La Figlia dei Lupi

di aduial
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: La caduta ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo: La salvezza ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo: Selthia ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo: Di nuovo ***



Capitolo 1
*** Prologo: La caduta ***




Prologo

La caduta
 
Il fumo si levava in volute grigie, pezzi di edifici crollavano a terra con tonfi sordi, si sentiva il crepitio delle fiamme che divampavano ovunque. L’antica città, dopo centinaia di anni di storia, di battaglie vinte e di conquiste si piegava davanti a un nemico troppo forte. Era la capitale di un immenso impero e i secoli di vittorie l’avevano resa superba, troppo superba, tutti avevano ormai dimenticato i tempi in cui anch’essa non era nulla di più di una manciata di capanne di fango abitate da poveri contadini e cacciatori. Un boato più forte squarciò l’aria. La bianca torre del palazzo reale che da centinaia d’anni dominava le praterie circostanti era caduta, distruggendo gran parte degli edifici che la attorniavano. Da tempi immemori quella torre rappresentava la speranza per gli abitanti di Alahrian e,vedendola crollare, la paura scese nei cuori di tutti.
All’orizzonte nere nuvole cariche di malvagità si addensavano e scivolavano velocemente lungo la pianura dirigendosi verso Alahrian. Allungavano le loro oscure dita sulla città, come a volerla ghermire per non lasciarla mai più andare.
Nei vicoli, il panico dilagava. Gli abitanti della città correvano alla cieca, le braccia protese in avanti per scostare tutti coloro che intralciassero loro la fuga, incuranti di travolgere conoscenti, amici, persino parenti. Le urla dei feriti riempivano l’aria, ignorate dalla gente che, terrorizzata, li calpestava senza alcun riguardo. Tutti cercavano di sfuggire ad un destino, ormai inevitabile.
Colpi, come di metallo che batte su legno. Le porte di Alahrian stavano per cedere definitivamente davanti all’incessante avanzata del nemico. Poi più niente. Su tutta la città scese un silenzio innaturale, cosciente e rassegnato. Nemmeno dall’esterno proveniva più alcun rumore. Erano gli ultimi attimi, l’attesa del predatore un istante prima di spiccare il balzo. Poi un ultimo boato e le porte crollarono definitivamente, lasciando entrare nubi di cavalieri inconsistenti. Sembravano costituiti di tenebra pura ed evanescente, immuni a qualunque arma costruita da essere vivente.
Si avventarono sulla folla, falcidiando uomini e donne, anziani e bambini, senza distinzione e senza pietà. Il sangue scorreva a fiumi, imbrattando la via principale di Alahrian, tanto cara a mercanti e commercianti. Il giorno prima c’era stato il mercato. Nessuno poteva sapere che sarebbe stato l’ultimo. I corpi si accatastavano gli uni sugli altri, nei volti si vedeva solo il terrore, alcune bocche aperte nel loro ultimo grido. I cavalieri d’ombra proseguirono la loro avanzata in ogni via secondaria, uccidendo e devastando tutto ciò che incontravano. In un’onda nera e spaventosa, avvolsero il palazzo reale, annientando ogni sprazzo della luminosità tipica della pietra bianca in cui era costruito.
Da una terrazza che dominava Alahrian, Serenai aveva visto ogni cosa. L’arrivo della marea nera, la caduta delle porte, la carneficina nelle strade. Aveva assistito alla distruzione della città di cui era regina. Inspiegabilmente sorrise. Un sorriso amaro, ma vittorioso. Sapeva cosa stavano cercando. E che non l’avrebbero trovato.
L’anziana sovrana rientrò nelle sue stanze, accomodandosi con eleganza sull’enorme letto a baldacchino che aveva condiviso con il marito fino a poche settimane prima. Com’era felice che non fosse stato costretto a vedere quel giorno. Era scivolato nella morte serenamente, a differenza di lei che stava per raggiungerlo con l’orrore negli occhi.
Percepì, ancora prima di vederla, la presenza che si era imposta nella sua camera e che ora le si stagliava di fronte, con arroganza e trionfo.
«È finita, Serenai»
«Non sarà mai finita» ribatté la donna, alzando gli occhi sull’imponente creatura davanti a lei. E provò disgusto per quell’essere che aveva venduto la sua anima, il suo corpo, la sua mente solo per la sete di potere. Potere che forse avrebbe a mala pena assaggiato, ma mai gustato appieno. Provò disgusto per quello che era diventato. Immortale certo, ma a che prezzo? I suoi contorni erano indefiniti, sfumavano da qualcosa molto simile alla carne al nulla. Non era più niente, tenuto ancorato alla vita solo da un patto perverso. A ogni passo sembrava essere a punto di dissolversi. Era un fantasma, un semplice burattino di colei che l’aveva reso tale.
«È finita per te» ghignò lui di rimando, con la sua voce profonda.
«Perché non ti sei accontentato del tempo che ti era stato dato, Radesh? Perché hai voluto di più?»
«Stai cercando di ritardare il momento della tua morte, Serenai?»
«No, quello l’hai fatto tu» sospirò la donna, rassegnata.
Un ghigno di rabbia deformò il volto scavato dell’uomo, che con un unico gesto fluido le tagliò la gola. La sovrana si accasciò sul materasso, senza un lamento, mentre una rosa di sangue andava disegnandosi intorno al suo volto ormai privo di colore.
«Addio, sorella» mormorò il cavaliere oscuro, prima di abbandonare la forma corporea e tornare pura ombra per riunirsi ai suoi compagni.
 
