Portagioie di tristezza {autunno}

di EffieSamadhi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 | Ho pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a te e a me. ***
Capitolo 2: *** 2 | Immergiti nelle parole non dette, vivi la vita con le braccia spalancate, oggi è dove il tuo libro inizia, il resto non è ancora stato scritto. ***
Capitolo 3: *** 3 | La vita ha un buffo modo di insinuarsi in te. La vita ha un buffo, buffissimo modo di aiutarti. ***
Capitolo 4: *** 4 | L'intera vita di una donna in un giorno, un solo giorno; e in quel giorno, tutta la sua vita. ***
Capitolo 5: *** 5 | Perché io sono reale, e tu sei reale. ***
Capitolo 6: *** 6 | ''Lo sai che questo cambierà tutto?'' ''Me lo prometti?'' ***
Capitolo 7: *** 7 | Pioggia cadrà, e l'aria sarà più pulita in questa città dove tutto sembrava finire. ***
Capitolo 8: *** 8 | E' molto divertente fare l'impossibile. ***
Capitolo 9: *** 9 | Come in un sogno, ora vivo per te. ***
Capitolo 10: *** 10 | Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude, e diventa sentiero distinto, e ormai inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell'avvicinamento. Quell'accos ***
Capitolo 11: *** 11 | Abbi una felicità delirante, o almeno non respingerla. ***
Capitolo 12: *** 12 | 'Quanto manca alla nostra separazione?' 'Un'eternità. Hai ancora molto da imparare.' ***
Capitolo 13: *** 13 | Ti amo. Ora scrivetelo tutti quanti: ti amo, ti amo, ti amo. ***
Capitolo 14: *** 14 | Ieri ho incontrato l'amore, mi ha detto 'Passavo di qua'. ***
Capitolo 15: *** 15 | Senti, io non voglio più parlare di ciò che è vero e di ciò che è illusione: la vita è breve. Non sprechiamo tempo per pensare alla vita, viviamola e basta. ***
Capitolo 16: *** 16 | Rimani qui, scende la sera, sopra di noi si poserà. Aspetteremo così la primavera, solo se vuoi ci troverà. ***
Capitolo 17: *** 17 | Quanto sai di te stesso, se non ti sei mai buttato? ***
Capitolo 18: *** 18 | Forse l'amore è l'unico barlume di eternità che possiamo permetterci. ***
Capitolo 19: *** 19 | Siamo qui, nei grigi dell'inverno. Siamo qui, solo io e te. Stringi la mia mano, affrontiamo domani. ***
Capitolo 20: *** 20 | Sei l'ultima grande innocente, ed è per questo che ti amo. ***
Capitolo 21: *** 21 | E ipotizzo di non averti mai conosciuto, ipotizzo che non ci siamo mai innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così dolcemente e teneramente. ***



Capitolo 1
*** 1 | Ho pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a te e a me. ***


Portagioie di tristezza | 1 Avvertenze | Se odiate a priori ogni fanfiction in cui il tizio famoso si innamora di una ragazza appena conosciuta che ha alcuni tratti in comune con l'autrice, chiudete subito la pagina e andate a leggere qualcosa di serio. Se invece, in fondo, siete persone a cui sognare non dispiace, potete continuare a leggere. Probabilmente la storia non vi piacerà per altri motivi, e quindi la lascerete perdere comunque. Per quei pochi coraggiosi che la seguiranno per intero (e mi sento di porre DadaOttantotto in cima a quella che immagino sarà una lista molto magra)... grazie, e buona fortuna.
Disclaimer | Non possiedo nulla dei 30 Seconds to Mars – né i membri, né l'inventiva, né il talento... ho solo i loro CD – e tutto ciò che leggerete è frutto della mia immaginazione e della mia inguaribile anima romantica.
Note dell'autrice | Gli eventi reali sono stati leggermente modificati; in particolare, invece di far partire subito la band per un'altra data, ho deciso di trattenerli per un po' a Milano.





Portagioie di tristezza1





Capitolo primo
Ho pensato a tutto ciò che volevo essere,
ho pensato a tutto, a me,
a te e a me.2

Mediolanum Forum (Assago), 02 novembre 2013

    Contrariamente a quanto pensa la gente, la vita di un rocker non è tutta 'sesso, droga & rock'n'roll': ci sono momenti in cui, come ogni persona normale, ci sentiamo stanchi e solitari e stufi del mondo, e se a volte ci capita di sembrare scostanti e scontrosi è solo perché vogliamo andare a casa, perché vogliamo infilarci sotto una doccia bollente o perché vogliamo spalmarci sul divano a guardare un programma trash in tv. E questo è esattamente quello che vorrei fare in questo momento, invece di starmene seduto a sorridere a persone che non conosco e che non mi conoscono, ma che hanno pagato per vederci qui stasera e che ci stanno spiegando, in un inglese maccheronico peggiorato dall'emozione di trovarsi di fronte a noi, che hanno viaggiato anche per ventiquattro ore pur di sentirci, vederci e poterci parlare. «You know, your music saved my life» è quello che sentiamo dire più spesso, e ogni volta vorrei alzarmi in piedi, rovesciare questo tavolo e dir loro che non è la nostra musica ad aver salvato la loro vita, ma l'idea stessa di musica, la musica in generale, la musica in sé: sarebbe potuto essere qualsiasi gruppo a risvegliare in loro la gioia, non è merito nostro. E invece taccio, e continuo ad ascoltare complimenti e firmare copie del nostro ultimo cd.
    Mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e mezzo e non vedo l'ora di andarmene a letto. Alla mia destra, mio fratello continua a dispensare sorrisi e a ringraziare tutti, mentre Tomo, poco più in là, tenta in ogni modo di non cedere alla stanchezza e di continuare mostrarsi gentile e accomodante. Un po' mi sento in colpa, a dire il vero: è stato Jared a reggere la scena ininterrottamente per due ore e mezza, eppure quello sfinito sono io. Non so come spiegarlo: non è stanchezza fisica, siamo abituati a provare anche per sei o sette ore al giorno... è più un senso di stanchezza mentale, come se la tensione accumulata prima dell'evento si dissolvesse all'improvviso, scivolando via come acqua su una superficie liscia. Alla fine di ogni concerto mi sento come esaurito, come... come una pila scarica. Ecco la definizione giusta: mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e mezzo e sono una pila esaurita. Tuttavia, decido di resistere: in fondo, questa piccola folla merita di vedere premiata la propria costanza, perciò merita tutta la mia attenzione.
    Alzo gli occhi sulla fila che si va via via riducendo, e un istante dopo vorrei non averlo fatto, o comunque vorrei essere stato adeguatamente preparato: lo sguardo che incontro alzando la testa mi inchioda al pavimento, totalmente privo di timidezza o soggezione, come se non fossimo altro che un gruppo di vecchi amici. La cosa che più mi affascina, però – e che al contempo mi terrorizza –, è che quegli occhi azzurri non solo non hanno paura di fissare i miei, ma sembra che mi stiano leggendo dentro. Improvvisamente mi sento in imbarazzo, come se mi fossi appena svegliato da un lungo sonno e mi fossi scoperto nudo al centro di Times Square all'ora di punta – non dovrei sentirmi in imbarazzo, io sono uno che si esibisce davanti a migliaia di persone e convive con la fama da dieci anni, eppure... eppure quello sguardo sa spogliarmi di ogni sicurezza, sa privarmi di ogni difesa. Perciò sorrido, abbasso di nuovo la testa e lentamente scrivo il mio nome sul cd che Jared mi ha appena fatto scivolare sotto il naso. Sto cercando di raccogliere le energie per alzare di nuovo gli occhi, quando una voce rompe quel pesante silenzio: «Dà uno strano senso di pace, vero? Realizzare i propri sogni, intendo».
    Jared sta per rispondere, ma io, come se sentissi che quella frase è stata detta apposta per me, lo precedo: «Non sono mai in pace. C'è sempre un sogno più grande dietro il prossimo angolo.»
    La ragazza allunga la mano per prendere il suo cd, piegando un angolo della bocca in un sorriso enigmatico. «Forse è questo che ci mantiene vivi» sussurra. «Grazie a tutti» aggiunge, voltandosi per andarsene. Solo in quel momento noto la maglietta che indossa, bianca e decorata manualmente con i glyphics, la triad e la data di questo concerto – e solo quando è qualche passo più in là mi accorgo del sangue finto e del trucco rosso che le coprivano faccia, collo, braccia e vestiti. Ed è allora che sorrido, sentendomi un vero idiota, perché quella ragazza sembra aver capito della vita molto più di quanto abbia capito io.

    Concluso l'incontro con i fans, tutti e tre ci alziamo, e con sommo disprezzo noto che Jared continua a sembrare fresco come una rosa, come se fosse appena uscito da una Spa – saremo pure fratelli, ma vorrei proprio sapere da chi ha ereditato le incredibili quantità di energia di cui dispone. «Signori, anche questa è andata» annuncia in tono solenne, strappando un sorriso sia a Tomo sia a me. «Andiamo a prendere le nostre cose e torniamo in hotel?»
    «Se non vi dispiace, io prima vado a cercarmi un posto per fumare» ribatto, tastandomi le tasche. Riconosco subito la famigliare forma quadrangolare del pacchetto di sigarette. «Non guardarmi così, lo so che disapprovi» aggiungo subito, cercando di evitare che mio fratello parta con la solita filippica sui danni del fumo. «Dieci minuti e vi raggiungo.» Mi infilo il giubbotto e me ne vado senza aspettare risposta.
    Inizio a percorrere a ritroso i corridoi attraverso i quali gli addetti del Forum ci hanno accompagnati alla sala predisposta all'incontro con i fans, e appena trovo un'uscita di sicurezza spingo la porta, ritrovandomi di fronte ad uno spiazzo vuoto. Infilo un piede tra lo stipite e il battente per tenermi libero il passaggio, prendo una sigaretta dal pacchetto stropicciato e me la caccio in bocca di fretta, iniziando subito a tastarmi le tasche in cerca di un accendino. «Merda» sussurro. Sapevo di aver dimenticato qualcosa.
    All'improvviso, da un angolo buio arriva una voce già sentita, facendomi capire di non essere solo. «Bisogno di fuoco?» mi chiede, avvicinandosi con un accendino stretto tra le dita. Fa schioccare il meccanismo, ma non ho bisogno della luce della fiamma per riconoscere gli occhi azzurri che poco fa mi hanno sconvolto così tanto.
    Mi avvicino e mi chino in avanti, chiudendo le mani a coppa intorno alla fiammella per riuscire ad accendere nonostante il filo di vento che tira in quel punto. «Grazie» mormoro dopo essermi allontanato. Poi ricordo le regole del bon ton, e tendo verso di lei il pacchetto sdrucito. «Vuoi una?»
    «No, grazie.»
    «Non fumi?» le domando, rimettendo in tasca il pacchetto.
    «Sono una fumatrice occasionale. A volte quando sono con amici me ne faccio una.»
    «Però sei previdente» ribatto. «Vai sempre in giro armata» aggiungo, alludendo all'accendino che ancora tiene in mano.
    «Amici smemorati» risponde, come se questo bastasse a spiegare tutto. Aspiro un'altra boccata e faccio girare il fumo all'interno della bocca, cercando un modo per continuare la conversazione: nonostante la stanchezza, so che non sarebbe carino stare qui senza dire una parola. Per fortuna, lei mi precede. «Grande spettacolo stasera, complimenti.»
    «Grazie. Complimenti anche a voi. Insomma, il pubblico è importante.» Annuisce, grattandosi distrattamente la nuca. Noto che porta i capelli corti e spettinati, come andavano di moda l'estate scorsa – di solito preferisco i tagli lunghi, ma a questa ragazza il taglio corto dona particolarmente. «Che fai ancora qui?» le domando. «La serata è finita, non torni a casa?»
    «E voi?» ribatte lei, che come prima sembra non sapere che cosa significhino timidezza e soggezione. «Credevo che vi stessero già scortando in albergo.»
    «Mi sono preso una libera uscita» rispondo, mostrando la sigaretta. «Dovrei dar retta a mio fratello e smettere, ma non ho ancora trovato un buon motivo per farlo.»
    «Forse non lo vuoi veramente. In tal caso, un motivo lo avresti già trovato.» Subito dopo la vedo distogliere lo sguardo. «Scusa, non volevo essere invadente. In fondo, sono affari tuoi.»
    «Non sei stata invadente» la rassicuro. «Anzi, credo che tu abbia ragione. Probabilmente è così, non ho voglia di smettere.» Mi gratto la punta del naso con il dorso della mano, riflettendo sulla situazione: sto davvero parlando con una ragazza sconosciuta del mio problema con il fumo? «Sul serio, come mai sei ancora qui? Se stai orchestrando un agguato alla nostra macchina, sappi che usciremo dalla parte opposta dell'edificio.»
    Mentre mi sto chiedendo se capisca l'inglese tanto da cogliere la sfumatura ironica di quanto ho appena detto, lei ride. «Mi piacete, ma non al punto di diventare una stalker. Sto aspettando un'amica» spiega.
    «Ah» rispondo, terrorizzato all'idea che un'ammiratrice esaltata mi salti addosso pretendendo foto e autografi. Non so se riuscirei a sopportare un assalto del genere. «E dov'è la tua amica?»
    «Nella mia macchina.» Non sicuro di aver capito correttamente, sto per domandarle di ripetere, quando lei aggiunge: «Con il suo ragazzo. Lui abita a Milano, quindi possono vedersi soltanto una o due volte al mese. Hanno colto l'occasione del concerto per vedersi, solo che non c'erano molti posti dove... sai, no?»
    Annuisco, ma quello che vorrei dire in realtà è No, non lo so. Non ho mai avuto relazioni a distanza, in realtà. Già fatico a gestire una storia con una donna che posso vedere tutti i giorni. «Dove abitate tu e la tua amica?»
    «Torino. È abbastanza vicino a Milano, in realtà, ma tra gli impegni, la scuola... alla fine è tutto molto complicato.»
    «Andate ancora a scuola?» mi informo. Stento a crederlo, mi sembra troppo grande per essere una studentessa liceale.
    «La mia amica va all'università. Ha ventitré anni. Abbiamo ventitré anni» si corregge. «Studia Filosofia.»
    «E tu, invece? Studi?»
    Scuote la testa. «No, io no. Mi sarebbe piaciuto studiare Lingue, ma non avevo... non ero abbastanza brava per continuare gli studi. Lavoro in una libreria, faccio la commessa.»
    Dopo una breve riflessione, decido che posso arrischiarmi a fare una confessione privata. «Credo che a mia madre sarebbe piaciuto che almeno uno dei due andasse all'università, che diventasse... un pezzo grosso, o qualcosa del genere. Sai, avvocati, o medici. Credo che un po' le sia dispiaciuto che tutti e due abbiamo lasciato perdere quella strada.»
    «Credo sia comunque fiera di voi. Fate qualcosa di altrettanto grande, anche senza la laurea.»
    «Sì, alla fine è contenta di come sono andate le cose. Anche perché in un certo senso, è stata lei a spingerci sulla strada dell'arte.» Aspiro un'ultima boccata, schiaccio il mozzicone sotto la scarpa e soffio via il fumo attraverso il naso. «Credi che la tua amica ne avrà ancora per molto? Non mi sembra un posto molto raccomandabile per una ragazza sola» dico, guardandomi intorno per individuare eventuali malintenzionati.
    Proprio in quel momento, lei guarda il cellulare. «Mi ha appena mandato un sms. Hanno finito, quindi adesso me ne posso andare.» Fa per allontanarsi, ma uno strano istinto mi dice di non lasciarla andare via così.
    «Aspetta, dove devi andare?»
    «Devo raggiungere il parcheggio» mi spiega, stendendo un braccio nella giusta direzione.
    «Allora ti accompagno.» Mi ci vuole un attimo per realizzare quanto ho appena detto. «Non conosco bene queste zone, ma non credo che una ragazza dovrebbe girare da sola di notte, da nessuna parte.»
    «Ma non è necessario, sono pochi passi...»
    «Io ti accompagno comunque.»
    «Ma...» inizia, lasciando perdere subito dopo. Deve aver capito che non sono il tipo che negozia accordi. Con me, quasi sempre si fa come dico io. Gli unici ad avere qualche chance di farmi cambiare idea sono Jared e Tomo. E mia madre, ma quello è un discorso a parte. «A proposito, mi chiamo Daria» aggiunge, tendendomi la mano.
    «Shannon» rispondo, restituendo la stretta. «Bel nome» aggiungo, sfilando il piede dalla porta.
    «Grazie. Sicuro di potertene andare così?»
    «Certo. E poi sono solo pochi minuti, non si accorgeranno neanche che sono sparito.»
    Mi osserva per qualche secondo, come se stesse decidendo il da farsi. Vorrei farle presente che mi sono ormai chiuso fuori, e quindi dovrei comunque fare con lei un pezzo di strada, almeno il necessario per raggiungere l'ingresso principale. «Allora va bene. Per di qua» dice, cominciando a camminare. Si è messa addosso un giubbotto di pelle marrone e si è stretta attorno al collo una sciarpa rossa a motivi indiani, ma riesco comunque a intravedere la maglietta bianca. Alla luce biancastra di un lampione, noto che si è pulita il viso, che non reca più alcuna traccia del trucco rosso.
    «Era molto carino il tuo... outfit. Abbiamo letto dell'iniziativa su internet, ma avevamo già deciso il programma della serata, quindi... mi è spiaciuto, però. Ho visto che in molti hanno aderito.»
    «Non festeggio Halloween, non è una festa che rientra nelle mie tradizioni» mi spiega. «Siccome non mi sono travestita per l'altra sera, mi è sembrata una buona idea approfittarne ora. E poi è stato divertente. Insomma, è stata una cosa impulsiva... io di solito non faccio cose impulsive.»
    «Sei una di quelle ragazze a cui piace avere tutto sotto controllo?»
    Scuote la testa, in silenzio. «Non lo faccio per piacere» risponde dopo quasi un minuto. «Non mi sono mai potuta permettere di perdere il controllo.» Mi guarda, e probabilmente sul mio volto appare un enorme punto interrogativo, perché subito aggiunge: «Mia madre se n'è andata quando avevo otto anni, e da allora è sempre stato tutto difficile. Con 'se n'è andata' intendo dire che è andata via, non che è... morta, ecco.»
    Non conosco questa ragazza, ma quello che ha appena condiviso con me mi fa sentire davvero male, mi provoca un enorme groppo in gola. So cosa significa essere abbandonato da un genitore: ero piccolo quando mio padre è andato via, ma ho sentito la sua mancanza per tutta la vita. Forse è anche per questo che non ho ancora avuto figli: forse inconsciamente temo che le continue assenze non farebbero di me un buon padre. «Capisco cosa vuoi dire. Certo, forse quando è una madre ad andarsene è diverso, ma... capisco cosa vuoi dire. Sei figlia unica o hai fratelli?»
    «Ho una sorella e un fratello, diciannove e sedici anni.»
    «Come si chiamano?»
    Volta rapidamente la testa verso di me, probabilmente domandandosi il motivo di tanta curiosità. Tuttavia non esita a rispondermi, mentre continuiamo a camminare senza fretta verso il parcheggio. «Emanuele e Francesca. Loro praticamente non se la ricordano. Francesca aveva soltanto un anno quando lei è andata via. Mi dispiace per loro, vorrei che avessero qualche ricordo di lei. Però poi ci penso su, e mi dico che forse è meglio così. Soffrirebbero troppo.» Poi alza lo sguardo verso il cielo buio, come per riflettere, e aggiunge: «Non che non soffrano, certo. È pur sempre un abbandono.» Sto per ribattere, quando si volta di nuovo verso di me: «Quella sigaretta è ancora valida?» Prendo il pacchetto dalla tasca e lo tendo verso di lei. Mi servo anch'io, e mentre lei accende la sua ci fermiamo. Nel prendere l'accendino dalla sua mano, le nostre dita si sfiorano, provocandomi una strana sensazione: sento una strana intesa con questa ragazza, una persona di cui non conosco nulla tranne il nome e la provenienza. È la prima volta che raggiungo un simile grado di intimità in così poco tempo, e se devo essere sincero questo rapido precipitare degli eventi mi fa paura. Ebbene sì: Shannon Leto, batterista di fama mondiale, ha paura di restare solo con una ragazza.

    Riprendiamo a camminare, senza dire una parola. Il parcheggio è quasi completamente vuoto, e la poca gente rimasta non fa caso a noi – Meno male, mi viene da pensare: un bagno di folla non è proprio quello che mi serve, non in questo particolare momento. «Non preoccuparti, ci siamo quasi» mi dice, indicando un punto poco lontano, dove si intravede una sola auto, «ho parcheggiato... oh, merda» conclude in un sussurro.
    «Cosa c'è?» le chiedo, preoccupato da quel repentino cambiamento. «Cos'è successo?»
    «Hanno ricominciato» sussurra, voltandosi con aria scocciata verso la direzione da cui siamo appena arrivati. «La mia amica e il suo ragazzo» specifica, invitandomi a guardare verso l'auto. In effetti, socchiudendo gli occhi e tenendo fisso lo sguardo, nonostante il buio si nota chiaramente uno strano movimento oscillatorio del veicolo – che, si capisce, può derivare soltanto da una cosa.
    «Oh» è l'unico commento che riesco a fare.
    «Già, oh. Dovevo aspettarmelo, in fondo. Per entrambi il sesso è una parte fondamentale in un rapporto, e quelle poche volte che si vedono devono... sfogare ogni istinto.»
Da quest'ultima affermazione mi pare di capire che Daria abbia opinioni diverse da quelle dell'amica, e la mia innata curiosità mi impone di indagare. «Beh, credo che il sesso in una relazione sia importante per chiunque. Forse per qualcuno lo è di più.»
    «Per Alice lo è sicuramente» taglia corto lei, aspirando nervosamente dalla sigaretta.
    «E per te non lo è?»
    «Mi stai chiedendo se mi piace fare sesso?» In condizioni normali, probabilmente una ragazza qualunque si sarebbe risentita alla mia domanda – e probabilmente una fan esagitata l'avrebbe interpretata come un'avance, ma nel tono di Daria non c'è né sconcerto né libidine: è soltanto sorpresa della mia curiosità. E in fondo lo sono anch'io: non è da me fare discorsi così intimi con una persona appena conosciuta – a meno, forse, di non essere entrambi ubriachi e già mezzi nudi.
    «Ti sto solo chiedendo se lo consideri importante in una relazione o no.» Nonostante la penombra, sento che il suo sguardo mi sta studiando con diffidenza, come se fosse difficile decidere se valga la pena di concedermi una risposta sincera. «Io lo considero mediamente importante, ad esempio. Il sesso è una forma di comunicazione. Se non c'è intesa sessuale, è molto probabile che la relazione non sfoci in qualcosa di più importante. Insomma, non sposerei una donna con la quale faccio del sesso mediocre.»
    «Allora direi che lo consideri molto importante, non mediamente importante. Io penso che si possa stare bene con una persona anche senza fare del sesso stellare.»
    «Forse parli così perché non hai mai trovato qualcuno con cui farlo, del sesso stellare.» Appena finito di parlare, vorrei poter tornare indietro e strapparmi la lingua a morsi: stiamo scivolando su un genere di discorsi che affronto di rado, certamente mai con una ragazza appena incontrata. Eppure, invece di ritrarsi, darmi del maniaco o cose del genere, Daria alza lo sguardo e mi sfida apertamente.
    «Perché, tu hai mai trovato qualcuno con cui farlo?»
    Rifletto accuratamente sulla risposta. «Beh, sì. Sono uscito con parecchie ragazze con cui avevo un'ottima intesa sessuale.»
    «E allora com'è che sei ancora scapolo?»
    Forse non ho riflettuto così accuratamente. Questa ragazza sa essere più pungente di un calabrone. «Beh, immagino che non ci fossero le condizioni ottimali per pensare ad una relazione seria.»
    «Questo dimostra che il sesso è sopravvalutato.»
    «Ma non che non sia importante.»
    «Lasciamo perdere, ti va? Sento che potremmo andare avanti per ore, e nessuno dei due si smuoverebbe di un millimetro dalla sua posizione.» Si sposta di qualche passo e si siede su uno dei cordoli di cemento che delimitano le corsie di parcheggio. «Comunque adesso puoi andare, se vuoi. Posso aspettare qui, non ne avranno per molto.»
    Ignorando la sua considerazione, mi siedo accanto a lei. «Se tu aspetti qui, io aspetto con te. Non ti lascio sola.» I fari di un'auto che passa poco più in là ci illuminano per qualche istante, e negli occhi azzurri che mi stanno scrutando leggo qualcosa di incredibilmente simile alla felicità. Devo ammettere che mi sembra assurdo, ma ho come l'impressione che sia felice di avermi accanto, a prescindere da chi sono. «Dicevi che lavori in una libreria, giusto?» dico, cercando di stemperare questo attimo di tensione e di far deviare il discorso dal binario che aveva preso.
    «Sì, lavoro in una libreria. Sono solo una commessa, non è un impiego di grande responsabilità, ma mi piace molto. Mi è sempre piaciuto un sacco leggere, e nel mio caso avere uno sconto dipendenti è piuttosto utile. Trattiamo anche libri in lingua straniera, quindi spesso ho a che fare con clienti esteri.» Finalmente riesco a spiegarmi la sua incredibile padronanza dell'inglese. «Non guadagno molto, ma l'anno prossimo spero di riuscire a prendere in affitto una casa tutta mia. Mi sto già guardando intorno, anche se non so ancora di preciso se riuscirò a realizzare la mia idea.»
    «Prendere casa è una progetto piuttosto serio» ribatto, lasciando cadere il mozzicone per terra per spegnerlo con la punta della scarpa. «Che tipo di casa cerchi?»
    «Nulla di pretenzioso, in fondo sono da sola. Mi basterebbe un bilocale, o una mansarda. Qualcosa del genere. Alice, la mia amica, mi ha proposto di trasferirmi da lei. Condivide l'appartamento con altri studenti, e sarebbe felice di avermi con lei.»
    «Ma tu non hai intenzione di accettare.»
    «No, infatti. Sono felice che me l'abbia proposto, ma io ho voglia di un posto mio, di un posto in cui rifugiarmi e stare sola quando ne ho voglia. Ti è mai capitato di volere uno spazio tutto tuo, dove nessuno può dirti cosa fare o come farlo?»
    Più spesso di quanto tu possa immaginare, vorrei risponderle. «Sì, è capitato. Credo sia una cosa molto comune.»
    «E poi ho così tanti libri che mi servirebbe una stanza soltanto per quelli.»
    «Ti capisco. Con la mia collezione di dischi è la stessa cosa.» Senza preavviso, Daria si lascia andare ad una breve risata, mentre anche la sua sigaretta cade a terra e viene spenta. «Perché ridi?» le domando, curioso. Non mi sembra di aver detto qualcosa di particolarmente ironico.
    «Niente, è che stavo pensando... non mi sembra di parlare con uno che riempie gli stadi. Mi sembra di starmene seduta con mio fratello, o con un mio amico. È strano.»
    «Beh, se ti può consolare è strano anche per me. Non è una cosa che faccio di solito...»
    «Cosa, ascoltare gli sfoghi di una ragazza sconosciuta?»
    «Passare del tempo con una persona che non conosco e scoprire di avere un sacco di cose in comune con lei dopo soli dieci minuti» la correggo. I nostri visi sono fermi uno di fronte all'altra, i nostri occhi giocano a rincorrersi come due gocce di pioggia che scivolano lungo un vetro, e tutto quello che riesco a pensare è che sarebbe meglio mettere fine ad ogni conversazione, perché più andiamo avanti più mi fa paura l'intimità con lei, e subito dopo ho in mente un'immagine di me che la prendo tra le braccia e la bacio, e non posso fare a meno di pensare che sarebbe davvero fantastico farlo davvero, sporgermi verso di lei e sfiorarle le labbra, togliendole ogni possibilità di replica, e... e subito dopo il cellulare vibra nella mia tasca, impedendomi di indulgere ancora in una fantasia che, me ne rendo conto, è troppo assurda e decisamente inopportuna. «Scusami, devo rispondere.» Devo rispondere sul serio: è mio fratello. Accetto la chiamata, ma non ho nemmeno il tempo di pensare a cosa dire.
    «Dove-diavolo-sei?» La voce di Jared è a metà tra un sibilo e uno strillo, e nessuno meglio di me sa che quel tono porta solo guai: probabilmente non mi parlerà per i prossimi quattro giorni, ma al momento non è che la cosa mi importi tanto.
    «Lo sai, sono uscito a fumare» rispondo con la maggior naturalezza possibile.
    «Venti minuti fa?»
    «Senti, è un po' complicato da spiegare. Sto... facendo una cosa importante.»
    «Shan, avevamo detto 'Niente cazzate', ricordi?»
    «Ehi, non è quello che pensi. Senti, Jay, è davvero una cosa importante. Ce la fate ad aspettarmi ancora per...» Guardo verso Daria, che alza le spalle come per dire che non sa per quanto i suoi amici ne avranno ancora. «Facciamo altri venti minuti, va bene? Ti spiego tutto dopo, prometto.» Chiudo la comunicazione prima che a mio fratello venga in mente un numero sufficiente di insulti, e torno a sedermi vicino a Daria – ma questa volta, lo ammetto, più vicino di prima.
    «Scusa, non volevo farti litigare con tuo fratello. Ma puoi andare, davvero. È già il secondo round, non dovrebbero metterci tanto. Posso stare da sola.»
    «Jared può aspettare. Noi stasera abbiamo aspettato per dieci minuti che finisse di farsi le trecce... non gli farà male stare dall'altra parte, per una volta.» Getto un'occhiata all'auto, all'interno della quale sembra ci sia ancora parecchio movimento. «Da quanto tempo stanno insieme?»
    «Alice e Federico? Otto anni» risponde lei. «Lui viveva a Torino, poi suo padre si è dovuto trasferire per lavoro, e tutta la famiglia lo ha seguito. Si sono conosciuti al liceo, lui era un paio di classi avanti a noi. È stato il primo ragazzo di Alice. È sempre stata innamorata persa di lui.»
    «Una cosa romantica.»
    «Dì pure melensa. Viene da pensare che dopo tanti anni si dovrebbero abbandonare certi comportamenti, invece... a volte mi sembra di avere a che fare con due adolescenti: telefonate infinite, nomignoli zuccherosi... mi fanno venire il voltastomaco.»
    «E tu, invece? Hai un ragazzo?»
    «Non al momento. Al momento sono troppo impegnata.» Passa qualche secondo, durante il quale si passa nervosamente la mano tra i capelli scompigliati. «Non che non abbia mai avuto un ragazzo. Anch'io ho avuto delle relazioni. Solo, non... mai una cosa così seria, ecco. Se vivessero nella stessa città, loro vivrebbero praticamente come una coppia sposata» aggiunge, facendo un cenno verso l'auto. «Non ho mai creduto in quel genere di relazione.»
    «Insomma, non credi che il sesso sia importante in una storia e non credi che si possa amare una sola persona per tutta la vita?» Il punto di vista di questa ragazza, così giovane eppure già così matura, mi intriga come non mai.
    «Non credo che si possa essere felici a trent'anni con una persona con cui sei stato felice a quindici» risponde un po' scocciata. Forse non avrei dovuto rivangare quella storia del sesso. «I miei si sono conosciuti a quattordici anni, si sono messi insieme a diciassette e si sono sposati a ventiquattro. Hanno comprato casa, hanno avuto tre figli, e a trentaquattro erano divorziati. Dì pure che sono di parte, ma non credo che si possa restare aggrappati per sempre all'idea di amore che si ha nell'adolescenza.»
    «Insomma, non credi che Alice e Federico staranno insieme per sempre.»
    «No, infatti. Appena avranno la possibilità di passare più tempo insieme, inizieranno a notare ognuno i difetti dell'altro, tutti quei piccoli dettagli che la lontananza offusca. Federico scoprirà che Alice di secondo nome fa Disordine, e Alice non riuscirà a reggere la disciplina di Federico. Forse non subito, ma prima o poi uno dei due crollerà, e io sarò la stronza che dirà 'Io l'avevo detto!'. Federico non mi parlerà mai più, e Alice mi terrà il muso per un paio di settimane. Poi le porterò una vaschetta di gelato e saremo di nuovo amiche come prima.»
    «Funziona?»
    «Cosa?»
    «Il gelato. Come offerta di pace.»
    «Con Alice funziona alla grande. Cioccolato e nocciola sono gli ambasciatori migliori del mondo. Perché me lo chiedi?»
    «Curiosità. Quando litigo con mio fratello non so mai cosa fare per farmi perdonare. Magari il gelato funziona anche con lui.»
    «Qualsiasi essere umano, anche l'uomo più cattivo del mondo, si ammansirebbe davanti al gelato.» Il suo sorriso è contagioso come il morbillo, e torna a farsi sentire prepotente in me quella voglia di starle accanto per il maggior tempo possibile – la conosco da poco, ma con lei sto incredibilmente bene, sono a mio agio, posso fare battute e ridere in libertà. Con lei mi sento libero di essere me stesso, libero da quella tensione che non riesce mai a farmi decidere in quali occasioni posso essere sincero e in quali invece no. E così, senza quasi rendermene conto, inizio ad avvicinare il mio volto al suo, pronto ad alzare un braccio per circondarle le spalle. Al contrario di me, lei deve aver capito che cosa sta per accadere, perché l'espressione dei suoi occhi cambia, si affila, come se si stesse preparando a bloccarmi e a chiedermi che cazzo sto facendo.
    Ma non c'è bisogno che sia lei a bloccarmi: ci pensa il suo cellulare. Mi fermo, scuoto la testa e chiedo a me stesso di rinsavire – non posso andare in giro a baciare sconosciute senza pensare alle conseguenze! - , mentre lei sposta lo sguardo dal display all'auto, dalla quale scende una bionda spettinata che sta finendo di aggiustarsi addosso un maglioncino nero. «Scusa, Daria» la sento dire, «è tanto che aspetti?» Rimane piuttosto vicina alla macchina, mentre dall'altro lato sbuca un ragazzo alto e allampanato. Dubito che da quella distanza Alice mi abbia riconosciuto, forse sta solo cercando di non disturbare la nostra intimità – Troppo tardi!, vorrei urlare. «Se tu sei pronta per andare, io sono pronta.»
    Daria si alza, e così faccio io. Tutte le parole che ci siamo scambiati sembrano essersi perse nell'aria frizzante della sera, come se improvvisamente fossimo incapaci di trovare un linguaggio comune. «Grazie per la compagnia» sussurra, senza osare alzare lo sguardo – peccato, la fierezza dei suoi occhi è una delle cose che più mi piacciono di lei. «Spero che tuo fratello non se la prenda troppo con te. Dà pure la colpa a me, se necessario, tanto non...»
    Non ci vedremo mai più. Anche se si è interrotta, so che è questo che stava per dire. Lo ripeto un paio di volte nella mia mente, e suona così male che devo scuotere la testa per liberarmene. Ci sono miliardi di cose che potrei rispondere, e invece tutto quello che riesco ad articolare è: «Hai una penna?» Eppure, non è tanto la mia domanda a sconvolgermi, quanto la sua risposta.
    «Sì, certo. Certo che ho una penna.» E senza che le chieda altro, la tira fuori dalla borsa sdrucita che porta a tracolla. Senza dire niente, la prendo tra le dita, e mentre lei inizia a dire che non è necessario, convinta forse che voglia regalarle uno stupido autografo, io stringo la sua mano e me la porto vicino al petto, scrivendo con cura una precisa sequenza di lettere e numeri.
    Quando finisco, richiudo la penna e gliela restituisco, lasciandole piano anche la mano. «Scrivimi, se ti va. Mi farebbe molto piacere parlare ancora con te.» Mi allontano così, senza un'altra parola, senza un abbraccio, senza una stretta di mano e senza nemmeno un bacio. Mi allontano senza presentarmi all'amica, senza badare allo sguardo di Federico, che mi scruta torvo finché non riesce più a distinguere la mia figura, e soprattutto mi allontano senza vedere che Daria si sta guardando il palmo della mano senza nemmeno osare sfiorarlo, come se avesse paura di cancellare anche un singolo carattere.
    Forse Jared ha ragione, quando dice che non riesco a pensare proprio quando ce n'è più bisogno. Forse è vero, ma almeno mi sono regalato una mezz'ora di stupenda felicità.





***





1Portagioie di tristezza | Il titolo della storia è ispirato dalla canzone Jewel Box di Jeff Buckley, contenuta nel disco Sketches For My Sweetheart The Drunk (1998).
2Ho pensato a tutto ciò che volevo essere, ho pensato a tutto, a me, a te e a me | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone The Story dei 30 Seconds To Mars, contenuta nel disco A Beautiful Lie (2005).

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Capitolo 2
*** 2 | Immergiti nelle parole non dette, vivi la vita con le braccia spalancate, oggi è dove il tuo libro inizia, il resto non è ancora stato scritto. ***


Portagioie di tristezza | 1
Portagioie di tristezza





Capitolo secondo
Immergiti nelle parole non dette,
vivi la vita con le braccia spalancate,
oggi è dove il tuo libro inizia,
il resto non è ancora stato scritto.1

Torino, 03 novembre 2013

    Stesa sulla brandina che ha aperto al centro della stanza, Alice dorme profondamente, russando appena, mentre io non sono ancora riuscita a chiudere occhio. Alice ha voluto cedermi il suo letto per ringraziarmi del passaggio e della pazienza nell'aspettare che lei e Federico finissero di fare i loro comodi, ma nonostante la comodità del materasso non riesco proprio a convincermi a cedere al sonno. Non riesco a fare a meno di guardarmi la mano, dove ancora campeggia l'indirizzo e-mail di – ancora non riesco a dirlo – Shannon Leto.
    Shannon Leto, signore e signori.
    Shannon Leto, quarantatré anni e mezzo, batterista dei 30 Seconds To Mars, sogno erotico di migliaia di donne e ragazzine in tutto il mondo, mi ha dato il suo indirizzo e-mail. E mi ha chiesto di scrivergli. E io non l'ho ancora trascritto da nessuna parte.
    Mentre guidavo sulla strada del ritorno, con una soddisfattissima Alice seduta a fianco, mi sono inventata ogni sorta di balla pur di tenere nascosta la vera identità di Shannon: alle sue domande ho risposto che si trattava di un ragazzo straniero che ho conosciuto uscendo dal palazzetto – lui mi urta, mi chiede scusa, io lo perdono, lui mi chiede se mi è piaciuto lo show... ho sempre avuto un certo talento nell'inventare menzogne, anche se non l'ho mai sfruttato appieno. Per fortuna la curiosità di Alice si è spenta dopo cinque o sei domande, perciò non sono dovuta scegliere nei dettagli – anche se ho i miei dubbi che la questione sia conclusa, conosco troppo bene la mia amica e la sua proverbiale tenacia.
    Sollevo di nuovo la mano davanti al viso, tentando di decifrare i singoli caratteri nonostante il buio pesto. Sospiro, rimettendo giù la mano. Quei pochi simboli, insieme al retrogusto di nicotina che sento ancora in bocca, sono la prova tangibile che quell'incontro è avvenuto veramente, che quella conversazione ha avuto luogo – sono la prova che Shannon Leto mi ha davvero stretto la mano, offerto una sigaretta e parlato. Ho sempre criticato le ragazze ossessionate dai loro idoli, ma dopo questa sera le capisco. Oh, se le capisco. Dopotutto non è di un comodino che stiamo parlando, ma di un uomo fatto – e fatto dannatamente bene.
    Mi giro su un fianco, dirigendo lo sguardo verso il punto da cui sento arrivare il leggero russare di Alice, chiedendomi che cosa mi consiglierebbe di fare – non ho dubbi sul fatto che possa credermi o meno, è sempre stata lei quella incline a credere all'impossibile. Subito dopo mi viene da ridere, perché so benissimo che inizierebbe a strillare di gioia e a saltellare sul posto all'idea che una celebrità del calibro di Shannon Leto mi abbia chiesto una corrispondenza – oltre che molto credulona, Alice è anche il tipo di ragazza che ama indulgere in fantasie romantiche e che guarda il mondo attraverso occhiali colorati di rosa. Non che io non mi conceda di sognare, intendiamoci, è solo che... sono meno illusa di lei.
    Sopportare la separazione dei miei genitori è stato meno facile del previsto, e anche a distanza di quindici anni ho difficoltà a parlarne. Secondo il dottor Martini, lo psicologo che vedo una volta a settimana, il mio cinismo in materia di relazioni sentimentali ha origine dalla fine del matrimonio dei miei, e la mia insicurezza affonda le sue radici nell'abbandono di mia madre – si tratta pressappoco della stessa analisi compiuta da Alice, ma sentirselo dire da qualcuno di cui puoi vedere la laurea appesa alla parete rende tutto più ufficiale. Come ho detto anche a Shannon, ho avuto dei ragazzi, ma in nessun caso ho mai avvertito quella che io chiamo 'la scintilla' – ovvero, semplicemente, la sensazione di essere capitata insieme al ragazzo giusto. Fino a questo momento, a dire il vero, non me ne sono mai preoccupata – in fondo ho solo ventitré anni, e di tempo per conoscere gente nuova ne ho a iosa. Non me sono mai preoccupata, davvero.
    Non fino a stasera, almeno.
    Perché diciamolo, quando ti ritrovi a parlare di sesso e relazioni sentimentali con una celebrità incontrata da meno di un quarto d'ora, poi qualche domanda te la fai. Ripenso a tutte le cose di cui abbiamo parlato e mi sembra di rivivere tutta la conversazione, come se non fossero trascorse ore ma solo pochi minuti. Se sul momento la mia preoccupazione era di parlare correttamente inglese per farmi capire, ora mi ritrovo a sperare di non essere riuscita a comunicargli nulla – no, seriamente, gli ho raccontato del divorzio dei miei? Gli ho detto che intendo trasferirmi in una casa tutta mia? Gli ho praticamente fatto capire che non vado a letto con qualcuno da un sacco di tempo? Complimenti, Daria, complimenti. Mi applaudirei da sola, se non avessi paura di svegliare Alice.
    All'improvviso, la lieve sensazione di disagio che avverto da un po' si acuisce, diventando una forte pressione all'altezza dello stomaco. Consapevole di non poter dormire, mi metto a sedere, incrociando le braccia davanti alla pancia nella speranza di bloccare il fastidio. Quando al dolore si somma anche un vago senso di nausea, non ci penso due volte prima di alzarmi e raggiungere il bagno. Mi spruzzo un po' d'acqua fredda sul viso e mi tampono i polsi, cercando di convincermi che non si tratti di nulla di mortale. Sicuramente non sono dolori mestruali, visto che il ciclo mi è finito pochi giorni fa, proprio in tempo per il concerto. Scartata l'ipotesi più ovvia, ciò che rimane è che probabilmente il mio corpo si rifiuta di accettare quello che mi è successo stanotte – so che sembra assurdo, ma se c'è una cosa di cui Alice è riuscita a convincermi nei diciotto anni della nostra amicizia, è che a volte le cose impossibili succedono davvero.
    Sospiro, mi asciugo viso e mani e torno a letto, pur sapendo che continuerò a non dormire. Mi sono appena messa giù – e intanto sono passate le quattro e mezza –, quando sento la voce di Alice. «Non stai bene?»
    «No, figurati, sto benissimo. Dovevo solo andare in bagno» mento.
    «Ah. No, è che sarà mezz'ora che ti rigiri nel letto... pensavo non stessi bene.»
    «E io pensavo che dormissi.»
    «Lo sai che ho il sonno leggero, no? Ma è successo qualcosa? Hai una faccia...»
    «Come fai a vedere che faccia ho, scusa? È buio pesto!»
    «Ho tirato a indovinare. Se devo essere sincera, è da quando siamo partite da Milano che sei strana. Sicura che vada tutto bene?»
    «Va tutto benissimo, Alice. Sono solo troppo stanca, e quando sono troppo stanca a volte fatico ad addormentarmi.»
    «Sarà. Comunque adesso faticherò ad addormentarmi anch'io. Perché non parliamo un po'? Dai, raccontami qualcosa del tuo nuovo amico. In macchina non ti sei sbottonata più di tanto. Hai detto che è americano?»
    «Sì, è americano, ma adesso non è il...»
    «E invece sì, è proprio il momento. Senti, a me è venuta fame» aggiunge subito, senza darmi il tempo di rispondere. «Metto su un po' d'acqua e ci facciamo un po' di tè, così parliamo del tuo nuovo amico.» Senza aspettare cenni di dissenso o approvazione, si alza in piedi e schizza via come un fulmine, non lasciandomi altra scelta se non quella di seguirla.

    «Allora, parli da sola o pretendi che ti faccia anche delle domande?» Chiunque troverebbe questa sua curiosità invadente e inopportuna, ma io la conosco, e so che vuole farmi parlare solo perché sa che parlare mi fa bene – quando inizio a tenermi dentro tutto poi divento eccessivamente triste e difficile da trattare. «Tra l'altro, correggimi se sbaglio, ma ho avuto come l'impressione di avervi interrotto in un momento molto importante.»
    Continuo a spalmare Nutella su una fetta di pane, fingendo indifferenza. «No, affatto. Insomma, stavamo solo parlando. Qualche chiacchiera di circostanza, tanto per passare il tempo.»
    «Ah» fa lei, forse un po' delusa. «No, te lo dico perché mi era sembrato che ci fosse una certa... intimità. Sono sincera, ero lontana e non l'ho guardato bene, ma il suo atteggiamento era piuttosto difficile da fraintendere.»
    «Sarebbe a dire?»
    «Non fare la gnorri, non ti riesce bene come raccontar balle» mi rimprovera subito lei, strizzando la bustina usata per l'infusione e buttandola nel cestino. «Era piuttosto evidente che ci stava provando. Scommetto che stava per baciarti.» Ho commesso l'errore di bere prima della fine della frase, e quando sento l'ultima parola, colta di sorpresa, sputacchio in giro tè e frammenti di pane masticato. «Direi che ho avuto la mia risposta» è il commento di Alice, che si alza per prendere una spugna. A volte il suo autocontrollo è destabilizzante.
    «Scusa, non volevo...» bofonchio, pulendomi la bocca. «Beh, veramente non so se... insomma, non credo che...» Ripenso all'attimo immediatamente precedente all'interruzione di Alice e l'incertezza si dissolve: Shannon che dopo la telefonata torna a sedersi accanto a me, decisamente più vicino di prima, e poi il suo sguardo che non mi abbandona mai, e i suoi occhi che si fanno improvvisamente più vicini, e le parole che sembrano mancare all'improvviso, lasciando un vuoto che può essere colmato solo... no, mi rifiuto di crederci.
    «Te ne sei accorta soltanto adesso?» interviene Alice, ammiccando. «Allora, che mi dici di lui?»
    L'improvvisa consapevolezza di quanto sta accadendo mi colpisce in pieno stomaco: non posso più tacere la verità ad Alice. Devo parlare con qualcuno, altrimenti rischio di esplodere. «Alice, devo dirti una cosa.» Sta per dare un morso alla sua fetta di pane, ma nel sentirmi parlare così si blocca, cristallizzandosi in una posa piuttosto comica. «Non è una cosa grave, tranquilla. Non è grave, è solo... strano
    «Riguarda il tuo nuovo amico? A proposito, ti sei scritta quell'indirizzo da qualche parte? Ehi, aspetta, se ce l'hai ancora vuol dire che non ti sei lavata le mani prima di mangiare! Che schifo!»
    «Le ho lavate, le ho lavate. Ho usato solo l'acqua perché tanto non avete più sapone.»
    «Oh, dobbiamo comprarlo. Ma non cambiare discorso, signorina. Riguarda il tuo nuovo amico?»
    «Beh, sì. Se di amico possiamo parlare.»
    «Possiamo parlarne.»
    «Ti ho raccontato che è uno studente americano che vive qui ed è venuto a vedere il concerto con degli amici, ma non è vero. Ti ho detto una bugia.»
    «Su quale parte hai mentito, scusa? Non è uno studente?»
    «No, non è uno studente. Non è qui per studio e non è andato a vedere il concerto con degli amici.»
    «E quindi cosa...»
    «Stavo parlando con Shannon Leto» dico, interrompendola. O almeno, questo è quello che vorrei aver detto. Ho parlato così in fretta che quello che ho detto in realtà è un miscuglio di lettere e vocalizzi a casaccio. «Stavo parlando con Shannon Leto» ripeto, questa volta più lentamente. «Dopo la signing session sono uscita e mi sono cercata un angolo tranquillo dove aspettare che mi chiamassi. Ero vicino ad un'uscita di sicurezza, e a un certo punto lui è uscito per fumare, e... e non lo so, non aveva l'accendino e allora gli ho prestato il mio, e poi ci siamo messi a parlare e... e quando mi è arrivato il tuo squillo ha detto che voleva accompagnarmi perché non si fidava a lasciarmi sola, e... io non lo so, Alice, io... io stento ancora a credere che sia successo davvero. Ho paura di svegliarmi e di rendermi conto che è stato tutto un sogno, che sono solo le otto di mattina e che al concerto ancora ci dobbiamo andare.»
    «Mi stai prendendo per il culo?»
    «No, non ti prendo per il culo. Era lui. Era lui, e io gli ho parlato di quando i miei hanno divorziato, e del fatto che voglio andare a vivere da sola, e di che lavoro faccio eccetera. Gli ho parlato come se fossimo amici, o roba del genere, e... non posso credere che sia vero.» Alice distoglie lo sguardo, aggrottando le sopracciglia come se stesse riflettendo su qualcosa di importante. «Ti prego, Alice, dimmi qualcosa.»
    «Stavo pensando... in effetti quando ho visto quel tipo seduto vicino a te ho pensato che somigliasse un pochino a Shannon. Insomma, il modo di vestire, il berretto, la postura... ho pensato che avesse l'aria da cattivo ragazzo che ha lui, ma... porca miseria, Shannon Leto ci ha provato con te?» Vorrei dirle che a sconvolgermi è il fatto che mi abbia parlato, ancor prima del pensiero che possa averci provato con la sottoscritta, ma lei non mi lascia il tempo di ribattere. «Aspetta, prendo il portatile. Gli devi scrivere.»
     «Ma sono le cinque del mattino!» esclamo, mentre lei corre in camera. «Starà dormendo! E poi che gli scrivo?»
    «Vorrà dire che leggerà domani. E comunque gli puoi scrivere che... che ne so, che ti ha fatto piacere parlare con lui. Potresti chiedergli quali sono i loro progetti, se si trattengono ancora in Italia o no. Inventati qualcosa. Ehi, e comunque ti faccio notare che è stato lui a darti il suo indirizzo, e questo può voler dire solo una cosa.»
     «Che cosa?»
    «Che vuole tenersi in contatto con te, ovvio!» Mi mette davanti il portatile acceso, senza curarsi di spostare tazze e barattoli. «Forza, dai libero sfogo alla tua creatività.»
    «Alice, io non faccio questo genere di cose. E poi lui è...»
    «Lui è un uomo attratto da te, e tu sei una donna attratta da lui. Lasciati andare, una volta tanto. A volte abbracciare la vita non è così brutto.»


***


Milano, 03 novembre 2013

    Durante il viaggio in auto, Jared ha evitato ogni discussione fingendosi addormentato, mentre accanto a me Tomo cercava di tenersi sveglio giocando a Candy Crush. Io ho ingannato il tempo guardando fuori dal finestrino, sprofondando in un mondo tutto mio grazie al mio iPod. In albergo, ci siamo augurati a vicenda la buonanotte e ci siamo rintanati dietro porte di legno laccate di bianco, finalmente liberi di lasciarci andare ed essere di nuovo noi stessi.
    Ho fatto una lunga doccia, forse la più lunga della mia vita: non so per quanto tempo sono rimasto fermo sotto il getto caldo, con la testa china e le mani appoggiate alle piastrelle, domandandomi se mai avrò un'altra occasione di incrociare lo sguardo limpido di Daria, se mai avrò un'altra occasione di sentire ancora la sua strana pronuncia della lettera erre, se mai la vedrò ancora sorridere coprendosi una mano con la bocca per coprire un dente lievemente accavallato. Era buio e sono stato con lei per poco, ma l'ho potuta osservare bene, e nonostante sia già riuscito a trovare in lei almeno due difetti, non riesco a non essere attratto da lei. È una cosa che non riesco a spiegarmi.
    Uscito dal bagno con la pelle praticamente ustionata, mi sono strofinato qui e là con un asciugamano e mi sono infilato soltanto un paio di mutande, giusto per non rimanere completamente nudo. Poi, in preda a non so quale stupida idea, ho tirato fuori il portatile e l'ho acceso, andando subito a controllare la posta elettronica – come se potesse aver deciso di scrivermi subito, o di scrivermi in generale. Trovando la casella più deserta del frigo di casa, ho pensato di andarmene a letto e riposare – che, in fondo, è lo scopo principale per cui siamo rientrati in albergo.
    Quando sento bussare alla porta, sono quasi le cinque del mattino e non sono ancora riuscito a chiudere gli occhi. Ho lasciato il computer acceso con il volume al massimo, in modo da sentire il segnale acustico di un'eventuale notifica, ma nonostante questo non sono riuscito a calmarmi. Mi infilo addosso l'accappatoio, giusto per non correre il rischio di sembrare la classica rock star ninfomane nel caso dovesse essere qualcuno del personale.
    Errore.
    Non è qualcuno del personale.
    Peggio.
    È mio fratello.
    E l'idea che voglia iniziare a litigare alle cinque del mattino sinceramente non mi attira.
    «Ciao» biascico, fingendomi appena sveglio. «Che succede?»
    «Niente. Veramente volevo chiederlo io a te. Che succede?»
    Mi sposto, lo faccio entrare, chiudo la porta e mi tolgo l'accappatoio, abbandonandolo su una poltrona. «Che intendi?»
    «Shan, non fare il finto tonto. Sei uscito per fumare e sei sparito per quaranta minuti. Che è successo? Senti, non voglio litigare» aggiunge, e nel tono della sua voce leggo finalmente quella stanchezza che non gli vedo mai addosso. «Stavo solo pensando che sei per caso hai fatto qualcosa di... ehm, non programmato, ecco... vorrei solo saperlo, così se per caso dovessero esserci delle... complicazioni...»
    «Jared, mi stai chiedendo se ho fatto qualcosa tipo scoparmi una ragazza sconosciuta dietro un angolo senza usare protezioni, o roba del genere?» Il tono monocorde con il quale l'ho detto sconcerta persino me. Lui evita il mio sguardo, gonfiando un po' le guance e cercando le parole giuste. Sembra in difficoltà, perciò decido di cavarlo dall'imbarazzo. «Non l'ho fatto.»
    «Quindi hai usato il...»
    «L'unica cosa che ho fatto dietro un angolo è stata fumare. Niente ragazze nude, niente scopate. Stai tranquillo, non ho fatto niente che tu non avresti fatto.» Una breve pausa. «In ogni caso, quaranta minuti sarebbero stati pochi» aggiungo, avvicinandomi al frigobar per prendere una bottiglietta d'acqua.
    Lo vedo sorridere, mentre senza chiedere il permesso si siede a gambe incrociate sul letto. «E allora che diavolo hai fatto, ti sei fumato un pacchetto intero?»
    «Ho incontrato una ragazza» confesso. Meglio la verità subito, che tante bugie e una sfuriata alla fine. E poi non ho fatto niente di male, perché dovrei tenerlo nascosto?
    «Cosa? Ma hai detto che...»
    «Ho detto che non ho scopato. Sono uscito da una porta di sicurezza, solo che quando sono arrivato lì mi sono accorto di non avere l'accendino» inizio a raccontare, raggiungendolo sul letto. «Lei era lì, e mi ha dato da accendere.»
    «C'era una ragazza appostata dietro una porta di sicurezza?»
    «Non era
appostata» lo correggo, sistemandomi un cuscino dietro la schiena. «Stava aspettando una sua amica, e quello era il posto più tranquillo che avesse trovato. L'amica era con il suo ragazzo, in macchina, e stavano... vivono in due città diverse e non si possono vedere spesso» taglio corto, appellandomi all'esperienza di mio fratello.

    «Ah, capito. E sei rimasto quaranta minuti a parlare con lei?»
    «Sì. No, in realtà dopo cinque minuti la sua amica l'ha chiamata per dirle che avevano finito, e lei se ne stava per andare. Solo che... cazzo, Jared, dovevo lasciarla tornare sola verso il parcheggio? Insomma, sicuramente erano tutte brave persone, ma se qualcosa fosse andato storto non me lo sarei perdonato.»
    «L'hai accompagnata alla macchina?»
    «Sì, anche se lei non voleva. Ho dovuto insistere un po' per convincerla. Poi siamo arrivati a quindici metri dalla macchina e ci siamo accorti che l'amica e il tizio avevano ricominciato. Lei ha detto che poteva aspettare da sola, ma ho deciso di restare ancora. Quando hai chiamato, ero con lei. A proposito» aggiungo, ridacchiando al ricordo di quel momento, «mi ha detto di chiederti scusa da parte sua. Ha detto che le sarebbe dispiaciuto sapere che avevamo litigato per colpa sua.» Questa confessione strappa un sorriso anche a lui, che intanto si rimette a posto una lunga ciocca sfuggita alla coda disordinata. «Sarebbe piaciuta anche a te, se l'avessi conosciuta. È simpatica.»
    «Come si chiama?»
    «Daria.» Daria. Ripeto il suo nome nella mia testa finché acquista un suono naturale, come se fosse stato fatto per essere pronunciato da me. «Era al concerto.»
    «Lo immaginavo. È italiana?»
    «Sì, abita a... Torino, mi sembra. Sì, Torino. Abbiamo parlato di un sacco di cose: sua madre l'ha abbandonata quando aveva otto anni, e da allora vive con suo padre e con il fratello e la sorella.»
    «Brutta storia.»
    «Già. Lavora come commessa in una libreria, e parla benissimo inglese. Ha detto che il suo prossimo progetto è di prendere in affitto una casa tutta per sé, perché vuole staccarsi da suo padre e dai fratelli e avere un posto tutto per lei.»
    Jared aggrotta appena le sopracciglia. «Quanti anni ha?»
    Sospiro, costretto a confessare. «Ventitré.»
    «Ventitré.»
    «Ventitré» ripeto. «Ma ti assicuro che di testa è molto più grande, glielo leggi negli occhi. Ragiona come una donna di trentatré almeno. È davvero molto matura. E poi è anche carina, il che non guasta.»
    «Ricapitoliamo: hai incontrato una ragazza italiana di ventitré anni che lavora in una libreria e vive ancora con il padre e i fratelli, e che, cito testualmente, è molto carina. Giusto?»
    «Giusto.»
    «Ok. Tanto per sapere, quando vi siete salutati ti sei fatto lasciare il numero, o altro? Casomai ti venisse l'idea balzana di rivederla?»
    «Non sarebbe un'idea balzana, comunque sì. Le ho lasciato il mio indirizzo e-mail.»
    «E se non dovesse scriverti?»
    «Sarebbe un segno del destino: non è la donna per me, lascio perdere.»
    «Toglimi una curiosità: da quando in qua credi nel destino?»
    Abbasso lo sguardo sulla bottiglietta d'acqua dalla quale sto grattando via l'etichetta, pensando ad una risposta valida. «Probabilmente da quando mi hai messo in mano il suo cd da autografare.» Un improvviso trillo impedisce a mio fratello di rispondere. «Questa è lei!» esclamo, saltando in piedi.
    «Come lo sai?»
    «Lo so e basta» taglio corto, spostando il portatile dalla scrivania al letto. Deve essere lei.





***




1Immergiti nelle parole non dette / vivi la vita con le braccia spalancate / oggi è dove il tuo libro inizia / il resto non è ancora stato scritto. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Unwritten di Natasha Bedingfield, contenuta nell'album Unwritten (2004).

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Capitolo 3
*** 3 | La vita ha un buffo modo di insinuarsi in te. La vita ha un buffo, buffissimo modo di aiutarti. ***


Portagioie di tristezza | 1

Ormai giunti al terzo capitolo della storia, mi sento in dovere di lasciare alcune righe per ringraziare tutti coloro che stanno seguendo questo mio delirio, tutti coloro che l'hanno aggiunto tra i preferiti o tra i ricordati e, soprattutto, tutti quelli che hanno speso almeno qualche minuto per recensire – siete voi i più grandi.
Colgo anche l'occasione per ribadire che non conosco i 30 Seconds To Mars di persona, e che perciò tutto ciò che leggete è frutto della mia fantasia. Lo ribadisco solo per evitare di ricevere altri messaggi privati in cui mi si dice “Oddio, ma li conosci di persona? Sai così tante cose su di loro, salutameli!” Sembra assurdo, ma è capitato. E sto seriamente sperando che si tratti di un troll di proporzioni elefantiache.
Grazie mille,
EffieSamadhi*






Portagioie di tristezza






Capitolo terzo
La vita ha un buffo modo
di insinuarsi in te.
La vita ha un buffo,
buffissimo modo
di aiutarti.1


Da: daria-giordano@yahoo.it
A: echelon490@gmail.com
03-11-2013 | 05:03 AM (GMT+1)
Oggetto: Grazie

Ciao Shannon,
spero di aver scritto l'indirizzo giusto (mi sono dimenticata di trascriverlo su carta prima di lavarmi le mani) e di poterti perciò mandare poche righe per ringraziarti della compagnia di questa sera. In effetti quel parcheggio non era un posto in cui sarei rimasta volentieri da sola. Grazie anche per aver sopportato le mie lamentele – comunque di solito non sono così noiosa. Ancora complimenti per lo show di questa sera, è stato davvero eccezionale. Se siete in albergo a riposare, buonanotte. Se invece siete già ripartiti per un altro concerto, buon viaggio e buona fortuna!
Daria



***



03-11-2013 | 05:12 AM (GMT+1)
Oggetto: Re: Grazie

Ciao Daria,
come sicuramente capirai da questa mail l'indirizzo è giusto. Sono molto felice che tu mi abbia scritto, ma come ti ho già detto non hai nulla di cui ringraziare. Sono stato molto bene con te, e mi ha fatto piacere conoscere una persona nuova, specialmente perché sei una ragazza molto matura e anche molto simpatica. Piuttosto, grazie a te per non avermi assalito come una fan esaltata – in tal caso, ti avrei scaricata in quel parcheggio e me ne sarei andato. Alla fine con mio fratello ho chiarito tutto: gli ho fatto le scuse da parte tua e lui ha lasciato perdere l'idea di litigare (è sempre molto sensibile alla causa delle belle ragazze). Ora siamo in albergo, ci tratterremo ancora qualche giorno in Italia (forse anche una settimana o più). Hai consigli per tre americani che vogliono fare i turisti?
Shannon

P.S.: Vedo che neanche tu riesci a dormire...



***



Da: daria-giordano@yahoo.it
A: echelon490@gmail.com
03-11-2013 | 05:28 AM (GMT+1)
Oggetto: Re: Re: Grazie

Per fortuna tuo fratello è stato ragionevole (il mio avrebbe molto da imparare in proposito), sono contenta che non ci siano state conseguenze. Per quanto riguarda l'esaltazione... beh, te l'ho detto, non sono così fanatica da diventare una stalker. Sono contenta che possiate trattenervi ancora qualche giorno in Italia, ci sono tante cose belle da vedere. Dovreste prendervi un po' di tempo per visitare Milano, ci sono tanti luoghi di interesse e monumenti che valgono la pena di essere visti. Quali posti avete già visitato in Italia?
Daria

P.S.: Non ho ancora scaricato l'adrenalina del concerto, non riesco a tenere gli occhi chiusi. Probabilmente stasera andrò a letto ancor prima di cena.



***



Da: echelon490@gmail.com
A: daria-giordano@yahoo.it
03-11-2013 | 05:46 AM (GMT+1)
Oggetto: Re: Re: Re: Grazie

Milano la conosciamo già piuttosto bene, l'abbiamo visitata tre anni fa durante il tour di This Is War. Conosciamo abbastanza bene anche Roma e Firenze. Ci sono altre città che secondo te dovremmo vedere, a parte Venezia (tutti quelli che conosciamo ci consigliano Venezia)? Che ne dici di Torino, ad esempio? So che è una città piuttosto importante, immagino che ci saranno parecchie cose da vedere. Magari potresti farci tu da guida, visto che sei nata e cresciuta lì. Sicuramente non avremmo problemi a comunicare, dato che parli l'inglese così bene.
Fammi sapere qualcosa, ok?
Shannon



***



Da: daria-giordano@yahoo.it
A: echelon490@gmail.com

03-11-2013 | 06:14 AM (GMT+1)

Oggetto: Re: Re: Re: Re: Grazie

Tra Torino e Venezia la più suggestiva è certamente Venezia, perciò vi consiglio di andare là. Siamo in bassa stagione, quindi dovreste riuscire a girare piuttosto liberamente. Comunque non avrei molto tempo da dedicarvi, tra il lavoro e tutto il resto. Dopo Milano, Roma e Firenze sicuramente Venezia è la tappa ideale. Fatemi sapere se vi siete divertiti! Adesso torno a letto e provo a dormire un po', mi sento stanchissima. Buon riposo anche a voi.
Daria



***



Torino, 03 novembre 2013


    «Giuro su quanto ho di più caro al mondo, a volte mi piacerebbe davvero sapere che cosa ti passa per la testa in certi momenti» sospira Alice, spostando le tazze vuote nel lavello. «Tu capisci che cosa stava cercando di comunicarti, vero? Ti prego, dimmi che lo capisci.»
    «Ho capito che voleva che io gli consigliassi di venire a Torino.»
    «Appunto. E dietro quel desiderio che cosa si nascondeva secondo te?»
    «Alice, non...»
    «Lui voleva vederti, tutto qui. E tu gli spegni ogni entusiasmo spedendolo a visitare un vespasiano per piccioni.»
    «Venezia non è un vespasiano per piccioni, è una delle città più belle del mondo, nonché una delle più romantiche.»
    «Sì, se sei in coppia. Certo non se sei uno che ci prova con una ragazza che si è travestita da gigantesco muro di gomma e si diverte a respingere ogni tuo assalto.»
    Mentre aspetto che il computer si spenga, chiudo per un istante gli occhi e mi massaggio la fronte con una mano, pensando a come rispondere: Alice sarebbe in grado di contraddirmi fino alla morte e oltre. «Alice, per favore, consideriamo questa cosa in maniera razionale. Da una parte c'è la sottoscritta, che ha un lavoro sottopagato, vive ancora in famiglia e sarà sempre una pinco-pallino qualunque. Dall'altra parte abbiamo un tizio la cui faccia è conosciuta in tutto il mondo, che guadagna milioni di dollari soltanto grattandosi il naso e che probabilmente ha piantato la bandiera in ognuno dei cinque continenti. Ora spiegami, in maniera razionale, in quale cazzo di modo la sottoscritta e il tizio milionario potrebbero mai trovare un punto d'accordo. Se sei in grado di spiegarmelo, il prossimo mese di affitto te lo pago io, sul serio.»
    «Beh, sicuramente con un atteggiamento un po' più positivo del tuo» ribatte lei, voltandosi mentre si asciuga le mani con uno strofinaccio. «Daria, sono la prima ad essere sconvolta da quello che ti è capitato stanotte, però... rifletti, accidenti! Probabilmente non diventerà nulla più di quello che ti aspetti, ovvero una breve avventura senza conseguenze, ma chi se ne frega! Sarà comunque molto più di quanto qualunque donna si aspetterebbe! E hai il vantaggio di sapere in anticipo che tipo è – o meglio, lo puoi presumere. Insomma, se ti aspetti che sia uno stronzo che vuole solo toglierti le mutande e lui dimostra di esserlo, comunque non ci perdi niente. E se invece ti aspetti che sia uno stronzo che vuole toglierti le mutande e poi scopri che non lo è... beh, in quel caso ci guadagni. Comunque varrebbe la pena tentare... per vederlo senza mutande, almeno.» Rimasta senza parole, non riesco neanche a guardare negli occhi quella che è la mia migliore amica. Ha ragione. Ha assolutamente ragione – anche sulla parte delle mutande. «Senti» riprende, appendendo al gancio lo strofinaccio e rivolgendomi lo sguardo più comprensivo del mondo, «lo so che tu non sei abituata a fare questo genere di cose, che prima di lasciarti andare con qualcuno hai bisogno di conoscerlo nel più piccolo dettaglio, però... insomma, Shannon è uno completamente diverso dagli altri, e quindi forse... forse è giusto che anche il tuo comportamento sia diverso. Penso che possiate incontrarvi di nuovo senza dover per forza finire a letto insieme. Le cose non sono automaticamente collegate, no? Però credo che dovresti rivederlo, se lui insiste tanto per farlo. Potrebbe comunque essere una delle esperienze più belle della tua vita. Sai, tipo un'esperienza da raccontare ai tuoi nipoti.»



***



Milano, 03 novembre 2013


    «No, aspetta, ti pianta in asso così?» Jared, che mi è rimasto accanto per tutto il tempo dello scambio di e-mail, a volte anche infastidendomi con i suoi consigli non richiesti, sgrana gli occhi sentendomi leggere l'ultima risposta di Daria. «Shannon, non può! Non ti può mollare così!»
    «Jared, io la capisco» rispondo in tono calmo, cercando di essere un buon mediatore. Conosco bene mio fratello, e so che sarebbe in grado di spedirle un messaggio per dirle che è stata maleducata. «Se fossi nei suoi panni e Lady Gaga mi chiedesse di uscire, probabilmente anch'io sarei confuso.»
    Sul volto di mio fratello appare un'espressione che definire disgustata è dir poco. «Ci stai paragonando a Lady Gaga?»
    «Taylor Swift?»
    «No, Shannon, no.»
    «Ok, sentiamo chi propone il maestro.»
    «Christina Aguilera.» Le sopracciglia devono essermi salite oltre la fronte, tanta è la sorpresa nel sentire quel nome. «Facciamo Whitney Houston.»
    «Sono d'accordo.»
    «Beh, comunque non può chiudere la conversazione così di botto e pretendere di averla vinta. Può essere carina finché vuole, simpatica e intelligente e tutto quello che vuoi, ma è una questione di buona educazione. Non si fa così.»
    «Aspetta, Jared, fammi capire: tu che c'entri in questa storia?»
    Disteso a pancia in sotto sul mio letto con i piedi che dondolano oltre il bordo del materasso e i calzini spaiati, mio fratello si sta comportando come una quattordicenne ad un pigiama party. Mi guarda con l'espressione più angelica del suo repertorio e risponde: «Voglio solo che tu sia felice, fratellone» sbattendo le ciglia con aria languida.
    «Ma piantala» rido, assestando una piccola pedata al cuscino su cui ha appoggiato i gomiti. «Sono un uomo adulto, credo di essere in grado di gestire le mie relazioni anche senza la tua assistenza.»
    «No, aspetta, fammi capire: da quando tu e questa Daria avete una relazione?»
    «Jared, se non la pianti ti butto giù dal letto.» La verità è che questa ragazza mi ha colpito da subito, e non riesco a fare a meno di ripensare alla mezz'ora scarsa che abbiamo trascorso insieme. So che è stupido e che rischio di sembrare ridicolo dicendolo, ma se credessi all'amore a prima vista direi che è successo, che sono stato colpito: gli occhi che durante la signing session mi hanno fatto sentire minuscolo sono riusciti a stregarmi, a distruggermi e a ricostruirmi nel volgere di una notte. Quello che più mi stupisce è che di lei ricordo praticamente tutto, ogni dettaglio, come se in mezz'ora avessi dipinto un ritratto mentale del suo viso, una copia così fedele da credere quasi di poterla toccare, di poterla tirare fuori dai ricordi e di metterla sul cuscino accanto.
    «Oh, no» sospira mio fratello, voltandosi sulla schiena e incrociando le braccia dietro la testa.
    «Oh, no cosa
    «Se non ti conoscessi bene, direi che ti sei innamorato» risponde quello, cantilenando l'ultima parola come quando da bambini ci si prende in giro. «Sarebbe materiale buono per una rivista di gossip. L'Italia strega Shannon Leto, già mi vedo i titoli. D'altronde l'hanno sempre detto che le italiane hanno un sex appeal micidiale.»
    «Non è sexy» ribatto subito, neanche fosse quello il punto fondamentale della conversazione. «Insomma, non è una di quelle che ti colpiscono per il fisico... veramente non ci ho nemmeno fatto caso, era vestita in modo piuttosto pesante. D'altronde la capisco, è autunno.»
    «Quindi magari è una bomba del sesso e tu ancora non lo sai.»
    «No, lo dubito. Quelle le riconosci dallo sguardo, dal modo di fare... Daria è una ragazza normale, lo sento. Una con degli occhi così non può non essere una ragazza normale.»
    «Quindi che hai intenzione di fare? Segui il consiglio e vai a Venezia a fare l'innamorato respinto e a struggerti per lei vagando per i canali in gondola?»
    «Non lo so, Jared. Non voglio insistere, ho paura di spaventarla. È vero, insieme siamo stati bene, ma non si può ignorare quello che sono. Per quanto mi sforzi di comportarmi in maniera ordinaria, la mia vita è tutt'altro che ordinaria, e...» Mi interrompo, distratto da un nuovo trillo di notifica. «Ehi, è di nuovo lei!»
    «Ti starà mandando il numero di un tour operator che può organizzarti la gita a Venezia» risponde lui con aria di sufficienza, studiandosi le unghie proprio come se fosse una quattordicenne ad un pigiama party con le amiche.
    «Non credo proprio, sai?»
    Jared si volta su un fianco e mi fissa con attenzione, aggrottando le sopracciglia. «Stai sorridendo. Mi pare un buon segno.»



***



Da: daria-giordano@yahoo.it
A: echelon490@gmail.com
03-11-2013 | 06:28 AM (GMT+1)
Oggetto: Re: Re: Re: Re: Re: Grazie

Ripensandoci, nonostante Venezia sia comunque una meta molto suggestiva, credo che potreste trovare qualcosa da fare anche qui a Torino. Purtroppo non potrei farvi da guida di persona, perché il lavoro mi tiene davvero molto occupata, e il lunedì, che di norma è il mio giorno libero, ho sempre un sacco di altre cose da fare. Se alla fine decideste di venire qui, fammelo sapere. Il fratello di una mia amica è un guida turistica, potrei chiedergli un favore e farvi accompagnare da lui.
Buonanotte,
Daria



***



Milano, 03 novembre 2013


    «Allora? Che dice?» L'espressione di Jared si è fatta curiosa, ai limiti dell'ossessione. Muore dalla voglia di sapere che cosa mi abbia scritto Daria nell'ultima e-mail. Digito in fretta una risposta, poi chiudo il portatile e mi alzo, mentre lui non mi stacca gli occhi di dosso. «Allora? Shannon? Shannon, che dice?»
    «Non sono affari tuoi. L'espressione vita privata ti dice nulla?»
    «Non ti sei mai fatto problemi a parlarmi della tua vita privata!» protesta lui, mettendosi in fretta a sedere. «Allora, che dice?»
    «Beh, parafrasando quello che dice lei e integrandolo con quello che penso io, ne salta fuori che qualsiasi progetto tu avessi fatto per lunedì salta.»
    «Ti ha invitato ad andare da lei?»
    «Non esattamente.»
    «Ti sei auto-invitato?»
    «Più o meno. Diciamo che dovrà ricavare cinque minuti per il sottoscritto nella sua fitta agenda. Ora, Vostra Maestà, potete farmi il favore di tornare nella vostra suite? Sento il disperato bisogno di dormire.»
    «Non riesco a decidere se sei un tipo geniale o soltanto un povero stronzo che non si cura dei bisogni degli altri» borbotta Jared, scendendo dal letto e avvicinandosi alla porta d'ingresso.
    «Potresti andare a pensarci in camera tua, per favore?» gli domando, tenendogli aperto l'uscio sperando che se ne vada.
    «Ho deciso: sei uno stronzo.»
    Appena rimango solo, inizio a pensare a tutte le cose che devo fare in previsione della mia gita fuori porta: devo controllare gli orari dei treni, prendere il biglietto, capire come funziona il trasporto pubblico... dal primo momento della nostra separazione sono stato determinato a rivederla, e ora che mancano per certo solo ventiquattro ore non riesco a stare nella pelle – mi sento come una lattina di birra scossa a lungo, mi sento come se ci fosse soltanto un sottile strato di pellicola a trattenermi dall'esplodere.
    La vedrò.



***



Torino, 03 novembre 2013


    «Ha risposto!» mi grida Alice dalla cucina, sperando forse di stimolare la mia vescica a svuotarsi più in fretta. «Hai sentito, Daria? Ti ha risposto! Vuoi che legga io?»
    «No, per carità!» esclamo, tornando in cucina così in fretta che ho i pantaloni ancora mezzi abbassati. «Vediamo che dice... mi ha dato il suo numero.»
    «Cosa?»
    «Mi ha dato il suo numero, guarda qui!» ripeto, puntando l'indice contro il monitor. «Vuole che lo chiami lunedì mattina alle otto. Dice che per lunedì hanno già dei programmi, e vuole che lo chiami per spiegargli come possono organizzare una visita in città, magari in un'altra data.»
    «Mi sembra una cosa un pochino cervellotica... sicura di aver capito bene?»
    «Ma certo che ho capito bene! Non sono cretina, è quello che mi ha scritto. Senti, io adesso vado a dormire. Inizio ad averne veramente bisogno.
    «Sì, penso che ci convenga. Sto iniziando a sentire tutta la stanchezza del concerto, in effetti.»




1La vita ha un buffo modo di insinuarsi in te. La vita ha un buffo, buffissimo modo di aiutarti. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Ironic di Alanis Morissette, contenuta nell'album Jagged Little Pill (1995).

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Capitolo 4
*** 4 | L'intera vita di una donna in un giorno, un solo giorno; e in quel giorno, tutta la sua vita. ***


Portagioie di tristezza | 1

Portagioie di tristezza






Capitolo quarto
L'intera vita di una donna in un giorno,
un solo giorno;
e in quel giorno,
tutta la sua vita.1


Torino, 03 novembre 2013


    «Sono a casa!» dico ad alta voce, richiudendomi la porta alle spalle e lasciando le chiavi nella ciotola di vetro appoggiata sul tavolino nell'ingresso.
    «Ciao, pulce!» mi saluta papà, abbassando il volume della televisione per potermi prestare più attenzione. «Divertita ieri sera?»
    «Moltissimo, è stato eccezionale. Vederli dal vivo è veramente un'emozione incredibile» rispondo, lasciando cadere il borsone dietro il divano e sfilandomi la sciarpa. «Non so, è stato... è indescrivibile, davvero. Non so che parole usare, non credo di poter spiegare quello che è stato. Sono bravissimi, un'energia così ce l'hanno in pochi. Anche Alice si è divertita, ha deciso che vuole trascinarmi ad ogni concerto che faranno qui in Italia.»
    «E sei poi riuscita a farti firmare il disco? A sentire Francesca, sembrava fosse l'unico motivo per cui valesse la pena di andare a Milano» mi domanda lui con un sorriso. Se la mia felicità dipende quasi totalmente dal fatto di aver assistito ad uno spettacolo irripetibile, l'ansia di mia sorella era dovuta al fatto che avrei potuto trovarmi faccia a faccia con Jared Leto, che è una delle tante forme che il suo Principe Azzurro ideale ha assunto nel corso degli anni.
    «Sì, sono riuscita a partecipare, e sono stati tutti e tre disponibilissimi» rispondo subito in tono sicuro. Meglio non far parola della conversazione con Shannon, e soprattutto della possibilità che stesse davvero tentando di baciarmi.
    Ad evitare un ulteriore proseguimento dell'interrogatorio di mio padre arriva quel terremoto di mia sorella, che mi salta al collo senza nemmeno salutare e inizia a chiedermi in maniera ossessiva: «Allora, come sono? Sono fighi come nelle foto? Eh? Come sono? Sono davvero così belli?»
    «Sì, Franci, sono davvero fighi come nelle foto» rispondo a fatica, cercando di liberarmi la gola dalla sua stretta. «Per l'amor del cielo, mollami, altrimenti mi ammazzi!»
    «Ti hanno firmato il cd?»
    «Sì, tutti e tre» rispondo, prendendo la custodia dalla borsa e porgendogliela. «Comunque non sono solo fighi, sono anche persone intelligenti e gentili. Sarebbe carino se ogni tanto fossi un po' meno venale, sai?»
    «Oh, ma smettila» mi zittisce. «Come se non sapessi che sbavi in maniera indecorosa su ogni video o foto in cui c'è Shannon!» Non so di preciso che cosa mi salvi dall'arrossire come un pomodoro ben maturo – in effetti, mi trovo costretta ad ammetterlo, Shannon mi ha sempre attratta in una maniera a dir poco indecente, e averlo avuto a pochi centimetri di distanza, e averlo sfiorato... beh, tutto questo certamente non farà diminuire la folle infatuazione che nutro per lui. Per fortuna Francesca ricomincia a parlare, riscuotendomi da un genere di pensieri che non mi sembra proprio il momento di avere. «Dai, mi racconti del concerto? Voglio sapere tutto, le mie amiche saranno invidiosissime! Ma Jared si è davvero fatto le trecce?»
    «Se mi dai il tempo di fare una doccia e poi mi aiuti a piegare le lenzuola, forse sì» le rispondo, restituendo il sorriso a mio padre mentre alzo da terra il borsone.

    Apro il rubinetto, sperando che qualcuno non abbia consumato tutta l'acqua calda, mi spoglio e lascio cadere i vestiti nel cestone della biancheria, scoprendo con un po' di dispiacere che più tardi mi toccherà caricare di nuovo la lavatrice. Mi infilo sotto un getto appena tiepido, ma che mi sforzo di farmi andare bene, e mentre inizio ad insaponarmi mi chiedo quando avrò un'altra occasione di divertirmi come sabato, quando avrò un'altra chance di stare bene, senza pensieri e senza pressioni. Non sono mai stata il tipo di ragazza che si piange addosso, ma a volte invidio davvero Alice, che nonostante i piccoli problemi quotidiani è una persona che vive felice.
    Ho compiuto ventitré anni meno di due mesi fa, ma ci sono mattine in cui mi alzo dal letto e me ne sento addosso almeno il doppio. Quando avevo otto anni, mia madre ha deciso di non essere abbastanza forte per occuparsi di un marito e di tre bambini, e nel volgere di una settimana ogni traccia del suo passaggio è scomparsa da questo appartamento – niente più abiti nell'armadio, niente più scarpe allineate sui ripiani dello sgabuzzino, niente più boccette di profumo schierate sulle mensole del bagno. Da quel momento è cambiato tutto, e in un certo senso dovrei dire che è stato tutto più difficile: nonostante il sostegno dei nonni e degli zii, andare avanti senza una figura femminile stabile ha creato una certa dose di problemi – almeno alla sottoscritta. Essere una ragazza non è mai facile, ma crescere senza avere accanto tua madre è ancora peggio: nonostante zia Beatrice sia sempre stata più che disponibile ad aiutarmi, a spiegarmi tutto quello c'era da sapere sulle 'questioni pratiche' e a darmi consigli, una strana sensazione di vuoto mi accompagna da quindici anni, come se nella mia vita mancasse qualcosa di fondamentale – e per chi se lo stesse chiedendo, sì, sono probabilmente la ragazza più insicura del mondo. Forse è per questo motivo che non riesco ad arrendermi all'idea che un uomo come Shannon Leto possa essersi sentito, anche solo per qualche frazione di secondo, attratto da me.
    Sciacquo via la schiuma, mi passo più volte le mani tra i capelli per assicurarmi che siano puliti e chiudo il rubinetto, cercando di prepararmi al momento in cui farò scorrere il pannello della doccia e mi sembrerà di passare dall'inferno alla ghiacciaia, e intanto penso a mio fratello e a mia sorella, che potrebbero dire di sentirsi ancor più defraudati di me – in fondo io ho alle spalle otto anni di ricordi, Emanuele soltanto quattro, e Francesca non ha altri mezzi se non le fotografie per ricordarsi il viso della mamma. Mi stringo nell'asciugamano, cercando di evitare lo specchio, sapendo che l'immagine che vi troverei è troppo simile a quelle nascoste in fondo all'armadio dove da tempo ormai ci sono solo i vestiti di papà. Ho guardato quelle fotografie così a lungo e così spesso da ricordare alla perfezione ogni dettaglio: so di avere gli stessi occhi, lo stesso naso, la stessa forma del viso, persino lo stesso colore di capelli – sono una copia sputata di mia madre, e a volte il terrore di potermi rivelare fragile e incostante quanto lei mi provoca un incontrollabile senso di nausea.
    Non la vedo da tredici anni. Per quel che ne so, potrebbe essere morta, in galera, o magari fuggita in Brasile. Papà non ne parla mai, ma credo sia piuttosto comprensibile: quando la donna che hai amato per una vita se ne va lasciandoti solo con tre bambini piccoli a cui badare, probabilmente l'ultima cosa che ti va di fare è ricordarla nelle tue preghiere serali – soprattutto se ti ha lasciato senza una valida spiegazione. So che lei è stata il grande amore di papà, perché da piccola le chiedevo sempre di raccontarmi di come si erano conosciuti, e del giorno del loro matrimonio. A quell'epoca mi sembrava felice, o almeno appagata, e dopo tutto questo tempo ancora non riesco a capire che cosa sia stato a farla scappare, che cosa sia scattato nella sua testa... ancora non riesco a capire perché abbia smesso di volerci bene.
Dopo il divorzio, papà è rimasto solo per un sacco di tempo, ma la cosa non mi sorprende: se anche avesse voluto rifarsi una vita, quale donna al mondo avrebbe accettato una relazione con un uomo che dedica al lavoro otto ore al giorno e trascorre le rimanenti cercando di non far sentire ai figli la mancanza della madre? Solo negli ultimi due anni ha iniziato ad aprirsi di nuovo al mondo, accettando di uscire con la figlia di un'amica della nonna, una ex compagna di scuola con due figli grandi rimasta vedova diversi anni fa. Non che ci siano chissà quali progetti in ballo, intendiamoci: immagino che quando ci si è scottati già una volta, prima di accendere un altro falò ci si pensi su un po' più di un paio di volte. Peccato, perché come matrigna Laura non mi dispiacerebbe: è una donna simpatica, moderna, e ogni volta che esce con lei papà sorride come un ebete per una settimana. Saperlo felice rende felice anche me, ma non posso certo obbligarlo ad ufficializzare la loro relazione soltanto per un mio capriccio.
    Mentre mi rivesto, non posso fare a meno di chiedermi se io avrò mai qualcosa del genere: un uomo che mi apprezzi che quello che sono, qualcuno che mi ami così tanto da voler dividere con me un'intera vita, e comprare una casa, avere dei figli, magari adottare un cane. Forse sono sogni infantili, una stupida utopia, ma la mia più grande paura è di trascorrere il resto della vita sola, in attesa di qualcuno che non arriverà mai. Mi strofino i capelli con un asciugamano, e mi viene da sorridere al pensiero che poco più di dodici ore fa la ragazza insicura e fragile riflessa in questo specchio sia riuscita a sostenere una brillante conversazione in lingua straniera con uno dei batteristi più famosi del mondo. Sono appena giunta alla conclusione che devo per forza essere una persona ridicola.
Torno in camera e spingo il borsone vuoto sotto il letto, pur sapendo che non è quello il suo posto; mentre mi sto voltando per uscire e raggiungere mia sorella nello stanzino adibito a lavanderia, sento vibrare il cellulare. Nonostante sappia che non può essere Shannon a cercarmi, nel sentire quel lieve rumore il cuore manca comunque un battito. Penso che se mi trovassi di nuovo a parlare con lui, ora che conosco il tono della sua voce e il suo modo di esprimersi, potrei seriamente rischiare un mancamento. Tuttavia non c'è pericolo, è soltanto Alice che mi scrive per chiedermi se l'ho già chiamato. Le rispondo di farsi gli affari suoi ed esco dalla camera, chiudendomi la porta alle spalle.

    «Senti, adesso che siamo lontane dalle orecchie di papà...» esordisce mia sorella mentre lotta per pareggiare gli angoli di un lenzuolo, «è successo qualcosa di interessante ieri sera?»
    «Interessante in che senso?» le domando fingendo indifferenza.
    «Interessante nel senso che mi sembri un po' troppo felice per essere una che è solo stata ad un concerto, per quanto grandioso possa essere stato lo spettacolo.»
    «E cos'altro sarebbe dovuto succedere secondo l'opinione della signorina?» le domando in tono sarcastico, sapendo di potermi aspettare da lei qualsiasi genere di risposta.
    «Potresti aver conosciuto qualcuno.» Per quanto fossi preparata, la sua risposta mi inchioda al pavimento. Le ipotesi sono tre: o mia sorella ha più intuito di quanto creda, o ha una fortuna sfacciata, oppure ha chiamato di nascosto Alice e l'ha fatta confessare. Oppure, ma questa è una cosa che non voglio nemmeno considerare, la mia soddisfazione è troppo evidente per essere nascosta. «Bene, il tuo silenzio vuol dire che ho indovinato.»
    «Non è che per caso hai chiamato Alice?»
    «No, perché? Pensi che potrebbe raccontarmi i dettagli che quasi sicuramente tu mi terrai nascosti?»
    «Stavo semplicemente chiedendo. Comunque sì, si potrebbe dire che ho incontrato qualcuno.»
    «Beh, chi è?»
    «Uno studente americano» mento. Non c'è ragione di raccontare tutta la verità anche a lei: ho già Alice a farmi da coscienza, ed è già troppo. «Arriva dalla Louisiana, è qui per un anno. È arrivato un paio di mesi fa, a inizio settembre.» Credo che raccontare bugie ad un familiare possa essere considerato un peccato mortale, ma ci sono occasioni in cui mentire è l'unica via per salvarsi. «Studia italiano e francese, ed è venuto in Italia per un programma stile Erasmus. Però abita a Milano, non qui a Torino. Era al concerto con un paio di amici.»
    «E come hai fatto ad incontrarlo?»
    «Ci siamo scontrati mentre uscivamo dal Forum. Sai, il classico incontro da film: mi è venuto addosso per sbaglio, si è scusato subito e poi abbiamo iniziato a parlare... in realtà l'italiano lo studia da poco, quindi abbiamo più che altro parlato in inglese. È piuttosto simpatico, devo dire.»
    «Quanti anni ha?»
    «Ha la mia età» ribatto velocemente. Menzogna epica: in realtà Shannon ha soltanto sei anni meno di nostro padre.
    «E come si chiama?»
    «Sh... Sean» mi correggo subito, sperando che Francesca non abbia colto la mia piccola défaillance. «Si chiama Sean»
    «Sean... mi è sempre piaciuto il nome Sean. E... rimarrete in contatto?»
    «Mi ha lasciato la sua e-mail. Mi ha chiesto di scrivergli, ogni tanto... però in italiano, dice che ci tiene a migliorare.»
    «E tu gli scriverai?»
    «Beh, credo di averglielo praticamente promesso. Non sarebbe educato non mantenere le promesse.»
    «E lo rivedrai?»
    «Beh, questo non lo so. Abita a Milano, non è certo dietro l'angolo. Insomma, è carino, ma non credo che questo giustifichi un viaggio così lungo solo per...»
    «Sul serio è carino? Descrivilo un po', dai, voglio sapere com'è!»
    Colta alla sprovvista, non so davvero da dove cominciare – ma perché diavolo mi sono lasciata scappare la parola carino? «Beh, non saprei... è un bel po' più alto di me, più o meno sarà un metro e settantacinque... ha un po' di barba, i capelli scuri... ah, i capelli li porta un po' lunghi...»
    «Lunghi quanto? Lunghi tipo Jared?»
    «No, più corti... diciamo tipo Shannon.»
    «Oh, come Shannon... scommetto che però non gli stanno così bene. E gli occhi? Come sono? Ti prego, dimmi che sono azzurri, dimmi che sono azzurri! Io impazzisco per gli occhi azzurri!»
    Non rispondo subito, impegnata come sono a cercare di ricordare il colore dei suoi occhi – è questa la fregatura, con Shannon: nessuno è mai riuscito a stabilire con certezza di che colore abbia gli occhi. Con Jared è facile, sono azzurri come un cielo d'agosto, e con Tomo ancora più semplice, sono scuri come la notte, ma lui... eh no, con lui non è semplice affatto: un minuto sembrano neri, quello dopo sono verdi, e proprio quando ti sembra di aver deciso eccoli riempirsi di pagliuzze dorate, e diventare color dell'ambra. Sono stata faccia a faccia con lui per più di mezz'ora, e non so di che colore abbia gli occhi. «Gli occhi sono scuri, quasi neri» rispondo infine. In fondo, questa è una mezza verità.

    Sono appena le dieci quando mi ritiro in camera mia, lasciando mio padre e mio fratello mezzi assopiti davanti ad una trasmissione sportiva e sorridendo all'idea di mia sorella alle prese con una versione di latino che fino a un'ora fa proprio non voleva saperne di riuscire. Scivolo dai jeans al pigiama senza fatica, desiderando solo di sistemarmi tra le lenzuola, chiudere gli occhi e dormire. Alla fine la giornata non è stata così improduttiva: ho fatto il bucato e stirato, smaltendo l'infinita pila di roba che da oltre una settimana aspettava di essere sistemata, così domani avrò il tempo di dedicarmi ad un progetto che rimandavo da troppo tempo – e cioè vagare un po' in giro alla ricerca di un appartamento che risponda alle mie esigenze. Non che non mi piaccia vivere qui, in fondo ci sono cresciuta, ma ci sono giorni in cui mi sento quasi di troppo, come se per me fosse giunto il momento di cambiare, di trovarmi un posto mio e di crescere definitivamente.
    Quando mi infilo a letto, non mi accorgo di aver lasciato il cellulare sopra le coperte, e quello scivola a terra con un tonfo. Quando lo prendo su, un'idea balzana mi attraversa la testa: perché aspettare domani mattina per chiamare Shannon? Potrei chiamarlo stasera ed evitare la levataccia domani mattina, visto che il lunedì e la domenica sono gli unici due giorni in cui posso permettermi di sonnecchiare un paio d'ore in più. Tuttavia non ho il tempo di interrogarmi sull'intelligenza dell'idea, perché le dita sono state più rapide del cervello, e già hanno selezionato il suo numero dalla rubrica. Cinque squilli, e quella voce risponde.
    «Pronto?»
    Ma io, da vera stupida fifona, ho già chiuso la comunicazione. Poso il cellulare sulle coperte, guardandolo come se mi aspettassi di venirne presto morsa, chiedendomi che cosa potrà mai aver pensato lui, rimasto appeso all'altro capo del filo come un salame. Ma di nuovo non ho tempo di farmi domande, perché le prime note di Iris2 stanno già riempiendo il silenzio. Il nome che appare sul display – Shannon – mi spaventa come non mai, ma so di non poter evitare di rispondere.
    «P-pronto?» balbetto, sentendomi una vera idiota.
    «Ehi... sai, me lo sentivo che eri tu. Dovevi essere tu.» La sua voce, signore e signori... la sua voce dovrebbe essere vietata ai minori. «Ehi, ci sei ancora?»
    «Sì, sì, sono... qui. Sono qui» ripeto, come per convincermene io stessa.
    «Sei un po' in anticipo. Ti avevo detto di chiamarmi domani mattina.»
    «Mi è partita per sbaglio la chiamata» rispondo in fretta, sentendomi ancora più stupida di prima.
    «Bugiarda» sussurra. E lo giuro, a quel sussurro sulle braccia mi viene la pelle d'oca. Mi chiedo se abbia mai pensato di lavorare per una linea erotica – ci sarebbero donne che spenderebbero una fortuna, per fare sesso telefonico con uno così. «Perché mi hai chiamato adesso?»
    Improvvisamente sento fiorire dentro uno strano coraggio, lo stesso che ho sentito ieri sera quando abbiamo iniziato a chiacchierare – è come se la mia personalità cambiasse, come se smettessi per un po' di essere l'insicura che sono di solito. «Se non vuoi parlarmi ora metto giù» ribatto, sentendomi più forte.
    «No, non mettere giù» risponde in fretta, quasi spaventato all'idea che possa chiudere di nuovo la conversazione. «Volevo solo sapere come mai hai deciso di chiamarmi adesso.»
    «Non avevo altro da fare. E poi volevo... non lo so, forse volevo solo essere sicura che... beh, che fosse successo davvero
    «Cosa, di esserci incontrati?» Annuisco, incapace di parlare. Mi accorgo subito della mia stupidità, perché lui non può vedermi attraverso il telefono, ma prima di potergli rispondere mi interrompe: «Anch'io ho avuto questo dubbio, sai? Mi sono svegliato, questo pomeriggio, e la prima cosa che mi sono chiesto è stata: ma con quella ragazza ci ho parlato davvero? Ho davvero parlato con una ragazza di nome Daria? Allora sai che ho fatto? Sono andato a leggere le e-mail. Così ho capito che era successo davvero.»
    «Sì, per me è stato più o meno lo stesso. Sarà che cose del genere non ti capitano tutti i giorni.»
    «No, infatti. E per fortuna non capitano tutti i giorni: hai idea di quanto diventerebbero ordinarie cose così straordinarie?» E di nuovo il tono in cui pronuncia l'ultima parola mi lascia senza fiato, incapace di formulare qualcosa di anche vagamente umano. «Sono contento che mi abbia chiamato adesso, in realtà. Non so se avrei resistito fino a domani.»
    «Perché volevi che ti chiamassi domani mattina?»
    «Beh, principalmente perché volevo sentirti. E poi perché volevo chiederti.... beh, ecco, volevo sapere se domani hai da fare.»
    «Domani è il mio giorno libero, avevo in mente di sbrigare qualche faccenda... ti ho raccontato del mio progetto di prendere casa, no? Domani ho preso un paio di appuntamenti per vedere qualche appartamento.»
    «Ah, capisco. Ma se per caso... ecco, la giornata è lunga. Credi che potresti trovare un po' di tempo per... per me
    «Trovare tempo per te in che senso?»
    «Beh, nel senso... per stare con me, ecco. Come per... portarmi a fare un giro in centro, prendere un caffè... cose del genere, ecco.»
    «Intendi dire... che domani vuoi venire a Torino per... stare con me
    «Sì, esatto. Lunedì non ho nulla da fare, e... sì, voglio vederti.» Mi copro la bocca con una mano, sperando di soffocare ogni singolo gridolino da adolescente esaltata che potrebbe uscire dalle mie labbra. «Daria, ci sei?»
    «Sì, sono qui. E... quando avresti intenzione di venire qui?»
    «Domani.»
    Ok, questa risposta potrebbe seriamente farmi dubitare della sua intelligenza, ma decido di soprassedere. «Intendevo a che ora.»
    «Dovrei arrivare con il treno delle due e mezza, se non ho fatto casino con la prenotazione. Al massimo chiederò qui in albergo se possono controllare. Tu sei libera domani pomeriggio, vero?»
    «Beh, a questo punto sì. Non posso certo abbandonarti alla stazione come un cane. Verrò ad aspettarti al binario.»
    «Grazie» sussurra in un italiano un po' incerto. Ma chi se ne frega, resta comunque un gran bel pezzo d'uomo. «Ok, allora siamo d'accordo. Adesso vado a finire di mangiare. Jared mi sta guardando malissimo.»
    «Chiedigli scusa da parte mia. Non era mia intenzione disturbare.»
    «Lo farò. Anche se non ti conosce, sembra che abbia una strana tendenza a perdonarti.» Riesco a rispondere soltanto con una breve risatina, mentre lui aggiunge, di nuovo in italiano: «Buonanotte».
    «Buonanotte. A domani.»
    «A domani.»
    Una volta chiusa la comunicazione, mi lascio cadere all'indietro sul materasso, emettendo un sospiro che ricorda vagamente una tromba d'aria. Appoggio il cellulare sul tavolino e certo di metabolizzare la notizia: domani la sottoscritta passeggerà per Torino in compagnia di Shannon Leto. Mi chiedo se dovrei informare Alice oppure no, ma dopo una breve riflessione decido che non è il caso di metterla in allarme già da ora.



*



Milano, 03 novembre 2013


    «Non è educato parlare al cellulare mentre si mangia» mi informa mio fratello, senza preoccuparsi di mandar prima giù il bolo di insalata triturata che si è cacciato in bocca mezzo minuto fa.
    «Non sarebbe educazione nemmeno parlare senza aver prima ingoiato» gli faccio notare, riprendendo a lottare con i miei spaghetti. Domani dovrò chiedere a Daria come diavolo si fa a mangiarli senza spargerne ovunque.
    «Beh, non dici altro?» mi rimprovera di nuovo Jared, fissandomi con gli occhi spalancati.
    «Cosa dovrei dire?»
    Prima di parlare, Tomo si pulisce educatamente gli angoli della bocca. «Raccontarci se era la tua nuova amica, ad esempio. Jared ha detto che ieri sera ti sei dato da fare» ammicca, avvicinandosi il calice di vino alle labbra.
    «Non mi sono 'dato da fare'!» protesto, mimando nell'aria un paio di virgolette immaginarie. «Ho incontrato una ragazza, ci ho parlato e le ho dato il mio numero, niente di più. Non è che ci ho provato, o cose simili.» In realtà sì, e neppure troppo velatamente.
    «Era lei» afferma Jared, prendendo un pezzo di pane.
    «Su quale base ti senti di affermarlo, di grazia?»
    «Ti sei messo sulla difensiva» risponde lui, facendo spallucce. «Ti metti sempre sulla difensiva, quando si parla di qualcosa che ti riguarda da vicino.»
    «Come l'unica volta in cui lui ha osato dirti che il finale di Convergence non lo convinceva» aggiunge Tomo, facendo un cenno del capo verso Jared. «Quando si parla di qualcosa che ti riguarda arruffi il pelo come un gatto. Non provare a dire che non è vero» aggiunse subito, gelando ogni mio istinto di ribattere.
    «E poi abbiamo sentito che parlavi di treni» sussurra mio fratello, credendo di non essere sentito.
    «Avete origliato?»
    «Siamo in una sala praticamente vuota, Shan» mi fa notare Tomo, continuando a sezionare con precisione la sua sogliola. «Il gruppo più vicino è a sette metri, di sicuro era più facile sentire quello che dicevi tu.»
    Jared si versa un po' d'acqua, continuando a masticare. «Andrai da lei, allora?»
    «So che pensi che sia una cosa stupida» commento, continuando a rimestare senza speranza nel piatto. «So che avevamo dei piani per domani, ma sento che vederla è la cosa giusta da fare» aggiungo, arrendendomi all'evidenza dei fatti: non saprò mai mangiare gli spaghetti. Prendo il coltello e inizio a spezzettarli, pur sapendo che potrei essere impiccato sulla pubblica piazza per un crimine del genere. «Se aveste incontrato anche voi una ragazza così, credetemi, ma fareste qualunque cosa per passare anche solo un minuto con lei.»
    «Che il Signore ci salvi, vi prego!» esclama Tomo, senza preoccuparsi di contenere il volume della voce. «Shannon si è innamorato!»



