Mondi diversi

di LeGuignol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il dono ***
Capitolo 2: *** La cliente bizzarra ***
Capitolo 3: *** Il maniero dei Cavendish ***
Capitolo 4: *** L'erede scomparso ***
Capitolo 5: *** La stanza oltre lo specchio ***



Capitolo 1
*** Il dono ***


PROLOGO – IL DONO
 
Attenzione! Questa storia è sospesa. In futuro la riprenderò, ma può darsi che i capitoli scritti finora subiscano drastiche modifiche. Se volete comunque continuare a leggere siete i benvenuti, ma sappiate che ciò che leggerete NON E' la versione definitiva. Se foste interessati ad ricevere notizie sugli aggiornamenti, non avete che da chiedermeli ^^
 
La stanza buia e spoglia, arredata unicamente dal pc e dalle periferiche collegate, è l’ideale per concentrarsi sul caso al quale sta lavorando. L non chiede di meglio che quell’arredamento minimalista studiato appositamente per evitare qualunque distrazione, in modo da focalizzare l’attenzione esclusivamente sull’obiettivo.
L’unico lusso che si è concesso è il pavimento di legno al posto delle piastrelle fredde, molto più adatto ai suoi piedi scalzi.
Il ragazzo osserva le immagini delle vittime sul monitor. Gli schizzi di sangue, il bianco dei tendini esposti e gli organi interni visibili dagli squarci slabbrati non lo urtano minimamente; non è quello il punto fondamentale. La sua mente razionale lo spinge a notare solo gli aspetti essenziali per ricavare un quadro completo del modus operandi dell’assassino.
Lavorare sui piccoli particolari è la chiave per giungere alla soluzione, e lui ci riuscirà, come ogni volta. Anche questa sfida sarà vinta. Questo è l’unico obiettivo.
Gli aspetti etici e morali li lascia a giornalisti, psicologi, criminologi e conduttori di talk-show che, a caso risolto, si butteranno come avvoltoi per arraffare momenti di gloria insieme a compensi ben più concreti, grazie ai ricavi dalle vendite di libri, articoli su rotocalchi scandalistici e puntate su puntate di trasmissioni televisive.
A lui tutto questo non interessa. Ha già tutto quello che desidera: la soddisfazione personale di essere riuscito, ancora una volta, ad arrivare alla soluzione prima di qualunque altro detective al mondo.
Torna a studiare i tabulati con i dati sulle vittime, posati accanto a lui. Le domande sui perché l’assassino abbia agito ad intervalli regolari di tre giorni, perché con tanta efferatezza, perché scegliendo proprio quelle persone, a poco a poco hanno trovato le risposte. Nemmeno la pressione esercitata dal fattore tempo – un solo giorno, manca un solo giorno al prossimo delitto – ha incrinato la perfezione dei suoi ragionamenti. Ormai il puzzle è completo.
 
Al 99%.
 
E ad L non piace lavorare senza la certezza assoluta. Non sarebbe una vittoria schiacciante.
Torna a studiare per l’ennesima volta il file degli indiziati, escludendo la possibilità di eventuali pecche nei collegamenti logici che l’hanno portato a isolare, fra tutti quei volti, l’autore degli omicidi.
Probabilmente è superfluo, ma per colmare quell’1% di dubbio ricorrerà al parere dei ragazzi della Wammy’s House. Servirà loro come esercizio.
L ha già in mente la persona adatta: tra gli allievi dell’istituto esiste un individuo dalle straordinarie capacità intuitive per quanto riguarda la comprensione della mente umana. Se credesse nei fenomeni paranormali, sospetterebbe che si tratti di un caso di telepatia. Ma la sua mente pratica si basa sui fatti e sulle scienze esatte, non sulle superstizioni. La realtà è che quella persona è dotata di uno spirito di osservazione fuori dal comune; studiando il comportamento e le reazioni altrui, riesce a scavare nei meandri della mente in un modo che, L deve ammetterlo, ha dell’incredibile.
 
Un vero e proprio dono.
 
E’ grazie a questa peculiarità che quella persona ha guadagnato l’ambìto premio di potersi fregiare della diciottesima lettera dell’alfabeto, nonché di poter conoscere il vero volto di L.
Il ragazzo preme il tasto di comunicazione del microfono posato sul pavimento.
 
«Watari, mandami R. Ho bisogno di una sua consulenza».
 
.oOOo.
 
Un semplice «avanti» la invita ad entrare nella stanza.
La ragazza rimane ferma sulla soglia per il tempo necessario ad abituarsi all’oscurità. Poi si dirige verso la figura accovacciata davanti al monitor, unico punto luminoso.
Niente convenevoli fra di loro. R non se la prende, sa che se L si comporta così non è certo per superbia; probabilmente, in quel momento la soluzione del caso è l’unico fattore che catturi il suo interesse.
La ragazza si siede direttamente sul pavimento, a gambe incrociate. Quella posizione la aiuta a concentrarsi, ed in quel momento ne ha davvero bisogno: essere al cospetto di L la mette sempre in soggezione.
Per fortuna il ragazzo non si volta nemmeno a guardarla. Meglio così; in fondo lei, per lui, non è nient’altro che uno strumento di lavoro.
 
«Watari ti ha già riassunto i punti principali del caso. Queste sono le foto che la polizia ha scattato sui luoghi dei delitti».
 
Dritto al punto. Come volevasi dimostrare.
R dà un’occhiata alle immagini agghiaccianti sul monitor e deglutisce a secco; lei non è come Near e Mello, non riesce a studiare le prove senza farsi coinvolgere emotivamente. E’ a causa della sua indole passionale se, pur avendo ottenuto il privilegio di quella lettera che sostituisce il suo vero nome, non concorrerà mai alla gara per il posto di successore di L.
 
«Vorrei che studiassi a fondo il modo in cui sono stati compiuti e, incrociando i dati dei rapporti sui sospettati raccolti in questi tabulati, mi dicessi quale di loro può essere l’autore degli omicidi» prosegue lui, dedicandosi a togliere la glassa da una ciambella a forza di leccate.
 
Niente pollice portato alle labbra a mordicchiare l’unghia con aria meditabonda. Niente dondolarsi sui talloni. Insomma, nessun atteggiamento caratteristico di lui quando è immerso nel ragionamento. Al loro posto, un momento di relax in compagnia di un dolce: il premio al termine della fatica.
Da tutto ciò, la ragazza intuisce che L non le sta chiedendo veramente un aiuto. Lui ha già fatto la propria scelta; quello che cerca è una conferma alle proprie certezze.
 
«Farò del mio meglio» risponde, cercando di non badare al turbamento che le provoca la lingua del detective che lambisce la ciambella ricoperta.
 
E’ un controsenso, per una persona che riesce a cogliere così bene gli aspetti più reconditi della mente altrui, non essere riuscita a leggere la verità dentro di sé, se non quando gliel’hanno sbattuta in faccia gli altri.
 
Perché, no, lei da sola non era davvero riuscita a dare una spiegazione al rimescolio che provava in presenza di L. Non si era accorta che il rispetto e la reverenza provati verso il più grande detective del mondo si erano trasformati in qualcosa di molto diverso, quando finalmente aveva potuto conoscerlo di persona. Forse era stato il contrasto tra il come se lo era aspettato e chi si era realmente trovata davanti a compiere la metamorfosi.
Fatto sta che aveva cominciato a considerare in modo diverso il ragazzo allampanato che le era già capitato di incrociare più volte nei corridoi della Wammy’s House, quando ancora ne ignorava la vera identità.
 
E’ naturale, la sua presenza mi fa uno strano effetto perché è la persona che ci hanno spronato a raggiungere fin da quando eravamo bambini, ed è così in gamba che è l’unica che meriti il mio rispetto, si era detta.
 
Era stata Linda a farle notare la verità.
 
«Lo guardi con gli occhi di un’innamorata persa!» le aveva detto per prenderla in giro, senza immaginare la tempesta che quella frase senza importanza aveva scatenato nell’animo di R.
 
Quelle parole buttate lì per scherzo avevano aperto alla ragazza una finestra sulla propria anima.
 
«Se reputi necessario un incontro diretto con quello che sospetti possa essere il colpevole, te lo faremo avere» continua il detective, senza distogliere l’attenzione dalla ciambella.
 
«Le foto lasciano già intuire abbastanza sulle caratteristiche dell’assassino. Credo che per ricavare un profilo psicologico e trarre delle conclusioni precise mi sarà sufficiente basarmi sui dati in nostro possesso» risponde la ragazza, imponendosi di mantenere un tono professionale e di ignorare l’assurdo desiderio di trovarsi al posto della ciambella.
 
Sto peggiorando…adesso sono perfino invidiosa di un impasto di farina e zucchero?
 
«Lo credo anch’io. Ho piena fiducia nelle tue capacità» risponde lui, voltandosi a fissarla con due occhi rotondi e sbarrati.
 
E questa volta R non riesce a mantenere un atteggiamento professionale. Quello sguardo sembra volerle leggere dentro, capace di carpirle il segreto che cerca di nascondergli in tutti i modi.
Si alza di scatto stringendo i tabulati al petto, sperando che la penombra nasconda gli indizi del suo imbarazzo, quei segni del linguaggio corporale che è tanto brava ad interpretare ma che, al pari di tutti gli altri, non riesce a controllare.
Deve uscire al più presto da quella stanza, in modo da non permettere che l’atmosfera raccolta e lo sguardo di lui la facciano capitolare; sente che, se non se ne va immediatamente, l’istinto prevarrà e finirà per confessargli tutto quello che prova per lui. Sarebbe la fine della sua collaborazione con L, lo sa fin troppo bene.
La colpa è del suo dono.
E’ grata al destino, che le ha fornito una tale capacità. E’ grazie a quel dono se le è stato permesso di risiedere alla Wammy’s House, ed è sempre grazie ad esso se ha potuto elevarsi tra tutti gli altri allievi fino ad arrivare a collaborare con L. Grazie a quel dono, ha assaporato la felicità di poter incontrare la persona amata.
Ma il suo dono è anche la sua condanna.
Al contrario delle altre ragazze, R non può crogiolarsi nell’illusione di avere qualche speranza riguardo un amore impossibile. Lei è conscia di quell’impossibilità, ha solo certezze. Grazie al suo dono, la persona da cui è attratta non ha segreti; almeno, non dal punto di vista sentimentale.
Non ha avuto nemmeno bisogno di sforzarsi per capire che l’unico sentimento che prova L nei suoi confronti, al di fuori del lato professionale, è la totale indifferenza. E’ un messaggio così chiaro che non le lascia nemmeno il beneficio del dubbio. Il suo intuito non sbaglia mai.
La ragazza si allontana dal detective dopo un momento di incertezza, rinunciando anche al breve contatto di una stretta di mano di commiato. E’ palese che L non gradisca il contatto fisico, e lei non vuole compiere nessun gesto che possa infastidirlo. Non vuole rischiare di perdere l’occasione degli sporadici incontri di lavoro con lui, che considera preziosi come appuntamenti fra innamorati.
Non si aspetta di più, ormai ha accettato la realtà da tempo; o meglio, si è imposta di accettarla. Tuttavia la portata del suo sentimento è tale da non poter essere facilmente ignorata, e la rassegnazione forzata non fa che logorarla ogni giorno di più.
Ma se lui sapesse…la allontanerebbe per sempre da sé. A lei vengono richieste razionalità e capacità deduttive, non baci e carezze.
E ad R, maledetta da un dono, non rimane che voltarsi e andarsene.




Commenti personali
Sorpresa! "Il dono" diventa una long fiction! Spero che sia cosa gradita a chi aveva apprezzato il personaggio di R, anche se temo che quei lettori ormai siano scomparsi dal fandom di Death Note da un bel po' di tempo (come ero scomparsa io, del resto!)
Non é mai buona cosa aggiungere nuovi capitoli a una storia nata per essere e rimanere una one-shot ma, come dire, avevo voglia di ricominciare a scrivere su Death Note e, dopo anni di stasi, ho sentito che l'unica soluzione era ripartire dall'unica storia che mi aveva fatto sentire realmente ispirata. Non so dove mi porterà la trama, non so quanto mi richiederà ma... so che é una cosa che dovevo a R ^^

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Capitolo 2
*** La cliente bizzarra ***


CAPITOLO 1 – LA CLIENTE BIZZARRA

 
Ad R l’autunno era sempre piaciuto. Linda le diceva che era perché si addiceva alla sua indole malinconica, ma lei era convinta che il motivo fosse un altro. Erano i colori che la natura assumeva, a colpirla. Le sfumature delle foglie, dal giallo carico al rosso acceso, erano una meraviglia.
In autunno, per R, camminare in solitudine in un bosco immersa nei propri pensieri era la cosa più rilassante che potesse esistere. Come si faceva a non amare quella stagione? Durante le sue passeggiate, era rimasta affascinata più volte dall’atmosfera raccolta del bosco di castagni, dai colori caldi che man mano si spegnevano nel bruno, ogni giorno di più, finché, con il sopraggiungere dell’inverno, gli alberi completamente spogli e il terreno dal sottobosco privo di verde sarebbero stati ricoperti da un manto di neve candida.
Era una perfetta allegoria di morte. Ma dolce, tranquilla, quasi idilliaca.
Sì, forse Linda un fondo di ragione ce l’aveva, quando le diceva che l’autunno faceva leva sulla sua malinconia.
Le faceva ricordare la se stessa di cinque anni prima, quando ancora era R e non Rossella.
Quando risiedeva alla Wammy’s House inseguendo un sogno romantico che già sapeva essere irrealizzabile.
Quando i tagli sul polso non c’erano ancora.
 
.oOOo.
 
Rossella guardò fuori dalla finestra dell’ufficio dell’agenzia investigativa, dalla quale poteva scorgere, in lontananza, gli alberi che circondavano l’imponente cattedrale gotica di Winchester. Nonostante quell’anno il clima autunnale fosse insolitamente mite, quel giorno fin dal mattino aveva continuato a cadere una pioggerellina persistente che aveva reso l’aria fredda e umida. La giornata non invitava certo a una passeggiata meditativa nel verde dei dintorni della chiesa, come era solita fare. Meglio così. In mancanza di un caso su cui lavorare, i pensieri alla fine sarebbero tornati senz’altro al passato, focalizzandosi in particolare su una persona che era meglio dimenticare.
Per riflesso, le dita andarono distrattamente a massaggiare il polso sinistro. Le vecchie cicatrici che lo deturpavano, nascoste sempre da abiti con maniche lunghe, talvolta le davano un po’ fastidio nelle giornate umide come quella.
Guardò l’ora: erano quasi le quattro. La cliente con cui aveva appuntamento, Kathy Warwick, sarebbe arrivata da lì a non molto. Dalla conversazione telefonica intercorsa fra loro il giorno precedente, Rossella aveva già abbozzato un profilo psicologico della donna. Negli anni, la sua già straordinaria capacità di analisi si era affinata ulteriormente, e a poco a poco aveva scoperto che, se dalle caratteristiche fisiche e comportamentali di un individuo era in grado di giungere quasi ad entrarne nella mente, era vero anche il contrario: non era impossibile, partendo dal tono e dal modo di usare le parole – che, in fondo, non erano altro che lo specchio dei pensieri –  ricostruire un identikit abbastanza preciso dell’aspetto. Certo, voce e parole non fornivano informazioni sul colore degli occhi o dei capelli, ma suggerivano un quadro piuttosto veritiero sul modo di atteggiarsi, di vestire, sull’età, perfino sulla corporatura.
La Kathy Warwick che aveva in mente Rossella era una donna sulla ventina, esageratamente timida e impacciata, anche se qualcosa nella sua voce le aveva suggerito anche un tocco di originalità. Si immaginò lo sguardo smarrito, i modi pacati. Al telefono, aveva provato simpatia per lei. Ne provava sempre, per le persone gentili. E Kathy le aveva dato proprio quell’impressione: una persona gentile che le stava chiedendo aiuto. Per questo aveva accettato di fissare un appuntamento per un caso che, a suo parere, poteva essere più uno scherzo che una faccenda seria.
 
Alle quattro e mezza Rossella, con disappunto, riguardò l’ora per la decima volta. Perché mai per certe persone era così difficile essere in orario?

Alle cinque ebbe il sospetto che la Warwick si fosse persa.

Alle cinque e mezza il sospetto di essere stata presa in giro si fece più forte che mai. Che diavolo le era saltato in testa per prendere sul serio una cliente che le aveva detto di sentirsi in pericolo solo perché aveva ricevuto una ridicola lettera di minacce scritta con i ritagli di giornale? E poi? Cos’altro aveva aggiunto? Ah, sì! Aveva accennato a qualcosa a proposito di rose mozzate. Che stupidaggine! Nessuno si prenderebbe paura per una cosa del genere. E lei ci era cascata in pieno, giudicandola addirittura timida e gentile! Le bruciava da matti ammetterlo, ma forse il suo istinto, per una volta, aveva fatto cilecca.

Alle sei meno un quarto, quando stava per prendere il telefono e comporre il numero della sua cliente – numero che, ne era certa, si sarebbe rivelato inesistente – il campanello dell’agenzia investigativa suonò.
Rossella andò ad aprire, e si ritrovò davanti una ragazza di bassa statura, bionda, con due occhi chiari e smarriti, bagnata fradicia e tremante. I suoi abiti, di un’eleganza discreta, erano completamente neri.
«Mi perdoni! Sono in un ritardo terribile!» esclamò la ragazza a testa bassa, con una voce accorata e le guance rosse come due mele per la vergogna e il freddo.
A Rossella ricordò una scolaretta che si scusava per essere arrivata tardi alla lezione.
«La signorina Warwick, suppongo» le chiese, facendosi da parte per farla entrare.
«Oh, mi scusi, mi scusi, non mi sono nemmeno presentata!» rispose l’altra, nell’imbarazzo più totale.
Con una punta di orgoglio la detective pensò che, tutto sommato, aveva indovinato. Kathy Warwick era timida e impacciata, ma in un modo che ispirava tenerezza. Il suo fare insicuro la rendeva ancora più dolce di quanto la faceva sembrare l’aspetto da angioletto sperso.
«Cominciavo a preoccuparmi, non vedendola arrivare. Cosa le è successo?» le chiese per cercare di rompere il ghiaccio, mettendo una nota di calore nel suo timbro di voce solitamente asettico come quello di un disco registrato. Di solito mostrare solidarietà, con quel tipo di persone, era particolarmente efficace per metterle a loro agio.
«Ecco… come dire… ero uscita di casa in perfetto orario… solo che, quando ero quasi arrivata, mi sono resa conto che era addirittura troppo presto. Pioveva, e non volevo certo aspettare qui fuori sotto l’acqua, quindi sono entrata nella caffetteria che c’è qui vicino. Una tazza di tè è l’ideale, con questo tempo, non trova? Però, al momento di uscire, mi sono resa conto che mi avevano rubato l’ombrello! E nel frattempo aveva iniziato a piovere proprio forte… Ho provato a venire qui comunque, ma mi sono inzuppata dopo pochi metri. Non mi andava di presentarmi in quello stato, così sono tornata verso casa per cambiarmi, ma siccome non conosco questa zona devo aver preso l’autobus che andava nella direzione opposta e… ecco… me ne sono accorta solo quando ormai ero molto lontana. Ho cercato di tornare verso casa con un altro autobus, ma intanto si era fatto spaventosamente tardi e così… così…».
Kathy rimase a fissarsi i piedi, lasciando la frase in sospeso.
Così sei entrata nel panico e hai perso la testa, concluse mentalmente Rossella al posto suo. Tipico delle persone ansiose quando si trovano davanti a un bivio.
Analizzò quello che la sua potenziale cliente le aveva appena detto. Nello smarrimento più totale, si era posta due alternative: o tornare a casa a cambiarsi, aumentando le dimensioni di quello che era già un notevole ritardo, o presentarsi ugualmente davanti a una sconosciuta in uno stato che, per come era fatta Kathy, era senza dubbio imbarazzante. Tra le due strade, aveva scelto la seconda.
Interessante!
Dall’idea che si era fatta di Kathy Warwick, Rossella avrebbe detto che, per un’indole così infantile, tornare al sicuro nel proprio rifugio e lasciare perdere l’appuntamento sarebbe stata la scelta più ovvia. Contrariamente, la ragazza aveva visto nell’agenzia investigativa l’opzione migliore e vi si era recata ugualmente. Se non altro, ebbe la prova che la cliente aveva a cuore il caso che stava per sottoporle, e la sua preoccupazione era autentica. Poteva scartare il sospetto iniziale dello scherzo.
Ma i suoi pensieri furono interrotti bruscamente da un urlo acuto.
«Oddio, mi dispiace, mi dispiace!» esclamò la ragazza bionda nel realizzare che l’acqua che colava dai suoi vestiti zuppi aveva creato una pozzanghera sul pavimento dell’ufficio.
«Non si preoccupi! Non è niente, davvero! Venga, le do un asciugamano. Intanto si accomodi qui, le preparo qualcosa di caldo» la rassicurò Rossella indicandole la sedia di fronte alla scrivania.
 
