All The Pretty Creatures

di Megs Sully
(/viewuser.php?uid=644198)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
 


      Il cielo si stava gradualmente rischiarando assumendo tonalità ambrate, anche se il sole tardava a mostrarsi. Sarebbe stata una giornata limpida con una temperatura gradevole, una vera e propria giornata di primavera, non di quelle grigie e fosche che ricordano l’autunno.
      Ryan Norwest percorreva la strada che dall’aeroporto di Heathrow portava a Richmond e che lo avrebbe condotto presto a Strawberry Hill, considerata la velocità sostenuta con cui guidava la fiammante Audi R8 che aveva acquistato appena rimesso piede in Inghilterra. Abbassò il finestrino e gustò la piacevole brezza mattutina sul viso e tra i capelli, poi rivolse uno sguardo alla sorella Amelie che sedeva di fianco a lui mantenendo lo sguardo ostinatamente rivolto verso un punto indefinito nello spazio di fronte a sé.
      Ryan corrugò la fronte e premette improvvisamente il piede sull’acceleratore aumentando notevolmente la velocità ma ancora, nonostante il contraccolpo, non ottenne nessuna reazione da parte della sorella. Accese la radio e la melodia di Candle in the wind si diffuse nell’abitacolo. Amelie alzò gli occhi al cielo con espressione annoiata.
      «Tanto la nostra candela non brucerà mai…» sbuffò e incrociò le braccia sul petto, corrucciata.
      «Ne sei davvero così convinta?» la interrogò il fratello soddisfatto di aver provocato una reazione in lei.
      Ma in risposta Amelie si strinse nelle spalle e voltò il viso dall’altra parte guardando nuovamente fuori dal finestrino.
      «Non manca molto…» aggiunse Ryan sospirando nervoso a causa dell’ostinazione della sorella.
      «Già» fu l’unica risposta che ottenne.
      «E tu come sempre sei arrabbiata» concluse Ryan stringendo il volante con più forza tra le mani.
      «Arrabbiata non rende l’idea» replicò Amelie senza voltarsi ma incominciando a giocare con una ciocca di capelli scuri che arrotolava nervosamente intorno al dito.
      «Insomma…» sospirò Ryan aggrottando la fronte «quando ce ne andiamo hai le crisi perché vuoi restare e mi accusi di strapparti dalle tue radici, quando decidiamo di tornare vai in depressione e fai l’offesa!»
      «Quando decidi…» lo corresse Amelie voltandosi verso di lui risentita.
      «Quando decido!» Ryan rilasciò per un istante le mani con cui reggeva il volante e poi lo riprese, stringendolo con vigore quasi rabbioso. «Quando è giunto il momento di tornare, insomma!»
      Amelie non replicò e tornò a rivolgere la propria attenzione fuori dal finestrino, come totalmente assorbita da uno spettacolo interessante a cui a nessun altro era concesso partecipare. Ryan lanciò uno sguardo nella sua direzione. Era solo la semplice, monotona e verdeggiante campagna inglese, là fuori. E Amelie aveva ancora quattordici anni. Ogni volta che tornavano a casa, a Strawberry Hill, Ryan si illudeva potesse cambiare qualcosa. Qualsiasi cosa. Invece le sue speranze venivano annientate ogni volta. Amelie era ancora la quattordicenne nervosa e facilmente irritabile della volta precedente e di quella prima ancora. E probabilmente quel luogo aveva la prerogativa di rammentarle il suo dramma più di ogni altro. Doveva arrendersi. Non le sarebbe mai passata. Avrebbe dovuto imparare a convivere con la silenziosa e ostinata furia della sorella minore nei suoi confronti. Sempre e per sempre.
      Ryan Norwest scacciò il pensiero e continuò a guidare, apparentemente tranquillo. Poi tornò a osservare Amelie con la coda dell’occhio. In effetti, come darle torto? Lui stesso incominciava a sentirsi stizzito mentre si avvicinavano sempre più alla cittadina dove tutta la loro vita era cambiata in pochi istanti. Trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato era stata la loro unica colpa, se così si poteva chiamare. L’alternativa sarebbe stata soccombere come tanti altri. Al contrario lui aveva deciso di scendere a compromessi. Forse era stato codardo, oppure coraggioso. I punti di vista potevano essere divergenti in proposito. Meditava intanto su tutte le tappe necessarie che avrebbe dovuto percorrere una volta arrivati. Sempre le stesse, del resto. Doveva annunciare la propria presenza e quella di Amelie in quella città che sarebbe stata sua per un periodo di tempo ragionevole prima di essere costretti a sparire di nuovo. Giusto il tempo di un ricambio di tre o quattro generazioni, in modo tale che nessuno potesse più ricordarsi di loro. Anche se ultimamente la situazione si era resa più difficile da gestire a causa di tutti i mezzi tecnologici a disposizione dell’umanità. Grandi passi in avanti per l’umanità che però a loro complicavano l’esistenza. Ryan temeva che prima o poi sarebbe giunto il momento in cui non sarebbero più potuti tornare lì o in qualsiasi luogo in cui erano già vissuti. Chissà, forse proprio quella sarebbe stata la loro ultima volta, la loro ultima visita a Strawberry Hill.
      Ryan Norwest socchiuse per un attimo gli occhi verdi e rallentò notevolmente la corsa facendo attenzione che l’auto non sbandasse. Forse sarebbe stata la soluzione migliore, non tornare più in quel luogo. Mai più. Non appropriarsi mai più del palazzo che avevano ricevuto in eredità, anzi, in ricompensa. Lasciare andare tutto, per sempre. Tutti i ricordi e tutti i rimpianti. Avvicinandosi sempre più alla meta Ryan decise di modificare il tragitto, allungando ulteriormente la strada. Amelie distolse l’attenzione ostinata dal finestrino e gli rivolse uno sguardo vagamente interrogativo. Ryan scrollò le spalle con noncuranza mentre Amelie tornò a guardare fuori dal finestrino, ripiombando nell’indifferenza.
      Accelerò nuovamente e percorse la strada alberata che lo avrebbe condotto direttamente in centro città. Rievocò con la mente tutti i cambiamenti che la sua cittadina natale aveva subito nel corso delle epoche e di cui, come sempre, lui e Amelie sarebbero stati testimoni. I colori sembravano essere diventati più vivaci dall’ultima volta. O forse era solo un’impressione. Era primavera e probabilmente giorno di mercato.
      «A quanto pare siamo arrivati!» Amelie si decise a parlargli ma raggiungendo la stradina dissestata che conduceva al palazzo Ryan aveva perso qualsiasi volontà di fare conversazione.
      Fermò la macchina davanti al portone principale, senza nemmeno guardare l’immenso edificio che ormai era diventato residenza temporanea dei Norwest ogni volta che si ripresentavano in città.
      «Alfred ci aspetta, ha già preparato tutto come al solito» disse scendendo dall’auto e sbattendo la portiera.
      «Perché tutti i nostri maggiordomi si chiamano sempre Alfred?» sospirò la sorella scendendo svogliatamente dalla macchina.
      «Non si chiamano sempre Alfred» replicò Ryan avviandosi verso l’ingresso. «Alla fine è solo un nome che usiamo per comodità.»
      Amelie alzò gli occhi al cielo e lo seguì scuotendo la testa.
      «Se sei troppo pigro per ricordarti i veri nomi, ovviamente…» si fermò con il fratello davanti al portone. «E perché non siamo entrati in macchina dal portone?»
      «Perché non abbiamo l’aggeggio automatico ancora…» borbottò Ryan cupo.
      «Vuoi dire il telecomando?» Amelie lo guardò con espressione di scherno. «È così che si chiama l’aggeggio automatico. Te-le-co-man-do!» scandì la parola.
      «Voglio dire il telecomando» annuì Ryan premendo il pulsante a lato del grande portone di legno che dopo alcuni istanti si aprì con un leggero fischio.
      Ryan risalì in macchina, aspettò che la sorella facesse lo stesso ma la ragazza scrollò le spalle e si avviò a piedi all’interno dell’ampio cortile.
      Sulla porta di casa Alfred li aspettava. Era un uomo alto e lievemente curvo, ormai anziano ma con un’espressione ancora vivace nello sguardo. Attese in silenzio che Ryan parcheggiasse e scendesse dall’auto e aprì la porta per far passare lui e Amelie.
      «Bentornato padrone» piegò lievemente il capo, rivolgendosi poi ad Amelie con un cenno di saluto. «Signorina.»
      Ryan annuì e lasciò vagare fugacemente lo sguardo per il salone principale.
«A casa» bisbigliò pur sapendo che quella era solo parzialmente la verità. Non riusciva a dimenticarsene, era come se qualcosa ogni volta gli rammentasse che quel luogo in realtà non gli apparteneva, non gli era mai appartenuto.
      Amelie lo sorpassò e andò a stendersi sul primo divano che si trovò di fronte. Chiuse gli occhi ignorando totalmente lui, Alfred e il resto della casa. Come se intendesse estraniarsi da tutto, in un mondo in cui loro non erano invitati.
      «Posso preparare qualcosa per pranzo, signore, oppure…» Alfred si rivolse a Ryan con tono cortese.
      «Non prendiamoci in giro, Alfred» sorrise Ryan rivolgendogli un’occhiata benevola ma perentoria. «Sappiamo entrambi che non è necessario. Grazie comunque.»
      «Perché no?» intervenne Amelie voltandosi su un fianco e sostenendosi su un gomito. «Potrebbe anche venirmi voglia di sgranocchiare qualcosa.»
      Ryan scrollò le spalle e corrugò la fronte. Eppure lo sapeva che Amelie non avrebbe mai perso una sola occasione per contraddirlo. Perché continuava a illudersi che la situazione cambiasse e che il disprezzo della sorella nei suoi confronti diventasse un giorno meno palese?
      «Va bene allora, mangia se vuoi mangiare!» rivolse uno sguardo al maggiordomo che annuì condiscendente. «Io devo fare il solito giro di visite.»
      Il solito giro di visite che effettuava ogni volta che si rifaceva vivo in città, pensò. Ogni volta che si rifaceva vivo, che assurdità riferito a lui. Che alla fine il solito giro di visite si riduceva di norma a una sola visita obbligatoria. Quella a Jean Claude von Klausen. Avrebbe pensato lui a tutto, a mettere tutto in regola. Per il resto doveva semplicemente dare un’occhiata intorno per rendersi conto di cosa fosse cambiato e cosa fosse rimasto uguale. La cittadina in fondo aveva ben pochi punti fermi. Punti fermi viventi con cui fosse possibile interagire nuovamente, quasi nessuno. Lo distolse la voce suadente di Amelie.
      «Cucina bene come suo nonno, Alfred?» ridacchiò. «Sa, mi è venuta una certa fame! Vorrei un tè all’inglese con una bella fetta di torta di mele! Come l’ultima che ho mangiato qui magari!»
      «Probabilmente non tanto bene» sorrise ossequioso il maggiordomo, assecondandola. «Ma spero sia comunque di suo gusto, signorina. Preparerò subito.»
      Ryan si voltò verso la sorella che si era alzata di scatto dal divano e le rivolse un’occhiata gelida. Non poteva permettere che cominciasse già a combinare guai, erano appena arrivati.
      «Poi farò una visitina a scuola» lo sfidò la ragazza inclinando leggermente il viso e mordendosi le labbra rosate, come una novella Lolita in vena di dispetti. Ecco, esattamente ciò che Ryan temeva.
      «Già che ci sei ritira i moduli d’iscrizione» annuì cercando nonostante tutto di mantenere un tono indifferente.
      «Voglio iscrivermi a medicina» Amelie incrociò le braccia sul petto e si morse il labbro inferiore con più intensità. «All’università! Che ne dici Alfred, potrei essere una dottoressa eccellente vero?»
      «Non dire sciocchezze» ribadì Ryan senza nemmeno guardarla, prima che Alfred potesse rispondere. «Sei troppo giovane per frequentare l’università e lo sai!» Alfred ne approfittò per andare a ritirarsi in cucina.
      «No, non sono troppo giovane!» gli si avvicinò la sorella per attirare forzatamente il suo sguardo, pronta a lottare pur di averla vinta. «E lo sai bene anche tu!»
      «Ne abbiamo già discusso, Amelie, tante volte anzi troppe!» Ryan evitandola si avviò verso la porta d’ingresso, poi si voltò verso di lei. «E non voglio più tornare sull’argomento. Vai a ritirare i moduli d’iscrizione del liceo, domani cominci le lezioni. E non combinare guai nel frattempo. E non infastidire Alfred!»
      «Sarebbe assurdo iniziare ora!» borbottò Amelie. «Siamo in primavera ormai, la scuola finirà presto!»
      «Lo so bene che siamo in primavera e non mi importa» replicò Ryan per ripicca, sebbene si rendesse conto che la sorella aveva effettivamente ragione questa volta. «Domani tu inizi la scuola, il liceo, che ti piaccia o no!»
      Non attese risposta. Se ne andò nervoso sbattendo la porta dietro a sé.
 
                   
                                                                  ********************
 
      Nascondersi era ormai un gioco. Un gioco di cui conosceva alla perfezione ogni regola. Ormai i mascheramenti non erano più un espediente con cui difendersi, ma qualcosa di cui servirsi per arrivare alla meta. Sempre più vicino. I tempi erano cambiati. Non vi era più costrizione, non vi era più sottomissione a regole stabilite da altri. Ma sadismo, manipolazione. Aveva imparato a giocare la sua partita, finalmente. Aveva avuto ottimi insegnanti, del resto.
      Spiare il ritorno dei Norwest e il loro ingresso a palazzo era solo l’inizio. Erano ancora tanto ingenui, tanto indifesi e ubbidienti, nonostante il trascorrere degli anni. Decisamente non erano nati per regnare, ma per servire. Ryan soprattutto. Bastava comandare e lui prontamente eseguiva. Tutto secondo copione, come un bravo attore sulla scena. Del resto il prezzo che avevano pagato era stato alto, anche per loro. Ma evidentemente era una questione di carattere e di principi. E a loro mancavano entrambi. Invece la sua rabbia non aveva prezzo, non aveva ricompensa. Voleva riprendersi tutto, tutto quanto era stato suo. Ma per il momento non restava che attendere. Non era ancora arrivato il momento. Doveva avere pazienza.
 
