You see all my light and you love my dark

di S t r a n g e G i r l
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Butcher. ***
Capitolo 2: *** Fearless. ***
Capitolo 3: *** No more. ***
Capitolo 4: *** Trickle. ***
Capitolo 5: *** Devilish girl. ***
Capitolo 6: *** Weakness. ***
Capitolo 7: *** Burns. ***
Capitolo 8: *** Strength. ***
Capitolo 9: *** Home. ***
Capitolo 10: *** Creepy story. ***
Capitolo 11: *** Heat. ***
Capitolo 12: *** Nacked soul. ***
Capitolo 13: *** Still here. ***
Capitolo 14: *** Traitors. ***
Capitolo 15: *** A life for a life. ***
Capitolo 16: *** Moth. ***
Capitolo 17: *** Roller coaster. ***
Capitolo 18: *** Unspoken. ***
Capitolo 19: *** Phoenix. ***
Capitolo 20: *** One step back. ***
Capitolo 21: *** Fireworks. ***
Capitolo 22: *** This is war (Part one). ***
Capitolo 23: *** This is war (Part two). ***
Capitolo 24: *** The princess and the knight. ***
Capitolo 25: *** The flowered kimono. ***
Capitolo 26: *** Let go. ***



Capitolo 1
*** Butcher. ***


You see all my light and you love my dark.

First. Butcher.


In una città lontana, molti anni fa, viveva un uomo che causò molta sofferenza.
Uccideva giovani uomini e li affettava come fossero carne da macello per poi venderli alle persone affamate.
Fritz Haarmann.
Tagliava a pezzi gli uomini.
Il Macellaio.
Ne faceva bistecche.
Fritz Haarmann.
Li vendeva come fossero carne.
Il Macellaio.
Alle persone affinché li mangiassero.
I giovani scomparivano all'improvviso e mangiavano le loro bistecche con delizia e fame.
Andavano da Fritz Haarmann per avere altra carne ma non sapevano che stavano mangando carne umana. [Macabre.]


Presi con indifferenza la fotografia, quasi strappandola dalle mani grinzose e scheletriche di Haranobu, e la osservai di sfuggita.
< E' questo l'obiettivo? > chiesi, alzando gli occhi per incontrare i suoi.
Faticavo ancora ad abituarmi a quella patina lattiginosa che offuscava le sue iridi che, un tempo probabilmente, erano state di un grigio tempestoso.
Lui annuì grave, prendendomi poi sottobraccio.
Insieme ci avviammo verso l'altare preparato per la cerimonia.
Spoglio e appena abbozzato in una roccia porosa, era incastrato in una nicchia profonda e bassa del sotterraneo.
I primi tempi in quel luogo erano stati davvero duri per me: mi mancava la luce tiepida del sole sul viso, l'aria pungente tra le ciocche scomposte dei capelli, casa mia, il verde dell'erba del mio giardino, l'azzurro limpido del fiume gorgogliante che scorreva placido dietro al mio villaggio.
Mi sentivo un uccellino intrappolato in una gabbia troppo piccola, con spazio appena sufficiente a dispiegare le ali.
Haranobu era stato comprensivo e gentile in quel periodo di smarrimento.
Guidò i miei passi incerti su un terreno sconnesso e ignoto, infondendomi una sicurezza che non possedevo più e da cui cercavo disperatamente di fuggire in ogni modo umano possibile.
Mi salvò dai miei demoni, regalandomene altri in cambio.
Raccolse le macerie del mio essere e, al loro posto, eresse un nuovo, magnifico e lugubre palazzo.
La giovane contadina che ero stata un tempo era svanita: le cicatrici sul mio corpo erano i segni evidenti della sua morte.
Quella che ero adesso aveva solo i lineamenti del viso della vecchia Akane Tendo.
< Cos'ha fatto? > gli domandai, guardandolo indossare la veste da rituale.
Si voltò appena e il rosso cupo del tessuto si riflettè sul bianco nebuloso dei suoi occhi.
< Rivalità tra famiglie. Un classico. Costui ha ferito gravemente la figlia di un anziano capo villaggio e lui desidera vendetta. > rispose Haranobu con tono piatto.
All'inizio rimanevo sbigottita dal distacco che mostrava nei confronti del compito che assegnava a noi discepoli.
Sembrava che per lui la vita non avesse valore. Le persone diventavano carne da macello ogni giorno, mi diceva con un mezzo sorriso inquietante.
Lui era semplicemente colui che muoveva il braccio del macellaio.
Ed in quel caso il macellaio ero io.
S'inginocchiò di fronte l'altare, ne baciò la sommità con le labbra screpolate e si rialzò con fatica, sorreggendosi ad un pilastro di granito.
< Ora và, figlia mia. > sussurrò, sfiorandomi la fronte con la bocca.
Annuii chinando appena la testa, in segno di rispetto, e mi allontanai a passo svelto per i lunghi corridoi scarsamente illuminati, scavati nel terreno.
Odoravano di stantio, di muffa, di chiuso, di una vita da talpe.
Un’esistenza incolore, monotona, cieca, che non mi ero scelta, ma ero stata costretta a intraprendere.
A metà strada incrociai il comandante, che mi fermò con una stretta gelida sul polso < Dove corri? > sorrise, scoprendo i candidi canini appuntiti.
Indossava la divisa ufficiale, quella che teneva da conto per i compiti di un certo livello: gli omicidi dei nobili e di altra feccia umana d’alto rango.
< Ho un nuovo bersaglio. > risposi, senza accennare al saluto rispettoso che gli indirizzavano gli altri sottoposti.
Le regole mi erano sempre state strette. Mi soffocavano come un cappio al collo che si stringeva ad ogni nuovo tipo di ribellione.
Creavo risse e discussioni per qualunque cosa e perciò Haranobu era stato costretto ad esentarmi dall’osservanza delle leggi: era stata l’unica mossa possibile per non perdermi e, al contempo, mantenere un equilibrio stabile.
Ero la sola nell’intera gilda ad avere quella specie di privilegio e le invidie nei miei confronti crescevano giorno dopo giorno.
Per difendermi dai tiri mancini che mi venivano giocati di continuo dai miei “fratelli”, quindi, non avevo che un'arma: l’indifferenza.
Ogni giorno in più, ogni mattina in cui riuscivo ad aprire gli occhi e ad alzarmi dalla branda era una benedizione.
Ryoga assentì col capo e mi lasciò il braccio < Torna presto. > mi disse, continuando a sorridere e scostandosi poi di lato per lasciarmi passare.
I suoi sorrisi mi turbavano sempre: erano qualcosa di spontaneo e dolce, qualcosa che non era fatta per essere imprigionata due metri sotto la superficie del suolo. Qualcosa che, tuttavia, aveva il potere di scaldarmi appena, come un timido sfiorarsi di mani impacciate tra due innamorati.
Fuoriluogo. Fuoriviante. Inappropriato.
Scossi il capo e, mentre raggiungevo l'uscita secondaria del sotterraneo che portava in una cava abbandonata da decenni, ripresi in mano la foto del nuovo obiettivo e m'impressi bene a mente i tratti salienti del suo volto.
Fronte bassa, sopracciglia e capelli scuri, bizzarramente legati in un codino alquanto ridicolo, occhi azzurri come il cielo d'aprile, bocca carnosa e generosa che lasciava intravedere una dentatura perfetta, viso ovale, mento a punta.
Il classico volto del figlio del manovale di paese.
Sbuffai e accelerai, ansiosa di metter piede all'esterno.
All'ultimo corridoio prima dell'uscita, svoltai a destra, rinfilando la foto un po' sgualcita nella tasca posteriore dei pantaloni, e mi diressi velocemente nell'armeria.
Prelevai la balestra, il pugnale d'argento elegantemente lavorato - che incastrai nello stivale - e la spada che Maiko aveva forgiato per me, incastonando nell'elsa l'ametista che un tempo apparteneva alla collana che mia madre mi regalò il giorno che morì.
Feci un cenno brusco alle sentinelle a guardia della botola e, facendo leva sulle snelle braccia, mi issai su con un agile salto, ritrovandomi all'interno della cava abbandonata.
Senza perdere altro tempo mi precipitai all'esterno, venendo investita da un fascio di luce così abbagliante, per i miei occhi ormai abituati alla scarsa illuminazione del sotterraneo, che dovetti socchiudere le palpebre.
Sentii le pupille ridursi bruscamente alle dimensioni di un granello di sabbia e imprecai, alzando il bavero della casacca nera fino agli occhi.
Odiavo la luce.
Per agire preferivo l'oscurità, il rassicurante mantello delle tenebre che celava la mia identità e i segni che avevano lasciato gli sforzi di cancellarla.
Gettai uno sguardo al cielo e mentalmente calcolai che doveva esser quasi il crepuscolo.
Ottimo.
Il tempo di arrivare al villaggio del bersaglio e sarebbe stata notte.
Ghignai e alzai anche il cappuccio, confondendomi con le ombre del bosco.

***

< Buonanotte, Ranma. >
< 'Notte, vecchio. > risposi a mezza bocca dal bagno, in cui mi ero chiuso qualche minuto prima col preciso intento di immergermi nell'acqua bollente della vasca e non uscirne finchè non fosse diventata fredda assorbendo tutti i miei torbidi pensieri.
La giornata era stata piuttosto stressante e avevo bisogno di starmene un po' per conto mio a riflettere e torturare me stesso per auto-punirmi.
Ormai nel villaggio ero considerato alla stregua un criminale e allo stesso modo mio padre.
Mi guardavano come se portassi un marchio addosso, mi evitavano per le strade come un appestato e, alle volte, mi sputavano passandomi accanto.
Dovevo ringraziare quel farabutto di Daisetsu della situazione in cui vivevo.
Serrai le mani nell'acqua calda, facendone schizzare un po' sul pavimento, e digrignai i denti, rievocando l'immagine del corpo inerme di Ukyo riverso a terra.
Era stato un incidente, un maledetto, fottutissimo incidente!
Eravamo insieme alle cascate e lei era così bella con quel vestito leggero che le accarezzava le curve generose del corpo che mi ero lasciato distrarre dalla sua risata spensierata, perdendo di vista per un solo, fulgido, istante le sue fragili caviglie.
Si era appena rimessa dopo quella brutta frattura scomposta, maledizione!
Dovevo saperlo che era troppo presto per farla uscire!
Lei, però, aveva insistito così tanto che non avevo saputo dirle di no.
Avrei dovuto essere attento, molto più attento! Avrei potuto...avrei potuto...
Scagliai un pugno contro il muro del bagno dalla frustrazione, creandovi un'ammaccatura contornata da una fitta ragnatela di crepe.
Immagini confuse si accavallarono nella mia mente, spingendo per avere la precedenza ed invadermi la vista di ricordi dolorosi.
Saltava da un masso all'altro del fiumiciattolo come una ninfa ed io mi ero incantato a guardarla dalla riva, così quando scivolò non riuscii ad afferrarla prima che battesse la testa contro un masso.
Quando l'avevo riportata al villaggio di corsa, suo padre, Daisetsu, aveva sparso la notizia che ero stato io a farle del male volontariamente perchè geloso del matrimonio da lui combinato.
Che assurdità!
Io e Ukyo eravamo cresciuti insieme come fratelli.
Era bella - Dio, se lo era!- e non sarei mai riuscito a torcerle nemmeno un capello e tanto meno a figurarmi una vita con lei, nonostante il bene che le volevo!
Ucchan - così la chiamavo io - sapeva benissimo quali erano i miei sentimenti nei suoi confronti e le mie priorità di vita e, sebbene fosse innamorata persa - glielo leggevo negli occhi ogni volta che mi guardava - non aveva mai fatto alcuna pressione nè si era mai lamentata.
L'unico che contestava il tempo che trascorrevamo insieme era Daisetsu, geloso della sua unica figlia e animato da antichi rancori verso mio padre che riversava addosso a me.
Sospirai, asciugandomi e vestendomi con foga, desideroso solo di mettermi a dormire...e svegliarmi tra un anno, possibilmente in un posto diverso da questo schifosissimo villaggio dove, ormai, mi era impossibile vivere dignitosamente.
M'infilai nel futon con i capelli ancora umidi e la testa pronta ad esplodere come una bomba ad orologeria.
Mi rilassai al contatto con le fredde coperte e spensi la candela, poggiando il capo sulle mani incrociate dietro la nuca.
Sul soffitto le ombre degli alberi del bosco accanto casa danzavano in una folle ballata terrificante.
Chiusi gli occhi e rividi nuovamente il corpo di Ucchan immerso nell'acqua ghiacciata, venire sballottato dalla corrente contro massi spigolosi.
L’acqua era rosa pallido attorno a lei, i suoi capelli sembravano fili d’alghe nere e le labbra petali scoloriti, lividi, gelati.
I medici erano riusciti a salvarla. Un miracolo, a detta loro, che l’aveva però relegata ad una vita da paraplegica.
Le mie viscere si contorsero con uno spasmo.
Era piena di vita, Ukyo, sempre con un sorriso impresso sulle labbra generose che metteva allegria a chiunque.
Ora dove l'avrebbe trovato un motivo per sorridere nella vita che le si prospettava?
Ed io come avrei potuto ancora avvicinarmi a lei e guardarla senza venir divorato dai miei stessi sensi di colpa?
Una gelida brezza sfiorò il mio braccio, che avevo lasciato fuori dal futon, facendomi rabbrividire.
Eppure mi sembrava di aver chiuso la finestra...
Non ebbi nemmeno il tempo di formulare il pensiero che una lama fredda mi mozzò il respiro, premendo sulla gola.
< Sei Ranma Saotome? > chiese una voce profonda e infinitamente triste, che sembrava provenire da ogni muro.
Scattai a sedere ma la lama venne spinta ancora più a fondo, incidendo un poco la pelle del collo da cui colò un rivolo di sangue.
Annuii.
< Perdonami, ma sono stata incaricata d'ucciderti. > asserì la voce, che doveva quindi appartenere ad una donna.
Mi domandai chi fosse.
Non l'avevo nemmeno sentita aprire la finestra!
< Chi sei? > chiesi < Dimmi almeno il nome della persona la cui mano trancerà il filo della mia vita! >
Il coltello non si spostò di un millimetro dalla mia gola, ma lei rimase in silenzio più di un minuto buono, prima di decidersi a rispondere.
< Akane. > sussurrò infine, allontanando la lama per sferrare un colpo deciso, probabilmente alla nuca.
Aspettavo quel momento e, così, balzai in avanti, avvertendo lo spostamento d'aria provocato dalla coltellata che mi mancò di un soffio.
Con lo sguardo cercai nella stanza la figura della donna che stava cercando di uccidermi e ne intravidi solo gli occhi che, alla luce lunare, scintillavano come pietre preziose.
Caldi come una tazza di cioccolata in una notte di pieno inverno.
Impulsivamente e scioccamente desiderai immergermici.
Lei ringhiò come un cane rabbioso a cui viene sottratto l'osso e si avventò contro di me.
Decisi di contrattaccare e mi lanciai nella sua direzione, veloce quanto lei.
I suoi occhi esprimevano stupore, ma non si fermò ed il mio destro cozzò contro l'elsa di una spada che non avevo visto prima e che, probabilmente, aveva appena sfoderato.
Cercai di individuare altri tratti della sua figura, ma sembrava fatta di tenebra.
Bocca, viso, mani e gambe composti di particelle d’ombra.
Senza aspettare che decidesse di attaccare nuovamente, presi io l'iniziativa e mi scagliai ancora contro Akane, scartando all'ultimo per colpirla in basso.
Lei riuscì a individuare il mio colpo, ma la lama della spada fu troppo lenta e così le sferrai un pugno sul ginocchio destro, che le cedette all'istante.
Si accasciò a terra, imprecando e reggendosi la gamba, osservando attorno a sè in cerca della mia presenza.
Le saltai alle spalle, silenzioso come un gatto, e le circondai il collo con un braccio, tentando di soffocarla.
< Mi spiace, Akane, ma stasera non sarò io a morire. > profetizzai, stringendo di più la morsa.


Questa storia, tempo fa, era stata postata sotto il nome di "Fighting for a chance".
Di tutte quelle su Ranma che avevo scritto, era quella a cui ero più affezionata, ma non l'avevo conclusa, anche a causa di problemi d'account.
Adesso ve la ripropongo, sperando di ritrovare strada facendo tutti coloro che mi avevano sostenuto. Prometto di dare una conclusione, stavolta, alle vicende di questi Ranma ed Akane così assurdi.
Ci leggiamo la settimana prossima.

Strange.

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Capitolo 2
*** Fearless. ***


You see all my light and you love my dark.

Second. Fearless.



Dimentica le armi e dimentica le munizioni perché li sto uccidendo tutti nelle mia piccola missione.
Adesso non sono una santa ma non sono una peccatrice.
Non so più cosa sia giusto e cosa sia reale.
Non so più come debba sentirmi e quando pensi che diventerà tutto chiaro?
Perché sono stata sovrastata dalla paura. [Lily Allen.]


La sua presa si serrava di attimo in attimo sempre di più sulla mia gola, fino ad ostruirmi le vie respiratorie.
Sbarrai gli occhi, incredula, artigliandogli le braccia con le unghie, graffiandolo come una tigre inferocita.
Haranobu mi aveva addestrato abilmente ed io avevo appreso con facilità, fino a diventare la sua prediletta, l’arma migliore al suo arsenale: un sicario praticamente imbattibile.
Com’era possibile, allora, che quel pivellino riuscisse a tenermi testa senza mostrare troppo sforzo?
La rabbia animò il mio corpo d’istinto, prima ancora che potessi ragionare su una strategia per liberarmi.
Sollevai una gamba e sferrai un calcio all'indietro con quanta più potenza mi permise la scomoda posizione.
Gli colpii uno stinco e lui mi imprecò nelle orecchie, mentre si piegava dal dolore, lasciandomi andare.
Mi sfilai dal suo abbraccio mortale, scivolando verso il basso con una mossa fluida, ma forse non sufficientemente veloce.
Sentii il cappuccio che scivolava via dalla testa, rimanendo in mano a Ranma.
Mi allontanai da lui con rapidità, portandomi nella porzione di stanza scarsamente illuminata dai raggi lunari che filtravano dalla finestra, e che, invece, accarezzavano dolcemente la sua figura, facendo rilucere i suoi occhi come zaffiri grezzi.
Si rialzò, reggendosi alla scrivania alla sua destra, e sollevò il mio cappuccio come un trofeo, ghignando.
< Fatti vedere in faccia. > mi sfidò, alzandolo di più.
Brandii la spada con entrambe le mani e la lama riverberò di luce, illuminando quasi a giorno la stanza.
Serrai i denti, sperando che l'oscurità fosse ancora tale da nascondermi.
< Stavolta non riuscirai a sottrarti al tuo destino. > sibilai, ricordando con stizza la forza della sua presa sul mio collo già provato.
< E sarebbe morire per mano tua? Chi ti manda? > Ranma allargò le braccia, in un gesto altezzoso e spavaldo, che sapeva di ironia.
Rimasi interdetta: era la prima volta che mi capitava di uccidere qualcuno che non era spaventato all'idea di morire.
Osservai i suoi occhi e non vi lessi alcuna traccia di supplica o terrore.
Quello spettro inquietante io lo conoscevo bene. Negli angoli bui delle mie iridi aveva dimorato davvero a lungo. Forse talmente tanto da essersi cibato di tutto ciò che vi avevo nascosto quando ero nient’altro che una ragazzina spaventata.
Un brivido mi scosse il cuore, ma lo ignorai.
Ero una guerriera ed ero in grado di mantenere il sangue freddo anche in situazioni spinose come quella.
Soltanto che la spavalderia che quel Ranma dimostrava...mi confondeva.
Io avrei tremato come una foglia di fronte alla mano di quello che si dichiarava il mio boia.
Lui, invece, mi veniva incontro a braccia spalancate, come se volesse accogliermi in un abbraccio.
< Non sono tenuta a dirtelo. > gli risposi con tono scostante.
Devo tenermi a distanza dalle emozioni che quel suo comportamento suscitava.
Dovevo agire prima di commettere qualche stupido errore che mi costasse caro.
Saggiando il pavimento con un piede, mi avvicinai a lui di un passo e la lama gli toccò di nuovo la gola.
< Dimmelo e poi avanti, uccidimi! > esclamò, allargando ancora di più le braccia, come se la sua sorte non lo riguardasse.
Il cappuccio dondolò, pendendo dalle sue dita.
< Chi ti manda? > ringhiò e nello stesso tempo avanzò, fino a farsi scivolare la lama a lato del collo. Il metallo tagliente gli incise la carne, provocandogli una ferita profonda che prese a vomitare fiotti copiosi di sangue.
La sua camicia si inzuppò presto ed il rosso cremisi che ne macchiava il candore mi attrasse, tuttavia mi trovai ad indietreggiare intimorita di fronte alla spavalderia che lui dimostrava.
La mia mano mi tremò impercettibilmente, ma Ranma dovette sentirlo, poichè fece un altro passo.
< Chi ti manda? > ripetè alzando la voce.
Assottigliò gli occhi e prese la lama della spada a mani nude e la gettò a terra.
Sfoderai fulmineamente il pugnale, ma arretrai fino a sbattere contro il muro.
Deglutii più volte, ma mi sembrava di ingoiare manciate di ghiaia.
Ranma arrivò ad un soffio dal mio viso, incurante della lama corta che gli premeva contro l'addome.
< Dimmelo, Akane! > ordinò imperioso, flettendo, però, dolcemente la voce nel pronunciare il mio nome.
Il mio cervello tagliò i ponti con la bocca e così mi ritrovai a rispondergli, senza realmente volerlo, ammaliata dall'intensità del suo sguardo cristallino.
Aveva lo stesso colore delle acque del fiume in cui da piccola avevo lavato decine di volte i capelli alle mie bambole di stoffa.
< Il tuo capo villaggio. > mormorai, mentre il solito conato di nausea mi assaliva.
Mi succedeva sempre quando l'odore pungente di sangue mi aggrediva prepotente le narici.
Non mi ci ero mai abituata del tutto. O forse era colpa dei sentimenti che la presenza di quello strano ragazzo col codino resuscitava.
Arricciai il naso, ma serrai la presa sull'elsa del pugnale.
Alla luce della luna i suoi denti brillarono come diamanti e mi resi conto che stava sorridendo.
Lo fissai sconcertata, ritrovandomi a pensare che aveva un bel sorriso, dopotutto.
< Daisetsu. > sibilò con veleno, ghermendomi il polso della mano con cui reggevo l'arma.
< Non uccidermi, Akane. > disse, ma il suo tono non era affatto una supplica. Era una imposizione.
Involontariamente rabbrividii quando il mio nome fuoriuscì di nuovo dalle sue labbra piene, così vicine alle mie.
< Dammi un motivo. > risposi, cercando di divincolarmi dalla sua stretta.
Ranma alzò una mano e mi sollevò il mento con due dita.
< Non ne hai bisogno. Non ho commesso alcun crimine per cui debba pagare. Lasciami vivere. > mormorò con una semplicità disarmante.
Non c’erano parole suadenti o doppi fini in ciò che aveva detto.
Nuda e cruda verità.
Da quando qualcuno, nel mondo, si era eretto così in alto da guardare gli altri suoi simili con disgusto e innalzarsi a Dio, decidendo della loro sorte?
E perchè io mi inginocchiavo di fronte a questi uomini, ponendo i miei servizi a loro vantaggio?
Qual’era la ragione?
Ce n’era una? O davvero era come insinuava Ranma? Non ve ne era alcuna.
< Non sono io a deciderlo, mi spiace. > sussurrai, togliendo le sue mani dal mio viso con sdegno.
< Allora lasciami più tempo per sistemare le cose. > propose lui, deciso, cercando di dissuadermi con quegl'occhi blu intenso.
Mi sentii smarrita come quando fuggii dal mio villaggio e Haranobu mi trovò in fin di vita.
I demoni che lui mi aveva donato si agitarono inquieti nel mio corpo, bramando sangue.
Ciò che restava di Akane Tendo, invece, cercava di ribellarsi e di abbassare il pugnale.
Era come se ognuna delle due parti tirasse la mia anima, diventata improvvisamente un lenzuolo rattoppato le cui cuciture non reggevano più.
Se non avessi preso posizione mi sarei strappata a metà.
Guardai Ranma negli occhi e, chiudendo i miei, affondai la lama nel suo addome.
Il suo sguardo si fece stupefatto e subito si accasciò a terra, reggendosi il ventre con entrambe le mani, dalle cui dita filtrava sangue vermiglio che stava formando rapidamente una pozza ai suoi piedi.
I miei demoni esultarono e finalmente si acquietarono, smettendo di tirare.
Sospirai di sollievo, costringendomi ad ignorare sia loro che i rantoli di Ranma, riverso a terra in stato di semi-incoscienza.
La difficoltà che avevo incontrato nel portare a termine la missione mi aveva reso inquieta.
Non mi era mai successo di provare rimorso o di sentirmi lo stomaco aggrovigliato dalla paura.
Ero io, solitamente, che ne incutevo agli altri, non viceversa!
Ma il modo in cui quel ragazzo mi aveva osservato, aveva azionato di nuovo quel cuore che a lungo avevo dimenticato e aveva intaccato la corazza che avevo eretto con così tanta fatica attorno a me per essere protetta da qualsiasi emozione.
Quella notte, tornando ai sotterranei sapevo che avrei dovuto ricostruirla pezzo dopo pezzo o non sarei stata più in grado nemmeno di reggermi in piedi.
Ero un'assassina...e gli assassini non avevano né coscienza né indugi, come ne avevo avuti io quella sera.
Potevo ancora definirmi tale?
C’era un’esistenza a cui far ritorno oppure avrei dovuto ricominciare daccapo di nuovo?
Saltai sulla finestra, gettando un'ultima occhiata al corpo di Ranma disteso a terra, bagnato dal suo stesso sangue.
L'aria frizzante della sera mi sfiorò la pelle delicata del viso, ma non andai a riprendere il cappuccio.
Se l'avessi fatto non sarei più uscita da quella casa.
Sarei rimasta a curare una ferita che io stessa avevo inferto.
Perciò balzai a terra, senza produrre il minimo rumore, e mi lanciai in una folle corsa diretta al rifugio e decisa ad ignorare quella goccia di dolore che mi colò sulla guancia mentre mi allontanavo.

E' incredibile quante delle lettrici originarie siano ancora qui, ad accogliermi calorosamente e ad incoraggiarmi a proseguire e non mollare.
La voglia di finire questa storia cresce esponenzialmente col vostro sostegno, perciò vi ringrazio con tutto il cuore.
Il vostro calore, per me, è tanto.
Sono emozionata, non vedo l'ora di leggere altre vostre recensioni e di riabbracciare strada facendo tutte coloro che ho perso.
Vi abbraccio forte con le lacrime agli occhi. Piango troppo spesso ultimamente.

Strange.

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Capitolo 3
*** No more. ***


You see all my light and you love my dark.

Third. No more.



Posso combattere il fuoco, ma non posso combattere la paura.
Non più.
Non posso proprio vivere qui,
Non più.
Non posso farcela.
Non posso farcela.
Non più.
Per che cosa rimaniamo?
Non più.
Quando tutti viviamo nella paura?
Dammi una ragione per credere. [Three Days Grace.]


< Non uccidermi, Akane. >
Due occhi decisi, sicuri e irremovibili volteggiavano senza sosta nella mia testa, divertendosi a tormentare la mia mente estenuata.
Il colore di quelle iridi era incredibile, talmente azzurro da poterci affogare dentro senza pena.
Osservai rapita le ultime gocce del sangue di Ranma rotolare giù dalla lama del pugnale e tuffarsi nella ciotola, dove erano finite anche le precedenti, fino a formare una piccola pozza del diametro del palmo della mia mano.
Trattenni il fiato in trepidante attesa, mentre l'umidità del terriccio penetrava il tessuto leggero dei pantaloni all'altezza del ginocchio, posato a terra.
Haranobu sollevò la ciotola verso il soffitto recitando, con gli occhi chiusi, una preghiera di ringraziamento per l'anima appena salvata.
Quel termine, ora più che mai, mi sembrò soltanto una presa in giro, una scusante che veniva utilizzata per farci credere che fosse giusto uccidere se si avevano validi motivi.
Assassinare qualcuno per salvarlo non era decisamente una ragione sufficiente.
Era, anzi, una scusa patetica che a malapena si reggeva in piedi, ma che tutti noi adepti ritenevamo giusta perchè era l’unica cosa che sapevamo fare; la via più semplice, più breve, di arrancare lungo un’esistenza grigia e tetra.
Serrai la mano sull'elsa della spada, che portavo ancora alla cintola, ed attesi il responso, udendo, nel frattempo, passi avvicinarsi alle mie spalle.
Il respiro di Haranobu si condensava in nuvolette di vapore di fronte la bocca leggermente schiusa ma, nonostante la temperatura rigida della caverna, la mia fronte era imperlata di sudore.
M'imposi di respirare normalmente, ma sembrava che avessi mandato giù una manciata di terra che m'aveva ostruito le vie respiratorie.
Tentare di ossigenare i polmoni era un’impresa titanica e, inevitabilmente, sabbia e pulviscolo finivano nei bronchi, provocandomi spasmi.
Contemplai le mani grinzose di Haranobu accarezzare le pietre incastonate nella ceramica della ciotola con riverenza e poi, infine immergere un dito nel sangue di Ranma con una lentezza snervante.
Si disegnò una croce tremolante sulle labbra scabre e poi si avvicinò a me, ghermendomi il braccio con inaspettata forza, e vergò un pentacolo sul palmo della mia mano sudata.
Si appoggiò alle mie spalle ed intonò un canto roco e basso, che mi provocò brividi gelidi lungo tutta la spina dorsale già dalle prime note.
Incantata dal rito di Haranobu non m'accorsi che i passi che avevo udito poco prima si erano arrestati proprio dietro di me. Me ne resi conto solo quando l'odore di tabacco bruciato non solleticò le mie narici: anche Ryoga era arrivato, infine.
La voce del maestro si affievolì poco a poco ed una calma irreale mi addormentò le membra stanche.
Il suo viso si contrasse in una smorfia che sembrava esprimere dolore. Le rughe sul suo viso incartapecorito si accentuarono come quelle su un foglio già spiegazzato che viene accartocciato nuovamente.
Si passò la lingua sulle labbra e gemette, come se lo stessero torturando.
Sospirò lui ed io lo imitai.
Sapevo che non avrei potuto trarlo in inganno, ma avevo dovuto provarci.
< Non uccidermi, Akane. > ripeteva brusca la voce di Ranma nella mia testa, riempiendo il silenzio improvvisamente calato nella caverna odorante di muffa.
Non avevo mai dato il tempo a nessuno di chiedere pietà: se l'avessi fatto la mia coscienza avrebbe opposto resistenza alla mano assetata di sangue.
Perciò mettevo in atto gli insegnamenti di Ryoga: sveltezza, agilità e precisione.
Ero diventata letale e silenziosa al pari di un serpente che, senza nemmeno dare alla preda il tempo di reagire, la stringeva nella sua morsa implacabile.
Ranma, però, mi aveva tenuto testa: aveva combattuto, preteso di non essere ucciso, chiesto più tempo prima d'abbandonare questo mondo per sistemare questioni in sospeso...e ciò che di buono restava di Akane Tendo glielo aveva, inconsciamente, concesso nell’unico modo che aveva.
Haranobu spalancò d’improvviso gli occhi, come se uno spirito si fosse impossessato del suo corpo.
Il viola cupo della sua veste svolazzò di fronte al mio sguardo quando si allontanò da me di un passo, reggendosi ad una delle colonne in stile gotico.
< Perchè, figlia mia? > chiese con voce gutturale e incrinata a causa del mio tradimento.
Chinai la testa colpevole e, alle mie spalle, Ryoga sussultò.
< Perchè non hai portato a termine la missione? Perchè non hai ucciso il bersaglio? > domandò ancora tagliente Haranobu, il cui viso si stava colorando di rosso nello sforzo di contenere la rabbia che evidentemente lo stava dominando.
Osservai il pentacolo sulla mia mano, sbiadito nei punti in cui il sangue era colato di lato, e poi chiusi con forza il pugno.
La prima volta che assistetti al rituale, dovetti chiedere spiegazioni al maestro poichè ne rimasi scioccata.
Tutto quel sangue mi dava la nausea e c'era mancato poco che non vomitassi sull'altare consacrato.
La croce sulle labbra di Haranobu stava a simboleggiare che era sua la bocca da cui era stato impartito l'ordine di eliminare l'obiettivo; il pentacolo, invece, veniva apposto sul palmo di coloro che portavano a termine l'incarico.
Pentacolo.
Cinque le sue punte.
Cinque i sensi di cui l'assassino era fornito per compiere la sua missione.
< Perchè non era giusto. > sussurrai più a me stessa che ad Haranobu, il quale, nell'udire le mie parole, si pietrificò.
< Chi ti ha messo in testa queste fandonie? > Ryoga prese la parola, dopo aver gettato un'occhiata al maestro.
Mi alzai in piedi per fronteggiarlo, sapendo bene che era irrispettoso farlo se Haranobu non lo concedeva.
< Non sono fandonie! Come fate a sapere che quel capo villaggio vuole la morte di quel ragazzo per un valido motivo? > chiesi a mia volta, spostando lo sguardo prima sull'uno e poi sull'altro.
< Non ho commesso alcun crimine per cui debba pagare. Lasciami vivere. > la richiesta di Ranma mi esplose nel cervello e dovetti digrignare i denti per non gridare di dolore.
Mi stavo ribellando.
Stavo mandando all'aria la mia vita di nuovo.
Stavo scegliendo di ascoltare un cuore che avevo scordato di avere per tanto tempo poichè m'aveva portato solo sofferenze.
I demoni che Haranobu mi aveva donato quando mi aveva consacrato ad assassina si agitarono furiosi dentro di me, aggrappandosi alla mia anima e lacerandola come fosse un malandato pezzo di stoffa.
In qualche modo le parole di Ranma mi avevano scosso nel profondo, con la poteza di uno tsunami. Non ero stata in grado di ricostruirmi la corazza attorno e dalle macerie del mio essere Akane Tendo stava riemergendo vittoriosa.
Fino a quel momento avevo agito come un automa, limitandomi ad eseguire gli ordini e strisciare fino all'incarico successivo.
Niente domande, niente problemi.
Non facevo che ripetermelo.
Era bastato, però, sollevare un solo interrogativo che gli altri erano accorsi numerosi come una folla di curiosi attirati da un evento anomalo.
< Noi non ci poniamo queste domande, figlia mia. Noi siamo solo il braccio armato del fato. Il destino di quel ragazzo era perire e tu hai avuto clemenza di lui. > infierì Haranobu, stringendomi una spalla così violentemente che un lamento strozzato mi sfuggì di bocca.
Era vero.
L'avevo risparmiato.
La lama aveva trapassato il suo addome senza intaccare alcun organo vitale. Se l'avessero trovato in tempo, sarebbe sopravvissuto.
Era tutto quel che avevo potuto fare.
Sapevo che il maestro se ne sarebbe accorto dal sapore e dalla consistenza del sangue sulla lama...ma in quel momento avevo agito d'istinto, senza pensare alle conseguenze che il mio gesto avrebbe comportato.
Volevo solo salvare una vita; compiere un gesto che avrebbe acquietato le proteste della mia coscienza almeno per un po’.
O forse volevo solo cancellare la tristezza profonda che quegl'occhi blu come lapislazzuli celavano.
< E da quando in qua il destino è in mano agli uomini? > ringhiai, scrollandomi la mano del maestro di dosso. < Il destino di quel ragazzo era perire solo perchè lo sosteneva un vecchio capo villaggio? Io quello non lo chiamo destino! Io quella la chiamo vendetta! > esclamai accorata, sentendo avvampare le guance dall'enfasi.
Ryoga mi guardò con un misto di preoccupazione e sconcerto. Sul viso di Haranobu, invece, sembravano essere calati altri vent'anni.
< Sei un'assassina, Akane. Il tuo compito è mietere vittime. Non devi porti domande. Devi agire e basta. > sibilò tra i denti, puntando gli occhi spenti nella mia direzione.
< Sono diventata ciò che tu hai voluto. Mi hai dato una missione per liberarmi dal peso che queste cicatrici mi avevano costretto a portarmi dietro. > sbottai, indicandomi il viso < Ero fragile e avevo bisogno che qualcuno mi mostrasse la via da seguire...perciò mi sono abbandonata a te senza riserve, senza soffermarmi a pensare se era corretto ciò che facevo! > gridai, ma il suono delle mie urla venne assorbito dalle pareti di terra della caverna come se fossero rivestite di spugne.
Haranobu arretrò di un passo, inorridito, premendosi una mano sul petto come se l'avessi trafitto a morte.
< Akane... > Ryoga provò a intromettersi nel discorso, ma lo zittii con un'occhiata gelida.
< Io non sono un'assassina. Non più! > asserii, gettando a terra fodero e spada con irritazione.
L'ametista riverberò della luce delle lanterne che illuminavano l'ambiente, ma la ignorai.
Non potevo più riprenderla: era parte di un'arma con cui avevo tolto la vita a troppe persone. S'era impregnata del sangue di troppi esseri umani per appartenermi ancora.
Se volevo cancellare l'esistenza dell'Akane assassina, dovevo abbandonare anche quella pietra che, ormai, non aveva più nulla a che vedere con mia madre.
Ryoga corse a sorreggere il maestro, che sembrava improvvisamente incapace di stare in piedi da solo.
Ai miei occhi non appariva più come la mia ancora di salvezza, la mia seconda possibilità; ciò che vedevo, ora, era un misero vecchietto decrepito che s'atteggiava a grand'uomo.
Sforzandosi di contenere le lacrime che gli stavano annebbiando la vista, chiamò con un cenno due delle sentinelle all'entrata della grotta.
< Rinchiudetela. > sussurrò, abbandonandosi poi tra le braccia di Ryoga che, probabilmente, avrebbe dovuto finire il compito che io avevo lasciato a metà.
Senza opporre resistenza mi lasciai trascinare via, seguita dallo sguardo malinconico del capitano e di un vecchio pazzo.
Sollevai il bavero della casacca fino a coprire i segni indelebili che la mia vita precedente mi aveva lasciato e mi feci sbattere in una cella maleodorante, larga tre spanne e profonda quattro.
Mi sedetti sulla brandina cigolante e mi presi la testa fra le mani tremanti.
Avevo mandato a puttane anche questa esistenza.
C'era qualcosa che riuscivo a toccare senza rompere?
Sospirai, chiudendo gli occhi e cercando di riposare.
L'ultima immagine che vidi fu il corpo di Ranma riverso a terra, lambito dal suo stesso sangue, che mi fissava con insistenti occhi blu.

Quanto effetto devono aver fatto ad Akane le parole e gli occhi di Ranma per smuoverla e farle mandare al diavolo tutto quello che aveva faticosamente costruito?
Davvero tanto.
Questo capitolo, forse, è uno dei più confusi.
Il rituale celebrato da Haranobu ha un chè di inquietante e spero non risulti difficile comprenderne l'ambientazione e i gesti.
Vi abbraccio di cuore, perchè le vostre parole riescono sempre a sorprendermi e a strapparmi un sorriso.

Strange.

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Capitolo 4
*** Trickle. ***


You see all my light and you love my dark.

Fourth. Trickle.



Tutti i miei sogni stanno crollando,strisciando tutt'attorno.
Qualcuno mi salvi.
Non mi importa come lo fai, ma salvami,salvami! [Remy Zero]



Diecimilaottocentosessanta.
Diecimilaottocentosessantuno.
Diecimilaottocentosessantadue.
Chiusi gli occhi, smettendo d'osservare il ritmico gocciolio dell'umidità che colava dal soffito e che, dopo un tuffo vertiginoso, s'inabissava nel terriccio del terreno.
Diecimilaottocentosessantatre.
Diecimilaottocentosessantaquattro.
Espirai.
Inspirai.
Riaprii gli occhi, ma lo scenario attorno a me non era cambiato.
Stesse le pareti malamente scavate nella terra friabile; stessa la rigida brandina posta in un angolo su cui riposavo in posizione supina; stesso il tanfo pestilenziale di muffa, sudore e frutta rancida - resto dei pasti dei prigionieri che avevano stazionato nella cella prima di me -.
Il freddo mi aveva intorpidito le membra già dalla settemiladuecentesima goccia.
Circa due ore da quando mi ero risvegliata dal mio sonno inquieto.
Quattro, più o meno, da quando ero stata sbattuta qua.
Diecimilaottocentosessantacinque.
Diecimilaottocentosessantasei.
Diecimilaottocentosessantasette.

In lontananza udii il suono metallico di una spada che cozzava contro la cintura di un soldato che percorreva velocemente il corridoio dell'ala est.
Lontano, come tutto il resto.
Indistinto, opaco.
Un sogno che svaniva nel gelo che mordeva la mia pelle.
Incrociai le mani dietro la testa, avvertendo un fastidioso formicolio alle estremità delle dita.
Sarei morta assiderata...se avessero pietà di me, altrimenti sarei stata lasciata alle "amorevoli" cure di Maiko.
Una donna eccezionale oltre ogni dire, con una squisita fossetta sul mento e setosi capelli arancioni sempre legati in una lunga treccia.
L'avevo guardata forgiare le armi incantata così spesso che, di tanto in tanto, mi aveva consentito di farle da assistente.
Avevo imparato a piegare l’acciaio e a batterlo quando era ancora rovente e sprigionava scintille tutt’attorno.
La mia spada, per metà, era opera mia e ne ero orgogliosa.
Mi aveva preso sotto la sua ala protettrice e mi ero crogiolata nella sicurezza che la sua quiete mi regalava, ma allo stesso tempo pregavo di non dover mai finire tra le sue grinfie in combattimento.
Era spietata, incredibilmente agile e riusciva ad uccidere tre nemici con un unico colpo della sua spada a doppia impugnatura sulla cui elsa un drago stringeva tra i denti uno smeraldo.
Per la sua insaziabile sete di sangue, Maiko, era anche il boia della gilda, un titolo di cui andava fiera e che si era conquistata massacrando un intero esercito da sola.
Era una leggenda nella gilda e tutti la temevano.
I traditori come me morivano tra atroci sofferenze per mano sua, poichè disponeva di un arsenale di strumenti di tortura così vasto da far tremare qualunque essere umano, anche il più impavido.
Chiunque, dopo aver assaggiato solo un paio dei suoi arnesi, implorava, supplicava e desiderava morire al più presto.
Io avevo assistito ad una delle sue esecuzioni ed ero dovuta fuggire dalla stanza in fretta, colta da nausee intense.
Al solo pensiero impallidii, rilasciando un gemito strozzato.
Diecimilaottocentosessantotto.
Diecimilaottocentosessantanove.
Diecimilaottocentosettanta.
Il soldato che avevo udito precedentemente si fermò di fronte l'entrata della mia cella e restò impettito davanti le sbarre, come se stesse studiando la situazione prima di decidersi ad aprir bocca.
Rimasi indifferente e continuai a contare le gocce.
Diecimilaottocentosettantuno.
Diecimilaottocentosettantadue.

Il sottoposto armeggiò con la cintura e prese in mano un mazzo di chiavi tintannante ed aprì con fare incerto il chiavistello.
Quando una vampata di tabacco bruciato m'investì, mi scoprii sorpresa.
< Ryoga. > lo accolsi con tono incolore, continuando imperterrita a fissare il soffitto tetro.
Si fermò dopo aver fatto un solo passo e si torse le mani con nervosismo, tanto da far scrocchiare qualche osso.
Il silenzio calò tra noi come un pesante sipario di teatro e per qualche attimo l'unico suono che si frappose tra me e lui fu il lento ed incessante gocciolio.
< Sei ancora in tempo... > iniziò con approccio incerto, poggiandosi sui talloni e sfiorando con tocco leggero i miei capelli.
< In tempo per cosa, esattamente? > alzai un sopracciglio beffarda < Tornare sui miei passi, raccogliere la mia arma e togliere altre vite per salvare la mia? > chiesi tagliente.
< No! > si affrettò a rispondere, mentre con un dito bollente e sudato mi scostava il bavero della casacca, ancora tirato sotto gli occhi < Sai bene che non è questo che intendevo. Vorrei solo che non commettessi azioni avventate, seguendo l'onda delle tue emozioni confuse. > sussurrò, certo di aver toccato il tasto giusto.
Diecimilaottocentosettantacinque.
Diecimilaottocentosettantasei.
Sospirai, cercando di mantenere inalterato il tono della voce.
Quello che, però, mi uscì di bocca fu solo un lamento strozzato.
< Non posso. Non sono azioni avventate, non lo capisci?! Mi sono arrovellata il cervello per giorni! Ho lottato contro me stessa, Ryoga, ma non ci riesco! > la mano destra iniziò a tremare senza controllo e pungenti lacrime minacciavano di sgorgare a fiumi dai miei occhi.
Deglutii più volte prima di riprendere il controllo di me stessa.
Le sue dita mi accarezzarono la pelle nei punti più sensibili del viso e dovetti scostarmi, prima di cedere alla sua dolcezza.
< Non posso più fingere che trafiggere, squartare, dilaniare e decapitare sia giusto. Non lo è. Non siamo noi a dover decidere chi vive e chi muore! Come riesci a restare impassibile davanti a due occhi supplicanti? > gli domandai, con voce spezzata.
Mi sedetti sulla brandina e cercai i suoi occhi nel buio opaco che permeava l'ambiente.
Ryoga avevalo sguardo puntato a terra e calciava un invisibile sassolino, evitando la mia espressione indagatoria.
< Ho dovuto imparare a farlo. Sono stato allevato da Haranobu, Akane. Questo è l'unico modo di vivere che conosco. > disse prendendomi la mano delicatamente.
< Io invece avevo un'altra vita prima di questa, con valori e ideali diversi che ora mi impediscono di impugnare una spada per spezzare una vita come fosse un ramo secco. > gli spiegai con forse un po' troppa freddezza.
Lui annuì nell'oscurità ed io riuscii solo ad intravedere la sua sagoma.
< Tu puoi ancora salvarti. > mormorò, tirandomi a sè ed abbracciandomi con foga.
Restai immobile tra le sue braccia, inspirando il suo odore rassicurante.
Senza occhi indiscreti a scrutare ogni mia reazione, come faceva Haranobu i primi tempi, mi concessi il lusso di far scivolare dagli occhi un paio di lacrime che finirono sulla giacca di Ryoga, il quale nemmeno se ne accorse.
Diecimilaottocentosettantotto.
Diecimilaottocentosettantanove.
Alle diecimilaottocentonovantesima goccia, Ryoga mi staccò da sè con gentilezza e mi tenne per le spalle, costringendomi a guardarlo.
< L'unico modo che hai di salvare la vita al bersaglio che hai voluto risparmiare e che ha fatto risorgere la parte più umana di te è precedermi. > asserì incupendosi.
< Peccato che sia bloccata in questa nicchia microscopica, in cui fatico persino a respirare! > ironizzai, sollevando gli occhi al soffitto.
< Non per molto. > mormorò lui, stringendomi con forza i polsi.
Lo guardai interrogativa, ma l'unica risposta che ricevetti fu uno strattone che mi costrinse ad alzarmi in piedi.
Lo vidi rifare alla bell'e meglio la brandina, infilandoci sotto il guanciale a simulare la mia presenza.
Usavo lo stesso trucchetto al villaggio  quando scappavo di casa la sera tardi per incontrarmi con le mie amiche e andarci a fare un bagno al lago senza indossare alcun indumento.
Al ricordo di quei tempi felici una fitta acuta al cuore mi strozzò il respiro il gola.
Impiegai diversi secondi per recuperare un ritmo respiratorio normale; secondi che Ryoga, invece, sfruttò per spingermi fuori dalla cella e richiudere, cercando di fare il meno rumore possibile, il pesante chiavistello cigolante.
Mentre una strana, ma piacevole, speranza strisciava silenziosa verso il mio malandato cuore, imbrattato di sangue non mio, io venivo trascinata per corridoi secondari e cunicoli deserti, lasciandomi alle spalle l'ipnotico gocciolare del soffitto della cella e, mi auguravo, la vita da talpa assassina che avevo condotto fino a quel momento.

L'entusiasmo iniziale per questa storia già letta è presto scemato, ma non importa.
Ci sono ragazze entusiaste che non voglio abbandonare di nuovo che credono in queste mie parole e in questi personaggi così lontani da loro stessi.
A loro, a tutte loro, silenziose o loquaci che siano, vanno i miei ringraziamenti più sentiti ed un abbraccio immenso.
E' un capitoletto corto e di transizione, spero non sia troppo palloso.
Se volete lasciarmi una recensioncina, anche piccinapicciò io non mi schifo, eh XD

Strange.

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Capitolo 5
*** Devilish girl. ***


You see all my light and you love my dark.

Fifth. Devilish girl.




Quella ragazzina raccapricciante -oh, lei ama cantare- ha un piccolo regalo: una cosa fantastica.
Con i suoi piccoli occhi buffi color nocciola, con il suo piccolo buffo vecchio cappello blu, lei andrà ad incendiare il mondo.
Nessuno ha mai pensato che avrebbe potuto farlo. [Kerli]


< Chi sei? Chi sei? > chiedevo incessante alle voce che continuava a ghignare nell'ombra.
Nella testa mi figuravo appartenesse ad una bambina con l’innocenza negli occhi ed un sorriso diabolico sulle labbra.
Rabbrividii e aguzzai la vista alla ricerca di una forma, uno spruzzo di luce anche in lontananza, un po’ di colore...

In risposta, tuttavia, ricevetti solo un'altra risata cristallina che aveva il retrogusto di vetri graffiati.
< Chi sei? Chi sei? > domandai ancora, girando in tondo su me stesso senza riuscire a scorgere altro che oscurità e tenebre: una stanza infinita rivestita di pece.
Camminavo a tentoni, alla disperata ricerca di una fessura, di un raggio di sole o di luna che m'indicasse la via da seguire, ma non riuscivo nemmeno a vedermi le mani.
Ero ombra io stesso, pallida macchia di nero su un sudicio muro invisibile.

La voce risuonò ancora e mi sembrò che provenisse dalla mia stessa testa.
Caddi in ginocchio e mi accorsi con orrore che stavo sprofondando fino alla cintola in una disgustosa sostanza viscosa ed appiccicosa, che odorava di ruggine.
< Chi sei? > gridai in preda alla frustrazione, arrancando come nelle sabbie mobili: un passo più pesante dell'altro, il fiato corto spezzato dall’angoscia.
Di nuovo il risolino che ricevetti in risposta mi fece infuriare.
Cominciai a menare fendenti all'aria a casaccio, sperando di riuscire ad afferrare qualcosa, ma tra le mie dita scivolava solo aria fredda.
Tremai.
Mi sentivo esausto, prosciugato.
Avrei solo voluto poter sprofondare in un sonno senza fine e non risvegliarmi più.
Gridai di nuovo, colpendo con sempre più violenza l'inconsistente ambiente che mi attorniava.
D'un tratto afferrai qualcosa e la strattonai con ogni briciolo di energia che avevo in corpo.
Qualsiasi cosa fosse si fece tirare con facilità.
Sembrava tessuto quello che stringevo convulsamente tra le dita, unica mia ancora di salvezza.
L'ennesima risata smembrò il silenzio irreale di quel buio impalpabile.
< Chi cazzo seiiiiiiiiiiiiiiiiii? > diedi fondo a tutta la voce che possedevo, ma, al contrario di quanto mi aspettassi, mi rispose solo l'eco di ciò che avevo appena strillato.
La stoffa che avevo ancora nel pugno venne tirata dal lato opposto e mi ritrovai a serrare la presa per non perderla.
Senza un briciolo di speranza, sarei annegato. Perso definitivamente anche io.

