Acid Rain

di Mrs Carstairs
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tu corri, non pensi, salti ***
Capitolo 2: *** School ***
Capitolo 3: *** confuso ***
Capitolo 4: *** Il Posto ***
Capitolo 5: *** La pioggia... Sempre al momento giusto eh? ***
Capitolo 6: *** La signora Todd ***
Capitolo 7: *** Tornatene a saltare sui tetti ***
Capitolo 8: *** Gli spartiti di Jonathan ***
Capitolo 9: *** Giocando con le stelle e parlando alla Luna ***



Capitolo 1
*** Tu corri, non pensi, salti ***


Se ne stava lì, seduta sul tetto di casa sua, a fissare le luci della città di notte. l’aria fredda le sferzava il viso dolcemente, lasciandole l’odore della brezza notturna nei capelli. Come sarebbe stato questa volta? Avrebbe trovato il suo posto? Sarebbe riuscita a fidarsi di qualcuno tanto da farlo entrare nella sua vita? Si sentiva come se una morsa le si stesse chiudendo addosso, stringendo sempre di più. Si chiedeva se avrebbe potuto lasciarsi una volta per tutte il passato alle spalle, senza nessuno a ricordarle cosa aveva o cosa non aveva fatto. L’anno era iniziato bene, con la band e il resto… ma non aveva ancora messo piede a scuola. E non avrebbe voluto nemmeno farlo. Troppe cose da ricordare, troppi fantasmi da mandar via. Ma doveva farlo. Lo doveva a lei stessa e a suo padre, che voleva solo il meglio per lei. Suo padre. Già… almeno lei, l’orgoglio della sua vita, doveva renderlo davvero fiero di lei. Dopo quello che aveva combinato sua madre, spezzandogli il cuore, il minimo che poteva ricevere era qualche soddisfazione dalla figlia. Nonostante le dicesse sempre che era lei a tenere insieme i pezzi, da quando Hazel li aveva piantati in asso, Persephone non riusciva a non alzarsi tutte le mattine con la rabbia a ribollirle nel sangue, con il pensiero fisso di non poter far qualcosa per il padre che davvero potesse mirare anche solo a togliergli per qualche secondo, il dolore di dosso.
D’improvviso, due mani le coprirono gli occhi da dietro. Di scatto afferrò quei polsi con decisione, prima di rilassarsi, riconoscendo la persona a cui mani e polsi appartenevano.
“Michele… mi hai spaventato..” il ragazzo sedette accanto a lei, sorridendo.
“non mentire…- con un movimento distratto delle mani, si fece scivolare il cappuccio sulle  spalle, scoprendo i capelli biondo dorato a ricadergli sulla fronte- so che non è vero…” i suoi occhi chiari accesi di fermezza e divertimento.
“avevi i muscoli tesi. Se fossi stato qualcun altro saresti stata pronta anche a buttarmi giù dal tetto…”
“nah…- azzardò svogliatamente- buttarti dal tetto no… troppo cattivo… ti avrei solo riempito di botte”
“allora avevo ragione…” lavandosi la giacca, Michele si era sdraiato sulle scure tegole del tetto, sistemandosi un braccio sotto la testa, per poter rimanere con lo sguardo sulle luci e gli alti comignoli di Londra.
“forse…” Persie aveva smesso di guardarlo, puntando al muro dell’edificio di fronte. I pugni stretti, le spalle rigide e contratte, la fronte aggrottata e gli occhi socchiusi. Michele captò il messaggio, sollevandosi sui gomiti.
“Persie?”  la ragazza tirò indietro la testa, per afferrare i lunghi capelli e acconciarseli in uno chignon fermato da una matita. Sistemarsi i capelli era un gesto che faceva sempre quando era nervosa e Michele non aveva mancato di notarlo.
“Persie…”
“io…-Persie faticava a parlare ora, sembrava che qualcosa le ostruisse il passaggio dell’aria ai polmoni- io credo solo di aver paura”
“già. La paura.” Michele sbuffò quelle parole quasi ridendo. La ragazza rimase interdetta da quella risata. Perché rideva? Cosa ci trovava ti tanto divertente? Sapeva bene che era consapevole della fatica che gli era costata ammetterlo, eppure sorrideva scoprendo i denti bianchi e scuotendo la testa.
“che hai da ridere!?” il tono di voce di Persie colpì Michele come un pugno nello stomaco. Era amareggiato, quasi stanco. Offeso, in un certo senso e carico di tensione, deluso e deciso insieme. Volse la testa per guardarla, ora non rideva più. Persie continuò a guardare oltre ai camini e ai pinnacoli della città, guardando il cielo trapuntato di stelle e la luna, coperta da una cortina di nuvole leggera. Il ragazzo allora le si avvicinò, mettendole con disinvoltura due dita sotto il mento, volgendole la testa verso di sé.
“ehi. Non sto ridendo di te. Non rido della tua paura, capito? Rido… di tenerezza. È che, vedi, tu rischi di cadere da un edificio di 20 metri tutti i giorni, correndo sui tetti con me, e lì la paura di morire dovrebbe essere viva dentro di te. Una paura tremenda di sbagliare un solo salto e… invece la cosa buffa è che tu… su un tetto, tu non hai paura di niente. Non c’è distanza che tu tema di saltare, non un comignolo che ti veda soltanto camminare sul bordo di un parapetto. Tu corri, non pensi, salti.”
“e con questo?” Persie abbassò di nuovo lo sguardo, allontanando, con una mano fredda, quella calda di Michele da sotto il suo mento.
“e con questo volevo solo fare un paragone. Tu sai bene quanto me che la paura non è reale. Lo viviamo tutti i giorni. È solo un prodotto dei pensieri che noi stessi creiamo. Ovvio, non fraintendermi. Il pericolo è reale, ma la paura è una scelta. Puoi decidere di dominarla, di sconfiggerla, così da non averne più, come fai nel saltare da un tetto, oppure lasciare che ti vinca e ti immobilizzi, come stai facendo ora.”
“non è sempre così facile…” Persie si strinse le ginocchia al petto.
“lo so. Guarda che mi ricordo la prima volta che hai saltato. Eri terrorizzata. Potevi nasconderlo con le parole e il tuo atteggiamento disinvolto, ma il tremito del tuo corpo e gli occhi lucidi ti tradivano su quel parapetto. Ed ora, con quanta facilità salti dal tetto del signor Holmes per arrivare in Baker Street?”
E Persie lo ricordò, ricordò quella sensazione di vuoto allo stomaco che l’aveva aggredita quel pomeriggio sul tetto del famoso investigatore. Ricordò la paura matta di cadere. Poi lo slancio, la rincorsa, il vuoto per pochi secondi e poi… le braccia di Michele che la afferravano sicure e fiere del suo atto di coraggio.
Si voltò a guardarlo negli occhi. Ci vedeva ancora la tenerezza e la forza del ragazzo che aveva incontrato nella periferia di Londra, vedendolo atterrare ad un metro di distanza dopo un volo di qualche metro. Gli occhi pazienti che le avevano insegnato l’arte del parkour, e ci rivedeva anche il terrore di averla persa, come quando si guardava indietro, dopo un salto per passare da un tetto all’altro.
“beh… è ora che me ne vada… i ragazzi mi aspettano, il tetto del Posto  è ancora abbastanza solido per noi… ci vediamo” e così dicendo la salutò sciogliendole i capelli e intascandosi la matita che li fermava, per poi sparire dietro ad una fila di caminetti nella sua giacca di pelle lucida.
Michele. L’unica persona vera che aveva conosciuto in vita sua, ovviamente dopo suo padre. L’unico che non l’aveva mai tradita, nemmeno quando mentiva. Capiva tutto di lei, anche da un solo movimento.
Lo guardò andare via con una strana sensazione in corpo. Come se sparendo dietro a quel pinnacolo l’avesse privata di una parte di sé stessa, come se si fosse portato via un pezzo del suo cuore in tasca. Era una sofferenza vedere l’oro dei suoi capelli scintillanti alla luna sparire nel buio, ma non aprì bocca per urlargli di tornare indietro, per chiedergli di abbracciarla e rassicurarla…

