La lunga strada verso casa {inverno}

di EffieSamadhi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 | Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. ***
Capitolo 2: *** 2 | Siamo sotto lo stesso cielo, e la notte è vuota per me tanto quanto lo è per te. ***
Capitolo 3: *** 3 | Mio nonno diceva sempre: una bugia a fin di bene vale più di cinquecento verità. ***
Capitolo 4: *** 4 | C'è qualcosa che hai dimenticato di dirmi? ***
Capitolo 5: *** 5 | Un uomo non deve morire per andare all'inferno. ***
Capitolo 6: *** 6 | Dimentica l'amore, e forse anche il dolore passerà. Dimentica le cose belle, e tutto il male, sai, di colpo sparirà. ***
Capitolo 7: *** 7 | 'Bella mattinata. Poseidone benedice il nostro viaggio.' 'A volte gli dei ti benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio.' ***
Capitolo 8: *** 8 | Non ricordo niente di quello che è stato, ricordo solo che ero innamorato. ***
Capitolo 9: *** 9 | Rimpianti e rimorsi sono la stessa cosa. ***
Capitolo 10: *** 10 | Questi eravamo noi una volta. Stava piovendo, e i miei erano usciti in macchina. Ai tuoi cos'è successo? La notte ti sento piangere. Sogni i tuoi genitori? E' per questo che distruggi tutto, e mi ***
Capitolo 11: *** 11 | Se nessuno ti vede, allora nessuno sa. ***
Capitolo 12: *** 12 | Dove siamo? Che cosa diavolo sta succedendo? ***
Capitolo 13: *** 13 | Il mio cuore dice una cosa, il cervello ne dice un'altra. Non è facile, no, mettere d'accordo cuore e cervello, per me. I miei non si danno neanche del tu. ***
Capitolo 14: *** 14 | Giorno uno, giorno uno, ricominciare da capo. ***
Capitolo 15: *** 15 | La carne è debole. Solo l'anima è immortale, e la tua appartiene a me. ***
Capitolo 16: *** 16 | Immagino che adesso dipenda da me: devo correre il rischio, o soltanto sorridere? ***
Capitolo 17: *** 17 | L'inferno è vuoto, e tutti i demoni sono qui. ***
Capitolo 18: *** 18 | Sono l'elefante, che posso fare, inchiodato al suolo e a questo amore. ***
Capitolo 19: *** 19 | Eravamo un famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno contro l'altro, ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto a perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare ***



Capitolo 1
*** 1 | Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. ***


La lunga strada verso casa - 1
Carissimi lettori di “Portagioie di tristezza”,
immagino di dovervi una confessione. Nello scrivere quel fatidico 'capitolo 21', era mia precisa intenzione ferire ogni vostra speranza e mutilare ogni vostro sogno di lieto fine – non perché improvvisamente sia venuto meno in me lo spirito romantico, ma semplicemente perché cercavo disperatamente una ragione per scrivere ancora di Shannon e Daria – perché sicuramente quella storia non sarebbe potuta andare avanti all'infinito, benché la sottoscritta continui ad avere una folle voglia di scrivere di loro.
Confesso di aver scritto di proposito quel finale, confesso di aver intenzionalmente spezzato il cuore di Shannon, confesso di aver volontariamente esposto Daria alla gogna, facendovela a volte odiare, a volte compatire, e a volte (poche) comprendere. Forse non vi consolerà sapere che tutto ciò che è stato fatto è stato fatto in funzione di una nuova storia, ma in un certo senso consola me, che posso tornare a scrivere per persone che mi hanno fatta sentire veramente apprezzata.
Perciò, prima di iniziare, vorrei prendermi un minuto per ringraziare ciascuna delle persone che ha inserito “Portagioie di tristezza” in una delle tre liste – storie preferite, storie da ricordare, storie seguite.
Grazie 7taras, Aandyy, after rain, Aine Walsh, alessandra black, alice 26, Amyvitamia, Arichan4334, arula92, BabyIWillLoveYouForever, Bdb, BlumeinderNacht, Butterfly Dream, Capino, carly cec, Ciambellina, cice ska, Cimma, Closer to the edge, cris leto, CutePoison83, Cuup, DadaOttantotto, dama galadriel, Echelon26, EchelonHR, echelonisfaith, Faith h2o, fede lea90, FediPan, Floki97, Francesx, Fra_BVB Echelon Punk, Fuckthishit, GB Echelon, GiuEchelon3, gradina99, Green Arrow, guardacomemidiverto, hillarysuellen, INGLION, JessyJoy, Kamira, kari87, katherineheat, katvil, LexieEchelonMF, LightCross, LittleDevil98, Love_in_London_night, LysergicAcid, MarsAlbe, MartyRudolf, melany987, meryj, MichelleEarth, Mikal095, miky 483, Mimmi Windsor, miriam504, miss nothing, MissGiorgi, Miyul1976, MolokoVellocet, MoulinRouge89, Muty, Mwoshi, nikkei, Ninriel, nuria elena, opticalspring, piratessa93, Pirilla, Romancer9, saraechelon81, Scarlett La Spring, Shanimalrules, Silvia e Aurora, sleepingwithghosts, so far away, stefaniapisani, strangeronmars, SunshinePol, Tandla, TheBlackStar, Titta91, vahu, vale96, vale mars, Venice93, vittoriabp, Xia1101, zetavengeance, _giumuddafuggaz, _Loki, echelon_.
E poi, naturalmente, un ringraziamento va anche a Kath Redford, che è diventata una dei miei trailermaker preferiti e sarà da me torturata nei secoli dei secoli, amen. I suoi (stupendi) lavori sono ammirabili sul gruppo Facebook Trailer su richiesta :D, dove potete trovare anche il trailer di “Portagioie di tristezza”.
E un ultimo, enorme ringraziamento va anche a Kashmir, che quattro anni fa, passandomi il link di questo sito, sicuramente non immaginava di aver appena creato un mostro.
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo primo
Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo.1


Los Angeles, 2 gennaio 2014


    «Che cosa sta succedendo, Jay?»
    Jared mentirebbe, se dicesse che quella domanda lo coglie impreparato: lui e Shannon sono tornati a casa da poco più di dieci giorni e, forse incapaci di restare soli dopo la frenesia del tour e il casino di cui si sono circondati negli ultimi mesi, hanno piantato le tende a casa della madre, raccontandole di non aver voglia di lasciarla sola durante le feste. Ma se sono due uomini intelligenti e con la testa ben piantata sulle spalle, è ovvio che da qualcuno devono aver preso: Constance si è presa tempo, li ha osservati di nascosto, riuscendo a non scoprire mai le sue carte, e alla fine ha capito che quei due nascondono qualcosa. Tuttavia, per qualche strana ragione che riesce ad identificare solo come innata testardaggine, l'uomo tenta la strada dell'indifferenza. «Sto lavando i piatti, mamma» risponde facendo spallucce. Non si volta a guardarla, consapevole che gli occhi lo tradirebbero.
    «Sei un ottimo attore, ma io resto tua madre.» Si appoggia con la schiena al mobile, incrociando le braccia davanti al petto. «Che cosa sta succedendo, Jay?» ripete, abbassando ancora la voce. «C'è qualcosa che non mi dite, e tra noi non ci sono mai stati segreti.»
    Jared sciacqua il bicchiere che tiene tra le mani, indugia su un paio di forchette e poi decide di lasciar perdere. Appoggia le mani sul bordo del lavandino, sostenendo per un istante il peso del proprio corpo con le braccia. Attraverso la finestra sbircia in giardino, dove Shannon sta giocando con il proprio cane2: per ovvie ragioni non può portarlo con sé quando sono in tour, perciò ad ogni ritorno passa ore a recuperare il tempo perduto. «Che cosa vuoi sapere?»
    «Tutto quello che puoi dirmi. Perché tuo fratello è così giù di morale, per esempio. E di conseguenza, perché lo tieni d'occhio come se avessi paura di vederlo sprofondare nel pavimento ad ogni minuto che passa.» Jared trova finalmente il coraggio di voltarsi per guardarla negli occhi, e nel suo sguardo legge la sincera preoccupazione di una madre che non vuole più veder soffrire i propri figli, per quanto cresciuti e pronti a fare le loro esperienze. «So che c'è qualcosa che non va, ma non posso aiutarvi se non mi dici nulla.»
    «Io non ho bisogno di aiuto, mamma. Io sto bene.» Guarda di nuovo in giardino: Shannon sta controllando il cellulare, gesto che ormai ripete ad intervalli regolari di trenta minuti. «Ma lui...» inizia, interrompendosi subito dopo. La voce gli si è incrinata come mai è successo prima, e prima di continuare deve trarre un respiro molto profondo. «Lui non sta bene. Sono preoccupato per lui.»
    «Cos'è successo?»
    «Ha conosciuto una ragazza.»
    «Tutto qui? E da quando conoscere una ragazza vi spaventa?» replica lei con un sorriso. «Chi è? La conosco?»
    Jared scuote la testa. «L'ha conosciuta in Italia, all'inizio di novembre. Si sono sentiti per un po', circa un mese, e poi lei è sparita.»
    «Sparita... in che senso?»
    «Lo ha lasciato e gli ha chiesto di non cercarla più.»
    «Lo ha... lasciato? Stavano insieme?»
    «Mamma, è una storia un po' complicata da raccontare...»
    «Beh, io ho tempo.»
    Un po' riluttante a ricordare tutta la storia che Shannon ha deciso di seppellire e che gli ha chiesto di dimenticare, Jared guarda ancora una volta fuori, per assicurarsi che il fratello sia impegnato e non lo possa così soprendere nell'atto di fare la spia. Torna ad immergere le mani nell'acqua saponata, iniziando a raccontare le cose così come le conosce lui, certo che alla fine del racconto Constance saprà fargli dono di un ottimo consiglio.


*



Torino, 2 gennaio 2014


    Danilo bussa alla porta della camera della figlia, aspettando il suo permesso prima di entrare. «Si può? Volevo chiederti... vuoi che ti accompagni? Sembra che voglia mettersi a nevicare, e la strada fino a casa di Stefano è lunga.»
    «Non ti preoccupare, mi viene a prendere qui» risponde Francesca, finendo di chiudere la zip dello stivale. «Sono contenta che tu non abbia dato di matto quando l'ho portato qui, sai? Pensavo che la cosa ti avrebbe dato fastidio.»
    «Mi ha solo sorpreso un po', ma... no, infastidirmi mai. È la vostra vita, in fondo. Basta che tu faccia attenzione e che ti ricordi che per ogni cosa siamo qui, e a me andrà bene.» Indugia per un istante sulla porta, poi si fa avanti. «Posso... posso sedermi un attimo? Ti vorrei parlare di una cosa.»
    Francesca si sposta un po' per fargli spazio sul letto, infilandosi l'altro stivale. «Se vuoi farmi un discorso di tipo intimo, non ti preoccupare. Ho già parlato con Daria, mi ha fatto una paternale migliore di quella che mi potresti fare tu.» Per ovvie ragioni non ha raccontato al padre proprio tutto di Stefano, ma sa che tirando in ballo la sorella eviterà ad entrambi un profondo imbarazzo.
    «No, no, io... sì, insomma, tua sorella mi aveva detto che ti ha spiegato tutto lei, quindi... sono... sono abbastanza tranquillo. In realtà io... io volevo parlare proprio di Daria.»
    «Ah» è il commento di Francesca, che per non essere costretta a mantenere il contatto visivo si alza e va alla scrivania, iniziando a frugare nel portagioie alla ricerca degli orecchini giusti da indossare. «Perché vuoi parlare di Daria? È successo qualcosa?»
    «Beh, in verità speravo che questo me lo potessi dire tu. Ultimamente è... non lo so, la vedo strana. Non so, forse è soltanto una mia impressione, ma... ogni tanto mi sembra triste, come se qualcosa stesse... la stesse divorando dentro. E allora sai, mi chiedevo se... beh, se magari con te avesse parlato di qualcosa. In fondo siete sorelle, ha sempre avuto più confidenza con te che con me.»
    Francesca si volta, indossando uno degli orecchini scelti. «No, a me non ha detto niente. Insomma, non è successo nulla di preoccupante, che io sappia. Non la vedo neanche così giù di morale, se devo dire il vero. Lei è... lei è Daria, ecco.» Indossa anche l'altro orecchino. «Forse pensi che sia giù di morale perché sono le feste di Natale, e lei nelle feste è sempre stata qui. Sai, tipo... non so, pensi che sia triste perché non è qui.»
    Danilo scuote la testa, tenendo lo sguardo basso e aggrappandosi al bordo del materasso con entrambe le mani. «No, è... è da molto più tempo che la vedo così. Da quando è tornata da Parigi. È diversa, è... non so nemmeno come spiegarmi, accidenti. Non mi sembra la solita, tutto qui. Magari è successo qualcosa in quel periodo. Nemmeno allora ti ha detto niente?»
    «No, non che mi ricordi. E se fosse successo qualcosa di importante me lo ricorderei. Magari è soltanto un po' stressata, no? Sai, tra il trasloco, il lavoro... capita a tutti di essere un po' stanchi, no?»
    «Ma sì, certo... ma sì, probabilmente mi sono sbagliato. Forse è soltanto un po' sotto pressione.» Si alza e posa un bacio sulla fronte della figlia minore, sorridendole. «Scusa se ti ho disturbato, è solo che... io mi preoccupo per voi, lo sai.»
    «E noi siamo felici che tu lo faccia» sorride lei. Segue la sua ritirata e gli chiude la porta alle spalle, e immediatamente il sorriso la abbandona. È passato un mese da quando Daria si è costretta a rinunciare a Shannon, e anche se non ne hanno mai parlato apertamente, sa che la decisione la fa ancora soffrire come un cane. Lei ha saputo il necessario da Alice, e per un mese si è trattenuta a stento dall'urlare in faccia alla sorella che essere la maggiore non la rende la più saggia, perché soltanto una stolta avrebbe dato un calcio alla felicità come ha fatto lei. Si è costretta a tacere, sperando che il segreto potesse essere annegato dall'indifferenza, ma l'incursione del padre le dimostra che i segreti non muoiono mai.
    Il campanello di casa suona, distraendola dai suoi pensieri, e suo malgrado si costringe ad uscire con il sorriso stampato in volto, mentre il cuore somiglia sempre più ad un oceano in tempesta.



*



Los Angeles, 2 gennaio 2014


    «E non l'ha cercata? Non ha fatto il diavolo a quattro pur di riaverla con sé?» domanda Constance, sgranando gli occhi per la sorpresa, ma tenendo sempre la voce bassa. Dov'è finito il mio bambino, quello che combatteva per ciò che desiderava fino allo stremo delle forze?
    «Sono preoccupato per lui» sussurra Jared. «Non si è mai comportato così. Lui... lui è Shannon, ecco. Lui è uno schiacciasassi, è uno che non si ferma mai davanti a niente. Lui non è così, lui non è un...» Si blocca prima di dire la parola che stava pensando. Non può sopportare di ridurre il fratello ad una simile descrizione.
    «Stavi per dire debole
    «Lo so che i concetti di forza e debolezza sono relativi, ma è innegabile che lui sia sempre stato uno forte. Niente è mai riuscito ad abbatterlo.»
    «Proprio niente non direi» lo corregge Constance, abbassando lo sguardo. Jared la imita, ricordando quel periodo buio e nero di molti anni prima, quell'abisso in cui anche loro sono precipitati, quel lunghissimo anno in cui nessuno dei tre sentiva di poter tornare a vedere la luce. «Forse ha solo trovato una persona più forte di lui. C'è sempre qualcuno più forte di noi, là fuori.»
    «Non Daria» ribatte lui, voltandosi a guardarla. «Insomma, lei non... lei non sembrava affatto una persona forte. Lei sembrava... sembrava sempre così fragile. Personalmente, la prima volta che l'ho incontrata ho creduto che si sarebbe dissolta se solo l'avessi guardata
    «Ci sono persone che sono molto brave a dissimulare il loro vero io. Tu sei un attore, questo dovresti saperlo.»
    «Lo so, però... non lo so, forse non riesco ad accettare che qualcosa possa sconfiggerlo. È il mio fratello maggiore, no? L'ho sempre visto come un'icona, un modello, un eroe! È come se Lex Luthor riuscisse finalmente ad uccidere Superman. È impossibile da credere, e la sola idea fa male da morire
    «Che cosa ne dice lui? Insomma, come sta affrontando la situazione?»
    «Non dice nulla. E non fa nulla. Tranne controllare il cellulare ogni mezz'ora per vedere se lei lo ha cercato. So che lo fa, ma lui non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura.»
    «Chi è che non farebbe cosa sotto tortura?» Presi dalla conversazione, entrambi si sono dimenticati di controllare il giardino, e Shannon li sorprende insieme proprio sul finire dell'ultima frase.
    Per fortuna Constance ha sempre coltivato l'arte dell'improvvisazione, e con un sorriso riesce a salvare la situazione. «Tuo fratello è sempre il solito. Dice che non inizierà ad usare la lavastoviglie nemmeno sotto tortura, ma quando avrà l'artrite correrà da me a cercare conforto e io mi divertirò da morire a dire 'Te l'avevo detto'. Com'è il tempo fuori?»
    «Non così male. Si è alzato un po' di vento, ma siamo ancora nella media. Mi mancava l'inverno californiano» aggiunge Shannon con un sorriso, accarezzando la testa del cane, che si è drizzato sulle zampe posteriori e continua ad annusargli le mani alla ricerca della pallina con cui stavano giocando poco fa.
    «Sapete, mi è proprio venuta voglia di un gelato» esclama lei all'improvviso, guardando entrambi i figli.
    «Mamma, Natale è passato da una settimana» le fa notare Jared. «Va bene che siamo nella terra dell'eterna estate, ma non ti sembra di esagerare?»
    «Oh, se non sarà un gelato sarà un frappé. Comunque ho voglia di andare a fare un giro. Venite con me? Scommetto che anche Bruce ha voglia di uscire» aggiunge, accarezzando a sua volta il cane. È stato Shannon ad andare al canile per sceglierlo, ma è stata lei a decidere il nome, pretendendo che si chiamasse come quello che secondo lei è uno dei più grandi musicisti statunitensi. «Quando non ci siete andiamo a fare un giro in spiaggia quasi tutti i giorni, scommetto che gli manca da morire. È quasi una settimana che non ci andiamo. Che ne dite?»
    «Se è per fare contento Bruce...» sorride Shannon, facendo spallucce.
    «Jared?»
    Jared intercetta lo sguardo della madre, e quello, unitamente al fatto che abbia usato il suo nome di battesimo, gli fa capire le vere intenzioni di Constance: lo ha invitato, ma vuole che rinunci, dandole così l'opportunità di passare un po' di tempo sola con Shannon, per tentare di tirargli fuori quelle parole che il fratello non sarebbe mai tentato di pronunciare in sua presenza. «No, andate pure senza di me. Io devo chiamare Emma, abbiamo un po' di lavoro da sbrigare.»
    «Poveraccia, non la lasci in pace nemmeno durante le feste» lo prende in giro Shannon, spostandosi nell'ingresso per cercare il guinzaglio di Bruce. «L'hai chiamata anche a Natale?»
    «Certo, per farle gli auguri!» replica Jared, asciugandosi le mani e rivolgendo uno sguardo d'intesa alla madre, che segue Shannon per infilarsi la giacca e le scarpe. «Copritevi bene, che gira un sacco d'influenza. Non voglio convivere con i vostri microbi.»



*



Torino, 2 gennaio 2014


    «Daria, ti devo parlare. Quando hai finito puoi venire un attimo di là?» Marco scompare nel retro, e io resto come pietrificata. Ti devo parlare è una frase pericolosa e carica di significati negativi: quando mai al Ti devo parlare segue qualcosa di buono? Ho visto abbastanza film e letto abbastanza libri da parlare con cognizione di causa, e sono così certa della mia teoria che le gambe hanno iniziato a tremare non appena ho sentito Marco pronunciare quelle tre fatidiche parole. Cerco di svolgere i miei doveri con la solita calma e concentrazione, ma non è affatto facile: allo scoccare delle sette spengo le luci, chiudo i conti, scollego la cassa e volto il cartello da 'Aperto' a 'Chiuso'. Dopodiché cammino fino al retro, restando ferma sulla porta in silenzio per qualche minuto con lo sguardo fisso su Marco, quasi come se non mi andasse di stargli troppo vicina.
    Marco è, come Jared, uno di quegli uomini per cui il tempo sembra scorrere in modo diverso, più lentamente rispetto al resto del mondo: lo conosco da cinque anni, e se non fosse stato lui a rivelarmi la sua vera età, nemmeno in un milione di anni avrei creduto che fosse così vicino alla soglia dei quaranta. Negli ultimi mesi, però, le preoccupazioni legate al lavoro – la crisi economica, in generale, e la pigrizia di Carlotta, in particolare – sembrano averlo allontanato dalla linea della trentina, quella su cui era assestato ormai da tempo, per avvicinarlo finalmente alla maturità. «Marco, io ho finito» dico, consapevole che il mio è praticamente un sussurro strozzato, più che una frase vera e propria.
    Nel sentire la mia voce si toglie gli occhiali e appoggia i libri che stava esaminando sulla scrivania, per poi venire verso di me a passo lento. Il primo pensiero, per quanto lo ritenga impossibile, è che stia per farmi delle avances. «Daria, io ti devo parlare di una cosa importante. So che sei una ragazza intelligente, dunque sarà molto più facile farti capire quello che sto per dire.» Dal tono con cui mi parla, serio e grave, capisco che posso scartare l'ipotesi che ci stia provando – ma questo non fa diminuire la mia paura. «Immagino ti sia accorta che in questo ultimo periodo le cose non sono andate bene come un tempo.»
    «Sì, un lieve calo nelle vendite c'è stato» rispondo. Non sono un'ingenua, so bene che, un po' per la crisi e un po' per i nuovi modi di leggere, sempre meno gente si concede il lusso di un buon libro. «Mi sono accorta che non vendiamo bene quanto cinque anni fa, ma non mi sembra nemmeno che siamo sull'orlo del tracollo.» O forse sì?
    «Ecco, quello che volevo dirti è che io ho dovuto prendere una decisione importante. Insomma, con i guadagni minori e il giro d'affari che cala, io... io non mi posso più permettere di pagare due stipendi.»
    Improvvisamente mi sento come se mi avessero appena colpito in pieno stomaco con una palla da demolizione, e non sono sicura di conoscere la legge fisica che mi permette di stare con i piedi ancorati al terreno nonostante tutto – né, soprattutto, quella che mi permette di stare ancora in piedi in generale. Non ho bisogno di sentire altro: Marco mi sta licenziando. Mi sta licenziando, e non posso accettarlo. Non dopo aver lavorato per lui per cinque anni interi, non dopo aver svolto ogni compito che mi assegnava, non dopo essermi dimostrata, per sua stessa ammissione, 'la miglior commessa che abbia mai avuto'. Ma soprattutto, mi rode il fatto che stia licenziando me invece di Carlotta, la donna più pigra, sciatta e ignorante che abbia mai conosciuto. «Tu non puoi licenziarmi, Marco» riesco a dire infine, tenendo il tono basso. «Tu non puoi licenziarmi!» esplodo subito dopo, incapace di tenermi dentro la rabbia e la frustrazione. «In questi ultimi cinque anni non ho fatto che vivere e respirare per questo posto, ho fatto tutto quello che mi chiedevi, ho fatto un mucchio di straordinari senza mai chiederti nulla, ho coperto i turni più assurdi, ti ho sostituito alle fiere, ti tengo in ordine l'archivio, ci manca solo che ti lavi le mutande! E mi licenzi per tenerti Carlotta? Quella non sa nemmeno scrivere il suo nome, per la miseria!» Adesso sto deliberatamente urlando, ma non mi importa: ho passato tutta la vita a lasciarmi scivolare addosso dolori e ingiustizie, e ne sono stufa. E poi ho sempre considerato Marco come un amico, oltre che un capo, e non posso credere di aver riposto tanto male la mia fiducia... proprio io, che impiego così tanto a concederla. «No, sai cosa ti dico? Tu non mi licenzi. Me ne...»
    Non faccio in tempo a finire la frase che mi afferra le spalle, trattenendomi davanti a lui. «Ma che hai capito? Dio, volevo farti stare un po' sulle spine, ma tu ci sei cascata con tutte le scarpe... è Carlotta quella che ho licenziato. Carlotta, capito?»
    «C-carlotta?» balbetto, senza capire.
    «Ho licenziato Carlotta» ripete, a voce più bassa. «Scusa, volevo prenderti in giro, ma non credevo che la prendessi così...»
    «Scemo!» esclamo, spingendolo via. «Ti sembrano scherzi da fare?» aggiungo, dandogli un altro spintone. E lui che fa? Lui ride. Ride, e il suo volto torna ad essere quello del Marco che cinque anni fa mi ha assunto, quello del Marco spensierato e allegro che mi ha sempre trattata da pari. «Mi sono spaventata, sai?»
    «Scusa, ma la tentazione di prenderti un po' in giro era troppo forte. E poi avevo bisogno di ridere un po'» aggiunge. «E se posso dire la mia, anche tu sembri avere bisogno di divertirti, quindi ti darò un motivo per ridere. O per sorridere, almeno. Ti ho dato un aumento.»
    «Cosa?»
    «Niente di speciale, sono solo cento euro. Però ho pensato che potessero farti comodo.»
    «Certo che mi fanno comodo. Mi fanno molto comodo. Comunque non credere di cavartela così a buon mercato. Resti un cretino.»
    «Lo prenderò per un complimento. Senti, hai da fare stasera? Pensavo che potremmo andare a mangiarci qualcosa. Così, per festeggiare. Che ne pensi?»
    Fingo di rifletterci su per qualche secondo, mentre in realtà ho già deciso. «Ci sto. Ma solo se mi offri la cena. Con la sincope che mi hai causato, direi che è il minimo.»
    «Cosa? Ma se ti ho dato l'aumento contando sul fatto che avresti offerto tu...» mi prende in giro. «Dai, prendi le tue cose. Cinese?»
    «Cinese, va bene.»



*


Los Angeles, 2 gennaio 2014


    Bruce mi restituisce il bastoncino e mi strofina il naso umido contro i jeans, facendomi capire che vuole continuare a giocare – so che è soltanto un animale, e che secondo molte persone gli animali non hanno sentimenti umani, ma da quello che ho visto in questi giorni proprio non si direbbe che quel cane non abbia un che di umano. Dal modo in cui mi sta sempre appiccicato, senza mollarmi mai, nemmeno quando dormo, si direbbe che abbia davvero sofferto per la mia lontananza, nonostante sia certo che mia madre non gli abbia mai fatto mancare nulla. Ma d'altra parte, anche a me è mancato lui, nonostante la vita piena e i mille impegni. Torno a lanciare via il legnetto e lo guardo partire all'inseguimento con uno scatto che nemmeno Usain Bolt saprebbe fare.
    «Sai, credo che tu gli sia mancato» sorride mia madre, guardandolo allontanarsi. «Quando non ci sei, a volte la sera si intristisce. Se ne sta tutto solo in un angolo come un cucciolo abbandonato. All'inizio non sapevo che fare quando gli succedeva.»
    «E poi l'hai scoperto?»
    «Mi sono dovuta ingegnare, ma sono riuscita a trovare il modo di farlo sentire meglio.»
    «Ah, sì? E come?»
    «Gli facevo ascoltare Convergence. Non so, era come se sapesse che l'avevi scritta tu. La ascoltava e... non lo so, stava meglio. Certo, i primi tempi dovevo fargliela ascoltare a ripetizione, anche dieci o quindici volte. Per fortuna i vicini sono lontani.» Continuiamo a camminare, mentre Bruce annusa la sabbia e si guarda intorno, come esplorando l'ambiente. «A volte sembra quasi umano, sai? Insomma, forse è solo la fantasia di una vecchia e sciocca signora sola, ma... a volte mi sembra di avere un altro figlio. Bisogna dargli da mangiare, fargli il bagno, mandarlo a dormire, coccolarlo, consolarlo quando è triste...»
    «Non sei una vecchia e sciocca signora sola» replico, stringendole le spalle in un abbraccio. «E poi sei stata un'ottima madre. Perché non dovresti essere anche una brava dogsitter?» aggiungo, schioccandole un bacio sulla tempia.
    «Sai, essere un genitore è un lavoro che non finisce mai. Essere una madre, poi, è ancora più difficile. Inizia quando scopri di essere incinta e finisce solo quando muori. O forse non finisce nemmeno lì, non lo so.» Alza la mano libera per stringere quella che le tengo sulla spalla, e in quel semplice contatto leggo – io, che non sono mai stato un asso a capire le persone – che c'è qualcosa di cui mi vuole parlare. «Insomma, non importa che tu e Jared abbiate quarant'anni suonati e stiate andando per la vostra strada, io... io continuo a preoccuparmi per voi.»
    «Ma tu non devi preoccuparti per noi, mamma. Siamo perfettamente in grado di badare a noi stessi» tento di tranquillizzarla, pur sapendo che il mio tono manca di convinzione – e se anche la convinzione ci fosse, non posso dimenticare che lei è mia madre, e riuscirebbe a smascherare le mie bugie anche bendata.
    «Mi piace pensare che siate forti e imbattibili e che il mondo non vi possa ferire. Mi piace pensarlo, davvero, però... però lo vedo che c'è qualcosa che ti sta mangiando dentro, Shannon. Lo vedo da quando siete tornati. Ce l'hai scritto in faccia che qualcosa non va. Non so che cosa sia, ma è chiaro che qualcosa... qualcosa ti sta mangiando dentro» ripete, voltando il viso verso di me.
    Le mie dita scivolano via dalla sua stretta e il braccio le lascia le spalle. Prendo il bastoncino che Bruce mi sta di nuovo porgendo e lo lancio ancora, sapendo di farlo senza troppa energia. «Hai parlato con Jared, vero? Che cosa ti ha detto?»
    «Non prendertela con lui. Ho dovuto pregarlo per farlo parlare, e tu sai quanto detesti le suppliche.» Sento che un breve sorriso mi muove le labbra, perché se ci sono due cose che mia madre non sopporta sono le suppliche e le falsità – e se mio fratello l'ha costretta alle prime, per tutto questo tempo io l'ho sottoposta alle seconde. «Mi ha raccontato della ragazza che hai conosciuto in Italia. Mi ha detto della vostra... della vostra storia, se vogliamo definirla così.»
    «Non è che possiamo proprio definirla relazione. Non abbiamo mai parlato concretamente della possibilità di stare insieme. Insomma, non... non abbiamo mai dato definizioni. Non era la mia ragazza.»
    «Forse non ufficialmente, ma tu l'hai amata. Lo so, Shannon, so che l'hai fatto. Ti conosco, so che non concedi facilmente il tuo cuore, ma se davvero le cose stanno come dice tuo fratello, io... io credo che tu l'abbia amata profondamente. E credo che tu la ami ancora, nonostante tutto» aggiunge, abbassando la voce.
    «Credevo di amarla, ma ho soltanto preso un abbaglio. Può succedere di sbagliare.»
    «Non a te, però. Né a te né a Jared. Se c'è una cosa che sono felice di avervi insegnato, è il valore di concedere il proprio cuore con giudizio.» Tace, forse aspettando una risposta che non sono in grado di fornirle. «Io ho sbagliato molte volte, ti assicuro che so di che cosa sto parlando. Ho sempre creduto di non aver avuto abbastanza amore, e così l'ho sempre cercato nei posti sbagliati, finendo spesso ferita. Se potessi mostrarti il mio cuore, perderesti il conto delle cicatrici. Questa è una cosa che a te e a tuo fratello non può succedere. Voi sapete che cosa state cercando, e sapete anche dove cercarlo. Questo è il vostro vero talento.»
    Bruce si avvicina per l'ennesima volta, e dopo essere stato per l'ennesima volta al suo gioco mi fermo, i piedi ben piantati nella sabbia umida. «Se potessi mostrarti il mio cuore, ti stupiresti nel vedere quanto è profonda la mia cicatrice» sussurro, sapendo che se non serrassi forte le labbra potrei ricominciare a piangere, esattamente come a Parigi.
    «Se brucia ancora così tanto, significa che a lei tenevi. E se a lei tenevi così tanto, forse significa che non dovresti rinunciare. Non dovresti gettare la spugna senza lottare.»
    «Lottare...» ripeto in tono sarcastico. «Io avrei lottato, mamma. Avrei lottato, credimi. L'hai detto tu, mi conosci, sai che l'avrai fatto. Ma è stata lei a... mi ha chiesto di non cercarla. Mi ha chiesto di dimenticarla. Mi ha chiesto di fingere di non averla mai incontrata. Mi ha chiesto di non lottare
    «E tu le hai dato retta? Da bambino faticavi ad obbedire a me che sono tua madre e improvvisamente cedi alle richieste di una ragazza che conosci da un mese?» Il suo tono è decisamente incredulo, ma la cosa non mi stupisce: so che non riesce a credere che io – io, un uomo noto per non essere mai sceso a compromessi – abbia accettato di buon grado una simile situazione. Non riesce a credere che sia rimasto zitto e buono in un angolo ad accettare di passare il resto della vita a leccarmi le ferite – sinceramente, a volte non riesco a crederci nemmeno io.
    «Era l'unica soluzione possibile» rispondo, citando senza volerlo la lettera di Daria. Qualunque altro uomo probabilmente l'avrebbe distrutta e dimenticata, ma io non ci sono riuscito: l'ho conservata, e la rileggo un giorno sì e l'altro no, tanto per non dimenticare il dolore – so che è da masochisti indugiare in una simile pratica, ma ho paura che se mi liberassi di quei due pezzi di carta finirei per dimenticare, e io non voglio dimenticare. Per quanto sia stato doloroso, per quanto il cuore continui a bruciare come stretto da una morsa rovente, io non voglio dimenticare. «So che sembra crudele da parte sua, ma... l'ha fatto per il nostro bene. Sarebbe comunque finita, e lei non ha voluto prolungare l'agonia.»
    «Smettila di parlare come un manuale d'istruzioni, per favore!» esclama, alzando gli occhi al cielo. «Non esistono due relazioni uguali, e sicuramente non si può conoscere in anticipo il destino di una storia. Va bene, forse sarebbe finita, ma chi può dirlo con certezza? Non ci avete nemmeno provato! Avreste potuto avere un futuro felice. Il punto... il punto è questo: avreste potuto avere un futuro, in barba a tutti quelli non ce l'hanno fatta. E se fosse finita... va bene, forse è vero, forse avreste sofferto come cani, ma vi sarebbero comunque rimasti i ricordi. I ricordi sono... i bei ricordi sono una delle cose più importanti che abbia l'uomo, sono... sono una delle poche cose che ti impediscono di non affondare nei momenti bui, sono una delle poche cose che ti impediscono di non crollare quando tutto il mondo sembra esserti contro. Così tu... tu... che cosa avrai, quando arriverà un momento in cui ti sentirai con le spalle al muro? Ti aggrapperai a quei pochi ricordi che hai di lei? Avresti potuto avere molto di più, e lo sai. Potresti avere di più.» Impiego qualche secondo per riprendermi da quella che è una vera e propria aggressione, ma quando apro la bocca per ribattere lei mi interrompe: «Va bene, adesso mi calmo. Non sono affari miei, in fondo. È vero, sono tua madre, ma tu sei un uomo adulto. Sei adulto e puoi gestire la tua vita senza il mio intervento. Sarò sempre pronta ad ascoltarti e ci sarò se mai dovessi avere bisogno di aiuto. E perdonami per quello che sto per dire, ma... in questo momento mi sembra davvero di aver cresciuto un idiota.» Ricaccio in gola le poche parole che avevo pensato di dire e resto fermo a fissarla con la bocca spalancata. «Adesso è meglio che ritorni a casa. Sta iniziando a fare freddo.» Si allontana lungo la spiaggia con le braccia conserte, stringendo ancora il suo bicchiere colmo di té.
    La guardo andare via senza dire una parola, e senza riuscire a muovere un muscolo. Bruce, che sentendoci discutere ha rizzato le orecchie, guarda entrambi con aria confusa, apparentemente senza capire chi dei due sia più conveniente seguire. Mi siedo sulla sabbia, guardando fisso verso l'oceano, e in quel momento sceglie di raggiungere me. Lascia cadere il legnetto accanto ai miei piedi, ma comprendendo che il tempo dei giochi è finito si stende senza un fiato, appoggiando il muso sulle zampe con un fare che definirei a dir poco sconsolato. Lo fisso per un istante, poi torno a guardare davanti a me; mi porto il bicchiere alle labbra e bevo un sorso di caffè, senza riuscire a gustarlo appieno. Mi ferisce aver discusso con mia madre, ma non mi ferisce il suo ultimo commento: so che ha ragione, so che sono davvero un idiota, perché solo un idiota smidollato si comporterebbe come mi sono comportato io – o meglio, solo un idiota smidollato non farebbe nulla, come ho fatto io. Solo un idiota rimarrebbe seduto a sperare che il dolore svanisca, e soltanto un idiota continuerebbe ad alimentare quello stesso dolore con piccoli gesti come rileggere una lettera di addio o riguardare le fotografie che lo ritraggono insieme a quello che capisce essere l'amore più grande della sua vita. Solo un idiota farebbe questo – e siccome questo è tutto quello che riesco a fare, significa che mia madre ha ragione, e io sono un idiota di proporzioni elefantiache.



*



Torino, 2 gennaio 2014


    «Dimmi che stai scherzando di nuovo, ti prego» è l'unico commento che riesco a fare quando la cameriera appoggia davanti a Marco il riso alla cantonese che ha ordinato. «Siamo al cinese, niente posate.» Gli sfilo la forchetta dalle mani, gli requisisco il coltello e consegno tutto alla ragazza. Poi, per sicurezza, le restituisco anche le mie. «Non ci serviranno, grazie» le spiego, consapevole del fatto che mi stia guardando come se fosse certa di avere davanti agli occhi una pazza scriteriata.
    «Ma io non le so usare le bacchette!» protesta lui, agitandomi i legnetti davanti agli occhi.
    «Beh, c'è sempre una prima volta, no? E comunque sei stato tu a proporre il cinese, quindi puoi prendertela soltanto con te stesso» aggiungo, pinzando un raviolo al vapore e soffiandoci sopra per evitare di ustionarmi la lingua. «Su, datti da fare.»
    «Ma è riso!» protesta ancora, guardandomi con una vera e propria espressione da cucciolo bastonato.
    «Problema tuo.»
    «Sei crudele, lo sai? Forse dovrei revocarti l'aumento, così non rideresti più così tanto.»
    «Dai, vieni qui» lo incalzo, rimettendo nel piatto il mio raviolo e prendendogli la mano. «Ecco, devi mettere le dita così» gli spiego, guidandolo passo passo nell'impresa. «Tieni ferma la bacchetta inferiore e muovi soltanto quella superiore. Apri la forbice, pinzi, chiudi la forbice e tiri su.» Mentre lo guardo fare un primo, goffo tentativo, alla mia mente si affaccia un chiarissimo – e, inutile dirlo, dolorosissimo – déjà-vu: in un istante mi rivedo seduta su uno sgabello al bancone della cucina di casa mia, davanti ad un piatto di spaghetti al pomodoro e al sorriso di Shannon, che mi prega in tutti i modi per avere un coltello con cui sminuzzare la pasta. Cerco di non pensarci, di concentrarmi su altro e di proseguire la cena, ma quell'immagine sembra non avere intenzione di abbandonarmi. Abbasso la testa e fingo di grattarmi la fronte, tentando di celare gli occhi, che so essere tristi e quasi colmi di lacrime, ma non riesco ad ottenere nemmeno un barlume della naturalezza che bramavo.
    «Ehi, che succede? Ho detto qualcosa che non va?»
    «No, no, non ti preoccupare, è solo che...» Incerta su come proseguire, decido di affidarmi alle bugie, che mai come in questo periodo mi sono risultate utili. «Durante le feste sono sempre un po' triste. Sai, mi viene da pensare che le feste si passano in famiglia, e... ripenso sempre a mia madre.» Durante tutti questi anni in cui ho lavorato per lui, mi è successo di raccontargli dettagli della mia vita, tra cui l'abbandono di mia madre, perciò non ho bisogno di spiegargli nulla di più. Mi sento malissimo all'idea di mentirgli a questo modo, ma d'altra parte non è vero che non penso a mia madre, di tanto in tanto, e a quanto sarebbe stata diversa la mia vita se lei non avesse deciso di arrendersi.
    «Posso capire. O meglio, posso... provare a immaginare. Però secondo me non dovresti lasciare che questo ricordo ti avveleni così il sangue. Insomma, lei se n'è andata, e ormai sono passati tanti anni... tu hai comunque una famiglia, anche se lei non ne fa parte. Non hai motivo di intristirti. Hai qualcosa di speciale, qualcosa che è solo tuo e che nessuno ti può portare via.» Conclude con un sorriso, ed è qui che capisco che non sarà mai soltanto un capo, per me: mi vuole bene, in fondo, e come ogni amico è sempre pronto a dire una parola gentile, a dare un consiglio, e a sostenermi quando sto per cadere.
    «Ma sì, hai ragione» decreto, alzando gli occhi con un sorriso. «Non roviniamoci la serata, dai. Forza, muoviti con quelle bacchette. Non voglio invecchiare qui dentro!»



*



Los Angeles, 2 gennaio 2014


    Sono rimasto seduto sulla spiaggia per ore, senza rendermi conto del tempo che passava – e, per la prima volta da quando sono tornato a casa, senza controllare il telefono ogni mezz'ora. Ho passato ore guardando l'oceano, cercando di riflettere su quale sia la cosa giusta da fare, senza trovare una risposta. Mi risveglio dal mio torpore soltanto quando Bruce mi sfiora la coscia con il naso, chiedendomi attenzione. «Ehi, bello... che c'è? Vuoi tornare a casa?» In risposta, lui abbaia e indica il cielo con il muso. Guardo in su, e mi accorgo dei nuvoloni che hanno coperto il celeste. «Sì, direi che sta per piovere. Meglio se torniamo a casa, vero? Su, andiamo.» Mi alzo e mi incammino, tallonato da lui – che però torna indietro dopo pochi passi. Mi volto per controllare che diavolo stia facendo, e mi rendo conto che è tornato sui suoi passi soltanto per riprendersi il bastone. «Ma da chi diavolo sei posseduto, me lo spieghi?» gli domando, abbassandomi per agganciargli il guinzaglio al collare. Gli accarezzo la testa, forse aspettando che mi risponda, e poi riprendo a camminare.
    La pioggia ci sorprende per strada, ma nessuno dei due fa in modo di accelerare il passo: continuiamo a camminare lentamente, senza fretta, come se sapessimo che nessuno si preoccuperà per la nostra assenza – anche se questo non è del tutto esatto. O forse, inconsciamente spero che la pioggia lavi via tutte le mie pene, tutto il mio dolore, tutto questo senso di vuoto che sento dentro, e del quale credo non riuscirò mai a liberarmi. In uno slancio di estremo sentimentalismo – o di estrema idiozia, non riesco a capirlo – mi chiedo se si possa morire per un cuore spezzato: perché se fosse possibile, probabilmente io sto già morendo – e così lentamente da non riuscire nemmeno ad accorgermene.



1Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase contenuta nel romanzo Emmaus, di Alessandro Baricco.
2Shannon sta giocando con il proprio cane. | Mi pare che un tempo Shannon avesse un cane, uno splendido husky di cui mi sfugge il nome, purtroppo poi venuto a mancare (se qualcuno avesse notizie al riguardo, non si faccia problemi a farsi avanti ed illuminarmi). Non so se abbia avuto altri animali domestici, ma al fine della storia ho voluto inserire un nuovo cane, un Border Collie Australian Red (praticamente il cugino rosso del cane Infostrada =D).

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Capitolo 2
*** 2 | Siamo sotto lo stesso cielo, e la notte è vuota per me tanto quanto lo è per te. ***


La lunga strada verso casa - 1
Nove recensioni, dieci inserimenti tra le storie preferite, uno tra le storie da ricordare, dieci tra le storie seguite... e tutto questo in soli quattro giorni! Le parole sono sempre state tutto, nella mia vita, eppure questa volta non riesco a trovare quelle più adatte per descrivere quello che provo. Nell'ultima settimana il contatore delle recensioni a “Portagioie di tristezza” è salito vertiginosamente, portando alla luce un sacco di ottimi pareri su quanto la mia mente (malata) ha partorito, e io davvero... non so, sarà mainstream dire così, ma io vi amo tutte. Veramente, vi voglio un bene dell'anima. Volevo aspettare un paio di giorni prima di regalarvi il secondo capitolo della storia, ma vi voglio così bene che ho deciso di anticipare, sperando di fare cosa gradita. Mi raccomando, continuate a farmi sentire il vostro appoggio... e se non volete appoggiare me, almeno appoggiate Daria e Shannon!
Spero che il trailer della storia, di cui ho lasciato il link dell'introduzione, vi sia piaciuto: a questo proposito, mi sono resa conto che il trailer non presenta uno dei personaggi più importanti della storia, ovvero Alice, migliore amica e voce della coscienza di Daria – ma ora conoscete anche lei.
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo secondo
Siamo sotto lo stesso cielo, e la notte è vuota per me
tanto quanto lo è per te.1


Torino, 3 gennaio 2014


    Torno a casa, gentilmente accompagnata da Marco, e non appena mi ritrovo sola mi assale la solita sensazione di vuoto e solitudine che fa da colonna sonora ad ogni serata che passo sola. Eppure non dovrei sentirmi così, lo so: ho appena passato alcune delle ore più divertenti dell'ultimo periodo, ho scherzato e riso fino alle lacrime con una persona amica, ho avuto la bellissima notizia di un aumento e ho la certezza di non essere sola... eppure non riesco a rilassarmi. So di non essere più la stessa, da quando sono tornata – scappata – da Parigi, e nonostante sia ancora più che convinta di aver agito nell'interesse di tutti, mi sento come se in fondo sapessi di aver fatto un'enorme cazzata. Il guaio è che non si può tornare indietro.
    Seguo la routine di ogni sera: bagno, denti, pigiama, letto, impostare sveglia, libro... quando chiudo gli occhi non è ancora mezzanotte, e come ogni sera mi illudo che riuscirò a dormire fino al suono della sveglia, aprendo gli occhi sentendomi finalmente riposata. E invece, come ogni notte, alle due spalanco le palpebre e resto immobile a fissare il soffitto. Guardo verso la mia destra, ma è soltanto un attimo – un attimo che però vale quanto una vita. È il freddo a tenermi sveglia, a punzecchiarmi i fianchi fino a farmi svegliare – non il freddo fisico, ma il freddo di quello spazio vuoto accanto a me. Eppure quello spazio è stato occupato da qualcuno soltanto per due notti, come possono due sole notti tormentarmi così tanto? Eppure lo so, so che è quello spazio vuoto a tenermi sveglia, ricordandomi ancora una volta che potrei aver commesso un errore, che potrei aver fatto una stupidaggine, e che la decisione presa in un pugno di secondi potrebbe condizionare il resto della mia vita.
    Sono ormai quasi le tre quando mi convinco ad alzarmi e a scendere nella stanza degli ospiti, portando con me sveglia e cellulare. Mi sistemo tra le lenzuola, e mentre aspetto che il sonno torni a prendermi mi chiedo perché ogni notte debba ripetersi la stessa storia – perché non mi metto subito in questo letto, risparmiandomi l'incombenza di traslocare a metà della notte? Forse, mi rispondo mentre sento le palpebre chiudersi di nuovo, forse ogni notte mi illudo di essere diventata un po' più forte della notte precedente.



*



Los Angeles, 3 gennaio 2014


    Sto finendo di mettere le mie cose in valigia, quando sento bussare alla porta. Mi volto e mia madre è sulla soglia, con la stessa espressione che ha Jared quando si rende conto di aver esagerato con le sue paranoie. «Hai quasi finito, vedo» commenta, e la sua voce non è più di un sussurro.
    «Sì, ho quasi finito» rispondo, cercando di non dare alla frase alcuna sfumatura in particolare.
    «Shannon, se te ne stai andando per quello che ho detto ieri, io non...»
    «Mamma, non me ne sto andando soltanto perché hai detto che sono un idiota. Sono stato tuo ospite per qualche giorno, e adesso è ora che torni a casa mia. Ho delle cose da sistemare, e non posso più rimandare. La prossima settimana ripartiremo, e se non colgo la palla al balzo adesso...» Lascio la frase in sospeso, riponendo le ultime magliette. «E comunque ho pensato molto a quello che hai detto, e la conclusione cui sono giunto è che sono davvero un idiota. Non che la cosa mi stupisca particolarmente, in fondo lo dicono tutti che la mamma ha sempre ragione, no?» Tento un sorriso, ma tutto ciò che riesco a produrre è una smorfia.
    «Mi sono pentita subito di averlo detto, sai?» sorride lei, avvicinandosi per sedersi sul letto. «Appena me ne sono andata ho pensato di tornare, e ad un certo punto l'ho fatto sul serio. Sono tornata indietro.»
    «Davvero?»
    «Sì, davvero. Stavo per avvicinarmi, ma poi ti ho visto così concentrato che non ho avuto il coraggio di disturbarti. Credo di non averti mai visto così serio.»
    «Credo di non essere mai stato così serio. Ma forse ero ipnotizzato, più che concentrato. Lo sai che effetto mi fa l'oceano, no?»
    «Ti è sempre piaciuta da morire l'acqua. Anche quando abitavamo ancora in Louisiana, tu cercavi sempre il modo di convincermi a portarvi in riva al fiume. L'acqua ti ha sempre affascinato» ripete, accarezzando il bordo della valigia ancora aperta. «Sai cosa ho sempre pensato in proposito?» Scuoto la testa, senza riuscire a staccare gli occhi dal suo sguardo, fisso sui vestiti piegati. «Ho sempre pensato che fossi affascinato dall'acqua perché è la tua perfetta controparte. Tu sei fuoco, Shannon» aggiunge, tornando a guardarmi. «Sei sempre stato fuoco, fin da bambino, con tutto quello che ne consegue: amico finché ti si tratta con rispetto, ma pronto a diventare incendio non appena ti senti in pericolo. Non lo so, ho sempre creduto che fossi tanto attratto dall'acqua perché l'acqua è la sola cosa che possa dominare il fuoco. In fondo, non siamo spesso attratti da quello che ci è opposto?»
    Annuisco, pensando che forse era proprio questo ad attrarmi di Daria – il fatto che lei mi fosse opposta, diametralmente opposta. Mi attraeva la sua insicurezza, mi attraeva la sua continua sorpresa nei confronti del mondo, mi attraeva la sua normalità – vedevo in lei tutto ciò che non ero mai stato, vedevo in lei tutto ciò che mi ero sempre negato, vedevo in lei l'occasione di avere finalmente tutto ciò che qualunque uomo avrebbe potuto desiderare. Ma forse doveva davvero andare così, forse non sono mai stato destinato ad avere quel tipo di felicità – forse il nostro amore sarebbe stato impossibile come quello tra un pesce e un'aquila.
    «A che pensi? Se si può sapere, naturalmente.»
    Scuoto la testa, sorridendo. «Niente di importante. Solo... credo che tu abbia ragione. L'acqua mi ha sempre trasmesso come... non lo so, un senso di pace. L'oceano, in particolare. L'oceano trasmette stabilità, non credi? Insomma, l'acqua è in continuo movimento, ma alla fine è sempre sulla spiaggia che si infrangono le onde.»
    «Non ci avevo mai pensato, sai?» Mi sorride ancora una volta, forse felice di vedermi meno cupo di ieri. «Ti preparo qualcosa per colazione? Alla fine ieri sera non hai cenato.»
    «No, non ti preoccupare. Tanto passo da casa e poi mi vedo con Wayne. Mangerò con lui.»
    «Va bene. Mi raccomando, non ti trascurare. Dalla prossima settimana tuo fratello tornerà a torturarti con i suoi ritmi, e dovrai essere in forze.» Si alza, tendendo le braccia verso di me. «Avanti, adesso dammi un bell'abbraccio. Non sei troppo cresciuto per abbracciare tua madre, vero?»
    «Nemmeno a novant'anni» rispondo, restituendole la stretta. Respiro forte tra i suoi capelli, cercando di trattenere con me il suo profumo – il misto di sole, mare e pulito che ho sempre considerato casa, e che lo sarà sempre, anche tra un secolo. Ci separiamo e mi dà un buffetto sulla guancia, proprio come quando ero bambino, e poi se ne va, lasciandomi di nuovo solo. Chiudo la valigia, e nel sentire il rumore della zip che scorre Bruce arriva di corsa dall'altra stanza, portando in bocca il guinzaglio, quasi a ricordarmi di portarlo con lui.


*



Los Angeles, 3 gennaio 2014


    Jared è in studio, con i gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani che vagano continuamente tra i capelli scompigliati, come se qualcosa stesse mangiando vivo anche lui. Più di una volta, nel volgere dell'ultima ora, lo ha attraversato l'idea di fare qualcosa per aiutare Shannon – la sera prima Constance gli ha raccontato del loro litigio sulla spiaggia, e da quel momento lo perseguita la convinzione che l'indifferenza non sia l'arma giusta per combattere quel mostro che non si vede, ma la cui presenza si percepisce chiaramente. Più di una volta ha pensato di fare qualcosa di eclatante come prendere il primo volo per l'Italia, prelevare Daria e portarla negli Stati Uniti, salvo poi pensare che non saprebbe dove andarla a pescare, e che il suo gesto potrebbe avere qualche piccola, trascurabile conseguenza legale. Così, tutto quello che può fare è limitarsi a starsene seduto davanti a fogli che nemmeno vede, seduto accanto ad una chitarra che nemmeno tocca, chiedendosi che cosa farà suo fratello quando si ricorderà che tra poco più di cinque mesi torneranno in Italia, e che, più precisamente, suoneranno nella città della donna che gli ha rubato il cuore.



*



Los Angeles, 3 gennaio 2014


    «Ehi!» mi saluta Wayne, venendomi incontro al centro del parco con il solito sorriso stampato sul volto, tenendo in braccio suo figlio, Ryder, che ha poco più di un anno ed è il bambino più buffo che abbia mai visto. Ci salutiamo con una breve stretta e poi restiamo a fissarci in silenzio per qualche secondo, come studiando le differenze rispetto all'ultima volta in cui ci siamo visti. «Scusa per Ryder, ma oggi tocca a me tenerlo.»
    «Ma figurati, nessun problema. Anch'io ho il mio daffare» replico, mostrando il guinzaglio. «Ti avevo parlato di Bruce, vero?» Guardo giù, scoprendo che l'interessato si è messo a sedere e sta guardando in alto, in direzione di Ryder, che ricambia lo sguardo con aria curiosa.
    «Oh, sembra sia nata una nuova storia d'amore» commenta Wayne. «Hai visto il cagnolino di Shannon? Ti piace? Si chiama Bruce. Prova a dirlo, amore. Bru-u-ce. Provaci, dai.»
    «Come fai a pretendere che dica Bruce? Ancora non ha iniziato a parlare.»
    «Beh, questo dimostra che è veramente troppo tempo che non ci vediamo.»
    «Vuoi dire che ha iniziato a parlare?» replico, sgranando gli occhi per la sorpresa.
    «Per il momento solo papà, mamma e cacca. Più che altro cacca, in effetti. Non è molto, ma è già qualcosa. Ha iniziato sei settimane fa, è un vero pigrone. E per fortuna ha detto qualcosa. Se avesse tardato ancora, probabilmente Ashley2 l'avrebbe portato da un esorcista. A volte è una madre davvero...»
    Ryder lo interrompe, piazzandogli le manine paffute sulle guance e costringendolo a guardare verso di lui. «Bu-u-ss» sillaba, estremamente convinto. Lo guardiamo entrambi con tanto d'occhi, senza capire, e a quel punto lui, resosi probabilmente conto di avere di fronte due enormi idioti, punta un indice grassoccio contro il mio cane, dicendo di nuovo «Bu-u-ss».
    «Cristo santo» è il commento di Wayne, trasformato in un colpo di tosse non appena gli do una leggera manata sul braccio, ricordandogli che è suo figlio quello che tiene in braccio, e che sarebbe meglio controllare il linguaggio, soprattutto visto il ritmo con cui sembra apprendere quel ragazzino. «Accidenti, Ryder, se tua madre scopre che hai imparato il nome di un cane prima di imparare a dire il tuo andrà su tutte le furie, lo sai?» Si accovaccia e lo mette a terra, sostenendolo per la vita. «Vuoi accarezzarlo? Non morde, vero?» mi domanda poi, alzando la testa verso di me.
    «Non è mai successo. È un cane molto tranquillo.»
    «Bu-u-ss» ripete all'infinito Ryder, puntando il dito contro il cane, forse cercando il coraggio di toccarlo. Quando finamente si decide, l'indice tocca il naso di Bruce, che si ritrae con un piccolo starnuto. Allo stesso tempo, sentendo una strana sensazione di umido sulla pelle, il bambino ritrae il dito, portandoselo davanti al viso con aria interessata. I cinque secondi che seguono sono i più lunghi della nostra vita: io sono pronto a tirare via Bruce in caso di attacco, e Wayne è pronto a schizzare di nuovo in piedi per portare Ryder in salvo. E invece succede una cosa strana, qualcosa che non mi sarei mai aspettato: Bruce si stende a terra, agitando la coda in maniera festosa, e punta il naso contro lo stomaco di Ryder, facendogli il solletico. «Bu-u-ss» ripete per l'ennesima volta Ryder, lanciando in avanti entrambe le mani per accarezzargli la testa pelosa.
    «Sì, direi proprio che è nato un nuovo amore» commento, sganciando il guinzaglio dal collare per poi piegarlo e infilarmelo in tasca.
    «A proposito di nuovi amori» replica Wayne, continuando a sostenere Ryder, impegnato nell'esplorazione dell'interno dell'orecchio destro di Bruce, «ho visto un video del concerto di Parigi. Sai, quello di novembre.»
    «Sì, e quindi?» domando, sedendomi sull'erba. Ho capito benissimo dove vuole andare a parare, ma non sono sicuro di essere pronto a ripetere per l'ennesima volta tutta la storia – per quanto Wayne sia un mio amico da anni, e abbia tutto il diritto di conoscere i dettagli della mia vita sentimentale.
    «E quindi mi stavo chiedendo chi sia questa persona speciale che è entrata nella vita della persona speciale di Jared, tutto qui. Se può consolarti, non è soltanto una mia curiosità. Se ti facessi un bel giro sul web, ti renderesti conto che c'è un sacco di gente che continua a chiedersi di chi si stesse parlando.»
    «Sono passati due mesi! La gente ancora ne parla?»
    «La gente ancora ne parla appunto perché sono passati due mesi. In due mesi ce n'è di tempo per formulare delle teorie, non credi?»
    «E la tua teoria quale sarebbe?»
    «Beh, la mia teoria è che tu abbia incontrato una ragazza bellissima, intelligente e incredibilmente sexy, e che la suddetta splendida creatura ti abbia colpito tanto da chiederti se non sia il caso di mettere la testa a posto, sposarti e mettere in cantiere una mezza dozzina di bambini.» Distolgo lo sguardo, fingendo di scansare un raggio di sole: la verità è che sapevo che con Wayne sarebbe finita così, perché è sempre così che finisce, con lui. A volte sembra conoscermi meglio di quanto io non conosca me stesso, al pari di mia madre – e forse è proprio per questo che spero di non trovarmi mai in una stanza alla presenza di entrambi, perché so che non ne uscirei vivo. «Direi che ho fatto centro» sorride, cogliendo il mio goffo tentativo di simulare indifferenza. «Se è così, io dico che dovresti sbrigarti a catturarla, perché tra non molto quella parte di te di cui vai tanto fiero inizierà a perdere colpi, e dovrai faticare il doppio per realizzare il tuo stupendo ideale di felicità.»
    «Stai parlando del mio splendido cervello, naturalmente» lo prendo in giro.
    «Naturalmente. Il cervello lo teniamo tutti nelle mutande, no?» replica con una risata. «Allora, chi è? Parlamene un po', dai.»
    «Scusa, ma chi ti dice che Jared si stesse riferendo proprio a me? Conosce un sacco di persone, ha un sacco di amici, non poteva trattarsi di... beh, di chiunque altro
    «Non prendermi per fesso, dai. Sai che non lo sono. Tuo fratello conoscerà anche un mucchio di persone, ma lo sanno anche i sassi che tu sei l'unica persona che davvero conta nella sua vita. Esclusa forse vostra madre. E Tomo, probabilmente. Non si sarebbe mai scomodato per un pinco pallino qualunque. Parlava di te, punto e basta. Ergo, tu hai incontrato una ragazza che ti ha fatto innamorare alla follia, e io pretendo di conoscere tutti i dettagli più sordidi.»
    «Con tuo figlio a dieci centimetri? Sei veramente un porco, sai?» lo prendo ancora in giro.
    «Sono sposato da cinque anni» replica, come se questo dovesse spiegare tutto. «Prova tu a fare sesso per cinque anni sempre alla stessa maniera, nella stessa posizione, sempre con la stessa donna... ho bisogno che gli amici scapoli mi raccontino qualche bella porcata.»
    «Poo-tata?» tenta Ryder, lasciando stare Bruce per una frazione di secondo.
    «No, tesoro, questa non la devi ripetere. No.» Mi lascio andare di schiena sull'erba, chiudendo gli occhi per godere della sensazione del sole che mi batte sulla faccia. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sento tranquillo, rilassato, come se non avessi una sola preoccupazione al mondo, e quando finalmente sto per trovare la pace... «Avanti, racconta, racconta. Descrivi quello che vedi. Ti prego, ne ho un bisogno disperato.»
    «Wayne, sei un porco» rispondo, senza aprire gli occhi.
    «Poo-coo?» ripete Ryder, quasi in tono interrogativo.
    «Bravo, Ryder. Questo lo puoi ripetere.»
    «Shannon, ti proibisco di insegnare a mio figlio questo linguaggio scurrile» mi rimprovera Wayne, fingendosi offeso.
    «Non è una parolaccia. Porco è sinonimo di maiale, e maiale descrive esattamente quello che sei.»
    «Ma-a-lee. Poo-coo» ripete il bambino sorridendo, quasi felice di aver imparato due nuove parole. Ma è solo un attimo, poi ritorna alla sua cantilena preferita. «Bu-u-ss
    «Avanti, Wayne, che vuoi sapere?»
    «Tutto, naturalmente. Dal colore degli occhi alla taglia di reggiseno.»
    Sorrido, riaprendo gli occhi. «Azzurri. No, verdi» mi correggo subito dopo. «Non sono mai riuscito a capirlo, in realtà. Hai presente quegli occhi che sembrano cambiare colore a seconda della luce?»
    «Come i tuoi, vuoi dire?»
    «Sì, una cosa del genere. Non ho mai visto due occhi più belli.»
    «Mi stai dicendo che ti ha fregato con gli occhi e non con il culo? Di solito è quella la prima cosa che guardi» ribatte lui, sistemandosi meglio sul prato.
    «Beh, i suoi occhi sono la prima cosa che ho visto. L'ho incontrata alla signing session dopo il concerto di Milano, all'inizio di novembre. Un attimo prima stavo firmando autografi, un attimo dopo ho alzato la testa e l'ho vista davanti a me.»
    «Quindi è stato un vero e proprio colpo di fulmine.»
    «Una specie. Non è che mi sia subito innamorato di lei, solo... mi ha colpito, ecco tutto. Aveva qualcosa che nessun'altra sembrava avere.»
    «Un culo da favola? Scusa» si corregge subito, cogliendo la mia occhiataccia. «Però... non avrei mai detto che saresti caduto nel cliché della star della musica che si fa abbindolare da una fan. È così... banale
    «Forse vista da fuori, ma credimi... non c'è stato nulla di banale tra di noi.»
    «Dai, parlami di lei. Che cosa fa nella vita, che tipo è... sono proprio curioso di sapere come sia riuscita a metterti al tappeto.»
    «Si chiama Daria, è italiana. Vive a Torino, ha ventitré anni e...»
    «Ventitré anni? È una bambina!»
    «Ha ventitré anni» ripeto, riservandogli un'altra occhiataccia, «e fa la commessa in una libreria. Ha un fratello e una sorella più piccoli. Quando aveva otto anni sua madre se n'è andata di casa, e da allora non l'ha più vista. Ha l'hobby della scrittura. Le piacciono i vecchi film, specialmente quelli con Gene Kelly e Humphrey Bogart. Ha un tatuaggio sulla scapola sinistra.»
    «Non un tribale, spero. E non quelle stupide stelline che si fanno tatuare tutti.»
    «Niente tribali e niente stelle, tranquillo. Sono i glyphics. Quelli che io ho sull'avambraccio» aggiungo, anche se sono sicuro che sappia a che cosa mi sto riferendo. «Parlare con lei mi piaceva. Mi faceva sentire normale. Sai, non aveva alcuna soggezione, nessun timore... le piacevo in quanto Shannon, non perché sono famoso. Mi guardava negli occhi e... vedeva il mio cuore.»
    «Perché improvvisamente parli al passato?»
    «Perché è finita. Chiusa. È stato un piacere ma ora dobbiamo separarci, ciao, addio» rispondo, sperando che l'indifferenza lo convinca a lasciar perdere – o che almeno convinca me a lasciar perdere, e a rendermi conto che è arrivato il momento di andare avanti.
    «No, no, no, tu non te la cavi così. Adesso torni indietro e mi racconti tutto per filo e per segno.»
    «Wayne, è una bella giornata. Non ce la roviniamo parlando di una cosa morta e sepolta.»
    «Se fosse una cosa morta e sepolta lascerei perdere volentieri, ma non lo è. Te lo leggo in faccia che non lo è. Quindi ora riavvolgi, parti dal principio e mi spieghi tutto per filo e per segno. Altrimenti non ti posso aiutare.»
    «Chi dice che ho bisogno di essere aiutato?» Mi rivolge l'occhiata più eloquente del suo repertorio, uno di quegli sguardi che riescono a trapassarti pelle e vestiti e ti studiano l'anima meglio di quanto potrebbe fare una radiografia. Comprendendo di non poter sfuggire alla morsa della sua curiosità, prendo fiato e cerco di esporre gli eventi nel modo più chiaro e semplice possibile – per quanto tra me e Daria niente sia mai stato veramente chiaro, né tantomeno semplice.
    Quando finisco di parlare, lo sguardo di Wayne è spoglio di tutta l'allegria che di solito lo caratterizza. «Bella mazzata» è il suo unico commento. Contraggo la mascella, senza riuscire a rispondere. «Di certo non ci è andata leggera, la ragazza. E nonostante questo non stai facendo niente per dimenticarla?»
    «Credimi, ci sto provando. Ci sto provando con tutte le mie forze.»
    «Continuando a rileggere le sue lettere e a guardare le sue fotografie?» osserva, alzando un sopracciglio. «A proposito, fai un po' vedere una sua foto. Voglio vedere se è bella come dici o se come al solito esageri per farmi invidia.» Controvoglia, tiro fuori il cellulare dalla tasca e cerco la nostra prima foto insieme, quella scattata a Torino dai turisti giapponesi. Gli passo il telefono e lo sento fischiare. «Però, carina davvero. Guarda, Ryder, ti piace? È bella?»
    «Be... bella!» esclama Ryder, senza saltare nemmeno una lettera. «Bella! Bella! Bella!» ripete, battendo le manine grassocce ogni volta che lo dice.
    «Beh, lui è uno che di donne se ne intende» ride Wayne, restituendomi il cellulare. «Il buon gusto l'ha preso tutto da suo padre.»
    «Non da sua madre, poco ma sicuro» lo prendo in giro, trovando la forza di sorridere, anche se solo per un momento. Guardo ancora una volta la foto, chiedendomi perché non mi sia stato concesso di rimanere in quello stato di grazia – con tanta gente al mondo che riesce a superare le difficoltà, ad amarsi e ad essere felice per sempre... perché io no? Perché noi no?
    «Papà» interviene a quel punto Ryder, «cacca
    «Come volevasi dimostrare, sempre sul più bello. Mi dai una mano?»
    «Neanche morto. Il figlio è tuo, optional compresi.»
    «Gli amici si vedono nelle necessità, vero? Va beh... ho tutto in macchina. Vado, neutralizzo e torno» aggiunge, rimettendosi in piedi e prendendo in braccio il bambino, tenendolo però ad una certa distanza.
    Vedendoli andare via, Bruce si rizza sulle zampe, abbaiando un paio di volte. «Tranquillo, tornano subito» lo rassicuro, sollevandomi sui gomiti per accarezzargli la testa. «Credimi, ti sta soltanto facendo un favore.» Seguo per un po' la ritirata di Wayne e Ryder, poi mi rimetto giù, incrociando le braccia dietro la testa. La pioggia della notte non ha portato il freddo che temevo, e la sensazione del sole che mi picchia sulla faccia è piacevole – e deve piacere anche a Bruce, considerando che si stende accanto a me con un'espressione a dir poco beata.
    Un po' di tempo dopo – non so quantificarlo, ma di certo non più di dieci minuti – qualcosa mi colpisce al polpaccio, facendomi aprire gli occhi. Mi metto a sedere e mi rendo conto che si tratta di un frisbee. Lo prendo e mi alzo, guardandomi intorno per cercare di capire da quale direzione arrivi. «Ehi!» mi sento apostrofare. «Ehi, scusa, non era mia intenzione...» Mi volto, e la voce si blocca. «Mio Dio... Shannon? Shannon Leto? Sei veramente tu?»
    «Ci... ci conosciamo?» rispondo, dubbioso, guardando la donna che mi sta di fronte. Deve avere circa la mia età, lo capisco dalle piccole rughe attorno agli occhi e agli angoli della bocca. Ha un bel sorriso, e l'aria di una che è sicura di quello che sta dicendo.
    «Ma certo che ci conosciamo. Sono Christine.»
    Studio meglio quegli occhi scuri, quasi neri, analizzo la loro espressione, e in un attimo mi è tutto chiaro. «Oh, santo cielo... Christine?» Christine. Christine Sandoval. La mia prima ragazza, il mio primo amore, la prima donna che mi abbia mai spezzato il cuore. «Dio, io non... non ti avevo riconosciuta. Sei... sei diversa.»
    «Vorrai dire che sono vecchia» risponde con un sorriso. «Non mi stupisce che tu non mi abbia riconosciuta. Da quanto tempo non ci vediamo? Vent'anni, più o meno?»
    «Sì, credo che più o meno siano vent'anni. Sei... sei diversa» ripeto, come se la cosa mi stupisse. Come se in fondo non fossi cambiato anche io.
    «Sì, l'hai già detto» sorride ancora.
    «Hai... hai qualcosa di molto diverso» osservo ancora, senza capire che cosa sia.
    «Oh, forse è il naso. Me lo sono fatto mettere a posto una decina d'anni fa. Mi dava dei problemi. Apnee notturne» aggiunge, toccandosi la parte interessata. «Ammetto che il mio profilo è molto migliorato, ma non lo avrei mai fatto soltanto per bellezza. Lo sai, non ci ho mai tenuto.»
    «No... cioè, sì, lo so.» Non riesco a dire altro, sono come pietrificato: di certo non mi sarei mai aspettato che il mio passato tornasse a mordermi il didietro in questo modo. Non in questo momento. Accidenti, non me lo sarei aspettato in nessun momento della mia vita.
    In quel momento arriva di corsa una ragazzina – avrà undici anni, più o meno – che si accosta a Christine e mi guarda di sottecchi, come se avesse paura di venire morsa. «Oh, ti presento Eleanor, mia nipote. Ellie, per gli amici.»
    «Tua nipote?»
    «Sì, è la figlia di Rachel, mia sorella. Ti ricordi di mia sorella, vero?»
    «Rachel? La piccola Rachel, intendi? Si è sposata?»
    «Beh, ha soltanto tre anni meno di me, non direi che è tanto piccola. Ha tre figli, Ellie è la maggiore. Poi ci sono due maschietti, Alan e Samuel. Due autentici terremoti. Ellie, ti presento Shannon, un mio vecchio... compagno di scuola.»
    «Piacere di conoscerti» risponde lei, tendendomi la mano.
    «Il piacere è tutto mio. Ah, questo dev'essere tuo» aggiungo, porgendole il frisbee.
    «Grazie. Zia, io ti aspetto laggiù, ok?»
    «Va bene, arrivo subito. Beh, che dire?» sospira, tornando a rivolgersi a me. «Una bella sorpresa trovarti qui. Non qui a Los Angeles, intendo. So che ci vivi. Voglio dire, vederti... al parco, come...»
    «Come una persona normale?»
    «Suona male, eh?»
    «Solo se fossi la prima persona che me lo dice.» Non riesco a fare a meno di sorridere: non posso fingere che questo incontro mi faccia un certo effetto. Non posso fingere che Christine non mi faccia un certo effetto, anche a tanti anni di distanza dall'ultima volta che ci siamo visti. «Spero... spero che le cose ti vadano bene.»
    «Non mi lamento» risponde, facendo spallucce. «Non sono diventata una rockstar di fama internazionale, ma non c'è male.» Si volta per controllare che la nipote sia ancora a portata di sguardo, poi torna a guardare me. «Beh, adesso devo andare, ma... è stato un piacere rivederti.»
    «Aspetta!» la fermo. «Potremmo... potremmo vederci per un caffè, uno di questi giorni. Per... parlare un po'. Immagino che ne abbiamo, di cose da raccontarci.»
    «Beh, credo... credo di sì. Potremmo. Aspetta, ti lascio il mio numero» risponde, frugandosi le tasche alla ricerca del portafogli. Ne estrae un biglietto da visita, che mi porge con un sorriso. «Allora... ci sentiamo.»
    «Ci sentiamo.» Rimango in piedi mentre lei si allontana, e quando a metà percorso si volta per guardarmi, mi chiedo perché non abbia fatto lo stesso ventiquattro anni fa, quando mi ha frantumato il cuore in un milione di piccoli pezzi e ci ha ballato sopra il tip tap.
    «Ah, allora mentivi quando dicevi di essere ancora a terra per quella ragazzina.» Mi volto di scatto, scoprendo che Wayne ha seguito tutta la scena, restando a debita distanza. «Se ti sei già messo a rimorchiare sconosciute nei parchi, forse tanto male non stai.»
    «Non è una sconosciuta. Frequentava il mio stesso liceo. È una lunga storia» aggiungo con un sospiro. «Era l'ultima persona che mi sarei aspettato di incontrare, ad essere sincero. Allora, come te la sei cavato con la nostra piccola arma di distruzione di massa?» gli domando, alzando un braccio per solleticare il pancino di Ryder, appollaiato sulle spalle del padre come una piccola vedetta.
    «Non lo vuoi sapere davvero. Credimi, non lo vuoi. Allora, andiamo a mangiarci quel famoso boccone? Anche se non credevo avrei più avuto fame, dopo quello che ho visto.»



*



Torino, 3 gennaio 2014


    «Hai di nuovo avuto problemi a dormire, vero?» Anche se non la sto guardando, sento che lo sguardo di Alice è fisso su di me, pronto a cogliere ogni minima défaillance.
    «No, per niente. Ho dormito benissimo» rispondo, continuando a sistemare libri sullo scaffale.
    «Strano, mi sembra che tu non abbia mai avuto un'aria tanto stanca.»
    «Durante le feste c'è sempre più lavoro, forse sono solo un po' sotto stress per questo motivo.»
    «Daria...»
    «Che c'è?» ribatto, voltandomi a guardarla.
    «Non mentire. Lo sai che con me i tuoi giochetti non attaccano.» Prende un libro dallo scatolone più vicino e finge di essere interessata alla copertina, ma so che sta soltanto cercando un modo per esprimere quello che le passa per la testa. «Non ti vedevo così giù di morale da quando hai rotto con Andrea. Sono passati due anni, però me lo ricordo bene come stavi in quel periodo.»
    «Alice, lasciamo perdere. Per favore.»
    «E va bene, lasciamo perdere. Però lo sai anche tu che nascondere la polvere sotto il tappeto non la fa sparire.»
    «E va bene, allora parliamo. Di che cosa vuoi parlare?» sbotto, pentendomi all'istante del mio tono. Alice è la mia migliore amica, e non merita di essere trattata così duramente.
    «Non lo so. Potremmo iniziare dal fatto che non riesci a dormire.»
    «Ma sì che riesco a dormire. Sono solo un po' sotto stress per il lavoro. Forse qualche volta fatico a prendere sonno, ma è soltanto perché sono troppo stanca. Sai che a volte mi succede.»
    «Va bene, visto che non vuoi toccare questo argomento passiamo ad altro. Parliamo di quella scatola che sta sotto il mio letto da due mesi?»
    «Se ti dà fastidio te ne puoi liberare, non mi importa.»
    «Non mi dà alcun fastidio, sciocchina. Sai che sotto il letto ci terrei anche un cadavere, per te. È solo che... il passato non lo puoi cancellare solo togliendotelo da davanti agli occhi, lo sai.»
    «Alice, due mesi fa io ho preso una decisione. E sai meglio di me che quando si prende una decisione bisogna avere il fegato di seguirla.»
    «Sì, ma si può anche cambiare idea! Se hai dei dubbi, puoi sempre tornare indietro. Può capitare di commettere degli sbagli. Puoi tornare indietro in qualunque momento, e sono sicura che nessuno ti giudicherà per questo.»
    «Se avessi dei dubbi, ti assicuro che sarei la prima a riesaminare le mie posizioni. Però non ho alcun dubbio. Sono più che sicura di aver fatto la cosa giusta.»
    «E io sono la figlia illegittima di Schopenhauer.»
    «Non è cronologicamente possibile, lo sai» la prendo in giro, tornando alla mia occupazione.
    «Ho sempre saputo che avevi la testa dura, ma non credevo fino a questo punto» sospira, rimettendosi il cappotto. «Beh, io adesso devo andare, altrimenti faccio tardi dal dentista. Spero solo che sarai più convincente di me, se mai ti dovessi trovare al mio posto.»
    Esce senza dire altro, e seguo la sua ritirata con una punta di tristezza, consapevole che sto ferendo a morte quella che è una delle poche persone che mi sia sempre stata accanto senza chiedere nulla in cambio, tranne la sincerità. C'è una sola promessa che ci siamo fatte, anni fa: quella di essere sempre sincere l'una con l'altra, a qualunque costo – e in questo momento io sto venendo meno alla mia parte dell'accordo. Saremo sempre sincere e ci racconteremo sempre tutto, ci siamo dette tanti anni fa, in un pomeriggio simile a questo – ma quel sempre è finito il mese scorso, quando le ho taciuto un ritardo di tre settimane. È stato allora che ho iniziato ad avere difficoltà a dormire, è allora che ho iniziato a starmene sdraiata sulla schiena sul bordo di un letto enorme e gelido, tenendomi le mani sul ventre e chiedendomi se la decisione presa quell'ultima sera a Parigi non fosse stato lo sbaglio più grande della mia vita – o meglio, il secondo più grande sbaglio. Il primo, senza dubbio, è stato abbassare le difese e lasciare che Shannon mi facesse innamorare di sé.
    Non riesco a non pensare che qualcosa si sia rotto nella nostra amicizia, da quando le ho taciuto quel segreto, e se tento in tutti i modi di farle credere che vada tutto bene è soltanto perché voglio illudermi che tutto possa tornare come prima – com'era prima che tornassi a credere alle favole, anche se soltanto per un mese.



1Siamo sotto lo stesso cielo, e la notte è vuota per me tanto quanto lo è per te. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Kiss the rain di Billie Myers, contenuto nell'album di debutto della cantante, Growing Pains (1997).
2Ashley | Non so se la moglie di Wayne, amico di Shannon che abbiamo conosciuto proprio attraverso quest'ultimo, si chiami veramente Ashley. In mancanza di notizie di prima mano, mi attengo al nome usato da Love_in_London_night nella sua stupenda Beautiful disaster (che dovete assolutamente leggere, se ancora non lo avete fatto).

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Capitolo 3
*** 3 | Mio nonno diceva sempre: una bugia a fin di bene vale più di cinquecento verità. ***


La lunga strada verso casa - 1
Poco più di una settimana, e "La lunga strada verso casa" sembra già essere entrata nel cuore di molti lettori - a rischio di sembrare ripetitiva, un immenso grazie a chi ha inserito la storia in una delle tre liste, ma anche e soprattutto a chi spende qualche minuto del proprio tempo per farmi conoscere la sua opinione in merito, esponendo teorie, ponendo domande e, perché no?, esprimendo critiche.
Ne approfitto per ricordarvi il mio gruppo Facebook, "Portagioie di tristezza", una piccola comunità in cui è possibile trovare spoiler, ma soprattutto esprimere la vostra opinione, anche attraverso periodici sondaggi!
Il vostro sostegno è davvero molto prezioso, e spero non manchi mai.
EffieSamadhi





La lunga strada verso casa





Capitolo terzo
Mio nonno diceva sempre:
una bugia a fin di bene vale più di cinquecento verità.1


Torino, 3 gennaio 2014

    Danilo approfitta dell'assenza della figlia per entrare nell'appartamento di via Maria Vittoria; giorni prima lei gli ha accennato ad un difetto alla porta scorrevole della cabina armadio, che a volte sembra incepparsi. Certo del suo mestiere, pensa che non sia necessario nulla di più invasivo di una limatura, un lavoro di cinque minuti che potrebbe svolgere in qualunque momento – se sceglie di farlo quando lei non è in casa è soltanto perché immagina di riuscire a farle una sorpresa, e per come la vede lui, una piccola sorpresa è proprio quello che le occorre per tornare a sorridere, anche se soltanto per un momento. Il tentativo di Francesca era buono, ma non è stato sufficiente: è pur vero che lui non è mai stato un uomo particolarmente sensibile, ma se ventitré anni da padre gli hanno insegnato qualcosa, quel qualcosa è riconoscere i sintomi dell'infelicità nei suoi figli – e per quanto non pretenda di arrivare a scoprirne la causa, vuole almeno tentare di fare qualcosa per arginarne gli effetti.
    Finito il lavoro, pulisce dove ha sporcato e raccoglie i ferri del mestiere; mentre se ne va, però, con la cassetta degli attrezzi sfiora un plico di carte e documenti in bilico sul bordo della scrivania, facendoli cadere; imprecando contro la propria maldestria si china per riparare al danno. Mentre si fa scorrere i fogli tra le mani, cercando di ricomporli in un insieme più o meno ordinato, si trova tra le mani un biglietto ferroviario: gli dà una rapida occhiata e lo mette via, poi lo riprende, curioso di sfidare se stesso nella comprensione del contenuto – è in francese, dunque non capisce la maggior parte delle parole, ma una cosa è chiarissima: la data del viaggio. «Ventotto novembre» legge, soppesando le parole. «Ventotto novembre» ripete. «Ma lei è partita il venticinque, ed è tornata il trenta» sussurra, più che sicuro di quello che sta dicendo. A meno che... legge ancora la data per assicurarsi di non aver sbagliato, poi finisce di raccogliere le carte e le mette a posto – più tardi chiamerà e spiegherà il motivo del disordine, tanto per non farla preoccupare. «Ventotto novembre» continua a ripetere a bassa voce, chiedendosi che cosa significhi, che cosa si nasconda dietro quella discrepanza tra la verità che conosce e la verità fornita dalle prove. «Ma no, non può avermi raccontato una bugia» tenta di convincersi mentre lascia l'appartamento e il palazzo, diretto verso il proprio laboratorio.
    Eppure sembra proprio che sia così.


*


Los Angeles, 5 gennaio 2014

    Sono trascorsi due giorni da quando ho visto Christine al parco, e da allora il suo biglietto da visita giace inutilizzato sul tavolo della cucina. Per precauzione, ho evitato di tornare nel luogo in cui ci siamo rincontrati, forse pensando che rivederla non fosse una buona idea. Eppure sono stato io a lanciare l'idea del caffè e delle due chiacchiere, e se continuerò a negarmi probabilmente potrebbe pensare che sono davvero lo stronzo snob che tutti si aspettano sia in quanto rockstar. Dal divano su cui sono semidisteso, impegnato a strimpellare qualche accordo con la chitarra, guardo in direzione della cucina. «Tu dici che la dovrei chiamare?» domando a Bruce, intento a giocare con la sua pallina preferita. Sentendomi parlare lascia perdere il gioco e abbaia, guardandomi con la testa leggermente inclinata verso destra. «Non so se ho voglia di vederla» riprendo. «Insomma, è passato così tanto tempo... non è detto che ci siano tante cose di cui parlare. Magari... magari ci sediamo uno di fronte all'altra e scopriamo che non abbiamo nulla da dirci.» Abbaia ancora, continuando a guardarmi. «Tu dici che comunque potrebbe essere una buona idea? Beh, sì, sarebbe un buon diversivo. Sempre meglio che starmene chiuso in casa a rimuginare, questo è vero.»
    Mi alzo, metto da parte la chitarra e vado in cucina a piedi nudi, esitando ancora prima di comporre il numero. Bruce, che mi ha seguito e si è seduto aspettando la mia mossa, abbaia una terza volta. «E va bene, e va bene, ora la chiamo. Ma cosa sei, un cane poliziotto?» Compongo il numero e inoltro la chiamata, portandomi poi il cellulare all'orecchio. Mi sento nervoso come un ragazzino al primo appuntamento, nemmeno stessi per parlare con il Presidente. Squilla a lungo, ma nessuno risponde.
    Sto per riattaccare, quando finalmente sento la sua voce: «Christine Sandoval, chi parla?»
    «Pronto, Christine? Sono Shannon.»
    «Shannon! Ciao, che piacere sentirti» risponde dopo un attimo di silenzio. «Iniziavo a credere che avessi perso il biglietto.»
    «Sono stato un po' impegnato. Sai, la prossima settimana ripartiamo, e avevo un po' di cose da sistemare...» mento. «Però adesso mi è proprio venuta voglia di un caffè. Ti uniresti a me?»
    «Beh, in questo momento sono al lavoro, ma... ma sì, dai. Le scartoffie possono aspettare. Facciamo tra mezz'ora davanti allo Starbucks sulla settima?»
    «Ci vediamo lì.» Non è molto distante da casa mia, e posso arrivarci in dieci minuti senza bisogno di prendere l'auto. Non faccio in tempo a mettere giù e alzarmi che subito Bruce mi è accanto, con la coda che si agita festosa e il guinzaglio stretto tra i denti. «Tu mi fai paura, davvero. Vado a cambiarmi.»

