La fanciulla delle nevi

di Rain_Flames
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter I – Il viaggio ***
Capitolo 2: *** Chapter II – Casa dolce casa ***



Capitolo 1
*** Chapter I – Il viaggio ***


Questa storia, partecipa al contest "Giallo a scena multipla" di Faejer.

Pacchetto Bianco
1° Turno


 

– La fanciulla delle nevi

 

 

 

«La prego di allacciare la cintura, stiamo per iniziare il decollo» - mi informò una hostess sulla quarantina.

Accennai un sì con il capo e l'allacciai. Non amavo particolarmente volare in aeroplano, ma questo viaggio avrebbe dovuto cambiare la mia vita. Esattamente come aveva fatto quello precedente.

Me ne sono andata da Mosca cinque anni fa, nei primi giorni di ottobre. Non che i paesaggi siano mai stati particolarmente allegri in città, ma vedere le foglie cadere dagli alberi e i colori diventare un'accozzaglia di marroni e verdi marci, non faceva bene al mio umore.

 

L'aereo iniziò a rollare sulla pista distraendomi dai miei pensieri, strinsi forte i braccioli con le mani fino a farmi sbiancare le nocche, e poi deglutii cercando di regolarizzare il respiro, così pochi secondi dopo mi sentii meglio. Lasciai andare la presa e intrecciando le mani in grembo mi rilassai contro il sedile.

 

Ero decisamente cambiata rispetto al viaggio dell'andata. Volevo scappare, è questa la verità, e credo di esserci riuscita visto che per tutto questo tempo non ho più avuto problemi.

Non che fossero molti, per la verità era uno solo: Foma. Foma Morozov. Fatico a definirlo uomo... credo che nemmeno essere umano gli si addica. La parola più carina che potrei usare per definirlo è bastardo.

Avevo solo diciotto anni quando l'ho dovuto sposare, sebbene non fosse lui l'amore della mia vita. Dico dovuto, perché il nostro era una matrimonio d'interesse. Mio padre mi ha praticamente obbligata, per unire la sua industria siderurgica con quella del padre di Foma, in modo da diventare una delle aziende più potenti del settore.

Ma non poteva sapere che mi stava consegnato nelle mani del mio aguzzino. E non lo seppi nemmeno io per i primi mesi. Era... sembrava un ragazzo normale.

Ci siamo ritrovati a dover condividere una casa ma, eravamo due perfetti estranei. Mi sono sforzata di provare a conoscerlo e lui sembrava fare altrettanto, nonostante questo, i nostri caratteri erano inconciliabili.

Gusti e passioni diverse e poi, io amavo un altro. Avevo cercato di chiudere la mia precedente relazione ma non ci riuscivo... sinceramente non ci avevo nemmeno provato con troppa convinzione.

Il problema è che Foma iniziò ad essere sempre più possessivo, fino a quando una sera, tornò a casa ubriaco e decise di prendersi ciò che considerava “suo di diritto” con la forza.

 

Ero distrutta.

Mi aveva annientata.

Letteralmente.

 

Avrei dovuto fermalo subito. Invece la vergogna che provavo mi aveva fatta diventare una preda ancora più spaventata ed inerme.

Diventò sempre più violento, arrivando persino a minacciarmi di morte. Inoltre, iniziò a picchiarmi come se quella fosse ormai una routine. Ed io mi odio per non averlo fermato prima.

Per essere stata debole.

Per non essere riuscita a dire no.

Basta.

 

Quando scoprii di aspettare un bambino non sapevo più dove sbattere la testa.

Non volevo farlo crescere in un ambiente malato, pieno di odio e violenza. Dovevo salvarlo... dovevo provarci.

Il pensiero di diventare madre aveva risvegliato in me un coraggio e una forza che non pensavo di avere, così finalmente mi decisi a denunciarlo.

Andai alla polizia e, con un po' di difficoltà, raccontai il mio calvario personale, chiamai un avvocato e chiesi la separazione.

Quella notte naturalmente non tornai a casa, andai dai miei genitori e decisi di raccontare anche a loro come stavano le cose.

Mio padre non riuscì nemmeno a finire di ascoltare la storia, se ne andò sbattendo la porta prima ancora che potessi dirgli che sarebbe diventato nonno.

Capivo che la cosa non fosse facile da accettare per lui, non lo era per me, figuriamoci per l'uomo che mi aveva venduto a quel mostro.

