Hearthfire

di Valpur
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Homecoming ***
Capitolo 2: *** Flameheart ***
Capitolo 3: *** Chase the Light ***



Capitolo 1
*** Homecoming ***


Prologo
 
 
 
La punta della penna grattava sulla pergamena e si lasciava dietro uno strascico di parole; quel fruscio era l’unico suono nella stanza di pietra, a parte il frenetico, remoto abbaiare che proveniva da fuori.
 
“… La sagoma nera sfrecciò davanti al sole velato e si allontanò verso la campagna. 
Presi un profondo respiro e voltai le spalle alle guardie; non avevo percorso…”
 
L’inchiostro sbiadì e il tratto delle lettere –addossate l’una sull’altra, inclinate verso destra- si fece sottile e irregolare. La piccola mano callosa si sollevò dal foglio e intinse con precisione la penna nel calamaio lì accanto; qualche goccia d’inchiostro scivolò sul bordo di vetro e andò a sparire nelle nere profondità del contenitore. Le parole tornarono a imprimersi, nere e lucenti, sulla superficie pallida.


“… che pochi gradini quando…”
 
Niente da fare, i latrati non volevano saperne di smettere. Con uno sbuffo dal fondo della gola, molto simile a un grugnito, Alina mise giù la penna e si appoggiò allo schienale. Il bordo di legno premeva contro la nuca mentre guardava in su, verso l’alto soffitto con le belle travi a vista, giusto un po’ annerite vicino al camino. La luce del tardo pomeriggio era ancora vivida in quel giorno d’estate, e bagnava d’oro e fiamme la superficie scura e lucida della scrivania, il mazzo di fiori un po’ appassiti nel vaso e la lama delle armi appese alle pareti. Granelli di polvere scintillavano nei raggi di sole, piccole esplosioni di diamante nell’aria tersa.
Il ritratto della quiete, l’ideale per mettersi tranquilla a scrivere le proprie memorie.
In teoria, almeno, visto che Rolf e il Monco, i due mastini, sembravano aver deciso che era ora di dedicarsi a un concilio canino decisamente chiassoso.
Alina sospirò, inarcò la schiena e tese le braccia verso l’alto. Dita piccole e sporche di inchiostro, ora, ma mani ancora forti, poco più magre rispetto all’epoca delle sue avventure.
Quanto tempo era passato? Dieci anni? No, di più, almeno dodici. Senza un briciolo di nostalgia fece schioccare le nocche e si raddrizzò.
Dopo essersi scostata dagli occhi una ciocca ancora quasi del tutto nera si concesse un’occhiata fuori dalla finestra. Dragonsreach si ergeva poco distante, il profilo affilato contro il cielo blu. Come sempre lo sguardo scivolò giù fino al tetto di Jorrvaskr, ma questa volta non ci fu tempo per indugiare in lontane reminiscenze.
C’era un cavaliere incappucciato lungo il sentiero, a non più di una manciata di minuti da casa. 
Con una fitta di colpa per aver mentalmente rimproverato i cani che stavano solo facendo il loro mestiere di guardiani, Alina spinse indietro la sedia e si alzò. Chiunque fosse il visitatore non lo avrebbe certo accolto con addosso solo la tunica da casa, più simile a una camicia da notte consunta che altro. Invecchiando si era rassegnata a qualche regola d’etichetta.
Si affrettò al piano di sopra salendo due scalini alla volta; il grande letto matrimoniale era ancora disfatto, con un mucchio di vestiti appesi al pomolo della testiera. Alina agguantò la prima sopravveste che le capitò sotto le dita e se la infilò con un unico movimento fluido.
I cani in cortile abbaiavano sempre più forte, e ora c’era anche una nota acuta nel tono, quasi un guaito. Quel suono le fece rizzare i capelli sulla nuca in una remota premonizione, ma non vi badò. Riavviò la mezza chioma –il tempo era stato clemente con le cicatrici, ora pallide e poco più lucide del resto del viso, e la pelle era appena segnata da rughe attorno agli occhi- e, reggendo la gonna con un’imprecazione, ripercorse la rampa di scale fino all’ingresso.
I suoi passi riecheggiarono nella casa deserta e si interruppero sulla soglia. Alina afferrò la maniglia e l’abbassò.
Il sole l’abbagliò per un istante; scorse la sagoma nera di un cavallo impastoiato alla buona alla staccionata e poco altro. I cani avevano smesso di abbaiare ma non di far rumore: un groviglio di pelo grigio e nero uggiolava tutto esaltato ai piedi di una figura accucciata.
“… chi sono i miei bravi cagnoloni, eh? Chi sono?”
Alina dovette stringere i denti per bloccare il nodo di commozione che le si sciolse in gola, ma non poté impedire a un ampio sorriso di schiudersi sul suo volto. Il visitatore alzò la testa; nel far ciò il cappuccio ricadde, rivelando una folta zazzera rosso fuoco e una faccia liscia piena di lentiggini.
“Sorpresa!” esclamò il ragazzo.
Alina scoppiò a ridere e gli corse incontro, impicciata dalle ampie gonne. 

“Gael!” mormorò stringendolo a sé. Non era molto più alto di lei e sembrava avere le ossa di un uccellino, snello com’era, ma Alina non riuscì a impedirsi di pensare che era cresciuto rispetto all’ultima volta che l’aveva visto.

“Mamma… mamma, smettila, così non respiro!” si lamentò Gael, pur senza dar cenno di volersi sciogliere dall’abbraccio.
Alina gli schioccò un bacio sulla guancia e gli prese il viso tra le mani.

“Non mi aspettavo di vederti, non così presto! Ero convinta che all’Accademia fossero ben più severi con le loro giovani promesse!”
Gael scosse la testa e allontanò con un colpo della coscia uno dei cani –il Monco, in precario equilibrio sulle tre zampe- rischiando di cadere a sua volta. Alina ritrasse le mani e gli fece cenno di seguirla in casa, ma non riuscì a distogliere lo sguardo da lui: forse lo pensa ogni madre che non vede il figlio per dieci lunghi mesi, ma Gael si era davvero fatto più robusto. Forse non più alto, ma le spalle erano più larghe; a vent’anni stava finalmente smettendo di sembrare un ragazzino. Nascose un sorriso agli angoli della bocca: nonostante tutto, in qualcosa le assomigliava. Merito (o colpa?) del sangue Bretone, senza dubbio.
“L’ultimo anno accademico è stato un successo”, disse il ragazzo. “Te l’ho scritto, no, che sono il più giovane accolito ad aver meritato l’accesso all’area riservata della biblioteca, ma non è tutto!”
“Sei coperto di polvere e hai lasciato il cavallo attaccato a un palo senza neanche dargli da bere; sono sicura che…”
Ma Gael non le diede retta.
“Lo so, però questo volevo dirvelo di persona!”
Era evidente che stesse morendo dalla voglia di raccontarle qualcosa; Alina si sforzò di trascinarlo oltre la soglia e di farlo sedere in salotto. Gael non si tolse neanche il mantello o gli stivali e, sgranando gli occhi scuri, prese la mano della madre.
“Mamma, è una notizia grandiosa! Io ho… aspetta, dove sono tutti?” chiese corrucciandosi appena.
Alina gli si sedette di fronte e gli appoggiò la mano libera sul braccio.

“A caccia, lo sai come sono fatti; dovrebbero tornare a breve, comunque. Avanti, vuoi tenermi sulle spine ancora a lungo?”