L’oscurità aveva ormai da ore abbandonato Alahrian lasciando dietro di sé solo un cumulo di macerie e cadaveri. Una bambina camminava sulla via principale. Era scalza, il sangue che usciva dai tagli sui piedi si mescolava a quello che già imbrattava la strada. Ma il dolore causato dai vetri rotti non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello che sentiva dentro di sé. Aveva gli occhi sbarrati, troppa era la morte che aveva visto in quelle ore terrificanti. Tra le mani stringeva spasmodicamente un cristallo, che emanava una luce debole e rassicurante. Non poteva sapere quanto in realtà fosse prezioso, sapeva solo che sua madre l’aveva affidato alle sue cure prima di nasconderla e distogliere l’attenzione dei cavalieri d’ombra da lei. Poi era morta, aveva visto il suo cadavere riverso sulla soglia di casa. L’ultima cosa che aveva fatto, come sempre, era stato proteggerla. Un’unica lacrima le solcò la guancia e poi qualcosa si spezzò. La sensazione di apatia che aveva provato fino a quel momento si trasformò in un dolore talmente forte da graffiarle il petto con artigli acuminati. Le gambe le cedettero e si ritrovò a terra, inginocchiata nella polvere e nel sangue, mentre i suoi singhiozzi echeggiavano tra le mura della città, morta insieme ai suoi abitanti. Al petto stringeva ancora il cristallo, il penultimo dono della madre. L’ultimo era stato la vita.
 
Angolo autrice
Allora, questa è un’idea fulminante che mi è venuta oggi e ho sentito la necessità di metterla per iscritto. Però chiarisco subito una cosa, per quanto riguarda gli aggiornamenti le altre storie che ho in corso d’opera avranno la precedenza, visto che le ho iniziate prima. Detto questo, vi chiedo cosa di farmi sapere cosa ne pensate, in modo tale da riuscire a migliorarmi.
Un beso!
Aduial
P.S. Probabilmente anche il titolo andrà rivisto. Intanto mi faccio un po’ di pubblicità e vi linko le altre mie storie:
Cronache delle Sette Terre (fantasy): http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2648175&i=1
Gemini (Harry Potter): http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2570548&i=1

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Capitolo 2
*** Capitolo primo: La salvezza ***


Capitolo primo
La salvezza
 
La notte scese sulla prateria e su ciò che rimaneva dell’antica Alahrian, celando con il suo manto il sangue e i corpi riversi nelle strade. La bimba si riscosse, dopo ore, dal suo torpore e sollevò lo sguardo, ancora velato di lacrime, al cielo. Le stelle brillavano lontane e il loro baluginio le rasserenò l’animo, seppur di poco. Una brezza leggera ma fredda, proveniente dalle montagne a nord, si insinuò sotto i suoi abiti leggeri, facendola rabbrividire. Mossa dall’istinto di sopravvivenza la bambina si alzò in piedi e, destreggiandosi tra i cadaveri, si mosse velocemente tra quei vicoli bui che conosceva a memoria, allontanandosi dalla via principale, nella quale i cavalieri erano stati più spietati che mai. Quando ritenne di essersi allontanata abbastanza, entrò in una casa dall’interno fortunatamente sgombro. Il buio calava velocemente, ma negli ultimi raggi del sole morente, scorse sul tavolo una lampada, che si affrettò ad accendere. Un bagliore dorato si diffuse nella stanza, riscaldando il corpo e il cuore della bambina, permettendole di notare il cibo lasciato sul tavolo e la stretta scala che portava al piano superiore. Rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse affamata, si avventò sul cibo, dilaniando e strappando con i denti grossi pezzi di carne, nel tentativo di placare i gorgoglii del suo stomaco. Quando si ritenne sazia, decise di esplorare il piano superiore della casa, ma un intenso dolore alle piante dei piedi la bloccò. Abbassò lo sguardo, vedendo i tagli che si era procurata camminando scalza. Il sangue era ormai secco e pezzi di vetro acuminato erano ancora conficcati nella tenera carne. Lo sguardo le si appannò, ma riuscì a mantenersi lucida, ricordando gli insegnamenti della madre. Era la guaritrice della regina Serenai e, con il tempo, era diventata anche la sua confidente. Afferrò un affilato coltello e incise la pelle per estrarre i pezzi di vetro. Sangue misto a pus uscì dalle ferite riaperte. Avevano già iniziato a infiammarsi. Stringendo i denti per sopportare i dolori lancinanti si alzò, iniziando a rovistare nei mobili e nei cassetti, finchè non trovò quello che stava cercando: erbe mediche. Immerse i piedi nel catino d’acqua che c’era in un angolo, avvertendo un immediato sollievo. Intanto cominciò a masticare distrattamente le erbe che aveva trovato e con le mani strappò un lenzuolo per farne delle strisce lunghe e sottili. Quando tutto il sudiciume che si era accumulato fu lavato via, applicò con cura la pasta che si aveva fatto con le erbe, avvolgendo i piedi nelle bende improvvisate. Poi salì le scale e, distrutta, crollò nel primo letto che incontrò.
 
