Lust [vom Leben und Streben]

di Whity
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto primo: Enchanted Boy ***
Capitolo 2: *** Intermezzo primo ***
Capitolo 3: *** Atto secondo: Eine chance ***
Capitolo 4: *** Intermezzo secondo ***
Capitolo 5: *** Atto terzo: Liebe ist ***
Capitolo 6: *** Intermezzo terzo ***
Capitolo 7: *** Atto quarto: Gewöhnlich ***
Capitolo 8: *** Intermezzo quarto ***
Capitolo 9: *** Atto quinto: Jemand, mit dem man laufen kann ***



Capitolo 1
*** Atto primo: Enchanted Boy ***


There was a boy
A very strange
Enchanted boy

[Nature Boy – Eden Ahbez]


Era in ritardo.
La prima cosa che Bill Kaulitz – tedesco, annata 1989 – pensò da che si era seduto su quella dannatissima poltrona – che poi che senso aveva chiamare così quella specie di panchina monoposto con due braccioli rinsecchiti?! – era che lui era in ritardo.
La seconda, per contro, fu che Anis lo aspettava a casa, probabilmente perso dietro ad un qualche contratto capestro da rivedere, e che gli aveva promesso che sarebbero andati a mangiare al Vau a cena, se si fosse comportato bene.
Paradossalmente, quella volta, non sarebbe stata una questione di “comportarsi bene”.
Lui, di tutta quella dannatissima storia, non aveva scelto nulla.
O quasi.
Un’infermiera con il camice verde lo oltrepassò senza prendersi il disturbo di considerarlo, di dirgli se era arrivato, se era in ritardo, se non poteva venire.
Incredibile, poi, come la sua vita avesse iniziato a dipendere dagli altri, da un cenno un sorriso un bacio una carezza. Lui, l’orgogliosissimo Bill Kaulitz, a causa di quella storia disgraziata aveva iniziato a chiedere, non c’erano più ordini pretese o ingiunzioni ma solo la timida vergognata richiesta di qualcuno che non poteva farcela da solo. Non più.
Anis – e lui ne avrebbe avuto tutte le ragioni ed anche qualcuna in più – alla notizia si era limitato a tirargli un pugno che l’aveva lasciato steso sul tappeto del soggiorno per una buona mezz’ora, salvo poi prenderlo di peso e metterlo a letto, lasciandolo a compiangersi lamentarsi odiarsi per tutto il pomeriggio. Era tornato solo a sera tarda, quella volta, con le mani piene di improbabili acquisti fatti al take away che avevano aperto di fianco al KaDeWe, con il cuore pieno di amore e voglia di riniziare. Di nuovo. Esattamente come aveva preteso Bill stesso marchiandosi la pelle di china anni prima.
Il cellulare – che avrebbe dovuto spegnere, se solo lui si fosse deciso a comparire – aveva vibrato un paio di volte, segno che gli era stato inviato l’ennesimo messaggio di una giornata che si prospettava eterna.
Ed erano solo le undici di mattina.
Aprì il folder di posta in arrivo e sorrise nel vedere i messaggi fossero in realtà ben due. Il primo – nemmeno a dirlo – era di Tom, perso in un atollo meraviglioso con moglie e figlio, che lo esortava a non divertirsi troppo e a prepararsi per tempo al suo ritorno, ansioso com’era di raccontargli ogni singolo dettaglio di quella vacanza.
L’altro messaggio – e qui sentì distintamente il proprio cuore fare tump con più vigore del solito – era di Anis, che teneva a fargli presente quanto le segretarie fossero noiose incompetenti maldestre. Il che – ovviamente – era uno buona scusa per farsi sentire, per ricordargli che c’era, esattamente come cantava anni prima per i palchi di mezzo mondo.
An deiner Seite, noch eine Weile, du bist nicht alleine.
Finalmente, la caposala – lo sapeva perché aveva la cappa bianca, non quell’orrendo camicione verde bottiglie, e perché la volta prima l’aveva sentita discutere con una stagista di turni e pause – gli si accostò.
- Herr Kaulitz – mormorò – il Dottor Bergmann la attende nel suo studio -.
Bill spense il cellulare e si alzò in piedi con un sospiro, le mani piene di fogli zeppi di cifre valori e incognite, esattamente come era un’incognita la sua esistenza in quel determinato momento.
Cosa sarebbe successo? Cosa volevano dire tutti quei numeri impressi su quei dannatissimi fogli? Dichiarazione o testamento?
Prese un respiro profondo, strinse le palpebre e cercò di richiamare alla mente il sorriso di Anis.
Non era solo, in fondo.
Non importava quanto lungo fosse il cammino, l’avrebbero percorso insieme.

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Capitolo 2
*** Intermezzo primo ***


Intermezzo Primo – parte prima
Zoom into me US
 
 


Non è così che passa in fretta 
Questa dolce malattia 
Mi butterei da quella stella 
Spenta di malinconia

[Notti senza cuore – Gianna Nannini]


 
 
Era iniziato tutto con un litigio.
Stupido come lo erano tutte le loro discussioni.
Di norma, però, queste si concludevano con una scopata o una cena fuori per farsi perdonare. Quella volta, il diverbio si era concluso con una porta sbattuta e due piatti rotti.
Bill kaulitz, il ventiseienne più famoso di Germania, aveva appena chiuso la porta con un calcio, mormorando a denti stretti un “Vaffanculo Anis” che sapeva in egual misura di dolore e di rancore. Con un sospiro l’uomo prese il proprio trolley e si incamminò verso l’ascensore del palazzo, combattendo contro la voglia di mollare tutto lì, mandare a puttane un importante incontro di lavoro a Leipzig e rientrare in casa. Baciarlo, saggiarne il sapore, fare la pace e – perché no? – fare l’amore.
Il blackberry iniziò a suonare, notificandogli l’ennesima telefonata di Tom, probabilmente già sotto casa sua ansioso di poterlo quantomeno accompagnare in stazione. 
Doveva andare.
Lanciò un ultimo sguardo alla porta dell’appartamento, prima di accogliere la chiamata e chiudere le porte dell’ascensore.
- Tomi – mormorò – Sto scendendo -.
Il gemello, prevedibilmente, ne aveva fiutato scazzo e tristezza.
- Niente – si affrettò a tentare di tranquillizzarlo il moro – Solo una discussione stupida… -.
Quella discussione stupida – in ogni caso – gli sarebbe costata molto altro. 
Due parole di troppo e la posta in gioco si era inesorabilmente alzata.
Solamente che lui non lo sapeva.


L’ascensore iniziò a scendere sino al pian terreno dell’elegante complesso residenziale in Charlottemburg che ospitava l’appartamento che lui e Anis avevano acquistato quattro anni prima, dopo un anno abbondantemente di “fidanzamento” – posto fosse plausibile porre la situazione in quei termini -.
La sua storia con il tunisino – storia che gli era costata cuore, cazzo e quasi un gemello – era iniziata nell’estate del 2010, dopo l’Humanoid City Tour che aveva impegnato la band tedesca in tutta europa. Una sera era uscito con Tom, Andi, Larissa e altri e le stelle del Tresor avevano benedetto una storia strana, surreale, scomoda. Si erano visti un paio di volte per una birra – lui e Bushido – prima di decidere implicitamente fosse il caso di mettere le cose in chiaro. 
Le carte in tavola, inaspettatamente, si erano rivelati la scala di cuori che li aveva condotti ad una relazione quasi stabile, un appartamento, un animale peloso – che Anis non faceva mistero di sopportare ben poco - e la voglia di costruire qualcosa insieme.
La prima volta l’aveva baciato Anis. Lui – a dirla tutta – era sufficientemente alticcio da non rendersi conto di quanto lucido fosse l’altro mentre sfiorava le sue labbra con le proprie, poco prima di sussurrargli direttamente nell’orecchio una bestemmia dal sapore incredibilmente dolce.
Ti voglio, ti desidero, mi piaci.
A quella bestemmia Bill si era aggrappato con l’ostinazione di chi crede ancora nell’amore, di chi – come amava dire Anis mentre lo osservava fumare appoggiato alla veranda – sogna anche mentre scopa. 
La prima volta era successo dopo una serata al Puro.
Anis – con il solito sorriso da Joker e da baro navigato – aveva proposto il bicchiere della staffa, che si era trasformato in una serata sudata, umidiccia, intrisa di quell’odore acido che solo il sesso sa avere. 
Bill – inaspettatamente – aveva reagito nel modo più stupido fosse possibile concepire: era sparito.
Tre giorni di assoluto silenzio.
All’alba del quarto giorno – ed era veramente il caso di parlare d’alba, visto che il campanello aveva trillato alle sei del mattino – il tunisino gli si era letteralmente presentato sotto casa.
Era sempre stato così tra loro due: Anis non gli concedeva fughe di comodo o scappatoie di sorta, voleva prendesse la vita di petto e – se non ce l’avesse fatta da solo – l’avrebbero fatto insieme.
Come sempre.
Quel mattino, in ogni caso, la prima cosa che Bushido fece fu mollargli una sberla sufficientemente forte da svegliarlo del tutto.
- Sentimi bene – gli aveva sibilato in faccia, con una ferocia che tanto diceva di un uomo che non sapeva mentire in nessun caso - Se cercavi la scopata, l’hai avuta. Abbi almeno le palle di ammetterlo, però -.
Tutto quello che Bill riuscì a fare fu - letteralmente - pigolare.
E la monolitica imperscrutabilità dell’uomo nero cadde in pezzi…
Finirono per rintanarsi in uno Starbucks sulla statale, prima di tornare nella barocca villa gialla di Anis per fare l’amore un’altra volta.
Quella decisiva, dopotutto.
In quel caso, Bill aveva deciso di rimanere.
Inserire Anis all’interno del proprio rapporto con il gemello fu il primo vero banco di prova della loro relazione, la prima barriera contro la quale si scontrarono.
La reazione di Tom, poi, non fu nemmeno la peggiore. Semplicemente perché Tom non aveva realizzato. Il suo gemello – a conti fatti – aveva iniziato a capire veramente cosa stesse succedendo nel momento in cui lo aveva visto impilare le proprie cose e metterle in valigia, e non era stata una bella scena. Era iniziato un assurdo gioco di recriminazioni che si era concluso solo il giorno di Natale dell’anno dopo, quando Simone li aveva invitati a pranzo e – dopo aver deciso la colpa fosse da imputare ad entrambi – si era esibita in una ramanzina come non ne aveva fatte nemmeno quando avrebbe avuto tutte le ragioni del caso.
Avevano fatto pace due giorni dopo, in un modo che era tutto loro e tanto diceva del loro legame. Bill si era infilato nel suo letto e gli si era stretto addosso – aveva abbracciato il gemello rinunciando ad una notte d’amore con Anis -, come quando si crogiolavano in una culla liquida e confortevole. Quell’uno – ed era questo che il moro tentava maldestramente di fargli capire – avrebbero continuato ad esserlo. In quel momento come allora.
Immer und für immer. [1]
Dopo Tom – evidentemente – era stata la volta della Mama, di Sercan, dell’Ersguterjunge. Una sfida continua, una messa in discussione perpetua che sembrava rafforzare una storia nata una notte di dicembre sotto stelle troppo luminose per essere reali.
La famiglia di Anis – perché per il tunisino era quella la famiglia, amici ingombranti compresi – non aveva accolto bene la loro relazione. Non l’aveva accolta bene per nulla. Sercan, poi, era quello che l’aveva presa peggio di tutti.
Voleva troppo bene al fratello – nei fatti – per pensare fosse qualcosa di diverso da un modello da emulare ad ogni costo.
Nemmeno le parole della Mama erano riuscite a trasformare quell’affetto enorme in qualcosa di diverso da un rifiuto, da una mano aperta davanti ad un paio d’occhi che si rifiutavano di vedere. 
Di andare oltre.
Di percepire l’amore prima di tutto il resto.
Volendo essere onesti, Sercan aveva ripreso a parlare al fratello da un annetto scarso, e solo dopo l’intervento – disperato ed esasperato – di Bill. 
Dopotutto, anche quello era amore: sacrificare un poco dello spazio dedicato a se stesso per recuperare un rapporto troppo importante per essere gettato al vento come se - davvero – non valesse nulla. 
Ce l’aveva fatta, il piccolo Billi, era riuscito a dare all’uomo che amava quel pezzo di cuore che aveva perso per strada.
Era grazie all’amore infinito del suo uomo che Bushido aveva riconquistato l’amore del proprio fratello, il rispetto dell’uomo che aveva cresciuto quasi come un figlio.

L’ascensore era arrivato al pian terreno, le porte si erano aperte.
Con la mano stretta alla maniglia del trolley Bill si diresse verso il portone, sperando un paio di occhiali da sole bastassero a nascondere scazzo e delusione. 
Peccato nemmeno Miuccia Prada fosse sufficientemente attrezzata per fregare l’empatia gemellare…
- Non dirmelo – il tono di Tom era così fastidiosamente esasperato da fargli desiderare di poter mandare affanculo pure lui – Di nuovo quella storia! -.
Quella storia era il loro quinto anniversario, che sarebbe ricorso di lì a un paio di mesi. 
Quella storia era – innanzitutto – la pretesa di Bill di festeggiare come una coppia normale, con una vacanza alle Maldive o alle Barbados. Pretesa che si scontrava, però, con gli impegni lavorativi di Anis, con l’incisione di un nuovo album che li avrebbe già tenuti separati a sufficienza fa far sperare Bill sino all’ultimo. 
Speranze inutili, klar.
Così, come nel migliore dei loro collaudatissimi copioni, avevano finito per litigare già dalla colazione, finendo per urlarsi contro recriminazioni inutili e accuse insensate.
E spaccare un paio di stoviglie, klar.
Con un gesto nervoso Bill gli porse il trolley.
- Andiamo, è meglio – sbuffò – sono già in ritardo. -.

La strada era ancora lunga, salite comprese.



[1]: trad: Sempre e per sempre.

 
ATTO PRIMO – Parte Seconda
Long road to Heaven
 

And life was nothing 
But an awful song

(I believe I can fly – Ryan Kelly)


Il treno per Leipzig era in ritardo di dieci minuti, un’inezia se confrontato al ritardo del treno che avrebbe portato un folto numero di turisti a Parigi di lì a poco. Forse.
Con un sospiro Bill si accese l’ennesima sigaretta della giornata, aspirando la nicotina nel vano tentativo di rilassarsi almeno un poco. Il cellulare nella tracolla taceva, come di consueto dopo un litigio particolarmente animato. 
L’altoparlante risuonò nuovamente, per annunciare il treno avesse incrementato il proprio ritardo di un altro po’.
Più che Karma, quella era una maledizione in piena regola.
Con un mugolio scontento si sedette su una panchina, di fianco ad un uomo di mezz’età immerso nella lettura di una rivista di economia. 
Al chiosco della stazione campeggiavano i manifesti dell’imminente concerto degli Stürmer, gruppo all’interno del quale campeggiava – come nelle migliori delle tradizioni commerciali - Gustav Schäfer, a seguito dello scioglimento dei Tokio Hotel. La band si era sciolta nel 2012 senza troppe cerimonie, subito dopo l’uscita del primo album solista di Tom, rimasto in vetta alle classifiche per un paio di mesi. Il gemello, invece, aveva deciso di seguire il modello di David ed affiancarsi a lui nella produzione di artisti emergenti. Aveva preferito – in sostanza – l’altra parte della barricata.
In quel momento, infatti, attendeva il treno che lo avrebbe condotto alla riunione con una piccola casa discografica, con l’intento di strappare un’esclusiva per il primo singolo di una band emergente.
Finalmente annunciarono l’arrivo del treno in stazione.
Con un gesto distratto spense l’ultima cicca della mattinata, prima di afferrare il trolley per la maniglia e attendere le porte si aprissero per permettergli di trovare il proprio posto numerato.
Salì e trovò velocemente il proprio posto, di fianco ad una signora anziana troppo impegnata ad armeggiare con i ferri da maglia per dargli retta.
Avrebbe potuto perdersi ancora un poco nei propri pensieri.
Inaspettatamente, il cellulare vibrò notificandogli l’arrivo di un messaggio.
Era Anis.
Il cuore – manco a dirlo – si impegnò in un paio di capriole mentre apriva il folder dei messaggi.
Dein Hund ist ein Arschlock, der auf meinem Bett schlafen will. [1]
Solo quello, nemmno un bacio un saluto una parola per lui – non necessariamente una scusa, klar -.
Vaffanculo.
Aprì una pagina di testo e iniziò a digitare furioso.
Mein Mann ist ein Arsch und er will nicht mit mir abreisen. [2]
Inutile dire non si fosse sentito nemmeno un briciolo meglio dopo aver inviato quelle poche parole cariche di rancore.
Con un sospiro prese gli auricolari dalla borsa e decise che ascoltare un po’ di musica potesse essere una buona soluzione allo scazzo, prima di combinare qualcosa di cui pentirsi.
Peccato Anis la pensasse diversamente.
Und mein Mann ist ein Kind, der den beleidigten für jede Scheiße spielt. [3]
Vaffanculo vaffanculo vaffanculo!
Gliel’avrebbe fatta scontare, prima o poi…
La vita, invece, a lui sconti non ne avrebbe fatti.

Alla seconda traccia iniziò ad assopirsi lentamente, cadendo in quel simil torpore che caratterizzava i minuti prima del sonno, cullato in quell’universo tiepido che gli ricordava le notti in cui fare l’amore era – innanzitutto – riscoprirsi come tutt’uno.
Le tracce scorrevano mentre si addormentava lentamente, cullato tra ricordi vecchi e nuovi.

Era il loro secondo Natale insieme, quello.
Avrebbero passato la giornata con Tomi e Larissa e Sercan e la Mama, che per l’occasione aveva confezionato una bellissima tovaglia ricamata.
Il fatto – poi – Anis di notma non festeggiasse nemmeno e lo facesso solamente per farlo felice, rendeva alla perfezione la gratuità dell’amore che li legava.
In quel momento stava controllando che la teglia di Köfte che aveva ordinato in rosticceria si stesse scaldando a dovere, quando un paio di braccia gli si strinsero alla vita.
Dolcezza e possesso, in un ossimoro che passava innanzitutto per l’eccezionalità del loro essere in quanto coppia e in quanto uno.
- Che fai? – mormorò all’indirizzo del tunisino, decisamente impegnato a mordergli il collo – Dai che rischiamo di far bruciare tutto… -.
Cercò blandamente di sottrarsi alla presa dell’altro, prima di voltarsi e decidere che – a fronte di un pranzo praticamente pronto – due coccole potevano pure concedersele. 
Ad interromperli giunse però Schnee, il barboncino bianco che Tom gli aveva regalato al momento del trasloco, che iniziò ad abbaiare con un accanimento quasi comico.
Bill sorrise e si staccò dalla presa dell’altro, prima di chinarsi a terra e prendere la bestiola in braccio.
- Vuoi le coccole anche tu? – mormorò, prima di sfiorargli il tartufo bagnato con le labbra.
Anis sbuffò.
- Sia chiaro che ora mi rifiuto di baciarti fino a che non ti sarai disinfettato a dovere – borbottò.
Chissà perché – invece – quando gli ospiti erano arrivati i due si stavano ancora rivestendo.


Fu la risata squillante della signora seduta di fianco a lui – che aveva evidentemente abbandonato ferri da calza e gomitoli – a farlo svegliare di soprassalto.
Diede un occhio all’orologio, rendendosi conto fossero presumibilmente quasi arrivati. Si stiracchiò leggermente, prima di decidere potesse anche concedersi un paio di passi lungo il corridoio del treno.
Prese con sé il blackberry e uscì dallo scompartimento, guadagnandosi un’occhiata perplessa da una signora seduta lì vicino.
Anis taceva, come sempre quando voleva costringerlo a ragionare sulle cose. 
Non si imponeva con discorsi di sorta, non pretendeva di dimostrare di aver ragione se non con i fatti, inchiodandolo a verià anche scomode.
La verità, in quel caso, era riconducibile ad un unico fattore: paura.
Era terrorizzato dall’ipotesi di saperlo in studio con gli altri e non con lui, si sentiva letteralmente smarrito di fronte al fatto di non essere perennemente l’unica priorità attorno alla quale il tunisino costruiva un’esistenza intera.
Sospirò.
Ma valeva veramente la pena fasciarsi la testa così?
Prese il telefono in mano e digitò un pugno di cifre che aveva imparato a memoria eoni prima: doveva parlare con Tom, confrontarsi con quell’altra metà di se stesso che – forse – avrebbe avuto il potere di far tornare le cose a posto.
Non gli diede nemmeno il tempo di alzare la cornetta che iniziò a sommergerlo con le proprie parole.
- Secondo te sbaglio? – mugolò, prima di sedersi direttamente sul bordo del finestrino.
Dall’altra parte, il gemello mugolò.
- Bill – sospirò estenuato – ancora con questa storia delle vacanze? -.
Il moro si passò una mano sugli occhi.
- Non so veramente come comportarmi, a volte, con lui… - mugolò – Tutto quello che faccio non va bene, di recente… -.
Tutto ciò che gli giunse in risposta fu un sospiro estenuato.
- Billi – cercò di farlo ragionare il fratello – A volte nelle coppie capita, per quanto queste siano poco canoniche… -.
- Io vorrei… - le parole di Bill finirono nel vuoto.
Il treno era passato sotto una galleria e la comunicazione si era interrotta.
- Scheiße – mugolò, prima di infilarsi il telefono in tasca e rientrare nello scompartimento.
Si preannunciava una giornata lunga.
Lunga ed estenuante.
Scheiße.

[1]: trad: Il tuo cane è uno stronzo che vuole dormire sul mio letto.
[2]: trad: Il mio uomo è uno stronzo e non vuole partire con me.
[3]: trad: E il mio uomo è un bambino che fa l’offeso per ogni stronzata.

Intermezzo Primo – Parte terza
Entfernt

Ich suche dich hinter dem Licht
Wo bist du
Wo bist du
So allein will ich nicht sein

[Wo bist du – Rammstein]


Quando Bill aveva chiuso la porta con un calcio, tutto ciò che Anis aveva fatto era stato sospirare.
Nulla di più, nulla di meno.
Gestire una relazione stabile, vaffanculo, non era per niente semplice, checché ne dicessero un po’ tutti. Soprattutto, poi, se i due soggetti da relazionare erano Bill Kaulitz e Anis Ferchichi.
- Scheiße – borbottò, prima di intercettare il cagnolino di Bill e menargli un calcetto – Il tuo padrone è un poppante… - borbottò all’indirizzo dell’animale – E pure stronzo in sovrapprezzo – concluse comicamente, prima di decidere fosse ridicolo prendersela con la bestiola.
L’uomo si voltò verso la porta, aspettandosi di vedere Bill rientrare, trafelato, di sentire le sue braccia attorno al collo e di poterne saggiare le labbra.
Ovviamente nulla di tutto ciò avvenne.
Si avvicinò alla finestra, senza provare reale interesse per le villette in costruzione nel quartiere limitrofo.
Curiosamente, tutto ciò che lo interessava si stava avvicinando al marciapiede, dove il cassone nero di suo fratello aveva accostato per attenderlo e portarlo poi in stazione.
Lontano da lui.
In quel momento – a rigor di onestà da un po’ di tempo a quella parte – Anis sentiva Bill incredibilmente distante, quasi irraggiungibile, intoccabile, non lo sentiva più suo.
Il suo piccolo bambino sorridente, chissà dov’era.
La Cadillac partì alla volta dell’Hauptbahnhof.
Lontano, per l’ennesima volta.

Si sedette sul divano del salotto ed afferrò il telecomando, in un maldestro tentativo di scacciare la noia e – plausibilmente – spegnere pure il cervello.
Anche quello era di Bill.
Il suo cervello ed il suo cazzo appartenevano ad un chimera, un sogno troppo bello per essere veramente vissuto. Lui stesso – tutto, senza eccezioni – apparteneva all’amante.
Era così da che avevano iniziato a frequentarsi, a ragion veduta.
Il salotto di Kerner quel giorno ospitava Cristina, ex voce dei LaFée ed ora cantante solista.
- Mah – mugungò Anis, prima di cambiare canale.
Anche su Pro7 non vi era nulla di interessante.
O forse – più plausibilmente – la sua attenzione era tutta rivolta ad altro.
Il cane di Bill abbaiò, prima di dirigersi trotterellando verso la camera da letto e gettarsi sul letto come se si trattasse da sempre della propria cuccia.
Il tunisino si diresse verso la stanza, con tutta l’intenzione di ricordare alla bestiola il suo giaciglio fosse altrove.
- Forza, giù – borbottò all’indirizzo dell’animale.
Per tutta risposta il cane gli morse la mano.
- Arsch -.
Anis prese il cellulare e compose di getto un messaggio.
Dein Hund ist ein Arschlock, der auf meinem Bett schlafen will. [1]
Lo inviò a Bill senza quasi rendersene conto, prima di dirigersi verso il bagno per fare una doccia.
Un modo come un altro per ingannare il tempo, nell’attesa di una risposta che – lo sapeva – non avrebbe tardato a farsi sentire.
Il cellulare gli notificò un messaggio.
Lo aprì senza nemmeno leggere il nome del mittente. 
Mein Mann ist ein Arsch und er will nicht mit mir abreisen. [2]
Sbuffò, stufo dell’ennesima lamentela per una storia che – per quanto lo riguardava – poteva già dirsi chiusa da un pezzo. Bill, al contrario, pretendeva di rimettere in campo pedine già perse, sperando in una vittoria in extremis che questa volta non aveva la benché minima voglia di concedergli.
Aprì l’ennesima pagina di testo vuota, deciso a non dargli la soddisfazione di vederlo spiazzato.
Und mein Mann ist ein Kind, der den beleidigten für jede Scheiße spielt. [3]
In quei momenti la sua storia con Bill gli ricordava disperatamente un campo minato, un solo passo maldestro e sarebbe saltato tutto. Il bello del loro amore, però, stava anche nell’accanimento con cui lottavano, ad ogni livello. Certe volte anche fare l’amore sembrava impegnarsi in una lotta primordiale, in cui il predominio non era mai dello stesso cacciatore, e nessuno dei due poteva dirsi padrone di un solo ruolo.
Una volta in bagno aprì l’acqua della doccia ed iniziò a spogliarsi, senza nemmeno soffermarsi a guardarsi riflesso in uno dei millemila specchi che Bill aveva preteso. 
L’acqua calda gli scivolava addosso senza che l’uomo provasse reale interesse per un gesto che – di norma – non compiva mai da solo ed era sempre corollario di qualcosa d’altro.
Non quella volta, però.
Il cellulare taceva, segno che aveva mosso la pedina giusta. L’aveva messo in difficoltà.
Sospirando, si ritrovò a pensare se quello era veramente ciò che voleva o se la loro storia stesse diventando un gioco al massacro, una stupida lotta per una supremazia nella quale manco credevano.
Uscì dalla doccia ed afferrò l’accappatoio.
Solo dopo esserselo infilato si rese conto fosse quello di Bill. Erano identici, ma l’odore dell’amante rendeva il capo decisamente unico.
Sorridendo ripensò al giorno in cui l’aveva trovato in bagno.

Bill era stravaccato sul divano, con il laptop in grembo ed una mano penzoloni che tentava di accarezzare il cane.
- Schatz – l’aveva chiamato Anis dal bagno – Cosa sono questi? – si avvicinò all’amante con due accappatoi azzurri in mano.
Il moro gli concesse un’occhiata fugace, prima di inviare l’ennesima mail a Jost.
- Due accappatoi – rispose, sbadigliando.
L’altro, per tutta risposta, gli tirò uno scappellotto.
- Non ci sarei mai arrivato -.
- Arsch – aveva borbottato Bill polemico, massaggiandosi la nuca.
- Perché abbiamo due accappatoi azzurri uguali? – insistette il tunisino.
Tutto ciò che ottenne fu una scrollata di spalle.
- Mi piaceva l’idea – mormorò il moro – Ma se non ti piace puoi sempre comprartene uno – concluse con un sospiro prima di spegnare il laptop e stiracchiarsi.
Con un sorriso Anis gli passò una mano tra i capelli.
- Che ne dici di dedicarmi un po’ d’attenzione? Potremmo sempre vedere come ci stanno questi accappatoi – gli sussurrò direttamente sulle labbra – Dopo – concluse prima di sollevarlo di peso, ignorando il laptop franato sul tappeto, e dirigersi con lui in bagno.


Dopo essersi asciugato e vestito, Anis si diresse in cucina.
Mentre apriva il frigo alla ricerca di qualcosa di commestibile, il cellulare iniziò a squillare.
Era Bill.
Accolse immediatamente la chiamata.
- Sono arrivato ora – la voce del moro era incredibilmente fioca – Volevo solo dirtelo -.
Si appoggiò alla penisola in marmo.
- Fatto buon viaggio? – chiese, afferrando distrattamente una mela e dandovi un morso.
Dall’altro capo della linea giunse un borbottio.
- Più o meno – fu la risposta che ottenne – Senti… - iniziò, ma fu interrotto dal tunisino.
- Bill ne abbiamo già parlato un sacco di volte. – la voce di Anis era incredibilmente stanca – Non posso partire. Non mentre dovrei incidere un album. Punkt. -.
La risposta dell’altro si fece sentire immediatamente.
La voce di Bill non gli era mai parsa così risentita. E ferita.
- Io volevo solo fare la pace – iniziò – Ma se non ti interessa… - gli sfuggì un singhiozzo – Passa una buona serata, Anis -.
La comunicazione si interruppe.
Il moro gli aveva prosaicamente sbattuto il telefono in faccia.
- Vaffanculo – mormorò, ma a sentirlo fu solo una stanza vuota.
Il resto – tutto ciò che importava – era incredibilmente lontano.


[1]: trad: Il tuo cane è uno stronzo che vuole dormire sul mio letto.
[2]: trad: Il mio uomo è uno stronzo e non vuole partire con me.
[3]: trad: E il mio uomo è un bambino che fa l’offeso per ogni stronzata.

 
Intermezzo Primo – Parte Quarta
Dreh dich


Yeh, I don’t wanna hurt, 
There’s so much in this world
To make me bleed. 

[Just Breathe - Pearl Jam]



Anis era uno stronzo.
Un grandissimo, apocalittico stronzo.
L’aveva chiamato con tutta l’intenzione di fare la pace e l’altro se ne era uscito con quella stupidaggine!
Con un gesto nervoso Bill si accese una sigaretta, prima di iniziare a trascinare il proprio bagaglio verso la stazione taxi.
Il tassista era un uomo di mezz’età tarchiato e con una massa di capelli rossicci ed unti. 
- Wohin? [1] – borbottò lui, prima di accendere la radio del taxi ed iniziare a canticchiare una canzone di Nena.

