Il primo amore non si scorda mai

di Dreaming_Archer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - La lettera (parte 1) ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - La lettera (parte 2) ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - La lettera (parte 1) ***


Il primo amore non si scorda mai.

Capitolo 1 – La lettera
 
< «E' vietato stare al bar durante la lezione.»
Alzo lo sguardo e gli occhialetti bicolori del vicepreside fanno capolino nel mio campo visivo.
«Ma non c’è il professore.» Obietto.
«Allora puoi andare a casa se sei maggiorenne, è l’ultima ora.»
«Non sono maggiorenne.» Rispondo, delusa. «Non ho la macchina e l’autobus passa all’una.» Aggiungo, tornando a grattarmi lo smalto dalle unghie.
«Gli studenti non possono stare al bar durante la lezione.» Ripete il vicepreside.
Vorrei ripetergli ancora una volta che io non ho lezione, ma mi sembra inutile. Non capisco perché non posso starmene lì, tanto poco più di mezz’ora e suonerà la campanella. Non do fastidio a nessuno, mi faccio i fatti miei e aspetto. Che problema ha quel tizio? Non posso starmene tranquilla e sentirmi perfettamente adulta, seduta ad oziare al tavolino del bar?
Ovviamente no, devono sempre rovinarmi i piani.
Vengo al liceo da alcuni mesi, li vedo gli studenti più grandi che stanno al bar molto più del dovuto, e poi perché mettere un bar all’interno della scuola se poi non ci puoi stare?
«Ma la vedo la gente che ci sta lo stesso.» Obbietto.
«Infatti i professori gli mettono le note di ritardo.» Risponde, anche se lo vedo che non ci crede nemmeno lui.
Probabilmente, dato che sono una primina, crede di potermi comandare. Però mi mette un po’ di soggezione. Forse è meglio non farsi notare nei primi mesi di scuola, meglio non alzare la cresta, alla fine ho solo quattordici anni, e non sono per niente un tipo ribelle.
Io volevo solo sentirmi adulta per una mezz’ora, e magari sperare di incontrare qualcuno che come me non ha lezione. Magari proprio quel qualcuno a cui sto pensando adesso.
«Forza, vai.» Mi incita il vicepreside.
«E dove dovrei andare?» Domando, guardandomi intorno. Magari lui entrerà proprio adesso, mi vedrà discutere con il vicepreside, e allora sì che riuscirei ad attirare la sua attenzione. È tutto l’anno che aspetto e spero in un momento propizio come questo. Potrebbe intromettersi, dato che lui è già in quinta, ed è abituato a quelle cose. Direbbe al vicepreside di lasciarmi stare, e lui accetterebbe. Poi mi offrirebbe qualcosa al bar, e…
«In biblioteca c’è l’area studio per i ragazzi.» Il vicepreside interrompe i miei sogni ad occhi aperti.
Biblioteca? Area studio? Precipito nel mondo dei mortali. In questa scuola?
«Dove?»
«In fondo al corridoio a sinistra, poi ancora infondo e sempre a sinistra.» Mi spiega sbrigativo lui, spingendomi lungo il corridoio.
Sbuffo e mi avvio. Ancora una volta quello che volevo non si è avverato.
Mentre cammino per il corridoio passo davanti a una decina di porte tutte uguali. Tutte, tranne una. Deve essere stata una delle prime porte che ho memorizzato appena cominciata la scuola. Sopra lo stipite un cartello un po’ storto recitava: “5B”.
Camminandoci davanti rallento un po’ il passo. Lui potrebbe uscire proprio in quel momento, venirmi addosso, io potrei far cadere lo zaino e … passo davanti alla porta, e non succede nulla. La voce del professore proviene da dentro: «… Schopenhauer, volontà … Kant …» C’è un brusio di sottofondo tra gli studenti. Tra quelle voci c’è sicuramente anche la sua … Solare e allegrocom’è, è sicuramente l’ispiratore di ogni battuta.
È una strana sensazione saperlo così vicino. La porta è così sottile, potrei spingere la maniglia ed essere lì al suo fianco, senza avere più nessun problema di come fermarlo, dicome iniziare, niente.