L’alba allungò le sue dita dorate sulla pianura, arrivando a lambire le mura diroccate. La luce del sole si riversò nell’umile casa dove la bambina aveva trovato rifugio, svegliandola dolcemente. Sbatté le palpebre un paio di volte, chiedendosi cosa ci facesse in quella camera sconosciuta e perché l’aria non fosse impegnata dell’odore dei panini dolci che sua madre faceva ogni mattina. La verità la colpì, violenta come un pugno sullo stomaco e le lacrime ripresero a scorrere. Singhiozzò per minuti interminabili, o forse ore. Decise di alzarsi. Per quanto amasse Alahrian, non poteva più restare lì, doveva andarsene. In un angolo trovò un paio di stivali e li indossò, le stavano leggermente grandi, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Uscendo dalla casa afferrò un paio di pagnotte ne caso in cui le fosse venuta fame e il sacchettino delle erbe mediche. Davanti alla porta si bloccò, seguendo l’improvviso istinto che la portava ad andare a vedere per l’ultima volta la casa che era stata teatro dei suoi primi e spensierati anni. Tutto era come l’aveva lasciato il giorno prima: la porta divelta dai cardini e il corpo della madre riverso sulla soglia. La morte era stata pietosa con lei, sarebbe potuto sembrare che dormisse, se non fosse stato per la chiazza di sangue, ormai scuro, che le incorniciava il volto.
La rabbia prese il posto del dolore e, stringendo fra le mani il cristallo, la bambina sentì il cuore colmarsi d’odio. Allora giurò vendetta, vendetta contro i mostri responsabili della carneficina di quel giorno, contro quell’essere crudele che aveva ordinato un tale scempio. Spazzò via le lacrime, promettendo a se stessa di non piangere mai più e si lanciò in una folle corsa per abbandonare quella città ormai maledetta.
Corse finché le sue gambe, ancora corte e deboli, la sostennero. Alahrian era alle sue spalle, minacciosa, lugubre e ancora troppo vicina. Si voltò, un’ultima volta. I raggi del sole si infiltravano nelle crepe delle mura semidistrutte, danzavano beffarde sui corpi delle sentinelle, rifulgendo sulle lame delle spade e delle lance. Un cupo e soffocante sentore di morte e putrefazione cominciava a serpeggiare nell’aria fresca della mattina. La bambina trattenne un conato e proseguì la sua fuga, senza più voltarsi.
 
Camminava nella pianura ormai da ore, senza sapere dove si stesse dirigendo, seguendo semplicemente la strada, che ancora portava i segni dei carri e delle carrozze che erano solite percorrerla. Il sole era ormai alto nel cielo e sembrava deriderla, mentre la guardava affrontare il caldo torrido del mezzogiorno. La bambina gli lanciò uno sguardo si sfida, abbagliandosi e, nonostante la calura opprimente, continuò a camminare. Mangiò qualche boccone di pane, senza fermarsi, conscia che se l’avesse fatto, non si sarebbe più alzata e bevve a piccoli sorsi l’acqua dal piccolo otre che aveva trovato su uno scaffale qualche ora prima. Poi il pane finì. E anche l’acqua. Calava di nuovo la sera quando, sotto lo sguardo impietosito di una luna nascente, le apparve davanti agli occhi un villaggio. Era minuscolo per chi, come lei, era cresciuto nella grande e caotica Alahrian, ma accolse quella visione come un assetato che vede l’oasi nel deserto. Cercò di aumentare il passo per chiedere aiuto, ma le gambe le cedettero e si ritrovò immersa nella polvere. Quando stava per perdere definitivamente i sensi sentì una voce lontana: «Mamma! Papà! Venite ad aiutarmi!». Un paio di braccia gentili la sollevarono, poi svenne
 