Und ich dreh mich 
Dreh dich und da steh ich 
Nimm mich in den Arm 
Und du küsst mich
 [2]

Quello – in buona sostannza – era tutto ciò che avrebbe voluto urlare al telefono ad Anis.
Voltati. Guardami. Sorridimi. Facciamo la pace.
Il tunisino, però, non sembrava dell’idea di ascoltarlo.
Probabilmente non ne aveva nemmeno voglia…
Con un gesto scontento si portò un paio di ciocche corvine dietro le orecchie, mentre la città scorreva rapidamente al di fuori dell’abitacolo. 
L’Hotel Marriot iniziò a palesarsi, mentre il tassista continuava a canticchiare un qualche motivetto. 
Era stato David a consigliargli l’albergo.
- I bagni in marmo nero ti piaceranno – aveva mormorato affabile.
Probabilmente non aveva realizzato Anis fosse rimasto a casa. L’avesse lasciato solo.
Lasciò la valigia ad un inserviente e si diresse velocemente verso la reception per farsi consegnare le chiavi.
- Tornerò per l’ora di cena – disse alla receptionist – Sarebbe così cortese da farmi recapitare per quell’ora gli eventuali messaggi? -.
La donna annuì.
Doveva incontrare il manager di quei due ragazzini l’ora successiva, il che implicava non avesse tempo per una doccia ma potesse quantomeno concedersi qualcosa da mettere sotto i denti.
Uscì dall’albergo senza realmente sapere dove andare.
Ci fosse stato Anis, con ogni probabilità, avrebbero iniziato ad esplorare la città alla ricerca di un buon posto dove mangiare. Invece niente.
Era solo e con uno scazzo allucinante addosso, punkt.
Con un mugolio scontento addocchiò una panetteria e decise un bretzel fosse più che sufficiente a riempirsi lo stomaco.
Entrò mescolandosi alla piccola folla di donne in attesa del pane da servire in tavola ed aspettò di essere servito.
Ottenuto il pranzo riuscì in strada, decidendo fosse proprio il caso di dirigersi verso la casa discografica, onde evitare di perdersi.
Con quel nervoso addosso non era decisamente il caso, fertig.


La riunione durò più del previsto. Il direttore della casa discografica non ne voleva sapere di mollare, impuntandosi con pretese assurdeche scombinavano del tutto i supposti piani che aveva congeniato con David. Dopo due ore di contrattazioni al limite dell’allucinante – in ogni caso – aveva ottenuto quello che voleva quindi – ignorando l’invito dei pezzi grossi dell’etichetta – decise di tornare in albergo.
Chissà se Anis gli aveva lasciato un messaggio…
La receptionist si mostrò persino desolata nell’annunciargli che non aveva ricevuto messaggi di alcun tipo.
Deglutì, inghiottendo orgoglio e masticando fiele.
- Non si preoccupi – disse alla donna, inforcando nuovamente i propri occhiali da sole – Non ero nemmeno certo ce ne fossero, in effetti -.
Ci aveva sperato, però, come uno stronzo.
Salì in camera e si diresse meccanicamente in bagno, aprendo i rubinetti della vasca e iniziando a spogliarsi. Magari l’acqua calda l’avrebbe riconsegnato ad una realtà un poco più plausibile. Sospirando, non riuscì a fare a meno di pensare ad una delle tante volte in cui, sotto l’acqua, aveva ritrovato l’uomo nero al quale il filo rosso del destino lo aveva unito.

Pioveva con una costanza persino invidiabile, quel giorno.
Lo avevano chiamato per visionare alcuni demo appena arrivati e – come al solito – le cose si erano protratte più del previsto. Era tornato in fretta a casa, voglioso solo di fare un bagno con i fiocchi per togliersi da dosso quell’umidore sgradevole che caratterizzava tutte le giornate piovose berlinesi.
L’appartamento era vuoto, Anis con ogni probabilità era ancora in sala d’incisione con le Bisou.
Con un sospiro si era diretto in bagno, spogliandosi direttamente lungo il cammino che lo conduceva al vano. Si immerse nell’acqua e chiuse gli occhi, godendosi il tepore che pian piano lo avvolgeva.
Si destò dopo un tempo indefinito, al tocco di un paio di mani che conosceva ormai bene.
- Ich glaubte, es gab eine Sirene in der Badewanne – Anis gli soffiò quelle parole direttamente nelle orecchie, prima di mordergli leggermente la grana pallida del collo.
Bill si stiracchiò leggermente, prima di guardarlo con occhi ancora un poco appannati dal sonno.
- Che ora è? – mugolò allungandosi per sfiorargli le labbra con un bacetto umidiccio.
L’uomo sorrise, prima di carezzargli i capelli umidi e rispondere.
- Sono le sei, Schatz -.
L’altro parve persino impressionato di fronte a tale evidenza.
- Ma quanto ho dormito?! – mormorò.
Anis non gli rispose, si limitò a spogliarsi lentamente e ad entrare a sua volta nella vasca.
- Tanto fino all’ora di cena c’è ancora un attimo – considerò - ed in ogni caso sono passato al KaDeWe e ho preso quell’arrosto che ti piace tanto – concluse afferrandolo per la vita ed avvicinandoselo.
Bill gli si sedette a cavalcioni, prima di stringergli le braccia attorno alle spalle e baciarlo.
- Hast du Lust? – gli mormorò il tunisino, interrompendo per un attimo il bacio.
La risposta che ottenne fu un gemito roco.


Fu il telefono che vibrava a destarlo, quella volta.
Uno stupido messaggio pubblicitario aveva interrotto uno dei ricordi più belli serbasse da che conosceva il proprio compagno. 
- Scheiße – borbottò, prima di gettare il cellulare sopra i boxer che aveva lasciato in terra lì vicino ed uscire dalla vasca.
Un’ulteriore vibrazione del telefonino lo fece voltare.
- Chi diamine è? – mugolò, prima di accogliere la chiamata senza nemmeno controllare l’identità del chiamante – Hallo? -.
La voce di Anis lo fece sussultare.
- Disturbo? – mormorò il tunisino.
L’altro sospirò, prima di mordersi un labbro e accingersi a rispondere.
- Ero nella vasca – bisbigliò, sentendosi molto stupido per una risposta che – a tutti gli effetti – non voleva dire davvero nulla.
Lui voleva dire ben altro ad Anis, klar.
- Sono passato in tintoria a ritirare il completo che hai usato al compleanno di Cass – lo informò l’altro, come se non fosse successo nulla e non si fossero lasciati urlandosi addosso come due pazzi.
- Tutto qui? – Bill si morse le labbra.
- Passa una buona serata, Bill – rispose l’altro.
- Vaffanculo – borbottò, prima di chiudere la chiamata e dirigersi verso la propria valigia.
Vaffanculo, stanne certo che lo farò.
Quello che non sapeva era quanto se ne sarebbe pentito dopo.



[1]: trad: Dove? (Inteso – ovviamente – come: “Dove va?” _ NdA)
[2]: La canzone è Dreh dich di Nena.
Vi lascio la traduzione – è ad opera mia, quindi con tutti i limiti del caso -:
E io mi volto
Voltati ed io sono qui
Prendimi tra le braccia
E baciami
[3]: Trad: Credevo ci fosse una sirena nella vasca


 

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Capitolo 3
*** Atto secondo: Eine chance ***


Atto Secondo
Eine Chance

Du hast nur eine Chance, 
Man ergreif sie!

[Eine Chance – Bushido produziert Sonny Black und Frank Whyte]



 
Arnold Bergmann era uno dei medici migliori Berlino potesse vantare.
Trentasei anni, sposato da otto e con due adorabili bambine di sei e quattro anni: Klara e Silke. 
Tutte le sere tornava a casa per essere assalito da quelle due piccole furie castane, ansiose di raccontargli delle loro giornate fatte di giochi, risate, e dei piccoli problemi delle loro esistenze da cuccioli. Ogni giorno che il Signore mandava in terra – perché Herr Bergmann era credente, klar - ringraziava il Cielo di avere quelle due bimbe ed una splendida moglie – Anneke – in grado di fargli passare il malumore con il solo suono delle loro risate.
Quel giorno, come ogni mercoledì, doveva dirigersi in ospedale per gli appuntamenti con i pazienti.
Magari sulla via del ritorno avrebbe preso un dolce per le figlie, approfittando dell’ottima pasticceria che avevano aperto da poco ad un paio di isolati dall’ospedale…
Con uno sguardo distratto all’orologio si rese conto di essere in ritardo. Era appena un quarto d’ora ma – ne era certo - lui si sarebbe preoccupato oltre misura. 
Come al solito.
Bill Kaulitz, manco a dirlo, era un paziente ben strano nel suo genere.
Inizialmente sembrava stesse percorrendo il binario morto della rassegnazione – e non ce n’era nemmeno motivo, viste le sue condizioni! – poi d’un tratto la voglia di lottare sembrava averlo invaso. 
Colpendolo come un ceffone ben assestato.
Herr Mahler, lo psicologo della clinica, davanti a un caffè gli aveva confidato che psicologicamente si trattava quasi di un miracolo, che quel repentino attaccamento alla vita era davvero un qualcosa di inusuale ed insperato. 
- Chissà che è successo – mormorò tra sé e sé.
Con un gesto deciso del capo si disse fosse il caso di raggiungere il proprio paziente senza starci a rimuginare oltre. 
Lo avrebbe visto di lì a poco, lui e le ennesime analisi.
L’ennesimo pugno di cifre che avrebbe potuto condannarlo. 
O salvarlo.
Raggiunse l’ambulatorio e salutò la caposala.
- Dite ai pazienti che sono arrivato – mormorò, prima di accendere il computer che occupava buona parte della scrivania e sedersi sulla poltrona.
Dopo nemmeno un paio di minuti, Bill Kaulitz si era effettivamente affacciato.
- Prego Bill – lo aveva accolto con un sorriso – Si accomodi – lo invitò con un gesto della mano.
Il ragazzo si morse un labbro, prima di accomodarsi su una delle due sedie che aveva messo a disposizione per i pazienti.
- Cos’hai per me? – gli chiese l’uomo con fare conciliante.
Bill gli porse un paio di fogli custoditi con cura in una cartellina trasparente.
All’inizio erano solo fogli stropicciati, come se davvero non contassero nulla.
- Sono le ultime – si affrettò a comunicargli – Volevo sapere… sì, insomma… - sospirò, abbassando lo sguardo.
Herr Bergmann sorrise, prima di iniziare a scrutare i valori scritti sui fogli.
- Adesso vediamo… -.
Bill si torse le mani nervosamente. 
Ogni volta era una tortura, ogni dannatissima volta.
Sapere che tutto dipendeva da un pugno di cifre lo faceva sentire sempre impotente, stupido, fragile.
Ma non era solo.
Il pensiero di Anis a casa che lo aspettava parve rinfrancarlo non poco, mentre con un gesto meccanico si portava un paio di ciocche dietro le orecchie.
- Gli esami vanno bene – il medico interruppe il silenzio – I valori sono davvero buoni, Bill. Hai di che esserne fiero -.
Il sorriso del moro si incrinò.
- In tutta questa storia io non ho nulla di cui andare fiero, Herr Bergmann – borbottò amaro.
L’uomo sospirò.
- Io non sono uno psicologo, Bill – iniziò – però sono sicuro – e calcò la voce sull’ultima parola – che se non ti interessasse vivere non seguiresti la terapia come stai facendo. Il tuo compagno, concedimelo, c’entra solo fino ad un certo punto -.
Bill iniziò a giocare con una piccola fedina d’argento che portava all’anulare della mano sinistra.
- Anis ha fatto tantissimo, e sta continuando a farlo – puntualizzò – senza di lui sarei perso… -.
Herr Bergmann alzò le mani in segno di resa.
- Wie du willst [1] – mormorò, prima di dirigersi verso un piccolo schedario contenente le cartelle cliniche.
Willst… wollen.
Ma era davvero una questione di volonta?
- Dovresti iniziare a fare sport sul serio – la voce del medico lo riscosse.
Bill arricciò il naso.
- Sport? –.
Non gli piaceva sudare, quello no.
Se anche si fosse messo d’impegno decidendo di poter sopportare la fatica fisica, il sudore era davvero una cosa che non sarebbe mai riuscito a sopportare.
- Sarebbe un bene – annuì l’altro – Magari tu ed il tuo compagno potreste andare a correre al mattino – considerò.
L’ultima volta che Anis ci aveva provato avevano finito per litigare dopo un primo chilometro di mugugni senza senso.
Lo aveva fatto per lui, però, anche quella volta.
- Potremmo provare – mormorò quindi all’indirizzo del medico, le labbra sfiorate da un timido sorriso.
Valeva la pena di tentare una seconda. 
Forse ce l’avrebbero fatta. Forse.
La vita, dopotutto, non era che un’infinita serie di variabili impazzite dietro le quali non sempre occorreva ricercare un senso.



[1]: traduzione: Come vuoi.

NOTA: Herr Bergmann e Herr Mahler sono due personaggi di mia invenzione. Non si tratta quindi di due dei medici facenti parte dello staff attuale della clinica.

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Capitolo 4
*** Intermezzo secondo ***


Intremezzo Secondo – Parte Prima
Sotto le luci e troppo al buio comunque

E 'nt'a cä de pria chi ghe saià
int'à cä du Dria che u nu l'è mainà
[…]
figge de famiggia udù de bun
che ti peu ammiàle senza u gundun

[Creuza da ma – Fabrizio de André]


Subito dopo essere uscito dall’albergo, Bill Kaulitz spese un intero minuto della propria esistenza dandosi del cretino apocalittico. Faceva un freddo indecente e non sapeva nemmeno dove diamine andare!
Con un gesto secco della mano fermò un taxi.
- Wohin? – chiese l’uomo, mentre si accomodava sui sedili posteriori.
Il ragazzo sospirò.
Tanto valeva tentare di far girare quella dannata serata.
- C’è un locale decente da queste parti? – chiese.
Il taxista annuì con vigore.
- Alla Moritzbastei hanno organizzato una serata con Beatzarre – lo informò – ma non so se lasceranno entrare ancora qualcuno -.
Beatzarre era l’ennesima traccia di Anis in quella sera in cui dimenticare sembrava davvero impossibile. Eppure l’unica possibilità.
- Mi porti lì – mormorò – Vedrò di trovare un modo di entrare… -.
L’altro annuì con un cenno del capo, prima di ingranare la prima ed immettersi nel traffico.

Come da copione, alla Moritzbastei era bastato fare il nome di Anis per poter passare senza il benché minimo problema.
La musica era assolutamente assordante, il volume improponibilmente alto.
Si diresse spedito al bancone del bar, ordinò un Martini e si accomodò in un angolo.
La sala era gremita di quella che Anis avrebbe tranquillamente definito la Leipzig che conta, fatta di avvocati, starlette, imprenditori e via discorrendo. 
Il martini era secco sulle labbra.
Iniziò a mordicchiare la cannuccia, come faceva ogni singola volta volesse attirare l’attenzione, sedurre, corrompere. 
Il fatto Anis lo detestasse, poi, sembrava l’ennesima buona motivazione per farlo.
Come da copione, un uomo sulla trentina gli si avvicinò.
Era alto, moro, bello.
Somigliava persino un poco ad Anis.
- Cerchi compagnia? – gli chiese, come se fosse buono e giusto tentare di abbordare chinque gli passasse vicino e fosse quantomeno passabile.
Bill lo incenerì con lo sguardo, senza prendersi la briga di rispondere e continuando a giocare con quella cannuccia in maniera quasi indecente.
L’altro alzò le mani in segno di resa.
- Ok, la risposta è no – abbassò le mani per poggiarle sui fianchi – Peccato, però – concluse ammiccante, prima di dirigersi altrove.
Con un borbottio il moro riprese a sorseggiare il proprio Martini, mentre la musica aveva iniziato a farsi sensibilmente più alta – posto fosse possibile – annunciando l’arrivo di Beatzarre.
Chissà se aveva anche lui una crew di cretini?
Con un gesto annoiato appoggiò il bicchiere su un tavolino lì vicino, prima di sistemarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Il cellulare vibrò, notificandogli l’arrivo di un messaggio.
Forse…
Era Tom, che gli chiedeva come fosse andato il viaggio, che tempo faceva e perché non lo avesse chiamato per avvisarlo fosse arrivato.
Speranza vana, insomma.
Si affrettò a rispondergli, sperando il fiuto gemellare – almeno quella volta – non captasse lo scazzo dilagante che lo stava invadendo. 
Ma era davvero scazzo?
O forse tristezza?
Oppure rassegnazione?
Sentì distintamente lo stomaco contrarsi al solo pensiero di come la sua storia con Anis stesse finendo, logorata da ripicche senza un vero e proprio scopo e da silenzi a volte persino di comodo.
Il suo sguardo riuscì a captare l’uomo di prima, intento a tentare di rimorchiare una ragazzina probabilmente pure minorenne che, quasi sicuramente, si era imbucata per miracolo.
- Che schifo – borbottò a mezza voce.
Lo schifo, quello vero, lo avrebbe sperimentato di lì a poco. Ma ancora non lo sapeva.
Ordinò un altro Martini.
Magari con un po’ di alcool in corpo la serata avrebbe iniziato a girare bene…

Al quarto – o quinto? – bicchiere si rese conto che, a girare, era solamente la sua testa.
Con un gesto annoiato si mise alla ricerca di un bagno.
- Devo pisciare – biascicò, senza nemmeno curarsi del fatto non fosse solo.
Tanto quello schifo di musica avrebbe attutito anche l’esplosione dell’atomica…
Dopo un paio di minuti in cui girò letteralmente a vuoto, Bill riuscì a trovare i bagni.
Entrò.
Il chiarore delle lampadine che si rifletteva sulle ceramiche bianche lo colpì con violenza fastidiosa.
C’era troppa luce, in quella stanza.
Eppure nemmeno quel bagliore sembrava essere la risposta.
Si diresse in uno dei cubicoli e vi si chiuse dentro, sedendosi sul water prima di mettersi le mani nei capelli.
- Che cazzo sto facendo? – si ritrovò a bisbigliare.
Una voce ironica lo riscosse.
- In questo momento sei seduto su un cesso a parlare da solo… -. 
Era ancora quello di prima.
Con un sospiro uscì dal cubicolo, del tutto intenzionato a chiudere la questione.
Incrociò le braccia al petto, prima di avvicinarsi all’altro e scrutarlo con nervoso non simulato.
- Si può sapere cosa diamine vuoi da me? – borbottò, prima di superarlo per andare a lavarsi le mani.
L’altro lo sorprese con un sorriso incredibilmente ferino.
- Offrirti da bere, ad esempio – rispose, come se tutto quello fosse buono e giusto.
Si voltò con foga eccessiva, probabilmente a causa dell’alcool ingerito.
- Se non ti fosse chiaro – gli si avvicinò muovendo le mani con fare frenetico – Non sono una di quelle ragazzine che rimorchi con due moine. Non ho più diciassette anni da un pezzo e in ogni caso… -.
Le parole gli morirono in gola, quando l’altro lo spinse contro il muro e tentò di baciarlo con foga.
- Ma ti piacerebbe - sussurrò quindi, prima di baciarlo.
Baciarlo sul serio.
Bill, dopo una blanda resistenza - perché certe cose non si facevano - rispose al bacio, iniziò quasi a lottare con l’altro, come se si trattasse anche di prevaricazione, di forza.
L’amore – però – non era quel genere di potenza.


Si risvegliò nella propria stanza d’albergo con un terribile cerchio alla testa.
Le lenzuola arrivavano a coprirlo sino alla vita, ed indossava ancora i jeans della sera prima.
- Ma cosa cazzo… - mormorò, prima di stropicciarsi gli occhi e decidersi a scendere dal letto.
Ok, aveva fatto un sogno assurdo.
Era l’unica spiegazione plausibile, d’altronde.
Quando però avvertì un dolore sordo proprio alla base della schiena iniziò a chiedersi se si fosse trattato o meno di un sogno.
Non lo era, e la realtà faceva decisamente più schifo.
- Non è possibile – mormorò, mettendosi una mano davanti alle labbra in chiaro segno di stupore.
Lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere…
Il cellulare prese a vibrare con insistenza.
- Pronto – mormorò, accogliendo la chiamata senza nemmeno controllare chi fosse a chiamare.
Era Anis.
- Habibi – la voce calda dell’uomo lo fece piombare in uno stato di profonda agitazione – Che ne dici se ti vengo a prendere in stazione, così poi andiamo a mangiarci qualcosa? -.
Era un tentativo lampante di mettere una pietra sopra alle discussioni – anche futili – dei giorni precedenti.
Avrebbe messo una pietra anche sopra quello?
- Va bene – rispose con un flebile mormorio – A dopo amore – concluse, prima di chiudere la chiamata ed arricciarsi su un angolo del letto.
- Cazzo – mormorò, cercando di contenere una reazione che sapeva già avrebbe superato di molto i livelli di guardia dell’isteria.
Sul comodino notò un biglietto del quale non riconosceva la calligrafia.
”Mi sei praticamente crollato addosso, quindi ho preferito riportarti in albergo.
Ti lascio il mio numero. Chiamami, è il caso!!! Karl

Lo accartocciò e lo gettò via, senza accorgersi fosse caduto nel trolley aperto lì vicino.
- Vaffanculo – mormorò, prima di alzarsi alla ricerca di un kleenex.
Che avrebbe potuto fare, a quel punto?

 
Intermezzo Secondo – Parte Seconda
Nie


Warum soll ich nicht sagen
Was ich dir nicht sagen kann
Warum soll ich dich fragen
Was ich dich nicht fragen kann

[Willst du mit mir gehn – Nena]



Il viaggio di ritorno si risolse in una vera e propria tortura.
Non riusciva a prendere sonno se non per una manciata di minuti, salvo poi risvegliarsi di scatto con il cuore in gola. Nemmeno la musica sembrava sortire un qualche effetto calmante.
L’arrivo all’Hauptbahnhof fu accolto quasi con commozione, anche se quello stesso arrivo significava un’unica cosa: Anis.
Che diamine gli avrebbe detto, a quel punto?
Sai Anis, credo di averti tradito ma non ricordo praticamente nulla…
Scosse il capo cercando di cancellare una visione che lo terrorizzava ben oltre il consentito.
Senza Anis, davvero, lui non era nulla. Nichts.
Scese dal treno trascinandosi dietro il trolley ed inforcando gli occhiali da sole con un gesto automatico, nonostante il cielo si preannunciasse decisamente coperto.
Il tunisino lo attendeva davanti ai binari, vestito con i jeans che gli aveva regalato per San Valentino. Appena lo vide gli andò incontro con un sorriso.
- Habibi – lo accolse, prima di sfiorargli la guancia con un bacio e prendere il trolley per trainarlo.
- Faccio io, dai – mormorò, cercando di mantenere un tono di voce quantomeno neutro.
Anis, per contro, parve fiutarne l’evidente disagio.
- Tutto bene? È successo qualcosa? – gli strinse la mano tra le proprie.
Il moro scosse il capo con veemenza.
- Non ho dormito molto, ed il viaggio è stato infernale sul serio – bofonchiò, prima di salire sulla macchina dell’altro ed acciambellarsi sul sedile – Non sono riuscito a chiudere occhio – mormorò cercando di reprimere uno sbadiglio.
L’altro gli sistemò un ciuffo di capelli dietro le orecchie con evidente tenerezza, prima di mettere in moto.
- Adesso andiamo a casa, così puoi metterti a dormire un paio d’ore -.
Nessuna risposta.
Anis approfitò di un semaforo rosso per voltarsi nella sua direzione.
Bill sembrava sonnecchiare contro il finestrino.
- Liebe dich, Schatz [1] -.


Era rimasto immobile per l’intera durata del viaggio, aveva finto di dormire per non dover guardare Anis negli occhi e dirglielo: Non sapevo più se ti amavo.
A che pro, poi, dirglielo se tutto quello gli aveva dato invece l’ennesima conferma nei confronti di un sentimento che non ricordava così grande caldo importante?
Dovevano essere arrivati, perché il veicolo si era fermato.
Sentì le mani di Anis sfiorargli la fronte, prima di scrollarlo leggermente.
- Ehi Schatz – mormorò per svegliarlo – Siamo arrivati -.
Aprì lentamente gli occhi, sbattendo un poco le ciglia e iniziando poi a stiracchiarsi.
Sperando disperatamente di risultare credibile.
- Già? – pigolò.
L’uomo sbuffò un sorriso, prima di sfiorargli le labbra con un bacio.
- Ja -.
Salirono in appartamento e vennero subito invasi da una piccola furia pelosa.
- Welpe! [2] – Bill si abbassò immediatamente per prendere in braccio il cucciolo, evidentemente entusiasta del ritorno del padrone.
La voce di Anis proruppe ironica e fintamente sdegnata.
- Qualcuno dovrebbe insegnare alla tua bestia che la tua assenza non lo autorizza a dormire al tuo posto. Con me - concluse con fare quasi comico.
Mit mir. [3]
Quelle due parole ebbero il potere di fargli venire le lacrime agli occhi.
Le stornò con un gesto stizzito.
- Scusa – bofonchiò – Sono solo un po’ stanco -.
Il tunisino annuì, prima di stringerlo alla vita.
Fidandosi ciecamente di lui anche se non lo meritava.
- Facciamo così – mormorò Anis prima di baciargli la spalla – Io devo andare un paio d’ore in studio per il feat con Kay, tu puoi approfittarne per riposarti. Mh? -.
Bill annuì, prima di voltarsi e cercarne l’abbraccio.
- Anis? – pigolò, stretto al maglioncino dell’altro.
- Dimmi -.
- Ma l’abbiamo fatta la pace? – chiese poi appoggiando la testa alla sua spalla.
L’altro gli sfregò un poco i capelli, facendolo borbottare infastidito.
- Klar Schatz – fu la risposta che gli concesse, soffiata direttamente nell’orecchio prima di baciarlo per l’ennesima volta.


Non appena Anis fu uscito si diresse verso la camera da letto.
Sul letto trovò una rosa screziata ed accanto un bigliettino.
Sperando la bestia non l’abbia già divorata, klar
Questo fiore è un po’ come noi, richitg? Bellissimo ma con le spine… ed è perfetto così. Liebe dich, Schatz! A.”

Cercò di soffocare un singhiozzo.
Tutto inutile.
Iniziò a piangere stringendo nel pugno quel bigliettino che in pochissime parole tentava di rimettere tutte le cose a posto. Un pugno di righe – perfettamente in linea con lo stile di Anis, insomma – che voleva dire tutto. Alles.
Tra le lacrime prese il fiore e si diresse in cucina per metterlo in un bicchiere.
Aveva appena riempito il bicchiere quando il telefono iniziò a squillare frenetico.
- Hallo? – mormorò, tirando su con il naso.
- Bill! – la voce di Tom si fece subito preoccupata – Tutto bene? Che è successo? Avete litigato di nuovo? Vuoi che venga lì? -.
Il moro si schiarì la voce.
- Tutto a posto Tomi, tranquillo – mormorò – Solo Anis mi ha fatto un bellissimo regalo che non merito proprio – mugolò, gettando uno sguardo alla rosa.
Il gemello sospirò.
- E ti sembra il caso di piangere così e farmi rischiare l’infarto? – rantolò poi – Santa Pazienza… -.
Bill ridacchiò, prima di dirigersi verso il bagno alla ricerca di un kleenex.
Si soffiò il naso, per poi sedersi sul letto e rivolgersi nuovamente al fratello.
- E tu? Avete fissato ‘ste benedette date? – chiese, riferendosi evidentemente alle date del prossimo tour di Tom.
Finirono per parlare per un’ulteriore mezz’ora, in quel modo bellissimo e un po’ pauroso che era solo loro.
Io ti dico una cosa, tu fai lo stesso e tutto torna a posto [4]
Quando la porta di casa si era aperta rivelando la sagoma di Anis, nei fatti, non aveva nemmeno ancora disfatto la valigia.
Lo aveva accolto con un sorriso dolcissimo, come se la chiacchierata con Tom avesse diradato i cattivi pensieri, e si era diretto con una corsetta verso di lui per abbracciarlo e sfiorargli le labbra con un bacio.
- La bestiaccia sarà mica vegetariana? – chiese il tunisino, riferendosi evidentemente al fiore depositato tra le coperte.
Con un sorriso il moro negò, prima di baciarlo ancora.
- Grazie – bisbigliò, prima di prenderlo per mano e condurlo verso il bagno.
Anis sorrise, prima di afferrarlo per la vita e sfilargli la maglia.
Gli morse una spalla con evidente affetto.
- Bagno – mormorò poi, come se non fosse già di per sé evidente.


Si stavano crogiolando nell’acqua da una buona mezz’ora, coccolandosi con la tenera lentezza di chi sente di avere tutto il tempo del mondo, quando il telefono di Anis prese a squillare.
- Lascialo suonare – bofonchiò Bill prima di fargli scivolare una mano sullo stomaco, percorrendo la linea degli addominali con un dito.
Con un sordo grugnito l’altro gli prese la mano tra le proprie, prima di chinarsi a baciarlo.
- Potrebbe essere importante – gli ricordò con un sorriso – La Mama non si è ancora ripresa e… -.
L’altro con uno sbuffò uscì dalla vasca, prima di dirigersi velocemente verso il mobiletto del bagno per prendere il blackberry del compagno.
- Se è Luise allora va bene – mormorò con un sorriso timido prima di reimmergersi nell’acqua – Che freddo – mormorò poi, mentre l’altro rispondeva.
- Cass – lo sentì rispondere – Cosa? Stasera, dici? Sento Bill e ti faccio sapere, ok? – gli sorrise con tenerezza – Ti richiamo io più tardi… - concluse la chiamata e gettò il telefono tra i vestiti sparsi a terra.
- Era Cass – si sentì poi in dovere di informarlo – Ci ha invitati a cena, se ti va… -.
Bill gli si accoccolò di nuovo di fianco, piegando il capo sulla sua spalla come una piccola colomba.
- Se vuoi andare ci andiamo – mormorò quietamente – Però mi prometti che torniamo presto e stiamo un po’ insieme – concluse querulo.
Anis scoppiò a ridere, prima di afferrarlo per la vita e farlo sedere cavalcioni su di sé.
- Non ti sazi mai – mormorò, prima di stringelo e baciarlo con più foga.
- Nie [5]– fu la risposta che ottenne, prima di stringersi ai fianchi dell’altro e scendere con le labbra a percorrere la linea della mandibola.
Ancora non lo sapeva, ma quel “nie” sarebbe stato l’ennesima bugia.


[1]: trad: Ti amo, tesoro
[2]: trad: Cucciolo
[3]: trad: Con me
[4]: Me ne sono accorta solo rileggendo, comunque sia questa frase richiama un passaggio ti Eine Krasse Lüge di Sar@. Tutti i diritti del caso sono suoi, e ovviamente le desse fastidio la trasposizione provvederò a rimuovere quanto prima. Klar.
[5]: trad: Mai

 

Intermezzo Secondo – Parte Terza
Holle


I can’t sing no song of hope
I’ve got nothing to say
[… ]
Life is feeling kind of strange
Strange enough these days

[My guitar lies bleeding in my arms – Jon Bon Jovi]


Alla fine la cena da Cassandra si era trasformata in una cena al Vau, visto e considerato gli ospiti fossero troppi per poter pensare di riuscire ad arrangiare una cena plausibile.
- Ma chi c’è? – aveva mormorato Bill mentre si mettevano in macchina, prima di allacciare la cintura di sicurezza.
- Noi, Cass e qualche amico di Cass – rispose l’altro con una scrollata di spalle.
L’occhiata che il moro gli rivolse grondava sarcasmo puro.
- Non avrei mai detto – borbottò poi prima di accendere la radio.
Stavano passando le Monrose.
- Non male – commentò quindi Bill, portando avanti quel piccolo gioco di frecciatine che era solo loro.
Io critico un tuo artista, tu ne critichi uno mio...
Questo a dimostrazione di quanto anche Anis fosse riuscito ad inserirsi all’interno di un qualcuno nato per essere doppio, per avere al proprio fianco un altro se stesso.
Il tunisino sorrise, prima di lisciargli un ciuffo di capelli.
- Vedrai che faremo presto – mormorò – In ogni caso dovrebbe esserci anche Kay -.
L’altro sorrise.
- Mi piace molto Kenneth. È simpatico, disponibile… -.
L’altro lo interruppe bruscamente.
- Perché quel “mi piace” e quel “disponibile” non mi piacciono? – borbottò, prima di cambiare marcia con un ghigno.
- Scemo – sbuffò l’altro, prima di cambiare stazione radio.