1L'intera vita di una donna in un giorno, un solo giorno; e in quel giorno, tutta la sua vita. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Virginia Woolf (interpretata da Nicole Kidman) nel film The Hours (2002).
2Iris | Celebre canzone del gruppo statunitense Goo Goo Dolls, contenuta nell'album Dizzy Up The Girl (1998) ed inclusa nella colonna sonora del film City Of Angels (1997), con Nicolas Cage e Meg Ryan.

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Capitolo 5
*** 5 | Perché io sono reale, e tu sei reale. ***


Portagioie di tristezza | 1 Piccola nota prima di procedere con il capitolo.
Vorrei ringraziare di cuore Love_in_London_night per le splendide e puntuali recensioni, e DadaOttantotto per il supporto morale (in poche parole, grazie per sopportare i miei deliri).
Grazie anche a tutte le persone che hanno aggiunto questa storia tra le preferite, le ricordate o le seguite. (E colgo l'occasione per ricordarvi che le recensioni non servono solo a dire all'autrice quanto è bella, brava e intelligente, ma anche per far presenti eventuali problemi, per proporre suggerimenti eccetera... quindi fatevi sentire anche se non avete cose belle da dire!)
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo quinto
Perché io sono reale,
e tu sei reale.1


Torino, 04 novembre 2013


    Sono le due e ventiquattro minuti di lunedì quattro novembre, e io sono ferma davanti ai tabelloni degli arrivi e delle partenze della stazione di Torino Porta Nuova, indecisa se dirigermi al binario quattordici, sul quale tra un paio di minuti dovrebbe arrivare il Freccia Rossa da Milano Centrale, oppure fiondarmi sul binario diciotto e saltare sul regionale in partenza per Bardonecchia. L'idea di rivedere Shannon mi fa una paura del diavolo, soprattutto perché temo che appena sbarcherà dal treno sarà preso d'assalto da un gruppo di fan e gli sarà impossibile raggiungermi – insomma, le star come lui non sono vittima dei fan un passo sì e uno no?
    Raggiungo a passo malfermo la testa del binario, tenendomi un po' in disparte per evitare la fiumana di gente che scenderà dal treno appena le porte si apriranno, e sfrutto questi ultimi minuti di attesa per cercare di raggiungere la pace interiore e non sembrare così una ragazzina sull'orlo di una crisi isterica quando lui mi comparirà di fronte. Alla fine ho deciso di mantenere il segreto con tutti – tenerlo nascosto alla mia famiglia era scontato, ma ho deciso di non dire nulla nemmeno ad Alice, perché so che sarebbe stata capace di pedinarci per l'intero pomeriggio armata di fotocamera e taccuino per appunti. La chiamerò stasera per raccontarle tutto, sempre ammesso che per allora sia ancora in grado di formulare qualche frase di senso compiuto.
    Mi scosto, tenendo la testa bassa, lasciando che un numero infinito di pendolari mi passi davanti senza curarsi di me, e quando sto per rialzare lo sguardo sento una grande mano callosa posarsi sul mio fianco, e prima di poter dire qualunque cosa, un bacio sulla guancia si mangia ogni parola. «Buongiorno» sento sussurrare da una voce profonda, e finalmente alzo lo sguardo: un paio di sobri occhiali scuri, capelli sciolti, sorriso bianco e perfetto...
    «Ciao» pigolo, sicura che se non ci fosse la mano di Shannon a tenermi in piedi mi sarei già sciolta sul marciapiede. Sul serio, ci vorrebbe una patente speciale per portare in giro tanta figaggine – perché in fondo mia sorella ha ragione, è principalmente di questo che si parla. «Sei arrivato senza problemi, vedo.»
    «Sì, è stato molto più facile del previsto» risponde, allentando impercettibilmente la presa sul mio fianco. «In proporzione, ci ho messo di più a percorrere il tragitto tra l'albergo e la stazione che non la distanza tra Milano e Torino. Come stai?»
    «Beh, io... bene, credo. Sì, sto bene.» Sto iniziando a sudare come un cammello, e non riesco a capire se sia per la sua vicinanza o per le temperature al di sopra della media stagionale. «E tu come stai? Siete riusciti a riposare dopo il concerto?»
    «Sì, ieri ho passato mezza giornata dormendo. Non si può dire che non abbia recuperato le forze. Ah, tanto per la cronaca, alla fine Jared ti ha perdonato. Devi stargli simpatica, è già la seconda volta che ti perdona pur senza conoscerti» aggiunge con un sorriso. «Piuttosto, spero che tu riesca a perdonare me per aver sconvolto i tuoi progetti.»
    «Non ti preoccupare, posso sempre rimandare ad un'altra settimana. Le case da affittare sicuramente non scappano. Vogliamo andare?» aggiungo, spostandomi un po' per sottolineare il concetto. Non credo di poter restare ferma così vicina a lui per molto ancora.
    «Ma certo, andiamo» risponde, muovendo un paio di passi. «Aspetta solo un attimo» aggiunge, armeggiando con una tasca. Soltanto adesso mi rendo conto che reggeva, nella mano che non mi stava stringendo il fianco, una copia in lingua originale di Aspettando Godot, una delle mie opere preferite.
    «Leggi Samuel Beckett?» gli domando, forse sorprendendolo un po'.
    «Lo hai letto?» mi domanda, mostrando la copertina.
    «Alle superiori» rispondo. «Era uno dei miei libri preferiti. Adoro Beckett, lo trovo semplicemente geniale. In generale, mi piacevano tutti gli autori legati al teatro dell'assurdo.»
    «Anche a me è sempre piaciuto. Era un sacco di tempo che volevo rileggerlo, ma non trovavo mai l'occasione. Per fortuna lo porto sempre con me. Ieri sera l'ho trovato in valigia e ho pensato di prenderlo. Sai, per tenermi occupato durante il viaggio.»
    «Mi sembra appropriato, visto che entrambi fatichiamo a credere che quello che sta accadendo sia reale
    «Non l'avevo vista in questi termini, sinceramente, però in effetti hai ragione. È una lettura appropriata.» Abbassa gli occhi sulla copertina, che tiene con entrambe le mani, e dopo averla accarezzata con i pollici la infila in una tasca interna del giubbotto. «Non avrei dovuto prendere il giubbotto di Jared» commenta, ruotando le spalle come per sciogliersi i muscoli. «Ha un sacco di tasche e la cosa è utile, ma abbiamo smesso di avere la stessa taglia all'incirca quindici anni fa.»
    «Beh, per quel che può valere, io credo che ti stia bene» commento senza pensare. In effetti, forse il giubbotto è un po' stretto, ma il modo in cui la pelle color cuoio si tende sulle sue spalle è semplicemente... no, Daria, no. Recupera un po' di dignità. Non che sia semplice fare pensieri dignitosi, se stai passeggiando accanto ad un quarantenne che sembra un ragazzino, e che porta un paio di jeans che gli fanno un fondoschiena semplicemente... no, Daria, no. Hai una reputazione di brava ragazza da difendere. «Andiamo?»
    «Andiamo» risponde lui, ricominciando a camminare al mio fianco. «Dove hai in mente di portarmi?»
    «Beh, non ho avuto molto tempo per organizzare la cosa, quindi pensavo di farti fare un bel giro della città. Sarebbe stato bello farti vedere qualche monumento o qualche museo, ma per quasi tutti ci vuole un sacco di tempo per fare il biglietto, ed è già relativamente tardi, perciò...»
    «Non preoccuparti, va bene qualunque cosa. E poi sono sicuro che sarai una guida migliore di qualsiasi tour operator professionista.»
    «Non nutrire troppa fiducia in me, ho la sfortunata tendenza a deludere le persone» ribatto mentre attraversiamo la stazione.
    «Io non credo. Non credo che qualcuno possa rimanere deluso da te. Forse una persona stupida potrebbe sentirsi delusa per qualche motivo. Ma per tua fortuna, io ho la sfortunata tendenza a considerarmi l'opposto della stupidità. Quindi non credo mi deluderai.»
    Dovrei considerarlo un complimento, rispondere e ringraziare, ma tutto ciò che riesco a fare è sorridere e continuare a camminare. Lo guido fuori dalla stazione, oltre i portici e le impalcature dei cantieri, e mi fermo accanto a lui vicino ad uno dei semafori. «Questa è piazza Carlo Felice» gli spiego, facendo un cenno tutto intorno con la mano. «La piazza ha una forma vagamente ovale, e proprio di fronte a noi inizia via Roma, che è una delle vie principali della città. Alcuni dei negozi più in sono situati in questa strada.»
    «Via Roma...» ripete lui, soppesando le parole. «Sbaglio o l'ho già sentita in altre città?»
    «Beh, praticamente ogni città ha la sua via Roma, anche le cittadine più piccole. Ha a che fare con il proverbio 'Tutte le strade portano a Roma'. È una specie di tributo, se vogliamo metterla in questi termini.»
    «Un po' come Main Street negli Stati Uniti, quindi?»
    «Sì, immagino che si possa dire così.» Scatta il verde e ci lanciamo in avanti sulle strisce pedonali, mischiati ad un mucchio di gente a cui non importa assolutamente niente di noi. Francamente, mi sembra quasi strano che nessuno abbia ancora cercato di saltargli addosso, di aggredirlo per avere una foto o un autografo. Continuo ad aspettarmi il peggio.
    «Tutto a posto?» mi sento chiedere dopo un po'. Alzo la testa e mi accorgo di essere partita in quarta senza più considerarlo, come se mi stessi trascinando dietro una valigia, e non una persona in carne ed ossa.
    «Ma certo. Certo, è tutto a posto» cerco di rassicurarlo. Ma dev'essere un tentativo piuttosto patetico, perché lui si ferma davanti a me, bloccandomi il passaggio, e con gesto sicuro si sfila gli occhiali da sole, guardandomi dritta negli occhi come faceva mio padre quando ero bambina e dicevo una bugia troppo assurda per essere creduta. «Se vuoi la verità, no. È solo che mi sento un po'... mi sento un po' a disagio.»
    «Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato?» mi domanda, in tono evidentemente preoccupato. Mentre penso a come spiegargli la mia situazione, mi viene da pensare che se è così allarmato, forse allora tiene davvero molto a questo pomeriggio con me.
    Scuoto la testa, sperando di liberarmi di un'idea così assurdamente romantica. «Non hai fatto niente di sbagliato» lo rassicuro, senza trovare la forza di guardarlo negli occhi. «Tu sei praticamente perfetto, e il problema è solo mio.» Mi gratto brevemente la fronte, cercando le parole giuste. «Pensa pure che sono una stupida, ma sono a disagio perché ho paura che dietro ogni angolo ci sia appostato un manipolo di fanatici pronti a riconoscerti e saltarti addosso, e io non so come dovrei comportarmi in un simile frangente. Insomma, tu probabilmente ci sei abituato, ma io non saprei... io non saprei proprio che pesci prendere. Scusa, è una cosa stupida, ma... insomma, è quello che sto pensando.»
    A questo punto mi aspetterei una risata, una battuta, una cosa del genere 'Andrà tutto bene, ma di che cosa ti preoccupi', e invece Shannon mi stupisce di nuovo. Lo vedo abbassare lo sguardo e mordicchiarsi il labbro inferiore, come se stesse cercando le parole giuste per esprimersi. «Se può consolarti» dice poi, rialzando la testa, «anch'io ho paura che dietro ogni angolo ci sia appostato un manipolo di fanatici pronti a riconoscermi e saltarmi addosso. Li odierei, e probabilmente li tratterei malissimo. Non tanto per aver attentato alla mia privacy o roba del genere, ma perché... beh, sicuramente mi interromperebbero mentre sto passando un bel momento con te. E la cosa mi farebbe imbestialire, lo giuro.» Questa sua dichiarazione mi scalda il cuore e allo stesso tempo mi imbarazza, togliendomi il fiato – che cosa si risponde in questi casi? Perché non esiste una guida specifica per momenti come questo? Per fortuna, lui riprende fiato e aggiunge: «Sai qual è la soluzione? Non pensarci, e smettere di avere paura. Se continui a pensare a che cosa potrebbe aspettarti dietro il prossimo angolo, la paura potrebbe paralizzarti e impedirti di andare a scoprire che cosa c'è davvero
    «Quindi suppongo che dovremmo... ricominciare a camminare.»
    «Esattamente. Altrimenti stasera saremo ancora qui, e tutto quello che avrò visto della tua bellissima città sarà la stazione» replica rimettendosi gli occhiali. «Forza, guida, andiamo alla scoperta di Torino!» Si rimette in marcia con passo sicuro, e tutto quello che posso fare è alzare la testa e svoltare con lui dietro l'angolo.



    «Torino è abbastanza facile da vivere, come città» mi spiega mentre camminiamo sotto i larghi portici di via Roma. «È una città quadrata, se vogliamo definirla così: quasi tutte le strade si incrociano perpendicolarmente, quindi è abbastanza facile dare indicazioni e spostarsi da un luogo all'altro. Non è necessario avere un grande senso dell'orientamento, se ti perdi di solito basta chiedere a qualche passante. Milano è molto più complicata da questo punto di vista.»
    «Di solito ti sposti in macchina?» le chiedo quando ci fermiamo in prossimità di un altro semaforo.
    «No, assolutamente no. Guidare in città è un vero casino, anche con le strade perpendicolari. In generale, io preferisco spostarmi a piedi, tanto non devo mai andare in posti troppo lontani. E se per caso fa brutto tempo oppure devo uscire dai miei percorsi abituali, c'è sempre il trasporto pubblico. In genere funziona piuttosto bene.»
    «E così eviti anche di contribuire all'inquinamento. Bene, mi piace questo lato ecologista di te.»
    «La Terra non si salva da sola, dico bene? Comunque non faccio queste grandi cose, quindi non credere che io sia una paladina dell'ecologia. Evito di prendere l'auto quando non è necessario e faccio la raccolta differenziata, ma mi fermo qui.»
    «Beh, ma un sacco di gente non fa nemmeno quello, quindi sì, teoricamente quello che fai può essere considerato eroico. Jared sarebbe fiero di te.» Non lo dico soltanto per farle un complimento gratuito: Jared ammira davvero le persone che fanno qualcosa anche di minuscolo per riuscire a cambiare le cose, e i piccoli dettagli che Daria mi ha appena svelato a proposito delle sue abitudini sicuramente gliela renderebbero simpatica. «Comunque per adesso la visita mi piace» aggiungo guardandomi attorno. «Mi sembra una città pulita e vivibile, al contrario di altre. Ma non c'è poco traffico, per essere una città così grande? Insomma, hai detto che questa è una delle vie principali, quindi non dovremmo essere in centro?»
    «Sì, infatti siamo in centro. Qui c'è poco traffico perché è una zona a traffico limitato: ci sono delle limitazioni all'accesso di certi veicoli e degli orari da rispettare. Più avanti ci sono zone più trafficate, ma comunque resta una città piuttosto vivibile. Non credo la cambierei per nulla al mondo.»
    «In quale zona abiti? Non te l'ho chiesto.»
    «Beh, io abito... nella zona nord, diciamo. Bisogna attraversare la Dora, che è uno dei fiumi che attraversano Torino. Abito in un palazzo piuttosto vecchio, ma ci si sta bene. Se escludi le incursioni di mia nonna, che abita dall'altra parte del pianerottolo e viene a controllare se siamo vivi almeno tre o quattro volte al giorno.»
    Il sorriso che sfodera è semplicemente adorabile, e anche a me viene da ridere al pensiero di una signora anziana che tende agguati ai nipoti su per le scale. «La tua famiglia vive tutta unita, quindi» commento. Mi è sempre piaciuta l'idea di una famiglia che abita vicina e si può riunire per le occasioni importanti: compleanni, Natale...
    «In realtà, no» replica lei, spegnendo ogni mio entusiasmo. «Mia nonna ha sempre abitato lì, e quando i miei si sono sposati hanno deciso di comprare l'appartamento accanto per stare accanto a lei e mio nonno. Sai, se in futuro avessero avuto bisogno di aiuto o altro... e invece poi è andata a finire che sono stati loro ad aiutare mio padre a crescere me e i miei fratelli. Mio nonno è morto sette anni fa, e a quel punto la sorella di mio padre, che non è sposata, è tornata a vivere a casa per stare vicino a mia nonna. Poi c'è un altro zio, ma abita in un'altra zona della città.»
    «E i parenti di tua madre, invece?»
    Daria alza le spalle, scuotendo la testa. «Non ne so più nulla. Da quando lei se n'è andata non ho più visto né sentito nessuno, né i miei nonni né mio zio. I miei nonni potrebbero anche essere morti, per quanto ne so. Poco prima che i miei divorziassero mio zio si stava per trasferire in Francia per lavoro, quindi lui potrebbe essere ancora là.»
    Si sta sforzando di sembrare il più naturale possibile nel parlarne, ma nel suo sguardo riesco a leggere il dolore che questo tipo di conversazione ancora le causa, nonostante i molti anni trascorsi. «Mi dispiace» dico, sperando che il mio sussurro riesca a raggiungerla, nonostante il brusio che ci circonda.
    «E di che, scusa?»
    «Mi dispiace di aver tirato fuori questo discorso. Parlarne ti fa ancora soffrire, lo vedo. Non mi sarei dovuto permettere di... beh, scusa. Non sono mai stato un campione di tatto. A sentire mia madre, è sempre stato Jared quello sensibile.»
    «Lascia stare, non ti devi scusare. E poi ogni tanto mi fa bene parlarne... almeno credo.» Sorride e torna a guardare avanti, ma all'improvviso il suo sguardo si fa preoccupato. «Merda, questo però no...» la sento sussurrare, e anche se non capisco una parola di quello che ha detto non ho difficoltà a capire che è stata un'imprecazione bella e buona.
    «Che succede?»
    «Non fare domande» taglia corto. «Dobbiamo levarci dalla strada» aggiunge in fretta, prendendomi per mano e trascinandomi dentro il negozio più vicino.
    Mi sfilo gli occhiali da sole, e mi rendo conto che è un negozio di biancheria intima. «Daria, mi spieghi che cosa succede?»
    «Non pronunciare il mio nome» mi zittisce, nascondendosi dietro un espositore con fare circospetto, fingendosi intenta a scegliere un reggiseno. «Piuttosto tieni d'occhio la strada. Dovrebbe passare un ragazzo biondo, alto più o meno quanto te, con un cappotto nero e uno zainetto rosso. È con altri tre ragazzi, uno dei quali dovrebbe avere la testa rasata e un piercing al naso. Lo vedi?»
    «Oh, sì, lo vedo. Ti ha vista e sta entrando nel negozio» rispondo con aria di sufficienza.
    «Che cosa?»
    «Scherzo» la rassicuro con un sorriso. «Sono fermi davanti alla vetrina, stanno commentando le forme del manichino. In realtà è quello con il piercing al naso che sta facendo commenti, gli altri ridono e basta. Adesso credo se ne stiano andando: il biondo con lo zainetto rosso sta guardando l'orologio, credo siano in ritardo. Forse devono andare a prendere il treno» osservo, chiedendomi perché Daria abbia voluto a tutti i costi evitare questo misterioso ragazzo biondo con lo zainetto rosso.
    «Fammi un favore, affacciati e controlla che siano davvero andati via. Non li voglio incontrare» mi supplica, congiungendo le mani a mo' di preghiera.
    «Va bene, ma lo faccio solo perché sei tu» mi arrendo, avvicinandomi all'ingresso e cercando di guardare fuori senza sembrare troppo sospetto. Quando vedo la combriccola attraversare la strada e allontanarsi verso la direzione dalla quale Daria ed io siamo appena arrivati torno indietro per informarla. «Tranquilla, se ne sono andati. Possiamo uscire senza problemi.»
    «Aspetta, mi devo provare questo. Dovrebbe essere della taglia giusta, ma non mi va di rischiare.» Mi prende di nuovo per mano, accompagnandomi verso il fondo del negozio, dove si trovano i camerini. «Mi reggi questa, per favore?» mi domanda, porgendomi la borsa – la stessa che portava l'altra sera al concerto.
    «Guarda che se volevi fare shopping non avevi che da dirlo» la informo mentre si chiude la tenda alle spalle. «Non sono allergico alle spese.»
    «Ti giuro che non era nei miei programmi. Anzi, in realtà sto risparmiando per i regali di Natale e non dovrei scialare, ma non posso uscire senza aver comprato qualcosa.»
    «Non credo di capire.»
    «Diciamo che è una specie di regola morale» spiega. «Quando la gente entra nel negozio dove lavoro, curiosa in giro, mette tutto a soqquadro ed esce senza comprare niente, mi dà un fastidio incredibile. Quindi quando vado in giro non esco mai da un negozio senza comprare qualcosa, anche una stupidaggine. Mi sembra una scortesia disturbare per nulla.»
    «Non ci avevo mai pensato. In effetti, per chi ha un negozio può essere una vera seccatura. È davvero carino quello che fai, lo sai?» aggiungo, voltandomi verso la tenda. Pessimo errore, avrei dovuto continuare a guardare avanti a me: la tenda non è scorsa bene fino in fondo, e tra la stoffa e il muro si è formato un piccolo spiraglio che mi permette di sbirciare dentro e di vedere la sua schiena, bianca e praticamente perfetta. Mi soffermo a guardare le sue spalle, poi scendo lungo la spina dorsale e mi fermo ai fianchi, dove la linea dei jeans interrompe la visuale. Risalgo di nuovo, e mentre si aggiusta la spallina noto il tatuaggio all'altezza della scapola sinistra: sono i glyphics, gli stessi simboli che decorano il mio avambraccio destro, ma in una versione ridotta e meno colorata. Anche da questa distanza noto che le linee sono precise, il lavoro fatto piuttosto bene – e d'istinto divento curioso: avrà altri tatuaggi in giro per il corpo? Tuttavia non ho tempo per indulgere in queste fantasie, perché lei si mette di tre quarti per guardarsi meglio allo specchio, e la mia attenzione viene come risucchiata da tutt'altra parte del suo corpo. Distolgo velocemente lo sguardo, imbarazzato e sentendomi in colpa per aver violato la sua privacy in modo così spudorato, e nello stesso momento mi tornano in mente le parole di Jared. Adesso gli potrei rispondere, e gli potrei dire che sì, Daria ha delle caratteristiche davvero interessanti. «Tutto bene, lì dentro?» le domando, schiarendomi appena la voce.
    «Sì, adesso mi rivesto e arrivo. Scusa, mi ero quasi dimenticata che fossi lì. Non sono abituata a fare spese con qualcuno che non sia Alice, e di solito sono io quella che aspetta.»
    Cinque minuti più tardi, dopo aver controllato di nuovo che la strada fosse sgombra, usciamo dal negozio, riprendendo il cammino con un minimo di imbarazzo. «Allora...» inizio, sperando di riuscire a parlare senza essere ossessionato da quanto ho visto poco fa, «chi era il biondino con lo zainetto rosso?»
    «Oh, lui... beh, è il mio ex ragazzo» risponde senza pensarci troppo su. «Se posso evitare di incontrarlo sono contenta. Non avremmo molto da dirci.»
    «Immagino che non sia finita molto bene, se ne parli così.»
    «No, non è finita bene. Anche se... beh, sono passati quasi due anni, Alice dice sempre che dovrei lasciar perdere e andare avanti. Lei detesta chi rimane troppo ancorato al passato. Il problema è che io sono una di quelle persone che proprio non riescono a lasciarsi tutto alle spalle.»
    «Due anni fa... avevi ventun anni, giusto?»
    «Sì, esatto. Perché me lo chiedi?»
    «Niente, è solo che... forse Alice ha ragione. Insomma, le delusioni che hai a ventun anni dovresti... lasciarle perdere. A ventun anni hai tutta la vita davanti a te, dovresti smettere di pensare a quello che è stato e guardare avanti. O almeno guardare al presente. Ci sono un sacco di cose belle che potrebbero accaderti, ma se continui ad aggrapparti a quello che è stato, o ai brutti ricordi che hai... beh, non ti fiderai mai abbastanza del mondo da lasciarti convincere a salirci per farti un giro.»
    Daria mi guarda con un'espressione a metà tra il dubbioso e l'incredulo. «Non è che nei fine settimana fai l'analista? Perché il mio psicologo dice praticamente le stesse cose, solo... in modo meno... poetico
    «Vedi uno psicologo?»
    «A volte. Non è un appuntamento fisso, ci vado quando ho bisogno di parlare con qualcuno che non faccia parte della mia vita quotidiana. Di solito però mi sfogo con Alice. Lei sì che sa farmi vedere le cose nella giusta prospettiva. Quasi sempre, almeno.»
    «Parlare con qualcuno fa sempre bene, dicono.»
    «Dicono così. Ma io credo che funzioni solo se parli con qualcuno che riesce a capirti, altrimenti è tutto inutile.»
    «Sì, è possibile. Allora, che mi dici di mister Zainetto Rosso? Qual è la sua vera identità?»
    «Si chiama Andrea, ha la mia stessa età. Ci siamo conosciuti alle superiori, facevamo parte della stessa cerchia di amici. Poi ci siamo diplomati, e siccome io non sono andata all'università ci siamo un po' persi. Poi ci siamo rincontrati ad una cena per ex compagni di classe, e abbiamo ricominciato a sentirci. Ci siamo messi insieme dopo un po', ma non è durata. Le sue priorità erano divertirsi e uscire con gli amici, mentre tra lavoro e casa io non ho molto margine d'errore, perciò... in realtà sarebbe finita in modo civile, se non ci si fossero messi di mezzo i suoi amici. Ci saremmo risparmiati grandi litigate, se non fosse stato per i loro interventi del cavolo.»
    «Forse non era abbastanza maturo per una relazione, o forse non aveva una personalità abbastanza forte. A volte un ragazzo può essere facilmente influenzabile dagli amici.»
    «Sì, può essere» risponde lei, svoltando un angolo sulla sinistra. «Comunque non ho perso nulla di fondamentale. Insomma, non era l'uomo che avrei sposato. Il sesso con lui era tutt'altro che stellare» aggiunge ammiccando. «Non è quello che hai detto sabato sera?»
    «Ricordi tutto quello che ho detto sabato sera?»
    «Forse tutto no, ma le cose importanti sì» risponde. «Comunque siamo arrivati in piazza San Carlo, anche nota come 'quella con il cavallo'» aggiunge mentre ci addentriamo in una piazza enorme, caratterizzata dalla totale assenza di traffico, dall'enorme statua equestre che vi troneggia al centro e dalle due chiese che sembrano messe lì apposta per chiudere il lato sud. «Alle nostre spalle abbiamo le due 'chiese gemelle', come vengono chiamate di solito: ad ovest quella di San Carlo, ad est quella di Santa Cristina» mi spiega, fermandosi per voltarsi a spiegarmi ogni cosa. «La piazza è completamente pedonale da quando ci sono state le Olimpiadi invernali nel 2006. Gli unici veicoli ai quali è consentito l'accesso sono quelli delle forze dell'ordine e quelli dei fornitori dei vari esercizi commerciali.»
    «Mi sembra una bella cosa. È raro trovare una simile oasi di tranquillità nel centro di una città così grande» osservo. «La statua invece che cosa rappresenta?»
    «Se ricordo bene, la statua fu posta lì verso la metà del 1800 in onore di Emanuele Filiberto, uno dei principi di Savoia. Nel dialetto piemontese la statua viene chiamata Caval ëd Brons, cioè Cavallo di bronzo. Questo perché è fatta di bronzo, ovviamente.»
    «Cavallo di bronzo... mi piace, è una bella statua» commento mentre ci avviciniamo e ci fermiamo ad ammirarla. «Sai, negli Stati Uniti circola una voce sulle statue equestri. Si dice che se il cavallo poggia tutte le zampe a terra, allora il cavaliere è morto per cause naturali; se invece il cavallo poggia a terra soltanto le zampe posteriori, il cavaliere è morto in battaglia» spiego, sentendomi fiero per quel poco di cultura che sono appena riuscito a sfoggiare.
    «E se invece il cavallo poggia su una sola delle zampe anteriori, come in questo caso?»
    «In questo caso, mi sembra di ricordare che il cavaliere sia morto per le ferite riportate in battaglia. Può essere?»
    «In realtà, sono quasi sicura che Emanuele Filiberto sia morto di cirrosi epatica. Si dice che gli piacesse molto alzare il gomito.»
    «Ah, allora la mia teoria non funziona.»
    «Forse funziona per le vostre statue, ma non per le nostre.»
    «Potrebbe darsi. Comunque mi piace, è una bella statua. Aspetta, voglio farle una foto» aggiungo, sfilandomi di tasca l'iPhone. «Fatto» sussurro dopo un paio di scatti. In quel preciso momento transitano alle nostre spalle quattro o cinque turisti giapponesi completi di guide turistiche e macchine fotografiche, e un'idea che Jared definirebbe sicuramente folle mi balena in testa. «Scusate, potrei chiedervi un favore?» domando al primo che mi capita a tiro, che si volta con un sorriso. «Potrebbe farci una foto davanti alla statua?»
    Daria, concentrata sui bassorilievi che ornano la base della scultura, sembra accorgersi solo in quel momento dei giapponesi. «Shannon, che cosa stai...?»
    «Vieni qui» la interrompo, passandole un braccio attorno alla vita, mentre con l'altra mano mi sfilo gli occhiali da sole. «Già che ci sono, voglio una tua foto da mostrare a mio fratello.»
    «Ma io non...» cerca di protestare lei, arrendendosi di fronte alla determinazione del giapponese, già pronto a scattare. Si arrende, si volta verso l'obiettivo e sorride, e di fronte al suo sorriso aperto e naturale, non sono capace di distogliere lo sguardo. Sono rimasto letteralmente folgorato. È solo quando sento dire al ragazzo «Aspettate, per sicurezza ne faccio un'altra» che riesco a staccarmi da lei, voltarmi verso di lui e sorridere all'obiettivo.
    Ringraziamo il gruppetto, che si allontana sorridendo verso la prossima meta, e rimasti soli ci godiamo in pace lo scatto: «Oh, sono rimasta malissimo» sbuffa lei, coprendosi con una mano gli occhi. «Ormai dovrei aver capito che è mia sorella quella fotogenica, e non io.»
    «Ma se sei rimasta benissimo!» ribatto, cercando di convincerla che sia rimasta bene. «Piuttosto guarda me, sembro un deficiente!»
    «Mettila via, prima che ci mettiamo a litigare su chi è meno fotogenico dei due, ti prego» risponde con un altro sorriso, mettendomi una mano sul braccio come per invitarmi a riporre l'iPhone. Anche attraverso il giubbotto riesco a sentire il calore delle sue dita sulla mia pelle, e tutto quello che vorrei è poterla trattenere per sempre contro di me, sempre addosso a me, senza mai lasciarla andare.
    «Sì, guida, la metto via» obbedisco. «Dove mi porti, adesso?»
    «Adesso proseguiremo lungo via Roma» mi spiega, guidandomi di nuovo verso i portici, ma questa volta sul lato opposto rispetto a quello percorso fino ad ora. «Alla fine di via Roma c'è piazza Castello, che insieme a questa è una delle più celebri di Torino. È anche la seconda per estensione dopo piazza Vittorio Veneto, che ti farò vedere dopo.»
    Ci fermiamo ad un altro semaforo rosso, e ne approfitto per guardarmi attorno. «Dev'essere bello vivere in una città così... permeata di storia. Insomma, qui non puoi fare un passo senza inciampare in qualcosa che ha almeno un paio di secoli di vita!»
    «Sì, devo ammettere che è affascinante vivere in un luogo così pieno di cultura... anche se purtroppo la maggior parte della gente non ci fa caso. Sono tutti troppo impegnati con le loro vite per godere di tutte le cose belle che la città ci offre. Ah, subito dopo quell'angolo si raggiunge il museo Egizio» aggiunge, indicando con la mano un punto alla nostra destra. «Il museo Egizio di Torino è considerato il più importante del mondo dopo quello del Cairo, e quindi il primo in Italia e in Europa.»
    «Dev'essere bello davvero. Tu ci sei stata?»
    «Naturalmente. È una gita obbligata per ogni studente del Piemonte. Recentemente è stato ristrutturato e ingrandito, varrebbe davvero la pena vederlo. Uno di questi giorni dovrei rifare la visita, sono curiosa» aggiunge, quasi sovrappensiero.
    «Potremmo organizzarci con un po' di anticipo e potrei venire con te. Le mummie mi hanno sempre affascinato. Oh, vieni, è verde» aggiungo in fretta, approfittando dell'occasione per prenderle la mano. Tuttavia, quando arriviamo dall'altra parte della strada sono costretto a lasciarla per far passare un uomo in giacca e cravatta che evidentemente va di fretta. «Mi fa uno strano effetto passeggiare in una città così. Insomma, come mi ha fatto effetto passeggiare per Milano, o Firenze, o Parigi... a pensarci bene, ti costringe a cambiare prospettiva.»
    «Che cosa intendi?»
    «Spero di riuscire a spiegarmi bene, è un pensiero un po' contorto...» sorrido. «In generale, siamo tutti abituati a pensare a noi stessi come se le cose che ci stanno intorno facessero parte della nostra vita e della nostra storia, ma la verità è che in questo caso siamo noi a far parte della storia di questo posto, di questa città. Insomma, in questo punto prima di noi hanno passeggiato dei principi, dei re, e anche persone comuni come noi, e sicuramente in futuro accadrà che siano altre persone a passeggiare qui, dunque non è questa strada a far parte di noi, ma... siamo noi a far parte di lei. Non so se sono riuscito a spiegarmi» aggiungo, distogliendo lo sguardo. Sono preoccupato, non vorrei che mi avesse scambiato per uno che va in giro a farneticare.
    «No, io ho... ho capito, o almeno credo. Sei stato piuttosto chiaro. In effetti, qualche volta mi ci sono ritrovata a pensare anch'io. Insomma, rendersi conto che su queste strade una volta ci passavano carrozze trainate da cavalli... è vero, ti fa cambiare prospettiva.» A questo punto distoglie lo sguardo e ridacchia, coprendosi la bocca con una mano.
    «Beh, perché ridi? Hai detto che è una cosa intelligente.»
    «Non sto ridendo per quello che hai detto, è solo che... quello che hai detto fa davvero cambiare prospettiva, ma non solo nei confronti della città. È che hai definito me e te persone comuni, ma non è che tu possa proprio essere definito un uomo comune. E poi è strano sentir fare questi discorsi da... uno come te, appunto. A uno viene sempre da pensare che siate persone fredde, che si interessano soltanto di loro stesse e del quadrato di mondo su cui poggiano i piedi, e... scusa, non sto dipingendo un bel quadro di te» conclude, ricomponendosi.
    «Il fatto che trascorra la vita agitandomi su un palcoscenico non significa che io non sia una persona normale» le faccio notare mentre continuiamo a camminare. «Sono solo normale in un modo diverso. Sempre poi che si possa costruire una definizione di normale
    «Sento che questo è un altro punto sul quale potremmo discutere per giorni senza trovare un accordo.»
    «Come il discorso sull'importanza del sesso in una relazione?»
    «Esattamente.»
    «Va bene, allora lasciamo cadere la questione. Non voglio litigare con te.» Vorrei solo baciarti, vorrei dirle. Vorrei baciarti fino a non avere più fiato in corpo, fino ad avere le labbra screpolate, e vorrei stringerti tra le mie braccia fino a farti diventare una parte di me, perché adesso che ti conosco non so come potrò fare a meno di te.
    «Bene, allora continuiamo.» Davanti a noi si apre una piazza enorme, ancora più grande di quella da cui proveniamo, ma invece di guidarmi in avanti Daria mi fa svoltare verso sinistra, verso un semaforo che diventa verde proprio mentre ci avviciniamo. «Questa è piazza Castello, quella di cui ti parlavo prima. Adesso stiamo attraversando via Roma, che è quella da cui siamo arrivati, e più avanti, sempre sulla nostra sinistra, c'è via Garibaldi, che è una delle quattro principali arterie che si sviluppano a partire da questa piazza. Le altre sono via Micca, che è laggiù in fondo» spiega, indicando il punto verso cui si sta allontanando un tram, «e via Po, che è quella che percorreremo dopo. Su questa piazza si affacciano alcuni degli edifici più importanti della città: abbiamo il palazzo Reale, che è quello delimitato dai cancelli, e palazzo Madama, dall'altra parte. Il palazzo Reale fu costruito appunto come residenza per la famiglia reale, e dicono che tra tutte le residenze reali dei Savoia fosse il più sfarzoso. Il vero fiore all'occhiello però sono i Giardini Reali, che si trovano dall'altro lato: non li ho mai visti, ma devono essere uno spettacolo davvero grandioso.»
    «Ho sempre voluto essere un reale, e adesso capisco il perché. E palazzo Madama, invece?»
    «Anche quello era una residenza, poi gli fu preferito il palazzo Reale. Ad oggi ospita più che altro musei e collezioni. Comunque sono entrambi entrati a far parte del patrimonio dell'UNESCO.»
    «Devono essere veramente magnifici, per essere entrati a far parte di quella lista. Ma toglimi una curiosità: hai studiato a memoria la guida?» la prendo in giro mentre passeggiamo per la piazza, diretti verso via Po.
    La vedo cacciarsi le mani in tasca, arrossire appena e abbassare lo sguardo: «No, è solo che la storia mi ha sempre affascinato... e poi, come ho detto prima, ci sono già troppe persone che non si occupano di queste cose. Interessarmene mi sembra quasi un dovere.»
    «Avresti dovuto studiare Beni Culturali, o qualcosa del genere... non esiste una facoltà apposita per queste cose?»
    «Beh, sì, era una delle ipotesi. Mi sarebbe piaciuto studiare Beni Culturali o Lingue, ma l'università è sempre stata fuori discussione per me.»
    «Perché dici così?»
    «Beh, non ero... la verità è che non me la potevo permettere. Non sono mai stata abbastanza brava da poter aspirare ad una borsa di studio, e non mi andava l'idea che mio padre dovesse mantenermi per tutta la durata del corso di studi. Lui le ha tentate tutte per convincermi, ma non ho accettato. Non lo so, non... non me la sono sentita. Sarebbe stato un sacrificio troppo grande.» Mi fermo per guardarla attentamente; dopo qualche passo, accortasi di essere rimasta sola, si volta e mi guarda: «Che c'è, ho detto qualcosa che non va?»
    «No, è solo che... scommetto che tuo padre è fiero di avere una figlia come te. Qualsiasi altro ragazzo della tua età avrebbe preso i soldi e se ne sarebbe fregato, e invece tu... beh, confesso che non mi sarei aspettato di meno, da te. Dai l'impressione di essere una che non scende a compromessi.»
    «Non mi piace fare patti, in effetti. Soltanto in occasioni speciali.»
    «Come quando hai accettato di far saltare i tuoi programmi per portarmi in giro a fare il turista?»
    «Quello non è stato un compromesso, è stata una decisione a lungo ragionata.»
    Riprendo a camminare, raggiungendola. «Compromesso» le sussurro, sporgendomi appena verso di lei mentre le passo accanto.



    Il primo senso ad essere colpito è l'olfatto, che registra immediatamente l'intenso aroma di caffè del suo respiro; poi è la volta dell'udito, che a fatica riesce a comporre le lettere di quel "Compromesso" appena sussurrato; e poi c'è la vista, che a malapena lo vede passare, concentrata com'era su qualunque cosa che non fosse lui. Gusto e tatto ne sono rimasti fuori, e viste le premesse forse è meglio che sia andata così. Appena realizzo che Shannon ha ricominciato a camminare parto al suo inseguimento, accelerando il passo per riportarmi al suo livello. Il fatto che mi abbia smascherata così in fretta dovrebbe darmi fastidio, perché di solito in una guerra verbale riesco sempre ad avere la meglio – a meno di non trovarmi a combattere con Alice o con mia sorella –, ma con un po' di sforzo mi convinco che se è stato lui a vincere questo round è soltanto perché stiamo parlando nella sua lingua, e quindi parto con uno svantaggio non indifferente.
    «Sbaglio o questa via è obliqua?» mi sento chiedere mentre imbocchiamo via Po. «Insomma, rispetto alla piazza è... beh, storta
    «Hai ragione, via Po si sviluppa in obliquo rispetto alla piazza. La costruirono così per riuscire a collegare direttamente il centro della città con il ponte sul fiume, che vedremo dopo. La differenza tra il lato sinistro e il lato destro della via è che su questo lato gli attraversamenti pedonali sono coperti, il che è piuttosto utile se piove e hai dimenticato l'ombrello. Sempre sul lato sinistro, che è quello sul quale stiamo camminando noi, poco più avanti si trova la sede storia dell'Università di Torino, che oggi ospita più che altro uffici. Sempre su questo lato si trovano un buon numero di bancarelle per la compravendita di libri usati, e sempre proseguendo su questo lato si arriva alla nuova sede dell'università.»



    «Lato sinistro... quindi anche voi avete una rive gauche, come Parigi!» le faccio notare, fiero di aver trovato un paragone degno della sua cultura.
    «Beh... sì, direi di sì! Sai che non ci avevo mai pensato?»
    «Dovrò ricordarmi di raccontare di questo mio colpo di genio a Jared e Tomo, così magari la smetteranno di considerarmi una bestia illetterata. Non so perché, ma ho come l'impressione che la gente mi consideri sempre troppo preistorico per fare con me un discorso serio.»
    «Forse è la batteria. Insomma, dei tre sei tu quello che impiega la maggior forza fisica nel fare quello che fa. Il fatto che tu sia un uomo evidentemente fisico forse spinge la gente a credere che usi poco il cervello.»
    «Siamo in vena di complimenti, vedo!»
    «Aspetta, mi sono espressa male, non intendevo dire che non usi il cervello, volevo...»
    «Ehi, tranquilla, ho capito quello che intendevi dire» la interrompo, sfiorandole un braccio con due dita. «So che non intendevi dire che sono un bruto che sa farsi capire solo usando la forza.» Incontriamo le prime bancarelle, e nessuno dei due riesce a trattenersi dal dare un'occhiata. La osservo mentre curiosa in un mucchio di vecchie opere scritte in francese, e non riesco a trattenermi dal pensare che vorrei davvero essere un uomo capace di farsi capire solo con la forza, così potrei spingerla contro il muro più vicino e baciarla fino a farle mancare il respiro, come Jared mi ha chiesto di fare con quella modella ai tempi del video di Hurricane. Mi chiedo se Daria sia consapevole di quanto sia attraente la sua semplicità.



    Sono sempre stata un tipo molto sensibile, e di norma non mi piace sentirmi addosso gli sguardi della gente: cammino sempre il più vicina possibile ai lati dei marciapiedi, cercando di non dare fastidio e di non essere appariscente, sperando di non essere mai nulla più di un'immagine fugace agli occhi della gente. Per questo dovrei essere nervosa e non sopportare lo sguardo di Shannon, che, lo so, ogni due per tre è rivolto verso di me, come teso a catturare ogni dettaglio, ogni mio piccolo movimento, ogni particolare. Dovrei odiarlo, dovrei già essermi voltata per mandarlo a quel paese, ma la verità è che essere osservata da lui mi piace, mi piace come non mai. Credevo che sentirmi osservata da un uomo della sua levatura mi avrebbe infastidita, e invece mi sento bene: come sabato sera, mi sembra di essere in giro con mio fratello, o con un amico, o comunque con qualcuno che mi conosce bene e contro il quale non ho bisogno di costruire difese. Mentre continuo ad illustrargli monumenti e luoghi di interesse, non posso fare a meno di ripensare al momento in cui mi ha preso la mano, mentre attraversavamo la strada, e all'istante in cui, poco fa, le sue dita hanno sfiorato il mio braccio, come cercando di farmi capire che non avevo nulla da temere. La parte di me che somiglia ad un cucciolo spaurito fa capolino per un istante, e mi avverte che non sarei dovuta uscire con lui, perché quella che anni fa è nata come una semplice infatuazione fisica per un uomo evidentemente troppo attraente per essere ignorato sta cambiando, e rischia di trasformarsi in qualcosa di pericolosamente simile ad una cotta.
    In qualche modo siamo riusciti ad arrivare indenni al termine di via Po, abbiamo percorso piazza Vittorio Veneto e abbiamo attraversato il ponte sul fiume, arrivando nei pressi della chiesa della Gran Madre. «Questa chiesa è una delle più importanti della città» spiego mentre Shannon si appoggia di spalle al parapetto, osservando il tempio nella sua interezza. «La sua costruzione fu decisa in seguito alla sconfitta di Napoleone, nel 1814. Doveva essere un modo per festeggiare il ritorno del re dopo il periodo della dominazione straniera. La Gran Madre cui è intitolata naturalmente è Maria, la madre di Gesù.» Tra una cosa e l'altra si sono fatte le quattro, e non riesco a fare a meno di chiedermi a che ora avverrà la nostra separazione – perché, per quanto possa sognare, è improbabile che il tempo si fermi e ci cristallizzi per sempre in questo splendido pomeriggio.
    «Devono essere secoli che non entro in una chiesa» è il suo primo commento. «Sono stato cresciuto come cristiano, ma non mi sono mai sentito parte di una religione organizzata. Insomma, credo sia più una questione di cuore che di presenza, no?»
    «Capisco cosa vuoi dire» annuisco, arretrando fino ad appoggiarmi al parapetto, a poca distanza da lui. «La mia famiglia mi ha cresciuta come cattolica, sono andata in chiesa ogni domenica fino ai sedici anni, ho ricevuto tutti i sacramenti... però ho sempre pensato che per avere valore, una preghiera dovesse nascere da dentro. In realtà per un po' ho lasciato perdere, perché l'unica preghiera che rivolgevo a Dio rimaneva sempre senza risposta» ammetto, abbassando un po' il tono di voce.
    «Per che cosa pregavi, se posso saperlo?»
    «Pregavo perché mia madre tornasse a casa, perché la nostra famiglia si ricomponesse. Verso gli undici anni mi resi conto che probabilmente nemmeno Dio poteva farci molto, perciò decisi di arrendermi all'evidenza, e di accettare che mia madre non sarebbe mai tornata.»
    «Ti capisco. Anch'io da bambino desideravo avere un padre, o comunque una famiglia normale. Non dico di non essere stato felice, per carità: nessuno avrebbe potuto amarci più di mia madre. Però... non lo so, abbiamo vissuto in così tanti posti diversi che nemmeno li ricordo tutti. A volte vorrei poter circoscrivere tutti i miei ricordi ad un'unica città, un'unica casa... vorrei poter racchiudere la mia vita in un'unica scatola, se capisci che intendo.»
    Annuisco, comprendendo la portata di quella metafora. «Per racchiudere la mia, basterebbe un portagioie» commento a bassa voce, abbassando un po' lo sguardo. Poi mi scappa una risata, e sento che lui si volta verso di me.
    «Ho detto qualcosa di buffo?»
    «No, è che stavo ripensando a quello che ho appena detto, e mi è tornato in mente il soprannome che mi aveva dato mio fratello qualche anno fa» confesso. «C'è una canzone di Jeff Buckley che si intitola Jewel Box, e che inizia con il verso So che sei una donna dal modo in cui bruci dentro. Lui dice sempre che in superficie sembro calma e tranquilla, ma che non si sa mai che cosa si troverà sotto la superficie. Dice sempre che tengo tutto dentro, che faccio succedere tutto dentro di me, e che fuori cerco di mostrarmi sempre tranquilla per non spaventare le persone. Per questo mi chiama portagioie di tristezza. Perché secondo lui nascondo le cose peggiori dentro una scatola bella da vedere.»


    Per tutto il tempo di quest'ultima confessione non le ho staccato gli occhi di dosso, mentre lei teneva i suoi fissi sulle acque limacciose del Po, forse credendo che non mi importasse. «Portagioie di tristezza» sussurro quando la sento tacere. «Tuo fratello ha una bella inventiva. Dovrebbe pensare di fare il poeta, avrebbe talento da vendere.» Appena finito di parlare vorrei prendermi a calci in testa, perché non mi sembra il tipo di commento da fare ad una ragazza che ti sta aprendo il suo cuore in questo modo.
    «No, lui è un genio dell'informatica, si guadagnerà da vivere con i computer. Diventa poetico soltanto quando ascolta Jeff Buckley, ma purtroppo lo fa di rado. O per fortuna, mi viene da dire: mia sorella ed io siamo abbastanza romantiche per tutti» aggiunge con un sorriso, tornando finalmente a guardarmi negli occhi.
    È in questo momento che un raggio di sole curva verso di noi, illuminandoci in pieno e facendomi notare che nei suoi occhi azzurri si nasconde in realtà anche un po' di verde. È in questa luce che una strana consapevolezza si fa strada in me, facendomi balzare il cuore nel petto: Tomo ha ragione, mi sono pazzamente innamorato della ragazza in piedi di fronte a me. Smetto di pensare in maniera razionale, ignoro tutto quello che mi sta intorno e decido di agire: un braccio sale a circondarle le spalle, l'altra mano le sfiora le guancia, e in mezzo ai passanti che ci lambiscono con i loro cappotti e la loro fretta appoggio le mie labbra sulle sue, soffocando ogni dubbio e ogni protesta.



    Se novant'anni fa qualcuno fosse andato a dire alla mia bisnonna che un giorno l'uomo avrebbe camminato sulla Luna, oppure che un uomo di colore sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti d'America, probabilmente lei avrebbe mandato il malcapitato a farsi un giro, intimandogli di non andare in giro a dire stupidaggini. Analogamente, se una settimana fa qualcuno mi avesse detto che oggi pomeriggio Shannon Leto mi avrebbe abbracciata e baciata sul Lungo Po... beh, probabilmente gli avrei suggerito di dare un taglio ai funghetti allucinogeni e di dedicarsi a passatempi più costruttivi.
    Il guaio è che io sono più che certa di non essere strafatta, tanto più che non ho mai fatto uso di droghe; sono anche sicura di non essere ubriaca, e non ricordo di aver battuto la testa, di recente – perciò, una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta deve per forza essere la verità: sono sul Lungo Po, ai piedi della scalinata che conduce alla chiesa della Gran Madre, e chi mi stringe tra le braccia non è uno studentello impacciato, ma quello che è stato definito dalla critica 'uno dei batteristi più eclettici degli ultimi dieci anni'.
    Sento il suo braccio dietro il mio collo, la sua mano teneramente appoggiata alla mia guancia, e le sue labbra calde e umide che sfiorano le mie con cautela, quasi timidamente, come in attesa di essere respinte. Ma come potrei respingerle? Ho sognato una scena simile così a lungo da averne definito praticamente ogni dettaglio – come potrei impedire la realizzazione delle mie fantasie, ora? Trovo finalmente il coraggio di muovermi, di far risalire le mani nell'esiguo spazio che separa i nostri corpi, e di arrivare ad accarezzare le sue guance ruvide di barba, sperando di ricambiare tutte le sensazioni che lui sta trasmettendo a me.
    Mi sono appena abituata alla sensazione che il contatto tra le nostre labbra mi comunica, ed ecco che di nuovo cambia tutto: la sua bocca si dischiude lentamente, la sua lingua forza delicatamente le mie difese, e all'improvviso il suo sapore di caffè diventa mio, i nostri respiri si fondono, le sue braccia mi stringono più forte, come se temessero di vedermi scivolare via come pioggia. È tutto praticamente perfetto, proprio come in un film, tanto che inizio a chiedermi quando finirà – e soprattutto in quale traumatico modo la fine si farà sentire.



    Impiego qualche secondo a realizzare che il ronzio che sento proviene da un cellulare, ma ad interrompere definitivamente la magia del momento sono le prime note di una vecchia canzone dei Goo Goo Dolls, un pezzo che non sentivo forse da un decennio. Daria si stacca da me in fretta, con il viso arrossato e il respiro corto. «Scusa, è il mio» sussurra, frugandosi in fretta le tasche. «Pronto?» risponde, approfittandone per prendere le distanze da me. «Signora Lorenzoli, buon pomeriggio! Sì, ho parlato con suo marito, e... no, come ho già spiegato a lui, oggi avrei qualche problema per... no, si figuri, niente di grave, è solo che è arrivato in città un mio amico, e devo... ah, capisco. Sì, certo. Certo, capisco. Ma no, si immagini. Ma certo, certo. In realtà credo che potrei... beh, sì, sono in zona. Sì, in realtà sono proprio davanti alla Gran Madre, quindi tra quindici minuti potrei essere lì. Potrei passare subito, se lei è disponibile. Sì, certo. Oh, sarebbe... perfetto, grazie. Va bene, allora le suono quando sono lì. La ringrazio, signora Lorenzoli. Grazie, grazie mille. A tra poco.» La guardo chiudere la comunicazione e riporre il telefono, guardandomi con la consapevolezza che non ho capito una parola, tranne 'grazie' e 'signora'.
    «Va tutto bene?» le domando. «Sembri preoccupata.»
    «No, tutto bene, è solo che... era la proprietaria di un appartamento che avrei dovuto vedere oggi pomeriggio. Stamattina ho chiamato per spostare l'appuntamento, ma sembra che ci siano persone interessate a prenderlo in affitto, e lei ha voluto avvertirmi. Vuole darmi la possibilità di vederlo, così nel caso mi piacesse potrei... beh, farmi avanti.»
    «Mi sembra una bella cosa.»
    «Sì, solo che quelle persone hanno una certa urgenza di cercare casa, perciò se voglio vedere l'appartamento dovrei passare adesso, il prima possibile. Sarebbe ad un quarto d'ora di cammino da qui, e... ti dispiacerebbe se ci passassimo un attimo? Ci terrei molto a vederlo, dall'annuncio sembrava piuttosto carino. Magari non farà per me, ma ci terrei almeno a... sai, no?»
    «Non devi nemmeno chiedere. Ti accompagno volentieri» la rassicuro con un sorriso. «Da che parte dobbiamo andare?»
    «Dobbiamo tornare indietro, è vicino al museo Egizio. Vicino alla piazza con la statua equestre, ricordi?»
    «Sì, mi ricordo. Dove abbiamo chiesto ai giapponesi di farci la foto.»
    «Sì, esatto. Andiamo?» Si incammina a passo deciso, lasciandomi indietro come se nulla fosse successo.
    Accelero il passo, la raggiungo a metà del ponte ed esclamo: «Aspetta, Daria, vieni qui!» Senza nemmeno aspettare che si volti le prendo la mano, intrecciando le mie dita con le sue in una stretta quasi indissolubile. Non posso far finta che nulla sia successo.
    Non voglio far finta che nulla sia successo.



1Perché io sono reale, e tu sei reale. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone 4 real di Avril Lavigne, contenuta nell'album Goodbye Lullaby (2011).

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Capitolo 6
*** 6 | ''Lo sai che questo cambierà tutto?'' ''Me lo prometti?'' ***


Portagioie di tristezza | 1

Portagioie di tristezza






Capitolo quinto
Lo sai che questo cambierà tutto?”
Me lo prometti?”1

Torino, 04 novembre 2013


    Sono trascorsi quasi cinque minuti da quando Shannon ha stretto la sua mano intorno alla mia, e nessuno dei due è ancora riuscito a dire una parola. Stiamo percorrendo via Maria Vittoria in silenzio, imbarazzati come due adolescenti al primo appuntamento. Il fatto è che, almeno da parte mia, non era previsto che le cose andassero così... o forse sì? In fondo Alice mi aveva messa in guardia, dicendomi che sabato sera le era sembrato di aver interrotto un momento di grande intimità. Mi chiedo che cosa avrebbe pensato pochi minuti fa, vedendoci avvinghiati davanti alla Gran Madre.
    «Molti occultisti sono convinti che in un determinato punto sotto la chiesa della Gran Madre si nasconda il Santo Graal» sparo fuori all'improvviso, senza nemmeno tentare di darmi un freno. Perfetto, ci manca solo che pensi che sono una stupida oca che parla a sproposito.
    «Ah» è la sua risposta. «Una teoria interessante.» E tra di noi ripiomba il silenzio. Vorrei riprendere la conversazione allo stesso ritmo di prima, così almeno potrei evitare di perdermi nel ricordo della morbidezza delle sue labbra. «Senti, Daria...» Nel sentire la sua voce, quasi sussulto: sto forse acquistando poteri telepatici? «Quello che è successo prima, io non...»
    «Non ti preoccupare» lo interrompo, spaventato da quello che potrebbe dire. «Non ti preoccupare, è tutto a posto. Va tutto bene.»
    «Se va tutto bene, perché non ci stiamo nemmeno guardando in faccia?»
    Mi fermo, e lui con me. «Forse non va tutto... forse non va tutto benissimo» ammetto.
    Con una mano si sfila gli occhiali da sole e se li appende alla maglietta, mentre si accarezza le labbra con la lingua. «Quello che è successo prima non è stato un errore, chiaro? Non è che sono inciampato e accidentalmente sono caduto sulla tua bocca... io lo volevo, va bene? È più o meno da quando sono sceso dal treno che ho voglia di baciarti. Anzi, se devo essere proprio sincero, avevo una dannata voglia di baciarti anche sabato sera.» Mi prende anche l'altra mano, rendendomi impossibile andare via o anche solo voltarmi verso qualcosa che non sia lui. «So che sembra una cosa da matti, perché io non ti conosco e tu non conosci me, ma tu... tu mi fai stare bene, mi fai provare sensazioni che non ho mai provato. La cosa mi spaventa da morire, ma allo stesso tempo non posso farne a meno. Non ti conosco, non so praticamente nulla di te, ma mi sto già chiedendo che cosa ne sarà di me quando... quando sarò lontano e tu non sarai con me.»
    Ho abbassato gli occhi fino a guardarmi le scarpe, cercando di trattenere le lacrime. Posso tentare di prendermi in giro e raccontarmi tutte le balle del mondo, ma la verità è che Shannon ha appena detto di essere innamorato di me, o qualcosa del genere, e io non ho idea di che cosa si debba rispondere in questi casi. Forse dovrei ringraziarlo per il bel pensiero, ma ricordargli che viviamo su due pianeti diametralmente opposti, e che nemmeno fra un milione di anni riusciremo a far coincidere le nostre vite. «So cosa stai per dire» mi interrompe non appena cerco di aprire bocca. «Stai per dire che ti senti lusingata, che apprezzi quello che penso di te, ma che per noi non esiste assolutamente futuro. Correggimi se sbaglio.»
    «Non sbagli, il succo del discorso era più o meno quello» rispondo, riuscendo finalmente a scongiurare il pericolo di sciogliermi in lacrime. Alzo lo sguardo, anche se sostenere quei grandi occhi dal colore indefinito non è semplice – non lo è mai stato, anche prima che gli eventi precipitassero in questa maniera. «Quello che ci sta succedendo è... beh, sì, meraviglioso, ma anche un po' terribile. È meraviglioso e anche un po' assurdo, a dire il vero, ma... Shannon, prova a pensarci in maniera razionale. Al massimo tra un paio di giorni tu dovrai andartene, e io resterò qui. Possiamo scriverci, tenerci in contatto, questo sì, ma... se anche quello che proviamo fosse veramente...» Non dirlo, Daria: non dire amore. «Insomma, come pensi che potremmo tenere in piedi una relazione nelle nostre condizioni? Io non... io non voglio finire come Alice, va bene? A me non bastano un paio di telefonate a settimana e una scopata in macchina quando capita l'occasione, a me non... a me non basterebbero, lo so.» Sento che le lacrime stanno di nuovo risalendo, ma questa volta decido di non fare nulla per fermarle. «Io voglio... quando avrò una relazione, io voglio una famiglia vera. Io voglio sposarmi, e avere dei bambini, e condividere... tutto, dalla prima colazione alla favola prima di andare a dormire. Voglio poter litigare faccia a faccia, voglio poter dire 'ti amo' di persona, non attraverso un telefono, e voglio avere qualcuno da stringere la notte. Io non... io non voglio un fantasma. Io non voglio un fantasma.» In qualche modo riesco a far scivolare via le mie mani dalla sua stretta, e subito cerco un fazzoletto con cui asciugarmi gli occhi e soffiarmi il naso, avendo prima cura di voltarmi dall'altra parte.
    Riprendiamo a camminare, di nuovo separati. «Scusa» lo sento sussurrare dopo un po'. «Non avrei dovuto avere la presunzione di credere di sapere che cosa fosse meglio per te.» Non rispondo, ancora impegnata a ripulirmi la faccia da ogni traccia di crisi. «Il fatto è che quando sei uno che vive come me, quasi senza certezze, appena hai l'occasione di aggrapparti a qualcosa che ti fa stare bene... non sono mai stato bene con una ragazza come lo sono stato con te. E dire che di ragazze ne ho conosciute, in tutti questi anni.»
    Non so come, ma la sola cosa che mi viene in mente di rispondere è: «Giusto, tra le mie obiezioni ho dimenticato di dire che sei vecchio!» esclamo con un sorriso. In fondo è vero, ha esattamente vent'anni più di me. Anche se tutta questa differenza non si vede, non è certo un dettaglio da sottovalutare.
    «Cosa sarei io, scusa?» si scalda lui, avvicinandosi con un ghigno che non promette nulla di buono. Non sono abbastanza veloce da fuggire, e così lui mi artiglia i fianchi, iniziando a torturarmi a forza di solletico – e come abbia scoperto che lo soffro da morire, non è dato sapere. «Ripeti quello che hai detto! Ripeti quello che hai detto! Cosa sarei io?» mi incalza, pur rendendosi conto che sto ridendo così tanto da non riuscire nemmeno a pensare ad una risposta.
    «Basta, Shannon, basta! Per favore, basta!» lo imploro, continuando a contorcermi tra le sue braccia.
    All'improvviso si blocca e ci troviamo di nuovo faccia a faccia, vicini come lo eravamo sul Lungo Po. Basterebbe sporgersi un po' in avanti per... «Promettimi che mi darai un'occasione» sussurra, continuando a trattenermi contro di sé.
    «Cosa?»
    «Promettimi che mi darai un'occasione» ripete. «Tu dici che non possiamo avere futuro, io invece dico di sì. Se me ne vado e non mi faccio più vedere, sicuramente l'avrai vinta tu. Dammi un'occasione per dimostrarti il contrario.»
    «Vincerò comunque io.»
    «Tu dammi un'occasione. Abbiamo davanti ancora un paio di mesi di tour, ma da gennaio sarò libero per un po'. Tu prometti di darmi un'occasione per dimostrarti che possiamo avere un futuro.»
    «Dammi un po' di tempo per pensarci, va bene?»
    «Ok» mi risponde. «Cinque minuti ti bastano?»
    «Shannon, come faccio in cinque minuti a...»
    «Daria, scherzavo. Devo prendere il treno delle sei e dieci. Hai tempo fino ad allora per pensarci su. Adesso andiamo» aggiunge, lasciandomi andare. «Hai una casa da visitare.»



*



Milano, 4 novembre 2013


    Jared è seduto a gambe incrociate sul pavimento della propria suite, abbracciato ad una chitarra, circondato da una marea di fogli bianchi e con una matita stretta tra i denti. Quando Tomo bussa, chiedendo il permesso di entrare, il cantante risponde con un mugugno che di umano sembra avere ben poco. «Ehi, ciao. Ho appena finito di parlare con Vicki, vi saluta tutti e due.»
    «'Azie» biascica Jared, alzando gli occhi verso l'amico per un istante appena.
    Tomo si siede davanti a lui, prende un foglio e lo studia con attenzione, per poi rimetterlo giù. «Sei nervoso?»
    «Mh? No, certo che no» risponde l'altro, lasciando cadere la matita. Le dita lunghe compongono qualche accordo, riprendono la matita, scarabocchiano qualche nota su uno dei fogli e poi si scostano una ciocca dagli occhi, per ritornare infine sulle corde. «Sto benissimo.»
    «Se lo dici tu» sospira l'altro, guardandolo con aria condiscendente. «Di solito quando ti chiudi nel tuo mondo a comporre in modo così frenetico è perché sei nervoso. Hai sentito Shannon?»
    «No, oggi non l'ho visto né sentito. Mi sono alzato tardi, dev'essere uscito prima che mi svegliassi. E comunque non sono nervoso.» Jared compone altri accordi, scarabocchia altre note, rimette a posto la solita ciocca e alza gli occhi sull'amico. «Che ne sarà di noi se fosse vero? Che cosa ci succederà?»
    «Che ne sarà di noi se fosse vero cosa
    «Se Shannon si fosse davvero innamorato di questa ragazza? Se dovessero mettersi insieme, sposarsi, avere dei figli... insomma, se scoprisse di amarla davvero e volesse lasciare il gruppo?»
    «Guarda che una cosa non esclude l'altra. Prendi me e Vicki: siamo sposati, e prima siamo stati insieme per un sacco di tempo, eppure non ho lasciato la band.»
    «Siamo nel bel mezzo di un tour, Tomo. E se Shannon ci mollasse all'improvviso? Non era il momento, non era proprio il momento... perché è successo ora?»
    «Jared, si chiama vita. Di solito la vita è quello che succede mentre tu sei impegnato a fare progetti. Non credo che Shannon avesse messo in conto di incontrare qualcuno, e sicuramente non credo che l'avesse messo in calendario per sabato. È successo, punto e basta, come a me è successo di incontrare Vicki.» Tomo si sforza di mantenere il tono più calmo possibile, come si fa davanti ad un bambino che ha bisogno di essere rassicurato. «E comunque Shannon è un uomo intelligente e maturo, non ci mollerebbe mai a metà di un tour per correre dietro ad un bel paio di gambe. È adulto, saprà gestire la situazione nel migliore dei modi. Dovresti avere un po' di fiducia in lui.»
    «Io mi fido di lui» sussurra Jared, rivolto più a se stesso che a Tomo. In realtà, non ha paura che Shannon li abbandoni a metà del tour: è solo terrorizzato all'idea di perdere un fratello.



*



Torino, 4 novembre 2013


    Nonostante la presenza dell'ascensore, Daria mi ha costretto a prendere le scale. «Ci si guadagna in salute» ha insistito, «e poi si risparmia corrente, il che è un bene per il pianeta e anche per le bollette.» Ho accettato la scarpinata fino al quarto piano soltanto perché è stata lei a chiedermelo. Non saprei negare nulla ad una donna con quegli occhi.
    Da un portoncino in legno sbuca la riccia testa bianca di un'arzilla vecchietta. «Oh, poveri cari, ve la siete fatta a piedi! Potevate prendere l'ascensore!»
    «Non importa, ci piace fare esercizio» risponde Daria con un sorriso. Mentre raggiungiamo il pianerottolo, pronti alla presentazione ufficiale, mi rendo conto che durante questa visita avrò il ruolo dello spettatore muto, visto che non conosco una parola d'italiano al di fuori delle classiche forme di saluto e ringraziamento. Prendo un appunto mentale: se voglio convincere Daria di essere davvero interessato a lei, devo iniziare un corso per imparare la sua lingua – anche se con lei posso parlare in inglese, un giorno vorrei essere in grado di comunicare con i suoi amici e la sua famiglia. «Piacere, sono Daria Giordano» aggiunge, porgendo la mano all'anziana. «Questo è un mio amico americano, Shannon. Purtroppo non parla italiano» specifica. E poi, rivolta a me: «Scusa, ma l'ho dovuta avvertire.»
    «Ada Lorenzoli» risponde la signora, stringendo la mano ad entrambi mentre dall'interno dell'appartamento sbuca un uomo altrettanto anziano, evidentemente il marito.
    «Antonio Lorenzoli, piacere di conoscervi. Bando alle ciance, andiamo subito a vedere l'appartamento, è per questo che siete qui, no?»
    Ricominciamo a salire le scale, anche se in realtà soltanto due rampe ci separano dalla possibile futura casa di Daria. Lo stabile mi piace, è un palazzo vecchio stile ma ben ristrutturato, in una zona sicura e tranquilla, con tutti i comfort del caso. «Il palazzo mi piace, sembra ben tenuto» le sussurro mentre seguiamo a passo lento i due anziani.
    «Sì, è un palazzo piuttosto signorile. Sicuramente l'appartamento è bello, ma quello che mi preoccupa è l'affitto. Sull'annuncio non era specificato, ho paura che possa essere troppo alto per le mie tasche» risponde.
    «Sull'annuncio abbiamo scritto appartamento» spiega la signora Lorenzoli, mentre raggiungiamo il piano designato e il marito armeggia per trovare la chiave giusta, «ma in realtà si tratta di una mansarda riadattata. È stata ristrutturata da poco e c'è tutto quello che serve, ma non aspettatevi una reggia.»
    «In effetti, è un posto ideale per una coppia di giovani come voi» aggiunge il marito. «Piccola, ma funzionale e intima. Sì, proprio l'ideale per una giovane coppia.» Si volta per strizzarmi l'occhio, e automaticamente guardo Daria, sperando in una spiegazione.
    Lei, evidentemente arrossita, mi spiega che il tale ci ha scambiati per una coppia. «In realtà sono io che sto cercando casa. Da sola» specifica. «Lui è solo un amico in visita.»
    «Oh» fa l'uomo, forse un po' deluso dal fatto che non stiamo insieme. «Beh, cara, avrai più spazio per te.» Spalanca il portoncino e ci guida attraverso un ingresso piccolo e buio. Se queste sono le premesse, non oso immaginare il resto dell'appartamento. Quando però sento Daria, in vantaggio di cinque passi su di me, sospirare di meraviglia, capisco che l'ingresso è l'unica nota dolente.
    La seguo, e come lei spalanco gli occhi per la sorpresa: il soggiorno, pieno di finestre e incredibilmente luminoso, sembra due volte più grande di quanto sia in realtà, e l'angolo cottura, separato dal soggiorno da un immenso bancone ad isola, scintilla come appena uscito dalla fabbrica. «Abbiamo fatto buttare giù i tramezzi per ricavare un grande spazio abitabile» spiega la signora Lorenzoli, mentre noi restiamo immobili in fondo alla stanza, «e abbiamo cambiato la vecchia cucina. È tutto nuovo, mobili ed elettrodomestici di prima scelta, tutto a norma di legge.»
    «Dalla parte opposta c'è il bagno» continua il marito, facendoci segno di seguirlo, «anche qui tutto ammodernato: tubi, rivestimenti, sanitari... tutto nuovo, fresco di fabbrica.»
    «Ci sono sia la doccia che la vasca» osserva Daria, stupita da quella scoperta.
    «L'idraulico ci ha consigliato di mettere la doccia perché è più pratica, dice che la gente la preferisce, al giorno d'oggi» risponde la moglie. «L'anno scorso abbiamo ristrutturato il nostro bagno, ma la vasca ci spiaceva buttarla. È un pezzo antico, non se ne trovano più così.»
    «Sì, noi ne abbiamo messa una di quelle ergonomiche» le fa eco il marito. «Quelle a prova di vecchio, per intenderci» aggiunge, strizzando l'occhio a Daria. Io mi ritraggo appena, cercando di non disturbare. «Qui accanto abbiamo ricavato una piccola stanzetta per gli ospiti» continua l'uomo. «Sembra più uno sgabuzzino, in realtà, ma un po' di spazio in più può sempre fare comodo. Ah, e nell'ingresso c'è un armadio a muro che può servire come ripostiglio vero e proprio.»
    Torniamo in salotto, e la moglie indica una scaletta a chiocciola che sale verso un massiccio soppalco in legno. «Lì sopra c'è la camera da letto principale. Se volete salire a vederla, fate pure. Per noi sono troppo pericolose quelle scale.»
    «Posso davvero?» domanda Daria, quasi sorpresa da quella concessione.
    «Ma certo, cara!» la incita la donna. «Anzi, facciamo così: vi lasciamo soli a familiarizzare con l'ambiente per un po' e scendiamo a preparare un caffè. Non si ragiona bene senza aver bevuto un buon caffè. Scendete tra dieci minuti e discutiamo tutti i dettagli.»
    I due escono, lasciandoci soli, e a questo punto guardo Daria con un misto di sorpresa e preoccupazione. «Che cosa sta succedendo?» le domando, sperando in un riassunto della visita.
    «Ci lasciano soli qualche minuto per familiarizzare con la casa. Ci aspettano di sotto tra dieci minuti per offrirci un caffè. Adesso salgo a vedere la camera da letto» aggiunge, indicando le scale a chiocciola. «Vieni con me?»
    «Se ci tieni...» La seguo in silenzio su per la scaletta, stupendomi di quanto sia lucido il legno degli scalini e del mancorrente. «Devono averla ristrutturata proprio di recente» commento, «sembra appena uscita da una rivista. Oppure hanno una donna delle pulizie fenomenale.»
    «Mi piacciono un sacco i mobili» risponde lei, fermandosi a pochi gradini dalla cima per voltarsi a guardare indietro. «Ho sempre adorato i mobili in legno. E poi sono chiari, rendono tutto molto più luminoso...» Riprende a salire, scoprendo che la scaletta porta direttamente in camera. «Praticamente cucina, soggiorno e camera da letto principale formano uno spazio unico... mi piace, sembra molto più grande di quello che è.» Si avvicina ad una delle pareti, e facendo scorrere un pannello di legno scopre una cabina armadio a dir poco immensa. «Wow. Di certo non avrò problemi per far entrare i vestiti. Mia sorella impazzirebbe di gioia vedendo tutto questo spazio.»
    Io, intanto, sto valutando la stabilità dello scaffale che riempie la parete attigua. «Avrai posto anche per i tuoi libri» le faccio notare. «Dal pavimento fino al soffitto, senza interruzioni.»
    «Già, finalmente potrò smettere di ammucchiare scatoloni sotto al letto» risponde lei, richiudendo l'anta della cabina armadio.
    «A proposito di letto...» sussurro, facendo un cenno verso quel preciso pezzo d'arredamento, «sembra piuttosto comodo.» Mi siedo sul bordo del materasso, ricoperto da un leggero copriletto color miele, e tendo una mano verso di lei, invitandola a sedersi accanto a me. «Avanti, voglio solo che venga a sederti qui» la incito, notando la sua titubanza. «Non ho cattive intenzioni, lo prometto. Avanti, vieni qui.» Daria accetta di prendere la mia mano, e a quel punto le strattono appena il braccio, facendole perdere l'equilibrio per farla cadere proprio accanto a me. «Il materasso mi sembra abbastanza morbido, non trovi?» le sorrido, voltandomi su un fianco per poterla guardare dritta negli occhi.
    Lei si guarda attorno, studiando con attenzione la struttura in ferro battuto. «Mi sono sempre piaciuti i letti di questo tipo. Sono antichi, mi fa pensare che abbiano un qualche tipo di storia alle spalle.»
    «Magari anche quello era dei padroni di casa, come la vasca. Magari è stato il loro primo letto» azzardo con un sorriso. «A proposito, credo che verrò spesso a fare il bagno da te. Quella vasca è enorme.»
    «Come ti pare, tanto io sono un tipo da doccia. Sono sempre troppo di corsa, non ho il tempo di fare il bagno.»
    «Ti piace?» le domando all'improvviso, tornando serio.
    «Cosa, fare la doccia?»
    «L'appartamento, sciocchina» ribatto, toccandole la punta del naso con l'indice. «Ti piace?»
    «Molto» confessa, cambiando impercettibilmente posizione sul materasso. «Se devo essere sincera, mi stupisce che sia così simile a come ho sempre immaginato la mia casa ideale. Sembra quasi che qualcuno mi abbia letto nel pensiero e abbia arredato ogni angolo secondo i miei precisi gusti.»
    «Pensi che sia la casa giusta per te? Pensi che ti ci troveresti bene?»
    «Non lo so, credo di sì. Ma come si fa a sapere se una casa è giusta per te se non ci hai mai passato nemmeno una notte? Comunque continuo a pensare che sicuramente costerà troppo, quindi è inutile farsi tante domande.»
    La osservo in completo silenzio per qualche secondo, sostenendomi la testa con un braccio. È così carina quando è immersa nei suoi pensieri... «Che cosa ti piace fare nel tempo libero?»
    «Beh, le solite cose: leggere, andare in giro, uscire con gli amici... ma questo che c'entra?»
    «E quando sei a casa? Insomma, quando torni dal lavoro e ti rintani in camera tua, che cosa fai di solito?»
    «Beh, di solito io... no, non te lo posso dire. È una cosa stupida, sicuramente rideresti di me.»
    «Non ci credo, non può essere una cosa stupida. E poi guarda che stai parlando con uno che adora fotografare tazze di caffè e pubblicare gli scatti su Instagram. Non ci può essere nulla di più stupido. Dai, dimmelo... altrimenti ricomincio a farti il solletico.»
    Deve sembrarle una minaccia davvero tremenda, perché dopo essersi massaggiata le tempie con una mano per qualche secondo confessa: «Mi piace scrivere. Ho sempre voluto fare la scrittrice, quindi nel mio tempo libero scrivo un sacco. Butto giù trame, invento personaggi... è una cosa stupida» ripete in tono convinto.
    «Non è una cosa stupida... in effetti, da una come te mi aspettavo un passatempo artistico.» Le accarezzo un fianco con fare distratto, continuando a guardarla come se stessi contemplando un'opera d'arte. «Prova ad immaginarti mentre scrivi. Riesci ad immaginarti mentre scrivi in questo appartamento? Non so, magari sdraiata sul tappeto del salotto, oppure seduta qui alla scrivania... riesci ad immaginarti qui mentre fai quello che ami?»
    «Sì, io... io credo di sì. Sì, mi ci vedo. Ma cos'è, un test della personalità?»
    Sorrido, scuotendo la testa. «No, è semplicemente lo Shannon-cerca-casa test. Tutte le volte che ci trasferivamo – io, Jared e mia madre – lei voleva che fossimo coinvolti nella scelta della casa. Così, tutte le volte che trovavamo un appartamento che sembrava rispondere ai nostri requisiti, io mi chiedevo: riuscirò a suonare bene la batteria, qui? Se riuscivo a trovare un angolo che mi andasse a genio, per me era fatta, la casa si poteva prendere.»
    «Un test interessante» commenta lei, puntellandosi sui gomiti per guardarsi attorno e completare la scelta. «Beh, io credo che mi troverei bene a scrivere qui. Sì, direi che mi ci vedo. Quindi il risultato dello Shannon test è positivo.»
    «Quindi è la casa per te.»
    «Sempre ammesso che l'affitto non costi uno sproposito.»
    «Sarei disposto a comprartelo, questo appartamento, se la cosa potesse renderti la donna più felice del mondo» sussurro, senza staccarle gli occhi di dosso. Prima che lei possa dire qualunque cosa, avvicino il mio viso al suo e la bacio di nuovo. Le mie braccia la circondano ancora, le mie mani ricominciano ad accarezzarla e a cercare il calore del suo corpo, e prima ancora di rendermi conto di quello che sto facendo mi ritrovo steso su di lei, impegnato in un bacio che di casto e tranquillo ha ben poco. Smetto di pensare, mi lascio trasportare dal momento, lascio le sue labbra e scendo lungo il mento, seguendo il profilo che trovo tanto interessante, e senza fermarmi arrivo alla pelle liscia e bianca del collo, che accarezzo con la punta del naso, tentando di imprimere nella mia mente il suo preciso odore.
    «Shannon, fermo» sento però dire dopo qualche istante, appena due secondi prima che le sue mani premano sulle mie spalle per allontanarmi. «Che cosa stai facendo?»
    «Ti sto baciando» rispondo con naturalezza. Pensavo che fosse abbastanza chiaro quello che stavo facendo, perciò inizio a chiedermi che cosa si nasconda dietro quella domanda.
    «Sì, questo lo avevo intuito» ribatte lei in tono sarcastico. «Però non... insomma, tu le ragazze le baci sempre... così
    Sorrido, comprendendo che si riferisce al modo in cui le sono appena rotolato addosso, come se volessi strapparle di dosso i vestiti e fare l'amore con lei come se non ci fosse un domani – un'eventualità cui, in effetti, stavo giusto pensando. «Non sempre. Solo se penso che siano le ragazze più incredibili che abbia mai incontrato.»
    «Ah. E... e ti succede spesso?»
    «Perché, sei gelosa?» Lei distoglie lo sguardo per un istante, e ancora una volta mi sorprendo di quanto siano belli i suoi occhi, anche quando si riempiono di preoccupazione o di tristezza. «Ascolta, Daria» riprendo, abbassando la voce e accarezzandole una guancia con due dita, «se non ti va di fidarti di me ti capisco. Conosco la reputazione di cui godono i musicisti: una ragazza diversa ogni notte, a volte anche più di una, vestiti strappati via con i denti, orge, droga, alcool, sesso estremo e chissà che altro... ma sono tutte stronzate. Ammetto che è successo, qualche volta: sono stato a letto con ragazze conosciute da poche ore, a volte da meno di un'ora, e ammetto di averle scaricate brutalmente una volta finito, ma con te... con te sarebbe completamente diverso. Se mai dovessi finire nel mio letto, userei tutto il mio ingegno per escogitare un modo per fartici rimanere il più a lungo possibile.» Torna a posare i suoi occhi su di me, e in questo momento mi sento uno stupido – perché devo sempre finire col fare questi discorsi da rocker arrapato? Sembra che io non faccia altro che pensare al sesso, e ho paura che questa convinzione potrebbe spingerla ad allontanarsi da me. «Non intendo dire che voglio portarti a letto e basta, sia chiaro... non che non ci abbia pensato, certo, però... insomma, non è dal primo momento che io... ecco, non... » Perfetto, mi sono impappinato. Con un sospiro mi tolgo da sopra di lei e torno a stendermi sul copriletto, coprendomi gli occhi con entrambe le mani. Non sono mai stato bravo con le parole, mia madre ha sempre avuto ragione: la diplomazia è una prerogativa di mio fratello.
    Un cigolio alla mia sinistra mi informa che Daria ha cambiato posizione sul materasso. Mi scopro gli occhi, e vedo che si è messa seduta sul bordo del letto. «Shannon, ma tu credi sul serio che per noi ci possa essere qualcosa di più oltre questo pomeriggio?» la sento sussurrare, così piano che la voce sembra quasi arrivare da un altro pianeta. «Sei davvero convinto che possiamo avere un futuro, in qualche modo?»
    «In qualche modo, io credo di sì» rispondo, sollevandomi dal materasso e scivolando accanto a lei. Abbasso la testa fino ad appoggiare il mento sulla sua spalla, mentre la mia mano sinistra scivola sopra la sua destra, stringendola appena. «Chiamalo destino, chiamalo Dio, chiamalo come ti pare... ma io sono convinto che ci sia qualcosa in serbo per noi due» sussurro, sperando che capisca che sto parlando con il cuore. «Non posso credere che per noi non ci sia altro. Sono stato troppo bene con te, sarebbe troppo crudele se non potessi rivederti mai più.»
    «Non sarà facile.»
    «Lo so.» Il fatto che abbia usato quel particolare tempo verbale mi gonfia il cuore di gioia: significa che ha seriamente pensato all'eventualità di darmi un'occasione. «D'altra parte a noi Leto non sono mai piaciute le cose semplici.»
    «Oh, se è per questo nemmeno i Giordano si tirano indietro di fronte alle sfide» risponde lei con un breve sorriso. «Ma è giusto che tu sappia fin da questo momento che non ti renderò la vita facile. Sono una persona insicura, ho sempre bisogno di essere rassicurata, e probabilmente fidarmi di te e della bontà delle tue intenzioni sarà la cosa più difficile, per me. Le proverò tutte per farti andare via, per farti uscire dalla mia vita, e anche se all'inizio combatterai e vincerai, alla fine deciderai che non ne vale la pena e andrai via.»
    Le lascio lentamente la mano, e con entrambe le braccia le cingo le spalle, avvicinando le labbra al suo orecchio: «Come si vede che non mi conosci» sussurro prima di lasciare un bacio leggero sulla sua guancia. «Ora andiamo, su!» riprendo, scattando in piedi. «Non si era parlato di un caffè, poco fa?»


    Uscendo, i Lorenzoli hanno lasciato le chiavi infilate nella toppa, evidentemente invitandoci a chiuderci la porta alle spalle. Faccio scattare la serratura tre volte e sfilo la chiave, immaginando quanto sarebbe bello poterlo fare ogni mattina, sapendo di lasciarmi alle spalle un posto sicuro in cui rifugiarmi ogni sera. «Va tutto bene?» mi sento domandare mentre mi volto e inizio a scendere le scale.
    «Sì, è tutto a posto» rispondo. «Stavo solo pensando che questo appartamento mi piace veramente tanto. Sarebbe bello poterci abitare.»
    «Allora ci conviene andare a sentire quanto costerebbe viverci, ti pare?»
    Annuisco e lo seguo fino all'appartamento dei Lorenzoli. Suono il campanello e aspetto che il marito venga ad aprire. La prima cosa che faccio è restituirgli il mazzo di chiavi. «Ho chiuso a tripla mandata, spero di aver fatto bene.»
    «Benissimo, cara. Ma venite, stavo giusto per venire a cercarvi. Il caffè è appena salito.» Si scosta per permetterci di entrare, ed entrambi ringraziamo. Aspettiamo che il padrone di casa ci faccia strada, e in pochi passi raggiungiamo un grande salotto luminoso, arredato in un modo che mi ricorda molto l'appartamento di mia nonna: tessuti con delicate stampe floreali, centrini fatti all'uncinetto, un bel vaso a fare da centrotavola...
    «Complimenti, avete una casa veramente bellissima» osservo mentre il signor Lorenzoli scosta una sedia per invitarmi ad accomodarmi.
    «Oh, è Ada che si occupa di queste cose» risponde lui, mettendo una mano sulla spalla di Shannon per invitarlo ad imitarmi e sedersi. «Io sono uno di quei mariti che passa gran parte del tempo leggendo il giornale» aggiunge con una risatina, mentre la signora ci raggiunge reggendo un bel vassoio d'argento.
    «Allora, che ne dite dell'appartamento? Vi è piaciuto?» ci domanda la donna, prendendo posto accanto al marito.
    «Molto, è praticamente uguale a come immaginavo il mio appartamento ideale» rispondo, accettando la tazzina che mi viene offerta. «E devo dire che risponde esattamente alle mie esigenze: è piccolo, ma con spazi ben organizzati; e poi è in una bella zona ed è vicino al lavoro, il che è un bel vantaggio» proseguo, mentre anche a Shannon viene appioppata una tazza. «Niente zucchero per me, grazie» aggiungo subito, vedendo che il marito mi sta porgendo la zuccheriera. Guardo Shannon, che rifiuta con un educato gesto della mano, e torno a guardare la signora Lorenzoli. «A questo proposito, mi stavo chiedendo a quanto ammonta l'affitto, visto che sull'annuncio non era specificato.»
    «Pensavamo di chiedere trecentocinquanta euro al mese» risponde il marito, e a fatica mi trattengo dallo sputare il caffè che ho appena bevuto sul bel tavolino in noce.
    «Ma è pochissimo!» esclamo dopo aver deglutito. «Trecentocinquanta euro sono... niente, considerando la zona, lo stato dello stabile, e il fatto che l'appartamento sia appena ristrutturato.»
    «Quanto vogliono?» mi domanda a bassa voce Shannon, sporgendosi verso di me.
    «Trecentocinquanta euro al mese» gli rispondo. «Sono un po' più di quattrocento dollari, credo. È una somma bassissima, tutto considerato.» Torno a guardare la coppia. «Perché è così basso, se posso chiedere?»
    «Beh, non abbiamo bisogno di soldi» mi spiega la signora, facendo spallucce. «Abbiamo comprato quella mansarda vent'anni fa, nostra figlia non aveva ancora diciott'anni. L'abbiamo sempre usata come magazzino, pensando di poterla adattare per farci un appartamento per lei. Solo che poi lei si è sposata, ha fatto i suoi progetti e si è cercata una casa adatta alle sue esigenze, com'è giusto che sia, e così a noi è rimasto uno spazio vuoto.»
    «L'idea ce l'ha data proprio Anna, nostra figlia» prosegue il marito. «Noi non sapevamo che farcene, ma lei ci ha suggerito di ristrutturare e di farne un appartamento. In fondo è una città di studenti, al massimo avremmo potuto affittarla ad uno di loro.»
    «Al telefono lei mi ha parlato di alcune persone interessate ad affittare, dico bene?» domando alla moglie. «Se fossi intenzionata ad affittare quanto loro, come... insomma, che cosa...»
    «Che cosa ci farebbe scegliere te piuttosto degli altri?» completa lei. «Oh, cara, se sei interessata direi che noi la scelta l'abbiamo già fatta.» Guardo entrambi, cercando di capire che cosa stiano cercando di comunicarmi. «Noi siamo partiti con l'idea di affittare a persone giovani, perché in questo palazzo ci sono già così tanti anziani... c'è bisogno di un po' di vita.»
    «L'altra coppia che è venuta a visitare la casa è sulla cinquantina» spiega il marito, «perciò se vuoi l'appartamento, per noi sei la candidata ideale. Sembri una persona responsabile, una con la testa sulle spalle, perciò se vuoi la casa è tua.»
    «Non state parlando sul serio, vero?» I due si guardano e sorridono, annuendo, mentre Shannon si avvicina di nuovo, domandandomi il tema del discorso. «Dicono che se voglio, l'appartamento è mio. Dicono che cercavano una persona giovane a cui affittare, e che siccome sono più giovane dell'altra coppia e sembro una persona come si deve, devo solo dire che voglio affittarlo.»
    «E allora che cosa aspetti a dirlo? Hai anche detto che costa poco!»
    Torno a guardare i padroni di casa, e mi rendo conto che mi stanno mettendo in mano le chiavi della felicità: devo soltanto infilarle nella serratura e farle girare. «Va bene, allora voglio affittare il vostro appartamento» affermo con un sorriso.


    «Hai appena trovato una casa, ti rendi conto?» dico mentre usciamo sul marciapiede. Tra una chiacchiera e l'altra si sono fatte le cinque, e tra poco più di un'ora dovrò riprendere il treno per tornare a Milano. «Hai appena fatto una cosa importantissima, e...» Sono costretto ad interrompermi, perché le braccia di Daria sono improvvisamente strette attorno al mio collo, e le sue labbra premute forte contro le mie. Non voglio sprecare il momento, perciò appoggio le mani sui suoi fianchi e la trattengo vicino a me, desiderando di poter fermare il tempo. Le sue dita mi sfiorano lentamente, e mi sembra quasi di sentire la pelle bruciare quando le sue unghie sfiorano il tatuaggio che ho dietro l'orecchio. «Wow» sussurro. «E dimmi, tu i ragazzi li baci sempre così?» la prendo in giro.
    «No, non sempre. Solo quando sono persone speciali» risponde con un sorriso, aggiustandomi il bavero del giubbotto. «Accidenti, non ci posso credere. Ho appena preso casa! A mio padre verrà un colpo, gli avevo detto che lo avrei avvertito con un po' di anticipo...» Mi lascia andare e guarda l'orologio. «Credo che dovrei iniziare a riaccompagnarti, tanto si sta facendo buio e non c'è rimasto molto da farti vedere. Andiamo?» Questa volta è lei a porgermi la mano, in un gesto che mi rende incredibilmente felice.
    «E con questo, direi che sei ufficialmente entrata nell'età adulta» commento mentre ci avviamo a passo lento sotto i portici di piazza San Carlo. «Non puoi dire di essere veramente adulto finché non vai a vivere da solo.»
    «Credo ci starò bene» risponde lei. «Ho sempre immaginato di vivere in un posto del genere. Sembra quasi che sia stato fatto apposta, non trovi?»
    «Dev'essere stato un segno del destino. Probabilmente andartene di casa è la scelta giusta, e aver trovato la casa perfetta ne è la conferma. Dovevi cambiare, e questo è il momento giusto per farlo.»
    «Sì, è possibile» mi risponde lei, guardandosi intorno con aria curiosa. «A proposito, ho preso una decisione.»
    Quell'affermazione mi sorprende, e non faccio nulla per nascondere lo stupore. «In merito a cosa?»
    «In merito al fatto di darci o no una possibilità.»
    «Credevo che il bacio di prima fosse già una dichiarazione di intenti piuttosto chiara» ribatto con un sorriso.
    La vedo arrossire in maniera piuttosto evidente. «Sì, beh, diciamo che preferisco essere più chiara.»
    «Lo sapevo, sono troppo affascinante. Impossibile trovare una donna che sappia resistere al mio fascino» la prendo in giro, guadagnandoci in cambio un leggero schiaffo sulla spalla. «Allora, sentiamo: quale sarebbe questa decisione?»
    «Beh, ho deciso che possiamo provarci. Ma tu devi promettermi una cosa.»
    «Tutto quello che vuoi.»
    «Prometti che non mi prenderai in giro. Non sopporterei di essere presa in giro. Se per caso dovessi cambiare idea su... beh, sui tuoi sentimenti, su quello che provi... non prendermi in giro, ok? Solo questo. Me lo puoi promettere?»
    «Ho fatto carte false e mi sono alienato le simpatie di mio fratello per stare con te un pugno di ore, che cosa ti fa credere che potrei cambiare...»
    «Per favore, io ho bisogno di sentirlo» mi implora, fermandosi e tirando appena la mia mano.
    A questo punto mi fermo, mi volto, mi piazzo saldamente davanti a lei e la guardo dritta negli occhi. «Io prometto che non cambierò idea su di noi. E se per qualche motivo assolutamente balordo dovesse accadere una cosa così terribile, prometto che non ti prenderò in giro e te ne informerò subito. Prometto di fare tutto il possibile per non farti soffrire, e prometto di scontare la più dura delle punizioni se questo dovesse mai accadere.» Termino la frase con il mio miglior sorriso, sperando di essere riuscito a convincerla che non intendo rifilarle una fregatura, e che vorrei picchiare quello stupido mister Zainetto Rosso soltanto per il fatto di averla delusa. «Tu mi piaci veramente molto, Daria. Non voglio che tu soffra per colpa mia.»
    «Ok» sospira, e la sua voce sembra provenire da una stella ai confini della galassia. «Alice ha studiato arti marziali per cinque anni. Solo per informarti. Due anni fa si era offerta di gambizzare Andrea, ma ho declinato l'offerta.»
    «Buono a sapersi» sorrido di nuovo, mentre riprendiamo a camminare. Lascio andare la sua mano e le faccio scivolare il braccio sulle spalle, riuscendo così a tenermela più vicina. «Daria, sai che questo cambierà tutto?»
    «Sarebbe strano se non cambiasse proprio nulla» mi risponde. «Shannon, mi prometti che cambierà davvero tutto?» Non comprendendo quell'improvvisa richiesta, mi volto per guardarla in viso e cercare di capirne le ragioni. «Voglio dire... ho sempre avuto una vita normale, e per lo più sono stata felice, però... però adesso arrivi tu, e mi dici che le cose cambieranno. E la cosa... la cosa mi affascina, mi affascina sul serio. Sono sempre stata soddisfatta della mia vita, ma la prospettiva di cambiare...»
    «La prospettiva di cambiare ti incuriosisce?»
    «Sì, mi incuriosisce. Credo sia l'espressione corretta.»
    «Allora ti prometto, in aggiunta a tutto ciò che ti ho promesso poco fa, che la tua vita cambierà. Mi impegno a cambiarti la vita, se è questo che desideri.» La guardo sorridere e reclinare appena la testa, appoggiandola contro la mia spalla, mentre a passo lento ci dirigiamo verso il luogo che ci separerà di nuovo.


    «Beh, allora... suppongo che...» Non sono mai stata così in imbarazzo: mi sento la bocca asciutta, come se avessi perso la saliva a metà strada, e non so nemmeno quali siano le parole giuste per congedarci.
    «Già, credo di sì» risponde Shannon, nonostante io non abbia espresso alcun concetto. «Ti chiamo io, va bene?» Annuisco, senza parlare, mentre sento gli occhi gonfiarsi di lacrime. Abbasso lo sguardo, ma le sue mani racchiudono prontamente le mie guance, costringendomi a guardarlo. «Come fai ad essere bellissima anche quando piangi?» mi sussurra, senza staccarsi da me. Nella luce artificiale della stazione, i suoi occhi appaiono nocciola, ma se c'è una cosa su cui non posso proprio sbagliarmi è quello che stanno fissando: sono fermi su di me, fissi nei miei, e la cosa un po' mi sorprende: non credevo che sarei mai riuscita a sostenere in questo modo lo sguardo di un uomo come lui. In silenzio, senza troppe parole inutili, le sue labbra si posano per l'ennesima volta sulle mie.
    È fatta: sono innamorata.
    Ci spostiamo accanto ad un pilastro e continuiamo a baciarci avidamente per una decina di minuti, proprio come farebbe una coppia di adolescenti in piena tempesta ormonale. Le sue braccia mi cingono dietro il collo, le mie mani sono scivolate sotto il giubbotto e lo stringono all'altezza della vita, il mio seno è premuto contro il suo torace e le sue dita continuano ad accarezzarmi guance e collo, e io continuo a chiedermi che succederà quando accanto a me tornerà ad esserci il vuoto.
    «Adesso suppongo che dovrei andare» sussurra alle sei e cinque, separandosi appena da me. Ci guardiamo attorno, e notiamo che quasi tutti i passeggeri sono saliti. «Ti chiamo io» ripete, stringendomi di nuovo il viso tra le mani per costringermi a non distogliere lo sguardo. «Mi mancherai, lo sai?»
    «Anche tu mi mancherai» rispondo con voce un po' roca. Mi mancherà come l'aria, e temo che questa sarà l'ultima volta che lo vedrò.
    Si stacca lentamente da me, e dopo un attimo di indecisione lo guardo frugarsi in tasca. «Tienimi questo, per favore» decreta, mettendomi in mano la sua copia di Aspettando Godot. «Fino al nostro prossimo incontro. Me lo ha regalato mia madre, ci tengo un sacco. Tienilo finché non ci rivedremo.»
    «Shannon, questo non ha...»
    «Ha senso, credimi. Me lo restituirai quando ci rivedremo.»
    Fisso lui, poi il libro, e poi ancora lui. E quella che mi sembrava un'idea senza senso diventa all'improvviso una cosa sensatissima. Mi tolgo rapidamente dal collo una delle catenine che indosso: in realtà è un semplice cordoncino di cuoio decorato con un bullone, ma ci tengo come se fosse una collana di Cartier. «Questa non la tolgo mai, nemmeno quando dormo» gli spiego, infilandogliela senza tanti complimenti. «Me la sono fatta da sola in prima media, e da allora non l'ho mai tolta» ripeto, come se volessi essere sicura che abbia capito il concetto. «Tienila tu» concludo, appoggiandogli teneramente una mano contro il petto, più o meno all'altezza del cuore. «Me la ridarai quando ci rivedremo.»
    Lo vedo sorridere e sento che potremmo ricominciare a baciarci come due ragazzini, ma anche gli ultimi ritardatari stanno salendo, e così mi rendo conto che deve andare. Si sporge verso di me e mi regala un ultimo, lieve bacio. «Mi mancherai» sussurra salendo sul treno. Il groppo che ho in gola mi impedisce di rispondere a parole, perciò mi limito ad alzare una mano. Il capotreno fischia, le porte si chiudono e di lì a pochi secondi il treno inizia a muoversi.
    Guardo Shannon allontanarsi in silenzio dalla mia vita, e mi chiedo se questo pomeriggio sia stato soltanto un parto della mia immaginazione. Poi penso al libro che stringo tra le mani e alla collana che non mi penzola più dal collo, e mi dico che non è un sogno, una fantasia passeggera – Shannon lo ha promesso: cambierà la mia vita.



1”Lo sai che questo cambierà tutto?” “Me lo prometti?” | Il titolo del capitolo è ispirato ad uno scambio di battute tra Jerry Maguire e Dorothy Boyd (interpretati da Tom Cruise e Renée Zellweger nel film Jerry Maguire (1996).

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Capitolo 7
*** 7 | Pioggia cadrà, e l'aria sarà più pulita in questa città dove tutto sembrava finire. ***


Portagioie di tristezza | 1
Prima di proseguire con il capitolo, una piccola comunicazione: IO VI AMO. Sinceramente, vedendo com'erano partite le cose non avrei mai immaginato che nel volgere di due settimane avrei ricevuto così tante risposte positive.
Un grazie di cuore ai nove lettori che la preferiscono, ai quattro che la ricordano, ai quindici che la seguono e a tutti coloro che hanno avuto il cuore e la voglia di lasciare una recensione.
Con la speranza di non deludervi, vi saluto e vi abbraccio forte forte.
EffieSamadhi

P.S.: Questo è probabilmente il capitolo più noioso ed inutile che abbia scritto finora. Ma non disperate, posso migliorare.






