilassarsi.
Quel
giorno il pannello superiore della finestra era chiuso, forse era per
questo che si sentiva così irritata e con la mente intorpidita.
Sospirando si alzò in piedi sul divanetto e armeggiò con
i ganci che la tenevano chiusa.
Subito entrò odore di glicine e di pioggia, che Emma respirò a pieni polmoni.
«Non
dovresti stare in piedi sul divano, se il bibliotecario ti vedesse ti
spingerebbe di sotto.» Emma riuscì a stento a trattenere
un urlo e si girò di scatto, come una lucertola che si è
appena resa conto di avere un gatto alle spalle.
Era
lui, Bello, il biondino… come aveva detto che si chiamava Yuri?
«Etienne Rolan.» Bisbigliò sollevata, con il cuore
che le batteva ancora molto più forte del normale. Nel suo
cervello era una delle poche persone classificate come innocue.
«Emma
Creuza.» Rispose lui con un cenno del capo, a mo' di saluto. Le
fece una strana impressione sentire il suo nome pronunciato da lui. Se c’è lui non starà mica arrivando anche la strega? Venne assalita dal sospetto e si guardò intorno freneticamente, aspettandosi di vederla sbucare da dietro una libreria.
Etienne
interpretò correttamente la sua ansia e la rassicurò.
«No, stai tranquilla, lei non c'è per ora. Ma
arriverà più tardi, ho pensato di venirti ad
avvisare…» Emma si sorprese mentre osservava incanta i
suoi occhi brillanti e il ciuffo di capelli sbarazzino che gli ricamava
la tempia sinistra. Si promise di prendersi a schiaffi più tardi
e guardò fuori dalla finestra con ostentato interesse. Come se
non fossero settimane che la pioggia continuava… ormai era quasi
ora che arrivasse la stagione secca, e poi ci sarebbero stati gli
esami...
«Cosa
leggi?» Chiese il ragazzo guardando l’atlante buttato
con noncuranza sul divanetto. Emma emise un gemito di orrore, poi uno
di dolore quando uno spigolo del libro le penetrò nello stomaco,
a causa del suo melodrammatico tuffo per cercare di nasconderlo.
Bravissima,
a questo punto penserà sicuramente che stai nascondendo
qualcosa! Fai una faccia normale! Fai una faccia normale, subito!
Annaspò
cercando di riprendere fiato e si sforzò di sorridere, cosa che
le venne malissimo. Ridacchiò isterica, mettendosi seduta e
sistemandosi nervosamente i capelli. «Niente. Geografia. Cose
stupide e noiose. Ora vado eh? Prima che arrivi…» …la strega. Abbracciò
il libro cercando di coprirne una porzione più ampia possibile e
si incamminò a passo svelto, ma Etienne la fermò.
«Aspetta!»
Ok,
ora, prima che possa parlarne con qualcuno, ti giri e gli tiri il libro
su una tempia. Di spigolo, così fa più male. Poi scappi.
Al mio tre. Uno, due…
Emma
scrollò la testa, cercando di non farsi prendere dal panico. Non
avrebbe tirato il libro in testa ad Etienne… e poi dove avrebbe
potuto scappare?
«Volevo
ringraziarti per non aver parlato con nessuno di me e…»
Nemmeno lui pronunciò il nome di Rebecca. Sembrava essere
diventato una specie di tabù.
«Non fa niente B… Etienne. Non è che avessi qualcuno con cui parlarne, no?»
Bugiarda! Ne hai parlato con quella spostata della tua compagna di stanza. Emma serrò le labbra e pregò che quella voce insistente se ne stesse zitta. Yuri non contava.
Etienne
scrollò le spalle. «Grazie lo stesso. Mi dispiace che lei
sia così meschina con te… le ho chiesto di smettere,
ma…»
Emma
gemette. «Non insistere. Si accanirà ancora di più,
solo per ripicca.» Etienne annuì con aria rassegnata.
«Beh,
allora vado!» Prima che potesse fermarla ancora Emma
trotterellò via, ancora abbracciata al libro e facendo muovere
la stessa lastra di pietra che l’aveva tradita la volta prima.
Aveva bisogno di un altro posto dove leggere ora. Salì al terzo
piano della biblioteca, dove erano conservate le vecchie tesi degli
studenti dell’accademia. Uno dei pochi posti ad essere tranquillo
come l’area di geografia. Di sicuro lì avrebbe trovato un
mucchio di cartacce dietro cui nascondere il libro, e nel frattempo
poteva sfruttare l’ultima luce del pomeriggio per leggere.
Sempre
accogliente fu l’isola di Arhal con profughi e migranti, tanto
che numerose genti abitano questa terra. Certo anche le nostre genti,
provate dalle guerre e dalle carestie di quest’ultimo secolo, vi
troveranno un luogo dove vivere in pace.
Ohey!!!
Ho
finalmente concluso il mio girovagare estivo (purtroppo) e sono pronta
a caricare un nuovo capitolo! Yeeeeeeey! Forse questa volta ho sforato
un po' nella demenzialità? Non so, una parte del capitolo l'ho
scritta da ubriaca XD Fatemi sapere se devo trattenermi o se avete
apprezzato e devo fare scorta di limoncello.
Yuri
fa la finta tonta ma rivela anche lati abbastanza inquietanti e
vendicativi del suo carattere, ed Emma rivela attitudini da giocoliere
con il suo numero con la scodella di minestra. Forse in un altra vita
si guadagnerà da vivere lavorando in un circo!
Prossimamente
può darsi che rallenterò il ritmo, visto che sarò
molto impegnata, ma pian piano continuerò ad andare avanti, per
cui abbiate fede!
A presto! <3 羽毛
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Lo studio ***
Lo studio
Lo studio
«Ripetili ancora una volta.» Lo esortò con la pazienza
agli sgoccioli. Anton la guardò con astio, come se lei fosse un’aguzzina che lo
stava interrogando sotto tortura.
«Ma che palle! Li so ormai!»
«No, non li sai invece. Vuoi essere bocciato?» Anton
sbuffò e imprecò peggio di un adulto, nonostante non avesse ancora dieci anni.
«Se mi dici giusti i nomi dei rioni e delle gilde poi ti faccio copiare il
resto dei compiti.» Il suo amico si illuminò speranzoso e raccolse le idee con
una smorfia di concentrazione. «I rioni: Sianel ha i canali, Abincil i campi, Rudnik
il legno, Berhan gli animali. Le gilde: i tipografi-librai, i medici-erboristi,
i mercanti-artisti e i giudici-contabili.»
Emma chiuse il libro con uno scatto irritato. «Se li
sapevi perché stiamo qui da due ore? Volevi solo strapparmi la promessa di
farti copiare, vero?» Anton le rivolse un sorriso sornione, confermando i suoi
sospetti e facendola infuriare.
Ormai aveva promesso, quindi gli lanciò il quaderno con
malagrazia, sperando di colpirlo sul naso, ma Anton aveva i riflessi troppo
pronti. Prese al volo il quaderno e lo aprì sul tavolo della cucina deserta. I
suoi genitori erano entrambi a lavoro, quindi si ritrovavano sempre lì a fare i
compiti, nella fresca penombra dei pomeriggi estivi o accanto al fuoco caldo
del caminetto durante i mesi invernali.
«Dai Em, non fare quella faccia. In fondo queste cose a
che ci serve impararle? Non ce ne andremo mai da Sianel.»
«Ma sapere com’è fatto il mondo in cui vivi è
importante! E poi…» Arrossì. Un po’ per rabbia, un po’ perché lo teneva per sé
da troppo tempo, decise di dirglielo. «E poi parla per te. Io andrò via da
Sianel. Io voglio andare all’Accademia.» Anton lasciò cadere la penna e la
guardò atterrito.
«Mi prendi in giro.» Emma era sempre più rossa ma si
costrinse a guardarlo negli occhi con aria di sfida, anche se sentiva che stava
per mettersi a piangere.
«No. Ci vado davvero.»
Anton assunse un’espressione assieme spaventata e
mortificata. «Perché? È colpa mia? È perché ti faccio i dispetti? O perché devi
sempre obbligarmi a fare i compiti? Da adesso li faccio da solo, ok?» Chiuse il
quaderno di Emma e lo spinse verso di lei, come un goffo gesto di pace.
Emma sentiva le guance bruciare e non riuscì più a
sostenere lo sguardo dell’amico. Si mise le mani sotto le cosce e si fissò le
ginocchia che spuntavano sotto il lunghissimo orlo della gonna, poi scosse la
testa. «No… non è colpa tua.»
«È per tua mamma allora? Se vuoi non ci devi più
tornare a casa. Resta qui. Ti cedo il mio letto, dormo per terra!» Emma esitò.
Allontanarsi da sua madre forse era uno dei motivi, era inutile fingere che non
fosse così. Ma non era quello più importante. Iniziò a dondolare i piedi, a
disagio. «Non è nemmeno per lei… non solo.»
«E allora perché?» Emma lo guardò di sottecchi, sapendo
che l’avrebbe considerata completamente matta. Pensò agli strani sogni che
faceva, soprattutto in primavera, in cui sentiva il vento sulla pelle e l’aria
pulita riempirle i polmoni. Non c’era mai vento nella città. Le mura lo
fermavano.
«Voglio solo… imparare di più. Su quello che c’è
fuori.»
Ormai era
quasi maggio ed Emma, invece di essere in camera sua a studiare e a recuperare
la montagna di compiti che si era lasciata dietro, era sdraiata sul pavimento
del secondo piano della biblioteca, i piedi appoggiati su uno scaffale e
l’atlante aperto a metà sullo stomaco. Sussurrava, contando sulle dita, le
diverse etnie che aveva scoperto che abitavano sull’isola. Gli Yubo, pastori nomadi e stregoni, che veneravano la terra. Gli Ama
delle coste, che si tuffavano nudi nel mare per raccogliere molluschi e perle.
I Suijin del lungo fiume, che vivevano di pesca e di commercio e abitavano in
palafitte per difendersi dalle alluvioni… poi gli stranieri del sud che hanno
costruito Khot… e poi…
Si sforzò di
ricordare, ma le notte insonni passate a rimuginare su quello che stava leggendo
si fecero sentire. Le palpebre si abbassarono mentre le guglie, i campanili e i
tetti rossi di Khot le balenavano davanti agli occhi, con il loro aspetto nuovo
e splendente. Era così diversa dalla Città… L’autore diceva che era pieno di
aiuole fiorite, rampicanti e viali alberati sotto cui le persone andavano a
passeggio.
I suoi piedi calpestavano la strada lastricata con un
leggerissimo scalpiccio mentre avanzava fra le due file di ficus giganteschi.
Le radici di quegli enormi alberi avevano sollevato le pietre in più punti,
liberando la terra che secoli prima gli uomini avevano inutilmente tentato di
imbrigliare. Accanto a un palazzo senza più il tetto sorgeva quello più grande
di tutti. Un vero e proprio colosso, con radici più alte di lei e alcuni
fittoni che scendevano dalla chioma, facili da scalare. «Qui è perfetto, non mi
troveranno mai!»
«Mah, non
saprei signorina Creuza. Se un vecchio professore venisse qui a cercare dei
documenti potrebbe scorgerla così com’è… Emh… Sdraiata sul pavimento.» Emma
spalancò gli occhi e si sedette di scatto tossendo, convinta che avrebbe
sputato il cuore ai piedi del professor Astropher da un momento all’altro.
«Pro… prof… mi scusi.» Balbettò riguadagnando una posizione più o meno
dignitosa. Guardò quell’omino canuto di sottecchi e vide che sorrideva
divertito, agitando una mano. «Non si preoccupi. Fa molto caldo in questi
giorni, non trova? Io stesso amo schiacciare un pisolino sotto la scrivania,
nelle ore più calde. Il pavimento è piacevolmente fresco.»
Emma sorrise
imbarazzata, alzandosi a fatica, con il corpo intorpidito per essere rimasta a
lungo sdraiata sul pavimento duro. «Piuttosto, signorina… trovo il suo
elaborato finale un po’ più scialbo del solito. Di solito i suoi compiti sono
una lettura gradevole, ma questa volta… emh… ha consegnato tre sole pagine. Una
delle quali contiene in effetti… Ecco… Compiti di scienze matematiche.»
Sentì
l’improvvisa voglia di rannicchiarsi su sé stessa, fino a raggiungere le
dimensioni di un secchiello. Un secchiello colmo fino all’orlo di vergogna. Il
professor Astropher rise, probabilmente divertito dalla sua espressione da
penitente. «Non c’è bisogno che si senta così mortificata, signorina. Lei è una
studentessa irreprensibile. Sono sicuro che è stata solo… emh… distratta da
terzi. Ho notato che riceve… come dire… attenzioni indesiderate.»
«Oh, no, non
è quello il problema professore!» Esclamò prima di potersi fermare. Astropher
la guardò incuriosito.
«Bene, bene!
Sapevo che non è il genere di studentessa che si lascia distrarre da queste…
ecco… faccende. Qual è il problema, dunque?»