Mi fermo appena dopo la svolta a sinistra e mi appoggio al muro. Ma che cosa potrebbe pensare di me? Che sono una pazza, o nel migliore dei casi che ho sbagliato classe. In ogni caso il professore mi sbatterebbe fuori ancora prima di riordinare i pensieri.
Se volevo farmi avanti con lui doveva essere in un altro momento, anche se speravo sempre che il caso mi evitasse di prendere delle decisioni.
Intanto avevo raggiunto la biblioteca. Devo dedurre di essere stata un po’ distratta mentre a settembre ci facevano girare per la scuola, perché non sapevo assolutamente nulla della sua esistenza.
La porta a vetri è socchiusa, e così entro.
«Buongiorno.» Mi saluta la bibliotecaria, seduta al computer vicino alla finestra.
Io non dico niente, mi guardo intorno. L’ingresso è una stanzetta piccola, con alcuni computer a sinistra, su cui stanno lavorando silenziosamente dei professori, e la parete a destra coperta da dizionari. Le altre pareti sono tappezzate di manifesti di mostre e cartelli di avvisi.
La bibliotecaria doveva essere abituata agli studenti che non rispondono ai saluti, perché sorridendo ha continuato: «Ora buca?»
«Sì.» Questa volta rispondo.
«Prego.» Mi indica una porta aperta a destra. «Ci sono le poltroncine e i tavoli per studiare.»
Seguo la sua mano, ed entro nella seconda stanza. Vari scaffali dividono lo spazio in diversi quadrati, dove al centro sono posizionati alcuni tavoli e delle sedie. I cartelli dicono “arte”, “letteratura italiana”, “letteratura straniera”, verso il fondo scorgo “psicologia”, “scienze della terra”.
Pochi tavoli sono occupati, ma non mi va di intromettermi da nessuna parte, così prendo posto sulle poltroncine di cui mi parlava la bibliotecaria.
Piuttosto basse in effetti, mi sembra di stare seduta per terra, ma se allungo i piedi sotto al tavolino di plastica davanti a me, che ospita qualche quotidiano, sto quasi comoda.
Evito subito il quotidiano, perché in quel silenzio farei un fracasso assordante, e non voglio essere notata, e perché sinceramente non me ne interessa molto. Prenderei il telefono, se solo non si fosse completamente scaricato a giocare a “Rabbids” durante l’ora di francese.
Riprendo a guardarmi intorno. Fa piuttosto freddo, così poggio una mano sul termosifone alla mia destra, ed è praticamente congelato. Infilo le mani dietro le ginocchia e vi poggio il mento sopra.
L’angolo con le poltroncine è circondato da alcuni scaffali che portano i cartelli “storia antica”, “storia italiana”, “storia moderna”, e altri tipi di storia. Alle mie spalle, scorgo il più allettante: “fotografia”.
Getto uno sguardo alla bibliotecaria dall’altra parte della porta, che mi guarda incoraggiante. Io indico i libri e lei annuisce, poi torna al suo computer.
Allungandomi dalla poltrona riesco a prendere un libro piuttosto sgualcito. Ne sfoglio alcune pagine, ma sono unte e le foto in bianco e nero un po’ sbiadito non sono per niente allettanti. Lo rimetto a posto e ne prendo un altro.
Faccio così per un altro paio di volte, poi mentre sto per rimetterli in ordine, da uno dei libri scivola fuori un foglio di carta verde, che si infila sotto la poltrona.
«Ops.» Borbotto, mentre rimetto il libro sullo scaffale e mi piego a raccogliere il foglio.
È stato strappato da uno di quei blocchi che si usavano alcuni anni fa per riempire i raccoglitori. Quanto erano masochisti certi studenti! A fine anno raccoglitori del genere potevano pesare più dei libri stessi.
Lancio uno sguardo all’ingresso, non si sa mai che lui entri adesso, magari a prendere un dizionario, o un libro …
Niente, e la porta a vetri mi restituisce la mia immagine.
Così apro il foglio e comincio a leggere.