Quello che non riuscii ad immaginare però, fu la reazione di mia madre. Non solo mi diede uno schiaffo ma ringhiò che fosse un mio dovere, procreare, e amare l'uomo che avevo sposato.

 

«Nemmeno io ho avuto scelta. Ma ho amato tuo padre ed ho amato te. Smettila di fare i capricci e cresci!».

 

Le sue parole mi feriscono ancora quando ci penso.

Ma dopo questa “adorabile” discussione, presi la porta e me ne andai.

Tornando da Lui...

 

Lui che mi ha sempre amata.

Lui che mi ha sempre accettata.

Lui... che riusciva a cancellare il mio dolore con la sua sola presenza.

 

Quando arrivai davanti a quello che sarebbe dovuto diventare il nostro rifugio però, trovai Foma ad aspettarmi.

Quella notte non persi solo me stessa.

 

 

«Informiamo i gentili passeggeri che stiamo per incontrare una leggera turbolenza, siete pregati di allacciare le cinture».

 

Mi ridestai dai miei pensieri e feci per eseguire il comando, quando mi accorsi che non l'avevo ancora slacciata.

Ravvivai leggermente i corti capelli biondi e decisi di ascoltare un po' di musica.

La lirica mi aveva salvata dal baratro in qualche modo, infatti dopo essere scappata in Italia, l'unica cosa che riuscì a darmi un po' di sollievo fu il teatro.

Non era una cosa campata per aria, il mio psicanalista mi aveva consigliato di trovare un'attività in cui sfogare le mie emozioni, così sono entrata nel mondo del teatro.

 

I primi mesi erano stati davvero difficili e complicati. In generale intendo. Avevo trovato un piccolo appartamentino nella periferia di Milano, in una zona dove c'erano altri miei connazionali.

Mi hanno aiutato molto soprattutto con la lingua, visto che non sapevo una parola.

Iniziai a fare qualche lavoretto – spesso sottopagato – e cercai di tirare avanti come potevo.

Avevo qualche risparmio messo da parte, ma non volevo sperperare tutto in pochi mesi. Senza contare che la vita in quella penisola era davvero dispendiosa.

Nel frattempo avevo avviato le pratiche per il divorzio. Quando il mio avvocato riuscì ad ottenere un accordo per la separazione, il bastardo iniziò a versarmi 38200 rubli per il mantenimento, ovvero circa 800€.

Con quelli le cose iniziarono ad andare un po' meglio, anche se l'idea di usare soldi che arrivassero da Foma mi repelleva.

Ero intenzionata a cambiare vita e piano piano, raccolti i cocci della mia esistenza, mi immersi anima e corpo nel teatro, scoprendo di avere una cerca dote per il canto e la lirica.

Avevo urlato così tanto per colpa di quel mostro, che avevo acquisito un'ottima capacità polmonare.

Piuttosto inquietante...

 

Così dopo anni di duro lavoro, mi ero decisa per fare un nuovo provino. Era una decisione molto importante per me, perché per farlo sarei dovuta tornare in Russia e affrontare i miei demoni.

Se sono su questo aereo naturalmente, non è per inseguire un sogno... conosco il produttore, ho lavorato per altri suoi spettacoli in Italia e mi ha praticamente detto, che il mio provino è una pura formalità, perciò diventerò “La fanciulla delle nevi” dall'omonima opera teatrale scritta da Nikolaj Rimskij-Korsakov e tratta dal dramma di Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij.

Ci esibiremo al prestigioso Teatro Bolshoi a Mosca, per l'intera stagione. Dopo quest'opera avrò l'opportunità di entrare a tutti gli effetti nella compagnia, e io, più di ogni altra cosa ho bisogno di stabilità.

Naturalmente non è solo questo il motivo del mio ritorno.

Il mio avvocato è riuscito ad ottenere il divorzio, così firmate le ultime scartoffie non sarò più la Signora Morozov, ma di nuovo io: Kira Ivanova.

Certo, non tutte le ferite si sono rimarginate – alcune non lo faranno mai – ma sono decisa, sono sicura e non permetterò più a nessuno di piegarmi al suo volere.

 

 

«Informiamo i passeggeri che stiamo per iniziare la discesa».

 

 

Mancava poco...