    Mezz'ora più tardi Christine è già ferma davanti a Starbucks, vestita di un elegante tailleur nero che sottolinea un fisico ancora tonico, nonostante abbia passato i quaranta. Le temperature gradevoli l'hanno convinta a togliersi il cappotto, che giace appeso al suo braccio, ed entrambe le mani sono occupate a reggere due bicchieri fumanti. «Caffè doppio senza zucchero, ricordo bene?»
    «Perfettamente» sorrido, prendendo quello che mi porge. È inevitabile che ci si saluti con un abbraccio e due baci sulle guance: così facendo riesco a sentire il suo profumo, delicato e leggero come vent'anni fa. «Com'è che ancora te lo ricordi?»
    «Ho sempre avuto buona memoria. Ehi, lui chi è?» domanda, vedendo Bruce fare capolino da dietro le mie gambe.
    «Oh, lui è Bruce. L'ho preso con me l'anno scorso.»
    «Ti sono sempre piaciuti i cani.»
    «Sì» rispondo, senza riuscire ad impedirmi di sorridere ancora. «In realtà pensavo di non volerne un altro, dopo la morte di Jade2. Jade era il mio husky» spiego. «Però non ce la facevo più a vivere in una casa vuota. Così sono andato al canile più vicino e mi sono portato a casa questo campione» aggiungo, e quasi avessi compreso le mie parole lui si alza sulle zampe posteriori, puntandomi le anteriori contro i jeans e strofinandomi il naso contro il maglione. «Diciamo che è stato amore a prima vista.»
    «Si vede che vi adorate. Ho provato a cercare posto, ma dentro è tutto pieno» aggiunge, accennando con la mano al locale. «Ti va di fare due passi?»
    «Volentieri.» Attraversiamo la strada e iniziamo a camminare costeggiando la spiaggia. L'imbarazzo è palpabile: in fondo siamo due persone che hanno condiviso molti momenti importanti e che non si vedono da anni – nonostante un tempo siamo stati una cosa sola, adesso siamo due persone molto diverse. «Allora... sei un avvocato. Congratulazioni, era quello che volevi diventare. L'ho letto sul tuo biglietto» aggiungo.
    «Dovrebbe essere illegale decidere del proprio futuro a diciotto anni» risponde. «Fare l'avvocato è una professione assolutamente noiosa, specialmente quando lavori per un'azienda. Forse avrei dovuto fare il penalista: sai, occuparmi di omicidi, aggressioni, quel genere di cose... sarebbe stato immensamente più eccitante.»
    «Mi stai dicendo che non ti piace quello che fai?»
    «No, non è questo... è solo che ho sempre voluto fare l'avvocato per salvare il mondo, e invece mi occupo principalmente di burocrazia. Non riesco a sentirmi... utile, ecco. Non so se riesco a spiegarmi.»
    «Stai parlando con una persona che fa il mestiere più inutile del mondo. Insomma, si potrebbe vivere benissimo anche senza musica.»
    «Credo che agli occhi del mondo la tua professione risulti molto più utile della mia. La musica può aiutare molto. Più di un avvocato aziendale, poco ma sicuro. Scommetto che al mondo esistono un sacco di persone che con la vostra musica si sentono meglio.» Abbasso gli occhi e non rispondo: sicuramente la nostra musica fa stare meglio un sacco di persone, ma quanto può valere questo se sei tu il primo a sentirti uno schifo? «Allora, raccontami com'è andare in giro per il mondo a far impazzire le ragazzine.»
    «Stancante» è la mia prima risposta. Getto una rapida occhiata verso l'oceano, passandomi la lingua sulle labbra mentre penso ad altri aggettivi. «Gratificante. Redditizio» aggiungo con un sorriso, strappandole una risata. «Utile.»
    «Utile?»
   «Utile» ripeto convinto. «A volte ti capita di conoscere un sacco di persone nuove, persone che altrimenti non avresti occasione di incontrare, e a volte... a volte riesci anche ad imparare qualcosa di nuovo.»
    «Per esempio?»
    «Per esempio, puoi imparare molto sul mondo, su come ci si comporta in Paesi diversi dal tuo. E certe volte può anche capitare di imparare nuove cose su se stessi. Insomma, a volte riesci a capire cos'è che vuoi, cos'è che ti serve. Può capitare di imparare a conoscersi.» Bevo un sorso di caffè, aspettando una sua risposta – oppure una nuova domanda.
    «Il tempo ti ha veramente cambiato» sussurra dopo un lunghissimo istante di silenzio. «Vent'anni fa non avresti mai fatto un discorso così profondo.»
    «Suppongo sia il prezzo da pagare quando si cresce. Non si resta se stessi.»
    «Forse sei più te stesso ora di quanto non lo fossi un tempo.» Mi volto a guardarla, ma il suo sguardo è rivolto altrove. «E per il resto che mi dici? Le riviste non parlano mai di te, dunque sospetto che tu sia ancora lo scapolo d'oro del quartiere.»
    Non posso fingere di essere sorpreso, perché qualcosa del genere me lo aspettavo. Solo, mi aspettavo di arrivarci più gradualmente, non così di botto. «Che ti devo dire? Noi Leto non siamo tipi che si sistemano con una brava ragazza e sfornano una mezza dozzina di bambini.» Questa è probabilmente la più grossa bugia che abbia mai raccontato: è vero, per tutta la vita non ho mai avuto il desiderio di mettere su famiglia, ma per un mese – un unico, intensissimo mese – l'idea mi ha sfiorato più di una volta. Travolto, in realtà. Certo, è stato prima che Daria investisse i miei sentimenti con la potenza distruttrice di un carro armato sovietico. Ma in fondo quella convinzione non si è placata nemmeno con l'abbandono, perché ci ho pensato molto anche in questi ultimi due mesi, anche standole a miglia e miglia di distanza: ho perso il conto delle volte in cui mi sono svegliato all'improvviso nel cuore della notte, in un bagno di sudore, dopo aver sognato di aprire la porta di casa e trovarmela di fronte pentita, in lacrime, e incinta. In fondo, quell'ultima sera a Parigi non abbiamo usato protezioni, e non sarebbe inverosimile pensare che... «E di te che mi dici, invece?» le domando, pronto a dire di tutto pur di abbandonare certi pensieri. «Sei sposata?»
    «Sono divorziata» risponde. «Subito dopo la laurea mi sono sposata con un compagno di studi. Ci siamo incontrati il primo anno di college, ci siamo innamorati, così il matrimonio ci è sembrato la soluzione ideale. Sai, il... il naturale proseguimento di un rapporto. Solo che invece di essere un inizio, si è rivelato la fine di tutto.»
    «Mi dispiace» dico, e so di essere sincero.
    «Oh, è finita da un sacco di tempo. Sono quasi otto anni, ormai. Per fortuna non abbiamo avuto figli. I figli sono quelli che soffrono di più quando ci si separa.»
    «Questo lo posso confermare.» Non ho ricordi chiari di mio padre, ma il suo abbandono è ancora ben scolpito nella mia anima: se per tutta la vita mi sono sentito vuoto e senza scopo, un po' è anche colpa sua. E poi è inevitabile pensare a Daria e alla mancanza di coraggio di sua madre, che non ha nemmeno avuto il cuore di voltarsi a guardare lo splendore che si stava lasciando alle spalle. Era anche questo a farmi stare così bene accanto a lei, era questo che mi faceva sentire affine a lei: il fatto di condividere lo stesso passato, il fatto di essere entrambi figli di una persona debole.
    «Dove sei, Shannon?» mi sento domandare all'improvviso.
    «Sono qui» rispondo in maniera quasi automatica, senza capire dove intenda arrivare.
    «No, non ci sei» replica, scuotendo lievemente il capo. «Perdona il gioco di parole, ma... sembra davvero che tu sia su Marte.»
    «Scusa. Credo di non essermi ancora ripreso del tutto dal fuso orario.»
    «Forse saresti dovuto restare a casa a riposare. Se la prossima settimana dovete ripartire...»
    «Ma no, figurati. E poi sono io che ti ho proposto di vederci. Non hai niente di cui scusarti. È solo colpa mia. Dai, raccontami ancora qualcosa di te. Come sta la tua famiglia?»
    «I miei abitano ancora in Virginia3, e non credo esista qualcosa in grado di farli spostare di lì. Però Rachel non ce la faceva a restare là senza di me, quindi appena si è laureata mi è corsa dietro. Io ho studiato a Stanford» aggiunge, spiegando così il motivo della sua presenza a Los Angeles. «Mi sono trasferita qui subito dopo essermi laureata, e credo non me andrò mai. Adoro questa città.»
    «Siamo in due.»
    «In tre, se conti anche Rachel.» Beve un sorso del suo caffè, poi mi domanda di Jared. «Vive qui anche lui?»
    «Viviamo tutti qui, anche mia madre. Alla fine sembra aver trovato un posto fatto su misura per lei. Almeno riesce a starci vicino, quelle poche volte che ci fermiamo a casa.»
    «Sarà dura per lei starvi lontana così a lungo. Chiamo mia madre un giorno sì e l'altro no, e ogni volta mi sembra che stia per scoppiare in lacrime.»
    «Beh, preoccuparsi è il dovere di un genitore, no?»
    «Immagino di sì.» Abbassa lo sguardo sul bicchiere, e quando lo rialza i suoi occhi sono più tristi che mai. «Questo un po' mi manca, in fondo. Non avere dei figli. Insomma, quando da ragazzina pensavo al futuro... mi sono sempre vista con una famiglia mia. Non esserci riuscita mi ferisce, in un certo senso.»
    «Potresti ancora avere una famiglia» suggerisco.
    «Alla mia età? Credo non sarei più in grado di gestire un neonato. I figli vanno fatti da giovani. Con il passare degli anni si perde la flessibilità necessaria. Avere un figlio significa stravolgerti la vita, cambiare totalmente le tue abitudini... non so tu, ma io non penso che avrei le energie necessarie per stare dietro ad un bambino.»
    Ci penso su per qualche istante, poi rispondo: «No, credo che nemmeno io ce la farei.» La seconda più grande bugia della giornata – perché ne sarei capace, ne sono certo. Se prendessi la decisione di mettere su famiglia riuscirei a portarla avanti fino in fondo, nonostante non sia esattamente 'giovane'. Forse dovrei esprimere la mia reale opinione, ma so già che dovrei motivarla, e non sento di avere le energie necessarie per espormi così tanto. Non davanti a lei. Non dopo così tanto tempo.
    Ho completamente perso la cognizione del tempo, camminando a lei su questo marciapiede stranamente deserto. Quasi mi avesse letto nel pensiero, Christine guarda l'orologio. «Adesso temo proprio di doverti lasciare. Devo tornare in ufficio, c'è del lavoro che devo finire. Parlare con te è stato... è stato bello
    «Lo dici come se la cosa ti sorprendesse.»
    «Beh, dopo tutto questo tempo non ero sicura che saremmo riusciti a trovare qualcosa da dirci» sorride. «Mi ha fatto molto piacere rivederti, Shannon.»
    «Anche a me ha fatto piacedere rivedere te, Christine.»
    Ci salutiamo con una stretta, come quando ci siamo incontrati, ma invece di sfiorare la mia guancia le sue labbra premono forte contro le mie, cogliendomi di sorpresa. Rimango fermo, immobile, pietrificato come non mi era mai successo: di solito sono io a cercare il bacio, ma anche quando vengo colto di sorpresa riesco a reagire, mentre adesso... adesso non riesco a fare altro che stare immobile, le sue labbra premute contro le mie e la sua mano sulla mia spalla, tanto confuso da non riuscire nemmeno ad inquadrare i miei stessi pensieri. «Ci vediamo in giro» sussurra quando ci separiamo, iniziando ad allontanarsi con passo sicuro. Per la seconda volta nella vita la guardo andare via senza voltarsi, e sento che pagherei qualunque cifra pur di sapere che diavolo stia accadendo nella mia vita.


*


Torino, 7 gennaio 2014

    Da quando ho avuto la conferma di essere rimasta l'unica dipendente del negozio, mi sento diversa – più leggera, in un certo senso, come se l'idea di essermi liberata per sempre di Carlotta e del suo pessimo carattere mi avesse migliorato la vita. È stata una bella prova di fiducia da parte di Marco, ed è mia ferma intenzione non farlo pentire della sua scelta.
    È martedì, e come ogni martedì sto rinnovando la vetrina, rivoluzionandola completamente – è un compito che svolgo con regolarità sin dai primi tempi della mia assunzione, e in un certo senso è diventato un rito, una piccola cerimonia che mi dà l'illusione di essere in grado di controllare, se non la mia intera vita, almeno una minuscola parte di essa. Sono sprofondata fino al collo tra i libri, quando Marco mi raggiunge e mi sfiora una spalla. «Daria, puoi venire un istante? C'è una persona che vuole parlare con te» sussurra, evidentemente per non farsi sentire dalla persona in questione.
    «C'è una persona che mi vuole parlare?» Per un attimo mi attraversa la mente l'idea che Shannon possa essere venuto a cercarmi, nonostante le mie richieste e i due mesi di silenzio – ma è soltanto un attimo, perché quando il mio sguardo incontra quello della persona che mi è venuta a cercare, Shannon diventa l'ultimo dei miei pensieri.


*


Los Angeles, 7 gennaio 2014

    «Shannon, ci sei?» A svegliarmi è il rumore della chiave che gira nella toppa e della porta che si apre: chiunque si sarebbe alzato di scatto, in preda al panico, ma dopo tanti anni riconoscerei la voce di Emma anche in mezzo al fragore di uno dei nostri concerti.
    «Sto dormendo» rispondo, la bocca ancora impastata, infilando la testa sotto il cuscino.
    «Tu e Jared siete proprio fratelli» sbuffa, entrando in camera con un passo tanto deciso da spaventare Bruce, che sento spostarsi sotto il letto. «Non oso immaginare quanta fatica facesse vostra madre per convincervi ad andare a scuola» aggiunge prima di strapparmi via di dosso le lenzuola.
    «Ehi, potevo essere nudo!» protesto, scostandomi appena il cuscino dalla faccia.
    «Come se fosse la prima volta che vedo uno di voi senza vestiti» replica. Quell'affermazione mi incuriosisce non poco, ma non appena intercetta il mio sguardo si affretta a correggersi. «Non nel senso che credi tu, maniaco!» esclama, strappandomi via dalle mani il cuscino per colpirmi in testa. Prima di calare il braccio, però, si blocca. «Ma che diavolo hai combinato?»
    «Cosa?»
    «I tuoi... i tuoi capelli
    «Ah, ti riferisci a quello...» Mi metto a sedere e mi accarezzo la nuca, dopo tanto tempo di nuovo libera. «Li ho tagliati.»
    «Questo lo vedo. Perché? Ti stavano bene. E iniziavi ad amarli quasi più di quanto tuo fratello ami i suoi.» Mi restituisce il cuscino, senza riuscire a smettere di fissare il mio nuovo taglio.
    «Non li sopportavo più, mi costavano troppa fatica. E poi avevo voglia di cambiare. Che ci fai a casa mia a quest'ora, comunque? È l'alba!»
    «Non è esattamente l'alba, sono le dieci del mattino» puntualizza. «Sono venuta a farti le valigie.»
    «Le avrei fatte io nel pomeriggio. Partiamo soltanto domani.»
    «Cambiamento di programma. Partite stasera. Avete un volo alle otto.»
    «Dammi il tempo di trovare il telefono. Ho proprio voglia di dirne quattro, a quel...»
    «Non ti serve il telefono. Ti vuole in studio, dice che ti deve parlare. Fossi in te, farei una doccia e lo raggiungerei al volo. Le valigie le tieni sempre al solito posto?» Mentre prendo un paio di jeans e pesco un paio di mutande da un cassetto, mugugno un monosillabo che io stesso non sono in grado di definire.


*


Torino, 7 gennaio 2014

    «Ciao, Daria.» La donna in piedi di fronte a me ha il mio stesso naso, il mio stesso colore di capelli, lo stesso taglio degli occhi, persino le stesse labbra, eppure è come se il mio cervello non avesse intenzione di riconoscerla: d'altra parte sono quindici anni che ha deciso di scomparire dalla mia vita. «Forse non mi riconosci, ma io...»
    «So chi sei» taglio corto, continuando a guardarla dritta negli occhi. «So chi sei.»
    «Sei così cresciuta...» le sento dire, gli occhi lucidi per la commozione di starmi davanti.
    «Ai bambini succede» ribatto, sapendo di non essermi mai rivolta tanto duramente ad un essere umano. «Il tempo non si ferma soltanto perché uno decide di andarsene» aggiungo. Il negozio è vuoto, Marco si è rintanato nel retro per lasciarci sole, e noi stiamo in piedi una di fronte all'altra come soldati pronti a combattersi fino allo stremo delle forze.
    «Daria, io vorrei spiegarti perché...»
    «Ma io non voglio sentire» la interrompo. «Hai avuto quindici anni per tornare indietro a spiegarmi perché» aggiungo, la voce incrinata per le lacrime. «Nulla di quello che potresti dire cambierà le cose.» Finalmente mia madre abbassa lo sguardo, punta sul vivo. Sa che ho ragione, e che nemmeno il miglior oratore del mondo potrebbe contraddirmi. «Adesso voglio che tu esca da questo negozio. E voglio che... voglio che non torni indietro. Voglio che non torni più indietro. Non cercarmi più. Non cercarci più.»
    Senza protestare, senza rialzare la testa, senza dire una parola, la donna che mi ha dato la vita – e che ha successivamente distrutto ogni mia certezza – si volta e se ne va, ma soltanto dopo aver appoggiato qualcosa sul bancone. Prima di avvicinarmi alla postazione mi assicuro che sia lontana, perché di qualunque cosa si tratti non voglio darle false speranze: ha distrutto la mia vita e quella di altre tre persone, e non può sperare che tornare indietro a chiedere scusa dopo quindici anni valga il perdono. Non posso perdonarla. Non possiamo perdonarla.
    «Tutto bene?» domanda Marco, che nel sentire la porta aprirsi e chiudersi si è affacciato dal retro.
    «Un biglietto da visita» sussurro, guardando il pezzo di carta appoggiato sul legno lucido. «Mi ha lasciato un fottuto biglietto da visita.» Lo prendo, e dopo averlo fissato per qualche secondo lo strappo in tanti piccoli pezzi. «Posso prendermi una pausa?» gli domando, dopo aver lasciato cadere i coriandoli bianchi sul ripiano scuro.
    «Puoi anche prenderti la giornata, se vuoi» mi sussurra, comprendendo il mio stato d'animo.
    «Vado solo a fare un giro. Ho bisogno d'aria fresca» rispondo, andando a prendere il cappotto. «Lo butti via tu, per favore?» gli domando passandogli accanto.
    «Non ti preoccupare, faccio io.»
    «Grazie. Ci vediamo tra poco.»
    «A tra poco.»


*


Los Angeles, 7 gennaio 2014

    Emma non riesce a trattenere un sorriso, mentre piega le magliette di Shannon e le infila ordinatamente nel trolley – non riesce a non pensare che quello di cambiare look per superare un momento particolarmente complicato sia un comportamento prettamente femminile, e di Shannon tutto si può dire, tranne che abbia un lato femminile. Sorride ancora, pensando che adesso sui social network impazzeranno i sondaggi: qualcuno difenderà i capelli lunghi, qualcuno starà dalla parte dei corti, e qualcuno nel mezzo continuerà a domandare il perché di quella scelta. Per quanto la riguarda, Shannon sta bene con qualunque taglio, e per quanto riguarda il motivo... beh, sarebbe da sciocchi non pensare che abbia a che fare con Daria e con la fine della loro relazione. Da quel dannato primo fine settimana di novembre, tutto sembra avere a che fare con Daria, come se quella ragazza fosse la dannata luna che regola le dannate maree. Ne ha visti di uomini totalmente rimbecilliti dall'attrazione per una donna, ma non credeva che sarebbe mai successo a Shannon – così come probabilmente non succederà mai a Jared. Ma forse quello che è successo dimostra che tutto può essere messo in discussione, che tutto può essere confutato, che tutto può cambiare – in fondo, cambiare è compito della vita.
    Mentre Shannon esce dal bagno e apre l'armadio, cercando una maglietta, Emma lo studia di sottecchi, trovandolo molto dimagrito – tra i due, è sempre stato Jared quello a cui si potevano contare le costole, e non è abituata ad associare l'idea di magrezza all'altro fratello. Certo, sa che Shannon tende sempre a dimagrire durante i tour – il contrario sarebbe impossibile, con tutto il lavoro che fa dietro i suoi tamburi –, ma questa volta le sembra che la perdita di peso sia eccessiva – non tanto da allarmare, non ancora, ma sicuramente maggiore del normale. Mentre sceglie un buon numero di paia di mutande, si chiede se non sia il caso di far presenti a Jared i propri dubbi – in fondo, si tratta sempre di suo fratello e del suo stato di salute, ed è una di quelle cose di cui Jared vorrebbe essere informato.


*


Torino, 7 gennaio 2014

    Appena rimasto solo, Marco ha raccolto i frammenti di carta sparsi sul bancone e si è diretto verso il cestino della carta straccia, salvo poi fermarsi con la mano chiusa a pugno, tesa sopra la pattumiera. Si volta verso la vetrina, senza vedere Daria né la donna che è venuta a cercarla, e si chiede che cosa farebbe lui in un simile frangente – anche lui ha ormai perso i propri genitori, ma nessuno dei due potrà più venire a cercarlo. Lui li ha persi per sempre, mentre Daria ha l'occasione di recuperare ciò che ha perso – se fosse in lei, lui non vorrebbe sprecarla. È pur vero che le persone non sono tutte uguali, e che ognuna di loro ha i propri motivi per fare quello che fa, però... però non se la sente di buttare via quei pezzi di carta, che sono l'unico modo che Daria abbia per ritrovare sua madre – per ritrovarla almeno fisicamente, perché sa che il rapporto tra loro non sarà mai più lo stesso.
    Tira indietro la mano.

    Alzando gli occhi dal cellulare, Alice ha un déjà-vu – solo che due mesi fa c'era Francesca ad aspettarla ai piedi della scalinata con gli occhi gonfi di lacrime, non Daria. Non aspetta nemmeno di sentire che cosa sia successo: si congeda subito dalle compagne e circonda le spalle dell'amica con un braccio, premendole le labbra contro la tempia per farle sentire la sua vicinanza. «Andiamo a prenderci una cioccolata calda, che è proprio il caso.»


*


Los Angeles, 7 gennaio 2014

    Tomo e Vicki escono dallo studio del dottore congedandosi con un sorriso e una stretta di mano, felici come le coppie delle favole. «Vorrei che fosse già agosto» sospira lei, accarezzandosi con entrambe le mani il ventre ancora piatto – l'unico indicatore del suo stato è lo sguardo, lucido e sognante come quello di una bambina la mattina di Natale. «Non vedi anche tu l'ora che nasca?» aggiunge, appendendosi al braccio del marito.
    «Io sono terrorizzato» risponde lui, passandole un braccio dietro la schiena per tenersela stretta. «Tu non sai quanta paura abbia di sbagliare. Non so niente di bambini!»
    «Beh, nemmeno io. Ma non è questo il bello? Abbiamo tutta una vita per imparare.»
    «E se combiniamo qualche disastro?»
    «Non combineremo alcun disastro. L'istinto sarà dalla nostra parte.»
    «Sarà come dici, ma io non mi fido. Sicura che ti posso lasciare da sola per queste tre settimane?»
    «Stai tranquillo, non sono sola. Ci sono i miei genitori e i tuoi genitori a prendersi cura di me. Specialmente tua madre. Credo che un giorno mi metterà in una teca di cristallo e non ti permetterà nemmeno di toccarmi» scherza Vicki, alzando una mano per dargli un buffetto sulla guancia. «Piuttosto, è di Shannon che dovreste prendervi cura» aggiunge, facendosi seria.
    «In che senso?»
    «Nel senso che non sta bene per niente. Insomma, io lo trovo molto giù di morale. Da quando è successo il fattaccio di Parigi non è più stato lo stesso.»
    «Beh, vorrei vedere come ti sentiresti tu al suo posto.»
    «Avete provato a parlargli? Che cosa dice?»
    Tomo scuote la testa, continuando a camminare. «Jared dice che ha provato più volte a toccare l'argomento, ma che ogni volta Shannon si chiude a riccio.»
    «E Jared non è certo uno che molla al primo tentativo fallito» aggiunge lei in tono sconsolato. «Vorrei poter fare qualcosa, davvero. Vederlo così giù mi ferisce da morire e mi fa sentire in colpa, perché io al contrario sono fin troppo felice.»
    «Si può essere troppo felici?»
    «Di certo si può esserlo più di Shannon.»
    «Tu hai qualche proposta? Cosa potremmo fare per tirarlo su di morale?»
    Vicki ci pensa su per qualche istante, indecisa sulla risposta. «Andate in Italia, rapite quella ragazza e portatela qui» decreta alla fine, annuendo convinta.


*


Torino, 7 gennaio 2014

    «Dopo tutto questo tempo... dopo tutto questo tempo ha avuto la faccia tosta di tornare, come se niente fosse. Come... come se fossero passati quindici giorni, e non quindici anni. Io non... io non so come ho fatto a non svenire, quando l'ho vista. Insomma, quando Marco ha detto che c'era una persona che mi cercava, io ho pensato subito a...» Mi interrompo, incapace di pronunciare quel nome ad alta voce.
    «A Shannon?» completa Alice, sapendo quanto mi costi dirlo.
    Annuisco, tenendo lo sguardo basso. «Non ero pronta per un simile colpo. Mi sarei aspettata chiunque, forse persino il Papa, ma lei... lei no. Penso di non aver mai guardato qualcuno con tanto disprezzo.»
    «Beh, da un lato ti capisco. Credo che se mia madre fosse ricomparsa dal nulla dopo quindici anni, forse anch'io avrei avuto qualche difficoltà a trattare con lei in maniera civile
    «Però?»
    «Però cosa?»
    «Alice, con te c'è sempre un però. Sei una filosofa, confutare fa parte della tua natura.»
    La guardo abbassare gli occhi per un istante e accennare un timido sorriso, poi rialzare lo sguardo e schiarirsi la voce. «Da un lato credo che la tua reazione sia comprensibile, però... credo anche che dovresti... valutare l'idea di sentire ciò che ha da dirti. Per quel che ne sai potrebbe essere venuta a cercarti perché sta per morire e vuole il tuo perdono. Insomma, non è detto che sia tornata soltanto per ferirti, no?»
    «Forse no, ma... non lo so, sento che potrebbe succedere di nuovo, e non so se questa volta riuscirei a superare l'abbandono.»
    «Daria, lo scopo principale delle persone non è ferire il prossimo.»
    «Forse non intenzionalmente, ma quante volte succede anche quando non è stato programmato?» Sto parlando con cognizione di causa, adesso, perché anch'io a mia volta ho ferito qualcuno: ho ferito Shannon, abbandonandolo in quella stanza d'albergo; ho tacitamente ferito Alice, nascondendole la verità; ho ferito me stessa, illudendomi di poter vivere finalmente un'esistenza serena e arrendendomi a pochi metri dal traguardo. Ma forse a qualcosa posso rimediare. «Alice, io ti devo confessare una cosa.»
    «Che cosa?»
    Alzo la testa e la guardo negli occhi, prendendo un lungo respiro. «Sono quasi rimasta incinta.»
    Forse avrei dovuto aspettare che deglutisse, perché la mia affermazione le fa sputare sulla tovaglia pulita il sorso di cioccolata che ha appena bevuto. Ringraziando il cielo, almeno la sala è vuota. «Tu cosa
    «Io... ho rischiato di rimanere incinta.»
    «Ma cos'è, un rituale delle donne della tua famiglia?» scherza, cercando di tamponare le macchie con un tovagliolino. «Parliamo di Shannon?»
    «Beh, è lui l'unico uomo con cui sia stata.»
    «C'è stato anche Andrea.»
    «Due anni fa, Alice.»
    «Potrebbe avere gli spermatozoi lenti» ribatte, facendo spallucce e lasciando perdere le macchie. «Credevo che tu e Shannon usaste precauzioni. Non hai detto che si è addirittura dimenticato una manciata di preservativi a casa tua e tuo padre li ha visti?»
    «Sì, ma... quando eravamo a Parigi, due volte è capitato di... dimenticarli
    «Per la serie "Quando la passione chiama"...»
    «Non so che cosa mi sia passato per la testa in quei momenti. So solo che... non pensavo, ecco tutto.»
    «E chi riuscirebbe a pensare, con un uomo del genere stretto tra le cosce?»
    «Alice!» Ancora una volta ringrazio il cielo che siamo sole. «La prima volta non ci sono stati problemi, ma la seconda lui... non... non si è spostato, ecco.»
    «Beh, dicono che l'unica volta che non usi il preservativo è la volta che ti frega, però le statistiche suggeriscono che...»
    «Ho avuto un ritardo di tre settimane» sputo fuori, interrompendola. «Teoricamente mi sarebbero dovute arrivare pochi giorni dopo il mio ritorno ufficiale, e invece... invece mi sono arrivate la settimana prima di Natale.»
    «E non mi hai detto niente?» Non riesco a guardarla negli occhi, consapevole che vi leggerei la profonda delusione per essere stata tenuta all'oscuro dei miei dubbi. «Daria, avresti dovuto dirmelo... accidenti, era appena successa la stessa cosa con tua sorella...» Tace per un istante, poi riprende. «Adesso capisco perché eri così giù, prima di Natale. Insomma, finora avevo sempre collegato il tuo malumore con Parigi, ma... adesso si spiegano molte più cose.»
    «Non so perché non te l'ho detto» confesso, senza osare alzare la voce. «Forse... forse mi sentivo in colpa perché abuso sempre dei tuoi consigli. Per una volta volevo riuscire a cavarmela da sola.»
    «Certo che sei proprio scema» mi prende in giro. Alzo lo sguardo, e nei suoi occhi leggo soltanto tutto il bene che mi vuole. «Lo sai, io sono la signora Wolf, risolvo problemi.» La citazione tarantiniana fa ridere entrambe, ed è in questo momento che capisco: potremmo farci qualunque genere di torto, e probabilmente torneremmo amiche come prima nel volgere di poche ore. Quello che abbiamo Alice ed io è qualcosa che non può essere spiegato, ma che è semplicemente grandioso.


1Mio nonno diceva sempre: una bugia a fin di bene vale più di cinquecento verità. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Aldo (interpretato da Aldo Baglio) nel film Chiedimi se sono felice (2000, diretto da Aldo, Giovanni & Giacomo e Massimo Venier). La scelta del film non è casuale: infatti, se ben ricordate, è uno dei film che Daria fa vedere a Shannon durante il fine settimana che passano insieme a Torino.

2Jade | Nome inventato di sana pianta, poiché non riesco proprio a ricordarmi come si chiamasse il cane di Shannon.
3Virginia | Ho tentato diverse ricerche, ma non sono riuscita a ricostruire tutti gli spostamenti della famiglia Leto, di conseguenza non so di preciso in quale Stato vivesse Shannon all'epoca dell'ultimo anno di liceo. Siccome Wikipedia riporta che Jared ha seguito dei corsi presso una scuola in Virginia, ho scelto questo Stato come sfondo della sua storia con Christine.

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Capitolo 4
*** 4 | C'è qualcosa che hai dimenticato di dirmi? ***


La lunga strada verso casa - 1

All'atto della pubblicazione non ho fatto promesse, ma dentro di me speravo di potervi regalare un aggiornamento a settimana - e per adesso il mio proposito sembra reggere. =) Come sempre, grazie mille a tutti coloro che mi fanno sentire la loro presenza, sia aggiungendo la storia ad una delle liste, sia 'sprecando' parte del loro tempo lasciando una recensione. Mi fate sentire importante, e soprattutto mi illudete che ciò che scrivo abbia un minimo di valore.
Come sempre, vi ricordo il mio gruppo Facebook, "Portagioie di tristezza", attraverso il quale potrete ricevere spoiler o informazioni, o anche soltanto interagire con me o con altri fan di Shannon e Daria.

Con l'augurio che il capitolo non vi dispiaccia, arrivederci,

EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo quarto
C'è qualcosa che hai dimenticato di dirmi?.1


Los Angeles, 7 gennaio 2014


    «Jared? Ci sei?» Entro in studio a passo deciso, affacciandomi in ogni stanza alla ricerca di mio fratello. «C'è nessuno?»
    «Sono qui!» sento rispondere da qualche parte alla mia sinistra. Entro nella stanza dov'è riposta la mia batteria, e qui trovo Jared, seduto per terra in mezzo ad un mare di fogli. «Sei arrivato, finalmente! Non credevo che Emma sarebbe riuscita a svegliarti.»
    «Cos'è questa novità che partiamo stasera invece di domani mattina?» gli domando, ignorando le sue affermazioni e andando a sedermi sul mio seggiolino. «Se l'avessi saputo mi sarei alzato presto e avrei fatto le valigie da me. Non ci sarebbe stato il caso di mandare Emma a frugare tra le mie mutande.»
    «Cos'è, improvvisamente ti dà fastidio che una donna frughi tra le tue mutande?» mi domanda con un sorriso, alzando appena la testa dalle carte. «Ma che diavolo hai fatto ai capelli?»
    «Li ho tagliati» rispondo con sufficienza, passandomi una mano sulla nuca.
    «Questo lo vedo benissimo da me, grazie» mugugna, tornando a concentrarsi sui fogli. «Comunque è necessario partire prima. Il posto dove suoneremo dopodomani ha un'acustica diversa, quindi ci sarà bisogno di prove supplementari, e tu sai che a me non piace fare le cose di corsa.»
    «Dannato maniaco» sospiro, picchiettando con le dita su uno dei tamburi. «E perché mi hai fatto venire qui? Da come ne parlava Emma, sembrava che dovessi rivelarmi il terzo segreto di Fatima.»
    A quel punto, il sorriso scivola via dal suo volto, lo sguardo si fa cupo. «Beh, io stavo... ricontrollando le tabelle di marcia del tour, e... sembra che a giugno saremo di nuovo in Italia.»
    «E allora?» domando, tentando di risultare naturale e indifferente – per quanto il pensiero di trovarmi di nuovo in quel particolare paese non mi renda affatto tranquillo.
    «E allora, il diciannove giugno saremo a Torino.» Aspetta una mia risposta, ma sono arrivato a quel punto del discorso in cui ogni parola sembra superflua. «Shannon, non venirmi a dire che la cosa non ti tocca, perché sono più che certo che non sia così. Deve importarti per forza.»
    «Cosa vuoi che ti dica? Che stare in quella città non mi farà alcun effetto? Non ti devi preoccupare per me, Jared. Tanto ci staremo una notte e poi ripartiremo subito per Roma, no?»
    «Sì, ma... siamo ancora in tempo per rimandare, o per...» Si blocca, come se l'idea di pronunciare la parola annullare gli provocasse un forte dolore interiore. «Insomma, se per caso dovessi accorgerti che l'idea ti fa troppo male.»
    «Non è il caso di rimandare niente, né tantomeno di annullare. A giugno andremo in Italia e faremo il nostro show, come facciamo sempre.»
    «Va bene» risponde lui. «Volevo solo essere sicuro che... che fosse tutto ok, ecco.»
    «Tranquillo, lo è. È tutto a posto.»
    «Bene.» Anche se non lo sto guardando, sento che il suo sguardo è fisso su di me, teso a catturare ogni movimento, pronto a cogliere ogni cambiamento del mio viso. «Shannon, c'è qualcosa che non mi dici?»
    «In che senso?»
    «Nel senso che... beh, sembra che ci sia qualcosa che non mi vuoi dire.»
    Mi mordo appena un labbro, rendendomi conto che fin dall'inizio sapevo che questo momento sarebbe arrivato: Jared mi conosce meglio di chiunque altro, e la sua natura fin troppo analitica gli consentirebbe di scovare ogni mio più piccolo segreto. «Qualche giorno fa ho incontrato Christine» confesso, sapendo di non poterlo tenere nascosto a lungo.
    «Christine? La tua Christine?»
    «La mia Christine, esatto. Ero al parco con Wayne e Ryder, e ad un certo punto... boom, me la sono trovata di fronte. È stata lei a riconoscermi, io non ce l'avrei mai fatta.»
    «Perché, è cambiata molto?»
    «Sono trascorsi più di vent'anni, Jared. È ovvio che nessuno dei due è più lo stesso.»
    «Lei però ti ha riconosciuto.»
    «Mi avrà visto in tv, oppure su una rivista. È una possibilità che io non ho avuto.»
    «Com'è, adesso? Ha passato la quarantina anche lei.»
    «Beh, è... carina. Insomma, per avere più di quarant'anni è ancora molto bella. Però si è rifatta il naso, dice che aveva dei problemi respiratori.»
    «Che fa nella vita?»
    «L'avvocato. È il legale di una società. Vive qui da quando si è laureata. E vive qui anche sua sorella. Ti ricordi di Rachel?»
    «Rachel, cioè quel ranocchietto che la seguiva sempre ovunque? Certo che me la ricordo! Vive qui?»
    Annuisco. «È sposata e ha tre figli.»
    Jared ribatte con un fischio. «E Christine, invece? È sposata oppure ha passato gli ultimi due decenni a struggersi per te?»
    «Divorziata. Da otto anni. Niente figli.»
    «Ti ha raccontato tutto questo in un solo incontro?»
    «No, veramente ci siamo visti un paio di giorni fa per un caffè. È allora che mi ha raccontato quello che ha combinato in questo periodo.»
    «E di te che le hai raccontato?»
    «Che avrei dovuto raccontarle? Le ho detto che sono felice, che non ho troppe preoccupazioni, che mi piace quello che faccio...» E che non è più l'unica donna ad avermi spezzato il cuore, aggiungo nella mia mente. «Conduciamo una vita invidiabile, lo sai.»
    «Almeno in apparenza» sospira lui. «In fondo non facciamo che sbattere di qua e di là come dei pazzi, prendendo aerei sempre di corsa e vivendo negli hotel... che vita è la nostra?»
    «E questa negatività da dove salta fuori? Credevo che tu adorassi la nostra vita.»
    «Adoro il nostro mestiere, questo sì» risponde, riordinando un plico. «Però non puoi negare che vivere secondo i nostri ritmi non è veramente vivere.» Lo fisso a lungo, senza comprendere dove voglia arrivare. «Ah, lascia stare. Da quando Vicki è rimasta incinta sono diventato sentimentale» prosegue, scuotendo la testa.
    «Ti è venuta voglia di fare dei figli?» lo prendo in giro.
    «No, ma che figli... so a malapena badare a me stesso. Ho solo pensato che... non so, che se solo lo volessimo potremmo avere una vita diversa, e forse... beh, che forse potremmo avere molto di più. Tu non hai mai pensato di sistemarti? Sai, trovare una brava ragazza, sposarti, avere dei figli?» Mi è impossibile non chiedermi se mi abbia letto nel pensiero.
    «Ti stupirebbe sentirmi dire che ci ho pensato, e ben più di una volta?»
    «Ti stupirebbe sentirmi dire che la cosa non mi stupisce affatto? Daria?» aggiunge. Annuisco, senza riuscire a sollevare lo sguardo. «Di' pure che sono cazzate, ma da quando l'ho conosciuta non ho fatto altro che pensare che sembrava proprio la ragazza giusta per te.»
    «Anche ai migliori capita di sbagliare.»
    «Già, pare proprio di sì. Davvero hai pensato di sposarla e di farci dei figli?» mi chiede dopo un istante, quasi sconvolto da tale eventualità.
    «Mi sono chiesto come sarebbe stato. Ma suppongo che ora non sia più un problema che dobbiamo affrontare. Mi hai chiamato soltanto per dirmi dell'Italia?» Questa volta è lui ad annuire e basta, senza dire una parola. «Bene, allora me ne vado. Devo chiamare mamma e sentire se può tenermi Bruce già da stasera, altrimenti chiederò a Wayne se posso portarlo da lui.» Mi alzo, lo saluto e lo lascio solo con i suoi pensieri e i suoi fogli. Di nuovo solo e all'aria aperta, infilo le mani in tasca, chiudo gli occhi e inspiro profondamente l'aria fresca, sperando che gli occhi smettano presto di bruciare. Non posso continuare a soffrire per qualcosa che so non tornerà mai.



*



Torino, 7 gennaio 2014


    «Sono quasi le otto. Che dici, andiamo a mangiare qualcosa?»
    Nel volgere di una settimana, questa è la seconda volta che Marco mi invita a mangiare con lui: forse non è il massimo dal punto di vista dell'etica professionale, ma pur di non rimanere sola a casa sarei disposta anche a saltare tra le fiamme dell'inferno. «Va bene, ma niente cinese. Non potrei sopportare di vederti torturare quelle povere bacchette un'altra volta. »
    «Non mangerò mai più cinese insieme a te. Sei una maestra crudele» risponde, infilandosi il cappotto. «Che ne dici di una pizza? Hanno aperto un nuovo locale qui dietro l'angolo. Alcuni miei amici ci sono stati, dicono che non è male.»
    «E va bene, fidiamoci» replico, vestendomi a mia volta. Usciamo dal negozio, chiudendoci la porta alle spalle, e mentre camminiamo sotto un cielo che promette neve parliamo e scherziamo come una coppia di ragazzini: abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, ma è come se gli ultimi eventi ci avessero avvicinati, rendendoci due amici nel vero senso della parola – e se da un lato questo mi piace, dall'altro mi spaventa terribilmente, perché non ho mai avuto un amico maschio, e in verità non ho mai creduto all'amicizia tra due persone di sesso diverso.
    Tuttavia smetto di farmi domande, e mi lascio guidare verso la cena.



*



Los Angeles, 7 gennaio 2014


    «Grazie per essere venuta con così poco preavviso, mamma. Jared ha anticipato la partenza di dodici ore senza dirmi niente, e...»
    «Non aggiungere altro, conosciamo tutti e due Jared e le sue manie di controllo» mi interrompe mia madre, chiudendosi la porta alle spalle. «Bruce, tesoro, dove sei?»
    «Si sta deprimendo sotto il mio letto» rispondo, facendole strada verso la mia camera. «Sta così da quando Emma è venuta a farmi le valigie, stamattina.»
    «Perché Emma è venuta a farti le valigie?»
    «Perché l'ha mandata Jared.»
    «L'ha mandata Jared? E perché?»
    «Perché così io sono potuto andare in studio a parlare con lui.»
    «E che cosa doveva dirti?»
    «Voleva sapere se a giugno me la sentirò di andare in Italia oppure no. Abbiamo due date lì.»
    «E perché non dovresti... oh» si corregge subito, abbassando lo sguardo. «Beh, nessuno ti biasimerebbe, se preferissi non andare. Suonerete in una città vicina a...»
    «Suoneremo nella sua città» la interrompo. «Ma non è detto che lei ci sia, e anche se ci fosse ci sarebbero comunque altre decine di migliaia di persone. Sarebbe un po' difficile notarla.» Ho parlato con il mio tono più leggero e indifferente, ma noto che c'è qualcosa che mia madre vuole dire. «Avanti, spara.»
    «Cosa?»
    «So che muori dalla voglia di dire qualcosa, quindi spara.»
    «Non è assolutamente...»
    «Invece sì. Sei una madre, ribattere è nella tua natura.»
    Ci pensa su per un istante, poi sbotta: «Sarebbe difficile notarla, forse, ma tu la cercheresti comunque. Non intenzionalmente, ma... con gli occhi del cuore la cercheresti. Sicuramente la cercheresti.»
    «Quindi secondo te non ci dovremmo andare?» ribatto, prendendo un paio di scarponi dalla cabina armadio. «Insomma, dovremmo annullare almeno la data di Torino?»
    «Non dico che non ci dovreste andare, Shannon» risponde, mentre io mi siedo sul letto e mi infilo le scarpe. «Dico solo che non ti dovresti illudere che sarà semplice, perché... beh, non lo sarà. Sei stato lasciato. Sei stato abbandonato in una maniera drastica e dolorosa, e questo genere di dolore non svanisce in poco tempo. Non è un braccio rotto che si rinsalda ed è come nuovo, è... è un cuore, ecco. E un cuore può anche impiegare una vita per guarire.»
    Per tutto il tempo del suo discorso ho tenuto gli occhi bassi, fissi sui lacci che stringo tra le dita, ma la verità è che mia madre ha ragione – ha ragione su tutta la dannata linea. Sono stato lasciato brutalmente e senza motivo, quasi per capriccio, e forse questa ferita non si rimarginerà mai, nemmeno in un milione di anni. Tuttavia, qualcosa dentro mi spinge a continuare a fingermi forte, indistruttibile, coriaceo, e rialzando la testa sorrido. «Il mio cuore è già guarito, mamma. Sto bene. E a giugno starò ancora meglio, ragion per cui nessun concerto verrà annullato. Non sarebbe giusto nei confronti degli Echelon, non trovi?» Controllo ancora una volta la valigia e la richiudo. «Jared ed Emma saranno qui tra cinque minuti. Pensi che riuscirai a tirare fuori Bruce di lì?» le domando, accennando al letto.
    «Se riuscivo a farti mangiare le verdure, perché non dovrei tirar fuori un cane da sotto un letto?»



*



Torino, 7 gennaio 2014


    «...e così sono rimasto chiuso dentro. Sono uscito soltanto il pomeriggio successivo, quando hanno riaperto. Credo sia stato il momento più imbarazzante della mia vita» sorride Marco, concludendo il racconto di quando, a vent'anni, si è addormentato al cinema durante una rassegna di film diretti da Ingmar Bergman. «Ovviamente appena sono tornato a casa ho scoperto che mia madre aveva già chiamato polizia, carabinieri e tutti gli ospedali della zona, e che mia nonna aveva iniziato a pregare ogni santo conosciuto. E ovviamente mi sono beccato una lavata di capo da Oscar, nonostante fossi già praticamente un adulto.»
    «D'altra parte può succedere di addormentarsi durante una proiezione de Il settimo sigillo, no?» ribatto, fermandomi. Tra una battuta e una risata, siamo arrivati davanti al mio portone.
    «Che non mi si venga a dire che non è legittimo appisolarsi durante quel film!» replica con un altro sorriso, fermandosi accanto a me. «Ma che ci vuoi fare, nonostante l'età ero un ragazzino. A quell'epoca al cinema ci si andava per fare soltanto una cosa.»
    «E cioè?» domando, senza sapere dove voglia arrivare.
    Lo vedo abbassare lo sguardo per un istante, poi rialzarlo di scatto. Prima di poter dire qualunque cosa, le sue mani circondano il mio viso e le sue labbra sono sulle mie. È inaspettato e improvviso, come il primo bacio con Shannon, ma a differenza di quel pomeriggio sul lungo Po non riesco a fare nulla: resto immobile, le labbra di Marco premute contro le mie, e tutto ciò che riesco a fare è chiudere gli occhi, aspettando la sua prossima mossa. Al contrario di Shannon, lui non cerca di approfondire il contatto: dopo qualche secondo ci separiamo, e la sua improvvisa lontananza mi ferisce, facendomi percepire tutto il freddo di questo inverno. Riapro gli occhi lentamente, temendo l'istante in cui incontrerò il suo sguardo, mentre le sue mani continuano a racchiudere il mio viso. «Scusa» sussurra, ancora troppo vicino. «Scusa, non avrei dovuto» aggiunge, mentre le sue dita si staccano dalle mie guance e si nascondono nelle tasche del cappotto. «Non avrei dovuto. È solo che... era qualcosa come cinque anni che volevo farlo.» La mia bocca è ancora socchiusa e muta, incapace di esprimere un pensiero di senso compiuto – forse perché il mio cervello è il primo ad essere incapace di formulare tale pensiero. «Forse non dovrei dire una cosa del genere, ma... tu mi sei sempre piaciuta, Daria. All'inizio ho provato a combattere contro questa... cosa, perché pensavo che fosse decisamente sbagliato. Insomma, io sono il tuo capo, e tu hai qualcosa come quindici anni meno di me, però... non ci sono riuscito. Forse questo mi qualifica come uomo debole, ma... io te lo devo dire. Credo di essere innamorato di te.»
    La mia bocca si apre di più, si lascia sfuggire un sospiro e poi si richiude. Ripeto l'operazione un altro paio di volte, mentre il silenzio si fa così pesante da spezzare le ossa. «Dio mio, Alice aveva ragione» è tutto ciò che riesco a sussurrare.
    «Alice? Perché, che cosa diceva Alice?»
    «Beh, lei diceva... diceva che le sembravi troppo gentile, per essere soltanto un principale. Diceva... diceva che doveva esserci qualcosa sotto. E direi... beh, direi che ci ha preso in pieno.» Mi porto una mano davanti al viso, coprendomi la bocca – non so bene se per nascondere i miei veri sentimenti o se per trattenere il più a lungo possibile il calore di quel bacio. «Perché hai aspettato tanto a dirmelo?»
    «Perché mi sembrava completamente folle. Folle, insensato, lontano da ogni logica, poco professionale... mi sono costruito un migliaio di ragioni per cui smettere di amarti, ma... niente di ciò che ho tentato ha sortito l'effetto desiderato.»
    «E... perché me lo stai dicendo adesso?»
    Marco fa spallucce, continuando a guardarmi. «Non lo so. Mi sembrava il momento perfetto: tu, io, il portone di casa, il bacio della buonanotte... di solito funziona bene.»
    «Di solito poi c'è la dissolvenza. Ci si risparmiano i silenzi imbarazzanti e le spiegazioni» ribatto, tornando a sorridere.
    «L'ennesima dimostrazione che la vita non è un film, né tantomeno un libro.» Abbassa gli occhi, poi guarda verso la sua sinistra, fissando un punto lontano. «So che non ti posso chiedere di fingere che non sia successo, però vorrei... vorrei che non ci pensassi. È stato un errore, e gli errori vanno dimenticati.»
    «Credevo che gli errori dovessero servire da monito per il futuro.»
    «Alcuni... ma non questo genere di errore.»
    Vorrei ribattere che nessuna persona sana di mente potrebbe domandare ad un altro essere umano di dimenticare un gesto tanto intimo quanto un bacio, ma qualcosa mi frena – Fingi di non avermi mai conosciuto, ricordo all'improvviso. Fingi che non ci siamo mai innamorati. Mi indispettisco all'idea che Marco mi chieda di dimenticare un bacio, ma in fondo io che cosa ho chiesto a Shannon? Gli ho domandato di dimenticare un intero mese – un mese di baci, di sorrisi, di risate, di sguardi carichi di significato e di corpi che la notte si cercano senza sosta nell'isola di un letto. Chiedermi di dimenticare un bacio non è così crudele, rispetto alla tortura cui ho sottoposto Shannon. «Allora va bene. Ti prometto che non ci penserò. Che proverò a non pensarci.» Mi fisso per un attimo le punte degli stivali, poi rialzo lo sguardo, sapendo che mantenere la parola data sarà maledettamente difficile. «Dai, vieni su, che ti offro un caffè. E poi non hai ancora visto la casa.»



*



Los Angeles, 7 gennaio 2014


    Sono quasi le nove di sera, e Constance sta per arrendersi. Le ha provate veramente tutte per convincere Bruce ad uscire dal proprio nascondiglio, ma nulla sembra funzionare: ha stappato una scatoletta, fatto rotolare sul pavimento una pallina, consumato il fischietto dell'osso di gomma, fatto suonare a ripetizione Convergence per mezz'ora... ma niente. Alla fine, stremata e senza idee, fa la cosa più strana, ma forse più semplice, del mondo: si sdraia sul pavimento, il mento appoggiato sulle mani, e fissa il cane negli occhi senza batter ciglio. «Non dico che tu non abbia il pieno diritto di sentirti depresso, di tanto in tanto» esordisce dopo parecchi minuti di silenzio, «però abbiamo già il nostro disperato, in famiglia. Dovreste stabilire dei turni, credo. Non posso badare ad entrambi nello stesso momento. Ci mancherebbe soltanto che anche Jared cadesse in depressione. Mi toccherebbe un bell'esaurimento nervoso, a quel punto.» Si prende una pausa, durante la quale il cane continua a guardarla, senza abbassare lo sguardo. «Io ti voglio bene, sai? Sul serio, tengo molto a te. E vederti così mi ferisce moltissimo. Potessi almeno saperne i motivi...» Quasi che comprendesse le parole di Constance, Bruce esce dal nascondiglio e va a grattare con entrambe le zampe uno dei cassetti del comodino di Shannon, lanciando un paio di brevi guaiti. «Devo guardare nel cassetto? Ma non posso, sono cose di... e va bene, e va bene, guardo» si arrende, quando capisce che il cane non ha intenzione di mollare. «Che cos'è, una... una fotografia?» Si mette seduta e fissa a lungo il pezzetto di pellicola che tiene stretto tra le dita. «Mi stai dicendo che questa è Daria?» Bruce abbaia un altro paio di volte, strofinandole il naso umido contro la mano. «Beh, non si può certo dire che non sia carina» è il commento di Constance. «Insomma, se anche fosse completamente priva di cervello comprenderei il malumore di Shannon. È molto più bella di metà delle ragazze che ha frequentato. Ma che fai?» aggiunge, vedendo Bruce infilare il naso del cassetto e strofinarlo avanti e indietro come cercando qualcosa. «Aspetta, aspetta...» mormora lei, infilando la mano nello stipetto e prendendo la busta che il cane stava tentando di farle trovare. «Che cos'è? Una lettera? Sai che leggere la posta altrui è reato federale?» lo redarguisce. Passa un istante, e sul suo volto torna il sorriso. «D'altro canto, la busta è aperta, quindi...» Dispiega i fogli e si appoggia al letto con la schiena, involontariamente replicando una mattina di un mese e mezzo prima.
    Dieci minuti più tardi, dopo tre letture e una buona dose di lacrime, Constance alza davanti al viso la fotografia, scuotendo appena la testa: «Come può una ragazza con un viso del genere essere tanto crudele?» sussurra, senza comprendere i motivi che hanno spinto Daria a dare un calcio alla felicità, sprofondando Shannon in un abisso di dolore senza fine.


*



Città del Messico, 8 gennaio 2014


    Atteriamo a Città del Messico quando mancano pochi minuti a mezzanotte; sbrighiamo le formalità necessarie, ritiriamo i bagagli, saltiamo sulle auto che ci condurranno in albergo e arriviamo a destinazione quasi all'una del mattino. In aereo, contrariamente al solito, non sono riuscito a chiudere occhio: sono sempre stato un tipo che si adatta a dormire in qualsiasi luogo e in qualunque situazione, ma per qualche strana ragione questa volta non ce l'ho fatta. Per tutto il tempo mi sono sentito strano, come se mi fischiassero le orecchie – probabilmente però era soltanto una sensazione dovuta all'alta quota.
    Entrato in camera, abbandono la valigia in un angolo e cammino verso il letto, sfilandomi le scarpe mentre sto avanzando. Mi lascio cadere sul letto di schiena, sospirando. Il materasso è un po' troppo duro per i miei gusti, ma suppongo di potermici abituare. Guardo il soffitto e non riesco a non pensare ad un luogo simile, ad un mese e mezzo fa, all'altra valigia che occupava la stanza, alle scarpe allineate dietro la porta, al cellulare appoggiato sull'altro comodino, alla pelle bianca e calda che non avrei dovuto far altro che baciare per il resto della vita.
    Non so per quanto tempo resto fermo a fissare il vuoto, chiedendomi che altro dovrei fare per dimenticare, che altro dovrei fare per andare avanti e non ripensare più a quell'occasione, forse l'unica e la più vera, di essere vergognosamente felice.
    Il silenzio non risponde, e con il passare dei minuti diventa ogni volta più assordante. Il ricordo di Daria viene sostituito da quello di Christine, dalle sue labbra che deviano dalla rotta prestabilita per raggiungere la mia bocca – un'immagine di cui non riesco più a liberarmi. In questi due giorni ho finto di non pensarci, ma il silenzio fisico non è riuscito a soffocare i dubbi e le domande.
    Mi metto a sedere, in testa una sola convinzione: devo sapere perché. Afferro il cellulare e inoltro la chiamata, fregandomene di essere in un paese straniero, fregandomene del fatto che sia notte – sera tardi a Los Angeles –, fregandomene del fatto di non avere parole.
    «Pronto? Shannon, sei tu?»
    «Perché mi hai baciato?»



*



Torino, 8 gennaio 2014


    «Però, come posto è molto carino. E dici che era già arredato?»
    «Completamente arredato. I miei padroni di casa hanno molto buon gusto, non mi stupisce che qui fosse tutto così perfetto. Mi dispiace di non avere un terrazzo per stendere i panni, ma non avrei potuto trovare un posto migliore nemmeno in cent'anni di ricerche.» Preparo la caffettiera e la metto sul fuoco, poi inizio a sistemare tutto il necessario su un piccolo vassoio. «Forse però dovrei ammettere che mi sarei adattata a vivere ovunque. La mia priorità era andarmene di casa.»
    «Non mi risultava che ti trovassi tanto male» sorride Marco, prendendo posto su uno sgabello.
    «Mi trovavo bene, ma non è questo il punto. Avevo... avevo bisogno di andarmene. Dovevo iniziare a vivere per conto mio. E poi... beh, penserai che sia un motivo stupido, ma... iniziavo a somigliare troppo a mia madre.»
    «A somigliarle in che senso, scusa?»
    «In senso fisico» replico. «Se ti facessi vedere una sua foto di quando aveva la mia età e ti chiedessi di compararla con una mia, faticheresti a distinguerle. Certo, adesso è più facile: io ho vent'anni e lei quasi cinquanta, la differenza c'è.»
    «Dirai che sono tardo, ma non capisco come questo abbia pregiudicato la tua permanenza in casa di tuo padre.»
    «Guardarmi lo ferisce» rispondo semplicemente. «Insomma, vedermi tutti i giorni in casa sua gli ricorda i primi tempi del matrimonio, quando erano ancora... beh, quando erano felici. Quando lei è andata via lui ha fatto sparire tutte le sue fotografie, perché evidentemente soffre troppo nel vederla in giro per casa. Il suo gesto non ha valore, se ci sono io a ricordargli di quel periodo.»
    Marco non riesce a trattenere un sorriso. «Ho sempre pensato che fossi una persona molto sensibile. Direi che questa ne è la prova tangibile.»
    «Non mi sembra di aver compiuto chissà quale gesto eroico» rispondo, mentre alzo il coperchio della caffettiera per controllare lo stato del caffè. «Me ne sono semplicemente andata di casa.»
    «A proposito della tua famiglia... dirai che non sono affari miei, ma... che cosa hai in mente di fare riguardo a tua madre?» Sono voltata dall'altra parte, ma sono quasi certa che l'improvvisa rigidità delle mie spalle sia molto evidente. «Scusa, non mi sarei dovuto impicciare, però tengo molto a te, e... non voglio che tu debba soffrire, ecco.»
    «Apprezzo il bel gesto, ma purtroppo il dolore l'ha già fatta da padrone. Avresti dovuto entrare nella mia vita quindici anni fa e impedirle di andarsene. Non ho mai nemmeno saputo perché» aggiungo dopo un istante. «Non so se sia stato per un altro uomo, o per un attacco tardivo di femminismo... tutto ciò che so è che la sera le sue scarpe erano dietro la porta, e la mattina l'armadio era vuoto. Non sono nemmeno arrabbiata per me, quanto per mio padre, e per Emanuele, e per Francesca. Certo, mi ha ferita, ma sono più arrabbiata per il fatto che abbia ferito le persone che amo.»
    «Non sarebbe difficile scoprire perché» è il suo commento. «Basterebbe chiederglielo.»
    Tento un sorriso, ma tutti i miei sforzi si tramutano in una smorfia sarcastica. «Se avesse voluto giustificarsi, all'epoca avrebbe potuto lasciare un biglietto» osservo. «Per qualunque ragione se ne sia andata, sono passati quindici anni. Per quanto mi riguarda, non ha più importanza.» Lo vedo abbassare lo sguardo e mordicchiarsi un labbro, come se stesse lottando contro l'impulso di ribattere alla mia affermazione. «Avanti, non trattenerti. Lo vedo che hai qualcosa da dire.»
    Rialza la testa con aria vagamente colpevole, mostrando un breve sorriso. «So che non sono affari miei, che è la tua vita e la tua famiglia e io dovrei stare zitto e lasciarti prendere le tue decisioni, però... io non riesco a capire come tu riesca ad escluderla così dalla tua vita. Resta sempre tua madre, no?»
    «Certo, è mia madre. E per lei non è stato un problema abbandonarmi.»
    «Non sai nemmeno perché se ne sia andata, Daria. Non puoi condannarla senza conoscere le sue motivazioni.»
    «Marco, ma da che parte stai?» La conversazione ha assunto i toni aspri di un litigio, e non riesco a credere che siamo arrivati a questo punto – noi due, che in cinque anni non abbiamo mai avuto nemmeno un battibecco.
    «Beh, mi sembra ovvio che sto dalla tua parte, però... resta tua madre, nonostante tutto il male che può averti fatto. Mi rendo conto che sia difficile pensare di darle fiducia, o anche solo di darle retta, però... almeno tu hai l'opportunità di ricucire il rapporto con lei. Io darei qualunque cosa per riavere qui i miei, anche solo per cinque minuti.» A quel punto mi rendo conto di essere stata crudele: il padre di Marco è rimasto vittima di un incidente stradale quando lui aveva soltanto dodici anni, e sua madre è mancata quattro anni fa in seguito ad una rapida malattia – lui non ha più nessuno, e io che potrei riavere entrambi i miei genitori faccio la preziosa e disdegno un'occasione che forse non si ripeterà mai più nella vita.
    «Scusa» sussurro, così piano che sembra quasi un pigolio. «Devo sembrarti una persona orribile. E dire che mi sono sempre vantata di essere una persona sensibile...» All'improvviso taccio, sentendo che le lacrime stanno per incrinarmi la voce – non voglio piangere davanti a nessuno, specialmente davanti a Marco. Mi volto di nuovo verso i fornelli, ignorando la caffettiera che borbotta – gli occhi pizzicano e bruciano, e tutto ciò che vorrei è essere sola, così da potermi dedicare al mio nuovo passatempo preferito.
    «Non ti devi scusare» sussurra lui a sua volta, alzandosi per raggiungermi e spegnere la fiamma. «Ehi, mi hai capito?» domanda con un sorriso, sfiorandomi il mento con due dita per convincermi ad alzare lo sguardo. «Piuttosto, credo di essere io a doverti delle scuse. Non mi sono comportato bene. Non sono stato corretto, con te.»
    «Solo perché non mi hai detto di provare qualcosa per me? Non è così grave.»
    «No, forse no, ma io...» Le sue parole si perdono in un sussurro, mentre la mano sale ad accarezzarmi la guancia, gli occhi fissi nei miei, lucidi e quasi trasparenti. «Dio, perché sei così bella?» mormora. «Sarebbe tutto più semplice, se non fossi così bella.»
    «Marco...»
    «Cosa?»
    Siamo vicini, forse troppo – o forse non abbastanza. «Baciami» sussurro. «Baciami ancora.»



1C'è qualcosa che hai dimenticato di dirmi?. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone St. Teresa della cantautrice statunitense Joan Osborne, contenuta nell'album Relish (1995). La Osborne è conosciuta al grande pubblico soprattutto per la hit One of us, rilasciata lo stesso anno e contenuta nello stesso album, famosa per essere diventata la colonna sonora della serie tv Joan Of Arcadia.

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Capitolo 5
*** 5 | Un uomo non deve morire per andare all'inferno. ***


La lunga strada verso casa - 1
Questo è probabilmente il capitolo più difficile che mi sia mai capitato di scrivere, e non mi riferisco soltanto a questa storia, ma a tutte le storie che mi sia mai venuto in mente di scrivere. È stato complicato e difficile e spezzacuore, e il guaio è che temo di non aver mantenuto fede alla mia promessa di regalarvi sempre dei capitoli decenti.
Spero comunque che lo apprezzerete, o che non lo odierete tanto.
Alla prossima,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo quinto
Un uomo non deve morire per andare all'inferno.1


Città del Messico, 8 gennaio 2014


    «Hai una vaga idea di che ore siano?» La voce di Christine sembra vagamente impastata, come se si fosse appena svegliata e stesse ancora cercando di orientarsi nello spazio e nel tempo.
    «Sì, più o meno. Sono quasi le due, quindi lì devono essere... mezzanotte, forse.»
    «Ma dove sei?»
    «Città del Messico» rispondo. «Siamo arrivati un paio d'ore fa.»
    All'altro capo del filo c'è soltanto silenzio, e poi qualcosa che somiglia ad un sospiro. «Shannon, perché mi stai chiamando da Città del Messico a quest'ora?»
    «Te l'ho detto. Voglio sapere perché mi hai baciato. Negli ultimi due giorni non ho fatto altro che pensarci, e sono giunto alla conclusione che ci deve essere un motivo. Devi averlo fatto per una ragione.» La possibilità che possa anche non esserci un motivo, che sia stato soltanto un impulso momentaneo, non mi ha nemmeno sfiorato – o forse lo ha fatto, ma soltanto per un istante: la prospettiva che per lei si sia trattato soltanto di un gesto senza valore mi ferirebbe a morte, e mi getterebbe in un caos più totale di quello che sto vivendo adesso.
    «Shannon...»
    «Christine, non ci provare. Sei sempre stata bravissima con le parole, ma non ho più diciotto anni. Non cercare di mettermi nel sacco.»
    «Cosa vuoi che ti dica?» ribatte, la voce improvvisamente dura. «Vuoi che ti dica che rivederti dopo tutto questo tempo non mi ha toccato affatto, che... che... che non mi sciolgo più come una ragazzina davanti ad ogni tuo sorriso? Per me sei stato molto importante, Shannon, e lo sai. Credevo di averti cancellato dalla mia vita, finché non ti ho rivisto. La verità è che ho quarantadue anni e mezzo e... credo ancora nelle favole.» Si prende una pausa, durante la quale non riesco a far altro che fissarmi i piedi. «Dicono che il primo amore non si scordi mai, e credo... credo proprio che abbiano ragione. Mi sento una sciocca a dirti questo, a... scoprirmi in questo modo davanti a te, ma... è così. Ti ho baciato perché mi sono illusa di avere ancora diciotto anni e di essere ancora l'unica ragazza che guardavi.» Si prende un'altra pausa, e come prima non riesco a dire nulla. «Shannon, ci sei ancora?»
    «Sono qui.»
    «Perché non dici nulla?»
    «Perché non so che dire. Praticamente tu stai dicendo che sei ancora innamorata di me, e... che cosa si risponde in questi casi?»
    «Immagino che in questo momento vorresti non avermi chiamata, eh?» scherza.
    «Niente affatto» la correggo. Non posso negare che ciò che ho sentito mandi letteralmente in frantumi il mio già precario equilibrio, ma in fondo mi fa piacere trovarmi di fronte ad una persona sincera, una che non ha paura di sputarmi in faccia ciò che sente dentro. «Insomma, resto sempre confuso, ma... sono contento che qualcuno sia finalmente sincero con me.»
    «Finalmente?» ripete, confusa. «Perché, di solito la gente ti mente?»
    «No, ma...» Mi interrompo, consapevole di essermi infilato in un vicolo cieco: non posso spiegarle ciò che intendevo dire con quella frase senza rivelarle tutta la storia di Daria, ma non credo sia una mossa saggia parlare del secondo grande amore della tua vita al primo grande amore della tua vita, senza contare che quest'ultimo ha appena confessato di essere ancora legato a te. «Lascia perdere, è una storia lunga e complicata.»
    «Lo sai che mi sono sempre piaciute le storie lunghe e complicate...»
    «Non credo sarebbe opportuno, Christine.»
    «Perché, ha a che fare con una ragazza?» L'esitazione che mi coglie è una risposta più che sufficiente. «Sì, ha a che fare con una ragazza» riprende lei, apparentemente senza scomporsi. «Ne vuoi parlare?»
    «Non so se sia il caso. Insomma, visto che tu...»
    «Visto che ho detto che credo di essere ancora innamorata di te? Ah, dimentica quella parte. Fingi che non l'abbia detto. Fingi di parlare con il tuo migliore amico, o con tuo fratello. Sfogati, se ti va.» Ci penso su per qualche istante, e per quanto la cosa mi sembri bizzarra e senza senso, mi chiedo se non sia un'ottima occasione per provare ad esorcizzare il dolore, ancora.


*



Torino, 8 gennaio 2014


    «Baciami ancora» ho sussurrato, e Marco ha obbedito senza fare domande: le sue mani sono salite di nuovo a racchiudere il mio viso, i suoi occhi celesti si sono avvicinati, e io ho serrato le palpebre un attimo prima che le sue labbra sfiorassero le mie. Marco è innamorato di me, e mi chiedo perché tutto questo non sia successo prima – perché non due mesi fa, un anno fa, cinque anni fa? Sarebbe stato tutto più semplice, sarebbe stato tutto migliore, se già prima avessi potuto avere queste mani, e questi occhi, e questa bocca sulla mia. Se l'avessi saputo prima non avrei sprecato tempo, non avrei sprecato i miei sentimenti – sarei stata felice, semplicemente.
    Quasi senza accorgermene arretro fino ad appoggiarmi al bancone, trattenendo Marco per la vita – anche se non ci sarebbe alcun bisogno di usare la forza per farlo restare qui. Il bacio si approfondisce: non è più un semplice contatto di labbra, ma un rodato gioco di labbra, lingua, denti, sospiri – e mentre il suo respiro caldo si confonde con il mio e il suo naso sfiora la mia guancia, le sue mani scendono sul mio collo, esitando appena prima di avanzare.
    Ci separiamo per un istante, e in quell'istante ci scambiano una lunghissima occhiata. Accenna un sorriso, mentre mi sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Forse non è la cosa più romantica da dire in un momento come questo» sussurra, abbassando gli occhi per un istante, «però io ti voglio» conclude, tornando a guardarmi. «Ti voglio come non ho mai voluto nessun'altra.» La sua fronte si appoggia alla mia, le mani mi accarezzano pigramente le spalle, e l'improvviso silenzio tra di noi ferisce quanto una lama. «Forse me ne dovrei andare» sussurra, sollevando appena la testa.
    «Non te ne andare» replico di corsa, sfruttando la posizione delle mie mani per trattenerlo ancora. «Non voglio che tu te ne vada» aggiungo, in un sussurro a malapena udibile.
    «Daria... se restassi, non so come potrebbe finire.» Sono consapevole di guardarlo con un'espressione molto confusa, come se non avessi idea di ciò di cui si sta parlando. Con tutta la pazienza del mondo, come se di fronte a sé avesse una bambina di tre anni, e non una donna di ventitré, Marco alza una mano e mi accarezza ancora il viso. «Siamo entrambi adulti, sappiamo come funzionano certe cose. È meglio che me ne vada, prima che entrambi facciamo qualcosa di cui potremmo pentirci.»
    «E allora vai» sussurro, lasciando la presa sulla sua camicia. «Vai, prima che sia tardi.»
    Ci guardiamo per un altro lunghissimo istante, senza dire una parola, poi lo guardo scuotere la testa, gli occhi fissi nei miei: «Non ce la faccio» sussurra un istante prima di baciarmi ancora. Questa volta è diverso: saltiamo la parte dell'incertezza e della timidezza, e lasciamo che sia la passione a farla da padrona. Le sue mani scendono rapide lungo la mia schiena, le mie braccia si incrociano dietro il suo collo, ed è come se entrambi fossimo improvvisamente animati da una fame che non riusciamo a controllare. Le mani scendono ancora e mi sfiorano il sedere, più incerte di quelle di Shannon, ma altrettanto delicate. Basta qualche istante per prendere coraggio, e subito la presa si fa più salda – porto in avanti il bacino, facendolo incontrare con il suo, e il sospiro che sfugge alle mia labbra socchiuse si perde sulle sue.
    «Vieni con me» sussurro, prendendolo per mano. Mentre lo guido attraverso la cucina e su per le scale che conducono alla mia stanza, mi torna un mente un verso di una vecchia canzone di Bruce Springsteen: Voglio portarti dall'altra parte della città, dove il paradiso non è troppo affollato2. È strano come a volte la mia mente si trasformi in una sorta di jukebox, trovando il pezzo perfetto per il particolare momento che sto vivendo – chissà poi perché questa canzone, chissà poi perché Springsteen. Accenno un sorriso, pensando che forse non ne scoprirò mai la ragione, e in silenzio continuo a salire le scale.



*



Città del Messico, 8 gennaio 2014


    «Immagino che in questo momento vorresti non avermi chiesto di raccontarti tutto, vero?» le domando, parafrasando la sua battuta di poco fa.
    «Di certo non posso fingere di essere rimasta indifferente» risponde dopo un attimo di silenzio. «Non si è comportata bene nei tuoi riguardi. Avrebbe almeno dovuto avere la decenza di lasciarti di persona. Certo, mi rendo conto di non essere la persona più adatta per giudicare il suo comportamento, ma non posso fare a meno di pensare che...»
    «Perché non dovresti essere adatta a giudicare il suo comportamento, scusa?»
    «Andiamo, Shannon, non essere ingenuo. Meno di dieci minuti fa ho praticamente confessato di essere ancora innamorata di te. Qualunque uomo penserebbe che parlo per gelosia.»
    «Continui a dimenticare che io non sono qualunque uomo
    «Questo non me lo posso dimenticare.» Segue un lungo istante di silenzio, durante il quale immagino che entrambi stiamo cercando le parole giuste. «Comunque non mi sento nemmeno di condannarla. Deve aver avuto paura, e Dio solo sa se la capisco. Insomma, probabilmente tu le sei apparso troppo sicuro, troppo certo che sarebbe andato tutto bene, e lei si è sentita sopraffatta. Credo che un sacco di donne avrebbero paura già in condizioni normali, figuriamoci in un contesto del genere.»
    «Pensi che si sia spaventata per quello che rappresento? Insomma, per la band, e per tutto il resto?»
    «Secondo me è possibile. Me l'hai descritta come una ragazza così semplice e normale che... beh, sono portata a credere che nemmeno nei suoi sogni più audaci abbia mai creduto di poter avere un simile futuro. Forse ha creduto che si trattasse di un sogno, che stesse accadendo tutto nella sua testa» aggiunge con una lieve risata.
    «Tu credi che abbia commesso uno sbaglio, accettando di non cercarla più? Insomma, pensi che sarei dovuto partire subito al suo inseguimento? O forse sono ancora in tempo per... per fare qualcosa?»


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Los Angeles, 8 gennaio 2014


    Christine deve reggere il telefono con entrambe le mani per impedirgli di cadere, e per impedirsi di cadere deve serrare forte le palpebre e trattenere il respiro, ricacciando in gola le lacrime che da troppo tempo si costringe a non versare. Sono trascorsi ventiquattro anni, e lei si illudeva di aver dimenticato tutto ciò che riguardava Shannon – tutto, dal colore indefinito dei suoi occhi alla linea diritta e un po' severa delle sue sopracciglia alla sua voce roca e sensuale. Ricorda di aver sentito dire, chissà quando e chissà dove, che per dimenticare qualcuno ci vuole almeno la metà del tempo che si è stati insieme3, ma la verità è che nemmeno dieci vite le sarebbero sufficienti per dimenticare i tre dolcissimi mesi trascorsi insieme, perché quando una persona è speciale è capace di entrarti sotto la pelle e di radicarsi così in profondità nel tuo cuore da non poter essere strappata via in alcun modo. La verità è che può fingere di essergli amica, ma non riuscirà mai ad accettare con serenità il fatto che lui abbia amato un'altra donna – che lui la ami ancora, nonostante il cuore spezzato –, e soprattutto non potrà mai consigliarlo in merito ad un argomento tanto delicato. «Io...» inizia in tono incerto, «io credo di non poter rispondere a questa domanda, Shannon. Insomma, non posso certo dirti cosa fare, giusto?»
    «No, certo... scusa, non avrei dovuto rovesciarti addosso i miei problemi a questo modo.»
    «Non importa, è tutto a posto. Immagino che a tutti serva qualcuno con cui confidarsi, no?»
    «Sì, ma questo non mi dà comunque il diritto di abusare così della tua disponibilità. Sei sempre stata troppo indulgente con me.»
    Christine non riesce ad impedirsi di sorridere, rendendosi conto che in fondo ventiquattro anni non hanno cambiato un bel niente, e che lei resta ancora la ragazzina innamorata che ha donato il proprio cuore ad un ragazzo che non ha mai saputo che farsene. «Mi fa piacere rendermi utile» risponde, gettando una rapida occhiata alla sveglia. «Forse adesso dovresti andare a dormire, Shannon. Si sta facendo tardi.»
    «Non smetti mai di preoccuparti per me, eh?»
    «Qualcuno deve farlo, non ti pare?»
    «Sì, ma non è una tua responsabilità.»
    Questione di punti di vista, pensa Christine, trattenendosi a stento dal dirlo ad alta voce. «Buonanotte, Shannon. Riposa bene, e in bocca al lupo per i vostri impegni.»
    «Crepi. Buonanotte anche a te.»
    Dopo aver riagganciato e riposto il cellulare sul comodino, Christine torna a sdraiarsi, puntando gli occhi spalancati sul soffitto, sapendo che impiegherà molto più tempo del solito per prendere sonno – ha quarantadue anni, è finalmente riuscita ad esprimere i propri sentimenti, e nonostante questo non è riuscita ad ottenere ciò che desiderava, perché nonostante tutti i propri sforzi l'uomo che ama da tutta una vita è ancora legato ad una ragazza che gli ha spezzato il cuore e lo ha abbandonato in frantumi in un angolo del mondo.



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Torino, 8 gennaio 2014


    Marco torna a riempirsi le mani della pelle di Daria e la bocca dei suoi baci, senza riuscire a credere che sia finalmente il suo turno, che finalmente tocchi a lui essere felice – e che, finalmente, gli sia capitata l'opportunità di provare a rendere felice lei. Sono cinque anni che spera, cinque anni che si chiede se avrà mai l'occasione di mostrarle quanto valga, quanto meriti, quanto possa ottenere dalla vita, ed ecco che finalmente il momento è arrivato. Si è costretto a rimanere in silenzio in un angolo mentre lei sprecava tempo correndo dietro ad un ragazzino che non aveva idea del tesoro che aveva per le mani, e ora finalmente quel tesoro può essere suo, finalmente possono essere le sue mani a tenerla al sicuro, possono essere i suoi occhi a cogliere i sorrisi che credeva dimenticati.
    Senza perdere tempo in parole, le mani seguono alla cieca percorsi mai compiuti ma già noti al cuore, e non sembrano trascorrere più di pochi minuti prima che entrambi si ritrovino nudi, stretti l'uno all'altra come se fosse la fine del mondo quella che stanno aspettando, come se quell'abbraccio fosse l'unica speranza di salvezza in un mondo pieno di infelicità. Quando finalmente la rende sua, Marco trattiene per un secondo il respiro, tenendo lo sguardo fisso sul viso che sta sotto di lui, a pochi centimetri dalla sua bocca, rendendosi conto che non avranno mai un momento più perfetto di così.


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Città del Messico, 8 gennaio 2014


    La conversazione con Christine ha placato la mia sete di verità, ma non mi ha restituito la serenità necessaria per abbandonarmi ad un lungo sonno ristoratore – ora so che mi ha baciato perché è ancora attratta da me, ma ancora non ho trovato un modo per lasciar andare Daria. Ancora non mi sono spogliato, non parliamo poi di infilarmi tra le lenzuola: tutto ciò che riesco a fare è rigirarmi sopra le coperte come un animale in gabbia, aspettando una tranquillità che di questo passo non arriverà mai.
    Provo una strana sensazione alla bocca dello stomaco, qualcosa difficile da spiegare – è come una morsa, una mano che mi stringe forte fino a togliermi il fiato, simile alla rabbia che ti monta dentro quando sei costretto a tacere mentre qualcuno ti porta via ciò che più ami. E più quella sensazione aumenta, più diventa inevitabile domandarsi dove sia Daria, con chi sia, che cosa stia facendo, e se almeno un poco pensi ancora a me e a ciò che siamo stati.



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Torino, 8 gennaio 2014


    D'istinto, mi aggrappo con più forza alle spalle di Marco, e quando sento arrivare l'orgasmo nascondo la testa nell'incavo del suo collo, soffocando così i miei gemiti. Resto immobile e in silenzio mentre anche per lui arriva il momento di fermarsi, il fiato corto per lo sforzo e il cuore che batte così forte che anche a questa distanza riesco a sentirlo. I nostri occhi si incrociano per un istante, e un bacio ci cava dall'imbarazzo di dover trovare per forza qualcosa da dire, anche perché non saprei proprio da che parte cominciare – mi brucia da morire doverlo ammettere, ma tutto questo ha il sapore del déjà-vu. Probabilmente è patetico e ipocrita da parte mia, ma non riesco a non far paragoni con una notte di due mesi fa, quando l'uomo nudo steso sopra di me aveva i capelli più lunghi dei miei e le guance ispide di barba, quando le mani che mi stringevano i fianchi erano piene di calli e la pelle che accarezzavo sapeva di caffè. Se mi fermassi a riflettere seriamente sulla mia condizione, probabilmente tutto ciò che riuscirei a pensare di me stessa è che sono una persona orrenda, che ho compiuto tutte le scelte sbagliate che era possibile compiere, e che l'ultima cosa che merito è l'amore di una persona buona come Marco.
Lentamente esce da me, e d'istinto serro forte le cosce e mi metto a sedere, incrociando le braccia davanti al petto per nascondermi – improvvisamente mi sembra di essere regredita ai tempi della relazione con Andrea, quando farmi vedere nuda era la mia paura più tremenda. Seduto sul bordo del letto, Marco mi dà le spalle e si tiene la testa fra le mani, come se non sapesse cosa dire. «Marco? Va tutto bene?» tento, sapendo che la mia voce non è più forte di un sussurro.
    «Va tutto bene» risponde, rialzando la testa e voltandosi verso di me. «Solo... non so bene che cosa dire.»
    «Siamo in due» sorrido appena, riabbassando lo sguardo. «Quello che è successo è stato decisamente... inaspettato
    «Inaspettato... sì, direi proprio di sì» ribatte con un sorriso. Alza una mano e mi scosta una ciocca di capelli dagli occhi, senza smettere di guardarmi. «Inaspettato, ma bellissimo» aggiunge a voce più bassa. «Vorrei trovare un aggettivo meno stupido, ma non ci riesco.» Le sue dita scendono a sfiorare la mia guancia, e d'istinto spingo il mio viso verso la sua pelle, come farebbe un gatto alla ricerca di attenzioni. «Daria, adesso che cosa facciamo? Insomma, io sono il tuo capo, e... per me non è stato soltanto un capriccio. Non è stato un attimo di pazzia, una follia momentanea, per me... per me è sempre stata una cosa importante.»
    «Lo è anche per me» replico, sentendo la gola stringersi a quelle parole. «Quello che è successo... è importante anche per me. Non è stato un capriccio.» Ho appena raccontato una delle più grandi menzogne mai partorite dalla mente umana, e il peggio è che so di mentire. Dentro di me so che andare a letto con Marco è stato uno sbaglio, un ignobile tentativo di convincermi che posso rialzarmi e andare avanti con la mia vita come se Shannon non ne avesse mai fatto parte, ma la realtà dei fatti è ben diversa: la verità è che Shannon mi ha segnata nel profondo, tracciando una grossa X sul mio cuore, e per quanto sia sempre stata consapevole che sarebbe stato impossibile vivere con lui, ora ciò che più mi ferisce è la consapevolezza che forse non saprò mai vivere senza di lui. Dopo un lunghissimo attimo di silenzio, una breve risata mi spinge ad alzare di nuovo lo sguardo: «Perché ridi?»
    «Niente, è solo che... hai un'espressione decisamente sconvolta. Sono stato tanto terribile?» scherza, riuscendo a farmi tornare il sorriso.
    Scuoto la testa, abbassando un'altra volta gli occhi. «No, è solo che... ancora non riesco a capire se sia successo davvero o no. Sono un po'... sono un po' confusa, credo.»
    Anche l'altra mano raggiunge il mio viso, e subito dopo la sua fronte si appoggia alla mia. «È tutto reale» sussurra. «È successo davvero» aggiunge poco prima di baciarmi la punta del naso. «Personalmente, non ne sono affatto pentito» aggiunge ancora, staccandosi da me quel tanto che basta per guardarmi negli occhi. Incapace di guardarlo senza sentire una tremenda fitta al cuore, colmo la distanza tra di noi e appoggio le mie labbra sulle sue, illudendomi che questo basterà a cancellare tutto il dolore.



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Città del Messico, 8 gennaio 2014


    «Hai una faccia veramente tremenda, lo sai?» Alzando lo sguardo dalla propria colazione per salutare l'amico, Tomo non si sarebbe mai aspettato di trovarsi davanti quello che sembra un cadavere ambulante: le occhiaie di Shannon indicano che il batterista non ha chiuso occhio, o che ha comunque dormito poco, e per quanto desideri conoscerne la causa, ha quasi il terrore di chiedere perché.
    «Lo so, sembro uno zombie» risponde l'altro, servendosi una generosa dose di caffè. «Il letto nuovo» aggiunge, come se questo bastasse a spiegare tutto. «Non riuscivo a prendere sonno.»
    «Dovresti chiedere se ti possono cambiare il materasso. O chissà, magari possono cambiarti direttamente di stanza.»
    «Ah, non è il caso. Mi ci devo soltanto abituare. La prima notte mi fa sempre questo effetto.»
    Tomo, che si è portato la tazza alle labbra ma si è bloccato un attimo prima di bere, studia a lungo il compagno, cercando di capire che cosa si nasconda sotto la sua maschera di normalità. «No, siamo Jared e io quelli che impiegano un paio di notti per abituarsi al letto nuovo. Tu sei quello che dormirebbe anche sulla nuda roccia.»
    Sentendosi smascherato, Shannon si gratta distrattamente la nuca e beve un lungo sorso, sperando così di smorzare la curiosità dell'amico. «Jared?»
    «Già sul posto. Credo sia là dall'alba. Ha detto di raggiungerlo appena siamo pronti.»
    «Maniaco» sussurra Shannon. «Non ti dà sui nervi la sua mania di controllare sempre tutto e tutti?»
    Tomo fa spallucce. «Un po' sì, ma d'altra parte è rassicurante sapere che tra di noi c'è almeno una persona addestrata a pensare ad ogni possibile evenienza. Ammetto che a volte è frustrante, ma non puoi negare che senza di lui sarebbe tutto maledettamente più difficile.»