 
 
                                                                  ********************
 
      L’appartamento sopra la libreria di libri antichi era piccolo ma gradevole e abbastanza accogliente. Ciò di cui aveva bisogno per riprendere contatto con un’esistenza quasi normale. Aveva avuto difficoltà a riadattarsi alla vita di superficie ma ora che la primavera era finalmente arrivata non riusciva a spiegarsi come avesse potuto rinunciarvi per tanto tempo. Il cielo azzurro che scorgeva dalla finestra e i nuovi colori erano invitanti, l’aria tiepida stimolante.
      James Foster aprì il frigobar nella sua minuscola cucina e afferrò una birra. La stappò e la sorseggiò lentamente andando a sedersi sul divano, poi accese la televisione con gesto automatico. Il programma su cui era sintonizzata non gli interessava, ma gli serviva solo per sentire voci e vedere immagini di persone. L’umanità gli era diventata estranea nel sottosuolo. Doveva imparare a vivere ancora tra i due mondi. Con il mondo sotterraneo aveva sempre avuto più confidenza, con quello di superficie invece no. Come se costantemente gli rammentasse la sua colpa. Come se ogni forma vivente lì fosse testimonianza della sua diversità, del suo costante mutamento. E lo giudicasse per una condizione che comunque non era dipesa da lui.
      La verità era che nessuno poteva vederlo realmente, a meno che non fosse lui a volerlo. Ma questo significava anche che nessuno poteva conoscerlo per ciò che era effettivamente. Tranne Andres Flick, il proprietario della libreria sottostante e del piccolo appartamento in cui gli aveva concesso di vivere. Herr Flick, come tutti lo chiamavano, sapeva più di quanto a lui stesso fosse mai stato concesso di sapere. Non solo perché era notevolmente più anziano di lui. James cambiò canale e sintonizzò la televisione su un programma di cartoni animati in cui un gatto bianco e nero dall’aria imbronciata minacciava di mangiarsi un uccellino giallo che non ne voleva sapere di tacere. Sorrise sorseggiando la sua birra. Herr Andres Flick era un eterno. Ne doveva aver viste e sentite parecchie, più di quante ne avrebbe mai rivelate probabilmente. James Foster invece era soltanto un mutaforma poco più che ventenne.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2


 
Ryan Norwest salì in macchina e rimase per qualche istante fermo a fissare nel vuoto. Tutto era uno sbaglio, se ne stava rendendo conto sempre di più. Tutto era stato uno sbaglio, fin dal principio. Avrebbe voluto e forse dovuto trovare un luogo dove nascondersi, un luogo dove non sarebbe più stato prigioniero. Nemmeno di se stesso e dei suoi ricordi. Ma doveva occuparsi di Amelie, non poteva lasciarla sola. Aveva trascinato anche la sorella minore nella propria sventura, senza domandarsi cosa avrebbe significato per lei vivere quell’eterno presente.
Mentre il fratello metteva in moto, Amelie si era stesa nuovamente sul divano, poi sentendolo partire e allontanarsi sempre più si mise a sedere e raccolse le ginocchia tra le braccia. Si guardò intorno annoiata, Alfred si era ritirato in cucina a prepararle un tè, come lei stessa gli aveva richiesto. Non aveva voglia di altro, gli aveva detto. Magari solo una fetta di torta di mele, se gli riusciva di farla come l’ultima che aveva assaggiato in quella casa tempo fa. Aveva l’impressione che il maggiordomo la temesse. Era fin troppo ossequioso con lei e la chiamava costantemente “signorina”. Ma in effetti, sospirò Amelie, questa era la sensazione che suscitava in tutti anche se la reazione non era sempre la stessa. Per lo più la gente scappava a gambe levate. In entrambi i casi per lei era divertente.
Amelie si sollevò di scatto dal divano e si diresse verso la cucina, che probabilmente si trovava sempre nella stessa ala del palazzo. Dopo il tè e la torta si sarebbe avviata verso il liceo cittadino, o almeno così avrebbe lasciato intendere ad Alfred che sicuramente lo avrebbe riferito a suo fratello Ryan, il grande capo.
In fondo non disprezzava poi così tanto la loro condizione. Era solo vantaggioso per lei farla pesare a Ryan, farlo sentire costantemente colpevole. In effetti, non poteva pensare a se stessa diversamente ormai. La sua eterna prima adolescenza poteva essere anche piacevole. Evitava di farlo sapere al fratello, indossando per lui la maschera dell’adolescente in perenne crisi e in lotta con se stessa, con lui e con il mondo. Ryan ignorava che se non avesse compiuto lui quella scelta per entrambi, l’avrebbe compiuta lei per se stessa. Amelie sorrise increspando il labbro superiore. Meglio per lei continuare a fargli credere di averle imposto una decisione che lei era stata costretta a subire e accettare. Del resto neanche chi l’aveva resa possibile, indagando nella sua mente e nei suoi desideri, aveva mai rivelato a Ryan la verità su di lei.
 
 
                                                                      ********************
 
 
Sarebbe già arrivato a destinazione, se non avesse girato a vuoto più volte intorno alla cittadina. Ryan Norwest guidando scrutava ogni vicolo, ogni angolo, lasciandosi quasi incantare dalle novità. L’abitazione dell’alchimista si trovava in un quartiere poco frequentato e difficilmente raggiungibile, all’estremità orientale del fiume. Bisognava conoscere la zona davvero molto bene per arrivarci. Proprio un bel nascondiglio si era trovato, tanto difficile da scovare da permettere a Jean Claude von Klausen di vivere e stabilire le sue regole indisturbato. Le sue regole. Regole che anche lui era costretto a rispettare. Un pensiero sfiorò la mente di Ryan… se Jean Claude non ci fosse stato, forse lui avrebbe potuto prendere il suo posto. Non era la prima volta che accarezzava quell’idea. Però Ryan era obbligato a sottostare a determinate necessità di cui Jean Claude non doveva preoccuparsi. Da quel punto di vista Jean Claude era perfettamente libero, lui invece no. Alla fine rimproverava Amelie ma anche lui si sentiva allo stesso modo. In trappola.
Ryan frenò in prossimità dell’antro dell’alchimista von Klausen. Non avrebbe mai potuto scovarlo se non avesse saputo in precedenza dove si trovava. Socchiuse per un attimo gli occhi, poi invece di scendere dall’auto, come avrebbe dovuto, accese la radio. Riconobbe immediatamente la voce di Kate Bush che implorava Heathcliff di lasciarla entrare attraverso la sua finestra. Sorrise impercettibilmente e aspettò che la canzone giungesse alle ultime note prima di spegnere la radio e rivolgere uno sguardo teso verso la residenza di Jean Claude.
Infine con una volontà che gli sembrò superiore alle sue forze, scese dalla macchina. Corrugò la fronte fissando nel vuoto. In realtà sapeva che l’antro si trovava solo a pochi passi, ma invisibile a uno sguardo distratto. C’era un mondo sconosciuto agli esseri umani lì sotto. Un mondo che alla fine aveva le sue norme e le sue regole, proprio come il mondo di superficie.
Abbandonò l’auto lungo il sentiero, percorse pochi passi fino a raggiungere la collina e continuò a camminare accostando la roccia che sporgeva lateralmente. Scese gli scalini che conducevano alla grotta e vi si inoltrò. Sospirò profondamente proseguendo a camminare ancora per qualche passo, finché raggiunse quella ben nota scanalatura sulla parete della spelonca. Era tutto esattamente come ricordava. Nulla era cambiato almeno lì. Non che gli importasse, del resto. Appoggiò la mano sulla scanalatura, poi batté tre colpi, uno più forte di quello precedente.
Attese guardandosi i piedi e ripulendosi con le mani la giacca di pelle. Magicamente la roccia si mosse di lato e un portone di legno si aprì davanti ai suoi occhi. Un ragazzino pallido e biondo lo guardava in silenzio.
“Ryan Norwest” si annunciò Ryan, pronunciando il proprio nome senza entusiasmo.
“È atteso signore” annuì il ragazzo “ma deve aspettare.”
“Aspettare?” Ryan strinse gli occhi scrutando il giovane.
“Sì, esatto” annuì lui, senza fornire ulteriore spiegazione. “Mi segua” così dicendo si incamminò per un corridoio lungo e stretto. Ryan non ebbe altra scelta che seguirlo. Cercava di non fare rumore, ma i suoi passi risuonavano nello spazio vuoto. Guardò i piedi del ragazzino, indossava dei leggeri sandali di corda color cuoio. Improvvisamente si fermò e svoltò verso un altro corridoio che sul lato sinistro si ampliava in un rientro arredato come un salottino, con in bella mostra un enorme televisore a schermo piatto.
“Interessante!” lo scrutò Ryan mentre il ragazzino gli faceva segno di accomodarsi su un divanetto color senape “Questo è nuovo, Jean Claude ha ceduto a un po’ di modernità?”
Il ragazzo scrollò le spalle e si ritirò senza replicare. Ryan posò lo sguardo sul tavolino di vetro che gli stava di fronte e notò alcuni libri impilati su cui spiccava “Il vampiro di Polidori e altri racconti”.
“Molto appropriato Jean Claude” Ryan lo raccolse e se lo rigirò tra le mani. “Come sempre.”
Iniziò a leggere svogliatamente una storia che già conosceva, quando la sua attenzione fu richiamata dallo stridio nervoso di una voce femminile. Anzi due. Un’altra voce femminile, più calma, stava replicando. Ryan abbandonò il libro sul tavolino e si alzò raggiungendo l’ingresso del salottino. Guardò da entrambe le parti, poi si avviò lungo il corridoio verso la provenienza delle voci.
“La mia vita non è affar vostro e mai lo sarà!” si lamentava la voce più giovane e squillante “Io me ne vado!”
“Per favore ascoltaci almeno…” la voce femminile più tranquilla replicava suadente.
Ryan si chiese che parte poteva avere l’alchimista in questa disputa tra donne.
“Che hai combinato von Klausen?” borbottò tra sé mentre il corridoio che stava percorrendo si fece improvvisamente silenzioso.
Se la trovò di fronte senza rendersene conto. Lei lo scansò con una manata, come si toglie di mezzo dal proprio passaggio un oggetto fastidioso e ingombrante. La sua testa castana gli arrivava al mento. La ragazza gli rivolse un’occhiata talmente sprezzante che appena fu oltre la sua visuale tutto ciò che Ryan ricordò di lei furono gli occhi castano chiari, screziati di verde e allungati verso l’alto.
Non fece in tempo a rimettersi al centro del corridoio che si trovò di fronte l’altra donna più matura, più alta, formosa e dai capelli scuri e ondulati, che stava evidentemente chiamando e seguendo quella più giovane.
“Faith… Faith aspetta!”
“Jean Claude ha trasformato casa sua in un circolo femminile?” la schernì Ryan.
La donna si era fermata di fronte a lui e lo fissava con espressione attonita. Ryan notò che era molto bella, aveva le labbra carnose perfettamente disegnate, gli occhi castani ben truccati e indossava una maglietta bianca con un bizzarro disegno egiziano sul petto.
“La sta aspettando” gli rispose infine la donna, ricomponendosi e oltrepassandolo.
Ryan annuì e continuò a camminare lungo il corridoio che diventava sempre più stretto e oscuro, finché raggiunse una luce intensa e un ampio spazio dal cui soffitto pendevano cristalli e guglie dai mille riflessi. La luce alla fine del tunnel, pensò tra sé Ryan mentre raggiungeva il fulcro dell’antro dell’alchimista von Klausen.


 
                                                                      ********************
 

Dopo aver bevuto il tè, essersi cibata con due fette di torta di mele e aver tormentato Alfred con svariate domande solo per il gusto di metterlo in difficoltà, Amelie salì in quella che era sempre stata la sua stanza. Sempre da quando lei e Ryan occupavano il castello. Aprì l’armadio a muro e lo trovò rifornito di un vasto guardaroba. Agli abiti che aveva abbandonato lì dopo le ultime visite ne erano stati aggiunti di nuovi. Amelie sorrise tra sé. Il suo guardaroba avrebbe potuto far gola a un museo sull’abbigliamento, raccoglieva tutte le epoche del vestiario femminile. Quasi tutte.
Il primo pensiero di Amelie fu che le sarebbe piaciuto mostrarlo a qualcuno, qualche amica magari, se ne avesse avute. E vedere l’espressione contrariata di Ryan mentre glielo comunicava. Se non fosse stato impossibile i capelli del fratello sarebbero già diventati bianchi da tempo. Il secondo pensiero, mentre passava le dita tra i nuovi abiti del suo guardaroba probabilmente acquistati da Alfred su consiglio di qualche anziana parente, fu che doveva trovarsi al più presto una cameriera che si occupasse di lei. Donna, giovane, disinvolta e che rispondesse alle sue esigenze. Alfred poteva essere eccellente come maggiordomo e cuoco, ma era chiaro che lui e la moda contemporanea non andavano d’accordo.
E ovviamente anche l’idea della cameriera non sarebbe piaciuta a quel noioso di suo fratello! Ma la prospettiva di andare a fare shopping con lui sarebbe stata davvero troppo deprimente. Le sue scelte non sarebbero state molto diverse da quelle di Alfred. L’avrebbe vestita come un’enorme bambola bruna, con gonnellone al polpaccio e corpini pieni di pizzi e ricami. E magari anche fiocchi colorati tra i capelli. Possibile che nessuno si rendesse conto che c’era una donna imprigionata nel corpo di una ragazzina di quattordici anni? E comunque le ragazzine di quattordici anni non si vestivano più da tempo come bamboline di porcellana!
Amelie lasciò la sua stanza e senza farsi notare da Alfred uscì dall’ingresso principale richiudendo la porta alle sue spalle, con leggerezza. Ryan aveva preso l’auto, ma del resto non avrebbe fatto differenza. Nemmeno guidare le era concesso, benché ne fosse in grado. Amelie scrollò le spalle. Non aveva importanza. Poteva essere anche più veloce dell’Audi di suo fratello.
Raggiunse l’università di Strawberry Hill e si guardò intorno un po’ confusa mordicchiandosi il labbro inferiore. Troppe cose erano cambiate, ma Amelie non si lasciò scoraggiare ed entrò decisa nella sede universitaria. Chi poteva fermarla del resto? Nessuno. Medicina. Voleva iscriversi a medicina, come aveva dichiarato espressamente a Ryan. Avrebbe intimidito, corrotto e soggiogato pur di ottenere il suo scopo.
Si aggirò un po’ disorientata per i corridoi ancora poco affollati. Un orologio appeso alla parete indicava che erano appena le 8 e 10 del mattino. Bene, si sarebbe iscritta ancora prima dell’arrivo della massa di studenti, poi… L’iscrizione in effetti non era un problema. Ma come spiegare il fatto che una ragazzina che dimostrava solo tredici o quattordici anni fosse iscritta a medicina? Amelie corrugò la fronte. Poteva creare documenti falsi che dimostrassero che in realtà soffriva di una sorta di malattia che le impediva di crescere… oppure essere considerata un piccolo genio, con un intelletto precoce e superiore alla media! Perché non ci aveva pensato prima?
In realtà il pensiero l’aveva sfiorata negli anni precedenti, ma la logica di suo fratello secondo cui era proibito attirare l’attenzione aveva bloccato la sua aspirazione sul nascere. Era condannata a restare tra il primo e il secondo anno di liceo, per l’eternità. Amelie sorrise ironica. Sarebbe stato l’incubo di qualsiasi adolescente. Ora però la situazione poteva cambiare. Nascevano addirittura scuole apposta per piccoli geni, perché non avrebbe potuto essere anche lei una di loro? Non sarebbe stata l’unica ragazzina all’università!
Seguendo le indicazioni si ritrovò di fronte alla segreteria studenti ancora chiusa. Se solo fosse stato possibile compilare i moduli elettronicamente avrebbe falsificato la data di nascita, che in fondo falsificava comunque anche per il liceo, e tutto sarebbe andato per il meglio.
Si voltò verso l’atrio e notò che si stava affollando. Sospirò e cercò di sollevarsi leggermente sulle punte per guadagnare qualche centimetro di altezza. Oltre a dimostrare tutti i suoi quattordici anni o anche meno, aveva lo svantaggio di essere più piccola e minuta delle sue presunte coetanee. Socchiuse gli occhi per mantenere la concentrazione. Il vociare degli studenti stava gradualmente aumentando e Amelie temeva di perdere il controllo. Ma poteva riuscirci, poteva trattenersi. Almeno finché non avesse compiuto l’operazione per cui era venuta. Magari, grazie alle sue doti di convinzione, avrebbe già potuto iscriversi a qualche corso senza attendere il nuovo anno accademico. Si rigirò verso la porta della segreteria appena si accorse che un custode stava arrivando dall’interno per aprirla al pubblico.
Alcune risatine alle sue spalle la costrinsero a voltarsi nuovamente. Un gruppetto di ragazzi e ragazze si era fermato dietro di lei e ora la stava oltrepassando sogghignando.
“Dove credi di andare, ragazzina?” una ragazza dal viso truccatissimo puntò l’indice verso di lei.
“Non è posto per te piccola! Torna alla scuola elementare!” rise un energumeno con i capelli a spazzola e troppi denti in bocca.
Gli sforzi di Amelie per mantenere il controllo svanirono in un istante. Insieme ai buoni propositi. Si sentì fremere di rabbia in tutto il corpo e il suo viso da pallido divenne rosso, con vene violacee che le percorrevano la fronte. Così come i suoi occhi che sembravano iniettati di sangue.
“Ora seguimi” disse semplicemente ma con tono perentorio, fissando gli occhi del ragazzo, che rimase per un istante a fissarla con le labbra appena socchiuse poi annuì, come ipnotizzato.
La ferma intenzione di frequentare medicina si era trasformata in altro. Ora era una rabbia furiosa a dominare Amelie, non più un sogno da realizzare. Continuò a camminare per i corridoi trascinandosi dietro il giovane alto e muscoloso, completamente succube di lei. Individuò la porta del bagno maschile e lo trascinò dentro, spingendolo con impeto contro la parete. Sentì il colpo provocato dalla schiena del ragazzo che sbatteva addosso al muro. Gli si avventò contro, non più in grado di resistere oltre e gli aprì la camicia con una foga esagerata, strappandola con entrambe le mani.
Si passò la lingua sui denti soffermandosi su quelli che sentiva mutare e diventare appuntiti, poi si avventò sul collo e sul petto del ragazzo, immobilizzato alla parete con lo sguardo fisso nel vuoto, allucinato. Lo morse senza troppo impeto, quasi con cautela, come pregustandosi il momento in cui avrebbe estirpato da lui ogni residuo di vita. Quando il suo morso divenne intenso e vorace, lui emise soltanto un lieve gemito. Da quel momento non avrebbe più potuto sfuggirle, nemmeno volendo, nemmeno sfruttando la superiorità della sua forza fisica.
Ricadde infatti sul pavimento come un enorme sacco svuotato. Amelie lo osservò passandosi la lingua sulle labbra, inclinando il viso. Ma non era soddisfatta, ne voleva ancora.
Come sempre, più ne prendeva, più non era soddisfatta. Sì affacciò dalla porta del bagno e notò una ragazza che passava proprio davanti a lei con alcune cartellette nelle mani.
“Senti, scusa…” attirò la sua attenzione e puntò su di lei un visetto innocente e un po’ smarrito.
“Cosa c’è, ragazzina? Questo è il bagno dei ragazzi… quello delle ragazze è sull’altro lato!” replicò la ragazza fermandosi confusa di fronte a lei.
“Lo so, ma…” lo sguardo di Amelie divenne perentorio e irresistibile “Mio fratello sta male. Per favore entra qui dentro ad aiutarmi.”
La giovane studentessa non se lo fece ripetere due volte ed entrò. Subì la stessa sorte di chi l’aveva preceduta. In pochi istanti il suo corpo giaceva esanime lungo la parete insieme a quello del ragazzo. Amelie si passò le dita della mano sullo stomaco. Scrollò le spalle e sorrise con espressione innocente. Lei ci aveva provato, ma era chiaro che il tè con due fette di torta di mele come colazione non le erano state sufficienti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3