Scrutai nell'oscurità, continuando a chiamare a gran voce e d'improvviso, come fari nella notte, due occhi si spalancarono di fronte a me, grandi, limpidi e luminosi, poco sopra la mia testa.
Li guardai stupefatto, aspettando che la voce si schernisse ancora di me, ma quelle iridi mogano mi rimandavo soltanto occhiate tristi e dispiaciute.
E poi comparve.
Aveva un vestito azzurro, una lunga coda laterale di capelli corvini e stringeva in una mano una bambola senza occhi.

< Akane. > disse piegando le labbra all’ingiù.
Una bambina. Era davvero una bambina e sembrava atterrita quanto me.
Dischiuse la bocca e tornò ad avere l’età che avrebbe dovuto sempre possedere, ma che il male le aveva sottratto.
Le sue scarpette bianche erano schizzate di sangue e, nonostante questo, provai l’irrefrenabile istinto di proteggerla e coccolarla, sussurrandole che, smettere di fare i dispetti esporsi e chiedere scusa se necessario, era giusto.
Niente più sbagli, ne avevamo già fatti troppi entrambi.
Mi scossi, portando una mano alla testa, e digrignai i denti.
Che diavolo mi prendeva? Da dove nascevano quei sentimenti?
Avrei dovuto desiderare fare a pezzi la creatura che si prendeva gioco di me, annegarla nello stesso liquido denso che ostacolava i miei movimenti...ma non lo reputavo corretto.
Era troppo piccola per distinguere la malvagità dalla bontà e non le si poteva fare una colpa di questo.

< Akane. > ripetei io in trance, continuando a fissare quegl'occhi e scorgendovi dentro sempre nuove sfaccettature.
Cioccolata fondente, legna arsa in un camino, terra bagnata.

Allungai un braccio nel tentativo di raggiungerla, ma lei arretrò.
Cercai di avvicinarmi, ma la sostanza in cui ero immerso mi rendeva goffo.
Annaspai e inciampai.
Protesi una mano e lei mi imitò, scalciando contro quel qualcosa che la trascinava via tra le tenebre di nuovo.
La volevano. Non potevano farne a meno, era preziosa per qualche assurda ragione.

< Akane! > gridai il suo nome, mentre lei si allontanava ancora.
< Ranma! > la sua voce acuta era disperata.
Pianse e scagliò verso di me la bambola rotta.
Pochi attimi ed i suoi occhi tornarono di nuovo due puntini brillanti come stelle. Lontani.

< Ranma! > gemette un’ultima volta la bambina diabolica, prima che l’oscurità calasse anche su di me come una frana roboante.

< Ranma! >
< Lasciami dormire, vecchio, ho sonno! > mugugnai, facendo per voltarmi dal lato opposto.
Un dolore straziante mi paralizzò i muscoli e m'impedì il movimento, costringendomi ad aprire di scatto gli occhi per capire il motivo di tale sofferenza.
Stringendo i denti per ingoiare l'urlo che mi stava salendo in gola, schiusi le palpebre.
< Ranma! >
La prima cosa che notai furono le pareti bianche e disadorne della mia stanza da letto.
Fuori era giorno ed una evanescente luce filtrava dalle tende socchiuse.
Un'altra fitta mi prosciugò la bocca di tutta l'aria: boccheggiai.
Abbassai lo sguardo e vidi che ero a petto nudo, con una fasciatura stretta e macchiata di rosso al centro dell'addome.
Sollevai gli occhi al soffitto, incredulo, senza, per un momento, riuscire a ricordare niente.
Come mi ero ferito? Quando? Ed il mio avversario? Quale era stata la sua sorte?
Dal nulla entrarono nel mio campo visivo un paio d'occhi castani privi di profondità e feci per gridare -visto che non sarei stato in grado di colpire nemmeno una mosca-, ma mi venne tappata la bocca.
< Ranma! > mi riprese una voce gentile < Taci o tuo padre si sveglierà. >
Tolse la mano da sopra le mie labbra.
Dove avevo già visto quelle iridi?
Per quanto mi arrovellassi il cervello alla ricerca di una risposta non riuscii ad individuarne nemmeno mezza.
< Chi diamine sei? > chiesi brusco e schegge di ricordi di un sogno si affacciarono alla mia mente.
Una bambina.
Un giocattolo rovinato.
Un’oscurità vorace.
Bianche scarpette macchiate.
< Akane. > sussurrò lei ed esclamai io nel medesimo momento.
Cercai di tirarmi a sedere, ma ricaddi indietro, imprecando per il dolore.
< Stà giù... ti ho ferito gravemente. > disse, spostando lo sguardo verso la parete alle mie spalle e spingendomi sul futon con una mano piccola e candida.
Fulgidi flash annebbiarono la mia vista qualche attimo e, dopo aver sbattuto le palpebre più volte, ricordai l'aggressione che avevo subito.
Ringhiai, cercando di scansarmi da lei, che però non battè ciglio di fronte alla mia reazione.
< So che è difficile da credere se detto da qualcuno che aveva il compito di ucciderti ma... ti ho salvato la vita. > sussurrò sempre fissando qualcosa che non riuscivo a vedere...e che forse nemmeno lei vedeva davvero.
Sbottai a ridere e a quel punto lei posò i suoi occhi su di me, lasciando che vedessi le lacrime che affogavano la sua colpa.
< Beh...grazie mille, ma se dovevi salvarmi potevi ferirmi meno gravemente. > non potei fare a meno di farle notare quel particolare, visto il modo in cui mi bruciava l’addome.
Se mi ci avessero conficcato dentro un tizzone ardente probabilmente avrei sofferto meno.
Serrai le mani a pugno lungo i fianchi e sbuffai quando Akane mi fornì un banale < Non puoi capire. > come spiegazione.
< Dì un po': ma non controllate mai le vostre fonti? Mi hai squarciato l'addome solo perchè te l'ha ordinato un vecchio rincoglionito, senza preoccuparti di verificare che fosse giusto o no! Ma per chi diavolo lavori? Ce l'hai un cervello? > non riuscivo a controllarmi. Le stavo gridando contro un sacco di cattiverie senza volerlo davvero.
Il fatto era che non sopportavo la sofferenza che il suo sguardo mi sbatteva in faccia e cercavo un modo -decisamente sbagliato, lo ammetto- di cancellarla...e nel frattempo di capirci di più in quel rompicapo.
Alla sua figura si sovrapponeva quella della bambina con l’innocenza all’angolo delle labbra rosse del mio sogno a cui mi sentivo legato dallo stesso senso di smarrimento.
L’espressione di Akane mutò di colpo e dardeggiò di fierezza, incupendosi, però, subito dopo.
< Sarebbe inutile spiegartelo...e soprattutto non abbiamo tempo. > mi comunicò alzandosi in piedi.
Solo allora notai lo strano modo in cui era vestita: scarpe basse e comode, probabilmente di fattura artigianale, pantaloni neri attillati che le fasciavano le gambe snelle, casacca pece con un bavero bizzarro che le copriva interamente il viso, lasciando scoperti solo gli occhi.
Si avvicinò alla finestra e l'aprì, facendo entrare nella stanza una fresca brezza mattutina.
< Quanto tempo ti serve per prepararti? > domandò, scrocchiandosi le dita.
La guardai allucinato, come se mi avesse chiesto se ero in grado di fare piroette con un nastro da ginnasta.
< Ranma? > battè ritmicamente un piede sul parquet con nervosismo, attendendo una risposta e lanciando, nel contempo, occhiate ansiose all'esterno.
< Akane... > iniziai titubante < ...prepararmi per cosa? > chiesi, sembrandole probabilmente, un po' idiota.
Lei sollevò gli occhi al soffitto, imprecando.
Si, ero decisamente un cretino per lei.
< Dobbiamo andar via! > esclamò allargando le braccia, come se la cosa fosse evidente.
Avrebbe dovuto esserlo?
< Andar via... > ripetei cauto, studiando le sue sopracciglia scure arcuarsi.
< Vuoi un disegnino? Stanno tornando per te e non saranno clementi - o stupidi, mettila come vuoi- come lo sono stata io, Ranma! > s'infervorò, prendendo a gesticolare.
Senza darmi il tempo di rispondere o realizzare quello che faceva, tornò al mio fianco così veloce che faticai a seguire il suo movimento e mi sollevò in piedi senza sforzo.
Gridai di dolore quando la ferita vomitò un nuovo fiotto di sangue e la spinsi via in malo modo, appoggiandomi alla parete col fiato corto.
< Che cazzo fai?! > sibilai tra i denti serrati.
< Ranma se resti qui muori, se vieni con me abbiamo una possibilità. > dichiarò spazientita, cominciando a ficcare i miei abiti a casaccio in una borsa tirata fuori dall'armadio.
Dava per scontato che l'avrei seguita, realizzai sbalordito.
< Frena, frena, frena! > la bloccai per un braccio, ignorando la fitta acuta che mi riverberò su per il petto < Tu mi stai dicendo che dovrei venir via con te, abbandonando il mio villaggio, il mio vecchio, la mia vita...tutto per seguire una sconosciuta che qualche giorno fa ha tentato d'ammazzarmi? > le risi in faccia, incredulo.
Akane tentennò, poi si districò dalla mia presa e indietreggiò.
< So bene che non dovresti aver motivo di fidarti di me...potrebbe essere una trappola quella in cui ti sto attirando...oppure no. Decidi tu. La vita è la tua, sai quanto me ne frega. > disse, voltandomi le spalle.
< Abbastanza da risparmiarmi. > la provocai.
Lei si girò per affrontarmi, ma sbattè contro di me.
Vicini, io e lei, come eravamo stati solo quando mi aveva accoltellato.
Era incredibilmente minuta al mio fianco.
Mi ritrovai a fissare i suoi occhi incantato, nemmeno fossero quelli di una sirena.
La mia gola si inaridì improvvisamente e iniziai a sudare freddo.
Perchè diavolo stavo reagendo così?
Akane si allontanò fulminea da me, quasi si fosse scottata.
< L'hai fatto volontariamente, vero? Non hai sbagliato casualmente il punto in cui mi hai colpito. > domandai retorico, leggendo la risposta nella sua occhiata d’assenso.
Inspirai, deglutendo a forza e cercando di scacciare la sofferenza.
Akane mi guardava muovere passi lenti e misurati per la stanza, senza battere ciglio.
Stavo davvero prendendo in considerazione l'idea di fuggire con un'ex assassina, probabilmente ricercata ora?
Non poteva essere altrimenti: non sarebbe tornata qui per aiutarmi a scappare se non fosse stato così; non gliel'avrebbero concesso.
Mi si strinse il cuore alla sola idea di abbandonare Ucchan in un momento come quello, in cui avrebbe avuto bisogno di protezione ed affetto...ma se davvero i sicari compari di Akane mi stavano cercando non avrei potuto dargliene comunque: di lì a poche ore sarei stato cibo per vermi.
Probabilmente non avremmo fatto nemmeno tanta strada: nelle condizioni in cui ero avremmo proceduto a passo di lumaca e ci ci avrebbero raggiunto presto, ma non sarei rimasto seduto a capo chino ad attendere la mano del boia.
Scappare era da codardi, ma il piano era quello di rimettermi –visto che conciato com’ero non avrei saputo tener testa nemmeno a mia nonna col bastone-, farmi addestrare da Akane così da poter combattere alla pari contro i suoi stessi compagni e poi tornare indietro ad esigere vendetta.
Guardai lei di sottecchi, che si stava tormentando le mani aspettando una mia decisione, e desiderai vedere il resto del suo viso, celato da uno spesso strato di stoffa nera.
Era tornata per salvarmi, mettendo a rischio se stessa.
Perchè?
Cosa diavolo era che l’aveva spinta a risparmiarmi e a tornare qui a prendermi?
E per quale fottuto motivo stavo davvero considerando di seguirla?
Sospirai e soppesai le due alternative per una frazione infinitamente minuscola di un minuto e poi agii d’istinto, come al mio solito.
< Andiamo. > concessi alla fine, sperando che fosse la mossa migliore.

Nella passata pubblicazione, questa capitolo s'intitolava ''run away'' e non ne ero molto soddisfatta.
Con la storia della bambina nell'incubo, invece, mi piace molto di più.
Mi dispiace non riuscire ad aggiornare con la cadenza settimanale precisa che vorrei ma, come ho già detto a qualche lettrice, ho cambiato sede lavorativa e il tempo residuo è davvero scarso.
Io comunque non mollo...spero nemmeno voi.
Vi abbraccio, perchè anche se poche so che ci siete ancora.

Strange.

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Capitolo 6
*** Weakness. ***


You see all my light and you love my dark.

Six. Weakness.


 

Tu non sei più un mio nemico.
Ora c’è un raggio di luce sul tuo viso.
Posso guardarti negli occhi e non avrei mai immaginato che sarebbe stato così semplice.
Sai ascoltare la musica senza nessun suono, sai guarire il mio cuore senza conoscermi.
Posso piangere davanti a te perché non hai paura di guardare in faccia la mia debolezza. [Elisa]

< Akane. > per la terza volta pronunciai debolmente il suo nome, ma la voce mi si smorzò tra le labbra prima di giungere alle sue orecchie.
Deglutii quanta più saliva riuscii a trovare nel cavo orale, sperando di recare sollievo alla gola arida, ma il beneficio che avvertii fu pari a quello che avrebbe prodotto una goccia d'acqua in un deserto.
< Akane! > ci riprovai testardo, sentendo le forze venir meno.
Lei finalmente si fermò e mi guardò tra il sorpreso e l'infastidito.
Mi tolsi il suo braccio da dietro la schiena e mi appoggiai ansante al tronco di quello che sembrava un acero. Mi asciugai con la manica della casacca il sudore freddo che continuava a colarmi sul naso ed emisi un rantolo quando scivolai a terra, piegando gli addominali che irradiarono in tutto il busto fitte di protesta.
Akane mi osservò muta per qualche attimo e poi, sbuffando, gettò la sacca e terra e si accucciò accanto a me.
< Di questo passo ci raggiungeranno al tramonto. > asserì secca, guardando le fronde degli alberi ondeggiare al passaggio di un alito di vento tiepido.
< Morirò prima, stà tranquilla. > ribattei sarcastico, alzando la maglia per controllare lo stato della fasciatura.
< Fantastico! > esclamai a mezza bocca, scrutando con aria critica il rosso vermiglio sporcare il candore delle bende.
Feci stridere i denti gli uni sugli altri mentre spostavo la garza verso l’alto.
Alla vista del mio sangue il suo sguardo s'incupì e si affrettò e spostarlo di nuovo su qualche nuvola passeggera.
I suoi occhi scuri, per qualche attimo, mi sembrarono meno impenetrabili, più innocenti di quanto avessi creduto possibile.
Quanto era potente la bestia che muoveva la sua mano armata, che avevo scorto qualche notte prima, e quanto lo era la bambina che albergava in una piega dimenticata del suo essere?
< Non hai caldo con quella cosa tirata sul viso? > le domandai, cercando di deviare i miei pensieri su qualcosa di concreto e non idiote congetture fuori luogo.
Reclinai la testa all'indietro contro la corteccia dell’albero, tentanto di prendere fiato.
Lei fece un cenno brusco col capo che interpretai come un "no".
Si voltò e mi portò una mano alla fronte, sospirando.
< Hai la febbre, Ranma, per questo senti caldo. > spiegò, frugando nella borsa alla ricerca di una borraccia.
La guardai con la coda dell'occhio e notai l'assenza della spada con cui mi aveva ferito la volta precedente; quella con l’elsa lavorata ed un’ametista come pomo.
Quando gliene chiesi la ragione Akane s'irrigidì come una statua scolpita finemente nel marmo.
< Vieni... > disse alzandosi di scatto, come se fosse seduta su una piastra cocente < ...è ora di andare. > proseguì tendendomi una delle sue manine piccole.
La fissai contrariato.
< Akane, se mi alzo svengo. > grugnii, incrociando le braccia al petto e pentendomene un istante dopo.
Gemetti.
< Smettila di fare la femminuccia! Vuoi vivere o no? Dobbiamo muoverci un altro po', almeno finchè c'è luce, poi riposeremo! >
In risposta alla sua ramanzina da brava maestrina mugugnai un'imprecazione e, reggendomi al tronco scorticato da qualche animale selvatico, mi alzai in piedi.
Sbarellai e le caddi addosso.
Akane puntò i piedi a terra per non essere schiacciata dal mio corpo.
< Ma quanto accidenti pesi? > chiese mentre mi risollevava, passandosi di nuovo un mio braccio sulle spalle.
< Sempre meno di te. > riuscii a dirle tra rantolo e l'altro, cercando, nel contempo, di mettere i piedi in fila.

 

***


Rovinai a terra con un tonfo attutito e gridai di dolore e sorpresa.
Akane, prontamente, mi tappò la bocca con poca delicatezza e per poco non mi soffocò.
Quando riaprii gli occhi, strizzati per contenere la sofferenza, me la ritrovai addosso, spalmata sul mio corpo ad un centimetro dal mio naso.
La frangetta si era spettinata e in qualche ciocca si era incastrata una fogliolina.
< Taci! > sussurrò impercettibilmente.
Alzai un sopracciglio interrogativo e mi limitai ad ascoltare assieme a lei i rumori che popolavano il bosco.
Il gracchiare di un corvo sulla betulla alla nostra destra, il fruscio del vento tra le fronde degli alberi, lo scrosciare di una cascata poco distante e lo scricchiolio di un ramo spezzato.
Trattenni un’imprecazione e persino il fiato.
Negli occhi di Akane serpeggiò una lampo di terrore, che si sbrigò a cancellare indossando di nuovo quella maschera impenetrabile che non abbandonava praticamente mai.
Dopo quelle che mi parvero ore, alle nostre spalle udimmo il respiro affannato di qualcuno che stava correndo proprio nella nostra direzione.
Serrai la mascella, ignorando il dolore all'addome, il fastidio di un sassolino conficcato nella mano -che lei mi spingeva a terra- e persino l'intorpidimento del piede sinistro.
Ci avevano raggiunto.
Maledissi i kami in silenzio, ritrovandomi a fissare gli occhi scuri di Akane che sembravano chiedere perdono.
Non ne capivo il motivo, ma quel suo rammarico mi fece sentire un po' sollevato, anche se la sorte che mi si prospettava non era poi delle migliori: morire per mano di un ex compagno della mia quasi assassina, ora salvatrice, che avrebbe fatto la mia stessa fine.
Al solo pensiero del casino che si nascondeva dietro quella follia un’emicrania apparve indesiderata.
In qualche angolino della mia mente sofferente ero ancora convinto che se mi fossi dato un pizzico mi sarei svegliato nel mio futon indenne e pronto per passare l'ennesima bella giornata con una Ucchan in piena forma.
- Coglione disilluso! -
Deglutii e involontariamente contrassi la mano, accarezzando così il dorso di quella di Akane, che sussultò su di me.
Sgranò gli occhi grandi e mi sembrò semplicemente sorpresa, non infastidita.
Il nostro inseguitore, in quel momento, ci superò senza nemmeno degnare di uno sguardo il cespuglio dietro cui Akane mi aveva gettato con poca delicatezza.
< Non ti muovere. > sussurrò di nuovo ed io annuii in risposta, incapace di articolare un suono.
Ero stato catturato dai suoi occhi nocciola come un pesce all'amo e, più cercavo di divincolarmi, più l’uncino si conficcava nel mio palato e mi feriva.
Per quanto furiosamente sbattessi le palpebre non riuscivo a interrompere il contatto visivo che avevamo instaurato e la cosa mi spaventava.
Con un mezzo sorriso, però, notai che anche ad Akane stava accadendo la medesima cosa e ne sembrava sconcertata quanto il sottoscritto.
Restammo in quella posizione per un'altra decina di minuti, giusto per essere sicuri che non ci fosse più nessuno nelle vicinanze, e poi lei mi aiutò ad issarmi di nuovo in piedi.
Tenni la sua mano nella mia più del dovuto e dimenticai qualsiasi cosa che non fosse il contatto con la sua pelle morbida, persino le fitte acute che mi spezzavano il fiato.
Akane, invece, sembrava non essersi accorta di nulla.
Si liberò svelta della presa, studiò per qualche attimo l'ambiente circostante e poi, risoluta, si diresse dalla parte opposta a quella presa dal nostro inseguitore.
< Non...ce...la... > non riuscii a terminare la frase che caddi ginocchioni a terra dopo neanche una decina di passi, trascinandomela dietro.
Akane mi sollevò il viso fradicio di sudore con le dita gelide.
Mi porse un po' d'acqua e poi indicò con la testa qualcosa che doveva distare pochi metri da noi.
< C'è una rientranza nella roccia laggiù, ai piedi di quel monte. Vieni, ti riposerai lì. > spiegò scostandomi la frangetta dal viso.
Odiavo farmi vedere in quelle condizioni da lei.
Era uno smacco per il mio orgoglio mostrarmi debole, anche se era stata lei a ridurmi in quello stato.
Eppure sembrava non pesargli la situazione. Continuava a fissarmi decisa, come se non vedesse le vere condizioni in cui vegetavo o fosse completamente intenzionata ad ignorarle.
La verità era che non ero altro che un peso per lei, che avrebbe potuto mettersi in salvo lasciandomi solo a morire, invece non l'aveva fatto e la ragione che l’aveva spinta a compiere quel gesto altruista mi rosicchiava il fegato come un tarlo.
Decisi quindi di ubbidire senza fare i capricci, come un automa, tantopiù che al momento mi ritenevo incapace di mettere in fila due pensieri coerenti.
Akane tremava per lo sforzo di trascinarsi addosso praticamente un peso morto ma non si lamentò nemmeno una volta, sebbene ad ogni passo le sue ginocchia cedevano un po’ di più
Quando infine mi lasciò cadere a terra, sbattei la schiena contro qualcosa di appuntito che mi rubò il poco fiato che avevo.
Imprecai e la guardai bieco, ma lei si strinse nelle spalle e si scusò velocemente, asciugandosi la fronte madida e cercando, nel contempo, qualcosa con cui accendere un fuoco.
Fissai il cielo stellato che vedevo attraverso la parete di roccia e mi chiesi quand'è che il sole era calato: non me n'ero neppure accorto.
Mi sentivo avvampare, come se fossi stato un maialino messo a rosolare sul fuoco, ma quando guardai Akane notai che stava ancora armeggiando per accendere la fiamma.
Cos'era allora la causa di quel caldo infernale?
< Smettila di lambiccarti il cervello, Ranma o la febbre non scenderà mai. Dormi e recupera le forze. Domani dobbiamo allontanarci da qui. > disse fredda, distaccata, appoggiandosi alla parete di ruvida pietra di fronte a me e fissando le fiamme danzanti del fuocherello.
Ne rimasi ipnotizzato anche io e per qualche attimo mi sembrò di scorgere tra i colori cangianti delle fiamme il guizzo di un piede.
Strizzai gli occhi per cogliere altri particolari e vidi Ucchan muovere passi di danza sui ciottoli di fiume di lava come il giorno dell'incidente.
Un manto di sofferenza calò sui miei occhi stanchi, che chiusi prima di essere sopraffatto da ricordi spiacevoli che sembravano quasi appartenere ad un'altra vita.
Avevo l’impressione che, se fossi sopravvissuto, ogni mia certezza sarebbe stata minata e distrutta.
L'ultima cosa che vidi, prima di scivolare in un sonno inquieto e senza sogni rincuoranti, fu la sagoma di Akane che silenziosa si avvicinava a me e mi copriva gentilmente con la sua casacca.

No, non mi sono scordata di questa storia, tutto il contrario.
Era sempre nei miei pensieri, ma sono sotto stress questo periodo, infatti faccio il conto alla rovescia da un mese per le tanto agognate ferie di Natale.
Sono arrivata a sognarmi scorpioni che mi pungono e lasciano il pungiglione della mia caviglia e ragni abnormi che mi mordono il collo, figuratevi un po'...
Non mi abbandonate anche voi ragazze. Capisco che è atroce starmi dietro, ma faccio del mio meglio, giuro.
Un abbraccio forte a chi tiene duro con me.
A presto (spero).

Strange.

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Capitolo 7
*** Burns. ***


You see all my light and you love my dark.

Seven. Burns.



Fino a quando tutto brucia, mentre tutti urlano bruciando le loro bugie e bruciando i miei sogni.
Tutto questo odio e tutto questo dolore li brucerò fino in fondo. [Anastacia]


Lingue di fuoco, muri di fumo e cascate di cenere mi circondano.
Un arcobaleno di scintille e polveri increspano l'aria.
Dov'è? Dov'è l'uscita? Devo andarmene, devo fuggire!

< Akane! Svegliati! >

Il fumo scivola nella mia gola come un serpente sinuoso e m'impedisce di respirare.
Tossisco, mi lacrimano gli occhi e non riesco a vedere ad un palmo dal mio naso.
Devo scappare in fretta se non voglio morire.

< Dannazione, Akane! >

Il pianto di un bambino squarcia il suono ovattato delle fiamme crepitanti.
Da dove proviene?
Cerco di guardarmi attorno, oltre la cappa nera che è calata nell'ambiente.
Una trave mi cade accanto e mi manca per un soffio. Il calore è insopportabile, mi sto squagliando come ghiaccio al sole.
Annaspo in cerca d'aria e mi copro la bocca con la manica della giubba annerita e bruciacchiata, cercando di non inalare troppa anidride carbonica e perdere i sensi.
Il pianto continua incessante e mi perfora i timpani.
Maledizione, piccolo, dove sei?

< Svegliati! Svegliati, Akane! Cazzo! >

Finalmente, nel rosso danzante che circonda la mia visuale, riesco a scorgere due braccine muoversi da un fagotto.
Facendo attenzione al pavimento infuocato e dissestato e schivando macerie che crollano dal soffitto arrivo a sfiorare il bambino.
Mi guarda con degli occhioni verdi come l'erba e la mia bocca simula un sorriso di dolcezza.
Lo prendo goffamente in braccio, cercando di calmarlo e, nello stesso tempo, un modo sicuro per uscire indenni entrambi.
Una parete di fuoco di staglia davanti a me, separandomi dall'uscita della casa che crolla a pezzi.
L'ennesima valanga di detriti scivola ai miei piedi, sollevando una vampata di calore insopportabile.

Guardo di nuovo il viso paffuto del piccolo e mi faccio forza.
Devo salvarlo, devo!
Grido con quanto più fiato ho in gola mentre scintille e fiamme mi avvolgono il corpo, rendendomi una torcia umana, giusto il tempo del salto che mi separa dalla salvezza.

Aprii gli occhi di scatto, tirandomi a sedere e ansimando con la sensazione del fumo ancora a serpeggiarmi in gola.
Misi a fuoco l'ambiente che mi circondava dopo qualche istante di smarrimento e d'improvviso ricordai dove mi trovavo e perchè.
Balzai in piedi, allontanandomi da un Ranma bianco come un cencio, chino su di me con il volto gelato in una maschera di preoccupazione.
Sulle sue spalle notai la mia casacca sgualcita con cui l'avevo coperto la notte precedente.
Maledizione!
< Akane! Stai bene? > mi fissò cercando di decifrare il mio sguardo duro e terrorizzato nella fievole luce rosata dell'alba.
Mi voltai fulminea prima che osservasse meglio il mio viso.
Non doveva vedere. Nessuno doveva vedere.
Avevo ancora le mani ancora sudate e il petto si alzava e abbassava a ritmo frenetico come se avessi corso per chilometri.
Annuii in risposta, tenendomi sempre di profilo e stringendomi le braccia sotto il seno.
Ranma continuava imperterrito a fissarmi, cercando di trovare una falla nella mia corazza.
< Sembrava che avessi le convulsioni. > mi fece notare, avvicinandosi di un passo e facendo arretrare me della stessa misura.
< Sto bene. > risposi con voce malferma.
Dannazione, dovevo riprendere il controllo delle mie emozioni!
Emozioni che tra l'altro non possedevo più da così tanto tempo che alle volte mi domandavo se nel petto non avessi una pietra dura e immobile piuttosto che un cuore pulsante.
Perchè ora ricomparivano quelli che assomigliavano terribilmente a sentimenti? Perchè proprio di fronte a lui?
< Stai bene quanto me con uno squarcio nell'addome. > ribattè sarcastico, muovendo l'ennesimo passo.
< Non farlo. > sussurrai, mentre sentivo sulla schiena gli spuntoni di roccia premere contro le scapole.
Ero in trappola, imprigionata tra lui e la parete di fondo della grotta, senza via di uscita.
La luce che proveniva dall'esterno non riusciva a raggiungerci e quindi eravamo immersi in un'oscurità opaca, traslucida.
Riuscivo a distinguere a malapena la sua sagoma nella penombra ma i suoi occhi rilucevano come pietre d'acquamarina.
Boccheggiai, avvertendo le sue scarpe calpestare i sassolini sul terreno.
Stava avvicinandosi di nuovo ed io non avevo armi con cui respingerlo.
< NON FARE UN PASSO IN PIU'! > gridai, scoppiando in un pianto isterico che sorprese me per prima.
Erano lacrime vere, quelle? Singhiozzi concreti?
Ero ancora capace di produrne?
M'inginocchiai a terra e mi coprii il viso con mani tremanti, sfogando tutta la tensione che l'incubo m'aveva gettato addosso e che ancora non riuscivo a scrollare via.
Era assurdo!
Per due anni avevo creduto di avere i condotti lacrimali prosciugati, poi compariva lui nella mia vita e improvvisamente io mi trasformavo in una fontana ambulante.
Quando metabolizzai quella constatazione altre lacrime, di frustrazione stavolta, si affacciarono ai miei occhi.
Volevo smettere, eppure non ci riuscivo.
Il mio corpo sembrava cacciar via a calci tutto ciò che avevo ingoiato in quel lasso di tempo sotto forma di goccioline d'acqua salata.
Non sapevo se odiare più me stessa o Ranma.
Mi stavo mostrando debole di fronte ad un estraneo che aveva mandato a monte l'esistenza che mi ero faticosamente ricostruita come se fosse un castello di sabbia e lui una grossa mareggiata.
Lo detestavo per quello che mi aveva fatto e continuava a farmi.
< A-Akane... > si avvicinò incerto, sfiorandomi la spalla con una mano incandescente.
Mi ritrassi al suo tocco, singhiozzando ancora.
Sotto le mie dita, la pelle sensibile delle cicatrici veniva bagnata dalle lacrime e lo odiavo anche per quello.
In cuor mio sapevo che una volta visto il mio viso deturpato si sarebbe ritratto inorridito come mio padre e allora non avrei potuto più stargli accanto.
Sarei rimasta sola nuovamente.
Perchè, in quel momento, m'accorsi di essermi illusa di aver trovato qualcuno talmente disperato da aver bisogno di me, così com'ero.
Ma Ranma non lo era. Lui avrebbe potuto cavarsela, se solo io l'avessi lasciato andare per la sua strada.
Ma io stavo sviluppando una specie di codardia inguaribile che mi faceva accapponare la pelle soltanto al pensiero di restare con l'unica compagnia dei miei demoni.
Troppo a lungo mi avevano straziato l'animo, favoriti dalla terra bruciata che mi ero fatta attorno.
Nell'attimo stesso in cui avevo iniziato a sperare di poter condividere il mio fardello doloroso con un'altra persona, mi ero esposta.
E l'esporsi comportava il rimanere feriti e delusi. Di nuovo.
Non c'era nessuno abbastanza coraggioso da rimanere con me e il mio volto sfregiato a quel modo.
Nessuno osava guardare oltre la superficie e chiedersi il motivo di quei segni indelebili.
< Lasciami stare. > ringhiai.
< NO! > alzò la voce e mi tolse le mani dalla faccia con prepotenza < Perchè fai così? Perchè piangi? Dimmelo! Io non...io non lo capisco. > aggiunse con un tono che mi sembrò spaesato.
Cercai di divincolarmi, ma la sua stretta era micidiale e m'impediva i movimenti.
< Non sono affari tuoi. > sibilai a denti stretti, mollandogli un calcio sul ginocchio che lo fece imprecare.
Allentò la morsa sui polsi e ne approfittai per allontanarmi.
Arrivai all'imbocco della grotta e, senza proteggermi il viso, uscii alla luce, pentendomene un istante dopo, quando mi sentii afferrare per la cintola.
< Dove cazzo vai? > mi chiese col fiatone.
Probabilmente la febbre alta del giorno prima gli aveva lasciato dei postumi e uno sforzo simile gli era costato un bel dispendio d'energia.
Gli rimasi di spalle senza proferire parola, lasciando che il tiepido sole appena sorto mi sfiorasse il viso.
Mi era sempre piaciuta la sensazione, ma da quando la mia guancia destra era stata sfigurata da quelle ustioni avevo evitato la luce del sole come la peste.
Era la prima volta, dopo anni, che permettevo al mio volto scoperto di farsi accarezzare dai raggi solari e per qualche assurda ragione mi sentii in dovere di ringraziare Ranma.
< Mi vuoi spiegare cosa diavolo ti è preso? > domandò infastidito < E vuoi smetterla di startene lì imbambolata? Siamo all'aperto, potrebbero individuarci facilmente! > mi fece notare giustamente.
Annuii.
< Ridammi la mia casacca. > ordinai imperiosa, senza accennare a spostarmi e continuando a rivolgergli le spalle.
< A che diamine ti serve ora? > sbottò irritato, aggirandomi fulmineo fino a trovarsi di fronte a me.
Quando i suoi occhi sbirciarono il mio viso, il suo impallidì.
La sua bocca si spalancò in una muta esclamazione di stupore e i suoi occhi corsero veloci da una ustione all'altra.
Abbassai le palpebre, sconfitta.
Ora che aveva visto com'ero davvero, era giunto il momento di andare.
Per qualche istante mi ero crogiolata nell'insulsa fantasia che lui potesse essere diverso, che potesse ignorare la ragnatela di cicatrici che mi deturpavano il viso e trattarmi come un essere umano qualunque e non un fenomeno da baraccone o un caso umano da compatire.
Il suo silenzio m'irritò. Qualunque cosa avesse da dire volevo che me la sputasse in faccia senza vergogna, senza reprimersi per paura di farmi male.
Ero abbastanza forte da sopportare l'ennesimo sguardo schifato. Uno più, uno meno non avrebbe fatto differenza per me.
Al posto delle sue parole avvertii, invece, il suo tocco caldo sulla pelle. Mi ritrassi d'istinto ma lui non si fece intimidire e continuò a percorrere con un dito quei solchi dolorosi.
< Che ti è successo? > chiese con una voce che mi sembrò arrabbiata più che pietosa.
Aprii gli occhi e me lo ritrovai così vicino che i nostri nasi si sfioravano.
Il mio cuore balzò nella cassa toracica, compiendo una capriola.
< Akane? Chi ti ha fatto questo? > insistette, scrollandomi per le spalle.
Non era la reazione che mi aspettavo, che avevo previsto. Non somigliava affatto a quelle che avevo visto fino a quel momento: sconcerto, repulsione, pena, compassione...mai la rabbia per ciò che avevo passato.
Mi sembrò di scrollarmi di dosso un macigno del peso di una montagna. Lo guardai sollevata, sentendo nascere nuove lacrime, che arrivarono ad ostruirmi la gola.
< A-A-Akane? > Ranma mi guardò con i suoi occhi cristallini e sinceri e si affrettò ad asciugare la lacrima che era sfuggita al mio controllo, rotolando birichina sulla guancia sana.
Non riuscii a rispondergli nulla. La mia mente era un turbine di emozioni e sensazioni contrastanti tra loro ma incredibilmente piacevoli.
Umane.
In un goffo tentativo di rassicurarmi, mi strinse a sè, dandomi pacche di incoraggiamento sulle spalle.
Il suo essere così imbranato con una ragazza in lacrime tra le braccia mi fece sorridere involontariamente.
Era così strano piegare le labbra all'insù dopo tanto tempo che non mi accorsi subito del sussurro che mi stava solleticando l'orecchio < Non importa, Akane, non importa. Avrai tempo per raccontarmelo... se mai vorrai. > si affrettò ad aggiungere imbarazzato, staccandosi da me.
Annuii e sorrisi di nuovo, scoprendo che era più facile di quanto ricordassi.
Lui mi fissò sbalordito e poi ricambiò il mio sorriso, mugugnando un < Sei più bella quando sorridi. > che a lui fece imporporare il naso e a me annaspare il cuore.

Un po' in ritardo, mie care lettrici, ma tanti cari auguri di un sereno Natale e buon 2013.
Partirò a breve, quindi la prossima pubblicazione sarà direttamente il prossimo anno, ma questo capitolo fa capire già una bella fetta del passato di Akane e credo che come regalo sia sufficiente.
Un caloroso benvenuto alle nuove arrivate, spero di tratterrete a lungo ed un grazie enorme alle solite ragazze sempre presenti.
Un bacio grosso come una casa.
A presto.

Strange.

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Capitolo 8
*** Strength. ***


You see all my light and you love my dark.

Eight. Strength.



Ho ancora la forza che serve a camminare, picchiare ancora contro e non lasciarmi stare.
Ho ancora quella forza che ti serve quando dici: “Si comincia !” [Ligabue]


Continuavo a gettare occhiate al viso rovinato di Akane senza che lei se ne accorgesse.
Avevo timore di compiere un gesto sbagliato o dire una frase banale e fuoriluogo che avrebbe potuto farla incupire.
Io a parole ero proprio una frana e starle accanto non era affatto semplice, ma non per quello mi sarei arreso senza nemmeno provare a combattere.
Ero forte. Abbastanza da sorregge anche per lei nel caso in cui fosse crollata sotto il peso schiacciante delle sue cicatrici.
La vergogna di se stessi era una pessima compagna di viaggio ed io lo sapevo meglio di chiunque altro.
Sperai soltanto di non far trasparire con le mie azioni il contrario di quel che provavo.
Non ero disgustato dal suo viso, solo impreparato.
Così come ero rimasto ugualmente spiazzato dalle sue lacrime e dal suo sorriso.
Akane poteva essere tranquillamente paragonata ad una bomba da disinnescare: il filo sbagliato decretava la fine.
Ed io sudavo freddo quando si avvicinava troppo.
Le mie vene s’incendiavano e l’addome sfrigolava di sensazioni che non conoscevo e non sapevo gestire.
Ero abituato alla rabbia, alla frustrazione, alla tristezza, al dolore...ma quel calore nel petto -alle volte paragonabile ad un incendio divampante- mi era del tutto sconosciuto.
Il problema era che non sempre era spiacevole.
Sospirai, scrutando il cielo fuori da quell'anfratto minuscolo in cui eravamo.
Doveva essere circa metà mattinata a giudicare dalla luce.
Le donne del mio villaggio dovevano essere già al fiume a strofinare i panni, gli uomini in miniera e mio padre tra i boschi per i suoi allenamenti.
Non gli restava altro da quando le sue lezioni si erano svuotate di presenze, lasciandolo solo nel dojo a mostrare tecniche ad un muro silente.
Ucchan invece, probabilmente, stava ancora facendo colazione.
Akane appoggiò una pezza gocciolante d'acqua sul mio addome, facendomi sobbalzare al contatto col tessuto freddo e bagnato.
Il sollievo durò ben poco: le ferita riprese a bruciare dopo pochi istanti con ancor più intensità.
< Ranma, non sono un medico. Non so più che fare > sospirò lei, poggiandosi sui talloni e osservando colpevole lo squarcio che non ne voleva sapere di rimarginarsi.
Buttava fuori continuamente spruzzi di sangue che, ogni volta, mi provocavano spasmi di dolore.
< Lo so > asserii voltando la testa < Dobbiamo muoverci > le feci notare con noncuranza, rabbrividendo alla sola idea di schiodarmi da quel rifugio sicuro.
Lei si fece pensosa e accarezzò distrattamente la mia mano.
Rimasi immobile, timoroso di spaventarla con un gesto brusco, ma lei non si scostò.
La guardai ancora e, sebbene le sue cicatrici fossero evidenti, gonfie e rossastre, non la rendevano certo meno bella.
Era la prima volta che mi capitava di soffermarmi su un viso femminile per studirne le forme.
Che diavolo mi prendeva? Più guardavo Akane più quello che vedevo mi piaceva.
E la cosa era alquanto allarmante.
< Non faremo molta strada nelle condizioni in cui sei > borbottò con una smorfia.
Il pensiero di essere una zavorra al suo seguito mi rese insofferente.
Non avrei voluto gravarle addosso; al contrario, avrei voluto essere io tra i due quello in grado di proteggere l’altro, quello che impugnava un’arma e la brandiva con mani ferme.
Detestavo essere debole e, nel caso specifico, più debole di una donna. Non mi era mai capitato e non era una bella sensazione.
Dipendere non era mai stato un verbo molto consono alla mia personalità.
A peggiorare il mio umore si aggiungeva l'ansia dell'essere trovati e massacrati senza alcuna pietà.
Serrai la mano sinistra a pugno, infastidito da me stesso.
< Vattene >
Akane mi fissò attonita.
< Cosa hai detto? > chiese, interrompendo il contatto tra le nostri mani. La porzione di pelle, che era stata a contatto con la sua, formicolò.
< Ho detto che devi andartene > ripetei cupo, imponendomi di non guardarla.
Non potevo permettere che capisse i motivi che mi spingevano a cacciarla. Speravo che credesse che non la volevo vicino, così mi avrebbe detestato e non sarebbe tornata sui suoi passi.
Era l'unica cosa che potevo fare per proteggerla.
< Perchè? > domandò ancora, mettendosi a cavalcioni su di me.
Il mio cervello lavorava febbrile in cerca di qualcosa di sensato da dire, ma la mia mente era popolata di pensieri quanto lo era un deserto di piante in quel momento.
Il suo profumo di lavanda era devastante.
Ostinato, continuai a tenere la testa di lato, cercando, nel frattempo, di capire cosa stesse pensando lei.
< Perchè? > ripetè cocciuta, girandomi la faccia verso la sua.
Quando i miei occhi incontrarono i suo,i mi resi conto che aveva già vinto.
Avevo gettato le armi prima ancora che ci scontrassimo: mi ero arreso.
Dovette cogliere qualcosa dal mio sguardo perchè sibilò uno < Smettila > che mi fece accapponare la pelle.
< Di far cosa? > replicai, in tono fintamente innocente.
Lei incrociò le braccia sotto il seno, mettendolo in evidenza senza accorgersene.
Inspirai profondamente e riportai lo sguardo sul suo viso, trovandolo estremamente adorabile con quell'espressione corrucciata.
Dio mio, possibile che la febbre fosse salita a tal punto?
Ma che diamine mi sucedeva? Deliravo? Probabilmente sì...
Avevo paura di analizzare a fondo la questione e trovare una risposta ai miei pensieri impazziti.
< Di pensare che tu sia un peso per me e che farei meglio a lasciarti qui a morire, così io avrei più possibilità di cavarmela > spiegò pazientemente, come se si rivolgesse ad un bambino di tre anni.
Sgranai gli occhi per la sorpresa.
Come aveva potuto comprendere una simile verità con una sola occhiata?
Tremai e non solo per il dolore dello squarcio.
La vidi rabbuiarsi e serrare le mani in modo convulso sul grembo.
< Io... > attaccò, zittendosi subito. Prese fiato e ci riprovò un po' più decisa < Conosco un dottore molto bravo, in un villaggio non troppo distante da qui > alzò gli occhi sul soffitto di roccia nuda e grigia < Con l'andatura che riesci a sostenere ci arriveremo domani al tramonto. Mi spiace, ma non posso rischiare che ci trovino. La gilda ha spie dovunque ed ho bisogno di portarti da qualcuno di cui mi fido >
Tacque, in attesa della mia reazione.
< Va bene > risposi indifferente, ancora spiazzato dalla sua precedente intuizione sulle mie intenzioni.
Akane annuì convinta, ma rimase nella stessa posizione in cui era.
La ferita pulsava dolorosamente ed ormai lo straccio era tinto di rosso cremisi.
Stavo iniziando a sudare di nuovo e lievi tremori mi percorrevano le dita, ma non ne feci parola con lei.
Avrebbe insistito perchè restassimo lì, quando invece dovevamo sbrigarci.
Sperai solo che l'infezione non si estendesse troppo, facendomi giungere da quel fantomatico dottore con un piede già nella fossa.

***

Akane imprecò e si tuffò dietro un albero, trascinandomi con sè come una bambina fa con un pupazzo.
Serrai la mascella quando sentii la pelle lacerarsi, ma non mi lamentai: ero talmente sfinito che se avessi aperto bocca sarei svenuto.
E poi, ormai, era la decima volta che succedeva e gridare non faceva di certo scemare il dolore.
Akane si affacciò da dietro il tronco e scrutò ogni stelo d'erba, ogni foglia ed ogni pietra come se dietro ognuno di essi potesse nascondersi un eventuale nemico.
Io, invece, mi appoggiai dolorante alla corteccia e cercai di placare il respiro da asmatico che mi usciva dalle narici dilatate e dalla bocca spalancata.
Mi asciugai la fronte con la manica della mano sinistra, mentre con la destra mi premetti l'addome.
Le dita scivolarono su una sostanza viscosa e, quando abbassai lo sguardo, mi resi conto che era il mio sangue quello che mi imporporava la mano.
Con orrore constatai che aveva infradiciato tutta la giubba che avevo addosso.
Fantastico! Sarei presto morto dissanguato.
Strinsi i pugni e sbuffai, rimediandomi, così, un'occhiataccia da parte di Akane, che, nel frattempo, aveva sguainato un pugnale magistralmente intarsiato.
< C'è qualcuno > sillabò con le labbra, accucciandosi e sgusciando dietro un vicino cespuglio.
Misi in allerta tutti i sensi -per quanto a poco potesse servire- e tentai di assumere una posizione di difesa.
Akane era immobile, come un predatore in procinto di gettarsi su una preda, e sembrava seguire con gli occhi qualcosa che si muoveva.
D'un tratto balzò da dietro il suo nascondiglio, il pugnale stretto in una mano ed il viso impassibile.
Uno spasmo d'ansia mi fece ansimare.
Girai la testa febbrilmente da una parte all'altra, tentando di prevedere il punto da cui sarebbe piovuto l'attacco.
Poi un grido acuto squarciò l'aria.
Ero preoccupato per Akane. Non riuscivo a vederla e perderla di vista e non saperla al sicuro mi disturbava.
Mi inginocchiai e raccolsi un ramo mangiucchiato dalle tarme da terra che mi fece sentire un po' meno esposto.
I minuti trascorsero lenti ed estenuanti mentre brandivo quel pezzo di legno debolmente ed ansimavo forte.
All'improvviso qualcosa sfiorò la mia spalla e, fulmineo - perlomeno quanto il mio corpo stanco mi consentì- mi voltai, pronto a colpire in faccia il mio aggressore.
Con mia sorpresa mi ritrovai davanti un'interdetta Akane, che aveva facilmente previsto la legnata e l'aveva parata, apparentemente senza sforzo.
< Che diamine fai? > ringhiò, guardandosi attorno circospetta.
< Tentavo di difendermi! > ribattei debolmente, reclinando la testa all'indietro e inspirando avidamente.
< Da me? > chiese allibita.
Sollevai gli occhi al cielo < Non da te, stupida! Dalla stessa persona contro cui ti sei lanciata! > risposi esasperato.
< Era un contadino venuto a raccogliere funghi > asserì, storcendo la bocca.
< L'hai ucciso? > non riuscii a mordermi la lingua prima di chiederglielo.
Lo sguardo di Akane fiammeggiò < Per chi mi hai preso? > domandò arrabbiata.
< Per quella che m'ha quasi ammazzato! > replicai con lo stesso tono, pentendomene un attimo dopo, quando lei si rabbuiò.
< Hai ragione > ammise con riluttanza, raccogliendo la sacca da terra < Andiamo > ordinò poi, ghermendomi il braccio e passandoselo sulla schiena.
Arricciò il naso.
< Sento odore di sang... > si interruppe e fissò allucinata il mio petto < Ranma! Oddio tu... >
Si morse colpevole il labbro e le sue dita si contrassero sulla mia spalla.
< Sto...benissimo > la rassicurai, col fiatone.
< Dobbiamo fermarci! > decise, cercando disperata un posto dove accamparci.
< No! > proruppi, tentando di staccarmi da lei.
< Devo bloccare l'emorraggia, idiota! Finirai per morire dissanguato! >
Di nuovo mi gettò a terra con poca grazia, come fossi una bambola, e si chinò su di me per esaminare la ferita.
Trattenni involontariamente il fiato quando i suoi capelli mi sfiorarono il petto sporco di sangue.
Akane tolse le bende e poi rovistò nella sacca alla ricerca di qualcosa con cui premere sul taglio.
Imprecai e strinsi i pugni.
< Scusa > disse, senza guardarmi.
Liquidai la questione con una scrollata della mano e mi concentrai sulla respirazione.
Il prato sotto di me era secco e la terra asciutta. Sentivo i fili d'erba carezzarmi le orecchie e provai a rilassarmi, nonostante avessi tutti i muscoli contratti.
Qualcosa di bagnato e freddo mi scivolò sulla pancia, rotolando di lato.
Sollevai la testa e notai, con disappunto crescente, che si trattava di una lacrima di Akane.
Sapevo che la sollecitudine con cui mi puliva il corpo dal sangue incrostato era dovuto all'imbarazzo di farsi vedere di nuovo piangere e così non commentai.
Ero io quello ferito, eppure quella che stava peggio sembrava essere lei.
Dovevo averle radicato dentro una fetta più generosa di sensi di colpa di quanto avessi voluto.
Non le avevo mai rinfacciato nulla -a parte prima, quando non ero riuscito a trattenermi- perchè riconoscevo che se lei non avesse agito in quel modo sarei stato già morto.
Akane strinse la fasciatura arrangiata che aveva ricavato dalla sua casacca col bavero alto e sollevò gli occhi.
< Credi di farcela ora? > domandò portandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio.
Con movimenti lenti e moderati mi misi a sedere. Annuii in risposta.
Lei si mise di fronte a me ed ancora una volta il mio sguardo venne catturato dalle sue cicatrici.
Dio, facevano male a vederle, come se le avessi addosso io stesso.
Incapace di trattenermi, sollevai titubante una mano e le accarezzai la guancia sfregiata.
Lei fece per scostarsi, ma poi ci ripensò e si lasciò toccare, chiudendo le palpebre.
Il sole di mezzogiorno conferiva ai suoi capelli riflessi blu inchiostro e la sua pelle candida riluceva come fosse porcellana.
Le lunghe ciglia gettavano un'ombra estesa sulle guance e le labbra morbide era dipinte di un rosso acceso.
Accarezzavo il suo viso e, nel contempo, cercavo di contrastare il piacere che mi provocava quel contatto.
Mi stavo rammollendo.
< Sei molto carina, Akane > mi sfuggì di bocca.
Che cazzo avevo detto? Il sole mi stava friggendo i pochi neuroni che avevo?
Lei aprì gli occhi di scatto e si allontanò, facendomi capire di aver detto la cosa sbagliata. Ovviamente.
Dannazione, possibile che non riuscissi mai a dire qualcosa che la facesse sorridere di nuovo?
Inconsciamente, era proprio quello il mio intento.
Ucchan, al suo posto, avrebbe sorriso e sarebbe arrossita al complimento.
Akane no.
Mi guardò terrorizzata e poi si alzò in piedi, rimettendosi sulla schiena la sacca.
< Non prendermi in giro, Ranma. Non ne hai alcun bisogno > sbottò dura.
< Guarda che... > provai a spiegarmi, ma mi zittì con un'occhiata tagliente.
< Taci > replicò distaccata.
La calda e piacevole sensazione che mi aveva intorpidito il corpo poco prima scemò, sostituita da un sentimento che riconobbi come frustrazione.
< Perchè non dovresti credermi?! > le domandai infastidito.
Detestavo non essere creduto quando dicevo qualcosa che pensavo davvero. In realtà odiavo il semplice fatto di essere contraddetto, ma più che altro, in quel momento, non sopportavo il suo sguardo addolorato.
Non volevo che mi ritenesse un insensibile bugiardo, perchè probabilmente ne aveva già incontrati a decine.
Ad ognuno di loro avrei voluto spaccare la faccia.
< Perchè mi sono vista allo specchio > fu l'unica cosa che mi rispose, prima di sollevarmi di nuovo, praticamente di peso, rimettermi in piedi e rincamminarsi in silenzio.

