A second chance

di PurpleBlast
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Day after day ***
Capitolo 2: *** A new work ***



Capitolo 1
*** Day after day ***


"Non esiste separazione definitiva fino a quando c’è il ricordo."
Isabel Allende, Paula


Non vi era più differenza da un giorno all’altro. Il sorgere del sole, all’alba, l’incidere del giorno, il pomeriggio sempre troppo illuminato, un languido tramonto e poi la notte. Questo passare del tempo ciclico divenne una tortura, con il trascorrere dei mesi. Ancora di più lo era il sopravvivere, ora come essere umano. I bisogni naturali, come doversi nutrire, lavare, dormire… tutto era diventato troppo per lui. Negli inferi era un Comandante d’acciaio, invincibile, al quale tutti s’inchinavano per sommo timore e rispetto. Un padrone del fuoco e di vite spettrali. Lui decideva le sorti e le punizioni. Lui eliminava chiunque gli fosse d’intralcio. Lui ed il suo ego erano il centro del suo esistere in quel luogo. Lo erano stati. Fino a quando venne toccato nella sua intimità più recondita e nascosta da qualcosa cui mai avrebbe pensato d’aspirare. Quando la sua anima fu sfiorata da un sentimento, allora qualcosa cambiò. E lui detestò quel cambiamento, nonostante anelasse di raggiungerne l’essenza primaria. La causa. La ragione. Lei.
Cadde a terra, inciampando nei ciottoli della strada. In bocca la polvere. Le mani ruvide. Il sudore nella schiena. Spinse verso il basso, per rialzarsi. Ora era l’antitesi del proprio passato. Un miserabile.
Solo.
Socchiuse lo sguardo un tempo scarlatto. Nelle sue iridi ora dorate, ancora vibravano pagliuzze color rubino. La carnagione olivastra e la chioma scura, dalla sfumature della notte più profonda. L’abito rovinato, una tunica di cotone chiara e dei pantaloni troppo larghi, ormai. Il cibo non era più piacere, come un tempo. Era bisogno. E per lui diveniva necessario soltanto quando le fitte allo stomaco gli impedivano di dormire.
Ricordava bene quelle sere in cui pasteggiava, senza pensieri, tra le morbide coltri disfatte. Quando libero da qualsiasi abito o vergogna, porgeva ogni qual genere di golosità alle labbra della sua compagna, raggiungendola poi con le proprie, condividendo anche il sapore delle proprie bocche, oltre che della pietanza. Dopo aver consumato energie negli allenamenti e tra le lenzuola, quello era il loro riposo. Il loro momento senza regole. Anzi, con una soltanto: tutto ciò che accadeva nella sua stanza, in Antenora, lì doveva concludersi. All’esterno lui era il suo Generale. Lei la sua seconda in comando.
Strinse i denti. Chiuse gli occhi. Qualsiasi immagine di ciò che era stata la sua vita, lo stordiva. Qualsiasi immagine che comprendesse lei.
Raggiunse il villaggio a ridosso del mare una calda sera di agosto. Le vie erano ancora frenetiche e ricolme di persone che si muovevano in ogni direzioni. I banchi del mercato iniziavano a ritirare la merce esposta. Nel passare accanto a pagnotte, dolci, carne, frutta, le fitte allo stomaco si risvegliarono di soprassalto, assassine e cruenti. Portò le mani su quel dolore, come per placarlo. Che scocciatura il dover sopravvivere. Avesse almeno avuto un senso. Ma lui di sensi e di ragioni non ne voleva più. Quella che stava vivendo era una punizione. Sarebbe andato avanti fino a quando non avrebbe avuto più forza. E allora, senza necessità alcuna di combattere, ecco, avrebbe detto addio a quell’esistenza inutile.
- Ehi, tu! - Il richiamo di una voce maschile lo rianimò dai lugubri pensieri. Focalizzò di fronte a sé un vecchio uomo, grigio di capelli e di barba, quest’ultima folta e lunga. Stava immobile su una sedia. Non aveva le gambe. Con una mano stringeva un bastone lavorato da cure abili, il quale aveva alla sua sommità la forma della testa di un pesce. Le dita del vecchio stringevano le squame intagliate in esso.
- Sei sordo o ci senti? – riprese provocatorio l’uomo. Suykio deglutì, cercando di prendere coscienza del presente, ed annui,
- Ci sento. – si limitò a rispondere.
L’anziano uomo tacque qualche istante e parve scrutarlo con due gemme azzurre che sarebbero potute appartenere ad una bambino. Risaltavano incredibilmente nel volto rugoso e scuro. Un viso scavato e levigato dal lavoro e da una vita faticosa, non vi era dubbio alcuno.
- Se vuoi guadagnare qualche denaro, ho bisogno di un aiuto. - dichiarò infine, come se si fosse improvvisamente fidato di lui. L’ex giudice infernale restò basito da tale affermazione. Da quando vagava senza meta, non aveva mai ricevuto un’offerta così facile da raggiungere. Aveva sempre dovuto cercare da sé piccoli lavori di fatica per garantirsi il necessario per non morire di fame. Questo sfiorava il miracolo.
Il senso di sopravvivenza ormai labile nel suo animo, si risvegliò, con sua stessa sorpresa. Mosse dei passi verso il vecchio.
- Vi ascolto. – si limitò a rispondere.
L’uomo sollevò il bastone, indicando le casse che stavano davanti a lui, nelle quale era depositato del pesce. Poi scostò la punta dello stesso verso un carro dall’altra parte della strada.
- Porta le casse sul carro. - Ci fu un momento, prima che Suikyo reagisse. Poi senza porsi domande né problemi si abbassò, per afferrare la prima cassa. In questa vi erano dei totani. L’odore acre raggiunse subito le sue narici. Quel pesce doveva essere lì dalla mattina. Il ghiaccio era ormai sciolto e la freschezza degli animali compromessa. Inoltre nello spostamento, del liquido fuoriuscì dalla cassa, bagnando i suoi abiti. Lui non se ne curò. Soltanto il senso di nausea lo infastidì. Ma si disse che non avendo ingerito nulla negli ultimi quattro giorni, non avrebbe potuto vomitare un bel nulla. Perciò proseguì.
Le casse che portò sul carretto furono completate alla settima. Tornò di fronte al vecchio, il quale allargò le braccia, 
