Portagioie di tristezza {autunno} di EffieSamadhi (/viewuser.php?uid=98042)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 | Ho pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a te e a me. ***
Capitolo 2: *** 2 | Immergiti nelle parole non dette, vivi la vita con le braccia spalancate, oggi è dove il tuo libro inizia, il resto non è ancora stato scritto. ***
Capitolo 3: *** 3 | La vita ha un buffo modo di insinuarsi in te. La vita ha un buffo, buffissimo modo di aiutarti. ***
Capitolo 4: *** 4 | L'intera vita di una donna in un giorno, un solo giorno; e in quel giorno, tutta la sua vita. ***
Capitolo 5: *** 5 | Perché io sono reale, e tu sei reale. ***
Capitolo 6: *** 6 | ''Lo sai che questo cambierà tutto?'' ''Me lo prometti?'' ***
Capitolo 7: *** 7 | Pioggia cadrà, e l'aria sarà più pulita in questa città dove tutto sembrava finire. ***
Capitolo 8: *** 8 | E' molto divertente fare l'impossibile. ***
Capitolo 9: *** 9 | Come in un sogno, ora vivo per te. ***
Capitolo 10: *** 10 | Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude, e diventa sentiero distinto, e ormai inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell'avvicinamento. Quell'accos ***
Capitolo 11: *** 11 | Abbi una felicità delirante, o almeno non respingerla. ***
Capitolo 12: *** 12 | 'Quanto manca alla nostra separazione?' 'Un'eternità. Hai ancora molto da imparare.' ***
Capitolo 13: *** 13 | Ti amo. Ora scrivetelo tutti quanti: ti amo, ti amo, ti amo. ***
Capitolo 14: *** 14 | Ieri ho incontrato l'amore, mi ha detto 'Passavo di qua'. ***
Capitolo 15: *** 15 | Senti, io non voglio più parlare di ciò che è vero e di ciò che è illusione: la vita è breve. Non sprechiamo tempo per pensare alla vita, viviamola e basta. ***
Capitolo 16: *** 16 | Rimani qui, scende la sera, sopra di noi si poserà. Aspetteremo così la primavera, solo se vuoi ci troverà. ***
Capitolo 17: *** 17 | Quanto sai di te stesso, se non ti sei mai buttato? ***
Capitolo 18: *** 18 | Forse l'amore è l'unico barlume di eternità che possiamo permetterci. ***
Capitolo 19: *** 19 | Siamo qui, nei grigi dell'inverno. Siamo qui, solo io e te. Stringi la mia mano, affrontiamo domani. ***
Capitolo 20: *** 20 | Sei l'ultima grande innocente, ed è per questo che ti amo. ***
Capitolo 21: *** 21 | E ipotizzo di non averti mai conosciuto, ipotizzo che non ci siamo mai innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così dolcemente e teneramente. ***
Capitolo 1 *** 1 | Ho pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a te e a me. ***
Portagioie di tristezza | 1
Avvertenze
| Se odiate a priori ogni fanfiction in cui il tizio famoso si
innamora di una ragazza appena conosciuta che ha alcuni tratti in
comune con l'autrice, chiudete subito la pagina e andate a leggere
qualcosa di serio. Se invece, in fondo, siete persone a cui sognare
non dispiace, potete continuare a leggere. Probabilmente la storia
non vi piacerà per altri motivi, e quindi la lascerete perdere
comunque. Per quei pochi coraggiosi che la seguiranno per intero (e
mi sento di porre DadaOttantotto
in cima a quella che immagino sarà una lista molto magra)... grazie,
e buona fortuna.
Disclaimer
| Non possiedo nulla dei 30 Seconds to Mars – né i membri, né
l'inventiva, né il talento... ho solo i loro CD – e tutto ciò che
leggerete è frutto della mia immaginazione e della mia inguaribile
anima romantica.
Note
dell'autrice | Gli eventi reali sono stati leggermente modificati; in
particolare, invece di far partire subito la band per un'altra data,
ho deciso di trattenerli per un po' a Milano.
Portagioie
di tristezza1
Capitolo primo
Ho pensato a tutto ciò
che volevo essere,
ho pensato a tutto, a
me,
a te e a me.2
Mediolanum Forum
(Assago), 02 novembre 2013
Contrariamente a quanto
pensa la gente, la vita di un rocker non è tutta 'sesso, droga &
rock'n'roll': ci sono momenti in cui, come ogni persona normale, ci
sentiamo stanchi e solitari e stufi del mondo, e se a volte ci capita
di sembrare scostanti e scontrosi è solo perché vogliamo andare a
casa, perché vogliamo infilarci sotto una doccia bollente o perché
vogliamo spalmarci sul divano a guardare un programma trash in tv. E
questo è esattamente quello che vorrei fare in questo momento,
invece di starmene seduto a sorridere a persone che non conosco e che
non mi conoscono, ma che hanno pagato per vederci qui stasera e che
ci stanno spiegando, in un inglese maccheronico peggiorato
dall'emozione di trovarsi di fronte a noi, che hanno viaggiato anche
per ventiquattro ore pur di sentirci, vederci e poterci parlare. «You
know, your music saved my life»
è quello che sentiamo dire più spesso, e ogni volta vorrei alzarmi
in piedi, rovesciare questo tavolo e dir loro che non è la nostra
musica ad aver salvato la loro vita, ma l'idea stessa di musica, la
musica in generale, la musica in sé: sarebbe potuto essere qualsiasi
gruppo a risvegliare in loro la gioia, non è merito nostro. E invece
taccio, e continuo ad ascoltare complimenti e firmare copie del
nostro ultimo cd.
Mi chiamo Shannon Leto, ho
quarantatré anni e mezzo e non vedo l'ora di andarmene a letto. Alla
mia destra, mio fratello continua a dispensare sorrisi e a
ringraziare tutti, mentre Tomo, poco più in là, tenta in ogni modo
di non cedere alla stanchezza e di continuare mostrarsi gentile e
accomodante. Un po' mi sento in colpa, a dire il vero: è stato Jared
a reggere la scena ininterrottamente per due ore e mezza, eppure
quello sfinito sono io. Non so come spiegarlo: non è stanchezza
fisica, siamo abituati a provare anche per sei o sette ore al
giorno... è più un senso di stanchezza mentale, come se la tensione
accumulata prima dell'evento si dissolvesse all'improvviso,
scivolando via come acqua su una superficie liscia. Alla fine di ogni
concerto mi sento come esaurito, come... come una pila scarica. Ecco
la definizione giusta: mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e
mezzo e sono una pila esaurita. Tuttavia, decido di resistere: in
fondo, questa piccola folla merita di vedere premiata la propria
costanza, perciò merita tutta la mia attenzione.
Alzo gli occhi sulla fila
che si va via via riducendo, e un istante dopo vorrei non averlo
fatto, o comunque vorrei essere stato adeguatamente preparato: lo
sguardo che incontro alzando la testa mi inchioda al pavimento,
totalmente privo di timidezza o soggezione, come se non fossimo altro
che un gruppo di vecchi amici. La cosa che più mi affascina, però –
e che al contempo mi terrorizza –, è che quegli occhi azzurri non
solo non hanno paura di fissare i miei, ma sembra che mi stiano
leggendo dentro. Improvvisamente mi sento in imbarazzo, come se mi
fossi appena svegliato da un lungo sonno e mi fossi scoperto nudo al
centro di Times Square all'ora di punta – non dovrei sentirmi in
imbarazzo, io sono uno che si esibisce davanti a migliaia di persone
e convive con la fama da dieci anni, eppure... eppure quello sguardo
sa spogliarmi di ogni sicurezza, sa privarmi di ogni difesa. Perciò
sorrido, abbasso di nuovo la testa e lentamente scrivo il mio nome
sul cd che Jared mi ha appena fatto scivolare sotto il naso. Sto
cercando di raccogliere le energie per alzare di nuovo gli occhi,
quando una voce rompe quel pesante silenzio: «Dà uno strano senso
di pace, vero? Realizzare i propri sogni, intendo».
Jared sta per rispondere,
ma io, come se sentissi che quella frase è stata detta apposta per
me, lo precedo: «Non sono mai in pace. C'è sempre un sogno più
grande dietro il prossimo angolo.»
La ragazza allunga la mano
per prendere il suo cd, piegando un angolo della bocca in un sorriso
enigmatico. «Forse è questo che ci mantiene vivi» sussurra.
«Grazie a tutti» aggiunge, voltandosi per andarsene. Solo in quel
momento noto la maglietta che indossa, bianca e decorata manualmente
con i glyphics, la triad e la data di questo concerto –
e solo quando è qualche passo più in là mi accorgo del sangue
finto e del trucco rosso che le coprivano faccia, collo, braccia e
vestiti. Ed è allora che sorrido, sentendomi un vero idiota, perché
quella ragazza sembra aver capito della vita molto più di quanto
abbia capito io.
Concluso l'incontro con i
fans, tutti e tre ci alziamo, e con sommo disprezzo noto che Jared
continua a sembrare fresco come una rosa, come se fosse appena uscito
da una Spa – saremo pure fratelli, ma vorrei proprio sapere da chi
ha ereditato le incredibili quantità di energia di cui dispone.
«Signori, anche questa è andata» annuncia in tono solenne,
strappando un sorriso sia a Tomo sia a me. «Andiamo a prendere le
nostre cose e torniamo in hotel?»
«Se non vi dispiace, io
prima vado a cercarmi un posto per fumare» ribatto, tastandomi le
tasche. Riconosco subito la famigliare forma quadrangolare del
pacchetto di sigarette. «Non guardarmi così, lo so che disapprovi»
aggiungo subito, cercando di evitare che mio fratello parta con la
solita filippica sui danni del fumo. «Dieci minuti e vi raggiungo.»
Mi infilo il giubbotto e me ne vado senza aspettare risposta.
Inizio a percorrere a
ritroso i corridoi attraverso i quali gli addetti del Forum ci hanno
accompagnati alla sala predisposta all'incontro con i fans, e appena
trovo un'uscita di sicurezza spingo la porta, ritrovandomi di fronte
ad uno spiazzo vuoto. Infilo un piede tra lo stipite e il battente
per tenermi libero il passaggio, prendo una sigaretta dal pacchetto
stropicciato e me la caccio in bocca di fretta, iniziando subito a
tastarmi le tasche in cerca di un accendino. «Merda» sussurro.
Sapevo di aver dimenticato qualcosa.
All'improvviso, da un
angolo buio arriva una voce già sentita, facendomi capire di non
essere solo. «Bisogno di fuoco?» mi chiede, avvicinandosi con un
accendino stretto tra le dita. Fa schioccare il meccanismo, ma non ho
bisogno della luce della fiamma per riconoscere gli occhi azzurri che
poco fa mi hanno sconvolto così tanto.
Mi avvicino e mi chino in
avanti, chiudendo le mani a coppa intorno alla fiammella per riuscire
ad accendere nonostante il filo di vento che tira in quel punto.
«Grazie» mormoro dopo essermi allontanato. Poi ricordo le regole
del bon ton, e tendo verso di lei il pacchetto sdrucito. «Vuoi una?»
«No, grazie.»
«Non fumi?» le domando,
rimettendo in tasca il pacchetto.
«Sono una fumatrice
occasionale. A volte quando sono con amici me ne faccio una.»
«Però sei previdente»
ribatto. «Vai sempre in giro armata» aggiungo, alludendo
all'accendino che ancora tiene in mano.
«Amici smemorati»
risponde, come se questo bastasse a spiegare tutto. Aspiro un'altra
boccata e faccio girare il fumo all'interno della bocca, cercando un
modo per continuare la conversazione: nonostante la stanchezza, so
che non sarebbe carino stare qui senza dire una parola. Per fortuna,
lei mi precede. «Grande spettacolo stasera, complimenti.»
«Grazie. Complimenti anche
a voi. Insomma, il pubblico è importante.» Annuisce, grattandosi
distrattamente la nuca. Noto che porta i capelli corti e spettinati,
come andavano di moda l'estate scorsa – di solito preferisco i
tagli lunghi, ma a questa ragazza il taglio corto dona
particolarmente. «Che fai ancora qui?» le domando. «La serata è
finita, non torni a casa?»
«E voi?» ribatte lei, che
come prima sembra non sapere che cosa significhino timidezza e
soggezione. «Credevo che vi stessero già scortando in albergo.»
«Mi sono preso una libera
uscita» rispondo, mostrando la sigaretta. «Dovrei dar retta a mio
fratello e smettere, ma non ho ancora trovato un buon motivo per
farlo.»
«Forse non lo vuoi
veramente. In tal caso, un motivo lo avresti già trovato.»
Subito dopo la vedo distogliere lo sguardo. «Scusa, non volevo
essere invadente. In fondo, sono affari tuoi.»
«Non sei stata invadente»
la rassicuro. «Anzi, credo che tu abbia ragione. Probabilmente è
così, non ho voglia di smettere.» Mi gratto la punta del naso con
il dorso della mano, riflettendo sulla situazione: sto davvero
parlando con una ragazza sconosciuta del mio problema con il fumo?
«Sul serio, come mai sei ancora qui? Se stai orchestrando un agguato
alla nostra macchina, sappi che usciremo dalla parte opposta
dell'edificio.»
Mentre mi sto chiedendo se
capisca l'inglese tanto da cogliere la sfumatura ironica di quanto ho
appena detto, lei ride. «Mi piacete, ma non al punto di diventare
una stalker. Sto aspettando un'amica» spiega.
«Ah» rispondo,
terrorizzato all'idea che un'ammiratrice esaltata mi salti addosso
pretendendo foto e autografi. Non so se riuscirei a sopportare un
assalto del genere. «E dov'è la tua amica?»
«Nella mia macchina.» Non
sicuro di aver capito correttamente, sto per domandarle di ripetere,
quando lei aggiunge: «Con il suo ragazzo. Lui abita a Milano, quindi
possono vedersi soltanto una o due volte al mese. Hanno colto
l'occasione del concerto per vedersi, solo che non c'erano molti
posti dove... sai, no?»
Annuisco, ma quello che
vorrei dire in realtà è No, non lo so. Non ho mai avuto
relazioni a distanza, in realtà. Già fatico a gestire una storia
con una donna che posso vedere tutti i giorni. «Dove abitate tu e la
tua amica?»
«Torino. È abbastanza
vicino a Milano, in realtà, ma tra gli impegni, la scuola... alla
fine è tutto molto complicato.»
«Andate ancora a scuola?»
mi informo. Stento a crederlo, mi sembra troppo grande per essere una
studentessa liceale.
«La mia amica va
all'università. Ha ventitré anni. Abbiamo ventitré anni»
si corregge. «Studia Filosofia.»
«E tu, invece? Studi?»
Scuote la testa. «No, io
no. Mi sarebbe piaciuto studiare Lingue, ma non avevo... non ero
abbastanza brava per continuare gli studi. Lavoro in una libreria,
faccio la commessa.»
Dopo una breve riflessione,
decido che posso arrischiarmi a fare una confessione privata. «Credo
che a mia madre sarebbe piaciuto che almeno uno dei due andasse
all'università, che diventasse... un pezzo grosso, o qualcosa del
genere. Sai, avvocati, o medici. Credo che un po' le sia dispiaciuto
che tutti e due abbiamo lasciato perdere quella strada.»
«Credo sia comunque fiera
di voi. Fate qualcosa di altrettanto grande, anche senza la laurea.»
«Sì, alla fine è
contenta di come sono andate le cose. Anche perché in un certo
senso, è stata lei a spingerci sulla strada dell'arte.» Aspiro
un'ultima boccata, schiaccio il mozzicone sotto la scarpa e soffio
via il fumo attraverso il naso. «Credi che la tua amica ne avrà
ancora per molto? Non mi sembra un posto molto raccomandabile per una
ragazza sola» dico, guardandomi intorno per individuare eventuali
malintenzionati.
Proprio in quel momento,
lei guarda il cellulare. «Mi ha appena mandato un sms. Hanno finito,
quindi adesso me ne posso andare.» Fa per allontanarsi, ma uno
strano istinto mi dice di non lasciarla andare via così.
«Aspetta, dove devi
andare?»
«Devo raggiungere il
parcheggio» mi spiega, stendendo un braccio nella giusta direzione.
«Allora ti accompagno.»
Mi ci vuole un attimo per realizzare quanto ho appena detto. «Non
conosco bene queste zone, ma non credo che una ragazza dovrebbe
girare da sola di notte, da nessuna parte.»
«Ma non è necessario,
sono pochi passi...»
«Io ti accompagno
comunque.»
«Ma...» inizia, lasciando
perdere subito dopo. Deve aver capito che non sono il tipo che
negozia accordi. Con me, quasi sempre si fa come dico io. Gli unici
ad avere qualche chance di farmi cambiare idea sono Jared e Tomo. E
mia madre, ma quello è un discorso a parte. «A proposito, mi chiamo
Daria» aggiunge, tendendomi la mano.
«Shannon» rispondo,
restituendo la stretta. «Bel nome» aggiungo, sfilando il piede
dalla porta.
«Grazie. Sicuro di
potertene andare così?»
«Certo. E poi sono solo
pochi minuti, non si accorgeranno neanche che sono sparito.»
Mi osserva per qualche
secondo, come se stesse decidendo il da farsi. Vorrei farle presente
che mi sono ormai chiuso fuori, e quindi dovrei comunque fare con lei
un pezzo di strada, almeno il necessario per raggiungere l'ingresso
principale. «Allora va bene. Per di qua» dice, cominciando a
camminare. Si è messa addosso un giubbotto di pelle marrone e si è
stretta attorno al collo una sciarpa rossa a motivi indiani, ma
riesco comunque a intravedere la maglietta bianca. Alla luce
biancastra di un lampione, noto che si è pulita il viso, che non
reca più alcuna traccia del trucco rosso.
«Era molto carino il
tuo... outfit. Abbiamo letto dell'iniziativa su internet, ma
avevamo già deciso il programma della serata, quindi... mi è
spiaciuto, però. Ho visto che in molti hanno aderito.»
«Non festeggio Halloween,
non è una festa che rientra nelle mie tradizioni» mi spiega.
«Siccome non mi sono travestita per l'altra sera, mi è sembrata una
buona idea approfittarne ora. E poi è stato divertente. Insomma, è
stata una cosa impulsiva... io di solito non faccio cose impulsive.»
«Sei una di quelle ragazze
a cui piace avere tutto sotto controllo?»
Scuote la testa, in
silenzio. «Non lo faccio per piacere» risponde dopo quasi un
minuto. «Non mi sono mai potuta permettere di perdere il controllo.»
Mi guarda, e probabilmente sul mio volto appare un enorme punto
interrogativo, perché subito aggiunge: «Mia madre se n'è andata
quando avevo otto anni, e da allora è sempre stato tutto difficile.
Con 'se n'è andata' intendo dire che è andata via, non che è...
morta, ecco.»
Non conosco questa ragazza,
ma quello che ha appena condiviso con me mi fa sentire davvero male,
mi provoca un enorme groppo in gola. So cosa significa essere
abbandonato da un genitore: ero piccolo quando mio padre è andato
via, ma ho sentito la sua mancanza per tutta la vita. Forse è anche
per questo che non ho ancora avuto figli: forse inconsciamente temo
che le continue assenze non farebbero di me un buon padre. «Capisco
cosa vuoi dire. Certo, forse quando è una madre ad andarsene è
diverso, ma... capisco cosa vuoi dire. Sei figlia unica o hai
fratelli?»
«Ho una sorella e un
fratello, diciannove e sedici anni.»
«Come si chiamano?»
Volta rapidamente la testa
verso di me, probabilmente domandandosi il motivo di tanta curiosità.
Tuttavia non esita a rispondermi, mentre continuiamo a camminare
senza fretta verso il parcheggio. «Emanuele e Francesca. Loro
praticamente non se la ricordano. Francesca aveva soltanto un anno
quando lei è andata via. Mi dispiace per loro, vorrei che avessero
qualche ricordo di lei. Però poi ci penso su, e mi dico che forse è
meglio così. Soffrirebbero troppo.» Poi alza lo sguardo verso il
cielo buio, come per riflettere, e aggiunge: «Non che non soffrano,
certo. È pur sempre un abbandono.» Sto per ribattere, quando si
volta di nuovo verso di me: «Quella sigaretta è ancora valida?»
Prendo il pacchetto dalla tasca e lo tendo verso di lei. Mi servo
anch'io, e mentre lei accende la sua ci fermiamo. Nel prendere
l'accendino dalla sua mano, le nostre dita si sfiorano, provocandomi
una strana sensazione: sento una strana intesa con questa ragazza,
una persona di cui non conosco nulla tranne il nome e la provenienza.
È la prima volta che raggiungo un simile grado di intimità in così
poco tempo, e se devo essere sincero questo rapido precipitare degli
eventi mi fa paura. Ebbene sì: Shannon Leto, batterista di fama
mondiale, ha paura di restare solo con una ragazza.
Riprendiamo a camminare,
senza dire una parola. Il parcheggio è quasi completamente vuoto, e
la poca gente rimasta non fa caso a noi – Meno male, mi
viene da pensare: un bagno di folla non è proprio quello che mi
serve, non in questo particolare momento. «Non preoccuparti, ci
siamo quasi» mi dice, indicando un punto poco lontano, dove si
intravede una sola auto, «ho parcheggiato... oh, merda»
conclude in un sussurro.
«Cosa c'è?» le chiedo,
preoccupato da quel repentino cambiamento. «Cos'è successo?»
«Hanno ricominciato»
sussurra, voltandosi con aria scocciata verso la direzione da cui
siamo appena arrivati. «La mia amica e il suo ragazzo» specifica,
invitandomi a guardare verso l'auto. In effetti, socchiudendo gli
occhi e tenendo fisso lo sguardo, nonostante il buio si nota
chiaramente uno strano movimento oscillatorio del veicolo – che, si
capisce, può derivare soltanto da una cosa.
«Oh» è l'unico commento
che riesco a fare.
«Già, oh. Dovevo
aspettarmelo, in fondo. Per entrambi il sesso è una parte
fondamentale in un rapporto, e quelle poche volte che si vedono
devono... sfogare ogni istinto.»
Da quest'ultima
affermazione mi pare di capire che Daria abbia opinioni diverse da
quelle dell'amica, e la mia innata curiosità mi impone di indagare.
«Beh, credo che il sesso in una relazione sia importante per
chiunque. Forse per qualcuno lo è di più.»
«Per Alice lo è
sicuramente» taglia corto lei, aspirando nervosamente dalla
sigaretta.
«E per te non lo è?»
«Mi stai chiedendo se mi
piace fare sesso?» In condizioni normali, probabilmente una ragazza
qualunque si sarebbe risentita alla mia domanda – e probabilmente
una fan esagitata l'avrebbe interpretata come un'avance, ma nel tono
di Daria non c'è né sconcerto né libidine: è soltanto sorpresa
della mia curiosità. E in fondo lo sono anch'io: non è da me fare
discorsi così intimi con una persona appena conosciuta – a meno,
forse, di non essere entrambi ubriachi e già mezzi nudi.
«Ti sto solo chiedendo se
lo consideri importante in una relazione o no.» Nonostante la
penombra, sento che il suo sguardo mi sta studiando con diffidenza,
come se fosse difficile decidere se valga la pena di concedermi una
risposta sincera. «Io lo considero mediamente importante, ad
esempio. Il sesso è una forma di comunicazione. Se non c'è intesa
sessuale, è molto probabile che la relazione non sfoci in qualcosa
di più importante. Insomma, non sposerei una donna con la quale
faccio del sesso mediocre.»
«Allora direi che lo
consideri molto importante, non mediamente importante.
Io penso che si possa stare bene con una persona anche senza fare del
sesso stellare.»
«Forse parli così perché
non hai mai trovato qualcuno con cui farlo, del sesso
stellare.» Appena finito di parlare, vorrei poter tornare indietro e
strapparmi la lingua a morsi: stiamo scivolando su un genere di
discorsi che affronto di rado, certamente mai con una ragazza appena
incontrata. Eppure, invece di ritrarsi, darmi del maniaco o cose del
genere, Daria alza lo sguardo e mi sfida apertamente.
«Perché, tu hai mai
trovato qualcuno con cui farlo?»
Rifletto accuratamente
sulla risposta. «Beh, sì. Sono uscito con parecchie ragazze con cui
avevo un'ottima intesa sessuale.»
«E allora com'è che sei
ancora scapolo?»
Forse non ho riflettuto
così accuratamente. Questa ragazza sa essere più pungente di un
calabrone. «Beh, immagino che non ci fossero le condizioni ottimali
per pensare ad una relazione seria.»
«Questo dimostra che il
sesso è sopravvalutato.»
«Ma non che non sia
importante.»
«Lasciamo perdere, ti va?
Sento che potremmo andare avanti per ore, e nessuno dei due si
smuoverebbe di un millimetro dalla sua posizione.» Si sposta di
qualche passo e si siede su uno dei cordoli di cemento che delimitano
le corsie di parcheggio. «Comunque adesso puoi andare, se vuoi.
Posso aspettare qui, non ne avranno per molto.»
Ignorando la sua
considerazione, mi siedo accanto a lei. «Se tu aspetti qui, io
aspetto con te. Non ti lascio sola.» I fari di un'auto che passa
poco più in là ci illuminano per qualche istante, e negli occhi
azzurri che mi stanno scrutando leggo qualcosa di incredibilmente
simile alla felicità. Devo ammettere che mi sembra assurdo,
ma ho come l'impressione che sia felice di avermi accanto, a
prescindere da chi sono. «Dicevi che lavori in una libreria,
giusto?» dico, cercando di stemperare questo attimo di tensione e di
far deviare il discorso dal binario che aveva preso.
«Sì, lavoro in una
libreria. Sono solo una commessa, non è un impiego di grande
responsabilità, ma mi piace molto. Mi è sempre piaciuto un sacco
leggere, e nel mio caso avere uno sconto dipendenti è piuttosto
utile. Trattiamo anche libri in lingua straniera, quindi spesso ho a
che fare con clienti esteri.» Finalmente riesco a spiegarmi la sua
incredibile padronanza dell'inglese. «Non guadagno molto, ma l'anno
prossimo spero di riuscire a prendere in affitto una casa tutta mia.
Mi sto già guardando intorno, anche se non so ancora di preciso se
riuscirò a realizzare la mia idea.»
«Prendere casa è una
progetto piuttosto serio» ribatto, lasciando cadere il mozzicone per
terra per spegnerlo con la punta della scarpa. «Che tipo di casa
cerchi?»
«Nulla di pretenzioso, in
fondo sono da sola. Mi basterebbe un bilocale, o una mansarda.
Qualcosa del genere. Alice, la mia amica, mi ha proposto di
trasferirmi da lei. Condivide l'appartamento con altri studenti, e
sarebbe felice di avermi con lei.»
«Ma tu non hai intenzione
di accettare.»
«No, infatti. Sono felice
che me l'abbia proposto, ma io ho voglia di un posto mio, di
un posto in cui rifugiarmi e stare sola quando ne ho voglia. Ti è
mai capitato di volere uno spazio tutto tuo, dove nessuno può dirti
cosa fare o come farlo?»
Più spesso di quanto tu
possa immaginare, vorrei risponderle. «Sì, è capitato. Credo
sia una cosa molto comune.»
«E poi ho così tanti
libri che mi servirebbe una stanza soltanto per quelli.»
«Ti capisco. Con la mia
collezione di dischi è la stessa cosa.» Senza preavviso, Daria si
lascia andare ad una breve risata, mentre anche la sua sigaretta cade
a terra e viene spenta. «Perché ridi?» le domando, curioso. Non mi
sembra di aver detto qualcosa di particolarmente ironico.
«Niente, è che stavo
pensando... non mi sembra di parlare con uno che riempie gli stadi.
Mi sembra di starmene seduta con mio fratello, o con un mio amico. È
strano.»
«Beh, se ti può consolare
è strano anche per me. Non è una cosa che faccio di solito...»
«Cosa, ascoltare gli
sfoghi di una ragazza sconosciuta?»
«Passare del tempo con una
persona che non conosco e scoprire di avere un sacco di cose in
comune con lei dopo soli dieci minuti» la correggo. I nostri visi
sono fermi uno di fronte all'altra, i nostri occhi giocano a
rincorrersi come due gocce di pioggia che scivolano lungo un vetro, e
tutto quello che riesco a pensare è che sarebbe meglio mettere fine
ad ogni conversazione, perché più andiamo avanti più mi fa paura
l'intimità con lei, e subito dopo ho in mente un'immagine di me che
la prendo tra le braccia e la bacio, e non posso fare a meno di
pensare che sarebbe davvero fantastico farlo davvero, sporgermi verso
di lei e sfiorarle le labbra, togliendole ogni possibilità di
replica, e... e subito dopo il cellulare vibra nella mia tasca,
impedendomi di indulgere ancora in una fantasia che, me ne rendo
conto, è troppo assurda e decisamente inopportuna. «Scusami, devo
rispondere.» Devo rispondere sul serio: è mio fratello. Accetto la
chiamata, ma non ho nemmeno il tempo di pensare a cosa dire.
«Dove-diavolo-sei?»
La voce di Jared è a metà tra un sibilo e uno strillo, e nessuno
meglio di me sa che quel tono porta solo guai: probabilmente non mi
parlerà per i prossimi quattro giorni, ma al momento non è che la
cosa mi importi tanto.
«Lo sai, sono uscito a
fumare» rispondo con la maggior naturalezza possibile.
«Venti minuti fa?»
«Senti, è un po'
complicato da spiegare. Sto... facendo una cosa importante.»
«Shan, avevamo detto
'Niente cazzate', ricordi?»
«Ehi, non è quello che
pensi. Senti, Jay, è davvero una cosa importante. Ce la fate ad
aspettarmi ancora per...» Guardo verso Daria, che alza le spalle
come per dire che non sa per quanto i suoi amici ne avranno ancora.
«Facciamo altri venti minuti, va bene? Ti spiego tutto dopo,
prometto.» Chiudo la comunicazione prima che a mio fratello venga in
mente un numero sufficiente di insulti, e torno a sedermi vicino a
Daria – ma questa volta, lo ammetto, più vicino di prima.
«Scusa, non volevo farti
litigare con tuo fratello. Ma puoi andare, davvero. È già il
secondo round, non dovrebbero metterci tanto. Posso stare da sola.»
«Jared può aspettare. Noi
stasera abbiamo aspettato per dieci minuti che finisse di farsi le
trecce... non gli farà male stare dall'altra parte, per una volta.»
Getto un'occhiata all'auto, all'interno della quale sembra ci sia
ancora parecchio movimento. «Da quanto tempo stanno insieme?»
«Alice e Federico? Otto
anni» risponde lei. «Lui viveva a Torino, poi suo padre si è
dovuto trasferire per lavoro, e tutta la famiglia lo ha seguito. Si
sono conosciuti al liceo, lui era un paio di classi avanti a noi. È
stato il primo ragazzo di Alice. È sempre stata innamorata persa di
lui.»
«Una cosa romantica.»
«Dì pure melensa.
Viene da pensare che dopo tanti anni si dovrebbero abbandonare certi
comportamenti, invece... a volte mi sembra di avere a che fare con
due adolescenti: telefonate infinite, nomignoli zuccherosi... mi
fanno venire il voltastomaco.»
«E tu, invece? Hai un
ragazzo?»
«Non al momento. Al
momento sono troppo impegnata.» Passa qualche secondo, durante il
quale si passa nervosamente la mano tra i capelli scompigliati. «Non
che non abbia mai avuto un ragazzo. Anch'io ho avuto delle relazioni.
Solo, non... mai una cosa così seria, ecco. Se vivessero nella
stessa città, loro vivrebbero praticamente come una coppia sposata»
aggiunge, facendo un cenno verso l'auto. «Non ho mai creduto in quel
genere di relazione.»
«Insomma, non credi che il
sesso sia importante in una storia e non credi che si possa amare una
sola persona per tutta la vita?» Il punto di vista di questa
ragazza, così giovane eppure già così matura, mi intriga come non
mai.
«Non credo che si possa
essere felici a trent'anni con una persona con cui sei stato felice a
quindici» risponde un po' scocciata. Forse non avrei dovuto
rivangare quella storia del sesso. «I miei si sono conosciuti a
quattordici anni, si sono messi insieme a diciassette e si sono
sposati a ventiquattro. Hanno comprato casa, hanno avuto tre figli, e
a trentaquattro erano divorziati. Dì pure che sono di parte, ma non
credo che si possa restare aggrappati per sempre all'idea di amore
che si ha nell'adolescenza.»
«Insomma, non credi che
Alice e Federico staranno insieme per sempre.»
«No, infatti. Appena
avranno la possibilità di passare più tempo insieme, inizieranno a
notare ognuno i difetti dell'altro, tutti quei piccoli dettagli che
la lontananza offusca. Federico scoprirà che Alice di secondo nome
fa Disordine, e Alice non riuscirà a reggere la disciplina di
Federico. Forse non subito, ma prima o poi uno dei due crollerà, e
io sarò la stronza che dirà 'Io l'avevo detto!'. Federico non mi
parlerà mai più, e Alice mi terrà il muso per un paio di
settimane. Poi le porterò una vaschetta di gelato e saremo di nuovo
amiche come prima.»
«Funziona?»
«Cosa?»
«Il gelato. Come offerta
di pace.»
«Con Alice funziona alla
grande. Cioccolato e nocciola sono gli ambasciatori migliori del
mondo. Perché me lo chiedi?»
«Curiosità. Quando litigo
con mio fratello non so mai cosa fare per farmi perdonare. Magari il
gelato funziona anche con lui.»
«Qualsiasi essere umano,
anche l'uomo più cattivo del mondo, si ammansirebbe davanti al
gelato.» Il suo sorriso è contagioso come il morbillo, e torna a
farsi sentire prepotente in me quella voglia di starle accanto per il
maggior tempo possibile – la conosco da poco, ma con lei sto
incredibilmente bene, sono a mio agio, posso fare battute e ridere in
libertà. Con lei mi sento libero di essere me stesso, libero da
quella tensione che non riesce mai a farmi decidere in quali
occasioni posso essere sincero e in quali invece no. E così, senza
quasi rendermene conto, inizio ad avvicinare il mio volto al suo,
pronto ad alzare un braccio per circondarle le spalle. Al contrario
di me, lei deve aver capito che cosa sta per accadere, perché
l'espressione dei suoi occhi cambia, si affila, come se si stesse
preparando a bloccarmi e a chiedermi che cazzo sto facendo.
Ma non c'è bisogno che sia
lei a bloccarmi: ci pensa il suo cellulare. Mi fermo, scuoto la testa
e chiedo a me stesso di rinsavire – non posso andare in giro a
baciare sconosciute senza pensare alle conseguenze! - , mentre lei
sposta lo sguardo dal display all'auto, dalla quale scende una bionda
spettinata che sta finendo di aggiustarsi addosso un maglioncino
nero. «Scusa, Daria» la sento
dire, «è tanto che aspetti?»
Rimane piuttosto vicina alla macchina, mentre dall'altro lato sbuca
un ragazzo alto e allampanato. Dubito che da quella distanza Alice mi
abbia riconosciuto, forse sta solo cercando di non disturbare la
nostra intimità – Troppo tardi!, vorrei urlare. «Se tu sei
pronta per andare, io sono pronta.»
Daria si alza, e così
faccio io. Tutte le parole che ci siamo scambiati sembrano essersi
perse nell'aria frizzante della sera, come se improvvisamente fossimo
incapaci di trovare un linguaggio comune. «Grazie per la compagnia»
sussurra, senza osare alzare lo sguardo – peccato, la fierezza dei
suoi occhi è una delle cose che più mi piacciono di lei. «Spero
che tuo fratello non se la prenda troppo con te. Dà pure la colpa a
me, se necessario, tanto non...»
Non ci vedremo mai più.
Anche se si è interrotta, so che è questo che stava per dire. Lo
ripeto un paio di volte nella mia mente, e suona così male che devo
scuotere la testa per liberarmene. Ci sono miliardi di cose che
potrei rispondere, e invece tutto quello che riesco ad articolare è:
«Hai una penna?» Eppure, non è tanto
la mia domanda a sconvolgermi, quanto la sua risposta.
«Sì,
certo. Certo che ho una penna.» E
senza che le chieda altro, la tira fuori dalla borsa sdrucita che
porta a tracolla. Senza dire niente, la prendo tra le dita, e mentre
lei inizia a dire che non è necessario, convinta forse che voglia
regalarle uno stupido autografo, io stringo la sua mano e me la porto
vicino al petto, scrivendo con cura una precisa sequenza di lettere e
numeri.
Quando finisco, richiudo la
penna e gliela restituisco, lasciandole piano anche la mano.
«Scrivimi, se ti va. Mi farebbe molto piacere parlare ancora con
te.» Mi allontano così, senza
un'altra parola, senza un abbraccio, senza una stretta di mano e
senza nemmeno un bacio. Mi allontano senza presentarmi all'amica,
senza badare allo sguardo di Federico, che mi scruta torvo finché
non riesce più a distinguere la mia figura, e soprattutto mi
allontano senza vedere che Daria si sta guardando il palmo della mano
senza nemmeno osare sfiorarlo, come se avesse paura di cancellare
anche un singolo carattere.
Forse Jared ha ragione,
quando dice che non riesco a pensare proprio quando ce n'è più
bisogno. Forse è vero, ma almeno mi sono regalato una mezz'ora di
stupenda felicità.
***
1Portagioie
di tristezza | Il
titolo della storia è ispirato dalla canzone
Jewel
Box
di Jeff Buckley, contenuta nel disco Sketches
For My Sweetheart The Drunk
(1998).
2Ho
pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a
te e a me
| Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone The
Story
dei 30 Seconds To
Mars,
contenuta nel disco A
Beautiful Lie
(2005).
|
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Capitolo 2 *** 2 | Immergiti nelle parole non dette, vivi la vita con le braccia spalancate, oggi è dove il tuo libro inizia, il resto non è ancora stato scritto. ***
Portagioie di tristezza | 1
Portagioie
di tristezza
Capitolo secondo
Immergiti nelle parole
non dette,
vivi la vita con le
braccia spalancate,
oggi è dove il tuo
libro inizia,
il resto non è ancora
stato scritto.1
Torino, 03 novembre 2013
Stesa sulla brandina che ha
aperto al centro della stanza, Alice dorme profondamente, russando
appena, mentre io non sono ancora riuscita a chiudere occhio. Alice
ha voluto cedermi il suo letto per ringraziarmi del passaggio e della
pazienza nell'aspettare che lei e Federico finissero di fare i loro
comodi, ma nonostante la comodità del materasso non riesco proprio
a convincermi a cedere al sonno. Non riesco a fare a meno di
guardarmi la mano, dove ancora campeggia l'indirizzo e-mail di –
ancora non riesco a dirlo – Shannon Leto.
Shannon Leto, signore e
signori.
Shannon Leto, quarantatré
anni e mezzo, batterista dei 30 Seconds To Mars, sogno erotico di
migliaia di donne e ragazzine in tutto il mondo, mi ha dato il suo
indirizzo e-mail. E mi ha chiesto di scrivergli. E io non l'ho ancora
trascritto da nessuna parte.
Mentre guidavo sulla strada
del ritorno, con una soddisfattissima Alice seduta a fianco, mi sono
inventata ogni sorta di balla pur di tenere nascosta la vera identità
di Shannon: alle sue domande ho risposto che si trattava di un
ragazzo straniero che ho conosciuto uscendo dal palazzetto – lui mi
urta, mi chiede scusa, io lo perdono, lui mi chiede se mi è piaciuto
lo show... ho sempre avuto un certo talento nell'inventare menzogne,
anche se non l'ho mai sfruttato appieno. Per fortuna la curiosità di
Alice si è spenta dopo cinque o sei domande, perciò non sono dovuta
scegliere nei dettagli – anche se ho i miei dubbi che la questione
sia conclusa, conosco troppo bene la mia amica e la sua proverbiale
tenacia.
Sollevo di nuovo la mano
davanti al viso, tentando di decifrare i singoli caratteri nonostante
il buio pesto. Sospiro, rimettendo giù la mano. Quei pochi simboli,
insieme al retrogusto di nicotina che sento ancora in bocca, sono la
prova tangibile che quell'incontro è avvenuto veramente, che quella
conversazione ha avuto luogo – sono la prova che Shannon Leto mi ha
davvero stretto la mano, offerto una sigaretta e parlato. Ho
sempre criticato le ragazze ossessionate dai loro idoli, ma dopo
questa sera le capisco. Oh, se le capisco. Dopotutto non è di un
comodino che stiamo parlando, ma di un uomo fatto – e fatto
dannatamente bene.
Mi giro su un fianco,
dirigendo lo sguardo verso il punto da cui sento arrivare il leggero
russare di Alice, chiedendomi che cosa mi consiglierebbe di fare –
non ho dubbi sul fatto che possa credermi o meno, è sempre stata lei
quella incline a credere all'impossibile. Subito dopo mi viene da
ridere, perché so benissimo che inizierebbe a strillare di gioia e a
saltellare sul posto all'idea che una celebrità del calibro di
Shannon Leto mi abbia chiesto una corrispondenza – oltre che molto
credulona, Alice è anche il tipo di ragazza che ama indulgere in
fantasie romantiche e che guarda il mondo attraverso occhiali
colorati di rosa. Non che io non mi conceda di sognare, intendiamoci,
è solo che... sono meno illusa di lei.
Sopportare la separazione
dei miei genitori è stato meno facile del previsto, e anche a
distanza di quindici anni ho difficoltà a parlarne. Secondo il
dottor Martini, lo psicologo che vedo una volta a settimana, il mio
cinismo in materia di relazioni sentimentali ha origine dalla fine
del matrimonio dei miei, e la mia insicurezza affonda le sue radici
nell'abbandono di mia madre – si tratta pressappoco della stessa
analisi compiuta da Alice, ma sentirselo dire da qualcuno di cui puoi
vedere la laurea appesa alla parete rende tutto più ufficiale. Come
ho detto anche a Shannon, ho avuto dei ragazzi, ma in nessun caso ho
mai avvertito quella che io chiamo 'la scintilla' – ovvero,
semplicemente, la sensazione di essere capitata insieme al ragazzo
giusto. Fino a questo momento, a dire il vero, non me ne sono mai
preoccupata – in fondo ho solo ventitré anni, e di tempo per
conoscere gente nuova ne ho a iosa. Non me sono mai preoccupata,
davvero.
Non fino a stasera, almeno.
Perché diciamolo, quando
ti ritrovi a parlare di sesso e relazioni sentimentali con una
celebrità incontrata da meno di un quarto d'ora, poi qualche domanda
te la fai. Ripenso a tutte le cose di cui abbiamo parlato e mi sembra
di rivivere tutta la conversazione, come se non fossero trascorse ore
ma solo pochi minuti. Se sul momento la mia preoccupazione era di
parlare correttamente inglese per farmi capire, ora mi ritrovo a
sperare di non essere riuscita a comunicargli nulla – no,
seriamente, gli ho raccontato del divorzio dei miei? Gli ho detto che
intendo trasferirmi in una casa tutta mia? Gli ho praticamente fatto
capire che non vado a letto con qualcuno da un sacco di tempo?
Complimenti, Daria, complimenti. Mi applaudirei da sola, se non
avessi paura di svegliare Alice.
All'improvviso, la lieve
sensazione di disagio che avverto da un po' si acuisce, diventando
una forte pressione all'altezza dello stomaco. Consapevole di non
poter dormire, mi metto a sedere, incrociando le braccia davanti alla
pancia nella speranza di bloccare il fastidio. Quando al dolore si
somma anche un vago senso di nausea, non ci penso due volte prima di
alzarmi e raggiungere il bagno. Mi spruzzo un po' d'acqua fredda sul
viso e mi tampono i polsi, cercando di convincermi che non si tratti
di nulla di mortale. Sicuramente non sono dolori mestruali, visto che
il ciclo mi è finito pochi giorni fa, proprio in tempo per il
concerto. Scartata l'ipotesi più ovvia, ciò che rimane è che
probabilmente il mio corpo si rifiuta di accettare quello che mi è
successo stanotte – so che sembra assurdo, ma se c'è una cosa di
cui Alice è riuscita a convincermi nei diciotto anni della nostra
amicizia, è che a volte le cose impossibili succedono davvero.
Sospiro, mi asciugo viso e
mani e torno a letto, pur sapendo che continuerò a non dormire. Mi
sono appena messa giù – e intanto sono passate le quattro e mezza
–, quando sento la voce di Alice. «Non
stai bene?»
«No,
figurati, sto benissimo. Dovevo solo andare in bagno» mento.
«Ah. No, è che sarà
mezz'ora che ti rigiri nel letto... pensavo non stessi bene.»
«E io pensavo che
dormissi.»
«Lo sai che ho il sonno
leggero, no? Ma è successo qualcosa? Hai una faccia...»
«Come fai a vedere che
faccia ho, scusa? È buio pesto!»
«Ho tirato a indovinare.
Se devo essere sincera, è da quando siamo partite da Milano che sei
strana. Sicura che vada tutto bene?»
«Va tutto benissimo,
Alice. Sono solo troppo stanca, e quando sono troppo stanca a volte
fatico ad addormentarmi.»
«Sarà.
Comunque adesso faticherò ad addormentarmi anch'io. Perché non
parliamo un po'? Dai, raccontami qualcosa del tuo nuovo amico. In
macchina non ti sei sbottonata più di tanto. Hai detto che è
americano?»
«Sì, è americano, ma
adesso non è il...»
«E invece sì, è proprio
il momento. Senti, a me è venuta fame» aggiunge subito, senza darmi
il tempo di rispondere. «Metto su un po' d'acqua e ci facciamo un
po' di tè, così parliamo del tuo nuovo amico.» Senza aspettare
cenni di dissenso o approvazione, si alza in piedi e schizza via come
un fulmine, non lasciandomi altra scelta se non quella di seguirla.
«Allora, parli da sola o
pretendi che ti faccia anche delle domande?» Chiunque troverebbe
questa sua curiosità invadente e inopportuna, ma io la conosco, e so
che vuole farmi parlare solo perché sa che parlare mi fa bene –
quando inizio a tenermi dentro tutto poi divento eccessivamente
triste e difficile da trattare. «Tra l'altro, correggimi se sbaglio,
ma ho avuto come l'impressione di avervi interrotto in un momento
molto importante.»
Continuo a spalmare Nutella
su una fetta di pane, fingendo indifferenza. «No, affatto. Insomma,
stavamo solo parlando. Qualche chiacchiera di circostanza, tanto per
passare il tempo.»
«Ah» fa lei, forse un po'
delusa. «No, te lo dico perché mi era sembrato che ci fosse una
certa... intimità. Sono sincera, ero lontana e non l'ho
guardato bene, ma il suo atteggiamento era piuttosto difficile da
fraintendere.»
«Sarebbe a dire?»
«Non fare la gnorri, non
ti riesce bene come raccontar balle» mi rimprovera subito lei,
strizzando la bustina usata per l'infusione e buttandola nel cestino.
«Era piuttosto evidente che ci stava provando. Scommetto che stava
per baciarti.» Ho commesso l'errore di bere prima della fine della
frase, e quando sento l'ultima parola, colta di sorpresa, sputacchio
in giro tè e frammenti di pane masticato. «Direi che ho avuto la
mia risposta» è il commento di Alice, che si alza per prendere una
spugna. A volte il suo autocontrollo è destabilizzante.
«Scusa, non volevo...»
bofonchio, pulendomi la bocca. «Beh, veramente non so se... insomma,
non credo che...» Ripenso all'attimo immediatamente precedente
all'interruzione di Alice e l'incertezza si dissolve: Shannon che
dopo la telefonata torna a sedersi accanto a me, decisamente più
vicino di prima, e poi il suo sguardo che non mi abbandona mai, e i
suoi occhi che si fanno improvvisamente più vicini, e le parole che
sembrano mancare all'improvviso, lasciando un vuoto che può essere
colmato solo... no, mi rifiuto di crederci.
«Te ne sei accorta
soltanto adesso?» interviene Alice, ammiccando. «Allora, che mi
dici di lui?»
L'improvvisa consapevolezza
di quanto sta accadendo mi colpisce in pieno stomaco: non posso più
tacere la verità ad Alice. Devo parlare con qualcuno, altrimenti
rischio di esplodere. «Alice, devo dirti una cosa.» Sta per dare un
morso alla sua fetta di pane, ma nel sentirmi parlare così si
blocca, cristallizzandosi in una posa piuttosto comica. «Non è una
cosa grave, tranquilla. Non è grave, è solo... strano.»
«Riguarda il tuo nuovo
amico? A proposito, ti sei scritta quell'indirizzo da qualche parte?
Ehi, aspetta, se ce l'hai ancora vuol dire che non ti sei lavata le
mani prima di mangiare! Che schifo!»
«Le ho lavate, le ho
lavate. Ho usato solo l'acqua perché tanto non avete più sapone.»
«Oh, dobbiamo comprarlo.
Ma non cambiare discorso, signorina. Riguarda il tuo nuovo amico?»
«Beh, sì. Se di amico
possiamo parlare.»
«Possiamo parlarne.»
«Ti ho raccontato che è
uno studente americano che vive qui ed è venuto a vedere il concerto
con degli amici, ma non è vero. Ti ho detto una bugia.»
«Su quale parte hai
mentito, scusa? Non è uno studente?»
«No, non è uno studente.
Non è qui per studio e non è andato a vedere il concerto con degli
amici.»
«E quindi cosa...»
«Stavo parlando con
Shannon Leto» dico, interrompendola. O almeno, questo è quello che
vorrei aver detto. Ho parlato così in fretta che quello che ho detto
in realtà è un miscuglio di lettere e vocalizzi a casaccio. «Stavo
parlando con Shannon Leto» ripeto, questa volta più lentamente.
«Dopo la signing session sono uscita e mi sono cercata un angolo
tranquillo dove aspettare che mi chiamassi. Ero vicino ad un'uscita
di sicurezza, e a un certo punto lui è uscito per fumare, e... e non
lo so, non aveva l'accendino e allora gli ho prestato il mio, e poi
ci siamo messi a parlare e... e quando mi è arrivato il tuo squillo
ha detto che voleva accompagnarmi perché non si fidava a lasciarmi
sola, e... io non lo so, Alice, io... io stento ancora a credere che
sia successo davvero. Ho paura di svegliarmi e di rendermi conto che
è stato tutto un sogno, che sono solo le otto di mattina e che al
concerto ancora ci dobbiamo andare.»
«Mi stai prendendo per il
culo?»
«No, non ti prendo per il
culo. Era lui. Era lui, e io gli ho parlato di quando i miei hanno
divorziato, e del fatto che voglio andare a vivere da sola, e di che
lavoro faccio eccetera. Gli ho parlato come se fossimo amici, o roba
del genere, e... non posso credere che sia vero.» Alice distoglie lo
sguardo, aggrottando le sopracciglia come se stesse riflettendo su
qualcosa di importante. «Ti prego, Alice, dimmi qualcosa.»
«Stavo pensando... in
effetti quando ho visto quel tipo seduto vicino a te ho pensato che
somigliasse un pochino a Shannon. Insomma, il modo di vestire, il
berretto, la postura... ho pensato che avesse l'aria da cattivo
ragazzo che ha lui, ma... porca miseria, Shannon Leto ci ha provato
con te?» Vorrei dirle che a sconvolgermi è il fatto che mi abbia
parlato, ancor prima del pensiero che possa averci provato con
la sottoscritta, ma lei non mi lascia il tempo di ribattere.
«Aspetta, prendo il portatile. Gli devi scrivere.»
«Ma sono le cinque del
mattino!» esclamo, mentre lei corre in camera. «Starà dormendo! E
poi che gli scrivo?»
«Vorrà dire che leggerà
domani. E comunque gli puoi scrivere che... che ne so, che ti ha
fatto piacere parlare con lui. Potresti chiedergli quali sono i loro
progetti, se si trattengono ancora in Italia o no. Inventati
qualcosa. Ehi, e comunque ti faccio notare che è stato lui a
darti il suo indirizzo, e questo può voler dire solo una cosa.»
«Che cosa?»
«Che vuole tenersi in
contatto con te, ovvio!» Mi mette davanti il portatile acceso, senza
curarsi di spostare tazze e barattoli. «Forza, dai libero sfogo alla
tua creatività.»
«Alice, io non faccio
questo genere di cose. E poi lui è...»
«Lui è un uomo attratto
da te, e tu sei una donna attratta da lui. Lasciati andare, una volta
tanto. A volte abbracciare la vita non è così brutto.»
***
Milano, 03 novembre 2013
Durante il viaggio in auto,
Jared ha evitato ogni discussione fingendosi addormentato, mentre
accanto a me Tomo cercava di tenersi sveglio giocando a Candy
Crush. Io ho ingannato il tempo guardando fuori dal finestrino,
sprofondando in un mondo tutto mio grazie al mio iPod. In albergo, ci
siamo augurati a vicenda la buonanotte e ci siamo rintanati dietro
porte di legno laccate di bianco, finalmente liberi di lasciarci
andare ed essere di nuovo noi stessi.
Ho fatto una lunga doccia,
forse la più lunga della mia vita: non so per quanto tempo sono
rimasto fermo sotto il getto caldo, con la testa china e le mani
appoggiate alle piastrelle, domandandomi se mai avrò un'altra
occasione di incrociare lo sguardo limpido di Daria, se mai avrò
un'altra occasione di sentire ancora la sua strana pronuncia della
lettera erre, se mai la vedrò ancora sorridere coprendosi una mano
con la bocca per coprire un dente lievemente accavallato. Era buio e
sono stato con lei per poco, ma l'ho potuta osservare bene, e
nonostante sia già riuscito a trovare in lei almeno due difetti, non
riesco a non essere attratto da lei. È una cosa che non riesco a
spiegarmi.
Uscito dal bagno con la
pelle praticamente ustionata, mi sono strofinato qui e là con un
asciugamano e mi sono infilato soltanto un paio di mutande, giusto
per non rimanere completamente nudo. Poi, in preda a non so quale
stupida idea, ho tirato fuori il portatile e l'ho acceso, andando
subito a controllare la posta elettronica – come se potesse aver
deciso di scrivermi subito, o di scrivermi in generale.
Trovando la casella più deserta del frigo di casa, ho pensato di
andarmene a letto e riposare – che, in fondo, è lo scopo
principale per cui siamo rientrati in albergo.
Quando sento bussare alla
porta, sono quasi le cinque del mattino e non sono ancora riuscito a
chiudere gli occhi. Ho lasciato il computer acceso con il volume al
massimo, in modo da sentire il segnale acustico di un'eventuale
notifica, ma nonostante questo non sono riuscito a calmarmi. Mi
infilo addosso l'accappatoio, giusto per non correre il rischio di
sembrare la classica rock star ninfomane nel caso dovesse essere
qualcuno del personale.
Errore.
Non è qualcuno del
personale.
Peggio.
È mio fratello.
E l'idea che voglia
iniziare a litigare alle cinque del mattino sinceramente non mi
attira.
«Ciao» biascico,
fingendomi appena sveglio. «Che succede?»
«Niente. Veramente volevo
chiederlo io a te. Che succede?»
Mi sposto, lo faccio
entrare, chiudo la porta e mi tolgo l'accappatoio, abbandonandolo su
una poltrona. «Che intendi?»
«Shan, non fare il finto
tonto. Sei uscito per fumare e sei sparito per quaranta minuti. Che è
successo? Senti, non voglio litigare» aggiunge, e nel tono della sua
voce leggo finalmente quella stanchezza che non gli vedo mai addosso.
«Stavo solo pensando che sei per caso hai fatto qualcosa di... ehm,
non programmato, ecco... vorrei solo saperlo, così se per
caso dovessero esserci delle... complicazioni...»
«Jared, mi stai chiedendo
se ho fatto qualcosa tipo scoparmi una ragazza sconosciuta dietro un
angolo senza usare protezioni, o roba del genere?» Il tono monocorde
con il quale l'ho detto sconcerta persino me. Lui evita il mio
sguardo, gonfiando un po' le guance e cercando le parole giuste.
Sembra in difficoltà, perciò decido di cavarlo dall'imbarazzo. «Non
l'ho fatto.»
«Quindi hai usato il...»
«L'unica cosa che ho fatto
dietro un angolo è stata fumare.
Niente ragazze nude, niente scopate. Stai tranquillo, non ho fatto
niente che tu non avresti fatto.» Una breve pausa. «In ogni caso,
quaranta minuti sarebbero stati pochi» aggiungo, avvicinandomi al
frigobar per prendere una bottiglietta d'acqua.
Lo
vedo sorridere, mentre senza chiedere il permesso si siede a gambe
incrociate sul letto. «E allora che diavolo hai fatto, ti sei fumato
un pacchetto intero?»
«Ho
incontrato una ragazza» confesso. Meglio la verità subito, che
tante bugie e una sfuriata alla fine. E poi non ho fatto niente di
male, perché dovrei tenerlo nascosto?
«Cosa?
Ma hai detto che...»
«Ho
detto che non ho scopato. Sono uscito da una porta di sicurezza, solo
che quando sono arrivato lì mi sono accorto di non avere
l'accendino» inizio a raccontare, raggiungendolo sul letto. «Lei
era lì, e mi ha dato da accendere.»
«C'era
una ragazza appostata dietro una porta di sicurezza?»
«Non
era appostata»
lo correggo, sistemandomi un cuscino dietro la schiena. «Stava
aspettando una sua amica, e quello era il posto più tranquillo che
avesse trovato. L'amica era con il suo ragazzo, in macchina, e
stavano... vivono in due città diverse e non si possono vedere
spesso» taglio corto, appellandomi all'esperienza di mio fratello.
«Ah,
capito. E sei rimasto quaranta minuti a parlare con lei?»
«Sì.
No, in realtà dopo cinque minuti la sua amica l'ha chiamata per
dirle che avevano finito, e lei se ne stava per andare. Solo che...
cazzo, Jared, dovevo lasciarla tornare sola verso il parcheggio?
Insomma, sicuramente erano tutte brave persone, ma se qualcosa fosse
andato storto non me lo sarei perdonato.»
«L'hai
accompagnata alla macchina?»
«Sì,
anche se lei non voleva. Ho dovuto insistere un po' per convincerla.
Poi siamo arrivati a quindici metri dalla macchina e ci siamo accorti
che l'amica e il tizio avevano ricominciato. Lei ha detto che poteva
aspettare da sola, ma ho deciso di restare ancora. Quando hai
chiamato, ero con lei. A proposito» aggiungo, ridacchiando al
ricordo di quel momento, «mi ha detto di chiederti scusa da parte
sua. Ha detto che le sarebbe dispiaciuto sapere che avevamo litigato
per colpa sua.» Questa confessione strappa un sorriso anche a lui,
che intanto si rimette a posto una lunga ciocca sfuggita alla coda
disordinata. «Sarebbe piaciuta anche a te, se l'avessi conosciuta. È
simpatica.»
«Come
si chiama?»
«Daria.»
Daria.
Ripeto il suo nome nella mia testa finché acquista un suono
naturale, come se fosse stato fatto per essere pronunciato da me.
«Era al concerto.»
«Lo
immaginavo. È italiana?»
«Sì,
abita a... Torino, mi sembra. Sì, Torino. Abbiamo parlato di un
sacco di cose: sua madre l'ha abbandonata quando aveva otto anni, e
da allora vive con suo padre e con il fratello e la sorella.»
«Brutta
storia.»
«Già.
Lavora come commessa in una libreria, e parla benissimo inglese. Ha
detto che il suo prossimo progetto è di prendere in affitto una casa
tutta per sé, perché vuole staccarsi da suo padre e dai fratelli e
avere un posto tutto per lei.»
Jared
aggrotta appena le sopracciglia. «Quanti anni ha?»
Sospiro,
costretto a confessare. «Ventitré.»
«Ventitré.»
«Ventitré»
ripeto. «Ma ti assicuro che di testa è molto più grande, glielo
leggi negli occhi. Ragiona come una donna di trentatré
almeno. È davvero molto matura. E poi è anche carina, il che non
guasta.»
«Ricapitoliamo:
hai incontrato una ragazza italiana di ventitré anni che lavora in
una libreria e vive ancora con il padre e i fratelli, e che, cito
testualmente, è molto
carina. Giusto?»
«Giusto.»
«Ok.
Tanto per sapere, quando vi siete salutati ti sei fatto lasciare il
numero, o altro? Casomai ti venisse l'idea balzana di rivederla?»
«Non
sarebbe un'idea balzana, comunque sì. Le ho lasciato il mio
indirizzo e-mail.»
«E
se non dovesse scriverti?»
«Sarebbe
un segno del destino: non è la donna per me, lascio perdere.»
«Toglimi
una curiosità: da quando in qua credi nel destino?»
Abbasso
lo sguardo sulla bottiglietta d'acqua dalla quale sto grattando via
l'etichetta, pensando ad una risposta valida. «Probabilmente da
quando mi hai messo in mano il suo cd da autografare.» Un improvviso
trillo impedisce a mio fratello di rispondere. «Questa è lei!»
esclamo, saltando in piedi.
«Come
lo sai?»
«Lo
so e basta» taglio corto, spostando il portatile dalla scrivania al
letto. Deve
essere lei.
***
1Immergiti
nelle parole non dette / vivi la vita con le braccia spalancate /
oggi è dove il tuo libro inizia / il resto non è ancora stato
scritto. | Il titolo del
capitolo è ispirato ad un verso della canzone Unwritten
di Natasha
Bedingfield,
contenuta nell'album Unwritten
(2004).
|
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Capitolo 3 *** 3 | La vita ha un buffo modo di insinuarsi in te. La vita ha un buffo, buffissimo modo di aiutarti. ***
Portagioie di tristezza | 1
Ormai
giunti al terzo capitolo della storia, mi sento in dovere di lasciare
alcune righe per ringraziare tutti coloro che stanno seguendo questo
mio delirio, tutti coloro che l'hanno aggiunto tra i preferiti o tra
i ricordati e, soprattutto, tutti quelli che hanno speso almeno
qualche minuto per recensire – siete voi i più grandi.
Colgo
anche l'occasione per ribadire che non
conosco i 30 Seconds To Mars di persona, e che perciò tutto ciò che
leggete è frutto della mia fantasia. Lo ribadisco solo per evitare
di ricevere altri messaggi privati in cui mi si dice “Oddio, ma li
conosci di persona? Sai così tante cose su di loro, salutameli!”
Sembra assurdo, ma è capitato. E sto seriamente sperando che si
tratti di un troll di proporzioni elefantiache.
Grazie
mille,
EffieSamadhi*
Portagioie di tristezza
Capitolo terzo
La vita ha un buffo
modo
di insinuarsi in te.
La vita ha un buffo,
buffissimo modo
di aiutarti.1
Da:
daria-giordano@yahoo.it
A:
echelon490@gmail.com
03-11-2013 |
05:03 AM (GMT+1)
Oggetto:
Grazie
Ciao Shannon,
spero di aver
scritto l'indirizzo giusto (mi sono dimenticata di trascriverlo su
carta prima di lavarmi le mani) e di poterti perciò mandare poche
righe per ringraziarti della compagnia di questa sera. In effetti
quel parcheggio non era un posto in cui sarei rimasta volentieri da
sola. Grazie anche per aver sopportato le mie lamentele – comunque
di solito non sono così noiosa. Ancora complimenti per lo show di
questa sera, è stato davvero eccezionale. Se siete in albergo a
riposare, buonanotte. Se invece siete già ripartiti per un altro
concerto, buon viaggio e buona fortuna!
Daria
***
03-11-2013 | 05:12 AM (GMT+1)
Oggetto: Re: Grazie
Ciao Daria,
come sicuramente capirai da questa
mail l'indirizzo è giusto. Sono molto felice che tu mi abbia
scritto, ma come ti ho già detto non hai nulla di cui ringraziare.
Sono stato molto bene con te, e mi ha fatto piacere conoscere una
persona nuova, specialmente perché sei una ragazza molto matura e
anche molto simpatica. Piuttosto, grazie a te per non avermi assalito
come una fan esaltata – in tal caso, ti avrei scaricata in quel
parcheggio e me ne sarei andato. Alla fine con mio fratello ho
chiarito tutto: gli ho fatto le scuse da parte tua e lui ha lasciato
perdere l'idea di litigare (è sempre molto sensibile alla causa
delle belle ragazze). Ora siamo in albergo, ci tratterremo ancora
qualche giorno in Italia (forse anche una settimana o più). Hai
consigli per tre americani che vogliono fare i turisti?
Shannon
P.S.: Vedo che neanche tu riesci a
dormire...
***
Da:
daria-giordano@yahoo.it
A:
echelon490@gmail.com
03-11-2013 |
05:28 AM (GMT+1)
Oggetto: Re:
Re: Grazie
Per fortuna
tuo fratello è stato ragionevole (il mio avrebbe molto da imparare
in proposito), sono contenta che non ci siano state conseguenze. Per
quanto riguarda l'esaltazione... beh, te l'ho detto, non sono così
fanatica da diventare una stalker. Sono contenta che possiate
trattenervi ancora qualche giorno in Italia, ci sono tante cose belle
da vedere. Dovreste prendervi un po' di tempo per visitare Milano, ci
sono tanti luoghi di interesse e monumenti che valgono la pena di
essere visti. Quali posti avete già visitato in Italia?
Daria
P.S.: Non ho
ancora scaricato l'adrenalina del concerto, non riesco a tenere gli
occhi chiusi. Probabilmente stasera andrò a letto ancor prima di
cena.
***
Da:
echelon490@gmail.com
A:
daria-giordano@yahoo.it
03-11-2013 | 05:46 AM (GMT+1)
Oggetto: Re: Re: Re: Grazie
Milano la conosciamo già
piuttosto bene, l'abbiamo visitata tre anni fa durante il tour di
This Is War. Conosciamo abbastanza bene anche Roma e Firenze. Ci sono
altre città che secondo te dovremmo vedere, a parte Venezia (tutti
quelli che conosciamo ci consigliano Venezia)? Che ne dici di Torino,
ad esempio? So che è una città piuttosto importante, immagino che
ci saranno parecchie cose da vedere. Magari potresti farci tu da
guida, visto che sei nata e cresciuta lì. Sicuramente non avremmo
problemi a comunicare, dato che parli l'inglese così bene.
Fammi sapere qualcosa, ok?
Shannon
***
Da:
daria-giordano@yahoo.it
A:
echelon490@gmail.com
03-11-2013 |
06:14 AM (GMT+1)
Oggetto: Re:
Re: Re: Re: Grazie
Tra Torino e
Venezia la più suggestiva è certamente Venezia, perciò vi
consiglio di andare là. Siamo in bassa stagione, quindi dovreste
riuscire a girare piuttosto liberamente. Comunque non avrei molto
tempo da dedicarvi, tra il lavoro e tutto il resto. Dopo Milano, Roma
e Firenze sicuramente Venezia è la tappa ideale. Fatemi sapere se vi
siete divertiti! Adesso torno a letto e provo a dormire un po', mi
sento stanchissima. Buon riposo anche a voi.
Daria
***
Torino, 03 novembre 2013
«Giuro
su quanto ho di più caro al mondo, a volte mi piacerebbe davvero
sapere che cosa ti passa per la testa in certi momenti»
sospira Alice, spostando le tazze vuote nel lavello. «Tu capisci
che cosa stava cercando di comunicarti, vero? Ti prego, dimmi che lo
capisci.»
«Ho capito che voleva che
io gli consigliassi di venire a Torino.»
«Appunto. E dietro quel
desiderio che cosa si nascondeva secondo te?»
«Alice, non...»
«Lui
voleva vederti,
tutto qui. E tu gli spegni ogni entusiasmo spedendolo a visitare un
vespasiano per piccioni.»
«Venezia non è un
vespasiano per piccioni, è una delle città più belle del mondo,
nonché una delle più romantiche.»
«Sì, se sei in coppia.
Certo non se sei uno che ci prova con una ragazza che si è
travestita da gigantesco muro di gomma e si diverte a respingere ogni
tuo assalto.»
Mentre
aspetto che il computer si spenga, chiudo per un istante gli occhi e
mi massaggio la fronte con una mano, pensando a come rispondere:
Alice sarebbe in grado di contraddirmi fino alla morte e oltre.
«Alice, per favore,
consideriamo questa cosa in maniera razionale.
Da una parte c'è la sottoscritta, che ha un lavoro sottopagato, vive
ancora in famiglia e sarà sempre una pinco-pallino qualunque.
Dall'altra parte abbiamo un tizio la cui faccia è conosciuta in
tutto il mondo, che guadagna milioni di dollari soltanto grattandosi
il naso e che probabilmente ha piantato la bandiera in ognuno dei
cinque continenti. Ora spiegami, in maniera razionale,
in quale cazzo di modo la sottoscritta e il tizio milionario
potrebbero mai trovare un punto d'accordo. Se sei in grado di
spiegarmelo, il prossimo mese di affitto te lo pago io, sul serio.»
«Beh,
sicuramente con un atteggiamento un po' più positivo del tuo»
ribatte lei, voltandosi mentre si asciuga le mani con uno
strofinaccio. «Daria, sono la prima ad essere sconvolta da quello
che ti è capitato stanotte, però... rifletti, accidenti!
Probabilmente non diventerà nulla più di quello che ti aspetti,
ovvero una breve avventura senza conseguenze, ma chi se ne frega!
Sarà comunque molto più di quanto qualunque donna si aspetterebbe!
E hai il vantaggio di sapere in anticipo che tipo è – o meglio, lo
puoi presumere.
Insomma, se ti aspetti che sia uno stronzo che vuole solo toglierti
le mutande e lui dimostra di esserlo, comunque non ci perdi niente. E
se invece ti aspetti che sia uno stronzo che vuole toglierti le
mutande e poi scopri che non lo è... beh, in quel caso ci guadagni.
Comunque varrebbe la pena tentare... per vederlo senza mutande,
almeno.» Rimasta senza parole, non riesco neanche a guardare negli
occhi quella che è la mia migliore amica. Ha ragione. Ha
assolutamente
ragione – anche sulla parte delle mutande. «Senti» riprende,
appendendo al gancio lo strofinaccio e rivolgendomi lo sguardo più
comprensivo del mondo, «lo so che tu non sei abituata a fare questo
genere di cose, che prima di lasciarti andare con qualcuno hai
bisogno di conoscerlo nel più piccolo dettaglio, però... insomma,
Shannon è uno completamente
diverso
dagli altri, e quindi forse... forse è giusto che anche il tuo
comportamento sia diverso.
Penso che possiate incontrarvi di nuovo senza dover per forza finire
a letto insieme. Le cose non sono automaticamente collegate, no? Però
credo che dovresti rivederlo, se lui insiste tanto per farlo.
Potrebbe comunque essere una delle esperienze più belle della tua
vita. Sai, tipo un'esperienza da raccontare ai tuoi nipoti.»
***
Milano, 03 novembre 2013
«No, aspetta, ti pianta in
asso così?» Jared, che mi è rimasto accanto per tutto il tempo
dello scambio di e-mail, a volte anche infastidendomi con i suoi
consigli non richiesti, sgrana gli occhi sentendomi leggere l'ultima
risposta di Daria. «Shannon, non può! Non ti può mollare così!»
«Jared,
io la capisco»
rispondo in tono calmo, cercando di essere un buon mediatore. Conosco
bene mio fratello, e so che sarebbe in grado di spedirle un messaggio
per dirle che è stata maleducata.
«Se fossi nei suoi panni e Lady Gaga mi chiedesse di uscire,
probabilmente anch'io sarei confuso.»
Sul
volto di mio fratello appare un'espressione che definire disgustata
è dir poco. «Ci stai
paragonando a Lady Gaga?»
«Taylor Swift?»
«No, Shannon, no.»
«Ok, sentiamo chi propone
il maestro.»
«Christina Aguilera.» Le
sopracciglia devono essermi salite oltre la fronte, tanta è la
sorpresa nel sentire quel nome. «Facciamo Whitney Houston.»
«Sono d'accordo.»
«Beh, comunque non può
chiudere la conversazione così di botto e pretendere di averla
vinta. Può essere carina finché vuole, simpatica e intelligente e
tutto quello che vuoi, ma è una questione di buona educazione. Non
si fa così.»
«Aspetta, Jared, fammi
capire: tu che c'entri in questa storia?»
Disteso a pancia in sotto
sul mio letto con i piedi che dondolano oltre il bordo del materasso
e i calzini spaiati, mio fratello si sta comportando come una
quattordicenne ad un pigiama party. Mi guarda con l'espressione più
angelica del suo repertorio e risponde: «Voglio solo che tu sia
felice, fratellone» sbattendo le ciglia con aria languida.
«Ma piantala» rido,
assestando una piccola pedata al cuscino su cui ha appoggiato i
gomiti. «Sono un uomo adulto, credo di essere in grado di gestire le
mie relazioni anche senza la tua assistenza.»
«No,
aspetta, fammi capire: da quando tu e questa Daria
avete una relazione?»
«Jared, se non la pianti
ti butto giù dal letto.» La verità è che questa ragazza mi ha
colpito da subito, e non riesco a fare a meno di ripensare alla
mezz'ora scarsa che abbiamo trascorso insieme. So che è stupido e
che rischio di sembrare ridicolo dicendolo, ma se credessi all'amore
a prima vista direi che è successo, che sono stato colpito: gli
occhi che durante la signing session mi hanno fatto sentire minuscolo
sono riusciti a stregarmi, a distruggermi e a ricostruirmi nel
volgere di una notte. Quello che più mi stupisce è che di lei
ricordo praticamente tutto, ogni dettaglio, come se in mezz'ora
avessi dipinto un ritratto mentale del suo viso, una copia così
fedele da credere quasi di poterla toccare, di poterla tirare fuori
dai ricordi e di metterla sul cuscino accanto.
«Oh, no» sospira mio
fratello, voltandosi sulla schiena e incrociando le braccia dietro la
testa.
«Oh, no cosa?»
«Se non ti conoscessi
bene, direi che ti sei innamorato» risponde quello,
cantilenando l'ultima parola come quando da bambini ci si prende in
giro. «Sarebbe materiale buono per una rivista di gossip. L'Italia
strega Shannon Leto, già mi vedo i titoli. D'altronde l'hanno
sempre detto che le italiane hanno un sex appeal micidiale.»
«Non è sexy» ribatto
subito, neanche fosse quello il punto fondamentale della
conversazione. «Insomma, non è una di quelle che ti colpiscono per
il fisico... veramente non ci ho nemmeno fatto caso, era vestita in
modo piuttosto pesante. D'altronde la capisco, è autunno.»
«Quindi magari è una
bomba del sesso e tu ancora non lo sai.»
«No, lo dubito. Quelle le
riconosci dallo sguardo, dal modo di fare... Daria è una ragazza
normale, lo sento. Una con degli occhi così non può non essere una
ragazza normale.»
«Quindi che hai intenzione
di fare? Segui il consiglio e vai a Venezia a fare l'innamorato
respinto e a struggerti per lei vagando per i canali in gondola?»
«Non lo so, Jared. Non
voglio insistere, ho paura di spaventarla. È vero, insieme siamo
stati bene, ma non si può ignorare quello che sono. Per quanto mi
sforzi di comportarmi in maniera ordinaria, la mia vita è
tutt'altro che ordinaria, e...» Mi interrompo, distratto da
un nuovo trillo di notifica. «Ehi, è di nuovo lei!»
«Ti starà mandando il
numero di un tour operator che può organizzarti la gita a Venezia»
risponde lui con aria di sufficienza, studiandosi le unghie proprio
come se fosse una quattordicenne ad un pigiama party con le amiche.
«Non credo proprio, sai?»
Jared si volta su un fianco
e mi fissa con attenzione, aggrottando le sopracciglia. «Stai
sorridendo. Mi pare un buon segno.»
***
Da:
daria-giordano@yahoo.it
A:
echelon490@gmail.com
03-11-2013 |
06:28 AM (GMT+1)
Oggetto: Re:
Re: Re: Re: Re: Grazie
Ripensandoci,
nonostante Venezia sia comunque una meta molto suggestiva, credo che
potreste trovare qualcosa da fare anche qui a Torino. Purtroppo non
potrei farvi da guida di persona, perché il lavoro mi tiene davvero
molto occupata, e il lunedì, che di norma è il mio giorno libero,
ho sempre un sacco di altre cose da fare. Se alla fine decideste di
venire qui, fammelo sapere. Il fratello di una mia amica è un guida
turistica, potrei chiedergli un favore e farvi accompagnare da lui.
Buonanotte,
Daria
***
Milano, 03 novembre 2013
«Allora?
Che dice?» L'espressione di Jared si è fatta curiosa, ai limiti
dell'ossessione. Muore dalla
voglia di sapere che cosa mi abbia scritto Daria nell'ultima e-mail.
Digito in fretta una risposta, poi chiudo il portatile e mi alzo,
mentre lui non mi stacca gli occhi di dosso. «Allora? Shannon?
Shannon, che dice?»
«Non
sono affari tuoi. L'espressione vita
privata ti dice nulla?»
«Non
ti sei mai fatto problemi a parlarmi della tua vita privata!»
protesta lui, mettendosi in fretta a sedere. «Allora, che dice?»
«Beh,
parafrasando quello che dice lei e integrandolo con quello che penso
io, ne salta fuori che qualsiasi progetto tu avessi fatto per lunedì
salta.»
«Ti
ha invitato ad andare da lei?»
«Non
esattamente.»
«Ti
sei auto-invitato?»
«Più
o meno. Diciamo che dovrà ricavare cinque minuti per il sottoscritto
nella sua fitta agenda. Ora, Vostra Maestà, potete farmi il favore
di tornare nella vostra suite? Sento il disperato bisogno di
dormire.»
«Non
riesco a decidere se sei un tipo geniale o soltanto un povero stronzo
che non si cura dei bisogni degli altri» borbotta Jared, scendendo
dal letto e avvicinandosi alla porta d'ingresso.
«Potresti
andare a pensarci in camera tua, per favore?» gli domando,
tenendogli aperto l'uscio sperando che se ne vada.
«Ho
deciso: sei uno stronzo.»
Appena rimango solo, inizio
a pensare a tutte le cose che devo fare in previsione della mia gita
fuori porta: devo controllare gli orari dei treni, prendere il
biglietto, capire come funziona il trasporto pubblico... dal primo
momento della nostra separazione sono stato determinato a rivederla,
e ora che mancano per certo solo ventiquattro ore non riesco a stare
nella pelle – mi sento come una lattina di birra scossa a lungo, mi
sento come se ci fosse soltanto un sottile strato di pellicola a
trattenermi dall'esplodere.
La
vedrò.
***
Torino, 03 novembre 2013
«Ha risposto!» mi grida
Alice dalla cucina, sperando forse di stimolare la mia vescica a
svuotarsi più in fretta. «Hai sentito, Daria? Ti ha risposto! Vuoi
che legga io?»
«No, per carità!»
esclamo, tornando in cucina così in fretta che ho i pantaloni ancora
mezzi abbassati. «Vediamo che dice... mi ha dato il suo numero.»
«Cosa?»
«Mi ha dato il suo numero,
guarda qui!» ripeto, puntando l'indice contro il monitor. «Vuole
che lo chiami lunedì mattina alle otto. Dice che per lunedì hanno
già dei programmi, e vuole che lo chiami per spiegargli come possono
organizzare una visita in città, magari in un'altra data.»
«Mi
sembra una cosa un pochino cervellotica... sicura di aver capito
bene?»
«Ma
certo che ho capito bene! Non sono cretina, è quello che mi ha
scritto. Senti, io adesso vado a dormire. Inizio ad averne veramente
bisogno.
«Sì,
penso che ci convenga. Sto iniziando a sentire tutta la stanchezza
del concerto, in effetti.»
1La
vita ha un buffo modo di insinuarsi in te. La vita ha un buffo,
buffissimo modo di aiutarti. | Il
titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Ironic
di Alanis
Morissette,
contenuta nell'album Jagged
Little Pill
(1995).
|
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Capitolo 4 *** 4 | L'intera vita di una donna in un giorno, un solo giorno; e in quel giorno, tutta la sua vita. ***
Portagioie di tristezza | 1
Portagioie di tristezza
Capitolo
quarto
L'intera
vita di una donna in un giorno,
un
solo giorno;
e
in quel giorno,
tutta
la sua vita.1
Torino, 03 novembre 2013
«Sono a casa!»
dico ad alta voce, richiudendomi la porta alle spalle e lasciando le
chiavi nella ciotola di vetro appoggiata sul tavolino nell'ingresso.
«Ciao, pulce!»
mi saluta papà, abbassando il volume della televisione per
potermi prestare più attenzione. «Divertita ieri sera?»
«Moltissimo, è
stato eccezionale. Vederli dal vivo è veramente un'emozione
incredibile» rispondo, lasciando cadere il borsone dietro il
divano e sfilandomi la sciarpa. «Non so, è stato... è
indescrivibile, davvero. Non so che parole usare, non credo di poter
spiegare quello che è stato. Sono bravissimi, un'energia così
ce l'hanno in pochi. Anche Alice si è divertita, ha deciso che
vuole trascinarmi ad ogni concerto che faranno qui in Italia.»
«E sei poi riuscita a
farti firmare il disco? A sentire Francesca, sembrava fosse l'unico
motivo per cui valesse la pena di andare a Milano» mi domanda
lui con un sorriso. Se la mia felicità dipende quasi
totalmente dal fatto di aver assistito ad uno spettacolo
irripetibile, l'ansia di mia sorella era dovuta al fatto che avrei
potuto trovarmi faccia a faccia con Jared Leto, che è una
delle tante forme che il suo Principe Azzurro ideale ha assunto nel
corso degli anni.
«Sì,
sono riuscita a partecipare, e sono stati tutti e tre
disponibilissimi» rispondo subito in tono sicuro. Meglio non
far parola della conversazione con Shannon, e soprattutto della
possibilità che stesse davvero
tentando
di baciarmi.
Ad evitare un ulteriore
proseguimento dell'interrogatorio di mio padre arriva quel terremoto
di mia sorella, che mi salta al collo senza nemmeno salutare e inizia
a chiedermi in maniera ossessiva: «Allora, come sono? Sono
fighi come nelle foto? Eh? Come sono? Sono davvero così
belli?»
«Sì,
Franci, sono davvero fighi
come
nelle foto» rispondo a fatica, cercando di liberarmi la gola
dalla sua stretta. «Per l'amor del cielo, mollami, altrimenti
mi ammazzi!»
«Ti hanno firmato il
cd?»
«Sì,
tutti e tre» rispondo, prendendo la custodia dalla borsa e
porgendogliela. «Comunque non sono solo fighi,
sono anche persone intelligenti e gentili. Sarebbe carino se ogni
tanto fossi un po' meno venale, sai?»
«Oh,
ma smettila» mi zittisce. «Come se non sapessi che sbavi
in maniera indecorosa su ogni video o foto in cui c'è
Shannon!» Non so di preciso che cosa mi salvi dall'arrossire
come un pomodoro ben maturo – in effetti, mi trovo costretta ad
ammetterlo, Shannon mi ha sempre attratta in una maniera a dir poco
indecente,
e averlo avuto a pochi centimetri di distanza, e averlo sfiorato...
beh, tutto questo certamente non farà diminuire la folle
infatuazione che nutro per lui. Per fortuna Francesca ricomincia a
parlare, riscuotendomi da un genere di pensieri che non mi sembra
proprio il momento di avere. «Dai, mi racconti del concerto?
Voglio sapere tutto, le mie amiche saranno invidiosissime! Ma Jared
si è davvero fatto le trecce?»
«Se mi dai il tempo di
fare una doccia e poi mi aiuti a piegare le lenzuola, forse sì»
le rispondo, restituendo il sorriso a mio padre mentre alzo da terra
il borsone.
Apro
il rubinetto, sperando che qualcuno
non
abbia consumato tutta l'acqua calda, mi spoglio e lascio cadere i
vestiti nel cestone della biancheria, scoprendo con un po' di
dispiacere che più tardi mi toccherà caricare di nuovo
la lavatrice. Mi infilo sotto un getto appena tiepido, ma che mi
sforzo di farmi andare bene, e mentre inizio ad insaponarmi mi chiedo
quando avrò un'altra occasione di divertirmi come sabato,
quando avrò un'altra chance di stare bene, senza pensieri e
senza pressioni. Non sono mai stata il tipo di ragazza che si piange
addosso, ma a volte invidio davvero Alice, che nonostante i piccoli
problemi quotidiani è una persona che vive felice.
Ho
compiuto ventitré anni meno di due mesi fa, ma ci sono mattine
in cui mi alzo dal letto e me ne sento addosso almeno il doppio.
Quando avevo otto anni, mia madre ha deciso di non essere abbastanza
forte per occuparsi di un marito e di tre bambini, e nel volgere di
una settimana ogni traccia del suo passaggio è scomparsa da
questo appartamento – niente più abiti nell'armadio,
niente più scarpe allineate sui ripiani dello sgabuzzino,
niente più boccette di profumo schierate sulle mensole del
bagno. Da quel momento è cambiato tutto, e in un certo senso
dovrei dire che è stato tutto più difficile: nonostante
il sostegno dei nonni e degli zii, andare avanti senza una figura
femminile stabile ha creato una certa dose di problemi – almeno
alla sottoscritta. Essere una ragazza non è mai facile, ma
crescere senza avere accanto tua madre è ancora peggio:
nonostante zia Beatrice sia sempre stata più che disponibile
ad aiutarmi, a spiegarmi tutto quello c'era da sapere sulle
'questioni pratiche' e a darmi consigli, una strana sensazione di
vuoto mi accompagna da quindici anni, come se nella mia vita mancasse
qualcosa di fondamentale – e per chi se lo stesse chiedendo,
sì, sono probabilmente la ragazza più insicura del
mondo. Forse è per questo motivo che non riesco ad arrendermi
all'idea che un uomo come Shannon Leto possa essersi sentito, anche
solo per qualche frazione di secondo, attratto
da me.
Sciacquo via la schiuma, mi
passo più volte le mani tra i capelli per assicurarmi che
siano puliti e chiudo il rubinetto, cercando di prepararmi al momento
in cui farò scorrere il pannello della doccia e mi sembrerà
di passare dall'inferno alla ghiacciaia, e intanto penso a mio
fratello e a mia sorella, che potrebbero dire di sentirsi ancor più
defraudati di me – in fondo io ho alle spalle otto anni di
ricordi, Emanuele soltanto quattro, e Francesca non ha altri mezzi se
non le fotografie per ricordarsi il viso della mamma. Mi stringo
nell'asciugamano, cercando di evitare lo specchio, sapendo che
l'immagine che vi troverei è troppo simile a quelle nascoste
in fondo all'armadio dove da tempo ormai ci sono solo i vestiti di
papà. Ho guardato quelle fotografie così a lungo e così
spesso da ricordare alla perfezione ogni dettaglio: so di avere gli
stessi occhi, lo stesso naso, la stessa forma del viso, persino lo
stesso colore di capelli – sono una copia sputata di mia madre,
e a volte il terrore di potermi rivelare fragile e incostante quanto
lei mi provoca un incontrollabile senso di nausea.
Non la vedo da tredici anni.
Per quel che ne so, potrebbe essere morta, in galera, o magari
fuggita in Brasile. Papà non ne parla mai, ma credo sia
piuttosto comprensibile: quando la donna che hai amato per una vita
se ne va lasciandoti solo con tre bambini piccoli a cui badare,
probabilmente l'ultima cosa che ti va di fare è ricordarla
nelle tue preghiere serali – soprattutto se ti ha lasciato
senza una valida spiegazione. So che lei è stata il grande
amore di papà, perché da piccola le chiedevo sempre di
raccontarmi di come si erano conosciuti, e del giorno del loro
matrimonio. A quell'epoca mi sembrava felice, o almeno appagata, e
dopo tutto questo tempo ancora non riesco a capire che cosa sia stato
a farla scappare, che cosa sia scattato nella sua testa... ancora non
riesco a capire perché abbia smesso di volerci bene.
Dopo il divorzio, papà
è rimasto solo per un sacco di tempo, ma la cosa non mi
sorprende: se anche avesse voluto rifarsi una vita, quale donna al
mondo avrebbe accettato una relazione con un uomo che dedica al
lavoro otto ore al giorno e trascorre le rimanenti cercando di non
far sentire ai figli la mancanza della madre? Solo negli ultimi due
anni ha iniziato ad aprirsi di nuovo al mondo, accettando di uscire
con la figlia di un'amica della nonna, una ex compagna di scuola con
due figli grandi rimasta vedova diversi anni fa. Non che ci siano
chissà quali progetti in ballo, intendiamoci: immagino che
quando ci si è scottati già una volta, prima di
accendere un altro falò ci si pensi su un po' più di un
paio di volte. Peccato, perché come matrigna Laura non mi
dispiacerebbe: è una donna simpatica, moderna, e ogni volta
che esce con lei papà sorride come un ebete per una settimana.
Saperlo felice rende felice anche me, ma non posso certo obbligarlo
ad ufficializzare la loro relazione soltanto per un mio capriccio.
Mentre mi rivesto, non posso
fare a meno di chiedermi se io avrò mai qualcosa del genere:
un uomo che mi apprezzi che quello che sono, qualcuno che mi ami così
tanto da voler dividere con me un'intera vita, e comprare una casa,
avere dei figli, magari adottare un cane. Forse sono sogni infantili,
una stupida utopia, ma la mia più grande paura è di
trascorrere il resto della vita sola, in attesa di qualcuno che non
arriverà mai. Mi strofino i capelli con un asciugamano, e mi
viene da sorridere al pensiero che poco più di dodici ore fa
la ragazza insicura e fragile riflessa in questo specchio sia
riuscita a sostenere una brillante conversazione in lingua straniera
con uno dei batteristi più famosi del mondo. Sono appena
giunta alla conclusione che devo per forza essere una persona
ridicola.
Torno in camera e spingo il
borsone vuoto sotto il letto, pur sapendo che non è quello il
suo posto; mentre mi sto voltando per uscire e raggiungere mia
sorella nello stanzino adibito a lavanderia, sento vibrare il
cellulare. Nonostante sappia che non può essere Shannon
a cercarmi, nel sentire quel lieve rumore il cuore manca comunque un
battito. Penso che se mi trovassi di nuovo a parlare con lui, ora che
conosco il tono della sua voce e il suo modo di esprimersi, potrei
seriamente rischiare un mancamento. Tuttavia non c'è pericolo,
è soltanto Alice che mi scrive per chiedermi se l'ho già
chiamato. Le rispondo di farsi gli affari suoi ed esco dalla camera,
chiudendomi la porta alle spalle.
«Senti, adesso che
siamo lontane dalle orecchie di papà...» esordisce mia
sorella mentre lotta per pareggiare gli angoli di un lenzuolo, «è
successo qualcosa di interessante ieri sera?»
«Interessante in che
senso?» le domando fingendo indifferenza.
«Interessante nel
senso che mi sembri un po' troppo felice per essere una che è
solo stata ad un concerto, per quanto grandioso possa essere
stato lo spettacolo.»
«E cos'altro sarebbe
dovuto succedere secondo l'opinione della signorina?» le
domando in tono sarcastico, sapendo di potermi aspettare da lei
qualsiasi genere di risposta.
«Potresti aver
conosciuto qualcuno.» Per quanto fossi preparata, la sua
risposta mi inchioda al pavimento. Le ipotesi sono tre: o mia sorella
ha più intuito di quanto creda, o ha una fortuna sfacciata,
oppure ha chiamato di nascosto Alice e l'ha fatta confessare. Oppure,
ma questa è una cosa che non voglio nemmeno considerare, la
mia soddisfazione è troppo evidente per essere nascosta.
«Bene, il tuo silenzio vuol dire che ho indovinato.»
«Non è che per
caso hai chiamato Alice?»
«No, perché?
Pensi che potrebbe raccontarmi i dettagli che quasi sicuramente tu mi
terrai nascosti?»
«Stavo semplicemente
chiedendo. Comunque sì, si potrebbe dire che ho incontrato
qualcuno.»
«Beh, chi è?»
«Uno studente
americano» mento. Non c'è ragione di raccontare tutta la
verità anche a lei: ho già Alice a farmi da coscienza,
ed è già troppo. «Arriva dalla Louisiana, è
qui per un anno. È arrivato un paio di mesi fa, a inizio
settembre.» Credo che raccontare bugie ad un familiare possa
essere considerato un peccato mortale, ma ci sono occasioni in cui
mentire è l'unica via per salvarsi. «Studia italiano e
francese, ed è venuto in Italia per un programma stile
Erasmus. Però abita a Milano, non qui a Torino. Era al
concerto con un paio di amici.»
«E come hai fatto ad
incontrarlo?»
«Ci siamo scontrati
mentre uscivamo dal Forum. Sai, il classico incontro da film: mi è
venuto addosso per sbaglio, si è scusato subito e poi abbiamo
iniziato a parlare... in realtà l'italiano lo studia da poco,
quindi abbiamo più che altro parlato in inglese. È
piuttosto simpatico, devo dire.»
«Quanti anni ha?»
«Ha la mia età»
ribatto velocemente. Menzogna epica: in realtà Shannon
ha soltanto sei anni meno di nostro padre.
«E come si chiama?»
«Sh... Sean»
mi correggo subito, sperando che Francesca non abbia colto la mia
piccola défaillance. «Si
chiama Sean»
«Sean... mi è
sempre piaciuto il nome Sean. E... rimarrete in contatto?»
«Mi ha lasciato la sua
e-mail. Mi ha chiesto di scrivergli, ogni tanto... però in
italiano, dice che ci tiene a migliorare.»
«E tu gli scriverai?»
«Beh, credo di
averglielo praticamente promesso. Non sarebbe educato non mantenere
le promesse.»
«E lo rivedrai?»
«Beh, questo non lo
so. Abita a Milano, non è certo dietro l'angolo. Insomma, è
carino, ma non credo che questo giustifichi un viaggio così
lungo solo per...»
«Sul serio è
carino? Descrivilo un po', dai, voglio sapere com'è!»
Colta alla sprovvista, non
so davvero da dove cominciare – ma perché diavolo mi
sono lasciata scappare la parola carino? «Beh, non
saprei... è un bel po' più alto di me, più o
meno sarà un metro e settantacinque... ha un po' di barba, i
capelli scuri... ah, i capelli li porta un po' lunghi...»
«Lunghi quanto? Lunghi
tipo Jared?»
«No, più
corti... diciamo tipo Shannon.»
«Oh, come Shannon...
scommetto che però non gli stanno così bene. E gli
occhi? Come sono? Ti prego, dimmi che sono azzurri, dimmi che sono
azzurri! Io impazzisco per gli occhi azzurri!»
Non rispondo subito,
impegnata come sono a cercare di ricordare il colore dei suoi occhi –
è questa la fregatura, con Shannon: nessuno è mai
riuscito a stabilire con certezza di che colore abbia gli occhi. Con
Jared è facile, sono azzurri come un cielo d'agosto, e con
Tomo ancora più semplice, sono scuri come la notte, ma lui...
eh no, con lui non è semplice affatto: un minuto sembrano
neri, quello dopo sono verdi, e proprio quando ti sembra di aver
deciso eccoli riempirsi di pagliuzze dorate, e diventare color
dell'ambra. Sono stata faccia a faccia con lui per più di
mezz'ora, e non so di che colore abbia gli occhi. «Gli occhi
sono scuri, quasi neri» rispondo infine. In fondo, questa è
una mezza verità.
Sono appena le dieci quando
mi ritiro in camera mia, lasciando mio padre e mio fratello mezzi
assopiti davanti ad una trasmissione sportiva e sorridendo all'idea
di mia sorella alle prese con una versione di latino che fino a
un'ora fa proprio non voleva saperne di riuscire. Scivolo dai jeans
al pigiama senza fatica, desiderando solo di sistemarmi tra le
lenzuola, chiudere gli occhi e dormire. Alla fine la giornata
non è stata così improduttiva: ho fatto il bucato e
stirato, smaltendo l'infinita pila di roba che da oltre una settimana
aspettava di essere sistemata, così domani avrò il
tempo di dedicarmi ad un progetto che rimandavo da troppo tempo –
e cioè vagare un po' in giro alla ricerca di un appartamento
che risponda alle mie esigenze. Non che non mi piaccia vivere qui, in
fondo ci sono cresciuta, ma ci sono giorni in cui mi sento quasi di
troppo, come se per me fosse giunto il momento di cambiare, di
trovarmi un posto mio e di crescere definitivamente.
Quando mi infilo a letto,
non mi accorgo di aver lasciato il cellulare sopra le coperte, e
quello scivola a terra con un tonfo. Quando lo prendo su, un'idea
balzana mi attraversa la testa: perché aspettare domani
mattina per chiamare Shannon? Potrei chiamarlo stasera ed evitare la
levataccia domani mattina, visto che il lunedì e la domenica
sono gli unici due giorni in cui posso permettermi di sonnecchiare un
paio d'ore in più. Tuttavia non ho il tempo di interrogarmi
sull'intelligenza dell'idea, perché le dita sono state più
rapide del cervello, e già hanno selezionato il suo numero
dalla rubrica. Cinque squilli, e quella voce risponde.
«Pronto?»
Ma io, da vera stupida
fifona, ho già chiuso la comunicazione. Poso il cellulare
sulle coperte, guardandolo come se mi aspettassi di venirne presto
morsa, chiedendomi che cosa potrà mai aver pensato lui,
rimasto appeso all'altro capo del filo come un salame. Ma di nuovo
non ho tempo di farmi domande, perché le prime note di Iris2
stanno già riempiendo il silenzio. Il nome che appare
sul display – Shannon – mi spaventa come non mai,
ma so di non poter evitare di rispondere.
«P-pronto?»
balbetto, sentendomi una vera idiota.
«Ehi... sai, me lo
sentivo che eri tu. Dovevi essere tu.» La sua voce,
signore e signori... la sua voce dovrebbe essere vietata ai minori.
«Ehi, ci sei ancora?»
«Sì, sì,
sono... qui. Sono qui» ripeto, come per convincermene io
stessa.
«Sei un po' in
anticipo. Ti avevo detto di chiamarmi domani mattina.»
«Mi è partita
per sbaglio la chiamata» rispondo in fretta, sentendomi ancora
più stupida di prima.
«Bugiarda»
sussurra. E lo giuro, a quel sussurro sulle braccia mi viene la pelle
d'oca. Mi chiedo se abbia mai pensato di lavorare per una linea
erotica – ci sarebbero donne che spenderebbero una fortuna, per
fare sesso telefonico con uno così. «Perché
mi hai chiamato adesso?»
Improvvisamente sento
fiorire dentro uno strano coraggio, lo stesso che ho sentito ieri
sera quando abbiamo iniziato a chiacchierare – è come se
la mia personalità cambiasse, come se smettessi per un po' di
essere l'insicura che sono di solito. «Se non vuoi parlarmi ora
metto giù» ribatto, sentendomi più forte.
«No, non mettere giù»
risponde in fretta, quasi spaventato all'idea che possa chiudere di
nuovo la conversazione. «Volevo solo sapere come mai hai deciso
di chiamarmi adesso.»
«Non avevo altro da
fare. E poi volevo... non lo so, forse volevo solo essere sicura
che... beh, che fosse successo davvero.»
«Cosa, di esserci
incontrati?» Annuisco, incapace di parlare. Mi accorgo subito
della mia stupidità, perché lui non può vedermi
attraverso il telefono, ma prima di potergli rispondere mi
interrompe: «Anch'io ho avuto questo dubbio, sai? Mi sono
svegliato, questo pomeriggio, e la prima cosa che mi sono chiesto è
stata: ma con quella ragazza ci ho parlato davvero? Ho davvero
parlato con una ragazza di nome Daria? Allora sai che ho fatto? Sono
andato a leggere le e-mail. Così ho capito che era successo
davvero.»
«Sì, per me è
stato più o meno lo stesso. Sarà che cose del genere
non ti capitano tutti i giorni.»
«No, infatti. E per
fortuna non capitano tutti i giorni: hai idea di quanto
diventerebbero ordinarie cose così straordinarie?»
E di nuovo il tono in cui pronuncia l'ultima parola mi lascia senza
fiato, incapace di formulare qualcosa di anche vagamente umano. «Sono
contento che mi abbia chiamato adesso, in realtà. Non so se
avrei resistito fino a domani.»
«Perché volevi
che ti chiamassi domani mattina?»
«Beh, principalmente
perché volevo sentirti. E poi perché volevo
chiederti.... beh, ecco, volevo sapere se domani hai da fare.»
«Domani è il
mio giorno libero, avevo in mente di sbrigare qualche faccenda... ti
ho raccontato del mio progetto di prendere casa, no? Domani ho preso
un paio di appuntamenti per vedere qualche appartamento.»
«Ah, capisco. Ma se
per caso... ecco, la giornata è lunga. Credi che potresti
trovare un po' di tempo per... per me?»
«Trovare tempo per
te in che senso?»
«Beh, nel senso... per
stare con me, ecco. Come per... portarmi a fare un giro in centro,
prendere un caffè... cose del genere, ecco.»
«Intendi dire... che
domani vuoi venire a Torino per... stare con me?»
«Sì, esatto.
Lunedì non ho nulla da fare, e... sì, voglio vederti.»
Mi copro la bocca con una mano, sperando di soffocare ogni singolo
gridolino da adolescente esaltata che potrebbe uscire dalle mie
labbra. «Daria, ci sei?»
«Sì, sono qui.
E... quando avresti intenzione di venire qui?»
«Domani.»
Ok, questa risposta potrebbe
seriamente farmi dubitare della sua intelligenza, ma decido di
soprassedere. «Intendevo a che ora.»
«Dovrei arrivare con
il treno delle due e mezza, se non ho fatto casino con la
prenotazione. Al massimo chiederò qui in albergo se possono
controllare. Tu sei libera domani pomeriggio, vero?»
«Beh, a questo punto
sì. Non posso certo abbandonarti alla stazione come un cane.
Verrò ad aspettarti al binario.»
«Grazie»
sussurra in un italiano un po' incerto. Ma chi se ne frega, resta
comunque un gran bel pezzo d'uomo. «Ok, allora siamo d'accordo.
Adesso vado a finire di mangiare. Jared mi sta guardando malissimo.»
«Chiedigli scusa da
parte mia. Non era mia intenzione disturbare.»
«Lo farò. Anche
se non ti conosce, sembra che abbia una strana tendenza a
perdonarti.» Riesco a rispondere soltanto con una breve
risatina, mentre lui aggiunge, di nuovo in italiano: «Buonanotte».
«Buonanotte. A
domani.»
«A domani.»
Una volta chiusa la
comunicazione, mi lascio cadere all'indietro sul materasso, emettendo
un sospiro che ricorda vagamente una tromba d'aria. Appoggio il
cellulare sul tavolino e certo di metabolizzare la notizia: domani la
sottoscritta passeggerà per Torino in compagnia di Shannon
Leto. Mi chiedo se dovrei informare Alice oppure no, ma dopo una
breve riflessione decido che non è il caso di metterla in
allarme già da ora.
*
Milano, 03 novembre 2013
«Non
è educato parlare al cellulare mentre si mangia»
mi informa mio fratello, senza
preoccuparsi di mandar prima giù il bolo di insalata triturata
che si è cacciato in bocca mezzo minuto fa.
«Non
sarebbe educazione nemmeno parlare senza aver prima ingoiato»
gli faccio notare, riprendendo a
lottare con i miei spaghetti. Domani dovrò chiedere a Daria
come diavolo si fa a mangiarli senza spargerne ovunque.
«Beh,
non dici altro?» mi
rimprovera di nuovo Jared, fissandomi con gli occhi spalancati.
«Cosa
dovrei dire?»
Prima
di parlare, Tomo si pulisce educatamente gli angoli della bocca.
«Raccontarci se era la tua nuova amica, ad esempio. Jared ha
detto che ieri sera ti sei dato da fare» ammicca,
avvicinandosi il calice di vino alle labbra.
«Non
mi sono 'dato da fare'!» protesto,
mimando nell'aria un paio di virgolette immaginarie. «Ho
incontrato una ragazza, ci ho parlato e le ho dato il mio numero,
niente di più. Non è che ci ho provato,
o cose simili.» In
realtà sì, e neppure troppo velatamente.
«Era
lei» afferma Jared,
prendendo un pezzo di pane.
«Su
quale base ti senti di affermarlo, di grazia?»
«Ti
sei messo sulla difensiva» risponde
lui, facendo spallucce. «Ti metti sempre sulla difensiva,
quando si parla di qualcosa che ti riguarda da vicino.»
«Come
l'unica volta in cui lui ha osato dirti che il finale di Convergence
non lo convinceva»
aggiunge Tomo, facendo un cenno del
capo verso Jared. «Quando si parla di qualcosa che ti riguarda
arruffi il pelo come un gatto. Non provare a dire che non è
vero» aggiunse subito,
gelando ogni mio istinto di ribattere.
«E
poi abbiamo sentito che parlavi di treni» sussurra
mio fratello, credendo di non essere sentito.
«Avete
origliato?»
«Siamo
in una sala praticamente vuota, Shan» mi
fa notare Tomo, continuando a sezionare con precisione la sua
sogliola. «Il gruppo più vicino è a sette metri,
di sicuro era più facile sentire quello che dicevi tu.»
Jared
si versa un po' d'acqua, continuando a masticare. «Andrai da
lei, allora?»
«So
che pensi che sia una cosa stupida» commento,
continuando a rimestare senza speranza nel piatto. «So che
avevamo dei piani per domani, ma sento che vederla è la cosa
giusta da fare» aggiungo,
arrendendomi all'evidenza dei fatti: non saprò mai mangiare
gli spaghetti. Prendo il coltello e inizio a spezzettarli, pur
sapendo che potrei essere impiccato sulla pubblica piazza per un
crimine del genere. «Se aveste incontrato anche voi una ragazza
così,
credetemi, ma fareste qualunque cosa per passare anche solo un minuto
con lei.»
«Che
il Signore ci salvi, vi prego!» esclama
Tomo, senza preoccuparsi di contenere il volume della voce. «Shannon
si è innamorato!»