Eccomi tornata. Spero di non averci messo troppo a partorire questo capitolo.
Mi ero resa conto, rileggendolo, che Ranma era troppo mollaccione. Ho cercato, quindi di dargli spessore e un po' di forza. Spero che il risultato non sia deludente.
Vi chiedo immensamente perdono per questi aggiornamenti da bradipo, ma il mio tempo è davvero contato goccia a goccia.
Il lavoro, la famiglia, il ragazzo, gli amici... non respiro quasi più.
Dormo poco e male e se contiamo anche il blocco creativo che sto accusando da Natale, il periodo non potrebbe essere peggiore.
Siate comprensive.
Il prossimo capitolo, però, non si farà attendere quanto questo.
La prima stesura mi soddisfa quasi completamente, perciò dovrò metterci mano davvero poco.
Non mollate, io resisto grazie a voi.
Un forte abbraccio.


Strange.

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Capitolo 9
*** Home. ***


You see all my light and you love my dark.

 

Ninth. Home.



Non so a quale posto appartenga.
Qual'è il posto a cui lei appartiene?
Vuole andare a casa, ma nessuno è casa.
E' dove lei sta, distrutta dentro, senza nessun posto dove andare, nessun posto dove andare per asciugare i suoi occhi, distrutta dentro.
Apri i tuoi occhi e guarda fuori, cerca di trovare un motivo per cui sei stata rifiutata e adesso non riesci a trovare quello che hai lasciato dietro.
Sii forte. Sii forte. Adesso.


I comignoli anneriti sputavano volute di fumo scuro e denso, che si disperdevano nell'aria con estrema facilità come trame di tela sfilacciate.
La pioggia battente mi impediva di distinguere perfettamente ogni dettaglio del villaggio, ma ero sicura che fosse rimasto esattamente identico all'ultima volta che vi avevo messo piede.
In qualche assurdo modo Nerima sembrava essere stata dimenticata dal tempo e lasciata a vivere in una dimensione parallela, in cui gli anni scorrevano lenti come secoli.
Togliendo, per l'ennesima volta, l'acqua dalla faccia con una mano fradicia, fissai il batacchio del portone col cuore in trepidazione.
Il portico sotto cui mi trovavo mi offriva un riparo dalla furia della natura che imperversava alle mie spalle.
Presi un profondo respiro e, animata dal lamento di un Ranma incosciente abbandonato contro la porta, bussai tre volte con decisione e deliberata lentezza.
Le luci della finestra laterale si accesero d'improvviso e gettarono un fievole chiarore a terra.
Aspettai di udire lo scalpiccio dei passi assonnati del dottore che si avvicinavano, quindi corsi veloce sul retro, ben attenta a non fare rumore e a non essere vista.
< Sì? Chi è? > sentii borbottare da dietro l'uscio con voce impastata di sonno e inframmezzata da sbadigli ripetuti.
Il cuore mi rimbalzò in gola in quegli attimi di attesa che mi parvero eterni.
L'acqua continuava a scrosciarmi addosso senza esitazione, come a farsi beffe di me. I vestiti ormai erano incollati alla pelle come un secondo strato e i capelli si spiaccicavano sul viso, ostacolandomi la vista.
Odiavo la pioggia, ma in quel momento non era a me che dovevo pensare.
C'era in gioco ben altro, ossia la vita di Ranma.
Era svenuto al tramonto del giorno precedente, mentre attraversavamo il valico della montagna dietro cui sorgeva Nerima, e da allora me l'ero trascinato dietro come un sacco di pietre.
Era un imprevisto che non avevo calcolato il suo perdere i sensi e questo ci aveva notevolmente rallentato, facendoci giungere al villaggio non al crepuscolo, bensì ad un passo dall'alba.
I suoi gemiti e lamenti ad ogni mio nuovo passo erano stati strazianti.
Mi ero sentita rodere la coscienza da un senso di colpa così forte da farmi tremare le ginocchia, eppure non mi ero persa d'animo.
Mi ero ripetuta, come una cantilena, che se avevo saputo sfuggire alla grinfie di Haranobu, dopo avergli disobbedito, aver salvato anche Ranma e averlo portato fin lì, sarebbe stato sciocco arrendersi e gettare la spugna ad un passo dal traguardo.
Così avevo stretto i denti e continuato ad avanzare nonostante fossi giunta al limite delle mie possibilità.
Dentro di me i demoni di Haranobu bramavano sangue senza sosta ed Akane Tendo gridava pietà.
Dovevo riposare ed erigere nuove barriere che li tenesse separati, altrimenti mi sarei spaccata a metà.
< Ma cosa...? > sentii il dottore esclamare stupefatto.
Evidentemente aveva aperto la porta, ritrovandosi un ragazzo esanime e con la casacca inzuppata di sangue ed acqua ai piedi.
< Per l'amor del cielo! > borbottò tra i denti.
Avvertii il rumore di un qualcosa che viene strusciato e mi rilassai.
Era al sicuro.
Il medico avrebbe fatto tutto il necessario per salvarlo.
Per la prima volta, da quando era iniziata quella folle avventura, respirai davvero.
Profondamente, a pieni polmoni.
Le mie narici si riempirono dell'odore di erba bagnata e di acqua piovana, che mi era tanto familiare, e mi rasserenò un poco.
Mi trascinai fino alla stalla degli animali, dove avevo intenzione di riposare fino alla sera.

***
< Come ti senti? >
La prima cosa che entrò nel mio campo visivo, quando aprii gli occhi, fu il cranio lucido di uno scheletro.
Stropicciai gli occhi, mettendo a fuoco l'ambiente che mi circondava, e vidi che mi trovavo in una stanza sobriamente arredata con un comodino alla destra della brandina su cui giacevo, un armadio di legno in fondo, una finestra rettangolare insolitamente larga e bassa, mensole sui cui erano ordinatamente riposte ampolle farmaci e provette, una scrivania sommersa di documenti e, tutt'attorno sulle pareti, poster con l'ingrandimento di vari organi umani.
Tornai a fissare lo scheletro e notai, accanto ad esso, la faccia sorridente di un uomo dall'aspetto bonario, che mi scrutava attraverso spesse lenti di occhiali.
< Come ti senti? > chiese di nuovo, senza abbandonare la sua aria da buon samaritano.
< Al coperto. > mugugnai, osservando gli abiti che portavo: una tunica dal taglio artigianale color cuoio.
L'uomo annuì come se gli avessi fornito la risposta che si aspettava.
< Eri messo maluccio, ragazzo. Avevi un'emorragia così estesa che ci ho impiegato un'ora buona per bloccarla. Poi ho cauterizzato il taglio e applicato una decina di punti. Dovrebbe rimanerti una cicatrice quasi invisibile se non farai movimenti bruschi. > mi disse, aggiustandosi gli occhiali sul naso che gli erano scivolati verso la punta.
Mi portai le mani all'addome e tastai la ferita, provando un immediato sollievo nel constatare che non bruciava o sanguinava.
Guardai riconoscente quello che doveva essere il dottore di cui mi aveva parlato Akane e crucciai il viso, involontariamente, pensando che non ricordavo affatto come e quando eravamo arrivati.
< Ero svenuto? > domandai quindi e l'uomo annuì.
< Avevi un febbrone da cavallo e per di più avevi perso troppo sangue: era ovvio che non saresti potuto rimanere cosciente. Mi piacerebbe sapere da quanto tempo eri privo di sensi quando sei giunto qui... > commentò sovrappensiero.
< Beh, questo dovrà chiederlo ad Akane... > mi zittii, notando la sua espressione attonita.
< Scusami, di chi stai parlando? > mi chiese, palesemente allarmato.
Lo fissai un po' scocciato. Ma da chi mi aveva trascinato quella scema? Da un rimbambito?
< Della ragazza che mi ha portato da lei perchè diceva di fidarsi. Alta, capelli scuri...ha presente? >
Il dottore mi guardò a lungo e poi sospirò.
< Sì. > disse solamente, con tono rassegnato.
Ma che diavolo stava succedendo?
Raddrizzai la schiena, sprimacciando i cuscini alle mie spalle e mi guardai intorno.
< Dov'è? > domandai, certo che fosse in un'altra stanza a riposare dopo le fatiche del lungo viaggio.
< Non c'è. > fu la lapidaria risposta.
Mi agitai sul posto, facendo frusciare le pallide lenzuola avorio.
< Che significa? Dov'è Akane? L'hanno trovata? Cazzo! > imprecai, scostando le coperte e facendo per scendere.
Strinsi i pugni quando i punti tirarono, minacciando di strappare la carne.
< Io ti ho trovato tre sere fa fuori la mia porta, mentre veniva giù un diluvio tremendo. Di lei non c'era traccia. > asserì il dottore, scuotendo il capo con fare sconsolato.
Quella notizia mi fece sentire stranamento smarrito. Che ne era stato di lei? Perchè non era rimasta con me?
Mi aveva abbandonato, dopo aver insistito a lungo perchè non ci separassimo?
Oppure mi aveva lasciato qui, credendo che fosse sicuro per me, e aveva continuato per la sua strada, attirandosi dietro i sicari che ci rincorrevano?
Tutte le ipotesi che formulavo facevano montare dentro di me una rabbia tale da farmi tremare.
Perchè non mi aveva consultato, prima? Perchè aveva scelto lei per entrambi?
Chi credeva di essere per decidere al posto mio?
Il dottore, che aveva studiato attentamente le mie reazioni, mi poggiò solidale una mano sulla spalla.
< Come sta? > domandò.
< Sola, in questo momento. > borbottai, infastidito.
Non potevo crederci!
Quella prima mi salvava e mi sconvolgeva la vita, strappandomi al mio villaggio e alla mia quotidianità, poi aveva la faccia tosta di mollarmi per strada, fregandosene del mio destino.
No, non gliel'avrei lasciato fare!
Scattai in piedi, inspirando ed espirando lentamente per placare il dolore, ed infine mi avvicinai all'armadio, alla ricerca dei miei abiti.
< Ti proibisco di muoverti. Sono un medico e come tale ho la responsabilità delle tue condizioni finchè non ti sarai ristabilito > asserì convinto, trascinandomi di nuovo a letto con inaspettata forza.
Provai a protestare, ma mi fulminò con uno sguardo severo.
< Non costringermi a drogarti. > minacciò con una scintilla negli occhi che mi fece drizzare il codino.
Annuii poco convinto ed il dottore riassunse la sua espressione bonaria.
Avvicinò lo scheletro, che avevo visto appena aperto gli occhi, e mosse il braccio ossuto come fosse quello di una bambola.
< Bene. Ti presento Betty. > cinguettò felice.
Aprii bocca per ribattere, ma pensai che probabilmente quell'uomo non aveva tutte le rotelle a posto e che quindi avrei fatto meglio ad assecondarlo.
Un passo falso e avrei potuto ritrovarmi con una mano al posto di un piede.
Strinsi la mano scheletrica di Betty con un sorriso forzato.
< Piacere, Ranma Saotome. >
Il sorriso del medico si allargò.
< Oh, finalmente abbiamo un nome per il nostro paziente! Piacere, sono il dott. Tofu. >
***
Scavalcai senza alcuna difficoltà la finestra, ben accorta a non fare il minimo rumore.
L'oscurità mi era favorevole.
L'unica fonte di luce era offerta dalla chiara Luna, splendente nel cielo terso dopo aver alungo sopportato la presenza di nuvole gonfie.
Mi mossi silenziosa nella stanza, attenta a non far cigolare le assi del parquet.
Ranma era disteso supino sul letto, il corpo completamente immerso nell'ombra.
Restai a contemplarlo per qualche attimo da lontano, stupendomi ancora una volta dell'effetto che mi provocava anche solo l'osservarlo.
Le sue braccia muscolose spuntavano dalle lenzuola ed il codino faceva capolino da sotto la sua testa.
Ultimamente anche solo il pensare a lui mi scombussolava.
Sentivo nello stomaco qualcosa di simile ad una mareggiata e la testa si svuotava.
Odiavo non poter pensare razionalmente...e fare gesti sconsiderati come quello di venire a salutarlo prima di abbandonarlo qui a Nerima, dove sarebbe sicuramente stato al sicuro.
Mi avvicinai al letto, timorosa di svegliarlo.
Non volevo incontrare i suoi occhi.
Temevo che le onde mi avrebbero sommerso completamente, fino a farmi affogare nell’oceano cristallino del suo sguardo.
Non sarei più stata capace d'andarmene...e di certo non potevo restare.
Allungai una mano verso il suo viso ed il suo respiro caldo mi solleticò le dita.
Sorrisi.
Era tenero con gli occhi chiusi ed il volto finalmente rilassato e non più contratto dal dolore.
< Perdonami. > sussurrai, scostandogli un ciuffo di capelli dal viso.
Nonostante la paura di svegliarlo fosse forte, più forte ancora era l'istinto di toccarlo, così scesi sulla sua guancia e gliela accarezzai dolcemente, in un saluto un po' impacciato.
Non avevo mai detto addio a nessuno in vita mia e nonavrei mai pensato fosse così difficile.
Inghiottendo le lacrime che sentivo salirmi in gola, feci per voltarmi ed andarmene, ma venni afferrata per il polso e fui costretta a bloccarmi sul posto.
< Akane. > la sua voce si abbattè sulle mie orecchie con la violenza di un fulmine.
Tremai.
Rimasi di schiena, ma lui mi tirò gentilmente verso di sé.
Chinai il capo, incapace di sostenere il suo sguardo inquisitore.
Si era messo a sedere e le lenzuola erano scivolate in basso, lasciando intravedere il torace nudo, su cui spiccava un cerotto grande quanto la mia mano.
< Dove pensi di andare? > chiese, senza ottenere risposta.
Scrollai il capo, ricacciando indietro quelle fastidiose gocce salate.
Non dovevo piangere, non più!
Io non ero debole.
< Me ne vado, Ranma. Non posso restare! > dissi, con voce incrinata di dolore.
Perchè diavolo mi sentivo così male al pensiero di staccarmi dal lui?
Dov'era l'Akane Tendo combattiva e fiera, che non aveva bisogno di nessuno?
Possibile che nei momenti meno opportuni mi negasse il suo aiuto?
< Non senza di me! In qualche modo i nostri destini si sono incrociati e non puoi dividerli a tuo piacimento! > esclamò con un tono alterato.
Strinse la presa sul mio polso.
I suoi occhi rilucevano nell'oscurità proprio come la prima volta che li avevo visti, il giorno che tentai di ucciderlo.
Sembrava accaduto in un'altra vita.
Dov’era il mio cuore di ghiaccio ora che mi serviva?
< Tu non capisci. Non posso restare, ma tu qui sarai al sicuro! > provai debolmente a protestare, avvertendo dentro di me i primi segni di cedimento.
Non sarei mai riuscita a scamparla con lui, mai!
E mi odiavo per questo. E odiavo lui per esser diventato la crepa nella mia corazza indistruttibile.
Lo era stato sin da subito.
< Cazzo, Akane, sei tu che m'hai conciato così! Il minimo che tu possa fare è restare con me finchè non sarò guarito e sarò in grado di badare a me stesso da solo! > gridò.
Il mio cuore traboccava di lacrime represse e quel suo urlo ruppe gli argini.
Un fiume di dolore e dispiacere si fece largo sul mio viso.
< Non posso, non chiedermi questo, Ranma! > singhiozzai, detestando me stessa per l'ennesima dimostrazione di vulnerabilità davanti a lui.
Non capiva, non poteva capire.
Nessuno poteva.
< Perchè? > domandò piatto, lasciandomi il polso.
< Perchè questa è casa mia! > sbottai, coprendomi il viso con mani tremanti.

Lei nasconde i suoi sentimenti, non riesce a trovare i suoi sogni...
Sta perdendo la testa, sta cadendo in basso.
Non riesce a trovare il suo posto, sta perdendo la sua fede, sta perdendo il contegno.
Lei vuole andare a casa, nessuno è casa. [Avril Lavigne]


Questo capitolo è rimasto pressochè intoccato.
Mi piaceva abbastanza e quindi dopo una veloce rilettura è venuto alla luce.
Spero che vi piaccia, di quelli che ho scritto di ''You see all my light and you love my dark'' è nella mia top-ten.
Non criticate troppo Akane: Ranma è diventato sì il suo tallone d'Achille, ma le lacrime di fine capitolo non sono soltanto per la separazione da lui che lei voleva tentare di fare, ma perchè viene costretta a rimanere.
Cosa potrà esserci di tanto orribile per lei a Nerima?
Il suo passato,ecco cosa.
Se siete curiose, rimanete con me ve ne prego.
Un forte abbraccio.
A presto.

Strange.

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Capitolo 10
*** Creepy story. ***


You see all my light and you love my dark.


Tenth. Creepy story.



E' una vera lotta, è una guerra.
Quando la distruzione prende il potere non c'è modo di scappare: ogni colpo va a segno.
Il perpetratore sa come colpire. [Lali Puna]


Un pallido sole stiepidiva il freddo che il maltempo dei giorni precedenti aveva portato con sè.
I suoi raggi evanescenti coloravano le tende, mosse da un alito di vento che filtrava dalla finestra socchiusa, conferendo alle pareti della stanza un insolita tonalità rosa antico.
L'alba era sorta da qualche minuto, ma quasi non vi badai.
Ero troppo preso dal racconto che usciva dalle labbra di Akane per prestare la dovuta attenzione alle mirabolanti prestazioni della natura.
Quando era scoppiata a piangere sul parquet, qualche ora prima, mi ero di nuovo sentito smarrito e colpevole.
Non era quella la reazione che mi aspettavo e non avevo idea di come frenare quei singhiozzi che le spezzavano il respiro.
Non capivo come l'affermazione “questa è casa mia” potesse trascinare con sè quella valanga di dolore.
Casa, per chiunque, era sinonimo di calore, affetto, sicurezza e protezione.
Perchè allora sembrava che lei l'associasse all'inferno?
Cosa nascondeva con così tanta premura dietro quella cascata di gocce salate?
Perchè cercava strenuamente di tenermi alla larga dai suoi demoni? E io perchè mi ostinavo, invece, a voler aprire una breccia tra le sue difese e a liberarli?
Qual’era il motivo che mi spingeva a volerli fronteggiare?
Mille e più domande simili a quelle mi avevano affollato la testa in quei pochi istanti di imbarazzante immobilità, in cui non avevo saputo far altro che sedermi accanto a lei e passarle un fazzoletto.
Akane si era asciugata il viso, sforzandosi di riassumere un contegno, senza tuttavia riuscirvi.
Avevo come l'impressione di aver involontariamente rotto un argine in lei ed ora un fiume in piena di sofferenza si palesava ai miei occhi, trascinando nella sua corsa detriti e macerie che non avrei dovuto vedere.
Come potevo anche solo sperare di arginarlo con le mie mani?
Non ero in grado di compiere una simile prodezza, perciò mi convinsi che la cosa migliore da fare fosse farla parlare.
Forse, se avesse condiviso la sua afflizione con qualcuno, si sarebbe sentita meglio.
Ma Akane non aveva risposto alla domanda "Non sei contenta di essere a casa?", anzi!
Nuove lacrime le avevano inumidito il viso, rendendolo -se possibile- ancor più bagnato.
Avevo detto la cosa sbagliata, come al mio solito.
Volevo farla sentire meglio, ma così facendo avevo ottenuto solo la conferma dei miei sospetti: lei non era affatto contenta di essere tornata nel suo villaggio.
Sembrava, piuttosto, che fosse proprio quella la ragione delle sue sofferenze!
Sospirando le avevo posto un altro quesito, sperando di solleticare la sua parlantina.
"Chi è che ci sta inseguendo, Akane?"
Lei aveva alzato su di me due occhi così tristi e carichi di rimpianto che non ero stato in grado di reggerne il peso a lungo.
Insperatamente, però, aveva iniziato a raccontare, con voce sorprendentemente ferma e decisa.

"La gilda nacque assieme ad Haranobu, suo fondatore, più di mezzo secolo fa.
Egli era uno dei militari a capo della rivolta che si scatenò il 15 maggio del 1932*che portò all'occupazione di alcuni sedi influenti e di potere, come la banca principale Giapponese e la casa del primo ministro dell'epoca.
A seguito dell'episodio venne allestito un processo contro undici degli ufficiali che presero parte a quello che impropriamente venne definito, dalla società, "incidente". Haranobu era tra di loro.
Era un ragazzo all'epoca.
Giovane, inesperto, immaturo ed insofferente all'impero. Odiava le leggi e le ferree regole militari a cui era vincolato.
Orfano, mai adottato, non aveva avuto nessuno che gli insegnasse a distinguere il bene dal male.
Agiva solamente in base alle proprie esigenze e rispondeva alla sua sola coscienza.
Venne imprigionato con l'accusa di negligenza e ostacolazione della giustizia dello Stato.
Tutt'oggi nessuno conosce il modo in cui riuscì ad evadere dal carcere in cui era rinchiuso in attesa del verdetto della giuria. Fatto sta che lo fece e, quella stessa notte, vennero trovati sgozzati nei propri letti tutti coloro che avevano preso parte al processo.
Qualche tempo dopo, quando ormai il clamore della notizia era scemato, Haranobu rintracciò gli ufficiali che lo avevano affiancato nella rivolta e che con lui erano stati posti sotto giudizio.
Avevano tutti la stessa mentalità e la stessa sete di sangue, perciò insieme formarono il primo nucleo dell'attuale gilda.
Erano una banda clandestina, temuta dal governo che compiva atti terroristici con cadenze regolari che, tuttavia, nessuno, nemmeno l'esercito, riusciva ad impedire.
Nel loro elenco di vittime risultavano nomi importanti come il primo ministro, il figlio dell'imperatore e molti degli emissari esteri...
Non avevano pietà né freni.
Ma, malgrado lo scompiglio che creavano, il governo restava saldo e così uno dei compagni di Haranobu, stanco di tutto quel sangue sparso inutilmente, si consegnò alle autorità, condannando i suoi compagni a morte.
Haranobu riuscì a fuggire per miracolo; gli altri nove furono trucidati senza alcuna indulgenza, come quella che loro non avevano concesso alle proprie vittime.
Tuttavia il prezzo che pagò fu alto: il suo corpo riportò ferite fisiche gravi che a lungo lo costrinsero a vegetare su un lettino come fosse un paraplegico ed i suoi occhi si spensero.
Eppure non aveva subito danni cerebrali, quindi, qualche tempo dopo, stanco della monotonia in cui viveva nascosto in un minuscolo paesino a sud del Paese, decise che era giunto il momento di tornare ad agire.
Dato che non avrebbe più potuto essere presente in prima linea a causa della sua cecità, scelse di reclutare giovani orfani o emarginati sociali e di addestrarlia diventare implacabili sicari.
In loro rivedeva il fantasma di ciò che era stato all'inizio della sua “gloria”.
Lui era il burattinaio che muoveva i fili restando dietro le quinte; la mente che si celava dietro il braccio armato di quei ragazzi che crescevano nell'odio e con la convinzione che la morte fosse la soluzione adeguata per coloro che avevano perso la retta via.
Ma quale fosse la retta via nessuno di loro lo sapeva. Obbedivano come un ammasso di automi ad Haranobu, poiché non avevano altro nella vita.
La gilda rinacque, assumendo sempre più le fattezze di una religione maniacale.
Haranobu si auto investì del titolo di “profeta e sommo sacerdote” ed elaborò vere e proprie cerimonie sacre che dovevano servire a tenere buoni gli animi dei suoi sottoposti.
Lo guardavano tutti con ammirazione e nessuno metteva in discussione la sua parola: lui era il profeta, dopotutto.
Un profeta investito dal Dio della morte in persona con le sue dita intrise di sangue innocente.
Costruì il suo "impero del terrore" sottoterra, dove nessuno avrebbe potuto trovarlo e dove i suoi occhi spenti non avrebbero suscitato occhiate di commiserazione.
Le ramificazioni di quei cunicoli erano così vaste ed estese da toccare qualunque punto del Giappone da nord a sud.
In fondo, però, Haranobu non era altro che un mercenario.
Veniva assoldato da chiunque potesse permettersi una sua prestazione. Le ragioni che decretavano la morte di qualcuno a lui non interessavano più: il suo animo reietto era così colmo di odio ed indifferenza che anche i suoi ideali iniziali erano stati accantonati ed infine dimenticati.
Schiava del denaro e della bramosia di sangue di Haranobu, ormai, la gilda non è altro che un macellaio impazzito che miete vittime su vittime come fossero pezzi di carne e non esseri umani".


Quando infine Akane tacque, mi accorsi che pendevo dalle sue labbra.
Volevo ascoltare ancora e ancora la sua voce evocare quella storia avvincente, anche se il racconto, in sè per sè, era raccapricciante e mi fece tremare di disgusto e indignazione verso quell'essere che si atteggiava a profeta di Dio.
Akane era stata abbindolata da quell'uomo e portata a compiere stragi contro il suo volere. Il pentimento era palese nei suoi occhi mentre narrava.
La rabbia mi costrinse a serrare i pugni sulle ginocchia.
Che fosse anche la causa delle cicatrici sul suo volto quell'Haranobu?
Magari provocava ferite ad ognuno dei suoi sottoposti per non farli sentire superiori a lui!
Quando aprii bocca e lo domandai a lei, sgranò gli occhi e si toccò, in un gesto automatico, la fitta tela di cicatrici.
Scosse il capo sconsolata.
< Perchè sei diventata un'assassina, Akane? Perchè hai scelto quella strada? C'erano molti altri modi di trascinarsi avanti! >
Mi stupii io stesso della veemenza delle mie parole ma non la capivo...e volevo farlo, invece.
< Io infatti non ne avevo intenzione. Ranma, io ho provato ad uccidermi, ma sono stata fermata dallo stesso Haranobu. Mi ero nascosta nella cava abbandonata che funge da entrata al suo nascondiglio e fu lì che mi trovò, riversa in una pozza di sangue. Quando ripresi i sensi ero stata curata contro la mia volontà e strappata brutalmente ad un’agognata morte.
Rimasi, però, colpita dalla forza d'animo che un vecchio così decrepito mostrava. Si offrì di addestrarmi e fare di me un sicario, un essere senza cuore e perciò senza sofferenza e dolore. Era così facile credere alle sue parole, Ranma. Non hai idea di come mi sentissi... e mi andava bene il modo in cui le cose procedevano, col loro ritmo, la loro scadenza segnata dalla fine di una vita. Ero diventata uno dei suoi automi. Coscienza, cervello, cuore...tutto staccato. Ero implacabile, nulla poteva fermarmi. Saziavo i miei demoni e loro mi lasciavano in pace l'animo. > Akane sputò quelle parole con veleno.
Per se stessa probabilmente, per Haranobu -da cui, nonostante conoscesse tutta la storia, si era lasciata abbindolare- e per altro che non seppi definire.
Quando mi puntò i suoi occhi scuri in faccia sentii come se improvvisamente un filo invisibile ci avesse legati a doppio nodo l'uno all'altra.
Le presi una mano e le, invece di ritrarsi, la strinse.
< Sapevo perfettamente la storia di Haranobu, così come te l'ho raccontata, ma eliminai quella assieme al resto. Una bella manata di vernice fresca sugli scempi con cui era stato sfregiato il muro della mia vita era quel che desideravo di più al mondo. Una via facile, un qualcosa che funzionasse e non mi interssava come; non chiedevo altro.
E poi ho incontrato te. Tu hai reagito e mai nessuno l'aveva fatto. Io...mi sono sentita spiazzata...e la vecchia Akane, rintanata da qualche parte dentro di me, ti ha concesso di vivere pur sapendo bene di condannarsi a morte lei stessa >
Spalancai gli occhi sbalordito.
Non sapevo che il prezzo per aver salva la vita fosse pagare con la sua.
Un nuovo senso di colpa serpeggiò fino al mio cuore, prosciugandomi di bocca parole di conforto.
< Guarda che non mi pento affatto della mia scelta, Ranma. Per lo meno adesso penso, sento, respiro...VIVO di nuovo, nonostante avessi dimenticato cosa significasse. Con un senso di colpa enorme, è vero, ma è la mia punizione e credimi, è peggiore della morte. Muoiono tutti prima o poi, ma poche persone si sentono in colpa per tutte le cose brutte che hanno fatto**. Io sono una di quei pochi. Il volto esangue di ognuna delle mie vittime tormenta i miei sogni... >
Osservai Akane, il cui viso era spennellato della luce del sole ormai sorto e brillante alto nel cielo, e notai come, con quel chiarore, le sue cicatrici diventavano quasi invisibili.
Di nuovo mi sorpresi a pensare a quanto fosse bella...e a quanto bizzarramente mi sentissi legato a lei.
Il senso di colpa, seppur per ragioni diverse, ci accomunava. Io avevo gli occhi ed il sorriso di Ucchan nei miei incubi, però.
Era una creatura strana Akane, così fragile ma con un fardello così pesante addosso...ed ero sicuro che non si fosse ancora liberata della parte peggiore.
Non sapevo ancora cosa la spaventava di questo villaggio e cosa l'avesse spinta a voler tentare di togliersi la vita.
Al solo pensiero rabbrividii. Non riuscivo a immaginare di stare senza lei in quel momento.
< Dottore? Dottore è qui? Le ho portato un brodo caldo dopo il freddo di questi giorni! >
Una voce femminile ci fece sobbalzare entrambi.
La porta della stanza si spalancò di colpo ed apparve sulla soglia un'aggraziata ragazza dai capelli castani, raccolti in una coda di cavallo laterale.
La fissai per qualche secondo e più la guardavo, più mi convincevo che aveva qualcosa di familiare.
L'estranea posò lo sguardo prima su di me, a petto nudo seduto a gambe incrociate a terra con un cerotto enorme sull'addome che faceva bella mostra di sè, e poi su Akane, inginocchiata di fronte a me con la mano nella mia, ed infine lasciò andare il piatto che reggeva tra le mani, che si infranse ai suoi piedi creando un fracasso infernale.
Akane si alzò di scatto, sbarrando gli occhi e arretrò come se si trovasse di fronte il diavolo ed il suo forcone.
Osservai di nuovo meglio quella ragazza che scrutava Akane con la stessa occhiata che le veniva rivolta e finalmente capii cosa trovavo tanto familiare: i suoi occhi.
Erano della stessa calda tonalità di quella di …
< Akane! > gridò la sconosciuta, lasciando che una lacrima le corresse sul bel viso.

*Rivolta realmente avvenuta in Giappone, le cui sorti io ho rigirato a mio favore.
** Citazione di una puntata del telefilm “The Mentalist”.


Questo è un altro di quei capitoli pressochè invariati dalla prima stesura.
Credo che da qui in poi (in verità anche dal precedente) mi rimarrà molto poco da limare e smussare perchè sono quelli che più si avvicinano al mio stile di scrittura attuale e quelli di cui sono più fiera.
Abbiamo avuto uno scorcio su Haranobu e abbiamo aggiunto un tassello al complicato puzzle della vita di Akane.
Ma c'è ancora qualcosa che lei non condivide con Ranma...forse colei che è entratata in scena all'ultimo potrà scioglere qualche nodo, voi che ne dite?
Un caloroso abbraccio, come le recensioni che mi lasciate. E' più forte di me, non riesco a non stupirmi del vostro affetto.
Ma vedo che ci sono anche molto lettrici silenziose.
Fatevi sentire, mi raccomando. Io di certo non mi lamento...e chissà...potrei produrre anche più velocemente XD


Strange.

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Capitolo 11
*** Heat. ***


You see all my light and you love my dark.


Eleventh. Heat.



Le paranoie che a volte ho e che accanto a te poi passano; la tua allegria, come sai ridere, la tua lealtà, il tuo non chiedere e non pretendere.
La forza che hai fatto crescere quando io ormai stavo per cedere, la volontà di non arrendersi, la dignità e il rispetto che sai rendermi, tenendomi.
Tenendoci. [Max Pezzali]


< Akane! > singhiozzò la ragazza, protendendo una mano tremante verso di lei.
Ai suoi piedi, la pozza di brodo s'allargava e fumava ancora, mischiandosi con i cocci del piatto.
Akane arrettrò, sbattendo contro il comodino. I suoi occhi erano nuovamente umidi e pregni di un miscuglio d'emozioni così denso che non ne riuscii ad identificare nemmeno una.
Mi avvicinai a lei e la abbracciai in un insensato ed immotivato istinto di protezione.
Chiunque fosse quella ragazza la stava facendo soffrire in qualche modo ed io volevo proteggerla. Volevo farle da scudo col corpo e persino col cuore se fosse stato necessario.
Ma che mi prendeva?
Akane artigliò il mio braccio, ma continuò a fissare con occhi sgranati l'altra, che si stava avvicinando esitante.
In quel momento irruppe nella stanza un allarmato dottor Tofu ed il suo sguardo corse dapprima ai resti della ciotola con la minestra, poi a me ed Akane stretti l'uno all'altra ed infine all'altra ragazza, a metà strada tra la porta della stanza e noi.
I suoi occhiali si appannarono all'istante e cominciò a balbettare qualcosa che forse, unendo le sillabe confusionarie che pronunciava, assomigliava ad un nome: Kasumi.
Quella gli rivolse appena un'occhiata, troppo concentrata a studiare le reazioni imprevedibili di Akane, che ora sembrava voler fuggire.
Mi tirava il polso come una bambina piccola che non aveva ancora imparato a parlare e richiamava, quindi, l'attenzione con quel gesto.
< Chi è? > le sussurrai all'orecchio, osservando con la coda dell'occhio Kasumi compiere l'ennesimo passo nella nostra direzione.
Akane non riusciva a staccare lo sguardo dall'altra ragazza, ma tremava sempre di più ad ogni nuovo movimento di quest'ultima.
Non sapevo più che pesci pigliare: dovevo impedire che venissero in contatto?
Eppure quella Kasumi aveva un'aria così pacifica e innocua...come avrebbe potuto nuocere ad Akane?
Inoltre il dottor Tofu non era di alcun aiuto: per chissà quale ragione stava sbaciucchiando il suo scheletro, sciorinandogli addosso una dichiarazione d'amore infinita.
< Akane, sono io, mi riconosci? > mormorò Kasumi in un soffio, asciugandosi le lacrime dal grazioso volto niveo.
Lei, in tutta risposta, si nascose dietro di me, gridando un isterico < STA' LONTANA! VATTENE! >
Il suo urlo ebbe il potere di far tornare in sè l'eccentrico medico che, una volta capita la situazione si frappose tra noi e la ragazza, che sembrava appena esser stata schiaffeggiata.
Si mordeva le labbra mortificata e si stringeva le mani sul grembo.
< Ka-Kasumi... > balbettò di nuovo con la faccia paonazza < ...Lascia che ci parli io. > si offrì, ma la ragazza scosse la testa.
Io mi sentivo un estraneo e non sapevo più se fosse giusto spalleggiare Akane, che ostentava un atteggiamento infantile e testardo.
Volevo capire ed esserle d'aiuto in qualche modo, ma mi sentivo impotente e d'intralcio.
Ero lo scudo o l’ostacolo?
Kasumi si avvicinò ancora fino ad arrivarmi a pochi centimetri dal naso.
Studiai il suo sguardo e lo trovai così sincero ed addolorato che mi convinsi che la cosa giusta fosse far vedere quegli occhi anche ad Akane, che tremava come una foglia alle mie spalle.
Mi scansai con poca grazia e lei rimase atterrita trovandosi di fronte l'altra, le mani appese all’aria e non più alle mie braccia.
Dall'occhiata poco benevola che mi lanciò, immaginai che non fosse stata esattamente la mossa più saggia e che probabilmente dopo ne avrei pagato le amare conseguenze, ma poco m'importava.
In cuor mio sperai che quella Kasumi rispondesse ad alcuni degli interrogativi che mi ponevo sul passato di Akane e, allo stesso tempo, la facesse tornare a sorridere,  lenendo una sofferenza che io non riuscivo a far sparire mai.
Sembrava avvolta da una spessa coperta ispida di dolore e paura, ma ancora non ne avevo trovato la fonte o la causa.
Akane alzò le braccia, come se avesse dovuto difendersi da un attacco mirato al volto, e singhiozzò prima ancora che l'altra la toccasse.
Il dottor Tofu assisteva alla scena in apnea come me, temendo di rompere, con un solo respiro, quel delicato e fragilissimo equilibrio.
Il passo decisivo lo compì Kasumi, colmando la distanza tra lei ed Akane, accogliendola tra le braccia.
Caddero in ginocchio entrambe, nel silenzio più assoluto, rotto solo dai loro respiri.
Akane aveva ancora le braccia alzate e Kasumi la cullava come fosse un neonato in lacrime.
Non mi ci raccapezzavo più: chi era quella ragazza e perchè Akane la temeva e desiderava tanto al contempo?
Kasumi le prese i polsi con gentilezza e glieli abbassò, accarezzando poi la guancia sfregiata di Akane, che sussultò al suo tocco lieve.
Ammaliato dalla scena, non udii subito le parole che le stava dicendo, ma quando il loro significato mi raggiunse, l'ennesimo pezzo del puzzle trovò collocamento.
< Va tutto bene, sorellina. Va tutto bene, sei a casa. >

Le braccia di mia sorella erano calde e confortanti, esattamente come ricordavo; il suo tocco gentile e la sua voce rassicurante e pacata.
Ero a casa, a casa, a casa.
Mi lasciai cullare aggrappandomi a lei disperatamente.
Avrei dovuto fuggire da quell'abbraccio, ma non riuscivo a schiodarmi da lì.
Per la prima volta, dopo un periodo di tempo indefinito in cui le tenebre avevano dominato la mia anima, Akane Tendo riprendeva possesso del mio corpo e ricambiava la stretta di una sorella persa, che troppo a lungo aveva agognato.
Casa, casa, casa.
Sangue, morte e distruzione sembravano così lontani e irreali ora che ero di nuovo con lei.
Non pensavo vi avrei mai rimesso piede a Nerima, ma poi avevo incontrato Ranma e la mia vita s'era capovolta.
Gettai un'occhiata di traverso a quel tifone che aveva messo a soqquadro la mia esistenza precisa ed ordinata e lo vidi sorridere, inondato dalla luce accecante di mezzogiorno.
Lo stomaco si contrasse dolorosamente e un sorriso di ringraziamento comparve sulle mie labbra come per incanto.
Perchè diavolo gli sorridevo così spesso? Avrei dovuto detestarlo per avermi riportato al mio villaggio, ma riuscivo a sentirmi soltanto grata nei suoi confronti.
Mi stava riconsegnando me stessa e non c’era dono più grande ed altruista.
In quel momento il dottor Tofu si schiarì la voce, attirando l'attenzione mia, di Kasumi e dello stesso Ranma, che sembrava essersi accigliato.
< Credo sia meglio se ci ricomponiamo un po' tutti. > borbottò con un pizzico di imbarazzo.
Kasumi annuì e si alzò da terra, lisciandosi le pieghe dell'abito che odorava di cucina e limone verde.
Era il profumo più buono che ricordavo di aver mai sentito.
Casa, casa. Calore. Abbracci.
Sul suo viso non c'era la minima traccia del pianto di prima, mentre io dovevo somigliare ad uno straccio strizzato.
Sospirai, mettendomi in piedi lentamente, con il peso della realtà che di nuovo mi schiacciava, lontana com'ero dal rifugio sicuro delle braccia di mia sorella.
Era come se fossi volata in alto per qualche istante e fossi poi precipitata a terra per la troppa vicinanza col Sole, che aveva sciolto le mie ali di cera.
Ebbi voglia di scappare e gridare di frustrazione quando i ricordi spiacevoli di quello che avevo passato lì a Nerima mi aggredirono.
Kasumi sorrideva, ignara del mio dibattito interiore.
Mi tese una mano sorridente, aspettandosi di vedermi tornare a casa come la figliol prodiga.
Fissai le sue dita affusolate, tremando alla sola idea di rivedere mio padre e mia sorella Nabiki, ma non riuscii ad emettere un solo suono.
Annaspai.
Casa, casa. Angoscia. Solitudine.
< Temo che Akane, in questo momento, non si senta pronta ad affrontare la vostra famiglia. Abbiamo vissuto una brutta avventura e le emozioni di questi giorni stanno avendo la meglio. Credo che la cosa migliore sia che oggi riposi qui dal dottor Tofu e vi incontriate domani. > suggerì Ranma, avvicinandosi a me e cingendomi le spalle con dolcezza.
Alzai lo sguardo sul suo viso e vi scovai una determinazione indistruttibile che mi fece sentire al sicuro.
Ero appoggiata di schiena ad un muro incrollabile e le brutture mi aspettavano aldilà. Lontane e innocue, per il momento.
Da quanto tempo era che qualcuno non si prodigava a difendermi e a prendersi cura di me?
Troppo.
Gli sorrisi ancora, nuovamente grata e sollevata.
Kasumi annuì condiscendente e si congedò con modi spicci, pressata anche lei dalle emozioni appena vissute.
Mi salutò con un bacio sulla guancia dolce ed un abbraccio carico d'amore che mi commosse e di cui avevo dimenticato il sapore.
Era l'unica che avevo lasciato con rimpianto al villaggio.
Quando Kasumi se ne fu andata, il dottor Tofu visitò Ranma, disinfettandogli la ferita suturata e sostituendo il cerotto.
Dopodichè consumammo un pasto frugale nel più totale silenzio. Sembrava che ognuno aspettasse che fosse l'altro a parlare, in un circolo vizioso che nessuno ruppe.
Ed ora mi ritrovavo chiusa in una stanza, che sapeva di medicinali, nuovamente sola a tentar di far scorrere più velocemente un pomeriggio che passava con lentezza estenuante.
Mi colpiva al fianco, sfiancandomi, ma senza mai prendere punti vitali.
Il dottore era uscito a comprare qualcosa per cena e Ranma lo aveva accompagnato, lasciandomi con l'unica compagnia del mio irrefrenabile istinto di fare armi e bagagli e scomparire così com'ero arrivata.
Fantasma sbavato, ricordo scolorito che presto sarebbe evaporato.
Perchè, tuttavia, il mio corpo non rispondeva ai comandi del cervello?
Più volevo andar via, più rimanevo impalata lì, al centro. Esposta.
Le mie cicatrici bruciavano dolorosamente, come se me le fossi appena procurate.
Dalla finestra della stanza in cui ero riuscivo a scorgere in lontananza, aldilà delle altre abitazioni, il cumulo di macerie che una volta era stato l'edificio in cui era divampato l'incendio.
Se chiudevo gli occhi, riuscivo ancora ad udire il pianto di quel bambino e vedevo persino le sue braccine agitarsi tra le fiamme.
Il suo visetto paffuto, in cui erano incastonati occhi di giada, mi tormentava ogni notte.
Ogni singola, infinita, notte da quel giorno.
Gli avevo salvato la vita, ma questo aveva solo sollevato un mare di pena nei miei confronti.
Non volevo essere compatita nè essere trattata come un caso umano: lo odiavo!
Ed ingenuamente credevo che, nonostante ciò che pensassero gli altri abitanti di Nerima, la mia famiglia mi avrebbe supportato, sempre.
Casa, casa. Sorrisi. Baci dolci.
Che sciocca che ero stata.
< Cinquecentomila yen? E' una cifra mostruosa! Possibile che tu voglia dei soldi per restare insieme ad Akane? >
< Ti daremo tutto quello che vuoi, ma questo nostro accordo non deve trapelare. Non voglio che nessuno lo sappia, soprattutto lei. Deve continuare a credere di essere una persona normale... >
Casa, casa. Soldi. Bugie.

La bile che si era riversata nel mio corpo, quando avevo udito quelle parole, tornò a circolarmi nelle vene al solo ricordo.
Ero stata venduta come un soprammobile poco gradevole, che l'acquirente aveva preso solo dietro lauta ricompensa.
La rabbia ed il dolore s'impossessarono di me come allora e mi ritrovai a gridare mentre rovesciavo un tavolo, prendendolo a calci con violenza, fino a ridurlo ad un cumulo di schegge di legno.
Più colpivo, meno riuscivo a fermarmi.
Pena, compassione e vergogna, ecco quello che aveva portato alla mia famiglia il mio aver salvato una vita!
Piangevo copiosamente per l'odio verso tutti quelli che non capivano e persino verso quei ragazzini che avevo incontrato per strada e mi avevano parlottato dietro, schernendosi delle mie ustioni.
Detestavo ogni pietra, ogni albero, ogni muro di Nerima!
Mi voltai furibonda alla ricerca di qualcos'altro da fare e pezzi e mi trovai di fronte un incredulo Ranma, che spostava lo sguardo dai resti del tavolo a me.
Lui!
Era colpa sua se i miei sentimenti erano riemersi e soffrivo di nuovo!
Era colpa sua se la mia perfetta e programmata vita da assassina era andata a monte!
Odiavo anche lui!
< Akane? > sussurrò, sbarrando gli occhi alla vista delle mie lacrime.
< TI ODIO! > gridai, mollandogli un sonoro schiaffo.
Un muscolo guizzò sulla sua tempia, ma rimase di profilo, nella stessa posizione in cui l'avevo spostato col mio ceffone.
Lo sorpassai, avvicinandomi alla finestra.
Non ce la facevo a restare. Non potevo affrontarli e leggere nei loro occhi ancora quello sguardo pietoso e dispiaciuto.
Non ero abbastanza forte per sopportarlo, non di nuovo.
Una volta mi era bastata una vita intera.
Ranma mi bloccò per un polso prima che riuscissi a raggiungere la finestra.
< Non t'azzardare ad andartene. > sibilò, strattonandomi e facendomi voltare.
I suoi occhi erano grigi come un cielo che minacciava tempesta.
< LASCIAMI! E' TUTTA COLPA TUA SE MI SENTO COSì! NON SAREI MAI DOVUTA TORNARE! ME NE VADO! > urlai isterica, puntellando le mani sul suo petto per allontanarmi.
< Sei una vigliacca! Stai solo scappando! > mi rimproverò calmo, senza mollare la presa.
< NON ME NE IMPORTA NIENTE DI QUELLO CHE PENSI TU! IO NON VOGLIO VEDERLI, LO CAPISCI? NO, NON PUOI CAPIRE, TU! CHE NE SAI? NON SAI DI NIENTE DI ME! E LASCIAMI, DANNAZIONE! > gridai, cercando di liberarmi e menando calci a casaccio.
< Raccontami, allora! Fammi capire! Rendimi partecipe! Cazzo, Akane, ma come pretendi che ti lasci andar via in queste condizioni!? > alzò la voce per zittire le mie proteste.
Perchè gli interessava tanto sapere del mio passato?
Perchè si preoccupava per me e non se ne infischiava semplicemente come gli altri?
Mi tirò verso di sè e mi abbracciò con impeto, placando i miei singhiozzi.
Alle sue spalle mi sembrò di udire il cigolio della porta della stanza che si richiudeva, ma non vi badai.
L'abbraccio di Ranma era più vigoroso di quello di Kasumi, ma ugualmente rassicurante.
Calore, calore.
< Ho paura. > mi sfuggì di bocca.
Premetti il viso sul suo petto, tremando.
< Andrà tutto bene, vedrai. Lo affronteremo insieme... > mi rassicurò lui, accarezzandomi i capelli.
Mi trascinò verso il letto e si sedette accanto a me, tenendomi per mano.
Abbassai lo sguardo, osservando colpevole il tavolo.
Non osavo sbirciare il suo viso per controllare se il mio schiaffo gli avesse lasciato il segno. Mi vergognavo troppo della mia sfuriata di poco prima, dissoltasi come un banco di nebbia con l'arrivo del sole in chissà quale modo.
Calore, calore.
< Akane, vuoi dirmi che ti succede? > domandò cauto, sollevandomi il viso con un dito.
I miei occhi si posarono sulla sua guancia rossa ed avvampai per l’imbarazzo.
Scossi il capo e ricacciai indietro le lacrime, che minacciavano di nuovo di ostruirmi la gola.
< Va bene. Non importa, adesso, però, riposa. > si alzò e mi scoccò un bacio sulla guancia ustionata senza remore.
Quel suo gesto semplice e spavaldo mi lasciò senza respiro.
Ranma mi sorrise e mi scompigliò i capelli < Sei proprio strana, Akane. > sussurrò, girandosi verso la porta.
Incapace di collegare cervello e bocca mi ritrovai a chiedergli un qualcosa che lasciò spiazzato lui quanto me.
< Ti va di restare qui con me, stanotte? >

Piccolo regalino di San Valentino per tutte le mie lettrici più affezionate, che di sicuro non si aspettavano questo aggiornamento così a bruciapelo.
E' per ringraziarvi del vostro sostegno, appoggio e affetto.
Scorgiamo, qui, un pezzo in più di Akane..dite un po', ma a nessuno di voi era venuto il dubbio che, essendo una AU, Kasumi avrebbe potuto non essere sua sorella?
A quanto pare no XD
Spero che ci leggeremo presto e che passiate una bella serata, che sia con un amico/a, il fidanzato/a, un bel libro o la famiglia.
Per quanto mi riguarda ho una consegna di una settantina di cioccolatini ripieni, fatti ieri in casa con la mia migliore amica, da dare a quell'impiastro del mio ragazzo XD
Un forte abbraccio.

Strange.

Piesse: Caia, io leggo la tua recensione vecchia dal menù "controlla le tue ultime recensioni", ma poi effettivamente nella storia non c'è e non riesco a risponderti :(

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Capitolo 12
*** Nacked soul. ***


You see all my light and you love my dark.


Twelfth. Nacked soul.