Nei pochi minuti che occorsero a Kathy per asciugarsi alla bell’e meglio e ritrovare un po’ la calma, complice anche la tazza di camomilla fumante, Rossella riuscì a mettere al loro posto tutti i tasselli che componevano il carattere della persona che aveva davanti. La Warwick rientrava nella categoria delle persone così ingenue e fiduciose verso il prossimo da risultare stupide. Probabilmente non aveva problemi economici, e viveva tranquillamente la sua esistenza senza essersi ancora mai trovata nella situazione di doversi accollare delle responsabilità.
Dubitava che quello che le aveva accennato al telefono potesse essere un caso di sua competenza, ma, ad ogni modo, avrebbe ascoltato cosa aveva da proporle. Al massimo le avrebbe dato un consiglio e l’avrebbe liquidata senza chiederle nessun compenso. In poche parole, una giornata di lavoro persa. Il prezzo da pagare per avere un debole per le persone gentili.
Dopo qualche domanda di rito, in cui apprese che la sua cliente era una studentessa di Midhurst trasferitasi a Winchester per studiare all’università, e che abitava da sola, Rossella le chiese di parlarle del motivo per cui era venuta.
«Dunque, Kathy… posso chiamarla Kathy? Anzi, diamoci del tu. Chiamami pure Rossella».
Far crollare il muro delle formalità funzionava sempre con le persone timide. Infatti, la ragazza bionda annuì vigorosamente, acconsentendo con un «Certo!» squillante e sorridendo fiduciosa.
Rossella ne fu felice. Si sarebbe sentita ridicola a continuare a dare del lei a una cliente che aveva meno dei suoi già invidiabili ventun anni. Senza dubbio, la cliente più giovane che le fosse mai capitata; nonché la prima che non avesse avuto la minima reazione di stupore nell’affidarsi ad una detective poco più che adolescente.
«Al telefono mi hai accennato al fatto che da qualche tempo ti senti… uhm… in pericolo? E che hai ricevuto una lettera di minacce, vero?».
«Esatto. A dire il vero, sono successe anche altre cose… Ecco… tutto è iniziato circa due settimane fa, dopo il funerale di mio nonno, sir Arthur Cavendish».
Al ricordo del parente defunto, gli occhi di Kathy si velarono. Nonostante ciò, Rossella non riuscì a pronunciare nemmeno una succinta frase di condoglianze ma, al contrario, alla notizia proruppe in un assai poco professionale: «Cooosa?!».
La famiglia di sir Arthur Cavendish discendeva dalla più alta nobiltà inglese, sebbene come ramo cadetto, ed era una delle più in vista di Winchester. Al funerale aveva partecipato mezza città. Non poteva credere di trovarsi al cospetto della nipote del nobile. Fu il suo turno di sentirsi in imbarazzo.
«Ma… ma… un momento! Voi… cioè… tu hai detto di chiamarti Warwick, non Cavendish» esclamò, mentre la maschera imperturbabile che celava costantemente le sue emozioni si sgretolava per un momento. «Ah, ma certo. E’ uno pseudonimo che usi per sicurezza».
«No, no, è proprio il mio nome» rispose la ragazza, divertita.
L’espressione confusa della detective la mise definitivamente a proprio agio. Nel tragitto da casa all’agenzia era rimasta sulle spine per tutto il tempo, all’idea di parlare con un investigatore. Si era immaginata una donna dall’aspetto severo che, sicuramente, l’avrebbe trattata male alla prima sciocchezza che avesse detto. Quando si era trovata faccia a faccia con Rossella, praticamente una sua coetanea, si era sentita sollevata. Confidarsi con lei sarebbe stato meno difficile del previsto.
«Vedi, i miei genitori non si sono mai sposati. Io porto il cognome di mia madre. Mio padre, Richard Cavendish, è morto scapolo senza avere figli ufficiali, quando io ero ancora neonata. Forse, se non fosse morto così presto, alla fine i miei si sarebbero sposati… Però, sebbene mio padre non mi abbia riconosciuta alla nascita, ha provveduto ugualmente al mio mantenimento, così come mio nonno dopo di lui. Sai, ho trascorso sempre le vacanze nella residenza di sir Arthur Cavendish. Mi voleva molto bene, e si è sempre comportato affettuosamente. Nonostante ciò, era una persona estremamente legata alle tradizioni e all’etichetta, e non voleva assolutamente che la faccenda di figli illegittimi potesse trapelare. Quindi, senti un po’ cosa si è inventato per poter trascorrere del tempo insieme a me: ha cominciato a lamentarsi dicendo che, dopo la scomparsa del figlio, pativa disperatamente la solitudine e la mancanza di nipoti. La voce si è diffusa velocemente, quindi a nessuno è sembrato strano quando ha offerto all’orfanotrofio di organizzare di tanto in tanto festicciole di beneficenza e giochi per i bambini presso la sua residenza. Anzi, tutti l’hanno lodato per il suo spirito caritatevole. Nessuno ha mai fatto caso che, in quella baraonda, potessero esserci degli intrusi. Così, salvate le apparenze, il nonno poté passare con me tutto il tempo che voleva. Diceva che prima o poi sarei diventata una nipote legittima, e che meritavo tutte le attenzioni» concluse Kathy, sorridendo al ricordo.
«Un momento! Non starai per dirmi che tu ora sei a tutti gli effetti un’erede di sir Arthur Cavendish?».
«Proprio così!» rispose candidamente l’altra. «Il nonno mi ha nominata erede ufficiale nel testamento».
Sarebbe bastato verificare personalmente il documento per confermare un’affermazione del genere, ma la detective era già certa che la ragazza non stesse mentendo. Il dono di cui era dotata, che da sempre le aveva permesso di leggere nella gente con una precisione sconcertante, le disse che Kathy Warwick era sincera fino al midollo.
La faccenda stava prendendo una piega interessante. Se i presupposti erano quelli, forse i timori della sua cliente non erano infondati.
«Parlami di cosa è successo dopo il funerale» la incoraggiò.
Inconsciamente, incrociò le gambe nella posizione yoga del loto, come le capitava sempre quando si concentrava.
«Sì, d’accordo» rispose Kathy estraendo una busta dalla borsetta. «Un giorno, tornando a casa, ho trovato in buca questa lettera».
Porse a Rossella la busta, che la esaminò. Evidentemente era stata recapitata a mano, perché non vi era traccia di timbro postale. Il presunto stalker aveva recapitato personalmente la busta rischiando di essere visto? Se così era, non si trattava certo di un professionista. Magari vi aveva pure lasciato qualche impronta.
Aprì la busta e fece uno sforzo per non scoppiare a ridere: la “lettera di minacce” era degna di un filmetto poliziesco di terza categoria. Anzi, di un film comico che parodiava un poliziesco; il testo era stato composto incollando lettere colorate ritagliate da una rivista, dai font più disparati. Il risultato era un allegro collage variopinto, dal contenuto profondo: “Non ti avvicinare al maniero o sarà peggio per te”.
No, decisamente non si trattava di un professionista. Se temeva una perizia calligrafica, avrebbe potuto scrivere il testo al computer e stamparlo invece che usare quello stupido metodo. Un individuo piuttosto infantile…
«Di quale maniero parla?» domandò la detective.
«Di quello di mio nonno, credo. La residenza estiva presso la foresta di Green Haven».
«Dunque l’autore della lettera è qualcuno che è a conoscenza del testamento» mormorò Rossella. «Beh, direi che la cerchia dei sospettati si riduce nettamente! Però, scusa la franchezza, ma mi riesce difficile prendere sul serio quello che c’è scritto qui. Non pensi che potrebbe essere semplicemente uno scherzo di cattivo gusto? Gli altri eredi non devono aver preso bene la notizia della tua esistenza».
«In un primo momento l’ho pensato anch’io. Il fatto è che… la lettera è stata solo l’inizio. In seguito, qualcuno si è introdotto in casa mia» rispose la ragazza bionda, rincantucciandosi sulla sedia e stringendosi le braccia. Che avesse paura era un dato di fatto.
«Accanto alla finestra della mia camera c’è un tavolino con alcuni oggetti a cui sono molto affezionata. Un libro di poesie che apparteneva a mia madre, un album di fotografie, la mia bambola preferita Priscilla… e naturalmente c’era anche la gabbia di Polly, il mio pappagallino».
«C’era?» la incalzò Rossella.
Il colorito di Kathy si fece livido, e la sua voce tremò quando proseguì.
«Qualche giorno fa, quando sono rincasata, ho trovato la gabbia aperta e dentro… oh, mio dio… dentro…». Si interruppe nuovamente, portandosi una mano al viso.
Era facile intuire il finale del racconto. Un velo di rossore si diffuse sul volto impassibile della detective, tradendone l’ira. Come potevano esistere dei bastardi tali da prendersela con un povero uccellino solo per mettere paura alla sua padrona?
«… c’era il corpo decapitato di Priscilla» concluse Kathy, abbassando lo sguardo.
«Eh? La… la bambola?!» esclamò a voce alta la detective.
«Sì… terribile, vero?».
Già, per una bambina poteva davvero esserlo. Rossella si accasciò sulla sedia. Rettificò l’idea che si era fatta della sua cliente, aggiungendo due tacche buone alla scala di infantilismo che aveva stimato all’inizio. Da quel momento in poi avrebbe fatto meglio a giudicare le parole di Kathy considerandole dal punto di vista di una ragazzina, se non voleva incorrere di nuovo in fraintendimenti.
«E tu cos’hai fatto?» chiese.
«Uhm… nulla. Non potevo rimontare Priscilla, la testa non c’era più. Ho preso una sedia e ho recuperato Polly, che dormiva tranquillo in cima alla porta»  rispose semplicemente l’altra.
«Volevo dire, non hai avvisato la polizia o un conoscente?».
«Certo che no! La polizia non sarebbe mai intervenuta per il furto della testa di una bambola! E gli amici mi avrebbero riso dietro».
Benedetta ragazza! E la violazione di domicilio dove la metti? pensò fra sé Rossella. Ma tenne le proprie opinioni per sé e proseguì.
«Però non è successo solo questo, vero?» chiese.
Elementare. Se la sua cliente non aveva avvertito nemmeno i conoscenti, perché avrebbe dovuto rivolgersi  di punto in bianco a un’agenzia investigativa se qualcos’altro non l’avesse spinta?
«Esatto. Ieri infatti, verso le cinque, quando sono tornata a casa ho trovato tutte le rose del giardinetto recise, dalla prima all’ultima. Giacevano in un mucchio davanti alla porta. Ci sono rimasta malissimo. Non come per Priscilla, ma ci sono rimasta male lo stesso» spiegò Kathy affranta.
Minacce scritte incollando lettere ritagliate… una bambola decapitata… dei fiori mozzati… danni più simili a beffe che ad altro. Questo molestatore sembrava tanto ingenuo quanto la vittima.
«Uhm… e perché le rose recise invece ti hanno convinta a telefonarmi?».
«No, no, non è stata un’idea mia. Il fatto è che, mentre fissavo le rose e pensavo a cos’altro mi sarebbe potuto capitare a causa di quella lettera, mi sono accorta che c’era qualcuno dietro di me».
Adesso non mi verrà a parlare di tentata aggressione? Uhm… no, è tutt’altro. Una come lei in caso di aggressione si sarebbe chiusa in casa, completamente nel panico. Invece mi ha telefonato verso le cinque e un quarto, ovvero poco dopo aver scoperto il danno. Un tempo troppo breve per il periodo di ripresa di coscienza post trauma.
«Era un ragazzo che poteva avere sui ventidue o ventitré anni» spiegò la ragazza bionda. «Ha guardato le rose e ha detto “che peccato, eh?”. Poi si è fermato a parlare un po’ con me».
Rossella era abituata a giudicare con imparzialità – le era stato insegnato che le opinioni personali potevano falsare le indagini, e che bisognava sempre basarsi su fatti oggettivi – ma questa cliente viveva in modo fin troppo leggero. Non le era nemmeno passato per la testa che quella persona avesse potuto essere lo stalker stesso.
«Raccontami tutto, anche i particolari più insignificanti» le chiese, protendendosi in avanti.
«Dunque… era alto e magro, con i capelli scuri. Ed è stato molto gentile. Deve aver capito subito che non sapevo proprio dove sbattere la testa, perché mi ha consigliato di rivolgermi ad un investigatore privato e mi ha dato il numero del tuo ufficio, dicendo che mi avresti presa senza dubbio sul serio. Ho fatto bene a dargli retta!» concluse Kathy raggiante.
«Come? Uno sconosciuto passava di lì, ha visto le rose rovinate e ti ha detto di chiamarmi?» riassunse Rossella aggrottando la fronte.
La faccenda aveva preso una piega a dir poco demenziale. La detective concluse che solo una persona che conosceva bene Kathy avrebbe potuto pensare che la ragazza avrebbe abboccato a un consiglio tanto assurdo senza farsi domande. Dunque, il ragazzo moro in qualche modo lo sapeva. Ma perché le aveva consigliato di rivolgersi proprio a lei?
 
Ha detto che mi avresti presa senza dubbio sul serio.
 
Quel ragazzo sapeva che lei avrebbe capito che Kathy non stava mentendo, nemmeno se le avesse sottoposto un caso apparentemente insensato? Chi era a conoscenza del suo dono, oltre a Linda?
La detective impallidì visibilmente, mentre chiedeva: «Descrivimi meglio quella persona, tutto quello che ricordi».
«Allora, che era magro con i capelli scuri te l’ho già detto. Era alto, più di te, poteva essere sul metro e ottanta. A dire il vero, alla prima occhiata però non ci avevo fatto caso, perché era piuttosto incurvato. Poi… uhm… aveva la pelle molto chiara e gli occhi scurissimi. Aveva una faccia buffa, eh eh! In quanto ai vestiti… boh… niente di speciale. Indossava una maglia bianca e un paio di jeans stinti. E scarpe da ginnastica, credo… sembravano abbastanza vecchie. Ma, ehm… Rossella… tutto bene?».
Il viso della detective, già pallido di natura, aveva perso ogni sfumatura di colore, mentre la sua mente vagliava le molteplici ipotesi di ciò che aveva appena udito, focalizzandosi su una in particolare.
Sentì una puntura al polso sinistro, dove la cicatrice slabbrata le ricordava costantemente la persona che aveva tentato in tutti i modi di levarsi dalla testa. La persona a causa della quale si era imposta di non far mai più trapelare all’esterno la minima emozione interiore, sopprimendo la sua vera indole.
Quella faccenda doveva nascondere qualcosa di ben più grosso di qualche fiore danneggiato, se aveva smosso la curiosità di L. Sì, l’individuo che aveva incontrato Kathy non poteva che essere lui. Che cosa nascondeva veramente l’eredità di sir Arthur Cavendish?
A quanto pareva, L aveva già iniziato a lavorare a tempo pieno al caso, se era giunto alla conclusione che gli era necessario il dono di R per arrivare alla soluzione.
Non era cambiato. Sapeva benissimo che lei non avrebbe mai accettato di incontrarlo, né tantomeno di aiutarlo, ma aveva trovato ugualmente il modo di farsi ascoltare per vie traverse.
Rossella soppesò la questione. Cosa avrebbe dovuto fare? Accettare di collaborare voleva dire riaprire una vecchia ferita dolorosa.
In realtà, si è mai richiusa? E’ forse mai passato un giorno in cui non ci abbia pensato? si chiese.
Osservò Kathy, che la stava guardando speranzosa. Dietro lo sguardo impaurito, avvertì chiaramente tutta la fiducia che la ragazza stava riponendo in lei.
«D’accordo, accetto il caso» acconsentì sospirando.
«Evviva!» esclamò l’altra giungendo le mani, senza notare l’ombra che era scesa sul viso della sua interlocutrice.
«Per prima cosa svolgerò qualche indagine sugli eredi di tuo nonno. Vorrei parlare almeno con alcuni di loro, ovvero quelli che potrebbero essere maggiormente interessati al maniero» disse la detective con voce atona. «Hai qualche idea?».
«Mah, mio fratello David ultimamente vi trascorreva un sacco di tempo insieme al nonno. Per ricerca, diceva» rispose semplicemente Kathy.
Rossella sgranò gli occhi, ma la sua reazione di stupore non durò che una frazione di secondo. La maschera di impassibilità tornò al proprio posto, e la detective si impose di stare calma. Era evidente che lavorare con Kathy Warwick non sarebbe stato facile. Tanto per cominciare, con lei non avrebbe dovuto dare nulla per scontato. Nemmeno il fatto che la ragazza, fino a quel momento, non avesse fatto il minimo accenno ad un particolare così fondamentale come la presenza di un altro neo-legittimo erede.
Pare che la scelta oculata delle domande dovrà essere un punto focale del mio metodo d’indagine, d’ora in poi, si disse.
«Come è possibile che tu abbia un fratello che è allo stesso tempo un Cavendish? Non hai detto che tuo padre è morto poco dopo la tua nascita?» chiese.
«Siamo gemelli. Oh, non te l’avevo detto?» rispose l’altra con un’espressione di innocente stupore dipinta sul viso rotondo.
«No, non l’avevi detto. Senti, Kathy, tanto per non lasciare adito a dubbi, non è che anche a tuo fratello è successo qualcosa di insolito?».
«Non saprei proprio. Dopo il funerale, ha detto che aveva una questione da risolvere. Si è messo in viaggio e non ha dato più notizie. Gli ho mandato un messaggio, ma non ha risposto».
«E non ti sei preoccupata?».
«Uhm… no. Capita spesso che mio fratello si renda irreperibile e poi torni da un momento all’altro come se niente fosse. E’ un tipo strambo».
Rossella prese mentalmente nota di svolgere qualche ricerca. Date le circostanze, non era da escludere che anche il secondo erede potesse essere stato coinvolto in qualcosa di spiacevole.
«Ah, è vero!» esclamò Kathy all’improvviso.
«Ti è venuto in mente qualcosa di importante?».
«No, cioè sì, però… Accidenti, me ne ero completamente dimenticata! Nel testamento c’era una clausola che riguardava me e David!».
«E sarebbe?» chiese Rossella incuriosita.
«L’eredità è vincolata a una condizione. In un giorno prestabilito avremmo dovuto recarci al maniero. Solo allora il notaio avrebbe potuto leggerci il resto del testamento. Quel giorno è domani! Accidenti, se David non si presenta perderà il diritto di eredità!».
Rossella si fece attenta. Sorvolando sull’eccentricità della condizione imposta, tenere lontani gli eredi dal castello poteva essere un movente? In questo caso, rintracciare David Warwick diventava una priorità.
La conversazione andò avanti ancora per un’oretta. Dopo di che, Rossella giudicò di aver raccolto informazioni a sufficienza e congedò Kathy, raccomandandole di chiudersi in casa e assicurandole che il giorno dopo l’avrebbe accompagnata al maniero. Chiuse l’ufficio e tornò a casa.
 
.oOOo.
 
L’appartamento che condivideva con Linda era comodo e spazioso. Decisamente troppo spazioso per la rendita dell’agenzia investigativa.
Anche se Rossella non lo accettava volentieri, era innegabile che la maggior parte degli introiti provenissero dalla sua coinquilina, giovane pittrice rinomata in tutta la Gran Bretagna, la cui fama si stava allargando perfino nei Paesi d’oltremanica.
Linda possedeva una spiccata capacità di osservazione, dote che le permetteva di cogliere particolari che la maggior parte della gente avrebbe giudicato superflui, e che sfruttava abilmente per dipingere quadri di straordinario realismo.
Anche se l’agenzia investigativa era stata fondata da entrambe le ragazze, Linda a poco a poco se ne era allontanata per dedicarsi maggiormente alla sua passione. Di tanto in tanto, però, non mancava di dare una mano nelle indagini. Il suo contributo consisteva nel mettere a disposizione la sua capacità fotografando i “luoghi del delitto”.
Quando Rossella rincasò, trovò l’amica stravaccata sul divano, intenta a leggere un romanzo.
«Eccoti qui, finalmente! Mi stavo giusto chiedendo se era il caso di ordinarmi la cena al delivery all’angolo!» l’apostrofò con un sorrisetto impudente.
«Per una volta potresti cucinartela da sola, invece di aspettare che qualcuno ti serva» le rispose, gettandole la borsa e dirigendosi verso la propria camera.
«Sei tu che ti lamenti dell’odore di trementina sui piatti!» esclamò Linda scansando la borsa e alzandosi per stiracchiarsi. «Allora? Che c’è di buono stasera?».
«Tutto quello che troverai sul menù del delivery service. Io ho da fare» rispose la detective chiudendosi la porta della camera alle spalle.
«A proposito!» aggiunse facendo capolino per un attimo, prima di sparire nuovamente «C’è un nuovo incarico. Prepara i bagagli, domani si parte per Green Haven. I tuoi occhi potrebbero servirmi».
«Eh? Cosa?! Stai scherzando, vero? Ho una mostra fra tre giorni! Ehi! Rossella!» protestò Linda, prima di rinunciare del tutto davanti alla porta chiusa.
Udì il “bip” di accensione del computer dell’amica e sospirò teatralmente, cominciando a pensare a cosa mettere in valigia. Inutile lamentarsi, quando la sua coinquilina e socia in affari si buttava in un’indagine non esisteva più altro per lei. Avrebbe dovuto capire subito che aria tirava, quando l’aveva vista rientrare e dirigersi direttamente a passo di marcia verso la sua stanza, senza nemmeno spogliarsi o farsi una doccia.
Sospirò di nuovo e cercò il numero del delivery service.
 
Verso le due di notte Rossella spense il computer, rimuginando sui dati che era riuscita a raccogliere. Le era bastato contattare Q – con cui aveva sempre mantenuto i rapporti anche dopo essersene andata dalla Wammy’s House – per riuscire a ricavare l’indirizzo ip del computer del notaio di cui Kathy le aveva dato nome e recapito, e poter leggere i particolari del testamento di sir Arthur Cavendish. Il contenuto del documento completo le sembrò ancora più assurdo di quanto era riuscita ad apprendere da Kathy. Questo lord Cavendish doveva essere stato proprio un tipo originale. Non si stupì che la faccenda avesse attirato l’attenzione di L.
E, a proposito di L, cosa si aspettava da lei? In che modo l’avrebbe contattata?
Rossella era certa che tutte le domande presto avrebbero trovato una risposta, e sentì l’apprensione crescerle dentro. Non avrebbe mai immaginato di avere di nuovo a che fare con L, un giorno.
O forse… sì? Non stava ingannando se stessa, ripetendosi di non volerlo rivedere?
Fino a quel momento si era convinta di essere riuscita, se non proprio a dimenticare – no, quello era impossibile – almeno a tenere sotto controllo i propri sentimenti, a reprimere a forza la passione di quella sedicenne malata di un amore non ricambiato che era stata un tempo. Oh sì, ne era convinta per davvero, ed era stata una sciocca a crederlo. Si era ingannata proprio bene, scambiando per nostalgia quella che era ancora una fiamma bruciante. Del resto, non era mai stata tanto brava a interpretare le proprie, di sensazioni.
Si sorprese a scoprire che il tempo non aveva cancellato nulla, che quella fiamma era più viva che mai. Il suo calore era insopportabile, e Rossella ebbe di nuovo paura come una volta. Paura di essere scoperta. Per quanti sforzi si facciano, non si può nascondere il linguaggio del corpo. Lei lo sapeva bene, grazie a quel dono che si era rivelato essere una maledizione.
Guardò in basso, e scoprì che la mano destra stava stringendo spasmodicamente il polso opposto. Cominciò a tremare. Un timore irrazionale la pervase, impedendole di scostare il palmo, temendo di scorgervi sotto una ferita aperta. Quasi urlò in preda al panico quando, per un momento, credette veramente di veder defluire sangue tra le dita, di un rosso vivo e ripugnante.
Inspirò profondamente, imponendosi di calmarsi e di non fare l’idiota. Andò in cucina e aprì il frigo alla ricerca della bottiglia con la sua bevanda preferita, la limonata non zuccherata, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare Linda. Niente male come inizio, se cominciava ad avere le allucinazioni già dal primo giorno di indagini.
Dopo qualche sorso si sentì meglio. Il liquido acre le scese in gola schiarendole le idee. Non doveva preoccuparsi di L. Era inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Se aveva deciso di coinvolgerla, avrebbe fatto lui la prima mossa. Probabilmente si sarebbe limitato a darle delle direttive attraverso un computer o un telefono, rimanendo nell’ombra, e non si sarebbero nemmeno incontrati.
Andava tutto bene. Avrebbe fatto meglio a trascorrere le poche ore che la separavano dall’alba dormendo almeno un po’. O almeno, cercando di farlo.


Commenti personali
Non sono una chiacchierona, e non mi piace inserire commenti su ciò che scrivo. Credo che sia il lettore a doversi fare le proprie idee, non l'autore a spiegare cosa avrebbe voluto trasmettere ^^ E questo vale anche per gli autori mediocri come me che, dopo un lungo periodo di stasi, non sono più capaci nemmeno di trasmettere i concetti più semplici. A quanto pare, l'allenamento é fondamentale in tutti i campi, anche quello della scrittura amatoriale.
Per motivi vari posso dedicarmi solo di rado alla scrittura. Ragione per cui gli aggiornamenti a questa storia saranno molto, molto lenti. Ma abbiate fede, arriveranno, promesso :) Se nel frattempo voleste tenermi compagnia con qualche commento, ne sarò felice!
Una precisazione però é doverosa: Q non é un mio personaggio, ma un ex allievo della Wammy's House di cui si é fatto cenno nel libro "L change the world", ed é un genio informatico. In quanto alla predilezione di R per le bevande aspre, ne ho fatto cenno in una mia precedente fanfiction ^^

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Capitolo 3
*** Il maniero dei Cavendish ***


CAPITOLO 2 – IL MANIERO DEI CAVENDISH

 
Il mattino seguente le tre ragazze si misero in viaggio sul maggiolone di Linda. Green Haven distava circa cinque ore di macchina da Winchester, e ciò implicava che avrebbero dovuto passare la notte al maniero.
Kathy indossava ancora abiti scuri in segno di lutto; il nero del cappello e del cappotto contrastavano nettamente con i capelli biondo oro e il candore del viso preoccupato.
«Sei in pensiero per tuo fratello?» le chiese Rossella.
«Non si è fatto sentire nemmeno stamattina» rispose la ragazza bionda senza alzare lo sguardo dalle mani incrociate in grembo. «Mi chiedo se arriverà in tempo all’appuntamento con il notaio».
«Ieri sera ho svolto qualche indagine su di lui. Il suo nome non risulta nelle liste dei voli o degli imbarchi verso l’estero, quindi si trova ancora in Inghilterra. Magari è già al maniero».
Kathy parve poco convinta. Durante la prima ora di viaggio rimase prevalentemente in silenzio, rispondendo a monosillabi alle domande, finché Linda decise che ne aveva abbastanza di quell’atmosfera da funerale e diede il via ad una conversazione vivace, riuscendo in men che non si dica a risollevare un po’ il morale del gruppetto. Quando si fermarono nei pressi di Northampton per fare uno spuntino, Kathy aveva ripreso a sorridere.
 
«Avevi ragione, la tua cliente ispira tenerezza» disse Linda mentre addentava un tramezzino, approfittando di un momento in cui Kathy era andata a prendere da bere.
«A parte il fatto che è anche la tua cliente, sono rimasta allibita di fronte alla tua abilità oratoria di poco fa. Non ti facevo così premurosa verso il prossimo» la prese in giro Rossella.
«Ma che dici?! Ma se alla Wammy’s House ero famosa per il mio altruismo! E tu saresti quella in grado di leggere nell’animo umano?» ribatté con veemenza Linda a bocca piena, spargendo briciole ovunque.
«Tu eri altruista solo con Near, e i tuoi secondi fini erano fin troppo chiari! Te lo dice quella in grado di leggere nell’animo umano! Per il resto, sembravi la sorella pestifera di Mello».
«La tua è tutta invidia perché io, a forza di insistere, qualcosa alla fin fine ho ottenuto!» si difese Linda con un certo orgoglio, sfoggiando un’aria saccente, «mentre tu non hai mai avuto nemmeno il coraggio di dichiararti a quel ragazzo che ti piaceva!».
«E come avrei potuto? Mi avrebbe…» “impedito di continuare a frequentarlo”, stava per dire Rossella, ma si ricordò che Linda, come tutti i membri della Wammy’s House, ignorava che Ryuzaki fosse L. Per loro era solo uno dei tanti allievi-prodigio dell’istituto.
«…mi avrebbe preso in giro» concluse semplicemente.
«Uh? E perché? Non sei poi così male. Certo, con quella faccia di marmo che ti ritrovi non si capisce la differenza tra quando ridi e quando sei seria, ma del resto anche di Clint Eastwood si dice che ha solo due espressioni, ovvero con il cappello e senza il cappello. Eppure è un attore famoso, no? Già, però, effettivamente, lui almeno due espressioni ce le ha e ti batte… Uhm, vediamo un po’ come si può rimediare…».
Linda puntò gli indici agli angoli della bocca di Rossella e provò a sollevarli in un sorriso grottesco, ricevendo in cambio un morso che la fece balzare all’indietro e ritirare velocemente le mani. La sua colorita sequela di insulti verso l’amica fu sospesa dall’arrivo di Kathy che, di ritorno con un milk-shake, sentendola scoppiò in una risata gaia.
«Oh! Sei già tornata?» esclamò Linda arrossendo. «Ecco… non giudicarmi male… di solito non ho l’abitudine di usare questi… ehm… francesismi. A proposito, da quanto sei qui?».
«Più o meno da Clint Eastwood in poi» rispose la ragazza bionda cercando di trattenere un’ulteriore risata.
Linda espirò sollevata. A quanto pareva, Kathy era arrivata dopo la disputa riguardo la Wammy’s House e Near. Era sempre preferibile tenere segrete le loro origini.
«Su, rimettiamoci in viaggio, abbiamo ancora due ore buone di strada. E tu fai attenzione a non versarmi quella roba sui sedili, mi raccomando!».
 
.oOOo.
 
La tenuta che circondava il maniero di Green Haven era costituita da ettari ed ettari di tipica brughiera inglese: l’erba, che in quella stagione era di un caldo colore paglierino, era inframmezzata qua e là dal porpora dell’erica e dal giallo vivace delle ginestre. A nord dell’edificio, ovvero dalla parte opposta rispetto alla direzione da cui si stava avvicinando il maggiolone, c’era un bosco di querce che, da quello che si poteva intravvedere, doveva essere di dimensioni notevoli. Le foglie arancioni coronavano gli alberi imponenti e abbellivano il terreno circostante di un bel colore acceso.
Il maniero di epoca medievale si ergeva sulla sommità di un terreno in leggera pendenza. La costruzione principale era affiancata da un’ala più recente, forse rinascimentale. Qualche parte avrebbe avuto bisogno di un restauro, ma nell’insieme l’edificio conservava il fascino decadente di un castello da fiaba.
Linda parcheggiò il maggiolone nello spiazzo davanti al maniero, e tutte e tre le ragazze scesero dalla vettura stiracchiandosi per sgranchirsi le gambe. Nello spiazzo c’erano altre due auto, delle quali una era una Rolls Royce nera.
«Però! Si tratta bene, questo notaio!» fece notare Linda.
Rossella invece guardò l’auto con sospetto. Fino a quel momento era convinta che L avrebbe condotto le indagini rimanendo al sicuro dietro le quinte, manovrando i fili dei propri collaboratori protetto dal solito scudo di anonimato, ma la presenza di quell’auto poteva anche significare che era stata troppo precipitosa nelle proprie conclusioni.
Dalla posizione in cui si trovava non poteva vedere la targa. Fece velocemente il giro dell’auto per controllare e fugare ogni dubbio, fermandosi a pochi passi dalla portiera posteriore che si stava aprendo proprio in quel momento. Il passeggero scese dall’auto, dopo aver infilato i piedi nudi in un paio di vecchie scarpe da ginnastica con i talloni schiacciati.
Fu così che Rossella si ritrovò inaspettatamente a non più di due metri dalla sua ossessione e peggior incubo. Altro che scudo di anonimato! Altro che direttive attraverso un computer! Il sangue le schizzò alle tempie, e l’assurda idea di correre a nascondersi dietro a Linda e Kathy non le parve poi così assurda. E forse l’avrebbe fatto per davvero se solo fosse riuscita a muovere le gambe, bloccate sul posto per la sorpresa come quelle di un coniglietto impaurito. Era accaduto tutto troppo in fretta, senza darle il tempo di prepararsi. Non osò alzare lo sguardo da terra, ma avvertì ugualmente gli occhi di lui puntati addosso e pregò perché non si accorgesse del tremito che l’aveva pervasa.
«Buongiorno, R» la salutò placidamente L.
Rossella si chiese come poteva parlarle con tanta disinvoltura dopo quello che era successo cinque anni prima. Evidentemente L si aspettava di trovarla lì, tutto stava andando secondo i suoi piani. Le pedine si stavano muovendo in conformità al suo volere, e lei non aveva fatto eccezione. Era frustrante scoprire di averlo assecondato senza nemmeno essersene resa conto.
«Non sono più R» puntualizzò, forse più duramente di quanto avrebbe voluto.
«Come preferisci, detective Andreoli».
La sua voce fu una staffilata al cuore. Era lo stesso tono indifferente con cui le si era sempre rivolto. Del resto, quella voce acquistava calore esclusivamente quando si rivolgeva al proprio tutore, il signor Quillsh.
Come preferisci, aveva detto?
Come se avesse mai avuto la possibilità di scegliere! La verità era che non aveva mai potuto sottrarsi volontariamente a quella lettera che le avevano affibbiato per sostituire il suo vero nome, e al ruolo che implicava. Ruolo che le era stato imposto alla Wammy’s House a causa di quella capacità a cui tutti alludevano come a un dono. Anche se, alla fine, un modo per sfuggire al proprio destino l’aveva trovato. Un metodo decisamente drastico.
 