- Ho bisogno che porti anche me, sul carro, ora. - In quella richiesta non vi era vergogna e nemmeno desiderio di pietà. Suikyo gli si avvicinò e lo raccolse. Si sentì goffo, nel prendere tra le braccia quell’uomo, ma lo fece con attenzione. La Garuda non soggiogava più il suo animo, questo le rendeva più capace nei rapporti umani.
Mentre attraversava la strada, alcuni mercanti si fermarono ad osservarlo, seguendo il suo tragitto, passo per passo. Lui se ne accorse, ma non se ne curò.
Raggiunto il carro, poggiò l’uomo, lasciando che si accomodasse da sé, al meglio. Il vecchio indicò l’estremità del mezzo, al quale non vi era legato alcun animale.
- Ora afferra il carro e prosegui per questa strada. - Un ordine dopo l’altro, con garanzia di nulla. Tuttavia quegli ordini erano oro. Colmavano i suoi pensieri e l’attenzione nel qui e ora. Non vi era passato e neanche futuro, solo quel semplicissimo ordine da eseguire.
Trasportò il carro per quasi un chilometro. Sentì il bastone dell’uomo colpirlo leggero sulla spalla, quando si trovavano di fronte ad una vecchia abitazione dalle mura grige e dalle piccole finestre.
Si fermò, osservandolo.
- Questa è casa mia. E per questa notte sarà anche casa tua. Puzzi come un pesce andato a male, ragazzo. -
La porta si aprì e spuntò da essa una donna troppo magra, sui settant’anni. Una massa di capelli cinerei ma ancora soffici, ricci e raccolti con una crocca sul capo. La pelle rugosa e scura, il naso sottile. Uno sguardo verde chiaro, rassicurante. L’abito color panna con sopra un grembiule, la vestiva in modo ordinato.
Lanciò uno sguardo curioso verso Suikyo e poi si rivolse al vecchio
- Samuel! Cosa ne è stato dei due fratelli indiani? -
Quello sbuffò,
- Due incapaci. Questa mattina, dopo avermi piazzato al solito posto, hanno farneticato qualcosa rispetto un viaggio in Asia, un ritorno a casa. E mi hanno mollato lì, senza se e senza ma! Dannati!-
Alzò anche il pugno, a completare il quadro di rabbia verso quei due. L’anziana sospirò, portando le mani ai fianchi ed osservando il nuovo ragazzo
- Hai fatto scappare anche quelli. Samuel, non puoi essere sgarbato con tutte le persone che incontri… - fece un passo verso il giovane – lo è stato anche con te? -
Suikyo fu colpito dalla gentilezza dell’anziana signora. Era qualcosa che non viveva da tempo, quel senso di attenzione. L’ultima volta che qualcuno si era curato di lui… era stato durante l’attacco ordinato da Hades. Attacco dettato ad un corpo privo di vita. Che tuttavia si rifiutò di eseguire il mandato fino in fondo.
Violate mostrò ad Aiacos la potenza del loro legame persino in quella situazione.
- No – si riscosse, accorgendosi dello sguardo indagatore della donna, - Tutt’altro.-
Lei non ne fu pienamente convinta, ma i suoi ragionamenti vennero interrotti dall’anziano privato degli arti inferiori:,
- Bhe, dobbiamo andare avanti ancora per molto? Avrei urgenza del bagno. Giovane, prendimi, forza! -
La donna però si mosse, impedendogli di muoversi e fissando arcigna Samuel.
- Non ti sembra di mancare di educazione, marito mio caro? Non gli hai nemmeno domandato il nome? -
- Ehm… - commentò quello, come se fosse stato colto di sorpresa da una domanda complicata, - ragazzo, il tuo nome? – con completa indifferenza verso l’accusa di lei.
Da quanto tempo non pronunciava il suo nome? Interminabile. Era Suikyo? Ma aveva vissuto maggiormente nei panni del giudice Aiacos della Garuda… chi era dei due? Era un guerriero di Athena? O un giudice nero di Hades? Non era nessuno, né più l’uno, né più l’altro. Nessuno. Ma dovette rispondere.
- Suikyo. -
L’anziana gli sorrise, quasi materna,
- Benvenuto, Suikyo. Il mio nome è Hanna e posso solo ringraziarti per aver portato a casa mio marito ed il suo brutto carattere. Ora, se potessi accontentarlo ancora, vorrei poi prepararti un buon bagno ed una cena all’altezza della tua gentilezza. -
Osservò la donna mentre parlava. Gentilezza? In passato quella parola era esterna al suo credo. Non aveva necessità ne compiacimento nell’essere gentile con alcuno. Lui era severo e pretenzioso. Ogni sua richiesta doveva essere soddisfatta all’istante. Da un inchino ad un omicidio. Nessuno meritava gentilezza, ma soltanto ordini. Ordini e comandi diretti.
Forse con lei… lo era stato almeno un po’ gentile? O l’aveva sempre trattata con la sufficienza di un generale, nonostante… nonostante tutto quello che lei significasse per lui? Quella domanda lo torturò improvvisamente.
Un ulteriore senso di colpa era proprio ciò che gli serviva.
Hanna tuttavia attendeva ancora una risposta. E lui pronunciò una parola che da tempo immemore non compariva sulle sue labbra,
- Grazie. -
Poi prese l’uomo, accompagnandolo nel bagno. La donna gli disse che ci avrebbe pensato lei da lì in poi. Era esile, ma le sue braccia si mostrarono forti al bisogno, mentre lo aiutò a mettere seduto Samuel.
Attese qualche momento, poi Hanna tornò da lui con un grande asciugamano bianco come il latte. Glielo porse e gli indicò la porta da cui era appena uscita,
- La vasca è pronta. Fai con comodo. Ti lascerò degli abiti puliti poggiati qui fuori, in modo che tu possa rimetterti in sesto. -
Gli diede le spalle e lo lasciò solo. Lui si mosse verso la porta indicatagli. Quando l’aprì, un profumo di lavanda gli invase le membra.
Una vasca da bagno colma di acqua trasparente fumante. Restò immobile a contemplare quella scena per qualche momento.
Da quanto tempo non si concedeva un simile lusso?
Iniziò a spogliarsi. Levò la tunica, lasciando libero il petto ancora muscoloso e liscio, ma più magro di un tempo. Slacciò i pantaloni e li fece cadere a terra. Lo stesso fece con i boxer neri. Nella penombra la maestosa nudità di quel corpo rivelava tratti del suo passato. Cicatrici sulla schiena e sul dorso, frutto di quell’ultima battaglia con il Sagittario. Le cosce, i polpacci e le braccia ancora sostenevano una certa tensione muscolare. Si mosse, entrando nella vasca. Sdraiato, abbandonò il capo all’indietro. Respirò e poi si lasciò scivolare sott’acqua.