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Capitolo 2
*** School ***


Jonathan era arrivato presto a scuola quella mattina. Quando la sveglia era suonata, alle 6 precise, si era buttato giù dal letto in tutta fretta, come faceva solo il giorno del suo compleanno, ansioso di mangiare la torta per colazione. Aveva aperto l’armadio di botto, arraffando una maglietta a caso e indossando dei jeans strappati e la sua felpa preferita. Aveva poi preso al volo lo skate board appoggiato alla parete e la tracolla con i libri, schizzando fuori dalla porta di casa. Quando era arrivato all’ingresso del cortile dell’istituto, era balzato giù dallo skate, facendoselo saltare in mano con un movimento secco del piede.
L’atrio era pieno di ragazzi che chiacchieravano, altri che si rincorrevano, mentre alcune delle ragazze parlottavano tra loro indicando qualcuno di interessante, o sbuffando teatralmente. Jonathan non aveva nessuna intenzione di rimanere in mezzo a quel marasma e così sgattaiolò al piano di sopra, decisamente meno popolato di quello inferiore. L’aula di musica era ancora chiusa, segno che doveva essere veramente presto, dato che il professore non era ancora seduto alla cattedra. Il banchetto del guardiano del corridoio, Sonny, era vuoto e la bacheca con le chiavi delle aule incustodita. Assicurandosi che nessuno stesse guardando dalla sua parte, il ragazzo ci si avvicinò con calma, per poi scattare e intascarsi le chiavi senza troppo rumore. Poi si diresse verso l’aula e inserì la chiave nella toppa. Quella girò senza far troppo rumore nella serratura, che si aprì in un secondo. Jonathan sgattaiolò dietro la porta, richiudendosela alle spalle.
Respirò forte: l’odore dei vecchi spartiti invadeva la stanza, insieme a quello metallico delle corde del pianoforte a mezza coda aperto. Lasciò cadere per terra la borsa e qualche quaderno sbucò da sotto la cerniera. Sedette sul panchetto di legno, carezzando il velluto rosso della seduta imbottita. Con mani leggere scostò il panno che copriva i tasti, appoggiandoselo sulle gambe. Schioccò le dita delle mani stringendole una sull’altra con forza. Chiuse gli occhi. Le mani sui tasti d’avorio freddo. Le prime note cominciavano a risuonare nella stanza e il pezzo gli scorreva nelle vene, mentre le sue dita si muovevano agili sulla tastiera, veloci, ma precise. Ogni nota era pulita, non una sporcatura, non una nota mancata. Si sentiva trasportare da quella melodia come fosse stata un vento che gli accarezzava la schiena e gli smuoveva i capelli, facendolo dondolare sulla sua seduta. Tradurre le sue canzoni preferite a pianoforte era una cosa che adorava fare, ci avrebbe passato le giornate. Per questa melodia però aveva un debole. Era una delle sue canzoni preferite di una band metal. Nonostante la chitarra elettrica e la voce profonda del cantante, era incredibilmente addolcita dalle parole e da un pianoforte in sottofondo. Dopo molto che la ascoltava, si era messo a studiarla per conto suo e ora riusciva a suonarla discretamente, con sentimento. Forse, un giorno, l’avrebbe anche potuta dedicare a qualcuno, qualcuno di speciale, qualcuno che lo facesse sentire libero e anche un po’ combattuto, come quella musica, che lo faceva tornare indietro a sfogliare le pagine dei ricordi. Stava pensando a tutto questo, quando si accorse di una voce appena udibile che lo stava accompagnando cantando. Tese l’orecchio: era una voce calda, sicura, intonata. Non perdeva una sola parola della canzone, doveva saperla a memoria di certo, con anche tutte le variazioni delle strofe. 
“I give my heart to you… I give my heart, cause nothing can compare in this world to you…”
Pur con la curiosità di sapere chi, da dietro la porta, cantava sulle sue note a pianoforte, Jonathan restò a fissare davanti a sé, come se non s’accorgesse di nulla. Di colpo, il suono della campanella lo interruppe, insieme all’entrata del professore. Con le sue dita, si fermò anche il canto e i ragazzi cominciarono ad accomodarsi sulle sedie, poggiandosi penne e quaderni sulle gambe. 
“Carter. Che ci fai li?!- il professor Stark lo fissava divertito- non vorrai mica rubarmi il lavoro?!” Jonathan raccolse la sua tracolla sbuffando, per poi andarsi a sedere in ultima fila. Si svaccò sulla sedia, mentre il docente lo guardava ancora, quasi con un senso di scherzoso permalosismo.
“si calmi, professore, fare l’insegnante non è mai stata una mia ambizione.  Non si preoccupi. Non sono qui per rubarle il posto.
“menomale… per un momento ho temuto di poter essere licenziato!” 
Jonathan si era aspettato una reazione seccata del professore, che invece sorrideva sereno alla classe. 
“oggi, cari fanciulli, vorrei presentarvi una persona… resterà con noi per il resto dell’anno, perciò è bene che la conosciate. Persie… entra pure” 
Una ragazza dai capelli neri pettinati tutti da un lato entrò spalancando la porta con una mano.
“lei è Persephone Todd. È nata in Cornovaglia, ma da qualche anno si è trasferita qui a Londra...” Il professore parlava ancora, ma Jonathan non lo stava per niente a sentire. Osservava la nuova compagna di classe con seria attenzione. Adesso che guardava bene, i capelli le si riversavano sulla spalla destra in una cascata di riccioli di diversi colori. Un blu elettrico distingueva una buona parte delle ciocche da quelle nere corvine. Mollette e gel tenevano insieme la pettinatura, che sembrava essere stata fatta con molta cura. La ragazza era vestita in modo diverso da tutte le altre del suo corso: tutta in scuro, i pantaloncini contri che lasciavano intravedere una porzione di pelle nuda che precedeva i calzettoni a righe, blu sulla gamba destra e verde quasi fluo sulla sinistra. Una felpa di almeno due taglie più larghe le ricadeva sulle spalle, scoprendo la clavicola e parte della spalla dal lato a cui tirava nervosamente in giù il polsino della manica. Era un po’ rigida, in effetti, anche nella sua posa disinvolta. Il polsino era tutt’una piega, stretto dalle sue mani affusolate. L’orecchio sinistro, libero dai capelli, brillava dell’argento dei piercing e del lungo orecchino d’acciaio a forma d’ala angelica che le penzolava dal lobo. 
“bene, ora puoi andare a sederti. Guarda, c’è un posto libero accanto a Carter… Jonathan, fa una buona impressione, d’accordo?!”
Jonathan guardò il professore con disapprovazione. Odiava quel genere di cose. Fare gli onori di casa non era proprio quello che gli riusciva meglio… 
Persephone l’aveva inquadrato e, raccogliendo la borsa coperta da spille colorate, aveva mosso qualche passo per raggiungerlo. Gli anfibi che indossava slacciati ai piedi facevano rumore sul parchè con le suole pesanti. Sedette sulla sedia blu, accanto a Jonathan e, dopo una rapida occhiata, voltò il viso verso la cattedra:
“tranquillo, non mi appiccicherò a te…” poi levò il quaderno e una penna dalla tracolla, lasciandola cadere malamente a terra. Jonathan rimase sorpreso. Evidentemente Persephone doveva aver colto la sua disapprovazione alle parole del professore. Ma non era per lei che si era seccato, solo per il fatto che il professore prendesse sempre lui come suo lacchè. 
Ora osservava il suo profilo: i lineamenti regolari, le ciglia lunghe e d’ebano come i capelli, le labbra proporzionate, non troppo sottili, ma delicate quanto quelle di una bambola di porcellana, macchiate di un rosso scuro, come i petali di una rosa. Di colpo lo sorprese a guardarla.
“so quanto possono risultare scoccianti quelli nuovi, sempre curiosi e appiccicati ai veterani… siamo solo stupide matricole, non è vero? Ma non preoccuparti, me la caverò benissimo anche da sola…”
“ma che ti prende? Parli come se ti odiassi?!” 
“beh.. ti dice qualcosa il fatto che abbia cambiato 2 scuole in un anno e non abbia finito il semestre nell’ultima?!”
“wow… dovevi trovarti davvero bene..” Persephone accennò un sorriso storto.
“Carter!- il ragazzo si tappò la bocca- grazie…” il professore li aveva beccati questa volta.
“qualcuno con il mio sarcasmo.. interessante” Persephone si era voltata a guardarlo con un sorrisetto malizioso a piegarle la bocca.
“mai quanto i tuoi capelli… bella combinazione di blu…”
“silenzio, signor Carter! Silenzio!” Jonathan vide la ragazza sorridere a testa bassa, trattenendo una risata, mentre il professore lo riprendeva.
“mi perdoni, professore, ma è stato lei a dirmi di fare buona impressione…”
“Carter…” disse il professore spazientito.
“spero di non farti prendere una nota di demerito al mio primo giorno… temo avresti un motivo per odiarmi davvero poi…”
“non ti odierei per così poco… e poi la strada per l’ufficio del preside la so a memoria…”
“uuuh… un bad boy… sempre più interessante…”
“signorina Todd! Ci si mette anche lei adesso?” sempre in tono controllato, ma seccante anche per Persie, il professore stava rimproverando lei, stavolta.
“ok, scherzavo… sto zitta…” una risatina si diffuse in parte della classe alle sue spalle.
“silenzio…”

Quando il professor Stark lasciò l’aula, gli studenti si stavano alzando dalle sedie. Qualcuno si stiracchiava ancora svaccato sulla plastica blu della seduta, altri camminavano su e giù per l’aula parlottando, altri ancora curiosavano fra gli spartiti negli scaffali. Persephone si era alzata in piedi e si era voltata verso Jonathan con un’espressione che il ragazzo non riusciva a decifrare. Sembrava stesse sorridendo, ma gli angoli delle labbra rosse non si alzavano; sembrava ferita, ma gli occhi rimanevano luccicanti e decisi; sembrava agitata, ma le mani non si chiudevano più attorno ai polsini distrutti delle maniche. Anche Jonathan si era lentamente alzato in piedi ora, standole esattamente di fronte. Ma eccola che a passo disinvolto era arrivata alla finestra dell’aula, e si arrampicava sul davanzale di pietra per rannicchiarcisi sopra. Ora guardava verso di lui, sorridendo un po’, con i capelli che le ricadevano sulla spalla. 
Appena fu di fronte alla finestra, con un piccolo slancio dal pavimento, anche Jonathan si accartocciò accanto a lei sul davanzale. 
“padrona del mondo eh?!”
“come?!” per Persie fu come svegliarsi da un’ipnosi. Stava guardando fuori dalla finestra, oltre il campus, verso le verdi campagne inglesi e il cielo, dove nuvole nere rincorrevano le poche bianche rimaste. 
“voglio dire.. è una bella sensazione guardare il mondo dall’alto…. Ci si sente padroni delle distese e principi delle città…”
“già… è come se per un momento si avesse il controllo di tutto… come se niente potesse buttarti giù.. anche se succede di continuo…” Jonathan la osservò ancora per un po’. Sembrava dannatamente triste.. gli occhi grandi immobili, persi nel verde e nel grigio. Doveva fare qualcosa perché si fidasse di lui.
“anche se da qui ci si sente in prigione...” Persephone lo guardò con sguardo penetrante.
“idee?!”
“posso solo dirti che… potrebbe essere più divertente del solfeggio…”
“Qualunque cosa è più divertente del solfeggio! Grazie per aver ristretto il campo…” disse la ragazza allargando le braccia. 
“volevo solo dire che, potremmo anche evadere prima che la professoressa Plumb entri da quella porta..”
“mi stai chiedendo di impiccare?!”
“tecnicamente.. si.” Un gran sorriso si dipinse sul viso di Persephone, che saltò giù dal davanzale. Poi guardò verso Jonathan con aria impaziente.
“ma che ci fai ancora lì?” il ragazzo le si affiancò immediatamente.
“lo prendo come un ‘ci sto’. Senti, se usciamo adesso non se ne accorgerà nessuno… dobbiamo solo arrivare fino al ripostiglio, poi, quando tutti saranno in classe, sgattaioleremo fuori..”
“ok.. allora sarà meglio muoversi.” Jonathan la guardava mentre raccoglieva i libri e si metteva la tracolla. Non gli aveva detto cose del tipo ‘impiccare? Ma sei fuori? E se ci scoprono?!’ non aveva fatto domande, aveva semplicemente acconsentito. Non sembrava aver paura di essere scoperta e per questo sospesa...
Anche lui aveva raccolto la sua roba, caricandosi la borsa sulla spalla. Ora la stava guardando di nuovo, mentre si tirava il cappuccio sulla testa e gli si avvicinava.
“pronto?!” 
“andiamo.. abbiamo circa 20 secondi prima del suono della campanella…”
“perfetto.”
“sicura che..?!”
“stiamo già perdendo tempo… tic tac tic tac… i secondi scorrono…” disse toccandosi il polso sinistro con un dito, per poi agitare le mani come in segno di saluto. Jonathan scosse la testa ridacchiando, mentre usciva dalla classe correndole dietro. A metà del corridoio la vide fermarsi, ma troppo tardi, perché le finì addosso.
“perché ti sei..?!”
“mi sono appena resa conto che sei tu quello che sa la strada..” 
“ok, in effetti sono uno scemo… di qua!” e, trascinando Persephone per un braccio, Jonathan si precipitò verso le scale, ormai quasi deserte. Dopo poco si accorse che non stava più tirandosi dietro Persie a fatica, ma che stava scendendo le scale due gradini alla volta, al suo stesso passo. Le mani ancora intrecciate. La cosa non pareva infastidirla, anzi, ogni tanto quando pareva non troppo sicura su uno degli scalini, stringeva di più la presa, per poi rilassare le dita un secondo dopo. All’ultimo piano, si fermarono in tempo per evitare un gruppo di ritardatari che andava di corsa, spiaccicandosi contro il muro. Di colpo il suono assordante della campanella invase il corridoio ormai vuoto, lasciando dietro di se un silenzio inquietante.
“adesso o mai più.” Disse Jonathan strattonando Persie dietro di sé. Oltre al rumore della loro corsa, altri passi si sentivano avvicinarsi alla rampa di scale. Con un piccolo scatto Persie si ritrovò a spalancare la porta del ripostiglio con un calcio e ad infilarcisi dentro, sentendo il rassicurante sbattere della stessa dopo l’entrata di Jonathan. 
“salvi.- disse Jonathan tra un respiro e un altro- bel lavoro… con la porta.”
“Grazie… kick boxing… ritorna utile, sai?!” Persephone parlava cercando di riprendere fiato dalla corsa, appoggiata al muro fresco dello stanzino. 
“di la verità- disse lei guardandolo in faccia- credevi che non ce l’avrei fatta a starti dietro, eh?!” Jonathan la guardò con aria colpevole. 
“beh… a quanto pare.. mi sbagliavo…”
“già… idee per uscire?!”
“che ne dici della porta dietro di te?!” Persie si guardò alle spalle. Effettivamente il fresco che aveva sentito sulla schiena non era dell’intonaco bianco, bensì del vivido metallo di un’uscita di sicurezza senza l’allarme sopra. Ridendo di sé stessa si spostò piano dall’uscita.
“dico che mi sembra un’ottima idea…” Jonathan aprì la porta con il rumore secco della maniglia antipanico rossa, invitando Persie ad uscire per prima. Richiudendosela alle spalle, vide Sonny che stava entrando nel ripostiglio e così, si accucciò sotto la parte vetrata della porta, in modo che non lo vedesse. 
“Jonathan, perché sei…?!” in un secondo anche Persie era accucciata vicino a lui, che le stava stritolando un polso per tenerla ferma.
“guarda che l’ho visto… per questo mi sono abbassata. Puoi anche mollare la presa, non sono così stupida da alzarmi al momento sbagliato.” Jonathan le lasciò il polso con delicatezza.
“hai ragione, scusa…comunque ora possiamo andare… mi sembra sia uscito”
“dove andiamo?! Non dirmi a fare il giro turistico del campus, perché il prossimo ragazzo con il pass della biblioteca al collo che incontro riceverà un pugno in faccia, giuro.”
“troppe visite il primo giorno eh? Beh… non erano mai state queste le mie intenzioni…” Persie gli si avvicinò tanto da poter vedere il verde nei suoi occhi riflettere la sua immagine. 
“bene, allora nessuno si farà male…” il sorrisetto sulle labbra rosse di Persephone le faceva sembrare la pelle ancora più chiara di quello che era, i lineamenti più duri di quello che gli erano sembrati poco prima. 
“ok, dopo questa, non porterò mai più al collo il mio pass per la biblioteca…” Persephone rise davvero questa volta, senza forzature, solo di gusto.
“faccio paura eh!”
“soltanto a volte… senti, se mi prometti che la caffeina non aumenta il tuo grado di aggressività, potremmo andare da Starbucks… ciambella e caffè.. ti va?”
“non dire altro.”