Guancia a guancia.
Fianco a fianco.
Tu dormivi accanto a me.
Braccio a braccio.
Dall’alba al tramonto con le tende tirate. [Rihanna]


Sospirai, passandomi il braccio dietro la testa e contemplando le ombre ballerine che danzavano sul soffitto.
Ma perchè diavolo gli avevo fatto una richiesta assurda come quella?
Che cosa mi era passato per la testa in quel momento?
E perchè lui aveva accettato? Non aveva un po' di sale in zucca per intuire che quelle parole erano uscite dalle mie labbra sulla scia di emozioni che mi avevano annebbiato la mente?
- Inventatene una migliore, Akane; Non sei credibile -.
Ah già, si parlava di Ranma. Il ragazzo che al posto del cervello aveva un criceto obeso che non riusciva a correre sulla ruota.
Di che mi sorprendevo? E chi volevo rimproverare, se non me stessa, della spinosa situazione in cui mi trovavo?
Lui, accanto a me, cambiò posizione e si mise supino, sfiorandomi la spalla destra.
Rabbrividii al contatto con la sua pelle calda e cercai di scostarmi un po', senza tuttavia finire per terra.
Perchè non gli avevo almeno lasciato prendere un futon e mettersi sul pavimento accanto al letto?
Sarebbe stato con me a tenermi compagnia ugualmente...e magari, in quel modo, sarei anche riuscita a chiudere un po' gli occhi, recuperando le forze per affrontare la mia famiglia l'indomani, invece di scrutare ogni crepa del soffitto e contare le pecore almeno una dozzina di volte.
Invece no. L'avevo supplicato con lo sguardo di non allontanarsi da me più di un centimetro e così ci ritrovavamo entrambi a pancia all'aria, su un letto omologato per una sola persona, stretti come due sardine in scatola.
La cosa che più mi turbava, però, era che non mi sentivo affatto intimorita da quel contatto.
Ero, anzi, rassicurata dallo sfregamento delle nostre braccia ed era piacevole sentire il suo respiro regolare come unico suono nella stanza, oltre al mio cuore birichino.
Batteva così forte contro le costole che temevo potesse udirlo persino lui.
Anzi, mi chiedevo, come potesse non farlo.
La cosa peggiore era che sapevo perfettamente a cosa era dovuto il ritmo tanto serrato di quell'organo che era caduto nel dimenticatoio a lungo: la consapevolezza della sua estrema vicinanza a me.
Avrei dovuto rifuggire qualsiasi cosa lo riguardasse, vista la facilità con cui oltrepassava la mia armatura: riusciva a penetrarla come fosse fatta di burro e lui fosse armato di una lama arroventata.
Rabbrividivo al solo pensiero di quanto intimamente mi conoscesse.
Sapeva più lui di me che io di me stessa.
Avevo troppa paura di comprendermi a fondo ed essere ripugnata da ciò che avrei scovato in fondo alla mia anima, cosa che, invece, sembrava non toccare minimamente Ranma.
Era testardo, ostinato come un mulo, e finchè non otteneva risposte da me mi martoriava psicologicamente...ed io mi arrendevo, ben lieta di alleggerire il peso che mi trascinavo dietro e cederne una parte a lui.
Sospirai ancora, cambiando braccio sotto la testa.
< Sei sveglia, Akane? > la sua voce mi raggelò.
Non dormiva? Perchè non dormiva?
Non volevo parlare ancora con lui. Era così piacevole quel silenzio.
Non volevo che si interrompesse.
Volevo che lui si riappisolasse, cosicchè io potessi pensare in santa pace...e perchè no, guardarlo dormire senza risultare sciocca ai suoi occhi.
Ranma si mosse accanto a me e, quando avvertii il suo respiro caldo sulla guancia, capii che si era messo su un fianco, puntellandosi su un braccio, e mi stava fissando insistentemente.
Tenni serrati gli occhi, ma le mani già sudavano.
< Akane? > sussurrò lui, avvicinandosi ancora di più, tanto che il suo naso mi sfiorò la fronte.
Trattenni il fiato, aspettando che si voltasse, perdendo interesse per me, credendomi addormentata.
Invece rimase dov'era e, anzi, mi sfiorò con le nocche il collo e poi risalì per la guancia ustionata, accarezzandola con dolcezza.
Mi morsi le labbra, sperando che il buio celasse il mio gesto.
Perchè Ranma si comportava in quel modo?
Perchè mi toccava come se non lo disgustassi e mi proteggeva?
E perchè io non riuscivo a sottrarmi alle sue carezze, ma ne bramavo sempre di più?
Perchè non fuggivo terrorizzata da lui, ma cercavo, al contrario, la sua vicinanza?
Decine di domande come quelle mi si accavallarono in testa, una sopra l'altra e, mentre le sue dita continuavano la loro esplorazione, il mio cervello andò in tilt.
Si scollegò dal corpo che, agendo di sua volontà, dischiuse le palpebre.
I suoi occhi azzurri splendevano nella notte come due stelle e ne rimasi letteralmente abbagliata.
< Che stai facendo? > chiesi, cogliendolo alla sprovvista e facendolo ritrarre di colpo, come un ladro beccato col bottino in mano.
Nonostante l'oscurità in cui eravamo immersi, notai lo stesso il rossore che gli colorò le guance e la punta del naso, rendendolo estremamente tenero.
Sorrisi, camuffando il tutto con un colpo di tosse soffocato.
< Ni-niente. > borbottò, girandosi poi di schiena < 'Notte. >
Inspiegabilmente sentii gli artigli dell'abbandono ghermirmi, anche se lui era a pochi centimetri da me.
Diedi quindi fiato alla bocca, prima di aver riconnesso cervello e corpo.
< Perchè il tuo capo villaggio ti voleva morto? > gli domandai, dando sostanza ad una delle centinaia di domande che ancora mi frullavano in testa.
Ranma rimase nella stessa posizione, ma le sue spalle si irrigidirono.
Mi voltai su un fianco verso di lui e gli sfiorai una spalla, provocandogli un tremore.
< Ranma, non ti va di parlarne? > chiesi ancora, attendendo con ansia quella risposta.
Mi piaceva sentirlo parlare e mi piaceva essere ascoltata da lui, che non interrompeva mai e si limitava a porre le sue osservazioni solo alla fine.
Certo, non che lo facesse sempre: di solito, infatti, era un perfetto imbecille.
Ma c'erano momenti in cui si trasformava e diventava la persona più attenta e premurosa che avessi mai conosciuto.
Non che legassi facilmente e insaurassi rapporti umani ogni dieci minuti, eh.
Ma Ranma...Ranma era diverso. O forse ero solo io a vederlo tale.
< E' stato un incidente. > mormorò con un tono che riuscii a sentire soltanto grazie al mio udito affinato dall'addestramento ad assassina.
< Cosa? > gli domandai, curiosa.
Gentilmente lo tirai verso di me, con la mano che ancora tenevo sulla sua spalla, e così ci ritrovammo nelle posizioni opposte rispetto a prima: io su un fianco che lo osservavo e lui supino che fissava il soffitto.
< Daisetsu, il capo del mio villaggio, mi ha accusato di aver volontariamente ridotto sua figlia ad una paraplegica. > sbottò, serrando i pugni lungo il busto.
< Ed è così? > azzardai, conoscendo già la risposta.
< NO! > gridò, fulminandomi con occhi furenti < Non posso credere che tu lo pensi! > mi accusò, con una scintilla di delusione nello sguardo.
Scossi il capo.
< No, infatti non lo credo possibile, ma volevo sentirtelo dire. > risposi, abbozzando un sorriso.
< Oh, beh grazie! > mugugnò, incrociando le braccia al petto, offeso.
Il silenzio calò tra noi e mi provocò un fastidio all'altezza dello stomaco.
Non volevo farlo chiudere a riccio. Volevo sapere, volevo conoscerlo di più.
Feci per aprire bocca e invitarlo a continuare, ma non ce ne fu bisogno.
< Ucchan era così bella e piena di vita...La consideravo una sorella minore, ma lei era anche innamorata...di me. > storse il viso in una smorfia.
Una fitta mi mozzò il fiato in gola. La ignorai con stizza e con mano esitante sfiorai la sua, in un muto segno di comprensione.
< Che diamine ci trovava in me non lo so proprio. Sarebbe stato meglio per lei che mi avesse girato alla larga. In fondo sapeva benissimo che per me non esistevano che le arti marziali! > proseguì imperterrito.
Era come se avessi aperto un rubinetto mal funzionante, impossibile da richiudere una volta avviato il getto d'acqua.
< Il giorno dell'incidente le avevano tolto il gesso di una brutta frattura multipla ed era così fragile... > digrignò i denti < Dovevo essere più attento. Non avrei dovuto farmi distrarre, io...io avrei dovuto salvarla. Se fossi stato più svelto e meno disattento lei a quest'ora...lei... > la sua voce si spense, rotta dall'emozione.
Girò il viso, nascondendomi il dolore che gli si era dipinto nello sguardo.
< Perchè suo padre accusò te? > domandai, poggiando la testa sulle sue braccia ancora conserte.
Sotto i muscoli sentivo il battito del suo cuore furibondo e da quella angolazione le sue iridi erano blu mare macchiato d’ombra.
< Perchè era facile! Ero il capro espiatorio perfetto! Così facendo ha colto due piccioni con una fava: si è liberato di me, impedendomi di avvicinarmi a sua figlia e combinandole il matrimonio più adeguato al suo ceto sociale, e in più si è vendicato degli antichi rancori verso il mio vecchio. Io e mio padre, nell'ultimo periodo, venivamo trattati come criminali nel villaggio! > si alzò a sedere di scatto, animato da rabbia cieca.
Sul collo gli pulsavano vene trepidanti e la mandibola era serrata.
Spaventata dal repentino gesto, mi scansai.
Ranma prese a misurare la stanza con lunghe falcate, trattenendosi a stento dallo spaccare qualcosa come avevo fatto io soltanto poche ore prima.
Stringeva le mani tra i capelli e strizzava le palpebre con nervosismo, scrocchiandosi le ossa del collo.
< Smettila. > gli consigliai in tono pacato, avvertendo un insolito gelo avvolgermi.
La sua presenza calda e rassicurante aveva lasciato il posto ad un freddo sentore di solitudine.
Rabbrividii, stringendomi nelle braccia.
< Devi riportarmi lì, Akane. Io lo ammazzo! > gridò, scagliando un pugno contro il muro, creandovi una fitta tela di crepe.
Rimase di schiena, le spalle tremanti e la testa abbassata.
Scesi dal letto veloce ed in un battito di ciglia gli fui accanto.
Posai una mano sulla sua, dalle cui nocche sbucciate usciva sangue che stava macchiando la parete immacolata, e lo costrinsi ad abbassarla.
< Guardami. > gli ordinai.
Ranma, al contrario, tenne lo sguardo ostinatamente a terra.
< Ho detto GUARDAMI. > gli alzai il mento con una mano ed incontrai due occhi grigi così furenti e tristi che arretrai per la sorpresa.
Un mare dalle profondità abissali, tormentato da un temporale, mi risucchiò nel suo vortice, agganciandomi al fondo sabbioso.
< Non è colpa tua. Non puoi sentirti in colpa per non averla salvata. Non hai potuto, tutto qui. Ranma, sei umano. Sarai anche un agile artista marziale, ma non sei dotato di poteri speciali. Sei umano. > ripetei, addolcendo il tono. < Non avresti potuto fare nulla per lei in ogni caso. >
- Inoltre se l'avessi salvata io non ti avrei incontrato. -
Aggiunsi tra me e me, mordendomi ferocemente le labbra per non dar corpo a quel pensiero schifosamente smielato.
< Avrei dovuto quantomeno provarci! > tuonò, scostandosi.
Gli presi la testa con entrambe le mani e gliela girai di nuovo nella mia direzione < Non sarebbe cambiato nulla! Smettila di sentirti colpevole! Lei non ti ritiene tale, dannazione! >
< E tu che ne sai? Tu non ritieni forse responsabile la tua famiglia per ciò che sei diventata? > gridò, spintonandomi via.
Colpita ed affondata.
Strinsi le mani a pugno, reprimendo l'istinto di mollargliene uno sopra la ferita ancora aperta.
Gli occhi bruciarono di colpo, come se qualcuno gli avesse dato fuoco, e le parole rimasero incastrate in gola, nonostante il desiderio impellente di fargli male, come lui ne aveva fatto a me.
Ma la colpa era mia, solo mia.
Io gli avevo concesso tutto quel potere su di me e lui adesso aveva un arsenale infinito di armi con cui torturarmi.
Ma il modo migliore lo aveva trovato da solo, scegliendo con cura tra i vari attrezzi taglienti; io, ingenua vittima di un insospettabile carnefice
< Sì. Sì, hai ragione; è inutile cercare di consolarti. Tu sei responsabile, almeno quanto lo sono i miei familiari. E’ colpa tua. Tutta colpa tua. > dichiarai fredda e scostante.
Sperai che annegasse nel dolore come stavo facendo io.
Volevo trascinarlo a fondo con me.  Egoisticamente non volevo trovarmi sola, non più.
Ranma boccheggiò, come se avesse incassato un colpo duro e brusco, del tutto inaspettato.
Possibile che dovessimo spezzarci entrambi per star meglio?
Non era un prezzo troppo alto per tornare ad essere sereni...insieme? E, soprattutto, io ero disposta ad accettarlo?
Chi avrebbe dovuto compiere ora la prima mossa per ricucire gli strappi?
Io non ero mai stata brava con ago e filo. Era Kasumi quella portata per i lavori domestici...
< Non c’è bisogno che me lo confermi tu; lo so da solo. >
< Che c’è, Ranma, fa male sentirselo dire? Te lo dico io: sì, fa male. E se anche i suoi occhi mostreranno perdono e dolcezza, dentro il cuore ci sarà spazio solo per veleno. Ti odierà e desidererà soltanto restituirti quel che tu le hai fatto. Quel che tu potevi evitare e che hai permesso accadesse! > sputai con cattiveria, non sapendo più nemmeno se era lui che colpivo o me stessa.
< E la tua famiglia cosa ha permesso accadesse? Di cosa sono colpevoli? Di non averti medicato un ginocchio sbucciato? La verità è che pretendevi troppo e quando ti hanno dato poco ti sei sentita...boh, tradita? Abbandonata? Cazzate così, immagino. Povera, piccola Akane; nessuno le vuole bene. > mi schernì con acredine, avvicinandosi e torreggiando su di me.
Strinsi i denti e anche le dita intorno all’elsa del pugnale che avevo attaccato alla cinta.
Lui mi bloccò il polso con forza e mi scrutò spietato.
< Tu non sai un cazzo di me. Fottiti, stronzo. >
< E tu di me. Và al diavolo. >
Ansanti, come se avessimo appena finito di fare a pugni in una rissa scoppiata per sbaglio, ci fissammo in cagnesco.
Mi stava bene: così imparavo ad espormi tanto.
Avrei dovuto tenere Ranma a distanza: era pericoloso e nocivo.
Rischiavo di vedere il mio cuore malridotto squarciato senza pietà come un cuscino.
Peccato che i miei buoni propositi facessero a cazzotti con i miei sentimenti.
Loro, al contrario, volevano sentire Ranma vicino, a costo di essere fatta a pezzi.
Sembrava uno scambio equo per il calore che ricevevo in cambio.
Calore di cui ormai non credevo di saper più fare a meno.
< Io ti... > aprii bocca per insultarlo ancora e ancora e ancora, ma lui chiuse la distanza tra di noi con un bacio. Uno sfiorarsi tenue di labbra incerte e rabbiose, mentre un sole pallido e rosato tinteggiava le soffici nuvole e le cime degli alberi di un caldo color pesca alle nostre spalle.
Le labbra di Ranma sapevano di promesse zuccherate, di acido salato e rabbia infuocata.
Avevano un sapore inspiegabile e ipnotico ed erano morbide.
Portò le mani sui miei fianchi e schiuse la bocca, cercando la mia lingua con la sua.
Mi stavo addentrando su un terreno pericoloso e dissestato, lo sapevo bene.
Eppure non percepivo insidie all’orizzonte. Lui stava compiendo i miei stessi passi, tenendomi per mano, pronto a sorreggermi se fossi caduta...o a buttarsi con me per non lasciarmi sola.
Consapevole di quella certezza, chiusi gli occhi e mi spogliai della pesante armatura, lasciandola crollare a terra, ai piedi di Ranma, che nemmeno se ne accorse.
Non vide la nudità della mia anima e l'arrendevolezza con cui gli stavo cedendo me stessa.
Io, però, notai la sua.
Eravamo uno di fronte l'altro, privi di corazze ed ogni tipo di barriere.
Io, lui, il sole che ci scaldava la pelle e un bacio che mi fece tremare il cuore.

***

Quando posai istintivamente le mie labbra su quelle di Akane, soltanto in un patetico tentativo di farla tacere, la sentii rabbrividire tra le mie dita, senza tuttavia ritrarsi.
Incoraggiato, allora, le strinsi le mani attorno alla vita e la portai più vicino a me, inebriato dal suo dolce sapore e dal profumo della sua pelle.
Ruggine, limone, cioccolata e terra.
Che diavolo stavo facendo?
Le mi aveva appena inferto un’altra dozzina di ferite verbali, oltre a quella fisica che già sfoggiavo, ed io la baciavo?
E non smettevo?
Dove cazzo avevo lasciato la sanità mentale? Sotto il cuscino?
Qualcosa, nel mio petto, distese le ali e prese a svolazzarmi nella cassa toracica, come un uccello in gabbia.
Se qualcuno mi avesse chiesto di dare un nome alla cosa che mi si agitava nel petto forse avrei risposto che era panico.
Io, in vita mia, non avevo mai fatto un'esperienza come quella.
Era un po' imbarazzante ammetterlo, ma non avevo baciato nessuno prima di Akane; nemmeno Ucchan, nonostante lei ci avesse provato innumerevoli volte.
Cosa dovevo aspettarmi quindi?
Cosa avrei dovuto provare di preciso?
Era normale che mi sentissi...leggero?
Mi sembrava di essere sotto l'effetto di una sbornia, tanto devastante da farmi illudere di potermi librare in aria. In più le tempie pulsavano dolorosamente, il sangue scorreva prepotente nelle vene e lo stomaco si era ridotto alle dimensioni di un foglio di carta malamente appallottolato.
Ne volevo di più, sempre di più e non capivo cosa fosse e crearmi dipendenza: la morbidezza delle sue labbra e la violenza con cui le sue mani artigliavano i miei capelli, oppure lo sfregamento del suo corpo contro il mio, enfatizzato dal respiro affannoso di entrambi.
Era assurdo!
Io volevo solamente ripagarla con pari dolore di quello che lei aveva somministrato a me in dose massiccia, non avevo avuto la minima intenzione di baciarla!
Però dovevo ammettere che mi piaceva sentirla così vicino a me, arrendevole -come era raramente- e priva delle difese di cui si era circondata e che solitamente m'impedivano di comprenderla appieno.
Seguendo un istinto –che, tra l'altro, non credevo minimamente di possedere- le dischiusi le labbra ma, quando provai ad esplorare la sua bocca con la lingua, lei me la morse ferocemente, allontanandosi poi di scatto e, prima che avessi tempo di schivarlo, mollandomi l'ennesimo sonoro schiaffo.
Il ceffone ebbe il potere di schiarirmi le idee.
La fissai furibondo, notando, però, con soddisfazione, che il suo petto si alzava e abbassava irregolarmente come il mio e che le sue labbra erano ancora gonfie e rosse come ciligie mature.
< Che diavolo fai? > la apostrofai, massaggiandomi la guancia dolente.
< TU, PIUTTOSTO, CHE DIAVOLO FAI! > strepitò lei di rimando, assumendo, nel contempo, una posizione di difesa del tutto fuori luogo.
Avvampai.
< Beh, mi sembra abbastanza ovvio! > bofonchiai, grattandomi la nuca imbarazzato.
la rabbia era evaporata come la rugiada del primo mattino dalle foglie degli alberi fuori la finestra.
< MI HAI BACIATO! > sbraitò incredula, gesticolando con le braccia.
< No! Stavo controllando se avevi la febbre! > ironizzai, alzando gli occhi al cielo.
< Mi hai baciato! > ripetè abbassando la voce, che rimase comunque pregna di acredine e sdegno.
< Sì! >
< Non avresti dovuto. > ringhiò lei e quella frase ebbe lo stesso effetto dello schiaffo di poco prima.
Sapeva farci con le parole...o forse aveva solo intuito quale fosse il punto giusto da colpire per ferirmi.
Ferirmi di nuovo. Ancora, con maggior enfasi rispetto a prima.
Eppure lei aveva ricambiato il mio bacio con eugual passione...
Cos'avevo sbagliato allora?
Proprio non capivo e lei non mancò di puntualizzarlo.
< Sei un imbecille. Potevi risparmiarti quel bacio che, probabilmente, nella tua testa, era un miserabile tentativo di farti perdonare per avermi ferito senza pronunciare quella parola tanto astiosa che è "Scusa". > mi rimproverò, lasciandomi senza parole.
Credeva fosse quello il motivo per cui l'avevo baciata?
Era ottusa persino più di me! O forse le faceva solo comodo credere che fosse così.
Aveva alzato di nuovo quella barriera invalicabile tra noi e non volevo sgretolarla di nuovo.
Avevo il timore di sbriciolare la sua tenacia, la sua forza...
Per nulla al mondo l'avrei di nuovo voluta ridurre in lacrime.
Perciò restai dov'ero, lasciandole riprendere il controllo delle sue emozioni, trattenute con briglie ferree.
< Akane ascolta... > feci un passo verso di lei, tentando di rabbonirla -nonostante tutto- e spiegarle che se ero arrivato a baciarla era perchè volevo farlo davvero.
Non avevo messo in conto di farlo in quel modo nè nel momento in cui entrambi avremmo volentieri fatto a brandelli l’altro, ma era successo.
E non riuscivo a pentirmene.
< Sta' zitto, è meglio. Guarda che non serve che tu faccia il carino con me e finga di sentire un'attrazione che sei ben lungi dal provare per potermi così meglio manipolare. Non ti riporterò a casa tua per farti ammazzare il tuo capo villaggio. Non sei un assassino, tu. >
Quella sua valanga di parole sprezzanti e astiose mi prosciugò di bocca qualunque risposta.
Senza darmi tempo di ribattere, girò sui tacchi e aprì la porta della stanza, trovandosi di fronte un interdetto dottor Tofu con la mano alzata per bussare.
< Buongiorno. > borbottò lei, chiudendosi poi la porta del bagno alle spalle con un tonfo sordo.

Taci! Almeno taci!
Stiamo cercando di procedere lentamente eppure stiamo perdendo il controllo.
E stiamo tentando di farlo funzionare, eppure finisce nel peggior modo. [Black Eyed Peas]




Il numero delle recensioni dello scorso capitolo è salito alle stelle.
Sono stra felice ed è una carica che mi ci voleva in questo periodo, in cui ho un po' perso le parole per strada.
Mi è successo di tutto ed in un lasso di periodo davvero breve, tanto che sto ancora cercando di rimettere insieme i cocci senza tagliarmi.
Per farmi perdonare per la mia assenza prolungata, perciò, ho unito due capitoli, allungando il brodo e accorciando l'agonia di chi questa storia l'aveva già letta e non vede l'ora che riprenda da dove mi sono interrotta.
Questo capitolo, nella prima stesura, mi piaceva molto; adesso, se possibile, ancor di più perchè il bacio rabbioso che volevo si è concretizzato.
Inizialmente, invece, era più dolce e ponderato, mentre Ranma è noto per la sua impulsività e quindi questa scena gli si addice di più.
Attendo, fremente, i pareri -e pure i pomodori se volete, ne avete tutti i diritti -.
Chiedo scusa per le risposte mancate alle recensioni dello scorso capitolo.
Non credo di riuscire a recuperarle e non voglio fare promesse che poi non manterrei.
Posso però dirvi che mi impegnerò per non saltarne una da adesso in poi. Speriamo bene XD
Vi abbraccio immensamente, perchè il vostro calore e affetto mi entra nelle ossa e mi sostiene, quando vorrei solo scivolare a terra.
Un abbraccio immenso.

Strange.

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Capitolo 13
*** Still here. ***


You see all my light and you love my dark.

 

Thirteenth. Still here.



Tu vedi ogni cosa, tu vedi ogni parte.Tu vedi tutta la mia luce e ami la mia oscurità.
Tu scavi a fondo in qualsiasi cosa di cui mi vergogno.
Non esiste nulla con cui tu non riesca a metterti in relazione e sei ancora qui. [Alanis Morissette]


Scema.
Stupida.
Cretina.
Deficiente.
Quanti sinonimi esistevano per esprimere quello stesso concetto?
Un'imbecille, ecco cos'ero.
Sbuffai, ricominciando daccapo la lista d'insulti rivolti a me stessa, senza degnare di uno sguardo il cielo terso, che faceva capolino tra le fronde degli alberi che ci riparavano dal sole cocente.
< Akane senti io... >
< Taci. > ringhiai, senza rallentare.
Lui teneva il mio passo senza alcuna difficoltà e camminava disinvolto, con le braccia dietro la testa e l'aria rilassata.
Tuttavia, ogni volta che mi sfiorava, sussultavo e mi spostavo di un centimetro per non essere toccata da lui.
Non dovevo permettergli di avvicinarsi troppo, visto come era finita soltanto un'ora prima.
Ripensare alla sua bocca sulla mia ebbe solo l'effetto di farmi arrossire violentemente e di farmi formicolare le labbra.
Ripensare, invece, al modo arrendevole in cui mi ero lasciata andare tra le sue braccia mi faceva infuriare.
Ripresi, quindi, l'elenco di offese verso me stessa, rischiando di inciampare su una radice troppo sporgente.
< Stà attenta! > mi rimproverò lui, sorreggendomi prontamente.
Lo spintonai via, maledicendo anche il dottor Tofu che aveva insistito affinchè Ranma mi accompagnasse dalla mia famiglia - sapeva che altrimenti non ci sarei andata mai e avrei afferrato l’occasione per darmela a gambe-, e borbottai uno < Stammi lontano. > che fece calare un'ombra scura sui suoi occhi cristallini come i fiori di campo che mia madre metteva in un vaso in corridoio ogni domenica.
Ripensare a lei e ad ogni passo che mi conduceva verso la casa che una volta odorava di lei, mi fece contrarre spasmodicamente le mani le une nelle altre.
< Oh, fa' come ti pare. Volevo solo cercare d'essere gentile! > rispose piccato, girandosi dalla parte opposta senza più degnarmi di uno sguardo.
Oh, bene! Finalmente aveva capito l'antifona!
Più alla larga girava da me, più mi sentivo padrona di me stessa...ed avevo un bisogno di essere forte in quel momento.
Non potevo permettermi cedimenti.
Stavo andando volontariamente a farmi ridurre a brandelli, porgendo ai miei carnefici il coltello dalla parte del manico.
Buffo.
Ripensando alla mentalità di Haranobu, ero io, in quel caso, il pezzo di carne e mio padre e le mie sorelle i macellai.
Rabbrividii, stringendomi nelle spalle, desiderando di essere dovunque tranne che lì.
Ranma dovette cogliere con la coda dell'occhio il mio gesto perchè sussurrò un qualcosa come < Non sei costretta. > che, contrariamente a quanto pensassi, mi fece sentire meglio.
Era assurdo, ne ero consapevole, ma se tanto lo detestavo perchè la sua presenza mi costringeva ad avanzare invece che a fuggire, tanto gli ero grata di non avermi voluta lasciar sola.
Intavolai, perciò, una sorta di conversazione che, speravo, mi avrebbe distratto il tempo necessario a giungere fino al Dojo Tendo.
< Quando parli della tua famiglia nomini sempre e solo tuo padre... > buttai lì, cercando di carpire la sua reazione senza che lui lo notasse.
< Ah! Adesso le è tornata voglia di parlare, principessina? > ironizzò, guardandomi bieco.
Ricambiai la sua occhiata con pari astio e ardore.
Mai, per nulla al mondo, gliel'avrei data vinta.
Era lui quello in torto! Era lui che mi aveva baciata solo per piegarmi e farmi obbedire ai suoi capricci.
Perchè...perchè non poteva esserci nessun altro scopo dietro quello sfiorarsi di labbra.
Non con una come me.
Il silenzio calò tra noi come un pesante sipario di teatro a cui non seguirono applausi entusiasti di un pubblico.
Volevo poter guardare dove mettevo i piedi, ma lui catturava i miei occhi come un magnete.
Il suo profilo era perfetto, constatai con disappunto.
Non aveva il naso storto, la fronte sporgente o i denti da coniglio.
Su qualunque particolare del suo viso io posassi lo sguardo, non riuscivo a trovare un difetto.
Nemmeno un neo, per la miseria!
Quanto fastidio mi causava quella cosa!
Se lui mi avesse sottoposto allo stesso attento esame, avrebbe tratto esattamente le conclusioni opposte: non c'era un tratto decente del mio volto.
Occhi un po' troppo grandi di un banale nocciola, la guancia destra sfiguarata, la sinistra troppo paffuta ed un naso un po' a patata.
Di cosa si meravigliava lui, quindi, se non credevo che mi avesse baciato per voglia, bensì per meglio controllarmi?
Una ragazza innamorata non era forse più condiscendente e gestibile?
Una ribelle, invece, causava un sacco di problemi e faceva sempre l'opposto di ciò che le veniva chiesto.
< Non so che fine abbia fatto mia madre. > Ranma rispose alla mia domanda con netto ritardo, ma non mi lamentai. Almeno, per il momento, zittiva i miei pensieri < Il vecchio dice che ci ha abbandonato. Io non me la ricordo neppure. >
Annuii col capo, assimilando quella nuova informazione su di lui.
< Tu, Akane? Quante sorelle o fratelli hai oltre Kasumi? Hai un padre, una madre...? > chiese lui, girandosi per guardarmi con occhi curiosi.
< Kasumi è la sorella maggiore, Nabiki la mediana, io la minore. Mio padre si chiama Soun e possiede un Dojo. Mia madre è morta qualche tempo fa. > risposi secca.
“Qualche tempo fa” era quanto di meglio ero riuscita a dire. Non sapevo nemmeno quantificare con certezza la mia assenza da Nerima.
Tanto non c’era una sola persona che avesse visto il vuoto al mio posto.
Di Akane non sentiva nessuno la mancanza.
< Oh. > fu il suo unico commento < Ecco, come al solito t'ho chiesto la cosa sbagliata. > borbottò poi fra sè.
Quella sua affermazione mi fece sorridere.
Non era lui il problema, ma io.
Non mi piaceva parlare di me stessa.
Era come fornirgli un nuovo arsenale di armi con cui attaccarmi.
< Fa niente, è passato, ormai. >
Non volevo affrontare i ricordi di mia madre; non volevo pensare a come si sarebbe sentita, sapendo che le mani di sua figlia erano intrise del sangue di centinaia di persone innocenti.
Se fosse stata ancora viva, sarebbe morta di crepacuore nel momento in cui avesse udito quella nefasta notizia.
Invece non lo era e, quindi, probabilmente si rigirava nella tomba senza trovare pace.
Doveva essere infinitamente delusa da me.
< Non piangere di nuovo, però! > Ranma si era fermato e piazzato davanti a me, le mani protese in avanti come pronte a parare un colpo.
< Non ne ho alcune intenzione. > risi della sua ingenuità.
Non avevo più lacrime da consumare al ricordo della mamma.
E poi perchè avrei dovuto piangere rammentando cose belle? Piangevo -più spesso di quanto volessi- pensando a quelle dolorose.
Sospirò sollevato, riprendendo a camminarmi accanto con una naturalezza che io potevo solo sognarmi.
Al suo fianco sembravo un rigido automa dalle giunture arrugginite diretto alla discarica.
Le sue dita sfiorarono le mie, provocandomi brividi di piacere che cercai di ignorare.
< Com'è Ucchan? > domandai, riportando la conversazione su di lui.
< Fantastica! Cucina divinamente! Ha lunghi capelli castani e dolci occhi grigi che al sole sembrano d'argento... > si perse nella descrizione di altri mille insignificanti dettagli che smisi di ascoltare.
Perchè gli avevo posto una domanda come quella?
Avrei potuto riportargli alla mente ricordi tristi e non volevo assolutamente farlo rabbuiare. Cercai d'interromperlo, ma lui non mi ascoltò.
< ...fin da bambini. Da piccola era un maschiaccio poi qualche mese fa è sbocciata come un fiore. E' bella da togliere il fiato e nonostante abbia decine di spasimanti non ha occhi che per me. > fece una smorfia < Ha provato persino a baciarmi un paio di volte e quasi... > chiusi gli occhi, ignorando la fine di quel resoconto.
Non volevo ascoltare, mi faceva male.
Era un dolore imprecisato nel petto, che si distribuiva velocemente come una chiazza d’olio sparsa a terra da una lampada rotta, mozzandomi il fiato.
L'immagine di Ranma che si lasciava baciare da una ragazza bella come una Dea mi trafisse come una freccia.
Ieri sera aveva accennato al fatto che lei fosse innamorata di lui senza esser ricambiata...ma probabilmente lui non aveva disdegnato un paio di baci.
Sapevo che Ucchan aveva un handicap, persino più grave del mio, ma ciò non le avrebbe impedito di trovare marito.
Io, al contrario, ero condannata ad una vita solitaria e desolata.
< Akane? > Ranma mi strattonò per un braccio, riportandomi bruscamente con i piedi a terra.
Sbattei le palpebre un paio di volte, mettendo a fuoco l'ambiente familiare che mi circondava.
Un ciliegio fiorito da poco alla mia sinistra, un faggio alla destra ed un vialetto ghiaioso che portava ad un arco in legno, sormontato da una insegna che riportava la scritta "Dojo Tendo" nell'ordinata grafia di mio padre.
Mi pietrificai sul posto.
Dunque eravamo già arrivati.
Di nuovo la voglia di fuggire s'insinuò nel mio essere.
Il labbro inferiorè tremò impercettibilmente e sobbalzai quando avvertii le dita calde di Ranma allacciarsi, incerte, alle mie.
< Ce la fai? > domandò gentile.
Negai col capo, facendo un passo indietro.
< Dovrai affrontarli prima o poi! > s'intestardì lui, tirandomi in avanti.
< NO! > gridai orripilata, vedendo una me stessa un po' più giovane fuggire via con il viso bagnato di lacrime da quel maledetto villaggio con l'intenzione di non farvi più ritorno.
Quel ricordo m'investì doloroso e tremai.
< Akane, ci sono io. Restiamo dieci minuti, promesso. Il tempo di un thè. Devi solo ascoltarli senza nemmeno rispondere, se non vuoi. > tentò di convincermi ma sembravo un cane testardo che non vuole farsi il bagno.
Lui tirava ed io strattonavo dalla parte opposta.
Non poteva costringermi a guardarli negli occhi e ascoltare le loro caramellose scuse.
< Dannazione, smettila! Sembri una bambina che fa i capricci! >
< NON ME NE FREGA NIENTE DI QUELLO CHE PENSI TU! NON ANDRO' DA LORO, NON VOGLIO! MI FA MALE RANMA, PERCHE' NON LO CAPISCI?! > gridai, menando calci all'aria e serrando gli occhi per cancellare dalla testa l'immagine di un uomo, che somigliava fin troppo a mio padre, che si avvicinava a passo spedito.
< OH, STA' ZITTA PER UNA VOLTA! > replicò lui con lo stesso tono e poi, invece di continuare a tirare, si avvicinò di colpo e rabbiosamente mi baciò una seconda volta nel giro di due ore.
Spalancai gli occhi atterrita ed incontrai le sue iridi d'acquamarina in cui leggevo soltanto decisione mista a dolcezza.
Ranma abbassò con voluta lentezza le sue palpebre e mi strinse tra le braccia con gentilezza, quasi temesse che potessi sbriciolarmi se lui non mi avesse tenuta insieme.
Mi capiva.
Forse non sempre, ma se ci si impegnava e non reagiva come uno scimmione senza cervello, sapeva farlo meglio di chiunque altro.
E soprattutto mi conosceva.
Conosceva ogni sfaccettatura di me.
Mi aveva vista piangere, ridere, avere attacchi di isterismo, di rabbia...mi aveva persino vista indossare le vesti dell'assassina che ero stata e che lui mi aveva tolto.
Nessuno al mondo poteva vantare la stessa cosa. Nessuno ancora in vita.
Nessuno che mi fosse rimasto accanto.
Ranma, però, era ancora lì.
Un colpo di tosse soffocato mi fece riemergere dalla mia nuvola di zucchero filato, in cui ero annegata nel momento in cui avevo cominciato a contraccambiare il suo bacio -che segretamente avevo anelato da quando si era staccato soltanto un'ora prima- .
Ranma annuì deciso, prendendomi nuovamente per mano.
Si scansò, facendo entrare nel mio campo visivo un uomo dai lunghi capelli color carbone -che sulle tempie sfumavano nel grigio- che tentennava sotto l’arco di legno.
I suoi occhi -dello stesso colore dei miei, soltanto velati da una patina dovuta all'età- erano stanchi e cerchiati da occhiaie bluastre e rughe di apprensione ed il suo fisico -più emaciato di quanto ricordassi- non era ben nascosto dagli abbondanti abiti che ricadevano malamente su di lui come fosse stato un attaccapanni.
Il mio cuore trasalì, mentre il suo sguardo si annacquava di lacrime.
Strinsi con forza la mano di Ranma, che mi infuse un coraggio che non possedevo.
< Akane. > sussurrò l'uomo.
< Papà. > risposi io in un soffio.


Ci siamo quasi. Non mi ero resa conto di esser già arrivata qui.
Il punto in cui mi sono interrotta la volta precedente è prossimo ed io sono sempre più in ansia.
E' un periodo strano per me. Mi trascino nei giorni tra poca voglia di mettere per iscritto ma tanta di espormi, di raccontarmi.
Forse è difficile da capire, lo è perfino per me che vivo così, ma spero di risollevarmi presto e di recuperare quel che sto tralasciando.
Questo capitolo è di transizione ma fa spazio ad uno importante e molto atteso.
Cosa succederà nell'incontro tra Akane e la sua famiglia? Quanti interrogativi riceveranno una risposta e quanti nuovi si formeranno?
Vi aspetto numerose, non mollate. Restate con me.
Io tengo duro e combatto contro la mia pigrizia, aggiornando oggi invece che la settimana prossima.
Un abbraccio grosso.
Grazie a chi ancora c'è e rimane.


Strange.

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Capitolo 14
*** Traitors. ***


You see all my light and you love my dark.


Fourteenth. Traitors.



Hey papà guardami. Pensa al passato e parlami […]
Provo a non pensare al dolore che provo dentro.
Lo sapevi che eri il mio eroe?
Tutti i giorni che hai passato con me ora sembrano così lontani...e sembra che non te ne importi più nulla.


Ranma strinse la mia mano così forte da farmi male, eppure niente era paragonabile alla lacerante e dolorosa lotta che stava avvenendo nel mio cuore.
Akane Tendo –o, perlomeno, quel che restava della ragazzina fuggita da Nerima con la coda tra le gambe per leccarsi le ferite da sola- premeva contro le pareti di quel martoriato organo.
Voleva soltanto correre a rifugiarsi nell'abbraccio protettivo di suo padre e sentirsi dire “va tutto bene”.
Non andava bene da troppo, troppo tempo.
L'Akane assassina, che aveva gettato il suo cuore alle spalle camminandoci sopra con insensibilità, invece, tratteneva con briglie ferree quei desideri e imponeva al razionale cervello di riportare alla mente ogni gesto che alla fine aveva condotto al suo tentativo di suicidio.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo, ricambiando la stretta di Ranma con altrettanto vigore.
L'effetto tranquillizzante del bacio, che mi aveva dato poco prima, stava già svanendo come i postumi di una sbornia il mattino dopo.
Se non fosse stato accanto a me, a tenermi praticamente al guinzaglio, sarei fuggita a gambe levate.
Quella non era più casa mia. Quello non era più mio padre.
Io non avevo più nulla se non me stessa e la mia miserabile e solitaria esistenza.
< Bambina mia... > sussurrò Soun Tendo -non più papà. Mai più. Soun Tendo sarebbe stato d'ora in avanti- con un tono che conoscevo fin troppo bene: piangeva.
Avevo ancora gli occhi serrati, ma nella mia testa lo vedevo di fronte a me tremante e solo, pallido spettro dell'uomo energico che era stato un tempo e che il dolore  e la perdita avevano, infine, piegato.
< Andiamo dentro. > suggerì Ranma, tirandomi verso quella che una volta era stata casa mia.
Soun ci precedette, facendoci strada.
Alla nostra sinistra l’unica carpa rossa dello stagno compì un salto più alto del solito e poi ricadde nelle fredde acque quasi in silenzio.
Sorrisi con amarezza: era il suo modo per dirmi “Bentornata”?
< Andrà tutto per il meglio. > sussurrò Ranma facendo sì che lo udissi soltanto io.
Annuii distratta e poco convinta.
Come poteva andare bene?
Nulla in quello che stava succedendo poteva essere reale.
Doveva per forza essere un incubo, di quelli da cui ti svegli in piena notte madida di sudore, attorcigliata nelle coperte, gridando.
Soun camminava con lentezza, trascinando le gambe; sembrava voler ritardare il momento della felice riunione familiare.
Che diavolo ci facevo lì?
Perchè non scappavo? Volevo davvero vederli farmi a pezzi, ghignando sadici?
Oppure Akane Tendo aveva preso il sopravvento sull'assassina e stava concedendo loro quell'ultimo briciolo di speranza che le era rimasta?
Ma senza, poi, come avrebbe fatto a reggersi ritta sulle sue gambe?
< Akane... >
Alta, slanciata, con i lucenti capelli castani portati con lo stesso taglio a caschetto da una vita ed uno sguardo che non riuscii a decifrare abbozzato sul viso, mia sorella Nabiki mi lanciava occhiate ansiose dall'uscio del salotto.
Non era cambiata affatto, pensai, notando la rivista economica stretta tra le dita affusolate.
Sembrava soltanto un po' più matura, ancor più dura e spigolosa di come l’avevo lasciata.
Chissà se si era fidanzata durante la mia assenza, se aveva trovato qualcuno capace di sopportare lei e la sua sete insaziabile di guadagno.
Magari aveva perso la testa per un bel riccone, conciliando così amore e denaro.
Non riuscivo a immaginare un futuro diverso per lei.
Le feci un cenno del capo a mo' di saluto e presentai il mio accompagnatore, che stava rigido ed imbarazzato alla mia sinistra, tenendomi ancora per mano.
Probabilmente se mi reggevo in piedi era solo merito suo.
Kasumi comparve sorridente in mezzo a noi con un vassoio in mano e del thè fumante, sciogliendo, così, quell'impacciato silenzio come fosse vapore bollente sparso via con una mano.
Ci accomodammo tutti intorno al tavolo di ciliegio tirato a lucido ed ognuno tenne lo sguardo fisso sugli intarsi del legno, prendendo la propria tazza fumante senza fiatare.
Era irreale.
Non stava succedendo davvero.
Non stavo pacificamente sorseggiando una bevanda calda con le persone che mi aveva ferito e tradito; non era possibile.
Ranma mi assestò una gomitata tra le costole, che quasi mi fece strozzare.
< Guardali, almeno. > mormorò, soffocando il tutto con un colpo di tosse.
Controvoglia, mi costrinsi ad alzare gli occhi e ne incontrai tre paia dello stesso colore dei miei, che mi fissavano ansiosi.
Lo stomaco girò su se stesso almeno tre volte e poi cadde ai miei piedi.
Volevo vomitare loro in faccia tutto il mio disgusto, la mia sofferenza e la mia angoscia, ma erano talmente intrecciate le une con le altre che, di sicuro, se avessi aperto bocca non sarei mai e poi mai riuscita a spiegarmi.
Attesi perciò che fossero loro a fare il primo passo.
In fondo me lo dovevano, almeno quello.
Nabiki posò la tazza intoccata sul tavolo, mentre io ne bevevo un altro generoso sorso, sperando che, invece di thè, Kasumi avesse preparato un infuso di coraggio.
< Stai...stai bene, Akane? > disse dopo essersi schiarita la voce.
Annuii, incapace di articolare un suono.
- Bene, benissimo. Così bene che mi sento morire. -
< E...dove sei stata tutto questo tempo? > chiese ancora.
I suoi occhi stavano cercando di comunicarmi qualcosa, ma non riuscivo a interpretarli.
Nabiki era rinomata per il suo essere criptica, come potevo capire il suo silenzioso messaggio?
Sospirò, notando che non comprendevo.
< In giro > borbottai.
< Sei così pallida e magra, Akane, mangi abbastanza? > intervenne Kasumi con apprensione e dolcezza.
Sorrisi commossa.
Quando la mamma era morta era stata lei a crescere me e Nabiki nonostante non fosse tanto più grande di noi.
Tuttavia era molto matura per la sua età e l'affetto, in quella casa rimasta identica a come la ricordavo, non mi era mai mancato. Perlomeno fino al giorno dell'incendio.
Chiusi di nuovo gli occhi, sopraffatta dall'ondata di risentimento che quel ricordo trascinò con sé.
Non potevo dimenticare.
Non ce la facevo. Era tutto impresso nella mia mente, come un tatuaggio indelebile.
Mi sarei strappata volentieri la porzione di cervello dedita alla memoria, ma, non potendolo fare, mi alzai frustrata e rabbiosa, reprimendo il tremore del mio corpo.
< Me ne vado > annunciai, ma Ranma mi trattenne per un braccio, fissandomi con intensità.
< Dieci minuti > mimò con le labbra, cosicchè potessi capire soltanto io.
< No > ruggii, cercando di divincolarmi.
< Akane... aspetta > disse Soun con una voce arrochita dalla commozione.
Mi voltai verso di lui e i suoi occhi tristi ed addolorati convinsero le mie gambe a farmi sedere di nuovo.
Ranma riallacciò le dita alle mie e soffiò sul suo thè ancora intoccato.
Lo guardai risentita e poi mi voltai di nuovo verso il capofamiglia, che stava respirando con fatica.
< Perchè...sei scappata? > domandò alla fine e quel quesito sembrò togliergli dieci anni di dosso.
Lo osservai attenta e nel corpo smunto di quell'uomo, ormai stanco di vivere, ritrovai la scintilla di vita di mio padre.
Da qualche parte, rintanato nelle pieghe del suo cuore esausto, papà era ancora lì, soltanto si nascondeva per paura di soffrire.
Avevo ereditato da lui anche questo ermetismo: mi risultava difficile comunicare i miei sentimenti.
Era più facile chiudersi in se stessi e lenire sofferenza e lacrime per conto proprio.
Scrutai nelle sue iridi e, dietro quel velo impalpabile che vi era calato sopra, scorsi ancora tracce visibili del mio eroe personale: l'uomo incrollabile che mi aveva fatto volteggiare sopra la testa come una farfalla e che, con tenacia ed amore, mi aveva insegnato le arti marziali.
Un groppo di lacrime mi ostruì la gola e chinai lo sguardo incapace di reggere il peso del suo.
Ranma mi accarezzò il dorso della mano con fare consolatorio.
Era lì, lui era lì per me, mia unica ancora di salvezza che m'impediva di precipitare nell'oblio del mio essere.
Mi stava salvando dalla me stessa assassina, riportando a galla le emozioni di Akane Tendo, ora desiderosa di risposte.
< Vi ho sentiti > asserii quindi, alzando il mento con fierezza.
Vidi il corpo di Nabiki irrigidirsi e spalle di Kasumi incurvarsi, ma non vi badai.
Ora o mai più.
< Stavate parlando con Kuno. Mi stavate VENDENDO > marcai l'ultima parola con uno sdegno tale che le dita di Ranma ebbero uno spasmo.
La mia famiglia assunse, nel medesimo istante, un colorito cadaverico.
Mi fissavano come se mi vedessero per la prima volta e mio padre e mia sorella Nabiki aprirono bocca insieme per parlare, ma qualcosa attirò la mia attenzione più delle loro parole.
C'era un odore strano nell'aria che mi solleticava le narici già da un po'.
Prima, troppo concentrata sul mio caos interiore, l'avevo ignorato ma ora mi stava aggredendo il naso e non potevo più trascurarlo.
Era un qualcosa di delicato e dolciastro. Un misto di mandorla e fiori di...
Mi voltai fulminea verso Ranma, che si stava portando alle labbra il thè, e, gridando, scagliai lontano la tazza con un colpo secco della mano.
< Ehi, ma che diamine fai? > mi apostrofò irato, guardando la sua bevanda spargersi sul parquet.
Il mio petto sobbalzava irregolarmente mentre mi alzavo in piedi, tenendo la guardia alzata.
Acuii i sensi per cercare una presenza intrusa in casa e poi feci cenno a Ranma di muoversi.
Lui incrociò le braccia al petto come un bambino indispettito e si rifiutò di obbedirmi.
< Sono qui > gli sussurrai e lui scattò in piedi all'istante, guardandosi intorno circospetto.
Mentre perlustravo la stanza, l'occhio mi cadde sul viso di mio padre e delle mie sorelle, che ostinatamente fissavano il tavolo, senza nemmeno chiedere il motivo di tutta quella agitazione.
Un'orribile sensazione si fece strada nel mio corpo e quando ghermì il mi cuore era ormai diventata certezza: loro sapevano.
Loro mi avevano tradito...DI NUOVO.
< Ciao Akane > una voce soggiunse alle mie spalle.
Mi voltai repentina ed individuai subito il suo padrone seduto stravaccato su un ramo del ciliegio con un sorriso sornione stampato in viso.
< Hai davvero una bella famiglia. Molto simpatici > mi schernì divertito, saltando giù dall'albero con agilità felina ed avvicinandosi a noi lentamente.
Ranma mi guardò interrogativo ed io rabbrividii.
< Ryoga > ringhiai tra i denti, arretrando.

Niente cambierà le cose che hai detto.
Niente metterà di nuovo a posto questo.
Per favore non girare le spalle [Simple Plan]




Subito dopo Paqua ecco qui il capitolo che più mi aveva dato filo da torcere nella prima stesura, ma che rileggendo ora mi rende piuttosto soddisfatta.
Il rapporto tra i Tendo e Akane è teso e complicato. Per usare la metafora di una mia affezionata lettrice "sono tutti su una delicata scacchiera di cristallo in obliquo. Chi si sposta troppo in là fa rovinare tutti giù".
Più o meno questa è la situazione e a complicare le mosse delle pedine sopraggiunge un ospite inatteso: Ryoga.
Pensavate che la gilda avesse dimenticato lo scompiglio portato da Akane?
Ne vedremo ancora delle belle, se rimarrete con me.
Un forte abbraccio alle ragazze che costantemente mi seguono e si fanno sentire. Siete la mia energia.


Strange.

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Capitolo 15
*** A life for a life. ***


You see all my light and you love my dark.


Fifteenth. A life for a life.