All’inizio, quando aveva raggiunto il traguardo più ambito tra gli allievi dell’istituto, ovvero l’assegnazione di una delle ventisei lettere che le avrebbero permesso di far parte dell’élite dei collaboratori di L, Rossella si era sentita al settimo cielo.  Ce l’aveva fatta! I suoi meriti erano stati riconosciuti, ed avrebbe potuto finalmente cooperare con l’individuo che tutti loro desideravano raggiungere e superare.
Quello che non aveva assolutamente previsto, però, erano state le conseguenze del primo incontro diretto con L. E come avrebbe potuto? Di lui, sapeva solo che aveva risolto migliaia di casi apparentemente impossibili. Di conseguenza, si era immaginata una persona già avanti con gli anni, probabilmente un coetaneo del signor Quillsh. Tutto si sarebbe aspettata, tranne che ritrovarsi davanti ad un suo, di coetaneo. Era stato amore a prima vista… anche se la ragazza in principio aveva interpretato i propri sentimenti come una forte ammirazione per le eccezionali capacità deduttive del più grande detective di tutti i tempi e, del resto, le era bastato quel primo incontro per constatare che la sua fama era pienamente giustificata.
Non si era accorta affatto che ciò che l’aveva attirata maggiormente, più che le sue capacità, erano state le mani dalla forma aggraziata, i gesti misurati, la voce pacata, lo strano modo di atteggiarsi e, sì, anche il fatto che fosse giovane e piuttosto belloccio, a modo suo.
Nei mesi successivi R aveva avuto periodicamente occasione di coadiuvare il lavoro di L, ma aveva persistito nell’errore finché Linda non le aveva aperto gli occhi. Era innamorata, non c’era niente da fare! E non si trattava di un fuoco di paglia, ma di un vero e proprio incendio!
Purtroppo però il suo amore non era ricambiato. Dal lato sentimentale, l’indifferenza del detective le era palese. Così, se prima poter lavorare con lui le era sembrato un sogno che si realizzava, col tempo stargli accanto e percepire nient’altro che disinteresse era diventato insostenibile. Ma, d’altra parte, R non voleva assolutamente perdere il privilegio di essergli d’aiuto e poterlo, se non altro, incontrare. Non le sembrava forse di toccare il cielo con un dito quando, a caso risolto, il suo idolo abbozzava un mezzo sorriso regalandole un sincero “sei stata brava”? Avrebbe fatto qualsiasi cosa per preservare quei piccoli momenti di puro appagamento.
Così si era buttata ancor di più nello studio delle connessioni tra comportamento e personalità, decisa ad arrivare a traguardi mai raggiunti da nessun altro prima; la psicologia comportamentale non doveva avere più segreti per lei. L’intero istituto non avrebbe più considerato la sua dote come un semplice dono, ma avrebbe addirittura gridato al miracolo!
In quel periodo aveva preso l’abitudine di consumare esclusivamente bevande aspre. Il gusto agro della limonata non zuccherata la aiutava a concentrarsi nei momenti di studio allontanando il tormento della passione insoddisfatta, e ricacciava indietro la nausea nei momenti di lavoro, quando il detective le sottoponeva le foto raccapriccianti dell’ultimo ritrovamento di cadavere martoriato, talmente concentrato sulle indagini da non curarsi della faccia verdognola della sua collaboratrice, prossima allo svenimento.
R era assolutamente certa che se L si fosse accorto di ciò che provava per lui l’avrebbe allontanata, optando per un aiutante meno appiccicoso e più pratico. Per questo avrebbe dovuto imparare a dominare i messaggi involontari del linguaggio del corpo, caratteristici di ogni essere vivente.
Il suo nemico numero uno era senza dubbio il viso, che a quel tempo esternava ciò che le passava per la testa come un libro aperto. Infatti non solo Linda, da quell’attenta osservatrice che era, si era accorta della sua cotta; ben presto anche le altre compagne di stanza avevano cominciato a darle di gomito quando capitava loro di incrociare Ryuzaki nei corridoi dell’istituto, e ciò era preoccupante. Voleva dire che la sua faccia stava comunicando un po’ troppo, rischiando di farsi scoprire anche dall’oggetto dei suoi desideri.
Si era quindi impegnata a concentrarsi il più possibile sul controllo dei muscoli facciali, ma con scarsi risultati. Come si poteva, infatti, dominare una reazione involontaria? Il suo stesso dono era la prova diretta che nessuno poteva nascondere completamente gli indizi dell’animo interiore.
Lo stesso Freud diceva che colui che ha occhi per vedere e orecchie per sentire può convincersi che nessun mortale può mantenere un segreto. Se le sue labbra sono silenziose, egli parla con le dita; la verità stilla fuori da ogni suo poro.
In presenza di L, la ragazza era costantemente in agitazione. Aveva sempre l’impressione di stargli troppo vicino, o fissarlo troppo a lungo.
Una volta, quando lui all’improvviso aveva afferrato bruscamente lo schienale della sedia girevole su cui era seduta e l’aveva rivolta a sé, gli si era gettata praticamente fra le braccia equivocando il gesto, scoprendo un secondo troppo tardi che l’intenzione del ragazzo era stata solo quella di voltarla nella propria direzione per passarle alcuni fogli contenenti nuovi indizi. Nell’imbarazzo più totale, si era scusata mille volte dichiarando di essere scivolata in avanti a causa dello spostamento imprevisto, ma si era sentita ugualmente una perfetta imbecille intuendo chiaramente cosa stesse passando nello sguardo poco convinto di lui.
Per non parlare della volta in cui avevano lavorato ad un caso così intricato che erano giunti alla soluzione solo dopo tre giorni di indagini ininterrotte. A notte fonda, stremati, avevano concluso il tour de force concedendosi una tazza di tè bollente seduti direttamente sul pavimento, nella stanza rischiarata dai monitor e dalla luce della luna che entrava dalla finestra. Ad R l’atmosfera di quel momento era sembrata così intima che non aveva osato guardare L negli occhi nemmeno una volta, fissandogli al massimo il mento quando era costretta a parlargli. Per tutto il tempo le guance della ragazza erano rimaste soffuse di un tenue rossore, per accendersi poi di un colore vermiglio quando, mentre osservava distrattamente il soffitto, aveva allungato una mano per prendere un biscotto a caso ed aveva scoperto che era lo stesso biscotto a cui aveva puntato anche il suo compagno. Aveva sentito le dita di lui sotto le sue ed aveva ritirato la mano come se si fosse scottata, dandosi dell’idiota per l’esagerazione della sua reazione. Perché doveva essere così dannatamente emotiva?
«Non sapevo che ti piacessero le lingue di gatto. Allora prendile pure tu, io non ho preferenze» aveva detto il ragazzo.
R aveva abbozzato un sorriso timido, ed aveva cominciato a sbocconcellare il biscotto. A dire il vero, lingue di gatto o altro, per lei non faceva differenza. Detestava i dolci in generale. Aveva allungato la mano verso il vassoio solo perché aveva così tanta fame che era prossima a un collasso, e qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Se proprio avesse dovuto scegliere, avrebbe preferito una bella caraffa di limonata; se non altro avrebbe scacciato in un baleno la nebbia che le stava ottenebrando la mente a causa della stanchezza.
Aveva mandato giù un altro sorso e si era rilassata un poco, cominciando a considerare quella situazione sotto una luce nuova: finalmente stava prendendo un tè insieme al ragazzo per cui stravedeva!
Fino a quel momento non le era mai capitato di poter passare un po’ di tempo con lui al di fuori dell’ambito delle indagini. Soprattutto, fino a quel momento non le era mai capitato di avere il minimo contatto diretto con la sua pelle. Peccato solo che fosse stato così breve da non poterlo nemmeno godere un pochino. E Dio solo sapeva quanto le sarebbe piaciuto poterlo tenere per mano!
Per la prima volta, la ragazza aveva messo in dubbio le proprie capacità e si era chiesta se era proprio sicura che non sarebbe piaciuto anche a lui. Dopo tutto, le sue deduzioni non erano il risultato di una scienza esatta, ma erano frutto di un istinto innato e come tali erano soggette ad un certo grado di interpretazione personale. Inoltre sapeva che L custodiva tutti i numeri di Eighteen dove compariva Misa Amane, quindi, tutto sommato, non era immune al fascino femminile.
Forte di questo pensiero, R aveva sorseggiato pensierosa ancora un po’ di tè, ponderando l’idea di tentare di fare il primo passo. Aveva incrociato istintivamente le gambe, come le capitava sempre quando aveva bisogno di aumentare il grado di concentrazione, e si era sistemata per bene la gonna lunga per coprirle completamente.
Aveva dato un altro morso al biscotto, meditando sul sapore estraneo. A lui quella roba piaceva. Forse avrebbe potuto sfruttare la cosa a proprio vantaggio. Alla Wammy’s House c’era una persona che poteva aiutarla, su quel fronte.
Ancora qualche minuto di riflessione, ed R aveva elaborato un piano d’attacco. Se non voleva passare il resto della propria vita a sospirare invano, aveva bisogno di ottenere una risposta. Assolutamente.
 
Il giorno dopo R aveva bussato al laboratorio di D, a dire la verità con un po’ di titubanza; infatti, abituata ad inquadrare immediatamente le persone con cui aveva a che fare, con D non sapeva mai come comportarsi. Da quel genio strampalato che era, D non era assolutamente prevedibile. Gli schemi mentali sintetizzati dalla scienza della psicologia con lei non funzionavano, e ciò metteva R in difficoltà.
In attesa che qualcuno le aprisse, R si era messa ad analizzare istintivamente la targa sulla porta. A ben guardare, qualcosa che rispecchiasse il carattere della proprietaria del laboratorio-pasticceria in fondo si poteva trovare: il disegno della faccina sorridente accanto alla scritta “D’s Lab” rappresentava l’indole allegra della ragazza, così come le sfumature dei colori pastello ne esprimevano la natura fantasiosa e la genialità latente. Ma l’analisi della targa era stata interrotta da D stessa, che aveva aperto la porta ed aveva accolto R festosamente, come faceva con chiunque fosse disposto a prestarle un po’ di attenzione.
«Caaara! Cosa ci fai qui? Entra, entra! Non immaginerai mai cosa sto preparando! Capiti proprio al momento giusto, ho appena finito!» aveva cinguettato afferrandole una mano e strattonandogliela in su e in giù prima di sparire nel retro del laboratorio.
Ne era rispuntata pochi secondi dopo spingendo davanti a sé un tavolo munito di ruote su cui troneggiavano due torte nuziali a più piani. Le torte erano collegate fra loro da ponticelli di caramello, e da una delle due partiva un cavo elettrico. D aveva inserito la spina in una presa, e dal piano più alto della torta si era aperto uno sportellino da cui era uscita una carrozza trainata da un cavallino meccanico. La carrozza aveva attraversato il primo ponticello passando sulla seconda torta, poi, dopo aver compiuto il giro del primo livello, era scesa di un piano per mezzo di una rampa di cioccolato ed aveva continuato il suo percorso, in un costante moto perpetuo da una torta all’altra.
R era rimasta a bocca aperta, rapita dal movimento della carrozza e dalle stupende decorazioni dei due dolci, finché D non l’aveva risvegliata dallo stato ipnotico.
«Bello, vero?» le aveva chiesto con aria compiaciuta.
«E’ decisamente incredibile» aveva risposto R con sincerità. «C’è qualcuno che si sposa?».
«Ah, ah, ah, ma che dici?» aveva riso l’altra. «Queste non si mangiano, si tratta di un apparecchio con funzioni distensive. Attenta a non fissarlo troppo a lungo, o cadrai in un sonno profondo!».
R non aveva potuto fare a meno di pensare alla singolarità del genio di D, così fuori misura che sarebbe rimasto incompreso per sempre.
«Come sta il Piccolo Panda? E’ un po’ che non passa di qui. Tu lo vedi di tanto in tanto, vero?» le aveva chiesto la pasticciera, con il suo regolare sorriso infantile che la faceva sembrare un po’ ebete.
Nell’udire il soprannome, R aveva provato una punta di gelosia. Come si permetteva, quella lì, di prendersi certe confidenze verso il suo futuro ragazzo?
Con una nota piccata nella voce, era passata direttamente al motivo che l’aveva spinta lì.
«Senti, tu conosci bene L» aveva chiesto, facendo intendere che non era una domanda.
«Sì, é il mio fratellone adottivo!» aveva risposto l’altra giungendo le mani con aria sognante.
La gelosia di R era salita alle stelle, e la ragazza aveva avuto la sensazione che se l’altra non si fosse tolta immediatamente quell’espressione incantata dalla faccia l’avrebbe soppressa seduta stante. Le era già capitato di vedere i due insieme, e tutte le volte D era appiccicata addosso a L come un koala. Nonostante fosse lampante che il loro rapporto fosse fraterno, R aveva sempre provato invidia per quel contatto fisico così spontaneo.
Tuttavia la loro complicità poteva rivelarsi un vantaggio da sfruttare.
«Quindi tu… saresti in grado di preparare un dolce che lui… come dire… apprezzi in modo particolare?» aveva chiesto R, incespicando nelle parole.
D l’aveva guardata per un lungo momento con gli occhi sgranati. Tutti prendevano le distanze da lei, giudicandola strana e un po’ stupida. Era la prima volta che qualcuno le chiedeva aiuto.
«Intendi… un dolce che sia anche commestibile?» aveva mormorato, sfregandosi il mento con una mano sporca di zucchero a velo.
R aveva cominciato a dubitare di aver fatto la scelta giusta rivolgendosi proprio a D, ma non aveva avuto il tempo di fare marcia indietro perché quest’ultima era balzata tutta contenta verso di lei abbracciandola vigorosamente e trascinandola con sé in un girotondo vorticoso.
«Ma ceeerto!» aveva esclamato. «Non c’è dubbio su quali siano i suoi gusti! Anzi, ho già qualcosa di pronto!».
Dopodiché era saltellata fino al frigorifero cantilenando “un dolce per il Piccolo Panda, un dolce per il Piccolo Panda”, sotto lo sguardo perplesso dell’altra ragazza, che aveva cominciato a dubitare della sua sanità mentale.
Era tornata con un marron glacé confezionato in un pirottino di carta colorata e decorato da una violetta di zucchero e un fiocchetto di colore intonato. L’insieme era delizioso, ma R non era parsa convinta.
«Tutto qui? E’ così piccolo...» aveva chiesto, un po’ delusa.
«Ma scherzi?! Parli così perché non ti piacciono i dolci, ma questo è il re delle squisitezze! Estremamente dolce, estremamente di classe. Non ti preoccupare, lo gradirà senza ombra di dubbio. Il Piccolo Panda cadrà ai tuoi piedi!» l’aveva rassicurata entusiasta D battendo le mani.
«Come hai detto?!» aveva esclamato R a queste ultime parole.
«Nulla, nulla. E ora corri!» aveva risposto la pasticciera con un sorrisetto malizioso, spingendola frettolosamente fuori dal laboratorio e sbattendole la porta in faccia.
R si era ritrovata nel corridoio deserto, tenendo il marron glacé posato reverentemente sul palmo della mano come un oggetto prezioso. Aveva lanciato un’occhiata scoraggiata alla porta chiusa; a quanto pareva era davvero messa male se perfino D, che viveva praticamente a tempo pieno nel suo laboratorio, l’aveva smascherata come se niente fosse.
Poco dopo si era recata nel prato sul retro dell’istituto, dove Roger le aveva detto che avrebbe trovato L. Infatti era appollaiato sull’altalena, nell’angolo più lontano dall’edificio. R era rimasta per un po’ ferma in disparte a guardarlo, beandosi del suo profilo assorto in chissà quale pensiero e sentendo di amarlo più che mai. Poi lui si era voltato casualmente dalla sua parte e l’aveva scorta. Nel suo sguardo non era passato il minimo lampo di stupore; forse aveva previsto quell’incontro o forse, più semplicemente, Roger l’aveva avvisato che lei lo stava cercando – del resto, non si separava mai dal cellulare.
Si era avvicinata, pronta per la resa dei conti, agitata come non mai.  Del resto, non poteva più tornare indietro. E nemmeno lo voleva.
«Tieni, è per te» gli aveva detto porgendogli il marron glacè con entrambe le mani, senza perdere tempo in giri di parole che avrebbero solo dato modo al suo imbarazzo di raggiungere proporzioni tali da mandare a monte la sua impresa.
«Che cos’è?» aveva chiesto il ragazzo, guardando incuriosito l’oggetto.
R era rimasta interdetta. Da come aveva parlato D, era improbabile che lui non conoscesse quel dolce.
«E’… una castagna candita…» aveva risposto, incerta.
«Lo vedo. Intendevo dire, cosa significa?» aveva continuato lui.
R aveva cominciato a capire dove voleva andare a parare. Aveva percepito ritrosia nelle sue parole, ma quello era stato l’aspetto meno influente. Il punto cardine – aveva realizzato con orrore – era che in quel momento tutto in lui le stava gridando che conosceva i suoi sentimenti, da chissà quanto tempo, e che non avrebbe mai potuto ricambiarli. La stava implorando silenziosamente di lasciare che le cose fra di loro rimanessero indefinite, perché aveva bisogno di lei e perché così avrebbe potuto continuare a fare finta di niente, ad ignorare volutamente la situazione. Avrebbe continuato ad apprezzare il suo aiuto, a lodare le sue capacità e a rispettarla come investigatrice, ma nulla di più.
R aveva pensato che avrebbe fatto meglio a fermarsi lì. Era ancora in tempo per fare marcia indietro e assecondarlo. Avrebbe potuto buttarla sullo scherzo facendo passare quel dolce come un pegno per avergli rubato le lingue di gatto la sera prima. Tuttavia non era riuscita a farlo. Aveva perseverato nel voler conoscere la verità, e aveva voluto sentirla direttamente dalla bocca di lui.
«E’ un regalo. Ti prego, prendilo» aveva risposto, abbassando gli occhi.
«Non hai bisogno di farmi regali» aveva detto lui. «E nemmeno dovresti» aveva aggiunto dopo una breve pausa, in un sussurro che si era trasformato in una sferzata dolorosa nel cuore della ragazza, nonostante il solito timbro di voce distaccato si fosse addolcito sensibilmente sull’ultima frase. Aveva provato pena per lei?
R non aveva avuto bisogno di guardarlo in faccia per comprendere. Finalmente il muro di incertezze e bugie che si era costruita da sola era crollato, annientato dalla consapevolezza di non essersi mai sbagliata nelle proprie supposizioni. Aveva voluto illudersi, ma in fondo aveva sempre saputo di aver interpretato alla lettera i segnali percepiti.
L le stava chiedendo di fermarsi, finché era in tempo. E allora perché non gli aveva dato ascolto? Perché aveva voluto ferirsi ancor più profondamente?
«Però da D ogni tanto un dolce in regalo lo accetti» aveva insistito, tenendo la testa bassa. Non aveva voluto guardarlo direttamente e fargli vedere quanto le stesse facendo male quella situazione.
«Con D è diverso. Lei è… un po’ tocca».
E, secondo lui, avrebbe dovuto accontentarsi di un motivo del genere?
R aveva soppesato le parole del ragazzo e aveva intuito che il significato era un altro. D non gli chiedeva amore ma cercava solo l’affetto di un amico che non la evitasse a causa della sua diversità, vedeva in lui esclusivamente una persona con cui confidarsi. Per questo per L non rappresentava un problema. Nel suo caso, era tutto un altro paio di maniche.
Aveva cercato la verità, ed ora era lì davanti. L non avrebbe mai provato nulla per lei. Poteva biasimarlo per questo? Di certo no. Il destino aveva voluto che non fossero compatibili.
Dovrò farmene una ragione e andare avanti con questa consapevolezza, aveva pensato chiusa a chiave da sola nella stanza che di solito divideva con Linda e altre due compagne, senza ricordarsi come ci fosse arrivata.
 
Sì, dovrei fare così… se solo ne avessi la forza.
 
La lama affilata del bisturi aveva reciso di netto l’arteria radiale del braccio sinistro, da cui era immediatamente zampillato un fiotto che aveva macchiato la pelle ed era colato copioso sulle piastrelle.
Un dolore atroce era esploso propagandosi per tutto l’arto, e la ragazza si era ricordata di un episodio accaduto l’anno precedente durante l’ora di sintesi delle prove: le era stata mostrata l’immagine di una stanza messa a soqquadro, con le pareti macchiate abbondantemente di sangue, e le era stato chiesto di esprimere un parere sulla ricostruzione dei fatti.
«E’ la scena di un omicidio! C’è stata chiaramente una colluttazione, seguita da un delitto cruento!» aveva risposto senza esitazione, basandosi sugli schizzi di sangue che arrivavano fin quasi al soffitto.
«Ma nient’affatto! Si tratta di suicidio. La vittima si è ferita ai polsi, e a causa del dolore insostenibile ha perso la testa, provocando questo caos. Contrariamente a quanto si pensa, tagliarsi le vene è dolorosissimo, perché si danneggia direttamente il nervo mediano attraverso il canale carpale. Per cortesia, si scordi quelle patetiche scene da film in cui ci si addormenta pacificamente nella vasca da bagno. Quelle sono solo fantasia. E, soprattutto, non tragga mai conclusioni affrettate da un’osservazione sommaria, signorina Andreoli» l’aveva redarguita l’insegnante davanti a tutta la classe.
R si era sentita piccola piccola, ma evidentemente la lezione non le era rimasta poi tanto impressa se si era scordata di quel particolare così in fretta.
Il dolore lancinante l’aveva fatta tornare in sé ed aveva cominciato a urlare e urlare. Era caduta a terra stringendosi il polso nel tentativo di fermare il flusso, sentendo la vita scivolarle via dalla ferita aperta, di colpo terrorizzata dalla presa di coscienza di ciò che aveva fatto. Le sue grida, della potenza di una sirena impazzita, avevano messo in allarme tutto il piano. Aveva sentito colpi alla porta e parole di cui, prossima allo svenimento, non aveva inteso il significato. Poi la porta era stata sfondata, aveva udito la voce  rotta dai singhiozzi di Linda e mani che l’avevano afferrata per le spalle, scuotendola. Subito dopo aveva perso i sensi.
Si era risvegliata nel suo letto, con il polso fasciato e l’ago di una flebo piantato nel braccio, chiedendosi cosa fosse successo. Con la vista ancora annebbiata, si era guardata intorno ed aveva scorto Mello, in piedi a braccia incrociate con un’espressione terribile, e il signor Roger seduto un po’ in disparte.
«Hai fatto proprio una bella cazzata, non c’è che dire» aveva sbottato il ragazzo biondo.
R aveva pensato che avesse ragione.
«Ci sei solo tu?» aveva chiesto.
«E chi ti aspettavi, una schiera di giornalisti pronti a intervistarti e farti un bell’articolo da sbattere in prima pagina? E’ una fortuna che il signor Quillsh abbia fra le sue conoscenze anche un chirurgo, così ti hanno potuto ricucire senza portarti all’ospedale. Ci manca solo che qualcuno vada a raccontare in giro che qui alla Wammy’s House gli allievi sono sottoposti a una pressione tale da spingerli al suicidio!».
R si era accoccolata sotto il lenzuolo, avvilita. Non solo non era stata capace di portare a termine quello che aveva iniziato, ma aveva pure creato problemi a tutto l’istituto.
«Dov’è Linda?» aveva chiesto con un filo di voce.
«Nel refettorio che piange come una fontana. Stanno cercando di calmarla. Secondo me se venisse qui e ti prendesse a calci in culo si sentirebbe molto meglio».
«Perché sei così arrabbiato con me?» aveva domandato riemergendo da sotto il lenzuolo.
«Perché, mi chiedi? Ti rendi conto che qui dentro sei una privilegiata, agli occhi della maggior parte degli allievi? Hai ottenuto una lettera, quello a cui tutti aspiriamo più di ogni altra cosa, ma non sembri apprezzarlo affatto. Sai cosa significa quella lettera? Che dovresti dedicare la tua vita a migliorare il mondo, e invece tenti di buttarla via con una scenata da primadonna da operetta. Ma si può sapere che ti è preso? Che cosa vuoi di più? Hai deluso tutti. Se il tuo ruolo ti pesa così tanto, allora vattene e vedi di sfruttare la seconda possibilità che ti è stata concessa in un modo più intelligente di questo».
A quel punto Roger era intervenuto, accompagnando il ragazzo alla porta.
«Ora basta. Ha bisogno di stare tranquilla per un po’».
Mello se ne era andato lanciando alla ragazza un’ultima occhiata accusatoria. R capiva come si sentiva. Che l’ammirazione di Mello per L fosse sconfinata non era un segreto per nessuno. Probabilmente anche lei sarebbe montata su tutte le furie se fosse stata superata da qualcuno che non giudicava degno di merito.
Roger aveva avvicinato la sedia al letto e aveva accarezzato i capelli della ragazza, ancora pallida come una morta per la perdita di sangue, osservandola preoccupato.
«E’ davvero così? E’ colpa del tuo incarico? Perché non me ne hai mai parlato, prima di arrivare a questo?» le aveva chiesto gentilmente.
Quindi le cose stavano in quel modo. Anche Roger credeva che all’origine del suo gesto ci fosse la tensione per una responsabilità troppo grande per una ragazzina. Perché in quel dannato istituto nessuno vedeva al di là della propria missione?
Per un momento le era balzato in testa l’impulso di raccontargli tutto.