Tolsi le cuffie riponendole nella borsa, aspettai che l'aereo atterrasse e mi diressi subito a prendere le valige. Avevo bisogno di un carrello per trasportare tutto quanto, mi ero portata solo ciò che sentivo di non poter proprio abbandonare, ovvero un set completo di valigie. Il resto lo avevo venduto o regalato prima di partire. Di certo i bagagli che stavo trasportando adesso, erano molto più ingombranti del misero trolley che mi ero portata all'andata. Ma infondo ero tornata “arricchita”, dalla mia permanenza in Italia, e non solo a livello materiale.

 

Accesi il telefono e scrissi velocemente un messaggio a Lui - «Sono tornata».

Sapeva già tutto, avevamo parlato così tanto di questo viaggio che non serviva aggiungere altro.

 

Noleggiai un'auto e il ragazzo che mi consegnò le chiavi, fu così gentile da aiutarmi persino a caricare le valige sulla berlina grigia. Imboccai la super strada, in modo da arrivare al mio appartamento in un'ora e mezzo, forse due.

Tamburellai con le dita sul volante, facendo picchiettare la mandorla dell'unghia a ritmo di musica.

Era strano tornare dopo cinque anni, anche se i paesaggi erano esattamente come li ricordavo. Distese di neve si perdevano all'orizzonte, infondo era l'inizio di gennaio e non ci si poteva aspettare niente di diverso dall'inverno russo. Ciò che mi metteva una leggera ansia però, era il cielo plumbeo.

Le nubi nere e la fitta neve non incoraggiavano di certo i buoni sentimenti. Speravo un po' più di accoglienza dalla mia madre patria, ma infondo non si ha controllo sul tempo atmosferico.

Dopo circa mezz'ora fui costretta a fermarmi in una piazzola a destra della strada. Faticavo a vedere oltre i tergicristalli, così preferii fermarmi piuttosto che rischiare di farmi male. Anche se le catene erano già montate sulla macchina, non ero abituata a guidare in quelle condizioni perché, la patente l'avevo presa in Italia, e a Milano non nevicava poi così spesso.

 

Speravo sinceramente che le condizioni climatiche si attenuassero, volevo tornare a casa al più presto e bermi una tisana calda. Infatti nonostante la giacca pesante, il freddo nella macchina penetrava fin dentro alle ossa.

Presi il copione dell'opera e iniziai a ripassare, dovevo tenermi impegnata in qualche modo. Pensare alla storia della fanciulla delle nevi, mi aiutava a rilassarmi e a non pensare a cosa avrei dovuto affrontare nei giorni seguenti.

Infondo anche alla protagonista che dovevo interpretare non è sempre andata bene. Chi sono io per pretendere una vita migliore?

Dovevo entrare nei panni di una ragazza preistorica, era una sfida piuttosto avvincente.

La storia trattava le opposizioni eterne della natura, facendo interagire personaggi reali con quelli fantastici e quelli semileggendari. Ognuno di loro era caratterizzato e distinto musicalmente, ed io ero una soprano lirico.

Una soprano lirico-drammatico per l'esattezza.

Sì, quello era decisamente un aggettivo ricorrente nella mia vita.

Con il tempo avevo affinato il calore timbrico, la pienezza, la ricchezza e la dolcezza della voce. Il mio vocal-coach era piuttosto severo ed esigente, ma non avrei potuto chiedere di meglio: ottenemmo entrambi parecchie soddisfazioni dal lavoro fatto insieme.

Con il tempo mi aveva lanciato sfide sempre maggiori, così riuscii a migliorare anche nell'intensificare il volume e nell'avere una buona tenuta nel registro grave.

«Con questa voce» - mi aveva detto - «Ora non ti fermerà nessuno».

E infatti aveva ragione: tra i tanti ruoli che avevo interpretato negli anni c'erano Floria Tosca, Suor Angelica e Manon Lescaut, nelle opere di Puccini, e persino l'Aida di Verdi.

Ero davvero soddisfatta, sentivo di aver finalmente trovato il mio posto nel mondo.

 

Quando alzai gli occhi dal copione era già passata un'ora, e per fortuna la bufera si era leggermente calmata.

«Meglio avviarsi» - pensai, così sistemai i fogli nella borsetta e ripresi la guida.

Un brivido mi percorse l'intera spina dorsale, avevo decisamente bisogno di una doccia calda, un infuso e una coperta in cui potermi raggomitolare per il resto della serata.

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Capitolo 2
*** Chapter II – Casa dolce casa ***


Questa storia, partecipa al contest "Giallo a scena multipla" di Faejer.