Qualcosa che valga la pena di essere posseduto, qualcosa per cui valga la pena lottare.
Farla finita è fuori discussione: quando si fa arduo devi lottare ancora un po’. [Cheryl Cole]


Scrutai minuziosamente l'ambiente che ci circondava, tendendo le orecchie per carpire la presenza di altri nemici, senza, tuttavia, trovarne.
Quel Ryoga era solo, eppure Akane lo fissava con occhi terrorizzati, come se fosse di fronte ad un esercito di mille uomini armati fino ai denti.
Alto, interamente vestito di nero, con una katana appesa al fianco destro ed una balestra che spuntava dalle spalle, una stramba bandana gialla in testa ed un sorriso maligno, quel ragazzo aveva tutta l’aria di essere un pivellino.
Sembrava piuttosto inoffensivo.
Tuttavia c’erano ancora tessere di quel puzzle che non riuscivo a collocare e l’entrata in scena di quel nuovo personaggio mi confondeva ancora di più le idee.
Perchè Akane aveva rovesciato il mio thè?
Perchè la sua famiglia non muoveva un dito? I Tendo conoscevano quell’individuo?
Perchè la gilda aveva inviato un solo uomo? E Perché diamine Akane se ne stava impietrita al mio fianco senza muovere un muscolo?
< Akane, quanto tempo… Sono contento di vedere che stai bene. >
Ryoga colmò la distanza tra loro e la strinse in un abbraccio possessivo che mi procurò una fitta al petto.
Lei rimase immobile tra le sue braccia, come una bambola, e, quando lui la lasciò, Soun Kasumi e Nabiki finalmente si mossero, venendo verso di noi.
Osservavo la scena inebetito, capendoci sempre meno.
< Abbiamo fatto quello che volevi. Prenditi ciò per cui sei venuto e vattene. >
Il capofamiglia Tendo si eresse in tutta la sua altezza e la sua voce, carica di minaccia, fece rabbrividire persino me.
Ryoga, invece, scoppiò a ridere.
Una risata agghiacciante e beffarda, che fece arretrare la maggiore delle sorelle di Akane.
< Si lo avete fatto, ma il piano non è andato a buon fine. Mi toccherà metter mano alle armi e sbarazzarmi di lui da solo. > dichiarò gelido, puntando gli occhi scuri su di me con disprezzo. < Mi aspettavo di meglio, Akane. > sussurrò poi, tagliente, accarezzandole una guancia < Per lui hai mandato a rotoli la tua perfetta vita. Speravo, almeno, che fosse un valente combattente e non uno scarto umano. > sputò sprezzante, sfoderando la sua spada, la cui lama baluginò minacciosa al sole.
Serrai i pugni lungo il busto, sentendo montare dentro di me una furia cieca.
Non solo perché stava toccando Akane con un’intimità tale da farmi vergognare della mia presenza lì, ma anche e, soprattutto, perché mi stava offendendo.
Se era un scontro quello che cercava, ebbene lo avrebbe ottenuto.
Ranma Saotome non si sarebbe sottratto! MAI!
Feci per parlare, ma fui messo a tacere da Nabiki, che prese la sorella –ancora inespressiva ed immobile- per un gomito e la trascinò in casa, al sicuro.
Che diavolo succedeva?
Perché Akane non reagiva? E perché mi sembrava di essere l’imbucato indesiderato ad una festa?
Ryoga fece scrocchiare il suo collo e le nocche delle mani e poi sorrise ancora, facendo scorrere nelle mie vene generose dosi di veleno.
In effetti, forse, a guardarlo meglio, senza soffermarmi alle apparenze, riuscivo a scorgere l’aura di pericolo che emanava il mio avversario.
Un lupo travestito da coniglio, ecco cos’era quell’individuo.
Dovevo stare attento. Non dovevo sottovalutarlo.
< Akane, ti concedo di vivere, nonostante gli ordini di Haranobu siano di tutt’altro avviso. Posso sempre dargli a bere che, da abile assassina quale sei, tu sia riuscita a far perdere le tue tracce. Ti lascerò tornare alla tua vita precedente senza più alcuna interferenza da parte della gilda. In cambio, però, devo eliminare lui. La SUA vita per la tua, che ne dici? > m’indicò sogghignando e, senza attendere la risposta di lei, si lanciò all’attacco con un poderoso grido.
Schivai il suo diretto e fermai con le mani la lama della sua katana con facilità, nonostante sentissi i punti tirare la carne sotto le bende.
Dannazione, la ferita non si era ancora rimarginata del tutto e, se lui avesse scoperto che avevo quella falla nelle miei difese, ne avrebbe approfittato ed io sarei stato spacciato.
Ryoga balzò in aria e riatterrò alle mie spalle, colpendomi alla schiena con un dito*.
Un dolore lancinante si propagò dalle scapole e riverberò in tutta la cassa toracica, sbalzandomi contro il muro, in fondo al cortile.
Mi rialzai ansante e stordito, inveendo contro me stesso per la mia lentezza.
< Akane, guarda con quanta facilità tolgo la vita a quest’essere infimo! > urlò Ryoga, passando la katana dalla mano sinistra alla destra.
Sbattei le palpebre un paio di volte e me lo ritrovai di fronte.
Come cazzo era possibile che non l’avessi visto muoversi?
Era velocissimo, maledizione!
Schivai ancora i suoi fendenti e provai ad assestargli un calcio alle gambe, che speravo lo distraesse, ma sembrava non avere punti deboli, al contrario mio.
Parò il colpo con estrema semplicità e reclinò la testa all’indietro, esplodendo in una risata irrisoria.
Saltai in aria, sperando che il sole lo accecasse il tempo necessario ad atterrargli alle spalle e a coglierlo di sorpresa.
Fortunatamente Ryoga commise l’errore di alzare lo sguardo per seguire il mio movimento e rimase abbagliato dalla luce, dandomi modo di sfoderare la mia mossa segreta: la tecnica delle castagne.
Una pioggia di pugni calò sulla sua schiena, paralizzandolo per qualche attimo.
Mi fermai giusto il tempo di prendere lo slancio per potergli assestare un calcio tra le scapole, ma lui ne approfittò e, voltandosi fulmineamente, mi puntò la sua spada alla gola.
Cercai di allontanarlo con un rovescio, ma ottenni l’effetto contrario: la lama penetrò la pelle del collo di qualche millimetro, pizzicando.
Sgranai gli occhi, incredulo: Ryoga mi aveva battuto con la stessa facilità con cui un maestro superava l’allievo appena iniziato alle arti marziali.
Mi sentivo umiliato e deriso, ma la cosa che mi bruciava più di tutte era il fatto che Akane stesse assistendo allo scontro e la mia sconfitta.
Dovevo apparire insulsamente debole e insignificante ai suoi occhi.
Ed io odiavo, sentirmi in quel modo, soprattutto perchè non volevo esserle inferiore.
Ringhiai e afferrai la punta della katana con la mano, forzandola a cambiare direzione.
Ryoga mi fissò sbalordito, mentre gettavo a terra l’arma, incurante della mano sanguinante.
< Tutto qui? > ruggii, avvicinandomi a lui con deliberata lentezza.
Ryoga arretrò ed estrasse la balestra, ma non avevo paura.
Stavo combattendo per la mia vita, una vita che Akane aveva risparmiato sacrificando la sua, perciò avrei resistito a qualunque costo.
Le gettai un’occhiata fugace e la vidi stretta tra le braccia della sorella, inerte.
Il suo sguardo lucido mi stava comunicando la lotta interiore che avveniva in lei: lasciarmi morire e tornare a impersonare la brava erede di un dojo amata dalla famiglia oppure intervenire per salvarmi ancora e relegarci così entrambi ad una eterna vita da fuggiaschi?
Decisi io per lei, poiché non avevo intenzione di far ricadere l’ennesimo fardello sulle sue spalle: non si sarebbe addossata anche quella colpa e non le avrei permesso di rinunciare di nuovo volontariamente ai suoi affetti.
L’avrei difesa, a qualunque costo, come lei aveva protetto me.
Ryoga scagliò una freccia, ma la bloccai con una sola mano –quella ferita, tra l’altro- e la scagliai a terra, avvicinandomi ancora.
Lo vidi impallidire ed abbassare l’arma inefficace, per estrarre un pugnale che sembrava esser stato forgiato dalla stessa abile mano che aveva fatto quello con cui Akane mi aveva ferito.
Mi avventai su di lui, che non provò nemmeno a difendersi, e lo colpii all’addome con un calcio, piegandolo.
Gli afferrai, poi, la nuca e lo picchiai al viso ripetutamente, con una scarica di pugni così violenti da rompergli il setto nasale e lo zigomo.
Le sue ossa scricchiolavano in modo raccapricciante sotto i miei colpi, ma io non mi fermai.
Il suo viso era ridotto una maschera di sangue e lividi, eppure lui continuava a sorridere.
Volevo cancellargliela dal viso quell’espressione sorniona, così, gridando, feci per assestargli una gomitata sui denti, ma qualcosa me lo impedì, strattonandomi via.
Caddi a terra di schiena, pesantemente e, quando alzai lo sguardo, Akane si ergeva dinnanzi a me, fiera e combattiva e aveva tra le mani il pugnale che prima aveva sfoderato Ryoga.
< Stavi per farti ammazzare, imbecille. > mi aggredì gelida, continuando a darmi le spalle e a frapporsi tra me e Ryoga.
Era vero.
Avevo dimenticato che il mio avversario fosse armato e mi ero portato io stesso alla giusta vicinanza per essere infilzato come un pezzo di carne da fare allo spiedo.
< Non ti ucciderò, Ryoga. > asserì lei, fissando torva il ragazzo che aveva di fronte, il cui viso era irriconoscibile.
< Fallo, Akane, o lui ucciderà te. > rispose lui, prendendole le mani con veemenza.
E quel lui, sapevo bene rispondeva al nome di Haranobu.
< Ci ucciderà in ogni caso, ma io non voglio più estirpare una vita, soprattutto quella di un caro amico come te. > dichiarò risoluta ma con uno sguardo spento.
Mi rialzai da terra e mi avvicinai a loro, cauto.
Non volevo rompere quel fragile equilibrio.
La tensione del combattimento si era sciolta e sembrava che tutti i presenti fossero stati esorcizzati dall’incantesimo malefico che li aveva inchiodati al loro posto.
I membri della famiglia Tendo vennero verso di noi titubanti ed incerti.
Il ruolo che avevano in tutta quella storia non mi era ancora chiaro.
< Un caro amico! > Ryoga contorse la faccia in una smorfia, che probabilmente doveva essere un sorriso < Non mi hai mai visto come nient’altro vero? Non mi avresti mai amato, nemmeno se fossi rimasta alla gilda. > proseguì cupo, chinando la testa.
< Non sono capace di provare amore, io. > affermò con tristezza Akane, sottraendosi alla presa di lui con mani tremanti.
Quella sua constatazione mi bruciò in petto, senza un valido motivo.
Le arrivai alle spalle e gliele circondai con fare possessivo, gustandomi una piccola vendetta infantile nei confronti di Ryoga, che l’aveva accarezzata prima con intimità.
< Sì che ne sei capace, solo che ancora non lo sai. Mi spiace soltanto di non essere la persona che te lo farà scoprire. Tra i due, forse, sono io quello incapace di amare: sono stato allevato da un assassino, cosa pretendevo? > si chiese con amarezza, stringendo le mani a pugno lungo il busto.
Inspiegabilmente provai pena per lui.
Non doveva esser facile vivere una condizione come la sua, ma d’altronde se non conosceva altro modo di vivere non poteva nemmeno colpevolizzarsi troppo.
< Che farai, ora? > gli domandò Akane, il cui labbro inferiore tremava impercettibilmente.
Che volesse ammetterlo o meno, la sorte del suo compagno di gilda la toccava molto da vicino.
< Probabilmente me ne andrò di qui. Definitivamanete. Haranobu mi rintraccerebbe prima o poi se restassi in Giappone. Fareste meglio a seguire il mio esempio anche voi. > ci consigliò con fare fintamente disinteressato.
< Non andremo da nessuna parte, noi! > sentenziai orgoglioso.
Akane poggiò la testa sulla mia spalle e annuì.
Sapevo che sarebbe stata d’accordo con me, senza bisogno di chiederglielo.
Avevamo instaurato una specie di dialogo silenzioso: iniziavo a comprendere quella creatura complessa dalle mille sfaccettature e la cosa mi piaceva. Forse anche troppo.
< Resteremo e combatteremo, Ryoga. Haranobu va fermato. >

*Bakusai Tenketsu, tecnica di combattimento caratteristica e più usata da Ryoga.

Ricordavo che fosse venuto in maniera pessima questo capitolo durante la prima stesura, invece mi rendo conto che non è affatto così, o almeno a me pare tale.
Ci sono tante minuscole rivelazioni che spero abbiate colto qui e lì, altri tasselli che vanno al loro posto.
Nel capitolo seguente, altri fatti emergeranno per quel che sono davvero.
Spero vivamente che la scena del combattimento non vi abbia deluso e che sia abbastanza chiara, visto che mi è stato fatto notare che ho una certa difficoltà nell'espletare le posizioni assunte dai personaggi. Devo fare pratica, acciderbolina >_<
Un caloroso benvenuto alle nuove lettrici, un caldo abbraccio alle fedeli di sempre ed un ringraziamento speciale anche a chi ha preferito, seguito o somplicemente letto la storia fin qui.
Tre capitoli e poi arriveremo al punto in cui mi ero interrotta la volta precedente. Sono intimorita ed emozionata al contempo.
Ci si legge presto ^^
Un bacio.

Strange.

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Capitolo 16
*** Moth. ***


You see all my light and you love my dark.


Sixteenth. Moth.



Un giorno una piccola falena s'innamorò di una stella.
Ne parlò alla madre e questa le consigliò di invaghirsi di un abat-jour
"Le stelle non sono fatte per svolazzarci dietro, almeno con le lampade approdi a qualcosa" le disse.
"Ad andar dietro a una stella non avrai mai nulla" aggiunse il padre.
Ma la falena non ascoltò nè uno nè l'altro.
Ogni sera al tramonto, quando la sua stella spuntava, si avviava in volo verso di essa e ogni mattina all'alba tornava a casa stremata di fatica. Ma non si dava per vinta: continuò ostinatamente i suoi inutili tentativi di raggiungere la sua stella.
La sua stella era lontana migliaia di anni luce, ma lei pensava che fosse impigliata fra i rami del vecchio olmo.
Provare e riprovare, ogni notte, le dava anche un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età.
I suoi genitori, i suoi fratelli e le sue sorelle, invece, erano morti tutti giovani bruciandosi le ali mentre svolazzavano attorno ad abat-jour, lampade e lampioni.


La mia stanza era intoccata.
Kasumi aveva lasciato ogni cosa al suo posto, persino il pigiama sotto il cuscino, come se fossi semplicemente uscita a fare un giro con le amiche per poi rincasare prima di cena.
I libri erano ancora tutti impilati nello stesso ordine sopra le mensole senza polvere, sulla spazzola c'era qualche mio capello e nell'armadio vestiti, che ormai non mi entravano più, attendevano silenziosi il mio ritorno.
Mi sedetti sul futon e sospirai, passandomi una mano tra i capelli.
Ero a casa.
Casa.
Casa mia.
Gustai il sapore di quella parola sulla lingua, come fosse un cibo mai assaggiato ma sorprendentemente dolce.
La giornata appena terminata era stata intensa e aveva lasciato addosso a tutti degli strascichi pesanti; fardelli con cui fare i conti a suon di pugni nel dormiveglia.
Ranma aveva affrontato Ryoga e ne era uscito quasi illeso. Un miracolo? O forse ero io che tendevo a sottovalutarlo un po' troppo?
La mia famiglia aveva stretto un patto con quest'ultimo -di cui ancora dovevo capire la natura- e sembrava seriamente all'oscuro del motivo per cui ero fuggita.
E Ryoga mi amava. Amava me.
Dio, più ci pensavo, più il mio mal di testa aumentava e, assieme ad esso, cresceva anche la voglia incontenibile di gridare e spaccare qualcosa.
Odiavo sentirmi così in bilico: se aggiungevo un grammo da una parte, l'ago della bilancia impazziva ed io perdevo l’equilibrio precario che ero riuscita a conquistare con fatica.
Se davo credito ai miei familiari, allora, mi ero quasi suicidata per un motivo inesistente.
Se davo retta a Ryoga avrei dovuto vivere come una fuggiasca per tutta la vita -magari insieme a lui-, pregando di non capitare sotto il tiro di Haranobu o di Maiko.
E se ascoltavo Ranma...
Se ascoltavo Ranma andavo in panne.
Il cervello si scollegava dal corpo ed il cuore -un cuore che non riuscivo più a gestire in sua presenza- prendeva il controllo.
Mi aveva baciato.
Due volte.
Ed io non mi ero sottratta in nessuno dei due casi, anzi, avevo sentito uno sfarfallio nella pancia che mi aveva fatto tremare.
Non potevo cadere preda dei miei sentimenti proprio ora; dovevo restare lucida e salda come uno scoglio col mare in tempesta. Dovevo io soltanto essere l’àncora di me stessa, poiché lui, che spesso era stato la mia forza in quei giorni pazzeschi, stava diventando la mia debolezza, la falla nella mia corazza.
Una falla sempre più grossa, sempre più profonda.
Rabbrividii.
Avevamo instaurato un legame, una sorta di silenziosa comunicazione non imposta, che ad occhi estranei poteva sembrare un gran bella cosa.
A me terrorizzava.
Non mi piaceva essere capita. Non mi piaceva che qualcuno mi conoscesse così a fondo.
Perché diamine lui invece si ostinava a farlo?
Scavava in profondità in me con facilità estrema ed io ero sempre più dipendente da lui, da quelle sue braccia rassicuranti e da quei suoi occhi cristallini.
Mi maledicevo ogni giorno per avergli salvato la vita e poi mi mandavo a quel paese perché una parte di me era contenta che lui fosse arrivato e mi avesse tirato fuori dal pozzo infinito e cupo in cui ero precipitata.
Infatti, quando avevo capito cosa conteneva la sua tazza di thè, l’avevo scagliata lontano, d’istinto.
Non l’avevo risparmiato per vederlo morire sotto i miei occhi tra atroci sofferenze.
Ryoga era stato un bastardo in questo: gli aveva corretto il thè con il veleno peggiore che la gilda possedesse.
Era una sorta di acido che entrava in circolo col sangue e corrodeva i tessuti organici dall’interno.
Una morte dolorosa, che faceva solo implorare alla vittima una fine rapida che non prevedesse sofferenza e agonia.
Mi morsi il labbro inferiore, alzandomi di scatto in piedi, incapace di restare ferma.
Perché ero così combattuta?
Perché non avevo impedito che Ranma si scontrasse con Ryoga?
Ero intervenuta, sì, ma alla fine, poiché se non l’avessi fatto, lui sarebbe morto.
Eppure era proprio quello che voleva Ryoga: la vita di Ranma in cambio della mia libertà e della mia vecchia esistenza.
Quando avevo udito quelle parole ero rimasta impietrita, tentata di accettare quella condizione con ogni fibra del mio corpo.
Ero così stanca di tutto quel sangue, morte e distruzione, che volevo soltanto una parvenza di normalità, per quanto finta potesse essere accanto ad una famiglia di traditori.
Ma quando avevo visto la lama di Ryoga baluginare al sole, ignorata da quell'incosciente di Ranma, non avevo nemmeno pensato: ero corsa in suo soccorso, abbandonando il calore dell'abbraccio di Nabiki, che mi aveva portato al sicuro in casa, lontana da una battaglia che non sarebbe dovuta nemmeno avvenire.
Mi sentivo colpevole, in verità.
Ero il meccanismo scatenante di quel cataclisma.
Se non avessi deciso di risparmiare una mia vittima a quest'ora non mi troverei...di fronte la porta di Ranma.
Di fronte la porta di Ranma?
Ma come diavolo c'ero finita?
- Maledizione. -
I miei pensieri turbinanti mi avevano resa nervosa e avevano guidato i miei passi fino alla fonte della mia inquietudine.
Ancora una volta lui era la risposta, non solo la domanda.
Cosa dovevo fare?
Andarmene?
Alzai una mano per bussare alla stanza degli ospiti, ma la riabbassai incerta.
Non mi sentivo sufficientemente forte per affrontarlo in quel momento: la mia corazza si staccava da me come le scaglie della pelle di un serpente durante la muta.
Se lui mi avesse attaccata, sarei caduta sotto i suoi colpi, ma mi accorsi che non m'importava.
In quel momento la calma e la serenità dei profondi occhi cobalto di Ranma erano tutto ciò di cui avevo bisogno.
Schiusi le ante della porta scorrevole, stando ben attenta a non farle cigolare, e m'intrufolai all'interno coi sensi d'assassina all'erta.
La stanza era quasi interamente immersa in un'ombra viscosa, spezzata da un unico fascio di luce lunare che cadeva proprio sul viso rilassato di Ranma.
Dormiva placidamente, con la bocca semiaperta e le gambe aggrovigliate nelle coperte, con cui sembrava aver lottato.
Il petto si alzava ed abbassava al ritmo del suo respiro regolare ed era avvolto dalla fasciatura che Kasumi gli aveva cambiato solo poche ore prima, dopo lo scontro.
L'esplosione che Ryoga gli aveva provocato alla schiena si era ripercossa sul taglio non ancora del tutto cicatrizzato e gli aveva strappato i punti.
Le sue urla erano arrivate probabilmente fino a casa del Dott. Tofu, mentre mia sorella lo ricuciva come un vecchio calzino bucato.
Era persino svenuto dal dolore tra le mie braccia ed era apparso così indifeso che avevo avuto voglia di...
Sospirai, impedendomi di concludere il pensiero, e mi sedetti accanto a lui in silenzio.
Timidamente gli scostai i capelli umidi dalla fronte e poi raccolsi le ginocchia al petto, continuando a fissarlo, incantata dal suo viso estremamente bello.
Inconsciamente mi toccai le labbra ed ancora una volta mi chiesi il motivo per cui mi aveva baciata.
Stava cercando di conquistare la mia fiducia, oltre che il mio cuore?
Pensava che poi sarei stata meno reticente a ricondurlo al suo villaggio?
No, non aveva senso.
Dopo la battaglia con Ryoga le sue intenzioni mi erano sembrate ben altre.
Perchè darsi la briga di scontrarsi con Haranobu e la setta intera pullulante di assassini se i suoi piani erano ben altri?
Sarebbe potuto restare ucciso e a quel punto non avrebbe potuto più farsi giustizia e vendicarsi dei torti subìti da Daisetsu.
Dovevo smetterla!
Tutte quelle domande non aiutavano il mio mal di testa a scemare, anzi, lo alimentavano e io volevo solo pace.
Sospirai e mi sdraiai sul parquet freddo accanto a lui, di profilo per osservarlo meglio.
Da quella prospettiva riuscivo a notare l'incredibile lunghezza delle ciglia che gli contornavano quegl'occhi blu che tanto mi attraevano.
Erano pensieri pericolosi, lo sapevo bene, ma mi sentivo come una falena attirata dalla luce brillante di una candela a cui non sapevo resistere, nonostante fossi conscia che mi avrebbe ucciso.
Allungai una mano e gli accarezzai il profilo delle labbra generose e poi mi ritrassi, quasi scottata.
Che ci facevo lì? Cosa stavo facendo?
Dovevo andar via, non avevo bisogno di altri casini; di problemi da risolvere ne avevo già tanti e Ranma era tra tutti il più complesso.
< Mi hai fatto il solletico. >
Sussultai nell'udire il suo sussurro roco.
Ranma sollevò le palpebre con lentezza e girò il viso verso di me, mordendosi le labbra.
- Colta in flagrante, Akane. Uno a zero per lui! -
Intimidita dalle sue iridi scure, come il cielo stellato che s'intravedeva dalla finestra, abbassai lo sguardo.
< Che ci fai qui? > mi domandò curioso, scrutando i miei occhi alla ricerca di una risposta che io non sapevo dargli.
- Sono venuta a farmi bruciare le ali -
< Non riuscivo a dormire. > borbottai, invece, sperando non notasse il rossore che mi stava aggredendo le guance.
< E per questo vuoi che non dorma nemmeno io? > sorrise e fece sorridere anche me, mio malgrado.
< No, hai ragione, scusa. Buonanotte. > dissi e cercai di alzarmi per lasciarlo tranquillo, ma lui me lo impedì, tenendomi fermo il braccio con cui stavo facendo leva per tirarmi in piedi.
< Ormai sei qui. Resta. > mormorò e, avvampando, mi fece posto sul futon.
Lo fissai incredula per una decina di secondi e poi, infine, convinsi me stessa che forse, cullata dal suo calore e dal suo respiro, sarei riuscita a riposare un po'.
Il cuscino su cui posai la testa, poco lontana dalla sua, era bollente e sapeva di lui. Mi morsi il labbro inferiore, nervosa, sperando che non udisse il battito impazzito di quel cuore che non controllavo mai in sua presenza.
< Smettila di fissarmi. > grugnii, mettendogli una mano in faccia per cercare di girargliela.
< Ti vedo a malapena! > replicò in tono divertito, togliendosi le mie dita dal viso e intrecciandole, quasi per caso, alle sue.
Andai in apnea, mentre con un misto di orrore e tentazione mi rendevo conto che non erano più solo le mie ali di falena che ardevano.
I nostri nasi erano a pochi centimetri l’uno dall’altra e le sue ginocchia sbattevano contro le mie ogni volta che scalciava via le coperte.
< Come va la ferita? > gli chiesi, gettando un'occhiata alla garza candida che sfoggiava sull'addome.
Ranma contorse il viso in una specie di smorfia < Prima non la sentivo quasi più. Ora pulsa di nuovo e i punti mi tirano. Fa male, cazzo! >
Sbuffò ed io sorrisi ancora della sua espressione di buffo disappunto.
< Akane... posso farti una domanda? >
Mi irrigidii e tolsi la mano dalla sua. Annuii.
< Perchè hai rovesciato il mio thè? >
< Era avvelenato, Ranma. > risposi con semplicità, allentando la tensione dei muscoli.
< Ah. >
Tacque per qualche minuto, chiudendo gli occhi e privandomi della vista di quel mare quieto e imperturbabile.
Feci per aprire bocca, per spezzare quel silenzio che odiavo così tanto tra noi, quando parlò di nuovo: < Mi hai salvato la vita quattro volte, Akane. Dovrò ripagarti in qualche modo, prima o poi. Odio avere debiti. > mugugnò seccato.
Alzai un sopracciglio, scettica < Quattro? >
Lui sbuffò ancora < Si, quattro, testona! La prima volta m’hai SOLO accoltellato, invece di uccidermi. La seconda ti sei fatta carico di me, scortandomi fino qui a Nerima per farmi curare dal Dott. Tofu, rischiando di essere raggiunta dai tuoi ex compari sicari. La terza hai impedito che bevessi un thè avvelenato e la quarta ti sei frapposta tra me ed un pugnale. > contò sulle dita della mano sinistra.
< Ah. > fui il mio turno di restare senza parole.
Non sapevo cosa rispondergli.
Non sentivo l’esigenza di riscuotere quello che lui chiamava ‘debito’. Io avevo agito d’istinto e anche un po’ per egoismo: non potevo sopportare, ora come ora, una vita in cui lui non fosse contemplato.
E quando mi resi conto di aver partorito un pensiero come quello era troppo tardi: ero stata divorata dalle fiamme completamente.
Della falena non restavano che le ceneri nelle mani di cera della candela.
< Non mi devi niente. L’ho fatto senza pensare. > risposi sottovoce, ingoiando il groppo d’emozione che mi stava ostruendo la trachea.
Il suo viso si era avvicinato di qualche centimetro al mio, tanto che sentivo il suo fiato sul naso, ed io, così, rischiavo l’iperventilazione.
< Mi salvi sempre, Akane. In un modo un po’ bizzarro alle volte, però lo fai. Perché? > domandò, poggiando una mano calda sulla mia guancia sfregiata ed accarezzandola col pollice.
Quando gli ero accanto era facile dimenticare di essere marchiata a fuoco. Era fin troppo facile.
Chiusi gli occhi, mordendomi la lingua con forza per impedirmi di rispondere a quella domanda ambigua che avrebbe potuto cacciarmi nei guai, e cambiai discorso.
< E tu perché mi baci? > mi ritrovai a chiedergli a mia volta.
Mi pentii all’istante di ciò che avevo detto e cercai di sottrarmi al suo tocco gentile.
Ranma sorrise, inaspettatamente e continuò ad accarezzarmi con dolcezza.
< Non lo so con certezza. Sono un tipo che fa quel che gli passa per la testa e si prende quel che vuole. >
< E sarebbe? >
< Te. In questo momento è…te…che voglio. > bisbigliò con imbarazzo, chinando lo sguardo.
Rimasi senza fiato. Sembrava quasi un’altra persona quel ragazzo rispetto al Ranma-faccia-da-schiaffi che avevo imparato a conoscere.
Ne fui spaventata…e al contempo inesorabilmente affascinata.
< Potresti avere di meglio. > mormorai, togliendo con decisione la sua mano dalla mia guancia.
La sua voce tagliente mi trafisse < Smettila! >
Mi fissò severo, puntellandosi su un gomito.
Ricambiai la sua occhiata con smarrimento. Cos’è che dovevo smettere di fare?
< Dacci un taglio, va bene? Vuoi evitare ogni contatto umano per tutta la vita a causa di quelle cicatrici? NON MI FANNO RIBREZZO, AKANE! > esclamò deciso.
Rabbrividii e inspiegabilmente ebbi voglia di piangere.
Ranma non si curava mai delle parole che usava: parlava sulla scia delle sue emozioni e non gl’importava di ferire, cosa che con me gli riusciva fin troppo facile.
Eppure, in quel momento, le sue parole più che farmi male sembravano aver centrato un bersaglio che non sapevo di avere al centro del petto.
- Cento punti, quando si mira al cuore. -
< Dovrebbero! > ribattei piccata, mettendomi a sedere, punta sul vivo.
< E invece no! Sei bella, cazzo! Mi fa una rabbia tremenda il modo in cui ti sminuisci! Tu puoi non vedere cosa sei… > tossì < …ma io sì… >
< Beh, allora sei l’unico! > incrociai le braccia al petto, infastidita ed arrabbiata.
Non ci saremmo mai trovati d’accordo sull’argomento e, nonostante fossi lusingata delle sue parole, dentro di me una vocina insistente mi gridava di non credergli.
Avevo precedenti che m’insegnavano a non fidarmi e finora non mi avevano mai fatto sbagliare.
Se non permetti a nessuno di avvicinarsi troppo, non ti potrà ferire.
Purtroppo per me, era un po’ tardi per prendere le distanze con Ranma: più l’allontanavo, più lui sembrava avvicinarsi.
Legato a me da un filo invisibile e inaspettatamente tenace.
Scoppiò a ridere < Ti sbagli, Akane! O hai forse dimenticato le parole di Ryoga? >
- Colpita e affondata. Due a zero per lui. –
< Ero una delle poche ragazze nella gilda, era inevitabile che… >
Ranma si alzò stizzito, imprecando a mezza bocca, ed io tacqui.
< Sei impossibile! Vuoi piantarla di raccontarti bugie, Akane? Accetta il fatto che tu possa piacere e che ci sia qualcuno disposto ad andare oltre quelle fottute ustioni e a scoprire cosa ci nascondi dietro! > alzò la voce e mi fece sobbalzare.
< E tu saresti quel qualcuno? > lo sfidai, alzandomi in piedi a mia volta e inchiodandolo all’angolo tra l’armadio ed il muro.
Riuscivo a scorgere solo i suoi occhi nella profonda oscurità in cui eravamo immersi e sentivo il suo respiro rabbioso sul viso.
Ancora una volta, invece di ritrarmi, mi avvicinai.
< Ti farebbe schifo la cosa? > mi stuzzicò, mantenendo il tono arrabbiato.
La mia, di rabbia, al contrario, era già scemata dopo pochi istanti.
“Puff”, evaporata come acqua al sole.
< Non ho detto questo. > replicai indifferente, con un’alzata di spalle che probabilmente lui non riuscì a scorgere < Semplicemente non vedo perché dovresti curarti di scoprire cosa nascondo, quando al villaggio hai la tua cara Ucchan ad asp... >
Non mi lasciò finire.
Furibondo cercò il mio viso, lo circondò con mani avide e premette le labbra febbricitanti sulle mie.
Non lo respinsi. Non volevo.
Gli allacciai le braccia dietro il collo e lo tirai vicino a me, facendo aderire i nostri corpi.
Dischiusi le labbra e accolsi la sua lingua nella bocca, reprimendo i brividi che mi colavano giù lungo la spina dorsale come gelide gocce di adrenalina.
Anelavo quel contatto, anelavo la sua vicinanza.
E più ne avevo, più ne volevo.
Pensavo di non esser capace di baciare, ma il modo in cui Ranma muoveva la lingua in sincronia con la mia mi fece ricredere.
Forse aveva ragione lui: avevo soltanto bisogno che qualcuno mi dimostrasse la voglia di andar oltre per potermi lasciar andare.
O forse aspettavo soltanto lui.
Ecco perché lo avevo salvato ben quattro volte, senza nemmeno accorgermene: non volevo più stare senza Ranma, la sua ironia, i suoi occhi grigio-blu e i suoi baci.
Lui era il mio salvatore. Mi aveva salvato molto più di quanto io avessi fatto con lui ed ero diventata dipendente dalla sua presenza, non c’era altra spiegazione.
Col fiato corto mi staccai dalle sue labbra e lui protestò piano, riempiendomi il viso di dolci baci casti.
Lo volevo, ancora e ancora e ancora, fino a non poterne più.
Ritrovai le sue labbra e lo scontro delle nostre lingue fu quasi violento.
Ranma mi assaggiava, mi mordeva, mi succhiava, mi esplorava e mi faceva sentire viva…e bella.
Si spinse troppo ed io persi l’equilibrio, finendo a terra.
Non lasciai la presa e me lo trascinai dietro, sul futon, dove ci ritrovammo avvinghiati.
Mani, piedi, capelli, cuore e pelle dell’uno si confusero con quelle dell’altro.
Gli sorrisi tra un bacio e l’altro e lui ricambiò, staccandosi da me giusto il tempo di riprendere fiato.
Stavo andando a fuoco, letteralmente, come la falena.
Ma non stavo morendo. Bruciavo, invece, di desiderio.
Ranma mi scostò i capelli dal viso con dolcezza e mi morse il lobo dell’orecchio, sussurrando una frase smozzicata che mi colpì come una secchiata d’acqua ghiacciata in faccia.
Non gli diedi nemmeno il tempo di finirla.
Non volevo ascoltare.
Perché doveva rovinare tutto?
Scivolai agilmente da sotto il suo corpo, rabbrividendo di freddo e lontananza.
Lo guardai fissarmi sconcertato ed incerto e corsi fuori dalla quella stanza terrorizzata, tentando invano di spegnere l’eco nelle orecchie di quelle parole che mi avevano fatto esplodere il cuore in petto.
< Akane...credo...amare. >

So bene di avervi fatto attendere un po' per questo capitolo, ma ho voluto rileggerlo per bene prima di metterlo online e lasciarlo al vostro giudizio.
Nella prima stesura era il mio preferito in assoluto e aveva ricevuto molti consensi, spero sia così tutt'ora.
Mi era stata richiesta a gran voce una scena tenera tra i due protagonisti e credo di avervo ampiamente accontentato.
Fatevi sentire con le vostre recensioni e ditemi se siete soddisfatte oppure no.
Potrei cambiare, dal prossimo capitolo, la piega che avevo fatto prendere alla storia. Una variante in mente ce l'ho.
Davvero non ho molto altro da dirvi oggi, se non che alle volte mi sento tanto una falena accanto al fuoco come Akane.
Bruciarsi o allontanarsi? Sognare o vivere?
Credo che non lo scoprirò mai.
Un grosso bacio.

Strange   (per ora ancora Hate, spero a breve mi venga accolta la richiesta di cambio Nickname).  

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Capitolo 17
*** Roller coaster. ***


You see all my light and you love my dark.


Seventeenth. Roller coaster.



Non so chi sei, che cosa vuoi ma c'è qualcosa tra di noi:
una leggera sintonia, lo sento mi trascina via.
Così i pensieri nascono, nella mia mente giocano,
mi sembra di impazzire, ma mi lascio trasportare da questa realtà che mi cattura
e tu cammini qui di fianco a me, mi sfiori e poi mi dici che è tempo del decollo ma
io non capisco che ne sai.

 
< Direi che è ora di smetterla di scappare, Akane. >
La sua voce mi gelò.
Sollevai impaurita gli occhi su di lui, nient'altro che un'ombra scura sull'uscio della mia stanza, e mandai giù un singhiozzo.
Perchè mi aveva seguito?
Perchè, per una volta, non agiva come se non gli importasse di me?
Mi avrebbe reso le cose più facili e mi avrebbe aiutato a convincermi che la passione con cui ci eravamo baciati fosse solo frutto di un momento di mia insanità mentale o di un suo attacco di ormoni impazziti.
Entrò nel cerchio di luce lunare, che la finestra lasciava passare, e si inginocchiò silenzioso di fronte a me con gesti misurati, quasi temesse di farmi scappare ancora.
Ero una bambina piccola, persa e spaurita, ai suoi occhi e non avevo bisogno di nient’altro che di rassicurazioni e abbracci forti.
Nelle sue iridi oceano, le stelle avevano una luce diversa: più magica, più incantevole, più affascinante e perciò più pericolosa.
Mi morsi le labbra, gustando ancora sul palato il suo sapore deciso, e mi conficcai le unghie nei palmi delle mani, fino a lasciare segni rossi sulla pelle.
Lui sapeva di buono, di qualcosa di familiare e sconosciuto al contempo, con il retrogusto della zuppa di miso preparata da Kasumi.
Ranma sorrise, scoprendo i denti candidi che baluginarono come fari nella notte.
Ancora non riuscivo ad abituarmi a quei suoi sorrisi devastanti.
< Sei proprio una pappamolle. Piangi in continuazione! > mi prese in giro, asciugandomi le lacrime sulla guancia sana col dorso del dito.
Forse si aspettava una rispostaccia, ma non la ottenne; ero troppo intontita dalle sue labbra che catturavano quelle gocce salate dall'altra guancia -quella sfigurata- per articolare qualcosa di sensato.
Leccò via le lacrime con dolcezza, mandandomi in apnea.
Respirare non avrebbe dovuto essere un processo involontario?
Rimasi inchiodata sul pavimento, con le ginocchia raccolte al petto, aspettando che smettesse.
Mi sentivo una statua di ghiaccio che pian piano si scioglieva al sole.
Ma il sole era lui e…
Maledizione, perchè ero così debole di fronte a lui?
Perchè aveva tutto quel potere su di me?
Quando glielo avevo concesso? O meglio, quando se l'era preso?
Non sapevo darmi una sola di quelle risposte.
Anzi, a dirla tutta, era il mio cervello a non sapermela fornire, al momento, dato che era in panne.
Ranma si scansò da me, giusto il tempo di scrutare la mia reazione al suo gesto, e poi si grattò la nuca imbarazzato, sedendomisi di fronte a gambe incrociate.
Storse il naso, probabilmente per i punti che gli tiravano. O forse no.
Non riuscivo a capirlo.
Quando agiva d'impulso mi stordiva e io perdevo quella capacità, che avevo acquisito, di comprenderlo.
< Scusami. Io n-non so che mi è pr-preso. > balbettò incerto, chinando lo sguardo.
Il suo viso imbarazzato scongelò definitivamente il mio corpo.
Da qualche parte, nella testa, un eco lontano mi intimava di allontanarmi da lui, ma le mie braccia lo ignorarono e circondarono le sue spalle muscolose.
Ranma si tese sotto le mie mani, sorpreso.
Dopo pochi attimi, però, ricambiò la stretta, bruciandomi con le sue dita bollenti.
Mi accarezzò i capelli con gesti circolari e fece impennare quel mio cuore impazzito.
Probabilmente qualcuno mi aveva edificato dentro il petto delle montagne russe senza che me ne accorgessi ed ora quel povero organo straziato, che tutti chiamavano cuore, ci si stava facendo un bel giro sopra.
< Cosa ho fatto, Akane? Dove ho sbagliato, con te? > mi chiese in un sussurro non più corposo della nebbiolina che drappeggiava gli alberi, fuori dalla finestra.
M'impedì di staccarmi e guardarlo negli occhi.
Io affondai il viso nell'incavo del suo collo e inspirai con avidità l'odore della sua pelle, zittendo il rimbombo di quelle parole che gli avevo sentito pronunciare e che mi avevano atterrito.
Rimasi muta a lungo, facendo in modo che fosse il mio silenzio a parlare al posto mio.
Sì, qualcosa aveva sbagliato.
No, non volevo parlarne.
Volevo restare avvinghiata a lui e crogiolarmi nell'illusione che il tempo si sarebbe cristallizzato in quell’attimo e che io non avrei dovuto affrontare né la mia famiglia né Haranobu il giorno dopo o qualunque altro a venire.
Vana speranza.
< Perchè scappi sempre da me, Akane? Di cosa hai paura? > domandò ancora Ranma, più frustrato che deluso.
Sembrava infastidito perchè non riusciva a capire il mio comportamento.
Come dargli torto? Faticavo a comprendermi io stessa.
Lo volevo, lo desideravo e, inevitabilmente poi, fuggivo.
Avevo paura del fuoco; avevo imparato ad averne col tempo.
E’ flessuoso, ipnotizzante, caldo…ma ti lascia i segni addosso se ti sfiora.
Ed io e lui ci eravamo molto più che sfiorati e le ustioni che esibivo non erano più limitate al mio solo viso.
Cenere, tra le mani della candela.
Senza contare che, sfortunatamente per me, io ero il tipo di persona senza mezze misure: o tutto o niente.
Perciò Ranma mi avrebbe avuto interamente o affatto, poiché non ero capace di donare un solo pezzo alla volta.
Sorrisi sulla sua scapola nuda, artigliandogli la schiena.
Aveva anche ragione, in parte -non l'avrei mai ammesso a voce alta-: c’era qualcosa nei recessi della mia anima che si agitava; una sorta di bolla scura in cui vivevano una serie non ben definita di sentimenti.
Quando Ranma era nelle vicinanze due in particolare emergevano: paura e....calore.
Non avrei saputo definirlo in altra maniera.
Un torpore rassicurante, appagante, che mi sussurrava lieve alle orecchie frasi insensatamente sdolcinate che mai e poi mai avrei avuto il coraggio di ripetere di fronte a lui.
< Di te. > risposi a mezza bocca, non sapendo spiegarmi meglio.
Ranma portò le labbra all'altezza del mio orecchio. Spostò la ciocca di capelli che lo copriva e sussurrò roco, dandomi i brividi: < Io credo, invece, che tu tema più te stessa. >
Puntellai i palmi delle mani sulle sue spalle, per tirarmi indietro e mollargli uno schiaffo per la sua sfacciataggine, ma lui non me lo permise.
Mi bloccò il polso con dolcezza, senza stringere, e mi tirò a sè, facendo completamente aderire i nostro corpi seduti.
< Non provare a scappare di nuovo, Akane. Stavolta non te lo lascio fare. > dichiarò risoluto ed irremovibile.
Decisi, quindi, di chiudermi in un mutismo ostinato, sperando che così facendo mollasse la presa dopo un po', stanco del mio silenzio.
Abbassai le palpebre e, come una bambola, appoggiai rigidamente la testa sulla sua spalla.
Ranma prese ad accarezzarmi di nuovo i capelli e poi se ne intrecciò una ciocca al dito.
Era confortante rimanere in quella posizione, cullata dal lento pulsare del suo cuore forte e vigoroso.
< Hai paura di quello che provi, Akane. >
Al contrario di quanto avevo sperato, lui non aveva intenzione di lasciar correre.
Continuava il suo feroce attacco, mirato a piazzare mine alla base della mia corazza così da poterle azionare quando voleva per farla crollare tutta assieme.
Tanto poi lui sarebbe stato lì, pronto a raccogliere i pezzi, lo sapevo.
Ed era proprio questo a farmi paura: lui che faceva di me ciò che voleva, quando voleva, come voleva.
Quando ero diventata la sua marionetta?
Quando gli avevo dato in mano i miei fili?
E, soprattutto, da quando mi ponevo tutte quelle domande io, che ero famosa per il mio agire d'impulso?
< Ho paura di quello che mi fai provare. Senza di te sono perfettamente padrona di me stessa…poi arrivi tu e il mio corpo agisce come se non mi appartenesse. > borbottai un po' irritata, sbuffando sul suo collo.
< Dici sul serio? >
< Ho il tono di una che scherza? > ribattei piccata.
Mi staccai da lui per fissarlo con sguardo truce, ma i miei propositi si dissolsero nel momento in cui notai che stava sorridendo.
Perchè sorrideva?
Perchè aveva un sorriso così bello?
- Maledizione. -
< Che hai? > mi chiese ancora, come se non sapesse far altro che pormi domande.
< La verità? >
< La verità. > mi prese le mani, cercando un contatto tra noi che io avevo annullato prima scostandomi.
< Io...stavo pensando che hai un...un bel sorriso. >
Niente da fare: con le questioni di cuore ero - e sarei sempre rimasta- una grande imbranata.
Non mi spaventavo di fronte ad un manipolo di nemici armati fino ai denti e poi bastava un'occhiata di Ranma per farmi tremare le ginocchia e la voce.
Ed il cuore.
- Maledizione, di nuovo. -
Lo sentivo venir sballottato nella cassa toracica senza pietà, fino a udirlo battere in gola mentre Ranma si sporgeva verso di me, poggiandosi sulle braccia.
Quelle cavolo di montagne russe dovevano avere qualche saldatura arrugginita.
< Quella che ha un bel sorriso sei tu, te lo dissi appena vidi il tuo viso, ricordi? > domandò con voce morbida, come morbide erano le dita che mi sollevarono il mento.
< Non potrei scordarlo mai. > mormorai, chiudendo gli occhi per rievocare i primi giorni insieme in quella folle avventura.
Sembrava passato un secolo. Un’altra vita intera.
Quante cose erano cambiate in me, con me, fra me e lui…
Feci per parlare e ricordare insieme la scena vissuta in quella scanalatura naturale di un monte quando, inaspettatamente, le labbra di Ranma trovarono le mie.
Le montagne russe cedettero di schianto e mi spedirono il cuore all'altezza dei piedi.
Lui mi schiuse le labbra con la lingua e mi mordicchiò il labbro inferiore, facendomi dimenticare persino chi ero, dove mi trovavo e a cosa serviva la mia bocca, se non a ricambiare il bacio.
La mura disadorne della mia stanza, il pavimento liscio sotto le dita, il fruscio del vento all'esterno, il ticchettare della sveglia sul comodino a cui Kasumi probabilmente cambiava la batteria regolarmente...scomparve tutto di colpo, risucchiato da un invisibile buco nero che lasciò soltanto me e lui a gravitare nell'universo.
Un universo piccolo, in fondo, sufficiente a contenere il mio ed il suo corpo premuti l'uno contro l'altro in un bisogno disperato.
< Non dirlo più... > ansimai tra una ripresa e l'altra, infilando le mani nei suoi capelli per attirarlo più vicino a me, dimentica del mio viso sfigurato.
Coperta dal rassicurante manto delle tenebre e sotto le sue mani attente e dolci mi sentivo...normale.
Una ragazza qualunque che si godeva il bacio del ragazzo che le piaceva.
Non c'era niente di male, vero?
L'unica nota stonata era rappresentata da quelle parole che lui aveva sussurrato nella sua stanza pochi minuti prima...o forse un'eternità intera fa.
< Cosa? > il suo tono sapeva di sensualità, di desiderio, di smania ansiosa.
Si spinse in avanti, ingoiandosi le lamentele di protesta per la carne tirata dai punti, e mi fece sdraiare di schiena sul pavimento, stendendosi sopra di me senza mai staccare troppo la bocca dalla mia.
Famelico.
Insaziabile.
< Che credi di amarmi. > gemetti spingendo la sua faccia sul mio collo, dove mi stava torturando con le labbra.
Lo sentii irrigidirsi sotto le dita.
Alzò la testa di scatto, curioso e all'erta.
Negli occhi zaffiro gli leggevo l'indecisione ed il timore.
< Akane, io...tu hai... > si mangiò le parole e mi impedì di capire cosa stesse cercando di dirmi.
Mi sollevai un po' per guardarlo meglio.
Il vapore del desiderio e della voglia fisica di lui svanivano con troppa lentezza dal mio cervello.
Avevo bisogno di essere lucida, poiché c'era qualcosa che le sue iridi sembravano volermi comunicare, ma che io non riuscivo a leggere, ad interpretare, e mi sentivo frustrata.
< Prima ho... > sbuffò, passandosi una mano in mezzo ai capelli, incasinandoli più di quanto non avessi già fatto io.
Non stava cercando di dirmi ancora quelle parole, vero?
Perchè voleva rovinare tutto?
Perchè doveva infilare tra noi sentimenti ed emozioni?
Voleva per forza provare qualcosa? Non ce n'era bisogno!
Potevamo benissimo goderci il piacere fisico senza abbandonare il rassicurante sentiero della razionalità.
Sempre che io non l'avessi già smarrito...
Il dubbio si insinuò in me, fastidioso come un tarlo.
Era per quello che avevo paura?
Perchè mi ero già lasciata andare sotto ogni punto di vista con lui e non avrei sopportato di essere ferita ancora?
Probabile.
Ranma imprecò e tornò seduto. La sua faccia sembrava quella di chi era sul punto di rigettare.
< Io...io prima...ho detto solo che credevo fosse il caso di doverci fermare. > sputò tutto insieme e poi sospirò sollevato.
Alzai un sopracciglio interdetta.
Non ero propriamente convinta della sua spiegazione: io ero sicura di aver sentito la parola “amare” non “fermare”; l'udito di un'assassina era difficile da ingannare.
Eppure mi sentii incredibilmente più leggera.
Questo voleva dire che alla fin fine quella coinvolta ero solo io.
Non osavo fare una stima precisa di quanto fossi presa perchè sarebbe equivalso all'ammissione che ero capace di amare ed io non potevo permettermelo.
Non potevo scoprirmi colma di sentimenti proprio ora che dovevo rimanere insensibile come una pietra.
Avevo bisogno di tutto il mio autocontrollo e della mia fermezza se volevo porre fine all'impero di Haranobu.
Ranma sarebbe venuto con me e poteva restare ucciso e...
< Non piangere di nuovo, per favore. > la sua voce arrestò i miei pensieri confusi e tristi.
Di sicuro aveva frainteso la mia reazione.
< Non voglio ferirti e prima stavo perdendo il controllo di nuovo -con te mi succede sempre-, perciò ti avevo chiesto di smettere. Se avessimo continuato su quella strada non sarei stato in grado di fermarmi più e non ho idea di dove saremmo finiti... >
Le sue parole mi lusingarono.
Volevano dire che non ero l'unica ad essere preda di quel desiderio bruciante che mi divampava dentro come un incendio incontrollato.
Faticavo a credere che lui potesse essere attratto da me in ugual misura, ma non gli esposi i miei dubbi. Non volevo litigare ancora.
< E se io non avessi voluto che tu ti fermassi? > lo stuzzicai, avvicinandomi di nuovo.
Era irresistibile quella sua bocca socchiusa dalla sorpresa.
Prima di potermi soffermare a ragionare su cosa diavolo stessi facendo e perchè, gli presi il labbro superiore tra i denti e glielo succhiai.
Gli occhi cristallini di Ranma si spalancarono di sorpresa.
Stavo facendo ciò per cui ero rinomata: agire d'istinto.
Non mi importava dove lui avesse voluto portarmi, l'avrei seguito dovunque.
Mi contornò il viso con le mani calde e infilò la sua lingua nella mia bocca con un ringhio.
Mentre cercava il modo di liberarmi dalla casacca nera ,che ancora portavo, imprecai tra me e me.
Ero una stupida.
Eppure l'avevo anche ammesso prima: io ero quella che dava tutto.
Come pensavo di sopravvivere a quella notte senza concedergli anche la chiave del mio cuore?
Volente o nolente gliel'avrei consegnata tra le mani.
Era una missione suicida e...
Ranma mi strappò di dosso il corpetto con impeto, lasciandomi coperta solo di luce lunare.
I miei pensieri tacquero definitivamente ed, assieme ad essi, anche tutte le mie paure si spensero.
Gli posai una mano sul torace scoperto e lo spinsi giù, sul parquet freddo. Lui rabbrividì e mi si trascinò dietro.
Con audacia trovai l'elastico dei suoi pantaloni ed esitai, intimorita dall'ignoto.
Non avevo idea di cosa fare, di come agire.
Ero una novizia e ciò che l'intuito mi suggeriva di fare avrebbe potuto non piacergli e...
Ranma sorrise, attirando i nostri bacini vicino, cosicchè sentissi il suo desiderio premere contro il mio e non ebbi più dubbi.
Gli sorrisi a mia volta e, senza che lui lo vedesse, mi strappai con sicurezza il cuore dal petto e gliene feci dono, certa del fatto che tanto non sarebbe potuto appartenere mai più a nessun altro.