Sa signor Roger, è da mesi che sono perdutamente innamorata di L. Quando sto con lui non sono più io, tutto diventa rosa e la testa mi si riempie di farfalle. Mi mostra la foto di un cadavere sgozzato e vedo succo di lampone al posto del sangue, mi passa un tabulato e credo che mi voglia abbracciare, lo ascolto mentre parla di omicidi e dopo tre parole perdo il filo del discorso perché mi perdo nel suono celestiale della sua voce, e tutto questo, mi creda, è diventato insostenibile, tanto che non riesco più a sopportarlo. Sapesse quanto sono invidiosa di Lei, che può trattarlo da pari a pari, e del signor Quillsh, del modo in cui l’espressione di L si distende e si riempie d’affetto quando gli parla e, se proprio vuole saperlo, ultimamente invidio perfino quelle ciambelle che gli piacciono tanto e che possono essere leccate e morse ogni giorno da lui. Sì, sto peggiorando, anzi, ormai si può dire che sono un caso patologico. Così oggi ho deciso di giocare il tutto per tutto e dichiararmi, perché fino a stamattina ero convinta che sarebbe stata la scelta migliore, qualunque risposta avessi ricevuto. Sono stata una povera scema. Avrei dovuto sapere che non c’è limite al peggio. Perché lui una risposta me l’ha data, oh sì. E purtroppo l’ha fatto in modo così garbato che non ho nemmeno potuto avere una scusa per dare in escandescenze e prendermela con lui. Ed è stato così chiaro – ah, certo,  non a parole, ma sa, si da il caso che a me sia toccata questa certa maledizione, che a voialtri piace tanto chiamare dono, che mi permette di comprendere ben oltre le parole – dicevo, è stato così chiaro che se mi avesse colpito con una mannaia credo che mi avrebbe fatto meno male. Dopo di che mi sono ritrovata nella mia camera e non ho trovato di meglio che porre fine alla mia esistenza e non pensarci più”.

Ma naturalmente dalla sua bocca era uscito tutt’altro. Aveva studiato per un breve momento l’espressione premurosa e apprensiva dell’anziano direttore, ed aveva optato per la scelta di fargli avere la spiegazione che avrebbe voluto sentirsi dire.
«Già, è proprio così» aveva mentito, «non sono tagliata per questo ruolo. Vorrei vivere un’esistenza ordinaria, e frequentare una scuola ordinaria».
Due giorni dopo aveva lasciato l’istituto per non farvi mai più ritorno. Non aveva mai rivelato a nessuno il vero motivo del suo tentato suicidio, nemmeno a Linda che, nonostante tutto, l’aveva seguita nella sua nuova vita.
«Vengo con te. Non sapresti mai cavartela da sola» aveva dichiarato. «E poi il mio sogno è quello di diventare una celebrità dell’arte. Distrarre i professori durante le lezioni di simulazione di reato per permetterti di annacquare le prove non è certo la missione della mia vita».
 
Rossella aveva sperato che vivere nel mondo che c’era fuori da quella specie di regno privato che era la Wammy’s House l’avrebbe aiutata a dimenticare L e la sua ossessione per lui. Ma non era andata così. La dimostrazione era lì, davanti a lei, nel cortile del maniero dei Cavendish. Trovarsi di fronte al detective che non vedeva da cinque anni le faceva ancora battere il cuore, esattamente allo stesso modo di allora.
«Oddio, guarda che bello!» strillò eccitata Linda, distraendola dai ricordi del passato.
Rossella si voltò di scatto, appena in tempo per vedere un enorme alano arlecchino che le si lanciava contro, travolgendola. Cadde all’indietro e atterrò sul sedere, mentre il cane le leccava la faccia.
«Silky Nose, non essere maleducato!» lo rimproverò Kathy tirandolo indietro per il collare in modo da liberare la detective dalla massa imponente dell’animale.
Come si fa a chiamare Silky Nose un molosso del genere?! pensò irrazionalmente Rossella dopo aver ricevuto un’ultima leccata festosa dal cane.
«Vieni via. Che birichino che sei!» rise Kathy.
«Caspita, hai una gran forza per smuovere un cane così. Peserà almeno ottanta chili!» disse meravigliata Linda.
«Ne pesa un po’ di più» rispose la ragazza bionda abbracciando il cane e strofinando il viso nel pelo raso e morbido.
«L’affetto di un cane è una cosa preziosa» disse una voce quieta e gentile alle loro spalle.
«Wat… Signor Quillsh!» esclamò Rossella.
Le sfuggì un sorriso, fugace ma luminoso, completamente estraneo all’espressione neutra che la caratterizzava. Solo in quell’istante si rese conto che non l’aveva ancora salutato. L’incontro con L doveva averla proprio sconvolta se non si era nemmeno accorta della presenza dell’anziano. Watari le porse una mano per aiutarla, ma lei si rialzò da sola e lo abbracciò di slancio.
«Signor Quillsh! Quanto tempo!».
«Buongiorno, signorina Andreoli» la salutò l’altro con un tono cerimonioso che la fece ridere.
L’espressione placida dell’anziano le aveva sempre infuso tranquillità. E da lì a poco ne avrebbe avuto davvero bisogno. Infatti, non appena una donna di mezza età, alta e paffuta, si affacciò al portone d’ingresso del maniero, Kathy le corse incontro più felice che mai.
«Irene, come stai?».
«Piccola lady, bentornata!».
L’allegra donna rubiconda abbracciò la ragazza facendola volteggiare un paio di volte prima di posarla nuovamente a terra e invitarla ad entrare, mentre Silky Nose correva loro intorno abbaiando a più non posso, inseguito da Linda che cercava di acchiapparlo.
Watari prese i due bagagli che Linda e Kathy avevano abbandonato vicino all’auto e si avviò a sua volta verso l’ingresso e, in men che non si dica, tutti quanti sparirono all’interno del maniero lasciando Rossella ed L da soli.
Per un po’ i due rimasero in silenzio, studiandosi a vicenda. Come le capitava tutte le volte in cui si trovava a tu per tu con qualcuno, istintivamente Rossella cominciò ad analizzare la persona che aveva davanti. A poco a poco sentì crescere la concentrazione e gradualmente dimenticò la soggezione iniziale, fissando il ragazzo apertamente. Quando entrava nel livello più profondo di quello stato tutto intorno a lei scompariva, rafforzando la sensazione di trovarsi praticamente in simbiosi con il proprio interlocutore. Ogni respiro, ogni battito cardiaco dell’altro diventava anche il suo. Nel caso di L, a causa dei sentimenti che provava per lui, quel legame assunse una connotazione quasi intima, lasciandola piacevolmente stordita. Chissà per quanto tempo sarebbe rimasta in quello stato, se L stesso non avesse rotto il silenzio. 
«Grazie per aver accettato il mio invito, detective Andreoli».
«Smettila di chiamarmi così, mi mette in imbarazzo».
«L’hai detto tu che non vuoi che ti chiami R. Se non posso chiamarti nemmeno con il tuo nome, come devo fare?».
«Non è per il nome, è per… oh, lasciamo perdere! Chiamami Rossella. Rossella e basta».
«E’ uno pseudonimo?».
«Sì, è quello che mi avevano assegnato alla Wammy’s House. Di me sapevano che ero di origini italiane, quindi hanno scelto un nome adeguato».
«Che combinazione. Anch’io sono per un quarto italiano».
Rossella pensò con una punta di amarezza che, nonostante si conoscessero da tempo, quel breve scambio di frasi somigliava alla conversazione tra due sconosciuti che si presentano per la prima volta. Non avevano mai discusso di qualcosa di personale, prima. D’altronde, per come stavano le cose era più che naturale che L non avesse mai avuto interesse nell’approfondire la conoscenza.
«Perché mi hai coinvolta?» tagliò corto. Non voleva continuare quella farsa fatta di finto interessamento.
«Tu cosa sai di sir Arthur Cavendish?» le chiese il detective per tutta risposta.
«Quello che scrivono sui giornali. Possedeva una notevole fortuna ed era un personaggio piuttosto in vista, ma ha condotto sempre una vita riservata, lontano da scandali e sperperi. Ciò non vuol dire che non si concedesse una vita agiata, e questo castello, in quanto residenza secondaria, ne è un esempio. Esistono solo due eredi ufficiali, e di sicuro d’ora in poi non avranno mai più problemi economici, se mai ne hanno avuti».
«E del testamento cosa sai?» le chiese ancora.
«Esiste una parte ufficiale, il cui contenuto è stato reso pubblico. O meglio, è stato dedotto mettendo insieme le vibranti dichiarazioni di protesta di tutti quelli che si credevano eredi ufficiali e che si sono visti soffiare il patrimonio da due nipoti sbucati all’improvviso. Quello che nessuno sa, invece, è che esiste una parte riservata, che sarà resa nota solamente ai suddetti nipoti e che costituisce il motivo per cui siamo qui oggi. E qui inizia la parte interessante, perché sembra che non esista un testo definitivo del testamento. Il documento è diviso in più parti, sigillate separatamente e custodite chissà dove. Sembrerebbe una specie di caccia al tesoro, e da questo punto di vista potrebbe essere paragonato all’ultimo scherzo di un nobile burlone, ma non credo che si tratti di nulla di così banale se ha stuzzicato l’interesse di L in persona, dico bene?».
«Quindi tu sei già a conoscenza della parte che sarà resa nota solo oggi, eh? L’hacking è un reato, Rossella. Dovrò ricordarmi di dire a Q di non darti troppa corda».
Rossella cominciò ad irritarsi. Non solo L continuava ad eludere le sue domande, ma la punzecchiava pure. Come se lui non avesse mai fatto uso di mezzi scorretti in vita sua…
E con che aria saccente aveva finto di sapere come si fosse procurata le informazioni! Sì, esatto, aveva finto, perché era sicura che l’allusione all’aiuto ricevuto da Q fosse solo una sparata da parte del detective per darsi delle arie, andata a segno per pura fortuna. Anche se era la verità, in realtà non aveva nessuna prova che lei e Q fossero in contatto; glielo si leggeva in faccia, e meritava una lezione.
«Sembri molto sicuro nelle tue supposizioni. Peccato che il tuo corpo indichi tutto l’opposto. Di solito, tu quando sei in piedi tieni le mani in tasca, ma mentre parlavi ti sei sfregato la punta del naso, poi un orecchio. Questo perché lo stress da menzogna crea dei micro-formicolii in alcune zone periferiche del corpo. Ammettilo, non hai la minima idea di come abbia fatto ad ottenere quelle informazioni».
Rossella incrociò le braccia e lo guardò compiaciuta, ma il sorrisetto sarcastico che aveva accennato le morì sulle labbra quando vide quello soddisfatto di lui. Si accorse troppo tardi di essere caduta come un pollo nella sua trappola.
«Mi hai voluto mettere alla prova!» esclamò seccata.
«Esatto. Sembri in perfetta forma. Bene, è proprio quello che volevo» rispose il ragazzo. Il suo sorriso si allargò.
La ragazza gli elargì un’occhiataccia, ma non disse nulla. La colpa era sua, che l’aveva sottovalutato dimenticando chi aveva di fronte.
«Che cosa vuoi da me?» sbottò.
«Saresti in grado di distinguere un essere umano da qualcosa che finge solo di esserlo?» le chiese il ragazzo senza esitazione. Il suo sguardo si fece attento, i suoi occhi più profondi che mai.
Se la domanda le fosse stata posta da chiunque altro probabilmente Rossella sarebbe scoppiata a ridere, ma il solo fatto che fosse stato L a chiederglielo non le fece passare nemmeno per l’anticamera del cervello di mettere in dubbio le sue parole. Dal suo atteggiamento, Rossella capì che quella domanda era cruciale. La soppesò con attenzione, prima di rispondere.
«Ho troppo pochi elementi su cui basarmi. Quanto sarebbe diverso da un essere umano, questo qualcosa? Devo partire dal presupposto che pensi o si comporti in modo diverso da come farebbe un comune individuo?».
«Giusta considerazione. Mettiamo allora che questo individuo non reagisca secondo quelli che sono ritenuti i normali standard per un essere umano. E non parlo di differenze tra sani di mente e squilibrati, ma di… uhm… come dire… particolari, magari all’apparenza insignificanti, che non rispettino i canoni del comportamento umano, che facciano pensare a qualcosa di distorto. In questo caso te ne accorgeresti?».
«… sì, penso di sì».
La voce della ragazza suonò strana. La domanda che le era stata posta non le piaceva per niente, e il fatto che il detective, per un attimo, fosse sembrato turbato le piacque ancora meno. L si era sempre basato su fatti oggettivi, e non era certo incline a dar credito alle superstizioni. Perché mai le aveva chiesto una cosa così insolita?
«Che cosa sta succedendo?» osò chiedere a bassa voce.
«Non lo so ancora. Tutto quello che posso dirti è che la morte di sir Arthur Cavendish ha avuto dei risvolti inspiegabili, tanto che questa volta non me la sento di affidarmi agli occhi di intermediari. Ma non ti preoccupare, non ho intenzione di metterti nei guai. Se mi accorgerò che le circostanze prenderanno una piega pericolosa, agirò in modo che tu sia al sicuro».
Rossella, che da quando L aveva cominciato a parlare era rimasta a fissare pensierosa la ghiaia per terra, udendo l’ultima frase rialzò di scatto la testa. Anche se era sicura che non se ne fosse accorto, le aveva appena detto una cosa che le sarebbe rimasta impressa per giorni, facendola sorridere fra sé e sé. Era la prima volta in assoluto in cui il detective le diceva qualcosa che somigliava anche solo lontanamente ad un gesto di riguardo nei suoi confronti. La cosa la riempì talmente di gioia che si scordò perfino di chiedere delucidazioni sul perché la situazione avrebbe potuto farsi pericolosa.
«Se vuoi che collabori con te ho bisogno di essere messa al corrente di tutto ciò che hai scoperto».
«D’accordo» le rispose lui svagatamente.
Che il detective sapesse essere un gran bugiardo per lei non era una novità, ma questa volta le parve che non si fosse nemmeno sforzato di sembrare credibile. Sospirò rassegnata. Era chiaro che le avrebbe raccontato solo quello che gli avrebbe fatto comodo.
«Sir Arthur Cavendish era amico di Watari. Credo che li accomunasse la passione per le scoperte, sebbene per fini diversi. A Watari interessano le invenzioni, mentre lord Cavendish era appassionato di…».
«Scienze occulte» terminò Rossella per lui. «Sir Arthur Cavendish finanziava diverse opere umanitarie e istituti per orfani, tra cui il nostro. In quanto al suo hobby, era conosciuto solo da una ristretta cerchia di appassionati, tutti piuttosto benestanti, tra i quali una sedicente sensitiva di nome Evie Philliphs e un certo Aaron Mason, presunto demonologo». Tralasciò volutamente il fatto che anche David Warwick, il gemello di Kathy, era incluso nel gruppo, con il curioso ruolo di alchimista. Che L si tenesse pure i suoi segreti, lei avrebbe fatto altrettanto. «Avevano fondato una specie di circolo privato con lo scopo di coltivare il loro passatempo. E, guarda caso, la sede era proprio qui, in questo maniero. Però, a quanto pare, le loro riunioni si sono interrotte circa due mesi fa, apparentemente senza motivo. Per quanto ne so, non vi sono stati né litigi né nient’altro di simile. Ah, naturalmente tutte queste informazioni sono riservate, e non ne troverai cenno sui giornali, né tramite altre fonti. Come ti ho detto, il circolo era privato e nulla trapelava al di fuori dei suoi membri».
«Q ti ha aiutato un po’ troppo…».
«Avere gli agganci giusti fa parte del mio mestiere» ribatté Rossella sorridendo, godendosi la sua piccola rivincita.
Il suo fu un sorriso aperto, di cui si stupì lei stessa. Era una bella sensazione, che non provava da anni. Per la prima volta, si domandò se chiudersi verso gli altri come faceva abitualmente non fosse inutile, se non addirittura stupido.
«…Così sei molto più tu…» disse a mezza voce il ragazzo.
«C… come dici?» balbettò Rossella, che al contrario aveva capito benissimo.
«Niente. Bene, cosa non hai scoperto, allora?».
Ma la ragazza a causa di ciò che aveva appena udito si sentì inspiegabilmente confusa e non fu più in grado di proseguire.
«E’ tutto… più o meno» rispose. «E tu che mi dici?».
«Una settimana prima di morire, lord Cavendish ha scritto una lettera a Watari. Il contenuto sembrava quello di una normale conversazione d’affari, ma facendoci caso l’inchiostro in alcune parole appariva più marcato che in altre. Leggendo in sequenza solo queste parole, il testo acquista tutt’altro significato. Guarda tu stessa».
L porse alla ragazza un foglietto, tenendolo sollevato con due dita.
 
Caro amico,
 voglio metterti in guardia. Tu mi conosci, sai quanto sia grande la mia passione per la scoperta, per tutto ciò che a questo mondo risulta inspiegabile. Ma forse questa volta ho peccato d’orgoglio, sebbene per amore della conoscenza. Temo di aver superato un confine che non è concesso al genere umano. Ho voluto troppo, ho voluto e basta. Ho dimenticato chi siamo e quali sono i nostri limiti, ho varcato una soglia che sarebbe dovuta rimanere celata.
Ti chiedo un favore, amico mio. Mi sento la persona più spregevole di questo mondo, perché coinvolgerti potrebbe voler dire farti correre un rischio troppo grosso. Ma, credimi, non lo farei mai se non lo ritenessi indispensabile. Se in futuro dovesse accadermi qualcosa, ti prego di indagare sulle cause della mia scomparsa e scoprire la verità. Sono sicuro che tu e i tuoi ragazzi ci riuscirete. Sigillerete di nuovo ciò che doveva restare nell’oblio.
Perdonami, di più non posso dirti. Loro me lo impediscono. Non possono più vedermi, ma in qualche modo mi percepiscono e mi controllano. Non sai quanto mi costa scriverti queste poche righe.
Domani mattina affiderò questa lettera a Irene che, ignara di tutto, continua a servirmi fedelmente. Spero che riesca a consegnartela. Lo spero con tutto il cuore.
 
Il tuo devoto amico
Arthur Edward Cavendish
 
«A quanto pare, lord Cavendish aveva cominciato a dare di matto prima di morire» commentò Rossella dopo aver letto il contenuto del foglietto.
«E’ davvero quello che pensi?».
Passò un lungo momento prima che la ragazza rispondesse. La verità era che nulla nella lettera le aveva fatto dubitare della sanità mentale del defunto Lord, e questo le aveva messo addosso un timore irrazionale.
«…no…» ammise di malavoglia.
«Credo di capire quello che provi, ma d’ora in poi vorrei che ti fidassi esclusivamente delle tue deduzioni, anche se dovessero portarti ad una conclusione assurda».
«Da quando in qua questo è il tuo metodo d’indagine? Anche tu ti sei sempre basato su fatti concreti».
«E continuo a farlo. Semplicemente, in questo caso dovrai allargare le tue vedute».
La faceva facile, lui! Che cosa poteva essere successo per indurlo a parlare così? Questo suo tergiversare per tenerla all’oscuro cominciava a darle sui nervi.
«Se non mi dici chiaramente a cosa stiamo andando incontro, non arriveremo a niente!» esclamò.
«Hai ragione, ma ho paura che se ti metto al corrente di tutto te ne andrai immediatamente».
«Non sono qui per aiutare te, ma la mia cliente. Come vedi, i nostri obiettivi sono diversi. Ho preso un impegno con lei, e non abbandonerò il caso finché non avrò scoperto chi la sta importunando. Sono passati cinque anni dai tempi in cui collaboravo con te, non sono più una ragazzina. Non ti preoccupare, non svengo più alla vista del sangue».
«Come vuoi. Cominciamo dalla lettera. Secondo il referto della scientifica, nella cellulosa del foglio risulta la presenza di particelle ignote».
«Come è possibile? Significa che non appartengono a nulla di conosciuto?».
«Beh, per ora significa solo che non sono ancora riusciti ad identificarle. Ma il fatto più singolare è un altro. Il cadavere di lord Cavendish è stato scoperto dai domestici al mattino, quando la governante ha bussato alla porta della sua stanza per servirgli la colazione, come d’abitudine, e non ha ricevuto risposta. E’ stato accertato che la morte è avvenuta durante la notte per arresto cardiaco. Tuttavia, quando il corpo è stato trovato, pare fosse già in avanzato stato di decomposizione» spiegò L, scrutando con una punta di divertimento la reazione della sua interlocutrice.
Rossella era impallidita visibilmente. Se non fosse stata un tipo orgoglioso, si sarebbe rimangiata tutta la spavalderia che aveva sbandierato pochi minuti prima, sarebbe saltata in macchina e sarebbe ripartita per Winchester a tutta velocità senza voltarsi indietro. Ora il maniero non le sembrava più un castello da fiaba, ma una rocca lugubre e portatrice di incubi.
«E’ meglio che Kathy questo non lo sappia. Ma… la scientifica come lo spiega?» chiese tanto per darsi un contegno.
«Per ora non si pronunciano, e penso che tergiverseranno finché il caso, in mancanza di spiegazioni logiche,  sarà archiviato. E’ per questo che sono qui. Credo che la particolare struttura del testamento sia stata studiata come espediente per condurci al maniero. E’ da qui che dobbiamo cominciare le indagini. Probabilmente sir Arthur Cavendish…»
Una mano si posò all’improvviso sulla spalla di Rossella, che sobbalzò emettendo un singulto.
«Siamo nervosi, eh? Ti ho spaventata?» rise Linda. Poi si rivolse a L: «Un momento, ma io ti conosco! Anche tu eri alla Wammy’s House. Ti chiami… uhm…».
«Ryuzaki» le suggerì L.
«Ah, ecco, già! A proposito, il signor Quillsh mi ha detto che è qui per far visita alla tomba del suo amico. Lo conoscevi anche tu?».
«Oh, ma sei il ragazzo dell’altro giorno! Cosa ci fai qui?» la interruppe Kathy, che nel frattempo li aveva raggiunti.
«Sono l’assistente di Rossella. Sono qui per darle una mano» rispose prontamente L.
«Davvero? Ecco perché l’altro giorno mi hai detto di chiamarla! Stavi facendo propaganda! Però… anche quel signore anziano ha detto di essere un tuo assistente. Caspita! Rossella, devi essere davvero una detective importante per avere addirittura tre aiutanti!».
«Eh, già… Non bastano mai…»
«Entriamo. Il notaio è già dentro e ha detto che possiamo cominciare» disse Kathy indicando il maniero.
«Anche senza tuo fratello?».
«Pare che David l’abbia contattato spiegando che non potrà presentarsi. Ma, visto che è per causa di forza maggiore, gli sarà concessa una proroga e non ci saranno problemi» spiegò Kathy, visibilmente sollevata.
Si avviarono tutti verso l’ingresso, anche se Rossella e Linda rimasero un po’ più indietro rispetto agli altri due.
«Che significa? Non mi avevi detto che ti eri accordata con il signor Quillsh e quell’altro. E non dirmi che sono qui davvero per la storia della visita alla tomba perché non me la bevo».
«Ti giuro che é una sorpresa anche per me. Pare che sir Arthur Cavendish fosse davvero amico del signor Quillsh, e pare che sia morto in circostanze misteriose. Anche loro sono qui per indagare per conto di L, come noi».
«Capisco. L non si fida proprio di te, eh? Beh, comunque hai una fortuna sfacciata, perché fra tanti ha scelto di mandare proprio il tuo principe azzurro» la prese in giro Linda, ma la risata le morì in bocca quando girò lo sguardo verso il maniero.
Rossella lesse sconcerto negli occhi dell’amica e guardò nella sua stessa direzione, ma non notò nulla.
«Cosa c’è?» le chiese.
«Là, sul tetto, dove c’è il terzo abbaino. Quando siamo arrivate ho guardato bene tutta la costruzione, perché ho pensato che potesse servirmi da modello per un dipinto, e sono sicurissima che prima quella cosa non c’era».
Dalla finestra di uno degli abbaini, legata per i capelli, pendeva la testa di una bambola.

 
 
Commenti personali
Dunque, da dove comincio?!
Per prima cosa, parliamo di Linda: nel fandom inglese è considerata IC se la si descrive come premurosa verso gli altri. A me questa cosa non è mai andata giù! Ma come, Linda compare in UNA vignetta del manga, chiede a Near se vuole uscire in giardino a giocare e automaticamente diventa una santa?! Eh no, questa non l’accetto proprio! Da qui parte la caratterizzazione che ho scelto di darle nella mia fan fiction. Perdonatemi, fan di Linda!!!! Non me ne vogliate! Q_Q
 
In quanto a D, è un mio personaggio apparso in una precedente fan fiction. Se volete sapere qualcosa in più su di lei, cercatela tra le mie storie, la troverete facilmente. Vi aiuterà a capire un po’ di più chi è questa ridicola ragazza ^^
 
Di Q ho già parlato nel precedente capitolo: è apparso nel romanzo “L change the world” ed è il genio informatico che, tra l’altro, ha messo a punto il sistema di sicurezza del quartier generale antikira.
 
In quanto allo svolgimento di questa storia, vi metto in guardia: mi piacerebbe dedicarmici con un certo ritmo, ma fra studio e lavoro non trovo proprio il tempo. Ho cercato di farmi perdonare scrivendo un capitolo piuttosto lungo, ma non so davvero dirvi quando arriverà il seguito. Abbiate fede, perché se non altro posso assicurarvi che la porterò a termine. Fatemi coraggio!
 
E, da ultimo (anche se avrei dovuto dirlo all’inizio!) ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate o che hanno lasciato commenti. Visto che mi avete fatto capire che non sto scrivendo per me sola, mi impegnerò per non deludervi!
Inoltre, se qualcuno volesse proporsi per farmi da beta-reader sarà il benvenuto.

