Logico #1

di Aine Walsh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


Logico #1
 
A mia sorella,
che da un "Ma chi sono questi cinque dementi che ascolti?"
si è ritrovata, una sera di fine Giugno, a piangere e strapparsi i capelli
tra gli spalti del San Siro.
Sei adorabile.
 
  • Prima Parte
 
Non succede quasi mai a due come noi
 di credere che sia possibile trovare
 un complice in questo disordine
 
Certe mattine il mondo prende a sorriderti nello stesso istante in cui apri dolcemente gli occhi: la luce del sole filtra tra le tende e il calore ti accarezza la pelle come se volesse salutarti; gli uccellini cinguettano allegramente sull’albero in giardino; l’odore zuccherino dei pancakes che cuociono giù in cucina sale le scale e s’infila sotto la porta, spandendosi per la camera e mandandoti visibilmente in estasi; l'uomo della tua vita si siede al tuo fianco, sul letto, e ti sveglia con un bacio appassionato, dopodiché si avvicina al tuo orecchio e ti sussurra un tenerissimo «Buongiorno, amore».
È perfetto, no? Quasi come risvegliarsi dentro una favola.
E poi, dall'altra parte, ci sono quelle mattine in cui la sveglia continua a suonare fino a quando non ti ci accanisci contro e la scagli con violenza verso l'armadio; in cui scassinare una banca svizzera sarebbe cento volte più facile che riuscire a farti sollevare mezza palpebra; in cui tua madre ti tira via la coperta di dosso infischiandosene dei millemila gradi sotto zero segnati dal termometro, apostrofandoti con un «Victoria Chase, non costringermi a prenderti di peso anche stamattina!».
Niente sole, niente uccellini canterini, niente pancakes e niente uomo della mia vita.
Niente di niente di niente.
A parte i nuvoloni plumbei al di là della finestra, la mamma che mi guarda dall'alto in basso con fare contrariato, l'imbarazzante pigiama costellato di orsetti sbaciucchiosi che indosso dall'Alba dei Dinosauri e il tremendo ritardo che mi costringerà a saltare la colazione.
Balzo letteralmente in aria e inizio a muovermi freneticamente in giro per la stanza alla ricerca di qualcosa di pulito da mettere, forte della rinomata modalità Fast&Furious di cui i miei genitori hanno pensato bene di dotarmi al momento del concepimento. Vale a dire che so essere davvero molto veloce, se e quando voglio. Un bel vantaggio, in certe occasioni.
Esco di casa che sto ancora finendo di infilare uno stivale, afferro la bici al volo e inizio a pedalare più veloce della luce, cercando di non farmi mettere sotto da nessuno e urlando varie scuse  ai vari autisti che mi scatenano contro la furia dei loro clacson. Non che lavorare in un supermercato sia la cosa migliore che mi sia capitata da quando esisto, ma non posso di certo permettermi il lusso di farmi licenziare. Un’altra volta, per di più.
Anche se, beh, forse dopo una giornata del genere avrei dovuto gettare la targhetta col nome in faccia al responsabile e licenziarmi da sola. Okay, ho vent'anni e sono la dipendente più piccola (NdA:l'età media lì dentro è di centocinquantacinque anni) e magari sono veramente un pelino distratta come dicono, ma non sono mica idiota e non permetto a nessuno di trattarmi come una fessa. O meglio, non lo permetterò. Nessuno più dovrà osare farmi il cazziatone senza un apparente motivo e davanti ad un solo cliente, per lo più. Un altro episodio così e potrei seriamente cominciare a credere che tornare a lavorare con zio Tom, nonostante il mio odio profondo verso i gatti e l’accenno di folle paura  nei confronti dei cani, potrebbe rivelarsi un'occasione d'oro. Oppure potrei ripresentarmi all’impresa di pompe funebri che mi aveva ingaggiata all’inizio dell’anno: chissà, potrebbero già aver dimenticato quella volta che mi sono messa a dare di matto perché convinta di sentire degli strani suoni provenire da una delle bare pronte per il trasloco al cimitero. Non potevo sapere che fossero topi, non ne ho colpa. È stato un brutto tiro giocato dall’abbinamento “film horror della sera precedente+contesto da brividi”, non avrei dovuto essere sbattuta fuori in quel modo per un motivo così futile.
Sospiro. Ma no, non mi riassumeranno mai.
Smonto dalla bicicletta e decido di proseguire a piedi: la strada è ancora bagnata per via dell’acquazzone che ha allagato la cittadina nel primo pomeriggio, e l’ultima cosa che desidero al momento è rischiare di cadere e rompermi un osso. Continuo a vagabondare per qualche metro, facendo un riassunto delle mie ultime sette ore spese a correre da una parte all’altra e armeggiare in questo o quel reparto. Improvvisamente mi accorgo di come la situazione rasenti livelli altamente critici: sono stanca morta, coi nervi a pezzi, un'espressione tra l'isterico e il malvagio stampata sul viso pallido-semi-trasparente che mi ritrovo e una fame da lupi che so mi farà divorare molto più di quanto sia richiesto e consentito dal fabbisogno calorico giornaliero.
C’è però una cosa che mi consola, e coincide con il fatto di avere davanti ancora un solo giorno lavorativo prima del weekend. Anche se forse la prospettiva di poter oziare per due giorni consecutivi non è l’unica a tirarmi su di morale: accosto ad un lato della via, chiudo gli occhi e inspiro profondamente. Non so se a condurmi qui siano stati i miei piedi, il mio inconscio o il mio stomaco brontolante, ma sono estremamente felice di notare che mi basta voltare l’angolo per arrivare al forno.
Un caldo e delizioso profumo mi travolge e si fa strada su per le mie narici nel momento stesso in cui apro la porta della bottega e, quando riprendo coscienza di me, sto copiosamente sbavando sulla vetrina dei dolci. Non manca assolutamente nulla, un solo assaggio di uno di quei biscotti con le gocce di cioccolato bianco riuscirebbe ad addolcire persino la persona più acida. Mi perdo ad ammirare la grande varietà di paste, croissant e crostate e rivolgo un sorriso imbarazzato a Barbara, la proprietaria, nonché donna che mi conosce da quando ero in fasce e mi ha praticamente vista crescere, che ridacchia davanti a me.
«Giornataccia?» domanda col suo solito tono gentile.
Annuisco, troppo concentrata a scegliere per elaborare una risposta immediata. «Decisamente sì» dico infine. Mi chino in avanti e mi prendo almeno un minuto buono prima di decidermi, poi infilo una mano nella tracolla e tiro fuori il portafogli. «Potrei avere una ciambella con la glassa al cioccolato, per favore? Anzi, facciamo una ciambella e…».
«Un rotolino alla fragola?» completa una voce alle mie spalle.
«Sì, esatto» convengo a testa bassa, mentre tiro fuori una banconota e la allungo a Barbara al di là del bancone.
La voce dietro di me, che sono certa appartenga ad un ragazzo, torna a farsi sentire. «Dopo tutto questo tempo?» chiede.
«Sono una persona abitudinaria».
«Più che abitudinaria, non ti sembra di essere un tantino ripetitiva?» insiste.
Ma chi è questo? E che vuole da me? Possibile che adesso non si possa nemmeno comprare qualcosa da mangiare in santa pace? Mi alzo sulle punte dei piedi e afferro il sacchetto con la mia merenda, decisa a rispondere a tono: «Io veramente penso che…».
Pausa. Attimo. Mi serve un attimo.
Dopo tutto questo tempo? Ripetitiva?
Mi volto lentamente, mi sento come se fossi immersa in una scena al rallenti.
Avevo ragione, c’è un ragazzo accanto a me. È alto, ha un groviglio di ricci sulla testa e gli occhi verdi, mi guarda con un sorriso che si allarga a formare due adorabili fossette.
Sbatto ripetutamente le palpebre, incredula. L'unico mezzo neurone rimastomi in grado di pensare ritiene che stia facendo la figura dell'idiota, ma non mi importa molto.
Il ragazzo ride e apre le braccia, in un gesto che mi invita ad abbracciarlo.
Cosa che non faccio.
Perché io non l'abbraccio: nossignore, io mi fiondo contro il suo petto come se fossi una palla di cannone appena sparata verso il cielo.
«Haaaaaaroooold!» urlo, non troppo curante del fatto che lui debba aggrapparsi al bancone per evitare di cadere con le chiappe a terra.
Come stai?, che ci fai qui?, quando sei arrivato? e un altro trilione di domande vengono letteralmente rigurgitate dalla mia bocca ad una velocità talmente impressionante che ad un certo punto non riesco più a capire e sapere cosa gli stia chiedendo.
Harry appoggia il mento sulla mia spalla e ricambia la stretta, non ha ancora smesso di ridere quando sciogliamo l'abbraccio.
«Una domanda per volta, che ne dici?».
«Sarebbe meglio, sì» convengo, tutta presa a ridarmi un minimo di contegno. Probabilmente non si direbbe, ma sono enormemente felice di rivederlo.
«Bene. – annuisce, poi indica i miei capelli – Che diamine hai combinato?».
Mi prendo una ciocca tra le dita e la fisso per qualche secondo; non è la prima volta che la osservo, ma solo adesso mi sembra di vederla veramente. Strano, eh.
«Oh. È una lunga storia» rispondo nel tentativo di minimizzare il tutto.
Harry incrocia le braccia al petto e scuote il capo in segno di disappunto. «Non posso lasciarti sola un attimo che quando torno ti trovo con i capelli viola, a quanto pare» commenta con un finto tono da paternale.
So che sta scherzando, ma ciò non vuol dire che non possa ribattere. «Punto primo, sono solo alcuni ciuffetti; punto secondo, sono indaco perché il viola è scolorito da un pezzo; punto terzo, tu non sei stato via un attimo, Styles. Tu sei stato via mesi. Mesi! Quasi un anno!».
Barbara ridacchia, ricordandoci improvvisamente della sua presenza. «Sarà anche passato del tempo, ragazzi, eppure continuate a punzecchiarvi come se non vi vedeste da qualche ora o un giorno al massimo» ci fa notare, il suo faccino roseo e paffuto stirato in un largo sorriso. Ed ha ragione. Questa donna parla poco e il più della volte appare dietro di te quando meno te l'aspetti (prima o poi morirò di infarto per mano sua, è certo), ma dice sempre il vero.
Harry mi lancia un’occhiata complice e divertita, grattandosi un punto non meglio specificato della sua zazzera disordinata. «Vedo che hai molta fame, uh?» allude ai miei acquisti.
Annuisco, appena imbarazzata e con le guance che pizzicano.
«Hanno proprio ragione a sostenere che certe cose siano dure a morire».
Non sapendo bene come rispondergli, mi avvalgo di uno dei più eloquenti gesti che l'essere umano abbia mai elaborato: la linguaccia.
Sì, sono stupida, infantile e quest'ultima azione corrisponde all'aver buttato in un gabinetto e tirato lo sciacquone sui miei vent'anni.
«Sei sempre così matura?» mi rimbecca.
«Sei sempre così antipatico?» domando piccata.
Styles si volta verso la sua vecchia datrice di lavoro, porta una mano a coprirsi parte della bocca e poi bisbiglia: «In realtà è contenta di vedermi, però non può fare a meno di essere arrabbiata con me perché non mi sono fatto sentire troppo spesso».
Incrocio le braccia. «Eh, ogni tanto riesci a dire qualcosa di intelligente» sbuffo.
«Ti prometto, qui e adesso, che cercherò di messaggiarti di più».
«Come no, aspetta solo che ci creda».
Harry assume un'espressione seria e si batte il pugno chiuso all'altezza del cuore con fare solenne. «Lo giuro sul mio onore, m impegnerò a farmi vivo almeno una volta a settimana. Se così non dovesse essere, autorizzo Barbara a suonarmele di santa ragione con la scopa».
Lo guardo scettica: se stessi masticando una gomma, questo sarebbe il momento perfetto per farla scoppiare con un sonoro Pop!.
«L'onore l'hai perso da un pezzo, ed entrambi sappiamo bene quando. – replico – Giura su qualcosa di più importante».
«Barbara che mi picchia non è importante?».
Fingo di pensarci su. «Non direi, no».
Sgrana gli occhi e mi fissa sbigottito, regalandomi un immenso sguardo verde-azzurro. Per un attimo mi chiedo come reagirebbe un'altra ragazza al posto mio: probabilmente sverrebbe, o urlerebbe, o partorirebbe istantaneamente tanti figli quanti sono i Puffi. Magari farebbe tutte e tre le cose contemporaneamente.
Io, dal canto mio, non ho mai fatto mistero della mia convinzione per cui reputo Harold Edward Styles il ragazzo con gli occhi più belli che abbia mai visto. Quando glielo dissi, più o meno un anno prima che diventasse il famoso Harreeeyyy che moltissimi credono di conoscere, non fece altro che pavoneggiarsi per settimane e settimane e settimane. Smise solo quando minacciai di non passargli le soluzioni del compito di matematica.
«Lo giuro su Simon Cowell» sentenzia infine.
«Simon Cowell?!».
«Sì, è la persona più importante della mia vita» spiega, facendo spallucce.
Scoppio a ridere senza un vero e proprio motivo, forse per via di quell'aria da deficiente che assume, stringendo la mano che tiene tesa verso di me.
«Andata, ma solo perché sono clemente» dichiaro con un atteggiamento così altezzoso e pomposo che la cara Elisabetta potrebbe benissimo scambiarmi per una sua nipote e incoronarmi principessa seduta stante.
Sì, la fame inizia a giocarmi brutti scherzi.
«Proprio clemente, già...».