Dì quello che vuoi. Inventa una balla. Basta che non
guardi l’atlante. Quell’atlante che sta lì, sul pavimento. Quello che hai
dimenticato di chiudere e nascondere prima di addormentarti. Quello per cui
potrebbero impiccarti sulla pubblica piazza, hai presente? Ecco, se ne sta lì
buono, non l’ha notato, basta che non giri gli occhi…
Era stato
più forte di lei. Quando il professore le aveva fatto quella domanda i suoi
occhi erano corsi a guardare l’atlante aperto sul pavimento. Dalla pagina di
sinistra tre bambini Suijin salutavano allegri nei loro strani abiti larghi dei
colori della foresta.
Basta. Io me ne vado. Tanto non mi ascolti mai.
Il professor
Astropher impallidì visibilmente, seguendo il suo sguardo. Emma aveva la
sensazione che il pavimento fosse scomparso da sotto i suoi piedi, sostituito
da un terreno molle e instabile come gelatina. Voleva implorare il professore,
giurare che il libro non lo stava leggendo lei, ma sembrava che non ci fosse
aria sufficiente nei suoi polmoni per dire qualcosa di intellegibile.
Astropher si
limitò a sospirare e a scuotere la testa con aria stanca. «Non si allarmi,
signorina Creuza. Non sarò certo io a tradirla.»
Alzò lo
sguardo, senza osare prendere fiato, e arretrò di un paio di passi per
appoggiarsi allo scaffale. Aveva l’impressione che non sarebbe riuscita a
reggersi in piedi ancora a lungo. «Venga nel mio studio, questa sera alle otto.
E sia più prudente, con quell’arnese.»
Detto questo
il professore le voltò le spalle esili e si allontanò, senza aggiungere altro.
Yuri sgranò
gli occhi, mentre Emma le raccontava di quello che era successo in biblioteca. Poi,
visibilmente pallida, alzò gli occhi al cielo e sbuffò, rimproverandola.
«Cavolo Emma! Vuoi farti uccidere? Perché se è così conosco modi più semplici e
indolori!»
Non ne dubito.
Commentò la vocina nella sua testa, mentre lei sedeva sul letto con le mani
sotto alle cosce, fissandosi una macchiolina sulla punta di una scarpa. Se il
suo cuore non avesse rallentato i battiti probabilmente avrebbe avuto un
infarto da un momento all’altro. Yuri si sedette accanto a lei, abbastanza
vicino perché i suoi capelli lunghi le sfiorassero il braccio, facendole il
solletico. «Astropher è a posto. Sono sicura che è vero che non ti denuncerà.
Gli è bastata un’occhiata per riconoscere il libro, quindi l’ha letto anche
lui, no?» Aveva senso. Certo, doveva essere così. Emma si sentì subito un po’
rincuorata. Certo che Astropher non l’avrebbe denunciata, anzi, forse le avrebbe
dato addirittura delle risposte!
Yuri le tirò
un lieve scappellotto, che le strappò un grido di sorpresa. «Non ti rilassare
così solo perché questa volta ti è andata bene! Sta più attenta, scemotta!» Emma
sorrise imbarazzata, massaggiandosi la nuca.
«Hai
ragione, scusa.»
«Vuoi che ti
accompagni dal professore?» Valutò un attimo l’offerta. Le piaceva l’idea di
non affrontarlo da sola, ma se Yuri fosse andata con lei Astropher avrebbe
saputo che era coinvolta. Scosse la testa, a malincuore.
«Meglio di
no.»
Nonostante
tutta la logica di Yuri, quando bussò alla porta del professore si sentiva di
nuovo ansiosa e scombussolata. Il cuore le rimbombava così forte nelle orecchie
che sentì appena la voce esitante del professore invitarla ad entrare, tanto
che pensò quasi di essersela immaginata.
Indugiò un
attimo, poi aprì la porta piano, con estrema cautela. «Venga, signorina Creuza.
Come può vedere non ci sono guardie. Soltanto noi due.»
Aprì l’uscio
quanto bastava per passare e strisciò nello studio. Era una stanza angusta,
stracolma di libri e di strumenti per calcolare il moto delle stelle. La
scrivania in legno scuro occupava gran parte della stanza e si intravedeva a
stento sotto tutti gli strani oggetti in ottone e le carte che la ricoprivano.
Le gambe sottili erano così tappezzate di incisioni che sembrava un miracolo
che reggessero ancora il peso del ripiano e dei libri senza spezzarsi: secondo
una leggenda, se uno studente dell’ultimo anno riesce a entrare nello studio
dalla finestra e a incidere il suo nome nella scrivania, ha la promozione
assicurata agli esami finali. Il professor Astropher non aveva mai dato segno
di interessarsi alla condizione della scrivania, anzi, continuava a lasciare la
finestra aperta durante gli ultimi mesi dell’anno. «Se rompessero il vetro per
entrare nello studio potrebbero farsi male.» Spiegava a chiunque gli
consigliasse di chiuderla.
Emma era
stata molte volte in quello studio e, senza bisogno che il professore la
invitasse ad accomodarsi, liberò la solita sedia da un mucchio di libri e si
sedette nervosamente sull’orlo, senza osare alzare lo sguardo.
«Dunque
anche lei ha avuto modo di leggere quel libro, eh? Non sono molto sorpreso.»
Osservò con voce pensosa. «Avanti, signorina. Lei è curiosa come un gatto.
Sicuramente avrà domande da farmi.»
Emma esitò
un secondo. Pensava di essere lì perché il professore voleva farle delle
domande, una lavata di capo, assegnarle una punizione… non si aspettava che
l’avrebbe invitata a chiederle quello che voleva.
«Professore
lei… ha letto il libro?»
Astropher
annuì piano. «Mmh. L’ho letto prima ancora di frequentare l’accademia. Fu
scritto da un mio antenato, sai? Ne abbiamo una copia in casa.»
Emma lo
guardò semplicemente a bocca aperta, come se i baffi canuti dell’anziano
docente fossero improvvisamente diventati azzurri. Il professore la liquidò con
un gesto della mano. «Oh, non faccia quella faccia. Molti qui mi considerano
bizzarro, non è così sorprendente che abbia antenati… emh… particolari.»
«Quindi è
lei a mettere il libro sugli scaffali?»
«Per mettere
in pericolo la vita di studenti imprudenti e ingenui che non hanno idea di cosa
stanno leggendo? Certo che no!» Emma storse la bocca in una smorfia leggermente
offesa, che si affrettò a nascondere. Il professore aveva il volto infiammato e
la voce molto più ferma del solito. Se non fosse stato Astropher, l’insegnante
mite che conosceva da anni, avrebbe pensato quasi che fosse arrabbiato.
«Allora chi
l’ha messo?»
«Questo non
lo posso dire. Se finirà di leggerlo, loro la contatteranno. Cosa che da un
lato… emh… mi sento di sconsigliarle.»
Proprio lui,
che rischiava ogni anno il posto e la libertà perché si ostinava a insegnare
cose che non avrebbero dovuto sapere, adesso le stava consigliando di non
proseguire nella lettura? Non era una cosa un po’ ipocrita e contraddittoria?
«Vede,
signorina Creuza… io certo vi parlo un po’ del mondo esterno. Di come era in
passato, di come è stato esplorato, un tempo. Purtroppo è più forte di me. Ma
non vi do dettagli concreti, non come quel libro. Le cose che legge lì sopra
non faranno altro che farle venire il desiderio di uscire dalle mura e
verificare con i suoi occhi. E quel desiderio è destinato a rimanere frustrato.
Conosco molte persone che saprebbero… emh… incanalare la sua frustrazione per i
loro scopi. Ecco perché fanno trovare il libro a studenti giovani e… ecco…
malleabili.»
«Io voglio
solo sapere.» Biascicò Emma strusciando i piedi sul pavimento. Sapeva che non
sarebbe mai uscita dalla città, ma sapere che c’era qualcosa al di là delle
mura per qualche motivo l’avrebbe fatta sentire meglio.
«Il sapere
può essere difficile da gestire, signorina. Se lei si sente in grado, allora… lo
legga pure. Ma si ricordi di quello che le ho detto e soprattutto stia attenta
a… emh… non farsi beccare.»
Emma annuì,
perplessa. La sua mente stava cercando di seguire così tanti pensieri nello
stesso momento che le sembrava di avere uno sciame di mosche nella testa, che
volavano in giro rimbalzando da una parte all’altra con un gran ronzio e senza
logica apparente.
«È bene che
tenga presente che, qualsiasi cosa dica il libro, fuori dalle mura non è più
possibile vivere. Tutto quello che sta leggendo e che le fa perdere il sonno,
non esiste più.» Annuì di nuovo, lentamente, guardando di sfuggita gli occhi
seri del professore.
Le fece un
cenno con la mano, segnalandole che l’udienza era finita, ma quando Emma aveva
già la mano sulla maniglia la richiamò indietro. «Prima di avere contatti con queste
persone… particolari, in ogni caso, le consiglio di chiedere a sua madre qual era
il suo vero nome, se non vuole che usino la sua stessa storia contro di lei.» Emma
sbatté le palpebre, chiedendosi se il professore non fosse stato colpito da
demenza senile. «Mi scusi, non capisco cosa intende dire.»
Astropher
incrociò la studiò da sopra le mani intrecciate. «Dovrebbe semplicemente andare
da sua madre e farsi spiegare la storia della sua famiglia.»
«Io non
parlo molto con mia madre.» Confessò Emma, spiazzata. Il professore annuì.
«Ne ero al
corrente.»
Iniziò a
sentirsi irritata, cosa che pensava non le sarebbe mai successa nei confronti
di un uomo così mite, ma la sensazione di essere deliberatamente tenuta all’oscuro
di informazioni importanti la innervosiva.
«Non
potrebbe semplicemente dirmelo lei, visto che sembra sapere tutto?» Si morse le
labbra, le guance accese di rabbia, in parte pentita di aver parlato così
acidamente, in parte convinta che parlare in modo sibillino avrebbe dovuto
essere punibile per legge. Ma il professore sembrò non farci caso, si limitò a
scuotere la testa con un sorriso enigmatico. «Non mi permetterei mai. Sarebbe troppo
indiscreto.»
«Ma…»
«Buona
notte, signorina Creuza. E sia più prudente.»
Emma ingoiò
le proteste e uscì sbattendo la porta più forte di quanto avrebbe voluto.
Percorse il
corridoio a passo marziale, infuriata con il professore. Era una bassezza incredibile
dire delle cose così ambigue e rifiutarsi di spiegarle. L’aveva invitata a fare
delle domande e poi non aveva risposto a niente! Che cos’era, una tecnica per
farle venire l’insonnia, così avrebbe avuto più tempo da dedicare ai suoi
stupidi compiti?
Girò l’angolo
senza guardare e quasi andò a sbattere contro Alì. Lo fulminò con lo sguardo e
si morse la lingua per non scaricare su di lui tutte le parole astiose che
avrebbe voluto rivolgere al professore, poi girò attorno alla mole
considerevole del ragazzo di Berhan per riprendere la sua marcia rabbiosa. «Oh,
Emma, aspettami! Sto andando anche io al dormitorio!»
«Io no.»
Mentì subito Emma. «Sto andando nella sala studio.»
«Bene, ti
accompagno.»
Emma lo
squadrò sospettosa, aspettandosi un tiro mancino da un momento all’altro.
«Perché dovresti?»
Alì esitò,
la pelle bruna del volto arrossì leggermente. «È perché ho visto che gli altri
studenti ti mettono un po’ in difficoltà ultimamente. Forse se non fossi sola
ti lascerebbero in pace.»
«Sei gentile
ma non c’è bisogno.»
«Lo faccio
lo stesso.» Emma valutò per un attimo l’idea di tirargli un pugno e scappare,
ma probabilmente non avrebbe sortito nessun effetto visto che Alì aveva la
taglia di un armadio a due ante. Decise quindi di ignorarlo e procedere per la
sua strada come se non esistesse.
«Eri dal
professor Astropher? È il tuo relatore vero?» Emma annuì secca. «Che ti ha
detto?»
Che ti importa?
«Niente! Non
mi ha detto proprio niente! È questo il problema! Prima mi dice di chiedergli
quello che voglio, poi mi dice che non può rispondere e che sarebbe indiscreto!»
Sbottò prima di potersi controllare. Poi si girò per affrontare il ragazzo, che
la fissava perplesso e forse anche un po’ spaventato. Emma era sempre stata,
agli occhi di tutti, una ragazzina timida, minuta e silenziosa, e ora gli stava
facendo una sfuriata in mezzo al corridoio per chissà quale motivo.
«Senti, sei
più o meno gentile a preoccuparti, ma proprio non mi piace avere qualcuno che
mi segue. Tantomeno se vuoi fare conversazione!»
«Umh… ok.»
Senza
aggiungere un'altra parola Emma scostò un arazzo e imboccò la scala di servizio
che era nascosta lì dietro. Alì non la seguì.
Heyyyy! E' una vita che non aggiorno, chiedo venia e faccio penitenza.
Purtroppo
impegni universitari e sociali mi hanno tenuto alla larga dal computer.
Anche questo weekend ho dovuto schivare una serie di apericena e tango
argentini per poter scrivere. Vita dura. Farò del mio meglio per
aggiornare ogni due settimane comunque!
