Brave- Il destino di un Angelo

di Scarlett_Brooks_39
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A pair of new wings ***
Capitolo 2: *** Rette parallele ***
Capitolo 3: *** Origini ***



Capitolo 1
*** A pair of new wings ***


Brave - Il destino di un Angelo.



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Capitolo 1
A pair of new wings.


Dolore.
Fu la prima cosa che Rebecca provò, ancora assopita nel suo letto. Provò a girarsi, ma una fitta paragonabile ad una pugnalata la colpì nella schiena.
"Ahi..."
Non aveva mai sentito un dolore simile, tanto profondo e struggente. Si diceva di non farla tanto lunga, che tra un po' le sarebbe passato, ma non le passava.
Allora provò ad alzarsi dal letto e, piano piano, pugnalata dopo l'altra, si mise in piedi. Ci fu un attimo di sollievo, ma poi cadde a terra straziata dal solito dolore.
Più il tempo passava, più soffriva: era una cosa inimmaginabile, forse era solo un incubo, forse si sarebbe svegliata.
Lo sperava davvero.
Fortunatamente oggi era domenica, non doveva andare a scuola.
'Potrò starmene tutto il giorno a letto', pensò. Ma poi si ricordò della festa di Madison, la sua migliore amica e di quanto ci tenesse. Aveva programmato tutto fino al minimo dettaglio ed aspettava il giorno dei suoi diciassette anni come non mai. Non poteva deluderla e poi Rebecca non era il tipo: il suo altruismo verso le persone che amava era tale da farla alzare dal letto in quelle condizioni.
Stando sdraiata, immobile, aveva trovato un po' di sollievo ma appena si era mossa, una fitta l'aveva ammonita.
Il cellulare sopra il suo letto vibrò.
Rebecca riuscì a prenderlo, cercando di non muoversi più di troppo ma pur sempre soffocando un gemito.
Sbloccò lo schermo del cellulare e lesse il messaggio di Madison, la festeggiata.
<< Cosa ti metterai oggi? Obbligatoriamente un VESTITO. >>
Arrivò all'armadio e sfogliò tutti quelli che aveva. Rosa, beige, verde chiaro... Oh, era stanca di tutti questi colori tenui! Voleva rosso, blu, nero, ma sapeva che sua madre non avrebbe mai acconsentito. Era una donna educata, gentile, che vestiva sempre elegante. Per questo voleva che sua figlia fosse esattamente come lei.
La ragazza era sempre stata il tipo di persona troppo timida per ribattere alle pretese di sua madre, o a quelle di Madison, o a quelle di chiunque altro, ma le andava bene così perché non le importava. Per lei era importante il giudizio degli altri.
'Troppo rosa'. 'Troppo sciatto.' 'A mamma non piacerebbe.' Non ce n'era nessuno che la colpisse. Alla fine optò per un vestito color pesca scuro, con la scollatura a cuore, senza spalline, che le arrivava al ginocchio ed era intrecciato sul petto.
"Questo può andare."
Prese il cellulare, una borsa e per le scarpe scelse delle ballerine che le avrebbero distrutto i piedi fin troppo piccoli.
'Pazienza, stanno bene col vestito.'
Salutò sua madre e si avviò verso casa di Madison.

"Eccoti qua! Sei splendida Beck!"
"Grazie, Madison!"
"Reb!"
"Ei, ragazze!"
Com'era felice di vederle: Anna, Rose ed Eve, le sue migliori amiche. Si erano conosciute al liceo ed ora che erano al terzo anno la loro amicizia era una delle poche cose in cui Rebecca credeva. Esatto, non credeva nell'amore. O meglio, credeva nell'amore che ammirava leggendo i suoi unici, meravigliosi e travolgenti libri, ma non credeva che esistesse nella realtà. Per i suoi genitori era stato amore al primo sguardo, ma lei non era convinta. Non le era mai successo e pensava di non trovare mai il suo principe azzurro. Si sarebbe accontentata di un semplice ragazzo, se proprio non avesse trovato di meglio.
"Adam non vede l'ora di rivederti!"
"Adam? Aspetta... che? Non puoi aver invitato Adam Jordan!"
"Andiamo, è un amico di Tim, non potevo non invitarlo."
"Madison, è il mio ex ragazzo e non siamo rimasti in ottimi rapporti, ricordi?"
"È ancora innamorato di te."
"Ma io.. io non sono innamorata di lui! Altrimenti perché l'avrei lasciato?"
"Su, dai, è il mio compleanno. Sopportalo per un pomeriggio e prometto che non lo rivedrai più. Ci stai?"
"Va bene! Ma se ci prova ho il pieno diritto di mollargli un destro, okay?"
"Okay!"
La relazione tra Adam e Rebecca risaliva ad un anno fa, erano stati insieme per tre mesi. Adam era gentile, educato, dolce... fin troppo! Era il tipico ragazzo da presentare alla famiglia, quello che sarebbe andato al college e diventato una persona importante. Quello che un giorno sarebbe tornato a casa da una bella moglie che avrebbe appena sfornato una crostata dal forno, baciando sulla testa i bambini che giocavano sul tappeto.
E Rebecca non voleva tutto questo. Nel profondo del suo cuore, lei voleva un amore così intenso da divorarle l'anima. Voleva passione, voleva avventura e anche un pizzico di paura. Tutto ciò che non era Adam, per questo l'aveva lasciato. Sua madre in fondo l'aveva capita ma sua sorella maggiore, Kate, ne era rimasta delusa perché era un ragazzo 'da sposare'.
Kate era fidanzata con Jason e vivevano insieme dall'altra parte della città. Ergo, non si vedevano spesso. Tra loro c'era un bel rapporto, incrinato tuttavia dall'età di entrambe e da un pizzico di gelosia da parte di Rebecca. Anche se non voleva ammetterlo, in fondo era felice che la gente guardasse esclusivamente lei, ma poi scacciava questo pensiero facendo emergere la se' altruista e comprensiva, quella che tutti adoravano.
Madison la trascinò verso il tavolo delle bibite, dove di spalle c'era Adam. Rebecca roteò gli occhi, sbuffando, ma poi si disse di farla finita. Era pur sempre un amico, no?
"Adam! Guarda chi ti ho portato."
Il ragazzo si girò ed i suoi occhi brillarono. Per lui non era mai finita la loro storia, si vedeva dallo sguardo perso ed intenso con cui guardava Rebecca.
"Ehi."
Sussurrò lui, timido e con voce balbettante. Si schiarì la gola, offrendo a Rebecca un bicchiere di aranciata. Lei odiava l'aranciata, ma la prese lo stesso.
Madison si era già volatilizzata e Rebecca si sentì avvampare.
Si portò una ciocca corvina ed ondulata dietro l'orecchio, imbarazzata. Non si era nemmeno accorta che il dolore alla schiena si era via via alleviato.
"Ti va se andiamo a fare una passeggiata?"
'No, non ne ho voglia. Voglio conoscere qualcuno molto più brillante, bello e meno impacciato di te. Quindi scusami, ma devo proprio andare.'
Ecco cosa voleva rispondergli.
"Ehm, ma certo."
Ecco cosa gli rispose.
'Idiota!'- si disse- 'sei solo un'idiota senza coraggio!'
Distolse lo sguardo dal sentiero e lo soffermò sul giardino di Madison. Era bellissimo. I suoi genitori ci passavano tempo e denaro, per tenerlo così bene. Lei, Rebecca, Rose ed Eve erano coloro che possono chiamarsi le 'popolari' della scuola, coloro che ogni ragazzo avrebbe voluto avere accanto e che tutte le ragazze volevano essere. Come biasimarle? Erano belle, avevano curve nei punti giusti, erano simpatiche, gentili... brillanti. No, mi correggo. Solo Rebecca ed Eve lo erano. Alle altre non interessava studiare, non come a loro. Passavano i loro pomeriggi tra riviste e shopping e Rebecca si chiedeva come la loro vita potesse essere così misera. Il più delle volte era lei a passare loro i compiti, scaltra nel non farsi notare dai professori. In fin dei conti era lei che la maggior parte delle ragazze avrebbe voluto essere, perché aveva sempre il sorriso sulle labbra e non diceva mai di no. A lei andava bene così, ma avrebbe desiderato molto di più.
"Rebecca, mi stai ascoltando?"
La ragazza distolse lo sguardo dalle rose porpora davanti a lei e lo posò frettolosa sul volto di Adam, nei suoi occhi marroni.
"Mh?"
"Stavo dicendo che per me la nostra storia non è finita e mi piacerebbe se ricominciassimo ad uscire insieme. Ti va?"
In quel momento, dietro la spalla di Adam che si era posto di fronte a lei, scorse un ragazzo vestito con un gubbino di pelle nero. Come le sarebbe piaciuto averne uno! I suoi misteriosi occhi verdi si posarono su di lei in modo intenso, per alcuni secondi. Poi il dolore alla schiena ricominciò, forte, persistente, straziante, tanto che Rebecca dovette strizzare gli occhi per non urlare. Sentiva come se le sua ossa protestassero per voler uscire fuori dal suo corpo. Si portò una mano alla bocca ed inspirò profondamente.
"Beck, tutto bene?"
Adam la fissava con occhi preoccupati: non capiva cosa le stesse succedendo.
"Adam, devo andare."
Dopodiché la ragazza corse via, lasciando in mano al ragazzo il bicchiere d'aranciata ancora pieno.
"Certo Beck, ci vediamo dopo."
Sussurrò Adam in tono sconfitto e rassegnato. Sapeva che ormai non ci fosse più niente da fare, ma si aggrappava al fatto di poterle piacere ancora, perché ne avevano passate 'tante' insieme e, secondo lui, un amore così non poteva finire, perché era unico. Peccato che non fosse così per entrambi.
Si passò una mano tra i capelli rossicci e gettò l'aranciata nel cesto della spazzatura.
"Beh, com'è andata amico?"
Gli sussurrò Tim, l'amico d'infanzia, nonché fidanzato di Madison. Vedendo la faccia di Adam si limitò a dire: "Non è andata... beh, se non lei, sarà un'altra!"
Adam sorrise appena, anche se avrebbe voluto dargli un pugno in faccia. Lui sapeva quanto tenesse a Rebecca, perciò non poteva parlare così di lei, come se fosse una fra tante. Perché lei non era una fra tante. Poi ci ripensò, e glielo diede davvero. Dopodiché prese un altro bicchiere d'aranciata, sua bevanda preferita, e tornò alla festa, a parlottare con altri amici.