Gael strinse le dita; le guance pallide erano avvampate di gioia sotto l’esercito di lentiggini che le ricopriva e Alina sentì che avrebbe potuto piangere per la pura delizia di quel figlio così felice.

“L’Arcimago mi ha chiesto di diventare il suo assistente personale. A me! Proprio a me!”
Alina trattenne il fiato; per un attimo se ne rimase immobile a contemplare il volto luminoso di quel ragazzino dai capelli rossi che splendeva di fronte a lei, abbastanza abbagliante da contagiare l’intera stanza.
Quale poteva essere la risposta giusta? Non c’erano parole che potessero contenere l’orgoglio, la passione e la più totale soddisfazione di una madre fiera. Si alzò in fretta e fece cadere lo sgabello su cui si era seduta per abbracciare di nuovo il figlio, così forte da farlo squittire.

“D-Di nuovo… mamma, ricordati che hai un po’ più forza nelle braccia rispetto a quella che ti serve-ahi!”
Alina lo lasciò subito con un sorriso tremulo.

“Scusa. Oh, Gael! Nessuno lo merita più di te! Come sono orgogliosa! Quando lo hai saputo?”

“Quattro giorni fa, appena prima di partire per tornare a casa. L’Arcimago Tolfdir mi ha convocato nel suo studio privato –non ci ero mai stato in tutti gli anni di Accademia, dovresti vedere che spettacolo, mamma, ha dei libri che nemmeno ti immagini- e… e me l’ha detto. Così, come se niente fosse. Devo essere sbiancato per lo stupore perché mi ha subito invitato a sedermi, altrimenti sarei finito per terra!”
“E quindi ora…”

“Ora studierò direttamente con lui, e secondo quello che dicono gli altri studenti sarò in una posizione privilegiata per diventare Maestro a mia volta, tra qualche anno! Te ne rendi conto? Non che… insomma, io sono bravo, però penso che il fatto di essere diventato –sai- tuo figlio può aver…”
Le parole gli si smorzarono in gola e Gael liquidò la faccenda con un vago gesto della mano. Alina avrebbe voluto rassicurarlo, ma lo conosceva troppo bene per pensare che avrebbe gradito; ci aveva provato tante volte quand’era solo un bambino, e non aveva mai funzionato.

“Vai avanti”, gli disse invece. Si sedette al suo fianco e attese.
Gael fece spallucce.

“Il tuo nome, il nome del Sangue di Drago, significa parecchio, là fuori”, continuò senza guardarla. “E anche se io non mi vanto mai di essere tuo figlio non posso neanche dire di averne mai fatto mistero. Non mi vergogno, anzi”, disse; sollevò per un attimo la testa e le lanciò un’occhiata così penetrante da ricordarle, con una stretta al cuore, Vilkas. “Qualcuno mormora già che sia solo a causa tua che sono stato scelto, ma non è così, davvero. Sono parecchio bravo, anche se ho tanto da imparare, e… e credo di meritare una possibilità. Però non sarà facile…”
Si era trattenuta anche troppo. Alina gli mise un braccio attorno alle spalle e appoggiò la propria testa a quella del figlio.

“Lo so benissimo che sei bravo. Lo so da quando avevi nove anni e appiccasti il fuoco alla cucina per farmi vedere che avevi imparato un incantesimo. Ce l’abbiamo nel sangue la magia, noi Bretoni, ma c’è chi è portato… e chi invece è un disastro, come me”.

Sfiorò la tempia morbida con un bacio e gli strinse la spalla. “Gael, non hai bisogno di me per fare strada. Sei forte, sei brillante e hai le spalle abbastanza larghe da sopportare l’invidia degli altri. Chi gioirà con te si dimostrerà un vero amico, qualcuno da tenerti vicino”.

I muscoli sotto le sue dita si rilassarono appena e Gael la guardò di sbieco.

“Davvero?”

“Davvero. Maestro, persino Arcimago se lo vorrai: avrai sempre il nostro appoggio”.

Gael sorrise e si passò una mano tra i capelli.

“L’Arcimago Tolfdir mi ha concesso qualche giorno a casa prima di iniziare sul serio; credo che anche lui volesse la tua approvazione. Dovrei presentarvi prima o poi, è un tipo un po’ bizzarro ma un vero genio, ti piacerebbe”.
Di tipi un po’ bizzarri ma geniali Alina ne aveva conosciuti parecchi nel corso della sua vita; lo sguardo le vagò oltre la testa del figlio, fuori dalla finestra e verso il cielo. La Gola del Mondo era nascosta dalle nuvole, ma un certo vecchio drago era di sicuro al suo posto. Come sempre.
Il pensiero di Paarthurnax le sfrecciò per la mente e svanì in un attimo, soppiantato dal presente.
“Riesco a immaginarmi anche troppo bene la faccia che farà tuo padre quando glielo dirai. Potrebbe mettere in giro i manifesti per festeggiare la cosa, lo sai, vero?”
Gael si morse il labbro.

“Spero tanto non lo faccia, sarebbe un po’ imbarazzante. Come sta? Hai detto che Maeva è a caccia con lui?”

“Tenerla in casa è un’impresa eccessiva anche per i miei gusti. È più alta di quasi tutti i suoi coetanei, e ha deciso che da grande entrerà nei Compagni. Questo è successo l’altro ieri però, settimana scorsa invece voleva una forgia tutta per sé. Immagino di poter incolpare l’adolescenza che incombe, perché l’alternativa è che io e tuo padre siamo stati dei genitori degeneri che sono riusciti solo a confonderla…”
Gael rise e Alina fu sul punto di unirsi a lui; eppure, come ogni volta che pensava a sua figlia, la creatura rabbiosa che era il suo passato snudava le zanne. Maeva era una ragazzina serena, lieta di quell’infanzia che Alina non aveva mai conosciuto. L’istinto di proteggerla anche quando non era necessario era però sempre pronto ad affiorare.
Il giovane sospirò a fondo di soddisfazione; nel buttar fuori una gran boccata d’aria, però, dalle profondità del suo stomaco provenne un gorgoglio traditore. Gael si portò una mano alla pancia, si alzò e guardò la madre.

“Fame”, disse semplicemente. “Sono in sella dall’alba e non mi sono fermato per pranzare, volevo arrivare entro sera. Posso avere un anticipo di cena?”

Eccolo lì. Si era fatto più alto e sicuramente più sano, ma lo sguardo degli occhi castani era lo stesso che Alina ricordava di aver visto una dozzina di anni prima, per le strade di Riften. Quel ricordo le faceva ancora male al cuore, anche se era passato del tempo e le ferite si erano ormai chiuse senza lasciare traccia.
Si sforzò di sorridere come se nessun cattivo pensiero l’avesse turbata e si alzò.

“Nelioth sta ancora preparando, ma suppongo di poterla convincere a darti un po’ di pane e formaggio. A patto che”, scattò per bloccare l’impeto con cui Gael si stava già dirigendo in cucina, “tu prima vada a occuparti del tuo povero cavallo”.

Il giovane roteò gli occhi –la stessa espressione annoiata che aveva avuto quand’era un ragazzino impertinente tutto denti e spirito di ribellione- ma acconsentì con un brontolio.
Alina lo guardò uscire e, come faceva sempre, toccare fuggevolmente la porta… e lei sapeva bene il perché di quel gesto che ripeteva ogni volta che usciva di casa. Poteva essere guarito, poteva essere sereno, ma la vita di strada lasciava i suoi segni.
Prima di lasciare a sua volta il salotto verso la cucina, Alina si perse per un attimo a guardare la figura snella di Gael. 
Diverso da lei, diverso da Vilkas, diverso da Maeva; non il suo sangue, non la sua carne, eppure suo figlio tanto quanto la sorella che aveva partorito.
I ricordi le offuscarono gli occhi, e le vaste praterie attorno a Whiterun si trasformarono di nuovo nei vicoli sudici di Riften.
 