«Non scherzare, sono così magnanima da sorprendermi io stessa. Dovresti inginocchiarti al mio cospetto».
«Non dovrebbe essere al contrario?» bisbiglia, facendomi l'occhiolino mentre mi passa davanti per raggiungere Barbara (improvvisamente scomparsa, manco fosse imparentata con Houdini) nel retro.
Idiota di uno Styles. Idiota, idiota, idiota. Nemmeno tu sembri essere cambiato troppo, dopotutto.
Mi avvicino alla porta d'ingresso e la apro, sbollentando l'ondata di calore che mi ha assalita con l'aria gelida proveniente dall'esterno.  Mannaggia a me e al mio continuo andare a fuoco per una qualsiasi cosa detta da un qualsiasi chissacchì di turno.
«Barbie, posso chiederti un permesso speciale?» sento Harry parlare dalla stanza accanto. È ovvio che abbia alzato il volume della voce per assicurarsi che io lo ascolti. «Posso uscire mezz’ora prima, oggi? Giuro che domani recupero e faccio il turno extra!».
Sorrido a capo chino: avrò già assistito ad una scena simile almeno un altro milione di volte in passato.
Le sue scarpe nere affiancano le mie Converse sul pavimento e, quando sollevo lo sguardo nella sua direzione, lo vedo sorridere e alzare entrambi i pollici come un bambino contento di aver ricevuto un nuovo giocattolo.
«Ha detto di sì» m’informa, infilando un braccio dentro il giubbotto.
«Bravo».
Si mette a dondolare sui talloni. «Quindi posso venire con te» aggiunge.
Eh?
«Come?» domando ormai fuori dalla bottega, in strada.
«Avanti, sappiamo entrambi che vuoi che ti segua».
Scuoto leggermente il capo, guardandolo confusa. «No che non lo voglio» rispondo.
«Allora vuoi che cammini al tuo fianco?» chiede incoraggiante.
Imito il suono di uno di quei buzz dei quiz televisivi, uno di quelli che parte quando il concorrente sbaglia la risposta. «Ritenta, Harold, sarai più fortunato».
«Non ti lascerò mai fare merenda da sola, se è questo che pensi».
Mi premo le mani contro le guance, nell'imitazione più scarsa della me scombussolata che riesco a fare. «Cavolo, hai scoperto le mie reali intenzioni!».
«Avanti, è tristissimo mangiare in solitudine! Anche tu hai bisogno di compagnia, ogni tanto, altrimenti verresti sbranata dai pastori alsaziani e nessuno se ne accorgerebbe perché nessuno ti conoscerebbe!».
«Ma chi ti dice che io sia da sola?» dico quasi acida, un po’ offesa dal fatto che mi consideri un’asociale sociopatica.
Harry mi supera di qualche passo e si ferma poi di fronte a me, incrocia le braccia al petto e mi squadra dall’alto verso il basso e viceversa. «Dopo tutto questo tempo, pensi ancora di poterla fare franca con il sottoscritto?».
«Non è forse così?».
«Certo che no!» esclama. Roteo gli occhi e lui approfitta del mio silenzio per continuare. «Se ti conosco, Chase (e ti conosco, quindi stai zitta), saresti andata dritta filata a casa, ti saresti buttata sul divano e avresti cominciato a fare zapping in tv pentendoti di non aver comprato anche un pretzel. Fortuna che sono arrivato in tempo».
La verità delle sue parole è sconcertante, ma mi sforzo di apparire impassibile. Lo supero e riprendo a camminare. «Da quando mi chiami per cognome?» chiedo.
«Da quando l’ultima volta che ci siamo visti mi hai pregato di non chiamarti Victoria».
Non lo ricordo, ma la cosa non mi sorprende: ho sempre odiato il mio nome. «L’ho fatto?».
«Sì, Vic, l’hai fatto».
«Puoi ripetere, per favore?» lo invito, portandomi una mano all’orecchio sinistro come per sentire meglio.
«L’hai fatto, Vic».
Socchiudo gli occhi e sospiro soddisfatta. «Oh, vedi? Vic suona di gran lunga migliore».
«D’accordo, Vic».
«Okay, però non abusarne».
«Come vuoi» annuisce.
Camminiamo in silenzio per qualche minuto, accompagnati solo dal suono indistinto di alcune voci tra le varie vie. Harry continua a calciare un sasso ad ogni suo passo ed io sto attenta ad evitare che la bici finisca dritta in una pozza: non vorrei ritrovarmi a dover scrostare le macchie di fango.
L’aria pungente mi fa rabbrividire e mi fa pentire di non aver indossato una maglia a collo alto o di non aver preso una sciarpa mentre uscivo di casa, perciò mi…
RBURUBRUUUURBRRAAAAAAAAH!
Scatto sull’erta e mi guardo intorno, paonazza, pregando che Harry non abbia sentito la parata che si sta svolgendo dentro il mio stomaco. Invece il suddetto ragazzo ha ben udito quel tremendo brontolio (e come non avrebbe potuto? Il lamento è riecheggiato per tutta Holmes Chapel!) e si sta sforzando di non ridere.
«Ho come l’impressione che qui qualcuno abbia urgentemente bisogno di mangiare, non ti pare?».
Dissimula, Vic, dissimula.
«Hai fame?» chiedo svampita. Harry alza un sopracciglio e mi guarda come ad esortarmi a non sparare castronerie, motivo per cui aggiungo: «Okay, ho fame. Famissima. Mi sento come se non mangiassi da un mese. Mi sento come quella pubblicità di quei cracker, con la tipa che ingurgita un computer intero».
«Quanto la fai drastica» ridacchia.
«Non ho fatto colazione, comprendimi».
«Beh, questo spiega tutto. Quindi dove stiamo andando?».
Mi fermo sul posto, interdetta. «Non lo so, io stavo seguendo te».
Anche lui sembra improvvisamente spiazzato. «Io seguivo te».
«Nella mia famiglia non sono una maniaca del controllo, volevo fossi tu a scegliere».
Harry fa un cenno col capo e sorride a labbra chiuse. «Siamo gentili, oggi» scherza, offrendomi un braccio mentre con l’altro afferra la mia bicicletta.
«Sì, siamo molto gentili, oggi». Accetto la presa e lascio che sul suo viso si formi un’espressione compiaciuta.
Torniamo ad incamminarci e ben presto capisco che mi sta guidando in direzione del parco.
Mi rivolge un’occhiata di sottecchi e ridiamo quando si accorge che anch’io lo stavo già guardando.
«Quindi, – esordisce – come te la passi?».
Scrollo le spalle. «Sempre allo stesso modo: casa, lavoro, passeggiate domenicali con Alexis… La solita solfa».
«Nulla di nuovo all’orizzonte, insomma».
«Di questo passo dimenticherò presto cos’è, l’orizzonte».
Harry incrocia le braccia dietro la testa e alza gli occhi al cielo, dove inizia a spuntare qualche spiraglio di sole. «Hai ripensato alla mia proposta dell’ultima volta?».
«Quale?».
«Quella di trasferirti a Londra» risponde con indifferenza. Con finta indifferenza, forse.
Non riesco a dire niente, a parte un «Ah» mormorato appena. Non credevo se ne ricordasse: è passato del tempo, e in più ero convinta che l’avesse detto perché spinto dalle tre birre che si era scolato. Voglio dire, quella sera avevano tutti esagerato un pochino con l’alcol e alla fine non si riusciva nemmeno più a capire niente.
«Ci hai ripensato seriamente?» insiste, chinandosi per studiare la mia espressione confusa.
È ovvio che l’abbia fatto, quella mezza idea biascicata prima di addormentarsi è stata oggetto delle mie più profonde e meditate riflessioni per intere settimane. Ho continuato ad alternare sì e no, stati d’euforia a dubbi esistenziali per una o due pagine del calendario, poi Harry è sparito e con lui anche il mio spirito d’iniziativa.
«Non riuscirei a cavarmela, lì fuori. Non da sola. – spiego con calma, dopo essermi presa qualche attimo prima di rispondergli – Per quanto a volte mi stia stretto, mi trovo bene in questo piccolo angolo di mondo».
«Non saresti sola: io ti darei una mano col trasloco e tutto il resto, ce la faresti. I primi tempi potrebbero essere leggermente problematici, ma poi…».
«Ma poi andresti via. Tu vai sempre via, Harold».
Ed ecco cosa succede quando si parla senza prima aver atteso che cervello e bocca si consultino tra di loro. Mi capita spesso di dire cose a sproposito, non sono mai riuscita a farne a meno. Però... però adesso avrei dovuto tenere il becco chiuso. Non so che fare. Aiuto. Non sono nemmeno in grado di pensare a delle scuse o a qualunque altra cosa che possa togliermi da quest'impiccio; inizio solo a farfugliare frasi sconnesse che non hanno il benché minimo senso.
Cioè, ho appena fatto pesare al mio migliore amico il suo essere un astro della musica internazionale con tanto di premi e riconoscimenti alle spalle. In pratica gli ho sputato in faccia il fatto di non esserci stato quando avevo bisogno di lui: il che è vero, lui non c'era e non avrebbe potuto esserci, ma non posso mica fargliene una colpa. Il successo l'ha travolto e trascinato via, tutto qui.
Oh. Sono talmente presa dal mio sguazzare nell'oceano del Panico da non accorgermi nemmeno di aver raggiunto il parco. Harry è ancora accanto a me, non spiccica parola e si guarda brevemente intorno prima di puntare una panca in legno poco distante da noi. Lo seguo e mi siedo a gambe incrociate, lui  si lascia scivolare sullo schienale e infila le mani in tasca; continua a fissare assorto un punto in fondo, tra l'erba alta e i soffioni. Provo anch'io a guardare nella stessa direzione, ma non vedo niente che possa attirare la mia attenzione.
Sono così a disagio che quasi mi è passata la voglia di mangiare. Quasi.
«Sei l'unica persona a chiamarmi ancora Harold. – mormora infine, quando decide di riacquistare l'uso della parola – Neanche mia madre lo fa quasi più».
L'occhiata che gli rivolgo ha del, non so, pazzoide probabilmente. È quel tipo di occhiata con un occhio sbarrato e uno quasi chiuso, per capirci. Il tipo O-grande-punto-o-piccola, per essere maggiormente specifici.
«È tutto quello che hai obiettare, Harold?». Il mio tono di voce è più acido di quel che avrei voluto, ma Harry mi sorride di quel suo famoso sorriso tutto fossette e mi fa sentire un tantino meno tesa.
Dio, oggi sono tanto intrattabile quanto mia sorella in quei suoi giorni. Non mi capita mai di essere così arrabbiata col mondo, mai. Quasi mai. Solitamente. Va bene, mi capita spesso: due volte a settimana, almeno.
«No, in effetti c'è dell'altro» afferma, incrociando le braccia al petto.
«Sono tutta orecchie».
«L’Apollo Theatre potrebbe essere un buon trampolino di lancio prima di arrivare a Broadway. Perché tu... balli ancora, no? I musical e tutto il resto ci sono ancora, no?» aggiunge dopo poco.
Annuisco ripetutamente, pensierosa. «Sì. Sì, faccio ancora parte del gruppo. Però non credo che facciano spettacoli di danza all'Apollo Theatre. O forse sì. Li fanno?».
Harry ci pensa su, poi scoppia a ridere.
«Boh, e chi lo sa» risponde divertito.
«E tu saresti quello che vive a Londra, eh?».
«In un certo senso, non posso dire il contrario. Vedila così: io sono un cittadino del mondo».
Cittadino del mondo. Cittadino del mondo. Cittadino del mondo. Mi piace come espressione, sì. Non mi si addice forse appieno, ma mi piace.
Afferro la ciambella dal sacchetto e ne mordo un pezzo talmente grande che quasi fatico a chiudere la bocca. Mastico con calma e mando giù. «Allora dimmi, cittadino del mondo, preferisci la ciambella o il rotolino?» chiedo con nonchalance, trattenendomi dal ridere e riuscendoci veramente bene. Forse è vero ciò che dice la mia famiglia, forse sono sul serio un'attrice nata e mancata.
Harry fa scivolare lo sguardo dalla ciambella che continuo a mordicchiare al rotolino alla fragola ancora intatto; il gesto è chiaro come il sole in una bella giornata estiva in qualunque parte del pianeta che non sia l'Inghilterra, ma evidentemente il ragazzo non può fare a meno di reggermi il gioco e recitare la sua parte.
«Rotolino, – risponde dopo aver finto una lunga e acuta riflessione – non oserei mai derubarti della tua preziosa ciambella».
«Saggia decisione, bravo» mi complimento brevemente e con la mano parata davanti alle labbra prima di ingollare un altro pezzo.
Harry mangia con la stessa lentezza con cui parla, perciò, complice la mia assurda voracità di oggi (e di sempre, quando si parla di dolci e schifezze varie), passo parte del tempo a rigirarmi i pollici mentre lui continua a sfamarsi, morso dopo morso.
Dovrei smetterla di rosicchiare così le mie unghie, ammetto che non sia una cosa carina da fare. Infilo le mani nelle tasche del giubbotto.
«Comunque per andare a Londra non hai bisogno di prendere l'aereo» osserva d'un tratto, come se fosse stato folgorato sulla via di Damasco.
«Sì, questo lo so». Apre la bocca per parlare, ma lo zittisco. «No. Non al momento, almeno».
«Quindi tu vuoi sfondare come ballerina ma hai paura di muoverti da questo buco. – afferma, e lo dice in un modo che quasi quasi mi mette a disagio – Lì a sud gli artisti di strada vanno forte, sai? Balli hip-hop e la gente ti tira un sacco di monetine, qualcuno lascia anche delle banconote».
Opto per l'arrampicata sugli specchi.
«Non è paura, è timore» correggo.
«È lo stesso».
«No che non lo è».
«Okay, è timore. Però resti strana lo stesso».
«E tu lasciami essere strana come e quando mi piace» sbuffo infine, ponendo fine alla questione.
Casco di Ricci torna a concentrarsi sulla sua merenda, ma non passa molto prima che se ne venga fuori con un'altra delle sue.
«Ti vedi con qualcuno ultimamente?» domanda con questo suo nuovo fare bizzarro e ingenuo e impacciato che non ricordavo prima.
