No one knows us

di _MorgenStern
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First Memory ***
Capitolo 2: *** Inni e fiori ***
Capitolo 3: *** Second Memory ***
Capitolo 4: *** Sorrisi e divise ***



Capitolo 1
*** First Memory ***


Ricordo la prima volta che ti vidi, la ricordo come se fosse successa stamattina.
Non era che un pomeriggio italiano come ogni altro, con il suo sole basso e dorato, l’aria resa anch’essa di un color arancio caldo, i civili in abiti tardo estivi e il fumo della mia sigaretta mentre compivo il solito percorso di controllo.
Mi basta sentire l’odore della pietra scaldata dal sole per ricordarmi della sensazione di tranquillità che pervadeva quella piccola cittadina, dove pareva vi conosceste tutti e dove improvvisamente mi apparisti davanti.
Un vestito chiaro, dei fiori tra le mani e un sorriso sul volto.
Sentii un sussulto dentro al petto, originato da quel cuore che credevo di aver addomesticato anni prima.
Non avevo mai visto nulla di simile.
Sembravi illuminata di un bagliore tremendamente rassicurante, parlavi serena mentre intorno a te era possibile sentire il rumore della guerra.
Distolsi lo sguardo, veloce. Non era passato che un secondo, ma sapevo cos’era successo. E non potevo permettermelo.
Tornai a camminare, le suole dei miei stivali lucidi che si abbattevano con decisione sulle pietre della piazza.
Non seppi mai se tu ti fossi voltata a guardarmi, se avessi sentito i miei passi o se avessi percepito i miei occhi sul tuo volto felice.
Non te lo chiesi, mai mi abbassai ad una così sentimentale questione.


Quanto me ne pento ora, amore.





 


Leggere fanfiction GerIta alle due di notte mi porta a ragionar di romaticismo e tragedia, come sono solita fare.
Purtroppo questo primo capitolo è breve, ma domani provvederò ad inserire il secondo, che sarà invece più lungo e dettagliato.
La storia sarà strutturata esattamente secondo questo schema: un capitolo breve di ricordi in prima persona e uno di storia narrata in terza persona.
Spero di non deludere nessuno, con questo tentativo di racconto storico a capitoli (non sono mai stati il mio forte).
Confidate in me! 

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Capitolo 2
*** Inni e fiori ***