10 Aprile 2009

Strana giornata oggi. Non mi sono mai sentita così grande e così piccola insieme. Forse più piccola che grande. Minuscola, insignificante, sì, è così che mi sento.
È così che mi fai sentire.
Quegli occhi nei miei, sulla mia faccia, sui miei vestiti … che cosa guardavi di preciso? Solo il bene o solo il male? Non so cosa credere.
Sento ancora le farfalle nella pancia a ricordarti, le mani mi tremano e la faccia mi brucia.
Accidenti a te.
Anzi no, accidenti a me. Ho sbagliato tutto dall’inizio, questo è vero, ma almeno alla fine sarebbe potuta andarmi meglio. E invece no.
Ma sarebbe stato troppo facile, anche se io ho sempre voluto che fosse tutto facile. Avrei voluto che noi non fossimo così diversi, che tu capissi da uno sguardo, che non ci fosse bisogno di parole …
Perché io non le so le parole giuste, non le ho mai sapute.
Sei tu quello giusto. L’altezza giusta, i capelli perfetti, la camminata da divo. Quella faccia tanto bella da volerla picchiare e urlare: “ma perché?!”
Perché proprio io mi dovevo innamorare di te?
E poi perché proprio di te, che con quel sorrisetto potresti dominare il mondo?
È triste rendersene conto adesso, che non può funzionare, non funzionerà mai tra di noi.
Forse gli opposti si attraggono, ma devono almeno appartenere alla stessa galassia. Noi viaggiamo su due orbite totalmente diverse.
Rimarrai soltanto il mio primo amore, e il primo amore non si scorda mai.
Tu  potrai anche dimenticarti di me, e io non te ne vorrò male, ma ricordati soltanto che oltre quegli occhi dorati (che sono stati di tanti colori, verdi, grigi, marroni, ma per me saranno sempre dorati) c’è qualcuno da vedere e da ascoltare.
Tu per ora sei capace solo di far soffrire le persone, ma non sempre ti verrà tutto facile, anche se te lo auguro, e qualche volta quella bella testolina bionda la dovrai pur abbassare.

Monica

E finisce così, con una firma.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - La lettera (parte 2) ***