 
Amelie Norwest, con le braccia incrociate sul petto, guardò i corpi del ragazzo e della ragazza adagiati sul pavimento del bagno. Ora il problema era come liberarsene. Oppure come nasconderli in modo tale che non venissero ritrovati immediatamente. Improvvisamente la porta si aprì. Avrebbe dovuto pensarci. Era un bagno pubblico dell’università, più che probabile che qualcuno sarebbe potuto entrare da un momento all’altro. Il nuovo arrivato ora fissava lei e i corpi ai suoi piedi con occhi sbarrati e aria sgomenta.
“Problemi?” Amelie focalizzò lo sguardo in quello di lui scrutando nella sua mente.
Il ragazzo rimase immobile, inebetito. Amelie ne approfittò per controllarlo senza che lui opponesse la benché minima resistenza. Se avesse seguito l’istinto si sarebbe nutrita anche di lui, aggiungendo il suo corpo a quello degli altri due. Ma sarebbe stato uno in più da trasportare e nascondere. In effetti ciò di cui aveva più bisogno ora era un alleato piuttosto che un misero umano di cui cibarsi. Qualcuno che non l’avrebbe tradita, perché… Un sorrisetto sadico modellò le labbra di Amelie mentre afferrava il ragazzo per il collo, immergendogli le unghie nella pelle. Il giovane trattenne un gemito di dolore, perché quello che sentì mentre lei gli mordeva con impeto la gola succhiandogli il sangue direttamente dalla carotide fu ancora più intenso.
Dopo essersi nutrita, lui sarebbe caduto a terra esattamente come i due che lo avevano preceduto. Ma Amelie lo trattenne invece per le spalle. Sospirò e si morse l’avambraccio, affondando soltanto i canini leggermente in modo tale che il sangue salisse in superficie. Poi avvicinò la ferita alle labbra del ragazzo che stava per perdere completamente i sensi.
“Da bravo, bevi!” lo incoraggiò mentre lui aveva ancora la forza di voltare la testa dall’altra parte “Ti ho detto bevi, idiota! Non offro a tutti questa delizia tanto facilmente!”
Amelie sentì che il sangue stava rientrando in circolo nel corpo del giovane che riconquistava gradualmente forza e vigore succhiando con sempre maggiore voracità e non lasciandosi più cadere tra le sue braccia. In pochi istanti non ebbe più bisogno di sorreggerlo e le sue guance pallide ripresero colore. A questo punto Amelie lo spinse via.
Il giovane abbassò lo sguardo e Amelie si accorse che fissava bramoso i due corpi sul pavimento.
“Prima lezione” Amelie afferrò il suo mento tra le dita e lo costrinse a fissarla negli occhi “il sangue dei morti non si beve, se non vuoi rischiare di raggiungerli. Comunque dubito di averne lasciata qualche goccia, mio caro. Prima li sistemiamo in un luogo sicuro, poi pensiamo a nutrirti, creaturina. A proposito, come ti chiami?”
“Io… Thomas Jones” rispose il ragazzo automaticamente, annuendo a ogni parola che usciva dalle labbra di Amelie, come ipnotizzato.
“Bene, Thomas Jones. Ora mi aiuterai a nascondere in un luogo sicuro questi due, questa notte poi penseremo a dove sistemarli definitivamente.”
“Ci… ci sarebbe il magazzino degli attrezzi, la porta accanto, non… non ci va mai nessuno… quasi mai…” borbottò Thomas leccandosi i residui di sangue intorno alle labbra.
“Perfetto creaturina. Io faccio la guardia e mi occupo di sistemare gli scocciatori nel caso ne arrivino, tu li trasporti!” sentenziò Amelie.
Thomas annuì e raccolse il corpo della ragazza. Amelie aprì la porta e gli fece cenno di attendere. Dopo pochi secondi con un altro cenno lo autorizzò a procedere. Thomas depositò la ragazza nell’angolo più buio del magazzino degli attrezzi e tornò per prendere anche il ragazzo.
Amelie annuì sistemandosi il colletto della camicetta. Del resto, prima o poi avrebbe dovuto trovarsi un amico, un alleato, un servitore. Insomma, qualcuno che obbedisse ai suoi desideri e comandi senza discuterli.
Mentre Thomas raccoglieva il corpo del ragazzo, la porta rimasta accostata si aprì e Amelie sussultò. Anche Thomas si agitò e la guardò annichilito.
Amelie tirò un sospiro di sollievo rendendosi conto che chi aveva aperto la porta era soltanto un gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato. Sembrava in effetti appena uscito da una battaglia.
“Stupido gattaccio, mi hai spaventata!” gli ringhiò contro Amelie.
Il gatto a sua volta le ringhiò e le si scagliò contro con l’evidente proposito di graffiarle una caviglia. Mentre Amelie si preparava a sferrargli un calcio però cambiò idea, con un balzo saltò sul ripiano e uscì dalla finestra aperta solo pochi centimetri.
“Odiosa bestiaccia!” fremette Amelie, mentre Thomas restava immobile a fissarla sostenendo il corpo del ragazzo sotto le ascelle “Svelto tu, vai a nascondere anche lui!” disse aprendo la porta e dandogli il segnale di via libera.
Thomas eseguì prontamente e tornò da lei con in mano la chiave del magazzino.
“Questa la possiamo tenere noi, per il momento” sorrise beffardo, complimentandosi tra sé per l’arguzia.
“Bene” annuì Amelie senza scomporsi, poi sorrise dolcemente comprendendo che era assolutamente necessario per lei assicurarsi la fedeltà dell’ingenuo ragazzotto. “Bravo Thomas!” gli schioccò un bacio leggero sulle labbra “Ora ti insegno a nutrirti, poi ci divertiamo un po’, sono sicura che ne avrai voglia anche tu, vero?”
Thomas Jones annuì soddisfatto e compiaciuto, proprio come un cane che ha appena riportato l’osso al padrone ricevendone una carezza sulla testa. Sempre pronto a recuperare l’osso lanciato, a ubbidire senza il minimo indugio. Amelie comprese immediatamente che non le restava altro che rilanciarlo e lui avrebbe ubbidito per poi tornare da lei, scodinzolando e aspettandosi un complimento, una carezza o un bacio. Alla fine le era sempre più chiaro che gli uomini, anche quelli trasformati, si comportavano proprio come cani.

 
                                                                      ********************
 

La vita era nel libro. Il personaggio era tutto. Tutto il resto non esisteva più. Spesso tutto il resto poteva anche smettere di esistere per ore o per giorni. Scomparire. Indipendentemente dal luogo in cui si trovasse. Indipendentemente da quanto tardi potesse essere.
Il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato, approfittando dell’apertura della porta della caffetteria Strawberry Dream, entrò di soppiatto e andò a infilarsi sotto la sedia del tavolino nell’angolo occupato da Maggie Pennington. Maggie Pennington, totalmente immersa in un’altra vita, in un’altra storia, in un’altra epoca, non se ne accorse e continuò a leggere il suo libro con aria trasognata, girando una pagina dopo l’altra. Il gatto sbadigliò, si leccò i baffi e si stese sulla pancia, sotto la sedia della ragazza, trattenendo l’istinto di leccare la pelle della sua caviglia che risaltava tra il calzino bianco con i risvolti rosa e i jeans.
Percependo i passi pesanti della cameriera avvicinarsi, il gatto ritenne fosse meglio per lui spostarsi e andare a rifugiarsi sotto il pesante tendaggio appeso alla finestra al lato del tavolino.
Maggie rimase con lo sguardo focalizzato sul libro, sbattendo solo impercettibilmente le palpebre nella lettura. La cameriera si fermò accanto a lei con le mani sui fianchi.
“Allora?” chiese a Maggie con sguardo corrucciato.
“Ciao Jenevieve, buona giornata Jenevieve” Maggie non alzò la testa dal libro, ma la voltò solo leggermente con un sorriso dolce ma fugace. Corrugò la fronte quasi preoccupata tornando alle pagine che aveva davanti, come se nella storia avesse a che fare con un evento drammatico.
“Insomma, prendi qualcosa?” Jenevieve non si mosse mantenendo lo sguardo imbronciato fisso su Maggie e le mani sui fianchi “Non puoi occupare un posto senza prendere qualcosa!”
“Aspetto Bliss, grazie” Maggie si rassegnò a sollevare la testa dal libro e fissò su Jenevieve gli occhi azzurri e ingenui.
“Bliss è in ritardo, come al solito!” borbottò Jenevieve “E tu non puoi occupare…”
“Vorrei una cioccolata, ma quella speciale che sa fare Bliss…” Maggie sorrise con dolcezza e si grattò una tempia “La tua fa un po’…”
Maggie si morse le labbra, prima che la parola “schifo” uscisse dalla sua bocca senza avere più la possibilità di tornare indietro.
“È un po’… leggera ecco…” si corresse in tempo. È acqua sporca con un vago, molto vago sapore di cioccolato, pensò tra sé.
Jenevieve le voltò le spalle senza rispondere e tornò dietro al bancone, dove altri clienti aspettavano di pagare o di bere. Maggie si massaggiò una spalla, ripensando all’ultima volta che aveva ordinato una “cioccolata alla Bliss” a Jenevieve.
“Una cioccolata che sappia di cioccolata e non di acqua sporca, una cioccolata fondente, densa e cremosa, con tanta panna montata e sopra scaglie di cioccolato. E con la panna montata che sappia di panna vera, non di plastica. E magari con a parte qualche pasticcino e una bella fettina di torta al limone. Ecco, questa è la cioccolata alla Bliss!”
Il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato si mosse pigramente da dietro il tendaggio e tornò a posizionarsi sotto la sedia di Maggie Pennington leccandosi i baffi. Maggie Pennington non lo vide né lo udì e tornò a immergersi nella storia narrata nel libro aperto sul tavolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***



CAPITOLO 4


 
Era consapevole del ritardo ma non aveva nessuna voglia di muoversi da lì. Le occhiate furiose di Jenevieve forse avrebbero potuto convincerla, se solo lei ci avesse fatto caso. Invece Maggie Pennington le ignorava e sorrideva beatamente alle righe stampate che scorrevano sotto i suoi occhi.
Finché il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato nel dormiveglia agitò la coda contro il suo polpaccio.
“Ehi?” Maggie inclinò la testa di lato e lo vide “Ci rivediamo a quanto pare! Quel cattivaccio di Nathan non ti ha fatto male vero, gattino?” lo scrutò per qualche istante attendendosi quasi una conferma “Beato te che puoi dormire… io invece fra un po’ dovrò andare… scuola, lavoro, niente cioccolata buona, quasi quasi la prossima volta rinasco gatto! Tu che ne dici?”
I passi strascicati di Jenevieve la raggiunsero all’istante.
“Qui dentro gli animali non sono assolutamente ammessi!”
A Maggie parve che la voce di Jenevieve avesse caricato a tal punto quell’”assolutamente ammessi” che ebbe la sensazione che quelle due parole contenessero decine si esse pronte come archi a scagliare frecce contro di lei. Mosse leggermente la testa a destra e poi a sinistra come per evitarle e non replicò.
“Cosa ci fa quel gatto qui dentro?” insistette Jenevieve, perentoria.
Maggie si inclinò di lato e vide il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato che continuava a dormire sotto la sua sedia, questa volta del tutto incurante della presenza di Jenevieve.
“Dorme, io direi…” rispose Maggie stringendosi nelle spalle. Cosa che vorrei fare anche io se potessi, pensò.
“Perché lo hai portato qui dentro, insomma?” dalle narici di Jenevieve sembrava uscire fumo, a Maggie ricordò per un attimo i personaggi infuriati nei cartoni animati.
“Non l’ho portato qui dentro io, ci è venuto da solo sulle sue gambe… mmh… zampe!” Maggie osservò l’espressione di Jenevieve ed ebbe l’impressione di peggiorare la situazione a ogni parola che pronunciava.
“E allora perché se ne sta a dormire sotto la tua sedia?” la rimbeccò l’altra.
“Perché…” Maggie si sforzò di pensare a una risposta che non la facesse infuriare ulteriormente. Rivelare che lei e il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato si erano già incontrati fugacemente quella mattina stessa nel giardino del suo vicino di casa Nathan Castle, non le parve un’idea eccellente.
“Perché?”
“Perché oggi è giovedì!” Maggie doveva ammetterlo con se stessa, nemmeno lei sapeva con esattezza cosa le passasse nella mente. In quel momento e il più delle volte.
“E con questo?” dall’espressione sempre più accigliata di Jenevieve, Maggie capì che forse avrebbe fatto meglio a dire la verità lasciando velatamente ricadere la colpa su quel cattivaccio di Nathan Castle, persecutore dei gatti randagi del quartiere.
“Perché… ho dato da mangiare ai gatti randagi una volta il giovedì, quindi da quel giorno… i gatti mi…” Maggie avrebbe voluto scomparire, letteralmente. Lo sguardo di Jenevieve esprimeva disprezzo allo stato puro, più per lei ormai che per il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato “mi… seguono il giovedì!” concluse, giusto per non lasciare la frase a metà. Le avevano insegnato che era maleducazione lasciare le frasi a metà.
Jenevieve a questo punto si allontanò senza dire una parola. Maggie sospirò di sollievo e tornò al suo libro, che nel frattempo si era chiuso. Non fece in tempo a recuperare la pagina dove era arrivata a leggere, che Jenevieve si ripresentò munita di scopa. Maggie temette per un istante che fosse destinata a lei, invece la cameriera furiosa si accanì contro il povero gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato, che come una saetta sfrecciò verso la porta d’ingresso dello Strawberry Dream, passando tra le gambe di Bliss Sanders che stava entrando in strepitoso ritardo proprio in quel momento.
“Ah, finalmente!” la aggredì Jenevieve con un’occhiata furente, andando a riporre la scopa nel retro.
“Buongiorno Jen!” sorrise Bliss richiudendo la porta tranquillamente e salutando Maggie con un gesto della mano.
Maggie rispose al cenno di saluto e sorrise, lanciando un’occhiata significativa verso il retro, dove Jenevieve era andata a rifugiarsi e a riporre la scopa.
“Che è successo?” Bliss si avvicinò a Maggie, scostandosi una ciocca di capelli ramati dalla fronte “È in modalità strega questa mattina, con quella scopa in mano?”
“Temo sia colpa mia questa volta” Maggie si mordicchiò un’unghia e sospirò profondamente dispiaciuta.
“Non ti preoccupare, niente di diverso dal solito. È sempre arrabbiata perché cercano tutti me” Bliss le strizzò l’occhio sorridendo. “Cioccolata alla Bliss?”
“Certo!” annuì Maggie soddisfatta “È proprio quello che aspettavo!”
“Te la preparo subito” Bliss si voltò verso il bancone per un attimo, poi tornò a guardare Maggie che teneva la mano ferma sul libro per non perdere la pagina. “Che stai leggendo questa volta?”
“Jane Eyre” Maggie sollevò il libro mostrando a Bliss la copertina. “Devo preparare una tesina sulle sorelle Brontë.”
“Ma che brava, io non ci riuscirei mai a leggere e studiare tanto!” Bliss si voltò di nuovo e si accorse che Jenevieve stava rientrando dalla sua pausa “Meglio che vada o quella chi la sente! La tua cioccolata arriva subito, aspettami qui…”
“Certo, io e Jane ti aspettiamo qui” Maggie annuì e sorrise mentre Bliss si allontanava. Tamburellò le dita sul tavolo chiedendosi se fosse il caso di chiedere una doppia cioccolata nel caso Jane avesse gradito, con tutti i drammi che stava vivendo.
 