*



Torino, 8 gennaio 2014


    Siamo rimasti abbracciati a lungo, ancora entrambi nudi, senza fare altro che baciarci come una coppia di adolescenti, senza particolare malizia, senza più tentare di andare oltre. Dopo non so quanto tempo, Marco si separa da me con un sorriso. «Adesso credo proprio di dover andare.»
    «Potresti... puoi rimanere qui stanotte, se ti va.»
    «Credo sia meglio... procedere per gradi. È meglio se stanotte torno a casa mia.» Le sue mani lasciano il mio corpo e frugano tra il mucchio di vestiti sparsi sul pavimento, alla ricerca prima delle mutande, poi dei jeans e infine della camicia. Per vestirsi si alza in piedi, e in quel momento distolgo lo sguardo, come se stessi invadendo la sua privacy o chissà che altro. «Potrei solo usare il bagno?»
    «E devi anche chiedere?» lo prendo in giro. «In fondo alle scale, a sinistra» aggiungo, restando a guardarlo mentre mi lascia sola. Sospiro e recupero anche i miei vestiti, poi scendo al piano di sotto. Quando Marco lascia libero il bagno, lo sto aspettando in salotto, appoggiata allo schienale del divano. «A questo punto, immagino di doverti augurare una buona notte» sorrido, mentre lui si avvicina e mi accarezza ancora il viso.
    Guarda l'orologio e scuote la testa, sorridendo. «Non che resti molto della notte, sono quasi le tre del mattino» replica. «Domani hai la giornata libera, a proposito.»
    «Non è il caso di darmi una giornata di riposo solo perché...»
    «Non ti sto dando una giornata di riposo soltanto perché siamo stati a letto insieme» mi interrompe. «Però credo che tu abbia bisogno di un giorno di pausa, per... per staccare un po', diciamo.»
    «Staccare un po', dici? Marco, è appena finito il weekend. Ho lavorato un solo giorno, come posso aver già bisogno di staccare
    «Beh, ammetterai che quello che è successo oggi non è qualcosa che succede tutti i giorni.»
    Abbasso gli occhi, comprendendo finalmente dove voglia andare a parare con questo discorso. «Stai parlando di mia madre? Marco, è un capitolo chiuso. Con lei non voglio avere niente a che fare.»
    «Daria, per favore, pensaci bene» insiste. «Abbiamo già stabilito che non sono affari miei, però io credo che dovresti almeno sentire quello che ha da dirti. Non sai che cosa potresti scoprire.»
    «Marco, io non ce la faccio» sussurro. «Come faccio a guardarla negli occhi e a chiederle perché se n'è andata? E poi non saprei nemmeno dove andare a cercarla. Ho fatto a pezzi il suo biglietto da visita.» A quella frase è lui a distogliere lo sguardo, e qualcosa mi dice che le cose non stanno proprio come pensavo. «Marco, perché quella faccia?» Lui fruga nelle tasche dei jeans, e senza dire una parola tira fuori un agglomerato di carta e scotch che riconosco come il bigliettino che aveva promesso di buttare via. «Tu l'hai rimesso insieme?» sussurro incredula, prendendo tra le mani il reperto e faticando a riconoscerlo come il biglietto consegnatomi da mia madre.
    «Ho solo pensato di conservarlo per un po', nel caso ti fossi pentita della tua scelta e avessi voluto... tornare sui tuoi passi.»
    «Marco...»
    «Non dire niente, lo so. Non sono affari miei, non mi sarei dovuto impicciare, avrei dovuto lasciare che gli eventi seguissero il loro corso. È solo che... te l'ho detto, io a te ci tengo, e non volevo rischiare che un giorno rimpiangessi di non aver... tentato
    «Tu dici che la dovrei chiamare?»
    «Dico solo che dovresti ascoltare quello che ha da dirti. Ascoltare non costa nulla.»



*



Città del Messico, 8 gennaio 2014


    «Shannon, ma oggi ci sei o no?» Jared non teme di usare un tono troppo duro, perché il suo scopo è quello di rimproverarmi, e Dio solo sa se non ha tutte le ragioni di questo mondo: la notte insonne mi ha lasciato stanco, sfibrato, senza energie, e tutto ciò si riflette sul lavoro, rendendomi lento e poco concentrato. «E non raccontarmi che è colpa del fuso orario, perché hai sopportato di peggio.»
    «Scusa, Jared, ho dormito poco e male. Non riuscivo ad abituarmi al letto.» So che non è una scusa plausibile, ma sarebbe sospetto se non provassi a difendermi in qualche modo.
    «Pensi di essere in grado di riprenderti per domani sera? Abbiamo quattro concerti in una settimana, non mi servi se non riesci ad essere al tuo meglio.»
    «Sarò al meglio, Jared, te lo prometto. Parola di scout» ribatto, alzando un pollice per sottolineare il concetto. Sono consapevole di mentire, perché il dolore che sento dentro non può essere cancellato con una buona dormita, né con un materasso nuovo. Nonostante la chiacchierata con Christine non mi sento meglio, e questo è dimostrato dal fatto che sono rimasto con gli occhi spalancati fino alle cinque del mattino, guardando il soffitto e chiedendomi che cosa abbia fatto di così brutto nella mia vita passata per meritare una simile punizione.


*



Torino, 8 gennaio 2014


    Rimasta sola, Daria guarda a lungo il biglietto, poi lo appoggia sul bancone della cucina e torna di sopra, in camera. Fissa per molto tempo anche il letto stropicciato e mezzo sfatto, poi d'improvviso inizia a strappare via le lenzuola dal materasso, nel tentativo di ripulirsi la coscienza dalle bugie appena raccontate. Nello stesso letto in cui un'ora fa ha fatto sesso con Marco, a novembre ha fatto l'amore con Shannon, e questa è una differenza che non può fingere di non considerare.
    Trascina il grumo di coperte al piano di sotto, lo ficca di forza nella lavatrice, dosa il detersivo e seleziona il programma, fregandosene del fatto che siano le tre del mattino e che la gente normale stia dormendo. Subito dopo si spoglia e si infila nella doccia, perché non è soltanto dalle lenzuola che va lavato via l'odore di ciò che è successo. Sotto il getto caldo, Daria si insapona quasi con rabbia, sfregandosi le braccia fino ad arrossare la pelle – non può negare che stare con Marco le sia piaciuto, ma questo non le impedisce di sentirsi in colpa, perché per tutto il tempo lei ha avuto la testa altrove, spesso focalizzata sui ricordi che ha di Shannon, e di quel letto, e di quel finesettimana di novembre.
    Un'ora più tardi, stretta in un accappatoio e raggomitolata sul divano in compagnia di una tazza di tè, si chiede se sia questo il suo destino, d'ora in poi – se ogni volta che anche solo bacerà un altro uomo si sentirà crollare il mondo addosso, o se il dolore sia una prerogativa della prima volta.



1Un uomo non deve morire per andare all'inferno. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone A man don't have to die di Brad Paisley, contenuta nell'album This Is Country Music (2011).
2Voglio portarti dall'altra parte della città, dove il paradiso non è troppo affollato. | Il verso appartiene alla canzone Incident on 57th Street di Bruce Springsteen, contenuta nell'album The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle (1973).
3Per dimenticare qualcuno ci vuole almeno la metà del tempo che si è stati insieme. | Ogni tanto ricomincio con le citazioni rubate. Questa, in particolare, è una frase pronunciata da Charlotte York (interpretata da Kristin Davis) in un episodio della serie Sex And The City.

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Capitolo 6
*** 6 | Dimentica l'amore, e forse anche il dolore passerà. Dimentica le cose belle, e tutto il male, sai, di colpo sparirà. ***


La lunga strada verso casa - 1
Come in tutti i capitoli precedenti, questo non aggiunge nulla di nuovo alla situazione... se non che entrambi i nostri eroi prendono finalmente una decisione, per 'muoversi' finalmente in qualche direzione. Giuste o sbagliate, condivise o meno, ma finalmente entrambi trovano il coraggio di dire qualcosa.
Spero leggerete con piacere, e che soprattutto continuerete a seguire la storia!
EffieSamadhi

P.S. : Se siete iscritti a Facebook e ancora non lo conoscete, il gruppo Portagioie di tristezza aspetta di essere visitato! Potete trovare spoiler, comunicare direttamente con l'autrice (anche per lanci di pomodori marci, non mi formalizzo), visitare la galleria dei prestavolto e conoscere più dettagli su ogni personaggio. Inoltre, se siete in cerca di nuova musica, su YouTube potete trovare la colonna sonora ufficiale di “Portagioie di tristezza”.






La lunga strada verso casa






Capitolo sesto
Dimentica l'amore, e forse anche il dolore passerà.
Dimentica le cose belle, e tutto il male, sai, di colpo sparirà.1



Torino, 8 gennaio 2014


    Non appena legge il messaggio di Daria – Ti devo parlare –, Alice comprende che tutti i suoi impegni quotidiani andranno rimandati, perché quando la tua migliore amica ti manda un sms alle cinque e trenta del mattino deve per forza esserci sotto qualcosa di molto grave – anche se non riesce a capire che cosa potrebbe essere successo, visto che sono rimaste separate poco più di mezza giornata. Sono appena passate le nove quando bussa alla porta di un appartamento che conosce ormai bene, aspettandosi che si spalanchi su chissà quale scenario apocalittico. «Ehi, hai fatto presto» la saluta Daria, arrivando ad aprire dopo pochi secondi.
    «Ho immaginato fosse qualcosa di importante, per scrivermi alle cinque del mattino» risponde lei, facendosi avanti nell'ingresso. «Non lavori, oggi?»
    «Marco mi ha dato una giornata libera. Dice che ho bisogno di riprendermi.»
    «Riprenderti da cosa?»
    «Dall'incontro con mia madre» replica Daria, usando le dita per mimare nell'aria un paio di virgolette immaginarie. «Caffè?»
    «Assolutamente sì» replica Alice, appoggiando cappotto e borsa sul divano e prendendo posto su uno sgabello. «Mi consenti di essere sorpresa da questo improvviso istinto di protezione nei tuoi confronti? Insomma, sai che ho sempre pensato che Marco avesse una cotta per te, però non...»
    «A questo proposito» la interrompe Daria, voltandosi verso i fornelli per nascondere il viso, «ieri sera siamo andati a cena insieme e poi mi ha riaccompagnata a casa.»
    «Beh, ma non è certo la prima volta che...»
    «Mi ha baciata.»
    «Ah. E tu?»
    «E io niente, che dovevo fare? Sono rimasta lì ferma e l'ho lasciato fare.»
    «E poi?»
    «E poi ha detto che gli piaccio.»
    «Lo sapevo!» esclama Alice, alzando un pugno al cielo in segno di vittoria.
    «Sì, in pratica ha confessato di essere attratto da me da quando ho iniziato a lavorare per lui, ma di essersi sempre fatto un sacco di scrupoli per il fatto di essere il mio capo e di essere molto più grande di me.»
    «Dimostra una certa correttezza di fondo, questo bisogna riconoscerlo. Aspetta, non mi starai dicendo che è per un bacio che sei stata sveglia tutta la notte e mi hai implorato di correre qui?»
    «No, non è solo per un bacio.»
    «E allora che cosa...»
    «Ci sono stata a letto.» Alice solleva lo sguardo confusa: apre la bocca per ribattere, ma non un singolo suono riesce a risalire la gola. «Lo so, so cosa stai pensando. Stai pensando che siamo andati troppo di corsa, ma...»
    «Troppo di corsa?» replica finalmente l'altra ragazza, forse a voce un po' troppo alta. «Quanto è passato dal bacio sul portone al letto? Mezz'ora? Io non... non... tu sei una che non si mette in mutande nemmeno davanti a sua sorella! Quando... quando andavamo a scuola, ti ricordi cosa succedeva nell'ora di ginnastica? Andavi a cambiarti in bagno per non doverti spogliare davanti alle altre ragazze!» Rendendosi conto di essersi scaldata troppo, prende un respiro profondo e si massaggia brevemente le tempie con le mani, nel disperato tentativo di calmarsi. «A volte non riesco a capirti, Daria... spogliarti per un ragazzo è sempre stata la parte più complicata, e ora...»
    «Con Shannon è successo dopo una settimana.»
    «Sì, e dopo continuavi a chiederti se fosse stata la scelta giusta. Senti, non ti voglio criticare, sai che non lo farei mai. E so anche che non si può tornare indietro, però... ma tu sei sicura di aver fatto la cosa giusta?» Per non essere costretta a guardare l'amica negli occhi, Daria si volta con la scusa di controllare i fornelli. In questo momento vorrebbe non averla chiamata, perché avrebbe dovuto sapere che all'amica sarebbe bastata un'occhiata per comprendere la sua condizione – perché è questo che succede, quando chiedi un consiglio ad una persona che ti conosce meglio di quanto tu conosca te stessa. «Daria, della mia opinione te ne puoi anche fregare, tanto alla fne sono affari tuoi, e solo tu puoi decidere, però... non pensi che in questo modo potresti aver complicato ancora di più le cose?» Segue un lunghissimo silenzio, un silenzio che Daria non sa proprio come riempire, perché Alice ha ragione, ha capito tutto anche senza ricevere indizi, anche senza sapere che a tenerla sveglia è stata proprio la consapevolezza di aver combinato un grande, immenso, enorme casino. «Daria? Daria, stai bene?» Finalmente Daria si volta, tentando un sorriso nonostante il groppo in gola e le lacrime che lottano per sfuggire alla prigione delle ciglia, e anche senza sentirla parlare Alice capisce. «Vieni qui» sussurra, alzandosi per raggiungerla. Com'è successo spesso nell'ultimo periodo, se la tiene stretta, accarezzandole i capelli mentre le lacrime le inzuppano la manica, continuando a chiedersi perché le cose più tremende succedano sempre alle persone più buone. Sa che non dovrebbe essere così accondiscendente, sa che dovrebbe prendere Daria per le spalle e scrollarla fino a farle entrare in quella testa dura che Shannon è la cosa migliore che le sia mai capitata e che solo tornando indietro a riprenderselo farà tornare tutto a posto, ma non ci riesce: quando quegli occhi azzurri la guardano a quel modo, così pieni di lacrime e disperazione, ogni rimprovero e arrabbiatura si dissolvono come neve al sole – come si fa a prendersela con qualcuno che riesce a punirsi benissimo da sé?



*



Città del Messico, 9 gennaio 2014


    Contrariamente a quanto ho promesso a Jared, non mi sento affatto in forma, né pronto ad affrontare un concerto – però non mi posso tirare indietro a questo punto, poiché manca poco più di un'ora all'inizio dello spettacolo, e sostituirmi sarebbe piuttosto complicato. Senza contare che probabilmente incapperei nell'ira di mio fratello, che mi negherebbe la parola fino alla fine dei miei giorni.
    Quando Emma, impegnata nel suo rituale giro di controllo, bussa alla mia porta, me ne sto seduto sul divanetto con le bacchette pigramente strette tra le mani e lo sguardo fisso a terra, quasi non sapessi cosa farmene di quei due bastoncini. «Ahia, qui le cose si mettono male» sussurra, chiudendosi la porta alle spalle. «Che cosa succede? Cos'è quella faccia?»
    «Quale faccia?»
    «Quella faccia» ripete, indicando il mio volto. «Sembri un cane bastonato.»
    «Mi sento un cane bastonato» rispondo, sfregandomi gli occhi con le mani. «Hai mai avuto un momento... un momento no? Come se ti sentissi scarica di ogni energia?»
    «Altroché. Credo che chiunque abbia dei momenti di sconforto. Certo, forse prima di un concerto non è l'ideale, ma... è successo qualcosa di particolare?»
    «No, no, che dovrebbe essere successo? È solo che... non lo so, forse il periodo di pausa non è bastato a riprendermi. O forse sto soltanto covando un po' di influenza, chi lo sa.»
    «O forse pensi ancora a...»
    «No. Assolutamente no» la interrompo. «Non sto pensando ad altro che al lavoro, in questo momento. Non mi posso permettere distrazioni.»
    «Va bene, se lo dici tu...» replica lei, guardandomi come se sapesse cose che io ignoro.
    «Perché mi guardi così?» le domando mentre sta per aprire la porta e lasciarmi di nuovo solo.
    «Così come?»
    «Come se... come se non mi credessi.»
    Sorride brevemente, poi torna a farsi seria. «Perché io non ti credo, Shannon. Forse puoi mentire a te stesso, ma non puoi mentire a me. Né a Tomo, né a tua madre, lasciamo perdere tuo fratello. Che la cosa ti piaccia o meno, noi ti conosciamo bene, e nemmeno se fossi un ottimo attore potresti ingannarci. Non sei tranquillo, né sereno, né rilassato, né libero dai cattivi pensieri. C'è qualcosa su cui continui a rimuginare, e si vede. Sei padrone di tenerlo per te e non condividerlo con noi, però non fingere che vada tutto bene, perché non è così.» Terminata la sua breve arringa, si guarda per un attimo le scarpe e poi rialza la testa. «Se non hai bisogno di nulla, adesso io andrei. Devo fare ancora un po' di cose prima che lo spettacolo inizi.»
    «Sono a posto, grazie.»
    «Va bene, allora me ne vado. A più tardi.»
    «A più tardi.»
    Seguo con attenzione la sua ritirata, e non appena la porta si richiude chiudo gli occhi e riabbasso la testa, liberando un sospiro. Serro le palpebre e mi passo le mani tra i capelli, cercando di trovare la giusta concentrazione per affrontare la serata. Devo chiudere i miei problemi in un angolo del cervello e portare alla luce soltanto ciò che mi servirà per concedere agli Echelon ciò che stanno aspettando, ovvero uno spettacolo indimenticabile.
    Tutto ciò che devo fare è dimenticare Daria.



*



Torino, 8 gennaio 2014


    «Che cosa hai intenzione di fare, adesso?»
    «A che proposito?»
    «A proposito di Marco, a proposito di tua madre... a proposito di tutto
    Faccio spallucce, inzuppando un biscotto nel caffè. «Non ne ho idea.»
    «Non per fare la rompiballe, ma io credo che dopo stanotte Marco si aspetti... qualcosa. Insomma, lui ti ha aperto il suo cuore, e tu...» Si interrompe all'improvviso, come chiedendosi se sia il caso di continuare.
    «So cosa stai per dire, Alice. Non ti fare problemi.»
    «Non stavo per dire quello che pensavi volessi dire!»
    «Oh, invece sì. Stavi per dire "...e tu hai aperto le gambe".»
    «Forse l'ho pensato per qualche secondo, ma non avrei mai detto una cosa tanto volgare.»
    «Come se fossi il tipo di persona che si offende per queste cose.»
    «Comunque, che hai intenzione di fare? Insomma, io al suo posto qualcosa me lo aspetterei. Non che vi dobbiate sposare, certo, però vi siete visti nudi. La cosa dovrebbe avere una certa importanza, no?»
    «Tu dici che dovrei dargli una chance?» domando, temendo la sua risposta.
    «Beh, se ci sei stata a letto immagino che tra voi ci fosse una certa... attrazione. Insomma, non l'hai fatto soltanto perché ti annoiavi e avevi voglia di passare una serata diversa...» Segue una lunga pausa, durante la quale mi sento studiata quanto una cavia da laboratorio. «Perché tu non lo hai usato come scacciapensieri, vero?»
    «Certo che no. Come ti viene in mente?» mi affretto a rispondere, pur sapendo che la mia solerzia non farà altro che accrescere i suoi sospetti.
    «Santo cielo, lo hai fatto» sospira, coprendosi gli occhi con una mano.
    «Ti assicuro che non è così, Alice.»
    «E allora guardami negli occhi e giurami che andare a letto con lui ti ha reso la donna più felice e soddisfatta del mondo. Giurami questo e io non solleverò mai più la questione.» Prendo fiato e tento un paio di volte di prendere la parola, senza riuscire a dire nulla. «Sai che non funziona mai, vero?» riprende lei. «La tecnica chiodo-scaccia-chiodo. Può funzionare soltanto se sei un essere completamente senza cuore, ma in quel caso di solito non hai un chiodo da scacciare.» La persistente assenza di una mia risposta la fa sentire in dovere di continuare. «Capisco che la tua priorità sia dimenticare Shannon e andare avanti con la tua vita, ma illudere Marco non mi sembra una buona strategia.»
    «Non sto illudendo Marco» protesto. «Non c'è stata nessuna promessa, nessun progetto...»
    «Però lui ha confessato di essere attratto da te e tu ti sei spogliata. Direi che il messaggio è piuttosto chiaro.»
    «Non c'è assolutamente nessun messaggio da recepire. Non è stato niente, solo che il momento era...»
    «No, no, no, questa mi rifiuto di sentirla. Non cercare di imbonirmi con il solito discorso sulla magia del momento, sul fatto che si è trattato di condizioni particolari e che è stato un caso isolato, perché non ti credi nemmeno tu.»
    «Mi stai facendo la morale?»
    «Non faccio la morale a nessuno, sai che non sono il tipo. Sto solo dicendo che io ti conosco, e so quanto tempo impieghi per arrivare a fidarti delle persone. Di solito ti servono mesi per lasciar entrare una persona nel tuo cuore, figurarsi quanto ce ne vuole per lasciartela entrare nelle mutande
    «Beh, nella vita è importante essere flessibili, no? Forse mi sto evolvendo, sai, tipo... diventando una persona migliore.»
    «Mi permetti di essere scettica al riguardo?»
    «Pensi che andare a letto con Marco sia stato un errore?»
    «Penso che dovresti comportarti onestamente nei suoi riguardi. E soprattutto nei tuoi. Penso che dovresti chiederti che cosa vuoi davvero, e soprattutto che cosa ti serve. Insomma, devi mettere a fuoco le tue necessità e seguirle. E dovresti iniziare a pensare seriamente alle conseguenze delle tue azioni e delle tue scelte, perché ci sono sempre delle conseguenze.» Di nuovo non rispondo, e di nuovo sento il suo sguardo fisso su di me. «Mi chiedo se tu sappia quello che vuoi, in fondo.»
    «Chi è davvero sicuro di sapere quello che vuole?» ribatto.
    «Nessuno» risponde. «Ma almeno un indizio lo dovresti avere, non credi?»
    «Voglio essere onesta» sussurro dopo un silenzio quasi infinito. «Voglio essere onesta, soprattutto con me stessa.»
    «Bene. Mi sembra un'ottima decisione. E come pensi che dovrebbe... svolgersi la cosa?»
    «Beh, immagino che dovrei capire ciò che è meglio per me e... fare tutto ciò che è in mio potere per raggiungere quella meta.»
    «Ragionevole. E... cosa credi sia meglio per te, in questo momento?»
    Rifletto per qualche secondo, prima di sputare fuori una risposta. «Dimenticare Shannon» sentenzio infine. «Dimenticare tutto ciò che lo riguarda, dimenticare Parigi, dimenticare tutto ciò che ho provato quando eravamo insieme. Non dico dimenticarlo per sempre, solo... solo finché non avrò imparato ad essere felice senza di lui.»
    «Se pensi sia la scelta più opportuna... e con Marco come la metti?»
    «Ci uscirò. Se mi chiederà di farlo, naturalmente.» Ci fissiamo per qualche istante, e dal suo sguardo capisco che non è convinta di quanto sto dicendo – è sempre stata dichiaratamente pro-Shannon, fin dal principio, fin da quando non riuscivo nemmeno a credere di essere coinvolta in qualcosa con lui, e so che la mia dichiarazione ferisce la piccola cheerleader nascosta dentro di lei, che già ci vedeva riuniti davanti all'altare per scambiarci promesse di amore eterno. Rinunciare a lui ferisce anche me, in un certo senso, ma al contrario di lei mi rendo conto che separarci è stato necessario, per quanto doloroso, perché so che non saremmo mai riusciti ad andare da nessuna parte.
    «Ok. Se pensi che sia la cosa giusta, io ti appoggerò. E con tua madre, invece? Pensi di chiamarla?»
    Fisso i resti del biglietto da visita, frapposti tra di noi come una barricata. «Qualcosa inventerò.»



*



Città del Messico, 10 gennaio 2014


    Quando Emma sente bussare alla porta della propria stanza è quasi l'una del mattino, e il primo pensiero è che sia successo qualcosa di catastrofico – magari Stevie è scivolato nella doccia, è caduto e si è rotto un braccio, o magari è solo Jared che non trova i bigodini –, ma quando, in pigiama e con gli occhi che domandano soltanto di chiudersi, apre e si trova di fronte Shannon, capisce che è molto peggio. «Ehi, ciao» la saluta lui, impacciato come mai. «Ce li hai cinque minuti? Penso... penso di aver bisogno di parlare con qualcuno. O meglio, forse ho soltanto bisogno di un consiglio... sai, da parte di una donna.»
    In circostanze normali Emma lo manderebbe all'inferno e sbatterebbe forte la porta contro quel profilo praticamente perfetto, ma il modo in cui lo vede tormentarsi le mani, come se dal loro colloquio dipendesse il destino del mondo, muove la sua parte più sensibile. Si scosta e gli fa cenno di entrare. «Vieni avanti, forza» gli sorride, sperando di essere in grado di alleviare quel dolore che c'è, e spicca come un cactus nel deserto. Si accoccola sul proprio letto e fissa l'uomo fermo al centro della stanza, lasciandosi sfuggire un altro sorriso. «So che è una situazione nuova per te, stare in una stanza con una donna e avere ancora tutti i vestiti addosso, ma vedrai da te che non c'è nulla di cui aver paura. Su, vieni a sederti qui vicino a me» lo incita, battendo il palmo aperto della mano sul copriletto.
    Mentre si appoggia al materasso, Shannon si lascia scappare una breve risata. «Anni che ti conosco, e non sapevo che potessi essere così simpatica.»
    «Forse non sono esattamente al primo posto, nella lista delle cose che ti interessano. Avanti, di che vuoi parlare? Su che cosa dovrei consigliarti?»
    «Beh, io... io credo di aver fatto un casino con una ragazza. Niente che richieda un comunicato stampa, o una smentita, o un'azione legale, tranquilla» aggiunge subito, notando l'espressione sconvolta dell'assistente. «Solo che... ho paura di aver ferito una persona. Insomma, di aver detto qualcosa che... tu come la prenderesti, se confessassi ad un uomo di essere innamorata di lui e lui dopo trenta secondi ti confessasse di essere innamorato di un'altra?»
    Emma distoglie lo sguardo per qualche istante, riflettendo sulla risposta. «Beh, immagino che una poderosa ginocchiata all'altezza dei genitali sarebbe una reazione abbastanza equilibrata.»
    «Allora ringrazio il cielo che fossimo al telefono» sussurra Shannon, grattandosi il mento non rasato.
    «Non stiamo parlando in modo teorico, vero? Insomma, tu hai... lo hai fatto davvero?»
    «Qualche giorno fa ho incontrato una mia ex ragazza. La mia prima ex ragazza, in realtà, e... beh, per fartela breve, ci siamo visti per un caffè. Non ci vedevamo da qualcosa come vent'anni, o forse più, e... prima di separarci lei mi ha baciato. Lì per lì non ci ho dato importanza, ma ieri sera ho... io l'ho chiamata. Volevo una spiegazione. Avevo bisogno di una spiegazione.»
    «E a quel punto lei ha detto di essere innamorata di te.»
    «Qualcosa del genere.»
    «E tu le hai detto che sei ancora innamorato di Daria.»
    «Qualcosa del genere. Non ho detto esattamente quelle parole, ma... ecco, lei mi ha chiesto di sfogarmi, ed è quello che ho fatto. Le ho parlato di Daria, e del modo in cui mi ha abbandonato a Parigi, e... stavo... stavo riflettendo ad alta voce, e le ho chiesto se secondo lei era giusto accettare la sua decisione o se avrei dovuto correrle dietro, e...»
    «E lei che cosa ti ha consigliato?»
    «Lei è stata corretta. Più che corretta. Ha detto che non era una domanda cui potesse rispondere. E io, scemo, l'ho capito soltanto dopo. E... e soltanto dopo ho capito che probabilmente l'ho ferita, parlando a quel modo di Daria, ma... santo Dio, sono settimane che penso a Daria. Non riesco a togliermela dalla testa.»
    «Poco più di sei ore fa eri pronto a giurare di essertela levata dalla testa.»
    «Ho mentito.» Emma e Shannon si fissano per un istante, e subito dopo Shannon fa una cosa che lei non gli ha mai visto fare – non davanti ad una donna, almeno: abbassa lo sguardo, china il capo e si prende la testa fra le mani, come disperato. «Pensavo di poter andare avanti come se nulla fosse successo, ma a questo punto mi sembra chiaro che non ne sono in grado. O forse non voglio andare avanti, non lo so. Il fatto è che... con lei era tutto più semplice, sembrava tutto così... così semplice. Certo, alla lunga avremmo dovuto affrontare tutti i problemi che le coppie normali devono affrontare, ma io so che... so che accanto a lei nessun ostacolo mi sarebbe sembrato insormontabile, perché lei... lei mi conosceva. Le ho raccontato alcuni dei miei segreti più grandi, e... e le andavo bene comunque.»
    «Sei ancora in tempo per riavere quei momenti, Shannon. Devi solo mettere da parte l'orgoglio e fare il primo passo.»
    «Non è una questione di orgoglio, Emma.» Shannon alza gli occhi, e per la prima volta lei li vede arrossati e lucidi di lacrime. «Se solo potessi, ti giuro che salterei sul primo aereo per l'Italia.»
    «Puoi farlo, Shannon. Jared non ti ucciderà, se gli dirai che...»
    «Non posso, Emma. Non posso, perché lei mi ha chiesto di non farlo.» Emma apre la bocca per rispondere, ma lui la batte sul tempo. «A volte ho pensato che... ho pensato che la sua richiesta fosse un test, tipo... non so, un trabocchetto. Sai, se me ne fossi fregato e fossi andato da lei avrebbe significato che l'amavo da morire. E se non l'avessi seguita...» Si interrompe e guarda di nuovo in basso, in direzione dei propri piedi, che soltanto adesso Emma si accorge essere nudi. «Se fosse stato un test, adesso sarebbe troppo tardi per riaverla indietro. Due mesi... sono passati quasi due mesi. Tornare da lei adesso non... non sarebbe accettabile.»
    «Personalmente, io lo troverei accettabilissimo. Anche dopo, non so, due secoli. Il fatto stesso di veder tornare indietro l'uomo che amo mi renderebbe felice.»
    «Apprezzo i tuoi sforzi, Emma, ma non riuscirai a convincermi ad andare da lei.»
    «Non sto cercando di convincerti a fare un bel niente, Shannon. La sola cosa che voglio è che tu sia in pace con te stesso, che tu stia... bene. E perdona la mia brutalità, ma in questo momento tu non stai affatto bene.»
    «Amo la tua brutalità.»
    Emma sorride appena, giocherellando con il bordo di un calzino. «Io credo che a questo punto tu debba prendere una decisione, Shannon. Prendere una decisione e seguirla fino in fondo, non importa che cosa accadrà» aggiunge. «Per come la vedo io, ci sono tre possibili soluzioni. Numero uno: metti da parte l'orgoglio, metti da parte i test e i trabocchetti e tutte le altre stronzate, prendi un aereo, bussi alla sua porta e le dici che non puoi vivere senza di lei. Numero due: continui a crogiolarti nel tuo dolore e ti rinchiudi a riccio soffocandoti nelle tue emozioni, diventando un vecchio scapolo arido e solo.»
    «E... numero tre?»
    «Ti dimentichi di averla conosciuta. Dimentichi Milano, dimentichi il fine settimana che hai trascorso con lei a Torino, dimentichi Parigi, dimentichi il discorso che Jared vi ha dedicato, dimentichi il dolore. Dimentichi tutto, le cose belle e le cose brutte. La cancelli dalla tua mente, fingi di non averla mai incontrata, fingi che non sia mai esistita. Passi oltre, vai avanti. Vai avanti, come fa la gente comune.»
    «Non so se posso farlo. Insomma, non so se... non so se mi posso dimenticare tutto quello che abbiamo vissuto insieme.»
    «Non è l'unica soluzione possibile» replica Emma, facendo spallucce. «Adesso tocca a te prendere una decisione. Soltanto a te
    Shannon sospira e rialza lo sguardo, puntandolo per qualche istante verso il soffitto. «Ti è mai capitato di sapere quale sia la cosa giusta da fare, ma di non avere il coraggio di farla?»
    «Credo sia la storia di chiunque.»
    «Cosa faresti, se fossi al mio posto?»
    «Credo... penso che sarei confusa, esattamente come te.»
    «Consolante. Almeno so di non essere solo.» Guarda di nuovo la ragazza, poi abbassa la testa e si fissa i piedi per qualche secondo. «Grazie per la chiacchierata, Emma. Avevo proprio bisogno di confrontarmi con qualcuno.»
    «Non credo di essere stata molto utile, comunque... quando vuoi. Psicanalizzare te è più semplice che psicanalizzare tuo fratello.»
    Solo per un istante, sul volto di Shannon compare un sorriso – o almeno, così potrebbe sembrare ad un occhio poco allenato. Il problema, con Emma, è che tanti anni di lavoro a stretto contatto le hanno insegnato a leggere lo stato d'animo di quei tre bambinoni anche da una minuscola ruga – e quel movimento delle labbra non è un vero sorriso, lei lo sa. «Grazie per tutto, Emma. Adesso ti lascio dormire. Buonanotte.»
    «Buonanotte. Vai a dormire?» gli domanda subito dopo, alzandosi per accompagnarlo alla porta.
    «Non lo so. Forse potrei uscire un'oretta con Stevie e i ragazzi. Si stavano mettendo d'accordo per una birra. Potrebbe farmi bene.»
    «Fa' attenzione. Niente eccessi. Non voglio passare tutta la giornata di domani a difenderti da tuo fratello. Lo sai che quando ci si mette...»
    «...diventa più noioso di un chihuahua. Sì, lo so. Ti prometto che non farò sciocchezze.»



*



Torino, 8 gennaio 2014


    Piuttosto mite fino a qualche settimana fa, l'inverno di Torino sembra essere improvvisamente diventato uno dei più freddi degli ultimi anni, e mentre spingo più a fondo le mani nelle tasche del cappotto non posso fare a meno di chiedermi se quella che sto mettendo in pratica non sia una delle idee più stupide mai partorite da un essere umano. Sospiro, e il fiato si condensa in una nuvoletta bianca che sale lenta verso l'alto, in direzione di un cielo che non promette altro che neve. Sento il mio intero corpo tremare, e non riesco a capire se la colpa sia del freddo oppure della paura – perché avere paura sarebbe plausibile, vista la prova che sto per affrontare. Quindici anni. Sono passati quindici anni dall'ultima volta che ci siamo parlate, e questa è una cosa che non posso dimenticare. Non posso cancellare quindici anni come se non fossero mai esistiti, come se in tutto questo tempo io, i miei fratelli e soprattutto mio padre non avessimo costruito nulla, come se non avessimo tentato di ricostruirci lontano dalle macerie del passato. L'istinto mi dice che dovrei voltare i tacchi e allontanarmi, ma nonostante tutto c'è ancora una piccola parte di me che vuole sapere, e che attraverserà la strada e aprirà quella porta.



*



Città del Messico, 10 gennaio 2014


    «Ecco che cosa mi mancava del Messico» sospira Stevie, precedendo tutti gli altri. «Bere margaritas e scopare señoritas2» aggiunge, strappando un sorriso a tutta la compagnia. A divertirli non è la volgarità, quanto la consapevolezza che, nonostante la chiara dichiarazione d'intenti, il musicista riuscirà bene soltanto in una delle due cose – è un caro ragazzo, Stevie, ma rimorchiare nei locali non fa proprio per lui.
    I ragazzi si spostano tutti verso il bancone del bar, punto di partenza obbligato di ogni serata, e mentre aspettano di ottenere i rispettivi ordini si voltano verso la pista da ballo – qualcuno alla ricerca di una preda, qualcuno soltanto per curiosità. Nonostante il desiderio di dimenticare, Shannon è l'unico a non guardare verso il centro del locale, dov'è concentrata la maggior parte delle ragazze presenti. Sente tutti i commenti degli amici, ma si volta soltanto quando può nascondersi dietro una birra, come se guardare un'altra donna lo facesse sentire a disagio, quasi sporco. Osserva i goffi tentativi di approccio di Stevie con una bella ragazza con le gambe troppo lunghe, e poco a poco vede il gruppo disperdersi, ognuno concentrato sul proprio sentiero.
    Sa di non essere molto di compagnia, ma non gli importa: non è uscito con l'intenzione di essere l'anima della festa – tutto ciò che vuole è dimostrare a se stesso di poter ancora vivere senza di lei.


*



Torino, 8 gennaio 2014


    Spingo la porta con mano tremante, ed entro mettendo cautamente un piede davanti all'altro, quasi mi aspettassi di essere improvvisamente attaccata da un animale feroce. È soltanto tua madre, accidenti!, mi dico, rendendomi conto che è proprio questo a terrorizzarmi – se fosse una completa estranea quella che devo incontrare, forse non sarei tanto nervosa.
    Il biglietto da visita diceva 'Elisa Maresca, arredatrice d'interni', e ciò che vedo intorno a me sembra confermarlo – la tinteggiatura delle pareti, i tendaggi, le poltrone... sembra tutto perfetto. Mentre sto accarezzando il bracciolo di una poltroncina mi si avvicina una ragazza che deve avere più o meno la mia età, che intuisco essere una segretaria. «Buongiorno. Posso esserle utile?» mi sorride.
    «Buongiorno. Sì, io... ehm, dovrei... vorrei parlare con la signora Maresca, se è possibile.»
    «Ha un appuntamento?»
    Distolgo per un istante lo sguardo, trattenendomi dal fare qualcosa di estremamente stupido come ridere – ci mancherebbe soltanto che per parlare con mia madre dovessi prendere un appuntamento. «No, non ho un appuntamento, ma... ecco, pensavo... speravo che potesse trovare un paio di minuti per me.»
    «Beh, in questo momento è in riunione con un cliente, e...» si blocca, forse intuendo dall'espressione dei miei occhi che si tratta di qualcosa di davvero importante. «Vado ad informarmi e torno subito. In fondo non è una riunione così importante.» Muove un passo nella direzione da cui è arrivata, poi si volta di nuovo verso di me. «Chi devo annunciare?»
    «Le dica che... le dica...» Le parole mi muoiono in gola. Non posso dire figlia, e troverei estremamente riduttivo farmi indicare come una ragazza qualunque. «Le dica che c'è qui la figlia di Danilo» riprendo dopo un istante di smarrimento. «Sono certa che capirà.»
    «La figlia di Danilo, va bene. Torno subito.»
    La ragazza scompare dietro un angolo, e circa trenta secondi più tardi il silenzio viene interrotto dal ritmo di un paio di tacchi che si avvicinano, alternandosi rapidamente sul pavimento di graniglia. Alzo la testa giusto in tempo per offrire il mio volto allo sguardo di mia madre, che si blocca all'improvviso, seguita a poca distanza dalla segretaria. «Ciao» sussurra, quasi non si fosse aspettata di vedere me.
    «Ciao» rispondo, sorprendendomi di quanto indifferente appaia il mio tono.
    «Sono... sono impegnata in una riunione, ma posso liberarmi, se... se puoi aspettare qualche minuto.»
    Vorrei rispondere che sono quindici anni che aspetto, e che un paio di minuti non mi faranno certo dare di matto, ma sapendo che sarebbe maleducato e fuori luogo, trattengo il sarcasmo e faccio spallucce.     «Certo, posso aspettare un paio di minuti.»
    «Anna, finisco con il signor Galleani e poi esco» dice alla segretaria. «Fammi il piacere di spostare tutti gli appuntamenti della mattinata. Non ci sono per nessuno.»



*



Città del Messico, 10 gennaio 2014


    Shannon è già alla seconda birra, quando Stevie gli si avvicina – o meglio, quando gli si schianta contro come un sacco di patate. «Sai, Shannon, io di te mi ricordavo che fossi un tipo divertente» biascica, già evidentemente alticcio. «Ti ricordi quella volta a Hong Kong, quando cercavo di rimorchiarmi quella bella interprete e invece te la sei portata a letto tu?»
    «Ho un vago ricordo» ammette il batterista, «ma eravamo ad Oslo, non a Hong Kong.»
    «Oslo, Hong Kong, cosa vuoi che cambi? Da qualche parte c'è sempre una O.» Shannon aggrotta le sopracciglia, chiedendosi quanto alcol occorra avere in corpo per arrivare a partorire un simile ragionamento. «Comunque, tu hai qualcosa che non va» aggiunge l'altro, strappandolo alle sue riflessioni. «Non è da te stare in un locale così pieno di belle ragazze e non muovere un dito. Hai la febbre?»
    «No, Stevie, non ho la febbre.»
    «E allora hai dei problemi... come dire, tecnici? Perché sai, ad una certa età può anche capitare che un uomo non riesca più a... sai, no? Avere reazioni adeguate.»
    «Stevie, ti assicuro che ho reazioni più che adeguate» replica in tono abbastanza secco. «Non sono in vena, tutto qui.»
    «Allora è vero quello che dicono!»
    «Eh?»
    «Dicono tutti che hai il cuore spezzato» ridacchia. «Dicono che quella ragazzina che ti sbaciucchiavi dietro le quinte a Parigi ti ha mollato. Io non ci volevo proprio credere, perché andiamo, quando mai ti sei innamorato di qualcuno, tu?» Shannon abbassa lo sguardo con aria colpevole: dunque, è così che lo vedono. Lo considerano una macchina senza sentimenti il cui unico scopo è andare in giro a strappar via le mutande di tutte le ragazze carine che incontra? Va bene, Stevie è ubriaco e dunque il suo giudizio potrebbe anche risultare un pochino sfalsato, ma... è davvero così che lo vedono? Come un uomo adulto che non si è mai innamorato? «E io, sai, non ci credevo, ma adesso penso proprio che...»
    «Ma no, che vai dicendo? Innamorato, io? Ma quando mai? Era soltanto una che cercavo di portarmi a letto, ma è stata una missione davvero impossibile» minimizza, sperando così di mettere a tacere le voci. È consapevole di mentire, e ad ogni parola avverte una chiara fitta al petto, come se qualcosa dentro si stesse strappando. Non è giusto ridurre ciò che lui e Daria hanno avuto ad una semplice storia di letto, ma è il solo modo che conosca per non cadere a pezzi.



1Dimentica l'amore, e forse anche il dolore passerà. Dimentica le cose belle, e tutto il male, sai, di colpo sparirà. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Dimentica di Raf, contenuta nell'album Passeggeri Distratti (2006).
2Bere margaritas e scopare señoritas. | La battuta non è di mia invenzione, ma è pronunciata da Archie Moses (interpretato da Adam Sandler) nella commmedia Bulletproof (1996).

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Capitolo 7
*** 7 | 'Bella mattinata. Poseidone benedice il nostro viaggio.' 'A volte gli dei ti benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio.' ***


La lunga strada verso casa - 1
Io vi chiedo immensamente scusa per avervi fatto attendere tanto, ma è stata una settimana complicata: tra le chiamate d'urgenza al lavoro, l'imbianchino al lavoro in ogni angolo della casa e mie conseguenti indecenti sbavature, Fratello Piccolo che ha avuto l'influenza e Fratello Un Po' Meno Piccolo che doveva iniziare il primo anno di università e aveva bisogno di una guida non ho davvero avuto tempo per sedermi al computer e mettere giù le mille idee che avevo in testa.
Come sempre, grazie per la vicinanza, il supporto, i like su Facebook, i commenti e le recensioni... siete il miglior gruppo di fan che abbia mai conosciuto, e vi voglio sinceramente bene.
Fatemi sapere che ne pensate, e come ricompensa cercherò di scrivere rapidamente il prossimo capitolo!
Provehito in altum, sempre.
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo settimo
Bella mattinata. Poseidone benedice il nostro viaggio.”
A volte gli dei ti benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio”.1


Torino, 8 gennaio 2014


    «Non avrei mai pensato di rivederti così presto. Non avrei pensato di rivederti in generale
    «Neanch'io avrei pensato di rivederti in generale. Non dopo tutto questo tempo.»
    «Sei così bella» sorride, continuando a girare il caffè come se non avesse sentito le mie parole. «Eri già la bambina più bella che avessi mai visto, ma adesso sei così...»
    «Adulta?» completo io, sapendo di usare un tono decisamente seccato. «Senti, non mi va di farla troppo lunga» aggiungo, giocherellando con il cucchiaino appoggiato accanto alla tazzina. «Per come la vedo io, una persona non torna dopo quindici anni senza volere qualcosa in cambio. Che cosa c'è sotto?»
    «Pensi che stia cercando di ottenere qualcosa?» ribatte, evidentemente sorpresa dalle mie parole. «Si vede proprio che non mi...» Si interrompe, rendendosi conto che ciò che sta per dire andrebbe inevitabilmente a suo sfavore.
    Non posso lasciarmi sfuggire quest'occasione, sebbene non sia mai stata una persona che ama girare il dito nelle piaghe altrui. «Che non ti conosco? Direi che non è così strano, visto che è dall'età di otto anni che non ti vedo.»
    La guardo coprirsi gli occhi con una mano, e in cuor mio spero che non inizi a piangere, perché a quel punto tutta la mia baldanza andrebbe a quel paese, e probabilmente mi scioglierei in lacrime anch'io. «Hai tutto il diritto di essere arrabbiata con me, Daria. Non saresti una persona normale, se non provassi rabbia nei miei confronti. Però io avevo delle ragioni, avevo... avevo dei motivi. Non me ne sono andata soltanto perché quel mattino non avevo altro da fare.»
    «Non mi importa dei tuoi motivi. Ormai non hanno più importanza. Avrebbero potuto avere un senso se fossi tornata dopo quindici giorni, ma dopo quindici anni...»
    «Daria, io voglio spiegarti perché...»
    «E se io non volessi ascoltarti?» ribatto in tono di sfida. Subito dopo, notando il suo sguardo implorante, mi pento di essere stata tanto dura e mi rinchiudo nel mio silenzio, sperando che lo interpreti come un invito a parlare – in fondo è per questo che sono partita alla sua ricerca. In fondo, conoscere la verità è il mio più grande desiderio.
    «So di essere stata tutto tranne una buona madre, ma una possibilità di spiegare dovresti concedermela» riprende, riuscendo non so come a mantenere la calma. «E se quando avrò finito avrai ancora voglia di cacciarmi dalla tua vita a calci nel sedere, lo accetterò senza lamentarmi.» I nostri sguardi si incrociano, ma è soltanto per un attimo: non riesco a sostenere il peso di quegli occhi, simili ai miei per forma e intensità. Non sono ancora le undici di mattina, e già so che questa sarà una di quelle giornate che possono cambiare la tua vita per sempre.



*



Città del Messico, 10 gennaio 2014


    Ordinato un altro giro di tequila, Stevie si è di nuovo allontanato, lasciandomi solo – ma la calma, già lo so, non è destinata a durare. Passano quelli che forse non sono nemmeno cinque minuti e lo vedo tornare, non più solo ma in compagnia di due ragazze decisamente carine. «Shannon, ti presento le mie due nuove amiche, Camila e Rafaela. Sono messicane» aggiunge con una risatina, come se questo particolare rendesse la cosa particolarmente divertente. «Chicas, esto es mi amigo Shannon» biascica, e in realtà sono molto stupito dal fatto che riesca a parlare così bene una lingua straniera nonostante l'evidente stato di alterazione. «Shannon es un poco timido, pero le gustaria mucho bailar con una chica hermosa.2»
    «Stevie...» tento di protestare, senza successo.
    «Taci e ascolta, Shannon. Non puoi sempre fare le cose a modo tuo» mi redarguisce, mentre una delle due ragazze, probabilmente ubriaca quanto lui, esplode in una risatina sciocca e gli si accoccola contro la spalla. Detto questo i due si allontanano, lasciando indietro l'altra ragazza, che per mia fortuna sembra meno su di giri dell'amica.
    Mi spremo a lungo le meningi, cercando di ricordare le poche nozioni di spagnolo apprese al liceo. «Yo... yo no hablo mucho...» borbotto, senza capire se il balbettare sia causato dall'alcol, dall'imbarazzo o dall'ignoranza.
    «Parlo un po' di inglese» mi interrompe lei con un sorriso, avvicinandosi al bancone per ordinare da bere. «Ma hai un bell'accento» aggiunge.
    «Grazie. Tu sei Camila o... scusa, mi sfugge l'altro nome.»
    «Era Rafaela. Comunque io sono Camila» aggiunge, porgendomi la mano in segno di saluto.
    «Shannon» rispondo, ricambiando la stretta.
    «So chi sei. Anche se forse sarai stufo di sentirtelo ripetere.»
    Mi stringo nelle spalle ed evito di rispondere, anche perché non saprei bene quali parole usare. «Scusa per il mio amico. Quando esagera a volte può diventare... ingombrante.» Guardo verso la pista da ballo, dove uno Stevie dall'equilibrio decisamente compromesso sta tentando di dimostrare le sue inesistenti doti di ballerino. «Comunque la tua amica può stare tranquilla, non è pericoloso.»
    Anche lei si volta per guardare la strana coppia, e nel farlo sorride ancora. «Non ero preoccupata. Rafaela è una che si sa difendere, anche quando non è esattamente in sé.» Torna a guardare verso di me, portandosi alle labbra la birra che ha ordinato. «Il tuo amico ha detto che sei timido, ma a me non sembri un tipo timido.»
    «E che tipo ti sembro, allora?»
    Questa volta tocca a lei rispondere con un'alzata di spalle. «Non lo so. Non ti conosco, in fondo.»
    Abbasso per un istante gli occhi, sentendo montarmi dentro un coraggio di cui non riesco a capire l'origine. «Balleresti con me, anche se non mi conosci?»
    Mi studia con attenzione per qualche istante, puntandomi addosso due occhi scuri e molto intensi. «Penso di poter correre il rischio» sussurra poi, sporgendosi appena verso di me per sottolineare il concetto.



*



Torino, 8 gennaio 2014


    «Io tuo padre l'ho amato tantissimo, sai? So che sembra strano, pensando a com'è finita tra di noi, ma... io l'ho amato davvero molto.» Mi guarda e tenta un sorriso, ma è soltanto un istante: subito riabbassa lo sguardo e torna a giocare con il cucchiaino, forse cercando di raccogliere le idee. «Quando l'ho conosciuto ho pensato di essere la ragazza più fortunata del mondo, e quando l'ho sposato ho creduto che sarebbe durata per sempre. Solo che la vita non va sempre come tu l'hai progettata» sospira. «Insieme stavamo bene. Mi piaceva davvero stare con lui, solo... solo che non era quello che volevo. Non ho mai voluto essere come mia madre» riprende dopo un attimo di pausa. «Non avrei mai sopportato di diventare una di quelle casalinghe frustrate il cui unico svago è riunirsi con altre casalinghe frustrate a spettegolare sul mondo, io non... io non ero fatta per quel tipo di vita. Ho sempre saputo di essere destinata a qualcos'altro.»
    «Perché non glielo hai mai detto? Siete stati fidanzati per quanto, quasi dieci anni? E in tutto quel tempo non ti è mai venuto in mente di dirgli che non volevi il tipo di vita che stavate progettando?»
    «Daria, non è così semplice... a quell'epoca io volevo quel tipo di vita. Insomma, stare... stare con tuo padre mi piaceva così tanto che... credo che avrebbe potuto portarmi a vivere sulla punta dell'Everest, e a me sarebbe stato bene.»
    «Stai dicendo che è colpa sua? Che... che... che ti ha circuita e ti ha fatto credere di volere cose che in realtà non volevi?»
    Lei apre la bocca per ribattere e la richiude subito dopo, come se avesse cambiato idea. «Daria, quando c'è di mezzo una persona che ami, nessuna decisione è semplice da prendere. Non parliamo poi di quello che succede quando le persone che ami sono quattro» aggiunge in un sussurro.
    «Come sei riuscita a farlo? » sbotto all'improvviso, senza preoccuparmi di risultare troppo dura o sgradevole. «Non sarebbe così assurdo se avessi lasciato soltanto papà, ma... come si fa a lasciare tre bambini? Come si fa a lasciare i tuoi bambini? Francesca non si ricorda per niente di te, e credo che Emanuele non abbia questi grandi ricordi, ma io... io mi ricordo com'era quando eri ancora con noi. Mi ricordo tutto. Mi ricordo i pranzi di famiglia, mi ricordo Natale, mi ricordo la canzone che mi cantavi quando avevo la febbre e non riuscivo a prendere sonno, mi ricordo il profumo che aveva il bucato quando lo facevi tu... tu non sai quante cose ti sei lasciata alle spalle.»
    «Se la cosa può consolarti, in qualche modo, ogni giorno mi sono pentita di essermene andata.»
    «E perché hai aspettato quindici anni, prima di tornare?»



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Città del Messico, 10 gennaio 2014


    Nel caos della pista, trovo più facile liberare la mente – troppi rumori, troppo movimento, troppa folla – trovo più facile non pensare. Mi lascio andare, seguendo la musica – in fondo è la mia natura, seguire il ritmo. Resto ad occhi chiusi per un po', lasciandomi scivolare addosso ogni pensiero cattivo e ogni preoccupazione, finché non sento qualcosa sfiorarmi il fianco. Riapro gli occhi e mi accorgo che le distanze tra me e Camila si sono ridotte, come se la mia vicinanza le fosse necessaria. Nelle luci intermittenti che alternano buio e chiarezza tento di studiare i suoi lineamenti: dire che non è carina sarebbe un crimine, per non parlare del suo fisico, così perfetto da sembrare scolpito nell'argilla. I nostri sguardi si sostengono a vicenda, senza temere che le reciproche difese vengano colpite, eppure qualcosa dentro di me vacilla, come scalfito – forse perché ricordo ancora chiaramente un paio di occhi azzurri che con un solo sguardo riuscivano a trafiggermi l'anima. A questo punto, sapendo già che un giorno avrò a pentirmente, prendo il suo viso tra le mani e la bacio sulle labbra.



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Torino, 8 gennaio 2014


    «Daria, è complicato.»
    Distolgo lo sguardo, senza curarmi di nascondere una risatina sarcastica. «Dite sempre tutti così. Quando siamo piccoli dite che sono cose da grandi, e quando finalmente cresciamo dite che è complicato... io sono cresciuta, e adesso posso capire. Adesso voglio capire. Sono stanca di sentirmi dire che è complicato. Forse per te è più comodo, perché così non devi sprecarti ad inventare una scusa dietro la quale nasconderti, ma io sono stufa di aspettare i comodi degli altri. Io voglio sapere perché non sei tornata.»
    «Vuoi saperlo davvero?»
    «Sì.»
    «Non ti piacerà saperlo.»
    «Non mi importa. Qualunque cosa sarà meglio dell'ignoranza totale.»
    Inspira a fondo un paio di volte, come se stesse per rivelarmi il terzo segreto di Fatima, poi mi guarda dritta negli occhi: «Hai un fratello.» Lì per lì non recepisco il concetto, e sto per rispondere che so di avere un fratello, perché fino a due mesi fa dormivamo in due stanze attigue, ma poi comprendo che non è di Emanuele che sta parlando. «Non avrei voluto dirtelo così, ma... hai un fratello.»
    «C-come... come sarebbe a dire che ho un fratello
    «Due anni dopo il divorzio ho conosciuto un altro uomo, e... siamo andati a vivere insieme, e poi ci siamo sposati. Abbiamo avuto un bambino. Si chiama Luca.»
    La notizia mi colpisce in pieno stomaco come una bomba, facendomi vacillare anche se sono seduta. Sono certa che se fossi in piedi, niente mi impedirebbe di afflosciarmi al suolo come un foglio di carta. «Quanti anni ha?»
    «Ne ha compiuti undici a dicembre. Daria, so che per te sarà una sorpresa, ma...»
    «Una sorpresa? Una sorpresa, dici? Una sorpresa è quando sotto l'albero di Natale trovi quello che hai sempre desiderato, ma che pensavi non avresti mai ottenuto. Scoprire che hai un fratello di cui non sospettavi nemmeno l'esistenza lo definirei uno shock, se permetti.» All'improvviso, l'angolo del bar in cui ci siamo relegate per avere un minimo di intimità mi sembra troppo piccolo e soffocante, e tutto ciò che voglio è respirare un po' di aria pura, quel tanto che possa bastare a diluire l'aria satura di misteri e bugie che mi circonda. Mi alzo e guadagno l'esterno in poche falcate, senza preoccuparmi di quello che potrebbero pensare gli altri avventori – per una volta, forse la prima in tutta la mia vita, sono totalmente immune al giudizio degli altri.
    «Daria! Daria, torna qui!» mi sento chiamare. Non mi volto, ma dal solo tono della voce capisco che mia madre si è alzata e mi sta letteralmente inseguendo sotto i portici di via Po. «Daria, non puoi andartene così. Resto sempre tua madre!»
    Questa è la goccia che fa traboccare il vaso: mi volto di scatto, sfoderando l'espressione più truce del mio repertorio. «Io non ce l'ho più, una madre» sibilo prima di proseguire il mio cammino. Non ho mai detto qualcosa di più crudele, anzi: ho sempre odiato questo tipo di malvagità, e più di tutto ho sempre odiato le persone in grado di dire cose del genere. Eppure, mai in questo momento mi è sembrata la cosa più giusta da dire. Ormai è inutile negare che sto cambiando, che sto diventando una persona totalmente diversa – ma è ancora presto per capire se questo cambiamento mi piaccia oppure no.



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Città del Messico, 10 gennaio 2014


    Non presto molta attenzione al percorso compiuto dal taxi per arrivare all'albergo, e nemmeno saprei dire se nella hall ci siano testimoni del nostro passaggio. L'unica cosa che so per certo è che non mi sembrano passati nemmeno cinque minuti dal momento in cui ho baciato Camila sulla pista da ballo all'istante in cui la porta della mia stanza si è chiusa alle nostre spalle. Senza troppo garbo, la intrappolo tra il mio corpo e il pannello, avventandomi contro il suo collo con foga. Un istante più tardi, le mie mani si infilano sotto la sua gonna e fanno scivolare via le mutandine. Inizio a toccarla, e nel momento in cui le mie dita entrano in lei il respiro le si blocca, immediatamente seguito da un gemito di piacere. Non so come ci riesca, ma in un attimo mi sfila la maglietta, che lancia lontano con malgrazia. Non sono mai stato un ammiratore della fretta, in certi frangenti, ma per qualche strana ragione sento l'urgenza di proseguire. Con la mano libera cerco di abbassarle le spalline del vestito e di liberarla anche del reggiseno, ma all'improvviso lei mi spinge via. Segue un istante di totale confusione, poi lei riprende a spingermi, guidandomi verso il letto. Mi ci fa cadere sopra quasi di prepotenza, e mentre rialzo la testa per seguire i suoi movimenti lei si inginocchia tra le mie gambe, slacciandomi la cintura e i jeans. La aiuto a spogliarmi, ma non ho nemmeno il tempo di ritrovarmi nudo che già la sua bocca inizia ad occuparsi della mia erezione, facendo inevitabilmente affluire tutto il sangue verso un unico punto del mio corpo. Smetto definitivamente di pensare, e lascio che a farla da padrone sia il mio sistema nervoso.


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Torino, 8 gennaio 2014


    Letteralmente in fuga da mia madre, non ho prestato attenzione al percorso, ma quando finalmente mi decido ad alzare gli occhi mi accorgo di essere nell'unico posto dove potrei trovare un po' di aiuto – escludendo la casa di Alice. Sentendo qualcuno entrare in anticamera, Loredana alza gli occhi dall'agenda e mi sorride. «Buongiorno» mi saluta. Mentre sto cercando di mettere insieme qualche parola per rispondere al saluto e spiegare il motivo della mia presenza, lei accenna con la testa alla porta dello studio. «Hai bisogno di parlare con il dottor Martini?» mi domanda. Devo avere un'aria davvero sconvolta, se è riuscita a comprendere le mie esigenze soltanto guardandomi. Annuisco, e lei sorride ancora. «Siediti un attimo, vado a vedere che si può fare.» Obbedisco, mentre lei si alza dalla sedia girevole e va a bussare. Prima di entrare nello studio mi rivolge ancora un sorriso, che riesco finalmente a ricambiare, e una volta rimasta sola mi sorprendo a pensare che tipo di persona sia al di fuori del lavoro – da quando frequento il dottor Martini l'ho sempre vista sorridente e serena, ma sarebbe veramente fuori da qualunque logica credere che la sua vita sia sempre perfetta e priva di intoppi – perché se c'è una cosa di cui sono certa, è che nessuna esistenza sia priva di difetti. Per fortuna torna dopo qualche istante, strappandomi alle mie elucubrazioni. «Il dottore è impegnato con un paziente, ma tra cinque minuti avrà finito. Dopo toccherà a te.»
    «Grazie, Loredana.»
    «Dovere.» Mi sorride ancora, e la sua espressione è quanto di più amichevole e dolce abbia mai visto – è lo stesso modo in cui anche io ho sempre sognato di poter sorridere, e un po' provo invidia per lei, che riesce sempre a mostrare il lato migliore di sé. Subito dopo alza il telefono e torna al suo lavoro, e allora smetto di guardarla, aspettando il momento in cui potrò, come sempre, usare il dottore per scaricarmi la coscienza da tutto ciò che mi affligge e mi confonde.



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Città del Messico, 10 gennaio 2014


    Apro gli occhi, mi accorgo che il sole è già alto, li richiudo e li strofino con forza, chiedendomi che ore siano. Un fruscio alle mie spalle mi informa che non sono solo, quindi mi volto, e vedo che Camila sta finendo di sistemarsi il vestito. «Scusa, non ti volevo svegliare» si giustifica, tirando su la zip con un gesto preciso.
    «Non mi hai svegliato, tranquilla» borbotto, mettendomi a sedere. È struccata e ha i capelli ravviati alla bell'e meglio, ma resta la stessa splendida ragazza di ieri sera. «Te ne stai andando?»
    «Che occhio, Sherlock» mi prende in giro. «Volevo andarmene prima che ti svegliassi, ma sembra che il mio piano sia fallito.»
    «Camila, io...»
    «Tranquillo, non è necessario che usi il repertorio» mi sorride. «Sappiamo entrambi che è stata una magica notte destinata a non ripetersi.»
    «Non è quello che volevo dire.»
    «Ma io sì» replica. «Mi rendo conto che non è una cosa carina da dire, ma so come funzionano le cose con i... tipi come te. È già successo, e non me ne faccio un problema.» Appoggia una mano sul materasso, mentre con l'altra si infila prima una scarpa e poi l'altra.
    «Io... mi dispiace. Non era mia intenzione ferirti.»
    «Non mi hai ferita. Se avessi temuto di finire con il cuore spezzato, non ti avrei seguito fin qui.» Si sistema ancora una volta la gonna, poi si lascia sfuggire una risatina. «A dire il vero, c'è una cosa che potrebbe ferirmi, se fossi sentimentalmente coinvolta.» La guardo senza capire a che cosa si riferisca. «Non te ne sei nemmeno reso conto, dico bene?» Distoglie per un attimo lo sguardo, poi lo rivolge di nuovo verso di me. «Quando sei venuto, hai... beh, hai detto il nome di un'altra. Sul momento ho pensato che ti fossi dimenticato come mi chiamo, ma adesso mi rendo conto che lo sai, quindi...» Non ho bisogno di domandarle chi sia la donna che ho invocato, perché so che esiste unicamente una possibilità. Mi copro gli occhi con una mano, vergognandomi profondamente di me stesso. «Spero non sia una fidanzata da cui dovrò difendermi, perché non saprei davvero come comportarmi in un caso simile.»
    «No, nessuna fidanzata, lei... è una persona con cui uscivo. Ci siamo lasciati. Mi ha lasciato, in realtà» ammetto. «Non credo di averla ancora superata del tutto.»
    «Mi dispiace» sussurra. «Spero che sia una ragazza molto stupida.» Le rivolgo un'altra occhiata molto confusa. «Sì, perché se fosse molto stupida, la sua decisione di lasciare uno come te potrebbe essere giustificabile. Non si può dire che io ti conosca, ma... dai l'idea di essere un uomo speciale. E una donna intelligente non lascia un uomo speciale.»


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Torino, 8 gennaio 2014


    «Buongiorno, Daria» mi accoglie il dottore quando finalmente arriva il mio turno di abusare della sua pazienza. «Posso immaginare che sia successo qualcosa di estremamente tragico? Non è mia abitudine usare dei cliché, ma si può dire che tu abbia un'aria decisamente sconvolta.»
    Senza attendere istruzioni, mi siedo sul lettino, aggrappandomi al bordo con entrambe le mani. «Un paio di mesi fa sono venuta da lei perché avevo bisogno di sentirmi dire che amare una persona che ti ama non è un crimine, e che possono succedere cose molto peggiori.»
    «Sì, ricordo la nostra conversazione» afferma, sedendosi accanto a me sul lettino. Uno dei motivi per cui amo parlare con lui è che non pone alcuna gerarchia tra di noi, ma mi tratta da pari, come se fossimo due amici che si scambiano confidenze davanti ad un caffè. «Posso supporre che ti sia trovata faccia a faccia con il peggio
    «Assolutamente» annuisco. «Mia madre è tornata.»
    «Ah.»
    «La prego, non mi dica che questo è il suo unico commento» pigolo.
    «Assolutamente no, è solo che... è un colpo piuttosto forte persino per me, quindi non voglio nemmeno immaginare quanto abbia sconvolto te.»
    «Ma non è tutto. Lei mi ha spiegato numerose volte che la vita si diverte a metterci di fronte a prove sempre più complicate, e credo... credo che nel mio caso la vita provi un piacere quasi sadico nel complicare le situazioni. Ho un fratello» aggiungo subito dopo. «Un fratello di undici anni di cui fino a mezz'ora fa non sapevo nulla.»
    «Questa è davvero una prova degna di questo nome» osserva. «Aspetta un attimo qui, per favore. Credo che il mio appuntamento dal dentista debba essere definitivamente posticipato» aggiunge, alzandosi.


*



Città del Messico, 10 gennaio 2014


    Bussano alla porta, ma in questo momento non mi scomoderei nemmeno per il Papa. Sono certo che non sia qualcuno del personale, perché subito dopo l'uscita di scena di Camila ho appeso alla porta il cartello 'non disturbare', perciò può trattarsi soltanto di qualcuno del gruppo, o peggio di mio fratello, e in tutta sincerità non ho propria voglia di parlare con lui. «Shannon, sei vivo?»
    Riconoscendo la voce di Emma, però, decido di arrischiarmi a rivelare la mia presenza. «Non ci sono per nessuno» dico ad alta voce, sperando di mandarla via. Ma la conosco, e so che non si fermerebbe davanti nulla. Usando il passepartout, ignora la mia affermazione e apre la porta. «Ho detto che non...»
    «Non fare il prepotente con me, signorino, che non te lo puoi proprio permettere» mi interrompe. Va decisa verso la finestra, che spalanca. «Scusa, ma qui dentro serve ossigeno.» Subito dopo si avvicina al letto e annusa l'aria che mi circonda. «Non puzzi» commenta subito dopo, quasi stupita.
    «Certo che non puzzo. Di solito mi lavo.»
    «Hai bevuto?» replica, severa come nemmeno mia madre saprebbe essere.
    «Un paio di birre, niente di più. Cos'è, adesso Jared ci vieta persino di bere?»
    «Sono appena uscita dalla camera di Stevie. L'ho costretto a fare due docce, ma puzza ancora come una distilleria clandestina. E credo sia ancora vagamente sbronzo.»
    «Sì, ieri sera ha esagerato un pochino.»
    «Ha biascicato qualcosa circa una ragazza che dovrebbe essere nel suo letto ma che non riesce più a trovare. Tu ne sai niente?»
    «So che ieri sera stava ballando con una ragazza, ma poi li ho... persi di vista, per così dire. Probabilmente lo ha messo su un taxi ed è tornata a casa.»
    «Può darsi. Poi ha biascicato qualcosa a proposito di un'altra ragazza che teoricamente dovrebbe essere nel tuo letto. Anche lei ti ha messo su un taxi?» mi prende in giro.
    «Se devo essere sincero, ci siamo messi su un taxi insieme» rispondo. «Ma non ho fatto cazzate, tranquilla. Ero sobrio. Te l'ho detto, soltanto un paio di birre.»
    «Mi fido. In realtà non sapevo se credergli, visto il suo stato. Però poi ho visto il cartello sulla porta.» Si siede sul bordo del letto e mi fissa, socchiudendo appena le palpebre. «Per essere uno che ha passato una notte di fuoco, non mi sembri molto soddisfatto.»
    «Oh, la notte è stata molto soddisfacente. Il risveglio lo è stato un po' meno, però.»
    «Cos'è, le hai detto di levare le tende e lei si è messa a piangere perché pensava di averti conquistato con un po' di sesso?»
    «Non era quel genere di ragazza. Mi sono svegliato mentre si stava rivestendo, lei mi ha ringraziato e mi ha detto che non ha mai pensato che ci sarebbero state complicazioni.»
    «Quindi sei infastidito perché non ne ha voluto ancora?» ride, evidentemente divertita da tale idea.
    «Mi ha confessato che l'ho chiamata con il nome sbagliato.»
    «Pessimo errore. Ho chiuso una storia per una cosa del genere. Come si chiamava lei?»
    «Camila.»
    «E tu come l'hai... oh» si interrompe, conoscendo già la risposta. «Ti ha chiesto spiegazioni?»
    «No, ma ho voluto dargliele comunque. E lei ha detto che spera sia una ragazza molto stupida, perché soltanto una ragazza molto stupida avrebbe potuto lasciarmi.»
    «Questo è un pensiero che condivido.»
    «Emma, così non mi aiuti.»
    «Mai detto di volerti aiutare.»
    «Che stronza!» esclamo, sfilandomi il cuscino da sotto la testa per colpirla sulla spalla.
    «Sono l'assistente di Jared, non la tua psicanalista» si difende, usando le mani per ammortizzare il colpo e confiscarmi l'arma. «Se il lapsus ti ha gettato in uno stato di prostrazione tale da costringerti a letto, devo dedurre che la tua decisione sia...»
    «Dimenticarla» completo. «Devo dimenticarla. Non c'è altra soluzione.»
    «Anche se la cosa ti fa soffrire?»
    «Il dolore non è una cosa tremenda come pensa la maggior parte della gente. Può aiutarti a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è» replico. «E poi non sarebbe una novità, per me. Forse sono una di quelle persone che non possono essere felici, o quantomeno serene.»
    «Di certo non potrai mai essere una di quelle persone, se non ci provi.»
    «Non provare a farmi cambiare idea, Emma. Ho preso la mia decisione.»
    «Va bene, ma ciò non toglie che io la ritenga una decisione stupida
    «Può darsi, però è una mia decisione, e ci tengo a portarla avanti.»
    «Va bene, ho capito l'antifona. Non interferirò. Dimmi solo se la tua decisione comprende lo starsene a letto a poltrire o se pensi di poterti alzare e trascinare quel tuo fondoschiena tanto attraente alle interviste a cui tu e tuo fratello dovreste partecipare tra un'ora.»
    «La mia presenza è necessaria?»
    «Si parlerà soprattutto della carriera cinematografica di Jared e della sua nomination all'Oscar, quindi no... però credo che conti molto sul tuo supporto.»
    «Preferirei evitare, se è possibile. Domani abbiamo un altro spettacolo, e vorrei riposare un po'.»
    «Vedrò che posso fare. Non sarà facile convincerlo, ma ci proverò» risponde, restituendomi il cuscino e alzandosi.
    «Raccontagli che ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male. Sarà troppo spaventato all'idea di beccarsi qualche virus per venire a controllare se è vero.»
    «Credi che si berrà la scusa dell'intossicazione alimentare?»
    «Siamo in Messico, no?»
    «Fidati, ci sono più possibilità di morire avvelenati in certi ristoranti di Las Vegas» ribatte con un sorriso, enfatizzando in modo particolare la parola 'ristoranti'. «E va bene, per questa volta ti coprirò. Ma ricordati che è la prima, e sarà anche l'ultima.»



*



Torino, 8 gennaio 2014


    «Qualcun altro della tua famiglia sa del suo ritorno? Ne hai parlato con qualcuno?» mi domanda il dottor Martini quando finalmente finisco di raccontargli le circostanze dell'incontro con mia madre, e soprattutto la conversazione avuta questa mattina.
    Scuoto la testa, aggrappandomi più forte al bordo del lettino. «Non lo sa nessuno. Beh, naturalmente Alice sì. E il mio capo. Era presente quando lei si è rifatta viva. Ed è stato lui a consigliarmi di andarla a cercare per parlarle. Ha addotto delle ottimi motivazioni.» Dopo una breve pausa, alzo lo sguardo su di lui. «Pensa che dovrei dirlo a mio padre? Parlarne con Emanuele e Francesca è fuori discussione, naturalmente. Sarebbe un colpo troppo grande per loro.»
    «Perché credi che non sarebbero in grado di gestire la situazione?» mi interroga, mantenendo un tono estremamente pacato.
    «Beh, perché è così. Come si fa a gestire una madre che ti abbandona quando sei troppo piccolo per conservare un ricordo di lei e poi ritorna come se nulla fosse?»
    «Dimentichi che nessuna persona è uguale alle altre. Emanuele e Francesca potrebbero essere molto più forti di quanto credi.»
    A quella frase mi alzo in piedi e inizio a fare su e giù per la stanza, inquieta come un animale in gabbia. «Mi sta dicendo che dovrei lasciarla fare? Che dovrei, che ne so, invitarla ad aspettare Francesca all'uscita da scuola e a dirle 'Ciao, sono tua madre, non mi è mai importato di te ma adesso sono tornata perché mi manchi e non voglio farti crescere piena di traumi'? Pensa che dovrei fare questo?»
    «Penso che adesso tu sia troppo severa con lei. Non puoi sapere che non le sia mancata la vostra famiglia, in tutti questi anni. Se non è tornata prima, forse è perché non ha avuto il coraggio di farlo. Forse il senso di colpa si è rivelato più forte del desiderio di ottenere il vostro perdono, ma questo non significa per forza che non vi abbia amati con tutto il suo cuore. Ci sono persone che semplicemente non sanno come dimostrare il proprio amore. Forse tua madre è una di queste.»
    «No» protesto. «No, mi rifiuto di credere che possa trincerarsi dietro ad una scusa così... così... vuota. Quella donna ha rovinato la mia vita. Lei non ha idea di come... di come sia stato, in tutti questi anni, crescere con la consapevolezza che mia madre non sarebbe tornata. Lei non ha idea di come sia stato, a scuola, essere l'unica bambina senza madre. Nessuna madre degna di questo nome abbandona i figli come ha fatto la mia. Nessuna donna lo farebbe. Lei... lei non ha idea di cosa significhi crescere senza una madre!» Mi accorgo troppo tardi di aver alzato troppo la voce, e me ne dispiaccio. Il dottor Martini è una delle poche persone che mi sia sempre stata accanto e che mi abbia sempre ascoltata, e non merita la mia furia.
    Ma lui, stranamente, non perde la propria compostezza. «Hai ragione, non so cosa significhi crescere senza una madre. Ma so cosa significa vivere senza tuo figlio.»
    Colpita dalla sua rivelazione, mi lascio cadere sulla sedia che di solito occupa durante le sedute con gli altri pazienti. «Lei ha perso un figlio?»
    «Più o meno.»
    «Non sapevo nemmeno che ne avesse uno. Scusi la brutalità.»
    «Si chiama Adriano. È un po' più grande di te. Ha compiuto trentadue anni proprio l'altro giorno.» Adesso è lui ad alzarsi. Si avvicina lentamente alla finestra, forse per non essere costretto a guardarmi negli occhi. «Mia moglie è morta molti anni fa, lui era in seconda elementare. Pressappoco la stessa età che avevi tu quando tua madre si è allontanata. Un brutto male» aggiunge, voltando per un istante il viso verso di me. «Perdonami, ma anche se è passato tanto tempo ancora non ne parlo volentieri.» Non rispondo, incapace di trovare le parole giuste, e lui torna a guardare fuori. «Ero distrutto dal dolore, e totalmente incapace di prendermi cura di un bambino. Andò a stare da mia sorella e suo cognato, che avevano un figlio più o meno della stessa età, e più istinto genitoriale di quanto pensassi di averne io stesso. Abitavamo a cento metri di distanza, potevo vederlo tutte le volte che ne avevo voglia, ma... per qualche motivo non riuscivo a tenerlo accanto a me. Con il passare del tempo il dolore per la morte di Marta si attenuò, pur senza scomparire del tutto, e finalmente io mi sentii pronto a prendermi cura di mio figlio. Ma era troppo tardi.» Si prende un istante, durante il quale si sfila gli occhiali. Immagino che si prema una mano sugli occhi per impedirsi di piangere, e vorrei tanto avere il coraggio di alzarmi in piedi per abbracciarlo, come fa Alice con me ogni volta che cado a pezzi. «Sapeva di essere mio figlio e che la natura gli imponeva di stare con me, ma non riusciva più ad accettarmi come padre. E lo capisco, accidenti. Al suo posto mi sarei comportato allo stesso modo.»
    «Adesso lui dov'è?»
    «In Iraq. Pur di impedirmi di tornare all'assalto per riprendermi il suo affetto, ha preferito mettere tra di noi un continente intero. In un certo senso, rifiuta le mie offerte di pace come tu rifiuti quelle di tua madre.»
    «Beh, se mi permette un commento, direi che la mia situazione è un po' diversa dalla sua.»
    «Vedi, Daria, l'errore comune a tutta l'umanità è quello di ritenere che la propria situazione sia unica e differente da tutte le altre» mi corregge, voltandosi per rivolgermi uno dei suoi mezzi enigmatici sorrisi.
    «Non mi dica che non c'è differenza, dottore. Mia madre si è allontanata per inseguire degli obiettivi personali. Lei si è allontanato per non contagiare suo figlio con il suo dolore. C'è una differenza.»
    Ci riflette su per qualche istante, poi annuisce. «Mai pensato di studiare Psicologia? O Filosofia, magari? Hai delle buone intuizioni.»
    «Come potrei risolvere i problemi di altre persone, o addirittura quelli del mondo, se non sono nemmeno in grado di capire quali siano i miei?»
    «Stai parlando con un uomo altrettanto incasinato, se vogliamo usare un'espressione tanto amata da voi giovani.»
    «Anche lei ha delle ottimi intuizioni, dottore. Studiare Psicologia è stata un'ottima idea.»
    Alla mia affermazione ride, e il suo volto torna quello disteso e sereno che conoscevo, e che tante volte ha alleviato il mio dolore soltanto con un sorriso. «Quello che hai bisogno di imparare, Daria, è che tutti abbiamo dei problemi, e che ognuno di noi li affronta in un modo che è solo suo. Suo, e di nessun altro. E devi capire che il modo in cui affrontiamo il problema non definisce la persona che siamo. Mai, in nessun caso. A volte ci affidiamo ad una determinata soluzione soltanto perché ci sentiamo persi e non troviamo la strada di casa, ma ciò non fa di noi persone cattive o individui di cui bisogna diffidare. Prendiamo tutti una decisione sbagliata, prima o poi. Ciò che conta è capirlo, e fare un tentativo per correggere l'errore. Anche quando ci sembra troppo tardi, ma anche, e forse dovrei dire soprattutto, quando è davvero troppo tardi



1“Bella mattinata. Poseidone benedice il nostro viaggio.” “A volte gli dei ti benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio.” | Il titolo del capitolo è ispirato ad uno scambio di battute tra Paride (interpretato da Orlando Bloom) e Ettore (interpretato da Eric Bana) nel kolossal Troy (2004).
2«Chicas, esto es mi amigo Shannon» [...] «Shannon es un poco timido, pero le gustaria mucho bailar con una chica hermosa.2» | Traduzione: «Ragazze, questo è il mio amico Shannon» [...] «Shannon è un po' timido, però gli piacerebbe tanto ballare con una bella ragazza.» Un sincero grazie a DadaOttantotto, la mia socia, per la traduzione dall'italiano allo spagnolo!

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Capitolo 8
*** 8 | Non ricordo niente di quello che è stato, ricordo solo che ero innamorato. ***


La lunga strada verso casa - 1
Sono passati soltanto sei giorni dalla pubblicazione del settimo capitolo, e immagino che un po' vi stupisca questa mia celerità nel consegnarvi il prossimo passo della storia – in effetti, sorprende un po' anche me, ma ho deciso di non farci caso e di limitarmi a postare l'aggiornamento, sperando che possa piacervi.
Colgo l'occasione per abbracciare forte katvil, Love_in_London_night e Sayuri_remenissions, le irriducibili che non fanno mai mancare il loro appoggio, e che con le mille domande e i mille dubbi che espongono durante le loro recensioni spesso mi forniscono nuovi spunti per i capitoli successivi.
Ma, più in generale, grazie a tutti quelli che leggono i miei scleri e si sforzano di farseli andare bene.
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo ottavo
Non ricordo niente di quello che è stato,
ricordo solo che ero innamorato.1



Torino, 17 gennaio 2014


    Oggi è il diciassette gennaio, dunque sono passati esattamente nove giorni dallo sfortunato confronto con mia madre – o meglio, dal mio tremendo attacco nei suoi confronti. Nonostante i puntuali consigli del dottor Martini, non sono riuscita a parlare con mio padre, e nemmeno per un istante mi ha sfiorato l'idea di coinvolgere Emanuele o Francesca. Non esiste che io sottoponga i miei fratelli al rischio di soffrire tanto quanto ho sofferto io – forse sono iperprotettiva, ma quale sorella maggiore non lo sarebbe? Ho circoscritto le mie confidenze ad Alice, l'unica persona in grado di capirmi davvero oltre al dottor Martini, e ho negato ogni dettaglio persino a Marco – nonostante mi abbia dato buoni consigli, ci sono cose di cui proprio non mi va di metterlo a parte. Contrariamente a quanto mi sarei attesa dato il suo coinvolgimento emotivo nei miei confronti, ha accettato la situazione e non ha ficcanasato, conoscendo il mio ricorrente bisogno di chiudermi in me stessa e riflettere in santa pace sul da farsi. Confermando la sua maturità e la sua natura di gentiluomo, non mi ha fatto pressioni nemmeno riguardo al nostro rapporto: siamo usciti a cena due volte, abbiamo parlato di lavoro, di arte, di cultura, mi ha consigliato una mostra di Gaugin a cui vorrebbe accompagnarmi, mi ha accompagnata a casa tenendomi stretta sotto il suo ombrello per ripararmi dalla neve e si è congedato baciandomi teneramente come in un film, per poi andarsene una volta sicuro che fossi al riparo. Si è comportato come un vero principe azzurro, e forse ogni ragazza normale ne sarebbe felice. Ma io – ormai l'ho accettato – non sono una ragazza normale. In più, oggi è il diciassette gennaio, ed è un venerdì – e soltanto una mente malata o particolarmente ingenua non starebbe all'erta, in una giornata come questa.
    Siamo entrambi in negozio, completamente deserto fatta eccezione per un cliente abituale che sta dando un'occhiata alla sezione dei gialli, e nella serenità di questa mattina di gennaio sgancio quella che potrebbe essere una potenziale bomba. «Ho visto mia madre, l'altra settimana. Mercoledì. Sai, il giorno che mi avevi dato libero.»
    «Davvero?» commenta, raggiungendomi dietro il bancone. «E com'è andata?»
    «Uno schifo. Un completo disastro.»
    «Davvero è andata così male?»
    «Le ho detto che non la considero più mia madre» confesso, vergognandomi profondamente per il mio comportamento. «In realtà l'ho tipo... sai, ringhiato.» Per evitare di guardarlo negli occhi fingo di riordinare il portamatite. «Non credo si aspettasse una simile reazione. Un po' mi dispiace di averla trattata così male, ma lei... oh, ero così arrabbiata
    «Non credo di averti mai vista arrabbiata. Forse soltanto quella volta che Carlotta impallò il registratore di cassa.»
    «Era la terza volta in un solo pomeriggio, Marco. Persino Giobbe si sarebbe inquietato un pochino» gli faccio notare. «Tuttavia, credo di aver avuto i miei buoni motivi per scattare così. Mi ha detto che ho un fratello. Un fratello di undici anni
    «Accidenti... sicuramente è un colpo difficile da incassare.»
    «Già. Sono passati nove giorni e continuo a chiedermi se non sia stato tutto un sogno. Non riesco ancora a crederci.» Del tutto inaspettato, un pensiero che da tempo non mi sfiorava più torna a stuzzicare la mia memoria, facendomi sorridere. «Si chiama Luca. Ed è buffo che si chiami così, in un certo senso.»
    «Che c'è di strano nel nome Luca?»
    «Luca avrebbe dovuto essere il nome di Emanuele» spiego, lasciando stare il portamatite. Mi volto, appoggiandomi di schiena contro il bancone e incrociando le braccia davanti al petto. «Quando rimase incinta, mi chiese di scegliere un nome per il nuovo fratellino. O la nuova sorellina, non voleva conoscere il sesso. Scelsi Francesca, se fosse stata una femmina. E per un maschio, invece...»
    «Avevi scelto Luca.»
    Annuisco. «Un paio di mesi prima che mia madre partorisse, una sua vecchia amica morì in un incidente d'auto. Si chiamava Emanuela. Erano molto legate, perciò decise di dare il suo nome al bambino. Però mi promise che un giorno avrei avuto un fratellino di nome Luca.» Non riesco a fare a meno di sorridere ancora. «In un certo senso, è stata di parola. Certo, forse non nel modo che avrei immaginato, però...»
    «Dimostra di essersi ricordata di te. Se ha usato quel nome, significa che in fondo non ha mai smesso di pensare a te.»
    Annuisco ancora, respirando lentamente. «La cosa dovrebbe farmi sentire meglio, eppure non è così. Mi sento ancora incredibilmente...» Mi blocco, annaspando alla ricerca del termine più corretto per definire il mio stato.
    «Arrabbiata?» suggerisce lui.
    «Credo sia più corretto dire ferita» replico. «Se ha usato quel nome significa che ha pensato a me, ma allora perché ha aspettato tanto prima di tornare? E perché ha scelto proprio me come prima persona da incontrare?»
    «Sei sicura che non abbia parlato con nessun altro?»
    «Lo avrei saputo. Se avesse incontrato mio padre, o Emanuele, o Francesca, in un batter d'occhio la notizia sarebbe saltata fuori. E invece ha scelto me, e io non riesco a capire perché.» Alzo lo sguardo su di lui, contando sul suo aiuto. «Pensi che ci sia una ragione dietro la sua scelta, o forse è soltanto un caso e come al solito sto vagando troppo con la fantasia?»
    «Può darsi che non ci sia una spiegazione, e che la domanda esista soltanto nella tua testa» risponde, riordinando alcune carte, «ma ti conosco abbastanza da sapere che sei una persona estremamente razionale, e che di solito non permetti alle emozioni di prendere il sopravvento. Per cui la mia risposta è sì, è probabile che dietro la sua decisione di incontrarti per prima ci sia una ragione precisa.»
    «E sarebbe?»
    «Beh, in questa situazione tu sei la vittima principale, la persona che ha sofferto di più. Sei stata tu stessa a dire che Emanuele e Francesca non hanno ricordi di lei, e presumo che il divorzio sia stato consensuale, dunque questo esclude che ci siano cose da risolvere con tuo padre. Dunque, resti tu. Diciamo che... non lo so, forse sei la sua questione in sospeso
    «Sbaglio, o stai citando Casper
    «Mi hai beccato» risponde con una risata. «Quello che intendevo dire è che probabilmente sa di averti ferita a morte, andandosene. Eri abbastanza grande da soffrire, ma ancora troppo piccola per capire, e di sicuro la sua assenza ha condizionato pesantemente la tua vita. Credo... credo che lei lo sappia, in fondo. Che sappia di averti condannata. Forse ha pensato che il tuo perdono fosse il più difficile da ottenere. Il più difficile, ma anche il più importante. Insomma, forse ha pensato che se tu l'avessi perdonata forse avrebbero potuto farlo anche gli altri, mentre in caso contrario...»
    «Se fosse così, probabilmente l'altro giorno ho distrutto tutte le sue speranze» sospiro. «Al mio posto, tu che cosa avresti fatto?»
    Apre la bocca per rispondere, ma la richiude subito, evidentemente privo di idee da esprimere. «Credo di non avere una risposta, Daria. Credo che nessuno potrebbe rispondere a questa domanda.»