“Bella sfigata che ho trovato”. Primo pensiero.
Mi rileggo giusto un paio di righe, perché è una delle lettere più belle che ho mai letto. In realtà è praticamente l’unica lettera d’amore che ho mai letto, ma sono sicura che se ancora si scrivessero, dovrebbero essere più o meno così.
“Ma che tristezza!”. Secondo pensiero.
In effetti questa Monica doveva esserci rimasta sotto non poco per questo ragazzo.
Poverina, un po’ me la immagino, seduta su queste poltroncine, con il quaderno sulle ginocchia, magari si è lasciata andare anche qualche lacrima mentre guardava verso la porta a vetri sperando che il suo lui entrasse a consolarla.
Mentre lo penso mi rendo conto che pure io guardo verso la porta a vetri, sperando che lui entri da un momento all’altro. 
“Sì, ma la mia situazione è diversa.” Terzo pensiero.
Insomma, mica troppo, riflettendoci. Quello che più mi colpiva di quella lettera erano le frasi riguardo al trovare le parole giuste. Perché nemmeno io le sapevo le parole giuste.
La rileggo ancora una volta, e poi un’altra ancora.
Alla fine sono a dir poco stupita. Quelle parole mi calzano addosso meglio del mio più bel paio di jeans. Monica è come me, e io sono come lei. Una parte di me non vuole ammetterlo, ma anche io sono piuttosto disperata.
Vado a scuola da mesi, lo vedo tutti i giorni e lo cerco per i corridoi, ma ancora non so nemmeno il suo nome. E se proprio devo deprimermi, non credo che lui si sia nemmeno accorto che esisto.
Ma questo è perché non voglio fargli una brutta impressione al primo sguardo, voglio trovare il momento migliore. Voglio che lui abbia un colpo di fulmine come l’ho avuto io il primo giorno di scuola, quando l’ho visto parcheggiare la macchina mentre ascoltava la musica a tutto volume. E poi tutto verrà da sé.
Esatto, è così che sarà. Io non so nemmeno chi è questa Monica. E poi se ha lasciato la lettera in un libro della biblioteca, doveva essere sicuramente poco importante. Magari uno scherzo, magari si era inventata tutto giusto per passare il tempo.
Però torno a guardare la lettera, e la rileggo di nuovo tutta dall’inizio. Non è possibile che al mondo ci siano così tante disperate come me.
A me non finirà come a questa Monica, ne sono sicura. Il mio lui capirà, e mi amerà per quella che sono. Questa lettera è solo un cattivo avvertimento, vuole portarmi male.
Forse devo soltanto rimetterla a posto e dimenticarmela.
Oppure è meglio cestinarla, ed evitare a qualcun altro di leggere quello strazio.
Mi alzo e torno nell’ingresso, decisa a buttarla.
Sto quasi per farlo, ma mi immagino di nuovo Monica. Se l’ha lasciata in un libro è perché non voleva averla sotto gli occhi, ma nemmeno buttarla via definitivamente. Forse le faceva male staccarsene, così l’ha lasciata “in pausa” in un posto sicuro.
Ma la verità è che anche a me fa male averla sotto gli occhi, perché sembra che voglia portarmi sfortuna.
La bibliotecaria alza lo sguardo, e mi guarda incuriosita.
Io le faccio un mezzo sorriso imbarazzata, rendendomi conto che sono rimasta per almeno un minuto immobile a fissare il cestino. Mi tolgo il chewing-gum dalla bocca, e lo butto, giusto per avere una scusa.
La lettera la tengo. «Appunti.» Faccio alla bibliotecaria, mostrando il foglio piegato. Mi sento quasi una ladra, ma lei non può sicuramente conoscere ogni singolo foglio di quella biblioteca.
Lei mi sorride, poi si avvia a spegnere il computer.
«E’ l’una.» Mi avvisa. In effetti anche i professori stanno riordinando le loro scartoffie, e ai tavoli non c’è più nessuno.
«Arrivederci.» Dico, mentre infilo la lettera nella cartella, e mi avvio verso l’uscita.
«Buona giornata.»
La campanella suona proprio nel momento in cui entro in corridoio. Una decina di porte si aprono contemporaneamente, dozzine di ragazzi e ragazze sfociano in corridoi. In mezzo secondo sono soffocata in una marea di persone.
Continuo a camminare a passo lento verso l’uscita, e cerco di rendermi il più invisibile possibile. Quando sono sola mi sembra sempre che tutti gli altri abbiano un miliardo di amici intorno, mentre io sembro la triste asociale che esce da scuola senza nessuno.
Mi lascio nascondere la faccia dalla frangia e cammino guardandomi le scarpe. In effetti sarebbe ora di cambiarle. Guardo quelle degli altri, giusto per vedere con cosa potrei sostituirle.
Banali … tristi … hanno una forma strana … quelle mai! … non male, ma non di quel colore … e poi, un paio di piedi avanti a me, quelle sì che mi piacciono. Con lo sguardo abbraccio tutta la figura che le indossa. Anche il resto non mi dispiace, insomma. Adoro i jeans di colore così chiaro, e anche la felpa blu elettrico.
Sono indossati da un Marcantonio di quasi un metro e novanta con le spalle larghe, che cammina tranquillo come se la folla intorno a lui si allargasse. Porta la cartella su una spalla sola, che gli da un’inclinazione particolare e lo costringe ad un’andatura molleggiata.
Con una mano giocherella con le chiavi della macchina, l’altra la tiene nella tasca dei jeans.
Devo alzare lo sguardo per vedergli la nuca, ha il collo largo e i capelli biondi tagliati piuttosto corti, ma con un ciuffo riccioluto che ondeggia al ritmo della camminata sull’orecchio destro.
Senza nemmeno rendermene conto mi faccio più sotto, schivo qualche cartella e qualche ragazzina e mi trovo alle spalle del mio lui.
Mi era bastato il colore dei jeans per riconoscerlo, adesso gli sono talmente incollata addosso che sfioro la sua cartella. Alzo di nuovo lo sguardo sui suoi capelli. Sono talmente in alto! Adoro i ragazzi alti, e lui è perfetto.
La folla mi spinge un po’ da parte, ma io voglio stargli vicino, voglio sentire la sua voce profonda. Chissà cosa starà dicendo ai suoi amici.
Riesco a tornare alle sue spalle, c’è una gran confusione, ma mi sembra stiano parlando di come tornare a casa. Lui parla gesticolando con la mano delle chiavi, a quanto pare non vuole accompagnare nessuno.
Non mi sono nemmeno resa conto di averlo seguito in mezzo al parcheggio, mentre di solito proseguo per il cancello. Mi guardo intorno, nessuno sembra avermi notata, così torno indietro. E’ imbarazzante fare la stessa strada a ritroso nel giro di due secondi in mezzo a tutte quelle persone, ma sarebbe ancora più imbarazzante se lui si girasse e mi ritrovasse praticamente nella sua macchina.
Però continuo a tenerlo d’occhio anche mentre esco dal cancello e mi dirigo meccanicamente alla fermata dell’autobus.
Apre l’auto, butta lo zaino sul sedile del passeggero. Saluta con un cinque i  suoi due amici, e mentre sta per entrare in macchina loro gli fanno una battuta che lo fa ridere.
Quanto vorrei ridere anch’io a quella battuta, essere seduta in quella macchina di fianco a lui, invece che in questo autobus puzzolente e sovraffollato. Almeno non fa freddo, ma è una triste consolazione.

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