Pacchetto Bianco
2° Turno


 

– La fanciulla delle nevi

 

All'uscita dalla superstrada impostai il navigatore satellitare per arrivare in quella che sarebbe diventata la mia nuova casa.

Mosca era piena di ricordi per me e non volevo dover affrontare i miei fantasmi ogni volta che mi guardavo in giro. Così, appena decisi di tornare nella mia patria, pensai di trovare un'abitazione lontana da tutto e tutti. Mi sarei accontenta di un piccolo appartamentino in periferia o una casetta molto modesta ai limiti della brughiera ma, quando dissi a mio padre che stavo per tornare, lui si premurò di regalarmi una villetta a due piani a qualche chilometro dalla città vera e propria.

Evidentemente i sensi di colpa non lo avevano lasciato nemmeno dopo cinque anni.

Non avevo chiesto nulla di mia madre, dopo quello che si era permessa di dirmi avevo tagliato completamente i ponti, ma papà lo sentivo almeno una o due volte al mese e sembrava davvero contento che la sua piccolina fosse di nuovo a casa.

Quando finalmente arrivai davanti alla mia nuova residenza, parcheggiai nel vialetto d'entrata e spensi il motore della macchina. Mio padre aveva insistito per portami a cena quella stessa sera e perciò, aprendo il portabagagli dell'auto, calcolai di avere qualche ora a disposizione prima di dovermi preparare.

Le chiavi mi erano state recapitate attraverso posta prioritaria in Italia, e ora avrei finalmente fatto un altro passo in avanti verso la mia nuova vita. Iniziai a far girare la serratura e dopo qualche secondo sentii un “clack” deciso, così potei entrare.

Trasportai un paio di bagagli all'interno e tornai verso la macchina per prendere quelli che restavano, ripetendo questa operazione un paio di volte: dopotutto non ero molto forte e le valigie erano davvero pesanti.

Mentre stavo trascinando sulla neve l'ultima borsa, che era anche quella più grande, scivolai maldestramente su del ghiaccio battendo la testa contro la carrozzeria della vettura.

«Maledizione!» ringhiai a denti stretti.

Mi portai subito la mano sulla fronte e un fluido caldo e rosso iniziò a colarmi davanti all'occhio destro, disegnando sulla distesa bianca un'opera grottesca che assomigliava molto ad un quadro di Pollock.

Mi alzai zoppicando: dovevo aver preso anche una leggera storta alla caviglia, della serie che la sfortuna non è mai troppa. Avevo messo piede in Russia da meno di tre ore ed ero già dolorante e malmessa. Scacciai dalla mia testa la malsana idea che non sarebbe cambiato niente, ed entrai in casa alla ricerca di qualcosa da usare per tamponare la ferita.

Dovetti aprire praticamente tutte le stanze del piano terra, prima di trovare il bagno. Feci scorrere l'acqua nel lavandino e con un fazzoletto pulito iniziai a tamponare il taglio. Mi guardai allo specchio e constatai che il sopracciglio era leggermente blu e gonfio, in compenso la ferita non era molto profonda.

Dopo qualche minuto il sangue si fermò, così mi pulii il viso e tornai all'entrata, dove i borsoni giacevano a terra, accatastati. Sbuffando mi feci forza, depositandoli ai piedi delle scale decidendo poi di essere troppo stanca per portarli al piano superiore. Mi sarei fatta aiutare quando Lui sarebbe passato a trovarmi.

A dire il vero ero piuttosto sorpresa di non averlo già trovato lì ad aspettarmi ma, evidentemente, era stato trattenuto per lavoro.

Presi la borsa con dentro il portafoglio, le chiavi di casa e quelle della macchina e, mettendomi di nuovo il cappotto, andai all'auto impostando sul navigatore satellitare la ricerca del supermercato più vicino. Dovevo assolutamente comprare il necessario per medicarmi la ferita e le prime necessità tra cui qualcosa da mangiare, qualche infuso rilassante e un bagnoschiuma per quello che consideravo un agognato bagno caldo.