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Capitolo 4
*** L'erede scomparso ***


CAPITOLO 3 – L’EREDE SCOMPARSO

 
«Ma cos’è, una specie di gioco di ruolo?!» esclamò Linda dopo aver ascoltato il resoconto di Kathy riguardo l’incontro appena concluso con il notaio.
«Per quanto possa sembrare strana, questa è la condizione per acquisire il diritto di eredità» spiegò l’altra stringendosi nelle spalle. «Io e David dovremo trascorrere una settimana qui al maniero in veste di guardiani senza poter uscire dai confini della proprietà. Il soggiorno dovrebbe partire da oggi ma, visto che David non è ancora arrivato, ci è stata concessa una proroga fino a domani mattina».
Non appena il notaio se ne era andato, la ragazza aveva aggiornato immediatamente gli altri sul contenuto della seconda parte del testamento, contenuto che Rossella ed L conoscevano già in parte.
«Hai idea del perché sir Arthur Cavendish abbia inserito una clausola del genere?» domandò la detective.
Kathy scosse la testa.
«Il testamento cita che dobbiamo entrare in sintonia con l’ambiente al fine di preservarlo, ma non so cosa voglia dire di preciso. Forse il nonno temeva che avremmo lasciato andare Green Haven in rovina».
Rossella guardò L in cerca d’aiuto ma non ottenne nessuna risposta, né riuscì ad indovinare cosa gli stesse passando per la testa. Il detective aveva ascoltato Kathy senza intervenire, restando appollaiato per tutto il tempo su una poltrona a mordicchiarsi meditabondo un’unghia.
«Tutto sommato non mi sembra una clausola difficile da rispettare» concluse, lasciando in sospeso gli approfondimenti.
«Più o meno… Non mi aspettavo di dovermi fermare così a lungo… non ho portato tutto il necessario per una settimana…» mormorò Kathy con  aria affranta.
«Io devo tornare a Winchester perché dopodomani ho una mostra. Se vuoi posso prenderti un cambio, tanto dovrò portare qualcosa anche per me e Rossella. Anche noi avevamo previsto di fermarci solo un paio di giorni» intervenne Linda.
«Davvero?» esclamò Kathy rianimandosi di gioia. «Evviva, grazie! Preparo subito la lista e telefono a mia mamma, così ti fa trovare le valigie pronte!»
«Valigie?! Che diamine ti devi portare per pochi giorni?!»
«Sono abituata a cambiarmi d’abito la mattina, il pomeriggio e la sera! E poi mi servono anche i miei prodotti per i capelli, specialmente il balsamo e la maschera. E naturalmente la gabbia di Polly!».
«Ehi, principessina, frena! Guarda che ho un maggiolone, mica un caravan!» protestò Linda.
«Ma come, una persona altruista come te dovrebbe come minimo attaccare un rimorchio senza pensarci due volte!» la prese in giro Rossella.
«Vai al diavolo!» le rispose spontaneamente Linda accompagnando le parole con un gestaccio, prima di rendersi conto che Kathy, L e Watari stavano assistendo alla scena con attenzione.
E due! pensò, mentre con una risatina impacciata cercava di giustificarsi spiegando che volgarità del genere non rientravano assolutamente nelle sue abitudini.
«Non scorgo in te nessuno dei segnali di un sincero imbarazzo» insistette Rossella, «tipo elusione dello sguardo altrui, inibizione del riso, inclinazione della testa verso il basso e…».
«Ma sta zitta, cretina!» le ringhiò l’altra, infrangendo ogni ulteriore tentativo di scusa.
Il battibecco fu sospeso dall’arrivo della paffuta governante accompagnata da quattro domestici. La donna, che nel frattempo aveva indossato la divisa di gala nera con tanto di grembiule bianco e crestina inamidata, si apprestò a fare le presentazioni.
«Benvenuti nella residenza dei cavalieri di Green Haven» proferì con tono formale, cercando di atteggiare il viso grassoccio a un’espressione consona. «Mi chiamo Irene Lane, e dirigo la dimora in assenza dei padroni. Perdonatemi se non vi ho accolto a dovere fin dal vostro arrivo, ma il notaio aveva una certa premura ed ha insistito affinché l’incontro con la signorina iniziasse al più presto. Permettetemi di presentarvi il resto della servitù».
«Irene, ma cosa sono tutte queste cerimonie?» rise Kathy. «Così li farai sentire a disagio! E poi “servitù” non è per niente democratico, si dice “personale”».
«Signorina, insomma! Non mi rovini l’entrata in scena! Capita così di rado di avere degli ospiti! Quindi, mi faccia svolgere il mio ruolo come si deve» protestò la governante facendo uno sforzo per reprimere la sua natura gioviale e mantenere un’aria seria. Si sistemò meglio la gonna a balze che i fianchi prosperosi facevano dondolare ad ogni movimento, si posizionò accanto agli altri quattro domestici, schierati in fila, e tossicchiò leggermente.
«Dunque, lei è Cheryl Belle, la nostra cameriera. Mi aiuta nei lavori domestici» disse indicando la persona più vicina a lei.
La ragazza in questione, una brunetta minuta dagli occhi vivaci e una spruzzata di lentiggini sul nasino all’insù, fece una riverenza sollevando con grazia i lembi del vestito.
«Questa invece è la signora Lauper, la cuoca».
La signora Lauper, una donna sulla cinquantina, alta e magra, salutò gli ospiti con un breve cenno del capo. Il suo sguardo severo incuteva rispetto, oltre che un lieve timore. Tutti pensarono che il ruolo di governante sarebbe stato molto più azzeccato per la cuoca piuttosto che per la signora Lane, e viceversa.
«Nathan Simpson è con noi da meno di un anno, ed è un po’ il nostro tuttofare» continuò Irene indicando un giovanottello dai capelli rossi e dall’aria sveglia che elargì loro un sorriso aperto e simpatico.
«E infine il signor Edmonds, il giardiniere».
«Onorato, signori» disse con un inchino quest’ultimo, un signore distinto, placido, che poteva avere press’a poco l’età di Watari.
Gli ospiti si presentarono a loro volta, poi Irene congedò la cuoca e il giardiniere. Prese due dei borsoni degli ospiti e si apprestò ad accompagnarli alle loro stanze, chiedendo a Cheryl e Nathan di occuparsi del resto dei bagagli.
«Lasci fare a me, signorina, non sia mai» disse Watari a Cheryl, quando questa si chinò per prendere la sua valigia. «Non si preoccupi. Pensi pure al bagaglio delle signore».
Quando Watari sollevò la valigia qualcosa di metallico tintinnò all’interno, ma l’uomo fece finta di niente.
«Irene, ma… dove sono tutti quanti?» domandò sorpresa Kathy mentre salivano lo scalone che portava al piano superiore.
La governante parve rabbuiarsi per un attimo, poi l’espressione pacifica tornò al suo posto.
«Ah, piccola Lady, se ne sono andati tutti nel giro di un paio di mesi» rispose sospirando, «prima il valletto, poi il guardiano, e infine le cameriere. Tutte insieme, tranne Cheryl. Ci hanno lasciato perfino il maggiordomo e lo stalliere».
«Cosa? E chi si occupa di Silver Hooves allora?» esclamò la ragazza, allarmata.
Irene sorrise rassicurante.
«Niente paura, al cavallo di sir Arthur ci pensiamo noi cinque a turno».
A Rossella non sfuggì che la governante aveva citato il padrone chiamandolo per nome. Dal comportamento sereno della servitù e da quello che aveva potuto intuire dalla lettera di sir Arthur Cavendish, si fece l’idea che l’anziano Lord dovesse essere stato benvoluto dai suoi domestici. Ciò rendeva particolarmente strana quella fuga di massa.
«Signora Lane, posso chiederle come mai se ne sono andati tutti nel giro di poco?» chiese infatti L.
Irene rimase per un momento in silenzio, prima di rispondere. Quando lo fece, parve stizzita.
«Era sicuramente gente non abituata a lavorare seriamente. Probabilmente si sono fatti suggestionare dalla solitudine di questo posto isolato, bah! Fantasie, nient’altro che fantasie».
«A cosa si riferisce?» insistette il detective.
«Certa gente ha troppa immaginazione, e altra è troppo influenzabile. Li metta insieme, e il risultato non sarà dei migliori. Evidentemente non erano abituati a vivere in vecchie strutture come questa, dove gli scricchiolii sono di casa e il vento che si infila tra i merli produce ululati lugubri. A volte sembra quasi che…»
Ma qui la governante si interruppe bruscamente e non parve propensa ad aggiungere altro. Lanciò un’occhiata preoccupata a Kathy, che la precedeva sulle scale, e abbassò lo sguardo. Rossella lesse i sintomi dell’agitazione e pensò che Irene si fosse fatta scappare qualcosa che non avrebbe voluto dire in presenza della neo-padrona.
«Però vivere in un posto come questo ha anche dei vantaggi. Il bosco qua fuori è un incanto, e la tranquillità non manca di sicuro» disse, pensando che cambiare discorso fosse la cosa migliore per venire in aiuto della donna.
«Oh, ha proprio ragione!» esclamò infatti quest’ultima cogliendo la palla al balzo, «vi consiglio di prendere il sentiero che parte dal retro e attraversa il bosco fino al laghetto. E’ davvero meraviglioso in questa stagione. Io proprio non capisco quella gente. Lasciare un posto d’oro come questo, con un padrone così generoso e che si faceva vedere al maniero solo di rado, dandoci davvero poco lavoro. Andandosene in quel modo senza preavviso mi hanno messo davvero in difficoltà. Non è facile trovare dei sostituti da un giorno all’altro. Ma non preoccupatevi, anche se siamo così pochi terremo alto il buon nome dell’accoglienza sopraffina della residenza di Green Haven!».
«Proprio così. Io e David faremo rinascere Green Haven, come avrebbe voluto il nonno» si intromise Kathy, voltandosi sorridente.
La governante parve visibilmente sollevata dall’espressione serena della ragazza e non tornò sull’argomento dei domestici per tutto il tragitto, prolungandosi invece nella descrizione del maniero e dei suoi dintorni a beneficio degli ospiti.
Però, quando Kathy, Rossella e Linda si furono sistemate nelle rispettive stanze e Cheryl e Nathan rimasero con loro per aiutarle a sistemare i bagagli e accertarsi che non avessero bisogno di altro, Irene prese in disparte L e Watari e li condusse in uno studiolo appartato.
«Perdonatemi signore» disse rivolgendosi ad L con un breve inchino del capo, «davanti alla giovane Lady non ho potuto risponderle adeguatamente ma… come dire… il motivo per cui i domestici se ne sono andati è un po’ più complicato di quello che vi ho accennato. Non pensiate che voglia gettare fango sul buon nome del mio padrone, ma…»
La governante incespicò sulle parole, e parve indecisa sul come proseguire.
«Coraggio, continui. Conoscevo Arthur piuttosto bene, e sono convinto che riponesse molta fiducia in lei. Di sicuro era giustificata» la esortò Watari.
Irene sorrise.
«Non ripeterei per nulla al mondo ad altri ciò che sto per dirvi, ma… ecco… visto che sir Arthur mi ha fatto recapitare personalmente la lettera destinata a voi, cosa mai successa in passato, ho pensato che il contenuto fosse di estrema importanza, e che quindi siate persone in cui confidava in modo particolare. Per questo sento di potervi rivelare alcune cose. Se siete… se eravate veramente amici di sir Arthur, allora credo che dobbiate saperlo. Qualunque cosa vi dovessero raccontare le persone che lavoravano qui, sir Arthur è sempre stato sano di mente, ve lo posso garantire. Non ne ho mai dubitato… nemmeno negli ultimi tempi».
«Ha notato qualcosa di strano nel suo comportamento?» chiese L.
Nel mentre si sfilò le scarpe e si sistemò su una poltrona, appoggiando i piedi sulla seduta e premendo le cosce contro il petto. Posò le mani sulle ginocchia e tenne lo sguardo fisso sulla governante, senza sbattere le palpebre nemmeno una volta. Rossella vi avrebbe senza dubbio letto i segni di un profondo interesse.
Irene non diede nessun segno evidente di stupore per quella strana posizione – non erano affari della servitù giudicare gli ospiti – e proseguì.
«Ecco, vedete… era diventato parecchio nervoso. E sì che era stato sempre un uomo così allegro! Sussultava per un nonnulla, era sempre inquieto. Di notte credo che dormisse pochissimo. A qualunque ora mi capitasse di passare davanti alla sua stanza, vedevo sempre la luce filtrare da sotto la porta chiusa. Nonostante ciò, non mi ha mai parlato del motivo della sua agitazione, né del perché avesse deciso di prolungare il suo soggiorno qui a Green Haven, residenza che utilizzava sempre per tempi brevi. Tutte le volte in cui provavo ad approcciare l’argomento eludeva le domande e… accennava a cose singolari».
«Mi potrebbe fare un esempio?» la incalzò il ragazzo, visto che la governante pareva reticente.
«Mah, si era fissato con i rumori. Vede, da dietro le pareti avevano cominciato a provenire dei suoni lievi, come un grattare leggero. Di notte aumentavano. A dire il vero non sono ancora cessati del tutto. Credo che si tratti di topi. Capita,  in abitazioni antiche come questa. Purtroppo non ho potuto provvedere, perché proprio in quel periodo i domestici hanno cominciato ad andarsene ed ho avuto altro a cui pensare. Del resto, il problema non sembrava tanto grave, visto che non avevo visto un solo sorcio in giro, né avevano provocato danni. Evidentemente, se c’erano preferivano rimanersene nascosti per conto loro. Ad ogni modo, sir Arthur ne aveva fatto una malattia. Sembrava che quei rumori lo mettessero esageratamente in agitazione, anzi, a volte pareva proprio che lo terrorizzassero. Ricordo che un giorno tanto fece che mi spaventai seriamente anch’io. L’avevo raggiunto nella biblioteca per servirgli il tè, e mentre glielo versavo sir Arthur cacciò un urlo che per poco non mi sfuggì la teiera. Si alzò di scatto dalla poltrona e rimase in piedi immobile, come in ascolto, muovendo lo sguardo per tutta la stanza. Ad un tratto sussurrò “Li senti, Irene? Non ci possono vedere, qui non ci sono porte… Non ci possono vedere… ma ci sentono… ”»
Le dita di L si strinsero di più sulle ginocchia, spiegazzando la stoffa dei jeans.
«E lei ha sentito qualcosa, signora Lane?» chiese.
«Non nego che in quel momento il raspare l’ho sentito sul serio. Ma, ripeto, udire rumori di quel genere non era una novità, e non vi ho dato peso. Piuttosto, è stata la reazione di sir Arthur a preoccuparmi. Ho pensato che Green Haven non avesse una buona influenza sui suoi nervi, e la mattina dopo gli ho suggerito nel modo più delicato possibile di rientrare alla residenza di Winchester. Ma lui mi ha risposto che fuggire non avrebbe cambiato le cose. Anzi, ha aggiunto una cosa strana, ovvero che l’onore gli impediva di abbandonare le cose come stavano. Ah, povero sir Arthur! Senza dubbio qualche grave preoccupazione doveva avergli causato un esaurimento. E quello che è successo dopo non l’ha certo aiutato» sospirò la governante, sul viso un’espressione afflitta del tutto inadeguata al suo faccione pieno.
Dopo una pausa, proseguì.
«Vedete, pochi giorni dopo questo episodio, udimmo un grido provenire dall’ala della servitù. Io e il maggiordomo ci precipitammo subito a vedere cosa fosse successo, e trovammo Evelyn, una delle cameriere, accantucciata in un angolo della sua stanza. Non appena ci vide corse a nascondersi dietro di noi. Indicò sconvolta i cocci dello specchio della cassettiera e le chiesi cosa fosse successo, temendo che si fosse tagliata. Ma lei fuggì via, e il giorno stesso si licenziò e se ne andò. Non volle più mettere piede in quella stanza, figuratevi! Un’altra cameriera dovette sgomberare la camera dalle sue cose e fargliele recapitare. Non venni mai a sapere cosa fosse successo esattamente, ma prima di andarsene Evelyn doveva aver detto qualcosa alle sue compagne, perché nel giro di tre giorni perdemmo tutte le cameriere, ahimè!»
«Signora Lane, sarebbe possibile parlare con qualcuna di loro?» le chiese L.
«Credo di sì, ho annotato i loro recapiti nel registro del personale. Può provarci, però lasci che le dica una cosa: tutti quelli che se ne sono andati non vogliono avere contatti con chi è stato qui al maniero, e non me ne chieda la ragione perché proprio non riesco a capirla. Ma la cosa peggiore di questo episodio fu l’effetto che ebbe su sir Arthur. Non la prese affatto bene. Da quel giorno, passò la maggior parte del tempo chiuso nel suo studio, uscendone raramente solo per andare a prendere qualche volume dalla biblioteca. Quasi non mangiava più. Ero in pensiero per la sua salute, ma quando gli chiesi spiegazioni mi disse solo una cosa: “Hanno trovato le porte. Non c’è più tempo”. Mi guardava, ma era come se non mi vedesse. Poi parve riscuotersi ed esclamò: “Tempo? Ma certo!”, e si richiuse nello studio».
L si portò il pollice alle labbra, e cominciò a mordicchiarselo con lo sguardo perso nel vuoto.
«Le porte… a cosa si riferiva?» mormorò fra sé e sé, ma così piano che Irene non lo sentì e proseguì nel suo racconto.
«Un giorno mi chiese di chiamare Evie Philliphs, una sua conoscente, e di domandarle di recarsi con urgenza al maniero. Ci credereste? Quella vecchia bisbetica, che nei mesi precedenti era venuta qui praticamente tutti i week-end, si rifiutò categoricamente di muoversi da casa. Anzi, sapete cosa mi disse prima di chiudermi il telefono in faccia? “La prego di non telefonarmi più. Statemi lontano, siete infetti. Rinchiudetevi a Green Haven e marcitevi”. Ditemi voi se quella donna non è matta da legare!» esclamò Irene con un gesto esasperato.
 
…rumori dalle pareti… uno specchio rotto… Evie Philliphs, la sensitiva del circolo di sir Arthur…le porte…
 
L si concentrò su quelli che aveva giudicato i punti focali del resoconto di Irene. Pensò incoerentemente ad un brano letto anni addietro.
 
Ora, se stai attento, Frufrù, e non parli tanto – disse Alice - ti dirò tutta la mia idea intorno alla Casa dello Specchio. Prima di tutto, v'è la stanza che si vede attraverso lo Specchio: è precisa come il salotto dove stiamo; però tutte le cose son messe alla rovescia.
 
«Le porte… si riferiva forse agli specchi?» disse, più che altro ragionando a voce alta piuttosto che rivolgendo una vera e propria domanda.
«Specchi, dice?» chiese Irene.
La voce le tremava.
«Ecco, vedete… vi devo confessare una cosa. Il giorno in cui sir Arthur è mancato, siamo stati io e Nathan i primi a vedere le sue spoglie. Dopo aver bussato più volte alla porta della sua stanza per portargli la colazione e non aver ottenuto risposta, ho avuto il presentimento che fosse successo qualcosa di grave ed ho chiamato il ragazzo prima di entrare, sebbene portassi sempre con me la chiave della camera del padrone. E ho fatto bene a non entrare sola, perché quando siamo entrati ci si è parato davanti uno spettacolo a dir poco orrendo. Sir Arthur giaceva riverso tra il letto e la finestra, e il suo corpo era… era…»
Irene ebbe un mancamento, ed L scattò in avanti per evitarle di cadere, ma la mole della governante lo sbilanciò rischiando di far rovinare entrambi a terra. Con l’intervento di Watari, riuscirono a far accomodare Irene sulla poltrona. La donna si riprese un po’ e continuò.
«Scusatemi, ma ancora oggi non mi sono abituata a quell’immagine tremenda. Non mi crederete, ma il corpo di sir Arthur era inspiegabilmente…»
«Decomposto» terminò L per lei.
Irene sgranò gli occhi per lo stupore.
«Sì, proprio così! Come fa a saperlo?»
«Il rapporto della scientifica era molto chiaro in proposito. Nonostante le condizioni in cui versava il corpo, ha escluso ogni dubbio sul fatto che potesse non appartenere a sir Arthur».
«Vede, signora Lane» continuò Watari, «Arthur aveva previsto che sarebbe potuto succedergli qualcosa in circostanze misteriose e mi ha pregato, tramite la sua lettera, di far luce sulla sua morte. In veste di amico, vorrei realizzare il suo ultimo desiderio. Le chiedo quindi di fidarsi di noi e di fornirci il suo aiuto».
Irene li guardò entrambi. La reticenza scomparve completamente dal suo viso, che parve rifiorire.
«Ma certo!» acconsentì con vigore, «farò tutto il possibile, se può essere d’aiuto a sir Arthur! Non esitate a chiedere!» esclamò con entusiasmo. «Vi confesso che avere qualcuno con cui condividere questo segreto mi fa sentire molto meglio… insieme all’altro fatto che successe quella notte» aggiunse tornando seria. «Signor Ryuzaki, non ho finito il mio racconto. Lei prima ha accennato agli specchi. Ebbene, non ne troverà uno in questo maniero. La notte in cui sir Arthur è mancato sono scomparsi tutti, dal primo all’ultimo».
 
 
Nel frattempo, Linda aveva raggiunto Rossella nella sua camera. Si buttò sul letto dell’amica e, incrociate le braccia dietro la testa, esalò un sospiro di soddisfazione.
«Aah, ma hai visto che roba? La cameriera prima di andarsene mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa, e le ho chiesto un tè. Me l’ha servito in un servizio di porcellana di Limoges. Che meraviglia! Per non parlare del letto. Non mi era mai capitato di dormire sotto un baldacchino. Queste stanze sono un sogno!».
«Non siamo mica qui in vacanza! Dobbiamo scoprire chi sta minacciando la nostra cliente, e nel frattempo vigilare perché non le succeda nulla».
«Beh, nulla vieta di goderci gli annessi e connessi. E poi, se quel tizio è imbranato come hai detto, dubito che ci abbia seguito fin qui. Non credo che Kathy corra pericoli. Questo incarico é proprio una pacchia».
Rossella si rabbuiò. Non era della stessa idea di Linda, dopo aver appreso da L l’orrore che aleggiava intorno alla morte di sir Arthur Cavendish.
«Ancora con quel muso?» la stuzzicò Linda. «Davvero, dovresti prendere in seria considerazione l’idea di passare mezz’ora al giorno davanti allo specchio ed esercitarti ad assumere almeno una seconda espressione. Suggerirei uno sguardo ammaliante. Potrebbe farti comodo, all’occorrenza! Se non altro, anche solo per il fatto che per una settimana convivrai sotto lo stesso tetto con un certo ragazzo che un tempo ti faceva girare la testa e…»
«Ma la vuoi piantare?» la interruppe Rossella con una voce stridula assolutamente inusuale per lei.
Linda rise, soddisfatta di aver colto nel segno.
«E comunque qui di specchi non ce ne sono» proseguì la detective controllando nuovamente la voce.
Era vero. Non appena era rimasta sola, si era guardata intorno alla disperata ricerca di qualcosa con cui controllare il proprio viso. Da quando aveva rivisto L aveva avuto la sensazione di non riuscire più a dominare i muscoli facciali, di essere ridiventata per lui un libro aperto. Purtroppo, non aveva trovato nulla con cui poter verificare: non vi erano specchi, né alle pareti, né sul mobile da toeletta, né nel bagno attiguo alla stanza.
«Niente specchi? Impossibile. Hai guardato nell’armadio?».
Linda accompagnò la frase scendendo dal letto e andando ad aprire le ante, che però rivelarono solo il legno nudo.
«Però prima c’era, guarda qui» disse mostrando all’amica i fermi che avevano sorretto la lastra.
«Anche lì e lì» aggiunse, indicando lo spazio vuoto sulla parete opposta e al di sopra del mobile da toeletta.
Infatti, sia sull’uno che sull’altra la tappezzeria di broccato riportava una sagoma più chiara rispetto al resto.
«Va be’, poco male. Puoi usare quello nella mia camera. Anche se, a dire il vero… aspetta un po’!».
Senza aggiungere altro, Linda uscì in fretta dalla camera di Rossella. Quando vi fece ritorno aveva un’aria tra il perplesso e il divertito.
«Ci credi? Anche da me non c’è nemmeno l’ombra di uno specchietto. O meglio, l’ombra c’è: quella lasciata dagli specchi che sono stati tolti, come qui. Davvero buffo, vero? Che peccato, dovrai rinunciare agli esercizi».
Rossella evitò di fare dell’ironia sull’ultima frase ed esaminò l’impronta lasciata dalla specchiera del mobile da toeletta.
«E’ impossibile giudicare se è frutto di un lavoro recente. La governante ha detto che non vengono mai ospiti, quindi queste camere non sono usate di frequente. Magari gli specchi mancano da chissà quanto tempo. Chiediamo a Kathy dove possiamo trovarne uno, lei lo saprà».
«Che fretta! Allora il mio consiglio ti interessa sul serio!» la schernì Linda.
«O magari non mi piace lavarmi i denti alla cieca».
Però, quando chiesero a Kathy, la faccenda prese una piega ancora più strana.
«Sapete, quando sono entrata ho notato subito una cosa singolare. Avete fatto caso a come era buio il salone dello scalone principale?» chiese la ragazzina, dopo averci pensato un po’ su.
Le altre due annuirono, e lei proseguì.
«Voi non potete saperlo, perché non siete mai state qui prima, ma le semicolonne lungo le quattro pareti, da che ricordo, sono sempre state inframmezzate da enormi specchi d’argento alti fin quasi al soffitto. Visto che ci sono poche finestre, servivano per riflettere la luce dei lampadari e delle applique in modo da rischiarare tutto l’ambiente. E facevano così bene il loro dovere che, se al maniero si doveva tenere un ricevimento o un ballo, sicuramente era in quella sala. Ora è così cupa perché gli specchi non ci sono più».
«Gli specchi d’argento a volte hanno bisogno di manutenzione. Magari sono stati tolti per quello».
«Può essere. Però non mancano solo loro. Anche la mia stanza ne è priva. E pure il corridoio. Come faccio?»
«Be’, devi resistere solo per pochi giorni, non è una tragedia»
Kathy sbuffò imbronciata. Evidentemente non la pensava così. Rossella, dall’idea che si era fatta della cliente, ipotizzò che alla ragazza non andasse molto a genio non potersi acconciare adeguatamente i riccioli biondi, nemmeno se lì nella tenuta deserta non c’era nessuno per cui mettersi in mostra. In altre circostanze avrebbe giudicato fastidiosa tanta civetteria, ma nel caso di Kathy quell’atteggiamento le strappò un sorriso. Quella vanità le sembrava perfettamente in linea per una come lei, addirittura obbligatoria.
Già, ma perché? si chiese.
Per qualche ragione, le sembrava un particolare importante. Per deformazione professionale cercò di darsi una spiegazione, ma per il momento non giunse a nulla di concreto.
«Uff, vado a chiederne uno a Irene» disse la ragazza in questione, saltando giù dallo sgabello troppo alto per lei.
E’ davvero piccola e minuta, pensò Rossella, e le parve che questo particolare avesse una connessione con il suo ragionamento precedente. Tuttavia, il collegamento non ne volle sapere di scattare nella sua mente. Rimase lì, in un angolino, come un sassolino fastidioso.
 