Completamente immerso nel caldo liquido, tratti del suo passato riaffiorarono nella sua memoria.
La vasca da bagno in Antenora era enorme. Una piscina sotterranea, circondata da statue mitologiche, tra le quale trionfava tra tutte la Garuda, per dimensioni.
Vi erano candele tutt’intorno, ad illuminare il luogo ed un profumo d’incenso appena percepibile. I sali da bagno dovevano essere versati ogni giorno dalle sue serve. Serve e concubine, a seconda delle sue necessità. Le donne che obbedivano ai suoi ordini dovevano essere piacenti, giovani ed acconsenzienti, sempre. Pena, la morte.
Ogni suo bisogno diveniva un ordine. Ovunque si trovasse. Nella sua stanza era solito ad accompagnarsi con una, due o tre di esse. Non conosceva i loro nomi e non ne era interessato. Erano corpi, semplicemente. Necessari a trastullare i suoi bisogni, a soddisfare le sue fantasie più segrete.
Quel giorno una di esse si stava occupando del suo organo per eccellenza. Lui stava seduto, con le mani dietro la nuca, alle spalle della Garuda di pietra. La bocca che prestava attenzione ai suoi piaceri era capace, non vi erano dubbi.
“Le donne, utili soltanto a questo”, pensava.
Alle sue spalle udì un rumore. Qualcuno si era appena tuffato nella piscina. Chi osava disturbarlo? Nessuno aveva il permesso di penetrare quelle acque linde e profumate. Nessuno tranne lei.
Si voltò appena, per scrutare senza essere visto.
Intravide la figura sotto la superficie dell’acqua. Attraversò veloce e sinuosa l’intera distanza della vasca, riemergendo dalla parte opposta. Una sirena degli inferi. Una specie di essere sovrumano. Come lui stesso si considerava. E allora li vide per la prima volta, i suoi seni. Bianchi e illuminati dalla tiepida luce traballante delle candele. Sodi e lucidi. Mai sfiorati in Ade, da nessuno. Lei avrebbe senza dubbio ucciso chiunque avesse tentato di farlo. Si trattava di una vergine, era probabile.
Quando indossava la surplice di Behemoth, lei diveniva soltanto uno specter come tanti altri. No, non “come”. Lei era la più potente, dopo di lui. Quella più temuta ed invidiata nelle sue guarnigioni. Lei non lo aveva mai deluso e sapeva rispettare e portare a termine ogni suo ordine, sempre. Avvertiva talvolta il suo timore reverenziale, quando lui la convocava. Un timore passionale. Lei dipendeva da lui, e di questo ne erano sempre stati coscienti entrambi.
Violate inclinò il capo all’indietro, permettendo alla lunga chioma corvina di immergersi libera nelle acque della vasca. Le punte dei seni rivolte verso l’alto.
L’eccitazione in lui aumentò, tant’è che la serva di turno, accorgendosene senza sospettarne il vero motivo, si mosse per permettergli di sfogarla in lei, divaricando le gambe. Ma nonostante desiderasse subito l’orgasmo, violento e liberatorio, non fu quello che scelse. La fulminò con lo sguardo, afferrandole il volto con una mano e stringendo così forte da farle male. Le indicò l’uscita, in silenzio. Quella non capì, ma tremante e a capo chino raccolse veloce le sue vesti e se ne uscì, priva di qualsiasi traccia di orgoglio e colta dalla paura più totale di aver sbagliato qualcosa.
Poi veloce come soltanto lui sapeva fare, scivolò nell’acqua. Nuotò rapido come uno squalo guidato dalla fame, verso la sua preda. Tra i vapori della stanza poteva celare la propria presenza. Anche se il suo cosmo, seppur quasi del tutto annullato, venne riconosciuto dalla guerriera.
Ella si voltò nella sua direzione, portando un braccio sul proprio petto, a nascondere la propria evidenza di femminilità. La Garuda si svelò, in piedi, con l’acqua sino i pettorali. Lo sguardo scarlatto fisso su di lei.
- Mio signore, vi domando scusa. Non avrei mai voluto disturbare il vostro bagno… - chinò il capo, rispettosa.
Eppure le sue gote leggermente arrossate la tradirono. Si vergognava di trovarsi innanzi a lui in tale nudità.
La bestia non parlò subito. Qualcosa lo obbligò a riprendere coscienza del presente e non gli fece seguire semplicemente l’istinto di afferrarla per fare di lei ciò che voleva, sfogando l’eccitazione trattenuta che ancora pulsava ribelle tra le sue gambe. Non le si avvicinò subito. Una parte di lui era stupito che lei potesse provocargli quella reazione.
Un’altra parte, quella inconscia, conosceva invece la verità, quella che lui stesso avrebbe scoperto troppo tardi.
- Non mi disturbi. Non tu. - le rispose.
Il volto di Violate era libero dalle ciocche corvine che solitamente lo incorniciavano. I capelli erano bagnati e le scendevano mossi sulle spalle. Le labbra rosee socchiuse. La pelle lunare.
- E’ mia abitudine venire in questo luogo ogni giorno, dopo gli allenamenti. Amo questo posto. Il silenzio e l’atmosfera che qui regnano, rilassano i miei arti ed i miei pensieri. – iniziò lei, ancora immobile.
Lui si mosse, avvicinandosi a lei. L’osservava attento, senza vergogna. Lei doveva saperlo che era sua, in ogni sfaccettatura. Anche in quella.
- E quali pensieri può avere il mio braccio destro? Rivelamelo, Violate, sono curioso… - La voce era provocatoria e seduttiva. L’incendio in lui non si era ancora quietato. Lei rialzò il volto, cercando di non mostrare la difficoltà di dialogare con lui in quella situazione.
- Nulla di che… - rispose prendendo una pausa, - cerco di lasciarmi alle spalle la giornata e il fastidio dell’incapacità di alcuni subordinati… -
Lui in silenzio continuava a girale intorno, senza smettere di scrutarla.
- E non incontri qualche amante? – chiese a tradimento,
- No! – rispose risoluta, quasi furiosa, - Non vi sono amanti! – concluse, voltando il viso dalla parte opposta in cui si trovava lui, il rossore era evidentemente aumentato. Aiacos scattò, portando una mano sotto il mento della donna. Agganciò il suo sguardo, immobilizzandolo,
- Certo che no. Tu appartieni a me. – soffiò come brace sulle sue labbra.
Era un ordine chiaro, senza scampo. La teneva in pugno, totalmente. Lei era sua e lui la rendeva sola. Sola, ma sua. Violate non osò ribellarsi. Attese che lui lasciasse la presa sul suo viso. Cosa che non accadeva.
- Detesti questa vicinanza, Violate? Taluni sostengono che tu non apprezzi la compagnia degli uomini… - istigò lui.
- La vostra vicinanza non potrebbe mai disturbarmi, mio signore. Gli uomini presenti in Ade non sono la compagnia che cerco. – rispose sinceramente.
- Minos e Rhadamantis mettono in giro strane voci su di te. Evidentemente sono gelosi del fatto che l’unica femmina decente sia stata messa nelle mie schiere. - Ghignò divertito a quest’idea, – nessuno di loro può permettersi di immergersi in una vasca con te… di scrutare il tuo corpo privo di armatura… - lasciò che il suo sguardo cadesse liberamente sotto la superficie dell’acqua, - … nel suo più totale splendore… Nessuno potrebbe, in quanto io lo ucciderei prima che l’occhio portasse qualsiasi messaggio al cervello. -
Le parole del giudice la destabilizzarono. Aveva sempre rivendicato la sua proprietà, ma mai in modo tanto personale.
- Le acque ti vestono. Leva il braccio dal tuo petto, Behemoth. - L’ordine giunse improvviso.
Violate non lo eseguì all’istante, soffermando lo sguardo su di lui. Poi, lentamente realizzò l’ordine, liberando il seno nell’acqua. Questo venne sollevato dalla pressione, galleggiando sodo innanzi a lei. Il giudice ritrasse la mano dal viso di lei. Comprese in quel momento ciò che già sapeva.
- Faresti tutto per me, Violate? – il tono serio e lento. Lei annuì.
- Per voi io vivo, mio comandante. – La voce fu più sussurrata del solito. Ed in quella risposta vi era tutto. I sentimenti quotidianamente repressi e tenuti a bada. I sacrifici e i desideri irrealizzabili. I silenzi obbligati.
Lo sguardo di Aiacos tremò innanzi a quella creatura, in quel momento, tanto perfetta.
- Era ciò che desideravo udire… -. Portò una mano dietro la nuca di lei, per attrarla a sé. Fu rapido. Raggiunse le sue labbra con le proprie. Le assaporò, mordendole e lambendole con voluttuosa calma. Aprì gli occhi scarlatti, scrutando in quelli violacei, ora lucidi ed increduli. Invase la bocca di lei con la lingua, esplorandola prima a tocchi, poi accelerando. Lei lo raggiunse in quella calda danza umida, mentre una mano raggiunse il centro delle sue candide spalle, e scese. Una bollente carezza che sostò appena sopra le sue natiche. Lei posò le mani sul dorso di lui, scivolando sino i fianchi. Il desiderio s’incendiò, ignorato da tempo immemore, finalmente aveva trovato uno sfogo pratico.
Il contatto si placò non appena entrambi udirono il richiamo della divinità che li governava. Era un appello di ruotine, ma fu complicato frenare gli istinti più animali.
- Dannazione! – imprecò il giudice, digrignando i denti e portando lo sguardo alle sue spalle.
Poi tornò ad osservare Violate ed il suo volto incendiato dal desiderio. Dovette annullare ogni pensiero e respirare profondamente – Mi serve una doccia fredda, immediatamente. – commentò, nell’abbassare lo sguardo in acqua, ad ammirare il suo membro contrario alla razionalità del dovere.
Riportò l’attenzione su di lei, ma non disse altro. Le diede le spalle, allontanandosi, mentre espandeva il cosmo della Garuda tutt’intorno loro. Era un modo inconsapevole, probabilmente, per non interrompere in modo così brusco un momento tanto intenso. Lei si sentì abbracciata e protetta in quel calore proveniente da lui. Si immerse nell’acqua completamente, così la vide lui, mentre usciva dall’enorme stanza.