Non
so se anche a voi chi vi accenna qualcosa e poi non vi dice nulla
perché è un segreto fa arrabbiare come fa arrabbiare me
ed Emma. In tal caso chiedo venia! Prima o poi comunque tutte le
domande troveranno risposta. Prima o poi. <3
A presto spero! 羽毛
Oh,
e se vi interessa vedere una cartina della città disegnata in
modo orripilante con paint, fatemelo sapere che la metto su facebook.
Ma quando dico orripilante intendo seriamente orripilante. Livello
terza elementare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** L'archivio ***
L'archivio
L'archivio
Ormai aveva imparato a capire quando sua madre stava
per avere un attacco di rabbia. Iniziava dalle mani, che si contraevano a un
ritmo sempre più frenetico. Poi le sedie rovesciate, gli oggetti lanciati, e
infine le urla.
Di solito cercava di abbandonare la casa prima che lei
iniziasse a lanciarle qualsiasi oggetto contundente le venisse a tiro, ma
quella sera non era stata abbastanza svelta, così dovette schivare una serie di
oggetti volanti mentre prendeva i libri di scuola e guadagnava l’uscita.
Non la guardò nemmeno in faccia. Non lo faceva da anni.
Per lei sua madre era solo una specie di figura indistinta, magra, sciupata e
dai capelli biondo-grigiastro. Non ricordava di aver mai ricevuto un gesto
d’affetto da lei, né di averla mai vista sorridere. Non le aveva mai nemmeno
rivolto la parola, se non per urlarle le solite cose. Quelle che stava urlando
anche in quel momento, mentre si chiudeva la porta di legno alle spalle e ci si
appoggiava sospirando e ricacciando le lacrime.
«Tu non sei mia figlia.»
Era quasi estate, quindi anche se l’ora di cena era
passata c’era una luce crepuscolare grigia e piatta, che rendeva le case dei
canali ancora più decadenti del solito.
Anton la aspettava seduto sulle scale, con il quaderno
di scuola aperto sulle ginocchia e l’aria di chi era lì per caso. «Hey, li hai
già fatti i compiti per domani? Mi fai copiare?» Emma sbuffò nascondendo un
sorriso e si finse spazientita.
«Non sei capace di farteli da solo, scemo?» Anton
scrollò le spalle, ed Emma si rassegnò con altezzosità simulata. «Va bene dai.
Per questa volta.»
In realtà era una recita, una specie di rituale tutto
loro. Emma sapeva benissimo che Anton si teneva sempre i compiti per l’ultimo
minuto, così nel caso lei avesse avuto bisogno di una via di fuga, lui poteva
offrirgliene una senza essere invadente.
Lei faceva finta di prendersela tutte le volte, come
per dimostrare di essere completamente ignara della strategia di Anton, però
portava sempre con sé la borsa dei libri. Lui finge di non sapere, io fingo di non sapere che lui
sa, lui finge di non sapere che io so che lui sa. Pensava attorcigliandosi oziosamente la mente attorno a queste strane
dinamiche, nello stesso modo in si attorcigliano i capelli attorno alle dita
quando si è pensierosi.
Il loro posto preferito era un ponte di pietra, di
quelli senza parapetto che facevano venire gli incubi a tutte le madri dei
rioni. Si inarcava sopra a un canale stretto e con pochissima acqua, trascurato
e pieno di foglie marce, in mezzo alle quali si aggiravano pigre un paio di
carpe dall’aria malaticcia.
Era al secondo livello, non a quello dei bassifondi,
quindi il canale era quattro o cinque metri sotto di loro. Comunque ancora
troppo in basso per i gusti di Agnes, che se li avesse saputi lì avrebbe staccato
loro le orecchie: i livelli che i ragazzini per bene potevano frequentare erano
dal terzo in su.
Come se non bastasse, nessuno passava di lì, perché era
quasi al confine con la zona interdetta. Le case erano disabitate da molti anni
e cadevano a pezzi, con le imposte mezze staccate e il sole che filtrava dai
buchi nel tetto.
Emma lanciò sassi e pezzetti di muschio in acqua,
osservando le carpe affannarsi attorno al punto dove erano caduti sperando di
trovare del cibo, mentre Anton copiava diligentemente le risposte alle domande
sui patroni che stavano studiando in quei giorni. «… e il centotrentaduesimo
patrono Ericsen IV nella sua munificenza decise che i primogeniti avrebbero
potuto ereditare il mestiere dei padri, i secondi avrebbero servito le mura…
mancano i terzi! I terzi servono la terra!»
«È solo un modo di dire scemo! Perché si dice che i
terzi diventano criminali, ma non è una legge. È una stupida superstizione. Non
c’è nessuna regola per i terzi.»
«Ah.» Sembrava ancora perplesso.
«Copia e basta, che è giusto.»
«Ma anche tutti questi paroloni? Che cavolo vuol dire
munificenza, almeno lo sai?» Emma si sentì offesa. «Certo che lo so, è inutile
che provochi solo per fartelo spiegare. Vuol dire che è stato magnanimo.» Anton
sollevò un sopracciglio. «Buono e generoso!» Semplificò Emma scocciata.
Anton sbuffò divertito. «Magnanimo come sto cazzo.»
Emma gli tirò uno scappellotto, un po’ divertita un po’ spaventata.
«Non farti sentire mentre dici queste cose!»
«Cosa, sto cazzo?»
«Lo sai benissimo cosa.» Anton sbuffò e finì di copiare
scrupolosamente ogni risposta. Sapeva benissimo che erano giuste, Emma prendeva
sempre appunti in classe, parola per parola.
«Ma tu almeno ci credi a tutte ste boiate?» Le chiese
corrucciato. «Perché a me fanno venire i brividi.»
«Vuoi stare zitto o hai il desiderio segreto di farti
strappare la lingua? Non c’entra se ci credo o no. Sono compiti e basta.»
«No che non lo sono. È indottrinamento.» Emma lo guardò
con gli occhi sgranati.
«Non conosci la parola “magnanimo” e conosci
“indottrinamento”? Dove l’hai sentita?» Anton diventò rosso e non rispose.
«Vorrei almeno che non facessi il test per quella
stupida scuola da fregnette.» Emma sospirò.
«Tre anni. Ci sono ancora tre anni di scuola rionale
prima che possa fare il test. Intendi fare lo stesso discorso ogni giorno fino
ad allora?» Anton scosse la testa rassegnato.
«Che facciamo cretina, torniamo a casa?» Emma lanciò un
altro sasso nel canale. Non intendeva affrontare la rabbia di sua madre prima
del tempo.
«No. Andiamo al pozzo.»
«Tu sai
qualcosa che non mi vuoi dire!» Dopo una notte passata ad arrovellarsi su
quello che il professor Astropher si era lasciato sfuggire, aveva
improvvisamente realizzato di avere a portata di mano una persona a cui
estorcere informazioni.
Stavano
lavando i vetri del corridoio del terzo piano e Yuri stava passando lo straccio
sullo stesso punto da quasi dieci minuti, con lo sguardo perso nel vuoto.
Emma la
osservò corrucciata. Era evidente che non l’aveva nemmeno sentita. Forse era
morta nel corso della notte e nessuno gliel’aveva detto, per questo Yuri non
poteva né vederla né sentirla e aveva un’aria così funerea.
O più
probabilmente la stava bellamente ignorando.
Spazientita
sventolò lo staccio a un palmo dal suo naso, spruzzandole acqua insaponata sul
viso. Con la massima lentezza l’attenzione di Yuri si focalizzò finalmente su
Emma, che era a un passo dal mettersi a saltellare in preda al nervosismo.
«Cosa c’è?»
Chiese con voce trasognata.
«Dimmi cosa
succede quado finisci di leggere il libro!» Yuri riprese a passare lo straccio,
meditabonda.
«Mmh… di
solito quando finisco di leggere un libro ne inizio un altro. Cos’è, un
indovinello?»
Questo straccio è bello lungo e resistente. Sembra
fatto apposta per strangolare le persone… non può volerci più di un minuto, poi
la spingi di sotto e dici a tutti che è stato un incidente.
Emma scacciò
quella voce molesta stringendo i denti e scuotendo la testa. Ormai lo sapeva, Yuri si comportava così
apposta per irritare le persone. Se avesse reagito arrabbiandosi non le avrebbe
cavato una parola di più. Però se faceva una faccia abbastanza afflitta…
«Dai, per
favore… lo sai cosa voglio dire!» La voce le uscì patetica come il miagolio di
un gatto affamato, e Yuri dovette nascondere un sorriso.
«Non vorrai
mica conoscere il finale. Se conosci il finale di un libro leggerlo tutto
diventa noioso…»
«Ma è un
atlante, non un romanzo di avventure! Io voglio sapere se dopo ti ha
contattato…» Si interruppe all’improvviso, notando lo strano sguardo negli occhi
di Yuri. Sembrava quasi spaventata.
«Qualsiasi
cosa ti abbia detto il professore, non parlarne con nessuno. Nemmeno con me.»
Emma la fissò confusa, stupita dalla nota di rabbia nella sua voce.
«Non…»
«Shush!
Silenzio! Non dire nulla.»
«Ma lui
non…» Yuri le mise una mano sulla bocca, impedendole di parlare ed Emma la
scostò con rabbia, reprimendo l’istinto di morderla.
«Non dirmi
nemmeno cosa non ti ha detto, ok? Tutto quello che devi sapere è che… finisci
il libro solo se te la senti di affrontare le conseguenze.»
«Quali
conseguenze?»
«Non importa
quali. Qualunque conseguenza.»
Emma mandò
al diavolo il suo proposito di non arrabbiarsi e gettò con violenza lo straccio
nel secchio, spruzzando acqua su tutto il pavimento. «DIMMELO!»
Yuri
sospirò, ricominciando a lavare il vetro. «Non te lo posso dire.»
«E che
succederebbe se me lo dicessi?»
«Non posso
dire nemmeno questo.»
Emma
gemette, frustrata, raccolse sdegnosamente lo straccio e iniziò a infierire
sulla povera finestra, che non aveva più nessun bisogno di essere pulita e
rischiava solo di andare in frantumi.
«Stai
cercando di rompere il vetro?» Chiese Yuri con tono preoccupato. Emma la
fulminò con lo sguardo, pensando di imprecarle contro nel modo più volgare
possibile, poi scrollò le spalle. «Non lo posso dire.» Annunciò scimmiottando
il tono di Yuri.
«Non sei
così arrabbiata se hai voglia di scherzare.» Decise Yuri seraficamente.
«Sì che sono
arrabbiata! È che ho un modo infantile di dimostrarlo, va bene?» Lanciò di
nuovo lo straccio nel secchio e se ne andò, infuriata, lasciando che fosse Yuri
a portare le cose in magazzino.
Emma si era
ritrovata di nuovo nell’archivio, sdraiata sul pavimento fresco, e fissava il
punto in cui aveva nascosto l’atlante qualche giorno prima. Si era presa un po’
di tempo per riflettere su quello che le aveva detto il professore,
sull’allusione di Yuri al fatto che doveva essere preparata a qualsiasi
conseguenza.
Erano giorni
che teneva il muso alla sua compagna di stanza. Una cosa stupida, faticosa e
inutile. Quella mattina era cominciata la settimana dorata, in cui ogni gilda e
ogni rione organizzava una festa per celebrare il culmine della primavera, e
Yuri, come tanti altri studenti, era tornata a casa. Aveva dovuto fare uno
sforzo per salutarla con freddezza. Era una cosa senza senso e decisamente
troppo infantile, persino per lei. Decise che quando sarebbe tornata, alla fine
della settimana, le avrebbe chiesto scusa per essersela presa così tanto.
Nel
frattempo aveva un altro problema da risolvere: l’atlante. L’avrebbe finito o
l’avrebbe rimesso sul suo scaffale?
Se fosse
stata saggia l’avrebbe messo via, avrebbe fatto finta di nulla. Si sarebbe
diplomata, avrebbe trovato un lavoro tranquillo in biblioteca…
Ma lei
voleva sapere. Astropher con le sue allusioni, Yuri con i suoi “non lo posso
dire”, non avevano fatto altro che soffiare sul fuoco che da sempre le bruciava
dentro ogni volta che c’era qualcosa da imparare o da scoprire. Non era nemmeno
una vera scelta: lei aveva bisogno di
sapere.
Senza più
esitare prese il libro e si immerse nella lettura. Un mondo sconosciuto le si
spalancò davanti agli occhi, dove la magia era una realtà tangibile, gli
spiriti si aggiravano fra gli umani, carovane di mercanti viaggiavano lungo
pendii spazzati dal vento e alla fine di ogni autunno la neve copriva le
montagne come una cuffia di lana candida. La poca neve che cadeva in citta dopo
poche ore era solo una poltiglia marrone, e dopo meno di un giorno di solito
era sciolta. Doveva essere strano vedere il mondo coperto da una coltre bianca
per mesi e mesi di fila.
Arrivò
all’ultima pagina con il cuore e la mente in subbuglio. Si era aspettata di
leggere di una guerra o di qualche evento catastrofico che avessero cambiato la
fisionomia dell’isola, ma l’autore si limitava a descrivere tutto quello che
aveva visto, suggerendo di mandare un piccolo gruppo di coloni per costruire
una nuova città.
Trovo adeguato inviare una delegazione di uomini e
donne, che possano costruire da principio una comunità in cui i nostri
compatrioti possano vivere nella pace e nella prosperità di queste terre.