Il Vau era letteralmente gremito, pieno di uomini in giacca e cravatta e donne con abiti da coctail. 
Un ragazzo in jeans gessati ed un uomo di colore – manco a dirlo – attiravano parecchio l’attenzione.
Un cameriere gli si avvicinò con aria compita.
- I signori hanno prenotato? – chiese, chinando leggermente il capo.
Anis rispose per entrambi.
- Siamo ospiti di Fräulein Steen -.
L’uomo li condusse in un’altra sala, dove la Steen e gli altri sembravano attendere solo loro.
Dopo i saluti di rito, la donna introdusse ai soliti noti uno dei commensali.
- Lui è Karl Buchner – iniziò – un amico di amici– concluse.
Solo dopo averne studiato i tratti, Bill lo riconobbe.
E sbiancò di conseguenza.
Seduto a pochi posto dal suo stava l’uomo della serata a Leipzig.
Strinse d’istinto la mano di Anis, che si voltò immediatamente nella sua direzione.
- Alles gut [1]? – gli chiese con un sorriso.
Di fronte a quelle labbra incurvate – molto prosaicamente – Bill Kaulitz si sentì una merda.
Una grossa, puzzolentissima merda.
Negò con un sorriso, prima di carezzare comunque il dorso della mano dell’altro con il pollice.
Non era solo. 
C’era Anis con lui.
In qualche modo, insomma, la serata sarebbe girata.
Kenneth aveva già intavolato una discussione tecnica - o supposta tale – con quello là.
- Quindi lei sarebbe il produttore di Beatzarre… -.
L’altro annuì sorridendo.
- Eravamo a Leipzig nei giorni scorsi – confermò – per un paio di serate – concluse servendosi di vino rosso.
Fu Cassandra stessa ad intromettersi.
- E come è andata? – volle sapere.
L’uomo ridacchiò.
- Io sono un pessimo giudice in questi casi, Cassandra – si volse verso di lui – ma se non erro Herr Kaulitz era alla serata. Potrà darle un giudizio sicuramente migliore del mio -.
Bill trasalì, cercando di nascondere il proprio stupore dietro un bicchiere colmo d’acqua.
Il resto della tavolata – Anis compreso – sembrava però interessato al suo parere.
- Non è un genere che ami – mormorò, cercando di sembrare quantomeno disinvolto – Ma è stato piacevole trascorrere una serata respirando aria di casa - concluse con un sorriso, prima di sfiorare la mano di Anis.
Daniel annuì.
- Evidentemente… [2] -.
Il tunisino gli strinse leggermente la mano, prima di servirsi di un pezzo di pane.
Nel frattempo arrivò il cameriere, pronto a prendere le loro ordinazioni.
Bill era decisamente troppo sovrappensiero per rendersene conto.
- Habibi – lo richiamò Anis – tu cosa prendi? – gli chiese poi, scrutandolo con fare sospetto.
Aveva fiutato qualcosa, di sicuro.
- Quello che hai preso tu andrà benissimo – mormorò, prima di sorridergli.
Non avrebbe retto un altro giorno, di quel passo…
Terminato il giro delle ordinazioni i commensali ripresero a chiacchierare.
Al centro delle loro attenzioni, in quel momento, le future nozze tra Kenneth e Mandy.
- Siete sicuri di durare più di due settimane? – lo rimbeccò Daniel, riferendosi evidentemente al tira e molla continuo che da sempre caratterizzava il ménage della coppia.
L’altro annuì con un grugnito d’assenso, prima di iniziare il racconto della propria personale Odissea alla ricerca di una tipografia che stampasse inviti quantomeno decenti.
- Perché Mandy voleva ‘ste dannate rose – stava continuando a borbottare con aria concitata – E sembrava che nessuna dannata rosa di nessuna dannata tipografia fosse quella che lei cercava – concluse con fare teatrale, mettendosi le mani nei capelli.
- Io invece coi fiori non me la cavo male, richtig? – bisbigliò Anis al suo indirizzo.
Sorrise d’istinto.
- Sembra proprio di no -.
Resisti resisti resisti. La serata finirà presto. Resisti. 
Il cameriere iniziò a servire le portate, mettendogli davanti un flan di patate e zucchine dall’aria decisamente invitante.
- Guten Appetit – mormorò all’indirizzo dell’amante, prima di impugnare la forchetta e servirsi di un pezzetto della pietanza.
- Soffia – lo avvertì l’uomo – Scotta -.


Erano quasi alla fine della cena quando – preso da quello che a posteriori avrebbe definito istinto suicida - decise di alzarsi per sgranchirsi un poco le gambe.
- Vado a fumare – mormorò all’amante, prima di salutare la tavolata con un cenno – Torno subito -.
L’aria di Berlino era decisamente frizzante, tanto che si ritrovò a stringere al collo il bavero del cappotto, in un blando tentativo di proteggersi la gola.
- Ti proteggi la gola e intanto fumi – una voce lo fece sobbalzare – curioso – aggiunse poi quello lì palesandosi.
Lo incenerì con uno sguardo, prima di appoggiarsi alla ringhiera della piccola balaustra.
- Così pare – mormorò poi con voce incolore.
L’altro gli si avvicinò con un sospiro, prima di sfilargli la sigaretta di bocca e gettarla a terra per poi pestarla con un piede.
- Non mi hai chiamato – osservò Daniel voltandosi nella sua direzione – Era importante -.
Bill si spostò leggermente, cercando di ripristinare una qualche distanza tra sé e l’altro.
Non sarebbe mai dovuto uscire da quella sala, sarebbe stato meglio fosse rimasto accanto ad Anis, al sicuro
Cercò nelle tasche il pacchetto di sigarette, salvo realizzare gliene avesse solo sfilata una prima di uscire.
Scheiße.
L’altro gli si era nuovamente avvicinato, questa volta sospirando in maniera teatrale quanto urticante.
- Ascoltami – iniziò, ma il moro lo bloccò con un gesto della mano.
- Ascoltami tu – cominciò con fare concitato, gesticolando in maniera ridicola con le mani – Mi hai preso in un momento di merda. Io e Anis eravamo un po’ in rotta ed avevo voglia di svagarmi -.
- Ma… - cercò di prendere la parola Daniel, alzando stupidamente una mano.
La vita, dopotutto, era maestra. Sempre. In tutto.
- Io lo amo - lo interruppe per l’ennesima volta Bill – tutto il resto non mi importa, fertig -.
L’altro lo scrutò un attimo, prima di borbottare.
- Hai finito? -.
Il moro parve non capire.
Cosa poteva volere ancora?
- Ascoltami, so che non sarà facile ma devo dirtelo – iniziò quindi Daniel prima di afferrargli d’istinto le mani – Io sono malato, Bill – l’interpellato continuava a non afferrare il punto della questione – Sono sieropositivo e quella sera non abbiamo usato… -.
- Cazzo – fu tutto ciò che Bill riuscì a mormorare, prima di accasciarsi a terra, appoggiando la schiena alla ringhiera.
L’altro gli si avvicinò.
- Può non esserti successo nulla, Kaulitz – lo aiutò a rialzarsi – Ma dovresti quanto meno fare un controllo… se anche fosse successo qualcosa -.
- No – mugolò il moro interrompendolo.
- Se anche fosse successo qualcosa – riprese pazientemente Daniel – puoi ancora tamponare il problema – gli afferrò il mento tra le dita – basta lottare anche solo un pochino -.
In quel momento, tutto ciò che avrebbe voluto fare era invece buttarsi nella Spree con un macigno legato ai piedi.
- Schatz? – la voce di Anis lo fece sobbalzare ridicolmente – Tutto bene? Non tornavi più… -.
Fu il produttore a rispondere, con tono gioviale.
Con il sorriso di un joker.
- Colpa mia. Avevo bisogno di un parere un pelo più approfondito sulla serata di Beatzarre. Deformazione – concluse con un ghigno.
Il tunisino annuì distrattamente, tornando a rivolgere la propria attenzione all’amante.
- Sei gelato – mormorò, passandogli una mano sulle guance – Rientriamo? -.
Bill annuì.
Improvvisamente le vetrate del Vau gli sembrarono dannatamente simili alle porte dell’inferno.




[1]: trad: Tutto bene?
[2]: il passaggio si riferisce al feat che Bushido e Beatzarre avevano in previsione al momento della pubblicazione

 
Intermezzo Secondo – Parte Quarta
Wie Immer

I might need you to hold me tonight
I might need you to make it all right
I might need you to make the first stand
Because tonight I’m finding it hard to be a man

[Hold me – Savage Garden]

Fu un rumore sordo a svegliare Anis nel pieno della notte.
Il led della radiosveglia indicava fossero le due di notte, il vuoto di fianco a lui invece sembrava dirgli la causa di quel rumore fosse proprio Bill.
- Schatz – mugolò – Dove sei? -.
Nessuna risposta, solo quel rumore sordo che non accennava a smettere.
Si costrinse ad alzarsi, prima di accendere l’abat jour, giusto per non spaccarsi un piede nel cuore della notte.
La luce del corridoio era spenta, ma non quella del bagno.
Magari non era nulla, magari doveva solo andare in bagno, magari si stava struccando un’altra volta.
Aprì la porta del bagno con cautela, ritrovandosi davanti un Bill dall’aria distrutta arricciato contro il water.
Magari non aveva digerito quella dannata cena. Magari aveva preso troppo freddo.
Senza dire nulla gli si accovacciò alle spalle, prima di tirargli indietro i capelli e baciargli la nuca.
- Non volevo svegliarti – biascicò, prima di essere scosso da un altro conato.
L’uomo gli carezzò lo stomaco, prima di appoggiare il capo sulla spalla dell’altro.
- Mi sono svegliato e non ti ho trovato – mormorò.
Con un sospiro Bill ne cercò la mano, prima di stringerla un poco.
- Sarà stata la cena – mormorò, prendendo fiato.
Anis annuì.
- Sei uscito a fumare lasciando la giacca dentro e sei stato fuori uno sproposito – gli ricordò poi.
La verità era ben diversa.
E non gli restava che sperare non tornasse più a galla.


Mezz’ora dopo, Bill era disteso sul letto, arricciato come in cerca di calore.
Tremava di freddo o di paura?
La voce di Anis lo riscosse, facendolo sussultare stupidamente.
- La camomilla è quasi pronta -.
- Grazie – mormorò quindi, per poi girarsi verso la porta e sorridere timidamente all’amante – Ho fatto un casino, wie immer[1] – concluse poi abbassando lo sguardo.
Le mani del tunisino gli sostennero la fronte, le sue labbra vi deposero un bacio leggero.
- Non cambi proprio mai, Schatz – sospirò quietamente, prima di abbandonare la stanza in direzione della cucina.
Che fare, ora che le cose si erano messe in quel modo?
Come andare avanti? Come pensare anche solo di riuscire a fare l’amore senza il pensiero di quello?
- Cazzo – mugolò il moro, prima di stringersi al piumone e affondare d’istinto il viso nel cuscino.
Non si rese conto dell’arrivo di Anis sino al momento in cui sentì una mano infilarsi tra il cuscino e la sua guancia per fargli alzare il viso.
- Soffochi se continui così, Bill – iniziò, prima di tirarselo contro.
Esattamente come ogni volta in cui litigavano e lui faceva il muso.
- E non è assolutamente il caso di piagnucolare così, forza – continuò strofinandogli ruvidamente le spalle.
Lo scostò leggermente e si alzò, prima di porgergli la mano.
- Se vuoi la camomilla tirati almeno su – borbottò, prima di porgergli una tazza fumante.
- Grazie – pigolò il moro, prima di soffiare sulla tazza e berne un piccolo sorso.
- Vedrai che andrà meglio – mormorò Anis prima di sedersi tra le coperte – Ti sei solo stancato troppo, tutto qui – concluse con un sorriso incoraggiante.
Quel coraggio però non gli sarebbe mai bastato. Mai.


La mattina seguente Bill si svegliò da solo, avvertendo nettamente il freddo che caratterizzava l’altra parte del letto.
Si recò svogliatamente in cucina, trovando il solito bigliettino del buongiorno sul tavolo della cucina, assieme ad un piatto di dolci.
Sarebbe rimasto da solo sino a metà pomeriggio, tanto valeva trovare qualcosa da fare.
Frau Braun – la signora che a giorni alterni si occupava di rendere l’appartamento quantomeno abitabile – sarebbe arrivata verso le undici, quindi tanto valeva darsi una sistemata sommaria ed uscire.
Dopo essersi vestito e preparato – quindi –afferrò la borsa e si chiuse la porta alle spalle. 
Chissà se Tom aveva impegni…
Al secondo tentativo di chiamata gli rispose la voce registrata della segreteria.
- Scheiße – mugolò, prima di percorrere il viale alberato e dirigersi verso il parco.
- A saperlo avrei preso il cucciolo – mormorò sedendosi su una panchina, riferendosi evidentemente al proprio cagnolino.
Dopo un paio di minuti la sua attenzione fu attirata da un’insegna bianca, con una scritta ed una grossa croce sopra: Apotheke.
Si alzò ancor prima di esser riuscito a formulare un pensiero coerente.
Entrò nella farmacia e si diresse verso il banchista.
- Salve – mormorò – Dovrei fare delle analisi.[2] Che giorno occorre venire? -.
L’uomo sorrise.
- Domani – rispose – ma occorre lasciare un nominativo. Lei è Herr… - si fermò in attesa di una risposta.
- Herr Kaulitz – rispose con voce incolore, prima di voltarsi ed uscire – Buon lavoro, e a domani -.
Sospirando riprese a percorrere il viale.
Prima di produrre una qualsiasi confessione – nei fatti – avrebbe dovuto cercare una qualche risposta.



[1]: trad: Come sempre.
[2]: una precisazione importante: francamente questo aspetto della vita in quel di Germania mi sfugge, ergo mi sono attenuta a quella che è la realtà che meglio conosco: la mia. Spesso in alcune grandi città – Torino, ad esempio – è possibile fare gli esami del sangue anche in farmacia. Non so se questo in Germania sia possibile, lo appurerò a breve e modificherò la nota.
Intermezzo Secondo – Parte Quinta
Allein

Kein Mond für uns
Schwarz ist die Nacht
Und du träumst neben mir
Ich bekomm kein Auge zu
Ich hab solche Angst 
Dich sonst zu vermissen

[Wer bin ich – Lafee]


Bill detestava rimanere sveglio dopo aver fatto l’amore, odiava quel silenzio che lasciandoti solo con i tuoi pensieri ti induce innanzitutto a riflettere.
Anis sonnecchiava al suo fianco, le lenzuola ne drappeggiavano i fianchi ed arrivavano a coprirlo sino all’addome. Allungò una mano e gli sfiorò delicatamente uno zigomo, prima di appoggiarsi meglio con la schiena alla testiera del letto e sospirare.
Di lì a poche ore avrebbe fatto quelle dannate analisi. Pochi valori su un foglio a decidere della sua vita, delle sue abitudini, del suo amore.
Era persino buffo pensare che a lui la matematica era sempre andata poco a genio. La vendetta della vecchia Frau Hauer senza dubbio…
Chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi e prendere sonno.
Ogni volta che chiudeva le palpebre, però, frammenti di quella notte gli apparivano come istantanee di un film girato da un pazzo.
Quel pazzo, quel piccolo stupido supponente era stato lui. Fertig.
- Scheiße – mugolò, prima di scivolare tra le lenzuola e raggomitolarsi di fianco ad Anis, la testa appoggiata alla spalla del tunisino.
Chiuse gli occhi, riuscendo finalmente a prendere sonno.
Quello che vide, però, si rivelò peggiore persino di una nottata insonne in preda all’ansia.

C’era quel locale, la musica assordante di Beatzarre, un brutto presentimento ad attanagliargli il petto. Le luci psichedeliche lo investivano a ripetizione, costringendolo a chiudere gli occhi nel vano tentativo di sottrarsi a quella tortura. Seduto a lato del bancone stava quello lì, di fianco a lui Anis.
- Anis – gli venne spontaneo mormorare, prima di mettersi una mano davanti al volto.
Era finita.
Il tunisino non parve vederlo, né sentirlo.
Immobile come una statua greca sembrava del tutto insensibile alla sua presenza.
Gli andò in contro, tentò di attirarne l’attenzione, arrivò a scrollarlo malamente ma nulla. Ogni tentativo sembrava vano.
- L’hai tradito e l’hai perso – una voce gli s’insinuò nelle orecchie.
Era quell’altro.
- Digli addio… -.
Ancora lui.
Tutto ciò che riuscì a fare fu iniziare a balbettare, spaventato da un’ipotesi mai contemplata a pieno.
- No… l-lui n-no -…



A svegliarlo fu la presa di Anis attorno ai suoi fianchi, le sue labbra contro l’orecchio.
- Schatz – lo sentì mormorare, quasi rammaricato – Non riesci proprio a dormire un notte come si deve? -.
Il moro si voltò, con il fiato corto e gli occhi ancora lucidi.
Anis era lì, davanti a lui, lo stava stringendo. C’era.
- Va tutto bene – mormorò, sperando di risultare quantomeno credibile – Solo un brutto sogno – concluse.
L’altro sbuffò un sorriso, prima di sfiorargli la fronte con le labbra.
- Sei proprio un bambino -.
Non c’era la benché minima voglia di prenderlo in giro, in quella frase. Semplicemente ai fatti si era affiancata una constatazione dai risvolti persino consolanti.
Era il suo bambino, il suo cucciolo. Klar.
Ma quanto sarebbe durato?


Il brutto delle abitudini è il fatto che chiunque ti conosca un briciolo tenda ad imprimersele nella mente, notando quindi ogni singolo cambiamento.
- Non fai colazione? – gli chiese Anis, intento ad imburrare una fetta biscottata.
Negò, sperando di riuscire quantomeno ad intavolare una balla credibile.
- No, dopo mi vedo con Tomi. Facciamo colazione assieme – mormorò, mentre si alzava a prendere la caffettiera.
Gliela porse.
- Tieni. Io approfitto ancora un attimo del bagno – mormorò, prima di dargli le spalle.
Lo specchio gli restituiva l’immagine di un uomo stanco, un qualcuno che per primo faticava a riconoscere. 
Non era più se stesso, tantomeno riusciva a scorgere un qualcosa che gli ricordasse Tom.
Cercando di scacciare quel pensiero molesto – quell’eresia! – prese il fondotinta ed iniziò a coprire le occhiaie, per poi passare al resto del viso.
Anche non volendo esagerare con il trucco, era almeno il caso di cancellare le tracce di una notte insonne. Solo quelle, però.
Quando le mani di Anis arrivarono a sfiorare i suoi fianchi sussultò.
- Mi hai spaventato – mormorò, prima di sciacquarsi le mani per togliere i residui della crema dalle punte delle dita.
L’uomo si fermò ad osservarlo, gli occhi persino più scuri del normale.
- Eri sovrappensiero – si limitò a constatare, prima di appoggiarsi alla lavatrice e continuare ad osservarlo.
A studiarlo, esaminarlo, cercare di capirlo.
- Effettivamente è da un po’ che sembri strano – constatò – Da quando sei tornato da Leipzig -.
Bingo.
Il moro deglutì, prima di asciugarsi le mani rapidamente e spruzzarsi un po’ di profumo.
- Sono andate male le trattative con quella casa discografica? – continuò il tunisino.
L’altro negò con il capo.
- Sembra sia andato tutto bene - mormorò poi, prima di uscire dalla stanza.
Di scappare via.
- Cazzo Bill! – la voce di Anis lo fece sussultare e voltare di scatto.
Non si ricordava di averlo mai visto così incollerito, nemmeno quando litigavano.
Perché quelle litigate, in fin dei conti, non erano nemmeno importanti.
Deglutì, prima di avvicinarsi e sfiorargli la guancia con un bacio.
L’altro, inaspettatamente, reagì stornando il viso.
Non era mai successo.
- Ma… - le parole gli morirono in gola, di fronte a quegli occhi che sembravano essersi fatti ancora più scuri.
Il tunisino gli strinse un polso, come a voler sottolineare quel legame speciale che passava anche per il possesso.
- Cosa sta succedendo? -.
Glielo chiese così, senza filtri inutili e scomodi, senza dargli la possibilità di costruirsi un alibi, mettendolo con le spalle al muro e obbligandolo ad una risposta che non fosse un mugugno o un monosillabo stentato.
- Vuoi dirmi che diamine ti passa per la testa? -.
Continuava ad incalzarlo, Anis, con la rabbia sorda del cane che fiuta la preda.
Continuava però anche a dargli una possibilità, una via d’uscita, una maniera di salvarsi. O fuggire di nuovo.
- Sono solo stanco – mormorò, prima di tentare nuovamente di avvicinarlo.
L’altro non si sottrasse, ma non rispose nemmeno ad una richiesta che era innanzitutto un bisogno.
Stringimi, sentimi, credimi, fidati di me. Non lasciarmi, quello mai.
- Sai che non riesco a dormire bene – continuò poi Bill, stringendogli una mano – Ho un po’ di cose per la testa… lavoro essenzialmente – mormorò subito dopo, come a voler giustificare un cruccio che non fosse stato condiviso a suo tempo.
- Ma se hai appena detto che… - il tunisino tentò di intervenire, ma il moro lo bloccò subito.
- Non esistono solo quei ragazzini, ci sono millemila cosa da vedere, considerare, demo da ascoltare… stiamo anche preparando un evento… - concluse, prima di abbozzare un sorriso – Prometto che entro fine settimana mi riprendo. E ora me lo merito un bacio o devo chiedere a Luise di far intercedere Allah? -.
Anis sbuffò un sorriso, prima di stringerlo all’altezza dei fianchi e sfiorarne le labbra.
- Almeno per il weekend posso pretenderti tutto per me, oppure devi anche salvare il mondo? – lo prese dolcemente in giro.
Bill passò le braccia attorno alle spalle dell’amante, prima di esigere un altro bacio.
- Diciamo che il mondo per due giorni dovrà fare a meno di me – gli soffiò poi sulle labbra, prima di sciogliere la stretta – Ora è meglio che vada – si congedò brevemente - Liebe dich - mormorò poi, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Sospirò, chiudendosi in ascensore e tirando d’istinto un pugno poco sotto la pulsantiera.
Stava andando male.
Sarebbe andato sempre peggio.
- Scheiße – mugolò.
Merda, come quella ormai gli arrivava sin ai gomiti.




 

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Capitolo 5
*** Atto terzo: Liebe ist ***


Atto terzo
Liebe ist

Du und ich wir sind wie kinder
Die sich lieben wie sie sind
Die nicht lügen und nicht fragen
Wenn es nichts zu fragen gibt
Wir sind zwei und wir sind eins
Und wir sehn die dinge klar
Und wenn einer von uns gehen muss
Sind wir trotzdem immer da
[Liebe ist – Nena]



Markus Elyas era un bambino – un ometto, pardon! – di ben sei anni.
Come tutti i giovedì era in ospedale perché aveva accompagnato la mamma ed il suo fratellino Michael.
In realtà, Michael non era proprio un fratello fratello. La sua mamma l’aveva scelto – i grandi usano una parola difficile, ma è la stessa cosa – con il papà in una casa dove c’erano tanti bambini. Lui invece era proprio figlio loro, figlio figlio insomma!
Il suo fratellino aveva tre anni e mezzo, e aveva iniziato ad andare al Kindergarten ma non gli era capitata Frau Moehler, che era proprio brava ed era stata la sua maestra. Lui aveva Frau Keller, che era antipatica e non gli dava mai le caramelle perché diceva che facevano male ai denti e i bravi bambini non le mangiavano.
La mamma e Michael erano appena entrati nella stanza del dottore, mentre lui era rimasto sulla panchina con il suo album e i colori che gli aveva regalato lo zio Klaus. Erano nuovi nuovi ed il giallo era proprio del colore del sole! Stava decidendo se colorare un fiore di rosso o di blu quando vide il signore strano.
La mamma diceva che non era bello additare la gente o dargli dei nomi ma era strano sul serio, quel signore!
Era sempre vestito di nero, e anche gli occhi erano pitturati, un po’ come Mutti quando usciva con Vatti e li lasciava dalla nonna. 
Il signore strano stava uscendo da un'altra stanza dell’ospedale, con una cartellina rosso brillante. Magari se avesse fatto il bravo avrebbero regalato una cartellina bella come quella anche a lui, per i disegni!
Riprese la matita in mano, deciso a fare un disegno di quel signore, quando la gomma – quella gialla a forma di limone – gli cascò in terra, andando a finire proprio vicino al piede dell’altro.
- Non schiacciarla! – mormorò il bambino, con voce stridula.
L’uomo si volse verso di lui. Quel giorno non aveva gli occhi pitturati!
Gli sorrise, proprio come facevano le amiche di Mutti.
Magari era persino simpatico.
- Tieni – si era chinato a raccogliere la sua gommina e gliela stava dando.
- Grazie – pigolò, prima di riprendere la sua gommina e tornare sulla panchina.
Ecco, era successo un pasticcio! La panchina era troppo alta e non ci arrivava. Prima lo aveva aiutato Mutti! 
Magari…
Si volse, il signore strano era ancora lì.
- Mi aiuti? – gli chiese, indicando la panchina.
L’altro annuì, continuando a sorridere.
- Aspetti la mamma? – gli chiese poi, accucciandoglisi davanti.
Markus Elyas annuì.
- E Michael – concluse, con piglio serio – Il mio fratellino piccolo -.
Il signore strano continuava a sorridere.
- Sei proprio bravo, a rimanere qui ad aspettare! – constatò con un sorriso, prima di cercare qualcosa in una taschina piccolissima di quella giacca lucida nera.
Gli porse una caramella dalla carta arancione, prima di sorridergli e strizzare un occhio.
- Tieni -.
Il bimbo strinse il dolcetto nella mano, prima di guardarlo con tanto d’occhi.
- Ma la mamma dice che fa male ai dentini, e il signore col trapano è cattivo! – squittì allarmato.
L’altro non smise di sorridere, piuttosto gli si avvicinò come fa il lupo nella favola di Rotkäpchen. [1]
Però non faceva paura.
- Ma se vuoi non lo diciamo a nessuno e nemmeno al signore con il trapano – concluse Bill, sfiorandogli i capelli scuri.
Markus Elyas prese la caramella, prima di sorridere soddisfatto.
- Un segreto! -.
L’altro annuì.
Genau [2] – poi scorse i fogli del bimbo, pieni di scarabocchi colorati – Cosa stavi disegnando? – chiese incuriosito.
L’altro si limitò a ruminare la propria caramella, senza degnarlo di risposta.
Proprio in quel momento una signora uscì dallo studio del dottor Klaus.
- Markus – chiamò allarmata – Non starai mica disturbando? – gli chiese corrucciata.
Bill si affrettò a negare.
- Nessun disturbo – sorrise conciliante – mi stava mostrando i suoi disegni – concluse indicando i fogli con un cenno del capo.
Il bambino, intanto, si era alzato di tutta fretta ed aveva raggiunto il fratellino, abbandonando definitivamente il proprio materiale da disegno sulla panchina, per prenderlo per mano e condurlo davanti al moro.
- Lui è Michael – squittì, con una dose d’orgoglio tanto puro da intenerire l’altro ben oltre il consentito.
La madre dei bambini, intanto, diede uno sguardo all’orologio.
- Dobbiamo andare, bambini. Vatti ci aspetta a casa -.
Si affrettò a raccogliere fogli e matite, per poi infilarli velocemente in borsa.
- Allora grazie per aver tenuto compagnia a Markus – sorrise poi all’indirizzo di Bill.
- Di nulla – sorrise l’uomo, prima di congedarsi ed avviarsi verso i bagni.
Doveva assolutamente fare una cosa…
Si chiuse in un cubicolo, prima di aprire la borsa e comporre un numero che sapeva ormai a memoria.
- Schatz? – Anis rispose subito, la voce preoccupata di chi si aspetta una pessima notizia – Tutto bene? È successo qualcosa? Vuoi che passi a prenderti? -.
Il moro sorrise d’istinto.
- Tutto bene – mormorò con voce soffice – Volevo solo sentirti… - concluse sorridendo.
Dall’altro capo della chiamata, il tunisino sbuffò un sorriso.
- E a che devo l’onore? – chiese, con una punta di ironia – Hai intenzione di dilapidarmi il conto in banca al Ka.De.We, ora? -.
Bill sogghignò.
- No – rispose – ho solo voglia di tornare a casa, abbracciare lo stronzo che amo e fare l’amore sino a domattina. Come la vedi? – chiese poi, appoggiandosi al muro.
Anis sbuffò un sorriso.
Lo sentiva.
- Liebe dich – si congedò poco dopo.
Liebe.
Forse valeva la pena di ripartire da quello.

[1]: si tratta di Cappuccetto rosso.
[2]: trad: Esatto

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Capitolo 6
*** Intermezzo terzo ***


Intermezzo Terzo – Parte Prima
Alles, was durch meine Adern fließt [*]


Etre à la hauteur
De ce qu'on vous demande
Ce que les autres attendent
Et surmonter sa peur
D’être à la hauteur

[Etre à la hauteur – Emmanuel Moire]


Alla fine era uscito poco prima di Anis, imboccando velocemente il controviale e dirigendosi verso il centro città.
Le mani stringevano il volante, mentre con la coda nell’occhio continuava a controllare il tunisino non lo stesse seguendo.
Era stupido, infantile, non aveva nemmeno senso, ma continuava a sentirsi così assurdamente in colpa che l’ipotesi di venire scoperto lo terrorizzava più di quanto non lo terrorizzasse l’idea di cosa sarebbe potuto accadere in concreto
Con un gesto nervoso accese l’autoradio. Il notiziario tentava di informarlo sulle condizioni del traffico, come se non fosse già di per sé evidente quanto poco praticabile fosse la strada.
All’ennesimo semaforo rosso si fermò e ne approfittò per inserire un CD pescato a caso nel vano portaoggetti.
La voce di Anis riempì immediatamente l’abitacolo, mentre quella che al momento sembrava una solenne presa per il culo gli fece arricciare il naso scontento.
Ich bin wie du und du wie ich, 
Es gibt eine hand voll wie wir
Den morgen ist ein neuer tag, 
Hör auf dein herz und versuchs
Aber glaub mir, alles wird gut
 [1]
Parcheggiò poco distante dalla farmacia, prima di inforcare gli occhiali da sole e scendere dal veicolo.
Prese un respiro profondo.
- Forza – si disse – non sei un cagasotto – concluse, prima di stringere le cinghie della propria inseparabile borsa e spingere la porta a vetro.
L’ambiente era ben illuminato, persino fastidioso nel suo essere così immacolato.
Immacolato, mentre lui si sentiva sporco e colpevole e sbagliato.
Sfilò gli occhiali da sole e si diresse a passo incerto verso il banchista.
- Io dovrei – mormorò, prendendo fiato subito dopo – Dovrei fare le analisi del sangue. Ieri un vostro… -.
Ad interrompere quella che sarebbe stata una conversazione a dir poco pietosa fu proprio il banchista del giorno precedente.
- Ben tornato! – lo accolse con un sorriso, prima di indicargli una saletta sul retro del locale – Prego, un paio di persone e poi è il suo turno – concluse, prima di prendere del cotone e tornare da dov’era venuto.
Bill lo seguì, cercando di scacciare dalla mente il pensiero di alzare i tacchi ed andarsene.
Non era un coniglio.
Il Kaninchen con il quale lo chiamavano in quel di Löitsche potevano tranquillamente metterselo in culo.
Lui, a prendersela in quel posto aveva provveduto da solo.
Si sedette su una di quelle scomodissime panchine che fanno vedere nei film, una di quelle in plastica bianca sulla quale il padre di turno aspetta iperventilando la notizia della nascita dell’ennesimo figlio.
La sua attesa, in compenso, assomigliava a quella di Marie Antoinette il giorno dell’esecuzione.
- Mi scusi – la voce del farmacista lo fece sobbalzare – Tocca a lei – gli indicò una sedia con un cenno del capo.
Si alzò e – dopo aver appoggiato a terra la propria borsa – si sfilò la giacca e slacciò la felpa.
Si sedette porgendo l’incavo del braccio, in modo che l’altro potesse fare il proprio mestiere nel modo più rapido e indolore possibile.
Fremette leggermente al contatto con il freddo del laccio emostatico, prima di soffocare in gola una sommessa bestemmia all’idea del livido che sarebbe affiorato di lì a poco.
- Se le crea fastidio la vista del sangue si volti pure – mormorò l’altro con voce incolore, come se fosse normale buono e giusto.
Come se voltarsi per non guardare la realtà negli occhi fosse una soluzione optabile.
Strinse le labbra prima di chiudere semplicemente gli occhi ed attendere la piccola scossa dell’ago che si infilava nella carne.
La verità – spesso e volentieri – passava anche attraverso il dolore.