 
                                                                       ********************
 
 
Lo trovò di spalle, intento a posizionare chissà quali intrugli su una mensola, mentre un libro all’apparenza antico era aperto sul grande tavolo di legno che occupava il centro dell’antro. Anche senza guardarlo direttamente in faccia la sua figura scura e imponente poteva mettere soggezione pure a chi aveva a che fare con lui quotidianamente.
Ryan si schiarì la voce solo per attirare la sua attenzione. Sapeva che l’alchimista era consapevole della sua presenza. Probabilmente aveva udito i suoi passi da quando era entrato. La sua distrazione era quindi del tutto intenzionale, come se volesse prendere tempo prima di affrontare un discorso spinoso.
Jean Claude von Klausen si voltò e per un istante rimase serio a guardarlo. Il suo volto era imperturbabile, come scolpito, gli occhi scuri e penetranti come quelli di un’aquila pronta a lanciarsi sulla preda. Poi mosse qualche passo verso di lui e le sue labbra sottili si piegarono in un sorriso forzato.
“Ryan Norwest” chiuse il libro che si trovò di fronte, distogliendo lo sguardo. “Bentornato nella mia umile dimora. E bentornato in città, soprattutto.”
Mentiva. Nessuno meglio di Ryan Norwest sapeva che l’alchimista von Klausen in quel momento stava mentendo spudoratamente. Non gli faceva piacere che lui fosse tornato in città e tantomeno nella sua “umile dimora”. Ma Ryan e tutto ciò che comportava la sua presenza e i suoi continui ritorni a Strawberry Hill gli erano stati imposti, come un male necessario. Averne a che fare era un dovere da cui nemmeno l’alchimista poteva esimersi.
“Grazie” anche Ryan accennò un sorriso di circostanza. Era incredibile il fatto che entrambi avessero accumulato tanto potere in tutto quel tempo, ma nessuno dei due fosse davvero libero di agire o di esprimersi come meglio credeva.
Il potere alla fine era una prigionia, meditò Ryan. Forse avrebbe dovuto rendersene conto prima, tanto tempo prima. La voce gutturale dell’alchimista richiamò la sua attenzione.
“Pronto per tornare all’opera?” Jean Claude fissò nuovamente lo sguardo su di lui, perentorio. Attendendosi ovviamente una conferma da parte sua.
“Come sempre” annuì Ryan incrociando le braccia sul petto. “Attendo come sempre di sapere tutto ciò che potrà essermi utile per… agire nel migliore dei modi.”
Non lo espresse chiaramente, ma lasciò volutamente cadere l’allusione sulle due donne con cui si era incontrato e scontrato poco prima. Nessuno mai, di norma, agiva in modo tanto nervoso e irascibile alla presenza dell’alchimista von Klausen. Era probabile che quella Faith, che senza ritegno aveva spinto anche lui in un angolo per farsi strada, non sapesse esattamente con chi aveva a che fare. I discepoli dell’alchimista lo consideravano per lo più un maestro, un vate e lo veneravano incondizionatamente.
“Come sempre” replicò Jean Claude scrollando le ampie spalle.
Ryan comprese che l’alchimista non gli avrebbe rivelato nulla di sua iniziativa. Toccava a lui chiedere spiegazioni. E forse era proprio ciò che von Klausen si aspettava. Che lui chiedesse. Per dimostrargli che se voleva poteva anche negargli una risposta. Ryan sospirò e strinse un pugno. Questi giochi di potere lo irritavano.
“Ho incontrato due donne, mentre aspettavo di entrare” dichiarò in tono neutro, senza aggiungere altro.
“Davvero?” Jean Claude sollevò solo un angolo della bocca in un sorriso appena accennato “Curiose creature, le donne.”
“Decisamente” annuì Ryan con convinzione “soprattutto quando sono così irascibili. Diventano inaffidabili a quel punto, oltre che curiose.”
“Preoccuparti di quelle due donne non è un problema tuo, Norwest” lo sguardo dell’alchimista divenne cupo e una ruga marcata gli attraversò la fronte.
“Lo diventa se quelle due donne fanno parte delle creature di Strawberry Hill” Ryan increspò le labbra lanciandogli un’occhiata di sfida. “Io conosco i miei doveri… a differenza di altri…”
Le ultime parole probabilmente avrebbe potuto e dovuto risparmiarsele. Sfidare l’alchimista così apertamente non si era mai dimostrata una buona idea, le esperienze passate avrebbero dovuto essergli di monito. Ma Ryan Norwest, cedendo per un attimo a un istinto irrefrenabile e ribelle, non era riuscito a trattenersi.
“Davvero?” Jean Claude si mosse nella sua direzione, mantenendo lo sguardo cupo fisso su di lui “Perché se non ricordo male tu hai una sorellina altrettanto… come dicevi? Irascibile e inaffidabile, oltre che curiosa? La piccola cara Amelie, è ancora con te?”
“Amelie è totalmente sotto il mio controllo” annuì Ryan.
Jean Claude sapeva ancora come colpirlo nei suoi punti deboli. Il suo legame con Amelie non era mai stato solido o collaborativo. E l’alchimista lo sapeva da sempre. Nonostante tutto Ryan confidava ancora che la situazione con la sorella potesse cambiare e migliorare prima o poi.
“Lo spero, lo spero” annuì l’alchimista con aria condiscendente “Le altre volte non è stato un soggetto facile con cui avere a che fare. Ma del resto nella vita si cresce… si cambia!”
Ryan Norwest ne era certo ormai. Von Klausen lo stava apertamente sfidando. Un’altra certezza si fece strada in lui, sempre di più. Era chiaro che quelle due donne nascondevano qualcosa. Qualcosa di cui l’alchimista non voleva che lui venisse a conoscenza. Qualcosa su cui invece avrebbe indagato al più presto.
 
 
                                                                       ********************
 
 
James Foster aprì la porta dello Strawberry Dream e si guardò intorno, sforzandosi di mantenere la calma. La ragazzina con le calzine bianche con i risvolti rosa era ancora seduta allo stesso tavolino e leggeva lo stesso libro tenendo la sedia in bilico.
Nemmeno si accorse di lui mentre si avviava nella sua direzione e prendeva posto al tavolino dietro al suo. James si sedette in modo tale da essere con le spalle quasi appoggiate a quelle della ragazza.
Maggie Pennington sollevò solo un occhiò dal libro, fugacemente, mentre l’altro era ancora impegnato nella lettura. Qualcuno si era seduto dietro di lei. Decise di tornare a sedersi composta sulla sedia e di smettere di dondolarsi, ma involontariamente la testa le ricadde all’indietro e andò a sbattere contro quella di James.
“Scusi, scusi…” mormorò e si aggrappò con entrambe le mani al tavolino, massaggiandosi poi la nuca.
“Non importa” rispose James schiarendosi la gola. Erano le prime parole che pronunciava dopo tanto tempo, a qualcuno che non fosse Andres Flick. E aveva detto “non importa” a una ragazza che si trovava di spalle contro di lui. Una ragazza che non staccava quasi mai gli occhi dal libro che stava leggendo e che aveva la testa dura. Anche James si massaggiò la nuca.
 “Ecco la tua super cioccolata Maggie” Bliss arrivò tenendo in bilico il vassoio su una mano e depositò la sua specialità sul tavolino di Maggie che sollevando gli occhi dal libro sorrise felice.
“Grazie, Bliss! E ci sono anche i pasticcini e la torta al limone! Non sai quanto bisogno ne ho!” sospirò con aria rassegnata “Per Jane la situazione non si sta mettendo bene, sai?”
“Ah davvero? Che le succede?” Bliss inclinò il viso e la guardò preoccupata.
“Una strana creatura vicino a lei, la minaccia” Maggie strinse gli occhi e corrugò la fronte. “Potrebbe farle veramente tanto male.”
Bliss strinse il vassoio tra le mani, fece cenno a Maggie di aspettare e rivolse la sua attenzione a James, che le sorrise cercando di essere il più naturale possibile.
“Un caffè, per favore” chiese semplicemente.
“Subito” annuì Bliss con un sorrsiso, allontanandosi verso il bancone.
Qualche minuto dopo Bliss era di ritorno con il caffè per James. Lo servì e si sedette al tavolino con Maggie che ora era immersa, oltre che nella lettura, anche nella cioccolata e nella torta al limone.
“Che mattinata!” Maggie accantonò il libro e la guardò, giocherellando con una ciocca castana “Sono dovuta scappare via dalla Perfida Sventura che gridava, mi urlava dietro come una pazza furiosa. Dovrei riuscire a organizzarmi per uscire dalla finestra, almeno evito di incontrarla ogni mattina.”
“E come pensi di fare Maggie, per sfuggire alla matrigna cattiva?” Bliss la scrutò massaggiandosi una spalla “Se fossi una farfalla potresti volare via…”
“Per quello mi basterebbe essere una mosca o un moscerino, così sarei ancora più piccola! No aspetta!” sollevò una mano, terrorizzata “Se poi incontro un gatto e mi mangia? A proposito di gatti… Nathan sta diventando sempre più sadico e crudele, dobbiamo intervenire!”
La straordinaria abilità e rapidità di Maggie di passare da un argomento all’altro ormai non sorprendeva più Bliss. Anzi, probabilmente non l’aveva mai sorpresa, la conosceva da quando avevano entrambe pochi anni di vita.
“Nathan Castle è diventato un gatto?” scherzò Bliss, sicura che Maggie l’avrebbe presa sul serio “Che novità è mai questa?”
“No, no…” Maggie scosse la testa sgranando gli occhi azzurri “Nathan è stato sadico e perverso con un gatto bianco e rosso! In realtà lo è con tutti i gatti, ma con uno in particolare questa mattina. Dopo che sono corsa via dalla Perfida Sventura per venire qui prima di andare in università, ho visto Nathan che studiava nel suo giardino. Non so come faccia a studiare in giardino, io non ci riuscirei mai. In giardino mi guarderei intorno, non studierei affatto. A meno che stia leggendo un libro interessante, allora leggerei e non mi guarderei intorno. Ma studiare biologia molecolare, chimica organica o cardiologia vascolare, non se ne parla proprio. In quel caso io mi guarderei proprio intorno, in giardino!”
“Ma Maggie… tu non studi biologia molecolare e tutte quelle cose… insomma, tu sei iscritta a letteratura!” la interruppe Bliss.
“Vero!” Maggie sorrise sollevata “Ah, che fortuna!”
James sorseggiò il suo caffè e appoggiò cautamente la tazzina sul piattino, mentre si sforzava di non scoppiare a ridere.
“Comunque…” Maggie si incupì e aggrottò la fronte nello sforzo di recuperare il filo del discorso “Ha preso il gatto e lo ha lanciato via! Nathan intendo! E io gli ho detto che non si trattano così i gatti! Fossi stata io quel gatto gli avrei graffiato il naso, ecco!”
“E lui?” Bliss seguiva le sue parole, concentrata.
“L’ho incontrato qui, poco fa! Pensa che combinazione!” Maggie incrociò le dita e appoggiò i gomiti sul tavolino.
“Ma chi, Nathan?”
“No no, il gatto!”
“Il gatto è venuto qui?”
“Sì, qui proprio sotto la mia sedia… il gatto bianco e rosso! Ma Jenevieve lo ha visto e lo ha cacciato via. Per quello aveva in mano la scopa, per cacciare il gatto bianco e rosso da sotto la mia sedia!” Maggie Pennington sospirò prendendosi il viso tra le mani.
“Ho capito, ora è tutto chiaro!” annuì Bliss legandosi meglio il grembiulino intorno alla vita.
“Dobbiamo fermare Nathan, usando tutti i mezzi” lo sguardo di Maggie si fece cupo, come pronto a una battaglia.
“Possiamo aizzare tutti i gatti del quartiere contro di lui” rise Bliss divertita. “Lo vorrei proprio vedere come corre!”
“Una squadra d’assalto!” Maggie rise ancora più forte “Se li sognerà anche di notte e poi li adorerà. Magari la prossima volta che andiamo da lui gli facciamo vedere “Gli Aristogatti”, sono così teneri!”
“Li adorerà solo per farti piacere, Maggie!” Bliss si alzò, vedendo che Jenevieve stava guardando insistentemente nella loro direzione “Nathan fa tante storie, ma in fondo farebbe qualsiasi cosa per te!”
“Allora dovrà essere carino con il gatto bianco e rosso e lasciargli del latte ogni mattina” annuì Maggie riprendendo “Jane Eyre” tra le mani, mentre Bliss tornava al suo lavoro.
James Foster si voltò a guardare la ragazza. Poteva vedere solo la sua nuca, i capelli castani che ricadevano su una spalla da un lato, il collo sottile dall’altro. Il suo odore era fresco e leggero. Si chiamava Maggie. Starle intorno gli faceva dimenticare chi era e cosa poteva diventare.
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5