Si guardò
attorno nervosa. Sarebbe successo qualcosa adesso? Girò nervosamente un paio di
pagine bianche, e sul retro della copertina vide un lungo elenco di nomi e
date. I primi risalivano a una cinquantina di anni prima, l’inchiostro ormai
era sbiadito. L’ultimo risaliva all’inverno di quello stesso anno. Doveva
essere Yuri, per forza, anche se si era firmata con un nome falso: Gatta
D’Agosto.
Le venne
quasi da ridere. Solo Yuri poteva uscirsene con un nome tanto strano e stupido.
Gli altri nomi, con poche eccezioni (circa sei anni prima c’era un certo
“Signor Scoreggia Stantia”) erano seri, quasi pomposi. Lei come avrebbe potuto
firmarsi? Visto come si era comportata con Yuri in quei giorni, forse “Zitella
Dodicenne” sarebbe stato lo pseudonimo più adatto a lei, ma non ci teneva ad
essere ricordata dalle generazioni future in quel modo.
Ci rifletté
un attimo, poi, preso un pennino dalla borsa, fece un semplice disegno di due
carpe che nuotavano in cerchio. Scrisse accanto la data e decise che sarebbe
stato sufficiente come segno del suo passaggio. Perché poi avrebbe dovuto
firmare? Chi glielo imponeva?
Chiuse
l’atlante sospirando, col cuore pesante e un leggero senso di delusione. Non
che si aspettasse che qualcuno sarebbe saltato fuori dalle pagine del libro, o
che per qualche magia si trovasse trasportata nello scenario di cui parlava… ma
qualcosa del genere. O almeno la rivelazione del segreto delle mura. Invece di
quelle non parlava per niente.
Se tutti
vivevano in pace su quella terra perché erano state costruite delle mura per
difendersi? E perché adesso non potevano abbandonarle senza perdere quanto meno
il senno? Erano umani i nemici misteriosi di cui non si poteva parlare?
Piena di
domande rimise il libro a posto e tornò in camera sua.
Erano
passati due giorni da quando aveva finito di leggere l’atlante, e ancora non
era successo nulla. Erano ancora nel bel mezzo della settimana dorata e lei era
alla scrivania, cercando disperatamente di dedicarsi allo studio. Se non avesse
recuperato tutti i compiti che aveva lasciato indietro sarebbe stata bocciata,
e lei non aveva nessuna intenzione di andare a vivere nei rioni.
Eppure non
riusciva a concentrarsi, era particolarmente consapevole del battito ansioso
del suo cuore e del fatto di avere uno stomaco. L’aria calda, umida e stagnante
alimentava la sensazione di angoscia e non era certo d’aiuto. Avrebbe voluto
almeno mollare i libri e andare a immergersi nella vasca dell’acqua fredda, per
togliersi di dosso quella sensazione di calore appiccicoso.
Fallo, che t’importa? Comunque è molto probabile che
morirai prima degli esami. Non c’è bisogno di impegnarsi tanto.
La voce
della sua coscienza prediceva sempre più frequentemente la sua morte, e anche
questo non era d’aiuto. Doveva comportarsi normalmente, non destare sospetti,
impegnarsi nello studio, e tutto sarebbe andato bene. Aveva controllato in
biblioteca e l’Atlante era sparito, quindi presto una di quelle persone
misteriose di cui le aveva parlato il professore si sarebbe messa in contatto
con lei e finalmente ci avrebbe capito qualcosa. Fino ad allora doveva solo
resistere alla tensione nervosa senza mettersi a correre nuda per i corridoi
della scuola urlando e strappandosi i capelli.
Avrebbe
tanto voluto confidarsi con Yuri in quel momento, ma non sarebbe tornata prima
di tre giorni.
Qualcuno
bussò piano alla porta e per la sua mente passò subito l’immagine di soldati in
divisa che la trascinavano via urlante e scalciante. Sentì il cuore pulsare nei
denti e nelle orecchie, mentre stringeva le mascelle.
Te l’avevo detto, avresti dovuto andare a farti un
bagno. Hai sprecato l’ultimo pomeriggio della tua vita a studiare.
Però se
fossero andati per farla sparire probabilmente non avrebbero bussato in quel
modo esitante. Sì, avrebbero semplicemente buttato giù la porta. Cercò di
tranquillizzarsi facendo un paio di respiri profondi e andò ad aprire
incuriosita e preoccupata. Non le era mai successo di ricevere visite, non una
volta in tre anni. Forse era un altro scherzo di Rebecca?
Era un
ragazzo del primo anno, la pelle chiara lentigginosa e le spalle larghe. Veniva
dal rione dei carpentieri.
«Posta.» Disse
asciutto allungandole una lettera. Emma la prese titubante, ringraziandolo con
un cenno del capo. Era una busta rossa con un sigillo ufficiale di Sianel.
Il suo cuore
si fece pesante, ogni pulsazione era come un pugno contro il diaframma. Busta
rossa di solito voleva dire brutte notizie. Era successo qualcosa a qualcuno.
Era successo
qualcosa a Yuri? L’avevano fatta sparire mentre tornava a casa? Tutto per
quello stupido libro, non l’avessero mai letto! Respirare era molto difficile,
l’aria si fermava nella trachea rifiutandosi di raggiungere i polmoni affamati
d’ossigeno.
Il ragazzino
se ne era andato da un pezzo, mentre lei era rimasta paralizzata sulla porta,
fissando la busta con orrore, senza il coraggio di aprirla, come se,
rifiutandosi di prenderne atto, avesse potuto cancellare qualsiasi cosa
orribile fosse successa. Con uno sforzo immane chiuse la porta e si lasciò
scivolare a terra. Aprì la busta con le mani tremanti.
Ci duole informarla della prematura scomparsa di sua
madre.
È pregata, in quanto parente più prossima, di
raggiungere quanto prima la sua residenza nel rione di Sianel, per occuparsi
delle esequie e ricevere l’eredità.
Yep, sono ancora viva. <3
Lo
so, è un finale di capitolo un po'... insomma... ecco. Ed Emma
diventa un po' infantile quando qualcuno si rifiuta di rivelarle un
segreto.
Se vi
fa sentire meglio ho già scritto buona parte del capitolo
successivo, quindi probabilmente pubblicherò già nel week
end! Forse. 40% di possibilità. Anzi, 35. Anzi, diciamo che posso promettere che un giorno pubblicherò! Abbastanza presto però! Pisendlov --- 羽毛
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Sianel ***
Sianel
Sianel
Il pozzo era un posto dove tutti i ragazzini del rione si
riunivano ormai da generazioni. Quando venivi ammesso al pozzo, voleva dire che
ormai eri grande. Era un rito di passaggio dal quale
nessuno si poteva esimere, una prova di coraggio. Per un ragazzino poche cose
sono inquietanti come ciò che il denso buio in fondo a un pozzo nasconde, e l’atmosfera
sinistra era alimentata dai racconti strani che i ragazzi si scambiavano seduti
lì attorno. Chiunque volesse prendere la parola doveva prima attingere l’acqua
guardando nelle buie profondità del pozzo, recitando dei versi di cui nessuno
ricordava l’origine:
Cigola la carrucola del pozzo,
L'acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
Nel puro cerchio un'immagine ride.1
«Questa sera parlerai anche tu, Emma?» Le bisbigliò Anton
provocatorio. Annuì decisa. Quella sera si sentiva temeraria, fino a quel
momento, soprattutto per la timidezza, non se l’era sentita di alzarsi e
raccontare una storia. In quel momento stava parlando un ragazzino della loro
età, Ettore.
«Vi
giuro che è una storia vera. Mio padre l’ha sentita
da un tipo della gilda dei bottegai, che suo figlio fa il soldato,
quindi lui
ne sa, no?» Emma storse il naso per il discorso sgrammaticato. In
fondo Anton
non era così male, rispetto ad altri. Era un assassino di
cungiountivi, ma a parte quello se la cavava. «Ha detto che hanno
ritrovato questi
corpi delle pattuglie esterne, dopo tipo un mese che erano spariti, no?
E visto
che volevano capire chi li aveva presi, li hanno portati dentro, nella
zona interdetta, dove possono andare solo i soldati, e li hanno
aperto la pancia per guardare le budella, così.»
Mimò il gesto che avrebbe
fatto per sventrare un pesce, allegramente. «Solo che dentro non
c’era proprio NIENTE!» mise più enfasi che poteva sulla parola niente e sgranò gli occhi, per
cercare di coinvolgere il suo pubblico. «Erano completamente vuoti. Perché i
mostri che ci sono fuori ti succhiano fuori tutte le interiora dalla bocca e se
le mangiano. Poi ci mettono dentro le uova al loro posto, che così stanno al
caldo, e quando noi portiamo dentro i corpi BAM!» Picchiò un pungo contro un palmo
aperto facendo sobbalzare tutti i presenti. «Si schiudono e succhiano gli
organi dei dottori. Hanno trovato le uova che erano ancora chiuse e le hanno
date a un tipo perché le buttasse via, solo che dopo un’ora hanno trovato il
tipo vuoto come una zucca vuota e le uova scomparse. Sicuramente quei
cosi si aggirano ancora qua attorno.» Concluse soddisfatto.
Anton sbuffò divertito. «Sono balle, ti sei inventato
tutto! Figurati se portano uova di mostro dentro alle mura! Ve la racconto io
una storia!» Attinse l’acqua dal pozzo con deliberata lentezza, guardando il
buio sul fondo per tutto il tempo e recitando le parole di rito, poi salì in
piedi sul bordo, perché tutti lo vedessero meglio. Probabilmente da qualche
parte Agnes stava avendo gli incubi. «Qualche mese fa non riuscivo a dormire, e
sono venuto al pozzo per vedere se c’era qualcuno, solo che faceva ancora
molto freddo, quindi non c’era nessuno, erano tutti a dormire. Avevo sete e ho deciso
di bere dal pozzo, ma visto che non c’era nessuno a guardare ho pensato che non ci fosse
bisogno di dire le parole, ma mi sbagliavo.» Fece una pausa e bevve un
po’ d’acqua dal secchio, poi lanciò un’altra occhiata in fondo al pozzo, giusto
per fare il gradasso. «Ho sentito un rumore strano venire dal fondo, mentre
tiravo su il secchio. Allora ho smesso di tirare la fune e ho teso l’orecchio
per ascoltare. Forse qualcuno era caduto sul fondo? C’era qualcuno che parlava,
con una voce strana.» Si schiarì la voce e iniziò a parlare con un sussurro
ultraterreno e inquietante, guardando in basso in modo che il suo volto rimasse
in ombra. «Perché… perché… Perché non
hai cantato per me?» Urlò l’ultima parte saltando giù dal parapetto del
pozzo, facendo urlare alcuni dei ragazzini più giovani e facendo accelerare il
cuore di Emma, che senza volerlo indietreggiò vistosamente. «Poi è uscita una
mano bianca, argentata, dell’esatto colore del riflesso della luce lunare sulla
superfice dell’acqua. Mi ha afferrato per un braccio e ha cercato di
trascinarmi sotto, ma io mi sono afferrato al bordo del pozzo. Ho iniziato a
dire le parole, e man mano che finivo la poesia la mano bianca diventava sempre
più inconsistente e trasparente. Alla fine sembrava un semplice raggio di luce,
ed è scivolata di nuovo in fondo al pozzo.»
Forse
la storia non era più spaventosa delle altre, ma
Anton era un ottimo oratore. Tutti i ragazzi erano visibilmente scossi
e si
erano allontanati dal pozzo con diffidenza, qualcuno rideva della
propria paura
infantile, qualcuno semplicemente stava zitto e sperava che nessuno si
rendesse
conto di quanto fossero spaventati. «Beh, tocca a Emma adesso,
no?» Osservò
gioviale Anton, ammiccando nella sua direzione. Emma si ripromise che
più tardi
avrebbe ucciso il suo amico per quel tiro mancino, e andò
rassegnata ad
attingere l’acqua. La luna disegnava riflessi argentei sul fondo
del pozzo, ma Emma si sforzò di non pensare a una mano bianca
fatta di luce lunare che la afferrava e la trascinava sul fondo.
Sono contenta che non sia Yuri.
Il
pensiero la
fece sentire subito in colpa, ma era questo tutto quello che era
riuscita a
provare in quel momento. Come avrebbe potuto essere triste per sua
madre? Forse
scioccata, quello sì. Era quella la sensazione che la faceva
muovere a scatti
come il pendolo di un orologio e che le impediva di pensare
lucidamente. I pensieri le attraversavano la mente disordinati,
lasciando una scia luminosa al loro passaggio e creando un disegno
confuso.
Sarebbe
tornata fra i canali, realizzò con un brivido. Non andava là da quasi tre anni,
con che coraggio avrebbe guardato in faccia i suoi vecchi vicini? E Agnes, che
si era presa tanto cura di lei? Aveva capito il motivo per cui non era più
tornata, o pensava che si fosse montata la testa?
Osservò la
facciata in pietra dell’accademia, strizzando gli occhi per proteggerli dal
sole. In qualche modo aveva raccolto poche cose in una borsa ed era uscita,
quasi senza rendersene conto, come se qualcun altro avesse mosso il suo corpo
come quello di una marionetta mentre lei era persa fra mille pensieri.