Dieci minuti dopo camminava inquieto lungo il piccolo viale, prima di decidersi a trovare una panetteria e mangiare qualcosa.
Svenire per strada era l’ultima delle cose che aveva in mente in quel momento.
- Bill – una voce lo fece girare di scatto.
Era Sercan.
Cazzo.
Sorrise, cercando di non far trasparire il reale nervosismo che lo animava.
- Ciao – lo salutò, raggiungendolo e stringendogli un braccio – Come mai da queste parti? -.
L’altro sorrise, scrollando le spalle.
- Avevo voglia di fare due passi – lo squadrò con fare stranito – E tu? Non è distante da dove vivi? – indagò poi.
- Dovevo vedermi con Tom ma abbiamo dovuto posticipare – bluffò, sperando di essere credibile – Allora meditavo di fare colazione. Mi tieni compagnia? – chiese poi con un sorriso.
- Perché no? -.
Alla fine optarono per un’altra panetteria, al lato opposto della strada, che serviva anche il caffè.
- Come procede il lavoro? – chiese quindi Bill, cercando di trovare un argomento di conversazione che distogliesse l’attenzione dell’altro dalla sua effettiva presenza.
Sercan scrollò le spalle.
- C’è stato un piccolo calo nelle vendite, ma nulla di preoccupante – sorrise - È il mercato, dopotutto fa parte delle regole del gioco – concluse con aria comicamente saputa.
Il moro annuì sorridendo.
- Anche le nostre vendite hanno riportato qualche leggera flessione – constatò, prima di sorridere alla cameriera che era arrivata per prendere le ordinazioni.
Ordinarono, riprendendo poi a chiacchierare.
- A breve è il compleanno di Mama - mormorò Sercan ad un certo punto – ma non ho la benché minima idea di cosa regalarle – bofonchiò alla fine, prima di guardarlo con aria speranzosa – Idee? -.
Bill, un dito sotto il mento, socchiuse leggermente gli occhi.
- So che Anis voleva prenderle un tappeto da preghiera – mormorò – Potresti vedere se trovi qualche edizione un po’ particolare del Corano – concluse con una scrollata di spalle.
L’altro si illuminò.
- Magari al Ka.De.We [2] hanno qualcosa – sorrise – Grazie Bill! – concluse, stringendogli il braccio all’altezza del polso.
Lo avesse stretto poco più in su si sarebbe reso conto che qualcosa palesemente non andasse per il verso giusto.
Finirono di fare colazione poco dopo, lasciandosi con la promessa di una cena tutti insieme, come se davvero fosse plausibile per loro vivere una quotidianità così borghese e familiare.
Bill si decise a raggiungere gli studi, dove Tom lo aspettava con David e tutto il resto della produzione per definire la scaletta di un prossimo evento del quale – però – non si sapeva ancora molto.
Mise in moto la macchina, prima di avvertire la vibrazione del proprio telefono annunciargli l’arrivo di un messaggio. Azionò le quattro frecce, prima di mettersi a leggere.
Era Anis.
Pläne für Samstag und Sonntag: Termalbad. Und du kannst nicht beanstanden, klar? Liebe dich. [3]
Strinse le mani attorno al volante.
Lunedì sarebbe andato a ritirare gli esiti delle analisi. Avrebbe scoperto se la spada che aveva sulla testa gli avrebbe mozzato il capo o sarebbe caduta a lato, inerme.
Tanto valeva godersi il week end, pensò con un sospiro.
Prese il telefono e rispose al messaggio.
Ich habe keinen Recht zu beanstanden, das ist klar. Danke, Habibi. Liebe dich so sehr… [4]
Mise in moto, cercando di scacciare con un gesto nervoso una lacrima che gli solleticava lo zigomo. 
Al primo semaforo, nemmeno a dirlo, aveva afferrato il primo kleenex gli era capitato a portata di mano.


La riunione, alla fine, era durata un paio d’ore e si era conclusa con un pranzo alla mensa della Universal.
- Giusto per respirare un po’ di aria giovane – aveva mormorato Ebel, indicando due stagisti con un cenno del capo.
Non era nemmeno riuscito a sorridere. A quel punto, tutto quello che voleva fare era andarsene a casa e dormire sino a Sabato mattina. Ed era solo martedì, dannazione!
Tom parve fiutarne il pessimo umore, quindi lo invitò con un cenno del capo ad uscire sul terrazzo a fumare.
Una resa dei conti che seguiva le regole che governavano il rapporto incomprensibile che li legava.
Si appoggiarono alla balaustra, prima di accendere le rispettive sigarette.
- Tutto bene con Anis? – chiese quindi Tom, voltandosi e strofinandogli la schiena con affetto.
L’altro annuì, prima di tirare una boccata.
Il tempo necessario a imbastire l’ennesima recita.
- Certo, perché? – chiese poi, inforcando gli occhiali da sole.
Il maggiore scrollò le spalle, prima di stringergli la mano e deporvi un bacio sul dorso.
- Sembri tanto stanco, Billie – mormorò – Però non riesco a capire se ci sia o meno qualcosa che non va -.
Sì, Tomi, io”.
Certe cose, però, non potevi dirle nemmeno all’amore più grande del mondo.
- Sono solo stanco, non dormo molto bene – mormorò quindi in risposta – Recupero nel week end, tranquillo – sorrise poi, prima di sfiorargli la guancia con un bacio.
Si ridiresse verso la porta.
- Andiamo a mangiare? -.
Rientrarono proprio nel momento in cui Benjamin avrebbe ricevuto una telefonata importantissima. 
La stessa che avrebbe capovolto tutto. Il calcio di rigore che avrebbe rovesciato il risultato della partita.
In che direzione, però, era ancora da stabilire.


[*]: il giorno in cui mi deciderò a scrivere titoli umani sarà sempre troppo tardi. Comunque sia, non si riferisce solo al dialogo con Tom, quanto innanzitutto alla prima parte del capitolo.
[1]: I versi sono tratti dalla bellissima Alles wird gut
[2]: Piccola nota informativa ;-) Il Ka.De.We non ospita solo boutiques. Il quinto piano – che, inciso, è abnorme – è interamente dedicato a Libri, CD, DVD e videogiochi per consolle. Ed i titoli all’interno dei quali le varie collane spaziano sono infiniti. Poi c’è quello dedicato all’arredo casa, quello dedicato alle cibarie e via discorrendo. 
[3]: {trad} Programmi per Sabato e Domenica: Terme. E non puoi protestare, intesi? Ti amo.
[4]: {trad} Non ho ragioni per protestare, questo è certo. Grazie, Habibi. Ti amo così tanto…

Intermezzo Terzo – Parte Seconda
Nah
 
Every direction leads me away
Pray for Tomorrow but for today 
[…]
Echoes and silence, patience and grace
All of these moments I’ll never replace
No fear of my heart, absence of faith
All I want is to be home

[Home – Foo Fighters]

 

Alla fine, Anis aveva scelto le terme di Bad Neuenahr-Ahrweiler.
Si trattava di un complesso termale rinnovato da poco, a più di 600 chilometri da Berlino. [1]
L’esatto corrispettivo di un viaggio infernale, insomma.
Il gioco, però, sembrava valere la candela.
Avevano passato due intere giornate all’insegna del relax, tra piscine, idromassaggi, saune, il tutto immersi in un paesaggio quasi idilliaco.
- Grazie grazie grazie – pigolava Bill ogni qual volta si dedicavano ad un trattamento diverso.
Il tunisino sorrideva di rimando, prima di scompigliargli i capelli e sfiorargli una guancia.
Al ritorno, complice una A2 decisamente intasata dal traffico, i due avevano optato per una pausa in un’area di sosta sulla strada.
- Che bello camminare – stava mugolando il moro, intento a misurare a grandi passi il parcheggio.
Anis lo richiamò con un sospiro.
- Forza – borbottò il tunisino – Prima partiamo prima possiamo arrivare a casa – lo squadrò di sottecchi – Non vuoi tornare dalla tua bestia pelosa? – concluse con un ghigno.
Bill gli mostrò la lingua, dove fino a poco tempo prima brillava quel chiodino sfacciato che aveva il potere di mandarlo in tilt.
Risalirono in macchina, prima di ripartire alla volta di Berlino.
Il resto del viaggio fu discretamente silenzioso, interrotto solo dal ritmico russare di Bill che si era addormentato in meno di dieci minuti.
- Dormi bene, Schatz – aveva mormorato Anis, prima di sorpassare l’ennesimo tir e svoltare.


- Sveglia, siamo arrivati… -.
Fu la voce del compagno a far svegliare definitivamente Bill, che si stropicciò stancamente gli occhi prima di decidersi a scendere dalla macchina.
- Siamo a casa? – mormorò stupidamente, prima di aggrapparsi al braccio del tunisino e pretendere un bacio.
L’altro gli soffiò un sorriso sulle labbra, prima di carezzargli gentilmente i capelli ed esortarlo ad uscire.
- Vai ad aprire la porta, Prinzesschen, io intanto prendo i bagagli -.
Il moro annuì, prima di dirigersi velocemente verso l’ingresso del palazzo e richiamare l’ascensore, prima di recuperare la posta.
Aprì la porta dell’appartamento, venendo subito investito da una piccola furia a quattro zampe.
- Cucciolo – pigolò, prima di posare borsa e corrispondenza e dedicarsi al cagnolino.
Quando Anis entrò in casa – manco a dirlo – era ancora seduto sul tappeto a trastullare la bestiola.
- Mah – lo sentì borbottare, mentre probabilmente posava la valigia in camera da letto.
Si rialzò in piedi e lo seguì, con il cucciolo ancora in braccio.
- Cosa? – chiese, inclinando la testa e arricciando le labbra.
L’altro gli sorrise sghembo.
- Nemmeno una madre con un figlio – sogghignò, prima di lanciargli una maglietta sporca e ridacchiare sentendolo borbottare contrariato.
Dopo una decina di minuti abbondante, Bill rimise a terra la bestiola, decidendo potesse concedersi – e concedergli, klar - una passeggiata vicino a casa.
Senza starci troppo a pensare afferrò le chiavi di casa, il guinzaglio ed il giubbino.
- Vado a fare due passi con il cucciolo – sorrise, prima di sfiorare la guancia del tunisino con un bacio.
- Non metterci troppo, Schatz – gli sussurrò l’altro all’orecchio prima di passargli una mano tra le ciocche corvine – Fuori fa freddo, rischi l’ennesima influenza -.
Istintivamente il moro strinse le cocche della sciarpa, cercando di coprire meglio la gola. 
- Faccio presto – mormorò subito dopo, prima di uscire dall’appartamento.


L’aria di Berlino era sufficientemente fresca da farti desiderare di poterti rinchiudere in casa per almeno un secolo. La soddisfazione della sua bella bestiola ruspante, però, era sufficiente a farlo desistere da una fuga quantomeno provvidenziale a salvare la propria salute.
Il cellulare prese a suonare, facendolo sussultare comicamente.
Lo sfilò dalla tasca del giaccone.
- Hallo? – mormorò, prima di fischiare in direzione del cane affinché non si allontanasse.
- Billie – la voce di Tom lo fece sorridere istintivamente – Siete ancora in viaggio? -.
- Siamo appena arrivati – mormorò, prima di avvicinarsi ad una panchina ed appoggiarvisi – Sono fuori con il cucciolo – concluse soffice.
Passarono una buona mezz’ora a chiacchierare, meditando di incontrarsi il giorno seguente.
Appena chiuse la conversazione, il telefono riprese a squillare.
- Ma… -.
La voce di Anis ebbe quasi il potere di spaventarlo.
- Dove cazzo sei? –.
Si alzò di scatto, disorientato di fronte a tanta rabbia.
- Cosa è successo? – mormorò, prima di richiamare la bestiola.
Cercava risposte invece di fornirne. A ben vedere, anche questo atteggiamento avrebbe contribuito a rovinarlo.
- Dovevi essere a casa una vita fa – continuò lapidario il tunisino, evidentemente preoccupato – Si può sapere che cazzo stai combinando? -.
- Arrivo subito – bisbigliò solo, prima di riagganciare il cucciolo al guinzaglio e ridirigersi verso l’appartamento di buona lena.
Sorrise, pensando che anche quello faceva parte del loro rapporto. Quella contorta forma di possesso e voglia che spesso si traduceva in reazioni inconsuete ma che non lo aveva mai abbandonato. Sino a quel momento.
Rientrò velocemente nell’appartamento solo per trovarsi davanti il soggiorno vuoto, una sedia rovesciata e l’inconfondibile rumore della jacuzzi in sottofondo. 
Con un sospiro slegò il cane, si diresse verso la cucina e gli riempì la ciotola di croccantini.
- Uno l’ho sistemato – mormorò, prima di dirigersi verso la porta del bagno.
- Posso entrare? – mormorò, prima di abbassare la maniglia.
Il tunisino lo accolse con un espressione indecifrabile, che sembrava condensare sarcasmo e delusione, rabbia e paura.
- Mi pare tu sia già entrato – constatò, prima di finire di spogliarsi e voltarsi verso il cestone dei panni sporchi per infilarvi i vestiti.
Rimase sulla porta, mordicchiandosi un labbro e squadrandolo preoccupato.
- Sei arrabbiato? – gli uscì prima che se ne rendesse conto.
Razionalmente, sapeva benissimo Anis non fosse arrabbiato con lui, emotivamente – però – non riusciva a fare a meno di percepire il distacco, di sentire il freddo gelargli le ossa.
L’uomo si voltò, prima di prendersi il lusso di squadrarlo da capo a piedi.
Di farlo sentire sotto esame.
- Che ti è preso, che sei sparito per mezz’ora quando avevi detto che saresti tornato subito? – sbottò poi, incrociando le braccia al petto.
Bill si morse un labbro.
- Ero al telefono con Tomi – mormorò vergognoso, quasi come un bambino di fronte alla madre – E ho perso la cognizione del tempo – concluse, prima di avvicinarglisi e sfiorargli una spalla con un bacio.
L’altro gli passò una mano tra i capelli, prima di baciargli la curva del naso.
- Mi hai fatto preoccupare – sospirò – A morte -.
Il moro annuì, abbassando d’istinto lo sguardo.
Anche sorvolando sulla questione, si sentiva in colpa comunque.
Il cane e Tom, però, non c’entravano.
Era colpa sua. Solo sua.

Anis gli scompigliò i capelli.
- Forza, entra in acqua anche tu – gli sorrise, prima di lasciarlo ed immergersi – è caldissima -.
Si spogliò velocemente, lasciando i vestiti a terra e infilandosi subito nella vasca.
Gli si avvicinò, prima di stringerlo alla vita.
- Pace? – mormorò, cercando di nascondere un paio di lacrime collose che gli stavano scendendo lungo le guance.
L’altro sbuffò un sorriso, prima di afferrarlo per i fianchi e premerselo addosso.
Rivendicava l’eccezionalità del loro rapporto anche facendoglielo sentire.
- Pace – sospirò, prima di carezzargli una gota – E non frignare – concluse ruvido.
L’altro annuì freneticamente, prima di arrivare vicino alle labbra e baciarlo.
Sentirne il gusto sulle labbra per scacciare l’amaro della vita.


Due ore dopo erano accoccolati sul divano, intenti a bisticciare giocosamente di fronte alla TV.
- Ma l’abbiamo già visto! – stava protestando Bill, cercando di impadronirsi del telecomando.
L’altro glielo allontanò per l’ennesima volta, prima di cedere e passarglielo, non prima di aver preteso un bacio.
- Ah – lo informò d’un tratto Anis – ti è arrivata una lettera dalla farmacia – continuò dubbioso – Chissà… -.
Bill lo bloccò prima che potesse continuare.
- È per la compagna di Tomi – rispose subito, prima di alzarsi – Faccio già che metterlo in borsa, così domani glielo sporgo – concluse, dirigendosi velocemente verso la camera da letto per nascondere quella dannata busta.
Sapeva benissimo di cosa si trattasse.
Poteva sperare solo Anis l’avesse bevuta.
Gli avesse fornito l’occasione per procrastinare ancora un poco.
Pochissimo, giusto il tempo di raggranellare ancora qualche grammo di felicità.



[1]: Le terme di Bad Neuenahr-Ahrweiler si trovano a 627 km da Berlino (se si opta per immettersi sull’A2. Sarebbero 653 si decidesse di immettersi sull’ A9 e poi deviare sull’A4), meno di sei ore di macchina. Voleste dare un occhio al sito del complesso, vi lascio il LINK: http://www.ahr-resort.de/

 
Intermezzo Terzo – Parte Terza 
Definitely Maybe

Pretending 
Someone else can come 
And save me from myself 
I can't be who you are

[Leave out all the rest – Linkin Park]



Ci sono momenti, nella vita di ogni individuo, in cui viene spontaneo guardarsi indietro e mettere in fila ogni azione commessa, ogni amante fidanzato amico, tirare le somme di un’intera esistenza.
Il fatto Bill Kaulitz stesse tirando le somme del proprio personalissimo rendiconto a nemmeno trenta anni, però, aiutava decisamente a ridimensionare le cose, anche in virtù di un senso del ridicolo non del tutto estinto.
Davanti a sé – nemmeno a dirlo – la porta in legno chiaro dello studio del medico.
L’idea di bussare e farsi accogliere dalla segretaria, però, non lo sfiorava proprio. Avrebbe preferito fare marcia indietro, tornare a casa, mettersi sul divano e ingozzarsi di gelato. Tornare da Anis ed aggrapparvisi, come se quella fosse l’unica soluzione ad un problema decisamente spinoso.
In quella situazione, però, parlare di problemi spinosi era persino un po’ ridicolo.
Uno spruzzo di commedia in una tragedia annunciata, una commistione di generi che lo avrebbe portato alla rovina.
Scosse il capo, prima di prendere un respiro e bussare.
La segretaria aprì la porta poco dopo, sorridendogli.
- Ben arrivato, Herr Kaulitz – mormorò, prima di farsi da parte per farlo entrare.
Entrò e si diresse verso la piccola sala d’aspetto, stranamente vuota.
Diede un’occhiata distratta all’orologio: erano le tre del pomeriggio. 
Strano orario per andare dal medico, in effetti.
Si diede mentalmente dello stupido. Cosa avrebbe detto?! Come aveva anche solo pensato di poter affrontare una situazione del genere?!
Gli veniva persino da piangere, fertig.
Piangere sul latte versato, però, non serviva a nulla.
Il medico – Herr Braun – lo accolse una decina di minuti dopo, invitandolo ad accomodarsi sulla solita poltrona in pelle nera.
- A cosa devo l’onore, Herr Kaulitz? – lo motteggiò con un sorriso, memore della sua proverbiale avversione per il personale medico tutto.
Il moro sospirò, prima di deglutire a vuoto.
- Dovrei chiederle un parere – la voce tentennò sull’ultima parola – riguardo ad alcune analisi -.
L’uomo annuì distrattamente, prima di venire richiamato dalla tensione crescente dell’altro.
- Deve però assicurarmi… – stava continuando Bill, facendo evidentemente fatica a parlare – … deve assicurarmi la massima riservatezza, anche con Anis o mio fratello -.
L’altro si stranì, ma annuì nuovamente.
- Siamo vincolati al segreto professionale, Herr Kaulitz – lo informò, sperando di riuscire a tranquillizzare il paziente in qualche modo.
Bill prese dalla tasca del giubbotto la busta contenente i risultati delle analisi del sangue e gliela porse. In silenzio, senza dire una parola.
Sembrava talmente spossato da non aver più la forza di parlare.
Il medico aprì la busta e ne estrasse due fogli bianchi, zeppi di valori di ogni sorta.
Valori che non capiva.
Non riusciva a comprendere cosa stesse succedendo, aveva tutte le chiavi in mano ma nessuna sembrava aprire la porta che si trovava davanti.
Herr Braun aggrottò le sopracciglia.
- Herr Kaulitz – lo richiamò con tono stranito – Cosa c’è che non va in queste analisi del sangue? – lo squadrò da capo a piedi – Se si escludono le difese immunitarie leggermente più basse della norma, non c’è nulla di fuori dalla norma [1]-.
Bill deglutì, prima sospirare.
- C’è qualcosa che non le torna? – continuò il medico, deciso ad andare in fondo alla situazione.
L’altro annuì freneticamente.
Prese un respiro profondo.
- Quante possibilità ci sono di venir contagiati al virus dell’HIV dopo un solo contatto? – chiese, mordendosi il labbro inferiore.
Il medico strabuzzò gli occhi.
- Contatto? – chiese, cercando di mantenere un tono di voce neutro.
- Un rapporto non protetto – si corresse con un filo di voce.
Herr Braun sospirò, passandosi una mano sulla fronte.
- Le statistiche in certi casi non aiutano, Herr Kaulitz – borbottò – In ogni caso sono possibilità che esistono, e che non vanno sottovalutate –.
Il moro annuì, quasi contrito.
- Ha fatto le analisi del sangue per questo, Herr Kaulitz? – volle poi sapere l’uomo.
Bill annuì, abbassando istintivamente lo sguardo.
- Spesso – iniziò l’uomo – delle semplici analisi del sangue non bastano, ed anche i test specifici non danno risultati certi prima di un determinato lasso di tempo. Quanto tempo è passato dall’esposizione? – chiese poi.
- Dieci giorni – bisbigliò l’altro – All’incirca… -.
Si ritrovava a dover ricordare quando avrebbe preferito rimuovere quella dannatissima giornata dalla propria memoria.
Il dottore annuì, prima di borbottare qualcosa tra sé e sé.
- Ci sarebbe una possibilità – mormorò – ma occorrerebbe far passare ancora almeno una settimana, dieci giorni… -.
Bill annuì.
- Il test del P24 [2] – continuò l’altro – Anche se come per il test specifico un risultato certo si ottiene dopo molto più tempo. In ogni caso è un esame che dovrà rifare da qua a tre mesi, Herr Kaulitz… -.
Annuì nuovamente.
- Può prescrivermelo? -.
Un quarto d’ora dopo, il moro uscì dallo studio, con in borsa la prescrizione per quel dannato esame.
Non avrebbe mai pensato uno stupidissimo foglietto di carta pesasse così tanto. 



Il Ka.De.We. era gremito di giovani donne in cerca di vestiti, accessori e quanto altro.
Si era diretto lì più per istinto che per reale desiderio di perdersi tra vestiti e borse, come a cercare una qualche forma di consolazione nell’abitudine.
Stava esaminando l’ennesimo stand di Gucci, senza nemmeno prestare attenzione a quello che aveva tra le mani, quando il cellulare prese a vibrare.
Lo prese dalla tracolla, prima di deglutire a vuoto.
Era Anis.
- Ciao – mormorò, cercando di mantenere un tono di voce quantomeno neutro – Che fai? – chiese poi.
Magari pilotare la conversazione lontano da sé lo avrebbe salvato in qualche modo.
- Sono a casa – rispose l’altro, come se fosse la cosa più ovvia del mondo – Te l’avevo detto che in studio avremmo finito prima – rimarcò poi, con leggera stizza.
L’altro annuì stupidamente.
- Scusami -.
Il tunisino parve fiutarne l’umore.
- Tutto bene, Schatz? – mormorò infatti, con tono soffuso.
Il moro strizzò gli occhi, come a voler impedire alle lacrime di scendere.
Non chiedermelo. Non chiedermelo perché non ne posso più di imbastire pietose bugie. E allo stesso tempo non ho una verità in tasca da proporti.
- Tutto bene – mormorò – Sono al Ka.De.We. a far due passi –.
Anis sorrise.
Lo sentiva. E faceva dannatamente male.
- Mi devo preoccupare per l’estratto conto della VISA? –.
Non trattarmi così, Anis. Non lo merito. Sono un bugiardo, sono sporco, ho commesso uno sbaglio che non smetterò mai di pagare…
- Ci vediamo stasera a casa – mormorò, prima di chiudere frettolosamente la conversazione e dirigersi a passo svelto verso un camerino.
Chiuse le cortine color panna, buttò a terra la borsa e iniziò a piangere.
Piangere sul serio. I piagnucolii dei momenti no erano proprio tutt’altra cosa.
Non riusciva nemmeno a ritrovarsi nello specchio, la vista completamente appannata dalle lacrime. 
In ogni caso, ciò che avrebbe visto non gli sarebbe piaciuto. Per nulla.
Era ancora in preda ai singhiozzi quando il telefono aveva ripreso a vibrare.
Fai che non sia Anis. Ti prego, fai che non sia lui.
Era Tom.
Il suo gemello, la sua metà, il suo tutto. Un altro povero disgraziato che non meritava assolutamente di essere invischiato in una storia del genere.
Prese fiato un secondo, prima di rispondere.
Con Tomi, in ogni caso, non sarebbe riuscito a mentire.
- Tutto bene, Billie? – come da copione, il gemello si era subito preoccupato.
Deglutì, prima di schiarirsi la voce.
- Scusami – mormorò – Non ho sentito il telefono – concluse, abbassando il tono di voce.
Non era comunque servito a camuffare il proprio stato d’animo al gemello.
- Cosa è successo? Hai litigato con quell’altro? Dove sei? Devo venirti a prendere? -.
Non riuscì a fare a meno di sorridere.
Un sorriso tremulo, appena accennato, probabilmente persino immotivato.
La fiammella di un affetto che poteva ancora qualcosa. 
Forse.
- Sono al Ka.De.We. – mormorò poi, tirando su con il naso – Mi raggiungi? Devo parlarti… -.
Forse non glielo avrebbe detto.
Forse avrebbe mentito ancora.
Forse sarebbe affondato ulteriormente in un pantano che era ad un passo dal soffocarlo veramente.
Forse non ce l’avrebbe mai fatta.
- Ok – la voce del gemello risuonava quanto mai incerta – Ci troviamo alla caffetteria? -.
Mugolò un assenso.
Forse.




[NOTA AL TITOLO]: Per quanto io poco ami titoli che non siano in tedesco, le millemila traduzioni possibili non rendevano quanto l’originale che, peraltro, è anche il titolo di un Album dei furono-Oasis. Tornerò al tedesco a brevissimo, comunque. ;-) 
[1]: Qua mi permetto una parentesi un po’ tecnica, che spero di non allungare troppo. Molto spesso – leggi novanta volte su cento – le semplici analisi del sangue non bastano a confermare una possibilità di contagio. Inoltre occorre considerare il cosiddetto periodo finestra - la cui durata viene stimata dai 22 giorni ai 6 mesi – durante il quale si è stati contagiati, c’è il rischio si possa contagiare qualcun altro ma non è ancora “scattata” la cosiddetta siero conversione, ossia non si è ancora sieropositivi nel senso proprio del termine (leggasi: non si sono ancora formati gli anticorpi specifici anti-HIV). [Fonte: Ministero della Salute]
[2]: Si tratta di un test che ricerca nel sangue tale antigene, il quale è una proteina presente nel core del virus HIV-1, cioè nella sua parte interna; la presenza di questa proteina nel sangue è indice di una elevata replicazione virale ed è rilevabile nel periodo immediatamente successivo al contagio (e nelle fasi avanzate della malattia); questo test può essere effettuato 2-6 settimane dopo il possibile contagio, poiché successivamente potrebbe anche negativizzarsi; mediamente diventa positivo dopo 16 giorni dal contagio. È da precisare però che, anche nel periodo indicato, la positività di questo test è frequente ma non certa, di conseguenza un suo risultato negativo non ha un valore definitivo [Fonte: Wikipedia]

 
Intermezzo Terzo – Parte quarta
Geheimnis

I Wanna Talk Tonight
Until The Mornin' Light
'Bout How You Saved My Life
You And Me See How We Are
You And Me See How We Are 

[Talk tonight – Oasis]

 
Nel momento esatto in cui il proprio cellulare aveva iniziato a squillare, Tom Kaulitz aveva avuto la netta impressione a Bill fosse successo qualcosa. Era estremamente inusuale, infatti, il suo gemello lo chiamasse per qualcosa di diverso da una richiesta d’aiuto; al più gli inviava messaggi, ma non lo chiamava mai.
Non che Bill non gli volesse bene, ma nella sua personale visione del loro rapporto – visione nemmeno troppo lontana dalla realtà – non c’era bisogno di parole superflue, tutto passava per quelle che lui stesso definiva sensazioni di pancia.
In ogni caso, quella volta doveva esserci una mezza colica di mezzo…
Era salito in macchina senza star troppo a pensare al casino di Demo che doveva ancora ascoltare, alla telefonata dalla produzione statunitense che sarebbe arrivata in capo a pochi minuti e all’appuntamento con Jost per definire un paio di dettagli per quanto riguardava l’ennesima band emergente. Aveva messo in moto ed era uscito dal parcheggio, prima di immettersi nel traffico berlinese in direzione del Ka.De.We.
Chissà che diamine poteva essere successo, quella volta! L’ennesimo litigio con l’altro? La vecchietta del piano di sopra che aveva di nuovo sabotato l’ascensore? Il cane che non pisciava a dovere? Cosa?!
Con un sospiro decellerò per fermarsi all’ennesimo semaforo rosso, prima di accendersi velocemente una sigaretta ed aprire il finestrino il minimo indispensabile per non finire affumicato.
Il verde scattò poco dopo, appena in tempo per salvarlo dall’ennesimo lavavetri-zingaro-chissà chi.
Raggiunse il Ka.De.We, prima di parcheggiare sul retro e dirigersi velocemente verso la caffetteria.
Trovò Bill seduto in un angolo della sala. Lo raggiunse, prima di sfilarsi giacca ed occhiali da sole e prendere posto.
- Allora? – borbottò, cercando maldestramente di contenere un’ansia in grado di esplodere da un secondo all’altro.
Il moro si morse un labbro, prima di inclinare la testa e sorridere.
Senza allegria.
- Lo mangiamo un gelato, nel mentre? – mormorò, prima di sorridere al cameriere come ad invitarlo ad avvicinarsi.
Ordinarono brevemente due coppe di gelato, prima di riprendere a scrutarsi.
Sembravano quasi intenti in una strana forma di accerchiamento, si studiavano silenziosamente, cercavano di captare qualcosa che potesse trasparire da un gesto, una parola, un’espressione.
- Bill, cazzo! – sibilò alla fine Tom, arrendendosi a fare il primo passo.
A muovere la prima pedina.
Il moro sospirò, prima di cercare la sua mano e stringerla. Prima di cercare il suo calore e la forza di un legame che era cresciuto con loro.
- Se ti dico una cosa, prometti di non dirla ad Anis? – mormorò, concentrando lo sguardo sulle coppe di gelato in arrivo.
L’altro gli rivolse un’occhiataccia.
- Se hai dilapidato il conto delle vostre carte di credito, sappi che non voglio saperne – borbottò, bloccandosi appena intercettò l’espressione ferita dell’altro – Cosa è successo? – concluse, con un mormorio arreso.
Bill prese un respiro profondo, cercando di dare un ordine logico a quanto accaduto sino a poco prima. Cosa poteva dirgli? E cosa avrebbe dovuto tacere?
- Devo fare delle analisi, fra qualche giorno… - mormorò – Ma non voglio che Anis lo sappia – si morse un labbro – Non ancora, perlomeno -.
Tom deglutì a vuoto. Lo sentì distintamente e se solo avesse alzato lo sguardo avrebbe potuto vedere il pomo d’Adamo alzarsi ed abbassarsi.
- Ma cosa è successo? – mormorò questi, prima di spostare la coppa di gelato ancora intatta e prepararsi all’ascolto.
L’altro strizzò gli occhi, prima di cercare nuovamente la sua mano.
- Mi prometti che non ti arrabbi? – pigolò.