 


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Succede che certe storie non ti lasciano mai del tutto. Te le tieni lì per mesi, per anni, e non riesci ad archiviarle.

Succede anche di decidersi, finalmente, a dare una possibilità alle proprie doti informatiche, e di riprendere in mano Skyrim con espansioni annesse. Era anche ora, insomma.

Succede che si riscopre quella stessa passione, immutata, forse anche più profonda di prima. E succede di voler scrivere ancora qualcosa.

Il clima è diverso, più sereno (anche se non necessariamente più tranquillo, come si vedrà più avanti!), ma la quiete è solo un’impressione. Alina è sempre Alina, e non può essere nulla di diverso da ciò che è… anche se un po’ di pace non guasta!

So che rimangono molte questioni in sospeso -ma questo chi è, che fine ha fatto questo, quest'altro sarà ancora vivo?- ma confido di rispondere un po' a tutto nei prossimi capitoli!

Questa volta i titoli sono presi da brani di Thomas Bergersen, che è pur sempre l’anima artistica dei Two Steps from Hell e quindi una garanzia di qualità^^
Se avrete voglia di dare una possibilità anche a questa piccola raccolta di momenti avrete la mia gratitudine. Se non conoscete la storia da cui è tratta (e da cui provengono le brevi citazioni a inizio prologo) la trovate qui: http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1450365&i=1 


E se dopo questo mio sproloquio siete ancora qui… grazie di cuore! E al prossimo capitolo, con un primo tuffo nel passato.



Val

 

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Capitolo 2
*** Flameheart ***


~Dodici anni prima~

 
 