Si ferma tutto attorno a noi, si abbassano le luci e poi parte una strana melodia, lo sento mi trascina via.
E le emozioni scorrono, mentre le mani tremano.
Mi sembra di impazzire, ma mi lascio trasportare da questa realtà che mi cattura
e tu cammini qui di fianco a me, mi sfiori e poi mi dici che è tempo di atterrare ma non voglio che finisca qua.
[Lost]



Dlin Dlon, comunicazione di servizio: ragazze questo è il penultimo capitolo della precedente stesura della storia.
Ancora uno e tutte quelle lettrici che pazientemente hanno atteso i nuovi sviluppi saranno siddisfatte.
Sono già all'opera, con la giusta ispirazione e tanta, tantissima voglia di spiegarvi il passato di Akane e di dare un finale a questa storia.
Il vostro affetto smisurato per ben diciassette capitoli -riletti due volte, per alcune di voi- mi commuove ogni volta.
Spero solo di non deludere le vostre aspettative.
Con questo capitolo in particolar modo, perchè forse qualcuno penserà che è presto quel che succede tra i due protagonisti...ma è così che io ho immaginato l'intreccio della trama e diversamente non avrei voluto scriverla.
Attendo i vostri pareri, positivi o negativi che siano.
Vi abbraccio forte.
Siete sempre la mia forza.

Strange.

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Capitolo 18
*** Unspoken. ***


You see all my light and you love my dark.


Eighteenth. Unspoken.



Improvvisa, mi baci, tremando ti agiti un po'.
E in un attimo poi, siamo soli e adesso...
Lentamente, segretamente, scivolando sulla pelle, tieni forte le mie mani.
Voglio viverti.
Dolcemente, profondamente, respirando sulla pelle, scende dolce questa notte, e adesso vivimi.
Le tue mani graffiano, le labbra mordono, mentre intorno le ombre si amano, giocando con noi. [Studio 3]


Profumo di pelli mischiate.
Musica di sospiri a labbra strette.
Fruscio di mani intrecciate che scivolano su un pavimento freddo.
Nenia di frasi spezzate tra i denti.
“Ti faccio male, Akane? Cazzo, scusa, io...”
Turbinio di sapori spalmati su labbra morse per il piacere.
“Se ti fermi adesso potrei ucciderti...”
Melodia di respiri affrettati che si scontrano, di gemiti che si confondono e appartengono all'uno e all'altro corpo.
Strofinio di schiene sudate su un legno reso ruvido dalla polvere.
Rumori di ginocchia e gomiti sbattuti accidentalmente nella speranza di trovare una posizione migliore.
Attrito di bacini che si incastrano.
Melodia di mani inesperte che saggiano imbarazzate zone sconosciute.
Armonia crescente di battiti impazziti appartenenti a due cuori liberati dalle redini d'acciaio che li opprimevano.

***


Mugugnò qualcosa nel sonno, crucciando il viso e storcendo il naso.
Chissà cosa stava sognando.
Forse aveva di nuovo davanti gli occhi quel muro di fuoco danzante, che sprizzava scintille ardenti e che le aveva rovinato il viso, o forse stava ascoltando qualche mia battutaccia.
Nemmeno nel sonno le davo tregua, probabilmente.
Sorrisi e le baciai la fronte, passando l'indice sul naso piccolo e all'insù, sull'arcata delle sopracciglia nere, sugli zigomi alti e sulle labbra socchiuse, martoriate dai suoi denti mentre affondavo in lei.
Come eravamo arrivati a quel punto?
Come c'ero finito tra i suoi seni, con le mani sui suoi fianchi, con la lingua nella sua bocca?
Dove l'avevo spedito il cervello nel momento del bisogno?
Probabilmente erano vere le dicerie delle vecchie comari del mio villaggio: noi uomini ragionavamo con quello che avevamo in mezzo alle gambe.
Solo che...non mi era mai successo niente del genere prima.
Non mi era mai importato di nulla che non fossero le arti marziali, i combattimenti e gli allenamenti estenuanti a cui mi sottoponeva mio padre.
Persino Ucchan era sempre stata messa in secondo piano se c'era in ballo uno scontro importante.
Avevo mancato decine di appuntamenti al lago, centinaia di pomeriggi di studio, miliardi di passeggiate e chiacchiere spensierate, ma lei non mi aveva mai rinfacciato nulla.
Ogni volta che ci vedevamo aveva un sorriso dolce sulle labbra, che serviva a mascherare –lo sapevo bene- i segni delle lacrime che versava di notte sul suo cuscino.
Le delusioni che le recavo erano innumerevoli –io avevo perso il conto prima di lei- e le bruciavano in gola, scorticando strato a strato i suoi sentimenti verso di me.
E se io mi arrischiavo a chiederle qualcosa, rispondeva sempre con un’alzata di spalle ed un’occhiata che era una minaccia e una supplica di non insistere al contempo.
Cambiai posizione alla mano, che si stava intorpidendo sotto il peso della mia testa, e scostai i capelli dalla guancia di Akane.
Infine, era arrivata lei, improvvisa come un'onda anomala col mare placido.
Imprevista, inattesa, sconvolgente.
Mi aveva salvato, mi aveva respinto, trattenuto, allontanato ancora e infine baciato ed io non ero più stato padrone di me stesso.
Il calore, che avvertivo ogni volta in sua presenza, aveva conficcato poderose radici nel mio cuore e, più passava il tempo, più scavava in profondità.
Fino in fondo ai ventricoli, solleticando i globuli rossi che correvano tranquilli nelle mie vene.
Cos'era che mi ancorava a lei?
Perchè non mi spaventava quel legame?
Tra i due io ero quello meno sfuggente, più presente.
Lo ero anche per lei, che scappava ma desiderava essere rincorsa; che si dileguava ma poi si lasciava riprendere.
Forse, con quello che era successo quella notte, avrebbe finalmente smesso di scivolare via dalle mie braccia.
Forse avrebbe accettato di rimanere, di affrontare il presente e stringermi la mano, sterminando senza pietà non più persone innocenti, ma i suoi demoni affamati.
Io ero forte a sufficienza per farli a pezzi al posto suo, se lei non se la fosse sentita.
Akane si mosse ancora, stendendo pigramente le labbra in un sorrisino soddisfatto, e si girò su un fianco, toccando con le labbra la mia clavicola nuda.
Aprì gli occhi e poi mi fissò atterrita, ritraendosi e coprendosi il corpo con le mani, pudica.
Boccheggiò ed io non riuscii a resistere.
Mi spinsi in avanti e assaporai di nuovo le sue labbra morbide, spennellate di fragola, lasciandola stordita.
< Buongiorno. > sussurrai, sfiorandole il naso con il mio.
-Cazzo! -
Da dove veniva quella…tenerezza?
Akane mi fissò con i suoi occhi grandi e già vispi, cercando di rimettere faticosamente insieme i pezzi di quella notte.
Vedevo nelle sue iridi il lavoro febbrile del suo cervello e l'indecisione.
Lasciarsi andare o riesumare la vecchia, consunta ed arrugginita corazza?
Attesi in apnea quel responso, come se ne andasse della mia stessa vita, e quando, infine, lei mi accarezzò una guancia, sciolsi la tensione dei muscoli.
Per un attimo avevo temuto che mi avrebbe schiaffeggiato di nuovo, che avrebbe gridato o lanciato oggetti contundenti verso di me -con la sua mira non mi avrebbe mancato-, ma non lo fece.
< Buongiorno anche a te. > rispose, mordendosi le labbra.
Cosa mi stava chiedendo?
Un altro bacio?
Un abbraccio?
Rassicurazioni?
Io non ero pratico di carinerie, sdolcinatezze e parole melense.
Non sapevo sciorinare dichiarazioni d'amore e, tanto meno, ero sicuro che lei le volesse.
< Io... tu... > azzardai, raschiando la gola, nella vana speranza di cavare fuori qualcosa di decente.
Lei continuava a disegnare cerchi immaginari sul mio viso, con delicatezza, e a osservarmi quasi incantata.
Stavo per riprovarci, quando mi zittì.
< Non...io... sei deluso? > si fece sanguinare il labbro inferiore e le sue palpebre ebbero un fremito.
No.
Avevo visto giusto.
Non voleva una dichiarazione d'amore con tanto di sviolinata.
Voleva soltanto sapere di aver fatto la mossa giusta e avermi appagato. Il mio benessere, pensai, doveva venire, per lei, prima del suo.
E per me era lo stesso.
- Merda.-
Quei pensieri smielati non erano da me, ma da Ucchan e dai suoi fedeli romanzi rosa.
Mi stavo trasformando in una donnicciola?
Però, più guardavo Akane, più mi rendevo conto che la sua fragilità mi faceva desiderare essere migliore, saldo e forte, cosicchè lei potesse sempre appoggiarsi a me.
< Scema. Non lo pensare nemmeno per scherzo. Sei...siamo... > tossii e lei sorrise incerta.
Sperai che avesse capito.
< Ti...fa male da qualche parte? > le domandai, accarezzandole le braccia scoperte, sui cui si era formata pelle d'oca.
Il pavimento, in effetti, non era poi il posto più adatto per… fare quella cosa là.
< La schiena e le spalle. > rispose, dopo un attimo di tentennamento.
< Intendevo...lì. > chinai gli occhi, lasciandole intendere cosa volessi farle capire e lei arrossì fino alla radice dei capelli.
Mi spintonò giocosa, coprendosi ancor di più.
Sorrisi e serrai le mie mani attorno ai suoi polsi.
< No. Fatti vedere. Sei bella, Akane. > mormorai e la vidi annaspare, soffocata da complimenti che le strozzavano il fiato in gola e dai cui non sapeva districarsi.
< Sei bella per me. > aggiunsi, sperando che capisse anche ciò che non riuscivo a far trapelare da quelle labbra chiuse ostinatamente dall'orgoglio.
Bella, nonostante le cicatrici.
Bella, anche così ribelle e testarda.
Bella mentre dormiva, mentre sospirava, mentre gemeva, mentre combatteva ed una goccia di sudore le scivolava sul naso.
- Riesci a comprendere, Akane? Riesci a sentire ciò anche ciò che non ti sto dicendo? -
Annuì impercettibilmente col capo, facendosi bastare quel poco che le stavo dando.
Mi permise di allontanarle le mani dal corpo e si strinse a me, arrancando sul gelido parquet, rovinato dai troppi lavaggi spasmodici di Kasumi, per baciarmi.
Sapeva di sangue, di mela e colazione stiepidita dal sole.
Di una vita che una volta doveva aver vissuto.
Di una vita che poteva ancora riprendersi.
Di una vita di cui avrei voluto far parte.
Feci scorrere le dita sui suoi fianchi e in quel momento bussarono timidamente alla porta.
< Akane? Sei sveglia? > Kasumi si affacciò nella stanza, sorprendendoci avvinghiati l'uno all'altra, completamente nudi.
- Oh, porca puttana! -
Mi affrettai a recuperare i pantaloni e a tirarmeli sull'inguine, mentre Akane si copriva di nuovo con le mani, balbettando scuse sconclusionate alla sorella, che sorrideva divertita e per nulla imbarazzata.
Rise compita, coprendosi la bocca con una mano.
< Vi aspetto di sotto per la colazione, ragazzi. >
Se ne andò, lasciandosi dietro una scia di vaniglia, cannella e fragranza di biscotti appena sfornati ed un silenzio teso che aveva spezzato qualcosa.
Akane si rivestì in silenzio, con mani tremanti e guance in fiamme, ed io la imitai, col rumore della stoffa che strusciava sulla pelle accaldata che mi graffiava l’udito.
Si spazzolò i capelli tre volte, come se non fossero i nodi quelli che stava sconfiggendo, prima di lasciarsi convincere a scendere al piano di sotto.
Si fece prendere per mano e si lasciò posare un bacio casto sulle labbra, mentre affrontava gli scalini come fossero costellati di chiodi appuntiti.
Si portò una mano alla bocca, mordicchiando nervosamente le unghie, e, infine, sospirò.
Arrivammo davanti all’ingresso del salotto con le dita ancora allacciate; voci chiassose nascondevano la nostra presenza agli altri ospiti.
Sentii Akane irrigidirsi stranamente e fare un passo indietro.
C'era una voce sconosciuta, mischiata a quella di Nabiki e Soun Tendo: un timbro maschile, profondo e altisonante, seguito da un colpo sordo di pugni sbattuti sul tavolo.
< Come può aver pensato questo? E' falso! >
L'esclamazione giunse fino a noi e Akane rabbrividì.
Nei suoi occhi c’era lo stesso smarrimento che avevo scorto in quelli della bambina apparsa nei miei sogni deliranti,  dopo che lei mi aveva ferito.
Le sue iridi –cioccolata fondente, legna arsa in un camino, terra bagnata – erano screziate di una disperazione che non sapevo come fronteggiare.
Le avevo provate tutte e non era bastato; adesso non stava più a me combattere, ma ad Akane.
Ed il suo avversario era così tenace che temevo avrebbe prevalso: se stessa.
< Tutto ok? > le chiesi, preoccupato.
A chi apparteneva quella voce? Ad un compare di Ryoga?
Un altro della gilda?
Kasumi ci arrivò alle spalle, reggendo tra le mani un vassoio carico di thè e biscotti.
< Vieni, Akane, c'è una visita per te. > dichiarò con un sorriso dolce, che atterrì ancora di più sua sorella.
Aprì la porta, reggendo il vassoio in bilico sugli avambracci, ed io individuai subito l'intruso.
Alto, slanciato, con capelli castani folti ed un po' mossi, un kimono da kendo ed un mazzo di fiori davanti a lui, adagiato sul tavolo.
Lo odiai a prima vista, dato che era lì per vedere Akane.
Lei aprì la bocca e la richiuse un paio di volte, prima di riuscire a emettere un suono udibile.
< K-Kuno. > biascicò.
< Dolce Akane! > urlò quello, balzando in piedi e correndo verso di lei, sollevandola tra le braccia e tranciando, così, il legame delle nostre mani.
Quando la rimise giù, lei si allontanò quasi disgustata e, prima di potermi trattenere, io scagliai un pugno sul viso di quello che avevo da subito classificato come un idiota, facendolo volare addosso a Nabiki.
< Ranma! > gridò Akane, sorpresa, mettendomi un braccio sulle mani tremanti.
Io sgranchii le nocche.
< Non t'avvicinare più a lei, chiunque tu sia. Lei è mia. > ruggii in risposta.
 
Ci siamo; li sento i vostri cori di sospiri estenuati.
Siamo arrivati al punto in cui mi ero interrotta nella prima stesura, quindi innanzitutto grazie a chi c'è dall'inizio.
Dal prossimo capitolo in poi ci saranno tutte cose inedite per chiunque di voi che leggerà.
Non so bene come vi aspettavate questo risveglio, spero non vi faccia storcere troppo il naso questo Ranma. E' inverosimile?
Dovevo renderlo un po' meno smielato, forse?
Sono aperta ai confronti ^^
Akane, invece, per chi credeva avrebbe fatto fuoco e fiamme una volta destata, posso subito dire che, avendo lei fatto dono del suo cuore a Ranma nello scorso capitolo, sarebbe stata contraddittoria a recriminare la notte trascorsa e a inveiire contro di lui, sbattendo le porte.
E poi, diciamocela tutta, mi sono stufata di allontanarli e farli litigare XD
Volevo, inoltre, abbracciare forte forte tutte coloro che mi hanno lasciato una recensione lo scorso capitolo: il numero era quasi tornato quello dei tempi in cui la storia si chiamava "Fighting for a chance" e mi sono commossa.
Mille volte grazie.
Vi lascio con un'immagine attinente a ciò che avete appena letto e spero vi faccia scappare un sorriso.
Un bacio.

Strange

  

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Capitolo 19
*** Phoenix. ***


You see all my light and you love my dark.

Nineteenth. Phoenix.



Ali di fuoco.
Lacrimando nella notte, urlando nella luce di un altro giorno.
Portatemi fuori da questo uragano; tra fumo e fiamme, noi voleremo oltre.
Allora sorgevi imponente davanti ai miei occhi, con ali che riempivano il cielo, come la fenice che risorge. [Annihilator]


La crema, bianca e untuosa, non veniva via dalle dita con cui l’avevo spalmata sul viso: mi ero sciacquata le mani tre volte ed ancora appiccicavano.
Sbuffai e lasciai perdere, coprendo le ustioni con dei cerotti di garza grossi tanto da nascondere interamente la guancia lesionata.
Il dottor Tofu si era raccomandato di non esporre le cicatrici alla luce per almeno un paio di mesi ed io non avevo obiettato, limitandomi ad eseguire minuziosamente le sue istruzioni.
Non mi vergognavo di quelle bruciature, poichè erano il prezzo che avevo pagato per salvare la vita di un bambino, ma avrei certo preferito non averle.
Cercavo, quindi, di curarle al meglio, sperando così che rimanessero soltanto fili quasi invisibili, appena percepibili al tatto.
Non volevo farmi abbattere dal mio nuovo aspetto e perciò esibivo sempre un sorriso ottimista con le mie sorelle e mio padre, preoccupati delle ripercussioni che le ustioni avrebbero potuto avere su di me.
Ero forte e sopportavo bene.
Solo di notte, ogni tanto, quando il calore sul viso diventava insopportabile e il ricordo della pelle che sfrigolava non mi faceva chiudere occhio, mi lasciavo cullare dalle lacrime.
Erano consolatorie e lenivano, insieme all’immagine degli occhi verde erba del piccolo che avevo protetto dalle fiamme, almeno in parte la mia sofferenza.
Aggiustai al volo i capelli, pettinandoli con le dita, e scesi al piano di sotto impaziente, facendo i gradini due a due.
Kuno doveva essere già arrivato ed io non vedevo l’ora di lasciarmi stringere un po’.
Con lui e le sue frasi dolci e galanti, i residui delle mie lacrime notturne si asciugavano del tutto.
Circondarmi d’affetto era la cura migliore che conoscessi.


Il silenzio calato intorno al tavolo era soffocante e si stringeva di attimo in attimo sempre di più attorno al mio collo come un nodo scorsoio.
Ranma sedeva rigido alla mia sinistra, a gambe incrociate, rifiutando thè e biscotti da Kasumi con aria imbronciata: era troppo impegnato a incenerire con lo sguardo Kuno, di fronte a lui, e forse anche un po’ restio ad accettare qualcosa da coloro che avevano cercato di avvelenarlo solo poche ore prima.
Non potevo dargli torto fino in fondo, essendo io la prima a tenere i sensi all’erta e a scattare per qualsiasi rumore anomalo.
Nabiki, alla mia destra, scriveva numeri di quattro, cinque cifre su un block-notes in modo svogliato, poi li cancellava con una riga e ricominciava per chissà quale motivo.
Sembrava rilassata e indifferente all’intera situazione, ma la tensione con cui stringeva la penna la tradiva: la pelle delle sue nocche era tesa e livida.
Soun Tendo, accanto a lei al solito posto a capotavola, inzuppava biscotti nel thè in modo meccanico e non si accorgeva neppure che alla fine si ammollavano e cadevano sul fondo della sua tazza con un timido “ploff” e qualche schizzo. Quando poi si bruciava le dita nella bevanda bollente, perché non c’erano che briciole tra pollice e indice, prendeva un altro pasticcino e ricominciava da capo, fissando gli intarsi di legno del tavolo come fossero disegni artistici di cui doveva comprendere il senso.
Kasumi, al suo fianco direttamente di fronte a me, sorrideva. Sorrideva e basta, come se le fosse stato imposto di non fare altro o come se avesse i muscoli facciali paralizzati.
Ogni volta che mi soffermavo un po’ sul suo viso notavo qualche ruga in più intorno agli occhi o alla bocca, e fili argentati tra la sua chioma di cioccolato.
Era raccolta su una spalla con un elastico logoro decorato con un fiocco di un rosa sbiadito, che riconobbi con un piccolo sorriso: glielo avevo regalato io, una sera poco dopo la morte della mamma, quando l’avevo trovata a piangere su un suo vestito.
Kasumi aveva tentato subito di mascherare i segni del pianto ed io allora l’avevo assecondata, sorridendo come se non avessi visto nulla e chiedendole se potevo pettinarla. Quella coda laterale era stata l’acconciatura migliore che ero riuscita a fare con le mie mani piccole e paffute, di bambina, e da allora mia sorella aveva sempre portato i capelli in quella maniera.
Infine c’era Kuno, alla destra di Kasumi, che sorseggiava il suo thè in silenzio, con gli occhi fissi sui fiori che reggeva in grembo e un’ombra violacea che si andava dipingendo sullo zigomo colpito da Ranma.
Il silenzio era sempre più asfissiante e l’ossigeno sempre più rado nella mia gola.
L’Akane assassina lottava e ruggiva dentro il mio petto per poter prendere possesso del mio corpo e vendicarsi brutalmente su Kuno, sfigurandogli le labbra per le parole che mi avevano indotta a scappare.
Eppure rimasi immobile al mio posto, come ero rimasta immobile tanto tempo prima dietro la porta del salotto, ad ascoltare con orrore il suono prodotto dalle mie certezze frantumate senza pietà.

Udii la voce di Kuno già dalla cucina.
L’avrei riconosciuta tra cento, mille diverse.
L’avevo sentita cambiare timbro dal passaggio dall’infanzia all’adolescenza e mai pronunciare una cattiveria verso qualcuno.
Lui era stato la costante della mia crescita, onnipresente in ogni momento: compagno di giochi al fiume, di banco, di scappatelle notturne per sentire l’ebbrezza del proibito, di pomeriggi di studio, di esercitazioni nelle arti marziali, di vita.
Eravamo finiti insieme perché era sembrata la cosa più giusta, dopo tanti anni di vicinanza.
O forse la più facile e scontata, spronata anche da famiglie che si erano augurate le nostre nozze dal momento in cui avevamo emesso il primo vagito nelle culle.
Sorrisi e l’adesivo del cerotto tirò un po’ la pelle della guancia, pizzicandomi.
Decisa a comparirgli alle spalle e ad abbracciarlo da dietro, in uno strano impeto d’affetto che mi coglieva di rado, mi avvicinai in punta di piedi al salotto e sbirciai nella fessura delle ante socchiuse, cercando di capire che posizione occupasse Kuno nella stanza.
Era di schiena alla porta, seduto al tavolo dal lato opposto rispetto a mio padre;  Nabiki era tra loro e aveva un’espressione sconcertata in viso, la calcolatrice stretta in una mano tremante.
Feci per entrare di slancio, ma la voce stentata di papà mi bloccò.
Era un sussurro appena udibile, un filo sottile di parole che riuscii a cogliere a malapena.
< Cosa hai detto? >
Aveva assunto il colore delle lenzuola bianche che Kasumi aveva steso al sole quella mattina e Nabiki anche.
Kuno sospirò e le sue spalle si ingobbirono un poco, come pressate da un peso che nessuno poteva vedere.
< Vi ho chiesto cinquecentomila yen, Soun. >

L’aria era irrespirabile.
Il caldo inaspettato di quella mattina impregnava la stanza e strisciava sul mio corpo contratto per l’attesa.
Non ero io a dover fare la prima mossa, ma allo stesso tempo non riuscivo più a tenere in bocca le parole.
Ranma mi prese la mano, intuendo forse il mio tumulto interiore, e mi guardò con un piccolo sorriso incoraggiante.
Lo stesso che gli aveva piegato le labbra poco prima, quando eravamo soli in camera mia, nudi e con i postumi della note appena trascorso ancora a coprirci.
Lo stesso che mi aveva rivolto quando aveva confessato di trovarmi bella.
Lo stesso di cui non riuscivo più a fare a meno.
Avrei voluto aver più tempo per metabolizzare i cambiamenti avvenuti in me nelle ultime ore, ma non me ne era stato concesso.
Sentivo le ali della falena nel mio torace che mi facevano il solletico e avrei voluto conoscerla, farle sapere che non era poi sbagliato amare una fiamma, che non tutte bruciavano.
Ma avrei dovuto rimandare, perché quella parte di me appena uscita da bozzolo doveva dar precedenza a quella più vecchia, ferita e devastata.
Senza passato non si poteva erigere un futuro.
Con la sicurezza della stretta di Ranma, parlai.
E la mia voce spezzò la tensione, portando il gelo.

Nabiki scattò in piedi, sbattendo i palmi aperti delle mani sul tavolo.
Era cianotica e sembrava sul punto di prendere a pugni Kuno, lei che al massimo uccideva una mosca e solo se l’infastidiva. La violenza e l’emotività, diceva, erano componenti del mio DNA; a lei erano state lasciate arguzia e raziocinio.
< Cinquecentomila yen? E' una cifra mostruosa! > esplose.
Kuno sobbalzò impercettibilmente.
< Lo so bene. > disse e mi sembrò che avesse la voce vagamente dispiaciuta.
Mio padre assottigliò gli occhi, forse cercando di capire le intenzioni del suo interlocutore.
Io aprii appena un po’ di più lo spiraglio della porta, sperando di cogliere brandelli di frasi che mi erano sfuggite.
Qualcosa non andava o andava sgradevolmente per il verso sbagliato.
Nabiki infuriata, mio padre pallido, Kuno impassibile.
Era un quadro surreale, dipinto maldestramente da qualcuno che si stava divertendo a scavarmi un buco nel petto.
Sentivo che quel loro scontro verbale mi riguardava, che non poteva non comprendermi.
Ma cosa c’entravo io con quella somma esorbitante?
Fu Nabiki a mettere sotto la giusta luce la pittura, a dargli un senso.
Mi venne da vomitare.

< Possibile che tu voglia dei soldi per restare insieme ad Akane? > sibilò mia sorella, tornando a sedersi come se avesse esaurito le forze.
Kuno scosse la testa e mosse le mani, ma mio padre lo zittì con un indice.
Sospirò e si premette le dita sulle tempie, massaggiandole. Poi riaprì gli occhi e per un attimo temetti mi avesse visto.
Invece tenne lo sguardo su Kuno ed io rabbrividii.
Sapevo già, ancor prima di udire le sue parole, che quello che avrei sentito mi avrebbe distrutta. Annientata.
< Ti daremo tutto quello che vuoi, ma questo nostro accordo non deve trapelare. Non voglio che nessuno lo sappia, soprattutto lei. Deve continuare a credere di essere una persona normale... >
Mi alzai con uno scatto e corsi fuori.
L’aria bruciava nei polmoni, le lacrime negli occhi e il sangue nelle vene.
Mi strappai urlando il cerotto dal viso, senza curarmi dei brandelli di pelle lesa che rimanevano incollati alla garza.
Dentro la testa la voce di mio padre riecheggiava in modo sinistro.
Una persona normale. Una persona normale. Una persona normale.
Mi morsi le labbra per non urlare ancora e accelerai il ritmo, investendo chiunque incontrassi al mio passaggio.
Non ero una persona normale, non lo sarei stata più.
Non sarei stata più niente, se non un fantasma.
Akane Tendo era morta.

< Ve lo chiederò una volta sola. Voglio una risposta. Sincera, se possibile. Delle bugie ne ho abbastanza. > presi fiato e notai che quattro paia di occhi pendevano dalle mie labbra.
Solo Ranma non mi guardava.
Accarezzava il dorso della mia mano col pollice, come a dire < Sei forte, ce la fai. E comunque non sei sola. Sono qui, io. >
< Perché mi avete venduto a Kuno? > sillabai, fissando intensamente mio padre.
Era soprattutto da lui che pretendevo una spiegazione.
Lui, il mio eroe.
Lui, il mio boia.

< Akane, come puoi pensare questo? >  domandò Kasumi,  sporgendosi poi oltre il tavolo a cercare un contatto con me.
Mi ritrassi, diffidente.
Serrai le dita tra quelle di Ranma e lui si avvicinò, lasciandosi prendere entrambe le mani.
< Ho sentito tutto. Ogni parola, Nabiki. Ogni parola…papà. > sputai a forza quell’appellativo e lui sembrò ricevere uno schiaffo.
< Akane non… > iniziò, ma qualcun altro lo zittì.
< Credo che a questo punto sia bene fare un po’ di chiarezza e fugare qualsiasi fraintendimento ci sia stato, com’è ovvio. Dolce Akane, puoi spiegare a tutti cos’è di preciso che hai sentito? >
Kuno mi incoraggiò con una mano e aveva un’aria talmente mite e tranquilla che mi fece vacillare.
Avevo imparato col tempo che i colpevoli erano spavaldi, perché l’attacco diretto era da sempre la miglior difesa, ma lui non era semplicemente sicuro di sé e delle sue ragioni; nei suoi occhi scuri c’era altro, un qualcosa che mi atterrì e scaldò il cuore al tempo stesso, come succedeva tanti anni prima.
Sincerità. Dolore. Innocenza.
Tentennai.
< I-io ero dietro la porta e tu di spalle e chiedevi cinquecentomila yen per rimanere con me e papà ha acconsentito, a patto che nessuno ne facesse mai parola perché io dovevo continuare a sentirmi normale e… >
Ingoiai una manciata d’aria che mi sembrò un pugno di sabbia.
Avevo buttato fuori tutto quello che per anni mi aveva lacerato dentro, e infine reso un’assassina, nel peggior modo possibile.
Preparare discorsi su discorsi, variando il tono, la forma, l’inflessione della voce, non era servito a niente, poichè avevo spinto fuori dai denti un ammasso di parole incomprensibili e tremule, appiccicate fra loro da troppe congiunzioni tremule.
Abbassai lo sguardo, temendo di non essere stata chiara o di essermi esposta troppo.
Era giunto il momento della verità e avevo paura, così tanta che a malapena respiravo.
< CHE COSA? SCHERZI? > Ranma ruppe la sua staticità e mi scrutò sbalordito.
Poi pose lo sguardo sulle altre persone riunite attorno al tavolo e le additò una ad una < E VOI? CHE CAZZO VI PASSAVA PER LA TESTA? TU, A CHIEDERE SOLDI! > si rivolse a Kuno con i denti superiori scoperti da un ringhio animalesco e le nocche delle mani serrate, poi fissò mio padre con sdegno < E LEI AD ACCETTARE! >
Sbattè i pugni sul tavolo, rovesciando la sua tazza di thè che gocciolò sul tatami, e poi mi indicò con il palmo della mano rivolto verso l’alto.
< GUARDATELA! GUARDATELA E SPIEGATEMI PERCHE’ DIAVOLO LE AVETE FATTO UNA COSA SIMILE! E VI STUPITE PURE CHE SIA SCAPPATA? SIETE… >
< Ora basta! > proruppe Soun Tendo, sporgendosi appena con le mani aperte posate una su un braccio di Kasumi e l’altra su quello di Nabiki.
Ranma tacque, interdetto e forse un po’ intimidito.
Mi sforzai di guardare in faccia mio padre ed i suoi occhi erano così delusi e amareggiati che ebbi voglia di piangere e chiedere scusa, prima ancora di venire a conoscenza del perché lui si sentiva in diritto di biasimare me.
Ranma mi tirò a sé e fece aderire la mia schiena sul suo petto, stringendomi forte.
Avrei voluto potermi inserire fra le sue costole e usarle come protezione dal male che mi era stato fatto e che non mi veniva risparmiato neppure in quel momento.
< Non ti abbiamo mai venduto. Hai sentito solo una parte della discussione, Akane. > disse Nabiki col suo solito fare pragmatico, dando voce a quello che probabilmente avrebbe detto mio padre se non avesse avuto la gola ostruita dalla commozione.
< Era sufficiente. > soffiai rabbiosa.
< Tu hai ascoltato un malinteso. Io e papà…beh, abbiamo tratto delle conclusioni sbagliate dalla richiesta di Kuno. Lui ci stava solamente chiedendo un prestito per aprire un dojo di kendo tutto suo. >
Annaspai.
Affogai e riemersi in un istante.
Guardai con occhi increduli la bocca di Nabiki che si muoveva e sganciava una bomba, e poi osservai me stessa venir fatta a pezzi dall’esplosione.
Le mie ceneri fluttuarono a mezz’aria, poco sopra il mio naso, per qualche istante e, quando toccarono terra, ero di nuovo integra.
Una piccola fenice, con la pelle tenera e vulnerabile, pigolava solitaria.
Mi resi conto che era una sola parte di me ad essere morta ed era l’assassina, la ragazza con le mani intrise di sangue innocente e le armi al fianco.
Quel che restava era Akane Tendo, l’adolescente insicura che cercava rifugio nelle arti marziali e che, ora, lasciava il fianco scoperto senza timore perché aveva qualcuno accanto che avrebbe saputo proteggerla:
Ranma e una famiglia che non aveva mai smesso di amarla.
< Figlia mia… > mi resi conto che mio padre si era alzato solo quando avvertii il calore del suo abbraccio intorno al collo.
Le sue mani mi strinsero con forza e mi comunicarono una verità sconvolgente, che smosse le lacrime dalla mia gola e le lasciò libere di uscire: ero a casa. Finalmente.
O forse non ero mai andata via davvero.



Vorrei dire un centinaio di cose, tutte diverse.
Farvi sapere quanto le vostre reazioni a questo capitolo mi terrorizzino, ma non lo farò.
Mi siederò e aspetterò i pomodori e incasserò in silenzio.
(In realtà sto pubblicando a lavoro, super di corsa prima di staccare, quindi è per questo che le note in fondo sono striminzite XD).
Un piccolo avviso: non so quanto frequentemente riuscirò a postare d'ora in poi, poichè mi hanno spostato la sede lavorativa e il mio tempo libero residuo adesso si misura col contagocce; senza contare che i nuovi capitoli sono tutti da scrivere...ABBIATE PIETA' <3
Un abbraccio a tutte coloro che sono arrivate fin qui e ancora non hanno intenzione di lasciarmi.
Un grazie non sarà mai abbastanza, ma meglio quello di niente.
G R A Z I E .


Strange

 

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Capitolo 20
*** One step back. ***


You see all my light and you love my dark.

Twentieth. One step back.



Cerco di far entrare questo nella tua testa.
Il sangue è rosso.

Non hai sentito una sola parola di quello che ho detto, non ancora.
Cosa succederà? [...]
Cosa vedo?

Un passo indietro.
Ciò che questo comporta.
Pietra, fatti freddi.
Perché dovremmo
Tutto divide.
Perché dovremmo farlo?
Perché dovremmo andare?
Un passo indietro. [Spudmonster]


E poi c'erano stati abbracci da togliere l'aria nei polmoni, baci su guance rovinate da lacrime, carezze calde e morbide come le coperte di lana ruvida sotto cui ci si ripara nelle notti spaccate dai temporali.
C'erano state mani che si erano cercate e strette indissolubilmente, parole rassicuranti anelate durante gli incubi, e ancora abbracci e domande e risposte vaghe e incolori.
Ciò che era passato al passato sarebbe stato lasciato.
Era troppo ingombrante per entrare in quella finestra affacciata su una piccola famiglia serrata e di nuovo integra.

 

***

< Sei sicura che è quel che vuoi? >
Le labbra di Akane, tinte del nero di quella notte senza stelle o altre luci, trovarono le mie con impaccio.
Eravamo ancora piuttosto goffi e imbarazzati per compiere gesti dolci con naturalezza. Sapevo bene che lei, come me, si sentiva impantanata in quel nuovo sentimento e cercava di non scivolarci sopra e finire a faccia avanti.
Piano piano, però, diventava più facile come apprendere una nuova tecnica marziale complessa e instabile.
Un passo alla volta, un impercettibile miglioramente ora dopo ora.
Tenersi per mano, cercarsi con occhi bramosi, sforarsi con le braccia, le dita, le ginocchia o qualunque lembo di pelle disponibile perchè era quasi insopportabile stare lontani.
E lei bruciava di bisogno più di me. Mi chiedeva continue conferme, certezze e io non gliele negavo mai.
Era strano sentir così vicino qualcuno, tanto da aver pensieri comuni e sorrisi che nascevano senza bisogno di parlare.
Era un legame che alle volte mi spaventava pure, poi però annegavo in lei e il fastidio di quella condizione, che a tratti mi pareva così stucchevole che controllavo i denti per assicurarmi di non avere carie, spariva.
Akane soffiò un sì tremulo ed io abbracciai il suo corpo nudo con fermezza.
Eravamo nella sua stanza, al buio, e ci eravamo uniti di nuovo, più volte, senza i dolori, il tentennamento e la foga della sera precedente.
< Li hai appena ritrovati... > provai a farla ragionare, ma lei scosse la testa decisa e la poggiò poi sul mio petto.
< Abbiamo una missione da compiere. Se mi concedo il tempo di sentirmi di nuovo una figlia o una sorella, avrò molto di più da perdere. Devo ancora metabolizzare ed è un bene perchè se l'avessi già fatto non potrei andarmene. Rimarrei qui, Ranma. Lo capisci? >
La mia mano scivolò sulla curva della sua schiena scoperta, velata dal lenzuolo solo sul fianco destro che poggiava sul futon.
< Lo capisco, ma forse vedi la faccenda dalla prospettiva sbagliata, sai? > mormorai, portandomi un braccio dietro la testa.
Ripensai alle lacrime che aveva versato Kasumi in silenzio quando la verità era saltata fuori come un bambino dispettoso; alle mani di Nabiki che tremavano e all'abbraccio quasi disperato che aveva riservato ad una sorella che non aveva mai perso davvero; alle dita emozionate di Soun Tendo che percorrevano il viso della figlia per far combaciare i ricordi col presente e annullare il tempo sprecato in vuoti inspiegabili e cercai di esporre ad Akane il mio punto di vista, senza tuttavia darle a vedere quanto il ricongiungimento della sua famiglia mi avesse scosso.
Il rapporto che avevo col mio vecchio era basato su grugniti al mattino, spintoni e calci per accaparrarsi l'ultima ciotola di riso, attacchi e difese per testare la resistenza, saponette lanciate alla nuca per distrarre l'altro e potersi così chiudere in bagno per primi e finire tutta l'acqua calda; sorrisi, abbracci, pianti muti erano azioni utopiche per me.
Al massimo, potevo ogni tanto averle intraviste nella vita di Ukyo, ma non mi avevano mai colpito granchè.
I Tendo, invece, erano diversi; erano la manifestazione di quello che nella mia vita era sempre mancato, ma di cui non avevo mai sentito il bisogno prima d'imbattermi in Akane.
Un sentimento a cui non osavo neppure dare un nome, tanto mi turbava ciò che comportava.
< Più che come una debolezza, un qualcosa da perdere, io credo che tu debba vedere la tua famiglia come una sicurezza, un qualcosa a cui tornare. La ragione per rimanere viva. > mormorai.
Akane parve assimilare le mie parole e trovarle giuste, poichè non obiettò nulla e non m'insultò per la stupidità con cui avevo trattato un argomento delicato a me del tutto estraneo.
< Anche tu hai qualcosa a cui tornare, Ranma. > parlò con le labbra premute sul mio torace e non alzò mai il viso verso di me.
Che messaggio mi stava lanciando, mascherandolo con un'affermazione all'apparenza casuale?
Avevo capito che ogni volta che Akane non mi guardava quando dichiarava qualcosa era perchè si stava esponendo. E temeva di essere ferita.
La maggior parte delle volte che era successo, io ero stato così idiota da infliggerle il colpo che lei si aspettava; forse, proprio a causa di ciò, quella che stava conciata peggio era lei, dopotutto.
Adesso però, con quel nuovo equilibrio fra noi da tenere in piedi, ero ben deciso a cambiare le cose...o perlomeno a rovinarle il meno possibile.
Che tipo di risposta si aspettava, quindi?
Voleva una qualche genere di promessa? Mi stava domandando se era da lei che sarei tornato o se invece al mio villaggio, alla mia vecchia vita?
Per qualche inspiegabile ragione, una fitta mi infiammò il petto alla sola idea di separare volontariamente le nostre strade. E non era la cicatrice.
Era più su, spostata verso sinistra, nel punto in cui lei poggiava la testa.
< Sì, hai ragione. Ed è per questo che ce la faremo, Akane. Torneremo. Entrambi. > dissi piano, con quanta più sincerità scovai in me.
Non aveva senso illuderla o mentire.
Sarei uscito vittorioso da quello scontro e poi sarei passato al mio villaggio per sistemare i conti in sospeso.
Quello sarebbe stato lo scopo che mi avrebbe sorretto nel covo di Haranobu.
Ma Akane si tese sotto le mie dita ed io capii di aver proferito la frase sbagliata o, perlomeno, una diversa da quella che avrebbe voluto sentire ed era già tardi per rimediare.
Lei era di nuovo lontana da me, trincerata dietro vecchie difese che ogni tanto ripescava dal fondo dell'anima.
Tuttavia non si scostò e non mi mostrò la sua delusione.
Era un passo avanti o uno indietro?
Riusciva a passare sopra alla mia scarsa sensibilità o tornava a chiudersi come un riccio spaventato e circondato di aculei appuntiti?
< Ehi, io intendevo... >
< Dormi, Ranma. Ci muoveremo poco prima dell'alba. Ho impostato la sveglia. > m'interruppe dura, voltandosi dall'altro lato e dandomi la schiena.
Sospirai.
Quello era decisamente un passo indietro.


Akane mi distanziava di qualche metro: le sue scarpe macinavano il terreno con impazienza e mi lasciavano indietro di proposito.
< Avresti dovuto salutarli. > esclamai ad alta voce e lei mosse la mano insofferente, zittendomi.
Erano ore che si comportava così ed io stavo raggiungendo il mio limite di sopportazione.
Quando la sveglia era suonata, l'avevo trovata già in piedi con i suoi vecchi vestiti neri da assassina addosso.
Mentre io m'infilavo qualcosa non troppo largo di suo padre, lei aveva preparato uno zaino con delle provviste e poi mi aveva aspettato fuori con le braccia incrociate e lo sguardo fisso sullo stagno.
Le avevo preso il polso per farmi guardare in faccia, ma Akane aveva girato il viso verso il cielo che sfumava in un rosa pesca e mi aveva semplicemente detto che era ora di andare.
E dopo aver varcato l'ingresso del dojo Tendo in senso contrario, il silenzio ci aveva accompagnato come un altro viaggatore, senza lasciarci più.
Mi fermai d'improvviso in una radura e attesi che lei si accorgesse che non la stavo seguendo più.
Un attimo dopo era di profilo e mi fissava con uno sguardo curioso e all'erta.
< Sei stanco? Hai bisogno di riposo? > chiese pratica, scrutando il mio viso alla ricerca di sintomi di malessere.
< Ho bisogno di sapere che diavolo ti prende. > l'aggredii infuriato, incapace di sostenere oltre quella situazione con lei.
Non era più un passo a dividerci. Si erano moltiplicati in modo esponenziale in breve tempo e, con quell'andatura, presto saremmo tornati al rapporto ostile che avevamo quando quella stessa strada ci aveva portato a Nerima invece che allontanarcene.
< Nulla. Voglio sbrigarmi. Prima andiamo, prima torniamo. Finiamola in fretta. > sbottò dura ed io mi chiesi a cos'era che si riferiva: al viaggio o a noi.
- Merda, da quant'è che non penso più a me e lei come individui singoli? -
Si voltò per rimettersi in marcia, ma mi sporsi di slancio e le bloccai un polso con fermezza.
< Guardami, Akane. > ordinai duro.
< Lasciami, Ranma. > replicò lei in un ringhio.
< No. > risposi quindi io.
< Sì. > ribattè cocciuta e strattonò il braccio.
< Cos’ho detto per farti allontanare di nuovo? Maledizione, possibile che non riesco mai ad essere all’altezza delle tue aspettative?! > sbottai esasperato, avvicinandola a me.
< Niente. > soffiò piano lei e i nostri nasi si sfiorarono.
< E allora perché mi tratti freddamente? Cazzo, noi abbiamo fatto… fatto… >
< Lo so. > Akane chiuse un attimo le palpebre. Tremava < Sto solo cercando di proteggermi. >
Mi paralizzai, interdetto.
< Da cosa? > domandai, allentando la stretta sul suo polso prima di farle comparire dei lividi.
Ne mostrava già uno all’attaccatura tra collo e spalla e ne ero pentito: non l’avevo fatto di proposito.
Anche se mi sarebbe piaciuto che Kuno lo vedesse: quella era la dimostrazione che Akane ed io ci appartenevamo.
Lei rimase in silenzio, con gli occhi chini sulla mia bocca, per paura, forse, che vi leggessi la risposta che si rifiutava di fornirmi.
La scrollai piano per le spalle, intimorito da quel suo straziante silenzio.
< Da te, Ranma. > disse infine in un mormorio quasi incomprensibile.
La lasciai andare, ustionato da tre parole cocenti come le scintille che spesso schizzavano tra i ciocchi di legno di un falò.
< Io non ti farei mai del male. > mormorai e lei si strinse nelle spalle.
< Non di proposito, forse. Ma te ne andrai, tornerai alla tua vita e io… >
< No! Che cosa stai dicendo. Non è… >
Non riuscii a concludere la frase.
Gli occhi tetri di Akane si sgranarono di colpo. Gridò qualcosa che non capii e si buttò contro di me, atterrandomi.
Caddimalamente di schiena, sul terreno duro e cosparso di pietre più o meno grosse e aguzze, rantolando dal dolore.
Akane, sopra di me, non mi guardava: la sua attenzione era calamitata da qualcosa che non vedevo, dietro di me.
Imprecò e rotolò svelta su un fianco, tastandosi la cintura alla ricerca di un’arma che non trovò.
< Cosa diavolo…? > esclamai stupito, poi vidi la freccia che ancora dondolava nella corteccia dell’albero in cui si era conficcata e sbiancai: io ero in quel preciso punto solo un secondo prima.
Akane mi aveva salvato di nuovo.
La sentii inveire contro se stessa alla mia destra e mi sollevai sui gomiti, giusto in tempo per veder sfrecciare un pugnale sopra il mio naso con un sibilo.
E poi un gemito soffocato, il rumore di stoffa strappata e carne lacerata e, infine, un tonfo cupo.
Tornai a guardare Akane e imprecai sottovoce.
Ryoga le era arrivato accanto, senza che io nemmeno l’avessi sentito, e ora le tendevano una mano per aiutarla ad alzarsi.
Akane accettò e poi venne di verso di me, che mi rimisi in piedi ignorando la sua offerta di sostegno.
< Che ci fai ancora da queste parti? > apostrofai lui in modo arrogante e furioso.
< Prego. Ho solo impedito che veniste infilzati come maialini allo spiedo da quello lì. > Ryoga indicò con indifferenza un punto poco lontano ed io seguii curioso la direzione del suo indice.
Fra l’erba secca della radura, quasi al centro, era disteso un uomo che sembrava rivestito d’ombra.
Non si vedevano che gli occhi scuri sgranati rivolti alle fronde degli alberi sopra di lui ed il pugnale, che aveva quasi trafitto anche me nello scontro con Ryoga, che svettava sul suo addome.
< L’hai ucciso tu? > domandai stupidamente.
< Sì. La freccia che ti avrebbe aperto la testa a metà come un frutto maturo era sua. > spiegò con fare annoiato, incamminandosi per andare a riprendersi l’arma.
< Era della tua gilda? > chiesi quindi ad Akane, che era rimasta in silenzio a fissare Ryoga con occhi increduli.
Lo stomaco mi si contrasse con una fitta fastidiosa.
< Sì. E non sarà il solo sulle nostre tracce. E’ bene muoversi, Ranma. > mi prese per un gomito e mi sospinse in avanti, come desiderosa di mettere più distanza possibile fra lei e il defunto membro della sua setta, ma poi mi lasciò camminare solo.
Rimase indietro a parlare con Ryoga.
Mi aveva allontanato cosicchè non sentissi? Perché?
La fitta si trasformò in dolore puro.
< Akane! Andiamo! > la richiamai e, con stupore, vidi il suo interlocutore annuire per lei e venire verso di me passandole un braccio sulle spalle.
Quando furono davanti al mio naso, dovetti ricorrere a tutto il mio autocontrollo per non assestargli un pugno in faccia come avevo fatto con Kuno.
Lei era mia.
< Che cazzo significa? > aggredii Akane, che non face in tempo a rispondermi: lui fu più svelto.
< Significa che ci ho ripensato e vengo con voi. Eravate in difficoltà con uno solo di noi, figurarsi una setta intera. E comunque pensavo sapessi proteggerla meglio, Ranma. > mi stuzzicò con un sorrisino, incamminandosi e lasciandomi indietro interdetto.
Di passi, fra me e loro due, ce n’erano troppi e aumentavano.
Akane era sempre più distante.
 

Avevo già accennato che ora che i capitoli vengono scritti di volta in volta, gli aggiornamenti saranno meno frequenti, ma ci saranno, non temete.
Sono rimasta sorpresa dal fatto che nessuna abbia creduto che davvero potesse trattarsi di un malinteso fra Akane e i Tendo.
Inizialmente io avevo pensato fosse davvero così.
Adesso, forse, ho cambiato idea. Chi lo sà...
Torniamo nel vivo della storia, all'azione e ad una old/new entry che non renderà certo facili le cose al nostro caro Ranma.
E cos'è che avrà ferito Akane al punto di farla allontanare?
Spero di sentirvi ancora tutte, non mi abbandonate proprio ora che ho più bisogno di voi.
Un forte abbraccio. A presto.

Strange.
Ps recupererò le risposte alle recensioni che mancano quanto prima.

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Capitolo 21
*** Fireworks. ***


You see all my light and you love my dark.

Twenty-first. Fireworks.
 



Sai che c’è ancora una possibilità, perché c’è una scintilla in te.
Devi solo accendere la luce e lasciarla brillare. [Katy Perry]


< Alla tua destra, Ranma! > gridò Ryoga, lanciandomi il suo pugnale perchè lo usassi contro l'avversario che mi stava venendo incontro a passo rapido e testa china.
Sembrava un toro inferocito in procinto di infilzare con le corna chiunque gli si fosse parato davanti.
Lo schivai all'ultimo e, con un movimento fulmineo, girai su me stesso, piantandogli l'arma di Ryoga fra le scapole.
Ansante, gettai un'occhiata ad Akane e la vidi affondare la sua spada fino all'elsa in un altro sicario e poi estrarla con una faccia disgustata.
Ryoga, riprendendosi la freccia della balestra dal nemico che aveva abbattuto, venne verso di me perchè gli riconsegnassi il pugnale.
< Vedo che gli allenamenti a cui ti stai sottoponendo iniziano a dare i primi frutti. Ottimi riflessi. > si complimentò lui, assestandomi una pacca amichevole sulla schiena.
Lo guardai perplesso, faticando a stare dietro ai suoi sbalzi d'umore.
Da quando, un paio di giorni prima, si era unito a me e ad Akane, Ryoga non aveva fatto altro che pungolarmi con battutine sarcastiche che avrei voluto ricacciargli in gola a suon di pugni.
Poi, però, aveva deciso di insegnarmi qualche trucchetto da assassino e da allora erano sempre meno le volte in cui mi scherniva e molte di più quelle in cui si comportava quasi come fossimo fratelli.
Gli sorrisi con cortesia e poi dirottai la mia attenzione su Akane, che stava ripulendo la lama della spada dal sangue con una foglia particolarmente grande di un albero alle sue spalle.
< Ehi, tutto bene? >
Sobbalzò impercettibilmente alla mia domanda e annuì distratta.
In quei due giorni di marcia ci eravamo scambiati poche parole smozzicate e sempre meno sguardi o gesti complici.
E non era solo a causa di Ryoga: lei faceva di tutto per non starmi troppo vicino.
Sembrava quasi che io fossi un fuoco scoppiettante da cui tenersi alla larga: le fiamme non erano propriamente le sue migliori amiche.
< Dobbiamo muoverci; sta di nuovo calando il sole. Col buio non è prudente spostarsi. Accampiamoci in un'area facilmente difendibile su ogni lato e poi, come al solito, organizziamoci per i turni di guardia. > decise Ryoga con fare pratico, precedendoci in direzione nord-est.
< Akane, aspetta. > le presi un polso e lei rimase di spalle, le dita contratte e la mascella tesa.
La dolcezza nei nostri contatti, acquisita in casa Tendo, si era dispersa nell'aria come vapore.
< Dobbiamo parlare. > proseguii testardo.
Non sopportavo la sua lontananza.
Detestavo i suoi silenzi.
Odiavo desiderare di baciarla ogni minuto e non poterlo fare per non essere respinto.
< Non è il momento. > disse, gelida.
Si divincolò dalla mia presa e seguì Ryoga.
E quelle sue parole distaccate mi entrarono nel cuore a forza, come schegge di ghiaccio.
Avevo freddo e sapevo che solo affondando nel suo calore avrei potuto star meglio.
Imprecai a denti stretti e mi incamminai dietro di loro, controvoglia.