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Capitolo 3
*** confuso ***


Starbucks era pieno di gente, come al solito e Jonathan e Persie stavano erano miracolosamente riusciti ad arrampicarsi su due degli sgabelli del bancone, prima che qualcun altro li precedesse. I cup cake erano appena stati posati di fronte a loro in un piatto di porcellana rotondo.
“i cappuccini arrivano tra un momento” e così dicendo, il cameriere era sparito dietro al bancone.
“allora… parlami un po’ di te…” Jonathan non era sicuro che quella fosse la domanda corretta da porle, ma gli argomenti per riempire la conversazione erano davvero scarsi.
“non c’è molto da raccontare… sono così come mi vedi. Una pazza scatenata con i capelli colorati…” e Persie rise come per nascondersi dallo sguardo indagatore di Jonathan, che pareva non mollare la presa su di lei.
“no, sul serio…” gli occhi della ragazza si piazzarono sul viso di Jonathan. Era come se stessero cercando di capire se davvero lui aveva voglia di ascoltare quello che aveva da dire.
“beh.. a dirti la verità non so nemmeno da dove dovrei cominciare…”
“vediamo… dall’inizio ti sembra una risposta ragionevole?!” Persephone sorrideva guardando dalla vetrina dietro il bancone.
“non è così semplice… comunque ci proverò… ma non credo che questo sia il posto giusto. Una cosa posso dirtela però. Posso risultare estremamente strana, o idiota, a seconda delle persone…” Jonathan era rimasto a guardarla, il cup cake ancora in mano, addentato per metà da un lato.
“sai, non credo sarà un problema per me.” Disse lui addentando l’ultima metà del dolce.
“ah sì?”
“già… guarda caso in giro dicono la stessa cosa di me”
Proprio mentre Persie stava per ribattere, assicurandogli che non erano di certo considerati pazzi alla stessa maniera e che, se non voleva guai, doveva starle più lontano possibile, il cameriere fece capolino con i due bicchieroni di plastica dei cappuccini. Al limite tra il sollevato e l’imbarazzato, Persie afferrò il suo, scendendo dallo sgabello.
“che fai?”
“andiamo.”
“cosa? E dove? Ma soprattutto perché?!”
“hai detto che volevi che io ti raccontassi di me. Bene, questo non è il posto per la mia storia. Davvero.” Gli occhi verdi di Jonathan la guardavano increduli, straniti, come se avessero appena visto qualcosa di veramente assurdo. Le sopracciglia si erano inarcate, completando il dipinto dell’espressione di qualcuno che non capisce un accidente di quello che gli stai dicendo.
“ecco. Hai appena avuto un assaggio della mia stranezza. Se non ti va di venire ti capisco…” e, lasciate 10 sterline sul bancone, la ragazza uscì dal locale in tutta fretta. Jonathan si mise in tasca i soldi di Persephone, sostituendoli con quelli del suo portafogli, poi spalancò la porta del bar, sperando di trovarla ancora nelle vicinanze. Appena uscì, provò una strana sensazione allo stomaco, simile a quella che si prova lanciandosi nel vuoto.
Non vedendola da nessuna parte, Jonathan mosse qualche passo lungo il marciapiede, sperando che Persi non si fosse allontanata troppo. Non avrebbe voluto dirle di no, solo, capire. Avrebbe voluto non averle chiesto nulla.
Era chiaro che era molto più fragile di quello che dava a vedere. Ma quello che Jonathan non riusciva ad afferrare era il motivo di quella fragilità, la sensazione che aveva avuto guardandola quella mattina, quell’ondata di spavalderia e arroganza che l’avevano attraversato, insieme alla dolcezza dei suoi contorni e alla forza del suo sguardo combattuto. Perché una ragazza come lei, con il suo spirito, avrebbe dovuto avere delle insicurezze?
Mentre rifletteva, muovendo qualche passo svogliato, la vide. Il cappuccio della giacca di pelle le copriva i capelli, e una delle calze, quella a strisce verdi, era scesa di un po’, scoprendole ancora di più la gamba. Le si affiancò di corsa, rimanendole accanto nella camminata. D’un tratto si scrollò il cappuccio dalla testa e tornò a fissarlo con quei grandi occhi fulvi.
“se ti dicessi che voglio portarti in un posto? Non voglio rovinare i tuoi piani per sorprendere la matricola che ti sta di fronte, ma… se decidi di venire con me, capirai.” 
Jonathan la guardava a metà tra l’incredulo e il confuso. Il pallido sole che si faceva strada tra le nuvole grigie aveva mandato un ultimo raggio ad attraversarle lo sguardo, illuminando il castano degli occhi di Persie, che non sembrava accorgersi della luce accecante che le faceva bruciare le iridi dorate. C’era qualcosa di strano nel suo sguardo. Era sempre quel qualcosa che Jonathan non riusciva a catturare, quello che gli era sfuggito anche quando se l’era ritrovata di fronte sul davanzale della finestra.
“ok” la ragazza si voltò verso di lui sorpresa. Evidentemente non si aspettava niente del genere, perché il suo viso lasciava trasparire un leggero alone di sorpresa e compiacimento.
“bene. allora stami dietro.”