 
“Sono tornato esclusivamente per svolgere il mio compito, come è sempre stato” Ryan abbassò lo sguardo per non permettere all’alchimista di leggere l’ira crescente nei suoi occhi.
Non riuscire a tenere a freno la rabbia era uno dei suoi limiti, delle sue debolezze. E Jean Claude von Klausen lo sapeva fin troppo bene. Ragion per cui lo sfidava ogni volta, più o meno apertamente.
“Per svolgere al meglio il tuo compito non puoi permetterti di avere particolari riguardi nei confronti di qualcuno, Ryan, nemmeno se si tratta di tua sorella.”
“Non ho mai riservato trattamenti di favore a nessuno, tanto meno ad Amelie” Ryan strinse i pugni, poi li rilasciò. “Anzi, sono sempre stato particolarmente severo con lei.”
“Il motivo per cui sei stato scelto e creato è la tua lealtà” l’alchimista si posizionò proprio di fronte a lui costringendolo a sollevare lo sguardo e a guardarlo in faccia. “Altri sarebbero stati probabilmente più idonei per svariati motivi, tra cui sicuramente la freddezza, l’autocontrollo. È la tua onestà, la tua dedizione che ti hanno fatto prevalere su candidati più forti e sicuri.”
Ryan celò un sorriso sarcastico con una smorfia. Come se ci fosse stata una competizione per ottenere un grande privilegio, un ruolo di prestigio! L’alchimista parlava della sua condizione come fosse un premio di cui essere fieri e grati. Forse non sapeva che quella che lui definiva lealtà, dedizione, non era altro che codardia, viltà e anche debolezza. Ryan non aveva il coraggio di ribellarsi, non lo aveva mai avuto. E da quando gli avevano affidato quel compito continuava imperterrito ad ubbidire e a seguire le regole. Automaticamente, soltanto perché così doveva essere, non perché ci credesse.
“Farò del mio meglio, come al solito” detestò se stesso mentre pronunciava quelle parole. Eccolo, che si inchinava nuovamente all’alchimista e a chi lo aveva creato, solo perché gli consentivano di sopravvivere e di tornare nella città che dopo tanto tempo gli spettava di diritto. E che era sempre stata sua, più che di chiunque altro.
“La culla delle creature” in quella fascia di terra, così chiamavano Strawberry Hill. E mentre l’alchimista e il suo creatore agivano nell’ombra, Ryan era stato designato per svolgere il lavoro sporco. In cambio gli permettevano di vivere alla luce del sole e di agire come un qualsiasi giovane uomo. Con in aggiunta una ricchezza sconfinata, potere e fascino. Non proprio qualsiasi quindi.
Ciò di cui chi lo aveva scelto tra altri non si rendeva conto probabilmente, era che la sua non era lealtà o dedizione, ma falsa condiscendenza. Oppure forse ne erano consapevoli, ma non aveva importanza per loro. Perché sapevano che per ribellarsi ci vuole carattere, attitudine. E a Ryan Norwest mancavano entrambi. Lui provava solo rabbia. E la sola rabbia, in mancanza di un temperamento battagliero e audace, era del tutto inutile, energia sprecata. Era una rabbia sempre pronta a esplodere, come una miccia. Ma che in realtà non esplodeva mai e bruciava solo internamente, logorandolo. Perché lui, esattamente come prima di essere trasformato, sapeva solo ubbidire alle regole, agli ordini.
“Quindi le creature sono a tua disposizione, come sempre” sogghignò l’alchimista apparentemente soddisfatto. “Occupatene e servitene come ritieni opportuno, ma senza scatenare guerre inutili tra specie, ovviamente.”
“Conosco il mio dovere” si limitò a replicare Ryan, mantenendo un tono calmo di voce. Fin troppo bene lo conosco, pensò.
“E per quanto riguarda gli umani, cautela” aggiunse Jean Claude, pacatamente, scandendo le parole.
Ryan annuì ma cominciò a innervosirsi. L’atmosfera si stava facendo pesante, rarefatta, le vibrazioni troppo intense e nervose. Doveva uscire di lì, al più presto.
“Sarai in grado di controllarla, questa volta?” lo redarguì l’alchimista, affrontandolo direttamente.
Eccolo che partiva all’attacco, di nuovo, conoscendo alla perfezione il suo punto debole. Amelie. Amelie che se ne infischiava delle regole e delle norme di comportamento e agiva come le pareva, sempre e comunque. A qualsiasi costo, a qualsiasi rischio. Sembrava quasi che lo facesse appositamente per farsi scoprire. Per mettersi nei guai.
“Sono certo che mia sorella capirà” Ryan lottò per trattenersi, per non scoppiare.
“Perché se lei o altre creature agiranno in modo sconsiderato e fuori da ogni regola e controllo per loro sarà la fine” l’alchimista lo sfidò con un sorriso beffardo sulle labbra sottili “questa volta.”
“Sarò io il primo ad assicurarmi che le regole siano rispettate da tutti, compresa mia sorella” Ryan strinse gli occhi verdi puntandoli dritti sull’alchimista von Klausen. “Ma tieni presente che se chiunque altro interferirà con il mio ruolo in città, mi avrà come nemico.”
Lanciò l’avvertimento con tono perentorio. Non voleva trovarsi intorno qualche discepolo dell’alchimista in incognito mandato appositamente a controllarlo, come era accaduto la volta precedente.
“Siamo d’accordo” annuì Jean Claude congiungendo le mani e rivolgendo l’attenzione sul libro che aveva posizionato sul tavolo. “Se ognuno rispetterà i propri confini, lavoreremo in perfetta sintonia.”
“Non ci saranno problemi, da parte mia” confermò Ryan freddamente, con distacco, mentre si augurava che la conversazione fosse finalmente giunta al termine.
“Dorian!” con un battito di mani l’alchimista chiamò uno dei suoi discepoli o assistenti… o come preferivano essere denominati.
Il ragazzo magro che gli aveva aperto al suo arrivo comparve immediatamente, come se fosse rimasto lì tutto il tempo.
“Accompagna il signor Norwest all’uscita, per favore” lo incoraggiò l’alchimista con sguardo benevolo.
Ryan accennò un sorriso di circostanza e gli voltò le spalle, pronto ad andarsene.
“Ryan…” l’alchimista lo richiamò immediatamente “non dimentichi qualcosa?” Reggeva tra le mani una boccetta di cristallo trasparente, contenente un liquido rosato.
Ryan annuì e afferrò la boccetta che l’alchimista gli stava porgendo “Grazie.”
“Linfa vitale di una creatura soprannaturale, finché non ne troverai una di cui servirti” gli occhi dell’alchimista si fecero acuti, quasi maligni. “Non è molta, non sprecarla. E scegli con saggezza la tua fonte, questa volta”.
Ryan Norwest si voltò senza replicare, con la boccetta di linfa vitale che gli bruciava tra le mani. L’avrebbe scagliata contro il muro, o direttamente in faccia all’alchimista von Klausen, se avesse avuto coraggio. Se non fosse stato un debole, un vigliacco. Probabilmente sua sorella Amelie lo avrebbe fatto. Consapevole poi di dover subire le conseguenze del suo gesto. Ma lo avrebbe fatto.
 
 
                                                                       ********************
 
 
Amelie Norwest aveva vagabondato tutto il giorno per la città in compagnia di Thomas Jones, l’umano che aveva appena trasformato in essere immortale. Entrambi sembravano genuinamente entusiasti della nuova condizione. Amelie, appena giunta in città, si era ritrovata un nuovo giocattolo vivente con cui dilettarsi. Thomas dal canto suo aveva sentito tutti i suoi sensi acutizzarsi improvvisamente ed era elettrizzato dalla novità, anche se a modo suo. Non aveva abbastanza esperienza ancora per capire che cosa avrebbe comportato per lui una trasformazione del genere. Amelie non aveva né il tempo né la pazienza per fornire spiegazioni e avvertimenti. E comunque non era certo il tipo. Non se n’era mai preoccupata, nemmeno quando la trasformazione aveva riguardato lei stessa. Ad Amelie bastava vivere e imparare vivendo.
Quando Amelie gli aveva indicato con gesto aggraziato il Magic Hill Bar, Thomas non aveva fatto altro che aprirle la porta per permetterle di entrare. E ora, seduti al bancone, si scolavano allegramente bicchierini di vodka e i più svariati tipi di cocktail. Il barista che aveva rifiutato categoricamente di servire da bere ad Amelie a causa della sua evidentissima giovane età, ora non faceva altro che ripetere “Certo mia signora” rivolgendole sguardi adoranti. Ammaliarlo era stato fin troppo facile.
“Quindi, mio caro” rise Amelie, tracannando l’ennesimo bicchierino di vodka e rivolgendo a Thomas uno sguardo annoiato “cosa hai detto che fai in questa città?"
“Studio medicina e lavoro in palestra come personal trainer” rispose spontaneamente Thomas, sorseggiando il suo cocktail.
“Interessante” Amelie si leccò voluttuosamente le labbra, con un sorrisetto. “Potremmo andare a farci un giro, mi è tornata fame e mi sono stancata di stare qui! Ma questa volta dobbiamo fare i bravi, mio caro.”
“Fare i bravi? Come?” Thomas la guardò confuso, inclinando leggermente il bicchiere che teneva in mano.
“Non eliminarli” scrollò le spalle Amelie. “Già dobbiamo sistemare quei due che abbiamo lasciato nel magazzino, diventa una tale noia se sono troppi!”
“Come vuoi, principessa” Thomas tracannò ciò che era rimasto del suo cocktail tutto d’un fiato e posò il bicchiere sul tavolo. “Faremo i bravi.”
“Andiamo allora!” Amelie si alzò in piedi, sistemandosi con una smorfia la camicetta sgualcita “Poi andiamo anche a fare un po’ di shopping, ne ho un gran bisogno, mio caro.”
Si era creata proprio una creaturina obbediente. Fin troppo forse. L’assecondava in tutto e la chiamava principessa. Ma del resto era solo l’inizio, magari nel giro di qualche giorno sarebbe cambiato. Amelie Norwest lo sperò. Di maschi condiscendenti ne aveva avuti fin troppi, nella sua vita.
 
 
                                                                       ********************
 
 
James Foster si alzò, lasciando libero il tavolino dello Strawberry Dream. La ragazza alle sue spalle stava ancora leggendo, completamente assorbita dalla storia. Passandole di fianco si soffermò per un istante accanto alla sua sedia, lanciandole un’occhiata distratta. Ma lei non sollevò il viso. James pagò il caffè che aveva consumato e uscì dalla caffetteria. Restare nella sua forma umana tra persone che non conosceva lo rendeva insicuro e lo metteva in imbarazzo.
Avrebbe voluto parlare con la ragazza chiamata Maggie, o anche solo salutarla. Magari con lei non sarebbe stato tanto complicato. Sembrava non fare caso a tante questioni che solitamente preoccupavano il resto dell’umanità. James aveva creduto che con lei potesse essere più semplice. Ma poi al momento opportuno, gli era mancato il coraggio. Forse si era solo illuso. E ora si trovava fuori dalla caffetteria. Aveva bisogno di rilassarsi, di correre un po’, indisturbato. Si infilò in un vicolo, facendo attenzione che nessuno lo notasse. Qualche minuto dopo dallo stesso vicolo sbucò un randagio nero dal pelo rasato che a tutta velocità si dirigeva verso la riva del fiume.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6


 
Non aveva detto una sola parola in macchina e appena entrata in casa era andata a rifugiarsi nella sua stanza, sbattendo la porta con una violenza tale che anche la parete aveva tremato. Con un salto aveva afferrato la maniglia della valigia riposta sopra l’armadio. Via da lì e subito. Era tutto ciò che Faith Chandler riusciva a pensare in quel momento. Via da lì e subito.
“Faith!” Susan entrò dopo qualche minuto, con aria contrita. Poi vide la valigia sul letto di Faith “Tu non andrai da nessuna parte!”
“Certo che ci andrò e tu non potrai fermarmi!” replicò Faith aprendo la valigia e cominciando a riempirla a caso, svuotando i cassetti uno dopo l’altro.
“Sei minorenne Faith, io sono tua madre e…” Susan si bloccò mentre Faith, incrociando le braccia sul petto, la fissava con uno sguardo carico di disprezzo “… e tu devi andare a scuola!”
“Sarò minorenne ancora per poco, come madre lasci molto a desiderare visto che mi hai sempre trascinata in giro per il mondo a tuo piacere e sei stata proprio tu a non permettermi di andare a scuola oggi per trascinarmi da quel losco individuo in nero! La tua collezione di psicopatici non era ancora al completo?” ribadì prontamente la ragazza, colpo su colpo.
“Io ho sempre avuto i miei motivi Faith” Susan si ravvivò meccanicamente i capelli ondulati con una mano e socchiuse gli occhi mesta. “E comunque Jean Claude von Klausen non è uno psicopatico… lui è un alchimista.”
“Certamente, i tuoi motivi…” annuì Faith sarcastica, contando sulle dita. “Vanità, avidità, presunzione, noncuranza, egoismo… e sicuramente ne ho dimenticati altri, ma ce ne sono davvero tanti che ti si addicono, mamma!”
“Lo so ho sbagliato, ma adesso siamo qui e ci resteremo, lo prometto, non cambieremo più!” Susan allungò la mano per accarezzare il braccio di Faith ma lei si mosse e si scansò per non permetterle di toccarla “Del resto tu stai bene qui, vero Faith? La scuola ti piace, hai amici?”
Faith non rispose. Non voleva che sua madre scoprisse la verità sulla sua vita a Strawberry Hill, perché la verità l’avrebbe resa debole e vulnerabile. Faith non avrebbe mai voluto regalare a sua madre tutto questo potere su di lei. E tanto meno a quel suo squallido amico, che viveva in quella specie di caverna e aveva l’aria di un oscuro signore del male. Susan non meritava di conoscere le sue debolezze e usarle contro di lei.
“Non ti avrei mai portato da von Klausen se la situazione non fosse stata più che grave” Susan l’afferrò per le spalle cercando di incrociare il suo sguardo.
“Grave?” Faith sospirò alzando gli occhi al cielo “Grave in che senso? Ci spostiamo da sempre, da una città all’altra come due vagabonde senza fissa dimora, vuol dire allora che la situazione è sempre stata grave!”
“Questa volta dobbiamo cercare di non farci notare troppo…” Susan iniziò con calma a riporre gli indumenti di Faith nei cassetti.
“Parla per te, io non mi faccio mai notare!” Faith alzò il tono di voce fremente di rabbia “Io non ho mai fatto niente! Io non sono diventata un… “
Susan si voltò e posò le dita sulle labbra di Faith, stringendo gli occhi.
“Non dirlo, Faith!”
“E perché no se è la verità?” la ragazza si scostò andando a sedersi sul letto, fissando il pavimento “Non è anche quello il motivo per cui continuiamo a spostarci? Per un po’ la gente ci crede, certo… sei stata una super modella, ovvio che tu sia ancora bellissima e giovane, ma… poi iniziano a fare qualche calcolo, vedendo me...”
Susan rimase in silenzio e si sedette sul letto, di fianco a Faith.
“Faith… è sempre più complicato di quanto sembra…”
“Se io sparissi tu non avresti più questo problema” Faith scrollò le spalle e si alzò, afferrando il suo zaino. Lo aprì e controllò meticolosamente il contenuto.
“Non puoi andartene. Io non te lo permetterò” Susan le puntò addosso uno sguardo severo, arido. “E comunque ti troverei, ho i mezzi per farlo.”
“Lo so” Faith le rivolse un’occhiata sprezzante. “Mi troveresti. L’unico che non ti è mai importato di ritrovare è mio padre!” con lo zaino sulla spalla fece qualche passo verso la porta della sua camera “E comunque sto andando a scuola. Prove con la squadra di ginnastica ritmica, come una qualsiasi brava ragazza! Contenta?”
“Io ho fatto di tutto per ritrovare tuo padre da quando è scomparso.” Susan si morse le labbra e osservò la figlia fermarsi davanti allo specchio di fianco alla porta per legarsi i capelli in una coda morbida.
“Non mi importa quello che hai fatto” Faith le voltò le spalle oltrepassando la soglia. “Evidentemente non è stato abbastanza! E qualunque progetto su di me abbiate tu e il tuo amico in nero, toglietevelo dalla testa!”
Susan sospirò e chiuse gli occhi. Ciò che udì qualche istante dopo fu la figlia che uscendo sbatteva vigorosamente la porta di casa.
 