1L'intera
vita di una donna in un giorno, un solo giorno; e in quel giorno,
tutta la sua vita. | Il
titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da
Virginia Woolf (interpretata da Nicole
Kidman)
nel film The
Hours
(2002).
2Iris
|
Celebre canzone del gruppo statunitense Goo
Goo Dolls,
contenuta nell'album Dizzy
Up The Girl
(1998) ed inclusa nella colonna sonora del film City
Of Angels
(1997),
con Nicolas
Cage
e
Meg
Ryan.
|
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Capitolo 5 *** 5 | Perché io sono reale, e tu sei reale. ***
Portagioie di tristezza | 1
Piccola
nota prima di procedere con il capitolo.
Vorrei
ringraziare di cuore Love_in_London_night per le splendide e puntuali
recensioni, e DadaOttantotto per il supporto morale (in poche parole,
grazie per sopportare i miei deliri).
Grazie
anche a tutte le persone che hanno aggiunto questa storia tra le
preferite, le ricordate o le seguite. (E colgo l'occasione per
ricordarvi che le recensioni non servono solo a dire all'autrice
quanto è bella, brava e intelligente, ma anche per far presenti
eventuali problemi, per proporre suggerimenti eccetera... quindi
fatevi sentire anche se non avete cose belle da dire!)
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo quinto
Perché io sono reale,
e tu sei reale.1
Torino,
04 novembre 2013
Sono le due e ventiquattro
minuti di lunedì quattro novembre, e io sono ferma davanti ai
tabelloni degli arrivi e delle partenze della stazione di Torino
Porta Nuova, indecisa se dirigermi al binario quattordici, sul quale
tra un paio di minuti dovrebbe arrivare il Freccia Rossa da Milano
Centrale, oppure fiondarmi sul binario diciotto e saltare sul
regionale in partenza per Bardonecchia. L'idea di rivedere Shannon mi
fa una paura del diavolo, soprattutto perché temo che appena
sbarcherà dal treno sarà preso d'assalto da un gruppo di fan e gli
sarà impossibile raggiungermi – insomma, le star come lui non sono
vittima dei fan un passo sì e uno no?
Raggiungo
a passo malfermo la testa del binario, tenendomi un po' in disparte
per evitare la fiumana di gente che scenderà dal treno appena le
porte si apriranno, e sfrutto questi ultimi minuti di attesa per
cercare di raggiungere la pace interiore e non sembrare così una
ragazzina sull'orlo di una crisi isterica quando lui
mi
comparirà di fronte. Alla fine ho deciso di mantenere il segreto con
tutti – tenerlo nascosto alla mia famiglia era scontato, ma ho
deciso di non dire nulla nemmeno ad Alice, perché so che sarebbe
stata capace di pedinarci per l'intero pomeriggio armata di
fotocamera e taccuino per appunti. La chiamerò stasera per
raccontarle tutto, sempre ammesso che per allora sia ancora in grado
di formulare qualche frase di senso compiuto.
Mi
scosto, tenendo la testa bassa, lasciando che un numero infinito di
pendolari mi passi davanti senza curarsi di me, e quando sto per
rialzare lo sguardo sento una grande mano callosa posarsi sul mio
fianco, e prima di poter dire qualunque cosa, un bacio sulla guancia
si mangia ogni parola. «Buongiorno»
sento sussurrare da una voce profonda, e finalmente alzo lo sguardo:
un paio di sobri occhiali scuri, capelli sciolti, sorriso bianco e
perfetto...
«Ciao»
pigolo, sicura che se non ci fosse la mano di Shannon a tenermi in
piedi mi sarei già sciolta sul marciapiede. Sul serio, ci vorrebbe
una patente speciale per portare in giro tanta figaggine
–
perché in fondo mia sorella ha ragione, è principalmente di questo
che si parla. «Sei arrivato senza problemi, vedo.»
«Sì, è stato molto più
facile del previsto» risponde, allentando impercettibilmente la
presa sul mio fianco. «In proporzione, ci ho messo di più a
percorrere il tragitto tra l'albergo e la stazione che non la
distanza tra Milano e Torino. Come stai?»
«Beh,
io... bene, credo. Sì, sto bene.» Sto iniziando a sudare come un
cammello, e non riesco a capire se sia per la sua vicinanza o per le
temperature al di sopra della media stagionale. «E tu come stai?
Siete riusciti a riposare dopo il concerto?»
«Sì,
ieri ho passato mezza giornata dormendo. Non si può dire che non
abbia recuperato le forze. Ah, tanto per la cronaca, alla fine Jared
ti ha perdonato. Devi stargli simpatica, è già la seconda volta che
ti perdona pur senza conoscerti» aggiunge con un sorriso.
«Piuttosto, spero che tu
riesca a perdonare me per aver sconvolto i tuoi progetti.»
«Non
ti preoccupare, posso sempre rimandare ad un'altra settimana. Le case
da affittare sicuramente non scappano. Vogliamo andare?» aggiungo,
spostandomi un po' per sottolineare il concetto. Non credo di poter
restare ferma così vicina
a lui per molto ancora.
«Ma
certo, andiamo» risponde, muovendo un paio di passi. «Aspetta solo
un attimo» aggiunge, armeggiando con una tasca. Soltanto adesso mi
rendo conto che reggeva, nella mano che non
mi
stava stringendo il fianco, una copia in lingua originale di
Aspettando
Godot,
una delle mie opere preferite.
«Leggi
Samuel Beckett?» gli domando, forse sorprendendolo un po'.
«Lo
hai letto?» mi domanda, mostrando la copertina.
«Alle superiori»
rispondo. «Era uno dei miei libri preferiti. Adoro Beckett, lo trovo
semplicemente geniale. In generale, mi piacevano tutti gli autori
legati al teatro dell'assurdo.»
«Anche a me è sempre
piaciuto. Era un sacco di tempo che volevo rileggerlo, ma non trovavo
mai l'occasione. Per fortuna lo porto sempre con me. Ieri sera l'ho
trovato in valigia e ho pensato di prenderlo. Sai, per tenermi
occupato durante il viaggio.»
«Mi
sembra appropriato, visto che entrambi fatichiamo a credere che
quello che sta accadendo sia reale.»
«Non l'avevo vista in
questi termini, sinceramente, però in effetti hai ragione. È una
lettura appropriata.» Abbassa gli occhi sulla copertina, che tiene
con entrambe le mani, e dopo averla accarezzata con i pollici la
infila in una tasca interna del giubbotto. «Non avrei dovuto
prendere il giubbotto di Jared» commenta, ruotando le spalle come
per sciogliersi i muscoli. «Ha un sacco di tasche e la cosa è
utile, ma abbiamo smesso di avere la stessa taglia all'incirca
quindici anni fa.»
«Beh, per quel che può
valere, io credo che ti stia bene» commento senza pensare. In
effetti, forse il giubbotto è un po' stretto, ma il modo in cui la
pelle color cuoio si tende sulle sue spalle è semplicemente... no,
Daria, no. Recupera un po' di dignità. Non che sia semplice fare
pensieri dignitosi, se stai passeggiando accanto ad un quarantenne
che sembra un ragazzino, e che porta un paio di jeans che gli fanno
un fondoschiena semplicemente... no, Daria, no. Hai una reputazione
di brava ragazza da difendere. «Andiamo?»
«Andiamo»
risponde lui, ricominciando a camminare al mio fianco. «Dove hai in
mente di portarmi?»
«Beh,
non ho avuto molto tempo per organizzare la cosa, quindi pensavo di
farti fare un bel giro della città. Sarebbe stato bello farti vedere
qualche monumento o qualche museo, ma per quasi tutti ci vuole un
sacco di tempo per fare il biglietto, ed è già relativamente tardi,
perciò...»
«Non
preoccuparti, va bene qualunque cosa. E poi sono sicuro che sarai una
guida migliore di qualsiasi tour operator professionista.»
«Non
nutrire troppa fiducia in me, ho la sfortunata tendenza a deludere le
persone» ribatto mentre attraversiamo la stazione.
«Io
non credo. Non credo che qualcuno possa rimanere deluso da te. Forse
una persona stupida potrebbe sentirsi delusa per qualche motivo. Ma
per tua fortuna, io ho la sfortunata
tendenza
a considerarmi l'opposto della stupidità. Quindi non credo mi
deluderai.»
Dovrei
considerarlo un complimento, rispondere e ringraziare, ma tutto ciò
che riesco a fare è sorridere e continuare a camminare. Lo guido
fuori dalla stazione, oltre i portici e le impalcature dei cantieri,
e mi fermo accanto a lui vicino ad uno dei semafori. «Questa è
piazza Carlo Felice» gli spiego, facendo un cenno tutto intorno con
la mano. «La piazza ha una forma vagamente ovale, e proprio di
fronte a noi inizia via Roma, che è una delle vie principali della
città. Alcuni dei negozi più in
sono situati in questa strada.»
«Via
Roma...» ripete lui, soppesando le parole. «Sbaglio o l'ho già
sentita in altre città?»
«Beh,
praticamente ogni città ha la sua via Roma, anche le cittadine più
piccole. Ha a che fare con il proverbio 'Tutte
le strade portano a Roma'. È
una specie di tributo, se vogliamo metterla in questi termini.»
«Un
po' come Main Street negli Stati Uniti, quindi?»
«Sì,
immagino che si possa dire così.» Scatta il verde e ci lanciamo in
avanti sulle strisce pedonali, mischiati ad un mucchio di gente a cui
non importa assolutamente niente di noi. Francamente, mi sembra quasi
strano che nessuno abbia ancora cercato di saltargli addosso, di
aggredirlo per avere una foto o un autografo. Continuo ad aspettarmi
il peggio.
«Tutto a posto?» mi sento
chiedere dopo un po'. Alzo la testa e mi accorgo di essere partita in
quarta senza più considerarlo, come se mi stessi trascinando dietro
una valigia, e non una persona in carne ed ossa.
«Ma
certo. Certo, è tutto a posto» cerco di rassicurarlo. Ma dev'essere
un tentativo piuttosto patetico, perché lui si ferma davanti a me,
bloccandomi il passaggio, e con gesto sicuro si sfila gli occhiali da
sole, guardandomi dritta negli occhi come faceva mio padre quando ero
bambina e dicevo una bugia troppo assurda per essere creduta. «Se
vuoi la verità, no. È solo che mi sento un po'... mi sento un po' a
disagio.»
«Ho
detto o fatto qualcosa di sbagliato?» mi domanda, in tono
evidentemente preoccupato. Mentre penso a come spiegargli la mia
situazione, mi viene da pensare che se è così allarmato, forse
allora tiene davvero molto a questo pomeriggio con me.
Scuoto la testa, sperando
di liberarmi di un'idea così assurdamente romantica. «Non hai fatto
niente di sbagliato» lo rassicuro, senza trovare la forza di
guardarlo negli occhi. «Tu sei praticamente perfetto, e il problema
è solo mio.» Mi gratto brevemente la fronte, cercando le parole
giuste. «Pensa pure che sono una stupida, ma sono a disagio perché
ho paura che dietro ogni angolo ci sia appostato un manipolo di
fanatici pronti a riconoscerti e saltarti addosso, e io non so come
dovrei comportarmi in un simile frangente. Insomma, tu probabilmente
ci sei abituato, ma io non saprei... io non saprei proprio che pesci
prendere. Scusa, è una cosa stupida, ma... insomma, è quello che
sto pensando.»
A
questo punto mi aspetterei una risata, una battuta, una cosa del
genere 'Andrà tutto bene, ma di che cosa ti preoccupi', e invece
Shannon mi stupisce di nuovo. Lo vedo abbassare lo sguardo e
mordicchiarsi il labbro inferiore, come se stesse cercando le parole
giuste per esprimersi. «Se può consolarti» dice poi, rialzando la
testa, «anch'io ho paura che dietro ogni angolo ci sia appostato un
manipolo di fanatici pronti a riconoscermi e saltarmi addosso. Li
odierei, e probabilmente li tratterei malissimo. Non tanto per aver
attentato alla mia privacy o roba del genere, ma perché... beh,
sicuramente mi interromperebbero mentre sto passando un bel momento
con te. E la cosa mi farebbe imbestialire, lo giuro.» Questa sua
dichiarazione mi scalda il cuore e allo stesso tempo mi imbarazza,
togliendomi il fiato – che cosa si risponde in questi casi? Perché
non esiste una guida specifica per momenti come questo? Per fortuna,
lui riprende fiato e aggiunge: «Sai qual è la soluzione? Non
pensarci, e smettere di avere paura. Se continui a pensare a che cosa
potrebbe aspettarti dietro il prossimo angolo, la paura potrebbe
paralizzarti e impedirti di andare a scoprire che cosa c'è davvero.»
«Quindi suppongo che
dovremmo... ricominciare a camminare.»
«Esattamente. Altrimenti
stasera saremo ancora qui, e tutto quello che avrò visto della tua
bellissima città sarà la stazione» replica rimettendosi gli
occhiali. «Forza, guida, andiamo alla scoperta di Torino!» Si
rimette in marcia con passo sicuro, e tutto quello che posso fare è
alzare la testa e svoltare con lui dietro l'angolo.
«Torino
è abbastanza facile da vivere, come città» mi spiega mentre
camminiamo sotto i larghi portici di via Roma. «È una città
quadrata,
se vogliamo definirla così: quasi tutte le strade si incrociano
perpendicolarmente, quindi è abbastanza facile dare indicazioni e
spostarsi da un luogo all'altro. Non è necessario avere un grande
senso dell'orientamento, se ti perdi di solito basta chiedere a
qualche passante. Milano è molto più complicata da questo punto di
vista.»
«Di
solito ti sposti in macchina?» le chiedo quando ci fermiamo in
prossimità di un altro semaforo.
«No,
assolutamente no. Guidare in città è un vero casino, anche con le
strade perpendicolari. In generale, io preferisco spostarmi a piedi,
tanto non devo mai andare in posti troppo lontani. E se per caso fa
brutto tempo oppure devo uscire dai miei percorsi abituali, c'è
sempre il trasporto pubblico. In genere funziona piuttosto bene.»
«E
così eviti anche di contribuire all'inquinamento. Bene, mi piace
questo lato ecologista di te.»
«La
Terra non si salva da sola, dico bene? Comunque non faccio queste
grandi cose, quindi non credere che io sia una paladina
dell'ecologia. Evito di prendere l'auto quando non è necessario e
faccio la raccolta differenziata, ma mi fermo qui.»
«Beh,
ma un sacco di gente non fa nemmeno quello, quindi sì, teoricamente
quello che fai può essere considerato eroico.
Jared sarebbe fiero di te.» Non lo dico soltanto per farle un
complimento gratuito: Jared ammira davvero le persone che fanno
qualcosa anche di minuscolo per riuscire a cambiare le cose, e i
piccoli dettagli che Daria mi ha appena svelato a proposito delle sue
abitudini sicuramente gliela renderebbero simpatica. «Comunque per
adesso la visita mi piace» aggiungo guardandomi attorno. «Mi sembra
una città pulita e vivibile, al contrario di altre. Ma non c'è poco
traffico, per essere una città così grande? Insomma, hai detto che
questa è una delle vie principali, quindi non dovremmo essere in
centro?»
«Sì,
infatti siamo
in centro. Qui c'è poco traffico perché è una zona a traffico
limitato: ci sono delle limitazioni all'accesso di certi veicoli e
degli orari da rispettare. Più avanti ci sono zone più trafficate,
ma comunque resta una città piuttosto vivibile. Non credo la
cambierei per nulla al mondo.»
«In
quale zona abiti? Non te l'ho chiesto.»
«Beh,
io abito... nella zona nord, diciamo. Bisogna attraversare la Dora,
che è uno dei fiumi che attraversano Torino. Abito in un palazzo
piuttosto vecchio, ma ci si sta bene. Se escludi le incursioni di mia
nonna, che abita dall'altra parte del pianerottolo e viene a
controllare se siamo vivi almeno tre o quattro volte al giorno.»
Il sorriso che sfodera è
semplicemente adorabile, e anche a me viene da ridere al pensiero di
una signora anziana che tende agguati ai nipoti su per le scale. «La
tua famiglia vive tutta unita, quindi» commento. Mi è sempre
piaciuta l'idea di una famiglia che abita vicina e si può riunire
per le occasioni importanti: compleanni, Natale...
«In realtà, no» replica
lei, spegnendo ogni mio entusiasmo. «Mia nonna ha sempre abitato lì,
e quando i miei si sono sposati hanno deciso di comprare
l'appartamento accanto per stare accanto a lei e mio nonno. Sai, se
in futuro avessero avuto bisogno di aiuto o altro... e invece poi è
andata a finire che sono stati loro ad aiutare mio padre a crescere
me e i miei fratelli. Mio nonno è morto sette anni fa, e a quel
punto la sorella di mio padre, che non è sposata, è tornata a
vivere a casa per stare vicino a mia nonna. Poi c'è un altro zio, ma
abita in un'altra zona della città.»
«E
i parenti di tua madre, invece?»
Daria alza le spalle,
scuotendo la testa. «Non ne so più nulla. Da quando lei se n'è
andata non ho più visto né sentito nessuno, né i miei nonni né
mio zio. I miei nonni potrebbero anche essere morti, per quanto ne
so. Poco prima che i miei divorziassero mio zio si stava per
trasferire in Francia per lavoro, quindi lui potrebbe essere ancora
là.»
Si
sta sforzando di sembrare il più naturale possibile nel parlarne, ma
nel suo sguardo riesco a leggere il dolore che questo tipo di
conversazione ancora le causa, nonostante i molti anni trascorsi. «Mi
dispiace» dico, sperando che il mio sussurro riesca a raggiungerla,
nonostante il brusio che ci circonda.
«E
di che, scusa?»
«Mi
dispiace di aver tirato fuori questo discorso. Parlarne ti fa ancora
soffrire, lo vedo. Non mi sarei dovuto permettere di... beh, scusa.
Non sono mai stato un campione di tatto. A sentire mia madre, è
sempre stato Jared quello sensibile.»
«Lascia
stare, non ti devi scusare. E poi ogni tanto mi fa bene parlarne...
almeno credo.» Sorride e torna a guardare avanti, ma all'improvviso
il suo sguardo si fa preoccupato. «Merda,
questo però no...» la sento sussurrare, e anche se non capisco una
parola di quello che ha detto non ho difficoltà a capire che è
stata un'imprecazione bella e buona.
«Che
succede?»
«Non fare domande» taglia
corto. «Dobbiamo levarci dalla strada» aggiunge in fretta,
prendendomi per mano e trascinandomi dentro il negozio più vicino.
Mi
sfilo gli occhiali da sole, e mi rendo conto che è un negozio di
biancheria intima. «Daria, mi spieghi che cosa succede?»
«Non pronunciare il mio
nome» mi zittisce, nascondendosi dietro un espositore con fare
circospetto, fingendosi intenta a scegliere un reggiseno. «Piuttosto
tieni d'occhio la strada. Dovrebbe passare un ragazzo biondo, alto
più o meno quanto te, con un cappotto nero e uno zainetto rosso. È
con altri tre ragazzi, uno dei quali dovrebbe avere la testa rasata e
un piercing al naso. Lo vedi?»
«Oh,
sì, lo vedo. Ti ha vista e sta entrando nel negozio» rispondo con
aria di sufficienza.
«Che
cosa?»
«Scherzo»
la rassicuro con un sorriso. «Sono fermi davanti alla vetrina,
stanno commentando le forme del manichino. In realtà è quello con
il piercing al naso che sta facendo commenti, gli altri ridono e
basta. Adesso credo se ne stiano andando: il biondo con lo zainetto
rosso sta guardando l'orologio, credo siano in ritardo. Forse devono
andare a prendere il treno» osservo, chiedendomi perché Daria abbia
voluto a tutti i costi evitare questo misterioso ragazzo biondo con
lo zainetto rosso.
«Fammi
un favore, affacciati e controlla che siano davvero
andati via. Non li voglio incontrare» mi supplica, congiungendo le
mani a mo' di preghiera.
«Va bene, ma lo faccio
solo perché sei tu» mi arrendo, avvicinandomi all'ingresso e
cercando di guardare fuori senza sembrare troppo sospetto. Quando
vedo la combriccola attraversare la strada e allontanarsi verso la
direzione dalla quale Daria ed io siamo appena arrivati torno
indietro per informarla. «Tranquilla, se ne sono andati. Possiamo
uscire senza problemi.»
«Aspetta,
mi devo provare questo. Dovrebbe essere della taglia giusta, ma non
mi va di rischiare.» Mi prende di nuovo per mano, accompagnandomi
verso il fondo del negozio, dove si trovano i camerini. «Mi reggi
questa, per favore?» mi domanda, porgendomi la borsa – la stessa
che portava l'altra sera al concerto.
«Guarda
che se volevi fare shopping non avevi che da dirlo» la informo
mentre si chiude la tenda alle spalle. «Non sono allergico alle
spese.»
«Ti
giuro che non era nei miei programmi. Anzi, in realtà sto
risparmiando per i regali di Natale e non dovrei scialare, ma non
posso uscire senza aver comprato qualcosa.»
«Non
credo di capire.»
«Diciamo che è una specie
di regola morale» spiega. «Quando la gente entra nel negozio dove
lavoro, curiosa in giro, mette tutto a soqquadro ed esce senza
comprare niente, mi dà un fastidio incredibile. Quindi quando vado
in giro non esco mai da un negozio senza comprare qualcosa, anche una
stupidaggine. Mi sembra una scortesia disturbare per nulla.»
«Non
ci avevo mai pensato. In effetti, per chi ha un negozio può essere
una vera seccatura. È davvero carino quello che fai, lo sai?»
aggiungo, voltandomi verso la tenda. Pessimo errore, avrei dovuto
continuare a guardare avanti a me: la tenda non è scorsa bene fino
in fondo, e tra la stoffa e il muro si è formato un piccolo
spiraglio che mi permette di sbirciare dentro e di vedere la sua
schiena, bianca e praticamente perfetta. Mi soffermo a guardare le
sue spalle, poi scendo lungo la spina dorsale e mi fermo ai fianchi,
dove la linea dei jeans interrompe la visuale. Risalgo di nuovo, e
mentre si aggiusta la spallina noto il tatuaggio all'altezza della
scapola sinistra: sono i glyphics,
gli stessi simboli che decorano il mio avambraccio destro, ma in una
versione ridotta e meno colorata. Anche da questa distanza noto che
le linee sono precise, il lavoro fatto piuttosto bene – e d'istinto
divento curioso: avrà altri tatuaggi in giro per il corpo? Tuttavia
non ho tempo per indulgere in queste fantasie, perché lei si mette
di tre quarti per guardarsi meglio allo specchio, e la mia attenzione
viene come risucchiata da tutt'altra
parte del suo corpo. Distolgo velocemente lo sguardo, imbarazzato e
sentendomi in colpa per aver violato la sua privacy in modo così
spudorato, e nello stesso momento mi tornano in mente le parole di
Jared. Adesso
gli potrei rispondere, e gli potrei dire che sì,
Daria
ha delle caratteristiche davvero interessanti. «Tutto bene, lì
dentro?» le domando, schiarendomi appena la voce.
«Sì, adesso mi rivesto e
arrivo. Scusa, mi ero quasi dimenticata che fossi lì. Non sono
abituata a fare spese con qualcuno che non sia Alice, e di solito
sono io quella che aspetta.»
Cinque
minuti più tardi, dopo aver controllato di
nuovo che
la strada fosse sgombra, usciamo dal negozio, riprendendo il cammino
con un minimo di imbarazzo. «Allora...» inizio, sperando di
riuscire a parlare senza essere ossessionato da quanto ho visto poco
fa, «chi era il biondino con lo zainetto rosso?»
«Oh,
lui... beh, è il mio ex ragazzo» risponde senza pensarci troppo su.
«Se posso evitare di incontrarlo sono contenta. Non avremmo molto da
dirci.»
«Immagino
che non sia finita molto bene, se ne parli così.»
«No,
non è finita bene. Anche se... beh, sono passati quasi due anni,
Alice dice sempre che dovrei lasciar perdere e andare avanti. Lei
detesta chi rimane troppo ancorato al passato. Il problema è che io
sono una di quelle persone che proprio non riescono a lasciarsi tutto
alle spalle.»
«Due
anni fa... avevi ventun anni, giusto?»
«Sì,
esatto. Perché me lo chiedi?»
«Niente,
è solo che... forse Alice ha ragione. Insomma, le delusioni che hai
a ventun anni dovresti... lasciarle
perdere.
A ventun anni hai tutta la vita davanti a te, dovresti smettere di
pensare a quello che è stato e guardare avanti. O almeno guardare al
presente. Ci sono un sacco di cose belle che potrebbero accaderti, ma
se continui ad aggrapparti a quello che è stato, o ai brutti ricordi
che hai... beh, non ti fiderai mai abbastanza del mondo da lasciarti
convincere a salirci per farti un giro.»
Daria
mi guarda con un'espressione a metà tra il dubbioso e l'incredulo.
«Non è che nei fine settimana fai l'analista? Perché il mio
psicologo dice praticamente le stesse cose, solo... in modo meno...
poetico.»
«Vedi
uno psicologo?»
«A volte. Non è un
appuntamento fisso, ci vado quando ho bisogno di parlare con qualcuno
che non faccia parte della mia vita quotidiana. Di solito però mi
sfogo con Alice. Lei sì che sa farmi vedere le cose nella giusta
prospettiva. Quasi sempre, almeno.»
«Parlare
con qualcuno fa sempre bene, dicono.»
«Dicono
così. Ma io credo che funzioni solo se parli con qualcuno che riesce
a capirti, altrimenti è tutto inutile.»
«Sì, è possibile.
Allora, che mi dici di mister Zainetto Rosso? Qual è la sua vera
identità?»
«Si
chiama Andrea, ha la mia stessa età. Ci siamo conosciuti alle
superiori, facevamo parte della stessa cerchia di amici. Poi ci siamo
diplomati, e siccome io non sono andata all'università ci siamo un
po' persi. Poi ci siamo rincontrati ad una cena per ex compagni di
classe, e abbiamo ricominciato a sentirci. Ci siamo messi insieme
dopo un po', ma non è durata. Le sue priorità erano divertirsi e
uscire con gli amici, mentre tra lavoro e casa io non ho molto
margine d'errore, perciò... in realtà sarebbe finita in modo
civile, se non ci si fossero messi di mezzo i suoi amici. Ci saremmo
risparmiati grandi litigate, se non fosse stato per i loro interventi
del cavolo.»
«Forse
non era abbastanza maturo per una relazione, o forse non aveva una
personalità abbastanza forte. A volte un ragazzo può essere
facilmente influenzabile dagli amici.»
«Sì,
può essere» risponde lei, svoltando un angolo sulla sinistra.
«Comunque non ho perso nulla di fondamentale. Insomma, non era
l'uomo che avrei sposato. Il sesso con lui era tutt'altro che
stellare» aggiunge ammiccando. «Non è quello che hai detto sabato
sera?»
«Ricordi
tutto quello che ho detto sabato sera?»
«Forse tutto no, ma le
cose importanti sì» risponde. «Comunque siamo arrivati in piazza
San Carlo, anche nota come 'quella con il cavallo'» aggiunge mentre
ci addentriamo in una piazza enorme, caratterizzata dalla totale
assenza di traffico, dall'enorme statua equestre che vi troneggia al
centro e dalle due chiese che sembrano messe lì apposta per chiudere
il lato sud. «Alle nostre spalle abbiamo le due 'chiese gemelle',
come vengono chiamate di solito: ad ovest quella di San Carlo, ad est
quella di Santa Cristina» mi spiega, fermandosi per voltarsi a
spiegarmi ogni cosa. «La piazza è completamente pedonale da quando
ci sono state le Olimpiadi invernali nel 2006. Gli unici veicoli ai
quali è consentito l'accesso sono quelli delle forze dell'ordine e
quelli dei fornitori dei vari esercizi commerciali.»
«Mi
sembra una bella cosa. È raro trovare una simile oasi di
tranquillità nel centro di una città così grande» osservo. «La
statua invece che cosa rappresenta?»
«Se
ricordo bene, la statua fu posta lì verso la metà del 1800 in onore
di Emanuele Filiberto, uno dei principi di Savoia. Nel dialetto
piemontese la statua viene chiamata Caval
ëd Brons,
cioè Cavallo
di bronzo.
Questo perché è fatta di bronzo, ovviamente.»
«Cavallo
di bronzo...
mi piace, è una bella statua» commento mentre ci avviciniamo e ci
fermiamo ad ammirarla. «Sai, negli Stati Uniti circola una voce
sulle statue equestri. Si dice che se il cavallo poggia tutte le
zampe a terra, allora il cavaliere è morto per cause naturali; se
invece il cavallo poggia a terra soltanto le zampe posteriori, il
cavaliere è morto in battaglia» spiego, sentendomi fiero per quel
poco di cultura che sono appena riuscito a sfoggiare.
«E
se invece il cavallo poggia su una sola delle zampe anteriori, come
in questo caso?»
«In questo caso, mi sembra
di ricordare che il cavaliere sia morto per le ferite riportate in
battaglia. Può essere?»
«In
realtà, sono quasi sicura che Emanuele Filiberto sia morto di
cirrosi epatica. Si dice che gli piacesse molto alzare il gomito.»
«Ah,
allora la mia teoria non funziona.»
«Forse
funziona per le vostre statue, ma non per le nostre.»
«Potrebbe
darsi. Comunque mi piace, è una bella statua. Aspetta, voglio farle
una foto» aggiungo, sfilandomi di tasca l'iPhone. «Fatto» sussurro
dopo un paio di scatti. In quel preciso momento transitano alle
nostre spalle quattro o cinque turisti giapponesi completi di guide
turistiche e macchine fotografiche, e un'idea che Jared definirebbe
sicuramente folle
mi balena in testa. «Scusate, potrei chiedervi un favore?» domando
al primo che mi capita a tiro, che si volta con un sorriso. «Potrebbe
farci una foto davanti alla statua?»
Daria,
concentrata sui bassorilievi che ornano la base della scultura,
sembra accorgersi solo in quel momento dei giapponesi. «Shannon, che
cosa stai...?»
«Vieni
qui» la interrompo, passandole un braccio attorno alla vita, mentre
con l'altra mano mi sfilo gli occhiali da sole. «Già che ci sono,
voglio una tua foto da mostrare a mio fratello.»
«Ma
io non...» cerca di protestare lei, arrendendosi di fronte alla
determinazione del giapponese, già pronto a scattare. Si arrende, si
volta verso l'obiettivo e sorride, e di fronte al suo sorriso aperto
e naturale, non sono capace di distogliere lo sguardo. Sono rimasto
letteralmente folgorato.
È solo quando sento dire al ragazzo «Aspettate, per sicurezza ne
faccio un'altra» che riesco a staccarmi da lei, voltarmi verso di
lui e sorridere all'obiettivo.
Ringraziamo
il gruppetto, che si allontana sorridendo verso la prossima meta, e
rimasti soli ci godiamo in pace lo scatto: «Oh, sono rimasta
malissimo» sbuffa lei, coprendosi con una mano gli occhi. «Ormai
dovrei aver capito che è mia sorella quella fotogenica, e non io.»
«Ma
se sei rimasta benissimo!» ribatto, cercando di convincerla che sia
rimasta bene. «Piuttosto guarda me, sembro un deficiente!»
«Mettila
via, prima che ci mettiamo a litigare su chi è meno fotogenico dei
due, ti prego» risponde con un altro sorriso, mettendomi una mano
sul braccio come per invitarmi a riporre l'iPhone. Anche attraverso
il giubbotto riesco a sentire il calore delle sue dita sulla mia
pelle, e tutto quello che vorrei è poterla trattenere per sempre
contro di me, sempre addosso
a
me, senza mai lasciarla andare.
«Sì,
guida, la metto via» obbedisco. «Dove mi porti, adesso?»
«Adesso
proseguiremo lungo via Roma» mi spiega, guidandomi di nuovo verso i
portici, ma questa volta sul lato opposto rispetto a quello percorso
fino ad ora. «Alla fine di via Roma c'è piazza Castello, che
insieme a questa è una delle più celebri di Torino. È anche la
seconda per estensione dopo piazza Vittorio Veneto, che ti farò
vedere dopo.»
Ci
fermiamo ad un altro semaforo rosso, e ne approfitto per guardarmi
attorno. «Dev'essere bello vivere in una città così... permeata
di storia. Insomma, qui non puoi fare un passo senza inciampare in
qualcosa che ha almeno un paio di secoli di vita!»
«Sì,
devo ammettere che è affascinante vivere in un luogo così pieno di
cultura... anche se purtroppo la maggior parte della gente non ci fa
caso. Sono tutti troppo impegnati con le loro vite per godere di
tutte le cose belle che la città ci offre. Ah, subito dopo
quell'angolo si raggiunge il museo Egizio» aggiunge, indicando con
la mano un punto alla nostra destra. «Il museo Egizio di Torino è
considerato il più importante del mondo dopo quello del Cairo, e
quindi il primo in Italia e in Europa.»
«Dev'essere
bello davvero. Tu ci sei stata?»
«Naturalmente.
È una gita obbligata per ogni studente del Piemonte. Recentemente è
stato ristrutturato e ingrandito, varrebbe davvero la pena vederlo.
Uno di questi giorni dovrei rifare la visita, sono curiosa»
aggiunge, quasi sovrappensiero.
«Potremmo
organizzarci con un po' di anticipo e potrei venire con te. Le mummie
mi hanno sempre affascinato. Oh, vieni, è verde» aggiungo in
fretta, approfittando dell'occasione per prenderle la mano. Tuttavia,
quando arriviamo dall'altra parte della strada sono costretto a
lasciarla per far passare un uomo in giacca e cravatta che
evidentemente va di fretta. «Mi fa uno strano effetto passeggiare in
una città così. Insomma, come mi ha fatto effetto passeggiare per
Milano, o Firenze, o Parigi... a pensarci bene, ti costringe a
cambiare prospettiva.»
«Che
cosa intendi?»
«Spero
di riuscire a spiegarmi bene, è un pensiero un po' contorto...»
sorrido. «In generale, siamo tutti abituati a pensare a noi stessi
come se le cose che ci stanno intorno facessero parte della nostra
vita e della nostra storia, ma la verità è che in questo caso siamo
noi
a far parte della storia di questo posto, di questa città. Insomma,
in questo punto prima di noi hanno passeggiato dei principi, dei re,
e anche persone comuni
come
noi, e sicuramente in futuro accadrà che siano altre
persone a passeggiare qui, dunque non è questa strada a far parte di
noi, ma... siamo noi a far parte di lei. Non so se sono riuscito a
spiegarmi» aggiungo, distogliendo lo sguardo. Sono preoccupato, non
vorrei che mi avesse scambiato per uno che va in giro a farneticare.
«No,
io ho... ho capito, o almeno credo. Sei stato piuttosto chiaro. In
effetti, qualche volta mi ci sono ritrovata a pensare anch'io.
Insomma, rendersi conto che su queste strade una volta ci passavano
carrozze trainate da cavalli... è vero, ti fa cambiare prospettiva.»
A questo punto distoglie lo sguardo e ridacchia, coprendosi la bocca
con una mano.
«Beh,
perché ridi? Hai detto che è una cosa intelligente.»
«Non
sto ridendo per quello che hai detto, è solo che... quello che hai
detto fa davvero cambiare prospettiva, ma non solo nei confronti
della città. È che hai definito me e te persone
comuni,
ma non è che tu possa proprio essere definito un uomo comune.
E poi è strano sentir fare questi discorsi da... uno come te,
appunto. A uno viene sempre da pensare che siate persone fredde, che
si interessano soltanto di loro stesse e del quadrato di mondo su cui
poggiano i piedi, e... scusa, non sto dipingendo un bel quadro di te»
conclude, ricomponendosi.
«Il
fatto che trascorra la vita agitandomi su un palcoscenico non
significa che io non sia una persona normale» le faccio notare
mentre continuiamo a camminare. «Sono solo normale
in
un modo diverso. Sempre poi che si possa costruire una definizione di
normale.»
«Sento
che questo è un altro punto sul quale potremmo discutere per giorni
senza trovare un accordo.»
«Come
il discorso sull'importanza del sesso in una relazione?»
«Esattamente.»
«Va
bene, allora lasciamo cadere la questione. Non voglio litigare con
te.» Vorrei
solo baciarti,
vorrei dirle.
Vorrei baciarti fino a non avere più fiato in corpo, fino ad avere
le labbra screpolate, e vorrei stringerti tra le mie braccia fino a
farti diventare una parte di me, perché adesso che ti conosco non so
come potrò fare a meno di te.
«Bene,
allora continuiamo.» Davanti a noi si apre una piazza enorme, ancora
più grande di quella da cui proveniamo, ma invece di guidarmi in
avanti Daria mi fa svoltare verso sinistra, verso un semaforo che
diventa verde proprio mentre ci avviciniamo. «Questa è piazza
Castello, quella di cui ti parlavo prima. Adesso stiamo attraversando
via Roma, che è quella da cui siamo arrivati, e più avanti, sempre
sulla nostra sinistra, c'è via Garibaldi, che è una delle quattro
principali arterie che si sviluppano a partire da questa piazza. Le
altre sono via Micca, che è laggiù in fondo» spiega, indicando il
punto verso cui si sta allontanando un tram, «e via Po, che è
quella che percorreremo dopo. Su questa piazza si affacciano alcuni
degli edifici più importanti della città: abbiamo il palazzo Reale,
che è quello delimitato dai cancelli, e palazzo Madama, dall'altra
parte. Il palazzo Reale fu costruito appunto come residenza per la
famiglia reale, e dicono che tra tutte le residenze reali dei Savoia
fosse il più sfarzoso. Il vero fiore all'occhiello però sono i
Giardini Reali, che si trovano dall'altro lato: non li ho mai visti,
ma devono essere uno spettacolo davvero grandioso.»
«Ho
sempre voluto essere un reale, e adesso capisco il perché. E palazzo
Madama, invece?»
«Anche
quello era una residenza, poi gli fu preferito il palazzo Reale. Ad
oggi ospita più che altro musei e collezioni. Comunque sono entrambi
entrati a far parte del patrimonio dell'UNESCO.»
«Devono
essere veramente magnifici, per essere entrati a far parte di quella
lista. Ma toglimi una curiosità: hai studiato a memoria la guida?»
la prendo in giro mentre passeggiamo per la piazza, diretti verso via
Po.
La
vedo cacciarsi le mani in tasca, arrossire appena e abbassare lo
sguardo: «No, è solo che la storia mi ha sempre affascinato... e
poi, come ho detto prima, ci sono già troppe persone che non si
occupano di queste cose. Interessarmene mi sembra quasi un dovere.»
«Avresti
dovuto studiare Beni Culturali, o qualcosa del genere... non esiste
una facoltà apposita per queste cose?»
«Beh,
sì, era una delle ipotesi. Mi sarebbe piaciuto studiare Beni
Culturali o Lingue, ma l'università è sempre stata fuori
discussione per me.»
«Perché
dici così?»
«Beh,
non ero... la verità è che non me la potevo permettere. Non sono
mai stata abbastanza brava da poter aspirare ad una borsa di studio,
e non mi andava l'idea che mio padre dovesse mantenermi per tutta la
durata del corso di studi. Lui le ha tentate tutte per convincermi,
ma non ho accettato. Non lo so, non... non me la sono sentita.
Sarebbe stato un sacrificio troppo grande.» Mi fermo per guardarla
attentamente; dopo qualche passo, accortasi di essere rimasta sola,
si volta e mi guarda: «Che c'è, ho detto qualcosa che non va?»
«No,
è solo che... scommetto che tuo padre è fiero di avere una figlia
come te. Qualsiasi altro ragazzo della tua età avrebbe preso i soldi
e se ne sarebbe fregato, e invece tu... beh, confesso che non mi
sarei aspettato di meno, da te. Dai l'impressione di essere una che
non scende a compromessi.»
«Non
mi piace fare patti, in effetti. Soltanto in occasioni speciali.»
«Come
quando hai accettato di far saltare i tuoi programmi per portarmi in
giro a fare il turista?»
«Quello
non è stato un compromesso, è stata una decisione a lungo
ragionata.»
Riprendo
a camminare, raggiungendola. «Compromesso»
le sussurro, sporgendomi appena verso di lei mentre le passo accanto.
Il
primo senso ad essere colpito è l'olfatto, che registra
immediatamente l'intenso aroma di caffè del suo respiro; poi è la
volta dell'udito, che a fatica riesce a comporre le lettere di quel
"Compromesso" appena sussurrato; e poi c'è la vista, che a
malapena lo vede passare, concentrata com'era su qualunque cosa che
non fosse lui. Gusto e tatto ne sono rimasti fuori, e viste le
premesse forse è meglio che sia andata così. Appena realizzo che
Shannon ha ricominciato a camminare parto al suo inseguimento,
accelerando il passo per riportarmi al suo livello. Il fatto che mi
abbia smascherata così in fretta dovrebbe darmi fastidio, perché di
solito in una guerra verbale riesco sempre ad avere la meglio – a
meno di non trovarmi a combattere con Alice o con mia sorella –, ma
con un po' di sforzo mi convinco che se è stato lui a vincere questo
round è soltanto perché stiamo parlando nella sua lingua, e quindi
parto con uno svantaggio non indifferente.
«Sbaglio
o questa via è obliqua?» mi sento chiedere mentre imbocchiamo via
Po. «Insomma, rispetto alla piazza è... beh, storta.»
«Hai
ragione, via Po si sviluppa in obliquo rispetto alla piazza. La
costruirono così per riuscire a collegare direttamente il centro
della città con il ponte sul fiume, che vedremo dopo. La differenza
tra il lato sinistro e il lato destro della via è che su questo lato
gli attraversamenti pedonali sono coperti, il che è piuttosto utile
se piove e hai dimenticato l'ombrello. Sempre sul lato sinistro, che
è quello sul quale stiamo camminando noi, poco più avanti si trova
la sede storia dell'Università di Torino, che oggi ospita più che
altro uffici. Sempre su questo lato si trovano un buon numero di
bancarelle per la compravendita di libri usati, e sempre proseguendo
su questo lato si arriva alla nuova sede dell'università.»
«Lato
sinistro... quindi anche voi avete una rive
gauche,
come Parigi!» le faccio notare, fiero di aver trovato un paragone
degno della sua cultura.
«Beh...
sì, direi di sì! Sai che non ci avevo mai pensato?»
«Dovrò
ricordarmi di raccontare di questo mio colpo di genio a Jared e Tomo,
così magari la smetteranno di considerarmi una bestia illetterata.
Non so perché, ma ho come l'impressione che la gente mi consideri
sempre troppo preistorico
per
fare con me un discorso serio.»
«Forse
è la batteria. Insomma, dei tre sei tu quello che impiega la maggior
forza fisica nel fare quello che fa. Il fatto che tu sia un uomo
evidentemente fisico
forse spinge la gente a credere che usi poco il cervello.»
«Siamo
in vena di complimenti, vedo!»
«Aspetta,
mi sono espressa male, non intendevo dire che non usi il cervello,
volevo...»
«Ehi,
tranquilla, ho capito quello che intendevi dire» la interrompo,
sfiorandole un braccio con due dita. «So che non intendevi dire che
sono un bruto che sa farsi capire solo usando la forza.» Incontriamo
le prime bancarelle, e nessuno dei due riesce a trattenersi dal dare
un'occhiata. La osservo mentre curiosa in un mucchio di vecchie opere
scritte in francese, e non riesco a trattenermi dal pensare che
vorrei davvero essere un uomo capace di farsi capire solo con la
forza, così potrei spingerla contro il muro più vicino e baciarla
fino a farle mancare il respiro, come Jared mi ha chiesto di fare con
quella modella ai tempi del video di Hurricane.
Mi chiedo se Daria sia consapevole di quanto sia attraente la sua
semplicità.
Sono
sempre stata un tipo molto sensibile, e di norma non mi piace
sentirmi addosso gli sguardi della gente: cammino sempre il più
vicina possibile ai lati dei marciapiedi, cercando di non dare
fastidio e di non essere appariscente, sperando di non essere mai
nulla più di un'immagine fugace agli occhi della gente. Per questo
dovrei essere nervosa e non sopportare lo sguardo di Shannon, che, lo
so, ogni due per tre è rivolto verso di me, come teso a catturare
ogni dettaglio, ogni mio piccolo movimento, ogni particolare. Dovrei
odiarlo, dovrei già essermi voltata per mandarlo a quel paese, ma la
verità è che essere osservata da lui mi
piace,
mi piace come non mai. Credevo che sentirmi osservata da un uomo
della sua levatura mi avrebbe infastidita, e invece mi sento bene:
come sabato sera, mi sembra di essere in giro con mio fratello, o con
un amico, o comunque con qualcuno che mi conosce bene e contro il
quale non ho bisogno di costruire difese. Mentre continuo ad
illustrargli monumenti e luoghi di interesse, non posso fare a meno
di ripensare al momento in cui mi ha preso la mano, mentre
attraversavamo la strada, e all'istante in cui, poco fa, le sue dita
hanno sfiorato il mio braccio, come cercando di farmi capire che non
avevo nulla da temere. La parte di me che somiglia ad un cucciolo
spaurito fa capolino per un istante, e mi avverte che non sarei
dovuta uscire con lui, perché quella che anni fa è nata come una
semplice infatuazione fisica per un uomo evidentemente troppo
attraente per essere ignorato sta cambiando, e rischia di
trasformarsi in qualcosa di pericolosamente simile ad una cotta.
In
qualche modo siamo riusciti ad arrivare indenni al termine di via Po,
abbiamo percorso piazza Vittorio Veneto e abbiamo attraversato il
ponte sul fiume, arrivando nei pressi della chiesa della Gran Madre.
«Questa chiesa è una delle più importanti della città» spiego
mentre Shannon si appoggia di spalle al parapetto, osservando il
tempio nella sua interezza. «La sua costruzione fu decisa in seguito
alla sconfitta di Napoleone, nel 1814. Doveva essere un modo per
festeggiare il ritorno del re dopo il periodo della dominazione
straniera. La Gran
Madre
cui è intitolata naturalmente è Maria, la madre di Gesù.» Tra una
cosa e l'altra si sono fatte le quattro, e non riesco a fare a meno
di chiedermi a che ora avverrà la nostra separazione – perché,
per quanto possa sognare, è improbabile che il tempo si fermi e ci
cristallizzi per sempre in questo splendido pomeriggio.
«Devono essere secoli che
non entro in una chiesa» è il suo primo commento. «Sono stato
cresciuto come cristiano, ma non mi sono mai sentito parte di una
religione organizzata. Insomma, credo sia più una questione di cuore
che di presenza, no?»
«Capisco
cosa vuoi dire» annuisco, arretrando fino ad appoggiarmi al
parapetto, a poca distanza da lui. «La mia famiglia mi ha cresciuta
come cattolica, sono andata in chiesa ogni domenica fino ai sedici
anni, ho ricevuto tutti i sacramenti... però ho sempre pensato che
per avere valore, una preghiera dovesse nascere da dentro.
In realtà per un po' ho lasciato perdere, perché l'unica preghiera
che rivolgevo a Dio rimaneva sempre senza risposta» ammetto,
abbassando un po' il tono di voce.
«Per
che cosa pregavi, se posso saperlo?»
«Pregavo
perché mia madre tornasse a casa, perché la nostra famiglia si
ricomponesse. Verso gli undici anni mi resi conto che probabilmente
nemmeno Dio poteva farci molto, perciò decisi di arrendermi
all'evidenza, e di accettare che mia madre non sarebbe mai tornata.»
«Ti
capisco. Anch'io da bambino desideravo avere un padre, o comunque una
famiglia normale.
Non dico di non essere stato felice, per carità: nessuno avrebbe
potuto amarci più di mia madre. Però... non lo so, abbiamo vissuto
in così tanti posti diversi che nemmeno li ricordo tutti. A volte
vorrei poter circoscrivere tutti i miei ricordi ad un'unica città,
un'unica casa... vorrei poter racchiudere la mia vita in un'unica
scatola, se capisci che intendo.»
Annuisco,
comprendendo la portata di quella metafora. «Per racchiudere la mia,
basterebbe un portagioie» commento a bassa voce, abbassando un po'
lo sguardo. Poi mi scappa una risata, e sento che lui si volta verso
di me.
«Ho
detto qualcosa di buffo?»
«No,
è che stavo ripensando a quello che ho appena detto, e mi è tornato
in mente il soprannome che mi aveva dato mio fratello qualche anno
fa» confesso. «C'è una canzone di Jeff Buckley che si intitola
Jewel
Box,
e che inizia con il verso So
che sei una donna dal modo in cui bruci dentro.
Lui dice sempre che in superficie sembro calma e tranquilla, ma che
non si sa mai che cosa si troverà
sotto la
superficie. Dice sempre che tengo tutto dentro, che faccio succedere
tutto dentro di me, e che fuori cerco di mostrarmi sempre tranquilla
per non spaventare le persone. Per questo mi chiama portagioie
di tristezza.
Perché secondo lui nascondo le cose peggiori dentro una scatola
bella da vedere.»
Per
tutto il tempo di quest'ultima confessione non le ho staccato gli
occhi di dosso, mentre lei teneva i suoi fissi sulle acque limacciose
del Po, forse credendo che non mi importasse. «Portagioie
di
tristezza»
sussurro quando la sento tacere. «Tuo fratello ha una bella
inventiva. Dovrebbe pensare di fare il poeta, avrebbe talento da
vendere.» Appena finito di parlare vorrei prendermi a calci in
testa, perché non mi sembra il tipo di commento da fare ad una
ragazza che ti sta aprendo il suo cuore in questo modo.
«No, lui è un genio
dell'informatica, si guadagnerà da vivere con i computer. Diventa
poetico soltanto quando ascolta Jeff Buckley, ma purtroppo lo fa di
rado. O per fortuna, mi viene da dire: mia sorella ed io siamo
abbastanza romantiche per tutti» aggiunge con un sorriso, tornando
finalmente a guardarmi negli occhi.
È
in questo momento che un raggio di sole curva verso di noi,
illuminandoci in pieno e facendomi notare che nei suoi occhi azzurri
si nasconde in realtà anche un po' di verde. È in questa luce che
una strana consapevolezza si fa strada in me, facendomi balzare il
cuore nel petto: Tomo ha ragione, mi sono pazzamente innamorato
della ragazza in piedi di fronte a me. Smetto di pensare in maniera
razionale, ignoro tutto quello che mi sta intorno e decido di agire:
un braccio sale a circondarle le spalle, l'altra mano le sfiora le
guancia, e in mezzo ai passanti che ci lambiscono con i loro cappotti
e la loro fretta appoggio le mie labbra sulle sue, soffocando ogni
dubbio e ogni protesta.
Se novant'anni fa qualcuno
fosse andato a dire alla mia bisnonna che un giorno l'uomo avrebbe
camminato sulla Luna, oppure che un uomo di colore sarebbe diventato
presidente degli Stati Uniti d'America, probabilmente lei avrebbe
mandato il malcapitato a farsi un giro, intimandogli di non andare in
giro a dire stupidaggini. Analogamente, se una settimana fa qualcuno
mi avesse detto che oggi pomeriggio Shannon Leto mi avrebbe
abbracciata e baciata sul Lungo Po... beh, probabilmente gli avrei
suggerito di dare un taglio ai funghetti allucinogeni e di dedicarsi
a passatempi più costruttivi.
Il
guaio è che io sono più che certa di non essere strafatta, tanto
più che non ho mai fatto uso di droghe; sono anche sicura di non
essere ubriaca, e non ricordo di aver battuto la testa, di recente –
perciò, una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta deve per
forza essere la verità: sono sul Lungo Po, ai piedi della scalinata
che conduce alla chiesa della Gran Madre, e chi mi stringe tra le
braccia non è uno studentello impacciato, ma quello che è stato
definito dalla critica 'uno
dei batteristi più eclettici degli ultimi dieci anni'.
Sento
il suo braccio dietro il mio collo, la sua mano teneramente
appoggiata alla mia guancia, e le sue labbra calde e umide che
sfiorano le mie con cautela, quasi timidamente,
come in attesa di essere respinte. Ma come potrei respingerle? Ho
sognato una scena simile così a lungo da averne definito
praticamente ogni dettaglio – come potrei impedire la realizzazione
delle mie fantasie, ora? Trovo finalmente il coraggio di muovermi, di
far risalire le mani nell'esiguo spazio che separa i nostri corpi, e
di arrivare ad accarezzare le sue guance ruvide di barba, sperando di
ricambiare tutte le sensazioni che lui sta trasmettendo a me.
Mi sono appena abituata
alla sensazione che il contatto tra le nostre labbra mi comunica, ed
ecco che di nuovo cambia tutto: la sua bocca si dischiude lentamente,
la sua lingua forza delicatamente le mie difese, e all'improvviso il
suo sapore di caffè diventa mio, i nostri respiri si fondono, le sue
braccia mi stringono più forte, come se temessero di vedermi
scivolare via come pioggia. È tutto praticamente perfetto, proprio
come in un film, tanto che inizio a chiedermi quando finirà – e
soprattutto in quale traumatico modo la fine si farà sentire.
Impiego
qualche secondo a realizzare che il ronzio che sento proviene da un
cellulare, ma ad interrompere definitivamente la magia del momento
sono le prime note di una vecchia canzone dei Goo Goo Dolls, un pezzo
che non sentivo forse da un decennio. Daria si stacca da me in
fretta, con il viso arrossato e il respiro corto. «Scusa, è il mio»
sussurra, frugandosi in fretta le tasche. «Pronto?» risponde,
approfittandone per prendere le distanze da me. «Signora Lorenzoli,
buon pomeriggio! Sì, ho parlato con suo marito, e... no, come ho già
spiegato a lui, oggi avrei qualche problema per... no, si figuri,
niente di grave, è solo che è arrivato in città un mio amico, e
devo... ah, capisco. Sì, certo. Certo, capisco. Ma no, si immagini.
Ma certo, certo. In realtà credo che potrei... beh, sì, sono in
zona. Sì, in realtà sono proprio davanti alla Gran Madre, quindi
tra quindici minuti potrei essere lì. Potrei passare subito, se lei
è disponibile. Sì, certo. Oh, sarebbe... perfetto, grazie. Va bene,
allora le suono quando sono lì. La ringrazio, signora Lorenzoli.
Grazie, grazie mille. A tra poco.» La guardo chiudere la
comunicazione e riporre il telefono, guardandomi con la
consapevolezza che non ho capito una parola, tranne 'grazie' e
'signora'.
«Va tutto bene?» le
domando. «Sembri preoccupata.»
«No, tutto bene, è solo
che... era la proprietaria di un appartamento che avrei dovuto vedere
oggi pomeriggio. Stamattina ho chiamato per spostare l'appuntamento,
ma sembra che ci siano persone interessate a prenderlo in affitto, e
lei ha voluto avvertirmi. Vuole darmi la possibilità di vederlo,
così nel caso mi piacesse potrei... beh, farmi avanti.»
«Mi sembra una bella
cosa.»
«Sì,
solo che quelle persone hanno una certa urgenza
di cercare casa, perciò se voglio vedere l'appartamento dovrei
passare adesso, il prima possibile. Sarebbe ad un quarto d'ora di
cammino da qui, e... ti dispiacerebbe se ci passassimo un attimo? Ci
terrei molto a vederlo, dall'annuncio sembrava piuttosto carino.
Magari non farà per me, ma ci terrei almeno a... sai, no?»
«Non devi nemmeno
chiedere. Ti accompagno volentieri» la rassicuro con un sorriso. «Da
che parte dobbiamo andare?»
«Dobbiamo tornare
indietro, è vicino al museo Egizio. Vicino alla piazza con la statua
equestre, ricordi?»
«Sì, mi ricordo. Dove
abbiamo chiesto ai giapponesi di farci la foto.»
«Sì, esatto. Andiamo?»
Si incammina a passo deciso, lasciandomi indietro come se nulla fosse
successo.
Accelero
il passo, la raggiungo a metà del ponte ed esclamo: «Aspetta,
Daria, vieni qui!» Senza nemmeno aspettare che si volti le prendo la
mano, intrecciando le mie dita con le sue in una stretta quasi
indissolubile. Non posso
far finta che nulla sia successo.
Non
voglio
far finta che nulla sia successo.
1Perché
io sono reale, e tu sei reale. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone 4
real
di Avril Lavigne,
contenuta nell'album Goodbye
Lullaby
(2011).
|
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Capitolo 6 *** 6 | ''Lo sai che questo cambierà tutto?'' ''Me lo prometti?'' ***
Portagioie di tristezza | 1
Portagioie di tristezza
Capitolo quinto
“Lo sai che questo
cambierà tutto?”
“Me lo prometti?”1
Torino,
04 novembre 2013
Sono trascorsi quasi cinque
minuti da quando Shannon ha stretto la sua mano intorno alla mia, e
nessuno dei due è ancora riuscito a dire una parola. Stiamo
percorrendo via Maria Vittoria in silenzio, imbarazzati come due
adolescenti al primo appuntamento. Il fatto è che, almeno da parte
mia, non era previsto che le cose andassero così... o forse sì? In
fondo Alice mi aveva messa in guardia, dicendomi che sabato sera le
era sembrato di aver interrotto un momento di grande intimità. Mi
chiedo che cosa avrebbe pensato pochi minuti fa, vedendoci
avvinghiati davanti alla Gran Madre.
«Molti
occultisti sono convinti che in un determinato punto sotto la chiesa
della Gran Madre si nasconda il Santo Graal» sparo fuori
all'improvviso, senza nemmeno tentare di darmi un freno. Perfetto, ci
manca solo che pensi che sono una stupida oca che parla a sproposito.
«Ah» è la sua risposta.
«Una teoria interessante.» E tra di noi ripiomba il silenzio.
Vorrei riprendere la conversazione allo stesso ritmo di prima, così
almeno potrei evitare di perdermi nel ricordo della morbidezza delle
sue labbra. «Senti, Daria...» Nel sentire la sua voce, quasi
sussulto: sto forse acquistando poteri telepatici? «Quello che è
successo prima, io non...»
«Non ti preoccupare» lo
interrompo, spaventato da quello che potrebbe dire. «Non ti
preoccupare, è tutto a posto. Va tutto bene.»
«Se va tutto bene, perché
non ci stiamo nemmeno guardando in faccia?»
Mi fermo, e lui con me.
«Forse non va tutto... forse non va tutto benissimo» ammetto.
Con
una mano si sfila gli occhiali da sole e se li appende alla
maglietta, mentre si accarezza le labbra con la lingua. «Quello che
è successo prima non è stato un errore, chiaro? Non è che sono
inciampato e accidentalmente
sono caduto sulla tua bocca... io lo volevo, va bene? È più o meno
da quando sono sceso dal treno che ho voglia di baciarti. Anzi, se
devo essere proprio sincero, avevo una dannata voglia di baciarti
anche sabato sera.» Mi prende anche l'altra mano, rendendomi
impossibile andare via o anche solo voltarmi verso qualcosa che non
sia lui. «So che sembra una cosa da matti, perché io non ti conosco
e tu non conosci me, ma tu... tu mi fai stare bene, mi fai provare
sensazioni che non ho mai provato. La cosa mi spaventa da
morire,
ma allo stesso tempo non posso farne a meno. Non ti conosco, non so
praticamente nulla di te, ma mi sto già chiedendo che cosa ne sarà
di me quando... quando sarò lontano e tu non sarai con me.»
Ho abbassato gli occhi fino
a guardarmi le scarpe, cercando di trattenere le lacrime. Posso
tentare di prendermi in giro e raccontarmi tutte le balle del mondo,
ma la verità è che Shannon ha appena detto di essere innamorato di
me, o qualcosa del genere, e io non ho idea di che cosa si debba
rispondere in questi casi. Forse dovrei ringraziarlo per il bel
pensiero, ma ricordargli che viviamo su due pianeti diametralmente
opposti, e che nemmeno fra un milione di anni riusciremo a far
coincidere le nostre vite. «So cosa stai per dire» mi interrompe
non appena cerco di aprire bocca. «Stai per dire che ti senti
lusingata, che apprezzi quello che penso di te, ma che per noi non
esiste assolutamente futuro. Correggimi se sbaglio.»
«Non
sbagli, il succo del discorso era più o meno quello» rispondo,
riuscendo finalmente a scongiurare il pericolo di sciogliermi in
lacrime. Alzo lo sguardo, anche se sostenere quei grandi occhi dal
colore indefinito non è semplice – non lo è mai stato, anche
prima che gli eventi precipitassero in questa maniera. «Quello che
ci sta succedendo è... beh, sì, meraviglioso, ma anche un po'
terribile. È meraviglioso e anche un po' assurdo, a dire il vero,
ma... Shannon, prova a pensarci in maniera razionale.
Al massimo tra un paio di giorni tu dovrai andartene, e io resterò
qui. Possiamo scriverci, tenerci in contatto, questo sì, ma... se
anche quello che proviamo fosse veramente...» Non dirlo, Daria: non
dire amore.
«Insomma, come pensi che potremmo tenere in piedi una relazione
nelle nostre condizioni? Io non... io non voglio finire come Alice,
va bene? A me non bastano un paio di telefonate a settimana e una
scopata in macchina quando capita l'occasione, a me non... a me non
basterebbero, lo so.» Sento che le lacrime stanno di nuovo
risalendo, ma questa volta decido di non fare nulla per fermarle. «Io
voglio... quando avrò una relazione, io voglio una famiglia vera.
Io voglio sposarmi, e avere dei bambini, e condividere... tutto,
dalla prima colazione alla favola prima di andare a dormire. Voglio
poter litigare faccia a faccia, voglio poter dire 'ti amo' di
persona, non attraverso un telefono, e voglio avere qualcuno da
stringere la notte. Io non... io non voglio un fantasma. Io non
voglio un fantasma.»
In qualche modo riesco a far scivolare via le mie mani dalla sua
stretta, e subito cerco un fazzoletto con cui asciugarmi gli occhi e
soffiarmi il naso, avendo prima cura di voltarmi dall'altra parte.
Riprendiamo a camminare, di
nuovo separati. «Scusa» lo sento sussurrare dopo un po'. «Non
avrei dovuto avere la presunzione di credere di sapere che cosa fosse
meglio per te.» Non rispondo, ancora impegnata a ripulirmi la faccia
da ogni traccia di crisi. «Il fatto è che quando sei uno che vive
come me, quasi senza certezze, appena hai l'occasione di aggrapparti
a qualcosa che ti fa stare bene... non sono mai stato bene con una
ragazza come lo sono stato con te. E dire che di ragazze ne ho
conosciute, in tutti questi anni.»
Non so come, ma la sola
cosa che mi viene in mente di rispondere è: «Giusto, tra le mie
obiezioni ho dimenticato di dire che sei vecchio!» esclamo con un
sorriso. In fondo è vero, ha esattamente vent'anni più di me. Anche
se tutta questa differenza non si vede, non è certo un dettaglio da
sottovalutare.
«Cosa
sarei io,
scusa?» si scalda lui, avvicinandosi con un ghigno che non promette
nulla di buono. Non sono abbastanza veloce da fuggire, e così lui mi
artiglia i fianchi, iniziando a torturarmi a forza di solletico – e
come abbia scoperto che lo soffro da morire, non è dato sapere.
«Ripeti quello che hai detto! Ripeti quello che hai detto! Cosa
sarei io?» mi incalza, pur rendendosi conto che sto ridendo così
tanto da non riuscire nemmeno a pensare ad una risposta.
«Basta, Shannon, basta!
Per favore, basta!» lo imploro, continuando a contorcermi tra le sue
braccia.
All'improvviso
si blocca e ci troviamo di nuovo faccia a faccia, vicini come lo
eravamo sul Lungo Po. Basterebbe sporgersi un po' in avanti per...
«Promettimi che mi darai un'occasione» sussurra, continuando a
trattenermi contro di sé.
«Cosa?»
«Promettimi che mi darai
un'occasione» ripete. «Tu dici che non possiamo avere futuro, io
invece dico di sì. Se me ne vado e non mi faccio più vedere,
sicuramente l'avrai vinta tu. Dammi un'occasione per dimostrarti il
contrario.»
«Vincerò comunque io.»
«Tu dammi un'occasione.
Abbiamo davanti ancora un paio di mesi di tour, ma da gennaio sarò
libero per un po'. Tu prometti di darmi un'occasione per dimostrarti
che possiamo avere un futuro.»
«Dammi un po' di tempo per
pensarci, va bene?»
«Ok» mi risponde. «Cinque
minuti ti bastano?»
«Shannon, come faccio in
cinque minuti a...»
«Daria, scherzavo. Devo
prendere il treno delle sei e dieci. Hai tempo fino ad allora per
pensarci su. Adesso andiamo» aggiunge, lasciandomi andare. «Hai una
casa da visitare.»
*
Milano, 4 novembre 2013
Jared è seduto a gambe
incrociate sul pavimento della propria suite, abbracciato ad una
chitarra, circondato da una marea di fogli bianchi e con una matita
stretta tra i denti. Quando Tomo bussa, chiedendo il permesso di
entrare, il cantante risponde con un mugugno che di umano sembra
avere ben poco. «Ehi, ciao. Ho appena finito di parlare con Vicki,
vi saluta tutti e due.»
«'Azie» biascica Jared,
alzando gli occhi verso l'amico per un istante appena.
Tomo si siede davanti a
lui, prende un foglio e lo studia con attenzione, per poi rimetterlo
giù. «Sei nervoso?»
«Mh? No, certo che no»
risponde l'altro, lasciando cadere la matita. Le dita lunghe
compongono qualche accordo, riprendono la matita, scarabocchiano
qualche nota su uno dei fogli e poi si scostano una ciocca dagli
occhi, per ritornare infine sulle corde. «Sto benissimo.»
«Se lo dici tu» sospira
l'altro, guardandolo con aria condiscendente. «Di solito quando ti
chiudi nel tuo mondo a comporre in modo così frenetico è perché
sei nervoso. Hai sentito Shannon?»
«No, oggi non l'ho visto
né sentito. Mi sono alzato tardi, dev'essere uscito prima che mi
svegliassi. E comunque non sono nervoso.» Jared compone altri
accordi, scarabocchia altre note, rimette a posto la solita ciocca e
alza gli occhi sull'amico. «Che ne sarà di noi se fosse vero? Che
cosa ci succederà?»
«Che ne sarà di noi se
fosse vero cosa?»
«Se Shannon si fosse
davvero innamorato di questa ragazza? Se dovessero mettersi insieme,
sposarsi, avere dei figli... insomma, se scoprisse di amarla davvero
e volesse lasciare il gruppo?»
«Guarda che una cosa non
esclude l'altra. Prendi me e Vicki: siamo sposati, e prima siamo
stati insieme per un sacco di tempo, eppure non ho lasciato la band.»
«Siamo nel bel mezzo di un
tour, Tomo. E se Shannon ci mollasse all'improvviso? Non era il
momento, non era proprio il momento... perché è successo ora?»
«Jared, si chiama vita.
Di solito la vita è quello che succede mentre tu sei impegnato a
fare progetti. Non credo che Shannon avesse messo in conto di
incontrare qualcuno, e sicuramente non credo che l'avesse messo in
calendario per sabato. È successo, punto e basta, come a me è
successo di incontrare Vicki.» Tomo si sforza di mantenere il tono
più calmo possibile, come si fa davanti ad un bambino che ha bisogno
di essere rassicurato. «E comunque Shannon è un uomo intelligente e
maturo, non ci mollerebbe mai a metà di un tour per correre dietro
ad un bel paio di gambe. È adulto, saprà gestire la situazione nel
migliore dei modi. Dovresti avere un po' di fiducia in lui.»
«Io mi fido di lui»
sussurra Jared, rivolto più a se stesso che a Tomo. In realtà, non
ha paura che Shannon li abbandoni a metà del tour: è solo
terrorizzato all'idea di perdere un fratello.
*
Torino, 4 novembre 2013
Nonostante la presenza
dell'ascensore, Daria mi ha costretto a prendere le scale. «Ci si
guadagna in salute» ha insistito, «e poi si risparmia corrente, il
che è un bene per il pianeta e anche per le bollette.» Ho accettato
la scarpinata fino al quarto piano soltanto perché è stata lei a
chiedermelo. Non saprei negare nulla ad una donna con quegli
occhi.
Da un portoncino in legno
sbuca la riccia testa bianca di un'arzilla vecchietta. «Oh, poveri
cari, ve la siete fatta a piedi! Potevate prendere l'ascensore!»
«Non importa, ci piace
fare esercizio» risponde Daria con un sorriso. Mentre raggiungiamo
il pianerottolo, pronti alla presentazione ufficiale, mi rendo conto
che durante questa visita avrò il ruolo dello spettatore muto, visto
che non conosco una parola d'italiano al di fuori delle classiche
forme di saluto e ringraziamento. Prendo un appunto mentale: se
voglio convincere Daria di essere davvero interessato a lei, devo
iniziare un corso per imparare la sua lingua – anche se con lei
posso parlare in inglese, un giorno vorrei essere in grado di
comunicare con i suoi amici e la sua famiglia. «Piacere, sono Daria
Giordano» aggiunge, porgendo la mano all'anziana. «Questo è un mio
amico americano, Shannon. Purtroppo non parla italiano» specifica. E
poi, rivolta a me: «Scusa, ma l'ho dovuta avvertire.»
«Ada Lorenzoli» risponde
la signora, stringendo la mano ad entrambi mentre dall'interno
dell'appartamento sbuca un uomo altrettanto anziano, evidentemente il
marito.
«Antonio Lorenzoli,
piacere di conoscervi. Bando alle ciance, andiamo subito a vedere
l'appartamento, è per questo che siete qui, no?»
Ricominciamo a salire le
scale, anche se in realtà soltanto due rampe ci separano dalla
possibile futura casa di Daria. Lo stabile mi piace, è un palazzo
vecchio stile ma ben ristrutturato, in una zona sicura e tranquilla,
con tutti i comfort del caso. «Il palazzo mi piace, sembra ben
tenuto» le sussurro mentre seguiamo a passo lento i due anziani.
«Sì, è un palazzo
piuttosto signorile. Sicuramente l'appartamento è bello, ma quello
che mi preoccupa è l'affitto. Sull'annuncio non era specificato, ho
paura che possa essere troppo alto per le mie tasche» risponde.
«Sull'annuncio abbiamo
scritto appartamento» spiega la signora Lorenzoli, mentre
raggiungiamo il piano designato e il marito armeggia per trovare la
chiave giusta, «ma in realtà si tratta di una mansarda riadattata.
È stata ristrutturata da poco e c'è tutto quello che serve, ma non
aspettatevi una reggia.»
«In effetti, è un posto
ideale per una coppia di giovani come voi» aggiunge il marito.
«Piccola, ma funzionale e intima. Sì, proprio l'ideale per una
giovane coppia.» Si volta per strizzarmi l'occhio, e automaticamente
guardo Daria, sperando in una spiegazione.
Lei, evidentemente
arrossita, mi spiega che il tale ci ha scambiati per una coppia. «In
realtà sono io che sto cercando casa. Da sola» specifica. «Lui è
solo un amico in visita.»
«Oh» fa l'uomo, forse un
po' deluso dal fatto che non stiamo insieme. «Beh, cara, avrai più
spazio per te.» Spalanca il portoncino e ci guida attraverso un
ingresso piccolo e buio. Se queste sono le premesse, non oso
immaginare il resto dell'appartamento. Quando però sento Daria, in
vantaggio di cinque passi su di me, sospirare di meraviglia, capisco
che l'ingresso è l'unica nota dolente.
La seguo, e come lei
spalanco gli occhi per la sorpresa: il soggiorno, pieno di finestre e
incredibilmente luminoso, sembra due volte più grande di quanto sia
in realtà, e l'angolo cottura, separato dal soggiorno da un immenso
bancone ad isola, scintilla come appena uscito dalla fabbrica.
«Abbiamo fatto buttare giù i tramezzi per ricavare un grande spazio
abitabile» spiega la signora Lorenzoli, mentre noi restiamo immobili
in fondo alla stanza, «e abbiamo cambiato la vecchia cucina. È
tutto nuovo, mobili ed elettrodomestici di prima scelta, tutto a
norma di legge.»
«Dalla parte opposta c'è
il bagno» continua il marito, facendoci segno di seguirlo, «anche
qui tutto ammodernato: tubi, rivestimenti, sanitari... tutto nuovo,
fresco di fabbrica.»
«Ci sono sia la doccia che
la vasca» osserva Daria, stupita da quella scoperta.
«L'idraulico ci ha
consigliato di mettere la doccia perché è più pratica, dice che la
gente la preferisce, al giorno d'oggi» risponde la moglie. «L'anno
scorso abbiamo ristrutturato il nostro bagno, ma la vasca ci spiaceva
buttarla. È un pezzo antico, non se ne trovano più così.»
«Sì, noi ne abbiamo messa
una di quelle ergonomiche» le fa eco il marito. «Quelle a prova di
vecchio, per intenderci» aggiunge, strizzando l'occhio a Daria. Io
mi ritraggo appena, cercando di non disturbare. «Qui accanto abbiamo
ricavato una piccola stanzetta per gli ospiti» continua l'uomo.
«Sembra più uno sgabuzzino, in realtà, ma un po' di spazio in più
può sempre fare comodo. Ah, e nell'ingresso c'è un armadio a muro
che può servire come ripostiglio vero e proprio.»
Torniamo in salotto, e la
moglie indica una scaletta a chiocciola che sale verso un massiccio
soppalco in legno. «Lì sopra c'è la camera da letto principale. Se
volete salire a vederla, fate pure. Per noi sono troppo pericolose
quelle scale.»
«Posso davvero?» domanda
Daria, quasi sorpresa da quella concessione.
«Ma certo, cara!» la
incita la donna. «Anzi, facciamo così: vi lasciamo soli a
familiarizzare con l'ambiente per un po' e scendiamo a preparare un
caffè. Non si ragiona bene senza aver bevuto un buon caffè.
Scendete tra dieci minuti e discutiamo tutti i dettagli.»
I due escono, lasciandoci
soli, e a questo punto guardo Daria con un misto di sorpresa e
preoccupazione. «Che cosa sta succedendo?» le domando, sperando in
un riassunto della visita.
«Ci lasciano soli qualche
minuto per familiarizzare con la casa. Ci aspettano di sotto
tra dieci minuti per offrirci un caffè. Adesso salgo a vedere la
camera da letto» aggiunge, indicando le scale a chiocciola. «Vieni
con me?»
«Se ci tieni...» La seguo
in silenzio su per la scaletta, stupendomi di quanto sia lucido il
legno degli scalini e del mancorrente. «Devono averla ristrutturata
proprio di recente» commento, «sembra appena uscita da una rivista.
Oppure hanno una donna delle pulizie fenomenale.»
«Mi piacciono un sacco i
mobili» risponde lei, fermandosi a pochi gradini dalla cima per
voltarsi a guardare indietro. «Ho sempre adorato i mobili in legno.
E poi sono chiari, rendono tutto molto più luminoso...» Riprende a
salire, scoprendo che la scaletta porta direttamente in camera.
«Praticamente cucina, soggiorno e camera da letto principale formano
uno spazio unico... mi piace, sembra molto più grande di quello che
è.» Si avvicina ad una delle pareti, e facendo scorrere un pannello
di legno scopre una cabina armadio a dir poco immensa. «Wow. Di
certo non avrò problemi per far entrare i vestiti. Mia sorella
impazzirebbe di gioia vedendo tutto questo spazio.»
Io, intanto, sto valutando
la stabilità dello scaffale che riempie la parete attigua. «Avrai
posto anche per i tuoi libri» le faccio notare. «Dal pavimento fino
al soffitto, senza interruzioni.»
«Già, finalmente potrò
smettere di ammucchiare scatoloni sotto al letto» risponde lei,
richiudendo l'anta della cabina armadio.
«A proposito di letto...»
sussurro, facendo un cenno verso quel preciso pezzo d'arredamento,
«sembra piuttosto comodo.» Mi siedo sul bordo del materasso,
ricoperto da un leggero copriletto color miele, e tendo una mano
verso di lei, invitandola a sedersi accanto a me. «Avanti, voglio
solo che venga a sederti qui» la incito, notando la sua titubanza.
«Non ho cattive intenzioni, lo prometto. Avanti, vieni qui.» Daria
accetta di prendere la mia mano, e a quel punto le strattono appena
il braccio, facendole perdere l'equilibrio per farla cadere proprio
accanto a me. «Il materasso mi sembra abbastanza morbido, non
trovi?» le sorrido, voltandomi su un fianco per poterla guardare
dritta negli occhi.
Lei si guarda attorno,
studiando con attenzione la struttura in ferro battuto. «Mi sono
sempre piaciuti i letti di questo tipo. Sono antichi, mi fa pensare
che abbiano un qualche tipo di storia alle spalle.»
«Magari anche quello era
dei padroni di casa, come la vasca. Magari è stato il loro primo
letto» azzardo con un sorriso. «A proposito, credo che verrò
spesso a fare il bagno da te. Quella vasca è enorme.»
«Come ti pare, tanto io
sono un tipo da doccia. Sono sempre troppo di corsa, non ho il tempo
di fare il bagno.»
«Ti piace?» le domando
all'improvviso, tornando serio.
«Cosa, fare la doccia?»
«L'appartamento,
sciocchina» ribatto, toccandole la punta del naso con l'indice. «Ti
piace?»
«Molto» confessa,
cambiando impercettibilmente posizione sul materasso. «Se devo
essere sincera, mi stupisce che sia così simile a come ho sempre
immaginato la mia casa ideale. Sembra quasi che qualcuno mi abbia
letto nel pensiero e abbia arredato ogni angolo secondo i miei
precisi gusti.»
«Pensi che sia la casa
giusta per te? Pensi che ti ci troveresti bene?»
«Non lo so, credo di sì.
Ma come si fa a sapere se una casa è giusta per te se non ci hai mai
passato nemmeno una notte? Comunque continuo a pensare che
sicuramente costerà troppo, quindi è inutile farsi tante domande.»
La osservo in completo
silenzio per qualche secondo, sostenendomi la testa con un braccio. È
così carina quando è immersa nei suoi pensieri... «Che cosa ti
piace fare nel tempo libero?»
«Beh, le solite cose:
leggere, andare in giro, uscire con gli amici... ma questo che
c'entra?»
«E quando sei a casa?
Insomma, quando torni dal lavoro e ti rintani in camera tua, che cosa
fai di solito?»
«Beh, di solito io... no,
non te lo posso dire. È una cosa stupida, sicuramente rideresti di
me.»
«Non ci credo, non può
essere una cosa stupida. E poi guarda che stai parlando con uno che
adora fotografare tazze di caffè e pubblicare gli scatti su
Instagram. Non ci può essere nulla di più stupido. Dai, dimmelo...
altrimenti ricomincio a farti il solletico.»
Deve sembrarle una minaccia
davvero tremenda, perché dopo essersi massaggiata le tempie con una
mano per qualche secondo confessa: «Mi piace scrivere. Ho sempre
voluto fare la scrittrice, quindi nel mio tempo libero scrivo un
sacco. Butto giù trame, invento personaggi... è una cosa stupida»
ripete in tono convinto.
«Non è una cosa
stupida... in effetti, da una come te mi aspettavo un passatempo
artistico.» Le accarezzo un fianco con fare distratto, continuando a
guardarla come se stessi contemplando un'opera d'arte. «Prova ad
immaginarti mentre scrivi. Riesci ad immaginarti mentre scrivi in
questo appartamento? Non so, magari sdraiata sul tappeto del
salotto, oppure seduta qui alla scrivania... riesci ad immaginarti
qui mentre fai quello che ami?»
«Sì, io... io credo di
sì. Sì, mi ci vedo. Ma cos'è, un test della personalità?»
Sorrido, scuotendo la
testa. «No, è semplicemente lo Shannon-cerca-casa test. Tutte le
volte che ci trasferivamo – io, Jared e mia madre – lei voleva
che fossimo coinvolti nella scelta della casa. Così, tutte le volte
che trovavamo un appartamento che sembrava rispondere ai nostri
requisiti, io mi chiedevo: riuscirò a suonare bene la batteria, qui?
Se riuscivo a trovare un angolo che mi andasse a genio, per me era
fatta, la casa si poteva prendere.»
«Un test interessante»
commenta lei, puntellandosi sui gomiti per guardarsi attorno e
completare la scelta. «Beh, io credo che mi troverei bene a scrivere
qui. Sì, direi che mi ci vedo. Quindi il risultato dello Shannon
test è positivo.»
«Quindi è la casa per
te.»
«Sempre ammesso che
l'affitto non costi uno sproposito.»
«Sarei disposto a
comprartelo, questo appartamento, se la cosa potesse renderti
la donna più felice del mondo» sussurro, senza staccarle gli occhi
di dosso. Prima che lei possa dire qualunque cosa, avvicino il mio
viso al suo e la bacio di nuovo. Le mie braccia la circondano ancora,
le mie mani ricominciano ad accarezzarla e a cercare il calore del
suo corpo, e prima ancora di rendermi conto di quello che sto facendo
mi ritrovo steso su di lei, impegnato in un bacio che di casto e
tranquillo ha ben poco. Smetto di pensare, mi lascio trasportare dal
momento, lascio le sue labbra e scendo lungo il mento, seguendo il
profilo che trovo tanto interessante, e senza fermarmi arrivo alla
pelle liscia e bianca del collo, che accarezzo con la punta del naso,
tentando di imprimere nella mia mente il suo preciso odore.
«Shannon, fermo» sento
però dire dopo qualche istante, appena due secondi prima che le sue
mani premano sulle mie spalle per allontanarmi. «Che cosa stai
facendo?»
«Ti sto baciando»
rispondo con naturalezza. Pensavo che fosse abbastanza chiaro quello
che stavo facendo, perciò inizio a chiedermi che cosa si nasconda
dietro quella domanda.
«Sì, questo lo avevo
intuito» ribatte lei in tono sarcastico. «Però non... insomma, tu
le ragazze le baci sempre... così?»
Sorrido, comprendendo che
si riferisce al modo in cui le sono appena rotolato addosso, come se
volessi strapparle di dosso i vestiti e fare l'amore con lei come se
non ci fosse un domani – un'eventualità cui, in effetti, stavo
giusto pensando. «Non sempre. Solo se penso che siano le ragazze più
incredibili che abbia mai incontrato.»
«Ah. E... e ti succede
spesso?»
«Perché, sei gelosa?»
Lei distoglie lo sguardo per un istante, e ancora una volta mi
sorprendo di quanto siano belli i suoi occhi, anche quando si
riempiono di preoccupazione o di tristezza. «Ascolta, Daria»
riprendo, abbassando la voce e accarezzandole una guancia con due
dita, «se non ti va di fidarti di me ti capisco. Conosco la
reputazione di cui godono i musicisti: una ragazza diversa ogni
notte, a volte anche più di una, vestiti strappati via con i denti,
orge, droga, alcool, sesso estremo e chissà che altro... ma sono
tutte stronzate. Ammetto che è successo, qualche volta: sono stato a
letto con ragazze conosciute da poche ore, a volte da meno di un'ora,
e ammetto di averle scaricate brutalmente una volta finito, ma con
te... con te sarebbe completamente diverso. Se mai dovessi finire nel
mio letto, userei tutto il mio ingegno per escogitare un modo per
fartici rimanere il più a lungo possibile.» Torna a posare i suoi
occhi su di me, e in questo momento mi sento uno stupido – perché
devo sempre finire col fare questi discorsi da rocker arrapato?
Sembra che io non faccia altro che pensare al sesso, e ho paura che
questa convinzione potrebbe spingerla ad allontanarsi da me. «Non
intendo dire che voglio portarti a letto e basta, sia chiaro... non
che non ci abbia pensato, certo, però... insomma, non è dal primo
momento che io... ecco, non... » Perfetto, mi sono impappinato. Con
un sospiro mi tolgo da sopra di lei e torno a stendermi sul
copriletto, coprendomi gli occhi con entrambe le mani. Non sono mai
stato bravo con le parole, mia madre ha sempre avuto ragione: la
diplomazia è una prerogativa di mio fratello.
Un cigolio alla mia
sinistra mi informa che Daria ha cambiato posizione sul materasso. Mi
scopro gli occhi, e vedo che si è messa seduta sul bordo del letto.
«Shannon, ma tu credi sul serio che per noi ci possa essere qualcosa
di più oltre questo pomeriggio?» la sento sussurrare, così piano
che la voce sembra quasi arrivare da un altro pianeta. «Sei davvero
convinto che possiamo avere un futuro, in qualche modo?»
«In qualche modo, io credo
di sì» rispondo, sollevandomi dal materasso e scivolando accanto a
lei. Abbasso la testa fino ad appoggiare il mento sulla sua spalla,
mentre la mia mano sinistra scivola sopra la sua destra, stringendola
appena. «Chiamalo destino, chiamalo Dio, chiamalo come ti pare... ma
io sono convinto che ci sia qualcosa in serbo per noi due» sussurro,
sperando che capisca che sto parlando con il cuore. «Non posso
credere che per noi non ci sia altro. Sono stato troppo bene con te,
sarebbe troppo crudele se non potessi rivederti mai più.»
«Non sarà facile.»
«Lo so.» Il fatto che
abbia usato quel particolare tempo verbale mi gonfia il cuore di
gioia: significa che ha seriamente pensato all'eventualità di darmi
un'occasione. «D'altra parte a noi Leto non sono mai piaciute le
cose semplici.»
«Oh, se è per questo
nemmeno i Giordano si tirano indietro di fronte alle sfide» risponde
lei con un breve sorriso. «Ma è giusto che tu sappia fin da questo
momento che non ti renderò la vita facile. Sono una persona
insicura, ho sempre bisogno di essere rassicurata, e probabilmente
fidarmi di te e della bontà delle tue intenzioni sarà la cosa più
difficile, per me. Le proverò tutte per farti andare via, per farti
uscire dalla mia vita, e anche se all'inizio combatterai e vincerai,
alla fine deciderai che non ne vale la pena e andrai via.»
Le lascio lentamente la
mano, e con entrambe le braccia le cingo le spalle, avvicinando le
labbra al suo orecchio: «Come si vede che non mi conosci» sussurro
prima di lasciare un bacio leggero sulla sua guancia. «Ora andiamo,
su!» riprendo, scattando in piedi. «Non si era parlato di un caffè,
poco fa?»
Uscendo, i Lorenzoli hanno
lasciato le chiavi infilate nella toppa, evidentemente invitandoci a
chiuderci la porta alle spalle. Faccio scattare la serratura tre
volte e sfilo la chiave, immaginando quanto sarebbe bello poterlo
fare ogni mattina, sapendo di lasciarmi alle spalle un posto sicuro
in cui rifugiarmi ogni sera. «Va tutto bene?» mi sento domandare
mentre mi volto e inizio a scendere le scale.
«Sì, è tutto a posto»
rispondo. «Stavo solo pensando che questo appartamento mi piace
veramente tanto. Sarebbe bello poterci abitare.»
«Allora ci conviene andare
a sentire quanto costerebbe viverci, ti pare?»
Annuisco e lo seguo fino
all'appartamento dei Lorenzoli. Suono il campanello e aspetto che il
marito venga ad aprire. La prima cosa che faccio è restituirgli il
mazzo di chiavi. «Ho chiuso a tripla mandata, spero di aver fatto
bene.»
«Benissimo, cara. Ma
venite, stavo giusto per venire a cercarvi. Il caffè è appena
salito.» Si scosta per permetterci di entrare, ed entrambi
ringraziamo. Aspettiamo che il padrone di casa ci faccia strada, e in
pochi passi raggiungiamo un grande salotto luminoso, arredato in un
modo che mi ricorda molto l'appartamento di mia nonna: tessuti con
delicate stampe floreali, centrini fatti all'uncinetto, un bel vaso a
fare da centrotavola...
«Complimenti, avete una
casa veramente bellissima» osservo mentre il signor Lorenzoli scosta
una sedia per invitarmi ad accomodarmi.
«Oh, è Ada che si occupa
di queste cose» risponde lui, mettendo una mano sulla spalla di
Shannon per invitarlo ad imitarmi e sedersi. «Io sono uno di quei
mariti che passa gran parte del tempo leggendo il giornale» aggiunge
con una risatina, mentre la signora ci raggiunge reggendo un bel
vassoio d'argento.
«Allora, che ne dite
dell'appartamento? Vi è piaciuto?» ci domanda la donna, prendendo
posto accanto al marito.
«Molto, è praticamente
uguale a come immaginavo il mio appartamento ideale» rispondo,
accettando la tazzina che mi viene offerta. «E devo dire che
risponde esattamente alle mie esigenze: è piccolo, ma con spazi ben
organizzati; e poi è in una bella zona ed è vicino al lavoro, il
che è un bel vantaggio» proseguo, mentre anche a Shannon viene
appioppata una tazza. «Niente zucchero per me, grazie» aggiungo
subito, vedendo che il marito mi sta porgendo la zuccheriera. Guardo
Shannon, che rifiuta con un educato gesto della mano, e torno a
guardare la signora Lorenzoli. «A questo proposito, mi stavo
chiedendo a quanto ammonta l'affitto, visto che sull'annuncio non era
specificato.»
«Pensavamo di chiedere
trecentocinquanta euro al mese» risponde il marito, e a fatica mi
trattengo dallo sputare il caffè che ho appena bevuto sul bel
tavolino in noce.
«Ma è pochissimo!»
esclamo dopo aver deglutito. «Trecentocinquanta euro sono... niente,
considerando la zona, lo stato dello stabile, e il fatto che
l'appartamento sia appena ristrutturato.»
«Quanto vogliono?» mi
domanda a bassa voce Shannon, sporgendosi verso di me.
«Trecentocinquanta euro al
mese» gli rispondo. «Sono un po' più di quattrocento dollari,
credo. È una somma bassissima, tutto considerato.» Torno a guardare
la coppia. «Perché è così basso, se posso chiedere?»
«Beh, non abbiamo bisogno
di soldi» mi spiega la signora, facendo spallucce. «Abbiamo
comprato quella mansarda vent'anni fa, nostra figlia non aveva ancora
diciott'anni. L'abbiamo sempre usata come magazzino, pensando di
poterla adattare per farci un appartamento per lei. Solo che poi lei
si è sposata, ha fatto i suoi progetti e si è cercata una casa
adatta alle sue esigenze, com'è giusto che sia, e così a noi è
rimasto uno spazio vuoto.»
«L'idea ce l'ha data
proprio Anna, nostra figlia» prosegue il marito. «Noi non sapevamo
che farcene, ma lei ci ha suggerito di ristrutturare e di farne un
appartamento. In fondo è una città di studenti, al massimo avremmo
potuto affittarla ad uno di loro.»
«Al telefono lei mi ha
parlato di alcune persone interessate ad affittare, dico bene?»
domando alla moglie. «Se fossi intenzionata ad affittare quanto
loro, come... insomma, che cosa...»
«Che cosa ci farebbe
scegliere te piuttosto degli altri?» completa lei. «Oh, cara, se
sei interessata direi che noi la scelta l'abbiamo già fatta.»
Guardo entrambi, cercando di capire che cosa stiano cercando di
comunicarmi. «Noi siamo partiti con l'idea di affittare a persone
giovani, perché in questo palazzo ci sono già così tanti
anziani... c'è bisogno di un po' di vita.»
«L'altra coppia che è
venuta a visitare la casa è sulla cinquantina» spiega il marito,
«perciò se vuoi l'appartamento, per noi sei la candidata ideale.
Sembri una persona responsabile, una con la testa sulle spalle,
perciò se vuoi la casa è tua.»
«Non state parlando sul
serio, vero?» I due si guardano e sorridono, annuendo, mentre
Shannon si avvicina di nuovo, domandandomi il tema del discorso.
«Dicono che se voglio, l'appartamento è mio. Dicono che cercavano
una persona giovane a cui affittare, e che siccome sono più giovane
dell'altra coppia e sembro una persona come si deve, devo solo dire
che voglio affittarlo.»
«E allora che cosa aspetti
a dirlo? Hai anche detto che costa poco!»
Torno a guardare i padroni
di casa, e mi rendo conto che mi stanno mettendo in mano le chiavi
della felicità: devo soltanto infilarle nella serratura e farle
girare. «Va bene, allora voglio affittare il vostro appartamento»
affermo con un sorriso.
«Hai appena trovato una
casa, ti rendi conto?» dico mentre usciamo sul marciapiede. Tra una
chiacchiera e l'altra si sono fatte le cinque, e tra poco più di
un'ora dovrò riprendere il treno per tornare a Milano. «Hai appena
fatto una cosa importantissima, e...» Sono costretto ad
interrompermi, perché le braccia di Daria sono improvvisamente
strette attorno al mio collo, e le sue labbra premute forte contro le
mie. Non voglio sprecare il momento, perciò appoggio le mani sui
suoi fianchi e la trattengo vicino a me, desiderando di poter fermare
il tempo. Le sue dita mi sfiorano lentamente, e mi sembra quasi di
sentire la pelle bruciare quando le sue unghie sfiorano il tatuaggio
che ho dietro l'orecchio. «Wow» sussurro. «E dimmi, tu i ragazzi
li baci sempre così?» la prendo in giro.
«No, non sempre. Solo
quando sono persone speciali» risponde con un sorriso, aggiustandomi
il bavero del giubbotto. «Accidenti, non ci posso credere. Ho appena
preso casa! A mio padre verrà un colpo, gli avevo detto che
lo avrei avvertito con un po' di anticipo...» Mi lascia andare e
guarda l'orologio. «Credo che dovrei iniziare a riaccompagnarti,
tanto si sta facendo buio e non c'è rimasto molto da farti vedere.
Andiamo?» Questa volta è lei a porgermi la mano, in un gesto che mi
rende incredibilmente felice.
«E con questo, direi che
sei ufficialmente entrata nell'età adulta» commento mentre ci
avviamo a passo lento sotto i portici di piazza San Carlo. «Non puoi
dire di essere veramente adulto finché non vai a vivere da solo.»
«Credo ci starò bene»
risponde lei. «Ho sempre immaginato di vivere in un posto del
genere. Sembra quasi che sia stato fatto apposta, non trovi?»
«Dev'essere stato un segno
del destino. Probabilmente andartene di casa è la scelta giusta, e
aver trovato la casa perfetta ne è la conferma. Dovevi cambiare, e
questo è il momento giusto per farlo.»
«Sì, è possibile» mi
risponde lei, guardandosi intorno con aria curiosa. «A proposito, ho
preso una decisione.»
Quell'affermazione mi
sorprende, e non faccio nulla per nascondere lo stupore. «In merito
a cosa?»
«In merito al fatto di
darci o no una possibilità.»
«Credevo che il bacio di
prima fosse già una dichiarazione di intenti piuttosto chiara»
ribatto con un sorriso.
La vedo arrossire in
maniera piuttosto evidente. «Sì, beh, diciamo che preferisco essere
più chiara.»
«Lo sapevo, sono troppo
affascinante. Impossibile trovare una donna che sappia resistere al
mio fascino» la prendo in giro, guadagnandoci in cambio un leggero
schiaffo sulla spalla. «Allora, sentiamo: quale sarebbe questa
decisione?»
«Beh, ho deciso che
possiamo provarci. Ma tu devi promettermi una cosa.»
«Tutto quello che vuoi.»
«Prometti che non mi
prenderai in giro. Non sopporterei di essere presa in giro. Se per
caso dovessi cambiare idea su... beh, sui tuoi sentimenti, su quello
che provi... non prendermi in giro, ok? Solo questo. Me lo puoi
promettere?»
«Ho fatto carte false e mi
sono alienato le simpatie di mio fratello per stare con te un pugno
di ore, che cosa ti fa credere che potrei cambiare...»
«Per favore, io ho bisogno
di sentirlo» mi implora, fermandosi e tirando appena la mia mano.
A questo punto mi fermo, mi
volto, mi piazzo saldamente davanti a lei e la guardo dritta negli
occhi. «Io prometto che non cambierò idea su di noi. E se
per qualche motivo assolutamente balordo dovesse accadere una
cosa così terribile, prometto che non ti prenderò in giro e
te ne informerò subito. Prometto di fare tutto il possibile
per non farti soffrire, e prometto di scontare la più dura
delle punizioni se questo dovesse mai accadere.» Termino la frase
con il mio miglior sorriso, sperando di essere riuscito a convincerla
che non intendo rifilarle una fregatura, e che vorrei picchiare
quello stupido mister Zainetto Rosso soltanto per il fatto di averla
delusa. «Tu mi piaci veramente molto, Daria. Non voglio che tu
soffra per colpa mia.»
«Ok» sospira, e la sua
voce sembra provenire da una stella ai confini della galassia. «Alice
ha studiato arti marziali per cinque anni. Solo per informarti. Due
anni fa si era offerta di gambizzare Andrea, ma ho declinato
l'offerta.»
«Buono a sapersi» sorrido
di nuovo, mentre riprendiamo a camminare. Lascio andare la sua mano e
le faccio scivolare il braccio sulle spalle, riuscendo così a
tenermela più vicina. «Daria, sai che questo cambierà tutto?»
«Sarebbe strano se non
cambiasse proprio nulla» mi risponde. «Shannon, mi prometti che
cambierà davvero tutto?» Non comprendendo quell'improvvisa
richiesta, mi volto per guardarla in viso e cercare di capirne le
ragioni. «Voglio dire... ho sempre avuto una vita normale, e per lo
più sono stata felice, però... però adesso arrivi tu, e mi dici
che le cose cambieranno. E la cosa... la cosa mi affascina, mi
affascina sul serio. Sono sempre stata soddisfatta della mia vita, ma
la prospettiva di cambiare...»
«La prospettiva di
cambiare ti incuriosisce?»
«Sì, mi incuriosisce.
Credo sia l'espressione corretta.»
«Allora ti prometto,
in aggiunta a tutto ciò che ti ho promesso poco fa, che la tua vita
cambierà. Mi impegno a cambiarti la vita, se è questo che
desideri.» La guardo sorridere e reclinare appena la testa,
appoggiandola contro la mia spalla, mentre a passo lento ci dirigiamo
verso il luogo che ci separerà di nuovo.
«Beh, allora... suppongo
che...» Non sono mai stata così in imbarazzo: mi sento la bocca
asciutta, come se avessi perso la saliva a metà strada, e non so
nemmeno quali siano le parole giuste per congedarci.
«Già, credo di sì»
risponde Shannon, nonostante io non abbia espresso alcun concetto.
«Ti chiamo io, va bene?» Annuisco, senza parlare, mentre sento gli
occhi gonfiarsi di lacrime. Abbasso lo sguardo, ma le sue mani
racchiudono prontamente le mie guance, costringendomi a guardarlo.
«Come fai ad essere bellissima anche quando piangi?» mi sussurra,
senza staccarsi da me. Nella luce artificiale della stazione, i suoi
occhi appaiono nocciola, ma se c'è una cosa su cui non posso proprio
sbagliarmi è quello che stanno fissando: sono fermi su di me, fissi
nei miei, e la cosa un po' mi sorprende: non credevo che sarei mai
riuscita a sostenere in questo modo lo sguardo di un uomo come lui.
In silenzio, senza troppe parole inutili, le sue labbra si posano per
l'ennesima volta sulle mie.
È fatta: sono innamorata.
Ci spostiamo accanto ad un
pilastro e continuiamo a baciarci avidamente per una decina di
minuti, proprio come farebbe una coppia di adolescenti in piena
tempesta ormonale. Le sue braccia mi cingono dietro il collo, le mie
mani sono scivolate sotto il giubbotto e lo stringono all'altezza
della vita, il mio seno è premuto contro il suo torace e le sue dita
continuano ad accarezzarmi guance e collo, e io continuo a chiedermi
che succederà quando accanto a me tornerà ad esserci il vuoto.
«Adesso suppongo che
dovrei andare» sussurra alle sei e cinque, separandosi appena da me.
Ci guardiamo attorno, e notiamo che quasi tutti i passeggeri sono
saliti. «Ti chiamo io» ripete, stringendomi di nuovo il viso tra le
mani per costringermi a non distogliere lo sguardo. «Mi mancherai,
lo sai?»
«Anche tu mi mancherai»
rispondo con voce un po' roca. Mi mancherà come l'aria, e temo che
questa sarà l'ultima volta che lo vedrò.
Si stacca lentamente da me,
e dopo un attimo di indecisione lo guardo frugarsi in tasca. «Tienimi
questo, per favore» decreta, mettendomi in mano la sua copia di
Aspettando Godot. «Fino al nostro prossimo incontro. Me lo ha
regalato mia madre, ci tengo un sacco. Tienilo finché non ci
rivedremo.»
«Shannon, questo non
ha...»
«Ha senso, credimi. Me lo
restituirai quando ci rivedremo.»
Fisso lui, poi il libro, e
poi ancora lui. E quella che mi sembrava un'idea senza senso diventa
all'improvviso una cosa sensatissima. Mi tolgo rapidamente dal collo
una delle catenine che indosso: in realtà è un semplice cordoncino
di cuoio decorato con un bullone, ma ci tengo come se fosse una
collana di Cartier. «Questa non la tolgo mai, nemmeno quando dormo»
gli spiego, infilandogliela senza tanti complimenti. «Me la sono
fatta da sola in prima media, e da allora non l'ho mai tolta»
ripeto, come se volessi essere sicura che abbia capito il concetto.
«Tienila tu» concludo, appoggiandogli teneramente una mano contro
il petto, più o meno all'altezza del cuore. «Me la ridarai quando
ci rivedremo.»
Lo vedo sorridere e sento
che potremmo ricominciare a baciarci come due ragazzini, ma anche gli
ultimi ritardatari stanno salendo, e così mi rendo conto che deve
andare. Si sporge verso di me e mi regala un ultimo, lieve bacio. «Mi
mancherai» sussurra salendo sul treno. Il groppo che ho in gola mi
impedisce di rispondere a parole, perciò mi limito ad alzare una
mano. Il capotreno fischia, le porte si chiudono e di lì a pochi
secondi il treno inizia a muoversi.
Guardo Shannon allontanarsi
in silenzio dalla mia vita, e mi chiedo se questo pomeriggio sia
stato soltanto un parto della mia immaginazione. Poi penso al libro
che stringo tra le mani e alla collana che non mi penzola più dal
collo, e mi dico che non è un sogno, una fantasia passeggera –
Shannon lo ha promesso: cambierà la mia vita.
1”Lo
sai che questo cambierà tutto?” “Me lo prometti?” |
Il titolo del capitolo è ispirato ad uno scambio di battute tra
Jerry Maguire e Dorothy Boyd (interpretati da Tom
Cruise
e Renée Zellweger
nel film Jerry
Maguire
(1996).
|
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Capitolo 7 *** 7 | Pioggia cadrà, e l'aria sarà più pulita in questa città dove tutto sembrava finire. ***
Portagioie di tristezza | 1
Prima di
proseguire con il capitolo, una piccola comunicazione: IO VI AMO.
Sinceramente, vedendo com'erano partite le cose non avrei mai
immaginato che nel volgere di due settimane avrei ricevuto così
tante risposte positive.
Un
grazie di cuore ai nove lettori che la preferiscono, ai quattro che
la ricordano, ai quindici che la seguono e a tutti coloro che hanno
avuto il cuore e la voglia di lasciare una recensione.
Con la
speranza di non deludervi, vi saluto e vi abbraccio forte forte.
EffieSamadhi
P.S.:
Questo è probabilmente il capitolo più noioso ed inutile che abbia
scritto finora. Ma non disperate, posso migliorare.
Portagioie di tristezza
Capitolo settimo
Pioggia cadrà,
e l'aria sarà più
pulita
in questa città
dove tutto sembrava
finire.1
Milano,
04 novembre 2013
Pago il tassista, lo
ringrazio e scendo dall'auto, ma invece di infilarmi a passo svelto
nella hall dell'albergo rimango fuori qualche minuto per godermi il
silenzio e prepararmi alla probabile cattiva reazione che avrà mio
fratello nel riaccogliermi dopo non avermi visto né sentito per
l'intera giornata. D'istinto mi tocco le tasche, cercando le
sigarette, salvo accorgermi che non le ho portate con me – il
pensiero di passare un intero pomeriggio con Daria mi ha tenuto così
occupato che ho dimenticato di metterle in tasca, anche se la cosa
che più mi sorprende è che non ho sentito il bisogno di fumare
mentre stavo con lei, nemmeno una volta. Questa ragazza sembra
davvero avere un effetto positivo su di me. Dopo aver inutilmente
cercato qualche stella tra le mille luci che offuscano la bellezza
del cielo ormai nero, giro i tacchi ed entro nell'albergo,
dirigendomi a passo sicuro verso il bancone della reception. Chiedo
gentilmente la mia chiave al concierge e
salgo al mio piano preferendo le scale all'ascensore, ricordandomi
dell'espressione comparsa sul volto di Daria poche ore fa, quando ho
tentato di convincerla che quattro piani di scale fossero troppi da
fare a piedi.
Quando arrivo al sesto
piano, invece di tirare dritto verso la mia camera busso alla porta
di Tomo, per salutarlo e per chiedergli dello stato mentale di mio
fratello. «Tomo, sono Shannon» mi presento subito dopo aver
bussato, ricevendo il permesso di entrare. «Ciao» lo saluto,
entrando con cautela e chiudendomi la porta alle spalle. «Sono
tornato» aggiungo, trovandolo sdraiato sul letto nell'atto di fare
zapping con il telecomando e cercare un canale di notizie. «Che fai
di bello?»
«Cercavo di capire cosa
succede di nuovo nel mondo» risponde lui facendo spallucce. «Ah,
prima ho parlato al telefono con Vicki. Vi manda i suoi saluti.»
«Ah, grazie. Ricambia, mi
raccomando. Come se la passa?» gli domando, trascinando una sedia
vicino al letto.
«Sta bene, tutto regolare»
risponde mentre mi siedo. «Piuttosto, quello che dovrebbe avere
qualcosa da raccontare sei tu» aggiunge.
Piego le braccia sulla
spalliera e ci appoggio sopra il mento, chiedendomi da dove dovrei
iniziare. «Ho passato un bel pomeriggio» commento, decidendo di
tenermi sul vago.