*



San Paolo, 17 gennaio 2014


    Dopo il Messico, tocca al Brasile. Qui il clima è simile a quello californiano, e fa così caldo che davvero non sembra sia passato soltanto un mese da Natale. È trascorsa una settimana da quando ho dato buca a Jared per l'intervista, eppure non ci sono ancora state ritorsioni, né scenate, né inquietanti occhiate oblique – il che mi fa supporre che Emma abbia esercitato il suo carisma e lo abbia convinto a lasciar correre. O questo, oppure mio fratello è stato rapito dagli alieni, che è un'ipotesi altrettanto plausibile.
    Un'altra cosa che suscita il mio stupore è la mia ritrovata energia: credevo che cambiare continente e fuso orario mi avrebbe stressato non poco, invece mi sento incredibilmente meglio, come se fossi improvvisamente ringiovanito di dieci anni. Mi sono buttato nel lavoro con un entusiasmo che non provavo da mesi, aumentando di molto la qualità delle mie esibizioni – e, di conseguenza, contribuendo a rendere gli spettacoli migliori. Gli unici momenti in cui permetto al passato di tornare a punzecchiarmi sono le notti. Succede quasi ogni volta: appena la testa sfiora il cuscino, punto gli occhi sul soffitto e penso. Penso a Daria, naturalmente, e a tutto ciò che abbiamo avuto e perso, ma non solo: penso a tutte le occasioni che ho avuto in passato di essere felice, a tutti i momenti belli che ho deciso di non vivere pensando che ci sarebbe stato tempo in futuro, e inevitabilmente finisco con l'arenarmi sulla convinzione che ormai ho quasi quarantaquattro anni, e che non so quante altre occasioni avrò per arrivare a sentirmi davvero completo. E poi, come sempre, la mia mente torna al mio ultimo giorno a Torino, al corpo di Daria raggomitolato tra le lenzuola, ai suoi capelli che profumavano di camomilla e alla sua pelle che sapeva di noi, alla sua casa accogliente che mi sarebbe tanto piaciuto poter chiamare nostra, e mi trovo a dover attingere a tutte le mie forze per non lasciarmi andare alle lacrime.
    La verità è che mi sono sempre vantato di essere un uomo forte che non si lascia piegare da niente, e così facendo non ho mai dato peso alle mie emozioni, evitando sempre di domandarmi come mi sarei comportato se mai mi fosse accaduto di innamorarmi. Perché è questo che è successo, non ha senso girare attorno alla questione senza toccare il punto: io mi sono innamorato, così profondamente da non riuscire a sradicare il suo pensiero dalla mia mente. E voglio dimenticarla, lo desidero con tutto me stesso e ci sto provando con tutte le mie forze, ma tutto ciò su cui riesco a focalizzarmi è quanto stavo bene quando ero insieme a lei. È come se non ricordassi altro, solo che l'amavo.



*



Torino, 17 gennaio 2014


    «Credo che dovremmo andarcene. Sono quasi le undici» dice Marco, controllando l'orologio. «Forse hanno voglia di chiudere e andarsene a dormire.»
    Mi guardo intorno, e scopro che il locale è praticamente vuoto, fatta eccezione per una coppia in piedi accanto alla cassa. «Forse hai ragione. Non pensavo fosse così tardi.»
    «Dicono che il tempo vola, quando si è buona compagnia» aggiunge lui, e io mi sento arrossire come una ragazzina.
    «Già, dicono così.» Ci alziamo, indossiamo i cappotti e andiamo verso la cassa. Come sempre, Marco insiste per offrirmi la cena – intuisco che la sua cavalleria è un gesto raro quando la ragazza dietro il bancone mi rivolge un sorriso, quasi volesse avvertirmi di tenermelo stretto. Usciamo; l'aria è fredda, perciò mi stringo bene la sciarpa attorno al collo. Cerco i guanti nella borsa, ma devo averli dimenticati a casa. «Non dovresti sempre pagare tu» dico all'improvviso, sistemando meglio la tracolla della borsa.
    «Perché no, scusa?»
    «Perché non mi sembra appropriato.»
    «Non ti sembra appropriato?» ripete, e subito dopo scoppia a ridere. «Forse sarà un duro colpo per te, ma non porterò mai una ragazza fuori a cena senza pagare per lei.»
    «E con la parità dei sessi come la metti?»
    «Oh, io credo nella parità dei sessi. Davvero, ci credo. Però ogni tanto mi piace concedermi un sano gesto tipicamente maschilista come offrire la cena ad una ragazza.» Ci guardiamo per un istante, e mi sorride. «Non si può dire che mio padre mi abbia insegnato molto, ma insisteva molto su questo punto. Diceva che le donne vanno trattate come regine, e io mi sono sempre comportato di conseguenza.»
    «Che tipo era? Insomma, so che è morto quando eri piccolo, ma... che tipo era?»
    «Era un tipo simpatico. Mia madre diceva sempre che si era innamorata di lui perché riusciva a farla ridere fino alle lacrime. E credimi, non era un'impresa facile. Lei era una donna molto seria.» Sospira e abbassa per un istante lo sguardo, poi torna a guardare davanti a sé. «Però anche lui sapeva essere serio, all'occorrenza. Riusciva a capire in un attimo come comportarsi in una determinata situazione.»
    «Ti manca molto?»
    «Ogni giorno, da quando non c'è più» ribatte, voltandosi per un istante verso di me. «So che detta così sembra proprio una stronzata sentimentale, ma la verità è che... la verità è che convivo da sempre con la paura di non essere venuto su come avrebbe voluto.» Nella sua voce sento così tanta malinconia che non so proprio che cosa lo trattenga dal piangere. Vorrei essere in grado di dire qualcosa che possa risollevargli il morale, ma non ho la benché minima idea di che cosa occorra dire in questi casi: tutto ciò che riesco a concepire sono stupide frasi fatte che quasi certamente lo farebbero sentire peggio, e proprio non mi va di complicare ulteriormente la sua situazione. Allora faccio un'altra cosa, una cosa che Alice fa sempre con me, e che di solito funziona: tolgo la mano dalla tasca e la muovo verso di lui. Gli sfioro appena la manica del cappotto, sperando che riesca a sentire la mia vicinanza. Appena si accorge del mio tocco anche lui sfila la mano dalla sua tasca, e dopo qualche esitazione stringe le mie dita tra le sue. «Credo sia per questo che offro sempre la cena alla ragazza con cui esco. Mi fa sentire più simile a lui.»
    «Mi piacerebbe averlo conosciuto.»
    «Ti sarebbe piaciuto. Di più, credo si sarebbe innamorato di te.»
    «Esagerato...»
    «Per niente. Aveva un ottimo gusto in fatto di donne. E... non prenderla nel verso sbagliato, ma credo sia una cosa che ho ereditato da lui.»
    Mi sento arrossire ancora, mentre continuiamo a camminare lentamente nella notte.



*



San Paolo, 17 gennaio 2014


    Jared è seduto a terra, al centro di un mucchio di fogli sparpagliati e fitti di parole e note. All'improvviso lancia via la matita con gesto stizzito e si passa una mano tra i capelli, sospirando. «Ho finito» sussurra, fissando il foglio più vicino a sé. «L'ho finita» sussurra ancora, quasi senza riuscire a credere alle proprie parole. Ha appena terminato di scrivere quella che potrebbe essere una delle sue migliori canzoni, uno dei cavalli di battaglia della band... eppure la cosa non lo rende felice. Ha impiegato quasi due mesi per dare sfogo ai suoi sentimenti, per riversarli su carta e imbrigliarli nella giusta melodia, eppure non riesce a provare la solita gioia che lo coglie nel preciso istante in cui sa di aver realizzato qualcosa di importante. Ha scritto una delle sue migliori canzoni, ne è consapevole, ma sa anche che non potrà rivelarla alla persona a lui più cara senza provocarle un immenso dolore. È una canzone che parla di vita, di amore, di sogni comuni e di speranze infrante, è una canzone che parla di un uomo precipitato all'inferno dopo aver osato toccare il paradiso. È una canzone che parla di Daria, come suggerisce il tratto leggero del titolo, e sentendola Shannon ne potrebbe soltanto soffrire.


*



Torino, 17 gennaio 2014


        Siamo davanti al portone, ma nessuno dei due ha voglia di separarsi dall'altro. Abbiamo continuato a parlare per tutto il tempo del ritorno, tenendoci per mano come una giovane coppia, e nessuno dei due ha ancora fatto un tentativo per ridurre le distanze. «Adesso credo di doverti lasciar andare. È tardi» sussurra lui ad un certo punto, senza però lasciare la presa.
    «Domani siamo chiusi» gli faccio notare. «Non rischio di far tardi al lavoro.»
    «Dimenticavo che domani è sabato. Comunque credo sia meglio che vada. Devi essere stanca.»
    «Sto bene, tranquillo. Perché non sali? Ti offro un caffè.»
    «Credi che sarebbe appropriato?» mi prende in giro.
    «Sei già stato a casa mia. Cos'è, pensi che tuo padre non approverebbe?» lo prendo in giro a mia volta.
    «Penso che l'ultima volta abbiamo perso il controllo, e non vorrei... rischiare di ripetere l'errore.»
    «Pensi che l'altra volta sia stato un errore?» lo interrogo.
    «Per niente» ribatte. «Penso di essere stato molto chiaro circa i miei sentimenti, e per quanto sia felice per quello che c'è stato, non credo che...»
    «...che sia opportuno ricascarci» completo, abbassando lo sguardo.
    «Non voglio che pensi che mi stia approfittando di te, perché nulla è più lontano dalla realtà.»
    «Non ho pensato nemmeno per un istante che ti stessi approfittando di me. Perché tu sì?»
    «Beh, perché tu eri molto scossa per il fatto di aver rivisto tua madre, e ho pensato... ho pensato che in quel momento forse non... ho pensato che forse non avevi avuto il tempo di riflettere bene sulla questione. Ho pensato che forse non avresti voluto che succedesse.»
    «Se non avessi voluto farlo, non sarebbe successo. Fidati, non sarebbe successo.»
    «Ne sei certa?»
    «Ammetto di essere una persona incasinata, ma sei stato tu a dire, non più tardi di stamattina, che sono una delle persone più razionali con cui tu abbia mai avuto a che fare. Non sarebbe successo.» Segue una breve pausa, durante la quale Marco sembra pronto a fissare qualunque cosa, tranne il mio viso. «Però sento di dover essere sincera con te.»
    «Devo preoccuparmi? In genere, questi discorsi non sono mai positivi.»
    «C'è stato un ragazzo, una volta, che ripeteva continuamente di amarmi e che alla fine mi ha spezzato il cuore. Eravamo due ragazzini, in fondo, ma per tanto tempo non ho fatto che pensare che non sarei più stata capace di innamorarmi di qualcuno.» Mi fermo per un istante, pensando che potrebbe aver qualcosa da dire, ma il suo silenzio mi convince a continuare. «Poi è arrivato un altro ragazzo, tanto tempo dopo il primo, e all'improvviso io... all'improvviso mi sono innamorata di nuovo, e mi sono innamorata più di quanto credevo fosse possibile.»
    «Però? Di solito in queste storie non c'è sempre un però?»
    «Nessun però, stavolta, anzi. Io lo amavo e anche lui mi amava, e la cosa mi andava bene. Per un po' ho addirittura pensato di poter passare con lui il resto della mia vita.»
    «E poi che è successo?»
    «E poi gli ho spezzato il cuore. Di più, l'ho frantumato in un milione di pezzi e ci ho ballato sopra il tip tap. L'ho ferito, e anche se da allora non l'ho più visto non riesco a fare a meno di pensare che forse lui è ancora nascosto da qualche parte a leccarsi le ferite.»
    Lo vedo sospirare, guardarsi intorno e poi rivolgersi di nuovo verso di me. «Forse sono un uomo un po' ottuso, ma... perché mi stai dicendo questo?»
    «Beh, perché... perché voglio farti capire che sono stata da entrambe le parti della barricata. Sono stata la vittima e sono anche stata il carnefice, e so che in entrambi i casi si può soffrire come cani. Perciò quello che sto cercando di farti capire è che... beh, che la prenderei sul serio. Insomma, qualunque cosa succedesse tra noi, io la prenderei sul serio.»
    «Mi stai dicendo che vorresti avere una relazione con me?»
    «No! Sì, insomma... sto cercando di dire che se tu volessi... ecco, non penserei che ti stai prendendo gioco di me. E farei il possibile per non prendermi gioco di te.»
    «Lo apprezzo veramente moltissimo» sussurra, sorridendomi e stringendo un po' più forte la mia mano. «Ma il fatto è che non sono sicuro di essere pronto a non farmi prendere in giro da te. Non sto dicendo di non volerlo, ma credo che mi serva un po' di tempo. Credo che un po' di tempo serva ad entrambi. Ti conosco, so che non sei una che fa le cose di fretta, e di certo io non voglio costringerti a cambiare il tuo modo di essere.» Adesso sono io a non riuscire a guardarlo negli occhi. «Io direi di andare con calma e vedere come vanno le cose. Tanto non ci corre dietro nessuno, no?» Mi sfiora il mento con una mano, costringendomi ad alzare gli occhi. «Adesso ti bacerò e poi me ne andrò a casa, mentre tu filerai di corsa di sopra e ti metterai a dormire» aggiunge, avvicinandosi lentamente.
    Cinque minuti più tardi, al sicuro nel mio appartamento, mi lascio cadere sul divano e scoppio a piangere come non mi succedeva da almeno due settimane. Marco ha ragione, non ci corre dietro nessuno. Nessuno, tranne la mia coscienza.



*



San Paolo, 17 gennaio 2014


    Lo spettacolo è terminato da poco, e mentre i ragazzi stanno decidendo in quale locale festeggiare il buon esito della serata, uno Shannon a dir poco su di giri bussa al camerino del fratello, intenzionato a congratularsi con lui per l'ottima esibizione, perché persino un sordo si sarebbe accorto che Jared era davvero in forma, come se provenisse da due mesi di totale riposo in una Spa, anziché da un lunghissimo e sfiancante tour in giro per il mondo. Convinto di trovarlo sorridente ed esaltato, si stupisce di vederlo invece spento e quasi immusonito, come se la prospettiva di essere stato eccellente lo infastidisse. «Ehi, che succede? Cos'è quel muso lungo? È stato uno spettacolo straordinario!»
    «Ciao, Shannon» risponde l'altro in tono quasi malinconico. «Sì, è stata un'ottima serata.»
    «E allora perché sembra che qualcuno ti abbia rubato il pranzo?»
    «Sto bene, non ti preoccupare. Ho soltanto qualche pensiero.»
    «Ne vuoi parlare?» replica Shannon, prendendo una sedia sulla quale si accomoda con la stessa raffinata eleganza di un mandriano del Texas. «So di non essere esattamente il massimo come confidente, ma non mi dispiace stare dall'altra parte, una volta tanto.»
    «Niente di importante, non ti preoccupare. È solo che sto lavorando ad una canzone, ma non sono sicuro di essere soddisfatto del risultato.»
    «Fammi capire: hai appena concluso uno dei tuoi concerti migliori e ti fai rovinare l'umore da una canzone?»
    «Si tratta di una canzone molto importante, Shannon. E sono felice per il concerto, davvero, è solo che... non riesco a togliermela dalla mente.»
    «Posso sentirla?»
    «Non credo sia il caso, Shannon. Lo sai che non mi va di mostrare i miei lavori se non sono più che soddisfatto del risultato.»
    «Almeno lo spartito, dai! Sono tuo fratello, non c'è il caso di essere tanto riservati.»
    «Non credo sia il caso» ripete Jared, rimanendo disteso sul divanetto con gli occhi coperti da un asciugamano bianco.
    «Come credi» risponde l'altro, alzandosi lentamente e rimettendo la sedia a posto. Mentre lo fa si guarda attorno con attenzione, cercando con lo sguardo il quaderno di Jared, che sicuramente non può essere molto lontano dal padrone. «I ragazzi si stanno mettendo d'accordo per andare a finire la serata in qualche locale. Ti unisci a noi?» aggiunge, individuando finalmente la cartellina, appoggiata su un tavolino poco distante. Senza far rumore si avvicina e la apre, facendo scorrere lentamente i fogli in cerca della tanto discussa canzone.
    «No, non credo. Penso che tornerò in albergo e andrò a dormire. Ricordati che domani abbiamo un'intervista in radio. Non fare troppo tardi. Shannon?» aggiunge dopo qualche istante, non ricevendo risposta. «Shannon?» Si toglie l'asciugamano da sopra il viso e si mette a sedere, incontrando lo sguardo a dir poco furente del fratello maggiore.
    «Jared, questo che cos'è?» gli domanda l'altro, un foglio stretto nella mano destra.
    «Shannon, posso spiegare...»
    «Lascia perdere le puttanate, Jared. Questo che cos'è?» ripete, calcando il tono.
    Jared sospira e punta le mani sui fianchi, sospirando nel tentativo di raccogliere le idee. «Quella è la canzone che ho scritto, Shannon. Quella che non era il caso sentissi.»
    «Hai scritto una canzone per Daria?»
    «Non è una canzone per Daria. È una canzone su Daria.»
    «E quale sarebbe la differenza?»
    «La differenza sarebbe che se l'avessi scritta per lei, questo implicherebbe un mio coinvolgimento nei suoi confronti, cosa che invece non è.» Fa una breve pausa, durante la quale Shannon lo guarda come se avesse appena scoperto di avere un fratello alieno. «Ho iniziato a scriverla a Parigi, quando lei si è unita al gruppo» confessa Jared. «E quando lei è andata via l'ho continuata. È il progetto su cui ho lavorato in questi ultimi due mesi, e ora è... beh, è finita.»
    «Perché hai scritto una canzone che parla di lei?» domanda ancora il batterista, leggendo ancora una volta il titolo scritto a matita.
    «Non parla soltanto di lei, Shannon. Parla di voi. Parla della vostra storia, e di quello che c'è stato tra voi. Parla di amore, di due persone che condividono un progetto, di sogni... è soltanto una canzone, Shannon» conclude, allargando le braccia come se non fosse necessaria alcuna ulteriore spiegazione.
    «Non è soltanto una canzone, Jared. Tu hai scritto una canzone su di me
    Jared coglie alla perfezione la rabbia latente nelle parole di Shannon, ma nonostante questo non si esime dal tirare fuori tutta la propria faccia tosta. «Anche tu hai scritto una canzone per me, Shannon, e non mi sembra di essermi lamentato.»
    «Io non ho scritto una canzone su una stronza che ti ha spezzato il cuore!»
    «Non pensi quello che hai detto, Shannon.»
    «E invece sì, è esattamente quello che penso. Daria mi ha spezzato il cuore e mi sta mandando al manicomio anche se si trova all'altro capo del mondo, e tu vorresti usare tutto questo per fare soldi?»
    Anche Jared, come il fratello, sente la rabbia montargli dentro – anche se la prima impressione di Emma, due mesi fa, gli ha suggerito che quel testo potrebbe valere milioni, non ha mai pensato, nemmeno per un istante, di arricchirsi con il dolore di una persona a lui tanto cara. Non senza prima chiedere il suo consenso, comunque. «Non l'avrei mai usata senza chiederti il permesso, tu lo sai. Ora mi stai trattando ingiustamente.»
    «Ah, sarei io quello ingiusto, adesso?»
    «Non dirmi che credi di essere dalla parte della ragione.»
    «Non dirmi che tu credi di essere dalla parte della ragione.»
    «Shannon, non hai nulla da temere. Resterà nel mio quaderno per sempre, se lo vuoi. Basta che tu dica che...»
    «Non starà in nessun quaderno» ribatte svelto l'altro, strappando il foglio in due metà, e strappando ancora le due parti fino a ridurle a coriandoli. Jared lo osserva inerme, gli occhi sbarrati come quelli di un cervo davanto ai fanali di un'auto. «Tutto ciò che voglio è dimenticare questa storia, ed è quello che farai anche tu.» Lasciati cadere i frammenti di carta sul pavimento, esce dal camerino come una furia.
    Jared resta immobile, in piedi al centro del camerino, fissando i resti di due mesi di lavoro completamente gettato al vento. Richiamata dai toni acuti del loro confronto, Emma arriva di corsa, senza fiato. «Che è successo? Perché Shannon è scappato?» Fissa anche lei il foglio fatto a pezzi, e ripete la domanda. «Jared, che cosa è successo?»
    Il cantante alza gli occhi sull'assistente, e quasi senza credere alle proprie parole sussurra: «Ho ferito mio fratello.»



*



Torino, 17 gennaio 2014


    Mentre cammina a passo lento verso casa, stringendo le spalle nel cappotto per combattere il gelo, Marco non riesce a fare a meno di pensare che le sue parole, per quanto oneste e sincere, potrebbero aver ferito Daria. Non riesce a fare a meno di pensare che la sua richiesta di tempo potrebbe essere vissuta come un rifiuto, e lui sa quanto Daria abbia bisogno di sentirsi sempre accettata. Che poi, salire a casa sua e passare ancora un po' di tempo con lei, a prescindere da tutto quello che sarebbe potuto succedere, era la cosa che voleva anche lui. Lo voleva fortemente, e lo vuole ancora, perché ogni istante in cui può godere del suo sorriso lo fa sentire una persona migliore. Ogni volta che la vede sorridere e può pensare di essere l'artefice della sua serenità si sente un uomo migliore, ed essere un uomo migliore è il suo più grande desiderio.
    All'improvviso si ferma, guardando la strada davanti a sé. Poi si volta, getta un'occhiata alla strada già percorsa, e si rende conto che non si è mai troppo lontani per tornare indietro.



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San Paolo, 17 gennaio 2014


    Fuori dall'arena, sono saltato sul primo taxi e ho chiesto all'autista di accompagnarmi in una zona dove ci si possa divertire. Appena uscito mi sono pentito del mio gesto, ma per qualche ragione non ho sentito il bisogno di tornare indietro e chiedere scusa a Jared per il mio comportamento. Nonostante la mia parte razionale mi confermi che sono uno stronzo che pensa soltanto a se stesso, in questo momento riesco a dare ascolto soltanto alla mia parte istintiva, quella che ho ascoltato per tutta la mia vita, e che in un certo senso la vita me l'ha rovinata. Non avrebbe dovuto fare quello che ha fatto, non avrebbe dovuto ridurre la mia storia con Daria ad una canzone. Non avrebbe dovuto pretendere di trasferire su carta il mio dolore e i miei sentimenti, perché nessuno può capire come mi sento – a volte nemmeno io riesco a capire come mi sento.
    Scelgo un locale ed entro senza difficoltà, immediatamente riconosciuto dal buttafuori e da una buona parte delle ragazze che sono in fila e aspettano di entrare. Appena varcata la soglia, torno indietro e le guardo bene, una per una, notando che sono tutte splendide, e che ognuna di loro sarebbe pronta a fare di tutto pur di superare il cordone di velluto. Faccio scivolare un biglietto da cinquanta nella mano del buttafuori, avvicinandomi per parlargli. «La bruna con il vestito verde, pensi di poterle far saltare la fila?»
    «La bruna con il vestito verde, falla passare» risponde quello, facendo un cenno al collega.
    La ragazza si fa avanti, sorpresa, e si avvicina quasi timidamente. «Come ti chiami?»
    «M-maria» balbetta.
    «Maria, ti prometto che questa serata non te la scorderai» le sussurro all'orecchio, stringendole un braccio attorno alla vita.



1Non ricordo niente di quello che è stato, ricordo solo che ero innamorato. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Boccadasse, splendido duetto della coppia Gino Paoli & Ornella Vanoni, contenuto nell'album Ti Ricordi? No Non Mi Ricordo (2004).

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Capitolo 9
*** 9 | Rimpianti e rimorsi sono la stessa cosa. ***


La lunga strada verso casa - 1
Ringrazio ancora una volta tutti coloro che hanno sacrificato un briciolo del loro tempo per leggere, recensire, preferire, ricordare, seguire – siete voi il vero motore di Direzioni Ostinate E Contrarie, e siete anche il motore della mia creatività.
Spero che anche questo capitolo vi soddisfi,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo nono
Rimpianti e rimorsi sono la stessa cosa.1



Torino, 17 gennaio 2014


    Quando sento suonare il campanello, sto per salire in camera e mettermi a letto. Il primo pensiero che mi attraversa la mente è che siano i signori Lorenzoli e che sia successo qualcosa, perché non riesco a capire chi altri potrebbe attaccarsi al campanello di casa alle undici e mezzo di sera. Prima di aprire, comunque, controllo lo spioncino, e quando mi accorgo che si tratta di Marco il mio cuore per un istante si ferma. Spalanco la porta, e non faccio nemmeno in tempo a chiedergli come sia riuscito a salire fin qui che lui scatta avanti e mi bacia, prendendomi il viso tra le mani per impedirmi di allontanarmi. Dopo un istante di incertezza inizio a restituire il bacio, ringraziando il cielo di essermi lavata i denti, ma rendendomi comunque conto che sono in pigiama, e che certamente non sono il non plus ultra del fascino.
    È lui a chiudere la porta, mentre con l'altra mano mi afferra il fianco per tenermi più vicina. Senza attendere oltre inizio a slacciargli il cappotto, senza alcun indugio. «Non voglio perdere altro tempo« sussurra tra un bacio e l'altro, sfilandosi la sciarpa per lasciarla cadere a terra senza troppa grazia. «Sono quarant'anni che aspetto una donna come te.»
    «Quindi sono quarant'anni che aspetti una donna in pigiama?» lo prendo in giro.
    «In pigiama, in minigonna, in tuta da palombaro... rimani comunque meravigliosa» risponde. Le sue braccia si incrociano dietro la mia schiena, e ogni ulteriore parola si perde tra i nostri baci, che si fanno più famelici che mai. Quasi senza accorgermene inizio ad arretrare, arenandomi contro il divano: è a questo punto che le mani di Marco scendono a sfiorarmi il sedere, per poi far forza per sollevarmi e farmi sedere sullo schienale. Sento le sue dita risalire lungo la mia schiena, e non posso impedirmi di trattenere ancora una volta il respiro. Faccio scivolare le sue dita tra di noi e inizio a separare ogni bottone della sua camicia dalla rispettiva asola, continuando a ricambiare i suoi baci.
    Alzo le braccia per aiutarlo a sfilarmi la maglietta, e subito dopo tocca a me spogliarlo della camicia, per poi consegnarmi di nuovo al tocco delicato e insieme passionale delle sue labbra. «Credo... credo che dovremmo spostarci » sussurro quando la sua bocca si sposta sul mio collo, iniziando una tortura tutt'altro che spiacevole.
    «Di sopra?» domanda, senza quasi staccarsi dalla mia pelle. Mi limito ad annuire, incapace di formulare una frase decente. «Allora andiamo» sussurra, sollevandomi tra le braccia come se non avessi peso.



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San Paolo, 17 gennaio 2014


    «Ma che cos'è successo?» continua a ripetere Emma da due minuti, aiutando Jared a raccogliere i frammenti di carta sparsi sul pavimento. «Perché avete litigato?»
    «Ti ricordi la canzone che ho iniziato a scrivere a Parigi?» risponde infine il cantante, facendo attenzione a non stropicciare i pezzetti che sta raccogliendo.
    «Se me la ricordo?» gli fa eco lei, guardandolo con tanto d'occhi. «Se non ricordo male, ti dissi che era una delle canzoni più belle a cui avessi mai lavorato.»
    «Sì, beh, l'ho finita. Ed è ancora meglio di quanto non fosse allora.»
    Emma guarda i brandelli di carta, e improvvisamente capisce. «Shannon ha scoperto della canzone e si è arrabbiato?»
    «Esattamente. Ha detto che lui vuole dimenticare tutto ciò che riguarda Daria, e che di conseguenza lo devo fare anch'io. Credo di non averlo mai visto tanto fuori di sé. Non sono nemmeno riuscito a reagire, mi faceva quasi paura
    La ragazza si mordicchia un labbro, sentendosi in colpa. Ancora in ginocchio sul pavimento, lascia cadere a terra i pezzi già raccolti e si siede sui talloni. «Jared, credo che sia anche colpa mia. Qualche sera fa Shannon è venuto da me e... beh, diciamo che si è confidato.»
    Jared alza di scatto gli occhi su di lei, stupendosi per quanto le ha sentito dire: è già incredibile pensare che Shannon abbia esposto i suoi problemi a qualcuno, ma rendersi conto che ha scelto Emma per le sue confidenze è, in un certo senso, ancor più disturbante. «Che ti ha detto? Stava bene?»
    «Non troppo. Voleva un consiglio.»
    «A che proposito?»
    «Tu che pensi, genio?»
    «Daria?» Emma annuisce, abbassando lo sguardo. «Che cosa ti ha detto?»
    «Non lo ha detto in maniera esplicita, ma il succo del discorso era che Daria gli manca da morire, e che sarebbe pronto a partire in qualunque momento per andarsela a riprendere, se non fosse per il piccolo e poco affatto trascurabile dettaglio che lei gli ha chiesto di non farlo.»
    «Mi chiedo perché si faccia tutti questi scrupoli...» sospira Jared. «Non è mai stato il tipo d'uomo che si fa comandare a bacchetta da nessuno, tranne forse da nostra madre. Ti ha detto altro?»
    «Voleva un consiglio, un... suggerimento, per capire come comportarsi.»
    «E tu che gli hai risposto?»
    «Gli ho detto che secondo me c'erano soltanto tre possibili soluzioni: mettere da parte le paranoie e andare da lei, chiudersi a riccio e continuare a soffire come un cane, oppure... dimenticare. Mi sembra piuttosto chiaro che è questa la strada che ha scelto.»
    Jared scuote la testa, sospirando ancora. «Non ci riuscirà. È un uomo in gamba, ci sono un sacco di cose che può fare, ma non può... dimenticare. Hai visto com'era quando stava con lei, no? Hai visto com'era... felice
    «Lo conosco, Jared. E ho visto come si comportava quando erano insieme. So bene quanto te che non ci riuscirà. Solo che... so che dovrei stare tranquilla e non pensarci, ma ho paura che possa commettere qualche cazzata. So che sono soltanto una vostra dipendente e questo non fa parte dei miei doveri, ma io... io sono preoccupata. Sono sinceramente preoccupata.»
    Siamo in due, pensa Jared, finendo di raccogliere i pezzi di carta.



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Torino, 17 gennaio 2014


    Dopo avermi sfilato i pantaloni, le mani di Marco risalgono lentamente lungo le mie gambe, mentre le sue labbra si posano per un istante sul mio ombelico. Con la punta del naso mi sfiora appena, seguendo il profilo dei miei seni e tornando a prendere possesso della mia bocca. Approfittando dell'instabilità della sua posizione lo spingo via, prendendo il comando della situazione. Slaccio lentamente i suoi jeans e inizio a farli scivolare via, mentre lui si mette a sedere e inizia a sollevare la mia canottiera, baciandomi languidamente il seno come per convincermi ad assecondarlo. Ci fermiamo per qualche istante, restando stretti con lo sguardo fisso negli occhi dell'altro, senza osare dire una parola. Alza una mano e mi sfiora il viso, sorridendo dolcemente. «Te lo ha mai detto nessuno che sei una ragazza bellissima?»
    Dovrei rispondere di sì, ma lo ferirei a morte; potrei rispondere di no, ma in questo caso tradirei la mia memoria; incapace di rispondere senza ferire uno dei due, mi limito a prendere il suo viso tra le mani e baciarlo ancora, come se un bacio potessere essere la risposta ad ogni problema. Il mio gesto riesce, in qualche modo, a sbloccare la situazione, ed è quanto di meglio avrei mai potuto chiedere. Le sue mani stringono un po' più forte i miei fianchi, facendomi scivolare più avanti. Sento la sua erezione premere contro il mio bacino, chiudo gli occhi e mi lascio andare. Non voglio pensare in maniera razionale, non più. Ho passato tutta la vita ad analizzare ogni situazione, e ora sento che è giunto il momento di lasciarsi andare.


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San Paolo, 18 gennaio 2014


    A svegliarmi è la suoneria del cellulare, che mai come in questo momento mi è sembrata tanto alta e invadente. Apro gli occhi ma li richiudo all'istante, accecato dalla luce che entra dalla finestra. Sento la bocca arida e impastata, avverto un vago senso di fame e nello stesso momento mi sento come se avessi inghiottito un macigno. Mi sforzo di riaprire le palpebre, alzando una mano per evitare di bruciarmi di nuovo le retine, e guardo verso destra, sperando di trovare una bottiglia d'acqua. Con la vista ancora compromessa, muovo una mano alla cieca sul ripiano, trovando di tutto – pacchetti di sigarette, un accendino, una confezione di preservativi, brandelli di plastica –, ma nemmeno una goccia d'acqua. A fatica mi metto a sedere e mi guardo attorno, trovandomi completamente nudo nel mio letto, senza avere la benché minima idea di come ci sia arrivato. Tuttavia, non ho tempo di riflettere su quanto successo durante la notte, perché al solo pensiero di uno sforzo di qualunque tipo il mio stomaco si ribella, stringendosi ancora di più. È a questo punto che i miei riflessi mi sorprendono, più rapidi di quanto avessi mai immaginato.



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Torino, 18 gennaio 2014


    Apro gli occhi, e per la prima volta dopo tanto tempo il posto accanto al mio non è vuoto e freddo. «Buongiorno» sussurra Marco, salutandomi con un sorriso.
    «Da quanto tempo mi guardi?»
    «Cinque minuti, non di più.» La sensazione che mi stia rifilando una balla è grande, ma decido di non darle peso e di credergli. «Hai fame? Scendo a prepararti qualcosa.»
    «Non troveresti nulla. Ho un modo tutto mio di organizzare la cucina.»
    «Piccola, vivo solo da quando ho ventidue anni. Ti stupiresti di scoprire quante abilità si possono sviluppare in tanti anni.»
    «Non ho fame, in realtà» ribatto.
    «Sicura? Non vuoi niente? Un caffè? Un po' d'acqua?»
    Scuoto la testa, sorridendogli a mia volta. «Sto benissimo così» sussurro, accoccolandomi contro il suo petto nudo. Senza aggiungere altro mi passa un braccio dietro le spalle, tenendomi stretta a sé. Questa volta sono sincera: tutto ciò che mi serve per stare bene è qualcuno da stringere forte a me.



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San Paolo, 18 gennaio 2014


    Per la seconda volta nel volgere di pochi giorni, Emma usa il proprio passepartout per entrare nella camera d'albergo di Shannon, e questa volta ha ancor più ragioni della precedente per farlo – non soltanto ha litigato con Jared, ma ha mancato l'appuntamento per l'intervista in radio, non si fa vedere in giro da dodici ore e non risponde nemmeno al cellulare. Se non sono ottime motivazioni queste...
    Non appena i suoi occhi si rendono conto delle tragiche condizioni in cui versano la stanza, la donna si mette le mani tra i capelli, chiedendosi che razza di scusa potrà mai inventare per giustificare un simile sfacelo nei confronti della direzione e delle sfortunatissime cameriere che dovranno occuparsi di ripulire. Conta due bottiglie di champagne presumibilmente vuote, scansa i cocci di un bicchiere abbandonato ai piedi del letto, guarda con una punta di disgusto le lenzuola aggrovigliate, in alcuni punti macchiate e in altri quasi strappate via dal materasso, poi vede il comodino. Sta per avvicinarsi e dare un'occhiata, quando dal bagno sente arrivare il chiaro suono di qualcuno che sta vomitando l'anima. «Shannon?» domanda con voce tremante. Dà una leggera sprintarella alla porta, e ciò che vede la lascia pietrificata per qualche secondo: Shannon è completamente nudo, letteralmente abbracciato alla tazza, e ha tutta l'aria di aver passato tempi migliori.
    Soffocando in gola ogni rimprovero e improperio preparato per l'occasione, Emma fa tutto ciò che farebbe una vera amica: bagna un asciugamano e si mette in ginocchio accanto a lui, tamponandogli la fronte come farebbe sua madre – o forse no, non ne ha idea, perché Constance sembra più il tipo di madre che ti prende a calci nel sedere per far penetrare la lezione a fondo.
    Accorgendosi soltanto in quel momento della presenza estranea, Shannon alza su Emma gli occhi, rossi e gonfi come possono essere soltanto gli occhi di una persona che la sera ha cercato di soffocare il dolore, e che la mattina si rende conto di aver miseramente fallito. «Sono una persona orribile» balbetta, riabbassando lo sguardo. «Jared non vorrà più parlarmi, mai più. Questa volta l'ho combinata troppo grossa.»
    «Non pensare a Jared» sussurra lei, sforzandosi di mantenere lo sguardo fisso sulla sua fronte, e su nessun'altra parte del suo corpo. «Non pensare a Jared» ripete. «Adesso devi solo pensare a rimetterti in sesto. Ti fai passare la sbornia, ti fai una doccia, poi vai da lui e ne parlate in maniera civile.»
    «Non so se questa volta riuscirà a perdonarmi» sussurra ancora Shannon, sempre più depresso. «Nemmeno io so se riuscirò a perdonarmi.»
    «Non ci pensare, Shannon» ripete ancora lei, continuando ad inumidirgli la fronte e i capelli. «Si sistemerà tutto, alla fine.» Gli passa un braccio sulla schiena nuda, stringendogli le spalle in una sorta di abbraccio. È strano starsene abbracciata ad un uomo – uno come Shannon, poi! – senza che vi sia di mezzo qualcosa di sessuale, eppure, per quanto strano possa sembrare, Emma non ha mai sentito di essere al posto giusto nel momento giusto tanto quanto lo sente ora.



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Torino, 18 gennaio 2014


    «A che pensi?»
    «A niente in particolare» mi affretto a rispondere, sperando di sembrare naturale e sincera. La verità è che ho la testa affollata da milioni di pensieri, tanto che non so su quale concentrarmi per primo.
    «Mi prendi in giro? Guarda che ti conosco, e si vede che hai la testa da un'altra parte. Ma se non ne vuoi parlare con me, va bene.» Mi volto per guardarlo, e capisco che i suoi occhi celesti, grandi e limpidi come quelli di un bambino, potrebbero convincermi a fare qualunque stupidaggine – ragion per cui decido di scegliere una delle mille cose che mi vorticano in testa e di condividerla con lui.
    «Stavo pensando che dovrei parlare con mio padre. Sai, dirgli di mia madre e del fatto che sia venuta a cercarmi. Forse lui un consiglio me lo potrebbe dare.»
    «Come pensi che potrebbe prenderla?»
    «Non ne ho idea. Però mi sembra una buona soluzione. È l'unica soluzione che mi sia venuta in mente, in realtà.»
    «Cosa credi che ti consiglierà di fare?»
    «Non lo so» ammetto. «Quando scoprirà che l'ho mandata al diavolo mi sgriderà, poco ma sicuro. Ci ha sempre insegnato che si deve avere rispetto per gli altri, anche quando qualcuno non dimostra di meritarselo.» Mi metto a sedere, reggendomi il lenzuolo davanti al petto con entrambe le mani. «Se lo conosco almeno un po', mi consiglierà di tornare indietro e darle una possibilità.»
    «Chissà perché, non mi sembra che la prospettiva ti riempia di gioia.»
    «E come potrebbe? Mi ha lasciata – ha lasciato tutti noi – per seguire i suoi sogni, e alla fine si scopre che si è fatta un'altra famiglia. Mi sento... mi sento tradita, Marco. Credo che chiunque si sentirebbe tradito. Mi sento come... mi sento come... insomma, viene da pensare che non ci ritenesse abbastanza, che non... che non ci amasse abbastanza. Ci ha lasciati e dopo quattro anni ha avuto un altro figlio. Non dieci, non quindici... soltanto quattro anni
    «In quattro anni le cose possono cambiare.»
    Lo guardo di nuovo, ma dopo un istante abbasso lo sguardo. «Quattro anni non sono abbastanza, Marco.»



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San Paolo, 18 gennaio 2014


    Una volta finito di vomitare, Shannon si è alzato e si è infilato sotto la doccia, mentre Emma si è fabbricata un guanto di carta igienica e ha iniziato a rassettare un po' la stanza – giusto il minimo, per evitare di incappare in una denuncia per atti vandalici. Mentre raccatta preserativi usati, cocci di vetro e bottiglie vuote e li destina al cestino dei rifiuti, pensa che non le farà male fare un'antitetanica – così, giusto per sicurezza. Si tiene lontana dal letto, e quando Shannon esce finalmente dal bagno, per fortuna indossando almeno le mutande, lei si sposta in bagno per vuotare il posacenere nella tazza. Lo lascia solo per quelli che saranno venti secondi, ma al suo ritorno lo trova già vestito e intento a pigiare l'essenziale nel borsone. «Che diavolo stai facendo?»
    «Me ne vado. Devo tornare a casa.»
    «Sei ancora ubriaco?»
    «Me ne devo andare. Ho combinato un casino.»
    «Hai commesso un errore, può capitare. L'importante è capirlo, e...»
    «No, Emma, stavolta non mi lascio convincere» la interrompe lui, alzando di scatto la testa. «Questa volta ho superato ogni limite, me lo dico da solo.»
    «Non dico che Jared fosse al settimo cielo quando non ti sei presentato all'intervista, ma di sicuro potrà perdonarti se...»
    «Emma, soltanto un idiota potrebbe perdonarmi, questa volta. Ho davvero esagerato.»
    «Se ti riferisci allo spartito che hai strappato, so tutto.» Aspetta una risposta, ma la reazione di Shannon è concentrata in una contrazione della mascella, che rende il suo profilo duro e severo come non è mai stato. «Ieri sera, dopo la tua chiassosa uscita di scena, l'ho aiutato a raccogliere i pezzi. Letteralmente.» Aspetta ancora che Shannon dica qualcosa, ma quando si rende conto che non l'aspetta altro che il silenzio decide di continuare. «Credo che nessuno sappia come ti senti davvero, e capisco la tua rabbia quando hai scoperto che Jared ha scritto una canzone a proposito di quei sentimenti che nemmeno tu riesci a decifrare. E ti assicuro che lo capisce anche lui. E non è arrabbiato, te lo...»
    «Emma» la interrompe, «è di mio fratello che parliamo. Non dirmi che non è incazzato nero, perché non me la bevo.»
    «Va bene, forse ha accarezzato l'idea di strozzarti, però non è che ti odia a morte o cose del genere. Avete superato di peggio, non vedo perché questa volta dovreste...»
    «Emma» la interrompe ancora, guardandola dritta negli occhi. «Tu non sai in che abisso sono precipitato, l'ultima volta che mi è successa una cosa del genere. Dire che ho toccato il fondo non rende l'idea. Io non posso... non voglio cadere di nuovo così in basso. Non so se questa volta riuscirei ad uscirne.»
    «E quindi che fai? Scappi? Scappare non ha mai risolto niente, lo sai. Scappare non è mai la soluzione.»
    «Non sto scappando, Emma. Sto cercando di risolvere le cose, e sto cercando di farlo a modo mio. Il fatto che tu non lo capisca non significa che sto sbagliando.»
    «Non volevo dire questo, Shannon. Quello che volevo dire è che...»
    «Non dire altro, per favore. Non ho bisogno di consigli, né di morali, né di ramanzine. So punirmi benissimo da me.»
    Emma tace e lo guarda, cercando di capire come le cose potranno mai sistemarsi, se tutto ciò che Shannon fa è negare l'evidenza, e cioè che le cose potranno tornare a posto soltanto quando lui e Daria saranno di nuovo insieme. «Di che cosa hai bisogno, allora?»
    «Un biglietto aereo. Per Los Angeles» specifica, quasi leggendole nella testa la destinazione cui lei stava pensando in realtà. «Puoi aiutarmi oppure no, comunque partirò.»
    «Non puoi mollare il tour a metà, Shannon. Fra tre giorni dovete essere a Rio. Pensa a tutti gli Echelon che...» Si interrompe, rendendosi conto che probabilmente a questo Shannon ha già pensato, senza però lasciarsi convincere a cambiare idea. Decide di lasciar perdere, pensando che in fondo lei non ha alcun diritto di mettere il naso in questa situazione, e che se Shannon ha deciso di partire e tornare a casa, forse bisogna lasciarlo fare. In fondo, a furia di prendere la decisione sbagliata prima o poi, forse, arriverà a prendere quella giusta. «Sai che ti dico? Io non ho il diritto di dirti cosa devi fare. Perciò, se senti che partire è la soluzione, fallo.»
    «Emma, credimi, non è niente di personale, ma...»
    «Non mi devi alcuna spiegazione, Shannon. Ora scusa, ma devo andare. Vedrò che si può fare per il biglietto.» Senza aggiungere altro Emma esce, lasciando il batterista solo con i suoi pensieri e le sue convinzioni. Se c'è una cosa che ha imparato, in tanti anni passati ad inseguire quel manipolo di squinternati in giro per il mondo, è che a volte bisogna mettere da parte l'empatia, e lasciarli liberi di rovinarsi la vita da sé.



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Torino, 18 gennaio 2014


    Quando finalmente ci convinciamo ad alzarci e a rivestirci è passato da un pezzo mezzogiorno. «Non so nemmeno se posso offrirti un pranzo decente» dico, scendendo in cucina. «Teoricamente dovrei andare a fare la spesa.»
    «Posso sempre portarti a pranzo fuori» risponde lui, scendendo subito dopo di me.
    «E scroccare di nuovo? No, grazie. Una volta tanto, vorrei ricambiare i tuoi sani gesti maschilisti» lo prendo in giro. «Oh, aspetta. C'è ancora dell'arrosto» aggiungo, scavando nel frigorifero alla ricerca di qualcosa di commestibile. «Mia nonna ha paura che muoia di fame, perciò continua a mandarmi casse di cibo. Non che mi lamenti, certo.»
    «Aspetta, ti aiuto.»
    «Niente affatto. Sei mio ospite, non devi muovere un dito» ribatto, disponendo la carne in una padella.
    «Non esiste che faccia faticare una donna. Almeno lasciami apparecchiare, no?» protesta, iniziando ad aprire ogni stipetto alla ricerca di piatti, bicchieri e posate. Passandomi accanto, mi fa scivolare una mano sul fianco e mi bacia dolcemente una guancia, per poi lasciarmi andare e continuare la sua ricerca. Seguo i movimenti con lo sguardo, e mi rendo conto che questo è esattamente quello che vorrei, per il resto della vita: avere accanto qualcuno con cui condividere la quotidianità, quei piccoli gesti che ognuno ripete ogni giorno, quelle piccole cose cui nessuno fa caso, ma di cui sente terribilmente la mancanza. Questo renderebbe Marco perfetto per me, senza tener conto del fatto che mi adora, e che probabilmente per me sarebbe pronto a saltare nel fuoco. E poi, all'improvviso, mi sento in colpa, perché in un certo senso è come se lo stessi usando, e io non sono mai stata il tipo di persona che si comporta in questo modo. Per fortuna è soltanto un attimo – scuoto la testa e torno ad occuparmi dell'arrosto, pensando che ormai è tardi per abbandonarsi ai rimorsi di coscienza: con Shannon è finita, perché se in due mesi non ha ancora fatto nemmeno un tentativo di riprendermi con sé, significa che di me non gli importa poi molto. Devo solo convincermi che sia finita. Che sia finita per sempre.



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San Paolo, 18 gennaio 2014


    Sono passati venti minuti da quando Shannon è uscito dall'albergo ed è saltato su un taxi per l'aeroporto. Emma ha aspettato il ritorno di Jared davanti alla porta della sua stanza, camminando avanti e indietro come un leone in gabbia, cercando di mettere insieme le parole giuste per informarlo della decisione di Shannon – ci ha provato, ci ha provato davvero a fregarsene e a lasciarli andare per la loro strada, ma quando tieni a qualcuno quanto lei tiene a quei due enormi idioti, fregarsene diventa difficile, se non addirittura impossibile.
    «Ehi, Emma» la saluta Jared, strisciando la chiave magnetica contro il lettore a fibre ottiche. «L'intervista è andata bene, ma voglio che quei due speaker finiscano sulla lista nera. Sono dei ficcanaso.»
    «Ficcanaso?»
    «Continuavano ad insistere nel chiedere il motivo per cui non ci fosse Shannon. Sia io che Tomo abbiamo continuato a ripetere che era in studio a lavorare su un progetto importante, ma quelli non demordevano. Figurati che ad un certo punto uno dei due ha tirato fuori che ieri sera l'avrebbero visto darsi da fare con una ragazza in un locale piuttosto in vista. Ma figurati se...» Vede lo sguardo di Emma abbassarsi con aria colpevole, e allora tace. «Aveva ragione, vero? L'hai visto? Che cosa ha combinato?»
    «Credo si sia ubriacato e che abbia portato quella ragazza in albergo. O almeno, questo era quello che suggerivano le condizioni della stanza.»
    «L'hai visto? Sta bene?» L'espressione di Jared rispecchia alla perfezione il suo tono, sconvolto e preoccupato come può diventare soltanto quando si parla di Shannon o di Constance – e, occasionalmente, di Tomo o di Vicki. «Devo andare da lui» aggiunge subito dopo, richiudendo la porta della propria camera e muovendo due passi in direzione della stanza di Shannon.
    «Non è in camera» lo blocca lei, afferrandolo per un braccio. «Ti aspettavo per dirti questo» aggiunge, lasciandolo andare. «Quando sono entrata lui era in bagno, a... beh, a vomitare l'anima. Appena è stato meglio si è fatto una doccia e poi ha... ha preparato un borsone. E mi ha chiesto di trovargli un biglietto aereo.»
    «Un biglietto aereo per dove?» Jared non può negare che, nonostante lo smarrimento dettato dall'affermazione di Emma, il suo cuore speri che Shannon abbia finalmente preso la decisione più giusta. «Sta andando da lei?»
    Emma scuote la testa, abbassando di nuovo lo sguardo. «Torna a casa, a Los Angeles. Ho cercato di convincerlo a rimanere, ma lui ha detto... ha detto che non vuole finire come l'ultima volta, che... che ha bisogno di tornare a casa. Io ci ho provato, te lo assicuro, ma lui non...» Sente la voce farsi tremula e la gola chiudersi, e per questo si odia, perché sa che sta per mettersi a piangere, e lei non è proprio il tipo di donna che si mette a piangere davanti agli altri.
    «Non è colpa tua, Emma» la tranquillizza Jared, stringendole una spalla con fare affettuoso. «Da quanto è partito?»
    «Saranno venti minuti, più o meno. Gli ho trovato il biglietto, ma l'aereo non partirà prima di un paio d'ore.»
    «Va bene, va bene... pensa, Jared, pensa... pensi di poter fare una cosa per me?» All'istante, Emma sente gli occhi asciugarsi e lo sguardo farsi affilato – sono più o meno dieci anni che consacra ogni sua giornata a fare cose per lui, perché ora dovrebbe essere diverso?



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Torino, 18 gennaio 2014


    «Daria, ti posso fare una domanda? Però non vorrei che la prendessi nel verso sbagliato...» Smetto di masticare, mi blocco con la forchetta a mezz'aria e lo squadro più o meno come se stessi guardando un alieno. «Lo so che le premesse non fanno ben sperare, però... c'è una cosa che ti vorrei chiedere, e sento che se non lo facessi ora non troverei più l'occasione giusta. Sempre che questa lo sia.»
    Mando giù il boccone e abbasso il braccio, continuando a guardarlo. «Beh, allora chiedi. Prometto che non ti giudicherò male.»
    «Va bene. Naturalmente sei più che libera di non rispondere, se non ti va.»
    «Prometto che risponderò il più sinceramente possibile. Avanti, spara.»
    «Va bene...» Giocherella con un pezzo di carne, cercando di mettere insieme le parole giuste. «Ieri sera hai detto... hai detto che proprio quando pensavi che non ti saresti mai più innamorata hai incontrato un ragazzo che ti ha fatto perdere la testa, e che poi tu...»
    «...gli ho spezzato il cuore?» completo, ponendo fine alla sua incertezza.
    «Già. Ecco, io mi stavo chiedendo... perché? Insomma, se con lui stavi così bene perché lo hai lasciato?»
    Abbasso lo sguardo e prendo fiato. La domanda di Marco non dovrebbe stupirmi, perché sarebbe stato da idioti pensare che un dubbio del genere non avrebbe fatto capolino, prima o poi – anche se, devo confessarlo, ero una fervida sostenitrice del poi. «Ok» sospiro infine, pronta a tentare di spiegare le mie motivazioni. «Insieme stavamo bene. Stavamo molto bene. Io stavo bene, e lui diceva di stare bene. Non ho mai conosciuto una persona in grado di mettermi così a mio agio, e credevo... credevo che questo mi sarebbe bastato.»
    «E invece?»
    «Eravamo diversi. Profondamente diversi. E so che forse è uno dei cliché più abusati al mondo, e tu sai quanto io detesti i cliché, però... è questo il motivo che mi ha spinto ad allontanarlo. Questo, e nient'altro. Quando stavo con lui ero felice, ma allo stesso tempo... allo stesso tempo sapevo che non sarebbe durata per sempre. Ci amavamo, ma ci sono volte in cui l'amore non basta. Io... con lui io sono sempre stata molto chiara circa i miei obiettivi, circa quello che volevo, e... e per quanto lui dicesse di essere d'accordo, per quanto forse volesse le stesse cose che volevo io, io... io sapevo che non saremmo mai riusciti a far combaciare le nostre strade. Così ho preferito...»
    «...spezzargli il cuore» completa lui. Annuisco, abbassando lo sguardo. «Provi mai rimorso per questo? Insomma, per averlo lasciato così?»
    «Ho sempre pensato che fosse meglio per entrambi. Meglio soffrire subito e non pensarci più che costringersi magari per anni a stare insieme senza possibilità di farla andare bene. Insomma, magari... magari mi sarei svegliata, una mattina, fra, che ne so, magari dieci anni, e mi sarei accorta di non vivere la vita che volevo. Che avrei fatto, allora? Avrei fatto come mia madre? Avrei preso le mie cose e me ne sarei andata senza guardarmi indietro? Mi conosci, Marco. Sai che non potrei...» Mi fermo per un istante, rendendomi conto che questo io l'ho già fatto. Ma è stato per il bene di tutti, mi dico subito dopo. Non è stato un gesto egoista come lo è stato per mia madre.
    «Sì, ti conosco, e so che preferiresti ferire te stessa mille volte, pur di non fare del male agli altri» risponde, approfittando del mio silenzio. «Solo che... ti capita mai di provare del rimpianto? Per quel che ne sai, alla lunga vi sarebbe anche potuta andare bene. Forse ci sarebbe voluto del tempo, ma magari...»
    «Forse, ma chi lo sa? Nessuno di noi ha una palla di cristallo, e nessuno di noi può conoscere il futuro in anticipo. Ma che fai, poi? Tifi per un tuo rivale? Se con lui non fosse finita, adesso non saresti qui» aggiungo con un sorriso, sforzandomi di sembrare allegra e naturale.
    «Giusta obiezione» replica, sorridendo a sua volta. «Dovrei ringraziare quel poveraccio per essersi fatto lasciare.»



*



San Paolo, 18 gennaio 2014


    Appena entrato nell'area delle partenze, Jared inizia a scutare ogni angolo alla ricerca di Shannon, voltando la testa di qua e di là con la stessa rapidità di un cane antidroga. Sa che sono passati soltanto venti minuti da quando Emma l'ha informato dei piani di suo fratello, quindi sa che Shannon deve essere ancora lì, da qualche parte, a piangere sulla propria condizione, rinchiudendosi sempre di più in se stesso. Beh, forse non sta proprio piangendo.
    Quando finalmente lo trova, per un istante pensa che non ha un discorso pronto, che non ha pensato nemmeno per un istante a come affrontare la situazione, e per un maniaco del controllo quale è lui non avere un piano è decisamente impossibile. Tuttavia, sa che quando si siederà accanto a lui le parole verranno fuori da sole, e saranno quelle giuste – o almeno lo spera. E poi, pensa ancora, è di suo fratello che si parla, e sa che per capirsi basterebbe loro anche un semplice abbraccio.
    «Ciao» lo saluta, quasi senza fiato, lasciandosi cadere sul seggiolino accanto al suo.
    «Che ci fai tu qui?»
    «No, tranquillo, è tutto a posto. Sto solo per sputare un polmone, ma presto starò bene.»
    «Hai parlato con Emma?»
    «Va bene, visto che hai deciso di saltare i convenevoli e di non curarti della mia salute... sì. Ma ti proibisco di arrabbiarti con lei. Lo ha fatto soltanto perché vuole il tuo bene, ed è preoccupata per te. A proposito, è riuscita a trovarti un posto?»
    «Sì, ho appena ritirato il... senti, Jared, facciamola breve. Sei venuto qui per impedirmi di partire?»
    «Affatto. Se credi che tornare a Los Angeles sia la soluzione ai tuoi problemi, allora torna a Los Angeles. In questo momento stare bene con te stesso è la tua priorità, dunque lo è anche per me. Sono tuo fratello e ti voglio bene. Non accettare le tue decisioni sarebbe da egoisti, e per quanto riconosca di essere un inguaribile essere altezzoso, non posso negarti la tua libertà.»
    «Non hai intenzione di fermarmi?» Shannon è semplicemente incredulo: nell'istante in cui ha visto Jared sedersi accanto a lui ha immaginato di doversi preparare ad una ramanzina, e invece – come spesso accade – suo fratello lo sta sorprendendo.
    «Te l'ho già detto, no. Se tu credi che questo possa risolvere le cose, va bene. E non credere che sia così accondiscendente perché ho un subdolo piano, perché non è così. Voglio solo farti capire che io sono con te, qualunque cosa accada.»
    «Mi dispiace, Jared. Mi dispiace, ma... io non posso restare ancora. So che sono soltanto altri cinque giorni e poi torniamo a casa, ma io... io credo di aver paura di me stesso» conclude Shannon con un sussurro.
    «Di che cosa hai paura, Shannon?» domanda l'altro, abbassando la voce per portarla al suo livello. «Che cosa ti spaventa tanto?»
    Shannon si prende la testa tra le mani e resta in silenzio per quasi un minuto, poi finalmente rialza lo sguardo. «Ieri sera, dopo il nostro litigio, sono uscito e ho preso un taxi. Mi sono fatto portare in una zona piena di locali. C'era una fila di ragazze stupende che aspettavano di entrare, e io ho dato una mazzetta ad un buttafuori perché ne facesse passare una. Poi... non lo so, abbiamo bevuto, e ballato, e ad un certo punto mi sono trovato in albergo con lei, e tutto ciò che ricordo è che ci stavamo spogliando, e... non mi ubriacavo così da tempo, Jay. E adesso ho paura. Ho una paura tremenda che la prossima volta potrei non fermarmi a questo. Ho paura che la prossima volta potrei trovare qualcuno che mi offre una sniffata di coca, o addirittura che potrei trovare qualcuno che me ne vende una bustina, e... e per quanto detesti quella merda, non credo che riuscirei a rifiutarla.»
    Jared, che per tutto il tempo della confessione di suo fratello si è guardato le mani, ne alza una per massaggiarsi le tempie, come stordito da quel fiume di parole – nessuno dei due è mai stato il tipo di uomo che si apre così tanto, nemmeno davanti ad una persona importante. «Mi dispiace di non averti parlato di quella canzone. Di non averlo fatto prima di scriverla, almeno. Ma non posso dire che mi dispiaccia di averla scritta, perché... beh, scriverla mi ha fatto bene. Lo sai, io non sono il tipo di persona che parla volentieri dei propri sentimenti, e d'altro canto non lo sei nemmeno tu.» Sospira, togliendosi una ciocca di capelli dagli occhi. «Però non sono nemmeno il tipo di persona che si tiene tutto dentro, perché in quel caso scoppierei. Io... io avevo bisogno di fermare da qualche parte i miei pensieri, e siccome non ero certo di poterlo fare con te senza rischiare di ferirti, ho... ho pensato di scrivere una canzone. È stato egoista da parte mia pensare di potertelo tenere nascosto. Ma comunque non l'avrei usata per fare soldi. Sarebbe stato come usare te, e io non sono il tipo di persona che usa le altre persone per i propri scopi.»
    «Questo l'ho sempre saputo, e... mi dispiace di aver strappato il tuo spartito. Me ne sono pentito cinque minuti più tardi, ma... ormai l'avevo fatto. E più ci penso, più mi rendo conto che lo farei altre mille volte, se mi trovassi in una simile situazione. Ho provato una rabbia tale da non riuscire a controllarmi. È anche per questo che voglio tornare a casa. Io non sono come te, Jay. Tu riesci sempre a mantenere il controllo, io invece no. Ho paura che potrei di nuovo perdermi, e... io non voglio più perdermi, Jay.»
    «Questo denota giudizio. Comunque, se anche dovesse succederti di nuovo, sappi che io verrei a cercarti. Anche a costo di lasciar perdere tutto il resto, io verrei a cercarti.»
    Shannon alza lo sguardo sul fratello e si lascia andare ad un mezzo sorriso, sapendo che non si tratta di una bugia. «Lo so» sussurra, la voce improvvisamente roca. «Adesso devo andare, devo ancora fare il check in.»
    «Va bene, ti lascio andare» risponde l'altro, alzandosi insieme a lui. «Ci vediamo tra cinque giorni.»
    «Ci vediamo tra cinque giorni.» Senza aggiungere altro, si stringono in un fugace abbraccio e poi si lasciano andare. Shannon non si volta mentre cammina verso il gate, e Jared resta immobile fin quando non lo vede scomparire, inghiottito dalla folla che si muove da una parte all'altra dell'aeroporto. Si passa una mano sul viso e torna sui propri passi, sperando che Emma sia riuscita ad eseguire tutte le istruzioni che le ha lasciato.



1Rimpianti e rimorsi sono la stessa cosa. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone T'insegnerò di Povia, contenuta nell'album I Bambini Fanno Ooh... La Storia Continua (2006).

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Capitolo 10
*** 10 | Questi eravamo noi una volta. Stava piovendo, e i miei erano usciti in macchina. Ai tuoi cos'è successo? La notte ti sento piangere. Sogni i tuoi genitori? E' per questo che distruggi tutto, e mi ***


La lunga strada verso casa - 1
Confesso: questo capitolo era pronto già una settimana fa, ma ho preferito 'covarlo' ancora per qualche giorno per essere certa che fosse passabile - e anche per far sudare un po' i vostri poveri ormoni ^^
Come sempre, grazie mille per il vostro tempo e i vostri commenti, a volte scrivete cose che mi fanno davvero commuovere, e sono davvero felice di avere un 'fanclub' così affezionato alle tragedie che faccio vivere ai miei personaggi, e anche ai nostri amatissimi Mars!
Godetevi la lettura,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo decimo
Questi eravamo noi una volta. Stava piovendo,
e i miei erano usciti in macchina.
Ai tuoi cos'è successo?
La notte ti sento piangere.
Sogni i tuoi genitori?
È per questo che distruggi tutto,
e mi spingi?1



Torino, 18 gennaio 2014


    Dopo pranzo Marco si è congedato, promettendomi che ci saremmo sentiti più tardi. Dopo aver fatto una doccia e aver riordinato, mi rendo conto che non è più il momento di rimandare: devo parlare a mio padre del ritorno della mamma, e devo farlo ora, prima che questa cosa finisca con il mangiarmi viva. Mi cambio e lo raggiungo in laboratorio, luogo in cui da bambina ho passato gran parte dei miei pomeriggi. Lo trovo alle prese con un bellissimo tavolo in noce, e capisco che la mia visita lo sconvolge quando, vedendomi entrare, solleva lo sguardo dal proprio lavoro con aria preoccupata. «Ciao. Che cosa è successo?»
    «Deve per forza essere successo qualcosa perché tua figlia passi a trovarti al lavoro?»
    «No, certo che no. Solo che mi sembra strano, tutto qui. Non vieni in laboratorio da un sacco di tempo. Forse ti ci ho portata troppe volte quando eri bambina... attenta a non toccare quel comodino, l'ho appena verniciato. Se ti macchi con quella roba, puoi buttare via il cappotto.»
    «Mi è sempre piaciuto venire qui» sussurro, accarezzando il ripiano lucido del tavolo con la punta delle dita. «Dopo aver fatto i compiti mi permettevi sempre di aiutarti.»
    «Ti chiamavo piccola assistente...» sussurra, sorridendomi. «Ti piaceva da morire aiutarmi, non ho mai capito perché.»
    «Mi faceva sentire importante» rispondo. «La mamma era appena andata via, e io avevo... non lo so, sentivo il bisogno di essere utile a qualcuno. O forse avevo solo paura di perdere anche te. Pensavo che se avessi passato molto tempo con te, non ti sarebbe mai passato per la mente di lasciarmi.»
    «Questo non me lo avevi mai detto. Perché lo fai adesso?»
    «Non lo so» mormoro, stringendomi nelle spalle. «Forse perché adesso sono cresciuta, e mi sembra meno importante di quanto non lo sembrasse allora.» Mi sfilo il cappotto e lo appoggio su una vecchia sedia da restaurare, insieme alla borsa. «Papà, ti posso parlare di una cosa?»
    «Allora avevo ragione, è davvero successo qualcosa.»
    «Più o meno.»
    «Mi devo sedere, per caso? Perché hai l'aria di una che mi sta per dire che sta per rendermi nonno. Non sei incinta, vero?»
    «No, papà, non sono incinta» rido, pur sapendo che un mese fa si è davvero profilata all'orizzonte la possibilità di dargli una simile notizia. Mi faccio di nuovo seria, e come quando ero bambina inizio a giocherellare con una scatola piena di bulloni. «Papà, ho rivisto la mamma.» Capisco che la notizia non lo sconvolge quando continua a lavorare come prima, senza interrompersi. «Un paio di settimane fa è venuta a cercarmi in negozio, e io l'ho mandata al diavolo. Mi ha lasciato il suo indirizzo, e appena mi sono calmata sono andata a trovarla io. Fa l'arredatrice d'interni, ha uno studio in centro. Ci siamo prese un caffè, e abbiamo parlato. E... beh, credo che dovresti sederti, adesso, perché mi ha detto...»
    «...che hai un fratello» conclude lui, lasciando perdere il lavoro e alzandosi in piedi.
    «Tu come lo sai?»
    «Me l'ha detto lei. Poco dopo Capodanno è passata di qui. Anche noi siamo andati a prendere un caffè e abbiamo parlato. E tra le cose che mi ha detto... beh, ha detto di essersi risposata e di aver avuto un altro bambino.»
    «Perché non mi hai detto niente?» Se questa confessione provenisse da qualunque altra persona avrei già girato i tacchi e me ne sarei andata sbattendo la porta, ma trattandosi di mio padre so che la sua omissione nasconde una ragione ben precisa. O almeno, deve essere così, altrimenti anche la mia ultima certezza rischia di dissolversi come neve al sole. «Sono impazzita per due settimane perché non sapevo con chi confidarmi, e ora... perché non me lo hai detto?» In qualunque altro caso sarei già furente, ma so che lui mi darà una spiegazione, perciò mantengo la calma e aspetto.
Si pulisce le mani con uno straccio, evitando di guardarmi negli occhi. «Perché mi ha chiesto di non farlo, e io... a lei non sono mai riuscito a negare nulla. Non sono riuscito a negarle nemmeno il divorzio, figuriamoci.»
    «Perché è venuta da te?»
    «Perché voleva chiedermi un consiglio. Voleva sapere se tornando nella tua vita ti avrebbe sconvolta, e se... se saresti riuscita a perdonarle quello che ti ha fatto. Il senso più o meno era quello.»
    «E tu che cosa le hai risposto?»
    «Le ho detto che ormai la vita te l'aveva già sconvolta, quindi non avrebbe fatto tutta questa differenza tornare o meno. Ma dalla tua espressione, deduco di aver avuto torto.»
    «Non si può negare che mi abbia sorpreso, certo. Una passa quindici anni pensando che sua madre l'abbia dimenticata, e poi all'improvviso la vede tornare e sente... certe cose. Non dirmi che non avrebbe sconvolto la persona più stabile del mondo.» Mi passo la lingua sulle labbra, guardandomi attorno. «Per un po' l'ho ascoltata, e per un istante ho anche pensato di poter riallacciare i ponti con lei... però poi mi ha detto del bambino, e io l'ho mandata al diavolo. Non partire in quarta con la predica, perché so di aver esagerato. Mi hai sempre insegnato che non si devono giudicare le persone per quello che hanno fatto, o per gli errori che hanno commesso, però... non lo so, ho sentito montarmi dentro una gran rabbia, e... ho dovuto farlo. Dovevo sfogarmi, in qualche modo.»
    Si mette di nuovo in ginocchio, ricominciando a lavorare. «Non ho intenzione di farti una predica, Daria. Sei cresciuta per sorbirti una ramanzina dal tuo vecchio. La vita è tua, quindi sono tue anche le decisioni. E comunque non mi sento in grado di giudicarti. Ti ho insegnato a rispettare gli altri e le loro scelte, ma ti ho insegnato anche a pensare con la tua testa e ad esternare le tue emozioni, quindi...»
    «Quindi mi stai dicendo che ho fatto bene a mandarla al diavolo?»
    «No, non sto dicendo che hai fatto bene a mandarla al diavolo. Resta comunque tua madre.»
    «Non mi sembra fosse accanto a me mentre crescevo e affrontavo le dure prove della vita» rispondo in tono sarcastico. «Non mi sembra che fosse lei quella che mi curava quando stavo male, o quella che mi spiegava da dove arrivano i bambini. Una madre non dovrebbe essere quella che ti sta accanto e ti aiuta a crescere?»
    «Va bene, diciamo che da questo punto di vista è stata un po' carente, ma non puoi negare di doverle molto. Non saresti al mondo, se non fosse per lei.» Non c'è traccia di acredine nelle sue parole, eppure le sento colpirmi con la stessa forza di una palla da demolizione. «Non ti sto sgridando, Daria» ripete, mentre mi sposto lungo la parete del laboratorio, fingendo di osservare alcuni mobili, ma in realtà desiderando di farmi piccola piccola ed essere inghiottita dal pavimento.
    «Mi sento uno schifo» sussurro infine, fermandomi davanti ad un vecchio specchio da parete, contornato da una splendida cornice resa opaca dal tempo. «Continuo a ripetermi che chiunque avrebbe reagito come me, ma allo stesso tempo mi sento... non lo so, in colpa. Come se in fondo non lo meritasse.»
    «Benvenuta nel mondo degli adulti» sorride lui. «Sai, quando avevo l'età di tua sorella non vedevo l'ora di crescere, perché credevo che gli adulti non sbagliassero mai. Poi sono cresciuto, e ho capito che gli adulti sbagliano esattamente come tutti gli altri. La sola differenza è che quando sei adulto sei praticamente obbligato ad assumerti le tue responsabilità e affrontare le conseguenze dei tuoi comportamenti e delle tue scelte. Il fatto che tu ti senta in colpa per come ti sei comportata con tua madre mi fa piacere, in un certo senso, perché significa che sei una persona matura che si rende conto dei propri errori. E questo, nella mia non modesta opinione, significa che come padre non sono stato un totale disastro.»
    Fisso ancora per qualche secondo il mio riflesso nello specchio, rendendomi conto che somiglio davvero moltissimo a mia madre, ma che anche da mio padre ho preso qualcosa – qualcosa che però mi dimentico sempre di notare, presa come sono a riconoscermi sempre e comunque in lei. «Che cosa hai provato quando se n'è andata? Come te l'ha detto?»
    Alza per un istante lo sguardo, poi lo riabbassa sulla gamba del tavolo che sta levigando. «Sapevo che non era soddisfatta di quello che avevamo. Non so spiegarti il perché, solo... quando la persona che ami non è felice lo senti, tutto qui. La conoscevo abbastanza da sapere che non sarebbe bastato darle il mondo per cambiare quella condizione. Così, quando mi disse che sentiva il bisogno di andare per la sua strada, io non opposi resistenza. Non ho combattuto per tenerla con me, perché sapevo che andare via l'avrebbe fatta stare meglio. E io volevo soltanto il suo bene.» Si alza, appoggia le mani sul ripiano del tavolo e alza di nuovo lo sguardo su di me. «In realtà, credevo che sarebbe tornata. Non era la prima volta che ci lasciavamo, e... beh, prima era sempre tornata.» Notando la mia espressione confusa, si sposta verso il bancone dove tiene tutti i suoi attrezzi, fingendo di cercarne uno per avere la possibilità di voltarmi le spalle. «Poche settimane prima del matrimonio, sparì per cinque giorni. Quando si rifece viva, disse che si era fatta prendere dal panico, e che aveva dovuto starsene sola per qualche giorno per capire se aveva preso la decisione giusta o meno. Lì per lì la sua affermazione mi sorprese, perché stavamo insieme già da un po', e avevo sempre avuto l'impressione che fosse sicura di quello che avevamo.»
    «Beh, per quel che ne so sono molte le donne che si fanno prendere dal panico poco prima del matrimonio. Credo sia naturale. In fondo si tratta sempre di scegliere definitivamente la persona con cui passare il resto della tua vita. Insomma, di solito dovrebbe funzionare così.»
    «Già... ma non è quella l'unica volta che se n'è andata» sospira, voltandosi di nuovo verso di me. «Successe di nuovo, un paio di settimane dopo la tua nascita. Un mattino mi svegliai, e lei non c'era. La tua culla era accanto al letto, e c'era un biglietto appoggiato sulla copertina. Diceva di aver bisogno di tempo per riflettere. Tornò dopo quattro giorni, scusandosi per essere fuggita a quel modo. Disse che gli eventi l'avevano travolta, che temeva di non essere adatta a fare la madre, che temeva di commettere degli sbagli... e io la perdonai. Te l'ho detto, non sono mai riuscito a negarle nulla.»
    «Perché non me lo hai mai detto?» sussurro, rendendomi conto che è la seconda volta che gli pongo questa domanda nel volgere di poco più di mezz'ora. «Avresti dovuto dirmelo.»
    «Cos'avrei dovuto dirti? E quando avrei dovuto dirtelo? Quando mi chiese il divorzio? Avrei dovuto prendere da parte una bambina di otto anni e dirle "Non ti preoccupare, tua madre è emozionalmente instabile, ti ha già abbandonata una volta, ma forse tornerà?"»
    «No, ma...» inizio a protestare, intimandomi il silenzio dopo un attimo. Mio padre ha ragione: come avrebbe mai potuto darmi una simile notizia, a qualunque età, senza causarmi un enorme trauma emozionale? La sua rivelazione riesce a destabilizzarmi anche adesso che ho più di ventitré anni e, si suppone, una psiche stabile – di sicuro non avrei potuto prenderla meglio, in passato. «Ora capisco perché sono sempre stata sentimentalmente incasinata. Deve essere genetico.»
    «Non sei sentimentalmente incasinata, Daria. Tu non hai mai voltato le spalle alle persone che amavi.» Abbasso lo sguardo, sentendomi ancora peggio – se solo sapesse che anch'io, come mia madre, ho ferito una persona importante, forse non sarebbe altrettanto gentile con me.


*



Los Angeles, 18 gennaio 2014


    Entro in casa poco dopo le dieci di sera, e la prima cosa che faccio è prendere un respiro profondo, lasciando che l'odore di casa penetri fino in fondo ai miei polmoni, donandomi quella tranquillità che non avrei mai potuto provare in giro per il mondo. Appoggio il borsone a terra, di fianco al divano, e non appena mi richiudo la porta alle spalle sento abbaiare. Dalla stanza accanto arriva di corsa Bruce, la lingua penzoloni e la cosa scodinzolante. Cado subito in ginocchio per rispondere alle sue manifestazioni d'affetto, e nel frattempo mia madre esce dalla cucina, pulendosi le mani con uno strofinaccio. «Finalmente! Non vedevo l'ora che arrivassi. Non riuscivo più a tenerlo calmo.»
    Mi alzo, vincendo le resistenze di Bruce, che mi vorrebbe tutto per sé, e abbraccio mia madre come se non la vedessi da un paio di secoli, e non soltanto da un paio di settimane. «Ciao, mamma. Ma che ci fai qui?»
    «Cosa credevi, che Jared non mi avrebbe avvertito? Mi ha chiamata nel primo pomeriggio, così ho avuto il tempo di farti un po' di spesa e cucinarti qualcosa. Chissà come mangiate, con i ritmi che avete...» Mi allontana un po', scrutandomi come se stesse cercando di appendere un quadro alla parete. «Comunque non è ancora pronto, hai il tempo di farti una doccia e metterti comodo.»
    «Veramente non ho molto appetito. Pensavo di fare una doccia e mettermi a letto.»
    «E lasceresti cenare tua madre sola come un cane? Anzi, con un cane?» Mi rivolge una delle espressioni più severe del suo repertorio, e comprendo di non avere scelta. «Forza, sistemati e poi torna qui. Così mi racconti qualcosa del Messico e del Brasile.»



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Torino, 18 gennaio 2014


    Tornato a casa, dopo una lunga doccia calda che lo aiuta a distendere i muscoli e a cancellare un po' di stanchezza, Marco si relega in un angolo del trilocale che sovrasta la libreria, e che affitta da quando ha deciso di aprire quel tipo di attività. Riordina una parte delle carte che occupano la scrivania, divide le bollette in base alla scadenza, aggiorna i registri contabili e ricontrolla gli ordini per i fornitori, poi si dedica alle buste paga – non che portino molto lavoro, visto che ormai c'è da preparare soltanto quella di Daria. Sa che dovrebbe concentrarsi sul lavoro, perché con le questioni di soldi non si è mai abbastanza tranquilli, ma quando legge il suo nome in cima al foglio gli è inevitabile perdersi nel ricordo della notte appena trascorsa – le mani che si sfiorano, i respiri affannosi, i battiti accelerati, i baci appassionati, la pelle bianca di Daria arrossata dal contatto con la sua barba, quel tatuaggio di cui non ha osato chiedere il significato, ma che ha intuito essere importante, impresso come un marchio su un corpo che ha desiderato per anni, e che ora finalmente può essere suo.
    Eppure, questo Marco lo sente, c'è qualcosa che Daria non gli ha detto – qualcosa che le brucia ancora dentro, qualcosa che arde come un fuoco e le impedisce di lasciarsi andare completamente. Avrebbe voluto chiederle quanto tempo sia passato da quando ha spezzato il cuore a quel ragazzo con cui diceva di stare così bene, ma non se l'è sentita di turbare oltre la sua serenità. Avrebbe voluto chiederle quanto tempo sia passato da quello strappo, e se non sia rimasta ferita anche lei nell'andarsene, e soprattutto se la ferita abbia avuto il tempo di cicatrizzare. Per quanto gli piaccia cullarsi nell'idea di essere l'unico, ha vissuto abbastanza a lungo da sapere che certi amori te li puoi togliere dalla vista, puoi strapparli via dalle cornici, ma non puoi sradicarli dal cuore.



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Los Angeles, 18 gennaio 2014


    Constance mangia lentamente, tenendo un occhio sul piatto e l'altro sul figlio maggiore, che muove il cucchiaio alla sua stessa velocità, come se l'idea di nutrirsi fosse una costrizione, e non un atto naturale. Ha pensato per tutto il pomeriggio alle parole che avrebbe detto una volta rimasta sola con lui, aiutata da ciò che Jared ha ritenuto necessario farle sapere, eppure ora che si trovano insieme tutte le parole sembrano superflue, inutili, a tratti quasi banali. «Allora» dice infine, sperando di risollevare un po' l'umore della cena, «questi ultimi concerti sono andati bene, mi sembra. Ho curiosato un po' sul profilo Instagram di tuo fratello» ammette, riuscendo a strappargli un breve sorriso.
    «Sì, da quel punto di vista è molto più attivo di me. A volte non so davvero dove trovi le energie per fare tutto quello che fa. Una persona normale scoppierebbe, raggiunto un certo livello.»
    «Jay ha sempre avuto una dose spropositata di energie, fin da bambino» commenta lei. «A volte mi sorprendo a chiedermi se sia davvero uscito da me» scherza.
    «Credo sia un dubbio solo tuo. Chiunque vi vedesse insieme non potrebbe pensare che non siate parenti, siete praticamente identici. Anche se tu sei molto più carina di lui» aggiunge dopo un attimo di silenzio.
    «Grazie per il complimento. Ad una vecchia signora fa bene sentire questo genere di cose, di tanto in tanto.» Distoglie per un attimo lo sguardo da Shannon e lo dirige verso Bruce, che sta mangiando con molto più gusto del suo padrone. «Lo sai, non mi è mai piaciuto fare la mamma invadente, ma... c'è qualcosa di cui mi vorresti parlare?»
    Shannon appoggia la forchetta, spinge un po' in avanti il piatto e incrocia le braccia sul tavolo, senza riuscire a guardarla negli occhi. «Jay non si è limitato a dirti che stavo per tornare a casa, vero?»
    «No» ammette lei, sapendo che mentire sarebbe inutile. In quella famiglia si conoscono bene, forse persino troppo, e ognuno dei tre riuscirebbe a smascherare le bugie degli altri anche al buio, bendato e con le mani legate dietro la schiena. «Mi ha detto che sei piuttosto giù di morale, e che ieri sera...»
    «...mi sono ubriacato, ho fatto baldoria con una brasiliana sconosciuta e oggi non mi ricordo niente.»
    «Non con gli stessi termini, ma l'idea era quella. Mi ha anche parlato di una canzone che ha scritto e che tu avresti strappato.»
    «Risparmiati il condizionale, perché l'ho fatto. È vero. Lui ha scritto una canzone e io ho strappato lo spartito. Ero arrabbiato, non sono riuscito a controllarmi. So che non è una scusante, ma... ho perso il controllo, tutto qui. Me ne sono pentito subito dopo, ma non sono riuscito a tornare indietro a chiedere scusa. Perciò ho preso un taxi, sono andato in un locale, e il resto lo sai. Comunque gli ho chiesto scusa, poco prima di partire. E lui ha detto di avermi perdonato, perciò credo che la questione sia chiusa.»
    «Shannon, probabilmente risponderai che non sono affari miei, però... io non credo che la questione sia chiusa. Va bene, hai sbagliato e ti sei scusato, però non hai risolto i problemi che stanno alla radice del tuo comportamento. Non era la prima volta che tuo fratello scriveva una canzone, dunque non è l'atto in sé ad averti sconvolto. Che cosa ti ha fatto perdere il controllo al punto di distruggere lo spartito?»
    Shannon vorrebbe rispondere che no, non sono affari suoi, né suoi né di nessun altro, ma d'altra parte è sua madre quella seduta all'altro capo del tavolo, e con lei ha sempre potuto parlare di ogni cosa. «Ha scritto una canzone su di me. Su Daria e me, per essere precisi. Ha scritto una canzone che parla della nostra storia, dal momento in cui ci siamo conosciuti fino a... fino a oltre la fine della nostra storia. Quello che più mi ha fatto incazzare è il fatto che l'abbia scritta nonostante io stia cercando di dimenticare. Insomma, lui... lui sapeva che io non volevo più pensare a quella storia, eppure ha deciso ugualmente di scriverla, e... ora conosco le sue ragioni, e capisco che non lo ha fatto per farmi del male. Ferirmi è l'ultimo dei suoi obiettivi.»
    «Shannon» sussurra Constance, guardandolo con aria confusa, «ma perché vuoi dimenticare?»
    «Dimenticare non fa male» risponde lui, restituendo lo sguardo. «Almeno finché non ti ricordi quello che stai cercando di dimenticare.»