Non si era mai chiesto quando sarebbe finito tutto, non ne aveva mai trovato motivo. Amava il suo lavoro, amava far lavorare e amava chi lavorava. Non avrebbe saputo cosa domandare che fosse migliore di questo.
Con un rumore metallico, concluse il suo cambio d’abito: la fibbia istoriata della cintura in pelle era perfettamente al centro della giacca nera, anch’essa perfettamente curata e stirata come ogni capo d’abbigliamento sul suo corpo.
Se c’era una cosa che gli era davvero poco gradita, era la mancanza di ordine. Tutti gli angoli e le pieghe della sua esistenza erano plasmati secondo un assetto preciso, una routine ed un’evoluzione necessaria e ben controllata; se mai qualcosa gli fosse sfuggito, sarebbe stato inevitabilmente distrutto. O almeno, questo era ciò di cui era convinto.
Nessuno s’accorse di quel piccolo e leggero suono, però. Si era disperso nel vociare della stanza fitta di uomini in divisa, ognuno impegnato a parlare il più possibile prima di salire su quel palco e sfilare in silenzio per almeno tre ore. Avrebbero sentito solo le parole del Ministro degli Esteri e i sussurri della popolazione, l’intorpidimento alle gambe e alla schiena per la posizione immobile forzata ed il suono degli stivali rinforzati sulle strade. Non era una prospettiva poi così orribile, non per dei soldati. Per lo meno non si sarebbero visti volare contro delle pallottole, né avrebbero dovuto lottare per sopravvivere.
Più che altro, era quel che chiunque sperava: se quei piccoli italiani ribelli fossero rimasti nei loro boschi, la cerimonia di presentazione si sarebbe svolta nel migliore dei modi. Tutti confidavano in questa possibilità, le altre non erano nemmeno prese in considerazione; tanto più che solo una manica di deficienti avrebbe portato scompiglio in mezzo a tre compagnie dell’esercito del Reich, con tanto di SS designate alla difesa stretta delle personalità che avevano raggiunto l’Italia.
Già, l’Italia. Quel Paesello di alleati un po’ recalcitranti, ammiratori dell’operato germanico ma al contempo anche un ammasso di impreparati che avevano il costante bisogno di qualcuno che li facesse rigare dritto, o che desse loro una mano nella gestione dei loro stessi affari. A lasciare tutto nelle loro mani si sarebbe scatenato il finimondo.
In senso negativo, ovviamente.
« Beilschmidt! E datti una mossa, che sei bello lo stesso! »
Il biondo tedesco sorrise a quel verso poco educato, voltandosi a guardare i suoi camerati. Un insieme di elementi di buona razza, l’élite delle forze della Germania, soldati ben addestrati e semplici uomini.
I suoi Figli.
Essere una Nazione aveva vantaggi e svantaggi, ma il poter vivere in mezzo al suo popolo come un umano qualunque era davvero bello: oltre al sentirli dentro di sé, come parte della sua coscienza, poteva anche interagire con loro e vivere come loro, con tutto ciò che ne conseguiva.
Il Führer era stato molto gentile nel permettergli di confondersi con i cittadini dell’Impero, purchè rispettasse i suoi doveri in quanto Stato.
« Per lo meno io so mettere la cravatta come si deve, Kroll. » disse, additando con l’indice coperto dal guanto nero il collo del compagno. Quella cravatta aveva davvero bisogno di una sistemata.
Il moro cercò di guardarsi sotto il mento, mentre gli altri se la ridevano; qualcuno si allungò per mollargli uno schiaffo sulla nuca e qualche offesa divertita, qualcun altro battè la mano sulla spalla di Ludwig.
« Tanto non lo noterà nessuno, chi se ne importa. Non possono beccare sempre me, siamo almeno in duecento con la stessa divisa. » lamentarsi e cercare di evitare cose noiose come quelle erano la specialità di Helmut Kroll, nonostante fosse un buon soldato.
« Sistemala e non cominciare, su. Dobbiamo andare. » gli intimò il biondo, raccogliendo il cappello e infilandoselo sul capo.
« Non discutere, Helmut. Guarda che Ludwig ti fa licenziare e finisci a fare la cameriera, eh. »
« Non che io ci verrei mai, in una locanda con te in gonnella! Che schifo! »
« Anche tua sorella non ci sta molto bene, sai? »
« Oh, ma vaffanculo. Non l’hai nemmeno mai vista! »
« Questo lo dici tu! »
La Nazione lasciò gli uomini ai loro battibecchi, sentendosi un po’ come il padre che nessuno sapeva che fosse, ma a cui tutti cantavano.

Cantarono per lui anche durante la cerimonia, mentre gli altoparlanti emettevano la musica che ormai ciascuno conosceva così bene e di cui i tedeschi erano talmente fieri da non mancare di ascoltarla neppure in un’occasione. Tutti i presenti univano le loro voci all’inno, che si alzava ben oltre il cielo azzurro di Milano.
“Che ogni uomo sulla Terra senta queste parole, che ogni anima sappia: la Grande Germania vive ed è potente” sembravano intonare.

Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt.
 