… e così riemerse dalla piccola vasca in cui si trovava ora. I capelli lucidi, fradici di acqua. La pelle arrossata, sia per la temperatura che per il ricordo non appena vissuto. Non rimpiangeva quasi nulla di quella vita. Non il potere e nemmeno il prestigio della posizione di giudice. Lei soltanto. Le parole non dette e le scelte errate.




Ciao a tutti! Inizio così, con questa coppia che adoro alla follia :-D
Ho immaginato cosa potrebbe essere accaduto al giudice caduto… la fantasia ha galoppato ed ora… eccoci qui!
Non sarà una fanfiction molto lunga, tutt’altro. Spero vi tenga in buona compagnia!

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Capitolo 2
*** A new work ***



Allontanarsi dal mondo, 
restare sconosciuti e non avere rimpianti: 
a questo può arrivare solo l'uomo superiore.
Confucio, Dialoghi





° La stanza era illuminata da un grande camino in marmo nero. Il rumore di sottofondo, uno scoppiettio ritmico che giungeva dalle fiamme al suo interno. L’ultimo canto dei rami che in esso si stavano lentamente consumando.
Il Grifone, vestito con una vestaglia in seta grigio scuro, stava seduto, dando le spalle al fuoco. Le punte delle dita congiunte di fronte al volto ed i gomiti poggiati  sulle gambe. La pelle così chiara da parere porcellana purissima. Le labbra sottili ma sensuali, socchiuse, l’una sull’altra, con un angolo di esse che, sadico, tendeva a rialzarsi. I lunghi capelli argentei cadevano morbidi lungo la sua schiena mentre lo sguardo color miele, caldo quanto penetrante, fissava lo specter che gli stava innanzi.
- La pazienza del Sommo non sarà perpetua, Aiacos: è il momento che te ne renda conto. -
Disse con voce roca e scandita. 
Quell’altro, sprofondato su una sedia imbottita e con le braccia sostenute dal tavolo in ebano scuro, si riempì per l’ennesima volta il bicchiere, servendosi dalla bottiglia a sua disposizione, postagli proprio davanti. Minos riservava per i suoi ospiti speciali dell’ottimo whisky invecchiato, dall’aroma dolce e speziato. 
Il giudice della Garuda bevve in un sorso il liquido e poggiò con forza il bicchiere, stringendolo nella mano.
- Non comprendo. Perdonami, Minos, ma continuo a non capire. – 
Il nordico alzò il volto verso il soffitto, chiudendo le palpebre ed inspirando. 
- Invece hai compreso perfettamente ciò che intendo – puntualizzò – riguardo la donna che definisci “la tua ala”. -
La stretta sul bicchiere divenne eccessiva: questo venne frantumato nel pugno nervoso di Aiacos.
L’incurvatura della bocca del Grifone si sollevò di qualche millimetro. Scrutava il suo volto inquieto e la tensione feroce della mandibola. 
- E, precisamente, cosa contrasta con il benestare del Sommo? Il fatto che abbia portato il Behemoth nel mio palazzo? E’ chiaro a tutti ormai che lei sia al di sopra della feccia che mi circonda! Un manipolo di incapaci, buoni solo ad essere usati e poi spazzati via, sino al loro abominevole e purtroppo repentino reincarnarsi! E abbiamo il coraggio di definirlo “esercito”? Ma per piacere! – si alzò di scatto, spingendo in dietro la sedia. Poi percepì la testa vorticargli e dovette trovare prontamente una presa sicura sull’angolo del tavolo. 
Minos disgiunse le mani, portandole sui braccioli della poltrona, continuando a scrutare attento il collega.
- Sei troppo infervorato, Aiacos. Calmati: io non sono contro di te e sinceramente non ho obiezioni rispetto i tuoi divertimenti notturni. Per quel che mi riguarda, m’importa soltanto della tua efficienza. E per questa, finora, posso solo ammettere di essere sempre compiaciuto delle tue azioni. – Sorrise, mostrando una fila di denti bianchi e luminosi, mentre lo sguardo ebbe un lampo di follia - Sai bene che apprezzo il sangue che sai spargere al tuo passaggio. -
Aiacos lo fissò, annuendo. Ma la sua mente era già annebbiata e vagava oltre. 
L’idea di far vacillare la fiducia che Hades  riponeva in lui, non lo scosse più di tanto. Quello che invece non poteva sopportare era l’attenzione di troppe persone su di lei. O meglio, su di “loro”.
- … l’importante perciò è che tu non diventi debole a causa di una donna. -
Quell’ultima frase pronunciata da Minos gli giunse come uno schiaffo.  Fu un affronto senza pari, una carenza di rispetto che lo mandò su tutte le furie. La stella del cielo intrepido prese a bruciare di una rabbia fuori dal controllo e la sua voce divenne un ruggito basso e misurato a fatica tra i denti:
- Io sono un Gigante degli inferi, sono il Giudice Aiacos della Garuda e non un qualsiasi omuncolo privo di rispetto e grandezza. Nulla ha il potere di distogliermi dagli obiettivi che mi prefiggo. Nessuno è importante, oltre me stesso. E sono nauseato dall’accusa che mi hai appena rivolto! -
Il Grifone si limitò ad osservarlo, sospirando. Non diede peso al suo cosmo e nemmeno alla sua rabbia: aveva svolto il compito che si era prefissato, ossia comunicare alla Garuda le riserve che il regno degli inferi avrebbe potuto avere nei suoi confronti. Quindi si alzò, con nonchalance. Raggiunse il tavolo, sfiorando con le lunghe dita chiare un bicchiere intonso. Vi verso qualche goccia di whisky e lo portò alle labbra,
- Bene. Era ciò che desideravo udire. – innalzò poi il bicchiere e concluse – salute a te, Aiacos della Garuda, mio fratello infernale. Brindo alla tua durezza d’animo, al tuo ego spropositato, che sempre ho apprezzato ed alla tua irrefrenabile libido . Che tu possa sempre trionfare sul tuo prossimo! - continuava a fissarlo, mentre con classe bevve dal cristallo.
Più tardi Aiacos tornò in Antenora, furioso con se stesso ed anche con lei. 
La ignorò per settimane, trattandola alla stregua degli inetti che lo circondavano. 
Nulla aveva significato la notte antecedente, l’ennesima, passata nel suo letto in compagnia di Violate. Le ore trascorse con il proprio corpo bollente avvinghiato a quello di lei, così profumato e morbido, nonostante le cicatrici. Il desiderio crescente di toccare la sua pelle, ogni centimetro e il dolce suono degli ansimi per il piacere reciproco, donato e goduto. Gli abbracci quasi dolorosi, durante gli orgasmi, quel congiungersi che pareva unirli completamente. I pochi e preziosi secondi in cui davvero diveniva nudo e trasparente, stringendola a sé con la forza di un sentimento che non aveva  ancora la capacità di comprendere. 
Ma che provava. 
E lei?
Lo assecondò, ignara di quell’incontro con il Grifone. Lo lasciò fare, senza mostrare rancore e senza odiarlo. Continuando ad obbedirgli, fedele come sempre era stata, senza porre domanda alcuna. 
Questo lo mandava in bestia.
Questo la rendeva, ai suoi occhi, unica e sola. °