Era sulla
strada di casa.
Passò sotto
l’arco che divideva la zona della biblioteca dalla gilda dei tipografi,
inspirando l’odore umido di quel passaggio sempre in ombra. Fra le pietre
grigie cresceva un muschio folto e soffice, sembrava quasi di camminare su un
tappeto. Quella era la zona più ricca della gilda, con alte case signorili, i
cui abitanti avevano quasi tutti frequentato l’accademia. Avvicinandosi alla
periferia del quartiere, invece, l’atmosfera cambiava. Lungo le strette vie
acciottolate si allineavano botteghe straripanti di libri vecchi e consunti, e
più in là ancora le tipografie, con il loro forte odore di inchiostro e piombo.
Avvicinandosi
al quartiere dei medici e dei farmacisti gradualmente l’odore si mischiava a
quello delle erbe medicinali. Era un odore forte e stagnante, che certi giorni
si poteva sentire anche da Sianel. Le era sempre piaciuto quel profumo, da
bambina amava bazzicare lungo il muro di confine fra il rione e la gilda,
cercando di riempirsi il naso con un odore diverso da quello del pesce e
dell’umidità salmastra.
Ricordò la
prima volta che aveva percorso quella strada: aveva le gambe pesanti per l'angoscia
e la tristezza, ma quando era passata accanto alle serre ed era riuscita a
sbirciare dentro ai vetri si era sentita pervadere dall’ottimismo. Perché
sarebbe stata dura studiare all’accademia, ma anche solo per la possibilità di
sbirciare attraverso il vetro della serra sulla strada per andarci, anche solo
per avere avuto la possibilità di conoscere un pezzetto di mondo che altrimenti le sarebbe stato precluso, ne
sarebbe valsa la pena.
Questa volta
non le degnò di un’occhiata, e l’odore le fece storcere il naso.
Attraversò
un
altro muro, un’altra gilda. Nella gilda dei bottegai si trovava
l'unico accesso al rione di Sianel, per cui fu costretta ad attraverse
le strette vie di
botteghe, piene di casse impilate una sull’altra che smerciavano
i generi più disparati, dai vestiti ai generi alimentari agli
strumenti agricoli. Arrivò al ponte della
Pescheria, dove i pescatori consegnavano il pesce ai bottegai, senza
quasi accorgersene.
Aveva
camminato cinque ore.
Si
immobilizzò, il cuore che batteva in modo aritmico.
Forse sto per avere un infarto. Muoio qui e risolvo
tutti i miei problemi.
Ma il suo cuore non le fece la cortesia di fermarsi, si limitò a farle sentire
una grande ansia e un insopportabile dolore al petto.
Fece vedere
alle guardie i documenti e le due rune tatuate sul braccio. Le guardie la
guardarono con sospetto. In fondo non la vedevano da anni, forse avevano anche
dimenticato che una ragazzina insignificante di quel rione era entrata all’accademia.
Avrebbero pensato che i suoi documenti erano falsi e l’avrebbero rimandata
indietro.
Invece decisero
che tutto era regolare e le permisero di attraversare il ponte. Per un attimo
si guardò attorno, sperando di trovare qualcuno ad aspettarla ma senza osare
formulare il pensiero con più precisione. Così anche la sensazione di delusione
era più nebulosa e indefinita, quindi meno fastidiosa.
Il sole aveva
iniziato a calare e si rifletteva sull’acqua dei canali. Le strette barche dei
pescatori erano ormeggiate e vuote. Fra un attimo il sole si sarebbe inabissato
dietro il muro, che torreggiava su di lei, alto almeno il doppio di qualsiasi
casa della città.
Ti odio.
Non sapeva se
si stesse riferendo al muro, a sua madre o a qualcos’altro, ma di sicuro era
quello che provava adesso. Una vaga sensazione di odio e di rabbia, confusa ma
intensa, che le aveva reso le mani fredde come ghiaccio nonostante il clima primaverile.
Il colore
caldo e arancione della luce del sole morente non si accordava per nulla con il
suo stato d’animo. L’unico scenario che si sarebbe intonato comprendeva freddo
e cenere che cadeva dal cielo come neve coprendo tutto di grigio.
Dopo
qualche minuto il
cielo era ancora chiaro ma tutto era in ombra, con una luce
crepuscolare che la
faceva sentire stranamente staccata dalla realtà. Salì le
ripide scale di legno mezzo marcio, che sembravano reggersi per
volontà
divina, ascoltando il suono attutito dei suoi passi e ricordando le
mille e
mille volte che aveva salito quelle scale così, in punta di
piedi, con il
sapore leggermente salmastro dei canali in cui aveva nuotato che
alleggiava
ancora sulle labbra.
Non era
cambiato nulla negli anni in cui era stata via. La casa aveva ancora quel
cattivo odore di muffa e di buio. Le persiane erano tutte chiuse, il tavolo
ingombro di carte e nell’acquaio c’erano dei piatti sporchi e sbeccati. Nella
stanza accanto ci sarebbe stata sua madre. Il cadavere. Non riusciva a pensare
a sua madre e al suo cadavere come se fossero la stessa cosa.
E poi? Era
arrivata fin lì, ora cosa ci si aspettava che facesse? Non aveva idea di come
funzionassero queste cose, non aveva mai visto organizzare delle esequie. Non
potevano portarla nella zona interdetta fra le due mura e non dirle nulla
finché non fosse finita, ridotta in cenere?
No. E lei
quella notte avrebbe dormito in stanza con un corpo morto.
Che sarà comunque più caldo di quanto lei non sia mai
stata da viva.
«Basta.»
Bisbigliò a sé stessa. Doveva smetterla con quei
pensieri, possibile che in
fondo al cuore non riuscisse a trovare neanche un po’ di
tristezza per la donna
che l’aveva messa al mondo? Era una persona così orribile
da non provare dolore per chi l’aveva cresciuta? In un modo
o
nell’altro l’aveva fatta arrivare viva fino al giorno in
cui non era stata in
grado di badare a sé stessa. Non tutte le madri ci riuscivano.
No, lei non ha fatto proprio nulla. È sempre stata Agnes
a badare a me. «Emma?»
Emma urlò e arretrò cercando la maniglia della porta a tentoni, nella folle
convinzione che sua madre l’avesse chiamata dall’oltretomba.
Si rese conto
che era assurdo un istante troppo tardi, quando una figura quasi familiare uscì
dall’ombra dell’altra stanza. «Tutto bene?» Le chiese il ragazzo con voce
perplessa, vedendola piegata in due con la mano sul cuore.
A parte il fatto che sto per sporcarmi le mani del tuo
sangue?
«Tutto bene. È
che … mi aspettavo di essere sola.» Ansimava ancora un po’, ma si sforzò di
ricomporsi e di assumere un’aria dignitosa.
Anton era
cresciuto. L’ultima volta che l’aveva visto erano alti uguali, lui era un
ragazzino basso e mingherlino. Adesso era alto almeno dieci centimetri più di
lei, e le spalle erano molto più larghe. Non lo vedeva bene in faccia nella
penombra, ma era sicura che fosse lui.
L’avrebbe
riconosciuto ovunque, anche se fossero passati dieci o cento anni.
«Mi dispiace
per tua madre.» Anche la voce era profonda. Un po' roca, quasi da uomo. In effetti questo rendeva
ancora più assurdo il fatto che per un attimo avesse pensato che fosse stata la
madre a chiamarla dall’oltretomba. Emma rimase in silenzio, con gli occhi bassi.
Per un attimo si vide mentre correva ad abbracciarlo e scoppiava in lacrime.
Ma non poteva:
non erano più amichetti di infanzia. «Non è vero. Non ti dispiace. Non dispiace
a nessuno.» Disse caustica, per scacciare ogni antico istinto. Anton non seppe
cosa dire, palesemente imbarazzato. Almeno non aveva avuto la faccia tosta di negare
l’evidenza, questo glielo dovette riconoscere. «Come è successo? La lettera non
diceva nulla.»
Anton sembrò
ancora più a disagio e distolse lo sguardo. «Che vuoi che ne sappia io? Mia
madre mi ha solo chiesto di aspettarti qua.»
Emma si teneva
alla porta come se, nel momento in cui l’avesse lasciata, una corrente troppo
forte l’avrebbe trascinata via. Anton era a disagio. Qualcosa nella sua voce le
suggeriva che c’era qualcosa che non le stava dicendo. Immaginava bene cosa
fosse. Sua madre aveva minacciato di farlo tante volte. «Pensava che qualcuno
dovesse vegliarla finché non arrivavi.»
«Finché non
fossi arrivata.» Lo corresse senza pensarci. Anton fece un sorriso triste e
nostalgico, durò appena un istante, poi tornò più serio di prima.
«Se non hai
bisogno di nulla, io devo andare.»
Emma si spostò
di lato, rigidamente, ed Anton uscì con un cenno di saluto. Gli chiuse la porta
dietro e appoggiò la guancia sul legno scheggiato, ascoltando i suoi passi
sulle scale per essere sicura che se ne fosse davvero andato portandosi dietro
gli ultimi frammenti di infanzia che aveva rievocato.
«Sì,
è meglio
così.» Commentò con sé stessa. Se avesse
ceduto, se avesse chiesto ad Anton di
restare con lei a parlare tutta la notte, come quando erano bambini, se
ne
sarebbe accorto che non provava i sentimenti giusti in quel momento.
Avrebbe pensato che lei fosse insensibile, crudele o matta o
chissà che altro. Anzi,
probabilmente lo pensava già, visto che erano quasi quattro anni
che non si
vedevano e l’accoglienza era stata così fredda. Anzi,
forse se non fosse stato per Agnes, probabilmente non ci sarebbe stata
nemmeno quella.
Voleva
chiudere quella storia e tornare a scuola. Lì avrebbe…
fatto cosa? Aveva sempre
avuto massima fiducia nella città, in quello che gli adulti le
raccontavano,
aveva accettato le cose com’erano perché erano così
da sempre e per sempre lo
sarebbero state, senza possibili alternative. Ora che tutte le sue
convinzioni
erano crollate poteva ancora vivere così? Da quando aveva letto
l’atlante aveva
la sensazione che restare nella città e vivere secondo le regole
fosse una cosa
priva di senso. No, non era più possibile per lei avere una vita
normale. Ma
che avrebbe potuto fare? Non c’erano mondi alternativi dove
andare. Il mondo colorato e vario descritto dall'atlante non esisteva
più. C’erano
solo quei pochi chilometri quadrati dentro le mura, stipati di soprusi
e
ingiustizie.
La sensazione
di essere in trappola le strinse il petto in una morsa, impedendole di
respirare. Si sedette a terra, con la testa contro la porta e gli occhi chiusi,
cercando di recuperare la calma mentre il panico la assaliva senza motivo. Non c’è altra via d’uscita che la morte?
Passarono
diversi minuti prima che si calmasse e tornasse a respirare normalmente. Aveva la
fronte imperlata di sudore freddo e si sentiva stranamente debole. Se erano
quelle le conseguenze per aver letto l’atlante, non c’era da stupirsi per il
fatto che Astropher le aveva consigliato di pensarci bene prima di farlo.
Indugiò un po’
nella cucina. Faceva tre passi avanti verso la porta dell’altra stanza, e poi
tornava indietro. Non ce la faceva proprio ad andare a vedere.
Si accovacciò
in un angolo, in una posizione deliberatamente scomoda: non voleva
addormentarsi, non finché quella cosa era nell'altra stanza. Restò sveglia a pensare,
mentre il cielo diventava prima sempre più buio e poi sempre più chiaro.
Avrebbe voluto
che qualcuno facesse tutto al suo posto. Forse poteva chiedere ad Agnes. Lei l’aveva
sempre aiutata, forse avrebbe potuto bussare alla sua porta, chiederle di
occuparsi lei di tutto e andarsene. In fondo che le importava?
No, sei un’adulta, comportati come tale.
Uscire
nella
grigia luce dell’alba fu una delle cose più difficili che
avesse mai fatto. Sentiva il gelo entrare nelle ossa, nonostante il
tempo fosse
ormai tiepido, e stringendosi nella leggera uniforme scolastica
andò a contattare i servizi funebri all’ufficio rionale.
Le avevano
fatto un mucchio di domande a cui non aveva saputo cosa rispondere. Aveva
finito per dire sì o no un po’ a casaccio, poi era tornata casa con due garzoni
al seguito. Qualcuno aveva lasciato qualcosa da mangiare sul tavolino
traballante accanto al focolare della cucina, probabilmente la madre di Anton.
Non se la sentì nemmeno di controllare cosa fosse, sicura che alla vista del
cibo avrebbe vomitato.
Avevano
portato via il corpo mentre lei guardava da un’altra parte e le avevano detto
qualcosa su una funzione funebre. Emma aveva annuito senza ascoltare ed era
andata a vedere la stanza vuota. Era ancora tutto identico a tre anni prima.
Anche il suo lettino era ancora lì, in un angolo della stanza. C’erano ancora i
segni che aveva fatto sul pavimento, che usava come una meridiana per vedere
quando era ora di alzarsi.
Si sedette sul
letto e si avvolse nella coperta tarlata e impolverata. Adesso che la casa era
vuota potava permettersi di cedere al sonno.