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Capitolo 4
*** Il Posto ***


Le strade dell’ovest londinese erano strette, gli edifici strizzati uno accanto all’altro. Persephone continuava a camminare a passo veloce, sentendo su di sé lo sguardo di Jonathan, caldo e diffidente allo stesso tempo. Non aveva aperto bocca da quando si erano lasciati il cancello di ferro alle spalle, solo degli sguardi di sottecchi lanciati ogni tanto a Jonathan, come per essere sicura che lui le rimanesse accanto, che non avesse deciso di ritornare sui suoi passi. Ma il ragazzo, dal canto suo, non aveva smesso un secondo di studiarla, di tenere gli occhi fissi su di lei. Era chiaro che non lo stava portando in un bar o in chissà quale posto, ma in una parte della città in cui c’era qualcosa che voleva mostrargli, o per lo meno, così la pensava Jonathan, quando lei voltò in un vicoletto sulla destra, tirandolo per la manica del giubbino di pelle. Persephone si fermò di colpo e Jonathan le andò addosso. Lei si girò per guardarlo in viso con aria divertita. “siamo praticamente arrivati…” aveva annunciato trionfante. “arrivati… dove?!” “al posto..” ma Jonathan non fece in tempo ad aggiungere altro, perché lei lo stava di nuovo tirando per la manica, facendolo inciampare qua e là tra sassolini e asfalto disassato. In un attimo il ragazzo si trovò a guardarla mentre si arrampicava su una struttura di ferro incrociata. Sembrava una vecchia impalcatura lasciata lì ad arrugginire con il vento e la pioggia. Persephone ci si arrampicava sopra agile come una pantera e, arrivata all’ultimo incrocio delle sbarre di ferro, tese una mano verso di lui, facendogli segno di salire con lei. “coraggio… non avrai mica paura..” Jonathan la guardava con la testa piegata all’indietro. No. Paura no. Era solo sorpreso di vederla farsi strada a quel modo, come se arrampicarsi su una struttura metallica fosse la cosa più normale del mondo. Sembrava così a suo agio mentre metteva un piede qui e uno là per darsi la spinta e tirarsi su con le braccia. Senza rispondere alla provocazione, Jonathan afferrò la prima barra di ferro e si issò con le braccia sulla seconda, spingendo con i piedi, come faceva lei. A pochi metri da Persie, si accorse che la ragazza stava sorridendo guardando giù, verso di lui. Eccola lì, appollaiata sull’incrocio dell’ultima X prima del tetto, accovacciata con le mani appoggiate sulle ginocchia piegate. I capelli che oscillavano, coprendole metà del viso. “che hai da ridere?!” non ebbe risposta, solo una risatina soffocata dallo sforzo di tirarsi sul tetto. Quando anche Jonathan si trovò sul cemento crepato del tetto, si guardò intorno. Era una specie di giardino pensile abbandonato. Le piante e i fiori lasciati incolti tutt’intorno, una piccola serra dai vetri di plexiglass ancora in piedi sulla parte destra del tetto. Panchine qua e là, piastrelle disassate o spaccate. “bello vero?!” la voce di Persephone risuonò stranamente familiare all’orecchio di Jonathan... assomigliava ad una frequenza che aveva già sentito da qualche parte. “beh… è un posto davvero strano… nessuno si aspetterebbe di trovare un giardino pensile qui sopra.” “infatti… è per questo che mi piace. È un posto in cui non verrebbe nessuno, semplicemente perché non sa che esiste.” “e dimmi, tu come hai fatto a scoprirlo..?” “se te lo dicessi- disse Persephone sedendosi sulle piastrelle a gambe incrociate- è probabile che non mi crederesti… o per lo meno… lo troveresti strano.” “beh… tu provaci..” disse il ragazzo accucciandosi vicino a lei. Rimase a guardarla, mentre le nuvole inghiottivano l’ultimo raggio di sole e con lui, il luccichio degli occhi dorati di Persie. “faccio parkour... sai, mi diverte aggirarmi per la città in un modo diverso dal camminare per strada… io e il mio gruppo ci stavamo aggirando qui intorno, dove spesso e volentieri non c’è nessuno… siamo arrivati da quel tetto là dietro, dove i camini e le lamiere fanno da passaggio ideale da un tetto all’altro e…” “atterrando qua e là siete arrivati alla serra…” Jonathan era perplesso, ma divertito, assolutamente divertito. Immaginarsela che percorreva la città saltellando per i tetti in stile uomo ragno senza ragnatele lo fece sorridere. “sei una tosta eh?” “se vuoi metterla così… diciamo soltanto che mi piace sentire il formicolio dell’adrenalina in corpo… comunque adesso è diventato il posto di riunione della squadra” Persephone rimase a guardarlo per qualche secondo. Aveva voltato la testa, buttando lo sguardo verso le panchine sbeccate e rovinate dalle intemperie, verso gli alti comignoli e le finestre del decimo piano di un edificio poco lontano. Aveva l’aria incantata, come se si trovasse nel dormiveglia, accarezzato dalla brezza sottile di un verde paesaggio, l’aria di chi non s’accorgesse d’esser desto dopo un bel sogno. “è…” “come? Com’è? Dillo…” lo interruppe Persie avvicinandoglisi di scatto. Con sua enorme sorpresa, Jonathan rimase immobile, mosso solo dall’urto del suo braccio contro la sua spalla. Stava lì, le ginocchia piegate e le mani abbandonate su di esse, guardando ancora lontano, sempre con quell’aria da sognatore. Poi spostò lo sguardo su di lei, sorridendo. “atroce.” Persie sobbalzò. Atroce? Come atroce? No. Non poteva trovare Il Posto così orrendo. Guardandolo stupita e con gli occhi spalancati continuò: “Non è vero. Non puoi trovarlo tanto brutto, tu…” Jonathan la guardò di nuovo interrompendola con il verde dei suoi occhi, quasi l’avesse fatto a parole. “infatti non lo trovo atroce nel modo in cui pensi… se solo mi avessi lasciato finire la frase…” Persie parve disarmata da quelle parole e dal suo sguardo, pieno di quello che sembrava affetto, di quella strana tenerezza che ritrovava spesso negli occhi di Michele. “continuo a sostenerlo. È atroce. Atroce che nessuno sappia che su questo tetto c’è un posto così bello, così affascinante, colmo di chissà quali storie… chissà chi ci sarebbe venuto ad abitare, una volta finito? Ma soprattutto perché non è stato finito? Le panchine in stile vittoriano annerite dallo smog, sbeccate e scavate dai solchi d’acqua che scivola nelle stesse fessure ogni volta che piove… quella serra piena di rampicanti incolti… è un posto bellissimo, ammaliante nella sua decadenza, quasi fosse un tempio dell’antica Roma andato distrutto… guarda… manca solo qualche colonna spezzata lì in mezzo e…” Persephone lo fissava stupita, ancor più di prima. Era stata sul punto di dirgli che non capiva, che non capiva cosa significava per lei quel posto, che non aveva compreso perché le piacesse tanto, che… invece aveva carpito ogni cosa. Aveva provato quel senso di vecchio misto al nuovo e il Posto gli aveva stuzzicato la mente, portandolo ad immaginare… tutte cose che aveva pensato anche lei, la prima volta che aveva messo piede su quel tetto bianco ingrigito dal tempo. “e sarebbe perfetto. Nulla da ridire… ora posso dirmi di trovarmi d’accordo con te nel definire questo posto ATROCE. È tremendo, fantasticamente segreto e protetto.. perciò ti sarei grata se non raccontassi a nessuno di questo posto. Davvero… io… ci tengo molto.” “non ti tradirò. Promesso.” Il suo sguardo era intensissimo. Aveva quasi voglia di fidarsi di lui, ora, Persephone si chiedeva se sarebbe stato giusto, se avrebbe potuto raccontargli davvero qualcosa di lei. Lo guardò ancora per un attimo, per poi tornare a guardare dritto davanti a lei, con gli occhi socchiusi per il vento che le tagliava il viso. “sai, non è mai stato semplice per me. È stato un inferno, da che i miei ricordi sono lucidi.” “cosa? Perché dici così?” Jonathan la esortava a continuare. Era riuscito a far sì che si fidasse almeno un po’ e non avrebbe voluto che questo cambiasse, non ancora. “mai niente di facile… una bambina cresciuta troppo in fretta, costretta a smettere di giocare con le bambole troppo presto..” Persie guardava fisso davanti a sé, non vedendo nulla, con le lacrime che le offuscavano la vista. “perché avresti dovuto..?” Jonathan aveva cominciato a parlarle, domandando cosa le avesse impedito d’esser bambina, chi avrebbe mai potuto toglierle quell’innocenza dal viso, ma la ragazza era stata attraversata da un tremito, come una contrazione muscolare improvvisa di un muscolo, che la scosse tutta. Lo guardava come un animale spaventato guarda il suo cacciatore, terrorizzato, con gli occhi spalancati, boccheggiante. “non posso…” la ragazza si alzò in fretta, correndo verso il parapetto. “Persie! Persie, no! Dove vai?” Jonathan le corse dietro, fermandosi solo quando la vide in piedi sul muretto. Non era più paura quella che le contraeva il viso, ma dolore. Il ragazzo se ne accorse subito. Era un dolore misto a stupore, sostituito quasi subito dall’indifferenza, che rese i suoi occhi opachi, non più dorati, solo spenti. “no. Non avrei dovuto farlo. Non avrei dovuto portarti qui.” Detto questo gli diede le spalle, guardandolo da sotto le ciglia lunghe, per poi molleggiare un po’ sui piedi e correre sul parapetto, staccando all’ultimo, prima che il tetto finisse, levandosi nel vuoto con le braccia spiegate come ali. Jonathan la guardava atterrito librarsi nell’aria, con il sangue che gli defluiva dal viso. Il cuore gli era balzato nel petto nel momento esatto in cui i piedi di Persie si erano staccati dal cemento. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo mentre la vedeva lasciarsi cadere nel vuoto, ma non ci riuscì. Seguì con lo sguardo la figura delle ragazza, finché questa atterrò in piedi 4 o 5 metri più in giù, sulle rosse tegole di un tetto. Appena i piedi di Persie poggiarono piatti sul tetto, Jonathan si ritrasse dal parapetto, con uno strano calore che gli si irradiava dallo stomaco, espandendosi in tutto il torace. Sollievo. Un enorme sollievo. D’un tratto buttò fuori tutta l’aria che, solo ora, si era accorto di aver tenuto prigioniera nei polmoni fino a quel momento. Già. Si era scordato di respirare.

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Capitolo 5
*** La pioggia... Sempre al momento giusto eh? ***