 
L’aveva colta alla sprovvista. Di solito ci si aspetta un discorso, la scelta di un momento particolare, un minimo di cerimonie.
Vilkas aveva ignorato tutto questo.
Aveva giusto aspettato che Alina si alzasse dal tavolo della colazione in un giorno qualsiasi qualche mese dopo la caduta di Alduin. Mesi in cui i Compagni avevano prosperato e la vita aveva assunto una piacevole stabilità.
Quel giorno Alina si era diretta con scarso entusiasmo verso la pila di contratti, pagamenti e scartoffie che l’aspettava sulla scrivania, invidiando in silenzio Vilkas e le sei reclute che avrebbe dovuto addestrare. Aveva sceso un solo scalino e si era lasciata alle spalle il cigolio della porta che dava sul cortile posteriore quando Vilkas la chiamò.
“Alina?”
“Mh?”
Si voltò e il suo cuore fece un piccolo sussulto. Appoggiato allo stipite della porta socchiusa, armeggiava con le cinghie della corazza, corrucciato e concentrato. Il sole di fine inverno faceva splendere i pochi fili d’argento nella chioma corvina. Alina si concesse un sorriso compiaciuto.
“Senti, stavo pensando a una cosa”, continuò Vilkas senza guardarla, troppo impegnato a litigare con uno spallaccio poco collaborativo.
Seguì un lungo attimo di silenzio, così Alina lo incalzò.
“Sì, dimmi”.
Vilkas sistemò l’ultima fibbia e si diede una manata sul petto coperto di metallo. Solo allora alzò il viso e la fissò dritta negli occhi. Alina non ebbe il tempo di interrogarsi sul vivido rossore che traspariva dalla pelle chiara, né sulla profondità dei solchi tra le sopracciglia, di solito riservata ai momenti di maggior tensione.
“Sposami”.
Aveva sentito male, era chiaro. Risalì l’unico gradino e si scostò i capelli dietro l’orecchio.
“Cosa?”
Vilkas prese un profondo respiro dal naso.
“Ho detto sposami”.
“Ma… io?”
“E chi altri, scusa?”
L’ondata di sangue le risalì per le guance mentre la comprensione si faceva strada nella sua testa. Restarono a fissarsi muti per qualche istante e Alina non si premurò neanche di chiudere la bocca spalancata per la sorpresa. Dal cortile arrivavano le voci dei novellini, risate e fragore di armi.
“Io. S-sposarci”.
“Io e te. Sì”.
E non abbassò lo sguardo, Vilkas, rigido e con i denti stretti. Le nocche della mano che reggeva la porta erano bianche.
“E chi altri”, ripeté Alina a bassa voce.
“Allora?”
Quel vecchio panico che l’aveva accompagnata per tutta la vita si ripresentò solo per un istante, vestito di colori più tenui, meno minaccioso; la testa le era diventata un’unica bolla, vuota e leggera.
Pensare? Fuori discussione.
Attraverso la gola contratta Alina riuscì a recuperare abbastanza fiato per rispondere.
“S-Sì”, esalò nell’aria immobile della sala.
Vilkas gonfiò il petto e un angolo della bocca gli si arricciò in un sorriso, seminascosto dalla barba nera.
“Bene”, disse soltanto, quindi uscì verso il cortile. Alina fu sicura di averlo sentito scendere le scale a balzi, a giudicare dal clangore dell’armatura. Lei, da parte sua, si limitò ad accasciarsi con grazia contro la balaustra.
Sposarlo. Sposarsi. Era qualcosa di così assurdo, di così estraneo alla sua esistenza da non averci proprio mai dedicato neanche mezzo pensiero. Aveva Vilkas, lo amava, erano felici e tanto le bastava.
Ma immaginarsi con un bel vestito e poi con dei marmocchi? Le venne la pelle d’oca.
Chi si sposava? Le persone normali, quelle che vogliono mettere su famiglia, magari con una casetta, un pezzo di terra, tutta roba tranquilla. Ma loro due? Il Sangue di Drago e uno dei più famosi Compagni di Skyrim? La gente come loro non si sposava, era semplicemente ridicolo.
Ma la vocina della sua coscienza fu pronta a rovinare queste poche certezze.
Astrid e Arnbjorn erano sposati.
Quel pensiero sgradito la fece sentire sporca; si passò una mano sulla faccia e si pizzicò le guance finché il passato non fu richiuso nel suo cassetto della memoria.
Però era vero: non erano solo contadini e commercianti a sposarsi. Si sposavano assassini e imperatori, jarl e stregoni. Perché non loro due?
E poi scusa, la prospettiva di passare la vita con lui non ti  mai sembrata meno che naturale. Sai di volerlo, cosa cambierebbe tra voi?
Solo qualche anno prima paura e testardaggine le avrebbero tolto il fiato e messo le ali ai piedi, ma adesso? Alina si guardò le mani; la destra era sporca d’inchiostro sul lato, forse giusto un po’ più indurita della sinistra. Chiuse le dita e le labbra intorpidite dallo stupore si stesero in un tremulo sorriso.
Sì.
Se lo ripeté mille volte durante quella mattinata di cuore gonfio e occhi splendenti, di risposte evasive a chi le chiedeva cosa fosse successo di bello. Di sguardi fugaci e consapevoli, di Vilkas che la sfiorava con finta indifferenza quando si incrociavano.
E poi il sole calò, Jorrvaskr tornò silenziosa –per quanto potesse esserlo, ora che era quasi affollata di nuovi Compagni- e poté ripeterlo ancora, la voce incerta ma il corpo che parlava chiaro nella sua danza con l’uomo che amava.
Lo voglio lo voglio lo voglio.
La sorpresa e l’ombra di paura si sciolsero nella gioia e nell’attesa nei giorni successivi.
Durante il primo viaggio per prendere accordi, però, Alina recuperò almeno in parte la lucidità che la proposta di Vilkas aveva relegato in un angolo lontano della mente.
Riften si profilava all’orizzonte, una sagoma tozza e grigia nella nebbia. Vilkas era eretto e a suo agio sulla sella, il collo di volpe del mantello che gli sfiorava le guance e lo sguardo dritto davanti a sé; non aveva l’aspetto di chi avesse risentito del lungo viaggio. Accidenti a lui!
Alina strinse le dita guantate attorno alle redini di Merda; il cavallo scrollò la testa per quell’inattesa pressione.
Niente da fare, non riusciva a perdonare quella città. La cosa le dispiaceva davvero, perché la gente che incontrarono per strada mentre si avvicinavano alla capitale del Rift la salutava con entusiasmo; in un paio di occasioni dovette quasi litigare con chi voleva baciarle la mano, riuscendo a calmare i più entusiasti con una stretta vigorosa o un abbraccio. Non che le desse fastidio, anzi, le scaldava il cuore sapere che la gente –anche gli sconosciuti!- le voleva bene e le era grata, però insomma, era strano.
E ora, mentre le mura di Riften emergevano nere dalle ombre del crepuscolo, si sentiva in colpa per la propria incapacità nel cancellare i brutti ricordi.
Come se le avesse letto nel pensiero, Vilkas allungò una mano e le strinse un ginocchio; voltandosi verso di lui, Alina lo vide sorridere con una dolcezza inconsueta.
Avrebbe solo voluto bearsi di quegli occhi ridotti a scintille di gioia, ma la domanda le sbocciò sulle labbra senza che nemmeno l’avesse formulata consapevolmente.
“Perché stiamo facendo questa cosa? Andare al tempio di Mara, intendo”.
Il sorriso di Vilkas si incrinò solo un attimo e tornò quello ironico di sempre.
“Perché è lì che ci si sposa”.
“Sì, d’accordo, ma non mi sei mai sembrato un tipo particolarmente religioso”.
Una strizzata alla gamba e Vilkas continuò.
“Visto che ci sposiamo, voglio fare le cose per bene. Puoi vederlo come un desiderio di seguire le tradizioni, ma il concetto è che avevo bisogno che tutto fosse come dev’essere. Con la benedizione di un sacerdote e una festa e… e un bel vestito. Per te”.
Alina sbuffò nel reprimere una risata. L’ilarità le indugiava ancora nel petto, ma Vilkas si era fatto serio e ridergli in faccia non sarebbe stato corretto.
“Capisco”, disse quindi dopo essersi ricomposta.
“Mi spiace che debba essere Riften”. Tolse la mano dal suo ginocchio con un’ultima pacca e riprese le redini della sua giumenta grigia.
“Non ti preoccupare, ormai posso sopportarlo”. Alina sospirò; le stalle della città erano ormai a poche centinaia di metri. “Ci ho vissuto per dieci anni e non ho mai messo piede nel tempio, figurati…”
E anche quel giorno Alina non vide molto del tempio; un’impressione fugace di volte in legno e pavimento odoroso di cera e incenso, calore e luce gialla, prima che una figura avvolta in vesti arancioni li raggiungesse.
“Siate i benvenuti”, disse una voce profonda dai recessi del cappuccio; uno svolazzo della manica e questo ricadde, rivelando un volto nero dagli occhi gentili. “Sono Maramal, primo sacerdote del tempio”. Alina raddrizzò le spalle sotto al mantello; le dita sfiorarono la mano di Vilkas e, d’istinto, si trovò a stringerla.
Maramal sorrise, un lampo bianco nella pelle scura. Lo sguardo si posò su Alina e la percorse attento.
Mi ha riconosciuta.
“Sono Alina, e questo è Vilkas. Siamo qui per-per il matrimonio. Capire come si fa, insomma. Come funziona, cosa serve fare”.
Il sacerdote strinse per un istante le labbra, ma non riuscì a trattenersi. Scoppiò in una risata calda e priva di qualsiasi sfumatura di scherno; persino Vilkas rilassò il viso.
“Oh, cosa serve fare, mi chiedi? Amarvi, Alina. Basta questo”.
Niente titoli, niente appellativi, niente responsabilità. La vicinanza di Maramal sembrò sollevare un velo di tensione dal mondo e Alina sospirò.