Fortunatamente trovai subito la struttura e in meno di mezz'ora ero già rientrata con tre buste piene di viveri e quant'altro. La casa era piuttosto in ordine ma preferivo fare le pulizie a modo mio, prima di iniziare a viverci seriamente, perciò avevo gettato alla rinfusa nel carrello qualunque tipo di detergente e candeggina che avevo trovato nella corsia del market. Tra le tante cose che avevo comperato c'era anche un piccolo bollitore che sterilizzai e misi sul fuoco. Andai nel bagno al piano terra per poter raggiungere subito la cucina nel momento in cui il boiler avesse iniziato a fischiare e, utilizzando il disinfettante verde, mi ripulii la ferita sopra l'occhio applicandole poi sopra un cerotto color carne.

Tornai nell'altra stanza e preparai la tazza, il miele e lo zucchero (adoravo le cose dolci), e non appena l'acqua iniziò a bollire spensi il fuoco e la versai nella mug, misi una bustina alla malva e passiflora ad infondere nel liquido. Una volta pronto aggiunsi i due dolcificanti, iniziando a soffiarvi sopra per intiepidirlo un po'.

Presi dalla valigia un asciugamano, un accappatoio morbido, la biancheria pulita, il bagnoschiuma alla lavanda e i detergenti per i sanitari che avevo appena comperato. Poi, sempre con la tazza in mano, mi diressi al piano superiore dove sapevo esserci un enorme vasca.

Mentre salivo le scale, zoppicando ancora per la caduta di prima, mi guardai intorno per cercare di capire quale fosse la stanza giusta. Aprii la prima porta sulla destra e vi trovai un piccolo ripostiglio. La richiusi subito e tentai la sorte con quella successiva. Afferrai la maniglia e stando attenta a non rovesciare la tisana a terra, provai a spalancarla. Niente da fare, era la mia camera: un ampio letto matrimoniale, un armadio enorme in legno d'acero e una finestra con un'ampia rientranza, allestita come se fosse un piccolo divano. Mi immaginavo già a scrutare la taiga circostante e la sua fauna mentre sorseggiavo una cioccolata calda con panna, accompagnata magari da un buon libro. Bevvi un po' della tisana e sorridendo proseguii verso la porta a sinistra.

Una volta aperta non riuscii a capire subito che cosa avevo davanti agli occhi ma, esattamente un secondo dopo, sentii la tazza infrangersi sul pavimento mentre il liquido mi bagnava i calzini e il resto di quello che fino a poco prima avevo in mano.

Mi coprii istintivamente la bocca e tentai di soffocare un urlo di terrore.

Foma era davanti a me, seduto su una poltroncina di pelle nera sistemata vicino ad una finestra. La stanza illuminata dalla luce alle sue spalle, mostrava macchie scarlatte sulle pareti circostanti e sulla libreria di frassino. Mi sembrò che il tempo si fosse letteralmente fermato, mentre venivo percorsa da brividi. Le gambe non ressero a lungo e poco dopo mi ritrovai ad osservare la scena da una differente angolazione, in qualunque caso, il risultato non cambiava: il bastardo aveva il cranio spappolato da un colpo di pistola e le sue cervella erano sparse sui muri alla sua sinistra.

Non riuscivo a muovermi, ero paralizzata dalla paura e dal terrore. Da quanto tempo si trovava in casa mia?

Lo guardai ancora e vidi che teneva la pistola nella mano destra, che ricadeva a peso morto toccando quasi il pavimento.

Aveva un'arma, avrebbe potuto uccidermi e invece si era sparato. Non riuscivo a capacitarmi della cosa. Mi sentivo confusa, spaventata, incredula...

Cercai di rialzarmi facendo perno sullo stipite della porta e, dopo qualche tentativo, indietreggiai fino ad arrivare con la schiena al muro alle mie spalle. Tastai le tasche dei jeans ed estrassi il telefono cellulare, poi con le dita che tremavano su ogni tasto, riuscii a comporre il numero delle emergenze per chiamare la polizia.

«C'è un uomo morto in casa mia» spiegai balbettando, lasciai l'indirizzo e incespicai fino alla porta d'entrata, allontanandomi inconsciamente il più possibile da quella stanza.

Quando la polizia arrivò mi trovarono chiusa in macchina in stato confusionale e sotto shock. Ero senza giacca e scarpe ad appena cinque gradi di temperatura, avevo rischiato un assideramento termico.

Inutile dire che mi portarono subito al più vicino ospedale, dove mi furono subito prestati i primi soccorsi. Per cominciare i medici cercarono di alzare la mia temperatura corporea -sinceramente li lasciavo fare senza chiedere niente-. Erano ben altre le domande che avevo in testa, prima tra tutte: perché? Che senso aveva il suo gesto? Come poteva conoscere l'indirizzo di casa mia?