«Poi sono io quella strana, eh?».
«No, davvero, ti vedi con qualcuno?».
Distolgo lo sguardo da lui per uno o due minuti, spiazzata. «Uhm, no. – dico infine – Cioè, non al momento. Sono uscita  per un po’ con un ragazzo, ma la cosa non è andata in porto».
«Chi era?».
«Dylan O’Brien, non credo che tu…».
Harry salta inspiegabilmente su, la sua faccia diventa praticamente tutta occhi. «Quello di Teen Wolf?!» esclama.
«Chi?», ho nla voce ridotta ad un urletto stridulo.
«Quel Dylan O’Brien? Quello della serie tv?».
«Non ho proprio idea di chi sia… – corrugo la fronte e scuoto il capo – Dio, sei proprio scemo» sussurro.
«Un caso irrecuperabile».
«Esattamente».
«Quindi sono ancora l’unico Styles della tua vita?» ammicca.
Mi vien da ridere, ho una voglia matta di farlo, e mi lascio scappare un ghigno che dissimulo con un colpo di tosse. «Sì. Ti senti sollevato, adesso?».
«Molto». Un ultimo boccone e anche il rotolino alla fragola sparisce nel vuoto. «Come mai non ha funzionato?».
Appoggio la testa contro lo schienale della panca e guardo il cielo meno nuvoloso. «Credo fossimo troppo diversi, semplicemente questo».
«Hai rotto tu?».
«Strano ma no, abbiamo deciso entrambi di rompere. Era uno in gamba, lo devo ammettere, ma non era il tipo per me».
Si lascia scivolare più vicino a me, in modo che i nostri occhi siano alla stessa altezza.
«E tu? Ti vedi con qualcuna ultimamente?». Adesso tocca a me prendere il coltello dalla parte del manico.
«No».
Gli assesto una gomitata amichevole. «Bugiardo».
«Ahia!» sbotta, massaggiandosi il punto mortalmente ferito.
«Femminuccia».
«È vero, perché dovrei mentirti?».
«Vediamo... Perché potrei andare a spifferare tutto a qualche rivista che mi pagherebbe tanto oro quanto peso per saperne di più sul tuo conto?» azzardo.
Harry avvolge un braccio intorno alle mie spalle e mi dà qualche colpetto affettuoso sulla scapola. «Non lo faresti mai» risponde con sicurezza, facendomi scappare un sorriso.
«Sì, hai ragione» affermo poco dopo.
«E poi, anche volendo, non ne avrei tempo. Sei la prima ragazza con cui esco da non so più nemmeno quanto».
Toh, a quanto pare sono ancora una volta la prima.
«Mi sento davvero onorata di ciò» ridacchio.
Harold tira un profondo sospiro, le spalle (più grandi di quanto le ricordassi) si alzano e si abbassano. «È frustrante» sibila.
Strabuzzo gli occhi. «Come, prego?».
«Incontrare tante ragazze carine ogni giorno e non poterle invitare fuori, è… mi deprime».
Facepalm. Facepalm con tutte e due le mani.
Non so esattamente come reagire ad un affronto simile, potrei tentare una soluzione melodrammatica e buttarla sul ridere, in fondo so che non voleva offendermi. Faccio per mettermi in posa ed iniziare la mia performance, ma Harry impiega solo una manciata di secondi prima di connettere tra loro i suoi due mezzi neuroni e tentare di riparare allo strafalcione.
«Aspetta, – esordisce premuroso – non fraintendere. Io non intendevo che…»
«No no, tranquillo, ho capito: tu non intendevi dire che sono molto al di sotto dello standard di bombe sexy che incontri quotidianamente, proprio no. Non hai mai insinuato una cosa del genere, no».
Mi dà un buffetto sulla guancia a tradimento. «Dai, Vic!» ride, allungando più del dovuto la I del mio nome.
«Toccami ancora le guance e ti denuncio».
«Secondo me hai fatto scappare Dylan a gambe levate, ecco perché ti ha mollata».
«Mi erano mancati il tuo tatto e la tua delicatezza, sai?» borbotto. Mi allontano da lui e mi sistemo sull'estremità della panca, gli do quasi le spalle, ma ovviamente Harry mi afferra per i fianchi e vengo inesorabilmente ritrascinata indietro. Ahimè.
«Avanti, dimmi: com’è questo tuo "tipo ideale”? – mima con le dita – Deve ancora essere il più possibile somigliante a Justin Timberlake?».
«Oh, no: ho superato quella fase da un pezzo. Il mio tipo ideale deve essere Justin Timberlake».
«Ha poche pretese, la ragazza. – bisbiglia ad una terza persona che non c’è – Lo sai che è sposato, no?».
«Sì, e sua moglie è bellissima» dico mestamente.
«Quindi hai deciso di votarti all’ascesi per tutto il resto della tua lunga vita solo perché l’uomo dei tuoi sogni è già impegnato?».
Pft, ma per chi mi ha presa?
«Certo che no! Un bel giorno Justin si sveglierà nel suo immenso letto matrimoniale, proprio al fianco di Jessica, e d’un tratto realizzerà che lei non è più la donna giusta per lui. Per quanto ciò potrà dispiacergli, si vedrà comunque costretto a lasciarla e… Uhm, non ho ancora chiari i dettagli del nostro incontro e del nostro fidanzamento-lampo, ma ci sto lavorando sopra».
Sì, sono estremamente convinta di ogni singola sillaba che ho appena pronunciato: devo credere nei miei sogni se voglio che si realizzino.
Mi aspetto che Harold prenda a sghignazzare e sfottermi come se non ci fosse un domani, invece si limita a guardarmi con interesse, con un angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso divertito. Ricambio istintivamente prima di proseguire: «Comunque sto ancora aspettando che tu mi presenti Liam, ricordi?».
Alza le spalle e mette su una finta aria desolata. «Anche Liam ha già la ragazza, mi dispiace».
«Beh, allora presentami Niall». Seriamente, non vedo dove sia il problema.
«Perché dovrei farlo?» sorride allegro, il mento sul pugno chiuso e il gomito poggiato sul ginocchio. Mi soffermo a studiare le sue gambe prima di rispondere, paragonandole con le mie: stronzo, potrebbe fare concorrenza a Kate Moss con delle gambe del genere. Io invece... io... io sembro uscita da un dipinto di Botero, ma vabbeh, illudiamoci pure del fatto che abbia i muscoli sviluppati per via dei miei innumerevoli anni di danza.
«Perché è il minimo che tu possa fare dopo i tanti sacrifici che ho fatto per te».
Che battuta ad effetto, eh? Peccato che non sembra proprio aver ottenuto il risultato sperato.
«Tanti sacrifici, addirittura», adesso ride proprio di gusto.
Gli punto un dito contro, pronta a difendere le mie ragioni. «Hey, ti ho fatto copiare anni e anni di compiti per casa, dovresti essere più riconoscente».
«E dovrei mostrarti la mia riconoscenza presentandoti un mio amico?».
«Vedo che hai capito, gioia. Ti ho sempre ritenuto abbastanza intelligente da poter fare i tuoi compiti da solo, dopotutto» mi cimento in un'imitazione della signora Alcott, la nostra vecchia e secolare e bassa e bionda e antipatica professoressa di Storia, che sarebbe stata perfetta se alla fine non mi fossi messa a ridere come una deficiente.
Anche Harry ridacchia un po', prima di sganciare le bomba.
«È troppo chiederti di accontentarti di me?» domanda.
Ah?
È troppo chiederti di accontentarti di me?
AH?
È troppo chiederti di accontentarti di me?
Ah.
Signore e signori, è con immenso piacere che vi presento Harry Styles, il ragazzo più discreto di tutta la via Lattea.
Se avessi ancora quattordici anni probabilmente trillerei qualcosa tipo «Opossum!» e farei finta di mettermi a dormire, ma alla mia età attuale mi sembra una cosa terribilmente fuori luogo.
Però dico, è il caso di venirsene fuori con interrogativi del genere? Non è un tantino crudele da parte sua mettermi in difficoltà in questo modo talmente barbaro? Un attimo prima siamo lì a parlare di quel gran figo ex-biondo-riccio-impomatato-degli-N*Sync e un attimo dopo ripeschiamo discussioni più stagionate di una ruota di parmigiano in un caseificio italiano.
Il tempo sembra dilatarsi, Harry aspetta sicuramente una risposta ed io ho come l’impressione che sia già passato un millennio. Apro la bocca, ma la mia mente annebbiata è completamente vuota e svuotata di ogni cosa (a parte un’immagine di mia sorella Greta che non smette di ripetermi che ho la testa utile solo per completare il resto del corpo) e la richiudo senza nemmeno farne uscire un verso di qualunque tipo. Non mi resta altro che sperare che Harold annunci trionfalmente di star scherzando, lottando nel frattempo per non accendermi come una grossa lampadina rosso fluo; anche se temo di essere già in ritardo per questo.
E poi, eccolo, il tanto sospirato miracolo. Il cellulare nella tasca vibra e mi precipito a rispondere come se da quella telefonata dipendesse tutta la mia vita.
È mamma: mi chiede di rincasare il prima possibile per aiutarla in cucina.
«A quanto pare avremo ospiti a cena» bofonchio rivolta al telefonino. L’idea di passare una serata in compagnia di Jade (che da “migliore amica” è passata al rango di “amica?”) e di quell’oca di sua sorella minore mi alletta tanto quanto una nuotata nei fiumiciattoli infestati dai piranha in Amazzonia.
«Perché non mi sembri tanto contenta?».
«Perché non lo sono affatto». Mi alzo, infilo la tracolla e allungo una mano verso il manubrio della bici. Styles scatta in piedi e mi segue in silenzio. «Proprio il completamento perfetto per una giornata perfetta» borbotto tra me e me.
Harry mi passa una mano tra i capelli perfettamente piastrati, arruffandoli tutti. È il suo modo di dimostrarsi affettuoso e compassionevole delle mie sciagure, perciò lo lascio fare senza arrabbiarmi.
«Lo credo bene, – sghignazza – sono stato il sole nel tuo cielo nuvoloso!».
«Eh?».
«Ti ho rallegrato alla grande» spiega.
«Ah… sì. – rispondo distrattamente – Avrei bisogno di averti fra i piedi più spesso, forse».
Lo vedo spalancare le braccia con un gesto plateale. «Chiedi e ti sarà dato!» esclama euforico.
Ci siamo appena lasciati l’ingresso del parco alle spalle, è tempo che le nostre strade si dividano.
«Beh, non mi hai ancora detto per quanto ti fermi stavolta».
Sembra leggermente impacciato mentre si guarda intorno, evitando il mio sguardo. «Oh, eeeehm, fino a domenica… quasi una settimana… sono arrivato lunedì sera e…».
Non occorre nemmeno che finisca la frase. «Sei arrivato lunedì sera e nemmeno sei venuto a cercarmi?!» strillo.
«Fammi finire di parlare, aspetta! Sono arrivato lunedì sera ed era troppo tardi perché venissi a trovarti…».
«Vergogna, Styles. Vergogna, vergogna, vergogna».
«…e allora sono passato da casa tua martedì pomeriggio, ma tu non c’eri, e ieri sono uscito con Will e il resto dei ragazzi e oggi… ehm… L’importante è che ci siamo incontrati, no?» sfodera un ottimistico sorriso a trentadue denti.
«Appunto, ci siamo incontrati».
«Questo è un buon segno, vuol dire che il Fato è dalla nostra parte!». Ed io che fino a qualche ora fa mi reputavo la campionessa assoluta dell’arrampicata sugli specchi.
«Per il tuo bene, non rivelerò a nessuno questa battuta».
«Tanto sai che sono capace di farne di più squallide» m’informa.
«Sì che lo so, e mi addolora notare che peggiori col tempo».
«E tu come…?».
«Youtube».
«Ah. – è palesemente sorpreso – Da quando in qua mi stalkeri su Internet?».
«Da quando tu sei sparito nel nulla ed io non ho più avuto notizie». Mi sto mentalmente congratulando con me stessa, avete indovinato.
Harry alza le braccia in segno di resa e scuote il capo, i ricci gli danzano davanti al viso. «Okay, la questione si sta decisamente rivoltando a mio sfavore e non posso fare a meno di evitare questa situazione spinosa, perciò, – sfrega tra loro le mani – hai da fare domani?».
«Lavoro. Quasi tutto il giorno, per di più: c’è una riunione per non ho capito cosa alla quale sono tenuta a presentarmi, anche se sicuramente non mi sarà data l’occasione di aprire bocca perché sono troppo giovane».
Io sospiro, lui fischia.
«Ti trattano bene» commenta.
«Coi guanti di velluto».
«Allora sabato? Posso anticipare gli impegni a domani ed essere a tua completa disposizione per un giorno intero, se ti va».
Faccio cenno di sì con la testa, egoisticamente felice e onorata della sua proposta. «Sembri uno che ha molto da farsi perdonare» assumo un’espressione buffa, a metà tra il divertito e l’astuto. O almeno, mi auguro che risulti buffa e che non mi faccia apparire ancora più insulsa.
«Passo a prenderti per le nove e mezza e, ti supplico, ti supplico ti supplico ti supplico, non lasciarmi ad aspettare fuori dalla porta».
«Non accadrà mai, mia madre ti farà entrare e ti offrirà il solito caffè di sempre» perché ha il solito debole per te di sempre, penso. Monto in bicicletta per evitare di ritardare ancora, anche se questo significa che dovrò mettermi veramente a pulire via il fango prima di salirvi sopra un’altra volta. «Sarà meglio che scappi a casa, adesso» gli comunico.
«Sarà meglio, sì» risponde, scoccandomi un’occhiata furba. So esattamente cosa vuole e non ho intenzione di negarglielo, così alzo un pollice e gli do il via libera.
Harry agita un pugno per aria, poi poggia le mani sulla mia schiena e comincia a correre per prendere velocità e darmi la spinta che serve, allo stesso modo di quando eravamo bambini e lui mi insegnava a pedalare.
Sono ormai distante qualche metro quando lo sento vociare «Mi sembra solo ieri che andavi ancora sul triciclo! La mia bambina è cresciuta!».
Rido a cuore aperto.
Stupido Styles, quante ne abbiamo combinate.