Rebecca entrò nel bagno dei Jenkins, in preda al panico. Stava iniziando ad avere problemi respiratori e non riusciva più a sopportare quel dolore. Cosa le stava succedendo? Stava per morire? Il pensiero le sfiorò la mente ed iniziò a tremare di paura.
"Calma, Rebekah."
Rebekah? Chi è Rebekah? E soprattutto, di chi è questa voce? Impaurita, la ragazza si voltò e si trovò di fronte una donna alta, dai capelli rossi e gli occhi celesti. Vestiva di bianco ed azzurrino e sembrava essere illuminata da una strana luce che splendeva solo su di lei. O che proveniva da lei.
"Chi sei? Che cosa vuoi?"
"Voglio aiutarti."
Il suo tono era pacato e quieto, per questo Rebecca si fidò.
"Respira, controlla i tuoi sensi e non fare assolutamente niente contro il tuo dolore. Non avere paura, lascia che agisca."
Il dolore aumentò, ma stavolta era sopportabile. Fissò il suo riflesso nello specchio e notò che due nuove ossa, simili ad arti, le stavano spuntando in mezzo alle scapole.
Rebecca rimase traumatizzata da quella visione ed iniziò ad ansimare, non capendo che cosa le stesse succedendo, ancora. Il dolore ricominciò, più straziante di prima.
"Calma, altrimenti farà ancora più male. Lascia che le tue ali crescano, Rebekah, andrà tutto bene."
Ali? Ma quali ali? Era un incubo, lo sapeva. Non potevano spuntarle delle ali! Ed ora era sicura che quella davanti a lei fosse una pazza ma sapeva anche che se rimaneva calma il dolore diminuiva, perciò doveva per forza fare come lei diceva. Lo fece. Le nuove ossa iniziarono a crescere e ad inarcarsi. Poi spuntarono tante piume morbide, grandi, bellissime, sfumate d'arcobaleno. Ora Rebecca non era più spaventata, era meravigliata ed incredula.
"Prova a muoverle."
Sussurrò la donna e Rebecca si voltò verso di lei con occhi sgranati, ma le diede retta.
Un vento fresco le pizzicò il viso quando mosse le sue nuove, splendide ali su e giù. Si voltò sorridente verso la donna, che le restituì il sorriso.
"Ora che ho la tua attenzione, mi chiamo Sheila. Sono un' Arcangelo, un messaggero e sono stata incaricata di portarti in Paradiso."
"Aspetta, vuoi dire che sono... morta?"
"Oh, no tesoro! Non sei morta, sei speciale. Seguimi, dopo ti sarà tutto più chiaro."
Paradiso? Speciale? Cosa voleva dire? E chi era quel ragazzo col gubbino di pelle nera? Perché l'aveva guardata in quel modo? Rebecca non sapeva cosa stesse facendo, ma diede retta a Sheila, ancora una volta.


L'Arcangelo minore Sheila tirò fuori dalla tasca una sfera celeste e disse col suo solito tono pacato:
" Dammi la mano."
Rebecca ubbidì silenziosa, non riuscendo ancora a capire cosa stesse succedendo. Sheila chiuse gli occhi e la ragazza stette per farlo, se non fosse stata così meravigliata dalla luce abbagliante proveniente dalla sfera. Le pizzicava gli occhi, così lì chiuse ed un attimo dopo una ventata d'aria fresca le sfiorò il volto. Lasciò la mano di Sheila e si guardò intorno: c'erano distese e distese di nuvole bianche e solo Rebecca sapeva quanto aveva desiderato da sempre tuffarsi su una di loro, toccarla, sentire che gusto aveva! Colline, pianure, case... c'era di tutto, come non se lo sarebbe mai immaginato. Si voltò ancora e vide, in mezzo alle nuvole, molto lontano dal punto in cui si trovavano lei e Sheila, una montagna sulla quale era stato scolpito un magnifico castello, o meglio, una fortezza. Dovevano forse proteggersi da qualcuno? E da chi? Tutte domande senza risposta alle quali sarebbe venuta a capo, sicuramente. Ora che era... un angelo? O, insomma, ora che aveva un paio di ali doveva essere per forza sovrannaturale, perciò voleva saperne di più.
"Vieni, Rebekah, ci stanno aspettando."
"Sheila, perché mi chiami Rebekah?"
"Perché è il tuo vero nome. Ma non spetta a me raccontarti la storia, tra poco saprai."
Rebecca, o Rebekah, si ammutolì pensierosa, riflettendo sul suo nuovo nome. 'Rebekah'... non era poi così male. Ci avrebbe potuto fare l'abitudine, in fondo.
Arrivarono al palazzo che prima aveva visto in lontananza e Sheila la condusse in una grande stanza, dove si ritrovò davanti tante persone dai visi sconosciuti ma bonari, tranne forse un paio.
"Bentornata Sheila, hai adempito correttamente al tuo compito."
"Vi ringrazio, Metatron."
Metatron... si, Rebecca sapeva chi era, lo aveva letto in uno dei suoi libri e l'aveva studiato nell'ora di arte. Si ricordava di un dipinto... un dipinto che le era rimasto impresso, per questo era andata a ricercare la sua storia su Wikipedia. Ecco! Ma certo, Metraton era il capo dei Serafini, gli angeli più importanti.
Ora aveva tutto chiaro: c'erano nove troni, su ognuno dei quali sedeva un angelo. Man mano che si andava in alto gli angeli diventavano sempre di più, come una struttura ad imbuto. La prima schiera era composta dai Serafini, al cui centro sedeva Metatron, poi i Cherubini, capeggiati dall'arcangelo Raziel; i Troni, il cui capo era l' Arcangelo Tsaphkiel o Binael, le Dominazioni, guidate da Tsadkiel, le Virtù da Mikhael, le Podestà da Kamael.
Veniva poi il terzo Ordine, o Sfera, costituito da Principati, guidati da Haniel, Arcangeli, i cui capi erano Gabriel, Michael e Raphael e anche... non riusciva a ricordarseli, eppure li conosceva, li aveva concreti nella mente, ma le lettere dei loro nomi erano sparse, confuse e non c'era verso di farle tornare a posto.
"Anaele, Azaziele, Ezechiele ed Uriele."
Concluse una voce al posto suo. Esatto, proprio loro. Alzò la testa di scatto, vedendo che la voce proveniva da Metatron, che la fissava dall'alto con occhi pieni d'ammirazione. Le aveva forse letto nel pensiero? Come aveva fatto? Cos'altro poteva aver letto?
"Vedo che ancora oggi voi umani studiate la nostra storia. Questo mi rallegra. Abbiamo fatto bene a svelare i nostri nomi e la struttura del nostro mondo ai profeti."
"Profeti?"
Chiese incuriosita Rebekah, cercando di cogliere ogni particolare della figura di Metatron: non sapeva dire se fosse alto o basso, poiché era seduto; aveva una faccia ovale, le guance glabre ed i capelli castani, folti, lisci. Si soffermò sui suoi occhi verdi, così chiari, miti, che sembravano essere bonari e quieti ma che secondo Rebekah nascondevano qualcosa di losco, lo percepiva dall'espressione che aveva. Scacciò quel pensiero, osservando le sue vesti: una tunica bianca fissata al petto da una corazza di metallo argenteo e dorato, con ghirigori sulle clavicole e gli addominali scolpiti nella zona del ventre. Ognuno aveva come un'aureola che brillava sopra la testa, ma essa era impercettibile, si notava solo una leggera fascia di luce circolare, che sfumava verso l'esterno. Ma la cosa che la colpì di più furono le ali: erano gigantesche! Non ne aveva mai viste di così grandi, soprattutto quando le spiegò leggermente. Quando erano chiuse arrivavano fin sopra la sua testa. Da aperte trasmettevano una sensazione di morbido. Ogni piuma era grande come un astuccio. Anche Rebekah avrebbe tanto voluto averne un paio così, la avrebbero fatta sentire... potente.
"Si. Geremia, Isaia, Ezechiele... come credi che abbiano potuto scrivere, senza sapere la verità? Ma dunque, passiamo a te, mia cara Rebekah."
"Perché mi chiamate in questo modo?"
"Molto tempo fa l'Essere Supremo decise che alcuni Angeli dovessero abitare sulla Terra per proteggere gli umani dai Demoni, dopo che il Signore del Male aveva minacciato la pace del mondo. Dopo il compimento dei sedici anni, il Gene Angelico si manifesta nel Prescelto e gli fa spuntare un paio d'ali, come è successo a te.
Tua nonna era un Angelo Terrestre, è stata lei a trasmetterti il gene. Il Gene Angelico si trasmette ogni due generazioni, a tua madre, perciò, non è capitato. Quando nascesti tua nonna ti portò da noi, con il desiderio anche da parte di tua madre di darti un nome importante. Lei credeva davvero in te, come tutt'ora. Per questo ti chiamammo Rebekah. Il tuo nome significa 'legame', 'connessione'. Tu riallaccerai l'equilibrio di un tempo, sconfiggendo i Demoni per sempre, creando un legame tra il Vecchio ed il Nuovo mondo. Tua madre decise di chiamarti Rebecca per non dare troppo 'nell'occhio', come dite voi umani. Passando alla tua missione, dovrai aiutare tutti noi e proteggere le persone che ami dal male. Recentemente è tornato a minacciare questo mondo e si pensa che Lucifero sia riuscito a liberarsi e viva nella mente di un umano. Ciò che dovrai fare sarà scoprirlo e combatterlo."
"Ma come potrò fare tutto, da sola?"
"Non sarai sola. Per facilitare la tua impresa abbiamo deciso di affiancarti Tristan, un Cherubino, affinché possiate insieme sconfiggere il Male."
Si alzò in piedi un ragazzo della sua età, biondo e dagli occhi azzurri. A dire il vero, quasi tutti avevano quelle caratteristiche, per questo Rebekah non si era accorta di lui. Era alto ed anche discretamente muscoloso. Le sorrise debolmente e lei ricambiò.
"Tornerete sulla Terra insieme, per mezzo di questa Sfera del Trasporto. Ricordate qual è la vostra missione ed il vostro compito e salvate il mondo."
Dopodiché Metatron li congedò con un cenno del capo e sorrise speranzoso verso i due, simbolo di pace e liberazione. Era sicuro che insieme ce l'avrebbero fatta.
Rebekah e Tristan unirono le mani. La ragazza non poté non sussultare a quel contatto, senza certamente farsi vedere. Il ragazzo aveva ali più grandi delle sue e lei le trovò bellissime. La luce di prima invase pian piano lo spazio che c'era fra loro. Tristan fissava negli occhi Rebekah, senza distogliere lo sguardo e lei si domandò perché lo facesse così intensamente. Le piaceva flirtare con i ragazzi, ma con lui era diverso. Con gli altri non aveva quella sensazione di disagio come ce l'aveva con lui, non arrossiva né si mostrava insicura. Ma con lui era davvero diverso e questo Rebekah lo sapeva. Notò i suoi zigomi e la sua mascella pronunciata, simile a quella del suo attore preferito; il profilo del suo naso, diritto e classico, definito; il labbro superiore era semplicemente... da prendere a morsi, pensò Rebekah e quello inferiore non era da meno. I suoi capelli erano lisci e ricadevano morbidi sulla fronte. Gli occhi parevano due lapislazzuli lucidati per il più importante Gala di sempre. Rebekah pensò che avrebbe apprezzato di netto la compagnia e l'aiuto di Tristan.
In seguito, quando la luce diventò insopportabile ai loro occhi, entrambi li chiusero e pochi secondi dopo si ritrovarono nel bagno di casa Jenkins, sdraiati per terra.