«Hai viaggiato bene?» mi
sento chiedere, rendendomi conto soltanto adesso che Tomo ha spento
la tv e mi sta dedicando tutta la sua attenzione.
«Sì, ho viaggiato bene.
Lei è venuta ad aspettarmi in stazione.»
«Beh, mi sembra normale.
Aveva detto che sarebbe venuta a prenderti, o sbaglio?»
«Sì, l'aveva detto,
però... finché non l'ho vista sulla piattaforma ho avuto paura che
non venisse. Che avesse cambiato idea. Al suo posto io avrei avuto
diversi dubbi.»
«Che avete fatto?»
«Un giro per il centro, mi
ha fatto vedere alcuni monumenti, mi ha raccontato qualche
aneddoto... è stato bello, è una buona guida.»
«E... ci sono stati degli
sviluppi particolari?»
«L'ho accompagnata a
vedere un appartamento da affittare. Un bell'appartamento»
specifico. «E ha deciso di prenderlo, alla fine. E ci siamo baciati.
Più di una volta.»
«Non si può dire che sia
stato un pomeriggio noioso. E dopo esservi baciati?»
«Lei si è fatta prendere
dall'ansia, perché pensava che stessi soltanto giocando.»
«E tu stavi giocando?»
«Per niente. Daria non è
una ragazza da prendere in giro. È molto sensibile, quasi fragile,
e io non potrei... nessuno con un minimo di umanità potrebbe
prendere in giro una ragazza come lei.»
«E come vi siete
lasciati?»
Prima di rispondere esito,
cercando le parole più adatte per esprimere il concetto – salvo
poi accorgermi che di parole perfette, in certi casi, non ce
ne sono. «Abbiamo deciso di provarci» sputo fuori. «Vogliamo
provare a frequentarci. Non chiedermi quali siano i nostri piani,
perché non lo so. So solo che non ho mai desiderato tanto passare
del tempo con una donna – e non sto parlando di fare sesso, ma di
passare del tempo insieme. Lei è speciale. È veramente una
ragazza speciale.» So che Tomo non mi giudicherebbe mai, perché
giudicare gli altri non è nella sua natura, perciò so che nel suo
silenzio si nasconde soltanto un tacito invito a continuare. «Non ho
intenzione di mollare il tour per scappare con lei a Las Vegas, se è
questo quello di cui Jared ha paura» aggiungo.
«Non è di questo che tuo
fratello ha paura» sospira lui, voltandosi sulla schiena e iniziando
a fissare il soffitto con aria interessata. «Insomma, ha cercato di
convincermi che fosse quella la sua preoccupazione più grande, ma
credo che in realtà sia solo spaventato all'idea di perdere te.
Se questa Daria fosse soltanto una delle tante con cui ti diverti
sotto le coperte, una di quelle che usi e butti fuori dal letto
quando arriva l'alba, probabilmente Jared non avrebbe nulla da ridire
– sarebbe la normalità, il divertimento senza impegno a cui siete
entrambi abituati. Ma se tu di questa Daria sei davvero innamorato,
se provi a conoscerla e a far funzionare le cose e scopri che le cose
vanno bene... beh, per forza di cose lui esce dalla tua vita.
Beh, forse non ne esce completamente, ma di sicuro il suo
ruolo nella tua vita si ridimensiona.»
«Non smetterò di essere
suo fratello soltanto perché ho una relazione con una donna»
protesto, sicuro che niente potrebbe mai allontanarmi da Jared. Siamo
sempre stati una cosa sola, fin dall'infanzia: abbiamo vissuto le
stesse esperienze, abitato gli stessi luoghi, sentito le stesse cose
– più che fratelli, siamo anime gemelle, nel senso più esteso del
termine.
«Questo io lo so, e
so anche che tu sei un uomo abbastanza maturo e ragionevole da
arrivarci. Ma Jared... tuo fratello ha quarantadue anni, questo è
vero, ma il suo cuore è fragile come quello di un ragazzino. Basta
una frase detta con il tono sbagliato, e nel suo cuore si può
formare una crepa irreparabile.»
«Credi che dovrei parlare
con lui?» Domanda stupida, me ne rendo conto subito dopo: ovviamente
Tomo mi consiglierà di parlare con Jared. Il problema è che non so
se Jared vorrà ascoltarmi. A volte sa diventare davvero scontroso,
se le cose non vanno come lui le ha pianificate.
*
Torino, 4 novembre 2013
«Sono
a casa!» annuncio, chiudendomi la porta alle spalle. Mancano cinque
minuti alle sette, e tecnicamente dovrebbero essere tutti in casa:
mio padre dovrebbe essere sotto la doccia, mio fratello alle prese
con le pentole e mia sorella impegnata a sistemare geometricamente in
tavola piatti e posate. Invece il salotto è silenzioso, dalla cucina
non arrivano risate né rumore di stoviglie, e la cosa mi preoccupa
un po'. «C'è qualcuno?» chiedo al nulla, alzando un po' la voce
mentre attraverso il corridoio.
A
bordo della propria sedia girevole da ufficio, mio fratello si
affaccia dalla camera da letto. «Stasera ceniamo da nonna» mi
informa. «Ci ha suonato prima per invitarci. Festeggiamo il
compleanno di Massimo.»
Massimo
è uno dei nostri cugini, figlio del fratello maggiore di papà: fin
da bambino è sempre stato fissato con i soldatini, e da quando è
entrato nell'esercito lo vediamo pochissimo – ed è un peccato,
perché è uno di quei ragazzi che adorano ridere e che hanno sempre
il sorriso sulle labbra, qualunque cosa accada. «Ma compie gli anni
soltanto tra dieci giorni, perché festeggiamo adesso?» domando.
«Doveva
essere in licenza fino al venti, invece lo hanno richiamato prima
perché ci sono turni da coprire, o qualcosa del genere» completa
mia sorella, uscendo dal bagno in accappatoio. «Le ho chiesto se
dovevamo portare qualcosa, ma ha detto che al cibo ci pensavano lei e
zia Bea. Ci aspettano per le otto.»
«Papà?»
domando, entrando in camera mia per lasciare borsa e giubbotto sul
letto.
«Doveva
fare delle commissioni, è tornato dal laboratorio ed è uscito
subito dopo» risponde mia sorella, alzando la voce per sovrastare il
ronzio dell'asciugacapelli.
«L'abbiamo
chiamato per avvertirlo della cena» aggiunge mio fratello, puntando
i piedi per terra e muovendosi distrattamente avanti e indietro per
il corridoio. «Nonna vuole a tutti i costi che porti Laura, quindi
passerà a prenderla prima di tornare.»
Mi
rimbocco le maniche della camicia e raggiungo il bagno per lavarmi le
mani. «Abbiamo ancora del formaggio? Magari faccio un'insalata,
giusto per non presentarci a mani vuote» osservo distrattamente
mentre mi insapono.
«Quella
buona con il formaggio e le pere?» chiede mia sorella, illuminandosi
all'idea. «Però non abbiamo più pere.»
«Ah.
Beh, potrei sostituirle con le mele, dovrebbe uscire comunque un
piatto decente.»
«Che
hai fatto di bello oggi? Sei stata fuori tutto il pomeriggio,
pensavamo ti fossi persa» mi chiede Emanuele, che si è spinto in
retromarcia fino a raggiungere la porta del bagno.
«Ho
fatto un giro in centro» rispondo con aria di sufficienza, cercando
di non attizzare la loro curiosità. «Ho visto un appartamento»
aggiungo subito dopo, incapace di trattenermi. «Una mansarda, in
realtà. È in via Maria Vittoria, ristrutturata da pochissimo, e
costa trecentocinquanta euro al mese.»
«Un
affarone, direi» commenta mia sorella, passandosi una spazzola tra i
lunghi capelli castani. «Pensi che possa essere la casa giusta?»
Esito
un attimo nel rispondere, e a quel punto mio fratello esclama: «L'hai
preso, vero?» Praticamente costretta a confessare, spiego brevemente
le ragioni che mi hanno spinta a decidere tanto in fretta – il
tutto badando a non nominare Shannon, né il fatto che abbiamo
trascorso insieme l'intero pomeriggio e che in futuro probabilmente
lo rivedrò. E che sono innamorata come una quindicenne.
Francesca
ascolta il tutto continuando a pettinarsi, e alla fine,
mordicchiandosi un labbro, sussurra: «Come credi che la prenderà
papà? Avevi detto che lo avresti avvertito in tempo.»
«Papà
capirà» rispondo, aggiustandomi una piega inesistente sul davanti
della camicia. «Era un affare troppo conveniente, non potevo
lasciarmi sfuggire l'occasione.» In realtà, ho paura che ci rimarrà
male: gli avevo promesso di tenerlo al corrente degli sviluppi del
mio progetto, e alla fine non ho mantenuto la parola. So che non si
opporrebbe, ma so anche che gli piace essere messo al corrente di
quello che succede in casa sua.
«Io
glielo direi stasera, se fossi in te» commenta Emanuele. «Ci sono i
parenti e c'è anche Laura, non ti può ammazzare se ci sono così
tanti testimoni. Beh, io devo finire un progetto. Fammi un fischio
quando hai finito, Franci.»
Mentre raggiungo la cucina
e cerco gli ingredienti per mettere insieme la mia celebre insalata,
non posso fare a meno di pensare che Emanuele ha ragione: papà non
potrà avere una relazione esagerata, se siamo in mezzo alla gente.
Glielo dirò non appena avremo un attimo di privacy.
*
Milano, 4 novembre 2013
Seguendo il consiglio di
Tomo, sono giunto davanti alla porta della camera di mio fratello; ho
bussato un paio di volte e ora sono in attesa di risposta. «Sì?»
sento dire dopo qualche istante.
«Servizio in camera»
rispondo con un sorriso, pensando che se rispondessi dicendo il mio
nome probabilmente verrei lasciato fuori come uno zerbino consumato.
La porta si apre subito,
rivelando l'espressione piatta di Jared. «Pensavi che non avrei
riconosciuto la tua voce?» Non sembra di buon umore, ma il fatto che
si sposti per lasciarmi entrare mi fa capire che non mi odia tanto da
non volermi parlare – o forse una volta entrato sarò brutalmente
aggredito e i pezzi del mio cadavere verranno ritrovati sparsi nei
cassonetti di mezza Milano.
«Ti sei riposato?» gli
domando, restando in piedi al centro della stanza mentre lui
raggiunge il letto, sul quale ha sparso fogli bianchi e appoggiato la
chitarra. «Stavi componendo qualcosa? Ti ho disturbato?»
«Ho suonato un pochino,
messo insieme qualche nota. Niente di importante» risponde a bassa
voce, come se la ritenesse davvero una cosa da poco.
«Oh, bene, sono contento.
Mi fai sentire?» gli chiedo, avvicinandomi di qualche passo.
«Non è niente di
importante, davvero. Ci voglio lavorare ancora un po'.»
Vincendo la vocina nella
mia testa che mi dice di allontanarmi e lasciarlo qui a cuocere nel
suo brodo, mi siedo sul bordo del letto, verso il fondo, e gli punto
addosso gli occhi, cercando il coraggio di comunicargli quello che
provo. «Ho passato il pomeriggio con Daria» esordisco, pur sapendo
che già conosce questa parte della storia. «Sono stato molto bene
con lei. Non pensavo che sarei mai stato bene con una donna come lo
sono stato con lei. È veramente una ragazza speciale. L'ho
accompagnata a vedere un appartamento da affittare. Un appartamento
piuttosto carino, una mansarda riadattata. Andrà a vivere lì, alla
fine.» Faccio una breve pausa, ma Jared non sembra intenzionato a
rispondere. «Jared, io penso di doverti dire che... beh, che credo
di essere attratto da lei come non sono mai stato attratto da
nessuna. È carina, è simpatica, è intelligente... è una ragazza
speciale. So che l'ho già detto, ma non riesco a trovare altri
aggettivi per descriverla. Dovresti conoscerla, ti piacerebbe.»
Dall'altro lato del letto continua a non arrivare risposta, tranne
qualche occasionale accordo che a volte viene trascritto su carta. A
questo punto decido di cambiare strategia: mi sfilo le scarpe, che
lascio cadere sul tappeto, e senza dire una parola di più mi stendo
sul materasso, poggiando i piedi sul cuscino.
Il silenzio la fa da
padrone per cinque minuti, poi sento finalmente qualche parola – la
voce di Jared è bassa, quasi come quella di Daria quando mi ha
chiesto se credevo veramente nel nostro futuro, ma capisco ogni
parola: «Shannon, che intenzioni hai con lei?»
«Voglio rivederla.
Vogliamo rivederci. Non chiedermi se ho progetti a lungo
termine, se voglio sposarla o avere dei figli, perché non lo so.
Tutto quello che so è che la chiamerò, le manderò delle e-mail, e
compatibilmente con i nostri impegni la rivedrò. Lei è d'accordo
con me.» Faccio un'altra pausa, ma di nuovo non ottengo risposta.
«Quello che so per certo è che non lascerò la band per scappare
con lei dall'altra parte del mondo. Non abbandonerò il tour a metà,
questo è sicuro. E sicuramente non smetterò mai di essere tuo
fratello. Anche se alla fine dovessi costruire qualcosa di importante
con lei, non smetterei mai di esserci, per te.» Le dita
smettono di comporre accordi, e i suoi grandi occhi azzurri, così
diversi dai miei, si velano di una tristezza che non ho mai visto
prima. «Sei tu l'amore della mia vita, ricordi?» aggiungo con un
sorriso, ridestando in entrambi il ricordo di una vecchia intervista.
«Quello che abbiamo tu ed io, nessuna storia d'amore lo potrà mai
sostituire. Siamo fratelli, e questa è una cosa che non si può
cancellare. Anche lei ha dei fratelli, e come noi non ha avuto una
vita facile, e sono sicuro che su questo punto lei la pensi come me:
nessuna relazione potrebbe cancellare quello che prova per loro.
Volevo solo... ecco, volevo solo farti sapere che anche tra
vent'anni, anche tra una vita intera, io... sarò sempre il tuo
fratellone. Sarò sempre Shannon.»
Due interi minuti di
silenzio seguono la mia confessione, e quando finalmente sento di
nuovo la voce di Jared, la frase che mi sento rivolgere è
decisamente diversa da quella che mi aspettavo, e il tono decisamente
più ironico: «Se davvero sono l'amore della tua vita, potresti
farmi il favore di spostare i tuoi sudici piedi dal mio cuscino?
Puzzano da morire!»
*
Torino, 4 novembre 2013
Alle
otto meno cinque attraversiamo il pianerottolo in fila indiana:
Francesca in testa, a seguire Emanuele, e infine io. Come sempre
quando ci aspetta per cena, nonna ha lasciato accostato il
portoncino: entrando, mia sorella chiede permesso per pura formalità.
Sapendo che nostro padre ci raggiungerà tra poco, lascio la porta
come l'ho trovata, e seguo i miei fratelli verso la sala da pranzo.
La nonna esce dalla cucina e ci viene incontro a braccia aperte,
abbracciandoci e baciandoci nell'ordine in cui siamo entrati. Quando
arriva il mio turno, dopo aver ricambiato il saluto le mostro
l'insalata, sentendomi rispondere che non era necessario disturbasi.
Raggiungo la cucina, dove zia Beatrice è impegnata a preparare una
dose di salsa tonnata, e lascio il piatto sul lucido piano di lavoro.
«Ciao, zia» la saluto, avvicinandomi subito alle pentole per capire
quale sarà il menu della serata.
«Ciao,
pulce» mi risponde lei, fermando per un istante il mixer. «Cos'hai
portato di buono?»
«Insalata
di formaggio, mele e sedano» rispondo. «Tanto per non venire a mani
vuote, mi sentivo troppo in colpa. Posso aiutarti a fare qualcosa?»
«No,
in realtà è tutto a posto. Finisco di fare questa e siamo pronti.
Che mi racconti? Tuo padre mi ha detto che l'altra sera sei andata ad
un concerto. Ti sei divertita?»
«Sì,
è stato bello. Alice è venuta con me, ci siamo divertite
tantissimo. Mi ci voleva una serata fuori.»
Finisce
di amalgamare il tonno alla maionese, pulisce il frullino e intanto
mi guarda – anche se non la sto guardando direttamente, riesco a
percepire i suoi occhi fissi sulla mia figura. «Sai che ti trovo
diversa? Non so, hai qualcosa... hai qualcosa di diverso.»
«In
che senso?»
«Nel
senso... non so, sembri diversa. Tanto per cominciare, sei truccata.
Penso di averti vista truccata sì e no dieci volte nella vita, e
sicuramente mai
in
un giorno feriale.»
D'istinto
mi porto una mano alla guancia, ricordandomi del lieve strato di
cipria e della matita nera che ho riesumato dalla busta dei trucchi,
e sorrido. «Sì, sono uscita a fare un giro in centro e avevo voglia
di mettermi un po' carina.» Il make-up non è mai rientrato tra le
mie abilità: è mia sorella quella con la passione per
l'abbigliamento, i capelli e il trucco – passione che comunque non
la configura come ragazza venale o vuota, anzi: a volte sa essere più
profonda di me. «Comunque ogni tanto mi trucco, non è un
avvenimento» aggiungo, sperando di sviare l'attenzione dalla
straordinarietà dell'evento. La verità è che volevo provare ad
assomigliare alla Daria che Shannon ha conosciuto sabato, o almeno
tentare di essere presentabile.
«Sarà
come dici. Non è che i tuoi giri in centro avevano a che fare con
una... persona speciale, o qualcosa del genere? Franci mi ha detto
che sabato sera hai fatto conquiste.»
«Franci
dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi» ribatto un po' scocciata.
Già sapevo che sarebbe andata a finire così: per quanto io adori
mia sorella, so che affidare a lei un segreto è molto pericoloso.
«Quel
che è detto è detto, ormai. Allora, me ne parli o no? Ha detto che
è uno studente straniero, dico bene?»
«Americano»
preciso, sperando di ricordare tutti i dettagli della bugia che ho
rifilato a mia sorella. «Si chiama Sean, ha la mia età, è nato in
Louisiana. Studia italiano, ma non è bravissimo a parlarlo. Mi ha
lasciato il suo indirizzo e-mail e mi ha chiesto di scrivergli, tutto
qui. Da qui a parlare di matrimonio, o qualunque cosa ti abbia detto
mia sorella...» Anche se, diciamocelo, la prospettiva di passare il
resto della vita al fianco di Shannon Leto non sarebbe così
malvagia.
Mia
zia sorride, aprendo il rubinetto per sciacquarsi le mani.
«Tranquilla, non si è fatta nessuna strana idea su te e questo
misterioso americano. Da quel che ho capito, invidiava soltanto il
modo assolutamente romantico in cui vi siete incontrati.»
«Romantico...
insomma. Se prendere a spallate la gente è da considerarsi un gesto
romantico, io sono la regina d'Inghilterra.»
«E
dai, dalle un po' di tregua. È ancora una ragazzina, le piace
sognare. Non è mica un reato.» Si stropiccia le mani in uno
strofinaccio pulito e rimesta dentro un pentolone con un grosso
cucchiaio di legno. «Comunque tu nascondi qualcosa, sai? Hai mente
di combinarne una delle tue, te lo leggo negli occhi.» Rispondo con
una battuta, cercando di sviare il discorso anche da quell'argomento:
non voglio dire a nessuno della casa finché non ne avrò messo al
corrente mio padre.
*
Milano, 4 novembre 2013
Finita
la tacita guerra che la comparsa di Daria aveva sollevato, mio
fratello ed io abbiamo deposto le armi, e insieme a Tomo siamo scesi
al ristorante. A pranzo ho mangiato un panino di corsa, perciò la
fame mi impone di ordinare un sacco di cose, e di conseguenza mi
ingozzo come se non ci fosse un domani. «Allora è vero che l'amore
mette fame» mi prende in giro Jared, che come sempre affronta con
calma i suoi piatti privi di proteine animali.
«Ha
parlato la mucca da pascolo» rispondo con la bocca piena, indicando
la ciotola colma di insalata che ha davanti. «Io ho bisogno di
proteine, sono un uomo di fatica» aggiungo, indicando poi me stesso
e la cotoletta alla milanese che riempie il mio piatto.
«Visto
che sei un uomo di fatica» ribatte Tomo, che come sempre sta
sezionando il suo cibo con una precisione quasi chirurgica, «perché
non fai lo sforzo di raccontarci qualche dettaglio di oggi?»
«Giusto!»
esclama Jared, «non fai che parlare di questa ragazza come se fosse
l'ottava meraviglia del mondo. Almeno le hai fatto una foto?»
«Sì,
ce l'ho una sua foto» rispondo. «Abbiamo chiesto a dei giapponesi
di passaggio di scattarcene una. Ma non ho intenzione di farvela
vedere.»
«Stai
scherzando, vero?» ribatte Tomo, strabuzzando gli occhi.
«Sei
consapevole che se non tiri fuori subito
quella foto faremo
un'incursione nella tua camera mentre dormi e ti ruberemo il
cellulare?» aggiunge mio fratello. «E non credere, saremmo
capacissimi di farlo.» Tomo annuisce, e dalla serietà della sua
espressione capisco che non è il caso di rischiare: l'ultima volta
che mi sono trovato in una situazione del genere tutte le mie scarpe
destre sono sparite dall'armadio, e non è stato divertente mettermi
a cercarle per ogni angolo della casa e del giardino.
«E
va bene, avete vinto» sbuffo, tastandomi le tasche. Ne approfitto
per controllare l'ora: sono le otto e dieci. Calcolando che finiremo
di cenare tra poco meno di un'ora, decido che chiamerò Daria verso
le nove.
Porgo
l'iPhone a Tomo, che apre senza difficoltà la giusta cartella e
cerca gli scatti tanto desiderati. «Sarebbe questa qui?» mi
domanda, girando il telefono verso di me per mostrarmi l'immagine.
«Beh, è carina. Decisamente carina. Capisco perché nella prima
foto non riuscivi a staccarle gli occhi di dosso. Ha i capelli
corti!» esclama poi. «Non è il tuo genere, di solito ti piacciono
con i capelli lunghi.»
«Nella
vita si cambia» ribatto, continuando a mangiare. Quando l'iPhone
finisce in mano a Jared, mi fermo per studiare la sua espressione nel
vedere il viso della ragazza che mi ha conquistato.
«Quanti
anni hai detto che ha?» mi domanda, alzando lo sguardo su di me.
«Ventitré»
rispondo, un po' spaventato dal suo giudizio.
«Non
li dimostra» commenta lui. «Sembra più piccola. Gliene avrei dati
diciotto, al massimo venti. Begli occhi, però.» E questo, detto da
un uomo i cui occhi sono considerati oggetti di culto da un gran
numero di donne e uomini in tutto il mondo, mi sembra un complimento
non da poco. «Non riesco a capire se sono azzurri o verdi.»
«Uno
e l'altro» rispondo subito, senza pensarci troppo su. «Sono
azzurri, ma alla luce del sole diventano verdi. È difficile da
spiegare a parole, bisogna vederli dal vero per capire.» Jared mi
restituisce il telefono, e io non posso fare a meno di fermarmi a
guardare di nuovo il volto di Daria, perfetto nelle sue mille
imprecisioni. «Dovreste conoscerla, è veramente una ragazza in
gamba» commento, senza riuscire a smettere di guardare la prima
fotografia, quella in cui il mio viso è rivolto verso di lei. «Ha
solo ventitré anni, ma pensa e parla come una donna di almeno
trenta. Ne ha già passate tante in vita sua, però non si è fatta
buttare giù. È... è speciale,
tutto qui. Non so come altro descriverla. So solo che stare con lei
mi piace.» A fatica riesco a mettere via il telefono, ma la mia
mente è ben lontana dal dimenticare l'immagine del suo volto. «Ha
bisogno di essere costantemente rassicurata, ha sempre bisogno di
sentirsi dire che sta facendo la cosa giusta, però non... non è
fragile, per niente. È una delle persone più forti che abbia mai
conosciuto. Sa camminare con le sue gambe, se capite cosa intendo.
Non avrebbe bisogno di nessuno, ma non riesce a stare sola.»
«Sicuro
di aver passato con lei un pomeriggio appena?» mi chiede Tomo,
lasciando perdere per un attimo la cena. «Sembra quasi... non so,
sembra che tu la conosca da secoli.»
«Mi
sento così. Mi sento come se la conoscessi da sempre, forse
perché... non lo so, credo che in fondo siamo molto simili. Abbiamo
vissuto esperienze simili, ad entrambi è mancato un genitore,
entrambi abbiamo dovuto lottare per guadagnarci un posto nel mondo...
non lo so, io la guardo e... e vedo me, in un certo senso. Riesco a
capire come si sente anche quando non dice nulla, riesco a capirla
soltanto guardandola, e... non lo so, mi viene da pensare che forse
lei mi può capire quanto io capisco lei. Forse è questo quello che
mi è sempre mancato nei miei rapporti con le donne: non ne ho mai
incontrata una in grado di capirmi.»
«Devi
rivederla» sentenzia Jared, lasciandomi di stucco. Nonostante abbia
accettato la mia intenzione di provare ad avere una relazione con
Daria, non mi sarei mai aspettato di vedermi così apertamente spinto
verso di lei. «Devi rivederla, per forza» ripete, mettendo giù le
posate per prendere il BlackBerry, sul quale inizia a digitare in
maniera a dir poco furiosa. «Domani e mercoledì siamo impegnati,
dobbiamo assolutamente metterci sotto a provare per il prossimo
concerto. Giovedì mattina abbiamo l'aereo per Colonia, il pomeriggio
per sistemarci e provare ancora un po', e il concerto è venerdì
sera. La data successiva è a Francoforte, ed è il prossimo giovedì.
Questo significa che... sabato, domenica e lunedì puoi considerarti
più o meno libero. Puoi passare il fine settimana con lei e
raggiungerci a Francoforte martedì, giusto in tempo per due giorni
di prove.» Finito di parlare, alza lo sguardo e mi sorride. «Se lei
è libera, direi che siamo a cavallo. È un ottimo piano.»
«Fammi
capire» commento, faticando a credere che mio fratello stia parlando
sul serio. «Fino a due ore fa aborrivi l'idea che mi facessi una
ragazza, e adesso mi stai organizzando gli impegni in modo da darmi
la possibilità di trascorrere con lei tre
interi giorni?» Non
so perché, ma la cosa mi puzza. E questa volta i miei piedi non
c'entrano.
«Io
non sto organizzando proprio nulla» ribatte lui. «Il tour è già
tutto impostato, ho solo letto le tabelle. Casualmente ci sono tre
giorni in cui non abbiamo impegni: tre giorni in cui sicuramente non
faremmo altro che vagare come zombie per le strade della città. Tu
hai l'occasione di trascorrere un
bel po' di tempo con
la ragazza dei tuoi sogni: vuoi farmi credere che la getteresti al
vento senza nemmeno prenderla in considerazione?»
Messa
così, la questione assume un aspetto completamente diverso. Potrei
partire sabato mattina presto, essere a Torino per l'ora di pranzo e
passare con Daria tutto il fine settimana. Potrei cercare un albergo
da poco, o qualcosa del genere, e... beh, certo, prima dovrei
chiamarla per assicurarmi che sia libera. Per quanto ne so, potrebbe
già avere altri piani, e non mi va di scombinarle di nuovo la vita –
anche se, lo so, la vita ho promesso di rivoluzionargliela
completamente. «Prima devo parlarne con lei» dico infine a Jared.
«Se dipendesse da me, potrei partire anche questa sera, però non so
quali siano i suoi programmi. Potrebbe avere altro da fare.»
«Bene,
allora chiamala» ribatte lui, in un tono che non ammette repliche.
*
Torino, 4 novembre 2013
Alle
otto e venti siamo tutti presenti, e alle otto e mezza riusciamo a
sederci tutti a tavola. Quando undici persone si riuniscono attorno
ad una tavola imbandita, è normale che si formino gruppi distinti, e
dopo cinque minuti accade anche a noi di 'spaccarci' a metà: da un
lato i cosiddetti adulti,
che discutono di politica e attualità, dall'altro i giovani,
che discutono di libri, musica, film e sciocchezze, e che almeno una
volta ogni cinque minuti esplodono in una grassa risata collettiva.
Lo ammetto: sono una ragazza seria e sono sempre stata considerata
molto più matura dei miei coetanei, ma quando mi trovo nella
compagnia giusta so regredire ad un vero e proprio stato
adolescenziale. I miei fratelli e i miei cugini, in particolare,
costituiscono quella che ritengo la compagnia 'giusta' per
eccellenza.
Mio cugino Massimo, il
festeggiato, sta per compiere ventisei anni, ed è arruolato
nell'esercito da quando ne aveva diciannove; è lui, con il suo
sorriso permanente e il sovra sviluppato senso dell'umorismo,
l'anima del gruppo; suo fratello Tommaso, più vecchio di me di sole
due settimane, è più timido e impiega più tempo a farsi
coinvolgere nell'ilarità, ma ha il vantaggio di essere il più
carino della famiglia, nonché quello con più voglia di studiare –
frequenta il Politecnico, ed è uno dei migliori studenti della
facoltà di Ingegneria.
Quanto a me e ai miei
fratelli, non è che ci sia molto da dire: Emanuele è di sicuro il
più intelligente, anche se la passione per i computer a volte lo
isola in un mondo dal quale è molto difficile trascinarlo via;
Francesca, al contrario, è più solare e spensierata, a volte quasi
difficile da imbrigliare – mi piace pensare a lei come ad un fiume
che scorre impetuoso in mezzo ad una valle, bellissimo da guardare ma
impossibile da arrestare. Quand'era piccola credevo che non avrebbe
mai trovato la sua strada, e invece crescendo mi ha sorpresa: non
senza sforzo, è riuscita ad incanalare le sue energie nel disegno, e
al momento tutto fa presagire che possa essere questa la strada
perfetta per lei. E poi... e poi ci sono io, la sorella maggiore:
dovrei essere la guida, l'esempio da seguire, ma dubito di aver mai
fatto qualcosa degno di essere imitato. Io sono la più insicura, la
più indecisa, quella che ha più bisogno d'aiuto. Il fatto di essere
la più grande mi ha sempre spinta a fingermi la più forte, ma la
realtà è che spesso i dubbi mi mangiano viva, e davanti alle
questioni più importanti non so che direzione prendere.
Approfittando di una mia
breve assenza, Francesca ha messo al corrente anche Massimo e Tommaso
del mio incontro di sabato; quando torno a sedermi trovo quattro paia
d'occhi fissi su di me, e in quell'istante mi rendo conto che avrei
dovuto negare, e dire che al concerto non era successo nulla,
assolutamente nulla – questa bugia sta letteralmente dilagando, e
la cosa non può che portare guai. «E brava la nostra cuginetta»
esordisce Massimo, servendosi un altro generoso cucchiaio di
insalata, «è bello sapere che ti dai da fare per mantenere vivi i
rapporti internazionali.»
«Non so cosa vi abbia
raccontato mia sorella» ribatto un po' seccata, «ma non è successo
niente di eccezionale. Un tipo qualunque non guardava dove camminava,
mi ha sbattuto contro e ne ha approfittato per attaccare bottone. Mi
ha lasciato il suo indirizzo e-mail, ma non so ancora se gli
scriverò, quindi siete gentilmente pregati di smetterla di
immaginare il nostro matrimonio.»
«Quando ti metti così
sulla difensiva, però...» commenta Tommaso con un sorriso. «Devi
ammettere che è un po' sospetto, per una che dice di non essere
interessata.»
«Non mi lascerete stare
finché non ammetterò di avere un interesse per quel tizio, dico
bene?»
«Hai centrato il punto,
sorellina» annuisce Emanuele.
«E va bene... dunque,
ammetto di essere stata colpita dalle circostanze del nostro
incontro, e ammetto di averlo trovato abbastanza interessante,
quindi può darsi che mi tenga in contatto con lui. Tuttavia,
siete pregati di smetterla di parlare di me e di lui come
coppia, perché non lo siamo. La direzione vi ringrazia» concludo,
tornando a concentrami sul piatto.
*
Milano, 4 novembre 2013
Ho provato a chiamare Daria
per ben sei volte, senza mai ottenere risposta. Al primo tentativo
fallito ho pensato che non lo avesse sentito squillare, al secondo
che fosse in un'altra stanza, ma al terzo ho iniziato a convincermi
che non voglia parlare con me – anche se, devo ammetterlo, per un
istante mi ha sfiorato la paura che le sia successo qualcosa di
terribile dopo la partenza del mio treno.
Mi sono rintanato in camera
mia subito dopo aver finito di cenare, e dopo la sesta chiamata
fallita sono uscito sul terrazzino con la sola compagnia delle
sigarette, di un accendino e di un bicchiere pieno d'acqua che uso
come posacenere. E se Daria avesse cambiato idea? Se la sua volontà
di rivedermi fosse stata soltanto una bugia messa in piedi per il
tempo della mia visita? E se la passione di quei baci fosse stata
frutto di una simulazione? E se...
No,
mi dico, scuotendo la testa. Quei baci erano troppo veri per essere
finti, le sue emozioni troppo incontrollabili per essere fasulle. Se
non mi risponde, è solo perché non può – per quale motivo non lo
so, ma non può. Lo
vuole, ma non può.
All'improvviso, quasi come
in un film, dalle nuvole che si sono addensate sulla città inizia a
piovere – e sembra quasi che la pioggia sciolga le cattive
emozioni, lasciando che a riempirmi il cuore siano soltanto le cose
belle. Appoggio la schiena al muro, guardo in alto e mi godo lo
spettacolo delle gocce che precipitano giù.
*
Torino, 4 novembre 2013
L'occasione
perfetta per dire a mio padre dell'appartamento arriva quando ci
offriamo di sparecchiare e di preparare il caffè: siamo in cucina da
soli e ci diamo le spalle – io sono impegnata a mettere via gli
avanzi, mentre lui sta riempiendo diligentemente il filtro della
caffettiera. «Papà, ho bisogno di parlare con te.»
Anche
se non lo vedo, lo sento voltarsi verso di me, distraendosi per un
attimo dalla propria occupazione. «Mi devo preoccupare? Stai male,
o...»
«No,
non ti preoccupare. Io sto benissimo. È solo che... beh, oggi non
sono solo andata a fare un giro. Mentre ero fuori ho visto un
appartamento che rispondeva esattamente alle mie richieste, e... beh,
l'ho preso. Non ho ancora versato soldi né firmato contratti,
però... ecco, ho dato la mia parola. Quindi io... quindi ho trovato
casa, ecco.»
«Ah.
Beh, sono contento. Pensavi di non riuscirci prima dell'anno
prossimo, invece...»
Mi
volto e fisso lo sguardo in un punto tra le sue scapole. «Scusa se
ho fatto tutto senza dirtelo, papà. So che ci tenevi a saperlo con
un po' di anticipo, ma ho dovuto decidere in fretta, e poi... beh, è
perfetto.»
«Non
preoccuparti, pulce, sono contento» cerca di rassicurarmi,
voltandosi per regalarmi una breve occhiata. Anche se si sforza di
essere felice e brillante, riesco a vedere che nel suo sguardo è
accumulata una grandissima tristezza. «In fondo era ora che qualcuno
lasciasse il nido, no? E dimmi, dov'è questo appartamento?»
«Via
Maria Vittoria, quindi in pieno centro. Il palazzo è vecchio ma ben
tenuto, e l'alloggio è stato ristrutturato da pochissimo. Era una
mansarda, ma i proprietari hanno voluto farne un appartamento tanto
per non lasciarlo vuoto. Sono una coppia di anziani, saranno sulla
settantina. L'affitto è di trecentocinquanta euro al mese.»
«Così
poco?» si stupisce, avvitando la parte superiore della caffettiera
alla caldaia. «C'è sotto qualcosa di losco?»
«No,
niente di losco. Semplicemente non gli va di lasciare lo spazio
vuoto, però non hanno bisogno di soldi. Non ci vogliono guadagnare
in denaro. Vogliono solo guadagnare dei vicini. Giovani, tra l'altro.
Mi hanno spiegato che in lizza per l'appartamento c'era anche una
coppia, ma che avrebbero preferito me per il fatto che sono giovane,
mentre il palazzo è abitato in prevalenza da gente anziana.»
«Sembra
una vera favola, messa così» commenta lui, disponendo otto tazze su
un vassoio – né la nonna né i miei fratelli bevono caffè, al
contrario di me e papà, che siamo due caffeinomani nati – un po'
come Shannon, tanto per trovare un altro punto in comune con lui.
«Alice è venuta con te?»
«No,
ci sono andata da sola» mento, rendendomi conto soltanto dopo che la
bugia potrebbe essere facilmente smascherata se mio padre parlasse
con i Lorenzoli. «Ma non è stata una pazzia, te lo assicuro: sono
più che sicura che quella sia la casa perfetta per me.»
A
questo punto, mio padre fa una cosa che non faceva da un sacco di
tempo, e che allo stesso tempo mi fa venire voglia di urlare di gioia
e mi lascia senza parole: senza dire niente mi abbraccia come quando
ero bambina, passandomi le braccia dietro le spalle e facendomi
dondolare lievemente come se stesse cercando di mettermi a dormire.
«Non andrai mai troppo lontano, lo sai? Insomma, potresti andare
sulla luna, però... sarai sempre la mia bimba» sussurra mentre
ricambio l'abbraccio.
«Lo so, papà.»
«Quando
vuoi traslocare?»
«Non
lo so, però credo il prima possibile. In fondo l'appartamento è già
ammobiliato, oltre ai vestiti non è che abbia molto da portare.
Mercoledì vado a firmare il contratto, a pagare i primi tre mesi di
affitto e a prendermi le chiavi, e magari nel frattempo posso portare
un borsone di roba.»
«Dire
che parti in quarta è dir poco» mi prende in giro, alzando il
coperchio della caffettiera per controllare il processo.
«Visto
che mi tocca pagare per intero il mese di novembre, mi sembra giusto
approfittarne.»
«Tutta
tua nonna» ribatte, trattenendosi a fatica dallo scoppiare a ridere.
«Quando ci sono di mezzo i soldi... altro che storie, i ragionieri
avreste dovuto fare!» La sua improvvisa allegria mi rassicura: se mi
sta prendendo in giro, è perché si sente contento – perciò ha
accettato la mia decisione meglio di quanto pensassi.
1Pioggia
cadrà, e l'aria sarà più pulita in questa città dove tutto
sembrava finire. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso contenuto nella
canzone Pioggia cadrà
di Antonino,
contenuta nell'album Libera
Quest'Anima
(2012).
|
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Capitolo 8 *** 8 | E' molto divertente fare l'impossibile. ***
Portagioie di tristezza | 1
Di
nuovo, grazie a tutti per il supporto e le belle parole. Siccome
siamo in periodo natalizio e non credo che un capitolo nuovo sia
sufficiente come regalo di Natale, vi lascio una minuscola 'chicca'
– è questo il look con il quale immagino Shannon in questa ff
(perché capellone è bello!).
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo ottavo
È
molto divertente fare l'impossibile.1
Milano,
04 novembre 2013
Sono quasi le undici e
mezza, e sta continuando a piovere. Lascio cadere il mozzicone nel
posacenere improvvisato e penso che sarebbe meglio alzarsi, fare una
doccia e andare a dormire, perché qualcosa mi dice che domani le
prove saranno a dir poco estenuanti. Prima, però, voglio provare
ancora una volta a chiamare Daria. Seleziono il suo numero dalla
rubrica e faccio partire la chiamata, convinto che la cosa si
risolverà in niente, come prima. E invece, incredibilmente, dopo
appena tre squilli mi arriva la sua voce, acuta e affaticata come se
rientrasse da un giro di corsa attorno all'isolato. «Scusami,
Shannon! Scusami, scusami, scusami! Ero a cena da mia nonna, non
avevo il telefono e non ho visto le chiamate, chissà che cosa...»
«Ehi, ehi, ferma» la
interrompo, senza riuscire a fare a meno di sorridere nel sentirla
parlare così rapidamente. «Non ti scusare, non l'hai fatto
apposta. Divertita a cena?»
«Sì, abbastanza. C'erano
anche i miei cugini, sono ragazzi divertenti. È stato bello passare
una serata insieme. Tu che hai fatto?»
Dopo averci pensato
brevemente su, decido di dire la verità. «Sono rimasto seduto sul
terrazzino della mia camera a guardare la pioggia e a cazzeggiare con
il cellulare. Stasera mi sei mancata.»
«Anche tu mi sei mancato,
Shannon. Certo che sei chiamate perse... avevi qualcosa di urgente da
dirmi?»
«No, volevo solo sentirti.
Forse lo volevo un po' troppo. Scusa, non volevo diventare uno
stalker.»
«No, va bene. Insomma,
nessuno mi ha mai cercata in maniera tanto ossessiva. A dire il vero
non so bene come sentirmi.» Fa una breve pausa, ma decido di non
rispondere: ho come la sensazione che stia per dire qualcosa di
straordinariamente dolce o simpatico. «Insomma, una chiamata è per
parlare con me, due perché hai qualcosa da dire, ma sei chiamate...
o sei innamorato perso, o sei un maniaco sessuale.»
Non riesco a fare a meno di
sorridere. «Se le scelte sono queste, direi la prima.»
Come me, anche lei sorride.
«Noto con piacere che sei fedele al cliché della star, e che
esageri in ogni tua considerazione.»
So che è solo una battuta,
ma d'improvviso divento serio e raddrizzo la schiena contro il muro,
abbassando un po' la voce e facendo attenzione a scegliere bene le
parole. «Daria, non sto tenendo fede ad un cliché. E non sto
mentendo, e non è una bieca strategia per tentare di portarti a
letto, e non è una presa in giro. Io sono innamorato di te, sono
innamorato di te con tutta la magia che comporta, e ogni muscolo del
mio corpo canta.»
«Springsteen» la sento
sussurrare. «Hai appena citato Night di Bruce Springsteen.»
«La conosci?»
«Naturale che la conosco.
Mio padre è stato giovane negli anni ottanta. Ha tutti i suoi
dischi. La mia ninna nanna è stata I'm on fire. Me la cantava
tutte le sere quando mi metteva a letto.» Un'altra pausa, un altro
silenzio che decido di non riempire. «Ma che fai, cerchi di
conquistarmi con la musica?» mi prende dolcemente in giro.
«Se funziona,
allora sì.» Sospiro, passandomi la lingua sulle labbra. «Che stai
facendo in questo momento?»
«Stavo scegliendo i
vestiti da mettere domani.»
«Scegli i vestiti la sera
prima?»
«Scegliendo la sera, la
mattina posso stare a letto dieci minuti di più. È un vantaggio da
non sottovalutare.»
«E sentiamo, che cosa ti
metterai?»
«Perché vuoi saperlo?»
«Sono curioso. E poi sono
un maniaco, l'hai detto tu. Dai, voglio sapere come sarai vestita
domani.»
«Dunque, domani metterò...
un paio di jeans neri, una maglietta verde e una camicia in jeans.
Poi una cintura marrone e scarpe da ginnastica. Niente di
particolare, in fondo è per il lavoro.»
«Sarai comunque
bellissima, ci scommetto.»
«Non sarò niente di
speciale.»
«Tu sei tutto di
speciale, mettitelo bene in testa» la correggo, sperando si pianti
nella zucca che è bella, e che questa condizione non potrà mai
cambiare. «Comunque c'è un motivo se ti ho chiamata così tante
volte. Volevo chiederti... anzi, volevo dirti una cosa.»
«Allora spara, forza.»
«Beh, ecco, io... sai che
ti avevo detto che saremo impegnati fino a gennaio con le date del
tour? In realtà, riuscirò ad avere un paio di giorni liberi prima
di gennaio.»
«Davvero? E quando?»
«Questo fine settimana. Da
sabato a lunedì, se vuoi, sono libero e posso venire da te.»
«Questo fine
settimana?»
«Sì, proprio questo
fine settimana. Sempre che tu non abbia altri programmi, in tal caso
non...»
«No, figurati, non ho
programmi. Beh, insomma... in realtà prevedevo di iniziare con il
trasloco. Mercoledì vado a firmare il contratto, e contavo di
entrare in casa il prima possibile, magari già questo fine
settimana. Quindi forse potrei essere presa a disfare gli scatoloni,
ma... beh, niente di non rimandabile, ecco. Insomma, se decidi di
venire domenica io le valigie le disfo sabato e lunedì, senza
problemi.»
«Beh, veramente io avevo
in mente qualcosa di diverso.»
«Del tipo?»
«Del tipo che dopodomani
parto per Colonia, e quindi per venire lì devo prendere un aereo, e
quindi non sarebbe una visita di poche ore. Pensavo più una cosa del
tipo... non so, arrivare sabato nel primo pomeriggio e ripartire
lunedì verso sera. Pensavo che potrei cercare un alberghetto o un
bed & breakfast, qualcosa di non troppo vistoso. Avremmo più
occasioni per vederci. Insomma, non sarebbe una cosa di poche ore,
come oggi.»
Di tutte le risposte che mi
aspettavo, quella che ricevo è l'unica che non avevo previsto.
«Shannon, sei sicuro di volermi vedere per tre giorni di fila?»
«Abbastanza sicuro, sì. E
comunque ho già comprato il biglietto» mento.
«Hai comprato il biglietto
senza nemmeno sapere se fossi libera o meno?»
«Scherzo, non l'ho ancora
preso. Ma ci è mancato poco che lo facesse Jared al posto mio. Lui e
Tomo mi hanno praticamente costretto a mostrargli una tua foto, e
tutti e due hanno convenuto sul fatto che sei molto carina.»
«Hai mostrato quella foto
orrenda a tuo fratello e ad uno dei tuoi migliori amici? Sarei
stata meno in imbarazzo se ne avessi fatto una gigantografia e
l'avessi appesa in mezzo a Times Square.» Non riesco a non ridere,
mentre lei aggiunge: «Comunque puoi venire, se la cosa ti fa
piacere. Ma scordati di dormire in albergo: verrai a stare da me.»
«Non ti posso chiedere
tanto.»
«Il bello è questo: non
me lo devi chiedere.»
*
Torino, 5 novembre 2013
La telefonata tra me e
Shannon è durata poco meno di un'ora, ma è stata l'ora più intensa
e appagante della mia vita: battute, risate, progetti, complimenti,
sdolcinatezze – con Andrea non ho mai parlato tanto, e soprattutto
non mi sono mai sentita così a mio agio. È come se Shannon mi
conoscesse da sempre, come se conoscesse ogni più piccolo dettaglio
di me, come se mi avesse studiata a memoria, come si fa con una
poesia o con una partitura. Quando ho messo giù, il fine settimana
era pianificato: arriverà sabato pomeriggio, e aspetteremo la sera
facendo un giro per la città, visitando i luoghi che ieri pomeriggio
non sono riuscita a mostrargli; sabato sera usciremo per una bevuta
tranquilla, domenica lo porterò al museo del Cinema, e lunedì
probabilmente lo porterò di nuovo in giro, consegnandolo poi ad un
taxi per l'aeroporto verso sera.
Parlare
con lui mi ha resa incredibilmente felice, e ho la conferma del mio
nuovo status quando, arrivando al lavoro, il capo mi accoglie con un
sorriso e una battuta: «Però, qualcuno ha passato un fine settimana
soddisfacente...»
«Non
iniziare anche tu, per favore. Già ieri sera ho dovuto sopportare un
terzo grado da manuale. Sono soltanto stata ad un concerto, niente di
più. Mi sono divertita, ma non c'è altro da raccontare.»
«Sarà»
risponde Marco, seguendomi con lo sguardo mentre raggiungo il retro
per lasciare giubbotto e borsa. «Visto che sei arrivata, io ne
approfitto per uscire un attimo.»
«Non
dovevi andare dal commercialista, stamattina?»
«Alle
otto, ma ho dovuto chiamare per farmi spostare l'appuntamento perché
non potevo lasciare il negozio scoperto.»
«E
Carlotta?» domando, rendendomi conto soltanto in questo momento che
sono le nove, e che la mia collega doveva essere qui un'ora fa.
«Mi
ha telefonato alle sette e mezza dicendomi che la bambina è
raffreddata e che doveva stare a casa per badare a lei» risponde, un
po' scocciato. Carlotta è una ragazza madre, quindi deve affrontare
un buon numero di difficoltà, ma siamo entrambi concordi nel pensare
che spesso e volentieri approfitta del buon cuore delle persone per
fare i propri comodi e faticare il meno possibile. «Comunque non ti
preoccupare, non c'è il caso che tu faccia gli straordinari. Mi
posso fermare io fino alla chiusura.»
Mentre esce, chiudendosi
alle spalle la porta cigolante, io inizio con le mie solite routine:
andare in giro a controllare che i libri siano in ordine, che non ci
siano buchi tra le file di volumi allineati sugli scaffali, che
l'ambiente sia pulito e accogliente. Marco mi ha assunta cinque anni
fa, poco dopo il mio diciottesimo compleanno, dapprima part-time e in
seguito a tempo pieno, e da allora non sono mai riuscita ad
immaginare di lavorare in un luogo diverso. Adoro i libri, la
letteratura ha sempre fatto parte della mia vita, e mi ritengo
estremamente fortunata per il fatto di aver trovato un lavoro che mi
permette di unire l'utile al dilettevole. Per non parlare di Marco,
che è davvero un capo straordinario: nonostante abbia ormai compiuto
quarant'anni, è un uomo moderno e attento alle nuove tendenze, uno
che conosce i gusti e le idee dei giovani e che sa parlare con gli
adolescenti senza sembrare un vecchio marmittone. È un bel tipo,
insomma, anche se la maggior parte delle clienti donne sceglie il suo
negozio principalmente a causa del suo aspetto a dir poco incredibile
– un po' com'è successo a Jared e Shannon, per lui il tempo sembra
essersi fermato nei dintorni dei trent'anni, rendendolo decisamente
appetibile agli occhi di un buon numero di acquirenti.
Sono
le nove e mezza quando la porta si apre, rivelando la figura
decisamente irritata di Alice. «Belle amiche che siamo!» esordisce,
senza preoccuparsi di regolare il tono della voce. Per fortuna il
negozio è vuoto. «Mi scrivi alle undici e mezza di sera per dirmi
che hai passato il pomeriggio con Shannon Leto e che sei appena stata
al telefono con lui per un'ora e poi mi lasci lì appesa senza
dettagli? Ti odio, dovrei andarmene e cancellarti dalla mia vita.»
Sto per rispondere, ma aggiunge: «Però poi non avrei più occasione
di sapere com'è andata, quindi parla. Posso farti uscire dalla mia
vita anche più tardi.» Si accomoda su una delle poltroncine messe a
disposizione dei clienti e ascolta con attenzione il mio resoconto,
mentre io vado in giro rifornendo alcuni scaffali. Quando termino il
racconto mi squadra con attenzione, stringendo gli occhi fino a
ridurli a due fessure, e con voce bassa sussurra: «Mi stai dicendo
che per un intero minuto sei stata sdraiata sotto
Shannon Leto?»
«Sinceramente
speravo che fosse stato qualche altro dettaglio a colpirti, ad
esempio che...»
«Oh,
taci» mi zittisce. «Ho sentito tutto, non mi sono persa nemmeno un
dettaglio. È solo che fa un certo effetto immaginare uno come lui...
sai, no? E se fa effetto da vestito, immaginatelo un po' nudo!»
«Non
è qualcosa a cui ho voglia di pensare in questo momento.»
«Beh,
ma ci dovrai pensare prima o poi. O pensi di trascorrere il fine
settimana giocando a briscola?» mi domanda con un sorrisino di cui
ben conosco il significato. «Al massimo, potreste fare una partita
di strip-briscola.»
«Non
ho intenzione di sfilarmi le mutande questo fine settimana. E se
quello è il suo unico scopo, allora può anche rimanersene a
Colonia.»
«Daria...»
sussurra Alice, costringendomi a voltarmi verso di lei. «So che
probabilmente non vorrai sentirtelo dire, ma non credo venga qui solo
per sfilarti le mutande. Perché spendere una fortuna per venire da
te quando potrebbe strappare le mutande a mezza Colonia senza
spendere un centesimo?» In effetti, il ragionamento fila – o
meglio, filerebbe se io fossi una ragazza sicura di sé e se fossi
seriamente convinta dei sentimenti di Shannon nei miei confronti.
«Nel dubbio, comunque, io farei una bella ceretta. Non si sa mai.»
«Alice,
non ho intenzione di andare a letto con lui questo fine settimana.
Anzi, non ho intenzione di andare a letto con nessuno
questo fine settimana.»
«Daria,
da quant'è che non ti vedi con un ragazzo? Due anni, più o meno?»
«Sono
uscita con dei ragazzi
dopo Andrea.»
«Sei
uscita due volte con quell'amico di mio fratello e una volta con
mio fratello, non lo chiamerei
uscire con dei
ragazzi» mi corregge. «E comunque non parlavo di uscire e basta,
parlavo di... hai capito, no? Io dico che due anni di astinenza sono
un po' troppi, anche se seguono una rottura abbastanza dolorosa.
Insomma, so che hai sofferto un sacco quando è finita con Andrea,
anche se io ti avevo avvisata che
era un idiota, ma... andiamo, è ora di ricominciare! E guarda il
lato positivo: hai la possibilità di ricominciare con uno che
definisce affascinante è
dir poco! Ti ricordo che c'è chi pagherebbe, per andare con uno come
lui.»
«Alice,
no. Non interromperò due anni di castità andando a letto con uno di
cui dicono che... insomma, con uno che soprannominano 'animale'.
Sarebbe già una cosa traumatica di per sé, immagina con uno con la
sua fama! E poi vuoi mettere l'imbarazzo? Conosco sì e no cinque
posizioni e ne so replicare a malapena tre, mentre lui probabilmente
conosce a memoria il libro del Kamasutra, e...»
«Noto
con piacere che non hai ancora smesso di farti seghe mentali!» mi
blocca lei in tono fintamente entusiasta. «Senti, non è che ti puoi
prendere una pausa e venire a prendere un caffè? Così studiamo un
piano d'attacco: devi comprarti qualcosa di carino, depilarti, e...»
«Oggi
Carlotta non viene al lavoro e Marco è andato dal commercialista.
Sono sola, non mi posso allontanare.»
«Proposta
bocciata, ho capito. Domanda: ma la tua collega ogni tanto si degna
di presentarsi in negozio, o è solo una muta voce sul libro paga?»
Alice non ha mai potuto soffrire Carlotta, e per quanto ne so il
sentimento è reciproco.
«Ha
una bambina piccola, è normale che se ne prenda cura quando sta
male» rispondo. Nonostante come Alice e Marco disprezzi il suo
comportamento, non posso fare a meno di difenderla quando qualcuno ne
parla male: credo sia un'assurda reazione del mio cervello, come
l'inconscio desiderio di essere a mia volta difesa se mai mi
capitasse di trovarmi in una simile situazione.
«Balle»
ribatte Alice senza mezzi termini. «Tuo padre è un genitore single
e ne ha tirati su tre, non mi sembra abbia fatto un lavoro così
pessimo. E non cercare di vendermi la balla che tuo padre ha avuto il
supporto dei tuoi zii e dei tuoi nonni, perché non me la bevo. Ce li
aveva anche lei dei genitori in grado di aiutarla, solo che ha
mandato tutto a quel paese per...»
«Alice,
per favore, la smettiamo di parlare di Carlotta? La settimana per me
è iniziata piuttosto bene, non mi va di rovinarmela il primo giorno
di lavoro.»
«Ok,
cambiamo discorso. Dicevi che Shannon ha mostrato la tua foto a suo
fratello e che lui ti ha trovata carina?»
«Possiamo
portare il discorso su qualcosa che non riguardi me o Shannon?»
«Assolutamente
no, è la notizia del secolo. Quando mai ad una delle mie migliori
amiche capiterà di stregare un batterista di fama mondiale?» Alzo
gli occhi al cielo e faccio per allontanarmi, ma all'improvviso Alice
mi trattiene per un braccio, fissando un punto sulla mia maglietta.
«Daria, dov'è la tua collana?»
«Quale
collana?»
«Come
sarebbe a dire 'quale collana'? Quella con il bullone, quella che non
ti togli da più di dieci anni. Non dirmi che l'hai persa!»
«Oh,
quella. No, non l'ho persa. L'ho data a Shannon» spiego,
ricordandomi di non averle raccontato dello scambio fatto poco prima
della partenza del treno.
«Come
sarebbe a dire che l'hai data a Shannon?»
«Poco
prima che il treno partisse lui mi ha dato il suo libro e mi ha
chiesto di tenerlo fino alla prossima volta che ci vedremo. E
allora... non lo so, non so cosa mi sia scattato in testa... mi sono
sfilata la collana e gliel'ho messa al collo. Lui mi ha affidato una
cosa importante, e io ho affidato a lui una cosa altrettanto
importante.»
«Quindi
sei stata pronta a dargli una collana da cui non ti separi nemmeno
quando fai il bagno... e non saresti pronta a dargli altro?» mi
canzona lei. «Sei un essere troppo complicato da capire. Tra l'altro
non mi hai mai spiegato il perché di quel bullone. Insomma, ha un
significato o...»
«No,
nessun significato. Lo trovo solo bello da vedere.» In realtà un
significato c'è, ma in questo momento non ho voglia di spiegarlo.
Per fortuna a salvarmi da nuove domande arriva Marco, che apre la
porta appoggiandocisi con una spalla ed entra reggendo due
bicchieroni fumanti. «Andata bene dal commercialista?» gli domando
mentre richiude la porta.
«Sì,
tutto a posto... oh, Alice, ciao! Se avessi saputo che eri qui avrei
preso qualcosa anche per te.»
«Non
ti preoccupare, sono solo passata a fare un saluto. In realtà devo
andare a lezione, sono quasi in ritardo. Beh, buon lavoro e a presto.
Ah, Daria, allora ci vediamo oggi alle quattro, va bene?»
«Certo,
ti passo a prendere io» rispondo, confermando l'appuntamento che
avevamo stabilito già ieri sera via sms. Alice esce e Marco mi porge
uno dei bicchieri. «Cappuccino bollente con doppio caffè» sospiro,
scoperchiando la tazza e annusando il profumo della bevanda. «Non
dovresti viziarmi così, lo sai?»
«Non
sono vizi, ma premi. Ti ho mai detto che sei la migliore commessa che
abbia mai avuto?» L'entrata di un cliente mi impedisce di
rispondergli.
Esco dal lavoro alle
quattro del pomeriggio, e invece di andare dritta a casa faccio una
deviazione per passare davanti a Palazzo Nuovo, dove ho appuntamento
con Alice: finite le lezioni verrà a casa mia per aiutarmi ad
iniziare ad imballare le mie cose. L'aver deciso di passare il fine
settimana con Shannon sconvolge lievemente i miei piani: se prima non
avevo urgenza di sistemarmi nella nuova casa, ora so di dover per
forza sistemare tutto entro sabato, a meno di non volerlo far dormire
su una pila di scatoloni e valigie gonfie di roba. Mentre aspetto
Alice al fondo delle gradinate, non riesco a non guardarmi attorno
con un minimo di tristezza: quattro anni fa avrei potuto compiere una
scelta diversa e accettare l'aiuto di mio padre, iscrivermi
all'università e vivere un'esperienza che tutti descrivono come
indimenticabile... però poi ci penso in maniera razionale, e mi
viene in mente che, se non avessi cercato subito lavoro, non avrei
avuto soldi da sperperare in cose non necessarie come i concerti, e
dunque non avrei avuto l'occasione di incontrare Shannon – o forse
sarebbe comunque andata così, ma non ne sono sicura.
«Ehi,
eccoti!» mi saluta Alice dopo essersi separata da un gruppetto di
compagne di corso. «Senti, visto che sono una persona buona e
generosa e vengo ad aiutarti con il trasloco, vero che mi prepari la
tua leggendaria cioccolata calda?»
«Se
ti comporterai bene, può darsi.»
«Sai
cosa stavo pensando stamattina, dopo essere uscita dal negozio?»
«No,
e ad essere sincera ho paura di chiedertelo.»
«Pensavo»
riprende mentre scioglie sulle spalle i lunghi capelli biondi finora
racchiusi in un nodo stretto, «pensavo che se anche ti andasse male
con Shannon, potresti puntare su Marco.»
Mi
volto verso di lei strabuzzando gli occhi. «Alice, ma che cazzo
stai dicendo?» Non sono una che dice molte parolacce, ma... quando
ci vuole, ci vuole. «Marco è il mio capo, e potrebbe quasi essere
mio padre.»
«Oh,
perché Shannon invece veniva a scuola con noi» ribatte in tono
canzonatorio. Touchée.
In effetti, non era una buona obiezione. «Per carità, sono
assolutamente pro-Shannon» riprende, infilandosi le mani in tasca,
«ma se per qualche ragione dovesse andare male, io dico che Marco
potrebbe essere un possibile obiettivo.»
«E
sentiamo, su quali basi poggia la tua teoria?»
«Oh,
mi baso semplicemente sul fatto che ti mangia con gli occhi ogni
volta che ti vede. Esce per una commissione e torna con il cappuccino
bollente con doppio caffè che ti piace tanto. E ti copre di
complimenti. E non dimentichiamoci che per lui sei 'la migliore
commessa che abbia mai avuto'» conclude, tentando di scimmiottare il
modo in cui lo dice lui. «Non vorrei sbagliarmi, ma credo che ti
abbia immaginata senza vestiti più di una volta.»
«Alice, mi spieghi perché
con te ogni discorso deve finire sul piano del sesso? Marco è il mio
capo e mi stima dal punto di vista professionale, ma sono più che
sicura che non abbia intenzione di portarmi a letto.» In realtà, la
teoria di Alice non è del tutto campata per aria: nel corso di
questi cinque anni parecchie volte mi è venuto il dubbio che Marco
potesse essere interessato a me in un modo che esulava dalla sfera
professionale, ma mai... insomma, non lo avrei mai detto ad alta
voce. E invece Alice, come al solito, ha trovato il coraggio di dare
una forma ai miei pensieri – e un po' sto male al pensiero che
Marco potrebbe essere innamorato di me, mentre io sono totalmente,
follemente, completamente presa da una star.
«Ti
sei appena resa conto che ho ragione, vero?» mi sento dire. «Ti si
legge in faccia.»
«Io
ti odio, lo sai?»
«Ah,
sì? E sentiamo, perché mi odi?»
Mi
volto appena verso di lei, senza riuscire a trattenere un sorriso.
«Perché tu mi costringi a guardare in faccia la realtà.»
Appena arrivata a casa, mi
sono messa sotto a preparare la cioccolata calda: a me non sembra di
preparare qualcosa di incredibilmente ricercato, ma Alice dice sempre
che mi riesce in maniera speciale. Mentre lei cerca tazze e biscotti,
iniziamo a fare piani per organizzare il trasloco nel nuovo
appartamento. Poi, ricordandomi che a quest'ora mia nonna è in casa
da sola, spedisco Alice dall'altra parte del pianerottolo per
invitarla da noi. E così, alle quattro e mezza di un tiepido
pomeriggio di inizio novembre, me ne sto seduta attorno al tavolo
della cucina insieme a mia nonna e alla mia migliore amica, impegnata
a fare salotto come la comare più navigata del mondo.
Mia nonna ha sempre avuto
simpatia per Alice, sin dalla prima volta che è stata ospite a casa
nostra: l'ha sempre considerata come una nipote, al punto da
invitarla per ogni festa o ricorrenza possibile; viceversa, Alice
l'ha sempre adorata, anche perché lei ha perso entrambe le nonne
quand'era molto piccola. Inoltre, nonostante l'età – compirà
ottant'anni in aprile – mia nonna rappresenta una compagnia molto
piacevole, così come i miei fratelli e i miei cugini rappresentano
una compagnia divertente; nonna è una donna incline alla risata, una
donna moderna, una che si è saputa adattare ai cambiamenti del mondo
e che li sa accettare, nonostante sappia anche essere molto critica
nei confronti delle cose che non la aggradano. Sotto questo punto di
vista, anche lei è stata una buona guida negli anni più bui della
mia vita, anche se ci sono questioni – ad esempio quelle
riguardanti il sesso – di cui ho sempre discusso soltanto con zia
Beatrice.
Stiamo
ridendo per qualche cavolata, quando Alice se ne esce con un: «Che
ne pensi della differenza d'età in una coppia, Caterina?» L'impulso
di allungarle un calcio è forte, ma in qualche modo riesco a
dominare l'istinto omicida.
«Oh,
beh, di certo non la condanno. Mio marito era più vecchio di me di
dieci anni, e non ci sono mai stati problemi. Siamo stati felici,
abbiamo avuto una bella famiglia... certo, erano altri tempi, ma
credo che in fondo le cose non cambino mai davvero.» Alza gli occhi
e ci guarda entrambe con attenzione. «Immagino che il problema sia
tuo» aggiunge, rivolgendosi a me, «a meno che tra te e Federico non
sia finita» conclude, tornando a rivolgersi ad Alice.
«No,
tra me e Fede va tutto bene, ci siamo visti sabato al concerto»
risponde lei. «In effetti il problema è di Daria. Sempre che di
problema si voglia parlare.» Sento che il mio sguardo si sta
affilando: potrei ucciderla con il cucchiaino che tengo in mano.
«Scusa, Daria, ma con qualcuno ne devi parlare.»
«Cos'è
successo?» mi interroga mia nonna, rivolgendomi tutta la sua
attenzione.
«Niente,
nonna, non è successo niente. È Alice che si fa idee strane.»
«Beatrice
ieri sera mi ha detto che hai conosciuto un americano, ma avevo
capito che fosse uno studente, che avesse più o meno la tua età.»
Mi
copro gli occhi con una mano, chiedendomi dove andrà a finire questa
conversazione, mentre Alice si incarica di spiegare la situazione –
e, soprattutto, si assicura il riserbo di mia nonna. «Beh, la verità
è che Daria non ha incontrato uno studente. È una piccola bugia che
ha inventato per non incuriosire troppo Francesca. Solo che poi
Francesca ne ha parlato, e quindi è venuta fuori una storia...
Caterina, se noi ti diciamo la verità, puoi prometterci che non ne
farai parola con nessuno?»
«Se
non è successo niente di grave...»
«Ma
no, ma che doveva succedere? No, è solo che al concerto Daria non ha
conosciuto uno studente. Ha incontrato uno dei musicisti della band
che siamo andate a sentire.»
«Miseria
ladra!» esclama mia nonna, sorprendendoci entrambe. «Beh, capisco
che non sia una cosa che vai a strombazzare ai quattro venti... ma
dite un po', ce l'avete una foto da farmi vedere?» Alice mi rivolge
un'occhiata molto eloquente, e senza nemmeno sforzarmi di protestare
tiro fuori il cellulare, cercando lo scatto che Shannon mi ha spedito
ieri sera. «Insomma, potremmo dire che la mia nipotina ha
accalappiato un bel... cosa suona, scusate?»
«La
batteria» rispondo, sentendomi molto in imbarazzo. «Suona la
batteria.»
«Insomma,
mia nipote ha accalappiato un bel batterista.»
«Nonna,
non ho accalappiato nessuno.
Ci siamo incontrati e ci siamo messi a parlare, tutto qui.»
«Raccontala
a qualcuno che ci crede... ma qui siete in piazza San Carlo o
sbaglio? Non hai detto che l'hai incontrato sabato sera a Milano?»
«Lui
è venuto qui, ieri» risponde Alice con un sorriso enorme. «Sono
stati insieme tutto il pomeriggio. L'ha persino accompagnata a vedere
degli appartamenti.»
«Un
appartamento, in realtà, ma solo perché era un'occasione che non
potevo lasciarmi sfuggire.»
Mia nonna mi guarda
sorpresa. «Hai trovato un appartamento?»
Alzo gli occhi al cielo,
sospirando, preparandomi a raccontare di nuovo la storia dal
principio.
«Per
favore, mi spieghi di nuovo che bisogno c'era di raccontare a
mia nonna di Shannon?» chiedo
più tardi ad Alice, mentre mi aiuta a sigillare alcuni scatoloni
pieni di libri. «E per fortuna abbiamo lasciato perdere il discorso
dell'età! Come glielo spiegavo che potrebbe essere mio padre?»
«Tua
nonna è una persona intelligente e conosce bene il mondo» risponde
lei, schiacciando le alette della scatola per permettermi di fissare
bene lo scotch. «E, cosa più importante, non è una persona
abituata a giudicare le altre. Dice la sua, questo sì, ma non sputa
sentenze. È una differenza importante.»
«Continuo
a non capire lo scopo della rivelazione.»
«Beh,
lo scopo della rivelazione è che tua nonna è palesemente dalla tua
parte, in questo momento. Shannon le piace, lo reputa un bell'uomo, e
il fatto che sia un musicista non la disturba. Ha sentito il racconto
di come vi siete conosciuti e ha apprezzato molto la sua decisione di
stravolgere i propri impegni per venire qui a passare un pomeriggio
con te. In sostanza, le piace l'idea di te e Shannon insieme.»
«Sì,
e allora?» Non riesco a capire dove voglia arrivare, e ad essere
sincera non ho nemmeno voglia di lambiccarmi il cervello per arrivare
alla soluzione dell'enigma.
«E
allora sarà pronta a prendere
le tue difese quando sarai costretta a presentarlo in famiglia e tuo
padre ti dirà che non va bene per te. Se non sbaglio, tua nonna ha
ancora una certa influenza su tuo padre.»
«Beh,
sì, ma... ehi, frena un po'. Io non ho intenzione di presentare
nessuno a nessuno,
almeno per un bel po' di tempo. Tu voli troppo con la fantasia, a
volte.»
«E
tu invece non lo fai mai. Prova a lasciarti andare, ogni tanto. È
divertente.»
Evito il suo sguardo ed
evito di risponderle: la verità è che sono dovuta crescere in
fretta, forse troppo, e ho saltato a piè pari quella parte della
vita in cui si riesce a sognare l'impossibile.
1È
molto divertente fare l'impossibile.
| Il titolo del capitolo è
ispirato ad una frase pronunciata dal celebre Walt
Disney.
|
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Capitolo 9 *** 9 | Come in un sogno, ora vivo per te. ***
Portagioie di tristezza | 1
Iniziamo
il nuovo anno con un nuovo capitolo – e speriamo che sia di vostro
gusto! Colgo l'occasione per ribadire ancora una volta che non
conosco i 30 Seconds To Mars di persona, e che dunque tutto ciò che
scrivo su di loro è frutto della mia immaginazione.
Grazie
in anticipo a chi leggerà e lascerà un commento, e grazie a tutte
le persone che hanno aggiunto questa storia tra le preferite, le
ricordate e le seguite!
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo nono
Come in un sogno,
ora vivo per te.1
Torino,
09 novembre 2013
È sabato, tra cinque
minuti saranno le quattro del pomeriggio e mi trovo – tanto per
usare un eufemismo – nella merda più nera.
Ho trasferito la maggior
parte delle mie cose tra mercoledì e giovedì, ma non sono riuscita
a trovare il tempo di mettere a posto, perciò quello che dovrebbe
essere il mio nuovo appartamento al momento attuale somiglia ad una
discarica devastata dallo scoppio simultaneo di dieci bombe atomiche.
E io che volevo farne una bella casetta accogliente per fare bella
impressione su Shannon... a fatica sono riuscita a tenere il casino
lontano dal bagno e dalla stanza degli ospiti, così da potergli dare
almeno la possibilità di dormire e lavarsi in tranquillità.
Ho impostato la sveglia per
le sette ma ho dimenticato di azionarla, così quando mi sono
svegliata, alle dieci passate, ho scoperto che una buona metà della
mattinata era andata in fumo. Almeno sono riuscita a farmi una doccia
e a lavarmi i capelli, anche se l'agitazione mi sta facendo sudare
così tanto che quando lo incontrerò probabilmente puzzerò come una
capra.
Controllo il cellulare,
senza trovare alcuna chiamata: mercoledì e giovedì non ci siamo
sentiti per niente, ma ieri sera mi ha chiamata per confermare il suo
arrivo. Secondo i piani, dovrebbe farmi uno squillo appena atterrato
a Caselle, e io dovrei andare a prenderlo alla stazione di Porta
Nuova mezz'ora più tardi. Secondo i piani, sarebbe dovuto atterrare
alle due e mezza. Dieci o venti minuti di ritardo sarebbero stati
ammissibili, ma un'ora mi sembra francamente eccessiva. Continuo a
lavorare febbrilmente per riuscire a sistemare il più possibile la
casa, ma mi è impossibile distogliere la mente dal pensiero che
potrebbe aver cambiato idea – potrebbe essersi reso conto che
passare tre giorni in mia compagnia non sarebbe questo gran
divertimento; potrebbe aver capito che non sono così interessante
come sembro; potrebbe aver pensato...
Il campanello suona
all'improvviso, e il flusso dei miei pensieri si interrompe
bruscamente. Non è il citofono del portone, ma il campanello di
casa, quello che è possibile suonare soltanto stando in piedi sullo
zerbino. Non mi viene neanche in mente che potrebbe essere la signora
Lorenzoli venuta ad invitarmi a prendere un caffè a casa sua. Dentro
di me, nel profondo del cuore, nella parte di me che ha sempre voluto
sognare l'impossibile, io so che è stato Shannon a suonare.
Corro nell'ingresso a piedi scalzi e apro la porta senza nemmeno
controllare lo spioncino, senza pensare che potrebbe essere un ladro,
e negli occhi che si posano su di me leggo soltanto una cosa: una
profonda, stupenda, inimitabile felicità.
Poi accade tutto
rapidamente: il suo borsone cade a terra con un tonfo sordo, la
distanza tra noi si annulla in due sole falcate, le sue braccia mi
stringono con una forza che non credevo possibile, e la sua bocca
finisce decisa contro la mia, quasi prepotente, baciandomi come se le
mie labbra fossero una fonte inesauribile di ossigeno. Per non
perdere l'equilibrio indietreggio lentamente, fino a trovarmi
appoggiata alla parete, splendidamente sovrastata dall'uomo di cui
sono innamorata.
«Scusa per l'impeto»
sussurra dopo quasi due minuti, scostandosi dalla mia bocca quel poco
che basta per articolare correttamente i suoni. «Questi cinque
giorni senza di te sono stati... vuoti. Mi sei mancata così
tanto che parecchie volte ho avuto l'impulso di mettermi a baciare la
tua fotografia.»
«Anche tu mi sei mancato»
sussurro a mia volta, incapace di credere che tra le mie braccia ci
sia veramente Shannon Leto. «Ma come diavolo sei arrivato
qui? Non dovevo venirti a prendere in stazione?» aggiungo subito
dopo, facendomi ritornare in mente i nostri piani.
«Volevo farti una
sorpresa, perciò ho preso un taxi» risponde, senza smettere di
stringermi contro di sé. «Di solito alle ragazze questo genere di
cose piace, no?»
«Dicono così. È solo
che... guardami, sono un disastro completo!» esclamo, scostandolo da
me. «Sono tre giorni che provo a mettere a posto, ma è... è un
disastro, sembra che in salotto sia esplosa una bomba. Volevo che
fosse tutto perfetto, volevo... volevo prepararti una bella
accoglienza.»
«Non essere sciocca,
Daria. Non avresti potuto accogliermi in maniera migliore.» Nel
dirlo, mi sfiora la punta del naso con il dito indice, e non riesco a
fare a meno di sorridere: adoro quel gesto, in un certo senso
mi fa sentire di nuovo bambina, ed è quasi più intimo di ognuno dei
baci che ci siamo scambiati. «Dai, adesso fammi entrare e dare
un'occhiata a questo scenario di guerra» aggiunge, chinandosi per
riprendere il borsone. Lo prendo per mano e lo guido attraverso
l'ingresso buio fin sulla soglia del soggiorno, dove mi fermo. «Wow»
esclama nel vedere montagne di scatoloni, libri accatastati sulle
sedie, vestiti drappeggiati sul divano e scarpe sparse ovunque.
«Questo sì che è uno scenario apocalittico.»
«Pensavo di riuscire a
completare il trasloco in settimana, ma non ho calcolato bene i
tempi. Ho dovuto lavorare più del previsto per coprire i turni della
mia collega, e quando tornavo la sera ero troppo stanca per
rimboccarmi le maniche sul serio. Per oggi avevo preso un giorno di
ferie, ma ho dimenticato di mettere la sveglia, quindi...» Mi gratto
velocemente la nuca, cercando di pensare in fretta al da farsi.
«Adesso vado a cambiarmi, così possiamo uscire subito.» Muovo due
passi in avanti, ma la mano di Shannon, ancora stretta alla mia, mi
trattiene.
«Sai, in realtà non ho
voglia di uscire» dice, sorprendendomi non poco. «Insomma, sarò
qui ancora domani e dopodomani, ne avremo di tempo per fare delle
cose... potremmo stare qui, ti potrei dare una mano a sistemare la
casa. Con tutte le volte che ho traslocato, credimi se ti dico che
sono un esperto. E poi ho visto che devi ancora mettere le tende»
aggiunge, indicando il groviglio di stoffa appallottolato sul
tavolino del soggiorno, «e lo sanno anche i bambini che appendere le
tende è un lavoro da uomini.»
*
Colonia, 09 novembre 2013
In piedi davanti al
microfono, con la chitarra appesa alla spalla e le dita che
formicolano per la voglia di suonare, Jared non riesce a non pensare
al fratello, lontano migliaia di chilometri; sono quasi le cinque del
pomeriggio, ormai dev'essere arrivato, e lui non riesce a fare a meno
di chiedersi che faccia abbia fatto Daria vedendoselo comparire
davanti alla porta di casa senza preavviso – conoscendolo, non lo
avrebbe mai detto capace di gesti così romantici. Tanto per fare
qualcosa, inizia a mettere insieme qualche accordo, e prima di
accorgersene sta suonando Bright lights. Decide di non
cantare, ma le parole gli tornano comunque in mente – lei sogna
l'amore, lui vive per correre. Si chiede se Daria avesse messo in
conto di innamorarsi, a questo punto della vita – perché Shannon
non ci pensava proprio, prima di incontrare lei. Continua a suonare,
e più va avanti più le parole acquistano un senso – un nuovo
giorno, un nuovo amore, una nuova droga, un nuovo me, una nuova te...
probabilmente era tempo che qualcosa cambiasse.
«Jared, mi spieghi cos'è
questa storia di Shannon che prende e se ne va senza dire niente a
nessuno?» Emma è appena entrata in sala prove senza bussare,
guardandolo dritto in faccia con un'espressione che definire furente
è dir poco. «Allora, cos'è questa storia di Shannon che
scompare all'improvviso?»
«Non è scomparso, è solo
andato via per il fine settimana» risponde il cantante, mantenendo
la calma. «Ci raggiunge lunedì notte a Francoforte.»
«Andato via per... e dov'è
andato?»
«Torino» risponde Tomo,
che seduto in un angolo sta sostituendo una corda alla sua chitarra.
«A Milano ha conosciuto una ragazza di Torino, e ha deciso di
passare il fine settimana con lei.»
«In realtà l'idea è
stata mia» puntualizza Jared. «Lui non era convinto, pensava
che ti saresti arrabbiata e che avresti fatto di tutto per
trattenerlo qui, ma... quella ragazza è troppo importante per lui.
Gli piace molto.»
«Tante ragazze gli
piacciono molto la sera... ma quando sorge il sole di solito
cambia idea.»
«Non stavolta» ribatte
Tomo, controllando che la corda sia ben tesa. «Non vorrei portare
sfortuna, ma c'è una buona possibilità che con questa le cose si
facciano serie.»
«Va bene, non voglio
sapere altro» si arrende Emma, alzando le mani per chiudere la
questione. «Basta che sia qui entro martedì mattina, e che sia in
grado di suonare.»
Jared segue la ritirata di
Emma con un sorriso: lo Shannon che conosceva in tre giorni avrebbe
saputo rivoltare una donna come un calzino, ma la sensazione che con
Daria le cose cambieranno è molto forte. Smette di suonare e si
volta verso Tomo. «Scommettiamo venti dollari che il mio fratellone
torna a casa a bocca asciutta?»
*
Torino, 09 novembre 2013
Con le tende appese, la
casa fa tutta un'altra impressione. Sono i colori caldi a dominare
l'ambiente – giallo, arancione, rosso – e il risultato è che,
anche con tutti gli scatoloni ammucchiati in giro, la stanza sembra
perfetta. Mentre io mi occupavo dei tendaggi, Daria ha iniziato a
sistemare i vestiti nella cabina armadio, contribuendo a salvare il
divano dal soffocamento. Salgo da lei con la scusa di spostare uno
scatolone pieno di libri. Appoggio il peso sulla scrivania, senza
fare rumore, e resto fermo a guardarla. Lei è di spalle, sta
canticchiando un motivetto che non conosco; non mi ha sentito
arrivare, e continua nel suo lavoro.
Non ho mai capito molto di
arte, ma ricordo che su un mio vecchio libro di scuola c'era la
riproduzione di un quadro di Botticelli, quello che rappresenta la
nascita di Venere. In realtà a scuola ci andavo poco, e di certo non
si può dire che fossi uno studente brillante, ma ricordo che quel
dipinto mi ha affascinato dal primo istante – e forse è proprio a
causa di quel dipinto che ho sempre avuto un debole per le bionde e
per le ragazze molto formose. Ricordo che in un primo momento era il
fatto che Venere fosse completamente nuda ad attirarmi, salvo poi
accorgermi, crescendo, che in quella figura si celava molto più di
un semplice oggetto sessuale. Riguardandolo dopo molto tempo, mi sono
accorto che non era soltanto la sua nudità a sconvolgermi, ma
soprattutto i suoi occhi – riuscivo a sentire il suo sguardo su di
me, come se mi stesse osservando, come se stesse leggendo in me cose
che io stesso non riuscivo a sentire.
Daria mi fa sentire allo
stesso modo: quando mi guarda, sento uno strano nodo all'altezza
dello stomaco. Mi sento come se riuscisse a vedere in me qualcosa che
va oltre la mia fama, oltre i soldi, oltre le stranezze della vita
che conduco. Deve per forza vedere qualcos'altro in me, oppure
non avrebbe accettato di vedermi ancora – e sicuramente non mi
avrebbe mai invitato a dormire a casa sua. Sembra un'assurdità
romantica ed è certamente una cosa che non ho mai fatto, ma se
dovessi paragonare Daria ad un quadro, la paragonerei alla Venere del
Botticelli: bellissima, magnetica, un po' misteriosa, a volte
difficile da interpretare.
«Ehi, che fai?» mi sento
chiedere all'improvviso.
«Ti guardo» rispondo
semplicemente.
«E... perché?»
«Perché non ti ho vista
per cinque giorni. Ho bisogno di recuperare.»
Sorride, senza dire nulla,
e si volta di nuovo verso l'armadio per mettere a posto gli ultimi
capi. Vorrei essere capace di starmene lì a fissarla immobile e in
silenzio, ma non ci riesco: mi sento un po' un maniaco, ma ogni
dettaglio di lei mi eccita da morire – il modo in cui le punte dei
piedi si flettono per permetterle di guadagnare qualche centimetro in
altezza, i riflessi naturali dei suoi capelli, la maglia sformata che
cela la pienezza dei suoi seni, i fianchi morbidi e la curva del
fondoschiena, accentuata dai leggings neri che indossa. Vorrei solo
prenderla tra le mie braccia, farla stendere su questo letto e fare
l'amore con lei fino alla fine dei nostri giorni.
Un attimo prima sto
sistemando una camicia nell'armadio, e un attimo dopo davanti a me
c'è Shannon, che mi bacia come se non lo facesse da anni. Le sue
mani mi afferrano all'altezza della vita, e subito dopo iniziano a
correre verso l'alto, infilandosi sotto la maglietta, arrivando a
sfiorare la chiusura del reggiseno. Tento di dire qualcosa, di
chiedergli che cosa diavolo stia facendo, ma il solo risultato che
ottengo è di offrirgli l'occasione di far scivolare la sua lingua
dentro la mia bocca, permettendogli di giocare con la mia,
consentendogli di approfondire il bacio. È un attimo, e le sue mani
scendono sul mio sedere, stringendomi con forza le natiche.
All'improvviso, senza sapere bene come ci sono arrivata, mi ritrovo
seduta sull'angolo della scrivania, con le labbra di Shannon
appiccicate al collo e le mani di nuovo sotto la maglietta, impegnate
a risalire verso il seno. Quando riesco a rendermi conto di quello
che sta succedendo, gli punto le mani sulle spalle e lo spingo via.
«Che diavolo stai
facendo?» gli domando con il fiatone. «Sei venuto qui soltanto
per...» Mi blocco subito, temendo che la risposta al mio dubbio sia
affermativa: è possibile che Shannon sia venuto fin qui soltanto per
strapparmi via le mutande? Alice direbbe di no, ma io non sono lei.
«Se sei venuto qui sperando in una tre giorni di sesso mi dispiace,
ma hai sbagliato persona» riprendo subito dopo, ostentando una
risolutezza che non sento affatto mia. «Non sono quel tipo di
ragazza.» Scendo dalla scrivania e mi allontano in fretta, prima che
possa avere il tempo di trattenermi. Raggiungo il piano di sotto e mi
chiudo in bagno, lasciandomi solo silenzio dietro le spalle. Appoggio
la schiena alla parete e mi lascio scivolare a terra, sciogliendomi
in un pianto disperato. Dovevo immaginarlo, è solo questo che voleva
da me – che cos'altro potrebbe volere un uomo come lui, uno che può
avere tutto quello che vuole? Voleva soltanto divertirsi, voleva
soltanto provare qualcosa di nuovo. Mi sento come un nuovo gusto di
gelato, un nuovo piatto appena comparso sul menù.
Eppure mi piaceva la
sensazione delle sue dita che accarezzavano la mia pelle, le sue mani
strette alla mia vita, le sue labbra premute sulle mie e poi sul mio
collo... Dio, l'idea di trascinarlo sul letto e di abusare di lui in
ogni modo conosciuto mi ha perseguitato per anni, diventando una vera
e propria fantasia, ma la prospettiva di poterlo fare davvero mi
spaventa da morire. Con Andrea era tutto più facile – era così
meccanico, con lui: baciarsi, toccarsi un po', spogliarsi,
stendersi, aprire le gambe e lasciare che si sfogasse... Alice non
vuole crederci, ma sono davvero un'imbranata da quel punto di vista!
Era lui a fare tutto, io la maggior parte delle volte non avevo idea
di che cosa stesse succedendo. Non posso andare a letto con Shannon
Leto. Non posso andare a letto con uno che probabilmente a colazione
mangia pane e Kamasutra. Non posso e basta: riderebbe della mia
inettitudine per secoli.
Rimango fermo davanti alla
porta chiusa del bagno per cinque minuti, in completo silenzio:
probabilmente sta provando a trattenersi in ogni modo, ma sento
chiaramente Daria piangere, e sapere che è solo colpa mia mi
distrugge, mi fa sentire l'uomo peggiore del mondo. Mi sono
comportato da idiota, questo è chiaro: mi sono comportato proprio
nel modo in cui non volevo comportarmi. Ho lasciato che fosse
il corpo a parlare, ho lasciato che fosse l'istinto a guidarmi, e
come prevedevo è finita di merda.
Passati cinque minuti,
raccolgo la forza per bussare alla porta. «Daria, io... mi dispiace,
sono stato uno stronzo. Forse... forse è meglio che me ne vada. Non
avrei... ti chiedo scusa.» Forse è da vigliacchi, forse dovrei
buttare giù la porta a calci e buttarmi in ginocchio e implorare
il suo perdono, ma in qualche modo sento che non è la mossa giusta.
C'è una sola cosa intelligente che posso fare, ed è allontanarmi da
lei prima di ferirla in maniera irrimediabile. Non so nulla di
corteggiamento, non so come ci si deve comportare in certi casi...
sono un imbranato, un maledetto imbranato. Mi sfilo dal collo la
collana di Daria, quella che mi affidato lunedì, ed esitando appena
la appendo alla maniglia della porta. Indosso il giubbotto, prendo il
borsone ed esco, esitando di nuovo prima di chiudermi la porta alle
spalle.
Sono arrivato sul
pianerottolo sottostante quando un portone si apre all'improvviso, e
una voce che conosco bene esclama: «No, non te ne andare! Non te ne
puoi andare così!» Mi volto di scatto, sorpreso, e non riesco ad
impedirmi di sorridere: mi sono comportato da stronzo maniaco, perché
ho dato di me un'impressione completamente sbagliata, ma nonostante
tutto lei non vuole che me ne vada – non così.
*
Colonia, 09 novembre 2013
«Quindi tu pensi che ci
abbia già provato?»
«Tomo» risponde Jared,
guardandolo in un modo che trasuda ovvietà da ogni poro,
«sappiamo entrambi che mio fratello non è un Romeo sdolcinato e
coccoloso. Non credo sia riuscito a resistere un'ora senza tentare un
approccio. Già mi stupisco che non ci abbia provato lunedì. Mi
chiedo perché non ci abbia provato già sabato!»
«Forse perché in entrambe
le situazioni erano in pubblico?»
«Quando mai Shannon si è
fatto scrupoli?»
«Ti rendi conto che lo
stai dipingendo come un vero e proprio maniaco sessuale?»
Jared ci pensa su per
qualche istante, mordicchiandosi con impegno un labbro. «Sì. Sì,
credo di rendermene conto. Dici che esagero?»
Tomo non risponde, ma si
limita ad alzare un sopracciglio. È il più giovane del gruppo, ma a
volte si chiede se non sia proprio lui quello più maturo.
*
Torino, 09 novembre 2013
«Scusa, mi sono comportato
da stronzo, e lo capisco se non vuoi più vedermi.»
«Scusa, mi sono comportata
da bambina, e ti capisco se vuoi andartene.»
Le nostre scuse si sono
incontrate a metà delle scale e si sono inevitabilmente sovrapposte,
confondendosi e diventando un groviglio di parole inutili. La verità
è che quello che è successo ha perso importanza, di fronte a quello
che sta succedendo ora: siamo l'uno di fronte all'altra, ci stiamo
guardando negli occhi, ed entrambi sappiamo di non poter rinunciare a
quello che abbiamo appena rischiato di perdere.
*
Colonia, 09 novembre 2013
«Io credo che le cose tra
loro vadano oltre una mera questione sessuale» sentenzia Tomo,
strimpellando un paio di accordi. «Insomma, so che Shannon non è
abituato a approcciare le donne da un punto di vista non sessuale, ma
io credo... credo che ci possa riuscire. Se questa ragazza conta per
lui quanto dice...»
«Non l'ho mai visto così»
lo interrompe Jared, sovrappensiero. «Quando vede una ragazza che
gli piace lo sguardo gli si illumina, e in un certo senso è successo
anche con lei – sai, quando ci ha mostrato la sua foto –, ma in
questo caso... no, in questo caso era diverso. Era più... era come
se gli si fosse accesa dentro una luce, non so se mi spiego. Era come
se... come se stesse guardando l'ottava meraviglia del mondo, o giù
di lì. Aveva... aveva la stessa espressione che hai tu quando guardi
Vicki.» Jared si interrompe e si volta verso Tomo, guardandolo con
serietà. «Sembri un po' un pesce lesso, quando guardi Vicki.»
«La guardo come la guardo
perché sono innamorato perso di lei e perché so che è la donna
della mia vita. Quindi se Shannon guarda così Daria, forse è
perché...»
«...perché è la donna
della sua vita?»
«Potrebbe darsi.»
Jared annuisce in silenzio,
alzandosi dallo sgabello su cui si è seduto pochi minuti prima. «E
tu... tu credi che lui possa essere l'uomo della sua vita?»
Tomo si limita a fare
spallucce, come un bambino interpellato su una questione di cui non
sa nulla.
*
Torino, 09 novembre 2013
«Per me il sesso è una
questione piuttosto delicata» mi spiega Daria mentre mescola con
energia un pentolino pieno di cioccolata calda. «Non sono il tipo di
ragazza che fa sesso al primo appuntamento, ecco. Mi ci vuole un po'
di tempo per... conoscere la persona con cui voglio farlo.
Devo... ci sono cose che devo sapere, cose che devo capire. Per me
non è solo una questione fisica. Per me... per me conta anche la
testa, e molto.» Si volta a guardarmi, cercando le parole giuste per
continuare. «Non è che non sia attratta da te» sussurra, tornando
a darmi le spalle. «Io sono attratta da te, però...»
«...però non mi conosci»
concludo io, agitandomi un po' sullo sgabello. «Capisco il tuo punto
di vista. In effetti, è così che le cose dovrebbero funzionare. O
almeno credo. Io non ho mai fatto distinzione tra sesso e...
amore. Ho sempre creduto che le due cose andassero di pari
passo, o meglio... forse non ho mai creduto nell'amore.»
«Come si fa a non credere
nell'amore? È una delle poche cose belle della vita.»
«Se lo hai conosciuto,
forse. Nella mia vita non c'è mai stato amore, a parte quello di mia
madre e di mio fratello.»
«Mi stai dicendo che
nessuna donna ti ha mai rubato il cuore? Mai, nemmeno quando eri
ragazzo?» Daria ha spento il fornello e sta continuando a mescolare,
ma il suo sguardo è fisso su di me.
«A parte te, nessuna.»
«Ah, non ti credo. Dietro
un uomo che non crede all'amore c'è sempre una donna che gli ha
spezzato il cuore. Guarda in quella scatola, per favore, dovrebbero
esserci delle tazze» aggiunge, indicandomi lo scatolone appoggiato
sul ripiano lucido.
Pulisco le tazze con uno
strofinaccio e le poggio sul bancone, mentre lei si prepara a versare
la bevanda calda. Il profumo del cioccolato che riempie la cucina mi
fa sentire strano, come se dopo tanto tempo mi trovassi in un luogo a
me familiare – mi sento come quando torno a casa, dopo un lungo
periodo in giro per il mondo, e ritrovo tutto quello che mi è caro
lì ad aspettarmi... solo che, in questo caso, ciò che mi è caro è
anche bellissimo, e dolce, e intraprendente, e sorride in un modo che
sa farmi sciogliere.
«Christine» sussurra poco
dopo essersi riseduto, la tazza fumante stretta tra le mani – che,
lo giuro, sono enormi. «Se proprio ti interessa saperlo, il
suo nome è Christine.»
«Non è la tua batteria?»
«Sì, beh... ti sei mai
chiesta perché si chiami Christine e non in qualche altro modo?»
«Beh, sì... credo che
ogni Echelon si chieda perché la tua batteria si chiami Christine. È
solo che... beh, è solo che credo che ogni Echelon abbia pensato,
almeno una volta, che c'entrasse con una donna che ti aveva spezzato
il cuore. È così, vero?» aggiungo dopo un istante.
«Christine Sandoval»
risponde dopo un attimo di incertezza, senza avere il coraggio di
alzare gli occhi su di me. «Frequentava la nostra scuola, era in
classe con Jared. Mi ci sono voluti due anni per farmi notare.»
«Due anni? Allora non sei
così affascinante come credi di essere.»
Lo vedo sorridere, seppur
brevemente. «Non era una questione di fascino. All'epoca ero
considerato un 'cattivo ragazzo'» spiega, mimando con le dita un
paio di virgolette. «A scuola ci andavo poco, non ero esattamente
uno dei migliori della classe. E poi ho anche avuto qualche guaio con
la legge. Cose di poco conto, ma... abbastanza grandi da negarmi
l'ammirazione di Christine.»
«Quindi Christine è... è
l'amore che non hai mai vissuto?»
Alza lo sguardo su di me,
sorridendo di nuovo. «Oh, no, l'ho vissuto eccome. L'ultimo anno
Jared mise una buona parola per me. O forse un migliaio di
buone parole. Christine accettò di venire al ballo di fine anno con
me, e dopo il ballo noi... insomma, mi saltò addosso senza ritegno,
e così venne fuori che le ero sempre piaciuto, ma che non aveva
avuto il coraggio di dirmelo per paura di essere rifiutata.»
«E come finì?»
«Finì che io mi diplomai
e cercai un lavoro, e così le nostre strade si separarono. Tre mesi
di completa, appagante felicità, e poi finì tutto. Fu lei a
lasciarmi, per la cronaca. Disse che non era sicura di noi, e che
voleva chiuderla prima che uno dei due finisse con il ferire
l'altro.» Lo guardo abbassare gli occhi. «Il problema è che lei è
stata importante, per me. Lei è stata la prima con cui abbia... è
stata la mia prima ragazza.»
«Ah. Beh, capisco la
decisione di... celebrarla battezzando la tua batteria con il
suo nome. Insomma, è stata... importante.» Non so perché,
ma l'idea che a distanza di vent'anni una ragazza possa ancora essere
così importante per lui mi... mi... mi irrita, ecco. Avrei
preferito non saperlo, avrei preferito non sapere chi fosse
Christine, e soprattutto non avrei mai voluto sapere che è stata lei
la prima ad averlo, perché... perché sono gelosa, ecco. Sono gelosa
di una donna che non ho mai visto, ma che so per certo essere stata
la prima donna di Shannon. Mi alzo con la scusa di prendere un
cucchiaino nel cassetto, così da avere l'opportunità di dargli le
spalle. Ho di nuovo voglia di piangere.
Qualcosa mi dice che non
avrei dovuto parlare a Daria di Christine – e soprattutto, non
avrei dovuto dirle che è stata Christine a prendersi la mia prima
volta. Doveva restare un dettaglio privato, un bel ricordo, e invece
come al solito ho parlato troppo, e ora probabilmente Daria si sta
chiedendo se riuscirà mai ad essere importante quanto lei. Mi alzo e
la raggiungo, e dopo una breve esitazione le appoggio le mani sulle
spalle, accarezzandola dolcemente. «A che stai pensando?»
«Niente, pensavo soltanto
che... beh, un sacco di Echelon vorrebbero conoscere questa storia.»
«Forse loro sì, ma credo
che a te non avrei dovuto raccontarla.»
«No, perché dici così?
Sono felice che tu abbia... diviso un'informazione così
privata con me.»
«Non avrei dovuto dirtelo»
ripeto, abbassando la testa fino ad appoggiare la fronte contro i
suoi capelli. «Tu sei gelosa di Christine» sussurro contro
la sua nuca.
«Non è vero!» protesta
lei, cercando di divincolarsi. «Che idiozia, perché mai dovrei
essere gelosa di una donna che non ho mai visto? E poi si può essere
gelosi di una persona con cui si ha una relazione, e noi non... non
abbiamo una relazione.»
«Daria, si può essere
gelosi di una persona anche senza avere una relazione.» La convinco
a voltarsi verso di me e guardo a lungo nei suoi grandi occhi
azzurri. «Io sono geloso di tutti i tuoi ex, anche se non li ho mai
conosciuti, quindi perché tu non dovresti essere gelosa di
Christine?»
«Beh, ma per quanto
riguarda me non c'è molto da essere gelosi... insomma, sono stata
soltanto con Andrea – il ragazzo con lo zainetto rosso, non so se
te lo ricordi...»
«Me lo ricordo, e sono
geloso di lui. Di lui e di tutti quelli che hanno avuto l'occasione
di toccarti. Sono geloso, li odio da morire.»
Daria abbassa lo sguardo,
come imbarazzata, e a voce bassissima rivela: «C'è stato solo lui.»
«Come?»
«C'è stato solo lui»
ripete, alzando appena il tono di voce. «C'è stato solo Andrea. Non
sono mai stata con altri. È stato il mio unico ragazzo. L'unico
che... beh, l'unico che mi abbia mai toccata.»
Ecco, la frittata è fatta:
ho appena rivelato a Shannon di aver perso la verginità alla
veneranda età di ventun anni, e di non aver battuto chiodo negli
ultimi ventiquattro mesi. Se volevo fargli pena, credo che la
missione sia compiuta. «Mi stai dicendo che... insomma, c'è stato
solo lui?»
«C'è stato solo lui»
confermo. «Credo... credo sia anche per questo che non voglio venire
a letto con te. Io... io non ne so assolutamente nulla, sono una
totale imbranata!» A questo punto, Shannon fa una cosa che mi
sorprende: scoppia a ridere, senza preoccuparsi di trattenersi – e
se non stesse ridendo di me, potrei anche bearmi della sua ilarità.
«Che c'è da ridere?»
«Niente, è che... mi fa
ridere il modo in cui l'hai detto. Scommetto che non sei
un'imbranata» aggiunge, tornando serio. «Scommetto che non sei
affatto un'imbranata. Probabilmente il tuo ex era una mezza
calzetta.»
«Oh, perché tu invece
saresti Giacomo Casanova...» lo prendo in giro.
«Diciamo che ho una certa
esperienza» annuisce. «E diciamo che so riconoscere una donna
imbranata quando ne vedo una. E tu... no, tu non mi sembri affatto
un'imbranata» aggiunge, abbassando la voce e sistemandomi i capelli
dietro le orecchie. «Le donne imbranate sono fatte in tutt'altra
maniera. No, non sei una donna imbranata. Tu sei intelligente, sei
splendida, sei speciale... sei un sacco di cose, ma non sei
un'imbranata.»
Non so come succeda, ma nel
giro di pochi istante le sue labbra sono di nuovo sulle mie, dolci e
attente come non mai. Le sue mani restano saldamente ancorate alle
mie guance, mentre le mie raggiungono la sua vita e lo tengono
stretto, come se l'idea di lasciarlo andare fosse inconcepibile. È
il bacio più tenero che abbia mai ricevuto, e vorrei che durasse per
sempre. La verità è che mi sembra di essere nel bel mezzo di un
sogno, e vorrei poter continuare a dormire per sempre.
1
Come
in un sogno, ora vivo per te.
| Il titolo del capitolo è
ispirato ad un verso della canzone Sempre
e per sempre
di Zucchero,
contenuta nell'album Spirit,
Cavallo Selvaggio
(2002). La canzone fa parte della colonna sonora italiana del film
d'animazione omonimo.
|
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Capitolo 10 *** 10 | Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude, e diventa sentiero distinto, e ormai inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell'avvicinamento. Quell'accos ***
Portagioie di tristezza | 1
Come
sicuramente avrete notato, questo capitolo presenta una grande
differenza rispetto ai precedenti (si passa dal rating giallo al
rosso senza salti intermedi, fate voi!). Scrivere questo genere di
scene è sempre stata una grande sfida per me, ma in questo caso
sento di aver fatto un lavoro quantomeno accettabile.
Piccolo
consiglio: c'è un passo, in questo capitolo, che rende molto meglio
l'idea se ascoltato con una canzone in sottofondo. Vi lascio il link
della canzone (Ogni
mio istante | Negramaro), e vi sfido a capire quale sia il passo
incriminato. Il vincitore vincerà... niente, tutta la mia stima –
e, se è anche autore, una recensione ad una delle sue storie.
Che la
forza sia con voi, miei piccoli Jedi.
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo decimo
Sensazione
meravigliosa.
Di quando il destino
finalmente si schiude,
e diventa sentiero
distinto,
e ormai
inequivocabile,
e direzione certa.
Il tempo interminabile
dell'avvicinamento.
Quell'accostarsi.
Si vorrebbe non
finisse mai.
Il gesto di
consegnarsi al destino.
Quella è un'emozione:
senza più dilemmi,
senza più menzogne.
Sapere dove.
E raggiungerlo.
Qualunque sia, il
destino.1
Torino,
09 novembre 2013
Ormai dovrei aver capito
che far piani è inutile, se c'è di mezzo Shannon. Secondo i piani
avremmo dovuto trascorrere il pomeriggio in giro per la città e la
sera avrei dovuto portarlo in qualche locale carino... ma
naturalmente niente è andato secondo i piani. Abbiamo
trascorso il pomeriggio svuotando scatoloni e quasi accapigliandoci
per decidere quale fosse il posto migliore dove esporre la chitarra
che non ho mai imparato a suonare; alle sette e mezza, stanchi e
affamati, abbiamo deciso di ordinare una pizza, e per la successiva
ora abbiamo continuato a lamentarci per la fame, chiedendoci quanto
ancora ci avrebbe messo il fattorino a raggiungerci.
«Non abbiamo mai mangiato
insieme» mi fa notare, piegando a metà una fetta di pizza per
riuscire ad infilarsela in bocca.
«Sì, è vero. È la prima
volta che mangiamo insieme» rispondo, lottando con un filo di
mozzarella che non vuole saperne di spezzarsi.
«Domani dovrai insegnarmi
a mangiare gli spaghetti.»
«Va bene, domani mangeremo
spaghetti» annuisco, sorridendo. «Però dovrai accompagnarmi a fare
la spesa, perché in casa non ne ho» aggiungo subito dopo,
ricordandomi che non ho ancora avuto il tempo di riempire per bene né
il frigorifero né la dispensa.
«Va bene, ti accompagnerò
a fare la spesa» risponde, senza preoccuparsi di mandare giù prima
di aprir bocca. Mi chiedo se il soprannome Shannimal non
derivi un po' anche da quest'abitudine. «Sai, stare con te mi fa
bene» aggiunge, questa volta dopo aver deglutito.
«Dici sul serio, o è
soltanto un tentativo di sedurmi?»
«È soltanto un tentativo
di seduzione» ribatte. «No, sto scherzando» si corregge, tornando
serio. «Stare con te mi fa bene davvero. Era un bel po' di tempo che
non facevo cose così... normali. Tu mi costringi a ricordarmi
che esiste qualcos'altro oltre a fare i vagabondi in giro per il
mondo.»
«Perché, è difficile
ricordare che esiste un mondo fatto di persone normali che tutte le
mattine si svegliano, vanno al lavoro, pagano le bollette...?» Mi
rendo conto che quella che voleva essere una battuta è in realtà
uscita fuori con una cattiveria micidiale, perciò abbasso lo sguardo
con aria colpevole. «Scusa, non volevo dire che...»
«No, ho capito quello che
volevi dire» mi interrompe con un sorriso. «Vedi, il fatto è che è
difficile restare aggrappati alla realtà, quando fai una vita come
la mia – come la nostra. Quando siamo in tour difficilmente
restiamo nello stesso posto per più di una settimana, e quando
finalmente torniamo a casa siamo così impegnati a scusarci con la
famiglia e con gli amici per le nostre assenze che proprio non
abbiamo tempo di occuparci delle questioni pratiche. Insomma, io pago
una persona per pagarmi le bollette, ne pago un'altra per tenermi in
ordine il giardino, e ne pago una terza perché si occupi di pagare
le prime due! Se fossi sposato, probabilmente pagherei qualcuno che
si occupi di andare a letto con mia moglie.»