 
Stop the traffic, let 'em through!

Un mese e due giorni. 
Sono dovuti passare un mese e due giorni prima che io riuscissi a scrivere qualcosa.
(Sono anche passati roba tipo tre anni prima che mettessi di nuovo piede in questa sezione, forse è per questo che ho l'ansia da prestazione)
Oibò, la storia c'è.
È divisa in due parti perché mi stavo dilungando troppo, e l'idea di postarvi l'Iliade omerica non mi andava proprio a genio.
Spero che questa prima parte vi sia piaciucchiata almeno un pochino, la seconda è già in massima parte abbozzata e mi auguro di riuscire a postarla tra giovedì e venerdì prossimi, impegni permettendo. In pratica, non linciatemi se ritardo. Sono molto esigente con quello che scrivo e non faccio altro che farmi paranoie. A proposito, vi prego di scusare eventuali orrori ortografici e ca...stronerie scritte, il mio cervellino bacato ha dato forfait e penso di essermi lasciata parecchie schifezze alle spalle.
Ed è tutto!
Vi ringrazio per l'attenzione *rotola palla di fieno* e per aver aperto la pagina, facendo salie il numro di visualizzazioni lol
Alla prossima,

A.

Note speciali per mia sorella:
Hai letto? Hai letto tutto? Lo so che non sono brava quanto Rick Riordan, ma almeno degnami della tua attenzione e leggimi.
Questa povera formichina curiosa sta sgobbando tanto per scrivere qualcosa di decente con te protagonista (ho anche messo vari riferimenti che spero tu abbia capito) e vorrebbe avere un tuo parere. Anche se non ti piace. Tanto lo sai che non ti lincio. Al massimo salgo in camera e brucio tutte le tue cose <3
Battute tristi a parte, spero ti piaccia. Almeno un po'. Perché mi sto impegnando un botto per non descriverti antipatica come sei e perché ho deciso che questa sarà la prima e l'ultima volta che scrivo di te.
Ultima cosa: Harry.
Non potevo shipparti con Niall perché è mio, quindi beccati Styles e andate a mangiare un gelato/fare qualche giro al parco divertimenti/fare shopping/costuire un aquilone e tutte quelle altre belle cose di cui parlavamo l'altra notte xD
Ti lovvo.

P.S.: È per te che ho ingrandito i caratteri, visto che sei cieca, così non ti lamenti.