Angolo autrice: Salve gente! Spero che questo nuovo capitolo abbia risposto ad alcune vostre domande e che vi abbia incuriosito... nascerà un amore tra Tristan e Rebekah, o rimarrano solo buoni amici? Come verrà giustificata la presenza del Cherubino? Cosa dirà Adam? Ma soprattutto, chi era il ragazzo col giubbino di pelle alla festa di Madison? Non vi resta altro che leggere e se il capitolo vi è piaciuto oppure no, fatemelo sapere lasciando una recensione, se vi va ovviamente ;) A presto!
Scarlett.


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Capitolo 2
*** Rette parallele ***


Capitolo 2
Rette parallele.




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Rebekah aprì gli occhi e si ritrovò sdraiata sulle piastrelle fredde del bagno della casa di Madison. Si mise a sedere, portandosi una mano tra i capelli corvini e mossi. Aveva ancora le ali, abbastanza grandi da essere notate dalle persone normali. Si ricordò di Sheila, di Metatron, del Paradiso e... di Tristan. Ecco chi era quel ragazzo accasciato sul pavimento alla sua destra. Era vestito con una corazza simile a quella di Metatron, ma i ghirigori erano esclusivamente argento e celestino. Non poteva uscire in quelle condizioni in mezzo ai suoi amici, ne avrebbero parlato tutti come qualcosa di losco e non teneva a diventare lo zimbello della scuola.
'Usciremo dalla porta sul retro', pensò Rebekah,'Si, appena questo coso si sveglia...'.
"Questo coso si chiama Tristan."
Ma lo aveva solo pensato! Ora era chiaro che gli Angeli potessero leggere nel pensiero. Poteva farlo anche lei?
"Non è molto carino frugare nella mente degli altri, Tristan."
Rise appena, scoprendo due fossette sconosciute fino a quel momento.
"Mi dispiace Rebekah, da ora in poi mi conterrò. Non ci siamo ancora presentati, almeno, non ufficialmente, quindi... sono Tristan."
Allungò la mano per stringerla alla ragazza e lei lo guardò interdetta.
"Oh, non è così che si fa? Sono desolato, pensavo che voi umani..."
"No, no, è proprio così che si fa ma mi chiedevo come potessi saperlo, visto che non sei... di qui."
"Oh, beh, questa non è la mia prima missione sulla Terra. Ho passato un po' di tempo qua, imparando qualcosa."
"Oh, bene. Ma... come faremo ad uscire da qui? Con queste... ali gigantesche e quegli abiti?"
Disse lei, alludendo alla sua corazza.
"Per le ali non c'è problema."
Respirò a fondo e le ali si ritirarono, piano piano, come se fossero una qualche specie di corazza simile a quelle di Iron Man, fino a scomparire totalmente sotto la pelle.
"Come... come hai fatto?"
"Ho respirato. Le tue ali non sono completamente tue, sono come un animale da compagnia. Più amore dimostri, più loro ti danno retta. Devi essere tu a dirgli cosa fare, usando gentilezza ed autocontrollo. Prova."
"Va bene."
Rebekah respirò a fondo, pensando 'Su Fuffi, tornatene a cuccia e va' a mordere l'osso.'
Non successe niente.
"Non succederà mai niente, se le prendi in giro."
"Avevi detto che non l'avresti più fatto."
"No, avevo detto che mi sarei moderato. Avanti, di' solo per favore, so che ti riesce bene."
Lei lo guardò di sottecchi, poi chiuse gli occhi nuovamente ed inspirò.  
'Per favore, sparite.'
E le ali, piano piano, iniziarono a scomparire, proprio come era successo a Tristan.
"Ottimo! Per i vestiti... non so davvero cosa fare."
"Vediamo... c'è l'uscita sul retro, potremmo usare quella per arrivare a casa mia, là troverò qualche vestito di mio padre. Ma come faremo a giustificare la tua presenza?"
"Tua madre conosce la verità, con un po' di fortuna mi accoglierà nella vostra casa. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato."
Lei annuì, ma rimase scettica sul fatto di sua madre. Non la credeva capace di poter accogliere un estraneo così, da un momento all'altro.
Poi indicò una porta di legno che dava sul giardino posteriore, rimanendo ancora pensierosa.
Si avviarono con cautela, Rebekah per prima. C'era un piccolo sentiero nel bosco che conduceva direttamente a casa sua. Cosa avrebbe detto a sua madre? Beh, ci avrebbe pensato quando sarebbe stato il momento.
Rebekah fece segno a Tristan di continuare, l'avrebbe raggiunto subito dopo aver chiamato Madison, fingendo un finto malessere. Ma proprio quando stava per farlo, qualcuno l'afferrò per un braccio. Si voltò. Era Adam.
"Beck, ma che ti è successo? Stai bene?"
"Ehm, Adam! Sono felice di vederti"- la ragazza faceva tutto il possibile per coprire Tristan, nascosto dietro un cespuglio. Se Adam l'avesse visto, il piano d'emergenza di Rebekah sarebbe andato in fumo e allora si che sarebbe stata nei guai - "A dire il vero non mi sento affatto bene, devo proprio andare a casa. Potresti intanto dire a Madison che mi dispiace davvero per essere stata così poco alla sua festa? E anche che dopo la chiamerò e le spiegherò tutto, sul serio. Ma ora... devo proprio andarmene. Sento che sto per svenire."
"Non ti lascio andare via così, non in queste condizioni. Ti accompagno io a casa."
Diamine, no! E ora? Cosa poteva fare?
"No, Adam, mia madre è proprio qui all'angolo... non c'è bisogno, davvero."
"Si invece. Ti accompagnerò fino alla macchina di tua madre, finché non sarai al sicuro."
Una parola per descriverlo? Straziante. E Testardo.
"Davvero, Adam..."
"Insisto."
"Ho detto di no, andrò a casa da sola."
Quelle parole le uscirono fluide e leggere dalla bocca in un solo respiro. Aveva avvertito qualcosa di strano, come uno sconosciuto potere che la faceva sentire forte, grande.
"Certamente."
Come, nessun battibecco? Le sembrava troppo, troppo strano.
"Ci vediamo a scuola."
"Ciao, Beck."
Lui se ne andò e la lasciò sola. Tristan sbucò dal cespuglio, battendo le mani.
"Neanche dieci minuti ed hai già sperimentato il tuo Potere."
"Potere?"
"Si, quello di poter dare ordini alle persone. È un Potere da Angeli Terrestri, per evitare complicazioni. Quando hai mosso la bocca gli occhi di Adam sono stati ipnotizzati ed il Potere ha fatto effetto. Di solito un Angelo Terrestre ci mette in media una settimana prima di sperimentarlo. Ben fatto, Beck."
"Grazie, ma dobbiamo proprio andare. Ah, e non chiamarmi più in quel modo, chiaro? Odio quando mi chiamano così."
Tristan rise e Rebekah provò qualcosa di indecifrabile.

"Mamma!"
Rebekah gridò quelle parole in un tono simile all'agitazione e misto all'ansia, ma anche all'eccitazione e alla curiosità. Chissà che faccia avrebbe avuto sua madre davanti a ciò che stava per mostrarle. O meglio, davanti a chi.
"Rebecca non c'è bisogno di urlare."
Lei scese le scale leggermente a chiocciola che portavano alle stanze superiori.
Quasi le venne un colpo davanti a Tristan. Rebekah non capiva se era a causa dell'arrivo di Tristan a sconvolgere la sua normale vita, o al fatto che sua figlia avesse portato un ragazzo a casa.
La sua espressione rimaneva indescrivibile, non si capiva se fosse sorpresa o terrorizzata o felice, tuttavia rimaneva a bocca aperta, a fissare Tristan.
"Mamma, lui è..."
"I suoi capelli sono troppo biondi ed i suoi occhi troppo azzurri per essere un normale umano. Sei un Angelo, vero?"
Perspicace, pensò Rebekah.
"Mi chiamo Tristan, sono un Cherubino e sono venuto qui per aiutare l'Angelo Terreno a sconfiggere i demoni."
"Oh, certo, mi sembra... giusto. Mia madre aveva detto che questo giorno sarebbe arrivato. Rebecca, porta Tristan nella camera degli ospiti, io intanto vado a prendere il Cordiale."
"Non mi chiamo più Rebecca. Da oggi in poi sono Rebekah, mamma."
Era sorpresa dal suo nuovo tono fermo e pacato, entrambe lo erano, ma con quelle ali... con il fatto di essere il nuovo Angelo Terreno pronto a salvare il mondo, non sapeva come, ma si sentiva più forte, come se il suo periodo di soggiogamento fosse finito e fosse finalmente riuscita a rompere la bolla che la teneva lontana dal mondo, dal mondo che lei voleva.
Sua madre non disse niente, si voltò in direzione della cucina, dove avrebbe preso la sua dose di Cordiale, quella extra, che prendeva in situazioni troppo difficili per pensarci su troppo sobria.
"Questa è la tua stanza."
Disse Rebekah con aria dispersiva, come persa nel vuoto.
Entrò appena, indicando il letto.
"Il tuo letto, la tua scrivania, il tuo armadio, la tua finestra... Insomma, la tua stanza. La mia camera è questa qui accanto, perciò se hai bisogno d'aiuto, non esitare."
"Certo. Grazie mille Rebekah. Beh, ci si... becca? È così che si dice?"
Lei soffocò una risatina divertita, poi gli rispose.
"Si, è così che si dice."
Pensò che sarebbe stato bello insegnare a Tristan tante cose del suo mondo, passare con lui tanto tempo, senza tralasciare la caccia ai demoni, certo.
Lui le sorrise timido e lei ricambiò.
Si fissarono per un lungo instante, in cui i loro sguardi si fusero. Tristan pensava che gli occhi di Rebekah fossero grandi ed espressivi e nascondessero una forza nascosta, una forza che pian piano sarebbe riaffiorata.
Rebekah pensava che quegli occhi fossero fatti di lapislazzuli fusi, così misteriosi, così magnetici.
Quasi all'unisono i due piegarono la testa e Rebekah scomparve.
Riapparve un attimo dopo, poggiandosi allo stipite della porta e dicendo:"Scusa, ehm, mi ero dimenticata che la cena è alle otto."
"Oh... d'accordo. Grazie."
Gli sorrise di nuovo e sparì, dandosi una botta in testa e rimproverandosi di aver fatto la figura della stupida. Non le succedeva spesso, non con i ragazzi almeno, ma stavolta, come aveva già pensato in precedenza, con Tristan era diverso.