I piedi atterrarono rigidi sulle scivolose tegole del tetto e Persie-i denti stretti per la fitta di dolore che le vibrò per le gambe- dovette fare molta forza sui polpacci per non cadere all’indietro. Piegò il busto in avanti, muovendosi a fatica verso la parte piana del tetto, dove si ergevano i comignoli. Allungando un braccio, afferrò il cubotto che ne soprelevava uno dal rosso delle tegole, affiancandolo. Poi si voltò verso l’edificio da cui era saltata, guardando Jonathan, che si era allontanato dal parapetto, ma manteneva la sua posizione da sentinella. Il petto le si alzava e abbassava velocemente, il fiato corto. Era come se fosse rimasto a guardare per assicurarsi che fosse arrivata sana e salva su quell’altro edificio, per controllare che ce l’avesse fatta. Ma perché? Perché tanto timore? Liquidando la domanda che si era posta con un movimento secco del collo, prese la rincorsa, saltando di nuovo, atterrando su un edificio ancora più basso e dal tetto piatto. Si era fidata troppo, aveva lasciato che la sua bocca parlasse e la sua lingua si sciogliesse con un “quasi estraneo”. Corse sul freddo cemento grigiastro, cercando di muoversi verso est, per tornare verso casa sua. Forse, se fosse rimasta sui tetti ancora per un po’, avrebbe incontrato Michele. L’unica persona che avrebbe voluto al suo fianco in quel momento. Si mosse di nuovo, agile come un gatto, issandosi su uno dei vuoti terrazzi delle via, restando in ascolto. Avrebbe desiderato sentire il passo familiare di uno dei ragazzi del gruppo, qualcuno che l’accompagnasse verso casa… che saltasse con lei da un tetto all’altro fino a Baker Street… Ma il silenzio rumoroso della periferia di Londra continuava ad avvolgerla, mentre delle goccioline di trasparente pioggia cominciavano a rompere i loro legami sul suo viso. Due sul naso, qualcuna sugli zigomi e in poco tempo la pioggerellina s’era fatta fitta, sferzante tra i capelli, a bagnarle i vestiti. Senza fretta, come se il pallido sole della mattina le sfiorasse ancora le spalle, pensò ad un rifugio non troppo lontano da dove si trovava. Dovette camminare avanti e indietro per un po’, prima di rendersi conto di trovarsi sul tetto del Magazzino. Come aveva fatto ad attraversare un terzo della periferia londinese senza accorgersi di niente? Di fretta, quasi slittando, s’agganciò alla struttura metallica della grondaia con le mani e le gambe, lasciandosi scivolare verso il terreno, prima di mollare la presa e poggiare comodamente i piedi sull’asfalto. Imprecando, per aver inzuppato i piedi in una pozzanghera, diede un forte calcio alla porta di ferro del Magazzino, che s’aprì con un mugolio ed uno scatto. Ancora sulla soglia, Persephone strizzò i capelli gocciolanti con le mani, facendone defluire la maggior parte dell’acqua, per poi afferrare il maniglione antipanico delle ante richiudendosi la porta alle spalle. Fradicia come si fosse buttata in piscina con ancora addosso vestiti e scarpe, si diresse verso il centro della stanza, verso lo scalcagnato divano dalle molle sporgenti. Levò la giacca, appendendola a un’anta dell’armadio di fronte che, per la troppa ruggine, non si chiudeva più. Poi attraversò di nuovo lo stanzone, raggiungendo la stufa. Buttò carta e altre cianfrusaglie nella bocca del forno e fece scattare lo zippo che aveva trovato tentoni sulla mensola sovrastante. La carta s’incendiò, contagiando i piccoli legnetti e le due metà di una tavola da skate-board fuori uso. In poco tempo, il calore cominciò a diffondersi nella stanza, permettendole di levarsi anche la felpa e le calze zuppe, che pose sullo schienale di una sedia poco lontana da lei. Poi si rannicchiò sulla poltroncina accanto alla stufa, sprofondando nella pesante imbottitura di velluto plumbeo. Se ne stava seduta con le ginocchia al petto e i piedi nudi, come le spalle e il torace. Il freddo non la pungeva quasi più, il fuoco della stufa assolveva al suo compito in maniera eccelsa. Di colpo, mentre rimaneva ad assaporare il calore del fuoco sulla pelle ad occhi chiusi, si scoprì a pensare a Jonathan sul tetto del Posto. Ora che ben ricordava, lo aveva lasciato lassù, mentre lei era corsa via, solo per allontanarsi dai suoi ricordi, per scappare da sé stessa… nient’altro, nient’altro che egoismo! Ma non era riuscita a fidarsi abbastanza. E in fondo, perché avrebbe dovuto? Lo conosceva solo da poche ore… “però avrei potuto almeno dirgli come scendere…” pensò la ragazza ad alta voce. In effetti, avrebbe anche potuto rompersi l’osso del collo a scendere dal traliccio su cui s’erano arrampicati, ma lo credeva abbastanza sveglio e in gamba da poter capire come calarsi giù senza porre fine alla sua vita. Improvvisamente, s’udì un fracasso e la finestra centrale si spalancò con un rumore secco, lasciando entrare una figura scura, con il cappuccio a coprirgli la testa. Persie s’alzò in piedi con un movimento fulmineo, mettendo mano alla cintura per estrarne il suo coltellino. Ecco che la sagoma s’alzava da terra, muovendo passi calmi e disinvolti verso di lei. Appena vide il guizzo che mandò la lama affilata alla luce rossastra del fuoco, l’ombra scura si bloccò, scrollandosi il cappuccio dalla testa. Una chioma bionda si distinse dal nero della giacca in ombra e i muscoli di Persie di rilassarono. “Michele… mi hai spaventata! Credevo..” il ragazzo s’avvicinò ancora e il bagliore della fiamma, gli illuminò il viso. Sorrideva scoprendo la dentatura perfetta e accentuando la linea scura degli zigomi. “incuti davvero un terrore primordiale-disse percorrendole il corpo con lo sguardo- una ragazza che ti minaccia in pantaloncini e reggiseno… sto tremando come una foglia!” il tono del ragazzo era canzonatorio, ma Persephone, per un momento-uno soltanto- pensò che Michele stesse tremando davvero… quasi potesse veder le sue mani fremere di una strana paura. Distolse lo sguardo, facendo rientrare la lama nel manico con un brusco movimento del polso, mentre gli borbottava contro insulti a casaccio. Michele parve coglierne uno chiaramente. “che hai detto?” le aveva preso il polso con irruenza, quasi fosse arrabbiato per l’appellativo che la ragazza gli aveva affibbiato in quell’istante. “ti ho dato dell’idiota… se proprio ci tieni a saperlo” la presa al polso non s’allentava e, in effetti, Persie notò un leggero tremito vibrare sotto la sua pelle. Non seppe dire se fosse dettato dall’imbarazzo o dal calo adrenalinico, ma si sentì profondamente colpita dallo sguardo magnetico degli occhi di Michele, che mollavano i suoi solo per passare alla sua bocca e alla clavicola scoperta. Con sua grande sorpresa, Persie s’accorse che i suoi occhi non si spingevano più in giù dello spazio di pelle liscia che le ricopriva le clavicole. Occhi rispettosi, o forse disinteressati –pensò- ma quel minimo di amor proprio che l’era rimasto addosso, richiamò la sua attenzione proprio in quel momento, così che si liberasse dalla presa del ragazzo con un movimento risoluto del braccio, voltandogli le spalle. Abbassando lo sguardo sul pavimento rovinato e stringendosi nelle spalle, Persephone andò ad esaminare i suoi indumenti appesi accanto alla stufa. Felpa e calze erano ancora molto bagnate e, constatando che forse non sarebbe stata una buona idea coprirsi agli occhi di un ragazzo per prendersi una polmonite- anche se ciò la imbarazzava molto- tornò ad accartocciarsi sulla poltroncina vellutata. Subito raccolse le ginocchia al petto, circondandole con le braccia, in modo che il petto e il torace fossero nascosti alla vista di Michele, rimasto in piedi, dritto come un fuso, dove lo aveva lasciato. Era restato immobile, nella sua giacca gocciolante, per poi scuotere la testa, come risvegliatosi da un’ipnosi. Sfilò le maniche di pelle dalle braccia, per poi appendere il capospalla alla seconda anta dell’armadio arrugginito, accanto a quello di Persie. Si voltò di nuovo a guardarla. Sembrava aver freddo acciambellata sul cuscino della poltrona, stretta nell’abbraccio delle sue ginocchia. Tastandosi le maniche della felpa che indossava, inarcò la schiena, allungando le braccia per levarsela. Il tessuto, passandogli dalla testa, gli arruffò i morbidi capelli dorati, dandogli un aspetto più sbarazzino. Stirandola tra le mani, Michele porse l’indumento a Persie con uno dei suoi mezzi sorrisi. La ragazza slegò una mano dalla presa sulle ginocchia, protendendola piano, rilevando la morbidezza del tessuto. Poi alzò lo sguardo sul ragazzo. “io… io non ho freddo…” Persephone parlò piano, come cercando di non svegliare qualcuno. “lo so… ho solo pensato…” il braccio di Michele si mosse leggermente indietro, come se avesse improvvisamente pensato di ritrarsi, ma le dita di lei si chiusero forti attorno al tessuto che stava carezzando, tirando. Le mani del ragazzo aprirono piano le dita, lasciando che la stoffa scivolasse lentamente sul suo palmo, dalla sua presa, mentre Persie cominciava a tirarne i lembi più forte, per infilare prima le mani e poi le braccia, all’interno della felpa. Distese in fretta le ginocchia, facendo passare la testa dal buco centrale. I capelli erano rimasti incastrati sotto il colletto, così, con un movimento disinvolto e armonico, liberò i riccioli da sotto il tessuto liscio dell’indumento. Le stava un po’ larga, ma soprattutto lunga, data la statura di Michele e le sue spalle larghe. Si appoggiò il mento su una spalla, strofinando un pochino. All’interno, il calore del corpo di Michele, non aveva ancora lasciato la stoffa, avvolgendola completamente, insieme al suo odore, misto a sapone di Marsiglia, che le entrò dentro, facendole chiudere gli occhi e le dita sui polsini della felpa. Michele si era appoggiato alla mensola sopra la stufa, sostenendosi con un braccio. Mentre Persephone si era messa la felpa, aveva guardato altrove nella stanza, verso il divano al lato opposto, per poi ritornare su di lei quando non sentì più il fruscio della stoffa contro la pelle. Sorrideva, mentre la vedeva chiudere gli occhi stringendo la stoffa antracite. Proprio in quel momento, come se avesse saputo che la stava osservando, la ragazza aprì gli occhi guardandosi i piedi, per poi raccogliere di nuovo le gambe sulla seduta e fissarli in quelli del ragazzo che, si passò la lingua sulla labbra secche. Dopo un momento, sembrò cambiare del tutto espressione, come a scuotersi da un pensiero folle, o da una fantasia, ritornando alla sua solita espressione accattivante e leggermente canzonatoria.

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Capitolo 6
*** La signora Todd ***