Quest'ultima battuta mi
riporta inevitabilmente al pensiero di Christine Sandoval e dei loro
tre mesi di 'appagante felicità' – è inutile negarlo, sono gelosa
come non lo sono mai stata. Cerco di deviare il discorso per non
rischiare di trasformarmi di nuovo in una macchina da lacrime.
«Shannon, che cosa avresti fatto se non fossi diventato il
batterista dei 30 Seconds To Mars?»
«Perché stai cambiando
discorso?»
Mi sento arrossire fino
alla punta dei capelli. «Non... non sto affatto cambiando discorso,
come ti viene in mente?»
«Tu stai cambiando
discorso, e io voglio sapere perché.»
Inutile continuare a
mentire: mi ha smascherata, e se andassi avanti a negare farei
probabilmente la figura dell'idiota totale. «No, è solo che tu hai
parlato di un'eventuale moglie, e a me è tornata in mente...
sai, Christine.»
«Che c'entra Christine?
Mica eravamo sposati.»
«Lo so, però... insomma,
siete stati insieme, per te lei è stata importante. È una cosa che
non posso dimenticare. Non è una ragazza qualunque con cui sei stato
a letto dopo un concerto.»
Lo guardo mordersi un
labbro e ravviarsi i capelli con una mano, come cercando le parole
giuste per formulare una risposta. «Se la cosa può esserti di
conforto, non ho mai pensato che mi sarei sposato con lei. Insomma,
mi piaceva molto, con lei stavo bene, ma ho sempre saputo che non
saremmo stati insieme per sempre.»
«Dici sul serio, o è
soltanto un tentativo di consolarmi?»
«Dico sul serio»
risponde, questa volta senza alcuna ilarità. «Nessuna delle donne
con cui sono uscito mi ha mai fatto venire voglia di... non lo so...
sistemarmi, mettere su casa, mettere su famiglia. Nessuna mi
ha mai fatto provare quel brivido.»
«Quale brivido?» gli
domando, incuriosita da quella confessione.
«Quello che ho provato
quando ti ho restituito il cd, quando mi hai sorriso e te ne sei
andata» risponde, abbassando la voce. «Mi hai guardato in un modo
che... non so, in un modo che non riesco a spiegare. Mi guardi sempre
in un modo che non riesco a spiegare.»
«A me sembra di guardarti
in modo normale.»
«Forse a te sembra
così, ma per me è diverso. Mi piace il modo in cui mi guardi.
Sembra sempre che tu riesca a conoscermi meglio di quanto io conosca
me stesso. È una strana sensazione, ma... mi piace.»
Parlando, Shannon ha spostato il suo sgabello per essermi più
vicino, e un minuto fa la mano con cui si è sistemato i capelli è
finita sul mio viso: da allora le sue dita continuano a muoversi
pigramente lungo il profilo della mia guancia, a volte sfiorandomi
l'orecchio, mentre i suoi occhi non riescono a lasciare i miei. «Non
so se ti rendi conto di quanto sei bella» sussurra dopo un breve
silenzio.
«Mai quanto le modelle dei
vostri video.»
«Bellezze sintetiche»
ribatte in fretta. «Trucco, parrucchieri, bei vestiti... tu riesci
ad essere bella con una maglietta sformata e con una macchia di
pomodoro in faccia: ci vuole molto più talento per questo.»
«Ho del pomodoro in
faccia? Dove?»
«Qui» sussurra,
sporgendosi in avanti per baciarmi all'angolo delle labbra. Sento la
sua lingua scivolare lenta sulla mia pelle, e mi viene da pensare che
questa sia la cosa più erotica cui mi si sia mai capitato di
assistere – per non dire di partecipare. Volto
impercettibilmente il viso, lasciando che la sua lingua lambisca le
mie labbra socchiuse, infilandosi nello spazio tra di esse. Voglio
che mi baci, e voglio che lo faccia con la stessa passione di oggi
pomeriggio. Non ho bisogno di chiederlo ad alta voce: le sue mani
aggirano le mie spalle, scendono lungo la mia schiena e mi sfiorano
di nuovo il sedere, per poi afferrarmi saldamente i glutei e
strattonarmi in avanti. Mi ritrovo seduta in braccio a Shannon, con
le labbra incollate alle sue e il petto che ad ogni respiro preme
contro il suo torace. Le mie braccia salgono a circondare le sue
spalle, le mie dita sfiorano il centro della sua schiena, all'altezza
del tatuaggio che rappresenta l'emisfero occidentale – mentre le
sue mani, invece, continuano a vagare nei dintorni del mio
fondoschiena, alternando dolci carezze a palpeggiamenti che non hanno
bisogno di essere spiegati. «Daria, devi prendere una decisione» mi
sussurra dopo un tempo indefinito, staccandosi appena dalle mie
labbra. «Se non sei pronta per fare l'amore con me, devi alzarti
subito e mettere almeno venti metri di distanza tra di noi, perché
se continui a starmi sopra in questo modo non so quanto potrò
resistere senza... mi spiego?»
Lo guardo negli occhi, e a
questa distanza riesco a vedere che non vuole solo portarmi a letto:
non c'è semplice lussuria nei suoi occhi – ora color ambra –, ma
il vero e vivo desiderio di completarmi, di farmi sentire
bene, di farmi sentire amata. Lentamente appoggio i piedi a
terra e mi alzo, allontanandomi di qualche passo. Lo vedo prendere
fiato, mentre mi allontano di quello che sarà appena un metro. Poi
mi fermo, e resto immobile a guardarlo. Lo guardo passarsi una mano
sugli occhi, forse cercando di dominare il desiderio che ha di
avermi, e a questo punto riesco a parlare. «Non credo di poter
mettere venti metri di distanza da me a te, a meno di trasferirmi
nell'appartamento accanto» sussurro, mentre lui alza lo sguardo
sulla mia figura. Gli sorrido, tendendogli la mano. Quando le sue
dita stringono le mie, il suo volto si illumina di una gioia mai
vista prima.
*
Colonia, 09 novembre 2013
Eludendo la sorveglianza di
Shannon, Jared è riuscito ad inviare al proprio cellulare la
fotografia di Daria – e ora, chiuso nella sua camera d'albergo, con
in sottofondo una stazione radio che trasmette vecchie canzoni
country, non riesce a fare a meno di fissare quello scatto, un po'
invidioso della felicità del fratello maggiore. Lo ha sempre preso
in giro, chiamandolo 'maniaco' e 'sesso-dipendente' – neanche lui
fosse un puritano, poi –, ma la verità è che si ricorda benissimo
di Christine Sandoval e dell'odissea vissuta più di vent'anni prima
per riuscire a farsi notare da lei.
«Non hai mai più guardato
una ragazza come guardavi lei» sussurra, rivolto allo Shannon fatto
di pixel che gli sta davanti agli occhi. «Non fino a questa
fotografia, almeno» aggiunge subito dopo. «Ti auguro che sia quella
giusta, fratellone. Te la meriti.»
*
Torino, 09 novembre 2013
Daria
si lascia cadere di schiena sul letto, trascinandomi con sé, e
questa volta so che andremo fino in fondo: lo vedo nei suoi occhi,
lucidi per l'eccitazione, e lo sento nelle sue labbra, che continuano
a baciare le mie come se stessero assaggiando un frutto delizioso.
Sposto la bocca sul suo collo, alternando baci appassionati a lievi
carezze, mentre con le mani risalgo lungo i suoi fianchi, scostandole
gli abiti dalla pelle, che sento bollente e morbida come un
asciugamano messo a scaldare davanti al fuoco. Una delle mie mani
finisce sul suo seno pieno, e nonostante ci siano ancora i vestiti a
separare la mia pelle dalla sua, la sento gemere piano, come se non
stesse aspettando altro. Una delle sue mani è tra i miei capelli,
l'altra vaga su e giù per il mio braccio, percorrendo il mio
bicipite in un'unica, dolce carezza. Riprendo possesso delle sue
labbra, mentre le sue gambe si intrecciano con le mie, permettendo
finalmente anche ai nostri bacini di sfiorarsi. È in questo momento
che la sento muoversi, come prepararsi ad alzarsi, costringendo anche
il sottoscritto a cambiare posizione. È quasi completamente seduta
quando smetto di baciarla e le chiedo: «Dove diavolo credi di
andare?»
Lei sorride, guardandomi
dritto negli occhi, mentre stacca le mani dal mio corpo e si sfila la
maglietta: «Dovrò pur spogliarmi, no?» ammicca.
A quell'affermazione, sul
viso di Shannon compare un sorriso malizioso. «Sì, sarebbe
consigliabile» sussurra, abbassandosi per baciarmi il collo mentre
le mani scivolano sotto la canottiera e la fanno risalire, scoprendo
le curve che un po' mi sono sempre vergognata di mostrare. Mi ritrovo
di nuovo distesa, le labbra di Shannon incollate al mio seno e una
delle sue mani dietro la testa, mentre l'altra sta già armeggiando
con l'elastico dei leggings. Non riesco a reprimere un altro gemito
quando le sue dita scivolano sotto la stoffa, trovando subito il mio
punto più sensibile. Le sue labbra soffocano i miei sospiri, e a
questo punto trovo il coraggio di agguantare la sua cintura e
slacciare i suoi jeans, riservandogli le stesse attenzioni che sta
concedendo a me.
Quando la mano di Daria si
infila sotto i miei pantaloni, resto improvvisamente senza fiato.
Stacco le labbra dalle sue, cercando di ricordare come si fa a
respirare, mentre i suoi occhi restano fissi nei miei. Non è certo
la prima volta che vengo toccato, ma le donne di solito mi afferrano
come se fossi un pezzo di carne da spolpare in fretta, mentre
Daria... le mani di Daria, piccole e delicate come farfalle, mi
stanno accarezzando con dolcezza, nello stesso modo in cui io sto
cercando di dedicarmi a lei. «Shannon» la sento sussurrare, forse
in procinto di chiedermi se sia tutto a posto.
«Va tutto bene» replico a
voce altrettanto bassa, baciandola teneramente all'altezza dello
sterno. Appoggio la fronte alla sua, mentre la sua mano continua ad
accarezzarmi come se temesse di farmi male. A letto sono sempre stato
un tipo impetuoso, ma in questo momento mi rendo conto che esiste
anche la delicatezza, e che probabilmente sarà questo il tipo di
sesso che vorrò fare da questa notte in poi. Chiudo per un istante
gli occhi, godendo la straordinaria sensazione che mi trasmette il
calore della sua mano, e prima di rendermene conto sospiro: «Ti amo,
Daria. Ti amo.» E poi la bacio.
La sento sorridere contro
le mie labbra, e poi rispondere: «Soltanto perché ti sto toccando?»
«E poi sarei io quello
poco romantico, dicono» ribatto, sorridendo a mia volta. Raggiungo i
suoi fianchi con le mani, infilo i pollici nei leggings e li abbasso,
scoprendole le gambe. Per aiutarla a sfilarseli sono costretto ad
allontanarmi per qualche istante da lei, e approfitto dell'occasione
per togliere anche i miei jeans, lasciandoli cadere sul parquet.
Mentre Shannon risale sul
letto, puntando le ginocchia sul materasso, non posso fare a meno di
notare l'evidente rigonfiamento dei boxer attillati che indossa, e un
po' mi viene da ridere nel rendermi conto che le voci al riguardo
erano vere: non è grande soltanto come batterista. Tuttavia
non ho tempo per pensare al gossip, perché le sue mani si infilano
sotto di me e mi slacciano il reggiseno con una rapidità che ha ben
poco di umano. «Però» osservo, mentre inarco la schiena per
aiutarlo a spogliarmi, «il soggetto dimostra una certa abilità.»
«Sinceramente, trovo più
difficile arrotolare gli spaghetti sulla forchetta» risponde, e io
non riesco a fare a meno di mettermi a ridere, coprendomi la bocca
con una mano. Semi sdraiato su di me, Shannon fa scivolare le sue
dita sulle mie, scoprendomi le labbra. «Non coprirti, sei bella
quando ridi» sussurra, portandosi la mia mano alla bocca per
esibirsi in un breve baciamano. «E sei bella anche quando piangi, e
sei bella anche quando sei arrabbiata, quando sei preoccupata, e sei
bellissima quando ti guardo e tu non ti accorgi che lo sto facendo.»
Apro la bocca per rispondere, ma lui posa un dito sulle mie labbra,
impedendomi di parlare. «Sei bella con il sole, sei bella con la
pioggia, certamente sei bella quando nevica e anche quando fa
temporale, sei bella quando hai il sole negli occhi e scommetto che
sei bellissima anche quando fa buio. Sei così bella che a volte ho
paura di consumarti a forza di guardarti. E non provare a
contraddirmi, perché potrei andare avanti per ore, forse anche per
giorni. Non mi convincerai mai del contrario.»
Obbedisco, e a ribattere
non ci penso nemmeno: tutte le mie obiezioni si concentrano nella
lacrima che scende dal mio occhio sinistro e mi bagna la guancia,
finendo la sua corsa sul copriletto.
Mi sfilo la maglietta e mi
stendo di nuovo su di lei, baciandola come se fosse la prima volta.
Il suo seno si alza e si abbassa ad ogni respiro, premendo dolcemente
contro il mio petto nudo, mentre le gambe giocano ad accarezzarsi e
rincorrersi sul copriletto ormai stropicciato dai nostri movimenti.
«Aspetta» sussurra, lasciandomi andare per il tempo necessario a
scostare le coperte. Le lenzuola finiscono ammucchiate in fondo al
letto, mentre lei si sistema contro i cuscini e mi riaccoglie tra le
sue braccia, baciandomi come la moglie di un soldato appena tornato
da una lunga guerra. Lascio la sua bocca lentamente, succhiandole il
labbro inferiore, e senza esitazioni scendo lungo il suo collo, seguo
la linea precisa della clavicola con la punta del naso, e con le
labbra accarezzo il profilo tondo del suo seno, finendo col
catturarle un capezzolo in un bacio profondo e umido. Le mani
scendono lungo i suoi fianchi, raggiungono le mutandine e superano
anche quella barriera, addentrandosi per la prima volta su un terreno
sconosciuto.
Il primo tocco è cruciale,
e sollevo lo sguardo sul suo volto per catturare l'estasi del
momento: Daria inarca la schiena, chiude gli occhi e si morde il
labbro inferiore, tentando di reprimere un gemito. Un'altra carezza,
e le è impossibile trattenersi: per quanto sommesso, il suo «Oh,
Shannon» arriva chiarissimo alle mie orecchie. Abbandono anche il
suo seno, continuando la mia corsa alla vera meta di questo viaggio:
con un gesto le sfilo le mutandine, accarezzandole le gambe in tutta
la loro lunghezza. Risalgo lentamente verso di lei, baciandole con
dolcezza l'interno delle cosce, tentando in ogni modo di metterla a
suo agio. Sfioro il centro della sua femminilità con la punta delle
dita, guardandola tremare a quel lieve contatto. Il secondo tocco è
quello delle mie labbra, che con un bacio le strappano un altro
gemito, stavolta più intenso, e poco più tardi tocca alla lingua,
che la costringe ad inarcare la schiena, piegare le gambe all'altezza
delle ginocchia, sospirando un chiarissimo «Oh, Shannon» che mi
eccita più di qualsiasi preliminare. Sentirla pronunciare il mio
nome a quel modo, quasi senza fiato, è la sensazione più bella del
mondo. Continuo a dedicarmi a lei, senza perdermi in parole, e
all'improvviso sento la sua mano infilarsi tra i miei capelli,
spingere lievemente in avanti la mia testa, mentre il suo corpo è
scosso da brividi di piacere. Quando le sue cosce si stringono
impercettibilmente contro di me, la vedo afferrare un lembo del
lenzuolo con una mano e stringerlo forte, e capisco che è arrivato
il momento di lasciarla stare, di darle un attimo di respiro.
Approfittando della mano
ancora avvinghiata tra i suoi capelli, attiro di nuovo Shannon su di
me e lo bacio con passione, senza preoccuparmi di sembrare una
ninfomane o una maniaca. Con Andrea non è mai stato così, con lui
non ho mai provato questo tipo di sensazioni... al diavolo, lui non
ha mai fatto niente del genere! Le mani di Shannon si fermano
nei dintorni del mio seno, stuzzicandone ogni centimetro come se
fosse un giocattolo nuovo tutto da scoprire. Adoro la sensazione che
le sue grandi mani callose provocano a contatto con la mia pelle,
tuttavia decido che è arrivato il momento di ricambiare, e in
qualche modo riesco ad invertire le posizioni, facendolo stendere nel
punto preciso in cui ero stesa io.
Percorro con le labbra
l'intero tragitto che dalla sua bocca porta verso l'inguine,
accarezzando con curiosità i muscoli così ben definiti che tanto
spesso mette in mostra sul palco, raccogliendo con un bacio le
piccole gocce di sudore imprigionate tra i radi peli del petto. Lo
privo della biancheria senza difficoltà, ma un po' mi sento a
disagio quando scopro che il suo sguardo è fisso su di me, come in
attesa di scoprire la mia prossima mossa. Chiudo gli occhi, cercando
di non sentirmi troppo sotto esame, e un po' titubante inizio a
baciarlo. Quando riapro le palpebre, pochi istanti dopo, mi accorgo
che adesso è lui a tenere gli occhi chiusi: ha rovesciato la testa
all'indietro e sussurra parole che non riesco a decifrare bene.
Deducendo che il mio modo di agire lo soddisfi, continuo a muovermi
allo stesso modo, alternando lievi baci a vere e proprie carezze
– questa è un'altra di quelle pratiche in cui non ho quasi mai
avuto occasione di cimentarmi.
«Daria, fermati» sento
dire all'improvviso, mentre la sua mano mi accarezza i capelli. Mi
sollevo appena da lui, mentre si mette a sedere e mi prende la testa
tra le mani, avvicinandosi per baciarmi ancora. Senza una parola, mi
fa scivolare le braccia dietro la schiena e capovolge di nuovo le
posizioni. Mi bacia un'altra volta, poi si alza e cerca il giubbotto,
che aveva abbandonato oggi pomeriggio sulla sedia accanto alla
scrivania. C'è un che di bizzarro nel vederlo girovagare nudo per la
mia stanza, per di più in un evidente stato di eccitazione, ma è
ancora più strano pensare che sono io l'artefice di
quell'eccitazione – è strano rendersi conto che sono stata io,
con i miei baci e le mie carezze, a portarlo a questo momento.
Strappo con cura la bustina
colorata, e lentamente srotolo il preservativo attorno alla mia
erezione, facendolo aderire bene alla pelle. Risalgo sul letto e mi
stendo di nuovo sopra Daria, le cui mani ricominciano ad accarezzarmi
come poco fa. Quello che sta per accadere tra di noi è molto
importante, e nonostante sia quasi sicuro della sua persuasione a
farlo, voglio esserne completamente certo. «Se per caso hai cambiato
idea io... insomma, se hai cambiato idea va bene, non voglio
costringerti a...»
Questa volta sono le sue
dita a zittirmi, posandosi con delicatezza sulle mie labbra. «Se non
lo volessi, in nessun modo saresti riuscito a sfilarmi le mutande»
sorride poco prima di baciarmi ancora. «Non parlare, Shannon. Non
voglio parlare. Voglio solo fare l'amore con te.»
«Agli ordini, signora» le
sussurro in risposta, mordicchiandole lievemente un orecchio. Poi
bacio di nuovo la sua bocca, coinvolgendo la sua lingua in una danza
segreta e sensuale, e mi sollevo su di lei, preparandomi a renderla
finalmente mia. Scivolo avanti con attenzione, aiutando la
penetrazione con una mano. Sentire il suo corpo stringersi attorno al
mio, adattarsi per accoglierlo in maniera adeguata... è una
sensazione alla quale non prestavo attenzione da un sacco di tempo.
Avevo quasi dimenticato che per una donna accogliere un uomo dentro
di sé è un gesto pieno di significato, ma in questo istante tutto
ciò che avevo scordato mi torna in mente all'improvviso, come se
avessi appena riacquistato la memoria dopo un'amnesia. Il respiro di
Daria cambia ritmo, diventando un po' più affannoso, e spero di
riuscire a non farle male – dopotutto, mi ha confessato di non
avere rapporti da quasi due anni, quindi è come se fosse questa
la sua prima volta. «Se ti fa male, dimmelo e smetto subito» le
sussurro, con il fiato corto esattamente come lei.
«Non voglio che ti fermi»
ribatte lei, allacciandomi le gambe dietro la schiena. «Non voglio
che ti fermi.» Continuo a spingermi in avanti, aumentando
impercettibilmente il ritmo e la profondità delle spinte, finché
non sento le sue unghie graffiarmi la schiena, in un tentativo di
scaricare l'energia procurata dal piacere. Chiudo gli occhi e
immagino le sue dita percorrere il profilo delle mie spalle, seguire
gli avvallamenti dei muscoli, incontrarsi in cima al mondo2
e di lì precipitare giù, lasciando un sottile graffio come
testimonianza del loro passaggio. Riapro gli occhi e la trovo ancora
tra le mie braccia, con le gote arrossate, gli occhi lucidi e il
fiato corto, e il primo pensiero che mi passa per la testa è che in
questo momento è alla mia mercé, completamente indifesa, e che devo
fare attenzione a non ferirla. Daria è la cosa più preziosa che mi
sia mai capitato di possedere, e ho una paura matta di sciuparla.
Scivolare dentro e fuori
dal suo corpo è diventato più semplice, dunque abbandono la
convinzione che i miei movimenti possano causarle fastidio o dolore.
Smetto di preoccuparmi e penso soltanto a muovermi. In un certo senso
è sesso, come tutte le altre volte, ma rispetto alle altre volte c'è
un'enorme differenza: tengo al benessere di questa ragazza come se
fosse una parte del mio corpo.
I movimenti di Shannon mi
hanno procurato un po' di fastidio all'inizio, ma il mio corpo si è
abituato in fretta alla sua intrusione, quasi fosse diventata la
normalità. Sollevo impercettibilmente il bacino per variare l'angolo
con il quale entra in me, riuscendo così ad amplificare ogni singola
sensazione provata. Le sue mani risalgono dal seno al collo, mentre
io continuo a stringere le sue spalle e la sua schiena. Quando la sua
bocca cala di nuovo sul mio seno, con le mani scendo ad afferrargli i
fianchi, proprio all'altezza del tatuaggio, quasi volessi convincerlo
ad addentrarsi ancora di più dentro di me.
La stanza è piena dei
nostri respiri, dei nostri sospiri e dei rumori che i nostri corpi
producono accarezzandosi, e tutto il mondo che ci circonda è
scomparso, inghiottito dalla nostra voglia di amarci.
La sensazione di
appagamento già provata durante i preliminari si fa di nuovo
sentire, rifluendo dal centro del mio corpo ad ogni mio arto come una
calda onda di marea. Riconosco subito l'orgasmo, stringo più forte
le gambe attorno ai suoi fianchi e non mi preoccupo più di reprimere
i miei gemiti. «Ti amo, Shannon» esalo, mentre lui rallenta i
propri movimenti per permettermi di sfogare il mio piacere. «Ti amo»
ripeto a voce più bassa, avvicinandomi al suo viso per baciarlo. La
sua barba mi sfrega dolcemente sulle guance, il naso sfiora il mio
zigomo, le labbra posano un bacio delicato sulla mia fronte, e il suo
corpo si immobilizza per un attimo, rimanendo però saldamente
ancorato in me.
Non mi sarei mai aspettato
di sentirmelo dire.
Prima di stanotte, avevo
già sentito pronunciare quelle parole diverse volte, ma sentirle
dire da lei fa tutto un altro effetto – e soprattutto è bizzarro
rendersi conto che sono dirette proprio a me. «Ti amo»
ripeto io, mai stato così sicuro di quello che sto dicendo. Resto
immobile a fissarla per qualche istante, poi la bacio di nuovo, e in
quel momento ricomincio a muovermi, forte di due nuove convinzioni: è
questo l'unico tipo di sesso che voglio fare per il resto della mia
vita, e questa è l'unica donna con cui abbia voglia di farlo. Daria
mi ha mostrato un mondo alla cui esistenza non avevo mai creduto: mi
ha fatto capire che si può amare una sola persona per tutta la vita
ed esserne pienamente soddisfatti; mi ha mostrato che è possibile
custodire il mondo in un solo cuore, ed è il suo cuore quello in cui
il mio mondo trova riparo. Lei conosce il mio segreto più profondo,
lei riesce a rendermi felice e riesce a farmi ridere senza sforzo, e
anche se la conosco da appena una settimana so che non potrei vivere
un solo giorno senza averla accanto. Se questo non è amore, allora
non so che nome dargli.
Mi bastano poche spinte per
venire: l'orgasmo mi attraversa tutto il corpo, facendomi tremare
come una foglia tra le braccia sottili di Daria. Mi sento accaldato e
insieme quasi batto i denti, come se mi fosse improvvisamente salita
la febbre. A questo punto dovrei uscire da lei, alzarmi, sfilarmi il
preservativo e buttarlo via, ma non ho voglia di lasciarla. Voglio
rimanere dentro di lei ancora un po', come quando da bambino
indugiavo tra le coperte più del necessario per poi scattare in
piedi, prepararmi di corsa e arrivare a scuola in ritardo. D'altra
parte nemmeno a lei deve piacere l'idea di lasciarmi andare, perché
le sue braccia sono ancora avvolte attorno al mio corpo, tese a
rinchiuderlo come sbarre. Sorrido mentre incastro il viso nell'incavo
del suo collo, inspirando a fondo il suo profumo di more: non sono
mai stato così felice di sentirmi imprigionato.
«Sei stato ubbidiente» la
sento sussurrare, e a quel punto alzo la testa per guardarla. «Non
hai parlato per tutto il tempo».
«Sono un cucciolo
disciplinato» rispondo con un sorriso. «Mi hai chiesto di fare una
cosa e io l'ho fatta» aggiungo, toccandole il naso con la punta
dell'indice. Mantenere questa posizione sta iniziando a diventare
stancante, perciò esco lentamente da lei, facendo attenzione a
portarmi dietro il profilattico, e allungo una mano dietro di me per
afferrare le coperte e rimetterle più o meno a posto. «Torno
subito, vado solo a liberarmi di lui» la informo, mostrandole il
pezzo di lattice che mi sono appena sfilato. Mi congedo da lei con
l'ennesimo bacio e scendo in bagno.
Butto il rifiuto nel
cestino, mi sciacquo velocemente e poi resto fermo davanti allo
specchio per cinque minuti, fissandomi a lungo per capire che cosa
sia cambiato in me in questo periodo, e specialmente dopo questa
notte. Fino ad una settimana fa non mi sarebbe mai venuto in mente di
dire ad una donna che l'amavo; fino ad una settimana fa non avrei mai
pensato che esistesse anche un modo dolce per fare sesso; non
mi sarei mai trovato a pensare che un preservativo non è soltanto un
mezzo per evitare di contrarre malattie, ma anche un modo per
scrollarsi di dosso quella grande responsabilità che si chiama
paternità. Per un attimo provo a pensare a come sarebbe avere
dei figli, e in particolare averli con Daria: lei sarebbe una madre
amorevole e stupenda, e io... io sarei in grado di prendermi cura di
un bambino? Ne sarei capace oppure mi arrenderei come hanno fatto mio
padre e la madre di Daria?
Scuoto la testa, cercando
di cancellare certi pensieri; mi ravvio i capelli con una mano e mi
preparo a tornare al piano di sopra, chiedendomi che cosa succederà
a partire da questo momento. Arrivato in cima alla scaletta, non
posso evitare di sorridere: Daria, stremata dalla giornata di lavoro
e dalla fatica appena consumata, è crollata addormentata al centro
del letto, senza nemmeno riuscire a coprirsi bene. Le aggiusto
addosso lenzuola e coperte, mi stendo alla sua sinistra e le poso una
mano sul fianco, tenendola stretta a me. È la prima volta che mi
addormento intenzionalmente accanto ad una donna con la quale
ho appena fatto sesso, ma il pensiero non mi disturba affatto.
*
Torino, 10 novembre 2013
Quando
decido di uscire dal mondo dei sogni e di aprire gli occhi, non
impiego molto ad accorgermi che sono nuda e che steso accanto a me
c'è Shannon, anche lui nudo. Il viso è rivolto verso di me, gli
occhi chiusi, i capelli scompigliati... Dio, riesce ad essere sexy
anche quando dorme. Sposto
lo sguardo dal suo viso addormentato e sprofondato nel cuscino alla
finestra, cercando di capire che ore siano osservando la luce
esterna. Peccato che la sottoscritta non sia mai stata un granché
con le stime. Mi sollevo sui gomiti e allungo il collo oltre il bordo
del letto per cercare la sveglia, che sono sicura sia caduta sul
pavimento, e nel farlo mi rendo conto che questa è la prima volta
che mi sveglio in compagnia di qualcuno. Ed è strano, terribilmente
strano – l'altro lato del letto non è mai stato caldo, nessuno ha
mai strattonato le coperte, nessuno ha mai intrecciato i suoi piedi
con i miei, nessuno si è mai addormentato con la fronte appoggiata
alla mia nuca, stringendomi forte dopo avermi detto che mi ama. E
anche se in questo momento dovrei essere la donna più felice del
mondo, c'è sempre una piccola parte di me che mi dice di stare
all'erta, perché ormai ho imparato che le cose non filano sempre
lisce come vorresti – le stagioni passano, il tempo può cambiare,
e le persone se ne vanno. Anche se non lo vorresti, può capitare che
le persone che ami se ne vadano.
Il mio improvviso movimento
lo ha disturbato, perché lo vedo strofinare il viso sul cuscino,
mentre il respiro cambia ritmo e il suo intero corpo si muove sotto
le lenzuola, cambiando posizione accanto a me, che resto immobile e
un po' a disagio. I suoi occhi si aprono, una mano sale a ravviarsi i
capelli, e io mi chiedo come sia possibile che nemmeno appena sveglio
perda il suo fascino. La stessa mano che si è scansata i capelli dal
viso sale di nuovo, stavolta più lenta, e con dolcezza si posa sulla
mia guancia, accarezzandomi con la consueta cura.
«Ti
ho sognata, sai?» mormora, mentre
allunga le gambe per stiracchiare i muscoli intorpiditi.
«Sì?
E com'ero?»
Ci pensa su per qualche
secondo, come se sentisse di dovermi una risposta ponderata. «Eri
come sei adesso. Eri bellissima.» E senza darmi alcuna possibilità
di replica, si solleva e mi attira a sé, facendo toccare le nostre
labbra. Poi mi lascia andare e torna a stendersi, senza smettere di
guardarmi. «Vorrei poterti scattare una foto, sei perfetta in questa
luce.» Ed è in questo momento che ricordo di avergli detto che lo
amo. E per tutti i santi del paradiso, il perché si spiega da solo.
Lo guardo allungare le braccia per abbracciare il cuscino, e mi sento
addosso il suo sguardo indagatore. «Sei pentita?»
mi sento chiedere.
«Di cosa?»
«Di aver ceduto al diavolo
tentatore.» Ripenso a tutto
quello che è successo stanotte, alle sue labbra che mi baciano
ovunque, alle sue mani che mi accarezzano tutta, senza
saltare nemmeno un punto, e poi al suo... beh, ripenso a tutto
quello che mi ha fatto, e non riesco ad impedirmi di sorridere. «A
giudicare dal tuo sorriso, direi proprio
che ho fatto schifo» mi prende in giro, affondando il viso nel
cuscino. «Oh, sì, guarda che espressione! Puro disgusto,
sono veramente un imbranato!» La
finta disperazione della sua voce mi diverte tantissimo, facendomi
ridere come una scema: non ridevo così di gusto da quando... nemmeno
mi ricordo da quando. Approfittando della mia guardia abbassata,
Shannon riesce a riprendere il controllo della situazione, facendomi
stendere sotto di lui: le sue labbra calano decise sulle mie e subito
si spostano sul mio collo, mordicchiandolo come si farebbe con una
stringa di liquirizia. «Non prenderla per il verso sbagliato, ma...
stanotte sei stata fantastica»
sussurra tra un bacio e l'altro. «E sappi che sono riuscito a
confermare la mia teoria: non sei affatto un'imbranata.»
Spostando un po' una gamba,
la mia coscia entra in contatto con il suo inguine. «Questo
sarebbe merito mio?» gli domando,
avvertendo qualcosa che difficilmente può essere frainteso.
«A meno che non ci sia
un'altra donna nascosta sotto il letto...»
risponde, continuando a stuzzicare il mio collo a forza di baci e
sussurri. Muovo impercettibilmente la gamba, facendo sfregare la sua
erezione contro la mia pelle. «Adesso mi stai deliberatamente
provocando, lo sai?» mi avverte,
sollevandosi appena da me.
«Shannon, non prenderla
per il verso sbagliato, ma...» lo
copio, strappandogli un sorriso, «io ti voglio.»
«Intendi... adesso?»
«Non dirmi che ti serve
tempo per abituarti all'idea, perché non mi sembra proprio.»
Non so dove trovo il coraggio di farlo, ma in silenzio faccio
scivolare le mie mani sotto le coperte, accarezzandogli lentamente il
torace, seguendo il profilo definito degli addominali, arrivando
infine al punto che davvero mi interessa. Ogni sua obiezione
si perde in un sospiro, mentre sotto il mio tocco sento il suo pene
inturgidirsi.
«Ok,
facciamo a modo tuo» sbotta
all'improvviso, togliendosi da sopra di me per andare a frugare nella
tasca del giubbotto. Ancora nascosta tra le lenzuola, lo guardo
infilarsi il preservativo con una maestria e una velocità che
superano di gran lunga ogni mia aspettativa.
Quando ritorna sul letto,
palesando l'intenzione di strapparmi di dosso le coperte e prendermi
così come sono, mi scanso. «Hai detto che volevi fare a modo mio,
no?»
«Devo
iniziare a pentirmene?»
«Sdraiati»
gli sussurro all'orecchio, la voce improvvisamente roca.
«Agli ordini, signora»
risponde, lasciandosi andare all'indietro sul materasso, con le gambe
che penzolano oltre il bordo del letto. Vincendo la mia naturale
avversione al farmi vedere nuda, specialmente alla luce del giorno,
scivolo fuori dal comodo nascondiglio delle coperte, mi metto a
cavalcioni sopra di lui e mi struscio lentamente sul suo inguine
eccitato, strappandogli un gemito gutturale
che somiglia parecchio ad un ringhio. «Questo ti catapulta
sicuramente fuori dalla lista delle imbranate, lo sai?»
mi informa, mentre le sue mani mi afferrano i fianchi. I pollici
finiscono proprio sulle sporgenze dell'osso iliaco, e in verità ho
un po' paura che con la forza che sta esercitando mi possa spezzare
qualcosa.
Senza rispondere, lo guido
delicatamente dentro di me, e dal momento in cui inizio a muovermi
sopra di lui intorno a noi si crea il silenzio – per la seconda
volta in poche ore, la stanza vive soltanto di respiri e brevi
sospiri, come se all'improvviso entrambi avessimo perso la capacità
di parlare.
Non riesco a toglierle gli
occhi di dosso mentre, ad occhi chiusi, si muove lentamente sopra di
me, tenendomi al sicuro dentro di sé. Questa sua improvvisa
intraprendenza mi eccita da morire: intraprendente, sensuale, ma non
volgare... una combinazione che ho sempre cercato, ma che nessuna
donna ha mai dimostrato di saper ricreare. Questa posizione mi
permette di scivolare dentro di lei in profondità, molto più di
quanto non sia riuscito a fare questa notte, e dal modo in cui il suo
respiro talvolta si mozza comprendo che non è abituata a tali
movimenti. Andiamo avanti lentamente, per un tempo che ci sembra
infinito, senza sentirci mai stanchi o annoiati. Quando sento vicino
l'orgasmo mi sollevo dal materasso, mettendomi a sedere: faccio
scivolare le braccia dietro la sua schiena, tenendola stretta;
rallento i movimenti fin quasi a fermarmi, e dopo un istante di
assoluta immobilità, mentre premo le labbra contro il suo collo,
vengo con un gemito che definirei a dir poco teatrale.
Appoggio la fronte contro
il suo seno, in silenzio, e le sue mani salgono ad accarezzare
dolcemente i miei capelli, più o meno come faceva mia madre quando
da bambino mi svegliavo in preda ad un incubo e non volevo saperne di
calmarmi. Ho chiuso gli occhi, ma non fatico ad immaginare le linee
del suo volto mentre mi convince ad alzare la testa e bacia le mie
labbra, facendomi sentire completo e amato come non mi sono
mai sentito in vita mia – nemmeno ai tempi di Christine. «Non per
metterti sotto pressione» dice a
bassa voce, accostando le labbra al mio orecchio, «ma credo proprio
di essere arrivata ad un punto di non ritorno. Sono innamorata di te
come non lo sono mai stata di nessuno. Se mi fai soffrire, giuro che
ti faccio del male.»
«Non per mettere te
sotto pressione» rispondo,
facendo correre pigramente le mie dita lungo la sua spina dorsale,
«ma io credo di aver trovato la donna che sposerò.»
Apro gli occhi e trovo i suoi fissi sul mio volto, spalancati e un
po' increduli.
1Sensazione
meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude, e diventa
sentiero distinto, e ormai inequivocabile, e direzione certa. Il
tempo interminabile dell'avvicinamento. Quell'accostarsi. Si vorrebbe
non finisse mai. Il gesto di consegnarsi al destino. Quella è
un'emozione: senza più dilemmi, senza più menzogne. Sapere dove. E
raggiungerlo. Qualunque sia, il destino. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad passo del romanzo Oceano
mare
(1993) di Alessandro
Baricco.
2Incontrarsi
in cima al mondo
| Si tratta di un riferimento al tatuaggio che Shannon ha al centro
della schiena, quello che rappresenta l'emisfero occidentale.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** 11 | Abbi una felicità delirante, o almeno non respingerla. ***
Portagioie di tristezza | 1
Come
sempre, grazie per il supporto che continuate a dimostrare.
All'inizio immaginavo che la sezione recensioni sarebbe rimasta
vuota, e invece, dopo dieci capitoli pubblicati, sono felice di
vedere che così tante persone si sono affezionate a Daria e Shannon,
alle loro insicurezze, ai loro difetti, e ancora alle loro famiglie
(nonne curiose e fratelli divaH in primis), ai loro amici, alle
situazioni nelle quali si trovano (per caso o per desiderio)
coinvolti.
Spero
che le loro avventure continueranno a divertirvi, emozionarvi,
coinvolgervi – e che soprattutto non smettano di farvi sognare.
Come
dice spesso un omino di nostra conoscenza... provehito in altum.
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo undicesimo
Abbi una felicità
delirante,
o almeno non
respingerla.1
Torino,
10 novembre 2013
Siamo
rimasti in silenzio per almeno dieci minuti, dopo le reciproche
confessioni. Siamo rimasti stretti l'uno all'altra
come se dal nostro abbraccio dipendesse il destino del mondo, senza
nemmeno preoccuparci di coprirci. Io lo amo, lui mi ama – questa è
la realtà dei fatti. Ripenso al modo in cui ce lo siamo detti,
guardandoci negli occhi mentre eravamo ancora aggrappati l'uno
all'altra, e mi viene da pensare che se la gente fosse più
coraggiosa quando si tratta di sentimenti, forse ci risparmieremmo
tanta tristezza e tanta solitudine.
«Penso
che è stupendo restare al buio abbracciati e muti come pugili dopo
un incontro, come gli ultimi sopravvissuti2»
mi ritrovo a canticchiare all'improvviso – e mi viene quasi da
ridere, perché non è da tutti mettersi a pensare a Renato Zero
mentre si è a letto con uno come Shannon.
«Cosa
stai cantando?»
«Una
vecchia canzone italiana, si intitola I
migliori anni della nostra vita»
rispondo. Gli traduco rapidamente il verso che stavo canticchiando, e
vedo le sue labbra tendersi in un sorriso sincero e appagato.
«I
migliori anni della nostra vita»
ripete, voltandosi appena verso di me. «Ci
vorrà un po' perché sia proprio adatta a noi. È solo una settimana
che ci conosciamo.»
«Quindi
ci serve un'altra canzone.»
«Direi
di sì. Suggerimenti?»
«Raining
on Sunday3,
di Keith Urban»
rispondo senza nemmeno pensarci su. «Credo sia perfetta per questo
momento.»
«Non la
conosco. Come fa?»
«Non la
conosci? Vado a prendere il computer, così te la faccio sentire»
ribatto, muovendo le gambe verso il bordo del letto.
«No,
resta qui. Cantamela tu.»
«Sono
stonata.»
«Dicevi
anche di essere un'imbranata a letto.»
Touchée.
Inizio a canticchiare qualche verso, sperando di non fare una figura
troppo brutta, ma mi blocco subito quando mi accorgo che la voce di
Shannon si è unita alla mia. «Tu la conoscevi,
sporco imbroglione che non sei altro!»
lo accuso, sollevandomi sui gomiti per poterlo guardare meglio.
«L'ho
già sentita, ma non è che proprio la
conosca»
si difende, stiracchiandosi le braccia per poi piegarsele dietro la
testa a mo' di cuscino. «Per
stavolta credo che tu mi possa perdonare»
aggiunge, facendomi l'occhiolino.
Cambio
posizione anch'io: mi volto a pancia in sotto e intreccio le mani
all'altezza del suo ombelico, appoggiandoci sopra il mento. «Vedremo»
sussurro, incapace di staccare gli occhi dai suoi.
«Cos'è
quella cicatrice?»
«Quale
cicatrice?»
«Hai
una cicatrice sulla pancia, vicino all'ombelico. È abbastanza
difficile non notarla. Come te la sei procurata?»
«Appendicite.
Avevo sette anni. È stato sei mesi prima che la mamma se ne
andasse.»
«Sembra
una ferita piuttosto brutta.»
«Operata
d'urgenza, ho rischiato di morire. Mi hanno presa per i capelli.»
«Sono
grato a quei dottori»
risponde dopo qualche istante di silenzio. «Hanno salvato una delle
cose più belle che mi siano mai capitate.»
Sciolgo l'intreccio delle mie dita, punto le mani sul materasso e
scivolo in avanti fino a raggiungere le sue labbra. Un bacio lieve, e
mi allontano di nuovo. Appoggio la guancia sul suo addome, che si
alza e si abbassa al ritmo di ogni suo respiro; inspiro
profondamente, cercando di trattenere il suo odore nella mia memoria.
«L'hai più rivista?»
«Chi?»
«Tua
madre. È sparita all'improvviso o l'hai ancora rivista?»
In tutta
sincerità, non è che abbia molta voglia di parlare di lei – però
il momento sembra così adatto che non ho proprio il coraggio di
tirarmi indietro. «Per i primi tre o quattro mesi venne a trovarci
tutte le domeniche, ma non so se Emanuele e Francesca se ne
ricordano. Poi saltò un paio di fine settimana, si rifece viva il
terzo, mancò di nuovo e poi la perdemmo per sempre. Non so dove
sia.»
«Né
che faccia abbia, immagino.»
«Oh,
quella non la posso dimenticare. Le somiglio come una goccia d'acqua.
Mio padre tiene ancora una scatola di vecchie fotografie sul fondo
del suo armadio. Non le ha buttate soltanto perché sono foto in cui
ci siamo anche io e i miei fratelli. Una volta non le somigliavo
così, ma il tempo mi sta cambiando.
È anche un po' per questo motivo che ho deciso di andare via di
casa: sento che mio padre soffre,
quando mi guarda. In fondo lui non la può dimenticare, e vederla
riflessa in me ogni giorno... lui non ha mai detto niente del genere,
ma io so
che
è così.»
«Anch'io
somiglio molto a mia madre»
gli sento dire, mentre si sfila una mano da dietro la nuca e la
appoggia sulla mia schiena, accarezzandomi lentamente. «In realtà,
sia io che Jared le somigliamo molto. Abbiamo tutti e due qualcosa in
comune con lei.»
«Tranne
gli occhi»
commento. «Ho visto delle fotografie»
mi giustifico, sentendo su di me il suo sguardo. «Tua madre ha gli
occhi chiari, se non sbaglio.»
«Sì,
ha gli occhi chiarissimi. Invece io li ho presi da papà.»
«Da
quanto non lo vedi?»
Shannon
resta in silenzio così a lungo che mi viene quasi da pensare che si
sia addormentato. Sto per alzare lo sguardo sul suo viso, quando lo
sento rispondere: «Trent'anni, più o meno. Forse di più. Lui e la
mamma hanno divorziato quando eravamo molto piccoli, e come tua madre
lui non ha... non è mai stato molto presente. Dopo il divorzio si è
risposato, ha avuto altri figli, e quando avevo undici o dodici anni
si è ammazzato.»
Alzo la testa di scatto, voltandomi a guardarlo: non avevo mai
sentito questa storia, e per me è una vera e propria sorpresa –
soprattutto, è strano che lui riesca a parlarne con un tono così
normale. «So che probabilmente dovrei parlarne con un po' di
emozione in più»
aggiunge, notando il mio sguardo interrogativo, «ma per noi lui non
c'è mai stato. So che è grazie a lui se sono al mondo, ma a parte
questo lui... lui non ha mai fatto nulla per me. Tutto quello che
sono lo devo a mia madre, ai principi che lei
mi ha inculcato. Lo devo a Jared,
all'aiuto che ha saputo darmi. E poi lo devo a me stesso, perché non
sarei andato da nessuna parte se non lo avessi voluto con tutte le
mie forze.»
«Io
non... io non so che dire, Shannon. Non so cosa si dice in questi
casi.»
«Non
devi dire niente, Daria. Non c'è niente da dire. Le persone fanno
delle scelte, e tutto quello che possono fare è imparare a
conviverci. Una volta che hai scelto la tua strada, non puoi tornare
indietro.»
Stiracchio
un po' le gambe e appoggio una mano sul torace di Shannon,
accarezzandogli pigramente il petto. «E tua madre? Si è mai rifatta
una vita?»
«Sì,
quando avevo sette anni si è risposata con un medico. Il nostro
cognome lo abbiamo preso da lui: quando l'ha sposata ha insistito per
adottarci.»
«Quindi
in un certo senso... un padre l'hai avuto.»
«Sì,
un padre l'ho avuto... però non sono mai riuscito a chiamarlo papà.
Forse perché... forse perché dentro di me sapevo
che non era lui il mio vero padre. C'è di buono che lui non ci ha
mai chiesto di considerarlo tale: ci è stato vicino, ci ha aiutato,
ci ha sostenuto... ma non ci ha mai obbligato a rispettarlo come se
fosse nostro padre. Gli abbiamo sempre voluto bene proprio perché
non ci chiedeva di farlo.»
Mi guarda e sorride. «Sei la prima a cui racconto tutte queste
cose... è strano.»
«Sono
contenta che tu le voglia condividere con me»
sussurro mentre abbasso la testa verso il suo petto. Lascio un bacio
all'altezza del cuore e indugio per qualche istante in quella
posizione. «Mi piace il tuo odore.»
«Probabilmente
puzzo come un cane, considerando tutta la ginnastica che mi hai
costretto a fare»
ribatte con un sorriso.
Scuoto
la testa, guardandolo. «Non puzzi. Hai un buon odore. Avevi lo
stesso odore la sera che ci siamo conosciuti. Sai di caffè e di...
non lo so, una spezia. Sembra... non lo so, è possibile che sia
zenzero?»
«Credo
di sì. Uso un sapone alle spezie, può darsi che sia zenzero.»
«Beh,
comunque non puzzi.»
Ridacchia
appena, passandosi una mano sugli occhi. «Mi piacerebbe sapere come
siamo arrivati a questo punto. Che ore sono?»
«Non lo
so, la sveglia dev'essere caduta. Però aspetta, dovrebbe esserci un
orologio nel cassetto»
aggiungo, allungandomi sopra di lui per raggiungere il comodino.
«Sono quasi le dieci»
rispondo guardando il quadrante digitale. «Che cosa vuoi fare oggi?
Direi che il progetto di andare al Museo del Cinema è saltato, ormai
è tardi. Resteremmo in coda ore per niente.»
«Aspetta,
resta ferma così»
risponde, bloccandomi mentre mi sto ritraendo per stendermi di nuovo
al suo fianco. «Oh, io ho deciso di restare qui tutto il giorno a
guardare il panorama»
aggiunge, e mi ci vogliono dieci secondi buoni per accorgermi che mi
sta palesemente fissando il seno.
«Che
maniaco...»
lo prendo in giro, tornando al mio posto e tirandomi addosso il
lenzuolo.
«Non
dirmi che adesso ti vergogni, perché ti faccio notare che sei
completamente nuda da quasi dodici ore. Non credo sia rimasto
qualcosa che devo ancora vedere.»
«Appunto,
sono nuda da ieri sera e mi sta venendo freddo. E poi io sì che
puzzo. Ho bisogno di una doccia.»
«Ehi,
ho un'idea!»
«Ho
quasi paura di sentirla.»
«Non è
così terribile. Stavo pensando che oggi non abbiamo programmi...»
«No,
credo di no»
rispondo lentamente, chiedendomi a quale conclusione sia arrivato.
«Beh,
dici sempre che fai la doccia perché non hai tempo di fare il
bagno... perché stamattina non ti prendi il tempo per farlo? Nel
frattempo potrei preparare la colazione – non so tu, ma io ho una
fame da morire, e non credo che in questa stanza ci sia qualcosa di
commestibile.»
Senza aspettare una risposta si alza e fa un mezzo giro intorno al
letto per cercare le mutande – la nonchalance
con cui riesce a muoversi nonostante la nudità è disarmante, io non
credo ci riuscirei. «Tu di solito
cosa mangi a colazione?»
«Caffellatte
e cereali»
rispondo automaticamente, rendendomi conto soltanto in questo momento
che Shannon Leto, batterista di fama internazionale, sta per
prepararmi la colazione. «Però aspetta, per il caffè...»
aggiungo mentre lui sta già scendendo le scale.
«Donna
di poca fede»
mi interrompe, tornando indietro di un paio di scalini per rivolgermi
uno sguardo a dir poco assassino. «Ti pare che un drogato di caffè
come me non sia in grado di usare una normalissima caffettiera
italiana?»
Mi fa l'occhiolino e ricomincia a scendere: ascolto i suoi passi
leggeri sul parquet, seguiti dal rumore delle antine che vengono
aperte e richiuse, e poi dallo sciabordio dell'acqua che dal
rubinetto scorre nel lavandino. Sarebbe bello se tutto questo potesse
essere la normalità, ma la parte realista di me mi avverte subito:
non sarà mai più tutto così perfetto.
*
Colonia, 10 novembre 2013
Jared non riesce a staccare
gli occhi dall'angolo in fondo a sinistra, completamente vuoto ad
eccezione di Christine. Non era mai successo prima. Non era mai
successo che Shannon trascurasse la musica per stare insieme ad una
ragazza – non era mai successo, e di certo nessuno di loro si
aspettava che potesse accadere. Jared sa che Shannon non potrebbe mai
lasciare completamente la musica, sa che non li mollerebbe mai a metà
di un tour, però gli viene naturale chiedersi quante altre volte
dovrà rinunciare alle risate, alle battute, alle stupidaggini che
caratterizzavano ogni sessione di prove.
«Pianeta
Terra chiama Jared Leto, rispondi Jared Leto»
lo prende in giro Tomo, per nulla sorpreso dalle distrazioni del
cantante. «Stai pensando a Shannon?»
«Mi
stavo solo chiedendo cosa sta facendo in questo momento.»
«Forse
sta facendo il turista in giro per Torino. Ah, comunque mi devi venti
dollari.»
«Scusa?»
«Shannon
mi ha mandato un sms»
risponde Tomo, prendendo il cellulare. «Dice: Se
avete fatto scommesse, dì a Jared che ha perso.»
«Gli
hai spifferato che abbiamo scommesso su di lui?»
«Certo
che no! Però immagino che ci conosca, dopo tutti questi anni.»
Jared
mette su un finto broncio, scuotendo appena la testa. «No, aspetta!»
esclama, tornando a guardare Tomo. «Questo
significa che hanno fatto sesso!»
*
Torino, 10 novembre 2013
Daria è scesa dalla camera
da letto a piedi nudi, indossando soltanto le mutandine e la sua
maglietta, e dopo avermi rivolto un breve sguardo ha acceso il
portatile e messo su un po' di musica. La prima canzone che si
sprigiona dalle casse la conosco bene. «Ah, ma allora non facevi
finta: sei davvero una Echelon!» la
prendo in giro, riconoscendo perfettamente il giro di batteria che
apre Conquistador.
«Scusa,
ho attivato la riproduzione casuale. Non ci ho pensato, forse non ti
va di...»
«No, lasciala. Mi
incuriosisce sapere che tipo di musica ascolti. Non... non ascolti
solo le nostre canzoni, vero?» aggiungo
dopo un attimo di pausa, fingendomi spaventato da una simile
eventualità.
«Ti
toccherà scoprirlo da te»
risponde con un sorriso prima di sparire in bagno. Mi fermo per un
istante, ascoltando il lieve cigolio del rubinetto che viene aperto e
lo scroscio dell'acqua che scorre nei tubi. Chiudo gli occhi per un
attimo, immaginando le dita di Daria infilarsi rapide sotto il getto
per testare la temperatura, e poi la immagino tappare la vasca e
scegliere il bagnoschiuma. Apro gli occhi e mi rendo conto che potrei
avere tutto questo – qualcuno da stringere la notte, qualcuno da
baciare la mattina, qualcuno per cui preparare la colazione, qualcuno
da amare –, che potrei averlo già a partire da oggi, se
solo... se solo rivoluzionassi completamente la mia vita. È inutile
prendersi in giro: nella mia attuale condizione, non posso essere
quello che Daria ha asserito di volere. In questo momento non posso
permettermi di essere il suo uomo ideale: non posso starle accanto
ogni giorno, non posso essere il suo confidente, sicuramente non
potrei darle dei figli e sicuramente non potrei essere un padre –
non un buon padre. Non sono un uomo stabile, in questo momento
– ma Dio solo sa quanto vorrei poterlo essere.
Mi volto verso i fornelli e
inizio a scaldare in padella alcune fette di pane, mentre inizia una
nuova canzone. Cerco di capire di quale artista si tratti e nel
contempo tento di non perdere di vista la colazione, e proprio mentre
sto per chiederle il titolo della canzone sento la sua voce arrivare
dal bagno: «That's the way you make me feel,
better than I've ever known it, better than it's ever been, I can't
seem to control it, no, it's the way you make me feel4.»
Sorrido e torno a concentrarmi sul pane, mentre Daria, probabilmente
dimentica del fatto che sono qui e posso sentirla, continua a seguire
il testo della canzone.
Abbasso
la fiamma, sposto la padella e metto sul fuoco la caffettiera, come
il più navigato degli chef, mentre dal bagno arriva il chiaro rumore
di un corpo che si immerge in una grande quantità d'acqua. Non
riesco ad impedirmi di pensare al corpo nudo di Daria, al fatto che
sia a così poca distanza dal mio, e anche se non lo vorrei – e
nemmeno me lo aspetterei, data la recentissima attività – non
posso impedire al mio corpo di reagire. «Porca puttana,
Shannon, comportati da persona civile!»
sibilo, rivolgendomi in maniera piuttosto inequivocabile a me
stesso.
«Hai detto qualcosa?»
«No, niente»
ribatto in fretta. «Chi è questo? Mi ricorda Peter Gabriel»
aggiungo in fretta, riferendomi alla canzone che sta terminando.
«Non vorrai farmi credere
che non riconosci Bryan Adams5?»
risponde lei in tono sorpreso. «Io adoro Bryan Adams. Credo
sia uno dei miei artisti preferiti.»
«Non
lo conosco bene, però questa mi piace.»
«Oh, come autore è
assolutamente splendido. Mi sono innamorata di lui a dodici anni,
vedendo Spirit. È impossibile non innamorarsi di quelle
canzoni.»
«Da come sospiri direi che
ti sei innamorata di lui, non delle sue canzoni»
ribatto, versando un po' di cereali in una scodella e cercando il
cassetto delle posate.
«Non dirmi che sei
geloso!»
«Potrei esserlo.»
«Andiamo, come se potesse
mai succedermi di incontrare...»
Si blocca all'improvviso, come rendendosi conto che è difficile dare
una definizione di impossibile, alla luce dei nuovi
avvenimenti. «Beh, in effetti è anche un uomo affascinante. Anche
se da quel punto di vista il mio preferito resta John Rzeznik6.»
«Stai
cercando di provocarmi?» le
domando mentre esploro il frigorifero alla ricerca di qualcosa da
spalmare sul pane tostato.
«Perché, funziona?»
mi sento rispondere.
«Potrebbe»
confermo, trovando un vasetto di marmellata.
«Lo trovo piuttosto
strano. Insomma, sei Shannon Leto, batterista di fama internazionale!
Non dovresti farti buttare giù tanto facilmente.»
«Ammetterai che è
difficile non deprimersi, se la ragazza con cui hai passato la notte
afferma di preferirti un altro uomo.»
«Non ho detto di preferire
un altro uomo, ho detto che John Rzeznik è uno dei musicisti più
affascinanti che abbia mai visto.»
«A
me sembra la stessa cosa»
ribatto, trovando in uno scatolone un vassoio di legno laccato che
sembra proprio fare al caso mio.
«Non è la stessa cosa.»
Non rispondo, impegnato a
sistemare ogni cosa con precisione: il piatto con le fette di pane
spalmate di marmellata, la scodella di cereali, un piccolo bricco di
latte bollente, due tazzine colme di caffè, una tazzina colma di
zollette di zucchero, una scelta piuttosto vasta di cucchiai e
cucchiaini e due tovaglioli di carta recuperati da una confezione che
sembra finita sotto uno schiacciasassi. Prima di raggiungerla salgo
in camera per mettermi i pantaloni, convinto di riuscire a darmi
maggior contegno, e mentre torno al piano di sotto noto, gettata alla
rinfusa dentro uno scatolone, un'orchidea di stoffa. Completo la
composizione infilando il fiore di un bicchiere vuoto, e sorrido
guardando il risultato finale – per nessuna ragazza ho mai fatto
tanto.
La prima reazione, quando
Shannon entra in bagno reggendo un vassoio colmo all'inverosimile, è
di coprirmi la bocca con le mani, stupita da una tale intraprendenza.
Non riesco a dire una parola mentre lo guardo appoggiare il peso
sullo sgabello che ha fatto scivolare accanto alla vasca a suon di
pedate, né mentre si siede per terra, separato da me soltanto da uno
strato di ceramica.
«Non è che ci fosse molto
in frigorifero, ma almeno ci ho provato»
sorride. «Anche se non avrei dovuto, visto che tanto mi preferisci
John Rzeznik» aggiunge,
fingendosi scocciato.
«Hai fatto un ottimo
lavoro» rispondo alla fine,
sporgendo un braccio fuori dalla vasca per accarezzargli il dorso
della mano. «E comunque non ho detto che preferisco John Rzeznik a
te. È una cosa diversa.»
«Diversa
in che senso?» mi domanda. «Il
latte lo verso sui cereali?»
«Sì, e versaci anche il
caffè. Tutta la tazzina, va bene. E una zolletta di zucchero, per
favore» rispondo, riportando il
braccio dentro l'acqua. «È
diverso nel senso che io non ti ho mai considerato affascinante.
Non nel senso classico del termine, almeno.»
«Oh,
ti prego, continua a ferirmi!»
Non riesco a fare di meno
di sorridere, mentre lui finge di contorcersi come per una pugnalata
immaginaria. «Shannon, io vi seguo dai tempi di A Beautiful Lie,
e sinceramente non ho mai... insomma, il fascino è una cosa diversa.
Tu sei uno che... o meglio, io immaginavo che tu fossi uno che...»
«...uno che va in giro a
strappar via le mutande alle ragazze dopo i concerti?»
«Detta così sembra
brutta, eh?» Lo guardo passarsi
la lingua sulle labbra e alzare un po' un sopracciglio, come per
sottolineare il concetto. «Il fatto è che... tu mi sei sempre
piaciuto un sacco dal punto di vista... beh, fisico, e non mi
sono mai fermata a pensare al tuo lato... oh, insomma, tu sei
Shanimal, chi pensava che avessi un lato...»
«Pensante?»
Mi
sciacquo le mani e prendo la scodella di cereali e un cucchiaio. «Sto
per dire una cosa che probabilmente ti sorprenderà»
inizio, mettendomi in bocca una quantità di cibo non indifferente,
«ma prima di sabato scorso pensavo a te principalmente come ad un
mero oggetto sessuale.» Si blocca
nell'atto di mordere una fetta di pane, e resta a guardarmi con
un'espressione che definirei spaventata.
«Insomma, io... ho avuto anni e anni per immaginare un
milione di cose che avrei fatto con te se ne avessi avuta
l'occasione, e... e poi sabato ti ho conosciuto, ho parlato con te, e
sono tornata a casa con un indirizzo e-mail e la convinzione che
volessi rivedermi soltanto per sbattermi su un letto o contro il
primo muro per... Non ti ho mai considerato affascinante»
concludo, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi. «Eri un
bel pensiero, una... una fantasia che mi faceva compagnia nei
momenti più spenti. Solo che poi ti ho conosciuto, e... tu non sei
affascinante, no. Un tipo affascinante è uno che ti porta fuori a
cena e a ballare, e si intende di vini e di cose inutili, e che alla
fine vuole le stesse cose che vogliono gli altri. Tu invece sei... tu
sei il primo uomo con cui mi sento davvero a mio agio, anche se non
lo dimostro, perché tu non menti. Tu sai quello che vuoi e non hai
paura di dirlo forte e chiaro, e se... e se da me tu volessi solo...
solo questo, solo il sesso, a me... ecco, non dico che mi
andrebbe bene, ma apprezzerei la sincerità. Ecco, tu non puoi essere
un tipo affascinante perché sei sincero, sei diretto. I tipi
affascinanti ti promettono tanto, ma alla fine ti deludono come tutti
gli altri.»
Ricordo di aver letto, una
volta – non ricordo dove –, che quando si è nudi o ubriachi si
ha una strana tendenza a dire la verità. Dev'essere perché la
nudità rivela i tuoi punti deboli – ma vale anche per l'alcool –,
facendoti sentire scoperto e invulnerabile. In questo momento Daria è
completamente nuda, dunque secondo quella teoria ciò che ha appena
detto dev'essere la verità. Mi considera un uomo sincero, un uomo di
valore, e sarebbe disposta ad accettare ogni mia decisione.
«Non
voglio soltanto sesso da te»
rispondo a bassa voce, sperando che alzi gli occhi sul mio viso. «Il
sesso è facile da trovare, specialmente per uno nella mia
situazione. Io voglio che tra di noi le cose funzionino in modo
serio. Voglio che tu sia quella per cui litigare con Emma per
ottenere un pass per il backstage, voglio che tu sia quella a cui
mando un sms prima di uno show, voglio che tu sia quella a cui
telefono appena lo show è finito. Voglio che tu sia la ragazza che
gira per casa con le mie magliette, voglio che tu sia quella che
dissemina confezioni di assorbenti in giro per il mio bagno, e voglio
che sia tu quella che mi tira via le lenzuola la notte.»
«Shannon...»
«Non succederà entro i
prossimi sei mesi, forse nemmeno entro il prossimo anno, ma io non
voglio nemmeno provare ad immaginarmelo un futuro senza di te»
la interrompo. «Trovo già assurdo il fatto che abbia dovuto
aspettare quarantatré anni prima di conoscerti»
aggiungo con un sorriso, mentre i suoi grandi occhi azzurri si velano
appena, come se le lacrime fossero in agguato. «Ehi, adesso non ti
commuovere, ok?» le sussurro,
accarezzandole una guancia. «A che stai pensando?»
«Sei un uomo piuttosto
strano» sorride. «Ti dico che
fino all'altro ieri ti vedevo come un oggetto e tu rispondi che vuoi
passare il resto della vita con me»
aggiunge. «Ammetterai che non è da tutti.»
«Sei la mia occasione di
essere felice» ribatto, facendo
risalire la mano fino al suo orecchio, sfiorando con la punta delle
dita i capelli umidi. «Sei la mia occasione di essere mostruosamente
felice, più di quanto lo sia mai stato. È un'occasione che non
posso respingere.»
*
Colonia, 10 novembre 2013
Jared e Tomo hanno deciso
di mangiare fuori, in un ristorante vegano scoperto da Emma dopo ore
di ricerche incrociate tra Google Maps e TripAdvisor. Tomo un po'
storce il naso quando il cameriere gli piazza davanti una ciotola
colma di verdure dall'aspetto bizzarro, ma sa di doversi adattare –
Jared gli ha promesso di accompagnarlo all'aeroporto a prendere
Vicki, ma a condizione di condividere un pasto vegano.
Il
cantante si getta sulla propria insalata come un vero e proprio
ruminante, mentre l'altro cincischia un po' con il cibo, prima di
dire: «Io questa roba la mangio, ma sia chiaro: paghi tu.»
«Col
cavolo»
biascica l'altro, mostrando di gradire il pasto.
«Tanto
venti dollari me li devi, no?»
«Col
cavolo!»
ripete Jared. «Non mi fido di quel messaggio, potresti essertelo
mandato da solo.»
«Quello
che dici è assurdo. Non lo farebbe nemmeno un dodicenne!»
«Forse
è assurdo o forse no, ma la sostanza non cambia: non ti pago se non
ho le prove.»
«Quali
prove ti servono? Il lenzuolo macchiato di sangue? Il preservativo
usato?
Per l'amor del cielo, non siamo più nell'Ottocento! E poi mi fido di
Shannon: se dice che ci è stato a letto, ci è stato.» Tomo fissa a
lungo Jared, che continua a ruminare e non risponde. «Piuttosto,
dì la verità: non riesci a credere che si sia davvero trovato una
ragazza. È una cosa che non riesci proprio a concepire.»
«Ma
certo che riesco a concepirla. È una cosa normale, avere... insomma,
avere delle relazioni. Non c'è niente di strano.»
«A
meno che tu non sia un Leto. È la prima volta che ha una storia
seria, o che perlomeno ci si avvicina?»
«No,
non è la prima volta. Insomma, tutti e due abbiamo avuto una storia
importante. Non è che siamo sempre stati...»
«Bestie
da monta?»
suggerisce l'altro con un sorriso.
«Non
ti facevo tipo da usare termini così volgari, Tomislav!»
esclama Jared, fingendosi scandalizzato. «Beh,
di me e Cameron lo sai... di lui però non so se te ne posso parlare.
Shannon non ne parla mai, nemmeno con me»
aggiunge, abbassando un po' il tono. «All'epoca era giovane,
andavamo ancora al liceo.»
«Mi
sono sempre chiesto che tipo fosse da ragazzo. Insomma, per come lo
conosco mi viene da pensare che fosse un gran cazzone, ma non so
se...»
«Dottor
Milicevic, lei ha perfettamente centrato la diagnosi»
conferma Jared con un sorriso. «Eravamo entrambi dei cazzoni, in
realtà. Rispetto ad allora, adesso siamo due tranquilli uomini di
mezza età.»
Giocherella con una foglia di insalata, indeciso se continuare a
parlare o costringersi a tacere ruminando un altro po'. Alla fine,
prevale il desiderio di soddisfare le curiosità dell'amico. «C'era
una ragazza che gli piaceva un sacco. Era nella mia classe, e lui le
moriva letteralmente
dietro. Eppure c'erano un sacco di ragazze nella nostra scuola,
intendo un sacco di ragazze che morivano dietro a lui,
però... non erano Christine. Personalmente, non la trovavo così
bella: aveva un fisico da urlo, ma con il naso che si ritrovava...
accidenti, sul suo viso spiccava come un cactus nel deserto. Rideva
un sacco, questo me lo ricordo. Rideva per cose divertenti,
intendo... non era un'oca che rideva per riempire i silenzi. Era una
ragazza intelligente, non era la prima della classe ma ci mancava
poco.»
«Decisamente
diversa dalle ragazze che l'ho visto frequentare in questi anni.»
«Già...
fatto sta che non se lo calcolava proprio. Lui faceva sempre lo scemo
per farsi notare, e ogni volta lei... non lo calcolava, proprio
sembrava non lo vedesse. Poco prima del ballo di fine anno mi disse
che intendeva chiederle di uscire, e sapendo che in quelle condizioni
non aveva molte possibilità di riuscita, decisi di parlare con lei.»
«Cioè
sei andato a parlare con lei per convincerla ad uscire con lui?»
Jared
annuisce, spostando la foglia di insalata da un lato all'altro della
ciotola. «Non mi diede nemmeno il tempo di iniziare. Mi disse che
sapeva che cosa stavo cercando di fare, e che non aveva bisogno di
sentire le mie ragioni. Mi disse che Shannon le piaceva, e che se
aveva sempre finto di non interessarsi a lui era perché aveva paura
che lui volesse soltanto usarla.»
«Ma
non era così.»
«Per
niente. Lui era proprio innamorato. A volte mi è persino venuto il
dubbio che volesse sposarla appena avesse finito la scuola, o qualche
stronzata simile. Era proprio preso.»
«E
come finì?»
«Finì
che andarono al ballo insieme, e dopo si appartarono dietro il campo
da football. Shannon tornò a casa alle cinque del mattino, e non si
reggeva in piedi.»
«Ubriaco?»
Jared
scuote la testa. «Stanco morto, non aveva mai...»
Si interrompe di colpo, rendendosi conto di aver detto troppo. «Non
dirgli mai che te l'ho detto.»
«Cosa,
che ha perso la verginità a diciotto anni suonati?»
«Esatto.
E... beh, non dirgli mai nemmeno che ti ho parlato di Christine. Mi
ucciderebbe se lo sapesse.»
«Il
tuo segreto è al sicuro»
risponde Tomo, tracciandosi una croce all'altezza del cuore. «E poi
com'è andata avanti? Si sono messi insieme?»
«Per
tutta l'estate furono inseparabili. Qualcuno li chiamava addirittura
Mastice. Alle feste
sparivano dopo cinque minuti, e dopo un paio d'ore li trovavi a
pomiciare nei cespugli, o nei sottoscala. Poi a settembre lei
cominciò l'ultimo anno, lui si trovò un lavoro, e a ottobre lo
mollò.»
«Lei
mollò lui?»
«Brutalmente
e senza un motivo plausibile»
conferma Jared. «Gli disse che non era sicura di volere una storia
così impegnativa a soli diciotto anni, gli disse che voleva
concentrarsi prima sugli studi e sulla carriera e solo dopo
sull'amore, gli disse che avrebbero potuto rimanere amici e provarci
di nuovo in seguito... sai, tutte quelle stronzate che si raccontano
quando in realtà sei stanco di una persona e vuoi scrollartela di
dosso senza ferirla.»
Smette di torturare l'insalata e appoggia la forchetta a lato del
piatto. «Il problema
è che lui è rimasto ferito, e anche piuttosto pesantemente. Per lui
quella ragazza è stata importante, importante quasi più
dell'ossigeno. Vedersi respinto a quel modo... credo sia stata una
sorta di trauma.»
«Sì,
è una di quelle cose che ti fanno passare per sempre la voglia di
innamorarti.»
Jared
annuisce di nuovo, mordicchiandosi un labbro. «Sono passati
venticinque anni, e non l'ho più visto guardare una ragazza come
guardava Christine... fino all'altra sera.»
«Mi
auguro che non stia prendendo un abbaglio.»
«Forse
è prematuro, ma lo escludo. Dopo quella volta, Shannon in amore ci
va con i piedi di piombo. Credo sia molto sicuro di quello che fa.
Deve essere sicuro che questa ragazza può renderlo felice, oppure
non... non si lascerebbe andare così.»
*
Torino, 10 novembre 2013
«Come sarebbe a dire che
non vieni a pranzo?» Nella voce
di Francesca colgo una leggera nota piagnucolosa, come quando da
bambina faceva i capricci per cercare di ottenere quello che voleva.
Ma oggi come allora, mi mostro inflessibile.
«Non vengo a pranzo perché
gli scatoloni arrivano al soffitto, e in settimana non sono riuscita
a sistemare niente. Questo appartamento inizia a sembrare una
bidonville. Se per caso salgono i padroni di casa che figura ci
faccio?»
«Ma
domani è lunedì, non devi lavorare. Puoi sistemare anche domani!»
«Franci, è già tanto se
per stasera riesco a disimballare tutte le mie cose. E poi ho anche
il bucato da fare. Dai, nonna capirà. E poi non è che se salto un
pranzo della domenica crolla la Mole.»
Seduta su uno degli sgabelli della cucina, mi pizzico distrattamente
una coscia con due dita. «E non crolla nemmeno se per una volta non
mangio come un cammello: i jeans iniziano di nuovo a tirarmi.»
«Ma stai zitta, non sei
grassa!»
«Non ho detto di essere
grassa, ho solo detto che ho messo su un paio di chili e che i jeans
mi stanno stretti.»
«E allora vai in palestra»
ribatte pronta mia sorella. A volte mi chiedo se non sia Alice ad
avere in comune con lei metà patrimonio genetico.
«La
palestra costa» rispondo io. E
poi ho appena trovato un modo decisamente più appagante di fare
esercizio, penso mentre con la coda dell'occhio vedo Shannon
uscire dal bagno, fresco di doccia – con i capelli bagnati e
l'asciugamano legato in vita è quasi più sexy che completamente
nudo. «E poi devo anche uscire a fare la spesa, ho frigo e dispensa
assolutamente vuoti.»
«Comunque nonna ci rimarrà
male.»
«Più tardi la chiamerò
per scusarmi.»
«Emanuele mi ha detto di
dirti di portare qui il culo, altrimenti toccherà a lui
sparecchiare, e non ne ha proprio voglia.»
Sto per rispondere, ma il
bacio che Shannon mi posa sulla nuca mi distrae: i suoi capelli
bagnati sfiorano la mia pelle e mi inumidiscono la maglietta, mentre
le mani scivolano sul mio ventre e mi stringono forte a lui. «Dì a
Emanuele che il mio culo sta benissimo dove sta»
concludo. «Dai, adesso vado, altrimenti non finisco più.»
Le solite formule di saluto, poi interrompo la comunicazione e
rilasso la schiena, lasciandomi andare contro il torace solido e
compatto di Shannon.
«Li
hai convinti?»
«Credo di sì. A meno che
mia nonna non inventi il teletrasporto e si fiondi qui all'istante
per prendermi per i capelli e portarmi a pranzo, direi che per questa
volta siamo a posto. Ma non ci pensare neanche»
aggiungo, sapendo che quello che sento alla base della schiena non è
soltanto il nodo dell'asciugamano, «adesso ti vesti e mi accompagni
a fare la spesa. Niente distrazioni.»
«Niente distrazioni, va
bene.»
Il supermercato è quasi
vuoto, fatta eccezione per un paio di cassieri che parlano tra loro
di pallone e programmi per la serata e per una decina di persone che
probabilmente sono uscite soltanto per sopperire a qualche urgenza.
Da bambino adoravo spingere il carrello della spesa, perciò Daria
non ha nemmeno bisogno di chiedere: mi metto subito alla guida e la
seguo diligentemente lungo le corsie, senza lamentarmi nemmeno quando
mi accorgo che mi toccherà trasformarmi in un mulo per aiutarla a
portare a casa tutto quello che sta accatastando.
Il nostro percorso si
incrocia con quello di una coppia di anziani che ci guarda e sorride:
impegnata a scegliere la marca più conveniente di carta igienica,
Daria non se ne accorge, ma io noto il loro sguardo e ricambio il
sorriso. Poi torno ad osservare lei, conscio di sembrare un vero e
proprio adolescente innamorato: spero che tra quarant'anni saremo noi
i due anziani che sorridono alle giovani coppie – lo spero, lo
spero davvero.
In
ascensore, Shannon è stato in piedi dietro di me per tutto il tempo,
ad una distanza di pochissimi centimetri, respirando piano sul mio
collo nudo. «Che stai cercando di fare?»
gli ho domandato tra il terzo e il quarto piano.
«Io? Assolutamente niente»
ha sussurrato, senza spostarsi di una virgola. «Sono solo in piedi
dietro di te.» Come se non
sapesse che saperlo dietro di me ad una così breve distanza mi fa
venire voglia di voltarmi e... no, Daria, no. Per oggi avete altri
piani, ricorda.
Resisto finché non si
chiude alle spalle il portone, ma non riesco a dominarmi oltre.
Appoggio a terra le due borse che porto, mi volto e lo bacio con una
passione che fino ad una settimana fa non mi sarei mai attribuita.
Risponde al bacio con la medesima intensità, ma senza lasciar andare
la spesa. «A-ah, avevamo detto niente distrazioni o sbaglio?»
sussurra dopo qualche istante, scostandosi da me.
«Si può cambiare idea,
no?»
«Assolutamente no. Adesso
dobbiamo mettere a posto la spesa, mangiare, finire di mettere a
posto le tue cose... non puoi continuare a considerarmi un mero
oggetto sessuale. Ho dei sentimenti, io!»
Sorride ancora, cattura le mie labbra in un ultimo bacio leggero e mi
precede in cucina. «Dovevo immaginarlo, nessuna donna che mi abbia
provato poi è riuscita a fare a meno di me. Comportati bene, e forse
ne avrai ancora.»
Lo seguo con un sorriso e
inizio a svuotare le buste.
È la più bella domenica della mia vita.
1Abbi
una felicità delirante, o almeno non respingerla. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una
battuta pronunciata da William Parrish (interpretato da Anthony
Hopkins)
nel film Vi
Presento Joe Black
(1998).
2Penso
che è stupendo restare al buio abbracciati e muti, come pugili dopo
un incontro, come gli ultimi sopravvissuti.
| Si
tratta di un verso tratto dalla canzone I
migliori anni della nostra vita di
Renato Zero,
contenuta nell'album Sulle
Tracce Dell'Imperfetto
(1995). Viene considerata una delle più celebri canzoni italiane;
molti artisti in tutto il mondo ne hanno tratto una loro personale
versione, ma la più celebre e apprezzata oltre all'originale resta
quella della cantante italiana Mina.
3Raining
on Sunday
| Si tratta di una canzone interpretata dal cantante Keith
Urban,
contenuta nell'album Golden
Road
(2002). Qui c'è il link
al video, che è... ispiratore.
Per non parlare del testo.
4That's
the way you make me feel, better than I've ever known it, better than
it's ever been, I can't seem to control it, no, it's the way you make
me feel | Si tratta di un verso
tratto dalla canzone The
way you make me feel di Bryan Adams, contenuta
nell'album Bare Bones (2010).
5Bryan
Adams |
Cantautore canadese, nato a Kingston il 5 novembre 1959. In attività
dal 1975, ad oggi ha pubblicato quindici album; in trent'anni di
carriera ha venduto oltre cento milioni di copie, ed è l'artista
maschile canadese con il maggior numero di vendite. Tra i singoli di
maggior successo vanno ricordati: (Everything I do) I do it for
you (1991), contenuto nella colonna sonora del film Robin
Hood: Principe Dei Ladri (1991); It's only love (1985),
eseguita in duetto con Tina Turner; I finally found someone
(1996), eseguita in duetto con Barbra Streisand. È inoltre
autore della colonna sonora del film d'animazione Spirit, Cavallo
Selvaggio (2002).
6John
Rzeznik
| Nato a Buffalo il 5 dicembre 1965, è il frontman della band
alternative-rock Goo Goo Dolls. In attività dal 1986, la band
ha pubblicato tredici album e venduto più di dieci milioni di copie.
Tra i singoli di maggior successo vanno ricordati: Iris
(1997), contenuto nella colonna sonora del film La Città Degli
Angeli (1997), Better days (2005); Rebel beat e
Come to me, entrambe contenute nell'ultimo album della band,
Magnetic (2013).
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Capitolo 12 *** 12 | 'Quanto manca alla nostra separazione?' 'Un'eternità. Hai ancora molto da imparare.' ***
Portagioie di tristezza | 1
Portagioie di tristezza
Capitolo dodicesimo
“Quanto manca alla
nostra separazione?”
“Un'eternità. Hai
ancora molto da imparare.”1
Torino,
10 novembre 2013
«Onestamente, quando hai
bussato alla porta del bagno e hai detto che te ne stavi andando,
ho... credevo fosse soltanto una tattica. Sai, una strategia per
farmi uscire.»
«Ci avevo pensato, ma ho
capito subito che non avrebbe funzionato. Sei troppo intelligente per
cascare in un trucchetto così bieco» rispondo. «Però hai aperto.
Che cosa ti ha convinta?»
«Non lo so. Forse il tono
della tua voce. Sembrava... sembrava proprio che avessi perso ogni
speranza.» Si fruga in tasca e tira fuori la collana che ieri le
avevo restituito. In effetti iniziavo a chiedermi che cosa ne fosse
stato. «Quando ho aperto la porta e ho visto questa, ho pensato...
cavolo, ho pensato che non stavi raccontando balle. Te ne stavi
andando davvero.» Si sporge verso di me e mi rimette al collo il
cordoncino: la sua mano mi accarezza dolcemente il collo, supera il
tatuaggio e si ferma all'altezza del cuore, aggiustando il ciondolo.
«Ho pensato che stesse finendo tutto, anche se non sapevo bene che
cosa fosse cominciato.»
«Quindi mi sei corsa
dietro perché...»
«...perché ti volevo
nella mia vita. Perché ti voglio nella mia vita. Ti voglio
disperatamente nella mia vita.» Sorride, ritirando la mano.
«E poi io ho ancora il tuo libro. Non potevo lasciarti andare via
così. Ti saresti ricordato di me come della stronza che si è tenuta
le tue cose.»
«Non potrei mai pensare a
te come ad una stronza» ribatto subito. «Che significato ha?
Insomma, perché un bullone e non un'altra cosa?»
«Una storia lunga e
complicata» risponde, tornando a concentrarsi sul piatto di
spaghetti. «Anche piuttosto stupida, a dire il vero.»
«Beh, sentiamola.»
Osservo attentamente i suoi movimenti e cerco di riprodurli, sperando
di riuscire a non combinare disastri.
«Non so se te l'ho già
detto, ma mio padre di lavoro è falegname. Ha un piccolo laboratorio
a pochi passi da dove abitiamo. Abitavo» si corregge subito,
ricordandosi che non vive più lì. «Dopo il divorzio da mia madre,
spesso stavo da lui dopo la scuola, per alleggerire un po' il lavoro
di mia nonna. Emanuele e Francesca erano molto piccoli, avevano
bisogno di molta più attenzione. Io non avevo grandi necessità a
parte fare i compiti, ma quelli li potevo fare ovunque.» Mastica un
piccolo boccone e ricomincia a parlare. «Mi piaceva stare con lui:
mi piaceva l'odore del legno, mi piaceva vederlo lavorare... ma
soprattutto mi piaceva l'idea di passare del tempo con lui. Credo...
forse inconsciamente avevo paura che anche lui se ne andasse. Forse
pensavo che trascorrendo tanto tempo con lui lo avrei potuto tenere
d'occhio e impedirgli di andare via.»
«Era un pensiero molto
dolce.»
«Sì, ma anche un po'
spaventoso. A dieci anni si dovrebbe avere paura del buio, o dei
ragni, non di... beh, comunque stavo un sacco di tempo con lui, e
quando finivo i compiti mi permetteva di aiutarlo. Si faceva passare
la carta vetrata, i chiodi... mi chiamava sempre 'assistente',
mi faceva ridere un sacco.»
«Ti faceva sentire
importante. Un bambino dovrebbe sempre sentirsi importante.»
La guardo annuire mentre
mastica di nuovo. «Una volta lo stavo aiutando, e mi chiese di
passargli un bullone. Andai a frugare nel cassetto dove li teneva, e
ne trovai uno senza dado. Gli chiesi come mai non ci fosse il dado, e
lui mi rispose che a volte succedeva: probabilmente il commesso della
ferramenta non lo aveva avvitato bene e quello si era perso per
strada.» Arrotola dell'altra pasta sulla forchetta, ma invece di
mangiare la fissa con sguardo triste. «Mi ricordo la mia risposta
come se fosse passato un giorno soltanto.»
«Che cosa gli
rispondesti?»
«Gli risposi che forse lui
e mia madre erano come quel bullone e quel dado. Gli risposi che
quando si erano sposati forse non si erano avvitati bene, e lei si
era persa per strada.» Alza gli occhi su di me, e li vedo lucidi di
lacrime. «Ammetterai che sono un tipo strano. Non è il genere di
pensiero che ti aspetteresti da una ragazzina di quinta elementare.»
«Direi di no, decisamente.
Ma questo non fa di te un tipo strano. Vuol dire che sei una persona
profonda. Una persona che pensa, soprattutto.» Allungo la
mano sul ripiano lucido del bancone e stringo la sua con un sorriso.
«Che cosa ti rispose lui?»
«Credo di averlo
spiazzato, tanto per cominciare. Ricordo che mi guardò con tanto
d'occhi, neanche gli avessi detto di essere la reincarnazione di
Satana. Poi mi fece sedere e mi spiegò che forse era così, ma che
in nessun caso dovevo pensare che quello fosse il destino di tutte le
relazioni. Beh, lui non disse 'relazioni', disse 'cose', ma con il
passare del tempo capii che intendeva dire che... che non tutti i
matrimoni devono per forza finire male, ecco. Comunque alla fine mi
ficcò in mano il bullone, dicendomi di conservarlo.»
«Perché avresti dovuto
conservarlo?»
«Beh, per rassicurarmi mi
disse che a volte succede che un bullone e un dado si perdano, ma
questo non significa che debbano per forza restare separati per
sempre. Mi spiegò che ogni bullone può andare d'accordo con più
dadi, e viceversa. Perciò mi disse di conservarlo e di tenere sempre
a mente che un giorno avrei potuto trovare un dado che ci si
adattava. Anni dopo ho capito quello che voleva dire, e cioè che
solo perché lui e la mamma avevano divorziato, non significava che
avrebbero dovuto rimanere soli per sempre.» La guardo ridacchiare
appena, prima di infilarsi in bocca la forchetta carica. «In effetti
è una scena quasi comica, a ripensarci. Fa molto maestro Miyagi,
non trovi?»
«Sì, in effetti è un
discorso molto zen» concordo, ridendo con lei. «Come ti venne
l'idea di metterlo al collo?»
«Non lo so, mi sembrò la
cosa più intelligente da fare. Era l'unico posto dove sarei stata
certa di non perderlo mai. Chiesi a mia nonna un laccetto e feci
diventare scemo mio nonno cercando un modo per annodarlo in modo che
non si potesse perdere.»
«Hai sempre avuto la
bizzarra tendenza a far impazzire la gente, vedo.»
«Immagino di sì. Ehi, hai
finito la pasta!» esclama, indicando il mio piatto.
Abbasso gli occhi e noto
che, concentrato sul suo racconto, sono riuscito a mangiare senza
sporcarmi e senza spargere spaghetti ovunque – è la prima volta
che ci riesco. «Accidenti, sì! Avevo veramente bisogno della tua
presenza per evitare di combinare disastri, pare.» Torno a
guardarla, e vedo che è lievemente arrossita, come se lo ritenesse
un complimento non necessario. «Posso chiederti una cosa?» Alza gli
occhi e annuisce, senza dire niente. «Perché lo hai dato a me?
Insomma, da come ne hai parlato sembra... beh, per te è una cosa
importante. Ha un significato profondo. Perché lo hai dato a me?»
«Perché tu mi hai dato il
tuo libro?» ribatte, con una prontezza che sinceramente non mi
aspettavo. «Te lo ha regalato tua madre, me lo hai detto. E ho visto
che dentro c'è anche una sua dedica. È una cosa ugualmente
importante, un oggetto prezioso, a suo modo. Perché lo hai
dato a me?»
«Mi sono voluto fidare di
te» rispondo dopo un breve silenzio. «Non mi fido facilmente delle
persone. Sono un tipo solitario, uno che è rimasto ferito e che non
ha voglia di esporsi. Lo so, appaio sempre come un tipo socievole, ma
la verità è che prima di far entrare qualcuno nella mia vita ho
bisogno di conoscerlo, di conoscerlo bene. Ho pochissimi amici, ma le
persone a cui riesco a parlare veramente di me stesso sono ancora
meno. Credo che l'unica persona a conoscermi veramente sia
Jared.» Il piatto è ormai vuoto, perciò ci appoggio dentro la
forchetta e focalizzo tutta la mia attenzione su di lei e sulla mano
che ancora le sto stringendo. «Lunedì ci siamo promessi di
rivederci, ci siamo promessi delle cose importanti, e io mi
sono voluto fidare di te. Ho voluto credere che quelle parole non
sarebbero rimaste solo parole, ma che si sarebbero tradotte in fatti.
Darti il mio libro significava... beh, significava che ero davvero
sicuro di volerti rivedere. E soprattutto significava che ero quasi
certo che ti avrei rivista.»
«Capisco» sussurra,
tenendo gli occhi bassi. Devo tendere l'orecchio all'inverosimile,
pur di cogliere le sue parole. «Allora credo di dover ammettere che
l'unico motivo per cui ti ho dato la mia collana è che... beh,
anch'io mi sono voluta fidare di te. Ho voluto credere che le tue non
fossero promesse da marinaio, ho... ho voluto credere che ti avrei
rivisto davvero. E poi ho... mi sono voluta convincere che tu
fossi... che tu potessi essere il pezzo in grado di
completarmi. Accidenti, detto così suona proprio come una stronzata
romantica, eh?»
«Qualche stronzata
romantica ogni tanto non fa male, non credi?» ribatto, prendendole
anche l'altra mano. «Te l'hanno mai detto che sei una persona
stupenda? Insomma, non solo in senso fisico. Sei una persona
speciale. Sono contento di essere uscito a fumare quella sigaretta,
sabato sera.»
«Anch'io sono contenta che
tu l'abbia fumata» sorride, alzando finalmente lo sguardo.
Sorrido, e per la prima
volta in vita mia sento il cuore leggero: penso davvero quello
che ho detto, sono davvero felice. Finalmente mi sento una
persona normale – finalmente sono come tutte le altre
ragazze.
«Dei tuoi fratelli cosa mi
dici?»
«Cosa vuoi sapere?»
«Qual è la loro storia?
Cosa fanno nella vita? Insomma, tu di Jared sai quasi tutto... non
posso essere un po' curioso a proposito della tua famiglia?»
«Non è che ci sia molto
da dire» ribatte, alzandosi per mettere il piatto vuoto nel lavello.
«Siamo gente normale.»
«Per caso è un modo
carino per dirmi che io non sono normale?»
«Non volevo dire questo. È
solo che... beh, paragonata alla tua, la mia famiglia è decisamente
ordinaria.» Evito di rispondere, sperando che il mio silenzio la
convinca a continuare. «Emanuele ha diciannove anni e ha appena
iniziato l'università. Studia Ingegneria informatica, è una specie
di genio dei computer. Ma forse questo te lo avevo già detto.»
«E tua sorella, invece?»
«Lei frequenta ancora il
liceo, ha soltanto sedici anni» risponde, aprendo l'acqua calda.
«Sono quasi certa che diventerà un'artista.»
«Che tipo di artista?» mi
interesso.
«Beh, lei disegna. È
bravissima» sospira. «I suoi disegni sono... sembrano parlare,
a volte. Ha una sensibilità molto particolare.»
«E tuo padre invece
progetta mobili... una famiglia piena di talento, oserei dire.» Mi
alzo e metto anche il mio piatto nel lavandino, poi prendo una spugna
e pulisco il riquadro di bancone dove abbiamo mangiato. «Mi
piacerebbe conoscere bene l'italiano, così potrei leggere le tue
storie.»
«Nessuno legge le mie
storie» ribatte in tono deciso, spremendo un po' di detersivo sulle
stoviglie sporche. «Soltanto Alice ha avuto questo dispiacere, e ne
ha lette soltanto un paio.»
«Perché non vuoi che la
gente legga le tue storie?»
«Perché non sono niente
di che.»
«Tu hai davvero la
bizzarra tendenza a sottovalutarti» commento, arrivandole alle
spalle. «Dici di non essere niente di speciale e invece sei
bellissima, dici di essere stonata e invece hai una voce più che
gradevole, dici di essere un'imbranata a letto e invece...» Mi
sporgo in avanti con la scusa di rimettere a posto la spugna e ne
approfitto per appoggiare le labbra contro la sua nuca. La bacio con
dolcezza, sentendola tremare appena. «Io non so proprio come
convincerti del contrario. Sappi che mi sto impegnando con tutto me
stesso» sussurro. «Anche se mi rendo conto di non essere
affascinante quanto John Rzeznik.»
«Questa cosa di John
Rzeznik non ti è proprio andata giù, eh?» lo prendo in giro,
chiudendo l'acqua.
«Sai com'è, hai
lievemente offeso il mio orgoglio di animale.» In un attimo
mi trovo rivolta verso di lui, le sue labbra di nuovo sul mio collo,
impegnate ad attentare alla mia integrità. «Adoro il tuo profumo,
sai di more e... camomilla» sussurra, mentre le mani scendono a
cingermi i fianchi. «Vieni via con me, domani.»
Ho sempre avuto un udito
piuttosto buono, ma per la prima volta in vita mia non sono certa di
aver capito. «Come, scusa?»
«Vieni con me a
Francoforte. Sei ancora in tempo a comprare un biglietto, e non ti
serve nemmeno il passaporto. Butta due cose in valigia e parti con
me» afferma, guardandomi dritta negli occhi. «Anzi, nemmeno ti
serve, la valigia. Ti compro laggiù tutto quello che ti serve.»
Non posso fare a meno di
sorridere davanti alla sua serietà. «Tu sai di essere matto, vero?
Non posso venire a Francoforte con te.»
«Perché no?»
«Perché ho un lavoro, non
me ne posso andare senza preavviso.» Ci guardiamo a lungo negli
occhi, e devo ammettere che la proposta risulta più che allettante –
però non posso lasciare Marco nei guai, non adesso che Carlotta ha
deciso di essere stanca e si è presa una settimana di permesso.
«Credimi, se fossi libera ci farei un pensiero, ma... non posso. Non
così all'improvviso, almeno.»
«E... non all'improvviso?»
mi domanda. Lo guardo senza capire dove voglia arrivare. «Quando ci
siamo conosciuti mi hai detto che di solito non fai cose avventate, e
questo posso capirlo. Ma se invece... se invece la organizzassimo per
bene?»
«Che intendi? Vuoi
inserirmi nel vostro tour, per caso?»
«Potresti seguirci per un
paio di tappe. Giusto per vedere come sono nel mio ambiente. Dopo
Francoforte saremo a Berlino, Amburgo... se non sbaglio dopo ci
sposteremo in Francia. Dovrei chiedere conferma ad Emma, ma dovrebbe
essere così. Ci potresti raggiungere a... che ne so, Parigi?»
«Una città a caso,
immagino» lo prendo in giro.
«Assolutamente» ribatte
con un sorriso. «Non ricordo con precisione le date, ma dovremmo
spostarci lì verso fine mese. Parigi dovrebbe essere programmata per
il ventisette. Sono più di due settimane, dovresti avere il tempo di
organizzarti e chiedere al tuo capo il permesso di stare a casa.»
«Sì, ci dovrei
riuscire... ma tu non dovresti parlarne prima con gli altri? Non so,
consultarti con tuo fratello, o...?»
«Jared sarà d'accordo. È
stata sua l'idea di farmi passare questi tre giorni con te. Insomma,
praticamente è stato lui a convincermi e ficcarmi i vestiti nel
borsone. Adesso mando un sms ad Emma e mi faccio dare nel dettaglio
tutte le date» aggiunge, staccandosi da me.
«Shannon, ma tu... tu sei
sicuro di volerlo?» Subito dopo vorrei mordermi la lingua, perché
mi sembra di aver usato un tono da bambina capricciosa.
«Se sono sicuro di volerti
con me durante il tour? È ovvio che lo voglio. Insomma, anche solo
per un paio di tappe, voglio che tu ci sia. Io ti ho vista nel
tuo mondo, ti ho vista muoverti nel tuo ambiente, e mi sembra
naturale volere che tu mi veda nel mio. Voglio ricambiare. Voglio che
tu mi veda provare, voglio che tu veda com'è fatto davvero un
backstage, voglio che tu veda... beh, voglio che tu veda come sono. E
poi voglio che tu conosca Jared e Tomo. Loro non vedono l'ora di
conoscerti.»
«Oh, merda!» esclamo.
«Non posso venire.»
«Come? Perché no?»
«Non posso conoscere tuo
fratello. Non posso conoscere Tomo e tuo fratello.
Insomma, loro sono... e io sono...» mi blocco, annaspando alla
ricerca delle parole giuste.
«Quindi non ti disturba
vedere me nudo, ma hai paura di stringere la mano a mio
fratello e ad uno dei miei migliori amici?»
«Scusa, di che ci parlo
con tuo fratello?»
«Di qualunque cosa! Solo,
non dire che non sei vegana, o tenterà di convertirti. E non
accennare al fatto che mi hai visto nudo. Farebbe domande
imbarazzanti.»
«Ok, ricevuto. Il segreto
è non parlare di animali» concludo, ammiccando mentre dico
l'ultima parola.
«Vedo che ci intendiamo
alla perfezione» sorride. Mi appoggia una mano sul fianco e mi
schiocca un veloce e tenero bacio sulle labbra. «Nomina uno dei suoi
film, se ne hai visto qualcuno. Oppure fai un complimento alla nostra
musica. Inizierà a parlare a ruota libera di se stesso o della band
e tu non avrai l'imbarazzo di trovare un altro argomento di
conversazione. È bravo a monopolizzare la scena. È un ottimo
intrattenitore.»
Anche l'altro mio fianco
finisce preda della sua presa, e vedendolo avvicinarsi di nuovo non
posso fare a meno di sorridere. «Anche tu sei un ottimo
intrattenitore, a modo tuo.»
«Bisogna sfruttare le
proprie qualità, no?» La sua bocca finisce di nuovo contro il mio
collo, e la familiare sensazione della lingua che scivola sulla mia
pelle mi fa tremare le ginocchia, come sempre. «Sarà dura starti
lontano.»
«Anche tu mi mancherai»
sussurro, allacciandogli le braccia dietro il collo. Adoro tenerlo
stretto contro di me, è una sensazione stupenda – e non mi
riferisco soltanto al lato sessuale della cosa. Quando sono vicina a
lui sento protetta, mi sento difesa – mi sento come se nulla
potesse colpirmi né ferirmi, finché siamo insieme.
Per quanto ci provi, non
posso resistere: non riesco a starle lontano. Abbracciarla mi fa
sentire completo, come se finalmente avessi uno scopo, come se
finalmente avessi trovato un obiettivo. Quando sono con lei mi sento
diverso – un uomo diverso, un uomo migliore. «Ma che cosa
mi hai fatto, Daria?» sussurro, tornando a guardarla negli occhi.
«Come sei riuscita a stregarmi in questo modo?» I nostri nasi si
sfiorano appena, sento il suo respiro fondersi con il mio, le labbra
sono separate da pochissimi centimetri... «Se adesso ti bacio, non
so se riuscirò a lasciarti andare.»
«Non si era detto 'niente
distrazioni' per questo pomeriggio?» risponde. Si finge seria, come
se non vedessi che i suoi occhi non riescono a non guardare la mia
bocca.
«Sono sempre stato un uomo
debole. Non ho mai saputo resistere davanti ad una bella ragazza,
figuriamoci se...» Non riesco a concludere la frase: le sue labbra
catturano veloci le mie, le sue braccia mi stringono più forte. Al
diavolo le promesse e i progetti: è chiaro ad entrambi che ci
vogliamo, ed è ancor più chiaro, ormai, che ci apparteniamo.
*
Colonia, 10 novembre 2013
Da
quando ha scoperto quella che Tomo ha definito 'la notizia del
secolo', Vicki non riesce a smettere di ridere. Almeno,
pensa il musicista, ho avuto il buonsenso di dirglielo dopo
aver fatto l'amore. La donna si
è tirata il lenzuolo fin sopra la faccia e ha lasciato che l'ilarità
si sfogasse senza porle alcun limite o freno. Seduto con la schiena
appoggiata alla spalliera, Tomo ha atteso per tre minuti buoni che la
moglie si decidesse a darsi un contegno, invano.
«Amore,
so che è una cosa divertente, ma ti spiacerebbe controllarti? Ti
verrà un infarto se continui a ridere così.»
Vicki
si scopre il viso, continuando a singhiozzare per le risate. «No, tu
che fai facce buffe davanti alla telecamera è una cosa divertente.
L'idea di Shannon che si innamora e inizia a pensare di sposarsi e di
mettere su famiglia è spassosa!»
«Chi
ha parlato di mettere su famiglia?» Tomo è più che certo di non
aver parlato di figli.
All'improvviso,
così come ha cominciato, Vicki smette di ridere. «Ma sì che ne hai
parlato.»
«No,
non ho parlato di figli. Ne sono più che sicuro. Se avessi parlato
di figli me ne ricorderei.»
«Beh,
allora forse ho capito male. In effetti forse è un po' prematuro
parlare di bambini. Da quanto si conoscono, una settimana? Sì, è
decisamente presto per parlare di figli.»
«Vicki,
non è che forse... stai cercando di dirmi qualcosa?»
«In
che senso?»
«Nel
senso che... beh, stiamo parlando di figli, e ho pensato...» Tomo si
blocca per un istante e si gratta la nuca, cercando le parole giuste
per continuare. «Insomma, visto che siamo in argomento, credo che a
me piacerebbe.»
«Ti
piacerebbe...»
«...i bambini, dico. Insomma, ti sono sempre piaciuti.» Vicki, ora
completamente seria, guarda il marito con curiosità.
*
Torino, 10 novembre 2013
Non
c'è rumore nella stanza, tranne il lieve cigolio del materasso, il
fruscio delle lenzuola, il ritmo irregolare dei respiri di due
persone che si stanno vivendo
come se ogni secondo potesse essere l'ultimo. Le mani di Daria sul
mio petto, le mie labbra che sfiorano le sue, le sue dita tra i miei
capelli, la mia lingua che segue il solco tra i suoi seni, la sua
schiena che si inarca cercando il mio corpo, il mio naso impegnato ad
immagazzinare il suo odore, le sue mani che mi aiutano ad indossare
il profilattico e poi mi guidano dentro di lei, e ancora il suo corpo
che cambia e si adatta per accogliermi, e il suo respiro che cambia
di nuovo cadenza e diventa più affannoso, la sua voce che si alza di
un'ottava, i suoi gemiti che non danno adito a dubbi, e smascherano
tutto il piacere che le sto procurando. Voglio ricordare tutto,
voglio imprimere ogni istante nella mia memoria, perché è di questi
attimi che mi ciberò quando saremo divisi, quando sarò solo e tutto
ciò che avrò sarà la mia mente. Voglio ricordarmi dell'odore di
camomilla di cui sono intrisi i suoi capelli e voglio ricordare il
sapore di more della sua pelle, voglio ricordare la precisa
sensazione del suo bacino a contatto con il mio, e voglio ricordare
la morbidezza delle sue labbra appena sfiorate dalle mie dita. Voglio
ricordare tutto, così questo pomeriggio vivrà per sempre.
Il
silenzio la fa da padrone, anche ora che abbiamo smesso di muoverci e
siamo stesi vicini, entrambi con gli occhi fissi sul volto
dell'altro, divisi da pochissimi centimetri di atmosfera. Ci
guardiamo e basta – o meglio, ci studiamo,
incapaci di trovare le parole giuste. Ma forse è così che dovrebbe
essere, forse non dovremmo fare altro per tutto il tempo che ci resta
da passare insieme: forse dovremmo fare l'amore fino a sfinirci, fino
a non poterne più, senza tentare di riempire i silenzi con parole
inutili. Forse dovremmo viverci
finché possiamo, sfruttare ogni secondo per conoscerci e
immagazzinare ogni dettaglio sotto forma di ricordo.
Come
se avessi bisogno di rotolarmi nuda su di lui per notare le piccole
cose che lo rendono tanto speciale – come se già non conoscessi la
linea diritta e un po' severa delle sue sopracciglia, il suo mento
pronunciato, i suoi occhi cangianti e magnetici, le mani ruvide e
enormi che ogni volta mi fanno sentire delicata e fragile,
il modo che ha di inclinare appena la testa verso destra quando mi
sta prestando attenzione, il sorriso che sembra muovere soltanto una
parte del suo viso... come se otto anni da fan non mi avessero
fruttato qualche conoscenza.
«A
che pensi?» sussurra, senza osare avvicinarsi.
Scrollo le spalle e allungo
una mano per spostargli una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Ti
sto solo guardando.»
«Che cosa vedi?»
Potrei
dirgli un mucchio di cose, in questo momento: potrei dirgli, per
esempio, che è uno degli uomini più attraenti che abbia mai visto,
e al diavolo John Rzeznik. Potrei dirgli che non voglio lasciarlo
uscire dal mio letto, meno che mai dalla mia casa. Potrei dirgli che
quella sua promessa di cambiarmi la vita si sta dimostrando vera,
perché prima di conoscerlo non mi sarei mai comportata come mi sto
comportando. «Vedo te. Vedo soltanto te»
sussurro invece, e nemmeno dieci secondi più tardi mi sembra la
frase più stupida del mondo.
«Anch'io ti sto
guardando.»
«E che cosa vedi?»
«Anch'io
vedo soltanto te.»
Due dita salgono ad accarezzare il mio orecchio, giocano per qualche
istante con gli orecchini, scivolano via lungo la mandibola e
scendono a coprire la mia mano, chiusa a pugno vicino al mio collo.
«Che
cosa succederà adesso?»
«Che
cosa succederà adesso?» ripete, guardandomi dritta negli occhi.
«Tanto per cominciare, adesso
vieni vicino a me.» Le sue braccia si incrociano dietro la mia
schiena, e per un istante il mio corpo sembra combaciare alla
perfezione con il suo.