"Questa è una situazione delicata."
Disse la madre di Rebekah, ancora piuttosto sobria dopo due dosi di Cordiale, magari perché il cibo ne aveva assorbito un po'.
Teneva le mani all'altezza del viso e gesticolava mentre parlava.
"Ma ne usciremo fuori a testa alta. Tristan inizierà la scuola da domani, mi sono già messa d'accordo con la Preside. Diremo a tutti che sei un lontano cugino, venuto qui per imparare l'Inglese.
"Ma in realtà cosa sei venuto a fare? Perché devo aver perso qualche passaggio.."
Sussurrò il padre di Rebekah, incuriosito.
"Si pensa che Lucifero si sia liberato e viva nella mente di un umano."
"Si, ma come fare a sapere quale umano?"
"Perché cercherà di avvicinarsi a Rebekah, o per lo meno di ucciderla. Inoltre abbiamo i nostri vantaggi, alcuni attrezzi di ultima generazione."
"Oh, certo."
Il sangue di Rebekah si gelò alle parole 'o per lo meno ucciderla'. Questo non le era stato detto ed il solo pensiero la spaventava, ma soprattutto la spaventava il tono di leggerezza con cui Tristan l'aveva detto. Forse a lui non importava di lei, forse era inutile stargli dietro. Non ci avrebbe perso più tempo, aveva deciso.
L'impulsività era uno dei suoi difetti, o magari pregi, in alcuni casi.
"Aspetta, non avevano detto che sarei potuta morire!"
"Infatti non morirai, ma è una possibilità."
Disse ancora lui, mantenendo il tono di leggerezza che tanto la infastidiva ed ingoiando un ciuffo verde.
"Mhh, saporita. Com'è che si chiama?"
"Insalata. Voi Cherubini siete tutti vegetariani?"
"Si, non possiamo mangiare carne, per rispetto."
"Certo, naturale."
"Se ci fosse stata la nonna, adesso avrei potuto chiederle consiglio... Ei, Tristan, ma non esiste un modo per mettersi in contatto... Si, insomma..."
"No, non esiste, anche perché tua nonna è ancora viva."
"Come?"
La nonna di Rebekah era morta cinque anni fa, quando aveva undici anni. Non ricordava molte cose di quel periodo, solo tanti buchi di memoria. Uno di questi era il volto di sua madre quando le diceva che la nonna era volata in cielo. Come poteva...
"Avremmo voluto dirtelo, ma..."
I suoi genitori continuavano a guardarsi, come quando la madre scovava Rebekah da piccola a giocare col fango. Con le mani nel sacco.
"Ma??"
"Si, tua nonna è ancora viva. Ma l'abbiamo fatto per il tuo bene! Eri piccola, non potevi capire! Adesso è rinchiusa in un manicomio, perché delira su angeli e demoni, e nessuno le crede."
"Avresti dovuto lasciare a me la scelta di decidere, o quantomeno dirmelo prima!"
"Lo sappiamo, abbiamo sbagliato, ma..."
"Ma niente!"
"Rebecca, non rispondere così a tuo padre!"
"Perché dovrei portarvi rispetto, quando voi non ne avete portato a me?"
Lei si alzò da tavola, sbattendo il tovagliolo sul tavolo.
"E comunque il mio nome è Rebekah e presto andrò a trovare la nonna."
Lasciò il tavolo e si diresse verso camera sua, sbattendo la porta e scavalcando il balcone, andando a sedere sul tetto.
Le piaceva stare lassù, ma quando decideva di farlo doveva chiudere a chiave la porta o aspettare che sua madre si fosse addormentata, perché lei non avrebbe mai acconsentito.
Guardava un punto fisso nel vuoto, tenendo la mandibola serrata, rimanendo in silenzio. Una sottile membrana lucida le offuscava la vista, ma non voleva piangere, non voleva comportarsi da stupida, anche se non ne aveva tutti i torti. Si sentiva presa in giro, umiliata. Come potevano non averglielo detto prima...
"A volte fa bene piangere."
Era una voce vellutata, ma profonda: la voce di Tristan.
Si voltò verso la finestra e lo vide affacciato alla finestra. Lo guardò senza dire niente.
"Mi faresti un po' di spazio?"
Rebekah annuì e Tristan si mise a sedere accanto a lei, scavalcando la finestra con un gesto molto abile. A lei servivano almeno due minuti per accertarsi di essere al sicuro sulle tegole del tetto.
"Sai qual è la cosa che mi da' più fastidio?"
Cominciò lei, non distogliendo lo sguardo dal punto nel vuoto.
"Ho sempre fatto quello che mi diceva lei, anche se non mi andava bene. Solo poche volte mi sono ribellata, ma sapevo che non era giusto, perché lei lavorava e aveva da fare e non potevo assillarla anche con i miei problemi. Tante volte mi ha fatto sentire una persona pessima, cattiva. E lo penso ancora. Ma avermi nascosto che mia nonna era ancora viva... mi ha tolto la possibilità di scegliere ed è questo che mi fa più male, perché non si fida di me, non si è mai fidata. E io ora... sento qualcosa all'interno del mio cuore, qualcosa che si diffonde e arriva al cervello e penso che sia l'odio. Ma io non voglio odiarla, non voglio, è mia madre, ma è più forte di me! Per non parlare di mio padre: lui sapeva tutto, fin dall'inizio e l'ha sempre assecondata, sempre. Mi sento così... tradita."
"L'odio e la vendetta non sono la soluzione."
"Lo so, credimi, ci sto provando, ma... è più forte di me."
"Dobbiamo andarcene da qui."
Si tolse la maglietta, rivelando un corpo perfetto, un torace asciutto e muscoloso e Rebekah lo guardò sconcertata.
"Scusa, ma che fai?"
Pochi secondi dopo gli spuntarono le ali, le sue bellissime e grandi ali bianche, con sfumature grigie e azzurrine.
"Dai, chiedi loro di venir fuori."
"D'accordo, ma voltati."
Tristan si voltò con un sorrisetto e Rebekah si tolse la maglietta per lasciar crescere le sue ali.
'Per favore, venite fuori.'
Ed anche le sue spuntarono, leggermente più piccole, bianchissime e con piume affusolate e snelle.
Si rimise la canottiera alla meglio, sperando che Tristan non avesse visto niente.
"E adesso?"
"E adesso voliamo."
Lui saltò in aria e con un salto si staccò dal tetto, lasciando Rebekah a metà fra l'impotenza e la frustrazione.
"No, no, fermo! E io come faccio? Non ho mai volato prima!"
"C'è sempre una prima volta, dai, salta!"
Lei lo guardò interdetta, poi però si disse che doveva provare. Chiuse gli occhi e iniziò il conto alla rovescia.
Tre... due... uno!
Saltò in aria, senza aprire gli occhi. Sentiva l'aria fredda della sera che l'avvolgeva, e sentiva il senso di vertigine aumentare dentro di se', come quando da piccola suo padre la spingeva sull'altalena e rimaneva a mezz'aria, col fiato sospeso. Trasalì a quel ricordo. Aprì gli occhi e vide che stava precipitando per terra. D'istinto aprì le braccia, come per volersi fermare, ma le sue braccia rimasero ferme, impotenti, mentre le ali iniziarono a muoversi sempre più velocemente, con movimenti ampi, e la riportarono in alto.
È come andare in bicicletta, pensò Rebekah.
"Molto bene, ora seguimi, se ci riesci!"
Tristan iniziò a volare, sempre più in alto e lei lo seguì. Sentiva l'aria invaderle i sensi, spingerla indietro, quando lei voleva solo andare avanti. Sentiva che Rebecca non c' era più, era scomparsa. Ora si sentiva una persona diversa, di nome Rebekah. Un Angelo Terreno, che non obbedisce a nessun altro se non a se stessa e alle necessità che le si presentano davanti. Non sarà più soggiogata dagli altri, sarà una persona nuova, che sconfiggerà i Demoni e ritroverà sua nonna. Sarà più forte, meno altruista e non si farà mettere i piedi in testa più da nessuno, sua madre per prima.

"Buona giornata!"
Esclamò sua madre, prima che loro uscissero di casa, sbattendo la porta. Era il primo giorno di scuola, anche per Rebekah. Indossava un paio di jeans attillati, una maglietta rossa semplice ed un paio di stivali. Si era truccata più del solito ed aveva usato la matita nera sotto l'occhio. Era andata contro sua madre che non appena l'aveva vista aveva esclamato:"Rebecca, il rosso è un colore volgare!"
"Anche bere come una spugna lo è, perciò non sei proprio nella posizione di poter fare critiche. Ah e il mio nome non è Rebecca, ma Rebekah. Cerca di ricordartelo."
Aveva preso una fetta biscottata al volo e l'aveva spalmata di marmellata al mirtillo, dopodiché aveva fatto un sorriso a sua madre che la osservava sbalordita, aveva preso lo zaino e si era avviata verso la porta, insieme a Tristan.
Lui riusciva ad essere attraente anche indossando solo una maglietta a maniche corte nera, un paio di jeans larghi ed un paio di stivaletti bassi.
Avrebbe fatto di sicuro conquiste al primo giorno di scuola.