La lampada che Anis aveva scelto per la camera da letto – l’unica stanza sulla quale non aveva avuto diritto di decidere alcunché, a ben vedere – era marrone scuro, non nera.
Era ormai un’infinità di tempo questa facesse parte dell’arredo ma non vi aveva mai prestato sufficiente attenzione. Probabilmente non aveva mai avuto un bisogno così disperato di concentrarsi su un qualcosa che non fosse se stesso. O Anis.
Era sdraiato sul letto, lo sguardo ipnotizzato dai giochi di luce che gli intarsi della lampada proiettavano sul muro.
- Schatz? – la voce di Anis lo fece sobbalzare, mentre due braccia tiepide di vapore gli si stringevano attorno ai fianchi.
Si voltò, sfiorandogli una guancia con le labbra.
- Non ti ho sentito uscire dalla doccia – mormorò poi.
Il tunisino sorrise, sfiorandogli la curva del naso con le labbra.
- Chissà a che pensavi – mormorò con uno sbuffo, prima di rafforzare la stretta e tirarselo contro.
Prima di costringerlo a sentire la voglia prepotente con la quale chiedeva di poterlo sentire.
Si morse impercettibilmente un labbro, prima di voltarsi appena per sfiorargli la spalla con un bacio e stringersi al suo petto.
- Non mi hai detto se avete finito di registrare – considerò poi il moro, pregando di riuscire a distrarre Anis il tempo necessario ad inventarsi un’impellenza qualsiasi che li tenesse lontani.
Avevano già rischiato una volta – senza nemmeno saperlo, cazzo! -, e si erano fermati appena in tempo. Non era il caso di sfidare la sorte una seconda volta.

- Non ti sazi mai – la voce di Anis gli era arrivata all’orecchio come velluto, mentre le mani del tunisino erano già arrivate a sfiorargli i fianchi.
Gli avessero chiesto cosa amava di più nel corpo di Anis, forse avrebbe detto proprio le mani. Non che tutto il resto fosse da disdegnare, beninteso, ma le dita del tunisino erano quanto di più caldo avesse mai provato sulla propria pelle.
C’era chi inneggiava alla gloria del cazzo altrui, lui poteva benissimo perdersi in metafore ardite per i pollici del proprio compagno. Punkt.
- Nie – aveva mormorato di rimando, un soffiato che era quasi un sospiro.
Le labbra di Anis erano arrivate presto a lambire i contorni del suo ombelico, mentre la stanza si trasformava in una bolla di sospiri indecenti.
Le mani del tunisino – quelle dannatissime mani! – gli stavano slacciando i jeans, mentre il telefono di Bill aveva preso a suonare.
- Lascialo suonare! -.
Un grugnito, una preghiera, una supplica.
Aveva risposto, iniziando stupidamente a ricomporsi.
- David! – aveva mormorato, prima di prepararsi all’ennesima tirata sui margini di produzione – No, non disturbi… - sospirò, prima di rendersi conto Anis fosse uscito dal suo campo visivo.
La porta del bagno si era appena chiusa con uno scatto secco.


Le mani di Anis avevano iniziato a percorrergli la linea della schiena, mentre le sue labbra gli sfioravano la mandibola.
No, non così.
Non potevano.
Non dovevano!
Provò a scostarsi, senza fortuna.
- Dai, Anis – mormorò, voltandosi a fronteggiarlo – Non mi va… - borbottò, cercando nuovamente si sottrarsi alla stretta del compagno.
Con un sorriso sghembo l’altro iniziò a mordicchiarne un lobo.
- Sicuro? – mormorò suadente.
No, ma non importa.
Annuì, prima di riuscire a spingerlo via e uscire dalla stanza.
Aveva bisogno di un bicchiere d’acqua. Possibilmente corretto con del veleno.
Stava andando tutto a rotoli.
Prese un bicchiere e lo mise sotto il rubinetto del depuratore [1], prima di azionare l’elettrodomestico e attendere il bicchiere si riempisse.
- Ti tremano le mani – la voce di Anis lo raggiunse, facendolo sobbalzare.
Si voltò di scatto, del tutto dimentico del bicchiere che continuava a riempirsi sino a traboccare.
Fu il tunisino a spegnere la macchina e a porgergli il bicchiere colmo.
- Tieni – mormorò, con tono di voce incolore – anche se forse sarebbe meglio ti preparassi una camomilla, Bill – concluse gettandogli occhiate preoccupate.
Il moro bevve un sorso d’acqua, deglutendola piano e strizzando gli occhi.
- È gelida – pigolò, prima di appoggiare il bicchiere nel lavello e voltarsi verso l’altro – Scusa, ma non mi andava proprio – terminò con gli occhi bassi.
Anis gli si avvicinò, prima di allacciarlo alla vita e baciargli la fronte.
- Vorrei solo capire quello che ti passa per la testa – mormorò, mentre le braccia di Bill correvano alle sue spalle.
In cerca di un abbraccio e di un appiglio.
Le labbra del moro gli sfiorarono la spalla.
- Passerà anche questa – mormorò, senza rendersi nemmeno conto di aver dato vita ad un pensiero tanto folle quanto doloroso.
Il tunisino si scostò leggermente, prima di alzare il mento del compagno in modo da poterlo guardare negli occhi.
- Questa cosa, di preciso? – indagò – Bill, che sta succedendo? -.
Avrebbe voluto dire “niente” o forse avrebbe preferito semplicemente non dover mentire, sputare fuori quella verità che lo terrorizzava e lo metteva all’angolo.
Si limitò a sciogliersi dalla stretta del compagno per dirigersi velocemente in camera da letto.
- Buonanotte, Anis – mormorò, prima di chiudere la porta e condannarlo al divano.
Senza appello.
Senza uno straccio di spiegazione plausibile.
Senza nulla di diverso da una chiusa da film di Tarantino.
Tirò un calcio alla sedia, facendole urtare la penisola del piano cottura.
- Vaffanculo -.




[1] (della serie C’è sempre un motivo) in Germania, chi compera liquidi vari (acqua, birra, bibite) in bottiglie di plastica è costretto a pagare una sorta di “sovrattassa” che compare sullo scontrino proprio con la dicitura Pfand (l'italiano Vuoto a perdere). Il vuoto può essere riconsegnato e chi lo riconsegna riceve indietro il corrispettivo di pfand pagato in precedenza

 
Intermezzo Terzo – Parte Quinta
Liebe ist das großeste Schmerz [*]


Erzähl mir alle Lügen 
Mach es so, dass ich es glaub 

[Hilf mir fliegen – Tokio Hotel]



Erano circa le quattro, quando se ne rese conto.
Il cane russava beato sul tappeto del salotto, quando sentì un rumore. Quel rumore.
Il click della porta della loro camera da letto che si apriva, il fruscio di qualche passo, un sospiro.
- Non vieni di là? – la voce di Bill, un pigolio che ebbe il solo potere di farlo innervosire ben oltre il consentito, svegliò il cucciolo, che si limitò ad uggiolare un saluto, prima di stiracchiarsi un poco e riprendere a sonnecchiare.
Anis non si alzò nemmeno. Fermo in quella che gli sembrava l’unica posizione fosse possibile assumere a fronte di una storia che non conosceva, non capiva, che aveva però il potere di mandare a rotoli la loro storia. In altre parole, aspettava.
Un’illuminazione, un lampo, un black-out. Qualcosa.
A conti fatti, una risposta plausibile sarebbe sicuramente stata migliore rispetto ad un silenzio di comodo che li avrebbe portati tutti all’isterica pazzia di chi pretende di sapere.
Questa volta, però, si sbagliava.
Il moro si spostava nervosamente da un piede all’altro. Indeciso, pieno di dubbi, pieno soprattutto della voglia di riniziare. Non sempre, però, vengono date seconde possibilità. Lui ne avrebbe avuto diritto?
- La porta era chiusa – mormorò dopo un po’ il tunisino, decidendosi a rivolgergli uno sguardo.
In quegli occhi neri c’erano rabbia, delusione, amarezza, paura.
Paura.
In quel momento, era l’unica cosa li accomunasse entrambi.
Per ragioni diverse, diametralmente opposte, ma quello era l’unico sentimento avesse preso a unirli senza rimedio alcuno.
E l’amore?
Amore è il dolore più grande del mondo. [1]
Non quel tipo di dolore, però. Quello non lo meritava nessuno. Ed era toccato a lui.
- Vieni adesso? – tentò.
Allungava una mano sperando gliela stringesse, chiedeva aiuto offrendo un contatto.
Anis non si mosse dalla propria posizione, si limitò a stringergli la mano e a squadrarlo con una durezza che non credeva avrebbe visto mai.
- No – scollò senza calore.
Bill ne rimase visibilmente interdetto.
Sperava in un attenuamento della pena?
Eppure avrebbe dovuto sapere che con il compagno certe cose non funzionavano…
- No – riprese questi – perché voglio sapere che sta succedendo. Perché stai male e non mi dici il motivo, perché non saremo sposati ma abbiamo sempre condiviso anche la merda che ci grandinava attorno – rafforzò la stretta – Da Sercan, al lavoro, a tutto il resto… - sottolineò poi, tirando leggermente il moro per un braccio ed avvicinandoselo – Che succede? – chiese per l’ennesima volta in quella serata.
L’altro si morse un labbro, prima di sedersi sul bracciolo del divano.
Voleva dirglielo, eppure aveva un terrore folle delle conseguenze.
Voleva liberarsi di un peso che si sentiva addosso manco fosse stato un macigno, ma aveva paura di rimanere solo a sorbirne gli effetti.
Un dubbio gli piombò addosso, mettendolo in uno stato d’ansia mai differentemente provato.
Aveva veramente fiducia in Anis, nella loro relazione? 
Perché in quel caso non avrebbe avuto paura di un abbandono, di un rifiuto, di un addio.
Anis lo amava sul serio? 
Scacciò quel pensiero dalla testa con un gesto istintivo del capo, movimento che l’altro percepì e soppesò in attesa delle risposte che sapeva non avrebbe ricevuto. Non ancora.
Anis lo amava, lui amava Anis. Stavano insieme praticamente da sempre, diamine! Era stato l’unico, il primo. Il primo amore veramente voluto, per il quale aveva lottato fino in fondo. Il primo con cui aveva scoperto che il sesso non era solo la squallida trafila con cui il gemello si trastullava dopo un concerto, Non l’unico, però. Non più.
Fu una riscoperta che gli arrivò dritta allo stomaco, come un pugno, un calcio, un conato.
Non se ne rese nemmeno pienamente conto, ma in mezzo minuto si era già chinato sul tappeto, versandovi sopra dispiacere e delusione, amarezza che non sapeva solo di bile.
- Vado a prepararti un po’ di camomilla – la voce di Anis lo raggiunse distante, quasi estranea.
Non era al suo fianco, non gli stava accarezzando la schiena o trattenendo la fronte.
Lo aveva lasciato solo.
Iniziò a singhiozzare senza nemmeno rendersene conto, in quel modo isterico e improvviso che ti assale quando ti confronti con il dolore più grande del mondo.
La perdita.
Gli esseri umani, a conti fatti, erano troppo egoisti e stupidi per metabolizzare a pieno un’eventualità del genere.
Non si rese nemmeno conto che – sulla distanza – gli occhi del tunisino lo scrutavano preoccupati, mentre l’uomo si interrogava sul da farsi.
Era meglio tappare la diga, rinsaldarne gli argini, oppure lasciare che l’alluvione facesse il suo corso e ripartire?
Con un sospiro cercò velocemente un rotolo di carta da cucina – quello che la Mama usava per appoggiare le verdure per il cous-cous – e si diresse verso il tappeto.
- Tieni – mormorò senza accenti superflui – Ora ti porto la camomilla – concluse, ridirigendosi verso la cucina.
Svuotò la teiera e riempì la tazza, ma nel momento in cui si avvicinò al compagno si rese conto che questi si era di nuovo addormentato, come tutte le volte in cui iniziava a piangere e sembrava non dovesse finire più.
Con un sospiro poggiò la tazza sul tavolino e lo allacciò alla vista, ritrovandosi a sorridere comunque nell’udire un basso mugolio di protesta, prima che l’altro riprendesse a russare piano.
Nonostante le tempeste emotive, quello non era cambiato.
Lo poggiò piano tra le coperte, prima di afferrare una velina dal comodino del compagno e pulirgli le labbra, nettandole dall’impronta di un dispiacere senza rimedio che – ancora! – non aveva nome.


La sua relazione con Anis era andata a rotoli.
Volendosi fustigare con del sarcasmo d’accatto, era andata a puttane.
Era passata una settimana da quella notte disgraziata e ormai si limitavano a fare i separati in casa. Benché tentassero di nascondere un’eventuale rottura, infatti, non si rivolgevano la parola se non lo stretto necessario, dormivano in stanze separate e spesso non mangiavano neppure più insieme.
Da quando ne aveva parlato a Tomi, da quando aveva dato un nome al destino disgraziato che aveva scelto, le cose erano precipitate senza rimedio.
Non l’aveva abbandonato, il suo gemello. Pur non condividendone le scelte, Tom aveva deciso di stargli accanto, perché il loro rapporto era venuto meno nemmeno di fronte ad un’evidenza del genere.
E la sua storia con Anis?
Dopo quel gelato – che nessuno dei due aveva sfiorato, inciso – Tom si era recato ogni giorno a casa del gemello, o l’aveva invitato a pranzo o a cena, oppure aveva improvvisato una comparsata con il proprio pointer per coinvolgerlo in una passeggiata al parco.
Lo obbligava a sentire il calore tiepido di un affetto che non sarebbe mai mancato. Mai.
Quel giorno lo avrebbe accompagnato in ambulatorio a fare quel dannatissimo esame. Lo avrebbe sostenuto nell’attesa di un verdetto, gli sarebbe stato vicino in ogni caso.
An deiner Seite, noch eine Weile.
Du bist nicht alleine.
 [2]
Il foglio che gli aveva consegnato Herr Braun giaceva in borsa, all’interno dell’agendina che si portava sempre dietro. L’agendina che aveva comprato in Tunisia, quella con la copertina in legno di cocco. L’ennesima testimonianza di un amore che si era trasformato in dolore, di una storia che non riusciva più nemmeno a chiamare senza per questo ritrovarsi impantanato in dubbi ancora senza risposta.
Era il primo sulla lista, l’infermiera lo accolse con un sorriso.
Quel suo essere sempre in cima alla vetta gli si stava ritorcendo contro.
- Venga pure – mormorò la donna – Si accomodi lì – gli indicò una poltroncina in pelle marrone dall’aria discretamente comoda.
Si morse un labbro, mentre l’altra parve coglierne l’evidente disagio.
- Non ci vorrà molto – tentò di tranquillizzarlo – E alla fine potrà andare a fare una colazione abbondante, con tanto di Würstchen - concluse con un sorriso.
L’ennesimo.
Era urticante il fatto avessero tutti ‘sta dannatissima voglia di sorridere!
Con un movimento infastidito prese la prescrizione del medico e la posò sul tavolino, prima di sfilarsi la giacca e sedersi.
Sembrava una ridicola principessa arroccata su un trono di pretese senza senso.
La donna gli si avvicinò, prima di posare tutto l’occorrente.
- Se le crea fastidio si volti – mormorò.
Non lo fece, rimase lì a guardare il sangue che percorreva la distanza che dal tubicino lo avrebbe portato alla provetta, come un cretino malato, concentrandosi sul rosso scuro del liquido. 
Era affascinante come tutto dipendesse – nei fatti – da quelle due provette di liquido rossastro, da ciò che si celava dietro quel colore che nemmeno gli piaceva.
- Herr Kaulitz? – l’infermiera lo richiamò poco prima di vederselo collassare davanti.
Il contorno, insomma, ricordava un po’ un moderno adattamento della favola di Re Mida.
La vita era una sonora presa per il culo, fertig. O forse era lui ad essersela cercata?
Quando si risvegliò, pochi minuti dopo, la prima cosa che vide furono due iridi calde che lo osservavano preoccupate.
- Anis – mugolò, cercando di alzarsi.
Due mani dalle dita inconfondibilmente callose lo bloccarono all’altezza delle spalle.
- Non ti alzare – era Tom, Anis non c’era - e non ti azzardare mai più a confondermi con quel becero caprone – concluse borbottando, nel vano tentativo di farlo almeno sorridere.
Quelle schermaglie continue tra i due grandi amori della sua vita, le stesse che denunciavano un affetto senza limiti o confini, non sembravano però più in grado di divertirlo. 
- Hai avuto un collasso – mormorò il gemello, come a dare una risposta all’occhiata smarrita che il moro gli rivolse – Ora ci alziamo e andiamo a fare una bella colazione, va bene? – lo sostenne mentre, traballante, tentava di alzarsi.
Bill sospirò.
- Non ho fame. Ho la nausea… - concluse con un mugolio flebile.
Il gemello gli pizzicò leggermente un braccio.
- Non sento storie – borbottò – Adesso andiamo a mangiare qualcosa. Un the e dei biscotti non ti faranno alcun male -.
Uscirono dalla clinica, uno di fianco all’altro, diretti nella caffetteria che si trovava all’angolo della strada. 
Si sedettero ad un tavolo riparato - esattamente come pochi giorni prima - ed attesero l’arrivo del cameriere per ordinare le rispettive colazioni.
- Ne hai parlato all’altro? – mormorò Tom, cercando la mano del gemello per stringerla un poco.
L’altro negò con un cenno del capo, con aria esausta.
- La nostra storia sta andando a rotoli – mormorò, prima di rispondere alla stretta artigliando la mano del fratello e stringendo con forza – Non voglio dare il via alla valanga definitiva – concluse, cercando di far morire in gola un singhiozzo che, pur nel suo essere flebile, l’altro percepì subito.
- Magari – tentò questi – Magari parlargliene potrebbe aiutarvi a recuperare il vostro rapporto… - si morse un labbro, incerto se continuare a parlare o meno.
Ad interromperli giunse il cameriere, che segnò brevemente le ordinazioni prima di dirigersi compito verso il bancone.
- Hai intenzione di dirglielo? – continuò Tom, cercando di affrontare la discussione con quanta più calma gli fosse possibile.
Bill annuì, incerto.
- Dopo i risultati – mormorò – Dopo i risultati degli esami – ripeté, come a doversene convincere in prima persona.
Era difficile, dopotutto, dare un nome alle cose che facevano paura. Rimanere paralizzati da un terrore senza rimedio era più comodo.
Il cameriere si affrettò a servire le ordinazioni, mentre Tom con un sorriso chiese se fosse possibile avere del latte. Quando anche questo arrivò sul tavolino, si affrettò a mettere the e latte nella tazza del gemello, prima di sospirare ed avvicinargli la tazza.
- Forza, bevi – mormorò – Bevilo tutto -.
L’altro annuì, prima di prenderne un sorso e sibilare.
- Bollente – mugugnò, per poi riposare il the e squadrare con scarso interesse i biscotti che gli erano stati serviti.
Ne prese uno e iniziò a piluccarlo.
Era stanco. Esausto.
Non aveva più la forza di opporsi a nulla, preferiva mettersi da parte e far sì che gli eventi prendessero il proprio corso.
Il lottatore che era stato, quello che l’aveva messa in culo agli stronzi di Löitsche, dove diamine era finito?
Tom lo riscosse.
- Forza, ora il the dovrebbe essersi raffreddato – gli avvicinò nuovamente la tazza – Bevi -.
Iniziò lentamente a bere, alternando sorsi e sospiri, cercando di pensare a qualcosa che non fosse Anis.
Anis…


- Anis! – la voce della Mama lo riscosse dallo stato di torpore in cui era caduto.
Aveva approfittato della mattinata libera per andare a trovare la Mama, riscoprendo il piacere di qualcuno che sorridesse mentre ti porgeva la brocca del caffè o il pane tostato.
Bill non lo faceva più.
Luise Maria gli porse l’ennesimo panino speziato, sorridendo nel vederlo mangiare di gusto.
- Che bello avere qualcuno per casa che mandia come si deve! – pigolò la donna, prima di alzarsi per prendere una brocca di caffè.
- Basta, Mama - mugolò, tentando di opporsi alle dimostrazioni d’affetto della donna.
Questa non parve risentirsene troppo.
- Tanto una decina di minuti e arriva Sercan – mormorò, sorridendo teneramente all’espressione fintamente indignata del tunisino.
Come previsto, anche suo fratello si palesò, stupendosi della sua presenza.
- Ogni tanto ritornano! – gli sorrise ironico.
Rimasero una buona mezz’ora a parlare di questa o quella cosa, mentre Luise sorrideva alla vista dei suoi bambini.
- E Tifla? – chiese poi, sorridendo al pensiero del ragazzino che aveva letteralmente travolto l’esistenza a suo figlio.
- Bill è uscito presto – rispose Anis, cercando di mantenere un tono di voce neutro e quantomeno posato – Doveva vedersi con suo fratello, poi aveva una riunione al lavoro -.
Sercan parve fiutare lo scazzo del fratello, perché si affrettò ad intervenire, stemperando la tensione.
- Lui lavora, mica come te! – gli fece un occhiolino furtivo, prima di calamitare l’attenzione della Mama aggiornandola sulle proprie beghe sentimentali, sul lavoro che lo stava facendo dannare, sulla signora delle pulizie che spostava la sporcizia sotto i divani.
All’uscita della villa, il maggiore dei due fratelli si affrettò a salutare la donna, prima di richiamare con un’occhiata l’altro.
- Grazie – mormorò – tra me e Bill non è proprio periodo – concluse, borbottando.
Cercando di nascondere l’amarezza il dolore la paura dandosi un tono.
Sercan fece spallucce.
- Abbiamo fatto lavoro di squadra, come al solito – concluse con un sorriso sghembo, prima di accomiatarsi – Meglio che vada, sai com’è… quando uno ha un lavoro serio… -.
Evitò uno scappellotto memorabile per pura fortuna.
Proprio in quel momento, il cellulare trillò.
Si stupì nel rendersi conto si trattasse di Bill.
- Ciao – la voce del moro era tremula, come se avesse appena piantoo lo stesse ancora facendo – Stasera hai impegni con i tuoi amici? – chiese con un sospiro.
Avrebbe potuto inventarsi che sì, aveva un impegno con Patrick, Peter o Kenneth.
Non era mai stato un codardo, però, ergo scelse la verità. Scelse la chiarezza in una storia che sembrava fatta innanzitutto di ombre e silenzi di comodo.
- No – rispose quindi – Perché? Devi vederti con Tom? –.
Aveva preso un fazzoletto e si era soffiato il naso. Lo sentiva. Anche senza il bisogno di rumori vari ed eventuali, riusciva ancora a sentirlo e vederselo davanti.
- Hanno aperto una specie di rosticceria araba – pigolò quindi il moro – Possiamo prendere qualcosa e guardare un film – propose.
Sorrise.
Stava tentando di ricostruire qualcosa.
Stava gettando nuove fondamenta.
Aveva però dimenticato di buttare via i mattoni vecchi.
- Va bene – mormorò, con voce ammorbidita da quella tenerezza soprattutto di pancia che non riusciva a fare a meno di sentire.
Sempre.
- Vieni a casa per pranzo? – continuò poi Bill, dall’altro capo della linea.
Esitò.
- Avrei da fare in studio – iniziò incerto, quindi l’altro si affrettò ad interromperlo.
- Va benissimo così – mormorò – Ci vediamo nel pomeriggio a casa, allora? Perché altrimenti tu ordini quelle cose speziatissime che non mi piacciono – concluse querulo e lamentoso in maniera persino tranquillizzante.
- Va bene, ci vediamo per le cinque – concordò quindi.
Stava per riattaccare, quando la voce di Bill lo bloccò.
- Anis, lo sai vero che ti amo? – chiese quindi il moro.
Una mattonata nei coglioni sparata con un cannone gli avrebbe fatto senz’altro un altro effetto. Pure edulcorato in sovrapprezzo.
- Klar Schatz – rispose quindi, per pura e semplice abitudine.
Chiuse la telefonata.
Stavano giocando sporco entrambi, in un gioco in cui avrebbero perso entrambi.
Irrimediabilmente.




[*]: Per quanto riguarda la nota al titolo, vi rimando alla nota [1]. Nei fatti, si tratta solo di una traduzione molto tedesca della frase incriminata. =)
[1]: Si tratta anche del titolo di un intermezzo – il secondo, se non erro – di A un cerbiatto somiglia il mio amore di Sar@. Spero l’autrice non me ne voglia se ho scelto di riportarlo qui, in ogni caso provvederò a toglierlo se la cosa le provoca fastidio e a sostituirlo con un’espressione sinonimica (anche se ahimè forse meno pregnante). =)
[2]: An deiner Seite, Tokio Hotel

 
Intermezzo Terzo – Parte Sesta
Umzingeln
How we longed for Heaven. 
We're letting go of something we never had. 
Time goes so fast, Heaven is lost. 

[Lost Heaven – L’Arc~en~Ciel]


Quando rientrò a casa, Bill era appoggiato al tavolo della cucina, intento a sbucciare un'arancia servendosi di un coltello.
Come un bambino. Il suo cucciolo.
- Merenda? – chiese con un sorriso tenue, arrivandogli alle spalle.
Il moro sussultò leggermente, prima di voltarsi e annuire.
- Una specie – mormorò, prima di porgergliene uno spicchio – Vuoi? -.
Stavano tentando di ritrovare una quotidianità perduta, riscoprendo gesti semplici che sembravano aver dimenticato, cercando un contatto che passasse anche per quelle abitudini abortite.
Lo prese direttamente dalle sue dita, succhiandone il succo sulle falangi dell’altro e sorridendogli poi con tenerezza.
- Buono – gli si avvicinò e gli baciò una guancia, prima di sfiorargli i fianchi e abbracciarlo.
L’altro riuscì a rispondere goffamente solo dopo qualche secondo, visibilmente interdetto di fronte a quel gesto d’affetto. 
A quel salvagente insperato.
- Io – pigolò, non sapendo nemmeno bene cosa dire.
Riempire i silenzi – a ben vedere – non era sempre un bene, soprattutto a fronte di frasi inutili o fuori luogo.
L’altro parve non farci caso, si limitò a carezzargli la schiena.
- Ruhig, Schatz – gli sussurrò all’orecchio – Tregua? – propose poi.
Il moro annuì, cercando di mandare giù il nodo che sentiva premere all’altezza della gola. Cercando di dimenticare quanto fosse sporco, sbagliato, malato.
Si limitò a passargli le braccia attorno alle spalle e a stringere, come a volersi fondere in un unico corpo.
Amore era anche svegliarsi dopo una notte d’amore e non riuscire più a distinguere le membra dell’uno e dell’altro, serrate in uno stretto abbraccio.
Il suo – però – era solo l’ennesimo passo falso di un pessimo bugiardo, di un baro ancora peggiore che aveva scelto di affidarsi al cavallo sbagliato in una gara che avrebbe portato solamente a troppi vinti. Vincitori, in quella storia, non ce n’erano proprio.
- Cosa andiamo a prendere, per cena? – mormorò poi l’uomo senza staccarsi da quell’abbraccio.
Ne aveva bisogno anche lui, aveva bisogno di riscoprire il calore di quelle braccia e di dimenticare la solitudine di un divano e di una trapunta vecchia.
Bill non rispose.
L’altro sospirò, sciogliendo lentamente la stretta.
- Ehi – gli prese il mento tra le dita e non si stupì nemmeno troppo di fronte a due iridi estremamente liquide che lo fissavano tristi,colpevoli - Avevamo detto tregua – gli soffiò sulle labbra, prima di baciare le gote umide del compagno.
- Scusa -. 
Un pigolio appena udibile.
Il prologo di una confessione che gli avrebbe portato via tutto. Dall’amore al rispetto per se stesso, a Bill Kaulitz non sarebbe rimasto proprio nulla.
Nichts.
Anis si limitò a sospirare, prima di stringerlo nuovamente.
- Va bene così -.
Non era vero per niente, però.


Alla fine ordinarono dei Köfte e del Kebab, facendosi recapitare il tutto direttamente a casa.
- Così puoi farti un bagno come si deve – gli aveva sorriso Anis.
In quel momento, Bill era ancora immerso nell’acqua tiepida della vasca, per nulla intenzionato ad uscirne ancora per un bel po’ di tempo. 
L’acqua, in quel momento, era tutto quello che lo separava da Anis e da un’eventuale verità scomoda, indigeribile, difficile anche solo da razionalizzare in quanto ipotesi. L’acqua che gli aveva sempre ricordato Tom, i nove mesi in cui avevano condiviso una culla liquida e calda, ora lo condannava ad una solitudine autoimposta, ad una scelta stupida ed irrazionale.
- Mi fai un po’ di spazio? – la voce di Anis lo fece sobbalzare, e fu solo la presa del tunisino attorno alle sue spalle che gli evitò di finire con la testa sott’acqua – Ehi, piano Schatz -.
Schatz.
Non aveva mai smesso di chiamarlo così da quando era rientrato.
Schatz, Prinzesschen, Mein Leben, Habibi.
Le parole di un amore che stava tentando di riscoprire, e che Bill avvertiva come una morsa allo stomaco e un peso al petto insieme.
- Se vuoi ti lascio il posto – mormorò questo ultimo in risposta, prima di tentare goffamente di rialzarsi.
La presa di Anis continuava a pesargli sulle spalle, il tunisino non lo mollava.
- Rimani qua, su – lo blandì, prima di sfilarsi velocemente gli abiti e raggiungerlo in acqua.
Uno di fianco all’altro, in silenzio, sembravano quasi i personaggi di una commedia novecentesca.
Bill ruppe quel silenzio teso, quasi senza rendersene conto, cercando la mano dell’altro e stringendola. Rinsaldando maldestramente un patto che era anche Foedus, legame, unione inscindibile.
- Vieni qui, forza – senza dargli tempo di ribattere Anis gli passò un braccio attorno alle spalle e lo trasse contro di sé.
Il moro incespicò un poco, prima di assecondarlo e voltarsi giusto in tempo per sentire le labbra del tunisino contro le proprie, la voglia dell’altro contro il fianco.
Strinse gli occhi. 
Non pensare, non pensare, non pensare.
Rispose al bacio quasi senza rendersene conto, socchiudendo piano le labbra e gemendo piano quando sentì la lingua dell’altro sfiorargli il palato. Le mani di Anis scesero sui suoi fianchi, prima di stringerli e permettere all’altro di sederglisi in braccio.
- Anis – gemette, interrompendo il bacio per riprendere fiato.
Il tunisino gli passò una mano sulla schiena, carezzandola con affetto non simulato.
- Liebe dich – mormorò il tunisino, prima di sporgersi e baciarlo di nuovo.
Lo voleva.
Voleva riniziare da quella vasca, da quel momento, in quel modo.
Bill lo sentiva nel modo in cui lo stringeva, nel modo in cui gli mordeva le labbra e tentava di spingerlo a voltarsi. Lo desiderava di quella voglia irrazionale, istintiva che rendeva speciale ogni volta che facevano l’amore. 
Non quella volta, però.
Dovevano fermarsi. Dovevano smetterla.
Era sporco, sudicio, rischiava di contaminare anche Anis.
Interruppe quel bacio, uscendo dalla vasca rapidamente.
- Scusa, ma inizio ad avere freddo – mormorò, prima di infilarsi l’accappatoio e dirigersi verso la camera da letto.
Pericolo scampato.
Per quella volta.
Cercò velocemente un paio di mutande nel cassetto, prima di buttare il telo di spugna a terra ed infilarsele. Sentiva l’umidore sgradevole dei capelli ancora bagnati gocciolargli lungo la schiena, mentre si muoveva freneticamente in cerca anche solo di una tuta. Qualsiasi cosa, pur di coprirsi. Pur di mettere una barriera tra loro.
- Asciugati i capelli, o prendi il raffreddore – la voce di Anis lo sorprese, ebbe solo il tempo di voltarsi prima di ritrovarselo davanti – Per quanto tempo ancora hai intenzione di scappare, Bill? – il tono di voce s’era fatto seccato.
Ad interrompere quel diverbio sul nascere, inconsapevole complice di una follia senza rimedio – fu il fattorino del take away, che suonò il campanello.
Infilandosi velocemente una tuta – senza nemmeno pensare di infilarsi un paio di mutande, diamine! – Anis uscì dalla stanza ed andò ad aprire.
Il moro si prese il lusso di sospirare rumorosamente.
Per quanto avrebbe aspettato ancora? Per quanto ce l’avrebbe fatta?