Avrebbe funzionato. Mara non era altro che un nome in una lista di divinità, ma Alina si trovò a pensare che chi sceglie di servire la dea della compassione non può essere poi una cattiva persona… e Maramal ne era la prova.
“Venite, fratelli”, disse indicando una porta laterale. “Beviamo qualcosa e discutiamo i dettagli”.
All’uscita, con il sapore del vino speziato ancora in bocca e una lunga serie di preparativi di cui –per fortuna- si era fatto carico Vilkas, Alina respirò una boccata d’aria fredda e umida, piacevole dopo il profumo dell’incenso.
“Non so tu”, disse Vilkas, “ma l’idea di rimettermi in sella e ripartire subito non mi entusiasma. Te la senti di passare la notte qui?”
C’era una sorta di quieto splendore in tutti i suoi gesti da quando erano entrati nel tempio. Alina sorrise.
“Fermiamoci in taverna; ho affrontato ben di peggio dell’umidità dei canali e dei brutti ricordi. E poi ho te”.
L’idea di bacio che le aveva fatto tendere il collo e sollevare il viso si bloccò al suono di insulti e grida; Alina e Vilkas si voltarono assieme verso la piazza del mercato; qualcosa di piccolo e lesto sfrecciò tra le bancarelle, seguito da una figura più alta. In un istante entrambi sparirono oltre il parapetto, lasciandosi dietro un ringhio indecifrabile, un colpo e lo sciacquio del canale. Per un momento ci fu silenzio, poi un suono acuto e penetrante riempì l’aria.
Non si sarebbe mossa se non fosse stato per quello strillo. Anzi, per quella specie di squittio, subito soffocato da un nuovo tonfo. Un meccanismo arrugginito scattò da qualche parte nella sua testa, e nel giro di un istante Alina si trovò a correre attraverso la piazza del mercato. Saltò con una lunga falcata il mendicante accasciato tra le bancarelle e, con la coda dell’occhio, registrò il vago profilo di uno sportello aperto sotto una di esse. I tacchi degli stivali rimbombavano a ritmo con il cuore mentre percorreva il ponticello che conduceva alle scale. L’acqua ribolliva qualche metro più in basso.
Un balzo, gli ultimi quattro scalini che sparivano sotto di lei nell’ombra, le assi del pontile che scricchiolavano. Lontani, in un altro mondo, i richiami di Vilkas, i suoi passi.
Non si era accorta di aver estratto la spada.
I capelli dell’uomo accucciato sul pontile erano unti sotto le sue dita, la cute calda nell’aria invernale. Alina tirò indietro il braccio e lo sconosciuto –pelle grigia, volto affilato, occhi sgranati dal terrore- ricadde all’indietro, la gola esposta.
“C-c-chi…”
Uno strattone e il dunmer strillò, sollevando le braccia fradicie fino ai gomiti per proteggersi. Alina ringhiò e appoggiò la lama alla pelle scura; quel rombo, quel pulsare nero e rosso dietro gli occhi… bestia, anche se la maledizione era svanita.
Vilkas si fermò a qualche passo dalla scena, salvo poi annaspare un’esclamazione e avventarsi verso il canale che ancora gorgogliava. Ne estrasse una piccola sagoma scura che atterrò sulle assi con uno splat e un gran sciabordio d’acqua.
“Alina…”
Il dunmer sbiancò e divenne di un pallido grigio cenere, le mani ancora sollevate, gli occhi sgranati.
Lo sapeva. Da qualche parte, dietro anni di vita e sentimenti e mura costruite con la forza, c’era ancora una bambina. Una bambina che riconosceva la miseria.
Il fagotto zuppo eruppe in un accesso di tosse intervallata da conati. Con la coda dell’occhio, Alina vide Vilkas sollevare il piccolo corpo e tenerlo contro di sé.
La marea di sangue e odio refluì abbastanza da farle rilassare il viso e ritrovare la parola.
“Allora?” sibilò al prigioniero senza spostare la lama. Mezza Riften si era assiepata contro il parapetto della piazza e guardava giù.
“L-Ladro…”
Alina rafforzò la presa sui capelli e se li torse nel pugno. Alle sue spalle, sopra ai mormorii e alle voci delle guardie che intimavano di lasciar loro spazio, la voce di Vilkas era sommessa. E il bambino che aveva tirato fuori dall’acqua piangeva.
“Scusa?”
“L’ho beccato con le mani nel sacco, va bene? E volevo dargli una lezione!” gridò il dunmer. “Lasciami andare!”
“Stavi annegando un ragazzino per… per questo?”
“Non l’avrei ammazzato! Lo giuro! Volevo solo fargli paura!”
L’incredulità si affacciò nella furia ma non abbastanza da placarla. Alina lasciò cadere la spada e afferrò il dunmer per il bavero della veste. Sembrava non pesare nulla tra le sue mani, mentre lo spingeva indietro e lo mandava a sbattere contro al muro.
“Tu stavi-“ era senza fiato, soffocata dalla rabbia e dalla memoria. “Tu-tu stavi affogando un ragazzino perché ha provato a rubare alla tua bancarella? Dimmi che sei pazzo, ti prego, e non costringermi a…”
“Alina”, la voce di Vilkas era soffocata, piena di grugniti. “Stanno arrivando le guardie”.
Il dunmer boccheggiò qualcosa che, a giudicare dal labiale, suonava come “dovahkiin”, ma Alina non vi badò. Torse la stoffa dell’elegante tunica nel pugno e trascinò l’elfo verso l’acqua.
“Fai schifo”, sibilò prima di lasciarlo cadere nel canale gelido. Al brusio della folla e alle lamentele sempre più vicine delle guardie si aggiunse lo sputacchiare dell’elfo, ma Alina quasi non lo sentì. Era un altro il suono che le raggiunse l’anima e fece evaporare ogni residuo di furore animalesco. Si voltò di scatto verso Vilkas e lo vide lottare con quello che sembrava un fagotto fradicio arrotolato nel suo mantello.
“Fermo, ragazzino, fermo!” sibilava nel vano tentativo di trattenere quella figurina sgusciante senza farle male.
Alina lo raggiunse in pochi passi affrettati. La breve distanza cancellò ogni istinto omicida, ogni desiderio di violenza; era solo preoccupazione a occuparle la testa e il cuore.
Quando si inginocchiò di fianco a Vilkas l’involto sputacchiante che teneva tra le mani smise per un attimo di agitarsi. Alina scostò un lembo di stoffa e pelliccia.
I capelli zuppi avevano lo stesso colore del pelo di volpe che li ricopriva, ma il visetto che faceva capolino tra le braccia di Vilkas era esangue. Il bambino sgranò due occhi tondi e immensi nel volto smunto e lurido; doveva essersi morso il labbro durante la colluttazione con il mercante, perché una sottile striscia di sangue gli colava lungo il mento.
“Ragazzino, stai bene?” chiese Alina stringendogli quelle che a occhio e croce dovevano essere le spalle. Com’erano ossute!
Non ottenne nessuna risposta; il labbro inferiore del bambino iniziò a tremare più del resto del corpo. Vilkas sciolse lento la presa attorno al piccolo prigioniero e si sedette sui talloni.
“Come ti chiami?” riprovò con il tono più incoraggiante che le riuscì di produrre. Dentro di sé spero tanto che le vecchie cicatrici e la cresta di capelli neri non lo spaventassero troppo. “Io sono Alina, e lui è Vilkas. Non anneghi, stai tranquillo”.
“G-G-G…”
Il bambino si strozzò con un singhiozzo senza lacrime. Alla fine riuscì a esalare un “Gael” appena udibile. Su, in piazza, i vari “permesso, lasciateci passare, non c’è niente da vedere” delle guardie si stavano facendo più vicini.
Alina gli prese il viso tra le mani. Sembrava non esserci carne sotto quella pelle diafana, solo paura, freddo e fame.
In un lampo che le fece trattenere il fiato il viso del bambino si fece più rotondo, i capelli neri, il naso a patata… all’ombra di una figura grassa. Alina dovette chiudere gli occhi e scrollare la testa per allontanare l’immagine del Mercante.
No, non è altro che un piccolo mendicante, il Mercante è morto. Non ha vissuto quello che hai passato tu.
Ma crederlo non era facile.
“Allora, basta! Via dalle scale, fateci passare!”
Gael prese a respirare in fretta. Alina riaprì le palpebre e lo vide ansimare, le piccole spalle sollevate e contratte.
“Va tutto bene, Gael. Sono le guardie, non ti succederà niente di male”, provò a dire con un sorriso. Ma Gael stava ricominciando ad agitarsi sotto l’enorme mantello di Vilkas.
“No… no…”
E come lo conosceva bene, Alina, quel cieco terrore, quel sentirsi in trappola e voler solo fuggire. Fu un desiderio che non aveva mai provato prima a farle sollevare la mano per sfiorargli la guancia; Vilkas, lì dietro, fu più deciso e prese il bambino per un braccio. Il dunmer sguazzava furibondo poco distante.
“Sta’ calmo, ragazzo”, disse rude. “Non c’è niente che-ahi!”
Con un guizzo da serpe Gael si voltò e gli morse la mano. Vilkas si ritrasse quel tanto che bastava per lasciare uno spiraglio tra le braccia, e il bambino scalciò via il mantello. In un istante era corso via, scalzo e gocciolante, verso una delle grate che si aprivano vicino ai pontili.
Alina fece un mezzo movimento per fermarlo, ma quella grata le era familiare; il labirinto di cunicoli, cisterne e passaggi segreti cui conduceva era un mistero per tutti. A parte per i ladri che vi abitavano.
“Andiamo a prenderlo”, disse Vilkas deciso, nonostante il chiaro segno dei denti che gli incideva il dorso della mano.
Si scambiarono una rapida occhiata. Alle loro spalle le guardie stavano scendendo le scale.
“Sì, andiamo”.
Il Ratway li accolse con le sue tenebre e i suoi segreti.
Alina si lasciò abbracciare del buio.
 