Portagioie di tristezza






Capitolo settimo
Pioggia cadrà,
e l'aria sarà più pulita
in questa città
dove tutto sembrava finire.1

Milano, 04 novembre 2013


    Pago il tassista, lo ringrazio e scendo dall'auto, ma invece di infilarmi a passo svelto nella hall dell'albergo rimango fuori qualche minuto per godermi il silenzio e prepararmi alla probabile cattiva reazione che avrà mio fratello nel riaccogliermi dopo non avermi visto né sentito per l'intera giornata. D'istinto mi tocco le tasche, cercando le sigarette, salvo accorgermi che non le ho portate con me – il pensiero di passare un intero pomeriggio con Daria mi ha tenuto così occupato che ho dimenticato di metterle in tasca, anche se la cosa che più mi sorprende è che non ho sentito il bisogno di fumare mentre stavo con lei, nemmeno una volta. Questa ragazza sembra davvero avere un effetto positivo su di me. Dopo aver inutilmente cercato qualche stella tra le mille luci che offuscano la bellezza del cielo ormai nero, giro i tacchi ed entro nell'albergo, dirigendomi a passo sicuro verso il bancone della reception. Chiedo gentilmente la mia chiave al concierge e salgo al mio piano preferendo le scale all'ascensore, ricordandomi dell'espressione comparsa sul volto di Daria poche ore fa, quando ho tentato di convincerla che quattro piani di scale fossero troppi da fare a piedi.
    Quando arrivo al sesto piano, invece di tirare dritto verso la mia camera busso alla porta di Tomo, per salutarlo e per chiedergli dello stato mentale di mio fratello. «Tomo, sono Shannon» mi presento subito dopo aver bussato, ricevendo il permesso di entrare. «Ciao» lo saluto, entrando con cautela e chiudendomi la porta alle spalle. «Sono tornato» aggiungo, trovandolo sdraiato sul letto nell'atto di fare zapping con il telecomando e cercare un canale di notizie. «Che fai di bello?»
    «Cercavo di capire cosa succede di nuovo nel mondo» risponde lui facendo spallucce. «Ah, prima ho parlato al telefono con Vicki. Vi manda i suoi saluti.»
    «Ah, grazie. Ricambia, mi raccomando. Come se la passa?» gli domando, trascinando una sedia vicino al letto.
    «Sta bene, tutto regolare» risponde mentre mi siedo. «Piuttosto, quello che dovrebbe avere qualcosa da raccontare sei tu» aggiunge.
    Piego le braccia sulla spalliera e ci appoggio sopra il mento, chiedendomi da dove dovrei iniziare. «Ho passato un bel pomeriggio» commento, decidendo di tenermi sul vago.
    «Hai viaggiato bene?» mi sento chiedere, rendendomi conto soltanto adesso che Tomo ha spento la tv e mi sta dedicando tutta la sua attenzione.
    «Sì, ho viaggiato bene. Lei è venuta ad aspettarmi in stazione.»
    «Beh, mi sembra normale. Aveva detto che sarebbe venuta a prenderti, o sbaglio?»
    «Sì, l'aveva detto, però... finché non l'ho vista sulla piattaforma ho avuto paura che non venisse. Che avesse cambiato idea. Al suo posto io avrei avuto diversi dubbi.»
    «Che avete fatto?»
    «Un giro per il centro, mi ha fatto vedere alcuni monumenti, mi ha raccontato qualche aneddoto... è stato bello, è una buona guida.»
    «E... ci sono stati degli sviluppi particolari?»
    «L'ho accompagnata a vedere un appartamento da affittare. Un bell'appartamento» specifico. «E ha deciso di prenderlo, alla fine. E ci siamo baciati. Più di una volta.»
    «Non si può dire che sia stato un pomeriggio noioso. E dopo esservi baciati?»
    «Lei si è fatta prendere dall'ansia, perché pensava che stessi soltanto giocando.»
    «E tu stavi giocando?»
    «Per niente. Daria non è una ragazza da prendere in giro. È molto sensibile, quasi fragile, e io non potrei... nessuno con un minimo di umanità potrebbe prendere in giro una ragazza come lei.»
    «E come vi siete lasciati?»
    Prima di rispondere esito, cercando le parole più adatte per esprimere il concetto – salvo poi accorgermi che di parole perfette, in certi casi, non ce ne sono. «Abbiamo deciso di provarci» sputo fuori. «Vogliamo provare a frequentarci. Non chiedermi quali siano i nostri piani, perché non lo so. So solo che non ho mai desiderato tanto passare del tempo con una donna – e non sto parlando di fare sesso, ma di passare del tempo insieme. Lei è speciale. È veramente una ragazza speciale.» So che Tomo non mi giudicherebbe mai, perché giudicare gli altri non è nella sua natura, perciò so che nel suo silenzio si nasconde soltanto un tacito invito a continuare. «Non ho intenzione di mollare il tour per scappare con lei a Las Vegas, se è questo quello di cui Jared ha paura» aggiungo.
    «Non è di questo che tuo fratello ha paura» sospira lui, voltandosi sulla schiena e iniziando a fissare il soffitto con aria interessata. «Insomma, ha cercato di convincermi che fosse quella la sua preoccupazione più grande, ma credo che in realtà sia solo spaventato all'idea di perdere te. Se questa Daria fosse soltanto una delle tante con cui ti diverti sotto le coperte, una di quelle che usi e butti fuori dal letto quando arriva l'alba, probabilmente Jared non avrebbe nulla da ridire – sarebbe la normalità, il divertimento senza impegno a cui siete entrambi abituati. Ma se tu di questa Daria sei davvero innamorato, se provi a conoscerla e a far funzionare le cose e scopri che le cose vanno bene... beh, per forza di cose lui esce dalla tua vita. Beh, forse non ne esce completamente, ma di sicuro il suo ruolo nella tua vita si ridimensiona.»
    «Non smetterò di essere suo fratello soltanto perché ho una relazione con una donna» protesto, sicuro che niente potrebbe mai allontanarmi da Jared. Siamo sempre stati una cosa sola, fin dall'infanzia: abbiamo vissuto le stesse esperienze, abitato gli stessi luoghi, sentito le stesse cose – più che fratelli, siamo anime gemelle, nel senso più esteso del termine.
    «Questo io lo so, e so anche che tu sei un uomo abbastanza maturo e ragionevole da arrivarci. Ma Jared... tuo fratello ha quarantadue anni, questo è vero, ma il suo cuore è fragile come quello di un ragazzino. Basta una frase detta con il tono sbagliato, e nel suo cuore si può formare una crepa irreparabile.»
    «Credi che dovrei parlare con lui?» Domanda stupida, me ne rendo conto subito dopo: ovviamente Tomo mi consiglierà di parlare con Jared. Il problema è che non so se Jared vorrà ascoltarmi. A volte sa diventare davvero scontroso, se le cose non vanno come lui le ha pianificate.



*



Torino, 4 novembre 2013


    «Sono a casa!» annuncio, chiudendomi la porta alle spalle. Mancano cinque minuti alle sette, e tecnicamente dovrebbero essere tutti in casa: mio padre dovrebbe essere sotto la doccia, mio fratello alle prese con le pentole e mia sorella impegnata a sistemare geometricamente in tavola piatti e posate. Invece il salotto è silenzioso, dalla cucina non arrivano risate né rumore di stoviglie, e la cosa mi preoccupa un po'. «C'è qualcuno?» chiedo al nulla, alzando un po' la voce mentre attraverso il corridoio.
    A bordo della propria sedia girevole da ufficio, mio fratello si affaccia dalla camera da letto. «Stasera ceniamo da nonna» mi informa. «Ci ha suonato prima per invitarci. Festeggiamo il compleanno di Massimo.»
    Massimo è uno dei nostri cugini, figlio del fratello maggiore di papà: fin da bambino è sempre stato fissato con i soldatini, e da quando è entrato nell'esercito lo vediamo pochissimo – ed è un peccato, perché è uno di quei ragazzi che adorano ridere e che hanno sempre il sorriso sulle labbra, qualunque cosa accada. «Ma compie gli anni soltanto tra dieci giorni, perché festeggiamo adesso?» domando.
    «Doveva essere in licenza fino al venti, invece lo hanno richiamato prima perché ci sono turni da coprire, o qualcosa del genere» completa mia sorella, uscendo dal bagno in accappatoio. «Le ho chiesto se dovevamo portare qualcosa, ma ha detto che al cibo ci pensavano lei e zia Bea. Ci aspettano per le otto.»
    «Papà?» domando, entrando in camera mia per lasciare borsa e giubbotto sul letto.
    «Doveva fare delle commissioni, è tornato dal laboratorio ed è uscito subito dopo» risponde mia sorella, alzando la voce per sovrastare il ronzio dell'asciugacapelli.
    «L'abbiamo chiamato per avvertirlo della cena» aggiunge mio fratello, puntando i piedi per terra e muovendosi distrattamente avanti e indietro per il corridoio. «Nonna vuole a tutti i costi che porti Laura, quindi passerà a prenderla prima di tornare.»
    Mi rimbocco le maniche della camicia e raggiungo il bagno per lavarmi le mani. «Abbiamo ancora del formaggio? Magari faccio un'insalata, giusto per non presentarci a mani vuote» osservo distrattamente mentre mi insapono.
    «Quella buona con il formaggio e le pere?» chiede mia sorella, illuminandosi all'idea. «Però non abbiamo più pere.»
    «Ah. Beh, potrei sostituirle con le mele, dovrebbe uscire comunque un piatto decente.»
    «Che hai fatto di bello oggi? Sei stata fuori tutto il pomeriggio, pensavamo ti fossi persa» mi chiede Emanuele, che si è spinto in retromarcia fino a raggiungere la porta del bagno.
    «Ho fatto un giro in centro» rispondo con aria di sufficienza, cercando di non attizzare la loro curiosità. «Ho visto un appartamento» aggiungo subito dopo, incapace di trattenermi. «Una mansarda, in realtà. È in via Maria Vittoria, ristrutturata da pochissimo, e costa trecentocinquanta euro al mese.»
    «Un affarone, direi» commenta mia sorella, passandosi una spazzola tra i lunghi capelli castani. «Pensi che possa essere la casa giusta?»
    Esito un attimo nel rispondere, e a quel punto mio fratello esclama: «L'hai preso, vero?» Praticamente costretta a confessare, spiego brevemente le ragioni che mi hanno spinta a decidere tanto in fretta – il tutto badando a non nominare Shannon, né il fatto che abbiamo trascorso insieme l'intero pomeriggio e che in futuro probabilmente lo rivedrò. E che sono innamorata come una quindicenne.
    Francesca ascolta il tutto continuando a pettinarsi, e alla fine, mordicchiandosi un labbro, sussurra: «Come credi che la prenderà papà? Avevi detto che lo avresti avvertito in tempo.»
    «Papà capirà» rispondo, aggiustandomi una piega inesistente sul davanti della camicia. «Era un affare troppo conveniente, non potevo lasciarmi sfuggire l'occasione.» In realtà, ho paura che ci rimarrà male: gli avevo promesso di tenerlo al corrente degli sviluppi del mio progetto, e alla fine non ho mantenuto la parola. So che non si opporrebbe, ma so anche che gli piace essere messo al corrente di quello che succede in casa sua.
    «Io glielo direi stasera, se fossi in te» commenta Emanuele. «Ci sono i parenti e c'è anche Laura, non ti può ammazzare se ci sono così tanti testimoni. Beh, io devo finire un progetto. Fammi un fischio quando hai finito, Franci.»
    Mentre raggiungo la cucina e cerco gli ingredienti per mettere insieme la mia celebre insalata, non posso fare a meno di pensare che Emanuele ha ragione: papà non potrà avere una relazione esagerata, se siamo in mezzo alla gente. Glielo dirò non appena avremo un attimo di privacy.



*



Milano, 4 novembre 2013


    Seguendo il consiglio di Tomo, sono giunto davanti alla porta della camera di mio fratello; ho bussato un paio di volte e ora sono in attesa di risposta. «Sì?» sento dire dopo qualche istante.
    «Servizio in camera» rispondo con un sorriso, pensando che se rispondessi dicendo il mio nome probabilmente verrei lasciato fuori come uno zerbino consumato.
    La porta si apre subito, rivelando l'espressione piatta di Jared. «Pensavi che non avrei riconosciuto la tua voce?» Non sembra di buon umore, ma il fatto che si sposti per lasciarmi entrare mi fa capire che non mi odia tanto da non volermi parlare – o forse una volta entrato sarò brutalmente aggredito e i pezzi del mio cadavere verranno ritrovati sparsi nei cassonetti di mezza Milano.
    «Ti sei riposato?» gli domando, restando in piedi al centro della stanza mentre lui raggiunge il letto, sul quale ha sparso fogli bianchi e appoggiato la chitarra. «Stavi componendo qualcosa? Ti ho disturbato?»
    «Ho suonato un pochino, messo insieme qualche nota. Niente di importante» risponde a bassa voce, come se la ritenesse davvero una cosa da poco.
    «Oh, bene, sono contento. Mi fai sentire?» gli chiedo, avvicinandomi di qualche passo.
    «Non è niente di importante, davvero. Ci voglio lavorare ancora un po'.»
    Vincendo la vocina nella mia testa che mi dice di allontanarmi e lasciarlo qui a cuocere nel suo brodo, mi siedo sul bordo del letto, verso il fondo, e gli punto addosso gli occhi, cercando il coraggio di comunicargli quello che provo. «Ho passato il pomeriggio con Daria» esordisco, pur sapendo che già conosce questa parte della storia. «Sono stato molto bene con lei. Non pensavo che sarei mai stato bene con una donna come lo sono stato con lei. È veramente una ragazza speciale. L'ho accompagnata a vedere un appartamento da affittare. Un appartamento piuttosto carino, una mansarda riadattata. Andrà a vivere lì, alla fine.» Faccio una breve pausa, ma Jared non sembra intenzionato a rispondere. «Jared, io penso di doverti dire che... beh, che credo di essere attratto da lei come non sono mai stato attratto da nessuna. È carina, è simpatica, è intelligente... è una ragazza speciale. So che l'ho già detto, ma non riesco a trovare altri aggettivi per descriverla. Dovresti conoscerla, ti piacerebbe.» Dall'altro lato del letto continua a non arrivare risposta, tranne qualche occasionale accordo che a volte viene trascritto su carta. A questo punto decido di cambiare strategia: mi sfilo le scarpe, che lascio cadere sul tappeto, e senza dire una parola di più mi stendo sul materasso, poggiando i piedi sul cuscino.
    Il silenzio la fa da padrone per cinque minuti, poi sento finalmente qualche parola – la voce di Jared è bassa, quasi come quella di Daria quando mi ha chiesto se credevo veramente nel nostro futuro, ma capisco ogni parola: «Shannon, che intenzioni hai con lei?»
    «Voglio rivederla. Vogliamo rivederci. Non chiedermi se ho progetti a lungo termine, se voglio sposarla o avere dei figli, perché non lo so. Tutto quello che so è che la chiamerò, le manderò delle e-mail, e compatibilmente con i nostri impegni la rivedrò. Lei è d'accordo con me.» Faccio un'altra pausa, ma di nuovo non ottengo risposta. «Quello che so per certo è che non lascerò la band per scappare con lei dall'altra parte del mondo. Non abbandonerò il tour a metà, questo è sicuro. E sicuramente non smetterò mai di essere tuo fratello. Anche se alla fine dovessi costruire qualcosa di importante con lei, non smetterei mai di esserci, per te.» Le dita smettono di comporre accordi, e i suoi grandi occhi azzurri, così diversi dai miei, si velano di una tristezza che non ho mai visto prima. «Sei tu l'amore della mia vita, ricordi?» aggiungo con un sorriso, ridestando in entrambi il ricordo di una vecchia intervista. «Quello che abbiamo tu ed io, nessuna storia d'amore lo potrà mai sostituire. Siamo fratelli, e questa è una cosa che non si può cancellare. Anche lei ha dei fratelli, e come noi non ha avuto una vita facile, e sono sicuro che su questo punto lei la pensi come me: nessuna relazione potrebbe cancellare quello che prova per loro. Volevo solo... ecco, volevo solo farti sapere che anche tra vent'anni, anche tra una vita intera, io... sarò sempre il tuo fratellone. Sarò sempre Shannon.»
    Due interi minuti di silenzio seguono la mia confessione, e quando finalmente sento di nuovo la voce di Jared, la frase che mi sento rivolgere è decisamente diversa da quella che mi aspettavo, e il tono decisamente più ironico: «Se davvero sono l'amore della tua vita, potresti farmi il favore di spostare i tuoi sudici piedi dal mio cuscino? Puzzano da morire



*



Torino, 4 novembre 2013


    Alle otto meno cinque attraversiamo il pianerottolo in fila indiana: Francesca in testa, a seguire Emanuele, e infine io. Come sempre quando ci aspetta per cena, nonna ha lasciato accostato il portoncino: entrando, mia sorella chiede permesso per pura formalità. Sapendo che nostro padre ci raggiungerà tra poco, lascio la porta come l'ho trovata, e seguo i miei fratelli verso la sala da pranzo. La nonna esce dalla cucina e ci viene incontro a braccia aperte, abbracciandoci e baciandoci nell'ordine in cui siamo entrati. Quando arriva il mio turno, dopo aver ricambiato il saluto le mostro l'insalata, sentendomi rispondere che non era necessario disturbasi. Raggiungo la cucina, dove zia Beatrice è impegnata a preparare una dose di salsa tonnata, e lascio il piatto sul lucido piano di lavoro. «Ciao, zia» la saluto, avvicinandomi subito alle pentole per capire quale sarà il menu della serata.
    «Ciao, pulce» mi risponde lei, fermando per un istante il mixer. «Cos'hai portato di buono?»
    «Insalata di formaggio, mele e sedano» rispondo. «Tanto per non venire a mani vuote, mi sentivo troppo in colpa. Posso aiutarti a fare qualcosa?»
    «No, in realtà è tutto a posto. Finisco di fare questa e siamo pronti. Che mi racconti? Tuo padre mi ha detto che l'altra sera sei andata ad un concerto. Ti sei divertita?»
    «Sì, è stato bello. Alice è venuta con me, ci siamo divertite tantissimo. Mi ci voleva una serata fuori.»
    Finisce di amalgamare il tonno alla maionese, pulisce il frullino e intanto mi guarda – anche se non la sto guardando direttamente, riesco a percepire i suoi occhi fissi sulla mia figura. «Sai che ti trovo diversa? Non so, hai qualcosa... hai qualcosa di diverso.»
    «In che senso?»
    «Nel senso... non so, sembri diversa. Tanto per cominciare, sei truccata. Penso di averti vista truccata sì e no dieci volte nella vita, e sicuramente mai in un giorno feriale.»
    D'istinto mi porto una mano alla guancia, ricordandomi del lieve strato di cipria e della matita nera che ho riesumato dalla busta dei trucchi, e sorrido. «Sì, sono uscita a fare un giro in centro e avevo voglia di mettermi un po' carina.» Il make-up non è mai rientrato tra le mie abilità: è mia sorella quella con la passione per l'abbigliamento, i capelli e il trucco – passione che comunque non la configura come ragazza venale o vuota, anzi: a volte sa essere più profonda di me. «Comunque ogni tanto mi trucco, non è un avvenimento» aggiungo, sperando di sviare l'attenzione dalla straordinarietà dell'evento. La verità è che volevo provare ad assomigliare alla Daria che Shannon ha conosciuto sabato, o almeno tentare di essere presentabile.
    «Sarà come dici. Non è che i tuoi giri in centro avevano a che fare con una... persona speciale, o qualcosa del genere? Franci mi ha detto che sabato sera hai fatto conquiste.»
    «Franci dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi» ribatto un po' scocciata. Già sapevo che sarebbe andata a finire così: per quanto io adori mia sorella, so che affidare a lei un segreto è molto pericoloso.
    «Quel che è detto è detto, ormai. Allora, me ne parli o no? Ha detto che è uno studente straniero, dico bene?»
    «Americano» preciso, sperando di ricordare tutti i dettagli della bugia che ho rifilato a mia sorella. «Si chiama Sean, ha la mia età, è nato in Louisiana. Studia italiano, ma non è bravissimo a parlarlo. Mi ha lasciato il suo indirizzo e-mail e mi ha chiesto di scrivergli, tutto qui. Da qui a parlare di matrimonio, o qualunque cosa ti abbia detto mia sorella...» Anche se, diciamocelo, la prospettiva di passare il resto della vita al fianco di Shannon Leto non sarebbe così malvagia.
    Mia zia sorride, aprendo il rubinetto per sciacquarsi le mani. «Tranquilla, non si è fatta nessuna strana idea su te e questo misterioso americano. Da quel che ho capito, invidiava soltanto il modo assolutamente romantico in cui vi siete incontrati.»
    «Romantico... insomma. Se prendere a spallate la gente è da considerarsi un gesto romantico, io sono la regina d'Inghilterra.»
    «E dai, dalle un po' di tregua. È ancora una ragazzina, le piace sognare. Non è mica un reato.» Si stropiccia le mani in uno strofinaccio pulito e rimesta dentro un pentolone con un grosso cucchiaio di legno. «Comunque tu nascondi qualcosa, sai? Hai mente di combinarne una delle tue, te lo leggo negli occhi.» Rispondo con una battuta, cercando di sviare il discorso anche da quell'argomento: non voglio dire a nessuno della casa finché non ne avrò messo al corrente mio padre.



*



Milano, 4 novembre 2013


    Finita la tacita guerra che la comparsa di Daria aveva sollevato, mio fratello ed io abbiamo deposto le armi, e insieme a Tomo siamo scesi al ristorante. A pranzo ho mangiato un panino di corsa, perciò la fame mi impone di ordinare un sacco di cose, e di conseguenza mi ingozzo come se non ci fosse un domani. «Allora è vero che l'amore mette fame» mi prende in giro Jared, che come sempre affronta con calma i suoi piatti privi di proteine animali.
    «Ha parlato la mucca da pascolo» rispondo con la bocca piena, indicando la ciotola colma di insalata che ha davanti. «Io ho bisogno di proteine, sono un uomo di fatica» aggiungo, indicando poi me stesso e la cotoletta alla milanese che riempie il mio piatto.
    «Visto che sei un uomo di fatica» ribatte Tomo, che come sempre sta sezionando il suo cibo con una precisione quasi chirurgica, «perché non fai lo sforzo di raccontarci qualche dettaglio di oggi?»
    «Giusto!» esclama Jared, «non fai che parlare di questa ragazza come se fosse l'ottava meraviglia del mondo. Almeno le hai fatto una foto?»
    «Sì, ce l'ho una sua foto» rispondo. «Abbiamo chiesto a dei giapponesi di passaggio di scattarcene una. Ma non ho intenzione di farvela vedere.»
    «Stai scherzando, vero?» ribatte Tomo, strabuzzando gli occhi.
    «Sei consapevole che se non tiri fuori subito quella foto faremo un'incursione nella tua camera mentre dormi e ti ruberemo il cellulare?» aggiunge mio fratello. «E non credere, saremmo capacissimi di farlo.» Tomo annuisce, e dalla serietà della sua espressione capisco che non è il caso di rischiare: l'ultima volta che mi sono trovato in una situazione del genere tutte le mie scarpe destre sono sparite dall'armadio, e non è stato divertente mettermi a cercarle per ogni angolo della casa e del giardino.
    «E va bene, avete vinto» sbuffo, tastandomi le tasche. Ne approfitto per controllare l'ora: sono le otto e dieci. Calcolando che finiremo di cenare tra poco meno di un'ora, decido che chiamerò Daria verso le nove.
    Porgo l'iPhone a Tomo, che apre senza difficoltà la giusta cartella e cerca gli scatti tanto desiderati. «Sarebbe questa qui?» mi domanda, girando il telefono verso di me per mostrarmi l'immagine. «Beh, è carina. Decisamente carina. Capisco perché nella prima foto non riuscivi a staccarle gli occhi di dosso. Ha i capelli corti!» esclama poi. «Non è il tuo genere, di solito ti piacciono con i capelli lunghi.»
    «Nella vita si cambia» ribatto, continuando a mangiare. Quando l'iPhone finisce in mano a Jared, mi fermo per studiare la sua espressione nel vedere il viso della ragazza che mi ha conquistato.
    «Quanti anni hai detto che ha?» mi domanda, alzando lo sguardo su di me.
    «Ventitré» rispondo, un po' spaventato dal suo giudizio.
    «Non li dimostra» commenta lui. «Sembra più piccola. Gliene avrei dati diciotto, al massimo venti. Begli occhi, però.» E questo, detto da un uomo i cui occhi sono considerati oggetti di culto da un gran numero di donne e uomini in tutto il mondo, mi sembra un complimento non da poco. «Non riesco a capire se sono azzurri o verdi.»
    «Uno e l'altro» rispondo subito, senza pensarci troppo su. «Sono azzurri, ma alla luce del sole diventano verdi. È difficile da spiegare a parole, bisogna vederli dal vero per capire.» Jared mi restituisce il telefono, e io non posso fare a meno di fermarmi a guardare di nuovo il volto di Daria, perfetto nelle sue mille imprecisioni. «Dovreste conoscerla, è veramente una ragazza in gamba» commento, senza riuscire a smettere di guardare la prima fotografia, quella in cui il mio viso è rivolto verso di lei. «Ha solo ventitré anni, ma pensa e parla come una donna di almeno trenta. Ne ha già passate tante in vita sua, però non si è fatta buttare giù. È... è speciale, tutto qui. Non so come altro descriverla. So solo che stare con lei mi piace.» A fatica riesco a mettere via il telefono, ma la mia mente è ben lontana dal dimenticare l'immagine del suo volto. «Ha bisogno di essere costantemente rassicurata, ha sempre bisogno di sentirsi dire che sta facendo la cosa giusta, però non... non è fragile, per niente. È una delle persone più forti che abbia mai conosciuto. Sa camminare con le sue gambe, se capite cosa intendo. Non avrebbe bisogno di nessuno, ma non riesce a stare sola.»
    «Sicuro di aver passato con lei un pomeriggio appena?» mi chiede Tomo, lasciando perdere per un attimo la cena. «Sembra quasi... non so, sembra che tu la conosca da secoli.»
    «Mi sento così. Mi sento come se la conoscessi da sempre, forse perché... non lo so, credo che in fondo siamo molto simili. Abbiamo vissuto esperienze simili, ad entrambi è mancato un genitore, entrambi abbiamo dovuto lottare per guadagnarci un posto nel mondo... non lo so, io la guardo e... e vedo me, in un certo senso. Riesco a capire come si sente anche quando non dice nulla, riesco a capirla soltanto guardandola, e... non lo so, mi viene da pensare che forse lei mi può capire quanto io capisco lei. Forse è questo quello che mi è sempre mancato nei miei rapporti con le donne: non ne ho mai incontrata una in grado di capirmi.»
    «Devi rivederla» sentenzia Jared, lasciandomi di stucco. Nonostante abbia accettato la mia intenzione di provare ad avere una relazione con Daria, non mi sarei mai aspettato di vedermi così apertamente spinto verso di lei. «Devi rivederla, per forza» ripete, mettendo giù le posate per prendere il BlackBerry, sul quale inizia a digitare in maniera a dir poco furiosa. «Domani e mercoledì siamo impegnati, dobbiamo assolutamente metterci sotto a provare per il prossimo concerto. Giovedì mattina abbiamo l'aereo per Colonia, il pomeriggio per sistemarci e provare ancora un po', e il concerto è venerdì sera. La data successiva è a Francoforte, ed è il prossimo giovedì. Questo significa che... sabato, domenica e lunedì puoi considerarti più o meno libero. Puoi passare il fine settimana con lei e raggiungerci a Francoforte martedì, giusto in tempo per due giorni di prove.» Finito di parlare, alza lo sguardo e mi sorride. «Se lei è libera, direi che siamo a cavallo. È un ottimo piano.»
    «Fammi capire» commento, faticando a credere che mio fratello stia parlando sul serio. «Fino a due ore fa aborrivi l'idea che mi facessi una ragazza, e adesso mi stai organizzando gli impegni in modo da darmi la possibilità di trascorrere con lei tre interi giorni?» Non so perché, ma la cosa mi puzza. E questa volta i miei piedi non c'entrano.
    «Io non sto organizzando proprio nulla» ribatte lui. «Il tour è già tutto impostato, ho solo letto le tabelle. Casualmente ci sono tre giorni in cui non abbiamo impegni: tre giorni in cui sicuramente non faremmo altro che vagare come zombie per le strade della città. Tu hai l'occasione di trascorrere un bel po' di tempo con la ragazza dei tuoi sogni: vuoi farmi credere che la getteresti al vento senza nemmeno prenderla in considerazione?»
    Messa così, la questione assume un aspetto completamente diverso. Potrei partire sabato mattina presto, essere a Torino per l'ora di pranzo e passare con Daria tutto il fine settimana. Potrei cercare un albergo da poco, o qualcosa del genere, e... beh, certo, prima dovrei chiamarla per assicurarmi che sia libera. Per quanto ne so, potrebbe già avere altri piani, e non mi va di scombinarle di nuovo la vita – anche se, lo so, la vita ho promesso di rivoluzionargliela completamente. «Prima devo parlarne con lei» dico infine a Jared. «Se dipendesse da me, potrei partire anche questa sera, però non so quali siano i suoi programmi. Potrebbe avere altro da fare.»
    «Bene, allora chiamala» ribatte lui, in un tono che non ammette repliche.



*



Torino, 4 novembre 2013


    Alle otto e venti siamo tutti presenti, e alle otto e mezza riusciamo a sederci tutti a tavola. Quando undici persone si riuniscono attorno ad una tavola imbandita, è normale che si formino gruppi distinti, e dopo cinque minuti accade anche a noi di 'spaccarci' a metà: da un lato i cosiddetti adulti, che discutono di politica e attualità, dall'altro i giovani, che discutono di libri, musica, film e sciocchezze, e che almeno una volta ogni cinque minuti esplodono in una grassa risata collettiva. Lo ammetto: sono una ragazza seria e sono sempre stata considerata molto più matura dei miei coetanei, ma quando mi trovo nella compagnia giusta so regredire ad un vero e proprio stato adolescenziale. I miei fratelli e i miei cugini, in particolare, costituiscono quella che ritengo la compagnia 'giusta' per eccellenza.
    Mio cugino Massimo, il festeggiato, sta per compiere ventisei anni, ed è arruolato nell'esercito da quando ne aveva diciannove; è lui, con il suo sorriso permanente e il sovra sviluppato senso dell'umorismo, l'anima del gruppo; suo fratello Tommaso, più vecchio di me di sole due settimane, è più timido e impiega più tempo a farsi coinvolgere nell'ilarità, ma ha il vantaggio di essere il più carino della famiglia, nonché quello con più voglia di studiare – frequenta il Politecnico, ed è uno dei migliori studenti della facoltà di Ingegneria.
    Quanto a me e ai miei fratelli, non è che ci sia molto da dire: Emanuele è di sicuro il più intelligente, anche se la passione per i computer a volte lo isola in un mondo dal quale è molto difficile trascinarlo via; Francesca, al contrario, è più solare e spensierata, a volte quasi difficile da imbrigliare – mi piace pensare a lei come ad un fiume che scorre impetuoso in mezzo ad una valle, bellissimo da guardare ma impossibile da arrestare. Quand'era piccola credevo che non avrebbe mai trovato la sua strada, e invece crescendo mi ha sorpresa: non senza sforzo, è riuscita ad incanalare le sue energie nel disegno, e al momento tutto fa presagire che possa essere questa la strada perfetta per lei. E poi... e poi ci sono io, la sorella maggiore: dovrei essere la guida, l'esempio da seguire, ma dubito di aver mai fatto qualcosa degno di essere imitato. Io sono la più insicura, la più indecisa, quella che ha più bisogno d'aiuto. Il fatto di essere la più grande mi ha sempre spinta a fingermi la più forte, ma la realtà è che spesso i dubbi mi mangiano viva, e davanti alle questioni più importanti non so che direzione prendere.
    Approfittando di una mia breve assenza, Francesca ha messo al corrente anche Massimo e Tommaso del mio incontro di sabato; quando torno a sedermi trovo quattro paia d'occhi fissi su di me, e in quell'istante mi rendo conto che avrei dovuto negare, e dire che al concerto non era successo nulla, assolutamente nulla – questa bugia sta letteralmente dilagando, e la cosa non può che portare guai. «E brava la nostra cuginetta» esordisce Massimo, servendosi un altro generoso cucchiaio di insalata, «è bello sapere che ti dai da fare per mantenere vivi i rapporti internazionali.»
    «Non so cosa vi abbia raccontato mia sorella» ribatto un po' seccata, «ma non è successo niente di eccezionale. Un tipo qualunque non guardava dove camminava, mi ha sbattuto contro e ne ha approfittato per attaccare bottone. Mi ha lasciato il suo indirizzo e-mail, ma non so ancora se gli scriverò, quindi siete gentilmente pregati di smetterla di immaginare il nostro matrimonio.»
    «Quando ti metti così sulla difensiva, però...» commenta Tommaso con un sorriso. «Devi ammettere che è un po' sospetto, per una che dice di non essere interessata.»
    «Non mi lascerete stare finché non ammetterò di avere un interesse per quel tizio, dico bene?»
    «Hai centrato il punto, sorellina» annuisce Emanuele.
    «E va bene... dunque, ammetto di essere stata colpita dalle circostanze del nostro incontro, e ammetto di averlo trovato abbastanza interessante, quindi può darsi che mi tenga in contatto con lui. Tuttavia, siete pregati di smetterla di parlare di me e di lui come coppia, perché non lo siamo. La direzione vi ringrazia» concludo, tornando a concentrami sul piatto.



*



Milano, 4 novembre 2013


    Ho provato a chiamare Daria per ben sei volte, senza mai ottenere risposta. Al primo tentativo fallito ho pensato che non lo avesse sentito squillare, al secondo che fosse in un'altra stanza, ma al terzo ho iniziato a convincermi che non voglia parlare con me – anche se, devo ammetterlo, per un istante mi ha sfiorato la paura che le sia successo qualcosa di terribile dopo la partenza del mio treno.
    Mi sono rintanato in camera mia subito dopo aver finito di cenare, e dopo la sesta chiamata fallita sono uscito sul terrazzino con la sola compagnia delle sigarette, di un accendino e di un bicchiere pieno d'acqua che uso come posacenere. E se Daria avesse cambiato idea? Se la sua volontà di rivedermi fosse stata soltanto una bugia messa in piedi per il tempo della mia visita? E se la passione di quei baci fosse stata frutto di una simulazione? E se...
    No, mi dico, scuotendo la testa. Quei baci erano troppo veri per essere finti, le sue emozioni troppo incontrollabili per essere fasulle. Se non mi risponde, è solo perché non può – per quale motivo non lo so, ma non può. Lo vuole, ma non può.
    All'improvviso, quasi come in un film, dalle nuvole che si sono addensate sulla città inizia a piovere – e sembra quasi che la pioggia sciolga le cattive emozioni, lasciando che a riempirmi il cuore siano soltanto le cose belle. Appoggio la schiena al muro, guardo in alto e mi godo lo spettacolo delle gocce che precipitano giù.



*



Torino, 4 novembre 2013


    L'occasione perfetta per dire a mio padre dell'appartamento arriva quando ci offriamo di sparecchiare e di preparare il caffè: siamo in cucina da soli e ci diamo le spalle – io sono impegnata a mettere via gli avanzi, mentre lui sta riempiendo diligentemente il filtro della caffettiera. «Papà, ho bisogno di parlare con te.»
    Anche se non lo vedo, lo sento voltarsi verso di me, distraendosi per un attimo dalla propria occupazione. «Mi devo preoccupare? Stai male, o...»
    «No, non ti preoccupare. Io sto benissimo. È solo che... beh, oggi non sono solo andata a fare un giro. Mentre ero fuori ho visto un appartamento che rispondeva esattamente alle mie richieste, e... beh, l'ho preso. Non ho ancora versato soldi né firmato contratti, però... ecco, ho dato la mia parola. Quindi io... quindi ho trovato casa, ecco.»
    «Ah. Beh, sono contento. Pensavi di non riuscirci prima dell'anno prossimo, invece...»
    Mi volto e fisso lo sguardo in un punto tra le sue scapole. «Scusa se ho fatto tutto senza dirtelo, papà. So che ci tenevi a saperlo con un po' di anticipo, ma ho dovuto decidere in fretta, e poi... beh, è perfetto.»
    «Non preoccuparti, pulce, sono contento» cerca di rassicurarmi, voltandosi per regalarmi una breve occhiata. Anche se si sforza di essere felice e brillante, riesco a vedere che nel suo sguardo è accumulata una grandissima tristezza. «In fondo era ora che qualcuno lasciasse il nido, no? E dimmi, dov'è questo appartamento?»
    «Via Maria Vittoria, quindi in pieno centro. Il palazzo è vecchio ma ben tenuto, e l'alloggio è stato ristrutturato da pochissimo. Era una mansarda, ma i proprietari hanno voluto farne un appartamento tanto per non lasciarlo vuoto. Sono una coppia di anziani, saranno sulla settantina. L'affitto è di trecentocinquanta euro al mese.»
    «Così poco?» si stupisce, avvitando la parte superiore della caffettiera alla caldaia. «C'è sotto qualcosa di losco?»
    «No, niente di losco. Semplicemente non gli va di lasciare lo spazio vuoto, però non hanno bisogno di soldi. Non ci vogliono guadagnare in denaro. Vogliono solo guadagnare dei vicini. Giovani, tra l'altro. Mi hanno spiegato che in lizza per l'appartamento c'era anche una coppia, ma che avrebbero preferito me per il fatto che sono giovane, mentre il palazzo è abitato in prevalenza da gente anziana.»
    «Sembra una vera favola, messa così» commenta lui, disponendo otto tazze su un vassoio – né la nonna né i miei fratelli bevono caffè, al contrario di me e papà, che siamo due caffeinomani nati – un po' come Shannon, tanto per trovare un altro punto in comune con lui. «Alice è venuta con te?»
    «No, ci sono andata da sola» mento, rendendomi conto soltanto dopo che la bugia potrebbe essere facilmente smascherata se mio padre parlasse con i Lorenzoli. «Ma non è stata una pazzia, te lo assicuro: sono più che sicura che quella sia la casa perfetta per me.»
    A questo punto, mio padre fa una cosa che non faceva da un sacco di tempo, e che allo stesso tempo mi fa venire voglia di urlare di gioia e mi lascia senza parole: senza dire niente mi abbraccia come quando ero bambina, passandomi le braccia dietro le spalle e facendomi dondolare lievemente come se stesse cercando di mettermi a dormire. «Non andrai mai troppo lontano, lo sai? Insomma, potresti andare sulla luna, però... sarai sempre la mia bimba» sussurra mentre ricambio l'abbraccio.
    «Lo so, papà.»
    «Quando vuoi traslocare?»
    «Non lo so, però credo il prima possibile. In fondo l'appartamento è già ammobiliato, oltre ai vestiti non è che abbia molto da portare. Mercoledì vado a firmare il contratto, a pagare i primi tre mesi di affitto e a prendermi le chiavi, e magari nel frattempo posso portare un borsone di roba.»
    «Dire che parti in quarta è dir poco» mi prende in giro, alzando il coperchio della caffettiera per controllare il processo.
    «Visto che mi tocca pagare per intero il mese di novembre, mi sembra giusto approfittarne.»
    «Tutta tua nonna» ribatte, trattenendosi a fatica dallo scoppiare a ridere. «Quando ci sono di mezzo i soldi... altro che storie, i ragionieri avreste dovuto fare!» La sua improvvisa allegria mi rassicura: se mi sta prendendo in giro, è perché si sente contento – perciò ha accettato la mia decisione meglio di quanto pensassi.



1Pioggia cadrà, e l'aria sarà più pulita in questa città dove tutto sembrava finire. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso contenuto nella canzone Pioggia cadrà di Antonino, contenuta nell'album Libera Quest'Anima (2012).

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Capitolo 8
*** 8 | E' molto divertente fare l'impossibile. ***


Portagioie di tristezza | 1

Di nuovo, grazie a tutti per il supporto e le belle parole. Siccome siamo in periodo natalizio e non credo che un capitolo nuovo sia sufficiente come regalo di Natale, vi lascio una minuscola 'chicca' – è questo il look con il quale immagino Shannon in questa ff (perché capellone è bello!).

EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo ottavo
È molto divertente fare l'impossibile.1


Milano, 04 novembre 2013


    Sono quasi le undici e mezza, e sta continuando a piovere. Lascio cadere il mozzicone nel posacenere improvvisato e penso che sarebbe meglio alzarsi, fare una doccia e andare a dormire, perché qualcosa mi dice che domani le prove saranno a dir poco estenuanti. Prima, però, voglio provare ancora una volta a chiamare Daria. Seleziono il suo numero dalla rubrica e faccio partire la chiamata, convinto che la cosa si risolverà in niente, come prima. E invece, incredibilmente, dopo appena tre squilli mi arriva la sua voce, acuta e affaticata come se rientrasse da un giro di corsa attorno all'isolato. «Scusami, Shannon! Scusami, scusami, scusami! Ero a cena da mia nonna, non avevo il telefono e non ho visto le chiamate, chissà che cosa...»
    «Ehi, ehi, ferma» la interrompo, senza riuscire a fare a meno di sorridere nel sentirla parlare così rapidamente. «Non ti scusare, non l'hai fatto apposta. Divertita a cena?»
    «Sì, abbastanza. C'erano anche i miei cugini, sono ragazzi divertenti. È stato bello passare una serata insieme. Tu che hai fatto?»
    Dopo averci pensato brevemente su, decido di dire la verità. «Sono rimasto seduto sul terrazzino della mia camera a guardare la pioggia e a cazzeggiare con il cellulare. Stasera mi sei mancata.»
    «Anche tu mi sei mancato, Shannon. Certo che sei chiamate perse... avevi qualcosa di urgente da dirmi?»
    «No, volevo solo sentirti. Forse lo volevo un po' troppo. Scusa, non volevo diventare uno stalker.»
    «No, va bene. Insomma, nessuno mi ha mai cercata in maniera tanto ossessiva. A dire il vero non so bene come sentirmi.» Fa una breve pausa, ma decido di non rispondere: ho come la sensazione che stia per dire qualcosa di straordinariamente dolce o simpatico. «Insomma, una chiamata è per parlare con me, due perché hai qualcosa da dire, ma sei chiamate... o sei innamorato perso, o sei un maniaco sessuale.»
    Non riesco a fare a meno di sorridere. «Se le scelte sono queste, direi la prima.»
    Come me, anche lei sorride. «Noto con piacere che sei fedele al cliché della star, e che esageri in ogni tua considerazione.»
    So che è solo una battuta, ma d'improvviso divento serio e raddrizzo la schiena contro il muro, abbassando un po' la voce e facendo attenzione a scegliere bene le parole. «Daria, non sto tenendo fede ad un cliché. E non sto mentendo, e non è una bieca strategia per tentare di portarti a letto, e non è una presa in giro. Io sono innamorato di te, sono innamorato di te con tutta la magia che comporta, e ogni muscolo del mio corpo canta.»
    «Springsteen» la sento sussurrare. «Hai appena citato Night di Bruce Springsteen.»
    «La conosci?»
    «Naturale che la conosco. Mio padre è stato giovane negli anni ottanta. Ha tutti i suoi dischi. La mia ninna nanna è stata I'm on fire. Me la cantava tutte le sere quando mi metteva a letto.» Un'altra pausa, un altro silenzio che decido di non riempire. «Ma che fai, cerchi di conquistarmi con la musica?» mi prende dolcemente in giro.
    «Se funziona, allora sì.» Sospiro, passandomi la lingua sulle labbra. «Che stai facendo in questo momento?»
    «Stavo scegliendo i vestiti da mettere domani.»
    «Scegli i vestiti la sera prima?»
    «Scegliendo la sera, la mattina posso stare a letto dieci minuti di più. È un vantaggio da non sottovalutare.»
    «E sentiamo, che cosa ti metterai?»
    «Perché vuoi saperlo?»
    «Sono curioso. E poi sono un maniaco, l'hai detto tu. Dai, voglio sapere come sarai vestita domani.»
    «Dunque, domani metterò... un paio di jeans neri, una maglietta verde e una camicia in jeans. Poi una cintura marrone e scarpe da ginnastica. Niente di particolare, in fondo è per il lavoro.»
    «Sarai comunque bellissima, ci scommetto.»
    «Non sarò niente di speciale.»
    «Tu sei tutto di speciale, mettitelo bene in testa» la correggo, sperando si pianti nella zucca che è bella, e che questa condizione non potrà mai cambiare. «Comunque c'è un motivo se ti ho chiamata così tante volte. Volevo chiederti... anzi, volevo dirti una cosa.»
    «Allora spara, forza.»
    «Beh, ecco, io... sai che ti avevo detto che saremo impegnati fino a gennaio con le date del tour? In realtà, riuscirò ad avere un paio di giorni liberi prima di gennaio.»
    «Davvero? E quando?»
    «Questo fine settimana. Da sabato a lunedì, se vuoi, sono libero e posso venire da te.»
    «Questo fine settimana?»
    «Sì, proprio questo fine settimana. Sempre che tu non abbia altri programmi, in tal caso non...»
    «No, figurati, non ho programmi. Beh, insomma... in realtà prevedevo di iniziare con il trasloco. Mercoledì vado a firmare il contratto, e contavo di entrare in casa il prima possibile, magari già questo fine settimana. Quindi forse potrei essere presa a disfare gli scatoloni, ma... beh, niente di non rimandabile, ecco. Insomma, se decidi di venire domenica io le valigie le disfo sabato e lunedì, senza problemi.»
    «Beh, veramente io avevo in mente qualcosa di diverso.»
    «Del tipo?»
    «Del tipo che dopodomani parto per Colonia, e quindi per venire lì devo prendere un aereo, e quindi non sarebbe una visita di poche ore. Pensavo più una cosa del tipo... non so, arrivare sabato nel primo pomeriggio e ripartire lunedì verso sera. Pensavo che potrei cercare un alberghetto o un bed & breakfast, qualcosa di non troppo vistoso. Avremmo più occasioni per vederci. Insomma, non sarebbe una cosa di poche ore, come oggi.»
    Di tutte le risposte che mi aspettavo, quella che ricevo è l'unica che non avevo previsto. «Shannon, sei sicuro di volermi vedere per tre giorni di fila?»
    «Abbastanza sicuro, sì. E comunque ho già comprato il biglietto» mento.
    «Hai comprato il biglietto senza nemmeno sapere se fossi libera o meno?»
    «Scherzo, non l'ho ancora preso. Ma ci è mancato poco che lo facesse Jared al posto mio. Lui e Tomo mi hanno praticamente costretto a mostrargli una tua foto, e tutti e due hanno convenuto sul fatto che sei molto carina.»
    «Hai mostrato quella foto orrenda a tuo fratello e ad uno dei tuoi migliori amici? Sarei stata meno in imbarazzo se ne avessi fatto una gigantografia e l'avessi appesa in mezzo a Times Square.» Non riesco a non ridere, mentre lei aggiunge: «Comunque puoi venire, se la cosa ti fa piacere. Ma scordati di dormire in albergo: verrai a stare da me.»
    «Non ti posso chiedere tanto.»
    «Il bello è questo: non me lo devi chiedere.»



*



Torino, 5 novembre 2013


    La telefonata tra me e Shannon è durata poco meno di un'ora, ma è stata l'ora più intensa e appagante della mia vita: battute, risate, progetti, complimenti, sdolcinatezze – con Andrea non ho mai parlato tanto, e soprattutto non mi sono mai sentita così a mio agio. È come se Shannon mi conoscesse da sempre, come se conoscesse ogni più piccolo dettaglio di me, come se mi avesse studiata a memoria, come si fa con una poesia o con una partitura. Quando ho messo giù, il fine settimana era pianificato: arriverà sabato pomeriggio, e aspetteremo la sera facendo un giro per la città, visitando i luoghi che ieri pomeriggio non sono riuscita a mostrargli; sabato sera usciremo per una bevuta tranquilla, domenica lo porterò al museo del Cinema, e lunedì probabilmente lo porterò di nuovo in giro, consegnandolo poi ad un taxi per l'aeroporto verso sera.
    Parlare con lui mi ha resa incredibilmente felice, e ho la conferma del mio nuovo status quando, arrivando al lavoro, il capo mi accoglie con un sorriso e una battuta: «Però, qualcuno ha passato un fine settimana soddisfacente...»
    «Non iniziare anche tu, per favore. Già ieri sera ho dovuto sopportare un terzo grado da manuale. Sono soltanto stata ad un concerto, niente di più. Mi sono divertita, ma non c'è altro da raccontare.»
    «Sarà» risponde Marco, seguendomi con lo sguardo mentre raggiungo il retro per lasciare giubbotto e borsa. «Visto che sei arrivata, io ne approfitto per uscire un attimo.»
    «Non dovevi andare dal commercialista, stamattina?»
    «Alle otto, ma ho dovuto chiamare per farmi spostare l'appuntamento perché non potevo lasciare il negozio scoperto.»
    «E Carlotta?» domando, rendendomi conto soltanto in questo momento che sono le nove, e che la mia collega doveva essere qui un'ora fa.
    «Mi ha telefonato alle sette e mezza dicendomi che la bambina è raffreddata e che doveva stare a casa per badare a lei» risponde, un po' scocciato. Carlotta è una ragazza madre, quindi deve affrontare un buon numero di difficoltà, ma siamo entrambi concordi nel pensare che spesso e volentieri approfitta del buon cuore delle persone per fare i propri comodi e faticare il meno possibile. «Comunque non ti preoccupare, non c'è il caso che tu faccia gli straordinari. Mi posso fermare io fino alla chiusura.»
    Mentre esce, chiudendosi alle spalle la porta cigolante, io inizio con le mie solite routine: andare in giro a controllare che i libri siano in ordine, che non ci siano buchi tra le file di volumi allineati sugli scaffali, che l'ambiente sia pulito e accogliente. Marco mi ha assunta cinque anni fa, poco dopo il mio diciottesimo compleanno, dapprima part-time e in seguito a tempo pieno, e da allora non sono mai riuscita ad immaginare di lavorare in un luogo diverso. Adoro i libri, la letteratura ha sempre fatto parte della mia vita, e mi ritengo estremamente fortunata per il fatto di aver trovato un lavoro che mi permette di unire l'utile al dilettevole. Per non parlare di Marco, che è davvero un capo straordinario: nonostante abbia ormai compiuto quarant'anni, è un uomo moderno e attento alle nuove tendenze, uno che conosce i gusti e le idee dei giovani e che sa parlare con gli adolescenti senza sembrare un vecchio marmittone. È un bel tipo, insomma, anche se la maggior parte delle clienti donne sceglie il suo negozio principalmente a causa del suo aspetto a dir poco incredibile – un po' com'è successo a Jared e Shannon, per lui il tempo sembra essersi fermato nei dintorni dei trent'anni, rendendolo decisamente appetibile agli occhi di un buon numero di acquirenti.
    Sono le nove e mezza quando la porta si apre, rivelando la figura decisamente irritata di Alice. «Belle amiche che siamo!» esordisce, senza preoccuparsi di regolare il tono della voce. Per fortuna il negozio è vuoto. «Mi scrivi alle undici e mezza di sera per dirmi che hai passato il pomeriggio con Shannon Leto e che sei appena stata al telefono con lui per un'ora e poi mi lasci lì appesa senza dettagli? Ti odio, dovrei andarmene e cancellarti dalla mia vita.» Sto per rispondere, ma aggiunge: «Però poi non avrei più occasione di sapere com'è andata, quindi parla. Posso farti uscire dalla mia vita anche più tardi.» Si accomoda su una delle poltroncine messe a disposizione dei clienti e ascolta con attenzione il mio resoconto, mentre io vado in giro rifornendo alcuni scaffali. Quando termino il racconto mi squadra con attenzione, stringendo gli occhi fino a ridurli a due fessure, e con voce bassa sussurra: «Mi stai dicendo che per un intero minuto sei stata sdraiata sotto Shannon Leto?»
    «Sinceramente speravo che fosse stato qualche altro dettaglio a colpirti, ad esempio che...»
    «Oh, taci» mi zittisce. «Ho sentito tutto, non mi sono persa nemmeno un dettaglio. È solo che fa un certo effetto immaginare uno come lui... sai, no? E se fa effetto da vestito, immaginatelo un po' nudo!»
    «Non è qualcosa a cui ho voglia di pensare in questo momento.»
    «Beh, ma ci dovrai pensare prima o poi. O pensi di trascorrere il fine settimana giocando a briscola?» mi domanda con un sorrisino di cui ben conosco il significato. «Al massimo, potreste fare una partita di strip-briscola.»
    «Non ho intenzione di sfilarmi le mutande questo fine settimana. E se quello è il suo unico scopo, allora può anche rimanersene a Colonia.»
    «Daria...» sussurra Alice, costringendomi a voltarmi verso di lei. «So che probabilmente non vorrai sentirtelo dire, ma non credo venga qui solo per sfilarti le mutande. Perché spendere una fortuna per venire da te quando potrebbe strappare le mutande a mezza Colonia senza spendere un centesimo?» In effetti, il ragionamento fila – o meglio, filerebbe se io fossi una ragazza sicura di sé e se fossi seriamente convinta dei sentimenti di Shannon nei miei confronti. «Nel dubbio, comunque, io farei una bella ceretta. Non si sa mai.»
    «Alice, non ho intenzione di andare a letto con lui questo fine settimana. Anzi, non ho intenzione di andare a letto con nessuno questo fine settimana.»
    «Daria, da quant'è che non ti vedi con un ragazzo? Due anni, più o meno?»
    «Sono uscita con dei ragazzi dopo Andrea.»
    «Sei uscita due volte con quell'amico di mio fratello e una volta con mio fratello, non lo chiamerei uscire con dei ragazzi» mi corregge. «E comunque non parlavo di uscire e basta, parlavo di... hai capito, no? Io dico che due anni di astinenza sono un po' troppi, anche se seguono una rottura abbastanza dolorosa. Insomma, so che hai sofferto un sacco quando è finita con Andrea, anche se io ti avevo avvisata che era un idiota, ma... andiamo, è ora di ricominciare! E guarda il lato positivo: hai la possibilità di ricominciare con uno che definisce affascinante è dir poco! Ti ricordo che c'è chi pagherebbe, per andare con uno come lui.»
    «Alice, no. Non interromperò due anni di castità andando a letto con uno di cui dicono che... insomma, con uno che soprannominano 'animale'. Sarebbe già una cosa traumatica di per sé, immagina con uno con la sua fama! E poi vuoi mettere l'imbarazzo? Conosco sì e no cinque posizioni e ne so replicare a malapena tre, mentre lui probabilmente conosce a memoria il libro del Kamasutra, e...»
    «Noto con piacere che non hai ancora smesso di farti seghe mentali!» mi blocca lei in tono fintamente entusiasta. «Senti, non è che ti puoi prendere una pausa e venire a prendere un caffè? Così studiamo un piano d'attacco: devi comprarti qualcosa di carino, depilarti, e...»
    «Oggi Carlotta non viene al lavoro e Marco è andato dal commercialista. Sono sola, non mi posso allontanare.»
    «Proposta bocciata, ho capito. Domanda: ma la tua collega ogni tanto si degna di presentarsi in negozio, o è solo una muta voce sul libro paga?» Alice non ha mai potuto soffrire Carlotta, e per quanto ne so il sentimento è reciproco.
    «Ha una bambina piccola, è normale che se ne prenda cura quando sta male» rispondo. Nonostante come Alice e Marco disprezzi il suo comportamento, non posso fare a meno di difenderla quando qualcuno ne parla male: credo sia un'assurda reazione del mio cervello, come l'inconscio desiderio di essere a mia volta difesa se mai mi capitasse di trovarmi in una simile situazione.
    «Balle» ribatte Alice senza mezzi termini. «Tuo padre è un genitore single e ne ha tirati su tre, non mi sembra abbia fatto un lavoro così pessimo. E non cercare di vendermi la balla che tuo padre ha avuto il supporto dei tuoi zii e dei tuoi nonni, perché non me la bevo. Ce li aveva anche lei dei genitori in grado di aiutarla, solo che ha mandato tutto a quel paese per...»
    «Alice, per favore, la smettiamo di parlare di Carlotta? La settimana per me è iniziata piuttosto bene, non mi va di rovinarmela il primo giorno di lavoro.»
    «Ok, cambiamo discorso. Dicevi che Shannon ha mostrato la tua foto a suo fratello e che lui ti ha trovata carina?»
    «Possiamo portare il discorso su qualcosa che non riguardi me o Shannon?»
    «Assolutamente no, è la notizia del secolo. Quando mai ad una delle mie migliori amiche capiterà di stregare un batterista di fama mondiale?» Alzo gli occhi al cielo e faccio per allontanarmi, ma all'improvviso Alice mi trattiene per un braccio, fissando un punto sulla mia maglietta. «Daria, dov'è la tua collana?»
    «Quale collana?»
    «Come sarebbe a dire 'quale collana'? Quella con il bullone, quella che non ti togli da più di dieci anni. Non dirmi che l'hai persa!»
    «Oh, quella. No, non l'ho persa. L'ho data a Shannon» spiego, ricordandomi di non averle raccontato dello scambio fatto poco prima della partenza del treno.
    «Come sarebbe a dire che l'hai data a Shannon?»
    «Poco prima che il treno partisse lui mi ha dato il suo libro e mi ha chiesto di tenerlo fino alla prossima volta che ci vedremo. E allora... non lo so, non so cosa mi sia scattato in testa... mi sono sfilata la collana e gliel'ho messa al collo. Lui mi ha affidato una cosa importante, e io ho affidato a lui una cosa altrettanto importante.»
    «Quindi sei stata pronta a dargli una collana da cui non ti separi nemmeno quando fai il bagno... e non saresti pronta a dargli altro?» mi canzona lei. «Sei un essere troppo complicato da capire. Tra l'altro non mi hai mai spiegato il perché di quel bullone. Insomma, ha un significato o...»
    «No, nessun significato. Lo trovo solo bello da vedere.» In realtà un significato c'è, ma in questo momento non ho voglia di spiegarlo. Per fortuna a salvarmi da nuove domande arriva Marco, che apre la porta appoggiandocisi con una spalla ed entra reggendo due bicchieroni fumanti. «Andata bene dal commercialista?» gli domando mentre richiude la porta.
    «Sì, tutto a posto... oh, Alice, ciao! Se avessi saputo che eri qui avrei preso qualcosa anche per te.»
    «Non ti preoccupare, sono solo passata a fare un saluto. In realtà devo andare a lezione, sono quasi in ritardo. Beh, buon lavoro e a presto. Ah, Daria, allora ci vediamo oggi alle quattro, va bene?»
    «Certo, ti passo a prendere io» rispondo, confermando l'appuntamento che avevamo stabilito già ieri sera via sms. Alice esce e Marco mi porge uno dei bicchieri. «Cappuccino bollente con doppio caffè» sospiro, scoperchiando la tazza e annusando il profumo della bevanda. «Non dovresti viziarmi così, lo sai?»
    «Non sono vizi, ma premi. Ti ho mai detto che sei la migliore commessa che abbia mai avuto?» L'entrata di un cliente mi impedisce di rispondergli.

    Esco dal lavoro alle quattro del pomeriggio, e invece di andare dritta a casa faccio una deviazione per passare davanti a Palazzo Nuovo, dove ho appuntamento con Alice: finite le lezioni verrà a casa mia per aiutarmi ad iniziare ad imballare le mie cose. L'aver deciso di passare il fine settimana con Shannon sconvolge lievemente i miei piani: se prima non avevo urgenza di sistemarmi nella nuova casa, ora so di dover per forza sistemare tutto entro sabato, a meno di non volerlo far dormire su una pila di scatoloni e valigie gonfie di roba. Mentre aspetto Alice al fondo delle gradinate, non riesco a non guardarmi attorno con un minimo di tristezza: quattro anni fa avrei potuto compiere una scelta diversa e accettare l'aiuto di mio padre, iscrivermi all'università e vivere un'esperienza che tutti descrivono come indimenticabile... però poi ci penso in maniera razionale, e mi viene in mente che, se non avessi cercato subito lavoro, non avrei avuto soldi da sperperare in cose non necessarie come i concerti, e dunque non avrei avuto l'occasione di incontrare Shannon – o forse sarebbe comunque andata così, ma non ne sono sicura.
    «Ehi, eccoti!» mi saluta Alice dopo essersi separata da un gruppetto di compagne di corso. «Senti, visto che sono una persona buona e generosa e vengo ad aiutarti con il trasloco, vero che mi prepari la tua leggendaria cioccolata calda?»
    «Se ti comporterai bene, può darsi.»
    «Sai cosa stavo pensando stamattina, dopo essere uscita dal negozio?»
    «No, e ad essere sincera ho paura di chiedertelo.»
    «Pensavo» riprende mentre scioglie sulle spalle i lunghi capelli biondi finora racchiusi in un nodo stretto, «pensavo che se anche ti andasse male con Shannon, potresti puntare su Marco.»
    Mi volto verso di lei strabuzzando gli occhi. «Alice, ma che cazzo stai dicendo?» Non sono una che dice molte parolacce, ma... quando ci vuole, ci vuole. «Marco è il mio capo, e potrebbe quasi essere mio padre.»
    «Oh, perché Shannon invece veniva a scuola con noi» ribatte in tono canzonatorio. Touchée. In effetti, non era una buona obiezione. «Per carità, sono assolutamente pro-Shannon» riprende, infilandosi le mani in tasca, «ma se per qualche ragione dovesse andare male, io dico che Marco potrebbe essere un possibile obiettivo.»
    «E sentiamo, su quali basi poggia la tua teoria?»
    «Oh, mi baso semplicemente sul fatto che ti mangia con gli occhi ogni volta che ti vede. Esce per una commissione e torna con il cappuccino bollente con doppio caffè che ti piace tanto. E ti copre di complimenti. E non dimentichiamoci che per lui sei 'la migliore commessa che abbia mai avuto'» conclude, tentando di scimmiottare il modo in cui lo dice lui. «Non vorrei sbagliarmi, ma credo che ti abbia immaginata senza vestiti più di una volta.»
    «Alice, mi spieghi perché con te ogni discorso deve finire sul piano del sesso? Marco è il mio capo e mi stima dal punto di vista professionale, ma sono più che sicura che non abbia intenzione di portarmi a letto.» In realtà, la teoria di Alice non è del tutto campata per aria: nel corso di questi cinque anni parecchie volte mi è venuto il dubbio che Marco potesse essere interessato a me in un modo che esulava dalla sfera professionale, ma mai... insomma, non lo avrei mai detto ad alta voce. E invece Alice, come al solito, ha trovato il coraggio di dare una forma ai miei pensieri – e un po' sto male al pensiero che Marco potrebbe essere innamorato di me, mentre io sono totalmente, follemente, completamente presa da una star.
    «Ti sei appena resa conto che ho ragione, vero?» mi sento dire. «Ti si legge in faccia.»
    «Io ti odio, lo sai?»
    «Ah, sì? E sentiamo, perché mi odi?»
    Mi volto appena verso di lei, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Perché tu mi costringi a guardare in faccia la realtà.»

    Appena arrivata a casa, mi sono messa sotto a preparare la cioccolata calda: a me non sembra di preparare qualcosa di incredibilmente ricercato, ma Alice dice sempre che mi riesce in maniera speciale. Mentre lei cerca tazze e biscotti, iniziamo a fare piani per organizzare il trasloco nel nuovo appartamento. Poi, ricordandomi che a quest'ora mia nonna è in casa da sola, spedisco Alice dall'altra parte del pianerottolo per invitarla da noi. E così, alle quattro e mezza di un tiepido pomeriggio di inizio novembre, me ne sto seduta attorno al tavolo della cucina insieme a mia nonna e alla mia migliore amica, impegnata a fare salotto come la comare più navigata del mondo.
    Mia nonna ha sempre avuto simpatia per Alice, sin dalla prima volta che è stata ospite a casa nostra: l'ha sempre considerata come una nipote, al punto da invitarla per ogni festa o ricorrenza possibile; viceversa, Alice l'ha sempre adorata, anche perché lei ha perso entrambe le nonne quand'era molto piccola. Inoltre, nonostante l'età – compirà ottant'anni in aprile – mia nonna rappresenta una compagnia molto piacevole, così come i miei fratelli e i miei cugini rappresentano una compagnia divertente; nonna è una donna incline alla risata, una donna moderna, una che si è saputa adattare ai cambiamenti del mondo e che li sa accettare, nonostante sappia anche essere molto critica nei confronti delle cose che non la aggradano. Sotto questo punto di vista, anche lei è stata una buona guida negli anni più bui della mia vita, anche se ci sono questioni – ad esempio quelle riguardanti il sesso – di cui ho sempre discusso soltanto con zia Beatrice.
    Stiamo ridendo per qualche cavolata, quando Alice se ne esce con un: «Che ne pensi della differenza d'età in una coppia, Caterina?» L'impulso di allungarle un calcio è forte, ma in qualche modo riesco a dominare l'istinto omicida.
    «Oh, beh, di certo non la condanno. Mio marito era più vecchio di me di dieci anni, e non ci sono mai stati problemi. Siamo stati felici, abbiamo avuto una bella famiglia... certo, erano altri tempi, ma credo che in fondo le cose non cambino mai davvero.» Alza gli occhi e ci guarda entrambe con attenzione. «Immagino che il problema sia tuo» aggiunge, rivolgendosi a me, «a meno che tra te e Federico non sia finita» conclude, tornando a rivolgersi ad Alice.
    «No, tra me e Fede va tutto bene, ci siamo visti sabato al concerto» risponde lei. «In effetti il problema è di Daria. Sempre che di problema si voglia parlare.» Sento che il mio sguardo si sta affilando: potrei ucciderla con il cucchiaino che tengo in mano. «Scusa, Daria, ma con qualcuno ne devi parlare.»
    «Cos'è successo?» mi interroga mia nonna, rivolgendomi tutta la sua attenzione.
    «Niente, nonna, non è successo niente. È Alice che si fa idee strane.»
    «Beatrice ieri sera mi ha detto che hai conosciuto un americano, ma avevo capito che fosse uno studente, che avesse più o meno la tua età.»
    Mi copro gli occhi con una mano, chiedendomi dove andrà a finire questa conversazione, mentre Alice si incarica di spiegare la situazione – e, soprattutto, si assicura il riserbo di mia nonna. «Beh, la verità è che Daria non ha incontrato uno studente. È una piccola bugia che ha inventato per non incuriosire troppo Francesca. Solo che poi Francesca ne ha parlato, e quindi è venuta fuori una storia... Caterina, se noi ti diciamo la verità, puoi prometterci che non ne farai parola con nessuno?»
    «Se non è successo niente di grave...»
    «Ma no, ma che doveva succedere? No, è solo che al concerto Daria non ha conosciuto uno studente. Ha incontrato uno dei musicisti della band che siamo andate a sentire.»
    «Miseria ladra!» esclama mia nonna, sorprendendoci entrambe. «Beh, capisco che non sia una cosa che vai a strombazzare ai quattro venti... ma dite un po', ce l'avete una foto da farmi vedere?» Alice mi rivolge un'occhiata molto eloquente, e senza nemmeno sforzarmi di protestare tiro fuori il cellulare, cercando lo scatto che Shannon mi ha spedito ieri sera. «Insomma, potremmo dire che la mia nipotina ha accalappiato un bel... cosa suona, scusate?»
    «La batteria» rispondo, sentendomi molto in imbarazzo. «Suona la batteria.»
    «Insomma, mia nipote ha accalappiato un bel batterista.»
    «Nonna, non ho accalappiato nessuno. Ci siamo incontrati e ci siamo messi a parlare, tutto qui.»
    «Raccontala a qualcuno che ci crede... ma qui siete in piazza San Carlo o sbaglio? Non hai detto che l'hai incontrato sabato sera a Milano?»
    «Lui è venuto qui, ieri» risponde Alice con un sorriso enorme. «Sono stati insieme tutto il pomeriggio. L'ha persino accompagnata a vedere degli appartamenti.»
    «Un appartamento, in realtà, ma solo perché era un'occasione che non potevo lasciarmi sfuggire.»
    Mia nonna mi guarda sorpresa. «Hai trovato un appartamento?»
    Alzo gli occhi al cielo, sospirando, preparandomi a raccontare di nuovo la storia dal principio.

    «Per favore, mi spieghi di nuovo che bisogno c'era di raccontare a mia nonna di Shannon?» chiedo più tardi ad Alice, mentre mi aiuta a sigillare alcuni scatoloni pieni di libri. «E per fortuna abbiamo lasciato perdere il discorso dell'età! Come glielo spiegavo che potrebbe essere mio padre?»
    «Tua nonna è una persona intelligente e conosce bene il mondo» risponde lei, schiacciando le alette della scatola per permettermi di fissare bene lo scotch. «E, cosa più importante, non è una persona abituata a giudicare le altre. Dice la sua, questo sì, ma non sputa sentenze. È una differenza importante.»
    «Continuo a non capire lo scopo della rivelazione.»
    «Beh, lo scopo della rivelazione è che tua nonna è palesemente dalla tua parte, in questo momento. Shannon le piace, lo reputa un bell'uomo, e il fatto che sia un musicista non la disturba. Ha sentito il racconto di come vi siete conosciuti e ha apprezzato molto la sua decisione di stravolgere i propri impegni per venire qui a passare un pomeriggio con te. In sostanza, le piace l'idea di te e Shannon insieme.»
    «Sì, e allora?» Non riesco a capire dove voglia arrivare, e ad essere sincera non ho nemmeno voglia di lambiccarmi il cervello per arrivare alla soluzione dell'enigma.
    «E allora sarà pronta a prendere le tue difese quando sarai costretta a presentarlo in famiglia e tuo padre ti dirà che non va bene per te. Se non sbaglio, tua nonna ha ancora una certa influenza su tuo padre.»
    «Beh, sì, ma... ehi, frena un po'. Io non ho intenzione di presentare nessuno a nessuno, almeno per un bel po' di tempo. Tu voli troppo con la fantasia, a volte.»
    «E tu invece non lo fai mai. Prova a lasciarti andare, ogni tanto. È divertente.»
    Evito il suo sguardo ed evito di risponderle: la verità è che sono dovuta crescere in fretta, forse troppo, e ho saltato a piè pari quella parte della vita in cui si riesce a sognare l'impossibile.



1È molto divertente fare l'impossibile. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase pronunciata dal celebre Walt Disney.

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Capitolo 9
*** 9 | Come in un sogno, ora vivo per te. ***


Portagioie di tristezza | 1
Iniziamo il nuovo anno con un nuovo capitolo – e speriamo che sia di vostro gusto! Colgo l'occasione per ribadire ancora una volta che non conosco i 30 Seconds To Mars di persona, e che dunque tutto ciò che scrivo su di loro è frutto della mia immaginazione.
Grazie in anticipo a chi leggerà e lascerà un commento, e grazie a tutte le persone che hanno aggiunto questa storia tra le preferite, le ricordate e le seguite! EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo nono
Come in un sogno,
ora vivo per te.1

Torino, 09 novembre 2013


    È sabato, tra cinque minuti saranno le quattro del pomeriggio e mi trovo – tanto per usare un eufemismo – nella merda più nera.
    Ho trasferito la maggior parte delle mie cose tra mercoledì e giovedì, ma non sono riuscita a trovare il tempo di mettere a posto, perciò quello che dovrebbe essere il mio nuovo appartamento al momento attuale somiglia ad una discarica devastata dallo scoppio simultaneo di dieci bombe atomiche. E io che volevo farne una bella casetta accogliente per fare bella impressione su Shannon... a fatica sono riuscita a tenere il casino lontano dal bagno e dalla stanza degli ospiti, così da potergli dare almeno la possibilità di dormire e lavarsi in tranquillità.
    Ho impostato la sveglia per le sette ma ho dimenticato di azionarla, così quando mi sono svegliata, alle dieci passate, ho scoperto che una buona metà della mattinata era andata in fumo. Almeno sono riuscita a farmi una doccia e a lavarmi i capelli, anche se l'agitazione mi sta facendo sudare così tanto che quando lo incontrerò probabilmente puzzerò come una capra.
    Controllo il cellulare, senza trovare alcuna chiamata: mercoledì e giovedì non ci siamo sentiti per niente, ma ieri sera mi ha chiamata per confermare il suo arrivo. Secondo i piani, dovrebbe farmi uno squillo appena atterrato a Caselle, e io dovrei andare a prenderlo alla stazione di Porta Nuova mezz'ora più tardi. Secondo i piani, sarebbe dovuto atterrare alle due e mezza. Dieci o venti minuti di ritardo sarebbero stati ammissibili, ma un'ora mi sembra francamente eccessiva. Continuo a lavorare febbrilmente per riuscire a sistemare il più possibile la casa, ma mi è impossibile distogliere la mente dal pensiero che potrebbe aver cambiato idea – potrebbe essersi reso conto che passare tre giorni in mia compagnia non sarebbe questo gran divertimento; potrebbe aver capito che non sono così interessante come sembro; potrebbe aver pensato...
    Il campanello suona all'improvviso, e il flusso dei miei pensieri si interrompe bruscamente. Non è il citofono del portone, ma il campanello di casa, quello che è possibile suonare soltanto stando in piedi sullo zerbino. Non mi viene neanche in mente che potrebbe essere la signora Lorenzoli venuta ad invitarmi a prendere un caffè a casa sua. Dentro di me, nel profondo del cuore, nella parte di me che ha sempre voluto sognare l'impossibile, io so che è stato Shannon a suonare. Corro nell'ingresso a piedi scalzi e apro la porta senza nemmeno controllare lo spioncino, senza pensare che potrebbe essere un ladro, e negli occhi che si posano su di me leggo soltanto una cosa: una profonda, stupenda, inimitabile felicità.
    Poi accade tutto rapidamente: il suo borsone cade a terra con un tonfo sordo, la distanza tra noi si annulla in due sole falcate, le sue braccia mi stringono con una forza che non credevo possibile, e la sua bocca finisce decisa contro la mia, quasi prepotente, baciandomi come se le mie labbra fossero una fonte inesauribile di ossigeno. Per non perdere l'equilibrio indietreggio lentamente, fino a trovarmi appoggiata alla parete, splendidamente sovrastata dall'uomo di cui sono innamorata.
    «Scusa per l'impeto» sussurra dopo quasi due minuti, scostandosi dalla mia bocca quel poco che basta per articolare correttamente i suoni. «Questi cinque giorni senza di te sono stati... vuoti. Mi sei mancata così tanto che parecchie volte ho avuto l'impulso di mettermi a baciare la tua fotografia.»
    «Anche tu mi sei mancato» sussurro a mia volta, incapace di credere che tra le mie braccia ci sia veramente Shannon Leto. «Ma come diavolo sei arrivato qui? Non dovevo venirti a prendere in stazione?» aggiungo subito dopo, facendomi ritornare in mente i nostri piani.
    «Volevo farti una sorpresa, perciò ho preso un taxi» risponde, senza smettere di stringermi contro di sé. «Di solito alle ragazze questo genere di cose piace, no?»
    «Dicono così. È solo che... guardami, sono un disastro completo!» esclamo, scostandolo da me. «Sono tre giorni che provo a mettere a posto, ma è... è un disastro, sembra che in salotto sia esplosa una bomba. Volevo che fosse tutto perfetto, volevo... volevo prepararti una bella accoglienza.»
    «Non essere sciocca, Daria. Non avresti potuto accogliermi in maniera migliore.» Nel dirlo, mi sfiora la punta del naso con il dito indice, e non riesco a fare a meno di sorridere: adoro quel gesto, in un certo senso mi fa sentire di nuovo bambina, ed è quasi più intimo di ognuno dei baci che ci siamo scambiati. «Dai, adesso fammi entrare e dare un'occhiata a questo scenario di guerra» aggiunge, chinandosi per riprendere il borsone. Lo prendo per mano e lo guido attraverso l'ingresso buio fin sulla soglia del soggiorno, dove mi fermo. «Wow» esclama nel vedere montagne di scatoloni, libri accatastati sulle sedie, vestiti drappeggiati sul divano e scarpe sparse ovunque. «Questo sì che è uno scenario apocalittico.»
    «Pensavo di riuscire a completare il trasloco in settimana, ma non ho calcolato bene i tempi. Ho dovuto lavorare più del previsto per coprire i turni della mia collega, e quando tornavo la sera ero troppo stanca per rimboccarmi le maniche sul serio. Per oggi avevo preso un giorno di ferie, ma ho dimenticato di mettere la sveglia, quindi...» Mi gratto velocemente la nuca, cercando di pensare in fretta al da farsi. «Adesso vado a cambiarmi, così possiamo uscire subito.» Muovo due passi in avanti, ma la mano di Shannon, ancora stretta alla mia, mi trattiene.
    «Sai, in realtà non ho voglia di uscire» dice, sorprendendomi non poco. «Insomma, sarò qui ancora domani e dopodomani, ne avremo di tempo per fare delle cose... potremmo stare qui, ti potrei dare una mano a sistemare la casa. Con tutte le volte che ho traslocato, credimi se ti dico che sono un esperto. E poi ho visto che devi ancora mettere le tende» aggiunge, indicando il groviglio di stoffa appallottolato sul tavolino del soggiorno, «e lo sanno anche i bambini che appendere le tende è un lavoro da uomini.»



*



Colonia, 09 novembre 2013


    In piedi davanti al microfono, con la chitarra appesa alla spalla e le dita che formicolano per la voglia di suonare, Jared non riesce a non pensare al fratello, lontano migliaia di chilometri; sono quasi le cinque del pomeriggio, ormai dev'essere arrivato, e lui non riesce a fare a meno di chiedersi che faccia abbia fatto Daria vedendoselo comparire davanti alla porta di casa senza preavviso – conoscendolo, non lo avrebbe mai detto capace di gesti così romantici. Tanto per fare qualcosa, inizia a mettere insieme qualche accordo, e prima di accorgersene sta suonando Bright lights. Decide di non cantare, ma le parole gli tornano comunque in mente – lei sogna l'amore, lui vive per correre. Si chiede se Daria avesse messo in conto di innamorarsi, a questo punto della vita – perché Shannon non ci pensava proprio, prima di incontrare lei. Continua a suonare, e più va avanti più le parole acquistano un senso – un nuovo giorno, un nuovo amore, una nuova droga, un nuovo me, una nuova te... probabilmente era tempo che qualcosa cambiasse.
    «Jared, mi spieghi cos'è questa storia di Shannon che prende e se ne va senza dire niente a nessuno?» Emma è appena entrata in sala prove senza bussare, guardandolo dritto in faccia con un'espressione che definire furente è dir poco. «Allora, cos'è questa storia di Shannon che scompare all'improvviso?»
    «Non è scomparso, è solo andato via per il fine settimana» risponde il cantante, mantenendo la calma. «Ci raggiunge lunedì notte a Francoforte.»
    «Andato via per... e dov'è andato?»
    «Torino» risponde Tomo, che seduto in un angolo sta sostituendo una corda alla sua chitarra. «A Milano ha conosciuto una ragazza di Torino, e ha deciso di passare il fine settimana con lei.»
    «In realtà l'idea è stata mia» puntualizza Jared. «Lui non era convinto, pensava che ti saresti arrabbiata e che avresti fatto di tutto per trattenerlo qui, ma... quella ragazza è troppo importante per lui. Gli piace molto.»
    «Tante ragazze gli piacciono molto la sera... ma quando sorge il sole di solito cambia idea.»
    «Non stavolta» ribatte Tomo, controllando che la corda sia ben tesa. «Non vorrei portare sfortuna, ma c'è una buona possibilità che con questa le cose si facciano serie.»
    «Va bene, non voglio sapere altro» si arrende Emma, alzando le mani per chiudere la questione. «Basta che sia qui entro martedì mattina, e che sia in grado di suonare.»
    Jared segue la ritirata di Emma con un sorriso: lo Shannon che conosceva in tre giorni avrebbe saputo rivoltare una donna come un calzino, ma la sensazione che con Daria le cose cambieranno è molto forte. Smette di suonare e si volta verso Tomo. «Scommettiamo venti dollari che il mio fratellone torna a casa a bocca asciutta?»



*



Torino, 09 novembre 2013


    Con le tende appese, la casa fa tutta un'altra impressione. Sono i colori caldi a dominare l'ambiente – giallo, arancione, rosso – e il risultato è che, anche con tutti gli scatoloni ammucchiati in giro, la stanza sembra perfetta. Mentre io mi occupavo dei tendaggi, Daria ha iniziato a sistemare i vestiti nella cabina armadio, contribuendo a salvare il divano dal soffocamento. Salgo da lei con la scusa di spostare uno scatolone pieno di libri. Appoggio il peso sulla scrivania, senza fare rumore, e resto fermo a guardarla. Lei è di spalle, sta canticchiando un motivetto che non conosco; non mi ha sentito arrivare, e continua nel suo lavoro.
    Non ho mai capito molto di arte, ma ricordo che su un mio vecchio libro di scuola c'era la riproduzione di un quadro di Botticelli, quello che rappresenta la nascita di Venere. In realtà a scuola ci andavo poco, e di certo non si può dire che fossi uno studente brillante, ma ricordo che quel dipinto mi ha affascinato dal primo istante – e forse è proprio a causa di quel dipinto che ho sempre avuto un debole per le bionde e per le ragazze molto formose. Ricordo che in un primo momento era il fatto che Venere fosse completamente nuda ad attirarmi, salvo poi accorgermi, crescendo, che in quella figura si celava molto più di un semplice oggetto sessuale. Riguardandolo dopo molto tempo, mi sono accorto che non era soltanto la sua nudità a sconvolgermi, ma soprattutto i suoi occhi – riuscivo a sentire il suo sguardo su di me, come se mi stesse osservando, come se stesse leggendo in me cose che io stesso non riuscivo a sentire.
    Daria mi fa sentire allo stesso modo: quando mi guarda, sento uno strano nodo all'altezza dello stomaco. Mi sento come se riuscisse a vedere in me qualcosa che va oltre la mia fama, oltre i soldi, oltre le stranezze della vita che conduco. Deve per forza vedere qualcos'altro in me, oppure non avrebbe accettato di vedermi ancora – e sicuramente non mi avrebbe mai invitato a dormire a casa sua. Sembra un'assurdità romantica ed è certamente una cosa che non ho mai fatto, ma se dovessi paragonare Daria ad un quadro, la paragonerei alla Venere del Botticelli: bellissima, magnetica, un po' misteriosa, a volte difficile da interpretare.
    «Ehi, che fai?» mi sento chiedere all'improvviso.
    «Ti guardo» rispondo semplicemente.
    «E... perché?»
    «Perché non ti ho vista per cinque giorni. Ho bisogno di recuperare.»
    Sorride, senza dire nulla, e si volta di nuovo verso l'armadio per mettere a posto gli ultimi capi. Vorrei essere capace di starmene lì a fissarla immobile e in silenzio, ma non ci riesco: mi sento un po' un maniaco, ma ogni dettaglio di lei mi eccita da morire – il modo in cui le punte dei piedi si flettono per permetterle di guadagnare qualche centimetro in altezza, i riflessi naturali dei suoi capelli, la maglia sformata che cela la pienezza dei suoi seni, i fianchi morbidi e la curva del fondoschiena, accentuata dai leggings neri che indossa. Vorrei solo prenderla tra le mie braccia, farla stendere su questo letto e fare l'amore con lei fino alla fine dei nostri giorni.


    Un attimo prima sto sistemando una camicia nell'armadio, e un attimo dopo davanti a me c'è Shannon, che mi bacia come se non lo facesse da anni. Le sue mani mi afferrano all'altezza della vita, e subito dopo iniziano a correre verso l'alto, infilandosi sotto la maglietta, arrivando a sfiorare la chiusura del reggiseno. Tento di dire qualcosa, di chiedergli che cosa diavolo stia facendo, ma il solo risultato che ottengo è di offrirgli l'occasione di far scivolare la sua lingua dentro la mia bocca, permettendogli di giocare con la mia, consentendogli di approfondire il bacio. È un attimo, e le sue mani scendono sul mio sedere, stringendomi con forza le natiche. All'improvviso, senza sapere bene come ci sono arrivata, mi ritrovo seduta sull'angolo della scrivania, con le labbra di Shannon appiccicate al collo e le mani di nuovo sotto la maglietta, impegnate a risalire verso il seno. Quando riesco a rendermi conto di quello che sta succedendo, gli punto le mani sulle spalle e lo spingo via.
    «Che diavolo stai facendo?» gli domando con il fiatone. «Sei venuto qui soltanto per...» Mi blocco subito, temendo che la risposta al mio dubbio sia affermativa: è possibile che Shannon sia venuto fin qui soltanto per strapparmi via le mutande? Alice direbbe di no, ma io non sono lei. «Se sei venuto qui sperando in una tre giorni di sesso mi dispiace, ma hai sbagliato persona» riprendo subito dopo, ostentando una risolutezza che non sento affatto mia. «Non sono quel tipo di ragazza.» Scendo dalla scrivania e mi allontano in fretta, prima che possa avere il tempo di trattenermi. Raggiungo il piano di sotto e mi chiudo in bagno, lasciandomi solo silenzio dietro le spalle. Appoggio la schiena alla parete e mi lascio scivolare a terra, sciogliendomi in un pianto disperato. Dovevo immaginarlo, è solo questo che voleva da me – che cos'altro potrebbe volere un uomo come lui, uno che può avere tutto quello che vuole? Voleva soltanto divertirsi, voleva soltanto provare qualcosa di nuovo. Mi sento come un nuovo gusto di gelato, un nuovo piatto appena comparso sul menù.
    Eppure mi piaceva la sensazione delle sue dita che accarezzavano la mia pelle, le sue mani strette alla mia vita, le sue labbra premute sulle mie e poi sul mio collo... Dio, l'idea di trascinarlo sul letto e di abusare di lui in ogni modo conosciuto mi ha perseguitato per anni, diventando una vera e propria fantasia, ma la prospettiva di poterlo fare davvero mi spaventa da morire. Con Andrea era tutto più facile – era così meccanico, con lui: baciarsi, toccarsi un po', spogliarsi, stendersi, aprire le gambe e lasciare che si sfogasse... Alice non vuole crederci, ma sono davvero un'imbranata da quel punto di vista! Era lui a fare tutto, io la maggior parte delle volte non avevo idea di che cosa stesse succedendo. Non posso andare a letto con Shannon Leto. Non posso andare a letto con uno che probabilmente a colazione mangia pane e Kamasutra. Non posso e basta: riderebbe della mia inettitudine per secoli.


    Rimango fermo davanti alla porta chiusa del bagno per cinque minuti, in completo silenzio: probabilmente sta provando a trattenersi in ogni modo, ma sento chiaramente Daria piangere, e sapere che è solo colpa mia mi distrugge, mi fa sentire l'uomo peggiore del mondo. Mi sono comportato da idiota, questo è chiaro: mi sono comportato proprio nel modo in cui non volevo comportarmi. Ho lasciato che fosse il corpo a parlare, ho lasciato che fosse l'istinto a guidarmi, e come prevedevo è finita di merda.
    Passati cinque minuti, raccolgo la forza per bussare alla porta. «Daria, io... mi dispiace, sono stato uno stronzo. Forse... forse è meglio che me ne vada. Non avrei... ti chiedo scusa.» Forse è da vigliacchi, forse dovrei buttare giù la porta a calci e buttarmi in ginocchio e implorare il suo perdono, ma in qualche modo sento che non è la mossa giusta. C'è una sola cosa intelligente che posso fare, ed è allontanarmi da lei prima di ferirla in maniera irrimediabile. Non so nulla di corteggiamento, non so come ci si deve comportare in certi casi... sono un imbranato, un maledetto imbranato. Mi sfilo dal collo la collana di Daria, quella che mi affidato lunedì, ed esitando appena la appendo alla maniglia della porta. Indosso il giubbotto, prendo il borsone ed esco, esitando di nuovo prima di chiudermi la porta alle spalle.
    Sono arrivato sul pianerottolo sottostante quando un portone si apre all'improvviso, e una voce che conosco bene esclama: «No, non te ne andare! Non te ne puoi andare così!» Mi volto di scatto, sorpreso, e non riesco ad impedirmi di sorridere: mi sono comportato da stronzo maniaco, perché ho dato di me un'impressione completamente sbagliata, ma nonostante tutto lei non vuole che me ne vada – non così.



*



Colonia, 09 novembre 2013


    «Quindi tu pensi che ci abbia già provato?»
    «Tomo» risponde Jared, guardandolo in un modo che trasuda ovvietà da ogni poro, «sappiamo entrambi che mio fratello non è un Romeo sdolcinato e coccoloso. Non credo sia riuscito a resistere un'ora senza tentare un approccio. Già mi stupisco che non ci abbia provato lunedì. Mi chiedo perché non ci abbia provato già sabato!»
    «Forse perché in entrambe le situazioni erano in pubblico?»
    «Quando mai Shannon si è fatto scrupoli?»
    «Ti rendi conto che lo stai dipingendo come un vero e proprio maniaco sessuale?»
    Jared ci pensa su per qualche istante, mordicchiandosi con impegno un labbro. «Sì. Sì, credo di rendermene conto. Dici che esagero?»
    Tomo non risponde, ma si limita ad alzare un sopracciglio. È il più giovane del gruppo, ma a volte si chiede se non sia proprio lui quello più maturo.



*



Torino, 09 novembre 2013


    «Scusa, mi sono comportato da stronzo, e lo capisco se non vuoi più vedermi.»
    «Scusa, mi sono comportata da bambina, e ti capisco se vuoi andartene.»
    Le nostre scuse si sono incontrate a metà delle scale e si sono inevitabilmente sovrapposte, confondendosi e diventando un groviglio di parole inutili. La verità è che quello che è successo ha perso importanza, di fronte a quello che sta succedendo ora: siamo l'uno di fronte all'altra, ci stiamo guardando negli occhi, ed entrambi sappiamo di non poter rinunciare a quello che abbiamo appena rischiato di perdere.



*



Colonia, 09 novembre 2013


    «Io credo che le cose tra loro vadano oltre una mera questione sessuale» sentenzia Tomo, strimpellando un paio di accordi. «Insomma, so che Shannon non è abituato a approcciare le donne da un punto di vista non sessuale, ma io credo... credo che ci possa riuscire. Se questa ragazza conta per lui quanto dice...»
    «Non l'ho mai visto così» lo interrompe Jared, sovrappensiero. «Quando vede una ragazza che gli piace lo sguardo gli si illumina, e in un certo senso è successo anche con lei – sai, quando ci ha mostrato la sua foto –, ma in questo caso... no, in questo caso era diverso. Era più... era come se gli si fosse accesa dentro una luce, non so se mi spiego. Era come se... come se stesse guardando l'ottava meraviglia del mondo, o giù di lì. Aveva... aveva la stessa espressione che hai tu quando guardi Vicki.» Jared si interrompe e si volta verso Tomo, guardandolo con serietà. «Sembri un po' un pesce lesso, quando guardi Vicki.»
    «La guardo come la guardo perché sono innamorato perso di lei e perché so che è la donna della mia vita. Quindi se Shannon guarda così Daria, forse è perché...»
    «...perché è la donna della sua vita?»
    «Potrebbe darsi.»
    Jared annuisce in silenzio, alzandosi dallo sgabello su cui si è seduto pochi minuti prima. «E tu... tu credi che lui possa essere l'uomo della sua vita?»
    Tomo si limita a fare spallucce, come un bambino interpellato su una questione di cui non sa nulla.



*



Torino, 09 novembre 2013


    «Per me il sesso è una questione piuttosto delicata» mi spiega Daria mentre mescola con energia un pentolino pieno di cioccolata calda. «Non sono il tipo di ragazza che fa sesso al primo appuntamento, ecco. Mi ci vuole un po' di tempo per... conoscere la persona con cui voglio farlo. Devo... ci sono cose che devo sapere, cose che devo capire. Per me non è solo una questione fisica. Per me... per me conta anche la testa, e molto.» Si volta a guardarmi, cercando le parole giuste per continuare. «Non è che non sia attratta da te» sussurra, tornando a darmi le spalle. «Io sono attratta da te, però...»
    «...però non mi conosci» concludo io, agitandomi un po' sullo sgabello. «Capisco il tuo punto di vista. In effetti, è così che le cose dovrebbero funzionare. O almeno credo. Io non ho mai fatto distinzione tra sesso e... amore. Ho sempre creduto che le due cose andassero di pari passo, o meglio... forse non ho mai creduto nell'amore.»
    «Come si fa a non credere nell'amore? È una delle poche cose belle della vita.»
    «Se lo hai conosciuto, forse. Nella mia vita non c'è mai stato amore, a parte quello di mia madre e di mio fratello.»
    «Mi stai dicendo che nessuna donna ti ha mai rubato il cuore? Mai, nemmeno quando eri ragazzo?» Daria ha spento il fornello e sta continuando a mescolare, ma il suo sguardo è fisso su di me.
    «A parte te, nessuna.»
    «Ah, non ti credo. Dietro un uomo che non crede all'amore c'è sempre una donna che gli ha spezzato il cuore. Guarda in quella scatola, per favore, dovrebbero esserci delle tazze» aggiunge, indicandomi lo scatolone appoggiato sul ripiano lucido.
    Pulisco le tazze con uno strofinaccio e le poggio sul bancone, mentre lei si prepara a versare la bevanda calda. Il profumo del cioccolato che riempie la cucina mi fa sentire strano, come se dopo tanto tempo mi trovassi in un luogo a me familiare – mi sento come quando torno a casa, dopo un lungo periodo in giro per il mondo, e ritrovo tutto quello che mi è caro lì ad aspettarmi... solo che, in questo caso, ciò che mi è caro è anche bellissimo, e dolce, e intraprendente, e sorride in un modo che sa farmi sciogliere.


    «Christine» sussurra poco dopo essersi riseduto, la tazza fumante stretta tra le mani – che, lo giuro, sono enormi. «Se proprio ti interessa saperlo, il suo nome è Christine.»
    «Non è la tua batteria?»
    «Sì, beh... ti sei mai chiesta perché si chiami Christine e non in qualche altro modo?»
    «Beh, sì... credo che ogni Echelon si chieda perché la tua batteria si chiami Christine. È solo che... beh, è solo che credo che ogni Echelon abbia pensato, almeno una volta, che c'entrasse con una donna che ti aveva spezzato il cuore. È così, vero?» aggiungo dopo un istante.
    «Christine Sandoval» risponde dopo un attimo di incertezza, senza avere il coraggio di alzare gli occhi su di me. «Frequentava la nostra scuola, era in classe con Jared. Mi ci sono voluti due anni per farmi notare.»
    «Due anni? Allora non sei così affascinante come credi di essere.»
    Lo vedo sorridere, seppur brevemente. «Non era una questione di fascino. All'epoca ero considerato un 'cattivo ragazzo'» spiega, mimando con le dita un paio di virgolette. «A scuola ci andavo poco, non ero esattamente uno dei migliori della classe. E poi ho anche avuto qualche guaio con la legge. Cose di poco conto, ma... abbastanza grandi da negarmi l'ammirazione di Christine.»
    «Quindi Christine è... è l'amore che non hai mai vissuto?»
    Alza lo sguardo su di me, sorridendo di nuovo. «Oh, no, l'ho vissuto eccome. L'ultimo anno Jared mise una buona parola per me. O forse un migliaio di buone parole. Christine accettò di venire al ballo di fine anno con me, e dopo il ballo noi... insomma, mi saltò addosso senza ritegno, e così venne fuori che le ero sempre piaciuto, ma che non aveva avuto il coraggio di dirmelo per paura di essere rifiutata.»
    «E come finì?»
    «Finì che io mi diplomai e cercai un lavoro, e così le nostre strade si separarono. Tre mesi di completa, appagante felicità, e poi finì tutto. Fu lei a lasciarmi, per la cronaca. Disse che non era sicura di noi, e che voleva chiuderla prima che uno dei due finisse con il ferire l'altro.» Lo guardo abbassare gli occhi. «Il problema è che lei è stata importante, per me. Lei è stata la prima con cui abbia... è stata la mia prima ragazza.»
    «Ah. Beh, capisco la decisione di... celebrarla battezzando la tua batteria con il suo nome. Insomma, è stata... importante.» Non so perché, ma l'idea che a distanza di vent'anni una ragazza possa ancora essere così importante per lui mi... mi... mi irrita, ecco. Avrei preferito non saperlo, avrei preferito non sapere chi fosse Christine, e soprattutto non avrei mai voluto sapere che è stata lei la prima ad averlo, perché... perché sono gelosa, ecco. Sono gelosa di una donna che non ho mai visto, ma che so per certo essere stata la prima donna di Shannon. Mi alzo con la scusa di prendere un cucchiaino nel cassetto, così da avere l'opportunità di dargli le spalle. Ho di nuovo voglia di piangere.


    Qualcosa mi dice che non avrei dovuto parlare a Daria di Christine – e soprattutto, non avrei dovuto dirle che è stata Christine a prendersi la mia prima volta. Doveva restare un dettaglio privato, un bel ricordo, e invece come al solito ho parlato troppo, e ora probabilmente Daria si sta chiedendo se riuscirà mai ad essere importante quanto lei. Mi alzo e la raggiungo, e dopo una breve esitazione le appoggio le mani sulle spalle, accarezzandola dolcemente. «A che stai pensando?»
    «Niente, pensavo soltanto che... beh, un sacco di Echelon vorrebbero conoscere questa storia.»
    «Forse loro sì, ma credo che a te non avrei dovuto raccontarla.»
    «No, perché dici così? Sono felice che tu abbia... diviso un'informazione così privata con me.»
    «Non avrei dovuto dirtelo» ripeto, abbassando la testa fino ad appoggiare la fronte contro i suoi capelli. «Tu sei gelosa di Christine» sussurro contro la sua nuca.
    «Non è vero!» protesta lei, cercando di divincolarsi. «Che idiozia, perché mai dovrei essere gelosa di una donna che non ho mai visto? E poi si può essere gelosi di una persona con cui si ha una relazione, e noi non... non abbiamo una relazione.»
    «Daria, si può essere gelosi di una persona anche senza avere una relazione.» La convinco a voltarsi verso di me e guardo a lungo nei suoi grandi occhi azzurri. «Io sono geloso di tutti i tuoi ex, anche se non li ho mai conosciuti, quindi perché tu non dovresti essere gelosa di Christine?»
    «Beh, ma per quanto riguarda me non c'è molto da essere gelosi... insomma, sono stata soltanto con Andrea – il ragazzo con lo zainetto rosso, non so se te lo ricordi...»
    «Me lo ricordo, e sono geloso di lui. Di lui e di tutti quelli che hanno avuto l'occasione di toccarti. Sono geloso, li odio da morire.»
    Daria abbassa lo sguardo, come imbarazzata, e a voce bassissima rivela: «C'è stato solo lui.»
    «Come?»
    «C'è stato solo lui» ripete, alzando appena il tono di voce. «C'è stato solo Andrea. Non sono mai stata con altri. È stato il mio unico ragazzo. L'unico che... beh, l'unico che mi abbia mai toccata.»


    Ecco, la frittata è fatta: ho appena rivelato a Shannon di aver perso la verginità alla veneranda età di ventun anni, e di non aver battuto chiodo negli ultimi ventiquattro mesi. Se volevo fargli pena, credo che la missione sia compiuta. «Mi stai dicendo che... insomma, c'è stato solo lui?»
    «C'è stato solo lui» confermo. «Credo... credo sia anche per questo che non voglio venire a letto con te. Io... io non ne so assolutamente nulla, sono una totale imbranata!» A questo punto, Shannon fa una cosa che mi sorprende: scoppia a ridere, senza preoccuparsi di trattenersi – e se non stesse ridendo di me, potrei anche bearmi della sua ilarità. «Che c'è da ridere?»
    «Niente, è che... mi fa ridere il modo in cui l'hai detto. Scommetto che non sei un'imbranata» aggiunge, tornando serio. «Scommetto che non sei affatto un'imbranata. Probabilmente il tuo ex era una mezza calzetta.»
    «Oh, perché tu invece saresti Giacomo Casanova...» lo prendo in giro.
    «Diciamo che ho una certa esperienza» annuisce. «E diciamo che so riconoscere una donna imbranata quando ne vedo una. E tu... no, tu non mi sembri affatto un'imbranata» aggiunge, abbassando la voce e sistemandomi i capelli dietro le orecchie. «Le donne imbranate sono fatte in tutt'altra maniera. No, non sei una donna imbranata. Tu sei intelligente, sei splendida, sei speciale... sei un sacco di cose, ma non sei un'imbranata.»
    Non so come succeda, ma nel giro di pochi istante le sue labbra sono di nuovo sulle mie, dolci e attente come non mai. Le sue mani restano saldamente ancorate alle mie guance, mentre le mie raggiungono la sua vita e lo tengono stretto, come se l'idea di lasciarlo andare fosse inconcepibile. È il bacio più tenero che abbia mai ricevuto, e vorrei che durasse per sempre. La verità è che mi sembra di essere nel bel mezzo di un sogno, e vorrei poter continuare a dormire per sempre.




1 Come in un sogno, ora vivo per te. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Sempre e per sempre di Zucchero, contenuta nell'album Spirit, Cavallo Selvaggio (2002). La canzone fa parte della colonna sonora italiana del film d'animazione omonimo.