 

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


  • Seconda Parte
 
Stavolta mamma non ha avuto bisogno di prendermi di peso per farmi uscire dal letto, ho fatto tutto da sola. Beh, più o meno. Ho dovuto puntare cinque diverse sveglie ed il mio cellulare ha rischiato di essere scaraventato giù dalla finestra (chiusa, peraltro, quindi mi sarei cacciata in un grosso guaio); l’avevo già in mano quando mi sono resa conto di avere solo quarantatre minuti per rendermi presentabile e di dovermi dare una mossa.
A quanto pare, non ci sarà mai una mattina nella mia vita in cui potrò prenderla con calma e fermarmi a fare il bis di latte e cereali.
Faccio colazione in fretta, torno in camera, rifaccio il letto, butto i panni sporchi nella cesta, mi infilo sotto la doccia, mi pento di non aver deciso ieri sera cosa indossare, tiro fuori qualcosa dall’armadio senza nemmeno guardare, mi vesto, lego i capelli in uno chignon ancora umido e il mio telefono trilla esattamente alle nove e ventotto, informandomi che Harold mi sta aspettando nel vialetto fuori mentre io finisco di applicare il mascara alle mie corte corte ciglia.
Sospiro profondamente e vado a piazzarmi davanti allo specchio per la prova del nove. Non male, pensavo peggio. Cioè, indosso un paio di jeans col cavallo basso che hanno ben poco di femminile, il mio makeup è pressoché inesistente-stile-acqua-e-sapone e non vincerò assolutamente un concorso di bellezza, ma almeno potrò mettere un piede fuori casa senza spaventare i bambini che incontrerò in strada. Avvolgo una pashmina intorno al collo, afferro il giubbotto e lo indosso mentre scendo le scale, dritta verso la porta d’ingresso, dove trovo mamma ad aspettarmi.
«Harry è già arrivato» mi comunica con la voce sopra di un’ottava.
Il mio tono noncurante stride duramente contro tutta la sua emozione. «Sì, lo so» rispondo.
«È sempre stato così puntuale. Avrebbe mille ragioni per montarsi la testa e invece è ancora quel bravo ragazzo di sempre».
La cotta di mia madre per Harry Styles raggiunge livelli epici, non smette mai di sorprendermi. E farmi rabbrividire.
«Sì, okay» provo a tagliare corto, ma mi interrompe.
«Chiediamogli di entrare, gli preparo una tazza di caffè».
Ahahahahahahaha no.
«Magari un’altra volta, abbiamo da fare. Papà è già uscito?».
Mamma si stringe nelle spalle. «Sì, penso sarà di ritorno a breve. Dopo andremo al supermercato, c’è qualcosa che ti serve?».
«Uhm, no, non mi viene niente in mente. – le stampo un bacio frettoloso sulla guancia – Ci sentiamo dopo, divertitevi».
«State attenti» raccomanda.
Mi avvicino all’auto, apro la portiera e mi volto giusto in tempo per vederla fare ciao-ciao con la mano ad Harry, il quale ricambia gentile.
«Adorabile donna» commenta, mettendo in moto.
«Non sai quanto».
«Anche tua sorella è simpatica, tu devi essere proprio un’eccezione».
«Sì, sono la fantastica eccezione. – ribatto – Adesso sfonda l’acceleratore e andiamo».
Indovinato: il mio viso è color porpora e non per colpa del freddo. Credo sia perché mi imbarazza non poco essere osservata in compagnia di un ragazzo, anche se si tratta di Harry. Solamente di Harry.
La macchina si allontana lungo il vialetto. Immagino mamma barricarsi in casa e dare in escandescenze, sprizzando gioia da ogni poro e cimentandosi in qualche balletto improvvisato. Ha sempre tifato per Harold, in fondo.
Riesco a rilassarmi solo una decina di minuti dopo essere andati via, ed è allora che ricordo di non sapere verso dove siamo diretti.
«Liverpool» afferma Harry, concentrato sulla strada.
«Liverpool?».
«Sì».
Lo ammetto, la destinazione mi delude un po’. Avremmo potuto fare una marea di cose diverse, gli avrei anche potuto suggerire qualcosa se mi avesse chiesto, ma Liverpool… insomma, parliamoci chiaro: Liverpool è una sorta di città fantasma che vive del ricordo (e dei soldi dei fan spendaccioni) di una famosa band del passato, e basta.
Però decido ugualmente di dare una possibilità a questa cittadina e raccolgo quel briciolo di entusiasmo che tengo conservato per situazioni come questa per chiedere: «E cosa andiamo a fare?».
«Non lo so, ci inventeremo qualcosa. Passeggiata al molo, magari?».
Annuisco con più forza del dovuto, scacciando via lo sconforto che tenta di assalirmi. Dopotutto non mi importa dove andiamo, l’importante è riuscire a passare del tempo insieme, che sia in una meravigliosa spiaggia thailandese o dentro le fauci di un vulcano hawaiano. Quest’improvvisa e improvvisata consapevolezza mi rincuora e mi fa sorridere: ma sì, non roviniamo una giornata che deve ancora iniziare.
«Bene, benissimo» mormoro. Mi sfrego le mani e poggio le ginocchia contro il cruscotto.
Attraversiamo campagne su campagne e la giornata sembra promettere bene: nessuna nuvola all’orizzonte, solamente un sole un po’ pallido e invernale che se ne sta tranquillo nel cielo azzurrino. È un’altra giornata fredda, freddissima (e probabilmente il tasso di umidità a Liverpool sarà alto), ma è questo che si aspetta da un mese come Novembre, no?
Harry non parla, io non parlo: abbiamo una lunga sfilza di ore davanti a noi per poter cercare di recuperare le lacune degli ultimi tempi e per adesso ci limitiamo ad ascoltare la radio canticchiando qualche nota qua e là. O meglio, lui canta. Io faccio finta perché 1) non ho frequentato nessun Glee Club, e 2) sembrano passate ere da quando ascoltavamo musica insieme e non voglio rovinare tutto con la mia vocetta stonata.
Anche se…
«It feels like we've been livin' in fast forward, another moment passin' by…» intona chiaramente la radio.
Beh, questa devo cantarla per forza. Mi catapulto prontamente in avanti e alzo il volume, sotto lo sguardo di un Harold che, dopo un breve istante di confusione, si scioglie in una risata.
Mi pare ovvio che sia diventata una Directioner, non c’è molto da stupirsi.
«Pa-pa party all night!» urlo di rimando, scuotendo il pugno chiuso.
«Non pensarci nemmeno» mi ammonisce Harry, divertito.
«A fare cosa?».
«A cantare il mio assolo».
Rido sguaiata. «Perché non dovrei?».
«Semplice: perché è il mio». Purtroppo per lui, le sue speranze di suonare minaccioso risultano totalmente vane e sfidarlo non viene affatto difficile.
«Quanto sei diventato diva» lo punzecchio, subito prima di cimentarmi nell’esecuzione della strofa seguente.
Va a finire che cantiamo entrambi a squarciagola, come nei migliori (o  peggiori?) sogni di una fangirl. La canzone termina ed io decido di poter pure concludere qui il mio personale concerto.
«Posso chiederti una cosa?».
«Solo se togli i piedi da lì, Chase» afferma perentorio.
Sbuffo, ma obbedisco ripiegando indietro le ginocchia e sforzandomi di non fare una qualche battuta acida. «Mettiamo che tu stia ascoltando la radio, no? – inizio – E all’improvviso parte una canzone…».
«Vuoi sapere se ascolto le canzoni che canto con la band?».
«No, a dire il vero no, ma… lo fai?» ridacchio. Non credo di aver mai pensato a questa cosa prima d’ora. Chissà che effetto deve fargli sentire la sua voce in radio o in televisione. Chissà se lo fa andare fuori di testa. Ce lo vedo a dare di matto  nel bel mezzo della strada; la mia mente elabora già un’immagine tanto vivida da potermi sembrare vera e mi sforzo di soffocare la risata che sento nascermi in gola.
«A volte sì, a volte no. Ormai ci sono abituato» risponde con un sorriso.
Incrocio le braccia al petto e torno a guardare fuori dal finestrino. «Abituato. Wow» sussurro, parlando più a me stessa che a lui.
Abituato. Se fino a cinque o sei anni fa lo stesso Gesù Cristo fosse sceso in terra a predirgli il successo che lo stava aspettando a braccia aperte, Harold non ci avrebbe creduto. Si sarebbe entusiasmato, ma non l’avrebbe preso troppo sul serio. E adesso è addirittura abituato. Wow.
«Quindi, qual era la domanda?».
Inclino la testa di lato. «Hm?».
«La domanda. Mi stavi chiedendo una cosa riguardo alla radio e… – mi lancia un’occhiatina con la coda dell’occhio – Il pesce aiuta la memoria, sai? Ne stai mangiando abbastanza ultimamente?».
Replico con una palesemente finta risata rallegrata. «Solo bastoncini di merluzzo. E comunque ricordo la domanda, sì».
«Allora avanti, prego».
«Ecco, dicevo: stai ascoltando la radio, quando parte una canzone, una qualunque purché non sia dei One Direction, e tu inizi a cantarla: è una cover o no?».
Si morde un lato del labbro con fare pensieroso: potrebbe uccidere mille e più fan con un gesto del genere e nemmeno se ne renderebbe conto, probabilmente. «Bella domanda» ammette.
«Tutte le mie domande sono belle».
«Sapevo che l’avresti detto, ti conosco troppo bene».
«Purtroppo è così» sospiro.
«Non ho risposta, comunque. Non lo so. Tu hai un’idea in proposito?».
Aggrotto la fronte. «Non mi aspettavo che rigirassi la domanda a me, visto che il cantante sei tu, – confesso candidamente – perciò non saprei».
La questione ci dà da riflettere per qualche altro minuto, infine Harry riprende parola: «Se ci pensi, ognuno di noi fa una cover quando canta una canzone che non gli appartiene di diritto, non ti pare?».
Non sono capace di alzare un sopracciglio, ma questo sarebbe il momento adatto per farlo. «È come dire che sono una cantante?».
«È come dire che lo siamo tutti» risponde sovrappensiero.
D’un tratto mi tornano in mente le mie performance sotto la doccia e tutte le mie cover (è il caso di dirlo) di Bohemian Rhapsody. Uhm, non è che sia troppo convinta di una me in versione rockstar.
«Figo» commento.
«Stai forse cercando di rubarmi il lavoro?» chiede con finto sospetto. Fa per voltarsi a guardarmi con i suoi occhioni verdi spalancati, ma incollo una mano alla sua testa e lo obbligo a fissare la strada davanti a noi.
«Sai che non ce n’è il pericolo, non troverei una casa discografica disposta a produrmi nemmeno se vendessi la mia famiglia come schiavi ad un mercato. E poi non mi interessa molto».
Harry fischia sollevato. «Per un attimo avevo pensato volessi registrarmi di nascosto e vendere i file per farti un po’ di soldi alle mie spalle».
«Ho detto che non voglio diventare una cantante, non che non possa far partire il registratore vocale del cellulare e…» m’interrompo. La mia voce viene sovrapposta da una serie di fastidiosi bip-bip e una lucina rossa prende a lampeggiare pericolosamente sul cruscotto.
Quello che accade dopo è un mistero. Un mistero per me, almeno.
Me ne sto seduta su un muretto con le gambe penzoloni e osservo inespressivamente Harry e il meccanico che parlottano fitto da più o meno un quarto d’ora: non riuscirei a capire niente di quello che si stanno dicendo nemmeno se avessi un dizionario di Meccanichese in mano. Per quanto mi riguarda, so solo che l’auto ha smesso di funzionare a dovere e che ha esalato il suo ultimo respiro a Runcorn, una cittadina semideserta e semisconosciuta che dubito esista pure sulle carte geografiche. Non sono mai stata qui una sola volta, nemmeno di passaggio, e non avevo proprio intenzione di farci una capatina oggi.
Harold si avvicina, i muscoli del viso contratti in una bellissima espressione da funerale. «Non.Dire.Una.Parola» sibila.
«Se è quello che vuoi…» concedo, ma lui continua ad inveire per conto suo e non penso nemmeno che mi abbia sentita.
Si accascia sul muro a pochi centimetri dalle mie gambe e nasconde la faccia con le braccia, permettendomi di vedere solamente i suoi capelli. Ci passerei volentieri una mano in mezzo, sì, ma questo non mi sembra né il momento, né il luogo adatto.
Harry prosegue col suo monologo sconsolato e tutto quello che sono in grado di capire sono versi, grugniti e sbuffi. Sembra una locomotiva. Il Trenino Thomas, nello specifico.
«Posso farti presente di non aver compreso una sola parola di tutte quelle che hai detto?».
«Mi stavo dando del coglione, non preoccuparti» dice in tono piatto, sollevandosi appena verso di me.
Gli poggio una mano sulla spalla e faccio pat-pat. «Avanti, non fare così. Non è colpa tua, non potevi sapere che…».
Scuote il capo. «Beh, in realtà lo sapevo. – mormora – Mamma mi aveva detto che negli ultimi mesi quell’ammasso di ferraglia si era messo a dare problemi, ma non pensavo che… sì, che ci lasciasse a piedi».
Non urlargli contro, Victoria, non urlargli contro.
Non so se sia più per la nostra giornata rovinata o per la sua auto sfasciata, ma è già abbastanza sofferente e non ha certamente bisogno di qualcuno che gli rigiri il coltello nella piaga.
«Ah».
«Avrei dovuto prendere la moto, me lo sentivo!» sbotta.
«E perché non l’hai fatto?».
Harry sembra esitare un pochino. Infila le mani in tasca, ammira i suoi stivaletti, poi mormora: «Perché non volevo sentissi freddo».
Quasi non mi va di traverso la mia stessa saliva. «Come?» gracchio.
«Il freddo, – ripete –non volevo sentissi freddo. Pensaci, potrebbe anche scoppiare un temporale da un momento all’altro: non si sa mai qui. Non siamo in Sud America, dove batte sempre il sole».
Mi sento spaccata in due, divisa esattamente a metà: la me timidamente schiva sta allargando i confini del suo rossore ben oltre le guance, su ogni millimetro di pelle che mi ricopre, mentre la me egoisticamente contenta si sta perdendo in sambe e moonwalk vari (che nemmeno l’imperatore Kuzco della Disney, non mi permetto di definirmi ai livelli del mio amato Re del Pop) ed è schifosamente felice di essere l’oggetto di un’attenzione così tenera da parte di un ragazzo così demente.