La cena – come da copione – fu estremamente silenziosa e tesa, interrotta solo ogni tanto dall’abbaiare festoso del cucciolo che sembrava implorare un poco d’attenzione. E parte della loro razione di Kebab.
Bill stava armeggiando con il coltello, con quella malagrazia persino un poco buffa tipica di quelli che Mtv avrebbe etichettato come appartenenti alla “Generazione Junk Food”, per tagliare un pezzo di carne del kebab.
Accadde tutto in un attimo.
La presa sul coltello gli sfuggì e la lama andò a colpire un polpastrello.
Un taglio stupidissimo che ebbe però il potere di farlo sbiancare in pochissimi secondi.
Di farlo impallidire in maniera preoccupante.
Squittì spaventato, prima di spostare d’istinto il piatto e macchiare inesorabilmente la tovaglia. Prima di alzarsi senza un vero e proprio perché ed iniziare a muoversi freneticamente per la stanza. 
Anis si alzò velocemente, brandendo un paio di tovaglioli di carta e costringendolo a fermarsi bloccandolo per un braccio e cercando di tamponare quel dannato taglio che non la smetteva di perdere sangue.
- Schatz – cercò di richiamarlo, ma gli occhi sbarrati dell’altro erano intenti ad osservare il dilagare della macchia rossa sul tovagliolo.
- Ehi – tentò nuovamente, stringendo leggermente la presa sul polso del compagno.
Ancora nulla.
Con un sospiro lo portò di peso verso il bagno, dove aprì l’acqua fredda.
- Metti il dito sotto l’acqua, forza – mormorò il tunisino indicando il lavandino con un cenno del capo.
L’altro annuì spaesato, prima di portare direttamente la mano sotto il getto gelido.
L’acqua iniziò a tingersi di rosso.
Anis rimase dietro il compagno, afferrandolo alla vita per il terrore di vederselo cadere davanti.
- Tutti i tagli alle dita perdono tanto sangue – gli mormorò all’orecchio – Chiudi gli occhi e non pensarci, okay? -.
L’altro strizzò le palpebre annuendo freneticamente, mentre il tunisino lasciava andare a poco a poco la presa per prendere garze e disinfettante dall’armadietto dei medicinali.
Lo disinfettò e bendò con pochi gesti essenziali, prima di baciargli la fronte e carezzargli un po’ le spalle.
- Finito – mormorò Anis – Ti sei proprio spaventato, vero Habibi? – gli chiese con un sorriso, prima di sfiorargli la fronte con le labbra.
- Il sangue – iniziò Bill con voce rauca, prima di schiarirsi la voce e continuare – il sangue mi destabilizza un po’… -.
Il tunisino annuì, prima di passargli un braccio attorno alle spalle e condurlo nuovamente in cucina, dove lo fece sedere direttamente su uno degli sgabelli antistanti al piano cottura. Il più lontano possibile da quel piatto e soprattutto da quel coltello.
- Mangi ancora qualcosina? – chiese – Sei proprio pallido, Schatz -.
Il moro arricciò le labbra, evidentemente indeciso.
- Non c’è un po’ di quel pane buonissimo che ci porta sempre tua mamma? – domandò infine, inclinando leggermente il capo a sinistra.
Il compagno annuì, allungandogli direttamente il cestino del pane.
- Servito – mormorò, sorridendo mentre lo vide mordicchiare un panino speziato.
Anis si occupò velocemente di mettere i piatti in lavastoviglie e di sistemare il tavolo, prima di rivolgersi nuovamente al compagno.
- Non si era detto film? -.
Bill inghiottì un morso di pane, prima di annuire.
- Cosa guardiamo? – pigolò, prima di mordere un’altra volta la pasta soffice della pagnotta.
Il tunisino scrollò le spalle.
- Si accettano idee – borbottò con cipiglio persino un po’ comico.


Alla fine aveva scelto di guardare una vecchia serie televisiva con ‘M Barek a far da protagonista, lo stesso attore che aveva interpretato un giovane Anis Ferchichi in ”Zeiten ändern dich.
Rannicchiato contro il bracciolo della poltrona, Bill si stava lentamente assopendo.
Sbadigliò sonoramente, prima di stropicciarsi gli occhi e ritirarsi su cercando di darsi un minimo di contegno.
Proprio poco.
L’altro sembrava essersi accorto del sonno del compagno, perché scompigliandogli i capelli se lo era tirato contro, facendolo appoggiare con il capo sulla propria spalla, e drappeggiandone la figura con la coperta che di solito usava per dormire.
Il moro aveva opposto una blanda resistenza, fatta di “Sono sveglio”, “Ora vado” e borbottii indistinti, prima di cedere al sonno ed addormentarsi in pochi secondi.
- Dormi bene, Schatz -.
Anis spense il televisore, si stese sul divano portando con sé l’altro e sorrise, chiudendo gli occhi.
Sarebbe stata la loro ultima notte insieme.
L’ultima prima di un’esplosione talmente violenta da portarsi via tutto.
Tutto tutto.


 

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Capitolo 7
*** Atto quarto: Gewöhnlich ***


 
Glory days well they'll pass you by
Glory days in the wink of a young girl's eye
Glory days, glory days

[Glory Days - Bruce Springsteen]

C’era una cosa a cui Sercan non riusciva proprio a rinunciare: le rassicurazioni date dalla quotidianità.
Il venerdì – e quello era il caso – era sua abitudine fare colazione con Anis e – se capitava – Bill. Di norma, in ogni caso, il moro adduceva una scusa qualsiasi per lasciarli soli, comprendendo forse il loro bisogno di ritrovarsi, discutere, rievocare anche le giornate di un’infanzia ormai remota passate ad annoiarsi davanti ad un televisore perennemente acceso.
Anis si presentò con il telefono ancora ancorato all’orecchio. 
Con poche parole sbrigative chiuse la telefonata, prima di sfilarsi la giacca e sedersi.
- Lavoro – spiegò laconico.
Sercan annuì.
- E Bill? – chiese poi, passandogli il cestino con i panini dolci.
Proprio in quel momento, il telefono del tunisino riprese a squillare.
- Schatz? – rispose immediatamente questi, la voce leggermente ansiosa - Tutto bene? È successo qualcosa? Vuoi che passi a prenderti? -.
La risposta che ottenne, in ogni caso, parve quasi divertirlo.
- E a che devo l’onore? – proseguì infatti con tono di voce velato di ironia - Hai intenzione di dilapidarmi il conto in banca al Ka.De.We, ora? -.
Sercan sospirò scotendo il capo. Suo fratello non sarebbe mai cambiato, ecco tutto.
Evidentemente, la risposta che il compagno gli aveva fornito lo aveva in ogni caso colpito, perché si era limitato a congedarsi con un
- Ich auch –
Senza aggiungere altre frecciate.
Il maggiore dei due prese la brocca di caffè fumante e si servì, prima di riempire anche la tazza dell’altro.
Altra abitudine.
- L’azienda? – si informò poi, dando un morso al panino dolce.
Sercan ingollò un sorso di caffè bollente, prima di rispondere:
- Tutto bene. I bilanci sono nettamente in positivo -.
Anis approvò con un cenno del capo.
- Settimana prossima scende Peter – esordì poi, con un ghigno – si pensava ad una rimpatriata all’insegna dell’Alcool. Sei dei nostri? -.
Quando Anis era ancora il trentenne che saltava su un palco in mezzo ad un branco di pessimi elementi chiamato Ersguterjunge quelle rimpatriate erano all’ordine del giorno. Almeno un paio di serate al mese da passare a ingozzarsi di schifezze e ingollare birra come se si trattasse di acqua.
Ora, ogni volta che qualcuno “del vecchio gruppo” passava da quelle parti si organizzava una serata all’insegna dei vecchi tempi, e Sercan era stato fatto entrare quasi immediatamente in quel clan di debosciati. 
Ovviamente, la Mama era candidamente all’oscuro di tutto.
- Farò in modo di esserci – confermò poi il ragazzo, bevendo un altro sorso di caffè.
Poi presero a parlare di lavoro, viaggi, impegni futuri. Sfruttarono il poco tempo che avevano a disposizione per cercare di aggiornarsi in merito alle vite degli altri, poi si congedarono con la consueta pacca sulla spalla.
Sulla via del ritorno, Anis si ritrovò a costeggiare il Ka.De.We. sorridendo all’idea di un Bill saltellante tra gli scaffali alla ricerca di quel pezzo in particolare unico unitissimo.
Diede un’occhiata veloce all’orologio.
Era ancora presto.
Giusto il tempo di entrare e uscirne con una piccola sorpresa tra le mani…

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Capitolo 8
*** Intermezzo quarto ***


Intermezzo Quarto – Parte Prima
Weg

You know you're my saving grace
You're everything I need and more
It's written all over you face
[…]
You're the only one that I want
Think I'm addicted to your light
I swore I'd never fall again
But this don't even feel like fallin'
Gravity can't forget
To pull me back to the ground again

[Halo – Beyoncé]



Tre fogli.
Erano solo tre dannatissimi fogli eppure pesavano quanto un macigno di cento tonnellate. Pesavano come tutte le verità scomode, in fondo.
Bill Kaulitz stava percorrendo il corridoio dell’ospedale a falcate nervose, incerto sul da farsi, senza sapere come comportarsi.
Tom, che lo aveva accompagnato, ne intercettò i passi e gli si affiancò, prima di prenderlo per un polso e strattonarlo sino a condurlo in un angolo appartato.
- Bill – cercò qualcosa da dire, non trovando però parole che fossero degne di essere spese in quel frangente.
Non ce n’erano.
Il moro cercò di divincolarsi, incapace di rimanere fermo.
Aveva bisogno di muoversi, di manifestare almeno in quel modo un’agitazione che lo stava uccidendo dall’interno.
Aveva bisogno di Anis, eppure era l’unica cosa che non avrebbe più potuto ottenere.
Tom sospirò, prima di prendergli il viso tra le mani.
- Bill – ne scandì il nome lentamente, cercando in quel modo di ottenere un’attenzione che il fratello continuava a rivolgere altrove.
Il moro si morse un labbro, prima di sospirare a sua volta.
- Mi lasci andare, Tomi? – la voce gli uscì flebile, esausta, un pigolio.
L’altro scosse il capo appena un poco.
- Prima mi ascolti un secondo? – il tono di voce del gemello portò Bill a sentirsi oltremodo in colpa – Perché lo so che dopo mi sfuggirai di nuovo come un pesce molto molto scivoloso – concluse con un sorriso amaro.
Il moro portò le proprie mani su quelle di Tom, sfiorandole e stringendole un poco.
Annuì.
- Qualsiasi cosa ci sia scritta su quei fogli, Bill – iniziò il biondo cercando l’ennesimo contatto con il gemello – Non è una condanna – la voce si alzò di un’ottava sulla prima parola.
Bill sospirò, cercando di staccarsi dalla presa del gemello.
- Bill! – Tom lo richiamò per l’ennesima volta – Non sei un condannato a morte, non devi pensarlo. Hai passato anni per lottare e farla ad un sacco di stronzi, non puoi smettere proprio ora, cazzo! – la voce del biondo si incrinò sino a diventare eccessivamente acuta.
Il moro annuì con un sospiro, prima di appoggiare la testa sulla spalla di Tom e passare le braccia attorno ai fianchi del gemello.
Cercando un contatto che sino a pochissimo prima aveva rifiutato.
- Andrà tutto bene -.
Le parole di Tom, però, non riuscirono a convincerlo come avevano sempre fatto.
Alles wird gut.
Ormai quella era solo una chimera. La stupida illusione di un sognatore.
Quando le mani del gemello presero ad accarezzargli la schiena, Bill riprese finalmente la parole.
- Anche se Anis mi lascia tu non mi abbandoni, vero? -.
Il gemello sorrise, prima di baciargli una tempia e strofinargli affettuosamente una mano sulla schiena.
- Non ti lascerà proprio nessuno, Bill, fertig -.
Ancora una volta, le parole di Tom non sortirono effetto alcuno.


Uscirono dall’ospedale dopo una decina di minuti, tempo che Bill aveva impiegato in bagno a rimettersi in sesto, anche se gli occhi leggermente gonfi – subito nascosti dai consueti occhialoni da sole – lasciavano poco spazio ad eventuali sforzi immaginativi.
Tom si mise alla guida senza parole superflue.
- Andiamo a far colazione, ok? – propose, prima di ingranare la prima e partire.
L’altro si abbandonò sul sedile.
- Non ne ho voglia – pigolò prima di voltarsi verso il finestrino e rivolgere la propria attenzione ad un palo della luce dipinto di fresco.
Il biondo strinse il volante sospirando.
Non era un buon modo di iniziare, non lo era per nulla.
Non lo era perché – di fondo – chi si trovava implicato non riusciva a vivere quella faccenda come nulla di diverso da una fine imminente.
Arrivarono in centro dopo una ventina di minuti, a causa anche di un traffico decisamente deleterio quando si rimaneva a corto di eventuali argomenti di conversazione.
Non c’era proprio nulla da dire relativamente a quella faccenda.
Tom riuscì a parcheggiare in una traversa di Karl-Liebknechtstraße, quindi scese dall’auto ed attese un paio di secondi il gemello facesse lo stesso.
- Bill – sospirò – hai intenzione di scendere entro il prossimo secolo? – chiese esasperato.
Non era passata nemmeno un’ora dal momento in cui avevano ritirato quel referto disgraziato e già non ne poteva sinceramente più.
Il moro si voltò nella sua direzione, prima di sbuffare.
- Ti avevo detto che non ne avevo voglia – pigolò, prima di tornare ad arricciarsi a dovere sul sedile.
- Ma io sì – intervenne Tom, pronto evidentemente a trascinarlo di peso nel primo Café disponibile – E in ogni caso devi fare colazione, klar? -.
Senza indugiare oltre Tom si allungò sul sedile del gemello, slacciò la cintura di sicurezza e lo afferrò per un polso strattonandolo sino a farlo scendere dalla vettura.
- Smettila! – sibilò, prima di spingerlo verso il marciapiede.
Bill non oppose altra resistenza.
Non disse proprio più nulla.


Alla fine Tom lo aveva trascinato da Starbucks, sperando forse che un po’ di sane schifezze americane lo riscuotessero in qualche modo. 
Niente da fare.
Si sentiva svuotato, non riusciva nemmeno a realizzare a pieno tutto quello che stava succedendo. Non ce la faceva, punkt.
Il gemello gli mise davanti una brodaglia marroncina che tentavano di spacciare per caffè ed una ciambella che avrebbe fatto la gioia di Omer Simpson. E indubbiamente anche quella del diabetologo di turno.
- Forza, mangia -.
Allungò la mano verso il bicchiere, quando il telefono prese a squillare.
- Non rispondi? – lo incalzò Tom.
Tirò l’apparecchio fuori dalla borsa, squittendo di stupore di fronte all’ID chiamante.
- Habibi – mormorò, prima di mordersi un labbro.
Non poteva lasciarlo suonare all’infinito e non poteva buttare giù la chiamata.
Anis si sarebbe accorto che c’era qualcosa che non andava. In entrambi i casi.
- Hallo? – pigolò, cercando di riacquistare un briciolo di verve – Certo, Anis. No… no.. va tutto bene… -.
Aveva captato qualcosa. Senza ombra di dubbio.
Tom gli rivolse un’occhiata, prima di decidere fosse meglio suo fratello ed Anis se la sbrigassero tra di loro. Lui, tutt’al più, poteva sostenere il gemello nel caso ce ne fosse stato bisogno, senza intromettersi.
- Sei in studio? – Bill incastrò il telefono tra l’orecchio e la spalla, prendendo a gesticolare in maniera buffa.
Sembrava sentisse la necessità di scaricare la tensione. Più plausibilmente, cercava semplicemente un modo per tenersi occupato.
- Ci vediamo stasera a casa, allora? – concluse, prima di mordersi il labbro – Perché dovrei parlarti di una cosa importante -.
Il moro concluse la telefonata qualche secondo dopo, prima di sospirare e prendersi la testa tra le mani.
- Che casino – sospirò – Che dannatissimo casino -.
Ancora una volta, Tom ritenne più saggio non dir nulla.


Il ritorno a casa fu più breve di quanto Bill non si aspettasse. Nonostante si fosse offerto di prendere la metropolitana in Alexanderplatz, infatti, il gemello aveva insistito per accompagnarlo sin sotto casa e si era persino trattenuto una mezz’ora durante la quale aveva giocato con il cagnolino e osservato mestamente il gemello deambulare per la casa come un essere vuoto.
Non sapeva cosa dire, cosa fare, come comportarsi.
Per la prima volta Bill si ritrovava a dover gestire una situazione spinosa completamente da solo. In ogni caso il suo cucciolo era cresciuto. Avrebbe saputo mostrare i denti all’occasione.
O almeno così credeva.
Aveva lasciato Bill dopo avergli fatto promettere che gli avrebbe telefonato in caso di bisogno.
Si era allontanato dall’appartamento del gemello con la paura che sembrava premere alla gola e – al contempo – la consapevolezza esistessero esperienze che andavano vissute senza l’appoggio di nessun altro che non fosse se stessi.
Il moro si sedette sul divano, sorridendo quando il cagnolino fulmineo gli saltò in grembo e prese a leccargli la faccia.
Gli carezzò l’ispida peluria sulla schiena.
- Tu sei troppo buono, Schatz – mormorò poi all’indirizzo della bestiola – Mi stai dedicando attenzioni che non merito proprio per nulla… - concluse con un sospiro, chiudendo gli occhi e strizzando leggermente le palpebre per impedire ad una lacrima furtiva di rigargli la guancia.
Deglutì rumorosamente, prima di alzarsi di scatto – facendo guaire la bestiola che si ritrovò a terra senza preavviso – e dirigersi verso il bagno.
Si arricciò sul bordo della vasca da bagno prima di stringersi le braccia al petto.
E ora?
Rimase così per un tempo indefinito, con la mente vuota da ogni pensiero.
- Schatz? – la voce di Anis lo fece destare di soprassalto.
L’uomo lo squadrò per qualche secondo, prima di avvicinarsi alla vasca e sfiorare le guance del compagno.
- Tutto bene? – chiese poi.
Il moro annuì, prima di alzarsi in piedi e sfiorare la guancia del tunisino con le labbra.
- Cosa ci facevi qua seduto? – indagò quindi questo ultimo.
L’altro non rispose, si limitò a prenderlo per mano e condurlo in salotto senza dire una parola.
- Ti devo parlare – esordì poi, mordendosi un labbro e sedendosi sul bracciolo del divano.
Anis gli si inginocchiò davanti, cercando di scrutarne il viso.
- Cosa è successo, Schatz? – lo interrogò con voce tesa.
Era preoccupato e non riusciva ad afferrare il contenuto di quanto stava succedendo.
Bill gli indicò la poltrona, prima di iniziare con voce sottile:
- Ti ricordi quell’incontro di lavoro? – esordì, prima di affrettarsi a specificare – Quello durante il quale sono capitato alla serata di Beatzarre… -.
Bushido annuì, senza realmente comprendere dove il compagno volesse andare a parare.
- Ti ricordi di Karl Buchner? L’amico di Cassandra… - aggiunse il moro, iniziando a torcersi penosamente le mani.
Il tunisino annuì nuovamente, mentre millemila ipotesi differenti – una più terrorizzante dell’altra – gli si materializzavano davanti agli occhi.
- Ero arrabbiato perché avevamo litigato, ho bevuto troppo e… -.
La prima cosa che avvertì fu un rumore di vetri infranti.
Aprì gli occhi solo per vedere i cocci di un vaso a terra.
- Cosa cazzo… - la voce di Anis era ridotta ad un sibilo.
Era la stessa rabbia che avrebbe provato una qualsiasi fiera impaurita.
Bill sospirò, cercando di mantenere la calma.
Tentando almeno di rimanere vagamente lucido.
- Non è questo il punto – mormorò, abbassando lo sguardo – Il problema è un altro, e ti capirei decidessi di non volermi più vedere. Avresti tutte le ragioni del mondo… -.
Il tunisino si alzò prima di strattonarlo per un polso.
- Cosa diamine è successo, eh? Cosa potrebbe ancora essere… -.
Non riuscì a continuare perché il compagno gli aveva messo una mano davanti alla bocca, in un’implicita preghiera di far silenzio.
- Karl è sieropositivo – sussurrò, prima di abbassare di nuovo lo sguardo – Ho fatto le analisi e anch… -.
Non riuscì a proseguire.
Il pugno che Anis gli aveva rifilato lo aveva letteralmente fatto crollare sul tappeto. Come un patetico sacco di patate.
- Mi fai schifo -.
Quelle tre parole furono le uniche che il tunisino pronunciò prima di voltarsi senza degnarlo di un altro sguardo e dirigersi verso il bagno.
Bill non si mosse da quella posizione. Rimase steso sul tappeto, tra i cocci, dove lacrime e sangue si mescolavano copiosi.
Rimase sospeso in una sorta di limbo, non si rese conto del tempo che passava, sino a che non sentì due braccia che lo sollevarono di peso.
Finché non sentì di nuovo il suo odore.
Senza una sola parola Anis lo depose sul letto, sul loro letto, prima di voltarsi e chiudere la porta della stanza.
Pochi secondi dopo sentì la porta dell’appartamento sbattere.
Era solo.
Lo era sul serio, da quel momento.


 
Intermezzo Quarto – Parte Seconda
Schaua dich um

Wenn du nach mir greifst,
Dann halt ich dich

[An deiner seite (Ich bin da) – Tokio Hotel]



L’ultima volta in cui si era ritrovato a fumare il Narghilé in quella bettola di Kreuzberg era stato quando la sua storia con Selina era finita. Curioso parallelo, in effetti…
Questa volta, in ogni caso, al suo fianco era spuntato Patrick, evidentemente avvertito da qualcuno che conosceva entrambi. Certe realtà erano esattamente identiche ai paesini di provincia, niente da fare.
- Che è successo, Atze? – la voce dell’amico lo riscosse lievemente dal torpore catatonico in cui era piombato.
Non trovò nulla di sufficientemente esaustivo con il quale rispondergli.
- Bill è un imbecille – si limitò a constatare.
Fler scrollò le spalle, prima di sedersi ed ordinare una birra.
Sarebbe stato un confronto lungo. Con ogni probabilità sarebbe stato pure parecchio penoso.
- Cosa è successo? – ripeté quindi Patrick, passandosi una mano sulla peluria ispida della nuca.
Anis sospirò, prima di allontanare il beccuccio del Narghilé dalle labbra e posarlo a lato del tavolo.
- Si è messo in un gran casino – constatò – E non mi ha detto niente. Un cazzo! – iniziò a berciare, la lingua evidentemente sciolta dal fumo – Come se stessimo insieme solo… -.
- Atze! – l’altro lo bloccò prima che potesse continuare, ingollando un sorso di birra subito dopo.
- Atze un cazzo! – sibilò l’altro – Io non ho passato anni con lui solo per scopare, diamine! -.
Gli occhi di Bushido – se possibile – si erano fatti più scuri.
Neri come il carbone, come un pozzo del quale non si scorgeva il fondo.
A conti fatti, Anis percepiva tutta quella faccenda alla stregua di un fallimento personale. Sentiva sulle proprie spalle il peso di anni passati accanto a qualcuno che alla fine gli aveva nascosto proprio quello. Che si era messo in pericolo, che si stava facendo del male, che stava gestendo una situazione di merda da solo, come se gli anni passati insieme contassero solo in maniera intermittente. Solo quando le cose andavano bene.
Prese la birra dell’amico con un gesto rapido e ne tracannò un sorso.
- Ok, la situazione è grave – mormorò tra sé Fler, prima di riprendersi il boccale e deciderne di svuotarne il resto del contenuto in un unico sorso. 
Ed erano solo le tre del pomeriggio…


Bill era rimasto su quel letto, senza muovere un solo muscolo.
Non riusciva a pensare, tantomeno a muoversi.
Tutto quello su cui riusciva a concentrarsi erano gli occhi scuri di Anis, le iridi di brace del compagno che lo fissavano sprezzanti, arrabbiate, deluse.
Avrebbe fatto le valigie.
Poco importava se l’appartamento era di entrambi: sua la colpa, sua la pena.
Avrebbe chiesto ospitalità a Tom. Si sarebbe rifugiato dal gemello e avrebbe aspettato quella cosa come un verdetto inappellabile.
In quel momento si sentiva alla stregua di un personaggio Kafkiano. Condannato ad una sorte già scritta, incapace di stravolgere le fila del proprio destino.
Il cucciolo era saltato sul letto e gli stava leccando una mano.
Sussultò, accarezzandogli la testolina senza nemmeno voltarsi.
Chi lo avrebbe tenuto? Lui o Anis?
Manco fossero stati una coppia in procinto di separarsi. O forse sì?
Non riuscì a frenare un singhiozzo.
Si rannicchiò maggiormente tra le lenzuola, chiudendo gli occhi.
Non voleva più sentire nulla.
Non gli importava proprio più.
Il telefono di casa aveva preso a squillare. Non si diede nemmeno la pena di rispondere, si limitò a sospirare prima di afferrare un lembo del cuscino e portarselo sul viso.
- Basta – mugolò, mentre l’apparecchio continuava a suonare ed il cagnolino, evidentemente infastidito dal rumore, aveva preso ad abbaiare.
Strizzò le palpebre, cercando di prendere sonno, di chiudere gli occhi almeno per un po’.
Di non sentire più nulla solo per un attimo.


La porta si chiuse. Bill sobbalzò nella stanza ormai in penombra.
Che ore erano? Si mosse a tentoni verso il comodino, quindi afferrò il proprio cellulare e scorse l’ora. Erano le otto di sera. Aveva dormito per quattro ore abbondanti, insomma.
- Dormivi? – la voce di Anis lo fece squittire comicamente.
Si voltò di scatto, senza sapere cosa dire.
Il tunisino si avvicinò, prima di sedersi al suo fianco.
Si stava torcendo le mani. Non glielo aveva quasi mai visto fare.
Era un buon segno?
- Possiamo parlare? – gli chiese quindi, passandogli una mano tra i capelli neri.
Bill annuì senza dire nulla. Non avrebbe saputo come esprimersi, in ogni caso.
Anis sospirò, prima di mordersi un labbro.
Era a disagio, probabilmente si sentiva preso in contropiede.
- Prima ho… ho esagerato – mormorò quindi, prendendo a scrutarlo e passando il dorso di una mano sullo zigomo leggermente escoriato dell’altro.
- Non perché non sia arrabbiato o cosa – si affrettò a proseguire - ma perché non è stato il modo giusto di affrontare questa cosa -.
Il moro sospirò per l’ennesima volta, prima di abbassare lo sguardo.
- Faccio le valigie, tranquillo – mormorò – Solo… posso tenere il cucciolo? -.
Il tunisino scosse il capo.
Non lo aveva ascoltato, o forse non si era nemmeno reso conto di quanto avesse detto.
- Bill – gli passò una mano sotto il mento, alzandolo – Guardami e ascoltami bene, mh? -.
L’interpellato annuì, gli occhi lucidi brillavano sotto la luce soffusa della lampada.
- Quello che è successo non si può cambiare – iniziò Anis – Ma possiamo andare avanti insieme, in ogni caso -.
L’altro si morse un labbro, gli occhi carichi di stupore.
- Non voglio che tu te ne vada, come non me ne andrò io – continuò il rapper – Affronteremo quello che succederà insieme, perché è questo ciò che fanno le coppie, klar? -.
Gli si avvicinò ulteriormente, arrivando a cingerne i fianchi.
- Domani andiamo a sentire un medico come si deve, va bene Schatz? – gli sussurrò poi contro l’orecchio, abbracciandolo non appena si rese conto del fatto avesse iniziato a piangere.
- Alles wird gut – mormorò, sorridendo leggermente non appena si rese conto che il compagno si era di nuovo assopito.
Il suo bambino.
Lo depose tra le lenzuola - esattamente come aveva fatto prima - e si diresse in salotto.
La spesa che aveva fatto prima di rientrare a casa era ancora quasi tutta lì, cibarie a parte che stazionavano in frigo. C’erano i Köfte, qualche caramella, del gelato, dei preservativi.
Un piccolo pezzo di quotidianità con la quale avrebbero dovuto imparare a convivere.
Si sedette sulla poltrona, sospirando.
Aveva passato buona parte del pomeriggio in un Café a Kreuzberg, fumando il narghilè e parlando con Fler.
L’amico lo aveva ascoltato berciare per un’ora piena prima di prendere la parola e metterlo davanti ad un paio di fatti che aveva finto di dimenticare – o molto più probabilmente si era rifiutato di prendere in considerazione -.
State insieme da anni, Atze.
Se è vero che non state insieme solo per scopare devi parlargli.
Dovete venire a capo di ‘sto casino insieme. 
Prendendo e andandotene hai fatto esattamente come lui, sei scappato dalla situazione.
Non sei un cacasotto, Atze. Non far finta di essere quello che non sei.
Vai da lui e parlagli. Digli quello che pensi, trovate una soluzione.
E smettila di tracannarti la mia birra!!!

Era uscito dal Café con tutta l’intenzione di tornare a casa e affrontare Bill. 
Sulla via del ritorno, però, aveva optato per una piccola deviazione e si era diretto al Ka.De.We, e poi in rosticceria.
Aveva tentato maldestramente di recuperare una quotidianità che voleva salvare a tutti i costi.