"Questa è la nostra scuola."
Aveva detto Rebekah prima di entrare.
Lei si sentiva come una veterana nei confronti di Tristan, pronta a consigliargli a chi rivolgersi e a chi no, le varie categorie di studenti, i suoi amici e nemici.
Entrarono nel corridoio e salirono le scale, per poi arrivare agli armadietti.
Il suo era il numero 123, quello di Tristan il 122.
Cercò di non badarci tanto, in fondo era pur sempre un amico. Erano quasi arrivati, quando una ragazza dai capelli biondi colpì Rebekah sulla spalla.
"Ops, scusami!"
Recitò con aria poco socievole e con voce irritante, di un'ottava sopra al normale.
Rebekah non ci fece caso, sospirò, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.
'È solo un'idiota, non merita la mia attenzione', pensò lei.
"Chi era quella ragazza? Sembrava che ti conoscesse, data l'occhiata di fuoco che ti ha scoccato."
"Lei era la mia migliore amica, due anni fa."
"Oh... e ora non lo è più?"
"No. Ci siamo accorte di non aver più le stesse priorità, perciò io ho iniziato a risponderle sempre meno, lei è un'attrice nata e va matta per il vittimismo, perciò vuole far credere a tutti di essere migliore di me. Ha sempre voluto esserlo, sin da piccole. Ma lei non piace alla gente: è distaccata, fredda, poco socievole e soprattutto non sa farsi degli amici. Credimi, sto molto meglio ora."
"Non ci credo molto, si vede che le vuoi ancora bene."
"Sì, forse in fondo le voglio anche un po' di bene, ma credimi, non se lo merita. Ha fatto cose che non potrò perdonarle facilmente."
"Tipo?"
"Beh... non mi ha detto certe cose di estrema importanza, cose da donne, che non so spiegarti, ma ha tradito la mia fiducia dimostrando di non averne in me, perciò il nostro rapporto si è incrinato sempre più, fino a rompersi del tutto."
"Tu vorresti che si ricreasse?'
"Sinceramente? No, affatto. Ho nuove amiche, non ho bisogno di lei."
"Mmm, certo."
"Oh, eccoci. 123, 122."
Il suo era il numero 123, quello di Tristan il 122.
Quelli di Madison, Eve, Rose e Anna erano poco più in là. Fra poco sarebbe andata a presentar loro Tristan.
"Ciao, Beck."
Rebekah si voltò e si trovò di lato Adam. I capelli castani erano tirati all'indietro da un getto di gel. I suoi occhi marroni scavavano a fondo nella sua anima, non trovando ciò che volevano davvero scoprire.
"Adam! Mi hai spaventata."
"Scusa."
Le rispondeva a monosillabi, l'espressione indecifrabile, seria, fissa nei suoi occhi.
"Piacere, sono Tristan."
Tristan prese in pugno la situazione, porgendo la mano ad Adam.
"Ciao. E tu sei?"
"Il cugino di Rebekah."
"Rebecca, vorrai dire."
"No, Adam. Il mio vero nome è Rebekah, l'ho scoperto ieri a dire la verità, è il mio nome di battesimo."
"E posso continuare a chiamarti Beck?"
"Ma si, naturale."
Cosa ci faceva ancora qui?, pensò Rebekah, in imbarazzo. Tristan pensò che Adam era davvero un povero umano innamorato e senza speranze. Gli faceva anche un po' pena, così fragile, sciocco e sempliciotto. Una strana sensazione s'insinuò tra i suoi pensieri: gelosia. Ma no, non era possibile, i Cherubini non hanno sentimenti, se non il senso della giustizia, del perdono e della misericordia.
Cos'era, dunque? Tristan non lo sapeva, in tutti i casi era molto, molto forte.
"Scusa, dovrei prendere i libri."
"Questo è il tuo armadietto?"
"Si, beh, così pare."
Non era ben chiaro a Rebekah come questo potesse essere possibile, ma sapeva di sicuro che c'era lo zampino di Madison.
Cercò di non badarci tanto, in fondo era pur sempre un amico. No?
"Noi andiamo, ciao Adam."
"Come, di già? Pensavo che avremmo fatto la strada insieme..."
"Devo andare dalle ragazze... magari ci vediamo a pranzo, eh?"
Si voltò e Tristan fece fatica a starle dietro.
"Chi era quello?"
"Chi, Adam?"
"Si, quel povero ragazzo che ti sbava dietro. Si dice così, vero?"
"Si si dice così, comunque è solo un amico."
"Certo, come no."
"Che vuoi dire?"
"Senti, io non so niente di questo mondo, ma ho passato tanto tempo a studiarvi, da lassù, e  so riconoscere quando uno è innamorato marcio."
"Okay! È il mio ex ragazzo."
"L'hai lasciato tu, vero?"
"Si, perché mi sono accorta di non amarlo come avrei dovuto."
"Oh... brutta cosa. Brutta, brutta cosa."
"Senti, Dottor Stranamore, dobbiamo muoverci. Devo farti conoscere le mie amiche. Ah, e per curiosità, sei sicuro che i Demoni..."
"Shhhh! Non devi dirlo ad alta voce, vuoi che ci scoprano subito?!"
"Va bene, ma calmati!"
"Dove dobbiamo cercarli?"
"Da nessuna parte. Se ci sono, verranno fuori e noi saremo pronti."
"No, tu sarai pronto. Cosa dovrei fare io?"
"Tenere gli occhi aperti e usare questi."
Tristan le porse un bracciale, un anello ed una collana.
"Quindi se incontro un mostro devo solo prenderlo a collanate, certo, capito."
"Non fare la sarcastica. Queste sono armi da guerra."
"Sicuro."
"Basta premere qui."
Tristan spinse la pietra al centro dell'anello e questo si trasformò in un coltello.
"Wo! E questo?"
"Questo coltello è fatto di un materiale speciale, disintegra i Bui."
"I Bui?"
"Dobbiamo chiamarli così, siamo pur sempre sotto copertura."
"Okay, ora però andiamo.
Raggiunsero il gruppo di ragazze in mezzo al corridoio. Tristan pensò a quanto fossero strane: indossavano abiti troppo ricercati, firmati, appariscenti. Niente che dicesse chi erano veramente, come la sua corazza cherubina, che lo faceva appartenere ad una stirpe, ma dicevano solo quello che volevano apparire.
Rebekah, la nuova Rebekah, era totalmente diversa da loro. Era semplice, ma attraente. I suoi capelli castani creavano un effetto straordinario accompagnati dalla maglietta rossa e quei suoi occhi marroni così espressivi, dolci, nascondevano un'anima forte e determinata, che presto sarebbe venuta fuori. Aveva qualcosa di... unico. Forse perché era l'Angelo Terreno, forse perché emanava un'aurea che solo Tristan sapeva vedere. Ovunque andasse inondava di luce gli altri. Trista scosse la testa, smettendo di fare queste riflessioni. Non poteva innamorarsi. Innamorarsi era concesso agli umani, non agli Angeli e poi aveva delle missioni da compiere. Missioni più importanti dell'amore.
"Tristan, loro sono Madison, Eve, Rose e Anna. Lui è mio cugino Tristan. Viene dall'Europa."
"Davvero? Da che nazione?"
Tristan si rese conto che la ragazza dai capelli rossi, Anna, stava parlando con lui.
"Francia. Parigi."
"Oh, mon ami! Che piacere conoscerti!"
Esclamò un ragazzo alto, dai capelli color nocciola.
"Lui è Tim, il ragazzo di Madison."
"In persona! Allora, come te la cavi col baseball?"
"Baseball?"
"Francesino, non puoi non aver mai giocato a baseball!"
"Mi dispiace, io..."
"Non preoccuparti, non so giocare nemmeno io."
Lo appoggiò la ragazza bionda, Eve.
"Dobbiamo rimediare! Tim sta cercando nuovi giocatori per la squadra della scuola, perché non fai le selezioni?"
"Ehm... non so..."
Si voltò verso Rebekah e vide il suo sorriso d'incoraggiamento, così dolce, così sincero, e si ritrovò perso.
In qualche modo lei le infuse sicurezza, la sua aurea lo avvolse, trasmettendogli il suo appoggio.
"Certo."
Lei sorrise, felice di vedere che sapeva inserirsi bene nel suo gruppo.
Notò che quando sorrideva il suo viso si illuminava ancora di più, accennando due tenere fossette scavate nelle guance.
"Bene! Ti aspetto domani alle tre al campo d'atletica, qua davanti."
"D'accordo."
Intanto Adam li osservava da dietro le spalle di Rose, e si chiedeva come mai oggi la sua Beck fosse così radiosa. Aveva paura di non esser lui la ragione dei suoi sorrisi. L'avrebbe tanto voluto.
Tristan e Rebekah sorrisero e poco a poco il gruppo si smembrò, poiché era suonata la campanella e tutti si avviavano verso le proprie lezioni.
"Cos'hai alla prima ora?"
"Scrittura creativa. Tu?"
"Anch'io."
"Anch'io. Mi aspettereste?"
Di nuovo Adam. Sembrava che godesse a mettere i bastoni tra le ruote a Rebekah, pensò lei. Ma lui in realtà aveva solo paura di perderla. Troppa paura.
I due lo attesero e lui si infilò in mezzo a loro, come per dispetto.
'Adam...'- pensò Rebekah, irritata - 'Se continui così sei sulla via del non ritorno'.

L'ora passò abbastanza in fretta. Rebekah adorava scrittura creativa, Tristan meno, era più portato per matematica. Sembrava che i due si completassero a vicenda.
Appena usciti nei corridoi il loro gruppo si riformò e tutti si riunirono intorno a Tristan e Rebekah, come calamite, Adam per primo. Non li aveva persi di vista un attimo. Non si beveva affatto la storia del cugino francese, sapeva che c'era dell'altro. L'aveva visto dai loro sguardi.
Rebekah guardò Tristan e la sua espressione cambiò. Lei intuì subito che c'era qualcosa che non quadrava.
Lui le fece segno con la testa di guardare a sinistra e lei lo fece. Vide un ragazzo alto, con un gubbino di pelle nera e gli occhi verdi. Lo stesso che aveva visto alla festa di Madison.
Le si fermò il cuore. Poi ripartì, più veloce che mai.
Lei annuì, poi con una scusa liquidò i suoi amici e si avviò con Tristan per il corridoio. Adam li vide e decise di seguirli, se non fosse stato per Eve, che lo trascinò via per la maglietta.
Erano nell'aula di scienze, il signor Regger, il loro professore, stava preparando i fogli per la prossima lezione.
"Ragazzi, entrate pure."
"Ci scusi signor Regger, non volevamo disturbarla... stavamo cercando una persona."
Una folata di vento chiuse la porta alle loro spalle, facendoli sussultare. Rebekah sentiva che erano in pericolo, pur avendo di fronte il professore più gentile e buono che avesse mai conosciuto.
"Capisco... chi stavate cercando?"
"Un ragazzo... un mio amico."
Disse Tristan, pacato.
"Lei per caso l'ha visto?"
L'uomo dai capelli brizzolati e ricci stava mischiando due provette insieme. Cosa voleva fare? Rebekah riconobbe il bicarbonato e capì che erano davvero in pericolo.
"Potrei averlo visto. Oppure potrei aver visto di meglio."
In quel momento lanciò la provetta contro di loro, che la evitarono per un soffio. Cadde per terra, non lontano dai piedi di Tristan. Il pavimento bagnato dallo strano miscuglio stava iniziando a puzzare, e a fumare.
Intanto la porta cercava di essere aperta da qualcuno al di fuori, probabilmente Adam, pensò Rebekah.
Quando entrambi voltarono lo sguardo, il signor Regger si era trasformato in un mostro.
Si era accasciato per terra, urlando, mentre il suo corpo diventava sempre più grande, più robusto, e i piedi diventavano zampe con unghie affilate ed il viso si trasformava in una smorfia orrenda. Alzò la testa, scoprendo due occhi gialli carichi d'odio. I due angeli si guardarono, in preda al panico e poi Tristan annuì, come a voler dire 'Ce la faremo, andrà tutto bene'.
"Dammi quello che cerco, Rebekah."
La ragazza rimase scioccata, c'era qualcosa che non le avevano detto. Qualcosa di molto, molto importante, che in tanti volevano e che lei, apparentemente, aveva. Ma lei non sapeva cosa.
"Io non ho niente."
"Allora sarò costretto ad ucciderti."
Detto questo, il demone si slanciò in avanti, cercando di atterrare su di lei.
Non poteva tirar fuori le ali, l'avrebbero ostacolata e basta.
Lo schivò, pensando a cosa fare. Intanto Tristan cercava di attirarlo dalla sua parte, ma era impossibile, il demone voleva uccidere lei, non lui.
Tirò fuori il coltello/ anello e lo mostrò, davanti al corpo. Il demone si mise a ridere e con una manata la fece atterrare in un angolo della stanza, facendole sbattere la testa nello spigolo di un banco. La sua vista si stava via via offuscando, Tristan cercava di fermarlo, ma il demone avanzava imperterrito verso lei, ansimando con le sue narici grandi e sporche.
La prese per il collo, e lei vide con orrore il colore dei suoi occhi malefici e demoniaci.
Poi successe qualcosa di inaspettato, che Rebekah non aveva programmato: d'impulso lei liberò una mano dalla stretta del mostro e cercò di portarla davanti a se', poi lo guardò dritto negli occhi e sentì una strana sensazione, come se il potere di cento angeli fosse dentro lei.
L'espressione del mostro cambiò, diventò sofferente. La lasciò cadere e lei fece cenno a Tristan di agire. Lui non se lo fece ripetere due volte: saltò in groppa al demone e lo colpì in testa, al cervello. Il mostrò si smaterializzò, riassumendo le sembianze del professor Regger. Era accasciato a terra, privo di sensi.
Rebekah cadde a terra, esausta. Ciò che era appena successo era troppo strano e troppo orribile per lei. Le faceva male la testa. Non avrebbe mai voluto far del male a qualcuno, ma per restare viva doveva pur farlo. Da ora in poi sarebbe stata questa la sua vita ed il solo pensiero la spaventò.
Tristan fu subito al suo fianco, la sorresse, la confortò.
"Ei, è andato tutto bene."
"Lo so, lo so. Adesso mi riprendo. Dobbiamo chiamare un'ambulanza per il signor Regger."
"Si, ma come stai?"
"Dobbiamo pensare a lui, non a me. Io starò bene."
Tristan si stupì del suo altruismo. Era una delle tante cose che lo aveva colpito di lei.
 