Si alzò piano, attenta a non svegliare nessuno, e uscì
dalla stanza senza fare rumore, fermandosi solo per prendere un lungo involto
di stoffa, alcuni oggetti e una lunga giacca di lana grigia. L’aria della notte
era fredda a quelle altezze. Il cielo era puntellato di stelle, le parve di non
averne mai viste così bianche e luminose. Si intravedeva anche la via lattea
che lo attraversava come una cicatrice. Il prato scendeva verso il bosco in un
dolce pendio. Non c’era nemmeno una luce, se non quelle di qualche lucciola, ma
era abbastanza per vedere il bersaglio.
Ogni gesto era parte di un preciso rituale. Dall’involto
di stoffa estrasse un lungo arco e lo armò, puntandone un’estremità sotto il
ramo di un fico contorto che sembrava fatto apposta allo scopo e spingendo
l’altra contro il ginocchio, per piegarlo e tendere la corda. Si infilò un
guanto di pelle, assicurandolo al polso destro con un lungo nastro, ed estrasse
due frecce da una faretra, mettendosi di lato al bersaglio. Tenendone una con
mignolo e anulare incocco l’altra. Espirò osservando il bersaglio, e poi tirò
su le braccia davanti a se, ispirando a lungo. Sentì i muscoli della schiena
che si gonfiavano nello sforzo di tendere l’arco, l’avambraccio destro che
torceva la corda, l’arco che gemeva, l’odore di cenere e canapa. Con uno
strattone scoccò la freccia. Il rumore le disse che aveva fatto centro. Aveva
sperato che il senso di oppressione al petto sarebbe volato via, legato alla
coda della freccia, ma non fu così.
Emma
si
svegliò rabbrividendo. Era uno dei sogni più vividi che
avesse mai fatto, le facevano addirittura male le braccia e la schiena.
Era stato strano provare sensazioni così precise e dettagliate,
quando non aveva mai tenuto un arco in mano. Quante ore aveva dormito?
Era ancora mattino inoltrato quando si era
rannicchiata sul suo vecchio materasso, ma adesso era completamente
buio. Si alzò
e andò alla finestra. Ricordò con una fitta di dolore che
l’aveva fatto quasi
tutte le sere l’estate prima di iniziare la scuola, svegliata
dalla paura per
la nuova vita che avrebbe iniziato di lì a poco, e aveva spiato
Anton che
tornava a casa da chissà dove nel cuore della notte.
C’era qualcuno
in piedi, appena fuori dal cono di luce di una torcia. Cercò di aguzzare la
vista per vedere chi fosse: aveva un lungo saio grigio. Nel momento in cui
sgranò gli occhi, rendendosi conto con terrore di cosa stava guardando, una
mano ruvida le tappò la bocca.
1) Visto che non sono in grado di
inventare poesie, ho preso in prestito un estratto di "Cigola la
carrucola del pozzo", di Eugenio Montale. Pensavate che fossi una
grande poetessa eh? Invece no. Le uniche poesie che so scrivere sono
haiku su quanto adoro il cibo =D Beccatevi Montale che forse se la cava
meglio.
Giuro,
giuro e rigiuro che la parte introspettiva è finita.
Perché, io che ho la profondità emotiva di un mobile
Ikea, mi sono inguaiata nella descrizione di sentimenti così
complicati? Perché, io che non sono in grado di stare seria
nemmeno durante una lezione di calcolo applicato, mi sono cimentata in
due capitoli così depressi? Per fortuna è finita. Un bel
cliffhanger alla fine per tirarci su di tono ci voleva =D
Probabilmente non vi avranno
inquietato molto le storie sinistre di inizio capitolo. Emma & co.
sono più spaventati dall'atmosfera che dalle storie in
sè. Avete mai provato a guardare in fondo a un pozzo di notte?
Io sì. Mi ha molto inquietato. Cercherò di sbrigarmi con l'aggiornamento! 羽毛
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Latcho Drom ***
Latcho Drom
Latcho Drom
Emma uscì di casa inseguita dalle urla della madre.
Quando per l’ennesima volta trovò le scale vuote non potè non sentirsi
arrabbiata. Sapeva che non aveva il diritto di pretendere che Anton la aspettasse
come un cane da guardia fuori dalla porta, ma… era suo amico, c’era sempre
stato. Non riusciva ad abituarsi all’assenza delle ultime settimane.
Si
sedette sulle scale e aspettò qualche minuto, mentre
un sentimento cupo le gonfiava sempre di più il petto, rendendo
difficile
respirare. Scattò in piedi come se si fosse improvvisamente resa
conto di
essere seduta su delle braci accese e marciò decisa verso la
porta della casa
di Anton. Aveva deciso, avrebbe bussato. Tanto a quell’ora dove
poteva essere? L'avrebbe trovato sicuramente, e si sarebbe fatta
spiegare il motivo di tanta freddezza. Sicuramente era un malinteso,
avrebbero chiarito tutto in un attimo.
Nonostante nei
suoi propositi fosse decisa, bussò esitante, frenata dalla timidezza. Anche se
conosceva Agnes da quando era bambina ed era stata sempre buona e affettuosa
con lei, tutti gli adulti la facevano sentire impacciata e a disagio. Dovette
aspettare qualche minuto prima che la porta si aprisse di uno spiraglio. Agnes
la guardò con aria severa e preoccupata. «Emma, cosa fai qui a quest’ora?»
«Volevo parlare con Anton.» Bisbigliò a voce bassissima.
Agnes esitò, lanciando occhiate furtive in strada.
«Non c’è tesoro. È uscito con suo padre. Vai a dormire
ora.»
Emma ingoiò la delusione e finse di tornare in casa, solo
per sedersi di nuovo sul pianerottolo. Il fatto che sua madre la odiava e la
trascurava era di dominio pubblico ed Emma sapeva che in tanti la compativano, ma
lei era sempre stata bene. Finché c’erano Anton e la sua famiglia non si era
mai sentita veramente sola. Mai come in quel momento.
Le stelle si stagliavano nette e luminose nel cielo limpido e freddo
di novembre, ma Emma le vedeva sfocate, fondersi fra di loro e tremare, trasformarsi
in scie luminose. Avrebbe aspettato lì. Non importa quanto facesse freddo,
prima o poi Anton sarebbe tornato. L’avrebbe costretto a dirle dove era stato.
«Ma sta dormendo sulle scale? Va a dirle qualcosa.»
«No, non voglio.» I bisbigli concitati si fecero strada
nei sogni di Emma, svegliandola lentamente. Le mani e i piedi le dolevano per
il freddo.
«Morirà di freddo se resta lì tutta la notte. Non discutere.
Vai.» Sentì Anton sbuffare riluttante e salire le scale obbedendo al padre. Senza
pensarci fece finta di dormire ancora. Anton esitò accanto a lei due minuti
buoni, poi le toccò una spalla con un solo dito, come a voler controllare se
fosse reale. Emma aprì gli occhi e fece del suo meglio per sembrare arrabbiata.
«Dove sei stato? Ti ho aspettato una vita!»
Anton arrossì così violentemente che anche con la poca
luce che c’era Emma potè vederlo chiaramente. «Sono fatti miei! Non sei mica
mia madre, che devo dirti tutto. Non aspettarmi più.»
«Perché no? Che ti ho fatto?» Si odiò sentendo la voce
lamentosa che, aggirando il suo orgoglio, l’aveva costretta a svelare la
verità. Era triste, ferita, confusa. Voleva almeno sapere cosa fosse successo.
«Non è… che…» Anton balbettò qualcosa, preso alla
sprovvista. «È che sono un uomo adesso. Non ho tempo di stare dietro a te. Ho cose
più importanti da fare, ok? Lasciami in pace.»
Lo guardò scendere di corsa le scale e rifugiarsi in
casa, in un modo molto poco adulto.
Per qualche
secondo seguì una lotta concitata, in cui Emma cercò di liberarsi senza
successo dalla presa ferrea che le impediva di gridare. L’uomo sussurrò nel suo
orecchio, facendole rizzare i capelli sulla nuca. «Vieni con me e non opporre
resistenza. Non abbiamo intenzione di farti del male.»
Emma urlò una
risposta, che però suonò solo come un mugolio soffocato contro il palmo della
mano dell’uomo. Non riuscendo a gridare, iniziò a pestare i piedi sul pavimento
più forte che potè. Sperando che il rumore avrebbe svegliato Anton o Agnes o
Luis… qualcuno sarebbe venuto a vedere cosa stava succedendo. «È inutile. I
tuoi vicini non sono in casa.»
Emma smise per
un secondo di agitarsi, cercando di pensare a un modo di farsi sentire in
strada. Non sarebbe semplicemente sparita nel nulla senza opporre resistenza. «Sappiamo
che hai letto l’atlante. Ti conviene calmarti e seguirmi in silenzio.»
Dunque era
quello che succedeva una volta finito di leggere? Quei tipi inquietanti
uscivano dall’ombra e ti costringevano a seguirli? Proprio non erano riusciti
ad escogitare un modo più delicato per mettersi in contatto con lei?
Adesso oltre
che spaventata era furiosa, si sentiva come se il suo cuore fosse cresciuto
fino a diventare due volte più grande del normale. Yuri avrebbe dovuto
avvertirla. Yuri avrebbe decisamente
dovuto avvertirla. Visto che aveva smesso di lottare l’uomo allentò la presa ed
Emma riuscì a girarsi per guardarlo. Il suo volto era in ombra, coperto da un
cappuccio grigio.
«Stronzo.»
Sibilò fra i denti prima di massaggiarsi la mascella indolenzita. L’uomo fece
un gesto di stizza e le passò un cappuccio.
«Copriti gli
occhi, ragazzina, e fai quello che ti dico. Non ti succederà nulla, te lo giuro.»
A beh, se lo giuri tu, allora mi fido.
Tutti i nervi
del suo corpo, tesi fino allo spasmo, le sconsigliavano fortemente di
rinunciare alla vista e perdere ulteriormente il controllo sulla situazione. Ma
non aveva molta scelta.
Fece come le
era stato detto e cercò di non scansarsi quando l’uomo le mise una mano sulla
spalla per guidarla giù dalle scale e poi in strada.
«È andato
tutto bene?» La voce era diversa, meno roca di quella dell’uomo che la stava
guidando. Doveva essere il frate grigio che aveva visto per strada. Sembrava
essere più giovane.
«Mi ha
chiamato stronzo.» Il giovane rise di gusto, irritando Emma. Cercò di
memorizzare la voce del secondo frate, promettendosi che se l’avesse incontrato
in un’altra occasione gli avrebbe tirato un calcio.
Ad un certo
punto l’uomo la sollevò prendendola sotto le ascelle, strappandole un urlo di
protesta e di sorpresa. Istintivamente ricominciò a divincolarsi, ma un attimo
dopo i suoi piedi appoggiarono di nuovo su una superficie di legno. «Non ti
agitare, che ci ribaltiamo.» Erano su una barca.
Dovresti farla rovesciare questa stupida barca. Vorrei
proprio vederli a nuotare con quelle vesti, come pipistrelli fradici.
Ma nonostante
l’istinto le suggerisse di liberarsi e scappare, la curiosità era più forte.
Forse quella era una trappola e stava semplicemente andando al macello, e
quella possibilità la faceva sentire come se avesse avuto un gatto vivo nello
stomaco, ma forse le avrebbero svelato dei segreti. Segreti importanti sulle
mura, sulla città, sul mondo… Era disposta a rischiare la vita per scoprirlo? Nel
momento in cui aveva iniziato a leggere l’atlante, aveva già deciso di sì. Deglutì un
paio di volte, cercando di liberarsi le orecchie dal ronzio sordo che sembrava
precedere un attacco di panico, e concentrò tutta la sua volontà nell’intento
di non vomitare.
Di nuovo venne
sollevata e depositata su un pavimento di pietra.
«Puoi
toglierti il cappuccio ora.»
Digli “preferisco tenerlo per non vedere la tua faccia da
culo”.
Ma Emma decise
di stare zitta. Anche perché il volto degli uomini era coperto, la battuta
sarebbe stata sprecata. L’avrebbe conservata per la prossima volta che fosse
stata bendata e rapita. Si sfilò il cappuccio con le mani che tremavano,
scompigliandosi i capelli carichi di elettricità. Le sue narici si riempirono
dell’odore freddo e umido di una cantina, mischiato con un sentore di
salsedine. Erano in un porto sotterraneo, rischiarato solo dalla lanterna
portata dall’uomo più giovane. Non c’era nessuna barca, né le sembrava di
vedere un’apertura sull’esterno. L’unico sbocco di quella specie di grotta
artificiale era un tunnel all’estremità della banchina di pietra, alle spalle
dell’uomo più giovane.
«Vieni. Cerca
di non fare rumore.» Emma deglutì ancora e seguì obbediente. Il ronzio nelle
orecchie era quasi scomparso. Poter vedere quello che la circondava le aveva
restituito almeno un po’ di sicurezza.
I loro passi
rimbombavano sulle pareti del cunicolo sotterraneo, coprendo quasi ogni altro
rumore, eccetto l’insistente gocciolio dell’acqua. Al di fuori del cerchio di
luce della lanterna era completamente buio.