Una giovane infermiera, mi tolse il cerotto sopra l'occhio, e controllò lo stato della ferita. Poi bendarono e immobilizzarono la caviglia, dato che era slogata e mi somministrarono dei calmanti per i nervi.

Non so di preciso quanto tempo fosse passato, ma ad un tratto la donna rientrò portandosi appresso due agenti di polizia. Uno era sulla cinquantina, capelli brizzolati, ben piazzato, con spalle e torace ampi. Sembrava orgoglioso di indossare la sua divisa e dalle sgualciture che aveva, doveva essere in polizia da parecchio tempo. La barba gli ricopriva il volto e i baffi sale e pepe gli aggiungevano sicuramente qualche anno in più. L'altro invece, era decisamente più giovane un po' impacciato, probabilmente fresco di Accademia.

«Signora Ivanova,» aveva esordito il più anziano dei due «sono il Capitano Petrov e lui è il sergente Golubev, avremmo la necessità di porle qualche domanda».

Cercai di raddrizzarmi per mettermi a sedere ed anche se con qualche difficoltà, riuscii infine a sistemarmi contro la testiera del letto. Infine feci un segno d'assenso con il capo per permettere loro di iniziare a parlare.

«Conosce la vittima?» fu la prima domanda che mi venne posta ma non mi sembrava quello il termine adatto con cui chiamarlo: io ero una vittima, non lui.

«Foma Morozov. È il mio ex marito» sussurrai disgustata da quell'appellativo.

«C'era qualcun altro in casa quando lo ha trovato?» continuò a chiedere il Capitano.

«No, ero sola.» spiegai «Quando sono tornata dal supermercato mi sono preparata una tisana e stavo per andare a fare un bagno caldo, ho aperto la porta e l'ho trovato».

«A che ora è andata a fare la spesa?» chiese il giovane sergente annotando ogni cosa su un'agendina.

«Non saprei...» dissi pensando «saranno state le quindici e trenta, comunque sono rientrata verso le sedici, sedici e dieci».

«Bene,» borbottò l'uomo continuando a scrivere «quindi possiamo pensare che si sia introdotto in casa sua in quel lasso di tempo».

«A dire il vero potrebbe essere successo prima» riflettei «Quando sono arrivata non ho controllato il piano superiore, era la prima volta che mettevo piede in quella casa, sono arrivata oggi con un volo dall'Italia».

Vidi i due scambiarsi un'occhiata perplessa, poi il Petrov si rivolse nuovamente a me.

«Avevate un appuntamento?» domandò «Dovevate vedervi?»

«Assolutamente no!» risposi sicura «Non capisco come facesse a sapere dove abitavo e nemmeno che sarei rientrata proprio oggi. Il mio avvocato mi ha chiamato un mese fa dicendomi che le pratiche per il divorzio erano pronte, ma non avevamo annunciato volutamente quando sarei tornata perché avevo paura...»

«Paura?» mi interruppe Golubev «Paura di cosa?»

«Che potesse farmi del male...» pigolai «ancora».

«Può spiegarci come stavano le cose tra di voi?» chiese di nuovo «Vorremmo evitare di farle un interrogatorio».

Annuii grata per la sua delicatezza e iniziai a raccontare «Cinque anni fa dopo ripetute violenze mi decisi a denunciarlo. Quello stesso giorno cercò di uccidermi ma fortunatamente -almeno credo- non riuscì nella sua impresa e io fui ricoverata per un po'. Quando i medici dissero che fisicamente stavo bene, presi lo stretto necessario e fuggii via dalla Russia. Chiesi la separazione e appena fu possibile il divorzio, dopo cinque anni passati in Italia mi hanno proposto un posto nella compagnia lirica che si esibirà al Teatro Bolshoi questa primavera, così ho deciso di tornare ma a parte mio padre e il mio avvocato nessuno lo sapeva. Un giorno della prossima settimana saremmo dovuti andare in tribunale a firmare le ultime scartoffie».

«Quindi tecnicamente non è ancora il suo ex marito» disse il Capitano serio.

Lo guardai con un misto di stupore e ira «Sta forse insinuando qualcosa?»