La mattinata si svolse tranquillamente, senza inconvenienti di alcun tipo, lasciando sia gli ospiti che gli ospitanti molto soddisfatti. Ora entrambi avrebbero vissuto in una ancor più stretta vicinanza: molte delle compagnie presenti all’evento, infatti, sarebbero rimaste nel Nord del Bel Paese per supervisionare e dirigere le operazioni degli italiani, dato che a quanto pare intendevano assolvere seriamente ai doveri presi con il Patto d’Acciaio.
La guerra era appena cominciata: l’invasione della Polonia prometteva bene, benissimo, e ci si chiedeva soltanto quando si sarebbe mossa l’Unione Sovietica di Stalin.
Era in questa direzione che ormai da mesi si dirigevano i pensieri di Ludwig, ben preoccupato della riuscita di quelle operazioni. Avrebbero portato sicuramente ad un benessere aggiunto al suo popolo, pur con tutte le perdite e i dolori che sempre conseguivano ai conflitti armati.
Si sperava che ne valesse la pena.
Beh, tanto valeva, ora, cercare di capire in che posto l’avevano infilato. Da quel che aveva visto, sembrava davvero solo un piccolo paese tipicamente italiano, con le sue case in mattoni e le sue strade in pietra, la maggior parte dei paesani impegnati a lavorare nei campi e quei pochi che si spostavano periodicamente lo facevano per raggiungere le fabbriche in città.
“Piccoli campagnoli ignoranti”: non gli venivano in mente aggettivi differenti da quelli, per descriverli, ma non erano totalmente negativi. Gli piaceva come si impegnavano nel loro lavoro, come si organizzavano in base alla produzione e come sembravano sempre pronti a festeggiare per qualsiasi minima cosa. Erano brave persone, seppur evidentemente inferiori ai suoi Figli. Decisamente un po’ troppo rilassati.
L’aveva sempre saputo, ma osservandoli nel loro ambiente naturale se ne rendeva conto in modo più profondo: solo in quella perlustrazione aveva visto almeno cinque uomini sonnecchiare in vari luoghi – il più assurdo stava dormendo appoggiato allo stipite della porta -, tre raduni nei bar e un numero incalcolabile di bambini a spasso per le vie.
Inevitabilmente, quando veniva visto da qualcuno, il tedesco portava il silenzio in quell’angolo di paese. Avevano tutti evidente timore di quelle divise nere che si aggiravano tra loro, senza alcun suono se non quello dei loro passi o delle loro rare parole in quella lingua dura, così poco musicale in confronto all’italiano.
Poco male, si sarebbero presto abituati.
Scrollando le spalle al nulla, il nazista si diresse verso la piazza centrale, dove sarebbe rientrato nella nuova caserma: più una locanda, in realtà, ma per ora – come primo giorno – serviva bene allo scopo. Prima di uscire aveva sistemato tutte le sue poche proprietà sotto il letto della stanza che condivideva con i compagni, assicurandosi che anche loro facessero lo stesso tra le solite battutacce. C’era stato chi aveva deciso di avventurarsi tra le strade, per capire e ambientarsi, e chi invece aveva preferito riposare nello stabile, per godersi in anticipo quel tempo che si sapeva sarebbe mancato tra qualche giorno, quando avrebbero cominciato davvero a lavorare.
Sperava si trovassero bene, in un posto simile, nonostante le differenze con i loro edifici militari in Patria. Dopotutto, erano comunque soldati.
Si rese conto dell’ora solo quando, sbucando dall’angolo della via, si trovò immerso in un’atmosfera descrivibile solo con la parola “arancio”. Alzò una mano, spostando la sigaretta dalle labbra, e si guardò bene intorno, fermandosi esattamente dove si trovava.
Si sentiva un lieve odore di carne, che gli ricordava la cena imminente, sovrastato dallo strano odore che fanno le pietre scaldate dal sole. Il vociare degli abitanti era attutito, e pareva quasi armonizzarsi con quel bel tramonto.
“Ah, l’Italia” soffiò fuori il fumo, socchiudendo gli occhi verso quel cielo dai colori caldi che tanto ricordava un quadro.
Si voltò, pronto per rientrare in caserma, quando un bagliore catturò la sua attenzione. Era un alone bianco e, guardando più attentamente, si accorse che era un semplice vestito chiaro, indossato da una giovane. Quella luce rendeva tutto più luminoso, diamine.
La proprietaria dell’abito era voltata di spalle rispetto a Ludwig, aveva una lunga treccia castana che le scendeva dietro la schiena e un mazzo di fiori di campo stretto tra le braccia. Parlava con un anziano seduto accanto alla porta di casa e aveva un bambinetto che le si attaccava alla gonna, cercando le sue attenzioni.
Non appena ella si girò verso il bimbo per accarezzargli la testa e parlargli, il tedesco sentì muoversi qualcosa sotto la divisa, proprio al centro del petto.
Aveva un sorriso tremendamente bello.
Deglutì, la Nazione, cercando di avere ragione di una cosa così frivola come il volto di una ragazza italiana. Eppure, non riusciva a proseguire, ad ignorare quella dolce e rassicurante espressione, quell’aura di pace che circondava quella figura femminile.
Se non fosse stato per la sua forza di volontà, sarebbe rimasto lì per secoli, ne era certo. Riuscì a battere le palpebre e a distogliere lo sguardo, rompendo quella specie di ibernazione fisica, e si mosse direttamente verso il portone della caserma, entrandovi con una decisione inadatta al contesto. Tutte le teste dei presenti si volsero verso di lui, ma la Nazione non fece altro che filare in mensa, silenziosamente.