Si svegliò con la luce del sole che penetrava tra le fessure della persiana. 
E con un senso di buia pesantezza nell’anima. 
Gli capitava spesso di sognare del suo passato. Ricordava bene quell’episodio, ogni singola emozione.
Si mise seduto nel letto, portando le mani sul volto e stropicciandosi gli occhi. Ah, se avesse potuto tornare indietro, con il senno di poi! Che imbecille, che idiota! Cosa aveva sacrificato per il proprio ego? 
Irrilevante se la Garuda avesse influito su di lui, pensava. Ma sapeva bene che non era così. 
L’uccello mitologico lo guidava e lo possedeva. Era complicato dissociare l’uomo dall’animale, poiché erano un tutt’uno, in quel tempo.
Uscì dal letto.
La stanza in cui si trovava era piccola ma confortevole. 
Viveva in quella casa da più di un mese, ormai. I due anziani gli avevano proposto di lavorare con loro per un po’ e lui aveva accettato. Non vi era nulla da perdere, anzi. In quei giorni, in cui seguì una vita regolare, ritrovò la forma fisica di un tempo. I muscoli tonici e guizzanti erano tornati ad ornare il suo corpo. 
Si osservava, riflesso nel vetro della finestra. Doveva imparare a conoscere il nuovo se stesso. 
Le scelte fatte in passato, ora non sarebbero state le stesse. Lo sapeva bene. Continuava a non porsi aspettative future ed il suo umore non aveva subito miglioramenti. 
Tuttavia il fatto di avere delle regole giornaliere, lo teneva occupato. Il suo senso di colpa lo perseguitava con meno frequenza, tranne durante la notte. Le visioni oniriche erano ribelli e parevano divertirsi nel mostrargli quello che era stato e ciò che aveva vissuto. E tutto sommato non detestava queste intromissioni improvvise. Se poteva sognare lei, anche soltanto la sua voce, uno sguardo o l’ odore di un momento, persino la frustrazione che ne seguiva era poi ben accetta.
Si vestì con abiti semplici. I due anziani avevano un armadio colmo di vestiti maschili, più o meno, della sua taglia. Gli raccontarono di avere un figlio che era mancato, molti anni addietro. Perciò sembravano apprezzare la sua presenza in casa. 
Scese per iniziare il lavoro. Era necessario recarsi al molo per acquistare il pesce dai pescatori e quindi tornare a prendere Samuel per trasportarlo infine al mercato.
Come avveniva ogni giorno, Hanna lo attendeva con la tavola imbandita per la colazione. Pane fresco appena sfornato, burro e marmellata. Lamponi e mirtilli. Caffè nero e latte caldo. Yogurt fatto in casa e miele di acacia. 
Sorrise di fronte a quello spettacolo. 
- Buona giornata, Suikyo. – lo accolse l’anziana. 
- Buongiorno a te, Hanna. Non devi disturbarti così tanto per me… - disse, indicando le vivande. Lei scosse il capo,
- Ah no: sei giovane e necessiti di nutrimento. Poi il lavoro che svolgi è impeccabile – sorrise. Il suo volto era luminoso e calmo. Probabilmente Hanna, in giovane età, era stata una fanciulla dotata di una bellezza genuina, - e poi mi fa piacere. Insomma: i giovani non dovrebbero mai trovare da dire agli anziani – concluse con una risata accomodante.
Suikyo si sedette, iniziando ad assaggiare ogni cosa, mentre la donna gli faceva compagnia sorseggiando del caffè.  
- Mi stai viziando, io ti ho avvisata… non ero più abituato a certe attenzioni- disse ancora lui, quasi sovrappensiero, mentre con golosità addentava una fetta di pane cosparsa di burro e zucchero. 
- Da dove vieni, Suikyo? Non ne hai mai parlato… - chiese d’un tratto la donna, scrutandolo con il verde limpido delle sue iridi.  
Quella domanda lo bloccò. 
Non avrebbe potuto raccontare la verità. Non ne aveva alcuna intenzione. 
Il suo passato si era concluso con la capitolazione del giudice  Aiacos della Garuda. Il Bennu era diventato il nuovo gigante degli inferi al suo posto. Fatto, tra l’altro, che non lo toccò minimamente. 
In realtà era convinto che quel giorno, dopo aver liberato nell’etere le scure ciocche setose di Violate, l’Ade avrebbe mandato un sicario per eliminarlo. La fine era ben accetta: succede così quando non vi sono più desideri. La morte sarebbe stata un’ottima soluzione. 
Ma non era andata come aveva immaginato. E lui in realtà aveva rimandato giorno dopo giorno l’auto esecuzione di quell’atto che avrebbe spento ogni tormento. 
Ma l’istinto di sopravvivenza, detestabile prerogativa umana, glielo aveva impedito.
Prese fiato e scelse le parole giuste, voltandosi verso la donna:
- Sono nato in Nepal. Ho vissuto per lungo tempo in luoghi lontani da qui, dove non oso neanche più contare gli errori commessi. Ho toccato il fondo. E al momento sto cercando di comprendere se sia possibile risalire. -
Fu sincero, tutto sommato. Non entrò nello specifico ovviamente, ma ogni frase la sentì vibrare, in quanto vera. Se quelle rivelazioni non chiare avessero destato sospetto in Hanna, allora avrebbe affrontato una nuova partenza. Prima o poi se ne sarebbe andato da quel luogo… no? In realtà non si era posto il problema. Il fatto di riposare per più di una notte nello stesso letto, comodo per giunta, lo aveva già rammollito? O semplicemente, aveva trovato una pausa, un’oasi nel suo tormento quotidiano. 
Fissò la donna, scrutandone la reazione. Lui era uno sconosciuto, e chi si vorrebbe tenere in casa uno messo così male? Uno che non ha neanche il coraggio di raccontare il proprio passato?
- Si può sempre risalire. Più ammaccati, certo. Ma è possibile. – rispose poi lei, interrompendo i pensieri machiavellici dell’ex giudice.
Lui restò interdetto di fronte a quelle parole. Aveva accettato la sua spiegazione? Non voleva davvero sapere altro? 
A quanto pareva, no. 
Comprensione. 
Ecco una parola interessante. Un’altra caratteristica dell’essere umano. 
Hanna era davvero un buon essere umano da trovarsi davanti, per tentare una risalita senza speranza, pensò mentre un sorriso sghembo fece capolino sul suo volto. 
Terminò di bere la tazza di caffè. 
- Allora ho ancora a disposizione qualche speranza. – concluse lui, alzandosi. 
Salutò la donna ed uscì veloce per raggiungere il molo. Lei lo osservò allontanarsi dalla finestra. Portò la mano sul vetro ed annuì. 
In quell’istante Samuel irruppe nella cucina, seduto su una sedia a rotelle che qualche giorno prima Suikyo aveva messo insieme per lui al meglio.
- La speranza non va mai abbandonata. Dal giorno in cui mancò nostro figlio non avrei mai più creduto di alzarmi a preparare la colazione a qualcuno che non fossi tu. E invece… -
Il vecchio restò serio, raggiungendo il tavolo e posandoci sopra gli avambracci.
- Non affezionarti troppo, vecchia mia. Non resterà qui in eterno. Ha l’animo irrequieto e prima o poi se ne andrà. – pronunciò quella frase a malincuore. Anche lui si era abituato velocemente alla presenza di quel giovane taciturno, ma attivo nella pratica di qualsiasi cosa. 
La moglie tornò al tavolo, porgendo al marito una tazza pulita ed avvicinandogli la brocca di latte.
- Nulla è eterno, vecchio mio. Nemmeno noi. Ma intanto mi godo ogni momento possibile. Senza aspettative, non temere. – con un dolce sorriso posò la mano su quella di Samuel, il quale la strinse nella propria. 
- Si, però non farmelo fare tardi al molo ogni mattina: lo sai che se arriva tra gli ultimi il pesce migliore ce lo siamo perso! – si lamentò poi lui, serio ma con un mezzo ghigno sul volto rugoso,
- Oh, il solito noioso! – rispose lei esasperata ma divertita, mentre si avvicendava nelle faccende casalinghe di ogni giorno.