Chiamarono l'ambulanza e tornarono a casa. Scese la sera e Rebekah tornò sul tetto, a guardare nel vuoto. Tristan sapeva di poterla trovare lì, ma la sua porta era chiusa a chiave, non voleva vedere nessuno.
Allora lui la raggiunse dall'altra finestra, e le si sedette accanto.
"Tristan..."
"Non dire niente."
"Voglio stare da sola."
"Anch'io. Possiamo stare da soli insieme. Prometto che non fiaterò."
Per un po' ci fu silenzio tra i due, poi Rebekah sbottò, non riusciva a frenare il vomito di parole che le veniva su dalla gola.
"Perché lo fai?"
"Che cosa?"
"Perché mi aiuti? Tu sei un Cherubino, avresti potuto startene benissimo lassù, in Paradiso, dove nessuno avrebbe mai potuto disturbarti. E anche se ti hanno affidato una missione, potresti evitare di farmi da analista! Non ho bisogno di te, non ho bisogno di nessuno, voglio solo essere lasciata in pace e mi riprenderò, da sola."
Lui non disse niente e lei provò ancora di più il desiderio di dargli uno schiaffo in quel viso perfetto.
Si alzò, dicendo in tono piatto, senza emozioni: "Basta, me ne vado, non riesco a sopportarti."
Ma alzandosi, lei scivolò, finendo quasi per terra. Tristan la prese al volo, e i due rimasero in quella posizione, lei nella braccia di lui, per alcuni minuti. In quei minuti si guardarono dritti negli occhi. A entrambi batteva forte il cuore, anche se a Tristan non era permesso.
"Io sento un forte desiderio di proteggerti, ecco perché lo faccio. Non posso smettere di vederti sorridere."
Quelle parole, cariche d'emozione, di sentimento, spiazzarono Rebekah. Era proprio questo quello che cercava, quello che Adam non aveva? Era giusto quello che stavano facendo? Non lo sapeva, ma non riusciva a staccare gli occhi da quei lapislazzuli che la guardavano, ricchi di un sentimento indefinito.
Si sarebbe lasciata andare, glielo imponeva la nuova Rebekah. Sì, si sarebbe avvicinata ancora, rompendo quel poco spazio che li divideva, e l'avrebbe baciato.
Stava per farlo, era decisa, quando lui girò la testa e la magia svanì.
Rebekah era sorpresa, mai nessuno l'aveva rifiutata, e ora lui sì. Perché? Se aveva detto che voleva proteggerla, che non poteva smettere di vederla sorridere, c'era qualcosa di più forte dell'amicizia, oppure no? Decise di lasciar perdere, di andare a dormire, di smettere di assillare la sua povera testa già carica di domande senza riposta.
Tristan aveva letto nella sua mente, non aveva resistito. Sapeva che lei voleva baciarlo, e anche lui voleva toccare quelle labbra morbide e vellutate, ma sapeva che non poteva. Era un Cherubino e lei un Angelo Terreno, e queste categorie erano due rette parallele, non s'incontravano mai. Alla fine sarebbe tornato in Paradiso, mentre lei sarebbe dovuta rimanere sulla Terra. Tristan non poteva provare sentimenti umani, eppure quelli cos'erano? Il suo cuore batteva e lui non capiva dove aveva sbagliato. Il suo cuore non doveva battere così, a nessuno dei suoi compagni era mai capitato, perché a lui si? Che aveva fatto di sbagliato? E per quanto la sua brama di baciare Rebekah fosse grande, immensa, infinita, si convinse che quello che stava per fare non avrebbe portato a nulla di buono. Per questo voltò la testa, dandosi tuttavia del codardo. Quella era un'occasione perfetta, perché l'aveva sprecata? Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo, ma sapeva che non era possibile.
"Dovremmo andare a dormire."
Disse Rebekah, guardandolo negli occhi e cercando di capire cosa stesse pensando.
La sua espressione sembrava pensierosa, carica di rimorso. A lei sembrò indecifrabile.
"Si, dovremmo."
Lei annuì con un mezzo sorriso e si voltò per rientrare in camera sua.
Tristan non sapeva bene cosa fare, l'avrebbe lasciata andare, o no?
Poi si buttò: la prese per mano, attirandola a se' e lei quasi inciampò in una tegola, finendo addosso a lui. Approfittando del momento lui la baciò con impeto, come Rebekah aveva tanto desiderato, sin da piccola. Aveva sempre sognato un bacio così.
Era questo che mancava ad Adam, era questo ciò che voleva lei. Ora che l'aveva trovato, non se lo sarebbe lasciato scappare.
Si baciarono a lungo, ininterrottamente, tranne brevi pause per riprendere fiato.
Rimasero così, con le fronti poggiate l'una sull'altra, a guardarsi negli occhi ed a ridere. Non gli importava cosa fosse giusto o sbagliato, anche se Tristan non poteva provare sentimenti umani, li stava provando lo stesso e questo lo spaventava. Ma con Rebekah al suo fianco, sentiva anche di poter affrontare qualsiasi cosa.


 

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Capitolo 3
*** Origini ***


Capitolo 3
Origini.


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Era il loro secondo giorno di scuola e Tristan e Rebekah stavano percorrendo la strada per arrivarci.
Le cose tra loro dalla notte precedente stavano andando sempre meglio. Avevano passato tanto tempo a guardare le stelle e la mattina, appena usciti dalle loro camere, Tristan l'aveva abbracciata, baciandola dolcemente.
"Bonjour, mon cherie."
Le aveva sussurrato lui, in un francese perfetto. Lei era arrossita e si era messa a ridere.
Stavano camminando mano nella mano, stando attenti agli sguardi della gente: erano pur sempre cugini. Falsi, ma cugini.
Ogni tanto, quando non c'erano molte persone intorno a loro, Tristan la trascinava verso un muro e la baciava. Era pazzo, aveva bramato talmente tanto quel sentimento, l'amore, che adesso non riusciva più a fermarsi.
"Basta, adesso siamo vicini a scuola! Se ci vede qualcuno..."
"...Gli diremo che siamo una famiglia strana e che a Parigi si fa così."
Aveva suggerito lui, dandole piccoli baci sul collo.
"Tristan, dai!"
Aveva scherzato Rebekah, spingendolo via da se'.
"Va bene, va bene."
"Continueremo stasera."
Le aveva sussurrato lei nell'orecchio, con aria maliziosa, e subito dopo era scappata dalle sue amiche, lasciandolo sempre più colpito. Lei era così... travolgente, bella, brillante... Tristan non riusciva a resisterle, anche se sapeva che avrebbe dovuto.

Il pomeriggio Tristan si presentò alle selezioni per la squadra di baseball, come gli aveva detto Tim, l'amico di Adam. C'era anche lui, che non smetteva di guardare Rebekah, seduta sugli spalti insieme alle sue amiche.
Sembrava così radiosa quel giorno... più degli altri e Adam era sempre più preoccupato.