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Capitolo 10
*** 10 | Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude, e diventa sentiero distinto, e ormai inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell'avvicinamento. Quell'accos ***


Portagioie di tristezza | 1
Come sicuramente avrete notato, questo capitolo presenta una grande differenza rispetto ai precedenti (si passa dal rating giallo al rosso senza salti intermedi, fate voi!). Scrivere questo genere di scene è sempre stata una grande sfida per me, ma in questo caso sento di aver fatto un lavoro quantomeno accettabile.
Piccolo consiglio: c'è un passo, in questo capitolo, che rende molto meglio l'idea se ascoltato con una canzone in sottofondo. Vi lascio il link della canzone (Ogni mio istante | Negramaro), e vi sfido a capire quale sia il passo incriminato. Il vincitore vincerà... niente, tutta la mia stima – e, se è anche autore, una recensione ad una delle sue storie.
Che la forza sia con voi, miei piccoli Jedi.
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo decimo
Sensazione meravigliosa.
Di quando il destino finalmente si schiude,
e diventa sentiero distinto,
e ormai inequivocabile,
e direzione certa.
Il tempo interminabile dell'avvicinamento.
Quell'accostarsi.
Si vorrebbe non finisse mai.
Il gesto di consegnarsi al destino.
Quella è un'emozione:
senza più dilemmi,
senza più menzogne.
Sapere dove.
E raggiungerlo.
Qualunque sia, il destino.1

Torino, 09 novembre 2013


    Ormai dovrei aver capito che far piani è inutile, se c'è di mezzo Shannon. Secondo i piani avremmo dovuto trascorrere il pomeriggio in giro per la città e la sera avrei dovuto portarlo in qualche locale carino... ma naturalmente niente è andato secondo i piani. Abbiamo trascorso il pomeriggio svuotando scatoloni e quasi accapigliandoci per decidere quale fosse il posto migliore dove esporre la chitarra che non ho mai imparato a suonare; alle sette e mezza, stanchi e affamati, abbiamo deciso di ordinare una pizza, e per la successiva ora abbiamo continuato a lamentarci per la fame, chiedendoci quanto ancora ci avrebbe messo il fattorino a raggiungerci.
    «Non abbiamo mai mangiato insieme» mi fa notare, piegando a metà una fetta di pizza per riuscire ad infilarsela in bocca.
    «Sì, è vero. È la prima volta che mangiamo insieme» rispondo, lottando con un filo di mozzarella che non vuole saperne di spezzarsi.
    «Domani dovrai insegnarmi a mangiare gli spaghetti.»
    «Va bene, domani mangeremo spaghetti» annuisco, sorridendo. «Però dovrai accompagnarmi a fare la spesa, perché in casa non ne ho» aggiungo subito dopo, ricordandomi che non ho ancora avuto il tempo di riempire per bene né il frigorifero né la dispensa.
    «Va bene, ti accompagnerò a fare la spesa» risponde, senza preoccuparsi di mandare giù prima di aprir bocca. Mi chiedo se il soprannome Shannimal non derivi un po' anche da quest'abitudine. «Sai, stare con te mi fa bene» aggiunge, questa volta dopo aver deglutito.
    «Dici sul serio, o è soltanto un tentativo di sedurmi?»
    «È soltanto un tentativo di seduzione» ribatte. «No, sto scherzando» si corregge, tornando serio. «Stare con te mi fa bene davvero. Era un bel po' di tempo che non facevo cose così... normali. Tu mi costringi a ricordarmi che esiste qualcos'altro oltre a fare i vagabondi in giro per il mondo.»
    «Perché, è difficile ricordare che esiste un mondo fatto di persone normali che tutte le mattine si svegliano, vanno al lavoro, pagano le bollette...?» Mi rendo conto che quella che voleva essere una battuta è in realtà uscita fuori con una cattiveria micidiale, perciò abbasso lo sguardo con aria colpevole. «Scusa, non volevo dire che...»
    «No, ho capito quello che volevi dire» mi interrompe con un sorriso. «Vedi, il fatto è che è difficile restare aggrappati alla realtà, quando fai una vita come la mia – come la nostra. Quando siamo in tour difficilmente restiamo nello stesso posto per più di una settimana, e quando finalmente torniamo a casa siamo così impegnati a scusarci con la famiglia e con gli amici per le nostre assenze che proprio non abbiamo tempo di occuparci delle questioni pratiche. Insomma, io pago una persona per pagarmi le bollette, ne pago un'altra per tenermi in ordine il giardino, e ne pago una terza perché si occupi di pagare le prime due! Se fossi sposato, probabilmente pagherei qualcuno che si occupi di andare a letto con mia moglie.»
    Quest'ultima battuta mi riporta inevitabilmente al pensiero di Christine Sandoval e dei loro tre mesi di 'appagante felicità' – è inutile negarlo, sono gelosa come non lo sono mai stata. Cerco di deviare il discorso per non rischiare di trasformarmi di nuovo in una macchina da lacrime. «Shannon, che cosa avresti fatto se non fossi diventato il batterista dei 30 Seconds To Mars?»
    «Perché stai cambiando discorso?»
    Mi sento arrossire fino alla punta dei capelli. «Non... non sto affatto cambiando discorso, come ti viene in mente?»
    «Tu stai cambiando discorso, e io voglio sapere perché.»
    Inutile continuare a mentire: mi ha smascherata, e se andassi avanti a negare farei probabilmente la figura dell'idiota totale. «No, è solo che tu hai parlato di un'eventuale moglie, e a me è tornata in mente... sai, Christine.»
    «Che c'entra Christine? Mica eravamo sposati.»
    «Lo so, però... insomma, siete stati insieme, per te lei è stata importante. È una cosa che non posso dimenticare. Non è una ragazza qualunque con cui sei stato a letto dopo un concerto.»
    Lo guardo mordersi un labbro e ravviarsi i capelli con una mano, come cercando le parole giuste per formulare una risposta. «Se la cosa può esserti di conforto, non ho mai pensato che mi sarei sposato con lei. Insomma, mi piaceva molto, con lei stavo bene, ma ho sempre saputo che non saremmo stati insieme per sempre.»
    «Dici sul serio, o è soltanto un tentativo di consolarmi?»
    «Dico sul serio» risponde, questa volta senza alcuna ilarità. «Nessuna delle donne con cui sono uscito mi ha mai fatto venire voglia di... non lo so... sistemarmi, mettere su casa, mettere su famiglia. Nessuna mi ha mai fatto provare quel brivido
    «Quale brivido?» gli domando, incuriosita da quella confessione.
    «Quello che ho provato quando ti ho restituito il cd, quando mi hai sorriso e te ne sei andata» risponde, abbassando la voce. «Mi hai guardato in un modo che... non so, in un modo che non riesco a spiegare. Mi guardi sempre in un modo che non riesco a spiegare.»
    «A me sembra di guardarti in modo normale.»
    «Forse a te sembra così, ma per me è diverso. Mi piace il modo in cui mi guardi. Sembra sempre che tu riesca a conoscermi meglio di quanto io conosca me stesso. È una strana sensazione, ma... mi piace.» Parlando, Shannon ha spostato il suo sgabello per essermi più vicino, e un minuto fa la mano con cui si è sistemato i capelli è finita sul mio viso: da allora le sue dita continuano a muoversi pigramente lungo il profilo della mia guancia, a volte sfiorandomi l'orecchio, mentre i suoi occhi non riescono a lasciare i miei. «Non so se ti rendi conto di quanto sei bella» sussurra dopo un breve silenzio.
    «Mai quanto le modelle dei vostri video.»
    «Bellezze sintetiche» ribatte in fretta. «Trucco, parrucchieri, bei vestiti... tu riesci ad essere bella con una maglietta sformata e con una macchia di pomodoro in faccia: ci vuole molto più talento per questo.»
    «Ho del pomodoro in faccia? Dove?»
    «Qui» sussurra, sporgendosi in avanti per baciarmi all'angolo delle labbra. Sento la sua lingua scivolare lenta sulla mia pelle, e mi viene da pensare che questa sia la cosa più erotica cui mi si sia mai capitato di assistere – per non dire di partecipare. Volto impercettibilmente il viso, lasciando che la sua lingua lambisca le mie labbra socchiuse, infilandosi nello spazio tra di esse. Voglio che mi baci, e voglio che lo faccia con la stessa passione di oggi pomeriggio. Non ho bisogno di chiederlo ad alta voce: le sue mani aggirano le mie spalle, scendono lungo la mia schiena e mi sfiorano di nuovo il sedere, per poi afferrarmi saldamente i glutei e strattonarmi in avanti. Mi ritrovo seduta in braccio a Shannon, con le labbra incollate alle sue e il petto che ad ogni respiro preme contro il suo torace. Le mie braccia salgono a circondare le sue spalle, le mie dita sfiorano il centro della sua schiena, all'altezza del tatuaggio che rappresenta l'emisfero occidentale – mentre le sue mani, invece, continuano a vagare nei dintorni del mio fondoschiena, alternando dolci carezze a palpeggiamenti che non hanno bisogno di essere spiegati. «Daria, devi prendere una decisione» mi sussurra dopo un tempo indefinito, staccandosi appena dalle mie labbra. «Se non sei pronta per fare l'amore con me, devi alzarti subito e mettere almeno venti metri di distanza tra di noi, perché se continui a starmi sopra in questo modo non so quanto potrò resistere senza... mi spiego?»
    Lo guardo negli occhi, e a questa distanza riesco a vedere che non vuole solo portarmi a letto: non c'è semplice lussuria nei suoi occhi – ora color ambra –, ma il vero e vivo desiderio di completarmi, di farmi sentire bene, di farmi sentire amata. Lentamente appoggio i piedi a terra e mi alzo, allontanandomi di qualche passo. Lo vedo prendere fiato, mentre mi allontano di quello che sarà appena un metro. Poi mi fermo, e resto immobile a guardarlo. Lo guardo passarsi una mano sugli occhi, forse cercando di dominare il desiderio che ha di avermi, e a questo punto riesco a parlare. «Non credo di poter mettere venti metri di distanza da me a te, a meno di trasferirmi nell'appartamento accanto» sussurro, mentre lui alza lo sguardo sulla mia figura. Gli sorrido, tendendogli la mano. Quando le sue dita stringono le mie, il suo volto si illumina di una gioia mai vista prima.



*



Colonia, 09 novembre 2013


    Eludendo la sorveglianza di Shannon, Jared è riuscito ad inviare al proprio cellulare la fotografia di Daria – e ora, chiuso nella sua camera d'albergo, con in sottofondo una stazione radio che trasmette vecchie canzoni country, non riesce a fare a meno di fissare quello scatto, un po' invidioso della felicità del fratello maggiore. Lo ha sempre preso in giro, chiamandolo 'maniaco' e 'sesso-dipendente' – neanche lui fosse un puritano, poi –, ma la verità è che si ricorda benissimo di Christine Sandoval e dell'odissea vissuta più di vent'anni prima per riuscire a farsi notare da lei.
    «Non hai mai più guardato una ragazza come guardavi lei» sussurra, rivolto allo Shannon fatto di pixel che gli sta davanti agli occhi. «Non fino a questa fotografia, almeno» aggiunge subito dopo. «Ti auguro che sia quella giusta, fratellone. Te la meriti.»



*



Torino, 09 novembre 2013


    Daria si lascia cadere di schiena sul letto, trascinandomi con sé, e questa volta so che andremo fino in fondo: lo vedo nei suoi occhi, lucidi per l'eccitazione, e lo sento nelle sue labbra, che continuano a baciare le mie come se stessero assaggiando un frutto delizioso. Sposto la bocca sul suo collo, alternando baci appassionati a lievi carezze, mentre con le mani risalgo lungo i suoi fianchi, scostandole gli abiti dalla pelle, che sento bollente e morbida come un asciugamano messo a scaldare davanti al fuoco. Una delle mie mani finisce sul suo seno pieno, e nonostante ci siano ancora i vestiti a separare la mia pelle dalla sua, la sento gemere piano, come se non stesse aspettando altro. Una delle sue mani è tra i miei capelli, l'altra vaga su e giù per il mio braccio, percorrendo il mio bicipite in un'unica, dolce carezza. Riprendo possesso delle sue labbra, mentre le sue gambe si intrecciano con le mie, permettendo finalmente anche ai nostri bacini di sfiorarsi. È in questo momento che la sento muoversi, come prepararsi ad alzarsi, costringendo anche il sottoscritto a cambiare posizione. È quasi completamente seduta quando smetto di baciarla e le chiedo: «Dove diavolo credi di andare?»
    Lei sorride, guardandomi dritto negli occhi, mentre stacca le mani dal mio corpo e si sfila la maglietta: «Dovrò pur spogliarmi, no?» ammicca.


    A quell'affermazione, sul viso di Shannon compare un sorriso malizioso. «Sì, sarebbe consigliabile» sussurra, abbassandosi per baciarmi il collo mentre le mani scivolano sotto la canottiera e la fanno risalire, scoprendo le curve che un po' mi sono sempre vergognata di mostrare. Mi ritrovo di nuovo distesa, le labbra di Shannon incollate al mio seno e una delle sue mani dietro la testa, mentre l'altra sta già armeggiando con l'elastico dei leggings. Non riesco a reprimere un altro gemito quando le sue dita scivolano sotto la stoffa, trovando subito il mio punto più sensibile. Le sue labbra soffocano i miei sospiri, e a questo punto trovo il coraggio di agguantare la sua cintura e slacciare i suoi jeans, riservandogli le stesse attenzioni che sta concedendo a me.


    Quando la mano di Daria si infila sotto i miei pantaloni, resto improvvisamente senza fiato. Stacco le labbra dalle sue, cercando di ricordare come si fa a respirare, mentre i suoi occhi restano fissi nei miei. Non è certo la prima volta che vengo toccato, ma le donne di solito mi afferrano come se fossi un pezzo di carne da spolpare in fretta, mentre Daria... le mani di Daria, piccole e delicate come farfalle, mi stanno accarezzando con dolcezza, nello stesso modo in cui io sto cercando di dedicarmi a lei. «Shannon» la sento sussurrare, forse in procinto di chiedermi se sia tutto a posto.
    «Va tutto bene» replico a voce altrettanto bassa, baciandola teneramente all'altezza dello sterno. Appoggio la fronte alla sua, mentre la sua mano continua ad accarezzarmi come se temesse di farmi male. A letto sono sempre stato un tipo impetuoso, ma in questo momento mi rendo conto che esiste anche la delicatezza, e che probabilmente sarà questo il tipo di sesso che vorrò fare da questa notte in poi. Chiudo per un istante gli occhi, godendo la straordinaria sensazione che mi trasmette il calore della sua mano, e prima di rendermene conto sospiro: «Ti amo, Daria. Ti amo.» E poi la bacio.
    La sento sorridere contro le mie labbra, e poi rispondere: «Soltanto perché ti sto toccando?»
    «E poi sarei io quello poco romantico, dicono» ribatto, sorridendo a mia volta. Raggiungo i suoi fianchi con le mani, infilo i pollici nei leggings e li abbasso, scoprendole le gambe. Per aiutarla a sfilarseli sono costretto ad allontanarmi per qualche istante da lei, e approfitto dell'occasione per togliere anche i miei jeans, lasciandoli cadere sul parquet.


    Mentre Shannon risale sul letto, puntando le ginocchia sul materasso, non posso fare a meno di notare l'evidente rigonfiamento dei boxer attillati che indossa, e un po' mi viene da ridere nel rendermi conto che le voci al riguardo erano vere: non è grande soltanto come batterista. Tuttavia non ho tempo per pensare al gossip, perché le sue mani si infilano sotto di me e mi slacciano il reggiseno con una rapidità che ha ben poco di umano. «Però» osservo, mentre inarco la schiena per aiutarlo a spogliarmi, «il soggetto dimostra una certa abilità.»
    «Sinceramente, trovo più difficile arrotolare gli spaghetti sulla forchetta» risponde, e io non riesco a fare a meno di mettermi a ridere, coprendomi la bocca con una mano. Semi sdraiato su di me, Shannon fa scivolare le sue dita sulle mie, scoprendomi le labbra. «Non coprirti, sei bella quando ridi» sussurra, portandosi la mia mano alla bocca per esibirsi in un breve baciamano. «E sei bella anche quando piangi, e sei bella anche quando sei arrabbiata, quando sei preoccupata, e sei bellissima quando ti guardo e tu non ti accorgi che lo sto facendo.» Apro la bocca per rispondere, ma lui posa un dito sulle mie labbra, impedendomi di parlare. «Sei bella con il sole, sei bella con la pioggia, certamente sei bella quando nevica e anche quando fa temporale, sei bella quando hai il sole negli occhi e scommetto che sei bellissima anche quando fa buio. Sei così bella che a volte ho paura di consumarti a forza di guardarti. E non provare a contraddirmi, perché potrei andare avanti per ore, forse anche per giorni. Non mi convincerai mai del contrario.»
    Obbedisco, e a ribattere non ci penso nemmeno: tutte le mie obiezioni si concentrano nella lacrima che scende dal mio occhio sinistro e mi bagna la guancia, finendo la sua corsa sul copriletto.


    Mi sfilo la maglietta e mi stendo di nuovo su di lei, baciandola come se fosse la prima volta. Il suo seno si alza e si abbassa ad ogni respiro, premendo dolcemente contro il mio petto nudo, mentre le gambe giocano ad accarezzarsi e rincorrersi sul copriletto ormai stropicciato dai nostri movimenti. «Aspetta» sussurra, lasciandomi andare per il tempo necessario a scostare le coperte. Le lenzuola finiscono ammucchiate in fondo al letto, mentre lei si sistema contro i cuscini e mi riaccoglie tra le sue braccia, baciandomi come la moglie di un soldato appena tornato da una lunga guerra. Lascio la sua bocca lentamente, succhiandole il labbro inferiore, e senza esitazioni scendo lungo il suo collo, seguo la linea precisa della clavicola con la punta del naso, e con le labbra accarezzo il profilo tondo del suo seno, finendo col catturarle un capezzolo in un bacio profondo e umido. Le mani scendono lungo i suoi fianchi, raggiungono le mutandine e superano anche quella barriera, addentrandosi per la prima volta su un terreno sconosciuto.
    Il primo tocco è cruciale, e sollevo lo sguardo sul suo volto per catturare l'estasi del momento: Daria inarca la schiena, chiude gli occhi e si morde il labbro inferiore, tentando di reprimere un gemito. Un'altra carezza, e le è impossibile trattenersi: per quanto sommesso, il suo «Oh, Shannon» arriva chiarissimo alle mie orecchie. Abbandono anche il suo seno, continuando la mia corsa alla vera meta di questo viaggio: con un gesto le sfilo le mutandine, accarezzandole le gambe in tutta la loro lunghezza. Risalgo lentamente verso di lei, baciandole con dolcezza l'interno delle cosce, tentando in ogni modo di metterla a suo agio. Sfioro il centro della sua femminilità con la punta delle dita, guardandola tremare a quel lieve contatto. Il secondo tocco è quello delle mie labbra, che con un bacio le strappano un altro gemito, stavolta più intenso, e poco più tardi tocca alla lingua, che la costringe ad inarcare la schiena, piegare le gambe all'altezza delle ginocchia, sospirando un chiarissimo «Oh, Shannon» che mi eccita più di qualsiasi preliminare. Sentirla pronunciare il mio nome a quel modo, quasi senza fiato, è la sensazione più bella del mondo. Continuo a dedicarmi a lei, senza perdermi in parole, e all'improvviso sento la sua mano infilarsi tra i miei capelli, spingere lievemente in avanti la mia testa, mentre il suo corpo è scosso da brividi di piacere. Quando le sue cosce si stringono impercettibilmente contro di me, la vedo afferrare un lembo del lenzuolo con una mano e stringerlo forte, e capisco che è arrivato il momento di lasciarla stare, di darle un attimo di respiro.


    Approfittando della mano ancora avvinghiata tra i suoi capelli, attiro di nuovo Shannon su di me e lo bacio con passione, senza preoccuparmi di sembrare una ninfomane o una maniaca. Con Andrea non è mai stato così, con lui non ho mai provato questo tipo di sensazioni... al diavolo, lui non ha mai fatto niente del genere! Le mani di Shannon si fermano nei dintorni del mio seno, stuzzicandone ogni centimetro come se fosse un giocattolo nuovo tutto da scoprire. Adoro la sensazione che le sue grandi mani callose provocano a contatto con la mia pelle, tuttavia decido che è arrivato il momento di ricambiare, e in qualche modo riesco ad invertire le posizioni, facendolo stendere nel punto preciso in cui ero stesa io.
    Percorro con le labbra l'intero tragitto che dalla sua bocca porta verso l'inguine, accarezzando con curiosità i muscoli così ben definiti che tanto spesso mette in mostra sul palco, raccogliendo con un bacio le piccole gocce di sudore imprigionate tra i radi peli del petto. Lo privo della biancheria senza difficoltà, ma un po' mi sento a disagio quando scopro che il suo sguardo è fisso su di me, come in attesa di scoprire la mia prossima mossa. Chiudo gli occhi, cercando di non sentirmi troppo sotto esame, e un po' titubante inizio a baciarlo. Quando riapro le palpebre, pochi istanti dopo, mi accorgo che adesso è lui a tenere gli occhi chiusi: ha rovesciato la testa all'indietro e sussurra parole che non riesco a decifrare bene. Deducendo che il mio modo di agire lo soddisfi, continuo a muovermi allo stesso modo, alternando lievi baci a vere e proprie carezze – questa è un'altra di quelle pratiche in cui non ho quasi mai avuto occasione di cimentarmi.
    «Daria, fermati» sento dire all'improvviso, mentre la sua mano mi accarezza i capelli. Mi sollevo appena da lui, mentre si mette a sedere e mi prende la testa tra le mani, avvicinandosi per baciarmi ancora. Senza una parola, mi fa scivolare le braccia dietro la schiena e capovolge di nuovo le posizioni. Mi bacia un'altra volta, poi si alza e cerca il giubbotto, che aveva abbandonato oggi pomeriggio sulla sedia accanto alla scrivania. C'è un che di bizzarro nel vederlo girovagare nudo per la mia stanza, per di più in un evidente stato di eccitazione, ma è ancora più strano pensare che sono io l'artefice di quell'eccitazione – è strano rendersi conto che sono stata io, con i miei baci e le mie carezze, a portarlo a questo momento.


    Strappo con cura la bustina colorata, e lentamente srotolo il preservativo attorno alla mia erezione, facendolo aderire bene alla pelle. Risalgo sul letto e mi stendo di nuovo sopra Daria, le cui mani ricominciano ad accarezzarmi come poco fa. Quello che sta per accadere tra di noi è molto importante, e nonostante sia quasi sicuro della sua persuasione a farlo, voglio esserne completamente certo. «Se per caso hai cambiato idea io... insomma, se hai cambiato idea va bene, non voglio costringerti a...»
    Questa volta sono le sue dita a zittirmi, posandosi con delicatezza sulle mie labbra. «Se non lo volessi, in nessun modo saresti riuscito a sfilarmi le mutande» sorride poco prima di baciarmi ancora. «Non parlare, Shannon. Non voglio parlare. Voglio solo fare l'amore con te.»
    «Agli ordini, signora» le sussurro in risposta, mordicchiandole lievemente un orecchio. Poi bacio di nuovo la sua bocca, coinvolgendo la sua lingua in una danza segreta e sensuale, e mi sollevo su di lei, preparandomi a renderla finalmente mia. Scivolo avanti con attenzione, aiutando la penetrazione con una mano. Sentire il suo corpo stringersi attorno al mio, adattarsi per accoglierlo in maniera adeguata... è una sensazione alla quale non prestavo attenzione da un sacco di tempo. Avevo quasi dimenticato che per una donna accogliere un uomo dentro di sé è un gesto pieno di significato, ma in questo istante tutto ciò che avevo scordato mi torna in mente all'improvviso, come se avessi appena riacquistato la memoria dopo un'amnesia. Il respiro di Daria cambia ritmo, diventando un po' più affannoso, e spero di riuscire a non farle male – dopotutto, mi ha confessato di non avere rapporti da quasi due anni, quindi è come se fosse questa la sua prima volta. «Se ti fa male, dimmelo e smetto subito» le sussurro, con il fiato corto esattamente come lei.
    «Non voglio che ti fermi» ribatte lei, allacciandomi le gambe dietro la schiena. «Non voglio che ti fermi.» Continuo a spingermi in avanti, aumentando impercettibilmente il ritmo e la profondità delle spinte, finché non sento le sue unghie graffiarmi la schiena, in un tentativo di scaricare l'energia procurata dal piacere. Chiudo gli occhi e immagino le sue dita percorrere il profilo delle mie spalle, seguire gli avvallamenti dei muscoli, incontrarsi in cima al mondo2 e di lì precipitare giù, lasciando un sottile graffio come testimonianza del loro passaggio. Riapro gli occhi e la trovo ancora tra le mie braccia, con le gote arrossate, gli occhi lucidi e il fiato corto, e il primo pensiero che mi passa per la testa è che in questo momento è alla mia mercé, completamente indifesa, e che devo fare attenzione a non ferirla. Daria è la cosa più preziosa che mi sia mai capitato di possedere, e ho una paura matta di sciuparla.
    Scivolare dentro e fuori dal suo corpo è diventato più semplice, dunque abbandono la convinzione che i miei movimenti possano causarle fastidio o dolore. Smetto di preoccuparmi e penso soltanto a muovermi. In un certo senso è sesso, come tutte le altre volte, ma rispetto alle altre volte c'è un'enorme differenza: tengo al benessere di questa ragazza come se fosse una parte del mio corpo.


    I movimenti di Shannon mi hanno procurato un po' di fastidio all'inizio, ma il mio corpo si è abituato in fretta alla sua intrusione, quasi fosse diventata la normalità. Sollevo impercettibilmente il bacino per variare l'angolo con il quale entra in me, riuscendo così ad amplificare ogni singola sensazione provata. Le sue mani risalgono dal seno al collo, mentre io continuo a stringere le sue spalle e la sua schiena. Quando la sua bocca cala di nuovo sul mio seno, con le mani scendo ad afferrargli i fianchi, proprio all'altezza del tatuaggio, quasi volessi convincerlo ad addentrarsi ancora di più dentro di me.
    La stanza è piena dei nostri respiri, dei nostri sospiri e dei rumori che i nostri corpi producono accarezzandosi, e tutto il mondo che ci circonda è scomparso, inghiottito dalla nostra voglia di amarci.
    La sensazione di appagamento già provata durante i preliminari si fa di nuovo sentire, rifluendo dal centro del mio corpo ad ogni mio arto come una calda onda di marea. Riconosco subito l'orgasmo, stringo più forte le gambe attorno ai suoi fianchi e non mi preoccupo più di reprimere i miei gemiti. «Ti amo, Shannon» esalo, mentre lui rallenta i propri movimenti per permettermi di sfogare il mio piacere. «Ti amo» ripeto a voce più bassa, avvicinandomi al suo viso per baciarlo. La sua barba mi sfrega dolcemente sulle guance, il naso sfiora il mio zigomo, le labbra posano un bacio delicato sulla mia fronte, e il suo corpo si immobilizza per un attimo, rimanendo però saldamente ancorato in me.


    Non mi sarei mai aspettato di sentirmelo dire.
    Prima di stanotte, avevo già sentito pronunciare quelle parole diverse volte, ma sentirle dire da lei fa tutto un altro effetto – e soprattutto è bizzarro rendersi conto che sono dirette proprio a me. «Ti amo» ripeto io, mai stato così sicuro di quello che sto dicendo. Resto immobile a fissarla per qualche istante, poi la bacio di nuovo, e in quel momento ricomincio a muovermi, forte di due nuove convinzioni: è questo l'unico tipo di sesso che voglio fare per il resto della mia vita, e questa è l'unica donna con cui abbia voglia di farlo. Daria mi ha mostrato un mondo alla cui esistenza non avevo mai creduto: mi ha fatto capire che si può amare una sola persona per tutta la vita ed esserne pienamente soddisfatti; mi ha mostrato che è possibile custodire il mondo in un solo cuore, ed è il suo cuore quello in cui il mio mondo trova riparo. Lei conosce il mio segreto più profondo, lei riesce a rendermi felice e riesce a farmi ridere senza sforzo, e anche se la conosco da appena una settimana so che non potrei vivere un solo giorno senza averla accanto. Se questo non è amore, allora non so che nome dargli.
    Mi bastano poche spinte per venire: l'orgasmo mi attraversa tutto il corpo, facendomi tremare come una foglia tra le braccia sottili di Daria. Mi sento accaldato e insieme quasi batto i denti, come se mi fosse improvvisamente salita la febbre. A questo punto dovrei uscire da lei, alzarmi, sfilarmi il preservativo e buttarlo via, ma non ho voglia di lasciarla. Voglio rimanere dentro di lei ancora un po', come quando da bambino indugiavo tra le coperte più del necessario per poi scattare in piedi, prepararmi di corsa e arrivare a scuola in ritardo. D'altra parte nemmeno a lei deve piacere l'idea di lasciarmi andare, perché le sue braccia sono ancora avvolte attorno al mio corpo, tese a rinchiuderlo come sbarre. Sorrido mentre incastro il viso nell'incavo del suo collo, inspirando a fondo il suo profumo di more: non sono mai stato così felice di sentirmi imprigionato.
    «Sei stato ubbidiente» la sento sussurrare, e a quel punto alzo la testa per guardarla. «Non hai parlato per tutto il tempo».
    «Sono un cucciolo disciplinato» rispondo con un sorriso. «Mi hai chiesto di fare una cosa e io l'ho fatta» aggiungo, toccandole il naso con la punta dell'indice. Mantenere questa posizione sta iniziando a diventare stancante, perciò esco lentamente da lei, facendo attenzione a portarmi dietro il profilattico, e allungo una mano dietro di me per afferrare le coperte e rimetterle più o meno a posto. «Torno subito, vado solo a liberarmi di lui» la informo, mostrandole il pezzo di lattice che mi sono appena sfilato. Mi congedo da lei con l'ennesimo bacio e scendo in bagno.
    Butto il rifiuto nel cestino, mi sciacquo velocemente e poi resto fermo davanti allo specchio per cinque minuti, fissandomi a lungo per capire che cosa sia cambiato in me in questo periodo, e specialmente dopo questa notte. Fino ad una settimana fa non mi sarebbe mai venuto in mente di dire ad una donna che l'amavo; fino ad una settimana fa non avrei mai pensato che esistesse anche un modo dolce per fare sesso; non mi sarei mai trovato a pensare che un preservativo non è soltanto un mezzo per evitare di contrarre malattie, ma anche un modo per scrollarsi di dosso quella grande responsabilità che si chiama paternità. Per un attimo provo a pensare a come sarebbe avere dei figli, e in particolare averli con Daria: lei sarebbe una madre amorevole e stupenda, e io... io sarei in grado di prendermi cura di un bambino? Ne sarei capace oppure mi arrenderei come hanno fatto mio padre e la madre di Daria?
    Scuoto la testa, cercando di cancellare certi pensieri; mi ravvio i capelli con una mano e mi preparo a tornare al piano di sopra, chiedendomi che cosa succederà a partire da questo momento. Arrivato in cima alla scaletta, non posso evitare di sorridere: Daria, stremata dalla giornata di lavoro e dalla fatica appena consumata, è crollata addormentata al centro del letto, senza nemmeno riuscire a coprirsi bene. Le aggiusto addosso lenzuola e coperte, mi stendo alla sua sinistra e le poso una mano sul fianco, tenendola stretta a me. È la prima volta che mi addormento intenzionalmente accanto ad una donna con la quale ho appena fatto sesso, ma il pensiero non mi disturba affatto.



*



Torino, 10 novembre 2013


    Quando decido di uscire dal mondo dei sogni e di aprire gli occhi, non impiego molto ad accorgermi che sono nuda e che steso accanto a me c'è Shannon, anche lui nudo. Il viso è rivolto verso di me, gli occhi chiusi, i capelli scompigliati... Dio, riesce ad essere sexy anche quando dorme. Sposto lo sguardo dal suo viso addormentato e sprofondato nel cuscino alla finestra, cercando di capire che ore siano osservando la luce esterna. Peccato che la sottoscritta non sia mai stata un granché con le stime. Mi sollevo sui gomiti e allungo il collo oltre il bordo del letto per cercare la sveglia, che sono sicura sia caduta sul pavimento, e nel farlo mi rendo conto che questa è la prima volta che mi sveglio in compagnia di qualcuno. Ed è strano, terribilmente strano – l'altro lato del letto non è mai stato caldo, nessuno ha mai strattonato le coperte, nessuno ha mai intrecciato i suoi piedi con i miei, nessuno si è mai addormentato con la fronte appoggiata alla mia nuca, stringendomi forte dopo avermi detto che mi ama. E anche se in questo momento dovrei essere la donna più felice del mondo, c'è sempre una piccola parte di me che mi dice di stare all'erta, perché ormai ho imparato che le cose non filano sempre lisce come vorresti – le stagioni passano, il tempo può cambiare, e le persone se ne vanno. Anche se non lo vorresti, può capitare che le persone che ami se ne vadano.
    Il mio improvviso movimento lo ha disturbato, perché lo vedo strofinare il viso sul cuscino, mentre il respiro cambia ritmo e il suo intero corpo si muove sotto le lenzuola, cambiando posizione accanto a me, che resto immobile e un po' a disagio. I suoi occhi si aprono, una mano sale a ravviarsi i capelli, e io mi chiedo come sia possibile che nemmeno appena sveglio perda il suo fascino. La stessa mano che si è scansata i capelli dal viso sale di nuovo, stavolta più lenta, e con dolcezza si posa sulla mia guancia, accarezzandomi con la consueta cura.
    «Ti ho sognata, sai?» mormora, mentre allunga le gambe per stiracchiare i muscoli intorpiditi.
    «Sì? E com'ero?»
    Ci pensa su per qualche secondo, come se sentisse di dovermi una risposta ponderata. «Eri come sei adesso. Eri bellissima.» E senza darmi alcuna possibilità di replica, si solleva e mi attira a sé, facendo toccare le nostre labbra. Poi mi lascia andare e torna a stendersi, senza smettere di guardarmi. «Vorrei poterti scattare una foto, sei perfetta in questa luce.» Ed è in questo momento che ricordo di avergli detto che lo amo. E per tutti i santi del paradiso, il perché si spiega da solo. Lo guardo allungare le braccia per abbracciare il cuscino, e mi sento addosso il suo sguardo indagatore. «Sei pentita?» mi sento chiedere.
    «Di cosa?»
    «Di aver ceduto al diavolo tentatore.» Ripenso a tutto quello che è successo stanotte, alle sue labbra che mi baciano ovunque, alle sue mani che mi accarezzano tutta, senza saltare nemmeno un punto, e poi al suo... beh, ripenso a tutto quello che mi ha fatto, e non riesco ad impedirmi di sorridere. «A giudicare dal tuo sorriso, direi proprio che ho fatto schifo» mi prende in giro, affondando il viso nel cuscino. «Oh, sì, guarda che espressione! Puro disgusto, sono veramente un imbranato!» La finta disperazione della sua voce mi diverte tantissimo, facendomi ridere come una scema: non ridevo così di gusto da quando... nemmeno mi ricordo da quando. Approfittando della mia guardia abbassata, Shannon riesce a riprendere il controllo della situazione, facendomi stendere sotto di lui: le sue labbra calano decise sulle mie e subito si spostano sul mio collo, mordicchiandolo come si farebbe con una stringa di liquirizia. «Non prenderla per il verso sbagliato, ma... stanotte sei stata fantastica» sussurra tra un bacio e l'altro. «E sappi che sono riuscito a confermare la mia teoria: non sei affatto un'imbranata.»
    Spostando un po' una gamba, la mia coscia entra in contatto con il suo inguine. «Questo sarebbe merito mio?» gli domando, avvertendo qualcosa che difficilmente può essere frainteso.
    «A meno che non ci sia un'altra donna nascosta sotto il letto...» risponde, continuando a stuzzicare il mio collo a forza di baci e sussurri. Muovo impercettibilmente la gamba, facendo sfregare la sua erezione contro la mia pelle. «Adesso mi stai deliberatamente provocando, lo sai?» mi avverte, sollevandosi appena da me.
    «Shannon, non prenderla per il verso sbagliato, ma...» lo copio, strappandogli un sorriso, «io ti voglio.»
    «Intendi... adesso?»
    «Non dirmi che ti serve tempo per abituarti all'idea, perché non mi sembra proprio.» Non so dove trovo il coraggio di farlo, ma in silenzio faccio scivolare le mie mani sotto le coperte, accarezzandogli lentamente il torace, seguendo il profilo definito degli addominali, arrivando infine al punto che davvero mi interessa. Ogni sua obiezione si perde in un sospiro, mentre sotto il mio tocco sento il suo pene inturgidirsi.
    «Ok, facciamo a modo tuo» sbotta all'improvviso, togliendosi da sopra di me per andare a frugare nella tasca del giubbotto. Ancora nascosta tra le lenzuola, lo guardo infilarsi il preservativo con una maestria e una velocità che superano di gran lunga ogni mia aspettativa.
    Quando ritorna sul letto, palesando l'intenzione di strapparmi di dosso le coperte e prendermi così come sono, mi scanso. «Hai detto che volevi fare a modo mio, no?»
    «Devo iniziare a pentirmene?»
    «Sdraiati» gli sussurro all'orecchio, la voce improvvisamente roca.
    «Agli ordini, signora» risponde, lasciandosi andare all'indietro sul materasso, con le gambe che penzolano oltre il bordo del letto. Vincendo la mia naturale avversione al farmi vedere nuda, specialmente alla luce del giorno, scivolo fuori dal comodo nascondiglio delle coperte, mi metto a cavalcioni sopra di lui e mi struscio lentamente sul suo inguine eccitato, strappandogli un gemito gutturale che somiglia parecchio ad un ringhio. «Questo ti catapulta sicuramente fuori dalla lista delle imbranate, lo sai?» mi informa, mentre le sue mani mi afferrano i fianchi. I pollici finiscono proprio sulle sporgenze dell'osso iliaco, e in verità ho un po' paura che con la forza che sta esercitando mi possa spezzare qualcosa.
    Senza rispondere, lo guido delicatamente dentro di me, e dal momento in cui inizio a muovermi sopra di lui intorno a noi si crea il silenzio – per la seconda volta in poche ore, la stanza vive soltanto di respiri e brevi sospiri, come se all'improvviso entrambi avessimo perso la capacità di parlare.


    Non riesco a toglierle gli occhi di dosso mentre, ad occhi chiusi, si muove lentamente sopra di me, tenendomi al sicuro dentro di sé. Questa sua improvvisa intraprendenza mi eccita da morire: intraprendente, sensuale, ma non volgare... una combinazione che ho sempre cercato, ma che nessuna donna ha mai dimostrato di saper ricreare. Questa posizione mi permette di scivolare dentro di lei in profondità, molto più di quanto non sia riuscito a fare questa notte, e dal modo in cui il suo respiro talvolta si mozza comprendo che non è abituata a tali movimenti. Andiamo avanti lentamente, per un tempo che ci sembra infinito, senza sentirci mai stanchi o annoiati. Quando sento vicino l'orgasmo mi sollevo dal materasso, mettendomi a sedere: faccio scivolare le braccia dietro la sua schiena, tenendola stretta; rallento i movimenti fin quasi a fermarmi, e dopo un istante di assoluta immobilità, mentre premo le labbra contro il suo collo, vengo con un gemito che definirei a dir poco teatrale.
    Appoggio la fronte contro il suo seno, in silenzio, e le sue mani salgono ad accarezzare dolcemente i miei capelli, più o meno come faceva mia madre quando da bambino mi svegliavo in preda ad un incubo e non volevo saperne di calmarmi. Ho chiuso gli occhi, ma non fatico ad immaginare le linee del suo volto mentre mi convince ad alzare la testa e bacia le mie labbra, facendomi sentire completo e amato come non mi sono mai sentito in vita mia – nemmeno ai tempi di Christine. «Non per metterti sotto pressione» dice a bassa voce, accostando le labbra al mio orecchio, «ma credo proprio di essere arrivata ad un punto di non ritorno. Sono innamorata di te come non lo sono mai stata di nessuno. Se mi fai soffrire, giuro che ti faccio del male.»
    «Non per mettere te sotto pressione» rispondo, facendo correre pigramente le mie dita lungo la sua spina dorsale, «ma io credo di aver trovato la donna che sposerò.» Apro gli occhi e trovo i suoi fissi sul mio volto, spalancati e un po' increduli.



1Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude, e diventa sentiero distinto, e ormai inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell'avvicinamento. Quell'accostarsi. Si vorrebbe non finisse mai. Il gesto di consegnarsi al destino. Quella è un'emozione: senza più dilemmi, senza più menzogne. Sapere dove. E raggiungerlo. Qualunque sia, il destino. | Il titolo del capitolo è ispirato ad passo del romanzo Oceano mare (1993) di Alessandro Baricco.

2Incontrarsi in cima al mondo | Si tratta di un riferimento al tatuaggio che Shannon ha al centro della schiena, quello che rappresenta l'emisfero occidentale.

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Capitolo 11
*** 11 | Abbi una felicità delirante, o almeno non respingerla. ***


Portagioie di tristezza | 1 Come sempre, grazie per il supporto che continuate a dimostrare. All'inizio immaginavo che la sezione recensioni sarebbe rimasta vuota, e invece, dopo dieci capitoli pubblicati, sono felice di vedere che così tante persone si sono affezionate a Daria e Shannon, alle loro insicurezze, ai loro difetti, e ancora alle loro famiglie (nonne curiose e fratelli divaH in primis), ai loro amici, alle situazioni nelle quali si trovano (per caso o per desiderio) coinvolti.
Spero che le loro avventure continueranno a divertirvi, emozionarvi, coinvolgervi – e che soprattutto non smettano di farvi sognare.
Come dice spesso un omino di nostra conoscenza... provehito in altum.
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo undicesimo
Abbi una felicità delirante,
o almeno non respingerla.1

Torino, 10 novembre 2013


    Siamo rimasti in silenzio per almeno dieci minuti, dopo le reciproche confessioni. Siamo rimasti stretti l'uno all'altra come se dal nostro abbraccio dipendesse il destino del mondo, senza nemmeno preoccuparci di coprirci. Io lo amo, lui mi ama – questa è la realtà dei fatti. Ripenso al modo in cui ce lo siamo detti, guardandoci negli occhi mentre eravamo ancora aggrappati l'uno all'altra, e mi viene da pensare che se la gente fosse più coraggiosa quando si tratta di sentimenti, forse ci risparmieremmo tanta tristezza e tanta solitudine.
    «Penso che è stupendo restare al buio abbracciati e muti come pugili dopo un incontro, come gli ultimi sopravvissuti2» mi ritrovo a canticchiare all'improvviso – e mi viene quasi da ridere, perché non è da tutti mettersi a pensare a Renato Zero mentre si è a letto con uno come Shannon.
    «Cosa stai cantando?»
    «Una vecchia canzone italiana, si intitola I migliori anni della nostra vita» rispondo. Gli traduco rapidamente il verso che stavo canticchiando, e vedo le sue labbra tendersi in un sorriso sincero e appagato.
    «I migliori anni della nostra vita» ripete, voltandosi appena verso di me. «Ci vorrà un po' perché sia proprio adatta a noi. È solo una settimana che ci conosciamo.»
    «Quindi ci serve un'altra canzone.»
    «Direi di sì. Suggerimenti?»
    «Raining on Sunday3, di Keith Urban» rispondo senza nemmeno pensarci su. «Credo sia perfetta per questo momento.»
    «Non la conosco. Come fa?»
    «Non la conosci? Vado a prendere il computer, così te la faccio sentire» ribatto, muovendo le gambe verso il bordo del letto.
    «No, resta qui. Cantamela tu.»
    «Sono stonata.»
    «Dicevi anche di essere un'imbranata a letto.»
    Touchée. Inizio a canticchiare qualche verso, sperando di non fare una figura troppo brutta, ma mi blocco subito quando mi accorgo che la voce di Shannon si è unita alla mia. «Tu la conoscevi, sporco imbroglione che non sei altro!» lo accuso, sollevandomi sui gomiti per poterlo guardare meglio.
    «L'ho già sentita, ma non è che proprio la conosca» si difende, stiracchiandosi le braccia per poi piegarsele dietro la testa a mo' di cuscino. «Per stavolta credo che tu mi possa perdonare» aggiunge, facendomi l'occhiolino.
    Cambio posizione anch'io: mi volto a pancia in sotto e intreccio le mani all'altezza del suo ombelico, appoggiandoci sopra il mento. «Vedremo» sussurro, incapace di staccare gli occhi dai suoi.
    «Cos'è quella cicatrice?»
    «Quale cicatrice?»
    «Hai una cicatrice sulla pancia, vicino all'ombelico. È abbastanza difficile non notarla. Come te la sei procurata?»
    «Appendicite. Avevo sette anni. È stato sei mesi prima che la mamma se ne andasse.»
    «Sembra una ferita piuttosto brutta.»
    «Operata d'urgenza, ho rischiato di morire. Mi hanno presa per i capelli.»
    «Sono grato a quei dottori» risponde dopo qualche istante di silenzio. «Hanno salvato una delle cose più belle che mi siano mai capitate.» Sciolgo l'intreccio delle mie dita, punto le mani sul materasso e scivolo in avanti fino a raggiungere le sue labbra. Un bacio lieve, e mi allontano di nuovo. Appoggio la guancia sul suo addome, che si alza e si abbassa al ritmo di ogni suo respiro; inspiro profondamente, cercando di trattenere il suo odore nella mia memoria. «L'hai più rivista?»
    «Chi?»
    «Tua madre. È sparita all'improvviso o l'hai ancora rivista?»
    In tutta sincerità, non è che abbia molta voglia di parlare di lei – però il momento sembra così adatto che non ho proprio il coraggio di tirarmi indietro. «Per i primi tre o quattro mesi venne a trovarci tutte le domeniche, ma non so se Emanuele e Francesca se ne ricordano. Poi saltò un paio di fine settimana, si rifece viva il terzo, mancò di nuovo e poi la perdemmo per sempre. Non so dove sia.»
    «Né che faccia abbia, immagino.»
    «Oh, quella non la posso dimenticare. Le somiglio come una goccia d'acqua. Mio padre tiene ancora una scatola di vecchie fotografie sul fondo del suo armadio. Non le ha buttate soltanto perché sono foto in cui ci siamo anche io e i miei fratelli. Una volta non le somigliavo così, ma il tempo mi sta cambiando. È anche un po' per questo motivo che ho deciso di andare via di casa: sento che mio padre soffre, quando mi guarda. In fondo lui non la può dimenticare, e vederla riflessa in me ogni giorno... lui non ha mai detto niente del genere, ma io so che è così.»
    «Anch'io somiglio molto a mia madre» gli sento dire, mentre si sfila una mano da dietro la nuca e la appoggia sulla mia schiena, accarezzandomi lentamente. «In realtà, sia io che Jared le somigliamo molto. Abbiamo tutti e due qualcosa in comune con lei.»
    «Tranne gli occhi» commento. «Ho visto delle fotografie» mi giustifico, sentendo su di me il suo sguardo. «Tua madre ha gli occhi chiari, se non sbaglio.»
    «Sì, ha gli occhi chiarissimi. Invece io li ho presi da papà.»
    «Da quanto non lo vedi?»
    Shannon resta in silenzio così a lungo che mi viene quasi da pensare che si sia addormentato. Sto per alzare lo sguardo sul suo viso, quando lo sento rispondere: «Trent'anni, più o meno. Forse di più. Lui e la mamma hanno divorziato quando eravamo molto piccoli, e come tua madre lui non ha... non è mai stato molto presente. Dopo il divorzio si è risposato, ha avuto altri figli, e quando avevo undici o dodici anni si è ammazzato.» Alzo la testa di scatto, voltandomi a guardarlo: non avevo mai sentito questa storia, e per me è una vera e propria sorpresa – soprattutto, è strano che lui riesca a parlarne con un tono così normale. «So che probabilmente dovrei parlarne con un po' di emozione in più» aggiunge, notando il mio sguardo interrogativo, «ma per noi lui non c'è mai stato. So che è grazie a lui se sono al mondo, ma a parte questo lui... lui non ha mai fatto nulla per me. Tutto quello che sono lo devo a mia madre, ai principi che lei mi ha inculcato. Lo devo a Jared, all'aiuto che ha saputo darmi. E poi lo devo a me stesso, perché non sarei andato da nessuna parte se non lo avessi voluto con tutte le mie forze.»
    «Io non... io non so che dire, Shannon. Non so cosa si dice in questi casi.»
    «Non devi dire niente, Daria. Non c'è niente da dire. Le persone fanno delle scelte, e tutto quello che possono fare è imparare a conviverci. Una volta che hai scelto la tua strada, non puoi tornare indietro.»
    Stiracchio un po' le gambe e appoggio una mano sul torace di Shannon, accarezzandogli pigramente il petto. «E tua madre? Si è mai rifatta una vita?»
    «Sì, quando avevo sette anni si è risposata con un medico. Il nostro cognome lo abbiamo preso da lui: quando l'ha sposata ha insistito per adottarci.»
    «Quindi in un certo senso... un padre l'hai avuto.»
    «Sì, un padre l'ho avuto... però non sono mai riuscito a chiamarlo papà. Forse perché... forse perché dentro di me sapevo che non era lui il mio vero padre. C'è di buono che lui non ci ha mai chiesto di considerarlo tale: ci è stato vicino, ci ha aiutato, ci ha sostenuto... ma non ci ha mai obbligato a rispettarlo come se fosse nostro padre. Gli abbiamo sempre voluto bene proprio perché non ci chiedeva di farlo.» Mi guarda e sorride. «Sei la prima a cui racconto tutte queste cose... è strano.»
    «Sono contenta che tu le voglia condividere con me» sussurro mentre abbasso la testa verso il suo petto. Lascio un bacio all'altezza del cuore e indugio per qualche istante in quella posizione. «Mi piace il tuo odore.»
    «Probabilmente puzzo come un cane, considerando tutta la ginnastica che mi hai costretto a fare» ribatte con un sorriso.
    Scuoto la testa, guardandolo. «Non puzzi. Hai un buon odore. Avevi lo stesso odore la sera che ci siamo conosciuti. Sai di caffè e di... non lo so, una spezia. Sembra... non lo so, è possibile che sia zenzero?»
    «Credo di sì. Uso un sapone alle spezie, può darsi che sia zenzero.»
    «Beh, comunque non puzzi.»
    Ridacchia appena, passandosi una mano sugli occhi. «Mi piacerebbe sapere come siamo arrivati a questo punto. Che ore sono?»
    «Non lo so, la sveglia dev'essere caduta. Però aspetta, dovrebbe esserci un orologio nel cassetto» aggiungo, allungandomi sopra di lui per raggiungere il comodino. «Sono quasi le dieci» rispondo guardando il quadrante digitale. «Che cosa vuoi fare oggi? Direi che il progetto di andare al Museo del Cinema è saltato, ormai è tardi. Resteremmo in coda ore per niente.»
    «Aspetta, resta ferma così» risponde, bloccandomi mentre mi sto ritraendo per stendermi di nuovo al suo fianco. «Oh, io ho deciso di restare qui tutto il giorno a guardare il panorama» aggiunge, e mi ci vogliono dieci secondi buoni per accorgermi che mi sta palesemente fissando il seno.
    «Che maniaco...» lo prendo in giro, tornando al mio posto e tirandomi addosso il lenzuolo.
    «Non dirmi che adesso ti vergogni, perché ti faccio notare che sei completamente nuda da quasi dodici ore. Non credo sia rimasto qualcosa che devo ancora vedere.»
    «Appunto, sono nuda da ieri sera e mi sta venendo freddo. E poi io sì che puzzo. Ho bisogno di una doccia.»
    «Ehi, ho un'idea!»
    «Ho quasi paura di sentirla.»
    «Non è così terribile. Stavo pensando che oggi non abbiamo programmi...»
    «No, credo di no» rispondo lentamente, chiedendomi a quale conclusione sia arrivato.
    «Beh, dici sempre che fai la doccia perché non hai tempo di fare il bagno... perché stamattina non ti prendi il tempo per farlo? Nel frattempo potrei preparare la colazione – non so tu, ma io ho una fame da morire, e non credo che in questa stanza ci sia qualcosa di commestibile.» Senza aspettare una risposta si alza e fa un mezzo giro intorno al letto per cercare le mutande – la nonchalance con cui riesce a muoversi nonostante la nudità è disarmante, io non credo ci riuscirei. «Tu di solito cosa mangi a colazione?»
    «Caffellatte e cereali» rispondo automaticamente, rendendomi conto soltanto in questo momento che Shannon Leto, batterista di fama internazionale, sta per prepararmi la colazione. «Però aspetta, per il caffè...» aggiungo mentre lui sta già scendendo le scale.
    «Donna di poca fede» mi interrompe, tornando indietro di un paio di scalini per rivolgermi uno sguardo a dir poco assassino. «Ti pare che un drogato di caffè come me non sia in grado di usare una normalissima caffettiera italiana?» Mi fa l'occhiolino e ricomincia a scendere: ascolto i suoi passi leggeri sul parquet, seguiti dal rumore delle antine che vengono aperte e richiuse, e poi dallo sciabordio dell'acqua che dal rubinetto scorre nel lavandino. Sarebbe bello se tutto questo potesse essere la normalità, ma la parte realista di me mi avverte subito: non sarà mai più tutto così perfetto.



*



Colonia, 10 novembre 2013


    Jared non riesce a staccare gli occhi dall'angolo in fondo a sinistra, completamente vuoto ad eccezione di Christine. Non era mai successo prima. Non era mai successo che Shannon trascurasse la musica per stare insieme ad una ragazza – non era mai successo, e di certo nessuno di loro si aspettava che potesse accadere. Jared sa che Shannon non potrebbe mai lasciare completamente la musica, sa che non li mollerebbe mai a metà di un tour, però gli viene naturale chiedersi quante altre volte dovrà rinunciare alle risate, alle battute, alle stupidaggini che caratterizzavano ogni sessione di prove.
    «Pianeta Terra chiama Jared Leto, rispondi Jared Leto» lo prende in giro Tomo, per nulla sorpreso dalle distrazioni del cantante. «Stai pensando a Shannon?»
    «Mi stavo solo chiedendo cosa sta facendo in questo momento.»
    «Forse sta facendo il turista in giro per Torino. Ah, comunque mi devi venti dollari.»
    «Scusa?»
    «Shannon mi ha mandato un sms» risponde Tomo, prendendo il cellulare. «Dice: Se avete fatto scommesse, dì a Jared che ha perso.»
    «Gli hai spifferato che abbiamo scommesso su di lui?»
    «Certo che no! Però immagino che ci conosca, dopo tutti questi anni.»
    Jared mette su un finto broncio, scuotendo appena la testa. «No, aspetta!» esclama, tornando a guardare Tomo. «Questo significa che hanno fatto sesso!»



*



Torino, 10 novembre 2013


    Daria è scesa dalla camera da letto a piedi nudi, indossando soltanto le mutandine e la sua maglietta, e dopo avermi rivolto un breve sguardo ha acceso il portatile e messo su un po' di musica. La prima canzone che si sprigiona dalle casse la conosco bene. «Ah, ma allora non facevi finta: sei davvero una Echelon!» la prendo in giro, riconoscendo perfettamente il giro di batteria che apre Conquistador.
    «Scusa, ho attivato la riproduzione casuale. Non ci ho pensato, forse non ti va di...»
    «No, lasciala. Mi incuriosisce sapere che tipo di musica ascolti. Non... non ascolti solo le nostre canzoni, vero?» aggiungo dopo un attimo di pausa, fingendomi spaventato da una simile eventualità.
    «Ti toccherà scoprirlo da te» risponde con un sorriso prima di sparire in bagno. Mi fermo per un istante, ascoltando il lieve cigolio del rubinetto che viene aperto e lo scroscio dell'acqua che scorre nei tubi. Chiudo gli occhi per un attimo, immaginando le dita di Daria infilarsi rapide sotto il getto per testare la temperatura, e poi la immagino tappare la vasca e scegliere il bagnoschiuma. Apro gli occhi e mi rendo conto che potrei avere tutto questo – qualcuno da stringere la notte, qualcuno da baciare la mattina, qualcuno per cui preparare la colazione, qualcuno da amare –, che potrei averlo già a partire da oggi, se solo... se solo rivoluzionassi completamente la mia vita. È inutile prendersi in giro: nella mia attuale condizione, non posso essere quello che Daria ha asserito di volere. In questo momento non posso permettermi di essere il suo uomo ideale: non posso starle accanto ogni giorno, non posso essere il suo confidente, sicuramente non potrei darle dei figli e sicuramente non potrei essere un padre – non un buon padre. Non sono un uomo stabile, in questo momento – ma Dio solo sa quanto vorrei poterlo essere.
    Mi volto verso i fornelli e inizio a scaldare in padella alcune fette di pane, mentre inizia una nuova canzone. Cerco di capire di quale artista si tratti e nel contempo tento di non perdere di vista la colazione, e proprio mentre sto per chiederle il titolo della canzone sento la sua voce arrivare dal bagno: «That's the way you make me feel, better than I've ever known it, better than it's ever been, I can't seem to control it, no, it's the way you make me feel4.» Sorrido e torno a concentrarmi sul pane, mentre Daria, probabilmente dimentica del fatto che sono qui e posso sentirla, continua a seguire il testo della canzone.
    Abbasso la fiamma, sposto la padella e metto sul fuoco la caffettiera, come il più navigato degli chef, mentre dal bagno arriva il chiaro rumore di un corpo che si immerge in una grande quantità d'acqua. Non riesco ad impedirmi di pensare al corpo nudo di Daria, al fatto che sia a così poca distanza dal mio, e anche se non lo vorrei – e nemmeno me lo aspetterei, data la recentissima attività – non posso impedire al mio corpo di reagire. «Porca puttana, Shannon, comportati da persona civile!» sibilo, rivolgendomi in maniera piuttosto inequivocabile a me stesso.
    «Hai detto qualcosa?»
    «No, niente» ribatto in fretta. «Chi è questo? Mi ricorda Peter Gabriel» aggiungo in fretta, riferendomi alla canzone che sta terminando.
    «Non vorrai farmi credere che non riconosci Bryan Adams5?» risponde lei in tono sorpreso. «Io adoro Bryan Adams. Credo sia uno dei miei artisti preferiti.»
    «Non lo conosco bene, però questa mi piace.»
    «Oh, come autore è assolutamente splendido. Mi sono innamorata di lui a dodici anni, vedendo Spirit. È impossibile non innamorarsi di quelle canzoni.»
    «Da come sospiri direi che ti sei innamorata di lui, non delle sue canzoni» ribatto, versando un po' di cereali in una scodella e cercando il cassetto delle posate.
    «Non dirmi che sei geloso!»
    «Potrei esserlo.»
    «Andiamo, come se potesse mai succedermi di incontrare...» Si blocca all'improvviso, come rendendosi conto che è difficile dare una definizione di impossibile, alla luce dei nuovi avvenimenti. «Beh, in effetti è anche un uomo affascinante. Anche se da quel punto di vista il mio preferito resta John Rzeznik6.»
    «Stai cercando di provocarmi?» le domando mentre esploro il frigorifero alla ricerca di qualcosa da spalmare sul pane tostato.
    «Perché, funziona?» mi sento rispondere.
    «Potrebbe» confermo, trovando un vasetto di marmellata.
    «Lo trovo piuttosto strano. Insomma, sei Shannon Leto, batterista di fama internazionale! Non dovresti farti buttare giù tanto facilmente.»
    «Ammetterai che è difficile non deprimersi, se la ragazza con cui hai passato la notte afferma di preferirti un altro uomo.»
    «Non ho detto di preferire un altro uomo, ho detto che John Rzeznik è uno dei musicisti più affascinanti che abbia mai visto.»
    «A me sembra la stessa cosa» ribatto, trovando in uno scatolone un vassoio di legno laccato che sembra proprio fare al caso mio.
    «Non è la stessa cosa.»
    Non rispondo, impegnato a sistemare ogni cosa con precisione: il piatto con le fette di pane spalmate di marmellata, la scodella di cereali, un piccolo bricco di latte bollente, due tazzine colme di caffè, una tazzina colma di zollette di zucchero, una scelta piuttosto vasta di cucchiai e cucchiaini e due tovaglioli di carta recuperati da una confezione che sembra finita sotto uno schiacciasassi. Prima di raggiungerla salgo in camera per mettermi i pantaloni, convinto di riuscire a darmi maggior contegno, e mentre torno al piano di sotto noto, gettata alla rinfusa dentro uno scatolone, un'orchidea di stoffa. Completo la composizione infilando il fiore di un bicchiere vuoto, e sorrido guardando il risultato finale – per nessuna ragazza ho mai fatto tanto.


    La prima reazione, quando Shannon entra in bagno reggendo un vassoio colmo all'inverosimile, è di coprirmi la bocca con le mani, stupita da una tale intraprendenza. Non riesco a dire una parola mentre lo guardo appoggiare il peso sullo sgabello che ha fatto scivolare accanto alla vasca a suon di pedate, né mentre si siede per terra, separato da me soltanto da uno strato di ceramica.
    «Non è che ci fosse molto in frigorifero, ma almeno ci ho provato» sorride. «Anche se non avrei dovuto, visto che tanto mi preferisci John Rzeznik» aggiunge, fingendosi scocciato.
    «Hai fatto un ottimo lavoro» rispondo alla fine, sporgendo un braccio fuori dalla vasca per accarezzargli il dorso della mano. «E comunque non ho detto che preferisco John Rzeznik a te. È una cosa diversa.»
    «Diversa in che senso?» mi domanda. «Il latte lo verso sui cereali?»
    «Sì, e versaci anche il caffè. Tutta la tazzina, va bene. E una zolletta di zucchero, per favore» rispondo, riportando il braccio dentro l'acqua. «È diverso nel senso che io non ti ho mai considerato affascinante. Non nel senso classico del termine, almeno.»
    «Oh, ti prego, continua a ferirmi!»
    Non riesco a fare di meno di sorridere, mentre lui finge di contorcersi come per una pugnalata immaginaria. «Shannon, io vi seguo dai tempi di A Beautiful Lie, e sinceramente non ho mai... insomma, il fascino è una cosa diversa. Tu sei uno che... o meglio, io immaginavo che tu fossi uno che...»
    «...uno che va in giro a strappar via le mutande alle ragazze dopo i concerti?»
    «Detta così sembra brutta, eh?» Lo guardo passarsi la lingua sulle labbra e alzare un po' un sopracciglio, come per sottolineare il concetto. «Il fatto è che... tu mi sei sempre piaciuto un sacco dal punto di vista... beh, fisico, e non mi sono mai fermata a pensare al tuo lato... oh, insomma, tu sei Shanimal, chi pensava che avessi un lato...»
    «Pensante?»
    Mi sciacquo le mani e prendo la scodella di cereali e un cucchiaio. «Sto per dire una cosa che probabilmente ti sorprenderà» inizio, mettendomi in bocca una quantità di cibo non indifferente, «ma prima di sabato scorso pensavo a te principalmente come ad un mero oggetto sessuale.» Si blocca nell'atto di mordere una fetta di pane, e resta a guardarmi con un'espressione che definirei spaventata. «Insomma, io... ho avuto anni e anni per immaginare un milione di cose che avrei fatto con te se ne avessi avuta l'occasione, e... e poi sabato ti ho conosciuto, ho parlato con te, e sono tornata a casa con un indirizzo e-mail e la convinzione che volessi rivedermi soltanto per sbattermi su un letto o contro il primo muro per... Non ti ho mai considerato affascinante» concludo, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi. «Eri un bel pensiero, una... una fantasia che mi faceva compagnia nei momenti più spenti. Solo che poi ti ho conosciuto, e... tu non sei affascinante, no. Un tipo affascinante è uno che ti porta fuori a cena e a ballare, e si intende di vini e di cose inutili, e che alla fine vuole le stesse cose che vogliono gli altri. Tu invece sei... tu sei il primo uomo con cui mi sento davvero a mio agio, anche se non lo dimostro, perché tu non menti. Tu sai quello che vuoi e non hai paura di dirlo forte e chiaro, e se... e se da me tu volessi solo... solo questo, solo il sesso, a me... ecco, non dico che mi andrebbe bene, ma apprezzerei la sincerità. Ecco, tu non puoi essere un tipo affascinante perché sei sincero, sei diretto. I tipi affascinanti ti promettono tanto, ma alla fine ti deludono come tutti gli altri.»


    Ricordo di aver letto, una volta – non ricordo dove –, che quando si è nudi o ubriachi si ha una strana tendenza a dire la verità. Dev'essere perché la nudità rivela i tuoi punti deboli – ma vale anche per l'alcool –, facendoti sentire scoperto e invulnerabile. In questo momento Daria è completamente nuda, dunque secondo quella teoria ciò che ha appena detto dev'essere la verità. Mi considera un uomo sincero, un uomo di valore, e sarebbe disposta ad accettare ogni mia decisione.
    «Non voglio soltanto sesso da te» rispondo a bassa voce, sperando che alzi gli occhi sul mio viso. «Il sesso è facile da trovare, specialmente per uno nella mia situazione. Io voglio che tra di noi le cose funzionino in modo serio. Voglio che tu sia quella per cui litigare con Emma per ottenere un pass per il backstage, voglio che tu sia quella a cui mando un sms prima di uno show, voglio che tu sia quella a cui telefono appena lo show è finito. Voglio che tu sia la ragazza che gira per casa con le mie magliette, voglio che tu sia quella che dissemina confezioni di assorbenti in giro per il mio bagno, e voglio che sia tu quella che mi tira via le lenzuola la notte.»
    «Shannon...»
    «Non succederà entro i prossimi sei mesi, forse nemmeno entro il prossimo anno, ma io non voglio nemmeno provare ad immaginarmelo un futuro senza di te» la interrompo. «Trovo già assurdo il fatto che abbia dovuto aspettare quarantatré anni prima di conoscerti» aggiungo con un sorriso, mentre i suoi grandi occhi azzurri si velano appena, come se le lacrime fossero in agguato. «Ehi, adesso non ti commuovere, ok?» le sussurro, accarezzandole una guancia. «A che stai pensando?»
    «Sei un uomo piuttosto strano» sorride. «Ti dico che fino all'altro ieri ti vedevo come un oggetto e tu rispondi che vuoi passare il resto della vita con me» aggiunge. «Ammetterai che non è da tutti.»
    «Sei la mia occasione di essere felice» ribatto, facendo risalire la mano fino al suo orecchio, sfiorando con la punta delle dita i capelli umidi. «Sei la mia occasione di essere mostruosamente felice, più di quanto lo sia mai stato. È un'occasione che non posso respingere.»



*



Colonia, 10 novembre 2013


    Jared e Tomo hanno deciso di mangiare fuori, in un ristorante vegano scoperto da Emma dopo ore di ricerche incrociate tra Google Maps e TripAdvisor. Tomo un po' storce il naso quando il cameriere gli piazza davanti una ciotola colma di verdure dall'aspetto bizzarro, ma sa di doversi adattare – Jared gli ha promesso di accompagnarlo all'aeroporto a prendere Vicki, ma a condizione di condividere un pasto vegano.
    Il cantante si getta sulla propria insalata come un vero e proprio ruminante, mentre l'altro cincischia un po' con il cibo, prima di dire: «Io questa roba la mangio, ma sia chiaro: paghi tu.»
    «Col cavolo» biascica l'altro, mostrando di gradire il pasto.
    «Tanto venti dollari me li devi, no?»
    «Col cavolo!» ripete Jared. «Non mi fido di quel messaggio, potresti essertelo mandato da solo.»
    «Quello che dici è assurdo. Non lo farebbe nemmeno un dodicenne!»
    «Forse è assurdo o forse no, ma la sostanza non cambia: non ti pago se non ho le prove.»
    «Quali prove ti servono? Il lenzuolo macchiato di sangue? Il preservativo usato? Per l'amor del cielo, non siamo più nell'Ottocento! E poi mi fido di Shannon: se dice che ci è stato a letto, ci è stato.» Tomo fissa a lungo Jared, che continua a ruminare e non risponde. «Piuttosto, dì la verità: non riesci a credere che si sia davvero trovato una ragazza. È una cosa che non riesci proprio a concepire.»
    «Ma certo che riesco a concepirla. È una cosa normale, avere... insomma, avere delle relazioni. Non c'è niente di strano.»
    «A meno che tu non sia un Leto. È la prima volta che ha una storia seria, o che perlomeno ci si avvicina?»
    «No, non è la prima volta. Insomma, tutti e due abbiamo avuto una storia importante. Non è che siamo sempre stati...»
    «Bestie da monta?» suggerisce l'altro con un sorriso.
    «Non ti facevo tipo da usare termini così volgari, Tomislav!» esclama Jared, fingendosi scandalizzato. «Beh, di me e Cameron lo sai... di lui però non so se te ne posso parlare. Shannon non ne parla mai, nemmeno con me» aggiunge, abbassando un po' il tono. «All'epoca era giovane, andavamo ancora al liceo.»
    «Mi sono sempre chiesto che tipo fosse da ragazzo. Insomma, per come lo conosco mi viene da pensare che fosse un gran cazzone, ma non so se...»
    «Dottor Milicevic, lei ha perfettamente centrato la diagnosi» conferma Jared con un sorriso. «Eravamo entrambi dei cazzoni, in realtà. Rispetto ad allora, adesso siamo due tranquilli uomini di mezza età.» Giocherella con una foglia di insalata, indeciso se continuare a parlare o costringersi a tacere ruminando un altro po'. Alla fine, prevale il desiderio di soddisfare le curiosità dell'amico. «C'era una ragazza che gli piaceva un sacco. Era nella mia classe, e lui le moriva letteralmente dietro. Eppure c'erano un sacco di ragazze nella nostra scuola, intendo un sacco di ragazze che morivano dietro a lui, però... non erano Christine. Personalmente, non la trovavo così bella: aveva un fisico da urlo, ma con il naso che si ritrovava... accidenti, sul suo viso spiccava come un cactus nel deserto. Rideva un sacco, questo me lo ricordo. Rideva per cose divertenti, intendo... non era un'oca che rideva per riempire i silenzi. Era una ragazza intelligente, non era la prima della classe ma ci mancava poco.»
    «Decisamente diversa dalle ragazze che l'ho visto frequentare in questi anni.»
    «Già... fatto sta che non se lo calcolava proprio. Lui faceva sempre lo scemo per farsi notare, e ogni volta lei... non lo calcolava, proprio sembrava non lo vedesse. Poco prima del ballo di fine anno mi disse che intendeva chiederle di uscire, e sapendo che in quelle condizioni non aveva molte possibilità di riuscita, decisi di parlare con lei.»
    «Cioè sei andato a parlare con lei per convincerla ad uscire con lui?»
    Jared annuisce, spostando la foglia di insalata da un lato all'altro della ciotola. «Non mi diede nemmeno il tempo di iniziare. Mi disse che sapeva che cosa stavo cercando di fare, e che non aveva bisogno di sentire le mie ragioni. Mi disse che Shannon le piaceva, e che se aveva sempre finto di non interessarsi a lui era perché aveva paura che lui volesse soltanto usarla.»
    «Ma non era così.»
    «Per niente. Lui era proprio innamorato. A volte mi è persino venuto il dubbio che volesse sposarla appena avesse finito la scuola, o qualche stronzata simile. Era proprio preso.»
    «E come finì?»
    «Finì che andarono al ballo insieme, e dopo si appartarono dietro il campo da football. Shannon tornò a casa alle cinque del mattino, e non si reggeva in piedi.»
    «Ubriaco?»
    Jared scuote la testa. «Stanco morto, non aveva mai...» Si interrompe di colpo, rendendosi conto di aver detto troppo. «Non dirgli mai che te l'ho detto.»
    «Cosa, che ha perso la verginità a diciotto anni suonati?»
    «Esatto. E... beh, non dirgli mai nemmeno che ti ho parlato di Christine. Mi ucciderebbe se lo sapesse.»
    «Il tuo segreto è al sicuro» risponde Tomo, tracciandosi una croce all'altezza del cuore. «E poi com'è andata avanti? Si sono messi insieme?»
    «Per tutta l'estate furono inseparabili. Qualcuno li chiamava addirittura Mastice. Alle feste sparivano dopo cinque minuti, e dopo un paio d'ore li trovavi a pomiciare nei cespugli, o nei sottoscala. Poi a settembre lei cominciò l'ultimo anno, lui si trovò un lavoro, e a ottobre lo mollò.»
    «Lei mollò lui?»
    «Brutalmente e senza un motivo plausibile» conferma Jared. «Gli disse che non era sicura di volere una storia così impegnativa a soli diciotto anni, gli disse che voleva concentrarsi prima sugli studi e sulla carriera e solo dopo sull'amore, gli disse che avrebbero potuto rimanere amici e provarci di nuovo in seguito... sai, tutte quelle stronzate che si raccontano quando in realtà sei stanco di una persona e vuoi scrollartela di dosso senza ferirla.» Smette di torturare l'insalata e appoggia la forchetta a lato del piatto. «Il problema è che lui è rimasto ferito, e anche piuttosto pesantemente. Per lui quella ragazza è stata importante, importante quasi più dell'ossigeno. Vedersi respinto a quel modo... credo sia stata una sorta di trauma.»
    «Sì, è una di quelle cose che ti fanno passare per sempre la voglia di innamorarti.»
    Jared annuisce di nuovo, mordicchiandosi un labbro. «Sono passati venticinque anni, e non l'ho più visto guardare una ragazza come guardava Christine... fino all'altra sera.»
    «Mi auguro che non stia prendendo un abbaglio.»
    «Forse è prematuro, ma lo escludo. Dopo quella volta, Shannon in amore ci va con i piedi di piombo. Credo sia molto sicuro di quello che fa. Deve essere sicuro che questa ragazza può renderlo felice, oppure non... non si lascerebbe andare così.»



*



Torino, 10 novembre 2013


    «Come sarebbe a dire che non vieni a pranzo?» Nella voce di Francesca colgo una leggera nota piagnucolosa, come quando da bambina faceva i capricci per cercare di ottenere quello che voleva. Ma oggi come allora, mi mostro inflessibile.
    «Non vengo a pranzo perché gli scatoloni arrivano al soffitto, e in settimana non sono riuscita a sistemare niente. Questo appartamento inizia a sembrare una bidonville. Se per caso salgono i padroni di casa che figura ci faccio?»
    «Ma domani è lunedì, non devi lavorare. Puoi sistemare anche domani!»
    «Franci, è già tanto se per stasera riesco a disimballare tutte le mie cose. E poi ho anche il bucato da fare. Dai, nonna capirà. E poi non è che se salto un pranzo della domenica crolla la Mole.» Seduta su uno degli sgabelli della cucina, mi pizzico distrattamente una coscia con due dita. «E non crolla nemmeno se per una volta non mangio come un cammello: i jeans iniziano di nuovo a tirarmi.»
    «Ma stai zitta, non sei grassa!»
    «Non ho detto di essere grassa, ho solo detto che ho messo su un paio di chili e che i jeans mi stanno stretti.»
    «E allora vai in palestra» ribatte pronta mia sorella. A volte mi chiedo se non sia Alice ad avere in comune con lei metà patrimonio genetico.
    «La palestra costa» rispondo io. E poi ho appena trovato un modo decisamente più appagante di fare esercizio, penso mentre con la coda dell'occhio vedo Shannon uscire dal bagno, fresco di doccia – con i capelli bagnati e l'asciugamano legato in vita è quasi più sexy che completamente nudo. «E poi devo anche uscire a fare la spesa, ho frigo e dispensa assolutamente vuoti.»
    «Comunque nonna ci rimarrà male.»
    «Più tardi la chiamerò per scusarmi.»
    «Emanuele mi ha detto di dirti di portare qui il culo, altrimenti toccherà a lui sparecchiare, e non ne ha proprio voglia.»
    Sto per rispondere, ma il bacio che Shannon mi posa sulla nuca mi distrae: i suoi capelli bagnati sfiorano la mia pelle e mi inumidiscono la maglietta, mentre le mani scivolano sul mio ventre e mi stringono forte a lui. «Dì a Emanuele che il mio culo sta benissimo dove sta» concludo. «Dai, adesso vado, altrimenti non finisco più.» Le solite formule di saluto, poi interrompo la comunicazione e rilasso la schiena, lasciandomi andare contro il torace solido e compatto di Shannon.
    «Li hai convinti?»
    «Credo di sì. A meno che mia nonna non inventi il teletrasporto e si fiondi qui all'istante per prendermi per i capelli e portarmi a pranzo, direi che per questa volta siamo a posto. Ma non ci pensare neanche» aggiungo, sapendo che quello che sento alla base della schiena non è soltanto il nodo dell'asciugamano, «adesso ti vesti e mi accompagni a fare la spesa. Niente distrazioni.»
    «Niente distrazioni, va bene.»


    Il supermercato è quasi vuoto, fatta eccezione per un paio di cassieri che parlano tra loro di pallone e programmi per la serata e per una decina di persone che probabilmente sono uscite soltanto per sopperire a qualche urgenza. Da bambino adoravo spingere il carrello della spesa, perciò Daria non ha nemmeno bisogno di chiedere: mi metto subito alla guida e la seguo diligentemente lungo le corsie, senza lamentarmi nemmeno quando mi accorgo che mi toccherà trasformarmi in un mulo per aiutarla a portare a casa tutto quello che sta accatastando.
    Il nostro percorso si incrocia con quello di una coppia di anziani che ci guarda e sorride: impegnata a scegliere la marca più conveniente di carta igienica, Daria non se ne accorge, ma io noto il loro sguardo e ricambio il sorriso. Poi torno ad osservare lei, conscio di sembrare un vero e proprio adolescente innamorato: spero che tra quarant'anni saremo noi i due anziani che sorridono alle giovani coppie – lo spero, lo spero davvero.



    In ascensore, Shannon è stato in piedi dietro di me per tutto il tempo, ad una distanza di pochissimi centimetri, respirando piano sul mio collo nudo. «Che stai cercando di fare?» gli ho domandato tra il terzo e il quarto piano.
    «Io? Assolutamente niente» ha sussurrato, senza spostarsi di una virgola. «Sono solo in piedi dietro di te.» Come se non sapesse che saperlo dietro di me ad una così breve distanza mi fa venire voglia di voltarmi e... no, Daria, no. Per oggi avete altri piani, ricorda.
    Resisto finché non si chiude alle spalle il portone, ma non riesco a dominarmi oltre. Appoggio a terra le due borse che porto, mi volto e lo bacio con una passione che fino ad una settimana fa non mi sarei mai attribuita. Risponde al bacio con la medesima intensità, ma senza lasciar andare la spesa. «A-ah, avevamo detto niente distrazioni o sbaglio?» sussurra dopo qualche istante, scostandosi da me.
    «Si può cambiare idea, no?»
    «Assolutamente no. Adesso dobbiamo mettere a posto la spesa, mangiare, finire di mettere a posto le tue cose... non puoi continuare a considerarmi un mero oggetto sessuale. Ho dei sentimenti, io!» Sorride ancora, cattura le mie labbra in un ultimo bacio leggero e mi precede in cucina. «Dovevo immaginarlo, nessuna donna che mi abbia provato poi è riuscita a fare a meno di me. Comportati bene, e forse ne avrai ancora.»
    Lo seguo con un sorriso e inizio a svuotare le buste.
    È la più bella domenica della mia vita.



1Abbi una felicità delirante, o almeno non respingerla. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da William Parrish (interpretato da Anthony Hopkins) nel film Vi Presento Joe Black (1998).
2Penso che è stupendo restare al buio abbracciati e muti, come pugili dopo un incontro, come gli ultimi sopravvissuti. | Si tratta di un verso tratto dalla canzone I migliori anni della nostra vita di Renato Zero, contenuta nell'album Sulle Tracce Dell'Imperfetto (1995). Viene considerata una delle più celebri canzoni italiane; molti artisti in tutto il mondo ne hanno tratto una loro personale versione, ma la più celebre e apprezzata oltre all'originale resta quella della cantante italiana Mina.
3Raining on Sunday | Si tratta di una canzone interpretata dal cantante Keith Urban, contenuta nell'album Golden Road (2002). Qui c'è il link al video, che è... ispiratore. Per non parlare del testo.
4That's the way you make me feel, better than I've ever known it, better than it's ever been, I can't seem to control it, no, it's the way you make me feel | Si tratta di un verso tratto dalla canzone The way you make me feel di Bryan Adams, contenuta nell'album Bare Bones (2010).
5Bryan Adams | Cantautore canadese, nato a Kingston il 5 novembre 1959. In attività dal 1975, ad oggi ha pubblicato quindici album; in trent'anni di carriera ha venduto oltre cento milioni di copie, ed è l'artista maschile canadese con il maggior numero di vendite. Tra i singoli di maggior successo vanno ricordati: (Everything I do) I do it for you (1991), contenuto nella colonna sonora del film Robin Hood: Principe Dei Ladri (1991); It's only love (1985), eseguita in duetto con Tina Turner; I finally found someone (1996), eseguita in duetto con Barbra Streisand. È inoltre autore della colonna sonora del film d'animazione Spirit, Cavallo Selvaggio (2002).
6John Rzeznik | Nato a Buffalo il 5 dicembre 1965, è il frontman della band alternative-rock Goo Goo Dolls. In attività dal 1986, la band ha pubblicato tredici album e venduto più di dieci milioni di copie. Tra i singoli di maggior successo vanno ricordati: Iris (1997), contenuto nella colonna sonora del film La Città Degli Angeli (1997), Better days (2005); Rebel beat e Come to me, entrambe contenute nell'ultimo album della band, Magnetic (2013).

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Capitolo 12
*** 12 | 'Quanto manca alla nostra separazione?' 'Un'eternità. Hai ancora molto da imparare.' ***


Portagioie di tristezza | 1
Portagioie di tristezza






Capitolo dodicesimo
Quanto manca alla nostra separazione?”
Un'eternità. Hai ancora molto da imparare.”1

Torino, 10 novembre 2013


    «Onestamente, quando hai bussato alla porta del bagno e hai detto che te ne stavi andando, ho... credevo fosse soltanto una tattica. Sai, una strategia per farmi uscire.»
    «Ci avevo pensato, ma ho capito subito che non avrebbe funzionato. Sei troppo intelligente per cascare in un trucchetto così bieco» rispondo. «Però hai aperto. Che cosa ti ha convinta?»
    «Non lo so. Forse il tono della tua voce. Sembrava... sembrava proprio che avessi perso ogni speranza.» Si fruga in tasca e tira fuori la collana che ieri le avevo restituito. In effetti iniziavo a chiedermi che cosa ne fosse stato. «Quando ho aperto la porta e ho visto questa, ho pensato... cavolo, ho pensato che non stavi raccontando balle. Te ne stavi andando davvero.» Si sporge verso di me e mi rimette al collo il cordoncino: la sua mano mi accarezza dolcemente il collo, supera il tatuaggio e si ferma all'altezza del cuore, aggiustando il ciondolo. «Ho pensato che stesse finendo tutto, anche se non sapevo bene che cosa fosse cominciato.»
    «Quindi mi sei corsa dietro perché...»
    «...perché ti volevo nella mia vita. Perché ti voglio nella mia vita. Ti voglio disperatamente nella mia vita.» Sorride, ritirando la mano. «E poi io ho ancora il tuo libro. Non potevo lasciarti andare via così. Ti saresti ricordato di me come della stronza che si è tenuta le tue cose.»
    «Non potrei mai pensare a te come ad una stronza» ribatto subito. «Che significato ha? Insomma, perché un bullone e non un'altra cosa?»
    «Una storia lunga e complicata» risponde, tornando a concentrarsi sul piatto di spaghetti. «Anche piuttosto stupida, a dire il vero.»
    «Beh, sentiamola.» Osservo attentamente i suoi movimenti e cerco di riprodurli, sperando di riuscire a non combinare disastri.
    «Non so se te l'ho già detto, ma mio padre di lavoro è falegname. Ha un piccolo laboratorio a pochi passi da dove abitiamo. Abitavo» si corregge subito, ricordandosi che non vive più lì. «Dopo il divorzio da mia madre, spesso stavo da lui dopo la scuola, per alleggerire un po' il lavoro di mia nonna. Emanuele e Francesca erano molto piccoli, avevano bisogno di molta più attenzione. Io non avevo grandi necessità a parte fare i compiti, ma quelli li potevo fare ovunque.» Mastica un piccolo boccone e ricomincia a parlare. «Mi piaceva stare con lui: mi piaceva l'odore del legno, mi piaceva vederlo lavorare... ma soprattutto mi piaceva l'idea di passare del tempo con lui. Credo... forse inconsciamente avevo paura che anche lui se ne andasse. Forse pensavo che trascorrendo tanto tempo con lui lo avrei potuto tenere d'occhio e impedirgli di andare via.»
    «Era un pensiero molto dolce.»
    «Sì, ma anche un po' spaventoso. A dieci anni si dovrebbe avere paura del buio, o dei ragni, non di... beh, comunque stavo un sacco di tempo con lui, e quando finivo i compiti mi permetteva di aiutarlo. Si faceva passare la carta vetrata, i chiodi... mi chiamava sempre 'assistente', mi faceva ridere un sacco.»
    «Ti faceva sentire importante. Un bambino dovrebbe sempre sentirsi importante.»
    La guardo annuire mentre mastica di nuovo. «Una volta lo stavo aiutando, e mi chiese di passargli un bullone. Andai a frugare nel cassetto dove li teneva, e ne trovai uno senza dado. Gli chiesi come mai non ci fosse il dado, e lui mi rispose che a volte succedeva: probabilmente il commesso della ferramenta non lo aveva avvitato bene e quello si era perso per strada.» Arrotola dell'altra pasta sulla forchetta, ma invece di mangiare la fissa con sguardo triste. «Mi ricordo la mia risposta come se fosse passato un giorno soltanto.»
    «Che cosa gli rispondesti?»
    «Gli risposi che forse lui e mia madre erano come quel bullone e quel dado. Gli risposi che quando si erano sposati forse non si erano avvitati bene, e lei si era persa per strada.» Alza gli occhi su di me, e li vedo lucidi di lacrime. «Ammetterai che sono un tipo strano. Non è il genere di pensiero che ti aspetteresti da una ragazzina di quinta elementare.»
    «Direi di no, decisamente. Ma questo non fa di te un tipo strano. Vuol dire che sei una persona profonda. Una persona che pensa, soprattutto.» Allungo la mano sul ripiano lucido del bancone e stringo la sua con un sorriso. «Che cosa ti rispose lui?»
    «Credo di averlo spiazzato, tanto per cominciare. Ricordo che mi guardò con tanto d'occhi, neanche gli avessi detto di essere la reincarnazione di Satana. Poi mi fece sedere e mi spiegò che forse era così, ma che in nessun caso dovevo pensare che quello fosse il destino di tutte le relazioni. Beh, lui non disse 'relazioni', disse 'cose', ma con il passare del tempo capii che intendeva dire che... che non tutti i matrimoni devono per forza finire male, ecco. Comunque alla fine mi ficcò in mano il bullone, dicendomi di conservarlo.»
    «Perché avresti dovuto conservarlo?»
    «Beh, per rassicurarmi mi disse che a volte succede che un bullone e un dado si perdano, ma questo non significa che debbano per forza restare separati per sempre. Mi spiegò che ogni bullone può andare d'accordo con più dadi, e viceversa. Perciò mi disse di conservarlo e di tenere sempre a mente che un giorno avrei potuto trovare un dado che ci si adattava. Anni dopo ho capito quello che voleva dire, e cioè che solo perché lui e la mamma avevano divorziato, non significava che avrebbero dovuto rimanere soli per sempre.» La guardo ridacchiare appena, prima di infilarsi in bocca la forchetta carica. «In effetti è una scena quasi comica, a ripensarci. Fa molto maestro Miyagi, non trovi?»
    «Sì, in effetti è un discorso molto zen» concordo, ridendo con lei. «Come ti venne l'idea di metterlo al collo?»
    «Non lo so, mi sembrò la cosa più intelligente da fare. Era l'unico posto dove sarei stata certa di non perderlo mai. Chiesi a mia nonna un laccetto e feci diventare scemo mio nonno cercando un modo per annodarlo in modo che non si potesse perdere.»
    «Hai sempre avuto la bizzarra tendenza a far impazzire la gente, vedo.»
    «Immagino di sì. Ehi, hai finito la pasta!» esclama, indicando il mio piatto.
    Abbasso gli occhi e noto che, concentrato sul suo racconto, sono riuscito a mangiare senza sporcarmi e senza spargere spaghetti ovunque – è la prima volta che ci riesco. «Accidenti, sì! Avevo veramente bisogno della tua presenza per evitare di combinare disastri, pare.» Torno a guardarla, e vedo che è lievemente arrossita, come se lo ritenesse un complimento non necessario. «Posso chiederti una cosa?» Alza gli occhi e annuisce, senza dire niente. «Perché lo hai dato a me? Insomma, da come ne hai parlato sembra... beh, per te è una cosa importante. Ha un significato profondo. Perché lo hai dato a me?»
    «Perché tu mi hai dato il tuo libro?» ribatte, con una prontezza che sinceramente non mi aspettavo. «Te lo ha regalato tua madre, me lo hai detto. E ho visto che dentro c'è anche una sua dedica. È una cosa ugualmente importante, un oggetto prezioso, a suo modo. Perché lo hai dato a me?»
    «Mi sono voluto fidare di te» rispondo dopo un breve silenzio. «Non mi fido facilmente delle persone. Sono un tipo solitario, uno che è rimasto ferito e che non ha voglia di esporsi. Lo so, appaio sempre come un tipo socievole, ma la verità è che prima di far entrare qualcuno nella mia vita ho bisogno di conoscerlo, di conoscerlo bene. Ho pochissimi amici, ma le persone a cui riesco a parlare veramente di me stesso sono ancora meno. Credo che l'unica persona a conoscermi veramente sia Jared.» Il piatto è ormai vuoto, perciò ci appoggio dentro la forchetta e focalizzo tutta la mia attenzione su di lei e sulla mano che ancora le sto stringendo. «Lunedì ci siamo promessi di rivederci, ci siamo promessi delle cose importanti, e io mi sono voluto fidare di te. Ho voluto credere che quelle parole non sarebbero rimaste solo parole, ma che si sarebbero tradotte in fatti. Darti il mio libro significava... beh, significava che ero davvero sicuro di volerti rivedere. E soprattutto significava che ero quasi certo che ti avrei rivista.»
    «Capisco» sussurra, tenendo gli occhi bassi. Devo tendere l'orecchio all'inverosimile, pur di cogliere le sue parole. «Allora credo di dover ammettere che l'unico motivo per cui ti ho dato la mia collana è che... beh, anch'io mi sono voluta fidare di te. Ho voluto credere che le tue non fossero promesse da marinaio, ho... ho voluto credere che ti avrei rivisto davvero. E poi ho... mi sono voluta convincere che tu fossi... che tu potessi essere il pezzo in grado di completarmi. Accidenti, detto così suona proprio come una stronzata romantica, eh?»
    «Qualche stronzata romantica ogni tanto non fa male, non credi?» ribatto, prendendole anche l'altra mano. «Te l'hanno mai detto che sei una persona stupenda? Insomma, non solo in senso fisico. Sei una persona speciale. Sono contento di essere uscito a fumare quella sigaretta, sabato sera.»
    «Anch'io sono contenta che tu l'abbia fumata» sorride, alzando finalmente lo sguardo.


    Sorrido, e per la prima volta in vita mia sento il cuore leggero: penso davvero quello che ho detto, sono davvero felice. Finalmente mi sento una persona normale – finalmente sono come tutte le altre ragazze.


    «Dei tuoi fratelli cosa mi dici?»
    «Cosa vuoi sapere?»
    «Qual è la loro storia? Cosa fanno nella vita? Insomma, tu di Jared sai quasi tutto... non posso essere un po' curioso a proposito della tua famiglia?»
    «Non è che ci sia molto da dire» ribatte, alzandosi per mettere il piatto vuoto nel lavello. «Siamo gente normale.»
    «Per caso è un modo carino per dirmi che io non sono normale?»
    «Non volevo dire questo. È solo che... beh, paragonata alla tua, la mia famiglia è decisamente ordinaria.» Evito di rispondere, sperando che il mio silenzio la convinca a continuare. «Emanuele ha diciannove anni e ha appena iniziato l'università. Studia Ingegneria informatica, è una specie di genio dei computer. Ma forse questo te lo avevo già detto.»
    «E tua sorella, invece?»
    «Lei frequenta ancora il liceo, ha soltanto sedici anni» risponde, aprendo l'acqua calda. «Sono quasi certa che diventerà un'artista.»
    «Che tipo di artista?» mi interesso.
    «Beh, lei disegna. È bravissima» sospira. «I suoi disegni sono... sembrano parlare, a volte. Ha una sensibilità molto particolare.»
    «E tuo padre invece progetta mobili... una famiglia piena di talento, oserei dire.» Mi alzo e metto anche il mio piatto nel lavandino, poi prendo una spugna e pulisco il riquadro di bancone dove abbiamo mangiato. «Mi piacerebbe conoscere bene l'italiano, così potrei leggere le tue storie.»
    «Nessuno legge le mie storie» ribatte in tono deciso, spremendo un po' di detersivo sulle stoviglie sporche. «Soltanto Alice ha avuto questo dispiacere, e ne ha lette soltanto un paio.»
    «Perché non vuoi che la gente legga le tue storie?»
    «Perché non sono niente di che.»
    «Tu hai davvero la bizzarra tendenza a sottovalutarti» commento, arrivandole alle spalle. «Dici di non essere niente di speciale e invece sei bellissima, dici di essere stonata e invece hai una voce più che gradevole, dici di essere un'imbranata a letto e invece...» Mi sporgo in avanti con la scusa di rimettere a posto la spugna e ne approfitto per appoggiare le labbra contro la sua nuca. La bacio con dolcezza, sentendola tremare appena. «Io non so proprio come convincerti del contrario. Sappi che mi sto impegnando con tutto me stesso» sussurro. «Anche se mi rendo conto di non essere affascinante quanto John Rzeznik.»


    «Questa cosa di John Rzeznik non ti è proprio andata giù, eh?» lo prendo in giro, chiudendo l'acqua.
    «Sai com'è, hai lievemente offeso il mio orgoglio di animale.» In un attimo mi trovo rivolta verso di lui, le sue labbra di nuovo sul mio collo, impegnate ad attentare alla mia integrità. «Adoro il tuo profumo, sai di more e... camomilla» sussurra, mentre le mani scendono a cingermi i fianchi. «Vieni via con me, domani.»
    Ho sempre avuto un udito piuttosto buono, ma per la prima volta in vita mia non sono certa di aver capito. «Come, scusa?»
    «Vieni con me a Francoforte. Sei ancora in tempo a comprare un biglietto, e non ti serve nemmeno il passaporto. Butta due cose in valigia e parti con me» afferma, guardandomi dritta negli occhi. «Anzi, nemmeno ti serve, la valigia. Ti compro laggiù tutto quello che ti serve.»
    Non posso fare a meno di sorridere davanti alla sua serietà. «Tu sai di essere matto, vero? Non posso venire a Francoforte con te.»
    «Perché no?»
    «Perché ho un lavoro, non me ne posso andare senza preavviso.» Ci guardiamo a lungo negli occhi, e devo ammettere che la proposta risulta più che allettante – però non posso lasciare Marco nei guai, non adesso che Carlotta ha deciso di essere stanca e si è presa una settimana di permesso. «Credimi, se fossi libera ci farei un pensiero, ma... non posso. Non così all'improvviso, almeno.»
    «E... non all'improvviso?» mi domanda. Lo guardo senza capire dove voglia arrivare. «Quando ci siamo conosciuti mi hai detto che di solito non fai cose avventate, e questo posso capirlo. Ma se invece... se invece la organizzassimo per bene?»
    «Che intendi? Vuoi inserirmi nel vostro tour, per caso?»
    «Potresti seguirci per un paio di tappe. Giusto per vedere come sono nel mio ambiente. Dopo Francoforte saremo a Berlino, Amburgo... se non sbaglio dopo ci sposteremo in Francia. Dovrei chiedere conferma ad Emma, ma dovrebbe essere così. Ci potresti raggiungere a... che ne so, Parigi?»
    «Una città a caso, immagino» lo prendo in giro.
    «Assolutamente» ribatte con un sorriso. «Non ricordo con precisione le date, ma dovremmo spostarci lì verso fine mese. Parigi dovrebbe essere programmata per il ventisette. Sono più di due settimane, dovresti avere il tempo di organizzarti e chiedere al tuo capo il permesso di stare a casa.»
    «Sì, ci dovrei riuscire... ma tu non dovresti parlarne prima con gli altri? Non so, consultarti con tuo fratello, o...?»
    «Jared sarà d'accordo. È stata sua l'idea di farmi passare questi tre giorni con te. Insomma, praticamente è stato lui a convincermi e ficcarmi i vestiti nel borsone. Adesso mando un sms ad Emma e mi faccio dare nel dettaglio tutte le date» aggiunge, staccandosi da me.
    «Shannon, ma tu... tu sei sicuro di volerlo?» Subito dopo vorrei mordermi la lingua, perché mi sembra di aver usato un tono da bambina capricciosa.
    «Se sono sicuro di volerti con me durante il tour? È ovvio che lo voglio. Insomma, anche solo per un paio di tappe, voglio che tu ci sia. Io ti ho vista nel tuo mondo, ti ho vista muoverti nel tuo ambiente, e mi sembra naturale volere che tu mi veda nel mio. Voglio ricambiare. Voglio che tu mi veda provare, voglio che tu veda com'è fatto davvero un backstage, voglio che tu veda... beh, voglio che tu veda come sono. E poi voglio che tu conosca Jared e Tomo. Loro non vedono l'ora di conoscerti.»
    «Oh, merda!» esclamo. «Non posso venire.»
    «Come? Perché no?»
    «Non posso conoscere tuo fratello. Non posso conoscere Tomo e tuo fratello. Insomma, loro sono... e io sono...» mi blocco, annaspando alla ricerca delle parole giuste.
    «Quindi non ti disturba vedere me nudo, ma hai paura di stringere la mano a mio fratello e ad uno dei miei migliori amici?»
    «Scusa, di che ci parlo con tuo fratello?»
    «Di qualunque cosa! Solo, non dire che non sei vegana, o tenterà di convertirti. E non accennare al fatto che mi hai visto nudo. Farebbe domande imbarazzanti.»
    «Ok, ricevuto. Il segreto è non parlare di animali» concludo, ammiccando mentre dico l'ultima parola.
    «Vedo che ci intendiamo alla perfezione» sorride. Mi appoggia una mano sul fianco e mi schiocca un veloce e tenero bacio sulle labbra. «Nomina uno dei suoi film, se ne hai visto qualcuno. Oppure fai un complimento alla nostra musica. Inizierà a parlare a ruota libera di se stesso o della band e tu non avrai l'imbarazzo di trovare un altro argomento di conversazione. È bravo a monopolizzare la scena. È un ottimo intrattenitore.»
    Anche l'altro mio fianco finisce preda della sua presa, e vedendolo avvicinarsi di nuovo non posso fare a meno di sorridere. «Anche tu sei un ottimo intrattenitore, a modo tuo.»
    «Bisogna sfruttare le proprie qualità, no?» La sua bocca finisce di nuovo contro il mio collo, e la familiare sensazione della lingua che scivola sulla mia pelle mi fa tremare le ginocchia, come sempre. «Sarà dura starti lontano.»
    «Anche tu mi mancherai» sussurro, allacciandogli le braccia dietro il collo. Adoro tenerlo stretto contro di me, è una sensazione stupenda – e non mi riferisco soltanto al lato sessuale della cosa. Quando sono vicina a lui sento protetta, mi sento difesa – mi sento come se nulla potesse colpirmi né ferirmi, finché siamo insieme.


    Per quanto ci provi, non posso resistere: non riesco a starle lontano. Abbracciarla mi fa sentire completo, come se finalmente avessi uno scopo, come se finalmente avessi trovato un obiettivo. Quando sono con lei mi sento diverso – un uomo diverso, un uomo migliore. «Ma che cosa mi hai fatto, Daria?» sussurro, tornando a guardarla negli occhi. «Come sei riuscita a stregarmi in questo modo?» I nostri nasi si sfiorano appena, sento il suo respiro fondersi con il mio, le labbra sono separate da pochissimi centimetri... «Se adesso ti bacio, non so se riuscirò a lasciarti andare.»
    «Non si era detto 'niente distrazioni' per questo pomeriggio?» risponde. Si finge seria, come se non vedessi che i suoi occhi non riescono a non guardare la mia bocca.
    «Sono sempre stato un uomo debole. Non ho mai saputo resistere davanti ad una bella ragazza, figuriamoci se...» Non riesco a concludere la frase: le sue labbra catturano veloci le mie, le sue braccia mi stringono più forte. Al diavolo le promesse e i progetti: è chiaro ad entrambi che ci vogliamo, ed è ancor più chiaro, ormai, che ci apparteniamo.



*



Colonia, 10 novembre 2013


    Da quando ha scoperto quella che Tomo ha definito 'la notizia del secolo', Vicki non riesce a smettere di ridere. Almeno, pensa il musicista, ho avuto il buonsenso di dirglielo dopo aver fatto l'amore. La donna si è tirata il lenzuolo fin sopra la faccia e ha lasciato che l'ilarità si sfogasse senza porle alcun limite o freno. Seduto con la schiena appoggiata alla spalliera, Tomo ha atteso per tre minuti buoni che la moglie si decidesse a darsi un contegno, invano.
    «Amore, so che è una cosa divertente, ma ti spiacerebbe controllarti? Ti verrà un infarto se continui a ridere così.»
    Vicki si scopre il viso, continuando a singhiozzare per le risate. «No, tu che fai facce buffe davanti alla telecamera è una cosa divertente. L'idea di Shannon che si innamora e inizia a pensare di sposarsi e di mettere su famiglia è spassosa
    «Chi ha parlato di mettere su famiglia?» Tomo è più che certo di non aver parlato di figli.
    All'improvviso, così come ha cominciato, Vicki smette di ridere. «Ma sì che ne hai parlato.»
    «No, non ho parlato di figli. Ne sono più che sicuro. Se avessi parlato di figli me ne ricorderei.»
    «Beh, allora forse ho capito male. In effetti forse è un po' prematuro parlare di bambini. Da quanto si conoscono, una settimana? Sì, è decisamente presto per parlare di figli.»
    «Vicki, non è che forse... stai cercando di dirmi qualcosa?»
    «In che senso?»
    «Nel senso che... beh, stiamo parlando di figli, e ho pensato...» Tomo si blocca per un istante e si gratta la nuca, cercando le parole giuste per continuare. «Insomma, visto che siamo in argomento, credo che a me piacerebbe.»
    «Ti piacerebbe...»
    «...i bambini, dico. Insomma, ti sono sempre piaciuti.» Vicki, ora completamente seria, guarda il marito con curiosità.



*



Torino, 10 novembre 2013


    Non c'è rumore nella stanza, tranne il lieve cigolio del materasso, il fruscio delle lenzuola, il ritmo irregolare dei respiri di due persone che si stanno vivendo come se ogni secondo potesse essere l'ultimo. Le mani di Daria sul mio petto, le mie labbra che sfiorano le sue, le sue dita tra i miei capelli, la mia lingua che segue il solco tra i suoi seni, la sua schiena che si inarca cercando il mio corpo, il mio naso impegnato ad immagazzinare il suo odore, le sue mani che mi aiutano ad indossare il profilattico e poi mi guidano dentro di lei, e ancora il suo corpo che cambia e si adatta per accogliermi, e il suo respiro che cambia di nuovo cadenza e diventa più affannoso, la sua voce che si alza di un'ottava, i suoi gemiti che non danno adito a dubbi, e smascherano tutto il piacere che le sto procurando. Voglio ricordare tutto, voglio imprimere ogni istante nella mia memoria, perché è di questi attimi che mi ciberò quando saremo divisi, quando sarò solo e tutto ciò che avrò sarà la mia mente. Voglio ricordarmi dell'odore di camomilla di cui sono intrisi i suoi capelli e voglio ricordare il sapore di more della sua pelle, voglio ricordare la precisa sensazione del suo bacino a contatto con il mio, e voglio ricordare la morbidezza delle sue labbra appena sfiorate dalle mie dita. Voglio ricordare tutto, così questo pomeriggio vivrà per sempre.