Era veloce. 
Quella caratteristica non l’aveva perduta, nel divenire umano. Certo: non aveva più il cosmo della Garuda che gli permetteva spostamenti fulminei… ma se la cavava piuttosto bene. Inoltre con la ritrovata forma fisica, era quasi piacevole compiere qualche sforzo. 
Correva trainando il carretto sul quale avrebbe depositato le casse di pesce che avrebbero successivamente venduto.
Da giudice infernale a pescivendolo.
Questo pensiero era talmente assurdo che ogni volta non poteva resistere dal disegnare sulla propria espressione un mezzo ghigno silenzioso. 
“Un discreto balzo di carriera, direi!”, commentava tra sé e sé, “Minos e Rhadamantis morirebbero d’invidia…”… ma loro, a differenza sua, erano già morti, testualmente. 
Passò nel frattempo di fianco ad un gruppo di giovani donne intente a passeggiare nella direzione opposta la quale stava percorrendo. Tenevano della frutta in alcune ceste ed al suo passaggio lo scrutarono con sguardi interessati e risolini sommessi.
Le guardò, cercando tra esse elementi famigliari. 
Ma non trovò nulla di ciò che cercava.
- Hei, ragazzo del pesce! – giunse una voce dal gruppetto – vieni a trovarci alla locanda, una sera di queste! -
E poi ancora risate trattenute.
Le guardò, rallentando, dopo averle superate. 
Scrutandole velocemente i suoi occhi erano alla ricerca di dettagli chiari… lunghi e setosi capelli neri, forse… un paio di iridi violacee… un fisico sodo e slanciato… 
Ma non ebbe soddisfazione in quella ricerca. La beltà delle fanciulle era evidente. “Carne giovane”, avrebbe commentato sotto l’influsso della stella che un tempo lo governava. 
L’uomo che era sarebbe tornato indietro immediatamente, ad infilarsi in quel gruppo. Ad infilarsi letteralmente in ognuna di esse, anche. 
Il sesso.
Non aveva più preso in considerazione i piaceri che un tempo erano tanto fondamentali. 
Si riscosse, tornando a guardare le giovani donne, che ancora lo salutavano mostrando sorrisi ingenui e ammiccanti.
Forse non era più “normale”? Sarebbe stato il caso di lasciarsi un po’ andare... Di liberare un po’ di energia, sciogliere un po’ il controllo. Lasciare perdere ogni cosa, pensieri, ricordi, rimpianti… E piantarsi completamente nel presente. 
Riprese a muoversi, senza porsi ulteriori problemi. 
Suikyo non era Aiacos. Lo era stato ed in sé esistevano ancora tracce di quel Lui. Ma non lo era più.
Peccato che sia i suoi ricordi che i suoi sogni non fossero d’accordo con questa umile tesi.
Una volta procurato e caricato il pesce, tornò a recuperare il vecchio Samuel. 
- Sei in ritardo! Lo sai che in questo modo perdiamo il posto migliore all’ombra! E senz’ombra il pesce puzza! –
Hanna alzò gli occhi al cielo, sollevata che il marito finalmente lasciasse l’abitazione e si concentrasse sui propri affari. Sorrise a Suikyo e lo salutò augurandogli “buona giornata”. 
Anche lei, in quanto ad ironia, sembrava non perdere un colpo.