C'era un gocciolare ritmico che rimbalzava fra le pareti di quell'ennesima caverna in cui ci eravamo rifugiati per la notte.
Mi ricordava quello della cella in cui Haranobu mi aveva rinchiuso dopo il mio tradimento.
Iniziai a contare i "plic" che sentivo quasi senza accorgermene, stringendo sulle spalle la casacca che Ryoga mi aveva messo addosso prima di coricarsi.
Fuori, la quiete della notte era totale.
L'unica luce era quella della luna e di una manciata di stelle fievole sparse qui e lì.
Un filo di vento smuoveva a tratti i rami più piccoli ed elastici degli alberi davanti a me ed il silenzio era spaccato, di tanto in tanto, solo dal verso di qualche animale notturno.
Tesi le orecchie e colsi un grugnito emesso da Ryoga, che nel sonno si era voltato su un fianco, e mi morsi l'interno della guancia.
Cosa stavo facendo?
Dove avrebbe condotto quella missione suicida?
Davvero mi illudevo che potessimo farcela? Che, anche raggiungendo il covo della gilda, saremmo riusciti ad arrivare fino ad Haranobu?
C'erano schiere e schiere di assassini altamente addestrati posti a sua difesa e noi eravamo soltanto in tre.
Chiusi gli occhi in un sospiro e rievocai alla mente il volto delle mie sorelle e di mio padre, i loro abbracci al sapore di casa, i loro sorrisi amorevoli e le loro lacrime intrise di gioia.
Cercai di applicare il consiglio che Ranma mi aveva dato prima che partissimo, ma non ci riuscii.
La verità era quella che avevo dipinto io: loro non erano una forza, ma una debolezza per me.
Se durante lo scontro mi fossi lasciata distrarre dai miei sentimenti, sarei stata spacciata.
Non potevo permettere che l'amore per la mia famiglia o chiunque altro mi rendesse vulnerabile.
Per affrontare dei sicari, dovevo tornare ad esserlo io stessa.
Dovevo mettere a tacere l'Akane -figlia, sorella, innamorata?- appena riemersa.
E dovevo farlo in fretta.
Al calare del prossimo giorno, saremmo giunti a destinazione.
< E' il mio turno. >
Sobbalzai, avvertendo il respiro di Ranma vicino l'orecchio destro.
Non l'avevo sentito uscire dal sonno, nè muoversi verso di me.
Migliorava di giorno in giorno.
Se avesse saputo di cosa era capace, Haranobu gli avrebbe sicuramente offerto di arruolarsi fra le sue fila.
< Vai a riposarti. Ci penso io, qui. > proseguì, sistemandomi meglio sulle spalle la giacca nera.
< Non sono stanca, dormi un altro po'. > provai a suggerirgli, cercando di reprimere il tremito delle mani intrecciate in grembo.
Sperai che non si accorgesse che avevo la pelle d'oca.
Ranma, per tutta risposta, scivolò seduto accanto a me e appoggiò le braccia dietro di sè, come se dovesse mettersi comodo per assistere ad un qualche spettacolo.
Senza volerlo, fissai il suo viso bagnato di luce lunare e ripensai alla notte in cui mi ero introdotta nella stanza degli ospiti in cui lui riposava.
E, di conseguenza, arrossii pensando a cosa era successo dopo.
< Cosa c'è? > mi chiese, senza guardarmi < E non dire niente. >
< Nulla. > replicai, con l'ombra di un sorriso fra le labbra.
L'occhiataccia che mi indirizzò mi costrinse a tornare seria.
< Siamo vicini, Ranma. >
< Hai dei ripensamenti? Un po' di paura? >
< Non so. Meno di un mese fa non avrei mai immaginato che sarebbe successo tutto questo. Sto andando ad uccidere l'uomo che in un certo senso mi ha salvato. Mi domando se non ci sia un altro modo. > sospirai e assunsi la sua stessa posizione, facendo scivolare a terra la casacca di Ryoga.
Le mie dita sfiorarono appena quelle di Ranma.
< Sai anche tu che non si fermerà se non lo fermiamo noi. Pensa a tutti quelli che abbiamo ucciso in questi giorni solo perchè ci erano stati messi alle calcagna da Haranobu. Io non avevo mai tolto la vita a nessuno, ma sono stato costretto a farlo nel momento in cui ho dovuto scegliere fra me e il mio potenziale assassino. Lui ne sforna uno nuovo al giorno. La sua è una fabbrica, Akane. Che alternative ci sono? Risparmiandolo, noi non saremo mai al sicuro. Non vuoi tornare a casa dai tuoi e non doverti più preoccupare che qualcuno ti dia la caccia? > concluse il suo discorso con enfasi, arrischiandosi a gettarmi un'occhiata fugace.
< E tu? > mi scappò di bocca.
Non volevo tornare sul discorso affrontato prima di partire, che mi aveva fatto riesumare la vecchia corazza, ma non avevo saputo tenere a freno la lingua.
Forse avevo agito troppo avventatamente, mettendo il broncio come una bambina, piuttosto che sviscerare meglio l'argomento.
La risposta di Ranma, in fondo, era stata concisa e poco chiara.
Che io avessi capito quel che volevo?
Che avessi cercato un pretesto per allontanarlo da me, in modo che nemmeno i sentimenti, che indiscutibilmente provavo per lui, mi indebolissero?
Mi resi conto che quelle domande, erano le risposte di cui avevo bisogno.
< Pensavo non volessi parlarne... > azzardò lui, incrociando le lunghe gambe di fronte a sè.
< Forse è arrivato il momento. Domani sera potremmo essere già morti e, inoltre, sto cercando di vederla dalla tua prospettiva: "pensare alle persone che ami come un qualcosa a cui tornare, non da perdere". >
Conclusi la frase e mi maledissi mentalmente.
Mi morsi il labbro inferiore con ferocia, trattenendo il respiro in attesa di una sua reazione: da quella avrei compreso la portata dell'esposizione a cui mi ero costretta.
Cosa gli avevo implicitamente confessato? Che lui era una di quelle persone?
< Perchè mi eviti da quando siamo partiti? > Ranma si voltò verso di me, il viso impassibile e la sua bocca così vicina alla mia che, solo parlando, avrei potuto baciarlo.
< Perchè sto cercando di farmi meno male possibile, Ranma. Non sono mai stata brava a sopportare il dolore, soprattutto se improvviso. Preferisco un distaccamento graduale. > mormorai e le mie labbra sfiorarono le sue.
Lui mi fissò in silenzio, poi quando aprii bocca per dire ancora qualcosa giusto per non macerare in quel vuoto di parole, lui me la richiuse con la sua.
Mi baciò con la forza della sua incomprensione e della rabbia che scaturiva da essa.
Mi baciò e sembrò una punizione.
Mi baciò ed io mi ritrovai nuovamente nuda. La corazza era esplosa in un numero incalcolabile di pezzi non appena lui mi aveva sfiorato.
Non avrei potuto indossarla più. Mai più.
< Per quale diavolo di motivo vuoi allontanarti da me? Io non... non posso ferirti. Non ci riuscirei mai. Non voglio. Io... > boccheggiò in difficoltà, fronte contro fronte.
Fui io a sporgermi, allora, per farlo tacere.
Gli morsi il labbro inferiore e poi lo baciai.
Lo baciai con disperazione e la forza dell'incapacità di parlare che la faceva scaturire.
Lo baciai e sembrò una richiesta di amnistia.
Lo baciai e mi sentii più forte che mai, anche senza armatura e barriere protettive di alcun genere.
Non ne avrei avuto più bisogno. Mai più.
< Lo so che non lo faresti intenzionalmente, ma... >
Ranma scosse la testa con veemenza, accarezzandomi con dolcezza la guancia sfigurata.
< Dimmi cosa. Cosa ti ferirebbe, Akane. Giuro che... >
< Non è un qualcosa che puoi controllare o da cui puoi girare alla larga. > sussurrai, gettando uno sguardo preoccupato verso Ryoga, che aveva sbattuto un piede contro una roccia nel sonno.
< E cos'è, allora? Perchè devi sempre cercare una scusa, un qualcosa che non va o potrebbe non andare bene per cacciarmi via? > sibilò, di colpo furente.
Tornai a guardare il cielo scuro alla ricerca di nuvole minacciose, ma in quel momento non ce n'erano.
Era uno specchio di quel che serbavo nel petto: calma, quiete totale, senza nubi cupe di ansie o paure.
Sospirai.
< Perchè tu tornerai da Ucchan e da tuo padre, io dalla mia famiglia. Quando tutto questo sarà finito io avrò solo il cuore in briciole. > dissi infine, tutto d'un fiato.
Forse temevo di tralasciare qualcosa per strada se non avessi buttato tutto fuori con violenza. Pensavo che se mi fossi concessa anche solo una piccola pausa per riprendere fiato, quella confessione si sarebbe rituffata nella mia gola e lì sarebbe rimasta definitivamente.
< Guardami. > mormorò lui, in risposta.
Pose un dito sotto il mio mento e cercò di farmi voltare.
< Akane, guardami! > ripetè deciso ed io allora lo accontentai.
Mi spostò i capelli dalla fronte con le dita, che tremavano come le mie, e mi baciò la tempia.
< Devi imparare a sviscerare subito quello che non va, capito testona? >
< Ehi! > mi finsi offesa e tentai di morderlo.
Ranma si scansò, una leggerezza, che sembrava euforia e sollievo, gli stava schiarendo le iridi azzurre.
< Io tornerò al mio villaggio, sì, perchè devo sistemare alcune faccende... > m'impedì di voltarmi e la sua mano, da sotto il mento, scivolò sulla guancia in una carezza morbida. < ...ma tu verrai con me. Non ho intenzione di lasciarti. Quando ho detto a Kuno che sei mia, non stavo scherzando. >
< Ranma... >
< Appartenere a qualcuno significa che... >
< ... che l'altro provi lo stesso. > terminai per lui, dirigendo il discorso dove volevo io.
Sapevo che non era quello che voleva dire, ma il cuore m'era scoppiato nel petto come un fuoco d'artificio e avevo bisogno di dirottare la conversazione su un terreno dove sapevo muovermi.
< Mi stai chiedendo se io sono tuo? >
Annuii e attesi con trepidazione, ma quando lui aprì bocca per rispondere non fu sua la voce che udii.
< Ehi, piccioncini, avete finito di tubare? Qui c'è qualcuno che cerca di dormire! Andate in mezzo ai cespugli a scambiarvi frasi sdolcinate! > ci sgridò Ryoga, girandosi su un fianco e arraffando la casacca che io avevo lasciato cadere.
Se la buttò addosso, coprendosi anche il viso, e a me venne da ridere.
Anche se sarei dovuta avvampare d'imbarazzo.
Anche se domani a quell'ora potevamo essere tutti e tre morti.
Risi, quindi, proprio e soprattutto per quel motivo.
Ranma mi pizzicò il naso in modo giocoso poi si alzò d'improvviso, tendendomi una mano.
Lo guardai interrogativa e lui sfoderò un'espressione maliziosa e birichina che accese la miccia di un secondo gioco pirotecnico fra le mie costole.
< Alzati, Akane. Andiamo a fare quel che dice lui. >
Risi di nuovo e lasciai che mi aiutasse a mettermi in piedi.
Dopodichè si diresse verso gli alberi ed io lo seguii.

 



PERDONOPERDONOPERDONOPERDONOPERDONO!
Lo so, lo so che è passato un eone da quando ho aggiornato l'ultima volta, ma 1) mi ero bloccata su come proseguire 2) non ho più tempo nemmeno per respirare 3) ho perso il file originale, finito due settimane fa, quindi quello che avete letto è una seconda stesura del capitolo.
So che bramate il mio scalpo, ma mi sono impegnata a rispondere a tutte le recensioni prima di pubblicare. Inoltre non mollo, sto proseguendo la storia... non è un buon motivo per tenermi in vita ancora un pochino? *-*
Credo che siamo quasi alla fine, comunque.
Non vorrei trascinarla più del dovuto questa storia.
Tenete sempre a mente che i personaggi sono OOC e questa è una AU, perchè immagino che molte di voi avranno storto il naso sul pezzo finale di questo capitolo.
Però c'è da capirli hanno speso giorni a tenersi il muso e poche ore dopo potrebbero morire; chi non approfitterebbe al meglio del tempo rimastogli?
Io lo farei.
Voi?
Un grazie gigantopico a chi ancora stringe i denti e mi s(U)opporta.
Vi devo tutto.
Un forte abbraccio, a presto (spero XD).
Buone vacanze a tutte voi.
Love U.

Strange

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Capitolo 22
*** This is war (Part one). ***


You see all my light and you love my dark.

Twenty-second. This is war (Part one).
 



A destra. A sinistra.
Combatteremo fino alla morte, fino al limite della Terra.
E' un nuovo mondo coraggioso, dall'ultimo al primo . [30 Second to Mars]

 
Il pugnale penetrò fra le scapole con un rumore di stoffa strappata e carni lacerate.
La sentinella, vestita dello stesso colore di quella notte buia che ci spalleggiava, crollò al suolo silenziosamente, quasi avesse ricevuto un addestramento speciale persino per morire senza neppure un fruscio.
Dietro di me, Ryoga si stava occupando delle guardie poste a sud dell'entrata del covo della gilda con la sua balestra.
Udii i tonfi dei corpi privi di vita che cadevano e mi voltai verso di lui, trovandolo con un'espressione soddisfatta in viso.
Ranma, al suo fianco, osservava invece interdetto le mie mani sporche del sangue del guerriro che avevo ucciso.
Il primo, dopo un tempo che sembrava lungo una vita intera.
Quasi mi pareva di non essere mai stata un'assassina prima d'ora... eppure ricordavo chiaramente gli insegnamenti di Haranobu, specialmente quello in cui mi mostrò il punto debole, sulla schiena, con cui si poteva sia tranciare la colonna vertebrale che trapassare il cuore.
Insegnamento che avevo appena messo in pratica sotto gli occhi di colui che mi aveva restituito quanta più innocenza e umanità avessi mai sperato di riacquistare. Ranma.
Mi sentii colpevole e indegna, così chinai lo sguardo.
< Considerando che da Nerima a qui abbiamo già fatto fuori una ventina di membri della gilda, che le sentinelle notturne sono tutte appostate sul versante opposto -quello più vicino ai villaggi- e che molti sicari saranno fuori per un qualche incarico, abbiamo buone probabilità di riuscire ad arrivare ad Haranobu. Siamo veloci, silenziosi ed abili: lo prenderemo di sorpresa! > dichiarò fiero Ryoga, sfilando le frecce dai corpi esanimi ai suoi piedi: ne aveva poche e doveva conservarle, perchè gli sarebbero sicuramente servite tutte.
Mi sforzai di non incrociare gli occhi blu di Ranma per non leggervi dentro riprovazione e ribrezzo.
Eravamo in missione e quella non era altro che una guerra, ma quello non mi giustificava.
Avevo ricevuto un addestramento che aveva fatto di me un sicario, ma proprio perchè sapevo come uccidere e come non farlo mi sentivo in torto.
C'era davvero bisogno di spezzare altre vite per vincere? Non ne erano state mietute a sufficienza in tutti quegli anni dal macellaio che rispondeva al nome di Haranobu?
Io ero in grado di ferire i miei ex compagni abbastanza gravemente di impedirgli di intervenire o dare l'allarme, ma non era così che avevo agito.
Non appena ero arrivata di fronte al mio avversario, il mio corpo si era mosso da solo, più veloce del cervello che non aveva potuto così bloccare la mia mano prima che affondasse la lama nel punto giusto.
Che, in quel caso, era quello sbagliato.
< Akane, tu cosa ne dici? > Ryoga mi riscosse da quelle riflessioni lugubri con un'esortazione a rispondere ad una domanda che non avevo udito.
< Ha chiesto se pensi sia meglio dividerci. > ripetè per lui Ranma e la sua voce fece fare una giravolta al mio cuore.
Riposi il pugnale nella guaina senza alzare gli occhi e scossi il capo.
< Finchè ci è possibile, rimaniamo uniti. > sentenziai, aprendo la botola ai miei piedi e saltandovi dentro.
Mi accolsero il familiare -ma quasi dimenticato- abbraccio di tenebra e l'odore stantio di muffa, che per anni mi aveva fatto pensare a quel posto come "casa".
Atterrai silenziosamente sul terriccio perennemente umido dei cunicoli più in superficie e attesi che Ryoga e Ranma mi imitassero.
< Dobbiamo fare un salto in armeria, Akane. Voi due avete una sola arma a testa. > mi fece notare il mio ex comandante, stringendomi il gomito con forza.
Sembrava quasi che volesse trasmetteremi un messaggio muto attraverso le sue dita strette sul mio braccio. Evitai di chiedermi cosa volesse dirmi per non deconcentrarmi: di qualunque cosa si trattasse, avrebbe potuto aspettare.
Annuii e mi diressi sicura a sinistra del bivio che avevamo davanti, con loro due al mio seguito come parte della mia stessa ombra.
Le torce fievoli, che illuminavano la gallerie, toglievano ossigeno all'aria ed in pochi minuti una patina di sudore calò sul mio viso.
Mi pareva di soffocare, lì sotto. Non ero più abituata a quella vita da talpa.
Avrei voluto che Ranma mi prendesse per mano e mi desse coraggio, ma non osavo chiederglielo.
Non volevo mi vedesse vulnerabile. Non volevo che sapesse quanto mi aveva resa dipendente da lui.
< Bel posticino, eh... > commentò poco dopo e la sua voce venne assorbita dalle pareti di terra come fossero fatte di spugna.
< Zitto, idiota! Vuoi farci scoprire? > lo ripresi in un sibilo, senza voltarmi, evitando una radice sporgente.
< Avete sentito? > soffiò Ryoga d'improvviso, fermandosi.
Non gli risposi neppure, in quanto già scattata in avanti per reagire: afferrai le torce intorno a noi e le spensi a terra velocemente, creando una porzione d'oscurità in cui nasconderci.
Ci appiattimmo tutti e tre sulle pareti ed aspettammo di sentire il fiato affannato delle guardie, messe in allarme dall'uscita malsana di Ranma di poco prima.
A giudicare dai passi erano almeno cinque ed il clangore delle spade faceva presupporre che fossero armati fino ai denti.
Chiusi gli occhi un secondo, presi un respiro profondo, che aveva il retrogusto di terra bagnata e vermi, e proprio quando fui sul punto di emergere dalle tenebre, Ranma mi sfiorò la mano.
In quel momento mi vennero in mente le sue parole - qualcosa a cui tornare, la ragione per rimanere viva - e, con più decisione, mi scagliai addosso al primo assassino che entrò nel buio.
Brandiva un'ascia come un macellaio in procinto di abbattere un bue e doveva essere un novizio, perchè la menava nell'aria un po' a caso, cercando di seguire i miei spostamenti.
Dall'alto, piovvero frecce.
Se di Ryoga o di un altro sicario, munito di arco, non avrei saputo dirlo.
Mentre schivavo l'ennesimo fendente, udii un gemito soffocato, poi qualcuno crollò riverso al suolo, facendo inciampare il mio avversario.
Ne approfittai, cercando di non chiedermi chi fosse il caduto, e affondai il pugnale nel suo addome.
Nella cortina nera che ci avvolgeva, i miei compagni ancora combattevano: i miei occhi, abituati a vedere anche di notte, individuarono le iridi zaffiro di Ranma e la bandana gialla di Ryoga da cui non si separava mai.
Sollevata, mi buttai fra loro e infilzai due nemici con altrettante frecce ripescate a terra.
Pochi attimi dopo, anche Ryoga e Ranma misero k.o i loro avversari nel più totale silenzio.
Avevamo fatto un piccolo errore di calcolo iniziale, constatai: erano sei, non cinque.
Ansanti, ci guardammo e, con un cenno del capo che stava a significare "ben fatto", riprendemmo il cammino da dove l'avevamo interrotto, diretti all'armeria.
Mi arrischiai a guardare i miei vestiti, che sentivo bagnati, e li trovai chiazzati di un liquido scuro, che sulle mie dita era rosso, ma sul tessuto pece non si vedeva.
Sarei mai riuscita a lavarlo via? A toglierlo anche sotto gli strati di pelle che non si riuscivano ad individuare ad occhi nudo: lì, dove ogni goccia di sangue che non mi apparteneva tesseva trame fitte di un tatuaggio indelebile e macabro.
Un affresco cremisi che portava il nome delle mie vittime. Tutte quante.
< Akane, attenta! > gridò Ryoga d'improvviso e, quando tornai a guardare dritto davanti a me, vidi venirmi incontro la punta della lama di uno spadone a doppia impugnatura fin troppo familiare.
Mi sfiorò appena, aprendo un graffio superficiale sulla mia guancia sinistra, e si ritrasse, come indispettita di aver mancato il bersaglio: Ranma, mentre l'altro urlava, mi aveva afferrato per un gomito e spostato di lato.
< Comincio a prenderci gusto a salvarti. Se fai più spesso la fanciulla indifesa in pericolo, io potrò indossare più di frequente la mia scintillante armatura da cavaliere. > mormorò lui, al mio orecchio.
Gli assestai una gomitata nel costato e assottigliai lo sguardo: Maiko era di fronte a me e ringhiava, come un cane posto a difesa.
Era nel centro della sala adibita ad armeria e mai mi era parsa più spietata:
teneva i piedi ben piantati nel terreno, l'arma poggiata sulla spalla destra mentre  sull'altra cadeva molle la sua treccia rossa; lo sguardo fiero brillava di collera.
< Boia. > Ryoga si rivolse a lei e la schernì con quello che pareva un saluto derisorio.
< Capitano. Assassina. > ricambiò questa, la voce tagliente come la sua spada.
Rabbrividii appena e mi feci avanti, sfidandola.
< Lasciaci passare, Maiko. Non ti chiedo di unirti a noi, ma non ci ostacolare. > dissi lentamente e il suo viso duro si aprì in un sorriso maligno.
< Cosa sareste, voi tre? Salvatori? Volete liberare tutte le giovani anime qui sotto tenute prigioniere dalla tirannia folle di un despota cieco? Accomodatevi, pure. > fece un gesto con la mano, indicando tutte le armi dietro di sè  < Ma prima, dimostrate il vostro valore in battaglia. Non passerete oltre, se non calpestando il mio cadavere. > asserì, tendendo la spada a braccia tese davanti a sè.
Poi, con un urlo disumano, caricò il colpo e si avventò su di me con una rapidità incredibile.
Cercai di imporre al mio corpo di spostarsi, ma proprio mentre la lama calava sulla mia testa, un'altra la bloccò.
< Andate! > ordinò Ryoga a me e Ranma, piegandosi sotto il peso del fendente di Maiko.
Lei, in risposta, roteò su se stessa, e cercò di prendermi al fianco, lasciato scoperto; Ryoga si frappose tra noi ancora una volta.
< Andate, ho detto! > sputò fuori di sè, respingendo l'attacco.
Maiko indietreggiò appena e, senza voltarsi, prese una mazza ferrata, tirandocela addosso.
Io e Ranma ci abbassammo simultaneamente e poi lui sfoderò il pugnale che aveva dalla sua guaina e lo lanciò verso la nostra avversaria, colpendola alla coscia.
Lei guaì come un animale ferito e si scagliò di nuovo contro Ryoga, in un fragore d'acciaio.
< Come hai osato? Vile! Fronteggiami in maniera leale! > ruggì.
Ranma mi prese per un polso, afferrò un paio d'armi a caso e mi trascinò verso l'uscita dell'armeria sogghignando.
< Io non sono un assassino. Non ho un codice d'onore da rispettare e, anche se ce l'avessi... beh, in questo caso l'avrei ignorato. > si strinse nelle spalle, gridò un incoraggiamento a Ryoga e corse via, portandomi con sè.

Molto di quello che di solito scrivo qui nelle note, l'ho già detto in molte delle risposte alle vostre vecchie recensioni.
Mi sono imposta di non tralasciarne neppure una, prima di pubblicare.
Vorrei scusarmi di nuovo per gli aggiornamenti lenti, ma il lavoro e le sue scadenze pressanti mi soffocano. E se poi contiamo che non sono stata a Roma due settimane intere... non è poi molto che aspettate un aggiornamento, no?
Ci tenevo, inoltre, a chiedervi scusa per il capitolo che avete appena letto: probabilmente risulterà confuso e spezzezzato, ma ho dovuto scriverlo nelle verie pause pranzo e quindi la fluidità si è persa strada facendo.
Ho fatto del mio meglio, giuro.
Pensavo di fare un unico capitolo che comprendesse anche lo scontro con Haranobu, ma poi il risultato sarebbe stato ancora più "stile puzzle", perciò ho deciso di mettere quell'episodio a parte.
Ci saranno un paio di colpi di scena che a qualcuna di voi so già non piaceranno. Domando scusa già da adesso XD
Siamo prossimi alla fine e mi mette tristezza, questo, per certi versi. Non smetterò, di certo, di scrivere però, eh!
Non sono solita auto-pubblicizzarmi... ma se vi và potete trovarmi anche nel fandom delle originali.
Io sarei entusiasta di leggere un vostro commento sul mio stile anche lì. E' una grossa sfida, per me, scrivere un qualcosa da zero, dovendovi far conoscere ed amare personaggi completamente miei.
Ripeto... se volete dare una sbirciata mi fate felice. Ma tanto tanto. Anche perchè ho in mente diverse progetti, in tal senso.
Questo fandom, conclusa la storia, probabilmente lo abbandonerò per un po'... ma non è detto che non torni prima o poi.
Vi abbraccio forte tutte.
Siete una forza. La mia forza.

Strange

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Capitolo 23
*** This is war (Part two). ***


You see all my light and you love my dark.

Twenty-third. This is war (Part two).


Un avvertimento alle persone.
Il bene e il male: questa è la guerra
Per il soldato, per il civile, il martire, la vittima.
Questa è la guerra.
E’ il momento della verità e il momento di mentire; il momento di vivere e il momento di morire.
Il momento di combattere. [30 Second to Mars]


Bianco.
Rosso.
Correvo, il peso di lei fra le braccia stanche ed il fiato scarso nella bocca.
Correvo e mi sforzavo di non guardarla, portando il mio corpo ai suoi limiti.
Bianco, il colore degli occhi spenti di Haranobu.
Rosso, il suo sangue.
Imprecavo, le gambe pesanti e gli alberi ad ostacolarmi il passo.
Imprecavo e gridavo, un dolore così forte nel petto che a tratti mi pareva di essere stato accoltellato.
Bianco, il baluginio di una lama comparsa d'improvviso.
Rosso, il sangue sgorgato dalla ferita provocata da quel pugnale.
Saltavo, il freddo fra le dita e sottocute, fin dentro le ossa.
Correvo, mi sforzavo, imprecavo e gridavo.
Lei non doveva morire.
Non l'avrei mai permesso.
Bianco, il suo viso.
Rosso, il suo sangue.
Akane.

***

Non riuscivo a vedere che a pochi centimetri dal mio naso.
Mi sembrava di nuotare in un mare di tenebra, muovendo frenetico le mani per rimanere a galla.
Urtavo di continuo le pareti di terriccio e tiravo sospiri di sollievo ad ogni torcia che incontravamo e che mi permetteva di riacquistare la vista in quel minuscolo cerchio di luce.
Akane, invece, sembrava a suo agio.
Molto più in quei cunicoli che all'aria aperta in pieno giorno.
Era come seguire una persona cieca, che col tempo aveva affinato gli altri sensi, dovendo fare a meno della vista.
Sicura e determinata, sgusciava con rapidità in direzioni precise a bivi che io non facevo nemmeno in tempo ad intravedere.
Teneva la mano salda nella mia, ma pareva quasi volesse rassicurare più se stessa che me.
Si accorgeva dei nemici in arrivo sempre per prima e li abbatteva con precisione e velocità: era spietata e non sapevo ben dire se quel suo lato mi inquietasse o attraesse.
Rimaneva comunque Akane ai miei occhi; la stessa che avevo accarezzato, abbracciato, posseduto, amato...
Sapevo che non era più solamente un'assassina e che ciò che faceva in quel momento era dettato dall'istinto di sopravvivenza -o noi o Haranobu-, per questo non me la sentivo di biasimarla o farle notare alcunché.
La seguivo docile ma all'erta, pronto a colpire in caso di necessità: era la sua battaglia, non la mia.
Io ero lì solo per lei, per ricordarle la sua umanità quando più ne avesse avuto bisogno e riportarla a casa, finalmente libera.
Di colpo, Akane sembrò incespicare.
Mi trascinò giù e imprecò, scattando in avanti e lasciandomi la mano.
< Ranma, dietro di te! > la sentii gridare da qualche metro di distanza ed allora capii che non era inciampata in qualcosa, ma si era, invece, abbassata per evitare un fendente.
Mi voltai rapido e una raffica d'aria calda mi spostò il codino.
Un attimo dopo, giunsero anche stilettate di dolore all'altezza della spalla in più punti, come se decine di aculei spessi mi fossero entrate nella carne viva.
Senza dare tempo al mio aggressore di calare un altro colpo, mi avventai su di lui alla cieca, un pugnale da duello rubato prima in armeria, stretto in mano.
L'energumeno cadde all'indietro con un tonfo attutito, come fosse atterrato su un futon morbido, e cercò di districarsi dalla mia presa, scalciando e menando nell'aria la sua arma, che avevo identificato come una mazza chiodata.
Sembrava un insetto che si rotolava sul guscio.
Strinsi più forte fra le dita il pugnale e affondai nel suo addome con vigore.
- O io o te… e mi dispiace, amico: ho scelto me stesso. -
Mi alzai da terra pulendomi le mani sporche sul vestito e mi guardai inutilmente intorno alla ricerca di Akane.
Sentivo il clangore di armi che cozzavano le une con le altre poco più in là, così mi avvicinai cauto, cercando di aguzzare la vista per individuare la sua figura.
Avvertivo il suo respiro affannato, i gemiti di stanchezza ad ogni parata, la rabbia che le usciva dai denti sotto forma di sibili.
Era attorniata da tre sicari e cercava di destreggiarsi fa loro senza subire danni.
Mi venne in mente un'unica mossa da fare per agevolarla e non rischiare di venir colpito erroneamente: urlai, attirando l'attenzione verso di me, e poi mi buttai in scivolata rasentando la parete destra del tunnel.
Travolsi due guerrieri, che mi ruzzolarono addosso, e, nella confusione generale che seguì, mi affrettai a rialzarmi, colpendo con un affondo preciso il più vicino ai miei piedi.
Akane sistemò l'altro con la spada prima che potessi muovermi, accorrendo dopo aver fatto fuori l'unico rimasto in piedi.
< Incosciente! > mi sgridò senza fiato, cercando nel buio la mia bocca.
Mi baciò rabbiosa, come se tentasse di punirmi, ed io la strinsi, incurante dei cadaveri ai nostri piedi e della situazione di estremo pericolo in cui eravamo.
< Che co... ? Sei ferito?! > si staccò svelta, incredula, tastando la mia casacca fradicia di sangue.
Storsi il viso in una smorfia, annuendo; sapevo che lei riusciva a vedermi.
< Un taglietto da nulla. Mi hanno colpito di striscio, tranquilla. Ora andiamo! > la esortai, tirandomela dietro.
La verità era che il bruciore era insopportabile e la ferita buttava grandi quantità di sangue, tanto che sentivo i rivoli scivolare sulla schiena e il petto, ma non avrei permesso che lei mi lasciasse indietro o nascondesse da qualche parte, per proteggermi.
Ero io che dovevo prendermi cura di lei, non viceversa.
Le avrei fatto da scudo col mio corpo e guardato simultaneamente anche le spalle.
Sarei stato l'ombra sotto i suoi piedi, la forza delle sue braccia, la resistenza delle sue gambe, il battito del suo cuore.
Fosse anche stata l'ultima cosa che avrei fatto.

***

Verde.
Blu.

Correvo, ero vicino.
Le prime case del villaggio erano a pochi passi e lei sarebbe stata al sicuro, solo quello importava.
Correvo e mi sforzavo di non cedere. Dovevo farcela.
Verde, il colore della tunica di Haranobu.
Blu, i ricami delle sue vene sotto la pelle sottile delle mani.
Imprecavo, battendo con disperazione sul legno della porticina della casa del medico.
Lei scivolava fra le mie dita come acqua ed io non sapevo più come tenerla. Come tenerla con me.
Imprecavo e gridavo, chiamando a gran voce chiunque potesse sentirmi. Chiunque potesse salvarla.
Verde, l'erba ai miei piedi sporca di sangue.
Blu, l'elsa della spada che aveva trafitto il cuore di Haranobu in un silenzio tetro.
Tremavo per lo sforzo e l'ansia.
Il tempo volava via veloce ed ogni secondo perso era una nuova goccia di linfa vitale che lei perdeva.
Infine, la porta si aprì ed io consegnai il suo corpo a mani calde e rassicuranti. Poi svenni.
Verde, il colore degli occhi furibondi di chi aveva lanciato con precisione il pugnale.
Blu, il colore dei miei, agghiacciati ed attoniti, quando avevo urlato il suo nome.

Akane.

***

La terra sotto i nostri piedi si era fatta via via più dura e polverosa.
Akane ed io procedevamo spediti: non ci eravamo più fermati dopo l'ultimo agguato.
Tutti i nemici che si erano presentati erano stati falciati in corsa, con un unico colpo rabbioso.
Il numero delle vittime era incalcolabile e mi sforzavo di non rimuginarci troppo.
Mi ripetevo di continuo che non ero un assassino anche io, che stavo solo proteggendo me stesso, Akane e le altre persone, ma non funzionava granchè bene.
Il sangue era ovunque, così come il dolore e la sofferenza.
Sperai che uccidere Haranobu fosse davvero la soluzione definitiva o tutte quelle morti sarebbero state vane.
La mia mano sudata stringeva ancora saldamente quella di Akane, ma lei era tornata davanti a me e mi guidava.
Non si era resa conto che in realtà mi stava praticamente trascinando da cinque minuti buoni: il sangue perso dalla ferita fresca sulla spalla mi indeboliva e la vista iniziava ad annebbiarsi. E, nel frattempo, anche il vecchio taglio sull'addome cominciava a pizzicare e aggiungeva sofferenza a sofferenza.
Non ne potevo più di quei cunicoli, che parevano essere stati scavati da vermi giganteschi; volevo tornare a respirare aria fresca e sciacquarmi il viso e disinfettarmi e...
< Ci siamo. > mormorò Akane e si arrestò di colpo all'ingresso di quella che sembrava la navata di una chiesa occidentale ricavata nel terriccio.
Guerrieri armati, drappeggiati di armature color pece, erano schierati ad ogni colonna di granito ed erano immobili, come statue.
In fondo, un altare di roccia porosa appena abbozzato era il protagonista della scena; dietro di esso, seduto su una specie di scranno di ossa, sedeva un vecchio canuto, con gli occhi chiusi ed una tunica verde brillante.
Ansimai alle spalle di Akane e lei lasciò la presa sulla mia mano per impugnare meglio la spada presa in armeria.
Aveva la mascella contratta ed il corpo intero in tensione. Desiderai abbracciarla per rassicurarla ma rimasi al mio posto, trovando il gesto fuori luogo, in attesa.
< Bentornata a casa, figlia mia. > disse l'anziano, di cui non avrei saputo definire l'età, senza aprire gli occhi.
< Non sono tua figlia, Haranobu. > rispose fiera Akane e le nocche delle sue mani divennero livide per la forza con cui stringeva la sua arma.
Avanzò cauta di qualche passo, gettando occhiate inquiete ai sicari ai suoi lati ancora stoicamente fermi.
< Non lo sei più, ma lo sei stata. Eri la mia prediletta, Akane. > il suo tono sì addolcì appena sull'ultima considerazione, poi tornò vigoroso e limpido: il timbro di un uomo abituato a comandare. < Vieni pure avanti, non ti sarà fatto alcun male. Conosco le tue intenzioni e so bene che non cambierai idea, perciò... coraggio. Avvicinati e compi la tua ultima missione, figlia mia. > 
Haranobu sorrise in maniera stentata e, infine, aprì gli occhi.
Anche da lontano, percepivo la sua cecità; il suo saggiare l'ambiente con ogni senso tranne che la vista.
Akane mi lanciò uno sguardo d'intesa e poi marciò verso l'altare, la spada appena abbassata e le spalle più rilassate.
< Ti sarò sempre grata per avermi tenuto in vita quando non avrei voluto che morire. Adesso so che ero spinta da motivazioni sbagliate. Sono felice di essere viva, ma non posso permettere che altri vadano incontro a questo destino di morte, strage e sangue. Sei un assassino, Haranobu, e hai reso tutti noi come te senza chiederci il permesso. Dicevi che era l'unica via... non è vero. Io lo so. >
Parlava con decisione, lei.
Con convinzione, con riverenza e quasi dolcezza, come se davvero si stesse rivolgendo ad un padre.
Sembrava dirgli "Grazie per avermi insegnato a camminare, ora posso farcela da sola".
Mi sentii orgoglioso di lei e tentai di raggiungerla, ma la strada mi venne bloccata dalle lance incrociate di due guerrieri ai miei lati.
Qualcosa non andava, ma il mio grido d'avvertimento fu sovrastato dalla risposta di Haranobu.
< Non ho mai costretto nessuno a seguirmi: la libertà di scelta era sempre lì, a portata di mano. Ma hai detto cose giuste e sagge. E' tempo di finirla. Sono stanco. > sull'ultima frase, la sua voce altisonante si affievolì e poi si spense.
Akane gli si parò di fronte, la mano che tremava incerta ben visibile anche da dove ero io.
Tentennava, poichè sapeva bene che spezzare quella vita avrebbe decretato il caos per tutti gli adepti ancora vivi, nascosti nelle gallerie o spediti in missione.
Ma sarebbe stata anche l'ultima a cui lei avrebbe posto fine.
< Akane! > gridai, protendendomi verso di lei, mentre chinava il capo e chiedeva scusa in un soffio ad Haranobu.
Poi la sua spada entrò con vigore nel petto del vecchio fino all'elsa, incastrandosi nello schienale di ossa dello scranno.
< Andrai all'inferno insieme a lui, piccola stronza! > ruggì una voce femminile alle mie spalle e quando mi voltai, vidi passarmi davanti al viso un pugnale scagliato con precisione ed efficacia.
Maiko si piantò meglio sui piedi e mi fissò rabbiosa, la treccia ormai sciolta e gli occhi smeraldini ardenti.
La gamba, che io le avevo colpito, perdeva sangue in più punti e aveva ematomi sparsi sul viso, tagli superficiali su tutto il corpo e le vesti lacere.
Mi misi in posizione di difesa, alzando quel poco che potevo la spalla ferita, ma venni distratto da un gemito strozzato alle mie spalle.
Prima ancora di girarmi per controllare, seppi con certezza che proveniva da Akane e ringhiai, come se fossi stato colpito anche io.
Lei era crollata in avanti, sul cadavere di Haranobu, con il pugnale che le spuntava vittorioso fra le scapole.
< Ti ammazzo. Giuro, che ti ammazzo! > urlai fuori di me, sfrecciando verso Maiko, ma prima ancora che la potessi anche solo sfiorare, tre punte di freccia in rapida sequenza fiorirono dal suo petto.
Dietro di lei, che stava per cadere incredula a terra, notai un Ryoga a pezzi con un ghigno soddisfatto in viso ed una balestra fra le dita sanguinanti.
< Abbiamo vinto. > riuscì a dire, sputando sangue, prima di lasciarsi morire da eroe.
 

Alloooooora... chi ha voglia di farmi a fettine?
Su, su, mettetevi in fila, ma scegliete se in ordine d'età o alfabeticamente XD
*coff coff* Tornando seri: quante di voi si aspettavano la morte di Ryoga? Quante in questo modo? E quante non la riescono comunque a sopportare?
E ancora... quante vogliono farmi fare la stessa fine di Akane? Ammetto che sono ancora indecisa sulla sua sorte. Tenete le dita incrociate perchè potrei stravolgere la storia e cancellare il solito, banale lieto fine - per quanto suoni bizzarro in una storia simile-.
Sono stranamente orgogliosa di questo capitolo e del punto in cui siamo.
Da qui ho diverse possibilità da percorrere, ma vi ho lasciato una piccola traccia di dove voglio andare a parare.
Siamo agli sgoccioli. Uno o forse due capitoli e ci saluteremo.
Mi vien da piangere... perciò non voglio pensarci fino alla vera conclusione.
Che volete farci? Sono sensibile e tenera, al contrario di quel che sembra.
Vi abbraccio così forte da soffocarvi u.u
Siete bellissime e dolcissime e premurosissime e qualsiasi altra cosa vi venga in mente all'ISSIMA potenza.

Strange

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Capitolo 24
*** The princess and the knight. ***


You see all my light and you love my dark.

Twenty-fourth. The princess and the knight.


Ora vi racconto una storia che farete fatica a credere perchè parla di una principessa e di un cavaliere, che in sella al suo cavallo bianco entrò nel bosco [...]
Il cavaliere scese dal suo cavallo bianco e piano piano le si avvicinò.
La guardò per un secondo, poi le sorrise.
[Modà]



< Ranma. >
Conoscevo quella voce.
Mi pareva familiare quasi quanto la mia.
L'avevo sentita alterata, distorta dai singhiozzi, gonfia di calore, brunita di disprezzo e ne avevo amato ogni sfaccettatura.
La voce apparteneva ad Akane, solo che io non riuscivo a vederla.
Ero di nuovo immerso nel catrame, un buio così opprimente che pareva pesare sugli occhi e che m'invadeva naso e bocca.
Tendevo le mani alla cieca, sperando di acciuffarla, ma fra le mie dita scorreva aria tiepida e null'altro.
< Ranma. > continuava a chiamarmi lei, con un tono dolce e gentile, che pareva quasi volermi svegliare da un sonno.
Sono qui, sono qui. Ti troverò. Ti salverò.
Promesse mute che non trovavano la via delle labbra e rimanevano rinchiuse nel silenzio del mio addome, braccia vuote senza nulla da stringere e cuore in panne, che più batteva più affondava nella paura di perderla.
Poi d'un tratto, come se qualcuno avesse sollevato un sipario, comparve di fronte a me la bambina diabolica che avevo già sognato ma di cui aveva dimanticato nome e fattezze, adducendole ai miei incubi deliranti.
Aveva un vestito azzurro che tendeva al bianco, una lunga coda laterale di capelli corvini stretti da un fiocco storto e stringeva fra le mani quella sua inquietante bambola senza occhi.
Sorrideva, sorrideva luminosa e non c'era più malvagità nelle sue iridi scuri -cioccolata fondente, legna arsa in un camino, terra bagnata- solo ingenuità.
Era tornata pura e, difatti, le sue scarpette non erano più schizzate di sangue, ma linde e lucide.
< Grazie, Ranma. > mormorò, inclinando il capo.
Poi corse verso di me e mi abbracciò le ginocchia così forte da farmi perdere l'equilibrio. Caddi indietro, senza rumore o alcun tipo di dolore, e quando riaprii gli occhi -che avevo chiuso d'istinto- mi accorsi di non avere più davanti una bambina, ma una ragazza.
L'Akane che conoscevo. L'Akane che avevo scoperto di amare.