Si risvegliò in un giaciglio fresco e pulito. Qualcuno l’aveva lavata, vestita con abiti nuovi e cambiato le fasciature ai piedi. Si mise a sedere, guardandosi avidamente intorno.
«Mamma! Si è svegliata!»
«Suvvia tesoro, lasciala stare. Non vedi che è disorientata?»
Una signora piuttosto in carne, dal viso paffuto e gentile si inginocchiò accanto al suo letto, porgendole un bicchiere di acqua e aiutandola a bere.
Com’era finita lì? Che cos’era successo i giorni prima? Chi erano quelle persone? E, soprattutto, chi era lei?
Domande su domande assillavano la mente della bambina, incapace di ricordarsi alcunché. «Io sono Serenai, come la grande regina di Alahrian, tu come ti chiami?» chiese un’altra bambina, pressappoco della sua età, che sedeva vicino al giaciglio su cui era adagiata. «Io … non mi ricordo» rispose debolmente. Il sorriso dell’altra si allargò ancora di più e gli occhi scuri e compassionevoli come quelli della madre si illuminarono: «Non importa. Vuol dire che troveremo insieme un nome per te. Ti piace Marelania? No, hai ragione è orrendo. Veridis? No, non ti ci vedo. Ci sono! Leylah!». La bambina sorrise. Ora aveva di nuovo un nome. La madre di Serenai le porse un involucro: «Quando ti abbiamo trovata lo stringevi tra le mani. Penso sia piuttosto importante per te». Riposto con cura all’interno del panno c’era il cristallo. Svelta se lo infilò al collo, sorridendo di gratitudine.
I giorni seguenti passarono come un sogno. Leylah trascorreva le giornate giocando con Serenai e aiutando nelle faccende domestiche. Sentiva però che c’era qualcosa di sbagliato, come se stesse vivendo la vita di qualcun altro. Fare il pane, il bucato, rammendare, non erano cose che le si addicevano. Era esattamente come quando sua madre tentava di insegnarle qualcosa dell’arte medica. Si sentiva veramente viva solo quando il padre le insegnava a maneggiare la spada o quando si azzuffava con i suoi amici nelle strade di Alahrian. Presa da quei pochi sprazzi di vita che ancora ricordava, immagini che sembravano avvolte nella nebbia, sfocate e confuse, Leylah si rigirava nel giaciglio, cercando una posizione comoda.
All’improvviso si sentì un ululato. Lungo e acuto. E man mano se ne aggiunsero altri, andando a formare un coro sublime. La bimba si alzo, infilò gli stivali di pelle e uscì nella notte. Seguendo una strana sensazione, si addentrò nella foresta buia. Aveva percorso solo pochi metri quando due occhi gialli apparvero tra gli alberi davanti a lei. Appartenevano ad un enorme lupo nero. Leylah non ebbe paura. Davanti a quella meravigliosa creatura, tutto ciò che fu capace di provare era rispetto. Senza distogliere lo sguardo si inchinò davanti a quello che aveva capito essere il signore della foresta. Il lupo studiò a lungo la bambina e, inaspettatamente, non l’aggredì ma ricambiò l’inchino. Poi le fece cenno di seguirlo con il capo. Leylah era stata accolta nel branco.
 
Angolo autrice
Non ho assolutamente nulla da aggiungere, se non che mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate e quindi sarebbe molto carino se mi lasciaste una recensione, anche piccola piccola. Ovviamente sono ben accette tutte le critiche, purché costruttive.
Un bacio, Aduial

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo: Selthia ***


Capitolo secondo
Selthia
 
Leylah seguì l’immenso lupo nel fitto del bosco. Avanzava scostando i rami con le sue paffute mani da bambina e facendo scricchiolare le foglie cadute sotto ai suoi piedi. Camminarono per quasi un’ora, accompagnati dal frinire delle cicale e dal delicato rumore delle gocce d’acqua che dalle foglie cadevano sul morbido terreno del sottobosco. La bambina si guardava intorno, riempiendosi gli occhi di meraviglie, tanto che, talvolta, rimaneva indietro e doveva correre per raggiungere la sua insolita guida. Man mano che procedevano, la vegetazione si infittiva e con essa l’oscurità. Solo alcune lame di luce riuscivano a penetrare la volta arborea e creavano strane ed inquietanti ombre. Leylah rabbrividì, scorgendo degli strani luccichii, come di occhi che la osservavano curiosi. Si avvicinò maggiormente al lupo nero, che aveva lo strano potere di infonderle tranquillità.
 
Mentre avanzava Leylah cominciò a sentire un rumore forte e scrosciante e non tardò a riconoscerlo come quello prodotto da una cascata. Man mano che procedevano il rumore diventava sempre più forte, finché davanti agli occhi della bimba si aprì una radura illuminata dalla luce della luna. Si guardò intorno con gli occhi sgranati dalla meraviglia. Un ruscello limpido attraversava il prato, sovrastato da una cascata che precipitava da un’altissima roccia. Leylah cominciò a correre sull’erba, ridendo gioiosa fino a quando non si sentì sfinita e si lasciò cadere tra i fiori, sotto lo sguardo vigile e divertito dell’enorme lupo. Dopo che si fu riposata alcuni minuti si levò in piedi, pronta a continuare a curiosare. Notò che in un certo punto il ruscello si allargava per poi restringersi nuovamente, come a formare una sorta di piccolo lago. Attratta irresistibilmente verso di esso, si avvicinò e si inginocchiò sulla sponda, sfiorando delicatamente la superficie dell’acqua con la punta delle dita. Dopo pochi minuti la luna si specchiò nel laghetto, accarezzando quello specchio cristallino con le sue argentee dita.
Per un interminabile istante tutto tacque. Gli uccelli, il vento, il tintinnio dell’acqua. Non sentì più nulla. Poi dai fili d’erba, dai sassi che circondavano la riva, dalle foglie e dai tronchi sbucarono delle piccole luci, come se il baluginio di stelle lontane fosse sceso nel bosco per una notte. Quelle piccole schegge di luce avvolsero il corpo della bambina, giocando con le sue dita e con i suoi capelli, facendole il solletico. Leylah scoppiò a ridere, affascinata da quelle minuscole creature.
«Benvenuta, figlia della foresta» una voce, dolce e carezzevole come lo stormire delle fronde. Uno dei piccoli esseri luminosi si portò di fronte al viso della bambina, che tese la mano in avanti in modo tale che questi vi si potesse posare sopra. Leylah si trovò così ad osservare da vicino una creatura alta più o meno come il suo palmo, ma perfetta nella sua piccolezza. La pelle era diafana e liscia, i capelli onde lucenti che rotolavano sulle spalle. La bimba si incantò guardando le quattro ali dorate che le ornavano la schiena, luccicanti e frastagliate sui bordi e l’abito bianco, riccamente decorato.
«Io sono Selthia, la regina delle fate» si presentò la creatura, sorridendo dolcemente. Leylah sorrise di riflesso, affascinata dalla voce e dalle movenze eleganti della regina. Quest’ultima si rialzò in volo, facendo cenno alla bimba di seguirla.
 