Jonathan era rimasto a guardare la figura di Persephone saltare da un tetto ad un altro, finché non era scesa troppo in basso per poter continuare ad essere seguita con lo sguardo. La pioggia aveva già cominciato ad infradiciargli i capelli, mentre scendeva dalla stessa struttura di ferro gialla attraverso la quale aveva raggiunto il tetto insieme a Persephone. Metteva un piede sotto l’altro, cercando di raggiungere le travi cilindriche a x, dondolandosi con le braccia per raggiungere le più basse. Si scoprì abbastanza agile nell’imitazione di Persie, ma quando si trovò a dover mollare la presa per lasciarsi cadere da quel metro e mezzo che lo separava da terra, non fu più così sicuro di quello che faceva. Comunque fosse, diciamocelo, era un metro e mezzo, anche se fosse caduto da quell’ultima x non si sarebbe rotto niente, forse avrebbe preso una bella botta al sedere, o alla schiena, ma niente di più. Così, quando si disse che se non l’avesse fatto in quel momento non l’avrebbe fatto più, lasciò la presa delle mani sul metallo, spingendosi all’indietro con i piedi, atterrando sul cemento perfettamente in posizione eretta, barcollando un po’ per rimettersi in equilibrio.
Una volta a terra, gli venne da ridere. “è stato facile!” si diceva. Ma per un istante si ricordò della paura di non potercela fare che lo aveva colto durante la discesa, mentre le mani e i piedi scivolavano sul ferro smaltato bagnato. Persephone aveva un bel coraggio… saltava da un tetto all’altro come fosse una cosa di tutti i giorni… beh, lei, in effetti, lo faceva tutti i giorni.
Si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, avviandosi per le strade della periferia che portavano alla metropolitana. Solo ora, mentre camminava sotto la pioggia, sentì un fastidioso peso alla braccia e alle gambe. Lo sforzo muscolare di issarsi sulla struttura senape del Posto si faceva sentire. Così ripensò alla prima volta che aveva visto Persie, quella mattina, a scuola. Gli era sembrata una normale adolescente un po’ ribelle, ma ricordava di aver notato in lei qualcosa di anormale anche per una ragazza inusuale come lei: aveva i bicipiti e i quadricipiti muscolosi, asciutti e molto tonici e le spalle visibilmente più larghe dei fianchi.
Ora se lo spiegava benissimo. Tutto quel moto e quel lavoro di braccia e gambe per arrampicarsi qua e la sugli edifici doveva giovare molto alla sua forma fisica e anche-credette-a quella mentale. Lo aveva lasciato al Posto lì impalato, a guardarla mentre se ne andava, così come fosse una tortura lenta e omicida. La stretta allo stomaco e alla gola che aveva sentito come mani vive che stringevano dall’interno, lo sguardo che gli aveva lanciato da sopra una spalla quando era atterrata sul tetto sottostante. L’indifferenza e il suo viso dolce di dolore. Avrebbe solo voluto capirla. Tutto qui. Beh, non che fosse poco, gli sembrava complicata, da analizzare con cura in tutte le sue sfaccettature, ma voleva soltanto provarci. Dove gli aveva detto che abitava? Ah, già… poco lontano da Baker Street, sei o sette case più in là di quella del signor Holmes. Così, quando saltò sulla metropolitana che si affrettava a chiudere tutte le porte, contò le fermate, aspettando di sentire l’altoparlante indicare il centro.
Quando la voce registrata annunciò la sua fermata, Jonathan balzò dal treno sotterraneo, emergendo sulla strada affollata del tardo pomeriggio, inzuppato come un pulcino. Camminando spedito, cercò di non gingillarsi tra vetrine e attraversamenti pedonali bloccati, per raggiungere la casa di Persephone in fretta. Quando raggiunse Baker Street passò di fronte alla casa dell’investigatore a naso in su. Non sapeva perché, ma sperava di vedere i piedi o le gambe di Persie correre lungo la grondaia e saltare all’ultimo, come nel pomeriggio… ma più restava in ascolto, mentre camminava, più gli sembrava che il silenzio avvolgesse la via ingrigita dal tempaccio tipico di Londra.  Dopo aver camminato ancora per un po’, notò una casa alta e un po’ più stretta delle altre. Aveva le pareti bianchicce, con il tetto spiovente e una grossa finestra all’apice. La camera di Persie. Gli aveva detto che spesso usciva sul tetto di sera, che si sedeva a guardare il cielo e le luci della città per un po’, finché ne aveva voglia. Osservò che la luce era spenta, che non c’erano bagliori chiari nelle nuvole grigie in cielo, ma salì lo stesso i tre gradini per arrivare alla porta, picchiando il batacchio con forza. Dopo pochi secondi, sentì dei passi avvicinarsi per aprire. Quando la porta si spalancò, a guardarlo con occhi socchiusi e un sorriso cortese sulla bocca, c’era una vecchietta dai capelli grici e bianchi raccolti in un morbido chignon, da cui uscivano delle ciocche ribelli. Indossava un vestito blu scuro, tutto pizzi e decori sui bottoni, stretto in vita e lungo fino a coprire le ginocchia. Ai piedi delle graziose pantofole di pelle nera.
“desidera?” chiese l’anziana signora con voce sobria.
“buonasera signora, mi chiamo Jonathan Carter signora, sono un amico di Persephone Todd… lei abita qui, non è vero?” la vecchietta sorrise, anche con gli occhi, annuendo.
“grazie al cielo, pensavo di aver sbagliato indirizzo… mi perdoni, volevo soltanto sapere se è in casa…”
“mi dispiace, giovanotto, ma è da stamattina che non la vediamo, qui in casa… ma del resto, non vedo spesso mia nipote aggirarsi tra le strette mura di questa casa.”
“oh, quindi lei.. lei è sua nonna…” la signora sorrise, aprendo di più la porta di casa.
“felice di conoscerla, Jonathan. Helen Todd…” disse stendendo una mano ossuta verso il ragazzo che, dopo essersi asciugato la sua sulla parte dei pantaloni ancora asciutta, con molta gentilezza, la strinse.
“beh, mi dispiace di averle recato tanto disturbo signora Todd, vedrò Persie domani, a scuola e le dirò ciò che avevo da riportarle…” la mano della vecchietta si chiuse intorno alle dita del ragazzo, che stavano scivolando via dalla stretta.
“c’è qualcosa che vuole che le dica?”
“dirle?! Oh, no… ma se potesse… darle questo, le sarei molto grato.”
Così dicendo, Jonathan sfilò dalla borsa una cartelletta trasparente, porgendola con timidezza a Helen. Gli occhi della donna si posarono sulla cartelletta con curiosità, ma le sue mani non raggiunsero l’elastico per aprila. Dopo di che levò lo sguardo sul ragazzo, sorridendo un po’.
“lo troverà sulla scrivania di camera sua appena torna. Grazie della visita, giovanotto.”
“grazie a lei per il suo tempo, signora Todd.” La porta si richiuse piano alle sue spalle, mentre faceva i gradini a ritroso, deluso, ma soddisfatto della consegna degli spartiti. Ad un tratto, trovandosi più o meno all’altezza della vecchia casa del famoso Holmes, colse un movimento di sfuggita sopra la sua testa. Alzò lo sguardo di scatto e la vide. Prima lei, la sua figura snella dai capelli a cascata che si lanciava sul tetto successivo, ma sentendo altri passi, voltò lo sguardo di nuovo. Un’altra sagoma scura la seguiva, staccando dalla grondaia con un balzo e atterrandole accanto. Da lì dove si trovava, la sentì ridere, una risata ovattata, coperta dal rumore delle macchine e della metropolitana che sfrecciava poco sotto di loro, ma sentì che era la sua, voce inconfondibile tra le altre. Ma non era l’unica a elevarsi nella nebbiolina del tramonto. Un’altra risata, più bassa, inevitabilmente maschile, si librò fino alle sue orecchie. Non sapeva bene perché, ma si sentiva strano, come fosse nel posto sbagliato al momento sbagliato. Si sentiva come di troppo, mentre una specie di rabbia gli montava dentro. 

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Capitolo 7
*** Tornatene a saltare sui tetti ***