    Il silenzio la fa da padrone, anche ora che abbiamo smesso di muoverci e siamo stesi vicini, entrambi con gli occhi fissi sul volto dell'altro, divisi da pochissimi centimetri di atmosfera. Ci guardiamo e basta – o meglio, ci studiamo, incapaci di trovare le parole giuste. Ma forse è così che dovrebbe essere, forse non dovremmo fare altro per tutto il tempo che ci resta da passare insieme: forse dovremmo fare l'amore fino a sfinirci, fino a non poterne più, senza tentare di riempire i silenzi con parole inutili. Forse dovremmo viverci finché possiamo, sfruttare ogni secondo per conoscerci e immagazzinare ogni dettaglio sotto forma di ricordo.
    Come se avessi bisogno di rotolarmi nuda su di lui per notare le piccole cose che lo rendono tanto speciale – come se già non conoscessi la linea diritta e un po' severa delle sue sopracciglia, il suo mento pronunciato, i suoi occhi cangianti e magnetici, le mani ruvide e enormi che ogni volta mi fanno sentire delicata e fragile, il modo che ha di inclinare appena la testa verso destra quando mi sta prestando attenzione, il sorriso che sembra muovere soltanto una parte del suo viso... come se otto anni da fan non mi avessero fruttato qualche conoscenza.
    «A che pensi?» sussurra, senza osare avvicinarsi.
    Scrollo le spalle e allungo una mano per spostargli una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Ti sto solo guardando.»
    «Che cosa vedi?»
    Potrei dirgli un mucchio di cose, in questo momento: potrei dirgli, per esempio, che è uno degli uomini più attraenti che abbia mai visto, e al diavolo John Rzeznik. Potrei dirgli che non voglio lasciarlo uscire dal mio letto, meno che mai dalla mia casa. Potrei dirgli che quella sua promessa di cambiarmi la vita si sta dimostrando vera, perché prima di conoscerlo non mi sarei mai comportata come mi sto comportando. «Vedo te. Vedo soltanto te» sussurro invece, e nemmeno dieci secondi più tardi mi sembra la frase più stupida del mondo.
    «Anch'io ti sto guardando.»
    «E che cosa vedi?»
    «Anch'io vedo soltanto te.» Due dita salgono ad accarezzare il mio orecchio, giocano per qualche istante con gli orecchini, scivolano via lungo la mandibola e scendono a coprire la mia mano, chiusa a pugno vicino al mio collo.
    «Che cosa succederà adesso?»
    «Che cosa succederà adesso?» ripete, guardandomi dritta negli occhi. «Tanto per cominciare, adesso vieni vicino a me.» Le sue braccia si incrociano dietro la mia schiena, e per un istante il mio corpo sembra combaciare alla perfezione con il suo.
    «E che cosa succederà dopo?»
    «Non pensare a quello che succederà dopo» sussurra, la fronte appoggiata contro la mia.
    «Non riesco a non pensarci. Non riesco a non chiedermi che cosa succederà in futuro. Scusa, vorrei tanto essere meno... meno impaurita, ma non ci riesco.»
    «Non ti devi scusare.»
    «Sono sempre stata così, ho sempre avuto paura del futuro. Del futuro, dei cambiamenti... cambiare non mi è mai piaciuto.»
    «I cambiamenti possono spaventare. Anch'io sono spaventato.»
    «Non sembri spaventato.»
    «Ho una paura fottuta, credimi.»
    «Di che cosa hai paura?»
    «Ho paura di deluderti, ho paura di non essere all'altezza delle tue aspettative. Sei stata molto chiara circa quello che vuoi da un uomo, e io...»
    «Ho detto che un giorno vorrò avere un marito e dei figli, ma non intendevo dire che dovessi per forza essere tu l'uomo con cui costruirò la mia famiglia. Non devi sentirti... non devi sentirti obbligato, o in qualche modo impegnato con me.»
    «Ma io voglio sentirmi impegnato con te. Non prendiamoci in giro, ho più di quarant'anni. È giunto il momento di iniziare a prendersi qualche responsabilità.»
    Distolgo lo sguardo, allontanandomi impercettibilmente da lui. «Se vuoi impegnarti con me soltanto perché sei stanco di stare solo, forse non dovremmo...»
    «Mi sono spiegato male» mi interrompe. «Intendevo dire che voglio sentirmi impegnato con te perché mi sento pronto. Se non fossi più che sicuro di essere pronto non ti direi che sono pronto.» Fa una breve pausa, durante la quale alza gli occhi al cielo e si mordicchia un labbro, come in attesa di una qualsiasi rivelazione. «Non so perché, ma ho la sensazione di essermi spiegato ancora meno» sospira infine, tornando a guardarmi.
    «No, credo di aver capito» gli sorrido. «Stavo cercando di convincerti a lasciarmi perdere, ma finora i miei sforzi non sembrano aver sortito molti effetti.»
    «Tesoro, se proprio vuoi tentare di mandarmi via, non provarci quando sei nuda» ribatte con un sorriso quasi diabolico. Le sue mani scendono di nuovo ad accarezzare il mio corpo, fermandosi in prossimità dei fianchi. «Anche se ho la sensazione che non riuscirei ad andarmene nemmeno se ti vedessi indossare i mutandoni di Bridget Jones.»
    «Potremmo fare un tentativo!» lo prendo in giro. «Dovrei avere qualcosa del genere in qualche cassetto.» La mia idea deve divertirlo molto, perché scoppia a ridere fin quasi a piangere. «Almeno avrei la certezza che non sei qui soltanto per il sesso.»
    «Avrei fatto tutti questi chilometri soltanto per un po' di sesso? Non sono un dannato salmone!» Questa volta sono io a ridere fino alle lacrime, con le dita che si muovono pigramente tra i suoi capelli. Mi piace questo costante contatto tra i nostri corpi: mi piace che ci sia sempre una delle mie terminazioni nervose a contatto con una delle sue – mi rendo conto che è una cosa piuttosto stupida, ma non è certo colpa mia se sono un'eterna insicura in cerca di continue conferme. «Ci guardiamo un film?»
    «Vuoi guardare un film?» ripeto, quasi incredula.
    «Così ti dimostro che non sono un animale in cerca di sesso. E poi andiamo, ho bisogno di un pochino di riposo. Ho una certa età, non sono più uno stallone da riproduzione!»
    «Ah, no?» lo apostrofo mentre mi metto a sedere e cerco il reggiseno. «E dire che avevo sentito certe leggende su di te...»
    «Del tipo?» mi domanda mentre mi guarda indossare la biancheria.
    «Mah, non ricordo di preciso... so che c'entravano un paio di modelle, una camera d'albergo, delle manette... forse c'era anche un frustino di mezzo.»
    «Secondo me ti confondi con il video di Hurricane» risponde, mettendosi a sedere a sua volta. «E comunque era mio fratello, non io. Anche se... beh, sì, finivo ammanettato ad una panchina» conclude, indossando i boxer.
    «Sai che praticamente ogni Echelon di sesso femminile invidia a morte quella modella per l'ultima scena?»
    «Ma chi, Agnes?»
    «Se quello è il suo nome» replico con aria indifferente, fingendo che di lei non mi importi nulla.
    «Si chiama Agnes» ripete. «È una ragazza dolcissima. Tieni» aggiunge, passandomi una maglietta.
    «Ma è la tua maglietta» gli faccio notare.
    «Lo so. Voglio che la metta tu.»
    «Perché?»
    «Perché sì. Così ogni volta che la rimetterò mi sembrerà di averti con me» risponde, alzando le spalle come se nulla fosse. «Comunque con Agnes non è successo nulla, se è questo che volevi sapere. Oltre a quello che è successo nel video, intendo. È fidanzata da una vita con lo stesso ragazzo, e a quanto ne so manca poco al matrimonio. Insomma, per quanto sia una modella, non... non è una che fa una vita sregolata o piena di eccessi. È una ragazza... morigerata. Ecco, la definirei morigerata.»
    «Ciò non toglie che essere sbattuta contro un muro per essere baciata con passione potrebbe esserle piaciuto» ribatto mentre infilo i leggings.
    «Non l'ho baciata» mi corregge subito, abbottonandosi i jeans. «Non in quella scena, almeno. Ci baciamo per strada e poi sulla panchina, ma nella scena finale non ci baciamo. La spingo contro la parete e le arrivo vicinissimo, ma non la bacio.»
    «La sceneggiatura non lo prevedeva?» gli domando, con un tono che vuole chiaramente essere una presa in giro.
    «No, non lo prevedeva» risponde serio, sorprendendomi un po'. «La sceneggiatura non lo prevedeva, quindi non l'ho baciata. Sarebbe stata un'enorme mancanza di rispetto, visto che lei è fidanzata. E poi io non sono uno che distribuisce baci a destra e a manca solo per il gusto di farlo.»
    «Vuoi farmi credere che non ti piace baciare le ragazze? Lo trovo un po' strano, considerando tutte quelle che avrai avuto occasione di vedere nude» commento, infilandomi la maglietta.
    «Sì, beh, ti stupirà sentirlo dire da me, ma... io sono uno che cerca di limitare al massimo le smancerie. Parlando di sesso occasionale, sia chiaro» aggiunge, notando il mio sguardo confuso. «A letto non mi risparmio, sono pronto quasi a tutto... ma di baci ne do pochissimi. Baciare qualcuno in un certo modo potrebbe significare dargli un'impressione sbagliata, e in certe occasioni è importante mettere subito le cose in chiaro. Quindi non bacio mai nessuna sulla bocca... o almeno ci provo.»
    «Come le prostitute, quindi» sparo fuori all'improvviso, rendendomi conto troppo tardi che con una battuta del genere potrei anche offenderlo.
    Per fortuna coglie l'ironia del mio commento e si mette a ridere, facendo cadere il fermacoda che teneva stretto tra i denti. «Come le prostitute, esatto» risponde, finendo di raccogliersi i capelli in un nodo disordinato. Improvvisamente – e anche un po' stupidamente – mi rendo conto che non sono mai uscita con un ragazzo che avesse i capelli più lunghi dei miei. «Io vado in bagno, tu scegli il film.»
    «Cosa vuoi guardare?»
    «Fammi vedere uno dei tuoi film preferiti.»
    Ci penso su per qualche istante, passando in rassegna le pellicole che adoro. «Ce ne sarebbe uno carino, ma è in italiano. Forse il DVD ha i sottotitoli in inglese, ma per l'audio...»
    «Non importa, va bene anche solo con i sottotitoli. Basta che sia un film che ti piace.»
    «Ma non riuscirai a capirlo!» protesto.
    «Se un film è ben costruito, si capisce anche senza ascoltarlo. Pensi che i sordi non vadano al cinema soltanto perché non ci sentono?»
    «Touchée. Va bene, allora vado a preparare. Ma poi non ti lamentare se non lo capisci.»
    «Non mi lamenterò» mi assicura, appioppandomi un bacio a fior di labbra mentre mi passa accanto. Lo guardo scendere le scale a passi leggeri, con il torace scoperto e il codino che ballonzola su e giù ad ogni scalino, e mi chiedo se sia io la prima a godere di una simile vista – perché se già è attraente quando si mette in tiro per le occasioni mondane, quando si presenta al naturale è ancora meglio.


    In bagno mi do una sciacquata veloce, riflettendo sull'ultima parte della conversazione. Con quella battuta sulle prostitute, senza volerlo Daria è riuscita ad aprirmi gli occhi sul mio comportamento: prima d'ora non mi ero mai reso conto di quanto riuscissi ad essere effettivamente distaccato dalle ragazze con cui andavo a letto. So che non ho mai promesso nulla a nessuna di loro, ma anche se sono quasi certo che nessuna di loro si sia mai aspettata nulla di diverso da quello che alla fine ha ricevuto, non posso fare a meno di chiedermi se qualcuna di loro si sia mai ritrovata con il cuore spezzato. In fondo siamo esseri umani, e finire con il cuore spezzato anche quando ci siamo ripromessi di essere forti e di non lasciarci ferire è piuttosto comune.
    «Ehi, stai cercando la Camera dei Segreti?» mi domanda Daria, aprendo la porta e affacciandosi con un sorriso.
    Rido nel sentire la citazione potteriana, e intanto finisco di asciugarmi il viso. «Veramente stavo provando ad interrogare il tuo specchio, ma sembra che non sia uno di quelli magici» ribatto.
    «No, non lo è. Sai com'è, all'Ikea li avevano finiti. Quando sei pronto, io e il film ti aspettiamo sul divano.»
    «Digli di tenere a posto le mani» rispondo mentre mi riabbottono i pantaloni. «E pretendo di vedere almeno venti centimetri di luce tra di voi!» esclamo, sentendola rispondere con una risata. «Che film è?» le domando, raggiungendola in salotto. Mi siedo sul divano e allungo i piedi nudi sul tavolino, a pochi centimetri dal portatile.
    «Un film italiano di una decina d'anni fa. È una commedia che parla di amicizia e di amore, ma soprattutto di quanto sia importante avere una mente aperta ed essere sempre pronti a perdonare, anche quando ci sembra di aver subito un torto irreparabile. Beh, a dire il vero non è proprio una commedia classica: ha dei picchi di umorismo incredibili, ma anche qualche momento di amarezza.»
    «Mi fido di te. Se dici che è uno dei tuoi film preferiti, sicuramente sarà bellissimo. Mi dici come si intitola? Sono curioso.»
    Si sporge in avanti per far partire il DVD, poi si accoccola contro la mia spalla. «Chiedimi se sono felice.»



*



Colonia, 10 novembre 2013


    «Tomo, se stai cercando di dirmi che credi che dovremmo avere un bambino... beh, dillo chiaramente e basta! Di certo non ti mangerò per questo.» Tomo, che per evitare di guardare la moglie negli occhi si è messo a sedere e le ha dato le spalle, non sa che cosa rispondere. Era da tanto tempo che pensava di intavolare questa conversazione, ma per qualche stupido motivo non si è mai soffermato a chiedersi che cosa avrebbe detto quando sarebbe giunto il momento di mettere insieme le parole. Vicki gli si avvicina, e con quel tono dolce e rassicurante che potrebbe convincerlo a saltare tra le fiamme dell'inferno gli sussurra: «Tomo Milicevic, sto per farti una domanda di vitale importanza, e pretendo che tu mi risponda con assoluta sincerità. Tu pensi che siamo una coppia matura abbastanza per avere dei figli, e soprattutto ci ritieni abbastanza equilibrati da crescere suddetti figli in una maniera decente?»
    Il sussurro di Vicki, a malapena udibile ma impossibile da fraintendere, risveglia in Tomo l'irrefrenabile desiderio di dire tutta la verità. «Sì! Sì, Vicki. Io penso che siamo maturi abbastanza da assumerci questa responsabilità. Penso che saremmo in grado di crescere dei figli in maniera decente. Tu cosa pensi?» aggiunge dopo un breve silenzio. «Credi che siamo pronti per avere dei figli?» L'idea che lei possa dirsi contraria e smontare il suo entusiasmo lo perseguita come l'incubo della calvizie perseguita Jared.
    La risposta di Vicki gli arriva sotto forma di bacio, mentre le mani della donna gli circondano le spalle, lo convincono a voltarsi e lo vincono, facendolo di nuovo stendere sul materasso. «Anch'io dico che siamo pronti» sussurra lei ad un certo punto. «Quindi di questi non abbiamo più bisogno» aggiunge, spingendo via dal comodino una scatola di profilattici piena per metà. «Al massimo potremmo regalarli a Shannon. A meno che anche a lui non stiano salendo strani istinti paterni.»



*



Torino, 11 novembre 2013


    Sono le tre del mattino, e non sono ancora riuscito a chiudere occhio. Il film scelto da Daria mi è piaciuto così tanto che appena è finito le ho chiesto di farmene vedere un altro, e poi le ho chiesto una lista dei migliori, perché questi Aldo, Giovanni e Giacomo sembrano davvero aver capito molte cose della vita e dei rapporti umani, soprattutto delle relazioni tra amici quando ci si mettono di mezzo le donne.
    Dopo un'altra cena a base di pizza – ma per fortuna il fattorino di stasera è stato più rapido – abbiamo programmato la giornata di domani, tenendo conto che dovremo uscire di casa alle otto per raggiungere in tempo l'aeroporto. Dal suo sguardo ho capito che l'idea di lasciarmi andare proprio non le va giù – d'altra parte, nemmeno io faccio salti di gioia all'idea di separarmi da lei per un periodo di tempo non quantificabile. Però al momento non esiste altra soluzione.
    Mentre facevamo l'amore, in quell'istante indefinito che segue l'orgasmo e precede la separazione, Daria ha detto una cosa stranissima, eppure incredibilmente vera. Mi ha sfiorato la guancia con due dita e ha sussurrato: «È la quarta volta che fai l'amore con me, e ogni volta ti comporti come se fosse la prima volta e insieme anche l'ultima.» Non ha aggiunto altro, ma ho immediatamente capito che in quel commento si nascondeva un qualche tipo di preoccupazione.
    «È l'unico modo in cui so farlo» ho risposto, ricambiando la carezza. «Se parli di fare l'amore e non di semplice sesso... beh, questo è l'unico modo in cui lo so fare. Credo che bisognerebbe sempre farlo così, come se fosse la prima volta e insieme anche l'ultima.»
    «Capisco il volerlo fare come se fosse la prima volta, ma... perché farlo come se fosse l'ultima?»
    «Ogni volta potrebbe essere l'ultima» ho sussurrato sulle sue labbra. «Domani potrei finire sotto un autobus, e questa sarebbe stata la nostra ultima volta. Se non mi fossi impegnato con tutto me stesso, tu ne avresti avuto un ricordo orribile, e non penseresti volentieri alla nostra relazione. Invece, essendomi impegnato parecchio, sono quasi certo che ti ricorderesti di questa serata per un bel pezzo, se non addirittura per sempre.»
    «Mi ricorderei comunque di te» ha risposto con una risata. «Quattro rapporti sessuali in poco più di ventiquattr'ore... per una che era ferma ad una media di un rapporto a settimana è un bel salto di qualità.» Poi è tornata seria, mi ha guardato negli occhi e mi h accarezzato di nuovo il viso. «Promettimi che domani non finirai sotto un autobus. Voglio fare l'amore con te per l'ultima volta ancora... non so, ancora altre mille volte.»
    «Mille volte» ho ripetuto, fingendomi assorto in un complicato calcolo. «Alla media di quattro rapporti al giorno non andremmo lontano, lo sai?» ho aggiunto con una risata.
    Ridendo con me, è rotolata contro la mia spalla e dopo una ventina di minuti di altre facezie si è addormentata, respirando piano contro il mio collo. Invece io non ci sono riuscito: a tenermi sveglio e vigile è stato il pensiero che non riuscirò mai più ad essere sereno senza di lei. E più ci penso, più si fa largo in me la convinzione che dirle arrivederci, domani mattina, sarà più difficile che mai.



1“Quanto manca alla nostra separazione?” “Un'eternità. Hai ancora molto da imparare.” | Il titolo del capitolo è ispirato ad uno scambio di battute tra Ria Torres (interpretata da Monica Raymund) e Cal Lightman (interpretato da Tim Roth) in un episodio della prima stagione della serie tv Lie To Me (2009-2011). Il contesto in cui la battuta era pronunciata all'interno della serie era diverso (si parlava della separazione tra allievo e maestro), ma ho deciso di utilizzarla comunque per sottolineare la necessità della separazione tra Shannon e Daria.

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Capitolo 13
*** 13 | Ti amo. Ora scrivetelo tutti quanti: ti amo, ti amo, ti amo. ***


Portagioie di tristezza | 1
Salve a tutti!
Purtroppo ho avuto una piccola défaillance personale che mi ha impedito di pubblicare lunedì... ma ora sono qui, e vi tocca sorbirvi anche questo capitolo – di nuovo, noioso e inutile come i precedenti.
Grazie alle persone che continuano ad aggiungere la storia tra i preferiti (18), tra i ricordati (5) e i seguiti (35). Non vi conosco, ma sento di volervi bene.
E un grazie enorme va anche a: DadaOttantotto, che sopporta tutti i miei vaneggiamenti; a Love_in_London_night per il sostegno morale e le recensioni chilometriche (che no, non sono piene di cavolate, ma sono bellissime e gratificanti!!); a moloko_vellocet per le innumerevoli ispirazioni che fornisce tramite la sua bacheca su Facebook (ovvero per le porno-foto di Shannon).
Buona lettura – sì, vi prendo per il culo.
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo tredicesimo
Ti amo.
Ora scrivetelo tutti quanti:
ti amo, ti amo, ti amo.1

Torino, 11 novembre 2013


    Socchiudo gli occhi e d'istinto allungo la mano verso l'altro lato del letto, convinta di incontrare la pelle nuda di Shannon – e invece le mie dita stringono il vuoto. Mi volto rapidamente, quasi spaventata, e mi accorgo di essere sola. «Shannon?» dico ad alta voce, mentre mi metto a sedere tirandomi il lenzuolo verso il petto. Ovviamente non ricevo risposta, ed è più o meno in questo istante che mi accorgo del post-it verde appiccicato sul suo cuscino. Lo tiro su con due dita, quasi temessi di venirne infettata, e cerco di sforzarmi di decifrarlo nonostante la mia mente sia ancora ottenebrata dal sonno. Non sono riuscito a dormire, leggo, perciò ho passato la notte a guardarti, e il mio arrivederci te l'ho già dato. Ti chiamo più tardi. Ti amo.
    Devo rileggerlo più volte affinché il messaggio penetri, ma quando finalmente capisco spalanco gli occhi, senza sapere come sentirmi: non soltanto ha passato la notte guardandomi dormire – che spettacolo edificante devo essere stata! – ma addirittura è andato via senza darmi la possibilità di salutarlo! Non so se sentirmi intenerita o arrabbiata. Forse sono più arrabbiata, in questo momento.
    Mi dico che forse sono ancora in tempo, forse posso ancora raggiungerlo a Caselle; mi volto verso il comodino e scopro non soltanto che sono le dieci e mezza, e quindi il suo volo è già decollato, ma che ci sono post-it anche sulla sveglia e sul cellulare. Avvicinando un po' lo sguardo, li leggo. Ho disattivato la sveglia, così puoi dormire finché non ti sei riposata per bene. Ti amo, recita quello appiccicato alla sveglia, mentre l'altro dice Ho disattivato sveglia e suoneria, così nessuno ti disturberà. Ti amo.
    Butto giù i piedi dal letto, decisa a vestirmi e a prepararmi un caffè forte, ma ancora una volta sono costretta ad interrompermi – un altro post-it. Sulla sedia ci sono dei vestiti puliti. La maglietta è quella del concerto di Milano. L'indossavo quando ti ho conosciuta. È tua. Naturalmente è pulita. Ti amo. Guardo verso la sedia, e vedo che in effetti ci ha lasciato sopra una pila ordinata di vestiti: un completo intimo pulito e coordinato, un paio di leggings, la sua maglietta bianca. Non lo avrei mai detto capace di simili finezze – né soprattutto avrei pensato che fosse capace di abbinare un reggiseno al giusto paio di mutandine. Accetto i suggerimenti e mi vesto, chiedendomi se ci siano in serbo altre sorprese. Il senso di stizza provato quando mi sono scoperta sola sta scemando, e in questo momento inizio a sentirmi soltanto intenerita.
    Scendo al piano di sotto, ma sul terzultimo scalino mi blocco, spalancando la bocca e sgranando gli occhi per l'incredulità: ogni traccia di scatoloni e di cose da sistemare è scomparsa, e il salotto e la cucina brulicano di post-it colorati. Ce ne sono ovunque: sul frigo, sul bancone della cucina, sul tavolino, sul divano, addirittura sulle tende! Non oso entrare in bagno o nella stanza degli ospiti, ma non ho motivo di credere che lì Shannon si sia risparmiato.
    Prima ancora di rendermi conto della scena che si sta svolgendo davanti ai miei occhi, il campanello di casa suona, e mi trovo a pregare in ogni lingua conosciuta che non sia qualcuno della mia famiglia. Per un istante penso che potrei ignorare il campanello e fingere di non essere in casa, salvo poi rendermi conto che potrei mettere in allarme qualcuno, perché tutti quelli che mi conoscono sanno che il lunedì mattina resto sempre in casa, salvo casi eccezionali. Mi avvicino alla porta, appoggiando l'orecchio contro il pannello, e con il cuore in gola domando: «Chi è?»
    «Alice» sento rispondere, e di nuovo ricomincio a respirare. Solo che poi apro la porta, e mi do della stupida per non aver controllato lo spioncino. Perché Alice non è sola, ma in compagnia di mia sorella.
    «Francesca? Che cazzo ci fai tu qui?» esclamo.
    «Oxford, I presume» risponde lei con il solito aplomb. «Stamattina c'era assemblea, avevamo lezione solo fino alle dieci. Apprezza la mia integrità morale, almeno io ho trascinato il sedere a scuola. Metà della mia classe non si è presentata. Ti abbiamo svegliata?»
    «No, figurati, è solo che non mi aspettavo di... ricevere visite, ecco. Stavo facendo un po' di pulizie, mettevo in ordine...»
    «Dai, ti diamo un mano!» ribatte Francesca, muovendo un passo in avanti.
    «NO!» Praticamente le urlo in faccia, sbarrandole la strada. «Voglio dire... c'è polvere dappertutto, e tu sei allergica, non... ma come avete fatto a salire, scusate?»
    «Abbiamo incontrato la signora Lorenzoli mentre usciva» spiega Alice. «Volevamo suonare, ma ci ha praticamente spinte dentro l'ascensore» aggiunge, cercando di farmi capire che non era sua intenzione farmi una simile improvvisata – anche perché non sapeva a che ora Shannon se ne sarebbe andato, e quindi teme che lui stia ancora gironzolando per il mio appartamento in mutande, o peggio.
    «E dai, ci fai entrare o no?» interviene Francesca, dribblandomi con uno scarto che neanche Leo Messi sarebbe riuscito a realizzare. «Comunque ero allergica quando avevo cinque anni, adesso non mi dà più così...» Si blocca sulla soglia del soggiorno, spalancando gli occhi esattamente come ho fatto io pochi minuti fa. «Daria, ma che cavolo...?»
    «Cos'è, ti sei segnata tutti i posti in cui hai ripulito?» mi chiede Alice a bassa voce, trattenendosi a stento dal ridere. «Anche il frigo? Per l'amor del cielo, ti sei data da fare...»
    «Alice, smettila» la fulmino, anche se come lei vorrei ridere.
    «Va bene, qui sta succedendo qualcosa di strano» commenta mia sorella, che ha camminato fino al centro del soggiorno e ora si è voltata a guardarmi. «Adesso capisco perché insistevi tanto per chiamare prima di venire» aggiunge, guardando Alice. «Comunque ho la sensazione che nessuna di voi due mi dirà niente, quindi cercherò di scoprirlo da sola» conclude, iniziando a leggere qualche bigliettino. «Ma sono in inglese!» esclama dopo un istante.
    «Sì, sono in inglese» rispondo, mentre stacco un post-it dalla caffettiera e la metto sul fuoco. Non è una cosa che posso negare, perché è vero che sono scritti in inglese.
    «Ti trombi lo studente americano?» ribatte Francesca, lasciando cadere la borsa dei libri in un angolo.
    «Oxford, I presume» rispondo, scimmiottando il tono con il quale lo ha detto lei pochi minuti fa. «Comunque no, non mi trombo nessuno studente americano.» Mi arriva una gomitata di Alice, e mi rendo conto di essermi scavata la fossa da sola: ora che ho negato ogni mio coinvolgimento con quel fantomatico studente, Francesca vorrà conoscere per forza l'identità del misterioso autore di post-it.
    «Se non è lui, allora chi è?» domanda, rivolta però più a se stessa che a me. Sto pensando ad una possibile bugia da rifilarle, ma lei riprende: «Aspetta un attimo... no, questo non è possibile.»
    «Cosa non è possibile?» Sto scegliendo due tazze per me e Alice, e mi accorgo che le mani mi tremano come mai prima d'ora.
    «Daria... mi rendo conto che questa domanda probabilmente ti farà ridere fino alla morte, ma... è plausibile che io pensi che in un passato piuttosto recente tu abbia avuto dei rapporti sessuali con Shannon Leto?» Esplodo in una risatina nervosa: normalmente il suo tono da disco registrato mi divertirebbe, ma il fatto che abbia capito subito l'identità del mio amante misterioso mi sconvolge e mi spaventa a morte. «Insomma, non prendermi per pazza, ma... qui nomina suo fratello e quanto gli piacerebbe la vista, in un alto nomina un certo Tomo, qui invece dice che parlerà con Emma e organizzerà tutto... e poi indossi una maglietta che somiglia un casino a quella che Shannon portava al concerto di Milano, e... beh, sai, se metti insieme gli indizi...»
    Alice ed io ci scambio una lunghissima occhiata, e dallo sguardo della mia migliore amica capisco che sarebbe inutile cercare di negare: anzi, rafforzerebbe soltanto le convinzioni di mia sorella. Lascio che sia Alice a rimanere accanto ai fornelli e raggiungo Francesca, le prendo le mani e la faccio sedere sul divano. «Franci, se ti dico una cosa, prometti che manterrai il segreto? Non è niente di spaventoso, solo... solo non voglio che per il momento si sappia, va bene?»
    «Guarda che ti puoi fidare di me. Sono tua sorella, no?»
    Quando mi punta addosso i suoi occhi scuri, grandi e dolci come quelli di un cerbiatto, non so resistere. Sorrido appena, augurandomi che questo mondo non la ferisca mai com'è riuscito a ferire me, e sospirando stringo un po' di più le sue mani. «A Milano non ho incontrato nessuno studente americano. Ho conosciuto Shannon. Shannon dei 30 Seconds To Mars. Ci siamo incontrati per caso, abbiamo iniziato a parlare, mi ha lasciato il suo indirizzo e-mail, ci siamo scritti... lunedì pomeriggio sono stata con lui. Mi ha accompagnato a cercare casa, mi ha convinta a scegliere questa, e... e poi questo fine settimana è stato qui.»
    «Quindi sei veramente stata a letto con...»
    «Sì» ammetto dopo un attimo di silenzio. «Sono stata a letto con Shannon Leto.»
    «Non mi prendi per il culo, vero? Non mi sta prendendo per il culo, vero?» ripete, cercando lo sguardo di Alice.
    «Assolutamente no» risponde Alice, spegnendo la fiamma sotto la caffettiera. «Beh, sapevo che avrebbe passato il fine settimana qui, ma non sapevo ancora che ci avessero dato dentro. Questa è una sorpresa anche per me.»
    «Mi gira la testa. Credo mi serva un caffè.» Spalanco gli occhi, perché mia sorella che chiede un caffè è una cosa che non avrei mai immaginato di vedere in vita mia.



*



Francoforte, 11 novembre 2013


    All'aeroporto di Francoforte sembra essersi radunata la parte più folle del genere umano, e il tentativo di Jared di passare inosservato e confondersi con il resto del mondo sembra quasi produrre l'effetto contrario: l'elegante cappotto nero e il sobrio cappello che tante volte hanno preservato la sua identità dagli assalti degli ammiratori lo fanno somigliare all'ombroso protagonista di un film noir degli anni quaranta, e nel clima simil-punk del terminal il suo look lo fa risaltare come una ditata su un vetro pulito.
    «Ehi, Cary Grant!» lo apostrofo, andandogli incontro con il borsone lanciato dietro la spalla. Ci abbracciamo, e sento che la sua presenza è l'unica cosa che mi impedisce di andare in pezzi – l'assenza di Daria inizia a farsi sentire davvero adesso, ed è più insopportabile di quanto avessi messo in conto.
    «Ehi» risponde semplicemente, lasciando che le mie braccia lo stringano fin quasi a soffocarlo. «Ehi, se mi lasci respirare mi fai un favore!» ride dopo quasi mezzo minuto, cercando di divincolarsi dal mio abbraccio. «Accidenti, Shan, non ti ho mai visto così... questo fine settimana ti ha proprio cambiato, eh?»
    «Non immagino nemmeno quanto» sospiro, passandomi una mano sugli occhi. Li sento pizzicare e bruciare, proprio come se stessi per mettermi a piangere. Ci mancherebbe solo questo: scoppiare in lacrime nel bel mezzo di un aeroporto affollato, proprio davanti agli occhi di mio fratello minore – questo sì che lo farebbe ridere fino alla morte.
    «Ne vuoi parlare?» mi chiede, guardandomi a lungo con quegli enormi occhi azzurri ai quali so di non poter nascondere alcuna verità. A volte, quando è preoccupato o triste, mi sembra di vedere in lui un po' della mamma – preoccupazione e tristezza accedono i loro occhi di una luce particolare, e li rendono ancora più identici di quanto già non siano di solito. «Ho dato al tassista che mi ha portato qui cinquanta euro perché ci aspettasse. È difficile trovarne uno che capisca bene l'inglese, da queste parti» aggiunge mentre ci avviamo verso l'uscita.



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Torino, 11 novembre 2013


    «Avrei tutto il diritto di offendermi, lo sai?»
    «Perché non ti ho informato, dici? Scusa, ma è una cosa che sconvolge un pochino anche me» rispondo a mia sorella, mentre Alice sorride e versa il caffè nelle tazzine. «Ma da quando bevi caffè?»
    «Solo in occasioni speciali. E direi che il racconto di come mia sorella sia arrivata all'intimità con un batterista di fama mondiale rappresenta un'occasione speciale.»
    «Aspetta un attimo, il racconto di cosa?»
    «Non penserai di cavartela a buon mercato. Tu mi racconti tutto, dalla a alla zeta. E senza risparmiare i dettagli vietati ai minori. Avrò un'esperienza pari a zero, ma immagino di essere grande abbastanza per sapere certe cose. Come nascono i bambini lo so da un pezzo.»
    Alice mi rivolge un sorriso, e capisco che almeno a mia sorella un po' di verità la devo – e d'altra parte a chi altri potrei raccontare i dettagli piccanti? A mia nonna?



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Francoforte, 11 novembre 2013


    «Insomma, ti sei proprio innamorato» sospira Jared, accompagnandomi in camera dopo avermi assistito nelle operazioni di registrazione. «Non ti sembra strano anche da dire? Innamorato... di te, poi, non avrei mai creduto possibile dirlo. Come ci si sente?»
    «Non lo so, è una sensazione stranissima. È difficile da descrivere» rispondo, appoggiando la chiave magnetica sul tavolino accanto alla porta d'ingresso. «Ci sono stati problemi con le mie valigie?»
    «No, nessun problema. Emma era così felice che le avessi già preparate che ha deciso di disfartele subito dopo l'arrivo» mi spiega, aprendo un'anta dell'armadio per sottolineare il concetto. «Ma non cambiare discorso. Voglio sapere com'è. Insomma, come lo sai
    «Come so che cosa
    «Come sai che è davvero amore, o che comunque potrebbe esserlo. Come sai che non è soltanto un'incredibile ed irrefrenabile attrazione sessuali nei confronti della sua figura?» mi domanda, sfilandosi il cappotto e lasciandolo cadere sulla spalliera di una sedia.
    Mi siedo sul bordo del letto, mi sfilo le scarpe da ginnastica e mi lascio cadere all'indietro, scoprendo che il materasso è un po' troppo morbido. «Mi sono chiesto come sarebbe vivere con lei» sospiro, chiedendomi se non mi sia uscita fuori un po' troppo sentimentale. «Sai, mi sono chiesto come sarebbe addormentarsi sempre accanto a lei, svegliarmi al suo fianco, fare il bucato insieme, litigare per decidere chi deve andare a prendere i bambini a scuola... sai, tutto quel genere di cose che la gente fa quando si sposa, o comunque quando decide di passare la vita insieme.»
    Un movimento del letto mi fa capire che mio fratello mi ha imitato, e infatti la sua testa entra nel mio campo visivo. Siamo stesi uno accanto all'altro come in quella celebre scena di Mr. Nobody, con la differenza che questa volta lui ha i capelli raccolti, e che io non somiglio per niente a Diane Kruger. «Capisco... e in questi tuoi progetti di eterna, estrema e favolosa felicità c'è posto anche per il sesso?»
    «Naturale» ribatto prontamente. «Ma come ti ho già ripetuto almeno dieci volte da quando sono atterrato, non avrai alcun dettaglio. Non ti farò una cronaca dei nostri rapporti sessuali.»
    «Quindi ammetti che ce ne sono stati. Che ce n'è stato più di uno, almeno.»
    «Va bene, lo ammetto. Ma non avrai altri dettagli.»
    «Non ho chiesto altri dettagli!»
    «Ma vuoi saperli, questo non lo puoi negare. Ti conosco. Muori dalla voglia di chiedermi quante volte lo abbiamo fatto, dove lo abbiamo fatto, quali posizioni abbiamo provato...»
    «Io non volevo sapere niente, ma se la metti così... ti prego, dimmi quante volte lo avete fatto! E dove lo avete fatto? E in che posizione lo avete fatto?» mi domanda, alzando la voce di un'ottava e fingendosi eccitato come una ragazzina che parla con un'amica che ha confessato di aver perso la verginità.
    «Insisti finché vuoi, ma da me non saprai nulla. E non immaginare cose strane, perché andresti completamente fuori strada.»
    «Non posso immaginare niente senza un aiutino. E dai, scucimi un dettaglio, anche uno piccolo! Di solito non lesini mai!»
    «Questa volta è diverso» ribatto, alzandomi dal letto. «Faccio una doccia e poi andiamo a mangiare?»
    «E poi filiamo dritti alle prove» aggiunge lui. «In qualche modo dobbiamo farti pagare questi tre giorni di divertimento.»



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Torino, 11 novembre 2013


    «Quindi nonna ti ha dato la sua benedizione?» si stupisce Francesca, prendendo un altro biscotto. «Glielo hai detto che potrebbe essere suo figlio?»
    «No, su questa parte della storia ho sorvolato. Insomma, le ho fatto capire che non è un ventenne, ma non volevo farle venire un attacco di cuore.» Le riunioni con Alice a base di caffè e biscotti hanno sempre fatto parte della routine, e all'inizio l'idea che mia sorella entrasse a far parte del club mi infastidiva un po', ma sono bastati pochi minuti di chiacchiere per capire che mi fa piacere che sia qui con noi, perché anche se è giovane è molto matura e sa dare buoni consigli, e riesce a capire le mie paure – anche se temo che nessuno possa comprendere davvero come mi sento.
    «Ti è andata bene che non dimostra gli anni che ha. Così quando lo vedranno rimarranno meno scioccati.»
    «Quando lo vedranno chi?» le domando, senza capire dove voglia andare a parare con questa affermazione.
    «Papà, nonna, gli zii» risponde. «Avrai intenzione di portarlo a casa prima o poi, no?»
    «Non nel prossimo futuro» ribatto velocemente, sperando di poter abbandonare questo discorso il prima possibile. L'idea di un pranzo di famiglia con Shannon che finisce subissato di domande mi spaventa a morte.
    «A proposito, come siete rimasti?» interviene Alice, di fatto salvandomi. «Avete già in programma di rivedervi?»
    «Mi ha chiesto di andare a Francoforte con lui» confesso.
    «Ma il concerto di Francoforte è mercoledì sera!» esclama Francesca con la bocca piena, spargendo briciole ovunque.
    «Infatti ho rifiutato l'offerta. Non potevo certo chiedere un permesso a Marco così di corsa.» Guardo alternativamente mia sorella e la mia migliore amica, che mi osservano come se fossi diventata completamente matta. «Quindi mi ha invitato ad unirmi a loro per la data di Parigi. Dovrebbero spostarsi lì il ventisette, quindi avrei tutto il tempo di organizzarmi e chiedere ferie.»
    «A Marco che racconterai?» mi chiede Alice, curiosa.
    «Non è ancora detto che ci vada. Comunque Marco non chiederebbe dettagli, basterebbe dirgli che vado in vacanza con un'amica.»
    «Se l'amica dovessi essere io avvertimi, così almeno evito di passare davanti al negozio per andare a lezione.»
    «E a papà invece che racconterai?» si interessa Francesca.
    «Ancora non ho deciso di andare.»
    «Ma se decidessi di farlo?»
    «Gli racconterei la stessa cosa.»
    «Non funzionerebbe» mi fa eco Alice. «Con la scusa di farsi costruire quei mobili mio padre frequenta un sacco il tuo, e non potresti usarmi come alibi. Rischieresti troppo.»
    «Potresti raccontargli che vai via per lavoro» interviene mia sorella. «Due anni fa non eri andata a Milano a quella fiera del libro? Non ti aveva mandata Marco al posto suo?»
    «Sì, ma era Milano, non Parigi. E poi ero stata a casa dei genitori di Federico, quindi era sicuro che non corressi pericoli. Non so se sarebbe tranquillo, sapendomi a Parigi da sola. Forse non dovrei dirgli che vado a Parigi» aggiungo a bassa voce.
    «Secondo me la destinazione gliela devi dire» è il commento di Alice. «Già menti sulla ragione del viaggio...»
    «Ma non sembrerà un po' strano che Marco mandi una commessa a fare acquisti ad una fiera del libro internazionale?»
    «Non sarebbe la prima volta» ribatte lei. «E poi conosci il francese meglio di lui, mi sembra un motivo più che sufficiente per chiederti di andare al suo posto.»
    «Senza contare che la tua collega è di nuovo in un periodo di sciopero» aggiunge Francesca. «Sarebbe più strano se lui andasse a Parigi, lasciando te a badare al negozio. Non dico che non saresti in grado di farlo, ma sinceramente la cosa mi parrebbe molto strana.»
    Sospiro, guardandole di nuovo entrambe. «Direi che è inutile chiedervi da che parte state. Mi state deliberatamente spingendo ad accettare quell'invito.»
    «Assolutamente» rispondono all'unisono, un attimo prima di guardarsi negli occhi e scoppiare a ridere.
    «Resta inteso che devi portare un souvenir ad entrambe, ma specialmente a me che sono la tua sorellina» aggiunge Francesca. «Insomma, se vuoi che tenga la bocca chiusa... anzi, ancora meglio, vedi di tornare a casa con qualche foto autografata. Oppure una maglietta autografata! O qualsiasi cosa abbia sopra una dedica per me.» Ci riflette per qualche istante, poi aggiunge: «Cancella tutto. Infila Tomo in valigia. Dopo averlo fatto autografare da Shannon e Jared, naturalmente.»



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Francoforte, 11 novembre 2013


    Dal suo angolo, circondato dalle sue chitarre e dai suoi strumenti, Tomo guarda con un sorriso al trio finalmente ricomposto, e nota con piacere che tutti e tre sembrano di nuovo sereni, felici, come se fossero passati attraverso una tempesta e ne fossero usciti purificati. Shannon picchia sui tamburi e sui piatti con una nuova energia, come se nella vita avesse un nuovo scopo da perseguire; Jared canta con una nuova emozione, felice di riavere con sé suo fratello, e forse soprattutto contento di saperlo in pace; in quanto a lui, ha trascorso la notte facendo l'amore con la donna più importante della sua vita, sperando che ognuno di quei dolci sforzi possa aiutarli a coronare il loro nuovo sogno.



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Torino, 11 novembre 2013


    Dopo avermi assicurato ancora una volta che non dirà una parola a proposito di Shannon, Francesca se n'è andata, lasciandomi sola con Alice: nonostante abbia scoperto che anche mia sorella è una buona confidente, il bisogno di parlare faccia a faccia con la mia migliore amica è più forte che mai.
    «Anch'io avrei tutto il diritto di offendermi, lo sai?» mi fa notare, giocherellando con il cucchiaino. «Sono la tua migliore amica e devo scoprirlo così che ti sei traguardata mister Anaconda. Ma ti perdono, perché immagino che in questi due giorni tu abbia avuto altre... priorità.» Mi strizza l'occhio con aria complice. «Almeno io posso avere i dettagli piccanti, o devo accontentarmi della versione per bambini che hai propinato a tua sorella?»
    «Non ci sono molti dettagli piccanti da raccontare, in verità. Insomma, niente richieste bizzarre, niente manette, niente posizioni che sfidano la gravità. È stato... ordinario. Non che non sia stato straordinario, certo, ma... niente che esulasse dalle mie possibilità, ecco.»
    «Quindi direi che lo scoglio principale lo abbiamo superato. È il sesso quello che di solito ti crea problemi, quindi...»
    «No, da quel punto di vista non ci sono stati problemi. Anche se... beh, mi conosci. Non riesco a credere di essere stata a letto con un uomo che non conosco. Non è da me, Alice. Io non faccio queste cose.»
    «Ti ci sei sentita costretta?»
    «Certo che no! Anzi... credo di non averlo mai fatto con tanta naturalezza. E poi non si è trattato di un solo episodio. Insomma, una volta sarebbe stato uno sbaglio, ma... beh, l'abbiamo fatto quattro volte.»
    «Come ti senti quando sei con lui?»
    «Sto bene» rispondo subito, senza pensare troppo alle parole da usare. È la verità: quando sono con Shannon mi sento bene. È quando non sono con lui che mi lascio prendere dall'ansia e inizio a vedere tutto nero. «A parte qualche raro momento, con lui sto bene. Mi fa sentire bene, accidenti. Riesco ad essere simpatica, divertente, riesco a non concentrarmi sui miei difetti... mi sembra quasi di essere una persona normale, quando sono con lui.»
    «Questo è un punto a suo favore» sentenzia lei, alzandosi per mettere le tazze sporche nel lavandino. «Se quando sei con lui non senti l'esigenza di cambiare la tua personalità, allora significa che siete compatibili. Che andate d'accordo, insomma. Anche se credo che a questa conclusione ci saresti potuta arrivare anche da sola. Quello che resta da capire è se sei vittima di una semplice infatuazione, o se invece potresti esserti davvero innamorata.» Si volta a guardarmi, sorprendendomi nell'atto di guardare uno dei post-it appiccicati sul bancone. «Anche se a giudicare da come guardi quel post-it... la risposta mi pare abbastanza chiara.»
    Sorrido, distogliendo lo sguardo dal foglietto. «Gli ho detto che lo amo.»
    «Cos'hai fatto?»
    «Non ero perfettamente lucida in quel momento» mi giustifico. «Eravamo entrambi nudi, non so se conta lo stesso.»
    «Conta ancora di più, se eravate nudi. Quello che dici quando sei nudo è la verità. È come essere ubriachi. In vino veritas, ricordi?»
    «Come ci si sente quando si ama qualcuno?»
    «Perché lo chiedi a me?»
    «Beh... tu hai Federico. State insieme da così tanto tempo che... beh, mi sembra piuttosto naturale supporre che tu ne sappia più di me sull'argomento.»
    «Per me e Federico è diverso...»
    «Perché le persone credono sempre che la loro situazione sia diversa?» ribatto, un po' stizzita. «In fondo è la stessa cosa: si tratta di mantenere una relazione con una persona che vive lontana e che non puoi vedere tutte le volte che vuoi.»
    «Con la differenza che Federico non è un musicista di fama internazionale.»
    «Non cerchiamo il pelo nell'uovo.»
    «Come vuoi» sospira, sedendosi di nuovo di fronte a me.
    Restiamo in silenzio per un sacco di tempo, finché sussurro, rivolta forse più a me stessa che a lei: «E se avessi fatto una cazzata di proporzioni epiche?»
    «Di che parli? Del fatto che gli hai detto che lo ami?»
    «Parlo del fatto che mi sono levata le mutande una settimana dopo averlo incontrato. Dopo aver passato con lui meno di quarantotto ore. E se fosse un campione di menzogna e mi avesse propinato tutte quelle cazzate sul cambiarmi la vita eccetera soltanto per una scopata sicura?»
    «Non ti avrebbe preparato la colazione. Non ti avrebbe accompagnata a fare la spesa. Non ti avrebbe lasciato due milioni di post-it che finiscono tutti con 'Ti amo'» ribatte lei, cercando di convincermi che non sto per rimanerci di nuovo fregata. «Non ti avrebbe dato il suo indirizzo e-mail né il suo numero di telefono. E non ti avrebbe invitata a Parigi.»
    «Tu dici che dovrei accettare e andarci?»
    «Io dico che dovresti smettere di farti tante seghe mentali e dovresti vivere il momento. Vivila giorno per giorno, lasciala andare come va. E se alla fine scopri che è uno stronzo che voleva soltanto strapparti le mutande, almeno ti rimarrà la soddisfazione di aver fatto del sesso stellare con uno degli uomini più desiderati del mondo.» Vorrei risponderle che se mai dovessi scoprire di essere stata usata in modo così bieco probabilmente non riuscirei a vedere questi due giorni nello stesso modo in cui li considera lei, ma decido di tacere e di lasciar cadere la discussione. Voglio concentrarmi solo su cose positive, pensare ai lati positivi di questo fine settimana appena finito, perché so che se mi mettessi a pensare al peggio non ne uscirei viva.



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Francoforte, 11 novembre 2013


    «Complimenti, ragazzi. Non suonavamo così bene da mesi!» esclama Jared alle nove di sera, dopo sette ore ininterrotte di musica. Le uniche pause che ci ha concesso sono state quelle per bere e andare in bagno. «Cerchiamo di replicare mercoledì sera, questi tedeschi sono un pubblico esigente.»
    «Ma sono gli italiani che ci succhiano tutte le energie» commenta Tomo, lanciandomi un'occhiata piuttosto eloquente. In risposta gli lancio l'asciugamano che ha raccolto tutto il sudore del pomeriggio, centrandolo in pieno viso. «Non sentirti chiamato in causa, Shan! Io parlavo in generale!» esclama, levandosi di dosso la pezza con aria schifata.
    «Lascialo perdere, Mofo. Ha la coda di paglia» sorride Jared, sciogliendo il nodo che aveva fatto ai capelli e scuotendo un po' la testa per rimetterli in quello che lui chiama ordine, e che io invece amo chiamare cespuglio incolto.
    «Non è una buona ragione per lanciarmi addosso i suoi germi. Che schifo.»
    «Comunque non credo di essere l'unico ad avere la coda di paglia. È tutto oggi che sorridi come un deficiente, signor Milicevic» gli faccio notare. «Deduco che tua moglie sia arrivata in città.»
    «Beh, in effetti sono piuttosto felice. Va bene, forse non ve lo dovrei dire, ma...»
    «Ma?» domandiamo io e Jay all'unisono, entrambi curiosi di sapere come concluderà la frase.
    «...Vicki ed io avremo un bambino!»
    «Non scherzare» è il commento di mio fratello.
    «Quando?» chiedo invece io.
    «Beh, non lo so. Non è ancora incinta. L'abbiamo deciso soltanto ieri sera. A proposito» aggiunge, rivolgendosi a me, «mi avanza mezza scatola di preservativi. Immagino che ti serva, quindi te la regalo.» Una bacchetta fende rapida l'aria e lo colpisce sull'avambraccio, strappandogli un bizzarro lamento di dolore. «Coda di paglia» commenta a mezza voce, massaggiandosi la parte offesa.



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Torino, 11 novembre 2013


    Sono le dieci di sera quando il display del cellulare si illumina, informandomi che 'Sean' sta chiamando. Prima di rispondere penso che dovrei cambiare suoneria, perché amo così tanto Iris che interromperla mi sembra ogni volta un crimine contro il mio udito. «Pronto?»
    «Ehi, tesoro.» Ringrazio il cielo di essere seduta, perché il modo in cui dice 'tesoro' mi fa letteralmente tremare le ginocchia. «Avrei voluto chiamarti prima, ma Jared mi ha rinchiuso in sala prove fino ad un'ora fa. Come stai?»
    «Sto bene. Certo, stamattina mi sarebbe piaciuto salutarti. Se non volevi che ti accompagnassi in aeroporto dovevi solo dirlo. Mi sarebbe piaciuto... beh, avrei solo voluto vederti un'ultima volta prima che te ne andassi. Senza contare che l'ultima cosa che hai visto di me è stata la mia bocca aperta che russa senza ritegno. Non proprio un'immagine idilliaca.»
    «Ti chiedo scusa, ma... non so se sarei riuscito ad andarmene, se ti avessi avuta davanti agli occhi.» Abbasso per un attimo le palpebre, e penso che probabilmente nemmeno io sarei riuscita a lasciarlo andare. «Hai trovato i miei messaggi?»
    Sorrido, abbassando lo sguardo. Nessuno aveva mai fatto qualcosa di così romantico per me. «Affermativo. Tutti e ottantotto. Li ho contati.»
    «Te ne mancano due, allora. Erano novanta.»
    «Li hai contati?» Pensavo che soltanto ad una povera cretina come me potesse venire in mente di contare quei maledetti post-it per sapere quanti fossero, e adesso scopro che lui per primo li ha contati. «Sicuro che fossero novanta?»
    «Assolutamente.»
    «Eppure sono quasi sicura di aver guardato dappertutto» ribatto, alzandomi dal divano per fare un altro giro di perlustrazione. «Ma poi, perché novanta?»
    «Non te lo posso dire, è una sciocchezza.»
    «Tante delle cose che penso sono sciocchezze, ma tu insisti per saperle comunque» protesto, alzando i cuscini del divano per cercare le due note mancanti.
    «Te lo dirò quando saremo a Parigi» risponde, e anche senza vederlo in faccia sento che sta sorridendo. «A questo proposito, è confermato che ci sposteremo in Francia il ventisette. Non ho ancora avuto occasione di parlare con Emma, ma appena la vedrò la informerò che avremo un'ospite, che poi naturalmente saresti tu. Perché verrai a Parigi, vero?» aggiunge, come se sapesse dei miei dubbi in proposito.
    «Se riuscirò a trovare una buona scusa da propinare a mio padre» rispondo, spostandomi in bagno. Apro ogni stipetto, senza però trovare nulla che somigli ad un post-it. «Non gli posso certo dire che vado a Parigi per unirmi al tour di una band.»
    «No, forse non è il caso» replica. «Anche se... beh, ormai sei adulta. Non dovresti essere tenuta a comunicargli ogni minimo spostamento, o sbaglio?»
    «Come si vede che non ci sono donne nella tua famiglia» ribatto, senza trattenere una risata. «Nessun padre pensa mai che una figlia sia abbastanza grande per fare alcunché. Già mi aspettavo che facesse storie riguardo la mia idea di andare a vivere da sola... anche se comunque credo che il suo livello di iperprotettività sia giustificato anche dall'abbandono della mamma. Per tutti questi anni ha fatto anche le sue veci... credo sia normale che continui a preoccuparsi. Senti, ma dove li hai nascosti quei dannati post-it? Ho cercato ovunque!»
    «Hai guardato anche nel ripostiglio?»
    «No, il ripostiglio mi è sfuggito» rispondo. Mentre corro verso l'altro lato dell'appartamento do un calcio al divano, e maledico me stessa per non aver messo le pantofole. Zoppico verso il ripostiglio e trovo una delle note appiccicate dietro la porta: Qui non ho toccato nulla, ma non mi sembrava carino ignorarlo soltanto perché è un ripostiglio. Ti amo. «Ce n'è soltanto uno. Dov'è l'ultimo?»
    «In bagno hai controllato?»
    «Ho guardato ovunque, Shannon. Tranne nel secchio della spazzatura, ma mi auguro...»
    «Allora nel cassetto del comodino. Quello dal tuo lato del letto. Beh, è ovvio che entrambi i lati del letto sono tuoi» aggiunge in fretta, mentre in silenzio faccio dietrofront e salgo la scala a chiocciola. «Solo che tu hai sempre dormito dalla stessa parte, e... ehi, ci sei ancora?»
    «Sì, ma... Shannon, nel mio cassetto ci sono un paio di occhiali da vista» rispondo, sedendomi sul materasso. «Io non ho mai avuto occhiali da vista.»
    «Infatti sono miei.»
    «Non ti ho mai visto portare degli occhiali. A parte quelli da sole, che sembra ti stiano incollati alla faccia anche quando non c'è il sole» lo prendo in giro.
    «Non mi danno un'aria tenebrosa?» ribatte, e nella sua voce colgo una nota divertita.
    «A volte sembri soltanto un grandissimo snob» rispondo, rincarando la dose.
    «Beh, scherzi a parte, ho un piccolo problema di vista. Mi servono soprattutto quando leggo o devo usare il computer.»
    «Ma se li hai lasciati qui, come...» Mi interrompo all'improvviso, intuendo che non li ha dimenticati qui. Metto le lenti sul comodino e prendo il foglietto sottostante. «Sono distratto di natura, dimentico cose ovunque vado. Me li riporti a Parigi?» leggo con un sorriso. «Sei un uomo veramente impossibile, lo sai? Ehi, comunque hai dimenticato di firmarlo» gli faccio presente, notando che non ha concluso con il solito 'Ti amo'.
    «Voltalo» sussurra. Obbedisco, e resto senza parole. Il mio cuore invece lo puoi tenere, ha scritto sul retro. E ha firmato con un 'Ti amo' che vale più di tutti gli altri, perché scritto in italiano. «Ehi, sei ancora lì?»
    «Ci sono» sussurro, lasciandomi cadere di schiena sul letto. «Hai scritto in italiano.»
    «Sì, è vero. Perché la cosa ti stupisce tanto?»
    «Non lo so. In effetti non dovrebbe. Comunque non dovrebbe stupirmi più di tanto, visto che ho appena trovato novanta post-it che dicono 'Ti amo' sparsi per tutta la casa.»
    «Forse ho esagerato, vero?»
    «Forse no. Perché novanta?»
    «Te l'ho detto, te lo dirò a Parigi.» Tace per lasciarmi parlare, ma non riesco a pensare a nessuna risposta intelligente. «Mi manchi già, lo sai?» aggiunge, abbassando la voce. «Credevo di poter resistere, ma la verità è che hai iniziato a mancarmi appena sono uscito di casa. È stato un bellissimo fine settimana. È stato tutto bellissimo. So che rischio di cadere nel banale, ma sei davvero una persona speciale. Non conosco altri modi per dirlo. Sei speciale, e adoro stare con te.»
    «Anch'io adoro stare con te» sussurro.
    «Quindi verrai a Parigi?»
    «Ci proverò.»



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Francoforte, 11 novembre 2013


    Quando concludo la conversazione, un quarto d'ora più tardi, non posso fare a meno di fissare lo schermo con aria confusa, cercando di identificare lo stato d'animo di Daria. Ammetto di non essere mai stato un tipo sensibile quanto Jared, ma di certo non sono scemo: è chiaro che non era completamente serena, come se questi due giorni trascorsi insieme non fossero bastati a convincerla delle mie intenzioni.
    In questo momento vorrei essere con lei. Vorrei abbracciarla e dirle che andrà tutto bene, dirle che non deve avere paura. E vorrei stare in piedi di fronte a lei, costringerla a guardarmi negli occhi e farle promettere che mi raggiungerà a Parigi. Mi sento come se non avessi altro a cui aggrapparmi, in questo momento.


1Ti amo. Ora scrivetelo tutti quanti: ti amo, ti amo, ti amo. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase attribuita a Shannon Leto (chi sarà mai costui? Mai sentito nominare...). In realtà non so se sia stata davvero pronunciata da lui, e nemmeno saprei citare l'occasione in cui è stata detta; l'ho trovata curiosando su un'ottima fanpage su Facebook, una pagina gestita in maniera squisita, sulla quale si può trovare ottimo materiale. Per gli interessati, la pagina è Jared, Shannon and Tomo: the divaH, the animal and Jesus. Fateci un salto, se ancora non la conoscete!

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Capitolo 14
*** 14 | Ieri ho incontrato l'amore, mi ha detto 'Passavo di qua'. ***


Portagioie di tristezza | 1
E per la seconda volta di seguito, ho saltato l'aggiornamento del lunedì. Perdonatemi, ma è un periodo strano – quando ho tempo, non ho idee/ispirazione, mentre quando queste abbondano fatico a trovare dieci minuti per mettere in fila le parole.
Come sempre, un grazie a chi preferisce, ricorda, segue e recensisce.
Spero che questo capitolo vi possa soddisfare - e vi anticipo che nel prossimo capitolo avremo l'entrata in scena di un nuovo personaggio.
Alla prossima,
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo quattordicesimo
Ieri ho incontrato l'amore,
mi ha detto: «Passavo di qua».1

Torino, 12 novembre 2013


    Sono le otto e trentacinque quando spingo la porta ed entro in libreria, salutando con un sonoro “Ciao!”. Dal retro nel negozio, dove si trova il magazzino, mi arriva qualche sillaba di risposta da parte di Marco, probabilmente impegnato nella vana ricerca di qualcosa – nonostante si tratti del suo negozio, spesso non riesce nemmeno a trovare una penna in un portamatite. Ha molte buone qualità, ma ordine e organizzazione decisamente non gli appartengono. «Che fai?» gli chiedo, raggiungendolo per appendere borsa e giubbotto nello stanzino che ci piace tanto chiamare spogliatoio.
    «La tua idea di mettere annunci su internet ha funzionato» risponde, emergendo da dietro uno scatolone. «Mi ha chiamato un professore universitario che fa collezione di dizionari, è interessato ad un pezzo della nostra collezione» aggiunge, mostrandomi il vocabolario appena estratto dalla scatola. «Me lo reggi un attimo?» Mentre prendo il tomo con due mani, facendo attenzione a non rovinarlo, mi sento domandare: «Passato un buon fine settimana? Hai l'aria di una che si è divertita parecchio.»
    «Non più del normale» rispondo, cercando di minimizzare – anche se ho la fastidiosa sensazione che il viso mi stia diventando viola per l'imbarazzo. «Ho finito di sistemare casa, non è che abbia fatto chissà quali cose super eccitanti.» Tranne, come ha innocentemente supposto Alice, 'farmi sbatacchiare di qua e di là come un paio di maracas'.
    «Vuoi farmi credere di esserti tappata in casa per tre giorni? Ragazza, sei giovane! Esci e divertiti finché puoi. Quando avrai la mia età non potrai più sperimentare tutte le cavolate che avete l'opportunità di fare voi ragazzi.»
    «Che ti devo dire? Sono un tipo tranquillo. Preferisco un buon film ad una serata in discoteca.»
    «Io potrei preferirlo soltanto se avessi la certezza di una buona compagnia» risponde, spingendo di nuovo a posto lo scatolone. «Di certo non lo preferirei, se la prospettiva fosse di rimanere solo.»
    «Certo, la compagnia è una condizione importante.»
    «E la tua com'era? Buona?» mi domanda, ammiccando.
    «Ottima» ribatto. «Quale migliore compagnia di una pizza?»
    «Sì, e io ci credo. Figurati se una ragazza come te non ha almeno dieci ragazzi che fanno la fila fuori dalla porta.»
    «Oh, ma perché insistete tutti sul volermi trovare un ragazzo?» sbotto, un po' irritata. Sono almeno due anni che tutti quelli che conosco mi domandano quando intendo sistemarmi, e io... beh, forse al momento sono solo arrabbiata perché l'unico uomo che potrei volere al mio fianco è lontano migliaia di chilometri.
    «Scusa, non volevo farti arrabbiare» sussurra Marco, avvicinandosi per riprendersi il dizionario. «È solo che... sai, dispiace vedere una persona rimanere sola. Specialmente quando si tratta di una persona speciale e piena di buone qualità.» Mi sorride, e io, terribilmente in colpa per averlo trattato così male, abbasso lo sguardo con aria imbarazzata. «Dai, non ci pensare» aggiunge, sfiorandomi il naso con la punta dell'indice, in un gesto incredibilmente simile a quello compiuto più volte da Shannon. «Porto questo su in ufficio, vado a prendere un paio di caffè e quando torno ci mettiamo sotto con l'inventario, va bene?»
    «Va bene» rispondo, ancora un po' confusa. «A che ora arriva Carlotta?»
    «Carlotta si è messa in mutua per un'altra settimana» replica lui, incurvando un po' le spalle, come preparandosi ad accogliere le critiche che già sa gli muoverò. «Però non ho capito bene che razza di malattia mortale abbia contratto questa volta.»
    «Marco, lo sai che non mi va di fare la parte della collega stronza, però... sai che qualunque altro datore di lavoro l'avrebbe già cacciata via a calci nel sedere?» Negli ultimi tre mesi, Carlotta si è presentata in negozio sì e no la metà delle volte, e anche quando c'è, non è che il suo contributo sia così fondamentale.
    «Lo so, ma la conosci bene anche tu. Se la licenziassi, quasi sicuramente mi farebbe causa!»
    «E quindi continui a pagare lo stipendio ad una persona che non ti porta alcun profitto?»
    «Lo so, è una cosa senza senso. Beh, alla fine dell'anno ne riparleremo. È un discorso complicato, e al momento l'ultima cosa che mi serve è un'altra gatta da pelare. Comunque tu resti sempre la miglior commessa che abbia mai avuto, e guai a te se ti azzardi ad andartene» conclude, sfiorandomi di nuovo il naso. Poi sparisce su per le scale che portano al suo ufficio e al mini appartamento in cui vive, mentre io resto sola a chiedermi che diavolo ci trovino tutti nel mio naso. Ma soprattutto, sapendo come la pensi Carlotta circa l'idea di lavorare, mi chiedo se sia il caso di chiedere a Marco quella famosa settimana di ferie – so che è un mio diritto, e che dall'inizio dell'anno gli ho chiesto soltanto un paio di mezze giornate libere, però so che mi sentirei in colpa sapendo di essere in giro a divertirmi mentre lui è qui a sgobbare come un mulo. D'altra parte, quella settimana di vacanza mi consentirebbe di raggiungere Shannon a Parigi e di trascorrere con lui più tempo di quanto avessi mai osato sognare – e Dio solo sa quanto darei per stargli accanto anche per una misera ora.


    «Per caso mi devi chiedere qualcosa?» mi sento domandare, proprio mentre sto contando quante copie de Il rosso e il nero ci sono rimaste. Sinceramente, non capisco perché la gente legga poco Stendhal: a me è sempre piaciuto. Sono pochi gli autori in grado di delineare in maniera tanto chiara il confine tra bene e male, e soprattutto a tracciare una linea di demarcazione tra quello che è lecito o no fare per assicurarsi un minimo di soddisfazione personale.
    «Chiederti qualcosa in che senso?» gli domando, cercando di rimanere sul vago.
    «Non lo so, mi sembri... sembra che tu stia cercando il momento più opportuno per farmi una domanda importante.»
    Va bene, sono stata smascherata. «Beh, in effetti c'è una cosa che ti volevo chiedere, ma non so se... avevo una mezza idea di andare via per qualche giorno, verso fine mese. Quindi mi chiedevo se...»
    «...se ti posso dare qualche giorno di ferie? Va bene, non c'è problema. Lo sai, mi puoi chiedere quello che vuoi. Dimmi solo quando vuoi partire e quando intendi tornare, così ci possiamo organizzare di conseguenza. Hai... hai intenzione di tornare, vero?» aggiunge con un tenerissimo tono preoccupato.
    «Sì, credo che questa volta tornerò» gli rispondo, cercando di non ridere. Non so ancora come riuscirò a convincermi a tornare, ma so che tornerò.
    «E... dove te ne vai di bello?»
    «Parigi. Con un'amica. Abbiamo trovato un'offerta speciale, e siccome nessuna delle due ci è mai stata, ne approfittiamo.»
    «Vai con Alice?»
    «No, non è Alice. È un'altra amica. Alice ci sarebbe venuta volentieri, ma proprio in quei giorni ha un esame importante, quindi...» Non so perché, ma ho come l'impressione che con Marco la bugia non regga, benché sia stata progettata in ogni dettaglio e limata in ogni sua imprecisione. «Perché ti interessa sapere con chi ci vado?»
    «Non è che mi interessi... è solo che mi sembra strano che tu ci voglia andare con un'amica. Con un'amica puoi andare... che ne so, a Barcellona. A Londra, magari. Ma Parigi... beh, a Parigi ci si va con un ragazzo. Non era la città più romantica del mondo?»
    «Questo mi sembra un cliché culturale. Eppure mi sembrava di ricordare che tu detestassi i cliché.»
    «Solo quelli insensati. Ma che Parigi sia la città romantica per eccellenza è risaputo.»
    «Io la vedo come una città storica e piena di cultura. Per me non è diversa da Roma, o Londra, o qualsiasi altra città europea. Ci vado per visitare i musei e ampliare la mia visione del mondo, non per starmene tappata in una suite a fare cose che potrei benissimo fare anche nel mio appartamento, e senza spendere un soldo.» Questa conversazione con il mio capo sta prendendo una strana piega, e vorrei tanto tornare indietro al punto in cui ho deciso di dargli corda.
    «Guarda che può essere romantico anche andare per musei e ampliare la propria visione del mondo. Insomma, se io fossi il tuo ragazzo e ti portassi a Parigi, ti accompagnerei volentieri per musei.» Come nel migliore dei film, la porta si spalanca rivelando dei clienti, togliendomi così dall'imbarazzo di trovare una risposta – anche se fatico non poco a convincermi che quella non fosse un'avance con i controfiocchi. Dovrei smettere di dar retta ad Alice, almeno quando si tratta di questo tipo di questioni.



*



Francoforte, 12 novembre 2013


    «Emma? Ehi, ciao!»
    Impegnata a scarabocchiare qualcosa sull'agenda che costituisce un prolungamento naturale del suo braccio, Emma si volta con la stessa rapidità di una leonessa che ha fiutato una preda succulenta, e mi rivolge una delle sue celebri occhiate – quelle che Jared definisce lievemente irritate, e che il sottoscritto riconosce invece come incazzate nere. «Guarda chi c'è. Mi risparmi il disturbo di venirti a cercare chissà dove. Ti devo parlare.»
    «Bene, perché anche io ti devo parlare.»
    «Se riguarda quello che tuo fratello mi ha anticipato, sappi che non sono assolutamente d'accordo. La trovo un'idea balorda e senza senso, e credo proprio che dovresti ritirare quell'invito. Non è assolutamente quello che vi serve in questo momento.»
    La voce è dura, il tono tagliente quando una lama. Non posso fare a meno di sospirare, cercando di fare appello a tutta la mia calma per non metterle le mani attorno al collo e stringere con molta, molta forza – altro che l'amore di cui parliamo in Up in the air. «Senti, Emma, non credo che... senti, ce lo prendiamo un caffè? O forse una camomilla, o una tisana?» aggiungo, cercando di farle capire che in confronto a lei un limone è un concentrato di zucchero.


    Emma rimesta pigramente un cucchiaino di zucchero nel bislacco infuso a base di camomilla e finocchio che ha ordinato al bar dell'albergo, mentre io stringo le mani attorno alla mia tazza, aspettando che il caffè si freddi un po'. «Non so che cosa Jared ti abbia detto di preciso, ma ho la vaga sensazione che ti abbia parlato di Daria come di una mangiatrice di uomini la cui unica missione è di tenermi inchiodato al letto per replicare ogni pagina del Kamasutra.»
    «Forse non proprio ogni pagina» risponde lei a bassa voce, posando il cucchiaino a lato della tazza.
    «Beh, Daria non è quel tipo di ragazza. E sicuramente non l'ho invitata a raggiungerci a Parigi per chiuderci in una suite a fare cose che avremmo potuto continuare a fare nel suo appartamento» replico rapidamente, cercando di batterla sul tempo e di spiegarle come stanno veramente le cose. «Voglio che venga a Parigi per conoscermi meglio, per vedere come sono... beh, nel mio mondo. E siccome ho l'impressione che la cosa sia rilevante ti dico che sì, il sesso fa parte del programma.»
    «Shannon, io non credo sia una buona idea.»
    «Poche delle cose che ti vengono proposte le reputi buone idee.»
    «Sì, ma posso presentare degli argomenti molto convincenti, in proposito.»
    «Allora sentiamoli, questi argomenti» ribatto, appoggiandomi contro lo schienale della sedia e incrociando le braccia davanti al petto. La sto apertamente sfidando, e dal modo in cui si ravvia una ciocca di capelli e raddrizza la spina dorsale capisco che raccoglie il guanto di sfida.
    «Tanto per cominciare, non conosci questa ragazza da abbastanza tempo» esordisce, pur sapendo che si tratta di un'argomentazione molto debole. «Non sai chi sia veramente, non sai nulla di lei. Non sai quali siano i suoi obiettivi. Per quel che ne sai, potrebbe anche essere una giornalista infiltrata, o una terrorista, o Dio solo sa cosa.»
    «Si vede che non ci hai mai parlato, altrimenti non ne parleresti così.»
    «Secondo» procede imperterrita, ignorando il mio commento, «in questo momento dovresti concentrarti esclusivamente sul tour. Avete ancora sì e no un mese di concerti, poi la pausa natalizia. Per il vostro bene, dovreste rimandare a quel periodo qualsiasi pensiero o preoccupazione.» Vorrei ribattere che secondo il suo punto di vista Tomo è quello che più se ne infischia del tour, visto che ha deciso di passare le notti a cercare di riprodursi, ma decido di tacere. «Terzo: se davvero venisse a Parigi, sarebbe difficile tenerla nascosta. E se salta fuori che hai una relazione, rischiate di perdere una bella fetta di pubblico.»
    Per evitare di smascherare i biechi scopi di Tomo mi sono portato la tazza alle labbra, ma nel sentire quell'ultima frase riabbasso il braccio senza bere. «Scusa, non sono sicuro di aver capito bene.»
    «Shannon, non fingere di non capire» riprende lei, usando lo stesso tono che usava mia madre quando doveva spiegarmi i motivi di un nuovo trasloco. «Non sei stupido, lo sai tu e lo so io. Vorrei che fosse diverso, ma è innegabile che esistono fan che seguono la band principalmente perché tu e Jared siete single, e innegabilmente... beh, arrapanti. Non fare quella faccia, non l'ho detto io.» Mi rendo conto di aver spalancato gli occhi per la sorpresa, perciò scuoto leggermente la testa, cercando di darmi un tono. «Finché rimanete sul mercato, per così dire, avete una fetta di pubblico assicurato. Nel caso disgraziato che uno di voi due decidesse di mettere la testa a posto e mettere su famiglia, sicuramente...»
    «Non voglio che tu finisca questa frase» la interrompo. Ora sono io quello incazzato. «Se succedesse una cosa del genere... beh, perdonami, ma ne sarei felice. Non voglio suonare per persone che se ne stanno sotto il palco per sbavare se mi vedono sudare. Non per persone il cui unico scopo nella vita è quello, almeno. Siamo una band seria, suoniamo per dar voce ad argomenti importanti e per dire quello che molti non hanno la possibilità di dire. Dalle ultime informazioni, sapevo che gli Echelon ci seguono perché rappresentiamo il loro modo di pensare, i loro sentimenti, le loro emozioni. Credevo fossero i One Direction quelli che suonano per le ragazzine in piena tempesta ormonale.»
    «Shannon, io non...»
    «No, Emma. Sinceramente non condivido quello che dici. Non credo che ci siano persone che ci seguono soltanto perché rappresentiamo un richiamo sessuale, e se anche fosse non credo che smetterebbero di seguirci soltanto perché siamo finiti fuori catalogo. E comunque mi dispiace, ma non posso accettarla come obiezione ad una mia eventuale relazione. Non posso. Esula da ogni logica, spero che tu te ne renda conto.» Prima che possa rispondere, mi alzo e guadagno l'esterno della struttura.



*



Torino, 12 novembre 2013


    L'arrivo del possibile acquirente per il dizionario è stato provvidenziale: Marco è salito con lui in ufficio, lasciandomi finalmente sola e dandomi la possibilità di calmarmi e continuare con calma l'inventario. Ho approfittato della solitudine anche per mandare un sms a Shannon per informarlo delle ferie concesse, sperando che la distanza non lo abbia portato a cambiare idea.
    Metto via il cellulare e continuo a controllare gli scaffali, cercando di concentrarmi sul futuro. Non ho mai fatto nulla di così avventato, ma sono felice della decisione presa – improvvisamente non vedo l'ora che arrivi il ventisette.



*



Francoforte, 12 novembre 2013


    In cerca di un po' di tranquillità per sbollire la rabbia e riflettere, raggiungo la terrazza panoramica dell'albergo e accendo una sigaretta – non mi ero accorto di averle prese con me, ma probabilmente il mio subconscio sapeva che ne avrei avuto bisogno. La prima tirata mi raspa un po' la gola, d'altra parte non fumo da... calcolo che non tocco un accendino da venerdì, e penso che dovrei far presente ad Emma, inguaribile salutista, che la presenza di Daria è servita a qualcosa.
    «Ehi, ti ho trovato.» Mi volto, e l'assistente di mio fratello alza una mano in segno di saluto, cucendosi un breve sorriso sul viso magro. «Non avrei dovuto dire quelle cose. Vorrei poter dire che è perché mi è venuto il ciclo, ma sarebbe una bugia. Stavo solo cercando un modo per convincerti a non portare avanti il tuo progetto.» Mi raggiunge, e come me si appoggia alla balaustra.
    «Non dirmi che stai cercando di fermarmi perché sei segretamente innamorata di me da sempre e sei gelosa di ogni donna che mi tocca, perché non credo lo sopporterei.»
    Scoppia a ridere, e così mi rendo conto di non averla mai vista felice. «Non c'è pericolo, tranquillo. A me piacciono più... intellettuali, non so se rendo l'idea.»
    «Perché tutti mi considerano un animale?» protesto, pigolando come un bambino scontento.
    «Non è che ti sia mai impegnato per dare un'immagine molto diversa» ribatte lei, facendo spallucce. «Non avrei dovuto dire quelle cose, scusa. Nemmeno io in realtà credo che i fan vi lascerebbero perdere, nemmeno se tutti e tre vi metteste a sfornare un bambino all'anno. Anzi, i giovani padri hanno un certo appeal, di solito. Però che siete arrapanti è vero.» Per la seconda volta in poco tempo mi volto a guardarla sconvolto, e lei si affretta ad aggiungere: «Oggettivamente lo siete.»
    Torno a guardare di fronte a me, dimenticando di avere tra le dita una sigaretta accesa. «Daria è diversa dalle altre. Con lei è tutto diverso. Sei mai stata innamorata?»
    «Amore...» sospira, alzando gli occhi al cielo. «Io e l'amore abbiamo una relazione complicata. Non c'è mai stato molto dialogo, se capisci che intendo.»
    «Altroché se ti capisco. Ho avuto una storia importante e sono rimasto fregato.»
    «E con questa ragazza? È una storia importante?»
    «Non lo so. Potrebbe essere solo un abbaglio, per quanto ne so. Il fatto è che era un sacco di tempo che non consideravo una ragazza nel modo in cui considero lei. Non è soltanto sesso, al contrario di quello che pensa mio fratello.»
    «A questo punto probabilmente dovrei ammettere che un dubbio mi era venuto.»
    «In che senso?»
    «Nel senso che non riuscivo a credere che avessi preso un aereo soltanto per un paio di giorni all'insegna della perversione. Insomma, per come la vedo io, e per come ti conosco, potevano esserci soltanto due cose al mondo in grado di spingerti a prendere una decisione simile.»
    «E sarebbero?»
    «Beh, o eri proprio caduto vittima del classico colpo di fulmine» inizia, cercando di dare alla frase un tono casuale, «oppure la ragazza in questione aveva le tette più grandi che avessi mai visto.»
    Non posso fare a meno di sorridere davanti alla sua precisa analisi, anche perché con il senno di poi potrei dire che entrambe le argomentazioni sono valide. «Mi congratulo per la sua diagnosi, dottoressa Ludbrook. Ma poi, mi vuoi spiegare perché tutti sanno che mi piacciono le ragazze con... beh, validi argomenti
    «Non so, credo sia una di quelle verità universalmente riconosciute... tipo che in casa di tuo fratello non ci sono specchi2. Senza contare quante volte ho incontrato nei corridoi degli hotel le tipe con cui ti piace intrattenerti» aggiunge, strizzando l'occhio verso di me. «E poi sono anni che ci conosciamo, e ti ho visto provarci con ogni collaboratrice che avesse degli airbag dignitosi. In effetti, credo di essere l'unica con cui tu non abbia mai flirtato» conclude, un po' sovrappensiero.
    «Se vuoi ci provo adesso» la prendo in giro.
    La sua mano sferza l'aria, e il pugno mi colpisce deciso la spalla. «Maniaco! Adesso sei un uomo che ha messo la testa a posto, non dovresti fare questi discorsi!»
    «Ahi» mi lamento, lasciando cadere la sigaretta che non ho fumato nel posacenere lì accanto. «Guarda che se domani sera non riesco a suonare è colpa tua. E comunque dicevo così per dire. Con te non ci potrei provare nemmeno se avessi il seno di Pamela Anderson.»
    «Ah, no?» Questa mia ultima affermazione deve averla stupita parecchio, perché le sopracciglia si sono inarcate tanto da formare un tutt'uno con la frangetta. «E perché no?»
    «Tanto per cominciare, Jared ti tiene talmente impegnata che per provarci dovrei prendere appuntamento, e questo non è proprio il mio stile. E poi ti conosco da così tanto che ormai sei come una sorella. Tu ti occupi di noi, ti assicuri che non ci manchi nulla, che rispettiamo gli impegni presi, che mangiamo, che ci laviamo. Quando ci ammaliamo ci porti le aspirine e il succo d'arancia, quando ci spostiamo da una città all'altra ti preoccupi che non ci perdano le valigie.»
    «Faccio soltanto quello che prevede il mio contratto. Mi è sempre piaciuto organizzare le cose, sono un tipo preciso di natura. Non credo che potrei mai fare un altro lavoro.»
    «Sono felice che tu abbia scelto noi» dico, sorridendole. «Con la vita che ci tocca fare, è bello avere accanto una persona come te.»
    «Oh, smettila di fare lo sdolcinato, non fa per te. Ti preferisco quando sei più... selvaggio. Ok, facciamo così» riprende dopo un attimo di pausa. «Fai pure venire la tua ragazza a Parigi, non mi oppongo. Ma al minimo disguido che succede per causa sua, la rispedisco in Italia a calci nel sedere. D'accordo?»
    «D'accordo, ma ti assicuro che non ci saranno problemi.» Ci stringiamo la mano, suggellando la sacralità di quel patto, dopodiché lei si volta e se ne va, inseguendo i suoi mille impegni. Non so davvero che fine faremmo senza la sua preziosa collaborazione.
    Rimasto solo, chiudo gli occhi e inspiro a fondo. Francoforte ha un odore particolare, che mi ricorda la sera in cui ho incontrato Daria: l'asfalto reso zuppo dalla pioggia della notte mi ricorda il parcheggio del Mediolanum Forum, e le ruote delle auto che lo calpestano mi fanno tornare in mente il momento in cui ci siamo seduti sul bordo di un'aiuola, aspettando il momento della nostra separazione.
    Sono ancora perso nei miei pensieri quando una leggera vibrazione proveniente dalla tasca dei jeans richiama la mia attenzione: è un messaggio da parte di Daria. Lo leggo subito, e non riesco a non sorridere: Essere una buona impiegata aiuta. Ferie concesse. Sempre che tu non abbia cambiato idea. Digito velocemente una risposta e torno dentro. Sono quasi in ritardo per le prove, e vorrei evitare di essere trucidato da mio fratello.



*



Torino, 12 novembre 2013


    Alle sette, finito il turno, ho salutato Marco, preso le mie cose e camminato fino alla mia vecchia casa: mia nonna ha insistito perché andassi a cena da lei, sottintendendo che ci sarebbero stati anche mio padre e i miei fratelli. Nonostante la stanchezza, ho deciso di accettare l'invito: mi costa molto ammetterlo, ma dopo questo fine settimana restare sola mi mette addosso un terribile senso di tristezza. Sicuramente il tempo guarirà la ferita, ma per adesso non riesco a starmene da sola in salotto senza ripensare a domenica pomeriggio, quando Shannon era seduto sul divano e io accoccolata contro di lui. Per non parlare poi di quanto mi sembri vuoto il letto, senza il suo corpo a riempirne l'altro lato.
    Seguendo il consiglio di Alice, decido di anticipare la notizia del mio imminente viaggio a Parigi, sottolineandone il carattere professionale – e per fortuna Francesca è bravissima a reggermi il gioco. Anche perché mio padre, come previsto, sfodera tutto il suo repertorio da mamma chioccia, e mi chiede se sia proprio necessario che Marco ci mandi me. «Per carità, vuol dire che ti reputa una persona responsabile e affidabile, ma se ti capita qualcosa?» borbotta, mentre gli passo il sale.
    «Chi ci dovrebbe mandare, scusa? La sua collega?» ribatte Francesca. «Beh, magari a farsi un giro a Parigi ci andrebbe volentieri, ma di sicuro alla fiera non ci porterebbe i piedi. E poi Daria parla benissimo francese, mi sembra normale che Marco ci voglia mandare qualcuno di preparato.»
    «E poi è un'occasione per vedere la città, visto che non ci sono mai stata» aggiungo, servendomi di un'altra fetta di arrosto. «Per la sistemazione non c'è problema, è già tutto organizzato: ha già prenotato una stanza in un albergo in centro. È a due passi dalla fiera, praticamente tutti i gestori che decidono di andare hanno chiamato lì.»
    «Sarà, ma non mi fido. Comunque sei in mezzo a gente che non conosci, come fai ad essere sicura che siano tutti persone come si deve?»
    «Vado ad una fiera del libro, papà, non ad una conferenza sulle armi da fuoco. E se dovessi aver paura di tutte le persone che non conosco, allora in casa ci dovrei entrare passando per la finestra. A parte i Lorenzoli e la signora del terzo piano che mi ha portato il tiramisù non conosco ancora nessuno.» Il mio dovere principale in qualità di figlia maggiore è sempre stato quello di attirare tutte le apprensioni e cancellarle, in modo che Emanuele e Francesca potessero avere vita più facile – non è mai stato un compito semplice.
    «Comunque lo sai, no? Devi fare attenzione, non dare confidenza a chi non conosci, e in generale non fare niente che non faresti a Torino.»
    «Lo so, papà.»
    «E lasciala stare, Danilo!» interviene mia nonna con un sorriso. «Ha ventitré anni, mica dodici. Io alla sua età ero sposata!» Nel sentir dire la parola 'sposata', mi accorgo che mio padre sbianca, nemmeno gli avessimo appena annunciato che sono incinta di quattro gemelli. «Daria ha la testa sul collo, sa quello che fa. Non è certo scema.»


    A cena finita, mia sorella ha cercato di convincermi a dormire nella mia vecchia stanza, ma ho preferito declinare l'invito e tornare a casa – anche perché domani mattina mi sarei comunque dovuta svegliare presto per tornare a casa a cambiarmi i vestiti, e di fare una levataccia proprio non ne ho voglia. Tuttavia, mio padre ha respinto categoricamente l'idea di mandarmi a casa a piedi, e ha insistito per darmi uno strappo in macchina. Arrivati sotto casa, l'ho convinto a salire a vedere l'appartamento – finora, nonostante avesse dato il suo assenso al mio trasferimento, non si era ancora lasciato persuadere a visitarlo.
    «Eccoci qui» esordisco, aprendo la porta e scostandomi per lasciarlo passare. «Casa mia.»
    «Ah... beh, bello è bello» commenta, camminando piano fino al salotto. «Bell'arredamento, tutto in faggio. Molto resistente.»
    «Sì, mi sono sempre piaciuti i mobili di legno. Immagino sia il risultato dell'avere un padre falegname.»
    «Vuol dire che i padroni di casa hanno gusto.»
    «Sì, sicuramente non sono tipi da Ikea. Di là c'è il bagno e una cameretta per gli ospiti. Io invece dormo su» aggiungo, indicando rispettivamente la porta sulla mia destra e la scala a chiocciola.
    «Sembra molto silenzioso» commenta, dando un'occhiata al bagno e alla stanza. «Ma forse è solo perché è notte, magari c'è poco traffico.»    
    «No, anche di giorno è tranquillo» rispondo, appoggiando giubbotto e borsa sul divano. «La piazza è tutta pedonale e la strada è a senso unico. Non si direbbe, ma riduce abbastanza il traffico.»
    «Posso salire?» mi domanda, tenendo una mano sulla balaustra.
    «Certo, ci mancherebbe.» Lo seguo mentre sale ammirando la qualità del lavoro dell'ebanista che ha realizzato la scala. «Mi sono sempre piaciuti i soppalchi, è stato un vero colpo di fortuna trovare un appartamento che ne avesse uno.»
    «Ma guarda, ti sei proprio sistemata bene. Guardando da sotto non avrei mai detto che fosse tanto spazioso.»
    «Sì, l'armadio a muro fa guadagnare un sacco di posto» confermo, facendo scorrere l'anta per rivelare lo spazio per il guardaroba.
    «E guarda qui, hai pure trovato posto per tutti i tuoi libri» sorride, avvicinandosi alla parete per dare un'occhiata alla mia collezione. «A casa avevi stipato tutto sotto il letto... sicuramente qui non avrai problemi di spazio.» In effetti, nonostante la mia biblioteca personale sia arrivata qui ripartita in cinque grossi scatoloni, ho ancora molte mensole da riempire. Sto per rispondere, ma proprio in quel momento mio padre abbassa gli occhi sulla scrivania, al centro della quale troneggiano quattro o cinque preservativi ancora chiusi nelle loro confezioni. Immagino che questo sia uno di quei momenti in cui chiunque vorrebbe morire. Allungo svelta una mano e li raccolgo, ma ormai il danno è fatto, e l'imbarazzo palese. «Ti... ti vedi con qualcuno?» mi domanda, e in ogni sillaba sento la fatica che gli costa anche solo pensare che io possa essere stata a letto con un uomo.
    «Beh, io... sì, qualcosa del genere.» Non so di preciso come si possa definire quello che stiamo mettendo in piedi Shannon ed io, perciò credo che accettare il termine 'vedersi' sia una mossa piuttosto saggia. «Insomma, siamo ancora all'inizio, non c'è niente di... ufficiale, ecco.» A parte il fatto che ci siamo detti 'Ti amo' una settimana dopo esserci conosciuti, il che farebbe pensare che siamo piuttosto sicuri dei nostri sentimenti. «Non è che sto per sposarmi, ecco.»
    «Non... non è per questo che te ne sei voluta andare, vero? Perché... ecco, se avessi voluto portare qualcuno in casa non... non ci sarebbero stati problemi, ecco.»
    «I ragazzi non c'entrano, papà. Volevo trasferirmi già da tempo, già da molto prima di conoscere questa... beh, questa persona. Avevo programmato di prendere casa, ma non di... beh, di...»
    «...innamorarti?» conclude, sorprendendomi non poco. Non l'ho mai sentito parlare così apertamente di sentimenti, anche se immagino sia normale, specialmente da quando l'amore fa di nuovo parte della sua vita. «Non sono cose che puoi programmare» continua, sedendosi sul bordo del letto. «Non puoi scegliere quando farlo accadere e non puoi scegliere di chi ti innamori. Non è una giostra su cui si sceglie di salire volontariamente.» Mi siedo accanto a lui, in attesa che continui a parlare. «Immagino che l'ultima cosa che ti serva sia un sermone. Al giorno d'oggi voi ragazzi siete così... preparati, in materia.»
    «No, da quel punto di vista so tutto quel che bisogna sapere» ammetto.
    «E allora non credo di avere molto da dire, se non... beh, fai attenzione. E se hai bisogno di parlare... beh, so che forse un padre non è proprio l'ideale per certe conversazioni, ma... ecco, se avessi bisogno di parlare con qualcuno e non ci fosse nessun altro...»
    Annuisco, alzando gli occhi sul suo viso. «So che ci sarai sempre, per me.»



*



Torino, 13 novembre 2013



    Sono sola da un'ora, e da un'ora non faccio che fissare il soffitto, distesa al centro del letto, crogiolandomi nell'illusione che mi sentirò meno sola, se occupo più spazio. È l'una passata, e sebbene sia sicura che lo sia anche a Francoforte, non voglio chiamare Shannon perché ho paura di disturbarlo. In fondo, stamattina mi ha scritto che si sarebbero chiusi tutto il giorno in sala prove, e so che domani è il giorno del concerto – e per quanto per loro i concerti siano la normalità, non posso non pensare che voglia riposarsi per essere al meglio. Alla fine, decido di mandargli un messaggio – almeno se sta dormendo non lo disturberò.
    Non sono passati nemmeno cinque minuti, ed ecco che il cellulare inizia a vibrare violentemente contro il ripiano del comodino. Non ho bisogno di leggere il mittente della chiamata per sapere che si tratta di lui. «Ehi, sei ancora sveglio?»
    «Anche tu, a quanto pare. Volevo chiamarti, ma pensavo dormissi. Non ti volevo svegliare. Che hai fatto di bello stasera?»
    «Sono uscita dal lavoro e sono andata a cena con la mia famiglia. Mia nonna mi ha praticamente obbligata ad accettare l'invito, ha detto che se avessi rifiutato non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Mia sorella ha cercato di convincermi a dormire lì, ma ho preferito tornare qui. Così mio padre ha insistito per accompagnarmi, perché non si fidava a lasciarmi tornare da sola. Ho colto al volo l'occasione e gli ho fatto vedere la casa.»
    «Gli è piaciuta?»
    «Molto. Si è innamorato dei mobili, credevo che si volesse portare via un comodino.» Esito un attimo, chiedendomi se sia il caso di raccontargli anche la storia dei profilattici. Ci penso su, e mi dico che ormai mi ha vista nuda, quindi tanto vale sputtanarsi completamente. «Ieri quando ho messo in ordine in camera ho visto che hai dimenticato dei preservativi. Li ho messi sulla scrivania, e quando mio padre è salito per vedere la stanza li ha visti.»
    «Oh. Beh, ma immagino sappia che non sei più vergine. Insomma, sei donna già da un po'.»
    «Shannon, c'è differenza tra sospettare che tua figlia abbia una vita sessuale e avere la conferma che è stata a letto con qualcuno. Sono cose che ti cambiano la vita, se sei un padre. Insomma, se avessi una figlia non credi che ti disturberebbe sapere che fa certe cose?»
    «Credo che quando avrò una figlia la chiuderò in camera sua finché non avrà compiuto settant'anni» ribatte prontamente. «Anzi, per ovviare al problema credo che farò soltanto maschi.»
    «Sai, non credo sia possibile decidere il sesso dei propri figli. Insomma, è vero che viviamo in un mondo tecnologicamente avanzato, ma questo sfocia nella fantascienza. Ma poi, perché abbiamo iniziato questo discorso?»
    «Sei stata tu a cominciare a parlare di bambini» ribatte, divertito.
    «No, io ho soltanto detto che i padri tendono a vedere le figlie come eterne bambine, e che mio padre in particolare è convinto che io abbia ancora tredici anni e sia ancora interessata alle bambole. O almeno, ne era convinto fino a questa sera.»
    «E io ho soltanto detto che quando sarò padre mi adeguerò alla media e sarò estremamente geloso delle mie figlie.»
    «Cos'è questo improvviso istinto paterno?» gli domando, estremamente curiosa di sapere che cosa si nasconda dietro queste sue nuove convinzioni.
    «Tomo ha annunciato che lui e Vicki hanno intenzione di avere un bambino. Immagino di essermi immedesimato un pochino in lui. È una vita che stanno insieme, era ora che si decidessero.»
    «E quindi adesso anche a te è venuta voglia di avere un figlio?» lo prendo in giro.
    «No, però... beh, è naturale che mi sia chiesto come sarebbe diventare padre. Insomma, sono quelle domande che di tanto in tanto capita di farsi, no?»
    «Immagino di sì. A me è già capitato di chiedermi come sarebbe essere mamma, perciò...»
    «Tu saresti una madre meravigliosa» mi interrompe, abbassando la voce come per non essere sentito. «E credimi, io di madri meravigliose ne so qualcosa.»
    Effettivamente credo che Constance Leto costituisca una categoria a sé, tipo una specie di super-mamma ineguagliabile. «Sicuramente ne sai più di me» commento, senza riuscire ad evitare un tono triste.
    «Scusa, non era mia intenzione offenderti» aggiunge svelto, ricordandosi che purtroppo non ho avuto la fortuna di avere accanto una madre – tanto meno una come la sua.
    «Non sono offesa, tranquillo.»
    «Per farmela pagare potresti farmi notare che almeno tu hai avuto un padre. Me lo merito.»
    «Se fossi offesa potrei farlo, ma ti assicuro che non lo sono. Che stai facendo?» aggiungo subito dopo, cercando di sviare il discorso su binari più semplici e felici.
    «Ho fatto una doccia, ora mi metto il pigiama e vado a letto. Domani sarà una giornata pesante.»
    «Metti il pigiama?» ripeto, incredula. «Quando sei stato qui non mi sembra di aver visto pigiami nel tuo borsone. Non hai messo nessun pigiama.»
    «Forse da te non l'ho portato perché sapevo che sarebbe stato inutile. Insomma, sapevo che qualcuno avrebbe cercato di strapparmelo di dosso dopo cinque minuti. Era un peso inutile in valigia.»
    «E dai, non prendermi in giro» protesto debolmente. «Mi stai facendo passare per la ninfomane della situazione.» In realtà, devo ammettere che questo continuo stuzzicarci mi piace un sacco.
    «Ho una collezione di pigiami molto carini, credo che ti piacerebbe vederli.»
    «Potresti mandarmi una foto, così potrei valutare di persona.»
    «Ah, ma tanto non credo metterò il pigiama, qui. La stanza è caldissima, sembra quasi di stare all'inferno.»
    «Beh, almeno non soffrirai il freddo. E non corri il rischio di raffreddarti.»
    «Già... per fortuna almeno sono solo.»
    «Che intendi?»
    «Se la stanza è troppo calda e sei solo, te la fai andare bene e sopporti. Ma se la camera è troppo calda e sei in compagnia, ti passa ogni stimolo di... beh, di fare qualunque cosa che non sia dormire.»
    «Allora è davvero una fortuna che non abbia deciso di fare una follia e accettare il tuo invito a venire con te a Francoforte. Ci saremmo annoiati a morte.»



*



Francoforte, 13 novembre 2013


    Quella battuta, capitata nel bel mezzo della conversazione come un fulmine a ciel sereno, per un istante mi pietrifica. Per quanto avessi già capito che Daria non è una suora, quella frase così esplicita mi ha spiazzato, aprendomi un nuovo ventaglio di possibilità – a questo punto, posso dirmi assolutamente certo che Daria non è una di quelle ragazze che respinge l'idea di avere conversazioni... beh, particolari. Decido di stare al gioco: chissà che da questa telefonata non possa uscire qualcosa di molto soddisfacente. «Perché, tu che cosa credi che avremmo potuto fare in una stanza fredda?»
    «Tanto per cominciare, avresti potuto farmi vedere la tua famosa collezione di pigiami» la sento rispondere in tono deciso. «Anzi, magari avresti potuto fare una piccola sfilata per me» aggiunge dopo un attimo di pausa.
    «E una volta finiti i pigiami?» Non vedo l'ora di scoprire fino a che punto sia disposta a spingersi.
    «Beh, immagino che per scaldarmi avrei fatto un lungo bagno caldo... hai la vasca da bagno, vero?»
    «Naturalmente. È molto spaziosa, più o meno come la tua. A occhio e croce, direi che ci starebbero anche due persone.»
    «Oh, interessante. Insomma, se uno volesse risparmiare acqua...»
    «E dimmi, dopo il lungo bagno caldo che cosa avresti fatto?»
    «Mmh, credo che se la stanza fosse stata davvero molto fredda... mi sarei messa a letto, credo. A proposito, com'è il materasso?»
    Seduto con la schiena appoggiata alla spalliera, mi muovo un po' per testare la qualità del giaciglio. «Troppo morbido per i miei gusti. Li preferisco più duri, di solito.»
    «Quindi chissà come hai dormito male, qui. Il mio materasso è piuttosto morbido.»
    «Il tuo materasso era perfetto, invece. Insomma, aveva il giusto grado di morbidezza. Ci sono stato da Dio» aggiungo, sperando di farle capire che la morbidezza del materasso costituiva l'ultima delle mie preoccupazioni. «Che avresti fatto, una volta a letto?»
    «Mi sarei tirata le coperte fin sopra la testa e mi sarei addormentata, credo.»
    «E se io non fossi riuscito ad addormentarmi?»
    «Perché non ti saresti dovuto addormentare?»
    «Oh, sai, avrei potuto essere nervoso per il concerto. O semplicemente avere troppo freddo per dormire. Non dirmi che ti saresti addormentata così spudoratamente pur sapendo che io non ci riuscivo.»
    «Vuoi farmi credere che dopo tutti questi anni l'idea di un piccolo concerto ancora ti spaventa?»
    «Era soltanto un'ipotesi.»
    «Ok, farò finta di crederci. Beh, se non fossi riuscito ad addormentarti, credo che... non lo so, magari ti avrei fatto parlare.»
    «Parlare?» ripeto, decisamente incredulo.
    «Sì, parlare. Se non fossi riuscito a dormire per un problema di nervosismo, ti avrei fatto parlare di ciò che ti rendeva nervoso. Parlare aiuta sempre.»
    «Sì, ma parlare non scalda» ribatto, calcando l'accento sull'ultima parola.
    «Giusto, dimentico che stiamo giocando a 'Cosa faresti se fossi in una stanza gelida'» risponde con una leggera risata. Chiudo gli occhi e me la immagino mentre si tormenta le labbra con due dita, cercando una risposta – e devo ammettere che quell'immagine mi eccita da morire. Sono i piccoli gesti, le piccole cose che fa a rendermi completamente pazzo di lei. «Che so, magari avrei potuto farti un massaggio. Dicono che a volte un bel massaggio alla schiena aiuti a rilassarsi.»
    «Chiunque l'abbia detto meriterebbe un premio» affermo, alzando una mano per scostarmi un ciuffo di capelli dagli occhi. È impossibile non pensare a quanto sarebbe eccitante starmene sdraiato con lei addosso, con le sue mani impegnate a premere determinati punti della mia schiena, e... Dio, non credo che riuscirei a lasciarla andare avanti per molto. «Non mi avevi detto di saper fare i massaggi.»
    «Non me lo hai chiesto» ribatte con un tono piuttosto allusivo. «E di sicuro non è una di quelle cose che dici appena ti presenti a qualcuno.»
    «No, immagino di no. Sai che mi riservi una sorpresa dopo l'altra?»
    «Dovrebbe essere un modo carino per dirmi che ti piaccio?»
    «Dovrebbe essere un modo per dirti che sei una persona speciale e adoro stare con te. E soprattutto che vorrei fossi qui, così potresti farmelo sul serio quel massaggio. Ho la schiena a pezzi. Oggi ci è mancato poco che Jared mi ci legasse, alla batteria.»
    «Forse vuole solo essere sicuro che facciate una bella figura domani sera.»
    «Sì, ma non può certo continuare a sfruttarmi così. Dovrebbe rendersi conto che non sono più un ragazzino.»
    «Strano, l'altra notte non mi sei sembrato così... deboluccio. A meno che non fosse il cosiddetto 'canto del cigno', se capisci che intendo.»
    «Capisco benissimo che cosa intendi, e se fossi lì ti costringerei a rimangiarti quello che hai detto a forza di solletico.»
    «Ehi, guarda che non volevo offendere...» Finge serietà, ma io sento la risata che sta lottando per essere sfogata. «Davvero, non volevo offenderti.»
    «E va bene, potrei essere disposto a crederti» cedo infine. «Però nel dubbio un po' di solletico te lo farei comunque. Non è che puoi passarla liscia soltanto perché sei tu.»
    «E nemmeno lo vorrei» ribatte. «Shannon, mi manchi da morire» aggiunge subito dopo, abbassando la voce. «Ti sembrerà infantile e stupido, però... vorrei davvero che fossi qui.»
    Segue un lunghissimo istante di silenzio, durante il quale sento le mani formicolare come non mai: resistere alla tentazione di rifare il borsone e tornare in aeroporto è più forte che mai. Di solito mi sento così soltanto quando sono lontano dalla batteria e non posso suonare. Non ho mai provato niente di così intenso e sconvolgente. «Vorrei essere un uomo normale» sussurro alla fine. «Vorrei essere un uomo normale, con un lavoro normale, con una vita normale... quasi vorrei non aver scoperto la musica, e questa è una cosa che mi fa andare fuori di testa, perché la musica è l'unica cosa positiva che ci sia stata nella mia vita, l'unica cosa in cui sia mai riuscito bene, e... e adesso ti ho conosciuta e sarei disposto a mollare tutto per venire da te. Non... è una cosa stranissima. Non mi sono mai sentito così, eppure... non lo so, mi piace. Mi manda fuori di testa, ma mi piace. Mi piaci. La mia vita è un casino, io sono un casino, però... mi piace sapere che può esserci qualcosa anche per me, come... sai, una... una possibilità di essere felice. E mi piace l'idea che quella possibilità sia tu.»