 
                                                                      ********************
 
 
Maggie continuava imperterrita a leggere il suo libro. Non aveva alcuna voglia di muoversi da lì. Era, in fondo, la persona più pigra che conosceva. Senza staccare gli occhi dal libro sollevò il braccio per controllare il suo orologio. Ormai aveva deciso che sarebbe entrata a lezione alle dieci e si sarebbe fatta passare gli appunti della lezione precedente da qualcuno. Decise di finire il capitolo, mancavano solo poche pagine. Poi si sarebbe avviata.
Terminate anche quelle pagine, non le restò che alzarsi. “Ormai sto diventando parte dell’arredamento qui…” mormorò raccogliendo il libro e la borsa.
“Te ne vai?” Bliss si avvicinò al tavolino con il vassoio in mano per ritirare la tazza e il piattino “Oggi quella noiosa mi ha tenuta impegnata, uffa! Con la scusa che ho fatto un po’ tardi!”
“Sì vado, voglio entrare per la lezione delle dieci. E voglio passeggiare fino all’università, non correre come al solito!” Maggie rise, dirigendosi verso l’uscita dello Strawberry Dream.
“Allora a dopo” Bliss le strizzò l’occhio. “Buona lezione!”
“Grazie!”
Maggie Pennington uscì dalla caffetteria e si incamminò verso l’università con passo deciso ma lento. Non voleva correre, aveva tempo. Ma proprio per questo doveva cercare di non perdersi come al solito. Troppo spesso usciva con l’intenzione di andare in un posto e si ritrovava in un altro. E no, questo non andava più bene. Si doveva mettere d’impegno ancora di più. E restare concentrata, focalizzata su ciò che doveva fare.
Oltrepassò il parco e il negozio di libri antichi di Herr Andres Flick. Fu tentata di entrare a salutarlo, ma decise di rinunciare, avrebbe senz’altro perso la lezione. Ci sarebbe andata l’indomani, per il suo turno in libreria. Si trovavano libri meravigliosi nel negozio di Herr Flick. Lo stesso “Jane Eyre” che stava leggendo per la sua tesina era una delle prime edizioni che Andres Flick le aveva regalato qualche settimana prima. A volte a Maggie sembrava che quell’uomo ne sapesse così tanto di tutti quegli autori del passato, quasi come se li avesse conosciuti e frequentati personalmente.
Maggie varcò il cancello dell’università, oltrepassò l’ingresso ed entrò nell’edificio. Si guardò intorno, nel caso ci fosse qualcuno di sua conoscenza nei paraggi. Sapeva di avere la seconda lezione di letteratura alle dieci quella mattina. Ma non ricordava assolutamente in che aula fosse. Prese l’agenda dalla borsa per controllare se l’aveva segnato almeno lì. Ovviamente se n’era dimenticata. Quindi non le restava altro da fare che cercare il cartellone dove erano esposti tutti gli orari delle lezioni e controllare l’aula dove si sarebbe svolta la sua.
Sospirò grattandosi una tempia. L’orario delle lezioni. Se non ricordava male doveva trovarsi vicino alla segreteria. Altrimenti avrebbe chiesto a qualcuno. Non aveva nessuna intenzione di perdersi tra i corridoi alla ricerca di quello stupido cartellone con tutti gli orari delle lezioni!
Rischiava di perdere così tanto tempo, pensò Maggie. E di trovare l’aula completamente vuota, con la lezione già finita da un pezzo. Allora che utilità avrebbe avuto per lei conoscere l’aula della lezione, senza più lezione da seguire? A questo punto tanto meglio sedersi nel piccolo parco di fronte all’università e continuare a leggere… Però poi si sarebbe sentita davvero troppo in colpa a chiedere a Laura, una sua compagna di corsi, tutti gli appunti delle lezioni. Veramente, il senso di colpa e frustrazione l’avrebbero tormentata per il resto della giornata. Certo che Laura era proprio brava, si segnava veramente tutto, anche i puntini e le virgole. Quindi forse alla fine era comunque conveniente chiedere a lei. Maggie invece a metà lezione o anche prima, se diventava troppo noiosa, si perdeva dietro a qualche fantasia. Oppure si concentrava a tal punto su una frase o una citazione, da dimenticare di seguire tutto il resto della lezione.
Improvvisamente intravide una figura nota infilarsi dentro un’aula. Aveva già visto quella ragazza dai capelli rossi, seguiva il suo stesso corso di letteratura mitica e anche di antropologia. Quindi molto probabilmente frequentava le sue stesse lezioni. Si lanciò svelta verso l’aula e andò a sedersi due file dietro la ragazza e l’amica che era entrata insieme a lei.
Qualche minuto dopo entrò anche il professore. Strano, non lo aveva mai visto prima, doveva essere uno nuovo. Magari il solito era in malattia. Ma perché aveva cominciato a parlare di molecole, di atomi, di particelle? E perché faceva strani disegni sulla lavagna? Maggie si mordicchiò un’unghia, riflettendo. Forse c’era una possibilità che quella fosse una sorta di letteratura alternativa o contemporaneo-futuristica. Come nell’arte contemporanea, quando guardava qualche quadro esclamando entusiasta “Oh, bello!” mentre in realtà non ne comprendeva il senso. In ogni caso cominciò a seguire, sempre più affascinata, i disegni e le linee che il professore tracciava sulla lavagna.
Le sue speranze svanirono del tutto quando vide entrare in aula, dieci minuti dopo, Nathan Castle, con la solita espressione tra l’annoiato e il depresso e lo sguardo sarcastico di uno che si trova lì per fare un favore a qualcun altro, non a se stesso. Allora Maggie comprese, ebbe la certezza assoluta, che quella non era affatto una lezione di letteratura alternativa, contemporaneo-futuristica. Era sicuramente chimica oppure fisica. Davvero un peccato perché i disegni sulla lavagna stavano diventando veramente carini e affascinanti nei loro giri ed evoluzioni. E se Maggie non avesse saputo ora che non c’entravano proprio nulla, avrebbe pensato che potessero essere un portale verso un mondo mitico e fantastico.
 
 
                                                                      ********************
 
 
Un cane randagio nero dal pelo rasato se ne stava adagiato comodamente sulla pancia. L’erba della radura era fresca e morbida e la riva del fiume quasi deserta. Solo un vecchio pescatore, che dopo aver raccolto i suoi attrezzi e le sue canne, si stava allontanando verso la strada principale.
Si sentiva più a suo agio in quella forma. Nessuno faceva caso a lui solitamente e poteva stare in pace con se stesso e con il mondo. Sapeva di dover cambiare atteggiamento, prima o poi, di dover prendere l’abitudine. Ma essere un uomo comportava rispettare determinate regole e responsabilità.
Gli era stato concesso quel “privilegio” per la sua sicurezza. Questo era tutto ciò che sapeva a proposito della sua storia. Ciò che Andres Flick gli aveva raccontato, senza scendere troppo nei dettagli. Non avrebbe dovuto trascorrere la maggior parte del suo tempo in quelle condizioni. In fondo dentro era sempre lui, quello che provava era la stessa inadeguatezza, la stessa frustrazione. Il resto non aveva importanza.
Sarebbe anche potuto restare così per sempre. Valeva la pena di rifletterci seriamente. Non era una brutta vita. Era una vita, almeno. Temeva però di dimenticare se stesso. Di dimenticare com’era davvero. Poteva essere chiunque lasciando perdere se stesso, una volta per tutte. Certo non sarebbe stata una gran perdita, nemmeno per lui.
Il vecchio pescatore era ormai un puntino lontano. Il cane randagio nero dal pelo rasato sollevò il muso e con noncuranza si guardò intorno. Nessuno, era completamente solo in quella radura isolata. Si avvicinò ancora di più alla sponda del fiume. Allungò le zampe stendendo i muscoli, roteò la testa, mentre una spalla incominciava a prendere forma umana dal dorso del cane.
Solo quando la mutazione fu conclusa si rese conto di essere completamente nudo. Certo nella sua forma animale non aveva tutta questa importanza l’essere nudi o meno. I suoi abiti erano rimasti in fondo a quel vicolo adiacente la caffetteria Strawberry Dream.
James Foster si stese sulla riva del fiume sgranchendosi la schiena e i muscoli, poi incrociò le braccia sotto la testa e guardò in alto. Il cielo era limpido, il sole non ancora caldo ma in compenso la temperatura stava diventando abbastanza mite. Si passò le mani tra i capelli castani togliendosi il ciuffo dagli occhi, poi lasciò scivolare le braccia stendendole lungo i fianchi. Chiuse gli occhi per un istante, poi li riaprì mentre l’acqua gli sfiorava i talloni e le caviglie. Si alzò in piedi ed entrò deciso, si sedette per poi stendersi in modo tale che l’acqua del fiume lo sommergesse completamente. Fu tentato per un attimo ma ripensando al vecchio pescatore stabilì che non era proprio il caso di diventare un pesce per poi finire nello stomaco di qualcuno. In ogni caso non poteva andarsene da lì completamente nudo, quindi avrebbe dovuto prepararsi a una nuova trasformazione.
Ritrasse le braccia e strinse i pugni, si mise in posizione prona per poi inginocchiarsi, mentre il suo corpo iniziava a ricoprirsi di una peluria bianca e rossa. Improvvisamente un fruscio proveniente da dietro un cespuglio richiamò la sua attenzione. Il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato rizzò le orecchie e fissò lo sguardo proprio verso quel cespuglio, in posizione di attacco. Un animale. Non poteva essere altro che un animale lì dietro. Magari un altro gatto. Un gatto vero. Doveva fare più attenzione. O rischiava di mettersi seriamente in pericolo agendo in modo sconsiderato e imprudente. E ciò che avrebbe dovuto proteggerlo sarebbe stata la sua condanna, se qualcuno lo avesse scoperto.
Il gatto magro e smunto dal pelo bianco e rosso poco curato fece un giro su se stesso, poi si avviò veloce come una scheggia verso il vicolo adiacente la caffetteria. James Foster sarebbe passato dall’università prima del tramonto. E qualcuno avrebbe ricevuto una sgradita sorpresa. La giovane succhiasangue sadica e perversa meritava di perdere qualche pezzo della sua collezione, almeno per una volta.
 
                                                                      ********************
 
 
“Dimmi cosa ci fai a una lezione di fisica?” Nathan Castle sollevò un sopracciglio sostando davanti al banco dove Maggie Pennington riponeva il libro e la matita nella borsa chiudendo poi con cura la cerniera lampo.
“I disegnini erano veramente molto carini” rispose Maggie corrucciata, arricciando il naso.
“Ah davvero?” Nathan scosse la testa ridendo “Tu sei tutta matta!”
“Sbagliavo lezione, ecco cosa ci facevo qui genio!” Maggie si incamminò ancora più imbronciata verso l’uscita dell’aula lasciandolo indietro “Addio, Castle!”
“Non ti arrabbiare piccola Penny!” Nathan la rincorse e le girò intorno improvvisando una sorta di danza indiana “Facciamo così, se la smetti di essere arrabbiata con me ti preparo il pranzo!”
Maggie si fermò incrociando le braccia sul petto, fingendo di rifletterci su.
“Anche come hai trattato quel povero gattino indifeso questa mattina non mi è piaciuto affatto, Castle! Per cui il pranzo dovrà essere molto, molto buono…”
“Lasagne, che ne dici?” propose Nathan entusiasta dell’idea “Quelle che ti piacciono, con tante verdurine…”
Maggie non ebbe il tempo di rispondere. Le due ragazze che aveva seguito alla lezione sbagliata si avvicinarono sorridendo a Nathan Castle. Una rossa e una bionda, con vestitini colorati e sorriso smagliante, sembravano appena uscite da una rivista di moda.
“Nathan ciao” sorrise la ragazza dai capelli rossi inclinando leggermente il viso con aria suadente. “Vieni a mangiare qualcosa con noi alla tavola calda?”
“Grazie Annie ma…” Nathan sorrise guardando la ragazza negli occhi chiari “ho già un impegno!”
“Va bene, la prossima volta allora. A presto, Nathan” Annie rivolse un’occhiata fugace a Maggie, per poi spostare nuovamente l’attenzione su Nathan.
 “Ciao, Nathan” sospirò l’altra ragazza con voce cristallina.
“Ciao Annie, ciao Dorothy” Nathan restò immobile a fissare Annie finché si fu allontanata con la sua amica bionda.
Fu Maggie a scuoterlo tirandolo per la manica della camicia.
“Guarda che puoi anche andare con loro se vuoi, io non mi offendo!”
“Lo so che posso, ma non voglio… perché tutto ciò che voglio dalla vita in questo momento è cucinarti lasagne, Penny!” Nathan riprese a camminare verso l’uscita dell’università e Maggie lo affiancò.
“Ah sì? Allora come mai la guardavi con occhi da triglia, Castle… non è che ti sei innamorato di quella lì?”
“Io? Innamorato di quella lì? Ma figurati, io sono…” Nathan si fermò un istante fingendo di sforzarsi per rammentare “io sono un sadico cinico perverso scienziato pazzo che non sa cosa sia la magia e il sentimento!”
Maggie rise forte, dandogli un colpetto sulla nuca con la mano “Ma dai, ti ricordi ancora?”
“Ovviamente Penny, quella scena resterà per sempre scolpita nella mia memoria!” Nathan tirò una ciocca di capelli a Maggie, mentre entrambi oltrepassavano il cancello dell’università “Terza media, secondo giorno di scuola, subito dopo la lezione di letteratura su “Romeo e Giulietta” alla mia affermazione: invece di tornare e morire Romeo poteva rifarsi una vita!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7
 

 
Ogni volta che rientrava in quella casa, da quando il suo mondo era cambiato tanto tempo prima, si sentiva oppresso dal silenzio. Tutto finalmente gli apparteneva ora, in un certo senso, però mai nella sua vita mortale avrebbe immaginato che sarebbe accaduto in quel modo. Ancor meno che sarebbe sprofondato in quella solitudine, in quella quiete cupa e quasi agghiacciante.
“Amelie è uscita?” Ryan si versò un bicchiere di sherry da una delle bottiglie poste sopra al tavolino delle bevande e si voltò verso Alfred che era giunto alle sue spalle.
“La signorina Amelie è andata a scuola… così mi ha riferito” annuì Alfred restando in piedi immobile di fronte a Ryan.
“Già, chissà invece dov’è e cosa diavolo sta combinando!” Ryan sorseggiò lo sherry e si lasciò cadere sulla poltrona di fianco al tavolino, reggendo il bicchiere in mano “Grazie Alfred, può andare.”
Alfred annuì e si ritirò, dopo un leggero inchino. Ryan socchiuse per un attimo gli occhi, poi li riaprì fissando il liquido ambrato nel bicchiere che reggeva tra due dita.
Non si fidava di Amelie, neanche per un attimo avrebbe creduto che questa volta si sarebbe comportata in modo adeguato. L’aveva ingannato troppe volte, troppe volte lui aveva creduto che il suo atteggiamento sarebbe cambiato finalmente. Invece costantemente Ryan si ritrovava a fare i conti con una nuova delusione e con l’incombenza e la responsabilità di dover risolvere ogni guaio che la sorella combinava appositamente per fargli dispetto.
Per prima cosa aveva bisogno di cercare e conoscere le nuove creature di Strawberry Hill. Era assolutamente necessario per lui sapere con chi aveva a che fare, per imparare a gestire la situazione e dominare la cittadina per il tempo che gli sarebbe stato concesso di restare. Detestava il fatto che non fosse una scelta che dipendeva da lui. Non era mai Ryan a decidere quando era giunto il momento di andarsene.
Continuò a fissare il contenuto del bicchiere con aria assorta. Poi lo avvicinò alle labbra e con un gesto rapido mandò giù, reclinando leggermente la testa all’indietro e socchiudendo gli occhi. Si ritrovò tra le mani il bicchiere vuoto e riprese a fissarlo, concentrato.
La cittadina di Strawberry Hill gli apparteneva, a lui più che a chiunque altro. Gli spettava di diritto dopo tutto ciò che aveva fatto per preservarla e mantenerla in sicurezza. E lui voleva restare. Voleva essere libero di andarsene e tornare a suo piacimento, non perché comandato, come un burattino di cui altri tiravano i fili. Almeno su questo punto Amelie aveva ragione quando gli rinfacciava di non avere nessun potere, nessuna autorità di decisione sulla propria esistenza. Perché se qualcuno improvvisamente avesse deciso che era di troppo lo avrebbe eliminato senza scrupoli o ripensamenti. Ryan Norwest era solo una pedina nelle mani di qualcuno più forte e potente di lui. Una pedina che non sapeva fare altro che ubbidire. E la consapevolezza della sua situazione lo innervosiva e lo frustrava.
Ma da solo non avrebbe avuto possibilità alcuna. Aveva bisogno della collaborazione di Jean Claude von Klausen. Dubitava che l’alchimista lo avrebbe aiutato spontaneamente a raggiungere il suo scopo. Allora non gli restava altro da fare che costringerlo. Doveva anche sapere chi fossero quelle due donne e perché si trovassero lì. Per costringere Jean Claude a essere dalla sua parte era necessario per Ryan riuscire a scoprire ogni sua debolezza, ogni sua fragilità. Aveva imparato nel corso della sua lunga vita che nessuno era realmente invulnerabile, tutti avevano punti deboli. Compreso l’apparentemente inattaccabile alchimista von Klausen.
 