Rebekah guardava solo Tristan e pensava a quanto gli stesse bene quella divisa da baseball della scuola. Lui le sorrideva e nessuno sembrava accorgersi dei loro sguardi così eloquenti.
Le sue amiche parlavano tanto di lui.
"Cavolo Beck, com'è bello! Ha un viso stupendo!"
Madison, la meno aggraziata di tutte, esclamò:" Ragazze, se non fossi già fidanzata..."
"Maddi, é pur sempre mio cugino!"
"E quindi? Vuoi tenertelo stretto stretto senza condividere? Che egoista!"
Rebekah aveva appallottolato la sua giacca e gliel'aveva tirata addosso, tra le risate delle altre. Proprio in quel momento si era voltata ed aveva notato che anche Adam la stava guardando col suo solito sguardo perso. Era così distratto che non si spostò di un centimetro per evitare la palla che l'allenatore Evans gli aveva appena tirato, esclamando:
"Jordan, sei tra noi?! Sveglia!"
Gli altri si erano messi a ridere, tranne Tristan, che gli aveva dato una pacca sulla spalla.
"Tutto bene? Lascialo perdere, adesso gli facciamo vedere noi."
Adam si era sentito confortato, senza notare l'occhiata eloquente che Rebekah aveva lanciato a Tristan e alla quale lui aveva risposto con un sorriso sghembo.
Eve però se n'era accorta, ed aveva capito tutto.
"Ommioddio!"- Aveva sussurrato tutto d'un fiato - "Non dirmi che..."
Rebekah si sentì avvampare, ringraziandola per non aver alzato troppo la voce.
"Sh!"
"Non lo dirò a nessuno, ma ti sei presa una cotta per lui?!"
Fu l'espressione a parlare per lei. Eve capì al volo e l'abbracciò. Un po' le stava iniziando a piacere Tristan, ma non avrebbe mai messo i bastoni fra le ruote alla sua migliore amica. 
Si raccontarono tutto, per filo e per segno e Rebekah rivide se stessa due anni prima, immaginando di avere davanti Rachel, la sua ex migliore amica.
Proprio in quel momento Rachel passò davanti a loro a testa alta, con la sua nuova 'corte', come la chiamavano le amiche di Rebekah. Era come se volesse sempre essere migliore di lei, in tutto. Ora stava cercando di imitarla, creandosi una certa popolarità con i ragazzi e mettendosi sempre in mostra. Rebekah non era così, era semplice e non voleva competizione. Salì sugli spalti con la sua andatura pavoneggiante e superiore e si mise a sedere alla loro sinistra. Si tirò su gli occhiali da sole di Dior, prendendo un cannocchiale in mano. 
Che voleva fare?
Rebekah e le sue amiche la guardavano con un'espressione a metà fra il disgusto e la pena. Le sue nuove amiche, quattro cornacchie prese dai quartieri bassi che giocavano a fare le principesse, gracchiarono qualcosa del tipo:"Ma chi è quel ragazzo? Rachel, che me dici?" - e lei rispose, con quella sua solita aria da superiore:"Credo di averlo già conquistato. Verrò alla festa di benvenuto con lui."
Certo, come no. Lui ti sputerà in faccia, pensò Rebekah. Era gelosa, ma anche soddisfatta, visto che aveva già vinto in partenza. Tra lei e Tristan c'era un rapporto unico, che si stava via via rafforzando. Qualcosa che andava ben oltre una semplice cotta da sedicenne. Non entrava neanche in competizione con lei. 
Così soffocò una risata e Rachel la sentì. Si voltò verso di lei, abbassando gli occhiali da sole sul naso.
"Qualche problema, cara? Invidiosa?"
"Oh no, tutt'altro."
"Tuo cugino è davvero carino, chissà, magari lo terrò in considerazione, che ne dici?"
"Certo, come se lui avesse intenzione di aver a che fare con te."
La sua espressione era di fuoco, Rebekah la conosceva e sapeva dove colpire per farle male. Non le piaceva fare così, ma se lo meritava.
"Beh, staremo a vedere. Oh, guarda, è finito l'allenamento. Vado a sentire se ha voglia di acqua fresca."
Eve guardò Rebekah, pregandola di non fare quello che stava per fare, ma ormai lei era già troppo decisa e le corse dietro.
Quasi le inciampò addosso, perché Rachel si fermò di colpo a parlare con Tristan.
"Tristan! Ciao, mi chiamo Rachel. Sei stato bravissimo. Hai sete?"
"Sì, grazie..."
Gli porse una bottiglietta d'acqua, ma quando lui stava per prenderla, la svitò e se ne versò un po' sulla testa, con un'espressione maliziosa in volto.
"Scusa, fa un caldo..."
Rebekah, che osservava la scena da dietro la spalla di Rachel, soffocò un conato di vomito, incrociando le braccia ed alzando gli occhi al cielo. Decise che era arrivato il momento di fare qualcosa. La spintonò di lato facendole quasi perdere l'equilibrio.
"No, non ha sete. Dobbiamo andare, vero Tristan?"
"Beh, sì, noi dovremmo..."
"Non dovremmo, dobbiamo! Su, forza."
"Va bene! Ciao Rachel, piacere di averti conosciuto."
"Tristan, un'ultima cosa: domani c'è la festa di benvenuto, speravo di poterci andare insieme, se ti va."
Il ragazzo non sapeva che fare: da una parte c'era Rachel e dall'altra Rebekah. Non voleva ferire nessuna delle due, ma come poteva? Alla fine decise di seguire la testa e non il cuore.
"Ma certo. A domani."
Rachel sorrise soddisfatta, mentre Rebekah rimase a bocca aperta, si voltò e continuò a camminare.
Arrivati lontano dalla scuola, Tristan prese Rebekah per un braccio, supplicandola di ascoltarlo, ma lei non voleva sentire ragioni.
"L'ho fatto solo per mantenere una copertura! Se non m'inserisco bene qualcuno potrebbe iniziare a destare sospetti e devo seguire la mia missione, ciò per cui sono qui."
"Quindi ieri sera non ha significato niente per te, giusto?"
"Ma come puoi pensarlo? Sono stato sincero con te, ma devo seguire prima di tutto i miei doveri, ed il mio dovere dice di farmi una copertura, di sconfiggere i Bui e di tornare al mio posto! Non ho tempo per l'amore."
No, l'ultima frase non voleva dirla. Accidenti...
"No, aspetta..."
"Neanche io. Ho cose molto più importanti da fare, invece di occuparmi di te."
"Non hai capito..."
"Ho capito, Tristan. Ora l'unica cosa che voglio è trovare mia nonna, perciò, anche se l'idea non mi piace, devo collaborare con te. Dobbiamo avere risposte, e mia nonna le ha. Quindi muoviamoci."
Rebekah non voleva piangere, ma le ultime parole di Tristan l'avevano davvero ferita. 

"Sei sicuro che è il posto giusto?"
Rebekah e Tristan erano arrivati davanti alla casa di cura dove doveva essere ricoverata sua nonna. Non si erano parlati per tutto il viaggio. Tristan avrebbe voluto dirle tante cose, ma ogni volta che provava ad aprire bocca usciva a malapena un rantolio, che poi tornava indietro. Aveva sempre detto cosa era giusto e sbagliato, eppure ora non ci riusciva. Un Cherubino doveva sempre dire la verità, fare quello che era giusto, non innamorarsi mai. Ecco perché sospettava che stesse diventando sempre più umano che angelo. Metatron gli aveva detto una cosa prima di affidargli la missione, gli aveva detto esattamente:
< Non innamorarti mai, qualunque cosa succeda. L'amore è un sentimento che ci trasforma in deboli ed in questa guerra contro il male noi non possiamo essere deboli >.
Eppure Tristan aveva disobbedito, e questa era una cosa che non aveva mai fatto. Non era la sua prima missione, era già stato sulla Terra a studiare ed osservare gli esseri umani. 
Lui li ammirava, avrebbe dato di tutto per essere come loro. Poter amare, poter odiare, poter sbagliare. Poter stare con chi si desidera. Eppure non poteva, perché la sua missione era una, e doveva portarla al termine con successo, come era sempre stato. 
Eppure mentre guardava Rebekah, la sua espressione seria, delusa, ferita e quegli occhi così grandi e profondi fin troppo sinceri, gli veniva voglia di mandare tutto a monte, prenderla per mano e baciarla, anche se lei l'avrebbe respinto. Perché lui l'amava davvero, anche se Rebekah non ne era per niente sicura. 
"Sì."
Entrarono nell'edificio, e si trovarono davanti una sala piena di poltrone e divani, come un hotel, dove teneri vecchini e vecchine passavano il tempo, chi giocando a carte, chi passeggiando col sostegno di un deambulatore, chi leggendo.
Rebekah era ansiosa. Come sarebbe stata sua nonna? Con i capelli bianchi? Mossi? Lisci? Con gli occhi azzurri come i suoi? Col viso dolce e rugoso, di chi porta il peso degli anni e della vita sulle spalle? Era troppo piccola quando sua madre le disse che era morta, perciò non poteva ricordarsela. Tristan si accorse della sua tensione, continuava ad intrecciarsi le dita nervosamente. Le prese la mano e lei lo guardò in cerca di comprensione, di sicurezza. Non le importava di Rachel, le importava di averlo sempre vicino, perché in qualche strano modo riusciva ad infonderle un sentimento sconosciuto, che la faceva andare avanti anche quando la situazione non era facile. 
"Mi scusi, stiamo cercando Rosalie Fisher. Sa indicarci dove possiamo trovarla?"
"E voi siete?"
"Sono sua nipote."
Rispose prontamente Rebekah, che moriva dalla voglia di pronunciare quelle parole. L'infermiera le rivolse un sorriso gentile, che però secondo Rebekah nascondeva qualcosa di losco. Aveva imparato ad essere sempre diffidente nei confronti delle persone, a non fidarsi mai di nessuno. E forse questo aspetto del suo carattere era sbagliato, o forse era l'unica risorsa che aveva per salvarsi davvero la vita e l'anima. 
"Seguitemi."
L'infermiera dai capelli rossi iniziò a salire le scale ed i ragazzi la seguirono. Al piano superiore c'era una sala totalmente identica alla precedente. Entrarono nell'ascensore ed attesero, con le loro spalle che si sfioravano, con l'ansia che sempre più attanagliava lo stomaco di Rebekah. Giunti al quinto piano, l'infermiera strofinò un'apposita carta in un lettore di codici a barre ed una porta di metallo si aprì, scorrendo di lato. Perché tutta questa strada? Perché tutte queste precauzioni? Era forse una matta, pericolosa donna? E lei era stata un'imprudente, una sciocca? Sperava davvero di no. Da quanto ricordava, ovvero solo pochi frammenti di momenti sfocati, sua nonna l'aveva sempre trattata con premura e dolcezza. Era forse cambiata?
"Ecco, questa è la sua stanza."
L'infermiera aprì la porta e Rebekah deglutì. Guardò Tristan e fece cenno di sì con la testa. 
"Rosalie, ci sono visite!"
La stanza di sua nonna era gigantesca: era inondata da tantissima luce che dava sull'arancione, dato il tramonto. C'erano forse un centinaio di piante, tutte di tipi diversi. In fondo, seduta su una sedia di paglia intrecciata, appoggiata allo schienale, c'era una signora dai capelli lisci e corti, che guardava fissa davanti a se'. L'infermiera era andata via, lasciandoli soli. Tristan aveva fatto cenno alla ragazza di andare avanti. Lei non sapeva che fare, provava un po' d'imbarazzo. Cosa poteva dirle? 'Ciao, ti ricordi di me? Sono tua nipote.' Ma più lo ripeteva, più si sentiva stupida.
Si mise a sedere nella sedia vuota accanto a quella di sua nonna e sussurrò semplicemente: "Ciao, nonna."
La vecchina si voltò e la guardò. Il suo viso s'illuminò, l'aveva riconosciuta. 
"Oh, piccina mia!"
L'avvolse in un abbraccio, in cui Rebekah assaporò ogni sfumatura e variazione di profumo e sensazione. Era passato così tanto tempo dall'ultima volta in cui l'aveva vista e voleva che questo fosse il ricordo più bello che avrebbe avuto di sua nonna, per sempre."
"Pensavo di non poterti più vedere."
Tristan era rimasto in disparte e durante l'abbraccio le aveva lasciate da sole.
Si raccontarono di tutto ciò che era successo, di sua madre, del paradiso.
"È bello, vero? Ricordo perfettamente la prima volta in cui lo visitai: ne rimasi totalmente affascinata. Ma il fascino ha sempre un prezzo, ed io lo so bene. Ero solo una ragazza quando scoprii di essere un Angelo Terreno, avevo sedici anni. Affidarono anche a me un Custode, era un Cherubino, si chiamava Cedric. Inutile nascondere che me ne innamorai subito. Ma fu il mio più grande errore, perché quando tutto ebbe fine, lui tornò in Paradiso, al suo posto, ed io rimasi sulla Terra. Questo amore è impossibile, Rebekah. Ho visto come vi siete guardati, ho capito cosa c'è fra voi."
"Nonna, non preoccuparti, metterò fine a questo sentimento, ho un compito e devo rispettarlo."
"Tesoro, credi che io non ci abbia provato? È impossibile mettere da parte l'amore."
"E allora cosa posso fare? Io... io credo davvero di provare qualcosa di forte per lui."
"Non ci sono rimedi, ormai. Ma dimmi, come procede la caccia ai Bui?"
"L'altro giorno, a scuola, un Buio si è impossessato del corpo di un mio professore e mi ha detto < Dammi quello che cerco > Cosa significa? Cosa ho io che vogliono?"
"Esattamente ciò che sto per darti."
Sbottonò un bottone della sua vestaglia e tirò fuori una collana con un ciondolo al centro. Era di un colore forte, celeste cangiante, come il cielo in una bella giornata di primavera. 
Qua dentro è contenuta l'Essenza Celestiale, la cosa che i Bui bramano di più. Questa rende immune Lucifero ed i suoi seguaci alla potenza della luce del paradiso, potendo quindi abbattere i cancelli e distruggendo il Paradiso. Senza questa, il suo piano malefico non può realizzarsi."
"Ma perché dobbiamo custodirla noi?"
"Vedi, tanti secoli fa, quando vennero creati il Paradiso e l'Inferno, il bene ed il male, venne creata anche l'Essenza Celestiale. Non può essere custodita dagli esseri superiori, perché non possono sfiorarla. Essendo stata creata da un umano, che in seguito divenne Angelo, può esser custodita solo da coloro che sono sia carne che pesce. A noi Angeli Terreni è affidato il compito di custodirlo e proteggerlo, da secoli."
"Nonna, so che il Gene si trasmette ogni due generazioni,Nico significa che anche mia sorella è un Angelo? Non vale la regola del primogenito?"
"Rebekah, vedi... tua sorella Kate non è un Angelo, perché non è veramente tua sorella."
"C- come?"
"È figlia di tuo padre, non di tua madre. Per questo non ha il nostro sangue nelle vene, per questo non può essere un Angelo Terreno."
"Ma non è possibile.... lei è mia sorella! No, non può essere vero..."
Rebekah si sentiva tradita dalle persone che più amava. Era sua sorella! Non poteva essere altrimenti. Perché le sembrava che tutto il mondo le stesse lentamente crollando addosso e lei non potesse fare niente? Perché era così difficile vivere? Voleva solo svegliarsi da questo brutto sogno. Ora. All'istante. Ci provò, ma non successe niente. Era solo la sporca realtà.
"Piccola, so che sei sconvolta, ma rimane pur sempre tua sorella. Tuo padre ha sbagliato, ma tua madre l'ha perdonato perché era innamorata di lui."
"Perché mamma non me l'ha mai detto?"
"Tua madre ti vuole tanto bene, forse troppo. Vuole proteggerti, sai che è molto apprensiva."
"Nonna, ho sedici anni! Com'é possibile che ancora lei non si fidi di me? Come può avermi nascosto una simile cosa?"
"Avrebbe voluto parlartene prima, ma non ce n'è stato il tempo."
"E di te, allora? Mi ha nascosto la tua esistenza. Mi ha fatto credere che fossi morta! Ogni sera nel mio letto pregavo per te, e sapevo che mi eri vicina. Mi sei mancata così tanto... e tutto questo per cosa? Perché ti tengono rinchiusa qui? Perché voleva proteggermi, ora che so che non sei pericolosa?"
"Rebekah, ci sono tante cose che non sai..."
"E allora, ti prego, ti scongiuro, spiegami! Non ce la faccio più a non sapere..."
"Sta' tranquilla piccola mia, ti spiegherò tutto. Sono rinchiusa qui perché così i Bui non possono catturarmi. Ormai sono vecchia, indifesa, i miei poteri sono svaniti assieme alle mie ali. Sono protetta da questa luce che tiene lontani gli spiriti maligni. Non nascondo di avere paura la notte, ma so che Dio mi protegge e gli Angeli lo aiutano. È di vitale importanza che tu stia molto attenta, ora. Odio accollarti un simile pericolo, ma purtroppo non mi rimane scelta. Tua madre ha sempre voluto proteggerti, ecco perché ti ha nascosto la mia esistenza, perché non ha mai voluto metterti in pericolo. Lei tiene davvero tanto a te, anche se non lo da' a vedere. Ed anch'io. Potrai sempre contare su di me."
Dopodiché si abbracciarono, e Rebekah provò del sollievo, e l'odio che iniziava a provare per sua madre iniziò a scemare pian piano. 
"Ma mi raccomando: non fidarti mai di nessuno. Se c'è una cosa che ho imparato, è che il male si annida ovunque. Ovunque. Non mostrare a nessuno l'Essenza Celestiale. Nessuno."
"Io...ci proverò, nonna. Ma come posso, da sola, riuscire a fare così tante cose? A farle bene, senza sbagliare?"
"Vedi, piccola mia, ti sei mai chiesta cosa può fare una goccia d'acqua, dopo tanto tempo, ad una roccia? Ti aspetteresti mai che una semplice goccia riesca a scavarla? A corroderla? Tu hai un grande destino di fronte a te, non devi aver timore."
Ed anche se in un certo senso ciò che aveva detto sua nonna aveva un filo logico, Rebekah non riusciva a credere che tutto quello stesse capitando esattamente a lei.