*



Torino, 13 novembre 2013



    «Non mi hanno mai detto... non mi hanno mai detto qualcosa di così... beh, romantico.» E commovente. E straordinario. E da sciogliersi. Non so di preciso quale strana proprietà fisica mi trattenga dall'esplodere in un turbinio di coriandoli. Senza usare la classica e abusata formula, Shannon ha appena detto qualcosa tipo 'Ti amo' – e anche se sono sempre io, sempre la solita insicura che non riesce ad avere una visione positiva delle cose... beh, rendersi conto che un uomo come Shannon ha appena detto di amare il fatto di averti incontrata non può che farti sentire bene.
    «Lo penso. Lo penso davvero. Non dico mai cose che non penso.»
    «Sai, credo che se fossi lì in questo momento ti bacerei.»
    «Sì, anch'io credo che lo faresti» risponde con una leggera risata. Se da un lato sono stupita da questo repentino cambio di registro, d'altro canto ne sono felice: non so se avrei potuto sopportare un'altra confessione romantica senza scoppiare in lacrime o qualcosa del genere. «E non ti limiteresti a quello.»
    «Ecco che riattacchi, ecco che riattacchi con le pose da macho» ribatto, ricordando una battuta sentita in un film che non vedo da tempo.
    «Ehi, questo è Independence day! Mi rispondi usando le battute dei film?»
    «Hai visto quel film?»
    «Ci sono gli alieni, cose che esplodono e poi c'è Will Smith. Naturale che l'ho visto.»
    «Era uno dei miei film preferiti, quando ero adolescente. L'ho visto così tante volte da saperlo a memoria... la battuta mi sembrava adatta al momento.»
    «Beh, devo dire che lo era. E tu sei molto più carina di Vivica Fox.»
    «Shannon, questa proprio non me la bevo.»
    «Io ti trovo infinitamente più carina di lei. Beh, in realtà non volevo usare il termine carina, ma...»
    «Non importa, credo di aver capito» lo interrompo, senza trattenere un sorriso. «Meglio lasciar perdere il discorso, immagino sia uno di quegli argomenti su cui non riusciremmo a trovarci d'accordo nemmeno tra un secolo.»
    «E va bene, accetto. Ma se fossi lì, sono sicuro che riuscirei a convincerti.»
    «Ci potresti provare, ma non so se ci riusciresti... ehi, sai che ore sono?»
    «Non ne ho la minima idea.»
    «Invece dovresti. Sono le due, dovresti andare a letto.»
    «Ci sono già a letto.»
    «E allora dovresti dormire, altrimenti domani tuo fratello ci ucciderà.»
    «Ci
    «Sì, ci ucciderà, perché quando saprà che ti ho tenuto sveglio fino a tardi non credo sarà molto tenero con me.»
    «Neanche poi fosse la prima volta che mi tieni sveglio fino a tardi...» Malizia pura in ogni parola.
    «Smettila» gli intimo, pur se con il sorriso sulle labbra. «Salutami, riattacca e vai a dormire.»
    «Solo se fai lo stesso.»
    «Beh, mi sembra ovvio che se riattacchi tu riattacco anche io.»
    «Solo se anche tu vai a dormire, intendevo.»
    «Shannon, ho la sveglia programmata per le sette. Naturalmente vado a dormire.» Pensandoci, c'era quasi una nota di gelosia nel suo tono – e sapere che uno come lui è geloso di una come me mi emoziona fino quasi a farmi salire i lacrimoni. Di nuovo. «Buonanotte, Shannon.»
    «Buonanotte, Daria.»
    Restiamo entrambi in silenzio, aspettando che sia l'altro a riattaccare – sì, siamo più imbarazzanti di una coppia di dodicenni. «Hai intenzione di mettere giù o no?» gli domando infine.
    «Conoscendoti, ho paura che mettendo giù per primo ti scatenerei chissà quali attacchi di paranoia. Metti giù tu.»
    «Non ci penso affatto, metti... oh, facciamo così. Contiamo fino a tre, e al tre mettiamo giù. Entrambi
    «Ci sto. Pronta? Uno... due... due e un quarto... due e...»
    «Shannon...»
    «Ok, stavo scherzando. Ricominciamo. Uno... due... tre.»
    Con un gesto preciso e secco, quasi avessi passato la vita ad allenarmi, al tre premo il tasto rosso e interrompo la chiamata. Poi appoggio il cellulare sul comodino, mi giro dall'altra parte e chiudo gli occhi. Ora che gli ho parlato, sento la sua mancanza più che mai.



*



Francoforte, 13 novembre 2013



    Sorrido ad un telefono ormai muto: non so perché, ma sapevo che avrebbe messo giù al tre. Un po' mi dispiace, perché il 'Ti amo' che mi è rimasto intrappolato tra le labbra brucia come una ferita aperta. Ma forse è meglio così: conoscendola, probabilmente da quella frase avrebbe tratto migliaia di conclusioni diverse, una più sbagliata e inquietante dell'altra – per la prima volta l'ho sentita completamente serena, rilassata, senza pensieri, ed è mia intenzione far sì che mantenga questo stato d'animo il più a lungo possibile.


1 Ieri ho incontrato l'amore, mi ha detto: «Passavo di qua». | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Sperare del gruppo italiano La Fame Di Camilla, recentemente scioltosi (con somma depressione da parte di molti fan, tra cui la sottoscritta). La canzone è contenuta nel primo EP della band, La Fame Di Camilla (2008). Se li conoscete, mi complimento con voi per gli ottimi gusti musicali. In caso contrario, vi invito gentilmente ad aprire YouTube e farvi una cultura. Non osate tornare finché non avrete sentito almeno Crescere, Storia di una favola, Ne doren tende, Globuli, Come il sole a mezzanotte e Piccole cose (che sai ignorare).
2Tipo che in casa di tuo fratello non ci sono specchi. | Questo dev'essere vero per forza, altrimenti non si spiegano i look decisamente casuali (casuali, non casual) con cui Jared si fa vedere in giro di solito.

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Capitolo 15
*** 15 | Senti, io non voglio più parlare di ciò che è vero e di ciò che è illusione: la vita è breve. Non sprechiamo tempo per pensare alla vita, viviamola e basta. ***


Portagioie di tristezza | 1

Come al solito, sono in ritardo con gli aggiornamenti. Vi chiedo scusa. Ma in più stavolta, tanto per rendermi ancora più odiosa, ho prodotto un capitolo più breve del solito (nove pagine di Word invece delle solite dodici/tredici). Vi domando scusa anche per questo. Se può consolarvi, ho deciso di tagliare prima per riuscire a regalarvi un sedicesimo capitolo ricco di eventi.

Spero che questo mini-capitolo vi soddisfi. Buona lettura,

EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo quindicesimo
Senti, io non voglio più parlare di ciò che è vero
e di ciò che è illusione: la vita è breve.
Non sprechiamo tempo per pensare alla vita,
viviamola e basta.1


Torino, 15 novembre 2013


    Ringrazio di avere un lavoro che mi impegna parecchie ore al giorno, perché è principalmente grazie a questo se sono riuscita a superare la settimana senza deprimermi troppo per la distanza da Shannon. Tuttavia, oggi è venerdì, e mi rendo conto che sarà complicato affrontare il fine settimana senza rovinare l'umore più o meno buono che mi ha accompagnato nei giorni scorsi. È vero che Shannon non ha fatto mancare la sua presenza, bombardandomi di sms e chiamate ogni volta che nella sua fitta agenda si trovava un buco libero, senza contare poi che esistono anche i social network: da quando Alice mi ha fatto scoprire Instagram, circa sei mesi fa, faccio un giro sul suo profilo almeno due o tre volte a settimana – da quando lo conosco, una o due volte al giorno, tanto che ormai credo di saperne più del signor Lavazza, in tema di caffè.
    È quasi la mezza, e sto camminando in via Po. Di solito in pausa pranzo rimango in negozio e mangio con Marco, così da poter tenere aperto in caso qualche cliente decidesse di passare proprio in quel momento, ma oggi ho declinato l'invito e ho deciso di uscire – in effetti non ho nemmeno molta fame, perciò decido di impegnare il tempo in qualcosa che sento di dover fare. Controllo che non siano in arrivo auto e ignoro un semaforo rosso, attraversando di corsa la strada. Individuo il portone del palazzo verso cui sono diretta e salgo dritta al terzo piano. Lo studio del dottor Martini, lo psicologo con cui parlo dai tempi del liceo, è sempre pulitissimo e ordinato, e la segretaria sempre ferma al suo posto, dietro una scrivania immensa e sempre piena di carte. «Buongiorno» la saluto. «Chiedo scusa per il disturbo. Volevo prendere un appuntamento con il dottore.»
    «Buongiorno» risponde lei con il solito sorriso, mettendo da parte il contenitore di plastica che stava per aprire. La conosco da tempo, e so che in quella scatola c'è il suo pasto – un po' come Marco, è talmente attaccata al suo lavoro che non lascia l'ufficio nemmeno per la pausa pranzo, per essere sempre pronta ad ogni evenienza. «La signorina Giordano, giusto?»
    «Sì, esatto. Daria Giordano.» Per un sacco di tempo ho frequentato lo studio una volta a settimana, ma nel corso degli ultimi due mesi ho diradato le visite, sicura di potermela cavare da sola, oppure con il sostegno morale di Alice. Ma quello che sta succedendo ultimamente è troppo complicato, troppo strano... semplicemente troppo da affrontare da sola.
    Inizia a consultare l'agenda, cercando uno spazio libero. «Ci sarebbe posto lunedì pomeriggio alle quattro e...» Si interrompe quando sente la porta dello studio aprirsi, e come me alza lo sguardo sul dottore, che si sta aggiustando addosso il cappotto, evidentemente pronto per uscire.
    «Daria, che sorpresa!» esclama nel vedermi. «Ho forse dimenticato un appuntamento?» domanda, guardando la segretaria.
    «No, la signorina Giordano è passata per fissare un colloquio» risponde lei, mostrando l'agenda. «Ci sarebbe un posto disponibile lunedì alle quattro e trenta» continua, guardando di nuovo verso di me.
    Non faccio in tempo a rispondere, che subito mi sento chiedere: «Hai bisogno di parlare?»
    «Beh, in realtà sì, ma non... non è successo niente di grave, ecco. Non è che sia urgente.» In realtà sì, il mio bisogno di sfogarmi con qualcuno è piuttosto urgente, ma nessuna delle persone con cui posso farlo è disponibile: Francesca è ancora a scuola, e Alice a lezione – e subito dopo prenderà un treno per Milano, perché ha organizzato un fine settimana con Federico. «Posso benissimo aspettare lunedì.»
    Il dottor Martini mi fissa a lungo attraverso gli occhiali dalla montatura sottile, e dopo quasi mezzo minuto mi domanda: «Sei occupata, adesso?»
    «No, sono in pausa pranzo» rispondo in fretta, senza capire dove voglia arrivare.
    «Allora parliamo adesso. Lasci perdere l'appuntamento» aggiunge, rivolgendosi alla segretaria, che spinge via l'agenda e rimane a guardarci.
    «Ma lei se ne stava andando, non posso...»
    «Stavo andando a pranzo, ma questo non significa che non possa ascoltarti, nel frattempo» mi interrompe con il solito tono calmo che ho imparato ad apprezzare. «Anzi, suppongo che tu non abbia ancora pranzato, dunque perché non ti unisci a me?»
    «Ma no, non posso disturbarla nella sua pausa. Anche lei ha diritto ad avere un po' di respiro.»
    «Come ti pare. Buon appetito, Loredana. Per qualunque emergenza, sarò al solito posto» conclude, rivolgendosi alla segretaria, che lo ringrazia e lo saluta con un sorriso. «Allora a lunedì, Daria.» Esce e se ne va, lasciandoci sole.
    «Scrivo?» mi chiede Loredana con un sorriso, dopo essersi nuovamente avvicinata l'agenda e la penna.
    Il mio sguardo passa dall'agenda ai suoi occhi, di un bellissimo tono di grigio, e mi chiedo se tutti questi anni trascorsi a prendere appuntamenti per conto di uno psicologo non abbiano reso anche lei un po' esperta di questo genere di cose. «Magari chiamo. Forse lunedì ho già un impegno. Ora... ora vado. Arrivederci. Buon appetito.»


    «Un minuto netto, senza contare il tempo di spostamento. Stai migliorando i tempi. Un anno fa avresti impiegato cinque minuti per decidere il da farsi.»
    «Mi stava aspettando?»
    «Mi pare evidente. Sarò anche anziano, ma le mie gambe funzionano ancora abbastanza bene da consentirmi di coprire una ragionevole distanza in un paio di minuti.» Sorride, e io con lui. «Vogliamo andare? Sarai mia ospite. Sono un cliente fisso, non sarà un problema aggiungere un posto a tavola.» Ci incamminiamo nella direzione opposta rispetto a quella da cui provengo. «Se ti stai chiedendo come sono riuscito a capire che avevi bisogno di parlare...»
    «Si vede dagli occhi, lo so» lo interrompo. «Scusi, non volevo essere maleducata. È solo che sapevo quello che stava per dire. Me lo dicono tutti. È vero che gli occhi sono lo specchio dell'anima, ma a volte credo che i miei esagerino un po'.»
    «Per fortuna, invece. Sei così poco comunicativa che sarebbe un incubo tentare di capirti, se non ci fossero i tuoi occhi a fare la spia. Non prendere il 'poco comunicativa' come un'offesa. Che tu sia una donna di poche parole è palese.»
    «Non l'avrei presa come un offesa. Sono consapevole di non essere molto... beh, loquace
    «Essere di poche parole a volte è un pregio. Se si sa ascoltare, naturalmente. Eccoci, siamo arrivati» aggiunge, fermandosi davanti all'ingresso di un piccolo locale. Mi accorgo di esserci passata davanti migliaia di volte, ma di non essermi mai accorta che ci fosse un ristorante.


    Ci sediamo, e mentre lascio che il dottore ordini anche per me e che un cameriere aggiunga un coperto penso alle parole giuste da usare per descrivere la mia situazione. «Dunque, di che cosa si tratta questa volta? Familiare, professionale o privato?»
    «Privato, ma con alcune ripercussioni anche negli altri ambiti» rispondo, sapendo che non posso dividere la mia vita in compartimenti stagni, e che qualunque decisione prenderò nei confronti di Shannon potrebbe ribaltare completamente la mia esistenza.
    «Beh, sentiamo. Sono piuttosto curioso.»
    «Credo... beh, credo di essermi innamorata.»
    «Interessante. L'ultima volta che ti è successo qualcosa di simile ti ci è voluto un anno per uscirne» risponde, scostandosi per permettere al cameriere di servirci un'invitante insalata a base di verdure e formaggio.
    «C'è una grande differenza rispetto all'ultima volta» ribatto.
    «E sarebbe?»
    «Questa volta non credo di volerne uscire.»
    «Parlami di lui, se ti va. Chi è, che cosa fa nella vita...»
    «Suona la batteria in una band, è americano, è spesso in giro a fare concerti. In questo momento è in Germania. Ci siamo conosciuti un paio di settimane fa, quando stavano suonando qui in Italia.»
    «Un paio di settimane non ti sembrano poche per dire di essere innamorata?»
    «Non la sto prendendo alla leggera, se è questo che sta pensando. Anzi, il mio problema è proprio l'opposto: la sto prendendo troppo seriamente.»
    «Spiegati meglio, per favore.»
    «Beh, è tutta una questione di conflitto tra cuore e cervello. Il cuore mi dice che posso fidarmi di lui, che non mi ferirà, che potrebbe rendermi felice e che rendermi felice è tutto quello che vuole...»
    «...ma la testa ti chiede di rallentare e di riflettere» conclude. Annuisco, infilandomi in bocca una forchettata di verdure. «Direi che in pratica ti sei già analizzata da sola. Resta solo da capire a chi intendi accordare la tua fiducia, se al cuore o al cervello. E per capire quale dei due vuoi seguire, devi pensare a quali risultati ti hanno condotto entrambi in passato. Devi pensare a quante volte hai seguito l'uno e l'altro, e quali conseguenze quelle scelte hanno prodotto.»
    Non ho bisogno di fare lunghe riflessioni, per ricordare quale parte di me ha predominato in questi anni. «Ho sempre seguito la testa» sospiro. Ho sempre seguito la testa, ed è per questo che sono arrivata alla mia età sentimentalmente sola, quasi vergine nel fisico e totalmente illibata nello spirito. Nonostante quello che ha detto poco fa il dottor Martini, io non mi sono mai innamorata – mai una volta nella vita. «Ho sempre dato ascolto alla testa, perché credevo... beh, credevo che dare ascolto alla mia parte razionale mi avrebbe aiutato a fare la cosa giusta. Ho sempre associato la ragione alla felicità.»
    «E come è finita?»
    «Com'è finita?» ripeto. «È finita che a ventitré anni ancora ho paura che lo scopo principale delle persone sia di ferirmi e lasciarmi devastata. Forse avrei dovuto dare retta al cuore, di tanto in tanto. Non è abituato a sentirsi tanto importante.»
    «Qual è la decisione che devi prendere? Perché immagino che ci sia una decisione che devi prendere nell'immediato, e che sia questa a causarti i maggiori dubbi.»
    «Questo fine settimana lui è stato ospite a casa mia, e prima di andarsene mi ha proposto di raggiungerlo a Parigi. A fine mese sarà lì con la band per alcuni concerti, e vuole che li raggiunga. Vuole che lo veda inserito nel suo mondo, mentre fa quello... beh, quello per cui è nato, quello che lo rende felice.»
    «Un pensiero molto carino, devo ammetterlo» commenta il dottor Martini, facendo scarpetta nel proprio piatto. «Interessante anche la scelta della città. Posso immaginare che non sia casuale?»
    «Non saprei proprio come risponderle, in realtà» ammetto. «Ho accettato l'invito quasi subito, se devo essere sincera. Per una volta ho lasciato perdere il cervello e mi sono concentrata sulle sensazioni che provenivano dal cuore. Solo che poi... beh, è sopraggiunto un piccolo dubbio.»
    «Posso supporre che il dubbio riguardi la reciproca conoscenza... fisica? So quanto ti sia sempre stato difficile mostrarti, da quel punto di vista.»
    Scuoto la testa, mentre lo stesso cameriere di prima ritira i nostri piatti e li sostituisce con stoviglie pulite. «Il dubbio non riguarda questo. In realtà, quello è uno scoglio che ho superato. Ancora non ho capito come, ma... è successo, ed è stato... è stato incredibilmente naturale, come se fosse scritto nel nostro destino. La chimica ci è stata amica.»
    «E allora su cosa puoi avere dei dubbi?» mi domanda sbigottito, scostandosi per lasciare spazio al cameriere e ad grande vassoio colmo di risotto alle erbe.
    «Beh, raggiungendolo a Parigi avrò la possibilità di stare con lui e di vederlo nel suo ambiente, ma questo significa anche che avrò l'occasione di conoscere suo fratello e uno dei suoi migliori amici, che fanno parte della band. E... beh, io non so se sono pronta a conoscere persone così vicine a lui. Lui non conosce ancora nessuno dei miei amici, e sicuramente nessuno della mia famiglia.»
    «Daria, l'amore non è questione di simmetrie. Non potete avanzare presentandovi un parente ciascuno. Probabilmente lui non ha avuto occasione di incontrare persone a te vicine, ma questo non significa che tu non possa conoscere qualcuno vicino a lui. Non è una questione di simmetrie» ripete, mentre io ripenso al fine settimana e alla faccia che avrebbero fatto a casa se mi fossi presentata a pranzo assieme a Shannon – mia nonna avrebbe fatto salti di gioia, mentre a mio padre sarebbe certamente venuto un infarto.
    «Non è solo questo» riprendo. «Dottore, lui è un uomo di quarantatré anni» sputo fuori d'un fiato. Già che siamo in vena di confessioni, meglio essere sincera – tanto vige il segreto professionale, anche se sto parlando in un luogo pubblico dove chiunque mi potrebbe sentire. «Per quanto a volte dimostri la maturità di un ragazzo di venti, non posso ignorare il fatto che anagraficamente potrebbe essere mio padre.»
    «Perdona la franchezza che sto per usare, e ti prego di credere che non sto cercando di offenderti, ma... conoscere la sua reale età non ti ha dissuaso dall'intenzione di andare a letto con lui» taglia corto lui. In effetti ha parlato senza mezzi termini, ma capisco il suo punto di vista. «Insomma, tutti i dubbi e i complessi che ti impedivano di avere una normale vita sessuale con il tuo ex fidanzato in questo caso non hanno giocato alcun ruolo. Ti sei sentita libera, ti sei comportata in maniera naturale... e l'età non ha avuto peso in questa decisione. Perché te ne preoccupi adesso
    «Suppongo... suppongo di temere il giudizio della gente. Le coppie in cui c'è molta differenza d'età attirano sempre un certo numero di maldicenze.»
    «O forse temi che qualcuno all'interno della tua famiglia possa sentirsi a disagio. Forse tuo padre potrebbe faticare ad accettare che sua figlia abbia una relazione con un uomo quasi suo coetaneo. Forse credi che tuo padre potrebbe sentirsi sminuito nel suo ruolo di capofamiglia. In fondo è su questo principio di distinzione tra vecchio e nuovo che si fonda la famiglia tradizionale: esistono gli anziani, il cui ruolo è di fare da guida, e poi ci sono i giovani, che hanno il compito di sbagliare. Certo è che se il giovane in questo caso ha la stessa età del vecchio, l'ordine viene sovvertito.»
    «Più che altro, credo di temere il giudizio di mio padre» sussurro appena, come se mi fossi fermata alla sua prima frase. «Alice, la mia amica, mi ha spinta a raccontare a mia nonna qualcosa del mio 'uomo del mistero'. Non le ho rivelato la sua vera età, ma le ho fatto capire che non ha vent'anni. La notizia non l'ha sconvolta: l'uomo più importante della sua vita aveva quattordici anni più di lei, e per l'epoca si trattava di un vero e proprio scandalo. Non so perché non le ho raccontato la verità: da quattordici a venti il passo è breve.»
    «Forse temevi che la notizia giungesse a tuo padre. Anche se dovresti smettere di pensare al giudizio degli altri: tuo padre sta vivendo la sua vita, ha operato le sue scelte, vissuto le proprie relazioni. Hai ventitré anni, sei nei tuoi anni migliori – ammesso poi che gli anni migliori siano davvero quelli della giovinezza. Io dico: smetti di parlare, smetti di pensare in modo teorico. Se vuoi una relazione con quest'uomo, allunga le mani e prendila. Credi che amarlo sia la scelta giusta? Amalo. Pensi che possa renderti felice? Lasciati andare e scopri se ci riesce. Ma per l'amor del cielo, smetti di sprecare tempo.»



*



Torino, 25 novembre 2013


    «Hai preso tutto?» mi chiede Alice per l'ennesima volta, ossessiva quanto una mamma che veda l'unico figlio partire per la guerra. «Spazzolino, dentifricio, fazzoletti, mutande di ricambio, profilattici?» Va bene, forse una madre non mi avrebbe chiesto dei profilattici. «Mi raccomando, tra una ripresa e l'altra esci dalla meravigliosa suite che condividerete e manda una cartolina.»
    «Ehi, mica passeremo il tempo a fare sesso!» rispondo con un sorriso. «Insomma, spero abbia altri programmi. Sicuramente ogni tanto dovrà andare alle prove, senza contare poi le sere dei concerti. Non passeremo certo tutta la settimana in mutande.»
    «In mutande no, ma forse senza sì...» mi prende in giro, ammiccando. Dovrei ammettere che l'idea non mi disturba: in queste due settimane Shannon mi è mancato quanto l'aria – mi sono mancate le sue mani tese verso di me, i piedi caldi che toccano le mie dita gelide, la sua presenza solida e rassicurante nell'isola enorme del mio letto.
    Finalmente stasera non sarò più sola.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    «Shannon, vuoi smettere di agitarti? Mi sembri un lupo in gabbia.» Sto facendo impazzire Jared, ne sono consapevole, ma non riesco a stare fermo: l'idea che tra sole otto ore questa stanza sarà riempita del profumo di Daria e del suono della sua voce e delle sue risate mi fa uscire di testa. Provo ad immaginare come sarà stare di nuovo con lei, portarle la valigia fino in camera e guardarla sistemarsi – se un po' la conosco, come prima cosa si avvicinerà alla finestra, scosterà la tenda e darà un'occhiata al panorama. Quando ha confermato la prenotazione, Emma mi ha chiesto se volevo una camera con vista sulla torre Eiffel, ma ho rifiutato: conosco poco Daria, ma so che non ama le cose scontate, e questa lo sarebbe stata certamente – perciò ho pregato Emma di trovarmi una stanza con vista sulla basilica del Sacro Cuore2, sicuro che Daria lo gradirà.
    «Non riesco a calmarmi, Jared » devo ammettere alla fine. «E se avesse deciso di non venire?»
    «L'hai sentita ieri sera, e ti ha detto che avrebbe preso il treno questa mattina. Che cosa ti fa credere che potrebbe aver cambiato idea senza avvisarti?»
    «So quanto la spaventino i cambiamenti, le cose che non conosce. Questo viaggio sicuramente rappresenta qualcosa di nuovo.»
    «Shannon, non ha cambiato idea.»
    «Ma se lo avesse fatto?»
    «Non ha cambiato idea» ripete, calcando l'accento su ogni singola parola. «Se lo avesse fatto, ti avrebbe chiamato per dirtelo. E a quel punto probabilmente saresti andato a prenderla di persona a Torino.»
    Interrompo il mio pellegrinaggio e mi fermo accanto alla finestra, cercando di concentrarmi sul panorama. «Mi sento strano, sai?» dico dopo un po', con una voce che non sembra la mia.
    «Strano tipo malato?» ribatte subito mio fratello, alzando la testa di scatto come un animale che fiuta l'avvicinarsi di un predatore.
    «Strano tipo strano» rispondo, incapace di trovare una definizione migliore. «Mi sento come se avessi quindici anni e mi fossi preso una cotta per la ragazza più popolare della scuola.»
    «Come ai tempi di Christine?»
    «Sì, più o meno. Credo che potrei essere capace di fare le peggiori sciocchezze, per lei. Penso che niente sarebbe abbastanza strano o stupido, se fosse fatto per lei.»
    «Non credevo sarei vissuto abbastanza a lungo da vederti di nuovo così... annullato. Credevo che nessuna sarebbe mai stata in grado di colpirti quanto Christine. Quando con lei è finita... beh, lo sai. Eri distrutto. Eri letteralmente devastato.»
    «Mi ha spezzato il cuore in un miliardo di pezzi» ammetto. La rottura con Christine ha segnato l'inizio di un periodo buio, una depressione così tremenda da portarmi sull'orlo di un abisso – un abisso dal quale soltanto la straordinaria forza di mio fratello mi ha salvato. «Non sarei mai riuscito a rimetterli insieme, se non fosse stato per te» aggiungo, voltandomi per guardarlo.
    «Sono tuo fratello, era mia dovere starti vicino» risponde, facendo spallucce. Finge di non aver fatto nulla di importante, ma la verità è che senza di lui non sarei riuscito a riprendermi, e sicuramente non avrei avuto l'opportunità di fare della mia vita qualcosa di straordinario. «E sarei pronto a farlo ancora, se... beh, se dovesse succedere di nuovo.»
    «Non succederà» ribatto, stranamente sicuro di me. «Daria non mi spezzerà il cuore. E se anche dovesse accadere, non sono più lo stesso di vent'anni fa. Potrei sopportare il dolore senza cercare la via più facile per ignorarlo.»
    «Mi fa piacere sentirtelo dire» risponde lui, alzandosi dal letto sul quale è rimasto steso tutto il tempo. «Senti, adesso che ne dici di andare a provare? Tanto la tua ragazza non arriverà fino alle quattro, e avrai tutto il pomeriggio e la serata per stare con lei. Non guardarmi così, me lo devi!»
    «E va bene, mi inchino alla tua magnanimità. Andiamo, dai» taglio corto, afferrando il giubbotto mentre raggiungo la porta.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Manca poco più di mezz'ora al mio arrivo a Parigi, e inizio a non stare più nella pelle – non riesco a tenere ferme le mani, non riesco a tenere ferme le gambe. Continuo a controllare il cellulare, spaventata all'idea di essere in ritardo, e continuo a guardare fuori dal finestrino, chiedendomi in quale punto preciso ci troviamo. Vorrei scrivere a Shannon, ma ho paura che in caso di ritardo si preoccuperebbe, perciò decido di lasciar perdere. La signora seduta davanti a me mi tiene d'occhio da un po', pur rimanendo concentrata sul suo lavoro a maglia: ad occhio e croce deve avere più di sessant'anni, il che la renderebbe plausibile come nonna. «Non è che se continui a guardare l'ora arrivi prima» mi sento dire ad un certo punto. Alzo lo sguardo, e dal suo sorriso capisco che sta cercando di tranquillizzarmi. «Direi che c'è qualcuno che ti sta aspettando, a destinazione.»
    «Sì, c'è qualcuno che mi aspetta» rispondo, senza riuscire ad impedirmi di sorridere come una povera cretina.
    «Ed è un ragazzo» aggiunge lei.
    «Sì, è un ragazzo» confermo. «Un uomo, in realtà. Non è proprio un ragazzo. Ha vent'anni più di me.» Non so che cosa mi abbia spinto a confessare subito questo dettaglio, fatto sta che la mia vicina non si scompone per niente.
    «Che importa quanti anni ha, se ti fa stare bene? L'importante è che ti tratti con rispetto e che ti ami con tutto se stesso. L'età è soltanto un dato anagrafico.»
    «Me lo hanno detto in molti. In realtà non ci ho mai dato peso, non è mai stata importante per me. Solo che non mi ero mai trovata in una simile situazione. Ci avevo sempre pensato in maniera teorica, ma non avevo mai... beh, sperimentato
    «C'è sempre una prima volta» sorride ancora lei. «Sei francese?»
    Scuoto la testa. «Sono italiana, e lui è americano. Fa il musicista, e questa settimana è in tour in Francia. Due settimane fa è stato ospite a casa mia, e adesso vuole ricambiare.»
    «Una vera e propria storia da film. Vi conoscete da molto?»
    «Poco meno di un mese» ammetto. «So che non si può dire di conoscere qualcuno dopo così poco tempo, però... non lo so, sento che per adesso va bene così. Insieme stiamo bene.»
    «E allora non devi preoccuparti. L'importante è che tu sia serena e che lo sia anche lui. Ricordati sempre che la felicità non è una meta da raggiungere. La felicità è qualcosa che vivi tutti i giorni. Insomma, la felicità è nelle piccole cose, nei dettagli a cui di solito non dai importanza.» Fa una piccola pausa, come per lasciarmi rispondere, ma in qualche modo non me la sento di interromperla. «Goditi ogni istante come se fosse il primo e insieme anche l'ultimo, perché non sai quando le cose smetteranno di andare bene.»
    Mi limito ad annuire, incapace di trovare parole più perfette delle sue. Vivere giorno per giorno, prendendo tutto il buono che posso – è quello che dice sempre Alice, è quello che mi ha consigliato Francesca, è quello che mi ha spronato a fare anche il dottor Martini. Se anche una donna appena conosciuta mi dice di fare, probabilmente non ho davvero scelta.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Sei ore di prove mi hanno aiutato a non pensare, e anche se il nervosismo mi ha assalito durante la pausa per il pranzo, sono riuscito a non combinare disastri e a suonare in maniera decente. Ora sono le quattro del pomeriggio, e sono immerso nel caos della Gare de Lyon, in attesa del treno che riporterà Daria qui da me. Sono in piedi davanti al tabellone degli arrivi, cercando di interpretare le scritte luminose che cambiano con una rapidità impressionante. Sto per chiamare Daria per chiederle di tradurmi quello che sto leggendo, ma lei mi batte sul tempo. «Ehi, stavo per chiamarti» esordisco. «Non riesco a capire su quale binario arriverà il tuo treno. Sono fermo davanti al tabellone come un idiota, non capisco una parola di quello che c'è scritto.»
    «Dovresti proprio imparare una lingua straniera, con il lavoro che fai» risponde con una risata. «Beh, tu resta fermo dove sei. Ti trovo io.»
    «Ma io volevo venire a prenderti sul binario.»
    «Facciamo a modo mio. Ti fidi di me?»
    «Non so perché, ma sento che risponderti potrebbe essere pericoloso.»
    «Non fare il bambino, dai. Ti fidi di me?»
    «Mi fido di te.»
    «Allora gira le spalle al tabellone degli arrivi, conta fino a dieci e poi chiudi gli occhi.»
    «Confermo la mia prima impressione: mi sembra una cosa pericolosa.»
    «Fidati di me. Non ci metto niente a saltare sul primo treno per Torino.»
    «Va bene, mi fido di te.»
    «E non sbirciare. Me ne accorgerei. E mi arrabbierei tantissimo.»
    «Va bene, lo giuro sulla testa di mio fratello.»
    «Va bene. Adesso metti giù, voltati, conta fino a dieci e chiudi gli occhi. A tra poco.»
    «A tra poco.» Interrompo la comunicazione e seguo a menadito le sue istruzioni, un po' impaurito per quello che potrebbe capitare se non lo facessi. Conto fino a dieci e chiudo gli occhi, chiedendomi che cosa succederà a questo punto. Passano all'incirca cinque secondi, e sento la familiare sensazione delle astine che scivolano dietro le orecchie e degli occhiali che mi si assestano sul naso. D'istinto, mi viene da sorridere. «Adesso posso aprire gli occhi?»
    Il lunghissimo silenzio che segue la mia domanda mi fa dubitare che si tratti della persona che sto aspettando, tuttavia non apro gli occhi, aspettando una risposta – risposta che arriva dopo quella che sembra una vita. «Adesso puoi» è il sussurro di Daria. Sollevo lentamente le palpebre, e lei è davanti a me, impegnata a guardarmi con la testa leggermente inclinata verso sinistra. «Ti stanno bene. Dovresti portarli più spesso.» La osservo a lungo, incapace di dire qualunque cosa: è ancora più bella di quanto ricordassi, con quei suoi incredibili occhi quasi verdi e il sorriso timido che vorrei trovare ogni mattina sul cuscino accanto. «Perché mi guardi così?»
    «Perché non posso credere che tu sia davvero qui in piedi di fronte a me» rispondo a voce bassa, mentre intorno a noi la gente continua a muoversi frenetica, fregandosene di due che se ne stanno fermi uno di fronte all'altra senza nemmeno avere il coraggio di toccarsi.
    «Posso assicurarti che sono qui» risponde, alzando una mano verso il mio viso. Mi sfiora la guancia con due dita, forse aspettando che sia io ad approfondire il contatto. «Ci sono davvero» aggiunge, mentre appoggio la mia mano sulla sua e la appoggio contro le mie labbra per baciarla.
    «Ci sei davvero» sussurro, mentre sollevo l'altra mano per accarezzarle il viso un po' stanco per le tante ore di viaggio. «Sei proprio qui.»
    «Certo che ci sono. Avevi paura che cambiassi idea?»
    «Ero terrorizzato all'idea che non venissi.»
    «Ammetto che ci ho pensato. Ma non potevo non venire. Mi mancavi troppo.» Continua a guardarmi negli occhi come se non riuscisse a credere di aver davvero preso un treno per raggiungermi. «Per favore, Shannon, baciami» aggiunge all'improvviso, forse chiedendosi perché non lo abbia ancora fatto. Nemmeno io so spiegarmi perché non lo abbia ancora fatto – forse inconsciamente ho paura che si tratti di un sogno, e che osando tanto possa finire tutto. Tuttavia, supero la paura e mi spingo in avanti. Le nostre labbra si toccano quasi con timidezza, come se ci volesse del tempo per riconoscersi. Un paio di timide carezze, e l'imbarazzo scompare: le sue braccia circondano il mio collo, le mie mani si incrociano sulla sua schiena, e il bacio si fa profondo, carico di passione, caldo e coinvolgente come nei film. Daria è di nuovo con me, e mi sento come se niente potesse ferirmi o spezzarmi.


1 Senti, io non voglio più parlare di ciò che è vero e di ciò che è illusione: la vita è breve. Non sprechiamo tempo per pensare alla vita, viviamola e basta. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Gil Shepherd (interpretato da Jeff Daniels) nel film La Rosa Purpurea Del Cairo (1985, regia di Woody Allen). Concedetemi un piccolo spazio pubblicitario e lasciate che vi dica che si tratta di un film straordinario, come del resto ogni pellicola di Allen, che è un vero genio e uno straordinario antropologo (non si capisce che lo adoro, vero?). Vi lascio il trailer in lingua originale, dategli un'occhiata – e se per caso aveste un'oretta e mezza che non sapete come impegnare, guardatelo!
2 Basilica del Sacro Cuore | La basilica del Sacro Cuore è una basilica cattolica, costruita sulla collina Montmartre, per lungo tempo centro della vita artistica di Parigi e, soprattutto, sede della vita notturna (vi si trovano i celebri Moulin Rouge e Le Chat Noir). Si tratta di uno dei monumenti più celebri della città, e personalmente lo ritengo anche uno dei più romantici, per quanto il vero simbolo della città sia la torre Eiffel.

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Capitolo 16
*** 16 | Rimani qui, scende la sera, sopra di noi si poserà. Aspetteremo così la primavera, solo se vuoi ci troverà. ***


Portagioie di tristezza | 1

Come al solito, sono in ritardo con gli aggiornamenti. Vi domando immensamente scusa, ma far sì che Shannon e Daria si ritrovassero è stato molto più difficile del previsto, perché ogni parola mi sembrava inutile e superflua. Spero che questo capitolo non vi deluda, ma anche nel caso lo facesse, vi prego di farmelo sapere - sopporto le critiche negative quanto adoro quelle positive!

EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo sedicesimo
Rimani qui, scende la sera, sopra di noi si poserà.
Aspetteremo così la primavera, solo se vuoi ci troverà.1


Parigi, 25 novembre 2013


    Il nostro albergo dista dieci minuti dalla stazione, e per tutto il tragitto Daria ed io non facciamo altro che baciarci, proprio come due ragazzini che vivono un amore clandestino e devono approfittare di ogni attimo che riescono a rubare. Trattengo il suo viso tra le mani per impedirle di allontanarsi, ma sento che il suo corpo sta facendo di tutto per resistere all'impulso di abbandonarsi completamente contro il mio, di lasciarsi andare alle carezze di cui sa che sarei capace. Chiedo al tassista di farmi scendere una ventina di metri prima dell'ingresso dell'albergo, nascosto dietro un angolo, nel caso ci fossero appostati fan pronti a saltarmi addosso – in quel caso non vorrei proprio coinvolgere Daria, già abbastanza provata all'idea di conoscere mio fratello. Come da accordi, ci incontriamo di nuovo al bancone della reception, dove lei sta già sbrigando le pratiche necessarie. La sento parlare in maniera molto fluente con il concierge, e mi chiedo che cosa mai si stiano dicendo – è decisamente giunto il tempo di imparare una lingua straniera. Quando vedo l'uomo fare un cenno con la testa e restituirle la carta d'identità con un sorriso capisco che hanno concluso, e cercando di pronunciare correttamente «Merci» le passo un braccio attorno alla vita e mi approprio della sua valigia, accompagnandola verso gli ascensori. Non appena le porte si chiudono non riesco a trattenere la curiosità. «Si può sapere che cosa diavolo vi siete detti? Chiacchieravate come due vecchi amici.»
    Alla mia domanda, il suo viso si illumina di un sorriso dolcissimo. «Non dirmi che sei geloso. Quell'uomo ha almeno sessant'anni, è decisamente fuori dal mio target. E comunque mi ha solo chiesto se ho viaggiato bene, visto che dal documento ha capito che sono italiana. Non c'era niente di sessuale in quello che ci siamo detti.»
    «Bene, meglio così. Preferirei essere l'unico a detenere il diritto di fare quel tipo di conversazioni con te.» Non risponde, ma si limita a sorridere ancora e ad appoggiare la testa contro la mia spalla.
    Le porte si aprono senza rumore su un corridoio stranamente deserto. Temendo che mio fratello si sia nascosto per tenderci un'imboscata con i fiocchi, metto fuori la testa con fare cauto, neanche fossimo due cani della prateria che si apprestano a lasciare la tana e controllano che non ci siano predatori in vista. Una volta assicuratomi della totale assenza di persone, prendo Daria per mano e me la trascino letteralmente dietro fino alla porta della mia camera, che naturalmente è la più lontana dall'ascensore. In un attimo struscio la chiave magnetica, apro la porta, spingo Daria in camera e richiudo l'uscio. Una volta al sicuro, mi chiedo come sia possibile che Jared non abbia sfruttato l'occasione per intervenire e presentarsi.
    Mi appoggio di spalle alla porta, guardandola con occhi che so essere carichi di passione, libidine, lussuria, voglia di saltarle addosso e spingerla sul letto per farle tutte le cose che in queste due settimane ho soltanto potuto sognare di fare. «Perché adesso non vieni qui?» sussurro, facendole un piccolo cenno con la mano.
    Ma lei risponde al mio sguardo con un sorriso, indietreggia di qualche passo e si volta, raggiungendo la finestra. Come avevo previsto, scosta la tenda e osserva il panorama, lasciando correre lo sguardo da sinistra a destra, proprio come se stesse leggendo un buon libro. «La butte Montmartre» commenta a bassa voce. «Montmartre è sempre stato il mio quartiere preferito, quello che mi affascinava di più. Ma non ricordo di avertelo mai detto, dunque dubito sia stata una scelta meditata» aggiunge, voltando la testa per guardarmi.
    «Emma mi ha chiesto se volevo una suite con vista sulla torre Eiffel, ma sapendo quanto detesti le cose scontate ho rifiutato. Non sapevo che Montmartre ti piacesse, però immaginavo avresti apprezzato. È sempre stato il quartiere degli artisti, ed essendo tu un'artista...»
    «Non sono un'artista» si schernisce, abbassando lo sguardo.
    «Va bene, non sei un'artista» ribatto, decidendo di assecondarla. «Però almeno lasciati dire che sei un'opera d'arte.» A quella frase alza la testa di scatto, guardandomi come se non capisse di che cosa si stia parlando. «Non guardarmi così» la avverto, iniziando ad avvicinarmi a passo lento. «Sto solo dicendo che sei bellissima, non credo sia la prima volta. La cosa non dovrebbe sorprenderti. Forza, adesso vieni qui» aggiungo, facendole scivolare le braccia attorno alla vita per convincerla a voltarsi.
    Senza dire una parola di più ricominciamo a baciarci, e presto le distanze si annullano, le carezze si fanno audaci, le mani cominciano a vagare lungo i reciproci perimetri. Quando le infilo le mani sotto il giubbotto, con l'intenzione di sfilarglielo, lei si allontana, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Prima di fare qualsiasi altra cosa mi serve una doccia, Shannon» sussurra, guardandomi negli occhi. «Forse non è una cosa molto romantica da dire, ma... puzzo
    La guardo con un sorriso, mordicchiandomi il labbro a mia volta. «Beh, che puzzi lo dici tu, perché a me non sembra. Comunque si può rimediare facilmente. Tu spogliati, io vado ad aprire l'acqua» concludo, avvicinandomi tanto da sfiorarle il naso con il mio.


    Solo adesso che l'ho rivisto ho capito che Shannon mi è mancato più di quanto riuscissi ad ammettere con me stessa: è bastato un semplice bacio a risvegliare in me la voglia di lui, è bastato un semplice tocco della sua mano a trasformarmi di nuovo in quella ragazza che fino ad un mese fa non conoscevo, quella che non ha paura di mostrarsi nuda e offrirsi a qualcuno completamente priva di difese. Sfilo il giubbotto e lo lascio cadere su una sedia, calcio via le scarpe e mentre cammino verso il bagno inizio a sbottonarmi la camicia. Entro nella stanza e Shannon si volta verso di me, rivolgendomi un'occhiata che non può proprio essere fraintesa. Restituisco lo sguardo, continuando a separare ogni bottone dalla rispettiva asola. Lui continua ad avvicinarsi, in silenzio – l'unico rumore è quello dell'acqua che scorre nei tubi. La sua bocca arriva ad un centimetro dalla mia, e dalle sue labbra socchiuse filtra il profumo del miliardo di tazze di caffè che deve aver bevuto oggi. Le sue dita scivolano sulla chiusura dei miei jeans, fanno scendere la zip e poi spingono via la stoffa, che si ammucchia nei dintorni delle mie ginocchia. Le sue mani mi afferrano le natiche, fanno forza e mi sollevano, facendomi sedere sulla ceramica fredda del lavandino. Per non perdere l'equilibrio mi aggrappo alla sua maglietta, ma appena mi ritrovo di nuovo stabile decido che è un orpello inutile. Lo spoglio, lascio che lui finisca di scoprirmi le gambe e poi lo accolgo di nuovo contro di me. Non fatico a sentire il cavallo teso dei suoi jeans premere contro il mio punto più sensibile, e istintivamente mi muovo per sentirlo di più. Mi fa scivolare la camicia via dalle braccia, accarezzandomi con la dolcezza che ricordavo. Le sue dita percorrono lente il bordo del reggiseno, facendomi tremare. Chiudo gli occhi e rovescio la testa all'indietro, offrendogli il mio collo. Un bacio, una carezza fatta con la punta del naso, il respiro che mi sfiora – ormai basta un niente per attivare le mie terminazioni nervose. Ma che cosa mi hai fatto, Shannon?
    Mentre le sue mani sono impegnate con il mio seno, le mie gli sfiorano il torace, seguono la sottile peluria che nasce sotto l'ombelico e superano indenni il bordo dei jeans. «Hai proprio deciso di farmi impazzire, eh?» mi sussurra all'orecchio. Riesco a percepire chiaramente che il suo respiro sta cambiando ritmo.
    «Mi sto solo adeguando ai suoi standard, maestro
    Con la coda dell'occhio vedo le sue labbra tendersi in un sorriso. «Sei una buona allieva» risponde, mentre le mani esperte fanno scivolare via il reggiseno senza che quasi me ne accorga. «Non sai quanto mi sei mancata» sussurra ancora, appoggiando la fronte contro la mia, ad occhi chiusi. «Non sono stato con nessuna» aggiunge subito dopo, riaprendo gli occhi per puntarli dritti nei miei. «Non ricordo da quanto tempo è che non mi succede di stare così tanto senza... scusa, forse non dovrei dirlo. Non è proprio l'argomento adatto, eh?»
    «Non ti preoccupare» ribatto, spostando una delle mie mani sulla sua guancia. «Sono contenta che tu me lo abbia detto. Mi sarei arrabbiata se mi avessi detto il contrario.»
    «Non sarebbe mai potuto succedere» risponde deciso, spazzando via ogni dubbio. «Non ho fatto altro che pensare a te. Non ti avrei potuta tradire. Figurati che mi sembrava di farti un torto anche quando mi facevo... beh, immagino tu abbia capito» conclude in fretta, tanto imbarazzato che quasi mi pare di vederlo arrossire.
    «Shannon, adesso sono qui» bisbiglio, guardandolo dritto negli occhi. «Adesso sono qui» ripeto, e quasi senza pensarci muovo la mano che ancora tengo nei suoi pantaloni, strappandogli un gemito di pura soddisfazione.
    «Oh, ti sento» è il suo commento. «Ti sento» ripete, subito prima di sporgersi in avanti e baciarmi ancora. Con qualche difficoltà dovuta al poco spazio di manovra faccio scivolare jeans e biancheria a terra, soffermandomi ad accarezzare con interesse i fianchi e le cosce, amando la sensazione dei suoi muscoli tesi sotto le mie dita. Mi prende il viso tra le mani, continuando a baciarmi, e poi all'improvviso si allontana, guardandomi come se quel gesto gli costasse una fatica immane. «Se vogliamo continuare, credo di dover andare a prendere...»
    Non gli do il tempo di terminare la frase. «Prendi me, Shannon» lo interrompo. Non so da quale strana parte del mio cervello sia arrivato l'impulso di dire una cosa del genere, fatto sta che l'ho detta. E per sottolineare il concetto gli ho allacciato le gambe dietro la schiena, stringendolo contro di me con una forza che non avrei mai creduto mi appartenesse. La verità è che ho bisogno di lui, ne ho bisogno come l'ossigeno, e non posso sopportare che si allontani da me neppure per un decimo di secondo. Ho paura che se lo facesse mi sveglierei all'improvviso, accorgendomi che è soltanto un sogno – un bellissimo, incredibile, dannatamente realistico sogno.


    Impiego dai due ai cinque secondi per realizzare che Daria ha davvero detto quello che ho sentito, ma non me ne serve più di mezzo per recepirne gli effetti. Quello che ha appena detto è che ha bisogno della mia vicinanza, che le sono necessario – e so che non intende soltanto in senso fisico, anche se è questo che mi ha appena chiesto. Decido di non rispondere a parole, ma di affidarmi unicamente ai gesti. La convinco a sciogliere l'intreccio delle gambe per il tempo necessario a sfilarle la biancheria, e subito dopo scivolo in avanti, realizzando il suo desiderio. Le passo un braccio dietro la schiena per sostenerla, mentre con l'altra mano le raggiungo il viso, per accarezzarlo. Avvicino il volto al suo, senza toccarlo, lasciando che i nostri respiri si sfiorino senza mai fondersi davvero. Mi muovo lentamente, quasi temessi di farle del male, e ad ogni spinta il suo corpo risponde in maniera uguale e contraria, adattandosi perfettamente al mio, come se fossimo parti di un ingranaggio finalmente ricomposto. Le sue mani scivolano sulla mia pelle, le braccia si intersecano dietro il collo e mi tengono vicino, così vicino che ad ogni respiro il suo seno preme contro il mio torace, aumentando ancora di più la mia eccitazione.
    Non so per quanto tempo continuiamo a muoverci così, ma di sicuro non fatico a cogliere il momento del suo orgasmo: la sua testa si abbandona contro la mia spalla, le labbra socchiuse si appoggiano contro il pomo d'Adamo, proprio sopra il tatuaggio, e il suo intero corpo è scosso da un brivido. Rallento i miei movimenti fino ad interromperli, scivolando via da lei pochi attimi prima di raggiungere l'apice del mio piacere. La tengo stretta contro di me con l'ausilio di un solo braccio, mentre con l'altra mano afferro un asciugamano, con il quale cerco subito di pulirmi.
    A questo punto, succede qualcosa che non mi sarei mai aspettato: le spalle iniziano a muoversi, scosse da piccoli singhiozzi regolari, e le sue lacrime iniziano a bagnare la mia pelle. «Ehi, ehi, ehi» bisbiglio, accarezzandole i capelli. «Sono stato così tremendo?» Scuote il capo, senza alzare gli occhi. «E allora perché piangi?» sussurro, cercando di avvicinarmi il più possibile al suo orecchio. «Dai, lo sai che con me puoi parlare di tutto. Che succede?»
    La sua voce sembra arrivare da un altro pianeta, tanto è flebile e spezzata dal pianto. «Vorrei che non fosse così perfetto» dice. «Non solo il sesso, ma... tutto. Vorrei che non fosse così perfetto, così non ne sentirei tanto la mancanza.»
    Non so davvero che cosa rispondere. Che cosa si deve dire in questi casi? Che nemmeno io vorrei amarla tanto, perché ogni attimo senza di lei mi sembra vuoto e privo di senso? Perché è così che mi sento, quando siamo lontani – tutto quello che ho costruito in questi quarantatré anni mi sembra sterile e privo di valore, se non posso condividerlo con il suo splendido sorriso. Taccio, lascio cadere l'asciugamano sporco e la cingo con entrambe le braccia, cullandola appena, come se fosse una bambina da mettere a letto. In fondo è questo che amo di lei: la sua innocenza, le sue fragilità, l'apparente forza che in realtà serve soltanto a mascherare il suo disperato bisogno di essere protetta.



*




Parigi, 25 novembre 2013


    «Allora? L'hai già vista? Com'è?» Tomo pone ugualmente la propria domanda, anche se dal broncio di Jared è evidente che la risposta è negativa.
    «No, non ho potuto. Emma me lo ha impedito.»
    «Mi sono soltanto messa nei panni di quella povera ragazza, e ho pensato che probabilmente voleva passare un po' di tempo sola con Shannon, prima di essere data in pasto alla tua spropositata curiosità. Concedile almeno un paio d'ore per sistemare i bagagli e riposarsi, no?» ribatte l'assistente, sottolineando la propria intenzione di fare del bene.
    Tomo e Jared si scambiano un'occhiata molto eloquente – conoscono bene il loro batterista, e in cuor loro sanno che probabilmente 'quella povera ragazza' è a malapena riuscita a superare la soglia della camera da letto con tutti i vestiti addosso. «Ma io non volevo tendergli un'imboscata!» protesta Jared. «Volevo soltanto nascondermi dietro qualche angolo per darle un'occhiata. Shannon dice sempre che è tanto carina...»
    «Avrai tempo di vederla, non ti preoccupare» taglia corto Emma, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Nell'attesa, che ne dici se rivediamo un attimo il programma dei prossimi giorni? C'è qualcosa che non mi torna.» Dopo tanti anni trascorsi insieme, ormai Emma conosce tutti i punti deboli di Jared: è sufficiente fargli credere che qualcosa stia sfuggendo al suo controllo per distrarlo da qualunque altro pensiero.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Più ci penso, più non riesco a credere di essere scoppiata in lacrime davanti a Shannon. Ma ciò che mi sconvolge di più è il modo in cui lui riesce a non perdere il controllo: mi tiene stretta al suo petto come se la mia serenità fosse la sua unica priorità, accarezzandomi in silenzio, lasciandomi sfogare ogni lacrima senza cercare di farmi smettere. Poi, sollevandomi come se non avessi peso, mi porta sotto la doccia, aperta da più di mezz'ora, e rimane in piedi davanti a me per tutto il tempo. Sotto il getto caldo ci accarezziamo a lungo, senz'altro scopo se non quello di ricordare all'uno la presenza dell'altro. Stranamente, non c'è nulla di sessuale nelle nostre carezze: è soltanto un modo come un altro per riconoscerci, per ricordarci che siamo ancora insieme.
    Circa mezz'ora più tardi, me ne sto avvolta in un asciugamano grande quanto il Brasile, distesa su quello che è un letto decisamente enorme. Shannon è seduto accanto a me, con un asciugamano legato in vita e le spalle appoggiate alla testiera, impegnato a passarmi pigramente le dita tra i capelli bagnati. «Perdonami» dico all'improvviso. «Devo proprio esserti sembrata una sciocca, poco fa. Scoppiare a piangere a quel modo...» aggiungo sottovoce, vergognandomi molto per una simile mancanza di dignità.
    «Non mi sei sembrata affatto sciocca. Piangere è un modo per esprimere delle emozioni, e francamente sono felice di sapere che provi emozioni. La cosa mi tranquillizza molto. Vuol dire che sei una persona normale.»
    «È tutto nuovo, per me, tutto molto... strano
    «È tutto nuovo anche per me.»
    «Ma tu non scoppi in lacrime all'improvviso come una femminuccia.»
    «Vero» risponde dopo qualche attimo di silenzio. Sorrido, felice per quella piccola vittoria. «Però io mi sento in colpa se mi masturbo pensando a te» aggiunge dopo un po'. «Dunque direi che siamo pari.»
    Cambio posizione, e mi muovo fino ad appoggiargli in grembo la testa. «Lo hai fatto davvero?» gli chiedo dopo un lungo silenzio, alzando gli occhi su di lui.
    «Perché, la cosa ti stupisce?» ribatte, rivolgendomi un'occhiata decisamente divertita.
    «Beh, un po'» ammetto, sapendo di arrossire come un'educanda. «Insomma, sapere che... sapere di essere alla base di certi pensieri è... strano
    «E perché mai? Se riesci a farmi eccitare di persona, perché non dovresti farmi effetto anche sotto forma di pensiero? E poi il fine settimana che abbiamo passato insieme mi ha fornito molto materiale su cui lavorare...» Distolgo lo sguardo, sentendo che il viso mi sta andando a fuoco, ma una delle sue mani si appoggia sulla mia guancia, convincendomi a voltarmi di nuovo verso di lui. «Comunque non pensare che sia soltanto una questione di sesso. Qualsiasi cosa succeda, promettimi che non penserai mai che tra di noi si riduce tutto a questo. Qualunque dubbio tu abbia, qualunque strana cosa ti venga in mente... non è soltanto sesso, va bene?» conclude in un sussurro.
    «Va bene» sussurro a mia volta. «È anche sesso» aggiungo qualche istante più tardi, riuscendo a dare alla frase quell'intonazione divertente che speravo. Nel sentire la battuta scoppia a ridere, e nella perfezione del suo viso rivedo tutti i motivi che mi hanno spinta ad innamorarmi di lui – prima come musicista, poi come fantasia, e infine come uomo.


    Non ridevo così di gusto da un sacco di tempo. È in questo momento che mi rendo davvero conto di quanto mi sia mancata – non soltanto il calore del suo corpo disteso accanto al mio, non soltanto la sua pelle, non soltanto il sesso. Mi è mancato tutto, ogni singolo dettaglio: il modo in cui il suo sguardo cambia direzione per evitare di incrociare il mio, i suoi sorrisi, la sua sorprendente ironia... «Non tornare a casa» dico all'improvviso, tornando serio. «Resta con me. Molla tutto e parti con me. Giriamo il mondo insieme, oppure restiamo fermi. Andiamo dove vuoi, quando vuoi. Dico sul serio» aggiungo, notando l'occhiata confusa che mi rivolge.
    «So che dici sul serio» risponde, accarezzandomi il dorso della mano con la punta delle dita. «E dico sul serio anch'io quando dico che vorrei tanto poterlo fare.»
    «Mi fai venire voglia di mettere la testa a posto, sai? Tipo... smettere di vagabondare per il mondo, fermarsi in un posto e mettere radici.»
    «Gli Echelon mi ucciderebbero, lo sai?» Sorride, appoggiando la propria mano sulla mia. Abbassa lo sguardo per guardare il modo in cui le nostre dita collimano, proprio come se fossero fatte per essere intrecciate. «Vagabondare per il mondo è la tua natura. Fa parte del tuo modo di essere, fa... fa parte di te. Non potrei chiederti di rinunciarci. Non saresti più tu. Senza contare che non è una decisione che puoi prendere in autonomia. Non sei solo, in questo progetto.»
    «Jared e Tomo» sussurro, rendendomi conto che qualunque cosa io faccia si ripercuote non soltanto sulla mia vita, ma anche sulla loro.
    «Hai sempre detto che è stata la musica a salvarti la vita, ma io credo che il merito sia soprattutto loro. Soprattutto di Jared, forse. Insomma, per come parli di lui nelle interviste, si capisce che avete un rapporto speciale.»
    «Mio fratello mi ha salvato la vita» ribatto velocemente, sicuro di quanto sto dicendo. «Ci sono delle cose nel mio passato che... ho fatto cose che non...» Lascio perdere la frase a metà, incerto su quanto dire. Mi vergogno profondamente di alcune cose del mio passato, e tutto ciò che vorrei è poterle cancellare con un colpo di spugna. Ogni volta mi dico che è stato una vita fa, e che ormai sono un altro uomo, ma la verità è che tutto quello che sono stato fa ancora parte di me, e probabilmente sarà così per sempre.
    Percependo il mio disagio, Daria si mette a sedere e mi guarda. «Non lo voglio sapere, Shannon.» Mi prende il viso tra le mani, costringendomi ad alzare lo sguardo su di lei. «Se non ne vuoi parlare, a me sta bene così.»
    «Tu però mi hai parlato di tua madre, della tua famiglia... insomma, mi hai raccontato di te. Non è giusto che...»
    «L'amore non è questione di simmetrie» mi interrompe, senza smettere di guardarmi negli occhi. «Insomma, non è che sei costretto a raccontarmi il tuo passato soltanto perché io ti ho raccontato il mio. Non mi importa se hai fatto degli sbagli. Tutti fanno degli sbagli. L'importante è riuscire a correggersi e diventare una persona migliore, e sono sicura che questo tu lo abbia fatto.» Sorride, senza abbassare lo sguardo. È raro che mi guardi così a lungo senza sentirsi in imbarazzo, perciò capisco che crede davvero in quello che dice, e che non sta mentendo.
    «Come riesci a farlo?» sussurro.
    «Cosa?»
    «Ad essere così giù di morale un attimo prima, e un attimo dopo... e diventare un attimo dopo così forte?»
    «Credo sia merito tuo. Riesci a tirare fuori il meglio di me.» Si sporge in avanti e mi bacia con una dolcezza impossibile da fingere. Le sue labbra sono morbide e calde, e la sua bocca l'unica che voglio baciare per il resto della mia vita. Faccio risalire le mie mani lungo le sue braccia, supero le spalle e faccio scivolare le dita sulla sua schiena, applicando una leggera pressione per attirarla verso di me.
    «Anche tu riesci a tirare fuori il meglio di me» sussurro, staccandomi per un attimo da lei. «Sono contento che tu sia qui.»
    «Anch'io sono contenta di essere qui. A questo proposito» aggiunge, allontanandosi un po' per riuscire a guardarmi bene, «siamo a Parigi. Non c'era qualcosa che dovevi dirmi?»
Ricordo perfettamente il nostro accordo: se fosse venuta a Parigi le avrei spiegato il perché dei novanta post-it lasciati nel suo appartamento il giorno della mia partenza. Improvvisamente, però, quelle motivazioni mi sembrano inutili e sterili, e forse anche un po' stupide. «Sicura di volerlo sapere? È una cosa piuttosto infantile.»
    «Certo che lo voglio sapere» insiste. «Credo che chiunque, trovandosi novanta note adesive sparse per casa, vorrebbe sapere perché.»
    Mi guarda di nuovo dritto negli occhi, e sento che non posso negare la verità ad uno sguardo così limpido. «Il novanta è il numero della paura» sputo fuori. «Non che io creda alla numerologia, o a cose simili, ma... insomma, è anche un modo di dire, no? Ecco, ho pensato che se il novanta è il numero della paura, doveva per forza essere il numero giusto per esprimere la mia paura, che... che è quella di fare qualcosa di sbagliato e di perderti. Ho una paura matta di perderti.»
    Le sue mani tornano sul mio viso, e i suoi occhi, lucidi di lacrime, si avvicinano. «Davvero hai paura di perdermi?» mi domanda, abbassando la voce.
    «Ho paura delle cazzate che potrei fare» confesso. «Non so come devo comportarmi, non so che cosa fare. Non sono preparato» aggiungo, alzando una mano per accarezzarle i capelli.
    «Nemmeno io sono preparata, Shannon. Credo... credo che tutto ciò che possiamo fare sia affidarci al nostro istinto. Non credo ci sia un altro modo.»
    «Seguire l'istinto...» ripeto, abbassando ancora la voce. «Mi piace, è una cosa che mi riesce bene. E sentiamo, che cosa suggerisce il tuo istinto in questo momento?»
    Abbassa lo sguardo, mordicchiandosi un labbro, e con naturalezza mi fa scivolare le mani lungo il collo, raggiungendo le mie spalle. «Voglio stare con te» bisbiglia. «Voglio solo stare con te.» In quel momento rialza lo sguardo, e nei suoi occhi vedo tutto quello che mi occorre per essere felice. Sento che la fine del mondo potrebbe arrivare in questo momento, e lascerei questa vita senza alcun rimpianto, se non forse quello di non averla incontrata prima.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Sfuggito al guinzaglio corto di Emma grazie ad una buona dose di fortuna e ad una bugia ben piazzata, Jared guadagna il proprio piano muovendosi con circospezione, quasi fosse un ladro in procinto di compiere il furto del secolo. Supera la porta della propria stanza e si avvicina a quella del fratello, appena qualche metro più in là. Non è certo che siano in camera, ma l'istinto gli dice che non possono essere in alcun altro luogo: è passata poco più di un'ora dal momento dell'arrivo di Daria, ed è plausibile che siano subito passati in hotel a lasciare le valigie di lei. Probabilmente, pensa Jared, lei ha voluto fare una doccia per scaricare lo stress del viaggio – e nessuno meglio di lui può immaginare quale genere di pensieri perversi possa scatenare lo scroscio dell'acqua.
    Maledice l'avvento della tecnologia quando si rende conto che tutte le porte sono dotate di chiavi magnetiche, e dunque non esistono buchi della serratura attraverso cui spiare – non che gli piaccia farlo abitualmente, certo... sarebbe soltanto un comportamento occasionale, e lo farebbe a puro scopo informativo. Insomma, muore dalla voglia di vedere in faccia la ragazza che ha rubato il cuore di suo fratello. Anche se, certo, forse spiando attraverso la serratura rischierebbe di vedere tutto tranne il suo viso.
    Sta per accostare l'orecchio alla porta, sperando che le superfici siano sottili, quando qualcosa lo tocca all'altezza della scapola, facendolo sobbalzare. È solo per fortuna che si trattiene dall'urlare, rischiando di far saltare tutta l'operazione. Si volta cautamente, credendo di trovarsi di fronte una Emma decisamente infuriata, e invece... «Tomo, mi meraviglio di te» bisbiglia, stringendo gli occhi nella sua miglior espressione moralista. «Questo da te non me lo sarei mai aspettato.»
    «Ah, tu credi che io sia venuto qui per spiare? Ti ricordo che con me viaggia mia moglie, e che abbiamo appena deciso di avere un bambino. Avrei di meglio da fare. Al contrario di te, a quanto pare.»
    «Credi che sia venuto fin qui per spiare mio fratello?» Tenta di fingersi sorpreso, ma sa che Tomo sa leggergli dentro quasi meglio di Shannon e Constance. «E va bene, lo ammetto. Sto cercando di origliare» confessa, abbassando la testa in segno di resa. «Non dirlo ad Emma. Mi ucciderebbe.»
    «Naturale che non lo dico ad Emma. Non sono un infame. Hai sentito qualcosa di interessante?»
    Jared spalanca gli occhi, sorpreso per quella domanda, e sotto sotto felice di aver trovato un possibile complice. «Non ho ancora sentito niente, in verità.» Si scambiano un'occhiata degna di due bambini sul punto di combinare una marachella e accostano un orecchio alla porta, i visi rivolti l'uno verso l'altro. Non si sente altro che silenzio – niente urla né gemiti né scricchiolii – e Jared ne è deluso. Secondo lui, qualche rumore dovrebbe filtrare – è scontato, secondo lui, perché non è possibile che quei due stiano immobili l'uno accanto all'altra senza toccarsi. Sta per chiedere a Tomo se almeno lui ha captato qualcosa, ma il rumore del pomello che ruota gli impedisce di parlare.
    I due si guardano con un misto di terrore e impazienza: è con Shannon che si confronteranno, o con la sua misteriosa ragazza?



*



Parigi, 25 novembre 2013


    «Ma fate sul serio?» Compaio sulla soglia della camera con un'espressione che mi auguro essere indecifrabile, sospesa tra lo scocciato e il profondamente irritato. Jared e Tomo tentano di ricomporsi e mostrarsi naturali, ma è palese quello che stavano facendo.
    «Non stavamo origliando!» contesta svelto mio fratello, e la sua fretta non fa che accentuare l'aura di colpevolezza che lo circonda. «Siamo venuti qui per...» aggiunge, voltandosi verso Tomo in cerca di supporto.
    «...per chiederti se volete cenare insieme a noi e Vicki o se preferite cenare da soli» completa Mofo, che riesce a fingere molto meglio di mio fratello. «Sai, visto che è la vostra prima sera insieme dopo tanto tempo...»
    «Ne abbiamo parlato, e abbiamo deciso di cenare con voi. Daria non vede l'ora di conoscervi.» In realtà l'idea la spaventa a morte. «Comunque spero che davanti a lei vi comporterete in maniera meno infantile. A volte siete davvero imbarazzanti.» Certo, forse suonerebbe più convincente detto da qualcuno diverso da me – perché nonostante tutto sono un quindicenne intrappolato nel corpo di un adulto.
    «Hai fatto una doccia?» domanda Jared, che non riesce a staccare gli occhi dai miei capelli bagnati e dall'asciugamano che ancora tengo legato in vita.
    «Perché, adesso è vietato darsi una sciacquata?»
    «No, certo, è solo che... credevo l'avessi fatta subito dopo le prove» commenta, allungando il collo per tentare di guardare dietro le mie spalle. «Scommetto che Daria era molto stanca per il viaggio» aggiunge, notando il letto dalle coperte stropicciate.
    «Infatti sta cercando di riposare» taglio corto. «Se non avete altro da aggiungere, io tornerei dentro. Ci vediamo alle otto.» Chiudo la porta faticando a nascondere un sorriso, agendo ancor prima che uno dei due abbia il tempo anche solo di pensare ad una risposta.
    «Se ne sono andati?» sussurra Daria, affacciandosi appena dal bagno. «Accidenti, non pensavo di scatenare una psicosi collettiva con il mio arrivo» aggiunge, facendosi avanti a passo più sicuro.
    «Non hai scatenato proprio nulla, sono solo fuori di testa di natura. Ma puoi stare tranquilla: anche se condividiamo il patrimonio genetico, Jared e io non siamo assolutamente uguali. La pazzia non è una caratteristica che abbiamo in comune.» Parlando, la prendo tra le braccia e le schiocco un bacio sul naso.
    «Peccato» sorride, stringendomi le braccia attorno al corpo. «Un briciolo di pazzia in un uomo lo apprezzo molto» mi prende in giro.
    «Beh, ma probabilmente in qualche gene è annidato il germe della follia» ribatto rapidamente, cercando di darmi un tono. «Sono sicuro che prima o poi impazzirò anch'io. Sicuramente succederà.»
    «Va bene, vorrà dire che aspetterò. Nel frattempo che si fa?»
    L'innocenza con la quale pone la domanda è disarmante. La guardo negli occhi, e senza accorgermene sto trattenendo il respiro, come in attesa che accada qualcosa. Faccio correre le dita lungo l'orlo del suo asciugamano, e con delicatezza sciolgo il nodo che lo tiene stretto al suo corpo. Con le mani ne piloto la caduta, sentendo il mio cuore accelerare i battiti ad ogni centimetro di pelle che viene scoperta – nessuna donna mi ha mai fatto questo effetto. La allontano da me di pochissimo, giusto il necessario per poterla guardare. «Pensa pure che sia un maniaco, ma tutto quello che voglio in questo momento è fare ancora l'amore con te.»
    «Allora siamo due maniaci» sussurra, avvicinandosi di nuovo. Le nostre labbra si uniscono in un bacio, mentre le sue mani scendono lungo il mio torace, e con un po' di timidezza sciolgono il nodo del mio asciugamano. La desidero così tanto che basta quel timido tocco per eccitarmi e risvegliare in me i più bassi istinti. Muovo qualche passo in avanti, costringendola ad arretrare fino al letto. La spingo giocosamente all'indietro, e lei cade sul materasso con una risata. Salgo sul letto appoggiando prima un ginocchio e poi l'altro, mentre lei scivola indietro puntellandosi sui gomiti.


    Shannon mi copre con il suo corpo, le mani che scivolano sulla mia schiena e subito dopo tormentano dolcemente il mio seno, le labbra che abbandonano il mio viso per dedicarsi al collo, e che poi scivolano sempre più in basso. Prima ancora di rendermene conto, la sua bocca ha superato il mio ombelico, le sue mani mi hanno convinta ad allargare le gambe per fargli spazio, e tutto ciò che posso fare è lasciarmi andare al suo tocco esperto. Una delle cose che più amo di lui è la sua generosità: fin dalla prima volta che siamo finiti a letto insieme si è assicurato che il mio piacere venisse prima del suo, e soprattutto che non fossi mai insoddisfatta una volta terminato – con il mio ex ragazzo non è mai stato così, e in tutta sincerità non avrei mai creduto di poter trovare un partner così altruista.


    Prima di conoscere Daria, ero un uomo che nel sesso vedeva soltanto un modo per raggiungere la soddisfazione personale. Lei ha cambiato tutto: sapere che le sue esperienze precedenti sono sempre state un fallimento ha risvegliato in me uno strano istinto, un sentimento che non credevo di poter provare. Dalla prima volta che sono stato a letto con lei, la mia priorità è sempre stata lei, indipendentemente dalla situazione o dallo stato di eccitazione. Sono sempre stato il tipo d'uomo che il sesso orale preferisce riceverlo, ma con lei è tutto diverso: sentire i suoi gemiti strozzati è il miglior preliminare del mondo, vedere le lenzuola stropicciate dalle sue dita un'immagine che adoro.
    Alzo gli occhi per un istante, e la vedo coprirsi la bocca con una mano come per zittirsi. Allungo un braccio e la convinco a scoprirsi, lasciando che si sfoghi senza limitare i decibel, e d'istinto mi chiedo se Jared sia ancora nascosto dietro la porta – perché in questo momento ne avrebbe, di cose da sentire.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Seduto accanto alla finestra, con lo sguardo rivolto verso i tetti di Parigi, Jared stringe in mano il cellulare e si chiede se Shannon si sia davvero arrabbiato per il modo infantile con cui lui e Tomo – ma soprattutto lui – hanno cercato di violare la sua privacy e farsi gli affari suoi. Ma no, si dice, probabilmente fingeva soltanto di essere irritato.
    Distoglie lo sguardo dal panorama e lo sposta sul display del cellulare. Dopo una rapida ricerca ha ritrovato la fotografia di Shannon e Daria a Torino, quella che si è inviato durante un momento di distrazione del fratello. Guarda a lungo gli occhi della ragazza, chiedendosi se incontrandola vi leggerà la stessa felicità, oppure se il suo sguardo sarà offuscato dal nervosismo e dalla paura. Sicuramente, pensa, Shannon starà facendo di tutto per metterla a suo agio.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Ad occhi chiusi, mordicchiandosi il labbro per lo sforzo, Daria si muove lentamente sopra di me, tenendomi una mano aperta sul torace per mantenere l'equilibrio. Le tengo le mani sui fianchi, pronto a stringerla se dovesse scivolare, e non riesco a staccare gli occhi dal suo viso, che trovo perfetto anche in questo momento.
    Quando il suo piacere raggiunge di nuovo il massimo, la osservo trattenere il fiato per un istante, e quando i suoi muscoli si rilassano sono io a tenerla in piedi, stringendo un po' la presa sulla sua vita. Poche spinte ancora, poi mi metto a sedere e la tengo stretta a me, respirando all'altezza del suo collo, respirando il suo straordinario profumo. «Vorrei che potessimo restare così per sempre» sussurro, mentre le sue mani risalgono lungo la mia schiena, seguono la curvatura della nuca e si infilano tra i miei capelli ancora umidi, scompigliandoli con tenerezza. «Tu ed io in una stanza a far l'amore fino a non poterne più» aggiungo, chiudendo per un istante gli occhi.
    «Cosa farai quando me ne sarò andata?»
    «Aspetterò il tuo ritorno, credo» rispondo, scostandomi da lei per guardarla dritta in faccia. «Se anche tu mi aspetterai.»
    Non risponde, ma stringe le braccia attorno al mio collo e si appoggia contro di me, in silenzio, come se in fondo non si aspettasse altro che un tragico finale. Vorrei dirle di non disperare, vorrei dirle che il lieto fine arriva sempre quando meno te lo aspetti, e che a volte quello in cui speri meno è proprio ciò che ti accade, ma la verità è che con lei ogni parola mi sembra inutile– forse perché conosco la sua passione per la scrittura, dunque mi aspetto che conosca il valore delle parole molto meglio di me, e dunque inconsciamente temo che giudicherebbe ogni mio tentativo inutile e totalmente vano.
    Ricambio la sua stretta, pensando che vorrei poter superare l'inverno senza staccarmi da lei, e ripartire a primavera con una nuova speranza nel cuore, finalmente liberi da ogni preoccupazione e ogni paura.


1 Rimani qui, scende la sera, sopra di noi si poserà. Aspetteremo così la primavera, solo se vuoi ci troverà. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Amore impossibile dei Tiromancino, contenuta nell'album Illusioni Parallele (2004).

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Capitolo 17
*** 17 | Quanto sai di te stesso, se non ti sei mai buttato? ***


Portagioie di tristezza | 1
Eccoci qui, infine, dopo un'altra infinita attesa. Vi domando infinitamente scusa, ma sembra che ogni volta che mi accingo a scrivere saltino fuori mille impegni improrogabili, mille occasioni di costruirmi una vita sociale decente, mille piccoli acciacchi. Sono un rottame con un sacco di cose da fare e pochissimi amici, ma questo già si sapeva.
Come sempre, grazie a tutti per l'infinita pazienza e l'infinito affetto che dimostrate tramite le vostre recensioni. Vi apprezzo davvero molto, e spero di non perdere mai il vostro supporto.
Piccola comunicazione di servizio: per chi di voi si serve di Facebook, lascio il link per il gruppo Portagioie di tristezza, uno spazio dedicato a tutti i fan di Shannon e Daria. Nel gruppo troverete spoiler e altro materiale, ed è anche un canale attraverso il quale potrete avere l'occasione di interagire direttamente con l'autrice (anche solo per mandarmi a raccogliere pomodori).
Vi auguro buona lettura, e giuro che proverò a non farvi più attendere così tanto per un nuovo capitolo.
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo diciassettesimo
Quanto sai di te stesso,
se non ti sei mai buttato?.1


Parigi, 25 novembre 2013


    Lasciamo la stanza quando mancano cinque minuti alle otto, e persino un cieco si accorgerebbe che Daria se la sta per fare sotto dalla paura. Le porte dell'ascensore si chiudono con un sibilo, e approfitto della sua distrazione per far scivolare la mia mano sulla sua, lentamente. A quel contatto si volta, e sul suo viso compare un timido sorriso. «Non cercare di prendermi in giro, ragazzina» sorrido, sfiorandole la punta del naso con l'indice dell'altra mano. «Si vede lontano un miglio che hai paura.»
    «Davvero è così evidente?»
    «Sembri una che sta camminando verso il patibolo. Andrà tutto bene. Nessuno ti mangerà. Con Vicki andrai d'accordo, ne sono sicuro. È la ragazza più alla mano che conosca. E Tomo... beh, Tomo l'ha sposata. Questo dovrebbe dirla lunga sul suo carattere.»
    «Immaginavo che fossero due persone disponibili. Insomma, seguo un po' Tomo su Twitter, ed è... beh, secondo Alice è il vostro primo fan» sorride. Ma l'allegria si spegne subito, e la bocca torna a distendersi.
    «Ma non sono Tomo e Vicki che ti preoccupano, vero?» proseguo, sapendo benissimo che il suo problema è completamente diverso – ha gli occhi azzurri, lunghi capelli fluenti e il mio stesso cognome. La guardo scuotere appena la testa, come se si vergognasse persino di ammettere che non è tranquilla. «Non devi preoccuparti per Jared.»
    «Che cosa pensa di me? Insomma, immagino che abbiate parlato di me. Insomma, un pochino.»
    «Non so che cosa pensi davvero» rispondo, accorgendomi subito che non si tratta di una risposta soddisfacente. «Insomma, tutte le volte che ci siamo trovati a parlare di te mi è sembrato che gli piacessi, ma non gli ho mai chiesto un'analisi completa. Comunque non credo che ti detesti.»
    «Oh, è un punto di partenza» ribatte. Colgo un briciolo di sarcasmo nella sua voce, e la cosa mi diverte un sacco. Le passo un braccio attorno alle spalle, tenendomela stretta. «E se gli stessi antipatica? E se per caso pensasse che sono una cacciatrice di dote?»
    «Ti giuro su quanto ho di più caro al mondo che in quel caso lo prenderei a calci in culo fino a Marsiglia» rispondo. «Nessuno può permettersi di pensare che la mia ragazza sia antipatica.»
    «La tua... cosa
    «La mia ragazza» ripeto, sicuro, mentre l'ascensore si ferma al pianterreno. «Scusa se non ho chiesto il tuo parere, ma mi sembrava il caso di dare una definizione a quello che siamo. Se vuoi te lo chiedo ufficialmente» aggiungo, mentre oltrepassiamo le porte. «Vuoi essere la mia ragazza?»
    Mi guarda come se non riuscisse a credere a ciò che ha appena sentito. «Mi hai appena chiesto se voglio essere la tua ragazza? Come alle medie?»
    «Cosa vuoi che ti dica, dentro sono rimasto un ragazzino.» Sorride e distoglie lo sguardo, senza sapere bene cosa dire. «Dimmi di sì, per favore. Sento che non potrei sopportare un rifiuto.»
    «E va bene, se può renderti felice... sì, voglio essere la tua ragazza.» Non riesco a trattenermi dal baciarla, anche se la presenza di altre persone nella hall mi impone di non superare i limiti della decenza. «Dai, andiamo, ci staranno aspettando. Non voglio fare la figura della ritardataria» sussurra, staccandosi da me.
    «E va bene, andiamo» obbedisco, sciogliendo la presa sulle sue spalle e prendendola di nuovo per mano. «E comunque non avere paura di mio fratello, non ti mangerà. È vegano!»



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Jared, Tomo e Vicki sono in piedi al bar, come da accordi. Indossano abiti casual, come da accordi, e come da accordi stanno cercando di fare conversazione tra di loro, fingendosi tranquilli. In realtà, nessuno dei tre è completamente calmo: Tomo e Vicki sono curiosi di capire se la nuova amica di Shannon sia davvero la ragazza acqua e sapone che lui va professando, mentre Jared... Jared è il più nervoso. Tiene al bene e alla serenità di suo fratello più di chiunque altro – forse anche più di Constance – e non vede l'ora di guardare negli occhi la ragazza che gli si presenterà davanti quella sera. Forse non le farà domande, forse riuscirà a trattenersi dal torchiarla come farebbe un poliziotto zelante, ma è certo che la osserverà a lungo, che non le staccherà gli occhi di dosso, e che farà di tutto per capire se abbia le caratteristiche giuste per stare accanto a Shannon.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Entriamo nella sala ristorante, e immediatamente mi accorgo di aver trattenuto il fiato, terribilmente nervosa all'idea di chi mi troverò davanti tra pochi minuti. E dire che non dovrei essere nervosa – mi sono mostrata nuda a Shannon già diverse volte, e normalmente questo dovrebbe mettere addosso molta più ansia – ma non posso farci niente, fa parte di me. Il cuore mi batte a mille, e mi trovo a sperare che non mi sudino le mani – odio le persone a cui sudano le mani, e non ci tengo proprio a diventare una di loro. Mi guardo attorno, cercando di individuarli in mezzo alle persone già sedute, ma ad un tratto Shannon stringe un po' la presa sulla mia mano, indicando con un cenno della testa il bar. «Eccoli lì» sussurra, e quando volto la testa capisco che non si può tornare indietro.
    Ci avviciniamo, e il cuore inizia a battermi nel petto come se stesse cercando di sfondarmi la gabbia toracica. Tutti e tre stanno guardando verso di me, e per qualche strana ragione, nonostante tutti i miei sforzi, non riesco a capire che cosa stiano esprimendo i loro volti – gli piaccio? Mi odiano? Gli sto simpatica? Vorrebbero uccidermi e gettare il cadavere nella Senna?
    «Buonasera a tutti, scusate il ritardo» esordisce Shannon. «Lei si è preparata in tempo, sono io che ci ho messo una vita a vestirmi» aggiunge con un sorriso, forse per mettermi a mio agio. «Penso che tu sappia chi sono, ma te li presento lo stesso: Tomo Milicevic, sua moglie Vicki, e infine Jared, mio fratello. Ragazzi, vi presento Daria Giordano. La mia ragazza» specifica, e in questo preciso momento vorrei che il pavimento mi inghiottisse e mi risputasse dall'altra parte del mondo. Insomma, andava bene finché eravamo nella hall ed eravamo circondati da persone che non consideravano la nostra presenza, ma dirlo di fronte a queste persone... comunque tento di darmi un tono, stringo le mani che mi vengono offerte e riesco anche a sputare fuori qualche stupida frase di circostanza, probabilmente passando per la solita stupida che non ha nulla di interessante da dire.
    «Hai viaggiato bene?» mi domanda Vicki, rivolgendomi un sorriso cordiale – uno di quei sorrisi che non si riescono a fingere, nemmeno con anni e anni di pratica. «Hai preso il treno o l'aereo?»
    «Il treno» rispondo, sperando di non fare pasticci con la lingua. «Per me era molto più comodo, abito a dieci minuti dalla stazione. L'aeroporto è molto più lontano, ed è difficile trovare un buon volo diretto. Per arrivare qui avrei dovuto come minimo attraversare mezza Europa.»
    «Forse è meglio che nel frattempo andiamo a sederci» interviene Tomo. «Il maître inizia a guardarci storto.»
    «Beh, almeno non hai dovuto affrontare il fuso orario» continua lei, prendendomi sotto braccio mentre ci spostiamo. «Io ho raggiunto i ragazzi in Germania due settimane fa, e ancora non sono riuscita a riprendermi. Non so davvero come facciano loro.»
    «Tutta questione di allenamento» le fa eco Shannon, che mi cammina a fianco. «Se avessi passato gli ultimi anni a girare per il mondo come abbiamo fatto noi, non ti sembrerebbe così stancante.»
    «Vivere da vagabondi come voi? No, grazie» scherza lei. «Io non ci sarei proprio tagliata. Insomma, va bene per un po', per qualche settimana, ma per mesi e mesi? No davvero. Se nella prossima vita rinascessi come animale, credo che mi piacerebbe essere un cane da appartamento. O un gatto. Sai che bella vita? Ronfare sul divano e non essere costretta a fare nulla.»
    «E dov'è il divertimento?» ribatte Shannon, mettendomi un braccio attorno alla vita mentre ci fermiamo accanto al nostro tavolo, rotondo e apparecchiato per cinque.
    «Vieni, siediti vicino a me» cinguetta Vicki, lasciandosi cadere su una sedia e picchiettando con la mano sul sedile di quella alla sua destra. Obbedisco, senza nemmeno tentare di contestare, e tiro un sospiro di sollievo quando Shannon occupa lo spazio alla mia destra – almeno sono sicura di essere seduta tra due persone che non proveranno ad uccidermi. Solo che poi anche Tomo e Jared ci imitano, e mi rendo conto che dal suo posto Jared può puntarmi addosso i suoi enormi occhi azzurri senza che alcun ostacolo si frapponga tra noi. E la cosa mi spaventa da morire. Nascosto agli occhi degli altri, Shannon mette una mano sul mio ginocchio e lo stringe appena, per richiamare la mia attenzione. Mi volto e lo vedo sillabare un 'Non avere paura' seguito dal suo sorriso più sincero, e questo basta a farmi capire che non ho nulla da temere, finché lui resta accanto a me, pronto a salvarmi.



*



Parigi, 25 novembre 2013


    Sarebbe bello poter dire che è tutto frutto del caso, ma non sarebbe corretto: è stato Jared ad insistere per trovarsi seduto esattamente di fronte a Daria, in modo da poterla guardare dritta negli occhi per capire se quella ragazza in apparenza così semplice corrisponda davvero all'idea che si è fatto di lui – e soprattutto ai racconti di Shannon, che è entusiasta di qualunque cosa che la riguardi.
    Liquida in fretta il cameriere, ordinando una ricca insalata e dell'acqua, e subito dopo concentra di nuovo l'attenzione su Daria, che sta cercando di convincere Shannon ad ignorare la traduzione del menu e a fare un piccolo sforzo per capire il francese. Sembrano felici, o comunque a loro agio l'uno con l'altra, nonostante si conoscano da meno di un mese e siano riusciti a trascorrere insieme appena un pugno di giorni. Nel brusio della sala non riesce a distinguere bene tutti i loro sussurri, ma dal modo in cui lei ride, coprendosi la bocca con la mano, capisce che lui le ha appena detto una cosa divertente – e dall'espressione degli occhi di lui, quasi lucidi dietro le ciglia folte, capisce che non è soltanto una questione di sesso, che non lo è mai stata e non lo sarà mai. Non eri così coinvolto nemmeno ai tempi di Christine, fratello.



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Parigi, 25 novembre 2013


    «Spaghetti? Ma tu non sai mangiare gli spaghetti!» esclama Tomo, contestando la mia ordinazione.
    «Certo che li so mangiare» ribatto. «Ho preso ripetizioni da un'insegnante formidabile» aggiungo, mettendo un braccio sulle spalle di Daria e scioccandole un bacio sulla guancia. Dal modo in cui si aggiusta i capelli dietro un orecchio capisco che il mio gesto la imbarazza, così come l'ha imbarazzata il fatto di sentirsi qualificare come 'la mia ragazza', ma non ho intenzione di smettere: il solo modo per farle smettere di avere paura è farle capire subito come stanno le cose, anche perché Jared non le ha ancora staccato gli occhi di dosso, e so che il suo sguardo significa soltanto una cosa – ha intenzione di osservarla per tutta la sera, per capire se sia la donna giusta per me, e Dio solo sa se Daria non avrà bisogno di tutto il mio supporto per passare l'esame.
    «Shannon ci ha detto che lavori in una libreria» interviene Vicki, dando di gomito a Tomo per intimargli di non prendermi in giro.
    «Sì, è vero. Sono soltanto una commessa, non è un lavoro straordinario... però lo adoro. Ho sempre amato i libri, fin da bambina, quindi non mi sarebbe potuta andare meglio. Ho iniziato a lavorare part-time quando avevo diciotto anni, e quando ho finito la scuola sono riuscita a farmi assumere a tempo pieno. Trattiamo molto anche con clienti stranieri.»
    A questo punto, mentre il cameriere mette in tavola le bevande, Jared decide di intervenire. «Parli molto bene l'inglese. Hai un'ottima pronuncia.»
    Intorno al tavolo sembra calare il silenzio, come se fossimo tutti in attesa della risposta di Daria, che prende fiato, e senza abbassare lo sguardo risponde: «Ti ringrazio.» Io la conosco, e so che deve esserle costato molto rispondere senza arrossire e senza guardare in basso, ma sono certo che agli occhi degli altri è apparsa forte e orgogliosa di sé, e questo mi riempie il cuore di gioia – non passerà più di un giorno prima che tutti si accorgano della donna meravigliosa che è, e a quel punto sarò l'uomo più felice della terra.
    «E a quanto ho appena sentito, sei brava pure con il francese» continua lui, facendo un cenno con la testa verso il cameriere che si è appena allontanato.
    «Diciamo che me la cavo» risponde lei, acquisendo sicurezza ad ogni nuova parola. «Ho frequentato un liceo ad indirizzo linguistico. Fino a un paio d'anni fa me la sapevo cavare anche con il tedesco, ma ultimamente non ho più avuto molte occasioni di far pratica.»
    «Immagino che dovremmo ingaggiarti per qualche lezione» prosegue Jared, versandosi un bicchiere d'acqua. «Siamo tutti piuttosto ignoranti in materia.»
    «Parla per te» lo rimbecca Tomo. «Vicki e io siamo cresciuti in famiglie bilingui» aggiunge, rivolgendosi a Daria, «quindi, per quanto mi riguarda, mi sento abbastanza acculturato. Sono loro gli ignoranti» conclude con un sorriso, indicando sia me che Jared.
    «Conoscere almeno una lingua diversa dalla propria lingua madre è utile» interviene Vicki. «Specialmente quando si viaggia molto. Con l'inglese è facile, si parla praticamente ovunque. Ma se si proviene da una nazione minore trovarsi all'estero può rappresentare un problema. Che ne pensi, Daria?»
    «Credo di averla sempre vista più come una forma di rispetto. Certamente è utile, ma io credo che abbia molto a che fare anche con il rispetto per il Paese che si visita. Insomma, mi piace immaginare che un francese si senta importante se io, da straniera, arrivo in casa sua parlando la sua lingua. Sinceramente, trovo che i viaggiatori che pretendono di essere capiti in ogni parte del mondo come a casa propria siano un po' arroganti. Con questo non... non sto cercando di darvi degli arroganti, sia chiaro.»
    Incrocio il suo sguardo, e mi affretto a dire: «Nessuno lo ha pensato, stai tranquilla.»
    «Un punto di vista interessante» interviene di nuovo Jared, avvicinandosi il bicchiere alle labbra.
    L'arrivo delle portate ordinate interrompe il ritmo della conversazione, e mentre tutti ci prepariamo ad attaccare la nostra cena, trovo il tempo di far scivolare di nuovo la mano sul ginocchio di Daria, stringendolo appena per farle capire che sta andando tutto bene, e che sta facendo una splendida impressione su tutti.



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Parigi, 25 novembre 2013


    «Cosa fai nella vita, a parte lavorare?» si interessa Tomo, senza alzare lo sguardo dalla bistecca che sta accuratamente sezionando in piccoli bocconi.
    «Non molto, in realtà» risponde Daria, spremendo il succo di mezzo limone sul pesce che ha ordinato. Jared mangia senza staccarle gli occhi di dosso, convinto che soltanto in questo modo potrà davvero capirla. «Sono una persona che fa cose piuttosto comuni: esco con gli amici, sto con la mia famiglia... non esco così tanto, in realtà. Mi piace starmene a casa a leggere, guardare film... credo di essere una persona molto noiosa.»
    «Hai fratelli o sorelle?» domanda Vicki, sollevando per un istante lo sguardo dal proprio piatto.
    «Un fratello e una sorella. Sono tutti e due più piccoli di me. Emanuele ha diciannove anni, Francesca sedici. A volte è piuttosto dura essere la maggiore. Spesso vengono a cercare consigli e aiuto che non sono in grado di fornire.»
    «A chi lo dici» biascica Shannon, la bocca piena di spaghetti triturati. «Personalmente non credo di essere stato una gran guida. Per fortuna Jared ha sempre avuto il buonsenso che a me mancava.» Manda giù il boccone, sentendo su di sé lo sguardo del fratello. «Non credo di averti mai dato grandi consigli, anzi. Il più delle volte sei stato tu ad aiutare me.»
    «Credo che l'importante sia aiutarsi nei momenti difficili» risponde Jared, alzando le spalle con aria indifferente. «Non ho mai creduto molto in questa spartizione dei ruoli. Essere più anziano non ti rende per forza di cose più saggio.»
    «Vanno ancora a scuola?» chiede Vicki, tornando a riferirsi ai fratelli di Daria.
    «Mio fratello ha iniziato l'università, studia Ingegneria Informatica. È una specie di piccolo genio dei computer. Invece mia sorella frequenta il liceo artistico. Ha un grande talento per il disegno.»
    «E i tuoi, invece?» domanda Tomo, curioso.
    Le posate di Daria smettono di fare rumore, strumenti inerti nelle sue mani immobili. Anche Jared smette di mangiare, fissandola con curiosità. Nota il velo di tristezza che sembra essere sceso sui suoi occhi, e non fatica a riconoscere la preoccupazione di Shannon, che la guarda come se fosse pronto a sollevarla tra le braccia e portarla di corsa via da quella sala.



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Parigi, 25 novembre 2013


    Dovevo immaginare che prima o poi la domanda sarebbe arrivata – è naturale che vogliano sapere tutto della mia vita. Ma se è stato tanto semplice parlarne con Shannon, nonostante lo conoscessi da poco meno di mezz'ora, confessare la verità davanti a Jared mi riesce molto più difficile. «Mio padre ha un piccolo laboratorio di falegnameria» inizio, stringendo impercettibilmente la presa sulle posate. «Invece mia madre... mia madre se n'è andata. Sono quindici anni, ormai.» Il silenzio cala di nuovo tra di noi, e questa volta è davvero pesante. «Non è morta» mi affretto a precisare. «Lei è... lei se n'è andata. Quando avevo otto anni ha lasciato mio padre ed è andata via. Da allora praticamente non l'ho più vista.» Alzo la testa e incrocio lo sguardo limpido e sorpreso di Jared: per la prima volta da quando mi sono seduta i suoi occhi non mi mettono a disagio, la sua sicurezza non mi incute timore – forse perché so che è un'esperienza comune ad entrambi, e dunque può capire come mi sento. «Comunque mio padre ha fatto un lavoro fantastico con noi» proseguo, come sentendomi in dovere di mettere fine a quel silenzio che io stessa ho creato. «Ha avuto la fortuna di avere alle spalle una famiglia in grado di dargli il giusto supporto. Non è stato facile, però... lui ce l'ha fatta.»
    Per un paio di minuti mangiamo tutti in silenzio, cercando di smaltire l'imbarazzo creato dalla mia confessione – per quanto mi sforzi sempre di parlarne come di una cosa normale, sono perfettamente conscia del fatto che crescere senza un genitore non è una condizione comune, specialmente quando la persona in questione ha deliberatamente abbandonato la famiglia.
    È Vicki, infine, a riprendere la conversazione, con il suo grande sorriso sincero. «Dicevi che tua sorella è un'artista, giusto?»
    «Anche Daria è un'artista» ribatte Shannon, e a quella frase mi volto a guardarlo come se volessi staccargli la testa a morsi. «Non mi guardare così» aggiunge, facendo spallucce.
    «Che genere di artista?» si interessa Tomo.
    «Una scrittrice» prosegue Shannon, e sento che se fossimo entrambi in piedi niente mi esimerebbe dall'assestargli una poderosa ginocchiata al basso ventre. «Ma non chiedetemi se sia brava o meno, perché non mi ha fatto leggere nulla.»
    «Che cosa scrivi?» chiede Vicki, sempre più curiosa.
    «Niente di importante, sono sciocchezze» cerco di minimizzare. «Ho sempre avuto la passione, ma non ho mai pensato di farne una professione. Non sono abbastanza brava.»
    «Neanche noi pensavamo di fare della musica una professione» interviene Jared. «Nemmeno noi pensavamo di essere abbastanza bravi, e guarda dove siamo arrivati.» Appoggia un gomito sul bordo del tavolo e si accarezza il mento con la punta delle dita, come perso in una riflessione. «Personalmente non pensavo avremmo potuto suonare nemmeno ad un ballo studentesco, quando abbiamo iniziato. Se adesso siamo qui, immagino che sia dovuto anche alla grande fiducia che abbiamo avuto in noi stessi. Ci abbiamo creduto, ci siamo sostenuti a vicenda, e alla fine abbiamo realizzato i nostri obiettivi.» Torna a guardarmi dritta negli occhi, come se stesse cercando di ipnotizzarmi, e aggiunge: «Non bisogna mai smettere di credere in se stessi. Se nemmeno tu credi in quello che fai, come puoi pensare di poterti realizzare?»
    Sostengo per qualche istante il suo sguardo, poi lo abbasso con un sorriso. «Beh, anche volendo non potrei farvi leggere nemmeno uno dei miei appunti. Sono tutti in italiano.»



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Parigi, 25 novembre 2013


    Jared si copre la bocca con una mano per non mostrare il proprio sorriso – gli è piaciuto il modo in cui Daria ha saputo ribattere e prendersi l'ultima parola, nonostante sia lui quello che di solito fa di tutto per accaparrarsi l'ultima battuta della conversazione. Guarda il fratello e poi di nuovo la ragazza, chiedendosi se tra di loro le conversazioni si svolgano sempre così – riescono a passare con tanta disinvoltura dal pianto al riso alla serietà? Perché in quel caso vorrebbe dire che tra loro c'è davvero sintonia, e che davvero riescono a capirsi, che davvero si conoscono, che davvero le loro anime sono in contatto, nonostante il poco tempo che hanno avuto per studiarsi.
    Si chiede quante ore abbiano consumato standosene appesi ai fili del telefono, cercando di cogliere le reciproche sfumature nel tono di voce, tentando di carpire parole anche dal silenzio, forse chiudendo gli occhi per immaginare le espressioni sul volto dell'altro. Jared si chiede come sia possibile che in tutti questi anni nessuna donna abbia saputo incrinare il muro costruito da Shannon, e come invece questa ragazza sia riuscita a sfondarlo in meno di un mese. Ci sono state donne immensamente più provocanti, più spigliate, più sicure di loro stesse – e allora perché tutte hanno fallito, fino a questo momento? Forse davvero questa ragazzina – perché in fondo è una ragazzina, se paragonata ai loro quarant'anni – è davvero la donna giusta per Shannon?



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Parigi, 25 novembre 2013


    La cena è proseguita senza altri incidenti, e seriamente ne sono stupito – continuavo ad aspettarmi una qualche catastrofe, conoscendo il carattere di Jared e le sue piccole tendenze dittatoriali. Invece tutto è andato per il meglio, e nonostante il piccolo imbarazzo causato dalla domanda di Tomo circa i genitori di Daria il clima non si è guastato. Sono stati Tomo e Vicki a guidare la conversazione, interrogando Daria circa usi e costumi del suo paese, domandandole quale genere di musica ascolti, quali libri le piacciano, quale tipo di film preferisca. Dal canto suo, Daria è stata bravissima a sopportare ogni assalto, rispondendo con gentilezza e senza alcuna paura, nonostante qualche naturale momento di insicurezza.
    Ci congediamo poco dopo aver finito di mangiare – lei con la scusa di voler riposare, io con la scusa di volerla accompagnare – e ci ritroviamo in ascensore in silenzio, le mani tanto strette da far quasi male. In silenzio raggiungiamo la nostra camera, ma una volta chiusa la porta mi accorgo che qualcosa non va per il verso giusto. Daria lascia andare la mia mano di colpo, quasi con rabbia, e senza dire nulla si avvicina alla finestra, scosta la tenda e fissa gli occhi sul panorama. «C'è qualcosa che non va?» domando, restando fermo accanto alla porta.
    «Glielo dovevi proprio dire?» ribatte in tono duro, senza voltarsi.
    È la prima volta che si rivolge a me in questo modo, e sinceramente non riesco proprio a capirne il motivo. «A che cosa ti riferisci?»
    «Anche Daria è un'artista» risponde, cercando di imitare il mio tono – ma la sua voce è incrinata dalle lacrime che sta cercando di trattenere. «Glielo dovevi proprio dire?» ripete, voltandosi verso di me.
    «Scusa, non pensavo che la cosa ti infastidisse. Stavo solo cercando di... volevo che ti conoscessero come ti conosco io.»
«Tanto valeva dire anche quale taglia di reggiseno porto» aggiunge, tornando a voltarsi verso la finestra. «Io non sono un'artista, sono una persona normale. Sono una persona noiosa, non ho mai fatto nulla di importante. Sono una ragazza come tante, non ho mai... non so nemmeno che ci faccio qui» conclude in un sussurro. Mi siedo sul bordo del letto, senza sapere cosa dire. «Seriamente, che ci faccio qui?» ripete, portandosi entrambe le mani al viso.
    Mi alzo e mi avvicino lentamente, posandole le mani sulle spalle con dolcezza. «Scusa se ho detto quella cosa» sussurro, sentendomi davvero in colpa per averle causato tale imbarazzo. «È solo che... è solo che io non riesco a vederti come una persona normale, meno che mai come una persona noiosa. Per me tu sei speciale, e lo sai. Ti guardo e non vedo una ragazza come tante. Ti guardo e vedo una donna unica. E vorrei che anche il resto del mondo ti vedesse come ti vedo io.» Le faccio scivolare le mani lungo la schiena, e di lì attorno alla vita. La tengo stretta a me, appoggiandole il mento su una spalla, sperando di farle capire che nonostante tutto non riuscirà mai a convincermi che ho fatto una scelta sbagliata. «Scusa se ho detto quella cosa» ripeto. «Volevo solo aiutarli a vedere il bello che ho visto io.» Non risponde, e non riesco a capire se sia ancora arrabbiata oppure no. «Se vuoi me ne vado. Se glielo chiedo con gentilezza, forse Jared mi lascerà dormire in camera sua. Forse ai piedi del letto, come si fa con i cani.» Ride, e nel sentire quel suono mi rendo conto che le è passata – era soltanto uno dei suoi momenti di insicurezza, quelli che sto imparando a riconoscere e a combattere con la forza della verità.
    «Ti prenderebbe in giro a vita, se sapesse che ti ho cacciato via dalla tua stanza» sorride, voltando la testa verso di me. «Non sono arrabbiata» precisa, prima di schioccarmi un bacio sulla guancia. «Stavo solo... non riesco ancora a credere di essere qui. Sono molto confusa, mi sento... mi sento come frastornata. Credi che gli sia piaciuta?»
    «Oh, Vicki ti adora. Di più, credo si sia innamorata di te. Probabilmente chiederà il divorzio e ti convincerà a fuggire con lei. E anche a Tomo piaci. Gli sei simpatica.»
    «E per quanto riguarda Jared? Pensi che gli sia piaciuta?»
    «Non lo so» ammetto dopo qualche attimo di silenzio. «Ti ha rivolto la parola, il che è già un grande traguardo. Di solito se una persona non gli va a genio non la prende nemmeno in considerazione.»
    «Quindi dovrei ritenermi soddisfatta?»
    «Fidati, poteva andare molto peggio. Non vorrei sbilanciarmi, ma credo sia ben disposto nei tuoi riguardi. Non che ritenessi possibile il contrario, comunque. Come si fa a non adorare un bel faccino come il tuo?» Strofino il naso contro il suo collo, facendole il solletico. «Cercherò di interrogarlo. Anch'io sono curioso di conoscere la sua opinione.»
    «Credi che se non gli fossi piaciuta te lo direbbe? Insomma, vedendoti felice potrebbe decidere di mentire. C'è chi lo farebbe.»
    «Non lui» ribatto, sicuro di quanto dico. «Il suo motto è: 'La verità sopra ogni cosa'. Non si preoccuperebbe di distruggere la mia felicità, né quella di chiunque altro. Quando avevo otto anni, è stato lui a dirmi che Babbo Natale non esiste, e ti assicuro che non ha usato mezzi termini. Non è quell'essere carino e coccoloso che tutti credono. Ho preso più calci in culo da lui che dalla vita.» Nei dieci secondi di silenzio che seguono, mi rendo conto di aver dipinto un quadro piuttosto negativo di mio fratello, perciò mi affretto a correggere il tiro. «Beh, non è nemmeno lo stronzo che ho appena descritto. Però è uno che ti dice le cose in faccia, senza ipocrisie.»
    «Quindi se non mi ritenesse giusta per te non si esimerebbe dal dirlo.»
    «Niente affatto.»
    «Bene. In un certo senso, mi rassicura sapere che è una persona sincera. A proposito, quali sono i programmi per domani?»
    «Mattinata libera» rispondo svelto, approfittandone per stringerla un po' di più, «ma alle due in punto devo essere in sala prove. Dovremmo finire verso le otto, perciò da quel momento sarò di nuovo tutto tuo. Mercoledì invece dovrò essere tutto di Jared. È il giorno dello spettacolo.»
    «Mi sembra giusto» risponde, voltandosi per guardarmi negli occhi. «Non sei una mia proprietà» aggiunge, accarezzandomi una guancia.
    Chiudo gli occhi a quel dolce contatto, e mentre la mano scivola sul mio orecchio sospiro: «Non sai quanto vorrei esserlo. Essere tuo, solo tuo, e di nessun altro.»
    «Non potrei mai essere così egoista. E poi mi piace l'idea di dividerti con il mondo.»
    «Davvero?» le domando, riaprendo gli occhi. Questa sua affermazione mi incuriosisce molto: ho sempre avuto a che fare con donne che pensavano o pretendevano di essere tutto il mio universo, e incontrarne una che la pensa in maniera diametralmente opposta mi disorienta. «Perché ti piace tanto l'idea di dividermi con il resto del mondo?»
    «Così posso essere sicura che ogni volta che torni da me lo vuoi davvero. O almeno posso convincermi che sia così.» Sorride, e nell'azzurro senza fine dei suoi occhi leggo il disperato bisogno che ha di sentirsi importante per qualcuno.