“Che diamine, Beilschmidt. Fissare una donna il tuo primo giorno di servizio in terra straniera. Non ti hanno insegnato questo, mi pare.”






« Certo che domani ti porto con me, non preoccuparti. Raccogliamo tutti i fiori che vuoi. » accarezzò la testa del piccolo Federico, sorridendogli. Quel bambino era davvero adorabile.
« Davveo? Posso pendee anche le fafalle? » gli occhioni verdi del bimbo erano enormi e il suo sorriso era sinceramente entusiasta; come avrebbe potuto dirgli di no?
« Lascia stare la signorina, monello. » intimò l’anziano dopo qualche colpo di tosse, prendendo un braccino del nipote e allontanandolo dal vestito di Alice. « E adesso scusati, che le hai stropicciato tutta la gonna. »
L’italiana ridacchiò, passando una mano sul tessuto chiaro e porgendo un papavero del suo mazzo a Federico, che lo prese tutto contento.
« Non è un problema, Umberto. Tanto devo lavarlo. Ho tutta l’erba secca impigliata addosso. »
Ma il signore non la stava ascoltando; fissava verso il lato opposto della piazza con i suoi occhi stanchi. Distolse subito lo sguardo, ma la giovane si era già voltata per capire la causa di esso. Portava ad una divisa nera. Ad un tedesco.
« Oh » sospirò Alice, tornando a guardare l’anziano italiano « Sono arrivati davvero, allora. Non li ho visti, stamattina, ero nel campo. Pensavo che non sarebbero venuti fin qui…è solo un paesino… »
L’uomo scosse la testa, guardandola preoccupato. « Ti fissava, Alice. Fa’ attenzione. Non portano nulla di buono, quei corvi. » borbottò.
La ragazza sorrise, accarezzando la mano rovinata di Umberto. « Non si preoccupi. Vado subito a casa. »
Salutò il bambino, che le rispose tutto entusiasta e incurante degli stranieri, eccitato alla prospettiva di una mattina in campagna con la gentile signorina.
Alice raggiunse la propria abitazione a passo svelto, accorgendosi di come tutti si fossero adeguati ai tedeschi – anche i più apparentemente incuranti stavano controllando i loro movimenti, senza dare nell'occhio – decisa a non farsi notare dai nuovi arrivati il primo giorno della loro presenza.






 


Ed ecco il primo vero capitolo. Sono quasi fiera di me stessa: sono riuscita ad assolvere alla promessa di pubblicarlo oggi!
Spero che renda bene come inizio di una storia, che non risulti troppo noioso (ho la terribile tendenza a dilungarmi sugli elementi storici!) e che interessi.
Ancora grazie, e confidate in me per il prossimo capitolo! 

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Capitolo 3
*** Second Memory ***


Gli sarei saltato addosso, lo ricordo bene.
Se non fisicamente, almeno verbalmente.
Non so bene perché diamine avrei dovuto farlo: ti stava solo parlando. E nemmeno ti conoscevo. Non ancora.
Forse è stato questo a farmi irritare: aveva l’onore di sentire la tua voce, per di più rivolta proprio a sè, mentre io no. Non era giusto, mi sembrava. Perché mai lui avrebbe dovuto avere quella fortuna prima di me? Era più bello, forse? Aveva un accento meno marcato? Non ti intimoriva quanto me? Eppure, non ho mai cercato di spaventarti.
Oh, forse era proprio per questo motivo: non avevo mai tentato di rivolgerti la parola. Come avrei potuto farlo, d’altro canto? Mi sembrava davvero stupido presentarmi da te, interrompere qualsiasi cosa tu stessi facendo ed esternare qualunque verbo. Sarebbe stato stupido ed insulso, per non dire imbarazzante. Sono un soldato, ma non mi hanno mai addestrato a parlare con le donne.
Ripensandoci meglio, credo di capire il vero motivo di tutto quell’astio.
Gli sorridevi, sì, non ho dubbi; non mi sono mai perso nessuna delle tue espressioni, mi sarebbe sembrato un grave peccato. Ma quel sorriso non era certo il tuo sorriso. Quello che avevo visto fermare il tempo solo qualche giorno prima, congelarmi la mente e muovermi il cuore.
Nessuno poteva farti sorridere in un modo differente da quello che avevo osservato, nessuno poteva rovinarti a quella maniera. Meritavi di brillare, di gioire, di non farti coinvolgere in sciocche questioni come la guerra.
Avrei dovuto dirti questo, come prima cosa, non appena mi avvicinai. Avrei dovuto farti dei complimenti ed inginocchiarmi, servile come mi sentivo di dover essere davanti a te.
Invece preferii comportarmi da uomo, seguire l’inutile via dell’onore: scelsi di tornare sotto la mia maschera e di parlare con freddezza, proprio a te che mi scaldavi tanto il petto.