 
                                                                      ********************
 
 
Faith si aggirava per il mercato con disinteresse, senza guardare niente. In fondo niente l’attraeva e non riusciva nemmeno a fingere. Anzi, camminava con lo sguardo ostinatamente rivolto a terra. Quel luogo gioioso e pieno di colori vivaci non serviva a cambiare il suo umore nero, non le infondeva allegria alcuna.
Aveva assolutamente bisogno di non pensare. Di togliersi dalla mente sua madre e l’incontro della mattina con quella specie di genio dell’occulto, Jean Claude von Klausen. E ciò che aveva assoluto bisogno di dimenticare in quel momento era la sua maledizione, l’ombra oscura e malvagia che la seguiva da sempre. Ma Faith non poteva illudersi, mai, neanche per un istante. Perché l’oscurità la seguiva, camminava con lei ovunque andasse a nascondersi. Decidesse anche di fuggire, come aveva minacciato di fare più volte, l’oscurità l’avrebbe seguita. Perché l’oscurità, che lei lo volesse o meno, che lei lo accettasse o meno, era dentro di lei, innata in lei.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere una vita normale e soprattutto stabile. Una storia normale. Una famiglia normale. Invece sua madre da troppo tempo era sempre la stessa. Giovane, bellissima, provocante. Suo padre era scomparso nel nulla inabissandosi nell’Oceano Pacifico a bordo del suo aereo privato quando Faith aveva solo quattro anni. Rammentava vagamente i suoi tratti, ma ricordava che lui era sempre stato buono e gentile con lei. Conservava alcune sue fotografie per non dimenticarlo. Fotografie con lei, da piccola. E lei rideva sempre, sembrava una bambina allegra. Poi lui se n’era andato e le poche foto che successivamente l’avevano ritratta erano diventate serie, tristi, forzate.
Faith si fermò di fronte a una bancarella di bigiotteria e iniziò a passare lentamente il dito su alcuni braccialetti colorati, come se fosse intenzionata a sceglierne uno. In realtà pensava a tutt’altro, aveva solo bisogno di fermarsi per un attimo.
“Molto belli, vero mia cara?” la proprietaria della bancarella le sorrise gentilmente.
“Sì certo… molto belli…” annuì Faith rivolgendole un sorriso di circostanza.
“Scegline uno, ti faccio un buon prezzo” la incoraggiò la donna, invitante.
“Va bene” Faith passò nuovamente le dita tra i bracciali e sorrise indicandone uno a caso “voglio questo qui!”
Pochi minuti dopo Faith si allontanava dalla bancarella indossando il suo braccialetto nuovo. Riusciva a essere quasi felice quando nella sua vita si illudeva di ritrovare un po’ di normalità. Dei gesti normali, quotidiani, come aggirarsi per il mercato in festa, comprare un braccialetto di pietre colorate.
Amava la scuola, perché almeno lì poteva essere normale. O almeno sforzarsi di esserlo. Nel bene o nel male Faith Chandler era una liceale di diciassette anni come tutte le altre.
Faith continuò ad aggirarsi per il mercato, cercando di rilassarsi e fermandosi di fronte a ogni bancarella. Magari poteva comprarsi una maglietta nuova con gli strass. Oppure delle mollette per i capelli. Qualsiasi cosa poteva essere utile per non pensare alla realtà che l’attendeva tornando a casa. Qualsiasi distrazione era ben accetta.
“Mi scusi bella signorina…” qualcuno improvvisamente la stava toccando sulla spalla.
Faith sobbalzò, poi si voltò con un sorriso raggiante. Anche se aveva alterato la voce, sapeva che era lui, lo aveva riconosciuto all’istante.
“Philip!” si buttò tra le sue braccia di slancio. Ecco, la sua normalità! Il ragazzo che aveva conosciuto l’anno prima e che frequentava assiduamente da alcuni mesi. Ne aveva bisogno, in quel momento più che mai e lui era arrivato, come seguendo il suo richiamo.
“Ma che bella accoglienza” sorrise il giovane circondandole la vita con un braccio e baciandola dolcemente sulle labbra. “Dovrebbe essere così più spesso.”
“Oggi sono più contenta del solito di vederti” Faith sorrise e appoggiò la fronte sulla sua spalla. Se lui avesse saputo la verità su di lei, l’avrebbe accettata? Avrebbe ancora desiderato una come lei al suo fianco?
“E perché?” Philip le accarezzò i capelli e la schiena.
“Perché…” Faith gli prese la mano e si incamminò con lui, sorridendo gioiosa tra le bancarelle del mercato. “Non saprei… forse perché è primavera!”
 
 
                                                                       ********************
 
 
Dal colpo dato alla porta Ryan comprese che lei era finalmente a casa. Da quando era tornato aveva bevuto altri quattro bicchieri di sherry.
“Posso averne uno anch’io?” Amelie, giunta in salotto, inclinò la testa con espressione maliziosa indicando il bicchiere che lui reggeva in mano.
“Non te lo meriti” lui corrugò la fronte fissandola severo. “E poi immagino che tu abbia bevuto già più che a sufficienza, vero?”
Amelie si strinse nelle spalle e sprofondò sul divano, buttando la testa indietro.
“Insomma, mi devo pur riabituare alla nuova vita qui!”
“È andato tutto bene?” la interrogò Ryan, pur consapevole del fatto che lui e la sorella minore avevano concezioni diverse di “bene”.
“Certamente, benissimo!” annuì Amelie con un sorriso mesto “Ho ritirato i documenti della scuola, tra le altre cose.”
“Non oso nemmeno chiedere quali siano le altre cose…” Ryan si passò una mano tra i capelli appoggiando la testa allo schienale della poltrona, chiuse gli occhi.
“Se non ci credi, ecco!” Amelie estrasse i documenti dalla borsa e glieli gettò sulle ginocchia “E li dovresti firmare anche tu, perché come ben sai io ho solo quattordici anni e c’è bisogno della firma del mio tutore legale” dicendo questo gli gettò sulle ginocchia anche una penna.
Documenti di iscrizione al locale liceo di Strawberry Hill. Amelie era passata a ritirarli nel pomeriggio, tra le altre cose. E sempre tra le altre cose era tornata all’università, accompagnata dalla sua nuova creatura Thomas. Solo per scoprire che i corpi del ragazzo e della ragazza che avevano nascosto nel magazzino adiacente al bagno maschile erano scomparsi. I casi erano due: o erano tornati in vita e se ne erano andati sulle proprie gambe, oppure qualcuno li aveva spostati. Ma considerato il fatto che Amelie era assolutamente certa di non aver lasciato nemmeno una goccia di sangue nei loro corpi, la seconda ipotesi era molto più plausibile.
Amelie rivolse lo sguardo a Ryan che stava esaminando tranquillamente i documenti del liceo. Fu per un attimo tentata di spezzare quella tranquillità raccontandogli della piccola deviazione in università, con relativo pasto e trasformazione di nuova creatura che ora si aggirava sola, confusa e probabilmente affamata per la città, ma si trattenne. Non era dell’umore di ricevere l’ennesima sfuriata.
Ryan firmò i documenti e li riconsegnò alla sorella guardandola serio, senza dire una parola.
“E tu a cosa ti iscriverai questa volta?” Amelie li afferrò e li mise in borsa piegati.
“Non ne ho idea, ancora” sospirò Ryan alzandosi in piedi e osservando la bottiglia quasi vuota sul tavolino. “Magari a niente. Potrei trovare un altro modo per passare inosservato qui.”
“Quindi il mio fratellino non sarà più uno studente modello?” ridacchiò Amelie.
“Lo sono stato troppe volte, qui e altrove. Credo di averne abbastanza. Magari questa volta mi troverò un lavoro.”
“E che tipo di lavoro?” Amelie si alzò, afferrò la bottiglia dal tavolino e bevve a canna qualche sorso.
“Non saprei. Probabilmente uno che mi permetta di passare ancora più inosservato” replicò Ryan strappandole la bottiglia dalle mani.
“Magari l’avvocato o il medico” rise Amelie cercando di riprendersi la bottiglia che però Ryan sollevava oltre la sua testa.
“Ho detto inosservato, Amelie!” Ryan roteò gli occhi, ridendo e bevendo una sorsata di sherry.
“Allora potresti entrare nell’esercito. Nel dare ordini non ti supera nessuno!” suggerì Amelie, con una smorfia.
“Ma dovrei anche riceverne…”
“Non se usi il nostro piccolo potere. Saresti subito generale. Generale Norwest, suona bene!”
“Amelie… hai chiaro nella tua piccola mente il concetto della parola inosservato?”
“Allora… perché non torni a fare quello che facevi tempo fa e sembrava ti piacesse tanto?”
Ryan scrollò le spalle e sorrise increspando le labbra.
“Erano solo passatempi. Niente di serio.”
“E non ti pare che la serietà ti abbia già rovinato abbastanza questa dannata eternità?” Amelie approfittò del momento di distrazione del fratello e gli rubò la bottiglia dalle mani, terminando il suo contenuto in un’ultima poderosa sorsata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8


 
La villa era da sempre in fase di ristrutturazione. Dalla prima volta in cui Alexander ci aveva messo piede, ancora bambino, le condizioni della grande villa gotica di Strawberry Hill non erano cambiate di molto.
Non gli importava particolarmente, del resto non aveva mai vissuto lì. Nemmeno con i suoi genitori. Ora che loro non c’erano più, era diventato il suo rifugio, anche se non l’aveva mai sentita sua.  La villa e l’immenso giardino circostante erano vietati al pubblico di curiosi che di tanto in tanto animavano i dintorni della villa di Strawberry Hill, spinti esclusivamente da una storia dal sapore leggendario e dal fascino del proibito.
Alexander Hamilton, l’unico proprietario rimasto in vita, sapeva che le leggende legate a quel luogo pittoresco e un po’ selvaggio erano tutte false, un’opera di fantasia. Perché l’unica storia, quella reale, era legata a lui, l’ultimo discendente diretto di Branwell Hamilton, il primo possessore della villa. Colui a cui risaliva la maledizione del drago, come lui l’aveva sempre sentita chiamare da suo padre.
La gente amava le favole, leggende di principesse in pericolo, grandi eroi. Nella verità la favola non trovava spazio. Non si trattava di una lotta del bene contro il male, in cui il bene alla fine vinceva e il male veniva sconfitto per sempre. Perché la vera lotta che Alexander era costretto a combattere era contro se stesso. Il male contro il male. Ed era una lotta da cui, ne era certo, non sarebbe mai uscito vincitore.
Alexander si sedette, come annichilito, sui gradini di granito bianchi che conducevano all’interno della villa, direttamente nell’immenso salone principale. Rivide la scena a cui aveva assistito, era ancora chiara e vivida nella sua mente. L’immagine della trasformazione di quel giovane sulla riva del fiume non lo abbandonava. Da animale in essere umano, da essere umano in animale. Allora lui non era l’unico. L’unico essere in un certo senso soprannaturale esistente al mondo.
Sospirò mordendosi il labbro, battendo un pugno sul gradino. Non sarebbe dovuta toccare a lui, quella tragedia. Lui era destinato ad attraversare l’esistenza senza essere scalfito dalla maledizione che toccava in sorte al primogenito della discendenza di Branwell Hamilton.
Suo padre e dopo di lui suo fratello maggiore. Se un incidente non avesse in pochi minuti spazzato via la sua intera famiglia, lui sarebbe stato libero. Suo fratello Albert era cresciuto sapendo cosa gli sarebbe toccato. Alexander sarebbe rimasto al riparo da tutto questo, avrebbe continuato a studiare e a pianificare una vita tranquilla. Se il destino non si fosse abbattuto su di lui ribaltando la situazione.
Alexander sollevò il viso e si voltò verso la villa. La odiava. Per quel maledetto mostro in stile gotico Branwell Hamilton aveva scatenato su di sé la maledizione che avrebbe colpito e condannato la sua discendenza in eterno. Però ora che stava realmente per cadere a pezzi era sua responsabilità scegliere. Farla abbattere o ristrutturarla seriamente. L’avrebbe volentieri distrutta e annientata per sempre se fosse servito a qualcosa. Oppure sarebbe fuggito lontano, abbandonando la villa e il suo contenuto a chiunque volesse impossessarsene.
Ma era già successo. Suo padre gli aveva raccontato che il suo trisnonno era fuggito tempo prima abbandonando la villa al suo destino, per cercare fortuna in America con la sua famiglia. Sperando di lasciarsi il maleficio alle spalle. Inutilmente, perché la maledizione del drago lo aveva seguito anche lì portando distruzione e morte. Solo uno dei suoi figli si era salvato ed era stato costretto a tornare a Strawberry Hill, dove l’immensa villa e la sua maledizione lo attendevano ancora.
Alexander sospirò, passandosi le mani sul volto. Suo padre non si era mai allontanato da Strawberry Hill. Allora perché quell’incidente stradale li aveva colpiti, uccidendo sul colpo i suoi genitori e suo fratello maggiore e lasciando lui incolume? Alexander si sforzava di credere che fosse solo un caso, una coincidenza. Non voleva e non poteva accettare che la maledizione del drago stesse cercando proprio lui.
 
 
                                                                       ********************
 
 
“Allora, quale film ti piacerebbe guardare?” Nathan sbadigliò stiracchiandosi sul divano.
“Non lo so, a te cosa piacerebbe?” Maggie si voltò verso di lui, accoccolandosi e massaggiandosi lo stomaco “Sono pienissima, Castle dovresti aprire un ristorante!”
“Attenzione, potrei riempirti come nella storia di “Hansel e Gretel” e poi mangiarti!” rise Nathan pizzicandole il braccio “No, non sei ancora pronta, manca ancora un po’… vuoi il gelato?”
“Tu mi tenti in modo indegno, cattivone!” sbuffò Maggie poi incurvò le labbra “E lo fai solo per mangiarmi?”
“Ovviamente! Scegli un film dall’armadietto, io tolgo il gelato dal frigo!” Nathan si alzò per raggiungere la cucina.
Maggie raggiunse l’armadietto indicatole da Nathan e passò in rassegna i dvd. Non aveva alcuna intenzione di tornare a casa. Sarebbe rimasta lì con Nathan se solo avesse potuto. Sospirò chiudendo gli occhi per un attimo e abbassò il viso.
“Allora hai deciso?” Nathan rientrò in soggiorno con due coppette colme di gelato.
“No, non ancora…” Maggie si voltò verso di lui accennando un sorriso.
“ “Il Signore degli Anelli”, se vuoi ci guardiamo la trilogia fino all’alba!” propose il ragazzo sistemandosi comodamente sul divano, con un cuscino dietro la nuca.
“Va bene!” Maggie annuì, sfilò il dvd dalla custodia e lo posizionò nel lettore.
Si accomodò di fianco a Nathan mentre le varie opzioni del film apparivano sullo schermo. Si morse le labbra cercando di restare calma e rilassata. Poi si ricordò del gelato posto sul tavolino di fronte a lei e prese la coppetta e il cucchiaino tra le mani iniziando a mangiarlo lentamente.
“Dovresti seriamente considerare l’idea di trasferirti qui, Penny!” Nathan sospirò e le rivolse uno sguardo serio e risoluto “Ogni volta che si avvicina l’ora di andartene fai quell’espressione ed è davvero insopportabile da vedere!”
“Quale espressione?” Maggie si mordicchiò un lato del labbro e abbassò il viso sul gelato, tormentandolo con il cucchiaio perché si sciogliesse più in fretta.
“Quella!” Nathan cercò di seguire il suo sguardo e le sollevò il mento con due dita “Sembri una bambina ferita che non vuole tornare a casa da una famiglia che la maltratta… Ma Penny, hai più di vent’anni ormai, lo sai che puoi stare dove vuoi e con chi vuoi, vero?”
“Mmmh…” Maggie lo guardò senza aggiungere niente. I suoi occhi azzurri erano diventati lucidi nello sforzo di trattenere le lacrime.
“La casa è grande e io sono solo” Nathan azionò il telecomando per fare iniziare il film.
“Non mi daranno mai il permesso di venire a vivere qui con te…” Maggie fissò lo sguardo sullo schermo del televisore mentre scorrevano i titoli di testa.
“È assurdo! Se avessi frequentato l’università in un’altra città non avrebbero fatto tante storie su dove tu avresti vissuto o con chi!” ribadì Nathan incrociando le braccia irritato.
“Almeno Darrick e Lester sono andati a Cambridge” Maggie accennò un sorriso appoggiando la testa sulla spalla di Nathan. “Sono stata veramente contenta quando li hanno accettati lì!”
“Gli odiosi fratellastri” Nathan aggrottò la fronte accarezzando fugacemente i capelli di Maggie.
“La Perfida Sventura dice che forse torneranno per le vacanze estive ed è tanto felice che i suoi preziosi figlioli siano tanto bravi e studiosi!” la ragazza gli rivolse uno sguardo disperato “Tre mesi con loro intorno! Io spero che se ne vadano da un’altra parte in vacanza… Ormai non sono più abituata a loro, non voglio riabituarmici…”
“Se tornano ricomincerà la guerra, Penny, stanne certa!” Nathan le strizzò l’occhio e cercò di simulare un ghigno malefico “Lo sai che sono più forte di loro due messi insieme, vero? Molto più forte e anche più cattivo!”
“Sì sì, mi ricordo bene…” Maggie annuì e sorrise sforzandosi di concentrare l’attenzione sul film che stava per iniziare.
Nathan Castle guardò le prime immagini sullo schermo, poi si voltò verso Maggie, ormai totalmente rapita da quella storia fantastica e coinvolgente. Non avrebbe lasciato che qualcuno le facesse del male di nuovo. Né la matrigna, né i fratellastri e nemmeno suo padre, da sempre incapace di difenderla, avrebbero ferito la sua Penny. Abbassò lo sguardo sulla coppetta di gelato posta sul tavolino. La vide spostarsi di qualche centimetro. Chiuse gli occhi, poi li riaprì e tornò a guardare nello stesso punto. Nathan fece un respiro profondo, doveva calmarsi, trattenere la rabbia, non poteva permettere che accadesse di nuovo. E non di fronte a lei, soprattutto. La coppetta di gelato si fermò, mentre il ragazzo riprendeva il controllo di se stesso e delle sue emozioni. Lanciò un’occhiata fugace a Maggie Pennington, la sua Penny, che non si era accorta di nulla e continuava assorta a guardare “Il Signore degli Anelli”.
 