«Sai Leylah …»
«Come sai come mi chiamo?» la interruppe la bambina, sconcertata.
«Oh, io conosco molte cose di te. Ma credo sia meglio raccontarti tutto dall’inizio. Vedi, c’è stato un tempo in cui gli uomini vivevano in pace con tutti gli altri popoli: fate, elfi, nani. Rispettavano la natura ed essa rispettava loro. Ovunque regnava l’armonia. Man mano che passarono gli anni, però, gli uomini divennero avidi, desiderosi di prevalere sugli altri popoli e di avere sempre di più. Sterminarono gli elfi e i nani, sopraffacendoli grazie alla loro maggioranza numerica. Le fate abbandonarono le praterie e le radure, rifugiandosi nel cuore delle foreste, l’unico luogo che gli umani, seppur nella loro follia, ancora temevano. La maggior parte di loro dimenticò l’amore per la natura, iniziando a temerla e a considerarla una nemica. Solo pochi continuarono a vivere in perfetta comunione con essa, ma con il passare degli anni, anch’essi diminuirono sempre di più. Vengono chiamati maghi o streghe e sono perseguitati ed emarginati. E questo solo perché non vengono capiti».
La regina tacque, lasciando vagare lo sguardo chiaro tra gli alberi. Allora Leylah si arrischiò nuovamente a parlare: «Ma perché gli uomini sono diventati così cattivi?» chiese, fissandola con i suoi ingenui occhi di bambina.
Selthia sospirò. Poi tornò a guardare Leylah. «Perché si sono fidati della persona sbagliata. Devi sapere che, nonostante la pace che regnava tra i popoli, questi non si erano mai mescolati gli uni con gli altri. Ma un giorno un’elfa e un umano si innamorarono. Dalla loro unione nacque una bambina, che crebbe splendida e abilissima a combattere, ma con la tendenza a imporsi sugli altri. Il suo nome era Carnilwen. Ereditò l’immortalità elfica della madre e l’avidità umana del padre, un connubio che fu la rovina degli uomini. Votò la sua anima al male e in cambio ne ricevette poteri oscuri di forza inimmaginabile, con i quali manipolò le menti di tutti coloro che osavano porsi sul suo cammino per ostacolarla. Salì al potere e da secoli regna incontrastata su ogni cosa. Gli ultimi baluardi che non è riuscita a conquistare sono proprio le foreste, in cui si sono rifugiate non solo le fate, ma anche gli ultimi superstiti degli altri popoli».
Leylah aveva lo sguardo perso. Non capiva come qualcuno potesse desiderare il potere in modo così forte, quasi spasmodico. «Ma non c’è un modo per fermarla?» chiese, dopo essersi riscossa.
«La leggenda vuole che così come dall’unione tra elfi e umani è stato generato il male, dall’unione tra elfi e umani questo verrà sconfitto»
«Quindi basterebbe che un elfo e un umano si innamorassero e tutto questo finirebbe?»
«Temo che non sia così semplice. Quando Carnilwen cedette al male, le venne dato un cristallo nero, grazie al quale ha il potere di compiere magie oscure. Ma il male non può esistere senza il bene e così venne creato un altro cristallo, quasi identico al primo, con un’unica differenza: era completamente bianco. Solo grazie all’amore unito al potere del cristallo bianco si potrebbe sconfiggere Carnilwen»
«Quindi bisogna trovare il cristallo bianco?» chiese la bambina, la cui fantasia aveva iniziato a galoppare, portandola a immaginarsi come un giovane cavaliere in cerca d’avventure.
La regina abbassò il capo, abbattuta. Le dispiaceva stroncare l’entusiasmo della piccola ma si sentiva in dovere di essere completamente sincera: «Mi dispiace Leylah, ma il cristallo bianco è andato perduto secoli fa. Alcune voci dicevano che fosse custodito nella città di Alahrian, ma non credo fosse così. Infatti Carnilwen ha attaccato la città, ma credo che non abbia trovato quello che cercava, altrimenti non saremmo qui a parlarne».