*



Parigi, 25 novembre 2013



    Quando sente bussare, Jared sa già che si tratta di suo fratello – chi potrebbe venirlo a cercare alle dieci passate? Forse soltanto Emma, ma mai senza prima chiamare o mandare un sms. «Già finito?» lo accoglie. «Stai proprio invecchiando... una volta ci mettevi molto più tempo.»
    «Tralasciando il fatto che non esiste soltanto il sesso» replica Shannon, entrando senza aspettare ulteriori istruzioni, «lascia che ti dica che me la cavo ancora abbastanza bene. Non sono così vecchio.»
    «Per fortuna! Anche perché ultimamente te le scegli così giovani e piene di energia...» ribatte l'altro, sedendosi sul letto a gambe incrociate, in una posizione che ricorda moltissimo l'ultimo ruolo interpretato sul grande schermo.
    «A questo proposito...» replica Shannon, avvicinando una sedia al letto. «Sono venuto qui per parlare di lei.»
    «Non dirmi che vi serve già un terapista di coppia, perché non ci credo. E non credo nemmeno di essere la persona più indicata per quel ruolo. Dovresti andare a chiedere un consulto ai due sposini nella stanza accanto» interviene Jared, indicando un punto alle proprie spalle.
    «Non siamo una coppia in crisi, Jared. Voglio soltanto sapere che cosa pensi di lei. Che impressione ti ha fatto, insomma. Le reazioni di Tomo e Vicki sono state... beh, abbastanza chiare» conclude Shannon, incapace di trattenere un sorriso.
    «Loro la adorano» commenta Jared a bassa voce, sperando che il sussurro non raggiunga le orecchie del fratello.
    «Sì, a loro piace. È evidente. Vicki è entusiasta di lei. Ma tu? Che cosa pensi di lei?»
    Jared si stringe il naso tra pollice e indice – un gesto che fa spesso quando deve riflettere su una questione importante – e cerca di evitare in qualunque modo lo sguardo del fratello. Vuole essere completamente sincero, perché è sulla sincerità che si è sempre basato il suo rapporto con Shannon, e non vede alcuna ragione di cambiare modo di essere. «Sembra una ragazza molto educata, e questo mi piace. Si esprime bene, è intelligente e ha molto da dire. Non ho capito se sia molto timida o se fosse in soggezione, però.»
    «Lo è. È molto timida» conferma Shannon. «Insomma, è naturale che trovarsi seduta insieme a te e a Tomo l'abbia messa un po' a disagio, ma... ecco, credo che lo sarebbe stata anche se foste stati i due uomini più normali del mondo. È molto timida» ripete. «E l'idea di incontrarti la rendeva molto nervosa. È ancora nervosa, a dire il vero. Sperava di aver fatto una buona impressione su di te, perché sa quanto tu sia importante per me.»
    «Vuoi che ti dica che mi piace?» domanda Jared, alzando finalmente gli occhi sul fratello.
    «Voglio che tu sia sincero» risponde Shannon, sostenendo lo sguardo.
    «Mi piace» ammette il cantante. «Sembra una brava ragazza. Insomma, si vede che non è qui soltanto in cerca di fama, o di denaro, o di altro. Si capisce subito che è qui per te, si capisce subito che... Dio, tra di voi sembra esserci un'intesa così forte... sembra che vi conosciate da anni. Sembra che stiate insieme da anni. Sembrate affiatati quasi quanto Tomo e Vicki, e loro stanno insieme... beh, praticamente da sempre. Com'è che ci riuscite?»
    «A fare cosa?»
    «Ad essere così... non so nemmeno come descrivervi. È solo che... quando la guardi, la guardi come se fossi davanti al tramonto più bello della tua vita. E lei ti guarda come se non vedesse Shannon Leto, ma solo... soltanto un uomo. Non ti ho mai visto così per una donna, e non ho mai visto nessuna donna guardarti così. Nemmeno Christine ti ha mai guardato così.»
    «Perché devi tirare in ballo Christine?»
    «Perché non dovrei?»
    «Perché è una storia vecchia di vent'anni.»
    «Può essere una storia vecchia di vent'anni, ma non puoi negare che ha continuato a condizionare la tua vita anche dopo essere finita.»
    «Ammetto che è stata una grande delusione e che è stata una storia importante, ma è finita. Non la vedo da vent'anni.»
    «Una persona non devi per forza vederla, per sentirla vicina. Ci deve essere un motivo, se finora non hai avuto relazioni importanti.»
    «Che cosa stai cercando di dirmi?»
    «Sto cercando di dire che Daria è la prima ragazza con cui ti vedo fare sul serio.»
    «E la cosa ti disturba perché...?»
    «Non mi disturba» lo corregge Jared, guardandolo negli occhi. «Sono felice per te, sono davvero felice che ti stia riaprendo a qualcosa a cui avevi rinunciato. È bello vedere che non ti sei arreso, e che credi di poter essere felice, anche dopo tutto questo tempo.»
    «Però?»
    «Non c'è nessun però.»
    «Jared, ti conosco. Con te c'è spesso un però.»
    Jared abbassa lo sguardo, sapendo di essere stato scoperto – il lato negativo dell'avere un ottimo rapporto con tuo fratello è che ti capisce meglio di te stesso, e non gli puoi nascondere proprio nulla. «Beh, stavo solo pensando che... è bello che tu sia così convinto della vostra relazione, ma... io credo che sia anche molto pericoloso.»
    «Pericoloso? Perché dovrebbe essere pericoloso?»
    «Shannon, se dovesse finire male...»
    «Non finirà male.»
    «Io lo spero, lo spero davvero. Ma se accadesse... riusciresti a sopportare di nuovo tutto quel dolore? Riusciresti ad affrontare di nuovo tutta quella sofferenza? Perché soffriresti come un cane, e lo sai meglio di me.»
    Shannon sa di non poter contraddire Jared, perché è vero che se con Daria dovesse finire lui ne soffrirebbe molto – ma sembrerebbe strano il contrario, perché nessun uomo innamorato non soffrirebbe per la fine di una storia che sente essere importante. «Ho bisogno di credere che non finirà» sussurra infine, guardandosi le mani. «Se penso che un giorno potrei perderla, io... io non ci riesco. Voglio continuare a pensare positivo.»
    Jared osserva con attenzione il fratello, e si rende conto che nonostante sia passata una vita Shannon è ancora il ragazzino spaventato di un tempo, quello che ha paura di perdere le poche sicurezze che ha conquistato, e che è pronto a lottare con le unghie e con i denti per tenersi ciò che è suo. «Non badare a quello che ho detto» dice dopo un lungo silenzio. «Sono solo le farneticazioni di uno che non ha mai trovato il vero amore, o comunque una donna in grado di fargli credere di averlo trovato. Se era la mia approvazione che stavi cercando... beh, ce l'hai. State molto bene insieme.»
    «Tutto quello che sto cercando è la verità. Non voglio che tu dica che ti piace e che la approvi se non è questo che pensi.»
    «Shannon, io non ti ho mai mentito. Mai una volta in tutta la vita. Che cosa ti fa credere che abbia voglia di cominciare adesso?» Jared guarda il fratello con tutta la fierezza di cui è capace, deciso a fargli capire che pensa davvero ciò che ha detto. «Piuttosto, quali sono i progetti? Insomma, va bene passare una romantica settimana insieme a Parigi, ma dopo?»
    «Beh, io... io non lo so. È ancora tutto molto confuso. Nessuno dei due si è ancora abituato all'idea di essere finalmente insieme. Dici che dovremmo fare dei progetti?»
    «Non dico che dobbiate iniziare i preparativi per il matrimonio, ma una minima idea di quello che farete in futuro dovreste averla, no? A meno che, certo, non vi accontentiate di incontrarvi di tanto in tanto in una qualunque capitale europea per consumare un po' i materassi delle suite.»


1Quanto sai di te stesso, se non ti sei mai buttato?. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Tyler Durden (interpretato da Brad Pitt) nel film Fight Club (1999, regia di David Fincher). Il film è a sua volta ispirato all'omonimo romanzo scritto da Chuck Palahniuk nel 1996.

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Capitolo 18
*** 18 | Forse l'amore è l'unico barlume di eternità che possiamo permetterci. ***


Portagioie di tristezza | 1
Finalmente, “Portagioie di tristezza” diventa maggiorenne!
Questo diciottesimo capitolo ha avuto una lunga gestazione – non per mancanza di idee, quanto per mancanza di concentrazione e di tempo (ingredienti che, si sa, sono ugualmente importanti nella stesura di una storia) –, ma alla fine eccolo qui, pronto per essere letto, recensito, amato, odiato, o tutto ciò che volete.
Sapendo che non esistono abbastanza parole per ringraziarvi della pazienza nell'avermi attesa per tutto questo tempo, vi lascio alla lettura.
Con profondo affetto (e una buona dose di autoflagellazione),
la vostra EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo diciottesimo
Forse l'amore è l'unico barlume
di eternità che possiamo permetterci.1



Parigi, 26 novembre 2013


    Anche se non ho ancora aperto gli occhi, sono in dormiveglia già da un po' – ma non saprei dire di preciso da quanto. Qualche flebile raggio di luce filtra attraverso le tende, perché ne sento il calore sul viso, ma non ho alcuna voglia di alzarmi – o, più in generale, di muovermi. Al riparo sotto le coperte, le braccia di Shannon mi hanno stretta per buona parte della notte, assicurandomi che non si è trattato soltanto di un meraviglioso sogno – ho davvero preso un treno e l'ho davvero raggiunto a Parigi. Lo sento ancora disteso accanto a me – ad ogni respiro, il suo petto sfiora la mia schiena, e nonostante la presenza dei vestiti ogni volta tremo, come se la sola idea della sua pelle nuda risvegliasse in me i più bassi istinti.
    Tento di convincere il mio cervello che dovrei riaddormentarmi, ma quello proprio non ne vuole sapere – il sole è salito fino a colpire i miei occhi chiusi, e a nulla valgono i tentativi di cambiare posizione. Un paio di minuti più tardi, incapace di resistere oltre, scivolo via dall'abbraccio di Shannon, sperando di non svegliarlo; mi butto addosso una felpa ed esco sul terrazzino, decisa a godermi il panorama. Non è tardi quanto credevo – sono soltanto le otto e un quarto – e Parigi sembra ancora un po' addormentata, esattamente come l'uomo con cui divido il letto.
    D'istinto guardo verso destra, in direzione della camera occupata da Jared, e mi chiedo che cosa si siano detti ieri sera. Mi sono addormentata prima che Shannon tornasse, e probabilmente lui non ha avuto il cuore di svegliarmi per farmi un resoconto della conversazione – e a questo punto mi riesce difficile non pensare a che cosa Jared possa aver detto di me. Ed è sempre in questo momento che prendo una delle decisioni più importanti della mia vita.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Quando sente bussare, Jared è quasi certo che si tratti di Daria – chi altri potrebbe venire a cercarlo alle otto del mattino, tra l'altro senza avvertire? Seppur controvoglia, si alza e controlla lo spioncino, fugando ogni dubbio. Apre la porta e si appoggia allo stipite, sfoggiando la miglior faccia assonnata del suo repertorio. «Buongiorno. Cosa posso fare per te?»
    «Buongiorno» risponde Daria, cercando di mostrarsi il più tranquilla possibile. «Vorrei sapere di che cosa avete parlato tu e Shannon ieri sera, quando lui è venuto qui da te.»
    «Lui che cosa ti ha detto?»
    «Lui non mi ha ancora detto niente. Dormivo già quando è tornato, e adesso sta ancora dormendo.»
    «Forse dovresti svegliarlo e chiedergli di raccontarti quanto ci siamo detti.»
    Daria volta la testa a sinistra, indirizzando lo sguardo verso la propria camera, ma un paio di istanti più tardi torna a guardare Jared. «Il fatto è che... beh, ho pensato che se ieri sera non mi ha svegliato per parlarmene, forse non aveva cose molto carine da raccontare.»
    «Perciò pensi che abbia parlato male di te?»
    «Non male» si affretta a correggerlo lei, «solo... forse il tuo responso non era completamente positivo, e lui non ha voluto rischiare di ferirmi.»
    Jared la fissa a lungo, chiedendosi per quale motivo sia convinta di non essergli piaciuta, o comunque di non averlo soddisfatto appieno. «Che ne dici di venire dentro e parlarne con calma?»
    «Scusa?»
    «Sì, dai, vieni dentro. Non sono conversazioni da fare in corridoio.» Si scosta, invitandola ad entrare, e non appena lei si fa avanti le chiude la porta alle spalle. «Fai colazione con me? Faccio portare su qualcosa dal servizio in camera.»
    «Non è necessario, non voglio disturbare...»
    «Allora non dovevi bussare» replica lui con un sorriso. «Ehi, sto scherzando» aggiunge, notando l'espressione colpevole dipinta sul volto della ragazza. «Mi sarei alzato comunque presto. Avevo in mente di sbrigare un paio di cose. Cosa vuoi per colazione?» le domanda, alzando il ricevitore per contattare la reception.
    «Non è necessario, davvero, non...»
    «Beh, mi sentirei a disagio mangiando da solo, quindi farai colazione anche tu.»
    «Allora mangerò quello che mangi tu.»
    Coraggiosa, la ragazza, pensa Jared mentre aspetta che il concierge di turno prenda la chiamata. Si siede sul bordo del letto sfatto, mentre Daria attraversa la stanza e va a mettersi vicino alla finestra, concentrata sul panorama. Jared sa che probabilmente è soltanto un diversivo per evitare di doverlo guardare negli occhi, ma la lascia fare – sa che avranno molto tempo per osservarsi.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Il primo pensiero, quando apro gli occhi su un letto vuoto, è che Daria si sia fatta prendere dal panico e se ne sia andata dalla città con il primo treno, perciò scatto a sedere con una rapidità che non credevo possibile. Spalanco gli occhi per guardarmi intorno, e per fortuna la stanza è esattamente come l'ho lasciata ieri sera andando a letto: la valigia di Daria chiusa e messa in un angolo, le sue scarpe allineate dietro la porta, il giubbotto appeso alla spalliera della sedia, i braccialetti e il cellulare appoggiati sul comodino... «Daria?» dico ad alta voce, pensando che si sia alzata per andare in bagno. Non arriva alcuna risposta, e d'istinto allungo una mano verso il suo lato del letto, trovandolo freddo – deve essersi alzata già da un po', se il materasso ha avuto il tempo di lasciar andare tutto il suo calore.
    Scosto le coperte e butto giù i piedi, cercando di ricordare dove ho lasciato i pantaloni. Li trovo piegati su una sedia, probabilmente messi a posto da Daria, e cerco di infilarmeli per il verso giusto nonostante il mio cervello sia ancora piuttosto riluttante. Non so nemmeno da dove iniziare a cercarla, anche se il cellulare sul comodino e le scarpe vicino alla porta dovrebbero farmi capire che non è andare molto lontano. Sto lottando con una maglietta quando noto il post-it appiccicato alla porta. «Non andare fuori di testa se non mi trovi. Torno subito. Ti amo.» Lascio perdere la mia battaglia con i vestiti, arretro di qualche passo e torno a sedermi sul letto, il post-it stretto tra le dita. Inizio a capire come si deve essere sentita Daria svegliandosi sola, quel famoso mattino di ormai due settimane fa – è una sensazione orribile scoprirsi soli quando per tutta la notte si è sognato di essere in due, e soprattutto fa schifo rendersi conto di non sapere dove sia l'altro. Sospiro, lasciandomi andare all'indietro, continuando ad osservare la grafia tonda e ordinata di Daria, chiedendomi se anche gli appunti riguardanti le sue storie siano scritti in questo modo.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Jared e Daria hanno aspettato l'arrivo della colazione scambiandosi opinioni sul tempo, sulla città, sulla scarsa cortesia dei francesi – argomenti quasi futili, se paragonati a ciò di cui hanno intenzione di parlare più tardi. Mentre Jared si sposta in bagno per darsi una sciacquata al viso, Daria osserva il mucchio di quaderni e appunti appoggiati in un angolo dello scrittoio, chiedendosi se sia da quei quaderni che prendono vita le canzoni che tanto ama, e che per molte persone simili a lei rappresentano l'unico modo per fuggire un mondo che mastica e sputa via ogni desiderio come un boccone poco gradito.
    «Puoi toccarli, se vuoi. Basta che poi li rimetti in ordine.» Nel sentire di nuovo la voce di Jared, Daria alza la testa con la stessa rapidità di un cerbiatto che avverte l'approcciarsi di un cacciatore. «Di norma sono molto geloso dei miei appunti e delle mie cose in generale, ma tu puoi guardare» aggiunge, finendo di raccogliersi i capelli in un nodo bitorzoluto.
    Il diverso tono con cui le dà il permesso di frugare tra le sue cose – a patto, naturalmente, di riportare tutto alle condizioni originarie – fa capire a Daria che, nonostante la freddezza dimostrata fino a questo momento, Jared la considera diversa dalle altre persone – diversa dalle ragazze con cui di solito si intrattiene Shannon. «Se lì in mezzo ci sono delle idee per delle nuove canzoni, preferisco non guardare. Voglio rimanere sorpresa.»
    Per la prima volta nella sua vita, Jared non è in grado di formulare una risposta concreta. Per fortuna l'addetto al servizio in camera bussa proprio in quel momento, cavandolo dall'impaccio di trovare per forza qualcosa da dire. «Cibo!» esclama una volta richiusa la porta. «Spero ti piaccia la frutta, perché io ne mangio un sacco.» Daria nota che il carrello straripa letteralmente di frutta: succo d'arancia, marmellate di diversi colori, mele, kiwi, banane, grappoli d'uva... impossibile non chiedersi se Jared non sia in realtà la reincarnazione di Carmen Miranda2. «Caffè?» le domanda, sollevando una tazza con la mano sinistra.
    «Grazie, sì.»
    «Serviti pure. Fai come se fossi a casa tua» replica lui, versandole una generosa dose di caffè.
    «Se fossi a casa mia, non ci sarebbe un carrello per il servizio in camera» sorride lei, allungando una mano per rubare qualche acino d'uva. «Sarà dura tornare alle vecchie abitudini» aggiunge, prendendo posto su una sedia.
    «Sai, se la prima italiana a cui riesco ad offrire un caffè americano. Di solito siete molto diffidenti.»
    «Beh, ci sono cose che nessuno sa fare meglio degli italiani.»
    «Lasciami indovinare: il caffè, la pizza e l'amore.»
    «Credo siano i francesi quelli bravi a fare l'amore. Comunque sì, il caffè è una di quelle discipline nelle quali siamo imbattibili. Però personalmente credo che esistano circostanze in cui il bisogno di caffeina supera qualunque confine o barriera culturale.»
    «Devi affrontare qualche sfida in particolare?» domanda lui, porgendole la tazza. «Zucchero? Latte?»
    «Lo bevo amaro, grazie.»
    «Sei davvero piena di sorprese, lo sai?»
    «Perché mi piace il caffè senza zucchero?»
    Jared non risponde, libera una parte di scrivania e vi appoggia sopra la propria tazza, alla quale aggiunge un paio di cucchiaini di zucchero. «Sai, se non fossi la causa principale della felicità di mio fratello, probabilmente ti detesterei.» Gli occhi di Daria lo fissano da sopra il bordo della tazza, contornati da piccole rughe che esprimono tutta la sua confusione. «Mi sono sempre vantato di essere uno che riesce a capire le persone, ma con te sto iniziando a pensare di aver sbagliato. E chi mi conosce sa che detesto avere torto ed essere corretto.»
    «Perché credi di esserti sbagliato?»
    «Beh, ieri sera ti ho osservata a lungo, e alla fine credevo di aver capito il tuo modo di essere. Come sei fatta, in sostanza.»
    «E che cos'hai capito?»
    «Credevo di aver capito che fossi una ragazza molto timida e piena di paure, una che difficilmente si fida degli altri.»
    «Non sei andato così lontano dalla verità.»
    Mentre spalma una generosa dose di marmellata su una fetta di pane, Jared scuote la testa. «Non sei davvero così. Forse hai sempre creduto di essere quel tipo di ragazza, ma non lo sei. Se fossi davvero una ragazza timida, una che ha paura del giudizio degli altri... beh, non saresti qui, in questo momento.»
    «Quindi stai cercando di dire che... che fingo di essere qualcuno che non sono?»
    «Non ho detto questo. Non mi permetterei mai di dire una cosa del genere. E comunque sono sicuro che non è così. Se fingessi di essere qualcuno che non sei, Shannon lo avrebbe capito. Non è una cima quando si tratta di capire le persone, ma capisce subito se qualcuno sta falsificando la propria personalità.»
    «Allora scusa, ma non credo di aver capito che cosa intendi.»
    «Ti chiedo scusa, probabilmente mi sono espresso male. Quello che stavo cercando di dire è che forse stai cambiando. Crescendo, se preferisci. Forse sei sempre stata timida e insicura, ma stare con Shannon forse ti sta facendo maturare. Ti faccio una domanda: prima di conoscerlo, ti saresti mai messa davanti ad una persona estranea chiedendole di darti un'opinione su te stessa? Insomma, ti saresti mai lasciata analizzare da qualcuno che non conoscevi?»
    Daria abbassa per un attimo lo sguardo, riflettendo sulla questione. «No, forse no» sussurra infine. «Anzi, sicuramente no» aggiunge dopo un attimo, sorridendo. «A malapena avrei accettato di essere psicanalizzata dalla mia migliore amica.»
    «Quanti anni hai detto di avere?» le domanda Jared dopo quasi un minuto di silenzio.
    «Ventitré. Li ho compiuti in settembre.»
    «Ventitré anni... alla tua età io ancora non avevo la benché minima idea di quello che avrei combinato nella mia vita. Non avevo piani, non avevo strategie...»
    «Non che io abbia tutte queste certezze.»
    «Tu hai la certezza di avere il sostegno di una famiglia, e soprattutto hai la certezza di avere l'amore di un uomo che non è abituato a sprecarlo. Finché sai di poter contare sull'amore di una persona, non puoi essere sconfitto.» Notando l'espressione confusa di Daria, aggiunge: «Shannon ti ama. Ti ama con tutto se stesso, ti ama come non ha mai amato nessun'altra. Credo tu sappia che c'è stata soltanto una storia importante nella sua vita, e che non è finita molto bene.»
    «Sì, lui... lui mi ha accennato qualcosa. So che ha sofferto molto, quando... beh, quando è finita.»
    «Era davvero innamorato. Forse non dovrei dirlo, ma sono famoso anche per essere un tipo che a volte parla a sproposito. Dopo la fine di quella storia, io non l'ho più visto guardare una donna nel modo in cui guarda te. E non è soltanto per la tua evidente bellezza, ma io... io credo tu sia in grado di dargli qualcosa che nessun'altra gli ha mai saputo dare. Credo che tu lo faccia sentire utile, in un certo modo, forse perché tu hai bisogno di essere amata, e lui sa di essere l'unico in grado di darti ciò di cui hai bisogno. Scusa, forse non mi sono spiegato troppo bene...»
    «No, no, anzi. Ti sei spiegato fin troppo bene. E pensare che... e pensare che sono venuta qui soltanto per sapere che cosa gli avevi detto a proposito di me...» Daria sente che gli occhi si stanno facendo lucidi di lacrime, e l'ultima cosa che vorrebbe è scoppiare a piangere di fronte a Jared – purtroppo, però, ci sono cose incontrollabili, e tutto ciò che può fare è abbassare lo sguardo e coprirsi gli occhi con la mano, sperando di eludere la sorveglianza degli occhi più azzurri e luminosi che abbia mai visto.
    «Ehi» sente sussurrare poco dopo, «ehi, non è il caso di disperarsi.» Daria alza lo sguardo e vede che Jared le sta sorridendo. Un istante più tardi, le sfiora il mento con due dita, spronandola a tenere alta la testa e a non lasciarsi abbattere. «Gli ho detto che mi piaci, comunque. Che mi piaci e che mi sembri la ragazza giusta per lui. Gli ho detto di non lasciarti scappare, perché non troverà mai un'altra come te.» Si interrompe per un istante, mordicchiandosi un labbro come se stesse cercando le parole giuste. «Questo a lui non l'ho detto, ma... mi piacerebbe molto avere quello che avete voi.»
    «Una relazione a distanza che non si sa fino a quando funzionerà?»
    «La certezza di avere qualcuno che ti ama per come sei, che conosce tutto di te e che ama ogni tuo singolo difetto, perché sa che è ognuno di quei difetti a renderti quello che sei. La certezza di avere qualcuno che ti ama di sua volontà, perché lo vuole, perché sceglie di farlo. Tu e Shannon avete qualcosa che capita una volta nella vita, e se solo lo voleste io credo... credo che potrebbe essere eterno.» Adesso è Jared ad abbassare lo sguardo, e Daria non può fare a meno di fissarlo, mentre una nuova consapevolezza si fa strada dentro di lei – Jared la apprezza davvero, la vuole davvero a fianco di suo fratello. Sa che è l'unica spiegazione possibile, perché uno come lui non si aprirebbe mai di fronte ad una persona non gradita. Non riesce a trattenere un sorriso, mentre a fatica resiste all'impulso di gettarsi dall'altra parte della scrivania e abbracciarlo – perché ciò che Jared le ha appena detto è che contento di saperla accanto a Shannon, e che spera di vederla rimanere allo stesso posto per un bel po' di tempo, se non per sempre.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Tornata in camera guardo subito dietro la porta, senza trovare il post-it. Deduco che trovandosi solo Shannon si sia alzato con l'intento di cercarmi ovunque, ma che il mio avviso lo abbia tranquillizzato e indotto a rimettersi a letto. Non che sia molto difficile giungere a questa conclusione, visto che giace di traverso sul materasso, con addosso un paio di jeans e una gamba penzoloni, il foglietto ancora stretto tra le dita. Non resisto alla tentazione di immortalare questo momento, e dopo aver recuperato il cellulare gli scatto un paio di foto, giusto per essere sicura di conservare eterna memoria di una visione così celestiale. Mi sfilo la felpa, appoggio il cellulare sul comodino e facendo attenzione a non svegliarlo mi stendo accanto a lui, curandomi di tirare su le coperte. In silenzio gli faccio scivolare un braccio attorno alla vita, credendo forse che fin quando mi terrò fisicamente aggrappata a lui non ci sarà alcun pericolo. Senza nemmeno accorgermene chiudo gli occhi e scivolo nel sonno, forte di una nuova convinzione: ci sono altre persone che credono in noi e nel nostro amore, dunque non siamo i soli a credere che possa funzionare. Se la penso così, sembra tutto infinitamente più semplice da affrontare.



*


Parigi, 26 novembre 2013


    Quando apro di nuovo gli occhi, la prima cosa che faccio è liberarmi del post-it che tengo ancora stretto tra le dita; subito dopo alzo il cellulare per controllare che ore sono, scoprendo che sono appena le dieci. Solo a questo punto mi accorgo che il letto non è più vuoto: Daria è tornata, si è rimessa a letto e si è accoccolata contro di me, stringendomi come se temesse di perdermi. Con una mano salgo ad accarezzare il suo profilo: le sfioro la guancia, le sistemo i capelli dietro l'orecchio, e intanto cerco di ricordare cos'ho fatto di bene nelle mie vite precedenti per meritare un simile tesoro. Il mio tocco la risveglia, e non riesco ad impedirmi di sorridere quando incontro il suo sguardo: se potessi scegliere di svegliarmi accanto ad una sola cosa per tutte le mattine che mi restano da vivere, certamente sceglierei il suo viso. «Buongiorno» sussurro, la voce ancora arrochita dal sonno.
    «Buongiorno» risponde lei, strofinandosi gli occhi con una mano. «Ti ho mai detto che ti adoro quando parli?»
    «Mai, è la prima volta» rispondo, facendole scivolare un braccio attorno alla vita per tenermela stretta. «Davvero ti piace sentirmi parlare?»
    Le sue mani circondano il mio viso, e la splendida sensazione delle sue dita leggere sulla pelle mi spinge a chiudere gli occhi per assaporare ogni istante di quel contatto. «Hai una splendida voce. È... beh, è sexy. Un uomo con la voce roca raramente non è sexy.»
    «Oh, quindi mi trovi sexy...» ribatto, tornando a guardarla.
    «Perché, non te lo aveva mai detto nessuno?»
    Appoggio la fronte alla sua, desiderando che il tempo si fermi e ci trattenga per sempre in questa città, lasciandoci liberi di giocare a fingerci eterni. «Me lo sono sentito dire spesso, ma... detto da te ha tutto un altro suono. Detto da te, tutto ha un altro suono.» Percorro il contorno delle sue labbra con l'indice, seguendone attentamente ogni curva. «Potresti dirmi che gli asini volano, e io ci crederei» aggiungo, sostituendo all'indice il pollice. «Potresti raccontarmi qualsiasi cosa, e io mi fiderei di te» dico ancora, continuando l'esplorazione della sua bocca.
    «Dici davvero?» sussurra, continuando a guardarmi.
    «Dico davvero» confermo.
    «Shannon, gli asini volano» dice dopo un po', con un sorriso che potrebbe illuminare un teatro.
    «Ti credo» rispondo. Il pollice lascia le sue labbra, scivola lentamente sul mento, lo oltrepassa e inizia a scendere lungo il collo. Il suo respiro inizia a farsi più pesante, come se fosse la prima volta che ci tocchiamo. Al pollice si uniscono le altre dita, che tutte insieme attraversano il petto, superano la morbida curva del seno e raggiungono il ventre. «Crederei ad ogni cosa, anche alla più assurda bugia» sussurro ancora, la bocca sospesa a pochissimi centimetri dalla sua. Le dita continuano a scendere, eludono la sorveglianza dei leggings e raggiungono la meta desiderata. Senza aspettare, Daria schiude appena le gambe, concedendomi il permesso di continuare. Le mie dita scivolano senza difficoltà tra le sue carni calde e umide, mentre un gemito improvviso tradisce la sua eccitazione. Ormai la conosco bene, so che tra pochi secondi il suo corpo si spingerà verso il mio, cercando un contatto più intenso, più duraturo, più eccitante. Ormai la conosco, so di che cosa ha bisogno, e so esattamente come darglielo. Incapace di resistere oltre, incollo la mia bocca alla sua, lasciando che labbra, denti e lingua si affrontino senza precise strategie. Continuiamo a baciarci a lungo, finché non è lei a staccarsi, bisognosa di respirare e di sfogare il suo piacere. Respiro a pochi centimetri da lei, senza staccare lo sguardo dal suo volto: la guardo e sento di amarla una volta di più, perché è incapace di mentire – il respiro accelerato, i nervi tesi pronti a reagire ad ogni stimolo, la mano che si fa strada tra i miei capelli e li stringe con forza... non sta fingendo, e Dio solo sa quanto a lungo abbia cercato una donna sincera, una donna spontanea, una che è se stessa e non si vergogna di esserlo.
    «Non ti fermare, Shannon, non ti fermare» mormora a fatica, mentre le mie dita affondano di più in lei e la mia bocca raggiunge il suo collo, tormentandolo dolcemente fino allo stremo. «Ti prego, non ti fermare» sussurra ancora, stringendosi di più a me, la schiena inarcata, il respiro accelerato e irregolare. Riesco a leggere in ogni segno del suo viso che il piacere è reale e intenso, e vederla così eccitata e appagata mi dà un senso di eccitazione ben diverso da quello che conoscevo – con lei non sono più il musicista arrapato che ero solito essere... con lei sono un uomo attento, sono un uomo premuroso, sono un uomo comprensivo. Accanto a lei divento l'uomo che ho sempre voluto essere... ed è una sensazione semplicemente meravigliosa.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Seduto per terra, con le spalle appoggiate al letto, Jared fissa gli appunti sparpagliati dinanzi a sé, chiedendosi se Daria abbia già confessato a Shannon i particolari della loro conversazione, o se invece abbia preferito rifilargli una bugia e tenere il segreto ancora per un po'. Non può fare a meno di ripensare a ciò che le ha detto alla fine, poco prima che lei se ne andasse e lo lasciasse di nuovo in compagnia della sua solitudine. Mi piacerebbe avere quello che avete voi, ricorda bene le parole. Una confessione più chiara che mai. Non avrebbe voluto dire una cosa del genere, ma pare proprio che la vicinanza di quella ragazza scateni un'irrefrenabile voglia di essere sinceri. Non avrebbe voluto dire una cosa del genere, ma non può negare che fosse giunto il momento di dirlo ad alta voce.
    Il fatto è che non si è mai fermato a chiedersi se non fosse il caso di iniziare a cercare qualcuno con cui condividere la propria esistenza, e ora che Shannon è così preso da questa relazione il dubbio inizia a farsi strada prepotente in lui. Il fatto è che forse gli è capitato di pensarci, ma ha respinto l'idea perché sa che potrebbe andare male, sa che potrebbe finire, sa che potrebbe fallire, e lui non è abituato a fallire – o meglio, a lui non piace fallire. A lui piace avere il controllo della situazione, a lui piace condurre il gioco, ed è impensabile che uno come lui lasci che sia il destino a controllare la sua vita.
    Riprende in mano un foglio, lo legge più volte, poi con una matita cancella una riga e la corregge. Forse l'amore è l'unico barlume di eternità che possiamo permetterci, rilegge. Sul suo volto magro e affilato si dipinge un sorriso malinconico. «Ti auguro davvero che sia eterno, Shan» sussurra, fissando ancora il foglio. «Meriti di essere felice.»



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Shannon è ancora fermo sopra di me, le braccia che mi circondano, la fronte appoggiata alla mia; è ancora dentro di me, ma ho come la sensazione che lui sia sempre dentro di me – dentro di me, sopra di me, intorno a me. Shannon non mi lascia mai, è con me in ogni momento della giornata, è in ogni cosa che faccio, in ogni volto che vedo, in ogni pensiero che mi attraversa la mente. «Sai una cosa?» sussurro, prendendogli il volto tra le mani. «Anche quando non sei con me, mi sento come se ci fossi.»
    Solleva un po' la testa, aprendo gli occhi. «Anch'io mi sento come se tu fossi sempre con me.»
    Ci guardiamo a lungo negli occhi, senza dire una parola, ma alla fine non riesco a trattenermi: «Non ho mai visto un uomo con ciglia così folte.»
    «Per caso è un complimento?» mi domanda, sospettoso ma sorridente.
    «Ti rendono gli occhi dolci» rispondo. «Hai degli occhi davvero molto dolci.»
    «Grazie» sorride, abbassandosi per baciarmi ancora. «Aspettami un secondo qui. Non ti muovere.» Esce lentamente da me, e la sua improvvisa mancanza è come vedersi catapultata fuori di casa in pieno inverno con addosso soltanto la biancheria. Mi tira il lenzuolo fino all'altezza del seno, forse avvertendo il mio brivido, e sparisce in bagno. La disinvoltura con la quale riesce a muoversi nonostante la nudità mi sconvolge ogni volta. Torna in camera un minuto più tardi, sgusciando sotto le coperte come un ladro. «Sei ancora qui» sussurra, stringendosi a me.
    «Perché, dove dovrei andare?»
    «Ah, non saprei. Dove sei sparita, prima?»
    Prima di rispondere, esito un momento. «Sono stata da tuo fratello. Volevo sapere che cosa ti aveva detto ieri sera. Ero... beh, ero terribilmente curiosa.»
    «Potevi svegliarmi, te lo avrei detto io.»
    «Non volevo disturbarti. E poi avevo... beh, avevo paura che se avesse detto cose spiacevoli non me lo avresti detto. Volevo sentire la verità direttamente da lui.»
    «Non ti fidi di me?»
    «Mi fido moltissimo di te» replico, «ma era una cosa che sentivo di dover fare. È tuo fratello, e non posso continuare ad aver paura di lui.»
    «Hai paura di lui?»
    «Non è veramente paura» lo correggo. «Solo... beh, ancora non sono completamente abituata all'idea di dover avere a che fare con lui. È qualcosa che metterebbe alla prova le persone più coraggiose del mondo. In fondo io... io sono soltanto una ragazzina entrata a far parte di qualcosa di enorme, qualcosa estremamente più grande dei suoi sogni più incredibili. Dovevo sentire la verità direttamente da lui» ripeto, più convinta.
    «Allora sentiamo, che cosa gli hai sentito dire?»
    «Che gli piaccio. Me lo ha detto chiaro e tondo, senza giri di parole. Mi ha detto che gli piaccio e che mi ritiene giusta per te. Mi ha detto che ci vede bene insieme, e che spera che possa durare.»
    «Che, in sostanza, è più o meno quello che aveva detto anche a me.»
    Non rispondo subito, ma mi prendo un attimo per riflettere se sia giusto rivelare tutto quello che ho sentito dire, perché anche se non ho ricevuto veti, non riesco a non pensare che l'ultima parte della conversazione tra me e Jared suonasse come una sorta di confessione. Forse non dovrei confessare a Shannon quell'ultimo scambio di battute, ma d'altra parte so che se gli tacessi lui lo capirebbe, perché sembra avere la straordinaria capacità di leggere con incredibile precisione ogni segno del mio viso. «Ha detto una cosa strana, alla fine.»
    «Che genere di cosa strana? Stiamo sempre parlando di mio fratello, ricordalo. Lui non rientra esattamente nei canoni della normalità.»
    «Beh, lui ha detto che... ha detto che vorrebbe avere quello che abbiamo noi. Ha detto che noi abbiamo qualcosa che capita una volta nella vita, che abbiamo la... la certezza che ci sia almeno una persona al mondo che ci ama per come siamo, che ci ama senza costrizioni, che ci amerà indipendentemente da tutto quello che potrebbe succedere. Beh, non è quello che ha detto che mi è parso strano, ma... è stato il modo in cui l'ha detto. So che non lo conosco quanto te, forse non dovrei sbilanciarmi così, ma... io credo che stia rivalutando la sua vita, e che in un certo senso si senta solo.» Shannon si mette a sedere, mi mette un braccio attorno alle spalle e mi tiene stretta a sé, senza dire nulla. Alzo lo sguardo, e l'espressione del suo volto mi dice che è preoccupato. «Forse sbaglio, Shannon» aggiungo, sapendo bene che lui è l'unico a conoscere davvero Jared. «In fondo, io non lo conosco affatto.»
    «Forse è proprio perché non lo conosci che riesci a leggere così bene la sua anima» replica, regalandomi uno dei suoi straordinari sorrisi. «In realtà, è già da un po' che mi sono accorto di questo suo... cambiamento.»
    «Secondo me potrebbe dipendere dal fatto di vedere che tu hai... beh, che stai cercando di costruire qualcosa. Forse teme che l'amore potrebbe fargli perdere un fratello.»
    «No, non è questo» risponde lui, scuotendo la testa. «Credo solo che stia crescendo. Ha vissuto tutta la propria vita senza mai guardare al futuro, un po' come ho sempre fatto anch'io, e forse ora... forse si sta solo domandando dove lo porterà la vita. Arriva per tutti il momento di guardarsi intorno e decidere che cosa sia giusto fare. Forse quel momento sta arrivando anche per lui.»
    «Anche?» gli faccio eco, continuando a guardarlo.
    «Per me è arrivato da tempo. Quando ci siamo conosciuti, io... beh, diciamo che era già da un po' che mi chiedevo se non fosse il caso di cambiare qualcosa nella mia vita. Poi sei arrivata tu, e improvvisamente ho capito che nella mia vita non ho fatto altro che aspettare questo momento, questo... questo amore. Quando ti ho incontrata ho capito che per tutta la vita non ho fatto altro che aspettare te.» Mi stringo di più a lui, abbassando la testa per nascondergli i miei occhi lucidi di lacrime. «So che forse ho appena detto un'enorme e ritrita stronzata romantica» riprende, accarezzandomi i capelli, «ma con te non so mai che parole usare. Sembra sempre che le parole non mi bastino mai.»
    «Non hai bisogno di dire niente, Shannon» sussurro, rialzando la testa. Improvvisamente, mi viene da ridere. «Mia nonna dice sempre che quando non si sa cosa dire, è meglio non dire nulla.»
    «E allora non dirò nulla» risponde, sorridendo a sua volta. «Vorrà dire che farò parlare i fatti.»
    «Quali fatti?» gli domando, senza capire dove voglia arrivare.
    «Ssh, non dire niente» mi zittisce, appoggiandomi l'indice sulle labbra. «Dobbiamo far parlare i fatti, no?» Il suo sguardo riacquista quella sfumatura maliziosa e vagamente depravata che ogni fan ha imparato a riconoscere e adorare, e immediatamente capisco a quali fatti si riferisce.
    «E allora facciamoli parlare.»



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Shannon entra in sala prove praticamente di corsa, salutando quasi senza fiato gli altri membri della band. «Scusate il ritardo, ho avuto un... un piccolo contrattempo.»
    «Possiamo perdonarti dieci minuti, credo» replica Jared, sfogliando alcuni spartiti senza alzare lo sguardo. «Ma ti avverto che dovrai suonare più che bene. Dovrai essere perfetto, altrimenti prenderò a calci quel tuo tanto osannato fondoschiena.»
    «Sì, Führer» risponde il fratello maggiore, prendendo posto dietro la batteria. «Quali sono i programmi per oggi?»
    «Ripassiamo la scaletta per domani sera» risponde Tomo, passandogli un foglio. «Che hai fatto al collo?»
    Shannon alza lo sguardo, confuso. «Eh?»
    «Hai un'enorme macchia rossa proprio qui» spiega l'altro, indicando il punto preciso su se stesso. «Non che abbia tutta quest'esperienza, ma direi che sembra proprio un...»
    Comprendendo all'improvviso di che cosa si tratti, il batterista inizia a grattare furiosamente la zona interessata. «Deve avermi punto una zanzara» replica veloce. «Prude un po'.»
    «Certo, si sa che le zanzare adorano il freddo autunno parigino» risponde Tomo, imbracciando la chitarra.
    «Forse è una zanzara umanoide» gli dà corda Jared, che dal proprio sgabello sta già provando qualche accordo. «Dicono siano le peggiori.»
    Shannon non sa che cosa di preciso lo trattenga dall'arrossire e nascondersi dietro lo strumento come un bambino beccato con le mani nella marmellata – forse è il ricordare all'improvviso il momento in cui Daria gli ha lasciato quel marchio, appena un'ora prima. «Allora, vogliamo provare sì o no? Non eravamo in ritardo?»
    Tomo fa spallucce, rovistando alla ricerca di un plettro. «Ritardiamo volentieri di un altro po', se è per burlarci di te.»
    «Begli amici» sbuffa il batterista.
    «Arrabbiati con la tua piccola Dracula» gli sorride Jared. «Noi abbiamo soltanto sfruttato l'assist.» I loro sguardi si incrociano per un istante, ed è in quel momento che Shannon capisce che al fratello piace davvero Daria, che è davvero contento di averla conosciuta: il suo sorriso è troppo sincero, e i suoi occhi, da sempre incapaci di mentire, esprimono una reale ammirazione. Guardando il fratello, Shannon si convince una volta di più che Daria sia giusta per lui: come Constance, come Jared, come Tomo, come tutte le persone da cui è veramente amato, lei è incapace di mentirgli.


1Forse l'amore è l'unico barlume di eternità che possiamo permetterci. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase attribuita a Jared Leto (spero abbiate qualche informazione da darmi su di lui, perché non ho davvero idea di chi diavolo sia!). In realtà non so se sia stata davvero pronunciata da lui, e nemmeno saprei citare l'occasione in cui è stata detta; l'ho trovata curiosando su un'ottima fanpage su Facebook, una pagina gestita in maniera squisita, sulla quale si può trovare ottimo materiale. Per gli interessati, la pagina è Jared, Shannon and Tomo: the divaH, the animal and Jesus. Fateci un salto, se ancora non la conoscete!
2Carmen Miranda | Carmen Miranda (1909 – 1955) è stata un'attrice, cantante e showgirl portoghese naturalizzata brasiliana nota per il suo stile anticonformista e celebre soprattutto per il “turbante tutti-frutti”, bizzarro copricapo con il quale spesso si esibiva. Oltre ad essere un'artista di talento, la Miranda era nota anche per le sue capacità sartoriali: infatti era lei stessa ad ideare i propri costumi, e spesso era lei a realizzarli materialmente. La sua fama è tale che, nonostante siano trascorsi quasi cinquant'anni dalla sua morte, la sua carriera continua ad essere di ispirazione per molti artisti.

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Capitolo 19
*** 19 | Siamo qui, nei grigi dell'inverno. Siamo qui, solo io e te. Stringi la mia mano, affrontiamo domani. ***


Portagioie di tristezza | 1
Chiedo scusa da così tanto tempo che ormai avrete esaurito ogni scorta di pazienza. Non so spiegarmene i motivi, ma è da un po' di tempo che sono estremamente critica circa tutto ciò che scrivo, e questo porta inevitabilmente ad un ritardo immenso nella produzione e nella pubblicazione di nuovi capitoli. Inoltre, alcuni lettori hanno espresso critiche che mi hanno un po' buttato giù, anche se continuo a rispettare le idee di ciascuno. Scusate ancora, è un periodo, passerà.
Buona lettura,
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo diciannovesimo
Siamo qui, nei grigi dell'inverno.
Siamo qui, solo io e te.
Stringi la mia mano,
affrontiamo domani.1


Parigi, 26 novembre 2013


    Quando il cellulare squilla, verso le sei del pomeriggio, sono immersa fino al collo nella vasca da bagno. So di dovermi vergognare, visto che mi trovo in una delle più belle città del mondo, ma ho scoperto di non aver alcuna voglia di uscire, se l'unica compagnia che mi aspetta è la solitudine. Meglio starmene tappata in camera a rilassarmi e combattere i peli superflui. Quando riconosco il numero del mittente come quello del cellulare di mio padre, però, mi metto sull'attenti e cerco di rammentare la struttura della bugia che gli ho propinato. «Ciao, papà!» lo saluto, mantenendo un tono allegro che spero lo rassicuri.
    «Ciao, tesoro. Come va da quelle parti? Che fai di bello?»
    «Oh, sono tornata mezz'ora fa, più o meno. Stavo per farmi un bagno, sono veramente stanchissima.» In realtà, penso che dovrei proprio uscire, perché le dita stanno iniziando a diventarmi tutte rugose – ma non è colpa mia se stare a mollo mi è sempre piaciuto un sacco.
    «Sei stata fuori fino a quest'ora? Ma è già buio!»
    «Tranquillo, la fiera è ben illuminata. Ho finito i miei giri alle quattro e mezza, sono passata a prendere un cappuccino in un bar e poi sono tornata in albergo in taxi. Nessuna situazione pericolosa.» In realtà, forse un paio delle cose che mi ha fatto Shannon questa mattina potrebbero rientrare in quella definizione... ma non è il caso di parlarne con mio padre.
    «Trovato qualcosa di interessante?»
    «Beh, diciamo che oggi ho esplorato, più che altro. Volevo farmi un'idea della situazione, prima di lanciarmi negli acquisti. Però ho individuato qualcosa che potrebbe interessare. Ci sono parecchi autori interessanti. Ho assistito a qualche conferenza, qualche incontro con gli scrittori... lavoro di routine, insomma.»
    «Conosciuto qualcuno di famoso?»
    «No, più che altro scrittori esordienti o poco conosciuti. Alcuni non li avevo mai sentiti nominare, se devo essere sincera. Domani farò ancora una mezza ricognizione, poi credo inizierò a darmi da fare.»
    «Fai sempre attenzione, mi raccomando. È una città molto grande, sei da sola.»
    «Tranquillo, papà. Lo sai che di me ti puoi fidare.» Solo per un attimo, mi rendo conto che questa è la bugia più grande che gli abbia mai raccontato – è solo un attimo, ma ho la sensazione di essere una persona veramente orribile. Mio padre non merita che gli faccia questo – ma avevo altra scelta? Se gli avessi raccontato la verità, pur di tenermi a Torino mi avrebbe legata al letto.
    «E va bene, mi fido. Ci sentiamo domani?»
    «Ma certo, a domani. Magari chiamo io, così non devi sempre spendere tu. A casa tutti bene?»
    «Tutto in ordine. Nonna continua a dirmi che non ti devo assillare.» Fa una breve pausa, forse per lasciarmi rispondere, ma non riesco a trovare nulla da dire. «Ci manchi tanto.»
    «Mi mancate anche voi, papà. Ma tra una settimana torno, non vi preoccupate. Parigi è una città stupenda, ma non potrei mai stare troppo lontano da voi.»
    Quando riattacco, un minuto più tardi, mi arriva un avviso di chiamata da parte di Shannon, e il primo pensiero è che mi abbia chiamata durante una breve pausa. Esco dalla vasca, mi metto addosso l'accappatoio e mi sposto in camera, componendo il suo numero. Risponde subito, e sentire la sua voce mi rilassa più di duecento bagni. «Ehi, mi hai cercata?»
    «Sì, ti ho appena chiamata, ma era occupato.»
    «Stavo parlando con mio padre. Ha chiamato per sapere se stavo bene.»
    «La storia regge?»
    «Per ora sì. Non vedo motivo per cui dovrebbe sospettare che gli sto propinando più bugie adesso di quante gliene abbia raccontate in tutta la vita.»
    «Ti spiace di dovergli mentire?»
    «Un po' mi mette a disagio. Mentirei, se dicessi il contrario. Ma è per una buona causa. Almeno, buona per me. Siete in pausa?»
    «Jared ci ha concesso dieci minuti, ma soltanto perché gli scappava» risponde, e mi viene da ridere al pensiero della grande e acclamata star della musica che deve cedere al richiamo della natura. Forse l'ho idealizzato troppo, ma per qualche motivo non riesco ad immaginarmi Jared che fa gesti normali come andare in bagno o lavarsi i denti. «Volevo sentirti. Che fai di bello?»
    «Per farla breve, ho oziato tutto il pomeriggio. Sono appena uscita dalla vasca da bagno.»
    «Per qualche strana ragione, credo che avrei preferito passare il pomeriggio con te» replica, con un tono decisamente carico di malizia.
    «Te l'ha mai detto nessuno che sei un maniaco?» lo prendo in giro.
    «Molti, in effetti, ma detto da te mi suona come un complimento. Senti, volevo chiederti una cosa. È un'idea che mi è venuta mentre provavamo Bright lights, poco fa.»
    «Oh, è una delle mie canzoni preferite del nuovo cd» sospiro, ripensando al ritornello che tanto adoro. «Ma dimmi, che genere di idea?»
    «Beh, ho pensato che sarebbe stato carino cenare insieme, stasera.»
    La proposta mi confonde un po', visto che davo per scontato che avremmo cenato insieme. «Perché, non avremmo dovuto cenare insieme?» gli domando, chiedendomi quale altro genere di programmi avrebbe potuto avere.
    «Scusa, mi sono espresso male. Intendevo 'cenare insieme' noi due soli. Senza Tomo, senza Vicki, e soprattutto senza mio fratello. Ho voglia di stare un po' di tempo solo con te.»
    «Ma certo, per me va bene, ma... abbiamo già passato parecchio tempo da soli.»
    Lo sento ridacchiare appena all'altro capo della linea. «Sì, lo so, ma... credimi, non credevo che avrei mai potuto partorire una frase del genere, ma... speravo di poter passare un paio d'ore insieme con i vestiti addosso» spiega, abbassando la voce sul finire della frase.
    «Oh, capisco. Ma certo, per me va più che bene. Hai già in mente qualcosa?»
    «Beh, in realtà avevo già organizzato tutto prima ancora di chiederti se eri d'accordo. O meglio, ho chiesto ad Emma di organizzare tutto. Da solo non sarei mai riuscito a mettere insieme tutti i pezzi.»
    «Quindi a me non resta che scegliere i vestiti, dico bene?»
    «Pare proprio di sì.»
    «Dove hai intenzione di portarmi?»
    «Se te lo dicessi, non sarebbe più una sorpresa.»
    «E dai, concedimi almeno un indizio... non vorrei rischiare di essere fuori luogo.» Taccio per un attimo, durante il quale un atroce dubbio mi attraversa la mente. «Non hai intenzione di portarmi in un ristorante di lusso, vero? Perché in quel caso credo proprio di non avere nulla di adatto da mettere. Insomma, non ho mai avuto vestiti eleganti.»
    «Non ti serve un vestito elegante, tranquilla. Puoi vestirti come ti pare. Per quanto mi riguarda, potresti anche metterti una tuta. Quello che mi importa è stare con te, non mi importa che cosa indossi... o non indossi» aggiunge, abbassando di nuovo la voce.
    «Maniaco» lo rimbecco, pur sorridendo. «E dai, dove mi porti?»
    «Non te lo dico, quindi smettila di fare la curiosa. Ora devo andare, Jared è tornato e mi sta guardando malissimo.»
    «Va bene, ti lascio andare. A che ora ci vediamo?»
    «Fatti trovare davanti all'albergo alle otto, va bene? A dopo.»
    «Va bene. A più tardi.» Metto giù, e dopo un paio di istanti di riflessione riprendo il cellulare: ci sono situazioni in cui avere un'amica fidata come Alice è di importanza vitale.



*



Torino, 26 novembre 2013


    Riconoscendo sul display il nome della miglior amica che abbia mai avuto, Alice sorride. «Mais bonsoir, chérie! È bello vedere che ti ricordi ancora di noi comuni mortali! Allora, come sta andando nella vecchia Paris
    «Magnificamente» sospira Daria, lasciando trapelare tutta la propria serenità.
    «Com'è l'albergo?» domanda Alice, stendendosi di schiena sul letto.
    «Il migliore di Parigi, suppongo. La camera è semplicemente stupenda. È più o meno grande quanto il mio appartamento, credo.»
    «E immagino che tu l'abbia esplorata a fondo» replica Alice, calcando molto il tono sull'ultima parte della frase. «Hai già visto qualcosa del mondo esterno?»
    «Poco, a dire il vero» ammette l'altra ragazza. «Ma sono qui soltanto da ventiquattro ore. Se sottrai il tempo dei pasti, le ore di sonno...»
    «...le ore di sesso...»
    «Alice!»
    «Via, non fare la santarellina. Non dirmi che non lo avete fatto almeno dieci volte, perché non ti credo. È già tanto se sei arrivata in albergo con tutti i vestiti addosso.»
    «Beh, immagino di dover ammettere che ci siamo dati da fare... mi è mancato, sai? Non soltanto il sesso, intendo. Non che non mi sia mancato anche quello, certo, ma... più di tutto il resto mi mancava sentirlo vicino, e il modo in cui mi guarda... parlare con lui... Dio, non mi sono resa conto di quanto mi mancasse tutto di lui finché non l'ho rivisto.»
    «La mia bambina è cresciuta...» commentò Alice, senza smettere di sorridere. «Sei proprio innamorata cotta. Deduco che lui sia ancora straordinario quanto lo ricordavi.»
    «Oh, lo è. Oh, ieri sera ho conosciuto anche gli altri. Tomo è qui con Vicki, e non hai idea di quanto siano... normali. Insomma, abbiamo cenato insieme, e sono stati semplicemente fantastici. Lei è stupenda, scommetto che ti piacerebbe.»
    «Non hanno disatteso le aspettative, allora. Ci sono sempre sembrati entrambi due tipi alla mano.»
    «Oh, non le hanno disattese per niente. Mi sono sentita veramente a mio agio, e tu sai quanto sia difficile per me sentirmi a mio agio in una situazione nuova.»
    «E mister Perfezione, invece? Si è abbassato al livello dei comuni mortali o è rimasto sul suo piedistallo a guardare il mondo dall'alto della sua divaggine?»
    «Direi che è sceso. Ieri sera c'era anche lui, ma non mi ha dato molta confidenza. Certo, Shannon mi aveva avvertita, quindi la cosa non mi ha sorpresa. Però oggi...»
    «Oggi cosa?»
    «Beh, ieri sera Shannon è andato a parlare con lui, per sapere che cosa ne pensasse di me. Sai, per capire che impressione gli avevo fatto.»
    «A chiedere la sua benedizione, vorrai dire» scherza Alice. «E qual è stato il responso?»
    «Beh, quando Shannon è tornato io stavo già dormendo, quindi stamattina mi sono svegliata presto e sono andata nella sua stanza per parlargli faccia a faccia.»
    Alice si mette a sedere di scatto, incredula. «Tu hai fatto cosa
    «Sono andata a bussare alla sua porta e gli ho chiesto che cosa avesse detto a Shannon.»
    «Sto parlando con Daria Giordano, la mia migliore amica? Quella che a scuola parlava soltanto se interpellata e aveva paura anche di alzare la mano per chiedere di andare in bagno?»
    «Lo so, non è da me.»
    «No, per niente. Per caso alla dogana hanno sequestrato la tua personalità?»
    «Non esiste più la dogana» replica Daria, sorridendo per la battuta dell'amica. «Non so che cosa mi sia successo, sono sincera. Ho aperto gli occhi e ho sentito che era una cosa che dovevo fare. Dovevo... credo di aver voluto dimostrare a me stessa che sono in grado di cavarmela da sola. Abbiamo parlato per quasi un'ora. È stato... non lo so, liberatorio. Mi ha detto che è felice di sapermi accanto a suo fratello.»
    «Frena, frena, frena. Jared Leto ti ha detto che è contento di sapere che vai a letto con Shannon? Con il suo unico fratello, il suo amico più caro, la persona più importante della sua vita?»
    «Qualcosa del genere. Ha detto che è felice di sapermi accanto a lui, e che pensa che tra di noi potrebbe funzionare. Sono la prima ad esserne sconvolta, quindi non mi meraviglio che sorprenda anche te.»
    «Credo che meraviglierebbe chiunque. Sicura che non stesse soltanto cercando di rabbonirti? Insomma, non voglio distruggere la tua felicità, ma sappiamo entrambe che a volte non sembra una persona molto equilibrata.»
    «Era sincero, Alice. Insomma, lo so che sono sempre molto ingenua quando si tratta di capire le intenzioni altrui, ma sono più che certa che fosse sincero. Mi guardava dritto negli occhi mentre lo diceva. E lo so, so che è un ottimo attore, ma sono più che certa che non stesse mentendo. E poi Shannon mi ha confermato che ha detto le stesse cose anche a lui. Potrebbe aver mentito a me, ma non a suo fratello.»
    «E sappiamo che a te Shannon non mentirebbe, quindi... Dio, sono così felice per te! So quanto sia importante per te avere la sua benedizione, approvazione, chiamala come vuoi. Sono davvero molto, molto felice.»
    «Lo sono anch'io, credimi.» Daria tace per un attimo, poi riprende: «Shannon vuole portarmi a cena fuori, stasera. Soltanto io e lui.»
    «Romantico, l'animale... dove ti porta?»
    «Non ne ho idea. Gliel'ho chiesto, ma ha detto che è una sorpresa. Per quel che ne so, potrebbe anche portarmi in cima alla torre Eiffel.»
    «Di classe... che hai intenzione di metterti?»
    «In realtà, è anche per questo che ti ho chiamata. Mi serve il tuo aiuto. Credo di non avere idea di cosa indossare. Di sicuro non ho niente di elegante, e mi sta prendendo il panico. Insomma, che succede se mi porta in un locale di lusso? Non ho niente di adatto all'occasione.»
    «In verità, qualcosa di adatto lo hai. Te l'ho infilato in valigia mentre non guardavi.»
    «Sì, l'ho trovato. Ma non ho alcuna intenzione di metterlo. Non mi andrà nemmeno, ne sono sicura. Tu ed io abbiamo taglie diverse.»
    «Non abbiamo taglie diverse. È solo che tu hai argomenti più... interessanti a livello toracico. Ma ti andrà, ne sono sicura. Al massimo stringerà un pochino, ma credo che a Shannon non dispiacerà. Lo sanno tutti che apprezza sempre un décolleté abbondante. E comunque quello va bene per qualunque serata.»
    «Alice, no.»
    «Preferisci mettere un paio di jeans e rischiare di sentirti a disagio per l'intera serata? Metti quello, un golfino nero e quegli stupendi stivali che adoro e che un giorno ti ruberò, e vedrai che sarai perfetta. Lui non farà che domandarsi cos'ha fatto di bello per meritarsi una simile meraviglia, gli uomini intorno non ti staccheranno gli occhi di dosso e le donne ti invidieranno da morire. Fidati. Quando mai ti ho raccontato bugie?»



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Alle otto meno cinque scendo nella hall e di lì esco, rispondendo cortesemente al saluto del concierge e del portiere. Mi guardo intorno, cercando Shannon, e quasi subito mi viene incontro un uomo in giacca e cravatta. «La signorina Giordano?» mi domanda in francese.
    «Sono io.»
    «Il signor Leto mi ha mandato a prenderla. Se vuole seguirmi.» Lo squadro per qualche istante, chiedendomi se sia più prudente obbedire e rischiare di venire uccisa e fatta a pezzi o rientrare in hotel per chiamare Shannon e avere una conferma. L'uomo sorride, porgendomi un post-it. «Ha detto che probabilmente non si sarebbe fidata, quindi ha detto di darle questo.»
    Prendo il foglietto, constatando che la grafia è proprio quella di Shannon. Non immaginare scenari apocalittici. È un autista qualificato. «In tal caso, immagino di doverla seguire» rispondo, sorridendo a mia volta.
    «Prego.» Mi precede, avvicinandosi ad un'elegante macchina scura tirata a lucido. Mi apre la portiera, come se fossimo in un vecchio film di Audrey Hepburn, aspetta che mi sia sistemata e la richiude, come un vero autista. «Il signor Leto mi aveva avvertito che parlava correntemente il francese, ma devo farle i complimenti. Lei ha davvero un'ottima pronuncia» esordisce dopo un po', dando una rapida occhiata allo specchietto retrovisore.
    «La ringrazio. Di preciso dove le ha detto di portarmi, il signor Leto?»
    «Ha detto che lo avrebbe chiesto, ma mi ha fatto promettere di non dirlo. Ha detto che deve rimanere una sorpresa.»
    «Le prometto che all'arrivo fingerò di essere molto sorpresa.»
    «Mi dispiace, ma sono un uomo di parola» sorride, scuotendo la testa. «E poi sono stato pagato profumatamente per mantenere il segreto. Non posso certo violare il contratto. Comunque non ci vorranno più di dieci minuti per arrivare. Si metta comoda e si goda il viaggio.»
    Rimaniamo in silenzio per il resto del tragitto: devo ammettere che quest'uomo è davvero un ottimo autista, che riesce a farsi strada senza difficoltà nel traffico nervoso e congestionato del centro di Parigi. Mi rilasso contro il sedile e mi godo il panorama, cercando di orientarmi e cogliere indizi dagli edifici che scorrono ai due lati della strada – nonostante sia tranquilla, non mi piace l'idea di non sapere dove stiamo andando.
    Finalmente, non appena mi sono arresa all'idea di rimanere nell'incertezza, l'autista ferma l'auto e spegne il motore. «Aspetti, l'aiuto a scendere.» Scende, fa il giro dell'auto e mi apre lo sportello, porgendomi una mano che accetto volentieri.
    «Grazie...» inizio, fermandomi subito dopo – vorrei sapere chi devo ringraziare, ma mi rendo conto di non conoscere il suo nome.
    Forse comprendendo il mio dubbio, l'uomo richiude lo sportello e mi sorride. «Sébastien. Mi chiamo Sébastien.»
    «Grazie, Sébastien» riprendo, sorridendo a mia volta. «Dove siamo, di preciso?»
    «Suppongo di doverglielo, a questo punto. Quello è il Pont Neuf» spiega, indicando l'enorme costruzione poco distante da noi. «E quella è la Senna» prosegue, indicando il fiume, «ma immagino che questo lo avesse capito da sola. Andiamo, la accompagno.»
    «Mi accompagna... dove?»
    «Sul luogo dell'appuntamento, naturalmente. Dovremo camminare soltanto un paio di minuti.» Consapevole di non poter disobbedire inizio a camminare, rimanendo un paio di passi indietro. Quando iniziamo a scendere una scaletta, capisco che mi sta portando verso uno dei moli dai quali partono i celebri bateaux-mouches. I gradini sono ripidi, e dovendo prestare tutta la mia attenzione alla discesa non penso nemmeno di guardare la barca attraccata. Quando sento Sébastien dire «Eccoci arrivati» alzo la testa, e per poco non ho un mancamento: il battello è illuminato a giorno da decine di piccole ed eleganti lanterne, tanto che posso vedere senza fatica che è completamente deserto, fatta eccezione per Shannon, in piedi sul ponte, lo sguardo rivolto verso di me. Sébastien fa scattare la serratura del cancelletto e si scansa, lasciandomi strada: «Il mio compito è finito. Le auguro una splendida serata.»
    «Grazie» rispondo, passandogli accanto quasi in trance. Non posso credere che Shannon abbia organizzato una cosa del genere – o meglio, che abbia chiesto ad Emma di organizzare una simile serata. «Che cos'è tutto questo?» sussurro appena mi trovo di fronte a lui, incapace di dire altro.
    «Volevo soltanto stare un po' da solo con te» risponde, prendendomi la mano e attirandomi vicino a sé. «So che probabilmente rientra tra quei comportamenti banali e scontati che tanto detesti, ma non sapevo che altro fare per guadagnarmi un briciolo di intimità con te. E non rispondere che potevamo restare in camera» aggiunge subito dopo, sfiorandomi il naso in quel gesto delicato che sembra racchiudere l'intera essenza del nostro rapporto. «Vieni qui, dai» riprende, facendomi scivolare un braccio dietro le spalle. Ci avviciniamo tanto da respirarci, ma prima che le nostre labbra si tocchino sembra passare un secolo: siamo stati separati soltanto per poche ore, ma già mi mancava la sua bocca, il suo bacio, il suo respiro caldo, il suo naso che sfiora il mio, la mano che sale a coprire la mia guancia e mi tiene vicina, così stretta da non farmi respirare. Posso tentare in tutti i modi di mentirmi, ma la verità è che di lui mi manca ogni cosa, e ogni volta che deve allontanarsi non faccio altro che aspettare il suo ritorno.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Appena tornato in hotel, Tomo ha annunciato che lui e Vicki avrebbero cenato in camera, trincerandosi dietro la scusa della stanchezza, ma Jared sospetta che abbiano soltanto voglia di restare soli, probabilmente per avere un'ulteriore occasione di portare avanti quel loro piccolo progetto di cui non parlano mai, ma che si avverte chiaramente essere la loro nuova priorità. Rimasto solo, Jared ha chiesto ad Emma di unirsi a lui per la cena – proprio non gli va di starsene solo, nonostante la solitudine non gli abbia mai fatto paura. «Grazie per essere qui» la ringrazia, sistemandosi il tovagliolo sulle ginocchia.
    «Non ho potuto resistere. Avevi quell'espressione da cucciolo abbandonato sul ciglio della strada... non ti si può negare niente, quando sfoderi quello sguardo» risponde la ragazza, sorridendo mentre mette via il cellulare. «E poi credo sia specificato nel mio contratto: non ti posso negare praticamente nulla.»
    «Di' un po', come capo sono uno stronzo?» le domanda dopo un lungo attimo di silenzio. «Insomma, è tanto difficile lavorare per me?»
    «No, non sei uno stronzo» lo rassicura lei, «e lavorare per te è... beh, forse è solo un po' meno semplice che disarmare la Germania.» Alza gli occhi sull'uomo che le siede di fronte, cercando di capire che cosa si celi dietro quella richiesta. «Non sei peggio di altra gente per cui ho lavorato. Almeno tu mi tratti da pari. Insomma, è pur vero che sono una tua subalterna, ma almeno ti ricordi come mi chiamo.»
    «Ma certo che mi ricordo come ti chiami... ehm, Evelyn?» la prende in giro, strappandole un sorriso.
    «Molto divertente. Molto divertente davvero. Allora, perché mi hai chiesto di cenare con te?»
    «Deve esserci un motivo?»
    «Dico solo che mi sembra strano, visto che da quando siamo qui non me lo hai mai chiesto. E siccome le altre sere eri sempre in compagnia degli altri...»
    «Pensi che ti abbia invitata soltanto perché ero solo?»
    «Non mi stupirebbe così tanto.»
    «Ti infastidisce?»
    «Affatto. Sono la tua assistente, ma questo non significa che debba starti appiccicata in ogni istante.» Emma alza ancora una volta lo sguardo sul proprio capo, cercando di leggere la verità dentro quegli occhi così chiari e azzurri che ormai anni fa l'hanno convinta ad imbarcarsi in un'impresa tanto grandiosa e incerta. «Solo... beh, sono convinta che ci sia un altro motivo per cui mi hai invitata.»
    «Del tipo?»
    «Del tipo... sapere che cosa Shannon mi abbia chiesto di organizzare per questa sera.»
    «Pensi che tenterei di estorcerti un'informazione in modo così bieco?»
    «Oh, sì. Sarebbe proprio nel tuo stile.»



*



Parigi, 26 novembre 2013


    «Vieni con me» sussurro all'orecchio di Daria, prendendola per mano per convincerla a seguirmi all'interno della cabina.
    «Ma come ti è venuto in mente... beh, tutto questo?» mi domanda con un tono sorpreso e confuso alla vista della tavola apparecchiata, dei fiori e delle luci soffuse. «Come sei riuscito a fare tutto questo?»
    «Detesto dirlo, ma tutto questo è merito di Emma. Io ho lanciato il sasso, ma è stata lei ad impegnarsi per realizzare tutto. Se fosse una questione di meriti, dovrebbe esserci lei qui a cena con te.»
    «Beh, ma questo ancora non spiega perché
    «Te l'ho detto, volevo stare un po' da solo con te.» L'occhiata di Daria la dice lunga: non riesce a credere che questo sia l'unico motivo per cui l'ho trascinata fin qui. «E poi, mi sono reso conto che non abbiamo mai avuto un vero appuntamento» aggiungo, abbassando la voce senza nemmeno accorgermene. «Voglio fare le cose per bene, con te.»
    «Tu chi sei, e che cosa ne hai fatto di Shannon Leto?» mi domanda con un sorriso, sfiorandomi una guancia con due dita. «Insomma, tu... tu non fai queste cose. Tu sei... sei Shanimal
    «Credo che quella parte di me si sia persa a Milano. Ma se non ti piaccio, forse posso tornare ad essere lo stronzo che ero.»
    «No, per adesso mi vai bene così» sorride ancora. «Forse mi devo soltanto abituare» aggiunge, allontanandosi appena da me mentre si slaccia il cappotto. «Che cosa c'è in programma?» mi chiede mentre si spoglia. La mia risposta si blocca in gola alla vista dell'abito che indossa: corto, aderente e di un rosso incredibilmente acceso. È bellissima, seducente ma niente affatto volgare – è solo un istante, ma penso che vederla vestita così mi ecciti ancora di più che vederla completamente nuda. «C'è qualcosa che non va?»
    «Eh?»
    «Mi stai guardando in un modo... beh, strano» mi fa notare, appoggiando il cappotto sulla spalliera di una sedia vuota.
    «Beh, è solo che... è solo che sei bellissima. Chi sei tu, e che cosa ne hai fatto di Daria Giordano?» la prendo in giro, parafrasando il suo recente dubbio.
    Sorride, abbassando gli occhi. «Immagino che anche lei si sia persa a Milano. O forse a Torino. O sul treno per venire qui, non lo so. Ma se non ti piaccio, forse posso tornare ad essere la ragazzina insicura che ero.»
    «Non ci provare nemmeno» le sussurro, prendendola di nuovo per mano. «Sei perfetta come sei.» La accompagno verso la tavola apparecchiata, scosto la sedia e l'aiuto ad accomodarsi, poi raggiungo il mio posto. «Approfittando della fortuna che mangi praticamente qualunque cosa, mi sono preso la libertà di lasciare carta bianca allo chef» dico, prendendo la bottiglia di vino che ho stappato mentre aspettavo il suo arrivo e versandone un po' in entrambi i calici. Nemmeno un minuto più tardi, un cameriere appare con gli antipasti, per poi lasciarci completamente soli. «A che cosa brindiamo?»
    «Non saprei» risponde, prendendo il bicchiere. «Ci sono molte cose per cui potremmo brindare.»
    «L'estrema efficienza di Emma, per dirne una.»
    «O l'estrema benevolenza di tuo fratello, per dirne un'altra.»
    «O la generosità del tuo capo nel concederti una settimana di ferie.»
    «O la sbadataggine che hai dimostrato quando hai dimenticato l'accendino a Milano.»
    Sorrido, pensando che è soltanto grazie ad un vizio che ho avuto l'occasione di inciampare in una delle cose più belle che mi siano mai successe, e che è proprio grazie a quello stupendo imprevisto se sto per ripulirmi da quel preciso vizio. «A questo punto, brinderei alla nostra indecisione riguardo al motivo del nostro brindisi.»
    «Non avrei saputo dirlo meglio» risponde, sorridendo a sua volta. I bicchieri si toccano, e mentre beviamo non riesco a staccare gli occhi dal suo viso: è semplicemente perfetta, e sento che nemmeno viaggiando mille anni per il mondo potrei trovare una persona migliore di lei. «Allora, Jared ti ha perdonato il ritardo di oggi?»
    «Mi sarei arrabbiato se non lo avesse fatto» replico, sistemandomi il tovagliolo sulle ginocchia. «Insomma, con tutte le volte che lui fa aspettare noi con i suoi capricci da star, mi sembra il minimo. E poi è stato un incidente isolato. Di solito sono molto puntuale, sai?»
    «Sono contenta che non si sia irritato. Quando mi sono resa conto che saresti arrivato in ritardo mi sono sentita in colpa. In fondo è stata colpa mia se... beh, sono io che ti ho trattenuto.»
    «Non ero certo ammanettato al letto. Anche se... beh, forse è una pratica che dovremmo considerare. Non disdegno un minimo di violenza, in certe situazioni.»
    «Maniaco. Ma... ci siamo soltanto noi?» aggiunge dopo un istante, guardandosi attorno.
    «La cosa ti dispiace?»
    «No, è solo... è solo che così è davvero una cosa romantica. Non avrei mai pensato di attribuirti un comportamento simile, prima di conoscerti.»
    «Se la cosa può farti sentire meglio, nemmeno io avrei mai pensato di attribuirmi un comportamento del genere, prima di conoscerti. Non avevo mai incontrato una persona per cui valesse la pena di fare qualcosa di così speciale.»
    «Dici sul serio? Insomma, non c'è mai stata nessuna... ragazza speciale? Nessuna... fidanzata
    «Mai» rispondo. «Insomma, ho incontrato molte persone che reputavo speciali, ma adesso mi rendo conto che non erano nemmeno lontanamente paragonabili a te. Tu hai qualcosa che nessuna di loro aveva.»
    «Una certa insicurezza di fondo?» scherza, portandosi di nuovo il bicchiere alle labbra.
    «La visione disincantata che hai del mondo» la correggo. «Tu hai vissuto delle brutte esperienze, e con il tempo hai capito che la vita può anche fare schifo. Non ti perdi dietro la stupida illusione che basti sperare che qualcosa di meraviglioso accada per farlo accadere. Tu sai che per avere un lieto fine non basta stare seduti ad aspettare che succeda. Sai che ci si deve rimboccare le maniche, se si vuole qualcosa. È una cosa che adoro di te.»
    «Di solito la gente lo chiama cinismo. E di solito la gente lo detesta.»
    «Non credo di poter essere classificato come 'la gente'. Io mi sento decisamente fuori del comune.»
    «Oh, lo sei. Sei decisamente diverso dalla maggior parte delle persone che ho incontrato in vita mia. Ci stiamo muovendo» aggiunge, vedendo che il paesaggio intorno a noi sta cambiando.
    «Il giro turistico è compreso nel pacchetto. Non mi piace lasciare le cose a metà.»
    «Questo rischia seriamente di minare la mia visione disincantata del mondo, lo sai? Quello che sto vivendo con te ha tutta l'aria di un sogno. E in tutta sincerità, credo che mi dispiacerà molto rinunciarci, quando arriverà il momento di...» Si interrompe, come se l'idea di dover tornare a casa le suonasse come la più terribile delle torture.
    «Un modo per non rinunciare ci sarebbe, lo sai.»
    «Continuare a viaggiare per il mondo con voi? È una possibilità che ho considerato e che, confesso, non mi dispiacerebbe affatto, ma... dobbiamo guardare in faccia la realtà, Shannon. Non posso mollare tutto e rivoluzionare così la mia vita. A mio padre verrebbe un colpo, poco ma sicuro. E poi sento che non sarebbe giusto. L'hai detto tu, io sono una che cerca in tutti i modi di restare aggrappata alla realtà. E la mia realtà, in questo momento, è a Torino. Lì ci sono la mia famiglia, i miei amici, il mio lavoro, ho appena preso casa... so che forse per te è complicato da capire, ma... io sento che sto costruendo qualcosa, e sento che non ci posso rinunciare proprio adesso. Anche se la proposta è più che allettante.»
    «No, io... io lo capisco. In fondo, è quello che ho sempre desiderato anch'io. La mia vita è sempre stata un casino, e... capisco il tuo desiderio di stabilità. È qualcosa che ho sempre inseguito anch'io. Solo che credo di averci rinunciato da tempo.» Il cameriere di prima riappare per requisire i piatti ormai vuoti, e mentre aspettiamo che ritorni con la portata successiva non diciamo nulla, come se volessimo prenderci il tempo necessario per riflettere sulle nostre posizioni. Quando finalmente restiamo di nuovo soli, ricordo la busta che tengo nascosta in tasca. «Prima che mi passi di mente, questo è per te.» Le porgo il plico, che lei guarda con aria curiosa.
    «Che cos'è?»
    «Apri la busta e lo saprai.»
    «Sembra... no, non ci posso credere. È un pass per il backstage!»
    «Perché farti pagare il biglietto, se posso farti assistere al concerto gratis?»
    «Mi sembra un'ottima ragione. Anche se confesso che non mi sarebbe dispiaciuto confondermi tra gli Echelon francesi» scherza. «A proposito, domani come si svolge la cosa? Insomma, c'è un orario preciso, un posto dove devo andare...»
    «Devi solo farti trovare alle sette nella hall dell'albergo, poi è tutto organizzato. Verrà a prenderti l'autista di questa sera, e ti porterà sul luogo del concerto.»
    «Più semplice di così...»
    «Sei mia ospite, non voglio che ti debba preoccupare di niente.»
    «Sì, ma tu mi stai viziando.»
    «La cosa ti dispiace?»
    «No» sussurra dopo un attimo di silenzio. «Qualche volta è bello sentirsi così importanti per qualcuno.»
    «La cosa più bella è avere qualcuno da far sentire importante» rispondo, sporgendomi appena verso di lei.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Tornato in camera propria, Jared si lascia cadere di schiena sul letto con un sospiro. Ci è voluto un po' di tempo, nonché una minaccia di licenziamento, ma alla fine Emma gli ha descritto nel dettaglio la serata ideata da Shannon: una cena intima a bordo di un battello riservato soltanto per lui e Daria, una bottiglia di ottimo vino italiano e un giro turistico per Parigi – per non parlare della movimentata notte che seguirà, perché se alla fine di tutta quella manfrina non si arriva al dunque, non riesce proprio a capire a che scopo agitarsi tanto. «Se domani è spompato, io quella ragazza la uccido» borbotta, rivolto a se stesso. Si rimette a sedere e si guarda intorno, indeciso se andare dritto filato a dormire o indugiare ancora un po' tra i progetti ai quali lavora nei ritagli di tempo. Alla fine, lo stacanovismo ha la meglio: Jared prende il quaderno nel quale custodisce gelosamente ogni appunto e lo porta sul letto con sé, sedendosi a gambe incrociate sul materasso. «Ah, ragazzina, ci hai proprio stregati tutti» sussurra, facendo scorrere i fogli tra le dita fino a trovare quello che davvero gli interessa. Si alza di nuovo, prende la chitarra dalla custodia e avvicina una sedia al letto. Sembra incredibile che abbia già imparato gli accordi di quel pezzo – lui, che a distanza di un anno ancora sbaglia le parole delle canzoni dell'ultimo cd. Eppure è così, e non sa spiegarsene il perché: è come se Daria gli fosse entrata sotto la pelle, nel profondo del cuore, così come ha fatto con Shannon – solo che lui, al contrario di suo fratello, non fa progetti di matrimonio. Si limita a scrivere canzoni.



*



Parigi, 26 novembre 2013


    Con la vecchissima e abusata scusa di prendere il bicchiere, Shannon ha allungato la mano sul tavolo e ha sfiorato le mie dita, indugiando per qualche secondo prima di stringerle. «Sai, dovremmo parlare di cosa succederà dopo questa settimana» dico, cercando di tirare su un'altra forchettata di risotto. «So che probabilmente questo spezzerà irrimediabilmente la magia, ma nascondere la testa sotto la sabbia è inutile. Domenica dovrò tornare a casa, e tu dovrai continuare con il tour.»
    «Sì, immagino che sia d'obbligo cercare di organizzarsi per bene» annuisce. «Beh, tanto per cominciare c'è una cosa che non ti ho detto.»
    «Sarebbe?» Qualcosa mi dice che devo preoccuparmi, e considerando la mia natura pessimista sto iniziando ad immaginare scenari a dir poco apocalittici.
    «Sarebbe che dopo il concerto di domani sera la band non ha altri impegni.»
    Impiego qualche istante a rendermi conto di quello che ha appena detto. «Sarebbe a dire che...»
    «C'è una sola serata in programma. Siamo qui principalmente perché Jared deve presenziare ad alcune serate per la promozione del suo ultimo film. Abbiamo infilato una data in più giusto per accontentare i fan. Tornerermo qui verso marzo, e faremo una settimana di concerti in giro per il paese.»
    «Quindi, tralasciando domani sera...»
    «Sarò tutto tuo» mi interrompe di nuovo. «Il che significa che gireremo tutta la città come una coppia di innamorati in vacanza. Se è questo che vuoi, naturalmente.»
    «Visitare Parigi? È una delle cose che ho sempre sognato di fare!» esclamo, al settimo cielo per quella prospettiva. «E puoi venire con me, se ti va» aggiungo, prendendolo in giro.
    «Oh, grazie per la gentile concessione.»
    «Comunque resta la questione di che cosa faremo una volta terminata questa... fantastica parentesi. Io non penso proprio di potermi mettere a viaggiare in giro per il mondo, e non credo che tu possa venire in Italia ogni volta che ti pare.»
    «No, in effetti spostarmi così tanto non sarà possibile nemmeno per me» sospira, distogliendo lo sguardo dal mio e puntandolo sulla tovaglia. «Dunque, dopo Parigi ci sposteremo... torneremo negli Stati Uniti» conclude con un sospiro. «E saremo impegnati lì fino a pochi giorni prima di Natale. Il tour è stato pensato così per darci l'opportunità di essere a casa per le feste. Sai, senza la pressione del fuso orario, teoricamente senza la stanchezza...»
    «Natale si passa in famiglia, questo lo sanno tutti.»
    «Forse potrei essere da te per la fine dell'anno, o al massimo per il due gennaio. Il tour dovrebbe riprendere il dieci in Messico. Avrei qualche giorno per stare da te. Mi piacerebbe vedere Torino con la neve.»
    «Città ancora più grigia e traffico impazzito. Non ti perderesti nulla» sorrido, cercando di nascondere la tristezza che provo nello scoprire che non avrò occasione di rivederlo per più di un mese.
    «Vorrei che fosse diverso» sussurra, mentre il cameriere riappare per cambiare i piatti e servire il secondo. «Vorrei davvero che fosse diverso» ripete, stringendo di nuovo la mia mano. Poi, all'improvviso, l'espressione seria che si è cucito sul viso svanisce, e si trasforma in una leggera risata. «Scusa, è solo che... beh, io ho sempre considerato il mio lavoro come una passione, e... non avrei mai creduto possibile che un giorno potesse diventare incompatibile con... con un'altra grande passione

    Una volta consumato il secondo, divorato il dolce e bevuto un caffè decisamente superiore alla media francese, convinco Daria a rimettersi il cappotto e ad uscire con me sul ponte per vedere la città che ci scivola attorno. «Non pensi che sia bellissima?» sussurra lei, con gli occhi che brillano quanto quelli di una bambina messa di fronte alla realizzazione del più grande sogno della sua vita.
    «Sì, penso che sia bellissima» rispondo, accarezzandole la guancia con due dita, «ma anche la città non scherza.» C'è poca luce, ma riesco chiaramente a vederla arrossire, ancora non avvezza a tutti i complimenti che sono solito rivolgerle. Ma è forse colpa mia se sono sempre stato un tipo sincero?
    «Pensa a come devono sentirsi orgogliose le persone che vivono qui. Avere la possibilità di essere costantemente immersi in tutta questa bellezza dev'essere così... soddisfacente
    «Io credo che la maggior parte di loro non si accorga neanche di ciò che ha intorno. Insomma, a furia di vedere la stessa cosa per ogni giorno la tua vita, può accadere che l'interesse sfumi. E così, quello che una volta era costante motivo di meraviglia, alla fine non merita nemmeno uno sbadiglio di noia.»
    «Allora sono felice che non possiamo stare insieme» dice dopo un attimo di silenzio, sorprendendomi. «A furia di vedermi tutti i giorni, alla fine ti verrei a noia» aggiunge con un sorriso.
    «Tu non mi verresti a noia nemmeno se ti incollassi a me con la supercolla» la smentisco, abbracciandola alle spalle. La sua schiena e le sue spalle premute contro il mio torace sembrano incredibilmente piccole, più minuscole che mai, e la magnificenza del paesaggio che ci circonda non fa che acuire il contrasto tra le mie mani e le sue membra, che non mi sono mai sembrate così fragili.

    È mezzanotte passata quando torniamo in albergo; il concierge ci restituisce la chiave con un sorriso, forse leggendo sui nostri volti la bellezza della serata che abbiamo appena trascorso; raggiungiamo il piano con l'ascensore, tenendoci stretti come se dal nostro abbraccio dipendesse il destino del mondo; non appena siamo al sicuro tra le pareti della nostra camera, accantono ogni remora e pudore, e la bacio come se fossero passati secoli dall'ultima volta che è successo. «Potrà anche essere poco il tempo che passiamo insieme» sussurro, spostando le labbra sulle sue guance, poi sul collo, e infine di nuovo sulla sua bocca, «ma ti prometto che sarà il tempo migliore della tua vita.» Faccio scivolare le mani tra di noi, separando con lentezza ogni bottone dalla rispettiva asola. Una volta eliminato il cappotto, torna a far capolino quel vestito che sin dal primo momento mi ha conquistato. «Ti ho già detto che adoro questo vestito?» le domando, mentre le sue mani si occupano della mia giacca e dalla sciarpa avvolta attorno al mio collo.
    «No, veramente no» sussurra, sfiorandomi il collo con la punta del naso, in un gesto che mi fa impazzire.
    «Beh, adesso l'ho fatto. Ti sta benissimo» aggiungo, facendole scivolare giù entrambe le spalline.
    Le sue mani, lente e delicate come quelle di un pianista, iniziano a sbottonarmi la camicia, a tratti sfiorandomi il torace. «Ti ringrazio» sorride. «Sicuro di non essere troppo stanco?»
    «Assolutamente no» rispondo, arretrando fino al letto. Mi siedo sul bordo del materasso e la faccio mettere cavalcioni su di me. La aiuto a sfilarmi la camicia, e subito dopo torno all'assalto della sua bocca.
    Ci baciamo per quelli che sembrano secoli, e poi la sento sussurrare: «Mi dai un minuto?» mentre accenna con la testa alla stanza da bagno. «Aspettami qui, ci metto un istante» aggiunge, alzandosi.
    Mi sfilo le scarpe e mi stendo sul mio lato del letto, aspettando il suo ritorno.

    Non possono essere passati più di due minuti da quando ho lasciato solo Shannon, ma quando torno in camera lui sta già dormendo come un bambino. Mi viene quasi da sorridere, perché quel suo insistere sulla propria mancanza di stanchezza somigliava proprio alle proteste di un bambino che rifiuta di essere mandato a letto. Mi avvicino al letto di soppiatto, senza fare rumore, e lo guardo per quello che è un minuto pieno: riesce ad essere stupendo anche quando è incosciente, anche quando non fa altro che starsene disteso a respirare piano nella penombra di una stanza di albergo. Mi mancherà tutto questo, quando saremo lontani: mi mancherà avere accanto lo Shannon di tutti i giorni, quello che pochi hanno il privilegio di conoscere; mi mancheranno tutte quelle piccole cose che lo rendono unico – il suo modo di accarezzarmi, usando solo la punta delle dita, e la sua abitudine di dormire con il viso rivolto verso il mio lato del letto; mi mancherà il suo modo di prendermi in giro e mi mancheranno i suoi complimenti, e soprattutto mi mancherà quella sua incrollabile volontà di proteggermi, sempre e comunque.
    Mi spoglio e mi infilo tra le lenzuola, premurandomi di mettergli addosso una coperta. Potrei svegliarlo e convincerlo senza sforzo a finire quello che abbiamo cominciato, ma non lo farò: per una volta, voglio essere io a prendermi cura di lui.



1Siamo qui, nei grigi dell'inverno. Siamo qui, solo io e te. Stringi la mia mano, affrontiamo domani. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Yours Forever di John Mellencamp, traccia contenuta nella colonna sonora del film La Tempesta Perfetta (2001).

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Capitolo 20
*** 20 | Sei l'ultima grande innocente, ed è per questo che ti amo. ***


Portagioie di tristezza | 1
L'ispirazione sembra essere tornata a farmi visita, e finalmente posso tornare ad aggiornare più frequentemente – e qui casca l'asino. Come ho già anticipato sul gruppo Facebook Portagioie di tristezza, dedicato a questa storia e, più in generale, a tutte le mie storie in sospeso, probabilmente la storia di Shannon e Daria si concluderà nel volgere di pochi capitoli. Il fatto è che non sono mai stata una fan delle storie infinite, e dunque preferisco concludere prima che diventi un'infinita tiritera che racconta sempre la solita solfa =) In secondo luogo, ci ho riflettuto molto, e credo sia giusto che Shannon e Daria trovino finalmente una conclusione... qualunque essa sia.
Spero che riuscirete comunque a godervi il capitolo!
EffieSamadhi

P. S. : Per chi non è iscritto a Facebook/non è iscritto al gruppo, lascio il link per vedere su YouTube il trailer realizzato per l'occasione dalla bravissima Kath Redford, che attraverso il gruppo Facebook Trailer su richiesta accoglie tutte le richieste di quelle povere autrici che, come me, non hanno conoscenze in questo campo. Se doveste trovarvi in difficoltà, rivolgetevi a lei, è un vero drago!






Portagioie di tristezza






Capitolo ventesimo
Sei l'ultima grande innocente,
ed è per questo che ti amo.1


Parigi, 27 novembre 2013


    Lo stesso raggio di sole che ieri mattina mi ha costretto ad aprire gli occhi torna ad infastidirmi, svegliandomi. Invece di alzarmi, però, mi volto dall'altra parte, trovando Shannon già sveglio. «Ti prego, dimmi che non mi sono addormentato» bisbiglia, quasi spaventato da una simile eventualità.
    «Più che addormentato, oserei dire che sei collassato. Dovevi essere davvero molto stanco.»
    Si volta sulla schiena e si copre il volto con entrambe le mani, sospirando. «Non ci posso credere» borbotta tra le dita. Mi viene quasi da ridere, vedendolo tanto preoccupato per una cosa che non ha disturbato me, che teoricamente dovrei essere la parte offesa. «Non ci posso credere.»
    «Ehi, guarda che non è un problema» sussurro, accarezzandogli il torace e baciandogli una spalla nel tentativo di consolarlo.
    «Ma è un enorme problema!» ribatte, voltandosi di nuovo verso di me con un'espressione a dir poco comica. «Dev'essere il primo sintomo del mio decadimento fisico. Fammi un favore, lasciami qui e vai a cercarti un uomo giovane e forte. Non c'è rimasto nulla che io possa darti.» Tento in tutti i modi di trattenermi, ma mi è impossibile non scoppiare a ridere davanti alla sua disperazione. «Come puoi ridere in un momento simile? Io sono in lutto!»
    Mi sollevo e mi sposto in modo da sovrastarlo, portandogli una mano al viso per sfiorargli il mento ruvido di barba. «C'è ancora molto che puoi darmi, e lo sai» sussurro. «E comunque finora i giovani mi hanno deluso, quindi escludo di lasciarti per uno di loro.»
    Si passa la lingua sulle labbra, mentre solleva una mano per accarezzarmi i capelli. «Dici sul serio?»
    «Assolutamente. Io non mento mai. Solo quando è strettamente necessario. E questa non mi sembra affatto una di quelle occasioni.»
    «Bene» sussurra dopo qualche istante di silenzio, «perché era tutta scena.» In un attimo ribalta le nostre posizioni, regalandomi un bacio carico di passione e desiderio. «E comunque non credere di cavartela a buon mercato» aggiunge, infilandomi le mani sotto la maglietta, «ti pentirai amaramente di esserti presa gioco di me.» Le sue labbra scendono a tormentarmi il collo, le dita mi solleticano i fianchi, il suo respiro caldo che mi sfiora mi fa venire voglia di dire sì a tutto. «Sai cosa vorrei fare in questo momento?» mi domanda, senza interrompere le carezze. «Vorrei divorarti. E credimi, potrei farlo.»
    «Sai cosa penso io, invece?» sussurro, mentre la sua bocca torna ad occuparsi del mio collo.
    «Cosa?» mugugna, senza smettere di baciarmi.
    «Credo che dovresti risparmiare le energie per questa sera. Che figura ci faresti se ti addormentassi sulla batteria?» lo prendo in giro.
    «Ragazzina impertinente» ribatte, stringendo un po' di più la presa sui miei fianchi. «Ho abbastanza energia per fare tutto, credimi.»
    Sto per ribattere, ma vengo fermata da un paio di colpi alla porta. «Shannon, sei sveglio?» Iniziavo a chiedermi se mai ci sarebbe successo di essere interrotti da Jared. Quell'uomo dimostra un tempismo formidabile.
    Shannon sbuffa, sollevando appena la testa e rivolgendo il viso verso la porta. «Sì, siamo svegli» replica con un tono che non dà adito ad alcun dubbio.
    «Bene, perché sei quasi in ritardo. Sono le otto!»
    «Non dobbiamo partire alle nove?» C'è un non so che di comico nel sentirli discutere a questo modo, senza che nemmeno si guardino in faccia. Non so se riuscirei a fare lo stesso con Emanuele o Francesca.
    «Alle nove? Dov'eri ieri mentre dicevo che ci saremmo dovuti trovare mezz'ora prima per provare meglio The kill? Te l'ho detto che l'inizio non mi convinceva, no?»
    Shannon abbassa di scatto la testa, con un grugnito decisamente eloquente. «Maniaco perfezionista» borbotta a denti stretti. «No, non me l'avevi detto» sospira, rialzando la testa. «Va bene, ci sono. Il tempo di una doccia e arrivo.»
    «Ti aspettiamo giù. E che sia gelata, la doccia. Ci servi attivo» aggiunge Jared dopo una breve pausa. Suppongo che dopo l'ultima frase si allontani, poiché non sentiamo più alcun rumore.
    «Pare proprio che il mio pranzo debba aspettare» sospira Shannon, tornando a guardarmi. «Ma non ti preoccupare, non dimenticherò di fartela pagare per la tua insolenza» aggiunge con un sorriso, sfiorandomi il naso con un dito.
    «Beh, a questo punto dovresti arrabbiarti anche con Jared» ribatto. «Pare che lui la pensi esattamente come me.»
    «Probabile, ma lui è matto da legare. Non posso certo rivalermi su uno che non sa quello che dice» replica prima di schioccarmi un bacio sulle labbra e alzarsi. Si sfila la camicia e i pantaloni – le stesse cose che indossava ieri sera – e le lascia cadere su una sedia, scomparendo in bagno. Qualche secondo più tardi sento scrosciare l'acqua, e a quel punto decido di alzarmi. Mi sfrego le braccia con le mani per scaldarmi, mentre mi avvicino alla finestra per guardare il panorama, accorgendomi che sta nevicando – come se il fatto di essere a Parigi con l'uomo più straordinario che abbia mai incontrato non fosse già abbastanza romantico.
    Cinque minuti dopo Shannon torna in camera, aprendo l'armadio alla ricerca di qualcosa da mettersi. Mi volto per guardarlo, e quando lascia cadere l'asciugamano per infilarsi la biancheria mi sorprendo ad arrossire, nemmeno fosse la prima volta che lo vedo senza vestiti. Cerco di recuperare la compostezza perduta e lo apostrofo: «Esibizionista.»
    Sentendomi parlare volta la testa, e devo ammettere che vederlo solo di profilo, con i capelli bagnati che gli ricadono sugli occhi, è una cosa che non si vede tutti i giorni – e per fortuna, altrimenti chissà di quanti infarti avrei già sofferto! «Ah, adesso ti piace quello che vedi, eh?» risponde con quel mezzo sorriso che lo caratterizza – e che gli riesce benissimo.
    «Se si parla di te, mi piace sempre quello che vedo» replico, senza sapere bene da dove arrivi tanta sfrontatezza.
    Senza rispondere si infila i jeans e li allaccia, poi prende una camicia e finalmente si volta, avvicinandosi piano mentre la indossa. Rimango immobile, quasi fossi incollata al pavimento, mentre mi mette le mani sui fianchi e mi stringe a sé, avvicinandosi tanto da far sfiorare le punte dei nostri nasi. «Se si parla di te, anche a me piace sempre quello che vedo» sussurra. Abbasso la testa, e senza dire niente sfioro il suo torace con le unghie, sentendolo sospirare ad ogni centimetro percorso. Arrivata alla cintura mi fermo e inizio ad abbottonargli la camicia, risalendo lentamente verso il collo. «E dire che ho sempre pensato che spogliarsi fosse la parte eccitante» sospira, accarezzandomi una guancia. «Che farai mentre sono fuori?»
    «Aspetterò che torni» sorrido, sfiorandogli il tatuaggio che ha sul collo. «Non so, forse farò un giro qui intorno» aggiungo, sistemandogli il colletto come faccio con mio fratello ogni volta che dobbiamo presenziare a qualche cerimonia. Non riesco a non pensare a come sarebbe bello replicare questa scena ogni giorno, a quanto sarebbe rassicurante separarci ogni mattina sapendo di poterci riunire ad ogni tramonto. «Tanto ci vedremo questa sera, no?»
    «Sì, ci vedremo questa sera» risponde, sfiorandomi il mento per convincermi ad alzare la testa e guardarlo negli occhi. «Passa una buona giornata» aggiunge prima di baciarmi.
    «Vedrò di impegnarmi. Ora vai, altrimenti tuo fratello mi ucciderà» lo incito, fingendo di spingerlo via.
    «Sì, capo» risponde, infilandosi il cappotto. «A stasera, allora.»
    «A stasera. Aspetta» aggiungo subito dopo. Si ferma con la mano sul pomello e mi guarda, domandandomi con lo sguardo il perché di quell'improvviso alt. «Non ti sei asciugato i capelli, ti prenderai un malanno» spiego, avvicinandomi a lui. Gli drappeggio una sciarpa attorno al collo e gli calco sulla testa ancora umida uno dei suoi berretti preferiti. «Sta nevicando» aggiungo, come se questo dovesse spiegare tutto.
    «Che farei senza di te?»
    «Moriresti di polmonite, probabilmente. Però arriveresti puntuale alle prove. Su, ora vai.» Se ne va senza aggiungere altro, lanciandomi un'ultima, dolcissima occhiata mentre chiude la porta. Se fossi in punto di morte e potessi scegliere un'ultima cosa da guardare mentre la vita mi abbandona, vorrei i suoi occhi a farmi compagnia – forse è la più grande stronzata romantica che la mente umana abbia mai partorito, ma non mi importa. È davvero l'ultima cosa che vorrei vedere.