Michele era appena atterrato accanto a Persephone, quando la sua risata s’interruppe. Pioveva ancora, ma la pioggia che scendeva ora era più sottile, tanto che quasi non bagnava più nulla, limitandosi soltanto a inumidire l’aria, carica del suo odore acro. La ragazza si allontanò da lui, andando a sferrare un calcio al blocco della finestra della mansarda di fronte a loro. Il meccanismo scattò, facendo aprire la finestra, tanto che ci si potesse infilare dentro trattenendo un po’ il respiro. Svelta, ci passò attraverso, mettendo i pedi sulla panchina scavata nel muro sotto di essa. Michele rimase al di là del vetro a guardarla, mentre la ragazza lasciò cadere la tracolla dalla spalla, tornando alla finestra per sganciare del tutto la sicura delle ante.
“non entri?” Persephone lo guardò come se fosse stato normale invitarlo in camera sua, come se fosse la cosa più naturale del mondo che entrassero dal tetto di casa e rimanessero a parlare per un po’ al calduccio. A dirla tutta aveva un po’ paura di quello che gli stava offrendo. Non era mai successo che gli chiedesse di entrare così, di soppiatto, in camera sua. Ma dai suoi occhi capì che, se gli aveva chiesto di entrare, doveva esserci una ragione più che valida. Senza dire nulla, con un salto, piombò in stanza di fronte a lei.
“togliti la giacca, o ti prenderai un’infreddatura…”
“beh… non è che la maglietta sotto sia poi così asciutta…”
“allora togliti anche quella” disse lei quasi con non curanza, sfogliando le pagine di un libro che aveva raccattato dalla panchina. Poi alzò lo sguardo su Michele, che era rimasto interdetto al centro della stanza. Così s’alzò in piedi sollevando l’orlo della felpa che le aveva prestato quel pomeriggio, sfilandosela dalla testa. Il ragazzo voltò la testa, per evitare di guardare, e lei lo notò subito.
“non girarti. Non c’è nulla che tu non abbia già visto…- ma gli occhi di Michele rimanevano a fissare la parete di lato con molta concentrazione- a meno che tu non trovi la visione così oscena da non poter guardare, certo..”
“non è questo… io…”
“non preoccuparti… Ho altri vestiti in quel benedetto armadio! Tu… tu levati quelle cose fradice, devo avere anche una camicia da uomo della tua misura da qualche parte.” E, con un piccolo sospiro impaziente, Persephone lo superò, andando ad aprire le ante dell’armadio, di cui una, all’interno, era a specchio. Michele fissò nel vetro il riflesso di Persephone infilare le mani tra vestiti appesi agli omini di plastica, mentre con gli occhi cercava qualcos’altro.
“Non restare lì impalato, levati quella dannata t-shirt!” esclamò lei voltandosi di scatto. Michele allora cominciò a levarsi la giacca, appendendola al manichino accanto al calorifero, poi inarcò la schiena per sfilarsi la maglietta, restando a torso nudo proprio quando Persie si sporse da una delle ante con una camicia ben stirata.
“senti,-cominciò in tono convinto-credo che…” la voce le si spense in gola. Era a due passi da lei, con la maglietta ancora in mano, i muscoli del torace e delle spalle contratti. Li poteva vedere uno per uno, tonici, definiti. Avrebbe voluto tanto avvicinarsi e toccarlo. Chissà se al tatto sarebbe risultato forte come sembrava. Con il cuore che le batteva veloce nel petto, tolse la camicia dalla gruccia, porgendogliela senza guardarlo, mentre arraffava una maglietta dall’armadio. Per un momento le dita di Michele si chiusero intorno alle sue, mentre prendeva la camicia. Ancora con lo sguardo ficcato nell’armadio, le dita di Persie si pasticciarono un po’ con quelle del ragazzo, finché lei non mollò la presa, richiudendo l’armadio. I due si guardarono ancora, mentre infilavano le braccia nei vestiti. Persephone ci infilò la testa, per poi liberare i riccioli che rimanevano seppelliti sotto al colletto di una delle sue felpe enormi, che forse sarebbero state a pennello a Michele, mentre lui, si stava abbottonando, solo in parte, la camicia blu notte che aveva preso in prestito.
“quella è una delle mie felpe preferite…” azzardò Michele con voce sommessa. Persie lo guardò con le sopracciglia inarcate.
“una delle TUE?”
“intendo… una delle mie preferite addosso a te.”
“ah… beh… contenta che ti piaccia.”
“nonostante siano sempre enormi per te, ti stanno bene… sei più tu così”
“e a te, quella camicia sta benissimo… cioè, voglio dire, è proprio della tua misura…”
Con il suo solito sorriso storto, Michele le si avvicinò, toccandole una spalla con una mano. Persie piegò leggermente la testa di lato, mentre la mano saliva sul collo e le percorreva la linea morbida, ma un po’ squadrata, della mascella. Di colpo non ce la fece più a non guardarlo in faccia, come se avesse un bisogno assurdo di tuffarsi nei suoi occhi, così si voltò di scatto, trovandosi, in qualche modo, nel cerchio delle sue braccia. Michele non era stupito quanto lei di ritrovarsela a pochi centimetri dal viso. La guardò con i suoi occhi fulvi, che adesso risplendevano di un oro affascinante intorno alla pupilla, mentre i suoi capelli biondi gli incorniciavano il viso un po’ arruffati.
Senza rendersi nemmeno conto che lo stava facendo, Persephone aveva affondato il viso nel suo petto, mettendogli le braccia intorno al collo. Michele ricambiò la stretta serrando le mani sulla sua schiena, mentre lei alzava la testa, respirando forte l’odore della sua pelle. Sapeva di sapone di Marsiglia, di sudore e… di ragazzo. Anche se non sapeva bene come definire l’odore di ‘ragazzo’, sembrò averne un’idea precisa quando lo associò al nome. Ma in realtà sapeva che quell’insieme di odori era semplicemente il profumo di Michele, che nessuno, se non lui stesso, avrebbe mai potuto avere addosso.
Il respiro di Michele divenne irregolare, un po’ più accelerato, leggermente più pesante. Persie lo notò, scostandosi un pochino da lui, che appena sentì la distanza che si era creata fra i loro corpi, la trasse a sé con forza, sfiorandole le labbra con le sue. Persie si stupì della delicatezza del gesto, di come tutta quella forza potesse condensarsi in un unico atto carezzevole e dolce come quello. Ricambiò il bacio, ma con più impeto, premendo le sue labbra contro quelle di lui, spingendolo a camminare all’indietro, così che sbattesse le spalle contro il muro. Quando la schiena del ragazzo picchiò contro la parete, il  respiro gli si mozzò di colpo, costringendolo a scostare la bocca da quella di Persie per recuperare ossigeno. Così facendo girò la testa da un lato, mostrando il collo dai muscoli tesi e vibranti per il respiro corto.
Notandolo, Persephone gli sfiorò la pelle liscia sotto la mascella con le dita, poi con la bocca, regalandogli brividi deliziosi. Il ragazzo chiuse a pugno una mano sulla sua schiena, accartocciando il tessuto della felpa larga. Ma quando Persie tornò a cercare la sua bocca con la propria, Michele l’allontanò da sé con uno spintone, non sufficiente da farla cadere, ma abbastanza forte perché Persie barcollasse all’indietro per recuperare l’equilibrio. Una volta stabile sulle gambe, alzò lo sguardo con estrema lentezza. Michele stava appoggiato alla parete a testa bassa, ansante, come a riprender fiato dopo una corsa. La mano aperta a graffiare il muro, il petto che si rialzava e abbassava in fretta, il pomo d’Adamo che danzava su e giù sotto li mento.
“non posso- la seducente voce bassa di Michele si riduceva ad un sussurro quasi impercettibile-Non posso…” ripeté più forte.
“che cosa?! Cosa non puoi? Michele, io…” Persephone gli si avvicinò per incontrare l’oro ambrato dei suoi occhi, per capire che cosa lo aveva fatto cambiare così d’improvviso. Michele alzò la testa, come s’avesse recuperato il fiato. La guardò con espressione distrutta, ferita, che rese cereo il suo viso, sempre luminoso e affascinante. La ragazza rimase colpita dallo sguardo che le fu rivolto. Come ricevere uno schiaffo in pieno viso. Nei suoi occhi, ora lucidi, l’oro ambrato che ci brillava sempre dentro era sparito.
“non posso stare con te, Persie… non così…” Persephone deglutì a fatica, la gola stretta non lasciava passare aria. Si lasciò cadere sulla panchina sotto la finestra, lo sguardo perso sul pavimento, quasi non fosse lì, quasi riuscisse a guardarci attraverso, osservando sua nonna camminare su e giù per il soggiorno.
“non puoi…” la voce della ragazza parve riflettere sulle parole che stava articolando. “piuttosto di che non vuoi…” Le corde vocali tremavano, vibrando dentro la sua gola, trasmettendo quell’incertezza alla sua voce.
Come riacquistando tutta la sua forza e aggressività, il ragazzo picchiettò il pugno sulla parete, rispondendole con il tono di voce più freddo che riuscì a trovare.
“hai ragione. Non voglio.” Eppure, Michele rimaneva lì, appoggiato alla parete.
“allora… dimmi, che ci fai ancora qui?” il ragazzo parve sconcertato da quella domanda, ma la voce di Persie rimaneva ferma “dico sul serio… se non lo vuoi, allora vattene. Esci da quella dannata finestra e tornatene a saltare sui tetti!”
Michele deglutì con un espressione amara in volto, per poi saltare dalla finestra, rimanendo in piedi sul tetto. Persephone lo guardò mentre la osservava da sopra una spalla e il vento gli scompigliava i capelli, nel modo che aveva sempre adorato vederli sistemati sul suo viso. Poi riabbassò lo sguardo sul pavimento, sentendo i suoi passi leggeri farsi strada sulle tegole rosse, mentre la notte inghiottiva la sagoma snella di Michele nella nebbiolina.  

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Capitolo 8
*** Gli spartiti di Jonathan ***


Dopo un po’, Persie aveva riaperto il libro al segno del giorno prima, ma stava ferma a pagina 280 da almeno mezz’ora. Seppure i libri erano per lei la più grande fonte di distrazione in qualunque momento, ora le parole dell’autore non riuscivano a trascinarla nel suo mondo, a darle l’impressione di essere scaraventata in un universo parallelo nel quale avesse sempre vissuto... di certo non con quel rumore in testa e tantomeno con le lacrime che le bruciavano in fondo agli occhi, offuscandole la vista. Ogni volta che leggeva una frase e arrivava al punto, doveva costringersi a tornare indietro, senza aver afferrato il significato di una sola parola del periodo. Dopo qualche minuto, aveva appoggiato la testa alla parete, guardando dalla finestra. Il libro ancora aperto sulle gambe, una mano a sorreggere la rilegatura, l’altra a fermare le pagine mosse dal vento che entrava dai vetri spalancati.
Stufa di litigare con la carta e il vento, chiuse il libro di scatto, alzandosi per riporlo sulla mensola della libreria. Mentre s’avvicinava allo scaffale in mogano, notò che qualcosa non era al solito posto in camera sua, o che -addirittura- non fosse mai appartenuto né a lei, né alla sua stanza. Guardando la scrivania a lato, infilò il libro al posto giusto, lasciando che il dorso sporgesse un po’, a promemoria. Sul tavolo liscio, era posata una cartelletta trasparente, che rimandava i riflessi argentei dell’abatjour accesa. Quasi accarezzandola, scostò l’elastico della chiusura con un movimento delicato delle dita e ci guardò dentro. Un biglietto, ripiegato mille volte, torreggiava una decina di pagine di spartiti, con le familiari note in nero che danzavano sui pentagrammi. Prese il foglietto a due dita, cominciando ad aprirlo. Quando l’ebbe stirato per bene, in modo che non si piegasse da solo mentre leggeva, fece scorrere gli occhi sulle righe del foglio di quaderno.
< Non so cosa vorrai fare della musica che ti ho lasciato, ma… non ho dimenticato quello che mi hai detto oggi.
A domani, suppongo. J.C.
P.S. ok, si. Forse la fiducia è una cosa assurda da chiedere a te... J.>>
 