Un forte senso
di dejà vu la fece sentire stordita e confusa. Si fermò per un istante, ma il
più anziano dei frati grigi la spinse avanti appoggiandole delicatamente una
mano su una spalla.
Un po’ tardi per essere delicato. Pensò Emma irritata prima di
proseguire.
Camminarono in
silenzio per una decina di minuti e all’improvviso si fermarono davanti a una
porta di legno chiusa da un pesante lucchetto. Il tunnel continuava e spariva
nel buio, ma sembrava che quella porta fosse la loro destinazione. L’uomo più anziano
aprì faticosamente la serratura con una chiave ossidata. «Bisogna oliare questo
lucchetto.» Si lamentò mentre la porta si apriva con un cigolio. Poi si fece da
parte per lasciarla passare.
Emma iniziò a
salire i gradini di mattoni, titubante. La porta si richiuse alle sue spalle
con un tonfo sordo, lasciandola nel buio totale. I due grigi non l’avevano
seguita e uno scatto sinistro preceduto dallo stridore di meccanismi
arrugginiti le disse che non poteva fare altro che salire le ripide scale, sperando che portassero da qualche parte.
Allargò le braccia, così da toccare con entrambe le mani le pareti umide e
scrostate. La scala era larga poco più di un metro, di certo non rischiava di
perdersi.
Che
cosa
avrebbe trovato in cima? Non aveva idea di cosa spettarsi, sapeva solo
che
probabilmente erano ancora a Sianel: il viaggio non le era sembrato
così lungo. Forse era solo un brutto scherzo. Avrebbe trovato
Rebecca in cima a quelle scale, che rideva di lei e della sua paura? O
forse si sarebbe trovata in prigione. Lasciata al buio, in una cella
minuscola, a morire di fame fra i morsi dei topi. Una svolta nella
scala la colse di sorpresa, facendola inciampare. Recuperò
l’equilibrio e seguì a tentoni l’angolo di novanta
gradi, studiando i bordi dei
gradini con i piedi. Adesso vedeva un lieve bagliore e iniziava a
sentire un
mormorio concitato.
Si ritrovò in
un ambiente poco illuminato e odoroso di spezie. Dentro una decina di persone,
alcune sedute attorno a un tavolo, altre in piedi accanto a un focolare,
bisbigliavano fra loro. Appena entrò tutti ammutolirono.
Emma studiò le persone
lì convenute, guardandole una per una. Appoggiato al muro, con studiata negligenza, c’era
Anton. Incrociò il suo sguardo per un attimo, poi lui diventò viola e guardò
altrove. Luis fumava la pipa accanto al caminetto, guardando corrucciato nelle
fiamme, mentre Agnes le sorrise incoraggiante, senza rivolgerle però la parola.
Anche gli altri erano facce note, uomini e donne del rione, persone che aveva
sempre considerato tranquille e rispettose della legge. Anche il preside della
scuola rionale era fra loro.
Solo una donna
le era completamente sconosciuta, una donna distinta di circa quarant’anni, con
corti capelli neri e occhi scuri dal taglio esotico.
Le andò
incontro tendendole la mano con un sorriso. «Benvenuta, Emma!» Emma non prese
la mano, continuò a guardarsi attorno, ammutolita e a disagio. «Ti starai
chiedendo perché sei qui vero?»
In realtà si
stava chiedendo di più perché erano lì Anton e i suoi genitori, ma non riuscì a
formulare la domanda.
«Siediti,
siediti. Prendi da bere. Spero che non ti abbiano portato qui con modi troppo
bruschi.»
Emma non si
mosse. «Sì, in realtà. Sono stati bruschi.» Alcuni dei presenti si mossero a
disagio, altri sorrisero timidamente come se avesse appena fatto una battuta
che non faceva ridere.
Bene, che si sentano pure a disagio. Pensò quasi trionfante. Di certo non
avrebbe fatto nulla per alleggerire l’atmosfera. La donna però non si fece
scoraggiare.
«D’accordo
allora, saltiamo direttamente alle presentazioni. Di sicuro conosci già tutti
loro.» Emma scoccò uno sguardo freddo ad Anton, che sembrava voler sparire nel
muro. «Ma non hai mai visto me, dato che non sono di qui.» Mostrò la runa
tatuata sul braccio. Era una precisazione inutile: tutto, dal suo accento ai
suoi lineamenti, dimostrava che veniva dalla gilda dei medici. «Io sono Cam
Huang. Dirigo il presidio di Sianel.»
«Presidio di
cosa?»
«Forse hai
sentito parlare di noi come “frati grigi”. So che circolano diverse leggende in
proposito, ma sono quasi tutte sbagliate. Quelle vesti servono più che altro a
non farci riconoscere. Preferiamo chiamare la nostra organizzazione Latcho Drom.»
Emma avrebbe
voluto continuare ad essere fredda e imbronciata, ma era troppo curiosa per
continuare con il trattamento del silenzio. «Latcho Drom?»
«Sì.»
Aspettò
qualche secondo ma Cam non aggiunse altro. «Che cosa vuol dire?»
«È
il nome con
cui ci si riferisce a un viaggio leggendario. Il primo viaggio compiuto
da un
popolo nomade, un viaggio che durò millenni.» Emma
cercò di immaginare un
cammino così lungo da poter essere misurato in generazioni,
più che in chilometri. Come poteva essere nascere in cammino
e non vedere mai due volte lo stesso luogo per tutta la vita? Le
vennero le
vertigini e si appoggiò alla parete, sempre rifiutando
l’idea di sedersi.
«Ancora non ho
capito perché sono qui.»
«Sei qui
perché hai letto l’atlante.»
«No, quello
l’avevo immaginato…» Iniziò a rispondere scocciata. Poi venne colta da un’idea
semplicemente assurda. «Aspetta un attimo… tutti qui hanno letto l’atlante?»
Chiese incredula.
«No, certo che
no. Non tutti. Solo io, te, il tuo amico Anton…» Emma lo guardò con gli occhi
sgranati, mentre il ragazzo sembrava stesse facendo finta di essere altrove.
«Anton in effetti è stato uno dei più giovani ad avere mai letto l'atlante.
Quanti anni avevi? Undici?» Mormorò una risposta incomprensibile e il suo volto
assunse lo stesso colore dei mattoni alle sue spalle. Le sue abilità di
mimetismo sembravano migliorare con il progredire della conversazione. Forse in
un altro momento Emma avrebbe riso.
«E come? Io ho
fatto fatica. Dopo aver studiato all’accademia! Lui… Lui aveva bisogno del mio
aiuto pure per fare i compiti delle elementari!»
«Io l’ho
aiutato.» Rispose Cam con la sua pacata compostezza, come se stesse spiegando
perché due più due fa quattro.
«E perché?»
«Volevamo che
fosse già un membro del gruppo a tutti gli effetti quando il momento di leggere
l’atlante fosse arrivato anche per te. Per questo, con il permesso dei suoi
genitori, abbiamo iniziato a prepararlo per tempo.» Emma non riuscì a sopprimere
una smorfia ridicola, con la fronte corrugata e la bocca mezza aperta in una
perfetta espressione di muta perplessità. Le mille domande che avrebbe voluto
fare le si incastrarono da qualche parte fra il petto e la gola.
«E… perché?»
«Al momento ci
sono troppe cose che non sai perché tu possa capire questo dettaglio.»
Se in quel
momento avesse avuto un’arma l’avrebbe usata senza esitare, e Cam sembrò
capirlo dalla sua espressione, perché con un gesto fece cenno agli altri di
allontanarsi. Rimasero solo la donna, in piedi dietro al tavolo consumato e
incurvato dall’umidità, ed Emma, pallida e appoggiata al muro accanto alle
strette scale che si perdevano nel buio.
Cam sospirò e
riprese con pazienza il discorso. «Di questo ne parleremo dopo. Quando sapremo
se possiamo fidarci di te.» Emma si limitò a scuotere la testa, scioccata.
«Siediti,
intanto.» La invitò Cam indicando una sedia con un tono perfettamente
ragionevole e sedendosi a sua volta. Obbedì riluttante e strinse fra le mani la
tisana che la donna le porse, senza però berla. Aveva un forte odore speziato e
le scaldò le mani in modo piacevole.
«Forse
dovremmo iniziare dalla storia della tua famiglia. Tua madre te ne ha mai
parlato?»
Scosse la
testa, senza aver nemmeno bisogno di pensarci. Sua madre sicuramente non le
aveva mai parlato di niente.
«Ti ricordi,
vero, di essere nata in un altro rione?» Emma rifletté un attimo, finché
emersero ricordi vaghi dello stupore infantile che aveva provato di fronte a un
ambiente nuovo, di una camminata notturna in un tunnel buio avvenuta più di
dieci anni prima. L’aveva sempre saputo in un certo modo, solo che per qualche
motivo, tutte le volte che provava a sfiorare quei ricordi, la sua mente
fuggiva altrove.
«Non molto…»
Scosse la testa incapace di parlare correttamente. Aveva la gola secca e
iniziava a sentire freddo. Senza pensare bevve dalla
tazza che aveva fra le mani. Il sapore speziato della bevanda le pizzicò il palato.
«Sei nata nel
rione degli agricoltori, Abincil. Sia tua madre che tuo padre sono nati lì, ed
entrambi facevano parte della nostra organizzazione.»
«Non può
essere.»
«Perché no?»
«Emma Creuza.
Nome e cognome tipici di Sianel. Pensavo che almeno mio padre fosse di qui…»
«No, non è
così. Quando tu e tua madre vi siete trasferite qua, per aiutarti a integrarti
abbiamo cambiato i vostri nomi. È stata un’operazione rischiosa entrare nei
registri cittadini, dopo quella volta non è più stato fatto.»
«E allora qual
era il mio nome?»
«Non ancora.
Un nome è una cosa potente, saperlo al momento sbagliato non ti aiuterebbe.»
Emma posò con cautela la tazza, si mise le mani nei capelli e appoggiò i gomiti
al tavolo. Non sapeva più cosa pensare.
«Ho conosciuto
i tuoi genitori, sai. Hanno sacrificato molto per la nostra causa.» Emma si
sentì attraversare da una stilettata di irritazione, infastidita dal tono
materno della donna.
«E come? Anzi,
prima, voglio che tu mi dica qual è di preciso la vostra causa.» Riempì le
parole con tutto il cinismo che riuscì a raccogliere, ma Cam non si lasciò
scalfire dal suo astio, trattandola con la condiscendenza con cui gli adulti
trattano sempre gli adolescenti arrabbiati.
«Il
Latcho
Drom ha molti scopi. Di certo non posso elencarteli tutti. Se no che
società
segreta saremmo?» Emma fissò gli occhi in quelli della
donna. Di certo non
avrebbe aderito a nessuna folle organizzazione senza prima sapere
almeno per
cosa si batteva. E a giudicare da quello che avevano detto sul
perché avevano
fatto leggere l’atlante ad Anton, un minimo di potere
contrattuale ce l’aveva, anche se non sapeva perché.
Cercò
di assumere una posa rilassata e una voce dura ma tranquilla, ma non
era mai
stata brava a fingere. Le parole le uscirono come lo squittio lamentoso
di un
bambino che vuole essere reso partecipe di un segreto.
«Molti scopi,
ok. Fammi un esempio concreto, altrimenti dovrai lasciarmi andare.»
«Bene, allora.
Diciamo che il nostro obbiettivo finale è abbattere le mura, o comunque
annullarne il potere.»
«È
impossibile.» Dichiarò Emma categorica, convinta che la donna la stesse
prendendo in giro. «Non so come erano le cose una volta, se quello che c’è
scritto nell’atlante è vero o no, ma so che adesso è impossibile vivere fuori
dalle mura. Ho visto come viene ridotto chi c’è stato.»
«Adesso è impossibile.» Emma guardò la
donna sempre più scettica, aspettando che continuasse. Dopo pochi secondi di
silenzio sembrò decidere di accontentarla. «Non ci sono chiare le ragioni per
cui le mura sono state costruite né come funzionano. Tutti i documenti che le
riguardano sono spariti. Per questo pensiamo che capirlo potrebbe portarci al
punto di farne a meno: se possiamo fare a meno delle mura, possiamo fare a meno
della città e della protezione del patrono. Quale altra ragione potrebbe
esserci per nascondere così accuratamente la verità?» Emma non era del tutto
convinta. Qualcosa le impediva di accettare quell’idea. Per lei senza mura non
c’era vita, punto. Che le piacesse o meno. Cam si prese un po’ di tempo per studiare
le sue reazioni e poi riprese a parlare.
«I tuoi
genitori pensavano che fosse importante scoprire più cose possibile sulle mura,
convinti che, un giorno o l’altro, la razza umana avrebbe riconquistato la
libertà. Per questo accettarono di sottoporsi ad un esperimento. Se avesse
funzionato la loro prole avrebbe avuto nel sangue una refrattarietà alla magia
delle mura.»
«Ma non ha
funzionato.» Constatò Emma. Cam annuì, poi non disse più nulla. Evidentemente
le stava lasciando il tempo di elaborare le informazioni. Bevve un lungo sorso
di tè, cercando di capire come si sentiva per quelle rivelazioni, ma
onestamente non ne aveva idea. Era come se la sua capacità di provare emozioni
si fosse spenta, come un fuoco soffocato dalla troppa legna.