Leylah rimase pensierosa. Le sembrava di aver già sentito quel nome, Alahrian, ma non riusciva proprio a ricordarsi dove. Era esattamente come quando si era svegliata e non era stata capace di ricordarsi il suo nome. Fisso lo sguardo su una goccia di rugiada su una foglia e la osservò cadere, finché non tocco il suolo scuro.
Vedendola leggermente disorientata, la regina decise di aiutarla a ricordare: «È la città nella quale sei cresciuta, dove abitavi con i tuoi genitori».
La verità colpì la bimba come un pugno allo stomaco. Si accasciò a terra, mentre immagini terrificanti le sfilavano davanti agli occhi. Sangue. Paura. Morte. Dolore. Sua madre riversa sulla porta di casa. I corpi nelle strade. Cominciò a respirare affannosamente, ma non pianse. Aveva fatto una promessa. In quel momento un pensiero la colpì: «E se il cristallo non fosse stato trovato perché qualcuno l’aveva nascosto? Qualcuno che non è stato ucciso durante l’attacco».
Selthia la guardò confusa per alcuni istanti, poi un lampo di consapevolezza le attraversò lo sguardo: «Vuoi forse dire che …?»
«Mia madre mi ha affidato un cristallo bianco prima di morire, dicendomi di proteggerlo a qualunque costo. Confidava nel fatto che mi sarei salvata»
La regina la fissò, il volto acceso dalla luce della speranza: «Ma tua madre come ha fatto a entrare in possesso del cristallo? E ora dove l’hai nascosto?»
Leylah si alzò, grattandosi la testa e cercando una risposta alla prima concitata domanda che la regina le aveva posto: «Credo che l’abbia ricevuto in custodia dalla regina, erano molto amiche. Per quanto riguarda, invece, il posto dove si trova ora, è nella casa di quelle persone che mi hanno salvato dopo la mia fuga da Alahrian».
La fata assunse immediatamente un’espressione preoccupata: «Finché si trova in quel villaggio nessuno degli abitanti è al sicuro. Devi andare subito a recuperarlo» la esortò, volando di nuovo verso la radura. Una volta giunte nuovamente alla rive del ruscello, si trovarono circondate da tante piccole fate luminose, che spettegolavano sulla nuova arrivata con le loro voci armoniche, e da altrettanti lupi, ognuno caratterizzato da un manto differente. Leylah si incantò a guardarli, avrebbe voluto studiare ogni sfumatura, ogni riverbero delle stelle su quei colori che sapevano di bosco e di libertà. Al vedere l’espressione preoccupata sul viso della regina, il chiacchiericcio nella radura tacque.
«Gaaren!» chiamò Selthia. Il richiamo rimbalzò amplificato nel silenzio, parendo quasi un grido disperato. Dal gruppo uscì l’enorme lupo nero che aveva guidato Leylah fin lì. Ora che poteva vederlo confrontato con gli altri membri del branco, riusciva davvero a capire quanto fosse grande. A colpo d’occhio si intuiva che lui fosse il capobranco, il maschio alfa. Eppure si inchinò con rispetto di fronte alla minuscola regina, ancora più piccola al suo fianco. La fata sussurrò qualcosa all’orecchio del lupo che si abbassò sulle zampe, facendo cenno a Leylah di montargli in groppa. Quando si fu accertato che la bimba fosse aggrappata saldamente, si lanciò in una folle corsa, sparendo tra gli alberi e lasciandosi alle spalle la radura incantata.
Prima che il vento che le fischiava nelle orecchie cancellasse ogni altro rumore, Leylah fu certa di aver udito una frase, sussurrata dalla regina stessa.
«Buona fortuna, figlia dei lupi».
 