«Ma dai, non me n’ero accorta!» ribatto ironica, cercando di alleggerire la situazione. Mmm, okay, non c’è niente da alleggerire, ma non riuscirei a dare una risposta dolce, carina e zuccherosa ad un gesto tanto dolce, carino e zuccheroso nemmeno se mi fossero dati mille anni per rifletterci sopra. Quindi spariamo una battuta a caso e fine.
Lo sbuffo che esce dalla bocca di Harry forma una piccolissima nuvoletta che si disperde subito nell’aria. «Il mio nuovo amico Carson-il-Meccanico dice che siamo fortunati e che probabilmente riuscirà a riparare il danno entro questo pomeriggio, perciò…».
«Vuol dire che siamo bloccati qui?».
Momento suspense in un film horror.
«Non l’avevi ancora capito, tesoro?».
SBAM! Sentito? Era il suono delle mia braccia che cadevano a terra.
Faccio lentamente segno di sì con la testa, rassegnata. «È solo che… ecco, ora la giornata sembra avere preso una piega… drammatica».
Harold si risparmia la fatica di rispondere alla mia lamentela. Si sfrega le mani prima di tenderne una verso di me per aiutarmi a scendere e mi rivolge un’occhiata da bambino vivace, lo stesso che ho conosciuto tanti anni fa. «Allora, che ti va di fare?».
La sua mano continua a stringere con delicatezza la mia.
«Ritengo che marcire qui in attesa sia un’ottima opzione».
«Quanto la fai tragica! – esclama, con una sfumatura di fastidio malcelata nella voce – Scommetto quello che vuoi che non sarà così male come credi!».
Le ultime parole famose, Styles.
Le ultime.
Parole.
Famose.
Novanta minuti (e tanti giri a vuoto su e giù per la cittadina desolata) dopo, Harry si ritrova a darmi ragione. Si lascia cadere sconsolato contro il bordo di una piccola fontana, si passa una mano sul viso e mugugna: «In questo posto non c’è niente da vedere».
Io, dal canto mio, sto ancora lottando per non dare troppo peso al fatto che ci siamo tenuti per mano per quasi un’ora, e solo dopo aver richiuso il becco mi accorgo di essermi lasciata sfuggire un antipaticissimo «Te l’avevo detto».
Suvvia, alla fine non è stato niente di che. È stata una stretta di mano prolungata, e cos’è una stretta di mano se non un innocuo gesto che non significa assolutamente nulla? Due persone che non si conoscono e si incontrano per la prima volta si stringono la mano e… Okay, non se la tengono stretta l’una nell’altra per un’ora. E okay, io ed Harry non siamo assolutamente conoscenti. E okay, il nostro non era un semplice stringersi la mano: il nostro era un tenersi per mano, c’è differenza. Forse è proprio questa differenza a farmi sentire la testa così vuota.
«Scusa, non volevo essere sgarbata» aggiungo, prendendo posto accanto a lui. L’acqua che zampilla dalla fontana deve essersi riversata un po’ sul margine e il freddo intenso deve averla cristallizzata perché, quando mi siedo, le mie chiappe diventano istantaneamente ghiaccio puro, secco. E niente è più freddo del ghiaccio secco, a parte una tizia citata in un film demenziale che adoro particolarmente. Stringo le labbra per reprimere un urlo, alzo la testa e inveisco silenziosamente contro il sole giallo sbiadito sopra di me.
Harry appare non aver notato nulla di questa mia piccola disavventura quando mi risponde. «Non sei stata sgarbata, non c’è davvero niente da fare qui. Non capisco come la gente possa viverci, è una noia mortale».
Mi stringo nelle spalle e fingo di studiare le casette che attorniano il largo in cui ci troviamo. «Ci siamo anche persi» butto lì, indifferente, col tono asciutto di una che non vuole evidenziare troppo una cosa (anche se questa è tanto evidente da brillare come l’insegna al neon di un locale di spogliarelliste nella notte). Sì, perché questa sarà tipo la terza o quarta volta che ricapitiamo in questa piazzetta, anche se abbiamo percorso strade differenti per arrivarci.
«Non essere pessimista, Vic, non ci siamo persi: stiamo esplorando» mi corregge, con una sicurezza mista ad uno (stupido) atteggiamento di superiorità.
«Eh? Esplorando? Cosa stiamo esplorando, esattamente? Gli anziani e i pesci che popolano questo paesello? Perché, sai, sembrano gli unici abitanti del posto», lo stupore provocatomi dalla sua risposta mi fa straparlare e non riesco a filtrare i pensieri a cui dare voce.
«Da quando sei diventata così insofferente? Più del solito, cioè. – ridacchia tra sé e sé – Ricordo ancora che una volta, quando eravamo piccoli…».
Lo guardo, gli occhi sgranati dal disorientamento. Che cavolo si sta mettendo a blaterare?
«Ma se hai appena detto che qui non c’è da fare, vedere o sentire!» scatto, senza preoccuparmi troppo di interrompere le sue nostalgiche memorie.
Ricambia il mio sguardo con uno sghembo sorrisetto incastrato tra le fossette. «L’ho detto?».
Odio quando fa così, lo sa. Tira il sasso e nasconde la mano, dice e una cosa e se la rimangia subito dopo per il perverso gusto di vedermi impazzire. Anni fa gli ho mollato un calcio lì, proprio lì sotto, ma evidentemente il tempo trascorso deve avergli fatto dimenticare la morsa di dolore che gli ho provocato. Comunque quella è stata la prima e l’ultima volta che ho “picchiato” un ragazzo. O qualcuno in generale, purché non fosse mia sorella.
«Cristo, Harold, mi manderai al manicomio» sibilo, massaggiandomi le tempie.
«Come se non ci fossi già stata e ne fossi evasa». Visto? Visto che mi istiga? Visto?! «E poi non eri atea?».
«No, sono agnostica».
«E c’è differenza?».
«Dicono di sì».
Cala il sipario, fine della conversazione. Davvero emozionante. Nessuno dei due fiata per non so quanto tempo, forse cinque, forse dieci minuti, e stavolta mi metto sul serio a scrutare le facciate delle casette dalle tonalità blu e rosso pastello che ci circondando.
Un suono improvviso, come di un risucchio soffocato, mi distoglie.
«Si può sapere che hai da ridere?» chiedo bruscamente vedendolo sbellicarsi come un folle.
Gli ci vuole un po’ per frenare le risa e poter parlare più o meno normalmente, anche se continua a interrompersi per sghignazzare. «No, è che pensavo… pensavo che… beh, dobbiamo essere parecchio disperati per metterci a parlare di religione».
Per poco non mi lascio coinvolgere dalla sua risata, ma… Ah, no, è troppo tardi: le mie labbra hanno bellamente deciso di stirarsi in un sorriso contro la mia volontà. Roteo gli occhi e sbuffo. «Bene: tu che mi racconti? Non mi hai detto molto, l’altro giorno».
«Perché la tua vita è sicuramente più entusiasmante della mia» replica.
«Piantala, vuota il sacco».
Harry distende le gambe e incrocia le braccia al petto con fare riflessivo. Le labbra sono serrate, gli occhi fissano il cemento attraverso i nostri piedi senza battere ciglio e i capelli gli ricadono davanti, lunghi quasi fino alle spalle.
Cos’è, perché adesso arrossisco anche mentre osservo il suo profilo? Che mi sta prendendo?
«Uhm, non c’è molto da raccontare. Solita vita, solita storia».
«Certo, hai ragione: – esordisco sarcastica – viaggiare di continente in continente, esibirsi sei volte a settimana, la folla acclamante… e poi tutte quelle interviste. Oh cielo, le interviste! Deve essere proprio una cosa da nulla, già. Seccante, pure. Niente più di quello che facevi coi White Eskimo prima di presentarti per il provino per X-Factor, no?».
 Sorride allegro e fa cenno di no a testa bassa. «Giusto, niente più».
Mi chino in avanti, poggio il gomito sul ginocchio e vi poso sopra una guancia. «È incredibile pensare a quanta strada abbia fatto quel ragazzino che non esitava a mostrare le chiappe in pubblico» dico rivolta più a me stessa che a lui.
«Sono sempre quel ragazzino. – afferma in un bisbiglio – E mostro ancora le chiappe in pubblico se mi capita di farlo. Così, a titolo informativo» aggiunge, ovviamente con una buona dose di malizia.
«Lo so» rispondo lì per lì. Poi, dopo essermi resa conto delle sue ultime parole, farfuglio: «Cioè, non sapevo che ostentassi ancora la natiche al vento, e non mi interessava saperlo, così, a titolo informativo. Mi riferivo al fatto che so che sei sempre lo stesso. Anche se ti vesti decisamente peggio, indossi sempre gli stessi odiosi stivaletti e dovresti seriamente considerare l’idea di tagliarti quei capelli».
Avrò dimenticato di comunicarlo, ma i miei complimenti sono noti per essere i più gentili, cortesi e affabili di tutto il Regno Unito. Non scherzo.
Harry mi rivolge un’espressione di puro sbigottimento, gli occhi si riducono a due fessure mentre si avvicina fermando il viso a pochi centimetri dal mio. «Aspetta, – dice, quasi non avesse capito bene o non avesse capito affatto – stai sostenendo che il mio look sia peggiore adesso rispetto a quando avevo otto anni e andavo in giro con le tute e le mesches?».
«Perché ti meravigli tanto, è la verità».
Inspira ed espira a fondo per due volte, ad occhi chiusi, è talmente vicino che i suoi respiri mi solleticano il viso. «Potrei anche capire la questione dei capelli; potrei, ma non condivido. I vestiti però no, quelli no. Ho vinto un premio, hanno ufficialmente riconosciuto che ho stile, e tu non puoi neanche pensare di potermi paragonare al me stesso di dodici anni fa».
Adesso sono io a sganasciarmi dalle risate. «Ma non avevi detto tu stesso di avere solo due paia di jeans nell’armadio?».
«Sì, ma sembra proprio che il numero di abiti dentro il mio armadio non abbia nulla a che fare col mio essere magnificamente stiloso».
Stiloso. Dai, non ci credo che l’ha detto sul serio. Non ci credo, non ci credo, non ci credo.
«E poi i miei stivaletti, – solleva una gamba piazzandomi un piede praticamente sotto il naso – guardali e dimmi cos’hanno che non va. Guardali bene e dimmi cos’hanno che non va».
Allontano da me la sua caviglia con un gesto secco della mano. «Il fatto che li indossi anche per andare a dormire potrebbe azzeccarci qualcosa» suggerisco. Harry è visibilmente e buffamente indignato, ma non risponde. «Caspita se sei diventato una Diva con la D maiuscola, Styles».
«Non sono una diva, è che a volte diveggio» ribatte stizzito.
«E questa da dove l’hai presa?».
«Donnie Darko. Non mi aspetto che tu l’abbia visto, è un film troppo complicato per te». L’ultima frase mi puzza di offesa. Ma così, eh, magari mi sbaglio. «In realtà lui non parla dell’essere diva, lui parla dell’ess…».
Alzo una mano. «Lasciamo perdere che è meglio».
«Okay» dice.
«Okay» gli faccio eco.
«Dunque?».
«Dunque che?».
Si alza e dà uno sguardo allo spazio tutto intorno a noi. «Dunque io ho fame. Ti va un hot-dog? Potremmo andare lì» propone, indicando una sorta di mini fastfood locale seminascosto in una viuzza laterale. Annuisco e mi tiro su, con grande sollievo del mio fondoschiena atrofizzato.
In effetti il panino è buono e non mi vergogno troppo ad ordinarne un secondo. Harry ne ha comunque mandati giù tre, alla faccia del fisico perfetto che si ritrova.
«Questa è l’ultima, te lo prometto» afferma trattenendo a stento le risate.
Harold e le sue battute. Ah-ah-ah.
Affondo una patatina nel ketchup e gliela pianto dritta in mezzo agli occhi come a minacciarlo, un’aria da penitente dipinta sul mio volto. Non so più quante idiozie abbia sentito uscire dalla sua bocca negli ultimi dieci minuti.
«Sarà meglio per te, ragazzino» borbotto, ma è troppo euforico per dare peso alle mie intimidazioni.
«Un koala incontra una giraffa e le chiede: “Hey, perché hai quel muso lungo?”. – mi fissa ansioso di sapere una mia possibile risposta che non arriva, quindi prosegue – Aveva scambiato il suo collo per la sua faccia!».
Fortuna che ho appena mandato giù la patatina, altrimenti mi ci sarei strozzata e mi sarei accasciata sul tavolo.
Che fine ha fatto la sua dignità? Possibile non veda quanto sia caduto in basso?
«Sono molto contenta che qualcuno non abbia ancora avuto la malsana idea di farti condurre un varietà o roba del genere» dichiaro amareggiata.
Si lascia andare contro lo schienale della sedia. «Parli così perché non apprezzi la mia vena comica».
«Quale vena comica? La tua? Esiste?».
«La ragazza laggiù stava ridendo sotto i baffi» m’informa mentre si accompagna con un cenno del capo.
La diretta interessata è la cameriera che ha servito al nostro tavolo e che, da quando siamo entrati, non ha distolto lo sguardo da Harry per un solo minuto. Uno soltanto. Addirittura, fa un impercettibile passo nella nostra direzione non appena sente di essere stata chiamata in causa. Avrà la nostra età, è alta e con un fisico asciutto, è carina e mi pare davvero strano che non riesca ad attirare particolarmente l’attenzione del ragazzo che mi sta seduto di fronte.
«La ragazza laggiù sarebbe disposta a ridere o piangere a comando pur di ingraziarsi te e il tuo… Ehm, lo sai a cosa mi riferisco».
Harry solleva un sopracciglio e sorride sornione. «Lo so?».
«Lo sai».
«Sempre così pudica» sbuffa.
«Sempre così debosciato» lo imito.
«È per questo che ti piaccio».
Mando giù un’altra patata. «No, mi piaci perché hai le fossette».
«Anche tu le hai e…» fa uno strano verso, una specie di ghigno, e sospetto che il criceto dentro la sua testolina si sia inaspettatamente rimesso a correre. «Dovremmo riempire il mondo di bambini con le fossette!» dice a gran voce, tanto da far girare i pochi presenti (e farci rivolgere un’occhiataccia assassina dalla cameriera di cui poco m’importa).
Mi metto a trafficare con la borsa per nascondere il mio volto arrossato. «Tu sei matto».