«E
che cosa succederà dopo?»
«Non
pensare a quello che succederà dopo» sussurra, la fronte appoggiata
contro la mia.
«Non
riesco a non pensarci. Non riesco a non chiedermi che cosa succederà
in futuro. Scusa, vorrei tanto essere meno... meno impaurita,
ma non ci riesco.»
«Non
ti devi scusare.»
«Sono
sempre stata così, ho sempre avuto paura del futuro. Del futuro, dei
cambiamenti... cambiare non mi è mai piaciuto.»
«I
cambiamenti possono spaventare. Anch'io sono spaventato.»
«Non
sembri spaventato.»
«Ho
una paura fottuta, credimi.»
«Di
che cosa hai paura?»
«Ho
paura di deluderti, ho paura di non essere all'altezza delle tue
aspettative. Sei stata molto chiara circa quello che vuoi da un uomo,
e io...»
«Ho
detto che un giorno vorrò avere un marito e dei figli, ma non
intendevo dire che dovessi per forza essere tu
l'uomo con cui costruirò la mia famiglia. Non devi sentirti... non
devi sentirti obbligato,
o in qualche modo impegnato
con me.»
«Ma
io voglio sentirmi
impegnato con te. Non prendiamoci in giro, ho più di quarant'anni. È
giunto il momento di iniziare a prendersi qualche responsabilità.»
Distolgo
lo sguardo, allontanandomi impercettibilmente da lui. «Se vuoi
impegnarti con me soltanto perché sei stanco di stare solo, forse
non dovremmo...»
«Mi
sono spiegato male»
mi interrompe. «Intendevo dire che voglio sentirmi impegnato con te
perché mi sento pronto. Se non fossi più che sicuro di essere
pronto non ti direi che sono pronto.»
Fa una breve pausa, durante la quale alza gli occhi al cielo e si
mordicchia un labbro, come in attesa di una qualsiasi rivelazione.
«Non so perché, ma ho la sensazione di essermi spiegato ancora
meno»
sospira infine, tornando a guardarmi.
«No,
credo di aver capito»
gli sorrido. «Stavo cercando di convincerti a lasciarmi perdere, ma
finora i miei sforzi non sembrano aver sortito molti effetti.»
«Tesoro,
se proprio vuoi tentare di mandarmi via, non provarci quando sei
nuda»
ribatte con un sorriso quasi diabolico. Le sue mani scendono di nuovo
ad accarezzare il mio corpo, fermandosi in prossimità dei fianchi.
«Anche se ho la sensazione che non riuscirei ad andarmene nemmeno se
ti vedessi indossare i mutandoni di Bridget Jones.»
«Potremmo
fare un tentativo!»
lo prendo in giro. «Dovrei avere qualcosa del genere in qualche
cassetto.»
La mia idea deve divertirlo molto, perché scoppia a ridere fin quasi
a piangere. «Almeno avrei la certezza che non sei qui soltanto per
il sesso.»
«Avrei
fatto tutti questi chilometri soltanto per un po' di sesso? Non sono
un dannato salmone!»
Questa volta sono io a ridere fino alle lacrime, con le dita che si
muovono pigramente tra i suoi capelli. Mi piace questo costante
contatto tra i nostri corpi: mi piace che ci sia sempre una delle mie
terminazioni nervose a contatto con una delle sue – mi rendo conto
che è una cosa piuttosto stupida, ma non è certo colpa mia se sono
un'eterna insicura in cerca di continue conferme. «Ci guardiamo un
film?»
«Vuoi
guardare un film?»
ripeto, quasi incredula.
«Così
ti dimostro che non sono un animale in cerca di sesso. E poi andiamo,
ho bisogno di un pochino di riposo. Ho una certa età, non sono più
uno stallone da riproduzione!»
«Ah,
no?»
lo apostrofo mentre mi metto a sedere e cerco il reggiseno. «E dire
che avevo sentito certe leggende su di te...»
«Del
tipo?»
mi domanda mentre mi guarda indossare la biancheria.
«Mah,
non ricordo di preciso... so che c'entravano un paio di modelle, una
camera d'albergo, delle manette... forse c'era anche un frustino di
mezzo.»
«Secondo
me ti confondi con il video di Hurricane»
risponde, mettendosi a sedere a sua volta. «E comunque era mio
fratello, non io. Anche se... beh, sì, finivo ammanettato ad una
panchina»
conclude, indossando i boxer.
«Sai
che praticamente ogni Echelon di sesso femminile invidia a morte
quella modella per l'ultima scena?»
«Ma
chi, Agnes?»
«Se
quello è il suo nome»
replico con aria indifferente, fingendo che di lei non mi importi
nulla.
«Si
chiama Agnes»
ripete. «È
una ragazza dolcissima. Tieni»
aggiunge, passandomi una maglietta.
«Ma
è la tua maglietta»
gli faccio notare.
«Lo
so. Voglio che la metta tu.»
«Perché?»
«Perché
sì. Così ogni volta che la rimetterò mi sembrerà di averti con
me»
risponde, alzando le spalle come se nulla fosse. «Comunque con Agnes
non è successo nulla, se è questo che volevi sapere. Oltre a quello
che è successo nel video, intendo. È fidanzata da una vita con lo
stesso ragazzo, e a quanto ne so manca poco al matrimonio. Insomma,
per quanto sia una modella, non... non è una che fa una vita
sregolata o piena di eccessi. È una ragazza... morigerata.
Ecco, la definirei morigerata.»
«Ciò
non toglie che essere sbattuta contro un muro per essere baciata con
passione potrebbe esserle piaciuto»
ribatto mentre infilo i leggings.
«Non
l'ho baciata»
mi corregge subito, abbottonandosi i jeans. «Non in quella scena,
almeno. Ci baciamo per strada e poi sulla panchina, ma nella scena
finale non ci baciamo. La spingo contro la parete e le arrivo
vicinissimo, ma non la bacio.»
«La
sceneggiatura non lo prevedeva?»
gli domando, con un tono che vuole chiaramente essere una presa in
giro.
«No,
non lo prevedeva»
risponde serio, sorprendendomi un po'. «La sceneggiatura non lo
prevedeva, quindi non l'ho baciata. Sarebbe stata un'enorme mancanza
di rispetto, visto che lei è fidanzata. E poi io non sono uno che
distribuisce baci a destra e a manca solo per il gusto di farlo.»
«Vuoi
farmi credere che non ti piace baciare le ragazze? Lo trovo un po'
strano, considerando tutte quelle che avrai avuto occasione di vedere
nude»
commento, infilandomi la maglietta.
«Sì,
beh, ti stupirà sentirlo dire da me, ma... io sono uno che cerca di
limitare al massimo le smancerie. Parlando di sesso occasionale, sia
chiaro»
aggiunge, notando il mio sguardo confuso. «A letto non mi risparmio,
sono pronto quasi a
tutto... ma di baci ne do pochissimi. Baciare qualcuno in un certo
modo potrebbe significare dargli un'impressione sbagliata, e in certe
occasioni è importante mettere subito le cose in chiaro. Quindi non
bacio mai nessuna sulla bocca... o almeno ci provo.»
«Come
le prostitute, quindi»
sparo fuori all'improvviso, rendendomi conto troppo tardi che con una
battuta del genere potrei anche offenderlo.
Per
fortuna coglie l'ironia del mio commento e si mette a ridere, facendo
cadere il fermacoda che teneva stretto tra i denti. «Come le
prostitute, esatto»
risponde, finendo di raccogliersi i capelli in un nodo disordinato.
Improvvisamente – e anche un po' stupidamente
– mi rendo conto che non sono mai uscita con un ragazzo che avesse
i capelli più lunghi dei miei. «Io vado in bagno, tu scegli il
film.»
«Cosa
vuoi guardare?»
«Fammi
vedere uno dei tuoi film preferiti.»
Ci
penso su per qualche istante, passando in rassegna le pellicole che
adoro. «Ce ne sarebbe uno carino, ma è in italiano. Forse il DVD ha
i sottotitoli in inglese, ma per l'audio...»
«Non
importa, va bene anche solo con i sottotitoli. Basta che sia un film
che ti piace.»
«Ma
non riuscirai a capirlo!»
protesto.
«Se
un film è ben costruito, si capisce anche senza ascoltarlo. Pensi
che i sordi non vadano al cinema soltanto perché non ci sentono?»
«Touchée.
Va bene, allora vado a preparare. Ma poi non ti lamentare se non lo
capisci.»
«Non
mi lamenterò»
mi assicura, appioppandomi un bacio a fior di labbra mentre mi passa
accanto. Lo guardo scendere le scale a passi leggeri, con il torace
scoperto e il codino che ballonzola su e giù ad ogni scalino, e mi
chiedo se sia io la prima a godere di una simile vista – perché se
già è attraente quando si mette in tiro per le occasioni mondane,
quando si presenta al naturale è ancora meglio.
In
bagno mi do una sciacquata veloce, riflettendo sull'ultima parte
della conversazione. Con quella battuta sulle prostitute, senza
volerlo Daria è riuscita ad aprirmi gli occhi sul mio comportamento:
prima d'ora non mi ero mai reso conto di quanto riuscissi ad essere
effettivamente distaccato dalle ragazze con cui andavo a letto. So
che non ho mai promesso nulla a nessuna di loro, ma anche se sono
quasi certo che nessuna di loro si sia mai aspettata nulla di diverso
da quello che alla fine ha ricevuto, non posso fare a meno di
chiedermi se qualcuna di loro si sia mai ritrovata con il cuore
spezzato. In fondo siamo esseri umani, e finire con il cuore spezzato
anche quando ci siamo ripromessi di essere forti e di non lasciarci
ferire è piuttosto comune.
«Ehi,
stai cercando la Camera dei Segreti?»
mi domanda Daria, aprendo la porta e affacciandosi con un sorriso.
Rido
nel sentire la citazione potteriana, e intanto finisco di asciugarmi
il viso. «Veramente stavo provando ad interrogare il tuo specchio,
ma sembra che non sia uno di quelli magici»
ribatto.
«No,
non lo è. Sai com'è, all'Ikea li avevano finiti. Quando sei pronto,
io e il film ti aspettiamo sul divano.»
«Digli
di tenere a posto le mani»
rispondo mentre mi riabbottono i pantaloni. «E pretendo di vedere
almeno venti centimetri di luce tra di voi!»
esclamo, sentendola rispondere con una risata. «Che film è?»
le domando, raggiungendola in salotto. Mi siedo sul divano e allungo
i piedi nudi sul tavolino, a pochi centimetri dal portatile.
«Un
film italiano di una decina d'anni fa. È una commedia che parla di
amicizia e di amore, ma soprattutto di quanto sia importante avere
una mente aperta ed essere sempre pronti a perdonare, anche quando ci
sembra di aver subito un torto irreparabile. Beh, a dire il vero non
è proprio una commedia classica:
ha dei picchi di umorismo incredibili, ma anche qualche momento di
amarezza.»
«Mi
fido di te. Se dici che è uno dei tuoi film preferiti, sicuramente
sarà bellissimo. Mi dici come si intitola? Sono curioso.»
Si
sporge in avanti per far partire il DVD, poi si accoccola contro la
mia spalla. «Chiedimi se sono felice.»
*
Colonia, 10 novembre 2013
«Tomo,
se stai cercando di dirmi che credi che dovremmo avere un bambino...
beh, dillo chiaramente e basta! Di certo non ti mangerò per questo.»
Tomo, che per evitare di guardare la moglie negli occhi si è messo a
sedere e le ha dato le spalle, non sa che cosa rispondere. Era da
tanto tempo che pensava di intavolare questa conversazione, ma per
qualche stupido motivo non si è mai soffermato a chiedersi che cosa
avrebbe detto quando sarebbe giunto il momento di mettere insieme le
parole. Vicki gli si avvicina, e con quel tono dolce e rassicurante
che potrebbe convincerlo a saltare tra le fiamme dell'inferno gli
sussurra: «Tomo Milicevic, sto per farti una domanda di vitale
importanza, e pretendo che tu mi risponda con assoluta sincerità. Tu
pensi che siamo una coppia matura abbastanza per avere dei figli, e
soprattutto ci ritieni abbastanza equilibrati da crescere suddetti
figli in una maniera decente?»
Il
sussurro di Vicki, a malapena udibile ma impossibile da fraintendere,
risveglia in Tomo l'irrefrenabile desiderio di dire tutta la verità.
«Sì! Sì, Vicki. Io penso che siamo maturi abbastanza da assumerci
questa responsabilità. Penso che saremmo in grado di crescere dei
figli in maniera decente. Tu cosa pensi?»
aggiunge dopo un breve silenzio. «Credi che siamo pronti per avere
dei figli?»
L'idea che lei possa dirsi contraria e smontare il suo entusiasmo lo
perseguita come l'incubo della calvizie perseguita Jared.
La
risposta di Vicki gli arriva sotto forma di bacio, mentre le mani
della donna gli circondano le spalle, lo convincono a voltarsi e lo
vincono, facendolo di nuovo stendere sul materasso. «Anch'io dico
che siamo pronti»
sussurra lei ad un certo punto. «Quindi di questi non abbiamo più
bisogno»
aggiunge, spingendo via dal comodino una scatola di profilattici
piena per metà. «Al massimo potremmo regalarli a Shannon. A meno
che anche a lui non stiano salendo strani istinti paterni.»
*
Torino,
11 novembre 2013
Sono
le tre del mattino, e non sono ancora riuscito a chiudere occhio. Il
film scelto da Daria mi è piaciuto così tanto che appena è finito
le ho chiesto di farmene vedere un altro, e poi le ho chiesto una
lista dei migliori, perché questi Aldo, Giovanni e Giacomo sembrano
davvero aver capito molte cose della vita e dei rapporti umani,
soprattutto delle relazioni tra amici quando ci si mettono di mezzo
le donne.
Dopo
un'altra cena a base di pizza – ma per fortuna il fattorino di
stasera è stato più rapido – abbiamo programmato la giornata di
domani, tenendo conto che dovremo uscire di casa alle otto per
raggiungere in tempo l'aeroporto. Dal suo sguardo ho capito che
l'idea di lasciarmi andare proprio non le va giù – d'altra parte,
nemmeno io faccio salti di gioia all'idea di separarmi da lei per un
periodo di tempo non quantificabile. Però al momento non esiste
altra soluzione.
Mentre
facevamo l'amore, in quell'istante indefinito che segue l'orgasmo e
precede la separazione, Daria ha detto una cosa stranissima, eppure
incredibilmente vera. Mi ha sfiorato la guancia con due dita e ha
sussurrato: «È la quarta
volta che fai l'amore con me, e ogni volta ti comporti come se fosse
la prima volta e insieme anche l'ultima.»
Non ha aggiunto altro, ma ho immediatamente capito che in quel
commento si nascondeva un qualche tipo di preoccupazione.
«È
l'unico modo in cui so farlo»
ho risposto, ricambiando la carezza. «Se parli di fare
l'amore e non di semplice sesso... beh, questo è l'unico modo in
cui lo so fare. Credo che bisognerebbe sempre farlo così, come se
fosse la prima volta e insieme anche l'ultima.»
«Capisco il volerlo fare
come se fosse la prima volta, ma... perché farlo come se fosse
l'ultima?»
«Ogni volta potrebbe
essere l'ultima» ho sussurrato
sulle sue labbra. «Domani potrei finire sotto un autobus, e questa
sarebbe stata la nostra ultima volta. Se non mi fossi impegnato con
tutto me stesso, tu ne avresti avuto un ricordo orribile, e non
penseresti volentieri alla nostra relazione. Invece, essendomi
impegnato parecchio, sono quasi certo che ti ricorderesti di
questa serata per un bel pezzo, se non addirittura per sempre.»
«Mi ricorderei comunque di
te» ha risposto con una risata.
«Quattro rapporti sessuali in poco più di ventiquattr'ore... per
una che era ferma ad una media di un rapporto a settimana è un bel
salto di qualità.» Poi è
tornata seria, mi ha guardato negli occhi e mi h accarezzato di nuovo
il viso. «Promettimi che domani non finirai sotto un autobus. Voglio
fare l'amore con te per l'ultima volta ancora... non so, ancora altre
mille volte.»
«Mille volte»
ho ripetuto, fingendomi assorto in un complicato calcolo. «Alla
media di quattro rapporti al giorno non andremmo lontano, lo sai?»
ho aggiunto con una risata.
Ridendo
con me, è rotolata contro la mia spalla e dopo una ventina di minuti
di altre facezie si è addormentata, respirando piano contro il mio
collo. Invece io non ci sono riuscito: a tenermi sveglio e vigile è
stato il pensiero che non riuscirò mai più ad essere sereno senza
di lei. E più ci penso, più si fa largo in me la convinzione che
dirle arrivederci,
domani mattina, sarà più difficile che mai.
1“Quanto
manca alla nostra separazione?” “Un'eternità. Hai ancora molto
da imparare.” | Il
titolo del capitolo è ispirato ad uno scambio di battute tra Ria
Torres
(interpretata da Monica
Raymund)
e Cal Lightman
(interpretato da Tim
Roth)
in un episodio della prima stagione della serie tv Lie
To Me
(2009-2011). Il contesto in cui la battuta era pronunciata
all'interno della serie era diverso (si parlava della separazione tra
allievo e maestro), ma ho deciso di utilizzarla comunque per
sottolineare la necessità della separazione tra Shannon e Daria.
|
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Capitolo 13 *** 13 | Ti amo. Ora scrivetelo tutti quanti: ti amo, ti amo, ti amo. ***
Portagioie di tristezza | 1
Salve a
tutti!
Purtroppo
ho avuto una piccola défaillance personale
che mi ha impedito di pubblicare lunedì... ma ora sono qui, e vi
tocca sorbirvi anche questo capitolo – di nuovo, noioso e inutile
come i precedenti.
Grazie
alle persone che continuano ad aggiungere la storia tra i preferiti
(18), tra i ricordati (5) e i seguiti (35). Non vi conosco, ma sento
di volervi bene.
E un
grazie enorme va anche a: DadaOttantotto, che sopporta tutti i
miei vaneggiamenti; a Love_in_London_night per il sostegno
morale e le recensioni chilometriche (che no, non sono piene di
cavolate, ma sono bellissime e gratificanti!!); a moloko_vellocet
per le innumerevoli ispirazioni che fornisce tramite la sua bacheca
su Facebook (ovvero per le porno-foto di Shannon).
Buona
lettura – sì, vi prendo per il culo.
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo tredicesimo
Ti amo.
Ora scrivetelo tutti
quanti:
ti amo, ti amo, ti
amo.1
Torino,
11 novembre 2013
Socchiudo gli occhi e
d'istinto allungo la mano verso l'altro lato del letto, convinta di
incontrare la pelle nuda di Shannon – e invece le mie dita
stringono il vuoto. Mi volto rapidamente, quasi spaventata, e mi
accorgo di essere sola. «Shannon?» dico ad alta voce, mentre mi
metto a sedere tirandomi il lenzuolo verso il petto. Ovviamente non
ricevo risposta, ed è più o meno in questo istante che mi accorgo
del post-it verde appiccicato sul suo cuscino. Lo tiro su con due
dita, quasi temessi di venirne infettata, e cerco di sforzarmi di
decifrarlo nonostante la mia mente sia ancora ottenebrata dal sonno.
Non sono riuscito a dormire, leggo, perciò ho passato la
notte a guardarti, e il mio arrivederci te l'ho già dato. Ti chiamo
più tardi. Ti amo.
Devo rileggerlo più volte
affinché il messaggio penetri, ma quando finalmente capisco spalanco
gli occhi, senza sapere come sentirmi: non soltanto ha passato la
notte guardandomi dormire – che spettacolo edificante devo essere
stata! – ma addirittura è andato via senza darmi la possibilità
di salutarlo! Non so se sentirmi intenerita o arrabbiata. Forse sono
più arrabbiata, in questo momento.
Mi dico che forse sono
ancora in tempo, forse posso ancora raggiungerlo a Caselle; mi volto
verso il comodino e scopro non soltanto che sono le dieci e mezza, e
quindi il suo volo è già decollato, ma che ci sono post-it anche
sulla sveglia e sul cellulare. Avvicinando un po' lo sguardo, li
leggo. Ho disattivato la sveglia, così puoi dormire finché non
ti sei riposata per bene. Ti amo, recita quello appiccicato alla
sveglia, mentre l'altro dice Ho disattivato sveglia e suoneria,
così nessuno ti disturberà. Ti amo.
Butto giù i piedi dal
letto, decisa a vestirmi e a prepararmi un caffè forte, ma ancora
una volta sono costretta ad interrompermi – un altro post-it. Sulla
sedia ci sono dei vestiti puliti. La maglietta è quella del concerto
di Milano. L'indossavo quando ti ho conosciuta. È tua. Naturalmente
è pulita. Ti amo. Guardo verso la sedia, e vedo che in effetti
ci ha lasciato sopra una pila ordinata di vestiti: un completo intimo
pulito e coordinato, un paio di leggings, la sua maglietta
bianca. Non lo avrei mai detto capace di simili finezze – né
soprattutto avrei pensato che fosse capace di abbinare un reggiseno
al giusto paio di mutandine. Accetto i suggerimenti e mi vesto,
chiedendomi se ci siano in serbo altre sorprese. Il senso di stizza
provato quando mi sono scoperta sola sta scemando, e in questo
momento inizio a sentirmi soltanto intenerita.
Scendo al piano di sotto,
ma sul terzultimo scalino mi blocco, spalancando la bocca e sgranando
gli occhi per l'incredulità: ogni traccia di scatoloni e di cose da
sistemare è scomparsa, e il salotto e la cucina brulicano di post-it
colorati. Ce ne sono ovunque: sul frigo, sul bancone della cucina,
sul tavolino, sul divano, addirittura sulle tende! Non oso entrare in
bagno o nella stanza degli ospiti, ma non ho motivo di credere che lì
Shannon si sia risparmiato.
Prima ancora di rendermi
conto della scena che si sta svolgendo davanti ai miei occhi, il
campanello di casa suona, e mi trovo a pregare in ogni lingua
conosciuta che non sia qualcuno della mia famiglia. Per un istante
penso che potrei ignorare il campanello e fingere di non essere in
casa, salvo poi rendermi conto che potrei mettere in allarme
qualcuno, perché tutti quelli che mi conoscono sanno che il lunedì
mattina resto sempre in casa, salvo casi eccezionali. Mi avvicino
alla porta, appoggiando l'orecchio contro il pannello, e con il cuore
in gola domando: «Chi è?»
«Alice» sento rispondere,
e di nuovo ricomincio a respirare. Solo che poi apro la porta, e mi
do della stupida per non aver controllato lo spioncino. Perché Alice
non è sola, ma in compagnia di mia sorella.
«Francesca? Che cazzo ci
fai tu qui?» esclamo.
«Oxford, I presume»
risponde lei con il solito aplomb. «Stamattina c'era assemblea,
avevamo lezione solo fino alle dieci. Apprezza la mia integrità
morale, almeno io ho trascinato il sedere a scuola. Metà della mia
classe non si è presentata. Ti abbiamo svegliata?»
«No, figurati, è solo che
non mi aspettavo di... ricevere visite, ecco. Stavo facendo un po' di
pulizie, mettevo in ordine...»
«Dai, ti diamo un mano!»
ribatte Francesca, muovendo un passo in avanti.
«NO!» Praticamente le
urlo in faccia, sbarrandole la strada. «Voglio dire... c'è polvere
dappertutto, e tu sei allergica, non... ma come avete fatto a salire,
scusate?»
«Abbiamo incontrato la
signora Lorenzoli mentre usciva» spiega Alice. «Volevamo
suonare, ma ci ha praticamente spinte dentro l'ascensore» aggiunge,
cercando di farmi capire che non era sua intenzione farmi una simile
improvvisata – anche perché non sapeva a che ora Shannon se ne
sarebbe andato, e quindi teme che lui stia ancora gironzolando per il
mio appartamento in mutande, o peggio.
«E dai, ci fai entrare o
no?» interviene Francesca, dribblandomi con uno scarto che neanche
Leo Messi sarebbe riuscito a realizzare. «Comunque ero allergica
quando avevo cinque anni, adesso non mi dà più così...» Si blocca
sulla soglia del soggiorno, spalancando gli occhi esattamente come ho
fatto io pochi minuti fa. «Daria, ma che cavolo...?»
«Cos'è, ti sei segnata
tutti i posti in cui hai ripulito?» mi chiede Alice a bassa
voce, trattenendosi a stento dal ridere. «Anche il frigo? Per l'amor
del cielo, ti sei data da fare...»
«Alice, smettila»
la fulmino, anche se come lei vorrei ridere.
«Va bene, qui sta
succedendo qualcosa di strano» commenta mia sorella, che ha
camminato fino al centro del soggiorno e ora si è voltata a
guardarmi. «Adesso capisco perché insistevi tanto per chiamare
prima di venire» aggiunge, guardando Alice. «Comunque ho la
sensazione che nessuna di voi due mi dirà niente, quindi cercherò
di scoprirlo da sola» conclude, iniziando a leggere qualche
bigliettino. «Ma sono in inglese!» esclama dopo un istante.
«Sì, sono in inglese»
rispondo, mentre stacco un post-it dalla caffettiera e la metto sul
fuoco. Non è una cosa che posso negare, perché è vero che
sono scritti in inglese.
«Ti trombi lo studente
americano?» ribatte Francesca, lasciando cadere la borsa dei libri
in un angolo.
«Oxford, I presume»
rispondo, scimmiottando il tono con il quale lo ha detto lei pochi
minuti fa. «Comunque no, non mi trombo nessuno studente americano.»
Mi arriva una gomitata di Alice, e mi rendo conto di essermi scavata
la fossa da sola: ora che ho negato ogni mio coinvolgimento con quel
fantomatico studente, Francesca vorrà conoscere per forza
l'identità del misterioso autore di post-it.
«Se non è lui, allora chi
è?» domanda, rivolta però più a se stessa che a me. Sto pensando
ad una possibile bugia da rifilarle, ma lei riprende: «Aspetta un
attimo... no, questo non è possibile.»
«Cosa non è
possibile?» Sto scegliendo due tazze per me e Alice, e mi accorgo
che le mani mi tremano come mai prima d'ora.
«Daria... mi rendo conto
che questa domanda probabilmente ti farà ridere fino alla morte,
ma... è plausibile che io pensi che in un passato piuttosto recente
tu abbia avuto dei rapporti sessuali con Shannon Leto?» Esplodo in
una risatina nervosa: normalmente il suo tono da disco registrato mi
divertirebbe, ma il fatto che abbia capito subito l'identità del mio
amante misterioso mi sconvolge e mi spaventa a morte. «Insomma, non
prendermi per pazza, ma... qui nomina suo fratello e quanto gli
piacerebbe la vista, in un alto nomina un certo Tomo, qui
invece dice che parlerà con Emma e organizzerà tutto... e
poi indossi una maglietta che somiglia un casino a quella che
Shannon portava al concerto di Milano, e... beh, sai, se metti
insieme gli indizi...»
Alice ed io ci scambio una
lunghissima occhiata, e dallo sguardo della mia migliore amica
capisco che sarebbe inutile cercare di negare: anzi, rafforzerebbe
soltanto le convinzioni di mia sorella. Lascio che sia Alice a
rimanere accanto ai fornelli e raggiungo Francesca, le prendo le mani
e la faccio sedere sul divano. «Franci, se ti dico una cosa,
prometti che manterrai il segreto? Non è niente di spaventoso,
solo... solo non voglio che per il momento si sappia, va bene?»
«Guarda che ti puoi fidare
di me. Sono tua sorella, no?»
Quando mi punta addosso i
suoi occhi scuri, grandi e dolci come quelli di un cerbiatto, non so
resistere. Sorrido appena, augurandomi che questo mondo non la
ferisca mai com'è riuscito a ferire me, e sospirando stringo un po'
di più le sue mani. «A Milano non ho incontrato nessuno studente
americano. Ho conosciuto Shannon. Shannon dei 30 Seconds To Mars. Ci
siamo incontrati per caso, abbiamo iniziato a parlare, mi ha lasciato
il suo indirizzo e-mail, ci siamo scritti... lunedì pomeriggio sono
stata con lui. Mi ha accompagnato a cercare casa, mi ha convinta
a scegliere questa, e... e poi questo fine settimana è stato qui.»
«Quindi sei veramente
stata a letto con...»
«Sì» ammetto dopo un
attimo di silenzio. «Sono stata a letto con Shannon Leto.»
«Non mi prendi per il
culo, vero? Non mi sta prendendo per il culo, vero?» ripete,
cercando lo sguardo di Alice.
«Assolutamente no»
risponde Alice, spegnendo la fiamma sotto la caffettiera. «Beh,
sapevo che avrebbe passato il fine settimana qui, ma non sapevo
ancora che ci avessero dato dentro. Questa è una sorpresa
anche per me.»
«Mi gira la testa. Credo
mi serva un caffè.» Spalanco gli occhi, perché mia sorella che
chiede un caffè è una cosa che non avrei mai immaginato di vedere
in vita mia.
*
Francoforte, 11 novembre
2013
All'aeroporto di
Francoforte sembra essersi radunata la parte più folle del genere
umano, e il tentativo di Jared di passare inosservato e confondersi
con il resto del mondo sembra quasi produrre l'effetto contrario:
l'elegante cappotto nero e il sobrio cappello che tante volte hanno
preservato la sua identità dagli assalti degli ammiratori lo fanno
somigliare all'ombroso protagonista di un film noir degli anni
quaranta, e nel clima simil-punk del terminal il suo look lo fa
risaltare come una ditata su un vetro pulito.
«Ehi, Cary Grant!» lo
apostrofo, andandogli incontro con il borsone lanciato dietro la
spalla. Ci abbracciamo, e sento che la sua presenza è l'unica cosa
che mi impedisce di andare in pezzi – l'assenza di Daria inizia a
farsi sentire davvero adesso, ed è più insopportabile di
quanto avessi messo in conto.
«Ehi» risponde
semplicemente, lasciando che le mie braccia lo stringano fin quasi a
soffocarlo. «Ehi, se mi lasci respirare mi fai un favore!» ride
dopo quasi mezzo minuto, cercando di divincolarsi dal mio abbraccio.
«Accidenti, Shan, non ti ho mai visto così... questo fine settimana
ti ha proprio cambiato, eh?»
«Non immagino nemmeno
quanto» sospiro, passandomi una mano sugli occhi. Li sento pizzicare
e bruciare, proprio come se stessi per mettermi a piangere. Ci
mancherebbe solo questo: scoppiare in lacrime nel bel mezzo di un
aeroporto affollato, proprio davanti agli occhi di mio fratello
minore – questo sì che lo farebbe ridere fino alla morte.
«Ne vuoi parlare?» mi
chiede, guardandomi a lungo con quegli enormi occhi azzurri ai quali
so di non poter nascondere alcuna verità. A volte, quando è
preoccupato o triste, mi sembra di vedere in lui un po' della mamma –
preoccupazione e tristezza accedono i loro occhi di una luce
particolare, e li rendono ancora più identici di quanto già non
siano di solito. «Ho dato al tassista che mi ha portato qui
cinquanta euro perché ci aspettasse. È difficile trovarne uno che
capisca bene l'inglese, da queste parti» aggiunge mentre ci avviamo
verso l'uscita.
*
Torino, 11 novembre 2013
«Avrei tutto il diritto di
offendermi, lo sai?»
«Perché non ti ho
informato, dici? Scusa, ma è una cosa che sconvolge un pochino anche
me» rispondo a mia sorella, mentre Alice sorride e versa il caffè
nelle tazzine. «Ma da quando bevi caffè?»
«Solo in occasioni
speciali. E direi che il racconto di come mia sorella sia arrivata
all'intimità con un batterista di fama mondiale rappresenta
un'occasione speciale.»
«Aspetta un attimo, il
racconto di cosa?»
«Non penserai di cavartela
a buon mercato. Tu mi racconti tutto, dalla a alla zeta. E senza
risparmiare i dettagli vietati ai minori. Avrò un'esperienza pari a
zero, ma immagino di essere grande abbastanza per sapere certe cose.
Come nascono i bambini lo so da un pezzo.»
Alice mi rivolge un
sorriso, e capisco che almeno a mia sorella un po' di verità la devo
– e d'altra parte a chi altri potrei raccontare i dettagli
piccanti? A mia nonna?
*
Francoforte, 11 novembre
2013
«Insomma,
ti sei proprio innamorato» sospira Jared, accompagnandomi in camera
dopo avermi assistito nelle operazioni di registrazione. «Non ti
sembra strano anche da dire? Innamorato...
di te, poi, non avrei mai creduto possibile dirlo. Come ci si sente?»
«Non lo so, è una
sensazione stranissima. È difficile da descrivere» rispondo,
appoggiando la chiave magnetica sul tavolino accanto alla porta
d'ingresso. «Ci sono stati problemi con le mie valigie?»
«No,
nessun problema. Emma era così felice che le avessi già preparate
che ha deciso di disfartele subito dopo l'arrivo» mi spiega, aprendo
un'anta dell'armadio per sottolineare il concetto. «Ma non cambiare
discorso. Voglio sapere com'è. Insomma, come lo sai?»
«Come
so che cosa?»
«Come
sai che è davvero amore,
o che comunque potrebbe esserlo. Come sai che non è soltanto
un'incredibile ed irrefrenabile attrazione sessuali nei confronti
della sua figura?» mi domanda, sfilandosi il cappotto e lasciandolo
cadere sulla spalliera di una sedia.
Mi siedo sul bordo del
letto, mi sfilo le scarpe da ginnastica e mi lascio cadere
all'indietro, scoprendo che il materasso è un po' troppo morbido.
«Mi sono chiesto come sarebbe vivere con lei» sospiro, chiedendomi
se non mi sia uscita fuori un po' troppo sentimentale. «Sai, mi sono
chiesto come sarebbe addormentarsi sempre accanto a lei, svegliarmi
al suo fianco, fare il bucato insieme, litigare per decidere chi deve
andare a prendere i bambini a scuola... sai, tutto quel genere di
cose che la gente fa quando si sposa, o comunque quando decide di
passare la vita insieme.»
Un
movimento del letto mi fa capire che mio fratello mi ha imitato, e
infatti la sua testa entra nel mio campo visivo. Siamo stesi uno
accanto all'altro come in quella celebre scena di Mr.
Nobody, con la differenza che
questa volta lui ha i capelli raccolti, e che io non somiglio per
niente a Diane Kruger. «Capisco... e in questi tuoi progetti di
eterna, estrema e favolosa felicità c'è posto anche per il sesso?»
«Naturale» ribatto
prontamente. «Ma come ti ho già ripetuto almeno dieci volte da
quando sono atterrato, non avrai alcun dettaglio. Non ti farò una
cronaca dei nostri rapporti sessuali.»
«Quindi ammetti che ce ne
sono stati. Che ce n'è stato più di uno, almeno.»
«Va bene, lo ammetto. Ma
non avrai altri dettagli.»
«Non ho chiesto altri
dettagli!»
«Ma vuoi saperli, questo
non lo puoi negare. Ti conosco. Muori dalla voglia di chiedermi
quante volte lo abbiamo fatto, dove lo abbiamo fatto, quali posizioni
abbiamo provato...»
«Io non volevo sapere
niente, ma se la metti così... ti prego, dimmi quante volte lo avete
fatto! E dove lo avete fatto? E in che posizione lo avete fatto?» mi
domanda, alzando la voce di un'ottava e fingendosi eccitato come una
ragazzina che parla con un'amica che ha confessato di aver perso la
verginità.
«Insisti finché vuoi, ma
da me non saprai nulla. E non immaginare cose strane, perché
andresti completamente fuori strada.»
«Non posso immaginare
niente senza un aiutino. E dai, scucimi un dettaglio, anche uno
piccolo! Di solito non lesini mai!»
«Questa
volta è diverso» ribatto, alzandomi dal letto. «Faccio una doccia
e poi andiamo a mangiare?»
«E poi filiamo dritti alle
prove» aggiunge lui. «In qualche modo dobbiamo farti pagare questi
tre giorni di divertimento.»
*
Torino, 11 novembre 2013
«Quindi nonna ti ha dato
la sua benedizione?» si stupisce Francesca, prendendo un altro
biscotto. «Glielo hai detto che potrebbe essere suo figlio?»
«No,
su questa parte della storia ho sorvolato. Insomma, le ho fatto
capire che non è un ventenne, ma non volevo farle venire un attacco
di cuore.» Le riunioni con Alice a base di caffè e biscotti hanno
sempre fatto parte della routine, e all'inizio l'idea che mia sorella
entrasse a far parte del club mi infastidiva un po', ma sono bastati
pochi minuti di chiacchiere per capire che mi fa piacere che sia qui
con noi, perché anche se è giovane è molto matura e sa dare buoni
consigli, e riesce a capire le mie paure – anche se temo che
nessuno possa comprendere davvero
come mi sento.
«Ti è andata bene che non
dimostra gli anni che ha. Così quando lo vedranno rimarranno meno
scioccati.»
«Quando
lo vedranno chi?» le
domando, senza capire dove voglia andare a parare con questa
affermazione.
«Papà, nonna, gli zii»
risponde. «Avrai intenzione di portarlo a casa prima o poi, no?»
«Non nel prossimo futuro»
ribatto velocemente, sperando di poter abbandonare questo discorso il
prima possibile. L'idea di un pranzo di famiglia con Shannon che
finisce subissato di domande mi spaventa a morte.
«A proposito, come siete
rimasti?» interviene Alice, di fatto salvandomi. «Avete già in
programma di rivedervi?»
«Mi ha chiesto di andare a
Francoforte con lui» confesso.
«Ma il concerto di
Francoforte è mercoledì sera!» esclama Francesca con la bocca
piena, spargendo briciole ovunque.
«Infatti ho rifiutato
l'offerta. Non potevo certo chiedere un permesso a Marco così di
corsa.» Guardo alternativamente mia sorella e la mia migliore amica,
che mi osservano come se fossi diventata completamente matta. «Quindi
mi ha invitato ad unirmi a loro per la data di Parigi. Dovrebbero
spostarsi lì il ventisette, quindi avrei tutto il tempo di
organizzarmi e chiedere ferie.»
«A Marco che racconterai?»
mi chiede Alice, curiosa.
«Non è ancora detto che
ci vada. Comunque Marco non chiederebbe dettagli, basterebbe dirgli
che vado in vacanza con un'amica.»
«Se l'amica dovessi essere
io avvertimi, così almeno evito di passare davanti al negozio per
andare a lezione.»
«E a papà invece che
racconterai?» si interessa Francesca.
«Ancora non ho deciso di
andare.»
«Ma se decidessi di
farlo?»
«Gli racconterei la stessa
cosa.»
«Non funzionerebbe» mi fa
eco Alice. «Con la scusa di farsi costruire quei mobili mio padre
frequenta un sacco il tuo, e non potresti usarmi come alibi.
Rischieresti troppo.»
«Potresti raccontargli che
vai via per lavoro» interviene mia sorella. «Due anni fa non eri
andata a Milano a quella fiera del libro? Non ti aveva mandata Marco
al posto suo?»
«Sì,
ma era Milano, non
Parigi. E poi ero
stata a casa dei genitori di Federico, quindi era sicuro che non
corressi pericoli. Non so se sarebbe tranquillo, sapendomi a Parigi
da sola. Forse non dovrei dirgli che vado a Parigi» aggiungo a bassa
voce.
«Secondo me la
destinazione gliela devi dire» è il commento di Alice. «Già menti
sulla ragione del viaggio...»
«Ma non sembrerà un po'
strano che Marco mandi una commessa a fare acquisti ad una fiera del
libro internazionale?»
«Non sarebbe la prima
volta» ribatte lei. «E poi conosci il francese meglio di lui, mi
sembra un motivo più che sufficiente per chiederti di andare al suo
posto.»
«Senza
contare che la tua collega è di nuovo in un periodo di sciopero»
aggiunge Francesca. «Sarebbe più strano se lui
andasse a Parigi, lasciando te
a badare al negozio. Non dico che non saresti in grado di farlo, ma
sinceramente la cosa mi parrebbe molto strana.»
Sospiro, guardandole di
nuovo entrambe. «Direi che è inutile chiedervi da che parte state.
Mi state deliberatamente spingendo ad accettare quell'invito.»
«Assolutamente»
rispondono all'unisono, un attimo prima di guardarsi negli occhi e
scoppiare a ridere.
«Resta inteso che devi
portare un souvenir ad entrambe, ma specialmente a me che sono la tua
sorellina» aggiunge Francesca. «Insomma, se vuoi che tenga la bocca
chiusa... anzi, ancora meglio, vedi di tornare a casa con qualche
foto autografata. Oppure una maglietta autografata! O qualsiasi cosa
abbia sopra una dedica per me.» Ci riflette per qualche istante, poi
aggiunge: «Cancella tutto. Infila Tomo in valigia. Dopo averlo fatto
autografare da Shannon e Jared, naturalmente.»
*
Francoforte, 11 novembre
2013
Dal
suo angolo, circondato dalle sue chitarre e dai suoi strumenti, Tomo
guarda con un sorriso al trio finalmente ricomposto, e nota con
piacere che tutti e tre sembrano di nuovo sereni,
felici, come se
fossero passati attraverso una tempesta e ne fossero usciti
purificati. Shannon picchia sui tamburi e sui piatti con una nuova
energia, come se nella vita avesse un nuovo scopo da perseguire;
Jared canta con una nuova emozione, felice di riavere con sé suo
fratello, e forse soprattutto contento di saperlo in pace;
in quanto a lui, ha trascorso la notte facendo l'amore con la donna
più importante della sua vita, sperando che ognuno di quei dolci
sforzi possa aiutarli a coronare il loro nuovo sogno.
*
Torino, 11 novembre 2013
Dopo avermi assicurato
ancora una volta che non dirà una parola a proposito di Shannon,
Francesca se n'è andata, lasciandomi sola con Alice: nonostante
abbia scoperto che anche mia sorella è una buona confidente, il
bisogno di parlare faccia a faccia con la mia migliore amica è più
forte che mai.
«Anch'io
avrei tutto il diritto di offendermi, lo sai?» mi fa notare,
giocherellando con il cucchiaino. «Sono la tua migliore amica e devo
scoprirlo così che ti sei traguardata mister Anaconda. Ma ti
perdono, perché immagino che in questi due giorni tu abbia avuto
altre... priorità.»
Mi strizza l'occhio con aria complice. «Almeno io posso avere i
dettagli piccanti, o devo accontentarmi della versione per bambini
che hai propinato a tua sorella?»
«Non
ci sono molti dettagli piccanti da raccontare, in verità. Insomma,
niente richieste bizzarre, niente manette, niente posizioni che
sfidano la gravità. È stato... ordinario.
Non che non sia stato straordinario,
certo, ma... niente che esulasse dalle mie possibilità, ecco.»
«Quindi direi che lo
scoglio principale lo abbiamo superato. È il sesso quello che di
solito ti crea problemi, quindi...»
«No,
da quel punto di vista non ci sono stati problemi. Anche se... beh,
mi conosci. Non riesco a credere di essere stata a letto con un uomo
che non conosco. Non è
da me, Alice. Io non faccio queste cose.»
«Ti ci sei sentita
costretta?»
«Certo
che no! Anzi... credo di non averlo mai fatto con tanta naturalezza.
E poi non si è trattato di un solo episodio. Insomma, una volta
sarebbe stato uno sbaglio, ma... beh, l'abbiamo fatto quattro
volte.»
«Come ti senti quando sei
con lui?»
«Sto
bene» rispondo subito, senza pensare troppo alle parole da usare. È
la verità: quando sono con Shannon mi sento bene. È quando non sono
con lui che mi lascio prendere dall'ansia e inizio a vedere tutto
nero. «A parte qualche raro momento, con lui sto bene. Mi fa sentire
bene, accidenti. Riesco ad essere simpatica, divertente,
riesco a non concentrarmi sui miei difetti... mi sembra quasi di
essere una persona normale, quando sono con lui.»
«Questo è un punto a suo
favore» sentenzia lei, alzandosi per mettere le tazze sporche nel
lavandino. «Se quando sei con lui non senti l'esigenza di cambiare
la tua personalità, allora significa che siete compatibili. Che
andate d'accordo, insomma. Anche se credo che a questa conclusione ci
saresti potuta arrivare anche da sola. Quello che resta da capire è
se sei vittima di una semplice infatuazione, o se invece potresti
esserti davvero innamorata.» Si volta a guardarmi, sorprendendomi
nell'atto di guardare uno dei post-it appiccicati sul bancone. «Anche
se a giudicare da come guardi quel post-it... la risposta mi pare
abbastanza chiara.»
Sorrido, distogliendo lo
sguardo dal foglietto. «Gli ho detto che lo amo.»
«Cos'hai fatto?»
«Non ero perfettamente
lucida in quel momento» mi giustifico. «Eravamo entrambi nudi, non
so se conta lo stesso.»
«Conta
ancora di più, se eravate nudi. Quello che dici quando sei nudo è
la verità. È come essere ubriachi. In vino veritas,
ricordi?»
«Come ci si sente quando
si ama qualcuno?»
«Perché lo chiedi a me?»
«Beh... tu hai Federico.
State insieme da così tanto tempo che... beh, mi sembra piuttosto
naturale supporre che tu ne sappia più di me sull'argomento.»
«Per me e Federico è
diverso...»
«Perché le persone
credono sempre che la loro situazione sia diversa?» ribatto, un po'
stizzita. «In fondo è la stessa cosa: si tratta di mantenere una
relazione con una persona che vive lontana e che non puoi vedere
tutte le volte che vuoi.»
«Con la differenza che
Federico non è un musicista di fama internazionale.»
«Non cerchiamo il pelo
nell'uovo.»
«Come vuoi» sospira,
sedendosi di nuovo di fronte a me.
Restiamo in silenzio per un
sacco di tempo, finché sussurro, rivolta forse più a me stessa che
a lei: «E se avessi fatto una cazzata di proporzioni epiche?»
«Di che parli? Del fatto
che gli hai detto che lo ami?»
«Parlo del fatto che mi
sono levata le mutande una settimana dopo averlo incontrato. Dopo
aver passato con lui meno di quarantotto ore. E se fosse un campione
di menzogna e mi avesse propinato tutte quelle cazzate sul cambiarmi
la vita eccetera soltanto per una scopata sicura?»
«Non ti avrebbe preparato
la colazione. Non ti avrebbe accompagnata a fare la spesa. Non ti
avrebbe lasciato due milioni di post-it che finiscono tutti con 'Ti
amo'» ribatte lei, cercando di convincermi che non sto per rimanerci
di nuovo fregata. «Non ti avrebbe dato il suo indirizzo e-mail né
il suo numero di telefono. E non ti avrebbe invitata a Parigi.»
«Tu dici che dovrei
accettare e andarci?»
«Io dico che dovresti
smettere di farti tante seghe mentali e dovresti vivere il momento.
Vivila giorno per giorno, lasciala andare come va. E se alla fine
scopri che è uno stronzo che voleva soltanto strapparti le mutande,
almeno ti rimarrà la soddisfazione di aver fatto del sesso stellare
con uno degli uomini più desiderati del mondo.» Vorrei risponderle
che se mai dovessi scoprire di essere stata usata in modo così bieco
probabilmente non riuscirei a vedere questi due giorni nello stesso
modo in cui li considera lei, ma decido di tacere e di lasciar cadere
la discussione. Voglio concentrarmi solo su cose positive, pensare ai
lati positivi di questo fine settimana appena finito, perché so che
se mi mettessi a pensare al peggio non ne uscirei viva.
*
Francoforte, 11 novembre
2013
«Complimenti, ragazzi. Non
suonavamo così bene da mesi!» esclama Jared alle nove di sera, dopo
sette ore ininterrotte di musica. Le uniche pause che ci ha concesso
sono state quelle per bere e andare in bagno. «Cerchiamo di
replicare mercoledì sera, questi tedeschi sono un pubblico
esigente.»
«Ma sono gli italiani che
ci succhiano tutte le energie» commenta Tomo, lanciandomi
un'occhiata piuttosto eloquente. In risposta gli lancio l'asciugamano
che ha raccolto tutto il sudore del pomeriggio, centrandolo in pieno
viso. «Non sentirti chiamato in causa, Shan! Io parlavo in
generale!» esclama, levandosi di dosso la pezza con aria schifata.
«Lascialo perdere, Mofo.
Ha la coda di paglia» sorride Jared, sciogliendo il nodo che aveva
fatto ai capelli e scuotendo un po' la testa per rimetterli in quello
che lui chiama ordine, e che io invece amo chiamare cespuglio
incolto.
«Non è una buona ragione
per lanciarmi addosso i suoi germi. Che schifo.»
«Comunque non credo di
essere l'unico ad avere la coda di paglia. È tutto oggi che sorridi
come un deficiente, signor Milicevic» gli faccio notare. «Deduco
che tua moglie sia arrivata in città.»
«Beh, in effetti sono
piuttosto felice. Va bene, forse non ve lo dovrei dire, ma...»
«Ma?» domandiamo io e Jay
all'unisono, entrambi curiosi di sapere come concluderà la frase.
«...Vicki ed io avremo un
bambino!»
«Non scherzare» è il
commento di mio fratello.
«Quando?» chiedo invece
io.
«Beh, non lo so. Non è
ancora incinta. L'abbiamo deciso soltanto ieri sera. A proposito»
aggiunge, rivolgendosi a me, «mi avanza mezza scatola di
preservativi. Immagino che ti serva, quindi te la regalo.» Una
bacchetta fende rapida l'aria e lo colpisce sull'avambraccio,
strappandogli un bizzarro lamento di dolore. «Coda di paglia»
commenta a mezza voce, massaggiandosi la parte offesa.
*
Torino, 11 novembre 2013
Sono
le dieci di sera quando il display del cellulare si illumina,
informandomi che 'Sean' sta chiamando. Prima di rispondere penso che
dovrei cambiare suoneria, perché amo così tanto Iris che
interromperla mi sembra ogni volta un crimine contro il mio udito.
«Pronto?»
«Ehi, tesoro.» Ringrazio
il cielo di essere seduta, perché il modo in cui dice 'tesoro' mi fa
letteralmente tremare le ginocchia. «Avrei voluto chiamarti prima,
ma Jared mi ha rinchiuso in sala prove fino ad un'ora fa. Come stai?»
«Sto bene. Certo,
stamattina mi sarebbe piaciuto salutarti. Se non volevi che ti
accompagnassi in aeroporto dovevi solo dirlo. Mi sarebbe piaciuto...
beh, avrei solo voluto vederti un'ultima volta prima che te ne
andassi. Senza contare che l'ultima cosa che hai visto di me è stata
la mia bocca aperta che russa senza ritegno. Non proprio un'immagine
idilliaca.»
«Ti chiedo scusa, ma...
non so se sarei riuscito ad andarmene, se ti avessi avuta davanti
agli occhi.» Abbasso per un attimo le palpebre, e penso che
probabilmente nemmeno io sarei riuscita a lasciarlo andare. «Hai
trovato i miei messaggi?»
Sorrido, abbassando lo
sguardo. Nessuno aveva mai fatto qualcosa di così romantico per me.
«Affermativo. Tutti e ottantotto. Li ho contati.»
«Te ne mancano due,
allora. Erano novanta.»
«Li hai contati?» Pensavo
che soltanto ad una povera cretina come me potesse venire in mente di
contare quei maledetti post-it per sapere quanti fossero, e adesso
scopro che lui per primo li ha contati. «Sicuro che fossero
novanta?»
«Assolutamente.»
«Eppure sono quasi sicura
di aver guardato dappertutto» ribatto, alzandomi dal divano per fare
un altro giro di perlustrazione. «Ma poi, perché novanta?»
«Non te lo posso dire, è
una sciocchezza.»
«Tante delle cose che
penso sono sciocchezze, ma tu insisti per saperle comunque»
protesto, alzando i cuscini del divano per cercare le due note
mancanti.
«Te lo dirò quando saremo
a Parigi» risponde, e anche senza vederlo in faccia sento che
sta sorridendo. «A questo proposito, è confermato che ci sposteremo
in Francia il ventisette. Non ho ancora avuto occasione di parlare
con Emma, ma appena la vedrò la informerò che avremo un'ospite, che
poi naturalmente saresti tu. Perché verrai a Parigi, vero?»
aggiunge, come se sapesse dei miei dubbi in proposito.
«Se riuscirò a trovare
una buona scusa da propinare a mio padre» rispondo, spostandomi in
bagno. Apro ogni stipetto, senza però trovare nulla che somigli ad
un post-it. «Non gli posso certo dire che vado a Parigi per unirmi
al tour di una band.»
«No, forse non è il caso»
replica. «Anche se... beh, ormai sei adulta. Non dovresti essere
tenuta a comunicargli ogni minimo spostamento, o sbaglio?»
«Come si vede che non ci
sono donne nella tua famiglia» ribatto, senza trattenere una risata.
«Nessun padre pensa mai che una figlia sia abbastanza grande per
fare alcunché. Già mi aspettavo che facesse storie riguardo la mia
idea di andare a vivere da sola... anche se comunque credo che il suo
livello di iperprotettività sia giustificato anche dall'abbandono
della mamma. Per tutti questi anni ha fatto anche le sue veci...
credo sia normale che continui a preoccuparsi. Senti, ma dove li hai
nascosti quei dannati post-it? Ho cercato ovunque!»
«Hai guardato anche nel
ripostiglio?»
«No, il ripostiglio mi è
sfuggito» rispondo. Mentre corro verso l'altro lato
dell'appartamento do un calcio al divano, e maledico me stessa per
non aver messo le pantofole. Zoppico verso il ripostiglio e trovo una
delle note appiccicate dietro la porta: Qui non ho toccato nulla,
ma non mi sembrava carino ignorarlo soltanto perché è un
ripostiglio. Ti amo. «Ce n'è soltanto uno. Dov'è l'ultimo?»
«In bagno hai
controllato?»
«Ho guardato ovunque,
Shannon. Tranne nel secchio della spazzatura, ma mi auguro...»
«Allora nel cassetto del
comodino. Quello dal tuo lato del letto. Beh, è ovvio che entrambi
i lati del letto sono tuoi» aggiunge in fretta, mentre in
silenzio faccio dietrofront e salgo la scala a chiocciola. «Solo che
tu hai sempre dormito dalla stessa parte, e... ehi, ci sei ancora?»
«Sì, ma... Shannon, nel
mio cassetto ci sono un paio di occhiali da vista» rispondo,
sedendomi sul materasso. «Io non ho mai avuto occhiali da vista.»
«Infatti sono miei.»
«Non ti ho mai visto
portare degli occhiali. A parte quelli da sole, che sembra ti stiano
incollati alla faccia anche quando non c'è il sole» lo
prendo in giro.
«Non mi danno un'aria
tenebrosa?» ribatte, e nella sua voce colgo una nota divertita.
«A volte sembri soltanto
un grandissimo snob» rispondo, rincarando la dose.
«Beh, scherzi a parte, ho
un piccolo problema di vista. Mi servono soprattutto quando leggo o
devo usare il computer.»
«Ma se li hai lasciati
qui, come...» Mi interrompo all'improvviso, intuendo che non li ha
dimenticati qui. Metto le lenti sul comodino e prendo il
foglietto sottostante. «Sono distratto di natura, dimentico cose
ovunque vado. Me li riporti a Parigi?» leggo con un sorriso.
«Sei un uomo veramente impossibile, lo sai? Ehi, comunque hai
dimenticato di firmarlo» gli faccio presente, notando che non ha
concluso con il solito 'Ti amo'.
«Voltalo» sussurra.
Obbedisco, e resto senza parole. Il mio cuore invece lo puoi
tenere, ha scritto sul retro. E ha firmato con un 'Ti amo' che
vale più di tutti gli altri, perché scritto in italiano. «Ehi, sei
ancora lì?»
«Ci sono» sussurro,
lasciandomi cadere di schiena sul letto. «Hai scritto in italiano.»
«Sì, è vero. Perché la
cosa ti stupisce tanto?»
«Non lo so. In effetti non
dovrebbe. Comunque non dovrebbe stupirmi più di tanto, visto che ho
appena trovato novanta post-it che dicono 'Ti amo' sparsi per tutta
la casa.»
«Forse ho esagerato,
vero?»
«Forse no. Perché
novanta?»
«Te l'ho detto, te lo dirò
a Parigi.» Tace per lasciarmi parlare, ma non riesco a pensare a
nessuna risposta intelligente. «Mi manchi già, lo sai?» aggiunge,
abbassando la voce. «Credevo di poter resistere, ma la verità è
che hai iniziato a mancarmi appena sono uscito di casa. È stato un
bellissimo fine settimana. È stato tutto bellissimo. So che
rischio di cadere nel banale, ma sei davvero una persona speciale.
Non conosco altri modi per dirlo. Sei speciale, e adoro stare
con te.»
«Anch'io adoro stare con
te» sussurro.
«Quindi verrai a Parigi?»
«Ci proverò.»
*
Francoforte, 11 novembre
2013
Quando concludo la
conversazione, un quarto d'ora più tardi, non posso fare a meno di
fissare lo schermo con aria confusa, cercando di identificare lo
stato d'animo di Daria. Ammetto di non essere mai stato un tipo
sensibile quanto Jared, ma di certo non sono scemo: è chiaro che non
era completamente serena, come se questi due giorni trascorsi insieme
non fossero bastati a convincerla delle mie intenzioni.
In questo momento vorrei
essere con lei. Vorrei abbracciarla e dirle che andrà tutto bene,
dirle che non deve avere paura. E vorrei stare in piedi di fronte a
lei, costringerla a guardarmi negli occhi e farle promettere che mi
raggiungerà a Parigi. Mi sento come se non avessi altro a cui
aggrapparmi, in questo momento.
1Ti
amo. Ora scrivetelo tutti quanti: ti amo, ti amo, ti amo. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase attribuita a Shannon
Leto
(chi sarà mai costui? Mai sentito nominare...). In realtà non so se
sia stata davvero pronunciata da lui, e nemmeno saprei citare
l'occasione in cui è stata detta; l'ho trovata curiosando su
un'ottima fanpage su Facebook, una pagina gestita in maniera
squisita, sulla quale si può trovare ottimo materiale. Per gli
interessati, la pagina è Jared,
Shannon and Tomo: the divaH, the animal and Jesus.
Fateci un salto, se ancora non la conoscete!
|
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Capitolo 14 *** 14 | Ieri ho incontrato l'amore, mi ha detto 'Passavo di qua'. ***
Portagioie di tristezza | 1
E per la
seconda volta di seguito, ho saltato l'aggiornamento del lunedì.
Perdonatemi, ma è un periodo strano – quando ho tempo, non ho
idee/ispirazione, mentre quando queste abbondano fatico a trovare
dieci minuti per mettere in fila le parole.
Come
sempre, un grazie a chi preferisce, ricorda, segue e recensisce.
Spero
che questo capitolo vi possa soddisfare - e vi anticipo che nel
prossimo capitolo avremo l'entrata in scena di un nuovo personaggio.
Alla
prossima,
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo quattordicesimo
Ieri ho incontrato
l'amore,
mi ha detto: «Passavo
di qua».1
Torino,
12 novembre 2013
Sono le otto e trentacinque
quando spingo la porta ed entro in libreria, salutando con un sonoro
“Ciao!”. Dal retro nel negozio, dove si trova il magazzino, mi
arriva qualche sillaba di risposta da parte di Marco, probabilmente
impegnato nella vana ricerca di qualcosa – nonostante si tratti del
suo negozio, spesso non riesce nemmeno a trovare una penna in
un portamatite. Ha molte buone qualità, ma ordine e organizzazione
decisamente non gli appartengono. «Che fai?» gli chiedo,
raggiungendolo per appendere borsa e giubbotto nello stanzino che ci
piace tanto chiamare spogliatoio.
«La tua idea di mettere
annunci su internet ha funzionato» risponde, emergendo da dietro uno
scatolone. «Mi ha chiamato un professore universitario che fa
collezione di dizionari, è interessato ad un pezzo della nostra
collezione» aggiunge, mostrandomi il vocabolario appena estratto
dalla scatola. «Me lo reggi un attimo?» Mentre prendo il tomo con
due mani, facendo attenzione a non rovinarlo, mi sento domandare:
«Passato un buon fine settimana? Hai l'aria di una che si è
divertita parecchio.»
«Non più del normale»
rispondo, cercando di minimizzare – anche se ho la fastidiosa
sensazione che il viso mi stia diventando viola per l'imbarazzo. «Ho
finito di sistemare casa, non è che abbia fatto chissà quali cose
super eccitanti.» Tranne, come ha innocentemente supposto
Alice, 'farmi sbatacchiare di qua e di là come un paio di maracas'.
«Vuoi farmi credere di
esserti tappata in casa per tre giorni? Ragazza, sei giovane! Esci e
divertiti finché puoi. Quando avrai la mia età non potrai più
sperimentare tutte le cavolate che avete l'opportunità di fare voi
ragazzi.»
«Che ti devo dire? Sono un
tipo tranquillo. Preferisco un buon film ad una serata in discoteca.»
«Io potrei preferirlo
soltanto se avessi la certezza di una buona compagnia» risponde,
spingendo di nuovo a posto lo scatolone. «Di certo non lo
preferirei, se la prospettiva fosse di rimanere solo.»
«Certo, la compagnia è
una condizione importante.»
«E la tua com'era? Buona?»
mi domanda, ammiccando.
«Ottima» ribatto. «Quale
migliore compagnia di una pizza?»
«Sì, e io ci credo.
Figurati se una ragazza come te non ha almeno dieci ragazzi che fanno
la fila fuori dalla porta.»
«Oh, ma perché insistete
tutti sul volermi trovare un ragazzo?» sbotto, un po' irritata. Sono
almeno due anni che tutti quelli che conosco mi domandano quando
intendo sistemarmi, e io... beh, forse al momento sono solo
arrabbiata perché l'unico uomo che potrei volere al mio fianco è
lontano migliaia di chilometri.
«Scusa, non volevo farti
arrabbiare» sussurra Marco, avvicinandosi per riprendersi il
dizionario. «È solo che... sai, dispiace vedere una persona
rimanere sola. Specialmente quando si tratta di una persona speciale
e piena di buone qualità.» Mi sorride, e io, terribilmente in colpa
per averlo trattato così male, abbasso lo sguardo con aria
imbarazzata. «Dai, non ci pensare» aggiunge, sfiorandomi il naso
con la punta dell'indice, in un gesto incredibilmente simile a quello
compiuto più volte da Shannon. «Porto questo su in ufficio, vado a
prendere un paio di caffè e quando torno ci mettiamo sotto con
l'inventario, va bene?»
«Va bene» rispondo,
ancora un po' confusa. «A che ora arriva Carlotta?»
«Carlotta si è messa in
mutua per un'altra settimana» replica lui, incurvando un po' le
spalle, come preparandosi ad accogliere le critiche che già sa gli
muoverò. «Però non ho capito bene che razza di malattia mortale
abbia contratto questa volta.»
«Marco, lo sai che non mi
va di fare la parte della collega stronza, però... sai che qualunque
altro datore di lavoro l'avrebbe già cacciata via a calci nel
sedere?» Negli ultimi tre mesi, Carlotta si è presentata in negozio
sì e no la metà delle volte, e anche quando c'è, non è che il suo
contributo sia così fondamentale.
«Lo so, ma la conosci bene
anche tu. Se la licenziassi, quasi sicuramente mi farebbe causa!»
«E quindi continui a
pagare lo stipendio ad una persona che non ti porta alcun profitto?»
«Lo so, è una cosa senza
senso. Beh, alla fine dell'anno ne riparleremo. È un discorso
complicato, e al momento l'ultima cosa che mi serve è un'altra gatta
da pelare. Comunque tu resti sempre la miglior commessa che abbia mai
avuto, e guai a te se ti azzardi ad andartene» conclude, sfiorandomi
di nuovo il naso. Poi sparisce su per le scale che portano al suo
ufficio e al mini appartamento in cui vive, mentre io resto sola a
chiedermi che diavolo ci trovino tutti nel mio naso. Ma soprattutto,
sapendo come la pensi Carlotta circa l'idea di lavorare, mi chiedo se
sia il caso di chiedere a Marco quella famosa settimana di ferie –
so che è un mio diritto, e che dall'inizio dell'anno gli ho chiesto
soltanto un paio di mezze giornate libere, però so che mi sentirei
in colpa sapendo di essere in giro a divertirmi mentre lui è qui a
sgobbare come un mulo. D'altra parte, quella settimana di vacanza mi
consentirebbe di raggiungere Shannon a Parigi e di trascorrere con
lui più tempo di quanto avessi mai osato sognare – e Dio solo sa
quanto darei per stargli accanto anche per una misera ora.
«Per caso mi devi chiedere
qualcosa?» mi sento domandare, proprio mentre sto contando quante
copie de Il rosso e il nero ci sono rimaste. Sinceramente, non
capisco perché la gente legga poco Stendhal: a me è sempre
piaciuto. Sono pochi gli autori in grado di delineare in maniera
tanto chiara il confine tra bene e male, e soprattutto a tracciare
una linea di demarcazione tra quello che è lecito o no fare per
assicurarsi un minimo di soddisfazione personale.
«Chiederti qualcosa in che
senso?» gli domando, cercando di rimanere sul vago.
«Non lo so, mi sembri...
sembra che tu stia cercando il momento più opportuno per farmi una
domanda importante.»
Va bene, sono stata
smascherata. «Beh, in effetti c'è una cosa che ti volevo chiedere,
ma non so se... avevo una mezza idea di andare via per qualche
giorno, verso fine mese. Quindi mi chiedevo se...»
«...se ti posso dare
qualche giorno di ferie? Va bene, non c'è problema. Lo sai, mi puoi
chiedere quello che vuoi. Dimmi solo quando vuoi partire e quando
intendi tornare, così ci possiamo organizzare di conseguenza. Hai...
hai intenzione di tornare, vero?» aggiunge con un tenerissimo tono
preoccupato.
«Sì, credo che questa
volta tornerò» gli rispondo, cercando di non ridere. Non so ancora
come riuscirò a convincermi a tornare, ma so che tornerò.
«E... dove te ne vai di
bello?»
«Parigi. Con un'amica.
Abbiamo trovato un'offerta speciale, e siccome nessuna delle due ci è
mai stata, ne approfittiamo.»
«Vai con Alice?»
«No, non è Alice. È
un'altra amica. Alice ci sarebbe venuta volentieri, ma proprio in
quei giorni ha un esame importante, quindi...» Non so perché, ma ho
come l'impressione che con Marco la bugia non regga, benché sia
stata progettata in ogni dettaglio e limata in ogni sua imprecisione.
«Perché ti interessa sapere con chi ci vado?»
«Non è che mi
interessi... è solo che mi sembra strano che tu ci voglia andare con
un'amica. Con un'amica puoi andare... che ne so, a Barcellona. A
Londra, magari. Ma Parigi... beh, a Parigi ci si va con un ragazzo.
Non era la città più romantica del mondo?»
«Questo mi sembra un
cliché culturale. Eppure mi sembrava di ricordare che tu detestassi
i cliché.»
«Solo quelli insensati. Ma
che Parigi sia la città romantica per eccellenza è risaputo.»
«Io la vedo come una città
storica e piena di cultura. Per me non è diversa da Roma, o Londra,
o qualsiasi altra città europea. Ci vado per visitare i musei e
ampliare la mia visione del mondo, non per starmene tappata in una
suite a fare cose che potrei benissimo fare anche nel mio
appartamento, e senza spendere un soldo.» Questa conversazione con
il mio capo sta prendendo una strana piega, e vorrei tanto tornare
indietro al punto in cui ho deciso di dargli corda.
«Guarda che può essere
romantico anche andare per musei e ampliare la propria visione del
mondo. Insomma, se io fossi il tuo ragazzo e ti portassi a Parigi, ti
accompagnerei volentieri per musei.» Come nel migliore dei film, la
porta si spalanca rivelando dei clienti, togliendomi così
dall'imbarazzo di trovare una risposta – anche se fatico non poco a
convincermi che quella non fosse un'avance con i controfiocchi.
Dovrei smettere di dar retta ad Alice, almeno quando si tratta di
questo tipo di questioni.
*
Francoforte, 12 novembre
2013
«Emma? Ehi, ciao!»
Impegnata
a scarabocchiare qualcosa sull'agenda che costituisce un
prolungamento naturale del suo braccio, Emma si volta con la stessa
rapidità di una leonessa che ha fiutato una preda succulenta, e mi
rivolge una delle sue celebri occhiate – quelle che Jared definisce
lievemente
irritate,
e che il sottoscritto riconosce invece come incazzate
nere.
«Guarda chi c'è. Mi risparmi il disturbo di venirti a cercare
chissà dove. Ti devo parlare.»
«Bene, perché anche io ti
devo parlare.»
«Se riguarda quello che
tuo fratello mi ha anticipato, sappi che non sono assolutamente
d'accordo. La trovo un'idea balorda e senza senso, e credo proprio
che dovresti ritirare quell'invito. Non è assolutamente quello che
vi serve in questo momento.»
La voce è dura, il tono
tagliente quando una lama. Non posso fare a meno di sospirare,
cercando di fare appello a tutta la mia calma per non metterle le
mani attorno al collo e stringere con molta, molta forza – altro
che l'amore di cui parliamo in Up in the air. «Senti, Emma,
non credo che... senti, ce lo prendiamo un caffè? O forse una
camomilla, o una tisana?» aggiungo, cercando di farle capire che in
confronto a lei un limone è un concentrato di zucchero.
Emma rimesta pigramente un
cucchiaino di zucchero nel bislacco infuso a base di camomilla e
finocchio che ha ordinato al bar dell'albergo, mentre io stringo le
mani attorno alla mia tazza, aspettando che il caffè si freddi un
po'. «Non so che cosa Jared ti abbia detto di preciso, ma ho la vaga
sensazione che ti abbia parlato di Daria come di una mangiatrice di
uomini la cui unica missione è di tenermi inchiodato al letto per
replicare ogni pagina del Kamasutra.»
«Forse
non proprio ogni
pagina» risponde lei a bassa voce, posando il cucchiaino a lato
della tazza.
«Beh,
Daria non è quel tipo di ragazza. E sicuramente non l'ho invitata a
raggiungerci a Parigi per chiuderci in una suite a fare cose che
avremmo potuto continuare a fare nel suo appartamento» replico
rapidamente, cercando di batterla sul tempo e di spiegarle come
stanno veramente
le
cose. «Voglio che venga a Parigi per conoscermi meglio, per vedere
come sono... beh, nel mio
mondo. E siccome ho l'impressione che la cosa sia rilevante ti dico
che sì, il sesso fa parte del programma.»
«Shannon, io non credo sia
una buona idea.»
«Poche delle cose che ti
vengono proposte le reputi buone idee.»
«Sì, ma posso presentare
degli argomenti molto convincenti, in proposito.»
«Allora sentiamoli, questi
argomenti» ribatto, appoggiandomi contro lo schienale della sedia e
incrociando le braccia davanti al petto. La sto apertamente sfidando,
e dal modo in cui si ravvia una ciocca di capelli e raddrizza la
spina dorsale capisco che raccoglie il guanto di sfida.
«Tanto per cominciare, non
conosci questa ragazza da abbastanza tempo» esordisce, pur sapendo
che si tratta di un'argomentazione molto debole. «Non sai chi sia
veramente, non sai nulla di lei. Non sai quali siano i suoi
obiettivi. Per quel che ne sai, potrebbe anche essere una giornalista
infiltrata, o una terrorista, o Dio solo sa cosa.»
«Si vede che non ci hai
mai parlato, altrimenti non ne parleresti così.»
«Secondo» procede
imperterrita, ignorando il mio commento, «in questo momento dovresti
concentrarti esclusivamente sul tour. Avete ancora sì e no un mese
di concerti, poi la pausa natalizia. Per il vostro bene, dovreste
rimandare a quel periodo qualsiasi pensiero o preoccupazione.»
Vorrei ribattere che secondo il suo punto di vista Tomo è quello che
più se ne infischia del tour, visto che ha deciso di passare le
notti a cercare di riprodursi, ma decido di tacere. «Terzo: se
davvero venisse a Parigi, sarebbe difficile tenerla nascosta. E se
salta fuori che hai una relazione, rischiate di perdere una bella
fetta di pubblico.»
Per evitare di smascherare
i biechi scopi di Tomo mi sono portato la tazza alle labbra, ma nel
sentire quell'ultima frase riabbasso il braccio senza bere. «Scusa,
non sono sicuro di aver capito bene.»
«Shannon,
non fingere di non capire» riprende lei, usando lo stesso tono che
usava mia madre quando doveva spiegarmi i motivi di un nuovo
trasloco. «Non sei stupido, lo sai tu e lo so io. Vorrei che fosse
diverso, ma è innegabile che esistono fan che seguono la band
principalmente
perché tu e Jared siete single, e innegabilmente... beh, arrapanti.
Non fare quella faccia, non l'ho detto io.» Mi rendo conto di aver
spalancato gli occhi per la sorpresa, perciò scuoto leggermente la
testa, cercando di darmi un tono. «Finché rimanete sul mercato, per
così dire, avete una fetta di pubblico assicurato. Nel caso
disgraziato che uno di voi due decidesse di mettere la testa a posto
e mettere su famiglia, sicuramente...»
«Non voglio che tu finisca
questa frase» la interrompo. Ora sono io quello incazzato. «Se
succedesse una cosa del genere... beh, perdonami, ma ne sarei felice.
Non voglio suonare per persone che se ne stanno sotto il palco per
sbavare se mi vedono sudare. Non per persone il cui unico scopo nella
vita è quello, almeno. Siamo una band seria, suoniamo per dar voce
ad argomenti importanti e per dire quello che molti non hanno la
possibilità di dire. Dalle ultime informazioni, sapevo che gli
Echelon ci seguono perché rappresentiamo il loro modo di pensare, i
loro sentimenti, le loro emozioni. Credevo fossero i One Direction
quelli che suonano per le ragazzine in piena tempesta ormonale.»
«Shannon, io non...»
«No, Emma. Sinceramente
non condivido quello che dici. Non credo che ci siano persone che ci
seguono soltanto perché rappresentiamo un richiamo sessuale, e se
anche fosse non credo che smetterebbero di seguirci soltanto perché
siamo finiti fuori catalogo. E comunque mi dispiace, ma non posso
accettarla come obiezione ad una mia eventuale relazione. Non posso.
Esula da ogni logica, spero che tu te ne renda conto.» Prima che
possa rispondere, mi alzo e guadagno l'esterno della struttura.
*
Torino,
12 novembre 2013
L'arrivo del possibile
acquirente per il dizionario è stato provvidenziale: Marco è salito
con lui in ufficio, lasciandomi finalmente sola e dandomi la
possibilità di calmarmi e continuare con calma l'inventario. Ho
approfittato della solitudine anche per mandare un sms a Shannon per
informarlo delle ferie concesse, sperando che la distanza non lo
abbia portato a cambiare idea.
Metto via il cellulare e
continuo a controllare gli scaffali, cercando di concentrarmi sul
futuro. Non ho mai fatto nulla di così avventato, ma sono felice
della decisione presa – improvvisamente non vedo l'ora che arrivi
il ventisette.
*
Francoforte, 12 novembre
2013
In cerca di un po' di
tranquillità per sbollire la rabbia e riflettere, raggiungo la
terrazza panoramica dell'albergo e accendo una sigaretta – non mi
ero accorto di averle prese con me, ma probabilmente il mio
subconscio sapeva che ne avrei avuto bisogno. La prima tirata mi
raspa un po' la gola, d'altra parte non fumo da... calcolo che non
tocco un accendino da venerdì, e penso che dovrei far presente ad
Emma, inguaribile salutista, che la presenza di Daria è servita a
qualcosa.
«Ehi, ti ho trovato.» Mi
volto, e l'assistente di mio fratello alza una mano in segno di
saluto, cucendosi un breve sorriso sul viso magro. «Non avrei dovuto
dire quelle cose. Vorrei poter dire che è perché mi è venuto il
ciclo, ma sarebbe una bugia. Stavo solo cercando un modo per
convincerti a non portare avanti il tuo progetto.» Mi raggiunge, e
come me si appoggia alla balaustra.
«Non dirmi che stai
cercando di fermarmi perché sei segretamente innamorata di me da
sempre e sei gelosa di ogni donna che mi tocca, perché non credo lo
sopporterei.»
Scoppia
a ridere, e così mi rendo conto di non averla mai vista felice.
«Non c'è pericolo, tranquillo. A me piacciono più...
intellettuali,
non so se rendo l'idea.»
«Perché tutti mi
considerano un animale?» protesto, pigolando come un bambino
scontento.
«Non
è che ti sia mai impegnato per dare un'immagine molto diversa»
ribatte lei, facendo spallucce. «Non avrei dovuto dire quelle cose,
scusa. Nemmeno io in realtà credo che i fan vi lascerebbero perdere,
nemmeno se tutti e tre vi metteste a sfornare un bambino all'anno.
Anzi, i giovani padri hanno un certo appeal, di solito. Però che
siete arrapanti è vero.» Per la seconda volta in poco tempo mi
volto a guardarla sconvolto, e lei si affretta ad aggiungere:
«Oggettivamente
lo siete.»
Torno
a guardare di fronte a me, dimenticando di avere tra le dita una
sigaretta accesa. «Daria è diversa dalle altre. Con lei è tutto
diverso. Sei mai stata innamorata?»
«Amore...» sospira,
alzando gli occhi al cielo. «Io e l'amore abbiamo una relazione
complicata. Non c'è mai stato molto dialogo, se capisci che
intendo.»
«Altroché
se ti capisco. Ho avuto una
storia importante e sono rimasto fregato.»
«E con questa ragazza? È
una storia importante?»
«Non lo so. Potrebbe
essere solo un abbaglio, per quanto ne so. Il fatto è che era un
sacco di tempo che non consideravo una ragazza nel modo in cui
considero lei. Non è soltanto sesso, al contrario di quello che
pensa mio fratello.»
«A questo punto
probabilmente dovrei ammettere che un dubbio mi era venuto.»
«In che senso?»
«Nel senso che non
riuscivo a credere che avessi preso un aereo soltanto per un paio di
giorni all'insegna della perversione. Insomma, per come la vedo io, e
per come ti conosco, potevano esserci soltanto due cose al mondo in
grado di spingerti a prendere una decisione simile.»
«E sarebbero?»
«Beh, o eri proprio caduto
vittima del classico colpo di fulmine» inizia, cercando di dare alla
frase un tono casuale, «oppure la ragazza in questione aveva le
tette più grandi che avessi mai visto.»
Non posso fare a meno di
sorridere davanti alla sua precisa analisi, anche perché con il
senno di poi potrei dire che entrambe le argomentazioni sono valide.
«Mi congratulo per la sua diagnosi, dottoressa Ludbrook. Ma poi, mi
vuoi spiegare perché tutti sanno che mi piacciono le ragazze
con... beh, validi argomenti?»
«Non so, credo sia una di
quelle verità universalmente riconosciute... tipo che in casa di tuo
fratello non ci sono specchi2. Senza contare quante volte
ho incontrato nei corridoi degli hotel le tipe con cui ti piace
intrattenerti» aggiunge, strizzando l'occhio verso di me. «E poi
sono anni che ci conosciamo, e ti ho visto provarci con ogni
collaboratrice che avesse degli airbag dignitosi. In effetti, credo
di essere l'unica con cui tu non abbia mai flirtato» conclude, un
po' sovrappensiero.
«Se vuoi ci provo adesso»
la prendo in giro.
La sua mano sferza l'aria,
e il pugno mi colpisce deciso la spalla. «Maniaco! Adesso sei un
uomo che ha messo la testa a posto, non dovresti fare questi
discorsi!»
«Ahi» mi lamento,
lasciando cadere la sigaretta che non ho fumato nel posacenere lì
accanto. «Guarda che se domani sera non riesco a suonare è colpa
tua. E comunque dicevo così per dire. Con te non ci potrei provare
nemmeno se avessi il seno di Pamela Anderson.»
«Ah, no?» Questa mia
ultima affermazione deve averla stupita parecchio, perché le
sopracciglia si sono inarcate tanto da formare un tutt'uno con la
frangetta. «E perché no?»
«Tanto per cominciare,
Jared ti tiene talmente impegnata che per provarci dovrei prendere
appuntamento, e questo non è proprio il mio stile. E poi ti conosco
da così tanto che ormai sei come una sorella. Tu ti occupi di noi,
ti assicuri che non ci manchi nulla, che rispettiamo gli impegni
presi, che mangiamo, che ci laviamo. Quando ci ammaliamo ci porti le
aspirine e il succo d'arancia, quando ci spostiamo da una città
all'altra ti preoccupi che non ci perdano le valigie.»
«Faccio soltanto quello
che prevede il mio contratto. Mi è sempre piaciuto organizzare le
cose, sono un tipo preciso di natura. Non credo che potrei mai fare
un altro lavoro.»
«Sono felice che tu abbia
scelto noi» dico, sorridendole. «Con la vita che ci tocca fare, è
bello avere accanto una persona come te.»
«Oh, smettila di fare lo
sdolcinato, non fa per te. Ti preferisco quando sei più...
selvaggio. Ok, facciamo così» riprende dopo un attimo di
pausa. «Fai pure venire la tua ragazza a Parigi, non mi oppongo. Ma
al minimo disguido che succede per causa sua, la rispedisco in Italia
a calci nel sedere. D'accordo?»
«D'accordo, ma ti assicuro
che non ci saranno problemi.» Ci stringiamo la mano, suggellando la
sacralità di quel patto, dopodiché lei si volta e se ne va,
inseguendo i suoi mille impegni. Non so davvero che fine faremmo
senza la sua preziosa collaborazione.
Rimasto solo, chiudo gli
occhi e inspiro a fondo. Francoforte ha un odore particolare, che mi
ricorda la sera in cui ho incontrato Daria: l'asfalto reso zuppo
dalla pioggia della notte mi ricorda il parcheggio del Mediolanum
Forum, e le ruote delle auto che lo calpestano mi fanno tornare in
mente il momento in cui ci siamo seduti sul bordo di un'aiuola,
aspettando il momento della nostra separazione.
Sono ancora perso nei miei
pensieri quando una leggera vibrazione proveniente dalla tasca dei
jeans richiama la mia attenzione: è un messaggio da parte di Daria.
Lo leggo subito, e non riesco a non sorridere: Essere una buona
impiegata aiuta. Ferie concesse. Sempre che tu non abbia cambiato
idea. Digito velocemente una risposta e torno dentro. Sono quasi
in ritardo per le prove, e vorrei evitare di essere trucidato da mio
fratello.
*
Torino, 12 novembre 2013
Alle
sette, finito il turno, ho salutato Marco, preso le mie cose e
camminato fino alla mia vecchia casa: mia nonna ha insistito perché
andassi a cena da lei, sottintendendo che ci sarebbero stati anche
mio padre e i miei fratelli. Nonostante la stanchezza, ho deciso di
accettare l'invito: mi costa molto ammetterlo, ma dopo questo fine
settimana restare sola mi mette addosso un terribile senso di
tristezza. Sicuramente il tempo guarirà la ferita, ma per adesso non
riesco a starmene da sola in salotto senza ripensare a domenica
pomeriggio, quando Shannon era seduto sul divano e io accoccolata
contro di lui. Per non parlare poi di quanto mi sembri vuoto il
letto, senza il suo corpo a riempirne l'altro lato.
Seguendo
il consiglio di Alice, decido di anticipare la notizia del mio
imminente viaggio a Parigi, sottolineandone il carattere
professionale – e per fortuna Francesca è bravissima a reggermi il
gioco. Anche perché mio padre, come previsto, sfodera tutto il suo
repertorio da mamma chioccia, e mi chiede se sia proprio necessario
che Marco ci mandi me. «Per carità, vuol dire che ti reputa una
persona responsabile e affidabile, ma se ti capita qualcosa?»
borbotta, mentre gli passo il sale.
«Chi
ci dovrebbe mandare, scusa? La sua collega?» ribatte Francesca.
«Beh, magari a farsi un giro a Parigi ci andrebbe volentieri, ma di
sicuro alla fiera non ci porterebbe i piedi. E poi Daria parla
benissimo francese, mi sembra normale che Marco ci voglia mandare
qualcuno di preparato.»
«E
poi è un'occasione per vedere la città, visto che non ci sono mai
stata» aggiungo, servendomi di un'altra fetta di arrosto. «Per la
sistemazione non c'è problema, è già tutto organizzato: ha già
prenotato una stanza in un albergo in centro. È a due passi dalla
fiera, praticamente tutti i gestori che decidono di andare hanno
chiamato lì.»
«Sarà,
ma non mi fido. Comunque sei in mezzo a gente che non conosci, come
fai ad essere sicura che siano tutti persone come si deve?»
«Vado
ad una fiera del libro, papà, non ad una conferenza sulle armi da
fuoco. E se dovessi aver paura di tutte le persone che non conosco,
allora in casa ci dovrei entrare passando per la finestra. A parte i
Lorenzoli e la signora del terzo piano che mi ha portato il tiramisù
non conosco ancora nessuno.» Il mio dovere principale in qualità di
figlia maggiore è sempre stato quello di attirare tutte le
apprensioni e cancellarle, in modo che Emanuele e Francesca potessero
avere vita più facile – non è mai stato un compito semplice.
«Comunque
lo sai, no? Devi fare attenzione, non dare confidenza a chi non
conosci, e in generale non fare niente che non faresti a Torino.»
«Lo
so, papà.»
«E
lasciala stare, Danilo!» interviene mia nonna con un sorriso. «Ha
ventitré anni, mica dodici. Io alla sua età ero sposata!» Nel
sentir dire la parola 'sposata', mi accorgo che mio padre sbianca,
nemmeno gli avessimo appena annunciato che sono incinta di quattro
gemelli. «Daria ha la testa sul collo, sa quello che fa. Non è
certo scema.»
A cena finita, mia sorella
ha cercato di convincermi a dormire nella mia vecchia stanza, ma ho
preferito declinare l'invito e tornare a casa – anche perché
domani mattina mi sarei comunque dovuta svegliare presto per tornare
a casa a cambiarmi i vestiti, e di fare una levataccia proprio non ne
ho voglia. Tuttavia, mio padre ha respinto categoricamente l'idea di
mandarmi a casa a piedi, e ha insistito per darmi uno strappo in
macchina. Arrivati sotto casa, l'ho convinto a salire a vedere
l'appartamento – finora, nonostante avesse dato il suo assenso al
mio trasferimento, non si era ancora lasciato persuadere a visitarlo.
«Eccoci
qui» esordisco, aprendo la porta e scostandomi per lasciarlo
passare. «Casa mia.»
«Ah...
beh, bello è bello» commenta, camminando piano fino al salotto.
«Bell'arredamento, tutto in faggio. Molto resistente.»
«Sì,
mi sono sempre piaciuti i mobili di legno. Immagino sia il risultato
dell'avere un padre falegname.»
«Vuol
dire che i padroni di casa hanno gusto.»
«Sì,
sicuramente non sono tipi da Ikea. Di là c'è il bagno e una
cameretta per gli ospiti. Io invece dormo su» aggiungo, indicando
rispettivamente la porta sulla mia destra e la scala a chiocciola.
«Sembra
molto silenzioso» commenta, dando un'occhiata al bagno e alla
stanza. «Ma forse è solo perché è notte, magari c'è poco
traffico.»
«No,
anche di giorno è tranquillo» rispondo, appoggiando giubbotto e
borsa sul divano. «La piazza è tutta pedonale e la strada è a
senso unico. Non si direbbe, ma riduce abbastanza il traffico.»
«Posso
salire?» mi domanda, tenendo una mano sulla balaustra.
«Certo,
ci mancherebbe.» Lo seguo mentre sale ammirando la qualità del
lavoro dell'ebanista che ha realizzato la scala. «Mi sono sempre
piaciuti i soppalchi, è stato un vero colpo di fortuna trovare un
appartamento che ne avesse uno.»
«Ma
guarda, ti sei proprio sistemata bene. Guardando da sotto non avrei
mai detto che fosse tanto spazioso.»
«Sì,
l'armadio a muro fa guadagnare un sacco di posto» confermo, facendo
scorrere l'anta per rivelare lo spazio per il guardaroba.
«E
guarda qui, hai pure trovato posto per tutti i tuoi libri» sorride,
avvicinandosi alla parete per dare un'occhiata alla mia collezione.
«A casa avevi stipato tutto sotto il letto... sicuramente qui non
avrai problemi di spazio.» In effetti, nonostante la mia biblioteca
personale sia arrivata qui ripartita in cinque grossi scatoloni, ho
ancora molte mensole da riempire. Sto per rispondere, ma proprio in
quel momento mio padre abbassa gli occhi sulla scrivania, al centro
della quale troneggiano quattro o cinque preservativi ancora chiusi
nelle loro confezioni. Immagino che questo sia uno di quei momenti in
cui chiunque vorrebbe
morire. Allungo svelta una mano e li raccolgo, ma ormai il danno è
fatto, e l'imbarazzo palese. «Ti... ti vedi con qualcuno?» mi
domanda, e in ogni sillaba sento la fatica che gli costa anche solo
pensare che io possa
essere stata a letto con un uomo.
«Beh,
io... sì, qualcosa del genere.» Non so di preciso come si possa
definire quello che stiamo mettendo in piedi Shannon ed io, perciò
credo che accettare il termine 'vedersi' sia una mossa piuttosto
saggia. «Insomma, siamo ancora all'inizio, non c'è niente di...
ufficiale, ecco.» A
parte il fatto che ci siamo detti 'Ti amo' una settimana dopo esserci
conosciuti, il che farebbe pensare che siamo piuttosto sicuri dei
nostri sentimenti. «Non è che sto per sposarmi, ecco.»
«Non...
non è per questo che te ne sei voluta andare, vero? Perché... ecco,
se avessi voluto portare qualcuno in casa non... non ci sarebbero
stati problemi, ecco.»
«I
ragazzi non c'entrano, papà. Volevo trasferirmi già da tempo, già
da molto prima di conoscere questa... beh, questa persona. Avevo
programmato di prendere casa, ma non di... beh, di...»
«...innamorarti?»
conclude, sorprendendomi non poco. Non l'ho mai sentito parlare così
apertamente di sentimenti, anche se immagino sia normale,
specialmente da quando l'amore fa di nuovo parte della sua vita. «Non
sono cose che puoi programmare» continua, sedendosi sul bordo del
letto. «Non puoi scegliere quando farlo accadere e non puoi
scegliere di chi ti innamori. Non è una giostra su cui si sceglie di
salire volontariamente.» Mi siedo accanto a lui, in attesa che
continui a parlare. «Immagino che l'ultima cosa che ti serva sia un
sermone. Al giorno d'oggi voi ragazzi siete così... preparati,
in materia.»
«No,
da quel punto di vista so tutto quel che bisogna sapere» ammetto.
«E
allora non credo di avere molto da dire, se non... beh, fai
attenzione. E se hai bisogno di parlare... beh, so che forse un padre
non è proprio l'ideale per certe conversazioni, ma... ecco, se
avessi bisogno di parlare con qualcuno e non ci fosse nessun
altro...»
Annuisco, alzando gli occhi
sul suo viso. «So che ci sarai sempre, per me.»
*
Torino, 13 novembre 2013
Sono sola da un'ora, e da
un'ora non faccio che fissare il soffitto, distesa al centro del
letto, crogiolandomi nell'illusione che mi sentirò meno sola, se
occupo più spazio. È l'una passata, e sebbene sia sicura che lo sia
anche a Francoforte, non voglio chiamare Shannon perché ho paura di
disturbarlo. In fondo, stamattina mi ha scritto che si sarebbero
chiusi tutto il giorno in sala prove, e so che domani è il giorno
del concerto – e per quanto per loro i concerti siano la normalità,
non posso non pensare che voglia riposarsi per essere al meglio. Alla
fine, decido di mandargli un messaggio – almeno se sta dormendo non
lo disturberò.
Non
sono passati nemmeno cinque minuti, ed ecco che il cellulare inizia a
vibrare violentemente contro il ripiano del comodino. Non ho bisogno
di leggere il mittente della chiamata per sapere che si tratta di
lui. «Ehi, sei ancora sveglio?»
«Anche
tu, a quanto pare. Volevo chiamarti, ma pensavo dormissi. Non ti
volevo svegliare. Che hai fatto di bello stasera?»
«Sono
uscita dal lavoro e sono andata a cena con la mia famiglia. Mia nonna
mi ha praticamente obbligata ad accettare l'invito, ha detto che se
avessi rifiutato non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Mia
sorella ha cercato di convincermi a dormire lì, ma ho preferito
tornare qui. Così mio padre ha insistito per accompagnarmi, perché
non si fidava a lasciarmi tornare da sola. Ho colto al volo
l'occasione e gli ho fatto vedere la casa.»
«Gli
è piaciuta?»
«Molto.
Si è innamorato dei mobili, credevo che si volesse portare via un
comodino.» Esito un attimo, chiedendomi se sia il caso di
raccontargli anche la storia dei profilattici. Ci penso su, e mi dico
che ormai mi ha vista nuda, quindi tanto vale sputtanarsi
completamente. «Ieri quando ho messo in ordine in camera ho visto
che hai dimenticato dei preservativi. Li ho messi sulla scrivania, e
quando mio padre è salito per vedere la stanza li ha visti.»
«Oh.
Beh, ma immagino sappia che non sei più vergine. Insomma, sei donna
già da un po'.»
«Shannon,
c'è differenza tra sospettare
che tua figlia abbia una vita sessuale e avere la conferma
che è stata a letto con qualcuno. Sono cose che ti cambiano la vita,
se sei un padre. Insomma, se avessi una figlia non credi che ti
disturberebbe sapere che fa certe cose?»
«Credo che quando avrò
una figlia la chiuderò in camera sua finché non avrà compiuto
settant'anni» ribatte prontamente. «Anzi, per ovviare al problema
credo che farò soltanto maschi.»
«Sai,
non credo sia possibile decidere il sesso dei propri figli. Insomma,
è vero che viviamo in un mondo tecnologicamente avanzato, ma questo
sfocia nella fantascienza. Ma poi, perché abbiamo iniziato questo
discorso?»
«Sei
stata tu a cominciare a parlare di bambini» ribatte, divertito.
«No,
io ho soltanto detto che i padri tendono a vedere le figlie come
eterne bambine, e che mio padre in particolare è convinto che io
abbia ancora tredici anni e sia ancora interessata alle bambole. O
almeno, ne era convinto fino a questa sera.»
«E
io ho soltanto detto che quando sarò padre mi adeguerò alla media e
sarò estremamente geloso delle mie figlie.»
«Cos'è
questo improvviso istinto paterno?» gli domando, estremamente
curiosa di sapere che cosa si nasconda dietro queste sue nuove
convinzioni.
«Tomo
ha annunciato che lui e Vicki hanno intenzione di avere un bambino.
Immagino di essermi immedesimato un pochino in lui. È una vita che
stanno insieme, era ora che si decidessero.»
«E
quindi adesso anche a te è venuta voglia di avere un figlio?» lo
prendo in giro.
«No,
però... beh, è naturale che mi sia chiesto come sarebbe diventare
padre. Insomma, sono quelle domande che di tanto in tanto capita di
farsi, no?»
«Immagino
di sì. A me è già capitato di chiedermi come sarebbe essere mamma,
perciò...»
«Tu
saresti una madre meravigliosa» mi interrompe, abbassando la voce
come per non essere sentito. «E credimi, io di madri meravigliose ne
so qualcosa.»
Effettivamente
credo che Constance Leto costituisca una categoria a sé, tipo una
specie di super-mamma ineguagliabile. «Sicuramente ne sai più di
me» commento, senza riuscire ad evitare un tono triste.
«Scusa,
non era mia intenzione offenderti» aggiunge svelto, ricordandosi che
purtroppo non ho avuto la fortuna di avere accanto una madre –
tanto meno una come la sua.
«Non
sono offesa, tranquillo.»
«Per
farmela pagare potresti farmi notare che almeno tu hai avuto un
padre. Me lo merito.»
«Se
fossi offesa potrei farlo, ma ti assicuro che non lo sono. Che stai
facendo?» aggiungo subito dopo, cercando di sviare il discorso su
binari più semplici e felici.
«Ho
fatto una doccia, ora mi metto il pigiama e vado a letto. Domani sarà
una giornata pesante.»
«Metti
il pigiama?» ripeto, incredula. «Quando sei stato qui non mi sembra
di aver visto pigiami nel tuo borsone. Non hai messo nessun pigiama.»
«Forse
da te non l'ho portato perché sapevo che sarebbe stato inutile.
Insomma, sapevo che qualcuno
avrebbe cercato di strapparmelo di dosso dopo cinque minuti. Era un
peso inutile in valigia.»
«E
dai, non prendermi in giro» protesto debolmente. «Mi stai facendo
passare per la ninfomane della situazione.» In realtà, devo
ammettere che questo continuo stuzzicarci mi piace un sacco.
«Ho
una collezione di pigiami molto carini, credo che ti piacerebbe
vederli.»
«Potresti
mandarmi una foto, così potrei valutare di persona.»
«Ah,
ma tanto non credo metterò il pigiama, qui. La stanza è caldissima,
sembra quasi di stare all'inferno.»
«Beh,
almeno non soffrirai il freddo. E non corri il rischio di
raffreddarti.»
«Già...
per fortuna almeno sono solo.»
«Che
intendi?»
«Se
la stanza è troppo calda e sei solo, te la fai andare bene e
sopporti. Ma se la camera è troppo calda e sei in
compagnia, ti passa ogni stimolo
di... beh, di fare qualunque cosa che non sia dormire.»
«Allora
è davvero una fortuna che non abbia deciso di fare una follia e
accettare il tuo invito a venire con te a Francoforte. Ci saremmo
annoiati a morte.»
*
Francoforte, 13 novembre
2013
Quella battuta, capitata
nel bel mezzo della conversazione come un fulmine a ciel sereno, per
un istante mi pietrifica. Per quanto avessi già capito che Daria non
è una suora, quella frase così esplicita mi ha spiazzato,
aprendomi un nuovo ventaglio di possibilità – a questo punto,
posso dirmi assolutamente certo che Daria non è una di quelle
ragazze che respinge l'idea di avere conversazioni... beh,
particolari. Decido di stare al gioco: chissà che da questa
telefonata non possa uscire qualcosa di molto soddisfacente. «Perché,
tu che cosa credi che avremmo potuto fare in una stanza fredda?»
«Tanto per cominciare,
avresti potuto farmi vedere la tua famosa collezione di pigiami» la
sento rispondere in tono deciso. «Anzi, magari avresti potuto fare
una piccola sfilata per me» aggiunge dopo un attimo di pausa.
«E una volta finiti i
pigiami?» Non vedo l'ora di scoprire fino a che punto sia disposta a
spingersi.
«Beh, immagino che per
scaldarmi avrei fatto un lungo bagno caldo... hai la vasca da bagno,
vero?»
«Naturalmente. È molto
spaziosa, più o meno come la tua. A occhio e croce, direi che ci
starebbero anche due persone.»
«Oh, interessante.
Insomma, se uno volesse risparmiare acqua...»
«E dimmi, dopo il lungo
bagno caldo che cosa avresti fatto?»
«Mmh, credo che se la
stanza fosse stata davvero molto fredda... mi sarei messa a
letto, credo. A proposito, com'è il materasso?»
Seduto con la schiena
appoggiata alla spalliera, mi muovo un po' per testare la qualità
del giaciglio. «Troppo morbido per i miei gusti. Li preferisco più
duri, di solito.»
«Quindi chissà come hai
dormito male, qui. Il mio materasso è piuttosto morbido.»
«Il tuo materasso era
perfetto, invece. Insomma, aveva il giusto grado di morbidezza. Ci
sono stato da Dio» aggiungo, sperando di farle capire che la
morbidezza del materasso costituiva l'ultima delle mie
preoccupazioni. «Che avresti fatto, una volta a letto?»
«Mi sarei tirata le
coperte fin sopra la testa e mi sarei addormentata, credo.»
«E se io non fossi
riuscito ad addormentarmi?»
«Perché non ti saresti
dovuto addormentare?»
«Oh, sai, avrei potuto
essere nervoso per il concerto. O semplicemente avere troppo freddo
per dormire. Non dirmi che ti saresti addormentata così
spudoratamente pur sapendo che io non ci riuscivo.»
«Vuoi farmi credere che
dopo tutti questi anni l'idea di un piccolo concerto ancora ti
spaventa?»
«Era soltanto un'ipotesi.»
«Ok, farò finta di
crederci. Beh, se non fossi riuscito ad addormentarti, credo che...
non lo so, magari ti avrei fatto parlare.»
«Parlare?» ripeto,
decisamente incredulo.
«Sì, parlare. Se non
fossi riuscito a dormire per un problema di nervosismo, ti avrei
fatto parlare di ciò che ti rendeva nervoso. Parlare aiuta sempre.»
«Sì, ma parlare non
scalda» ribatto, calcando l'accento sull'ultima parola.
«Giusto, dimentico che
stiamo giocando a 'Cosa faresti se fossi in una stanza gelida'»
risponde con una leggera risata. Chiudo gli occhi e me la immagino
mentre si tormenta le labbra con due dita, cercando una risposta –
e devo ammettere che quell'immagine mi eccita da morire. Sono i
piccoli gesti, le piccole cose che fa a rendermi completamente
pazzo di lei. «Che so, magari avrei potuto farti un massaggio.
Dicono che a volte un bel massaggio alla schiena aiuti a rilassarsi.»
«Chiunque l'abbia detto
meriterebbe un premio» affermo, alzando una mano per scostarmi un
ciuffo di capelli dagli occhi. È impossibile non pensare a quanto
sarebbe eccitante starmene sdraiato con lei addosso, con le
sue mani impegnate a premere determinati punti della mia schiena,
e... Dio, non credo che riuscirei a lasciarla andare avanti per
molto. «Non mi avevi detto di saper fare i massaggi.»
«Non me lo hai chiesto»
ribatte con un tono piuttosto allusivo. «E di sicuro non è una di
quelle cose che dici appena ti presenti a qualcuno.»
«No, immagino di no. Sai
che mi riservi una sorpresa dopo l'altra?»
«Dovrebbe essere un modo
carino per dirmi che ti piaccio?»
«Dovrebbe essere un modo
per dirti che sei una persona speciale e adoro stare con te. E
soprattutto che vorrei fossi qui, così potresti farmelo sul serio
quel massaggio. Ho la schiena a pezzi. Oggi ci è mancato poco che
Jared mi ci legasse, alla batteria.»
«Forse vuole solo essere
sicuro che facciate una bella figura domani sera.»
«Sì, ma non può certo
continuare a sfruttarmi così. Dovrebbe rendersi conto che non sono
più un ragazzino.»
«Strano, l'altra notte non
mi sei sembrato così... deboluccio. A meno che non fosse il
cosiddetto 'canto del cigno', se capisci che intendo.»
«Capisco benissimo
che cosa intendi, e se fossi lì ti costringerei a rimangiarti quello
che hai detto a forza di solletico.»
«Ehi, guarda che non
volevo offendere...» Finge serietà, ma io sento la risata
che sta lottando per essere sfogata. «Davvero, non volevo
offenderti.»
«E va bene, potrei essere
disposto a crederti» cedo infine. «Però nel dubbio un po' di
solletico te lo farei comunque. Non è che puoi passarla liscia
soltanto perché sei tu.»
«E nemmeno lo vorrei»
ribatte. «Shannon, mi manchi da morire» aggiunge subito
dopo, abbassando la voce. «Ti sembrerà infantile e stupido, però...
vorrei davvero che fossi qui.»
Segue un lunghissimo
istante di silenzio, durante il quale sento le mani formicolare come
non mai: resistere alla tentazione di rifare il borsone e tornare in
aeroporto è più forte che mai. Di solito mi sento così soltanto
quando sono lontano dalla batteria e non posso suonare. Non ho mai
provato niente di così intenso e sconvolgente. «Vorrei
essere un uomo normale» sussurro alla fine. «Vorrei essere un uomo
normale, con un lavoro normale, con una vita normale... quasi vorrei
non aver scoperto la musica, e questa è una cosa che mi fa andare
fuori di testa, perché la musica è l'unica cosa positiva che ci sia
stata nella mia vita, l'unica cosa in cui sia mai riuscito bene, e...
e adesso ti ho conosciuta e sarei disposto a mollare tutto per venire
da te. Non... è una cosa stranissima. Non mi sono mai sentito così,
eppure... non lo so, mi piace. Mi manda fuori di testa, ma mi piace.
Mi piaci. La mia vita è un casino, io sono un casino,
però... mi piace sapere che può esserci qualcosa anche per me,
come... sai, una... una possibilità di essere felice. E mi
piace l'idea che quella possibilità sia tu.»
*
Torino, 13 novembre 2013
«Non
mi hanno mai detto... non mi hanno mai detto qualcosa di così...
beh, romantico.» E
commovente. E straordinario. E da sciogliersi.
Non so di preciso quale strana proprietà fisica mi trattenga
dall'esplodere in un turbinio di coriandoli. Senza usare la classica
e abusata formula, Shannon ha appena detto qualcosa tipo 'Ti amo' –
e anche se sono sempre io, sempre la solita insicura che non riesce
ad avere una visione positiva delle cose... beh, rendersi conto che
un uomo come Shannon ha appena detto di amare il fatto di averti
incontrata non può che farti sentire bene.
«Lo
penso. Lo penso davvero. Non dico mai cose che non penso.»
«Sai,
credo che se fossi lì in questo momento ti bacerei.»
«Sì,
anch'io credo che lo faresti» risponde con una leggera risata. Se da
un lato sono stupita da questo repentino cambio di registro, d'altro
canto ne sono felice: non so se avrei potuto sopportare un'altra
confessione romantica senza scoppiare in lacrime o qualcosa del
genere. «E non ti limiteresti a quello.»
«Ecco
che riattacchi, ecco che riattacchi con le pose da macho» ribatto,
ricordando una battuta sentita in un film che non vedo da tempo.