«Certo che no,» disse con una flebile nota di sarcasmo «per quanto ne sappiamo fino ad ora, si è trattato di un suicidio,» esclamò guardandomi «anche se ho riscontrato alcune stranezze che stiamo verificando. Certo...» sospirò sornione «una vera fortuna che sia morto prima di firmare, ora riceverà una cospicua somma in eredità».

«Le assicuro che io non ne sapevo niente. I suoi soldi mi fanno schifo! Trovarlo è stato uno shock per me!» dissi infervorata.

«Si calmi» intervenne l'infermiera facendomi appoggiare di nuovo contro i cuscini alle mie spalle. «Non le fa bene agitarsi, e voi uscite per favore» intimò ai due agenti.

«Con permesso» annuì il sergente mentre usciva velocemente.

L'altro rimase a guardarmi per un attimo estremamente serio «Fino a quando non stabiliremo come si siano svolti i fatti non le è permesso lasciare la città. Domani nel primo pomeriggio l'aspetto in commissariato per la deposizione».

Ringhiai un assenso e lo guardai richiudersi la porta alle spalle.

«Stia tranquilla, tra un po' la lasciamo uscire» sorrise la donna che era sempre rimasta al mio fianco per cercare di distrarmi.

«Davvero?» chiesi stupita «Pensavo voleste trattenermi per altri accertamenti»

«No, non si preoccupi» rispose gentilmente «Aspettiamo le ultime analisi e poi può tornare a casa»

«Sinceramente non ci tengo...» pensai «sarà meglio cercare un albergo per la notte»

Dopo una decina di minuti la porta si aprì nuovamente e vidi comparire mio padre, visibilmente preoccupato.

«Kira» esclamò venendomi incontro e soffocandomi in un abbraccio «Bambina mia».

Mi commosse davvero tanto sentirglielo dire.

Cercai inutilmente di trattenere le lacrime ma alla fine mi lasciai andare tradendo la mia fredda e rigida natura russa, facendomi avvolgere dal tepore di quello che restava della mia famiglia.

«Che cos'è successo?» mi chiese sfiorando appena la ferita sulla mia fronte.

«Questo non è niente» lo rassicurai «Sono inciampata sul vialetto e ho sbattuto contro l'auto per colpa del ghiaccio».

Mi guardò dubbioso, probabilmente non mi credeva «Mi hanno detto che Foma...»

Dei brividi freddi mi scesero lungo la schiena solo sentendo nominare il suo nome.

«Non ho idea di che cosa sia successo. Ho aperto la porta dello studio e l'ho trovato morto» gli spiegai «Sono così...»

«Così?» domandò mio padre sedendosi a bordo del mio letto.

«Così incazzata!» ammisi.

L'uomo mi guardò storto, non riuscendo a capire il mio stato d'animo.

«Insomma papà... torno dopo cinque anni convinta di essermi lasciata il passato alle spalle, lo faccio anche per firmare quel maledetto divorzio, per cancellare quel bastardo dalla mia vita e che succede? Si ammazza in casa mia. Non sono arrabbiata, sono furiosa!» dissi in modo concitato, poi sospirai e aggiunsi in un sussurro «Io volevo ricominciare ma ora... con che coraggio potrò rimettere piede in quell'abitazione?».

«Puoi tornare da noi. Tua madre...» provò a dire ma lo fermai immediatamente.

«No papà, te lo puoi scordare, non tornerò a casa vostra fino a quando mamma avrà vita» dissi duramente.

«Non dire così» esclamò con un velato rimprovero nella voce «Sa di aver sbagliato, se le dessi una possibilità sono sicuro che ti chiederebbe perdono».

Scrollai la testa amareggiata al solo pensiero «No, non ce la faccio».

La stanza si riempì di un silenzio pesante, c'erano troppe cose da dire o forse nessuna per cui valesse davvero la pena aprire bocca.

Dopo qualche minuto entrò l'infermiera con i risultati delle analisi e un enorme sorriso stampato in volto.

«Mia cara sei libera di andare» affermò staccandomi la flebo ormai finita di un qualche ricostituente.

La ringraziai e poco dopo uscii dall'ospedale con mio padre.

«Andiamo a cena?» mi chiese sorridendo e passando un braccio sopra la mia spalla per tenermi stretta a sé.

«Scusami ma è stata una giornata davvero pesante, cerco un posto dove stare e rimandiamo a un altro giorno, va bene?».

Mio padre annuì capendo perfettamente la situazione e mi accompagnò in un albergo in centro per permettermi di riposare.