«Quindi voi
pensate che siano le mura a rendere inabitabile il mondo esterno.» Cam sembrò
colta alla sprovvista e per un attimo sbarrò gli occhi, ma si ricompose in
fretta.
«Delle nostre
teorie ti parlerò solo dopo che avrai accettato ufficialmente di collaborare.»
Emma sbatté la tazza sul tavolo, arrabbiata. «Me l’hai praticamente già detto, devi solo
elaborare il concetto! Hanno sempre detto che senza mura perderemmo la nostra
anima, e tu mi dici volete essere refrattari alla magia delle mura. Questo
significa che sono le mura che rendono inabitabile l’esterno? Che se le mura
smettessero di funzionare non moriremmo affatto, anzi, saremmo liberi di andare
dove vogliamo?» La donna tacque, mentre Emma ingoiò il contenuto della tazza in
un sorso, bruciandosi l’esofago. «In questo modo sembra che le mura, più che
per proteggerci, siano state costruite per imprigionarci.»
«Sei una
ragazza troppo intelligente per sopravvivere a lungo in questo mondo» Osservò
Cam ridendo, mentre Emma rimase mortalmente seria.
Io avrei detto che sei troppo scema per sopravvivere in
questo mondo, ma il succo è quello.
«Quindi…
l’esperimento non ha funzionato. Perché?»
«Ci fu un
contrattempo.»
Grazie al cazzo.
«Cioè quale?»
Insistette Emma cercando di evitare il linguaggio brusco che la sua coscienza
le suggeriva.
«Beh… era
pensato per funzionare su un solo bambino per volta, ma i tuoi ne ebbero due.
Tuo padre volle tentare comunque, così un anno dopo la vostra nascita usammo il
vostro sangue per creare un antidoto e lo provò su di sé. Se l’esperimento
avesse funzionato, almeno avrebbe potuto far fuggire la sua seconda figlia ma…»
«Ma non ha
funzionato. Quindi mio padre è morto e, immagino, mia sorella è fra i servi
delle mura.» Cam sembrava essere molto a disagio, ed Emma per un attimo si
sentì trionfante. Non sapeva come sentirsi nei confronti di un padre e di una
sorella che non ricordava per nulla, ma capiva molto chiaramente cosa provava
nei confronti della donna che aveva davanti: astio, antipatia e l’irrefrenabile
desiderio di farla sentire più a disagio di quanto si sentisse lei.
«Beh… sì, è
così. Ma pensiamo che in te sia rimasta una traccia di refrattarietà. Non
sufficiente per funzionare, ma abbastanza per non dovere iniziare da capo. »
«Per questo
vuoi che entri a far parte del vostro gruppo. Per voi il mio sangue è una
risorsa importante.» Constatò ancora. Non sapeva spiegarsi quel bisogno di fare
la saputella, né perché le importasse così poco del destino toccato alla
famiglia di cui era l’unica superstite. Si sentiva come un blocco di pietra
appena scaldato dal sole. Uno strato sottile del suo essere era scaldato dalla
rabbia, dall’indignazione. Era ferita per quello che le stavano rivelando,
scossa perché adesso capiva in parte perché sua madre l’aveva sempre rifiutata,
ma solo in superficie. Dentro di lei tutto era stranamente immobile. Cercò di
trasmettere tutta la durezza che provava nello sguardo e continuò. «Mia madre
ce l’aveva con voi perché l’esperimento ha causato la morte di mio padre,
giusto? Ci siamo trasferite perché non volevate che lei parlasse con qualcuno
del vostro gruppo, e qui a Sianel lei non poteva sapere di chi fidarsi e di chi
no, perché avete mantenuto la divisione dei rioni. In più la famiglia di Anton
aveva il compito di sorvegliarci.»
«No.»
La
interruppe Cam con uno sguardo pietoso. «Vi abbiamo trasferito
perché tua madre
aggredì una guardia quando vennero a prendere tua sorella.
Riuscimmo a
nascondervi a Sianel, ma fu costretta a vivere da latitante, senza
poter
parlare con nessuno del fatto che era stata trasferita. Ufficialmente
risultava
morta. Gli Acquafredda avevano il compito di prendersi cura di voi,
visto che tua madre non era più in grado di provvedere né
a te né a se stessa.»
Emma strinse
la tazza ormai fredda fra le mani, rimpiangendo il lieve conforto che le aveva
dato il calore pochi minuti prima. Lentamente di alzò e si avvicinò alle braci
del focolare, cercando di fermare i brividi che le correvano lungo la schiena.
La sua curiosità era ben lontana dall’essere appagata, eppure sentiva che a
quel punto sarebbe bastato pochissimo per far crollare quello strano equilibrio
immobile che si era creato dentro di lei.
«Immagino che
nemmeno adesso tu voglia dirmi il mio vero nome, giusto? O quello di mia
sorella.» Cam scosse la testa. «No. Non ancora. Ho bisogno di sapere, Emma, se
hai deciso di collaborare con noi oppure no.» Emma non rispose. Non lo sapeva.
«Adesso esco. Ti lascio qualche minuto per riflettere. All’alba tornerò e
dovrai darmi una risposta.»
Emma non alzò
nemmeno la testa mentre la donna se ne andava. Si sedette con la schiena
appoggiata alla pietra del focolare. Il lato del suo corpo esposto al calore
bruciava, l’altro era gelido.
Con un dito
iniziò a tracciare righe sinuose nella cenere calda, cerchi e virgole panciute.
Sapeva che avrebbe dovuto riflettere su cosa avrebbe detto a Cam di lì a poche
ore, ma proprio non riusciva a concentrarsi. Tutta la sua attenzione era
rivolta alla cenere e al rumore delle braci che scoppiettavano sommessamente,
spegnendosi.
«Cosa stai
facendo?» Emma sobbalzò sollevando una nuvoletta di cenere che le andò in gola
facendola tossire. Anton si era avvicinato di soppiatto ed era a pochi
centimetri da lei. Incrociò le braccia e lo guardò con astio.
«Cosa sei
venuto a fare?»
«Mi hanno
mandato a vedere se ti serviva qualcosa…» Anton esitò all’improvviso, notando
gli strani disegni che stava tracciando. Emma li cancellò bruscamente con una
mano.
«Non mi serve
nulla.»
Anton ignorò
il suo chiaro rifiuto e dopo aver ravvivato il fuoco mise a scaldare una
pentola d’acqua. Poi si sedette di fronte a lei e rimase lì in silenzio per
lunghi minuti.
Più quel
silenzio durava, più Emma sentiva crescere la rabbia e l’irritazione maturata
in quegli anni, come l’acqua che bolliva accanto a lei, la tensione lottava
sempre più per liberarsi, venendo in superficie prima con un leggero tremore,
poi in grosse bolle roventi. No, non poteva sopportarlo più. Con un urlo
afferrò una manciata di cenere e provò a lanciarla all’amico, ottenendo il solo
risultato di disperderla nell’aria. «Sei
un idiota.» Urlò ancora fra un colpo di tosse e l’altro, alzandosi in
piedi e camminando avanti e indietro per la stanza. Anton rimase seduto e
scrollò le spalle.
«Per che cosa?
Perché ho iniziato ad ignorarti o perché non ti ho detto dell’atlante?» Emma
agitò le mani in aria, frustrata. Fra la cenere e la sporcizia delle scale
erano completamente nere.
«Sei un idiota
e basta.»
Anton sbuffò. «Avevo
undici anni Emma. Tu hai letto l’atlante ora che ne hai quasi diciassette, che
effetto pensi che possa avermi fatto all’epoca? Ci ho provato, davvero, ma non
potevo continuare la vita di prima come se nulla fosse!» Emma boccheggiò
qualche secondo, pensando a come replicare.
«Potevi dirmi
dell’atlante! Io sono coinvolta in questa storia anche più di te, avevo il
diritto di sapere!»
«No che non
potevo. Credi che ti avrei raccontato una cosa così pericolosa? Non volevo
darti anche questo problema. Speravo che te ne andassi davvero all'accademia e che non venissi coinvolta in tutto questo.»
«Beh, indovina
un po’, adesso sono coinvolta, mister Scoreggia Stantia.» Anton divenne rosso e
sembrò rimpicciolire, mentre mormorava di nuovo qualcosa che somigliava ad
“avevo solo undici anni”.
Rimasero in
silenzio altri lunghi minuti, poi Emma sbottò. «Potevi parlarmi comunque. Fare
uno sforzo! Inventati una spiegazione! Hai smesso di parlarmi da un giorno
all’altro!»
«Ci ho
provato, ma se non ricordo male ti sei rifiutata di ascoltarmi. E mi hai spinto
nel canale.»
Emma arrossì,
ricordando l’episodio. Era successo poco prima che partisse per la scuola. In
effetti, lei cosa aveva fatto per capire perché Anton aveva smesso di parlarle?
In realtà quasi nulla. Si era limitata ad offendersi e a tenergli il broncio,
ferita dal suo primo rifiuto, quella notte di novembre. Forse, se avesse
insistito, se quel giorno, prima di partire, l’avesse lasciato parlare…
Ma poi lei era
tornata dall’accademia. E aveva provato a parlargli. E lui non l’aveva nemmeno
voluta incontrare.
Forse aveva paura che lo spingessi di nuovo nel fiume.
«Ah, basta!
Stai solo cercando di rigirare la frittata. La realtà è che sei un idiota.»
Anton alzò gli
occhi al cielo, esasperato. «D’accordo, sono un idiota, contenta?»
«No che non
sono contenta. Lo dici solo per farmi stare zitta!» Protestò oltraggiata. Non
aveva dodici anni. Non si sarebbe fatta trattare ancora con condiscendenza. Anton
la guardò con aria di sfida, ancora viola in volto, Emma non riusciva a capire
se per la rabbia o l’imbarazzo.
«Dico sul
serio, invece. Sono un idiota. Mi dispiace.» Solo Anton poteva dire una frase
del genere con un tono orgoglioso e strafottente completamente fuori luogo e
sembrare comunque sincero. Ad Emma venne quasi da ridere, ma si trattenne e
guardò altrove, ostinata.
Avete
torto entrambi. In più lui voleva proteggerti in qualche modo,
insomma, fa tenerezza. Accetta la cosa con dignità e chiedigli
scusa.
Ma Emma non
era capace di mettere da parte l’orgoglio ferito così in fretta. Si sedette di
nuovo vicino al caminetto e frugò distrattamente con il dito fra la cenere
tiepida. L’acqua bolliva e Anton la tolse dal fuoco. Non guardò quello che stava
facendo, ma un forte odore speziato riempì l’aria e un attimo dopo Anton le mise
in mano un’altra tazza di tè. Le sue dita lasciarono impronte nere sul legno
chiaro.
Guardò un
attimo l’amico negli occhi. Erano più seri di quanto ricordava, ma ancora non
avevano perso la luce vivace che li animava quando erano bambini. Qualcuno
strizzò il suo stomaco come se fosse stato una spugna ed Emma abbassò lo
sguardo in fretta, con il naso che pizzicava come se stesse per starnutire.
«Cosa
succederà se rifiuterò di collaborare?»
«Ti lasceranno
andare, ma… faranno in modo che tu non possa parlarne con nessuno.»
Ad Emma venne
da ridere. Come pensavano di ricattarla? Non aveva nulla da perdere. «Ti rendi
conto, vero, che se parlerai scopriranno che tua madre era una latitante, e che
non potendo pagare lei per i suoi crimini pagherai tu?» Non ci aveva pensato.
Non che avesse intenzione di raccontare niente a nessuno. Bastava un decimo
delle cose in cui era stata coinvolta quella sera per farla spedire nei campi
esterni con un’unica, fluida pedata.
Ancora non le
sembrava reale la morte di sua madre, figuriamoci sapere che era latitante, che
aveva avuto un’altra figlia, che lei e suo marito facevano parte di una società
segreta di ribelli.
«E invece se
accetto?»
Anton esitò.
«Se accetti non importa cosa succederà, ti starò vicino.»
Emma si sentì
bruciare la faccia e quasi le sfuggì la tazza di mano, lo stomaco in gola come
se avesse appena saltato dalla finestra del primo piano. Sbuffò sopra la tazza
di tè fumante. «Sei un idiota.»
Lo
so, sono in ritardo. Sapete com'è, tesi, esami, visti
studenteschi... Comunque sono viva. Se volete aggiungermi su facebook,
ogni tanto farò sapere a che punto sono (Qui!)
Comunque
vi avrò fatto anche aspettare ma il capitolo è un po'
più lungo del solito. E si scoprono anche un bel po' di cose!
Anche se da scoprire c'è ancora tanto. Più di
quanto immaginate.
Non
sono brava a scrivere scene dove gli amici litigano e fanno pace. Mi
mettono in imbarazzo, non so perché! Spero che abbiate
apprezzato o che abbiate qualche consiglio utile da darmi per
migliorare!
Ancora
per qualche settimana la mia vita sarà abbastanza un inferno,
poi dovrei aggiornare più regolarmente. Spero. Abbiate
pietà di una povera laureanda <3 ---- 羽毛
P.S: Latcho Drom tecnicamente vorrebbe dire "buon viaggio", ma io lo userò come mi pare e piace perché sì.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2737482
|