- Posso sedermi? – la voce di Bill lo riscosse dai suoi pensieri.
Si limitò a prenderlo per un polso e a farlo sedere direttamente sulle proprie gambe.
Vicino. Voleva sentirlo vicino.
Il moro gli sfiorò una guancia con le labbra, prima di rannicchiarglisi contro.
- Ho un po’ fame – constatò poi con un pigolio.
Il tunisino sorrise, carezzandogli la schiena.
- Ho preso i Kö:fte. E le caramelle sono nella borsa – constatò.
L’altro annuì senza volersi realmente staccare. Avrebbe potuto aspettare ancora un poco, dopotutto.
Il telefono di casa prese a suonare, il cagnolino iniziò ad abbaiare.
- Di nuovo –gemette il moro, prima di alzarsi per andare a rispondere.
- Hallo? – istintivamente si mosse verso il compagno – Ah… capito, Patrick. Comunque sì, sono vivo – un sorriso ironico gli si dipinse sulle labbra – No, Anis non mi ha trucidato. Niente delitto d’onore – si scansò quando il tunisino si avvicinò per rubargli il telefono da in mano – Certo, glielo dirò. Sicuramente… -.
Anis riuscì a strappargli il telefono di mano.
- Tu sei uno stronzo – constatò all’indirizzo dell’amico, mentre Bill se la rideva della grossa.
Un velo di serenità si era andato a posare su quella situazione assolutamente ingestibile, appannandone i contorni e addolcendone il retrogusto.
Mentre il tunisino continuava a borbottare in direzione dell’amico, Bill notò la sporta della spesa. Vi si avvicinò per prendere qualcosa da spiluccare mentre il compagno finiva di parlare con Patrick ma si bloccò alla vista di quello.
Quella scatolina grigia – quel dannatissimo affare! – ebbe il potere di annodargli lo stomaco e fargli venire le lacrime agli occhi.
Come si erano ridotti?! E tutto per colpa sua…
Deglutì a vuoto uscendo velocemente dalla stanza. Non ce l’avrebbero fatta. Sarebbero crollati prima. Sarebbe andato tutto a rotoli.
Le mani di Anis attorno ai suoi fianchi lo fecero sussultare.
- Con calma, ok? – sussurrò al suo orecchio – Affronteremo anche quella, un passo per volta – concluse prima di prenderlo per un polso e condurlo in cucina.
- Ora mangiamo, forza… -.
Il moro annuì, con un sospiro.
Un passo per volta, cercando di non inciampare, e forse ce l’avrebbero fatta.
Lui – in ogni caso – sentiva la testa ronzante di dubbi.


Note: qua una precisazione mi sembra d’obbligo.
Nonostante il capitolo (peraltro cortissimo), la vicenda non prenderà una bella piega. Sarà un continuum di alti e bassi, un Sali-scendi di giornate sì e giornate no, perché oltre alla terapia ci sono le controindicazioni del caso, gli esami, il supporto psicologico ed un’altra marea di sfumature che intuirete da sole, presumo.

 
Intermezzo Quarto - Parte Terza
Schweigen

Quando tutte le parole
sai che non ti servon più
quando sudi il tuo coraggio
per non startene laggiù
quando tiri in mezzo Dio,
o il destino o chissachè
che nessuno te lo spiega
perchè sia successo a te 

[Il giorno di dolore che uno ha - Luciano Ligabue]



Esistono abitudini che si costruiscono con un rapporto, che crescono con te e per te.
Vedere Anis cucinare era esattamente una di queste.
Era raro il tunisino si mettesse ai fornelli, ma le poche volte in cui lo faceva si trasformavano in cene memorabili, in vere e proprie feste che continuavano ben oltre la tavola.
Quella mattina, in ogni caso, Bill non si sarebbe mai aspettato di trovare il compagno a destreggiarsi tra piastre e caffettiere.
- Schatz! – lo accolse l’uomo con un sorriso – Ben svegliato! –gli indicò la tavola – Siediti! -.
Il moro si sedette incerto, e subito il compagno gli sporse una tazza di caffè nero bollente ed un piatto di cialde.
Ne prese una e ne mordicchiò un angolo, sospirando al gusto dolce della pasta. Erano proprio buone.
- Forza! – il tunisino prese una tazza di caffè, spense la piastra e si sedette a sua volta – Dopo così ti accompagno dal medico - concluse l’uomo.
Bingo.
Bill spinse indietro la tazza, voltandosi a squadrareiil compagno.
- Che medico, Anis? – chiese seccato.
All’improvviso, i conti sembravano tornare.
Quella non era una colazione fatta per amore, Scheiße! Era una specie di contentino, o un ricatto, o il Cielo solo sapeva cosa!
Il tunisino parve notare il cambiamento d’umore dell’altro ma finse di non darvi peso.
- Ho chiamato il dottore. Abbiamo un appuntamento alle dieci – rispose, prima di prendere un sorso di caffè.
In quel momento, tutto ciò che Bill riuscì a pensare fu “Che nervoso”.
Anis aveva già pensato a tutto, klar! Aveva pensato di poter prendere in mano la situazione come se si trattasse della propria vita, non di quella di qualcuno d’altro. Aveva deciso di interpellare un medico senza nemmeno prendere in considerazione il fatto lui non volesse saperne! Gli aveva appena dimostrato quanto poco contasse la sua opinione all’interno del loro rapporto.
Sospirò, cercando di contenere una reazione che altrimenti sarebbe parsa ridicolmente isterica.
- Che medico, Anis? – cercò di misurare le parole, di calibrare il tono di voce per non sembrare esasperato, incazzato, frustrato.
Per non dargli la soddisfazione di mostrarsi debole, vacillante.
Il tunisino poggiò la tazza, prima di alzare lo sguardo sul compagno e prendergli una mano.
Prenderla e stringerla.
- Il Dottor Bergmann è uno dei migliori medici di Berlino, Schatz – avvicinò la mano dell’altro alle labbra e la sfiorò con un bacio – Per tenon voglio nulla di diverso -.
In quel pronome personale era davvero racchiuso tutto. Amore, fedeltà, devozione, persino orgoglio.
La rabbia – in ogni caso – il più delle volte acceca anche se davanti si hanno le migliori intenzioni, i sentimenti più veri.
- E chi ti dice, Anis, che io abbia intenzione di farmi visitare da Chicchessia? – sputò fuori polemico Bill.
Il tunisino non mollò la presa sulla mano dell’altro, si limitò a stringerla con più forza.
Ed era calore e dolore insieme.
- Hai intenzione di continuare a piangerti addosso o vogliamo darci una mossa? -.
Era scorretto.
Aveva risposto ad una domanda con un’altra domanda.
Lo aveva messo con le spalle al muro con un pugno di parole.
Con uno scatto nervoso il moro fece per alzarsi ma non ci riuscì, la mano ancora stretta a quella del compagno.
- Lasciami – sibilò – lasciami la mano, Anis -.
Questi si alzò a propria volta per fronteggiare il compagno.
- No – mormorò lapidario, prima di passare la mano libera tra i capelli di Bill – No, Schatz -.
Un sussurrò, quasi un mormorio che però conteneva tutte le sfumature del mondo.
Possesso, Rabbia, Dolore, Amore.
Il tunisino si avvicinò ancora di un passo, prima di sfiorargli la radice del naso con le labbra e far scivolare la mano dal polso al fianco del compagno.
- Ascolta Bill – niente più Schatz, Prinzesschen, Habibi, Liebe. Le cose si facevano serie – Lo so che non ne puoi più di ospedali, visite, analisi. Questa volta però è diverso. Sentiamo cosa ci dice il dottore, cosa possiamo fare, poi se non ti piace cambiamo medico, anche città se vuoi. Però questo tentativo va fatto, klar? -.
L’altro si morse un labbro, prima di carezzargli la schiena ed allontanarsi verso la camera da letto.
- No, Anis. Tu non lo sai – concluse, prima di andarsi a cambiare.


Lo studio del Dottor Bergmann era poco distante dal centro, e benché questi ricevesse anche in ospedale la saletta era già stipata di pazienti alle nove e mezza del mattino.
Tutto quello che Bill avrebbe voluto fare, in ogni caso, era girare i tacchi ed andarsene.
Tornare a casa e mettersi a dormire.
La mano di Anis stretta alla propria, però, era un monito ed insieme una preghiera. Era un qualcosa che lo teneva inchiodato ad una situazione dalla quale voleva solo fuggire.
Una segretaria vestita di bianco – fastidiosa nel suo essere impeccabile e compita – uscì dallo studio con una cartellina in mano.
- Herr Ferchichi – chiamò.
Bill si voltò di scatto verso il compagno, che si limitò a scrollare le spalle.
- Per la reputazione che ho… - borbottò, prima di muoversi verso lo studio con la mano ancora stretta alla sua.
Non poté far altro che seguirlo.
Lo studio di Herr Bergmann era molto più grande di quanto non ci si sarebbe aspettato vedendo la palazzina dall’esterno. Era spazioso ed incredibilmente luminoso, nonostante le finestre fossero ben poco ampie e affacciassero su un cortile interno.
Il medico, un uomo dall’aria gioviale ed incredibilmente serena, si alzò per stringere loro la mano.
- Bene – mormorò poi, rivolgendo lo sguardo verso Anis – Vedo che è riuscito a venire con il signor Kaulitz – sorrise affabile, prima di indicar loro le poltrone – Prego, accomodatevi -.
Si sedettero e subito l’uomo tirò fuori una cartellina dove iniziò a compilare un foglio.
- Ha con lei le analisi, Herr Kaulitz? -.
Bill sussultò, prima di prendere una busta che Anis gli aveva cacciato in borsa poco prima partissero.
Prima di quel viaggio incredibilmente lungo e silenzioso.
Porse il referto al medico, che iniziò a trascrivere alcuni valori, prima di rivolgere l’attenzione al moro.
- Il contagio è abbastanza recente, giusto? -.
L’altro si morse un labbro.
- Circa due mesi – mormorò, torcendosi penosamente le mani.
Che situazione del cazzo.
Era al centro dell’attenzione quando avrebbe solo voluto rifugiarsi in un cono d’ombra.
Il medico alzò il viso stupito.
- Non ricorda la data precisa? -.
Bill sospirò.
- N-no… cioè sì, aspetti – fece per controllare sul blackberry, evidentemente a disagio, quando Anis lo precedette snocciolando la data precisa.
Sembrava se la fosse marchiata a fuoco nella mente. Forse era proprio così. 
Il medico annuì, annotandola e mormorando un 
- Capisco – 
che per qualche strano motivo gli sembrava insultante oltre ogni limite concepibile.
- Allora – iniziò l’uomo – passiamo ai dati concreti -.
Bill si morse un labbro e chiuse gli occhi.
Il calore di casa sua non gli era mai mancato così tanto…


Circa mezz’ora dopo Herr Bergmann si congedò dai due uomini, consegnando direttamente ad Anis – ad Anis! Bill Kaulitz non valeva nemmeno il disturbo di un paio di foglietti - un plico di ricette, il piano terapeutico, un paio di opuscoli ed un volumetto.
- Direttamente dalla conferenza di Vienna [1] – aveva sorriso, come se snocciolare conferenze potesse essere di una qualche utilità.
Non si poteva tornare indietro, non si poteva fare nulla di nulla.
I rimedi miracolosi non esistevano, fertig.
Uscirono dal palazzo in religioso silenzio, prima che la stretta di Anis sul suo polso lo facesse fermare.
- Bill? – il sospiro stanco del tunisino ebbe l’unico effetto di innervosire ulteriormente l’altro – Dici qualcosa, per favore? -.
Il moro si morse un labbro, limitandosi a deglutire a vuoto prima di voltarsi verso il tunisino.
- Ci fermiamo a mangiare qualcosa? Ho fame – mormorò, prima di riprendere a camminare.
Anis lo seguì, stringendogli la mano un altro poco.
- Forza – lo sentì mormorare – Ce la faremo -.
Vaffanculo.
Vaffanculo, Anis.
Non sei tu quello che sta male, tu non devi farcela a fare proprio un bel niente. 
Non sei tu quello che si è trovato catapultato nella fantasia di un pazzo.
Non sei tu quello che l’ha presa in culo due volte.
Non sei tu quello che Dio solo sa quanto ancora avrà da vivere.
Tu, tutt’al più, sei quello che dovrà fingere di sopportare questa merda sino al giorno…

Gli sfuggì un singhiozzo senza che nemmeno se ne rendesse pienamente conto.
Il compagno, in ogni caso, si era già voltato allarmato.
- Schatz – la mano di Anis sulla spalla sembrava bruciare.
Toglila toglila toglila.
Il moro deglutì, prima di sospirare e riprendere il controllo.
- Andiamo? – fu tutto quello che mormorò.
Di nuovo, Anis lo seguì con un sospiro.
Si fermarono in un piccolo bar dall’aria discretamente tranquilla, ordinarono e rimasero in attesa delle rispettive ordinazioni.
Il tutto nel più assoluto silenzio, quasi la tensione avesse tolto loro la voglia di parlare.
In pochi minuti il cameriere depose davanti a loro brioches e caffè, prima di congedarsi.
Bill iniziò a piluccare il proprio dolce, impiastricciandosi le mani di marmellata senza quasi rendersene conto. 
- Non hai più fame? – gli chiese Anis, prima di sfiorargli le labbra con un dito e togliere così qualche briciola di sfoglia.
L’altro si limito ad un 
- Mh –
prima di posare il dolce e iniziare a sorbire il caffè.
Era bollente, ma parve non curarsene.
Era come se non sentisse proprio più nulla.
Anis, dal canto suo, si limitò a bere un sorso di caffè, prima di posarlo e mettere le mani sulla cartellina che il medico gli aveva consegnato.
- Vediamo un po’… - aveva iniziato, nel tentativo di coinvolgere il compagno – qua ci sono i dosaggi e qua la terapia. – arricciò il naso, concentrandosi su un paragrafo scritto fitto – C’è anche scritto di fare sport, per irrobustire il fisico. Magari possiamo provare ad andare a correre… - buttò lì, aspettandosi una reazione oltraggiata da parte di chi odiava sudare.
- Come vuoi – fu la risposta che ottenne, mentre il moro finiva di mangiare il dolce e tornava al proprio caffè.
Calma, Anis. Calmati.
Sta male, è sconvolto, ha bisogno di te.
È un po’ come quando la Mama è stata male, sai che bisogna avere pazienza. 
O come quando Sercan aveva la febbre e piantava un sacco di grane.
Non perdere le staffe, non urlare, non prenderlo a schiaffi.
Non farlo, Anis. Non farlo.

Il tunisino si spostò di fianco al compagno, prima di alzargli repentinamente il volto e prendere a baciarlo con un trasporto persino rabbioso.
Dopo nemmeno mezzo minuto, Bill lo spinse via.
- Che fai? – sibilò – Sei pazzo?! -.
L’altro non si fece impressionare.
- Volevo vedere fino a che punto ti fossi incantato –.
In quel momento erano come due cavalli che – attaccati allo stesso carro – spingevano in direzioni opposte.
Non esisteva certezza alcuna relativamente a quando la corda si sarebbe spezzata, e alla parte che si sarebbe sfilacciata per prima. Una cosa però era sicura: il carro non si sarebbe mosso.

[1]: dal 19 al 23 luglio 2010, proprio a Vienna, si è svolto un ciclo di Conferenze a tema. [FONTE: Rfi.fr – http://bit.ly/9QKmkc ]


 
Intermezzo Quarto – Parte Terza 
Geschlossene Türen 


 
Alcuni hanno trovato alla fine il nemico, 
e non dovevano mica cercare lontano! 
Alcuni si chiedono di che cosa vivranno, 
alcuni si chiedono come, 
alcuni lo sanno. 
Alcuni sputano tutte le proprie sentenze, 
senza nemmeno averle masticate. 

[Taca Banda – Ligabue]



Erano appena le sei quando la stretta di Anis sulla propria spalla lo riscosse da un sonno che altrimenti avrebbe prolungato ancora almeno per un paio d’ore.
- Schatz – la voce dell’uomo gli giunse attutita a causa del leggero stordimento che precedeva il risveglio – Forza, alzati! -.
Bill si mosse leggermente, prima di affondare il viso nel cuscino e mugolare qualcosa di incomprensibile.
Il tunisino non demorse.
- Dai, è ora di scendere dal letto pigrone! -.
Dopo altri cinque minuti di tentativi – finalmente – il moro si volse con gli occhi ancora gonfi, per squadrarlo inviperito.
- Ma cosa diamine… - le parole gli morirono in gola non appena si rese conto che quello che Anis aveva indosso non era un pigiama, ma una tuta in acetato che era evidentemente sfuggita all’ultimo cambio d’armadio.
Anis si mise le mani sui fianchi, sorridendo leggermente prima di sollevarlo di peso e – dopo un bacio troppo leggere per essere veramente definito tale – metterlo in piedi.
- Forza, mettiti una tuta che usciamo! -.
Evidentemente quel Qualcuno lassù aveva deciso di punirlo per qualcosa del quale nemmeno ricordava l’esistenza.
- Ma cosa… -.
Il tunisino gli mise un dito davanti alla bocca, prima di indicargli nuovamente il capo d’abbigliamento.
- Forza! -.
Glielo avrebbe azzannato, quel diamine di dito!
Si vestì, continuando a squadrarlo torvo.
Che aveva in mente? Dove voleva trascinarlo conciato come uno spaventapasseri? Forse era meglio non chiederselo.

Che la giornata si stesse rivelando un incubo degno del miglior film horror dell’ultimo secolo, Bill lo comprese a pieno quando si ritrovò nel parco del quartiere.
- Visto che il medico ha detto che è il caso di aumentare l’esercizio fisico – esordì Anis, compito come un ridicolo cerimoniere – Ho deciso che possiamo provare con la corsa. Possiamo farlo insieme, poi avendo il parchetto a due passi è proprio comodo – iniziò a saltellare sul posto, prima di prenderlo per mano – Pronti? Si va! -.
Inizialmente Bill lo seguì per pura inerzia, ancora pieno di comico stupore.
Al terzo giro di corsa cercò di divincolarsi dalla presa del compagno, che però finse di non notarlo e decelerò semplicemente il passo.
Dieci minuti dopo, le proteste del moro iniziarono a farsi sentire.
- E lasciami! Cazzo, Anis! Ma che ti sei messo in testa!? -.
Il tunisino, un po’ per sfregio un po’ per nervoso, accelerò il passo continuando a tenerlo stretto per il polso.
Non erano nemmeno le sette e voleva già lasciarlo lì a lamentarsi.
All’ennesima protesta Anis lo strattonò prima di lasciargli la mano e voltarsi.
Quegli occhi di brace non gli erano mai sembrati tanto scuri.
- La smetti? – sibilò – Smettila di lamentarti e corri, Scheiße – concluse prima di riprendere a correre.
Lasciandolo indietro.
Il moro osservò torvo la sagoma del compagno muoversi, prima di guardarsi intorno alla ricerca di una panchina.
Si sedette, passandosi una mano sulla fronte e massaggiandosi le tempie.
Pretendere si mettesse a correre come uno dei tanti cretini appassionati di jogging era ridicolo. Lo era pensare di prepararlo alla maratona da un giorno all’altro. Era stupido e anche poco rispettoso ritenere fosse facile risolvere le cose con due saltelli tra gli alberi.
Sospirò.
Per certe cose non c’era soluzione alcuna, invece.
Tanto valeva tornare a casa, farsi una doccia e fare colazione.
In ufficio c’era qualcosa come una montagna di mail da smistare, millemila demo da catalogare e una decina di contratti da visionare. 
Si alzò in piedi con un sospiro, prima di voltarsi e dirigersi nuovamente verso l’appartamento.
Nemmeno uno sguardo al tunisino che – dal canto proprio – lo stava fissando da un paio di minuti, le labbra contratte e l’espressione tesa.


L’acqua della doccia era tiepida sulla sua pelle umida di sudore.
Prese il bagnoschiuma, maledicendo silenziosamente il fatto Bill lo mettesse sempre sul ripiano più alto costringendolo a saltelli in punta di piedi che un giorno o l’altro gli avrebbero fatto rischiare l’osso del collo.
Il compagno era uscito da poco quando lui era rientrato, lo testimoniava il caffè ancora caldo e l’odore forte del dopobarba che non aveva ancora abbandonato il bagno. 
Il suo tentativo di dare una svolta all’apatia di Bill era fallito. Il moro non sembrava intenzionato a mettersi sotto per cercare – quantomeno – di arginare i danni, probabilmente non gliene fregava proprio niente di rischiare di…
Scosse il capo, prima di insaponarsi le spalle indolenzite e sbuffare.
Meglio non pensarci. Pensare al peggio non era utile; non lo era quanto impegnarsi in maniera propositiva, almeno.
Magari avrebbe potuto tentare con la palestra, l’alimentazione, qualche passeggiata in più con il cane…
Perso com’era nei propri pensieri ci mise un paio di minuti a rendersi conto il proprio telefonino stesse squillando. Sbuffando chiuse i rubinetti.
- Hallo? – mormorò laconico, senza prendersi il disturbo di guardare chi avesse deciso di interrompere il suo bagno.
Dall’altro capo del telefono – manco a dire quanto il Destino si divertisse a prenderlo in giro – c’era Tom Kaulitz.
- Bill te l’ha detto, immagino – esordì l’ex chitarrista dei Tokio Hotel.
Le parole furono seguite dal suono inconfondibile della ghiera dell’accendino.
Non si prese nemmeno la briga di rispondergli.
- Lui è lì? – chiese, prima di incastrare il cellulare tra la spalla e l’orecchio e muoversi alla ricerca di un asciugamano con il quale asciugarsi.
Seguì una pausa lunga il tempo di una boccata.
- E’ appena arrivato – rispose poi – Ed era anche abbastanza incazzato. -.
Anis sbuffò, gettando l’asciugamano umido nella cesta dei panni da lavare.
- Tuo fratello si comporta come un poppante stupido, a volte, fertig – rispose con voce incolore poco dopo.
- Ricordati con chi parli -.
Il tunisino si diresse verso la camera da letto, sempre con il telefono incollato all’orecchio, e prese a vestirsi, optando infine per il vivavoce onde evitare contorsioni che – di certo – non avrebbero giovato alla sua schiena.
- Come… sì, insomma… come ci comportiamo? -.
Anis sorrise, quasi intenerito di fronte al repentino cambiamento di tono nella voce di Tom. 
Da mastino napoletano a mamma chioccia solo per amore di un poppante viziato. Del poppante che entrambi amavano più d’ogni altra cosa.
E per il quale avrebbero lottato, punkt.


Quella era almeno la ventesima mail di spam che eliminava, diamine!
Con uno sbadiglio stanco quanto stufo, Bill la eliminò e prese a leggere quella successiva.
Era di David.
Si prese il tempo di stupirsene – lavoravano per la stessa casa discografica e si vedevano praticamente ogni due per tre. Perché scrivergli quando poteva parlargli a quattr’occhi?! – prima di aprirla.
Lo stupore che gli aveva sfigurato il viso divenne ben presto un sorriso di fronte alla foto di una bimba bionda che stringeva un cagnolino di pezza. Ireine Jost – la piccola di casa Jost, la seconda figlia del produttore – invitava Bill Kaulitz ed il suo fidanzato al proprio compleanno.
Stava ancora osservando la foto della piccola quando un pensiero lo colse.
Lui non avrebbe mai avuto una famiglia. Anche non considerando la sua relazione con Anis – anche cancellandola con un colpo di spugna egoista e insensato – ora era davvero condannato a rimanere da solo. Tutto per una stronzata insensata, dettata dal nervoso, dalla rabbia e dal rancore. Tutto perché si era giocato la possibilità di essere felice anche in quel senso. 
Chiuse il laptop con un gesto nervoso – senza nemmeno spegnerlo – prima di alzarsi e dirigersi alla finestra. Si accese una Malboro e aspirò la prima boccata, cercando nella nicotina un effetto calmante che ormai percepiva a stento.
- Tutto bene, Billi? – la voce di Tom lo fece voltare di scatto.
Annuì stancamente, prima di prendere l’ennesima boccata.
- Ho un sacco di posta da smistare – borbottò annoiato – e i demo da sistemare. Vaffanculo a me che mi sono preso qualche giorno di vacanza di troppo – concluse spegnendo la cicca e ridirigendosi verso il portatile, ormai in stand-by.
Il gemello lo seguì con lo sguardo, prima di avvicinarsi con circospezione e sfiorargli una guancia con le labbra.
- Non era quello che volevo sapere, ma è stata una risposta esauriente lo stesso – mormorò, prima di sedersi davanti alla scrivania e squadrarlo con aria circospetta.
- Ho sentito Anis – buttò lì con fare casuale.
Bill rispose con un – Mh – fintamente indifferente, prima di tornare a dedicare la propria attenzione al computer.
Archiviò velocemente la mail di David e cestinò un altro poco di spam. Con un po’ di fortuna avrebbe finito per l’ora di pranzo.
- Billi? – la voce di Tom era un richiamo fastidioso, l’eco di una realtà che voleva disperatamente accantonare – Mi ascolti un attimo? -.
Il moro alzò il viso, prima di sospirare stancamente.
- Ho un sacco di lavoro arretrato, mail che fioccano come manco le stelle a San Lorenzo e altri tre demo in arrivo – mormorò prima di passarsi una mano dietro la nuca – Non possiamo parlarne a pranzo? -.
L’altro allungò un braccio e gli strinse la mano.
- Ho parlato con Anis – ripetè – E mi ha detto di stamattina -.
Bingo.
Ora erano in due a tentare di mettere il becco dove non avrebbero dovuto. Erano in due a pretendere cambiasse le proprie abitudini da un giorno all’altro, a pretendere di imporsi in quel modo ridicolo.
Strinse il pugno, inspirando rumorosamente.
- Stamattina – iniziò, cercando di non apparire troppo alterato – Anis ha tentato di mettersi in mezzo a questioni che non gli competono. Sono io che sto male, io! Non provate a mettervi nei miei panni! – con un ultimo sguardo torvo il moro prese il cappotto e la borsa, lasciando la stanza.
Tom non lo seguì. Non quella volta.
Bill era sconvolto, impaurito, aveva bisogno di calmarsi. Ecco.
La verità era che Bill era incazzato come una belva. Inferocito al punto da scambiare le intenzioni migliori del mondo in imposizioni coatte. Quella sequenza infinita di incomprensioni non avrebbe portato a nulla di buono, di sicuro.


Quando ormai era davanti all’uscita Bill si fermò un secondo, prima di tirare fuori il cellulare dalla tracolla e comporre un numero che conosceva a memoria da tempo immemore.
- Tu sei uno stronzo imbecille cretino apocalittico! – sibilò con astio – Dove cazzo sei?! -.
Dall’altro capo del telefono Anis si prese il tempo di digerire quell’accozzaglia di prosopopea da scaricatore di porto, prima di rispondere.
- In studio, Bill. È successo qualcosa? -.
La risposta che seguì non lo stupì poi così tanto.
- Aspettami, dobbiamo parlare? -.
In nemmeno venti minuti il moro lo aveva raggiunto.
Anis lo accolse alla porta con lo sguardo di chi – davvero – non sa più che dire o che fare.
- Si può sapere cosa… -.
Bill lo mise a tacere con un ceffone terribile. Uno di quelli che gli era scappato pochissime volte da che stavano insieme. Uno di quelli che gli tirava quando davvero non ne poteva più.
- Tu sei un uomo di merda – sibilò il moro, prima di voltarsi e scendere nuovamente le scale – Con me hai chiuso -.
Anis non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare quel pugno di parole che l’altro era già sparito.


 
Intermezzo Quarto - Parte Quinta
Lust vom Leben und Streben
 
Cause I'm not giving up
I'm not running away
There's nowhere left to hide
Cause I'm not going to chance
Change to suit your ways
I'd rather stand and fight

You feel your life gets turned around
You feel your world come crashing down

This is not my faith
This is not my faith
This is not the reason why I live my life

[Faith – Reamonn]



Quando era tornato a casa, Bill stava ancora armeggiando con valigie e borsoni.
Era talmente preso dalle proprie attività che non aveva sentito la porta chiudersi, né lo aveva visto avvicinarglisi.
Dopo la fuga di Bill - posto fosse ragionevole porre la questione in quei termini, visto e considerato il compagno non fosse ancora veramente scappato - era rimasto fermo un paio di minuti, come un coglione, per poi cedere al nervoso e correre verso casa, pestando sull'acceleratore della macchina come poche volte aveva fatto.
Bill era un cretino, un poppante viziato, un ragazzino stupido e egoista. 
Non capiva cosa si nascondeva davvero dietro un gesto d'amore, non percepiva l'essenza dell'affetto più grande del mondo nemmeno quando glielo sbattevi davanti agli occhi. 
Era cieco, anzi era accecato dalla rabbia e dal dolore.
Probabilmente, anche dalla paura.