 
                                                                       ********************
 
 
Costringere l’alchimista von Klausen a stare dalla sua parte. Era un’impresa quasi impossibile ma valeva la pena tentare. E per tentare Ryan Norwest doveva riuscire a scoprire di più su di lui. Anzi tutto ciò che lo riguardava. Cosa aveva combinato negli ultimi decenni? In che affari era coinvolto? Chi erano quelle due donne? Faith. La più giovane si chiamava Faith.
“Io devo uscire” comunicò semplicemente alla sorella avviandosi deciso verso la porta.
“Vengo con te allora!” Amelie si alzò dal divano e posò la bottiglia vuota sul tavolo.
“Sono affari privati” Ryan si voltò verso di lei sollevando un sopracciglio. “E tu sei ubriaca.”
“Io ubriaca?” Amelie scattò verso di lui e gli si piazzò davanti bloccandogli il passaggio “Ti sembro ubriaca?”
“Ti ho detto che sono affari privati, Amelie” Ryan la oltrepassò e raggiunse la porta.
“E va bene, che noia!” Amelie corrugò la fronte e scattò verso il divano stendendosi di nuovo “Vuol dire che passerò il resto della giornata ad annoiarmi” alzò la voce mentre il fratello usciva di casa. “E tu lo sai che detesto annoiarmi!”
Ryan salì in macchina e si passò le mani tra i capelli castano chiaro, per poi posarle sul volante. Avrebbe portato Amelie con sé per evitare che combinasse qualche guaio. Ma doverle raccontare i suoi piani nei confronti di von Klausen e di chi li aveva trasformati era decisamente troppo. E Amelie lo aveva deluso troppe volte perché potesse fidarsi di lei. Avviò il motore e partì, guardando la casa nello specchietto retrovisore mentre usciva dal cancello e si allontanava.
Faith. Doveva capire chi fosse quella ragazza e l’altra donna che la stava chiamando e seguendo, cercando di fermarla. L’alchimista non era certo tipo da lasciare che ragazzine nervose si aggirassero per i corridoi del suo antro. Quindi ci doveva essere una spiegazione. E lui doveva scoprire di che cosa si trattava.
Ryan rallentò raggiungendo il centro della cittadina, poi prese la strada laterale che conduceva verso la periferia ovest, dove gli agglomerati urbani erano meno frequenti e gli spazi più aperti.
La casa era rimasta quasi uguale, a parte la cinta e la siepe che la circondavano e il vialetto meglio delineato, con ciottoli chiari posti su entrambi i lati. Per il resto era la solita abitazione in mattoni, in prossimità della radura che portava al boschetto di Strawberry Hill. Ryan rimase per qualche istante in macchina, prima di scendere e fissare la porta della casa. Non aveva idea di cosa aspettarsi e la consapevolezza di essere sul punto di perdere un altro dei suoi punti fermi viventi nella cittadina lo destabilizzava. Ne aveva persi troppi nel corso del suo eterno presente.
Quella era la visita che non avrebbe mai voluto compiere. Ma si trattava di un passaggio obbligato. E non solo a causa di von Klausen e delle due donne misteriose. Sperava solo di ritardarlo il più possibile. Ma ora che si era ritrovato lì di fronte non poteva più tirarsi indietro, risalire in macchina e scappare. Ryan aprì il cancelletto richiudendolo delicatamente alle sue spalle, poi raggiunse la porta di legno in pochi passi. Aggrottò la fronte, bussò deciso e attese.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9


 
Probabilmente non c’era nessuno. Ryan voltò le spalle alla casa e aveva già percorso metà del vialetto quando la porta si aprì.
“Ryan Norwest” la voce lo colpì come un pugnale che si infilava gelido e pungente tra le scapole.
Ryan attese alcuni secondi prima di voltarsi. Voleva prendere tempo prima di avere conferma di come e quanto la situazione fosse cambiata.
“Rosalie…” pronunciando il nome Ryan si voltò, tenendo lo sguardo abbassato. Poi si decise ad alzare gli occhi e la vide. Si sforzò di rimanere impassibile.
“Non fingere che tutto sia rimasto uguale, Ryan” la donna accennò un sorriso e si appoggiò con il fianco alla porta. “Lo sappiamo entrambi che non è così, almeno per quanto riguarda me.”
“Non fingerò, Rosalie” Ryan si avvicinò e ricambiò il sorriso. “Ma la verità è che sono contento di rivederti, davvero…”
“Credevi che avessi già abbandonato questo triste mondo?” Rosalie si passò le dita sulla fronte. Ryan notò i suoi occhi stanchi e segnati, le rughe profonde che le solcavano la fronte e gli angoli della bocca.
“So che non lo abbandonerai finché avrai qualcosa da fare” rispose Ryan con un sospiro mentre prendeva confidenza con la nuova immagine di Rosalie Cohen, così diversa rispetto a tanti anni prima e soprattutto dalla prima volta in cui l’aveva incontrata.
“Mi conosci bene, allora” annuì Rosalie spostandosi di lato per aprire la porta e lasciarlo entrare in casa. “Come io conosco te e so che non sei passato solo per assicurarti che facessi ancora parte di questo mondo. Perché sei qui, Ryan?”
Ryan Norwest entrò e lasciò scorrere lo sguardo tra i mobili del salottino di Rosalie, caldo e intimo. In un attimo i ricordi del passato erano di nuovo lì, presenti e vividi. E Ryan si sentì a casa. In quella che, una volta, aveva considerato una vera casa. Nel frattempo Rosalie si era seduta sul divanetto di fronte al camino e con un gesto lo stava invitando a sedersi accanto a lei.
“Sono passato da von Klausen” disse Ryan schietto, deciso ad andare subito al punto senza tergiversare. “Ho incontrato due donne. Una delle due, la più giovane, si chiama Faith. L’alchimista nasconde qualcosa e non vuole che io sappia. Tu sai chi sono quelle due?”
“Streghe nere” rispose Rosalie semplicemente, altrettanto diretta. “Faith e Susan Chandler.”
“La concorrenza, quindi” dedusse Ryan con una smorfia.
“Esattamente” Rosalie si alzò e lo guardò negli occhi con espressione malinconica. “Vado a preparare una tisana, mio caro… è una storiella piuttosto lunga.”
 
 
                                                                       ********************
 

Aveva deciso di far restaurare la villa, definitivamente questa volta. Il team di architetti incaricati lo avrebbe contattato da un giorno all’altro per prendere accordi. Alexander Hamilton si alzò dal gradino su cui stava seduto. Si sentiva ardere, come in un fuoco. Percorse i quattro scalini che lo separavano dall’arcata principale che conduceva all’ingresso della villa. Cercò la chiave nello zaino e aprì.
Il senso di oppressione e malessere come sempre lo assalì ancora prima di varcare la soglia. Lo ignorò, oltrepassò l’immenso salone decadente e si diresse verso la scalinata in marmo che conduceva al piano superiore.
Arrivò nello stanzone del primo piano. La “sala del mosaico”, l’aveva sempre sentita chiamare da suo padre e suo fratello. Li aveva sempre ascoltati distrattamente quando ne parlavano. Perché in quel momento non erano affari che riguardavano lui direttamente. La maledizione non avrebbe colpito lui, Alexander se ne sentiva immune. Quindi egoisticamente non si interessava all’argomento, voleva solo distanziarsene. Non si interessava alla villa di Strawberry Hill, non si interessava alla vita di Branwell Hamilton, non si interessava al drago.
Ora invece erano lì, nel grande dipinto appeso nella “sala del mosaico”. Branwell e il drago che dalla parete lo guardavano dritto negli occhi, con aria di sfida. Come a schernirlo per il destino da cui era certo di sfuggire e che invece era piombato su di lui e lo aveva travolto quattro anni prima.
Alexander sentiva di odiarli entrambi, Branwell e il drago maledetto, e non riusciva a trattenere l’istinto che ogni volta lo afferrava di distruggere quella sala e soprattutto quel ritratto. Gli occhi di Branwell così simili ai suoi, così delineati e cupi, le ciglia folte, come un’ombra gettata su quelle pennellate di grigio verde. Gli zigomi alti, la bocca perfettamente disegnata, i capelli chiari. Chiunque lo avrebbe scambiato per il ritratto dello stesso Alexander in abiti d’epoca, se non avesse saputo che si trattava di un suo antenato.
Suo padre e Albert ne erano consapevoli, da quando Alexander crescendo si trasformava sempre più nella copia vivente di Branwell. Lui stesso se n’era reso conto, ogni giorno di più, restando impotente di fronte all’evidenza. E cresceva odiando il suo aspetto, cercando in tutti i modi di alterarlo. Si era fatto crescere i capelli, aveva indossato per un certo periodo delle lenti a contatto di un colore diverso.
Ma il drago lo aveva trovato lo stesso, sbarazzandosi lungo il suo percorso di suo padre e suo fratello. Ora Alexander era rimasto solo in balia della maledizione, senza sapere cosa Branwell avesse mai realmente fatto per scatenarla. Si sentì ardere nuovamente, come un fuoco che divampava dalla sua gola e corrodeva l’intero suo corpo, lasciandolo inerme.
Alexander si precipitò fuori dalla villa barcollando e nello sforzo cadde a faccia in giù nel giardino. Quella sensazione di fuoco nelle vene lo faceva fremere in tutto il corpo. Poi poco alla volta si placò e alla fine scomparve. Il giovane si ritrovò seduto a terra e si strinse le ginocchia al petto. Quanto sarebbe durata la prossima volta? E quando sarebbe giunto il momento della trasformazione vera e propria?
Domande a cui Alexander non sapeva rispondere. Suo padre e suo fratello non avevano mai subito quegli attacchi. Suo padre li aspettava, consapevole che sarebbe accaduto prima o poi. Invece aveva trascorso l’adolescenza e la maturità incolume. Forse perché, ora era evidente, non era colui che il drago cercava. Alexander si mise carponi e fissò il terreno come smarrito. Poi alzò lo sguardo e si rese conto che era diventato buio. Doveva tornare a casa, dai suoi nonni materni. Gli unici parenti che gli erano rimasti a conoscenza del suo dramma, del destino crudele che lo aveva colpito. Coloro che avrebbe dovuto lasciare per sempre e che avrebbe rimpianto quando il drago e la sua maledizione avrebbero preso il sopravvento sulla sua volontà, sulla sua capacità di controllarsi.
 
 
                                                                        ********************
 
 
I discepoli di Jean Claude von Klausen erano totalmente succubi del maestro. Cosa di cui il maestro si compiaceva. Ogni volta che impartiva i suoi insegnamenti a nessuno di loro passava per la mente di mettere in dubbio le sue parole. Sedevano in semicerchio attorno a lui in totale adorazione, ascoltandolo in silenzio assoluto, con gli sguardi puntati su di lui.
La storia della città, le sue tradizioni. E non si trattava mai di storia e tradizioni il cui studio fosse disponibile a qualsiasi studente interessato al passato di Strawberry Hill. Chi sceglieva di diventare discepolo dell’alchimista von Klausen e veniva da lui accettato doveva essere disposto a stipulare un patto e rispettare determinate regole. La prima e fondamentale era la regola di obbedienza e segretezza. Il luogo, gli incontri, chi ne faceva parte, l’obbiettivo della missione dovevano restare segreti.
Era capitato, in passato, che qualcuno tradisse o semplicemente si lasciasse sfuggire una parola di troppo in proposito. Durante l’incontro successivo si veniva a sapere che il malcapitato era dovuto partire per un viaggio imprevisto. Problemi personali, era ciò che riferiva l’alchimista ai suoi discepoli a proposito dell’improvvisa partenza del compagno.
“Nero come la notte è il fulcro del potere” l’alchimista passò in rassegna le dodici paia di occhi fissi su di lui. “Si sta per risvegliare. E immenso potere oscuro porterà immensa grandezza. E chi avrà la fortuna di esserci prenderà parte in eterno a questo potere, a questo grande disegno.”
Dorian Green si sforzava di credere nelle parole e nelle promesse dell’alchimista, ma non ne era ancora certo. Aveva bisogno di prove, a differenza dei suoi compagni. Avrebbe desiderato, con tutto se stesso, lasciarsi andare e affidarsi totalmente a Jean Claude von Klausen, il suo maestro. Ma ancora una parte del suo spirito, non sapeva quanto grande e quanto importante per il suo futuro, si rifiutava di cedere la sua anima senza assicurazioni o inconfutabili certezze. Voleva di più, pretendeva di più. Voleva toccare con mano quel potere di cui l’alchimista continuava a raccontare. Solo allora non avrebbe più opposto resistenza. Solo allora avrebbe rinnegato la specie a cui apparteneva per dedicare la propria esistenza alla causa, al grande disegno come lo chiamava l’alchimista. E allora probabilmente von Klausen si sarebbe trovato di fronte qualcuno la cui ambizione era pari, o forse superiore, alla sua.
 

                                                                       ********************
 

Ryan increspò le labbra. Così Faith e Susan Chandler erano due streghe nere. Che cosa aveva a che fare l’alchimista von Klausen con due streghe nere?
“Ne sei sicura?” interrogò Rosalie che gli porgeva una tazza, la prese e se la rigirò tra le mani.
“Non sono più giovane e sprovveduta” Rosalie sorseggiò la sua tisana e lo guardò seria. “La situazione è cominciata a cambiare da quando quelle due sono apparse in città. E al contrario delle creature della tua specie, mio caro Ryan, noi abbiamo la facoltà di riconoscerci tra di noi quando il nostro potere si è totalmente sviluppato.”
“Quindi le hai incontrate” dedusse Ryan fissando il contenuto della tazza. Perché Rosalie, una strega bianca, si era incontrata con due streghe nere? E come? E quando?
“È stato casuale” Rosalie comprese i suoi dubbi “più di quanto tu creda. E loro non si sono accorte di me.”
“Che cosa vorrà von Klausen da due streghe nere?” Ryan decise di non indagare a proposito dell’incontro. Conosceva Rosalie, se avesse insistito troppo si sarebbe sentita costretta e non gli avrebbe detto più nulla. Appoggiò la tazza sul tavolo e cercò con gli occhi lo sguardo della donna.
“Domanda scontata di cui non conosco la risposta, purtroppo” Rosalie sollevò le spalle. “Ti risponderò con tre parole: nulla di buono.”
“Hai potere contro di loro, Rosalie?” Ryan aveva la netta sensazione che la strega gli stesse raccontando meno di quello che sapeva in realtà.
Rosalie gli rivolse un’occhiata gelida e per la prima volta da quando era entrato nella sua casa Ryan la riconobbe. La Rosalie Cohen forte e risoluta che aveva incontrato tanti anni prima. Nonostante gli anni era ancora lì, di fronte a lui. E non aveva paura di lui, esattamente come la prima volta che si erano incontrati.
“Sì Ryan, ce l’ho. Ma non lo userò a meno che non sia necessario.”
“Capisco, sì ti capisco perfettamente” Ryan annuì e si alzò, avrebbe dovuto affrontare il problema da solo. “Devi proteggere te stessa, Rosalie.”
“No, non capisci invece” Rosalie sospirò e Ryan vide il suo volto irrigidirsi. “Non lo faccio per proteggere me stessa. Non ho mai protetto me stessa, del resto.”
Ryan Norwest annuì e si voltò verso il camino, avvicinandosi di qualche passo. Posò lo sguardo sulle fotografie di famiglia di Rosalie e aggrottò la fronte, confuso.
“Shirley?” afferrando la fotografia di una giovane donna dai capelli scuri e il sorriso radioso, si voltò verso Rosalie, fremendo “Come? Cosa hai fatto, Rosalie?”
“No… lei è Danielle, non Shirley” Rosalie prese la fotografia dalle mani di Ryan e la posò nuovamente sul ripiano sopra il caminetto.
“Hai detto che è una storia lunga” Ryan tornò a sedersi e la guardò con aria severa. “Credo di avere il diritto di ascoltarla, visto che mi riguarda, in parte. Ti ascolto, Rosalie.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2586777