Non appena Kathy se ne fu andata le due ragazze, finalmente sole, uscirono sul corridoio. Da quando era entrata nel maniero, Rossella moriva dalla voglia di far luce sul mistero della testa di bambola appesa all’abbaino in cima al tetto. Non aveva pensato nemmeno per un momento di dubitare delle parole di Linda. Lo spirito di osservazione della pittrice era davvero fuori dal comune, e se era convinta che prima la testa non ci fosse stata era quasi impossibile che si fosse sbagliata.
«Secondo te da che parte dobbiamo andare per raggiungere l’abbaino?» chiese all’amica.
«Dunque: dall’ingresso, per arrivare qui abbiamo risalito lo scalone di sinistra, poi abbiamo girato di nuovo a sinistra percorrendo un corridoio fino al fondo, e infine a destra. Quindi ora ci troviamo nell’ala secondaria, quella rinascimentale. L’abbaino invece dava verso la facciata principale. Dobbiamo tornare indietro e salire fino alla mansarda. E’ vero che le costruzioni medievali presentano di solito una pianta interna irregolare, ma dall’idea che mi sono fatta dell’edificio basandomi sulla posizione delle finestre credo di riuscire ad orientarmi» rispose Linda.
Sembrava piuttosto sicura di sé.
«Lo sapevo che i tuoi occhi mi sarebbero stati utili! Bene, fammi strada» esclamò la detective con uno scintillio negli occhi, pregustando l’indagine.
Notò lo sguardo sorpreso dell’amica e si rese conto che il proprio autocontrollo aveva fatto nuovamente cilecca. Che le stava succedendo? La presenza di L la stava turbando più di quanto credesse?
«Da quando in qua hai perso la tua calma glaciale? Sprizzi impazienza da tutti i pori!» le chiese Linda, a conferma del fatto che non era stata solo una sua impressione.
«E’ solo perché questo caso mi incuriosisce particolarmente. Andiamo» tagliò corto Rossella, appuntandosi però mentalmente di stare più attenta in futuro.
«Ok» disse Linda alzando gli occhi al cielo, «se non altro avere così pochi domestici intorno ci permetterà di muoverci liberamente. Ad ogni modo, teniamo gli occhi aperti».
 
Come aveva predetto Linda, raggiunsero l’ala principale indisturbate. Evitarono la sala d’ingresso, dove era piazzata una telecamera, e dal primo piano presero una scala secondaria che le condusse a quello superiore senza problemi. Da qui Linda, basandosi dalla porzione di paesaggio che vedeva dalla finestra, giudicò di essere, in linea d’aria, approssimativamente sotto l’abbaino desiderato. Purtroppo, non scorgeva nessuna scala per poter raggiungere il sottotetto. Si guardò un po’ intorno, poi si diresse a passo sicuro verso la direzione in cui, se la pianta dell’edificio che si era immaginata era corretta, avrebbe dovuto trovarsi la torre di destra. Ma ad un tratto parve insicura, si fermò, si guardò nuovamente intorno e cambiò strada.
«Dove stiamo andando?» le chiese Rossella.
Era da un po’ che aveva l’impressione che si stessero dirigendo nella direzione sbagliata.
«C’è un problema. Dobbiamo salire ancora, ma non vedo scale. Probabilmente l’interno del castello è stato modificato nei secoli, ma da questo piano in poi è rimasto intatto. Quindi, niente scaloni atti puramente a soddisfare la vista, che fanno parte di una concezione di un’epoca successiva a quella medievale. A quel tempo, le scale dovevano rallentare un’eventuale invasione da parte del nemico, ed essere anguste e facilmente difendibili. Credo che, se vogliamo una scala, dobbiamo cercarla nella torre. Il problema è che… non vedo nessun accesso! Eppure la torre dovrebbe trovarsi proprio qui, dietro a questo muro».
Linda saggiò con le nocche la parete di pietra nuda, come a cercare un’eco che confermasse la sua teoria. Continuò per un buon tratto senza risultato finchè, con sorpresa, non udì un leggero raspare provenire da dietro il muro. Anche Rossella l’udì, e si fece attenta.
«Ma che cos’è?»
«Non ne ho idea. Un topo, forse. Anche se mi sembra improbabile. Questi muri non dovrebbero essere cavi».
Linda non aveva ancora finito la frase, che da dietro il muro udirono provenire un breve colpo. Era come se qualcuno avesse appena battuto dall’interno contro la pietra. Le due ragazze si guardarono perplesse.
«Forse è un picchio che sta cercando insetti sul lato esterno» disse Linda.
L’ipotesi però non reggeva. Rossella studiò l’amica e non si sforzò molto per capire che lei stessa era poco convinta delle proprie parole, anche se non voleva darlo a vedere. Il motivo era ovvio: non c’era bisogno di aver studiato storia dell’arte come Linda per sapere che i muri dei castelli, specialmente quelli esterni, erano spessi più di un metro. Il rumore che avevano udito invece era parso molto vicino, quasi come se la fonte si fosse trovata all’interno del muro stesso.
La detective, incuriosita, tastò la parete in più punti, sperando di poter udire di nuovo lo strano fenomeno. Fece scorrere le mani sullo spazio libero tra due arazzi, fermandosi infine su una pietra che pareva più consunta delle altre e premendo con forza. In quel momento si udì uno scatto, e un’intera sezione della parete si aprì improvvisamente verso l’interno facendola cadere in avanti.
«Oops! Credo di essere stata io» disse Linda, sollevando un lembo del tappeto dove aveva appoggiato il piede un attimo prima, e rivelando un pulsante nascosto sotto, «Fantastico, un passaggio segreto! Ma allora esistono davvero»
«Abbiamo trovato la scala!» esclamò Rossella da terra, indicando i gradini di altezze irregolari che salivano lungo la torre.
Si rialzò spolverandosi la gonna alla meno peggio. La polvere regnava un po’ ovunque nel maniero – i poveri domestici evidentemente si erano prodigati per mantenere immacolate solo le aree che avrebbero dovuto frequentare gli ospiti – ma l’interno della torre sembrava abbandonato addirittura da anni. Nella lama di sole che filtrava dalle feritoie danzava un pulviscolo fitto e dorato, e la pietra in più punti era ricoperta da uno strato di ragnatele così compatto da sembrare un panno. Linda entrò nell’antro guardandosi intorno eccitata.
«Oddio, che fascino macabro! Aspetta, non possiamo passare così come se niente fosse!»
E, detto fatto, estrasse un blocchetto dalla tasca dei jeans e tracciò rapidamente uno schizzo in prospettiva della scala che si inerpicava lungo la torre.
Rossella non era altrettanto entusiasta. Linda sembrava essersi dimenticata completamente del rumore misterioso che avevano sentito poco prima, ma la detective osservò pensierosa il muro. Linda aveva ragione: la parete, vista in sezione, era spessa almeno un metro ed era impossibile che fosse cava. Se il grattare era stato prodotto da un topo, doveva essere stato bello grosso.
«Andiamo, non vedo l’ora di scoprire com’è il sottotetto!» esclamò Linda cominciando a salire con impazienza.
Rossella si apprestò a seguirla, quando un bisbiglio, più simile al fruscio di un vento leggero che ad una voce vera e propria, le gelò il sangue.
 
«…R…»
 
Si voltò di scatto con un lampo di paura negli occhi, ma non vide nulla se non polvere e ragnatele. Non appena il battito del suo cuore riprese una cadenza regolare uscì nel corridoio, ma lo trovò deserto. Non aveva sentito passi allontanarsi, ed escluse che prima potesse esserci qualcuno. Rimase per un po’ in ascolto aspettando – o temendo – di risentire il bisbiglio, ma il silenzio rimase intatto.
La ragazza restò per un po’ ferma sul posto, indecisa sul da farsi. Da una parte il suo spirito investigativo la spingeva a cercare una spiegazione, dall’altra un timore crescente – non era mai stata troppo coraggiosa – le diceva di togliersi al più presto da lì. Era davvero il suo nome, quello che credeva di aver sentito? Alla fine il secondo sentimento prevalse, e Rossella spiccò una corsa su per le scale, fino a che non raggiunse Linda sul pianerottolo del sottotetto.
Da dove si trovavano partiva un corridoio stretto, lungo quanto tutta la facciata del maniero e buio pesto. Rossella tirò fuori dalla tasca della gonna una piccola torcia elettrica preparata per l’evenienza. Subito il fascio di luce mostrò che su un lato del corridoio si affacciavano alcune porte.
«Credo che quelle porte appartengano alle stanze con gli abbaini» disse Linda. «Ne avevo contati cinque, ma qui vedo solo quattro porte».
«Non è detto che ad ogni stanza corrisponda un solo abbaino. Magari ce n’è una più grande delle altre».
Linda provò a girare la maniglia della porta più vicina, ma non si aprì.
«Chiusa… chiusa… chiusa anche questa».
L’ultima maniglia finalmente girò. Le due ragazze si affacciarono con circospezione nella stanza, che però si rivelò essere completamente vuota. Era un tipico sottotetto con il soffitto spiovente, che un tempo poteva essere stata la camera da letto di un membro della servitù. L’abbaino illuminava bene l’ambiente nel sole pomeridiano e rendeva del tutto inutile la torcia elettrica. Sul pavimento, uno spesso strato di polvere dimostrava che la stanza non era frequentata da tempo. Linda andò ad aprire la finestra e si affacciò.
«Il nostro abbaino è quello al centro: vedo la testa della bambola!» disse.
«Non mi spiego come ha fatto a finire là. Anche nel corridoio c’è lo stesso strato di polvere che c’è in questa stanza, ma prima che passassimo noi non c’era nemmeno un’impronta. Guarda invece noi quante ne abbiamo lasciate. Se fosse passato qualcuno, avremmo dovuto trovare delle tracce».
«Forse chi ha messo lì la testa è passato dal tetto».
«E’ improbabile. Il tetto è chiuso ai lati dalle due torri. Per salirci bisogna per forza uscire da uno degli abbaini…»
Rossella si affacciò alla finestrella insieme a Linda per cercare di capire se potesse esserci un’altra via di accesso, sgomitando per infilarsi nello spazio tra l’amica e l’intelaiatura.
«Fai vedere anche a me. Kathy mi ha detto che la testa della sua bambola è sparita. Se fosse quella, allora significherebbe che il molestatore è qui».
 
«…R…»
 
La voce improvvisa alle sue spalle la spaventò così tanto che Rossella cacciò un urlo che rimbombò per tutta la stanzetta e il corridoio, e contemporaneamente si alzò di scatto battendo la testa contro il bordo superiore dell’abbaino.
«Oh, scusa! Mi ero dimenticato che non dovevo chiamarti così! Non lo farò più. Però la tua reazione mi sembra eccessiva, detective Andreoli» le disse L.
Rossella portò entrambe le mani al punto in cui avvertiva un dolore lancinante per la botta presa, e lo guardò in cagnesco.
«Ma se l’hai appena rifatto, detective Ryuzaki! E poi ti sembra il caso di sbucare in questo modo alle spalle della gente?» gli sibilò.
«Di solito se ci si spaventa è perché si sta facendo qualcosa per cui si teme di essere scoperti. Non starai per caso gironzolando di nascosto in casa d’altri, Rossella? Ma non ti preoccupare, anch’io sto gironzolando di nascosto, quindi non dirò nulla».
L’aria innocente con cui lo disse la mandò in bestia. Stava usando la sua stessa tecnica di analisi per prenderla deliberatamente per i fondelli. Rossella, tra la rabbia e lo spavento, sentì che in quel momento avrebbe potuto tranquillamente afferrarlo per quel collo striminzito e stringere fino a porre fine a tutte le sue sofferenze… se solo non l’avesse trovato così dannatamente attraente. Finì che, invece di rispondergli per le rime, si ritrovò a fissargli imbambolata le labbra senza riuscire a distogliere lo sguardo, desiderando solo di cadergli tra le braccia come una pera cotta.
«Come hai fatto ad arrivare qui?» gli chiese Linda.
«Sono salito al piano superiore ed ho visto l’apertura nel muro. Ho sentito le vostre voci, e sono entrato. Rossella, posso parlarti un momento?»
La ragazza sentì che L non era del tutto sincero. Non si sarebbe stupita se le avesse messo addosso un localizzatore. Ripensò a quando aveva accennato al fatto che se le cose si fossero messe male avrebbe provveduto a metterla al sicuro, e si domandò se non la stesse sorvegliando per proteggerla. Scacciò l’idea; immaginare che L si stesse preoccupando davvero per lei era pura utopia. Sicuramente l’aveva detto solo come espediente per convincerla a rimanere, sapendo che era una paurosa. Era più probabile che le avesse seguite per evitare di perdersi qualche indizio.
Linda invece non appena udì le parole di L vide una splendida occasione per lasciare da soli i due ragazzi, e in men che non si dica imbastì una scusa e se ne andò.
Rossella non ne fu per niente felice. A parte il fatto che quella stanzetta spoglia e polverosa era ciò che di più lontano poteva esserci dall’idea che aveva di luogo adatto ad un appuntamento, non aveva ancora scacciato del tutto la paura per il bisbiglio che credeva di aver sentito, e avrebbe preferito di gran lunga avere intorno più gente possibile. Ma non fece in tempo a dire nulla che Linda era già sparita.
La detective pensò che se l’amica avesse avuto anche solo un minimo delle sue capacità di analisi avrebbe capito l’inutilità del suo gesto; L era tutto cervello e niente romanticismo, non c’era nulla da fare.
«Hai sicuramente svolto delle ricerche su David Warwick, non è così?» le chiese infatti il ragazzo senza preamboli.
La ragazza notò un curioso particolare nel modo in cui era stata costruita la frase: iniziava con un’affermazione, con quel “sicuramente” a sottolinearne la convinzione, ma terminava con un dubbio.
Non ammetterai mai apertamente di avere delle incertezze, vero? pensò divertita. Del resto però questo suo lato le piaceva. Nonostante la sua stravaganza, L era intraprendente e sicuro di sé e non ammetteva debolezze.
«Sì, è vero. Ho ricostruito i suoi spostamenti» ammise.
«Anch’io. Allora sarai giunta alla mia stessa conclusione».
«Le tracce di David Warwick conducono qui al maniero, e qui si fermano».
«Esatto. C’è una buona probabilità che lo troveremo qui. Lui… o ciò che ne resta».
Rossella avvertì un brivido scorrerle lungo la schiena.
«Pensi che gli sia successo qualcosa?»
«Non abbiamo prove che sia veramente lui quello che ha contattato il notaio. Direi che abbiamo il 95% di possibilità di trovarlo. E il 50% di possibilità di trovarlo vivo».
50%? In pratica, o la va o la spacca. Bel modo di non sbilanciarsi, pensò la ragazza.
«A proposito, come mai siete salite fin quassù?»
«Ecco… Linda ha notato la testa di una bambola appesa ad uno degli abbaini».
Rossella raccontò ad L di come la testa fosse comparsa misteriosamente dopo il loro arrivo, e di cosa era successo nei giorni precedenti a Kathy.
«Ma forse queste cose le sai già. Quando hai detto a Kathy di telefonarmi stavi già tenendo d’occhio la sua casa, vero?»
«Ho approfittato del fatto delle rose per avvicinarla e parlarle».
Anche in questo caso la risposta era stata evasiva, ma Rossella non riuscì a decifrare se fosse perché L voleva mantenere un vantaggio su di lei o se era una semplice ripicca perché si era accorto che lei, a sua volta, si era tenuta qualche dettaglio. Ad ogni modo, la cosa non le piaceva. Fra di loro non c’era empatia. Era come se si stessero sfidando. Provò a concentrarsi per ristabilire il contatto che si era creato quando si erano appena rivisti nello spiazzo davanti al maniero, ma non riuscì ad andare oltre il livello più superficiale di unione. Sospirò delusa. Quel legame era stato così bello… Per un attimo, l’aveva sentito completamente suo.
«Da ciò che mi hai raccontato l’individuo che importuna la tua cliente è piuttosto particolare. Che idea ti sei fatta?» le chiese lui.
«Uhm… mi sembra inesperto… e piuttosto infantile. Non si è curato di nascondere indizi che potessero condurre a lui. E’ come se non avesse nemmeno pensato che Kathy avrebbe potuto sottoporre la lettera alla polizia. Ad ogni modo, le impronte non corrispondono a nessuna di quelle già schedate. Evidentemente il nostro uomo è incensurato. Però ci serviranno, se avessimo bisogno di confrontarle con quelle di un ipotetico sospettato».
«E poi?» la incalzò il ragazzo.
«Beh… ho come la sensazione che i profili psicologici di Kathy e di questo tizio siano stranamente simili».
L la fissò a lungo, e lei cominciò a sentirsi a disagio sotto quegli occhi scuri e indecifrabili. Poi le si avvicinò ulteriormente.
«Rossella, da quando in qua mi nascondi le tue opinioni?»
«C… che vuoi dire?»
Si accorse che la voce le tremava, e maledisse la sua indole emotiva. Cinque anni di espressioni impenetrabili e voce controllata erano appena andati a farsi friggere.
«Tu non sei una che si ferma ai presupposti. Cerchi delle risposte. Quindi, quali sono le tue conclusioni?»
La ragazza ebbe la sensazione che quel discorso si fosse trasformato in un interrogatorio. Si chiese fino a che punto sarebbe stato capace di spingersi L se non avesse ottenuto ciò che voleva, e decise che non sarebbe stata lei la prima a scoprirlo. Del resto, era sciocco continuare con quell’inutile presa di posizione da parte di entrambi. Forse, se avesse messo da parte l’orgoglio e l’avesse accontentato sarebbe riuscita a muovere il primo passo per ristabilire il rapporto che esisteva un tempo fra loro due, quell’affinità che li faceva cooperare come se fossero stati una mente sola.
«Se è così, ti consiglio di tenere d’occhio la tua cliente. Anzi, è meglio se torniamo subito da lei. Penseremo dopo alla bambola» disse L quando Rossella terminò di dirgli tutto ciò che voleva sapere.
Si avviarono lungo il corridoio, buio pesto come una grotta.
«Linda si è portata via la torcia. Non si vede un tubo» protestò la ragazza.
«Ho dei fiammiferi».
L ne accese uno e si avviò spedito per il corridoio. L’ambiente angusto faceva sì che la piccola luce della fiammella che teneva davanti a sé rimanesse completamente nascosta dal suo corpo, così Rossella fu costretta a proseguire a tentoni.
«Aspetta, non vedo nulla!» gli gridò.
Lui tornò indietro e la prese per mano.
«Seguimi» le disse semplicemente.
Rossella per poco non inciampò per la sorpresa. Non poteva crederci: quello che aveva desiderato per anni era accaduto in un attimo, con una naturalezza disarmante. Si morse la lingua per non rispondergli un languido “Sì, ovunque vuoi”, e gli trotterellò dietro concentrandosi unicamente su quel contatto con il cuore che le batteva all'impazzata. Il corridoio, che prima le era sembrato interminabile, parve finito in un attimo quando si ritrovarono nuovamente nella torre illuminata dal sole.
«Hai paura?» le chiese lui.
«Per nulla, perché?» gli rispose lei sorpresa, ma quando seguì la direzione del suo sguardo si accorse che gli stava ancora stringendo la mano e capì il motivo della domanda.
«Ah, scusa!» strillò imbarazzata mollando la presa.
Ma cosa urli, scema! si disse, accorgendosi per l'ennesima volta di non poter controllare la propria voce. Cosa credevi, di scendere per tutta la torre abbracciati come Paolo e Francesca?
Lo precedette per le scale, evitando di studiarlo per capire cosa stesse pensando di lei dopo la gaffe che si era appena fatta, e scordandosi pure di accennargli degli strani rumori che aveva sentito.
 
Per tutto il pomeriggio Rossella e Linda rimasero in allerta e sorvegliarono Kathy senza darlo troppo a vedere, come aveva suggerito L. Non fu difficile, visto che la ragazzina passò il tempo a raccontare loro vari aneddoti sul maniero. Sembrava che ogni oggetto  e ritratto le ricordassero qualche storiella riguardante i giorni trascorsi al castello con il nonno e il fratello. L, da parte sua, chiese a Watari di tenersi pronto in caso di emergenza.
Il tempo trascorse tranquillo fino alle cinque, quando gli ospiti furono invitati a riunirsi nel salottino e Irene e Cheryl servirono il tè. I dolcetti e i biscotti che lo accompagnavano, bellissimi da vedere e deliziosi al palato, suscitarono un mare di complimenti per la signora Lauper.
E’ a tavola che si rivela la vera personalità di un individuo: Rossella spremette ben tre limoni nella sua tazza e non aggiunse zucchero, lamentandosi che, nonostante ciò, non riusciva a togliere quella punta di dolce tipica del tè alla rosa; L, al contrario, trasformò il suo tè in una sostanza sciropposa a forza di aggiungere zollette; Watari, da quel signore che era, sorbiva la bevanda lentamente, ad occhi socchiusi, calmo, metodico; tutta l’attenzione di Linda era invece rivolta alla finezza del servizio in porcellana e all’estetica del mobilio del salottino; Kathy sceglieva i biscotti più delicati, li immergeva nella tazza e li portava alla bocca masticando piano, sorridendo timida ma con quella punta di civetteria che aveva dato tanto da pensare a Rossella.
Le giornate si erano accorciate notevolmente, e nonostante fossero solo le cinque e mezza il sole era appena tramontato. Il lampadario di cristallo al centro del soffitto, grande abbastanza da sorreggere un tempo un centinaio di candele ma ora alimentato a corrente elettrica, illuminava la stanza.
Ad un tratto la luce si spense e il salotto piombò nel buio, troncando a metà l’arringa di Linda sui cristalli di Boemia e strappando un gridolino alle altre due ragazze.
«Che succede, è saltata la luce?» chiese qualcuno.
«No, è stata spenta. Ho sentito chiaramente scattare l’interruttore» rispose Watari.
Però, prima che qualcuno potesse avere il tempo di reagire, le pesanti tende di lino ricamato si chiusero, tagliando fuori anche la poca luce crepuscolare e rendendo totale il buio.
In quell’oscurità impenetrabile qualcuno camminò rapido fino al tavolino e avvicinò una mano alla tazza di Kathy per versarvi dentro il contenuto di una misteriosa bustina.
In quel momento uno sparo squarciò il silenzio, e pochi istanti dopo Rossella accese la luce. Inginocchiato a terra c’era ora un ragazzo biondo che si stringeva la mano ferita.
I quattro investigatori si tolsero i visori a infrarossi che stavano indossando e Watari posò il fucile munito di mirino di precisione con cui aveva appena fatto saltare la bustina dalla mano del giovane sconosciuto.
Il ragazzo rimase a terra, con un viso comicamente imbronciato. Rossella a guardarlo quasi scoppiò a ridere; sembrava un bambino che stesse per dire: «Brutti cattivi, mi avete scoperto! Con voi non gioco più!». L’indole infantile del giovane era così palese che combaciava perfettamente con il profilo psicologico che la ragazza aveva ipotizzato per il presunto stalker di Kathy.
«David Warwick, suppongo» disse rivolta al nuovo arrivato.
Il ragazzo sbuffò e guardò altrove. Non ricevendo risposta, Rossella si rivolse nella direzione di Kathy per avere conferma... e si bloccò come se avesse visto un fantasma: la ragazza bionda, spaventata dal buio improvviso e dallo sparo, si era accoccolata accanto alla persona a lei più vicina, ovvero L; quest’ultimo le aveva passato un braccio intorno alle spalle in un gesto protettivo e la stava stringendo a sé. Alla vista del romantico quadretto, quel qualcosa che era rimasto latente per tutto il pomeriggio nella mente della detective finalmente scattò e tutti i pezzi andarono al loro posto: piccoletta, minuta, carina, capelli biondi, occhi azzurri, visetto tondo, voce squillante e un pizzico di civetteria. Insomma, come aveva fatto a non pensarci prima? Kathy assomigliava moltissimo a Misa Amane!
Rossella sentì le gambe diventare molli come chewing-gum scivolò piano piano lungo lo stipite della porta fino a ritrovarsi seduta a terra. Si scordò temporaneamente di tutto, indagini, rumori, voci misteriose, perfino del nuovo arrivato. A quanto pareva, una pericolosa rivale le aveva appena messo i bastoni tra le ruote!

 
 
Commenti personali
Mentre cercavo informazioni sul fatto che un “Sir” possa essere anche un “Lord”, mi sono imbattuta in una curiosa regola che ignoravo: l’appellativo “Sir” non può mai essere seguito dal solo cognome! O si pospone il nome da solo, oppure nome + cognome. In pratica, ho dovuto correggere tutti i capitoli precedenti in cui avevo scritto sir Cavendish  >.<
Comunque sì, un Sir può essere anche Lord ^^ Almeno questa l’ho azzeccata. E, siccome Sir è il titolo onorifico dei cavalieri, da qui il benvenuto di Irene, che accoglie gli ospiti nella “residenza dei cavalieri di Green Haven”.
 
Veniamo al capitolo: è superficiale, me ne sono resa conto quando ho riletto. Però non ho potuto fare a meno di strutturarlo così; se avessi inserito anche la sequenza successiva sarebbe diventato troppo lungo, e con la mia lentezza da bradipo avrei pubblicato verso settembre o giù di lì, facendo credere a tutti di aver abbandonato definitivamente questa storia. Diciamo che è un capitolo di preparazione per ciò che succederà nel prossimo, quando la trama acquisterà finalmente un pizzico di horror.
 
Riguardo L, come avrete notato evito costantemente il POV. Non riesco proprio ad entrare nella sua testa, già scrivere quello straccio di dialoghi mi costa parecchia fatica. In alcuni punti ho cercato di approfittare dell’humor tutto particolare di questo personaggio, che nel manga emerge in più punti ma che nell’anime, purtroppo, è stato tagliato fuori quasi completamente. Non potendo usare il suo POV, però, L perde la scena rispetto ad R, e sembra relegato a ruolo di personaggio secondario. Devo sforzarmi di dargli più spessore.
A proposito, vi sembra esagerato il gesto di L verso Kathy? Probabilmente sì. Ma è solo un momento, suggerito dal fatto che L, nel libro “L change the world”, custodisce parecchio merchandising di Misa addirittura in uno scomparto segreto, ah ah! Dubito che premure del genere verso Kathy si ripeteranno nel resto del racconto.
In quanto ad R… ahimè, ma perché quando c’è di mezzo L non si fida del proprio dono? Capirebbe che con lui proprio non ce n'é!