 
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A volte ritornano. Alina e Vilkas, certo, ma anche i ricordi. Morti mai dimenticati, città con cui non si riesce a far pace, brutti ricordi.
Alina non riesce a cambiare troppo, testa calda era e testa calda rimane, nonostante congiure, maledizioni e draghi. Potrebbe volerci proprio un bambino coi capelli rossi per metterla il riga!
Grazie a tutti voi che siete passati e avete dato un’occhiata al capitolo: è il mio primo tentativo di sequel e sono un po’ in ansia.
Ma io sono in ansia anche quando oblitero il biglietto del treno, quindi forse non conta!
A presto!

Val
 







 

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Capitolo 3
*** Chase the Light ***


“Ecco qui”, disse Malborn. Spinse sul bancone due bicchieri spaiati e pieni fino all’orlo, senza rovesciare una goccia.
Alina vide Vilkas agitarsi sullo sgabello, sul viso un’ombra della tensione che gli irrigidiva la spina dorsale. Le sarebbe venuto da ridere in un’altra occasione, a vederlo così fuori posto e rigido; nessuno della Gilda era stato meno che cortese con lui, ma era difficile ignorare una certa sopita ilarità. Non era il momento giusto, tuttavia, e le sembrava scorretto deriderlo quando aveva accettato di accompagnarla pur sapendo come si sarebbe sentito. Sospirò e prese il calice, ammiccando a Vilkas; dopo un attimo questi la imitò, seppellendo subito il naso oltre l’orlo. L’espressione nervosa si tramutò in sorpresa e, quando Alina assaggiò il vino, capì quale ne fosse la causa: quella roba era davvero eccezionale!
Schioccò le labbra e rialzò il viso.
“Malborn, ma è buonissimo! Da dove arriva?”.
L’elfo non smise di pulire il boccale e sollevò una spalla.
“Sarebbe stato un peccato non approfittare delle cantine di Elenwen. Finché non devo entrarci io, ovvio…”.
Alina rise nel bicchiere e si sforzò di non guardare la smorfia di Vilkas. Fu lui a porre fine alle chiacchiere.
“Stiamo cercando un bambino. Abbiamo battuto il tratto di fogne che porta qui, ma non lo abbiamo trovato”.
“Solo perché tu venivi a nasconderti qui non significa che siamo diventati una succursale dell’orfanotrofio”, ringhiò una voce dall’ombra. Alina si voltò e, a dispetto delle parole, quella voce le scaldò il cuore.
“No, ma so che sei una delle persone di cui mi fido, Delvin”.
Il ladro si staccò dalla parete cui era appoggiato e rise. Alina si alzò ad abbracciarlo, e persino Vilkas si alzò e gli tese la mano con una smorfia non troppo severa. Era già un inizio.
“Sentiamo, cosa stavi dicendo al nostro amico Malborn? Mi spiace che abbiate dovuto aspettare, ma il lavoro chiama”.
“Figurati”, lo liquidò Alina. “Il servizio è impeccabile”. L’elfo al bancone arrossì di piacere.
Delvin allungò una mano e incontrò un boccale riempito un istante prima.
“Parlavate di un bambino”, disse dopo una lunga sorsata. “Descrivimelo”.
“Pelle e ossa, lurido e con i capelli rossi. Dice di chiamarsi Gael”, rispose subito Vilkas, la maschera di riprovazione svanita di fronte all’urgenza di sapere.
Delvin si limitò a scuotere la testa calva, lucida sotto le torce.
“Non l’ho mai visto; da quando l’orfanotrofio ha una nuova gestione i ragazzini sono pochi e molto curati; la direttrice li fa adottare in fretta, quindi il ricambio è rapido, ma non ricordo di aver mai visto un moccioso coi capelli rossi. Escludendo Brynjolf, s’intende”.
Malborn sbuffò ma non smise di strofinare il bancone già lucido. Il viso di Vilkas si offuscò.
“Ma potreste controllare? L’ho recuperato dai canali e potrei aver malmenato uno dei mercanti che lo stava strapazzando”, ammise Alina a occhi bassi. La quieta risata di Delvin non la fermò. “Il fatto è che l’ho visto così piccolo, così disperato… e io so anche troppo bene quanto può essere sgradevole Riften quando non hai nessuno”.
“Già”, concordò Delvin. Fece per aggiungere qualcosa, poi corrugò le sopracciglia. “In effetti… cosa ci fa il Sangue di Drago a Riften? Affari, rappresentanza, devi baciare qualche neonato o benedire un paio di unioni?”.
“Qualcosa del genere”, disse Vilkas con una voce strana; una risata nascosta? “Si sposa”.
Alina strinse le labbra e riprese il bicchiere. La sorsata di vino non bastò a farle passare l’imbarazzo.
“Si sposa? E con chi?”, chiese Delvin. Quattro occhi si spostarono su Alina (e chissà se ce n’erano altri che sbirciavano dalle ombre); continuando a bere indicò Vilkas con un cenno del capo.
Gli istanti che seguirono furono un turbine di pacche sulle spalle, congratulazioni e parziale rivalutazione dei membri della Gilda da parte di Vilkas; Alina non poté ignorare come si controllava le tasche dopo essersi liberato dalla stretta di Delvin, ma doveva ammettere che quanto meno era stato discreto.
“Farò quel che posso, ragazzi”, disse Delvin, più serio. Qualcosa, nel modo in cui la voce gli si era fatta più ferma e profonda, fece capire ad Alina che li avrebbe aiutati sul serio. Il cuore le si alleggerì un po’: se c’erano segugi infallibili cui affidare una pista erano i membri della Gilda.
Quella sera Vilkas la fissò da sopra una cucchiaiata di stufato, in locanda. Attraverso la cortina di vapore fragrante Alina vide ombre agitarsi in fondo al verde dei suoi occhi. Inarcò un sopracciglio e posò il cucchiaio.
“Allora?” gli chiese. “Non hai quasi detto una parola da quando siamo usciti da… be’, dalle fogne. Che c’è, non vorrai farmi di nuovo la predica sulla condotta morale delle mie frequentazioni, vero?”.
“No, anche se sai benissimo cosa penso a riguardo…”.
“Visto che non perdi occasione di ribadirlo”.
Vilkas strinse le labbra ma ignorò l’interruzione.
“Quello che volevo dire è…”.
Si fermò e abbassò le spalle, l’irritazione svanita.
“Alina, bisogna andare a parlare con la direttrice dell’orfanotrofio. Pensavo che potrei andarci da solo”.
Alina aprì bocca per rispondere stizzita, poi vide l’espressione con cui Vilkas la guardava. C’era amore, quello sempre, e preoccupazione. Ma soprattutto la comprensione terribile di ciò che quel luogo significava per lei. Sentì un nodo stringerle la gola e afferrò il cucchiaio senza sollevarlo.
Erano passati oltre quindici anni e, senza dubbio, la persona che ora si occupava degli orfani possedeva uno spirito caritatevole e non certo la gretta malvagità di Grelod; tuttavia l’idea di aprire quella porta, rivedere la porta del ripostiglio dove la vecchia la rinchiudeva, la stanza dove si rannicchiava per dormire…
Un brivido le percorse la schiena e lasciò andare il cucchiaio. Attese che la sua voce tornasse salda, ma Vilkas la precedette. Allungò il braccio oltre il tavolo e le prese la mano.
“So che potresti farlo, che sei abbastanza forte da sopportare anche questo. Voglio solo che tu sappia che non è necessario e che ci sono io ad affrontare i tuoi mostri”.
Il proposito di non farsi tremare la voce si infranse, ma un ampio sorriso le sbocciò sul volto. Ricambiò la stretta e intrecciò le dita a quello lunghe e callose di Vilkas.