Quanto me ne pento ora, amore.





 

 

Terzo capitolo, come promesso a me stessa lo pubblico oggi. Sono colpita dalla mia stessa buona volontà, accidenti.
Spero di non deludere voi lettori costanti e di interessarne sempre altri.
A presto, neh! ♥

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Capitolo 4
*** Sorrisi e divise ***


Alice sapeva che la vita è difficile.
Per lei lo era sempre stata, da quando si era resa conto di cos’era e di cosa comportava il suo essere: seppur fosse la controparte femminile – e quindi politicamente più disimpegnata – della sua Nazione, aveva comunque l’obbligo di tacere sulla sua vera identità. Nessuno le avrebbe mai creduto, men che meno l’avrebbe accettata e trattata semplicemente, come invece era caso facesse. Dopotutto, era solo una ragazza cresciuta nel Nord Italia, in varie cittadine e paesi, abituata alle difficoltà e alle gioie delle comunità contadine, senza nessuna particolare o nobile dote che non fosse sentire il suo popolo come parte della propria coscienza. Se la maggioranza di coloro con cui era più in contatto avesse preso una decisione in merito a qualsiasi ambito, che fosse politico o religioso, lei vi si sarebbe adattata senza quasi ragionarci.
Amava così tanto tutte quelle anime che, ad ogni modo, le avrebbe lasciate vivere indipendentemente dalle sue scelte. Soprattutto, le piaceva poter vivere come una donna umana, preoccupandosi della sua casa, dei suoi vicini, del suo paesino e anche di se stessa, ogni tanto.
Proprio per queste motivazioni quella mattina aveva deciso di uscire dalla sua abitazione, in cerca del calzolaio. Probabilmente Sergio non era nella sua bottega, ma trovarlo sarebbe stato facile: da quando c’erano i tedeschi, ogni giorno si sistemava in un angolo della piazza, con un tavolo, una sedia e i suoi attrezzi da lavoro. Non c’era molta richiesta, negli ultimi tempi, e da lì poteva osservare i movimenti dei “corvi” e magari ascoltare quel poco che capiva. Qualche volta, uno di loro arrivava persino a chiedergli un intervento sui suoi stivali chiodati, senza farsi troppa pubblicità: le divise in dotazione ai corpi armati del Reich venivano direttamente dai depositi, dovevano essere sempre perfettamente pulite ed in regola e una modifica non autorizzata poteva costar caro a quegli uomini. Dato che però “nessuno” lo veniva a sapere, tutto poteva funzionare e Sergio poteva raccogliere qualche marco tedesco. E anche qualche informazione sporadica, la quale raggiungeva ben presto le orecchie dell’intera popolazione, ma certo nessun soldato straniero ne era al corrente.
Un sacchetto in tela con gli zoccoli da riparare in una mano e una treccia castana nell’altra, Alice camminava tranquilla sulle pietre della pavimentazione, mascherando bene la preoccupazione che – trasmessa dagli italiani o meno – sentiva nel cuore da giorni. Quegli uomini le davano una strana sensazione, come se un peso le incombesse sul capo; d’altro canto, però, essi non avevano ancora fatto nulla se non portare con loro l’oscura reputazione delle SS.
Si poteva ancora sperare di scampare a pericoli peggiori della guerra nel Nord, in luoghi lontani come la Polonia o la tanto preannunciata Francia.