«Ehi,
questo è Independence day!
Mi rispondi usando le battute dei film?»
«Hai
visto quel film?»
«Ci
sono gli alieni, cose che esplodono e poi c'è Will Smith. Naturale
che l'ho visto.»
«Era
uno dei miei film preferiti, quando ero adolescente. L'ho visto così
tante volte da saperlo a memoria... la battuta mi sembrava adatta al
momento.»
«Beh,
devo dire che lo era. E tu sei molto più carina di Vivica Fox.»
«Shannon,
questa proprio non me la bevo.»
«Io
ti trovo infinitamente più carina di lei. Beh, in realtà non volevo
usare il termine carina,
ma...»
«Non
importa, credo di aver capito» lo interrompo, senza trattenere un
sorriso. «Meglio lasciar perdere il discorso, immagino sia uno di
quegli argomenti su cui non riusciremmo a trovarci d'accordo nemmeno
tra un secolo.»
«E
va bene, accetto. Ma se fossi lì, sono sicuro che riuscirei a
convincerti.»
«Ci
potresti provare, ma
non so se ci riusciresti... ehi, sai che ore sono?»
«Non
ne ho la minima idea.»
«Invece
dovresti. Sono le due, dovresti andare a letto.»
«Ci
sono già a letto.»
«E
allora dovresti dormire, altrimenti domani tuo fratello ci ucciderà.»
«Ci?»
«Sì,
ci ucciderà, perché
quando saprà che ti ho tenuto sveglio fino a tardi non credo sarà
molto tenero con me.»
«Neanche
poi fosse la prima volta che mi tieni sveglio fino a tardi...»
Malizia pura in ogni parola.
«Smettila»
gli intimo, pur se con il sorriso sulle labbra. «Salutami, riattacca
e vai a dormire.»
«Solo
se fai lo stesso.»
«Beh,
mi sembra ovvio che se riattacchi tu riattacco anche io.»
«Solo
se anche tu vai a dormire, intendevo.»
«Shannon,
ho la sveglia programmata per le sette. Naturalmente vado
a dormire.» Pensandoci, c'era quasi una nota di gelosia nel suo tono
– e sapere che uno come lui
è geloso di una come me
mi emoziona fino quasi a farmi salire i lacrimoni. Di nuovo.
«Buonanotte, Shannon.»
«Buonanotte,
Daria.»
Restiamo
entrambi in silenzio, aspettando che sia l'altro a riattaccare –
sì, siamo più imbarazzanti di una coppia di dodicenni. «Hai
intenzione di mettere giù o no?» gli domando infine.
«Conoscendoti,
ho paura che mettendo giù per primo ti scatenerei chissà quali
attacchi di paranoia. Metti giù tu.»
«Non
ci penso affatto, metti... oh, facciamo così. Contiamo fino a tre, e
al tre mettiamo giù. Entrambi.»
«Ci
sto. Pronta? Uno... due... due e un quarto... due e...»
«Shannon...»
«Ok,
stavo scherzando. Ricominciamo. Uno... due... tre.»
Con un gesto preciso e
secco, quasi avessi passato la vita ad allenarmi, al tre premo il
tasto rosso e interrompo la chiamata. Poi appoggio il cellulare sul
comodino, mi giro dall'altra parte e chiudo gli occhi. Ora che gli ho
parlato, sento la sua mancanza più che mai.
*
Francoforte, 13 novembre
2013
Sorrido
ad un telefono ormai muto: non so perché, ma sapevo
che avrebbe messo giù al tre. Un po' mi dispiace, perché il 'Ti
amo' che mi è rimasto intrappolato tra le labbra brucia come una
ferita aperta. Ma forse è meglio così: conoscendola, probabilmente
da quella frase avrebbe tratto migliaia di conclusioni diverse, una
più sbagliata e inquietante dell'altra – per la prima volta l'ho
sentita completamente serena, rilassata, senza pensieri, ed è mia
intenzione far sì che mantenga questo stato d'animo il più a lungo
possibile.
1
Ieri
ho incontrato l'amore, mi ha detto: «Passavo
di qua». | Il
titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Sperare
del gruppo italiano La
Fame Di Camilla,
recentemente scioltosi (con somma depressione da parte di molti fan,
tra cui la sottoscritta). La canzone è contenuta nel primo EP della
band, La Fame Di
Camilla
(2008). Se li conoscete, mi complimento con voi per gli ottimi gusti
musicali. In caso contrario, vi invito gentilmente ad aprire YouTube
e farvi una cultura. Non osate tornare finché non avrete sentito
almeno Crescere,
Storia di una
favola,
Ne doren tende,
Globuli,
Come il sole a
mezzanotte
e Piccole cose (che
sai ignorare).
2Tipo
che in casa di tuo fratello non ci sono specchi.
| Questo dev'essere vero per forza, altrimenti non si spiegano i look
decisamente casuali
(casuali,
non casual) con cui Jared si fa vedere in giro di solito.
|
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Capitolo 15 *** 15 | Senti, io non voglio più parlare di ciò che è vero e di ciò che è illusione: la vita è breve. Non sprechiamo tempo per pensare alla vita, viviamola e basta. ***
Portagioie di tristezza | 1
Come al
solito, sono in ritardo con gli aggiornamenti. Vi chiedo scusa. Ma in
più stavolta, tanto per rendermi ancora più odiosa, ho
prodotto un capitolo più breve del solito (nove pagine di Word
invece delle solite dodici/tredici). Vi domando scusa anche per questo.
Se può consolarvi, ho deciso di tagliare prima per riuscire a
regalarvi un sedicesimo capitolo ricco di eventi.
Spero che questo mini-capitolo vi soddisfi. Buona lettura,
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo quindicesimo
Senti, io non voglio
più parlare di ciò che è vero
e di ciò che è
illusione: la vita è breve.
Non sprechiamo tempo
per pensare alla vita,
viviamola e basta.1
Torino,
15 novembre 2013
Ringrazio di avere un
lavoro che mi impegna parecchie ore al giorno, perché è
principalmente grazie a questo se sono riuscita a superare la
settimana senza deprimermi troppo per la distanza da Shannon.
Tuttavia, oggi è venerdì, e mi rendo conto che sarà complicato
affrontare il fine settimana senza rovinare l'umore più o meno buono
che mi ha accompagnato nei giorni scorsi. È vero che Shannon non ha
fatto mancare la sua presenza, bombardandomi di sms e chiamate ogni
volta che nella sua fitta agenda si trovava un buco libero, senza
contare poi che esistono anche i social network: da quando Alice mi
ha fatto scoprire Instagram, circa sei mesi fa, faccio un giro sul
suo profilo almeno due o tre volte a settimana – da quando lo
conosco, una o due volte al giorno, tanto che ormai credo di saperne
più del signor Lavazza, in tema di caffè.
È quasi la mezza, e sto
camminando in via Po. Di solito in pausa pranzo rimango in negozio e
mangio con Marco, così da poter tenere aperto in caso qualche
cliente decidesse di passare proprio in quel momento, ma oggi ho
declinato l'invito e ho deciso di uscire – in effetti non ho
nemmeno molta fame, perciò decido di impegnare il tempo in qualcosa
che sento di dover fare. Controllo che non siano in
arrivo auto e ignoro un semaforo rosso, attraversando di corsa la
strada. Individuo il portone del palazzo verso cui sono diretta e
salgo dritta al terzo piano. Lo studio del dottor Martini, lo
psicologo con cui parlo dai tempi del liceo, è sempre pulitissimo e
ordinato, e la segretaria sempre ferma al suo posto, dietro una
scrivania immensa e sempre piena di carte. «Buongiorno» la saluto.
«Chiedo scusa per il disturbo. Volevo prendere un appuntamento con
il dottore.»
«Buongiorno» risponde lei
con il solito sorriso, mettendo da parte il contenitore di plastica
che stava per aprire. La conosco da tempo, e so che in quella scatola
c'è il suo pasto – un po' come Marco, è talmente attaccata al suo
lavoro che non lascia l'ufficio nemmeno per la pausa pranzo, per
essere sempre pronta ad ogni evenienza. «La signorina Giordano,
giusto?»
«Sì, esatto. Daria
Giordano.» Per un sacco di tempo ho frequentato lo studio una volta
a settimana, ma nel corso degli ultimi due mesi ho diradato le
visite, sicura di potermela cavare da sola, oppure con il sostegno
morale di Alice. Ma quello che sta succedendo ultimamente è troppo
complicato, troppo strano... semplicemente troppo da
affrontare da sola.
Inizia a consultare
l'agenda, cercando uno spazio libero. «Ci sarebbe posto lunedì
pomeriggio alle quattro e...» Si interrompe quando sente la porta
dello studio aprirsi, e come me alza lo sguardo sul dottore, che si
sta aggiustando addosso il cappotto, evidentemente pronto per uscire.
«Daria, che sorpresa!»
esclama nel vedermi. «Ho forse dimenticato un appuntamento?»
domanda, guardando la segretaria.
«No, la signorina Giordano
è passata per fissare un colloquio» risponde lei, mostrando
l'agenda. «Ci sarebbe un posto disponibile lunedì alle quattro e
trenta» continua, guardando di nuovo verso di me.
Non faccio in tempo a
rispondere, che subito mi sento chiedere: «Hai bisogno di parlare?»
«Beh, in realtà sì, ma
non... non è successo niente di grave, ecco. Non è che sia
urgente.» In realtà sì, il mio bisogno di sfogarmi con qualcuno è
piuttosto urgente, ma nessuna delle persone con cui posso farlo è
disponibile: Francesca è ancora a scuola, e Alice a lezione – e
subito dopo prenderà un treno per Milano, perché ha organizzato un
fine settimana con Federico. «Posso benissimo aspettare lunedì.»
Il dottor Martini mi fissa
a lungo attraverso gli occhiali dalla montatura sottile, e dopo quasi
mezzo minuto mi domanda: «Sei occupata, adesso?»
«No, sono in pausa pranzo»
rispondo in fretta, senza capire dove voglia arrivare.
«Allora parliamo adesso.
Lasci perdere l'appuntamento» aggiunge, rivolgendosi alla
segretaria, che spinge via l'agenda e rimane a guardarci.
«Ma lei se ne stava
andando, non posso...»
«Stavo andando a pranzo,
ma questo non significa che non possa ascoltarti, nel frattempo» mi
interrompe con il solito tono calmo che ho imparato ad apprezzare.
«Anzi, suppongo che tu non abbia ancora pranzato, dunque perché non
ti unisci a me?»
«Ma no, non posso
disturbarla nella sua pausa. Anche lei ha diritto ad avere un po' di
respiro.»
«Come ti pare. Buon
appetito, Loredana. Per qualunque emergenza, sarò al solito posto»
conclude, rivolgendosi alla segretaria, che lo ringrazia e lo saluta
con un sorriso. «Allora a lunedì, Daria.» Esce e se ne va,
lasciandoci sole.
«Scrivo?» mi chiede
Loredana con un sorriso, dopo essersi nuovamente avvicinata l'agenda
e la penna.
Il mio sguardo passa
dall'agenda ai suoi occhi, di un bellissimo tono di grigio, e mi
chiedo se tutti questi anni trascorsi a prendere appuntamenti per
conto di uno psicologo non abbiano reso anche lei un po' esperta di
questo genere di cose. «Magari chiamo. Forse lunedì ho già un
impegno. Ora... ora vado. Arrivederci. Buon appetito.»
«Un minuto netto, senza
contare il tempo di spostamento. Stai migliorando i tempi. Un anno fa
avresti impiegato cinque minuti per decidere il da farsi.»
«Mi stava aspettando?»
«Mi pare evidente. Sarò
anche anziano, ma le mie gambe funzionano ancora abbastanza bene da
consentirmi di coprire una ragionevole distanza in un paio di
minuti.» Sorride, e io con lui. «Vogliamo andare? Sarai mia ospite.
Sono un cliente fisso, non sarà un problema aggiungere un posto a
tavola.» Ci incamminiamo nella direzione opposta rispetto a quella
da cui provengo. «Se ti stai chiedendo come sono riuscito a capire
che avevi bisogno di parlare...»
«Si vede dagli occhi, lo
so» lo interrompo. «Scusi, non volevo essere maleducata. È solo
che sapevo quello che stava per dire. Me lo dicono tutti. È vero che
gli occhi sono lo specchio dell'anima, ma a volte credo che i miei
esagerino un po'.»
«Per fortuna, invece. Sei
così poco comunicativa che sarebbe un incubo tentare di capirti, se
non ci fossero i tuoi occhi a fare la spia. Non prendere il 'poco
comunicativa' come un'offesa. Che tu sia una donna di poche parole è
palese.»
«Non l'avrei presa come un
offesa. Sono consapevole di non essere molto... beh, loquace.»
«Essere di poche parole a
volte è un pregio. Se si sa ascoltare, naturalmente. Eccoci, siamo
arrivati» aggiunge, fermandosi davanti all'ingresso di un piccolo
locale. Mi accorgo di esserci passata davanti migliaia di volte, ma
di non essermi mai accorta che ci fosse un ristorante.
Ci sediamo, e mentre lascio
che il dottore ordini anche per me e che un cameriere aggiunga un
coperto penso alle parole giuste da usare per descrivere la mia
situazione. «Dunque, di che cosa si tratta questa volta? Familiare,
professionale o privato?»
«Privato, ma con alcune
ripercussioni anche negli altri ambiti» rispondo, sapendo che non
posso dividere la mia vita in compartimenti stagni, e che qualunque
decisione prenderò nei confronti di Shannon potrebbe ribaltare
completamente la mia esistenza.
«Beh, sentiamo. Sono
piuttosto curioso.»
«Credo... beh, credo di
essermi innamorata.»
«Interessante. L'ultima
volta che ti è successo qualcosa di simile ti ci è voluto un anno
per uscirne» risponde, scostandosi per permettere al cameriere di
servirci un'invitante insalata a base di verdure e formaggio.
«C'è una grande
differenza rispetto all'ultima volta» ribatto.
«E sarebbe?»
«Questa volta non credo di
volerne uscire.»
«Parlami di lui, se ti va.
Chi è, che cosa fa nella vita...»
«Suona la batteria in una
band, è americano, è spesso in giro a fare concerti. In questo
momento è in Germania. Ci siamo conosciuti un paio di settimane fa,
quando stavano suonando qui in Italia.»
«Un paio di settimane non
ti sembrano poche per dire di essere innamorata?»
«Non la sto prendendo alla
leggera, se è questo che sta pensando. Anzi, il mio problema è
proprio l'opposto: la sto prendendo troppo seriamente.»
«Spiegati meglio, per
favore.»
«Beh, è tutta una
questione di conflitto tra cuore e cervello. Il cuore mi dice che
posso fidarmi di lui, che non mi ferirà, che potrebbe rendermi
felice e che rendermi felice è tutto quello che vuole...»
«...ma la testa ti chiede
di rallentare e di riflettere» conclude. Annuisco, infilandomi in
bocca una forchettata di verdure. «Direi che in pratica ti sei già
analizzata da sola. Resta solo da capire a chi intendi accordare la
tua fiducia, se al cuore o al cervello. E per capire quale dei due
vuoi seguire, devi pensare a quali risultati ti hanno condotto
entrambi in passato. Devi pensare a quante volte hai seguito l'uno e
l'altro, e quali conseguenze quelle scelte hanno prodotto.»
Non ho
bisogno di fare
lunghe riflessioni, per ricordare quale parte di me ha predominato in
questi anni. «Ho sempre seguito la testa» sospiro. Ho
sempre
seguito la testa, ed è per questo che sono arrivata alla mia
età
sentimentalmente sola, quasi vergine nel fisico e totalmente illibata
nello spirito. Nonostante quello che ha detto poco fa il dottor
Martini, io non mi sono mai innamorata – mai una volta nella
vita. «Ho sempre dato ascolto alla testa, perché
credevo... beh, credevo
che dare ascolto alla mia parte razionale mi avrebbe aiutato a fare
la cosa giusta. Ho sempre associato la ragione alla
felicità.»
«E come è finita?»
«Com'è finita?» ripeto.
«È finita che a ventitré anni ancora ho paura che lo scopo
principale delle persone sia di ferirmi e lasciarmi devastata. Forse
avrei dovuto dare retta al cuore, di tanto in tanto. Non è abituato
a sentirsi tanto importante.»
«Qual è la decisione che
devi prendere? Perché immagino che ci sia una decisione che devi
prendere nell'immediato, e che sia questa a causarti i maggiori
dubbi.»
«Questo fine settimana lui
è stato ospite a casa mia, e prima di andarsene mi ha proposto di
raggiungerlo a Parigi. A fine mese sarà lì con la band per alcuni
concerti, e vuole che li raggiunga. Vuole che lo veda inserito nel
suo mondo, mentre fa quello... beh, quello per cui è nato, quello
che lo rende felice.»
«Un pensiero molto carino,
devo ammetterlo» commenta il dottor Martini, facendo scarpetta nel
proprio piatto. «Interessante anche la scelta della città. Posso
immaginare che non sia casuale?»
«Non saprei proprio come
risponderle, in realtà» ammetto. «Ho accettato l'invito quasi
subito, se devo essere sincera. Per una volta ho lasciato perdere il
cervello e mi sono concentrata sulle sensazioni che provenivano dal
cuore. Solo che poi... beh, è sopraggiunto un piccolo dubbio.»
«Posso supporre che il
dubbio riguardi la reciproca conoscenza... fisica? So quanto
ti sia sempre stato difficile mostrarti, da quel punto di
vista.»
Scuoto la testa, mentre lo
stesso cameriere di prima ritira i nostri piatti e li sostituisce con
stoviglie pulite. «Il dubbio non riguarda questo. In realtà, quello
è uno scoglio che ho superato. Ancora non ho capito come,
ma... è successo, ed è stato... è stato incredibilmente naturale,
come se fosse scritto nel nostro destino. La chimica ci è stata
amica.»
«E allora su cosa
puoi avere dei dubbi?» mi domanda sbigottito, scostandosi per
lasciare spazio al cameriere e ad grande vassoio colmo di risotto
alle erbe.
«Beh, raggiungendolo a
Parigi avrò la possibilità di stare con lui e di vederlo nel suo
ambiente, ma questo significa anche che avrò l'occasione di
conoscere suo fratello e uno dei suoi migliori amici, che fanno parte
della band. E... beh, io non so se sono pronta a conoscere persone
così vicine a lui. Lui non conosce ancora nessuno dei miei
amici, e sicuramente nessuno della mia famiglia.»
«Daria, l'amore non è
questione di simmetrie. Non potete avanzare presentandovi un parente
ciascuno. Probabilmente lui non ha avuto occasione di incontrare
persone a te vicine, ma questo non significa che tu non possa
conoscere qualcuno vicino a lui. Non è una questione di simmetrie»
ripete, mentre io ripenso al fine settimana e alla faccia che
avrebbero fatto a casa se mi fossi presentata a pranzo assieme a
Shannon – mia nonna avrebbe fatto salti di gioia, mentre a mio
padre sarebbe certamente venuto un infarto.
«Non è solo questo»
riprendo. «Dottore, lui è un uomo di quarantatré anni» sputo
fuori d'un fiato. Già che siamo in vena di confessioni, meglio
essere sincera – tanto vige il segreto professionale, anche se sto
parlando in un luogo pubblico dove chiunque mi potrebbe sentire. «Per
quanto a volte dimostri la maturità di un ragazzo di venti, non
posso ignorare il fatto che anagraficamente potrebbe essere mio
padre.»
«Perdona la franchezza che
sto per usare, e ti prego di credere che non sto cercando di
offenderti, ma... conoscere la sua reale età non ti ha dissuaso
dall'intenzione di andare a letto con lui» taglia corto lui. In
effetti ha parlato senza mezzi termini, ma capisco il suo punto di
vista. «Insomma, tutti i dubbi e i complessi che ti impedivano di
avere una normale vita sessuale con il tuo ex fidanzato in questo
caso non hanno giocato alcun ruolo. Ti sei sentita libera, ti sei
comportata in maniera naturale... e l'età non ha avuto peso in
questa decisione. Perché te ne preoccupi adesso?»
«Suppongo... suppongo di
temere il giudizio della gente. Le coppie in cui c'è molta
differenza d'età attirano sempre un certo numero di maldicenze.»
«O forse temi che qualcuno
all'interno della tua famiglia possa sentirsi a disagio. Forse tuo
padre potrebbe faticare ad accettare che sua figlia abbia una
relazione con un uomo quasi suo coetaneo. Forse credi che tuo padre
potrebbe sentirsi sminuito nel suo ruolo di capofamiglia. In fondo è
su questo principio di distinzione tra vecchio e nuovo che si fonda
la famiglia tradizionale: esistono gli anziani, il cui ruolo è di
fare da guida, e poi ci sono i giovani, che hanno il compito di
sbagliare. Certo è che se il giovane in questo caso ha la
stessa età del vecchio, l'ordine viene sovvertito.»
«Più che altro, credo di
temere il giudizio di mio padre» sussurro appena, come se mi fossi
fermata alla sua prima frase. «Alice, la mia amica, mi ha spinta a
raccontare a mia nonna qualcosa del mio 'uomo del mistero'. Non le ho
rivelato la sua vera età, ma le ho fatto capire che non ha
vent'anni. La notizia non l'ha sconvolta: l'uomo più importante
della sua vita aveva quattordici anni più di lei, e per l'epoca si
trattava di un vero e proprio scandalo. Non so perché non le ho
raccontato la verità: da quattordici a venti il passo è breve.»
«Forse temevi che la
notizia giungesse a tuo padre. Anche se dovresti smettere di pensare
al giudizio degli altri: tuo padre sta vivendo la sua vita, ha
operato le sue scelte, vissuto le proprie relazioni. Hai ventitré
anni, sei nei tuoi anni migliori – ammesso poi che gli anni
migliori siano davvero quelli della giovinezza. Io dico: smetti di
parlare, smetti di pensare in modo teorico. Se vuoi una
relazione con quest'uomo, allunga le mani e prendila. Credi che
amarlo sia la scelta giusta? Amalo. Pensi che possa renderti felice?
Lasciati andare e scopri se ci riesce. Ma per l'amor del cielo,
smetti di sprecare tempo.»
*
Torino, 25 novembre 2013
«Hai preso tutto?» mi
chiede Alice per l'ennesima volta, ossessiva quanto una mamma che
veda l'unico figlio partire per la guerra. «Spazzolino, dentifricio,
fazzoletti, mutande di ricambio, profilattici?» Va bene, forse una
madre non mi avrebbe chiesto dei profilattici. «Mi raccomando, tra
una ripresa e l'altra esci dalla meravigliosa suite che condividerete
e manda una cartolina.»
«Ehi, mica passeremo il
tempo a fare sesso!» rispondo con un sorriso. «Insomma, spero abbia
altri programmi. Sicuramente ogni tanto dovrà andare alle prove,
senza contare poi le sere dei concerti. Non passeremo certo tutta la
settimana in mutande.»
«In mutande no, ma forse
senza sì...» mi prende in giro, ammiccando. Dovrei ammettere
che l'idea non mi disturba: in queste due settimane Shannon mi è
mancato quanto l'aria – mi sono mancate le sue mani tese verso di
me, i piedi caldi che toccano le mie dita gelide, la sua presenza
solida e rassicurante nell'isola enorme del mio letto.
Finalmente stasera non sarò
più sola.
*
Parigi, 25 novembre 2013
«Shannon,
vuoi smettere di agitarti? Mi sembri un lupo in gabbia.» Sto facendo
impazzire Jared, ne sono consapevole, ma non riesco a stare fermo:
l'idea che tra sole otto ore questa stanza sarà riempita del profumo
di Daria e del suono della sua voce e delle sue risate mi fa uscire
di testa. Provo ad immaginare come sarà stare di nuovo con lei,
portarle la valigia fino in camera e guardarla sistemarsi – se un
po' la conosco, come prima cosa si avvicinerà alla finestra,
scosterà la tenda e darà un'occhiata al panorama. Quando ha
confermato la prenotazione, Emma mi ha chiesto se volevo una camera
con vista sulla torre Eiffel, ma ho rifiutato: conosco poco Daria, ma
so che non ama le cose scontate, e questa lo sarebbe stata certamente
– perciò ho pregato Emma di trovarmi una stanza con vista sulla
basilica del Sacro Cuore2,
sicuro che Daria lo gradirà.
«Non
riesco a calmarmi, Jared »
devo ammettere alla fine. «E se avesse deciso di non venire?»
«L'hai
sentita ieri sera, e ti ha detto che avrebbe preso il treno questa
mattina. Che cosa ti fa credere che potrebbe aver cambiato idea senza
avvisarti?»
«So
quanto la spaventino i cambiamenti, le cose che non conosce. Questo
viaggio sicuramente rappresenta qualcosa di nuovo.»
«Shannon,
non ha cambiato idea.»
«Ma
se lo avesse fatto?»
«Non
ha cambiato idea» ripete,
calcando l'accento su ogni singola parola. «Se lo avesse fatto, ti
avrebbe chiamato per dirtelo. E a quel punto probabilmente saresti
andato a prenderla di persona a Torino.»
Interrompo
il mio pellegrinaggio e mi fermo accanto alla finestra, cercando di
concentrarmi sul panorama. «Mi sento strano, sai?» dico dopo un
po', con una voce che non sembra la mia.
«Strano
tipo malato?» ribatte subito mio fratello, alzando la testa di
scatto come un animale che fiuta l'avvicinarsi di un predatore.
«Strano
tipo strano»
rispondo, incapace di trovare una definizione migliore. «Mi sento
come se avessi quindici anni e mi fossi preso una cotta per la
ragazza più popolare della scuola.»
«Come
ai tempi di Christine?»
«Sì, più o meno. Credo
che potrei essere capace di fare le peggiori sciocchezze, per lei.
Penso che niente sarebbe abbastanza strano o stupido, se fosse fatto
per lei.»
«Non
credevo sarei vissuto abbastanza a lungo da vederti di nuovo così...
annullato. Credevo che
nessuna sarebbe mai stata in grado di colpirti quanto Christine.
Quando con lei è finita... beh, lo sai. Eri distrutto. Eri
letteralmente devastato.»
«Mi
ha spezzato il cuore in un miliardo di pezzi» ammetto. La rottura
con Christine ha segnato l'inizio di un periodo buio, una depressione
così tremenda da portarmi sull'orlo di un abisso – un abisso dal
quale soltanto la straordinaria forza di mio fratello mi ha salvato.
«Non sarei mai riuscito a rimetterli insieme, se non fosse stato per
te» aggiungo, voltandomi per guardarlo.
«Sono
tuo fratello, era mia dovere starti vicino» risponde, facendo
spallucce. Finge di non aver fatto nulla di importante, ma la verità
è che senza di lui non sarei riuscito a riprendermi, e sicuramente
non avrei avuto l'opportunità di fare della mia vita qualcosa di
straordinario. «E sarei pronto a farlo ancora, se... beh, se dovesse
succedere di nuovo.»
«Non
succederà» ribatto, stranamente sicuro di me. «Daria non mi
spezzerà il cuore. E se anche dovesse accadere, non sono più lo
stesso di vent'anni fa. Potrei sopportare il dolore senza cercare la
via più facile per ignorarlo.»
«Mi
fa piacere sentirtelo dire» risponde lui, alzandosi dal letto sul
quale è rimasto steso tutto il tempo. «Senti, adesso che ne dici di
andare a provare? Tanto la tua ragazza non arriverà fino alle
quattro, e avrai tutto il pomeriggio e la serata per stare con lei.
Non guardarmi così, me lo devi!»
«E
va bene, mi inchino alla tua magnanimità. Andiamo, dai» taglio
corto, afferrando il giubbotto mentre raggiungo la porta.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Manca
poco più di mezz'ora al mio arrivo a Parigi, e inizio a non stare
più nella pelle – non riesco a tenere ferme le mani, non riesco a
tenere ferme le gambe. Continuo a controllare il cellulare,
spaventata all'idea di essere in ritardo, e continuo a guardare fuori
dal finestrino, chiedendomi in quale punto preciso ci troviamo.
Vorrei scrivere a Shannon, ma ho paura che in caso di ritardo si
preoccuperebbe, perciò decido di lasciar perdere. La signora seduta
davanti a me mi tiene d'occhio da un po', pur rimanendo concentrata
sul suo lavoro a maglia: ad occhio e croce deve avere più di
sessant'anni, il che la renderebbe plausibile come nonna. «Non è
che se continui a guardare l'ora arrivi prima» mi sento dire ad un
certo punto. Alzo lo sguardo, e dal suo sorriso capisco che sta
cercando di tranquillizzarmi. «Direi che c'è qualcuno che ti sta
aspettando, a destinazione.»
«Sì,
c'è qualcuno che mi aspetta» rispondo, senza riuscire ad impedirmi
di sorridere come una povera cretina.
«Ed
è un ragazzo» aggiunge lei.
«Sì,
è un ragazzo» confermo. «Un uomo, in realtà. Non è proprio un
ragazzo. Ha vent'anni più di me.» Non so che cosa mi abbia spinto a
confessare subito questo dettaglio, fatto sta che la mia vicina non
si scompone per niente.
«Che
importa quanti anni ha, se ti fa stare bene? L'importante è che ti
tratti con rispetto e che ti ami con tutto se stesso. L'età è
soltanto un dato anagrafico.»
«Me
lo hanno detto in molti. In realtà non ci ho mai dato peso, non è
mai stata importante per me. Solo che non mi ero mai trovata in una
simile situazione. Ci avevo sempre pensato in maniera teorica, ma non
avevo mai... beh, sperimentato.»
«C'è
sempre una prima volta» sorride ancora lei. «Sei francese?»
Scuoto
la testa. «Sono italiana, e lui è americano. Fa il musicista, e
questa settimana è in tour in Francia. Due settimane fa è stato
ospite a casa mia, e adesso vuole ricambiare.»
«Una
vera e propria storia da film. Vi conoscete da molto?»
«Poco
meno di un mese» ammetto. «So che non si può dire di conoscere
qualcuno dopo così poco tempo, però... non lo so, sento che per
adesso va bene così. Insieme stiamo bene.»
«E
allora non devi preoccuparti. L'importante è che tu sia serena e che
lo sia anche lui. Ricordati sempre che la felicità non è una meta
da raggiungere. La felicità è qualcosa che vivi tutti i giorni.
Insomma, la felicità è nelle piccole cose, nei dettagli a cui di
solito non dai importanza.» Fa una piccola pausa, come per lasciarmi
rispondere, ma in qualche modo non me la sento di interromperla.
«Goditi ogni istante come se fosse il primo e insieme anche
l'ultimo, perché non sai quando le cose smetteranno di andare bene.»
Mi limito ad annuire,
incapace di trovare parole più perfette delle sue. Vivere giorno per
giorno, prendendo tutto il buono che posso – è quello che dice
sempre Alice, è quello che mi ha consigliato Francesca, è quello
che mi ha spronato a fare anche il dottor Martini. Se anche una donna
appena conosciuta mi dice di fare, probabilmente non ho davvero
scelta.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Sei ore di prove mi hanno
aiutato a non pensare, e anche se il nervosismo mi ha assalito
durante la pausa per il pranzo, sono riuscito a non combinare
disastri e a suonare in maniera decente. Ora sono le quattro del
pomeriggio, e sono immerso nel caos della Gare de Lyon, in attesa del
treno che riporterà Daria qui da me. Sono in piedi davanti al
tabellone degli arrivi, cercando di interpretare le scritte luminose
che cambiano con una rapidità impressionante. Sto per chiamare Daria
per chiederle di tradurmi quello che sto leggendo, ma lei mi batte
sul tempo. «Ehi, stavo per chiamarti» esordisco. «Non riesco a
capire su quale binario arriverà il tuo treno. Sono fermo davanti al
tabellone come un idiota, non capisco una parola di quello che c'è
scritto.»
«Dovresti proprio imparare
una lingua straniera, con il lavoro che fai» risponde con una
risata. «Beh, tu resta fermo dove sei. Ti trovo io.»
«Ma io volevo venire a
prenderti sul binario.»
«Facciamo a modo mio. Ti
fidi di me?»
«Non so perché, ma sento
che risponderti potrebbe essere pericoloso.»
«Non fare il bambino, dai.
Ti fidi di me?»
«Mi fido di te.»
«Allora gira le spalle al
tabellone degli arrivi, conta fino a dieci e poi chiudi gli occhi.»
«Confermo la mia prima
impressione: mi sembra una cosa pericolosa.»
«Fidati di me. Non ci
metto niente a saltare sul primo treno per Torino.»
«Va bene, mi fido di te.»
«E non sbirciare. Me ne
accorgerei. E mi arrabbierei tantissimo.»
«Va bene, lo giuro sulla
testa di mio fratello.»
«Va bene. Adesso metti
giù, voltati, conta fino a dieci e chiudi gli occhi. A tra poco.»
«A tra poco.» Interrompo
la comunicazione e seguo a menadito le sue istruzioni, un po'
impaurito per quello che potrebbe capitare se non lo facessi. Conto
fino a dieci e chiudo gli occhi, chiedendomi che cosa succederà a
questo punto. Passano all'incirca cinque secondi, e sento la
familiare sensazione delle astine che scivolano dietro le orecchie e
degli occhiali che mi si assestano sul naso. D'istinto, mi viene da
sorridere. «Adesso posso aprire gli occhi?»
Il lunghissimo silenzio che
segue la mia domanda mi fa dubitare che si tratti della persona che
sto aspettando, tuttavia non apro gli occhi, aspettando una risposta
– risposta che arriva dopo quella che sembra una vita. «Adesso
puoi» è il sussurro di Daria. Sollevo lentamente le palpebre, e lei
è davanti a me, impegnata a guardarmi con la testa leggermente
inclinata verso sinistra. «Ti stanno bene. Dovresti portarli più
spesso.» La osservo a lungo, incapace di dire qualunque cosa: è
ancora più bella di quanto ricordassi, con quei suoi incredibili
occhi quasi verdi e il sorriso timido che vorrei trovare ogni mattina
sul cuscino accanto. «Perché mi guardi così?»
«Perché non posso credere
che tu sia davvero qui in piedi di fronte a me» rispondo a voce
bassa, mentre intorno a noi la gente continua a muoversi frenetica,
fregandosene di due che se ne stanno fermi uno di fronte all'altra
senza nemmeno avere il coraggio di toccarsi.
«Posso assicurarti che
sono qui» risponde, alzando una mano verso il mio viso. Mi sfiora la
guancia con due dita, forse aspettando che sia io ad approfondire il
contatto. «Ci sono davvero» aggiunge, mentre appoggio la mia mano
sulla sua e la appoggio contro le mie labbra per baciarla.
«Ci sei davvero»
sussurro, mentre sollevo l'altra mano per accarezzarle il viso un po'
stanco per le tante ore di viaggio. «Sei proprio qui.»
«Certo che ci sono. Avevi
paura che cambiassi idea?»
«Ero terrorizzato all'idea
che non venissi.»
«Ammetto che ci ho
pensato. Ma non potevo non venire. Mi mancavi troppo.» Continua a
guardarmi negli occhi come se non riuscisse a credere di aver davvero
preso un treno per raggiungermi. «Per favore, Shannon, baciami» aggiunge
all'improvviso, forse chiedendosi perché non lo abbia ancora fatto.
Nemmeno io so spiegarmi perché non lo abbia ancora fatto – forse
inconsciamente ho paura che si tratti di un sogno, e che osando tanto
possa finire tutto. Tuttavia, supero la paura e mi spingo in avanti.
Le nostre labbra si toccano quasi con timidezza, come se ci volesse
del tempo per riconoscersi. Un paio di timide carezze, e l'imbarazzo
scompare: le sue braccia circondano il mio collo, le mie mani si
incrociano sulla sua schiena, e il bacio si fa profondo, carico di
passione, caldo e coinvolgente come nei film. Daria è di nuovo con
me, e mi sento come se niente potesse ferirmi o spezzarmi.
1
Senti,
io non voglio più parlare di ciò che è vero e di ciò che è
illusione: la vita è breve. Non sprechiamo tempo per pensare alla
vita, viviamola e basta. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Gil
Shepherd
(interpretato da Jeff
Daniels)
nel film La Rosa
Purpurea Del Cairo
(1985, regia di Woody Allen). Concedetemi un piccolo spazio
pubblicitario e lasciate che vi dica che si tratta di un film
straordinario, come del resto ogni pellicola di Allen, che è un vero
genio e uno straordinario antropologo (non si capisce che lo adoro,
vero?). Vi lascio il trailer
in lingua originale,
dategli un'occhiata – e se per caso aveste un'oretta e mezza che
non sapete come impegnare, guardatelo!
2
Basilica
del Sacro Cuore
| La basilica
del Sacro Cuore
è una basilica cattolica, costruita sulla collina Montmartre, per
lungo tempo centro della vita artistica di Parigi e, soprattutto,
sede della vita notturna (vi si trovano i celebri Moulin
Rouge
e Le Chat Noir).
Si tratta di uno dei monumenti più celebri della città, e
personalmente lo ritengo anche uno dei più romantici, per quanto il
vero simbolo della città sia la torre Eiffel.
|
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Capitolo 16 *** 16 | Rimani qui, scende la sera, sopra di noi si poserà. Aspetteremo così la primavera, solo se vuoi ci troverà. ***
Portagioie di tristezza | 1
Come al
solito, sono in ritardo con gli aggiornamenti. Vi domando immensamente
scusa, ma far sì che Shannon e Daria si ritrovassero è
stato molto più difficile del previsto, perché ogni
parola mi sembrava inutile e superflua. Spero che questo capitolo non
vi deluda, ma anche nel caso lo facesse, vi prego di farmelo sapere -
sopporto le critiche negative quanto adoro quelle positive!
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo sedicesimo
Rimani qui, scende la
sera, sopra di noi si poserà.
Aspetteremo così la
primavera, solo se vuoi ci troverà.1
Parigi, 25 novembre 2013
Il nostro albergo dista
dieci minuti dalla stazione, e per tutto il tragitto Daria ed io non
facciamo altro che baciarci, proprio come due ragazzini che vivono un
amore clandestino e devono approfittare di ogni attimo che riescono a
rubare. Trattengo il suo viso tra le mani per impedirle di
allontanarsi, ma sento che il suo corpo sta facendo di tutto per
resistere all'impulso di abbandonarsi completamente contro il mio, di
lasciarsi andare alle carezze di cui sa che sarei capace. Chiedo al
tassista di farmi scendere una ventina di metri prima dell'ingresso
dell'albergo, nascosto dietro un angolo, nel caso ci fossero
appostati fan pronti a saltarmi addosso – in quel caso non vorrei
proprio coinvolgere Daria, già abbastanza provata all'idea di
conoscere mio fratello. Come da accordi, ci incontriamo di nuovo al
bancone della reception, dove lei sta già sbrigando le pratiche
necessarie. La sento parlare in maniera molto fluente con il
concierge, e mi chiedo che cosa mai si
stiano dicendo – è decisamente giunto il tempo di imparare una
lingua straniera. Quando vedo l'uomo fare un cenno con la testa e
restituirle la carta d'identità con un sorriso capisco che hanno
concluso, e cercando di pronunciare correttamente «Merci» le passo
un braccio attorno alla vita e mi approprio della sua valigia,
accompagnandola verso gli ascensori. Non appena le porte si chiudono
non riesco a trattenere la curiosità. «Si può sapere che cosa
diavolo vi siete detti? Chiacchieravate come due vecchi amici.»
Alla mia domanda, il suo
viso si illumina di un sorriso dolcissimo. «Non dirmi che sei
geloso. Quell'uomo ha almeno sessant'anni, è decisamente fuori dal
mio target. E comunque mi ha solo chiesto se ho viaggiato bene, visto
che dal documento ha capito che sono italiana. Non c'era niente di
sessuale in quello che ci siamo detti.»
«Bene, meglio così.
Preferirei essere l'unico a detenere il diritto di fare quel tipo di
conversazioni con te.» Non risponde, ma si limita a sorridere ancora
e ad appoggiare la testa contro la mia spalla.
Le porte si aprono senza
rumore su un corridoio stranamente deserto. Temendo che mio fratello
si sia nascosto per tenderci un'imboscata con i fiocchi, metto fuori
la testa con fare cauto, neanche fossimo due cani della prateria che
si apprestano a lasciare la tana e controllano che non ci siano
predatori in vista. Una volta assicuratomi della totale assenza di
persone, prendo Daria per mano e me la trascino letteralmente dietro
fino alla porta della mia camera, che naturalmente è la più lontana
dall'ascensore. In un attimo struscio la chiave magnetica, apro la
porta, spingo Daria in camera e richiudo l'uscio. Una volta al
sicuro, mi chiedo come sia possibile che Jared non abbia sfruttato
l'occasione per intervenire e presentarsi.
Mi appoggio di spalle alla
porta, guardandola con occhi che so essere carichi di passione,
libidine, lussuria, voglia di saltarle addosso e spingerla sul letto
per farle tutte le cose che in queste due settimane ho soltanto
potuto sognare di fare. «Perché adesso non vieni qui?»
sussurro, facendole un piccolo cenno con la mano.
Ma lei risponde al mio
sguardo con un sorriso, indietreggia di qualche passo e si volta,
raggiungendo la finestra. Come avevo previsto, scosta la tenda e
osserva il panorama, lasciando correre lo sguardo da sinistra a
destra, proprio come se stesse leggendo un buon libro. «La butte
Montmartre» commenta a bassa voce. «Montmartre è sempre stato
il mio quartiere preferito, quello che mi affascinava di più. Ma non
ricordo di avertelo mai detto, dunque dubito sia stata una scelta
meditata» aggiunge, voltando la testa per guardarmi.
«Emma mi ha chiesto se
volevo una suite con vista sulla torre Eiffel, ma sapendo quanto
detesti le cose scontate ho rifiutato. Non sapevo che Montmartre ti
piacesse, però immaginavo avresti apprezzato. È sempre stato il
quartiere degli artisti, ed essendo tu un'artista...»
«Non
sono un'artista» si schernisce, abbassando lo sguardo.
«Va bene, non sei
un'artista» ribatto, decidendo di assecondarla. «Però almeno
lasciati dire che sei un'opera d'arte.» A quella frase alza la testa
di scatto, guardandomi come se non capisse di che cosa si stia
parlando. «Non guardarmi così» la avverto, iniziando ad
avvicinarmi a passo lento. «Sto solo dicendo che sei bellissima, non
credo sia la prima volta. La cosa non dovrebbe sorprenderti. Forza,
adesso vieni qui» aggiungo, facendole scivolare le braccia attorno
alla vita per convincerla a voltarsi.
Senza dire una parola di
più ricominciamo a baciarci, e presto le distanze si annullano, le
carezze si fanno audaci, le mani cominciano a vagare lungo i
reciproci perimetri. Quando le infilo le mani sotto il giubbotto, con
l'intenzione di sfilarglielo, lei si allontana, mordicchiandosi il
labbro inferiore. «Prima di fare qualsiasi altra cosa mi serve una
doccia, Shannon» sussurra, guardandomi negli occhi. «Forse non è
una cosa molto romantica da dire, ma... puzzo.»
La guardo con un sorriso,
mordicchiandomi il labbro a mia volta. «Beh, che puzzi lo dici tu,
perché a me non sembra. Comunque si può rimediare facilmente. Tu
spogliati, io vado ad aprire l'acqua» concludo, avvicinandomi tanto
da sfiorarle il naso con il mio.
Solo adesso che l'ho
rivisto ho capito che Shannon mi è mancato più di quanto riuscissi
ad ammettere con me stessa: è bastato un semplice bacio a
risvegliare in me la voglia di lui, è bastato un semplice tocco
della sua mano a trasformarmi di nuovo in quella ragazza che fino ad
un mese fa non conoscevo, quella che non ha paura di mostrarsi nuda e
offrirsi a qualcuno completamente priva di difese. Sfilo il giubbotto
e lo lascio cadere su una sedia, calcio via le scarpe e mentre
cammino verso il bagno inizio a sbottonarmi la camicia. Entro nella
stanza e Shannon si volta verso di me, rivolgendomi un'occhiata che
non può proprio essere fraintesa. Restituisco lo sguardo,
continuando a separare ogni bottone dalla rispettiva asola. Lui
continua ad avvicinarsi, in silenzio – l'unico rumore è quello
dell'acqua che scorre nei tubi. La sua bocca arriva ad un centimetro
dalla mia, e dalle sue labbra socchiuse filtra il profumo del
miliardo di tazze di caffè che deve aver bevuto oggi. Le sue dita
scivolano sulla chiusura dei miei jeans, fanno scendere la zip e poi
spingono via la stoffa, che si ammucchia nei dintorni delle mie
ginocchia. Le sue mani mi afferrano le natiche, fanno forza e mi
sollevano, facendomi sedere sulla ceramica fredda del lavandino. Per
non perdere l'equilibrio mi aggrappo alla sua maglietta, ma appena mi
ritrovo di nuovo stabile decido che è un orpello inutile. Lo
spoglio, lascio che lui finisca di scoprirmi le gambe e poi lo
accolgo di nuovo contro di me. Non fatico a sentire il cavallo teso
dei suoi jeans premere contro il mio punto più sensibile, e
istintivamente mi muovo per sentirlo di più. Mi fa scivolare la
camicia via dalle braccia, accarezzandomi con la dolcezza che
ricordavo. Le sue dita percorrono lente il bordo del reggiseno,
facendomi tremare. Chiudo gli occhi e rovescio la testa all'indietro,
offrendogli il mio collo. Un bacio, una carezza fatta con la punta
del naso, il respiro che mi sfiora – ormai basta un niente per
attivare le mie terminazioni nervose. Ma che cosa mi hai fatto,
Shannon?
Mentre le sue mani sono
impegnate con il mio seno, le mie gli sfiorano il torace, seguono la
sottile peluria che nasce sotto l'ombelico e superano indenni il
bordo dei jeans. «Hai proprio deciso di farmi impazzire, eh?» mi
sussurra all'orecchio. Riesco a percepire chiaramente che il suo
respiro sta cambiando ritmo.
«Mi sto solo adeguando ai
suoi standard, maestro.»
Con la coda dell'occhio
vedo le sue labbra tendersi in un sorriso. «Sei una buona allieva»
risponde, mentre le mani esperte fanno scivolare via il reggiseno
senza che quasi me ne accorga. «Non sai quanto mi sei mancata»
sussurra ancora, appoggiando la fronte contro la mia, ad occhi
chiusi. «Non sono stato con nessuna» aggiunge subito dopo,
riaprendo gli occhi per puntarli dritti nei miei. «Non ricordo da
quanto tempo è che non mi succede di stare così tanto senza...
scusa, forse non dovrei dirlo. Non è proprio l'argomento adatto,
eh?»
«Non ti preoccupare»
ribatto, spostando una delle mie mani sulla sua guancia. «Sono
contenta che tu me lo abbia detto. Mi sarei arrabbiata se mi avessi
detto il contrario.»
«Non sarebbe mai potuto
succedere» risponde deciso, spazzando via ogni dubbio. «Non ho
fatto altro che pensare a te. Non ti avrei potuta tradire. Figurati
che mi sembrava di farti un torto anche quando mi facevo... beh,
immagino tu abbia capito» conclude in fretta, tanto imbarazzato che
quasi mi pare di vederlo arrossire.
«Shannon, adesso sono qui»
bisbiglio, guardandolo dritto negli occhi. «Adesso sono qui»
ripeto, e quasi senza pensarci muovo la mano che ancora tengo nei
suoi pantaloni, strappandogli un gemito di pura soddisfazione.
«Oh, ti sento» è
il suo commento. «Ti sento» ripete, subito prima di
sporgersi in avanti e baciarmi ancora. Con qualche difficoltà dovuta
al poco spazio di manovra faccio scivolare jeans e biancheria a
terra, soffermandomi ad accarezzare con interesse i fianchi e le
cosce, amando la sensazione dei suoi muscoli tesi sotto le mie dita.
Mi prende il viso tra le mani, continuando a baciarmi, e poi
all'improvviso si allontana, guardandomi come se quel gesto gli
costasse una fatica immane. «Se vogliamo continuare, credo di dover
andare a prendere...»
Non gli do il tempo di
terminare la frase. «Prendi me, Shannon» lo interrompo. Non
so da quale strana parte del mio cervello sia arrivato l'impulso di
dire una cosa del genere, fatto sta che l'ho detta. E per
sottolineare il concetto gli ho allacciato le gambe dietro la
schiena, stringendolo contro di me con una forza che non avrei mai
creduto mi appartenesse. La verità è che ho bisogno di lui, ne ho
bisogno come l'ossigeno, e non posso sopportare che si allontani da
me neppure per un decimo di secondo. Ho paura che se lo facesse mi
sveglierei all'improvviso, accorgendomi che è soltanto un sogno –
un bellissimo, incredibile, dannatamente realistico sogno.
Impiego dai due ai cinque
secondi per realizzare che Daria ha davvero detto quello che ho
sentito, ma non me ne serve più di mezzo per recepirne gli effetti.
Quello che ha appena detto è che ha bisogno della mia vicinanza, che
le sono necessario – e so che non intende soltanto in senso
fisico, anche se è questo che mi ha appena chiesto. Decido di non
rispondere a parole, ma di affidarmi unicamente ai gesti. La convinco
a sciogliere l'intreccio delle gambe per il tempo necessario a
sfilarle la biancheria, e subito dopo scivolo in avanti, realizzando
il suo desiderio. Le passo un braccio dietro la schiena per
sostenerla, mentre con l'altra mano le raggiungo il viso, per
accarezzarlo. Avvicino il volto al suo, senza toccarlo, lasciando che
i nostri respiri si sfiorino senza mai fondersi davvero. Mi muovo
lentamente, quasi temessi di farle del male, e ad ogni spinta il suo
corpo risponde in maniera uguale e contraria, adattandosi
perfettamente al mio, come se fossimo parti di un ingranaggio
finalmente ricomposto. Le sue mani scivolano sulla mia pelle, le
braccia si intersecano dietro il collo e mi tengono vicino, così
vicino che ad ogni respiro il suo seno preme contro il mio torace,
aumentando ancora di più la mia eccitazione.
Non so per quanto tempo
continuiamo a muoverci così, ma di sicuro non fatico a cogliere il
momento del suo orgasmo: la sua testa si abbandona contro la mia
spalla, le labbra socchiuse si appoggiano contro il pomo d'Adamo,
proprio sopra il tatuaggio, e il suo intero corpo è scosso da un
brivido. Rallento i miei movimenti fino ad interromperli, scivolando
via da lei pochi attimi prima di raggiungere l'apice del mio piacere.
La tengo stretta contro di me con l'ausilio di un solo braccio,
mentre con l'altra mano afferro un asciugamano, con il quale cerco
subito di pulirmi.
A questo punto, succede
qualcosa che non mi sarei mai aspettato: le spalle iniziano a
muoversi, scosse da piccoli singhiozzi regolari, e le sue lacrime
iniziano a bagnare la mia pelle. «Ehi, ehi, ehi» bisbiglio,
accarezzandole i capelli. «Sono stato così tremendo?» Scuote il
capo, senza alzare gli occhi. «E allora perché piangi?» sussurro,
cercando di avvicinarmi il più possibile al suo orecchio. «Dai, lo
sai che con me puoi parlare di tutto. Che succede?»
La sua voce sembra arrivare
da un altro pianeta, tanto è flebile e spezzata dal pianto. «Vorrei
che non fosse così perfetto» dice. «Non solo il sesso, ma...
tutto. Vorrei che non fosse così perfetto, così non ne
sentirei tanto la mancanza.»
Non so davvero che cosa
rispondere. Che cosa si deve dire in questi casi? Che nemmeno io
vorrei amarla tanto, perché ogni attimo senza di lei mi sembra vuoto
e privo di senso? Perché è così che mi sento, quando siamo lontani
– tutto quello che ho costruito in questi quarantatré anni mi
sembra sterile e privo di valore, se non posso condividerlo con il
suo splendido sorriso. Taccio, lascio cadere l'asciugamano sporco e
la cingo con entrambe le braccia, cullandola appena, come se fosse
una bambina da mettere a letto. In fondo è questo che amo di lei: la
sua innocenza, le sue fragilità, l'apparente forza che in realtà
serve soltanto a mascherare il suo disperato bisogno di essere
protetta.
*
Parigi, 25 novembre 2013
«Allora? L'hai già vista?
Com'è?» Tomo pone ugualmente la propria domanda, anche se dal
broncio di Jared è evidente che la risposta è negativa.
«No, non ho potuto. Emma
me lo ha impedito.»
«Mi sono soltanto messa
nei panni di quella povera ragazza, e ho pensato che probabilmente
voleva passare un po' di tempo sola con Shannon, prima di essere data
in pasto alla tua spropositata curiosità. Concedile almeno un paio
d'ore per sistemare i bagagli e riposarsi, no?» ribatte
l'assistente, sottolineando la propria intenzione di fare del bene.
Tomo e Jared si scambiano
un'occhiata molto eloquente – conoscono bene il loro batterista, e
in cuor loro sanno che probabilmente 'quella povera ragazza' è a
malapena riuscita a superare la soglia della camera da letto con
tutti i vestiti addosso. «Ma io non volevo tendergli un'imboscata!»
protesta Jared. «Volevo soltanto nascondermi dietro qualche angolo
per darle un'occhiata. Shannon dice sempre che è tanto carina...»
«Avrai tempo di vederla,
non ti preoccupare» taglia corto Emma, sistemandosi una ciocca di
capelli dietro l'orecchio. «Nell'attesa, che ne dici se rivediamo un
attimo il programma dei prossimi giorni? C'è qualcosa che non mi
torna.» Dopo tanti anni trascorsi insieme, ormai Emma conosce tutti
i punti deboli di Jared: è sufficiente fargli credere che qualcosa
stia sfuggendo al suo controllo per distrarlo da qualunque altro
pensiero.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Più ci penso, più non
riesco a credere di essere scoppiata in lacrime davanti a Shannon. Ma
ciò che mi sconvolge di più è il modo in cui lui riesce a non
perdere il controllo: mi tiene stretta al suo petto come se la mia
serenità fosse la sua unica priorità, accarezzandomi in silenzio,
lasciandomi sfogare ogni lacrima senza cercare di farmi smettere.
Poi, sollevandomi come se non avessi peso, mi porta sotto la doccia,
aperta da più di mezz'ora, e rimane in piedi davanti a me per tutto
il tempo. Sotto il getto caldo ci accarezziamo a lungo, senz'altro
scopo se non quello di ricordare all'uno la presenza dell'altro.
Stranamente, non c'è nulla di sessuale nelle nostre carezze: è
soltanto un modo come un altro per riconoscerci, per ricordarci che
siamo ancora insieme.
Circa mezz'ora più tardi,
me ne sto avvolta in un asciugamano grande quanto il Brasile, distesa
su quello che è un letto decisamente enorme. Shannon è
seduto accanto a me, con un asciugamano legato in vita e le spalle
appoggiate alla testiera, impegnato a passarmi pigramente le dita tra
i capelli bagnati. «Perdonami» dico all'improvviso. «Devo proprio
esserti sembrata una sciocca, poco fa. Scoppiare a piangere a quel
modo...» aggiungo sottovoce, vergognandomi molto per una simile
mancanza di dignità.
«Non mi sei sembrata
affatto sciocca. Piangere è un modo per esprimere delle emozioni, e
francamente sono felice di sapere che provi emozioni. La cosa
mi tranquillizza molto. Vuol dire che sei una persona normale.»
«È tutto nuovo, per me,
tutto molto... strano.»
«È tutto nuovo anche per
me.»
«Ma tu non scoppi in
lacrime all'improvviso come una femminuccia.»
«Vero» risponde dopo
qualche attimo di silenzio. Sorrido, felice per quella piccola
vittoria. «Però io mi sento in colpa se mi masturbo pensando a te»
aggiunge dopo un po'. «Dunque direi che siamo pari.»
Cambio posizione, e mi
muovo fino ad appoggiargli in grembo la testa. «Lo hai fatto
davvero?» gli chiedo dopo un lungo silenzio, alzando gli occhi su di
lui.
«Perché, la cosa ti
stupisce?» ribatte, rivolgendomi un'occhiata decisamente divertita.
«Beh, un po'» ammetto,
sapendo di arrossire come un'educanda. «Insomma, sapere che...
sapere di essere alla base di certi pensieri è... strano.»
«E perché mai? Se riesci
a farmi eccitare di persona, perché non dovresti farmi effetto anche
sotto forma di pensiero? E poi il fine settimana che abbiamo passato
insieme mi ha fornito molto materiale su cui lavorare...» Distolgo
lo sguardo, sentendo che il viso mi sta andando a fuoco, ma una delle
sue mani si appoggia sulla mia guancia, convincendomi a voltarmi di
nuovo verso di lui. «Comunque non pensare che sia soltanto una
questione di sesso. Qualsiasi cosa succeda, promettimi che non
penserai mai che tra di noi si riduce tutto a questo. Qualunque
dubbio tu abbia, qualunque strana cosa ti venga in mente... non è
soltanto sesso, va bene?» conclude in un sussurro.
«Va bene» sussurro a mia
volta. «È anche sesso» aggiungo qualche istante più tardi,
riuscendo a dare alla frase quell'intonazione divertente che speravo.
Nel sentire la battuta scoppia a ridere, e nella perfezione del suo
viso rivedo tutti i motivi che mi hanno spinta ad innamorarmi di lui
– prima come musicista, poi come fantasia, e infine come uomo.
Non ridevo così di gusto
da un sacco di tempo. È in questo momento che mi rendo davvero
conto di quanto mi sia mancata – non soltanto il calore del suo
corpo disteso accanto al mio, non soltanto la sua pelle, non soltanto
il sesso. Mi è mancato tutto, ogni singolo dettaglio: il modo in cui
il suo sguardo cambia direzione per evitare di incrociare il mio, i
suoi sorrisi, la sua sorprendente ironia... «Non tornare a casa»
dico all'improvviso, tornando serio. «Resta con me. Molla tutto e
parti con me. Giriamo il mondo insieme, oppure restiamo fermi.
Andiamo dove vuoi, quando vuoi. Dico sul serio» aggiungo, notando
l'occhiata confusa che mi rivolge.
«So che dici sul serio»
risponde, accarezzandomi il dorso della mano con la punta delle dita.
«E dico sul serio anch'io quando dico che vorrei tanto poterlo
fare.»
«Mi fai venire voglia di
mettere la testa a posto, sai? Tipo... smettere di vagabondare per il
mondo, fermarsi in un posto e mettere radici.»
«Gli Echelon mi
ucciderebbero, lo sai?» Sorride, appoggiando la propria mano sulla
mia. Abbassa lo sguardo per guardare il modo in cui le nostre dita
collimano, proprio come se fossero fatte per essere intrecciate.
«Vagabondare per il mondo è la tua natura. Fa parte del tuo
modo di essere, fa... fa parte di te. Non potrei chiederti di
rinunciarci. Non saresti più tu. Senza contare che non è una
decisione che puoi prendere in autonomia. Non sei solo, in questo
progetto.»
«Jared e Tomo» sussurro,
rendendomi conto che qualunque cosa io faccia si ripercuote non
soltanto sulla mia vita, ma anche sulla loro.
«Hai sempre detto che è
stata la musica a salvarti la vita, ma io credo che il merito sia
soprattutto loro. Soprattutto di Jared, forse. Insomma, per come
parli di lui nelle interviste, si capisce che avete un rapporto
speciale.»
«Mio fratello mi ha
salvato la vita» ribatto velocemente, sicuro di quanto sto dicendo.
«Ci sono delle cose nel mio passato che... ho fatto cose che non...»
Lascio perdere la frase a metà, incerto su quanto dire. Mi vergogno
profondamente di alcune cose del mio passato, e tutto ciò che vorrei
è poterle cancellare con un colpo di spugna. Ogni volta mi dico che
è stato una vita fa, e che ormai sono un altro uomo, ma la
verità è che tutto quello che sono stato fa ancora parte di me, e
probabilmente sarà così per sempre.
Percependo il mio disagio,
Daria si mette a sedere e mi guarda. «Non lo voglio sapere,
Shannon.» Mi prende il viso tra le mani, costringendomi ad alzare lo
sguardo su di lei. «Se non ne vuoi parlare, a me sta bene così.»
«Tu però mi hai parlato
di tua madre, della tua famiglia... insomma, mi hai raccontato di te.
Non è giusto che...»
«L'amore non è questione
di simmetrie» mi interrompe, senza smettere di guardarmi negli
occhi. «Insomma, non è che sei costretto a raccontarmi il tuo
passato soltanto perché io ti ho raccontato il mio. Non mi importa
se hai fatto degli sbagli. Tutti fanno degli sbagli. L'importante è
riuscire a correggersi e diventare una persona migliore, e sono
sicura che questo tu lo abbia fatto.» Sorride, senza abbassare lo
sguardo. È raro che mi guardi così a lungo senza sentirsi in
imbarazzo, perciò capisco che crede davvero in quello che dice, e
che non sta mentendo.
«Come riesci a farlo?»
sussurro.
«Cosa?»
«Ad essere così giù di
morale un attimo prima, e un attimo dopo... e diventare un attimo
dopo così forte?»
«Credo sia merito tuo.
Riesci a tirare fuori il meglio di me.» Si sporge in avanti e mi
bacia con una dolcezza impossibile da fingere. Le sue labbra sono
morbide e calde, e la sua bocca l'unica che voglio baciare per il
resto della mia vita. Faccio risalire le mie mani lungo le sue
braccia, supero le spalle e faccio scivolare le dita sulla sua
schiena, applicando una leggera pressione per attirarla verso di me.
«Anche tu riesci a tirare
fuori il meglio di me» sussurro, staccandomi per un attimo da lei.
«Sono contento che tu sia qui.»
«Anch'io sono contenta di
essere qui. A questo proposito» aggiunge, allontanandosi un po' per
riuscire a guardarmi bene, «siamo a Parigi. Non c'era qualcosa che
dovevi dirmi?»
Ricordo perfettamente il
nostro accordo: se fosse venuta a Parigi le avrei spiegato il perché
dei novanta post-it lasciati nel suo appartamento il giorno della mia
partenza. Improvvisamente, però, quelle motivazioni mi sembrano
inutili e sterili, e forse anche un po' stupide. «Sicura di volerlo
sapere? È una cosa piuttosto infantile.»
«Certo che lo voglio
sapere» insiste. «Credo che chiunque, trovandosi novanta note
adesive sparse per casa, vorrebbe sapere perché.»
Mi guarda di nuovo dritto
negli occhi, e sento che non posso negare la verità ad uno sguardo
così limpido. «Il novanta è il numero della paura» sputo fuori.
«Non che io creda alla numerologia, o a cose simili, ma... insomma,
è anche un modo di dire, no? Ecco, ho pensato che se il novanta è
il numero della paura, doveva per forza essere il numero giusto per
esprimere la mia paura, che... che è quella di fare qualcosa
di sbagliato e di perderti. Ho una paura matta di perderti.»
Le sue mani tornano sul mio
viso, e i suoi occhi, lucidi di lacrime, si avvicinano. «Davvero hai
paura di perdermi?» mi domanda, abbassando la voce.
«Ho paura delle cazzate
che potrei fare» confesso. «Non so come devo comportarmi, non so
che cosa fare. Non sono preparato» aggiungo, alzando una mano per
accarezzarle i capelli.
«Nemmeno io sono
preparata, Shannon. Credo... credo che tutto ciò che possiamo fare
sia affidarci al nostro istinto. Non credo ci sia un altro modo.»
«Seguire l'istinto...»
ripeto, abbassando ancora la voce. «Mi piace, è una cosa che mi
riesce bene. E sentiamo, che cosa suggerisce il tuo istinto in questo
momento?»
Abbassa lo sguardo,
mordicchiandosi un labbro, e con naturalezza mi fa scivolare le mani
lungo il collo, raggiungendo le mie spalle. «Voglio stare con te»
bisbiglia. «Voglio solo stare con te.» In quel momento rialza lo
sguardo, e nei suoi occhi vedo tutto quello che mi occorre per essere
felice. Sento che la fine del mondo potrebbe arrivare in questo
momento, e lascerei questa vita senza alcun rimpianto, se non forse
quello di non averla incontrata prima.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Sfuggito al guinzaglio
corto di Emma grazie ad una buona dose di fortuna e ad una bugia ben
piazzata, Jared guadagna il proprio piano muovendosi con
circospezione, quasi fosse un ladro in procinto di compiere il furto
del secolo. Supera la porta della propria stanza e si avvicina a
quella del fratello, appena qualche metro più in là. Non è certo
che siano in camera, ma l'istinto gli dice che non possono essere in
alcun altro luogo: è passata poco più di un'ora dal momento
dell'arrivo di Daria, ed è plausibile che siano subito passati in
hotel a lasciare le valigie di lei. Probabilmente, pensa Jared, lei
ha voluto fare una doccia per scaricare lo stress del viaggio – e
nessuno meglio di lui può immaginare quale genere di pensieri
perversi possa scatenare lo scroscio dell'acqua.
Maledice
l'avvento della tecnologia quando si rende conto che tutte le porte
sono dotate di chiavi magnetiche, e dunque non esistono buchi della
serratura attraverso cui spiare – non che gli piaccia farlo
abitualmente, certo... sarebbe soltanto un comportamento occasionale,
e lo farebbe a puro scopo informativo. Insomma, muore dalla voglia di
vedere in faccia la ragazza che ha rubato il cuore di suo fratello.
Anche se, certo, forse spiando attraverso la serratura rischierebbe
di vedere tutto tranne il suo viso.
Sta
per accostare l'orecchio alla porta, sperando che le superfici siano
sottili, quando qualcosa lo tocca all'altezza della scapola,
facendolo sobbalzare. È solo per fortuna che si trattiene
dall'urlare, rischiando di far saltare tutta l'operazione. Si volta
cautamente, credendo di trovarsi di fronte una Emma decisamente
infuriata, e invece... «Tomo, mi meraviglio di te» bisbiglia,
stringendo gli occhi nella sua miglior espressione moralista. «Questo
da te non me lo sarei mai aspettato.»
«Ah,
tu credi che io sia venuto qui per spiare? Ti ricordo che con me
viaggia mia moglie, e che abbiamo appena deciso di avere un bambino.
Avrei di meglio da fare. Al contrario di te, a quanto pare.»
«Credi
che sia venuto fin qui per spiare mio fratello?» Tenta di fingersi
sorpreso, ma sa che Tomo sa leggergli dentro quasi meglio di Shannon
e Constance. «E va bene, lo ammetto. Sto cercando di origliare»
confessa, abbassando la testa in segno di resa. «Non dirlo ad Emma.
Mi ucciderebbe.»
«Naturale
che non lo dico ad Emma. Non sono un infame. Hai sentito qualcosa di
interessante?»
Jared
spalanca gli occhi, sorpreso per quella domanda, e sotto sotto felice
di aver trovato un possibile complice. «Non ho ancora sentito
niente, in verità.» Si scambiano un'occhiata degna di due bambini
sul punto di combinare una marachella e accostano un orecchio alla
porta, i visi rivolti l'uno verso l'altro. Non si sente altro che
silenzio – niente urla né gemiti né scricchiolii – e Jared ne è
deluso. Secondo lui, qualche rumore dovrebbe filtrare – è
scontato, secondo lui, perché non è possibile che quei due stiano
immobili l'uno accanto all'altra senza toccarsi. Sta per chiedere a
Tomo se almeno lui ha captato qualcosa, ma il rumore del pomello che
ruota gli impedisce di parlare.
I due si guardano con un
misto di terrore e impazienza: è con Shannon che si confronteranno,
o con la sua misteriosa ragazza?
*
Parigi, 25 novembre 2013
«Ma
fate sul serio?» Compaio sulla soglia della camera con
un'espressione che mi auguro essere indecifrabile, sospesa tra lo
scocciato e il profondamente irritato. Jared e Tomo tentano di
ricomporsi e mostrarsi naturali, ma è palese quello che stavano
facendo.
«Non
stavamo origliando!» contesta svelto mio fratello, e la sua fretta
non fa che accentuare l'aura di colpevolezza che lo circonda. «Siamo
venuti qui per...» aggiunge, voltandosi verso Tomo in cerca di
supporto.
«...per
chiederti se volete cenare insieme a noi e Vicki o se preferite
cenare da soli» completa Mofo, che riesce a fingere molto meglio di
mio fratello. «Sai, visto che è la vostra prima sera insieme dopo
tanto tempo...»
«Ne
abbiamo parlato, e abbiamo deciso di cenare con voi. Daria non vede
l'ora di conoscervi.» In realtà l'idea la spaventa a morte.
«Comunque spero che davanti a lei vi comporterete in maniera meno
infantile. A volte siete davvero imbarazzanti.» Certo, forse
suonerebbe più convincente detto da qualcuno diverso da me –
perché nonostante tutto sono un quindicenne intrappolato nel corpo
di un adulto.
«Hai
fatto una doccia?» domanda Jared, che non riesce a staccare gli
occhi dai miei capelli bagnati e dall'asciugamano che ancora tengo
legato in vita.
«Perché,
adesso è vietato darsi una sciacquata?»
«No,
certo, è solo che... credevo l'avessi fatta subito dopo le prove»
commenta, allungando il collo per tentare di guardare dietro le mie
spalle. «Scommetto che Daria era molto stanca per il viaggio»
aggiunge, notando il letto dalle coperte stropicciate.
«Infatti
sta cercando di riposare» taglio corto. «Se non avete altro da
aggiungere, io tornerei dentro. Ci vediamo alle otto.» Chiudo la
porta faticando a nascondere un sorriso, agendo ancor prima che uno
dei due abbia il tempo anche solo di pensare
ad una risposta.
«Se
ne sono andati?» sussurra Daria, affacciandosi appena dal bagno.
«Accidenti, non pensavo di scatenare una psicosi collettiva con il
mio arrivo» aggiunge, facendosi avanti a passo più sicuro.
«Non
hai scatenato proprio nulla, sono solo fuori di testa di natura. Ma
puoi stare tranquilla: anche se condividiamo il patrimonio genetico,
Jared e io non siamo assolutamente uguali. La pazzia non è una
caratteristica che abbiamo in comune.» Parlando, la prendo tra le
braccia e le schiocco un bacio sul naso.
«Peccato»
sorride, stringendomi le braccia attorno al corpo. «Un briciolo di
pazzia in un uomo lo apprezzo molto» mi prende in giro.
«Beh,
ma probabilmente in qualche gene è annidato il germe della follia»
ribatto rapidamente, cercando di darmi un tono. «Sono sicuro che
prima o poi impazzirò anch'io. Sicuramente succederà.»
«Va bene, vorrà dire che
aspetterò. Nel frattempo che si fa?»
L'innocenza
con la quale pone la domanda è disarmante. La guardo negli occhi, e
senza accorgermene sto trattenendo il respiro, come in attesa che
accada qualcosa. Faccio correre le dita lungo l'orlo del suo
asciugamano, e con delicatezza sciolgo il nodo che lo tiene stretto
al suo corpo. Con le mani ne piloto la caduta, sentendo il mio cuore
accelerare i battiti ad ogni centimetro di pelle che viene scoperta –
nessuna donna mi ha mai fatto questo effetto. La allontano da me di
pochissimo, giusto il necessario per poterla guardare. «Pensa pure
che sia un maniaco, ma tutto quello che voglio in questo momento è
fare ancora l'amore con te.»
«Allora
siamo due maniaci» sussurra, avvicinandosi di nuovo. Le nostre
labbra si uniscono in un bacio, mentre le sue mani scendono lungo il
mio torace, e con un po' di timidezza sciolgono il nodo del mio
asciugamano. La desidero così tanto che basta quel timido tocco per
eccitarmi e risvegliare in me i più bassi istinti. Muovo qualche
passo in avanti, costringendola ad arretrare fino al letto. La spingo
giocosamente all'indietro, e lei cade sul materasso con una risata.
Salgo sul letto appoggiando prima un ginocchio e poi l'altro, mentre
lei scivola indietro puntellandosi sui gomiti.
Shannon mi copre con il suo
corpo, le mani che scivolano sulla mia schiena e subito dopo
tormentano dolcemente il mio seno, le labbra che abbandonano il mio
viso per dedicarsi al collo, e che poi scivolano sempre più in
basso. Prima ancora di rendermene conto, la sua bocca ha superato il
mio ombelico, le sue mani mi hanno convinta ad allargare le gambe per
fargli spazio, e tutto ciò che posso fare è lasciarmi andare al suo
tocco esperto. Una delle cose che più amo di lui è la sua
generosità: fin dalla prima volta che siamo finiti a letto insieme
si è assicurato che il mio piacere venisse prima del suo, e
soprattutto che non fossi mai insoddisfatta una volta terminato –
con il mio ex ragazzo non è mai stato così, e in tutta sincerità
non avrei mai creduto di poter trovare un partner così altruista.
Prima di conoscere Daria,
ero un uomo che nel sesso vedeva soltanto un modo per raggiungere la
soddisfazione personale. Lei ha cambiato tutto: sapere che le sue
esperienze precedenti sono sempre state un fallimento ha risvegliato
in me uno strano istinto, un sentimento che non credevo di poter
provare. Dalla prima volta che sono stato a letto con lei, la mia
priorità è sempre stata lei, indipendentemente dalla
situazione o dallo stato di eccitazione. Sono sempre stato il tipo
d'uomo che il sesso orale preferisce riceverlo, ma con lei è
tutto diverso: sentire i suoi gemiti strozzati è il miglior
preliminare del mondo, vedere le lenzuola stropicciate dalle sue dita
un'immagine che adoro.
Alzo gli occhi per un
istante, e la vedo coprirsi la bocca con una mano come per zittirsi.
Allungo un braccio e la convinco a scoprirsi, lasciando che si sfoghi
senza limitare i decibel, e d'istinto mi chiedo se Jared sia ancora
nascosto dietro la porta – perché in questo momento ne avrebbe, di
cose da sentire.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Seduto
accanto alla finestra, con lo sguardo rivolto verso i tetti di
Parigi, Jared stringe in mano il cellulare e si chiede se Shannon si
sia davvero arrabbiato per il modo infantile con cui lui e Tomo –
ma soprattutto lui –
hanno cercato di violare la sua privacy e farsi gli affari suoi. Ma
no, si dice, probabilmente
fingeva soltanto di essere irritato.
Distoglie
lo sguardo dal panorama e lo sposta sul display del cellulare. Dopo
una rapida ricerca ha ritrovato la fotografia di Shannon e Daria a
Torino, quella che si è inviato durante un momento di distrazione
del fratello. Guarda a lungo gli occhi della ragazza, chiedendosi se
incontrandola vi leggerà la stessa felicità, oppure se il suo
sguardo sarà offuscato dal nervosismo e dalla paura. Sicuramente,
pensa, Shannon starà facendo di tutto per metterla a suo
agio.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Ad occhi chiusi,
mordicchiandosi il labbro per lo sforzo, Daria si muove lentamente
sopra di me, tenendomi una mano aperta sul torace per mantenere
l'equilibrio. Le tengo le mani sui fianchi, pronto a stringerla se
dovesse scivolare, e non riesco a staccare gli occhi dal suo viso,
che trovo perfetto anche in questo momento.
Quando
il suo piacere raggiunge di nuovo il massimo, la osservo trattenere
il fiato per un istante, e quando i suoi muscoli si rilassano sono io
a tenerla in piedi, stringendo un po' la presa sulla sua vita. Poche
spinte ancora, poi mi metto a sedere e la tengo stretta a me,
respirando all'altezza del suo collo, respirando il suo straordinario
profumo. «Vorrei che potessimo restare così per sempre» sussurro,
mentre le sue mani risalgono lungo la mia schiena, seguono la
curvatura della nuca e si infilano tra i miei capelli ancora umidi,
scompigliandoli con tenerezza. «Tu ed io in una stanza a far l'amore
fino a non poterne più» aggiungo, chiudendo per un istante gli
occhi.
«Cosa
farai quando me ne sarò andata?»
«Aspetterò
il tuo ritorno, credo» rispondo, scostandomi da lei per guardarla
dritta in faccia. «Se anche tu mi aspetterai.»
Non risponde, ma stringe le
braccia attorno al mio collo e si appoggia contro di me, in silenzio,
come se in fondo non si aspettasse altro che un tragico finale.
Vorrei dirle di non disperare, vorrei dirle che il lieto fine arriva
sempre quando meno te lo aspetti, e che a volte quello in cui speri
meno è proprio ciò che ti accade, ma la verità è che con lei ogni
parola mi sembra inutile– forse perché conosco la sua passione per
la scrittura, dunque mi aspetto che conosca il valore delle parole
molto meglio di me, e dunque inconsciamente temo che giudicherebbe
ogni mio tentativo inutile e totalmente vano.
Ricambio la sua stretta,
pensando che vorrei poter superare l'inverno senza staccarmi da lei,
e ripartire a primavera con una nuova speranza nel cuore, finalmente
liberi da ogni preoccupazione e ogni paura.
1
Rimani
qui, scende la sera, sopra di noi si poserà. Aspetteremo così la
primavera, solo se vuoi ci troverà. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Amore
impossibile
dei Tiromancino,
contenuta nell'album Illusioni
Parallele
(2004).
|
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Capitolo 17 *** 17 | Quanto sai di te stesso, se non ti sei mai buttato? ***
Portagioie di tristezza | 1
Eccoci
qui, infine, dopo un'altra infinita attesa. Vi domando infinitamente
scusa, ma sembra che ogni volta che mi accingo a scrivere saltino
fuori mille impegni improrogabili, mille occasioni di costruirmi una
vita sociale decente, mille piccoli acciacchi. Sono un rottame con un
sacco di cose da fare e pochissimi amici, ma questo già si sapeva.
Come
sempre, grazie a tutti per l'infinita pazienza e l'infinito affetto
che dimostrate tramite le vostre recensioni. Vi apprezzo davvero
molto, e spero di non perdere mai il vostro supporto.
Piccola
comunicazione di servizio: per chi di voi si serve di Facebook,
lascio il link per il gruppo Portagioie
di tristezza, uno spazio dedicato a tutti i fan di Shannon e
Daria. Nel gruppo troverete spoiler e altro materiale, ed è anche un
canale attraverso il quale potrete avere l'occasione di interagire
direttamente con l'autrice (anche solo per mandarmi a raccogliere
pomodori).
Vi
auguro buona lettura, e giuro che proverò a non farvi più attendere
così tanto per un nuovo capitolo.
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo diciassettesimo
Quanto sai di te
stesso,
se non ti sei mai
buttato?.1
Parigi, 25 novembre 2013
Lasciamo la stanza quando
mancano cinque minuti alle otto, e persino un cieco si accorgerebbe
che Daria se la sta per fare sotto dalla paura. Le porte
dell'ascensore si chiudono con un sibilo, e approfitto della sua
distrazione per far scivolare la mia mano sulla sua, lentamente. A
quel contatto si volta, e sul suo viso compare un timido sorriso.
«Non cercare di prendermi in giro, ragazzina» sorrido, sfiorandole
la punta del naso con l'indice dell'altra mano. «Si vede lontano un
miglio che hai paura.»
«Davvero è così
evidente?»
«Sembri una che sta
camminando verso il patibolo. Andrà tutto bene. Nessuno ti mangerà.
Con Vicki andrai d'accordo, ne sono sicuro. È la ragazza più alla
mano che conosca. E Tomo... beh, Tomo l'ha sposata. Questo dovrebbe
dirla lunga sul suo carattere.»
«Immaginavo che fossero
due persone disponibili. Insomma, seguo un po' Tomo su Twitter, ed
è... beh, secondo Alice è il vostro primo fan» sorride. Ma
l'allegria si spegne subito, e la bocca torna a distendersi.
«Ma non sono Tomo e Vicki
che ti preoccupano, vero?» proseguo, sapendo benissimo che il suo
problema è completamente diverso – ha gli occhi azzurri, lunghi
capelli fluenti e il mio stesso cognome. La guardo scuotere appena la
testa, come se si vergognasse persino di ammettere che non è
tranquilla. «Non devi preoccuparti per Jared.»
«Che cosa pensa di me?
Insomma, immagino che abbiate parlato di me. Insomma, un pochino.»
«Non so che cosa pensi
davvero» rispondo, accorgendomi subito che non si tratta di
una risposta soddisfacente. «Insomma, tutte le volte che ci siamo
trovati a parlare di te mi è sembrato che gli piacessi, ma non gli
ho mai chiesto un'analisi completa. Comunque non credo che ti
detesti.»
«Oh, è un punto di
partenza» ribatte. Colgo un briciolo di sarcasmo nella sua voce, e
la cosa mi diverte un sacco. Le passo un braccio attorno alle spalle,
tenendomela stretta. «E se gli stessi antipatica? E se per caso
pensasse che sono una cacciatrice di dote?»
«Ti giuro su quanto ho di
più caro al mondo che in quel caso lo prenderei a calci in culo fino
a Marsiglia» rispondo. «Nessuno può permettersi di pensare che la
mia ragazza sia antipatica.»
«La tua... cosa?»
«La mia ragazza» ripeto,
sicuro, mentre l'ascensore si ferma al pianterreno. «Scusa se non ho
chiesto il tuo parere, ma mi sembrava il caso di dare una definizione
a quello che siamo. Se vuoi te lo chiedo ufficialmente» aggiungo,
mentre oltrepassiamo le porte. «Vuoi essere la mia ragazza?»
Mi guarda come se non
riuscisse a credere a ciò che ha appena sentito. «Mi hai appena
chiesto se voglio essere la tua ragazza? Come alle medie?»
«Cosa vuoi che ti dica,
dentro sono rimasto un ragazzino.» Sorride e distoglie lo sguardo,
senza sapere bene cosa dire. «Dimmi di sì, per favore. Sento che
non potrei sopportare un rifiuto.»
«E va bene, se può
renderti felice... sì, voglio essere la tua ragazza.» Non riesco a
trattenermi dal baciarla, anche se la presenza di altre persone nella
hall mi impone di non superare i limiti della decenza. «Dai,
andiamo, ci staranno aspettando. Non voglio fare la figura della
ritardataria» sussurra, staccandosi da me.
«E va bene, andiamo»
obbedisco, sciogliendo la presa sulle sue spalle e prendendola di
nuovo per mano. «E comunque non avere paura di mio fratello, non ti
mangerà. È vegano!»
*
Parigi, 25 novembre 2013
Jared, Tomo e Vicki sono in
piedi al bar, come da accordi. Indossano abiti casual, come da
accordi, e come da accordi stanno cercando di fare conversazione tra
di loro, fingendosi tranquilli. In realtà, nessuno dei tre è
completamente calmo: Tomo e Vicki sono curiosi di capire se la nuova
amica di Shannon sia davvero la ragazza acqua e sapone che lui va
professando, mentre Jared... Jared è il più nervoso. Tiene al bene
e alla serenità di suo fratello più di chiunque altro – forse
anche più di Constance – e non vede l'ora di guardare negli occhi
la ragazza che gli si presenterà davanti quella sera. Forse non le
farà domande, forse riuscirà a trattenersi dal torchiarla come
farebbe un poliziotto zelante, ma è certo che la osserverà a lungo,
che non le staccherà gli occhi di dosso, e che farà di tutto per
capire se abbia le caratteristiche giuste per stare accanto a
Shannon.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Entriamo
nella sala ristorante, e immediatamente mi accorgo di aver trattenuto
il fiato, terribilmente nervosa all'idea di chi mi troverò davanti
tra pochi minuti. E dire che non dovrei essere nervosa – mi sono
mostrata nuda a Shannon già diverse volte, e normalmente questo
dovrebbe mettere addosso molta più ansia – ma non posso farci
niente, fa parte di me. Il cuore mi batte a mille, e mi trovo a
sperare che non mi sudino le mani – odio le persone a cui sudano le
mani, e non ci tengo proprio a diventare una di loro. Mi guardo
attorno, cercando di individuarli in mezzo alle persone già sedute,
ma ad un tratto Shannon stringe un po' la presa sulla mia mano,
indicando con un cenno della testa il bar. «Eccoli lì» sussurra, e
quando volto la testa capisco che non si può tornare indietro.
Ci avviciniamo, e il cuore
inizia a battermi nel petto come se stesse cercando di sfondarmi la
gabbia toracica. Tutti e tre stanno guardando verso di me, e per
qualche strana ragione, nonostante tutti i miei sforzi, non riesco a
capire che cosa stiano esprimendo i loro volti – gli piaccio? Mi
odiano? Gli sto simpatica? Vorrebbero uccidermi e gettare il cadavere
nella Senna?
«Buonasera
a tutti, scusate il ritardo» esordisce Shannon. «Lei si è
preparata in tempo, sono io che ci ho messo una vita a vestirmi»
aggiunge con un sorriso, forse per mettermi a mio agio. «Penso che
tu sappia chi sono, ma te li presento lo stesso: Tomo Milicevic, sua
moglie Vicki, e infine Jared, mio fratello. Ragazzi, vi presento
Daria Giordano. La mia ragazza» specifica, e in questo preciso
momento vorrei che il pavimento mi inghiottisse e mi risputasse
dall'altra parte del mondo. Insomma, andava bene finché eravamo
nella hall ed eravamo circondati da persone che non consideravano la
nostra presenza, ma dirlo di fronte a queste persone...
comunque tento di darmi un tono, stringo le mani che mi vengono
offerte e riesco anche a sputare fuori qualche stupida frase di
circostanza, probabilmente passando per la solita stupida che non ha
nulla di interessante da dire.
«Hai
viaggiato bene?» mi domanda Vicki, rivolgendomi un sorriso cordiale
– uno di quei sorrisi che non si riescono a fingere, nemmeno con
anni e anni di pratica. «Hai preso il treno o l'aereo?»
«Il
treno» rispondo, sperando di non fare pasticci con la lingua. «Per
me era molto più comodo, abito a dieci minuti dalla stazione.
L'aeroporto è molto più lontano, ed è difficile trovare un buon
volo diretto. Per arrivare qui avrei dovuto come minimo attraversare
mezza Europa.»
«Forse
è meglio che nel frattempo andiamo a sederci» interviene Tomo. «Il
maître inizia a guardarci storto.»
«Beh,
almeno non hai dovuto affrontare il fuso orario» continua lei,
prendendomi sotto braccio mentre ci spostiamo. «Io ho raggiunto i
ragazzi in Germania due settimane fa, e ancora non sono riuscita a
riprendermi. Non so davvero come facciano loro.»
«Tutta
questione di allenamento» le fa eco Shannon, che mi cammina a
fianco. «Se avessi passato gli ultimi anni a girare per il mondo
come abbiamo fatto noi, non ti sembrerebbe così stancante.»
«Vivere
da vagabondi come voi? No, grazie» scherza lei. «Io non ci sarei
proprio tagliata. Insomma, va bene per un po', per qualche settimana,
ma per mesi e mesi? No davvero. Se nella prossima vita rinascessi
come animale, credo che mi piacerebbe essere un cane da appartamento.
O un gatto. Sai che bella vita? Ronfare sul divano e non essere
costretta a fare nulla.»
«E
dov'è il divertimento?» ribatte Shannon, mettendomi un braccio
attorno alla vita mentre ci fermiamo accanto al nostro tavolo,
rotondo e apparecchiato per cinque.
«Vieni,
siediti vicino a me» cinguetta Vicki, lasciandosi cadere su una
sedia e picchiettando con la mano sul sedile di quella alla sua
destra. Obbedisco, senza nemmeno tentare di contestare, e tiro un
sospiro di sollievo quando Shannon occupa lo spazio alla mia destra –
almeno sono sicura di essere seduta tra due persone che non
proveranno ad uccidermi. Solo che poi anche Tomo e Jared ci imitano,
e mi rendo conto che dal suo posto Jared può puntarmi addosso i suoi
enormi occhi azzurri senza che alcun ostacolo si frapponga tra noi. E
la cosa mi spaventa da morire. Nascosto agli occhi degli altri,
Shannon mette una mano sul mio ginocchio e lo stringe appena, per
richiamare la mia attenzione. Mi volto e lo vedo sillabare un 'Non
avere paura' seguito dal suo sorriso più sincero, e questo basta a
farmi capire che non ho nulla da temere, finché lui resta accanto a
me, pronto a salvarmi.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Sarebbe bello poter dire
che è tutto frutto del caso, ma non sarebbe corretto: è stato Jared
ad insistere per trovarsi seduto esattamente di fronte a Daria, in
modo da poterla guardare dritta negli occhi per capire se quella
ragazza in apparenza così semplice corrisponda davvero all'idea che
si è fatto di lui – e soprattutto ai racconti di Shannon, che è
entusiasta di qualunque cosa che la riguardi.
Liquida
in fretta il cameriere, ordinando una ricca insalata e dell'acqua, e
subito dopo concentra di nuovo l'attenzione su Daria, che sta
cercando di convincere Shannon ad ignorare la traduzione del menu e a
fare un piccolo sforzo per capire il francese. Sembrano felici, o
comunque a loro agio l'uno con l'altra, nonostante si conoscano da
meno di un mese e siano riusciti a trascorrere insieme appena un
pugno di giorni. Nel brusio della sala non riesce a distinguere bene
tutti i loro sussurri, ma dal modo in cui lei ride, coprendosi la
bocca con la mano, capisce che lui le ha appena detto una cosa
divertente – e dall'espressione degli occhi di lui, quasi lucidi
dietro le ciglia folte, capisce che non è soltanto una questione di
sesso, che non lo è mai stata e non lo sarà mai. Non eri
così coinvolto nemmeno ai tempi di Christine, fratello.
*
Parigi, 25 novembre 2013
«Spaghetti?
Ma tu non sai mangiare gli spaghetti!» esclama Tomo, contestando la
mia ordinazione.
«Certo
che li so mangiare» ribatto. «Ho preso ripetizioni da un'insegnante
formidabile» aggiungo, mettendo un braccio sulle spalle di Daria e
scioccandole un bacio sulla guancia. Dal modo in cui si aggiusta i
capelli dietro un orecchio capisco che il mio gesto la imbarazza,
così come l'ha imbarazzata il fatto di sentirsi qualificare come 'la
mia ragazza', ma non ho intenzione di smettere: il solo modo per
farle smettere di avere paura è farle capire subito come stanno le
cose, anche perché Jared non le ha ancora staccato gli occhi di
dosso, e so che il suo sguardo significa soltanto una cosa – ha
intenzione di osservarla per tutta la sera, per capire se sia la
donna giusta per me, e Dio solo sa se Daria non avrà bisogno di
tutto il mio supporto per passare l'esame.
«Shannon
ci ha detto che lavori in una libreria» interviene Vicki, dando di
gomito a Tomo per intimargli di non prendermi in giro.
«Sì,
è vero. Sono soltanto una commessa, non è un lavoro
straordinario... però lo adoro. Ho sempre amato i libri, fin da
bambina, quindi non mi sarebbe potuta andare meglio. Ho iniziato a
lavorare part-time quando avevo diciotto anni, e quando ho finito la
scuola sono riuscita a farmi assumere a tempo pieno. Trattiamo molto
anche con clienti stranieri.»
A
questo punto, mentre il cameriere mette in tavola le bevande, Jared
decide di intervenire. «Parli molto bene l'inglese. Hai un'ottima
pronuncia.»
Intorno al tavolo sembra
calare il silenzio, come se fossimo tutti in attesa della risposta di
Daria, che prende fiato, e senza abbassare lo sguardo risponde: «Ti
ringrazio.» Io la conosco, e so che deve esserle costato molto
rispondere senza arrossire e senza guardare in basso, ma sono certo
che agli occhi degli altri è apparsa forte e orgogliosa di sé, e
questo mi riempie il cuore di gioia – non passerà più di un
giorno prima che tutti si accorgano della donna meravigliosa che è,
e a quel punto sarò l'uomo più felice della terra.
«E
a quanto ho appena sentito, sei brava pure con il francese» continua
lui, facendo un cenno con la testa verso il cameriere che si è
appena allontanato.
«Diciamo
che me la cavo» risponde lei, acquisendo sicurezza ad ogni nuova
parola. «Ho frequentato un liceo ad indirizzo linguistico. Fino a un
paio d'anni fa me la sapevo cavare anche con il tedesco, ma
ultimamente non ho più avuto molte occasioni di far pratica.»
«Immagino
che dovremmo ingaggiarti per qualche lezione» prosegue Jared,
versandosi un bicchiere d'acqua. «Siamo tutti piuttosto ignoranti in
materia.»
«Parla
per te» lo rimbecca Tomo. «Vicki e io siamo cresciuti in famiglie
bilingui» aggiunge, rivolgendosi a Daria, «quindi, per quanto mi
riguarda, mi sento abbastanza acculturato. Sono loro gli ignoranti»
conclude con un sorriso, indicando sia me che Jared.
«Conoscere
almeno una lingua diversa dalla propria lingua madre è utile»
interviene Vicki. «Specialmente quando si viaggia molto. Con
l'inglese è facile, si parla praticamente ovunque. Ma se si proviene
da una nazione minore trovarsi all'estero può rappresentare un
problema. Che ne pensi, Daria?»
«Credo
di averla sempre vista più come una forma di rispetto.
Certamente è utile, ma io credo che abbia molto a che fare anche con
il rispetto per il Paese che si visita. Insomma, mi piace immaginare
che un francese si senta importante se io, da straniera, arrivo in
casa sua parlando la sua lingua. Sinceramente, trovo che i
viaggiatori che pretendono di essere capiti in ogni parte del mondo
come a casa propria siano un po' arroganti. Con questo non... non sto
cercando di darvi degli arroganti, sia chiaro.»
Incrocio il suo sguardo, e
mi affretto a dire: «Nessuno lo ha pensato, stai tranquilla.»
«Un
punto di vista interessante» interviene di nuovo Jared,
avvicinandosi il bicchiere alle labbra.
L'arrivo delle portate
ordinate interrompe il ritmo della conversazione, e mentre tutti ci
prepariamo ad attaccare la nostra cena, trovo il tempo di far
scivolare di nuovo la mano sul ginocchio di Daria, stringendolo
appena per farle capire che sta andando tutto bene, e che sta facendo
una splendida impressione su tutti.
*
Parigi, 25 novembre 2013
«Cosa
fai nella vita, a parte lavorare?» si interessa Tomo, senza alzare
lo sguardo dalla bistecca che sta accuratamente sezionando in piccoli
bocconi.
«Non
molto, in realtà» risponde Daria, spremendo il succo di mezzo
limone sul pesce che ha ordinato. Jared mangia senza staccarle gli
occhi di dosso, convinto che soltanto in questo modo potrà davvero
capirla. «Sono una persona che fa cose piuttosto comuni: esco con
gli amici, sto con la mia famiglia... non esco così tanto, in
realtà. Mi piace starmene a casa a leggere, guardare film... credo
di essere una persona molto noiosa.»
«Hai
fratelli o sorelle?» domanda Vicki, sollevando per un istante lo
sguardo dal proprio piatto.
«Un
fratello e una sorella. Sono tutti e due più piccoli di me. Emanuele
ha diciannove anni, Francesca sedici. A volte è piuttosto dura
essere la maggiore. Spesso vengono a cercare consigli e aiuto che non
sono in grado di fornire.»
«A
chi lo dici» biascica Shannon, la bocca piena di spaghetti
triturati. «Personalmente non credo di essere stato una gran guida.
Per fortuna Jared ha sempre avuto il buonsenso che a me mancava.»
Manda giù il boccone, sentendo su di sé lo sguardo del fratello.
«Non credo di averti mai dato grandi consigli, anzi. Il più delle
volte sei stato tu ad aiutare me.»
«Credo
che l'importante sia aiutarsi nei momenti difficili» risponde Jared,
alzando le spalle con aria indifferente. «Non ho mai creduto molto
in questa spartizione dei ruoli. Essere più anziano non ti rende per
forza di cose più saggio.»
«Vanno
ancora a scuola?» chiede Vicki, tornando a riferirsi ai fratelli di
Daria.
«Mio
fratello ha iniziato l'università, studia Ingegneria Informatica. È
una specie di piccolo genio dei computer. Invece mia sorella
frequenta il liceo artistico. Ha un grande talento per il disegno.»
«E
i tuoi, invece?» domanda Tomo, curioso.
Le posate di Daria smettono
di fare rumore, strumenti inerti nelle sue mani immobili. Anche Jared
smette di mangiare, fissandola con curiosità. Nota il velo di
tristezza che sembra essere sceso sui suoi occhi, e non fatica a
riconoscere la preoccupazione di Shannon, che la guarda come se fosse
pronto a sollevarla tra le braccia e portarla di corsa via da quella
sala.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Dovevo
immaginare che prima o poi la domanda sarebbe arrivata – è
naturale che vogliano sapere tutto della mia vita. Ma se è stato
tanto semplice parlarne con Shannon, nonostante lo conoscessi da poco
meno di mezz'ora, confessare la verità davanti a Jared mi riesce
molto più difficile. «Mio padre ha un piccolo laboratorio di
falegnameria» inizio, stringendo impercettibilmente la presa sulle
posate. «Invece mia madre... mia madre se n'è andata. Sono quindici
anni, ormai.» Il silenzio cala di nuovo tra di noi, e questa volta è
davvero pesante. «Non è morta» mi affretto a precisare. «Lei è...
lei se n'è andata. Quando avevo otto anni ha lasciato mio padre ed è
andata via. Da allora praticamente non l'ho più vista.» Alzo la
testa e incrocio lo sguardo limpido e sorpreso di Jared: per la prima
volta da quando mi sono seduta i suoi occhi non mi mettono a disagio,
la sua sicurezza non mi incute timore – forse perché so che è
un'esperienza comune ad entrambi, e dunque può capire come mi sento.
«Comunque mio padre ha fatto un lavoro fantastico con noi»
proseguo, come sentendomi in dovere di mettere fine a quel silenzio
che io stessa ho creato. «Ha avuto la fortuna di avere alle spalle
una famiglia in grado di dargli il giusto supporto. Non è stato
facile, però... lui ce l'ha fatta.»
Per
un paio di minuti mangiamo tutti in silenzio, cercando di smaltire
l'imbarazzo creato dalla mia confessione – per quanto mi sforzi
sempre di parlarne come di una cosa normale, sono perfettamente
conscia del fatto che crescere senza un genitore non è una
condizione comune, specialmente quando la persona in questione ha
deliberatamente abbandonato la
famiglia.
È
Vicki, infine, a riprendere la conversazione, con il suo grande
sorriso sincero. «Dicevi che tua sorella è un'artista, giusto?»
«Anche
Daria è un'artista» ribatte Shannon, e a quella frase mi volto a
guardarlo come se volessi staccargli la testa a morsi. «Non mi
guardare così» aggiunge, facendo spallucce.
«Che
genere di artista?» si interessa Tomo.
«Una
scrittrice» prosegue Shannon, e sento che se fossimo entrambi in
piedi niente mi esimerebbe dall'assestargli una poderosa ginocchiata
al basso ventre. «Ma non chiedetemi se sia brava o meno, perché non
mi ha fatto leggere nulla.»
«Che
cosa scrivi?» chiede Vicki, sempre più curiosa.
«Niente
di importante, sono sciocchezze» cerco di minimizzare. «Ho sempre
avuto la passione, ma non ho mai pensato di farne una professione.
Non sono abbastanza brava.»
«Neanche
noi pensavamo di fare della musica una professione» interviene
Jared. «Nemmeno noi pensavamo di essere abbastanza bravi, e guarda
dove siamo arrivati.» Appoggia un gomito sul bordo del tavolo e si
accarezza il mento con la punta delle dita, come perso in una
riflessione. «Personalmente non pensavo avremmo potuto suonare
nemmeno ad un ballo studentesco, quando abbiamo iniziato. Se adesso
siamo qui, immagino che sia dovuto anche alla grande fiducia che
abbiamo avuto in noi stessi. Ci abbiamo creduto, ci siamo sostenuti a
vicenda, e alla fine abbiamo realizzato i nostri obiettivi.» Torna a
guardarmi dritta negli occhi, come se stesse cercando di
ipnotizzarmi, e aggiunge: «Non bisogna mai smettere di credere in se
stessi. Se nemmeno tu credi in quello che fai, come puoi pensare di
poterti realizzare?»
Sostengo
per qualche istante il suo sguardo, poi lo abbasso con un sorriso.
«Beh, anche volendo non potrei farvi leggere nemmeno uno dei miei
appunti. Sono tutti in italiano.»
*
Parigi, 25 novembre 2013
Jared si copre la bocca con
una mano per non mostrare il proprio sorriso – gli è piaciuto il
modo in cui Daria ha saputo ribattere e prendersi l'ultima parola,
nonostante sia lui quello che di solito fa di tutto per accaparrarsi
l'ultima battuta della conversazione. Guarda il fratello e poi di
nuovo la ragazza, chiedendosi se tra di loro le conversazioni si
svolgano sempre così – riescono a passare con tanta disinvoltura
dal pianto al riso alla serietà? Perché in quel caso vorrebbe dire
che tra loro c'è davvero sintonia, e che davvero riescono a capirsi,
che davvero si conoscono, che davvero le loro anime sono in contatto,
nonostante il poco tempo che hanno avuto per studiarsi.
Si
chiede quante ore abbiano consumato standosene appesi ai fili del
telefono, cercando di cogliere le reciproche sfumature nel tono di
voce, tentando di carpire parole anche dal silenzio, forse chiudendo
gli occhi per immaginare le espressioni sul volto dell'altro. Jared
si chiede come sia possibile che in tutti questi anni nessuna donna
abbia saputo incrinare il muro costruito da Shannon, e come invece
questa ragazza sia riuscita a sfondarlo in meno di un mese. Ci sono
state donne immensamente più provocanti, più spigliate, più sicure
di loro stesse – e allora perché tutte hanno fallito, fino a
questo momento? Forse davvero questa ragazzina – perché in fondo è
una ragazzina, se paragonata ai loro quarant'anni – è davvero la
donna giusta per Shannon?
*
Parigi, 25 novembre 2013
La cena è proseguita senza
altri incidenti, e seriamente ne sono stupito – continuavo ad
aspettarmi una qualche catastrofe, conoscendo il carattere di Jared e
le sue piccole tendenze dittatoriali. Invece tutto è andato per il
meglio, e nonostante il piccolo imbarazzo causato dalla domanda di
Tomo circa i genitori di Daria il clima non si è guastato. Sono
stati Tomo e Vicki a guidare la conversazione, interrogando Daria
circa usi e costumi del suo paese, domandandole quale genere di
musica ascolti, quali libri le piacciano, quale tipo di film
preferisca. Dal canto suo, Daria è stata bravissima a sopportare
ogni assalto, rispondendo con gentilezza e senza alcuna paura,
nonostante qualche naturale momento di insicurezza.
Ci
congediamo poco dopo aver finito di mangiare – lei con la scusa di
voler riposare, io con la scusa di volerla accompagnare – e ci
ritroviamo in ascensore in silenzio, le mani tanto strette da far
quasi male. In silenzio raggiungiamo la nostra camera, ma una volta
chiusa la porta mi accorgo che qualcosa non va per il verso giusto.
Daria lascia andare la mia mano di colpo, quasi con rabbia, e senza
dire nulla si avvicina alla finestra, scosta la tenda e fissa gli
occhi sul panorama. «C'è qualcosa che non va?» domando, restando
fermo accanto alla porta.
«Glielo
dovevi proprio dire?» ribatte in tono duro, senza voltarsi.
È
la prima volta che si rivolge a me in questo modo, e sinceramente non
riesco proprio a capirne il motivo. «A che cosa ti riferisci?»
«Anche
Daria è un'artista» risponde,
cercando di imitare il mio tono – ma la sua voce è incrinata dalle
lacrime che sta cercando di trattenere. «Glielo dovevi proprio
dire?» ripete, voltandosi verso di me.
«Scusa,
non pensavo che la cosa ti infastidisse. Stavo solo cercando di...
volevo che ti conoscessero come ti conosco io.»
«Tanto
valeva dire anche quale taglia di reggiseno porto» aggiunge,
tornando a voltarsi verso la finestra. «Io non sono un'artista, sono
una persona normale. Sono una persona noiosa,
non ho mai fatto nulla di importante. Sono una ragazza come tante,
non ho mai... non so nemmeno che ci faccio qui» conclude in un
sussurro. Mi siedo sul bordo del letto, senza sapere cosa dire.
«Seriamente, che ci faccio qui?» ripete, portandosi entrambe le
mani al viso.
Mi
alzo e mi avvicino lentamente, posandole le mani sulle spalle con
dolcezza. «Scusa se ho detto quella cosa» sussurro, sentendomi
davvero in colpa per averle causato tale imbarazzo. «È solo che...
è solo che io non riesco a vederti come una persona normale,
meno che mai come una persona noiosa.
Per me tu sei speciale, e lo sai. Ti guardo e non vedo una ragazza
come tante. Ti guardo e vedo una donna unica.
E vorrei che anche il resto del mondo ti vedesse come ti vedo io.»
Le faccio scivolare le mani lungo la schiena, e di lì attorno alla
vita. La tengo stretta a me, appoggiandole il mento su una spalla,
sperando di farle capire che nonostante tutto non riuscirà mai a
convincermi che ho fatto una scelta sbagliata. «Scusa se ho detto
quella cosa» ripeto. «Volevo solo aiutarli a vedere il bello che ho
visto io.» Non risponde, e non riesco a capire se sia ancora
arrabbiata oppure no. «Se vuoi me ne vado. Se glielo chiedo con
gentilezza, forse Jared mi lascerà dormire in camera sua. Forse ai
piedi del letto, come si fa con i cani.» Ride, e nel sentire quel
suono mi rendo conto che le è passata – era soltanto uno dei suoi
momenti di insicurezza, quelli che sto imparando a riconoscere e a
combattere con la forza della verità.
«Ti
prenderebbe in giro a vita, se sapesse che ti ho cacciato via dalla
tua stanza» sorride, voltando la testa verso di me. «Non sono
arrabbiata» precisa, prima di schioccarmi un bacio sulla guancia.
«Stavo solo... non riesco ancora a credere di essere qui. Sono molto
confusa, mi sento... mi sento come frastornata. Credi
che gli sia piaciuta?»