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Capitolo 5
*** La stanza oltre lo specchio ***


CAPITOLO 4 – LA STANZA OLTRE LO SPECCHIO

 
«Signorina, cosa le succede? Non si sente bene?», esclamò David Warwick correndo verso Rossella non appena la vide a terra, chinandosi preoccupato accanto a lei. «Venga, si appoggi a me».
La aiutò ad alzarsi e l’accompagnò con precauzione fino al divano, dove la fece distendere perché si riprendesse. Rossella lanciò un’occhiata ad L e Kathy e vide che i due non erano più l’uno accanto all’altra. Quasi si persuase che fosse stato solo un sogno.
Che sciocchezza, non è evitando di affrontare la realtà che migliorerò le cose, pensò.
Kathy ricordava parecchio Misa Amane, ed L era un suo fan. A ben pensarci, non c’era stato nulla di strano in ciò che aveva fatto. Lei stessa, se Hugh Jackman avesse tentato di abbracciarla – magari nei panni di Wolverine – non si sarebbe certo tirata indietro. Rossella concluse che quella di L era stata una reazione del tutto naturale, punto e basta. Ma qualcosa di innaturale comunque c’era stato, ovvero la lentezza con cui era giunta a questa conclusione e la reazione esagerata che aveva avuto alla vista dei due vicini. Tanto per cominciare, perché era addirittura scivolata a terra? Lo shock era stato così grande da cancellare in un sol colpo l’abitudine a celare le emozioni? In poche ore era passata con una velocità sorprendente da una perfetta padronanza del proprio corpo alla totale perdita di controllo. Si chiese se la causa di una tale uscita dai binari fosse veramente solo la presenza di L.
 
Non possono più vedermi, ma in qualche modo mi percepiscono e mi controllano.
 
Così aveva scritto lord Cavendish nella lettera per Watari. Sul momento Rossella l’aveva giudicata un’assurdità, ma forse avrebbe fatto meglio a riconsiderare la questione. In effetti, si sentiva confusa. Provò a verificare se mente e ricordi rispondevano a dovere, ma poi vi rinunciò. L’auto-psicanalisi era una causa persa, era risaputo. E, inoltre, il comportamento di David Warwick contribuiva non poco ad aumentarle la confusione. A quanto pareva il ragazzo, dotato di spirito cavalleresco allo stato puro ed eccessivamente premuroso verso le donne per natura, aveva scambiato la sua caduta – nient’altro che una conseguenza a uno stimolo emotivo – per qualcosa di molto più grave di ciò che era in realtà.
«Irene», ordinò infatti alla governante, accorsa nel frattempo, «portami dell’ammoniaca e qualcosa di fresco da farle bere, presto!»
«Ma no, sto bene, non è il caso!», cercò di spiegare la ragazza alzandosi a sedere.
«Stia giù, per carità!», gridò lui forzandola a sdraiarsi di nuovo, «è tutta colpa mia! Si è spaventata per la mia irruzione. Mi dispiace, mi dispiace!», esclamò con un tono identico a sua sorella quando si era accorta di aver fatto colare l’acqua sul pavimento dell’agenzia investigativa.
Rossella non poté fare a meno di obbedire, travolta dall’impeto del ragazzo. La situazione aveva preso una piega surreale: quel pomeriggio, in soffitta, lei ed L avevano convenuto che lo stalker di Kathy non poteva che essere il fratello di quest’ultima, e si erano preparati per ogni evenienza allertando anche Watari e Linda. Ora David Warwick era stato catturato, quindi, in teoria, a Rossella non rimaneva che inchiodarlo in un interrogatorio e costringerlo a confessare le sue colpe; invece la ragazza si ritrovò a fissare i suoi occhi azzurri pieni di premura e preoccupazione e a pensare a quanto fossero piacevoli le sue mani che le stavano praticando un massaggio alle tempie, nel tentativo di scacciare un incipiente svenimento che vedeva solo lui, mentre infarciva il discorso di scuse e “mi dispiace”.
All’ennesimo “mi dispiace”, però, David parve incespicare sulla frase e, tra lo stupore dei presenti, cominciò a balbettare all’infinito la sillaba iniziale come un disco rotto. Quando finalmente riuscì ad attaccare la seconda parola, si intoppò nuovamente spruzzando saliva ad ogni “d” e “p” – inconveniente di cui però questa volta evitò di scusarsi, perfino quando Rossella si asciugò discretamente il viso con la manica.
Kathy, l’unica fra i presenti che conosceva il difetto del fratello, invece scoppiò a ridere.
«Finalmente ce l’hai fatta ad arrivare, Dave Tartaglia! Come va?», lo salutò usando il soprannome che David odiava tanto.
«Zit… t… ta, d… d… d…», farfugliò lui voltandosi inviperito verso la sorella. La faccia gli si contorse nello sforzo di buttar fuori la parola che non voleva saperne di formarsi correttamente nella sua bocca.
«Divina creatura?», lo stuzzicò lei.
«… d… deficiente!», terminò finalmente lui lanciandole uno sguardo di fuoco.
«Non ti innervosire, lo sai che altrimenti la tua balbuzie peggiora!», insistette Kathy continuando a canzonarlo, dando modo a Rossella di scoprire un altro tassello del suo carattere: quando si rivolgeva al fratello, forse grazie alla confidenza che c’era fra di loro, Kathy non era né timida né impacciata. Al contrario, David nei momenti di tensione sembrava molto più insicuro di lei. Ma la sua analisi terminò lì, perché L senza perdere altro tempo si avvicinò al ragazzo e gli imprigionò i polsi con un paio di manette.
«Rossella, che stai facendo, ti distrai invece di rendere inoffensivo il tuo indiziato?», disse rivolgendosi alla detective.
«I… i… in… diz… zzz… ziato? Che significa?», esclamò David sgranando gli occhi e guardando meravigliato le manette.
Rossella si riscosse, liberandosi dalle cure del ragazzo e alzandosi dal divano.
«Significa che sei in stato di fermo con l’accusa di minacce, violazione di domicilio e atti di vandalismo verso Kathy Warwick, la mia cliente».
«Cosa?! David, sei stato davvero tu a tagliare le rose e a fare tutto il resto? Ma… perché?», esclamò la cliente in questione, sbiancando. La sua voce, all’inizio una nota acuta, scemò di tono fino a ridursi ad un mormorio, e gli occhi le si velarono di lacrime all’idea che proprio suo fratello avesse potuto farle qualcosa di male.
David vedendola in quello stato cambiò colore e aprì la bocca cercando di articolare una frase di senso compiuto per discolparsi, ma la sua agitazione aveva raggiunto un livello tale il suo difetto peggiorò ulteriormente e le parole gli si ingarbugliarono in un suono incomprensibile. Nel frattempo L raccolse la bustina trasparente contenente la polvere bianca che il ragazzo aveva cercato di versare nella tazza della sorella.
«E di questa cosa ci racconti?», chiese pizzicandola con indice e pollice e tenendola sollevata davanti a sé.
David chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Detestava quel difetto che gli impediva di esprimersi liberamente quando era nervoso. Detestava come lo guardava la gente in quei momenti, come se lo considerassero uno scemo. Gli ci volle quasi un minuto per ristabilire la calma interiore e poter parlare di nuovo normalmente.
«È una p… precauz… zione», rispose sillabando piano.
Si alzò in piedi e si avvicinò alla sorella, che lo guardò diffidente. Però un attimo dopo gli si buttò addosso stringendolo forte, premendo il viso contro il suo petto per nascondere due lacrimoni che le scendevano lenti lungo le guance. Nonostante quello che aveva appena scoperto, la fiducia di Kathy nel fratello era tale che, tutto sommato, era disposta perfino a dubitare delle parole di Rossella. David socchiuse gli occhi e sospirò.
«Ti chiedo scusa. Ti prego di perdonarmi», le sussurrò. Chinò il capo e si appoggiò a lei, visto che le manette gli impedivano di ricambiare l’abbraccio.
«Allora è vero?», singhiozzò piano la ragazza.
«Sì, ma a quanto pare non è servito a nulla, visto che tu sei comunque qui».
«E quindi, siccome non sei riuscito ad impedirle di rispettare la clausola del testamento, hai pensato di toglierla di mezzo con questa?», si intromise Linda acchiappando la bustina dalla mano di L.
«Ma per chi mi ha preso?», proruppe David, questa volta con voce perfettamente ferma. Il tono, sorprendentemente autoritario, rivelò le sue origini nobili. «È una precauzione, ve l’ho detto. È solo un sonnifero, con l’aggiunta di una sostanza naturale, del tutto innocua ma altamente soporifera, che ne moltiplica l’effetto. Avrebbe fatto dormire mia sorella in un modo così profondo che avrei potuto portarla via da qui senza che opponesse resistenza. In quanto al testamento, sarebbe bastato che adempissi io alla clausola. Una volta acquisito il diritto di eredità, avrei diviso il patrimonio con Kathy come aveva stabilito mio nonno, lo giuro sul mio onore».
«Ma… a che scopo fare tutto ciò?», chiese Linda.
«Per mettere Kathy al sicuro, vero?», intervenne L. «David, se volevi tenere tua sorella lontano dal maniero significa che sei a conoscenza di ciò che sta succedendo qui e hai dei sospetti sulla morte di sir Arthur Cavendish.»
Il ragazzo si morse il labbro inferiore.
«No, non è così. Non del tutto, almeno. Posso solo fare delle supposizioni. Vedete, mio nonno aveva fondato una specie di circolo privato insieme ad alcuni conoscenti, a scopo di studio».
«Sì, ne siamo al corrente. Un circolo che riuniva alcune importanti personalità nel campo delle scienze occulte. Arthur me ne parlò in più di un’occasione», intervenne Watari.
Era una bugia, visto che lord Cavendish aveva tenuto nascosto il vero scopo del circolo anche agli amici più intimi, ma Watari pensò che se avesse fatto credere a David di essere in confidenza con suo nonno ad un livello tale da condividere il segreto del suo hobby preferito, probabilmente avrebbero guadagnato più facilmente la fiducia del nipote.
«Sul serio? Allora Lei doveva essere davvero un amico speciale per il nonno. Perfino io sono stato messo al corrente dell’esistenza del circolo solo dopo molto tempo dalla sua fondazione, ed ho faticato non poco ad ottenere il permesso di partecipare alle riunioni, sebbene la mia passione per l’alchimia non fosse una novità per mio nonno», disse infatti l’altro.
Rossella notò la facilità con cui David aveva abboccato all’amo, e concluse che il ragazzo condivideva con la sorella la stessa ingenua fiducia verso il prossimo.
«In cosa consisteva di preciso l’attività di questo circolo?», chiese L.
«Niente di speciale, in realtà. Non dovete farvi l’idea di un covo di stregoni o di praticanti di messe nere. Il circolo era tenuto segreto più che altro per un vezzo dei partecipanti, che in questo modo si sentivano un po’ come i membri di una confraternita. Prendetela come una stravaganza per benestanti eccentrici, ecco. Nella biblioteca del maniero c’è un’intera sezione dedicata all’occultismo, quindi i membri del circolo trovavano comodo riunirsi qui e passare il tempo a leggere i volumi e scambiarsi opinioni mentre bevevano tè. L’unica eccezione ero io, che avevo allestito un laboratorio per esercitarmi. Voglio dire, io ero l’unico a non limitarmi alla teoria».
«Cioè sperimentavi? È davvero possibile ottenere risultati concreti? Ma l’alchimia non è scienza, è una disciplina prettamente filosofica.»
David sorrise, e sul suo volto si dipinse l’espressione di chi si appresta ad affrontare un discorso ripetuto più e più volte di fronte ad un pubblico di scettici.
«Vede, per capire veramente l’alchimia bisogna innanzitutto liberarsi dai pregiudizi che ci sono stati inculcati da una visione esageratamente superstiziosa di essa. L'alchimia è prima di tutto una disciplina fisica e chimica. Intendo dire che si basa su concetti puramente scientifici. Se la sentirebbe forse di dire che Amedeo Avogadro, Marie Curie o Alessandro Volta sono dei ciarlatani? Tuttavia, rispetto alla fisica classica l’alchimia implica un'esperienza di crescita o, meglio, un processo di liberazione spirituale dell'operatore. Da questo punto di vista, si avvicina all’esoterismo. Ecco il motivo della ritrosia a riconoscerla come scienza».
«Devo ammettere che è un concetto interessante», gli concesse L sfregandosi la pianta del piede destro contro il polpaccio. «Ma perché non ne parliamo da seduti? Non vorrei che il tè si raffreddasse. Sarebbe un peccato».
«Ottima idea», concordò David. «A proposito, potrebbe togliermi queste?», chiese sollevando i polsi ammanettati.
«Non ne vedo il motivo. Hai appena confessato di essere lo stalker di Kathy, e sei ancora in stato di fermo», rispose placidamente L accomodandosi sul divano e rimestando con il cucchiaino nella sua tazza.
«M… m… ma… c… credevo che si f… fosse chiarito tutto, no?» balbettò David, ricadendo nel suo difetto per la delusione.
Guardò in direzione della sorella sperando in un aiuto.
«Katty, non sp… p… porgerai denuncia verso di me, vero?»
La ragazzina per tutta risposta si sedette sul divano nel punto più lontano da lui.
«Hai rotto Priscilla, non te lo perdonerò mai», rispose voltandosi dall’altra parte come una bimba sdegnata.
«La tua b… b… bambola preferita? Ma non lo farei mai!»
«E invece l’hai proprio fatto, quando sei entrato di nascosto in casa mia!»
«Io ho solo fat… t…to uscire P… Polly dalla gabbia, te lo gi… giuro!»
Kathy arricciò il nasino in una buffa smorfia e ci pensò un po’ su. «Uhm… effettivamente non saresti capace di una cattiveria simile, ma non si può mai dire. Comunque, anche se non fossi stato tu, cosa che non mi sento di escludere, tutto il resto già basta e avanza. Sono indecisa se perdonarti o no.»
Mentre David ribatteva qualcosa per smuovere la clemenza della sorella, Rossella ed L si scambiarono uno sguardo d’intesa e, come un tempo, spontaneamente, rientrarono in sintonia.
Sta mentendo?, era la muta domanda sul viso del detective. La ragazza gli fece un cenno di diniego, e notò la mascella di lui aumentare la pressione sui denti. Poté immaginare cosa gli stesse passando per la mente: se non era stato David a rubare la testa della bambola e ad appenderla all’abbaino, qualcun altro era coinvolto in quella faccenda. Ed era con loro al maniero.
«David, tornando al discorso di prima, i tuoi esperimenti potrebbero aver dato origine a qualche conseguenza inaspettata e… negativa?», chiese il detective interrompendo l’alterco tra i due fratelli.
«Lo escludo a priori», rispose prontamente il ragazzo, questa volta senza più incepparsi nemmeno una volta. Poter discutere del suo argomento preferito lo metteva sempre a suo agio, annullando il difetto di pronuncia.
«E perché?»
«Per il concetto stesso di alchimia. Non è magia nera, è elevazione e crescita, gliel’ho detto. L’obiettivo che si pone l’alchimista è la conquista dell’onniscienza e la creazione della panacea universale, ovvero un rimedio per ogni malattia e per il prolungamento indefinito della vita. La trasmutazione stessa del metallo in oro non ha scopi venali, ma simboleggia il tentativo di arrivare alla perfezione in quanto, per la sua natura intrinseca di incorruttibilità, l’oro è la sostanza che meglio la rappresenta.»
«Capisco. Escludendo quindi la tua branca, ti viene in mente qualcuno del circolo che invece si occupava di un settore più… uhm… pericoloso? Come Aaron Mason, per esempio. Era demonologo, vero?»
David rise. Una risata di puro divertimento, che non conteneva nessun accenno di scherno.
«Sì, è così, ma anche in questo caso non bisogna farsi fuorviare dal significato negativo che implica il termine. Demonologo è chi studia le credenze riguardanti le creature definite demoni, non chi cerca di evocarli. Ho detto credenze, badi bene, ovvero ciò che è scaturito da secoli di folclore popolare. Che ciò dimostri o meno l’esistenza di creature del genere è un altro paio di maniche. Personalmente, credo che se Aaron si trovasse a faccia a faccia con un demone gli prenderebbe un infarto, e se Lei lo conoscesse capirebbe perché. Tuttavia la demonologia è un argomento che lo affascina, quindi è sempre in cerca di approfondimenti. Tutto qui.»
«Da come parli sembra che tu affronti ciascuno di questi argomenti in modo molto concreto, elidendo l’aspetto sovrannaturale.»
«Diciamo che sono uno scettico a cui non dispiace l’occulto. L’esoterico e il paranormale rimangono tali solo finché non si trova una spiegazione scientifica. È un ramo ancora tutto da scoprire. Purtroppo è anche zeppo di testimonianze fasulle, che contribuiscono a screditarlo. Da parte mia, finora non mi sono imbattuto in un solo fenomeno che, dopo un attento esame, si sia dimostrato autentico.»
«Però devi aver preso molto sul serio quello che è successo – o che sta ancora succedendo – qui al maniero, se volevi tenerne lontana tua sorella con ogni mezzo.»
David si rabbuiò. Cercò di portare una mano dietro alla nuca, un gesto involontario che faceva sempre quando era sovrappensiero, ma le manette glielo impedirono e posò nuovamente le mani in grembo.
«Sì, mi rendo conto che può sembrare un controsenso. Vede, qualche tempo fa mio nonno, senza alcuna spiegazione, di punto in bianco mi intimò di non presentarmi più al maniero. Non ne capii il motivo – per quanto ne sapevo, non ce n’erano – ma lui fu irremovibile. Era molto serio quando mi fece quella richiesta, e mi fece promettere che non gli avrei disobbedito finché non fosse stato lui stesso a richiamarmi. Scoprii poi che anche gli altri membri non avevano più fatto ritorno alla sede del circolo, ma nel loro caso fu una libera scelta. E se sta per chiedermene la ragione, le dico già da subito che non me l’hanno voluta dire. Aaron mi ha detto semplicemente che era d’accordo con la richiesta di mio nonno, eludendo qualsiasi altra domanda, e la signora Phillips non ha voluto nemmeno ricevermi.»
«Sì, la signora Lane mi ha messo al corrente dell’opinione della signora Phillips in proposito… Piuttosto, ti sei fatto un’idea sul perché Aaron Mason condividesse la scelta di tuo nonno?»
«Suppongo che sia stato a causa dei rumori. Ecco…vede… credo che in realtà gli altri non aspettassero altro che un’occasione per abbandonare il circolo e non farsi più vedere qui, e la richiesta di mio nonno si è dimostrata un’ottima scusa al momento giusto. Non posso biasimarli. Quel grattare dietro le pareti dà i brividi. A volte… sembra quasi di distinguere delle parole.»
«Scusate, ma è da un po’ che non riesco più a seguirvi. Mio nonno non è morto per cause naturali?», chiese ad un tratto Kathy.
«In realtà Ryuzaki e il signor Quillsh sono qui per soddisfare una richiesta di lord Cavendish e far luce su un fenomeno che pare si stia verificando qui al maniero. Però, per quel che ne sappiamo, può avere cause del tutto logiche», le spiegò Linda, evitando di rispondere direttamente alla sua domanda.
«No, non è così!», la interruppe David con veemenza. «Mio nonno non avrebbe mai agito in quel modo per un motivo banale. Non era certo incline all’isterismo, ha sempre avuto i nervi saldi. La mia opinione è che debba aver capito qualcosa di importante sulla natura di quel fenomeno. Però, nonostante quel che stava succedendo, ha deciso di rimanere qui ad affrontare la situazione da solo, e alla fine ha avuto la peggio. Non posso che ammirarlo per questo, e voglio assolutamente scoprire chi o cosa lo ha ucciso. Ma per prima cosa devo portare al sicuro Kathy.»
Rossella ripensò al rumore che proveniva dalla parete della torre, simile al raspare di unghie di qualcuno che cercava di passare, di raggiungerla. E a quel fruscio, che sembrava aver bisbigliato il suo nome. C’era una nota lasciva e spaventosa in quel suono, sapeva di marcio. Sentì di avere la pelle d’oca. Si unì a David dimostrandosi d’accordo con lui nel cercare di allontanare Kathy. Quel posto non era adatto ad una ragazzina così ingenua e fragile – lei stessa se ne sarebbe andata al più presto, se quell’incarico non le fosse stato assegnato da L in persona. Kathy avrebbe avuto comunque la sua parte di eredità, di questo Rossella era certa: i modi e le parole di David l’avevano convinta che il ragazzo tenesse moltissimo alla sorella, e che non si sarebbe rimangiato la parola data. Avrebbe senza dubbio diviso il patrimonio con lei, quindi non c’erano problemi.
«Penso anch’io che sia la scelta migliore, piccola Lady», intervenne Irene unendosi agli altri due, mentre posava un vassoio di biscotti sul tavolo. «Non so come spiegarlo, ma l’atmosfera di Green Haven è mutata. È come se stesse decadendo gradualmente. Confesso che mi sentirei più tranquilla sapendo che Lei è a Winchester.»
David andò verso la sorella e la prese per mano.
«Vieni. È meglio se torni immediatamente in città. Signorina, potrebbe per favore accompagnarla?» chiese rivolto a Rossella.
Ma Kathy scattò in piedi, liberandosi bruscamente dalla presa del fratello.
«Smettetela, tutti quanti!», strillò con un’energia inaspettata. L’espressione, inusitatamente seria, la fece sembrare austera a dispetto della bassa statura e del viso infantile. «Mio nonno non mi avrebbe mai e poi mai messo volontariamente in pericolo. Tuttavia ha voluto che io e David rimanessimo qui al maniero insieme, l’ha chiesto espressamente nel testamento. Nella sua scelta ci deve essere una ragione ben precisa, come fate a non capirlo?»
Le guance le si colorirono per lo sdegno.
«Se gli è successo qualcosa, anch’io voglio vendicarlo. Mi ha chiesto di diventare il guardiano di Green Haven, ed è quello che farò, ad ogni costo! Non potete decidere per me!»
«Ma… piccola Lady…»
«Silenzio! Non me ne andrò mai!» concluse con un tono che non ammetteva repliche.
«Ben detto, principessina!», esclamò con entusiasmo Linda. «Anche se non so se il tuo sia coraggio o incoscienza…»
David sospirò e, cercando di controllare la voce meglio che poteva – non era il momento di farsi bloccare dal suo difetto di pronuncia – insistette pazientemente per farle cambiare idea, ma fu interrotto da L.
«Anch’io sono d’accordo con Kathy.»
Rossella gli lanciò un’occhiata sorpresa.
«Perché ti stupisci?», le chiese L. «Pensaci bene. La stranezza del testamento deve avere uno scopo. Sappiamo ancora troppo poco in proposito, per ora la scelta migliore è assecondarlo e vedere come si evolvono le cose.»
«Capisco, ma… proprio perché sappiamo così poco, dovremmo essere particolarmente prudenti, non credi? E se la situazione fosse più pericolosa di quello che pensiamo? Potrebbe degenerare e coglierci impreparati.»
«Per questo dovrai stare particolarmente attenta alla tua cliente. Sei qui per proteggerla, no?»
Rossella non ribatté, ma abbassò lo sguardo sulla sua tazza e per un attimo le sue labbra si piegarono in una smorfia amara. L le aveva appena ribadito un paio di concetti: lei era e rimaneva una sua pedina, per la precisione quella addetta all’analisi psicologica degli indiziati e alla sorveglianza di uno degli eredi. Due ruoli di rilievo, ma pur sempre da gregario. Il detective era lui, ci teneva a precisarglielo. Queste erano le condizioni per collaborare con L.
Con ancora un po’ di reticenze da parte di David e Irene si decise che Kathy sarebbe rimasta, e la merenda interrotta riprese, lasciando per un po’ da parte gli approfondimenti sulle indagini. A Rossella parve che la conversazione degli altri vertesse sulla foresta di Green Haven, sul laghetto in cui facevano tappa le anatre in periodo di migrazione, sulla chiesetta gotica; le parve anche che si convenisse di togliere le manette a David, ma ascoltò il tutto registrandolo come un mero suono ovattato, lontano. Dopo il “richiamo all’ordine” di L la sua mente era volata altrove, era tornata alla Wammy’s House. La cicatrice al polso gliel’aveva ricordata con una lieve puntura. Chissà se lui aveva mai collegato il suo tentato suicidio alla conversazione che avevano avuto nel giardino dell’istituto? Ma certo, che domande! Nonostante ciò, da allora non si erano più visti né sentiti. Prima di andarsene per sempre dall’istituto Rossella non aveva osato salutarlo, e lui durante la sua convalescenza di due giorni non si era fatto vivo. L’aveva deluso? Era impossibile dirlo.
Quella mattina, quando si erano rivisti dopo cinque anni, L le aveva parlato come se niente fosse successo. C’erano state solo quelle parole, “grazie per aver accettato il mio invito”. A Rossella erano parse quasi di scusa, una specie di “grazie per aver accettato nonostante tutto”. Ma forse era stata solo una sua impressione. Quasi sicuramente L nella sua vita non aveva mai provato per qualcuno la passione bruciante che aveva sperimentato lei. Non sarebbe mai stato in grado di capire veramente quanto le avesse fatto male.
Rossella spremette un ulteriore spicchio di limone nella tazza e mandò giù un altro sorso. Non bastava. L’asprezza del succo stemperata dal tè, non riusciva a schiarirle le idee. Succhiò direttamente lo spicchio, assaporando il gusto agre e pungente. Con lo sguardo perso nel vuoto, ripensò a quanto era stato bello tenerlo per mano nel corridoio della soffitta.
 
.oOOo.
 
Dopo il tè, Irene riaccompagnò gli ospiti nelle rispettive stanze, dove avrebbero potuto rilassarsi fino all’ora di cena. Non mancava molto, per la verità; l’improvvisata di David aveva prolungato la durata del tè pomeridiano più del previsto, ritardando di conseguenza l’ora della cena, che per una volta non avrebbe potuto rispettare la tradizione inglese di consumare il pasto alle sei precise.
«Povera me, la signora Lauper darà di matto quando le dirò che non potremo cenare prima delle sette…», si lamentò la rubiconda governante, scuotendo la testa mentre si allontanava.
Rossella si fermò per un po’ nella stanza di Linda, prima di fare ritorno nella propria.
«Credevo che il nostro compito fosse far arrivare fino a qui la nostra cliente sana e salva e proteggerla durante il suo soggiorno al maniero. Ora che è stato chiarito che lo stalker era il fratello, potremmo anche chiudere la faccenda e tornare a Winchester, no?», chiese la detective bionda. Aveva buttato lì la domanda per stuzzicare l’amica, sapendo già che, visti i presunti pericoli in cui poteva ancora incorrere Kathy, il loro incarico si sarebbe rivelato più lungo del previsto.
«No, gli ordini sono cambiati», rispose infatti Rossella. «Rimarremo finché non sarà stata fatta luce sulla morte di sir Arthur Cavendish e su cosa sta succedendo qui.»
«Splendido! L ti attira con un caso facile facile e poi ti scarica una patata bollente. Scucigli almeno un compenso adeguato per questo scherzetto, mi raccomando!»
Rossella le sorrise brevemente.
«A proposito», continuò Linda, «com’è che sembra essere Ryuzaki quello che conduce le indagini?»
«Disposizioni di L», rispose semplicemente Rossella.
«Uhm… e una persona importante come il signor Quillsh fa da aiutante ad un allievo…»
Questa volta Rossella non rispose.
«Domani devi tornare a Winchester. Che ne dici di approfittarne e fare un paio di visite non annunciate?», le chiese invece.
«Chissà perché, ma già me lo sentivo. Fammi indovinare: la simpatica sensitiva e il suo compare demonologo.»
«Già. Chiederò al signor Quillsh di accompagnarti. Il suo garbo potrebbe essere d’aiuto, a volte non sei la persona più diplomatica di questo mondo.»
Linda le elargì uno dei suoi coloriti epiteti, ma Rossella non lo colse perché lasciò la stanza a orecchie ostentatamente tappate, voltandosi per evitare di leggere il labiale.
 