Stava osservando una vetrina del centro, occupando l’attesa del lavoro di Sergio cercando la stoffa adatta con cui rammendare i pantaloni di Giuseppe – il suo vicino, quel caro ragazzo -, quando sentì una voce sconosciuta alle sue spalle. Purtroppo, non aveva capito ciò che le era stato detto, né era sicura che fosse rivolto proprio a lei, ma sollevando lo sguardo non ebbe più dubbi. Quello che si vedeva nel riflesso accanto a sé era un alto uomo in divisa.
Un tedesco.
La ragazza si voltò di scatto, tra l’imbarazzo e il timore, non sapendo come comportarsi. Nessuno di loro le aveva ancora rivolto la parola…e se fosse stato il soldato che l’aveva fissata qualche sera prima? Oh, mamma…
« Signorina, salve. » l’italiano dello straniero era fortemente accentato, ma l’uomo sapeva cosa diceva. Doveva essere in Italia da molto, non vi erano dubbi. Con quegli occhi azzurro cielo fissi su di lei, sembrava comunque minaccioso nonostante cercasse di essere amichevole, ma forse era solo suggestione…
« Salve a lei, signore. Le serve qualcosa? » il tono della giovane non era per nulla ironico o sfacciato, così come non lo era il sorriso tremulo che aveva sulle labbra. Non era una sua caratteristica essere ostile e con un individuo del genere davanti non avrebbe comunque potuto permettersi di avere un atteggiamento simile. Ne era certa: coscienza del popolo o meno, i tedeschi la terrorizzavano.
Il soldato scosse il capo brevemente, senza distogliere lo sguardo da lei nemmeno per un secondo « No, no. Solo un informazione: abiti qui? »
« Oh, sì. Da anni, ormai. » Alice si trattenne dal domandare il perché di quella domanda, ben conscia del grado di educazione che doveva tenere con un uomo, soprattutto in divisa. Le avevano insegnato ad essere rispettosa, pressoché sottomessa, e non intendeva dare modo a nessuno di riprenderla su quel punto. Sarebbe potuta finire nei guai, altrimenti.
« Molto bene » era certa di aver visto un bagliore negli occhi dello straniero, a quelle parole. Egli le si affiancò, apparentemente interessandosi alle tele e agli strumenti da cucito – ben pochi, in realtà – esposti dal negozio.
In silenzio, senza osare una parola o un suono, l’italiana deglutì, in attesa che l’altro continuasse a parlare e cercando di mascherare con un sorriso quanto fosse spaventata dal discorrere con lui.
Aveva sentito dire da qualche ex-soldato del paese che le SS si nutrivano di paura. Non faticava a crederci.