Giunti in paese fu il ragazzo ad occuparsi di allestire il banco. Aiutò l’anziano a scendere e lo accomodò su una sedia fissa in marmo. Veloce completò l’esposizione, senza sprecare tempo e fiato. 
Quando ebbe terminato, passò una mano sulla fronte madida di sudore.
- Ben fatto. -
Si voltò incredulo. Il complimento giungeva proprio dal vecchio burbero, che gli stava passando uno straccio umido, per lasciare che si sciacquasse le mani. Lui lo prese e si ripulì.
- Vieni qui a sederti: quella perditempo di mia moglie ti manda questo. – nel dire quelle parole gli porse un sacchetto di iuta color senape. Da esso trapelava un magnifico aroma penetrante…
- Focaccia! – esultò il giovane, come se si sentisse un bambino viziato dagli adulti che si prendevano cura di lui. 
Perché era quello che stava accadendo: quei due vecchi stavano lenendo le sue invisibili ferite.
Quando questo pensiero fece capolino nella sua mente, prese la pietanza tra le mani e la spezzò in due parti. Ne porse poi una all’uomo che stava accanto a lui.
Samuel lo guardò titubante per qualche momento. Dopodiché accettò l’offerta. 
A guardarli da lontano, parevano una coppia perfetta. Un padre ed un figlio sereni ed uniti dal faticare quotidiano.
La giornata trascorse calma, uguale alle altre. Quando fu l’ora di ritirare, Samuel chiese a Suikyo di recarsi qualche banco più avanti per acquistare del formaggio di capra. Ordine che il giovane eseguì senza perdere tempo. 
Ma nel tornare, dopo l’acquisto, vide una scena che di lì a poco avrebbe scatenato il peggio che ancora risiedeva in lui.
Un gruppo di uomini, tutti abbigliati con una sorta di uniforme nera e rossa, stava unito di fronte al banco del pesce. Non poteva scorgere Samuel, in quanto questi lo circondavano. 
Si apprestò ad aumentare il passo, in quanto ebbe la sensazione che stesse accadendo qualcosa di negativo. 
Ma ancora era lontano, quando vide l’anziano signore venire scaraventato a terra, in mezzo a quegli sconosciuti. Subito scattò per raggiungerlo.
- Dannato e sporco vecchio! Voglio dei gamberi freschi! Il mio signore li desidera e io non tollero scuse! – urlò il più grosso di quelli, di una corporatura spropositata. Aveva baffi e barba scuri che si congiungevano. La chioma, ricciuta, era domata in una treccia che terminava sottile tra le scapole di questo. Si apprestava a sferrare un calcio nello stomaco del vecchio, quando qualcosa glielo impedì.
Una presa d’acciaio, bollente sul suo polpaccio, lo aveva immobilizzato. E due iridi dorate immobili nelle sue, nere. 
Suikyo era fermo tra lui e il pescivendolo. Un ginocchio poggiato a terra, lo fissava con uno sguardo penetrante. 
Gli uomini in uniforme si misero sulla difensiva. Fu subito chiaro a tutti che i movimenti scattanti del nuovo arrivato non appartenevano ad uno sprovveduto.
- Come osi… - ringhiò l’uomo che ancora era tenuto immobile dall’ex giudice.
- Siete giunti tardi. La colpa è vostra. Non siete nella posizione di avanza pretese ridicole… - iniziò a parlare Suikyo. La sua presa divenne più stretta, - pertanto, ritengo siano necessarie le vostre scuse nei confronti di quest’uomo. - 
Fu in quel momento che l’oro dei suoi occhi s’intrise di cremisi tutto intorno alla pupilla: un sottile anello scarlatto tra l’oro e l’abisso del nero. Nel proprio animo percepì qualcosa di antico, un’onda di energia crescente e viscerale. 
Dovette inspirare e tentare di placare quel caos dentro di sé.
Staccò la presa dal nuovo arrivato e si preoccupò di prendere e sollevare l’anziano tra le sue braccia, per accomodarlo sulla sedia su chi si trovava poco prima.
Samuel lo fissò con serietà.
- Ehi, non credere di poter intervenire in questo modo in fatti che non ti riguardano e poi uscirne indenne come nulla fosse! – riprese l’uomo con la piccola treccia. 
- Anche io lavoro qui. – rispose con calma lui. Allora alle sue spalle quell’altro iniziò a ridere di gusto. Lui e poi tutto il gruppo. 
- Un pescivendolo che vuole fare il duro! Ragazzi: questa è la scenetta più divertente a cui mi sia mai capitato di assistere! Sentite che puzza tremenda, lui e il suo vecchio! -
Lo stava chiaramente istigando. Ma Suikyo non aveva intenzione alcuna di rispondere a quelle provocazioni. E accorgendosi di questo, il gruppetto di uomini passò alla mossa successiva.
- Gentaglia: non meritate di lavorare! – concluse l’unico interlocutore, mentre con una  gamba colpiva un angolo del banchetto, facendo cadere a terra tutta la mercanzia. 
Samuel gridò di rabbia e per la propria incapacità di reazione. 
E Suikyo… 
Fu veloce come un fulmine e leggero come una brezza, nel voltarsi. Colpì l’uomo corpulento, nell’addome e quando questi si piegò in avanti per il dolore, lo atterrò con un secondo tocco secco dietro al collo. Gli altri gli saltarono contemporaneamente addosso. 
Lo scarlatto per un millesimo di secondo inghiottì completamente il caldo oro.
- Ridicoli… - sussurrò, mentre sotto i suoi colpi, crollavano uno dopo l’altro a terra attorno a lui, andando a fare compagnia al primo. Un calcio, un pugno, una gomitata ben assestata ma prima vi sforzo alcuno. 