La detective si chiuse la porta alle spalle e si sdraiò sul letto, a fissare un punto imprecisato dell’affresco sul soffitto. Ormai il sole era calato, e la stanza era rischiarata solo dalla luce fioca delle abat-jour che, tutte insieme, producevano a malapena 100 watt di luce. Probabilmente in altri frangenti avrebbero creato un’atmosfera piacevolmente romantica ma Rossella in quel momento, pervasa da un crescente senso di timore, non le apprezzò affatto. Si aspettava da un momento all’altro di sentire quel raspare misterioso. Nemmeno ripensare, con un misto di dolcezza e speranza, a come la sua mente era entrata in simbiosi con quella del suo amato durante il tè, quando un semplice sguardo era bastato per farle intuire la sua richiesta, non contribuì ad alleviarle il disagio. Piuttosto che rimanere lì da sola arrivò perfino a pensare di sgattaiolare nella camera del detective con la scusa delle indagini, prima di imporsi di darsi una calmata e smetterla di fare la fifona. Fortunatamente le camere di Linda e Kathy erano attigue alla sua, e mancava poco alla cena. Non sarebbe rimasta sola ancora a lungo.
Era solo un rumore, accidenti!, si disse. Sì, ma era così sinistro!
Si mise a sedere, cercando di pensare ad altro. Avrebbe potuto farsi un po’ più carina per la cena, per esempio. Era un’idea stupida, ma le avrebbe tenuto la mente occupata per un po’. Non si poteva vivere di sola logica!
Rossella non usava trucco, e non era particolarmente esperta di acconciature – i suoi capelli erano sempre raccolti in una semplice coda di cavallo, e la frangetta richiedeva ben poca cura – ma nella borsa teneva un portacipria per i momenti d’emergenza. Prese quello, e cominciò a studiarsi nello specchietto con particolare attenzione. Non era mai stata sua abitudine badare troppo all’aspetto; per lei l’importante era essere in ordine, tutto lì. Le venne in mente ciò che le aveva detto Linda nel pomeriggio, a proposito dell’esercitarsi nel variare le espressioni, e pensò che fare una prova non le costava nulla anche se quello specchietto era decisamente troppo piccolo per lo scopo.
Come si simulava un’espressione ammaliante? Provò a passarsi la lingua sulle labbra con aria languida, e scoppiò a ridere nel constatare quando fosse ridicola. La sua faccia, mentre rideva, invece le piacque molto di più.
Forse è piaciuta anche a lui, pensò arrossendo lievemente, ricordandosi di ciò che le aveva detto L nel cortile del maniero. Sento che preferirebbe una donna aperta, piuttosto che intrigante. Forse faccio male a simulare anche con lui.
Fu in quel momento che il sangue le si gelò.
Il lato destro dello specchietto rifletteva la porta a due ante alle sue spalle. Una di esse si aprì leggermente, e una mano scivolò dentro. A tentoni, tastò alla ricerca della maniglia dell’altra anta, rivelando l’avambraccio fino a metà. Rossella rimase impietrita davanti allo specchio: quella mano sembrava del tutto normale, eppure in qualche modo non lo era. Il modo in cui percorreva lentamente l’anta, saggiando la superficie, le mise i brividi. Non avrebbe saputo spiegare il perché, ma da come si muoveva le diede l’impressione che il braccio potesse essere privo di ossa, che stesse solo simulando un movimento umano, che, se avesse voluto, avrebbe potuto scorrere lungo l’anta sinuoso come un serpente.
 
Non voleva vedere altro. Non voleva assolutamente. Non voleva sapere che cosa potesse esserci attaccato a quel braccio.
 
Tuttavia, in barba alla sua parte razionale, istintivamente si voltò di scatto verso la porta. Era chiusa. Non c’era nessuna mano, né umana né sovrumana.
Guardò di nuovo nello specchio e vide l’anta socchiusa. La mano non c’era più, ma guardando meglio scorse la punta delle dita che sporgevano appena. Che diavoleria era mai quella?!
Rossella raccolse tutto il suo coraggio e si avvicinò con circospezione alla porta, osservando meglio. Le ante erano accostate perfettamente. Se qualcuno avesse chiuso la porta di colpo, come minimo avrebbe dovuto sentirne il rumore. Ma non ce n’erano stati, a pensarci bene non aveva nemmeno sentito scattare la maniglia quanto l’anta era stata aperta. Che si fosse immaginata tutto?
Facendo uno sforzo di volontà, Rossella aprì la porta e sbirciò nel corridoio. Era deserto. Sentì della musica provenire dalla stanza di Kathy – doveva aver messo in funzione il grammofono – ma nulla di più.
Ancora tremante, la ragazza tornò dentro. Cosa le stava succedendo? Ciò che aveva visto le era sembrato tremendamente reale, non poteva esserselo immaginato. O meglio, un’allucinazione così realistica era sintomo di un grave squilibrio mentale o di una seria malattia. Avrebbe fatto meglio a sottoporsi ad un controllo?
Stava ancora pensando a queste cose quando raccolse da terra il portacipria rimasto aperto. Lo specchietto rifletté la sua immagine, e Rossella urlò come mai aveva fatto in vita sua. Il viso nello specchio era senz’occhi. Lacrime rosse scendevano dalle orbite vuote e martoriate, e un mugolio orribile usciva dalle labbra sanguinanti, cucite fra loro da un fil di ferro. I capelli, tirati all’indietro ai lati del viso in una coda di cavallo, lasciavano intravedere il taglio slabbrato delle orecchie mozzate.
Lanciò via lo specchio che però, a causa delle forze che le erano venute a mancare, atterrò vicino, troppo vicino. Contemporaneamente le gambe le cedettero e cadde a terra, incapace di rialzarsi e scappare.
Rossella rimase immobile, bloccata dal terrore, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quell’immagine terribile, emettendo gemiti inconsulti. Fissò ipnotizzata due dita lunghe e raccapriccianti farsi strada piano piano fuori dallo specchio, grattando il pavimento. Quando giunsero a sfiorarle un piede, un’ondata di adrenalina la sbloccò. Schiacciò lo specchio con tutte le sue forze, frantumandolo, e spinse sul pavimento con i talloni per allontanarsi, strisciando per un buon tratto sul sedere prima di ricordarsi che poteva alzarsi in piedi e correre verso la porta.
 
È inutile, è chiusa, è sicuramente chiusa. Non potrò aprirla e quella cosa mi prenderà, e il mio corpo marcirà come quello di lord Cavendish.
 
Contrariamente alle sue aspettative, la porta si aprì di schianto non appena girò la maniglia, e Rossella si catapultò in corridoio. Inciampò nel tappeto e cadde lunga distesa, urlando di paura a pieni polmoni. Un altro grido le fece eco, quello di Kathy, a sua volta schizzata fuori come un proiettile dalla propria camera. La ragazza bionda, correndo guardandosi alle spalle, incespicò nelle gambe della detective e capitombolò a sua volta. Si sbucciò un ginocchio, ma non diede segno di accorgersene. I suoi occhi terrorizzati fissavano la porta della camera.
Un secondo dopo il corridoio si animò: L, Watari e Linda accorsero verso le due ragazze richiamati dalle urla, e poco dopo arrivò anche David seguito da Cheryl e Nathan.
Rossella balzò in piedi e si buttò letteralmente addosso ad L, tremante come una foglia, infischiandosene per una volta del fatto che lui potesse non gradire il contatto fisico. Non sperò minimamente in un abbraccio protettivo e, sul momento, nemmeno ci pensò. La sua reazione era stata puramente istintiva, un bisogno spasmodico di stringere qualcuno che fosse per lei un punto fermo, un appiglio alla realtà. Sentì che se fosse rimasta ancora qualche istante lì sul tappeto, a fissare la camera da cui era appena scappata, con quell’immagine orrenda ancora stampata nella retina, sarebbe impazzita.
Né lei né Kathy all’inizio riuscirono a rispondere alle domande degli altri, che le tempestarono in un coro sconclusionato.
Kathy fu la prima a riprendersi. Anche nello stato confusionale in cui era, Rossella non poté fare a meno di notare che la ragazza bionda possedeva un coraggio inaspettato. In piedi accanto al fratello, gli stringeva la mano come a cercare conforto, ma niente di più. Sembrava tornata padrona di se stessa. Paradossalmente, David pareva quello più in apprensione: i suoi occhi parevano voler guardare contemporaneamente in tutte le direzioni, in attesa di un imminente pericolo.
«Cosa è successo?» chiese nuovamente alla sorella.
«Stavo usando lo specchio che tengo sempre nella tasca interna della valigia, e ad un tratto…». La ragazza si interruppe brevemente e corrugò la fronte, come a valutare ciò che era accaduto. «La mia immagine riflessa mi ha fissato. Voglio dire, è normale che la nostra immagine ci guardi di rimando quando ci specchiamo, ma è rimasta immobile, anche quando io mi sono mossa. Continuava a guardarmi, poi ha sorriso. Un sorriso strano, aveva qualcosa di inquietante. Per lo spavento ho lasciato cadere lo specchio e sono corsa via.»
«Non è possibile, te lo sarai immaginato» le disse David.
«Me lo dici proprio tu, che volevi convincermi in ogni modo a mettermi al sicuro? Al sicuro da cosa?»
David guardò attraverso la porta aperta della camera di Kathy, dove lo specchio giaceva ancora a terra rivolto a faccia in giù.
«Non lo so, è questo che mi spaventa. Non ho idea di cosa possiamo aspettarci.»
«Be’, io sono sicura di quello che ho visto. Non me lo sono sognato. Era una cosa incredibile.»
Incredibile?, pensò Rossella. Lei non si sarebbe espressa in quel modo. Ma, in effetti, l’esperienza di Kathy era stata differente dalla sua. Veder vivere di vita propria un’immagine riflessa forse si poteva definire incredibile. Vedere il proprio viso martoriato non era incredibile, era semplicemente orrendo. Non vedere, non parlare, non sentire, sembrava volerle dire.
Rabbrividì, e tutto ad un tratto stringere la maglia bianca di L non le bastò più. Gli girò velocemente attorno e si nascose dietro di lui, sbirciando nella camera da sopra la sua spalla.
«Anche a te è successa la stessa cosa?», le chiese lui.
La ragazza annuì vigorosamente alle sue spalle, ma lui naturalmente non la poté vedere. Si voltò all’indietro.
«Allora?»
«Più o meno», gli bisbigliò, appoggiandogli le mani sulle spalle e alzandosi in punta di piedi per vedere meglio oltre di lui.
Un attimo dopo si ritrovò priva del suo scudo. L era entrato a passo deciso nella stanza di Kathy ed aveva sollevato lo specchio pizzicandolo con due dita, torcendo il collo come un barbagianni per osservarlo da varie angolazioni. Non vide nulla di strano nella sua immagine riflessa, a parte lo sfasamento creato da una crepa che aveva spezzato la lastra.
«Si è rotto. Forse è un bene.»
«Un bene, dici? Io sapevo che rompere gli specchi porta male» disse Linda.
Dopo un breve silenzio, intervenne la voce turbata di Cheryl, la giovane cameriera.
«No, ha ragione, è meglio così. C’è qualcosa di strano riguardo gli specchi.»
La ragazza bruna guardò un po’ a disagio i presenti, facendo un breve inchino.
«Perdonatemi signori, vi sembrerà strano, ma credo che sarebbe più prudente evitare l’uso degli specchi. In questo maniero sono spariti tutti e… Evelyn, la cameriera che ha lasciato il castello per prima, se ne è andata proprio in seguito ad un episodio legato ad uno di essi. Non ho mai saputo bene cosa sia successo di preciso – non ero in buoni rapporti con lei – ma ho colto qualche frase e due parole in particolare. “Grimorio” e… “quarta dimensione”, sì. Mi sono rimaste impresse perché erano davvero insolite nella bocca di una come Evelyn. Ha detto di averle udite da una conversazione tra sir Arthur Cavendish e il signor Mason, mentre spolverava nella biblioteca. Ad ogni modo, dopo il fatto dello specchio… be’, consideratemi sciocca, ma mi sono tenuta lontana da qualsiasi immagine riflessa. Confesso che a volte ho timore perfino di lucidare l’argenteria. In presenza della signora Lane non lo direi mai – lei non tollera le chiacchiere superstiziose – ma vi consiglio vivamente di evitare di specchiarvi.»
«Signorina, lei è l’unica cameriera rimasta. Perché se ha così paura continua a lavorare qui?» le chiese L.
«Vede, questo per me è il primo lavoro. Quando sono stata assunta dalla signora Lane, non mi pareva vero di poter lavorare presso una famiglia così rinomata. È un’ottima base di partenza per il mio curriculum. All’inizio, non volevo andarmene semplicemente perché mi sembrava da stupidi rovinare tutto per una fissazione che magari era solo nella mia testa. Ma poi… nel periodo in cui ho lavorato qui ho avuto modo di conoscere e apprezzare enormemente lord Cavendish. Era una persona notevole. Quando ha saputo che avevo problemi di soldi a causa di mia madre e dei miei fratelli che studiano ancora, mi ha anticipato parecchie mensilità di stipendio e anche qualcosa in più, senza bisogno di restituire nulla. Non me la sento di abbandonare così la sua dimora, glielo devo.»
«E tu, Nathan? Perché rimani?», chiese L al ragazzo tuttofare.
«Nate, chiamami Nate», rispose l’altro dando tranquillamente del tu all’ospite. «Ecco, vedi, potrei snocciolarti anch’io la ramanzina infarcita di lodi per lord Cavendish – la risentirai più o meno da tutto il resto della servitù. E non dico che non sia sincera, ma… la mia ragione è molto più semplice. In pratica, Cheryl è la mia ragazza. Rimango per questo, ecco tutto.»
L lo guardò compiaciuto. La spontaneità di Nathan non gli dispiaceva.
«Fra tutti, tu sembri il più calmo. Non sei stato influenzato dall’atmosfera del maniero?»
Nate fece un risolino imbarazzato.
«Be’, i rumori li abbiamo sentiti un po’ tutti. Tranne il signor Edmonds. Forse perché passa tutto il tempo nei giardini e di notte dorme nella dependance. O forse è solo sordo come una campana.»
«Quindi, a parte i rumori nessuno di voi ha avuto esperienze negative?»
«Uhm… no, nulla. Anche se… no, niente».
L gli lanciò un’occhiata interrogativa.
«Be’, se devo essere sincero io e Cheryl cerchiamo di stare insieme il più possibile. Senza farlo sapere alla signora Lane, naturalmente» concluse il ragazzo sorridendo.
«Potremmo fare altrettanto anche noi, almeno di notte», propose speranzosa Rossella.
«Sì, sono d’accordo. Non me la sento di dormire da sola», convenne Kathy.
«Potrei dormire anch’io con voi. Rossella stasera non mi sembra propriamente in grado di difenderti in caso di bisogno», disse Linda.
L meditò un momento sulla situazione.
«Come misura cautelativa non sarebbe male se entrambi gli eredi rimanessero sotto sorveglianza. Se Rossella e Linda rimangono con Kathy, David potrebbe dormire con me e il signor Quillsh.»
«Non c’è problema, andiamo ad avvisare la signora Lane per gli spostamenti. Delle brande saranno più che sufficienti.»
I due domestici si allontanarono per predisporre le camere. Rossella si avvicinò ad L e lo tirò in disparte.
«Posso parlarti un attimo?»
«Vieni, andiamo di là.»
L condusse Rossella nella sua stanza. La ragazza scoprì con stupore che era stato allestito un piccolo quartier generale. I cavi elettrici correvano per gran parte del pavimento, collegando monitor e periferiche. Notò che alcuni monitor mostravano scorci delle sale del maniero: erano già state piazzate delle telecamere in vari punti strategici.
«Wow! Quando hai preparato tutto questo?», chiese meravigliata. Lei aveva portato con sé appena il suo portatile.
«Oggi pomeriggio, dopo che siamo scesi dal sottotetto e prima del tè. Non è stato difficile seguire gli spostamenti di tutti quanti, compresi i domestici. Per ora sembra che nessuno abbia compiuto azioni sospette. Il ladro di teste di bambola non è ancora stato individuato.»
«Ecco tutto ciò che ho trovato sulla quarta dimensione», disse nel frattempo Watari porgendo ad L alcuni fogli appena usciti dalla stampante. «La teoria più originale è quella del fisico Sean Dwight Grant, sulla terza pagina.»
L lesse tutto il plico con una velocità che a Rossella parve incredibile, poi tornò sulla terza pagina.
«Grant ipotizza la quarta dimensione come variabile riferita al tempo, oltre a lunghezza, larghezza e profondità», mormorò fra sé. «Fin qui nulla di diverso da molte altre teorie. Ma, in pratica, Grant parte dalla teoria della relatività e la evolve immaginando una o più dimensioni parallele, o meglio, veri e propri mondi paralleli sovrapposti al nostro – anzi, fusi con il nostro – ma non avvertibili dai rispettivi abitanti in quanto la variabile tempo scorre in modo differente. Secondo lui quando, per cause ancora sconosciute, il tempo tra due mondi diversi scorre alla stessa velocità, i rispettivi abitanti riescono a percepirsi reciprocamente, sebbene in maniera confusa. Questa è la spiegazione delle apparizioni dei fantasmi, secondo Grant. E gli alieni sono individui in grado di spostarsi volontariamente tra tutti questi mondi paralleli, in quanto possono modificare lo scorrere del tempo a loro piacimento.»
«Non avevo mai sentito parlare di questa teoria», ammise Rossella.
« È normale. A quanto pare, a causa delle sue idee astruse, Grant non gode di molto credito nel mondo scientifico. In effetti tutto ciò ha ben poco a che fare con la fisica, se non la base di partenza.»
«E tu cosa ne pensi?»
«Per ora, di tutta questa teoria terremo per buona solo la definizione di quarta dimensione, ovvero la variabile tempo. La signora Lane mi ha detto che lord Cavendish aveva accennato a qualcosa sul tempo durante i suoi ultimi giorni di vita, potrebbe essere importante. A proposito, cosa volevi dirmi?»
«Riguarda la disposizione delle stanze. Va bene dormire in gruppo, però credi che sia prudente lasciare noi ragazze da sole? Non sarebbe meglio formare gruppi misti?»
«Credo che non sia necessario. Finora non è successo nulla di pericoloso, altrimenti, credimi, riconoscenza o no i domestici non sarebbero rimasti qui dopo la morte del loro padrone.»
«Sì, però… Hai notato che i movimenti del viso di Nathan non erano simmetrici? Quando rideva, un angolo della bocca si stirava più dell’altro. È un segno di simulazione delle emozioni. Io credo che la sua spavalderia sia solo una finzione per non allarmare ancora di più la sua ragazza. Se lo interrogassimo, magari scopriremmo che ha visto molto più di quello che lascia intendere.»
«O magari scopriremo solo che anche lui è spaventato dai rumori come tutti gli altri, e non vuole darlo a vedere.»
«Non lo sapremo finché non glielo chiediamo», ribatté la ragazza. Poi gli chiese a bruciapelo: « Posso dormire con te? Cioè… non in quel senso…»
L sospirò.
«No, devi sorvegliare la tua cliente. E non posso venire con voi, metterei in imbarazzo le altre ragazze.»
«Se ti fosse successo quello che è successo a me, non saresti così rilassato! Tu non sai che cosa ho visto!» insistette lei.
«No, in effetti non me l’hai ancora detto. Cosa hai visto di preciso?»
Rossella gli fece un resoconto dettagliato, anche se le costò un certo sforzo descrivere i particolari più macabri.  
«Capisci? Quella cosa potrebbe tornare!»
«Rossella, ragiona. Non hai sentito scattare la serratura, e non c’era nulla dietro la porta quando l’hai aperta. Per quanto possa sembrare assurdo, tutto ciò che hai visto non stava succedendo qui, ma nello specchio.»
Già, nella stanza al di là dello specchio. Quella precisa identica al salotto dove stiamo, ma dove le cose son messe alla rovescia, pensò L citando un brano del libro di Carroll. Chissà se ci abitava qualcuno, in quella stanza?
«Lord Cavendish ha parlato di porte. Avevo già fatto un’ipotesi in proposito, e dopo quello che hai visto mi sto convincendo sempre di più che intendesse gli specchi. Finché non ce ne sono in giro, con molta probabilità puoi stare tranquilla.»
No, ti sbagli, pensò Rossella. Anche se non ci vedono, in qualche modo ci controllano. Tu non te ne accorgi perché non ci si può auto-analizzare, ma lo stanno già facendo, e ci sei dentro anche tu. Non è da te non valutare tutti gli aspetti possibili, non è da te non avere la minima reazione se qualcuno ti abbraccia. Forse non ti manovrano ancora, ma ci stanno provando.
«Però hai detto che quanto lord Cavendish è morto non c’erano specchi. Come la mettiamo?» insistette.
«Ho detto che sono spariti quella notte, ma non possiamo sapere se prima o dopo la sua morte. E comunque, se può rassicurarti, lord Cavendish non è stato ucciso, è morto di estrema vecchiaia.»
Rossella spalancò gli occhi.
«Non… non è stato un omicidio? Un momento! Come può essere morto di estrema vecchiaia? Va bene che era anziano, ma avrà avuto al massimo una settantina d’anni!»
«Eppure il referto della scientifica riportava proprio questo come causa di morte. Fa parte dei numerosi punti che dobbiamo ancora chiarire.»
 
Contrariamente ai presupposti la cena fu relativamente allegra, allietata soprattutto dai piatti prelibati della signora Lauper. Dopo il dessert tutti fecero ritorno nelle rispettive stanze per affrontare la notte. Kathy ebbe l’idea di far dormire Silky Nose nella camera delle ragazze; la sua mole smisurata e i suoi denti aguzzi sarebbero stati un buon deterrente per qualsiasi malintenzionato. Il cane, felice per quella novità, girò per la stanza per tutto il tempo in cui le ragazze si prepararono per andare a dormire, annusando ogni cosa. Quando si accucciò fra il letto di Kathy e la branda di Rossella sulla coperta che era stata preparata per lui, mulinellava ancora la coda all’impazzata per l’eccitazione.
I ragazzi invece si trasferirono nella camera di Watari, visto che era la più spaziosa e che nella stanza di L, zeppa di apparecchiature, era impossibile aggiungere ulteriori posti letto.
«Lasceremo le telecamere in funzione. Se dovesse succedere qualcosa di interessante, la riprenderanno. Vado a predisporre la registrazione», disse il detective.
Tornò nella stanza dei monitor e lavorò alla tastiera per qualche minuto. Aveva bisogno di rimanere da solo per un po’ e tirare le somme di tutto ciò che era emerso durante la giornata. Chissà se nella biblioteca avrebbe trovato qualche trattato del dottor Grant? Approfondire la sua teoria sulla quarta dimensione avrebbe potuto rivelarsi utile.
Mentre ragionava, appollaiato sulla sedia con le braccia incrociate sulle ginocchia e il mento appoggiato sopra, notò un luccichio sulla parete a lato. Guardò meglio: la spia di una delle apparecchiature elettroniche creava un bagliore intermittente tra i blocchi di pietra del muro.
Incuriosito, si alzò per controllare meglio. Effettivamente tra i blocchi sembrava esserci qualcosa che rifletteva la luce della spia. Infilò le dita nella fessura tra di essi, ma le ritirò di scatto emettendo un sibilo di dolore e sorpresa quando sentì una fitta improvvisa all’indice. Qualcosa l’aveva ferito, e una gocciolina di sangue si stava formando sulla punta del dito. Se lo infilò in bocca, succhiando rumorosamente. A quanto pareva, quell’edificio nascondeva insidie anche nei punti più impensati!
Sempre succhiandosi il dito, rovistò alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da pinza. Trovò solo un paio di forbici, e con quelle armeggiò per estrarre l’oggetto con cui si era tagliato. Quando finalmente riuscì a prenderlo, si rivelò essere un frammento di specchio di pochi centimetri di lato.  L lo osservò pensieroso. Se quella era una porta, era ben minuscola per farci passare alcunché; gli stava comodamente sul palmo della mano. La piccola superficie rifletteva a malapena uno dei suoi occhi, tondo, scuro e… no, un momento! Non scuro. Rosso! Rosso vermiglio! Gli diede l’impressione che il viso riflesso lo stesse guardando come attraverso uno spioncino. Con enorme sorpresa vide l’immagine spostarsi senza che lui si fosse mosso, e nello specchio apparve ora la sua bocca, animata da un ghigno assolutamente estraneo. Le labbra si mossero a formulare delle parole, che gli giunsero smorzate, lontane, come da dietro un vetro spesso. Riuscì comunque a leggere il labiale.
Sarai tu ad ucciderli. E ti piacerà. Te lo prometto.
«No!», gridò terrorizzato, respingendo nella mente sia l’assurdità del fenomeno a cui stava assistendo sia la promessa del suo alter-ego.
Senza pensare a cosa stesse facendo spezzò lo specchio in due ferendosi i palmi sui bordi taglienti, e rimase ansimante a fissare ipnotizzato i frammenti che riflettevano, ora, il suo viso di sempre, anche se sconvolto e più pallido del solito.
Incapace di gettarli via, rimase immobile finché Watari e David non accorsero e lo riscossero.
 
 
Commenti personali:
finalmente entriamo nel vivo della trama! Però, più vado avanti e più questa storia diventa difficile da scrivere. In cosa sono andata a infilarmi!
Vi lascio a meditare sugli avvenimenti per un mesetto o giù di lì. Ci si rivede a fine settembre!


Aggiornamento del 31.8.2016
ATTENZIONE! Questa storia, interrotta da tempo per mancanza di tempo/ispirazione/motivazione, riprenderà sull'account di MissChiara, che si è gentilmente offerta di continuarla. Non appena saranno pronti i capitoli successivi, inserirò qui il link. Per aggiornamenti o chiarimenti, sentitevi liberi di contattarmi ^^

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