«Oh,
Vicki ti adora. Di più, credo si sia innamorata di te. Probabilmente
chiederà il divorzio e ti convincerà a fuggire con lei. E anche a
Tomo piaci. Gli sei simpatica.»
«E
per quanto riguarda Jared? Pensi che gli sia piaciuta?»
«Non
lo so» ammetto dopo qualche attimo di silenzio. «Ti ha rivolto la
parola, il che è già un grande traguardo. Di solito se una persona
non gli va a genio non la prende nemmeno in considerazione.»
«Quindi
dovrei ritenermi soddisfatta?»
«Fidati,
poteva andare molto peggio. Non vorrei sbilanciarmi, ma credo sia ben
disposto nei tuoi riguardi. Non che ritenessi possibile il contrario,
comunque. Come si fa a non adorare un bel faccino come il tuo?»
Strofino il naso contro il suo collo, facendole il solletico.
«Cercherò di interrogarlo. Anch'io sono curioso di conoscere la sua
opinione.»
«Credi
che se non gli fossi piaciuta te lo direbbe? Insomma, vedendoti
felice potrebbe decidere di mentire. C'è chi lo farebbe.»
«Non
lui» ribatto, sicuro di quanto dico. «Il suo motto è: 'La verità
sopra ogni cosa'. Non si preoccuperebbe di distruggere la mia
felicità, né quella di chiunque altro. Quando avevo otto anni, è
stato lui a dirmi che Babbo Natale non esiste, e ti assicuro che non
ha usato mezzi termini. Non è quell'essere carino e coccoloso che
tutti credono. Ho preso più calci in culo da lui che dalla vita.»
Nei dieci secondi di silenzio che seguono, mi rendo conto di aver
dipinto un quadro piuttosto negativo di mio fratello, perciò mi
affretto a correggere il tiro. «Beh, non è nemmeno lo stronzo che
ho appena descritto. Però è uno che ti dice le cose in faccia,
senza ipocrisie.»
«Quindi
se non mi ritenesse giusta per te non si esimerebbe dal dirlo.»
«Niente
affatto.»
«Bene.
In un certo senso, mi rassicura sapere che è una persona sincera. A
proposito, quali sono i programmi per domani?»
«Mattinata
libera» rispondo svelto, approfittandone per stringerla un po' di
più, «ma alle due in punto devo essere in sala prove. Dovremmo
finire verso le otto, perciò da quel momento sarò di nuovo tutto
tuo. Mercoledì invece dovrò essere tutto di Jared. È il giorno
dello spettacolo.»
«Mi
sembra giusto» risponde, voltandosi per guardarmi negli occhi. «Non
sei una mia proprietà» aggiunge, accarezzandomi una guancia.
Chiudo
gli occhi a quel dolce contatto, e mentre la mano scivola sul mio
orecchio sospiro: «Non sai quanto vorrei esserlo. Essere tuo, solo
tuo, e di nessun altro.»
«Non
potrei mai essere così egoista. E poi mi piace l'idea di dividerti
con il mondo.»
«Davvero?»
le domando, riaprendo gli occhi. Questa sua affermazione mi
incuriosisce molto: ho sempre avuto a che fare con donne che
pensavano o pretendevano di essere tutto il mio universo, e
incontrarne una che la pensa in maniera diametralmente opposta mi
disorienta. «Perché ti piace tanto l'idea di dividermi con il resto
del mondo?»
«Così
posso essere sicura che ogni volta che torni da me lo vuoi davvero. O
almeno posso convincermi che sia così.» Sorride, e nell'azzurro
senza fine dei suoi occhi leggo il disperato bisogno che ha di
sentirsi importante per qualcuno.
*
Parigi, 25 novembre 2013
Quando
sente bussare, Jared sa già che si tratta di suo fratello – chi
potrebbe venirlo a cercare alle dieci passate? Forse soltanto Emma,
ma mai senza prima chiamare o mandare un sms. «Già finito?» lo
accoglie. «Stai proprio invecchiando... una volta ci mettevi molto
più tempo.»
«Tralasciando
il fatto che non esiste soltanto il sesso» replica Shannon, entrando
senza aspettare ulteriori istruzioni, «lascia che ti dica che me la
cavo ancora abbastanza bene. Non sono così vecchio.»
«Per
fortuna! Anche perché ultimamente te le scegli così giovani e piene
di energia...» ribatte l'altro, sedendosi sul letto a gambe
incrociate, in una posizione che ricorda moltissimo l'ultimo ruolo
interpretato sul grande schermo.
«A
questo proposito...» replica Shannon, avvicinando una sedia al
letto. «Sono venuto qui per parlare di lei.»
«Non
dirmi che vi serve già un terapista di coppia, perché non ci credo.
E non credo nemmeno di essere la persona più indicata per quel
ruolo. Dovresti andare a chiedere un consulto ai due sposini nella
stanza accanto» interviene Jared, indicando un punto alle proprie
spalle.
«Non
siamo una coppia in crisi, Jared. Voglio soltanto sapere che cosa
pensi di lei. Che impressione ti ha fatto, insomma. Le reazioni di
Tomo e Vicki sono state... beh, abbastanza chiare» conclude Shannon,
incapace di trattenere un sorriso.
«Loro
la adorano» commenta Jared a bassa voce, sperando che il sussurro
non raggiunga le orecchie del fratello.
«Sì,
a loro piace. È evidente. Vicki è entusiasta di lei. Ma tu?
Che cosa pensi di lei?»
Jared
si stringe il naso tra pollice e indice – un gesto che fa spesso
quando deve riflettere su una questione importante – e cerca di
evitare in qualunque modo lo sguardo del fratello. Vuole essere
completamente sincero, perché è sulla sincerità che si è sempre
basato il suo rapporto con Shannon, e non vede alcuna ragione di
cambiare modo di essere. «Sembra una ragazza molto educata, e questo
mi piace. Si esprime bene, è intelligente e ha molto da dire. Non ho
capito se sia molto timida o se fosse in soggezione, però.»
«Lo
è. È molto timida» conferma Shannon. «Insomma, è naturale che
trovarsi seduta insieme a te e a Tomo l'abbia messa un po' a disagio,
ma... ecco, credo che lo sarebbe stata anche se foste stati i due
uomini più normali del mondo. È molto timida» ripete. «E l'idea
di incontrarti la rendeva molto nervosa. È ancora nervosa, a dire il
vero. Sperava di aver fatto una buona impressione su di te, perché
sa quanto tu sia importante per me.»
«Vuoi
che ti dica che mi piace?» domanda Jared, alzando finalmente gli
occhi sul fratello.
«Voglio
che tu sia sincero» risponde Shannon, sostenendo lo sguardo.
«Mi
piace» ammette il cantante. «Sembra una brava ragazza. Insomma, si
vede che non è qui soltanto in cerca di fama, o di denaro, o di
altro. Si capisce subito che è qui per te,
si capisce subito che... Dio, tra di voi sembra esserci un'intesa
così forte... sembra che vi conosciate da anni. Sembra che stiate
insieme da anni. Sembrate
affiatati quasi quanto Tomo e Vicki, e loro stanno insieme... beh,
praticamente da sempre. Com'è che ci riuscite?»
«A
fare cosa?»
«Ad
essere così... non so nemmeno come descrivervi. È solo che...
quando la guardi, la guardi come se fossi davanti al tramonto più
bello della tua vita. E lei ti guarda come se non vedesse Shannon
Leto, ma solo... soltanto un uomo.
Non ti ho mai visto così per una donna, e non ho mai visto nessuna
donna guardarti così. Nemmeno Christine ti ha mai guardato così.»
«Perché
devi tirare in ballo Christine?»
«Perché
non dovrei?»
«Perché
è una storia vecchia di vent'anni.»
«Può
essere una storia vecchia di vent'anni, ma non puoi negare che ha
continuato a condizionare la tua vita anche dopo essere finita.»
«Ammetto
che è stata una grande delusione e che è stata una storia
importante, ma è finita.
Non la vedo da vent'anni.»
«Una
persona non devi per forza vederla,
per sentirla vicina. Ci deve essere un motivo, se finora non hai
avuto relazioni importanti.»
«Che
cosa stai cercando di dirmi?»
«Sto
cercando di dire che Daria è la prima ragazza con cui ti vedo fare
sul serio.»
«E
la cosa ti disturba perché...?»
«Non
mi disturba» lo corregge Jared, guardandolo negli occhi. «Sono
felice per te, sono davvero felice che ti stia riaprendo a qualcosa a
cui avevi rinunciato. È bello vedere che non ti sei arreso, e che
credi di poter essere felice, anche dopo tutto questo tempo.»
«Però?»
«Non
c'è nessun però.»
«Jared,
ti conosco. Con te c'è spesso un però.»
Jared
abbassa lo sguardo, sapendo di essere stato scoperto – il lato
negativo dell'avere un ottimo rapporto con tuo fratello è che ti
capisce meglio di te stesso, e non gli puoi nascondere proprio nulla.
«Beh, stavo solo pensando che... è bello che tu sia così convinto
della vostra relazione, ma... io credo che sia anche molto
pericoloso.»
«Pericoloso?
Perché dovrebbe essere pericoloso?»
«Shannon,
se dovesse finire male...»
«Non
finirà male.»
«Io
lo spero, lo spero
davvero. Ma se accadesse...
riusciresti a sopportare di nuovo tutto quel dolore? Riusciresti ad
affrontare di nuovo tutta quella sofferenza? Perché soffriresti come
un cane, e lo sai meglio di me.»
Shannon
sa di non poter contraddire Jared, perché è vero che se con Daria
dovesse finire lui ne soffrirebbe molto – ma sembrerebbe strano il
contrario, perché nessun uomo innamorato non soffrirebbe per la fine
di una storia che sente essere importante. «Ho bisogno di credere
che non finirà» sussurra infine, guardandosi le mani. «Se penso
che un giorno potrei perderla, io... io non ci riesco. Voglio
continuare a pensare positivo.»
Jared osserva con
attenzione il fratello, e si rende conto che nonostante sia passata
una vita Shannon è ancora il ragazzino spaventato di un tempo,
quello che ha paura di perdere le poche sicurezze che ha conquistato,
e che è pronto a lottare con le unghie e con i denti per tenersi ciò
che è suo. «Non badare a quello che ho detto» dice dopo un lungo
silenzio. «Sono solo le farneticazioni di uno che non ha mai trovato
il vero amore, o comunque una donna in grado di fargli credere di
averlo trovato. Se era la mia approvazione che stavi cercando... beh,
ce l'hai. State molto bene insieme.»
«Tutto
quello che sto cercando è la verità. Non voglio che tu dica che ti
piace e che la approvi se non è questo che pensi.»
«Shannon,
io non ti ho mai mentito. Mai una volta in tutta la vita. Che cosa ti
fa credere che abbia voglia di cominciare adesso?» Jared guarda il
fratello con tutta la fierezza di cui è capace, deciso a fargli
capire che pensa davvero ciò che ha detto. «Piuttosto, quali sono i
progetti? Insomma, va bene passare una romantica settimana insieme a
Parigi, ma dopo?»
«Beh,
io... io non lo so. È ancora tutto molto confuso. Nessuno dei due si
è ancora abituato all'idea di essere finalmente insieme. Dici che
dovremmo fare dei progetti?»
«Non
dico che dobbiate iniziare i preparativi per il matrimonio, ma una
minima idea di quello che farete in futuro dovreste averla, no? A
meno che, certo, non vi accontentiate di incontrarvi di tanto in
tanto in una qualunque capitale europea per consumare un po' i
materassi delle suite.»
1Quanto
sai di te stesso, se non ti sei mai buttato?. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da
Tyler Durden
(interpretato da Brad
Pitt)
nel film Fight Club
(1999, regia di David
Fincher).
Il film è a sua volta ispirato all'omonimo romanzo scritto da Chuck
Palahniuk
nel 1996.
|
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Capitolo 18 *** 18 | Forse l'amore è l'unico barlume di eternità che possiamo permetterci. ***
Portagioie di tristezza | 1
Finalmente,
“Portagioie di tristezza” diventa maggiorenne!
Questo
diciottesimo capitolo ha avuto una lunga gestazione – non per
mancanza di idee, quanto per mancanza di concentrazione e di tempo
(ingredienti che, si sa, sono ugualmente importanti nella stesura di
una storia) –, ma alla fine eccolo qui, pronto per essere letto,
recensito, amato, odiato, o tutto ciò che volete.
Sapendo
che non esistono abbastanza parole per ringraziarvi della pazienza
nell'avermi attesa per tutto questo tempo, vi lascio alla lettura.
Con
profondo affetto (e una buona dose di autoflagellazione),
la
vostra EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo diciottesimo
Forse l'amore è
l'unico barlume
di eternità che
possiamo permetterci.1
Parigi, 26 novembre 2013
Anche se non ho ancora
aperto gli occhi, sono in dormiveglia già da un po' – ma non
saprei dire di preciso da quanto. Qualche flebile raggio di luce
filtra attraverso le tende, perché ne sento il calore sul viso, ma
non ho alcuna voglia di alzarmi – o, più in generale, di muovermi.
Al riparo sotto le coperte, le braccia di Shannon mi hanno stretta
per buona parte della notte, assicurandomi che non si è trattato
soltanto di un meraviglioso sogno – ho davvero preso un treno e
l'ho davvero raggiunto a Parigi. Lo sento ancora disteso accanto a me
– ad ogni respiro, il suo petto sfiora la mia schiena, e nonostante
la presenza dei vestiti ogni volta tremo, come se la sola idea della
sua pelle nuda risvegliasse in me i più bassi istinti.
Tento di convincere il mio
cervello che dovrei riaddormentarmi, ma quello proprio non ne vuole
sapere – il sole è salito fino a colpire i miei occhi chiusi, e a
nulla valgono i tentativi di cambiare posizione. Un paio di minuti
più tardi, incapace di resistere oltre, scivolo via dall'abbraccio
di Shannon, sperando di non svegliarlo; mi butto addosso una felpa ed
esco sul terrazzino, decisa a godermi il panorama. Non è tardi
quanto credevo – sono soltanto le otto e un quarto – e Parigi
sembra ancora un po' addormentata, esattamente come l'uomo con cui
divido il letto.
D'istinto guardo verso
destra, in direzione della camera occupata da Jared, e mi chiedo che
cosa si siano detti ieri sera. Mi sono addormentata prima che Shannon
tornasse, e probabilmente lui non ha avuto il cuore di svegliarmi per
farmi un resoconto della conversazione – e a questo punto mi riesce
difficile non pensare a che cosa Jared possa aver detto di me. Ed è
sempre in questo momento che prendo una delle decisioni più
importanti della mia vita.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Quando sente bussare, Jared
è quasi certo che si tratti di Daria – chi altri potrebbe venire a
cercarlo alle otto del mattino, tra l'altro senza avvertire? Seppur
controvoglia, si alza e controlla lo spioncino, fugando ogni dubbio.
Apre la porta e si appoggia allo stipite, sfoggiando la miglior
faccia assonnata del suo repertorio. «Buongiorno. Cosa posso fare
per te?»
«Buongiorno» risponde
Daria, cercando di mostrarsi il più tranquilla possibile. «Vorrei
sapere di che cosa avete parlato tu e Shannon ieri sera, quando lui è
venuto qui da te.»
«Lui che cosa ti ha
detto?»
«Lui non mi ha ancora
detto niente. Dormivo già quando è tornato, e adesso sta ancora
dormendo.»
«Forse dovresti svegliarlo
e chiedergli di raccontarti quanto ci siamo detti.»
Daria volta la testa a
sinistra, indirizzando lo sguardo verso la propria camera, ma un paio
di istanti più tardi torna a guardare Jared. «Il fatto è che...
beh, ho pensato che se ieri sera non mi ha svegliato per parlarmene,
forse non aveva cose molto carine da raccontare.»
«Perciò pensi che abbia
parlato male di te?»
«Non male» si
affretta a correggerlo lei, «solo... forse il tuo responso non era
completamente positivo, e lui non ha voluto rischiare di ferirmi.»
Jared la fissa a lungo,
chiedendosi per quale motivo sia convinta di non essergli piaciuta, o
comunque di non averlo soddisfatto appieno. «Che ne dici di venire
dentro e parlarne con calma?»
«Scusa?»
«Sì, dai, vieni dentro.
Non sono conversazioni da fare in corridoio.» Si scosta, invitandola
ad entrare, e non appena lei si fa avanti le chiude la porta alle
spalle. «Fai colazione con me? Faccio portare su qualcosa dal
servizio in camera.»
«Non è necessario, non
voglio disturbare...»
«Allora non dovevi
bussare» replica lui con un sorriso. «Ehi, sto scherzando»
aggiunge, notando l'espressione colpevole dipinta sul volto della
ragazza. «Mi sarei alzato comunque presto. Avevo in mente di
sbrigare un paio di cose. Cosa vuoi per colazione?» le domanda,
alzando il ricevitore per contattare la reception.
«Non è necessario,
davvero, non...»
«Beh, mi sentirei a
disagio mangiando da solo, quindi farai colazione anche tu.»
«Allora mangerò quello
che mangi tu.»
Coraggiosa, la ragazza,
pensa Jared mentre aspetta che il concierge di turno prenda la
chiamata. Si siede sul bordo del letto sfatto, mentre Daria
attraversa la stanza e va a mettersi vicino alla finestra,
concentrata sul panorama. Jared sa che probabilmente è soltanto un
diversivo per evitare di doverlo guardare negli occhi, ma la lascia
fare – sa che avranno molto tempo per osservarsi.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Il primo pensiero, quando
apro gli occhi su un letto vuoto, è che Daria si sia fatta prendere
dal panico e se ne sia andata dalla città con il primo treno, perciò
scatto a sedere con una rapidità che non credevo possibile. Spalanco
gli occhi per guardarmi intorno, e per fortuna la stanza è
esattamente come l'ho lasciata ieri sera andando a letto: la valigia
di Daria chiusa e messa in un angolo, le sue scarpe allineate dietro
la porta, il giubbotto appeso alla spalliera della sedia, i
braccialetti e il cellulare appoggiati sul comodino... «Daria?»
dico ad alta voce, pensando che si sia alzata per andare in bagno.
Non arriva alcuna risposta, e d'istinto allungo una mano verso il suo
lato del letto, trovandolo freddo – deve essersi alzata già da un
po', se il materasso ha avuto il tempo di lasciar andare tutto il suo
calore.
Scosto le coperte e butto
giù i piedi, cercando di ricordare dove ho lasciato i pantaloni. Li
trovo piegati su una sedia, probabilmente messi a posto da Daria, e
cerco di infilarmeli per il verso giusto nonostante il mio cervello
sia ancora piuttosto riluttante. Non so nemmeno da dove iniziare a
cercarla, anche se il cellulare sul comodino e le scarpe vicino alla
porta dovrebbero farmi capire che non è andare molto lontano. Sto
lottando con una maglietta quando noto il post-it appiccicato alla
porta. «Non andare fuori di testa se non mi trovi. Torno subito.
Ti amo.» Lascio perdere la mia battaglia con i vestiti, arretro
di qualche passo e torno a sedermi sul letto, il post-it stretto tra
le dita. Inizio a capire come si deve essere sentita Daria
svegliandosi sola, quel famoso mattino di ormai due settimane fa –
è una sensazione orribile scoprirsi soli quando per tutta la notte
si è sognato di essere in due, e soprattutto fa schifo rendersi
conto di non sapere dove sia l'altro. Sospiro, lasciandomi andare
all'indietro, continuando ad osservare la grafia tonda e ordinata di
Daria, chiedendomi se anche gli appunti riguardanti le sue storie
siano scritti in questo modo.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Jared e Daria hanno
aspettato l'arrivo della colazione scambiandosi opinioni sul tempo,
sulla città, sulla scarsa cortesia dei francesi – argomenti quasi
futili, se paragonati a ciò di cui hanno intenzione di parlare più
tardi. Mentre Jared si sposta in bagno per darsi una sciacquata al
viso, Daria osserva il mucchio di quaderni e appunti appoggiati in un
angolo dello scrittoio, chiedendosi se sia da quei quaderni che
prendono vita le canzoni che tanto ama, e che per molte persone
simili a lei rappresentano l'unico modo per fuggire un mondo che
mastica e sputa via ogni desiderio come un boccone poco gradito.
«Puoi toccarli, se vuoi.
Basta che poi li rimetti in ordine.» Nel sentire di nuovo la voce di
Jared, Daria alza la testa con la stessa rapidità di un cerbiatto
che avverte l'approcciarsi di un cacciatore. «Di norma sono molto
geloso dei miei appunti e delle mie cose in generale, ma tu puoi
guardare» aggiunge, finendo di raccogliersi i capelli in un nodo
bitorzoluto.
Il diverso tono con cui le
dà il permesso di frugare tra le sue cose – a patto, naturalmente,
di riportare tutto alle condizioni originarie – fa capire a Daria
che, nonostante la freddezza dimostrata fino a questo momento, Jared
la considera diversa dalle altre persone – diversa dalle ragazze
con cui di solito si intrattiene Shannon. «Se lì in mezzo ci sono
delle idee per delle nuove canzoni, preferisco non guardare. Voglio
rimanere sorpresa.»
Per la prima volta nella
sua vita, Jared non è in grado di formulare una risposta concreta.
Per fortuna l'addetto al servizio in camera bussa proprio in quel
momento, cavandolo dall'impaccio di trovare per forza qualcosa da
dire. «Cibo!» esclama una volta richiusa la porta. «Spero ti
piaccia la frutta, perché io ne mangio un sacco.» Daria nota che il
carrello straripa letteralmente di frutta: succo d'arancia,
marmellate di diversi colori, mele, kiwi, banane, grappoli d'uva...
impossibile non chiedersi se Jared non sia in realtà la
reincarnazione di Carmen Miranda2. «Caffè?» le domanda,
sollevando una tazza con la mano sinistra.
«Grazie, sì.»
«Serviti pure. Fai come se
fossi a casa tua» replica lui, versandole una generosa dose di
caffè.
«Se fossi a casa mia, non
ci sarebbe un carrello per il servizio in camera» sorride lei,
allungando una mano per rubare qualche acino d'uva. «Sarà dura
tornare alle vecchie abitudini» aggiunge, prendendo posto su una
sedia.
«Sai, se la prima italiana
a cui riesco ad offrire un caffè americano. Di solito siete molto
diffidenti.»
«Beh, ci sono cose che
nessuno sa fare meglio degli italiani.»
«Lasciami indovinare: il
caffè, la pizza e l'amore.»
«Credo siano i francesi
quelli bravi a fare l'amore. Comunque sì, il caffè è una di quelle
discipline nelle quali siamo imbattibili. Però personalmente credo
che esistano circostanze in cui il bisogno di caffeina supera
qualunque confine o barriera culturale.»
«Devi affrontare qualche
sfida in particolare?» domanda lui, porgendole la tazza. «Zucchero?
Latte?»
«Lo bevo amaro, grazie.»
«Sei davvero piena di
sorprese, lo sai?»
«Perché mi piace il caffè
senza zucchero?»
Jared non risponde, libera
una parte di scrivania e vi appoggia sopra la propria tazza, alla
quale aggiunge un paio di cucchiaini di zucchero. «Sai, se non fossi
la causa principale della felicità di mio fratello, probabilmente ti
detesterei.» Gli occhi di Daria lo fissano da sopra il bordo della
tazza, contornati da piccole rughe che esprimono tutta la sua
confusione. «Mi sono sempre vantato di essere uno che riesce a
capire le persone, ma con te sto iniziando a pensare di aver
sbagliato. E chi mi conosce sa che detesto avere torto ed
essere corretto.»
«Perché credi di esserti
sbagliato?»
«Beh, ieri sera ti ho
osservata a lungo, e alla fine credevo di aver capito il tuo modo di
essere. Come sei fatta, in sostanza.»
«E che cos'hai capito?»
«Credevo di aver
capito che fossi una ragazza molto timida e piena di paure, una che
difficilmente si fida degli altri.»
«Non sei andato così
lontano dalla verità.»
Mentre spalma una generosa
dose di marmellata su una fetta di pane, Jared scuote la testa. «Non
sei davvero così. Forse hai sempre creduto di essere quel tipo di
ragazza, ma non lo sei. Se fossi davvero una ragazza timida, una che
ha paura del giudizio degli altri... beh, non saresti qui, in questo
momento.»
«Quindi stai cercando di
dire che... che fingo di essere qualcuno che non sono?»
«Non ho detto questo. Non
mi permetterei mai di dire una cosa del genere. E comunque sono
sicuro che non è così. Se fingessi di essere qualcuno che non sei,
Shannon lo avrebbe capito. Non è una cima quando si tratta di capire
le persone, ma capisce subito se qualcuno sta falsificando la propria
personalità.»
«Allora scusa, ma non
credo di aver capito che cosa intendi.»
«Ti chiedo scusa,
probabilmente mi sono espresso male. Quello che stavo cercando di
dire è che forse stai cambiando. Crescendo, se preferisci.
Forse sei sempre stata timida e insicura, ma stare con Shannon forse
ti sta facendo maturare. Ti faccio una domanda: prima di conoscerlo,
ti saresti mai messa davanti ad una persona estranea chiedendole di
darti un'opinione su te stessa? Insomma, ti saresti mai lasciata
analizzare da qualcuno che non conoscevi?»
Daria abbassa per un attimo
lo sguardo, riflettendo sulla questione. «No, forse no» sussurra
infine. «Anzi, sicuramente no» aggiunge dopo un attimo,
sorridendo. «A malapena avrei accettato di essere psicanalizzata
dalla mia migliore amica.»
«Quanti anni hai detto di
avere?» le domanda Jared dopo quasi un minuto di silenzio.
«Ventitré. Li ho compiuti
in settembre.»
«Ventitré anni... alla
tua età io ancora non avevo la benché minima idea di quello che
avrei combinato nella mia vita. Non avevo piani, non avevo
strategie...»
«Non che io abbia tutte
queste certezze.»
«Tu hai la certezza di
avere il sostegno di una famiglia, e soprattutto hai la certezza di
avere l'amore di un uomo che non è abituato a sprecarlo. Finché sai
di poter contare sull'amore di una persona, non puoi essere
sconfitto.» Notando l'espressione confusa di Daria, aggiunge:
«Shannon ti ama. Ti ama con tutto se stesso, ti ama come non ha mai
amato nessun'altra. Credo tu sappia che c'è stata soltanto una
storia importante nella sua vita, e che non è finita molto bene.»
«Sì, lui... lui mi ha
accennato qualcosa. So che ha sofferto molto, quando... beh, quando è
finita.»
«Era davvero innamorato.
Forse non dovrei dirlo, ma sono famoso anche per essere un tipo che a
volte parla a sproposito. Dopo la fine di quella storia, io non l'ho
più visto guardare una donna nel modo in cui guarda te. E non è
soltanto per la tua evidente bellezza, ma io... io credo tu sia in
grado di dargli qualcosa che nessun'altra gli ha mai saputo dare.
Credo che tu lo faccia sentire utile, in un certo modo, forse
perché tu hai bisogno di essere amata, e lui sa di essere
l'unico in grado di darti ciò di cui hai bisogno. Scusa, forse non
mi sono spiegato troppo bene...»
«No, no, anzi. Ti sei
spiegato fin troppo bene. E pensare che... e pensare che sono venuta
qui soltanto per sapere che cosa gli avevi detto a proposito di
me...» Daria sente che gli occhi si stanno facendo lucidi di
lacrime, e l'ultima cosa che vorrebbe è scoppiare a piangere di
fronte a Jared – purtroppo, però, ci sono cose incontrollabili, e
tutto ciò che può fare è abbassare lo sguardo e coprirsi gli occhi
con la mano, sperando di eludere la sorveglianza degli occhi più
azzurri e luminosi che abbia mai visto.
«Ehi» sente sussurrare
poco dopo, «ehi, non è il caso di disperarsi.» Daria alza lo
sguardo e vede che Jared le sta sorridendo. Un istante più tardi, le
sfiora il mento con due dita, spronandola a tenere alta la testa e a
non lasciarsi abbattere. «Gli ho detto che mi piaci, comunque. Che
mi piaci e che mi sembri la ragazza giusta per lui. Gli ho detto di
non lasciarti scappare, perché non troverà mai un'altra come te.»
Si interrompe per un istante, mordicchiandosi un labbro come se
stesse cercando le parole giuste. «Questo a lui non l'ho detto,
ma... mi piacerebbe molto avere quello che avete voi.»
«Una relazione a distanza
che non si sa fino a quando funzionerà?»
«La certezza di avere
qualcuno che ti ama per come sei, che conosce tutto di te e che ama
ogni tuo singolo difetto, perché sa che è ognuno di quei difetti a
renderti quello che sei. La certezza di avere qualcuno che ti ama di
sua volontà, perché lo vuole, perché sceglie di farlo. Tu e
Shannon avete qualcosa che capita una volta nella vita, e se solo lo
voleste io credo... credo che potrebbe essere eterno.» Adesso
è Jared ad abbassare lo sguardo, e Daria non può fare a meno di
fissarlo, mentre una nuova consapevolezza si fa strada dentro di lei
– Jared la apprezza davvero, la vuole davvero a
fianco di suo fratello. Sa che è l'unica spiegazione possibile,
perché uno come lui non si aprirebbe mai di fronte ad una persona
non gradita. Non riesce a trattenere un sorriso, mentre a fatica
resiste all'impulso di gettarsi dall'altra parte della scrivania e
abbracciarlo – perché ciò che Jared le ha appena detto è che
contento di saperla accanto a Shannon, e che spera di vederla
rimanere allo stesso posto per un bel po' di tempo, se non per
sempre.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Tornata in camera guardo
subito dietro la porta, senza trovare il post-it. Deduco che
trovandosi solo Shannon si sia alzato con l'intento di cercarmi
ovunque, ma che il mio avviso lo abbia tranquillizzato e indotto a
rimettersi a letto. Non che sia molto difficile giungere a questa
conclusione, visto che giace di traverso sul materasso, con addosso
un paio di jeans e una gamba penzoloni, il foglietto ancora stretto
tra le dita. Non resisto alla tentazione di immortalare questo
momento, e dopo aver recuperato il cellulare gli scatto un paio di
foto, giusto per essere sicura di conservare eterna memoria di una
visione così celestiale. Mi sfilo la felpa, appoggio il cellulare
sul comodino e facendo attenzione a non svegliarlo mi stendo accanto
a lui, curandomi di tirare su le coperte. In silenzio gli faccio
scivolare un braccio attorno alla vita, credendo forse che fin quando
mi terrò fisicamente aggrappata a lui non ci sarà alcun pericolo.
Senza nemmeno accorgermene chiudo gli occhi e scivolo nel sonno,
forte di una nuova convinzione: ci sono altre persone che credono in
noi e nel nostro amore, dunque non siamo i soli a credere che possa
funzionare. Se la penso così, sembra tutto infinitamente più
semplice da affrontare.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Quando apro di nuovo gli
occhi, la prima cosa che faccio è liberarmi del post-it che tengo
ancora stretto tra le dita; subito dopo alzo il cellulare per
controllare che ore sono, scoprendo che sono appena le dieci. Solo a
questo punto mi accorgo che il letto non è più vuoto: Daria è
tornata, si è rimessa a letto e si è accoccolata contro di me,
stringendomi come se temesse di perdermi. Con una mano salgo ad
accarezzare il suo profilo: le sfioro la guancia, le sistemo i
capelli dietro l'orecchio, e intanto cerco di ricordare cos'ho fatto
di bene nelle mie vite precedenti per meritare un simile tesoro. Il
mio tocco la risveglia, e non riesco ad impedirmi di sorridere quando
incontro il suo sguardo: se potessi scegliere di svegliarmi accanto
ad una sola cosa per tutte le mattine che mi restano da vivere,
certamente sceglierei il suo viso. «Buongiorno» sussurro, la voce
ancora arrochita dal sonno.
«Buongiorno» risponde
lei, strofinandosi gli occhi con una mano. «Ti ho mai detto che ti
adoro quando parli?»
«Mai, è la prima volta»
rispondo, facendole scivolare un braccio attorno alla vita per
tenermela stretta. «Davvero ti piace sentirmi parlare?»
Le sue mani circondano il
mio viso, e la splendida sensazione delle sue dita leggere sulla
pelle mi spinge a chiudere gli occhi per assaporare ogni istante di
quel contatto. «Hai una splendida voce. È... beh, è sexy. Un uomo
con la voce roca raramente non è sexy.»
«Oh, quindi mi trovi
sexy...» ribatto, tornando a guardarla.
«Perché, non te lo aveva
mai detto nessuno?»
Appoggio la fronte alla
sua, desiderando che il tempo si fermi e ci trattenga per sempre in
questa città, lasciandoci liberi di giocare a fingerci eterni. «Me
lo sono sentito dire spesso, ma... detto da te ha tutto un altro
suono. Detto da te, tutto ha un altro suono.» Percorro il
contorno delle sue labbra con l'indice, seguendone attentamente ogni
curva. «Potresti dirmi che gli asini volano, e io ci crederei»
aggiungo, sostituendo all'indice il pollice. «Potresti raccontarmi
qualsiasi cosa, e io mi fiderei di te» dico ancora, continuando
l'esplorazione della sua bocca.
«Dici davvero?» sussurra,
continuando a guardarmi.
«Dico davvero» confermo.
«Shannon, gli asini
volano» dice dopo un po', con un sorriso che potrebbe illuminare un
teatro.
«Ti credo» rispondo. Il
pollice lascia le sue labbra, scivola lentamente sul mento, lo
oltrepassa e inizia a scendere lungo il collo. Il suo respiro inizia
a farsi più pesante, come se fosse la prima volta che ci tocchiamo.
Al pollice si uniscono le altre dita, che tutte insieme attraversano
il petto, superano la morbida curva del seno e raggiungono il ventre.
«Crederei ad ogni cosa, anche alla più assurda bugia» sussurro
ancora, la bocca sospesa a pochissimi centimetri dalla sua. Le dita
continuano a scendere, eludono la sorveglianza dei leggings e
raggiungono la meta desiderata. Senza aspettare, Daria schiude appena
le gambe, concedendomi il permesso di continuare. Le mie dita
scivolano senza difficoltà tra le sue carni calde e umide, mentre un
gemito improvviso tradisce la sua eccitazione. Ormai la conosco bene,
so che tra pochi secondi il suo corpo si spingerà verso il mio,
cercando un contatto più intenso, più duraturo, più eccitante.
Ormai la conosco, so di che cosa ha bisogno, e so esattamente come
darglielo. Incapace di resistere oltre, incollo la mia bocca alla
sua, lasciando che labbra, denti e lingua si affrontino senza precise
strategie. Continuiamo a baciarci a lungo, finché non è lei a
staccarsi, bisognosa di respirare e di sfogare il suo piacere.
Respiro a pochi centimetri da lei, senza staccare lo sguardo dal suo
volto: la guardo e sento di amarla una volta di più, perché è
incapace di mentire – il respiro accelerato, i nervi tesi pronti a
reagire ad ogni stimolo, la mano che si fa strada tra i miei capelli
e li stringe con forza... non sta fingendo, e Dio solo sa quanto a
lungo abbia cercato una donna sincera, una donna spontanea, una che è
se stessa e non si vergogna di esserlo.
«Non ti fermare, Shannon,
non ti fermare» mormora a fatica, mentre le mie dita affondano di
più in lei e la mia bocca raggiunge il suo collo, tormentandolo
dolcemente fino allo stremo. «Ti prego, non ti fermare» sussurra
ancora, stringendosi di più a me, la schiena inarcata, il respiro
accelerato e irregolare. Riesco a leggere in ogni segno del suo viso
che il piacere è reale e intenso, e vederla così eccitata e
appagata mi dà un senso di eccitazione ben diverso da quello che
conoscevo – con lei non sono più il musicista arrapato che ero
solito essere... con lei sono un uomo attento, sono un uomo
premuroso, sono un uomo comprensivo. Accanto a lei divento l'uomo che
ho sempre voluto essere... ed è una sensazione semplicemente
meravigliosa.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Seduto per terra, con le
spalle appoggiate al letto, Jared fissa gli appunti sparpagliati
dinanzi a sé, chiedendosi se Daria abbia già confessato a Shannon i
particolari della loro conversazione, o se invece abbia preferito
rifilargli una bugia e tenere il segreto ancora per un po'. Non può
fare a meno di ripensare a ciò che le ha detto alla fine, poco prima
che lei se ne andasse e lo lasciasse di nuovo in compagnia della sua
solitudine. Mi piacerebbe avere quello che avete voi, ricorda
bene le parole. Una confessione più chiara che mai. Non avrebbe
voluto dire una cosa del genere, ma pare proprio che la vicinanza di
quella ragazza scateni un'irrefrenabile voglia di essere sinceri. Non
avrebbe voluto dire una cosa del genere, ma non può negare che fosse
giunto il momento di dirlo ad alta voce.
Il fatto è che non si è
mai fermato a chiedersi se non fosse il caso di iniziare a cercare
qualcuno con cui condividere la propria esistenza, e ora che Shannon
è così preso da questa relazione il dubbio inizia a farsi strada
prepotente in lui. Il fatto è che forse gli è capitato di pensarci,
ma ha respinto l'idea perché sa che potrebbe andare male, sa che
potrebbe finire, sa che potrebbe fallire, e lui non è
abituato a fallire – o meglio, a lui non piace fallire. A
lui piace avere il controllo della situazione, a lui piace condurre
il gioco, ed è impensabile che uno come lui lasci che sia il destino
a controllare la sua vita.
Riprende in mano un foglio,
lo legge più volte, poi con una matita cancella una riga e la
corregge. Forse l'amore è l'unico barlume di eternità che
possiamo permetterci, rilegge. Sul suo volto magro e affilato si
dipinge un sorriso malinconico. «Ti auguro davvero che sia eterno,
Shan» sussurra, fissando ancora il foglio. «Meriti di essere
felice.»
*
Parigi, 26 novembre 2013
Shannon
è ancora fermo sopra di me, le braccia che mi circondano, la fronte
appoggiata alla mia; è ancora dentro di me, ma ho come la sensazione
che lui sia sempre
dentro di me – dentro di me, sopra di me, intorno a me. Shannon non
mi lascia mai, è con me in ogni momento della giornata, è in ogni
cosa che faccio, in ogni volto che vedo, in ogni pensiero che mi
attraversa la mente. «Sai una cosa?» sussurro, prendendogli il
volto tra le mani. «Anche quando non sei con me, mi sento come se ci
fossi.»
Solleva
un po' la testa, aprendo gli occhi. «Anch'io mi sento come se tu
fossi sempre con me.»
Ci
guardiamo a lungo negli occhi, senza dire una parola, ma alla fine
non riesco a trattenermi: «Non ho mai visto un uomo con ciglia così
folte.»
«Per
caso è un complimento?» mi domanda, sospettoso ma sorridente.
«Ti
rendono gli occhi dolci» rispondo. «Hai degli occhi davvero molto
dolci.»
«Grazie»
sorride, abbassandosi per baciarmi ancora. «Aspettami un secondo
qui. Non ti muovere.» Esce lentamente da me, e la sua improvvisa
mancanza è come vedersi catapultata fuori di casa in pieno inverno
con addosso soltanto la biancheria. Mi tira il lenzuolo fino
all'altezza del seno, forse avvertendo il mio brivido, e sparisce in
bagno. La disinvoltura con la quale riesce a muoversi nonostante la
nudità mi sconvolge ogni volta. Torna in camera un minuto più
tardi, sgusciando sotto le coperte come un ladro. «Sei ancora qui»
sussurra, stringendosi a me.
«Perché,
dove dovrei andare?»
«Ah,
non saprei. Dove sei sparita, prima?»
Prima
di rispondere, esito un momento. «Sono stata da tuo fratello. Volevo
sapere che cosa ti aveva detto ieri sera. Ero... beh, ero
terribilmente curiosa.»
«Potevi
svegliarmi, te lo avrei detto io.»
«Non
volevo disturbarti. E poi avevo... beh, avevo paura che se avesse
detto cose spiacevoli non me lo avresti detto. Volevo sentire la
verità direttamente da lui.»
«Non
ti fidi di me?»
«Mi
fido moltissimo di te» replico, «ma era una cosa che sentivo di
dover fare. È tuo fratello, e non posso continuare ad aver paura di
lui.»
«Hai
paura di lui?»
«Non
è veramente paura»
lo correggo. «Solo... beh, ancora non sono completamente abituata
all'idea di dover avere a che fare con lui. È qualcosa che
metterebbe alla prova le persone più coraggiose del mondo. In fondo
io... io sono soltanto una ragazzina entrata a far parte di qualcosa
di enorme, qualcosa
estremamente più grande dei suoi sogni più incredibili. Dovevo
sentire la verità direttamente da lui» ripeto, più convinta.
«Allora
sentiamo, che cosa gli hai sentito dire?»
«Che
gli piaccio. Me lo ha detto chiaro e tondo, senza giri di parole. Mi
ha detto che gli piaccio e che mi ritiene giusta per te. Mi ha detto
che ci vede bene insieme, e che spera che possa durare.»
«Che,
in sostanza, è più o meno quello che aveva detto anche a me.»
Non
rispondo subito, ma mi prendo un attimo per riflettere se sia giusto
rivelare tutto quello
che ho sentito dire, perché anche se non ho ricevuto veti, non
riesco a non pensare che l'ultima parte della conversazione tra me e
Jared suonasse come una sorta di confessione. Forse non dovrei
confessare a Shannon quell'ultimo scambio di battute, ma d'altra
parte so che se gli tacessi lui lo capirebbe, perché sembra avere la
straordinaria capacità di leggere con incredibile precisione ogni
segno del mio viso. «Ha detto una cosa strana, alla fine.»
«Che
genere di cosa strana? Stiamo sempre parlando di mio fratello,
ricordalo. Lui non rientra esattamente nei canoni della normalità.»
«Beh,
lui ha detto che... ha detto che vorrebbe avere quello che abbiamo
noi. Ha detto che noi abbiamo qualcosa che capita una volta nella
vita, che abbiamo la... la certezza che ci sia almeno una persona al
mondo che ci ama per come siamo, che ci ama senza costrizioni, che ci
amerà indipendentemente da tutto quello che potrebbe succedere. Beh,
non è quello che ha
detto che mi è parso strano, ma... è stato il modo
in cui l'ha detto. So che non lo conosco quanto te, forse non dovrei
sbilanciarmi così, ma... io credo che stia rivalutando la sua vita,
e che in un certo senso si senta solo.»
Shannon si mette a
sedere, mi mette un braccio attorno alle spalle e mi tiene stretta a
sé, senza dire nulla. Alzo lo sguardo, e l'espressione del suo volto
mi dice che è preoccupato. «Forse sbaglio, Shannon»
aggiungo, sapendo bene che lui è l'unico a conoscere davvero Jared.
«In fondo, io non lo conosco affatto.»
«Forse
è proprio perché non lo conosci che riesci a leggere così bene la
sua anima»
replica, regalandomi uno dei suoi straordinari sorrisi. «In realtà,
è già da un po' che mi sono accorto di questo suo... cambiamento.»
«Secondo
me potrebbe dipendere dal fatto di vedere che tu hai... beh, che stai
cercando di costruire qualcosa. Forse teme che l'amore potrebbe
fargli perdere un fratello.»
«No,
non è questo»
risponde lui, scuotendo la testa. «Credo solo che stia crescendo.
Ha vissuto tutta la propria vita senza mai guardare al futuro, un po'
come ho sempre fatto anch'io, e forse ora... forse si sta solo
domandando dove lo porterà la vita. Arriva per tutti il momento di
guardarsi intorno e decidere che cosa sia giusto fare. Forse quel
momento sta arrivando anche per lui.»
«Anche?»
gli faccio eco, continuando a guardarlo.
«Per
me è arrivato da tempo. Quando ci siamo conosciuti, io... beh,
diciamo che era già da un po' che mi chiedevo se non fosse il caso
di cambiare qualcosa nella mia vita. Poi sei arrivata tu, e
improvvisamente ho capito che nella mia vita non ho fatto altro che
aspettare questo momento, questo... questo amore.
Quando ti ho incontrata ho capito che per tutta la vita non ho fatto
altro che aspettare te.»
Mi stringo di più a lui, abbassando la testa per nascondergli i miei
occhi lucidi di lacrime. «So
che forse ho appena detto un'enorme e ritrita stronzata romantica»
riprende, accarezzandomi i capelli, «ma con te non so mai che parole
usare. Sembra sempre che le parole non mi bastino mai.»
«Non
hai bisogno di dire niente, Shannon»
sussurro, rialzando la testa. Improvvisamente, mi viene da ridere.
«Mia nonna dice sempre che quando non si sa cosa dire, è meglio non
dire nulla.»
«E
allora non dirò nulla»
risponde, sorridendo a sua volta. «Vorrà dire che farò parlare i
fatti.»
«Quali
fatti?»
gli domando, senza capire dove voglia arrivare.
«Ssh,
non dire niente»
mi zittisce, appoggiandomi l'indice sulle labbra. «Dobbiamo
far parlare i fatti, no?»
Il suo sguardo riacquista quella sfumatura maliziosa e vagamente
depravata che ogni fan ha imparato a riconoscere e adorare, e
immediatamente capisco a quali fatti
si riferisce.
«E
allora facciamoli parlare.»
*
Parigi,
26 novembre 2013
Shannon
entra in sala prove praticamente di corsa, salutando quasi senza
fiato gli altri membri della band. «Scusate
il ritardo, ho avuto un... un piccolo contrattempo.»
«Possiamo
perdonarti dieci minuti, credo»
replica Jared, sfogliando alcuni spartiti senza alzare lo sguardo.
«Ma ti avverto che dovrai suonare più che bene. Dovrai essere
perfetto, altrimenti prenderò a calci quel tuo tanto osannato
fondoschiena.»
«Sì,
Führer»
risponde il fratello maggiore, prendendo posto dietro la batteria.
«Quali sono i programmi per oggi?»
«Ripassiamo
la scaletta per domani sera»
risponde Tomo, passandogli un foglio. «Che hai fatto al collo?»
Shannon
alza lo sguardo, confuso. «Eh?»
«Hai
un'enorme macchia rossa proprio qui»
spiega l'altro, indicando il punto preciso su se stesso. «Non che
abbia tutta quest'esperienza, ma direi che sembra proprio un...»
Comprendendo
all'improvviso di che cosa si tratti, il batterista inizia a grattare
furiosamente la zona interessata. «Deve avermi punto una zanzara»
replica veloce. «Prude un po'.»
«Certo,
si sa che le zanzare adorano il freddo autunno parigino»
risponde Tomo, imbracciando la chitarra.
«Forse
è una zanzara umanoide»
gli dà corda Jared, che dal proprio sgabello sta già provando
qualche accordo. «Dicono siano le peggiori.»
Shannon
non sa che cosa di preciso lo trattenga dall'arrossire e nascondersi
dietro lo strumento come un bambino beccato con le mani nella
marmellata – forse è il ricordare all'improvviso il momento in cui
Daria gli ha lasciato quel marchio, appena un'ora prima. «Allora,
vogliamo provare sì o no? Non eravamo in ritardo?»
Tomo
fa spallucce, rovistando alla ricerca di un plettro. «Ritardiamo
volentieri di un altro po', se è per burlarci di te.»
«Begli
amici»
sbuffa il batterista.
«Arrabbiati
con la tua piccola Dracula»
gli sorride Jared. «Noi abbiamo soltanto sfruttato l'assist.»
I loro sguardi si incrociano per un istante, ed è in quel momento
che Shannon capisce che al fratello piace davvero Daria, che è
davvero contento di averla conosciuta: il suo sorriso è troppo
sincero, e i suoi occhi, da sempre incapaci di mentire, esprimono una
reale ammirazione. Guardando il fratello, Shannon si convince una
volta di più che Daria sia giusta per lui: come Constance, come
Jared, come Tomo, come tutte le persone da cui è veramente amato,
lei è incapace di mentirgli.
1Forse
l'amore è l'unico barlume di eternità che possiamo permetterci. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase attribuita a Jared
Leto
(spero abbiate qualche informazione da darmi su di lui, perché non
ho davvero idea di chi diavolo sia!). In realtà non so se sia stata
davvero pronunciata da lui, e
nemmeno saprei citare l'occasione in cui è stata detta; l'ho trovata
curiosando su un'ottima fanpage su Facebook, una pagina gestita in
maniera squisita, sulla quale si può trovare ottimo materiale. Per
gli interessati, la pagina è Jared,
Shannon and Tomo: the divaH, the animal and Jesus.
Fateci un salto, se ancora non la conoscete!
2Carmen
Miranda
| Carmen
Miranda
(1909 – 1955) è stata un'attrice, cantante e showgirl portoghese
naturalizzata brasiliana nota per il suo stile anticonformista e
celebre soprattutto per il “turbante
tutti-frutti”,
bizzarro copricapo con il quale spesso si esibiva. Oltre ad essere
un'artista di talento, la Miranda era nota anche per le sue capacità
sartoriali: infatti era lei stessa ad ideare i propri costumi, e
spesso era lei a realizzarli materialmente. La sua fama è tale che,
nonostante siano trascorsi quasi cinquant'anni dalla sua morte, la
sua carriera continua ad essere di ispirazione per molti artisti.
|
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Capitolo 19 *** 19 | Siamo qui, nei grigi dell'inverno. Siamo qui, solo io e te. Stringi la mia mano, affrontiamo domani. ***
Portagioie di tristezza | 1
Chiedo
scusa da così tanto tempo che ormai avrete esaurito ogni scorta di
pazienza. Non so spiegarmene i motivi, ma è da un po' di tempo che
sono estremamente critica circa tutto ciò che scrivo, e questo porta
inevitabilmente ad un ritardo immenso nella produzione e nella
pubblicazione di nuovi capitoli. Inoltre, alcuni lettori hanno
espresso critiche che mi hanno un po' buttato giù, anche se continuo
a rispettare le idee di ciascuno. Scusate ancora, è un periodo,
passerà.
Buona
lettura,
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo diciannovesimo
Siamo qui, nei grigi
dell'inverno.
Siamo qui, solo io e
te.
Stringi la mia mano,
affrontiamo domani.1
Parigi, 26 novembre 2013
Quando il cellulare
squilla, verso le sei del pomeriggio, sono immersa fino al collo
nella vasca da bagno. So di dovermi vergognare, visto che mi trovo in
una delle più belle città del mondo, ma ho scoperto di non aver
alcuna voglia di uscire, se l'unica compagnia che mi aspetta è la
solitudine. Meglio starmene tappata in camera a rilassarmi e
combattere i peli superflui. Quando riconosco il numero del mittente
come quello del cellulare di mio padre, però, mi metto sull'attenti
e cerco di rammentare la struttura della bugia che gli ho propinato.
«Ciao, papà!» lo saluto, mantenendo un tono allegro che spero lo
rassicuri.
«Ciao, tesoro. Come va da
quelle parti? Che fai di bello?»
«Oh, sono tornata mezz'ora
fa, più o meno. Stavo per farmi un bagno, sono veramente
stanchissima.» In realtà, penso che dovrei proprio uscire, perché
le dita stanno iniziando a diventarmi tutte rugose – ma non è
colpa mia se stare a mollo mi è sempre piaciuto un sacco.
«Sei stata fuori fino a
quest'ora? Ma è già buio!»
«Tranquillo, la fiera è
ben illuminata. Ho finito i miei giri alle quattro e mezza, sono
passata a prendere un cappuccino in un bar e poi sono tornata in
albergo in taxi. Nessuna situazione pericolosa.» In realtà, forse
un paio delle cose che mi ha fatto Shannon questa mattina potrebbero
rientrare in quella definizione... ma non è il caso di parlarne con
mio padre.
«Trovato qualcosa di
interessante?»
«Beh, diciamo che oggi ho
esplorato, più che altro. Volevo farmi un'idea della
situazione, prima di lanciarmi negli acquisti. Però ho individuato
qualcosa che potrebbe interessare. Ci sono parecchi autori
interessanti. Ho assistito a qualche conferenza, qualche incontro con
gli scrittori... lavoro di routine, insomma.»
«Conosciuto qualcuno di
famoso?»
«No, più che altro
scrittori esordienti o poco conosciuti. Alcuni non li avevo mai
sentiti nominare, se devo essere sincera. Domani farò ancora una
mezza ricognizione, poi credo inizierò a darmi da fare.»
«Fai sempre attenzione, mi
raccomando. È una città molto grande, sei da sola.»
«Tranquillo, papà. Lo sai
che di me ti puoi fidare.» Solo per un attimo, mi rendo conto che
questa è la bugia più grande che gli abbia mai raccontato – è
solo un attimo, ma ho la sensazione di essere una persona veramente
orribile. Mio padre non merita che gli faccia questo – ma avevo
altra scelta? Se gli avessi raccontato la verità, pur di tenermi a
Torino mi avrebbe legata al letto.
«E va bene, mi fido. Ci
sentiamo domani?»
«Ma certo, a domani.
Magari chiamo io, così non devi sempre spendere tu. A casa tutti
bene?»
«Tutto in ordine. Nonna
continua a dirmi che non ti devo assillare.» Fa una breve pausa,
forse per lasciarmi rispondere, ma non riesco a trovare nulla da
dire. «Ci manchi tanto.»
«Mi mancate anche voi,
papà. Ma tra una settimana torno, non vi preoccupate. Parigi è una
città stupenda, ma non potrei mai stare troppo lontano da voi.»
Quando riattacco, un minuto
più tardi, mi arriva un avviso di chiamata da parte di Shannon, e il
primo pensiero è che mi abbia chiamata durante una breve pausa. Esco
dalla vasca, mi metto addosso l'accappatoio e mi sposto in camera,
componendo il suo numero. Risponde subito, e sentire la sua voce mi
rilassa più di duecento bagni. «Ehi, mi hai cercata?»
«Sì, ti ho appena
chiamata, ma era occupato.»
«Stavo parlando con mio
padre. Ha chiamato per sapere se stavo bene.»
«La storia regge?»
«Per ora sì. Non vedo
motivo per cui dovrebbe sospettare che gli sto propinando più bugie
adesso di quante gliene abbia raccontate in tutta la vita.»
«Ti spiace di dovergli
mentire?»
«Un po' mi mette a
disagio. Mentirei, se dicessi il contrario. Ma è per una buona
causa. Almeno, buona per me. Siete in pausa?»
«Jared ci ha concesso
dieci minuti, ma soltanto perché gli scappava» risponde, e mi viene
da ridere al pensiero della grande e acclamata star della musica che
deve cedere al richiamo della natura. Forse l'ho idealizzato troppo,
ma per qualche motivo non riesco ad immaginarmi Jared che fa gesti
normali come andare in bagno o lavarsi i denti. «Volevo sentirti.
Che fai di bello?»
«Per farla breve, ho
oziato tutto il pomeriggio. Sono appena uscita dalla vasca da bagno.»
«Per qualche strana
ragione, credo che avrei preferito passare il pomeriggio con te»
replica, con un tono decisamente carico di malizia.
«Te l'ha mai detto nessuno
che sei un maniaco?» lo prendo in giro.
«Molti, in effetti, ma
detto da te mi suona come un complimento. Senti, volevo chiederti una
cosa. È un'idea che mi è venuta mentre provavamo Bright lights,
poco fa.»
«Oh, è una delle mie
canzoni preferite del nuovo cd» sospiro, ripensando al ritornello
che tanto adoro. «Ma dimmi, che genere di idea?»
«Beh, ho pensato che
sarebbe stato carino cenare insieme, stasera.»
La proposta mi confonde un
po', visto che davo per scontato che avremmo cenato insieme. «Perché,
non avremmo dovuto cenare insieme?» gli domando, chiedendomi quale
altro genere di programmi avrebbe potuto avere.
«Scusa, mi sono espresso
male. Intendevo 'cenare insieme' noi due soli. Senza Tomo, senza
Vicki, e soprattutto senza mio fratello. Ho voglia di stare un po' di
tempo solo con te.»
«Ma certo, per me va bene,
ma... abbiamo già passato parecchio tempo da soli.»
Lo sento ridacchiare appena
all'altro capo della linea. «Sì, lo so, ma... credimi, non credevo
che avrei mai potuto partorire una frase del genere, ma... speravo di
poter passare un paio d'ore insieme con i vestiti addosso»
spiega, abbassando la voce sul finire della frase.
«Oh, capisco. Ma certo,
per me va più che bene. Hai già in mente qualcosa?»
«Beh, in realtà avevo già
organizzato tutto prima ancora di chiederti se eri d'accordo. O
meglio, ho chiesto ad Emma di organizzare tutto. Da solo non sarei
mai riuscito a mettere insieme tutti i pezzi.»
«Quindi a me non resta che
scegliere i vestiti, dico bene?»
«Pare proprio di sì.»
«Dove hai intenzione di
portarmi?»
«Se te lo dicessi, non
sarebbe più una sorpresa.»
«E dai, concedimi almeno
un indizio... non vorrei rischiare di essere fuori luogo.» Taccio
per un attimo, durante il quale un atroce dubbio mi attraversa la
mente. «Non hai intenzione di portarmi in un ristorante di lusso,
vero? Perché in quel caso credo proprio di non avere nulla di adatto
da mettere. Insomma, non ho mai avuto vestiti eleganti.»
«Non ti serve un vestito
elegante, tranquilla. Puoi vestirti come ti pare. Per quanto mi
riguarda, potresti anche metterti una tuta. Quello che mi importa è
stare con te, non mi importa che cosa indossi... o non indossi»
aggiunge, abbassando di nuovo la voce.
«Maniaco» lo rimbecco,
pur sorridendo. «E dai, dove mi porti?»
«Non te lo dico, quindi
smettila di fare la curiosa. Ora devo andare, Jared è tornato e mi
sta guardando malissimo.»
«Va bene, ti lascio
andare. A che ora ci vediamo?»
«Fatti trovare davanti
all'albergo alle otto, va bene? A dopo.»
«Va bene. A più tardi.»
Metto giù, e dopo un paio di istanti di riflessione riprendo il
cellulare: ci sono situazioni in cui avere un'amica fidata come Alice
è di importanza vitale.
*
Torino, 26 novembre 2013
Riconoscendo sul display il
nome della miglior amica che abbia mai avuto, Alice sorride. «Mais
bonsoir, chérie! È bello vedere che ti ricordi ancora di noi
comuni mortali! Allora, come sta andando nella vecchia Paris?»
«Magnificamente» sospira
Daria, lasciando trapelare tutta la propria serenità.
«Com'è l'albergo?»
domanda Alice, stendendosi di schiena sul letto.
«Il migliore di Parigi,
suppongo. La camera è semplicemente stupenda. È più o meno grande
quanto il mio appartamento, credo.»
«E immagino che tu l'abbia
esplorata a fondo» replica Alice, calcando molto il tono
sull'ultima parte della frase. «Hai già visto qualcosa del mondo
esterno?»
«Poco, a dire il vero»
ammette l'altra ragazza. «Ma sono qui soltanto da ventiquattro ore.
Se sottrai il tempo dei pasti, le ore di sonno...»
«...le ore di sesso...»
«Alice!»
«Via, non fare la
santarellina. Non dirmi che non lo avete fatto almeno dieci volte,
perché non ti credo. È già tanto se sei arrivata in albergo con
tutti i vestiti addosso.»
«Beh, immagino di dover
ammettere che ci siamo dati da fare... mi è mancato, sai? Non
soltanto il sesso, intendo. Non che non mi sia mancato anche quello,
certo, ma... più di tutto il resto mi mancava sentirlo vicino, e il
modo in cui mi guarda... parlare con lui... Dio, non mi sono resa
conto di quanto mi mancasse tutto di lui finché non l'ho
rivisto.»
«La mia bambina è
cresciuta...» commentò Alice, senza smettere di sorridere. «Sei
proprio innamorata cotta. Deduco che lui sia ancora straordinario
quanto lo ricordavi.»
«Oh, lo è. Oh, ieri sera
ho conosciuto anche gli altri. Tomo è qui con Vicki, e non hai idea
di quanto siano... normali. Insomma, abbiamo cenato insieme, e
sono stati semplicemente fantastici. Lei è stupenda, scommetto che
ti piacerebbe.»
«Non hanno disatteso le
aspettative, allora. Ci sono sempre sembrati entrambi due tipi alla
mano.»
«Oh, non le hanno
disattese per niente. Mi sono sentita veramente a mio agio, e tu sai
quanto sia difficile per me sentirmi a mio agio in una situazione
nuova.»
«E mister Perfezione,
invece? Si è abbassato al livello dei comuni mortali o è rimasto
sul suo piedistallo a guardare il mondo dall'alto della sua
divaggine?»
«Direi che è sceso. Ieri
sera c'era anche lui, ma non mi ha dato molta confidenza. Certo,
Shannon mi aveva avvertita, quindi la cosa non mi ha sorpresa. Però
oggi...»
«Oggi cosa?»
«Beh, ieri sera Shannon è
andato a parlare con lui, per sapere che cosa ne pensasse di me. Sai,
per capire che impressione gli avevo fatto.»
«A chiedere la sua
benedizione, vorrai dire» scherza Alice. «E qual è stato il
responso?»
«Beh, quando Shannon è
tornato io stavo già dormendo, quindi stamattina mi sono svegliata
presto e sono andata nella sua stanza per parlargli faccia a faccia.»
Alice si mette a sedere di
scatto, incredula. «Tu hai fatto cosa?»
«Sono andata a bussare
alla sua porta e gli ho chiesto che cosa avesse detto a Shannon.»
«Sto parlando con Daria
Giordano, la mia migliore amica? Quella che a scuola parlava soltanto
se interpellata e aveva paura anche di alzare la mano per chiedere di
andare in bagno?»
«Lo so, non è da me.»
«No, per niente. Per caso
alla dogana hanno sequestrato la tua personalità?»
«Non esiste più la
dogana» replica Daria, sorridendo per la battuta dell'amica. «Non
so che cosa mi sia successo, sono sincera. Ho aperto gli occhi e ho
sentito che era una cosa che dovevo fare. Dovevo... credo di aver
voluto dimostrare a me stessa che sono in grado di cavarmela da sola.
Abbiamo parlato per quasi un'ora. È stato... non lo so, liberatorio.
Mi ha detto che è felice di sapermi accanto a suo fratello.»
«Frena, frena, frena.
Jared Leto ti ha detto che è contento di sapere che vai a letto con
Shannon? Con il suo unico fratello, il suo amico più caro, la
persona più importante della sua vita?»
«Qualcosa del genere. Ha
detto che è felice di sapermi accanto a lui, e che pensa che tra di
noi potrebbe funzionare. Sono la prima ad esserne sconvolta, quindi
non mi meraviglio che sorprenda anche te.»
«Credo che meraviglierebbe
chiunque. Sicura che non stesse soltanto cercando di rabbonirti?
Insomma, non voglio distruggere la tua felicità, ma sappiamo
entrambe che a volte non sembra una persona molto equilibrata.»
«Era sincero, Alice.
Insomma, lo so che sono sempre molto ingenua quando si tratta di
capire le intenzioni altrui, ma sono più che certa che fosse
sincero. Mi guardava dritto negli occhi mentre lo diceva. E lo so, so
che è un ottimo attore, ma sono più che certa che non stesse
mentendo. E poi Shannon mi ha confermato che ha detto le stesse cose
anche a lui. Potrebbe aver mentito a me, ma non a suo fratello.»
«E sappiamo che a te
Shannon non mentirebbe, quindi... Dio, sono così felice per te! So
quanto sia importante per te avere la sua benedizione, approvazione,
chiamala come vuoi. Sono davvero molto, molto felice.»
«Lo sono anch'io,
credimi.» Daria tace per un attimo, poi riprende: «Shannon vuole
portarmi a cena fuori, stasera. Soltanto io e lui.»
«Romantico, l'animale...
dove ti porta?»
«Non ne ho idea. Gliel'ho
chiesto, ma ha detto che è una sorpresa. Per quel che ne so,
potrebbe anche portarmi in cima alla torre Eiffel.»
«Di classe... che hai
intenzione di metterti?»
«In realtà, è anche per
questo che ti ho chiamata. Mi serve il tuo aiuto. Credo di non avere
idea di cosa indossare. Di sicuro non ho niente di elegante, e mi sta
prendendo il panico. Insomma, che succede se mi porta in un locale di
lusso? Non ho niente di adatto all'occasione.»
«In verità, qualcosa di
adatto lo hai. Te l'ho infilato in valigia mentre non guardavi.»
«Sì, l'ho trovato. Ma non
ho alcuna intenzione di metterlo. Non mi andrà nemmeno, ne sono
sicura. Tu ed io abbiamo taglie diverse.»
«Non abbiamo taglie
diverse. È solo che tu hai argomenti più... interessanti a
livello toracico. Ma ti andrà, ne sono sicura. Al massimo stringerà
un pochino, ma credo che a Shannon non dispiacerà. Lo sanno tutti
che apprezza sempre un décolleté abbondante. E comunque quello va
bene per qualunque serata.»
«Alice, no.»
«Preferisci mettere un
paio di jeans e rischiare di sentirti a disagio per l'intera serata?
Metti quello, un golfino nero e quegli stupendi stivali che adoro e
che un giorno ti ruberò, e vedrai che sarai perfetta. Lui non farà
che domandarsi cos'ha fatto di bello per meritarsi una simile
meraviglia, gli uomini intorno non ti staccheranno gli occhi di dosso
e le donne ti invidieranno da morire. Fidati. Quando mai ti ho
raccontato bugie?»
*
Parigi, 26 novembre 2013
Alle
otto meno cinque scendo nella hall e di lì esco, rispondendo
cortesemente al saluto del concierge e del portiere. Mi guardo
intorno, cercando Shannon, e quasi subito mi viene incontro un uomo
in giacca e cravatta. «La signorina Giordano?» mi domanda in
francese.
«Sono
io.»
«Il
signor Leto mi ha mandato a prenderla. Se vuole seguirmi.» Lo
squadro per qualche istante, chiedendomi se sia più prudente
obbedire e rischiare di venire uccisa e fatta a pezzi o rientrare in
hotel per chiamare Shannon e avere una conferma. L'uomo sorride,
porgendomi un post-it. «Ha detto che probabilmente non si sarebbe
fidata, quindi ha detto di darle questo.»
Prendo
il foglietto, constatando che la grafia è proprio quella di Shannon.
Non immaginare scenari apocalittici. È un autista
qualificato. «In tal caso,
immagino di doverla seguire» rispondo, sorridendo a mia volta.
«Prego.»
Mi precede, avvicinandosi ad un'elegante macchina scura tirata a
lucido. Mi apre la portiera, come se fossimo in un vecchio film di
Audrey Hepburn, aspetta che mi sia sistemata e la richiude, come un
vero autista. «Il signor Leto mi aveva avvertito che parlava
correntemente il francese, ma devo farle i complimenti. Lei ha
davvero un'ottima pronuncia» esordisce dopo un po', dando una rapida
occhiata allo specchietto retrovisore.
«La
ringrazio. Di preciso dove le ha detto di portarmi, il signor Leto?»
«Ha
detto che lo avrebbe chiesto, ma mi ha fatto promettere di non dirlo.
Ha detto che deve rimanere una sorpresa.»
«Le
prometto che all'arrivo fingerò di essere molto sorpresa.»
«Mi
dispiace, ma sono un uomo di parola» sorride, scuotendo la testa. «E
poi sono stato pagato profumatamente per mantenere il segreto. Non
posso certo violare il contratto. Comunque non ci vorranno più di
dieci minuti per arrivare. Si metta comoda e si goda il viaggio.»
Rimaniamo in silenzio per
il resto del tragitto: devo ammettere che quest'uomo è davvero un
ottimo autista, che riesce a farsi strada senza difficoltà nel
traffico nervoso e congestionato del centro di Parigi. Mi rilasso
contro il sedile e mi godo il panorama, cercando di orientarmi e
cogliere indizi dagli edifici che scorrono ai due lati della strada –
nonostante sia tranquilla, non mi piace l'idea di non sapere dove
stiamo andando.
Finalmente,
non appena mi sono arresa all'idea di rimanere nell'incertezza,
l'autista ferma l'auto e spegne il motore. «Aspetti, l'aiuto a
scendere.» Scende, fa il giro dell'auto e mi apre lo sportello,
porgendomi una mano che accetto volentieri.
«Grazie...»
inizio, fermandomi subito dopo – vorrei sapere chi devo
ringraziare, ma mi rendo conto di non conoscere il suo nome.
Forse
comprendendo il mio dubbio, l'uomo richiude lo sportello e mi
sorride. «Sébastien. Mi chiamo Sébastien.»
«Grazie,
Sébastien» riprendo, sorridendo a mia volta. «Dove siamo, di
preciso?»
«Suppongo
di doverglielo, a questo punto. Quello è il Pont Neuf» spiega,
indicando l'enorme costruzione poco distante da noi. «E quella è la
Senna» prosegue, indicando il fiume, «ma immagino che questo lo
avesse capito da sola. Andiamo, la accompagno.»
«Mi
accompagna... dove?»
«Sul
luogo dell'appuntamento, naturalmente. Dovremo camminare soltanto un
paio di minuti.» Consapevole di non poter disobbedire inizio a
camminare, rimanendo un paio di passi indietro. Quando iniziamo a
scendere una scaletta, capisco che mi sta portando verso uno dei moli
dai quali partono i celebri bateaux-mouches.
I gradini sono ripidi,
e dovendo prestare tutta la mia attenzione alla discesa non penso
nemmeno di guardare la barca attraccata. Quando sento Sébastien dire
«Eccoci arrivati» alzo la testa, e per poco non ho un mancamento:
il battello è illuminato a giorno da decine di piccole ed eleganti
lanterne, tanto che posso vedere senza fatica che è completamente
deserto, fatta eccezione per Shannon, in piedi sul ponte, lo sguardo
rivolto verso di me. Sébastien fa scattare la serratura del
cancelletto e si scansa, lasciandomi strada: «Il mio compito è
finito. Le auguro una splendida serata.»
«Grazie»
rispondo, passandogli accanto quasi in trance. Non posso credere che
Shannon abbia organizzato una cosa del genere – o meglio, che abbia
chiesto ad Emma di organizzare una simile serata. «Che cos'è tutto
questo?» sussurro appena mi trovo di fronte a lui, incapace di dire
altro.
«Volevo soltanto stare un
po' da solo con te» risponde, prendendomi la mano e attirandomi
vicino a sé. «So che probabilmente rientra tra quei comportamenti
banali e scontati che tanto detesti, ma non sapevo che altro fare per
guadagnarmi un briciolo di intimità con te. E non rispondere che
potevamo restare in camera» aggiunge subito dopo, sfiorandomi il
naso in quel gesto delicato che sembra racchiudere l'intera essenza
del nostro rapporto. «Vieni qui, dai» riprende, facendomi scivolare
un braccio dietro le spalle. Ci avviciniamo tanto da respirarci, ma
prima che le nostre labbra si tocchino sembra passare un secolo:
siamo stati separati soltanto per poche ore, ma già mi mancava la
sua bocca, il suo bacio, il suo respiro caldo, il suo naso che sfiora
il mio, la mano che sale a coprire la mia guancia e mi tiene vicina,
così stretta da non farmi respirare. Posso tentare in tutti i modi
di mentirmi, ma la verità è che di lui mi manca ogni cosa, e ogni
volta che deve allontanarsi non faccio altro che aspettare il suo
ritorno.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Appena
tornato in hotel, Tomo ha annunciato che lui e Vicki avrebbero cenato
in camera, trincerandosi dietro la scusa della stanchezza, ma Jared
sospetta che abbiano soltanto voglia di restare soli, probabilmente
per avere un'ulteriore occasione di portare avanti quel loro piccolo
progetto di cui non parlano mai,
ma che si avverte chiaramente essere la loro nuova priorità. Rimasto
solo, Jared ha chiesto ad Emma di unirsi a lui per la cena –
proprio non gli va di starsene solo, nonostante la solitudine non gli
abbia mai fatto paura. «Grazie per essere qui» la ringrazia,
sistemandosi il tovagliolo sulle ginocchia.
«Non
ho potuto resistere. Avevi quell'espressione da cucciolo abbandonato
sul ciglio della strada... non ti si può negare niente, quando
sfoderi quello sguardo» risponde la ragazza, sorridendo mentre mette
via il cellulare. «E poi credo sia specificato nel mio contratto:
non ti posso negare praticamente nulla.»
«Di'
un po', come capo sono uno stronzo?» le domanda dopo un lungo attimo
di silenzio. «Insomma, è tanto difficile lavorare per me?»
«No,
non sei uno stronzo» lo rassicura lei, «e lavorare per te è...
beh, forse è solo un po' meno semplice che disarmare la Germania.»
Alza gli occhi sull'uomo che le siede di fronte, cercando di capire
che cosa si celi dietro quella richiesta. «Non sei peggio di altra
gente per cui ho lavorato. Almeno tu mi tratti da pari. Insomma, è
pur vero che sono una tua subalterna, ma almeno ti ricordi come mi
chiamo.»
«Ma
certo che mi ricordo come ti chiami... ehm, Evelyn?» la prende in
giro, strappandole un sorriso.
«Molto
divertente. Molto divertente davvero. Allora, perché mi hai chiesto
di cenare con te?»
«Deve
esserci un motivo?»
«Dico
solo che mi sembra strano, visto che da quando siamo qui non me lo
hai mai chiesto. E siccome le altre sere eri sempre in compagnia
degli altri...»
«Pensi
che ti abbia invitata soltanto perché ero solo?»
«Non
mi stupirebbe così tanto.»
«Ti
infastidisce?»
«Affatto.
Sono la tua assistente, ma questo non significa che debba starti
appiccicata in ogni istante.» Emma alza ancora una volta lo sguardo
sul proprio capo, cercando di leggere la verità dentro quegli occhi
così chiari e azzurri che ormai anni fa l'hanno convinta ad
imbarcarsi in un'impresa tanto grandiosa e incerta. «Solo... beh,
sono convinta che ci sia un altro motivo per cui mi hai invitata.»
«Del
tipo?»
«Del
tipo... sapere che cosa Shannon mi abbia chiesto di organizzare per
questa sera.»
«Pensi
che tenterei di estorcerti un'informazione in modo così bieco?»
«Oh,
sì. Sarebbe proprio nel tuo stile.»
*
Parigi, 26 novembre 2013
«Vieni con me» sussurro
all'orecchio di Daria, prendendola per mano per convincerla a
seguirmi all'interno della cabina.
«Ma
come ti è venuto in mente... beh, tutto questo?» mi domanda con un
tono sorpreso e confuso alla vista della tavola apparecchiata, dei
fiori e delle luci soffuse. «Come sei riuscito
a fare tutto questo?»
«Detesto
dirlo, ma tutto questo
è merito di Emma. Io ho lanciato il sasso, ma è stata lei ad
impegnarsi per realizzare tutto. Se fosse una questione di meriti,
dovrebbe esserci lei qui a cena con te.»
«Beh,
ma questo ancora non spiega perché.»
«Te
l'ho detto, volevo stare un po' da solo con te.» L'occhiata di Daria
la dice lunga: non riesce a credere che questo sia l'unico motivo per
cui l'ho trascinata fin qui. «E poi, mi sono reso conto che non
abbiamo mai avuto un vero
appuntamento» aggiungo, abbassando la voce senza nemmeno
accorgermene. «Voglio fare le cose per bene, con te.»
«Tu
chi sei, e che cosa ne hai fatto di Shannon Leto?» mi domanda con un
sorriso, sfiorandomi una guancia con due dita. «Insomma, tu... tu
non fai queste cose. Tu sei... sei Shanimal.»
«Credo
che quella parte di me si sia persa a Milano. Ma se non ti piaccio,
forse posso tornare ad essere lo stronzo che ero.»
«No,
per adesso mi vai bene così» sorride ancora. «Forse mi devo
soltanto abituare» aggiunge, allontanandosi appena da me mentre si
slaccia il cappotto. «Che cosa c'è in programma?» mi chiede mentre
si spoglia. La mia risposta si blocca in gola alla vista dell'abito
che indossa: corto, aderente e di un rosso incredibilmente acceso. È
bellissima, seducente ma niente affatto volgare – è solo un
istante, ma penso che vederla vestita così mi ecciti ancora di più
che vederla completamente nuda.
«C'è qualcosa che non va?»
«Eh?»
«Mi
stai guardando in un modo... beh, strano»
mi fa notare, appoggiando il cappotto sulla spalliera di una sedia
vuota.
«Beh,
è solo che... è solo che sei bellissima. Chi sei tu, e che cosa ne
hai fatto di Daria Giordano?» la prendo in giro, parafrasando il suo
recente dubbio.
Sorride,
abbassando gli occhi. «Immagino che anche lei si sia persa a Milano.
O forse a Torino. O sul treno per venire qui, non lo so. Ma se non ti
piaccio, forse posso tornare ad essere la ragazzina insicura che
ero.»
«Non
ci provare nemmeno» le sussurro, prendendola di nuovo per mano. «Sei
perfetta come sei.» La accompagno verso la tavola apparecchiata,
scosto la sedia e l'aiuto ad accomodarsi, poi raggiungo il mio posto.
«Approfittando della fortuna che mangi praticamente qualunque cosa,
mi sono preso la libertà di lasciare carta bianca allo chef» dico,
prendendo la bottiglia di vino che ho stappato mentre aspettavo il
suo arrivo e versandone un po' in entrambi i calici. Nemmeno un
minuto più tardi, un cameriere appare con gli antipasti, per poi
lasciarci completamente soli. «A che cosa brindiamo?»
«Non saprei» risponde,
prendendo il bicchiere. «Ci sono molte cose per cui potremmo
brindare.»
«L'estrema efficienza di
Emma, per dirne una.»
«O l'estrema benevolenza
di tuo fratello, per dirne un'altra.»
«O la generosità del tuo
capo nel concederti una settimana di ferie.»
«O la sbadataggine che hai
dimostrato quando hai dimenticato l'accendino a Milano.»
Sorrido, pensando che è
soltanto grazie ad un vizio che ho avuto l'occasione di inciampare in
una delle cose più belle che mi siano mai successe, e che è proprio
grazie a quello stupendo imprevisto se sto per ripulirmi da quel
preciso vizio. «A questo punto, brinderei alla nostra indecisione
riguardo al motivo del nostro brindisi.»
«Non avrei saputo dirlo
meglio» risponde, sorridendo a sua volta. I bicchieri si toccano, e
mentre beviamo non riesco a staccare gli occhi dal suo viso: è
semplicemente perfetta, e sento che nemmeno viaggiando mille
anni per il mondo potrei trovare una persona migliore di lei.
«Allora, Jared ti ha perdonato il ritardo di oggi?»
«Mi sarei arrabbiato se
non lo avesse fatto» replico, sistemandomi il tovagliolo sulle
ginocchia. «Insomma, con tutte le volte che lui fa aspettare noi con
i suoi capricci da star, mi sembra il minimo. E poi è stato un
incidente isolato. Di solito sono molto puntuale, sai?»
«Sono contenta che non si
sia irritato. Quando mi sono resa conto che saresti arrivato in
ritardo mi sono sentita in colpa. In fondo è stata colpa mia se...
beh, sono io che ti ho trattenuto.»
«Non ero certo ammanettato
al letto. Anche se... beh, forse è una pratica che dovremmo
considerare. Non disdegno un minimo di violenza, in certe
situazioni.»
«Maniaco. Ma... ci siamo
soltanto noi?» aggiunge dopo un istante, guardandosi attorno.
«La cosa ti dispiace?»
«No, è solo... è solo
che così è davvero una cosa romantica. Non avrei mai pensato di
attribuirti un comportamento simile, prima di conoscerti.»
«Se la cosa può farti
sentire meglio, nemmeno io avrei mai pensato di attribuirmi un
comportamento del genere, prima di conoscerti. Non avevo mai
incontrato una persona per cui valesse la pena di fare qualcosa di
così speciale.»
«Dici sul serio? Insomma,
non c'è mai stata nessuna... ragazza speciale? Nessuna...
fidanzata?»
«Mai» rispondo.
«Insomma, ho incontrato molte persone che reputavo speciali, ma
adesso mi rendo conto che non erano nemmeno lontanamente paragonabili
a te. Tu hai qualcosa che nessuna di loro aveva.»
«Una certa insicurezza di
fondo?» scherza, portandosi di nuovo il bicchiere alle labbra.
«La visione disincantata
che hai del mondo» la correggo. «Tu hai vissuto delle brutte
esperienze, e con il tempo hai capito che la vita può anche fare
schifo. Non ti perdi dietro la stupida illusione che basti sperare
che qualcosa di meraviglioso accada per farlo accadere. Tu sai
che per avere un lieto fine non basta stare seduti ad aspettare che
succeda. Sai che ci si deve rimboccare le maniche, se si vuole
qualcosa. È una cosa che adoro di te.»
«Di solito la gente lo
chiama cinismo. E di solito la gente lo detesta.»
«Non credo di poter essere
classificato come 'la gente'. Io mi sento decisamente fuori del
comune.»
«Oh, lo sei. Sei
decisamente diverso dalla maggior parte delle persone che ho
incontrato in vita mia. Ci stiamo muovendo» aggiunge, vedendo che il
paesaggio intorno a noi sta cambiando.
«Il giro turistico è
compreso nel pacchetto. Non mi piace lasciare le cose a metà.»
«Questo rischia seriamente
di minare la mia visione disincantata del mondo, lo sai?
Quello che sto vivendo con te ha tutta l'aria di un sogno. E in tutta
sincerità, credo che mi dispiacerà molto rinunciarci, quando
arriverà il momento di...» Si interrompe, come se l'idea di dover
tornare a casa le suonasse come la più terribile delle torture.
«Un modo per non
rinunciare ci sarebbe, lo sai.»
«Continuare a viaggiare
per il mondo con voi? È una possibilità che ho considerato e che,
confesso, non mi dispiacerebbe affatto, ma... dobbiamo guardare in
faccia la realtà, Shannon. Non posso mollare tutto e rivoluzionare
così la mia vita. A mio padre verrebbe un colpo, poco ma sicuro. E
poi sento che non sarebbe giusto. L'hai detto tu, io sono una che
cerca in tutti i modi di restare aggrappata alla realtà. E la mia
realtà, in questo momento, è a Torino. Lì ci sono la mia famiglia,
i miei amici, il mio lavoro, ho appena preso casa... so che forse per
te è complicato da capire, ma... io sento che sto costruendo
qualcosa, e sento che non ci posso rinunciare proprio adesso. Anche
se la proposta è più che allettante.»
«No, io... io lo capisco.
In fondo, è quello che ho sempre desiderato anch'io. La mia vita è
sempre stata un casino, e... capisco il tuo desiderio di stabilità.
È qualcosa che ho sempre inseguito anch'io. Solo che credo di averci
rinunciato da tempo.» Il cameriere di prima riappare per requisire i
piatti ormai vuoti, e mentre aspettiamo che ritorni con la portata
successiva non diciamo nulla, come se volessimo prenderci il tempo
necessario per riflettere sulle nostre posizioni. Quando finalmente
restiamo di nuovo soli, ricordo la busta che tengo nascosta in tasca.
«Prima che mi passi di mente, questo è per te.» Le porgo il plico,
che lei guarda con aria curiosa.
«Che cos'è?»
«Apri la busta e lo
saprai.»
«Sembra... no, non ci
posso credere. È un pass per il backstage!»
«Perché farti pagare il
biglietto, se posso farti assistere al concerto gratis?»
«Mi sembra un'ottima
ragione. Anche se confesso che non mi sarebbe dispiaciuto confondermi
tra gli Echelon francesi» scherza. «A proposito, domani come si
svolge la cosa? Insomma, c'è un orario preciso, un posto dove devo
andare...»
«Devi solo farti trovare
alle sette nella hall dell'albergo, poi è tutto organizzato. Verrà
a prenderti l'autista di questa sera, e ti porterà sul luogo del
concerto.»
«Più semplice di così...»
«Sei mia ospite, non
voglio che ti debba preoccupare di niente.»
«Sì, ma tu mi stai
viziando.»
«La cosa ti dispiace?»
«No» sussurra dopo un
attimo di silenzio. «Qualche volta è bello sentirsi così
importanti per qualcuno.»
«La cosa più bella è
avere qualcuno da far sentire importante» rispondo, sporgendomi
appena verso di lei.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Tornato
in camera propria, Jared si lascia cadere di schiena sul letto con un
sospiro. Ci è voluto un po' di tempo, nonché una minaccia di
licenziamento, ma alla fine Emma gli ha descritto nel dettaglio la
serata ideata da Shannon: una cena intima a bordo di un battello
riservato soltanto per lui e Daria, una bottiglia di ottimo vino
italiano e un giro turistico per Parigi – per non parlare della
movimentata notte che seguirà, perché se alla fine di tutta quella
manfrina non si arriva al dunque, non riesce proprio a capire a che
scopo agitarsi tanto. «Se domani è spompato, io quella ragazza la
uccido» borbotta, rivolto a se stesso. Si rimette a sedere e si
guarda intorno, indeciso se andare dritto filato a dormire o
indugiare ancora un po' tra i progetti ai quali lavora nei ritagli di
tempo. Alla fine, lo stacanovismo ha la meglio: Jared prende il
quaderno nel quale custodisce gelosamente ogni appunto e lo porta sul
letto con sé, sedendosi a gambe incrociate sul materasso. «Ah,
ragazzina, ci hai proprio stregati tutti» sussurra, facendo scorrere
i fogli tra le dita fino a trovare quello che davvero gli interessa.
Si alza di nuovo, prende la chitarra dalla custodia e avvicina una
sedia al letto. Sembra incredibile che abbia già imparato gli
accordi di quel pezzo – lui,
che a distanza di un anno ancora sbaglia le parole delle canzoni
dell'ultimo cd. Eppure è così, e non sa spiegarsene il perché: è
come se Daria gli fosse entrata sotto la pelle, nel profondo del
cuore, così come ha fatto con Shannon – solo che lui, al contrario
di suo fratello, non fa progetti di matrimonio. Si limita a scrivere
canzoni.
*
Parigi, 26 novembre 2013
Con la vecchissima e
abusata scusa di prendere il bicchiere, Shannon ha allungato la mano
sul tavolo e ha sfiorato le mie dita, indugiando per qualche secondo
prima di stringerle. «Sai, dovremmo parlare di cosa succederà dopo
questa settimana» dico, cercando di tirare su un'altra forchettata
di risotto. «So che probabilmente questo spezzerà irrimediabilmente
la magia, ma nascondere la testa sotto la sabbia è inutile. Domenica
dovrò tornare a casa, e tu dovrai continuare con il tour.»
«Sì, immagino che sia
d'obbligo cercare di organizzarsi per bene» annuisce. «Beh, tanto
per cominciare c'è una cosa che non ti ho detto.»
«Sarebbe?» Qualcosa mi
dice che devo preoccuparmi, e considerando la mia natura pessimista
sto iniziando ad immaginare scenari a dir poco apocalittici.
«Sarebbe che dopo il
concerto di domani sera la band non ha altri impegni.»
Impiego qualche istante a
rendermi conto di quello che ha appena detto. «Sarebbe a dire
che...»
«C'è una sola serata in
programma. Siamo qui principalmente perché Jared deve presenziare ad
alcune serate per la promozione del suo ultimo film. Abbiamo infilato
una data in più giusto per accontentare i fan. Tornerermo qui verso
marzo, e faremo una settimana di concerti in giro per il paese.»
«Quindi, tralasciando
domani sera...»
«Sarò tutto tuo» mi
interrompe di nuovo. «Il che significa che gireremo tutta la città
come una coppia di innamorati in vacanza. Se è questo che vuoi,
naturalmente.»
«Visitare Parigi? È una
delle cose che ho sempre sognato di fare!» esclamo, al settimo cielo
per quella prospettiva. «E puoi venire con me, se ti va» aggiungo,
prendendolo in giro.
«Oh, grazie per la gentile
concessione.»
«Comunque resta la
questione di che cosa faremo una volta terminata questa... fantastica
parentesi. Io non penso proprio di potermi mettere a viaggiare in
giro per il mondo, e non credo che tu possa venire in Italia ogni
volta che ti pare.»
«No, in effetti spostarmi
così tanto non sarà possibile nemmeno per me» sospira,
distogliendo lo sguardo dal mio e puntandolo sulla tovaglia. «Dunque,
dopo Parigi ci sposteremo... torneremo negli Stati Uniti» conclude
con un sospiro. «E saremo impegnati lì fino a pochi giorni prima di
Natale. Il tour è stato pensato così per darci l'opportunità di
essere a casa per le feste. Sai, senza la pressione del fuso orario,
teoricamente senza la stanchezza...»
«Natale si passa in
famiglia, questo lo sanno tutti.»
«Forse potrei essere da te
per la fine dell'anno, o al massimo per il due gennaio. Il tour
dovrebbe riprendere il dieci in Messico. Avrei qualche giorno per
stare da te. Mi piacerebbe vedere Torino con la neve.»
«Città ancora più grigia
e traffico impazzito. Non ti perderesti nulla» sorrido, cercando di
nascondere la tristezza che provo nello scoprire che non avrò
occasione di rivederlo per più di un mese.
«Vorrei che fosse diverso»
sussurra, mentre il cameriere riappare per cambiare i piatti e
servire il secondo. «Vorrei davvero che fosse diverso»
ripete, stringendo di nuovo la mia mano. Poi, all'improvviso,
l'espressione seria che si è cucito sul viso svanisce, e si
trasforma in una leggera risata. «Scusa, è solo che... beh, io ho
sempre considerato il mio lavoro come una passione, e... non
avrei mai creduto possibile che un giorno potesse diventare
incompatibile con... con un'altra grande passione.»
Una volta consumato il
secondo, divorato il dolce e bevuto un caffè decisamente superiore
alla media francese, convinco Daria a rimettersi il cappotto e ad
uscire con me sul ponte per vedere la città che ci scivola attorno.
«Non pensi che sia bellissima?» sussurra lei, con gli occhi che
brillano quanto quelli di una bambina messa di fronte alla
realizzazione del più grande sogno della sua vita.
«Sì, penso che sia
bellissima» rispondo, accarezzandole la guancia con due dita, «ma
anche la città non scherza.» C'è poca luce, ma riesco chiaramente
a vederla arrossire, ancora non avvezza a tutti i complimenti che
sono solito rivolgerle. Ma è forse colpa mia se sono sempre stato un
tipo sincero?
«Pensa a come devono
sentirsi orgogliose le persone che vivono qui. Avere la possibilità
di essere costantemente immersi in tutta questa bellezza
dev'essere così... soddisfacente.»
«Io credo che la maggior
parte di loro non si accorga neanche di ciò che ha intorno. Insomma,
a furia di vedere la stessa cosa per ogni giorno la tua vita, può
accadere che l'interesse sfumi. E così, quello che una volta era
costante motivo di meraviglia, alla fine non merita nemmeno uno
sbadiglio di noia.»
«Allora sono felice che
non possiamo stare insieme» dice dopo un attimo di silenzio,
sorprendendomi. «A furia di vedermi tutti i giorni, alla fine ti
verrei a noia» aggiunge con un sorriso.
«Tu non mi verresti a noia
nemmeno se ti incollassi a me con la supercolla» la smentisco,
abbracciandola alle spalle. La sua schiena e le sue spalle premute
contro il mio torace sembrano incredibilmente piccole, più minuscole
che mai, e la magnificenza del paesaggio che ci circonda non fa che
acuire il contrasto tra le mie mani e le sue membra, che non mi sono
mai sembrate così fragili.
È mezzanotte passata
quando torniamo in albergo; il concierge ci restituisce la chiave con
un sorriso, forse leggendo sui nostri volti la bellezza della serata
che abbiamo appena trascorso; raggiungiamo il piano con l'ascensore,
tenendoci stretti come se dal nostro abbraccio dipendesse il destino
del mondo; non appena siamo al sicuro tra le pareti della nostra
camera, accantono ogni remora e pudore, e la bacio come se fossero
passati secoli dall'ultima volta che è successo. «Potrà anche
essere poco il tempo che passiamo insieme» sussurro, spostando le
labbra sulle sue guance, poi sul collo, e infine di nuovo sulla sua
bocca, «ma ti prometto che sarà il tempo migliore della tua vita.»
Faccio scivolare le mani tra di noi, separando con lentezza ogni
bottone dalla rispettiva asola. Una volta eliminato il cappotto,
torna a far capolino quel vestito che sin dal primo momento mi ha
conquistato. «Ti ho già detto che adoro questo vestito?» le
domando, mentre le sue mani si occupano della mia giacca e dalla
sciarpa avvolta attorno al mio collo.
«No, veramente no»
sussurra, sfiorandomi il collo con la punta del naso, in un gesto che
mi fa impazzire.
«Beh, adesso l'ho fatto.
Ti sta benissimo» aggiungo, facendole scivolare giù entrambe le
spalline.
Le sue mani, lente e
delicate come quelle di un pianista, iniziano a sbottonarmi la
camicia, a tratti sfiorandomi il torace. «Ti ringrazio» sorride.
«Sicuro di non essere troppo stanco?»
«Assolutamente no»
rispondo, arretrando fino al letto. Mi siedo sul bordo del materasso
e la faccio mettere cavalcioni su di me. La aiuto a sfilarmi la
camicia, e subito dopo torno all'assalto della sua bocca.
Ci baciamo per quelli che
sembrano secoli, e poi la sento sussurrare: «Mi dai un minuto?»
mentre accenna con la testa alla stanza da bagno. «Aspettami qui, ci
metto un istante» aggiunge, alzandosi.
Mi sfilo le scarpe e mi
stendo sul mio lato del letto, aspettando il suo ritorno.
Non possono essere passati
più di due minuti da quando ho lasciato solo Shannon, ma quando
torno in camera lui sta già dormendo come un bambino. Mi viene quasi
da sorridere, perché quel suo insistere sulla propria mancanza di
stanchezza somigliava proprio alle proteste di un bambino che rifiuta
di essere mandato a letto. Mi avvicino al letto di soppiatto, senza
fare rumore, e lo guardo per quello che è un minuto pieno: riesce ad
essere stupendo anche quando è incosciente, anche quando non fa
altro che starsene disteso a respirare piano nella penombra di una
stanza di albergo. Mi mancherà tutto questo, quando saremo lontani:
mi mancherà avere accanto lo Shannon di tutti i giorni, quello che
pochi hanno il privilegio di conoscere; mi mancheranno tutte quelle
piccole cose che lo rendono unico – il suo modo di accarezzarmi,
usando solo la punta delle dita, e la sua abitudine di dormire con il
viso rivolto verso il mio lato del letto; mi mancherà il suo modo di
prendermi in giro e mi mancheranno i suoi complimenti, e soprattutto
mi mancherà quella sua incrollabile volontà di proteggermi, sempre
e comunque.
Mi spoglio e mi infilo tra
le lenzuola, premurandomi di mettergli addosso una coperta. Potrei
svegliarlo e convincerlo senza sforzo a finire quello che abbiamo
cominciato, ma non lo farò: per una volta, voglio essere io a
prendermi cura di lui.
1Siamo
qui, nei grigi dell'inverno. Siamo qui, solo io e te. Stringi la mia
mano, affrontiamo domani. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Yours
Forever
di John Mellencamp,
traccia contenuta nella colonna sonora del film La
Tempesta Perfetta
(2001).
|
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Capitolo 20 *** 20 | Sei l'ultima grande innocente, ed è per questo che ti amo. ***
Portagioie di tristezza | 1
L'ispirazione
sembra essere tornata a farmi visita, e finalmente posso tornare ad
aggiornare più frequentemente – e qui casca l'asino. Come ho già
anticipato sul gruppo Facebook Portagioie
di tristezza, dedicato a questa storia e, più in generale, a
tutte le mie storie in sospeso, probabilmente la storia di Shannon e
Daria si concluderà nel volgere di pochi capitoli. Il fatto è che
non sono mai stata una fan delle storie infinite, e dunque preferisco
concludere prima che diventi un'infinita tiritera che racconta sempre
la solita solfa =) In secondo luogo, ci ho riflettuto molto, e credo
sia giusto che Shannon e Daria trovino finalmente una conclusione...
qualunque essa sia.
Spero
che riuscirete comunque a godervi il capitolo!
EffieSamadhi
P. S. :
Per chi non è iscritto a Facebook/non è iscritto al gruppo, lascio
il link per vedere su YouTube il trailer
realizzato per l'occasione dalla bravissima Kath
Redford, che attraverso il gruppo Facebook Trailer
su richiesta accoglie tutte le richieste di quelle povere autrici
che, come me, non hanno conoscenze in questo campo. Se doveste
trovarvi in difficoltà, rivolgetevi a lei, è un vero drago!
Portagioie di tristezza
Capitolo ventesimo
Sei l'ultima grande
innocente,
ed è per questo che
ti amo.1
Parigi, 27 novembre 2013
Lo stesso raggio di sole
che ieri mattina mi ha costretto ad aprire gli occhi torna ad
infastidirmi, svegliandomi. Invece di alzarmi, però, mi volto
dall'altra parte, trovando Shannon già sveglio. «Ti prego, dimmi
che non mi sono addormentato» bisbiglia, quasi spaventato da una
simile eventualità.
«Più
che addormentato,
oserei dire che sei collassato.
Dovevi essere davvero molto stanco.»
Si volta sulla schiena e si
copre il volto con entrambe le mani, sospirando. «Non ci posso
credere» borbotta tra le dita. Mi viene quasi da ridere, vedendolo
tanto preoccupato per una cosa che non ha disturbato me, che
teoricamente dovrei essere la parte offesa. «Non ci posso credere.»
«Ehi, guarda che non è un
problema» sussurro, accarezzandogli il torace e baciandogli una
spalla nel tentativo di consolarlo.
«Ma
è un enorme problema!»
ribatte, voltandosi di nuovo verso di me con un'espressione a dir
poco comica. «Dev'essere il primo sintomo del mio decadimento
fisico. Fammi un favore, lasciami qui e vai a cercarti un uomo
giovane e forte. Non c'è rimasto nulla che io possa darti.» Tento
in tutti i modi di trattenermi, ma mi è impossibile non scoppiare a
ridere davanti alla sua disperazione. «Come puoi ridere in un
momento simile? Io sono in lutto!»
Mi sollevo e mi sposto in
modo da sovrastarlo, portandogli una mano al viso per sfiorargli il
mento ruvido di barba. «C'è ancora molto che puoi darmi, e lo sai»
sussurro. «E comunque finora i giovani mi hanno deluso, quindi
escludo di lasciarti per uno di loro.»
Si passa la lingua sulle
labbra, mentre solleva una mano per accarezzarmi i capelli. «Dici
sul serio?»
«Assolutamente. Io non
mento mai. Solo quando è strettamente necessario. E questa non mi
sembra affatto una di quelle occasioni.»
«Bene» sussurra dopo
qualche istante di silenzio, «perché era tutta scena.» In un
attimo ribalta le nostre posizioni, regalandomi un bacio carico di
passione e desiderio. «E comunque non credere di cavartela a buon
mercato» aggiunge, infilandomi le mani sotto la maglietta, «ti
pentirai amaramente di esserti presa gioco di me.» Le sue labbra
scendono a tormentarmi il collo, le dita mi solleticano i fianchi, il
suo respiro caldo che mi sfiora mi fa venire voglia di dire sì a
tutto. «Sai cosa vorrei fare in questo momento?» mi domanda, senza
interrompere le carezze. «Vorrei divorarti. E credimi, potrei
farlo.»
«Sai cosa penso io,
invece?» sussurro, mentre la sua bocca torna ad occuparsi del mio
collo.
«Cosa?» mugugna, senza
smettere di baciarmi.
«Credo che dovresti
risparmiare le energie per questa sera. Che figura ci faresti se ti
addormentassi sulla batteria?» lo prendo in giro.
«Ragazzina impertinente»
ribatte, stringendo un po' di più la presa sui miei fianchi. «Ho
abbastanza energia per fare tutto, credimi.»
Sto per ribattere, ma vengo
fermata da un paio di colpi alla porta. «Shannon, sei sveglio?»
Iniziavo a chiedermi se mai ci sarebbe successo di essere interrotti
da Jared. Quell'uomo dimostra un tempismo formidabile.
Shannon sbuffa, sollevando
appena la testa e rivolgendo il viso verso la porta. «Sì, siamo
svegli» replica con un tono che non dà adito ad alcun dubbio.
«Bene, perché sei quasi
in ritardo. Sono le otto!»
«Non dobbiamo partire alle
nove?» C'è un non so che di comico nel sentirli discutere a questo
modo, senza che nemmeno si guardino in faccia. Non so se riuscirei a
fare lo stesso con Emanuele o Francesca.
«Alle nove? Dov'eri ieri
mentre dicevo che ci saremmo dovuti trovare mezz'ora prima per
provare meglio The kill? Te l'ho detto che l'inizio non mi
convinceva, no?»
Shannon abbassa di scatto
la testa, con un grugnito decisamente eloquente. «Maniaco
perfezionista» borbotta a denti stretti. «No, non me l'avevi detto»
sospira, rialzando la testa. «Va bene, ci sono. Il tempo di una
doccia e arrivo.»
«Ti aspettiamo giù. E che
sia gelata, la doccia. Ci servi attivo» aggiunge Jared dopo
una breve pausa. Suppongo che dopo l'ultima frase si allontani,
poiché non sentiamo più alcun rumore.
«Pare proprio che il mio
pranzo debba aspettare» sospira Shannon, tornando a guardarmi. «Ma
non ti preoccupare, non dimenticherò di fartela pagare per la tua
insolenza» aggiunge con un sorriso, sfiorandomi il naso con un dito.
«Beh, a questo punto
dovresti arrabbiarti anche con Jared» ribatto. «Pare che lui la
pensi esattamente come me.»
«Probabile, ma lui è
matto da legare. Non posso certo rivalermi su uno che non sa quello
che dice» replica prima di schioccarmi un bacio sulle labbra e
alzarsi. Si sfila la camicia e i pantaloni – le stesse cose che
indossava ieri sera – e le lascia cadere su una sedia, scomparendo
in bagno. Qualche secondo più tardi sento scrosciare l'acqua, e a
quel punto decido di alzarmi. Mi sfrego le braccia con le mani per
scaldarmi, mentre mi avvicino alla finestra per guardare il panorama,
accorgendomi che sta nevicando – come se il fatto di essere a
Parigi con l'uomo più straordinario che abbia mai incontrato non
fosse già abbastanza romantico.
Cinque minuti dopo Shannon
torna in camera, aprendo l'armadio alla ricerca di qualcosa da
mettersi. Mi volto per guardarlo, e quando lascia cadere
l'asciugamano per infilarsi la biancheria mi sorprendo ad arrossire,
nemmeno fosse la prima volta che lo vedo senza vestiti. Cerco di
recuperare la compostezza perduta e lo apostrofo: «Esibizionista.»
Sentendomi parlare volta la
testa, e devo ammettere che vederlo solo di profilo, con i capelli
bagnati che gli ricadono sugli occhi, è una cosa che non si vede
tutti i giorni – e per fortuna, altrimenti chissà di quanti
infarti avrei già sofferto! «Ah, adesso ti piace quello che vedi,
eh?» risponde con quel mezzo sorriso che lo caratterizza – e che
gli riesce benissimo.
«Se si parla di te, mi
piace sempre quello che vedo» replico, senza sapere bene da
dove arrivi tanta sfrontatezza.
Senza rispondere si infila
i jeans e li allaccia, poi prende una camicia e finalmente si volta,
avvicinandosi piano mentre la indossa. Rimango immobile, quasi fossi
incollata al pavimento, mentre mi mette le mani sui fianchi e mi
stringe a sé, avvicinandosi tanto da far sfiorare le punte dei
nostri nasi. «Se si parla di te, anche a me piace sempre quello che
vedo» sussurra. Abbasso la testa, e senza dire niente sfioro il suo
torace con le unghie, sentendolo sospirare ad ogni centimetro
percorso. Arrivata alla cintura mi fermo e inizio ad abbottonargli la
camicia, risalendo lentamente verso il collo. «E dire che ho sempre
pensato che spogliarsi fosse la parte eccitante» sospira,
accarezzandomi una guancia. «Che farai mentre sono fuori?»
«Aspetterò che torni»
sorrido, sfiorandogli il tatuaggio che ha sul collo. «Non so, forse
farò un giro qui intorno» aggiungo, sistemandogli il colletto come
faccio con mio fratello ogni volta che dobbiamo presenziare a qualche
cerimonia. Non riesco a non pensare a come sarebbe bello replicare
questa scena ogni giorno, a quanto sarebbe rassicurante separarci
ogni mattina sapendo di poterci riunire ad ogni tramonto. «Tanto ci
vedremo questa sera, no?»
«Sì, ci vedremo questa
sera» risponde, sfiorandomi il mento per convincermi ad alzare la
testa e guardarlo negli occhi. «Passa una buona giornata» aggiunge
prima di baciarmi.
«Vedrò di impegnarmi. Ora
vai, altrimenti tuo fratello mi ucciderà» lo incito, fingendo di
spingerlo via.
«Sì, capo» risponde,
infilandosi il cappotto. «A stasera, allora.»
«A stasera. Aspetta»
aggiungo subito dopo. Si ferma con la mano sul pomello e mi guarda,
domandandomi con lo sguardo il perché di quell'improvviso alt. «Non
ti sei asciugato i capelli, ti prenderai un malanno» spiego,
avvicinandomi a lui. Gli drappeggio una sciarpa attorno al collo e
gli calco sulla testa ancora umida uno dei suoi berretti preferiti.
«Sta nevicando» aggiungo, come se questo dovesse spiegare tutto.
«Che farei senza di te?»
«Moriresti di polmonite,
probabilmente. Però arriveresti puntuale alle prove. Su, ora vai.»
Se ne va senza aggiungere altro, lanciandomi un'ultima, dolcissima
occhiata mentre chiude la porta. Se fossi in punto di morte e potessi
scegliere un'ultima cosa da guardare mentre la vita mi abbandona,
vorrei i suoi occhi a farmi compagnia – forse è la più grande
stronzata romantica che la mente umana abbia mai partorito, ma non mi
importa. È davvero l'ultima cosa che vorrei vedere.