"Allora, com'è andata?" 
La voce di Tristan era un sussurro, come se avesse paura di dire qualcosa di sbagliato. Rebekah rimaneva immobile a guardare dritto davanti a se', un punto fisso perso nell'oscurità. In quella sera di settembre la brezza autunnale le pizzicava la pelle liscia, facendola diventare d'oca. Era tornata di fretta e furia a casa, non rispondendo alle domande di Tristan, dicendogli che era un momento delicato per lei. E lo era davvero.
Non aveva scambiato parola con sua madre, né tantomeno con suo padre. Doveva assimilare il fatto di essere figlia unica. Doveva capire perché mai questa vita le riservava tante sorprese.
"Rebekah...parlami." 
Tristan le sfiorò la guancia con la punta delle dita, facendole voltare il viso affusolato verso di lui. Così poteva guardarla negli occhi, cercare di carpire qualche sentimento da una qualche sfumatura. Ma i suoi rimanevano spenti, senza quella luce che prima li faceva brillare.
"So che sei sconvolta...ma non credo che tenerti tutto dentro sia il modo migliore. Rebekah, ti prego, parlami."
La sua voce era soave, calda, come a volerle dire che lui per lei c'era sempre.
"Mi sento tanto sola...abbandonata, non riuscirò mai a sconfiggere Lucifero, o i Bui, o a proteggere...."- l'Essenza Celestiale. Voleva dirlo, ma si era ricordata delle parole della nonna, e non era totalmente sicura che Tristan potesse capirla. Non si fidava, malgrado provasse un forte sentimento nei suoi confronti. Come aveva fatto lui, decise di seguire la testa e non il cuore. E la testa le diceva di tenere la bocca chiusa. - "...i miei amici. Le persone a cui voglio bene. Non ce la farò mai, Tristan!" 
"Rebekah...non puoi dire così..."
"Oh, sì che posso! A te di me non importa niente, ho scoperto di non avere più una sorella, non so chi sia mia madre, mio padre, non so se riuscirò a fare ciò che devo, io ormai....ormai non so più niente!"
"Non è vero che di te non mi importa niente."
Lui la fissò coi suoi occhi così celesti da ricordarle le distese infinite di nuvole del Paradiso.
"Ah, no? Dimmi che ti importa allora. Dimmi che faresti di tutto per me. Dimmi che mi ami, che nonostante tutto ciò che succederà tu rimarrai con me. Se davvero a me ci tieni, dimmi che avremo una famiglia, dei bambini, che vivremo felici, insieme. Dimmi che non tornerai in Paradiso e che rimarrai sulla Terra, con me."
Tristan rimase in silenzio, con gli occhi che fissavano davanti a se', mentre Rebekah si era alzata, facendo per andarsene. 
Al suo silenzio, lei capì che non c'era più speranza per loro, che Tristan non l'amava veramente. Ed era questa la cosa che le faceva più male, perché, seppure si conoscessero da molto, molto poco, pensava il loro amore andasse oltre un normale rapporto umano, perché entrambi erano in parte Angeli, e quando essi s'innamorano, nasce un rapporto unico tra loro, che non muore mai.
"Già, come pensavo."
Rebekah stava per andarsene, rientrare in camera ed andare a letto, senza versare lacrima, contemplando ciò che rimaneva della sua vita e dei suoi ricordi, di quando ancora era 'normale'. 
"Aspetta!"
E Tristan, come aveva già fatto, la prese di scatto fra le sue braccia, baciandola, come a lei piaceva tanto. Non poteva proprio lasciarla andare. Rebekah si ricordò della morbidezza delle labbra di Tristan, proprio come quando, al loro primo bacio, avevano lasciato sulla sua bocca un segno, un sigillo, che avrebbe ricordato per sempre. Aprirono gli occhi all'unisono e si guardarono. Era tanto mancato a Tristan come gli occhi profondi della ragazza lo scrutavano quando lui la baciava di scatto, senza un perché, solo per desiderio. 
"Io ti amo, Rebekah. Ti amo e ti voglio al mio fianco. Ti proteggerò fino alla morte e ti amerò per sempre, ma...devo seguire il mio destino. Per noi non c'è speranza, l'amore, per quanto meraviglioso, ci rende deboli e noi non possiamo essere deboli. Quando avrò finito la mia missione tornerò in Paradiso, non potrò impedirlo. I miei sentimenti per te sono puri, ma devo far sì che la missione si compia. Non posso oppormi...mi spiace."
Allora perché mi aveva baciata? Si chiese Rebekah. Perché, se tanto non può stare con me, continua a farmi del male? Ma Tristan lo faceva solo perché non sapeva resistere al suo profumo, ai suoi occhi, alle sue labbra. Invece avrebbe fatto meglio a contenersi, perché così stava solo peggiorando le cose. 
"Certo, lo capisco."
In realtà però non lo capiva. Non capiva perché l'amore dovesse essere così complicato, sempre. Bastava solo che lui volesse stare con lei, un modo alla fine l'avrebbero trovato. Ma forse lui non vuole veramente stare con me, pensò ancora lei. Allora inizierò anch'io a fare come lui.
"Scusa Tristan, devo andare ora. Buonanotte."
Senza dire più niente si scostò da lui, lasciandolo deluso e con la fronte corrugata. Sapeva di aver fatto uno sbaglio, ma si ripeteva che era la cosa giusta. 

E più tardi lei rimase accasciata al muro di camera sua, con la fronte che guardava in alto e scrutava le mille e nuove sfumature del soffitto, con le mani che trattenevano le gambe al petto, preoccupandosi del domani, di cosa sarebbe successo, di come sua sorella avrebbe reagito.
Lui fece lo stesso, chiedendosi ancora se un giorno ne sarebbe valsa la pena aver perso Rebekah. 
E fu come se quel muro non ci fosse, come se le loro teste si accarezzassero, le loro labbra si toccassero, i loro cuori battessero all'unisono, le loro mani si sfiorassero, e loro si innamorassero di nuovo l'uno dell'altra. 
Sarebbe stato bello, se quel muro non fosse mai esistito. 

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