«Perché? Immagina tanti mostriciattoli con le fossette e i capelli ricci! È l’accoppiata perfetta, è qualcosa di sensazionale, è…».
«Dubito che un laureato sarebbe riuscito ad avere un colpo di genio come questo: la tua è una forma di intelligenza troppo superiore e avanzata rispetto a quella di noi comuni mortali».
«All’inizio pensavo mi stessi facendo un complimento».
Alzo le spalle. «E invece no, mi dispiace».
Incrocia le braccia sul tavolo e si piega per appoggiarci il mento. «A proposito di laureati, – domanda – tu hai intenzione di fare qualcosa della tua vita? O continuerai a farti mantenere dai tuoi genitori?».
«Io lavoro» gli ricordo offesa e accigliata.
«Non puoi continuare a lavorare in un supermercato, una come te e sprecata lì dentro».
Tamburello le dita sul tavolo. «Una come me?» faccio, lusingata.
«Una secchiona come te, una con le tue capacità. Sei troppo brava e diligente per fermarti al liceo».
«Uh, hai detto diligente».
Mi afferra per un gomito. «Sono serio».
Mi mordicchio il labbro inferiore e tengo gli occhi bassi, a disagio. «In realtà no. – ammetto poco dopo – Cioè, non ho particolari ambizioni per il mio futuro… anche perché, parliamoci chiaro, è molto difficile che io riesca a diventare una ballerina professionista che può permettersi di vivere di rendita, perciò… Sto valutando l’ipotesi di cominciare a studiare Lingue dopo quest’anno sabatico».
Harry sorride ampiamente e allunga mano per scompigliarmi i capelli. «Questo mi rende parecchio felice. Vorrò essere invitato alla tua cerimonia di laurea, sappilo».
Sbuffo allegra. «Pft, probabilmente non ci sarà nessuna cerimonia prima dei miei trent’anni, ma lo terrò a mente. – afferro la borsa e mi alzo – Oggi offri tu: l’altro giorno hai sbranato la mia merenda a scrocco».
Alza un pollice in segno di approvazione. «Avrei pagato io in ogni caso».
«Già, immagino che adesso che sei ricco e famoso puoi permettertelo. Finisci pure le patatine, vado in bagno».
«Non dimenticare il telefono, – ridacchia, beccandosi un’occhiata torva – potrebbe capitarti di rimanere chiusa dentro».
Giro i tacchi e mi allontano senza proferire parola, pensando solamente a quanto sia idiota.
Grazie al Cielo il bagno è vuoto e posso finalmente dare sfogo ai miei problemi di incontinenza. Mi lavo le mani, le asciugo, accerto allo specchio che sia tutto in ordine e, beh, più o meno lo è. Non ho nulla incastrato fra i denti, lo chignon regge e non è troppo spettinato, il mascara dura e, hm, ho le labbra un po’ screpolate. Ahia, maledetto freddo. Apro la borsa e prendo a tastare alla ricerca del balsamo per le labbra, sono sicura si avercene infilato uno stamattina prima di uscire. Continuo a tastare alla cieca fino a quando non stringo un tubetto e lo tiro fuori: Coca-Cola e ciliegia, niente male. Spalmo abbondantemente e torno in sala, intravedo Harry in strada attraverso le vetrate trasparenti.
Rimetto addosso il giubbotto, saluto gentilmente quell’ochetta bionda-occhi-azzurro-mare e lo raggiungo.
«Carson mi ha appena telefonato: la macchina è tornata a dare segni di vita» dice tutto contento.
Uomini e Motori: una storia d’amore migliore di Twlight che non finirà mai.
«Questa è una bella notizia, ma… Ti ha telefonato?».
Harold sembra capire il filo dei miei pensieri: e se quest’uomo divulgasse a secondi, terzi, quarti, quinti e al mondo intero il numero di telefono  della popstar che è andata a fargli visita in officina?
«Gli ho detto di chiamarmi Ernest» spiega soddisfatto.
Mi batto una mano in fronte. Non è che abbia avuto tutta questa genialità, dopotutto. «Perché, giustamente, non potrebbe mai arrivare a realizzare che quell’Ernest sia Harry Styles sotto mentite spoglie», ironia portami via.
«Certo che no. – sorride – Mi sono fatto dare delle indicazioni, dobbiamo andare da questa parte».
«D’accordo, capo».
Lo seguo mentre si inoltra in vicoli e vicoletti; ogni passo che faccio mi perdo sempre più nelle mie riflessioni.
«Perciò hai dato il tuo numero a Carson-il-Meccanico ma non l’hai dato alla cameriera carina che ti spogliava con gli occhi. – osservo d’un tratto – Che problemi hai?».
Cerco di dare l’impressione di essere stupita, ma in realtà questa cosa mi dà uno strano senso di piacere. Un immenso e strano senso di piacere. Sotto sotto, sono felice di sapere che due grandi e magnetici occhi blu da cerbiatta non bastano per procurarsi il numero di telefono del mio migliore amico. Bravo, Harold, sono fiera di te. Quasi ti batto una mano sulla spalla.
Harry sembra punto sul vivo. «Non è che vada in giro a flirtare con tutte, sai?».
«Ah no?» ridacchio.
«No».
«Non avevi detto che vedere tante ragazze carine e non poter chiedere loro di uscire ti deprimeva?».
Volta l’angolo senza fiatare, si limita a camminare con le mani infilate in tasca senza degnarmi di un’occhiata, nemmeno di striscio. Non so quanti minuti siano passati e quanti ne stiano passando, ma sembrano troppi, e comincio a ritenere che non mi darà una risposta.
Abbiamo percorso già parecchi metri quando le sue parole risuonano come se le stesse pronunciando al megafono. «Sì che l’ho detto. Ed è vero. Però sto già uscendo con una ragazza carina e non vedo motivo per invitarne fuori un’altra».
Oh.
Oh oh oh.
Bene.
Sta uscendo con una ragazza. Carina, per di più. Perciò ha mentito giovedì scorso, affermando di non star frequentando nessuno. Sento ribollirmi il sangue nelle vene, cos’è tutta questa irritazione improvvisa? Ho una voglia pazzesca di tirargli un pugno in faccia, potrei spaccagli quel carinissimo naso che si ritrova. E che diamine! Sì, sono gelosa, va bene? Sono gelosa del mio migliore amico, va bene? Posso esserlo?
Siamo arrivati in fondo alla strada ed è di nuovo lui ad attaccare discorso; io sto contando fino a diecimilamilioni per sbollire la rabbia e impedirmi di dargli un pugno.
«Che c’è? Il freddo ti ha attaccato la lingua al palato?» scherza.
Ah, ci scherza pure sopra.
«Va tutto benissimo» sbraito, accelerando il passo per superarlo anche se non ho la minima idea di dove dover andare. Per un attimo mi illudo di essere davanti a lui di almeno venti passi, ma Harry mi raggiunge in poche falcate.
«L’esperienza mi ha insegnato che niente va benissimo quando va tutto benissimo. Sbaglio?».
«Harry, per favore, sta’ zitto».
«Cosa? Che ti prende?!» esclama sbigottito mentre allarga le braccia con fare quasi esasperato.
Mi fermo al margine del marciapiede e gli scocco un’occhiata truce. «Un fico secco, non mi prende un fico secco».
«Non hai affatto l’atteggiamento della persona calma e tranquilla, non mi convinci: dimmi che è successo. Ho fatto qualcosa di sbagliato?» domanda spontaneo.
Ho perso il conto, ma sono sicurissima di non aver raggiunto i diecimilamilioni che mi ero prefissata, e molto probabilmente è per questo motivo che scatto e mi metto a strepitare come una pescivendola al mercato. «Vuoi sapere se hai fatto qualcosa di sbagliato, Styles? Vuoi saperlo? Okay, dove comincio? Uhm, forse dal fatto che mi hai detto una bugia? Sì, insomma, hai detto una bugia a me. A me, ti rendi conto? E poi… e poi stai uscendo con una ragazza!».
Ecco, problema trovato.
Harry si lascia sfuggire un silenzioso “Oh” di sorpresa, un lampo gli attraversa gli occhi. «Vic…» fa per chiamarmi, ma il fiume di parole continua a sgorgare dalla mia gola per riversarsi nell’aria e non ha certamente intenzione di fermarsi, non adesso e non subito, almeno.
«Sai che c’è? Che mi sento tradita. Anzi no, peggio: mi sento passata in secondo piano. Sono passata in secondo piano, se ci rifletti sopra. Io lo so che hai tremila impegni, che non hai il tempo di voltarti a destra o sinistra che ti ritrovi già sparato su di un palco in chissà quale paese di quale angolo di mondo, posso capire tante cose ma… – la mia voce prende a tremare, non  un buon segno – ma non di essere scaricata e ripresa così, come ti pare e piace. Nessuna telefonata, nessun messaggio, poi torni all’improvviso e sì, sono furiosa nei tuoi confronti, ma lo sono di più nei confronti di me stessa perché sono terribilmente felice di vederti. E perché mi sei mancato e continui a mancarmi. E perché mi fai sempre stare bene, perché sei gentile, perché riesci a trovare un modo per farmi ridere in qualsiasi situazione. Persino qui, oggi. Persino poco fa, quando mi obbligavi ad ascoltare quelle tue tremende battute, io ero felice. Io sono felice quando ci sei tu, anche se mi comporto come una zitella acida per la maggior parte del tempo» il nodo alla gola non mi consente di andare oltre. Non sto piangendo, ma la mia vista è offuscata dalle lacrime che tentano disperatamente di uscire. Chino la testa e mi sforzo di ricacciarle indietro.
Harry non parla. Non emette alcun suono, non so neppure se mi stia osservando, ma so che ha capito. Queste sono le frasi che avrei dovuto dirgli in tempi e modi diversi, e ne siamo entrambi consapevoli.
Adesso mi rendo conto di cosa intenda dire la gente quando sostiene che i secondi si dilungano come minuti e i minuti come una vita intera.
Stupida Victoria, stupida stupida stupida. Ti tieni dentro sentimenti vecchi di dieci anni e poi decidi di rinfacciarli nel peggiore dei modi. Non sei neppure capace di accontentarti di una semplice amicizia disinteressata. Sei una poveraccia, dovresti farti pena da sola.
Vorrei tanto poter dire qualcosa, spiegargli che ho avuto un ennesimo colpo di testa, pregarlo di non prendermi sul serio, scongiurarlo di dimenticare e…
Harry fischia.
Fischia.
Fischia.
Fischia.
E la cosa mi dà molto fastidio.
«Caspita» esclama sommessamente.
CASPITA?!
«Forse avrei dovuto dirti prima che, hmm… per inciso… dato che sei troppo tonta per arrivarci da sola… la ragazza carina con cui sto uscendo è quella a cui ho dato il mio primo bacio. Quindi, se la mente non mi inganna… sei tu».
Fermate la Terra, qualcuno mi faccia scendere.
«Eh?!».
Il monosillabo più espressivo del mondo.
Harold sorride a cuore aperto mentre io non riesco a formulare neppure l’ombra di un pensiero concreto.
«Era scontato che sarebbe andata a finire così, no? È un mega cliché, ma… quale altra ragazza o donna, se non tu? Se lo avessi chiarito prima, magari avresti potuto evitare questa sceneggiata».
Divento paonazza, ma non per l’imbarazzo. Ora sono molto, molto, mooolto adirata. Al diavolo quel piccolo accenno di affetto.
«SCENEGGIATA?! – strillo – Sai cos’hai appena detto, Harry? Hai una vaga idea di come tu mi stia facendo app…?!».
 Harry non mi ascolta. Harry alza gli occhi al cielo azzurrino sopra di noi. Harry sorride. Harry si stringe a me, petto contro petto. Harry mi bacia con tutta l’immensa tenerezza di cui è capace.
La sorpresa lascia subito il posto ad un’altra sensazione, calda e confortevole, piacevole come quella che si ha quando si torna a casa dopo un lunghissimo viaggio. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare dal ritmo del mio cuore che martella frenetico: sento il battito nelle orecchie, lo sento pulsare nella testa, nelle vene. È un bacio timido, infreddolito e impacciato, morbido e screpolato al tempo stesso.
È possibile provare tante emozioni diverse in un battito di ciglia? Così tante da restarne storditi? Apro gli occhi dopo averli tenuti chiusi per tanto, troppo tempo e vengo immediatamente travolta da un turbinio di suoni, colori, musiche. Improvvisamente immagini, parole, silenzi, discorsi fatti e finiti e frasi lasciate a metà, tutto acquista un senso. Un attimo prima il mondo mi crollava sotto i piedi e un attimo dopo mi trovo su un razzo destinato a sfondare l’infinito.
La mano di Harry indugia ancora sul mio fianco anche dopo esserci separati. Sono una brace ardente, una stufa, un pentolone stracolmo di pece, ed ho pure le vertigini e le farfalle allo stomaco, ma dubito fortemente di essere mai stata meglio di così. Manderei quest’ultima scena in replay, ancora e ancora e ancora e ancora.
Sollevo cauta il capo e scorgo Harold intento a leccarsi le labbra in un gesto semplice, ingenuo e adorabile. Arrossisco come un peperone.
«Burrocacao alla ciliegia: mi piace. – commenta con quella sua sfacciataggine – Dovresti metterlo più spesso, potrei farci l’abitudine».
«Ciliegia e Coca-Cola, per essere precisi. E comunque, sarà meglio per te, faccia da schiaffi che non sei altro, o io ti…».
Ride. «Cosa? Mi molli ancora prima che ti chieda ufficialmente di fare coppia fissa?».
«No, – ribatto, lasciandomi scaldare da un largo sorriso che mi nasce in volto – io ti eviro. Con tanto amore».
Harry mi passa una mano intorno alle spalle e insieme riprendiamo a camminare (o a fluttuare a un metro da terra, quest’immagine sarebbe maggiormente realistica).
«Sarà meglio che vada a recuperare la mia macchina e ti porti a casa mia il più in fretta possibile: devo assolutamente dimostrarti di cosa sono capace e farti cambiare idea prima che sia troppo tardi» dice con serietà.
«Proprio il prototipo di cavaliere che cercavo: un corteggiatore nato. Tu sì che sai come trattare le ragazze».
«Non saprò come trattare le ragazze, – dice, intrecciando le mani dietro il mio collo – ma so come trattare te e questo mi basta. Permettimi solamente di ricambiare il favore di tutti quegli anni di compiti passati sottobanco, vuoi?».
Non occorre altro tempo, ne abbiamo già perso abbastanza in tutti questi anni. Mi sollevo in punta di piedi e mi avvicino alle sue labbra.
«Voglio».
 