«Eccoti, finalmente!» mi
accoglie Jared, spalancando le braccia come per accogliere il figliol
prodigo.
«Sono le otto e
venticinque, sono in perfetto orario» rispondo. «C'erano ancora un
sacco di cose che avrei potuto fare in cinque minuti.»
«E quella?» domanda Tomo,
indicando la sciarpa. «Altre punture di zanzara?»
«No, è solo che non
voglio beccarmi una polmonite. Nevica, sai?»
Tomo scoppia a ridere,
divertito da chissà cosa. «Finalmente Shannon ha trovato qualcuno
che si preoccupa per lui. Non sei contento, Jared? Così adesso Emma
potrà occuparsi a tempo pieno di te!» ride, tirandogli una ciocca
di capelli per prenderlo in giro.
«Ma non diciamo idiozie,
per favore. Io non ho bisogno di qualcuno che si occupi di me a tempo
pieno. Non sono certo un bambino» protesta mio fratello, sfuggendo
alle sue grinfie e uscendo a passo di marcia nel freddo di questa
mattina. Rimasti soli, Tomo e io ci scambiamo una lunga occhiata
divertita e ci rassegnamo a seguirlo verso l'auto.
Rimasta sola, mi guardo
attorno e mi accingo a dare una sistemata alla stanza. Mi sento
sempre un po' a disagio negli hotel – non che abbia questo grande
bagaglio di esperienze, certo. So che esistono le cameriere, e che
pulire e mettere in ordine è previsto dal loro contratto, ma so che
questo non mi autorizza ad andarmene lasciandomi alle spalle un campo
di battaglia. Infilo gli abiti usati di Shannon nel sacco della
lavanderia, allineo le scarpe accanto alla porta e apro la finestra
per cambiare l'aria, dopodiché faccio una doccia e mi vesto, pronta
per scendere a fare colazione.
Sto affrontando un
delizioso croissant alla ciliegia, quando mi sento apostrofare da una
voce allegra che ormai riconoscerei tra milioni: «Ehi, buongiorno!»
mi saluta Vicki in un italiano decisamente buono. «Anche tu
abbandonata dal tuo uomo nel nome del sacro dio della musica?»
«Pare di sì» rispondo,
dopo essermi strofinata via le briciole dalle labbra. «Fai colazione
con me?»
«Posso?» domanda,
indicando una sedia vuota.
«Tra compagne di sventura
ci si deve aiutare, no? E poi immagino che ai ragazzi farebbe piacere
vederci socializzare, no?»
«Immagino proprio di sì»
risponde. «Però dovrai aiutarmi ad ordinare, perché il francese ed
io abbiamo avuto una brutta discussione, e non siamo mai riusciti a
riappacificarci» aggiunge, sedendosi davanti a me. Cinque minuti più
tardi, davanti ad un altro giro di croissant e ad un buon caffè
americano, Vicki rischia di causare la mia dipartita per
soffocamento. «Sai, mio marito si è preso una cotta per te.»
«Sc-scusa?» chiedo tra un
rantolo e l'altro, sputacchiando briciole di dolce.
«Oh, non nel senso
classico del termine, tranquilla» si corregge. «Però ti adora,
pensa che tu sia una ragazza stupenda.» Alza per un attimo gli occhi
al cielo, riflettendo su quanto ha appena detto. «No, forse nemmeno
così mi sono spiegata bene. Lui pensa che tu sia... una bella
persona, ecco. Ti trova divertente, simpatica... dice che a volte gli
ricordi sua sorella2.»
«Sua... sorella?»
«Sì, Tomo ha una sorella,
Ivana.»
«Sì, lo so. Insomma, l'ho
anche vista in un paio di film, ma... ti spiacerebbe spiegarmi in che
misura gli ricordo sua sorella? Insomma, stiamo... stiamo parlando di
una che fa l'attrice e la modella, no? Che cos'abbiamo in comune?»
«Più di quanto credi. Sì,
lei è un'attrice e una modella, ma lui dice... dice che a volte ti
comporti esattamente come lei, che... che a volte sembri avere dei
momenti di sconforto, come se... come se a volte perdessi la bussola
e non sapessi più quale sia la direzione giusta.»
«Questo vorrebbe dire che
a volte... che a volte Ivana Milicevic si sente insicura?» domando,
senza riuscire a credere alle mie stesse parole.
«Qualcosa del genere, sì»
annuisce lei. «Pare che da ragazzina fosse un tipo molto riservato.
È per questo che ha iniziato a fare la modella. È stato per... non
lo so, per dimostrare a se stessa di essere un tipo forte.»
Sorrido al pensiero che la
donna forte e sicura di sé che ho sempre visto al cinema possa
essere stata una ragazzina timida e sempre timorosa di fare un passo
falso. «È un suggerimento?»
Come avevo previsto, Vicki
coglie la battuta e scoppia a ridere. «No, non ti sto suggerendo di
fare la modella per superare i tuoi eventuali blocchi emotivi. È
solo che... volevo solo farti capire che Tomo ha davvero molta stima
di te. Sai, lui sembra un tipo sempre allegro e accomodante, ma la
verità è che sotto sotto è un terribile snob. Non parlerebbe bene
di te se non fosse più che sicuro del tuo valore.» Sorride ancora,
guardandomi dritta negli occhi. «E sei molto simpatica anche a me.
Certo, io non sono schizzinosa come lui in fatto di amicizie, ma
spero apprezzerai comunque il mio parere.»
«Lo apprezzo molto, te lo
assicuro» rispondo, sostenendo il suo sguardo. «Avere a che fare
con persone nuove è sempre stato molto difficile, per me» aggiungo,
riabbassando la testa. «Ho sempre paura di commettere degli errori,
o di non... di non essere abbastanza. Trovare sostegno è...
liberatorio. È una bellissima sensazione.»
«Bene. Ora che abbiamo
deciso di andarci a genio, che ne dici di fare qualcosa insieme?
Visto il tempo, pensavo di dedicare la giornata ai musei. Se ti piace
l'arte, qui vicino c'è una mostra dedicata a Toulouse-Lautrec.»
Non ho bisogno di
riflettere molto sulla proposta. «Ci sto. Andiamo a vedere come sta
il vecchio Henri.»
*
Torino, 27 novembre 2013
In mancanza di Daria,
Francesca sa che è Alice l'unica persona in grado di capirla –
nonostante non abbia mai avuto una sorella, Alice sa affrontare certi
discorsi mantenendo la giusta prospettiva, e dispensando sempre i
giusti consigli. Per questo, in un mercoledì mattina che minaccia
neve e rende i marciapiedi scivolosi, invece di entrare a scuola
cambia percorso, fermandosi ai piedi della scalinata che conduce a
Palazzo Nuovo, sperando di intercettare la migliore amica di sua
sorella prima che si rechi a lezione. Sta quasi per perdere la
speranza, quando sente chiamare il suo nome: «Francesca, che ci fai
qui? È successo qualcosa?» le domanda, vedendola voltarsi con
l'aria di chi abbia appena scoperto di essere rimasto completamente
solo al mondo. «Franci, hai una faccia che non mi piace per niente»
aggiunge, mettendole una mano sulla spalla.
«Io penso... penso di aver
bisogno di parlare con qualcuno. E siccome Daria non c'è io ho
pensato... ho pensato a te.»
Alice si volta verso le
compagne che sono con lei. «Ragazze, voi andate. Noi ci vediamo più
tardi.» Rimaste sole, guarda a lungo la sorella della sua migliore
amica, riconoscendo in lei la stessa disperazione letta negli occhi
di Daria ai tempi della rottura con Andrea. Ha sempre pensato che
Daria e Francesca fossero due persone completamente diverse, ma solo
adesso si rende conto che sono più simili di quanto chiunque abbia
mai creduto. «Adesso andiamo a prenderci un caffè e mi racconti
tutto. No, meglio una cioccolata calda. Conosco il posto perfetto.»
Davanti ad una tazza
fumante, impegnata a rimestare con il cucchiaino con l'aria di chi
compie un gesto in maniera meccanica, senza averne veramente
l'intenzione, Francesca somiglia davvero a sua sorella, e Alice deve
appellarsi a tutto il proprio autocontrollo per evitare di sorridere.
«Allora, mi racconti cos'è successo? Di qualunque cosa si tratti,
sono certa che non è nulla di irreparabile. È successo qualcosa a
scuola?» La ragazzina scuote la testa, tenendo gli occhi bassi.
«Allora è successo qualcosa a casa? Magari hai discusso con tuo
padre?» Un altro cenno di diniego, e Alice sente di aver terminato
le possibilità. A quell'età esiste anche la possibilità di avere
pene d'amore, ma per qualche motivo sente che non è il caso di
Francesca – soprattutto perché non ha mai parlato di ragazzi che
potrebbero averle spezzato il cuore.
«Beh, ecco, io...
accidenti, è così difficile da dire... ecco, io penso che potrei
essere incinta.»
Alice si blocca con la
tazza a mezz'aria, ringraziando ogni santo conosciuto di non aver
bevuto. Nel silenzio che segue la confessione di Francesca, avverte
chiaramente il rumore di un muro di certezze che si sgretola in mille
pezzi – ma d'altra parte, si sa, anche i geni possono sbagliare.
«Scusa, ma non penso di aver afferrato appieno il concetto»
sussurra, riabbassando la tazza fino a farle incontrare il piattino.
«Ho fatto l'amore con il
mio ragazzo» risponde Francesca, abbassando la voce come se temesse
di essere sentita da qualcuno che conosce. «Abbiamo fatto
attenzione, te lo giuro. Insomma, abbiamo usato... e sono più che
sicura che non si sia rotto, però non mi viene il ciclo. Ormai è in
ritardo di una settimana, e a me non viene mai in ritardo.»
Alice apre la bocca e la
richiude di scatto per un paio di volte, senza sapere bene da dove
cominciare. Questa è un'esperienza nuova anche per lei, che è
sempre stata solo con Federico e ha sempre usato la pillola, senza
mai incontrare contrattempi. «Io... io non... ma da quando hai un
ragazzo?»
«Da febbraio.»
«Ma sono... sono nove
mesi! Daria non me l'aveva...»
«Daria non lo sa. Non lo
sa nessuno. Insomma, nessuno a parte i nostri amici. Non so perché
non l'ho detto a Daria. Forse avrei dovuto. Sicuramente avrei
dovuto. È solo che... non lo so, forse non volevo che partisse con
la solita tiritera sul fare attenzione e cose del genere. Forse avevo
paura che lo dicesse a papà, e che lui mi sgridasse. Il fatto è che
io so cosa fare, so come comportarmi... però adesso
non... non...» Si interrompe, con gli occhi velati di lacrime e il
respiro che si mozza in gola. «Vorrei averlo detto a Daria, perché
lei saprebbe cosa fare. O forse non sarebbe servito a niente, perché
lei adesso non è qui, e...»
«Ehi, ehi, ehi» la
interrompe Alice, mettendo le proprie mani sulle sue, che tremano
accanto alla tazza. «Va bene, Daria non c'è, ma ci sono io. Sai che
puoi contare su di me, no?» Francesca solleva lo sguardo e annuisce,
tirando su col naso. «Adesso ti dico cosa facciamo, va bene? Dunque,
adesso ci beviamo questa buonissima cioccolata e intanto tu mi
racconti un po' del tuo ragazzo. Poi usciamo e ti accompagno a
comprare un test. Vedrai che si risolve tutto.» Fruga nella borsa e
le porge un fazzoletto. «Dai, adesso parlami di questo ragazzo. Chi
è, che cosa fa, come l'hai conosciuto... sono terribilmente
curiosa.»
«Si chiama Stefano, è in
classe con me. Si è trasferito dalla Toscana a gennaio, suo padre ha
trovato lavoro qui a Torino. Ha i capelli castani e gli occhi neri, è
carino. E poi mi piace moltissimo come parla» aggiunge con un
sorriso, smettendo finalmente di singhiozzare.
«Oh, lo credo. Anche a me
piace moltissimo la parlata toscana.»
«Abbiamo iniziato ad
uscire a gennaio, e ci siamo messi insieme alla fine di febbraio. È
molto dolce, mi tratta sempre come se fossi una principessa. Sai, del
tipo che mi apre le porte e mi porta un tè nell'intervallo.»
«L'ultimo gentiluomo»
scherza Alice, contenta di scoprire che esistono ancora ragazzi così
beneducati e gentili, che trattano bene le ragazze senza secondi
fini.
«Il mese scorso abbiamo
deciso di fare l'amore. Abbiamo aspettato tanto perché era... beh,
era la prima volta per tutti e due. Volevamo essere sicuri,
volevamo... essere pronti.»
«Avete fatto bene. Prima
di fare certe cose bisogna pensarci su... mille volte, forse. O forse
mille volte non è ancora abbastanza.»
«Daria ci avrà pensato
mille volte?» scherza Francesca, riferendosi allo storico
finesettimana di fuoco seguito al trasloco.
Contenta di vedere di nuovo
il sorriso sul volto della ragazzina, Alice ride. «Dirai che non è
giusto da parte mia, ma... in quel caso è diverso.»
«Lo so. Insomma, tu stavi
parlando di... beh, di farlo per la prima volta in assoluto.»
«Beh, sì. Anche se forse
non c'è tutta questa differenza. Su, finisci la tua cioccolata, poi
ti accompagno a comprare il test.» Vede Francesca irrigidirsi, le
lunghe dita da artista serrate contro la tazza, e sorride. «Non ti
preoccupare, in farmacia ci vado io. Tu puoi aspettare fuori.» Lo
sguardo dell'altra ragazza contiene più ringraziamenti di quanti ne
potrebbero mai essere espressi a parole.
Venti minuti più tardi,
con la confezione nascosta nella borsa, Alice guarda Francesca,
nervosa come una bambina al primo giorno di scuola. «Adesso ti
accompagno a casa e ti aiuto a farlo, va bene?»
«Non posso farlo a casa.
C'è Emanuele.»
«Ah. No, direi che non è
il caso. Però ci serve un bagno.» Si guarda intorno, accorgendosi
che sono soltanto a cinque minuti dalla libreria di Marco, che è il
posto più vicino in cui trovare riservatezza – e soprattutto un
bagno degno di questo nome. «Vieni, so dove possiamo andare»
decreta, iniziando a camminare.
«Ehi, che ci fate voi due
qui?» le saluta Marco, alzando la testa quando sente il campanello
della porta. «Tu dovresti essere a scuola» aggiunge, indicando
Francesca, «e tu dovresti essere a lezione» conclude, indicando
Alice.
«Sì, hai ragione, però
abbiamo un'emergenza. Un'emergenza femminile» specifica
quest'ultima, facendogli capire che è meglio non fare domande.
«Possiamo usare il tuo bagno?»
«Prego» risponde lui,
alzando le mani come per indicare che non vuole essere coinvolto. «Io
non voglio sapere niente. Basta che non mi fate esplodere il
negozio.»
«Promettiamo» replica
Alice. «Sei solo?» domanda poi, guardandosi attorno.
«Carlotta è malata.»
«Non voglio fare la
stronza, ma sai che ti sta fornendo su un piatto d'argento tutte le
giuste motivazioni per un licenziamento assolutamente giustificato?»
«Non avevate
un'emergenza?» ribatte lui, desideroso di concludere immediatamente
quel discorso.
Concluso il test, Alice e
Francesca hanno lasciato il negozio promettendo a Marco di sdebitarsi
presto per l'ospitalità, e lungo la strada verso casa Giordano hanno
discusso a lungo sul da farsi. «Vedrai che non è niente» assicura
Alice, mettendole un braccio attorno alle spalle. «Hai visto, no? Il
test è negativo.»
«Però potrebbe anche
sbagliarsi. Ormai sono tecnologici quanto uno shuttle, ma si potrebbe
anche sbagliare, no?»
«Guarda, per esperienza ti
dico che preoccuparsi fa aumentare ancora di più il ritardo. Può
capitare che ci sia del ritardo, dopo la prima volta. Insomma, il tuo
corpo ha subito un...»
«...un intervento molto
invasivo?» conclude Francesca. Alice scoppia a ridere: se c'è
qualcosa di cui è certa, è che quella ragazzina ha lo stesso senso
dell'umorismo della sorella.
«Stavo per dire che ha
subito un forte stress, ma anche la tua versione non male. Comunque
può succedere, sai? Insomma, gli ormoni impazziscono, non ci
capiscono più nulla, e... può capitare. Stai tranquilla per un paio
di giorni, cerca di distrarti, e vedrai che andrà tutto a posto. Ti
accompagno su» aggiunge, accorgendosi che sono davanti al portone
del palazzo.
«Ma no, non è il caso,
posso andare su da sola.»
«Meglio se ti accompagno,
così posso reggerti meglio il gioco.»
Sentendo il portone
aprirsi, Emanuele spinge la sedia fino al corridoio. Vedendo entrare
la sorella, sgrana gli occhi. «Perché non sei a scuola, tu?»
«Non si è sentita bene
mentre ci andava, quindi ha chiamato me» risponde Alice, mentre
Francesca assume l'espressione di pura sofferenza che ha provato per
tutto il tempo del ritorno a casa.
«Hai la febbre?»
«No, le è venuto...»
«Non lo voglio sapere!»
esclama il ragazzo, coprendosi le orecchie con le mani. «Fate quello
che volete, ma non mi coinvolgete in queste cose.»
Alice sorride, rendendosi
conto che gli uomini sono tutti uguali, indipendentemente dall'età.
«Tanto io adesso devo andare, ho lezione. Tu vai a stenderti e
riposati, va bene?» aggiunge, rivolgendosi a Francesca. «Ciao, Ema.
Buono studio.»
«Grazie, anche a te.»
Aspetta che Alice sia uscita, tirandosi la porta alle spalle, poi
guarda la sorella, che si sta sfilando il cappotto. «Se hai bisogno
di qualcosa chiamami, va bene?»
«Grazie» gli sorride lei,
entrando in camera. Appoggia il cappotto sulla sedia, si siede sul
letto e guarda il cellulare, ricordando l'ultimo consiglio che le ha
dato Alice. Chiama Daria e raccontale tutto. Lo vorrebbe sapere.
*
Parigi, 27 novembre 2013
Sono
ferma davanti a La toilette3
da almeno dieci minuti,
quando sento il cellulare vibrare nella tasca dei jeans. Sfioro il
braccio di Vicki, ferma con me davanti allo stesso dipinto, e le
indico che sto uscendo per rispondere. Se si fosse trattato di
chiunque altro probabilmente avrei ignorato la chiamata, ma il fatto
che sia Francesca a cercarmi mi ha messa subito in allarme – a
quest'ora dovrebbe essere a scuola, e la mia mente da mamma chioccia
ha già pensato a scenari che sarebbe riduttivo definire
apocalittici. «Franci,
che succede? Non stai bene? Perché non sei a scuola?»
«Sto
benissimo, non ti preoccupare, è solo che... beh, ho bisogno di
raccontarti una cosa. Forse è meglio se ti siedi, però.»
«Che
succede?» ripeto, stringendo il cellulare come se ne andasse della
mia vita.
«Per
favore, siediti e ascolta. Non mi interrompere, perché se lo fai non
so se... beh, non so se riuscirò a riprendere il filo.» Obbediente
come non sono mai stata, mi siedo su uno scalino, incurante del
freddo, della neve e del ghiaccio, e mi accingo ad ascoltare il
racconto di mia sorella – che, inutile dirlo, mi sconvolge.
Ascolto in silenzio, senza mai interromperla, anche perché non
saprei bene quali parole usare – cosa si può dire ad una sorella
che ti sta confessando di averti tenuto nascosto l'avvenimento più
importante della sua vita e che ti informa di aver trovato conforto
presso la tua migliore amica?
Intendiamoci, sono felicissima che abbia avuto la prontezza di
spirito di cercare Alice, che in certi frangenti sa mantenere la
calma molto meglio di me, ma non riesco a credere di essermi persa un
simile momento. Avrei dovuto essere io
a raccogliere la sua confidenza, avrei dovuto essere io
a dissipare le sue preoccupazioni, avrei dovuto essere io
ad aiutarla a sciogliere ogni dubbio, avrei dovuto essere io
a raccontare bugie per lei! Mentre lei si scusa per l'ennesima volta
per avermi tenuta nascosta la verità, io penso che dovrei essere io
a chiedere scusa a lei per non esserci stata nel momento del bisogno,
in quell'istante in cui una sorella maggiore è l'unica presenza che
si vuole accanto, l'unica figura realmente utile. Me ne resto seduta
su un gradino imbiancato di neve, con i fiocchi che mi coprono la
testa e mi bagnano i capelli, e mi rendo conto di aver perso un
momento che non tornerà mai più.
«Non
tenermi mai più all'oscuro di niente, capito?» sussurro quando
smette di parlare, così piano che nemmeno sono sicura di essere
sentita.
«Lo
prometto. In realtà ho pensato tante volte di dirti tutto, ma... non
ci riuscivo. Non sapevo bene che parole usare. Insomma, cosa si deve
dire in certi casi?»
«Sinceramente,
non ne ho idea. E sinceramente, spero di non doverlo mai scoprire.»
Ride, e io con lei. Sono felice che il momento di crisi sia superato,
e sono felice di sapere che tutte e due abbiamo qualcuno su cui
contare quando si presenta un problema – ma d'altra parte, sono
anni che faccio affidamento su Alice per risolvere le mie crisi...
perché avrebbe dovuto essere diverso con mia sorella? «Comunque
quando torno lo voglio conoscere, questo tipo. Niente di formale, o
di ufficiale... solo, voglio vedere che faccia ha. Va bene?»
«Va
bene. Adesso mi vado a stendere un po'. A Emanuele ho raccontato che
ho le mie cose e mi devo riposare. Scusami ancora per non averti
detto niente.»
«Scusami
tu per non essere stata lì quando avevi bisogno di me.»
«Oh,
ma avevi un'ottima scusa. Insomma, se dovessi scegliere tra fare da
balia a te e correre da un uomo meraviglioso che mi ha invitata a
trascorrere una romantica settimana con lui in una delle più belle
città del mondo, credo che partirei di corsa.»
«Oh,
ma grazie per il pensiero!» Continuiamo a scherzare per un po', e
quando alla fine ci salutiamo e mettiamo giù mi rendo conto di non
avere la forza di alzarmi. Nonostante l'ilarità e le risate, mi
sento terribilmente in colpa per la mia assenza, e non riesco a fare
altro che starmene seduta al freddo a fissare il vuoto.
Mi
riscuoto soltanto quando sento qualcosa sfiorarmi la testa. Alzo lo
sguardo e scopro che Vicki, probabilmente preoccupata per non avermi
vista tornare, è uscita a cercarmi e mi ha messo sulla testa il suo
cappello. «Ehi, tutto bene?» mi domanda, comprendendo che qualcosa
mi sta logorando dentro. «Hai la faccia di una che ha appena
ricevuto una notizia tremenda» aggiunge, sedendosi accanto a me sul
gradino umido.
«Mi
sento tremenda» rispondo,
infilandomi il cellulare in tasca. «Era mia sorella.»
«Sta
bene? Le è successo qualcosa?»
«No,
per fortuna sta bene. Ma è una storia terribilmente lunga.»
«A
me piacciono un sacco le storie terribilmente lunghe, soprattutto se
finiscono bene. E da quanto ho capito, questa è una di quelle.
Sempre se ti va di parlarne, è chiaro. Ma se vuoi farlo, andiamo
dentro e ci prendiamo un caffè. Sono seduta qui da trenta secondi e
ho già le chiappe congelate.»
«Accidenti»
è l'unico commento che Vicki si lascia sfuggire una volta che ho
finito di esporre i fatti e le mie preoccupazioni. «Capisco quanto
si deve essere spaventata. Una volta è successo anche a me. Parliamo
di secoli fa, prima di
conoscere Tomo. Avevo diciotto anni, era la mia prima relazione
importante. Ma poi per fortuna si risolse tutto. Il ragazzo che stavo
vedendo non era esattamente un tipo con l'istinto paterno» aggiunge
con una risatina. «Per fortuna poi ho incontrato Tomo. Comunque non
ti devi colpevolizzare per non essere stata accanto a lei in questo
momento. Non potevi certo prevedere che avrebbe avuto bisogno di te
proprio mentre non c'eri.»
«Questo
lo so, però... accidenti, non mi sono accorta che ha un ragazzo!
Nove mesi che ha una storia, e io non me ne sono accorta. Com'è
potuto succedere?»
«Beh,
succede e basta.
D'altra parte non sei sua madre. Di solito sono le madri che notano
queste cose, no? Beh, non sempre. Insomma, mia madre non si è
accorta che ero fidanzata con Tomo finché non l'ho portato a casa
per presentarlo ufficialmente, quindi... devi accettare il fatto che
tua sorella ha la sua vita, e tu la tua. Potete condividere tante
cose, ma di certo non potete essere costantemente presenti l'una
nell'esistenza dell'altra. Se non fosse stato questo, sarebbe stato
qualcos'altro. Insomma, non sei il Grande Fratello. Non puoi tenere
tutto sotto controllo.»
«Come
riesci a farlo?»
«Cosa?»
«A...
beh, mi sono appena resa conto che hai assolutamente ragione. Come
hai fatto a capire subito tutta la situazione?»
«Il
mio segreto è una relazione duratura con un uomo che ha per amico e
collega un maniaco del controllo» risponde, facendomi capire subito
che si sta riferendo a Jared e alla sua innegabile propensione al
dramma se un qualunque dettaglio non segue il piano prestabilito.
«Lui li fa quasi impazzire con le sue manie, e io passo il resto del
tempo a psicanalizzare mio marito.»
«Dovresti
aprire uno studio. Faresti soldi a palate.»
«Probabile.
A proposito, visto che stiamo parlando di cose intime...
pensi che potrei rivelarti un segreto?»
«Beh,
io ti ho appena rubato mezz'ora di vita raccontandoti i miei guai,
quindi direi di sì. Ma sei sicura di volere me
come confidente? Praticamente non ci conosciamo.»
«Ormai
mi conosci molto meglio di tanta gente che è nella mia vita da
sempre. E poi devo dirlo a qualcuno, altrimenti impazzisco.» Prende
fiato e mi guarda dritta negli occhi, come se stesse per rivelarmi il
terzo segreto di Fatima. «Ho un ritardo.» Lo spara fuori così,
senza giri di parole, senza preamboli, con la stessa naturalezza che
userebbe se mi stesse dicendo che fuori nevica.
«Hai
un... cosa?»
«Ho
un ritardo. Non mi succede praticamente mai, e so che potrebbe essere
causato da milioni di cose, ma... io me lo sento. Sono incinta.»
Spalanco la bocca, senza sapere cosa dire – è la prima volta che
mi trovo di fronte ad una notizia del genere. «Insomma, non ho
ancora fatto nessun test e non ho visto alcun dottore, ma sono quasi
sicura di esserlo. Non lo so, io... io me lo sento, ecco. A Tomo non
ho ancora detto niente.» Continuo a non dire niente, mentre il mio
cervello tenta di elaborare una qualsiasi risposta dotata di senso.
«So che ti sembro pazza in questo momento, ma...»
«No,
no, figurati, non penso affatto che tu sia pazza» la interrompo.
«Solo, mi sconvolge che tu abbia deciso di confidare un simile
sospetto a me invece
che a tuo marito. Insomma, di solito questo tipo di notizie si...
confina all'interno
della coppia, no?»
«Sì,
ma... sai, siccome non ne ho ancora la certezza scientifica non
voglio dirlo a Tomo. Ci tiene così tanto che... ho paura che
soffrirebbe come un cane, se fosse soltanto un falso allarme. Sono
quasi certa che non lo sia, però non voglio causargli una sincope
prima del tempo. Non sembra, ma è un tipo molto emotivo.»
«Certo,
certo, ma... accidenti, sono felice che tu abbia scelto me per
confidarti.»
«Sei
una brava persona e mi fido di te. Mi raccomando, non lo dire a
nessuno.»
«Prometto,
sarò muta come una tomba.» Rifletto per un istante sulla
situazione, poi riprendo: «Ah, comunque congratulazioni. Insomma,
se... se dovesse rivelarsi tutto vero. So che Tomo ci tiene tanto.»
«Grazie.
Sì, ci tiene molto, e ha ragione. Siamo pronti, tutto qui. È sempre
stato un desiderio di entrambi, ed è il momento giusto. In qualunque
altro periodo sarebbe andato bene, ma... è questo il momento.»
«Sono
davvero felice per voi. È importante essere insieme in questi casi.
Sono cose che si affrontano meglio, quando c'è armonia.» Taccio per
un attimo, pensando a quante volte ho sognato di avere quello che
hanno Tomo e Vicki: una relazione stabile, un amore incondizionato e
profondo, un legame quasi impossibile da spezzare. «Sai, io... io ho
sognato spesso di avere una relazione così. Sarà per quello che è
successo ai miei, non lo so... solo che mi sono sempre vista sposata,
con un sacco di bambini intorno... mi è sempre sembrato un sogno
semplice da realizzare. Solo che...»
«Solo
che hai paura di non riuscire a trovare la persona adatta per
realizzarlo?» Alzo la testa di scatto, di nuovo sorpresa dalla sua
straordinaria capacità di capirmi anche quando non esprimo per
intero i miei pensieri. «Scusa, non volevo essere invadente.
Probabilmente non mi sarei dovuta permettere, ma... che nutri dei
dubbi è evidente. Ma sarebbe strano se tu non li avessi. Ti vedi con
uno che una reputazione di... scusa, forse dovrei tacere.»
«No,
non ti preoccupare. Anzi, forse sentire un altro parere mi fa solo
bene. Credo che potrei impazzire, se continuassi a dare ascolto
soltanto alla mia testa. Il mio cervello è un casino senza
speranza.»
«Sei
solo confusa, è normale. Moltissime persone sarebbero confuse, se
fossero al tuo posto. Ti è letteralmente caduta addosso
una situazione nuova e difficile da affrontare, è assolutamente
normale avere dei dubbi. L'unica cosa che devi fare è... cercare di
essere sempre onesta con te stessa. E con Shannon, naturalmente.
Essere onesti è la prima regola da seguire. Non soltanto nelle
relazioni, ma... nella vita. Non fare del male, e non ti verrà fatto
del male. Almeno, io la vedo così.»
*
Torino, 27 novembre 2013
Sono quasi le sette di
sera, e dopo aver convinto il padre che non è in punto di morte, e
che per stare meglio le servirà soltanto un altro giorno di riposo,
Francesca sente il bisogno di correre in bagno. A stento si trattiene
dal gridare di gioia, felice che il consiglio di Alice di restare
calma abbia recato con sé una così felice conclusione. Tornata in
camera, la prima cosa che fa è scrivere sia a lei sia a Daria, per
informarle che la tempesta è passata.
*
Parigi, 27 novembre 2013
Il
messaggio di Francesca mi arriva mentre sto attraversando la hall per
raggiungere l'esterno, dove probabilmente Sébastien mi sta già
aspettando. Sorrido, rispondendole di essere felice per lei e
informandola del mio nervosismo, nemmeno dovessi essere io ad
esibirmi. Il fatto è che sono totalmente all'oscuro di quello che
succederà, e come sempre l'idea di non avere un piano mi spaventa a
morte. Come prevedevo, Sébastien è già in piedi accanto all'auto,
e appena mi vede uscire apre lo sportello, salutandomi con la stessa
cortesia di ieri sera. «Buonasera. Grazie» ricambio, accomodandomi
in attesa di partire. Vedendomi evidentemente nervosa, Sébastien
continua a guardare nello specchietto retrovisore, forse aspettandosi
di vedermi saltare giù dall'auto in corsa alla prima occasione.
Controllo per l'ennesima volta di avere con me il pass per il
backstage, e lo vedo sorridere. «Credo di essere un po' nervosa.
Nemmeno toccasse a me condurre lo spettacolo.»
«Immagino
sia normale. Non sono situazioni che si vivono tutti i giorni, no?»
«No,
per niente» confermo.
«Penserà
che non sono affari miei, ma... io credo che stia dimostrando una
grande maturità. Solo gli sciocchi non si preoccupano di fronte
all'ignoto.»
«Beh,
ma la mia non è preoccupazione... è puro e semplice terrore.»
Ride,
fermandosi ad un semaforo rosso. «Volevo essere delicato.» Allo
scattare del verde riparte, e dopo qualche secondo sento di nuovo la
sua voce. «Non vedo ragazze come lei da moltissimo tempo. Pensavo
che la categoria fosse estinta.»
«Ragazze
come me?»
«Sì,
ragazze come lei. Insomma, così... pure.
Lei è un'innocente... in senso buono, naturalmente. Lei è una di
quelle ragazze che accettano tutto quello che succede come... come un
dono. Non cerca spiegazioni, non cerca di capire... si preoccupa,
questo sì, si chiede dove la porterà quello che le sta capitando,
però... però lo accetta. È una qualità rara, accettare che non
possiamo controllare la vita.»
Mi
volto per un istante verso il finestrino, chiedendomi come sia
possibile che tutte le persone che incontro anche solo per qualche
minuto riescano a leggere così facilmente nella mia anima. «Come fa
a dire tutto questo? In fondo non mi conosce. Non la prenda come una
critica, è solo... è solo che non riesco a capire come... come ci
riesca.»
«Si
incontrano tante persone, facendo questo lavoro. Non sempre si
interagisce, però nulla mi vieta di guardare nello specchietto
retrovisore e... tentare di capire. Mi perdoni, mio padre era uno
psicologo. Immagino sia insito nel mio DNA.»
«Credo
che lei abbia colto nel segno, Sébastien. Sono esattamente il tipo
di ragazza che ha descritto.»
«Lo
dice come se fosse una condanna.»
«Ah,
non ci badi» lo rassicuro. «Credo di essere soltanto nervosa.»
Chino lo sguardo sulla tracolla, e controllo ancora una volta di non
aver scordato il pass.
Chiuso
nel mio camerino, sono in piedi di fronte al muro con gli occhi
chiusi, impegnato a picchiettare le bacchette sulla parete4,
cercando di mettere insieme la concentrazione necessaria per
affrontare la serata. È incredibile come la certezza che Daria mi
vedrà in azione abbia minato la mia proverbiale sicurezza: da
quindici anni sono abituato a suonare in posti immensi, davanti a
decine di migliaia di persone che da me non si aspettano meno del
massimo, e improvvisamente il pensiero di una sola, minuta ragazza mi
fa diventare le ginocchia di gelatina. Ma d'altra parte la cosa non
dovrebbe stupirmi tanto: è questo l'effetto che mi fa ogni suo
sorriso, ogni sua occhiata, ogni sua carezza... mi sento sempre
fragile quando sono davanti a lei – è come se lei riuscisse a
vedere la parte peggiore di me, quella più nascosta, più celata,
più intima, ed è come se le stesse bene. Sento che ama ogni parte
di me, e questo mi fa sentire strano, come se non ci fossi abituato –
ma andiamo, chi è davvero abituato a sentirsi così amato dopo una
vita passata a credere di non meritare qualcosa di tanto
straordinario?
Qualcuno
bussa alla porta, e senza nemmeno riflettere rispondo «Avanti». È
Jared, che entra con il passo furtivo di un ladro. «E tu che ci fai
qui?» gli domando, stupito di trovarlo qui. Di solito prima di un
concerto si raccoglie in una totale e completa solitudine, e non si
può nemmeno pensare
di parlargli senza rischiare la propria incolumità.
«Oh,
volevo solo vedere se sei pronto» risponde con sufficienza.
«Sì,
io sono pronto. Insomma, stavo sfruttando gli ultimi minuti per...
raccogliere le idee.» Non ho il coraggio di dirgli che in realtà i
miei pensieri erano più confusi che mai, e che stavo disperatamente
cercando un modo per fare tabula rasa e affrontare la serata con
serenità.
«Non
vedrai Daria, prima che inizi lo spettacolo?»
«No,
vederla mi... mi distrarrebbe troppo, credo. O forse no, non lo so. È
la prima volta che mi si presenta un simile dilemma.»
«Posso
immaginare quanti dubbi hai.»
«Che
ne è stato del tuo ritiro pre-concerto? Di solito sparisci nel tuo
camerino e non ti fai vedere fino a cinque secondi prima che inizi.»
«Sì,
beh, io... prima di andare in scena ti volevo chiedere scusa per
stamattina. Per come... beh, per la sveglia un po' brutale.»
«Dai,
non importa. Comunque non mi hai svegliato. Eravamo già svegli.»
«No,
aspetta, anche lei era sveglia? Quindi ha sentito tutto? Avrà
pensato che sono uno stronzo senza speranza.»
«No,
niente affatto. Io ho
pensato che sei uno stronzo senza speranza. Lei si è fatta una
risata.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Oh,
beh, allora... beh, comunque ti volevo solo chiedere scusa per
stamattina. E ora che l'ho fatto, vado a indossare il costume da
eremita. Ci vediamo dopo.»
«A dopo.» Sparisce in
corridoio con la stessa aria furtiva con cui è entrato, ma non mi
concedo il tempo di chiedermi che cosa ci sia sotto la sua apparente
servilità – perché quando mio fratello si fa avanti in questo
modo, chiedendo perdono per uno qualsiasi dei suoi innumerevoli,
bizzarri comportamenti, persino la mente più innocente e pura del
mondo sospetterebbe un tranello. Chiudo di nuovo gli occhi, libero la
mente e torno a concentrarmi sulla parete davanti a me, sperimentando
diversi ritmi.
Appena
scendo dall'auto, Emma mi viene incontro con un sorriso – e la cosa
mi spaventa da morire, perché credo di non averla mai vista
sorridere. «Ciao, Daria» mi saluta, e mi è inevitabile domandarmi
come faccia a sapere chi sono. «Shannon mi ha mostrato una tua foto»
spiega, intuendo il mio dubbio. «Devo ammettere che dal vivo sei
molto più carina» aggiunge, e a questo punto ho davvero paura –
non avevo mai sentito dire che fosse in grado di fare dei
complimenti. «Comunque io sono Emma» conclude, porgendomi una mano
in segno di saluto.
«Sì,
ti conosco. Cioè, voglio dire, io... io so chi sei.»
«Vieni
con me, ti accompagno.» Entriamo nella struttura, e dalla maestria
con cui mi guida attraverso il dedalo di corridoi intuisco che deve
averli percorsi già centinaia di volte. «Il concerto inizia tra
mezz'ora. Purtroppo non potrai vedere Shannon prima dello spettacolo.
Ordini suoi» aggiunge. «Hanno tutti i loro riti, sai com'è.»
«Posso
immaginare.»
«Il
più divertente è Jared. Si chiude in camerino per due ore senza
uscire, e guai a bussare. Non uscirebbe nemmeno se l'intero edificio
fosse avvolto dalle fiamme.»
Sorrido,
rendendomi conto che non mi sarei attesa di meno da lui. «E Shannon
che fa, invece?»
«Oh,
lui tiene il ritmo con le bacchette. Picchietta all'infinito contro
la parete del camerino.»
«E
dall'altra parte non si lamentano?»
«Dall'altra
parte di solito c'è Tomo, ma lui dorme. Dormirebbe anche durante un
tornado. A volte lo invidio, ha una capacità incredibile di dormire
anche nei posti più scomodi. Hai il tuo pass, vero?» In risposta,
mi faccio scivolare il cordoncino intorno al collo. «Perfetto.
Probabilmente nessuno ti chiederà nulla, quasi tutti gli addetti
della sicurezza che avrai occasione di incontrare ti hanno vista con
me, ma meglio non rischiare che ti sbattano fuori a calci nel sedere»
sorride, indicando con un gesto della mano un gruppetto di grandi e
grossi omaccioni che abbiamo appena superato. «Ci siamo quasi»
aggiunge, svoltando nell'ennesimo corridoio. «Ecco, quello è il
palco.» Continua a camminare, mentre io mi arresto all'improvviso,
rendendomi conto che sono a due passi dalla postazione di Shannon.
Accortasi di avermi persa, Emma si volta e mi sorride ancora una
volta. «Toglie il fiato, eh?»
«Toglie
il fiato sì» sospiro, sentendomi come una ragazza di campagna
arrivata per la prima volta nella grande città.
«Il
tuo posto è qui» spiega, indicando una porzione di pavimento
piuttosto estesa. «Ottima visuale dello spettacolo, ma completamente
nascosta al pubblico.» Solo in questo momento mi rendo conto che gli
spalti sono già gremiti di persone, per non parlare del parterre,
che a giudicare dalle voci dev'essere al completo. «Il pubblico è
già tutto presente, come puoi sentire.» Oltre la paratia che mi
separa dal parterre, sento gruppi di persone intonare cori di canzoni
che anch'io conosco benissimo.
«Chi
apre il concerto?» mi informo, curiosa di sapere chi scalderà
l'atmosfera.
«Gli
You Me At Six, come a
Milano. Si è rivelata un'ottima scelta, secondo il pubblico, quindi
perché cambiare? Io adesso devo andare, ho ancora parecchie cose da
fare. Puoi andare un po' in giro, se ti va, ma l'importante è che
torni qui per quando inizierà il concerto. Non voglio sembrare la
stronza di turno, ma ci sarà un sacco di gente indaffarata, e serve
campo libero.»
«Figurati,
capisco perfettamente» la rassicuro. So che un concerto si svolge,
prima che sul palcoscenico, dietro le quinte, e il mio ultimo
desiderio è essere di disturbo. «Considerando il mio scarso senso
dell'orientamento, sarà meglio che resti qui.»
«Come
vuoi. A proposito, ti lascio il mio numero» aggiunge, porgendomi un
biglietto da visita, «nel caso ti dovesse servire qualcosa. Non sono
fredda e stronza come mi dipinge la gente.»
«Ascolto
di rado quello che dice la gente. Grazie. Davvero, grazie mille.»
«A
più tardi.» Scompare alla vista, lasciandomi sola a riflettere su
quanto sia speciale il
fatto di essere qui, dietro le quinte di un grande spettacolo. È
un'occasione che capita di rado alle persone comuni come me, e so di
doverne approfittare, perché non so quando mi ricapiterà qualcosa
del genere. La prima cosa che faccio è fotografare il palco,
cercando di coglierne ogni dettaglio, e la seconda è inviare la foto
ad Alice e Francesca, sperando che siano sole e che possano ridere
liberamente del commento che ho allegato. Ci si sente
minuscoli, eh? è la risposta di
Alice, che immagino piegata in due dall'ilarità. «Non sai quanto»
sospiro, mentre la folla intorno a me inizia ad intonare Bright
lights. Improvvisamente mi
chiedo quale sarà la scaletta del concerto: per qualche strana
ragione, in Francia il gruppo tende sempre ad eseguire i brani più
vecchi, come se questo tipo di pubblico preferisse la vecchia scuola.
Personalmente, non mi ritrovo molto nelle canzoni del primo album,
forse perché li ho conosciuti attraverso From yesterday
e ho iniziato ad apprezzarli tramite A beautiful lie,
non lo so. O forse è perché le canzoni più recenti mi hanno
aiutato a superare molti momenti complicati, e mi ci sento
intimamente più legata.
Improvvisamente,
due mani mi coprono gli occhi, e per la sorpresa quasi faccio cadere
il cellulare. Una voce mi sussurra all'orecchio «Indovina chi sono»
ma non ho bisogno di altri indizi per arrivare alla soluzione del
caso: esiste soltanto una persona in tutto il mondo capace di farmi
tremare anche senza sfiorarmi.
Mi
volto e mi getto tra le braccia di Shannon come se non lo vedessi da
anni, baciandolo con decisione. «Ma che ci fai qui?» gli domando
subito dopo, staccando la mia bocca dalla sua.
«Sai,
sembra che tra poco più di un'ora terremo un concerto» mi prende in
giro, con il solito sorriso sornione dipinto sul volto.
«Scemo»
ribatto, sorridendo a mia volta. «Cosa ci fai qui con me, intendevo.
Emma ha detto che non volevi vedermi prima dello spettacolo.»
«Sai
come sono fatte le celebrità, no? Sono viziate, capricciose e
cambiano idea con la stessa frequenza con cui si cambiano le
mutande.» Mi guarda a lungo senza dire una parola, poi le sue mani
salgono ad accarezzarmi i capelli. «Credevo che per concentrarmi
meglio fosse necessario evitarti... solo che per tutto il tempo non
ho fatto altro che pensare a te, quindi tanto valeva rischiare e
incontrarti sul serio.»
«Davvero
hai pensato a me per tutto il tempo?»
«Ogni
maledetto secondo» sussurra, appoggiando la fronte contro la mia e
chiudendo gli occhi. «Darei tutto quello che ho per sapere che cosa
mi hai fatto.»
«Se
è per questo, siamo in due» sorrido.
«Abbiamo
poco più di mezz'ora» dice, allontanandosi un po', e il primo
pensiero è che stia per chiedermi di chiuderci nel suo camerino per
dedicarci a quello che sembra essere il nostro passatempo preferito. «Ti andrebbe un rapido
giro turistico del backstage?»
«Possiamo
davvero?»
«Naturale
che possiamo. E anche se non fosse permesso, ti sembro uno che
rispetta le regole? Su, andiamo» mi incita, prendendomi per mano.
Complice
del poco tempo che ci resta da passare insieme, non ho l'opportunità
di spiegare per bene a Daria la funzione di ogni cosa o i doveri di
ogni persona che incontriamo, con il risultato che la sto portando in
giro come se fosse un pacco postale, ma non sembra che la cosa la
disturbi: la vedo osservare tutto con sguardo avido, cercando di
imprimersi nella mente ogni dettaglio, immagazzinando tutto come si
fa con ogni nuova esperienza. «Vieni, c'è una cosa che devi
assolutamente vedere prima che inizi il concerto» dico
all'improvviso, accelerando il passo. «Ecco il pezzo forte della
collezione» aggiungo, raggiungendo con lei la mia batteria, già
montata su una pedana che al momento opportuno verrà fatta entrare
in scena.
«Ma
questa è...»
«Daria,
ti presento Christine. Christine, ti presento Daria. Scusala se non
ti risponde, è di poche parole» scherzo, accarezzando un piatto.
«Ti va di sederti?» aggiungo, indicando il seggiolino.
«Stai
scherzando?» Lo guardo come se mi avesse appena proposto di fare un
giro sulla luna, o qualcosa del genere. «Questo è il tuo posto, non
mi ci posso sedere.»
«E
dai, non cercare difficoltà anche dove non ci sono.» Si siede,
allargando le gambe per lasciarmi un po' di posto. «Forza, siediti
qui» sussurra, strattonando appena la mano che ancora mi stringe.
Obbedisco, e per un istante mi torna in mente una delle più celebri
scene della storia del cinema – sapevo che guardare Ghost5
ogni natale si sarebbe
rivelata una pessima idea, sulla lunga distanza. Si sporge in avanti,
appoggiando il torace alla mia schiena, e nello stendere avanti le
braccia per prendere le bacchette fa in modo di accarezzare le mie
con la punta delle dita.
«Di'
un po', lo fai spesso?»
Sposta
la testa di lato, in modo da riuscire a parlarmi e contemporaneamente
vedere il mio profilo. «Cosa?» sussurra.
«Invitare
la gente a sedersi sul tuo seggiolino.»
«Scherzi?
Non lo faccio mai. Questo seggiolino è sacro. All'ultimo che ha
provato a posarci le chiappe ho quasi spezzato le braccia» sorride.
«Ma tu hai il mio permesso, quindi non ti devi preoccupare. Ecco,
prendi» aggiunge, porgendomi le bacchette.
«Che
ci dovrei fare, scusa?»
«Prenderle
in mano, naturalmente. Ho provato ad usarle per mangiare cinese, ma
sono difficili da manovrare.» Scoppio a ridere, voltandomi verso di
lui per riuscire a vederlo. Il suo sguardo è così diretto e sincero
che quasi mi spaventa, perché riesco a leggervi tutte le sue
certezze, che sono molte di più e immensamente più forti delle mie.
Vorrei avere l'esperienza che ha lui, vorrei essere forte come lo è
lui, ma più lo guardo più mi convinco che tra noi è una lotta
impari, e che nemmeno in un milione di anni riuscirei a diventare la
donna forte e priva di incertezze che merita di avere accanto.
«Nemmeno Jared si è mai seduto qui. Non in mia presenza, almeno. È
una delle poche condizioni che pongo: nessuno tocchi Christine.»
Abbasso gli occhi, come ricordandomi all'improvviso a chi è dedicato
questo strumento – porta il nome di una donna importante, di una
figura con la quale probabilmente non potrò mai competere. «Non
sono bravo con le parole» continua, appoggiando il mento sulla mia
spalla. «Non sono bravo con le parole, ho sempre paura di... dire
qualcosa di sbagliato, di non riuscire ad esprimere veramente
quello che intendo dire. E a voler essere sincero, non sopporto le
persone che usano troppe
parole. Dopo tanti anni mi sono reso conto che Christine era una di
quelle persone. Io sono uno che preferisce i fatti. Agire è il solo
modo in cui so comunicare. Per questo ti ho portata qui. Farti sedere
qui è un grande passo per me, per come... per come sono fatto.»
Tengo lo sguardo fisso in avanti, mentre lui continua la sua
confessione: «Farti sedere qui significa... significa che ti sto
dando la chiave di tutto quello che è mio6.
Ti sto concedendo più spazio di quanto abbia mai fatto con qualunque
altra persona, e se la cosa ti spaventa, spero ti consoli il fatto
che spaventa da morire anche me.» Mi volto verso di lui, e senza un
fiato lo bacio, sperando di riuscire a trasmettergli comunque
l'emozione che il suo discorso ha provocato in me. Nessuno si è mai
aperto così tanto con me, e anche se la cosa mi lusinga, non sono
certa che mi piaccia.
Mentre
ci separiamo, sento che la folla ha smesso di inneggiare ai Mars e
sta applaudendo, chiaro segno che la band di apertura sta facendo il
suo ingresso sul palcoscenico. «Credo di dover tornare al mio posto,
adesso. E penso che tu debba andare a finire di prepararti.»
Si
volta, ascoltando come me il nuovo rumore prodotto dal pubblico. «Sì,
penso anch'io. Ti accompagno.»
Torno nel mio angolo
stringendogli forte la mano, aspettando con ansia il momento in cui
lo vedrò di nuovo salire in scena, pronto a mettere tutto stesso
nella cosa che gli riesce meglio, e che in un certo senso definisce
il suo io. Ci separiamo con un lieve bacio sulle labbra, e mentre si
allontana, voltandosi per controllare che non fugga, cerco di
sfoderare il mio sorriso più sereno.
*
Parigi, 27 novembre 2013
In piedi dietro la porta
del camerino, con la fronte appoggiata al pannello di legno e le mani
premute sulle orecchie, Jared tenta di riportare alla mente le esatte
parole del piccolo discorso che ha preparato, sperando di non
dimenticarle nel momento cruciale. In fondo è sempre questa la sua
preoccupazione, anche quando accetta di partecipare ad un film e
arriva il momento di girare le sue scene. Il sacro terrore di
scordare le battute lo perseguita ogni volta, come potrebbe non
sconfinare anche nella musica? Ripete quelle parole fino
all'infinito, fino a che sembrano quasi perdere di significato, e
quando finalmente si sente pronto, è ora di andare in scena.
*
Parigi, 27 novembre 2013
Appena
gli You Me At Six
terminano le loro canzoni, i tecnici si mettono al lavoro per
smontare i loro strumenti e sistemare i nostri. Quando finalmente
Christine viene spedita sul palcoscenico e le tastiere di Tomo
vengono collegate agli amplificatori, capisco che il momento è
giunto. So che dalla mia postazione riuscirò facilmente a tenere
d'occhio sia il pubblico sia Daria, anche se già so che non avrò il
tempo di guardarla costantemente. Le luci si abbasssano, il pubblico
si unisce in unico grido di gioia, e io esco a prendermi il mio
posto. Parte la base di Birth,
il pezzo che apre ogni data di questo tour, e dal lato opposto del
palco vedo apparire Tomo, la chitarra già pronta tra le braccia, e
lo vedo rispondere con un cenno della mano al saluto del pubblico.
Mentre mi sistemo sul seggiolino mi volto verso Daria, trovandola
rivolta verso di me. Le strizzo l'occhio, strappandole un sorriso, e
subito dopo mi accingo a fare quello che mi riesce meglio.
L'entusiasmo
del pubblico esplode in tutto il suo fragore quando Jared fa il suo
ingresso – non per una preferenza nei suoi confronti, ormai l'ho
capito, ma per la pura e semplice emozione di vederci tutti insieme,
e dunque di capire che lo spettacolo è davvero pronto per iniziare.
Come da scaletta, dopo Birth
tocca a Night of the hunter, Conquistador e
Buddha for Mary,
mentre l'entusiasmo e la partecipazione del gruppo crescono, facendo
crescere anche la nostra energia. All'ultimo 'What's the
difference?' trovo un secondo
per voltarmi in direzione di Daria, chiedendomi quali siano le
differenze che vede tra di noi – perché anche se non ne ha mai
parlato apertamente, so che ci crede profondamente diversi,
incompatibili, e questo un po' mi ferisce, perché io sto facendo di
tutto per tentare di renderle la vita più facile, e considerando che
non ho mai fatto nulla di simile, mi riesce dannatamente difficile.
Ancora
non si sono spenti gli applausi per Buddha for Mary,
e subito iniziamo con Search
& Destroy,
una delle mie preferite. In questo testo mi ritrovo perfettamente,
quasi fosse stato scritto apposta per me: ho vissuto nel peccato, ho
costruito la mia vita sugli errori, creandomi una maschera da uomo
duro che non ha paura di nulla. Ho sempre affrontato tutto come se
indossassi un'armatura, lanciandomi contro gli ostacoli a testa
bassa, senza paura di ferirmi o finire con il cuore spezzato. È solo
comportandomi così che sono riuscito a cedere alla mia attrazione
per Daria, concedendole di infilarsi sotto la mia pelle e arrivare
così in profondità da riuscire a toccarmi l'anima. La verità è
che io e lei siamo uguali, nonostante le apparenze: entrambi siamo
stati imbrogliati dalla vita, ed entrambi siamo finiti a pezzi,
frantumati sotto il peso delle nostre tragedie. Siamo uguali, e
vorrei tanto che anche lei riuscisse a vederlo.
Finita
Search &
Destroy,
è il turno di Do
or die,
probabilmente quella che dà più carica ad ogni pubblico. Jared
prende la bandiera e inizia a sventolarsela attorno come uno
sbandieratore professionista, strappandomi come al solito un sorriso
– non so perché, ma mi diverte da morire vederlo ripetere quel
gesto ad ogni concerto, e nello stesso tempo mi domando come sia
possibile che non si sia ancora provocato una tendinite. Quanto a me,
me ne sto seduto a fare il mio lavoro, eseguendo i miei doveri alla
perfezione: sono concentrato e mi sto comportando bene, tuttavia non
sono tranquillo – il pensiero di mio fratello che esce dal suo
esilio e viene a cercarmi prima del concerto continua a
perseguitarmi, nonostante sia più che certo che non può aver
architettato nulla di veramente pazzo o idiota.
Ci
dedichiamo a The
kill,
che nonostante le preoccupazioni di Jared riesce benissimo, e una
volta finito il pezzo sia io che Tomo lasciamo il palco, lasciandolo
solo per la sessione acustica. Al sicuro dietro le quinte, la prima
cosa che faccio è attaccarmi ad una gigantesca bottiglia d'acqua,
mentre Emma mi lancia sulla spalla un asciugamano. «Bravi, ragazzi,
state andando molto bene.»
«Grazie»
rispondo dopo aver bevuto almeno un litro d'acqua. Prendo
l'asciugamano e mi tampono viso e capelli, madidi di sudore, poi mi
volto a guardarla. «Che te ne pare?»
«Se
te l'ho appena detto... state andando benissimo! Cos'è, inizi a
diventare paranoico come tuo fratello?»
«Che
te ne pare di Daria, intendevo.»
«Ah,
parlavi di lei. Beh, devo ammettere che mi piace. Avevi ragione, è
una ragazza molto semplice. Nessuna... aria di superiorità, nessuna
smania di apparire. Essere qui le sembra il più bel regalo del
mondo. Devo ammettere che hai scelto molto bene.»
«Non
l'ho scelta. Ho soltanto avuto molta fortuna.»
«Ah,
allora le vostre fan hanno ragione quando dicono che hai un gran
culo...» mi prende in giro, mentre sul palco Jared esegue i suoi
pezzi, interagendo con il pubblico in un modo che nessuno sarebbe in
grado di replicare, nemmeno prendendo lezioni direttamente da lui. Ci
vuole un talento innato per certe cose, e lui ha avuto la fortuna di
nascerci, così. «Ci è proprio nato, eh? Per il palcoscenico, dico.»
«Tutti
siamo programmati per fare qualcosa. Lui è nato per fare lo showman,
e tu sei nato per suonare la batteria.»
«E
tu per cosa sei nata?» le domando, guardandola sfilarsi gli occhiali
per pulirli.
«Io?
Io sono nata per impazzire dietro alle richieste di tuo fratello e
per fare da cicerone alle tue ragazze, no?» Sorride, rimettendosi
gli occhiali. «Non perdere la concentrazione, mi raccomando. Ti
ucciderebbe, se dovessi sbagliare un attacco.»
Sul
finire di Stay,
l'ultimo pezzo del suo grande momento da solista, Tomo e io ci
riportiamo sul palco, scambiandoci un'occhiata divertita per alcuni
dei comportamenti di mio fratello, che a volte dimostra di essere un
vero mattatore – o un perfetto idiota, ancora non ho deciso.
Riprendo posto dietro Christine, e ancora cerco lo sguardo di Daria,
che alza un pollice per indicare il suo gradimento dello spettacolo e
poi mi manda un bacio. L'eco dell'ultima canzone si spegne, e
improvvisamente Jared fa una cosa che non ha mai fatto prima d'ora:
chiede al pubblico di fare silenzio.
«C'è
una cosa che vorrei dire, prima di continuare con lo spettacolo»
dice, sorprendendo tutti, me e Tomo compresi. «So che siete qui per
la musica, non per sentirmi blaterare all'infinito, ma... è una cosa
veramente importante per me, e spero che possa esserlo anche per voi.
In fondo, essere Echelon significa far parte di una famiglia, e tutti
sappiamo quanto sia importante in una famiglia partecipare alle vite
degli altri.» Un applauso collettivo si mangia le ultime due parole,
chiaro segno che il pubblico apprezza quello che ha appena sentito, e
che desidera sentirlo continuare. «Nell'ultimo mese sono successe
alcune cose nella nostra vita, cose molto importanti e molto belle.
Anche se non sembra, noi siamo esattamente come voi: abbiamo delle
famiglie, abbiamo degli amici, prendiamo decisioni e siamo coinvolti
da quello che ci succede attorno. Quello che mi è successo è che...
beh, quello che mi è successo di recente è che una persona nuova è
entrata nella mia vita.» Nel sentire quella frase, mi raggelo
all'istante, perché non riesco a capire di che cosa stia parlando.
«O meglio, una persona nuova è entrata nella vita di qualcuno che
mi è molto vicino, di qualcuno per cui darei la vita.» Mi volto
brevemente verso Daria, che sta guardando Jared, e subito dopo guardo
di nuovo verso di lui, intuendo quello che ha intenzione di
comunicare. «Si tratta di una persona molto speciale, una persona
che in un certo senso mi ha fatto arrivare alla conclusione che noi
siamo esattamente come voi, e che come voi abbiamo bisogno
principalmente di saperci amati.»
D'istinto torno a guardare verso Daria, che si è coperta la bocca
con una mano e ha tutta l'aria di una che sta per scoppiare in
lacrime. «Si tratta di una persona che come voi ha una vita normale,
un lavoro normale,
degli amici normali,
ma che come ognuno di voi è diversa,
e speciale.
Io vorrei... ecco, vorrei semplicemente dedicare la prossima canzone
a questa persona, che come voi sta soltanto cercando l'amore.» Lo
sto ancora fissando con la bocca spalancata quando si volta e mi
strizza l'occhio, facendoci un cenno per invitarci ad iniziare con
Bright lights.
Quello che ha appena detto suona come una vera e propria benedizione
nei confronti di me e Daria, e allo stesso tempo come un
ringraziamento per essere entrata nella mia vita, sconvolgendoci
entrambi. Non mi volto a guardarla, perché so che non riuscirei a
concentrarmi allo stesso modo. Inizio a suonare, battendo sui tamburi
con un'energia nuova: sapere che mio fratello ha appena gridato al
mondo che è contento di vedermi felice e appagato mi gonfia il cuore
di gioia e di una tenerezza mai provata prima, e la sola cosa che
vorrei fare è lasciar cadere le bacchette, correre ad abbracciarlo e
stringerlo fino a togliergli il fiato.
È
fatta, ora tutto il mondo lo sa – perché anche se non ha fatto
nomi, gli Echelon non ci metteranno molto a fare due più due. Lo
sanno tutti che Shannon è la persona più importante per Jared,
esclusa sua madre, e dunque quanto tempo potrà volerci prima che
tutti inizino a chiedersi chi sia la ragazza che ha rubato il cuore
del loro batterista preferito? Probabilmente dovrei sentirmi
sconvolta e spaventata, e in effetti è anche
così che mi sento, ma... non lo so, in un certo senso è come se
fossi grata a Jared per la sua dichiarazione, per aver detto a tutto
il mondo che è felice di saperci insieme, anche se nessuno di noi ha
la minima idea di quello che succederà. Non riesco a staccare gli
occhi da Shannon, che sta suonando come se da questa canzone
dipendesse il suo destino, e quando Jared canta l'ennesimo 'She
dreams of love'
capisco che qui potrei avere tutto quello che ho sempre sognato.
*
Parigi, 27 novembre 2013
Esaurite
le canzoni, esauriti i saluti al pubblico, termina la lunga serata
iniziata già quel mattino. Jared scende dal palco e raccoglie i
complimenti di tutti quelli che incontra, colpiti dalla sua capacità
di intrattenitore e cantante, e anche sorpresi da quel suo discorso
così sentito e profondo. Si sente toccare una spalla, alza lo
sguardo e trova suo fratello, che lo guarda in un modo che non riesce
a decifrare. «Sei arrabbiato?» gli domanda.
«No»
sussurra Shannon, scuotendo la testa. «Sono sorpreso, e sconvolto, e
stupito, e un milione di altre cose, ma... arrabbiato no. Mi hai
appena dato il permesso di essere felice, come posso essere
arrabbiato?» aggiunge con un sorriso.
«Scusa
la teatralità, ma... avevo bisogno di dirlo davanti a tutti, per
convincermene sul serio.»
«Sono
contento che tu lo abbia fatto.»
Jared
sta per rispondere, ma una sequenza di «Permesso» e «Scusate» li
distrae entrambi. A dribblare i tecnici è Daria, che una volta
incontrati i fratelli si blocca, come pietrificata. «Io... io...»
tentenna, senza sapere bene cosa dire né a chi dei due rivolgere lo
sguardo. Alla fine, completamente persa e confusa, fa la cosa che le
sembra più logica: abbraccia Jared con tutta la forza che ha in
corpo, mormorando un «Grazie» quasi impalpabile.
Completamente
colto alla sprovvista, l'uomo si limita a darle un paio di pacche
sulla schiena e a ringraziarla di rimando, convinto che se osasse
restituire l'abbraccio Shannon potrebbe amputargli entrambe le
braccia, e forse qualche altra appendice. Quando lei lo lascia
andare, le sorride e la sospinge con dolcezza verso suo fratello.
«Andate a festeggiare. Ce lo meritiamo, siamo stati bravissimi.»
Rimasti
soli, Shannon e Daria si scambiano una lunga occhiata, cercando le
parole giuste, salvo poi capire che in certi momenti le parole sono
completamente inutili. Si lasciano andare ad un lungo bacio
appassionato, incuranti di tutto quello che li circonda. «Andiamo.
Prendo le mie cose e torniamo in albergo.»
«Avete
finito davvero? Te ne puoi andare così?»
«Naturale
che posso. Tu ed io abbiamo una questione in sospeso, ricordi?»
1Sei
l'ultima grande innocente, ed è per questo che ti amo. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un
verso della canzone Mary
Jane
di Alanis
Morissette,
contenuta nell'album Jagged
Little Pill,
pubblicato nel 1995, e ancora considerato, a distanza di vent'anni,
il miglior lavoro dell'artista.
2Sua
sorella
| La sorella maggiore di Tomo, Ivana
Milicevic
(Sarajevo, 26/04/1974) è una modella e attrice che ha partecipato a
molte produzioni cinematografiche e televisive (Top
model per caso,
Love actually,
Se solo fosse
vero, Casino Royale,
In her shoes,
Ugly Betty);
naturalmente non la conosco personalmente, dunque non so nulla della
sua personalità: tutto ciò che viene descritto è dunque da
considerarsi una mia pura invenzione.
3La
toilette | La
toilette è
un dipinto di Henri de Toulouse-Lautrec, realizzato nel 1869 in una
stanza di una delle case d'appuntamenti che il pittore amava
frequentare. Si tratta di un olio su cartone, dimensioni 67 x 54
centimetri, conservato al Museo d'Orsay assieme a molte altre opere
dell'artista.
4Chiuso
nel mio camerino […] sulla parete
| Non conoscendo Shannon, non so quale sia il metodo che usa per
trovare la concentrazione prima di un concerto, dunque ho optato per
la soluzione che ci viene mostrata nel video di From
Yesterday,
che tra l'altro considero uno dei video più belli mai realizzati per
una canzone dei Mars. Anallogamente, non so nemmeno in quale modo si
preparino Jared e Tomo, dunque anche nel loro caso ho spudoratamente
inventato.
5Ghost
|
Il
film cui faccio riferimento è Ghost
– Fantasma
(1990,
diretto da Jerry
Zucker
e interpretato da Patrick
Swayze,
Demi
Moore
e Whoopi
Goldberg).
È considerato uno dei film romantici più famosi del mondo, alla
stregua di Titanic
e Dirty
Dancing,
dunque penso che ne abbiate sentito parlare, se non addirittura che
lo abbiate visto. In questo caso, certamente sapete a quale scena mi
riferisco (ma nel dubbio, vi lascio il link).
Personalmente, ritengo che si tratti di una delle scene più sensuali
che abbia mai visto in un lungometraggio (ma probabilmente dipende
dalla inestinguibile cotta che ho sempre avuto per Patrick Swayze –
Dio, che uomo stupendo era...).
6Significa
che ti sto dando la chiave di tutto quello che è mio.
| Per quanto mi piacerebbe da morire attribuirmi la paternità di
questa frase, devo confessare che non è mia. Si tratta di una
battuta pronunciata da Sam
'Asso' Rothstein
(interpretato da Robert
DeNiro)
nel film Casinò
(1995, diretto da Martin Scorsese, e interpretato, oltre che da
DeNiro, anche da Joe
Pesci
e Sharon
Stone).
|
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Capitolo 21 *** 21 | E ipotizzo di non averti mai conosciuto, ipotizzo che non ci siamo mai innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così dolcemente e teneramente. ***
Portagioie di tristezza | 1
Ad una
delle mie migliori amiche piace definirmi 'crudele', e dice che sarei
un ottimo serial killer – questo perché, secondo lei, sono
bravissima ad uccidere senza alcuna pietà le aspettative e i sogni
della gente. Se questo si rivelasse vero, allora potrei avere un
futuro come giudice nei talent show. In realtà, io credo che la mia
carriera di serial killer avrebbe breve futuro, perché appena
compiuto l'atto me ne pento, e sento l'irresistibile desiderio di
confessare. Perdonate la digressione, ma sento che mi è necessaria
per arrivare al nocciolo della questione: il punto è che quando ho
scritto l'introduzione al precedente capitolo, sapevo già che questo
capitolo, il ventunesimo, sarebbe stato l'ultimo. So che con questa
confessione probabilmente mi starò alienando le simpatie e il favore
di mezzo mondo, ma era qualcosa che non potevo più tenere nascosto.
Tengo
moltissimo a ringraziare le persone che hanno recensito fino a questo
punto, le persone che, in modi o tempi diversi, sono state accanto a
Shannon e Daria in questo percorso, e soprattutto le persone che sono
rimaste al mio fianco in questo viaggio. Un sincero grazie a
tutti coloro che hanno classificato la storia come 'preferita' o 'da
ricordare', e un grazie anche a tutti coloro che hanno seguito in
silenzio, senza dare pareri o giudizi, perché in fondo già il fatto
che abbiate letto le mie parole è per me un traguardo.
Spero
che questo capitolo vi soddisfi, e più di tutto spero di poter
contare sul vostro sostegno anche in ogni progetto futuro – perché
sì, di progetti ne ho a bizzeffe. Non vi libererete tanto presto di
me.
Con
infinita gratitudine,
EffieSamadhi
Portagioie di tristezza
Capitolo ventunesimo
E ipotizzo di non
averti mai conosciuto,
ipotizzo che non ci
siamo mai innamorati,
ipotizzo di non averti
mai permesso
di baciarmi così
dolcemente e teneramente.1
Parigi, 27 novembre 2013
Per tutto
il viaggio di ritorno verso l'albergo nessuno dei due dice una
parola. Il braccio di Shannon mi cinge teneramente le spalle, la mia
testa riposa sul suo petto, e il silenzio è così perfetto che non
ci serve altro. Respiro a fondo il suo odore, che è lo stesso della
sera che ci siamo incontrati: sento il sudore, sì, ma riesco a
sentire anche tutto il resto – l'aroma del caffè che tracanna come
fosse acqua, lo zenzero contenuto nel suo shampoo, e
contemporaneamente riesco a sentire anche gli odori che
caratterizzano me,
l'aroma del mio shampoo,
una traccia del profumo che ho messo prima di uscire. È come se
condividere questi ultimi due giorni ci avesse unito, facendoci
diventare una sola persona, e mi chiedo se sia una cosa che succede
ad ogni coppia, o se siamo noi gli unici fortunati. Mi tornano in
mente i primi versi di She's the one
di Robbie Williams: I was her, she was me,
we were one, we were free. Sarebbe tutto
così semplice, se potessimo mantenere le cose in questo stato – se
potessimo restare per sempre sospesi in questa settimana, per sempre
sospesi in questo attimo di eterno che sembra così... perfetto.
L'auto si
ferma davanti all'hotel e scendiamo, ringraziando Sébastien per la
cortesia; mentre richiudo lo sportello colgo il suo sorriso e lo
ricambio, comprendendo che mi sta augurando tutta la fortuna del
mondo – perché lo so,
so che in qualche modo ha intuito i miei dubbi, e so che con quel
breve sorriso mi sta dicendo di non preoccuparmi, perché tutto si
sistemerà. Ma forse è proprio questo il mio problema: io non so
stare tranquilla in un angolo ad aspettare che il destino sistemi
ogni cosa, forse perché niente nella mia vita si è mai aggiustato
da sé – andiamo, lo sanno tutti che niente
si aggiusta mai da sé.
Ritiriamo
la chiave e saliamo in ascensore sempre senza dire una parola, e
senza mutare le nostre posizioni. È solo quando arriviamo in camera,
come è già successo, che la situazione si scioglie – è come se
entrambi ci sentissimo completamente al sicuro soltanto quando siamo
completamente soli, certi che quell'istante sia solo nostro, sicuri
che quel momento appartenga soltanto a noi. Shannon chiude la porta e
in un attimo è davanti
a me, sopra di
me, intorno a
me – me ne sto premuta tra il suo torace e la porta, e per la prima
volta nella vita la sensazione di sentirmi in trappola non solo mi
piace, ma mi sembra anche l'unica
possibilità di salvezza. Le sue labbra cercano le mie con foga,
proprio come se stessero tentando di divorarmi, e le sue mani non
perdono tempo: cercano i bottoni del cappotto alla cieca, trovandoli
senza difficoltà, e prima di rendermene conto la giacca cade a
terra, seguita dalla sua sciarpa e dal suo berretto. Improvvisamente
mi sento come se non avessi freni, come se non fossi mai stata una
timida ragazzina che sogna l'amore e lo cerca nei posti sbagliati –
in questo momento mi sento una donna adulta, mi sento cresciuta come
non lo sono mai stata, come se in quest'ultimo mese avessi percorso
tutte le strade che una donna deve percorrere prima di essere
ritenuta tale2.
All'improvviso,
Shannon si ferma. Le sue mani sono ancora sui miei fianchi, la sua
bocca è ancora a pochi millimetri dalla mia, ma nessuno dei due si
muove né dice una parola. Apro gli occhi e trovo il suo sguardo
fisso sul mio volto, esattamente come la prima volta che siamo stati
insieme – solo che questa volta non sono io ad avere paura, ma lui.
Glielo leggo chiaramente negli occhi: è come se improvvisamente
fossi io quella forte, e lui il ragazzino confuso. «Va
tutto bene?»
sussurro, accarezzandogli il viso. Sono le prime parole che diciamo
dopo un lunghissimo silenzio, forse il più lungo che ci siamo mai
concessi.
«Va
tutto bene» risponde, accennando un sorriso. «Stavo solo... stavo
solo immagazzinando i ricordi. Sai, per quando... per quando sarò
solo. Voglio ricordarmi tutto. Voglio ricordarmi tutto»
ripete, ricominciando a baciarmi. Le nostre mani ricominciano le loro
esplorazioni, superando confini e barriere che ormai conosciamo a
memoria: mentre gli sbottono la camicia, mi rendo conto di conoscere
il suo corpo quasi meglio di quanto conosca il mio – e poi le sue
dita si infilano sotto il mio maglioncino, e ogni pensiero si perde
nel calore del suo palmo premuto contro il mio seno, proprio
all'altezza del cuore. Lo aiuto a spogliarmi, e per un altro
lunghissimo istante rimaniamo immobili a fissarci. Quando riprendiamo
a toccarci, lo facciamo di nuovo senza un fiato, limitandoci a godere
delle sensazioni di cui riusciamo a farci dono. Quasi senza che me ne
accorga, mi solleva tra le braccia e mi porta sul letto, senza
smettere di sovrastarmi. Lo aiuto a togliersi la camicia, poi lo
attiro ancora su di me. Con le mani cerco il suo collo, e di lì
faccio risalire le dita tra i suoi capelli, approfittando di quel
gesto per sfiorare la triad
che ha disegnata dietro l'orecchio. A quel contatto sospira
profondamente, facendomi intuire la sua piena soddisfazione; le sue
labbra lasciano le mie per scendere di nuovo sul mio seno, e a quel
punto approfitto della posizione delle mie mani per trattenerlo il
più a lungo possibile contro di me. Scende ancora, torturandomi
lentamente, e con pochi, misurati gesti mi sfila i jeans, con la
stessa naturalezza con cui si siede su quel suo seggiolino e inizia a
percuotere i tamburi. Risale il mio corpo in una lenta carezza,
soltanto sfiorandomi
– mi sfiora con la punta delle dita, mi sfiora con il naso, mi
sfiora con le labbra socchiuse e con il suo respiro caldo –, come
se mi stesse soltanto assaggiando,
come si fa con un piatto mai provato prima. Mi piace questo suo
indugiare su di me, quasi stesse raccogliendo il coraggio necessario
per toccarmi davvero.
Finalmente la sua bocca si
posa sul mio ombelico, baciandolo languidamente. Le sue mani mi
convincono ad inarcare la schiena, permettendogli di sfilarmi il
reggiseno. Approfitto della sua guardia abbassata per spingerlo via,
capovolgere le posizioni e mettermi a cavalcioni su di lui. Con le
mani indugio per un po' nei dintorni della sua cintura, come se fossi
indecisa sul da farsi. Mi mordicchio il labbro, giocando a fare
l'insicura, mentre in realtà so perfettamente quali saranno le mie
prossime mosse. Abbasso lenta la zip, lasciando che le mie dita
scivolino in avanti quasi con timidezza; quando finalmente stringo la
sua erezione, per reazione Shannon serra le mani sui miei glutei,
spingendomi verso di lui. «Se la tua missione è quella di farmi
impazzire, sappi che ci stai riuscendo benissimo» sussurra, senza
staccare gli occhi dai miei.
«Volevi dei bei ricordi,
no?» rispondo, scivolando piano lungo le sue gambe. Senza dire altro
mi abbasso su di lui, lasciando che le mie labbra si impegnino in
tutt'altro tipo di conversazione. La sua testa si rovescia
all'indietro, il respiro si fa più accelerato e pesante, e quando la
sua mano mi afferra i capelli, assecondando i miei movimenti, capisco
che è qualcosa di cui si ricorderà.
Sembrano passare secoli,
prima che ritrovi la forza di farle alzare la testa. «Vieni qui»
sussurro, mettendomi a sedere mentre la attiro verso di me. La bacio
a lungo, tenendole il viso tra le mani come per impedirle di fuggire.
Appena la sento abbassare le difese e allacciarmi le braccia al collo
ho di nuovo la meglio su di lei, e torno a prendermi la posizione di
comando che tanto mi si addice. Percorro di nuovo il suo corpo in
un'unica, lentissima carezza, dal collo fino al ventre, mentre le sue
unghie giocano a seguire il profilo dei muscoli della mia schiena e
delle spalle. Quando inizio a concederle tutte le attenzioni che
merita, improvvisamente il silenzio pare spezzarsi: questa volta, a
differenza di tutte le altre, non tenta nemmeno per un secondo di
zittirsi, di reprimere i gemiti, di mantenere un respiro regolare...
è come se questa volta fosse finalmente pronta per lasciarsi andare.
I nostri sguardi si incrociano per un attimo, e sento che tutto
quello di cui ho bisogno per essere felice è qui, in questa stanza.
Mi sollevo appena,
facendomi scivolare via dalle gambe i jeans e la biancheria, poi
torno a stendermi su di lei, vincendola con il mio peso. Restiamo
immobili a sfiorarci per qualche minuto, poi sento la sua mano farsi
strada verso il mio inguine. Comprendendo quale richiesta si celi
dietro quel gesto, mi scosto appena. «Aspetta» le sussurro, «devo
andare a...»
«Mi fido di te» mi
interrompe, senza alzare il tono della voce oltre il fruscio del
vento. «Io mi fido di te» ripete, calcando il tono. La
guardo negli occhi e capisco dove vuole arrivare: sta dicendo che si
fida di me completamente – sa che da quando l'ho conosciuta
sono diventato monogamo, sa di essere l'unica persona della mia vita,
e soprattutto sa che non la metterò nei guai. Ma soprattutto, sa che
anche io mi fido di lei: con qualunque altra ragazza prenderei
precauzioni, a prescindere dal suo grado di fiducia in me, ma con
lei... con lei mi sento al sicuro. So che lei non mi tradirà, so che
lei non mi ferirà, so che lei non mi trascinerà mai a fondo.
*
Parigi, 27 novembre 2013
«E
tu che ci fai ancora qui?»
Seduto
al centro del proprio camerino, con la chitarra in grembo e una
matita stretta tra i denti, Jared alza gli occhi su Emma. «Che cosa
ci fai tu ancora qui,
piuttosto. Pensavo di averti dato il resto della serata libero.»
«Sì,
ma lo sai che da quando lavoro per te sono diventata paranoica. Alle
due di notte sono passata alla reception per controllare che ci foste
tutti, e la tua chiave era ancora lì appesa. Mi sono preoccupata,
sai?» aggiunge, prendendo una sedia pieghevole e aprendola proprio
davanti a lui. «Che stai facendo?»
«Provavo
una cosa. Una cosa nuova» specifica, e a quella parola Emma spalanca
gli occhi, quasi incredula: mai una volta nella vita Jared ha fatto
accenno ad una nuova canzone prima che fosse completa. «Vuoi
sentirla?» Quella domanda spiazza Emma ancora di più, perché se
già è strano sentirlo parlare
di una nuova canzone, sentirsi proporre di sentirla in
anteprima è ancora più
bizzarro.
«Chi
sei tu, e che cosa ne hai fatto di Jared Leto?»
«Lo
so, non è da me.»
«No,
per niente.»
«Penso...
credo di doverla far sentire a qualcuno, oppure rischio di
esplodere.»
«Avete
ancora davanti un sacco di mesi di tour. Meglio evitare la dipartita
del frontman, che dici?»
«Quindi
la vuoi sentire?»
«Tu
che dici?»
«Non
è ancora completa, quindi non fare caso a...»
«Jared,
suona» lo interrompe lei. «Se vuoi suonare, suona e basta.»
Stranamente ubbidiente, Jared posa la matita e imbraccia meglio la
chitarra, scaldandosi con un paio di accordi. Un'ultima occhiata alla
ragazza che gli sta di fronte, poi inizia a suonare. Seduta davanti a
lui con le braccia conserte, Emma si rende conto sin dal primo
istante che quello che sta ascoltando in anteprima è probabilmente
uno dei pezzi più belli che abbia mai sentito, e che lanciato come
singolo scalerebbe le classifiche nel tempo di uno starnuto. Ignora
le imprecisioni e le incertezze, ascolta e basta, senza dire nulla,
senza lasciar trapelare alcuna emozione, e l'unica cosa che le passa
per la testa è che Jared non ha mai scritto una canzone per
una ragazza. Eppure, si rende
conto continuando ad ascoltare, nonostante sia un pezzo dedicato ad
una persona in particolare, non è una canzone d'amore: è una
celebrazione, un canto di ringraziamento, probabilmente il solo modo
che gli sia venuto in mente per ringraziare il cielo, Dio o chissà
chi altro per aver messo Daria sulla strada di Shannon – che poi,
come in milioni di altri casi, coincide con la sua.
*
Parigi, 27 novembre 2013
«Penserai che sia un
cliché dei più abusati, ma... è stato meraviglioso»
sussurro prima di premere le labbra contro il suo sterno. «Non so
quali altre parole usare, mi dispiace.»
«Non ti devi dispiacere»
sussurra a sua volta, prendendomi il volto tra le mani per
costringermi a guardarla. «Anche per me è stato meraviglioso.»
Solleva appena la testa dal cuscino e mi bacia, trattenendo le labbra
contro le mie per qualche secondo. «Così... è questo che fai dopo
ogni concerto, di solito?» mi prende in giro.
«Non è mai... così.
Non è mai stato così. Tanto per cominciare, raramente sono
nella mia stanza.»
«Di solito ti apparti nel
tuo camerino?» insiste, continuando a sorridere.
«Di solito andiamo da
lei.»
«Oh... sei un amante a
domicilio, quindi?»
Scoppio a ridere,
accarezzandole i capelli. «Così è più semplice» spiego.
«Insomma, così quando sei stanco te ne vai. Non c'è... l'imbarazzo
di dover cacciare via la ragazza.» Dai capelli scendo al viso,
seguendo con un dito il profilo della guancia. «Ma immagino sia un
problema che non mi riguarda più.»
«Parla per te. D'ora in
poi ogni volta che non saremo insieme penserò che sei a casa di
qualche ragazza sconosciuta a spassartela.»
«Non potrei mai, lo sai»
replico, veramente convinto di quello che sto dicendo.
«Sì, lo so» risponde,
tenendo la voce bassa e gli occhi fissi nei miei. «E comunque potrei
sempre domandare ad Emma di tenerti d'occhio. Ha l'aria di essere un
bel mastino.»
«Oh, lo è. Ma non avrai
bisogno di farmi seguire da nessuno. Non farò che pensare a te.»
*
Parigi, 27 novembre 2013
«Jared,
io... io non so che dire. È semplicemente... è stupenda, ecco.
Vorrei trovare parole meno banali, ma... non ci riesco.»
«Beh,
non è finita. Quindi non puoi dare un giudizio vero.»
«Sfido
chiunque a dire che non sia bella, anche non finita. Tu... tu l'hai
scritta per lei, vero?»
Jared
gonfia le guance come un bambino indeciso, pensando alla risposta più
opportuna. «Sì, ma... non è solo per lei. È anche per lui.
Insomma, per... per celebrare
il loro incontro. So che probabilmente sembra una cosa idiota e senza
senso, ma... quello che stanno vivendo è importante. Nessuno dei due
ha mai vissuto un'esperienza così,
e... e io mi sento fiero di farne parte, in qualche modo.»
«Non
sembra una cosa idiota e senza senso, Jay.» L'ombra di un sorriso
gli increspa le labbra, perché Emma non l'ha mai chiamato Jay,
ma sempre e solo Jared,
oppure smisurato rompicoglioni –
e l'improvviso uso di quel nomignolo affettuoso, quello che di solito
usano soltanto Shannon e Constance, gli fa capire che è riuscito a
dire quello che aveva paura di non riuscire a comunicare. «Quello
che hai fatto è... è una cosa molto bella. Sono sicura che Shannon
lo apprezzerà, quando lo scoprirà. E così farà Daria.»
«Non
glielo dire, per favore. Insomma, vorrei... vorrei restasse un
segreto, per adesso. Voglio dirglielo, ma soltanto quando sarà
finita.»
«Ho
le labbra cucite» gli sorride lei. «Va bene, adesso me ne torno in
albergo a dormire. E dovresti andarci anche tu. Domani alle tre hai
quell'intervista per Vogue France.
Non voglio che debbano usare un chilo di correttore per eliminare le
occhiaie.»
«Va
bene, mamma. Finisco di sistemare due cose e me ne vado.»
«Ho
il taxi fuori. Ti aspetto?»
«No,
vai tranquilla. Non farò tardi, lo giuro.»
*
Parigi, 27 novembre 2013
Facciamo
l'amore ancora due volte, nutrendoci l'uno dell'altra come un albero
si nutre della luce del sole. Come sempre, ogni volta ci comportiamo
come se fosse la prima e insieme anche l'ultima, assaporando ogni
carezza e ogni bacio come se ogni minimo contatto dovesse bastarci
per l'eternità. Alla fine, troppo stanchi persino per parlare, ci
stendiamo uno accanto all'altra, in assoluto silenzio. Davanti ai
miei occhi vedo l'isola bianca della sua schiena, liscia e perfetta
come nessuna delle cose che abbiano mai attraversato la mia vita. Con
la punta dell'indice percorro i quattro simboli che porta tatuati
sulla schiena, che mai come in questo momento mi sembrano un atto di
fede, una promessa d'amore non soltanto nei confronti della band e
della nostra musica, ma anche nei miei.
Ripeto quel gesto non so quante volte, finché non sento il suo
respiro mutare e farsi regolare, sommesso, segno che sta dormendo –
e anche dopo quel momento continuo a ripeterlo, finché non sono i
miei occhi a chiudersi.
*
Parigi, 28 novembre 2013
Senza
nemmeno aprire gli occhi, allungo un braccio verso l'altra metà del
letto – ma quando per ben due volte le mie dita stringono il vuoto,
le palpebre si sollevano con uno scatto. Impiego qualche secondo per
abituarmi alla luce del sole già alto, mentre mi metto a sedere con
una rapidità che non avevo mai sperimentato prima d'ora. La parte
razionale del mio cervello, già eccezionalmente attiva, mi induce a
pensare che Daria sia in bagno, oppure che sia scesa a fare
colazione, ma l'altra parte di me – quella istintiva e passionale,
quella a cui di solito do ascolto, quella che in genere non mi delude
mai – pensa subito al peggio. Balzo in piedi e mi infilo i jeans,
ignorando la biancheria, e mentre li allaccio mi guardo intorno,
scoprendo con orrore che ogni traccia di lei è scomparsa dalla
camera – come se in questi ultimi due giorni queste pareti avessero
protetto soltanto me.
Improvvisamente il cuore accelera i battiti, il respiro sembra
mancare, e tutto ciò che riesco a fare è aprire l'armadio, frugare
tra i cassetti, controllare il bagno... ma niente, di lei non è
rimasto nulla – niente vestiti nell'armadio, niente spazzolino
accanto al lavandino, niente scarpe allineate dietro la porta. Tutto
ciò che resta è una traccia del suo profumo nell'aria, così
flebile che ad ogni respiro temo di distruggerla. È allora che noto,
appoggiato sul mio comodino, il mio libro – quello che le ho
consegnato al termine di quel magico pomeriggio a Torino, quello che
ero sicuro avrebbe custodito per sempre con la massima cura. Mentre
lo prendo la mano mi trema, trema come non è successo nemmeno la
prima volta che ho suonato davanti ad un pubblico immenso, e trema
anche quando lo apro un po' prima della metà, nel punto in cui sono
incastrati due fogli piegati. Guardo la pagina e vedo una
sottolineatura a matita, così leggera da sembrare quasi invisibile.
«Le lacrime del mondo sono immutabili»
leggo con un filo di voce. «Non appena qualcuno si mette a
piangere un altro, chi sa dove, smette.3»
Muovo qualche passo per la stanza, indeciso sulla direzione da
prendere, e alla fine mi lascio scivolare a terra, la schiena
appoggiata contro il letto disfatto, mentre spiego i due fogli fitti
di parole e mi preparo a leggere l'addio di Daria.
*
Torino, 28 novembre 2013
Quando
il cellulare squilla e sul display compare il numero di Daria, il
primo pensiero di Alice è che l'amica voglia parlare di quanto è
successo il giorno prima con Francesca. Per questo non è
assolutamente preparata alla domanda che si sente rivolgere. «Sono a
Grenoble. Tra quattro ore dovrei arrivare a Torino. Mi verresti a
prendere in stazione?»
*
Parigi, 28 novembre 2013
Shannon
e Daria non si sono visti né a colazione né a pranzo, e per quanto
l'istinto gli suggerisca che stiano sfruttando il tempo a loro
disposizione nel modo loro più conveniente, Jared non resiste
all'impulso di andare a bussare per verificare che sia tutto a posto.
Bussa una volta e non riceve risposta. Aspetta trenta secondi e bussa
di nuovo. Quando dall'interno sente un flebile «Chi è?» si
identifica, aspettandosi di essere mandato al diavolo. Invece,
incredibilmente, sente dire: «Entra».
Jared
apre la porta con un po' di timore, pur sapendo che non avrebbe avuto
il permesso di entrare se ci fosse stato il pericolo di incappare in
una situazione scomoda. La scena che si trova davanti, però, lo
destabilizza più di quanto non sarebbe successo se avesse trovato la
coppia nuda: Shannon è seduto a terra, con le mani infilate tra i
capelli scarmigliati e gli occhi rossi e gonfi di chi abbia appena
finito di piangere. Non ha mai visto Shannon piangere, e sinceramente
non si sarebbe mai aspettato di vederlo accadere. Si guarda attorno,
sperando che Daria possa dargli una spiegazione, ma la stanza è
vuota – completamente vuota,
fatta eccezione per le cose di Shannon, e per il libro e i fogli
appoggiati davanti ai suoi piedi nudi. «Che succede?» domanda, pur
se in cuor suo intuisce già la risposta.
«Se
n'è andata» sussurra suo fratello, con una voce tanto flebile che
sembra davvero provenire da Marte. «Stanotte, mentre dormivo, lei...
lei ha preso le sue cose e se n'è andata.»
«Ma...
ma come... perché?»
Shannon distoglie lo
sguardo, ancora troppo frastornato per parlare. Tutto ciò che può
fare è porgergli la lettera, sperando che Jared capisca da sé.
*
Torino, 28 novembre 2013
Mentre
le va incontro quasi di corsa sulla banchina della stazione, Alice
sente di non aver bisogno di fare domande – che sia accaduto
qualcosa di terribile è chiaro, maledettamente chiaro. Abbraccia
Daria con tutta la forza che ha in corpo, lasciando che le lacrime
dell'amica le inzuppino la sciarpa, e sperando che nel suo abbraccio
i suoi singhiozzi trovino finalmente un porto sicuro. Le accarezza la
testa con dolcezza, sussurrandole di non avere paura, perché andrà
tutto bene, anche se per la prima volta in vita sua non è sicura che
andrà così. Se la tiene stretta come farebbe una madre, se la tiene
stretta nel brusio della stazione affollata, e sente che le cose non
saranno mai più come prima.
*
Parigi, 28 novembre 2013
Jared
si è lasciato scivolare a terra, alla destra di Shannon, e per la
seconda volta legge la lettera di Daria, senza riuscire a convincersi
che si tratti della realtà. Quella grafia tonda e ordinata lo
ipnotizza, catturando i suoi occhi come una fiamma attira la falena,
e nel contempo quelle parole lo feriscono come una spada affilata,
riducendo in piccoli frammenti sanguinanti anche il suo
cuore.
Caro
Shannon,
se
stai leggendo questa lettera significa che sei sveglio, e che il
primo pensiero della giornata lo hai rivolto a me. Questo mi
lusinga, ma allo stesso tempo mi ferisce, perché avrei voluto
condividere quell'istante con te, e godere della magnifica
sensazione del tuo sguardo su di me, delle tue mani che mi
accarezzano il viso, e delle tue labbra che infine sfiorano le
mie.
Mi
hai fatta sentire amata, forse per la prima volta nella mia vita,
e questo è qualcosa che non può essere cancellato. Quando ci
siamo incontrati ero sola, smarrita, ferita dal tempo e dalla
vita, e contro ogni previsione tu sei riuscito a farmi provare di
nuovo tutte quelle sensazioni che credevo perse per sempre: mi
hai dato la speranza, mi hai dato l'allegria, mi hai dato la
felicità che scaturisce dal sapere che al mondo esiste almeno
una persona che vive e respira per te, e questo è qualcosa che
ricorderò per sempre, e per cui ti sarò sempre grata.
Quando
ti ho incontrato ho capito dal primo istante che saresti stato
importante, ma non avevo previsto che mi saresti arrivato sotto
la pelle fino a questo punto, fino a toccarmi l'anima, fino ad
intossicarmi il cuore. Ti ho mostrato la parte più nascosta di
me, quella che pochi hanno avuto il privilegio (o la disgrazia)
di vedere, e l'ho fatto perché mi sono fidata di te... e ti ho
spiegato quanto sia difficile per me fidarmi del prossimo. A te
mi sono mostrata completamente nuda, senza difese, e a te ho
concesso la libertà di fare di me ciò che più ti aggradava.
E tu
mi hai fatta innamorare.
No,
di più: tu hai fatto sì che io ti amassi, che ti amassi e che
avessi bisogno di te così come non era mai successo prima, e
forse per questo dovrei odiarti.
Ti
amo, non l'ho detto mai a nessuno prima di te – e forse,
chissà, ci vorranno altri ventitré anni prima che trovi il
coraggio di dirlo di nuovo. Basta un filo di voce per dirlo, ma
quanto tempo occorre per trovarne la forza?
Mi
piace pensare di non essere stata la sola a dare tutta se stessa
in questa nostra storia: credo – anzi, ne sono convinta – che
tu ti sia aperto quanto me, che tu ti sia mostrato più di quanto
abbia mai fatto nella vita, e questa consapevolezza (o
convinzione, chiamala come vuoi) mi ferisce ancora di più,
considerando che sto facendo le valigie e ti sto lasciando. Forse
ti sembrerà impossibile e anche un po' egoista da parte mia dire
così, ma ti assicuro che in questo momento sto soffrendo molto
più di te – perché sì, anche quello che lascia può
soffrire, e a volte anche più intensamente di chi viene
lasciato.
Mi
hai regalato un mese meraviglioso, un tempo che non potrà essere
cancellato né sostituito, ricordi che mi resteranno per sempre,
e per i quali ti sarò per sempre immensamente grata... ma
sappiamo entrambi che non è questo il destino che ci attende.
Potremmo continuare a fingere per un altro mese, forse due, forse
sei, forse mille, ma alla fine è con questo che ci troveremmo a
fare i conti – e per quanto mi ferisca, per quanto ti ferisca,
chiuderla qui è l'unica soluzione possibile. Non occorre che te
ne spieghi i motivi, non occorre che sprechi tempo e spazio per
dire quello che entrambi sappiamo, e che forse in questo mese
abbiamo tenuto nascosto a noi stessi. In questo momento
probabilmente ti senti ferito, ingannato, tradito e arrabbiato
con il mondo e soprattutto con me, ma sono certa che tra poco
inizierai a riflettere sulle mie parole, e capirai che è meglio
finirla qui, prima che entrambi finiamo con il farci del male.
Sei
stato importante, Shannon, e mi hai fatta sentire amata per la
prima volta in vita – l'ho già detto, vero? Lo so, ma non mi
importa. Non fa mai male ripetere la verità.
Ti
chiedo soltanto una cosa, e spero che riuscirai ad obbedire, in
nome del sentimento che ci ha legati, anche se per così poco:
non cercarmi. Non chiamarmi, non scrivere, e non fare un'altra
pazzia come venire a casa mia. Fingi di non avermi mai
incontrato, fingi di non essere mai stato attratto da me, fingi
di non avermi mai baciata, fingi che la mia presenza non abbia
mai toccato la tua vita.
Finiamola
così, come abbiamo cominciato: nel buio, e nel silenzio.
Addio,
Daria
|
Jared abbassa i fogli,
sentendo gli occhi farsi lucidi e brucianti: chi avrebbe mai pensato
che una simile ragazzina potesse fare tanti danni al cuore di un
uomo? Guarda Shannon, e comprende immediatamente la ragione
dell'aspetto devastato di suo fratello: chi non si sentirebbe a
terra, vedendosi strappare dalle mani l'unica occasione di felicità
che sia mai riuscito a stringere? Sta per parlare, quando davanti
alla porta ancora spalancata transita a passo veloce Tomo, che poi
torna indietro e si ferma, guardando la scena. «Eccovi qui, vi stavo
giusto cercando. Ma che succede?»
«Daria
se n'è andata» risponde Shannon.
«Ha lasciato una lettera. Puoi leggerla, se vuoi.»
Tomo prende i fogli dalle
mani di Jared e si siede a terra con loro, alla sinistra del
batterista. Quando finisce anche la seconda pagina, apre e richiude
la bocca senza dire niente per un paio di volte. «Che cosa hai
intenzione di fare?»
«Che cosa dovrei fare?»
«Non hai intenzione di
precipitarti da lei per impedirle di lasciarti?»
chiede Jared, in verità un po' sorpreso che suo fratello non stia
già preparando i bagagli per Torino.
«Mi ha chiesto di non
farlo.»
«E da quando sei uno che
fa quello che gli viene ordinato?»
replica stupito Tomo, restituendogli la lettera.
«Glielo devo»
sussurra Shannon. «Sono stato il primo a darle quello di cui aveva
bisogno» aggiunge. «Aveva
bisogno di sentirsi amata, e io le ho dato amore.»
Guarda ancora i fogli che tiene fra le mani. «Le ho dato quello di
cui aveva bisogno, e ora non posso negarle quello che vuole.»
«Non credo di capire»
sussurra Jared, sorpreso di vedere un lato così dimesso e intimo di
suo fratello.
«Vuole che la lasci sola,
e non posso negarglielo. Lei mi ha sempre rispettato, mi ha dato
fiducia, e se adesso io... ignorassi la sua richiesta la
tradirei. Per quanto la tentazione sia... irresistibile, io
non... non lo posso fare.»
Deglutisce, tenendo gli occhi bassi, e i due amici capiscono quanto a
ferirlo non siano le parole o l'abbandono, ma piuttosto la
consapevolezza che restare immobile a sanguinare sia l'unica
soluzione possibile per rimanere coerente con le promesse fatte.
Restano immobili e in
silenzio per quelli che forse sono dieci minuti, o forse secoli, e
all'improvviso Shannon rialza la testa, guardando Tomo: «Hai detto
che ci stavi cercando, poco fa. Che cosa volevi dirci?»
«Oh, è vero, io... ma
forse non è il caso, visto quello che sta succedendo.»
«No, dai, parla»
lo incalza, disposto a fare di tutto pur di non pensare ai suoi
problemi.
«Beh, sembra... sembra che
Vicki e io ce l'abbiamo fatta. Questa mattina presto ha fatto un
test, e... beh, sembra che sia positivo»
conclude con un timido sorriso, quasi non riuscisse a convincersene.
«Congratulazioni, sono
davvero molto felice per voi»
sorride Shannon, pensando che probabilmente questa sia l'unica
notizia in grado di risollevargli l'umore, anche se per poco.
«Era quello che volevate,
no? Congratulazioni» aggiunge Jared,
davvero felice per l'amico.
«Sì,
era proprio quello che desideravamo. Domani prenderemo un aereo e
torneremo a Los Angeles. Vuole vedere il suo medico il prima
possibile, per... beh, per le solite cose. Ma se volete che resti, io
posso anche...»
«Non c'è alcun bisogno
che resti, non ti preoccupare» lo
rassicura Shannon. «Anzi, forse potrei tornare anch'io a casa prima.
Tanto qui non c'è bisogno di me, no?»
«No, ma... sei sicuro di
voler restare solo?» gli domanda
il fratello.
«Ma io non sono mai solo»
risponde l'altro, guardandolo con due occhi che esprimono tutta la
sua gratitudine per avere un fratello come lui, sempre pronto ad
aiutarlo e stargli accanto. «Non hai un'intervista, a proposito?»
«Posso rimandarla, se...»
«Non è il caso,
tranquillo. Io starò bene. E tu vai da tua moglie, avete molto di
cui festeggiare» aggiunge, dando
di gomito a Tomo.
Recalcitranti, Jared e Tomo
si alzano e lasciano la stanza, guardandosi indietro mille volte,
sperando che Shannon sia sincero, e che non stia soltanto recitando
una parte per evitare di coinvolgerli nel suo dolore. Lo salutano e
gli promettono di tornare presto da lui, ricevendo in cambio un
sorriso così spontaneo da illuderli che il cielo sia veramente
sereno.
*
Parigi, 28 novembre 2013
Appena
tornata a casa, senza dire una parola e senza nemmeno disfare i
bagagli, Daria ha chiuso ogni ricordo di Shannon in una vecchia
scatola da scarpe: la maglietta che lui le ha regalato, il fiore di
stoffa usato per decorare il vassoio quella mattina che le ha portato
la colazione in bagno, i novanta post-it che le ha sparso per
l'appartamento, i preservativi dimenticati sulla scrivania, il
biglietto da visita di Emma, una copia di tutte le fotografie che ha
di lui, anche delle più recenti, che scarica rapidamente sul
portatile e stampa mentre vaga per la stanza raccogliendo tutto ciò
che non vuole più incontrare sul suo cammino. Alice resta immobile
in cima alle scale che conducono in camera, guardandola senza dire
una parola sul fatto che nascondere Shannon alla vista non lo
cancellerà dal cuore, e che in qualche modo il passato tornerà a
far sentire il suo morso. La guarda cancellare il numero dalla
rubrica, senza trascriverlo da nessuna parte, e poi la guarda
infilare anche i cd nella scatola. «Perché anche i cd?»
domanda a quel punto, con un filo di voce.
«Perché...
sentirei soltanto Christine.»
Alice annuisce,
tornando a rinchiudersi nel proprio mutismo. Vorrebbe dirsi d'accordo
con quella decisione, ma in cuor suo sa che è un'idea cretina –
solo, vuole troppo bene a Daria per metterle sulle spalle ancora un
altro dolore. «Fatto»
sussurra Daria, mettendo il coperchio sulla scatola. «Puoi tenerla
tu per me?»
le domanda, porgendole il pacco.
«La
terrò io per te»
sorride Alice, sfilandole il peso dalle mani.
«Hai
detto a qualcuno che venivi a prendermi?»
«No.»
«Neanche
a Francesca?»
«A
nessuno.»
«Potresti
mantenere il segreto? Mi terrò nascosta fino a sabato, poi... non
so, a papà racconterò che sono tornata a casa in anticipo perché
ho finito il budget. Mi crederà. A Marco non è il caso di
raccontare nulla. Gli dirò che mi sono divertita, questo gli
basterà.»
«Manterrò
il segreto, ma... Daria, vorresti solo spiegarmi che cosa stai
facendo?»
L'altra
ragazza alza la testa, gli occhi resi ancora più azzurri dalle
lacrime che sta furiosamente cercando di trattenere. «Sto facendo la
cosa giusta, tutto qui.»
«Anche
se ti fa soffrire come un cane?»
«Nessuno
ha mai detto che fare la cosa giusta fosse indolore.»
*
Parigi, 28 novembre 2013
Rassicurati
gli amici, chiusa la porta, Shannon resta solo. Appoggia la schiena
al pannello e chiude gli occhi, cercando di convincersi che quando li
riaprirà non sentirà dolore. Non sentirà dolore, non soffrirà,
anche se quella pressione che sente all'altezza del cuore somiglia
proprio ad un coltello piantato a tradimento – piantato e rigirato
nella ferita più e più volte, come a ricordargli che è mortale,
che è un essere umano, e come ogni essere umano deve
soffrire, prima di trovare la sua pace.
1E
ipotizzo di non averti mai incontrato, ipotizzo che non ci siamo mai
innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così
dolcemente e teneramente. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Fidelity
di Regina Spektor,
contenuta nell'album Begin
To Hope,
pubblicato nel 2006.
2Mi
sento cresciuta come non lo sono mai stata, […] prima di essere
ritenuta tale. |
Questa dev'essere la settimana delle Citazioni Sgraffignate. Dopo
aver attinto alla filmografia di Martin Scorsese, sconfino nel campo
della musica e rubo una frase alla mitica Blowin'
in the wind,
incisa da Bob Dylan
nel 1962, e inserita poi nel disco The
Freewheelin' Bob Dylan,
uscito nel 1963. Ecco la frase originale: “How
many roads must a man walk down before you call him a man?”,
ovvero “Quante
strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?”.
3Le
lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a
piangere un altro, chi sa dove, smette.
| La citazione è tratta da Aspettando
Godot
, opera teatrale in due atti scritta dall'autore anglo-irlandese
Samuel Beckett nel 1952. Si tratta di una delle più importanti opere
appartenenti al teatro dell'assurdo, un non-movimento letterario nato
in Europa negli anni del secondo dopoguerra. Si tende a definirlo un
non-movimento
in quanto, a differenza di altre correnti (Romanticismo, Futurismo
eccetera) non originò mai né manifesti, né progetti, né scuole –
si tratta semplicemente di un termine coniato da un critico
dell'epoca, che trovando molti punti comuni tra le opere di diversi
autori (Beckett, Ionesco e altri) volle tentare di raggrupparle in un
unico insieme. Personalmente, amo questo tipo di opere, Aspettando
Godot
su tutte – se non l'avete mai letto, vi consiglio di farlo. Se non
altro per farvi un paio di sane, grasse risate.
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