Stava armeggiando con una cerniera che non si chiudeva, in quel momento, stava smanettando con un borsone troppo pieno per chiudersi. 
Sorrise, pensando succedesse ogni qual volta decidessero all'ultimo minuto di prendersi un week-end solo per loro, di partire con un cambio per macinare chilometri e dimenticare il grigiore della città, di ricordarsi come fosse bello perdersi dietro millemila stelle e amare quella più luminosa.
Si avvicinò ancora un poco, prima di schiarirsi la voce facendolo sobbalzare.
- Hai intenzione di romperla, quella cerniera? -.
Lo disse così, senza la minima acrimonia, con la voce stanca - esausta! - di chi sente di combattere una battaglia persa, eppure l'altro alzò lo sguardo giusto il tempo necessario a lanciargli un' occhiataccia.
- Non vedo come la cosa possa riguardarti - sibilò - Ora lasciami finire 'ste dannate valigie - concluse dando uno strappo secco alla chiusura che, come da copione, gli rimase in mano.
- Vaffanculo! - sibilò, prima di prendere il borsone e gettarlo a terra.
I vestiti si sparsero in terra, formando un disegno astratto sulle tinte dell'antracite.
Il moro iniziò a prenderli direttamente a calci, quasi manifestare il proprio nervoso contro dei pezzi di stoffa servisse effettivamente a qualcosa.
Era delirante.
Fu Anis a fermarlo, a bloccare quello sfogo inconsulto di rabbia.
Lo artigliò per un polso, cercando di fermarlo prima che facesse effettivamente qualche danno irreparabile.
- Datti una calmata – sibilò, ma l’altro parve non sentirlo.
Bill fece per divincolarsi, ma la stretta del compagno era salda. 
Era troppo forte perché potesse anche solo pensare di opporvisi.
- Calmati, cazzo! -.
Tutto inutile. Il moro era completamente fuori controllo, come una fiera impazzita che non sente, né tantomeno arriva a capire quanto gli viene detto. Era la rabbia e mandarlo del tutto fuori rotta, ma non solo. Era un marasma di emozioni, spesso anche contrastanti. Era rabbia, certo, ma anche nervoso, senso d’impotenza, rancore, disgusto nei confronti di se stesso, paura.
Paura di non farcela, di deluderlo, di non sopravvivere innanzitutto a se stesso.
Era quel terrore a spingerlo in avanti e – al contempo – a bloccarlo senza rimedio.
Cercò di spingere via Anis, di divincolarsi, arrivò persino a caricare una testata che però si scontrò con la granitica resistenza di un uomo che aveva sempre fatto a pugni con la vita stessa.
Lo schiaffo di Anis arrivò quando stava per caricare l’ennesimo pugno, la mano del tunisino contro la sua guancia come unica risposta ad una serie di gesti che – davvero – non aveva mai nemmeno ponderato.
Bill parve riscuotersi, l’espressione feroce di poco prima lasciò il posto allo stupore.
- Ti sei calmato, o dobbiamo affittare un ring per poter anche solo pensare di discutere civilmente? -.
La voce del tunisino gli giunse come attutita. Stava sentendo, ma non ascoltava con l’attenzione che avrebbe dovuto prestare alle parole del compagno.
Si limitò a strizzare un poco gli occhi, prima di caricare di nuovo.
Era un lottatore, Bill. Lo era sempre stato, e forse era anche per questo se ne fosse innamorato senza rimedio anni prima. Lottava, si imponeva con i denti e con le unghie, picchiava duro per il solo bisogno d’imporsi.
Peccato se lo ricordasse nel modo sbagliato.
Se da un lato, insomma, Anis era evidentemente ammirato per quella dimostrazione di forza insperata, dall’altro non sapeva più cosa fare affinché la situazione non degenerasse oltre il consentito.
Con un sospiro tentò l’ultima cosa gli fosse venuta in mente di tentare.
Giocare scorretto, insomma.
Afferrò il compagno per la vita, ignorando i calci i pugni i morsi. Lo prese e lo spinse sul letto, prima di arrivargli sopra e tentare di bloccargli i polsi sopra la testa.
Come quando facevano l’amore. Come quando si perdevano in quella danza fatta di potere di violenza e di voglia.
Bill sembrò fermarsi un istante per prender fiato, calmarsi, pensare al contrattacco.
Non si era nemmeno reso conto a pieno di quando – effettivamente – l’amore fosse diventato rancore, rabbia, cattiveria, violenza.
Anis ne captò lo sguardo. Posò la propria fronte su quella dell’altro – sperando comicamente di non ricevere una testata da manuale – per essere sicuro di incrociarne gli occhi. Sospirò.
- Ti calmi un pochettino, Bill? -.
Il tunisino era esausto. Lo dimostravano i suoi gesti, le sue parole, persino quegli occhi tanto scuri.
Eppure continuava a fronteggiarlo, a confrontarsi e scontrarsi con lui per un amore troppo grande al quale non sapeva rinunciare. Al quale non voleva rinunciare. Probabilmente era un egoista, ma non gliene importava neppure troppo.
- Lasciami – la voce di Bill era un sussurrò affannato, un pigolio stanco – Mi stai facendo male alle braccia. Per favore – calcò la voce sulle ultime due parole, come a voler confermare la bontà delle proprie intenzioni.
Le mani di Anis scivolarono sulla sua vita, il capo si spostò nell’incavo del collo dell’altro.
In quel momento sembravano una bellissima scultura moderna, una di quelle che si prendevano sempre il lusso di prendere in giro, quando erano invitati nel salotto di quella o quell’altra starletta sposata con l’ennesimo riccone. Sembravano legati, incastrati, una cosa sola. 
Forse era proprio vero l’amore costruisse nodi che nessuno avrebbe mai sciolto. Mai, proprio mai. 
- Ti sei calmato? – la voce di Anis riscosse Bill dall’ennesimo turbinio di pensieri nefasti, la mano del tunisino andò a cercare quella del compagno per stringerla.
Il moro si limitò ad annuire, cercando di soffocare un singhiozzo che l’altro percepì direttamente nel timpano. Alzò di un poco il viso e raccolse la lacrima che rigava la sua guancia direttamente con le labbra, suggendo un dispiacere che era anche il suo, cercando di confortarlo e trarne conforto a sua volta.
- Schatz – mormorò, prima di rotolare supino e trarlo a sé con una presa decisa – Ich bin da, Schatz. Immer – concluse prima di carezzarne la schiena.
L’altro si limitò a rannicchiarsi contro il suo petto e, dopo una decina di minuti, si addormentò ancora stretto in quella morsa fatta d’affetto.


Mentre il compagno dormiva, Anis si prese il disturbo di sistemare un po’ quel caos e di sfamare il cagnolino – testimone di una furia che poche volte li aveva colti con quell’intensità violenta -.
Si sedette sulla poltroncina della camera da letto, intenzionato a non abbandonare Bill nemmeno per un momento. Nemmeno nel sonno.
Con un sospiro si prese la testa tra le mani.
Che fare?
Cosa cazzo poteva fare a fronte di una furia del genere, di una crisi nervosa del genere!?
Forse aveva ragione Herr Bergmann. Forse dovevano rivolgersi all’Aidshilfe, forse dovevano sentire uno psicologo, forse…

Tutta quella spirale di dubbi e possibilità lo lasciava del tutto attonito, lo bloccava nell’incapacità di fare qualcosa di concreto. 
Si alzò di scatto, afferrando il telefono per digitare un mucchio di cifre che conosceva a memoria.
- Sercan? Hai da fare? -.
Dall’altra parte della linea giunse un mormorio stupito, prima che suo fratello riuscisse ad articolare una risposta concreta.
- No. Cioè… il solito qui in ufficio. Ma nulla di importante, ecco. – si prese un paio di secondi prima di porre quella domanda inevitabile – Che è successo, Anis? -.
Avrebbe potuto dirgli “Tutto” come rispondere “Niente”. La verità è che c’erano troppe sfumature in ballo perché potesse coglierle compiutamente. Lui per primo.
- No – si limitò a rispondere, per poi rettificare – Cioè sì… un casino, davvero un casino – concluse con un sospiro scontento.
Il fatto suo fratello si rapportasse a lui con quella franchezza in pochissime occasioni contribuì a far preoccupare Sercan ben oltre il consentito.
- Ma sei sicuro di stare bene? – chiese infatti, allarmato – Vuoi che ti raggiunga? -.
Anis colse un leggero movimento dalle parti del letto, quindi si affrettò a rispondere.
- Facciamo che ci vediamo in questi giorni per due chiacchiere – mormorò – Scusami ma ora devo proprio scappare -.
Concluse in fretta la chiamata, prima di alzarsi e dirigersi verso il letto.
- Ehi, Mäuschen – mormorò in direzione di Bill, che si stava svegliando – Ben svegliato -.
Gli passò una mano tra i capelli scuri, prima di stenderglisi accanto e cercare la sua mano.
L’altro mugugnò qualcosa, prima di voltarsi con lo sguardo ancora appannato e cercare i suoi occhi.
- Anis – iniziò tentennante come forse solo durante i primi appuntamenti – Io… cioè… noi – si passò una mano tra i capelli, sospirando rumorosamente.
- Detesto incartarmi con le parole – bofonchiò infine.
Il tunisino sorrise indulgente, prima di sfiorargli le labbra con le proprie.
- Mediti ancora la fuga? – mormorò, con un tono di voce a metà tra l’ansioso e il giocoso.
Il moro arrossì, prima di allungargli una gomitata.
- Antipatico – borbottò, prima di sospirare – Comunque no. Non credo, almeno. – si alzò un poco per riuscire a squadrarlo – Però non mi è piaciuto quello che hai fatto. Ti sei… - si morse un labbro, alla ricerca del termine più adatto - intromesso, ecco. E non mi hai nemmeno interpellato – concluse, prima di sciogliere la stretta alla mano dell’altro e mettersi a sedere.
Anis si sedette al suo fianco, spalla contro spalla.
- Intromettermi? – il tunisino era interdetto. 
Non ci aveva mai veramente pensato, non in quei termini. Si era limitato ad agire, cercando di fare del proprio meglio, in una direzione vagamente plausibile. Ma messa in quei termini…
- Forse non ho usato un termine felice, ma ti giuro che l’impressione stamattina era proprio quella. Io non contavo nulla… - Bill appoggiò il capo contro la testiera del letto, chiudendo gli occhi per un istante.
- Bill – iniziò Anis, con voce secca. Sembrava persino offeso. - A te sembra non importare nulla di quanto è successo. – si passò una mano sulla base della nuca, prima di sospirare e imporsi un minimo di calma – Hai fatto un casino, ti sei messo in un casino senza rimedio, e non vuoi uscirne – concluse, squadrandolo serio.
Il moro si voltò di scatto.
- Non c’è una via d’uscita Anis – sibilò secco – E’ inutile star qui a prenderci per il culo e… -.
Gli grandinò addosso l’ennesimo schiaffo.
Anis stava perdendo il controllo, facendo riaffiorare il lupo nascosto sotto il quarantenne imborghesito.
- Tu non sei morto, cazzo! – lo urlò, come si urla una bestemmia una preghiera un insulto – Non devi permetterti di pensarlo! Si può fare qualcosa, e io non ti permetterò di lasciarmi così, capito!? A costo di prenderti a calci in culo ogni santo giorno, tu… -.
La voce gli morì in gola.
- Non posso guarire Anis – la voce di Bill era flebile – Questo proprio non posso farlo -.
Si alzò dal letto, ma la mano di Anis era ancora stretta alla sua.
Il tunisino se lo spinse contro, prima di divorargli letteralmente le labbra.
Bill si ritrovò con la schiena contro il materasso, mentre il compagno lo sovrastava e riprendeva a baciarlo.
C’era qualcosa di istintivo e animale in un gesto del genere. Era possesso voglia disperazione amore paura. Un caleidoscopio di sentimenti, una valanga di emozioni tutte insieme, ingestibili eppure necessarie.
- Giurami che lotterai – un ansito che gli uscì dalle labbra ben prima che se ne rendesse conto.
Gli occhi di Bill incrociarono i suoi. Erano appannati dalla voglia dalla paura dall’amore.
- Giurami che non mi lasci da solo – mormorò, prima di baciarlo.
L’unica risposta che ricevette fu un gemito gruttuale ed un altro bacio.
Non era certo la prima volta facessero l’amore, ma per certi versi l’emozione era la stessa.
La paura la voglia il dolore ed un orgasmo rumoroso ed esausto.
A quella nuova intrusione Bill fremette per un istante, prima di cercare la mano di Anis e spingerla verso la propria pancia. Prima di chiedere una rassicurazione, una carezza, la conferma di un amore che in quel momento era tutto ciò che aveva.
Quando vide Anis sfilarsi il preservativo – quell’orribile palloncino viscido! – sentì una morsa al petto, ma il tunisino parve accorgersene e gli si gettò subito contro, prendendo a succhiare una stella che sembrava essere tornata a brillare.
Le cose non sarebbero tornate indietro. Non si sarebbero risolte. Il tempo e l’amore – quella volta – non avrebbero proprio potuto spazzare via niente.
Ma c’era la voglia.
Voglia di vivere e lottare.
Per ora, andava bene così.

 
Intermezzo Quarto – Parte sesta
Wir schweben zusammen
 
Wir stehen zusammen 
Wir gehen zusammen 
Zusammen bis in den Tod
Wir leben zusammen
Wir schweben zusammen
Zusammen bis in den Tod 

[Zusammen – LaFee]



La Vita è un’altalena. 
Ci sono momenti buoni in cui sorridere, correre, mangiare, dormire, fare l’amore, vivere. Ci sono momenti cattivi, di quelli in cui puoi solo stare a guardare la vita che scorre, mentre rimani insabbiato in un pantano che ti mette sempre più in difficoltà. E c’erano le crisi, i litigi, i ripensamenti, la paura. 
Cionondimeno erano tutte battute d’arresto perfettamente concepibili e – vivaddio! – superabili.
Il primo vero scoglio fu evidentemente lo psicologo.
Bill in quel frangente si comportò esattamente come avrebbe fatto uno dei suoi bassottini: aveva puntato i piedi ed aveva iniziato a ringhiare.
Non era matto. Stava benissimo. Non voleva parlare con nessuno, tantomeno con un estraneo che vedeva gente schizzata tutto il santo giorno.
- Non serve a nulla – aveva bofonchiato all’indirizzo di Anis, prima di chiudersi in bagno ed accendere lo stereo.
Il tunisino, in quei mesi, aveva sviluppato una stoica resistenza ai capricci del compagno.
Spesso si era ritrovato a riflettere sull’ironia di quella cosa chiamata vita. Non avrebbe potuto avere figli – aveva scelto di non averne – e si ritrovava un poppante capriccioso tra le braccia. Ingestibile. Spesso anche indigeribile. Un poppante con gli occhi d’oro al quale però non avrebbe mai saputo rinunciare.
Eppure andavano avanti, più o meno tentennanti.
Stringevano i denti di fronte ai morsi della vita e proseguivano lungo un cammino a volte dissestato.
Quel giorno – il giorno in cui Bill avrebbe dovuto incontrare per la prima volta Herr Lochman – Berlino si era svegliata sotto uno strato di nebbia densa, di quelle che ti costringono ad asciugarti il volto non appena giunto a destinazione. Far uscire il moro di casa – nemmeno a dirlo – era stata un’impresa non da poco. 
Anis si era sforzato di essere gentile, per poi risolversi ad urlare – evidentemente stufo di rimostranze senza senso – ed essere subito dopo costretto a riabbassare i toni. L’umore di Bill era un’altalena e non sempre era facile starvi dietro.
Però ci provava. Avrebbe continuato a farlo sinché avesse potuto.
- Schatz – si era ritrovato a mugolare Anis attraverso la porta del bagno - Dai, esci! Mi dispiace, non volevo urlarti addosso. Ho perso il controllo e… -.
Meno di un minuto dopo Bill era tra le sue braccia, alla ricerca di un calore e di un conforto dei quali si era sentito espropriare. Eppure Anis era sempre lì, per lui e con lui.
- Non voglio andarci – aveva mormorato, un singiozzo a deformare l’ultima parola – Non mi va propriodi mettermi a raccontare i fatti miei ad un estraneo che è lì solo per… -.
- Per fare il suo lavoro, Schatz – mormorò quindi il tunisino, prima di sciogliere l’abbraccio e guardarlo in viso – Si tratta di un uomo che si limita a fare il proprio lavoro, esattamente come me e te – gli strofinò un po’ le spalle, prima di sorridere un poco – E poi per un logorroico come te trovare qualcuno disposto ad ascoltarlo senza interromperlo dovrebbe essere un sogno… -.
Il moro gli diede un pugno – nemmeno troppo leggero – contro la spalla, prima di mugolare un
- Arsch – 
risentito.
Herr Lochman riceveva nel suo studio a Charlottemburg [1], giusto a pochi passi da casa. Vi si accedeva tramite una porta laccata di giallo, decisamente appariscente in mezzo a tutte quelle costruzioni intonacate di bianco o – al massimo – di beige.
A Bill, nemmeno a dirlo, quel dato fece ben poco piacere.
- Ma così mi vedono entrare – mugolò, sperando di riuscire a convincere il compagno a fare dietrofront sino a casa.
Questi, però, rimase fermo sulle proprie posizioni.
- Schatz, non hai proprio nulla di cui vergognarti – mormorò stringendogli la mano, cercando di trasmettergli calore e conforto.
Cercando di mantenersi calmo nonostante il nervoso che sentiva montare.
Entrarono nell’edificio e Anis lo spinse verso l’accettazione dove fu loro indicato il corridoio esatto in cui poter attendere il loro turno.
Herr Lochman era un uomo sulla quarantina, con i capelli scuri e gli occhiali. Rispondeva, insomma, allo stereotipo dello psicologo da sit-com. Anche questo a Bill non parve piacere.
Lo studio era luminoso, anche se relativamente poco ampio. Invece del classico lettino, l’uomo aveva optato per una comoda poltrona in pelle, con un poggiapiedi davanti.
- Buongiorno, Bill – sorrise l’uomo stringendogli la mano.
Tutto quello che il moro avrebbe voluto fare, a ben vedere, era scappare a gambe levate.
Si volse incerto verso la porta chiusa, la stessa che lo separava da Anis. Si volse verso l’ostacolo che lo divideva dall’unica persona con cui non si sentiva fuoriposto, inadeguato, stupido, sporco.
Sospirò. Tanto valeva togliersi quel fastidio.
Uscì dallo studio una quarantina di minuti dopo, con un mezzo sorriso sulle labbra e gli occhi leggermente arrossati. Cercò il compagno tra la gente seduta ad aspettare, e ne intercettò lo sguardo con un sorriso timido.
- Tutto bene? – Anis gli strofinò la schiena, prima di prendergli la mano e dirigersi nuovamente verso l’uscita.
- Più o meno – rispose l’altro – Era da un sacco di tempo non mi soffermassi su qualche particolare di troppo – concluse con una scrollata di spalle.
Subito dopo tirò il braccio del compagno, costringendolo a voltarsi.
- Non mi merito nemmeno un bacio? – gli soffiò sulle labbra.
Il tunisino sogghignò, prima di dargli un bacio leggero e scompigliargli i capelli.
- Veramente pensavo ad altro – il moro si voltò di corsa – Il tuo prossimo impegno è tra una decina di giorni, giusto? Io qualche giorno posso pure prendermelo… - continuò, sorridendo alla vista dell’espressione meravigliata del compagno – Ce la facciamo a preparare una valigia decente entro domattina? -.
Bill lo guardò sbalordito, prima di sorridere.
Uno di quei sorrisi che illuminavano una stanza.
- Dove andiamo? – gli chiese, attaccandosi al suo braccio come avrebbe fatto un bimbo.
Anis scrollò le spalle.
- Sorpresa… -.


Parigi era bellissima, a maggio.
Il caldo che benediceva Berlino solo in pieno agosto li accolse come una carezza ed una promessa insieme. Con gli alberi carichi di fiori e il cielo sempre azzurro, passarono una settimana perdendosi tra i millemila Boulevard e le stradine che si affacciavano sulle piazze, colorate da bancarelle d’ogni tipo. Sorrisero alla vista di quella torre che faceva l’invidia di mezza Europa, riuscendo a salirvi una sera, confondendosi tra millemila turisti troppo impegnati ad ammassarsi nell’ascensore per badare a loro.
- La facciamo a piedi? – propose Bill, stupendo il compagno che si concesse il lusso di osservarlo stupito.
Il moro scrollò le spalle, elusivo.
- Visto che un po’ di moto mi fa bene e non fa caldo… - concluse, prima di prendere l’altro per mano ed iniziare a salire i primi gradini – Poi se sono stanco ci fermiamo un secondo, no? -.
Sulla cima della Tour si persero in mezzo alla folla di turisti, e sorrisero davanti ad un cielo incredibilmente limpido e alla distesa di luci sotto di loro.
- Sembra di avere il mondo ai propri piedi – considerò Bill, stringendo la mano di Anis tra le proprie – Si sta bene, qui -.
Il tunisino sorrise, prima di stringere il compagno alla vita.
- Già – considerò solo, prima di mormorargli all’orecchio quelle tre parole – Je t’aime -.
Bill si voltò di scatto, evidentemente stupito.
Osservò il compagno con fare critico, prima di passargli le braccia dietro il collo e sorridere.
- Il tuo francese fa schifo quasi quanto il mio – considerò sornione, prima di avvicinare le labbra a quelle dell’altro e baciarlo – Ma ti amo tanto lo stesso – concluse staccandosi, mentre Anis rafforzava la stretta attorno ai suoi fianchi.
- Ingrato… -.


Il ritorno da Parigi equivalse ad un ritorno alla realtà, alla quotidianità, alla durezza di un’esistenza senza sconti.
Due giorni dopo il loro ritorno, Bill avrebbe dovuto sottoporsi alla visita specialistica dal virologo. 
La prima cosa che fece una volta in piedi fu osservare le nuvole cariche di pioggia. Mai come in quel momento Parigi gli sembrò così lontana.
Con un gesto svogliato si tolse due ciocche da davanti agli occhi, prima di voltarsi verso il letto e sorridere.
Anis dormiva ancora, coperto sino alla vita dal lenzuolo. Era un’immagine talmente bella che avrebbe voluto fotografarla per portarla sempre con sé.
Qualche secondo dopo, il suo blackberry aveva guadagnato un nuovo magnifico sfondo.
Quella volta sarebbe dovuto andare da solo in clinica.
Anis era impegnato nell’ennesima registrazione e Tom era pieno di lavoro sino al collo.
Per la prima volta da tempo si sarebbe ritrovato da solo di fronte ad un muro di incertezze e paure da affrontare e combattere. Non era morto, aveva ragione Anis. Non doveva permettersi di cadere nonostante le difficoltà che lo facevano vacillare. 
Non era da solo: aveva qualcuno con cui correre per i sentieri della vita.
Tornò a casa nel primo pomeriggio, stanco e triste.
Nonostante la visita fosse andata bene, nonostante i risultati più che buoni che stava ottenendo, tutto quello che riusciva a percepire era un peso al petto. Una stretta che lo prendeva alla gola. Posò la borsa nell’ingresso e si sfilò la giacca, prima di insaccarsi in una tuta ed arricciarsi sul divano.
La voglia di piangere premeva da qualche parte senza che riuscisse veramente a capirne il perché.
Anis rientrò verso le cinque, stanco e probabilmente scazzato.
Non appena lo vide, in ogni caso, gli si sedette accanto e lo reclamò a sé.
- La visita? – chiese con un sospiro, prima di passargli una mano sotto le palpebre.
Il moro sospirò, prima di arricciarsi contro il compagno e reclamare un bacio.
- Il medico è contento, i valori sono buoni… - iniziò, ma subito l’altro lo interruppe.
- Ma? -.
Bill si strinse nelle spalle.
- Boh oggi va così. Sarà che l’idea di farmi mettere un dito in culo non mi alletta particolarmente, sarà che ho visto un bambino entrare prima di me con la madre… - concluse, abbassando impercettibilmente lo sguardo.
Sotto le ciglia scure, tante piccole lacrime intrappolate premevano per uscire.
Anis rafforzò la stretta, prima di baciargli la fronte.
Quando sentì il primo singhiozzo strofinò la schiena del compagno e rimase in attesa questi si calmasse.
- Era così piccolo – balbettò Bill tra le lacrime – Avrà avuto sei anni appena ed era lì – un singhiozzò lo fece sussultare – Ed io come uno stronzo che non riuscivo a smettere di guardarlo e pensare a quante cazzate ci inventiamo per fingere di star male. Per essere compatiti. A quanto poco vale… -.
Anis lo fermò, poggiandogli un dito sulle labbra.
- Basta, Schatz – mormorò, prima di baciargli le palpebre – Non farti del male imputandoti colpe che non sono tue – concluse, sollevandolo di peso e sorridendo mentre percepiva le labbra dell’altro sul proprio collo.
- Bagno? – propose.
L’altro annuì distratto, troppo preso a lasciargli un succhiotto da manuale.

La vita è un’altalena.
Vai avanti, poi indietro, poi di nuovo avanti.
E se non riesci a spingerti da solo c’è sempre qualcuno alle tue spalle, pronto ad aiutarti.




[1]: Si tratta di un centro regolarmente esistente e attivo: il Zentrum Charlottenburg-Wilmersdorf, Hohenzollerndamm 174. La porta di accesso, peraltro, è realmente gialla. =)


 
 

 

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Capitolo 9
*** Atto quinto: Jemand, mit dem man laufen kann ***


Atto Quinto
Jemand, mit dem man laufen kann
 

Ho ancora la forza che serve a camminare
picchiare ancora contro per non lasciarmi stare
ho ancora quella forza che ti serve
quando dici: "Si comincia !"

[Francesco Guccini feat. Luciano Ligabue – Ho ancora la forza]


 
Alexanderplatz era un covo di turisti, berlinesi e zingari. Un crogiolo multietnico e colorato, vociante e concitato.
Dopo la visita aveva fatto colazione e si era diretto alla macchina, decidendo sul momento potesse anche concedersi una passeggiata tra negozi e negozietti, alla ricerca della cianfrusaglia del giorno - come amava ripetere Anis -.
Si mise a passeggiare lungo Karlliebknechtstraße, superando l’Isola dei Musei e continuando a seguire la strada che lo avrebbe portato alla Brandeburger Tor. Le vetrine brillavano di borse, cinture, maglie, persino tazze e piatti. Nulla, in ogni caso, che potesse attirare la sua attenzione al punto da incuriosirlo.
Non si rese nemmeno pienamente conto di essere arrivato davanti al Madame Tussauds [1], alla cui entrata stazionavano un paio di turisti evidentemente incerti se valesse o meno la pena di passare una mezza giornata in un museo di statue come ce n’erano sicuramente altri.
Con un sorrisino sghembo decise di entrare, giusto per vedere se quella statua era ancora lì, se c’era ancora qualche curioso intento a rimirare l’immagine di un Bill Kaulitz sedicenne.
Davanti a quella statua, per la prima volta da mesi, si ritrovò a tirare le somme di un’esistenza che era stata soprattutto sfida. Dai bulli a scuola, all’amore per Anis, alla malattia, al lavoro aveva sempre lottato.
A ben vedere anche il suo grande amore era un lottatore.
Era andato avanti, conquistando piccole e grandi vittorie, deglutendo bocconi amari e sconfitte ma senza mai rinunciare. Non aveva mai mollato, nonostante le troppe volte in cui aveva creduto di non potercela fare.
Con un sorriso pensò agli ultimi mesi, alle lacrime, agli sforzi, a quella mano sempre tesa.
Sorrise pensando all’uomo nero che era stato anche la sua ombra, il suo sostegno, l’aiuto del quale aveva bisogno. Aiuto che non aveva mai lesinato. Mai, proprio mai.
Ti amo che non gli aveva mai detto erano racchiusi in tutti quei gesti, nei sorrisi di incoraggiamento, nelle carezze, negli abbracci, nei tentativi anche un po’ maldestri di farlo ridere.
Aveva abbandonato le scene per dedicarsi a concerti più intimi, forse anche più veri.
L’equazione, insomma, lo vedeva ampiamente in positivo.


Anis stava controllando la campionatura di una base, quando la porta d’ingresso si aprì.
- Schatz – mormorò sorridendo, senza però alzare gli occhi dal foglio – Sei tu? -.
Non ottenne risposta, quindi si voltò curioso. Davanti a sé trovò il compagno troppo impegnato a destreggiarsi tra pacchetti e pacchettini per potergli prestare attenzione. Si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla porta, incuriosito da quella marea di borse fuori programma.
- Ti sei dato al pazzo shopping? – chiese con un sorriso sghembo, prima di allacciarlo alla vita e premere le labbra sulla sua fronte.
Le braccia di Bill circondarono le spalle del compagno, mentre questi arricciava il naso.
- Sulla fronte… - borbottò, prima di reclamare un bacio come si deve.
Prima di reclamare la bocca la lingua il cuore dell’altro.
Il tunisino si sciolse da quell’abbraccio e si sporse oltre l’uscio di casa per rientrare con le ultime due borse. 
- Però… - considerò quindi – hai fatto le cose in grande… – concluse con un mezzo sorriso.
Bill aveva fatto spese, il che significava la visita fosse andata veramente bene.
Era stata davvero una buona giornata.
Il moro annuì, prima di dirigersi verso il salottino e tornarvi con il cagnolino tra le braccia.
- Sai, cucciolo – mormorò direttamente alla bestiola – Ho pensato anche a te… - concluse con un sorriso, prima di affrettarsi a recuperare un pupazzetto e a tirarlo lungo il corridoio.
La bestiola scalpitò per scendere dalle braccia del padrone, quindi si mise a inseguire il pupazzo abbaiando eccitata.
- Così forse salviamo un divano – concluse il moro con una scrollata di spalle.
Anis sorrise annuendo.
- Poi… - continuò il moro, avvicinandosi ad un altro sacchetto – Ci sarebbe anche un’altra cosa – assunse un’aria ammaliante – ma sarai sicuramente pieno di lavoro, non sto a disturbarti… -.
Amore per loro era anche lanciare un’esca e sperare l’altro abboccasse, lasciandosi sedurre da un gioco di provocazioni vecchio e sempre nuovo.
Il tunisino gli si avvicinò con un sorriso, prima di afferrarlo per i fianchi e sollevarlo di peso.
- Che ne dici? – gli mormorò all’orecchio, prima di prendere a baciare la pelle pallida del collo – Lo usiamo per il secondo round? -.


Giornate come quelle costituivano una quotidianità preziosa, uno di quei piccoli tesori da custodire e proteggere.
Giornate in cui tornare a casa carico di roba probabilmente inutile sorridendo come se non ci fosse un domani. Giornate in cui era bello passare un pomeriggio a letto, a fare l’amore e respirare con la bocca dell’altro.

Anis scivolò lentamente fuori dal corpo dell’amante, prima di coricarsi al suo fianco e reclamarlo di nuovo a sé.
Il moro mugolò, prima di arricciarsi contro il suo fianco e sbadigliare sonoramente.
- Coccole – mormorò appoggiando la testa sulla spalla dell’altro.
Questi si concesse una piccola risata, prima di prendere a carezzargli le spalle.
- Ma non ne hai mai abbastanza? – gli sbuffò sulle labbra, prima di sfiorarle con un bacio.
Sulle labbra di Bill affiorò un sorriso furbo, quasi tenero nel suo essere persino comicamente losco.
- Perché accontentarsi? – rispose poi – Certe cose non tornano indietro, tanto vale godersi quello che si ha e andare avanti -.
Anis rafforzò la stretta sui fianchi dell’amante, prima di sfiorargli una guancia con un bacio.
- Richtig, Schatz – mormorò – Sono perfettamente d’accordo -.
Il moro alzò un poco lo sguardo per incontrare gli occhi del tunisino.
- E quando non si ha voglia di fare la strada da soli – mormorò, senza riuscire ad interrompere il contatto visivo. Senza volerlo veramente fare - basta guardarsi attorno per trovare qualcuno con cui correre – concluse.
La vita è un sentiero, una strada, un percorso.
Ci sono le discese, le salite, le curve e gli scossoni.
Ci sono millemila prove disseminate su di un cammino tutto da scoprire, esami da affrontare per crescere, per sognare, per volare in alto. Ostacoli che non si superano da soli, difficoltà che si affrontano insieme.
Ciò che conta, in fondo, è solo averne voglia.
Voglia di vivere e di combattere.
Sempre
.

DAS ENDE


[1]: Sicuramente è notizia di dominio pubblico, in ogni caso sotto il nome Madame Tussauds sono compresi vari musei delle cere, ospitati in diverse città [Londra, Berlino, Washington DC, Shangai, Hong Kong, Amsterdam, Holliwood, Las Vegas, New York, Bangkok]. Voleste dare un’occhiata, nell’home-page si vede anche la statua incriminata ;-] (nonché immagine iniziale xD) http://www.madametussauds.com/


Ringraziamenti
Dicessi di non essere affezionata a questa vicenda mentirei. Palesemente. La amo come si amano - suppongo - i figli, senza se o ma. La rileggo spesso e - pur non amando particolarmente i complimenti - mi dico che tanto male non è. ;)
A questo punto potreste tranquillamente voler chiudere la pagina - nessuno se la prenderebbe con voi lo faceste ;-) -, nel caso decideste di proseguire con la lettura invece capirete un paio di cose in merito alla fanfiction. [Cosa forse inutili, ne convengo. Ma siamo in ballo, come si suol dire xD].

La domanda cardine è sempre la stessa, il solito vecchio ma mai obsoleto perché.
"Lust (vom Leben und Streben)" non è nulla di diverso da un tributo. 
Ho scelto di mettere in ballo - per la prima vera volta - qualcosa di me, traducendo parte delle mie esperienze (come osservatrice e - volendo - parte in causa) per ricreare un universo forse un po' brutale, cattivo, scomodo ma ehi... così è la vita.

 

Non sto a dirvi chi sia la bambina, mi sembrerebbe stupido arrivati a questo punto sottolineare l'ovvio ;-). 
La persona di fianco a me è stata tutto. Nei dieci anni che l'ho avuta a fianco è stata una zia, una complice, una sorella, una confidente, un'amica, una maestra di vita, millemila altre sfumature che - volete per il coinvolgimento, volete per l'incapacità di mettere nero su bianco le emozioni - davvero non credo di poter rendere in maniera efficace. 
E' a lei che Lust (vom Leben und Streben) è dedicata, è per lei che ho ricreato luci ed ombre di un percorso che l'ho vista compiere, per lei e forse anche un poco per me.
Danke. ♥

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