Chissà se amare è una cosa
vera.
 

Aaaaah, the light!

Non fare ai lettori promesse che non puoi mantenere, dice il detto.
Ma io non lo sapevo.
No, sul serio, ma ci credete che ho aggiornato? Che ho finito? Beh, credeteci perché è così.
Io, in questo mese trascorso (a proposito, primo settembre, gente: depressione a palate), ho continuato a sbattermi la testa contro questo e quel muro perché la shot non veniva come volevo io e le parole non erano quelle che dicevo io. Un bel giorno, quando pensavo di aver finito, mi sono accorta di aver messo su un ammasso di idiozie ed ho ricominciato tuuuuutto da capo. Ho avuto poco tempo ed ho lavorato essenzialmente la notte, as usual, ma ce l'ho fatta. Inoltre, ovviamente, mi sono sentita terribilmente in colpa nei vostri confronti. Quindi sì, vi ho pensate spesso.
Spero possiate perdonarmi il ritardo, gli errori/orrori e la stupida storiella in generale: questa non è certo una delle fic più belle che abbia scritto. Assolutamente. Ma prego l'arrivo di tempi migliori (in effetti, potrei già avere qualcosa in cantiere che me gusta più di questo malloppazzo) in cui scrivere qualcosa di stilisticamente valido e con un intreccio meno banale.
Detto ciò, ringrazio le ragazze che mi hanno valorosamente seguita in questo breve viaggio: non importa il numero delle recensioni (anche se uno shoutout per Cocchi ci sta tutto xD), l'importante è avermi dimostrato che ci siete :)
Se volete, per quel che vale e sempre che a qualcuno possa interessare, qui trovate il gruppo Facebook dedicato alle storie mie e di una mia carissima amica: per idee, spoilers, scleri e vaneggiamenti di ogni tipo.
Alla prossima, potrei tornare quando meno ve l'aspettate. (?)
Grazie per l'attenzione,

A.

Note speciali per mia sorella:
Ciao. Con te non mi dilungo troppo perché ho sonno, tu mi stai allegramente torturando le orecchie cantando Ariana Grande e - SMETTILA DI ALZARMI LE MANI - perché tanto so che non mi dirai mai veramente cosa pensi di tutto questo. Anche se dovresti farlo. Perché ci tengo. E perché mi hai mandato il cervello in pappa per due luuuuuunghi mesi.
Quindi... boh. Il finale è scontatissimo, ma so che speravi nel baciozzo con Harry. Su, ammettilo ;)
Adesso stai sproloquiando di antichi vasi che vanno portati in salvo, e neppure io mi sento troppo lucida, perciò buonanotte.
Sembrava impossibile, ma ce l'abbiamo fatta. <3
 

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