Angolo dell’autrice
Innanzitutto vorrei ringraziare tutti quelli che hanno speso un minuto del loro tempo per lasciarmi le fantastiche recensioni che ho ricevuto. Grazie anche a Himenoshirotsuki, che ha letto il capitolo in anteprima, dandomi degli ottimi consigli su come migliorarlo (per chi non ha niente da fare: passate sul suo profilo e date un’occhiata alle sue storie, sono davvero bellissime). Come sempre vi chiedo di dirmi cosa ne pensate, se avete consigli, critiche, accetto addirittura i complimenti, se proprio volete ;).
Un bacio,
Aduial

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo: Di nuovo ***


Capitolo quarto
Di nuovo
 
Leylah si accucciò sulla schiena di Gaaren, nel tentativo di evitare che i rami più sottili le graffiassero il volto. Nascosta nel fitto manto che ricopriva il corpo del lupo, la bimba non riusciva a vedere il bosco che, velocemente, sfilava loro accanto. Nonostante ciò, poteva percepire ogni irregolarità del terreno, ogni ostacolo che la sua cavalcatura era costretta a saltare, ogni ramo che le si impigliava tra i capelli. Man mano che proseguivano gli alberi facevano più radi e una luce tenue e rosata si diffondeva nell’aria frizzante.
Giunsero finalmente al limitare della foresta. Dalla posizione leggermente sopraelevata in cui si trovava, Leylah si incantò a osservare il paesaggio, immerso nella soffusa atmosfera dell’alba. A oriente il sole si levava, quasi con pigrizia, valicando le montagne e allungando i suoi raggi sulla pianura. Inspirò a pieni polmoni il profumo di foglie e rugiada, lasciando vagare lo sguardo sui tetti delle case del piccolo paese nel quale aveva trovato rifugio. Alcune case avevano ancora le imposte chiuse, segno che i suoi occupanti ancora dormivano. Da altre finestre, invece, donne dalla’aspetto florido e rubicondo salutavano i mariti, contadini, boscaioli, falegnami, fabbri, in procinto di partire per svolgere i loro lavori. Alcuni già pregustavano il momento in cui sarebbero tornati a casa, quando già le prime stelle si accendevano nel cielo, e le mogli li avrebbero accolto con un pasto caldo e un bacio sulle labbra. Un altro odore si aggiunse a quelli della foresta. Il profumo del pane appena sfornato serpeggiò nell’aria, fino a solleticare le sensibili narici del lupo e della bambina, il cui stomaco gorgogliò di protesta.
Gaaren le scoccò uno sguardo divertito, facendola arrossire. Imbronciata e scocciata gli chiese: «Cosa c’è da ridere? Tutti hanno fame di prima mattina?». Al lupo sfuggì uno sbuffo, simile a una risata. All’ennesima espressione esasperata di Leylah, commentò :«Voi esseri umani siete incredibilmente buffi».
Leylah strabuzzò gli occhi e, balbettando, gli chiese: «Tu parli?».
«Ogni creatura della natura parla. Ognuno ha la sua voce e i suoi modi, basta volerli comprendere. Impara a metterti in ascolto, mia giovane amica» fu la risposta del capobranco.
Riflettendo sulla lezione di vita che aveva appena ricevuto, Leylah tornò a posare il proprio sguardo sull’orizzonte. Fu così che notò una striscia scura che avanzava velocemente da est. Una volta compreso cosa fosse, si accucciò nuovamente sul dorso del lupo. «Gaaren, corri!»
Gaaren si lanciò in una folle corsa verso il villaggio, fermandosi però un attimo prima di raggiungere le case più esterne. Qui fece scendere Leylah, intimandole con un cenno di muoversi. La bambina corse per le strade, incespicando di tanto in tanto sul selciato irregolare, fino ad arrivare a quell’abitazione che avrebbe voluto poter chiamare casa. Affannata si appoggiò allo stipite per riprendere fiato, poi spinse la porta con delicatezza. Questa ruotò sui cardini senza fare alcun rumore, permettendole di entrare e di arrivare al giaciglio che durante le notti precedenti aveva cullato i suoi sonni. Cominciò quindi a rovistare tra le coltri, finché non estrasse trionfante il cristallo.
Si alzò e fece per andarsene nuovamente, ma, giunta sulla porta, si bloccò. Si voltò leggermente verso le scale che conducevano al piano superiore della casa. Si immaginava la coppia che l’aveva soccorsa e accolta come una figlia, lui che abbracciava lei, proteggendola dai pericoli anche durante il sonno. E Serenai, sola nel suo letto, che dormiva tranquilla, con un dolce sorriso dipinto sulle labbra e i lunghi capelli scuri sparsi sul cuscino.
Poteva veramente andarsene e lasciarli in balia della marea nera che stava arrivando, dopo tutto quello che avevano fatto per lei? Presa da una decisione improvvisa, corse su per le scale e aprì la prima porta che si trovò davanti. La camera di Serenai. Eccola lì, distesa sul letto, ma il suo sonno non era affatto tranquillo come si era immaginata, anzi, la bambina si agitava preda degli incubi. Leylah la scosse gentilmente, chiamandola con voce sommessa. Serenai aprì i gentili occhi ambrati, come quelli della madre: «Leylah, che succede? Perché mi hai svegliato?» chiese con voce resa incerta dal sonno che ancora le intorpidiva le membra.
«Serenai, sveglia i tuoi genitori e andatevene, non c’è più tempo. Grazie per quello che avete fatto per me, non vi dimenticherò, anche se probabilmente non ci vedremo mai più» e, lasciandola ancora frastornata, corse via, precipitandosi giù dalle scale. Non aveva tempo di accertarsi che riuscissero a fuggire, se il cristallo fosse caduto nelle mani sbagliate, troppa gente ne avrebbe pagato le conseguenze.