Sarebbe arrivato a prendere a pugni qualcuno, ne era certo. Prima o poi, quell’idiota di Neder gli avrebbe fatto saltare i nervi, lui e i suoi rapporti palesemente falsi. Se lo beccava un’altra volta a bere in servizio, seduto ad un tavolino di bar, per poi avere il coraggio di scrivere della necessità di mandare dietro le sbarre una mezza dozzina di italiani per crimini inventati al momento, l’avrebbe spedito in un battaglione di disciplina. O avrebbe fatto richiesta di mandare quell’essere al fronte, in prima linea, con il primo maledetto treno, non appena l’avessero promosso ad un grado più alto dell’attuale.
Sbuffando, Ludwig scese le scale di fronte alla porta che aveva appena chiuso, sistemandosi il cappello in testa. Ogni tanto pensava che il maggiore Schaube fosse troppo indulgente, ma effettivamente doveva farsi bastare gli uomini che aveva. Nessuno aveva intenzione di ascoltare le lamentele di quell’uomo: non l’avrebbe fatto nemmeno Ludwig stesso, sapendo che egli era in una delle migliori zone del Nord Italia, praticamente libere dai precoci partigiani.
Uscì dal portone in legno scuro, infilandosi una sigaretta tra le labbra e guardandosi intorno. Doveva ammettere che c’erano davvero ben poche noie, lì; probabilmente, Neder era solo annoiato da quella calma e cercava metodi alternativi per divertirsi. Non avevano neppure festeggiato l’aumento di grado di Ludwig, che aveva silenziosamente cambiato spalline e mostrine alla sua divisa senza troppe scene. Perché far festeggiare qualcosa a quel tizio se già scolava birra ogni maledetto pomeriggio?
Con un verso di disappunto per la mancanza di disciplina del ragazzo, il biondo prestò più attenzione a ciò che aveva sotto gli occhi. Nonostante fosse già quasi passata una settimana, non c’era stato nulla da segnalare e i giovani in divisa si chiedevano perché mai qualcuno li avesse sistemati in quel buco di posto. Non stavano a discuterne, certo, ma qualche perplessità la avevano tutti, compreso Ludwig.
Questi mosse qualche passo verso il centro della piazza, deciso a dirigersi verso la terrazza naturale che dava sulle rade colline occidentali per godersi un momento di pace. Un punto di forza di quel paese era che – essendo sconosciuto e quasi sperduto – aveva panorami niente male; al grosso tedesco ricordavano quelli della sua terra, che un tempo ammirava dalla sua villa di campagna.
Nell’ispezionare la zona con gli occhi mentre si spostava con calma verso la meta, notò una divisa nera accanto ad una donna, davanti alla vetrina della merceria. Non fu tanto vedere Richard Werke che lo indispose, quanto più fu riconoscere che la signorina che gli stava accanto era l’italiana con le trecce che aveva fissato il primo giorno di servizio.
E soprattutto che il sorriso che lei aveva sulle labbra non si avvicinava minimamente a quello che Ludwig aveva visto quella sera.
Senza null’altro in mente se non questi pensieri vaghi e tremendamente incoerenti, il biondo si trovò presto dietro il camerata, ignorando momentaneamente – per un motivo a lui sconosciuto – la ragazza.
« Werke, a rapporto. »
Il soldato si voltò di scatto, impostando automaticamente il saluto e battendo i tacchi « Soldato Werke a rapport- » si bloccò, perplesso, per scrutare Ludwig. L’espressione del più grande non era per nulla indicatrice di sarcasmo, ma sicuramente Werke non aveva idea del perché dovesse fargli rapporto. Era uscito dalla caserma solo una ventina di minuti prima per sgranchirsi le gambe, non era nemmeno di pattuglia.
« Tutto regolare, Herr. » fu l’unica cosa che riuscì a dire al superiore, confusamente.
« Bene. Puoi andare. » il tono della Nazione era gelido, perentorio. All’altro non restò che allontanarsi, senza sapere perché lo stava effettivamente facendo. Ora non avrebbe comunque potuto discuterne: Ludwig era diventato uno di coloro a cui egli doveva obbligatoriamente portare rispetto.
Passò qualche secondo di silenzio, dopo che Werke se ne fu andato. Cosa avrebbe dovuto dire ora? Cosa aveva fatto?
« Spero che non le abbia dato disturbo. » disse il germanico, un poco titubante. Non gli era venuto in mente nulla di meglio per scusarsi di quell’intrusione.
La giovane scosse il capo, fissando il terreno e tenendo strette le piccole mani sulla gonna, in silenzio.
E null’altro.
Ludwig riprese a fumare la sigaretta che aveva dimenticato tra le dita, sentendosi stranamente ansioso. Di cosa diamine doveva preoccuparsi, Gott? Stava semplicemente parlando con una ragazza del posto, che fino a qualche momento prima stava sorridendo con fare spaventato a Werke…oh, diamine, cosa aveva fatto?
Si allontanò chiedendole vagamente scusa, sentendosi affogare nella confusione. Stava diventando matto, se lo sentiva. Quel paese italiano doveva avere qualcosa nell’aria, nelle pietre delle pavimentazioni o nel cibo.
O forse il problema era nella sua testa, semplicemente. Ma qual era questo problema? Lo stesso che gli si muoveva sotto il petto? E perché gli altri ne sembravano immuni?
Ragionando di cose poco logiche e senza nessun nesso tra loro, raggiunse la terrazza, ma non vi si fermò: continuò a camminare fino all’ora di pranzo, evitando la piazza e conseguentemente la signorina, per poi tornare alla caserma e restare al lavoro sui documenti per il resto della giornata, cercando di pensare in modo normale a cose normali.
Rapporti, timbri, firme, rapporti, timbri, firme. Sorrisi e mani delicate. Capelli castani raccolti in trecce.
Gott in Himmel.
Avrebbe dovuto farsi vedere dal medico della divisione, decisamente.






 


Riesco ad essere efficiente anche dalle orribili e piovose spiagge italiane, Gott. Fatemi un applauso, su!
...d'altro canto non credo di meritarmelo: ci ho messo un sacco ad aggiornare e non so precisamente quando succederà di nuovo. Ad ogni modo, vi ringrazio per le visualizzazioni e per le recensioni che mi lasciate!
Con il secondo capitolo "ufficiale" ho deciso di alternare anche i punti di vista dei personaggi, per non lasciare il tutto troppo incentrato su Ludwig (che comunque rimane il personaggio principale e colui che "scrive" i capitoletti in prima persona).
Grazie mille a tutti, a presto! 

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