“Vilkas io… non… be’, grazie. Se-se… oh, insomma. Posso aspettarti qui”.
Quando fu uscito per intercettare la direttrice prima che andasse a dormire, però, si sentì sola e stupida, seduta sul letto nella loro stanza della locanda.
Lasciò dondolare i piedi oltre il bordo del materasso e fissò le spesse calze di lana. Quanto ci avrebbe messo? Probabilmente tutta sera, se c’erano scartoffie da esaminare o domande da fare. Vilkas le mancava, ma si rendeva perfettamente conto che il suo era un capriccio e non vera necessità.
Agitò le gambe per un attimo e guardò fuori dalla finestra ad abbaino; la notte era limpida e, per fortuna, priva di draghi.
Era ancora in tempo per raggiungerlo, si disse. Scese dal letto, si infilò gli stivali e il mantello e raggiunse la porta.
I vicoli di Riften erano silenziosi, deserti a parte un paio di guardie di ronda… e un’ombra sospetta ai margini del suo campo visivo. Alina sorrise tra sé, sospettando la scorta silenziosa della Gilda dei Ladri.
Più si avvicinava all’orfanotrofio, però, più quella decisione le sembrava stupida. Era inutile mentirsi, lei non voleva mettere piede in quel posto; cosa c’era per lei, lì? Brutti ricordi e angoscia, nulla che non avesse ormai accettato ma anche nulla che desiderasse rivangare. Si fermò di fronte a un alto muro coperto di rampicanti e distolse lo sguardo dalla struttura di legno dell’orfanotrofio.
Il tempio di Mara sembrava sparire nelle ombre del cortile, una sagoma quieta e discreta, invisibile se non per la porta socchiusa da cui filtrava una lama di luce dorata.
Un attimo dopo si trovò a salire gli scalini di pietra che portavano al tempio senza nemmeno sapere il perché.
L’aria densa del profumo di fiori e incenso le accarezzò la pelle mentre apriva la porta; la luce calda delle candele la ricoprì e portò via almeno in parte la confusione. Quando si sedette sulla panca più lontana dall’altare, però, le domande tornarono.
Era un luogo quieto ma non silenzioso, con lo scricchiolio delle travi del soffitto e lo sfrigolare della cera. Un piccione prese il volo da un davanzale con un gran fruscio di penne.
Alina appoggiò il mento alle mani sulla spalliera della panca di fronte e guardò l’altare.
Mara se ne stava in piedi in fondo alla navata; il volto di pietra era rivolto verso l’alto, pieno di compassione quasi dolorosa, le mani sollevate come in una preghiera… o come se stesse per abbracciare qualcuno.
Me?
Alina scosse la testa, irritata da quel pensiero. Si raddrizzò e incrociò le braccia.
Certo che hai scelto proprio una topaia di città per farti costruire il tempio. Perché qui? Hai idea di quanto sia orribile Riften? Di quanti bambini siano finiti annegati nel canale, con la gente che guardava da un’altra parte?
Si sentì ridicola, a parlare con un’icona di pietra muta e fredda, ma le parole continuarono ad affollarsi nella sua mente.
Perché quando ero io una bambina nessuno mi ha detto che potevo venire qui da te, a cercare consolazione? Ho avuto paura e sono stata sola tanto a lungo, e tu… tu sei solo una statua in un posto che puzza d’incenso. Una bugia.
La gola era così stretta che Alina dovette dare un colpo di tosse. Non aveva mai saputo di covare quel misterioso rancore verso una divinità che aveva serenamente ignorato per tutta la vita, ma ora era difficile fermarsi.
Quello che ho subito mi ha rovinata, lo sai, vero? Hai visto quanta fatica ho fatto per fidarmi di qualcuno, e non sarò mai una persona normale. Che io sia dannata, non penso nemmeno di poter avere figli, o sarebbe già successo a quest’ora!
A quello non aveva mai pensato, non in maniera consapevole, almeno. Ora quella certezza la colpì al ventre e le tolse il fiato. L’angoscia le piegò la testa; stava per coprirsi gli occhi con le mani quando un movimento le fece sbattere le ciglia.
Avrebbe giurato di aver visto il velo di pietra di Mara muoversi appena, come se la statua avesse inclinato la testa. Quando guardò meglio, però, tutto sembrava in ordine: doveva essere stato un gioco di luce.
Sospirò e chiuse gli occhi.
E in quel buio, con i suoni ovattati del tempio, scese inesorabile la comprensione.
Alina non sarebbe stata in grado di dire se fosse stata un’illuminazione divina, la voce stessa della dea o più semplicemente la sua mente che iniziava a capire, ma le cose iniziarono ad avere un senso.
Dove, se non a Riften, se non in mezzo a chi aveva più bisogno di compassione e tenerezza poteva scegliere la sua casa Mara? Nel buio delle palpebre chiuse si accese una candela, e la sua luce gialla sfiorava profili noti: il naso dritto di Vilkas, il sorriso di Farkas, i riccioli di Ria… uno dopo l’altro tutti coloro che amava venivano toccati da quel bagliore e ne sprigionavano a loro volta, fino a che l’oscurità fu punteggiata di stelle. C’era ancora tenebra, ma anche questa stava per diradarsi, mostrando…. Qualcosa.
Qualcuno?
Uno scricchiolio alla sua sinistra la fece trasalire; Alina si alzò a sedere e strinse le palpebre mentre quel velo di misticismo spariva.
La figura incappucciata non era più alta di lei, e a guardarla doveva pesare la metà. Scivolò lieve sulle tavole di legno del pavimento con una sottile candela bianca in mano. Senza degnare Alina di uno sguardo avvicinò lo stoppino a una fiammella e l’usò per accendere altre candele. Ora, con la stanza maggiormente illuminata, Alina la vide con chiarezza: una dunmer anziana, con il viso affilato e una fine ragnatela di rughe attorno ai grandi occhi scuri.
La sacerdotessa terminò il suo giro senza mai voltarsi verso di lei; quand’ebbe acceso quella che riteneva l’ultima candela, però, cominciò a parlare.
“In molti vengono a cercare la benedizione di Mara”, disse con voce dolce. “In pochi però sembrano averne così bisogno”.
L’elfa giunse le mani nelle ampie maniche e guardò Alina. Sorrideva appena e in fondo agli occhi c’era l’ombra di una grande, quieta tristezza.
Alina scosse la testa.
“Non so nemmeno perché sono qui”, disse. “In questo preciso momento, almeno; tra pochi giorni mi sposo, ma quello è già tutto deciso”.
La sacerdotessa la raggiunse e si sedette sulla sua stessa panca; stranamente quella vicinanza non era fastidiosa.
“Non sei certa dei sentimenti che provi per la persona che sposerai?”
“Oh no!” rispose in fretta Alina quasi ridendo. “No, anzi: se c’è una cosa di cui sono sicura è… è Vilkas. Siamo noi due. Però…”
Le parole le mancarono; annaspò per finire la frase, poi lasciò perdere e afflosciò le spalle.
Una fine mano nera le si posò sull’avambraccio.
“C’è amore, tra voi. Non ho poteri magici, mia cara, e non ho viaggiato molto nella mia vita; se però ho imparato qualcosa nel corso dei lunghi anni è che chi si ama trova una via. Sempre”.
Sì, ma una via per cosa? Non lo so. Sono arrabbiata e preoccupata, vorrei fare qualcosa per Gael e non sono neanche certa che sia puro altruismo…
“Credi che sia sbagliato fare il bene di qualcuno per cercare di rimediare a un dolore passato?”