Gli angoli della bocca di Persie si alzarono leggermente, dipingendole sul viso un sorriso sbilenco, mentre le dita si muovevano meccanicamente a ripiegare il foglietto. Poi prese la cartelletta tra le mani e sgusciò nella stanza accanto.
Il pianoforte a mezza coda di Helen occupava gran parte dello scenario, accompagnato dalla poltrona di velluto verde inglese poggiata accanto alla finestra. Helen ci si sedeva spesso per ascoltare la nipote suonare, infatti il velluto della seduta cominciava ad incresparsi e consumarsi. Per il resto, la stanza era vuota, con pile di spartiti sul pavimento ordinati per difficoltà e compositore. Attraversando la stanza, Persephone raggiunse il pianoforte, girando la rotellina della vecchia lampada a olio di sua nonna. Sedette, ponendo gli spartiti di fronte a sé, sollevando il copri tastiera.  “dico sul serio… se non lo vuoi, allora vattene! Esci da quella dannata finestra e tornatene a saltare sui tetti!” La voce di Persephone echeggiava ancora nelle orecchie di Michele. Il tono duro, deciso, ma chiaramente incrinato. Per quanto avesse finto di rimanere fredda e distaccata, per quanto la sua recita fosse stata convincente, Michele sapeva di aver mandato in pezzi il centro di Persie con uno dei suoi movimenti bruschi. Ma cosa? Cosa avrebbe potuto non volere? Con quella strana sensazione addosso, come di vuoto, non poteva ritornare a fissarsi in quegli occhi fulvi, nemmeno nel ricordo… non ci sarebbe riuscito. La delusione e la sofferenza che ci aveva visto erano dure da sostenere con il proprio sguardo, specialmente sapendo di essere lui stesso la causa di quel dolore. Michele non aveva pensato a questo. Non aveva pensato alla distanza e al distacco che sarebbero cresciuti tra loro, al possibile dolore -quasi fisico- che le avrebbe inferto con il suo atteggiamento. Sapeva solo che le avrebbe fatto più male stare con lui, uno che non aveva nulla da offrirle, che avrebbe potuto spezzarle il cuore con il suo dannato umorismo e il suo comportamento incoerente… ma forse aveva solo paura, quella dannata paura di non essere abbastanza, di vedersi come il distruttore di tutto ciò che amava, quella stessa paura che gli faceva tenere tutto dentro, la paura che aveva raccomandato a Persie di controllare. Uscito dalla camera di Persie, si era messo a correre sulle scivolose tegole dei tetti delle case vicine, cercando di allontanarsi da lì il più possibile. Il punto era, però, che, dopo un po’, si ritrovava di nuovo in equilibrio sul camino della casa stretta della ragazza, cercando di evitare di passarle proprio sotto il naso quando ripartiva verso la città. L’aveva vista cercare di affogare nelle pagine di uno dei suoi libri preferiti, per poi appoggiare la testa alla parete che le faceva da schienale e chiudere gli occhi. Era rimasto lì a fissare il suo viso, rilassato e teso allo stesso tempo, come dormisse in un sonno agitato, mentre una lacrima scendeva silenziosa solcandole lo zigomo. All’improvviso, Michele desiderò tendere la mano verso di lei, attraverso la finestra, sfiorarle la parte alta della guancia con il pollice e stringerla di nuovo, con la forza e l’impeto di quando l’aveva baciata. Poi si era alzata di scatto, chiudendo bruscamente il libro –lei, che li trattava quasi fossero di porcellana- ed era sparita nel corridoio dopo uno stop alla scrivania. Con in mano una cartelletta trasparente, Persie aveva afferrato la maniglia della porta per immettersi nel corridoio. Appena aveva passato il manichino, però, si era fermata. Sulle spalle dell’uomo di ferro era rimasta la giacca di Michele, ancora lucida di pioggia. “dannazione, la giacca…-l’aveva sentita dire- spero solo che non arrivi a casa zuppo…” c’era un’incredibile dolcezza nel tono della voce di Persephone, anche se i suoi occhi tradivano il dolore di poco prima. Nonostante tutto pensava ancora a lui, al fatto che non prendesse freddo. E lì, da dietro la sua finestra avrebbe voluto dirle che no, non avrebbe preso freddo, che aveva smesso di piovere e la luna splendeva alta nel cielo. Sapeva dove sarebbe andata, dopo tutto ciò che era successo. Semplicemente nel posto che aveva significato sempre per lei il sogno. Appena la porta si richiuse alle sue spalle, Michele scivolò nella stanza di soppiatto, dirigendosi verso il manichino. Sfilò la giacca dalle spalle del gentiluomo di ferro e se l’abbottonò svelto “almeno saprà che non ho preso freddo..” aveva detto e d’improvviso la porta si era aperta. Con grande sorpresa, Michele si ritrovò a fissare lo sguardo negli occhi di Helen, sorridente nella sua solita eleganza sobria. L’aveva vista poche volte, mentre usciva per una passeggiatina al fresco, o quando se ne stava seduta a ricamare nella sala della musica all’ultimo piano. L’aveva sempre trovata una donna affascinante e, pensò per l’ennesima volta, che da giovane doveva essere stata proprio bella… come sua nipote… ma la voce un po’ roca della vecchia signora lo riportò alla realtà. “giovanotto...-cominciò sussurrando- che ci fai qui?” “signora, vi prego di scusarmi- Michele ricordava, dai racconti di Persie, che Helen gradiva che ci si rivolgesse alla sua persona con il ‘voi’, come lei riteneva ci si dovesse rivolgere ad una persona più vecchia- avevo solo dimenticato la giacca..” “tu devi essere Michele…” disse con un sorrisetto compiaciuto stampato sulla bocca. “già, piacere di conoscervi.. voi dovete essere Helen, la nonna di Persephone…” disse allungando una mano verso la donna dai capelli d’argento. “piacere mio, giovanotto, deduco che mia nipote debba averti parlato molto di me…-anch’ella porse la mano al ragazzo e la strinse-ma, d’altronde, anche lei mi ha parlato a lungo di te…” La stretta dell’anziana signora, per quanto la mano sembrasse debole nella sottigliezza delle dita da pianista, era bella forte. “ma davvero? E, se posso permettermi… da cosa mi avete riconosciuto, signora?” le mani ancora strette. Helen sembrò fissarsi per un tempo molto più lungo della realtà negli occhi del ragazzo, il quale sostenne lo sguardo per quel tempo interminabile. Poi la donna slacciò la mano dalla sua, inclinando un po’ la testa di lato, sorridendo compiaciuta. “beh… è molto facile risponderti, giovanotto. Chi, oltre a te, potrebbe ritrovarsi alla giusta altezza per entrare dalla finestra di una mansarda ad una così tarda ora?-vedendo che il ragazzo chinava la testa in segno di sconfitta e rispetto per la sua vittoria, Helen rise sommessamente, mentre gli occhi di Michele tornavano su di lei, orlati d’oro intenso- e poi… il tuo coraggio è la dote che porti in tutta la sua grandezza, lo vedo. Sostenere lo sguardo di una vecchia signora come me è una prova difficile da superare… eppure… ed il tuo portamento, regale e disinvolto, ma teso come una corda di violino, rivela il fuoco che ti scorre nelle vene, giovanotto… il fuoco che solo dal coraggio divampa.” “mia cara signora… avete un talento spaventosamente incredibile per la dialettica e la poetica…” “oh, non mi lusingare… se sei qui non è certo per me. Se ho capito bene… tu sai dov’è Persie, in questo momento, altrimenti non saresti mai entrato…” Michele abbassò lo sguardo, facendosi scuro in volto. “si, signora… lo so… e mi piacerebbe molto ascoltarla cantare mentre suona…” “allora va… la strada credo che tu la conosca… e… di certo vorrai che ti lasci ai tuoi pensieri” “ai miei pensieri, dice?” “si. Li ho visti passarti negli occhi prima…” vedendo l’espressione incredula e stupita del ragazzo, Helen sorrise dolcemente. “sai, giovanotto… quando si vive per tanti anni… certe cose le si vedono e basta… le senti sotto i polpastrelli delle dita, tutto qui… ed io, modestie a parte, non sbaglio mai” dopo un altro sorriso, stavolta più serio, Helen uscì dalla stanza, come non ci fosse mai entrata, lasciando Michele… ai suoi pensieri.

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Capitolo 9
*** Giocando con le stelle e parlando alla Luna ***


Jonathan era steso sul suo letto e guardava il soffitto. Non riusciva a pensare di chiudere gli occhi e addormentarsi. Se le palpebre gli oscuravano la vista, si ritrovava ad osservare gli occhi fulvi di Persie, le sue gambe sottili, ma un po’ troppo muscolose per una ragazza, a risentire il suo profumo, come sul tetto, quando le si era avvicinata con una spallata. Era una cosa strana, pensò, sapeva del vento dell’estate, caldo, dolce e carico. Era come se il saltare sui tetti l’avesse impregnata dell’odore dell’aria che le scompigliava i capelli… mentre ritornava con la mente e con i sensi al pomeriggio appena trascorso, sentì un fruscio provenire dalla finestra. Scattò in piedi, andando ad affacciarsi al terrazzo di camera sua. All’inizio non vide nessuno, ma quando fece per voltarsi, un tonfo sordo lo sorprese alle spalle. Persie era appena atterrata sul suo terrazzo. Gli spartiti che uscivano dalla tasca posteriore dei pantaloni, i capelli arruffati e una delle sue felpe gigantesche addosso. Il volto, chiaro alla luce della luna, rivelava delle linee d’argento correrle lungo gli zigomi e le guance. Aveva pianto, gli occhi lucidi tradivano l’espressione calma che gli rivolse. Il vento della corsa e dei salti doveva aver asciugato le lacrime, cristallizzandone il sale sulla sua pelle liscia, rosea per l’aria fredda della sera. “ehi..” accennò Persephone con un sorriso sghembo. Jonathan aveva continuato a guardarla, incapace di distogliere lo sguarda da quegli occhi. Si fissava nelle iridi screziate d’oro e d’ambra e poi nelle pupille, strette quasi come quelle dei gatti per la poca luce. Erano occhi pieni delle cose del mondo, pieni di lei, dei suoi ricordi, riflettenti come specchi il suo viso. Uno sguardo intenso, che si fece curioso quando strinse gli occhi, riducendoli ad una fessura indagatrice. “ciao..” il ragazzo parve più impacciato di quel che si sentiva, con la bocca mezzo aperta e gli occhi spalancati davanti a lei. “accidenti… credevo che non parlassi più…” disse indicando con un dito a mezz’aria l’interno della stanza. Jonathan si scostò, recependo il messaggio e lasciò che gli stivali di Persie scricchiolassero sulle assi del parquet di camera sua. Dopo due passi di quel rumore sfrigolante, la ragazza s’immobilizzò, abbassandosi per slacciare le fibbie degli anfibi e levarli. Poi si voltò verso Jonathan, ancora in piedi sulla soglia della porta finestra. “facevano un gran fracasso… temevo di svegliare qualcuno.. scusa l’informalità del gesto..” disse ammiccando. “oh… no… non preoccuparti…” percependo una certa insicurezza nella voce del ragazzo e notando lo stupore che ancora aleggiava nei suoi occhi, Persie parlò: “stupito di vedermi? Sai, non è stato difficile trovarti… se non ci fossero tutte quelle nuove stradine a dividere le nostre case, con un salto sarei da te…” mentre parlava, aveva tirato fuori il bigliettino ripiegato un migliaio di volte, sventolandolo tra due dita. “e così hai trovato gli spartiti… tua nonna mi aveva assicurato che sarebbero stati in camera tua e che te ne saresti accorta prima o poi…” Jonathan parlava con un sorriso soddisfatto, ricordando la stretta delle esili mani di Helen sulle sue. “bene, hai conosciuto nonna… ora dovrò darti fiducia per forza. Se ha avuto addirittura voglia di presentarsi, il suo giudizio su di te deve essere positivo… e io- lo sguardo scherzoso di chi aveva vagato per un po’ nella notte giocando con le stelle e parlando alla luna, si tramutò in uno sguardo fermo e deciso- mi fido molto del giudizio di mia nonna. Riesce a capire sempre tutto in anticipo…” Jonathan rimase interdetto. Nonostante tutto quello che era successo il pomeriggio, ora voleva fidarsi di lui? Era tutta una cosa un po’ confusa. “si ma.. io vorrei che ti fidassi di me per TUO giudizio –per quanto può valere quello di tua nonna- a me interessa cosa pensi tu, Persie…” “ehi, che confidenza! Solo da un giorno ti conosco…-i suoi occhi si fermarono sulle spalle del ragazzo, per poi ritornare ai suoi occhi, limpidi di verde smeraldo- ma una cosa la so. Sei in gamba. Intendiamoci, scendere da quel tetto senza spaccarsi l’osso del collo è dura… specialmente per un principiante… ma tu… -scosse la testa leggermente- sei stato coraggioso.” “beh… non potevo certo rimanere lassù a vita…” “e poi mi hai seguito oggi. A dirti la verità non mi aspettavo che lo facessi… pensavo che non ti sarebbe importato nulla…” “perché non avrebbe dovuto? Andiamo…Dopo tutto sei un soggetto interessante…” “già… comunque… sono solo venuta per darti questi..” mentre parlava, Persie estrasse due quadratini colorati dal borsello legato alla cintura e li porse a Jonathan tendendo un braccio. “che cosa sono?” chiese prendendone uno dalle mani di Persie. “pass…” “pass?” Jonathan sembrava non capire ancora. “si, pass… ah dai, non fare domande, capirai appena me ne sarò andata, ne sono certa. Se ti fidi, fatti trovare all’indirizzo che ho riportato…” e così dicendo, la ragazza si era infilata di nuovo le scarpe, sgattaiolando fuori dalla finestra. “ah! E, per la cronaca… mi fido di te”

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