    «Eccoti, finalmente!» mi accoglie Jared, spalancando le braccia come per accogliere il figliol prodigo.
    «Sono le otto e venticinque, sono in perfetto orario» rispondo. «C'erano ancora un sacco di cose che avrei potuto fare in cinque minuti.»
    «E quella?» domanda Tomo, indicando la sciarpa. «Altre punture di zanzara?»
    «No, è solo che non voglio beccarmi una polmonite. Nevica, sai?»
    Tomo scoppia a ridere, divertito da chissà cosa. «Finalmente Shannon ha trovato qualcuno che si preoccupa per lui. Non sei contento, Jared? Così adesso Emma potrà occuparsi a tempo pieno di te!» ride, tirandogli una ciocca di capelli per prenderlo in giro.
    «Ma non diciamo idiozie, per favore. Io non ho bisogno di qualcuno che si occupi di me a tempo pieno. Non sono certo un bambino» protesta mio fratello, sfuggendo alle sue grinfie e uscendo a passo di marcia nel freddo di questa mattina. Rimasti soli, Tomo e io ci scambiamo una lunga occhiata divertita e ci rassegnamo a seguirlo verso l'auto.

    Rimasta sola, mi guardo attorno e mi accingo a dare una sistemata alla stanza. Mi sento sempre un po' a disagio negli hotel – non che abbia questo grande bagaglio di esperienze, certo. So che esistono le cameriere, e che pulire e mettere in ordine è previsto dal loro contratto, ma so che questo non mi autorizza ad andarmene lasciandomi alle spalle un campo di battaglia. Infilo gli abiti usati di Shannon nel sacco della lavanderia, allineo le scarpe accanto alla porta e apro la finestra per cambiare l'aria, dopodiché faccio una doccia e mi vesto, pronta per scendere a fare colazione.
    Sto affrontando un delizioso croissant alla ciliegia, quando mi sento apostrofare da una voce allegra che ormai riconoscerei tra milioni: «Ehi, buongiorno!» mi saluta Vicki in un italiano decisamente buono. «Anche tu abbandonata dal tuo uomo nel nome del sacro dio della musica?»
    «Pare di sì» rispondo, dopo essermi strofinata via le briciole dalle labbra. «Fai colazione con me?»
    «Posso?» domanda, indicando una sedia vuota.
    «Tra compagne di sventura ci si deve aiutare, no? E poi immagino che ai ragazzi farebbe piacere vederci socializzare, no?»
    «Immagino proprio di sì» risponde. «Però dovrai aiutarmi ad ordinare, perché il francese ed io abbiamo avuto una brutta discussione, e non siamo mai riusciti a riappacificarci» aggiunge, sedendosi davanti a me. Cinque minuti più tardi, davanti ad un altro giro di croissant e ad un buon caffè americano, Vicki rischia di causare la mia dipartita per soffocamento. «Sai, mio marito si è preso una cotta per te.»
    «Sc-scusa?» chiedo tra un rantolo e l'altro, sputacchiando briciole di dolce.
    «Oh, non nel senso classico del termine, tranquilla» si corregge. «Però ti adora, pensa che tu sia una ragazza stupenda.» Alza per un attimo gli occhi al cielo, riflettendo su quanto ha appena detto. «No, forse nemmeno così mi sono spiegata bene. Lui pensa che tu sia... una bella persona, ecco. Ti trova divertente, simpatica... dice che a volte gli ricordi sua sorella2
    «Sua... sorella?»
    «Sì, Tomo ha una sorella, Ivana.»
    «Sì, lo so. Insomma, l'ho anche vista in un paio di film, ma... ti spiacerebbe spiegarmi in che misura gli ricordo sua sorella? Insomma, stiamo... stiamo parlando di una che fa l'attrice e la modella, no? Che cos'abbiamo in comune?»
    «Più di quanto credi. Sì, lei è un'attrice e una modella, ma lui dice... dice che a volte ti comporti esattamente come lei, che... che a volte sembri avere dei momenti di sconforto, come se... come se a volte perdessi la bussola e non sapessi più quale sia la direzione giusta.»
    «Questo vorrebbe dire che a volte... che a volte Ivana Milicevic si sente insicura?» domando, senza riuscire a credere alle mie stesse parole.
    «Qualcosa del genere, sì» annuisce lei. «Pare che da ragazzina fosse un tipo molto riservato. È per questo che ha iniziato a fare la modella. È stato per... non lo so, per dimostrare a se stessa di essere un tipo forte.»
    Sorrido al pensiero che la donna forte e sicura di sé che ho sempre visto al cinema possa essere stata una ragazzina timida e sempre timorosa di fare un passo falso. «È un suggerimento?»
    Come avevo previsto, Vicki coglie la battuta e scoppia a ridere. «No, non ti sto suggerendo di fare la modella per superare i tuoi eventuali blocchi emotivi. È solo che... volevo solo farti capire che Tomo ha davvero molta stima di te. Sai, lui sembra un tipo sempre allegro e accomodante, ma la verità è che sotto sotto è un terribile snob. Non parlerebbe bene di te se non fosse più che sicuro del tuo valore.» Sorride ancora, guardandomi dritta negli occhi. «E sei molto simpatica anche a me. Certo, io non sono schizzinosa come lui in fatto di amicizie, ma spero apprezzerai comunque il mio parere.»
    «Lo apprezzo molto, te lo assicuro» rispondo, sostenendo il suo sguardo. «Avere a che fare con persone nuove è sempre stato molto difficile, per me» aggiungo, riabbassando la testa. «Ho sempre paura di commettere degli errori, o di non... di non essere abbastanza. Trovare sostegno è... liberatorio. È una bellissima sensazione.»
    «Bene. Ora che abbiamo deciso di andarci a genio, che ne dici di fare qualcosa insieme? Visto il tempo, pensavo di dedicare la giornata ai musei. Se ti piace l'arte, qui vicino c'è una mostra dedicata a Toulouse-Lautrec.»
    Non ho bisogno di riflettere molto sulla proposta. «Ci sto. Andiamo a vedere come sta il vecchio Henri.»


*



Torino, 27 novembre 2013


    In mancanza di Daria, Francesca sa che è Alice l'unica persona in grado di capirla – nonostante non abbia mai avuto una sorella, Alice sa affrontare certi discorsi mantenendo la giusta prospettiva, e dispensando sempre i giusti consigli. Per questo, in un mercoledì mattina che minaccia neve e rende i marciapiedi scivolosi, invece di entrare a scuola cambia percorso, fermandosi ai piedi della scalinata che conduce a Palazzo Nuovo, sperando di intercettare la migliore amica di sua sorella prima che si rechi a lezione. Sta quasi per perdere la speranza, quando sente chiamare il suo nome: «Francesca, che ci fai qui? È successo qualcosa?» le domanda, vedendola voltarsi con l'aria di chi abbia appena scoperto di essere rimasto completamente solo al mondo. «Franci, hai una faccia che non mi piace per niente» aggiunge, mettendole una mano sulla spalla.
    «Io penso... penso di aver bisogno di parlare con qualcuno. E siccome Daria non c'è io ho pensato... ho pensato a te.»
    Alice si volta verso le compagne che sono con lei. «Ragazze, voi andate. Noi ci vediamo più tardi.» Rimaste sole, guarda a lungo la sorella della sua migliore amica, riconoscendo in lei la stessa disperazione letta negli occhi di Daria ai tempi della rottura con Andrea. Ha sempre pensato che Daria e Francesca fossero due persone completamente diverse, ma solo adesso si rende conto che sono più simili di quanto chiunque abbia mai creduto. «Adesso andiamo a prenderci un caffè e mi racconti tutto. No, meglio una cioccolata calda. Conosco il posto perfetto.»

    Davanti ad una tazza fumante, impegnata a rimestare con il cucchiaino con l'aria di chi compie un gesto in maniera meccanica, senza averne veramente l'intenzione, Francesca somiglia davvero a sua sorella, e Alice deve appellarsi a tutto il proprio autocontrollo per evitare di sorridere. «Allora, mi racconti cos'è successo? Di qualunque cosa si tratti, sono certa che non è nulla di irreparabile. È successo qualcosa a scuola?» La ragazzina scuote la testa, tenendo gli occhi bassi. «Allora è successo qualcosa a casa? Magari hai discusso con tuo padre?» Un altro cenno di diniego, e Alice sente di aver terminato le possibilità. A quell'età esiste anche la possibilità di avere pene d'amore, ma per qualche motivo sente che non è il caso di Francesca – soprattutto perché non ha mai parlato di ragazzi che potrebbero averle spezzato il cuore.
    «Beh, ecco, io... accidenti, è così difficile da dire... ecco, io penso che potrei essere incinta.»
    Alice si blocca con la tazza a mezz'aria, ringraziando ogni santo conosciuto di non aver bevuto. Nel silenzio che segue la confessione di Francesca, avverte chiaramente il rumore di un muro di certezze che si sgretola in mille pezzi – ma d'altra parte, si sa, anche i geni possono sbagliare. «Scusa, ma non penso di aver afferrato appieno il concetto» sussurra, riabbassando la tazza fino a farle incontrare il piattino.
    «Ho fatto l'amore con il mio ragazzo» risponde Francesca, abbassando la voce come se temesse di essere sentita da qualcuno che conosce. «Abbiamo fatto attenzione, te lo giuro. Insomma, abbiamo usato... e sono più che sicura che non si sia rotto, però non mi viene il ciclo. Ormai è in ritardo di una settimana, e a me non viene mai in ritardo.»
    Alice apre la bocca e la richiude di scatto per un paio di volte, senza sapere bene da dove cominciare. Questa è un'esperienza nuova anche per lei, che è sempre stata solo con Federico e ha sempre usato la pillola, senza mai incontrare contrattempi. «Io... io non... ma da quando hai un ragazzo?»
    «Da febbraio.»
    «Ma sono... sono nove mesi! Daria non me l'aveva...»
    «Daria non lo sa. Non lo sa nessuno. Insomma, nessuno a parte i nostri amici. Non so perché non l'ho detto a Daria. Forse avrei dovuto. Sicuramente avrei dovuto. È solo che... non lo so, forse non volevo che partisse con la solita tiritera sul fare attenzione e cose del genere. Forse avevo paura che lo dicesse a papà, e che lui mi sgridasse. Il fatto è che io so cosa fare, so come comportarmi... però adesso non... non...» Si interrompe, con gli occhi velati di lacrime e il respiro che si mozza in gola. «Vorrei averlo detto a Daria, perché lei saprebbe cosa fare. O forse non sarebbe servito a niente, perché lei adesso non è qui, e...»
    «Ehi, ehi, ehi» la interrompe Alice, mettendo le proprie mani sulle sue, che tremano accanto alla tazza. «Va bene, Daria non c'è, ma ci sono io. Sai che puoi contare su di me, no?» Francesca solleva lo sguardo e annuisce, tirando su col naso. «Adesso ti dico cosa facciamo, va bene? Dunque, adesso ci beviamo questa buonissima cioccolata e intanto tu mi racconti un po' del tuo ragazzo. Poi usciamo e ti accompagno a comprare un test. Vedrai che si risolve tutto.» Fruga nella borsa e le porge un fazzoletto. «Dai, adesso parlami di questo ragazzo. Chi è, che cosa fa, come l'hai conosciuto... sono terribilmente curiosa.»
    «Si chiama Stefano, è in classe con me. Si è trasferito dalla Toscana a gennaio, suo padre ha trovato lavoro qui a Torino. Ha i capelli castani e gli occhi neri, è carino. E poi mi piace moltissimo come parla» aggiunge con un sorriso, smettendo finalmente di singhiozzare.
    «Oh, lo credo. Anche a me piace moltissimo la parlata toscana.»
    «Abbiamo iniziato ad uscire a gennaio, e ci siamo messi insieme alla fine di febbraio. È molto dolce, mi tratta sempre come se fossi una principessa. Sai, del tipo che mi apre le porte e mi porta un tè nell'intervallo.»
    «L'ultimo gentiluomo» scherza Alice, contenta di scoprire che esistono ancora ragazzi così beneducati e gentili, che trattano bene le ragazze senza secondi fini.
    «Il mese scorso abbiamo deciso di fare l'amore. Abbiamo aspettato tanto perché era... beh, era la prima volta per tutti e due. Volevamo essere sicuri, volevamo... essere pronti
    «Avete fatto bene. Prima di fare certe cose bisogna pensarci su... mille volte, forse. O forse mille volte non è ancora abbastanza.»
    «Daria ci avrà pensato mille volte?» scherza Francesca, riferendosi allo storico finesettimana di fuoco seguito al trasloco.
    Contenta di vedere di nuovo il sorriso sul volto della ragazzina, Alice ride. «Dirai che non è giusto da parte mia, ma... in quel caso è diverso.»
    «Lo so. Insomma, tu stavi parlando di... beh, di farlo per la prima volta in assoluto
    «Beh, sì. Anche se forse non c'è tutta questa differenza. Su, finisci la tua cioccolata, poi ti accompagno a comprare il test.» Vede Francesca irrigidirsi, le lunghe dita da artista serrate contro la tazza, e sorride. «Non ti preoccupare, in farmacia ci vado io. Tu puoi aspettare fuori.» Lo sguardo dell'altra ragazza contiene più ringraziamenti di quanti ne potrebbero mai essere espressi a parole.

    Venti minuti più tardi, con la confezione nascosta nella borsa, Alice guarda Francesca, nervosa come una bambina al primo giorno di scuola. «Adesso ti accompagno a casa e ti aiuto a farlo, va bene?»
    «Non posso farlo a casa. C'è Emanuele.»
    «Ah. No, direi che non è il caso. Però ci serve un bagno.» Si guarda intorno, accorgendosi che sono soltanto a cinque minuti dalla libreria di Marco, che è il posto più vicino in cui trovare riservatezza – e soprattutto un bagno degno di questo nome. «Vieni, so dove possiamo andare» decreta, iniziando a camminare.
    «Ehi, che ci fate voi due qui?» le saluta Marco, alzando la testa quando sente il campanello della porta. «Tu dovresti essere a scuola» aggiunge, indicando Francesca, «e tu dovresti essere a lezione» conclude, indicando Alice.
    «Sì, hai ragione, però abbiamo un'emergenza. Un'emergenza femminile» specifica quest'ultima, facendogli capire che è meglio non fare domande. «Possiamo usare il tuo bagno?»
    «Prego» risponde lui, alzando le mani come per indicare che non vuole essere coinvolto. «Io non voglio sapere niente. Basta che non mi fate esplodere il negozio.»
    «Promettiamo» replica Alice. «Sei solo?» domanda poi, guardandosi attorno.
    «Carlotta è malata.»
    «Non voglio fare la stronza, ma sai che ti sta fornendo su un piatto d'argento tutte le giuste motivazioni per un licenziamento assolutamente giustificato?»
    «Non avevate un'emergenza?» ribatte lui, desideroso di concludere immediatamente quel discorso.

    Concluso il test, Alice e Francesca hanno lasciato il negozio promettendo a Marco di sdebitarsi presto per l'ospitalità, e lungo la strada verso casa Giordano hanno discusso a lungo sul da farsi. «Vedrai che non è niente» assicura Alice, mettendole un braccio attorno alle spalle. «Hai visto, no? Il test è negativo.»
    «Però potrebbe anche sbagliarsi. Ormai sono tecnologici quanto uno shuttle, ma si potrebbe anche sbagliare, no?»
    «Guarda, per esperienza ti dico che preoccuparsi fa aumentare ancora di più il ritardo. Può capitare che ci sia del ritardo, dopo la prima volta. Insomma, il tuo corpo ha subito un...»
    «...un intervento molto invasivo?» conclude Francesca. Alice scoppia a ridere: se c'è qualcosa di cui è certa, è che quella ragazzina ha lo stesso senso dell'umorismo della sorella.
    «Stavo per dire che ha subito un forte stress, ma anche la tua versione non male. Comunque può succedere, sai? Insomma, gli ormoni impazziscono, non ci capiscono più nulla, e... può capitare. Stai tranquilla per un paio di giorni, cerca di distrarti, e vedrai che andrà tutto a posto. Ti accompagno su» aggiunge, accorgendosi che sono davanti al portone del palazzo.
    «Ma no, non è il caso, posso andare su da sola.»
    «Meglio se ti accompagno, così posso reggerti meglio il gioco.»
    Sentendo il portone aprirsi, Emanuele spinge la sedia fino al corridoio. Vedendo entrare la sorella, sgrana gli occhi. «Perché non sei a scuola, tu?»
    «Non si è sentita bene mentre ci andava, quindi ha chiamato me» risponde Alice, mentre Francesca assume l'espressione di pura sofferenza che ha provato per tutto il tempo del ritorno a casa.
    «Hai la febbre?»
    «No, le è venuto...»
    «Non lo voglio sapere!» esclama il ragazzo, coprendosi le orecchie con le mani. «Fate quello che volete, ma non mi coinvolgete in queste cose.»
    Alice sorride, rendendosi conto che gli uomini sono tutti uguali, indipendentemente dall'età. «Tanto io adesso devo andare, ho lezione. Tu vai a stenderti e riposati, va bene?» aggiunge, rivolgendosi a Francesca. «Ciao, Ema. Buono studio.»
    «Grazie, anche a te.» Aspetta che Alice sia uscita, tirandosi la porta alle spalle, poi guarda la sorella, che si sta sfilando il cappotto. «Se hai bisogno di qualcosa chiamami, va bene?»
    «Grazie» gli sorride lei, entrando in camera. Appoggia il cappotto sulla sedia, si siede sul letto e guarda il cellulare, ricordando l'ultimo consiglio che le ha dato Alice. Chiama Daria e raccontale tutto. Lo vorrebbe sapere.



*



Parigi, 27 novembre 2013


    Sono ferma davanti a La toilette3 da almeno dieci minuti, quando sento il cellulare vibrare nella tasca dei jeans. Sfioro il braccio di Vicki, ferma con me davanti allo stesso dipinto, e le indico che sto uscendo per rispondere. Se si fosse trattato di chiunque altro probabilmente avrei ignorato la chiamata, ma il fatto che sia Francesca a cercarmi mi ha messa subito in allarme – a quest'ora dovrebbe essere a scuola, e la mia mente da mamma chioccia ha già pensato a scenari che sarebbe riduttivo definire apocalittici. «Franci, che succede? Non stai bene? Perché non sei a scuola?»
    «Sto benissimo, non ti preoccupare, è solo che... beh, ho bisogno di raccontarti una cosa. Forse è meglio se ti siedi, però.»
    «Che succede?» ripeto, stringendo il cellulare come se ne andasse della mia vita.
    «Per favore, siediti e ascolta. Non mi interrompere, perché se lo fai non so se... beh, non so se riuscirò a riprendere il filo.» Obbediente come non sono mai stata, mi siedo su uno scalino, incurante del freddo, della neve e del ghiaccio, e mi accingo ad ascoltare il racconto di mia sorella – che, inutile dirlo, mi sconvolge. Ascolto in silenzio, senza mai interromperla, anche perché non saprei bene quali parole usare – cosa si può dire ad una sorella che ti sta confessando di averti tenuto nascosto l'avvenimento più importante della sua vita e che ti informa di aver trovato conforto presso la tua migliore amica? Intendiamoci, sono felicissima che abbia avuto la prontezza di spirito di cercare Alice, che in certi frangenti sa mantenere la calma molto meglio di me, ma non riesco a credere di essermi persa un simile momento. Avrei dovuto essere io a raccogliere la sua confidenza, avrei dovuto essere io a dissipare le sue preoccupazioni, avrei dovuto essere io ad aiutarla a sciogliere ogni dubbio, avrei dovuto essere io a raccontare bugie per lei! Mentre lei si scusa per l'ennesima volta per avermi tenuta nascosta la verità, io penso che dovrei essere io a chiedere scusa a lei per non esserci stata nel momento del bisogno, in quell'istante in cui una sorella maggiore è l'unica presenza che si vuole accanto, l'unica figura realmente utile. Me ne resto seduta su un gradino imbiancato di neve, con i fiocchi che mi coprono la testa e mi bagnano i capelli, e mi rendo conto di aver perso un momento che non tornerà mai più.
    «Non tenermi mai più all'oscuro di niente, capito?» sussurro quando smette di parlare, così piano che nemmeno sono sicura di essere sentita.
    «Lo prometto. In realtà ho pensato tante volte di dirti tutto, ma... non ci riuscivo. Non sapevo bene che parole usare. Insomma, cosa si deve dire in certi casi?»
    «Sinceramente, non ne ho idea. E sinceramente, spero di non doverlo mai scoprire.» Ride, e io con lei. Sono felice che il momento di crisi sia superato, e sono felice di sapere che tutte e due abbiamo qualcuno su cui contare quando si presenta un problema – ma d'altra parte, sono anni che faccio affidamento su Alice per risolvere le mie crisi... perché avrebbe dovuto essere diverso con mia sorella? «Comunque quando torno lo voglio conoscere, questo tipo. Niente di formale, o di ufficiale... solo, voglio vedere che faccia ha. Va bene?»
    «Va bene. Adesso mi vado a stendere un po'. A Emanuele ho raccontato che ho le mie cose e mi devo riposare. Scusami ancora per non averti detto niente.»
    «Scusami tu per non essere stata lì quando avevi bisogno di me.»
    «Oh, ma avevi un'ottima scusa. Insomma, se dovessi scegliere tra fare da balia a te e correre da un uomo meraviglioso che mi ha invitata a trascorrere una romantica settimana con lui in una delle più belle città del mondo, credo che partirei di corsa.»
    «Oh, ma grazie per il pensiero!» Continuiamo a scherzare per un po', e quando alla fine ci salutiamo e mettiamo giù mi rendo conto di non avere la forza di alzarmi. Nonostante l'ilarità e le risate, mi sento terribilmente in colpa per la mia assenza, e non riesco a fare altro che starmene seduta al freddo a fissare il vuoto.
    Mi riscuoto soltanto quando sento qualcosa sfiorarmi la testa. Alzo lo sguardo e scopro che Vicki, probabilmente preoccupata per non avermi vista tornare, è uscita a cercarmi e mi ha messo sulla testa il suo cappello. «Ehi, tutto bene?» mi domanda, comprendendo che qualcosa mi sta logorando dentro. «Hai la faccia di una che ha appena ricevuto una notizia tremenda» aggiunge, sedendosi accanto a me sul gradino umido.
    «Mi sento tremenda» rispondo, infilandomi il cellulare in tasca. «Era mia sorella.»
    «Sta bene? Le è successo qualcosa?»
    «No, per fortuna sta bene. Ma è una storia terribilmente lunga.»
    «A me piacciono un sacco le storie terribilmente lunghe, soprattutto se finiscono bene. E da quanto ho capito, questa è una di quelle. Sempre se ti va di parlarne, è chiaro. Ma se vuoi farlo, andiamo dentro e ci prendiamo un caffè. Sono seduta qui da trenta secondi e ho già le chiappe congelate.»

    «Accidenti» è l'unico commento che Vicki si lascia sfuggire una volta che ho finito di esporre i fatti e le mie preoccupazioni. «Capisco quanto si deve essere spaventata. Una volta è successo anche a me. Parliamo di secoli fa, prima di conoscere Tomo. Avevo diciotto anni, era la mia prima relazione importante. Ma poi per fortuna si risolse tutto. Il ragazzo che stavo vedendo non era esattamente un tipo con l'istinto paterno» aggiunge con una risatina. «Per fortuna poi ho incontrato Tomo. Comunque non ti devi colpevolizzare per non essere stata accanto a lei in questo momento. Non potevi certo prevedere che avrebbe avuto bisogno di te proprio mentre non c'eri.»
    «Questo lo so, però... accidenti, non mi sono accorta che ha un ragazzo! Nove mesi che ha una storia, e io non me ne sono accorta. Com'è potuto succedere?»
    «Beh, succede e basta. D'altra parte non sei sua madre. Di solito sono le madri che notano queste cose, no? Beh, non sempre. Insomma, mia madre non si è accorta che ero fidanzata con Tomo finché non l'ho portato a casa per presentarlo ufficialmente, quindi... devi accettare il fatto che tua sorella ha la sua vita, e tu la tua. Potete condividere tante cose, ma di certo non potete essere costantemente presenti l'una nell'esistenza dell'altra. Se non fosse stato questo, sarebbe stato qualcos'altro. Insomma, non sei il Grande Fratello. Non puoi tenere tutto sotto controllo.»
    «Come riesci a farlo?»
    «Cosa?»
    «A... beh, mi sono appena resa conto che hai assolutamente ragione. Come hai fatto a capire subito tutta la situazione?»
    «Il mio segreto è una relazione duratura con un uomo che ha per amico e collega un maniaco del controllo» risponde, facendomi capire subito che si sta riferendo a Jared e alla sua innegabile propensione al dramma se un qualunque dettaglio non segue il piano prestabilito. «Lui li fa quasi impazzire con le sue manie, e io passo il resto del tempo a psicanalizzare mio marito.»
    «Dovresti aprire uno studio. Faresti soldi a palate.»
    «Probabile. A proposito, visto che stiamo parlando di cose intime... pensi che potrei rivelarti un segreto?»
    «Beh, io ti ho appena rubato mezz'ora di vita raccontandoti i miei guai, quindi direi di sì. Ma sei sicura di volere me come confidente? Praticamente non ci conosciamo.»
    «Ormai mi conosci molto meglio di tanta gente che è nella mia vita da sempre. E poi devo dirlo a qualcuno, altrimenti impazzisco.» Prende fiato e mi guarda dritta negli occhi, come se stesse per rivelarmi il terzo segreto di Fatima. «Ho un ritardo.» Lo spara fuori così, senza giri di parole, senza preamboli, con la stessa naturalezza che userebbe se mi stesse dicendo che fuori nevica.
    «Hai un... cosa?»
    «Ho un ritardo. Non mi succede praticamente mai, e so che potrebbe essere causato da milioni di cose, ma... io me lo sento. Sono incinta.» Spalanco la bocca, senza sapere cosa dire – è la prima volta che mi trovo di fronte ad una notizia del genere. «Insomma, non ho ancora fatto nessun test e non ho visto alcun dottore, ma sono quasi sicura di esserlo. Non lo so, io... io me lo sento, ecco. A Tomo non ho ancora detto niente.» Continuo a non dire niente, mentre il mio cervello tenta di elaborare una qualsiasi risposta dotata di senso. «So che ti sembro pazza in questo momento, ma...»
    «No, no, figurati, non penso affatto che tu sia pazza» la interrompo. «Solo, mi sconvolge che tu abbia deciso di confidare un simile sospetto a me invece che a tuo marito. Insomma, di solito questo tipo di notizie si... confina all'interno della coppia, no?»
    «Sì, ma... sai, siccome non ne ho ancora la certezza scientifica non voglio dirlo a Tomo. Ci tiene così tanto che... ho paura che soffrirebbe come un cane, se fosse soltanto un falso allarme. Sono quasi certa che non lo sia, però non voglio causargli una sincope prima del tempo. Non sembra, ma è un tipo molto emotivo.»
    «Certo, certo, ma... accidenti, sono felice che tu abbia scelto me per confidarti.»
    «Sei una brava persona e mi fido di te. Mi raccomando, non lo dire a nessuno.»
    «Prometto, sarò muta come una tomba.» Rifletto per un istante sulla situazione, poi riprendo: «Ah, comunque congratulazioni. Insomma, se... se dovesse rivelarsi tutto vero. So che Tomo ci tiene tanto.»
    «Grazie. Sì, ci tiene molto, e ha ragione. Siamo pronti, tutto qui. È sempre stato un desiderio di entrambi, ed è il momento giusto. In qualunque altro periodo sarebbe andato bene, ma... è questo il momento.»
    «Sono davvero felice per voi. È importante essere insieme in questi casi. Sono cose che si affrontano meglio, quando c'è armonia.» Taccio per un attimo, pensando a quante volte ho sognato di avere quello che hanno Tomo e Vicki: una relazione stabile, un amore incondizionato e profondo, un legame quasi impossibile da spezzare. «Sai, io... io ho sognato spesso di avere una relazione così. Sarà per quello che è successo ai miei, non lo so... solo che mi sono sempre vista sposata, con un sacco di bambini intorno... mi è sempre sembrato un sogno semplice da realizzare. Solo che...»
    «Solo che hai paura di non riuscire a trovare la persona adatta per realizzarlo?» Alzo la testa di scatto, di nuovo sorpresa dalla sua straordinaria capacità di capirmi anche quando non esprimo per intero i miei pensieri. «Scusa, non volevo essere invadente. Probabilmente non mi sarei dovuta permettere, ma... che nutri dei dubbi è evidente. Ma sarebbe strano se tu non li avessi. Ti vedi con uno che una reputazione di... scusa, forse dovrei tacere.»
    «No, non ti preoccupare. Anzi, forse sentire un altro parere mi fa solo bene. Credo che potrei impazzire, se continuassi a dare ascolto soltanto alla mia testa. Il mio cervello è un casino senza speranza.»
    «Sei solo confusa, è normale. Moltissime persone sarebbero confuse, se fossero al tuo posto. Ti è letteralmente caduta addosso una situazione nuova e difficile da affrontare, è assolutamente normale avere dei dubbi. L'unica cosa che devi fare è... cercare di essere sempre onesta con te stessa. E con Shannon, naturalmente. Essere onesti è la prima regola da seguire. Non soltanto nelle relazioni, ma... nella vita. Non fare del male, e non ti verrà fatto del male. Almeno, io la vedo così.»



*



Torino, 27 novembre 2013


    Sono quasi le sette di sera, e dopo aver convinto il padre che non è in punto di morte, e che per stare meglio le servirà soltanto un altro giorno di riposo, Francesca sente il bisogno di correre in bagno. A stento si trattiene dal gridare di gioia, felice che il consiglio di Alice di restare calma abbia recato con sé una così felice conclusione. Tornata in camera, la prima cosa che fa è scrivere sia a lei sia a Daria, per informarle che la tempesta è passata.



*



Parigi, 27 novembre 2013


    Il messaggio di Francesca mi arriva mentre sto attraversando la hall per raggiungere l'esterno, dove probabilmente Sébastien mi sta già aspettando. Sorrido, rispondendole di essere felice per lei e informandola del mio nervosismo, nemmeno dovessi essere io ad esibirmi. Il fatto è che sono totalmente all'oscuro di quello che succederà, e come sempre l'idea di non avere un piano mi spaventa a morte. Come prevedevo, Sébastien è già in piedi accanto all'auto, e appena mi vede uscire apre lo sportello, salutandomi con la stessa cortesia di ieri sera. «Buonasera. Grazie» ricambio, accomodandomi in attesa di partire. Vedendomi evidentemente nervosa, Sébastien continua a guardare nello specchietto retrovisore, forse aspettandosi di vedermi saltare giù dall'auto in corsa alla prima occasione. Controllo per l'ennesima volta di avere con me il pass per il backstage, e lo vedo sorridere. «Credo di essere un po' nervosa. Nemmeno toccasse a me condurre lo spettacolo.»
    «Immagino sia normale. Non sono situazioni che si vivono tutti i giorni, no?»
    «No, per niente» confermo.
    «Penserà che non sono affari miei, ma... io credo che stia dimostrando una grande maturità. Solo gli sciocchi non si preoccupano di fronte all'ignoto.»
    «Beh, ma la mia non è preoccupazione... è puro e semplice terrore
    Ride, fermandosi ad un semaforo rosso. «Volevo essere delicato.» Allo scattare del verde riparte, e dopo qualche secondo sento di nuovo la sua voce. «Non vedo ragazze come lei da moltissimo tempo. Pensavo che la categoria fosse estinta.»
    «Ragazze come me?»
    «Sì, ragazze come lei. Insomma, così... pure. Lei è un'innocente... in senso buono, naturalmente. Lei è una di quelle ragazze che accettano tutto quello che succede come... come un dono. Non cerca spiegazioni, non cerca di capire... si preoccupa, questo sì, si chiede dove la porterà quello che le sta capitando, però... però lo accetta. È una qualità rara, accettare che non possiamo controllare la vita.»
Mi volto per un istante verso il finestrino, chiedendomi come sia possibile che tutte le persone che incontro anche solo per qualche minuto riescano a leggere così facilmente nella mia anima. «Come fa a dire tutto questo? In fondo non mi conosce. Non la prenda come una critica, è solo... è solo che non riesco a capire come... come ci riesca.»
    «Si incontrano tante persone, facendo questo lavoro. Non sempre si interagisce, però nulla mi vieta di guardare nello specchietto retrovisore e... tentare di capire. Mi perdoni, mio padre era uno psicologo. Immagino sia insito nel mio DNA.»
    «Credo che lei abbia colto nel segno, Sébastien. Sono esattamente il tipo di ragazza che ha descritto.»
    «Lo dice come se fosse una condanna.»
    «Ah, non ci badi» lo rassicuro. «Credo di essere soltanto nervosa.» Chino lo sguardo sulla tracolla, e controllo ancora una volta di non aver scordato il pass.

    Chiuso nel mio camerino, sono in piedi di fronte al muro con gli occhi chiusi, impegnato a picchiettare le bacchette sulla parete4, cercando di mettere insieme la concentrazione necessaria per affrontare la serata. È incredibile come la certezza che Daria mi vedrà in azione abbia minato la mia proverbiale sicurezza: da quindici anni sono abituato a suonare in posti immensi, davanti a decine di migliaia di persone che da me non si aspettano meno del massimo, e improvvisamente il pensiero di una sola, minuta ragazza mi fa diventare le ginocchia di gelatina. Ma d'altra parte la cosa non dovrebbe stupirmi tanto: è questo l'effetto che mi fa ogni suo sorriso, ogni sua occhiata, ogni sua carezza... mi sento sempre fragile quando sono davanti a lei – è come se lei riuscisse a vedere la parte peggiore di me, quella più nascosta, più celata, più intima, ed è come se le stesse bene. Sento che ama ogni parte di me, e questo mi fa sentire strano, come se non ci fossi abituato – ma andiamo, chi è davvero abituato a sentirsi così amato dopo una vita passata a credere di non meritare qualcosa di tanto straordinario?
    Qualcuno bussa alla porta, e senza nemmeno riflettere rispondo «Avanti». È Jared, che entra con il passo furtivo di un ladro. «E tu che ci fai qui?» gli domando, stupito di trovarlo qui. Di solito prima di un concerto si raccoglie in una totale e completa solitudine, e non si può nemmeno pensare di parlargli senza rischiare la propria incolumità.
    «Oh, volevo solo vedere se sei pronto» risponde con sufficienza.
    «Sì, io sono pronto. Insomma, stavo sfruttando gli ultimi minuti per... raccogliere le idee.» Non ho il coraggio di dirgli che in realtà i miei pensieri erano più confusi che mai, e che stavo disperatamente cercando un modo per fare tabula rasa e affrontare la serata con serenità.
    «Non vedrai Daria, prima che inizi lo spettacolo?»
    «No, vederla mi... mi distrarrebbe troppo, credo. O forse no, non lo so. È la prima volta che mi si presenta un simile dilemma.»
    «Posso immaginare quanti dubbi hai.»
    «Che ne è stato del tuo ritiro pre-concerto? Di solito sparisci nel tuo camerino e non ti fai vedere fino a cinque secondi prima che inizi.»
    «Sì, beh, io... prima di andare in scena ti volevo chiedere scusa per stamattina. Per come... beh, per la sveglia un po' brutale.»
    «Dai, non importa. Comunque non mi hai svegliato. Eravamo già svegli.»
    «No, aspetta, anche lei era sveglia? Quindi ha sentito tutto? Avrà pensato che sono uno stronzo senza speranza.»
    «No, niente affatto. Io ho pensato che sei uno stronzo senza speranza. Lei si è fatta una risata.»
    «Davvero?»
    «Davvero.»
    «Oh, beh, allora... beh, comunque ti volevo solo chiedere scusa per stamattina. E ora che l'ho fatto, vado a indossare il costume da eremita. Ci vediamo dopo.»
    «A dopo.» Sparisce in corridoio con la stessa aria furtiva con cui è entrato, ma non mi concedo il tempo di chiedermi che cosa ci sia sotto la sua apparente servilità – perché quando mio fratello si fa avanti in questo modo, chiedendo perdono per uno qualsiasi dei suoi innumerevoli, bizzarri comportamenti, persino la mente più innocente e pura del mondo sospetterebbe un tranello. Chiudo di nuovo gli occhi, libero la mente e torno a concentrarmi sulla parete davanti a me, sperimentando diversi ritmi.

    Appena scendo dall'auto, Emma mi viene incontro con un sorriso – e la cosa mi spaventa da morire, perché credo di non averla mai vista sorridere. «Ciao, Daria» mi saluta, e mi è inevitabile domandarmi come faccia a sapere chi sono. «Shannon mi ha mostrato una tua foto» spiega, intuendo il mio dubbio. «Devo ammettere che dal vivo sei molto più carina» aggiunge, e a questo punto ho davvero paura – non avevo mai sentito dire che fosse in grado di fare dei complimenti. «Comunque io sono Emma» conclude, porgendomi una mano in segno di saluto.
    «Sì, ti conosco. Cioè, voglio dire, io... io so chi sei.»
    «Vieni con me, ti accompagno.» Entriamo nella struttura, e dalla maestria con cui mi guida attraverso il dedalo di corridoi intuisco che deve averli percorsi già centinaia di volte. «Il concerto inizia tra mezz'ora. Purtroppo non potrai vedere Shannon prima dello spettacolo. Ordini suoi» aggiunge. «Hanno tutti i loro riti, sai com'è.»
    «Posso immaginare.»
    «Il più divertente è Jared. Si chiude in camerino per due ore senza uscire, e guai a bussare. Non uscirebbe nemmeno se l'intero edificio fosse avvolto dalle fiamme.»
    Sorrido, rendendomi conto che non mi sarei attesa di meno da lui. «E Shannon che fa, invece?»
    «Oh, lui tiene il ritmo con le bacchette. Picchietta all'infinito contro la parete del camerino.»
    «E dall'altra parte non si lamentano?»
    «Dall'altra parte di solito c'è Tomo, ma lui dorme. Dormirebbe anche durante un tornado. A volte lo invidio, ha una capacità incredibile di dormire anche nei posti più scomodi. Hai il tuo pass, vero?» In risposta, mi faccio scivolare il cordoncino intorno al collo. «Perfetto. Probabilmente nessuno ti chiederà nulla, quasi tutti gli addetti della sicurezza che avrai occasione di incontrare ti hanno vista con me, ma meglio non rischiare che ti sbattano fuori a calci nel sedere» sorride, indicando con un gesto della mano un gruppetto di grandi e grossi omaccioni che abbiamo appena superato. «Ci siamo quasi» aggiunge, svoltando nell'ennesimo corridoio. «Ecco, quello è il palco.» Continua a camminare, mentre io mi arresto all'improvviso, rendendomi conto che sono a due passi dalla postazione di Shannon. Accortasi di avermi persa, Emma si volta e mi sorride ancora una volta. «Toglie il fiato, eh?»
    «Toglie il fiato sì» sospiro, sentendomi come una ragazza di campagna arrivata per la prima volta nella grande città.
    «Il tuo posto è qui» spiega, indicando una porzione di pavimento piuttosto estesa. «Ottima visuale dello spettacolo, ma completamente nascosta al pubblico.» Solo in questo momento mi rendo conto che gli spalti sono già gremiti di persone, per non parlare del parterre, che a giudicare dalle voci dev'essere al completo. «Il pubblico è già tutto presente, come puoi sentire.» Oltre la paratia che mi separa dal parterre, sento gruppi di persone intonare cori di canzoni che anch'io conosco benissimo.
    «Chi apre il concerto?» mi informo, curiosa di sapere chi scalderà l'atmosfera.
    «Gli You Me At Six, come a Milano. Si è rivelata un'ottima scelta, secondo il pubblico, quindi perché cambiare? Io adesso devo andare, ho ancora parecchie cose da fare. Puoi andare un po' in giro, se ti va, ma l'importante è che torni qui per quando inizierà il concerto. Non voglio sembrare la stronza di turno, ma ci sarà un sacco di gente indaffarata, e serve campo libero.»
    «Figurati, capisco perfettamente» la rassicuro. So che un concerto si svolge, prima che sul palcoscenico, dietro le quinte, e il mio ultimo desiderio è essere di disturbo. «Considerando il mio scarso senso dell'orientamento, sarà meglio che resti qui.»
    «Come vuoi. A proposito, ti lascio il mio numero» aggiunge, porgendomi un biglietto da visita, «nel caso ti dovesse servire qualcosa. Non sono fredda e stronza come mi dipinge la gente.»
    «Ascolto di rado quello che dice la gente. Grazie. Davvero, grazie mille.»
    «A più tardi.» Scompare alla vista, lasciandomi sola a riflettere su quanto sia speciale il fatto di essere qui, dietro le quinte di un grande spettacolo. È un'occasione che capita di rado alle persone comuni come me, e so di doverne approfittare, perché non so quando mi ricapiterà qualcosa del genere. La prima cosa che faccio è fotografare il palco, cercando di coglierne ogni dettaglio, e la seconda è inviare la foto ad Alice e Francesca, sperando che siano sole e che possano ridere liberamente del commento che ho allegato. Ci si sente minuscoli, eh? è la risposta di Alice, che immagino piegata in due dall'ilarità. «Non sai quanto» sospiro, mentre la folla intorno a me inizia ad intonare Bright lights. Improvvisamente mi chiedo quale sarà la scaletta del concerto: per qualche strana ragione, in Francia il gruppo tende sempre ad eseguire i brani più vecchi, come se questo tipo di pubblico preferisse la vecchia scuola. Personalmente, non mi ritrovo molto nelle canzoni del primo album, forse perché li ho conosciuti attraverso From yesterday e ho iniziato ad apprezzarli tramite A beautiful lie, non lo so. O forse è perché le canzoni più recenti mi hanno aiutato a superare molti momenti complicati, e mi ci sento intimamente più legata.
    Improvvisamente, due mani mi coprono gli occhi, e per la sorpresa quasi faccio cadere il cellulare. Una voce mi sussurra all'orecchio «Indovina chi sono» ma non ho bisogno di altri indizi per arrivare alla soluzione del caso: esiste soltanto una persona in tutto il mondo capace di farmi tremare anche senza sfiorarmi.
    Mi volto e mi getto tra le braccia di Shannon come se non lo vedessi da anni, baciandolo con decisione. «Ma che ci fai qui?» gli domando subito dopo, staccando la mia bocca dalla sua.
    «Sai, sembra che tra poco più di un'ora terremo un concerto» mi prende in giro, con il solito sorriso sornione dipinto sul volto.
    «Scemo» ribatto, sorridendo a mia volta. «Cosa ci fai qui con me, intendevo. Emma ha detto che non volevi vedermi prima dello spettacolo.»
    «Sai come sono fatte le celebrità, no? Sono viziate, capricciose e cambiano idea con la stessa frequenza con cui si cambiano le mutande.» Mi guarda a lungo senza dire una parola, poi le sue mani salgono ad accarezzarmi i capelli. «Credevo che per concentrarmi meglio fosse necessario evitarti... solo che per tutto il tempo non ho fatto altro che pensare a te, quindi tanto valeva rischiare e incontrarti sul serio.»
    «Davvero hai pensato a me per tutto il tempo?»
    «Ogni maledetto secondo» sussurra, appoggiando la fronte contro la mia e chiudendo gli occhi. «Darei tutto quello che ho per sapere che cosa mi hai fatto.»
    «Se è per questo, siamo in due» sorrido.
    «Abbiamo poco più di mezz'ora» dice, allontanandosi un po', e il primo pensiero è che stia per chiedermi di chiuderci nel suo camerino per dedicarci a quello che sembra essere il nostro passatempo preferito. «Ti andrebbe un rapido giro turistico del backstage?»
    «Possiamo davvero?»
    «Naturale che possiamo. E anche se non fosse permesso, ti sembro uno che rispetta le regole? Su, andiamo» mi incita, prendendomi per mano.

    Complice del poco tempo che ci resta da passare insieme, non ho l'opportunità di spiegare per bene a Daria la funzione di ogni cosa o i doveri di ogni persona che incontriamo, con il risultato che la sto portando in giro come se fosse un pacco postale, ma non sembra che la cosa la disturbi: la vedo osservare tutto con sguardo avido, cercando di imprimersi nella mente ogni dettaglio, immagazzinando tutto come si fa con ogni nuova esperienza. «Vieni, c'è una cosa che devi assolutamente vedere prima che inizi il concerto» dico all'improvviso, accelerando il passo. «Ecco il pezzo forte della collezione» aggiungo, raggiungendo con lei la mia batteria, già montata su una pedana che al momento opportuno verrà fatta entrare in scena.
    «Ma questa è...»
    «Daria, ti presento Christine. Christine, ti presento Daria. Scusala se non ti risponde, è di poche parole» scherzo, accarezzando un piatto. «Ti va di sederti?» aggiungo, indicando il seggiolino.

    «Stai scherzando?» Lo guardo come se mi avesse appena proposto di fare un giro sulla luna, o qualcosa del genere. «Questo è il tuo posto, non mi ci posso sedere.»
    «E dai, non cercare difficoltà anche dove non ci sono.» Si siede, allargando le gambe per lasciarmi un po' di posto. «Forza, siediti qui» sussurra, strattonando appena la mano che ancora mi stringe. Obbedisco, e per un istante mi torna in mente una delle più celebri scene della storia del cinema – sapevo che guardare Ghost5 ogni natale si sarebbe rivelata una pessima idea, sulla lunga distanza. Si sporge in avanti, appoggiando il torace alla mia schiena, e nello stendere avanti le braccia per prendere le bacchette fa in modo di accarezzare le mie con la punta delle dita.
    «Di' un po', lo fai spesso?»
    Sposta la testa di lato, in modo da riuscire a parlarmi e contemporaneamente vedere il mio profilo. «Cosa?» sussurra.
    «Invitare la gente a sedersi sul tuo seggiolino.»
    «Scherzi? Non lo faccio mai. Questo seggiolino è sacro. All'ultimo che ha provato a posarci le chiappe ho quasi spezzato le braccia» sorride. «Ma tu hai il mio permesso, quindi non ti devi preoccupare. Ecco, prendi» aggiunge, porgendomi le bacchette.
    «Che ci dovrei fare, scusa?»
    «Prenderle in mano, naturalmente. Ho provato ad usarle per mangiare cinese, ma sono difficili da manovrare.» Scoppio a ridere, voltandomi verso di lui per riuscire a vederlo. Il suo sguardo è così diretto e sincero che quasi mi spaventa, perché riesco a leggervi tutte le sue certezze, che sono molte di più e immensamente più forti delle mie. Vorrei avere l'esperienza che ha lui, vorrei essere forte come lo è lui, ma più lo guardo più mi convinco che tra noi è una lotta impari, e che nemmeno in un milione di anni riuscirei a diventare la donna forte e priva di incertezze che merita di avere accanto. «Nemmeno Jared si è mai seduto qui. Non in mia presenza, almeno. È una delle poche condizioni che pongo: nessuno tocchi Christine.» Abbasso gli occhi, come ricordandomi all'improvviso a chi è dedicato questo strumento – porta il nome di una donna importante, di una figura con la quale probabilmente non potrò mai competere. «Non sono bravo con le parole» continua, appoggiando il mento sulla mia spalla. «Non sono bravo con le parole, ho sempre paura di... dire qualcosa di sbagliato, di non riuscire ad esprimere veramente quello che intendo dire. E a voler essere sincero, non sopporto le persone che usano troppe parole. Dopo tanti anni mi sono reso conto che Christine era una di quelle persone. Io sono uno che preferisce i fatti. Agire è il solo modo in cui so comunicare. Per questo ti ho portata qui. Farti sedere qui è un grande passo per me, per come... per come sono fatto.» Tengo lo sguardo fisso in avanti, mentre lui continua la sua confessione: «Farti sedere qui significa... significa che ti sto dando la chiave di tutto quello che è mio6. Ti sto concedendo più spazio di quanto abbia mai fatto con qualunque altra persona, e se la cosa ti spaventa, spero ti consoli il fatto che spaventa da morire anche me.» Mi volto verso di lui, e senza un fiato lo bacio, sperando di riuscire a trasmettergli comunque l'emozione che il suo discorso ha provocato in me. Nessuno si è mai aperto così tanto con me, e anche se la cosa mi lusinga, non sono certa che mi piaccia.
Mentre ci separiamo, sento che la folla ha smesso di inneggiare ai Mars e sta applaudendo, chiaro segno che la band di apertura sta facendo il suo ingresso sul palcoscenico. «Credo di dover tornare al mio posto, adesso. E penso che tu debba andare a finire di prepararti.»
    Si volta, ascoltando come me il nuovo rumore prodotto dal pubblico. «Sì, penso anch'io. Ti accompagno.»
    Torno nel mio angolo stringendogli forte la mano, aspettando con ansia il momento in cui lo vedrò di nuovo salire in scena, pronto a mettere tutto stesso nella cosa che gli riesce meglio, e che in un certo senso definisce il suo io. Ci separiamo con un lieve bacio sulle labbra, e mentre si allontana, voltandosi per controllare che non fugga, cerco di sfoderare il mio sorriso più sereno.



*



Parigi, 27 novembre 2013


    In piedi dietro la porta del camerino, con la fronte appoggiata al pannello di legno e le mani premute sulle orecchie, Jared tenta di riportare alla mente le esatte parole del piccolo discorso che ha preparato, sperando di non dimenticarle nel momento cruciale. In fondo è sempre questa la sua preoccupazione, anche quando accetta di partecipare ad un film e arriva il momento di girare le sue scene. Il sacro terrore di scordare le battute lo perseguita ogni volta, come potrebbe non sconfinare anche nella musica? Ripete quelle parole fino all'infinito, fino a che sembrano quasi perdere di significato, e quando finalmente si sente pronto, è ora di andare in scena.



*



Parigi, 27 novembre 2013


    Appena gli You Me At Six terminano le loro canzoni, i tecnici si mettono al lavoro per smontare i loro strumenti e sistemare i nostri. Quando finalmente Christine viene spedita sul palcoscenico e le tastiere di Tomo vengono collegate agli amplificatori, capisco che il momento è giunto. So che dalla mia postazione riuscirò facilmente a tenere d'occhio sia il pubblico sia Daria, anche se già so che non avrò il tempo di guardarla costantemente. Le luci si abbasssano, il pubblico si unisce in unico grido di gioia, e io esco a prendermi il mio posto. Parte la base di Birth, il pezzo che apre ogni data di questo tour, e dal lato opposto del palco vedo apparire Tomo, la chitarra già pronta tra le braccia, e lo vedo rispondere con un cenno della mano al saluto del pubblico. Mentre mi sistemo sul seggiolino mi volto verso Daria, trovandola rivolta verso di me. Le strizzo l'occhio, strappandole un sorriso, e subito dopo mi accingo a fare quello che mi riesce meglio.
    L'entusiasmo del pubblico esplode in tutto il suo fragore quando Jared fa il suo ingresso – non per una preferenza nei suoi confronti, ormai l'ho capito, ma per la pura e semplice emozione di vederci tutti insieme, e dunque di capire che lo spettacolo è davvero pronto per iniziare. Come da scaletta, dopo Birth tocca a Night of the hunter, Conquistador e Buddha for Mary, mentre l'entusiasmo e la partecipazione del gruppo crescono, facendo crescere anche la nostra energia. All'ultimo 'What's the difference?' trovo un secondo per voltarmi in direzione di Daria, chiedendomi quali siano le differenze che vede tra di noi – perché anche se non ne ha mai parlato apertamente, so che ci crede profondamente diversi, incompatibili, e questo un po' mi ferisce, perché io sto facendo di tutto per tentare di renderle la vita più facile, e considerando che non ho mai fatto nulla di simile, mi riesce dannatamente difficile.
    Ancora non si sono spenti gli applausi per Buddha for Mary, e subito iniziamo con Search & Destroy, una delle mie preferite. In questo testo mi ritrovo perfettamente, quasi fosse stato scritto apposta per me: ho vissuto nel peccato, ho costruito la mia vita sugli errori, creandomi una maschera da uomo duro che non ha paura di nulla. Ho sempre affrontato tutto come se indossassi un'armatura, lanciandomi contro gli ostacoli a testa bassa, senza paura di ferirmi o finire con il cuore spezzato. È solo comportandomi così che sono riuscito a cedere alla mia attrazione per Daria, concedendole di infilarsi sotto la mia pelle e arrivare così in profondità da riuscire a toccarmi l'anima. La verità è che io e lei siamo uguali, nonostante le apparenze: entrambi siamo stati imbrogliati dalla vita, ed entrambi siamo finiti a pezzi, frantumati sotto il peso delle nostre tragedie. Siamo uguali, e vorrei tanto che anche lei riuscisse a vederlo.
    Finita Search & Destroy, è il turno di Do or die, probabilmente quella che dà più carica ad ogni pubblico. Jared prende la bandiera e inizia a sventolarsela attorno come uno sbandieratore professionista, strappandomi come al solito un sorriso – non so perché, ma mi diverte da morire vederlo ripetere quel gesto ad ogni concerto, e nello stesso tempo mi domando come sia possibile che non si sia ancora provocato una tendinite. Quanto a me, me ne sto seduto a fare il mio lavoro, eseguendo i miei doveri alla perfezione: sono concentrato e mi sto comportando bene, tuttavia non sono tranquillo – il pensiero di mio fratello che esce dal suo esilio e viene a cercarmi prima del concerto continua a perseguitarmi, nonostante sia più che certo che non può aver architettato nulla di veramente pazzo o idiota.
    Ci dedichiamo a The kill, che nonostante le preoccupazioni di Jared riesce benissimo, e una volta finito il pezzo sia io che Tomo lasciamo il palco, lasciandolo solo per la sessione acustica. Al sicuro dietro le quinte, la prima cosa che faccio è attaccarmi ad una gigantesca bottiglia d'acqua, mentre Emma mi lancia sulla spalla un asciugamano. «Bravi, ragazzi, state andando molto bene.»
    «Grazie» rispondo dopo aver bevuto almeno un litro d'acqua. Prendo l'asciugamano e mi tampono viso e capelli, madidi di sudore, poi mi volto a guardarla. «Che te ne pare?»
    «Se te l'ho appena detto... state andando benissimo! Cos'è, inizi a diventare paranoico come tuo fratello?»
    «Che te ne pare di Daria, intendevo.»
    «Ah, parlavi di lei. Beh, devo ammettere che mi piace. Avevi ragione, è una ragazza molto semplice. Nessuna... aria di superiorità, nessuna smania di apparire. Essere qui le sembra il più bel regalo del mondo. Devo ammettere che hai scelto molto bene.»
    «Non l'ho scelta. Ho soltanto avuto molta fortuna.»
    «Ah, allora le vostre fan hanno ragione quando dicono che hai un gran culo...» mi prende in giro, mentre sul palco Jared esegue i suoi pezzi, interagendo con il pubblico in un modo che nessuno sarebbe in grado di replicare, nemmeno prendendo lezioni direttamente da lui. Ci vuole un talento innato per certe cose, e lui ha avuto la fortuna di nascerci, così. «Ci è proprio nato, eh? Per il palcoscenico, dico.»
    «Tutti siamo programmati per fare qualcosa. Lui è nato per fare lo showman, e tu sei nato per suonare la batteria.»
    «E tu per cosa sei nata?» le domando, guardandola sfilarsi gli occhiali per pulirli.
    «Io? Io sono nata per impazzire dietro alle richieste di tuo fratello e per fare da cicerone alle tue ragazze, no?» Sorride, rimettendosi gli occhiali. «Non perdere la concentrazione, mi raccomando. Ti ucciderebbe, se dovessi sbagliare un attacco.»
    Sul finire di Stay, l'ultimo pezzo del suo grande momento da solista, Tomo e io ci riportiamo sul palco, scambiandoci un'occhiata divertita per alcuni dei comportamenti di mio fratello, che a volte dimostra di essere un vero mattatore – o un perfetto idiota, ancora non ho deciso. Riprendo posto dietro Christine, e ancora cerco lo sguardo di Daria, che alza un pollice per indicare il suo gradimento dello spettacolo e poi mi manda un bacio. L'eco dell'ultima canzone si spegne, e improvvisamente Jared fa una cosa che non ha mai fatto prima d'ora: chiede al pubblico di fare silenzio.
    «C'è una cosa che vorrei dire, prima di continuare con lo spettacolo» dice, sorprendendo tutti, me e Tomo compresi. «So che siete qui per la musica, non per sentirmi blaterare all'infinito, ma... è una cosa veramente importante per me, e spero che possa esserlo anche per voi. In fondo, essere Echelon significa far parte di una famiglia, e tutti sappiamo quanto sia importante in una famiglia partecipare alle vite degli altri.» Un applauso collettivo si mangia le ultime due parole, chiaro segno che il pubblico apprezza quello che ha appena sentito, e che desidera sentirlo continuare. «Nell'ultimo mese sono successe alcune cose nella nostra vita, cose molto importanti e molto belle. Anche se non sembra, noi siamo esattamente come voi: abbiamo delle famiglie, abbiamo degli amici, prendiamo decisioni e siamo coinvolti da quello che ci succede attorno. Quello che mi è successo è che... beh, quello che mi è successo di recente è che una persona nuova è entrata nella mia vita.» Nel sentire quella frase, mi raggelo all'istante, perché non riesco a capire di che cosa stia parlando. «O meglio, una persona nuova è entrata nella vita di qualcuno che mi è molto vicino, di qualcuno per cui darei la vita.» Mi volto brevemente verso Daria, che sta guardando Jared, e subito dopo guardo di nuovo verso di lui, intuendo quello che ha intenzione di comunicare. «Si tratta di una persona molto speciale, una persona che in un certo senso mi ha fatto arrivare alla conclusione che noi siamo esattamente come voi, e che come voi abbiamo bisogno principalmente di saperci amati.» D'istinto torno a guardare verso Daria, che si è coperta la bocca con una mano e ha tutta l'aria di una che sta per scoppiare in lacrime. «Si tratta di una persona che come voi ha una vita normale, un lavoro normale, degli amici normali, ma che come ognuno di voi è diversa, e speciale. Io vorrei... ecco, vorrei semplicemente dedicare la prossima canzone a questa persona, che come voi sta soltanto cercando l'amore.» Lo sto ancora fissando con la bocca spalancata quando si volta e mi strizza l'occhio, facendoci un cenno per invitarci ad iniziare con Bright lights. Quello che ha appena detto suona come una vera e propria benedizione nei confronti di me e Daria, e allo stesso tempo come un ringraziamento per essere entrata nella mia vita, sconvolgendoci entrambi. Non mi volto a guardarla, perché so che non riuscirei a concentrarmi allo stesso modo. Inizio a suonare, battendo sui tamburi con un'energia nuova: sapere che mio fratello ha appena gridato al mondo che è contento di vedermi felice e appagato mi gonfia il cuore di gioia e di una tenerezza mai provata prima, e la sola cosa che vorrei fare è lasciar cadere le bacchette, correre ad abbracciarlo e stringerlo fino a togliergli il fiato.

    È fatta, ora tutto il mondo lo sa – perché anche se non ha fatto nomi, gli Echelon non ci metteranno molto a fare due più due. Lo sanno tutti che Shannon è la persona più importante per Jared, esclusa sua madre, e dunque quanto tempo potrà volerci prima che tutti inizino a chiedersi chi sia la ragazza che ha rubato il cuore del loro batterista preferito? Probabilmente dovrei sentirmi sconvolta e spaventata, e in effetti è anche così che mi sento, ma... non lo so, in un certo senso è come se fossi grata a Jared per la sua dichiarazione, per aver detto a tutto il mondo che è felice di saperci insieme, anche se nessuno di noi ha la minima idea di quello che succederà. Non riesco a staccare gli occhi da Shannon, che sta suonando come se da questa canzone dipendesse il suo destino, e quando Jared canta l'ennesimo 'She dreams of love' capisco che qui potrei avere tutto quello che ho sempre sognato.



*



Parigi, 27 novembre 2013


    Esaurite le canzoni, esauriti i saluti al pubblico, termina la lunga serata iniziata già quel mattino. Jared scende dal palco e raccoglie i complimenti di tutti quelli che incontra, colpiti dalla sua capacità di intrattenitore e cantante, e anche sorpresi da quel suo discorso così sentito e profondo. Si sente toccare una spalla, alza lo sguardo e trova suo fratello, che lo guarda in un modo che non riesce a decifrare. «Sei arrabbiato?» gli domanda.
    «No» sussurra Shannon, scuotendo la testa. «Sono sorpreso, e sconvolto, e stupito, e un milione di altre cose, ma... arrabbiato no. Mi hai appena dato il permesso di essere felice, come posso essere arrabbiato?» aggiunge con un sorriso.
    «Scusa la teatralità, ma... avevo bisogno di dirlo davanti a tutti, per convincermene sul serio.»
    «Sono contento che tu lo abbia fatto.»
    Jared sta per rispondere, ma una sequenza di «Permesso» e «Scusate» li distrae entrambi. A dribblare i tecnici è Daria, che una volta incontrati i fratelli si blocca, come pietrificata. «Io... io...» tentenna, senza sapere bene cosa dire né a chi dei due rivolgere lo sguardo. Alla fine, completamente persa e confusa, fa la cosa che le sembra più logica: abbraccia Jared con tutta la forza che ha in corpo, mormorando un «Grazie» quasi impalpabile.
    Completamente colto alla sprovvista, l'uomo si limita a darle un paio di pacche sulla schiena e a ringraziarla di rimando, convinto che se osasse restituire l'abbraccio Shannon potrebbe amputargli entrambe le braccia, e forse qualche altra appendice. Quando lei lo lascia andare, le sorride e la sospinge con dolcezza verso suo fratello. «Andate a festeggiare. Ce lo meritiamo, siamo stati bravissimi.»
    Rimasti soli, Shannon e Daria si scambiano una lunga occhiata, cercando le parole giuste, salvo poi capire che in certi momenti le parole sono completamente inutili. Si lasciano andare ad un lungo bacio appassionato, incuranti di tutto quello che li circonda. «Andiamo. Prendo le mie cose e torniamo in albergo.»
    «Avete finito davvero? Te ne puoi andare così?»
    «Naturale che posso. Tu ed io abbiamo una questione in sospeso, ricordi?»



1Sei l'ultima grande innocente, ed è per questo che ti amo. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Mary Jane di Alanis Morissette, contenuta nell'album Jagged Little Pill, pubblicato nel 1995, e ancora considerato, a distanza di vent'anni, il miglior lavoro dell'artista.
2Sua sorella | La sorella maggiore di Tomo, Ivana Milicevic (Sarajevo, 26/04/1974) è una modella e attrice che ha partecipato a molte produzioni cinematografiche e televisive (Top model per caso, Love actually, Se solo fosse vero, Casino Royale, In her shoes, Ugly Betty); naturalmente non la conosco personalmente, dunque non so nulla della sua personalità: tutto ciò che viene descritto è dunque da considerarsi una mia pura invenzione.
3La toilette | La toilette è un dipinto di Henri de Toulouse-Lautrec, realizzato nel 1869 in una stanza di una delle case d'appuntamenti che il pittore amava frequentare. Si tratta di un olio su cartone, dimensioni 67 x 54 centimetri, conservato al Museo d'Orsay assieme a molte altre opere dell'artista.
4Chiuso nel mio camerino […] sulla parete | Non conoscendo Shannon, non so quale sia il metodo che usa per trovare la concentrazione prima di un concerto, dunque ho optato per la soluzione che ci viene mostrata nel video di From Yesterday, che tra l'altro considero uno dei video più belli mai realizzati per una canzone dei Mars. Anallogamente, non so nemmeno in quale modo si preparino Jared e Tomo, dunque anche nel loro caso ho spudoratamente inventato.
5Ghost | Il film cui faccio riferimento è Ghost – Fantasma (1990, diretto da Jerry Zucker e interpretato da Patrick Swayze, Demi Moore e Whoopi Goldberg). È considerato uno dei film romantici più famosi del mondo, alla stregua di Titanic e Dirty Dancing, dunque penso che ne abbiate sentito parlare, se non addirittura che lo abbiate visto. In questo caso, certamente sapete a quale scena mi riferisco (ma nel dubbio, vi lascio il link). Personalmente, ritengo che si tratti di una delle scene più sensuali che abbia mai visto in un lungometraggio (ma probabilmente dipende dalla inestinguibile cotta che ho sempre avuto per Patrick Swayze – Dio, che uomo stupendo era...).
6Significa che ti sto dando la chiave di tutto quello che è mio. | Per quanto mi piacerebbe da morire attribuirmi la paternità di questa frase, devo confessare che non è mia. Si tratta di una battuta pronunciata da Sam 'Asso' Rothstein (interpretato da Robert DeNiro) nel film Casinò (1995, diretto da Martin Scorsese, e interpretato, oltre che da DeNiro, anche da Joe Pesci e Sharon Stone).

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Capitolo 21
*** 21 | E ipotizzo di non averti mai conosciuto, ipotizzo che non ci siamo mai innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così dolcemente e teneramente. ***


Portagioie di tristezza | 1
Ad una delle mie migliori amiche piace definirmi 'crudele', e dice che sarei un ottimo serial killer – questo perché, secondo lei, sono bravissima ad uccidere senza alcuna pietà le aspettative e i sogni della gente. Se questo si rivelasse vero, allora potrei avere un futuro come giudice nei talent show. In realtà, io credo che la mia carriera di serial killer avrebbe breve futuro, perché appena compiuto l'atto me ne pento, e sento l'irresistibile desiderio di confessare. Perdonate la digressione, ma sento che mi è necessaria per arrivare al nocciolo della questione: il punto è che quando ho scritto l'introduzione al precedente capitolo, sapevo già che questo capitolo, il ventunesimo, sarebbe stato l'ultimo. So che con questa confessione probabilmente mi starò alienando le simpatie e il favore di mezzo mondo, ma era qualcosa che non potevo più tenere nascosto.
Tengo moltissimo a ringraziare le persone che hanno recensito fino a questo punto, le persone che, in modi o tempi diversi, sono state accanto a Shannon e Daria in questo percorso, e soprattutto le persone che sono rimaste al mio fianco in questo viaggio. Un sincero grazie a tutti coloro che hanno classificato la storia come 'preferita' o 'da ricordare', e un grazie anche a tutti coloro che hanno seguito in silenzio, senza dare pareri o giudizi, perché in fondo già il fatto che abbiate letto le mie parole è per me un traguardo.
Spero che questo capitolo vi soddisfi, e più di tutto spero di poter contare sul vostro sostegno anche in ogni progetto futuro – perché sì, di progetti ne ho a bizzeffe. Non vi libererete tanto presto di me.
Con infinita gratitudine,
EffieSamadhi





Portagioie di tristezza





Capitolo ventunesimo
E ipotizzo di non averti mai conosciuto,
ipotizzo che non ci siamo mai innamorati,
ipotizzo di non averti mai permesso
di baciarmi così dolcemente e teneramente.1


Parigi, 27 novembre 2013

    Per tutto il viaggio di ritorno verso l'albergo nessuno dei due dice una parola. Il braccio di Shannon mi cinge teneramente le spalle, la mia testa riposa sul suo petto, e il silenzio è così perfetto che non ci serve altro. Respiro a fondo il suo odore, che è lo stesso della sera che ci siamo incontrati: sento il sudore, sì, ma riesco a sentire anche tutto il resto – l'aroma del caffè che tracanna come fosse acqua, lo zenzero contenuto nel suo shampoo, e contemporaneamente riesco a sentire anche gli odori che caratterizzano me, l'aroma del mio shampoo, una traccia del profumo che ho messo prima di uscire. È come se condividere questi ultimi due giorni ci avesse unito, facendoci diventare una sola persona, e mi chiedo se sia una cosa che succede ad ogni coppia, o se siamo noi gli unici fortunati. Mi tornano in mente i primi versi di She's the one di Robbie Williams: I was her, she was me, we were one, we were free. Sarebbe tutto così semplice, se potessimo mantenere le cose in questo stato – se potessimo restare per sempre sospesi in questa settimana, per sempre sospesi in questo attimo di eterno che sembra così... perfetto.
    L'auto si ferma davanti all'hotel e scendiamo, ringraziando Sébastien per la cortesia; mentre richiudo lo sportello colgo il suo sorriso e lo ricambio, comprendendo che mi sta augurando tutta la fortuna del mondo – perché lo so, so che in qualche modo ha intuito i miei dubbi, e so che con quel breve sorriso mi sta dicendo di non preoccuparmi, perché tutto si sistemerà. Ma forse è proprio questo il mio problema: io non so stare tranquilla in un angolo ad aspettare che il destino sistemi ogni cosa, forse perché niente nella mia vita si è mai aggiustato da sé – andiamo, lo sanno tutti che niente si aggiusta mai da sé.
    Ritiriamo la chiave e saliamo in ascensore sempre senza dire una parola, e senza mutare le nostre posizioni. È solo quando arriviamo in camera, come è già successo, che la situazione si scioglie – è come se entrambi ci sentissimo completamente al sicuro soltanto quando siamo completamente soli, certi che quell'istante sia solo nostro, sicuri che quel momento appartenga soltanto a noi. Shannon chiude la porta e in un attimo è davanti a me, sopra di me, intorno a me – me ne sto premuta tra il suo torace e la porta, e per la prima volta nella vita la sensazione di sentirmi in trappola non solo mi piace, ma mi sembra anche l'unica possibilità di salvezza. Le sue labbra cercano le mie con foga, proprio come se stessero tentando di divorarmi, e le sue mani non perdono tempo: cercano i bottoni del cappotto alla cieca, trovandoli senza difficoltà, e prima di rendermene conto la giacca cade a terra, seguita dalla sua sciarpa e dal suo berretto. Improvvisamente mi sento come se non avessi freni, come se non fossi mai stata una timida ragazzina che sogna l'amore e lo cerca nei posti sbagliati – in questo momento mi sento una donna adulta, mi sento cresciuta come non lo sono mai stata, come se in quest'ultimo mese avessi percorso tutte le strade che una donna deve percorrere prima di essere ritenuta tale2.
    All'improvviso, Shannon si ferma. Le sue mani sono ancora sui miei fianchi, la sua bocca è ancora a pochi millimetri dalla mia, ma nessuno dei due si muove né dice una parola. Apro gli occhi e trovo il suo sguardo fisso sul mio volto, esattamente come la prima volta che siamo stati insieme – solo che questa volta non sono io ad avere paura, ma lui. Glielo leggo chiaramente negli occhi: è come se improvvisamente fossi io quella forte, e lui il ragazzino confuso. «Va tutto bene?» sussurro, accarezzandogli il viso. Sono le prime parole che diciamo dopo un lunghissimo silenzio, forse il più lungo che ci siamo mai concessi.
    «Va tutto bene» risponde, accennando un sorriso. «Stavo solo... stavo solo immagazzinando i ricordi. Sai, per quando... per quando sarò solo. Voglio ricordarmi tutto. Voglio ricordarmi tutto» ripete, ricominciando a baciarmi. Le nostre mani ricominciano le loro esplorazioni, superando confini e barriere che ormai conosciamo a memoria: mentre gli sbottono la camicia, mi rendo conto di conoscere il suo corpo quasi meglio di quanto conosca il mio – e poi le sue dita si infilano sotto il mio maglioncino, e ogni pensiero si perde nel calore del suo palmo premuto contro il mio seno, proprio all'altezza del cuore. Lo aiuto a spogliarmi, e per un altro lunghissimo istante rimaniamo immobili a fissarci. Quando riprendiamo a toccarci, lo facciamo di nuovo senza un fiato, limitandoci a godere delle sensazioni di cui riusciamo a farci dono. Quasi senza che me ne accorga, mi solleva tra le braccia e mi porta sul letto, senza smettere di sovrastarmi. Lo aiuto a togliersi la camicia, poi lo attiro ancora su di me. Con le mani cerco il suo collo, e di lì faccio risalire le dita tra i suoi capelli, approfittando di quel gesto per sfiorare la triad che ha disegnata dietro l'orecchio. A quel contatto sospira profondamente, facendomi intuire la sua piena soddisfazione; le sue labbra lasciano le mie per scendere di nuovo sul mio seno, e a quel punto approfitto della posizione delle mie mani per trattenerlo il più a lungo possibile contro di me. Scende ancora, torturandomi lentamente, e con pochi, misurati gesti mi sfila i jeans, con la stessa naturalezza con cui si siede su quel suo seggiolino e inizia a percuotere i tamburi. Risale il mio corpo in una lenta carezza, soltanto sfiorandomi – mi sfiora con la punta delle dita, mi sfiora con il naso, mi sfiora con le labbra socchiuse e con il suo respiro caldo –, come se mi stesse soltanto assaggiando, come si fa con un piatto mai provato prima. Mi piace questo suo indugiare su di me, quasi stesse raccogliendo il coraggio necessario per toccarmi davvero.
    Finalmente la sua bocca si posa sul mio ombelico, baciandolo languidamente. Le sue mani mi convincono ad inarcare la schiena, permettendogli di sfilarmi il reggiseno. Approfitto della sua guardia abbassata per spingerlo via, capovolgere le posizioni e mettermi a cavalcioni su di lui. Con le mani indugio per un po' nei dintorni della sua cintura, come se fossi indecisa sul da farsi. Mi mordicchio il labbro, giocando a fare l'insicura, mentre in realtà so perfettamente quali saranno le mie prossime mosse. Abbasso lenta la zip, lasciando che le mie dita scivolino in avanti quasi con timidezza; quando finalmente stringo la sua erezione, per reazione Shannon serra le mani sui miei glutei, spingendomi verso di lui. «Se la tua missione è quella di farmi impazzire, sappi che ci stai riuscendo benissimo» sussurra, senza staccare gli occhi dai miei.
    «Volevi dei bei ricordi, no?» rispondo, scivolando piano lungo le sue gambe. Senza dire altro mi abbasso su di lui, lasciando che le mie labbra si impegnino in tutt'altro tipo di conversazione. La sua testa si rovescia all'indietro, il respiro si fa più accelerato e pesante, e quando la sua mano mi afferra i capelli, assecondando i miei movimenti, capisco che è qualcosa di cui si ricorderà.


    Sembrano passare secoli, prima che ritrovi la forza di farle alzare la testa. «Vieni qui» sussurro, mettendomi a sedere mentre la attiro verso di me. La bacio a lungo, tenendole il viso tra le mani come per impedirle di fuggire. Appena la sento abbassare le difese e allacciarmi le braccia al collo ho di nuovo la meglio su di lei, e torno a prendermi la posizione di comando che tanto mi si addice. Percorro di nuovo il suo corpo in un'unica, lentissima carezza, dal collo fino al ventre, mentre le sue unghie giocano a seguire il profilo dei muscoli della mia schiena e delle spalle. Quando inizio a concederle tutte le attenzioni che merita, improvvisamente il silenzio pare spezzarsi: questa volta, a differenza di tutte le altre, non tenta nemmeno per un secondo di zittirsi, di reprimere i gemiti, di mantenere un respiro regolare... è come se questa volta fosse finalmente pronta per lasciarsi andare. I nostri sguardi si incrociano per un attimo, e sento che tutto quello di cui ho bisogno per essere felice è qui, in questa stanza.
    Mi sollevo appena, facendomi scivolare via dalle gambe i jeans e la biancheria, poi torno a stendermi su di lei, vincendola con il mio peso. Restiamo immobili a sfiorarci per qualche minuto, poi sento la sua mano farsi strada verso il mio inguine. Comprendendo quale richiesta si celi dietro quel gesto, mi scosto appena. «Aspetta» le sussurro, «devo andare a...»
    «Mi fido di te» mi interrompe, senza alzare il tono della voce oltre il fruscio del vento. «Io mi fido di te» ripete, calcando il tono. La guardo negli occhi e capisco dove vuole arrivare: sta dicendo che si fida di me completamente – sa che da quando l'ho conosciuta sono diventato monogamo, sa di essere l'unica persona della mia vita, e soprattutto sa che non la metterò nei guai. Ma soprattutto, sa che anche io mi fido di lei: con qualunque altra ragazza prenderei precauzioni, a prescindere dal suo grado di fiducia in me, ma con lei... con lei mi sento al sicuro. So che lei non mi tradirà, so che lei non mi ferirà, so che lei non mi trascinerà mai a fondo.



*



Parigi, 27 novembre 2013

    «E tu che ci fai ancora qui?»
    Seduto al centro del proprio camerino, con la chitarra in grembo e una matita stretta tra i denti, Jared alza gli occhi su Emma. «Che cosa ci fai tu ancora qui, piuttosto. Pensavo di averti dato il resto della serata libero.»
    «Sì, ma lo sai che da quando lavoro per te sono diventata paranoica. Alle due di notte sono passata alla reception per controllare che ci foste tutti, e la tua chiave era ancora lì appesa. Mi sono preoccupata, sai?» aggiunge, prendendo una sedia pieghevole e aprendola proprio davanti a lui. «Che stai facendo?»
    «Provavo una cosa. Una cosa nuova» specifica, e a quella parola Emma spalanca gli occhi, quasi incredula: mai una volta nella vita Jared ha fatto accenno ad una nuova canzone prima che fosse completa. «Vuoi sentirla?» Quella domanda spiazza Emma ancora di più, perché se già è strano sentirlo parlare di una nuova canzone, sentirsi proporre di sentirla in anteprima è ancora più bizzarro.
    «Chi sei tu, e che cosa ne hai fatto di Jared Leto?»
    «Lo so, non è da me.»
    «No, per niente.»
    «Penso... credo di doverla far sentire a qualcuno, oppure rischio di esplodere.»
    «Avete ancora davanti un sacco di mesi di tour. Meglio evitare la dipartita del frontman, che dici?»
    «Quindi la vuoi sentire?»
    «Tu che dici?»
    «Non è ancora completa, quindi non fare caso a...»
    «Jared, suona» lo interrompe lei. «Se vuoi suonare, suona e basta.» Stranamente ubbidiente, Jared posa la matita e imbraccia meglio la chitarra, scaldandosi con un paio di accordi. Un'ultima occhiata alla ragazza che gli sta di fronte, poi inizia a suonare. Seduta davanti a lui con le braccia conserte, Emma si rende conto sin dal primo istante che quello che sta ascoltando in anteprima è probabilmente uno dei pezzi più belli che abbia mai sentito, e che lanciato come singolo scalerebbe le classifiche nel tempo di uno starnuto. Ignora le imprecisioni e le incertezze, ascolta e basta, senza dire nulla, senza lasciar trapelare alcuna emozione, e l'unica cosa che le passa per la testa è che Jared non ha mai scritto una canzone per una ragazza. Eppure, si rende conto continuando ad ascoltare, nonostante sia un pezzo dedicato ad una persona in particolare, non è una canzone d'amore: è una celebrazione, un canto di ringraziamento, probabilmente il solo modo che gli sia venuto in mente per ringraziare il cielo, Dio o chissà chi altro per aver messo Daria sulla strada di Shannon – che poi, come in milioni di altri casi, coincide con la sua.



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Parigi, 27 novembre 2013

    «Penserai che sia un cliché dei più abusati, ma... è stato meraviglioso» sussurro prima di premere le labbra contro il suo sterno. «Non so quali altre parole usare, mi dispiace.»
    «Non ti devi dispiacere» sussurra a sua volta, prendendomi il volto tra le mani per costringermi a guardarla. «Anche per me è stato meraviglioso.» Solleva appena la testa dal cuscino e mi bacia, trattenendo le labbra contro le mie per qualche secondo. «Così... è questo che fai dopo ogni concerto, di solito?» mi prende in giro.
    «Non è mai... così. Non è mai stato così. Tanto per cominciare, raramente sono nella mia stanza.»
    «Di solito ti apparti nel tuo camerino?» insiste, continuando a sorridere.
    «Di solito andiamo da lei.»
    «Oh... sei un amante a domicilio, quindi?»
    Scoppio a ridere, accarezzandole i capelli. «Così è più semplice» spiego. «Insomma, così quando sei stanco te ne vai. Non c'è... l'imbarazzo di dover cacciare via la ragazza.» Dai capelli scendo al viso, seguendo con un dito il profilo della guancia. «Ma immagino sia un problema che non mi riguarda più.»
    «Parla per te. D'ora in poi ogni volta che non saremo insieme penserò che sei a casa di qualche ragazza sconosciuta a spassartela.»
    «Non potrei mai, lo sai» replico, veramente convinto di quello che sto dicendo.
    «Sì, lo so» risponde, tenendo la voce bassa e gli occhi fissi nei miei. «E comunque potrei sempre domandare ad Emma di tenerti d'occhio. Ha l'aria di essere un bel mastino.»
    «Oh, lo è. Ma non avrai bisogno di farmi seguire da nessuno. Non farò che pensare a te.»



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Parigi, 27 novembre 2013

    «Jared, io... io non so che dire. È semplicemente... è stupenda, ecco. Vorrei trovare parole meno banali, ma... non ci riesco.»
    «Beh, non è finita. Quindi non puoi dare un giudizio vero.»
    «Sfido chiunque a dire che non sia bella, anche non finita. Tu... tu l'hai scritta per lei, vero?»
    Jared gonfia le guance come un bambino indeciso, pensando alla risposta più opportuna. «Sì, ma... non è solo per lei. È anche per lui. Insomma, per... per celebrare il loro incontro. So che probabilmente sembra una cosa idiota e senza senso, ma... quello che stanno vivendo è importante. Nessuno dei due ha mai vissuto un'esperienza così, e... e io mi sento fiero di farne parte, in qualche modo.»
    «Non sembra una cosa idiota e senza senso, Jay.» L'ombra di un sorriso gli increspa le labbra, perché Emma non l'ha mai chiamato Jay, ma sempre e solo Jared, oppure smisurato rompicoglioni – e l'improvviso uso di quel nomignolo affettuoso, quello che di solito usano soltanto Shannon e Constance, gli fa capire che è riuscito a dire quello che aveva paura di non riuscire a comunicare. «Quello che hai fatto è... è una cosa molto bella. Sono sicura che Shannon lo apprezzerà, quando lo scoprirà. E così farà Daria.»
    «Non glielo dire, per favore. Insomma, vorrei... vorrei restasse un segreto, per adesso. Voglio dirglielo, ma soltanto quando sarà finita.»
    «Ho le labbra cucite» gli sorride lei. «Va bene, adesso me ne torno in albergo a dormire. E dovresti andarci anche tu. Domani alle tre hai quell'intervista per Vogue France. Non voglio che debbano usare un chilo di correttore per eliminare le occhiaie.»
    «Va bene, mamma. Finisco di sistemare due cose e me ne vado.»
    «Ho il taxi fuori. Ti aspetto?»
    «No, vai tranquilla. Non farò tardi, lo giuro.»



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Parigi, 27 novembre 2013

    Facciamo l'amore ancora due volte, nutrendoci l'uno dell'altra come un albero si nutre della luce del sole. Come sempre, ogni volta ci comportiamo come se fosse la prima e insieme anche l'ultima, assaporando ogni carezza e ogni bacio come se ogni minimo contatto dovesse bastarci per l'eternità. Alla fine, troppo stanchi persino per parlare, ci stendiamo uno accanto all'altra, in assoluto silenzio. Davanti ai miei occhi vedo l'isola bianca della sua schiena, liscia e perfetta come nessuna delle cose che abbiano mai attraversato la mia vita. Con la punta dell'indice percorro i quattro simboli che porta tatuati sulla schiena, che mai come in questo momento mi sembrano un atto di fede, una promessa d'amore non soltanto nei confronti della band e della nostra musica, ma anche nei miei. Ripeto quel gesto non so quante volte, finché non sento il suo respiro mutare e farsi regolare, sommesso, segno che sta dormendo – e anche dopo quel momento continuo a ripeterlo, finché non sono i miei occhi a chiudersi.



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Parigi, 28 novembre 2013

    Senza nemmeno aprire gli occhi, allungo un braccio verso l'altra metà del letto – ma quando per ben due volte le mie dita stringono il vuoto, le palpebre si sollevano con uno scatto. Impiego qualche secondo per abituarmi alla luce del sole già alto, mentre mi metto a sedere con una rapidità che non avevo mai sperimentato prima d'ora. La parte razionale del mio cervello, già eccezionalmente attiva, mi induce a pensare che Daria sia in bagno, oppure che sia scesa a fare colazione, ma l'altra parte di me – quella istintiva e passionale, quella a cui di solito do ascolto, quella che in genere non mi delude mai – pensa subito al peggio. Balzo in piedi e mi infilo i jeans, ignorando la biancheria, e mentre li allaccio mi guardo intorno, scoprendo con orrore che ogni traccia di lei è scomparsa dalla camera – come se in questi ultimi due giorni queste pareti avessero protetto soltanto me. Improvvisamente il cuore accelera i battiti, il respiro sembra mancare, e tutto ciò che riesco a fare è aprire l'armadio, frugare tra i cassetti, controllare il bagno... ma niente, di lei non è rimasto nulla – niente vestiti nell'armadio, niente spazzolino accanto al lavandino, niente scarpe allineate dietro la porta. Tutto ciò che resta è una traccia del suo profumo nell'aria, così flebile che ad ogni respiro temo di distruggerla. È allora che noto, appoggiato sul mio comodino, il mio libro – quello che le ho consegnato al termine di quel magico pomeriggio a Torino, quello che ero sicuro avrebbe custodito per sempre con la massima cura. Mentre lo prendo la mano mi trema, trema come non è successo nemmeno la prima volta che ho suonato davanti ad un pubblico immenso, e trema anche quando lo apro un po' prima della metà, nel punto in cui sono incastrati due fogli piegati. Guardo la pagina e vedo una sottolineatura a matita, così leggera da sembrare quasi invisibile. «Le lacrime del mondo sono immutabili» leggo con un filo di voce. «Non appena qualcuno si mette a piangere un altro, chi sa dove, smette.3» Muovo qualche passo per la stanza, indeciso sulla direzione da prendere, e alla fine mi lascio scivolare a terra, la schiena appoggiata contro il letto disfatto, mentre spiego i due fogli fitti di parole e mi preparo a leggere l'addio di Daria.



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Torino, 28 novembre 2013

    Quando il cellulare squilla e sul display compare il numero di Daria, il primo pensiero di Alice è che l'amica voglia parlare di quanto è successo il giorno prima con Francesca. Per questo non è assolutamente preparata alla domanda che si sente rivolgere. «Sono a Grenoble. Tra quattro ore dovrei arrivare a Torino. Mi verresti a prendere in stazione?»



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Parigi, 28 novembre 2013

    Shannon e Daria non si sono visti né a colazione né a pranzo, e per quanto l'istinto gli suggerisca che stiano sfruttando il tempo a loro disposizione nel modo loro più conveniente, Jared non resiste all'impulso di andare a bussare per verificare che sia tutto a posto. Bussa una volta e non riceve risposta. Aspetta trenta secondi e bussa di nuovo. Quando dall'interno sente un flebile «Chi è?» si identifica, aspettandosi di essere mandato al diavolo. Invece, incredibilmente, sente dire: «Entra».
    Jared apre la porta con un po' di timore, pur sapendo che non avrebbe avuto il permesso di entrare se ci fosse stato il pericolo di incappare in una situazione scomoda. La scena che si trova davanti, però, lo destabilizza più di quanto non sarebbe successo se avesse trovato la coppia nuda: Shannon è seduto a terra, con le mani infilate tra i capelli scarmigliati e gli occhi rossi e gonfi di chi abbia appena finito di piangere. Non ha mai visto Shannon piangere, e sinceramente non si sarebbe mai aspettato di vederlo accadere. Si guarda attorno, sperando che Daria possa dargli una spiegazione, ma la stanza è vuota – completamente vuota, fatta eccezione per le cose di Shannon, e per il libro e i fogli appoggiati davanti ai suoi piedi nudi. «Che succede?» domanda, pur se in cuor suo intuisce già la risposta.
    «Se n'è andata» sussurra suo fratello, con una voce tanto flebile che sembra davvero provenire da Marte. «Stanotte, mentre dormivo, lei... lei ha preso le sue cose e se n'è andata.»
    «Ma... ma come... perché?»
    Shannon distoglie lo sguardo, ancora troppo frastornato per parlare. Tutto ciò che può fare è porgergli la lettera, sperando che Jared capisca da sé.



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Torino, 28 novembre 2013

    Mentre le va incontro quasi di corsa sulla banchina della stazione, Alice sente di non aver bisogno di fare domande – che sia accaduto qualcosa di terribile è chiaro, maledettamente chiaro. Abbraccia Daria con tutta la forza che ha in corpo, lasciando che le lacrime dell'amica le inzuppino la sciarpa, e sperando che nel suo abbraccio i suoi singhiozzi trovino finalmente un porto sicuro. Le accarezza la testa con dolcezza, sussurrandole di non avere paura, perché andrà tutto bene, anche se per la prima volta in vita sua non è sicura che andrà così. Se la tiene stretta come farebbe una madre, se la tiene stretta nel brusio della stazione affollata, e sente che le cose non saranno mai più come prima.



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Parigi, 28 novembre 2013

    Jared si è lasciato scivolare a terra, alla destra di Shannon, e per la seconda volta legge la lettera di Daria, senza riuscire a convincersi che si tratti della realtà. Quella grafia tonda e ordinata lo ipnotizza, catturando i suoi occhi come una fiamma attira la falena, e nel contempo quelle parole lo feriscono come una spada affilata, riducendo in piccoli frammenti sanguinanti anche il suo cuore.

Caro Shannon,

se stai leggendo questa lettera significa che sei sveglio, e che il primo pensiero della giornata lo hai rivolto a me. Questo mi lusinga, ma allo stesso tempo mi ferisce, perché avrei voluto condividere quell'istante con te, e godere della magnifica sensazione del tuo sguardo su di me, delle tue mani che mi accarezzano il viso, e delle tue labbra che infine sfiorano le mie.

Mi hai fatta sentire amata, forse per la prima volta nella mia vita, e questo è qualcosa che non può essere cancellato. Quando ci siamo incontrati ero sola, smarrita, ferita dal tempo e dalla vita, e contro ogni previsione tu sei riuscito a farmi provare di nuovo tutte quelle sensazioni che credevo perse per sempre: mi hai dato la speranza, mi hai dato l'allegria, mi hai dato la felicità che scaturisce dal sapere che al mondo esiste almeno una persona che vive e respira per te, e questo è qualcosa che ricorderò per sempre, e per cui ti sarò sempre grata.

Quando ti ho incontrato ho capito dal primo istante che saresti stato importante, ma non avevo previsto che mi saresti arrivato sotto la pelle fino a questo punto, fino a toccarmi l'anima, fino ad intossicarmi il cuore. Ti ho mostrato la parte più nascosta di me, quella che pochi hanno avuto il privilegio (o la disgrazia) di vedere, e l'ho fatto perché mi sono fidata di te... e ti ho spiegato quanto sia difficile per me fidarmi del prossimo. A te mi sono mostrata completamente nuda, senza difese, e a te ho concesso la libertà di fare di me ciò che più ti aggradava.

E tu mi hai fatta innamorare.

No, di più: tu hai fatto sì che io ti amassi, che ti amassi e che avessi bisogno di te così come non era mai successo prima, e forse per questo dovrei odiarti.

Ti amo, non l'ho detto mai a nessuno prima di te – e forse, chissà, ci vorranno altri ventitré anni prima che trovi il coraggio di dirlo di nuovo. Basta un filo di voce per dirlo, ma quanto tempo occorre per trovarne la forza?

Mi piace pensare di non essere stata la sola a dare tutta se stessa in questa nostra storia: credo – anzi, ne sono convinta – che tu ti sia aperto quanto me, che tu ti sia mostrato più di quanto abbia mai fatto nella vita, e questa consapevolezza (o convinzione, chiamala come vuoi) mi ferisce ancora di più, considerando che sto facendo le valigie e ti sto lasciando. Forse ti sembrerà impossibile e anche un po' egoista da parte mia dire così, ma ti assicuro che in questo momento sto soffrendo molto più di te – perché sì, anche quello che lascia può soffrire, e a volte anche più intensamente di chi viene lasciato.

Mi hai regalato un mese meraviglioso, un tempo che non potrà essere cancellato né sostituito, ricordi che mi resteranno per sempre, e per i quali ti sarò per sempre immensamente grata... ma sappiamo entrambi che non è questo il destino che ci attende. Potremmo continuare a fingere per un altro mese, forse due, forse sei, forse mille, ma alla fine è con questo che ci troveremmo a fare i conti – e per quanto mi ferisca, per quanto ti ferisca, chiuderla qui è l'unica soluzione possibile. Non occorre che te ne spieghi i motivi, non occorre che sprechi tempo e spazio per dire quello che entrambi sappiamo, e che forse in questo mese abbiamo tenuto nascosto a noi stessi. In questo momento probabilmente ti senti ferito, ingannato, tradito e arrabbiato con il mondo e soprattutto con me, ma sono certa che tra poco inizierai a riflettere sulle mie parole, e capirai che è meglio finirla qui, prima che entrambi finiamo con il farci del male.

Sei stato importante, Shannon, e mi hai fatta sentire amata per la prima volta in vita – l'ho già detto, vero? Lo so, ma non mi importa. Non fa mai male ripetere la verità.

Ti chiedo soltanto una cosa, e spero che riuscirai ad obbedire, in nome del sentimento che ci ha legati, anche se per così poco: non cercarmi. Non chiamarmi, non scrivere, e non fare un'altra pazzia come venire a casa mia. Fingi di non avermi mai incontrato, fingi di non essere mai stato attratto da me, fingi di non avermi mai baciata, fingi che la mia presenza non abbia mai toccato la tua vita.

Finiamola così, come abbiamo cominciato: nel buio, e nel silenzio.

Addio,

Daria


    Jared abbassa i fogli, sentendo gli occhi farsi lucidi e brucianti: chi avrebbe mai pensato che una simile ragazzina potesse fare tanti danni al cuore di un uomo? Guarda Shannon, e comprende immediatamente la ragione dell'aspetto devastato di suo fratello: chi non si sentirebbe a terra, vedendosi strappare dalle mani l'unica occasione di felicità che sia mai riuscito a stringere? Sta per parlare, quando davanti alla porta ancora spalancata transita a passo veloce Tomo, che poi torna indietro e si ferma, guardando la scena. «Eccovi qui, vi stavo giusto cercando. Ma che succede?»
    «Daria se n'è andata» risponde Shannon. «Ha lasciato una lettera. Puoi leggerla, se vuoi.»
    Tomo prende i fogli dalle mani di Jared e si siede a terra con loro, alla sinistra del batterista. Quando finisce anche la seconda pagina, apre e richiude la bocca senza dire niente per un paio di volte. «Che cosa hai intenzione di fare?»
    «Che cosa dovrei fare?»
    «Non hai intenzione di precipitarti da lei per impedirle di lasciarti?» chiede Jared, in verità un po' sorpreso che suo fratello non stia già preparando i bagagli per Torino.
    «Mi ha chiesto di non farlo.»
    «E da quando sei uno che fa quello che gli viene ordinato?» replica stupito Tomo, restituendogli la lettera.
    «Glielo devo» sussurra Shannon. «Sono stato il primo a darle quello di cui aveva bisogno» aggiunge. «Aveva bisogno di sentirsi amata, e io le ho dato amore.» Guarda ancora i fogli che tiene fra le mani. «Le ho dato quello di cui aveva bisogno, e ora non posso negarle quello che vuole.»
    «Non credo di capire» sussurra Jared, sorpreso di vedere un lato così dimesso e intimo di suo fratello.
    «Vuole che la lasci sola, e non posso negarglielo. Lei mi ha sempre rispettato, mi ha dato fiducia, e se adesso io... ignorassi la sua richiesta la tradirei. Per quanto la tentazione sia... irresistibile, io non... non lo posso fare.» Deglutisce, tenendo gli occhi bassi, e i due amici capiscono quanto a ferirlo non siano le parole o l'abbandono, ma piuttosto la consapevolezza che restare immobile a sanguinare sia l'unica soluzione possibile per rimanere coerente con le promesse fatte.
    Restano immobili e in silenzio per quelli che forse sono dieci minuti, o forse secoli, e all'improvviso Shannon rialza la testa, guardando Tomo: «Hai detto che ci stavi cercando, poco fa. Che cosa volevi dirci?»
    «Oh, è vero, io... ma forse non è il caso, visto quello che sta succedendo.»
    «No, dai, parla» lo incalza, disposto a fare di tutto pur di non pensare ai suoi problemi.
    «Beh, sembra... sembra che Vicki e io ce l'abbiamo fatta. Questa mattina presto ha fatto un test, e... beh, sembra che sia positivo» conclude con un timido sorriso, quasi non riuscisse a convincersene.
    «Congratulazioni, sono davvero molto felice per voi» sorride Shannon, pensando che probabilmente questa sia l'unica notizia in grado di risollevargli l'umore, anche se per poco.
    «Era quello che volevate, no? Congratulazioni» aggiunge Jared, davvero felice per l'amico.
    «Sì, era proprio quello che desideravamo. Domani prenderemo un aereo e torneremo a Los Angeles. Vuole vedere il suo medico il prima possibile, per... beh, per le solite cose. Ma se volete che resti, io posso anche...»
    «Non c'è alcun bisogno che resti, non ti preoccupare» lo rassicura Shannon. «Anzi, forse potrei tornare anch'io a casa prima. Tanto qui non c'è bisogno di me, no?»
    «No, ma... sei sicuro di voler restare solo?» gli domanda il fratello.
    «Ma io non sono mai solo» risponde l'altro, guardandolo con due occhi che esprimono tutta la sua gratitudine per avere un fratello come lui, sempre pronto ad aiutarlo e stargli accanto. «Non hai un'intervista, a proposito?»
    «Posso rimandarla, se...»
    «Non è il caso, tranquillo. Io starò bene. E tu vai da tua moglie, avete molto di cui festeggiare» aggiunge, dando di gomito a Tomo.
    Recalcitranti, Jared e Tomo si alzano e lasciano la stanza, guardandosi indietro mille volte, sperando che Shannon sia sincero, e che non stia soltanto recitando una parte per evitare di coinvolgerli nel suo dolore. Lo salutano e gli promettono di tornare presto da lui, ricevendo in cambio un sorriso così spontaneo da illuderli che il cielo sia veramente sereno.



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Parigi, 28 novembre 2013

    Appena tornata a casa, senza dire una parola e senza nemmeno disfare i bagagli, Daria ha chiuso ogni ricordo di Shannon in una vecchia scatola da scarpe: la maglietta che lui le ha regalato, il fiore di stoffa usato per decorare il vassoio quella mattina che le ha portato la colazione in bagno, i novanta post-it che le ha sparso per l'appartamento, i preservativi dimenticati sulla scrivania, il biglietto da visita di Emma, una copia di tutte le fotografie che ha di lui, anche delle più recenti, che scarica rapidamente sul portatile e stampa mentre vaga per la stanza raccogliendo tutto ciò che non vuole più incontrare sul suo cammino. Alice resta immobile in cima alle scale che conducono in camera, guardandola senza dire una parola sul fatto che nascondere Shannon alla vista non lo cancellerà dal cuore, e che in qualche modo il passato tornerà a far sentire il suo morso. La guarda cancellare il numero dalla rubrica, senza trascriverlo da nessuna parte, e poi la guarda infilare anche i cd nella scatola. «Perché anche i cd?» domanda a quel punto, con un filo di voce.
    «Perché... sentirei soltanto Christine.» Alice annuisce, tornando a rinchiudersi nel proprio mutismo. Vorrebbe dirsi d'accordo con quella decisione, ma in cuor suo sa che è un'idea cretina – solo, vuole troppo bene a Daria per metterle sulle spalle ancora un altro dolore. «Fatto» sussurra Daria, mettendo il coperchio sulla scatola. «Puoi tenerla tu per me?» le domanda, porgendole il pacco.
    «La terrò io per te» sorride Alice, sfilandole il peso dalle mani.
    «Hai detto a qualcuno che venivi a prendermi?»
    «No.»
    «Neanche a Francesca?»
    «A nessuno.»
    «Potresti mantenere il segreto? Mi terrò nascosta fino a sabato, poi... non so, a papà racconterò che sono tornata a casa in anticipo perché ho finito il budget. Mi crederà. A Marco non è il caso di raccontare nulla. Gli dirò che mi sono divertita, questo gli basterà.»
    «Manterrò il segreto, ma... Daria, vorresti solo spiegarmi che cosa stai facendo?»
    L'altra ragazza alza la testa, gli occhi resi ancora più azzurri dalle lacrime che sta furiosamente cercando di trattenere. «Sto facendo la cosa giusta, tutto qui.»
    «Anche se ti fa soffrire come un cane?»
    «Nessuno ha mai detto che fare la cosa giusta fosse indolore.»



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Parigi, 28 novembre 2013

    Rassicurati gli amici, chiusa la porta, Shannon resta solo. Appoggia la schiena al pannello e chiude gli occhi, cercando di convincersi che quando li riaprirà non sentirà dolore. Non sentirà dolore, non soffrirà, anche se quella pressione che sente all'altezza del cuore somiglia proprio ad un coltello piantato a tradimento – piantato e rigirato nella ferita più e più volte, come a ricordargli che è mortale, che è un essere umano, e come ogni essere umano deve soffrire, prima di trovare la sua pace.



1E ipotizzo di non averti mai incontrato, ipotizzo che non ci siamo mai innamorati, ipotizzo di non averti mai permesso di baciarmi così dolcemente e teneramente. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Fidelity di Regina Spektor, contenuta nell'album Begin To Hope, pubblicato nel 2006.
2Mi sento cresciuta come non lo sono mai stata, […] prima di essere ritenuta tale. | Questa dev'essere la settimana delle Citazioni Sgraffignate. Dopo aver attinto alla filmografia di Martin Scorsese, sconfino nel campo della musica e rubo una frase alla mitica Blowin' in the wind, incisa da Bob Dylan nel 1962, e inserita poi nel disco The Freewheelin' Bob Dylan, uscito nel 1963. Ecco la frase originale: “How many roads must a man walk down before you call him a man?”, ovvero “Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?”.
3Le lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere un altro, chi sa dove, smette. | La citazione è tratta da Aspettando Godot , opera teatrale in due atti scritta dall'autore anglo-irlandese Samuel Beckett nel 1952. Si tratta di una delle più importanti opere appartenenti al teatro dell'assurdo, un non-movimento letterario nato in Europa negli anni del secondo dopoguerra. Si tende a definirlo un non-movimento in quanto, a differenza di altre correnti (Romanticismo, Futurismo eccetera) non originò mai né manifesti, né progetti, né scuole – si tratta semplicemente di un termine coniato da un critico dell'epoca, che trovando molti punti comuni tra le opere di diversi autori (Beckett, Ionesco e altri) volle tentare di raggrupparle in un unico insieme. Personalmente, amo questo tipo di opere, Aspettando Godot su tutte – se non l'avete mai letto, vi consiglio di farlo. Se non altro per farvi un paio di sane, grasse risate.

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