Salii fino al terzo piano con l'ascensore e passai la tessera magnetica per aprire la porta trecentoventitré, come indicatomi dalla receptionist.

Decisi di farmi una doccia calda e approfittare del frigobar per bere un cicchetto di vodka -ne avevo proprio bisogno-. Mi buttai sul letto sperando che Morfeo mi accogliesse velocemente tra le sue braccia, ma rimasi impalata per quasi un'ora a guardare il soffitto. Capii che il mio stomaco protestava nonostante non avessi voglia di mangiare niente, così decisi di uscire a fare due passi, dopotutto la caviglia era migliorata molto dopo la fasciatura che mi aveva fatto il medico.

Continuavo a pensare e ripensare alle parole dell'agente di polizia. Come poteva anche solo pensare che c'entrassi qualcosa con l'omicidio di quell'essere?

Avevano parlato di suicidio ma io ancora non riuscivo a capacitarmene.

Fu in quel momento che realizzai nella mia testa il fatto che... era morto. Il mostro non c'era più. Era svanito, annientato, dissolto, finito. Non avrebbe più potuto farmi del male. Tirai un sospiro di sollievo rassicurata da quel pensiero e non mi sentii affatto in colpa per averlo fatto.

Gli interrogativi rimanevano comunque tanti, forse troppi.

Poi un'idea mi balenò nella mente. E se quel bastardo avesse progettato tutto per incastrarmi?

Scrollai la testa cercando di scacciare quella bruttissima sensazione, ed entrai in un pub per scaldarmi e mangiare finalmente qualcosa.

Ordinai un hamburger e qualche patatina di contorno, solitamente tenevo molto alla mia linea ma oggi le eccezioni erano all'ordine del giorno. Sorseggiai piano la mia coca, mentre mi guardavo distrattamente in giro. Mosca e Milano avevano un'atmosfera completamente diversa, e dovevo ammetterlo, la mia patria mi era mancata. Anche le persone erano decisamente differenti.

Guardai il telefono dopo ore e vi trovai parecchi messaggi. Lui non si era dimenticato di me anzi, era piuttosto preoccupato e questo mi strappò un sorriso. Gli scrissi dov'ero sperando che mi raggiungesse presto e finii di cenare in silenzio.

Stavo per ordinare un caffè, quando la televisione attirò tutta la mia attenzione.

«Morto nel pomeriggio Foma Morozov, figlio e unico erede dell'imprenditore delle industrie Severstal. Le prime indagini parlano di suicidio, ma fonti non ufficiali all'interno della polizia hanno ipotizzato si tratti in realtà di una messa in scena. Il Capitano della polizia Petrov ha assicurato che faranno tutti gli accertamenti del caso, i prossimi aggiornamenti al telegiornale di mezzanotte».

Rimasi esterrefatta di fronte alle parole della giornalista e capii che se non volevo finire nei guai, dovevo trovare da sola le risposte alle mie domande e soprattutto farlo prima che venissero a cercarmi.

Ripensai a quello che avevo fatto da quando avevo messo piede in aeroporto, e se il bastardo fosse morto molto prima delle quattro, avrei avuto qualche problema a giustificare il mio alibi. Infondo avevo passato più di un'ora da sola sul ciglio di una strada e nessuno mi avrebbe mai fatto da testimone. Inoltre ero stata in casa -per poco certo- ma c'ero stata, e l'avevo lasciata per andare a comprare detergenti e candeggine. Per non parlare dei lividi, del taglio e della storta alla caviglia, sembrava che avessi scritto “colluttazione” a caratteri cubitali in fronte. Analizzando a mente fredda questi particolari, sembravo sospetta persino a me stessa.

«Se esiste un Dio si starà divertendo un sacco in questo momento» borbottai amareggiata nel bicchiere che stavo sorseggiando.

Mi diedi mentalmente della stupida un centinaio di volte e dall'ansia crescente che mi attanagliava lo stomaco avevo capito di essere davvero nei casini.

Non c'era tempo da perdere, dovevo capire perché si era suicidato, e se non lo aveva fatto, chi poteva aver desiderato la sua morte. Solo trovando il vero colpevole sarei riuscita a scagionarmi.

Sospirai profondamente mormorando tra me e me «Dovrò davvero impegnarmi per convincere il Capitano Petrov della mia innocenza, credo che abbia già deciso chi sia stato a premere il grilletto».

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