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Torino, 18 gennaio 2014


    Daria non è serena, anche un cieco lo capirebbe. Danilo sa di non essere mai stato un asso nel capire le persone – con le donne, poi, non ne parliamo –, ma ci sono segnali che nessun padre riuscirebbe ad ignorare. Daria nasconde qualcosa, un tarlo che la divora dall'interno e cancella dal suo volto ogni traccia della ragazzina serena che è stata – e no, Danilo sa che non è soltanto la storia di Elisa che si è rifatta viva dopo quindici anni. C'è qualcosa di più, ci deve essere per forza – qualcosa di cui non ha intenzione di parlare con lui, forse pensando che lui non capirebbe. È quasi automatico pensare che si tratti di questioni di cuore, perché quelle rappresentano l'unico argomento cui non hanno mai osato avvicinarsi – di quelle ha sempre e solo parlato con la zia, o con la nonna, oppure con Alice. Perché lei e Alice si raccontano tutto, lo sa. Il ricordo di certe lunghissime telefonate – e delle conseguenti lunghissime bollette – è ancora ben scolpito nella sua memoria, e sa che se volesse sapere qualcosa è verso Alice che dovrebbe rivolgere le sue attenzioni. Certo, non è sicuro che Alice vuoterebbe il sacco, perché sa quanto sono leali l'una verso l'altra, come due vere sorelle.
    Mentre la guarda indossare il cappotto, prendere la borsa e uscire, lasciandolo di nuovo solo, Danilo ripensa a quel biglietto ferroviario con la data sbagliata, e si chiede se quel mistero non abbia a che fare con l'umore di sua figlia, che da quando è tornata da Parigi ha sempre l'aria un po' distratta di chi abbia dimenticato da qualche parte un pezzo del proprio cuore. Lascia perdere per un istante il proprio lavoro, e si domanda se sarebbe opportuno bussare alla porta di Alice per capire che cosa sia successo alla ragazza che conosceva.


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Los Angeles, 18 gennaio 2014


    «A proposito, un paio d'ore prima che arrivassi è passato un fattorino» mi informa mia madre, caricando la lavastoviglie. «Ha lasciato una busta per te. La ricevuta l'ho firmata io. L'ho lasciata sul tavolino nell'ingresso, dovrebbe essere ancora lì.»
    «Strano, non aspettavo posta» rispondo. Faccio spostare Bruce, che sonnecchia sul mio ventre come se temesse di vedermi di nuovo scappare via, e mi alzo dal divano, raggiungendo l'ingresso. Prendo la busta e me la rigiro tra le mani un paio di volte, chiedendomi che cosa possa contenere. Reca un timbro postale del Brasile e la scritta 'urgente', e a dirla proprio tutta mi confonde non poco. Mi chiedo chi possa avermi spedito qualcosa dal Brasile, soprattutto considerando che sono stato lì fino all'ora di pranzo. Eppure il destinatario e l'indirizzo sono chiari, e scritti con una grafia che mi ricorda parecchio quella di Emma, il che è decisamente... «No, è impossibile» sussurro, accantonando l'idea che mio fratello possa avermi spedito qualcosa dal Brasile. No, è impossibile. Non può aver avuto il tempo materiale di farlo, senza contare che dovrebbe essergli costato una fortuna. Strappo la carta e ne tiro fuori tre pezzi di carta, due dei quali somigliano moltissimo a biglietti aerei. Leggo la destinazione, e per poco non mi viene un infarto. Poi guardo il terzo foglietto, e riconosco immediatamente la grafia spigolosa e affrettata di mio fratello.
    Lentamente, senza dire niente – mi domando se esistano parole per descrivere quello che provo –, torno in cucina e mi lascio cadere su una sedia, continuando a stringere la busta e il suo contenuto con entrambe le mani. «Che cos'è? Brutte notizie?» mi domanda mia madre, sciacquandosi le mani. «Shannon, che succede? Hai una faccia più che sconvolta» aggiunge, voltandosi verso di me.
    «Jared» rispondo, ed è la sola cosa che riesca a dire.
    Le porgo il plico, che lei prende con mano sicura, evidentemente curiosa di scoprire che cosa mi sconvolga tanto. «Non pensavo che la posta aerea fosse tanto cara, ma per questa volta posso fare uno strappo alla mia tirchieria. In fondo, si tratta di te. È un biglietto aperto, puoi usarlo quando vuoi. Solo, ti prego, non fargli fare la fine del mio spartito» legge, sorridendo al pensiero di Jared che si dissangua per far sì che la busta mi arrivi il prima possibile. Poi guarda i biglietti aerei, legge la destinazione e si copre la bocca con la mano libera, reprimendo appena in tempo un gridolino. «Quel ragazzo è completamente fuori di testa» commenta. «Ti ha preso un biglietto per l'Italia?»
    «Non per l'Italia» rispondo, ritrovando improvvisamente un po' di voce. «Un biglietto per Torino


*



Torino, 18 gennaio 2014


    Dal marciapiede opposto fisso le vetrine dello studio di mia madre, respirando lentamente nell'aria fredda di un sabato pomeriggio stranamente affollato di gente a spasso per la città. Respiro a fondo, cercando il coraggio di attraversare la strada ed affrontare di nuovo mia madre, sapendo che questa volta non potrò mandarla al diavolo e andarmene di nuovo. Non posso fare avanti e indietro nella sua vita, darle speranza e poi ricacciarla nell'oblio, perché nessuno merita di essere preso e lasciato a questo modo. Questa volta dovrò andare fino in fondo, ascoltare le sue ragioni, se possibile comprenderle, e soprattutto dovrò riuscire a farle capire quali siano i miei sentimenti. Ma è difficile, terribilmente difficile.
    Finalmente, dopo quelli che forse sono dieci minuti, o forse quasi una vita, attraverso la strada e mi fiondo subito verso la porta, aprendola con una spinta decisa. Ho appena il tempo di pulirmi gli stivali sullo zerbino, che subito il mio respiro si blocca e il mio cervello si convince di essere preda di una visione, perché mi sembra di vedere, nascosto dietro un libro grande quasi il doppio di lui, la versione undicenne di Emanuele. Ma sono più che sicura di non chiamarmi Marty McFly, di non possedere una DeLorean e di non essere in grado di compiere viaggi nel tempo, perciò il ragazzino occhialuto seduto in poltrona, raggomitolato dietro un classico di Dickens, deve essere per forza Luca. Il figlio di mia madre. Mio fratello.
    «Buon pomeriggio» esordisce, alzando la testa. «Ha bisogno di aiuto?»
    «I-io... io sto cercando Elisa Maresca, la... la...» Non so bene come definirla: architetto? Arredatrice? Il capo? Di sicuro non posso chiamarla mamma.
    «Sì, è mia mamma. È di là in ufficio, vado a chiamarla.» Detto fatto, si alza e se ne va, lasciandomi sola con un cuore che va a mille all'ora e il respiro ancora più corto della prima volta che mi sono trovata davanti lei.
    «Daria!» esclama lei, raggiungendo l'ingresso, tallonata da lui, che la supera e torna a sedersi in poltrona con il suo libro, come faceva spesso Emanuele alla sua età. «Non... non mi aspettavo di vederti qui.»
    «Sì, è stata una... decisione improvvisa. Diciamo così» mormoro, senza riuscire a staccare gli occhi da Luca, profondamente immerso nella lettura. «Io... io speravo di poterti parlare. Ma se è un brutto momento io... posso ripassare.»
    «No, assolutamente, devi rimanere» ribatte lei. «Possiamo andare di là, nel mio studio. Luca, se hai bisogno di me sono nel mio studio con Daria.»
    «Va bene. È stato un piacere conoscerti, Daria» risponde lui, puntando su di me due occhi dannatamente identici a quelli di mio fratello e di mia madre.
    «A-anche per me» replico, anche se non sono ancora sicura che lo sia stato. Non era certo nei piani venire qui e trovarmi di fronte ad un clone del ragazzino che ho visto crescere, e che dormiva nella stanza accanto.
    Mia madre mi fa strada verso il studio, e la prima cosa che faccio una volta chiusa la porta è appoggiare entrambe le mani allo schienale di una poltroncina, respirando a fondo per impedirmi di svenire. Chiudo gli occhi e conto fino a dieci, poi li riapro e mi rialzo, un po' più calma di prima. «Posso offrirti qualcosa? Un caffè, un tè, un po' d'acqua?» mi domanda mia madre, raggiungendo un angolo attrezzato quanto il bar che di solito frequentiamo io e Alice.
    «No, sono a posto... o forse... magari un po' di tè?» Sono così confusa da non capire nemmeno se abbia voglia di bere qualcosa oppure no. Mi sfilo il cappotto e me lo ripiego tra le braccia, mentre lei inizia a preparare la bevanda.
    «Siediti, non restare in piedi.» Obbedisco, conscia che in questo momento potrebbero anche ordinarmi di lanciarmi giù dalla Mole, e io lo farei senza lamentarmi. Appoggio il cappotto sul bracciolo e mi tengo la borsa in grembo, sapendo di aver bisogno di stringere qualcosa tra le mani per evitare di torturarmi le unghie, come faccio sempre quando sono nervosa – e chi non sarebbe nervoso in un momento del genere? «Sarò sincera: non mi aspettavo di rivederti, dopo quello che è successo la scorsa settimana.»
    «Nemmeno io pensavo che mi sarei rifatta viva» rispondo. «Ma dovevo... non potevo lasciare le cose come stavamo. Dovevo chiederti scusa per quello che ti ho detto. Non meritavi che ti trattassi così male.»
    «Me lo meritavo, invece. Me lo meritavo eccome» replica, voltandosi per un istante a guardarmi. «Ho passato così tanto tempo a pensare a quello che ti avrei detto che... credo di aver dimenticato di pensare a come ti saresti potuta sentire tu. Ho completamente ignorato quelle che avrebbero potuto essere le tue reazioni.»
    «Non posso negare che sia stata una... sorpresa. Ero già abbastanza sconvolta dal fatto di aver rivisto te, e quando mi hai parlato di lui...»
    «Non sono mai stata brava con le parole» ammette. «Era tuo padre quello diplomatico. In realtà è sempre stato un tipo piuttosto taciturno, ma le rare volte in cui apriva bocca... beh, ha sempre saputo che cosa dire e quando dirlo. È una dote da non sottovalutare.»
    «Sì, è una qualità importante. È stato un ottimo padre» aggiungo un istante più tardi, senza comprenderne bene le ragioni. Forse non avrei dovuto sottolineare il fatto che lui sia stato un genitore presente, ma ormai l'ho detto.
    «Non avevo dubbi che lo sarebbe stato. Non ho mai temuto per voi, sapevo che sareste stati bene. Ha sempre avuto... non so, l'istinto? Sapevo che non vi avrebbe mai fatto mancare nulla. Credo... credo di aver sempre pensato che sarebbe stato un genitore migliore di me. Insomma, credo di aver sempre pensato che...»
    «...che non ci fosse bisogno di te?» Vorrei mordermi la lingua all'istante. Oppure avere una DeLorean in grado di viaggiare nel tempo. Sembra che la presenza di mia madre tiri fuori il peggio di me, e la cosa non mi piace per niente. «Scusa. Non volevo essere così stronza.»
    «Mi fa piacere, invece. In fondo, anch'io sono stata una stronza, ed essere trattata come tale è quello che merito. Che ne pensi di Luca?» mi domanda dopo un momento di silenzio, appoggiando sulla scrivania di fronte a me una tazza fumante.
    Mi stringo nelle spalle, mentre aggiungo una bustina di zucchero al tè e mescolo. «Penso che mi è sembrato di tornare indietro nel tempo di dieci anni» sussurro. «Lui è... mi è sembrato di vedere Emanuele. Si somigliano moltissimo, solo... solo i capelli sono diversi. Luca li ha lisci, Emanuele invece è riccio. Però non gli piacciono, li tiene sempre cortissimi. Dice che i ricci gli danno l'aria da intellettuale.»
    «So che ha iniziato l'università» commenta, sedendosi sulla poltroncina accanto. «Ho visto tuo padre, un paio di settimane fa. Mi ha parlato moltissimo di tutti voi, di quello che fate, di come siete...» Giocherella un po' con la bustina che galleggia nella sua tazza, senza dire niente. «Mi ha detto che Francesca studia al liceo artistico, e che ha un ragazzo. È un tipo a posto?»
    «Sì, è un bravo ragazzo. Stanno insieme da quasi un anno, ma lei non ci ha detto niente fino a novembre. Comunque non la distoglie dallo studio. L'arte è tutta la sua vita, è bravissima nel disegno.»
    «Mi ha detto che tu invece non hai voluto andare all'università, che hai preferito iniziare a lavorare. È così che ho scoperto della libreria. Non avevo idea di come trovarti, a meno di appostarmi sotto casa vostra.»
    «Non mi avresti trovata. Mi sono trasferita all'inizio di novembre. Era ora di andare a vivere da sola.»
    «Continuo a dimenticare che non hai più otto anni.»
    «No, infatti. Non ho più otto anni, Emanuele non ne ha più quattro e Francesca non è più una neonata. Siamo cresciuti. Siamo cambiati
    «Sarebbe stupido pensare che non lo siate» osserva. «So quanti anni sono passati. Ti sembrerà strano sentirmelo dire, ma ho contato ogni singolo giorno da quando me ne sono andata.»
    «Papà mi ha raccontato tutto» replico. «Di quando sei scappata, qualche giorno prima del matrimonio. E di quando te ne sei andata, poco dopo la mia nascita. Perché l'ultima volta non sei tornata?»
    «Non ho una spiegazione decente, purtroppo. Potrei usare milioni di frasi, ma temo che nessuna ti basterebbe. A volte è difficile chiedere scusa senza ricorrere ad un cliché. E se somigli anche solo un po' a tuo padre, scommetto che i cliché li detesti.»
    «Detesto chi li usa per evitarsi la fatica di esprimere un pensiero un po' più complesso» specifico. «Ma so che a volte non esiste davvero un altro modo per esprimere quello che si ha dentro.»
    «Non ero felice» confessa infine. «Oh, tuo padre era un marito stupendo, e adoravo tutti voi, però... non lo so, non riuscivo a sentirmi completa. Ti è mai successo di avere tutto ciò che desideri, ma di non riuscire a gioirne?» Non rispondo, ma capisco perfettamente ciò che sta cercando di comunicarmi. «Avere una famiglia è sempre stato uno dei miei più grandi desideri, però non riuscivo ad arrendermi all'idea di non aver mai tentato altre strade. C'erano delle cose che avrei voluto fare, dei posti che avrei voluto vedere, e... e sentivo che se non avessi ceduto a quei desideri non avrei mai potuto sentirmi in pace con me stessa. Mi sono svegliata, una mattina, e avevo trentadue anni. Facevo la casalinga e avevo tre bambini. Facevo la spesa, tenevo in ordine la casa, preparavo la cena e vi portavo a scuola, ma non riuscivo a credere che la vita fosse tutta lì. Credo di essere sempre stata una persona molto egoista.»
    «Credo che tutti siamo un po' egoisti, in fondo.»
    «Non c'è nulla di male nell'essere egoisti, se la cosa non ferisce le persone che hai intorno. Ma io vi ho feriti, lo so. Ho ferito tuo padre, ho ferito tuo fratello e tua sorella, e soprattutto ho ferito te. Mi rendo conto che probabilmente Emanuele e Francesca hanno pochissimi ricordi di me, ma tu... non posso credere di non averti rovinato l'infanzia, lasciandoti.»
    Vorrei rispondere che non è solo l'infanzia che mi ha frantumato, ma decido di tenere per me questa ennesima cattiveria. «Dove sei stata in tutti questi anni?»
    «Mi sono iscritta all'università, subito dopo essermene andata» risponde. «Ho ripreso da dove mi ero interrotta, e poi sono stata negli Stati Uniti per seguire dei corsi di architettura. Ho lavorato per alcuni studi di arredamento a New York e Boston, e quando sono tornata qui ho aperto il mio studio. All'inizio è stato difficile, ma ora le cose si sono sistemate. Ho un buon giro d'affari, e non me la passo male.»
    «E... quando ti sei sposata?»
    «Alla fine del 2002, quattro anni dopo aver lasciato tuo padre. Lui era un mio ex docente, aveva dieci anni più di me. Un uomo brillante, intelligente, che credeva nelle mie possibilità e non faceva che spingermi a realizzare i miei progetti.»
    «Il contrario di papà, suppongo.»
    «Anche tuo padre mi ha sempre supportata in tutti i miei progetti» mi corregge. «Il fatto che io mi sia creata una carriera soltanto dopo il divorzio non significa che lui mi tarpasse le ali. Anzi, tutto il contrario. Ancora oggi non riesco a capire perché sia riuscita a seguire il mio cuore soltanto quando sono rimasta sola.»
    «E... tuo marito sa di noi?»
    «No. Non gli ho mai detto nulla. Gli ho detto che ero divorziata, ma non gli ho mai detto di avere già tre figli. Avrebbe pensato che ero un mostro, e io non volevo perderlo. Tenevo moltissimo a lui.»
    Improvvisamente, mi accorgo che ha sempre parlato di lui al passato, e mi viene voglia di sapere il perché. «Perché parli di lui al passato?»
    «Perché... lui è morto. Sarà un anno alla fine di febbraio. Un incidente d'auto, non ha avuto scampo. Non aveva ancora compiuto sessant'anni.» D'istinto mi volto verso la porta, pensando al ragazzino seduto nell'ingresso a leggere Oliver Twist, e non posso impedirmi di provare per lui una profonda pena – perché è vero, anch'io ho perso un genitore, ma ho ancora la possibilità di tentare un riavvicinamento, mentre lui non potrà mai. «L'ha superata abbastanza bene, tutto considerato. Luca adorava Giovanni, lo prendeva a modello per ogni singola cosa» osserva, notando la direzione del mio sguardo, mentre i suoi occhi si fanno lucidi di lacrime. «La sua è un'età molto critica, ma lui... beh, è un bambino molto intelligente, per la sua età. A scuola non ha vita facile, spesso i compagni lo prendono in giro perché gli piace studiare e... beh, lo vedi. Sfrutta ogni momento libero per leggere.»
    «Come Emanuele» sussurro.
    «Come te» aggiunge lei, sorridendo di nuovo. «Sono mesi che penso ad un modo per contattarti, ma... non riuscivo a decidermi. Mi sembrava assurdo ricomparire dopo tanto tempo e avanzare la pretesa di essere riaccolta nella vostra vita, o addirittura la pretesa di... farvi accogliere lui.» Si interrompe di nuovo, ma comprendendo che ha altro da dire decido di tacere. «Giovanni aveva perso i suoi genitori già da molto tempo, e anche i miei sono morti.»
    «I nonni sono morti?» ripeto, senza riuscire a credere alle mie orecchie.
    «Il nonno è morto nel 2000. Ha avuto un infarto. La nonna è mancata tre anni dopo. Un tumore al pancreas, se n'è andata in fretta. Mio fratello ormai vive in Francia, si è sposato e ha tre bambini. Viene a trovarci una volta l'anno. Ormai la sua vita è laggiù, con Torino non ha più legami. Siamo rimasti soltanto io e Luca, e... a volte credo che questo non gli basti. Io posso sopportare la solitudine, in un certo senso me la merito, ma lui... non posso sopportare l'idea che possa succedermi qualcosa e...» Nasconde il viso tra le mani, e capisco che la sua disperazione è sincera. È una paura che io non ho mai provato, perché sono certa che se succedesse qualcosa ad uno qualunque di noi, ci sarebbero sempre almeno tre persone pronte a correre in soccorso. «Mi rendo conto che forse è tardi, ma io vorrei... vorrei che lo conosceste. Che tutti lo conosceste. Non voglio essere perdonata, non voglio che ricominciate a chiamarmi mamma, o che mi invitiate alle feste di famiglia... ma vorrei almeno che provaste a conoscere lui. A volergli bene, se ci riuscite. Voglio disperatamente che abbia qualcuno su cui contare.»
    Apro e richiudo la bocca un paio di volte, senza emettere suono. La risposta più logica sarebbe mandarla di nuovo al diavolo, uscire, tornare a casa e dimenticare di averle parlato, ma non posso mettere a tacere il cuore di madre che ho sviluppato in mancanza di una madre vera – non posso negare a quel bambino, più simile a me di quanto avrei mai potuto immaginare, la certezza di avere una persona pronta a tendergli la mano.



1Questi eravamo noi una volta. Stava piovendo, e i miei erano usciti in macchina. Ai tuoi cos'è successo? La notte ti sento piangere. Sogni i tuoi genitori? È per questo che distruggi tutto, e mi spingi? | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Lilo nel film d'animazione Lilo & Stitch (2002).

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Capitolo 11
*** 11 | Se nessuno ti vede, allora nessuno sa. ***


La lunga strada verso casa - 1
Ho pensato a lungo ad un'introduzione degna di questo nome, ma la verità è che questa volta non credo di avere le parole giuste per introdurre ciò che state per leggere. Dunque, vi auguro una buona lettura e mi eclisso.
A presto,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo undicesimo
Se nessuno ti vede, allora nessuno sa.1


Torino, 24 gennaio 2014


    Sono passati sei giorni da quando mi sono rinchiusa con mia madre nel suo studio – sei giorni da quando mi ha chiesto di far entrare nella mia vita Luca, un fratello di undici anni di cui fino ad un paio di settimane fa non sospettavo nemmeno l'esistenza. Sono stati i sei giorni più lunghi della mia vita – una settimana durante la quale ho visitato lo studio del dottor Martini per quattro volte, stordendolo più del normale con i miei dubbi e le mie continue richieste di consigli. Non ho parlato con nessun altro – né con mio padre, né con Alice, né con Marco –, pensando di poter risolvere questa cosa da sola. In fondo, è a me che mia madre si è rivolta, e anche se non lo ha detto chiaramente so che il mio parere è quello che conta di più, e che non parlerà mai più della questione, a meno di non avere il mio benestare.
    Ci sono momenti in cui vorrei tornare da lei e dirle che non può farmi questo, che non può farsi viva dopo quindici anni e mettermi sulle spalle il peso di una decisione così importante, ma d'altro canto sento di non potermi tirare indietro: sono adulta e mi sono sempre vantata di essere una persona matura, e rifiutare questa responsabilità andrebbe contro quello che ho sempre pensato di me stessa – e se c'è una cosa che non sono pronta a fare, è rinnegare ciò che sono.
    Perciò declino l'offerta di Marco di passare il venerdì sera con lui, e appena uscita dal lavoro vado dritta allo studio di mia madre, sicura che sia ancora lì. Mi trovo di fronte Anna, la sua assistente, che evidentemente si sta preparando per uscire. «Buonasera» mi saluta con aria sorpresa, forse pensando di aver dimenticato un appuntamento.
    «Buonasera. Ho chiamato prima la signora Maresca, mi sta aspettando» rispondo, togliendomi il cappello.
    Per fortuna arriva mia madre a salvarmi dall'imbarazzo di spiegare la mia presenza. «Daria! Ciao, come stai? Anna, puoi andare. Qui me la sbrigo io.» Vorrei rispondere a quel 'me la sbrigo' con una bella imprecazione, ma mi trattengo in tempo. Salutiamo entrambe Anna, e finché non siamo certe di essere sole non diciamo un'altra parola. «Sei pronta? Possiamo andare?» Annuisco, rimettendomi il cappello. Aspetto che infili il cappotto e spenga le luci, e la precedo fuori dallo studio.
    La vera ragione per cui ho rifiutato di uscire con Marco è che stasera ho accettato un invito a cena a casa di mia madre – cena durante la quale diremo a Luca la verità.


*



Los Angeles, 24 gennaio 2014


    I miei primi sei giorni a Los Angeles sono passati in maniera piuttosto monotona: ho dormito molto, mi sono alzato tardi, ho portato Bruce a fare lunghe corse in spiaggia, mi sono chiuso nel mio studio a picchiare sui tamburi come un ossesso, ho ignorato le e-mail di mio fratello e ho risposto alle telefonate di mia madre soltanto per evitare che piombasse qui ringhiandomi contro di essere un figlio degenere. I biglietti aerei sono sempre rimasti sul tavolo della cucina, in piena vista, eppure stranamente lontani, come se non li sentissi veramente miei, come se in un certo senso percepissi la loro presenza, ma rifiutassi categoricamente la loro esistenza.
    Sei giorni dopo il mio ritorno, una scampanellata interrompe le mie sessioni di prova. Dapprima penso sia mia madre, ma quando apro la porta mi ritrovo davanti la faccia decisamente arrabbiata di Wayne. «Brutto stronzo, me lo potevi anche dire che sei tornato! Sparisci per quasi un mese e devo saperlo dall'account Instagram di Jared che avete interrotto il tour» mi aggredisce, entrando senza aspettare un mio cenno di permesso. «Così che faccio? Chiamo tuo fratello per sapere perché non rispondi ai messaggi, e lui mi dice che sei qui da una settimana! Una settimana, capisci? Uno pensa di avere un migliore amico, si confida con lui a proposito di qualunque cosa, gli chiede di fare da padrino al figlio, e quello nemmeno si degna di rispondergli al telefono!»
    «Scusa, Wayne, riconosco di essere stato uno stronzo» replico, chiudendo la porta. «Sono tornato la sera del diciotto, ma non ero esattamente in vena di vedere gente. Avevo bisogno di starmene un po' da solo.»
    «Sì, tuo fratello mi ha detto tutto.»
    «Cosa?» Ho sempre saputo che mio fratello ha la lingua lunga, quando si tratta degli affari altrui, ma mi auguravo che almeno nei confronti di suo fratello riuscisse a mantenere un minimo di decenza.
    «Mi ha detto che non ti sei sentito bene, mentre eri in Brasile, e che hai preferito saltare l'ultimo concerto e gli ultimi impegni. Cavolo, quando ho visto che non rispondevi al telefono ho pensato fossi morto! Oh, ciao, bello» aggiunge, salutando Bruce, che gli si è avvicinato e ha iniziato ad annusarlo. «No, oggi niente Ryder. Oggi Ashley è a casa, tocca a lei badare al terremoto» spiega, e in tutta sincerità non riesco a capire se stia parlando con me oppure con il mio cane. «Allora, mi spieghi che è successo? L'unica volta che ti ho visto saltare un concerto è stato quando ti sei preso l'influenza. Avevi la febbre a quaranta e non riuscivi a stare seduto sul seggiolino.»
    «Ti va un caffè?» gli domando, spostandomi verso la cucina.
    «Se mi offri un caffè, vuol dire che la cosa andrà per le lunghe» osserva. «Devo chiedere ad Ashley di non aspettarmi per cena?» Mi segue, e subito nota i biglietti. «Vai da qualche... oh, Italia! No, aspetta: Italia? Vai in Italia?»
    «Mio fratello vuole che vada in Italia» specifico, riempiendo due tazze. Gliene porgo una. «Credo sia convinto che li userò.»
    «E tu non hai intenzione di farlo?»
    «Tu lo faresti?»
    «Beh, se a destinazione mi aspettasse una bella ragazzina di cui sono pazzamente innamorato, forse ci farei un pensierino.»
    «Non sono pazzamente innamorato di nessuna bella ragazzina. Ho deciso di dimenticarla.»
    «Questo perché sei un idiota.»
    «Perché non vi entra in testa che è stata lei a chiedermi di starle lontano?» ribatto, iniziando ad alterarmi. Sembra che intorno a me tutti siano convinti di possedere il consiglio giusto, senza preoccuparsi minimamente di quali potrebbero essere le mie idee al riguardo.
    «Forse perché tu non hai mai fatto ciò che gli altri ti imponevano di fare?» replica. «A parte tua madre. Lei potrebbe ordinarti di gettarti nel Grand Canyon, e non proveresti nemmeno a protestare. Senti, Shannon» riprende, facendosi serio, «so che sei un uomo adulto e che non sopporti che la gente venga a dirti come devi vivere la tua vita. È nella natura di ogni uomo lottare per conservare la propria indipendenza, e se tu fossi una di quelle persone che si fanno comandare a bacchetta dagli altri ti direi di darti una svegliata, però...»
    «Però?» lo incalzo, rimanendo ancorato al bancone della cucina, mentre lui si siede a tavola e tiene lo sguardo fisso sulla busta con i biglietti.
    «Però le persone che ti vogliono bene si accorgono che non stai bene, che non sei... in pace. Ed è nella natura di ogni uomo tentare il tutto per tutto per far stare meglio le persone che si amano. Se Jared ti ha dato questi biglietti, forse è perché crede che andare in Italia e affrontare la questione faccia a faccia ti farebbe stare meglio. Insomma, se lei ti sbatte la porta in faccia non hai scelta, la chiudi fuori dalla tua vita e basta. Ma se esiste anche una piccolissima possibilità che lei ti riprenda...»
    «Non sono stato io a lasciarla sola in una stanza d'albergo con una lettera e un libro. Non sono io quello che deve implorare di essere ripreso
    «Ma nemmeno lei dovrebbe implorare, dico bene?» mi domanda con un sorriso che conosco bene. «Va bene, va bene, riformuliamo la frase. Lei ti ha lasciato solo, spezzandoti il cuore. Ma sono passati due mesi. Chi ti dice che in tutto questo tempo lei non abbia cambiato idea? Forse anche tu le manchi quanto lei manca a te.»
    «Chi dice che mi manca?»
    «Shannon, la tua intera persona urla 'Mi manca la mia bella ragazzina italiana'. Altrimenti non conserveresti ancora la sua lettera d'addio, e staresti già occupando il tuo tempo libero saltando da un letto all'altro in giro per la città.»
    Mi brucia doverlo ammettere, ma Wayne ha ragione: se Daria non mi mancasse, nel cassetto del mio comodino non conserverei ancora la sua collana, quel semplice bullone legato ad un cordoncino di cuoio. E non ci sarebbe ancora la sua foto nella memoria del mio telefono. E non me starei buttato sul divano, la sera, strimpellando la chitarra e ripassando ogni singola parola del suo addio. «Certo che mi manca» cedo infine. «Soltanto un po'. Abbiamo passato dei momenti speciali, insieme» aggiungo, ripensando ai film visti insieme nel suo appartamento, e al mattino in cui le ho portato la colazione a letto, e alla cena sul battello. «Certi momenti non li puoi cancellare con un colpo di spugna, loro ti... ti restano per sempre, in un certo senso.»
    «Nessun uomo potrebbe dimenticare gli istanti in cui è stato davvero felice. Nessuno, nemmeno il più insensibile del mondo. Nemmeno io riesco a dimenticare i momenti speciali che ho passato con Ashley. E lo sai, io non sono un campione di sensibilità.» Taccio, sorseggiando il mio caffè, e lui si sente in dovere di rincarare la dose, come se già non mi sentissi confuso. «Se sono passati due mesi e ancora non riesci a togliertela dalla testa, significa che ormai è finita un po' più in basso. E non parlo delle tue mutande» aggiunge. Tipico di Wayne, rovinare una frase potenzialmente poetica con una battuta di dubbio gusto. Ma nonostante la caduta di stile, mi rendo conto che ha ragione: il fatto che due mesi non siano bastati a dimenticare gli angoli di felicità rubati alla frenesia delle nostre vite forse significa che quei momenti non possono essere messi in soffita ad ammuffire come vecchi quaderni. Forse dovrei davvero fare un tentativo: forse dovrei mettere un cambio nella borsa, afferrare quei biglietti e chiamare un taxi per l'aeroporto. O forse dovrei smettere di pensare che le idee degli altri siano sempre migliori delle mie.


*



Torino, 24 gennaio 2014


    Entriamo in un elegante palazzo del centro, e non appena supero la soglia dell'appartamento capisco che mio fratello è cresciuto in un ambiente completamente diverso dal mio – vedo montagne di libri, tutto ciò che io ho sempre desiderato, ma la mancanza di calore umano si percepisce senza difficoltà. «Ciao, mamma!» saluta Luca, facendo capolino dalla cucina.
    «Ciao, Luca. Questa è Daria. Te la ricordi, vero? Ti avevo detto che sarebbe venuta a cena da noi. Dammi il cappotto, lo appendo all'ingresso» aggiunge, rivolgendosi a me.
    Le porgo il cappotto e la borsa, e resto ferma al centro del salotto, senza sapere bene dove fissare lo sguardo – vorrei studiare meglio la fisionomia di Luca, ma so che sarebbe impossibile farlo senza convincerlo che sono una maniaca. «Ciao, Luca» lo saluto infine. «Bella casa. Molto più ordinata della mia.»
    «Sì, è merito della signora Corelli, che viene a fare le pulizie. Mamma è molto disordinata.»
    «Sono una donna che lavora, piccolo impertinente» lo sgrida lei, mantenendo il sorriso sul volto. «La signora Corelli è già andata via?»
    «Saranno dieci minuti. Ha fatto le lasagne, ti ha lasciato un biglietto sul forno. La signora Corelli è una specie di governante» mi spiega poi. «Fa le pulizie, cucina e viene a prendermi a scuola. E mi controlla quando non vado da mamma allo studio. Ma non è una babysitter, potrei stare benissimo da solo.»
    «Ne sono sicura» rispondo con un sorriso, ricordando le analoghe proteste di Emanuele, quando mia nonna ci piantonava come un efficientissimo carabiniere anche quando non ce n'era bisogno. «Passavo le stesse cose con mia nonna» aggiungo.
    «Io purtroppo i nonni non ce li ho più, sono morti quando ero piccolo. Non so se mamma te l'ha detto, ma non ho più nemmeno il papà. È morto l'anno scorso, ha avuto un incidente d'auto.»
    «Sì, me ne ha parlato, e mi dispiace davvero molto. A me non è successo, ma so cosa si prova quando devi separarti da una persona a cui tenevi molto.»
    Annuisce, senza dire altro, mentre nostra madre ci richiama in cucina e ci ordina di metterci a tavola.


    Danilo consulta la propria agendina per essere certo di essere nel posto giusto, prima di suonare il campanello – tempo fa Daria gli ha fornito tutti i contatti di Alice, per qualche motivo che ancora non riesce a decifrare. Per quanto lo ritenga impossibile, non può negare che lo abbia sfiorato l'idea che Daria gli abbia fornito tali strumenti in previsione di una simile situazione, che gli abbia dato il numero e l'indirizzo di Alice perché sapeva che un giorno avrebbe avuto un motivo per cercarla.
    Per fortuna è lei ad aprire, anche perché non avrebbe proprio saputo come affrontare una studentessa universitaria. «Signor Giordano?» lo accoglie, spalancando gli occhi e la porta. «Non è successo niente, vero? Daria sta bene?»
    «No, Daria sta benissimo, e... per te sono Danilo, lo sai.» Si conoscono da anni, ma lei continua a trattarlo come se fosse un estraneo, e non è mai riuscito a capire perché. «Posso... posso parlare un attimo con te?»
    «Ma certo, venga... vieni dentro» si corregge, scostandosi per lasciarlo passare.
    Si lascia guidare fino alla sua camera, mentre dalla cucina sente arrivare le occhiate curiose delle due coinquiline, che sicuramente si stanno chiedendo che cosa ci faccia un uomo della sua età in un posto del genere. «Sai, c'è una cosa che non ho mai capito» esordisce, entrando in una stanza molto simile a quella di Francesca, con le pareti coperte di poster di cantanti e vestiti appesi ovunque. «Sei di Torino, allora perché da quando studi ti sei trasferita in un appartamento con altre ragazze? Insomma, perché pagare l'affitto se...»
    «Oh, non pago l'affitto» lo interrompe. «L'appartamento è dei miei nonni, e volevano essere sicuri che in casa ci fossero persone affidabili. Perciò mi sono trasferita qui per controllare che non ci siano problemi. Dà loro sicurezza, e allora mi adeguo. Naturalmente ogni tanto torno a casa, altrimenti mia madre morirebbe» conclude con un sorriso. «Prego» aggiunge, indicandogli una sedia. «Di che cosa mi doveva... dovevi parlare?»
    «Voglio parlare di Daria. So che a te racconta anche quante volte va in bagno, e ci sono delle cose che ho bisogno di sapere.»
    «Va bene» sospira lei, sedendosi a gambe incrociate sul letto. «Naturalmente ci sono domande a cui non risponderò nemmeno sotto tortura.»
    Danilo si lascia sfuggire un sorriso, pensando che è proprio questo il genere di persone che gli piace: quelle che mettono subito le cose in chiaro, senza inutili giri di parole. Lui stesso è un uomo di poche parole, ed è felice di trovare, di quando in quando, un'anima affine. «Quando è tornata da Parigi?»
    «Il trenta novembre» risponde pronta lei, come se stesse ripetendo una lezioncina imparata a memoria per l'occasione.
    «Va bene. Quando è tornata davvero da Parigi?» A quel punto Alice arrossisce fino alla punta dei capelli, e Danilo sa di aver fatto centro. «Sono stato nel suo appartamento per una riparazione, e ho visto un biglietto ferroviario con la data del ventotto. Ora, ammetto di non sapere il francese, ma sono abbastanza sicuro di aver capito cosa significava quella data.»
    «Il ventotto» sussurra lei. «Daria è tornata il ventotto.»
    «Va bene. E perché si è data tanta pena per nascondere la vera data del suo ritorno?»
    «Non voleva far preoccupare nessuno. Vedendola tornare in anticipo avreste potuto pensare che ci fosse qualcosa che non andava, e lei non voleva creare confusione.»
    «Beh, ha finito con il crearne comunque. Che cosa è andata a fare a Parigi?» Sapendo di non poter mentire oltre, Alice si trova combattuta tra due fronti: tradire la propria migliore amica, oppure, forse, aiutarla a risolvere i suoi problemi? «Non mi arrabbierò, lo prometto. Voglio solo sapere se è andata a Parigi per lavoro oppure no.» Alice scuote la testa, sentendosi colta in fallo. «Va bene. Che cosa è andata a fare a Parigi?»
    «Beh, lei è... forse è meglio se ti mostro una cosa» si corregge, alzandosi per recuperare una vecchia scatola malconcia da sotto il letto.


*



Los Angeles, 24 gennaio 2014


    Wayne è uscito da più di un'ora, ma ancora non sono uscito dalla cucina. Sono ancora appoggiato al bancone, e il rimasuglio di caffè nella mia tazza è ormai freddo e imbevibile. Ho continuato a fissare i biglietti appoggiati sul tavolo, accorgendomi soltanto adesso, dopo una settimana, che sono il mio passaporto per la felicità. Se prendessi quell'aereo, potrei finalmente andare a riprendermi l'unica donna che abbia mai fatto nascere in me il desiderio di avere una famiglia tutta mia, potrei riprendermi la mia occasione di costruire qualcosa di buono unicamente con le mie mani, potrei riavere la mia serenità senza sforzo, senza rincorrerla nelle sigarette, nell'alcol e nelle avventure di una notte. Se prendessi quell'aereo, potrei essere di nuovo felice, e so che questa sarebbe la soluzione migliore per tutti – per tutti, ma soprattutto per me.
    Sono immobile da un'ora, e da un'ora il mio cane se ne sta seduto immobile davanti a me, fissandomi con la testa leggermente inclinata verso sinistra. «Tu che ne dici, vecchio mio?» gli domando. La risposta si traduce in un guaito e in leggero movimento delle orecchie. «Ma certo, tu sei d'accordo con tutti gli altri, dico bene?» Ormai ho accettato il fatto che il mio cane sia praticamente un essere umano, dunque non dovrebbe stupirmi che anche lui, come tutte le persone che tengono al mio bene, abbia da esprimere un'opinione. «Dici che dovrei usare quel biglietto e andare da lei?» Bruce abbaia, rizzandosi sulle zampe. «Questo vorrebbe dire separarci di nuovo, lo sai?» Si avvicina e mi strofina il naso contro la coscia, quasi a volermi perdonare, come se volesse dire che non gli importerebbe essere abbandonato di nuovo, se l'abbandono coincidesse con il ritorno del sorriso sul mio volto. Comprendendo quanto gli stia a cuore la mia serenità, gli accarezzo le orecchie e poso la tazza nel lavandino. «E allora andiamo. Devo preparare una valigia.»



*



Torino, 24 gennaio 2014


    «Luca, noi dobbiamo parlare di una questione molto importante» esordisce mia madre, una volta finito di rassettare la cucina. Per fortuna è stata lei ad iniziare, perché nonostante mi stia fingendo pronta a quanto sta per accadere, non so proprio come avrei potuto affrontare l'argomento. «Si tratta di un argomento molto delicato e so che ti sentirai confuso, o arrabbiato, ma vorrei comunque che mantenessi la calma e ascoltassi con molta attenzione.» In qualunque altro caso contesterei il piglio decisamente adulto con il quale sta affrontando il discorso, ma il poco tempo passato con mio fratello mi ha fatto capire che si tratta di un ragazzino molto diverso dalla media. Forse Luca riuscirà a capire. «Vedi, Luca, molti anni prima di conoscere tuo padre, io... ho avuto un altro marito. È stato molti anni prima che conoscessi tuo padre, ma... adesso è giusto che tu lo sappia.»
    A questo punto, Luca mi stupisce – più di quanto già non abbia fatto finora. Alza lo sguardo su di lei, poi guarda me, e infine si guarda le mani. «So che cosa vuoi dirmi» sussurra dopo un istante di silenzio. «Stai per dirmi che Daria è mia sorella, vero?» Guardo mia madre senza sapere come rispondere, e dall'espressione dei suoi occhi capisco che lei è confusa quanto me, se non di più. «Qualche giorno prima del tuo compleanno ho preso il tuo portafogli perché volevo comprarti un regalo ma avevo finito i soldi delle mie paghette, e ho visto una tua foto. C'era un uomo che non era papà, e c'erano tre bambini» confessa, senza mai alzare lo sguardo. «Daria è mia sorella, e ho altri due fratelli, vero?» A questo punto alza di nuovo gli occhi, rivolgendosi però soltanto a lei. «Scusate, voglio restare un po' da solo.» Si alza e va in camera propria, lasciandoci sole a guardarci negli occhi come possono fare soltanto due persone che non hanno un piano b.


    «Fammi capire» sussurra Danilo, passandosi una mano sui capelli già scarmigliati. «Mia figlia, la mia bambina, ha... usciva con un musicista di fama internazionale? Con uno... con uno di quelli che di solito vedi sulle riviste scandalistiche? Con un tipo del genere?»
    «Più o meno... » risponde Alice, sapendo che non esiste una definizione migliore per Shannon, a meno di non voler turbare ancora di più il padre della sua migliore amica. «Ma lui non è un... un pazzo maniaco che si droga e fa festini. Ecco, non è che andassero in giro a stordirsi o fare cose del genere. Lui è... lui è un uomo come tanti, a dispetto della sua reputazione.»
    «Grazie, mi fa piacere sapere che mia figlia non è andata a letto con una rockstar amante delle orge» replica lui, piuttosto seccato. «Ma con tutte le ragazze che esistono al mondo, perché proprio mia figlia? Tu ci hai mai parlato? Gli hai mai chiesto che cosa ci trovasse in lei? Insomma, non dico che non sia una ragazza straordinaria, ma... perché lei?»
    «Non ci ho mai parlato, a dire il vero, ma... te l'ho detto, lui l'ha incontrata per caso e... ne è rimasto affascinato. L'hai detto anche tu, Daria è una ragazza speciale. È impossibile non amarla. A mio avviso, lui ha dimostrato di avere molto giudizio e decisamente un ottimo gusto in fatto di donne.»
    «Sembra più grande di lei» osserva Danilo, ignorando l'ultima affermazione di Alice. «Quanti anni ha? E non mentirmi.»
    Eccolo, il tasto dolente – Alice sapeva che sarebbe arrivato il momento di questa confessione, lo ha sempre saputo, e ora sa di non potersi esimere dal dire la verità, perché Danilo potrebbe facilmente scoprirla da sé. «Ha vent'anni più di lei. E questo è uno dei motivi per cui Daria era titubante, all'inizio. Ed è anche uno dei motivi per cui non voleva parlarne in casa. Temeva che la cosa ti avrebbe... disturbato
    «Disturbato? Alice, quello potrebbe essere suo padre.»
    «Ma non lo è» risponde candidamente lei, senza sapere bene da dove le arrivi il coraggio di mostrarsi tanto sicura di sé. «Non è suo padre. È un uomo che l'ha incontrata per caso, che l'ha conosciuta e che si è innamorato di lei. Sapevi che sarebbe successo. Succede a tutti. Capisco che Daria sia ancora la tua bambina, e che probabilmente lo sarà per il resto della vita, ma... succede. I figli crescono, e bisogna lasciarli andare per la loro strada. So che suonerà strano e arrogante detto da una che ha vent'anni meno di te e non sa cosa vuol dire essere genitore, ma non posso non credere che vada così.» Non ricevendo risposta, Alice si sente autorizzata a continuare. «Shannon si è innamorato di lei, e Daria si è innamorata di lui. Non ha potuto farci niente, è successo e basta. Ha avuto molti dubbi in proposito, e so che è anche andata a parlare con il suo analista per capire come comportarsi. La differenza d'età non era il suo unico dubbio» specifica. «La preoccupava il fatto che avesse più di quarant'anni, ma la preoccupava anche la differenza delle loro vite, il fatto che lui sia un uomo abituato a girare il mondo. Era preoccupata perché lei ha sempre voluto una famiglia, avere stabilità, e temeva che con lui non sarebbe mai riuscita a realizzare il suo sogno. Temeva che non sarebbero riusciti a costruirsi una vita insieme, e ti giuro che questo la spaventava più di tutto il resto. Ci ha impiegato molto, prima di decidersi a... dargli una possibilità
    «E lui faceva sul serio? So che non gli hai mai parlato, ma... lui faceva sul serio o la stava soltanto prendendo in giro? Perché lo avrebbe lasciato, se fosse stata una storia seria?»
    «Lui l'ha invitata ad andare a Parigi. Era lì per dei concerti, e voleva averla vicina, per mostrarle... beh, il suo mondo. Lei ci ha pensato su molto, prima di decidersi ad andare. L'ho sentita parecchie volte durante il suo soggiorno, ed era felice come non l'ho mai vista. Se lui si fosse rivelato un idiota, o se avesse pensato che non stava facendo sul serio, lei... lei non sarebbe stata così felice, ne sono sicura.»
    «Potrebbe averti mentito. Sembra che sia piuttosto brava nel nascondere la verità.»
    «Non avrebbe mentito a me. O comunque l'avrei capito. Noi due riusciamo sempre a capirci, a... parlarci anche senza guardarci in faccia. Lo sai bene quanto me, oppure non saresti qui.»
    «Ma allora perché è tornata prima? Perché lo ha lasciato, se era felice?»
    Alice riflette per qualche secondo sulla questione, cercando le parole giuste. «Perché Daria crede di non meritare la felicità» sussurra infine. «Le è stato fatto del male troppo spesso, e alla fine si è convinta di non essere fatta per vivere felice e contenta. Nemmeno quando l'occasione di vivere una favola le è servita su un piatto d'argento, lei... lei non riesce a credere che sia reale. Non mi sento di giudicarla per questo. Non sono uno psicologo, ma credo che sia normale, per una ragazza nelle sue condizioni. Per una donna che ha passato quello che ha passato lei.»
    «Quindi mi stai dicendo che lo ha lasciato perché ama farsi del male?»
    «Lo ha lasciato perché non crede più alle favole» precisa lei. «Ha smesso di credere alle favole a otto anni, da quando sua madre è uscita dalla sua vita. Da quel momento, niente è più stato lo stesso. Nonostante lei si ostini a mentire al mondo intero, non crede più al lieto fine. Si ostina a nascondere il dolore, forse pensando che nasconderlo significhi cancellarlo, o forse anche dimenticarlo. Ma lei non sa dimenticare. Sa fingere bene, sa fingere in una maniera straordinaria, ma chi la conosce... lo sa
    Danilo rimette la fotografia nella scatola, passandosi un'altra volta la mano tra i capelli. «Da quando è tornata... è da quando è tornata da Parigi che ho la sensazione che qualcosa non vada per il verso giusto. Ma non ho mai detto nulla, perché pensavo... è vero, sono suo padre, ma pensavo di non avere il diritto di ficcanasare nella sua vita privata. Non è mai stata mia abitudine, e non volevo certo cominciare ora che è adulta e sa compire le sue scelte.»
    «Su questo non posso essere d'accordo, mi dispiace. Lasciare Shannon è stata la decisione peggiore che abbia mai preso.»
    «Stavano così bene insieme?»
    «Non li ho mai visti insieme nel vero senso della parola, ma ho visto com'era lei quando gli parlava al telefono, o quando parlava di lui. Aveva l'aria serena, e... Dio, la felicità le donava proprio.»
    Segue una lunghissima pausa, durante la quale Danilo continua a rovistare nella scatola, facendosi passare tra le mani i cd della band. «Se lui fosse stato davvero innamorato di lei, sarebbe tornato indietro a cercarla. Non credi? Insomma, so di darmi la zappa sui piedi, visto che io stesso non sono stato in grado di riprendermi la moglie, ma... se è davvero un uomo speciale quanto vuoi farmi credere, avrebbe ribaltato l'universo pur di riprendersi mia figlia.»
    «Se lei non gli avesse chiesto di non farlo, forse sì. Nella lettera che gli ha lasciato lo ha pregato di non cercarla. Di lasciarla andare per la sua strada, in sostanza. Sapeva che lui non si sarebbe arreso tanto facilmente, e ha pensato di mettere le mani avanti.»
    «E lui ha obbedito?» esclama Danilo, sconvolto da quella rivelazione.
    «Lui ha dimostrato di tenere a lei come nessuno ha fatto prima» replica lei. «Mi piace immaginare che lui l'amasse davvero moltissimo, e il fatto che abbia accettato di uccidere la propria felicità pur di assecondare i desideri di lei... beh, mi fa pensare che sia la più grande prova d'amore che un uomo possa fornire. Non sto dicendo che lei non abbia sbagliato alla grande, lasciandolo, ma... in un certo senso, ha avuto la prova che lui era davvero coinvolto.» Improvvisamente, Danilo si lascia andare ad una risata – gesto che Alice non riesce ad interpretare. «Cosa ho detto di tanto divertente?»
    «Niente, non... è solo che oggi pomeriggio ho parlato con lei, e... si è comportata come sua madre. Adesso capisco molte delle cose che ha detto, e... si è comportata esattamente come sua madre» ripete. «Ha voltato le spalle alla persona che più amava, e... e si è fatta del male. Forse si è comportata anche peggio di sua madre.»


    Mia madre ha bussato diverse volte alla porta della stanza di Luca, ricevendo soltanto un secco «Vai via!» Al quinto tentativo fallito, è tornata in cucina e mi ha rivolto un'occhiata disperata. Nel suo sguardo ho letto tutta la delusione di una donna consapevole di aver perso ogni cosa, e di averla persa per sua volontà. È a questo punto che capisco di essere io a dover prendere in mano la situazione.
    Busso alla porta di Luca, chiarendo subito che si tratta di me, e ottengo il permesso di entrare. Nella luce fioca di una lampada da tavolo, mio fratello è seduto per terra, con la schiena appoggiata al lato del letto e le ginocchia piegate contro il petto. Senza dire una parola mi lascio scivolare accanto a lui, assumendo una posizione simile. Passano cinque minuti, prima che decida di aprire la bocca. «Tu da quanto tempo lo sapevi?»
    «Un paio di settimane. Lei è venuta da me e mi ha detto di te. Subito l'ho mandata al diavolo. Non la vedevo da quindici anni» specifico.
    «Tu mi odi?» mi domanda dopo un altro lunghissimo silenzio.
    «Perché dovrei odiarti?»
    «Perché tutti mi odiano. Insomma, non è che tutti mi odino» precisa. «Solo... non sto simpatico a molta gente, ecco tutto. A scuola mi prendono in giro perché mi piace studiare, e perché non mi piace il calcio e tutte le cose che piacciono agli altri. Non ho molti amici.»
    «Questo non spiega perché dovrei odiarti. Nemmeno a me piace molto il calcio.»
    «Beh, tua madre ti ha lasciato e ha sposato mio padre. Non sono un bambino, so che questo farebbe arrabbiare molta gente.»
    «Beh, mi farebbe arrabbiare se mia madre se ne fosse andata per sposare tuo padre, ma non è così. Sono passati molti anni da quando ha lasciato mio padre a quando ha sposato il tuo. Certo, forse non penserò mai che ne siano passati abbastanza, ma le due cose non sono correlate. Non posso avercela con te. Non ha lasciato la mia famiglia per la tua.» Annuisce, e anche senza chiedergli conferma so che capisce. «Sai, tu mi ricordi tanto Emanuele» aggiungo dopo un po'.
    «Tuo fratello?» mi domanda in tono incerto.
    «Proprio lui.» Mi frugo in tasca, cercando il cellulare per mostrargli una sua foto. «La prima volta che ti ho incontrato ho creduto di essere tornata indietro nel tempo, perché eri veramente identico a lui. Sai, seduto in poltrona con quel libro... gli somigliavi davvero molto. Anche a lui piaceva moltissimo studiare e leggere, proprio come a te. E anche lui non aveva molti amici.»
    «Quanti anni ha?»
    «Ha quasi vent'anni. Studia Ingegneria Informatica, è uno dei ragazzi più intelligenti che conosca.»
    «E tu quanti anni hai?»
    «Ho ventitré anni, sono la più grande. Lavoro in una libreria. Dovresti venirmi a trovare, qualche volta. Ho uno sconto dipendenti.»
    Sorride, ma è soltanto un attimo. «Nella fotografia che ho visto c'era anche un altro bambino.»
    «Una bambina» lo correggo. «Si chiama Francesca, ha quasi diciassette anni. È sempre stata la piccolina di casa. Studia al liceo artistico, è bravissima nel disegno.»
    «E tu in cosa sei brava?»
    «A complicarmi la vita sono imbattibile» scherzo. «Non credo di essere veramente brava in qualcosa. Ci sono delle cose che mi piace fare, ma non credo di essere brava.»
    «Delle cose tipo?»
    «Mi piace scrivere. Sai, racconti, e cose del genere. È una passione che ho sempre coltivato, ma non ho mai creduto abbastanza in me stessa, quindi non ho mai pensato di poterci cavare qualcosa. E tu in cosa sei bravo, invece? Che cosa ti piace fare?»
    «Suono il pianoforte. Prendo lezioni da quando ho sette anni. Ma non penso di essere bravo.»
    «Oh, un musicista! Mi piacerebbe sentirti suonare, qualche volta. Suoneresti per me?»
    «Penso che potrei.»
    «Bene. Allora un pomeriggio verrò a trovarti e suonerai qualcosa per me.»
    Restiamo in silenzio per un altro lunghissimo minuto, poi sento il suo sguardo su di me, e mi volto per intercettarlo. «Pensi che la mamma sia arrabbiata con me? Sai, perché non le ho aperto la porta.»
    «No, non credo che sia arrabbiata con te.»
    «Non sono arrabbiato con lei. Non credo di essere arrabbiato con lei. Non sono mai stato arrabbiato, tranne quando è morto papà. Sono solo... sono molto confuso.»
    «Sono certa che lei lo sappia. Essere confusi è normale, con quello che hai appena scoperto.»
    «Non mi piace essere confuso.»
    «Non piace a nessuno, credimi. Essere confusi è peggio di qualunque altra cosa. È più facile essere arrabbiati, o tristi, o delusi, perché almeno sai che cosa devi affrontare. Ma la confusione è la cosa peggiore che possa capitare ad una persona.»
    «Tu sei mai stata confusa?»
    Ogni singolo giorno della mia vita, vorrei rispondere. Ma tutto ciò che supera le mie labbra è: «Mi è capitato. E fa schifo.»


*



Los Angeles, 24 gennaio 2014


    Constance va ad aprire la porta in pigiama, chiedendosi se a bussare sia stato un maniaco, un ladro oppure un assassino, ma quello che si trova di fronte supera di gran lunga la sua immaginazione. «Shannon, è quasi mezzanotte! Che cosa ci fai qui?»
    «Ho bisogno che tu mi tenga Bruce, se puoi» risponde lui di corsa. «Devo assentarmi per un paio di giorni. Grazie mille, ti voglio bene» si congeda, dopo averle messo in mano il guinzaglio e averle stampato un bacio sulla guancia.
    Constance resta immobile di fronte alla porta aperta, poi guarda il cane, per la prima volta sereno nonostante l'abbandono di Shannon. «Ho messo al mondo due pazzi incoscienti, vero? Beh, vieni dentro. C'è la replica di Grey's Anatomy, e non me la voglio perdere.»

    Seduto nella sala d'attesa dell'aeroporto, Shannon continua a guardare nervosamente l'orologio, sperando che la mezz'ora che lo separa dall'imbarco si riduca drasticamente a zero, perché sente che ogni minuto d'attesa potrebbe convincerlo a cambiare idea, e cambiare idea è l'ultima cosa che debba succedere. Ci sono voluti due mesi, ma ha finalmente capito che Daria è importante, e che da lei dipende la sua felicità. Ha provato a nascondere il dolore, a seppellirlo sotto strati di dura e impenetrabile corazza, pensando che nascondendolo alla vista lo avrebbe nascosto al cuore, ma il vecchio detto "Se nessuno vede, nessuno sa" con lui non sembra funzionare. Ha bisogno di guardare ancora una volta quegli incredibili occhi azzurri contornati di verde, ha bisogno di toccare ancora una volta quei capelli corti e spettinati, e se possibile, vorrebbe stringere ancora tra le braccia quel corpo morbido e caldo che già una volta lo ha portato in paradiso. Ha bisogno di Daria, e sente che nessun momento sarà mai più giusto di questo.



1Se nessuno vede, allora nessuno sa. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Hidden away di Josh Groban, contenuta nell'album Illuminations (2010).

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Capitolo 12
*** 12 | Dove siamo? Che cosa diavolo sta succedendo? ***


La lunga strada verso casa - 1
Innanzitutto, vi chiedo scusa per l'immenso ritardo con cui posto questo capitolo. Secondo i miei calcoli, avrei dovuto farlo uscire due giorni fa, ma ho avuto una breve lite con il wi-fi, che non mi lasciava connettere abbastanza a lungo per compiere tutto il processo. Stupido, piccolo, crudele wi-fi del cavolo.
Comunque ora sono qui (che fortuna, penserete!), e vi offro quello che con tutta probabilità sarà il peggior capitolo che abbiate mai letto.
Se potete, non linciatemi. Ma se non riuscite a trattenervi, vi prego, risparmiate le mie mani, che con quelle ci lavoro =D
Buona lettura,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo dodicesimo
Dove siamo?
Che cosa diavolo sta succedendo?1


Oceano Atlantico, 25 gennaio 2014


    Da qualche parte sopra l'oceano Atlantico, circondato da persone che dormono nella speranza di ammortizzare gli effetti del fuso orario, Shannon resta vigile e attento. Incassato nello scomodo sedile della seconda classe – perché Jared doveva risparmiare, naturalmente – guarda fuori dal finestrino, aspettando il momento in cui vedrà finalmente la terraferma. Non sarà l'Italia, lo sa bene, perché dovrà prima fare scalo a Madrid, ma vedere il continente gli darà la certezza di essere un passo più vicino al proprio obiettivo. D'istinto si porta una mano al petto, avvertendo, sotto la stoffa pesante del maglione, la forma familiare del ciondolo di Daria, quello che ha portato per tutto il tempo della loro storia, e che è riuscito a togliere soltanto prima di ripartire con il tour. Si chiede se sua madre abbia già chiamato Jared per avvertirlo della buona riuscita del piano, e subito dopo si immagina suo fratello saltare di gioia.
    «Andrà tutto bene» sussurra nel silenzio dell'aereo, chiedendosi come reagirà Daria nel rivederlo dopo tutto questo tempo.


*



Torino, 25 gennaio 2014


    «Sono contento che sia andata bene» sorride Marco. «Ma perché non mi hai detto che saresti andata a cena da loro? Per un attimo ho pensato che stessi cercando di scaricarmi.»
    «Volevo provare a cavarmela da sola, una volta tanto» rispondo. «Quando ho un problema ne parlo sempre con un mucchio di persone, e ho pensato... beh, che fosse il momento di camminare da sola. E ci sono riuscita, dannazione. Il modo in cui quel ragazzino si è aperto con me è stato... credo di non aver mai provato una simile soddisfazione. Rifiutava di vedere persino sua madre, e invece con me è stato così... non credo di avere le parole giuste per descrivere quello che ho provato.»
    «Sì, beh... tu sai tirare fuori il meglio dalle persone. È una dote rara. Non era difficile da prevedere che sareste andati d'accordo.»
    «Parlare con lui era la parte meno complicata, me ne rendo conto soltanto adesso. Insomma, adesso devo trovare un modo per introdurre l'argomento in casa. E se Emanuele e Francesca non ne volessero sapere?»
    «Direi che non sarebbero da biasimare. Nemmeno tu l'hai presa troppo bene, all'inizio.»
    «Sì, lo so, ma era prima che Luca sapesse di avere dei fratelli. Se io avessi rifiutato di conoscerlo, lui non lo avrebbe mai saputo. Ma se adesso loro si rifiutassero di incontrarlo, credo che ne soffrirebbe moltissimo. Si sentirebbe rifiutato, lo so. E lui... io non posso proprio permettere che si senta così. Già si sente una nullità nei confronti dei compagni di scuola, sentirsi una nullità anche nei confronti della sua famiglia sarebbe troppo. Non credo che potrebbe sopportarlo.» Mi porto una mano alla tempia, iniziando a tormentarmi i capelli, e a quel punto Marco allunga la sua per stringere le mie dita. «Dici che mi sto preoccupando troppo?»
    «Dico che non ho mai visto qualcuno prendere a cuore qualcosa come stai facendo tu con questa situazione» sorride, e improvvisamente mi sento meglio. «Tu non faresti mai del male a qualcuno. Non di proposito, almeno. Sai come ci si sente quando si perdono le proprie certezze, e questo è positivo. Sei geneticamente programmata per fare del bene, anche quando sembra che sia impossibile.»
    «Da come parli, sembra che tu sia uscito con Madre Teresa di Calcutta» scherzo.
    La presa sulle mie dita si fa più salda, mentre il suo sguardo non abbandona il mio. «Non avrai vinto un premio Nobel per la pace, ma non si può negare che tu non sia altrettanto buona.» Il suo sorriso dolcissimo mi riempie il cuore di soddisfazione, ma allo stesso tempo mi sento morire dentro – perché per quanto mi sforzi, so di non essere una persona buona. È vero, adesso sto facendo di tutto per dare una vita migliore a mio fratello, ma il mio passato è fatto anche di cose meno belle – ho commesso una malvagità che nessuna buona azione potrà mai cancellare, e ogni volta che Marco mi fa notare il bene che faccio, il male torna a galla come una macchia d'olio in un bicchiere d'acqua.

    Dopo l'incontro-confessione con Danilo, Alice non è riuscita a prendere sonno. Si dispiace per non aver saputo trattenere oltre il segreto, ma allo stesso tempo sa che parlarne con qualcuno è stato un bene, perché non si può continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto per sempre. Ha paura che il suo venir meno alla parola data possa pregiudicare la sua amicizia con Daria, ma allo stesso tempo sa che spiattellare tutto era l'unica soluzione possibile – e poi ha parlato con Danilo, non con il direttore di Novella 2000. Insomma, se avesse dovuto scegliere una persona sull'intero pianeta cui parlare della relazione di Daria con Shannon, sicuramente Danilo sarebbe stato compreso nel ventaglio delle possibilità. Eppure, nonostante la certezza che non si potesse fare altro, Alice non è riuscita a prendere sonno, e la mattina successiva si è presentata in aula studio con due occhiaie da far spavento, tanto che i posti più vicini a lei sono stati occupati soltanto dopo le undici, quando tutto il resto della sala era pieno.
    Tornata a casa, Alice ha continuato a pensare alla sera precedente, chiedendosi quando la furia di Daria si sarebbe abbattuta su di lei – perché è logico pensare che, una volta scoperta la verità, Danilo si sia precipitato dalla figlia a riferire le sue scoperte... o forse no? Sarebbe stata la scelta di molte persone, ma è pur vero che Danilo resta il padre di Daria, e si sa che Daria non è una che si adegua alla massa – quindi è possibile che nemmeno suo padre sia quel tipo di persona. E poi, del tutto inspiegabilmente, il pensiero della reazione di Daria viene soppiantato da un altro pensiero – un dubbio, in verità. Anche lei, come molte altre persone, ha dei segreti che tiene per sé e non rivela a nessuno, dei piccoli tarli che scavano lentamente il solido tronco delle sue certezze, senza fare rumore, e di cui si scopre la presenza soltanto quando ormai il danno è ingente.
    Per la seconda sera consecutiva Alice si rigira tra le lenzuola, senza trovare una posizione consona al sonno. Verso le due, stufa di non riuscire a dormire perché logorata dai dubbi, si alza e prende il cellulare. È ormai la mattina del ventisei gennaio, dunque è domenica mattina – molto presto, ma è mattina. È domenica, non c'è scuola e non si lavora. Aveva promesso di dedicare la giornata a Kant, ma si rende conto che in fondo Kant è morto, e potrà aspettare ancora per un giorno. I suoi dubbi invece no.



*



Los Angeles, 26 gennaio 2014


    A stento Jared si trattiene dal saltare di gioia: sapeva che Shannon avrebbe sfruttato il biglietto, ma era certo che ci sarebbe voluto molto più tempo – conoscendolo, almeno un paio di mesi. Il fatto che sia partito così repentinamente, dopo soltanto una settimana, lo fa ben sperare. Finalmente Shannon rivedrà Daria, le confesserà il suo amore, i due torneranno insieme e lui potrà riavere indietro il suo batterista, ma soprattutto suo fratello.
    Ma presto, come succede sempre quando si è all'apice della felicità, arriva qualcuno a tarpargli le ali. «Fossi in te, io aspetterei prima di stappare lo champagne e organizzare le nozze» commenta pacato Tomo, sorseggiando lentamente il suo caffè. Quando ha accettato l'invito di Jared a pranzo, di certo non si aspettava di trovarlo così su di giri.
    «So che non bisogna dire gatto se non l'hai nel sacco, ma... Tomo, quello che sta succedendo è stupendo. E finirà bene. Sento che finirà bene. Non so come spiegarlo, ma... è una sensazione che ho, ecco. Sento che andrà tutto bene. E raramente il mio sesto senso sbaglia.»
    «Sappiamo tutti che hai un sesto senso molto sviluppato, Jay, ma io credo che Tomo abbia ragione» interviene Constance. «Non puoi avere la certezza matematica che le cose andranno come pensi. Ci sono troppe variabili in gioco. E poi, è sempre di Shannon che stiamo parlando.»
    Tomo stringe la mano di Vicki, seduta accanto a lui. «Tu che ne dici, amore? Ha ragione Jared e noi ci stiamo preoccupando inutilmente, oppure le cose andranno a catafascio come sempre?»
    «Beh, Constance ha ragione. Insomma, ci sono davvero troppe cose di cui tener conto. Però... non lo so, questa volta voglio stare dalla parte di Jared. Sfido qualunque ragazza a non cadere ai piedi di un uomo che attraversa il mondo per dirti che ti ama. Non tornare con lui vorrebbe dire che è una ragazza sciocca, e non è questa l'impressione che ho avuto di lei.»
    «Io credo che stiamo perdendo di vista una cosa importante» interviene di nuovo l'altra donna. «Continuiamo a parlare della questione come se fosse passata soltanto una settimana da quando lei lo ha lasciato. Continuiamo a dimenticare che sono passati due mesi, e in due mesi ne possono succedere di cose.»
    «Cos'è, hai paura che lui arrivi a casa sua e la trovi con un altro?» scherza Jared, rendendosi conto soltanto più tardi dell'espressione della madre, che si è fatta molto seria. «Andiamo, mamma, non puoi pensarlo sul serio. Con tutto il tempo che ci ha messo per decidersi a dare una possibilità a Shannon... non può aver trovato un altro uomo in due mesi. Non può aver intrecciato una relazione seria in due mesi!»
    «Non ti sei mai trovato in una situazione del genere, Jay» replica lei, usando il suo tono più dolce. «Da quel che mi avete raccontato di lei, ho capito che è una giovane donna che ha subito molte delusioni, e che dall'amore non si è mai aspettata molto. Quando una donna colleziona una serie di relazioni sbagliate, o quando subisce una forte delusione... beh, non sono molte le strade che può intraprendere.»
    «Pensi che potrebbe essersi gettata in un'altra relazione per dimenticare Shannon?» domanda Tomo, che ha sempre apprezzato la saggezza di Constance.
    La donna fa spallucce, bevendo un sorso di caffè. «Può capitare. O questo, oppure ha promesso a se stessa di non concedersi mai più ad un uomo.»
    Jared sbuffa. «Non vedo perché dovremmo fasciarci la testa prima di essercela rotta. Non è detto che lei abbia un altro uomo. Può anche darsi che abbia passato questi ultimi due mesi a struggersi per Shannon, no?»
    «Per lo stesso motivo per cui non dovremmo festeggiare finché non avremo la certezza che sono tornati insieme, tesoro» risponde la madre. «So che vi ho sempre insegnato a pensare in maniera positiva, ma tu stai un po' esagerando.»
    «Sto esagerando?»
    «Un pochino. Ma parliamo di voi due» riprende Constance, guardando Tomo e Vicki. «Come sta andando la gravidanza? Ti vedo davvero benissimo, sai?»
    «Siamo al settimo cielo» risponde Vicki. «Però abbiamo già iniziato a litigare. Io vorrei conoscere il sesso, appena ci sarà possibile. Invece questo testone vuole la sorpresa.»
    «Direi che avete ancora un bel po' di tempo davanti. Io non ho voluto sapere il sesso dei miei figli. Ho sempre preferito la sorpresa, e vedendo le due meraviglie che ho tirato fuori, direi che è stata una sorpresa davvero stupenda.»
    «Mamma, adesso stai esagerando» la prende in giro il figlio.
    «Ti metto in imbarazzo?»
    «Un pochino.»



*



Milano, 26 gennaio 2014


    Quasi non ha avuto il tempo di scendere dal treno, e già Alice sente la voce di Federico chiamarla dal fondo del binario. «Amore! Amore, sono qui! Mi dici che cosa sta succedendo?» le domanda non appena si fa più vicina. «Avevi un'aria stranissima, al telefono.»
    «Sì, lo so, e mi dispiace da morire di averti chiamato alle due del mattino. Mi sono resa conto solo dopo aver chiamato che probabilmente ti eri preoccupato, ma era importante.»
    «Vieni, andiamo a prendere la metro. Mamma e papà non vedono l'ora di vederti» aggiunge lui, passandole un braccio dietro la vita per accompagnarla.
    Ma lei scivola via dalla sua presa, e torna a mettersi di fronte a lui. «No, senti, io... possiamo andare a prenderci un caffè? Ho bisogno di parlarti, e non posso farlo se ci sono anche i tuoi genitori.»
    «Alice, va tutto bene? Hai l'aria strana. Scusa, l'ho già detto, ma non riesco a trovare un sinonimo altrettanto efficace. C'è qualche problema? È successo qualcosa di grave? Perché non riesco a...»
    «Federico, io credo che tra noi sia finita.» Ecco, l'ha detto. La frittata è fatta, il colpo è stato sparato. Alice ha dato voce ai dubbi che la logoravano da tempo, e da questo momento niente sarà più lo stesso. Ora che ha espresso ad alta voce ciò che pensava, con Federico è davvero finita. Potrebbero mettersi seduti e parlare della cosa, stabilire che lei ha detto una cazzata e fingere che non sia mai successo, ma le cose non sarebbero mai più le stesse. «Non è questo il modo in cui avevo pensato di introdurre l'argomento, ma... forse è meglio così. Brutale ma onesta. In fondo, mi sono sempre vantata del mio modo di affrontare le cose.»
    «Alice, io non riesco a capire perché... non riesco a capire perché tu mi stia dicendo questo.»
    «Ci penso da tantissimo tempo, te lo assicuro. Insomma, non è che mi sono svegliata stamattina con la convinzione che dovessimo lasciarci. Io ti amo tantissimo, lo sai. Ti amo tantissimo, e ti considererò sempre una persona importante. Abbiamo passato dei momenti bellissimi insieme, ma... non funziona più. Me ne sono accorta io, e sono sicura che qualche dubbio sia venuto anche a te. I motivi per cui ci siamo messi insieme non hanno più senso. Avevo quindici anni, ora ne ho quasi ventiquattro, e... le cose che volevo allora non sono quelle che voglio adesso. Sono cambiata, e negarlo sarebbe stupido, oltre che inutile. Sono cambiata. Lo so io, e lo sai anche tu. E sei cambiato anche tu. Non in peggio o in meglio, ma... siamo cambiati. Vorrei che ci fosse un modo carino per dirlo, ma non l'ho trovato. E tu sai che io sono una che trova sempre le parole giuste.» Alice si ferma, aspettando una risposta, ma il ragazzo in piedi di fronte a lei sembra non saper che dire. «Federico, per favore, di' qualcosa. Anche solo vaffanculo, ma di' qualcosa.»
    «Io credo... credo sia meglio che andiamo a prenderci quel caffè, adesso.»



*



Torino, 26 gennaio 2014


    Il primo impulso, una volta uscito dalla casa di Alice, è stato di camminare fino a casa di Daria, pronto ad affrontare l'argomento a muso duro e dire alla figlia che conosce la verità. Ma una volta arrivato davanti al portone, Danilo ha cambiato idea, consapevole che la frustrazione avrebbe potuto portarlo a dire cose che non pensava, o comunque ad esprimersi in modo sbagliato, e litigare con Daria è davvero l'ultima delle sue intenzioni, soprattutto in un momento delicato come questo.
    Tornato in laboratorio, ha chiamato casa per avvertire che sarebbe rincasato tardi e si è rimesso al lavoro, sapendo che muovere le mani è la sola cosa che lo aiuti a rilassarsi e a scaricare le energie negative. Sa di essere stato un buon padre, eppure a volte lo coglie il dubbio che avrebbe potuto fare di più, che avrebbe potuto comportarsi meglio, soprattutto nei confronti della figlia maggiore. Non che Daria sia venuta su male, certo – con tutti i traumi che ha subito, a questo punto della vita potrebbe essere una completa sbandata che si fa pere di eroina negli occhi –, eppure non riesce a non pensare di aver sbagliato qualcosa – perché lei non si fida completamente di lui, è chiaro, altrimenti non ci avrebbe pensato su due volte prima di chiedergli un consiglio. O forse no, lui è stato un ottimo padre, non avrebbe potuto fare di meglio, e il fatto che Daria non si confidi volentieri dipende soltanto dal suo carattere.
    Danilo non sa più che pensare, e per uno come lui, che ha sempre capito il mondo meglio della maggior parte degli uomini, questo rappresenta una vera sconfitta. «Ma che diavolo sta succedendo?» sussurra nello spazio silenzioso del laboratorio. Lo consola sapere che probabilmente nemmeno un genio riuscirebbe a capirlo.



*



Milano, 26 gennaio 2014


    Federico giocherella con una bustina di zucchero vuota, piegandola e dispiegandola in continuazione, mentre il suo cappuccino si raffredda. «Da quanto pensi quello che mi hai detto?» dice infine, in un sussurro che quasi si perde nel brusio del bar.
    «Non so dirti una data precisa» risponde Alice, stringendo entrambe le mani attorno alla propria tazza. «Di sicuro è da qualche mese. Dalla scorsa estate, credo. Da quando siamo andati al mare insieme.»
    «Sono cinque mesi.»
    «Lo so, è stato orrendo da parte mia non parlartene prima, ma... non lo so, in un certo senso non volevo crederci. Tra noi è sempre andato tutto bene, e non volevo arrendermi all'idea che non fosse tutto perfetto come mi era sempre sembrato. E poi c'è stata di mezzo tutta la storia di Daria, e non volevo aggiungere altri problemi al mucchio, e...»
    «Scusa, cosa c'entra Daria? È successo qualcosa?»
    Alice si morde la lingua, sapendo di aver parlato troppo – di solito è molto attenta alle parole che usa, ma sembra che aprire il rubinetto della verità l'abbia privata della sua proverbiale capacità di giudizio. «Quest'autunno Daria ha conosciuto un ragazzo, ci è uscita qualche volta e poi lo ha mollato perché non era sicura che stessero bene insieme, e questa cosa l'ha scombussolata un po'» risponde, sapendo che non è giusto ridurre così ai minimi termini il problema – ma è l'unico modo per soddisfare la curiosità di Federico senza esporsi troppo, perciò andrà bene. «Sono passati due mesi, ma non l'ha ancora superata del tutto. E lo sai, praticamente lei ha solo me, quando si tratta di queste cose.»
    «Ma adesso sta bene?»
    «Sopravviverà» risponde lei, e in fondo è vero. In quale modo non si sa, ma sopravviverà. «Solo che sai, non pensavo che fosse il caso di complicarsi ulteriormente la vita. E poi io ero in periodo esami, e tu stavi compilando quelle domande di lavoro... avevamo entrambi altre cose per la testa.» Alice fa una pausa, pensando al modo meno indolore per continuare. Ma in fondo, si dice subito dopo, lei e Federico si stanno lasciando, e lasciarsi non è mai indolore. «Non posso negare che la storia di Daria con quel ragazzo abbia contribuito ad alimentare i miei dubbi. Lei lo ha lasciato perché stare insieme avrebbe significato stabilire una relazione a distanza che non era sicura di poter reggere, e... beh, per me è stato inevitabile pensare a noi. In fondo, quasi tutta la nostra storia è stata una relazione a distanza.»
    «Non avevo mai capito che per te fosse un problema.»
    «Non lo è mai stato. O almeno, non lo è mai stato finché non mi sono resa conto che non sono mai stata veramente te stessa, con te. Non che ti abbia mentito, ma... tu ed io non ci conosciamo davvero, Fede. Non fraintendermi, io ti adoro. Adoro te, adoro la tua famiglia, adoro i tuoi amici, e non scambierei i momenti che abbiamo passato insieme con tutto l'oro del mondo, però... però io non sono completamente me stessa, quando sto con te. Quando sto con te nascondo i miei difetti, perché è così poco il tempo che passiamo insieme che mi sento quasi in dovere di mostrarti solo le cose belle, e... e questo mi dispiace, perché non faccio del male soltanto a me. Tu hai il diritto di stare con una persona che ti permetta di conoscerla completamente, e io... beh, io credo di avere il diritto di mostrare tutti i miei difetti. Mi rendo conto che probabilmente sto passando come una vera stronza, ma non credo ci sia un modo gentile di dire la verità, a meno di voler continuare a mentirci.»
    «Non penso che tu sia una stronza, Alice» risponde Federico, rialzando finalmente la testa. «Anzi, io credo... credo che tu abbia ragione. Immagino di dover confessare che anch'io ho avuto qualche dubbio, di recente.»
    «Non hai mai detto nulla in proposito.»
    «Beh, pensavo che fossero dubbi soltanto miei. Se avessi saputo che anche tu non eri più sicura di noi due, forse avrei parlato.»
    «Da quando tu... insomma, da quando hai cominciato a pensarci?»
    «Più o meno da quando hai iniziato a pensarci tu, credo. Da quando siamo stati in vacanza insieme. Non sono mai stato un asso nel capire la gente, ma mi sembrava che tu... che fossi frenata, in un certo senso. Quasi come se avessi paura di fare qualcosa di sbagliato.»
    «Forse avevo paura che scoprissi che sono un'imbrogliona» sorride lei, abbassando lo sguardo. «Non dico di non essere stata onesta con te. Solo, non lo sono stata tanto quanto si dovrebbe esserlo quando si ha una relazione con qualcuno.»
    «Non sei stata l'unica a nascondere qualcosa, tranquilla. Nemmeno io credo di essere sempre stato completamente sincero, con te. Per il tuo stesso motivo, credo. Non volevo sprecare il poco tempo che avevamo mostrandoti la parte peggiore di me.»
    «Sono contenta che tu capisca il mio punto di vista. Questo rende le cose più semplici, in un certo senso.»
    «Di sicuro mi rende più facile scegliere.»
    «Scegliere?»
    «Una delle aziende a cui avevo spedito il curriculum mi ha contattato, e mi ha offerto un posto. Non è un lavoro di grandi responsabiltà, ma per iniziare non sarebbe male.»
    «Perché non me lo hai detto subito? Sono così contenta per te!»
    «Sì, anch'io sono stato felice di ricevere l'offerta, ma... il posto è a Verona. Che non è esattamente dietro l'angolo. Insomma, Milano-Torino è fattibile, ma Verona-Torino...» aggiunge con un sospiro. «Mi hanno dato una settimana per pensarci, e io... beh, i dubbi mi stavano mangiando vivo. Non potevo partire e costringerti ad una relazione del genere, ma nemmeno volevo rinunciare al lavoro.»
    «Allora è un bene che ti stia lasciando» scherza Alice. «Per quanto la cosa possa risultare romantica, non avrei mai accettato di vederti dare un calcio alla tua carriera per me.»
    «A me piace pensare che ci stiamo lasciando di comune accordo» replica lui, sorridendo a sua volta. «Se c'è un difetto che non ti sei mai presa la briga di nascondere, è il tuo dispotismo. A volte sei proprio prepotente, lo sai?»
    «Ha parlato mister Perfettino» ride lei. «Beh, adesso che ci siamo chiariti credo di dover andare. C'è un treno fra dieci minuti, se mi sbrigo posso farcela.»
    «Vieni a pranzo da noi, dai. Non è la prima volta, no?»
    «Pensi che sia appropriato? Ci siamo appena lasciati.»
    «Sì, e credo di aver bisogno del tuo supporto per dirlo ai miei. Se non altro per fargli capire che è davvero una decisione presa di comune accordo.»



*



Torino, 26 gennaio 2014


    «Credo di aver deciso» sentenzio mentre usciamo dal cinema. «Domani sera mi autoinviterò a cena a casa e parlerò con Emanuele e Francesca. Aspettare ancora sarebbe inutile e stupido. Qualche settimana non cambierà la loro reazione. Insomma, farli incazzare ora o tra sei mesi sarebbe la stessa cosa... giusto?»
    «Immagino di sì» risponde Marco, prendendomi la mano, «ma io credo che tu parta prevenuta. Non puoi essere certa che si arrabbieranno. Non dico che faranno certamente salti di gioia, ma potrebbero anche sorprenderti... insomma, a volte può capitare che le persone ti sorprendano.»
    «Vorrei tanto avere il tuo stesso ottimismo. Qualche volta sarebbe bello vedere il bicchiere mezzo pieno.»
    «Se ti può consolare, è una dote che ho acquisito con il tempo. A furia di aspettarmi sempre il peggio e rimanere sorpreso, ho imparato che qualche volta sperare non fa male. Ti accompagno a casa?»
    «Grazie, sì» rispondo con un sorriso. «Oggi ho avuto la malaugurata idea di fare le pulizie, e sono letteralmente distrutta. Però mia nonna sarebbe fiera di me.»
    «Passi la domenica facendo le pulizie?»
    «Non sempre. Per questo oggi mi ha sfiancata.»
    «Chi l'avrebbe mai detto? Mi vedo con una perfetta donna di casa» mi prende in giro. «Mi chiedo com'è che nessuno ti ha ancora sposata.»
    «Trovalo, un pazzo in grado di sopportare tutti i miei scleri» replico, ridendo alla sua battuta.
    «Beh, almeno uno c'è» risponde, abbassando lo sguardo su di me. Mi stringo un po' di più a lui e non rispondo, sapendo che è vero: anche se fino a due settimane fa non lo avevo mai visto come un possibile compagno, devo ammettere che si sta rivelando una scelta positiva – è amorevole, premuroso, la maggior parte delle volte sa capirmi e sa darmi i consigli giusti, e soprattutto riesce a sopportare tutti i miei dubbi e le mie spesso inutili preoccupazioni. Forse non sarebbe stata la mia prima scelta, in un mondo ideale dove tutto può accadere, ma è di certo quanto di meglio mi potesse capitare, in questo mondo reale che divora sogni e speranze con la stessa voracità di una mantide religiosa.

    Atterro a Torino poco dopo le nove di sera, dopo un viaggio durato non so quanto. Non sono mai stato bravo a capire le differenze tra fusi orari, né sono mai stato un genio dell'organizzazione: di solito mi limito ad andare dove mi dicono di andare, e siccome di solito è Emma ad occuparsi di tutto, mi sono sempre lasciato trasportare come una piuma che vola nel vento. Appena fuori dall'aeroporto salgo su un taxi e gli do l'indirizzo, e la fortuna vuole che mi capiti un tassista piuttosto giovane, che mastica piuttosto bene l'inglese e ascolta buona musica. «Le dispiace se tengo la radio accesa?» mi domanda.
    Riconosco Close to me dei The Cure, e sorrido. «Assolutamente. Piacciono molto anche a me.»
    «La mia ragazza mi ha fatto una compilation per Natale» mi spiega, immettendosi nello scarso traffico della sera. «Quando ci siamo conosciuti nemmeno sapeva chi fossero. Ora è una fan più accanita di me.»
    «Avere delle passioni in comune è positivo» commento, sicuro di ciò che dico. «Almeno all'inizio, quando non ci si conosce ancora bene.»
    «Beh, noi ci conosciamo da un po', ormai. Sono due anni che stiamo insieme, e sto per chiederle di sposarmi. Mi dicono tutti che è troppo presto, che dovrei aspettare ancora, ma... non so, sento che è quella giusta. Sarebbe stupido aspettare ancora, non crede?»
    «Se pensa che sia quella giusta, non deve aspettare. Trovare la persona giusta è raro. Bisogna fare attenzione a non farsela scappare.»
    «Quello che dico anche io» risponde, spostandosi in un'altra corsia e preparandosi a svoltare. «Non per farmi gli affari suoi, ma... sta andando da una ragazza? Mi scusi, di solito non sono così invadente, ma mi piace osservare la gente, e... beh, lei ha lo sguardo di uno che sta andando a trovare una persona importante.»
    Sorrido, pensando che la mia condizione deve essere davvero evidente, se anche un ragazzo mai visto prima nota la mia felicità e la mia irrequietezza. Mi chiedo quante altre persone prima di lui abbiano pensato questo di me. «In effetti sì, sto andando a trovare una ragazza. Le faccio una sorpresa» aggiungo. «Non sa che sto andando da lei.»
    «Però, una cosa davvero romantica. Una volta l'ho fatto anch'io con la mia ragazza. Era in vacanza al mare con i genitori, ho preso la macchina e sono andato fino in Toscana. Da qui è un bel viaggio. Da quanto non la vede?»
    «Due mesi» rispondo. «In realtà due mesi fa mi ha lasciato, e io sto andando da lei sperando di riprendermela.»
    «Due mesi? Perché ha aspettato tanto prima di tornare da lei?»
    «Mi ha chiesto di non cercarla. Mi ha chiesto di lasciarla sola, e io ho cercato di rispettarla.»
    «Dice sul serio? Se Simona mi avesse mai chiesto una cosa del genere, io me ne sarei fregato. Sarei andato anche sulla Luna, pur di riprendermela.»
    «Ripensandoci, so che avrei dovuto ignorarla e fare quello che volevo, ma... ero arrabbiato, credo. E sono sempre stato un tipo orgoglioso. Non ho mai permesso al mio cuore di prendere il sopravvento, e continuare su quella linea mi sembrava giusto. Solo che poi mi sono accorto che... beh, stare senza di lei non ha senso. Ho una vita più che decente, una bella famiglia, degli amici che mi vogliono bene, mi pagano per fare un lavoro che amo, però...»
    «Però lei rende tutto più bello, vero?» sorride, cercando il mio riflesso nello specchietto. Annuisco, lasciandomi andare contro il sedile, lo sguardo fisso sulle luci della città. «E allora andiamo a vedere se riusciamo a rimettere insieme questa coppia» aggiunge, svoltando in un'altra strada.