Mentre stava attraversando la cucina, un boato scossa la casa dalle fondamenta. Leylah perse l’equilibrio, andando a sbattere contro il massiccio tavolo di legno. Dal piano superiore giunsero dei tonfi soffocati e capì che gli occupanti della casa dovevano essersi svegliati. Ignorando il dolore del livido al fianco che si era sicuramente appena procurata, si rialzò e, svelta, guadagnò l’uscita. Fuori sembrava essere scoppiato il finimondo e, per un attimo, fu come se fosse di nuovo ad Alahrian. Accasciandosi contro le dure pietre del muro esterno della casa, Leylah chiuse gli occhi, concentrandosi per recuperare la calma. Chiuse fuori tutti i rumori e quando ebbe ripreso a respirare normalmente, riaprì gli occhi. La gente correva e lei ormai sapeva che il pericolo più grande, per chi era piccolo come lei, era quello di venire travolti dalla folla impazzita. Sgusciò rapida tra la selva di gambe, riuscendo a infilarsi in un vicolo deserto. Qui si fermò un attimo per riprendere fiato. Si strinse il petto con una mano e ricominciò a correre, zigzagando tra casse e barili abbandonati. Giunta alla fine, dove il vicolo si immetteva nuovamente nella strada principale, si sporse leggermente per controllare la situazione. Fu così che vide arrivare una decina di esseri d’ombra, come quelli che avevano ucciso sua madre. Soffocando la rabbia e la paura spinse una porta lasciata aperta dai proprietari in fuga e si rifugiò in una casa deserta. Si infilò sotto un letto, sperando che nessuno entrasse per controllare. Purtroppo, però, le sue speranze furono vane. La porta venne aperta violentemente e qualcuno entro a passi pesanti nella piccola stanza. Leylah trattenne il respiro, pregando di non venire scoperta. Dal suo nascondiglio vide solo un grosso paio di stivali neri chiodati che misuravano la stanza, andando avanti e indietro. Poi, semplicemente, se ne andarono. La bambina riprese a respirare normalmente, cacciando indietro in gola un paio di singhiozzi che le erano saliti involontariamente. Poi uscì da sotto il letto e guardò circospetta fuori dalla porta. Nelle strade regnava ancora il caos. Sperando che nessuno facesse caso a una bambina come lei, si lanciò in una corsa disperata, rimanendo sempre rasente al muro per evitare di venire calpestata. Fu così che giunse nella piccola piazza del villaggio, dove i cavalieri neri stavano mietendo più vittime che in qualunque altro luogo. Svelta si accucciò dietro un carro rovesciato prima che uno solo tra quegli oscuri figuri avesse il tempo di notare la sua presenza.
Sporse di poco il capo, in tempo per vedere il più alto e terrificante tra i cavalieri tranciare di netto la testa di una donna urlante. Leylah si tappò la bocca con le mani, per non farsi sfuggire alcun suono, mentre tornava a nascondersi dietro al carro. Gettò un’altra occhiata, per assicurarsi di non venir notata mente si lanciava fuori e, nascondendosi, dietro ogni angolo e ogni anfratto raggiungeva la parte opposta della piazza. Di nuovo coperta dalle alte mura delle case, crollò a terra, sfinita, con i polmoni che bruciavano chiedendo ossigeno. Non le era sembrato che il percorso fosse così lungo all’andata, ma non era quello il momento di essere deboli.
Seppur faticosamente, si rimise in piedi e ricominciò la sua fuga. Finalmente giunse al limitare del bosco e chiamò Gaaren con voce strozzata. In un attimo l’enorme lupo nero fu al suo fianco e si accucciò per farla salire in groppa. In quel momento la sottile cordicella che teneva il cristallo assicurato al collo della bimba cedette e un raggio di luce colpì il pendente, facendolo risplendere di una luce abbagliante. Il cristallo rotolò a terra, cadendo tra l’erba folta e scivolosa. La bimba su precipitò a raccoglierlo, ma, sollevando lo sguardo, notò che uno dei cavalieri aveva assistito a tutta la scena e la stava osservando con un sorriso crudele sulle labbra. Più in fretta che poteva, rimontò in groppa a Gaaren e lo incitò ad andarsene, a tornare nella foresta.
Mentre si inoltravano tra gli alberi, Leylah si voltò e quello che vide le gelò il sangue nelle vene. Un esercito di neri cavalieri si era lanciato al loro inseguimento. Avevano avuto qualche momento di esitazione prima di entrare nella foresta, ma poi, subito incitati da quello che doveva essere il loro capitano, avevano spronato i loro cavalli. Con soddisfazione, però, aveva notato che Gaaren era più veloce e conosceva meglio il territorio. Con estrema sicurezza e facilità evitava gli alberi caduti e le buche che rallentavano l’avanzata dei loro nemici, ma nessuno demordeva. Giunsero fino alla radura, dove Gaaren scambiò alcune concitate parole con Selthia, che Leylah non udì, impegnata a guardare alle loro spalle se i cavalieri neri stessero per sopraggiungere. Quando il primo di loro fece la sua comparsa, lanciò un urlo di avvertimento e il lupo ricominciò a correre verso una parte del bosco che la bambina non aveva ancora avuto modo di esplorare. In pochissimo tempo vennero circondati da tutto il branco, che pareva muoversi come un sol corpo da tanta era la sintonia tra i membri, mentre come centinaia di lucciole impazzite, le fate si disperdevano tra la vegetazione rigogliosa.
Leylah non seppe quantificare il tempo che impiegarono per uscire dal bosco, ma a un certo punto si ritrovarono in un’immensa prateria. Eppure la loro corsa non si fermò lì. Sempre tallonati dai fedeli servitori di Carnilwen, si diressero verso una striscia scura a occidente, che la bimba dedusse essere un’altra foresta, ben più estesa di quella che si erano lasciati alle spalle. Ma appena si furono immersi tra gli alberi, deviarono repentinamente verso nord, inerpicandosi sui pendii di una scoscesa catena montuosa. I cavalieri tentarono di seguirli, ma gli zoccoli dei cavalli sdrucciolavano sul terreno cedevole e non riuscivano a salire con la stessa rapidità ed eleganza dei lupi.  Leylah rimase a guardarli finché, aggirato uno sperone di roccia, sparirono alla vista.

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