La calma nel suo animo si ristabilì. 
Nonostante la Garuda non fosse più congiunta al suo essere, la sua capacità fisica non era perduta. Era un Guerriero, uno di quelli che avrebbero potuto contrattaccare da solo un intero esercito. 
E non temeva nulla. Proprio perché non aveva nulla da perdere.
Osservò calmo la moltitudine di corpi atterrati ed ammaccati ai suoi piedi.
Si chinò, calmo. Afferrò per il colletto il capo di quel gruppo di incapaci e lo strattonò appena, fissandolo serio,
- Mi pare che ci siano ancora delle scuse da porgere. - 
Quello, madido di rabbia ma paralizzato dal dolore, digrignò i denti. E poi scorse il volto paralizzato dell’anziano pescivendolo. 
- Sc… scusate… - macinò con la bocca. 
Suikyo lo liberò dalla presa. E con calma si avvicinò subito al banchetto, iniziando a sistemarlo nel migliore dei modi possibili, non curandosi del gruppo di uomini che aveva appena atterrato, senza la benchè minima fatica.
- Che diamine sta accadendo? -
Un nuovo interlocutore si aggiunse al gruppo, alle loro spalle. 
Suikyo si voltò appena per osservare l’ultimo arrivato. 
Scorse una carrozza chiusa, dorata, guidata da un cocchiere vestito come un manichino di fronzoli e ornamenti luccicanti.
Dalla finestra del mezzo, un uomo sui quarant’anni osservava con disprezzo il cumulo di uomini ancora  a terra. Aveva capelli color miele, ben pettinati all’indietro. Un pizzetto curato e grandi occhi celesti. La carnagione era scura e liscia. 
- Signore, nulla di grave… - boffonchiò l’uomo riccioluto mentre si rialzava. Quello lo osservò con indifferenza, 
- Ho bisogno di pesce e voi fate simili figure ridicole? E come siete stati atterrati, illuminatemi? A suon di pinne sulla faccia? - , parlava nervoso e con sdegno verso i suoi uomini, - alzati in piedi, Orazio. E fai fare lo stesso agli altri incapaci. Subito! -
Mentre sputava ordini, fissava però il giovane calmo di fronte a lui.
- Sei stato tu? Come accidenti hai fatto? E soprattutto, con quale pretesto? -
- Hanno minacciato il mio capo, rovinando la merce. – rispose noncurante dell’atteggiamento dell’uomo elegante, - gli inetti vanno tenuti a bada. – concluse. E chi meglio del “vecchi lui” avrebbe potuto pronunciare una simile frase?
Il biondo socchiuse le palpebre, per mettere a fuoco quella nuova figura. 
- Inetti. Esatto, purtroppo questo è quanto. Tu invece… vieni a trovarmi al mio palazzo, pescivendolo. Potresti tornarmi utile. -
Certo, come no: l’ultima cosa che aveva per la testa era “il tornare utile a qualcun altro”. Basta comandi. Basta padroni. Basta obbedienza.
Si voltò per incrociare lo sguardo dell’uomo e rispondergli con chiarezza che il suo invito avrebbe potuto infilarselo in quel posto, quando qualcosa lo bloccò.
Il tempo improvvisamente parve fermarsi e così anche il suo cuore. Gli mancò il respiro ed anche la favella. Perché nella carrozza, di fianco all’uomo che gli stava parlando, intravide qualcuno.
Una donna.
E il profilo, il colore dei capelli, delle labbra… Perse ogni certezza in quell’attimo esatto. Stava impazzendo? La follia lo aveva alla fine raggiunto? 
La voce gli salì gutturale dal punto più profondo del suo essere, leggera e fin timorosa,
- Violate! – pronunciò con un tono disarmante. 
Nella penombra aveva intravisto una figura che aveva appena messo in discussione ogni possibilità di rinsavita. 
Quella non lo degnò di uno sguardo. Aveva le palpebre socchiuse ed un lieve sorriso sulla bocca. Pareva sussurrare qualcosa, ma non a lui e nemmeno al biondo.
Quest’ultimo lo fissò con serietà, strattonando appena la tenda, come se avesse desiderato all’istante nascondere quella compagnia all’uomo che gli stava di fronte. 
- Mia moglie non è spettacolo per poveracci come te. – ringhiò quello, come ti permetti?
Lo avrebbe afferrato per il mento. Glielo avrebbe staccato e poi avrebbe trascinato fuori l’intero corpo di quell’uomo, gettandolo a terra. Perché aveva bisogno di guardare, ancora. 
Ma una presa al suo polso lo riportò alla realtà. 
Si voltò e vide l’anziano chinato in avanti.
- Calmati, ora. – gli disse lentamente. 
Cercò di regolarizzare il respiro ed annuì, poco convinto. 
Stava per tornare a guardare la carrozza, quando un colpo sordo e ben assestato lo raggiunse alla testa.
Crollò a terra senza alcuna possibilità di reazione.




#2#
Ciao a tutti!
Eccoci qui alle prese con un pescivendolo piuttosto irrequieto…  eh?
Credo di aver trovato il giusto equilibrio tra passato e presente: mi piace l’idea di rivangare ciò che “sarebbe potuto accadere davvero” e giocare con un presente in apparenza tranquillo e meditabondo. E andare anche oltre…
L’umanità di Suikyo non è completamente pura: il suo passato è ancora presente in lui e persino il suo antico cosmo pare non volerlo abbandonare totalmente. Sono solo strascichi del suo antico io o qualcosa di più? 
Giacobbo darebbe la colpa agli ufo o alle piramidi. O a entrambi, probabilmente.
Noi invece continueremo presto!

Un fresco abbraccio a chi sta seguendo questa fic! ;-)

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