    Per la terza sera consecutiva, Alice non riesce a rilassarsi completamente. Le ha provate tutte: un lungo bagno caldo, riordinare l'armadio sulle note delle canzoni di Regina Spektor, una buona tisana ai frutti rossi... ma niente sembra funzionare. Eppure ha risolto le sue questioni in sospeso, non dovrebbe faticare così tanto a dormire. Poi vede la scatola con i ricordi di Daria e Shannon, ancora appoggiata sulla sedia, e capisce che non sarà completamente tranquilla finché anche quella questione non sarà sistemata. Non che possa fare molto, certo: non può certo prendere il bigliettino con i contatti di Emma Ludbrook e mandarle un'e-mail per farle presente che Shannon dovrebbe muovere il culo e venire a Torino perché Daria ha bisogno di lui. O meglio, potrebbe, ma questo significherebbe diventare la persona invadente che non è mai stata, e non è pronta per alienarsi completamente l'amicizia di Daria. Si siede sul letto e passa in rassegna ancora una volta i cimeli della favola della sua migliore amica, chiedendosi perché mai ci sia anche un'orchidea di stoffa. Fissa per due minuti buoni la fotografia che li ritrae ai piedi della statua equestre in piazza San Carlo, pensando che persino un cieco si accorgerebbe dell'amore che Shannon provava già, nonostante conoscesse Daria da meno di una settimana. «Era innamorato cotto già allora» sussurra, rimettendo giù la foto. Spinge di nuovo la scatola sotto il letto, nascondendola alla vista, poi scivola sotto le coperte. «E poi dicono che sono le bionde ad essere stupide.»

    «Eccoci arrivati» annuncia il tassista, fermandosi in prossimità del portone. «L'indirizzo è questo.»
    «Va bene. Può aspettare qui un attimo?» gli domando. Prima di mandarlo via, voglio assicurarmi che Daria sia in casa. Suono il citofono, poi rimango in attesa. Suono una seconda volta, e poi una terza, ma dopo due minuti non ho ancora ricevuto risposta, il che mi fa supporre che in casa non ci sia nessuno.
    «Non è in casa?» mi domanda il ragazzo, vedendomi risalire in auto.
    «Evidentemente no» sospiro, chiedendomi se dovrei chiamarla per avvertirla che sono davanti a casa sua. Guardo il telefono, poi cambio idea. «Può cercare un parcheggio qui vicino? Aspetterò che rientri.»
    «Va bene. Però la avverto, devo tenere il tassametro acceso.»
    «Non importa. Non è un problema» rispondo, pensando che a questo punto Jared si sarebbe già fatto venire un infarto. Lui probabilmente si accamperebbe sul marciapiede, ma io non ci tengo affatto a prendermi una polmonite. Insomma, è vero che amo Daria e farei qualunque genere di sciocchezza per lei, ma ancora non me la sento di arrivare a tanto.

    Nel tentativo di superare l'insonnia, Alice smanetta un po' con il proprio iPhone, sperando di stancarsi e trovare finalmente pace tra le braccia di Morfeo. Supera un paio di livelli a Candy Crush, si stanca presto anche di Ruzzle, e senza sapere bene come finisce a leggere l'oroscopo. Non che abbia mai creduto a quel genere di cavolate, certo: di solito è Daria, a dispetto della sua onnipresente razionalità, ad affidarsi a simili mezzucci, però Alice deve ammettere che Paolo Fox è un tipo abbastanza attendibile, e di solito le sue previsioni si avvicinano molto alla realtà. Di sé legge che sta per superare un periodo denso di impegni – e non è difficile da prevedere, visto che è in piena fase esami – e che i single non devono disperare, perché troveranno presto la felicità – e qui sorride, perché essendo tornata single da meno di un giorno dopo una storia di nove anni, trovare un altro uomo è l'ultima cosa che desidera. Poi, per curiosità, consulta anche l'oroscopo dei segni Vergine e Pesci, chiedendosi che cosa le stelle abbiano in serbo per Daria e Shannon. Ciò che legge fa vacillare il suo scetticismo, anche se solo per un attimo: in entrambi i casi si parla di scelte sbagliate, di errori da correggere, di occasioni da prendere al volo, di partenze e di ritorni – e nel leggere quelle parole il suo sesto senso si attiva, portandola a chiedersi se forse, a pochi chilometri da lì, ma anche a migliaia di miglia, non stia accadendo qualcosa che potrebbe cambiare le carte in tavola.

    Sono ormai le undici, e Daria non è ancora rincasata. Il tassametro continua a correre, ma ho smesso di prestargli attenzione. È dalle dieci e mezza che il tassista ha smesso di parlare, comprendendo il mio stato d'animo. Con la coda dell'occhio lo vedo smanettare con il telefono, forse dando la buona notte alla sua ragazza. Un po' invidio la sua situazione, il fatto che lui sia felice mentre io me sto qui ad aspettare una donna che non so quando potrebbe arrivare – né che cosa potrebbe dire vedendomi di nuovo dopo tutto questo silenzio.
    Finalmente, qualcosa sembra muoversi. Apro lo sportello e scendo sul marciapiede, abbastanza vicino per distinguere le persone che si avvicinano al portone, ma al contempo abbastanza lontano da poter sfruttare l'effetto sorpresa. «Cos'è successo? È arrivata?» mi sento domandare, ma non rispondo, troppo preso dalla mia analisi. Sento una risata femminile, e anche a parecchi metri di distanza sento che è lei. È Daria. Quasi non mi reggo sulle gambe per la sorpresa, e per essere certo di rimanere in piedi devo aggrapparmi allo sportello ancora aperto. Sono abbastanza lontano, ma anche da quella distanza riconosco la sua bellezza, il suo portamento, la sua camminata, e anche da quella distanza il suo cappello rosso mi fa sorridere, convinto come sono che le stia benissimo.
    Quando finalmente mi riprendo muovo due passi in avanti, fermandomi subito dopo. Daria è con un uomo, uno che non riesco ad identificare. Soltanto adesso mi accorgo che lui non solo le ha camminato accanto fino al portone, ma che le loro mani sono intrecciate, che le dita di lei stringono quelle di lui nello stesso modo in cui un tempo stringevano le mie. Mi sono appena accorto di questo dettaglio, e subito dopo li vedo abbracciarsi, e baciarsi in un modo che non lascia spazio ad alcun dubbio. Mi copro la bocca con una mano, rendendomi conto che quello non è il tipo di bacio che si dà alla fine di un appuntamento con una persona qualunque – quello è il tipo di bacio che si dà ad una persona di cui ti importa, e anche molto.
    Dopo quelli che forse sono due minuti, ma che potrebbero tranquillamente essere un paio d'ore, li vedo separarsi e salutarsi. Lei apre il portone ed entra, mentre lui torna indietro nella direzione da cui sono arrivati. Serro forte le labbra, sentendo che le lacrime si stanno facendo strada tra le mie ciglia, e senza dire una parola torno indietro e risalgo a bordo del taxi. «Mi riporti all'aeroporto, per favore» sussurro, e il tassista non fa domande. Rimette in moto e parte, mentre la voce di Robert Smith continua a fare da colonna sonora a questo assurdo viaggio. Parte Boys don't cry, e mai come in questo momento sento che la mia vita è accompagnata dalla canzone giusta.

    Dopo essermi chiusa il portone alle spalle rimango per qualche istante ferma nell'androne, colta da uno strano presentimento. Dopo qualche secondo riapro il portone e guardo fuori, esplorando entrambi i lati della strada. Sarà una cosa stupida, ma per un po' mi è sembrato che qualcuno stesse osservando me e Marco, come se ci fosse qualcuno appostato all'altro capo della strada.
    Constatato che la strada è deserta, rientro e salgo in casa, decisa a filare dritta a letto. Domani sarà una giornata piuttosto importante, ed è bene che raccolga tutte le forze possibili.

    «Ecco a lei» dico, porgendo al tassista una mazzetta di banconote. «Tenga il resto, e grazie.»
    «Grazie a lei» risponde lui, ficcando i soldi in un borsello e azzerando il tassametro. «Ehi, amico, io... mi dispiace che non sia andata. Sul serio, mi dispiace davvero. Non che abbia mai creduto al lieto fine, ma... ci speravo.»
    «Non può andare sempre bene» replico, prendendo il borsone e preparandomi a scendere. «Sono passati due mesi, non potevo certo pretendere che stesse lì ad aspettarmi. Se posso darle un consiglio... glielo chieda. Alla sua ragazza. Glielo chieda il prima possibile. A volte il momento perfetto bisogna crearselo da sé.»
    «Grazie per il consiglio. Lo seguirò. Buon ritorno.»
    «Grazie.» Scendo, rabbrividendo per il contatto con l'aria gelida della notte. Mi stringo nel cappotto e inizio a camminare, rientrando a testa bassa nella struttura da cui, non più di tre ore fa, sono uscito pieno di speranza.



1Dove siamo? Che cosa diavolo sta succedendo? | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Hide and seek della cantautrice britannica Imogen Heap, tratto dall'album Speak For Yourself (2005).

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Capitolo 13
*** 13 | Il mio cuore dice una cosa, il cervello ne dice un'altra. Non è facile, no, mettere d'accordo cuore e cervello, per me. I miei non si danno neanche del tu. ***


La lunga strada verso casa - 1
Pensavo che avrei covato il capitolo ancora per un paio di giorni, salvo rendermi conto che ci saranno di mezzo Halloween, il finesettimana e un'altra serata di presentazione per il mio libro, e che se aspettassi ancora la pubblicazione slitterebbe almeno di un'altra settimana... e per quanto sia una persona estremamente sadica, non mi sembra giusto farvi aspettare tanto. Tanto più che questo è soltanto un capitolo di transizione, dove non succede niente di davvero eclatante, perciò... godetevelo, se ci riuscite.
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo tredicesimo
Il mio cuore dice una cosa, il cervello ne dice un'altra.
Non è facile, no, mettere d'accordo cuore e cervello, per me.
I miei non si danno neanche del tu.1



Torino, 27 gennaio 2014


    Con l'aiuto di mio padre sono riuscita ad organizzare una semplice cena in famiglia: solo io, papà, Emanuele e Francesca. Voglio che siano soltanto loro a beneficiare della verità, almeno per adesso. Sarà già difficile introdurre l'argomento, e proprio non me la sento di avere intorno innocenti spettatori. Nonostante mio padre mi rivolga eloquenti occhiate per l'intero pasto, per sganciare la bomba aspetto il momento del caffè. Mentre Emanuele mescola con energia per far sciogliere lo zucchero e Francesca attacca la sua seconda fetta di torta, io prendo un respiro profondo. «Ragazzi, io vi devo parlare di una cosa importante» sparo fuori all'improvviso, ed entrambi si bloccano, guardandomi come se fossi appena apparsa davanti ai loro occhi. «Io credo... credo sia ora che parliamo della mamma.» In cucina cala il silenzio: Emanuele smette di muovere il cucchiaino e Francesca deglutisce a fatica il boccone che sta masticando, mentre mio padre resta ai margini della scena, osservandomi, pronto ad intervenire in caso di bisogno. «Non abbiamo mai parlato di lei, ma io credo che sia ora di farlo. Ci siamo sempre comportati come se lei non esistesse, ma lei esiste. Anche se non è stata molto presente, lei...»
    «Non è stata molto presente?» mi interrompe Emanuele, con una risolutezza che non avrei mai pensato di attribuirgli. «So che hai l'animo della scrittrice, ma questa va ben oltre la licenza poetica. Lei non c'è mai stata. Io nemmeno me la ricordo.»
    «Ma io sì» replico. «Insomma, ho passato un po' più di tempo con lei, quindi qualcosa me lo ricordo. Anche se questo non mi ha impedito di passare gli ultimi quindici anni ad odiarla e a pensare che mi avesse rovinato l'esistenza.»
    «E allora perché ne vuoi parlare?» pigola Francesca, giocherellando con le briciole sparse attorno al suo piatto.
    Prendo un altro respiro, guardo mio padre e decido di continuare. «Perché lei è tornata. Vive qui a Torino, e un paio di settimane fa è venuta a cercarmi. Voleva parlarmi. Chiedermi perdono, in realtà. Si è pentita di essersene andata, e voleva sapere se saremmo mai riusciti a... beh, a perdonarla
    «Incredibile» sussurra Emanuele. «Davvero incredibile. Spero che tu l'abbia mandata al diavolo.»
    Vedo mio padre muovere le labbra, come per dire a mio fratello di non essere così duro, ma decido di precederlo, e dire la verità. «In effetti sì. L'ho mandata al diavolo. Posso immaginare che tu sia arrabbiato con lei, ma posso assicurarti che io lo sono ancora di più. Lo sono di più proprio perché ricordo com'era la vita con lei. Ero piccola, ma conservo un sacco di ricordi di quel periodo, e rivederla dopo tutti questi anni... mi ha fatta incazzare. Mi ha fatta incazzare davvero, perciò le ho detto di sparire.»
    «E allora perché ne stiamo parlando?» continua lui, evidentemente seccato dalla notizia che ho appena dato.
    «Perché poi mi sono pentita di essermi comportata così, e sono andata a cercarla. Per quanto fossi arrabbiata, in fondo volevo sapere perché se ne fosse andata. Ero arrabbiata come non lo ero mai stata, ma volevo sapere. Così sono andata a cercarla, ci siamo messe sedute e abbiamo parlato. Beh, in realtà è stata lei a parlare. Io ho soltanto ascoltato.»
    «E... che cosa ti ha detto?» interviene Francesca, la voce sempre più bassa, ridotta quasi ad un pigolio.
    «Mi ha spiegato i motivi per cui ha deciso di andarsene. Mi ha raccontato quello che ha fatto in tutti questi anni, mi ha parlato del suo lavoro, della sua vita, e... della sua famiglia» concludo, sapendo che la parte difficile arriva ora.
    «Della sua famiglia?» ripete Emanuele. «Questo che significa?»
    «Significa che qualche anno dopo il divorzio si è risposata, e... ha avuto un altro bambino. Abbiamo un fratello.» Francesca sgrana gli occhi, che continua a tenere fissi su di me, mentre Emanuele guarda in basso, come se stesse a stento trattenendosi dall'esplodere. «Ha undici anni, si chiama Luca. L'ho conosciuto qualche giorno fa, e... beh, lui è un bambino straordinario. L'anno scorso ha perso suo padre, e a parte la mamma lui... lui non ha nessuno.»
    «Quindi che vuole? Adesso che è rimasta vedova le fa comodo tornare per avere dei babysitter gratis? Cos'è, vuole tornare con papà? Vuole che torniamo ad essere una bella famiglia felice?»
    Comprendendo la mia difficoltà nell'affrontare la rabbia di Emanuele, mio padre interviene. «No, Emanuele. Tua madre non ha chiesto nulla del genere. Non è un'opportunista, non lo è mai stata. La conosco da una vita, e ti assicuro che non cadrebbe mai così in basso.»
    «La conoscevi da una vita, eppure questo non ti è servito ad impedire che ti lasciasse.»
    «Non è andata proprio così. Ci sono cose che non sai.»
    Emanuele si alza e inizia a passeggiare su e giù per la stanza per scaricare la tensione. «Avresti potuto parlarcene, allora. Forse non quando eravamo bambini, ma adesso siamo abbastanza adulti per capire. Perché non ci hai mai detto come sono andate davvero le cose?»
    «Perché il divorzio è stato un fallimento, e sono poche le persone che parlerebbero volentieri di un fallimento. Ciò che posso dirti è che se siete cresciuti senza una madre è anche colpa mia. È vero, è stata lei ad andarsene, ma io sono altrettanto colpevole. Avrei dovuto fare di più per impedirglielo, e invece non sono stato in grado di combattere. Perciò, se devi arrabbiarti con qualcuno, quel qualcuno dovrei essere io.»
    «Scusa, è solo che... non riesco a capire perché sia tornata. Perché sia tornata adesso. Io non... io non riesco a capire, tutto qui.»
    A questo punto, comprendo che tocca di nuovo a me. «Perché ha bisogno di aiuto. I suoi genitori sono morti, suo fratello vive in un'altra nazione e ha perso suo marito. Luca è tutto ciò che le rimane, e lei teme che possa rimanere solo, nel caso che... beh, se le dovesse succedere qualcosa. È una madre, il suo istinto è proteggere la prole. Va bene, lo riconosco, con noi non è stata una campionessa di istinto materno, ma il tempo l'ha cambiata. È cresciuta, se vogliamo dire così. Adesso vuole proteggere suo figlio, ma da sola non può farcela.» Faccio una pausa, durante la quale Francesca abbassa lo sguardo ed Emanuele smette di camminare. «Io ho conosciuto quel bambino, e ha davvero bisogno di avere qualcuno accanto. Non dico che sarà facile, ma farò di tutto per aiutarlo, per... per essere una buona sorella maggiore. Non voglio obbligare nessuno dei due ad incontrarlo, né tantomeno a volergli bene. E non voglio nemmeno obbligarvi ad incontrare lei, se non lo volete. Non voglio obbligarvi, non posso e non lo farò. Però l'hai detto anche tu, Emanuele. Adesso siete abbastanza grandi per capire, e non potevo tenervi nascosta la verità. Se non volete avere niente a che fare con questa faccenda, a me sta bene. Vi vorrò bene comunque. Però lo dovevate sapere.» Incrocio lo sguardo di mio padre, che annuisce per farmi comprendere che approva il mio discorso.
    «Io... io credo di aver bisogno di un po' di tempo per pensarci» sussurra mio fratello, grattando il pavimento con la punta del piede. «Ora scusate, ma devo andare a studiare. Ho diversi codici da rivedere. Grazie per la cena. Buonanotte.»
    Seguiamo la sua ritirata con lo sguardo, poi tutta l'attenzione si rivolge verso Francesca, evidentemente a disagio. In risposta, lei si alza e mette il proprio piatto nel lavandino. «Io... penso anch'io di aver bisogno di un po' di tempo.» Le sorrido, cercando di farle capire che sono dalla sua parte, e così anche lei sorride. «Ora dovrei... devo andare a finire un disegno, scusate.»
    Rimasti soli, io e mio padre ci scambiamo una lunghissima occhiata. «Beh, direi che è andata bene» sospira lui. «Non credevo avresti avuto il coraggio di dirglielo.»
    «Dovevano sapere la verità. Se può esserti di consolazione, nemmeno io pensavo che ce l'avrei fatta.»
    «La verità è una buona cosa» replica, alzandosi e cominciando a sparecchiare. «Bisognerebbe sempre dire la verità.»
    Mi alzo per aiutarlo. «La verità può anche far male.»
    «Se ne avessi la facoltà, vorrei poter obbligare tutte le persone che amo a dirmi la verità, sempre. Le bugie fanno male, ma quando è una persona a cui vuoi bene quella che ti mente, è anche peggio.» Mi blocco, chiedendomi se questo discorso non sia in realtà un modo per farmi ammettere una mancanza. «So tutto, Daria» dice infine, immergendo i piatti nel lavandino. «So della tua storia con quel musicista, so di Parigi, so... so tutto, ecco» aggiunge, dandomi le spalle.
    «E come fai a sapere tutto?»
    «Ho parlato con Alice» ammette, voltandosi di nuovo verso di me. «Non arrabbiarti con lei. Farla confessare è stato parecchio complicato. Hai un'amica davvero speciale, e spero che tu te ne renda conto.»
    «Perché sei andato a farti raccontare i miei affari personali da Alice?»
    «Perché tu non avresti risposto alle mie domande.»
    «Perché sono cose private!»
    «Però con lei ne hai parlato.»
    «Alice è la mia migliore amica, è ovvio che abbia parlato con lei.»
    «Ne hai parlato anche con il tuo psicologo.»
    «Con lui parlo da anni, e la cosa non ti ha mai dato fastidio. Perché adesso sì?»
    «Non sto dicendo che mi abbia dato fastidio. Solo, non riesco a capire perché tu non mi abbia mai detto niente. Una volta parlavamo di tutto.»
    «Sei mai andato a parlare con tua madre delle ragazze con cui uscivi?»
    «Beh, no. Ma era diverso, era...»
    «Non c'è niente di diverso, papà. È esattamente la stessa cosa. È naturale che i figli abbiano dei segreti per i genitori. Soprattutto quando si tratta della propria vita sentimentale.»
    «Non si tratta soltanto della tua vita sentimentale, Daria. Non sono andato da Alice a chiedere informazioni sui tuoi ex ragazzi.»
    «E allora che cosa le hai chiesto?»
    «Le ho chiesto perché non sei più felice» risponde dopo un attimo di silenzio, spiazzandomi. «Sei diversa, Daria, e questo salta agli occhi di tutti. Da quando sei tornata da Parigi non sei più la stessa. Subito pensavo che fosse soltanto una mia impressione, credevo di essere diventato più sensibile soltanto perché ti eri trasferita e non potevo tenerti d'occhio come prima. Però poi mi sono accorto che non era soltanto una mia impressione. Sei cambiata davvero, e io avevo bisogno di sapere perché. Non sapevo che la cosa avesse a che vedere con un ragazzo, anche se lo sospettavo, finché non ho obbligato Alice a sputare il rospo.»
    «Che cosa ti ha raccontato?»
    «Tutto... o almeno credo. Mi ha raccontato di lui, del lavoro che fa, della sua vita... e poi mi ha raccontato di quanto ti rendesse felice, e di come tu lo abbia lasciato. Mi ha raccontato di Parigi, del modo in cui sei fuggita, e ha confermato le mie impressioni. Da quando hai deciso di darci un taglio non sei più la stessa.»
    «Ti ha detto quanti anni aveva?»
    «Sì, e anche se la cosa mi sconvolge un pochino, mi rifiuto di credere che questo sia stato il solo motivo che ti ha spinta a piantarlo. L'età è soltanto un numero, in fondo. Guarda i miei genitori: mio padre era parecchio più grande di mia madre, ma questo non ha impedito loro di essere felici e di costruirsi una famiglia. Hanno avuto una splendida vita, insieme.»
    «Il punto è questo, papà. Per quanto io e Shannon ci amassimo, costruire qualcosa insieme sarebbe stato impossibile. Non ci saremmo mai riusciti.»
    «Niente è impossibile, Daria. Sarebbe stato difficile, questo non lo nego, e di sicuro avreste avuto dei momenti no, ma sareste riusciti a risolverli. Nessuno ha mai avuto vita facile a questo mondo, ma in fondo chi la vuole una vita senza complicazioni?» sorride. «Quello che più mi è dispiaciuto è stato capire che avevi gettato la spugna. Ti sei arresa senza combattere, e questo mi fa sentire un fallito. Come padre, sento di aver fallito il mio compito, perché pensavo di averti insegnato che si deve sempre combattere, anche quando le cose si mettono male. Ma sono certo che tu abbia preso la decisione più giusta, alla fine. Insomma, se credi che potrai stare bene anche senza di lui, allora va bene. Ciò che conta è la tua felicità. Nient'altro. Solo la tua felicità.»
    «Io sto bene, papà. Credimi. Sto molto bene.»
    «E allora perché non mi guardi negli occhi mentre lo dici?»
    Punta sul vivo, tiro fuori un coraggio che non avrei mai sperato di trovare. «Io sto bene» ripeto, assicurandomi di mantenere il contatto visivo per tutto il tempo. «Non sei stato un fallimento come padre. Mi hai insegnato a pensare con la mia testa e a prendere sempre la decisione migliore per me, e ti assicuro che in questo caso ho davvero preso la decisione giusta. Con Shannon sarei stata felice, per un po', ma mai abbastanza a lungo. È stata la decisione giusta» ripeto, sapendo però di non esserne tanto sicura. Per quanto mi piaccia pensare di poggiare i piedi su solide certezze, so che più di una volta ho vacillato, e che probabilmente accadrà ancora. Ma soltanto gli automi non sbagliano mai, e io sono più che certa di non essere un automa. Sono un essere umano, una persona vera, una ragazza fatta di carne, sangue, cuore e cervello... per quanto il mio cuore e il mio cervello siano sempre stati piuttosto in competizione tra loro. «Starò bene.»

    Poco più di mezz'ora più tardi, Daria bussa alla porta della stanza di Francesca, intenta a realizzare un ritratto. Daria si avvicina a passo leggero, sbirciando il lavoro della sorella da sopra la sua spalla, e ciò che vede la sorprende: Francesca sta realizzando un ritratto della madre a partire da una vecchia fotografia, una di quelle che sapeva essere sepolte in una scatola sul fondo dell'armadio del padre. «Papà crede di averle nascoste bene» si giustifica la ragazzina, continuando a lavorare. «Le ho scoperte quando avevo dieci anni. Ne ho arraffate un paio e le ho nascoste nel cassetto delle mutande. Di sicuro lì non metterà mai le mani.» Daria sorride, accarezzandole la testa. «Credo che mi sia mancata più di quanto sia disposta ad ammettere. E so che è stupido, perché di lei non ricordo niente, ma... mi è mancata, tutto qui.»
    «Non è affatto una cosa stupida. È normale che ti sia mancata. È pur sempre una madre che non ti vede crescere. Che la ricordi o meno, è normale sentire la sua mancanza.»
    «Ti ha chiesto qualcosa di me? Insomma, quando avete parlato lei... lei ha voluto sapere qualcosa di noi?» le domanda Francesca, smettendo finalmente di disegnare per alzare lo sguardo.
    «Sì, mi ha chiesto un sacco di cose di te. Mi ha chiesto se ti impegni nello studio, che cosa ti piace fare... ah, e mi ha raccomandato di tenere d'occhio il tuo ragazzo. Credo si preoccupi molto per te. Credo si sia preoccupata molto per tutti noi, in fondo.»
    «E allora perché non è mai tornata?»
    Daria alza le spalle, come a dire che non sa spiegarlo. «A me ha detto di essersi pentita ogni giorno della sua fuga, ma non mi ha dato spiegazioni. Credo che nemmeno lei sappia darsi una spiegazione. Forse pensava che non l'avremmo mai perdonata, dunque non valeva nemmeno la pena tentare.»
    «Posso farti una domanda?»
    «Naturale. Cosa vuoi sapere?»
    «Come sei riuscita a decidere di incontrarla? Insomma, come hai deciso di... di darle un'altra chance?»
    «Non ne ho idea. Non è stato semplice, comunque. Insomma, non è che mi sono svegliata, un mattino, e ho deciso di riammetterla nella mia vita. È stato un percorso lungo e complicato, e se devo essere sincera mi sento ancora un po' confusa.» Daria fa una pausa per riflettere. «Credo che a convincermi definitivamente sia stato Luca. È per lui che lo faccio, più che per lei. È un ragazzino molto solo, e io so come ci si senta ad essere soli. Non è una bella sensazione» conclude, appoggiandosi di schiena alla scrivania e incrociando le braccia davanti al petto. «Comunque non voglio che ti senta obbligata a fare alcunché, e lo stesso vale per Emanuele. Non siamo un'unica entità. Ognuno di noi ha la sua testa e le sue idee, ed è giusto che agisca di conseguenza.»
    «Io non so che cosa fare» sospira Francesca. «In un certo senso mi sento arrabbiata con lei, vorrei prenderla a calci nel sedere e dirle di sparire. Però poi mi dico che è un'occasione più unica che rara, e cambio idea. È vero, si è persa una bella parte della mia vita, ma resta sempre mia madre. Anche se è tardi, potrei finalmente conoscerla. Sai, sapere qualcosa in più su di lei... mi sto rendendo conto solo adesso di quanto mi sia mancata.»
    «Dicono che non ci si renda conto di quello che hai finché non lo perdi.»
    «Ma anche che non ti rendi conto di ciò che ti è mancato finché non ti capita davanti.»
    «La mia sorellina sta diventando saggia» scherza Daria, scompigliandole appena i capelli. «Qualunque cosa deciderai andrà bene, e nessuno ti giudicherà per questo.»


*



Los Angeles, 27 gennaio 2014


    Sembrano essere passati secoli da quando sono partito, e invece sono passate soltanto poco di più di quarantotto ore. Entro in casa sbattendo la porta, abbandono il borsone in corridoio e cammino fino in salotto, fermandomi accanto al divano. Resto fermo per qualche istante nella penombra, accorgendomi soltanto in questo istante di quanto sia vuota la mia casa, e di conseguenza la mia vita. È vero, qualunque cosa accada avrò sempre dalla mia delle persone che mi vogliono bene – mia madre, mio fratello, Wayne, Tomo –, ma nessuna di quelle persone potrebbe mai amarmi nel solo modo in cui abbia bisogno di essere amato. Mi chiamo Shannon Leto, ho quasi quarantaquattro anni, e passerò il resto della mia vita da solo. Non è mai accaduto che una persona mi conquistasse tanto da arrivare a prendersi il mio cuore, e in questo istante mi rendo conto che se in tutta la vita non ho mai abbassato le mie difese, un motivo c'era. Ho sempre cercato di evitare di buttare le cose troppo sul personale per evitare di essere ferito, e l'unica volta in cui non ho ritenuto necessario difendermi è successo. Daria mi ha rubato il cuore, lo ha incatenato al suo e poi lo ha strappato via, lo ha fatto a pezzi e non si è disturbata nemmeno a passarmi un po' di colla per rimetterlo insieme.
    Daria ha un altro uomo. Soltanto ora sembro realizzare. Sono passati soltanto due mesi da quando mi ha lasciato, e Daria ha concesso il proprio cuore ad un altro uomo. C'è un altro nella sua vita: sono gli occhi di un altro quelli che studiano ogni suo movimento, sono le labbra di un altro quelle che la baciano, sono le mani di un altro quelle che la fanno sentire protetta. C'è un altro uomo nella sua vita, e io non sono stato in grado di reagire. Li ho visti baciarsi e non ho mosso un dito, anzi: ho battuto in ritirata come uno stupido ragazzino inerme, senza dire una parola. Vent'anni fa non lo avrei accettato: sarei corso a dividerli e forse avrei anche rifilato un paio di pugni a quel bastardo fortunato. Ma a quarant'anni le cose si affrontano in modo diverso, anche se, come me, sei un tipo che vive in modo decisamente alternativo, e che per antonomasia riesce sempre ad ottenere ciò che desidera.
    A quarant'anni le cose si affrontano in modo diverso, ma la rabbia e la frustrazione che mi scorrono nelle vene sono le stesse di un tempo. Usare le mani sembra una necessità, quasi un bisogno fisico che mi fa prudere i palmi e ha bisogno di essere sfogato. Mi sfilo il cappotto e lo lascio cadere sul divano, poi cammino rapidamente fino alla stanza che uso come studio. Accendo le luci, afferro le bacchette, e senza nemmeno mettere i tappi mi siedo sul seggiolino e inizio a picchiare sui tamburi come un forsennato, come se fosse l'unico modo per sfogare ciò che provo. Non seguo un ritmo, una particolare partitura: picchio e basta, come se su ogni tamburo fosse dipinta la figura di quelle due persone che si abbracciano e si baciano davanti al portone, sotto la luce fioca di un lampione. Picchio, picchio e picchio ancora, finché la rabbia viene fuori. Scatto in piedi e do un calcio ad un tamburo, rovesciandolo con un grido che somiglia ad un ringhio. Continuo a gridare fuori la mia rabbia e a prendere a calci tutto ciò che mi capita a tiro, senza pensare a quando dovrò rimettere a posto il casino che sto combinando.
    Quando finiscono i tamburi da calciare, sembra finita anche la rabbia. Mi blocco, guardandomi attorno con il fiatone. Dicono che sfogarsi sia un bene, che ti faccia sentire meglio, ma io non mi sento affatto meglio. Sono ancora arrabbiato, deluso, e il mio cuore giace ancora in pezzi sul pavimento, insieme ai fogli che ho sparso in giro durante la mia furia.
    Torno in salotto e vado deciso verso lo stipetto dove conservo i liquori. Senza pensarci arraffo una bottiglia di scotch, e dopo aver brevemente valutato l'idea di prendere un bicchiere ci ripenso. Chiudo gli occhi e bevo un lunghissimo sorso, sentendolo bruciare mentre corre giù per la mia gola, arrivando fino allo stomaco. Mi premo il dorso della mano sulle labbra, stringendo più forte le palpebre, e a questo punto faccio l'unica cosa che mi ero ripromesso di non fare mai più: mi lascio andare al pianto. Le lacrime sono calde e umide, e quando mi arrivano alla bocca persino le mie papille gustative bruciate dall'alcol riescono a percepire il sale di cui sono intrise. Bevo ancora, pur sapendo che questo non mi aiuterà. Bevo e spero di dimenticare, arrancando fino al divano. Mi lascio scivolare sul pavimento e continuo a bere, sperando di svegliarmi, domani mattina, e di scoprire che è stato tutto un sogno, che sono ancora nella mia stanza d'albergo, a Milano, e che niente di tutto questo è accaduto veramente.


*



Torino, 28 novembre 2014


    Seduta a cena con le proprie coinquiline, Alice appare pensierosa e piena di dubbi. «Posso chiedervi un consiglio?» domanda, sapendo che un parere extra non fa mai male. «Se una vostra amica trovasse l'uomo perfetto per lei e lo lasciasse perché è convinta che tra loro non possa funzionare, e se voi aveste la possibilità di farli tornare insieme, o se comunque aveste la possibilità di provarci, che cosa fareste? Insomma, vi fareste gli affari vostri e le lascereste commettere il più grande errore della sua vita, oppure ficchereste il naso?»
    «Io ficcherei il naso» rispondono le due in contemporanea, rivolgendosi poi uno sguardo divertito e scoppiando a ridere.
    «Non pensate che lei potrebbe arrabbiarsi? Insomma, è sempre della sua vita privata che si parla.»
    «Quanto siete amiche?» le domanda Marta, studentessa di matematica.
    «Ci conosciamo da sempre. Siamo praticamente cresciute insieme.»
    «E allora ficcare il naso è un tuo diritto» ribatte Cristina, all'ultimo anno di beni culturali. «Anzi, un dovere. Se la conosci da sempre e sei sicura che abbia commesso un errore, è tuo preciso dovere farglielo notare e consigliarle la giusta direzione.»
    «E se lei non mi volesse dare retta?»
    «Allora intervieni» interviene di nuovo Marta. «Se lei non imbocca da sola il sentiero, ci vuole una spintarella.»
    Alice sorride, sapendo che nel caso di Daria ci vorrebbe molto più di una spintarella. «Grazie. Avevo un dubbio da chiarire.»

    Più tardi, seduta sul letto con il portatile in bilico sulle gambe incrociate, Alice si sente più nervosa di quando si trova a dover scrivere ad un docente. È sempre stata molto brava con le lettere formali ed ha una conoscenza quasi ottima dell'inglese, ma ora che si trova a dover combinare le due cose non si sente più sicura di nulla. Nell'arco di un paio di giorni si sente trasformata, come se stesse diventando una nuova Alice, come se improvvisamente avesse varcato un confine invisibile, una linea netta che separa i ragazzini dagli adulti e divide per sempre i giochi dalla realtà. Sta per fare una cosa importante, forse una cosa che non dovrebbe nemmeno esserle passata per la mente, ma in fondo si tratta di Daria e della sua felicità, e per lei che non ha mai avuto una sorella questa è l'occasione di essere una brava sorella maggiore. Prende un respiro e inizia a muovere le dita sulla tastiera, tornando spesso indietro per modificare ciò che ha scritto, e quando finalmente preme il tasto Invio sono passate le quattro di mattina.



*



Los Angeles, 29 gennaio 2014


    Quando sente il trillio ripetuto del computer, che la sta avvertendo dell'arrivo di una nuova e-mail, Emma apre gli occhi e sbuffa. Jared le ha finalmente concesso una giornata di riposo, che lei ha programmato di dividere equamente tra il letto, un bagno caldo, una grossa pizza al formaggio e l'ultima stagione di The Big Bang Theory. Tuttavia, una vita passata ad organizzare la vita dei Mars fino all'ultimo dettaglio, pause pipì comprese, ha dato i suoi frutti, e il suo spirito maniacale ha la meglio. Afferra il cellulare abbandonato sul comodino e si alza, pensando che tanto vale andare a farsi un caffè. Cammina per casa cercando di connettere il cervello al midollo spinale, sbatte il piede contro lo spigolo del divano e impreca in una lingua semisconosciuta, e una volta in cucina riesce finalmente ad accedere alla sua casella di posta. Non le sembra di conoscere l'indirizzo, ma si consola sapendo che probabilmente in quel momento, annebbiata dal sonno e acceccata dal dolore alle dita dei piedi, probabilmente non riconoscerebbe nemmeno suo padre. Inizia a leggere soltanto quando può stringere nella mano libera una tazza calda, e già dall'oggetto della lettera capisce di doversi sedere.


Da: alice.lucarelli@yahoo.it
A: emma_ludbrook@gmail.com
29-01-2014 | 04:13 AM (GMT+1)
Oggetto: Emergenza Daria

Salve,
innanzitutto chiedo scusa per il disturbo, ma si tratta di una vera emergenza. Forse in una situazione normale non mi sarei presa tanta libertà e confidenza, ma ci sono casi in cui una donna deve fare quello che deve fare.
Mi chiamo Alice Lucarelli, e sono la migliore amica di Daria. La Daria di Shannon, intendo. Anche se non credo conosca molte ragazze che si chiamano Daria. Daria non sa che sto scrivendo questa e-mail, e forse è meglio che sia così. Già mi chiedo in quale modo deciderà di torturarmi fino alla morte quando lo verrà a sapere...
Daria ha commesso il più grande errore della propria vita, scappando da Parigi, e per quanto abbia provato a farglielo capire, lei non sembra in grado di accettarlo. Non ammetterà mai di aver fatto una stupidaggine, soprattutto con se stessa. La conosco da molto tempo, praticamente da una vita intera, e so che si è pentita di ciò che ha fatto un attimo dopo essere uscita dall'albergo. Ma conoscerla da una vita significa anche conoscere i suoi difetti, e se Daria ha un difetto, è quello di essere testarda come un mulo. Potrei essere l'oratrice migliore del mondo, e difficilmente mi darebbe ascolto.
Il punto è che lei è convinta di essere completamente indifferente a Shannon, e anche se non ho mai avuto il piacere di conoscerlo né di parlargli faccia a faccia, sono più che certa che non sia così. Questo perché conosco Daria da una vita, e so che è fisicamente impossibile starle accanto per più di cinque minuti e non affezionarsi a lei, o addirittura innamorarsene. È una persona difficile da capire ed è ancora più difficile starle accanto, ma se c'è una cosa di cui sono certa è che Shannon non può non essersi accorto di quanto sia speciale e di quanto sia straordinario poter godere della compagnia di una simile persona. Per non parlare poi dell'amore. Perché, sento di doverlo ripetere ancora una volta, io la conosco da sempre, e so capire con un solo sguardo quando ama qualcuno. Non parlo dell'innamoramento, di una cotta, di quello stato semi-diabetico che ti fa vedere il mondo attraverso lenti colorate di rosa e ti fa escludere tutti i problemi, no. Daria non è così. Lei non è una di quelle ragazze che si innamorano e annullano loro stesse in funzione dell'uomo di turno, no. Lei non è una di quelle persone che partono in quarta e fanno le cose di fretta. Lei impiega moltissimo tempo per dare fiducia alla gente, e se con Shannon ci ha messo così poco significa che per lui prova davvero qualcosa di speciale, qualcosa di intenso, qualcosa che di certo non può essere dimenticato nel volgere di pochi mesi.
Lei non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura, ma la verità è che Shannon le manca. Le manca come l'ossigeno, e senza di lui si sente persa. Chi la conosce bene sa che da quando è tornata da Parigi non è più la stessa, e tutti quelli che sanno di lei e Shannon possono facilmente comprendere la ragione del suo cambiamento. Solo che, appunto, lei ha la testa più dura del cemento, e non ammetterebbe mai di aver commesso un errore di tale portata. Le piace credere di avere la situazione sotto controllo, le piace credere di stare bene, ma chi la conosce bene sa che non è così, perché quando il tuo cuore è da un'altra parte, più precisamente dall'altra parte del mondo, non puoi stare bene.
So che suonerà certamente pretenzioso da parte mia, visto che in fondo sono una ragazza sconosciuta che scrive da un altro continente e Shannon nemmeno lo conosce, ma vorrei solo fargli sapere che se tiene a Daria tanto quanto immagino, se ancora la ama (perché deve amarla ancora, mi rifiuto di credere il contrario), allora dovrebbe saltare sul primo aereo disponibile e venire qui a dirglielo, qualunque cosa lei gli abbia chiesto nella sua stupida lettera. Shannon dovrebbe farlo, e dovrebbe farlo subito, perché Daria lo ama ancora e ha bisogno di lui, e senza di lui corre il rischio di non essere mai più felice quanto merita.
Grazie per l'attenzione,
Alice Lucarelli


    Emma impiega qualche istante per assimilare il contenuto della lettera, ma appena i suoi neuroni hanno la decenza di palesarsi capisce che deve correre a casa di Jared. Lascia perdere il caffè e corre in camera, colpendo il divano con il piede incolume, tornando ad imprecare, questa volta in un inglese moderno e quantomai corretto. Si raccoglie i capelli alla cieca, si lava i denti e si butta un po' d'acqua gelida sul viso, poi fruga nei cassetti alla ricerca di qualcosa di pulito, senza badare agli accostamenti di colore o stile. Esce di casa di corsa per rientrare dopo un istante, accorgendosi di non aver indossato le scarpe.
Dieci minuti più tardi, sta già usando la doppia chiave per fare irruzione in casa di Jared. «Jared!» urla, sapendo di usare gli stessi toni di una a cui hanno incendiato la macchina. «Jared, ci sei? Jared, ti devo parlare! È importante!»
    Jared le viene incontro a metà del salotto, finendo di sistemarsi un asciugamano attorno alla vita. «Emma, che succede?» le domanda, sgranando gli occhi per la sorpresa.
    «Devi leggere questa, subito!» ribatte svelta lei, ficcandogli in mano il proprio iPhone.
    «Perché devo leggere la pagina del meteo?» chiede lui, guardandola come se stesse decidendo se chiamare il reparto di Psichiatria o meno.
    «Scusa, ho sbagliato» replica lei, riprendendosi il telefono per cercare la schermata giusta. «Ecco, devi leggere questa e-mail. Mi è arrivata stanotte, ma l'ho letta soltanto stamattina. La devi leggere, è importante.»
    «La leggerò quando smetterai di tremare come una vecchia con il Parkinson e mi darai il telefono» risponde lui, cercando di mantenere la calma e prendendo l'apparecchio. Emma tenta di rimanere zitta e ferma mentre aspetta il responso di Jared, ma è consapevole di non essere mai stata più nervosa. Capisce che nemmeno lui è tranquillo quando lo vede arretrare fino al divano e sedersi, lo sguardo concentrato sullo schermo e i lunghi capelli bagnati che ricadono davanti agli occhi. «Ma che diavolo è questa, Emma?»
    «La migliore amica di Daria. A Parigi avevo dato a Daria uno dei miei biglietti da visita. Probabilmente l'indirizzo l'ha preso da lì. Shannon deve andare in Italia, ormai è sicuro. Deve mettere da parte l'orgoglio e le sue stupide promesse e partire» aggiunge dopo un attimo di pausa. «Deve partire.»
    A questo punto, Jared alza finalmente gli occhi sull'assistente. «Emma, Shannon è già partito. La notte tra il venticinque e il ventisei. A meno che non sia caduto l'aereo, e sono certo che ne avremmo sentito parlare, dovrebbe già essere da lei.»
    Emma tenta di riflettere, nonostante i neuroni abbiano di nuovo deciso per il letargo. «A questo punto dovrebbe già averla vista, è vero. E se si fossero visti, la sua migliore amica lo saprebbe. Insomma, se si dicono tutto, dovrebbe saperlo. A meno che la loro priorità non sia stata chiudersi in camera.»
    «Per quasi tre giorni? Ammetto che Shannon ci sappia fare, ma questo sarebbe troppo anche per lui.»
    «Pensi sia successo qualcosa?»
    «Non lo so» sospira lui, passandosi una mano sulla fronte umida. «So solo che ultimamente il mio sesto senso sembra essere entrato in sciopero. Forse mia madre ha ragione, penso sempre in maniera troppo positiva.»
    «Che intendi fare? Insomma, è vero che ha scritto a me, ma è ovvio che si stia rivolgendo a Shannon. Dovremmo chiamarlo?»
    Jared le restituisce il telefono, alzandosi in piedi. «No, non dobbiamo chiamarlo. Non so nemmeno dove sia. Io... io vado a mettermi qualcosa addosso. Tu rispondile e fatti dare il suo numero di cellulare. Scrivile ogni trenta secondi finché non ti risponde.»
    «Intendi telefonare ad una ragazza che non conosci e che abita dall'altra parte del mondo?» gli domanda lei, incredula per quanto ha appena sentito.
    «Vedi una soluzione migliore?» Emma si limita a fare spallucce. «Bene, nemmeno io. Scrivile.»



*



Torino, 29 gennaio 2014


    Alice sente la notifica di una nuova e-mail e si illude che finalmente la segreteria studenti abbia risposto alla domanda posta più di una settimana prima. Quando apre la pagina, però, il cuore manca un battito. Non soltanto Emma Ludbrook ha letto la sua delirante e-mail, ma ha anche risposto. E vuole il suo numero di cellulare. Più che certa che non si tratti di un fake che intende appropriarsi dei suoi dati, Alice obbedisce e scrive il proprio numero su una pagina bianca. Preme Invio, lascia perdere Kant e la sua filosofia e fa il refresh della pagina ogni dieci secondi, aspettandosi chissà quale mutamento nella schermata.



*



Los Angeles, 29 gennaio 2014


    «Ho il numero!» esclama Emma, agitando il telefono come una bandiera.
    «Inoltramelo, per favore. E anche l'e-mail di prima. E poi vai a casa e ti godi la tua giornata di libertà» replica lui, indossando una maglietta.
    «Sicuro di non volere supporto morale?»
    «Assolutamente sì.»
    «Ma io voglio sentire cosa vi dite...» protesta lei.
    «Ma ci sono casi in cui preferisco non avere spettatori» le sorride lui. «Avanti, esegui e poi fila via. Una giornata di riposo ti serve. Ti sei persino messa la maglia a rovescio.»


*



Torino, 29 gennaio 2014


    Con lo sguardo completamente perso nella schermata che mostra la sua casella di posta, Alice salta letteralmente sulla sedia quando il suo cellulare squilla, strappandola via allo stato di trance in cui non si era nemmeno accorta di essere scivolata. Studia per qualche secondo il numero, poi si arrischia a rispondere. «Pronto?» sussurra quando finalmente accetta la chiamata.
    Ma la voce che risponde non appartiene ad una donna, e rendersi conto di chi ci sia all'altro capo del filo quasi le causa una sincope. «Alice? Sono Jared Leto.» Alice si aggrappa al bordo della sedia per non cadere, mentre lui aggiunge: «Emma mi ha fatto leggere la tua e-mail.»
    «Sì, io... io forse ho esagerato, ma non sapevo davvero come fare per aiutare Daria.»
    «Sono certo che lei lo apprezzerà. Beh, forse quando lo scoprirà vorrà farti molto male, ma poi sono certo che comprenderà le tue ragioni.»
    «Grazie per l'incoraggiamento» risponde lei. «Io... ecco, io ho soltanto espresso un mio parere. Di certo non ho nessuna autorità per costringere Shannon a venire qui, ma...»
    «Shannon è già partito» la interrompe lui. «Come te, anch'io ho pensato che avesse bisogno di... come possiamo dire, una spintarella? Gli ho comprato un biglietto aperto per Torino. Aveva bisogno di qualcuno che gli suggerisse la giusta direzione, e immagino che quel qualcuno dovessi essere io. Non credevo l'avrebbe usato tanto preso, ma incredibilmente lui... l'ha fatto.»
    «Shannon è già partito? Quando?» domanda lei, incredibilmente piena di speranza.
    «La notte tra il venticinque e il ventisei» risponde lui. «Infatti la tua e-mail mi ha un po' preoccupato, perché a questo punto dovrebbe già essere lì da un po'. Da tipo due giorni, diciamo. Ammetto di non averlo chiamato e di conseguenza di non sapere nulla di lui da due giorni, ma...»
    Questa volta è lei ad interromperlo. «Ammettendo che sia in Italia da due giorni e che sia andato subito da Daria... no, non esiste. Lei me lo avrebbe detto. Nemmeno io le ho parlato in questi due giorni, ma una cosa del genere me l'avrebbe detta. A meno che la loro priorità non sia stata chiudersi in camera da letto.» All'altro capo del filo, Jared si lascia andare ad una risata, e Alice si sente arrossire come una scolaretta. «Che ho detto di tanto divertente?»
    «Niente, è solo che anche da questa parte del pianeta abbiamo avuto lo stesso dubbio» le risponde, recuperando un po' di serietà. «Tu sei sicura che lei ti avrebbe avvertito, se lo avesse visto?»
    «Di solito non amo ripetermi, ma conosco Daria quasi meglio di quanto conosca me stessa, e so che una notizia del genere me l'avrebbe comunicata. Ne sono certa.»
    «Quindi questo significa che qualcosa non è andato nel verso giusto» sussurra lui, e anche senza vederlo in faccia Alice riesce a percepire tutta la sua preoccupazione. La stessa preoccupazione che prova lei.     «Pensi di poter scoprire qualcosa al riguardo?»
    «Sì, credo di sì.»
    «Con discrezione, naturalmente. Per quanto ne sappiamo, potrebbero non essersi ancora visti.»
    «Discrezione è il mio secondo nome. No, veramente è Maria, ma... beh, lo farò. Sarò discreta.»
    Jared ride ancora, e Alice sente lo stomaco fare una capriola, proprio come farebbe quello di una sedicenne messa di fronte al suo idolo di sempre. «Sei simpatica, lo sai? Sei divertente. Non mi stupisce che tu e Daria siate tanto legate.»
    «Lei è praticamente una sorella, per me» risponde lei. «Mi piace pensare di conoscerla meglio di chiunque altro, e mi piace pensare che anche lei mi conosca meglio di chiunque altro. Tra sorelle dovrebbe essere così, no?»
    «So cosa vuoi dire. Tra me e Shannon è praticamente la stessa cosa. È la persona più importante della mia vita, e sarei pronto a tutto pur di risparmiargli ogni piccolo dolore.» Per quanto Alice trovi bizzarro stare al telefono con una star della musica e ascoltare le sue confidenze, non riesce a non comprendere il suo stato d'animo. Nonostante i soldi e la fama, Jared non è diverso da lei: è una persona che ama, che prende a cuore il benessere di coloro che lo circondano e che farebbe di tutto per loro. È un fratello pronto a saltare nelle fiamme dell'inferno, e nessuno meglio di lei può capirlo. «Cerca di scoprire tutto quello che puoi, poi fammi sapere. Scrivimi un sms, terrò il telefono addosso tutto il giorno.»
    «Va bene. Lo farò.»
    «Perfetto. È stato un piacere parlare con te.»
    «Grazie. Lo è stato anche per me.»
    Non appena si interrompe la comunicazione, Alice fissa il cellulare con aria stranita, chiedendosi se quella conversazione abbia davvero avuto luogo, oppure se si sia trattato di un'allucinazione uditiva dovuta al troppo studio. Salva il numero di Jared in rubrica, senza riuscire a crederci davvero, e subito dopo inizia a prepararsi per recarsi in aula studio, dove probabilmente non farà altro che pensare ad un modo per scoprire la verità sulla visita di Shannon in Italia.


*



Los Angeles, 29 gennaio 2014


    Una volta messo giù, Jared guarda il telefono e sorride. Sua madre gli ha spesso rimproverato di essere troppo ottimista e di vedere sempre il bicchiere troppo pieno, contestandogli il fatto che, a quarantadue anni suonati, un uomo dovrebbe iniziare a vedere le cose con un minimo di realismo. Jared è un'idealista, è vero – è un uomo adulto che non ha rinunciato al diritto di sognare, e che nonostante tutto crede sempre che le cose andranno bene, ma questo non fa di lui uno stupido né un ingenuo. Sa che per sistemare la faccenda di Shannon e Daria ci vorranno pazienza e molto impegno, qualità che lui possiede in abbondanza – ma il vero asso nella manica è il complice che non credeva di avere, ovvero Alice.
    Alice desidera far rimettere insieme quei due tanto quanto lui, perché, esattamente come lui, sa che sono fatti l'uno per l'altra, e rimanendo separati non faranno del male soltanto a loro stessi, ma anche a tutte le persone che li circondano, perché quando due persone fatte per stare insieme si lasciano, l'intero universo si ferma e piange una lacrima. Alice è la sua carta vincente, la sua spia in territorio nemico, la sua possibilità di sapere che cosa stia succedendo senza nemmeno scomodarsi ad uscire. Viceversa, gli piace l'idea di essere utile a lei per gli stessi motivi, per darle informazioni riguardo Shannon ed aiutarla ad aiutare Daria.
    Di lei non conosce che il nome e la voce, ma Jared sente già di essere affezionato a quella ragazza, così determinata e sicura di sé da essere riuscita prima ad indirizzargli una e-mail e poi a parlare con lui senza ritrosie, senza tentennamenti e senza farsi prendere dal panico. Si chiede se sia l'Italia a rendere le donne così particolari, o se per caso dipenda dal fatto di far parte della nuova generazione, o se semplicemente si tratti di due ragazze straordinarie, che per puro caso sono migliori amiche da sempre.



1Il mio cuore dice una cosa, il cervello ne dice un'altra. Non è facile, no, mettere d'accordo cuore e cervello, per me. I miei non si danno neanche del tu. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Cliff Stern (interpretato da Woody Allen) nel film Crimini e misfatti (1989).

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Capitolo 14
*** 14 | Giorno uno, giorno uno, ricominciare da capo. ***


La lunga strada verso casa - 1
Meno di mezz'ora fa, sul gruppo Facebook Direzioni ostinate e contrarie, ho asserito che il nuovo capitolo non sarebbe arrivato prima di due giorni. Nel contempo ho postato uno spoiler del capitolo quindicesimo, che certamente non arriverà prima della prossima settimana, e leggendo le reazioni alla suddetta anticipazione mi sono sentita così in colpa che proprio non me la sono sentita di rimandare oltre la pubblicazione di questo ennesimo scempio.
Abbiate pietà di me: in fondo sono solo una povera derelitta in grado di reggere una penna.
Buona lettura,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo quattordicesimo
Giorno uno, giorno uno,
ricominciare da capo.1



Torino, 30 gennaio 2014


    Sono le dieci di giovedì mattina quando Alice si ferma davanti alla libreria di Marco. Prende un respiro profondo e apre la porta, senza sapere bene che cosa aspettarsi né cosa dire. Se confessasse la telefonata con Jared – evento dal quale non si è ancora ripresa – dovrebbe parlare anche di Shannon e del suo viaggio in Italia, e questo, nel caso lui non si fosse ancora palesato – o, peggio, se le cose fossero andate male – equivarrebbe ad un enorme sputtanamento, con conseguente fallimento della promessa di discrezione fatta a Jared. D'altra parte, non riesce a credere che Daria le avrebbe taciuto una visita di Shannon, in ogni caso, anche se Daria, si sa, è una persona in grado di riservare questa ed altre sorprese – non è forse stata lei a tacere l'enorme dubbio di essere rimasta incinta?
    Ad accoglierla, con il solito sorriso e gli enormi occhi celesti che riuscirebbero a risvegliare un morto, c'è proprio Marco. «Ehi, ciao! È un sacco di tempo che non ti si vede in giro.»
    «Ciao, Marco» replica lei, facendo correre lo sguardo per l'intero locale alla ricerca dell'amica. «Ho avuto un po' da fare con un paio di esami. Se voglio laurearmi a luglio devo darci dentro. Sono piuttosto indietro sulla mia tabella di marcia, ma penso di potercela fare. Daria non c'è?»
    «Arriva subito. È solo andata...» Non conclude la frase, ma fa un cenno con la testa in direzione del bagno.
    «Capito. Ti scoccia se te la rubo cinque minuti? Il tempo di andare a prendere un caffè.»
    «Figurati, fate pure. È una mattinata piuttosto fiacca.» Sorride e riporta gli occhi sulle carte che sta sfogliando, poi rialza la testa. «Probabilmente te lo dirà anche lei, ma... l'altra sera siamo usciti, e ci è venuta in mente un'idea. La prossima volta che Federico viene a Torino, se vi va, potremmo andare a cena tutti insieme. Non so se la cosa può interessarvi.»
    «Oh, è un'idea molto carina» replica lei, indecisa se confessare o meno la verità. Dopo una breve lotta interiore, però, il suo lato pragmatico spinge per uscire fuori. È inutile nascondere la verità quando non è necessario, soprattutto quando è una verità che non può fare male. «Ci siamo lasciati.»
    «Ah» è la risposta di Marco, che mai come in questo momento sente l'esigenza di sparire dalla faccia della terra. «Mi dispiace, io non sapevo che...»
    «Non preoccuparti, non lo sa nemmeno Daria. È una novità di questi giorni. Infatti è per questo che sono qui» aggiunge. «Quando torna, per favore, potresti fingere che non te l'abbia detto? Non le voglio rovinare la sorpresa.»
    «Certo, nessun problema» replica lui. «Ho la bocca cucita.»
    Finalmente Daria torna dal bagno, e alla vista di Alice spalanca gli occhi, sorpresa. «Che ci fai qui? È successo qualcosa?»
    «Non ti sentivo da qualche giorno, perciò ho pensato di venire a rapirti per andare a bere un caffè. Ho già chiesto il permesso al tuo carceriere, tranquilla» aggiunge, sorridendo ad entrambi.
    «Sicuro che posso?» si accerta Daria, rivolgendosi a Marco.
    «Ma certo che sono sicuro. Stamattina sembra di essere nel deserto del Gobi. Basta che me la riporti per l'ora di pranzo» aggiunge, guardando di nuovo l'altra ragazza.
    «Parola di coccinella.»
    «Non sei mai stata una coccinella» la smentisce Daria, andando nel retro per prendere il cappotto.
    «Mi serviva una frase d'effetto per uscire di scena, e tu hai rovinato tutto!» replica l'altra, senza perdere il sorriso. Questa è la Daria che conosce, e che da un po' di tempo, come ha confermato anche Danilo, sembra essere scomparsa – lei è amica della Daria che ride, scherza e fa battute, non della Daria che scompare per giorni senza dare notizie di sé. La aspetta accanto alla porta, cercando di spiare il modo in cui lei e Marco si saluteranno, convinta che potrà carpire molte più informazioni dal loro comportamento che da una conversazione di ore. Li guarda sorridersi a vicenda e sussurrarsi un "A dopo" che a malapena arriva alle sue orecchie, senza né un bacio né uno sfiorarsi di dita, e immediatamente pensa che già questo sia un segnale parecchio importante: come può Daria considerare importante una relazione del genere, un rapporto in cui la passione sembra ferma a livelli da terza elementare? Certo, è pur vero che Daria non è mai stata il tipo di ragazza che ama lasciarsi andare ad effusioni in pubblico, e conoscendo entrambi è probabile che abbiano deciso di limitare i contatti sul posto di lavoro, ma non riesce ad impedirsi di pensare che in qualche modo dovrebbe vedersi che stanno insieme, che tra loro c'è di più di un semplice rapporto di lavoro o di amicizia. Alice non ha mai visto Daria e Shannon insieme, ma conosce abbastanza la sua amica da sapere, senza bisogno di prove, che tra loro le cose erano diverse. Dovevano esserlo per forza. Assistendo a quella totale mancanza di passione si chiede se tutto questo non faccia parte del piano di Daria, che prevede il ricominciare, su tutti i fronti: un nuovo carattere, un nuovo ragazzo, un nuovo modo di affrontare la vita. Potrebbe essere così, ma a lei non sta bene: lei rivuole la Daria vecchia, quella che ha conosciuto in prima elementare e quella con cui ha diviso ogni segreto. Rivuole la Daria i cui occhi brillavano per un semplice messaggio di buongiorno, quella che temeva sempre di non essere mai abbastanza, quella che sapeva tenersi stretto tutto il buono che la vita aveva da offrirle. Rivuole la sua Daria, perché quella che vede ora, ormai ne è certa, non è la Daria a cui vuole bene.


*



Los Angeles, 30 gennaio 2014


    Sono passati due giorni da quando mi sono svegliato sul pavimento del soggiorno, accanto ad una bottiglia vuota di ottimo scotch, un mal di testa da paura e la sgradevole sensazione di aver fatto qualcosa di molto stupido. Contrariamente a quanto succede nei film, non sono bastati una doccia calda e un caffè forte a rimettermi in sesto, e a distanza di quarantotto ore mi sento ancora una merda. Ho trascorso l'intera giornata di mercoledì a riordinare lo studio, rimettendo a posto la batteria e gli spartiti, che nella mia furia sono volati ovunque, ma nemmeno questo è servito a rimettere a posto le cose. L'immagine di Daria che stringe un altro uomo nello stesso modo in cui un tempo ha stretto me continua a perseguitarmi, seguendomi fin dentro ai sogni, senza darmi pace. Mi sono alzato nel cuore della notte, e per evitare di incappare in altri guai ho vuotato nel lavandino della cucina ogni singolo goccio d'alcol trovato in casa: birra, whiskey, vodka, tequila... per evitare di avvelenarmi ancora il corpo ho preferito fare un regalo al sistema fognario di Los Angeles, lasciando che l'unica cosa ad essere rovinata sia il mio spirito.
    Sono a casa da quasi tre giorni, e ancora non ho avvertito nessuno del mio rientro. I giornali si accumulano sugli scalini e la cassetta della posta si riempie di pubblicità, ma non ho intenzione di far sapere al mondo che sono tornato. Non prima di aver fatto ordine nel mio cuore, almeno. Mia madre si trasferirebbe qui per badare a me e Jared tirerebbe fuori il completo da crocerossina, e per quanto sia consapevole che sarebbe fatto tutto senza secondi fini e senza cattive intenzioni, non intendo permettere che mi si tratti come se fossi una persona malata o che ha bisogno di aiuto. Ho il cuore spezzato, questo è vero, ma non è una condizione in grado di pregiudicare la mia permanenza su questo pianeta. Nessuno è mai morto per un cuore spezzato. Forse dopo una tale delusione la vita diventa una vera merda, ma quel che è certo è che, in qualche strano ma incredibile modo, si continua a vivere.
    Devo solo scavare dentro me stesso, e trovare la forza necessaria per ricominiciare.



*



Torino, 30 gennaio 2014


    «Allora, di che mi devi parlare?»
    «Devo per forza avere qualcosa di cui parlare per invitarti a prendere un caffè?» mi domanda Alice, facendo spallucce. «Non ti ho sentita per un sacco di giorni, ho pensato di venire a vedere se eri viva. Magari sei tu quella che ha delle novità.»
    «Nessuna in particolare, se non che ho parlato con Emanuele e Francesca della mamma e del fatto che abbiamo un fratello. Emanuele ha reagito malissimo, mentre Francesca è confusa e non sa che fare. Direi che poteva andare peggio.»
    «Pensi che vorranno andare avanti?»
    «Se li conosco, la curiosità vincerà ogni dubbio. Forse lui ci metterà un po' più di tempo, ma Dio solo sa quanto lo capisco. Non è una cosa facile da digerire. Però ci terrei che stabilisse un rapporto con Luca. Più che di due sorelle, quel ragazzino ha bisogno di un fratello. Gli serve una figura maschile. L'ideale sarebbe un padre, ma visto che questo non si può avere... e poi quei due sono così simili. Luca deve avere la prova che essere diverso dagli altri ragazzini non lo rende un perdente. Emanuele è sempre stato diverso dagli altri, eppure guarda che uomo straordinario sta diventando.»
    «Ci tieni davvero tanto, eh?»
    «Non pensavo di potermi affezionare tanto a lui in così poco tempo, però è successo. A volte non mi riconosco. Mi sembra di essere una persona completamente diversa, mi sembra di... di essere cambiata così tanto, in questi ultimi mesi.»
    «Ti sembrerà una novità immensa, ma nella vita la gente cambia.»
    «Non posso darti torto» rispondo. «Comunque se non fossi passata tu da me, oggi ti avrei chiamata io. C'è una cosa di cui devo parlarti.» La guardo raddrizzarsi sulla sedia, come se si aspettasse di sentirmi dire che ho trovato una cura per il cancro. «Mio padre ha detto di aver parlato con te, e di sapere tutto di me e di Shannon.»
    Alice abbassa lo sguardo con aria colpevole, consapevole di aver tradito il nostro patto di fiducia reciproca e di meritare che le vomiti addosso tutta la mia rabbia e la mia frustrazione. «Mi dispiace, Daria. Ho provato a mentirgli, ma non ci sono riuscita. Mi ha smascherata già alla prima bugia, e tu sai che in quanto a bugie soltanto tu riesci a tenermi testa.»
    «Non sono arrabbiata» la rassicuro. «Insomma, forse lo sono stata per un po'... per qualche minuto, forse mezz'ora. Forse per mezz'ora ti ho anche odiata, ma poi... non lo so, mi è passata. In questo momento ho così tante cose per la testa che... non lo so, forse il mio inconscio mi ha detto che non valeva la pena di arrabbiarsi per questo. In fondo, prima o poi lo avrebbe scoperto. Prima o poi gliene avrei parlato. Ancora non so quando, o in che modo lo avrei fatto, ma prima o poi lo avrei fatto. Forse ti dovrei ringraziare» aggiungo. «Mi hai risparmiato l'imbarazzo di confessare a mio padre che andavo a letto con un uomo della sua generazione.»
    «Che ti ha detto? Insomma, come ha affrontato la questione? È venuto a suonare alla tua porta nel cuore della notte urlandoti contro perché non ti eri confidata con lui?»
    «No, è stato molto... civile. Sì, credo sia la definizione giusta. È stato molto pacato e civile. E questo, se possibile, mi fa sentire ancora peggio.»
    «Com'è possibile che la sua gentilezza ti faccia sentire peggio?»
    «Ha detto che mi trova cambiata» confesso, abbassando impercettibilmente la voce. «Ha detto che da quando sono tornata da Parigi non sono più la stessa, e questo mi confonde. A me non sembra di essere cambiata. O forse sì, ma non credevo che fosse tanto evidente. Tu credi che sia diversa?»
    «Devo rispondere o posso scegliere di tacere?» replica lei, e dal suo sguardo comprendo che mio padre non è il solo ad aver avuto quell'impressione di me. «Quello che è successo a Parigi ti ha cambiata, questo è poco ma sicuro. Sinceramente, mi sarei preoccupata di più se avessi continuato a comportarti come sempre. Hai preso una decisione difficile, hai compiuto una scelta che in un certo senso potrebbe aver condizionato il resto della tua vita, ed è nella natura di ogni essere umano cambiare, nel corso della propria esistenza.»
    «Va bene, questa era la risposta da filosofa» ribatto. «La risposta da amica qual è?»
    «Potrei dartela, ma non credo ti piacerebbe.»
    «Non ci siamo mai nascoste niente, Alice. Sputa il rospo.»
    Alice abbassa la tazza e lo sguardo, raccogliendo le forze necessarie per sparare il colpo che forse non mi ucciderà, ma che di certo mi ferirà molto gravemente. «La Daria che sono andata a prendere in stazione non è la stessa Daria che ho accompagnato» risponde. «Non so che cosa sia, ma di certo qualcosa in te è diverso. Il fatto che tu abbia seppellito tutti i ricordi in una scatola, tanto per cominciare... non è da te, ecco. Tu sei una che non riesce a buttarsi il passato dietro le spalle. Ci provi, ci provi con tutte le tue forze, ma ti ci vuole una vita per dimenticare. Riesci a nascondere le cose per un po', ma non riesci a cancellarle per sempre. Tu non dimentichi mai, e questo è sia un dono che una croce. E poi, il fatto che ti sia buttata subito in questa relazione con Marco... non mi convince, ecco. So che sono una che di solito lascia stare, una che non si impiccia a meno di essere stata invitata a farlo, però... questa cosa non mi piace, Daria. Non dico di non esserne felice, perché sono stata la prima a dire che avreste formato una bella coppia, però... è troppo presto, Daria. Forse non lo sarebbe per altri, ma per la ragazza che conoscevo anche vent'anni non sarebbero stati abbastanza.»
    «Stai dicendo che ho iniziato ad uscire con Marco soltanto per dimenticare Shannon? Che sto usando Marco per cancellare un ricordo che non voglio più?» Per quanto so che non riuscirei ad arrabbiarmi con Alice nemmeno se mi trucidasse la famiglia, sento che la sua ultima affermazione nasconde una critica, e questo un po' mi infastidisce, perché non mi va di essere vista come un'opportunista, una che usa le altre persone per i propri fini. Non lo sono mai stata, e di certo non voglio iniziare ora.
    «Non ho detto questo, e sai che non mi permetterei mai» replica lei, come sempre in grado di mantenere una serafica calma, per quanto sia certa che il mio attacco non l'abbia lasciata del tutto indifferente. «Non dico che tu e Marco non siate una bella coppia, o che tu provi un sincero attaccamento nei suoi confronti. Dei suoi sentimenti non parlo nemmeno, perché che ti ami con tutto il suo cuore è indubbio. Dico solo che hai lavorato con lui per cinque anni, ma soltanto adesso ti sei decisa a dargli una possibilità, per quanto fosse chiaro da tempo che era cotto di te. Quello che mi sorprende è che... beh, è che ti sei accorta di lui soltanto dopo... no, aspetta. Meglio che mi fermi, altrimenti sembrerà davvero che pensi che tu lo stia solo usando.»
    «Pensi che dovrei fermarmi prima che sia troppo tardi?»
    «Daria, sei abbastanza grande per prendere da sola le tue decisioni. Io sono una tua amica, la tua migliore amica, e starti accanto in ogni caso è mio dovere. Posso esprimere la mia opinione e darti un consiglio, ma non posso condizionare la tua vita. Quella è una responsabilità solo tua. Tutto ciò che posso dirti è che tutti prendiamo delle decisioni, e presto o tardi può capitare di prendere quella sbagliata. In quel caso, bisogna assumersene la responsabilità e conviverci, tutto qui.»
    «Perché ho la sensazione che questo discorso non riguardi più soltanto me?» domando, convinta che la conversazione stia scivolando verso un piano più generale, per finire forse su un terreno nel quale non avrei mai pensato di addentrarmi.
    «Ho lasciato Federico» sputa fuori d'un tratto, forse sentendosi messa alle strette.
    «Hai fatto cosa?» esclamo, così forte che il barista si gira per controllare che vada tutto bene.
    «Forse sarebbe più corretto dire che ci siamo lasciati» si corregge. «Domenica mattina sono andata a Milano, ci siamo seduti davanti ad un caffè e abbiamo parlato. È venuto fuori che entrambi avevamo dei dubbi da tempo, ma che nessuno dei due aveva voglia di passare come il piantagrane della situazione. Siamo ancora amici, e forse lo saremo per sempre. Penso che forse è questo che siamo stati, nell'ultimo periodo. Semplici amici. Sì, ci vedevamo di tanto in tanto, facevamo dell'ottimo sesso e passavamo dei bei momenti, ma tutto finiva qui. Lui non era la persona da cui correvo quando avevo un problema, e io non ero la prima persona con cui lui si confidasse. Io correvo da te e lui correva da suo fratello. L'abbiamo risolta in maniera civile, se vogliamo dire così. Abbiamo parlato, abbiamo convenuto che era meglio lasciarci e poi sono andata a pranzo con i suoi genitori. Non dico che non avrà sempre un posto speciale nel mio cuore, ma... non è lui la mia persona.»
    «La tua persona?»
    «Ma sì, la mia persona. Dai, che Grey's Anatomy lo hai visto anche tu. La mia persona, quella che vorresti accanto nei momenti importanti.»
    «Beh, ma se non era lui la tua persona, allora chi...» Mi interrompo, comprendendo quello che sta cercando di comunicarmi. Sorrido, abbassando lo sguardo. «Va bene, ho capito. Sono io la tua Cristina.»
    «Col cavolo che sei Cristina!» mi corregge, sorridendo a sua volta. «Sono io Cristina. Tu sei Meredith, perché tra noi due la più incasinata sei tu.»
    «Come se Cristina non avesse la sua dose di drammi morali...» rido, finendo il mio cappuccino. «Ma perché non sei venuta subito a dirmelo? È vero che ho già la mia buona dose di guai, ma sai che troverei sempre un posticino per i tuoi.»
    «Non è che ci fosse molto di cui parlare. Ci sarebbe stato se fosse stata una rottura difficile, ma non lo è stata, perciò...»
    «Mi sarebbe piaciuto saperlo subito, però.»
    «La prossima volta verrò subito da te, lo prometto. Diciamo che questa è la mia vendetta per quando non mi hai detto che pensavi di essere rimasta incinta.» Ci scambiamo una lunga occhiata complice e un sorriso, e comprendo che non importa quanto Parigi possa avermi cambiata – per me Alice sarà sempre presente, e questo conta più di ogni altra cosa.


*



Los Angeles, 30 gennaio 2014


    A Los Angeles sono le tre del mattino, ma Jared non dorme. Le ha provate tutte, pur di prendere sonno: una tisana, un lungo bagno caldo, qualche nota strimpellata al pianoforte, ma niente sembra aver funzionato. Nemmeno starsene disteso sulla schiena a ripetere sommessamente «Jared, dormi» pare sortire effetti. Perciò, quando lo schermo del cellulare si illumina, rivelando di aver ricevuto un messaggio da Alice, Jared non impiega più di dieci secondi prima di far partire la chiamata.
    «P-pronto?»
    «Alice? Sono io, Jared.»
    «Non è notte fonda, a Los Angeles? Avevo capito che fossi lì. Qui sono le undici del mattino, quindi lì dovrebbero essere...»
    «Le tre del mattino» completa lui. «Le tre e otto minuti, in realtà. Il fatto è che non riesco a dormire. Di solito non impiego più di cinque minuti per addormentarmi, ma stavolta non ci riesco proprio. E dire che ho dormito praticamente in ogni posto immaginabile.»
    «Non stento a crederlo, con la vita che fate...» sorride lei, chiedendosi in quanti diversi letti gli sia capitato di stendersi nel corso della sua vita – e in compagnia di quante persone. «Beh, allora non devo sentirmi in colpa per averti svegliato. È una buona cosa. Detesto arrecare disturbo alla gente.»
    «Figurati, anche se mi avessi svegliato non te lo farei pesare. Mi fa piacere sentire una voce amica. Dimmi anche che hai buone notizie, e potrei seriamente prendere in considerazione l'idea di farti un regalo.»
    «Una buona notizia c'è, a dire il vero» replica lei. «Daria non ha respinto Shannon.»
    «Dici sul serio?» è la reazione di lui, che si mette rapidamente a sedere, come se questo potesse aiutarlo ad assimilare meglio la notizia. «Quindi sono riuscito a farli rimettere insieme? Lo sapevo, sono un uomo assolutamente geniale.»
    «Fossi in te, aspetterei a stappare lo champagne e scegliere lo smoking per la cerimonia» lo frena lei. Le piace giocare con le parole, ma sa anche che non sarebbe giusto fargli credere qualcosa che in realtà non è mai avvenuto. «Daria non ha respinto Shannon perché non lo ha visto.»
    Jared ha bisogno di qualche secondo per recepire il messaggio. «Che cosa stai dicendo? Come sarebbe che non lo ha visto?»
    «L'ho appena vista, siamo andate a bere un caffè e abbiamo fatto quattro chiacchiere. Mi ha elencato per filo e per segno tutti gli eventi della settimana, e il nome di Shannon non è saltato fuori da nessuna parte.»
    «Ne sei sicura?»
    «Mi stai davvero chiedendo se ne sono sicura? Te l'ho detto, io e Daria parliamo praticamente di qualunque cosa. Se Shannon fosse andato a bussare alla sua porta implorandola di tornare insieme, lei me lo avrebbe detto.»
    «Anche se lo avesse bidonato?»
    «Assolutamente sì. Lo avrebbe fatto, ne sono certa.»
    «Beh, magari non te lo ha raccontato perché pensava che l'avresti sgridata.»
    «Jared, la conosco da quando avevamo ancora entrambe i denti da latte. È già successo che mi raccontasse cose che le sono costate una sgridata, e sono quasi certa che in questo caso non sia andata diversamente.»
    «Beh, ma quasi certa non ha lo stesso valore di certa. Le hai fatto delle domande in proposito?»
    «Mi hai chiesto di essere discreta, ricordi? Non potevo certo chiederle a muso duro se Shannon le avesse suonato il campanello!» Se c'è una cosa che Alice detesta, è che la gente non abbia fiducia nelle sue parole. Ogni volta che qualcuno mette in dubbio la sua attendibilità la sua diplomazia va a farsi benedire, e al suo interlocutore non resta che chiamare in causa tutti i santi che conosce. E poco importa che all'altro capo del filo ci sia Jared Leto: come sempre, lei è pronta a dare battaglia. «Mi hai chiesto di scoprire che cosa fosse successo, e io l'ho fatto. Il risultato è che non è successo un bel niente. Shannon sarà anche salito sull'aereo, ma nel frattempo è successo qualcosa che non l'ha fatto arrivare a destinazione. Il mio dovere l'ho fatto. Se non ti fidi delle mie parole, muovi le chiappe e la verità scoprila da solo. Ora devo andare. È stato un piacere.» Del tutto inaspettatamente, Alice riaggancia, lasciando Jared con un palmo di naso. Non è mai successo che qualcuno gli parlasse a quel modo – soprattutto una persona che nemmeno ha mai visto in faccia –, e la sensazione che prova non gli piace per niente. Gli piace che una persona dimostri di avere carattere, ma quando la cosa si ritorce contro di lui non gli sembra più così fantastica. Dopo qualche secondo si riprende e compone di nuovo il numero. Non lascerà cadere la questione senza lottare.



*



Torino, 30 gennaio 2014


    Alice lascia squillare il telefono per un po', prima di decidersi a rispondere. Fanculo Jared Leto: essere una star della musica e del cinema non lo autorizza a trattarla con tanta sufficienza, a chiedere il suo aiuto e poi mettere in dubbio le sue parole. Tuttavia, non ha nemmeno voglia di lasciar cadere la questione così presto: è una ragazza abituata a combattere, e la sua natura di filosofa le impedisce di abbandonare un dibattito senza aver prima giocato tutte le proprie carte. «Ma tu fai sempre così?» domanda Jared dall'altro capo della linea. «Sei sempre così drastica?»
    «Studio filosofia» replica, e immediatamente le sembra la cosa più stupida che avrebbe potuto dire. «Sono abituata a confutare ogni teoria» aggiunge, sperando di correggere il tiro e darsi un tono.
    «Questo può starmi bene, mi piace intavolare conversazioni serie con le persone. Però tu non hai confutato un bel niente. Mi hai sbattuto il telefono in faccia.»
    «Ma l'ho fatto dopo aver esposto la mia teoria» ribatte lei, cercando una panchina asciutta sulla quale sedersi.
    «E senza darmi la possibilità di replicare.» Alice non risponde, rendendosi conto che è esattamente questo che è successo: ferita nell'orgoglio e arrabbiata per il fatto che Jared non volesse accettare la realtà, ha preso la strada più semplice, chiudendo la conversazione prima che degenerasse. «Se non rispondi, i motivi possono essere soltanto due: è caduta la linea, oppure io ho ragione e tu non sai come rispondere.»
    «Non hai assolutamente ragione» replica la ragazza con il tono più tagliente del proprio repertorio.
    «Ah, allora non è caduta la linea...»
    «Non hai ragione per niente
    «Però, sei davvero una ragazza combattiva, allora. Cos'è, vuoi che ti chieda scusa?»
    «Non voglio che tu mi chieda scusa soltanto per metterti il cuore in pace, o perché pensi che voglia essere lusingata. Non voglio essere lusingata. Odio essere lusingata. Odio i leccapiedi.»
    «Scusa, non volevo farti arrabbiare.»
    «Non farlo, per favore.»
    «Fare cosa?»
    «Quello che stai facendo. Fai il carino per far sì che io ti perdoni.»
    «Mi trovi carino, davvero?»
    Alice si stacca per un attimo il cellulare dall'orecchio e lo guarda come se avesse appena preso vita. Quella conversazione sta prendendo una strana piega, e anche se non è certa che la cosa le dispiaccia, non è certa nemmeno che sia il caso di continuare. «Senti, Jared, io avrei delle cose da fare. Qui è giorno pieno, e io devo studiare. A luglio devo laurearmi, ho ancora due esami da dare e una tesi da finire. Quindi non ho tempo da perdere. Mi hai chiesto di darti una mano e io l'ho fatto. Mi hai chiesto di indagare su Daria e Shannon, io l'ho fatto e ti ho raccontato quello che ho scoperto. Se quel che ho detto non ti piace, affari tuoi. Io il mio dovere l'ho fatto.»
    «Scusa» sussurra Jared, e Alice sente che questa volta è davvero sincero. Certo, è un ottimo attore, e questo dovrebbe comunque farla dubitare, ma per qualche strana ragione sente che non mentirebbe mai in un simile frangente. Dopotutto, è pur sempre di suo fratello che si parla. «Non volevo mettere in dubbio le tue parole. È solo che sono preoccupato. Ormai sono quattro giorni che è partito, e non ho notizie di lui da allora. Anche ammesso che prima di andare da lei si sia preso qualche ora per sistemarsi, sono convinto che a questo punto dovrei saperne qualcosa. Non è mai successo di stare così tanto senza sue notizie, e inizio a stare un po' in pensiero.»
    «Temi che possa combinare qualche stupidaggine?»
    Alice non sa del Brasile né del passato turbolento di Shannon, ma Jared ne ricorda ancora ogni torbido dettaglio. «Non sarebbe la prima volta che si perde. Solo che questa volta recuperarlo potrebbe non essere semplice. Non so che cosa fare, Alice» sussurra l'uomo dopo qualche istante di silenzio. «Voglio aiutarlo, voglio aiutarlo in ogni modo possibile, voglio che stia bene... ma credo di aver esaurito le possibilità. Non so che cosa fare.»
    Sentirlo così dimesso e inerme le apre il cuore, e fa crollare in lei ogni proposito di cattiveria e acidità. Jared si è appena spogliato di tutte le sue maschere, di ogni travestimento da superuomo di cui di solito fa sfoggio, e le si sta mostrando completamente nudo. È una star della musica e del cinema, ma in questo momento sta giocando il ruolo per il quale è nato, quello che gli riesce meglio di tutti: l'uomo comune, quello che ha perso la propria bussola e si trova davanti ad un bivio senza avere la minima idea di quale direzione prendere. «Lo accetteresti il consiglio di un'amica?»
    «Accetterei un consiglio anche da Satana, in questo momento. Spara.»
    «Alza il culo e vai a casa di Shannon. Scusa il francesismo.»
    A Los Angeles Jared si lascia andare ad una risata, e a Torino Alice si concede un sorriso, felice di avergli risollevato il morale. «Mi piace una donna che parla chiaro. Dici che potrei trovarlo lì?»
    «Vale la pena di controllare, no? Sappiamo che è partito e sappiamo che Daria non lo ha visto, perciò tutte le possibilità sono aperte. Sono quasi certa che lei non lo abbia visto, perciò è logico pensare che lui potrebbe essere di nuovo a casa, a questo punto. Magari a metà del viaggio ha cambiato idea ed è tornato indietro.»
    «Senza avvertire?»
    «Per esperienza, ti posso dire che le persone non parlano volentieri dei propri fallimenti. Per quel che so di lui, tornare indietro senza aver tentato potrebbe averlo fatto sentire un vigliacco, e in quel caso l'ultima cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata discutere con un fratello polemico quanto te.»
    «Non avrei mai discusso con lui!» protesta Jared.
    «Come non stai facendo con me?» ribatte lei. «Andiamo, non ti conosco, ma una cosa di te l'ho capita subito: sei il tipo di persona a cui piace avere l'ultima parola, sempre e comunque, anche a costo di passare per un egocentrico. Ti capisco, anch'io a volte sono così.»
    «Mi trovi polemico?»
    «E anche pedante» rincara lei, sorridendo all'idea di prendere in giro una persona tanto famosa con la stessa naturalezza che userebbe in una conversazione con una persona comune. «Sul serio, io sono convinta che sia tornato a casa. Non ho idea di che cosa sia successo, ma è l'unica spiegazione logica che mi venga in mente.»
    «Quindi dovrei andare a suonargli il campanello alle tre di notte per controllare che sia in casa?»
    «Alle tre di notte, alle otto del mattino... vacci quando vuoi, ma vacci. Insomma, se sei davvero preoccupato quanto dici, non capisco perché tu non ci sia ancora andato.»
    «Credo di aver paura di essere mandato al diavolo. Conosco Shannon, lo conosco da una vita. Di solito cerca aiuto, se ne sente il bisogno, ma detesta essere assillato inutilmente. Detesta le persone invadenti.»
    «Conosco una persona che si comporta esattamente come lui.»
    «Direi che lui e Daria sono davvero la coppia perfetta, allora. Mi chiedo perché non siano ancora tornati insieme. Stanno così bene insieme...»
    «A volte le persone si comportano in modo strano, specialmente quando ci sono di mezzo i sentimenti. Quando si parla di cuore, è raro che le persone si comportino in modo razionale.»
    «E di te che mi dici? Hai un ragazzo?»
    «Ci stai per caso provando con me?»
    «Sto provando a fare conversazione, ma tu mi rendi la cosa molto difficile. È solo che è strano parlare di cose tanto personali con qualcuno che non conosco. Vorrei solo sapere qualcosa in più di te, ecco tutto.»
    «Ti urta parlare con me di cose personali e poi mi chiedi di raccontarti i fatti miei? Cosa ti fa pensare che abbia voglia di risponderti?»
    «Voglia di fare nuove conoscenze?» suggerisce lui. «Se quei due idioti si decidessero a rimettersi insieme, tu ed io diventeremmo praticamente cognati, e sarebbe carino iniziare a conoscerci meglio. Sai, per portarci avanti con il lavoro.»
    Alice sorride, divertita dall'estremo ottimismo di Jared. «Stai dando per scontato che si rendano conto dei rispettivi errori e si accorgano di non poter stare lontani.»
    «Se tu vuoi fare la parte della persona razionale, allora la parte dell'idealista tocca a me, non credi?»
    «Ottima confutazione. Comunque non racconterò i fatti miei ad uno sconosciuto senza avere qualcosa in cambio.»
    «Mi piace il modo in cui ragioni. Che proponi?»
    Alice ci pensa su per un istante, poi risponde: «Tu fai una domanda a me, io faccio una domanda a te. La sola condizione che pongo è l'assoluta sincerità. E devi rispondere a qualsiasi tipo di domanda, non ti puoi tirare indietro.»
    Jared riflette per qualche istante sulla proposta. «Ci sto. Naturalmente queste condizioni valgono anche per te.»
    «Dubiti della mia sincerità?»
    «Con voi donne non si sa mai. Facciamo così: ora io me ne vado a letto e tu vai a studiare. Appena ti sarà venuta in mente una domanda mi scrivi e io ti chiamo.»
    «Andata. Allora ci sentiamo.»
    «A presto. Buono studio, Alice.»
    «Buonanotte, Jared.» Alice chiude la conversazione e fissa di nuovo il telefono, chiedendosi se tutto questo stia davvero succedendo a lei. Si era già abituata all'idea che cose del genere potessero accadere quando Daria ha iniziato una relazione con Shannon, ma un conto è quando succede alla tua migliore amica, un altro quando accade a te – per quanto si rifiuti di pensare che queste strambe conversazioni con Jared Leto possano condurre ad un romantico finale, o che possano evolvere in un qualsiasi modo. Ma forse ricominciare, nel suo caso, significa anche questo: non soltanto una nuova situazione sentimentale, ma anche nuove conoscenze e nuove sfide da affrontare. In fondo, l'oroscopo letto poche sere prima parlava di un periodo ricco di sfide, per quanto lei non abbia mai avuto fiducia nelle persone che dicono di poter leggere il futuro nelle stelle. Lei è sempre stata il tipo di persona convinta che ognuno il proprio destino se lo crei da sé, ogni giorno, operando scelte e affrontando gli eventi a muso duro. Quel che è certo è che le prossime settimane saranno davvero molto impegnative.