Dischiusi le palpebre lentamente, restio a lasciare andare quell'Akane così indifesa dei miei sogni: non una guerriera, ma una ragazza qualunque senza corazze o armi al fianco.
Mi strofinai gli occhi con una mano e misi a fuoco il soffitto che avevo sopra la testa. Mi pareva familiare, ma non riuscivo a collocarlo nei miei ricordi, a capire dove o quando l'avessi già visto.
< Ciao, figliolo. > disse una voce roca e burbera alla mia sinistra.
Voltai appena il capo, storcendo il naso per il dolore alla spalla fasciata, ed incontrai gli occhi severi di mio padre dietro il muro trasparente dei suoi occhiali da vista.
Sedeva sulle ginocchia rigido, le mani tremavano leggermente sul tessuto dei pantaloni e il fazzoletto che portava sempre in testa era sciolto da un lato. Addosso pareva avere dieci anni in più dell'ultima volta che l'avevo visto.
Quanto tempo era passato?
Poche settimane o anni? Non avrei saputo dirlo con certezza.
< Ehi, vecchio. > lo apostrofai con tono gracchiante.
E quei saluti stentati furono tutto ciò che riuscimmo a dirci io e mio padre.
Niente abbracci lacrimevoli, niente sorrisi commossi o pacche di conforto; solo una serie infinita di sguardi che viaggiavano fra il rimprovero e l'approvazione.
< Vedi di rimetterti in fretta: mi sentirei in colpa a spaccarti le ossa se sei già ferito e non puoi difenderti a dovere. > borbottò lui dopo un po', sbuffando.
Sorrisi e chiusi gli occhi di nuovo, la stanchezza che pesava sulle mie palpebre.
Ero a casa.
Quel soffitto familiare era quello della mia camera da letto.
Ero a casa, eppure non la riconoscevo come tale a pelle.
Casa, per me, era ormai dov'era...
< Akane! > scattai a sedere di colpo, ignorando le proteste dolorose del mio corpo, e tentati d'alzarmi.
Mio padre mi pose una mano sul petto e mi forzò a tornare sdraiato con inaspettata forza.
Scosse il capo con rimprovero e minacciò di colpirmi se avessi tentato di nuovo di muovermi.
< Il dottore ha detto che devi stare a riposo per qualche giorno, per permettere alla tua ferita di rimarginarsi a dovere. Non come hai fatto per quella che hai sull'addome. >
< Tu non capisci. Non m'interessano le mie condizioni; io devo andare da lei! > sputai inviperito, facendo stridere i denti per mascherare il dolore.
Sentivo come un uncino aggrappato al muscolo della spalla che si spostava, graffiando e strappando le carni senza pietà, ad ogni movimento ma non m'importava: me lo sarei anche fatto amputare il braccio in cambio della garanzia che Akane stava bene.
Impressa nelle iridi avevo l'immagine di quel pugnale fra le sue scapole che dipingeva la sua casacca di rosso come il pennello d'un pittore incapace di dosare il colore.
< Se anche ti lasciassi andare e tu riuscissi a raggiungerla senza svenire strada facendo, cos'è che potresti fare per lei? > domandò pragmatico mio padre, aggiustandosi gli occhiali sul naso tozzo.
Non replicai, in quanto non c'era una risposta adeguata.
Cosa avrei potuto fare io se non tenerle la mano e sussurrarle all'orecchio che era forte, che aveva posto fine alla fabbrica di morte di un assassino reso folle dall'età praticamente da sola e che, quindi, a confronto, rimettersi in sesto dopo quella ferita era una sciocchezza?
Non appena avrebbe aperto gli occhi -cioccolata fondente, legna arsa in un camino, terra bagnata- mi avrebbe trovato lì, conscia che non l'avevo abbandonata mai, che ero stato la sua salvezza come lei era stata tante volte la mia.
Avrebbe avuto da ridire Akane -la mia Akane- perché per vegliare lei, mi ero trascurato io stesso ma ci avremmo riso su insieme, poco dopo, bocca su bocca a restituirci quell'ossigeno che la paura di perderci ci aveva sottratto.
< Ti basti sapere che è stazionaria. Quando l'hai portata a casa del dottor Shima le sue condizioni erano critiche: aveva perso molto sangue. Ora, invece, ha buone possibilità di rimettersi. >
Annuii in silenzio, non sapendo che altro aggiungere.
D'improvviso, senza motivo, mi venne da ripensare a Ryoga, alla frase sospirata prima di morire e all'ultimo sguardo lanciato ad Akane; ad Haranobu, all'espressione pacifica e quasi serena con cui aveva accolto la lama che l'aveva trafitto; a Maiko, alla sua ferocia e alla sua cieca fedeltà alla gilda; al sicario enorme che mi aveva ferito ad una spalla, alle sentinelle poste a guardia dell'entrata del covo, ai novizi che avevo allertato con la mia uscita infelice che era riecheggiata nei cunicoli e a tutti quelli che erano stati falciati ed abbattuti in maniera spietata e veloce; non ero riuscito nemmeno a vedere i tratti del loro viso.
Tutto quel sangue versato faceva di me un assassino?
Avevo l'impressione che, sebbene fosse morto, Haranobu continuasse a tenere i fili di inconsapevoli marionette... ed io ero fra loro.
Ero praticamente certo che qualcun altro avrebbe preso il suo posto e che la gilda non si sarebbe dunque estinta, ma a quel punto la questione non riguardava più né me né Akane. Lei era libera, finalmente, e questa era l'unica cosa che contava.
< Dormi, ora. Hai bisogno di riprendere le forze se vuoi andare dalla tua fidanzata. > sogghignò mio padre, strizzandomi una guancia energicamente fino a farmi male.
< Lei non è la mia fid... > non riuscii a concludere la protesta, che lui si alzò e s'incamminò verso la porta, smuovendo l'aria con la mano come a scacciare qualcosa. La mia ridicola reazione, ad esempio.
< Come no, come no. Lo so io cosa hai borbottato nel delirio della febbre alta... >


Quando mi svegliai nuovamente, la trovai lì e subito dimenticai come si respirava; la sua sola presenza rarefaceva l'ossigeno nell'aria e bloccava i miei polmoni.
Sedeva composta, rigida, la schiena dritta e le mani adagiate in grembo.
Indossava una gonna color pesca, che le copriva le gambe raccolte lateralmente fino alle caviglie, e aveva i capelli lunghi, lunghissimi, che il sole aveva schiarito un po'. Era così bella che sembrava uscita da un sogno.
I suoi occhi mi salutarono prima ancora della sua voce; sebbene fossero del colore del metallo -duro, inflessibile- avevano una sfumatura dolce e morbida.
Non avevo mai notato che nelle iridi di Ucchan ci fossero frammenti di stelle; ora riuscivo a scorgerli perché avevo imparato a vedere, vedere davvero non solo a guardare di sfuggita.
Merito di Akane.
< Ciao, Ranma. > disse lei con un sorriso, il solito sorriso che conoscevo da una vita. Quello che avevo visto senza incisivi, sporco di gelato, tagliato dalle lacrime, illuminato dal sole dapprima sulle labbra di una bambina, poi di una ragazza e, infine, di una donna.
Scattai a sedere, come se quelle parole fossero state una spinta, e cercai di mettere insieme una frase decente, senza successo.
< Ciao, Ucchan. > fu il massimo che seppi rispondere. Mi sentii un completo idiota.
< Come stai? Ti fa male? > chiese dopo qualche attimo di riflessione, indicando col mento la fasciatura sulla mia spalla con un accenno di preoccupazione.
< No. > mentii di riflesso, abituato a mostrarmi sempre forte ed invincibile ai suoi occhi.
Mio padre dice che sono una principessa. Ed io, allora, nomino te cavaliere, Ranma.
Mi fissò con rimprovero e poi poggiò la mano sulle bende -che qualcuno doveva avermi cambiato mentre dormivo- provocandomi uno spasmo di dolore che tentai inutilmente di mascherare. Anche una carezza gentile come la sua mi bruciava.
< E va bene: sì, fa male. > cedetti, ritornando sdraiato.
< Come ti sei procurato quella ferita? E quella sull'addome? Dove sei stato, Ranma? > domandò e quasi mi parve di udire l'aggiunta "perchè te ne sei andato, lasciandomi sola quando avevi promesso che non l'avresti mai fatto?"
< Hanno cercato di uccidermi, Ukyo. Non potevo restare e correre il rischio di mettere in pericolo te, il mio vecchio o chiunque altro. > spiegai con semplicità.
Lei spostò gli occhi dal mio viso e li puntò sul muro d'improvviso, come se quella verità fosse peggiore della fantasia che si era creata nella testa per motivare la mia scomparsa.
< Non ho avuto scelta. Sai che non ti avrei mai e poi mai abbandonato. Nel momento in cui avevi più bisogno di me, poi! >
< L'hai fatto, però. >
< Cercavo di proteggerti. >
< Allora dovevi restare. Non si protegge qualcuno standogli lontano. >
< Era l'unica cosa che potessi fare. Quelli che avevano tentato di uccidermi potevano tornare e aggredire te per colpire me! >
< E adesso, allora, non t'interessa più di mettermi in pericolo? Perchè sei tornato? >
Non avrei voluto, ma ho dovuto.
Per Akane. Per salvare Akane. Lei, solo lei.
Rimasi in silenzio, incapace di ferirla a tal punto.
Perchè certe verità sapevano andare più a fondo della lama di un coltello, più della paraplegia.
< Quanto a lungo resterai? > sospirò Ukyo, infine, tornando a guardarmi.
I suoi occhi erano spietati e non concedevano pietà.
< Non molto. >
< Mio padre ti vuole ancora morto. > rivelò incolore, come se la cosa non la toccasse.
La scrutai sconcertato e, istintivamente, cercai un contatto con lei, ma Ucchan non mi permise di raggiungere le sue mani. Si scostò appena e si allungò verso la carrozzella, accostata al muro alle sue spalle.
Con movimenti studiati e ormai abituali, si issò sul sedile con la sola forza delle braccia, continuando a fissarmi con astio.
< Tu lo sai? >
Rise amara e mi chiesi che fine aveva fatto la risata innocente e pura che ricordavo, la Ucchan che ricordavo.
< Cosa? Che mio padre ti rietiene responsabile di quel che mi è successo ed ha incaricato un sicario di ucciderti? Sì. Ho sentito per caso la sua conversazione con un membro di una gilda di assassini. >
< E tu? Tu anche mi ritieni responsabile? >
< No. > rispose subito, sicura di quell'affermazione.
E a quelle parole, la porzione di cuore, schiacciata dal senso di colpa, mi riprese a battere in petto in maniera regolare.
Se Ukyo mi aveva assolto da quella responsabilità -una responsabilità che non avevo-, allora forse potevo fare lo stesso con me stesso.
< Però, guardarti ora, mi fa desiderare di saperti morto davvero. > aggiunse in un soffio ed io gelai.
Cercai i suoi occhi -argilla malleabile, pietra porosa- e li trovai umidi, bagnati di lacrime invisibili che si nascondevano fra le sue ciglia lunghe.
< Se sono ridotta così non è colpa di nessuno: è stato un incidente, una disattenzione. Ma credevo, o meglio mi ero illusa, che tu saresti rimasto al mio fianco, che saresti stato il mio sostegno, le gambe che non sentivo più. > strinse i denti come se stesse avvertendo un dolore fisico e proseguì dura < Quando ho scoperto che te n'eri andato, Ranma, è stato come sentirmi diagnosticare nuovamente la paraplegia. Mi sono sentita... menomata. >
< Mi dispiace. Ucchan io davvero... >
< Sta' zitto, è meglio. > bloccò le mie scuse con una mano e chiuse gli occhi senza far cadere alcuna lacrima.
Respirò piano un paio di volte prima di parlare di nuovo, con una voce che faticai a riconoscere come sua.
< Mio padre mi ha promessa in sposa al primogenito della famiglia Himawashi. Te lo ricordi? E' il ripugnante e viscido bastardo che una volta ha cercato di violentarmi. > sputò con sdegno, le dita contratte sui braccioli della sua sedia a rotelle fino a far sbiancare le nocche.
Mi si annodò lo stomaco al solo ricordo: avevo impedito io che quella violenza si consumasse, strappando Senju Himawashi dal corpo tremante e seminudo di Ucchan e pestandolo quasi a morte.
E ora quel porco aveva la possibilità di violare l'innocenza di Ukyo col consenso di suo padre, che sordo alle suppliche della figlia aveva organizzato un matrimonio salvaguardando solo i propri guadagni.
< Non permetterò mai che lui ti abbia. Ho promesso che ti avrei protetta ed ho intenzione di mantenere quella promessa. > dichiarai battagliero, sporgendomi verso di lei.
Ucchan aprì gli occhi e abbozzò un sorriso, che era solo un'ombra opaca di quello splendente che ricordavo ma che già bastava a farmi sperare in un possibile perdono.
Non avrei saputo vivere con il suo odio a sporcarmi il cuore.
< Grazie. > mormorò e cercò la mia mano.
Strinsi le dita attorno alle sue come se tentassi di creare nodi che mai nessuno avrebbe potuto sciogliere.
< Dimmi cosa vuoi che faccia ed io la farò. Qualsiasi cosa. >
< L'unico modo che esiste, secondo le leggi del nostro villaggio, per rompere un accordo prematrimoniale è battere in un duello leale il promesso sposo, lo sai. >
Le sorrisi di rimando, accarezzandole i capelli.
< Sì, lo so. Lascia che ci pensi io. >


Non ho dimenticato questa storia nè tantomeno abbandonato nessuna di voi, carissime lettrici.
Il tempo, purtroppo, è quello che è e se ci sommiamo anche una ispirazione ballerina... beh, i risultati li avete potuti vedere voi stesse: tre mesi di attesa.
Spero, quantomeno, sia ben ripagata.
Sapete... credevo di aver dato fondo a tutta la mia creatività per questa storia.
Credevo che fosse giunta al capolinea, il tempo di sistemare una o due questioni in sospeso che stuzzicavano la vostra curiosità e basta... ma forse così non è.
Scrivendo questo capitolo mi sono venute un altro paio di ideuzze niente male, quindi il prossimo aggiornamento dovrebbe essere più veloce (sempre in termini bradipeschi ovviamente) e allungherà la corsa verso la fatidica conclusione di un po'; quanto devo ancora valutarlo.
Abbraccio forte tutte voi che siete con me dall'inizio e che so che rimarrete fino alle fine.
Senza di voi, questa storia non sarebbe arrivata fin qui.
G R A Z I E.

Strange

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Capitolo 25
*** The flowered kimono. ***


You see all my light and you love my dark.

Twenty-fifth. The flowered kimono.


Lei viene dal lato opposto della strada -rossetto rosso sulle labbra-, afferra tutta l'attenzione. La gente sa che è speciale. [...]
Un giorno si è svegliata, non le importava di come appariva. E' andata fuori, le persone la cercavano.
Ragazza in kimono.
E' diversa, sì!
Ragazza in kimono.
L'amate, adesso?
[Christina Aguilera]

 
C'erano ricordi che si erano persi nell'oblio della crescita e ce ne erano altri, invece, che parevano marchiati a fuoco nella memoria.
Anche desiderando fortemente dimenticare, non avrei potuto; per quanto mi sforzassi di non richiamare alla mente certe immagini, prepotenti le vedevo dietro le palpebre chiuse degli occhi ogni qualvolta cercavo di addormentarmi.
E facevano male.
Lui era parte di me, della mia vita da che riuscivo a ricordare.
Era al mio fianco -vestiti di fattura cinese, che suo padre rimediava chissà dove, faccia annoiata e due sole penne fra le dita- il primo giorno di scuola; era sdraiato con la testa sul mio grembo a leggere un fumetto mentre io facevo i compiti il pomeriggio in cui mi annunciarono la prematura scomparsa di mia madre; era seduto al mio tavolo, a fregarmi il riso dalla ciotola pensando di non essere visto, la mattina in cui mio padre mi disse che mi sarei sposata entro un anno.
C'era un ricordo, però, in particolare che ultimamente mi tornava di frequente in mente e che non potevo scacciare via, perchè la sua dolcezza era l'unico conforto che avevo da quando lui se n'era andato.
Da quando era scomparso. Scappato. Fuggito.
Via da me.
Avevo circa otto anni, lui qualcosa di più.
Era una tarda mattinata assolata e silenziosa, tanto che si sentiva anche il gorgoglio del fiume dietro casa.
Facendo giravolte su me stessa in punta di piedi, ero intenta a mettere in mostra con fierezza un kimono troppo grande sul cui tessuto setoso sbocciavano boccioli rossi e fiori schiusi di un intenso color pesca sfumato di cremisi.
Mio padre diceva sempre che quando piroettavo in quella maniera i capelli mi volteggiavano intorno al viso come i petali di una girandola e la mia risata era un inno alla vita.
Ranma, gambe incrociate e solita espressione distratta, mi guardava sbuffando dal tatami, probabilmente chiedendosi per quanto ancora avrebbe dovuto assistere a quella strampalata sfilata.
Sapevo che odiava perdere tempo in quel modo futile e da "femminucce"; lui doveva allenarsi: voleva diventare il miglior artista marziale del Giappone intero e di certo non avrebbe raggiunto quello scopo stando seduto ad osservare me sfilare in maniera impacciata.
< Ti piace, Ranma? > chiesi io, con la voce affaticata, cadendogli di schianto davanti. 
Ranma storse appena la bocca < E' un kimono, Ucchan. >
< Sì, ma è un kimono speciale. > proferii orgogliosa, cercando di stuzzicare la sua curiosità.
Lui, per tutta risposta, alzò un sopracciglio con fare annoiato, per nulla interessato alla questione.
< Non mi chiedi cos'ha di speciale? >
< Tanto me lo dirai in ogni caso, che te lo chieda oppure no. >
Io sbuffai irritata e misi su un broncio infastidito, che durò cinque secondi cronometrati.
Quando si trattava di lui non sapevo arrabbiarmi mai davvero o offendermi.
< E va bene: se insisti tanto te lo dirò. >
Ranma mi dedicò un sorriso che non gli avevo visto mai rivolgere ad altri; quel suo modo di sorridermi negli anni non era mai cambiato. Mi pizzicò il naso scherzosamente e poi si parò, aspettando forse che io facessi altrettanto.
< Questo kimono appartiene alla mia famiglia da generazioni. La prima proprietaria si chiamava Sashimi Nogusuke ed era una principessa. >
< Wow. > esclamò Ranma senza entusiasmo, rivolgendo poi la sua attenzione al giardino della mia casa.
Conoscendo alla perfezione ogni sua espressione, capii che stava immaginando se stesso intento ad allenarsi: i paletti della recinzione gli avrebbero fornito un'ottima base per gli esercizi di equilibrio e il ciliegio spoglio di fiori sarebbe stato il suo avversario indistruttibile che avrebbe resistito a qualunque attacco.
< Ranma, non mi stai ascoltando. > lo ripresi, le lacrime già nella voce di colpo fattasi stridula.
Odiavo quando non mi prestava attenzione, quando faceva sembrare un peso il tempo che trascorrevamo insieme. Per lui non esistevano che le arti marziali, ma lo capii solo da adulta; all'epoca ogni sua mancanza o disattenzione mi portava sull'orlo del pianto poichè non ero capace di suscitare il suo benchè minimo interesse.
< Sì, invece. >
< Che cosa ho detto, allora? >
< Che la principessa Sushi era bella. >
< Sashimi! La principessa Sashimi, stupido! > m'infervorai io, dandogli un pugno sulla testa con quanta più forza avessi nelle mie braccine magre.
Ranma non finse neppure di aver sentito il colpo: a quel tempo non ero in grado di fargli del male e nemmeno col passare degli anni avrei acquisito quella capacità. A lui, di me, non importava abbastanza perchè potesse sentirsi ferito da un mio gesto.
< E' uguale. Senti, Ucchan, possiamo giocare dopo se vuoi. Devo allenarmi finchè c'è luce. >
Lo fissai in silenzio, le dita aggrappate alla stoffa lucida di quel kimono di cui andavo fierissima, e annuii, ingoiando la delusione.
Era così ogni volta con lui: prima le arti marziali, poi il resto. Ed il resto mi vedeva sempre in fondo alla lista delle cose che avevano una qualche rilevanza per Ranma Saotome.
< Certo, vai. >
Lui scattò in piedi e corse fuori, balzando sul ramo più basso del ciliegio secolare senza sforzo e cominciando a tirare calci e pugni a raffica alla corteccia robusta come se gli avesse fatto chissà quale torto.
Io sospirai, accarezzando i ricami del kimono con riverenza e poi mi allungai a prendere una bambola di pezza da un cestino poco lontano.
Avrei atteso che Ranma terminasse i suoi allenamenti giocando per conto mio; era quello che facevo sempre e che sempre avrei fatto.


Mi ero illusa di aver dimenticato l'esatta sfumatura degli occhi di Ranma, ma così non era stato.
Quegli occhi avevano dato il colore a tutti i miei incubi nelle scorse settimane: sogni terribili che sapevano di disperazione, solitudine ed abbandono; sogni in cui nessuno veniva a salvarmi ed io rimanevo inerme a terra a cercare di strisciare lontano da qualcosa che sapevo mi stava rincorrendo...e guadagnava sempre più terreno.
Affondavo i gomiti e le dita in una pozza d'acqua e m'inzuppavo gli abiti ma non ero mai abbastanza veloce, abbastanza forte o determinata: alla fine quel qualcosa mi aveva raggiunto e si era cibato di me. Anzi, più che qualcosa, qualcuno: Senju Himawashi.
< Cos'è successo di interessante da queste parti mentre non c'ero? Cos'è che mi sono perso? > chiese Ranma in tono leggero, senza accennare a voler districare le nostre dita.
Era così rassicurante la sua stretta che avrei voluto non lasciarlo andare più. 
Per quanto fossi delusa e amareggiata dalla sua fuga, la sua presenza adesso era l'unica cosa che contava.
Lui era l'acqua in cui sguazzavo, in cui cercavo di salvarmi. 
< Nulla. E' un villaggio piccolo, non succede mai niente; lo sai bene. Raccontami di te. > dissi in un soffio, sondando di nuovo il suo corpo deturpato da innumerevoli ferite -più o meno gravi- ed ematomi, la cui sola vista mi faceva salire in gola conati di nausea. Mi pareva di sentire ogni taglio, sbucciature e livido sulla mia stessa pelle.
Chi era davvero dei due ad esser messo peggio? 
Avevo il diritto di essere arrabbiata nei suoi confronti per essere scappato alla morte, scegliendo se stesso invece di me?
Io, al suo posto, cosa avrei fatto? Sarei rimasta ad accogliere l'ascia del mio boia a braccia aperte per mantener fede ad una sciocca promessa fatta da bambini?
Ranma tossicchiò, poi si grattò la nuca come se fosse imbarazzato e infine distolse gli occhi dai miei; lo conoscevo abbastanza bene da sapere che quel comportamento precedeva una mezza verità. 
< L'assassino ingaggiato da tuo padre ha avuto... come dire... un ripensamento. Ha dato ascolto ad una coscienza che aveva scordato di possedere e mi ha risparmiato; così facendo, però, ha reso entrambi bersagli mobili. Per questo sono dovuto andar via. >
< E dove sei stato? >
< In un villaggio a sud di qui di nome Nerima, in cui sono stato curato. >
< Curato dici? Da chi, un macellaio? Sei in uno stato pietoso. > gli feci notare, con una punta di acredine nel tono che non riuscii a mascherare.
Era sempre stato così fra noi: lui era lo scapestrato che se ne infischiava dei pericoli e del dolore, io quella che si mangiucchiava le unghie per l'ansia e si preoccupava -anche più del necessario- per la sua incolumità.
" Non so come farei senza di te, Ucchan " mi aveva detto un giorno, tornando da un allenamento intensivo con Genma nella foresta durato un mese, mentre scrostavo la terra da un taglio sul suo avambraccio. Quei tempi sembravano così lontani, ora... 
Quanto era rimasto dei vecchi Ukyo e Ranma in quei corpi stanchi e provati che si fissavano l'un l'altro da un letto ed una sedia a rotelle?
Lui accennò una risata secca e rauca.
< Colpa mia, lo ammetto: non sono stato a riposo come mi aveva detto il dottore. Sono andato, piuttosto, a distruggere l'intera setta di assassini a cui tuo padre si era rivolto. Non avrebbero smesso mai di darci la caccia. >
< Darvi? A te e al tuo sicario, intendi? >
Ranma deglutì vistosamente e fece un cenno del capo così rapido che a stento lo vidi.
< E siete riusciti nella vostra missione? > 
< Rimettendoci praticamente la vita, ma sì. >
< E lui dov'è? Il killer che era con te, intendo. >
Le dita di Ranma abbandonarono di colpo le mie ed io rimasi a fissare in silenzio i vuoti che lui aveva lasciato, mentre un'orribile sensazione si faceva largo nel mio petto.
< Dal dottor Shima. Era ferita gravemente. >
L'orribile sensazione divenne certezza; pur sapendo che non avrei dovuto porre quella domanda, la feci ugualmente. E ne attesi la risposta come si aspetta un colpo mortale: con rassegnazione.
< Ferita? >
< Sì, ferita. Akane rischiava di morire. >
 
 
Avevo ancora addosso quel kimono quando la sera Ranma era rientrato dal suo allenamento stanco e sudato.
Io avevo trascorso il tempo a giocare per conto mio o a guardarlo sorseggiando thè verde: mentre colpiva il suo invisibile avversario emanava forza, sicurezza e protezione.
Si era lasciato cadere pesantemente al mio fianco -la fronte contro il pavimento gelido ed il respiro ancora affannoso- e non aveva parlato per un po'. Allora l'avevo fatto io.
Me lo diceva sempre, lui, che non sapevo tenere la bocca chiusa ed era un pregio, quanto spesso un difetto.
< Sembra che ti abbia investito una mandria di buoi. >
< Esatto. Li ho persino contati: centododici buoi sulla mia schiena. >
< Quanto sei esagerato! > lo derisi io, spintonandolo appena.
< Vorrei veder te! > replicò piccato lui, mettendosi seduto con le gambe incrociate.
< Le arti marziali non mi si addicono. Io al massimo potrei picchiare qualcuno con un'enorme spatola da okonomiyaki. >
< Sarebbe un'arma adattissima a te. Oh, a proposito... ho fame, Ucchan. > disse d'un tratto, illuminandosi.
Quando si parlava di cibo, Ranma aveva i fuochi d'artificio negli occhi.
Io sbuffai, incrociando le braccia, e lui mi diede un bacio birichino sulla guancia, come se con quel gesto potesse convincermi.
Gli sorrisi - le guance in fiamme e lo sguardo vispo che negli anni non avrei mai perso ogni qualvolta lui mi dedicava un segno d'affetto- e corsi in cucina a preparargli la cena, arrotolandomi le maniche del kimono fin sulle spalle.
Mentre aprivo gli sportelli bassi della credenza alla ricerca della farina, sentii Ranma urlare qualcosa dal solotto.
< Che hai detto? > gridai a mia volta, cercando di sovrastare il baccano prodotto dalle pentole.
Lui mi comparve al fianco sogghignando e si massaggiò la pancia con fare affamato.
< Ho detto che ci voglio il cavolo ed i gamberetti. >
< Dovrà accontentarsi di quello che trovo, sua maestà. >
Ranma mi fece una pernacchia e mi osservò girare con sicurezza l'okonomiyaki senza più parlare. E di nuovo, allora, ruppi io il silenzio tra noi.
< Mio padre dice che sono una principessa, sai? >
< Solo perchè indossi quel kimono sgargiante? >
< No, perchè sono discendente di una principessa. >
< Ah. Beh, se lo dice lui... >
Spensi il fuoco e saltai giù dalla sedia che usavo per arrivare ai fornelli e misi l'okonomiyaki fumante nel piatto, osservando compiaciuta l'occhiata bramosa che lui dedicò alla pietanza.
< Sei la cuoca migliore di tutti. >
< E sono anche una principessa! > insistetti cocciuta, sedendomi al tavolo senza però accennare a consegnargli il cibo.
Lui tese le mani e mi guardò interrogativo, in attesa.
< Sono una principessa, vero Ranma? > 
Io e lui eravamo sempre stati due testoni e nessuno voleva mai retrocedere o ammettere di aver torto, così le nostre discussioni sciocche di bambini erano infinite. C'era, però, un solo caso in cui riuscivo a spuntarla ed era proprio quello in cui Ranma aveva una fame feroce ed io tenevo in ostaggio la sua okonomiyaki.
< Come no. Se lo dice tuo padre sarà vero... >
Gli lanciai un'occhiata assassina, che lo fece solamente scoppiare a ridere. Mi diceva sempre che ero capace di intimorire qualcuno quanto un pulcino.
< Devo per forza dirlo? > si lagnò, alzando gli occhi azzurri al soffitto con rassegnazione.
Annuii cocciuta.
< Sei una principessa, Ucchan. La più bella di tutte e quel kimono ti sta d'incanto. >
Anche se era un complimento tirato fuori a forza e non v'era traccia di verità alcuna, sorrisi raggiante e gli allungai finalmente il piatto. Quando si è bambini, basta poco per essere felici: ci si accontenta di ogni piccolezza.
Poggiando il mento sulle mani giunte sul tavolo, osservai Ranma ingozzarsi e poi d'improvviso dissi.
< Se io sono una principessa, tu cosa potresti essere? > chiesi sovrappensiero.
Lui scrollò le spalle, per nulla interessato alla questione.
< Trovato! Io, Ukyo Kuonji, principessa dal kimono a fiori, nomino te, Ranma Saotome, cavaliere dall'appetito insaziabile. >
< E che razza di titolo sarebbe? >
< Un titolo azzeccato. >
< Non mi piace. > brontolò, ingoiando l'ultimo pezzo di okonomiyaki.
< Te lo farai piacere. >
< Ma è una cosa inutile. Potevi darmi qualche potere... che so: Ranma Saotome, cavaliere dalla velocità supersonica. Oppure: Ranma Saotome, cavaliere errante dalla guarigione istantanea! >
< Guarda che ciò che conta in un cavaliere è un'altra cosa! >
< E sarebbe? > domandò scettico, pulendosi la bocca sulla manica della sua casacca.
< La fedeltà alla propria signora. > proclamai orgogliosa.
< E saresti tu? >
< Ma certo! >
< Wow. Sono proprio contento di essere un cavaliere, allora. > si alzò sconsolato dal tavolo e portò il piatto nel lavandino della cucina, stiracchiandosi poi mentre tornava indietro.
< Ora devi fare il giuramento solenne, però! > 
Mi misi in piedi e gli porsi una mano, che lui fissò dubbioso.
< Cos'è che dovrei fare, con esattezza? >
< Baciarla e giurare sulla tua vita che sarai per sempre al mio fianco e mi proteggerai ad ogni costo. >
Ranma mi fece l'ennesima linguaccia, poi con uno scatto mi sollevò tra le braccia e mi fece fare delle giravolte, ridendo forte. 
Quella risata, negli anni, sarebbe diventata la mia musica preferita.
< Fermati! Fermati! Non è così che si comporta un cavaliere! Devi fare il giuramento! > 
< Sciocchina! Non hai bisogno che giuri. > si fermò, traballando appena, e mi fissò negli occhi con sicurezza < Starò sempre con te, Ucchan. >
< Sempre sempre? >
< Sempre sempre sempre. >
 
 
< Il sicario ingaggiato da mio padre, però, era un uomo. > obiettai, torturandomi le pellicine intorno alle unghie.
Il modo in cui Ranma aveva pronunciato il nome di quella ragazza mi aveva fatto collassare i polmoni nel petto. Era dolce, protettivo...intimo.
< Era solo uno dei tanti. Credo che dato il lauto compenso, alla fine, abbiano spedito uno degli assassini con maggiore esperienza e ferocia. Uno che non si sarebbe fermato davanti a niente. >
< Se Akane rispondeva ai requisiti perchè ti ha risparmiato? > chiesi allora, conscia che quella 
era un'altra domanda di cui non avrei davvero voluto sentir la risposta.
Ranma gettò un'occhiata fuori la finestra, ingoiando un sospiro.
< Non lo so bene neppure io. Penso sia perchè le ho chiesto di non uccidermi; non subito, almeno. Volevo prima risolvere delle questioni. >
< E questo è bastato per far vacillare un killer spietato? >
< Ho combattuto per la mia vita, Ukyo. Non le era mai capitato di trovarsi di fronte un osso duro come me da uccidere. Nessuno opponeva mai resistenza solitamente. Spesso neppure si accorgevano del braccio della morte che li trascinava via. >
< Quali erano le questioni in sospeso che volevi risolvere? > domandai ancora, incapace di tener chiusa la bocca.
< Quella con tuo padre. Se mi voleva morto, poteva affrontarmi in un duello leale, non mandare un assassino a farmi fuori nel sonno! > sputò con veleno, storcendo poi il naso per una fitta di dolore alla spalla.
< Dopo aver risolto il problema con Senju te ne andrai di nuovo, vero? > strinsi le mani una nell'altra fino a farmi male e m'imposi di non piangere.
Io non ero stata il motivo per cui aveva chiesto di vivere, nè quello per cui era tornato e tanto meno quello per cui sarebbe rimasto.
Ranma non rispose e quello per me era più che sufficiente. 
Lo conoscevo abbastanza da sapere che quando non replicava era solamente perchè cercava di non ferirmi. Non capiva, però, che quell'assenza di parole era persino peggiore della verità che la sua bocca avrebbe potuto rivelarmi: la fantasia sapeva essere spesso più crudele della realtà.
< Beh, ora vado. Ti lascio riposare. >
Strusciai i palmi delle mani sulle ruote della mia sedia e arretrai, senza staccargli gli occhi di dosso. Lui allungò un braccio come per trattenermi, ma non disse niente e lo lasciò ricadere giù.
Annuì in silenzio e mi guardò andar via.
Starò sempre con te, Ucchan.
Sempre sempre?
Sempre sempre sempre.
 
***
Il dottor Shima chiuse delicatamente la porta dietro di sè e mi lasciò sola, davanti al futon su cui era stesa prona Akane.
Il suo torace era avvolto in bende fresche che odoravano di disinfettante, su cui sbocciava però un fiore di sangue purpureo fra le scapole. Per un attimo quella visione mi fece tornare alla mente il kimono della principessa Sashimi.
Era minuta, sembrava quasi acerba: una donna intrappolata nel corpo di un'adolescente.
Aveva le ciglia lunghissime che gettavano ombre di merletti sulle sue guance, un nasino piccolo e all'insù, una bocca generosa scolorita a causa dell'ingente quantità di sangue che aveva perso e lunghi capelli maltagliati color carbone dai riflessi blu inchiostro.
Era bellissima, perfetta, e la odiai d'istinto.
Lei era quella che avrebbe dovuto porre fine alla vita di Ranma e quella che, invece, della vita gli aveva fatto dono. Era quella per cui era tornato e per cui se ne sarebbe riandato. Era tutto ciò che avevo sempre temuto sarebbe arrivato per portarmelo via; tutto ciò che io non ero per lui.
Perchè ero andata al suo capezzale? Cosa avevo pensato di trovare?
Provavo una qualche sorta di piacere nell'infliggermi dolore?
Non era già sufficiente quel poco che sapevo?
Mi conficcai le unghie nei palmi delle mani serrate a pugno e feci per andar via, ma un movimento quasi impercettibile delle palpebre di Akane mi inchiodò al mio posto.
Lentamente, come un fiore che si schiude al sole, lei aprì gli occhi.
Immobile, guardinga, scrutò l'ambiente in cui si trovava in un attimo e poi puntò il suo sguardo nel mio.
Mi sentii in dovere di parlare per prima.
< C-ciao. >
< Chi sei? Dove mi trovo? > chiese diretta, stringendo i pugni vicino al volto.
Provò a muoversi appena ma la fitta lancinante causata alla ferita, la bloccò al suo posto. Si riadagiò sul futon con cautela e sbuffò.
< Ti trovi nel mio villaggio; eri... anzi sei ancora piuttosto malconcia. >
< Questo lo vedo anche da me, grazie tante. > disse tagliente.
Fu istintivo per me, allora, rispondere al fuoco col fuoco. Se era uno scontro verbale quello che cercava Akane era quello che avrebbe ottenuto.
Mi ero imposta di essere non tanto carina, quanto perlomeno gentile ma i miei modi affabili mi erano stati ributtati in faccia con disprezzo perciò che senso aveva tentare di mascherare l'odio che provavo nei confronti di quell'usurpatrice?
Ranma era mio. Lo era sempre stato.
Fino a che non era arrivata lei.
< Ti ha portato qui Ranma. >
A quel nome, gli occhi della ragazza parvero ammorbidirsi, come cioccolato messo a scaldare in pentola sul fuoco. 
< Lui dov'è ora? E, di nuovo, tu chi sei? > 
Ridusse gli occhi a due fessure e mi gettò un'occhiata al vetriolo che mi indispettì. 
Come poteva Ranma essersi innamorato di una persona simile? Cattiva, prevenuta, acida... non ce lo vedevo proprio.
O forse non ce lo vedevo solamente perchè per una vita intera era con me che l'avevo immaginato.
Sollevai il mento, fiera e battagliera, e scagliai la mia bomba, sperando che lei rimanesse ferita almeno un pizzico di quanto la sua sola presenza feriva me.
< Mi chiamo Ukyo Kuonji. Sono la promessa sposa di Ranma. >

 

Sorprese di questo cambio di Point Of View?
Io sì XD
Ammetto che i tempi lunghi di questo capitolo sono dovuti principalmente a ciò (più le varie festività ed abbuffate annesse).
Inizialmente avevo buttato lì i ricordi di Ucchan scrivendoli in terza persona poichè avevo sempre fatto parlare solo i protagonisti, ma poi mi è sembrato doveroso farvela conoscere meglio e mi è parso che questo piccolo stacco non stonasse poi molto.
Leggengo le recensioni ho notato che qualcuna ha azzardato qualche ipotesi sui prossimi capitoli. Che dire? Fuochino.
ci sono diverse opzioni che sto vagliando e mi auguro immensamente di optare per la versione meno banale di tutte.
Nel frattempo vi abbraccio, bacio, stringo, sbaciucchio tutte tutte.
Siete sempre qui, con me, e non mi abbandonate mai anche se vi faccio penare.
Non potrei chiedere di più, giuro!

Strange

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Capitolo 26
*** Let go. ***


You see all my light and you love my dark.

Twenty-sixth. Let go.
 
Non abbiamo mai detto che sarebbe stato perfetto; abbiamo solo detto che ci avremmo provato.
E quando hai detto che saremmo stati per sempre, credo fosse solo un'altra bugia.
Lasciami scivolare tra le tue dita, spero che tu sappia che questa volta è reale.
Sì, sai che non ho mai detto che sarei tornata a casa per un ultimo saluto.
Non voglio lasciarti andare se mi ami ancora, perchè non voglio vederti piangere.
Ma è come se io e te stessimo morendo e non ci fosse nessuno a salvare le nostre vite.
[...]
Come è possibile che il mio migliore amico sia diventato un estraneo?
Sembrava che tutto andasse bene...
Abbiamo già affrontato tutto questo, due volte, e non tornerò a casa per un ultimo saluto.

[Miley Cyrus]
 
"Ha lunghi capelli castani e dolci occhi grigi che al sole sembrano d'argento. Da piccola era un maschiaccio poi qualche mese fa è sbocciata come un fiore. E' bella da togliere il fiato e nonostante abbia decine di spasimanti non ha occhi che per me." *
Più la guardavo, più mi pareva che le parole di Ranma fossero riduttive.
Quella ragazza incarnava la femminilità in tutta la sua essenza.
Quando parlava, sembrava cantare e più che seduta rigidamente su quella carrozzella -sopra cui era imprigionata a vita- era dolcemente adagiata, come un passerotto su di un ramoscello.
Più mi soffermavo sui suoi lineamenti delicati, più mi sentivo sprofondare in una pozza di catrame poichè il confronto con me stessa era inevitabile.
Io avevo perso il conto delle mie cicatrici, collezionate una dopo l'altra nel corso dei miei anni bui come assassina; lei non ero nemmeno sicura ne avesse una dovuta alla sbucciatura di un ginocchio.
Tenni la guancia ustionata premuta contro il cuscino per non esporla al suo sguardo superbo e ricambiai con pari ardore ogni occhiata astiosa che mi veniva rivolta: mi sentivo come una belva feroce resa inoffensiva ma comunque oggetto di curiosità e diffidenza.
Si aspettava forse che le saltassi alla giugulare per strappargliela via a morsi?
Non che il pensiero non mi avesse sfiorato, dato il modo in cui si era presentata.
Mi chiamo Ukyo Kuonji. Sono la promessa sposa di Ranma.
Quelle parole, una volta arrivate a me, si erano tramutate in lingue di fuoco ed io ero stata ferita di nuovo, sfigurata ancora una volta. Il punto era meno visibile, vero, ma non per questo faceva meno male. 
Avrei dovuto aspettarmelo però: a cedere senza remore il cuore nelle mani di una candela, il rischio è quello di riaverlo indietro in cenere.
< Tu non ce l'hai un nome? > mi chiese Ukyo, con più curiosità che ferocia. Inclinò la testa da un lato e mi osservò pensosa, muovendo la carrozzella verso di me.
< Mi chiamo Akane Tendo e sono l'assassina incaricata da tuo padre di uccidere il tuo futuro marito. > sputai con veleno, come fosse colpa sua.
In realtà forse avrei dovuto quasi ringraziarla: se non fosse stato per il risentimento di Daisetsu io non avrei mai incontrato Ranma e lui non mi avrebbe mai salvata.
Il mio cuore non sarebbe mai tornato in superficie, non avrei mai rivisto la mia famiglia nè ricordato come ci si sentiva ad essere qualcuno, ad essere amata.
Ma la stessa persona che, inconsapevolmente, aveva intrecciato la mia vita e quella di Ranma era ora la stessa che sapevo ci avrebbe diviso. Come avevo potuto essere così ingenua?
< Grazie. > disse Ukyo, cogliendomi di sorpresa.
Era un ringraziamento sterile il suo, null'altro che una constatazione. Non c'era la minima traccia di emozione nella sua voce e per un attimo mi parve di scorgere me stessa nei suoi occhi di un impenetrabile grigio acciaio.
Il dolore, l'abbandono, il rifiuto ti forgiano come metallo, rendendoti inaccessibile.
< L'hai risparmiato. Gli hai permesso di tornare a casa. > aggiunse.
< Non l'ho fatto certo per te. >
< No, ma non contano le motivazioni solo il gesto. >
< Cosa vuoi da me? > chiesi allora sulla difensiva, faticando a capire dove volesse andare a parare.
Dopo aver messo in chiaro il fatto che Ranma le apparteneva, perchè non era andata via? Doveva ulteriormente marchiare il territorio e beffarsi dei miei sciocchi sentimenti?
< Volevo solo incontrarti. >
< Bene, ora puoi anche andartene. > e lasciarmi sola a raccogliere la cenere sparsa fra le mie costole.
Ukyo arricciò il naso curiosa e poi sorrise compassionevole, disgustandomi: la pietà non l'avevo mai sopportata.
Se muovermi non mi avesse infuso dolori brucianti in ogni muscolo del corpo, l'avrei aggredita senza tante cerimonie. Il fatto che fosse relegata su una carrozzella non la rendeva certo indifesa: con le parole sapeva dove colpire.
Serrai i denti e attesi il suo fendente preciso.
< Tu lo ami, vero? >
Strinsi di riflesso le mani sul cuscino e ringhiai.
< Vattene. >
Allargò quel sorriso pietoso e annuì.
< Lo immaginavo. >
< Non sai un cazzo, invece. >
< Non puoi averlo. >
Per un attimo la sua esclamazione mi lasciò perplessa; ritrassi appena gli artigli e genuinamente chiesi: < Cos'hai detto? >
< Che Ranma non sarà mai tuo. > ribadì Ukyo con convinzione, serrando le mani sui braccioli imbottiti della sua sedia.
Risi.
< Stai parlando di lui come di un oggetto. Davvero credi che qualcuno possa costringerlo a fare qualcosa che non vuole? >
Lei d'un colpo sembrò a disagio e girò la carrozzella verso la porta dischiusa della stanza.
< E' tornato qui per me, Akane. >
Incassai il colpo in silenzio, incapace di ribattere.
< Rimettiti in fretta... > mormorò poi prima di andarsene, lasciando volutamente in sospeso la frase così che potessi concluderla io nella mia testa.
Rimettiti in fretta e poi sparisci. Non c'è posto qui per te.
Soffocai il viso del cuscino e piansi senza lacrime nè singhiozzi.

***

< Vecchio, quand'è che imparerai a cucinare? > apostrofai mio padre con poco garbo, ingurgitando controvoglia il riso insipido e scotto che mi aveva preparato per pranzo.
Lui sghignazzò.
< Quando tu smetterai di prenderle di santa ragione. > 
< Sei tu che prima fai il genitore amorevole dicendo che devo rimettermi e poi mi trascini in palestra per un allenamento, additando la patetica scusa che "il dolore fortifica corpo e mente". >
Lui annuì convinto.
< Esatto, figliolo. Più incassi colpi, ma stringi i denti e resti in piedi, più in fretta guarisci. Se impari a sopportare le fitte lancinanti... >
< ...potrò morire dissanguato senza quasi accorgermene. Ma che cazzate dici? Il sole ti ha cotto il cervello sotto quel fazzoletto rattoppato. > ringhiai e gli tirai un bicchiere che lui prese al volo con nonchalance.
< Ingrato. > mugugnò, servendosi una seconda abbondante porzione di riso.
< Padre degenere. > replicai stizzito, rinunciando a costringermi a mandare giù quel pasto aberrante.
Posai la mia ciotola sul tavolo e controllai con un'occhiata preoccupata le bende macchiate nuovamente di rosso che mi avvolgevano la spalla. 
< Forse dovresti farti dare un'occhiata dal dottor Shima. > 
< Già, grazie tante. > 
< Smettila di lagnarti. Ti ricordavo più uomo. > mi rimproverò lui, aggrottando le sopracciglia scure contrariato. 
< Tu non hai idea di quello che ho passato, vecchio! > sibilai, alzandomi di scatto, le mani sul tavolo e i denti serrati.
I suoi occhi severi corsero alla mia fasciatura e per un attimo parve pentirsi delle sue parole.
Sospirò.
< Quanto hai intenzione di restare? > chiese, cambiando argomento.
< Poco, il tempo di sistemare un paio di questioni. >
< Ucchan lo sa? > 
< Si, credo sì. > mugugnai a disagio.
La verità era che non riuscivo ad affrontare quel discorso con lei. Ci eravamo appena ritrovati e il solo pensiero di abbandonarla di nuovo, spaccarle ancora il cuore e lasciarla nelle luride mani di quell'avido di suo padre mi ripugnava, ma non potevo fare altrimenti: quello non era più il mio posto. Forse non lo era mai stato.
Iniziavo a sospettare che per anni mi fossi fatto andar bene addosso un vestito stretto che tirava sulle cuciture e che mi rendeva goffo in ogni movimento; ora non ero più disposto ad indossarlo, a farmi togliere il fiato dal colletto troppo stretto.
< Fra il pensare qualcosa ed averne la certezza c'è una bella differenza. Dovrai dirglielo apertamente, figliolo. > 
A disagio, mi incamminai stancamente verso la cucina senza rispondere.
Mio padre aveva ragione: la vita di Akane era altrove ed il mio cuore le apparteneva, perciò l'avrei seguita ovunque fosse andata, ma per qualche assurdo motivo non riuscivo a dare consistenza a quelle parole davanti a Ukyo. 
Ero forse diventato un codardo?
< Con questo atteggiamento la farai soffrire ancora di più, stupido che non sei altro! > mi gridò dietro lui, mentre mi sbattevo la porta di casa alle spalle.
 
L'eco dell'ammonimento del mio vecchio mi ronzò nelle orecchie per tutto il tragitto fino allo studio del dottor Shima.
Fiaccato dal dolore e da quella che- a giudicare dai sintomi- aveva tutta l'aria di essere febbre ci avevo impiegato il triplo del tempo ad arrivare; tempo che avevo speso ad insultare me stesso.
Mi stavo riparando dietro un comodo alibi, mentendo prima di tutto a me stesso?
Quant'era labile il confine tra bugia a fin di bene e vigliaccheria? 
Maledizione, non riuscivo a non sentirmi responsabile per lei!
< Ranma, ragazzo mio, hai per caso sfondato un muro a spallate? > chiese l'anziano medico, arricciando il naso bitorzoluto mentre ispezionava la mia ferita.
< Mi sono solo allenato un po'... > cercai di giustificarmi, ma il suo sguardo bonario era svanito.
< Ti avevo raccomandato assoluto riposo! > 
< Lo so, ma... >
Il dottor Shima bofonchiò qualcosa e poi prese a disinfettarmi la ferita con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcol che quasi mi fece perdere i sensi per la sofferenza.
Il dolore fortifica corpo e mente, un cazzo!
Mio padre me l'avrebbe pagata cara.
< Tutti uguali voi giovani: vi si dice una cosa per il vostro bene e fate l'opposto. > si lamentò il medico, strizzando gli occhietti piccoli da topo. 
Mi conficcai le dita nella coscia per non mettermi a strillare.
< Di chi... > attaccai, ma poi capii a chi si stava riferendo.
< Akane è sveglia? Posso vederla? > domandai con un salto, dimenticando la mia ferita e tutte le fitte di protesta che il mio corpo mi stava lanciando.
Il dottor Shima alzò gli occhi al soffitto, accarezzandosi il lungo pizzetto grigio.
< Solo se ti fai medicare a dovere e prometti di non fare sforzi eccessivi... >
Annuii più volte e lasciai che finisse il suo lavoro fremendo sullo sgabello, pensando a tutte le cose che avrei detto ad Akane non appena i miei occhi avessero incontrato i suoi.
Mi sembrava di non vederla da un decennio.
La sua assenza era come un costante coltello piantato nello stomaco, che andava più a fondo ad ogni passo.
Avevo bisogno di lei.
Non appena il dottore si voltò per riporre il disinfettante e le garze avanzate, scattai in piedi e corsi verso la stanza di Akane, prendendo fiato prima di bussare piano.
Uno, due, tre colpi.
Tum. Tum. Tum-tum.
Attesi una risposta che non arrivò ed allora, impaziente, entrai ugualmente, cercando di fare meno rumore possibile nel caso in cui stesse dormendo.
Lei, però, era sveglia ed era seduta sul futon, rivolta col viso verso la finestra.
La sua schiena era coperta da spessi strati di bende candidi, ma anche senza vederla io sapevo perfettamente dov'era la sua ferita. Il punto in cui il pugnale le era entrato nelle carni e quasi me l'aveva portata via.
Al solo pensiero, mi sentii mancare.
< Akane? > la chiamai.
Feci un paio di passi nella sua direzione e poi, spinto da un'irresistibile voglia di stringerla a me, la raggiunsi con una falcata e l'abbracciai con slancio.
< Non ti azzardare mai più a spaventarmi così, capito? > la rimproverai parlando con le labbra premute sul suo collo.
Era calda. Era viva. 
< Ranma... > mormorò, staccandosi da me.
La guardai in viso e negli occhi le vidi il fuoco di una battaglia che stava consumandosi nel suo petto.
< Cosa c'è? > chiesi, in ansia.
Le iridi di Akane erano traslucide, bagnate di lacrime non versate, e opache, come se impresso nella sua retina ci fosse un ricordo di cui non riusciva a liberarsi nemmeno battendo le palpebre.
< Stai bene? > s'informò, ma mi sembrò che la vera domanda che voleva pormi le fosse rimasta impigliata in gola.
< Sono stato peggio. > le sorrisi e le accarezzai il viso; lei tremò. < E tu? >
< Sono stata meglio. > disse con un tono vagamente scherzoso che mi fece sorridere; la sua bocca, tuttavia, non espresse il benchè minimo divertimento.
C'era qualcosa che non andava, qualcosa che avvertivo a pelle e mi metteva a disagio, rigirando quel maledetto coltello nella mia pancia.
< Devi dirmi qualcosa. > asserii deciso, cercando di spronarla a parlare.
Non era una domanda, la mia; sapevo che qualcosa bolliva sottopelle.
Akane mi sembrò di colpo arrabbiata e ferita insieme.
< No. > replicò dura e battè le palpebre, cercando di nascondere quei sentimenti che le brillavano nelle iridi e avrebbero potuto smascherarla.
Mi accigliai, senza riuscire tuttavia a impormi di non toccarla.
< Mi stai mentendo. >
Strinse i denti e voltò lo sguardo di lato < Smettila. >
< Smettila tu, stai facendo la bambina. Cos'è successo? >
Fece una smorfia derisoria e amara e dirottò il discorso su un terreno meno impervio, su cui camminare non faceva poi così rischioso.
< Dove siamo, Ranma? >
Mio malgrado, l'assecondai con un sospiro: tanto più io avessi tentato di estorcerle qualcosa che lei non voleva venisse alla luce, tanto più si sarebbe morsa la lingua e sigillata le labbra.
Ed il mutismo non ci avrebbe portato da nessuna parte.
< Nel mio villaggio. Era il più vicino: avevi bisogno di cure immediate. >
< Avrei dovuto aspettarmelo. > mormorò monocorde, con una linea di rassegnazione nel tono di voce.
< Che significa? > sbottai e la scrollai per le spalle; la sua risposta fu un'espressione sofferente.
< Cazzo, scusa...io non...non ho pensato che... >
Akane mi trapassò con uno sguardo tagliente ma non aprì bocca nè si lamentò.
Sospirai, guardai quelle mani che non avrebbero volute che darle sollievo e invece avevano svegliato il suo dolore e poi mi grattai la nuca, improvvisamente a corto di parole.
Che accidenti era accaduto in quei pochi giorni di distacco?
Perchè Akane sembrava essere regredita alla freddezza dei suoi giorni d'assassina? Perchè mi fissava come se fossi un estraneo e mi teneva a distanza, innalzando in fretta e furia un nuovo muro fra noi?
Cosa le avevo fatto? Come potevo rimediare?
Aprii bocca e non mi venne in mente niente da dire di più intelligente di < Ce ne andremo presto. >
Sorrise, ingoiando un singhiozzo e faticando a trattenere in equilibrio le lacrime agli angoli delle ciglia, e poi si sporse verso di me, stampandomi un timido bacio sulle labbra.
Sapeva di addio.
< Vorrei fosse vero. >

***
 
Alzai lo sguardo verso il cielo, per non dirigerlo indietro.
Se avessi anche solo sbirciato alle mie spalle non mi sarei mossa e dovevo farlo. Lo dovevo a me stessa.
La luna era pallida, come spenta, e mi guardava silente; compii un primo passo incerto.
Kasumi quand'ero bambina, mentre mi pettinava i capelli in una treccia, mi raccontava storie di fantasia inventate sul momento per insegnarmi cose nuove sul mondo che mi aspettava una volta adulta.
Era una brava narratrice, lei, con la sua voce melodica e delicata ed il modo in cui dava vita a forme e persone solo con le parole; tutto il contrario di me, che senza l'ausilio delle mani e delle maniere forti non sapevo esprimermi.
Il finale delle sua favole, ad ogni modo, non sempre era felice.
< Non ti parlerò di quanto sia bella e semplice la vita, sorellina. Non è così. Devi sapere a cosa vai incontro; al mondo esistono anche cose brutte e dolorose: la separazione, la lontananza, la guerra, la morte... >
Mi ero cibata dei suoi racconti per anni, apprendendo curiosa tutto quel che poteva darmi, tuttavia ogni volta che i due protagonisti di una bellissima storia d'amore si dividevano per qualche motivo -più o meno grave che fosse- non potevo trattenermi dal chiederle sempre la stessa cosa: < Perchè? >
Kasumi sorrideva con amarezza e mi spostava le ciocche della frangetta dal viso, per depositare un piccolo bacio sulla mia fronte e poi chiudermi in un abbraccio caldo e profumato di bucato.
< Sarai tu a dirmi perchè, prima o poi, tesoro. > rispondeva enigmatica, lasciandomi sempre insoddisfatta.
Mossi un altro passo, un po' più deciso, poi un altro ed un altro ancora, lentamente per non rischiare di far riaprire la ferita sulla schiena e quella che mi trapassava il cuore dal parte a parte.
Non avrei pianto, ero forte; avevo smantellato un'intera setta di assassini, sarei sopravvissuta ad un po' di mal d'amore. Col tempo avrei smesso di sanguinare e sentire dolore.
In fondo, stavo facendo ciò che era meglio per lui, ciò che era più giusto, ciò che gli avrebbe evitato sofferenza e angoscia: lo stavo liberando.
Quando ami, Kasumi, quando ami tanto, devi lasciare andare, ora lo so.
 
*Capitolo XIII "Still here"


Cambio d'ufficio, chiusura di ben due trimestri, ferie alle porte = ispirazione, ciao ciao!
Ecco spiegata, con una piccola ma esplicativa equazione, il motivo di quest'attesa.
Pardonne moi.
Anche -e soprattutto- per le mancate risposte alle recensioni...ma o il capitolo o quelle.
So bene che aspettate con sempre meno entusiasmo questa storia perchè dopo ben 26 capitoli ancora non riesco a chiuderla e a lasciarvi andare, ma quantomeno mi sto impegnado per terminarla degnamente.
Trascinarla più del dovuto, ad ogni modo, non ha senso, perciò il prossimo sarà il capitolo conclusivo, cui poi seguirà un piccolo epilogo (credo) e beh, poi sarà davvero finita.
Conclusa questa storia, chiuderò per un po' i rapporti con EFP suppongo. La scrittura mi porta via tempo che non ho e mi svuota di energie e se non posso dedicarmici con entusiasmo, non ha senso farlo.
Forse tornerò sporadicamente con qualche one-shot sui telefilm che seguo (aumentano di giorno in giorno, sono diventata dipendente :S) ma nulla di più, per ora.
Ho bisogno di cose nuove e di vivere un po' io stessa, prima di poter dare di nuovo vita a personaggi di carta inchiostro e fantasia.
Beh, non è ancora il momento dei saluti ma ci siamo quasi, perciò tenete duro e mettete da parte una grossa dose di fazzoletti.
Mi mancherete tutte, ma aver condiviso questo viaggio con voi è stato bellissimo.
Grazie.

Strange

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