“Piccola mia”, rispose piano la dunmer, “fare il bene non è mai sbagliato, se lo si fa con il cuore”.
La vecchia sacerdotessa le accarezzò la fronte e scostò una ciocca scura. Alina trattenne il fiato mentre una memoria remota le si agitava in fondo alla coscienza. Un’altra donna, un’altra vita, ma quello stesso gesto.
Chiuse gli occhi.
“Mara ascolta i suoi figli, e non è certo da lei offendersi se questi sono arrabbiati o sbagliano. Lei ci ama tutti, anche se in molti non cercano il suo conforto; le preghiere troveranno una risposta, basta avere il cuore pronto ad accoglierle”.
Si alzò e Alina si sentì di colpo più sola; guardò la dunmer con le lacrime in gola ma il cuore più calmo.
“Puoi restare quanto vuoi, figliola; ma ciò che cerchi è là fuori”.
Ciò detto chinò la testa grigia e, con un sorriso senza tempo, si andò a inginocchiare davanti alla statua.
Là fuori.
Alina si riscosse come da un lungo sonno; da quanto tempo era lì? Vilkas si sarebbe preoccupato se non l’avesse trovata al suo rientro.
Si alzò e indugiò un attimo tra le panche; doveva salutare la sacerdotessa? Sembrava così serena, raccolta in preghiera…
Alla fine sollevò una mano in un saluto che nessuno avrebbe visto e abbandonò il tempio.
L’aria della sera le sferzò il viso; per una volta non sembrava carica dei miasmi dei canali. Era umida e salmastra ma fresca. Ne trasse una lunga boccata e si stupì nel guardare l’orfanotrofio.
Sì, ora poteva andarci senza angoscia. Il breve dialogo con la sacerdotessa l’aveva calmata, e il pensiero di Vilkas pronto a stringerle la mano se qualcosa non fosse andato nel verso giusto bastava a darle la forza di affrontare l’impresa.
Non fece in tempo a raggiungere l’ultimo scalino. Il fruscio nell’ombra era troppo marcato per essere la misteriosa sentinella del ladri, troppo in basso e leggero per essere qualcuno in agguato.
Alina si guardò intorno; quando vide che non c’erano guardie nei paraggi si avvicinò in punta di piedi.
“Ehi”, disse sottovoce. “Chi sei?”
Non le rispose altro che un sospiro. Alina sfregò le dita e una debole fiammella le si accese sul palmo… e andò a illuminare un visetto scarno e lurido.
“Gael!” esclamò. Un po’ troppo forte: il bambino si ritrasse, come se volesse farsi inghiottire dalla parete.
“No, no, scusa”, si affrettò a tranquillizzarlo. Spense il fuoco e si accucciò. “Ecco, meglio?”.
Silenzio, ma non bastò a farla demordere. Se era venuto lì, col rischio di farsi scoprire, ci doveva essere un motivo.
“Senti, vieni con me: andiamo in un posto dove le guardie non ti cercheranno, d’accordo?”.
Non gli tese la mano e non lo aspettò, ma quando si fu appollaiata sull’angolo più maleodorante e buio del pontile sentì le assi muoversi sotto i passi del bambino.
Si sedettero fianco a fianco, con la schiena appoggiata a una chiatta.
“Mi stavi seguendo?”.
La macchia scura della testa di Gael annuì. Alina vide che si torceva le piccole mani in grembo, così lo lasciò stare un attimo.
“Me lo ha detto l’uomo nero”, pigolò.
“Chi?”.
Il nome non era proprio incoraggiante e Alina provò un brivido.
“Sì, anche se in realtà non era un uomo ma una donna. E aveva un vestito nero come le ombre, e la faccia coperta. Però gli occhi li vedevo”.
La tensione la abbandonò. Non era nemmeno una donna, a essere precisi, ma poteva capire come Karliah potesse risultare misteriosa, nella sua uniforme. Delvin doveva averne parlato con i suoi, ed ecco arrivata la risposta.
“La conosco, non ti farà del male”.
“Lo so che non mi farà niente, mi ha dato anche delle monete”, continuò il bambino tendendo le gambe secche in avanti. Alina non poteva vederlo, ma era sicura che fossero sporche e graffiate.
“Cosa ti ha detto questa signora?”.
“Che sei il Sangue di Drago. È vero?”.
“Sì. Mi dispiace se oggi ti siamo sembrati aggressivi, ma volevamo aiutarti”.
“Perché?”
Alina trasalì. Era una strana domanda, specialmente se posta con la voce sottile ma ferma di un bambino. Una voce stranamente adulta.
Gael grattò con l’unghia una delle travi e continuò a non guardarla.
“Da quando è morto il nonno e gli hanno portato via la casa nessuno ha mai provato ad aiutarmi. Mi hanno buttato in orfanotrofio ma io non ci voglio stare. Sono scappato”, concluse in tono ribelle.
“Non ti piaceva? Sono sicura che non ti trattassero male…”.
Il bambino fece spallucce.
“Nessuno mi trattava male. Ma non ero a casa e non ero neanche libero. Quello non era il posto per me”.
Le si strinse il cuore. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si fermò in tempo. Forse l’avrebbe solo fatto innervosire, e lei non è che ne sapesse molto di bambini.
“Io là non ci torno”.
Lo disse con una tale convinzione, priva di enfasi, profonda e pesante come un macigno, che Alina fu certa che sarebbe morto piuttosto che metter piede di nuovo nell’orfanotrofio.
“Anche io sono cresciuta da sola”, si sentì dire.
“Oh? Sei orfana anche tu?”
Alina annuì una volta, poi proseguì.
“A quattro anni mi portarono qui a Riften, ma la direttrice era un mostro. Scappai, e credimi se ti dico che non fu facile sopravvivere alla vita di strada. Conosco la fame, il freddo e…”
E un sacco di cose orribili che non permetterò che ti accadano.
L’intensità di quel pensiero la fece vacillare. Si stava rendendo conto di qualcosa, ma che cosa fosse ancora non le era chiaro.
“Ora ce l’hai, una casa?”.
“Sì”, affermò sicura. “E una famiglia. I Compagni”.
Poteva vedere la luna riflettersi negli occhi sgranati di Gael.
“Davvero? A Whiterun?”.
“Già. Gael, senti… tu non tornerai in orfanotrofio, ma non puoi nemmeno restartene in strada, è pericoloso”.
Il ragazzino si irrigidì.
“Non voglio che degli adulti mi controllino i denti e mi scelgano. Non sono un cavallo!”, ringhiò.
Si alzò con un balzo e indietreggiò.
“Gael, ascoltami, ti prego”, cercò di fermarlo Alina. “Io sarò qui a Riften ancora per qualche giorno. Se avrai bisogno di qualsiasi cosa, se avrai fame, freddo… vieni da me. Se ti sentirai solo, io ci sarò. Se lo vorrai”.
Le parve di vedere il piccolo labbro inferiore tremare, ma fu solo un istante. Il bambino si voltò e camminò via.
Alina rimase a guardarlo ma non provò a raggiungerlo.
Quel bambino le faceva sanguinare il cuore, e ora si pentì di non aver provato ad abbracciarlo.



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Finisce l’estate e tornano gli aggiornamenti!
Mi era mancata questa storia, nata per gioco e per nostalgia. Devo ammettere che sono contenta di avere ancora qualche avventura da raccontare!
Quindi grazie a chiunque abbia letto fin qui e voglia passare ancora un po’ di tempo con Alina e il suo “branco” :)
Essendo il seguito di "Two Steps from Hell", ovviamente ne riprende alcuni dettagli: Riften cupa e pericolosa, Malborn alla Caraffa Logora...
E così ripartiamo con un capitolo con grandi riflessioni e un po’ di vecchie conoscenze.
Spero vi piaccia e… a presto (con puntualità, questa volta)!

Val

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