*



Los Angeles, 30 gennaio 2014


    Jared torna a distendersi, le braccia incrociate dietro la testa, pensando che in quarantadue anni non ha mai incontrato una donna con la vivace intelligenza e lo spirito di Alice. Si chiede come sia fatta, se sia alta, bassa, bionda o castana, e di che colore siano i suoi occhi. Se la voce fosse un utile strumento per comprendere l'aspetto di una persona, allora sarebbe certo di parlare con una ragazza dal volto simpatico. Di certo è una ragazza che sorride molto, perché è impensabile immaginare che una con la battuta così pronta sia una musona. D'istinto, si chiede anche se la sua simpatia sarebbe stata la prima cosa a colpirlo se l'avesse incontrata di persona – perché si conosce, e sa che in fondo ogni uomo presta prima di tutto attenzione all'immagine trasmessa dagli occhi, e soltanto dopo dà ascolto a ciò che gli dice il cervello. Tuttavia, è certo che avrà ancora la possibilità di parlare con lei, e che questo lo renderà decisamente contento.



1Giorno uno, giorno uno, ricominciare da capo. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Not as we di Alanis Morissette, contenuta nell'album Flavors Of Entanglement (2008).

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Capitolo 15
*** 15 | La carne è debole. Solo l'anima è immortale, e la tua appartiene a me. ***


La lunga strada verso casa - 1
Il nuovo capitolo sarebbe dovuto arrivare soltanto venerdì, ma siccome già so che i prossimi giorni saranno carichi di impegni e cose da fare preferisco anticipare, per non rischiare di far slittare ulteriormente la data di aggiornamento e lasciarvi agonizzanti a soffrire. Anche se, devo anticiparlo, finirete comunque ad agonizzare sul pavimento piangendo tutte le vostre lacrime.
Chiedo inoltre scusa a tutti coloro che recensiscono o fanno sentire il loro appoggio tramite messaggio privato, perché sono una pessima persona e non riesco mai a rispondere celermente quanto vorrei, e soprattutto quanto dovrei. Sappiate comunque che apprezzo moltissimo le vostre parole, e che spesso baso le mie scelte anche sui vostri gusti e sui pareri che esprimete di volta in volta, quindi, anche se sono una pessima persona che risponde di rado e non lo fa mai in modo esaustivo, spero continuerete a dire la vostra, perché per me il vostro sostegno è davvero importante.
Detto questo, mi eclisso e vi lascio a combattere con il capitolo quindici.
Provehito in altum,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo quindicesimo
La carne è debole. Solo l'anima è immortale,
e la tua appartiene a me.1


Los Angeles, 30 gennaio 2014


    Prima di guidare fino a casa di Shannon, Jared passa a casa di Constance per prendere in custodia Bruce, che stranamente da un paio di giorni sembra giù di morale, come se avesse avuto un qualche presentimento che lo deprime, velando il suo muso solitamente allegro di una tristezza che nessuno può spiegare. Constance, preoccupata quanto Jared per il prolungato silenzio del figlio maggiore, gli espone i propri dubbi e cerca di farsi rivelare la verità, ma l'unica verità che Jared senta di poterle concedere è che, esattamente quanto lei, non ha notizie, e che sta appunto andando dal fratello per verificare le sue condizioni.
    Arrivato a casa di Shannon, apre lo sportello e Bruce si precipita a grattare il portone, sperando di poter tornare presto alle sue abitudini – è solo un cane, questo è vero, ma anche se Constance lo tratta benissimo gli manca la sua routine, piange la lontananza dei suoi angoli prediletti, e soprattutto l'essere umano che lo ha strappato ad un'esistenza fatta di tristezza e grigiore e lo ha eletto suo compagno. Jared suona il campanello, e pochi secondi dopo Shannon viene ad aprire, per nulla sorpreso della visita. «Scusa se sono sparito per qualche giorno, ma avevo bisogno di starmene per conto mio per un po'» lo saluta, facendoli entrare entrambi. Bruce ignora Shannon e corre a stendersi ai piedi del divano, uno dei suoi posti preferiti. Jared appoggia il guinzaglio e i giochini del cane sul mobile dell'ingresso, trovando molto strana l'improvvisa indole dimessa del fratello. Si era aspettato di essere accolto in maniera aggressiva, sentendosi domandare le ragioni della visita, e invece sembra che Shannon si aspettasse il suo attacco – e che, ancora più strano, sia pronto a sopportarlo senza reagire. «Prima di cominciare a giocare al detective, sarà meglio che ti dica che ho usato i biglietti. Ma se, come penso, hai parlato con mamma, questo già lo sai.»
    «Mi ha chiamato all'una del mattino per dirmi che le avevi lasciato in custodia Bruce e stavi andando in aeroporto» ammette Jared, sapendo che mentire sarebbe inutile, nonché una perdita di tempo. «Confesso che speravo di ricevere notizie, prima o poi. Il tuo silenzio mi ha fatto preoccupare.»
    «Ho pensato di chiamare, ma non sarebbero state buone notizie, perciò ho deciso di non lanciare allarmi inutili» risponde Shannon, raggiungendo la cucina per versarsi una tazza di caffè. «Ne vuoi?»
    «No, grazie» declina Jared, scostando una sedia per prendervi posto. «Ti va di parlarne? Prometto che starò zitto e ascolterò, e non rovinerò tutto facendo il Jared.»
    Shannon sorride contro il bordo della tazza, felice che per una volta suo fratello provi a mettere da parte l'ego e si limiti a fare la parte della persona che ascolta, senza tentare di far prevalere la propria opinione. «Ho preso l'aereo e sono andato a Torino. Sono arrivato di sera, e la prima cosa che ho fatto è stata saltare su un taxi e andare sotto casa sua. Lei non c'era, perciò ho deciso di aspettarla. Ho aspettato per due ore, ma avrei potuto aspettare per tutta la notte, se fosse stato necessario. Ero deciso a vederla, a qualunque costo.»
    «Che hai fatto mentre la aspettavi? Ti sei preparato un discorso, o qualcosa del genere?»
    «Non ci ho nemmeno pensato, a dire il vero» replica Shannon, facendo spallucce. «Ero sicuro che le parole sarebbero uscite da sole, una volta che fossi stato davanti a lei. E anche se avessi provato a prepararmi un discorso, non avrei davvero saputo come iniziare, a meno di usare tonnellate di frasi fatte. Lo sai, non sono mai stato un granché come oratore. Sei tu quello con la parlantina sciolta e brillante.»
    Jared sorride, ma è soltanto un momento, perché sa che ora arriva la parte brutta della storia – quella che ha fatto tornare Shannon a casa con il solo desiderio di starsene rinchiuso in casa con il proprio dolore. «Che è successo, poi? Non ti ha voluto vedere?»
    Shannon si passa la lingua sulle labbra, cercando il coraggio di confessare la vera ragione del proprio malumore. «Quando è tornata, ho visto che era con un altro uomo. Daria ha un altro uomo» sussurra, sperando che dirlo ad alta voce possa aiutarlo ad accettare la realtà dei fatti. «Ne sono quasi certo. Da come lo baciava, da come stringeva la sua mano, lei... non è uno con cui è uscita una volta, tanto per occupare una serata. Daria ha una storia seria con un altro uomo, e io non posso farci niente. Sono arrivato tardi. Ho aspettato troppo, e lei è andata avanti con la sua vita. Avrei dovuto ignorare tutto e correrle dietro a novembre, quando mi ha lasciato. Adesso è tardi.»
    «Quindi non le hai parlato? Non hai nemmeno tentato.»
    «Ho già avuto la mia occasione di sconvolgere la sua vita, Jared. Per quanto lei continui ad essere importante, io... io non posso di nuovo rivoluzionare tutto. Per quanto mi piace pensare che se ne sarebbe fregata di tutto e mi avrebbe riaccolto, io... io non posso. Non ho potuto, non me la sono sentita. Pensa pure che sono un uomo debole, ma non me la sono sentita.»
    «Quindi ti arrendi così?» ribatte Jared, incapace di trattenersi oltre. «Lasci che la storia finisca così? L'hai detto anche tu, avrebbe anche potuto decidere di tornare con te.»
    «Daria ha fatto la sua scelta, e io devo rispettarla. Lei ha deciso di andare avanti, e io devo comportarmi di conseguenza. Devo andare avanti anch'io.»
    «Anche se la cosa ti spezza il cuore?»
    «Le favole non esistono, Jared» sussurra Shannon. «Viviamo in un mondo crudele. Mi consolo pensando che sarebbe potuta andare peggio.»
    Peggio?, pensa Jared. Esiste davvero qualcosa di peggiore che arrendersi senza nemmeno tentare?


*



Torino, 14 febbraio 2014


    Sono passate due settimane dall'ultima telefonata con Jared, e negli ultimi quattordici giorni sono state innumerevoli le volte in cui Alice si è sorpresa a scorrere l'elenco delle ultime chiamate ricevute, prossima a spezzare il lunghissimo silenzio. Se ogni volta ha cambiato idea è per paura – puro, semplice terrore. Sono milioni le domande che vorrebbe porre a Jared, quesiti che riguardano gli argomenti più disparati: si va dal numero di scarpe che porta alla più grande delusione della vita, dall'età della prima esperienza sessuale alle sue opinioni politiche... Alice non avrebbe che da sceglierne una e mandargli un messaggino, eppure non ci riesce. Non ci riesce perché sa che ad ogni domanda posta sarebbe a sua volta obbligata a fornire una risposta, e il pensiero di quello che potrebbe sentirsi chiedere la spaventa a morte. Eppure è stata lei ad avere l'idea di quel giochino, avrebbe dovuto metterlo in conto.
    È la sera di san Valentino, una di quelle stupide ricorrenze che non ha mai sopportato, ma che per amore della serenità di coppia ha sempre festeggiato con una cena e una puntatina al cinema, e Alice – non ha vergogna di dirlo – si sente sola. È vero, pochi metri più in là ci sono due ragazze più che disposte a farle compagnie davanti ad un film romantico, ma non è della loro compagnia che Alice sente l'esigenza. Tutto ciò che vuole – e ciò che probabilmente le fa più paura – è sentire ancora la voce di Jared all'altro capo del filo, anche se dicesse solo sciocchezze o recitasse l'alfabeto, perché sente che l'anima di quell'uomo le è affine, in un certo senso. Hanno in comune molto, questo lo ha compreso, a partire dall'affetto provato per due persone completamente cieche alle rispettive esigenze sentimentali.
    Stanca di riempirsi la testa di paranoie, scrive un messaggino e resta in attesa. Per quel che ne sa, potrebbero anche passare ore prima di ricevere una risposta, ma non le importa: tutto ciò che desidera per san Valentino è parlare con Jared, e sarebbe disposta ad aspettare anche una vita intera, pur di realizzare quel piccolo capriccio.

    Come ogni venerdì sera, io e Marco stiamo cenando fuori; è san Valentino, ma per noi non è altro che un venerdì sera come tanti altri, l'ennesima occasione per trascorrere del tempo insieme. Nessuno dei due sente lo spirito della serata, tantopiù che nessuno dei due ha mai avuto qualcuno con cui valesse la pena festeggiare.
    Finito di cenare, usciamo e ci dirigiamo verso casa mia, tenendoci per mano come molte delle coppiette che incontriamo lungo il nostro cammino. Come sempre parliamo, ridiamo e scherziamo, arriviamo sotto casa mia e lo invito a salire, finalmente libera dal dover cercare delle scuse per nascondere la realtà dei fatti.
    Un paio d'ore dopo, finito di fare l'amore, siamo ancora abbracciati e non riusciamo a smettere di guardarci. Continuo a seguire il profilo delle sue braccia con le unghie, mentre i suoi occhi sembrano scrutare le linee del mio volto con una precisione quasi chirurgica. All'improvviso si solleva e si alza dal letto, cercando il cappotto nel groviglio di vestiti ammassati a terra. «Ma che fai?» gli domando, mettendomi a sedere.
    «Mi sono ricordato di doverti dare una cosa» risponde, frugando le tasche della giacca. «Non è un regalo di san Valentino, tranquilla» aggiunge, tornando sul letto con una scatolina rettangola stretta nella mano destra. «Volevo dartelo già da qualche giorno, ma non trovavo il momento giusto.» Prendo la scatola e la apro, trovandomi davanti agli occhi un braccialetto d'argento, una semplice catenella impreziosita da alcuni ciondoli a forma di note musicali e chiavi di violino. «L'avevo visto qualche tempo in una vetrina, e ho pensato... ho pensato che potesse piacerti. Ho notato che indossi sempre almeno un paio di braccialetti.»
    «Mi piace tantissimo» rispondo con un sorriso. «Davvero, è molto bello. Grazie» aggiungo, passandogli un braccio intorno al collo per ringraziarlo con un bacio a fior di labbra. «Mi aiuti a metterlo?» Toglie il gioiello dalla scatola e lo fa scivolare attorno al mio polso destro, stranamente libero.
    «Ti sta molto bene. Non pensavo di avere gusto per questo genere di cose.»
    Scuoto lievemente il polso, facendo tintinnare i ciondoli. «Hai scelto davvero molto bene.»
    Indugiamo ancora per qualche minuto tra le lenzuola, perdendoci in baci e carezze come una qualunque coppia di adolescenti, poi, quasi a fatica, lui si separa da me. «Adesso me ne vado, così puoi dormire tranquilla.»
    «Puoi dormire qui, se vuoi. Lo sai, non mi dà fastidio.» Ormai usciamo insieme da quasi un mese, ed è successo soltanto un paio di volte che si fermasse a dormire con me. È come se ritenesse il dormire insieme un gesto più intimo del sesso, e non volesse in questo senso snaturarlo, facendolo diventare una consuetudine e spogliandolo del suo valore.
    «Preferisco andare a casa. Lo sai, russo come un treno. Non ti voglio disturbare.»
    «Sai che non disturbi. Ho il sonno pesante, non sentirei nemmeno una cannonata.»
    «Comunque non mi convinci» sorride, allacciandosi i pantaloni. «Tanto ci rivedremo tra otto ore, più o meno. Non credo sentirai la mia mancanza» aggiunge, abbottonandosi la camicia.
    «No, forse no» scherzo, alzandomi a mia volta per infilarmi qualcosa addosso, giusto per evitare di accompagnarlo alla porta completamente nuda.
    Mentre gli passo accanto per arrivare al cassetto dei pigiami mi ferma, passandomi un braccio attorno alla vita. «Non ho mai tenuto a qualcosa o qualcuno tanto quanto tengo a te, lo sai?» mi sussurra, tenendomi stretta a sé. «Per me sei importante, e questo non voglio che lo dimentichi.»


*



Los Angeles, 14 febbraio 2014


    Impegnato con la registrazione di un'intervista per un'importante emittente televisiva, Jared non ha molto tempo per controllare il cellulare, ma quando gli dà un'occhiata veloce, appena prima di entrare nello studio, nota immediatamente il messagino di Alice, che lo informa di avere pronta una domanda per lui. Riconoscere il nome del mittente lo rincuora, perché non si sentivano da due settimane, e in tutta sincerità cominciava a pensare di averla offesa in qualche modo, per quanto non gli tornasse in mente nessun comportamento che potesse meritare una simile punizione.
    Per tutta la durata della registrazione tiene metà del cervello fissa sul presentatore e sulle domande che gli vengono rivolte, mentre l'altra metà non fa che chiedersi quale tipo di quesito abbia in serbo per lui quella stramba ragazza italiana. Non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura, ma nelle ultime due settimane l'assenza di Alice e delle loro telefonate si è fatta sentire, come se stare al telefono con una ragazza che non conosce fosse improvvisamente diventata una costante della quale non riesce più a fare a meno. Per quanto gli sia sempre piaciuto stare davanti alle telecamere a parlare di sé, oggi Jared non vede l'ora che tutto ciò finisca, come se fosse un'orribile tortura.
    Finito il lavoro, cerca di sganciarsi rapidamente dalle persone che gli stanno intorno, desideroso soltanto di tornare in camerino, prendere il cellulare e fare quella chiamata che aspettava di fare da settimane. «Ciao» risponde lei, in maniera solitamente allegra. «Ci hai messo più tempo del solito a richiamare.»
    «Ero impegnato con un'intervista» replica lui con aria di sufficienza, come se fosse la normale prassi. «Che sorpresa sentirti. Iniziavo a pensare che fossi morta. In realtà la prima cosa che ho pensato è che ti fossi offesa per qualcosa che avevo detto. Però poi mi sono reso conto che era impossibile, perché di solito sono un tipo molto diplomatico, e non mi è mai successo di dire qualcosa che potesse offendere la gente.»
    «Guarda che si può offendere qualcuno anche solo con un gesto o con un atteggiamento. Non è necessario aprire la bocca.»
    «Stai dicendo che ho assunto un qualunque atteggiamento offensivo nei tuoi confronti?»
    «Mai detta una cosa del genere.»
    «E allora perché sei sparita per due settimane?»
    «Ho avuto da fare. Non siamo tutti ricchissime star della musica o del cinema che guadagnano fior di milioni anche standosene in panciolle.»
    «Inizio a capire cosa intendevi con atteggiamenti offensivi. A proposito, buon san Valentino.»
    «Detesto san Valentino.»
    «Perché, lo hai sempre passato da sola ad ingozzarti di dolciumi e a guardare film strappalacrime riflettendo sulla triste condizione di ragazza single?»
    «Al contrario, l'ho sempre passato con il mio fidanzato. Entrambi lo detestavamo, in realtà, ma era una delle poche occasioni che avessimo di passare del tempo insieme. Era una relazione a distanza.»
    «Capisco» sospira Jared, sapendo che la lontananza è uno dei motivi che lo hanno convinto, anni prima, a troncare la relazione con Cameron, nonostante l'affinità dei loro caratteri e la straordinaria intesa sessuale. «Allora, qual è la tua domanda per me? È per questo motivo che hai scritto, no?»
    Alice prende fiato e cerca di regolare il tono di voce per porre la domanda nel modo più serio possibile. «Preferisci recitare o fare musica? Che cosa ti dà più soddisfazione?»
    «Ehi, queste sono due domande, piccola imbrogliona!» la prende in giro lui. «Ma siccome sono un uomo gentile, risponderò ad entrambe nel modo più sincero possibile. Recitare e fare musica sono due cose molto diverse, fare paragoni è impossibile. Recitare significa nascondere te stesso dentro un'altra identità e contemporaneamente usare la tua personalità e le tue esperienze per arricchire quella che in fondo è soltanto un'ombra sullo schermo. Fare musica invece significa esporre completamente il tuo essere, dare tutto ciò che sei in pasto ad un pubblico che nemmeno sai se ti apprezzerà. Sono due attività che soddisfano in maniera molto diversa. Quando recito, ciò che più mi rende felice è riuscire ad entrare il più possibile nel personaggio. Quando canto, invece, mi piace vedere quanto riesco ad essere me stesso, e soprattutto capire quanto il pubblico apprezzi la mia personalità.»
    «Qualsiasi psicologo ti definirebbe l'emblema del narcisismo, lo sai?»
    «Stai forse cercando di farmi un complimento?»
    «Non serve che ti faccia dei complimenti, Jared. Ci riesci benissimo da solo» lo prende in giro Alice.
    «Ho risposto alla tua domanda?»
    «Mi ritengo abbastanza soddisfatta, sì. Per la prossima volta dovrò studiare qualcosa di più complicato, altrimenti non c'è gusto.»
    «Beh, se tu hai finito tocca a me interrogare, giusto?»
    «Ti sei fregato l'opportunità con la domanda su san Valentino.»
    «Ehi, questo non è giusto! Non avevamo ancora stabilito che il gioco fosse iniziato!»
    «Non credevo ci servisse un fischio d'inizio. Non è una partita di calcio, è una conversazione.»
    «Sei una donna perfida, lo sai?»
    «Mi sto soltanto adeguando agli standard del mio interlocutore» sorride lei, felice di essere riuscita a metterlo in difficoltà. «Ma voglio essere gentile, perciò ti concederò un'altra occasione. Ma bada che sia una domanda intelligente.»
    «Oh, grazie per la gentile concessione! Dunque» sospira Jared, chiedendosi in quale modo potrebbe metterla alle corde. «Se hai sempre passato san Valentino in compagnia, perché in questo momento sei al telefono con me? Se i miei calcoli sono esatti, e di solito lo sono, lì devono essere circa le... nove di sera, giusto? Perché non sei a cena a lume di candela con quel poveraccio del tuo ragazzo?»
    Punta sul vivo, Alice sa di non potersi tirare indietro, anche se vorrebbe riattaccargli il telefono in faccia ed evitare di rispondere. «Beh, questo è il mio primo san Valentino da single da quando avevo quindici anni. Io e il mio ragazzo ci siamo lasciati più o meno tre settimane fa.»
    «Siete usciti insieme per molto tempo?»
    «Nove anni, più o meno.»
    «Accidenti» sussurra Jared, rendendosi conto che lui non ha mai avuto una relazione così lunga. «Allora era una storia seria. Hai detto che era una relazione a distanza, giusto?»
    «Lo è stata negli ultimi cinque anni. Suo padre ha ottenuto una promozione sul lavoro e si è dovuto trasferire a Milano, e tutta la famiglia lo ha seguito. Milano non è così lontana da Torino, in realtà, ma le nostre abitudini sono cambiate radicalmente. Per lui è stato un bene cambiare città, comunque. Ha avuto l'opportunità di studiare in un'università migliore, e di conseguenza potrà anche avere migliori opportunità professionali.»
    «Perché vi siete lasciati?»
    «Non ti arrendi mai, eh?»
    «Beh, quando racconti una storia devi andare fino in fondo. Non è una soap opera, non puoi lasciarmi in stand-by fino alla prossima settimana. Allora, mi racconti perché vi siete lasciati?»
    Alice sospira, sapendo che Jared non mollerà l'osso molto facilmente. «Ci siamo accorti che non c'era più la magia di un tempo.»
    «Beh, dopo nove anni è normale che le cose cambino. Non sono un esperto di relazioni durature, ma sono abbastanza grande da sapere che è nella natura delle cose cambiare
    «Non sarò grande quanto te, ma so che le cose cambiano. Solo che... ecco, credo che il nostro problema fosse che molte cose erano rimaste le stesse. Insomma, qualcosa tra noi era cambiato, ma noi... non lo so, mi sembrava che continuassimo a comportarci come se non fosse cambiato nulla. Non credo di essere riuscita a spiegarmi bene, scusa.»
    «No, io... io credo di aver capito. Tu pensavi che dopo tanto tempo il vostro rapporto dovesse giungere ad un punto di svolta, e quando ti sei resa conto che non ci sarebbe stata nessuna evoluzione tu hai... beh, hai capito che non sareste arrivati da nessuna parte.»
    «Qualcosa del genere, sì. Insomma, ho ventiquattro anni. È arrivato il momento di iniziare a pensare al mio futuro, è arrivato il momento di fare dei progetti, di pensare a come voglio costruire la mia vita. Giusto?»
    «Sbaglio, o stai cercando la mia approvazione?»
    «Sbagli. Era soltanto una domanda retorica.»
    «Se la cosa può esserti di conforto, alla tua età avevo ancora le idee piuttosto confuse circa il mio futuro. Non avevo la minima idea di che cosa avrei fatto.»
    «Non raccontarmi balle, per favore. Alla mia età eri protagonista di una delle serie televisive più seguite dagli adolescenti di tutto il mondo e avevi già milioni di ammiratrici pronte a saltarti addosso.»
    «Non esageriamo, non erano milioni. Saranno state a malapena qualche migliaio» minimizza lui, sapendo che la sua indifferenza la farà uscire dai gangheri. «Ma spiegami un po' com'è che conosci così nel dettaglio la mia carriera. Sono curioso. Non sarai una di quelle esaltate che ai concerti lanciano reggiseni sul palcoscenico, vero? Perché la cosa sarebbe imbarazzante. Lusinghiera, lo ammetto, ma anche estremamente imbarazzante.»
    «La mia biancheria intima di solito resta nei miei cassetti, tranquillo» replica lei, sapendo che i lanci di lingerie potrebbero forse imbarazzare un tipo schivo come Tomo, ma non di certo uno dei fratelli Leto. «E comunque non conosco la tua carriera nel dettaglio, non sono una fan esaltata. È solo che My So-Called Life l'ho visto in streaming un paio d'anni fa, e so che quando l'hai girato avevi più o meno la mia età. Tutto qui, non cercare significati nascosti che non esistono.»
    «Va bene, ho deciso di crederti. Comunque il fatto che a ventiquattro anni avessi un ruolo di rilievo in una serie cult non significa che avessi già deciso di fare della recitazione la mia professione.»
    «Ma non posso evitare di pensare che il successo della serie ti abbia aiutato a prendere una decisione in merito. Saresti diventato un attore, se la gente avesse odiato Jordan Catalano?»
    «Devo essere sincero?»
    «In realtà speravo che lo fossi già.»
    «Dopo My So-Called Life accarezzai l'idea di non recitare mai più. Non facevano che offrirmi ruoli romantici e pieni di stereotipi, e io non volevo finire intrappolato nel cliché del ragazzo bello e dannato, o dell'eroe romantico. Sai che mi chiesero di interpretare Jack in Titanic
    «No, è la prima volta che lo sento dire» replica Alice, senza sapere se questo corrisponda a verità o se sia soltanto una balla inventata al momento per rendere la conversazione più interessante.
    «Davvero, non ti sto mentendo! Ma non mi presentai nemmeno alle audizioni. Non dico che il ruolo mi facesse schifo, o che non morissi dalla voglia di lavorare con James Cameron, o che non volessi disperatamente partecipare alla ricostruzione di una storia così importante, però... volevo fare di più. Volevo essere di più.»
    «Tutti vogliono essere di più di quel che sono» sospira Alice. «Credo sia nella natura di ogni essere umano aspirare ad un livello superiore.»
    «Sì, lo credo anch'io. Tu che cosa vorresti essere?»
    «Io? Io sono come Mary Poppins, amico. Praticamente perfetta sotto ogni punto di vista. Non posso essere più di quel che già sono» lo prende in giro lei.
    «No, sul serio. Ci sarà pur qualcosa che hai sempre voluto fare, o essere.»
    Alice ci riflette su per qualche secondo, poi sussurra: «Una persona più coraggiosa. Ho sempre voluto avere più fegato di quanto ne abbia in realtà. Sono sempre stata una codarda, anche se mi piace far credere al mondo di non esserlo affatto.»
    «Io non credo che tu sia una codarda, sai? Una persona codarda non avrebbe mai fatto ciò che hai fatto tu. Un vero codardo non avrebbe mai scritto quella e-mail.»
    «Quello non è stato coraggio, Jared» replica lei. «Quella è stata invadenza, pura e semplice invadenza. Le decisioni di Daria non sono affar mio. Non mi sarei dovuta impicciare nelle sue storie. Avrei dovuto lasciare che le cose facessero il loro corso, e limitarmi ad accettarne le conseguenze. Vuole stare lontana dall'unico uomo che potrà mai darle una vita felice? Va bene. Vuole far rientrare sua madre nella propria vita? Va bene. Vuole aiutare suo fratello a superare indenne l'adolescenza? Va bene. Io dovrei starle accanto in silenzio e parlare soltanto quando sono interpellata, e soprattutto non fare nulla che lei non farebbe. Non dovrei intromettermi e sostituirmi a lei nelle...»
    «Scusa, cos'hai detto a proposito di sua madre?» la interrompe all'improvviso Jared, la cui attenzione si è fermata un paio di frasi addietro.
    «Oh, giusto, tu non sai niente!» esclama Alice, e Jared può quasi vederla battersi il palmo aperto sulla fronte, come a punirsi per la propria sbadataggine. «Il mese scorso la madre di Daria si è rifatta viva. È tornata dopo quindici anni ed è saltato fuori che ha avuto un altro figlio, un ragazzino che adesso ha undici anni.»
    «Daria ha un fratellastro?»
    «Esattamente» annuisce la ragazza. «All'inizio è stato uno shock, non soltanto per lei. Odiava sua madre per il fatto di essersene andata all'improvviso senza voltarsi indietro, e vederla tornare l'ha scombussolata non poco. Poi è saltata fuori la notizia di suo fratello, e le cose sono cambiate. Lo ha incontrato e ha deciso di prendersi cura di lui. Ha perso il padre l'anno scorso, e ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino e gli voglia bene senza chiedere nulla in cambio. In un certo senso, non gli poteva capitare una sorellastra migliore di Daria. Lei non sa amare a metà. Quando dona il suo cuore a qualcuno, lei lo fa per intero, senza risparmiarsi.»
    «Non si risparmia neanche quando spezza i cuori altrui» ribatte Jared, pensando al dolore di Shannon, ancora così vivo ed evidente da ferire anche lui.
    «Posso assicurarti che Daria non è una che va in giro a spezzare cuori per sport. Di solito quando si tratta di sentimenti ci va con i piedi di piombo.»
    «Però ammetterai che nel caso di Shannon non si è fatta molti scrupoli.»
    «Stai forse cercando di litigare con me?»
    «No, sto soltando esprimendo una mia opinione.»
    «Sarà, ma il tuo tono non mi piace per niente» replica lei, improvvisamente pronta ad imbarcarsi in una battaglia verbale con uno degli uomini più celebri del mondo.
    «Sbaglio o ti stai arrabbiando?» domanda lui, che in questo momento più che mai vorrebbe poterla vedere in volto.
    «Non mi sto arrabbiando» risponde lei a denti stretti. «Dico solo che non mi piace il tono con cui stai parlando di Daria. La stai facendo passare come una specie di vedova nera che si diverte a lasciarsi dietro i cadaveri degli uomini che fa innamorare di sé, e io so che non è affatto quel genere di ragazza.»
    A questo punto, Jared si rende conto di aver davvero calcato troppo la mano, che in fondo Daria ha agito con le migliori intenzioni del mondo, pensando di fare la cosa più giusta per sé e per gli altri, e nessuno merita di essere condannato per aver cercato di fare la cosa giusta. «Scusa, non volevo parlar male di Daria, e non volevo farti arrabbiare» sussurra, sperando che Alice riesca a cogliere il sincero pentimento insito nella sua voce. «Non volevo insinuare che avesse agito in malafede, e sicuramente non volevo dire che è una persona malvagia che gode nel far soffrire gli altri. Credo... forse siamo solo entrambi troppo coinvolti, e ci scaldiamo facilmente quando si tocca l'argomento. In fondo Shannon è mio fratello, e più di una volta tu hai detto che Daria è come una sorella, per te.»
    «Sì, forse ci siamo entrambi troppo dentro» sospira Alice. «O forse tu sei solo un vanesio egocentrico a cui piace tirar fuori il peggio dagli altri» aggiunge con una risatina, tornando a prendersi gioco di lui.
    «Mi congratulo per l'attenta analisi del paziente, dottor Freud» replica lui, sorridendo. «Mi dispiace di averti fatta arrabbiare, non era mia intenzione» aggiunge dopo qualche secondo di silenzio. «Ammetto di essere un provocatore, ma a volte esagero sul serio. È una qualità che ho sempre cercato di cambiare, purtroppo senza riuscirci. Sono quarantadue anni che ci provo, ma sembra proprio che non ne sia in grado.»
    «Non importa, sei perdonato. A questo punto io dovrei ammettere di essere un po' troppo suscettibile quando si parla delle persone a cui voglio bene.»
    «Non lo classificherei come un difetto. A volte è un bene essere così protettivi, specialmente quando le persone a cui vogliamo bene non riescono a difendersi da sole.»
    «Non che nel mio caso essere protettiva abbia sortito qualche effetto. Daria e Shannon sono ancora separati o sbaglio?»
    Ancora seduto sul divanetto del camerino che gli è stato messo a disposizione, Jared si lascia andare all'indietro, quasi sprofondando nell'imbottitura morbida. Anche lui, come Alice, prende estremamente a cuore le sorti delle persone che ama, eppure non sempre riesce a rimettere insieme i cocci altrui. Ha tentato in ogni modo di far tornare insieme Shannon e Daria, eppure ogni tentativo è miseramente fallito, come se l'universo intero cospirasse contro di lui. «Mia cara Alice, come strateghi siamo proprio due fallimenti» sospira. «Non so tu, ma io sento di aver esaurito le idee.»
    «Questo significa che ti vuoi arrendere?» domanda lei.
    «A meno che tu non sappia tirar fuori un coniglio da un cilindro...» Segue una lunghissima pausa, tanto che Jared si convince che sia caduta la linea. «Alice? Ci sei ancora?»
    «Sì, scusa. Sono ancora qui. Stavo cercando di pensare, ma... credo di aver esaurito le mie carte. Abbiamo davvero fallito, eh?»
    «Non si può vincere sempre, dicono.»



*



Torino, 15 febbraio 2014


    Sono ormai le due del mattino, e ancora non ho chiuso occhio. Marco è andato via poco prima di mezzanotte, e da allora mi rigiro tra le lenzuola senza trovar pace, come se stessi cercando di prender sonno stando su un letto fatto di chiodi. È un periodo in cui ho già troppe cose per la testa, e proprio non avevo bisogno che Marco reiterasse la propria dichiarazione d'amore con una bella frase romantica e un regalo così bello. O almeno avrebbe potuto scegliere un bracciale con ciondoli diversi. Se non fossi più che certa che non sa un bel niente della mia passata relazione con Shannon, mi verrebbe da chiedermi se tutte quelle note e chiavi di violino non siano una sorta di punizione, un modo per ricordarmi dei miei errori e delle mie scelte. Chiudo gli occhi, anche se nel buio non riesco a vedere nemmeno ad un palmo dal mio naso, ma ad ogni piccolo movimento della mano sento i ciondoli tintinnare tra loro, riportando alla mente memorie che credevo ormai archiviate per sempre – un pomeriggio trascorso a svuotare scatoloni e sistemare oggetti in giro per casa, starsene buttati sul divano come stracci vecchi guardando un film divertente, mangiare pizza senza preoccuparsi dell'etichetta o delle macchie sui vestiti, guardarsi negli occhi ad una distanza di dieci centimetri e giurarsi di essere sempre sinceri, sempre, a qualunque costo.
    Mi metto a sedere, incapace di trattenere ancora un paio di lacrime. Shannon ha cambiato la mia vita, mi ha resa felice come credevo non sarei mai stata, e per quanto abbia tentato, so di non poter dimenticare tutto ciò che ho avuto con lui. Sono passati tre mesi da quando l'ho lasciato – in questo periodo ho permesso al mio corpo di cedere alla tentazione di un altro amore, l'ho permesso e forse lo rifarei, ma se c'è una cosa di cui ora sono certa, è che la mia anima non potrà mai lasciarsi andare completamente – né la mia anima né il mio cuore apparterranno mai a qualcun altro, perché nel fare le valigie, in un gelido mattino di fine novembre, li ho scordati in una stanza d'albergo di Parigi, avvolti in pregiate lenzuola di cotone egiziano, riscaldati dall'unico uomo che potrei mai riconoscere come anima gemella.
    Shannon mi manca da morire, e a questo punto le lacrime diventano un vero e proprio pianto dirotto, impossibile da frenare, un pianto che mi riga le guance e inumidisce le lenzuola nelle quali sto affondando il viso. Shannon è l'unico uomo che abbia mai amato, e ciò che più mi ferisce è rendermi conto che non è tornato indietro. Ha letto la mia lettera e seguito passo passo le mie istruzioni, senza nemmeno tentare di inseguirmi per farmi cambiare idea. Non ha nemmeno pensato di affrontarmi e farmi cambiare idea, e questo è quasi più doloroso del sentirsi dire che non si è amati.
    Vorrei avere la facoltà di tornare indietro nel tempo e rimanere in quella stanza, reprimendo ogni paura e timore nei riguardi del futuro. In fondo, mio padre ha ragione: niente mi dice che non avremmo potuto essere felici, che non avremmo potuto avere quella straordinaria storia d'amore in cui entrambi credevamo. Per quel che ne so, per noi ci sarebbe potuto essere il lieto fine. Per quel che ne so, avremmo anche potuto vivere per sempre felici e contenti. E io invece ho lasciato perdere, ho smesso di combattere ancor prima che iniziasse la battaglia, ho deposto le armi a terra e ho battuto in ritirata senza nemmeno provarci. Per quel che ne so, avremmo anche potuto vincere. In fondo, non ero la sola a combattere – eravamo insieme. Quand'è successo? Quando sono diventata così vigliacca? Quando ho perso quel poco di coraggio che avevo mai avuto? In quale momento della vita ho smesso di credere in me stessa, quando ho smesso di tenere alla mia vita e ai miei sogni, quando sono diventata una donna che rinuncia al grande amore della vita e si accontenta di un uomo qualsiasi? Perché sì, Marco è straordinario, ma per quanto possa impegnarsi, non sarà mai Shannon – non importa quante volte mi stringerà a sé nel sonno, o quante impiegate sfaticate licenzierà pur di farmi sentire apprezzata... lui non sarà mai Shannon. E capire che non sto soltanto prendendo in giro me stessa, ma anche una persona davvero innamorata di me mi fa provare un vago senso di nausea, come se mi stessi rendendo conto di essere una persona disgustosa.
    In questo momento mi faccio semplicemente schifo. E il peggio non è rendersi conto di aver sbagliato, ma conoscere la soluzione al problema e non avere il fegato di metterla in pratica.



*



Los Angeles, 15 febbraio 2014


    Non esiste che una parola per descrivere lo sguardo di Christine nel momento in cui, uscendo dall'ufficio, si trova di fronte me: sorpresa. «E tu che cosa ci fai qui?» mi domanda, senza tentare nemmeno per un istante di addolcire il tono.
    «Avevo voglia di vederti» rispondo. «Non ci sentiamo da un po', e in realtà l'ultima volta che ci siamo parlati non mi sono comportato bene, perciò volevo chiederti scusa.»
    «Potevi chiamare, Shannon. Non era necessario che mi aspettassi fuori dall'ufficio. Da quant'è che sei qui?»
    Getto un'occhiata all''orologio, facendo spallucce. «Non saprei, forse un paio d'ore. Non sapevo a che ora staccassi, quindi sono arrivato verso le cinque. Ho pensato che finissi verso quell'ora.»
    «Sì, di solito stacco verso le cinque e mezza» replica, controllando a sua volta l'orologio, «ma oggi mi sono dovuta trattenere un po' più a lungo. Un ex cliente ha fatto causa alla società, perciò avevo delle carte da controllare, dei documenti...» aggiunge, evidentemente stanca per la lunga giornata.
    «Credevo ti occupassi soltanto di noiose questioni burocratiche» la prendo in giro.
    «Infatti» ribatte con un breve sorriso. «Non sono preparata ad affrontare una causa, quindi ho dovuto chiedere aiuto ad un amico che lavora in uno studio specializzato in reati fiscali. E tu sai quanto detesti ammettere di non essere qualificata per svolgere una mansione. Non vedo l'ora di andarmene a casa, sono letteralmente sfinita. E ancora non si è aperto il processo, figurati.»
    «Quindi ho scelto la sera sbagliata per invitarti a cena?»
    Di nuovo il suo volto assume un'espressione decisamente sorpresa, ma proprio quando credo che verrò liquidato sono io quello che rimane stupito: «Direi che è la sera giusta, invece. Non ho voglia di cucinare, quindi finirei a mangiare pizza surgelata o cibo cinese. Dove mi porti?»
    «Direi che vista la tua giornata infernale, ti sei guadagnata il diritto di scegliere il posto. Sono aperto a tutto.»

    Tornato a casa, dopo l'intervista e un altro imprecisato numero di impegni, Jared ignora la posta che si ammucchia sul tavolino dell'ingresso, rimane sordo ai crampi dello stomaco e si dirige a passo sicuro verso il bagno, lasciando cadere i vestiti nel cestone della biancheria e infilandosi sotto la doccia. Rimane fermo sotto il getto bollente per un tempo che non riesce a quantificare, finché l'acqua non inizia a diventare tiepida, e poi quasi fredda. Esce soltanto quando sente i polpastrelli diventare rugosi, come quando da bambino ignorava gli avvertimenti di sua madre e restava a mollo nella vasca ben oltre il tempo consentito. Si avvolge un asciugamano attorno ai fianchi e si asciuga sommariamente i capelli, mentre osserva il proprio volto allo specchio.
    Soltanto in questo momento si rende conto che probabilmente hanno ragione quelli che dicono che l'età è soltanto un numero, e che essere più vecchi non rende per forza di cose più saggi. Deve essere così, perché altrimenti non si spiega come possa Alice, che ha diciotto anni meno di lui e potrebbe quasi essere sua figlia, dimostrarsi più matura di quanto lui non sarà mai. Perché lei si è dimostrata infinitamente più saggia, questo è chiaro: lei è riuscita a comprendere quanto sia stata sbagliata la propria intromissione nella vita privata di Daria, e soprattutto è riuscita ad ammetterlo a se stessa, per quanto sia stato doloroso. Lei è riuscita a capire che le strategie non sono servite a nulla, e che le cose potranno tornare quelle di prima soltanto quando Shannon e Daria vorranno farle tornare tali. Shannon e Daria, non Jared e Alice, né tantomeno Constance, o Tomo, o Vicki, Emma, o chiunque possa nutrire il desiderio di fare qualcosa in proposito.
    Jared guarda a lungo l'uomo riflesso nello specchio, studia le minuscole rughe attorno ai suoi occhi, quelle linee così piccole da poter essere viste soltanto da molto vicino, e non solo capisce che Alice è stata più saggia di lui, ma anche molto più coraggiosa – lei, che poche ore prima ha espresso il desiderio di essere più audace. È buffo come non se ne renda conto, ma coraggiosa lo è stata davvero – se non nello scrivere l'e-mail che li ha messi in condizione di conoscersi, almeno nell'ammettere di aver esagerato con le proprie preoccupazioni. Ammettere un errore non è cosa da tutti, e sicuramente non è cosa da lui. Ed è strano rendersene conto soltanto adesso, dopo che per anni è andato in giro a cantare canzoni che parlano di essere se stessi e di non avere paura, a parlare con ragazzi che nella musica dei Thirty Seconds To Mars cercano soltanto un incoraggiamento a vivere la vita con tutto il coraggio possibile.
    A quarantadue anni, di fronte ad uno specchio impietoso e alla prospettiva di non essere poi quel grand'uomo che gli altri hanno sempre voluto vedere, Jared sente, forse per la prima volta nella vita, l'esigenza di tornare ad essere il ragazzino di un tempo, quello che nessuno vedeva, quello che la folla riusciva a celare, quello che non sapeva quello che voleva, e che soprattutto non sapeva ciò che avrebbe perso crescendo.

    «Non so come faccia quel ristorante ad essere il tuo preferito, dico sul serio. Hanno un caffè orrendo!» commento, fermando l'auto davanti a casa di Christine.
    «Per quanto tu possa ritenerlo impossibile, Shannon, la gente normale non vive di solo caffè» risponde lei, sganciandosi la cintura di sicurezza e prendendo le chiavi dalla borsa. «Mi piace quel ristorante perché il cibo è buono ed è un locale accogliente. Ammetto che il caffè non sia il suo punto forte, ma non può bastarti questo per metterlo sulla tua lista nera.»
    «Ehi, il caffè è una categoria alimentare importante, come la pizza e i marshmellow» ribatto, facendola ridere di gusto. «Non dico che non ci tornerò mai, ma di certo eviterò il caffè.»
    «Dai, vieni dentro, te lo offro io un buon caffè» replica, aprendo lo sportello. «Così forse la smetterai di perseguitarmi con questa storia.» Sfilo le chiavi dal quadro, scendo e blocco gli sportelli, poi la seguo fino alla porta. La osservo mentre fa scattare la serratura, concentrata sui movimenti. Come me è cambiata, cresciuta, eppure passare del tempo con lei è ancora soddisfacente come quando eravamo ragazzi: è ancora spigliata, simpatica, ha ancora il suo bel sorriso e le sue battute sono divertenti come ricordavo. So che sono trascorsi più di vent'anni, ma stare accanto a lei mi fa sentire come quando avevo diciotto anni e non una sola preoccupazione al mondo, e questa è una sensazione che adoro. «Ti avverto, non devi essere allergico al disordine. Con i miei orari non ho il tempo di tenere in ordine, e ancora non ho trovato una brava donna delle pulizie, perciò...» Non le do il tempo di finire la frase: la stringo tra le braccia e poggio le mie labbra sulle sue con decisione, esattamente come ha fatto lei l'ultima volta che ci siamo salutati.
    Nonostante la sorpresa, non cerca di allontanarmi né tenta di dire qualcosa. Sento il suo corpo cedere, quasi rilassarsi tra le mie braccia, e poco dopo sento le sue mani risalire fino al mio viso, poggiarsi sulle guance e tenermi vicino, come se temesse di vedermi scivolare via all'improvviso. Con una mano spingo la porta e a passo lento, senza lasciarci, superiamo la soglia. Richiudo l'uscio, e l'improvviso ritrovarsi in un luogo chiuso sembra risvegliare la mia parte animalesca, quella che da troppo tempo cerco di tenere rinchiusa dentro di me. Spingo Christine contro il pannello e premo il mio corpo contro di lei, che non sembra dar segno di voler interrompere quel contatto. Dalla bocca scivolo verso il collo, mentre le mani la spogliano della giacca e tornano subito su, impegnandosi a slacciare i bottoni della sua camicetta. «Non dovevo... non dovevo prepararti un caffè?» sospira a fatica, mentre le mie mani cercano il profilo familiare dei suoi seni e li stringono attraverso la stoffa leggera.
    «Lascia perdere il caffè» ribatto, staccandomi da lei per il tempo di sfilarmi il maglione, tirando via anche la maglietta. Torno ad avventarmi sul suo collo, sentendo le sue mani muoversi alla cieca per trovare la fibbia della cintura. È a quel punto che la mia mano si avventura al di sotto della sua gonna, scansando la biancheria e trovando subito il suo punto più sensibile. Basta il contatto con le mie dita a strapparle un gemito, e non le ci vuole molto più tempo per abbassarmi jeans e biancheria e stringermi a sé, facendomi capire che vuole proseguire. Continuo a torturarla con le mie dita e i miei baci, mentre la sua mano continua a sfiorarmi, delicata e quasi timida come faceva già vent'anni fa. Improvvisamente, mi accorgo di non avere con me profilattici, perché mai avrei pensato che una semplice cena di scuse potesse portare a questo – a dire il vero, non credevo nemmeno avrebbe accettato il mio invito. «Christine, non ho preservativi» sussurro, staccandomi per un istante dal suo collo.
    «Non è un problema, prendo la pillola» risponde lei, le gote arrossate e gli occhi accesi di desiderio. «A meno che qualche groupie non ti abbia trasmesso qualche brutta malattia, non è un problema» aggiunge con un sorriso.
    «Nessuna malattia, tranquilla. Sono sanissimo» sorrido a mia volta, trattenendomi dal dire che in realtà non c'è proprio stata nessuna groupie, e che nei miei ultimi rapporti ho sempre preso precauzioni, per quanto credessi di essere troppo ubriaco per riuscirci.
    «Allora smetti di parlare.»
    Senza dire altro, poggio le mani sul suo fondoschiena e la sollevo, senza staccare i miei occhi dai suoi. Scivolo dentro di lei in modo quasi prepotente, strappandole un piccolo lamento di dolore. Dopo un breve istante di immobilità inizio a muovermi, sostenendola con un braccio e appoggiando l'altra mano alla porta, tentando di mantere l'equilibrio. Christine si regge alle mie spalle, rispondendo ad ogni spinta con un gemito o un sospiro. Il suo seno preme contro il mio petto ad ogni respiro, mentre i suoi capelli castani, più lunghi di quanto ricordassi, scivolano in avanti, coprendole in parte il viso. Quando sostenere il suo sguardo si fa troppo difficile, chiudo gli occhi e mi concentro sulle sensazioni. Mi è sempre piaciuto mantenere un contatto visivo durante il sesso, ma guardare troppo a lungo i suoi occhi scuri riporta alla mente troppe cose che credevo di aver dimenticato – e non soltanto il passato più remoto, ma anche momenti troppo recenti per essere cancellati, e troppo intensi per risultare inoffensivi.

    Spalmato sul divano, di fronte ad un vecchio film che nemmeno sta seguendo, Jared cerca di riprendersi dalle fatiche della giornata. Contravvenendo alle regole ferree che di solito regolano la sua dieta, e soprattutto per niente in vena di cucinare, ha ordinato un'enorme pizza farcita di ogni ben di Dio, che ora giace in stato di abbandono sul tavolino del salotto, accanto ad una lattina di Pepsi e al telecomando. È quasi sul punto di appisolarsi quando il cellulare squilla. Dopo una forsennata ricerca, Jared lo trova incastrato tra i cuscini del divano, e riesce a rispondere un attimo prima che smetta di squillare. «Ciao, Emma. È successo qualcosa?» biascica, la voce vagamente impastata dallo stato semicomatoso nel quale era scivolato.
    «Spero che tu sia seduto, Jared, perché... sono uscite.»
    «Sono... uscite?» ripete lui, senza capire di che cosa si parli, e soprattutto perché Emma sia così eccitata dalla notizia.
    «Le candidature, Jared, le candidature agli Oscar! Jared, sei stato nominato!»
    «Cosa?»
    «Cos'è, stai diventando sordo? Sto dicendo che sei stato candidato all'Oscar!»
    Soltanto a questo punto Jared inizia a metabolizzare la notizia. Candidato all'Oscar. Lui, che proprio quella mattina ha affermato di aver pensato, solo per qualche mese, ormai una vita fa, di mollare la recitazione. Lui, che ha sempre scelto ruoli di solito mai capiti dal pubblico, che ha sempre vissuto, nel mondo e sullo schermo, fuori dal coro. Sa che in fondo non si tratta che di una formalità, di una statuetta che, in caso di vittoria, finirebbe abbandonata su una mensola accanto a decine di altri inutili premi, eppure la prospettiva di vincere un riconoscimento del genere lo rende insolitamente fiero. Sa di non aver bisogno di premi per incrementare la propria popolarità, eppure è felice di avere una simile opportunità, perché questo renderebbe finalmente chiaro agli occhi del mondo che non è soltanto un eccentrico artista che si veste al buio e che fa leva sul proprio bell'aspetto. No, proprio no. Perché Rayon non ha nulla a che fare con la bellezza, o almeno con quella esteriore. Rayon è soprattutto cuore. Rayon è solo cuore, e solo Dio sa quanto Jared si sia annullato per riuscire ad interpretarla nella maniera corretta, per non cadere nel cliché, per far trasparire ogni sua sfumatura. Rayon è la prima persona alla quale Jared abbia donato incondizionatamente la sua anima e il suo cuore, e sa che se non fosse già seduto questo sarebbe il momento di farlo, perché le gambe stanno iniziando a tremargli.
    Improvvisamente, Jared non si sente più così solo e abbattuto, mentre all'altro capo del filo Emma continua a complimentarsi con lui e inizia ad organizzare l'evento.

    La seconda volta succede tutto più lentamente, quasi con dolcezza, come se dal semplice sesso fossimo tornati al tempo in cui facevamo l'amore, scambiandoci sogni e desideri come forse sanno fare soltanto i ragazzini. Ci muoviamo quasi a rilento sul letto dalle lenzuola stropicciate, assaporando ogni contatto e ogni carezza come un bicchiere di vino che non vorremmo si svuotasse mai. Tra labbra che si sfiorano senza realmente toccarsi e dita che si stringono forte per cercare la forza di continuare, Christine ed io torniamo ad amarci, come credevo non sarebbe più successo. Dopo Daria, credevo non sarei più stato in grado di dare ad una donna altro che il mio corpo, ma ciò che sta accadendo mi rivela che è possibile continuare a vivere anche dopo un grande dolore, e che forse esiste un modo per riparare un cuore spezzato.



1La carne è debole. Solo l'anima è immortale, e la tua appartiene a me. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Louis Cyphre (interpretato da Al Pacino) nel film L'Avvocato Del Diavolo (1997).

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Capitolo 16
*** 16 | Immagino che adesso dipenda da me: devo correre il rischio, o soltanto sorridere? ***


La lunga strada verso casa - 1
Mi sento terribilmente in colpa per avervi fatto aspettare per così tanto tempo, ma queste due ultime settimane sono state colme di impegni fino all'inverosimile: lavoro, studio, impegni in famiglia, presentazioni del mio libro, cene da organizzare per cercare di provarci con il tipo che mi piace, una long da finire per un contest in scadenza tra due giorni (e che ancora non ho terminato XD)... insomma, credo di avere quasi più impegni di Obama. Però vi farà certamente piacere sapere che in questi giorni ho avuto alcuni momenti per riflettere sulla direzione che prenderà la storia di Daria e Shannon, il che significa che ora devo soltanto trovare il tempo di mettermi a tavolino e scrivere, e poi avrete i vostri temutissimi aggiornamenti =)
Domandandovi ancora una volta scusa per abusare così della vostra pazienza e del vostro tempo, vi saluto, e vi regalo un capitolo che spero apprezzerete.
Con affetto marsiano,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo sedicesimo
Immagino che adesso dipenda da me:
devo correre il rischio, o soltanto sorridere?.1


Torino, 15 febbraio 2014


    Dopo una notte passata quasi completamente in bianco, vado al lavoro con due occhiaie in grado di spaventare gli uomini più coraggiosi. Tento di tranquillizzare Marco, terrorizzato all'idea che possa essere malata, cercando nel contempo di non fargli capire che la causa della mia notte agitata è stato il suo regalo, la sua dichiarazione e tutto ciò che da essi è conseguito, ovvero la convinzione che Alice non ha in fondo tutti i torti, e che mi sono lanciata in questa relazione principalmente per tentare di scacciare dalla mente e dal cuore il pensiero di Shannon – che solo ora mi rendo conto essere incancellabile. Non in così poco tempo, almeno. La cosa giusta da fare, ora me ne rendo conto, è troncare con Marco prima che sia troppo tardi, prima di sentirmi troppo coinvolta, prima che la nostra relazione diventi troppo complicata, prima che il nostro legame diventi tanto profondo da spezzargli definitivamente il cuore quando arriverà il momento in cui non riuscirò più a sopportare il mio riflesso nello specchio. So che questa non sarebbe la soluzione, perché lasciare Marco non farebbe tornare indietro Shannon, ma in qualche modo sento che mi farà stare meglio, anche solo per un momento, e in questo istante mi sento tanto distrutta da essere pronta a qualunque cosa pur di trovare un attimo di pace.
    Solo che, me ne rendo conto soltanto questa mattina, non è facile trovare le parole giuste per dire ad una persona che ti ama che tu in realtà non provi per lei altro che affetto, e che nemmeno in un milione di anni potrebbe imparare ad amarti nel modo in cui vuoi essere amata, e soprattutto nel modo in cui sai di poter essere amata. Decido di comportarmi nella maniera più naturale possibile e di lasciare le conversazioni personali a fine giornata, convinta che così sarà tutto più semplice, soprattutto perché ad essere seguirà il finesettimana, e dunque entrambi avremo un paio di giorni liberi per recepirne gli effetti. Effetti che, già lo so, saranno comunque devastanti.



*



Los Angeles, 15 febbraio 2014


    Apro gli occhi, e mi occorre qualche secondo per capire che non sono mie le lenzuola tra le quali sono disteso. Mi ci vuole un altro mezzo minuto per rendermi conto che l'altro lato del letto è vuoto e che sono a casa di Christine, e che abbiamo trascorso la notte facendo il miglior sesso che mi sia capitato di fare di recente. L'ultima volta che siamo stati insieme, ormai più di vent'anni fa, eravamo entrambi due ragazzini alle prime armi che non avevano idea di come comportarsi, ma adesso... oh, questa notte sarà difficile scordarla. Ammetto di aver maturato una certa esperienza in questi anni, ma Christine non è da meno. L'ho lasciata ragazzina, e l'ho ritrovata decisamente donna – una donna forte e indipendente che sa quello che vuole e soprattutto non ha paura di prenderselo. Christine non si nasconde e non ha paura di chiedere, e questo è quello che in una donna mi è sempre piaciuto di più.
    Nascondo un breve sorriso dietro la mano e mi metto a sedere, chiedendomi dove sia lei. Mi guardo attorno e trovo i miei vestiti accuratamente piegati su una sedia lì vicino, corredati da un biglietto. «Grazie per la splendida serata» leggo a bassa voce. «Purtroppo devo andare al lavoro, ma ho pensato di lasciarti dormire. Sei ancora bellissimo, quando dormi. In cucina c'è del caffè – un buon caffè, tranquillo. Ci sentiamo.» Sorrido ancora, alzandomi in piedi e vestendomi senza fretta, senza riuscire ad impedire alla mia mente di tornare indietro di poche ore, alle storie che questo letto potrebbe raccontare.
    Accogliendo con piacere l'invito, vado in cucina e mi verso una tazza di caffè. Sorseggiandolo piano, vago a piedi nudi per tutta la casa, cercando di capire che tipo di persona Christine sia diventata crescendo. Osservo con attenzione i manuali di diritto accuratamente riposti sullo scaffale e i giornali sparsi sul tavolino del salotto, poi il mio sguardo finisce catturato dalla sua collezione di dischi. Christine è sempre stata un'appassionata di buona musica, e in effetti questo è uno dei motivi che ci hanno fatti finire insieme al liceo. Trovo molti titoli dei Dire Straits, dei The Cure e dei Queen, poi, nascosti in un angolo, quasi avesse cercato di celarli alla vista, trovo i nostri cd, la collezione completa degli album dei Thirty Seconds To Mars. Osservandoli, mi sento un po' strano: è come se in un certo senso in tutti questi anni lei abbia avuto un'opportunità per continuare a stare in contatto con me, un'occasione per osservarmi, una possibilità che io non ho avuto. È come se lei sapesse tutto ciò che ho fatto in questi anni, mentre per me questo periodo è soltanto un enorme buco nero che non so come colmare.
    Finisco il caffè, sciacquo la tazza e la infilo in lavastoviglie, poi metto le scarpe ed esco, accorgendomi che sono quasi le dieci del mattino, e ho lasciato solo Bruce fin troppo a lungo. L'aria è frizzante, insolitamente fredda per gli standard degli inverni californiani, ma il sole che illumina le colline di Hollywood sembra voler avanzare prepotentemente, ricordando a tutti noi che è lui il vero re di questa porzione di America. Socchiudo gli occhi per ripararli dalla luce, pensando che sembra quasi primavera, sembra quasi che il mondo sia pronto a risvegliarsi dopo la stagione del letargo, ed è proprio così che mi sento in questo momento – pronto a ricominciare.



*



Torino, 15 febbraio 2014


    «E anche per oggi abbiamo finito» sospira Marco, iniziando a spegnere le luci mentre io mi occupo di finire i conti e chiudere la cassa. «Stavo pensando» aggiunge, avvicinandosi al bancone, «stasera potresti restare qui. Ho provato a cucinare le melanzane alla parmigiana, mi serve un parere sincero.»
    A questo punto, mi rendo conto che è inutile tacere oltre: so di dover affrontare il discorso, e farlo dopo una buona cena e dell'ottimo sesso, magari mentre mi sto rivestendo per tornare a casa mia, di certo non sarebbe la soluzione ideale. Farebbe sentire peggio entrambi, e proprio non mi va l'idea di passare per la stronza di turno – non più di quanto senta di meritare. «Senti, Marco, io credo... credo ci sia qualcosa di cui dobbiamo parlare.»
    «Potremmo parlarne cenando. Lo sanno tutti che a pancia piena si ragiona meglio. A meno che non sia qualcosa di molto grave o di davvero molto, molto importante» aggiunge, notando il mio sguardo serio. «A giudicare da come mi stai guardando direi che è uno di quei casi. Che è successo?»
    «Beh, io...» inizio, bloccandomi subito dopo. Mi sono ripetuta per tutto il giorno quanto fosse necessario questo discorso che nemmeno per un istante mi sono soffermata a pensare quali parole avrei usato – e nonostante io sia una a cui le parole non mancano, in certe situazioni, ora non so davvero come esprimermi senza cadere nella più totale banalità. «Marco, io con te sto molto bene» sputo fuori d'un tratto, pur sapendo che questa è l'espressione più stupida a cui avrei potuto fare appello, la classica frase da film che precede una dolorosa separazione. «Davvero, tu sei un uomo speciale, e qualsiasi donna sarebbe felicissima di avere al proprio fianco una persona straordinaria quanto te» continuo, dicendomi che ormai tanto vale continuare a correre sul viale della banalità. «Però io non merito un uomo come te. Tu mi fai sentire speciale, mi fai sentire così amata che... tu mi fai sentire perfetta, e io tutto questo non lo merito.»
    «Daria, non...»
    «Lasciami parlare, per favore» lo interrompo, abbassando lo sguardo e cominciando a giocherellare con una graffetta. «Se non mi lasci parlare ora, potrei non trovare più il coraggio di dirti quello che provo.» Non risponde, e dopo un paio di respiri profondi tento di continuare. «Io non merito una persona che mi ami quanto mi ami tu, perché sono una brutta persona. Mi sto prendendo gioco di te, Marco. Mi piace stare con te, e andare a cena, e parlare, e ridere, e scherzare, mi piace sapere di avere qualcuno che si prende cura di me, qualcuno che mi ascolta e ride alle mie battute anche quando non sono divertenti, e qualcuno che mi faccia regali stupendi e mi porti fuori e non chieda niente in cambio, ma... il fatto è che io non provo quello che provi tu. Sapere che tieni a me è fantastico, ma potrebbe essere perfetto soltanto se anch'io ti amassi nel modo in cui tu mi ami.»
    «Io credo di averti amata dal momento in cui sei entrata qui chiedendo un lavoro» risponde. «Non mi sono mai illuso che tu potessi tenere a me allo stesso modo. Insomma, abbiamo iniziato ad uscire da poco, non... non ho mai preteso che tu iniziassi ad amarmi dal primo momento allo stesso modo in cui io amo te. Sarebbe da egoisti crederlo. Da egoisti, o da cretini, e io credo di non essere né l'uno né l'altro.»
    Sospiro, ricordando in questo momento che Marco è anche un uomo intelligente, e che questo rende le cose molto più complicate. «Marco, io ti sto prendendo in giro. Quando abbiamo iniziato ad uscire insieme ero sincera, credevo di poter ingannare me stessa e arrivare ad amarti, ma... non so quando sia successo, ma ad un certo punto mi sono accorta che... sto giocando con i tuoi sentimenti, e io ho sempre detestato le persone che si prendono gioco dei sentimenti altrui. La verità è che... beh, ecco, io...»
    «Si tratta di quel ragazzo, vero?» mi interrompe. «Quello di cui mi hai parlato quando abbiamo iniziato a vederci. Quello a cui dicevi di aver spezzato il cuore.» Un enorme groppo in gola mi impedisce di articolare un discorso coerente e coeso, perciò mi limito ad annuire, senza osare alzare gli occhi, spaventata all'idea di ciò che potrei trovare nel suo sguardo. «Mi sono chiesto spesso quanto tempo fosse passato dalla fine di quella storia, perché... non lo so, a volte avevo come l'impressione che la tua testa fosse da un'altra parte, come se in fondo pensassi ancora a lui. Quanto tempo è passato, Daria?»
    «Ci siamo lasciati alla fine di novembre» sussurro, cercando disperatamente di trattenere le lacrime. «Quando ti ho chiesto quella settimana di ferie per andare a Parigi, non ero con una mia amica. Ero con lui. Ci sono rimasta soltanto quattro giorni, poi ho fatto le valigie e me ne sono andata. L'ho lasciato con una lettera e gli ho chiesto di non cercarmi più. È per questo che non merito un uomo come te. Io sono una persona orribile, una che spezza il cuore delle persone che la amano. Ti ho mentito per un mese intero, e so di non poter continuare. Non potrei continuare nemmeno se tu fossi un uomo comune, a maggior ragione non posso farlo con una persona speciale quanto te. Io ti voglio bene, Marco, ma non...»
    «Lo amavi molto, vero?»
    «Più passa il tempo, più mi convinco che non potrò mai amare un uomo tanto quanto amavo lui.»
    «E allora perché lo hai lasciato? Lui non provava lo stesso?»
    «No, lui... io non lo so, Marco. Mi dico che anche lui mi amava, ma lo sai anche tu che ci sono casi in cui l'amore non basta per tenere insieme una storia.»
    «L'amore non basta soltanto se tu credi che non possa bastare, Daria» replica. «Viviamo in un mondo orribile, pieno di disastri e di casini innimaginabili, e se non possiamo contare nemmeno sull'amore, allora che cosa può darci la forza di continuare?»
    «Niente di quello che potresti dire potrebbe farmi sentire peggio di quanto già non mi senta.»
    «Non è mia intenzione farti sentire peggio, Daria. Sai quanto tenga a te, e ti assicuro che farti soffrire è l'ultima delle mie intenzioni. Per quanto mi ferisca sentirmi mollare, so che lo stai facendo per il mio bene. Non sei una persona orribile. Hai sbagliato, questo è vero, ma adesso stai facendo di tutto per rimediare e correggere i tuoi errori. Una persona orribile questo non lo farebbe. Per quanto possa soffrire, non potrei mai odiarti o augurarti del male. Vorrò comunque vederti star bene, sempre
    Forse è questo a farmi soffrire, più di qualunque insulto mi fossi aspettata di ricevere. La sua accondiscenza e il fatto che nonostante tutto lui continui a volermi bene mi fanno sentire ancora più sporca, ancora più orrenda, e già so che più tardi, al riparo nel mio appartamento vuoto e solitario, piangerò tutte le lacrime del mondo, sentendomi in colpa come la peggiore delle criminali. «Mi dispiace, Marco. Non volevo prenderti in giro.»
    «Forse un giorno riuscirò ad odiarti per avermi spezzato il cuore, ma adesso non ci riesco» risponde, e finalmente riesco ad alzare lo sguardo su di lui. «So che suonerà strano e probabilmente ti infastidirà sentirtelo dire, ma in questo momento non riesco proprio ad odiarti. Non posso infierire su una persona che soffre già così tanto.» Riabbasso lo sguardo, sapendo che, anche tra mille anni, Marco riuscirebbe a leggermi dentro bene quasi quanto Alice. «Ti accompagno a casa, adesso.»
    «Non è necessario, Marco, sto bene» protesto, sapendo che non è così che dovrebbero andare le cose. L'ho appena lasciato, e a rigor di logica a questo punto le nostre strade non dovrebbero più proseguire parallele, ma separarsi e seguire direzioni divergenti.
    «Siamo ancora amici, Daria. Gli amici fanno queste cose. Non protestare, perché non te la darò vinta. Vado a prendere i cappotti.»

    Fermo sul marciapiede, fingendosi intento ad osservare i manufatti esposti nelle vetrine di un negozio d'antiquariato, Emanuele tiene in realtà d'occhio lo studio d'architettura posto dall'altro lato della strada, aspettando che le luci si spengano e l'attività chiuda. Sono ormai le sette di sera, dunque non dovrebbe mancare molto. Quando vede una ragazza uscire salutando, capisce che il momento è giunto, e si prepara a dedicare tutta la propria attenzione ai movimenti che animeranno l'altro marciapiede.
    Quando vede sua madre uscire, reggendo un mazzo di chiavi e una cartelletta porta-disegni, Emanuele trattiene il respiro. Come Daria e Francesca prima e dopo di lui, anche lui ha trovato le fotografie nascoste sul fondo dell'armadio di suo padre, ed esattamente come le sorelle ne ha trafugata una da tenere in un cassetto e guardare nei momenti di sconforto o malinconia, o semplicemente quando sente i ricordi farsi vaghi. Elisa è ancora una bellissima donna, forse ancora più bella di quanto non appaia sulla pellicola, e il suo passo è quello di una donna sicura di sé che ha trovato il proprio posto in un mondo crudele e tenebroso, e che con tutte le proprie forze si aggrappa al suo angolino di sole, ben decisa a non mollarlo. Emanuele ha sentito la mancanza di una madre esattamente quanto le sorelle, nonostante abbia sempre cercato di non darlo a vedere, nonostante non si sia mai illuso di poter chiudere ermeticamente il dolore nel proprio cuore, nascosto agli occhi delle persone che gli vogliono bene, delle persone che lo conoscono forse meglio di quanto lui conosca se stesso. Elisa gli è mancata, e per quanto il disgusto nel sentirsi abbandonato da lei superi qualunque proposito di riammetterla nella propria vita, Emanuele sa di non poter reprimere l'istinto di rivederla, anche se da lontano, anche se solo per un momento.
    E poi, quando crede che il dolore sia passato, Emanuele trattiene ancora una volta il respiro, perché assieme ad Elisa c'è Luca. Luca, quel fratello che ha scoperto di avere soltanto da un pugno di giorni, e che per qualche istante ha cordialmente detestato, perché al contrario di lui ha avuto la possibilità di crescere come un bambino normale, in una famiglia completa, senza sentirsi costantemente oggetto dell'attenzione altrui, senza sentirsi mai insultato, o additato come il bambino che la mamma non ha voluto. Daria ha ragione, Luca un po' gli somiglia: i ricci ribelli, gli occhiali da intellettuale, il passo nervoso di chi non ha ancora imparato come si stia al mondo... gli undici anni di Luca gli ricordano i suoi, fatti di ragazzini più grandi che strappavano le pagine ai suoi libri e pasticciavano i suoi appunti, di ragazzine che non lo degnavano di uno sguardo perché lui era quello strano, di pomeriggi solitari passati nella propria cameretta a studiare e fare progetti, perché il futuro sembrava l'unico posto sicuro in cui rifugiarsi.
    Mentre Elisa e Luca si allontanano camminando vicini, Emanuele si copre la bocca con una mano e stringe le palpebre per evitare di scoppiare in lacrime, mentre dagli auricolari la voce di Gary LeVox e le parole di What hurts the most sembrano volergli rendere impossibile trattenere la commozione. Davanti a Daria si è comportato da uomo duro, si è mostrato arrabbiato e inflessibile, ma la verità è che si sente ferito, e triste, e vuoto e inconsolabile – e per uno come lui, che si è sempre rifugiato nella scienza per evitare l'incertezza, tutto questo è nuovo e incredibilmente difficile da affrontare.

    Salgo le scale a passo lento, illudendomi che ritardare l'ingresso nel mio appartamento mi aiuterà ad affrontare meglio ciò che mi attende. Sono quasi al quarto piano, quando il portone di casa Lorenzoli si apre e Antonio si fa avanti sul pianerottolo, salutandomi con un sorriso. «Oh, Daria, che sorpresa! Stavo proprio salendo a casa tua.» Cerco di fare mente locale, chiedendomi se mi sia forse dimenticata di pagare l'affitto, mentre rispondo cordialmente al suo saluto. «Oh, tranquilla, non è successo nulla di grave. Ada ha provato una nuova ricetta, e mi ha chiesto di invitarti a cena. Sempre che tu non abbia già impegni, naturalmente. Non si fida del mio giudizio, dice che sono troppo accondiscendente, e che troverei delizioso persino il cemento.»
    «Non ho altri impegni, ma non vorrei disturbare» replico, arrivando finalmente al suo stesso piano.
    «Ma quale disturbo, ragazza? Se non avessimo voluto essere disturbati non ci saremmo mai sognati di avanzare un invito. La verità è che a due vecchie cariatidi come noi non può che far piacere un po' di compagnia, soprattutto se giovane e simpatica come te» aggiunge, strizzando l'occhio al mio indirizzo.
    «Allora sarò felice di essere dei vostri» mi arrendo, sapendo di non avere scelta. Dopotutto, mi dico, forse farà bene anche a me un po' di compagnia, se non altro per distrarmi dai miei problemi. «Salgo un attimo a darmi una rinfrescata e sono subito da voi» aggiungo, ricominciando a salire.

    È sabato sera, e Alice non riesce a concentrarsi. Marta e Cristina si stanno preparando per uscire, con la speranza di riuscire, almeno per una sera, a dimenticare lo stress causato dagli esami. Entrambe hanno cercato di convincerla ad unirsi a loro, ma in entrambi i casi Alice ha rifiutato. Da quando la storia con Federico è giunta al termine non ha più molta voglia di uscire, e già non è mai stata una ragazza festaiola. Chiunque non la conoscesse potrebbe pensare che l'essere tornata single e la voglia di tapparsi in casa ad ammuffire sui libri siano eventi strettamente correlati, ma lei sa che non esiste nessuna connessione tra le due cose. Contrariamente a molte altre persone – soprattutto rispetto a Daria – Alice si conosce molto bene, e sa che la sua abulia non è da attribuire alla fine della storia con Federico, ma alla consapevolezza di aver esaurito le strategie utili a far tornare insieme Shannon e Daria. Da quando Jared le ha fatto notare che entrambi, noti vulcani di idee, sono arrivati alla frutta, Alice si sente esausta, svuotata di ogni energia, e terribilemente contrariata all'idea di non avere più voce in capitolo – sempre che poi ne abbia avuta.
    Alice sa che servirebbe un miracolo, a questo punto della storia, quel deus-ex-machina che in ogni commedia romantica degna di questo nome risolve la situazione e traghetta senza ostacoli al lieto fine. Ma lei, purtroppo, non è mai stata incline a credere nell'intervento divino, e nonostante l'ultimo periodo le abbia insegnato che molte cose ritenute impossibili possono in realtà accadere, lei proprio non riesce a scorgere all'orizzonte una felice conclusione. Forse, giunti a questo punto, bisognerebbe arrendersi all'evidenza dei fatti: il mondo fa schifo, e l'umanità deve arrangiarsi come può.

    «Complimenti, signora Lorenzoli» affermo dopo il caffè, sentendo lo stomaco pieno fin quasi a scoppiare. «Era davvero tutto ottimo.»
    «Ha iniziato un corso di cucina» mi spiega il marito, versandosi la consueta goccia di grappa che conclude ogni suo pasto. Rifiuto l'offerta di bere con lui, e mentre ripone la bottiglia sorride. «Ada è sempre stata un'ottima cuoca, ma rifiuta di ammetterlo.»
    «Antonio, ti ho detto mille volte che tu non fai testo. Riusciresti a trovare squisito anche un sasso. E tu smettila di chiamarmi signora Lorenzoli, ragazzina» aggiunge, rivolgendosi a me. «Lo sai, per te siamo soltanto Ada e Antonio.»
    «Chiedo scusa, è solo che non riesco a... insomma, non...»
    «Non riesci a trattare due vecchietti come noi come amici?» scherza lui, tornando a sedersi.
    «Non erano queste le parole che volevo usare, ma devo ammettere che rendono l'idea» replico, alzandomi per aiutare a sparecchiare, nonostante le proteste della moglie. Mentre entro in cucina, sento un lieve rumore, come un pigolio, provenire da un angolo della stanza. Mi volto per cercarne la fonte, e vedo una vecchia cesta sistemata accanto al termosifone. Poggio i piatti, mi avvicino e sgrano gli occhi vedendo cinque bellissimi gattini, evidentemente nati da pochi giorni. «Non sapevo che aveste un gatto» commento, inginocchiandomi per guardare meglio. «Posso accarezzarli?»
    «Ma certo, cara» risponde Ada, mentre Antonio ci raggiunge. «Non sono nostri, però. Antonio li ha trovati l'altro ieri in cortile, dietro i cassonetti.»
    «E la madre dov'è?» domando, da sempre molto sensibile ai problemi degli orfani, umani o animali che siano.
    «L'ho trovata morta vicino a loro» spiega lui. «Probabilmente qualche inquilino l'ha vista aggirarsi in cortile e ha piazzato un boccone avvelenato. Era messa piuttosto male, immagino fosse una randagia. È orribile ciò che certe persone riescono a fare.»
    Accarezzo con dolcezza i cuccioli, evidentemente spaventati e infreddoliti, nonostante le amorevoli cure dei Lorenzoli. «Noi non ce ne possiamo occupare, perché Antonio è allergico» spiega lei. «Abbiamo chiesto a nostra figlia di venire a prenderli. Lei abita in campagna, hanno già molti animali. Qualche gattino in più non potrà certo fare la differenza.»
    «Sempre ammesso che sopravvivano» aggiunge lui. «Quando dei gattini così piccoli perdono la madre, è difficile che riescano a riprendersi del tutto. Anna ha parecchie gatte che hanno partorito da poco, ma è raro che una gatta accetti di allattare dei cuccioli non suoi. I gatti non hanno molto istinto genitoriale.»
    «Questo mi sembra il più debole di tutti» commento a mezza voce, sfiorando appena un gattino completamente nero, rintanato in un angolo, lontano dai fratelli. Senza dire altro, lo sollevo con delicatezza e lo metto vicino agli altri gattini, sperando che la loro vicinanza lo aiuti a riprendersi.
    «Ci abbiamo provato già decine di volte» è il commento di Ada, che incrocia le braccia davanti al petto con aria desolata, «ma gli altri lo spingono via. Sembra quasi che non lo vogliano vicino.» So che stiamo parlando di gatti, non di esseri umani, ma le parole di Ada mi mettono addosso un'incredibile tristezza – so cosa significhi sentirsi rifiutati, credere di non avere nessuno che ti ami, e anche se quello che sto guardando è soltanto un gattino, non riesco a non sentirmi vicina a lui. Restiamo tutti e tre in silenzio, mentre il gattino nero viene a poco a poco allontanato dai fratelli e si trascina lentamente verso l'angolo cui l'ho strappato, ricominciando a piangere disperato. Mossa a pietà, infilo di nuovo la mano nella scatola, accarezzandolo piano, e a questo punto succede una cosa stranissima: non appena le mie dita sfiorano il suo pelo lucido e morbido, il gattino smette di piangere, come se il contatto lo facesse improvvisamente al sicuro, completo. «Ma guarda, sembra che tu gli piaccia» sorride Ada, mentre il gattino si muove alla cieca contro le mie dita, tentando di trarre nutrimento dalle mie dita. «Potresti prenderlo tu, magari. Non siamo contrari agli animali in casa.»
    Mi volto a guardarla, un po' sorpresa per la proposta, e letteralmente senza parole. «Non saprei, non ho mai avuto animali domestici.»
    «Oh, i gatti non hanno bisogno di molte cure» commenta Antonio. «Sono animali molto indipendenti. Tu fagli trovare la ciotola piena di cibo, una lettiera pulita e una cesta confortevole, e non ti darà fastidio. Certo, sempre che arrivi all'età adulta. Per adesso non sembra molto in forma.»
    «Davvero non vi darebbe fastidio?»
    «Assolutamente no» insiste Ada. «Non abbiamo mai potuto tenere animali in casa perché Antonio è allergico al loro pelo, ma Dio solo sa quante volte Anna ci abbia pregati di prenderle un cucciolo.»
    «E poi è un gatto, non un pitone» interviene lui, prima di nascondere il naso in un fazzoletto.
    «Forse ti darà qualche grattacapo all'inizio, di certo andrà educato» continua lei, «ma in fondo addestrare un animale non è molto diverso dall'allevare un figlio. Se te la senti, il gatto è tuo.»


*



Los Angeles, 15 febbraio 2014


    Trascorro la giornata comportandomi come un vero e proprio casalingo: riordino, faccio il bucato, sistemo l'armadio... da quando ho licenziato l'ultima donna delle pulizie, una maniaca del controllo assunta da Jared in persona, ho deciso di arrangiarmi, o al massimo di chiedere aiuto a mia madre. In fondo, con la vita che faccio non sono quasi mai a casa, perciò l'unico vero sforzo che mi venga richiesto è spolverare – ma non essendo disordinato e amante dei ninnoli quanto mio fratello, non è un lavoro complicato. Quando si avvicina l'ora di pranzo, decido di chiamare Christine, sperando che la causa intentata alla società non la impegni tanto da farle decidere di saltare il pasto.
    «Christine Sandoval, chi parla?» risponde quasi trafelata, evidentemente senza controllare il mittente della chiamata.
    «Molto professionale, non c'è che dire» sorrido, felice di sentire di nuovo il familiare suono della sua voce.
    «Shannon!» esclama, sorpresa di sentirmi. «Non credevo ti avrei sentito così presto.»
    «Credevi che non avrei chiamato?»
    «Beh, è così che ci si aspetti si comporti un uomo come te, no?» mi prende in giro, come sempre giocando sulla mia fama di seduttore e sulla generale convinzione che i musicisti di fama internazionale siano bestie arrapate che saltano da un letto all'altro senza sosta. «Com'era il caffè?»
    «Non male, ma ci si può lavorare» replico, scherzando a mia volta. «Mi sei mancata, questa mattina.»
    «Avrei davvero voluto restare, ma questa causa mi sta letteralmente succhiando via l'anima. Mi ci devo dedicare in ogni momento della giornata, e non mi posso permettere nemmeno una distrazione.»
    «Intendi una distrazione come quella di ieri sera?» suggerisco, sperando che non recepisca male il messaggio.
    Dopo un attimo di silenzio la sento rispondere, a voce più bassa, e posso quasi vederla sistemarsi i capelli dietro l'orecchio, come fa sempre quando è nervosa. «Quella di ieri sera è stata una piacevolissima distrazione, Shannon. Non credo sarà quella a farmi perdere la causa. Il problema potrebbe sopraggiungere se quella distrazione si ripetesse, credo.»
    «Quindi non verrai a pranzo con me, dico bene?»
    «Per quanto la proposta risulti allettante, devo declinare» risponde, e il senso di colpa che permea la sua voce è quanto di più sincero abbia mai sentito. «Mi distrarresti troppo.»
    «Un pranzo ti distrarrebbe?»
    «Non ho parlato del pranzo.»
    «Oh, quindi sono un elemento di distrazione? Non mi avevano mai chiamato così.»
    «Non dirmi che non ti sei mai visto allo specchio.»
    «Tutte le mattine, ma mai in questi termini.»
    «Perché non sei una donna.»
    «Stai cercando di farmi un complimento?»
    «Ci sto riuscendo?»
    «Forse» rispondo con un sorriso. È incredibile come vent'anni non siano bastati a cancellare la naturalezza con cui riusciamo a mantenere attiva una conversazione, senza cedere all'imbarazzo e senza cadere in quei lunghi silenzi impossibili da riempire che spesso si creano tra due persone che non si sono viste per lungo tempo. Nemmeno l'esserci visti nudi sembra causarci problemi, il che avvalora la mia tesi: sono pronto per ricominciare, e soprattutto Christine è la persona giusta con cui fare un tentativo. «E se ci vedessimo per cena? Dubito che tu intenda sprecare anche le tue notti su questa causa.»
    «Non sarebbe mia intenzione, questo è indubbio, ma non posso risponderti con certezza» replica lei. «Chiamami di nuovo verso le sette e saprò essere più precisa.»


*



Torino, 15 febbraio 2014


    A ventitré anni, le persone comuni trascorrono il sabato sera fuori di casa – riempiono le casse dei pub ordinando birra e cocktail, ridono con gli amici, vanno al cinema, si muovono a ritmo in discoteca... a ventitré anni, io trascorro il sabato sera prendendomi cura di un microscopico gattino nero che sembra trattenere l'anima con i denti. Prendo una scatola da scarpe dall'armadio, privando le mie vecchie scarpe da ginnastica del loro comodo rifugio, e la fodero con un paio di antichissime magliette mezze distrutte che avevo intenzione di usare come strofinacci per le pulizie. Adagio il gattino nella cesta improvvisata e resto a fissarlo per qualche minuto, sentendomi quasi un'idiota – perché solo un'idiota totale passerebbe il sabato sera a guardare dentro una scatola appoggiata sul bancone della cucina con lo stesso interesse con cui seguirebbe l'ultimo episodio della propria serie tv preferita. «Beh» esordisco, dopo un interminabile silenzio, «suppongo che come ogni cucciolo ti nutra prevalentemente di latte. Per tua fortuna, io mi sento ancora bambina, e ho sempre del latte in casa» aggiungo, andando verso il frigo. Verso un po' di latte dentro un piattino da caffè, poi sposto il gatto dalla scatola al bancone, chiedendomi se tutto questo venir sballottato di qua e di là non inizi ad infastidirlo un pochino. Aspetto pazientemente che infili il muso dentro il piattino e inizi a mangiare, ma è evidentemente troppo piccolo per mangiare da solo. Cerco di fare mente locale, ma in casa non ho né siringhe né contagocce, quindi dovrò trovare un altro modo per evitare che muoia di fame.

    Seduto davanti ad un ottimo piatto di melanzane alla parmigiana, la tv accesa su un canale che non sta seguendo, Marco sente finalmente la tristezza farsi strada nel suo cuore. Sul momento, mostrarsi accomodante e comprensivo era l'unica soluzione possibile, il solo modo per evitare che Daria si sentisse ancora più in colpa, ma adesso, ad ore di distanza, vorrebbe aver messo da parte la gentilezza ed essersi fatto sentire. Un istante più tardi si pente di averlo pensato, e si dice che non avrebbe potuto comportarsi meglio: è evidente che Daria non ha ancora superato la separazione, nonostante abbia ribadito più volte di essere stata lei a volerla, e farla sentire peggio non avrebbe di certo fatto sentire meglio lui – forse subito sì, ma sa che sulla distanza se ne sarebbe pentito, forse anche vergognato. Perché in fondo lui prova un grandissimo affetto per Daria, soltanto un profondo, immenso affetto che ha commesso l'errore di scambiare per amore, ma che non è mai stato altro che un senso di tenerezza destinato a rimanere tale. Certo, accorgersi di questo non rende la sua situazione meno triste: è stato lasciato da una ragazza meravigliosa che ha asserito di averlo preso in giro, di essersi presa gioco di lui, anche senza nessuna intenzione malvagia, e questa resta una ferita dalla quale sarà difficile riprendersi. Ma in fondo, ormai lo ha imparato, il destino delle ferite è quello di cicatrizzarsi: forse ci vorrà molto tempo, forse di tanto in tanto la crosticina si solleverà e darà fastidio, forse ci saranno giorni che spargeranno sale sulle sue carni ancora martoriate, ma di certo arriverà un giorno in cui si riprenderà, un glorioso mattino in cui si alzerà dal letto e si ritroverà guarito.

    Dopo un lungo elucubrare e un conseguente inizio di mal di testa, ho optato per la soluzione più semplice, e forse anche la più macchinosa: intingere ripetutamente il dito indice nel latte e avvicinarlo al muso del gatto per convincerlo delle mie buone intenzioni. Dopo molti tentativi, finalmente riesco a far smettere il suo pianto disperato, e la sua boccuccia senza denti si stringe con vigore attorno alla mia falange, succhiando con estrema avidità, proprio come se fossi sua madre. L'aver finalmente ottenuto un risultato mi rende fiera di me, e contemporaneamente l'immagine di quel gattino senza madre rifiutato persino dai fratelli mi commuove, forse perché mi ricorda me stessa, pur se io ho avuto la fortuna di avere accanto una famiglia amorevole. «Suppongo di doverti dare un nome, a questo punto» sussurro, bagnandomi per l'ennesima volta il dito. «A quanto pare, sembra che vivrai.» Il gattino sembra stringere di più la bocca attorno al mio dito, quasi volesse farmi capire di essere d'accordo con la mia ultima affermazione. «Non ho mai avuto un animale domestico, non conosco nessun nome da animale» continuo, rendendomi conto solo più tardi che, vista da fuori, in questo momento potrei sembrare piuttosto stupida. «So che a volte la gente battezza gli animali in un certo modo a seconda delle caratteristiche fisiche. Tu sei tutto nero, perciò potrei chiamarti Calimero, o magari Tornado, come il cavallo di Zorro... ma no, Tornado non mi sembra un nome adatto per un gatto. Tu hai suggerimenti?» gli domando, intigendo un'altra volta il dito nel piattino. «Prometto che domani andrò a comprare un contagocce, così nessuno dei due passerà la vecchiaia a fare questa cosa.» Continuo a dargli da mangiare, pensando ad un nome adatto per un gattino. Quando, probabilmente sazio, il cucciolo inizia a rifiutare i miei sforzi, trovo il nome perfetto per lui. «Ho deciso come ti chiamerò» sentenzio, unendo le mani a coppa per sollevarmelo davanti agli occhi. «Ti chiamerò Solo. Non Solo come Han Solo, però. Solo come... beh, solo. Solo, solitario, abbandonato... scegli tu il sinonimo. Che dici, ti piace?» In risposta, il gattino si accoccola nell'incavo delle mie mani, agitando pigramente le zampine ancora deboli nell'aria. «Bene, allora è deciso. Ti chiamerai Solo. Sperando che tu non sia femmina, altrimenti ci toccherà fare una modifica.» Lo guardo sbadigliare, e nell'istante in cui lo rimetto nella scatola, facendo attenzione a non sballottarlo eccessivamente, capisco che forse è solo questo che mi serve: avere qualcuno di cui occuparmi, qualcuno che dipenda totalmente da me, qualcuno che abbia bisogno di essere semplicemente amato.
    Quando mi metto a letto, un paio d'ore più tardi, porto la scatola con me, al piano di sopra, e la appoggio sull'altro lato del materasso. Scivolo nel sonno quasi senza accorgermene, tenendo la mano nella scatola, le dita a contatto con la peluria morbida e un po' arruffata di Solo, che continua a dormire beato. Ho sempre preso in giro le persone che trattano gli animali come esseri umani, e in una situazione normale probabilmente mi darei dell'idiota, ma questa sembra una di quelle sere in cui tutto è lecito, come la sera in cui si festeggia il diploma, o un addio al nubilato – tenere la mano nella scatola mi fa sentire meglio, mi fa sentire meno vuota, e in qualche strano modo sono convinta che faccia sentire meno vuoto anche lui. È la mia buona azione quotidiana, in fondo.

    Tornato a casa, chiuso nella penombra della sua stanza, Emanuele si finge intento a studiare, ma la verità è che i libri aperti davanti ai suoi occhi sono soltanto fogli coperti di geroglifici – nulla di importante, se paragonati a ciò che ha capito poche ore fa. Ha visto sua madre e ha visto suo fratello, poche ore fa. Li ha visti di persona, avrebbe potuto muovere due passi avanti e parlare e interagire con loro. Finché era soltanto Daria a parlarne, poteva scegliere di ignorarli. Erano soltanto fantasmi, oscure presenze che si muovevano dietro un telone bianco e non dicevano una parola, e fingere che la loro esistenza fosse fittizia era più facile. Ma ora li ha visti, li ha sentiti parlare tra loro, li ha visti camminare e muoversi nel mondo reale, e sa di non potersi più tirare indietro. Inizia a capire il punto di vista di sua sorella, inizia a comprendere perché lei voglia così disperatamente prendersi cura di quel bambino, perché voglia così disperatamente aiutarlo ad affrontare il mondo – perché lui lo ha provato sulla sua pelle, sa che il mondo è un posto crudele e tenebroso, se sei un ragazzino disarmato e solo. Emanuele non è mai stato solo, eppure è così che si è sentito per la maggior parte della propria adolescenza – solo e abbandonato, come un gatto randagio che sopravvive come può cercando di schivare i calcioni e le ruote delle automobili. La differenza tra lui e Luca è che Luca è davvero solo, perché è vero che ha una madre, ma ad un adolescente questo può anche non bastare. Quello di cui Luca ha bisogno è un fratello, o forse un amico, qualcuno di cui fidarsi, qualcuno a cui raccontare tutto ciò che gli passa per la testa e a cui chiedere consigli.
    Emanuele chiude il libro di scatto, sapendo di avere la testa troppo occupata per studiare. Il punto è che adesso, dopo averlo visto, dopo essersi reso conto che Luca non è soltanto un'ombra sullo schermo, Emanuele sa di non potersi tirare indietro, perché in fondo lui è come Daria, è come Francesca, è come suo padre – è un ragazzo di buon cuore, uno che non riesce a non aiutare, uno di quelli che si tuffano in acqua per tirare fuori l'annegato anche se non sanno nuotare. Adesso Emanuele sa che è suo dovere aiutare Luca a sopravvivere, pure se nemmeno lui è ancora riuscito a capire come si faccia a vivere.



1Immagino che adesso dipenda da me: devo correre il rischio, o soltanto sorridere?. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Misread, del duo norvegese Kings Of Convenience, contenuto nell'album Riot On An Empty Street (2004).

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Capitolo 17
*** 17 | L'inferno è vuoto, e tutti i demoni sono qui. ***


La lunga strada verso casa - 1
Io non so davvero come chiedervi scusa. Dire che sono una persona orrenda e che da voi merito soltanto disprezzo e improperi ormai non mi sembra più abbastanza, perciò mi rimetto al vostro buonsenso, preparandomi a ricevere con un sorriso ogni insulto che vorrete indirizzarmi. Perché non merito altro, lo so bene. Non merito altro che insulti, perché non posso sparire per un mese senza più dare mie notizie e poi ricomparire all'improvviso come se nulla fosse successo. Di più, non posso sparire per un mese e poi tornare con un capitolo semplicemente indegno di essere postato. O meglio, non potrei, ma ormai l'ho fatto.
Via alle telefonate minatorie,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo diciassettesimo
L'inferno è vuoto,
e tutti i demoni sono qui.1


Los Angeles, 17 febbraio 2014


    «Perché sorridi?»
    Christine, ancora immobile sopra di me, scuote la testa e abbassa il capo, lasciando che i capelli le coprano il volto. «Per un motivo molto stupido. Se te ne parlassi, probabilmente ti metteresti a ridere.»
    «Prometto di non farlo.»
    «Non sei mai stato bravo a mantenere le promesse.»
    «Questo vent'anni fa. Ora sono un uomo diverso. Perché non ci provi?»
    Lei si sposta una ciocca dietro l'orecchio, liberandosi il viso, e senza incrociare il mio sguardo risponde: «Stare con te mi fa sentire strana. So perfettamente di non avere più diciotto anni, eppure stare con te mi fa sentire come se fossi ancora una ragazzina. E questo mi fa sentire confusa. E tu lo sai, io ho sempre detestato sentirmi confusa.»
    «A nessuno piace sentirsi confuso, Christine. Non ho mai incontrato nessuno che fosse confuso e felice di esserlo.»
    «Lo so, Shannon. Vedi, il fatto è che... è che stavolta non ho paura della mia condizione. Per qualche strana ragione, stavolta sentirmi confusa non mi fa sentire persa.»
    «Non credo di aver afferrato. Non ti piace il fatto di non sentirti persa? Di solito la gente è sollevata, in questi casi.»
    «Ma io non sono la gente, Shannon. Noi non siamo la gente. Credo... in realtà credo che quello che mi fa più paura sia il fatto di non avere paura.»
    «Di cosa dovresti avere paura?»
    «Di te» risponde semplicemente, scrollando le spalle.
    «Di me?» ripeto, senza capire. «Perché dovresti aver paura di me?»
    «Perché non sei più il ragazzo che conoscevo vent'anni fa. E io non sono più la ragazza che tu conoscevi» sospira, spostandosi da sopra di me e stendendosi nello spazio vuoto alla mia destra. «Quello che sta succedendo è... beh, non nego che sia grandioso, eppure... non lo so, non mi sento tranquilla al riguardo. Non possiamo ripartire da dove ci eravamo interrotti e illuderci che andrà tutto bene. Non può funzionare.»
    «Nessuno ha detto che dobbiamo ripartire da dove ci eravamo interrotti» sussurro, sollevandomi su un gomito per poterla osservare meglio. «Non mi sognerei nemmeno di chiederti una cosa del genere. Sarebbe da pazzi pretendere di ricominciare tutto da quel punto.»
    «Il punto è proprio questo, Shannon: siamo sicuri di voler ricominciare? Perché, ecco, io... io non nego di aver avuto delle storie senza importanza, da quando ho divorziato. È successo di avere delle relazioni basate esclusivamente sul sesso, e mi stava bene. Mi sono concentrata sul lavoro, ho smesso di cercare l'uomo giusto, ed è sempre andato tutto alla perfezione. Solo che... ecco, con te so che non si tratta di una cosa simile. Non potrà mai essere soltanto sesso, con te. Sei stato troppo importante per me, e anche se sono passati più di vent'anni non posso dimenticare quello che abbiamo avuto.»
    «Mi stai chiedendo se voglio impegnarmi in una storia seria con te?»
    Si mette a sedere, reggendosi il lenzuolo davanti al seno con una mano. «Ti sto chiedendo se pensi di essere pronto a cominciare qualsiasi cosa con qualsiasi donna. L'ultima volta che ci siamo sentiti, un mese fa, hai parlato di una donna che ti ha spezzato il cuore. Questo non l'ho dimenticato.»
    «Quello è un capitolo chiuso, ormai» sospiro. «Ora lei sta con un altro uomo. È completamente finita. È finita per sempre
    «Forse è finita per lei, ma per te?» domanda, rivolgendomi una di quelle occhiate che riescono a radiografare anche il cuore più scafandrato. «Perché il fatto che lei adesso abbia una relazione con un altro uomo non implica per forza che tu non provi più niente per lei.»
    «Christine, è finita. Lei è lontana migliaia di chilometri, non fa più parte della mia vita. Io sto cercando di ricominciare. E sì, potrei aver voglia di ricominciare con te. In fondo ti conosco, e tu conosci me. Non siamo due estranei.»
    «Non lo eravamo un tempo, Shannon, ma sono passati vent'anni.»
    «So che sono passati vent'anni, Christine.»
    «Sicuro di saperlo? Perché a me non sembra che tu te ne renda conto.»
    «Mi stai chiedendo di andarmene?»
    «Ti sto soltanto chiedendo se sei certo di sapere quello che vuoi. Perché se iniziassi qualcosa con te e ad un tratto mi rendessi conto che non è con me che vuoi stare, sarei costretta a lasciarti di nuovo. E proprio non me la sentirei di essere di nuovo io a giocare la parte della cattiva. Non potrei farti questo. Non di nuovo.» A queste parole, mi alzo e inizio a cercare i miei vestiti, indossandoli lentamente. «Che cosa stai facendo?» Mi volto a guardarla, senza sapere cosa dire: Christine mi sta chiedendo se sarei pronto a donarmi a lei anima e corpo, ad impegnarmi per far funzionare questa relazione, e la verità è che io non ho una risposta. La verità è che mi piace raccontarmi di aver superato la storia di Daria, e di essere pronto a gettarmi a capofitto in una nuova situazione, ma non è esattamente così: fuori mi atteggio a persona dura e sincera, ma dentro sono ancora devastato e sporco, infestato dai demoni del mio passato e dai fantasmi di un amore che non riesco a dimenticare – un amore che non avrei mai creduto di provare, arrivato quando ormai avevo smesso di sperare, e che ora non sembra intenzionato a levare le tende.


*



Torino, 17 febbraio 2014


    «Pronto?» risponde Alice di fretta, senza badare al mittente della chiamata.
    «Forse ho avuto un colpo di genio.»
    Riconoscendo senza fatica l'accento di Jared, Alice alza gli occhi al cielo. «Ma tu non ti arrendi mai? Che ore sono lì, le quattro del mattino?»
    «Le cinque e tre quarti. Mi sono alzato presto, avevo delle cose da fare. Ti disturbo?»
    «No, io... in realtà esco adesso da un esame, sono un po' distrutta. Sto andando ad attaccare un vasetto di Nutella. O una pizza al tonno. O un muffin. Sono un po' indecisa.»
    «Noto con piacere che la parola d'ordine è salutare. Comunque, non ti ho chiamata per discutere della tua dieta. Ho avuto un'idea geniale, e dovevo assolutamente condividerla con te.»
    Per quanto l'idea che lui abbia scelto lei come prima persona con cui condividere un pensiero la lusinghi, Alice non vede l'ora di chiudere la conversazione, desiderosa in effetti soltanto di trascinarsi a casa e crollare a peso morto sul letto. «Sentiamo, Einstein, quale sarebbe il colpo di genio?»
    «Daria ha un passaporto?»
    «Scusa, deve esserci stata un'interferenza. Ho sentito un pazzo parlare di passaporti.»
    «Non fare giochetti con me, piccola. Hai capito benissimo quello che ho detto.»
    «No, non credo che Daria abbia un passaporto. Non siamo mai state in alcun posto che ne richiedesse uno.»
    «Oh, questo costituisce un problema.»
    «Cos'avevi in mente, Bond? Farle credere di aver vinto un viaggio premio e farla venire negli Stati Uniti? Non è cretina, non ci cascherebbe mai.»
    «E io non cadrei mai così in basso, Moneypenny» la schernisce lui. «Quello che avevo in mente era un piano molto più semplice. Ho pensato che avresti potuto proporle una vacanza. Una vacanza a Los Angeles. Non dirmi che non avete mai sognato di vedere la città degli angeli.»
    «Fin da bambine, abbiamo sempre sognato di vedere un sacco di posti. Il problema, con noi comuni mortali, è che non abbiamo un faraonico conto in banca che ci consenta di girare il mondo.»
    «Le spese non sono un problema. Il viaggio ve lo pago io.»
    «Grazie, ma no, grazie. Non siamo le tue prostitute, signor Sono-Una-Star-E-Posso-Permettermi-Il-Mondo» ribatte lei, piuttosto seccata.
    «Beh, ma per il bene della tua amica potresti mettere da parte la tua onestà morale e accettare caramelle da uno sconosciuto. Per una volta, non potresti lasciarti andare?»
    «Non mi stai offrendo una caramella, Jared. Mi stai offrendo una maledetta fabbrica di cioccolato.» Al di là della questione economica, sono molte le obiezioni che Alice potrebbe sollevare pur di declinare l'invito di Jared a trasvolare l'Atlantico: innanzitutto lei non potrebbe partire prima di luglio, a meno di non sovvertire tutti i propri piani di studio e rimandare la laurea di altri sei mesi o più, e poi rimane da esaminare la "questione Daria" – ammesso e non concesso di riuscire a convincerla a partire, facendole temporaneamente abbandonare i suoi propositi da buona samaritana nei confronti di Luca, come si riuscirebbe a persuaderla a soggiornare proprio a Los Angeles, l'unico luogo al mondo in cui le probabilità di incontrare Shannon superano quelle di prendere la scossa infilando una forchetta in una presa elettrica?
    «Sei ancora lì?» si sente domandare un paio di minuti più tardi da Jared, evidentemente preoccupato da quel suo prolungato silenzio.
    «Ci sono, sono qui. Stavo solo... beh, stavo riflettendo sulla tua proposta.»
    «Davvero? E quale sarebbe il responso? Sono riuscito a tentarti?»
    La tentazione di accettare, questo Alice è pronta a giurarlo, è più forte che mai: da almeno otto anni lei e Daria continuano a giurarsi che un giorno salteranno su un aereo diretto chissà dove, e questa sembra proprio una di quelle occasioni da cogliere al volo, quell'opportunità che capita una volta nella vita, e che, se mancata, condanna all'eterno rimpianto. Ma tra il dire e il fare, come dice sempre sua nonna, c'è di mezzo il mare, e sarebbe più semplice enunciare la teoria delle stringhe in aramaico, piuttosto di convincere Daria ad andare proprio a Los Angeles. «Il mio responso, mio caro genio del male, è che la tua idea non è realizzabile. È geniale, ma assolutamente impossibile, e posso dimostrarlo. Punto primo: ammettiamo che io accetti che sia tu a pagare il viaggio. Daria mi conosce da una vita, e soprattutto conosce piuttosto bene la mia situazione finanziaria: sarebbe piuttosto difficile trovare una scusa plausibile per giustificare la mia improvvisa ricchezza e prodigalità. Punto secondo: io a luglio mi devo laureare, ergo non potrei partire prima dell'estate. Tuttavia, dalle informazioni in mio possesso risulta che a luglio voi sarete in tour in giro per il mondo, dunque crollerebbe drasticamente a zero ogni possibilità di far incontrare Daria e Shannon a Los Angeles. Punto terzo: a giugno voi sarete in Italia, addirittura per una sera nella stessa città di Daria, e questa, a mio avviso, potrebbe essere una splendida occasione per tentare di farli riunire. Punto quarto: in questo momento Daria è molto impegnata a conoscere il suo nuovo fratello. È un momento molto delicato per lei e per tutta la sua famiglia, dunque dubito che potrebbe accettare di partire proprio adesso – e riguardo a questo, ti rimando al punto due. Dulcis in fundo, per riuscire a farle mettere piede a Los Angeles dovrei sedarla, imbavagliarla, legarla come un salame e farla viaggiare rinchiusa nella stiva insieme ai bagagli, perché non accetterebbe mai di andare proprio lì di sua spontanea volontà.»
    Completamente investito dal fiume di parole fuoriuscito dalla bocca di Alice, Jared impiega almeno trenta secondi prima di trovare una risposta degna di questa definizione. «Però, quando confuti una teoria lo fai davvero come si deve...» sussurra, sinceramente stupito dalla proprietà di linguaggio con la quale Alice riesce ad esprimersi anche quando viene messa di fronte alla necessità di improvvisare un discorso.
    «Sai com'è, con noi filosofi. Noi confutiamo ogni cosa, sempre.»
    «Giunti a questo punto, credo di dover alzare bandiera bianca e accettare la sconfitta. Hai addotto argomentazioni cui non posso controbattere in alcun modo.»
    «Tutto qui?» si sorprende Alice, stupita dall'inaspettata arrendevolezza del proprio interlocutore: oltre che uno splendido diavolo tentatore, Jared è anche una di quelle persone che non si arrendono mai, qualunque cosa accada – e in fondo è questo che gli ha permesso di raggiungere la fama, il successo e la gloria. Jared è uno di quegli uomini che non smettono mai di combattere, anche quando la battaglia sembra persa, anche quando la speranza è morta. Lui è uno di quelli che non mollano l'osso finché non ci rimettono la vita, e quell'improvvisa mancanza di tenacia è a dir poco sospetta. «Nessuna insistenza, nessuna obiezione, nessun ma
    «Non sono un cane rognoso, Alice. Mi accanisco soltanto quando so di poter vincere la battaglia. In questo caso ho perso in partenza, continuare a controbattere sarebbe un inutile spreco di energie.»
    «Stai dicendo che mi lasci vincere?»
    «Non ho mai lasciato vincere nessuno, piccola, e di sicuro tu non sarai la prima. Mi sei simpatica, ma non fino a questo punto.»
    «Per caso cercavi di farmi un complimento?»
    «Perché, ci stavo riuscendo?»
    «Per niente» ribatte Alice, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Sa, mister Leto, lei non è poi così affascinante come crede di essere.»
    «Stai forse dicendo che mi trovi affascinante?»
    «Sto dicendo l'esatto contrario, invece. Penso che tu sia soltanto un grosso pallone gonfiato a cui piace pavoneggiarsi.»
    Jared aspetta un attimo, prima di rispondere: le parole sono dure, ma dal tono della sua voce riesce facilmente ad intuire che Alice sta sorridendo, o che comunque non pensa davvero ciò che sta dicendo – evidentemente lo sta prendendo in giro, e per qualche strana ragione questo la diverte da morire. «Verrà un giorno in cui tu ed io ci incontreremo, e io ti farò rimangiare ogni singola parola» replica, abbassando la voce e rallentando il ritmo delle ultime sillabe. «Stammi bene, Alice. In bocca al lupo per la tua laurea.»
    «Crepi. Ci sentiamo.»
    «Ci sentiamo.»
    La comunicazione si interrompe, e Alice inizia a fissare il cellulare come se stesse per farsi crescere una bocca e azzannarle una mano. Più passa il tempo, più fatica a credere che sia vero: non può succedere davvero, non può essere davvero Jared Leto, l'americano che di tanto in tanto la chiama e si diverte a prenderla in giro e farla uscire dai gangheri. Eppure, allo stesso tempo, sa per certo che si tratta di lui, perché sa cose che nessun altro potrebbe sapere, dettagli che un impostore non potrebbe assolutamente conoscere.



*



Los Angeles, 17 febbraio 2014


    Stesa sul letto che da ormai cinque anni condivide con il marito, Vicki si accarezza il ventre appena incurvato con entrambe le mani, lasciandosi sfuggire di quando in quando un singhiozzo e un paio di lacrime che prontamente asciuga con un Kleenex. Era convinta che lei non sarebbe stata una di quelle patetiche donne incinte facili al pianto, ma l'esplosione di ormoni che le sta invadendo il corpo pare abbia alla fine avuto la meglio, spingendola a tirar fuori dagli scaffali quei vecchi film romantici che non pensava avrebbe mai guardato di sua spontanea volontà. Tornando dalla quotidiana passeggiata mattutina con Dink e Kasha, Tomo si affaccia alla porta della camera da letto, stupendosi di trovare la moglie in tale stato. «Tesoro, va tutto bene?»
    «Certo che va tutto bene. Perché, non dovrebbe essere così?»
    «Stai guardando Sabrina e ti stai commuovendo» replica lui, sedendosi sul bordo del materasso. «Se tu fossi qualunque altra donna, potrei pensare che sia una cosa normale. Però non posso dimenticare che è di te che stiamo parlando. Come ti senti?»
    «Meglio. Da quando sei uscito non ho più vomitato. Anzi, mi è quasi venuta voglia di una bella crostata di fragole.»
    «Crostata di fragole? Ma tu detesti le crostate!»
    «Oh, sta' a guardare i dettagli! Mi prepareresti un dolce con le fragole? Per favore? Guarda che non sono io a chiederlo, ma tuo figlio, il tuo erede, il tuo stesso sangue.»
    «Lo farei di corsa, amore, ma dove trovo delle fragole in pieno inverno?»
    «Il mondo congiura contro di me» sospira lei, allargando le braccia. «Mi prepareresti qualunque altro dolce, allora? Ho una fame che non ci vedo.»
    «Vedrò di inventarmi qualcosa» sospira lui a sua volta, sorridendo. «Ma sia chiaro, lo faccio per il sangue del mio sangue, non certo per te» aggiunge un attimo prima di abbassarsi su di lei per darle un bacio a fior di labbra. «Come mai questo improvviso debole per i vecchi film? Non stai iniziando con gli sbalzi d'umore, vero?»
    «Forse sì, non lo so. Forse avevo solo voglia di una storia con il lieto fine. Sai, una di quelle storie che tutte le ragazze sognano, una di quelle storie che finiscono bene.»
    «E come mai?»
    «Beh, ultimamente ho pensato molto a Shannon, e a come sia finita la sua storia con Daria. O meglio, a come non sia finita.»
    «Non ti seguo, Vicki. Shannon e Daria ormai si sono lasciati da mesi.»
    «Non si sono veramente lasciati, Tomo. Lei ha messo un punto, ma lui si è dimenticato di sottoscriverlo. O forse non ha voluto farlo, non lo so. Tutto quello che so è che non hanno chiarito la situazione, quindi non è veramente finita.»
    «Beh, ma Jared ha detto che Shannon ha usato i biglietti aerei ed è andato in Italia, perciò si può dire che un passo lo ha compiuto.»
    «Sì, ma se ben ricordi Jared ha anche detto che Shannon non le ha parlato, perché quando l'ha vista con quell'altro uomo ha girato i tacchi e ha battuto in ritirata.»
    «Cosa pensi che avrebbe dovuto fare, scusa? Dargli un pugno sul naso e sfidarlo a duello in un posto isolato al sorgere del sole?»
    «Tu che cosa avresti fatto?»
    «Vicki, io non posso sapere...»
    «Dai, Tomo, per un istante smetti di fare il diplomatico» lo interrompe lei, mettendosi a sedere. «Prova a metterti al posto di Shannon. Che cosa avresti fatto, se al posto di Daria ci fossi stata io? Se io ti avessi lasciato brutalmente e senza motivo e ti avessi chiesto di non cercarmi, andando lontana migliaia di chilometri, tu che cosa avresti fatto?»
Tomo finge di rifletterci su, mentre in realtà conosce già perfettamente la risposta. «Ti avrei rincorsa immediatamente, credo. Non ti avrei nemmeno dato il tempo di superare il confine.»
    «E dimmi, perché lo avresti fatto?»
    «Per dimostrarti che ti amo, e che sarei pronto a combattere fino alla fine per stare con te. Ma con questo cosa vorresti dire, che Shannon non ama Daria?»
    «Non mi permetterei mai di dire una cosa simile, Tomo. So che le persone non sono tutte uguali, e che tutti esprimiamo il nostro amore in maniera diversa. Dico solo che io li ho visti insieme, li abbiamo visti tutti, e se quella non è una coppia destinata a stare insieme e a durare allora non so giudicare l'amore. Ho parlato tantissimo con lei, potrei quasi dire di conoscerla, e sono più che certa che non stesse fingendo. Riguardo a Shannon, poi, non posso avere dubbi, perché voi lo conoscete meglio di me, e avete visto quanto fosse coinvolto. Quello che voglio dire è che certe storie non le puoi cancellare con un colpo di spugna. Certe persone non te le puoi dimenticare soltanto perché smetti di vederle. Mi chiedo se certe storie si possano mai superare, in realtà. Lascia perdere» aggiunge sopo un attimo. «Credo sia la gravidanza a rendermi così sentimentale.»
    «Beh, se è così, sappi che intendo metterti incinta un altro milione di volte almeno» le sorride lui, tornando a farsi avanti per un altro bacio. «Mi piaci quando sei così sensibile.»
    «Non contarci troppo» ribatte lei, fingendo di respingerlo. «Potrei anche non essere d'accordo.»
    «Poco male. Saprei trovare un modo per convincerti» replica lui, senza smettere di sorridere.
    Vicki gli accarezza dolcemente una guancia, senza smettere di guardarlo negli occhi. «Perché non possono essere tutti fortunati come lo siamo stati noi due?»
    «Pensa a come diventerebbe noioso il mondo, se tutti fossero felici e contenti» sussurra lui, poggiando la propria mano su quella della moglie. «Forse non è un male che al mondo ci siano persone fortunate e persone sfortunate: in questo modo i più fortunati hanno qualcosa da compatire, e i meno fortunati qualcosa da invidiare.»
    «E dove starebbe il bello, in questa situazione?»
    «Beh, per come la vedo io, il bello sta nel fatto che la sorte può cambiare direzione, e la gente può scambiarsi le disgrazie. Niente dura per sempre, giusto?»
    «Così dicono. In realtà spero sia falso, perché la mia fortuna non vorrei perderla per nulla al mondo.»



*



Torino, 17 febbraio 2014


    Sono trascorsi due giorni da quando ho accettato di prendermi cura del gattino trovato dai Lorenzoli e finalmente, dopo quarantotto ore passate a tenermi sveglia con il suo coriaceo silenzio, Solo sembra aver preso la decisione di sopravvivere, e soprattutto di riempire le mie giornate con un tenace miagolio che sembra rafforzarsi ad ogni ora che passa. Gli ultimi due giorni, comunque, non sono stati votati unicamente alla cura del mio nuovo animale domestico: in questo snervante finesettimana ho trovato finalmente un po' di tempo per pensare a me stessa, e soprattutto a ciò che intendo fare della mia vita.
    Ora che ho lasciato Marco, l'idea di ripresentarmi al lavoro mi imbarazza più di quanto mi imbarazzasse tornare dopo essermi fatta vedere nuda. Alla libreria mi sono sempre trovata così bene da non aver mai pensato ad un impiego alternativo, con il risultato che ora mi trovo quasi costretta a continuare ad affrontare quel lavoro, ma soprattutto un capo che so di aver ferito, un uomo che si è dimostrato capace di fare qualunque cosa pur di rendermi felice, e che invece io ho pugnalato alla schiena senza tanti complimenti. Non soltanto il lavoro, anche la città in questo ultimo periodo sembra starmi stretta, quasi togliermi l'ossigeno e la libertà di muovermi. Da ragazza qualche volta ho provato il desiderio di andarmene, ma alla fine la realtà mi ha sempre soddisfatta a tal punto da farmi smettere certi pensieri, relegandoli al rango di follie adolescenziali – ma adesso, in questo momento, adesso che ho finalmente combinato quei casini che aspettavo di combinare da quando avevo tredici anni, adesso il desiderio di avere un posto lontano in cui rifugiarmi torna a farsi più vivo e prepotente che mai. Ho sempre adorato Torino, ho sempre adorato la mia vita, sono sempre stata bene, eppure adesso vorrei fuggire via. È un desiderio così strano e improvviso che nemmeno ho in mente una meta: tutto ciò che vorrei è stringere tra le mani un biglietto aereo e una valigia e chiudermi la porta alle spalle, diretta anche a Timbuctu.
    Mentre Solo ricomincia a miagolare disperato, reclamando il pranzo, mi rendo conto che per tutta la vita non ho fatto altro che aspettare: aspettare che mia madre ritornasse indietro, aspettare il grande amore, aspettare che tutto finisse in pezzi... non ho fatto altro che aspettare, sempre, e finalmente gran parte delle mie aspettative è stata ripagata.


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Los Angeles, 17 febbraio 2014


    Sono quasi le due del mattino, e Christine fissa la porta con aria sospettosa, chiedendosi chi possa bussare ad un'ora così tarda. Scosta le tende del salotto, riconosce l'auto di Shannon e sgrana gli occhi, domandandosi il motivo che lo ha portato in quella parte della città così tardi, soprattutto dopo la rocambolesca uscita di scena di quella stessa mattina. «Shannon, sono le due del mattino. Che diavolo ci fai qui?» gli domanda, aprendo finalmente la porta e fissandolo con lo sguardo più truce del proprio repertorio.
    «Ti dovevo parlare. Scusa, lo so che è tardi e che domani devi andare al lavoro, ma non potevo aspettare. Dovevo parlarti adesso
    «E va bene, entra» sospira lei, scostandosi per lasciarlo passare. «Di che cosa dovresti parlarmi?»
    «Direi che è abbastanza chiaro, Christine. Intendo finire il discorso che abbiamo iniziato questa mattina.»
    «Credevo che quel discorso lo avessimo concluso stamattina. Quando te ne sei andato» aggiunge, cercando di sottolineare che è stato proprio lui a mettere fine alla conversazione, e che dunque è molto bizzarro e soprattutto un pochino incoerente che sia proprio lui, adesso, a volerlo riprendere.
    «Stamattina ho sbagliato, sono stato troppo precipitoso. La verità è che non sapevo come rispondere, perciò ho ritenuto che andarmene fosse la scelta migliore. Solo che poi ho avuto tutta la giornata per rifletterci su, e mi sono reso conto che è stato un gesto davvero stronzo andarsene così, senza dire niente. Tu meritavi una risposta. La meritavi, punto e basta.»
    «Perciò adesso sei qui per questo? Sei qui per metterti a posto la coscienza?»
    «Non lo chiamerei mettersi a posto la coscienza. Sono qui per dirti che io ci credo.» Christine aggrotta impercettibilmente la fronte, chiedendosi se non sia il caso di frenarlo, prima che dica qualcosa di cui potrebbe pentirsi. «Christine, io non ti posso assicurare che andrà tutto bene, che il lieto fine ci troverà subito e che staremo insieme per sempre. E anche se ti promettessi una cosa del genere, tu sei troppo intelligente, e non mi crederesti. Ciò che sento di poterti assicurare è che ci saranno giorni buoni e giorni meno buoni, e che la strada sarà quasi tutta in salita. Posso prometterti che ci saranno giorni in cui sarò meno sicuro, e giorni in cui avrò l'istinto di andarmene. Però posso anche prometterti che avrò sempre bisogno di te, ogni giorno, perché tu riesci a capirmi e a leggermi dentro meglio di quanto riesca a fare io.»
    Christine sospira, coprendosi gli occhi con una mano: avrebbe dovuto ascoltare il proprio istinto e frenare Shannon quando ancora poteva farlo, invece di convincersi che non avrebbe detto un mucchio di stronzate romantiche. «Shannon, tu non...»
    «Non sto dicendo che ci dobbiamo sposare domani, o qualche stronzata simile. Non sono stupido, Christine. So che non posso tornare indietro a vent'anni fa, che non siamo i ragazzini di allora e che il mondo è diverso. Solo... io sento che se c'è una possibilità che vada bene, allora ci dobbiamo provare. Non capita a tutti di avere un'altra occasione. Forse noi siamo stati fortunati. Forse stavolta... magari potrebbe andarci bene.» Christine si scopre gli occhi, sospirando ancora: non se la sente di condannare l'idealismo di Shannon, perché in fondo anche lei ha sperato, anche se ormai anni fa, di avere un'altra occasione con lui – in fondo, è vero che non ha mai smesso di amarlo. È stata capace di lasciarlo, di spezzargli il cuore, di sposare un altro uomo e di costruirsi un futuro lontano, ma non ha mai smesso di amare quel ragazzo con il sorriso sornione e gli occhi d'ambra, quello che con un solo sguardo sapeva mandarla in paradiso, e che non si è mai risparmiato pur di renderla felice. «Non voglio farti promesse, Christine, perché so benissimo che potrei non mantenerle. Voglio soltanto che mi guardi negli occhi e mi prometti che possiamo provarci. Non voglio altro.» Christine finalmente alza lo sguardo, trovando davanti ai propri gli occhi di Shannon, ora così scuri da sembrare ossidiana pura. Senza parlare lo circonda con le proprie braccia, sapendo che questa, come promessa, gli basterà – e poco importa che in fondo lei non ci creda davvero, convinta com'è che lui non si sia affatto lasciato alle spalle il passato, sicura che tutto ciò da cui sta fuggendo presto o tardi tornerà a mordergli il sedere. Forse è da stronza patentata comportarsi così, forse non è giusto abbracciarlo, annuire e illuderlo che tutto andrà bene quando già sa che finirà tutto a puttane, ma a Christine questo non importa, non adesso – tutto ciò che vuole adesso è un'occasione per essere di nuovo felice, anche solo per un istante, anche se solo per finta, perché in fondo ha sempre saputo che era Shannon l'uomo perfetto per lei. Peccato solo che lei non sarà mai la donna per lui.



1L'inferno è vuoto, e tutti i demoni sono qui. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta della commedia La Tempesta, opera del celebre drammaturgo inglese William Shakespeare (1610-1611).

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Capitolo 18
*** 18 | Sono l'elefante, che posso fare, inchiodato al suolo e a questo amore. ***


La lunga strada verso casa - 1
Non dirò nulla per tentare di farmi perdonare, questa volta. Mi limiterò a citare quanto affermato dal personaggio interpretato da Hugh Grant in “Notting Hill”, ovvero: “Sono una cazzona avariata”. Me ne vergogno, ma vi giuro che ci sto lavorando.
Buona lettura, o almeno spero,
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo diciottesimo
Sono l'elefante, che posso fare,
inchiodato al suolo e a questo amore.1


Los Angeles, 1° marzo 2014


    «Ferma tutto, ho appena avuto una grande idea!» Nel sentire quella frase, Emma interrompe immediatamente la chiamata che ha appena fatto partire e rimane in attesa – non di ordini, ma della prossima cavolata che uscirà dalla bocca del proprio capo. Mancano poco più di ventiquattro ore alla cerimonia degli Oscar, e Jared sembra essere andato completamente fuori di testa – non soltanto ha cambiato mille volte idea circa l'outfit con cui presentarsi alla serata, ma ha sovvertito tutte le decisioni precedenti, rischiando più volte di causare nella propria assistente un raptus omicida. Emma sospira, aspettando l'ennesima rivelazione, rimpiangendo la semplicità di Shannon e Constance, gli accompagnatori di Jared alla cerimonia, che sono riusciti a decidere cosa indossare in meno di dieci minuti. «Niente nero, il nero mi sbatte troppo. E poi ci sarà già Shannon vestito di nero. E il nero è troppo mainstream, lo indossano tutti.»
    «Quindi la tua grande idea quale sarebbe? Presentarti in mutande?»
    «Non sono così estremo, cara la mia miscredente» la rimbecca lui, aprendo l'armadio e tirandone fuori un completo bianco. «Eccola qui, la mia grande idea. Che ne pensi?»
Emma piega la testa di lato, fissando il vestito con aria concentrata e provando ad immaginarsi come starebbe addosso a Jared. «Beh, di sicuro non ti confonderesti in mezzo alla folla» commenta. «Sei davvero convinto di volerti vestire di bianco?»
    «Conosci qualcun altro così coraggioso da fare una mossa tanto azzardata?»
    «Tu non sei coraggioso, Jay. Tu sei completamente pazzo, è diverso» lo corregge lei. «Comunque no, non conosco nessun altro in grado di mettersi una cosa del genere addosso. Ma d'altra parte tu sei uno che sale sul palco avvolto in una tenda da doccia, perciò non capisco perché le tue idee mi sconcertino ancora così tanto.»
    «Quindi credi che farei una buona figura?» domanda ancora lui, appoggiandosi il vestito davanti al corpo e guardandosi allo specchio, esattamente come una ragazzina alle prese con la scelta dell'abito per il ballo scolastico.
    «Sì, Jared, saresti davvero carino» sbuffa Emma, quasi stanca di star dietro ai continui cambiamenti di umore e di idee dell'uomo. «Ti avverto, però: questo è l'ultimo cambio d'abito che ti concedo. Quello che deciderai di indossare adesso è quello che indosserai domani sera. Niente ripensamenti.»
    «Ma io...»
    «Niente ripensamenti, Jared. Sei peggio di una donna. Sai quanto ci ha messo tua madre a scegliere l'abito da indossare? Cinque minuti, più o meno. Comportati da uomo, adesso. Intendi indossare questo completo, domani sera?» Jared apre la bocca per rispondere, poi cambia idea, ci riflette ancora su e infine annuisce, con un sorriso degno di un bambino che ha appena ricevuto il regalo più bello della vita. «Bene» sentenzia Emma, prendendogli la gruccia dalle mani. «Te lo faccio trovare lavato e stirato per domani mattina alle otto» aggiunge prima di lasciare la stanza.
    Rimasto solo, Jared si guarda attorno, osservando il disordine da lui stesso creato: non è da lui essere così indeciso su cosa indossare, tanto più che spesso non riflette affatto prima di vestirsi, ma questa storia della cerimonia degli Oscar lo sta decisamente scombussolando. Strano, perché lui è abituato a stare sotto i riflettori, al centro dell'attenzione, ad avere gli occhi del mondo puntati addosso in ogni luogo e in ogni momento. È stato a migliaia di festival, di feste importanti, di ricevimenti, eppure questa volta si sente diverso – in fondo, la cerimonia degli Oscar non è una serata come tutte le altre: è una serata cui partecipano soltanto i più grandi, soltanto i numeri uno, e ci si va soltanto per scoprire chi sia il migliore di tutti. Sapere di essere stato invitato, ma soprattutto di essere uno dei possibili numeri uno in assoluto, è una sensazione che non si riesce a descrivere del tutto: è qualcosa che lo lusinga e lo eleva, ma che allo stesso tempo lo schiaccia sotto il peso di una responsabilità troppo grande, una responsabilità che lo fa sentire quasi sporco, come se in fondo il suo successo non fosse il frutto di un grande talento, ma soltanto di una buona dose di faccia tosta e fortuna.
    Non che accada spesso, ma a volte anche a Jared Leto capita di sentirsi confuso e perso – solo che adesso, a differenza del passato, sa che basterà un piccolo gesto a fargli tornare il sorriso.


*



Torino, 1° marzo 2014


    Sulla scrivania non è rimasto spazio nemmeno per un granello di polvere, perciò ora tocca al pavimento riempirsi di libri, fotocopie, quaderni e appunti sottolineati, proprio come in quella canzone di Simone Cristicchi che parla dell'infinito mondo di una studentessa. Alice è seduta a terra, gambe incrociate e matita stretta tra i denti, ferma nella stessa posizione da tanto di quel tempo che ormai la spina dorsale le si è indurita come quella di sua nonna. Quando il cellulare squilla dapprima nemmeno lo sente, concentrata sul proprio lavoro, e quando si accorge della suoneria impiega qualche secondo per alzarsi e raggiungere il comodino dove ha lasciato il telefono. Durante il tragitto, ansiosa di rispondere, sbatte il piede contro la gamba del letto, e quando accetta la chiamata il tono sofferente del suo «Pronto?» arriva forte e chiaro all'orecchio di Jared.
    «Sai che la tua voce ha i toni acuti di una che ha fatto le scale di corsa urlando che la casa va a fuoco?»
    Alice fa una smorfia, cercando di distribuire equamente il dolore tra il mignolo in fiamme e la schiena anchilosata. «Pensavo fosse una telefonata importante. Se avessi saputo che eri tu, non mi sarei precipitata a questo modo. E non cercare di fare lo splendido citando i grandi attori. Conosco a memoria La gatta sul tetto che scotta
    «Non sapevo che ti piacessero i vecchi film.»
    «Non sono una fan del genere, ma Paul Newman resta sempre Paul Newman» replica lei, lasciandosi andare ad un sorriso. «Ma non cercare di cambiare discorso. Perché hai chiamato?» riprende un attimo più tardi, usando un tono sbrigativo dovuto più al fastidio per il recente infortunio che alla scoperta dell'identità del proprio interlocutore.
    «Gentile come sempre, vedo» la prende in giro lui.
    «Scusa, ma per rispondere ho sbattuto il piede contro uno spigolo, perciò non sono esattamente in vena di fare la carina. E poi sono molto impegnata con le ricerche per la mia tesi. Devi dirmi qualcosa o dovevi solo occupare una mezz'ora vuota tra un'intervista e una festa?»
    «In realtà avevo soltanto bisogno di sentire la voce di una persona amica» confessa lui, abbassando lo sguardo, «ma sembra che abbia sbagliato numero. O almeno momento.»
    In questo momento Alice si sente una persona davvero orribile: continua a dimenticare che, nonostante la persona all'altro capo del filo sia una celebrità, si tratta pur sempre di un uomo che, come tutti, ha bisogno, di quando in quando, di interagire con un altro essere umano, anche soltanto per cinque minuti. In fondo è capitato anche a lei di attraversare dei momenti simili, e di aver bisogno di un contatto con qualcun altro, anche solo per sentirsi di nuovo viva. Ripensa a tutte le volte che si è ritrovata a chiamare Daria o Federico anche alle quattro del mattino, magari soltanto per un saluto, e si sente davvero crudele, perché il fatto che Jared sia una celebrità non dovrebbe consentirle di comportarsi così da stronza. «Scusa, non volevo essere maleducata. È solo che... beh, è un momento piuttosto complicato. Questa tesi del cavolo mi sta succhiando via ogni energia. E quando sono stanca, poi divento scontrosa.»
    «Perdonata» sussurra lui, e lei non può impedirsi di sorridere ancora. «Ma non osare trattarmi di nuovo così male, altrimenti... disonore su di te, disonore sulla tua mucca!» Alice scoppia a ridere per quella incredibilmente veritiera imitazione del draghetto Mushu, e tra le sue risate si fa di nuovo strada la voce di Jared: «Ehi, non prendermi in giro!»
    «Non ti prendo in giro, è solo che mi stupisce che tu conosca quel film!»
    «Guarda che sono stato bambino anch'io.»
    «Sì, ma se i miei calcoli sono esatti, quando è uscito Mulan tu avevi... ventotto anni?»
    «Ventisette» la corregge prontamente. «E comunque non si è mai troppo adulti per innamorarsi di un film della Disney.»
    «Se lo dici tu...» ridacchia ancora lei, sedendosi sul proprio letto. «Sentiamo, perché avresti bisogno di una persona amica con cui parlare? Cos'è successo di tanto terribile al nostro impavido eroe?»
    «Credo di avere paura.»
    «Paura? Sul serio? Paura di cosa?»
    «Beh, non so se lo sai, ma domani sera consegneranno gli Oscar.»
    «E hai paura di impappinarti durante il discorso di ringraziamento?»
    «Io non mi impappino mai. Hai mai sentito certi monologhi che metto su durante i concerti? Sono un oratore nato. E comunque non è di questo che ho paura, perché difficilmente sarò io a vincere. Hai visto chi sono gli altri nominati per la mia categoria? Parliamo di Michael Fassbender, Bradley Cooper, Jonah Hill... non sono esattamente delle mezze tacche.»
    «Questo è vero, ma... ho visto il tuo film, Jared. Dire che il tuo personaggio non è così forte da meritare un riconoscimento così grande sarebbe come dire che la Terra è piatta.»
    «Stai forse cercando di blandirmi?»
    «Arrivati a questo punto, dovresti conoscermi abbastanza da sapere che non è nel mio stile blandire le persone. Io dico solo la verità. E la verità è che hai fatto un lavoro stupendo con Rayon. Non sono una ragazza che si commuove facilmente, ma... dannazione, in certi momenti eri così perfetto da star male. Riconosco di non avere i requisiti per far parte di una giuria, ma non posso immaginare che i giurati non si facciano influenzare un po' anche dal loro cuore. Sarebbero inumani, se non si lasciassero trasportare almeno un po'.»
    «Davvero l'hai visto?»
    «Naturale. Non mi perdo mai un film con Matthew McConaughey. È uno dei miei attori preferiti» ribatte lei con aria sicura, trattenendosi a stento dal ridere. Adora prendere in giro Jared, si diverte un sacco a gonfiare il suo già prorompente ego e bucarlo dopo un istante con un grosso spillone.
    «Molto divertente. Sul serio, sto ridendo come un matto.»
    «E va bene, torniamo seri per un istante. Di che cosa hai paura? Di inciampare su uno scalino come Jennifer Lawrence, di essere criticato per il bizzarro completo che indosserai, di...»
    «Come sai che cosa indosserò?»
    «Non lo so, ho tirato ad indovinare. Sei uno che ai concerti si fa le trecce come una squaw e indossa pantaloncini da boxe. Non credo che la formalità dell'occasione potrebbe spingerti a vestire in modo normale. Sembri il tipo d'uomo capace di sposarsi con indosso una muta da sub.»
    «Tu non nutri alcun tipo di fiducia in me, vero?»
    «Errato, io nutro molta fiducia in te, come artista. È il tuo guardaroba quello cui non mi avvicinerei nemmeno con una pertica.»
    «Allora preparati a restare sorpresa, perché ho scelto un completo molto sobrio. Farò la mia figura, ma senza farmi ridere dietro dagli occhi del mondo. E niente acconciature stravaganti.»
    «Chi sei, e cosa ne hai fatto di Jared Leto?»
    «L'ho ucciso e ho usato le sue spoglie per farmi un Jaredabito
    «Smetti di rubare battute ai film» lo ammonisce lei divertita, cercando di calcolare quante volte abbia visto Men In Black. «Sul serio, come hai intenzione di vestirti?»
    «Nessuna anticipazione, se vuoi saperlo dovrai guardare la diretta della cerimonia. Perché la guarderai, vero?»
    «Jared, qui da noi la diretta inizia verso mezzanotte e finisce verso le sei del mattino. Non puoi pretendere che passi la notte incollata alla tv soltanto per vedere come ti sei conciato. Non puoi chiedere una cosa del genere ad una laureanda in filosofia che sta impazzendo dietro ad una tesi sul pensiero di Nietzsche.»
    «Da qui a luglio c'è ancora un sacco di tempo, una serata di svago potresti anche concedertela.»
    «E me la concederò, puoi starne certo: uscirò a cena con qualche amica, magari andrò a farmi un paio di birre... la mia idea di svago di solito è questa.»
    «Quindi rinunceresti alla prospettiva di guardarmi in diretta mondiale solo per fare ricerche su un tedesco morto da più di un secolo?»
    «Ad essere sincera, l'alternativa sarebbe dormire. E comunque quale sarebbe il valore pratico del vederti in diretta tv?»
    «Godere della perfezione del mio viso non ti sembra sufficiente? A questo proposito, ormai sono mesi che ci parliamo, e ancora non ho idea di come sia fatta.»
    «E quale sarebbe il valore pratico del sapere come sia la mia faccia?»
    «Nessuno, a parte che così non mi sembrerebbe più di parlare con un fantasma.»
    «Sarebbe un modo carino per dirmi che mi vedi come una spaventosa entità paranormale?»
    «Sarebbe un modo per dire che vedere il tuo viso mi aiuterebbe a convincermi che sto parlando con una persona che esiste davvero. Parlare con te mi fa bene, non lo nascondo, e vorrei soltanto essere certo di confidare i miei pensieri ad una forma di vita fatta di carne ed ossa.»
    «Ti assicuro che sono reale, Jared» sorride lei, stendendosi sul letto per riposare la schiena. «Ti dirò, a volte mi sembra anche di esserlo troppo
    «E dai, regalami qualche dettaglio! Sei alta, bassa, bionda, mora... non ti sto chiedendo di fare sesso telefonico, ti sto soltanto chiedendo come sei fatta!»
    All'idea di fare sesso telefonico persino una ragazza indipendente e senza paura come Alice arrossisce, chiedendosi come sarebbe sentire quella splendida voce sussurrare cose sconce dall'altra parte del mondo. «Beh, il mio ex fidanzato mi diceva sempre che gli ricordavo un po' Emma Stone.»
    «La Emma Stone di Crazy, stupid love o quella di The help
    «Direi più quella di The Amazing Spiderman, visto che sono bionda.»
    «Beh, in ogni caso significa che sei una bella ragazza, a meno che il tuo ex non fosse un bugiardo patentato.»
    Alice si sente arrossire un'altra volta, chiedendosi se Jared non si accorga dell'eccesso di enfasi che mette nei suoi complimenti, quasi credesse davvero in tutto ciò che dice. «Di solito era piuttosto sincero, ma non escludo che questo possa essere uno dei rari casi in cui mi ha mentito» risponde, sperando di riuscire a sviare il discorso dallo scoglio sul quale sembra essersi arenato. «Comunque sia, c'è altro che vorresti dirmi? Perché altrimenti tornerei alle mie ricerche. Ho ancora così tanto da fare...»
    «No, certo, ti lascio andare, tanto tra un'oretta dovrei uscire... non ti stancare troppo, Gwen Stacy.»
    «Ci proverò, ma non ti prometto niente.»


    «Mi piace la tua casa» dice Luca, spostandosi verso il bancone della cucina per sedersi su uno degli sgabelli. Alzo gli occhi dai fornelli e gli sorrido, poi torno a concentrarmi sulla cioccolata. «Vivi qui da tanto?»
    «Mi sono trasferita a novembre» rispondo. «Di solito è molto più disordinato, ma sapendo che saresti passato ho dato una sistemata. Non sono molto brava come casalinga. Sembra una contraddizione, visto che è un'artista, ma in realtà è Francesca quella ordinata.»
    «Tu devi aver preso dalla mamma» replica lui. «Nemmeno lei è ordinata. Per fortuna c'è la signora Corelli, altrimenti non so come faremmo.»
    «Emanuele com'è, invece?»
    «Beh, lui è... è un informatico» replico, come se questo potesse essere abbastanza. «Insomma, lui è un tipo molto... quadrato. Sì, penso si possa descrivere così. Segue un rigido protocollo in tutto quello che fa. Più di una volta ho pensato che anche il suo cervello sia un computer» aggiungo con un sorriso. «A volte mi piacerebbe essere come lui, perché pensa in codice binario, e la cosa potrebbe essere utile per una come me, che sono un'indecisa cronica. Sai, per prendere decisioni tipo 'cioccolato fondente o al latte', 'camicia o maglietta', o quando ti trovi al supermercato e devi scegliere l'offerta più conveniente.»
    «Pensi che sia per questo motivo che non mi è ancora venuto a cercare?» mi sento domandare dopo un istante di silenzio. Mi volto di scatto, e vedo che Luca si sta tormentando le mani con l'aria di uno che vorrebbe sprofondare nel pavimento. «Insomma, forse non vuole che faccia parte del suo... codice
    A quelle parole mi si stringe il cuore. Nonostante lo frequenti assiduamente da più di un mese, continuo a dimenticare che Luca è un ragazzino molto più intelligente e maturo dei suoi coetanei, nonché un'anima estremamente sensibile, e che sicuramente il fatto che Emanuele non lo abbia avvicinato lo ferisce a morte. Dopo la bomba che ho fatto esplodere, Francesca non ha atteso più di una settimana prima di chiedermi di farli incontrare, e se possibile è diventata una sorella maggiore più apprensiva di me, al punto da scrivergli almeno tre volte al giorno per informarsi circa tutto ciò che gli accade. Emanuele, invece, non ha ancora fatto un passo – ma nonostante sappia quanto sia importante per Luca sentirsi accettato in egual misura da tutti e tre, non ho voluto fare nulla per immischiarmi. Conosco Emanuele, e so che se insistessi per fargli conoscere suo fratello finirebbe con l'odiare anche me, oltre a detestare la situazione nel suo complesso. Emanuele è sempre stato un ragazzo molto intelligente, ma sul piano personale è più incasinato di me – per questo non ho insistito, perché so che ha bisogno dei suoi spazi, e che presto o tardi farà la sua mossa... solo, forse non tanto presto. «Sono certa che presto o tardi si farà avanti» rispondo, cercando di non far trasparire la mia preoccupazione. «Sai, lui è diverso da me e Francesca. Gli ci vuole un po' più di tempo per abituarsi alle novità. Ma se c'è una cosa di cui sono sicura, e di cui vorrei che ti convincessi, è che lui non ti odia. Insomma, se non si è ancora fatto avanti è perché non si è ancora abituato all'idea, ma di certo lo farà.»
    «Non ho mai pensato che mi odiasse» risponde lui, mentre spengo il fornello e verso la cioccolata nelle tazze. «Più che altro penso di essergli indifferente, che è peggio.» In questo momento ringrazio il cielo di dargli le spalle, perché sento gli occhi farsi lucidi e le lacrime premere per uscire, e farmi vedere in questo stato non sarebbe proprio l'ideale, visto che il mio obiettivo è di risollevargli il morale. «Insomma, non è peggio quando una persona decide di ignorarti?»
    Ancora di spalle, mi premo una mano sulla bocca, per soffocare una specie di singhiozzo. Com'è possibile che a soli dodici anni questo ragazzino sia più saggio di me, che il doppio dei suoi anni e, si suppone, un'esperienza più completa della sua? È in momenti come questi che arrivo quasi a vergognarmi di me stessa, perché per Luca dovrei essere una guida, una dispensatrice di buoni consigli, e invece, ancora una volta, è lui a rimettere le cose nella giusta prospettiva, facendomi capire che della vita, a dispetto della mia età, non so proprio niente.


*



Los Angeles, 2 marzo 2014


    Il viaggio verso il Kodak Theatre è incredibilmente silenzioso, ma la cosa non mi preoccupa: quando si tratta di cerimonie Jared è sempre teso come una corda di violino, sia che si tratti di ricevere premi o anche soltanto di fare un semplice atto di presenza. Sembra strano, visto quanto si trova a suo agio sul palcoscenico, ma partecipare a cerimonie di questo tipo lo imbarazza sul serio, perché sfilare su un tappeto rosso vestito di tutto punto non è esattamente come agitarsi su un palcoscenico indossando imbarazzanti pantaloncini da boxe e agitando una bandiera. In più, se aggiungiamo alla miscela il fatto che questa è la cerimonia degli Oscar, ovvero uno degli eventi più attesi dell'anno, nonché il fatto che stasera potrebbe vincere uno dei premi più prestigiosi della sua carriera d'attore... beh, non biasimo mio fratello per la sua voglia di restare in silenzio. Seduta accanto a me, la mamma è altrettanto silenziosa, e se ogni tanto non la sentissi muoversi penserei che si tratti di una statua di cera: indossa uno stupendo abito nero, un capo elegante e sofisticato che un sacco di modelle con la metà dei suoi anni non riuscirebbero ad indossare con la stessa grazia, e nonostante i capelli bianchi sembra ancora una ragazza, una che ha tutta la vita davanti e ancora mille progetti da portare a termine. Sta guardando fuori dal finestrino scuro, e io non riesco a staccare lo sguardo dal suo riflesso: era soltanto una ragazzina quando si è scoperta incinta di me, ma invece di farsi prendere dal panico è riuscita a mantenere i nervi saldi e a rimboccarsi le maniche, regalandomi una vita piena e felice e tutte le occasioni giuste per consentirmi di seguire le mie aspirazioni. A volte mi domando quante cose abbia sacrificato per crescere me e Jared, a quanti sogni abbia dovuto dire addio, a quante e quali rosee prospettive abbia dovuto abbandonare per consentire a noi di seguire i nostri progetti – ma soprattutto mi chiedo dove trovi ancora la forza di sorridere, anche dopo aver rinunciato alla sua vita per curarsi delle nostre. Osservo il suo riflesso e ritrovo quell'espressione che conosco da sempre, quel mezzo sorriso che sembra voler dire milioni di cose, e che allo stesso tempo è maledettamente difficile da interpretare, un po' come quello di Monna Lisa. Abbasso lo sguardo nel preciso istante in cui ricordo chi altro possiede un simile sorriso, dandomi dello stupido – in fondo, l'hanno sempre detto che le donne cercano un uomo che ricordi il proprio padre, e che viceversa gli uomini cerchino in una donna lo spirito della madre. Chiudo gli occhi per un istante, cercando di scacciare dalla mente il sorriso di Daria, quell'espressione leonardiana che tirava fuori ogni volta che si sentiva insicura ma voleva mostrarsi forte. Mi passo una mano sul viso, sforzandomi in ogni modo di non pensare al passato, ma sembra che più acuta sia la voglia di dimenticare, più forte il pensiero di Daria si aggrappi a me – ma non è tanto il pensiero di ciò che c'è stato tra noi a disturbarmi, quanto il mio senso di colpa nei confronti di Christine.
    Sono passate quasi due settimane da quando ho bussato alla sua porta nel cuore della notte e lei mi ha accolto tra le sue braccia accettando le mie scuse insensate, e da quel momento sono iniziate le due settimane più complicate della mia vita. Sarebbe una bugia affermare che Christine non sia una donna importante, ma sarebbe una bugia peggiore affermare che sia esattamente questo ciò che fa per me. Con lei sto bene, è una donna straordinaria che farebbe la fortuna di molti uomini, ma ogni volta che siamo insieme mi dico che persino un cieco si accorgerebbe che non siamo affatto fatti l'uno per l'altra. È straordinaria, mi conosce e sa come trattare con me, sa comprendere il mio umore e sa cosa sia meglio per me, eppure nel profondo del cuore so che stare con lei non è, e soprattutto non sarà mai, la cosa migliore cui potrò aspirare. Le sto mentendo, e quel che è peggio è che ne sono pienamente consapevole, e nonostante questo non riesco a smettere di farlo. Ogni volta che ci separiamo e resto solo mi chiedo come sia possibile, per un uomo che come ha conosciuto la vera felicità, anche se per un mese appena, rinunciarvi e condannarsi a sopravvivere, ad accontentarsi di qualcosa che non potrà mai nemmeno lontanamente avvicinarsi alla perfezione. Ma più di tutto, mi chiedo come sia possibile che Christine non si sia accorta che non sono completamente con lei, che il mio cuore sia sempre lontano, anche quando sono fisicamente presente accanto a lei. O forse se n'è accorta, ma semplicemente non vuole accettarlo, o forse anche lei, come me, si sta semplicemente accontentando.

    Seppur perso nei propri pensieri e nell'ansia che l'idea dell'imminente cerimonia gli causa, Jared si è accorto del repentino cambiamento d'umore di Shannon, che all'improvviso ha distolto lo sguardo, fissandolo sul paesaggio che scorre rapido dall'altra parte del finestrino oscurato – non che prima fosse l'emblema dell'allegria, certo, ma è come se all'improvviso uno strano pensiero gli avesse attraversato la mente, portandosi via il flebile sorriso che adornava il suo volto. Non hanno parlato molto dei loro affari privati, ultimamente, ma Jared sa che Shannon ha ricominciato a vedersi con Christine, e che ormai da un paio di settimane sembrano fare sul serio, esattamente come vent'anni fa. Non ci sarebbe nulla di male, certo, in fondo Christine è una donna seria, una di quelle persone che non fa mai male avere accanto, solo che Shannon non ha affatto l'aria di essere un uomo felice – e Jared, che era con lui a Parigi, sente di poter parlare con cognizione di causa. L'ha visto felice, ha visto di quale luce possano illuminarsi i suoi occhi e quanto contagioso possa farsi il suo sorriso, ed è certo che in questo momento Shannon non sia affatto felice, né tantomeno realizzato. Christine è sicuramente grandiosa, e certamente accanto a lei Shannon non starà male, ma non sarà mai, nemmeno in un milione di anni, quell'unica donna al mondo in grado di rendere il suo mondo completo. Jared sa che non dovrebbe impicciarsi negli affari di suo fratello, sa che Shannon è grande abbastanza per decidere del proprio futuro senza chiedere consiglio, ma allo stesso tempo gli si stringe il cuore nel vederlo così, troppo fragile per ammettere a se stesso di essere sul binario sbagliato.


*



Torino, 2 marzo 2014


    Nonostante le promesse fatte a se stessa, a mezzanotte Alice si lascia vincere dalla curiosità: prende in mano il pc e digita rapidamente sui tasti, cercando di trovare in fretta una buona piattaforma sulla quale seguire la diretta dell'evento. Una sbirciata e via, è ciò che si è ripetuta più e più volte, ma dopo ventiquattro anni ormai ha imparato a conoscersi, e sa che una volta iniziata la diretta non riuscirà a staccarsene, forse a malapena per una pausa bagno. È a questo punto che le viene quella che considera un'idea geniale: copia il link del sito e lo invia per messaggio a Daria, sperando di suscitare la sua curiosità – così almeno si sentirà meno idiota, sospettando che anche la sua migliore amica se ne stia incollata allo schermo del portatile.

    Il primo istinto, quando Alice mi informa del suo nuovo passatempo, è di cancellare il messaggio senza darle retta – poi mi dico che in fondo non ho altro da fare e domani non devo andare al lavoro, perciò potrei anche stare sveglia ancora un paio d'ore a guardare vip che si rincorrono sul tappeto rosso. Cerco il sito che mi ha consigliato, sperando nella benevolenza del wi-fi, e aspetto che si carichi il sito. Nemmeno a farlo apposta, la prima coppia che vedo transitare è quella formata da Colin Firth e sua moglie, Livia Giuggioli: lui è uno dei miei attori preferiti, e lei l'invidia di ogni donna, italiana o no – quale ragazza non sogna, in fondo al cuore, di far innamorare di sé un uomo di tale fascino? Subito abbasso lo sguardo, dandomi della stupida: ciò che quella donna ha trovato in Colin Firth io l'avevo trovato lo scorso autunno, non in un celebre attore ma in uno straordinario batterista – avevo anch'io un uomo che mi guardava nello stesso modo in cui lui ora guarda lei, e come una vera stupida gli ho dato un calcio, allontanandolo da me. Improvvisamente mi torna in mente che anche Jared ha ricevuto una nomination, e che probabilmente sarà presente alla cerimonia – e chi altri potrebbe volere con sé, se non suo fratello? Il primo istinto è quello di spegnere il portatile e mettermi a dormire, eppure le mie mani non si muovono – nonostante mi senta persino indegna di pensare a Shannon, figuriamoci di guardarlo attraverso uno schermo, non riesco a rinunciare all'idea di poterlo vedere ancora una volta, se non altro per assicurarmi che stia bene. Ci vogliono ancora venti minuti, ma alla fine il mio più grande desiderio – nonché la mia più grande paura – trova realizzazione. Jared appare alla fine della lunga striscia rossa che conduce all'ingresso del Kodak Theatre, accompagnato da sua madre, che potrebbe tranquillamente essere scambiata per una celebre attrice o per una sua fiamma, data l'innata eleganza e la straordinaria bellezza che la contraddistinguono. E poi, appena un passo indietro, vedo Shannon, e il cuore sembra fermarsi per un istante: è completamente vestito di nero, il che lo fa apparire più magro, e porta i capelli più corti, lasciando scoperta la triad tatuata dietro l'orecchio. Mi copro la bocca con una mano, trattenendo un paio di lacrime: è completamente diverso dallo Shannon scarmigliato – e soprattutto nudo – che ho lasciato a Parigi, eppure vederlo mi fa ancora lo stesso effetto di un tempo. Se non fossi seduta, sono certa che le ginocchia mi cederebbero, facendomi crollare a terra come un sacco di patate – per quanto sia lontano, per quanto sia soltanto un'immagine inviata attraverso un satellite, il suo volto ancora mi pare una delle cose più belle che abbia mai visto, e il suo sguardo è ancora una delle poche cose in grado di confondermi al punto di non ricordare il mio stesso nome. Prendo un paio di respiri profondi, cercando di calmarmi e nel contempo trattenendomi dallo scrivere ad Alice un messaggio minatorio, e proprio in quell'istante il telefono abbandonato accanto a me vibra, avvertendomi dell'arrivo di un messaggio. Neanche a dirlo, è proprio lei, la donna che diede origine al caos – in fondo, se non fosse stato per lei, la sottoscritta Shannon lo avrebbe incontrato soltanto nei propri sogni.

    Adesso Alice si sente in colpa, perché se Daria se ne sta incollata allo schermo del portatile a guardare in faccia il suo passato è soltanto colpa sua, che voleva sentirsi meno sola e perciò l'ha coinvolta in una delle sue idee balorde. «Scusa, non volevo farti soffrire» esordisce, rispondendo alla chiamata dell'amica.
    «Non sto soffrendo, tranquilla» risponde Daria, continuando a fissare lo Shannon fatto di pixel che sorride al giornalista di chissà quale canale tv. «Insomma, un po' sì, ma non è colpa tua. Beh, sì, in effetti è colpa tua, visto che sei stata tu a mandarmi il link, ma non credo ti ucciderò per questo.»
    «Che effetto ti fa?» domanda Alice, abbassando la voce come se si trattasse di un segreto – e in effetti di mezzo c'è un segreto, perché nonostante siano passati due mesi, ancora non ha confessato delle telefonate tra lei e Jared, che tra l'altro stasera, vestito di bianco, fa davvero una splendida figura, riuscendo a sembrare quasi normale... capelli a parte.
    «Rivederlo, dici? È strano. Non so come altro descriverlo, solo... è strano, ecco tutto.»
    «Immagino sia un po' diverso da com'era a Parigi.»
    «Molto diverso» annuisce Daria, sospirando. «Ha tagliato i capelli. Gli stanno bene.»
    «Io lo trovo anche dimagrito. O forse è solo un'impressione, visto che è vestito di nero. Insomma, il nero snellisce, giusto?»
    «Non lo so, forse hai ragione tu. Quel che è certo è che mi sembra...»
    «...felice?» completa Alice, azzardando quella parola che Daria, lo sa, non riuscirebbe mai e poi mai a pronunciare – non da quando ha completamente rinunciato a far parte di quella particolare equazione.
    «Non sembra anche a te?»
    «Mah, non saprei. Davanti alle telecamere sorridono sempre tutti. Non saprei dire se sia davvero felice o no.»
    «Quindi secondo te potrebbe avere il cuore a pezzi e sorridere soltanto per non far insospettire i giornalisti?»
    «Sinceramente? Ho paura di rispondere a questa domanda, ho la sensazione che potresti mangiarmi viva se dicessi qualcosa che non ti va a genio.» Attende in silenzio una risposta, ma dopo quasi un minuto di niente decide di tentare la sorte. «Che cosa ti fa credere che sia felice?»
    «Non lo so» ammette Daria, sospirando ancora. «In fondo è tornato alla sua vita come se niente fosse, non è... insomma, è andato avanti. Perché non dovrebbe essere felice?»
    Alice si morde un labbro, chiedendosi se non sarebbe il caso di dire finalmente la verità, di rivelarle che in realtà Shannon è tornato da lei, è tornato indietro con le migliori intenzioni del mondo, che è tornato per riprendersela, e che si è arreso soltanto nel preciso istante in cui si è accorto che era stata lei ad andare avanti. «Anche tu sei andata avanti, no?» dice infine, sperando di suscitare in lei chissà quali sentimenti.
    «Sì, e guarda quanto sono andata lontano.»
    «A proposito, come va con Marco? Lavorare a stretto contatto con lui è imbarazzante quanto credevi?»
    «Un po', ma è sopportabile. Credo che per lui non sia un problema così grande. Insomma, credo di essere io quella che fatica di più per far funzionare la cosa.»
    Nel tono di Daria, dimesso e anche un po' arreso, finalmente Alice intravede uno spiraglio per mettere in atto quella che in effetti era un'idea di Jared, ma che non le dispiacerebbe fosse stata sua. «E... che cosa hai intenzione di fare adesso?»
    «In che senso?»
    «Beh, adesso che hai capito che Marco non faceva per te e sei di nuovo single...» Alice mette da parte il computer, si alza e inizia a passeggiare per la stanza, molto nervosa per le parole che sta per dire. «Insomma, adesso che sei di nuovo single potresti... insomma, c'è ancora quella scatola sotto il mio letto. Non potresti magari...»
    «Cosa? Chiamare Shannon e chiedergli scusa per quello che ho fatto?» ribatte Daria, stupita dal fatto che Alice, da sempre sinonimo di schiettezza, non abbia trovato il coraggio di dirlo chiaro e tondo, senza tanti giri di parole. «Bella prova di serietà che darei. Prima me ne vado sgattaiolando via come una ladra, poi ritorno implorando perdono? No, non esiste. E poi non ha nemmeno senso» aggiunge subito, cercando di mettere in chiaro che non ha alcuna intenzione di tornare con Shannon. «Insomma, avrebbe senso se io fossi ancora innamorata di lui, ma non lo sono. Cioè, io non... non potrebbe mai funzionare, lo sai.»
    «Sai cosa mi stupisce? Che anche dopo tutti questi anni di amicizia continui a credere che ti riesca facile mentirmi. Non cercare di convincermi che di lui non ti importi niente, perché so che non è vero. Se lo avessi davvero cancellato dalla tua vita, non avresti mai lasciato Marco.»
    «Non psicanalizzarmi, Alice. Te lo chiedo per favore» implora Daria, senza sortire alcun effetto.
    «Non sto cercando di psicanalizzarti – cosa che tra l'altro mi riesce benissimo. Dico solo che Marco è un uomo praticamente perfetto, uno che ogni donna sarebbe felice di avere al proprio fianco. Perché lo avresti lasciato, se non...»
    «Forse non voglio un uomo praticamente perfetto, non ci hai pensato? Sì, la perfezione è intrigante, ma alla lunga può stancare. Lo sai, tu avevi Federico!»
    «Punto primo: Federico non è mai stato perfetto, e tu lo sai. Punto secondo: non è di me che stiamo parlando, ma di te. E tu, cara mia, sei ancora innamorata di Shannon, ed è assurdo che continui a negarlo. Sappi che se ti rifiuterai di ammetterlo, continuerò a ricordartelo ogni giorno della tua vita, finché non ti stancherai di me.»
    «Se è per questo, stai già iniziando a farti odiare» ribatte Daria con una risata, sapendo che Alice sarebbe in grado di tenere fede anche a quella promessa.
    «E allora perché sprecare tempo prezioso e pazienza? Ammetti che sei ancora innamorata di lui e che ti manca da morire, metti da parte l'orgoglio e chiamalo.»
    «Non posso» sussurra la ragazza dopo qualche istante di silenzio.
    «Perché? Perché non puoi?»
    «Perché significherebbe ammettere che ho sbagliato» sussurra ancora Daria, abbassando ancora la voce. «E non so se sono pronta ad ammettere tanto.»
    «Non sarebbe una cosa tanto tremenda, sai? La storia è piena di uomini e donne che hanno commesso degli errori e sono tornati sui propri passi per correggerli.»
    «Ma con quale faccia potrei continuare a guardarmi lo specchio, Alice?» ribatte Daria, tagliente. «E con quali occhi tornerebbe a guardarmi lui?» aggiunge, senza trovare il coraggio di pronunciare ancora il suo nome. «Resterei per sempre la donna che ha giocato con i suoi sentimenti, quella che se n'è andata e poi ha cambiato idea. Non riuscirebbe mai più a fidarsi di me.»
    «Se ti amasse davvero, cosa che io ritengo molto probabile, sono certa che riuscirebbe a passarci sopra. La felicità del tuo ritorno offuscherebbe qualunque altro pensiero, qualunque dubbio, qualunque incertezza» risponde Alice, il cuore gonfio della speranza di rivederli insieme – perché è fuori discussione che due persone come loro debbano passare la vita separate, soprattutto se divise da una cosa stupida come la paura. «Sono certa che capirebbe. È per paura che sei scappata da Parigi, sono certa che comprenderebbe le tue ragioni. Sono certa che anche lui si sia sentito come te, anche solo una volta. Comprenderebbe.»
    «Alice, ti prego, ti chiedo un favore. Mettiamo una pietra sopra questa discussione e non riprendiamola mai più. Non ti ho mai chiesto niente, almeno questa volta cerca di accontentarmi. Per favore
    Alice vorrebbe ribattere, esporre le proprie ragioni, gridare ai quattro venti la propria intenzione di continuare quella discussione, di continuarla se necessario all'infinito, perché lo vedrebbe anche un cieco quanto amore inespresso si celi dietro le parole e i comportamenti di Daria, perché persino il cuore più freddo si scioglierebbe di fronte alla forza del loro sentimento... eppure, incredibilmente, per una volta decide di tacere. Decide di tacere sapendo che potrebbe essere il più grande errore della sua vita, sapendo di commettere un efferatissimo crimine nei confronti dell'amore e di tutti coloro che combattono per esso, anche quando non c'è speranza, anche quando sembra che si sia giunti alla fine di tutto. Tace, Alice, e anche se dentro al proprio cuore sa che non è affatto la cosa giusta da fare, sente di doverglielo, sente di dovere questo terribile favore alla propria migliore amica, a quell'unica persona che le è sempre stata accanto, e che da lei merita questo ed altro.


*



Los Angeles, 2 marzo 2014


    Jared sta parlando con Matthew McConaughey e sua moglie, quando un tocco leggero sulla spalla lo distrae dalla conversazione, facendolo voltare verso sinistra. Il suo sguardo incontra il contagioso sorriso luminoso di Lupita, che lo costringe ad un abbraccio di congratulazioni. «Sono davvero fiero di te, tesoro» le sussurra all'orecchio, stringendola a sé per qualche secondo. «Sei stata magnifica.»
    «Detto da te, Bart, è un complimento stupendo» replica lei. «Congratulazioni anche a te, Matthew. Sono davvero molto felice per te. Hai fatto un lavoro semplicemente superbo.»
    «Basta con i complimenti, Lupita, ti prego» sorride l'altro uomo. «Ho finito il mio repertorio per i ringraziamenti.»
    Lupita sorride ancora, prendendo sottobraccio Jared con fare amichevole. «Va bene, smetterò di elogiare il tuo talento e andrò in giro a dire a tutti che il tuo premio non è stato meritato per niente e che sei un attore di serie b, ma soltanto se adesso mi concedete di portarvi via quest'uomo stupendo. Ho bisogno di parlare con te a quattr'occhi» aggiunge, rivolgendosi all'amico.
    Matthew risponde con un cenno del capo. «Soltanto se prometti di parlare malissimo di me.»
    «Userò parole di fuoco, non temere» replica lei, alzando il bicchiere per suggellare la promessa.
    Non appena si trovano ai margini della sala, lontani dalla calca di persone che intendono complimentarsi con loro, Jared si scioglie delicatamente dalla presa di Lupita, si appoggia alla parete e punta gli occhi in quelli della donna, ispezionandoli attentamente alla ricerca di risposte. «Come mai tutto questo mistero, signorina N'yongo? Stai per confessarmi di aver corrotto la commissione al fine di vincere questo premio?»
    «Niente affatto, signor Leto. Ho un motivo molto più importante. Si tratta di tuo fratello.»
    «Shannon? Che cos'ha combinato?» replica Jared, facendo saettare lo sguardo per tutta la sala per cercare di individuarlo.
    «Non ha combinato niente, tranquillo. In effetti è proprio di questo che ti volevo parlare» aggiunge la donna. «Mi rendo conto che forse non è il luogo più adatto per sostenere questo tipo di conversazione, ma sembra che nella tua agenda non ci sia nemmeno un minuscolo buco per i tuoi amici.»
    «Scusa se sono una persona molto impegnata. In effetti ci sto lavorando su, e...»
    «Non è il momento di scherzare, Jared» lo interrompe lei, lo sguardo improvvisamente serio, simile a quello di una madre che sta per farti una ramanzina degna di essere ricordata. «Non è assolutamente mia intenzione rovinarti la serata, ma sento che se non lo dico ora non troverò un altro momento, e non potrei mai perdonarmelo.»
    «Hai intenzione di piantarla con questa sceneggiata alla James Bond o vuoi tenermi sulle spine ancora a lungo?»
    «E va bene, sarò diretta, ma non lamentarti se quello che dirò non ti piacerà» taglia corto lei. «Qualche sera fa ero fuori con alcuni amici, e ad un certo punto siamo passati davanti al Blue Moon. Hai presente di quale locale sto parlando?»
    «Sì, non è quel club sul Sunset Boulevard? Ci sono stato diverse volte, è un bel posto. Qual è il punto, Lupita?»
    «Il punto, Jared, è che quella sera ho visto Shannon uscire dal Blue Moon. Lui non mi ha vista, e sono quasi sicura che nessuno dei miei amici lo abbia notato, ma... beh, il punto è che non mi sembrava affatto in buone condizioni.»
    «Che intendi dire?»
    «Intendo dire che aveva l'aria di uno che si è fatto un bicchiere di troppo. Lo so, lo so che non dovrei giungere a conclusioni affrettate» aggiunge subito dopo, appoggiando una mano sul braccio di Jared, che nel sentire quella parte della storia si è inquietato, «ma ci conosciamo da tanti anni, e penso di potermi ritenere una tua amica. E anche se non conosco così bene lui, mi sento in dovere di preoccuparmi per il suo benessere. Mi conosci, sai che non riuscirei a farmi gli affari miei nemmeno con una pistola puntata alla testa. Ho semplicemente pensato... beh, ho pensato che dovessi saperlo.»
    «L'hai visto fare qualcosa di particolare? Insomma, lui ha... ha combinato qualche guaio?»
    «No, non che io sappia. Solo... beh, se fossi stata con lui non gli avrei permesso di guidare. Non aveva l'aria di una persona tranquilla, se capisci cosa intendo.» Jared annuisce, senza riuscire a parlare. Capisce perfettamente la preoccupazione di Lupita – di più, la condivide, anche perché sa di cosa potrebbe essere capace Shannon. Lo sa, l'ha visto accadere, e ha vissuto per anni con la paura che potesse accadere di nuovo, che capitasse sulla sua strada qualcosa in grado di distruggere quel precario equilibrio costruito con tanta fatica. «Jared, è successo qualcosa? Per caso avete litigato, c'è qualche problema tra di voi, o con la band?»
    Lui scuote la testa, abbassando lo sguardo. «Il motivo è molto più semplice, quasi stupido, se vogliamo metterla così. Una ragazza gli ha spezzato il cuore.»
    «Stai parlando sul serio? Shannon che si lascia spezzare il cuore da una donna?»
    Jared invita Lupita a sedere e con calma, cercando di tenere lontane le orecchie che non devono sentire, riassume brevemente tutta la storia, partendo dal concerto di novembre ad Assago ed arrivando alla serata che stanno vivendo, senza dimenticarsi di far tappa a Parigi e a Torino, confessandole anche di quella sfortunata sera che ha distrutto ogni speranza. «Se devo essere sincero, avevo una paura folle che si arrivasse a questo punto. Adesso Shannon dice di aver ricominciato, dice di essere felice con Christine, ma che razza di fratello sarei se non riuscissi a vedere la menzogna in ogni cosa che dice? Io l'ho visto con i miei occhi, Lupita, ho visto quanto era felice con quella ragazza. Sembrava avesse finalmente trovato l'equilibrio che aveva sempre cercato, e adesso... no, adesso non è felice, non lo è per niente. Cerca continuamente di convincermi di sì, cerca di convincersi che sia così, ma io lo so. E quello che più mi ferisce è che non accetta il mio aiuto. Invece di accettare un aiuto preferisce fare da sé, e così...» La voce gli muore in gola, il tono si incrina al pensiero di quello che potrebbe accadere se il terreno si spaccasse di nuovo sotto i loro piedi, se l'abisso li inghiottisse di nuovo. Questa volta nessuno di loro ne uscirebbe vivo, ne è certo.
    «C'è qualcosa che posso fare per aiutare?» domanda Lupita, gli occhi pieni di sincera tristezza e voglia di rendersi utile.
    «Non credo ci sia qualcosa che puoi fare, Lupita. A meno che tu non possa andare a prendere quella ragazza, convincerla che abbia bisogno di Shannon tanto quanto lui ha bisogno di lei e portarla qui.» Si guarda le mani, quelle mani che non hanno tremato nemmeno prendendo in consegna il premio, e si rende conto che riportare indietro Daria è l'unica soluzione, l'unico modo per salvare Shannon, per tirarlo indietro dall'orlo del baratro prima che muova quel passo in più che distruggerebbe il mondo che tanto faticosamente hanno creato.



1Sono l'elefante, che posso fare, inchiodato al suolo e a questo amore. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone L'elefante e la farfalla del cantautore romano Michele Zarrillo, tratto dall'album omonimo (1996).

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Capitolo 19
*** 19 | Eravamo un famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno contro l'altro, ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto a perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare ***


La lunga strada verso casa - 1
Questa volta non potete lamentarvi per il ritardo con cui posto, ma... beh, avrete comunque di che lamentarvi, perché questo è il capitolo conclusivo di “La lunga strada verso casa”. E già dal titolo del capitolo credo si evinca che non è un capitolo ricco di gioia e felicità – ma non uccidetemi. Non prima di avermi lasciato spiegare, almeno.
Se finora avevo rispettato quasi al minuto il reale corso degli eventi, da questo capitolo le cose cambieranno: non per regalarvi spoiler, ma alcuni eventi verranno anticipati, con certe conseguenze... ma non è questa la notizia bomba. La notizia che vi sconvolgerà è che siccome ormai sono affezionata a tutte voi, alle vostre recensioni e al vostro affetto, ho deciso di allungare ancora un po' il brodo (e di conseguenza la vostra agonia) aggiungendo una stagione all'infinita storia di Daria e Shannon, l'unica coppia al mondo a non conoscere il significato della parola 'tempismo'. La nuova storia sarà presto online, con tanto di trailer e colonna sonora =)
Per ulteriori informazioni, cliccate su Direzioni ostinate e contrarie!
Come al solito, buona lettura,
EffieSamadhi

P.S.: Grazie a tutte voi per il sostegno che continuate a dimostrare, aiutandomi di volta in volta, tramite le vostre recensioni e i vostri commenti, a trovare la strada giusta per continuare i miei insensati racconti. In particolare, un grande abbraccio a katvil, Sayuri_remenissions, Pirilla_Echelon e Love_in_London_night, le quattro irriducibili che non fanno mai mancare il loro appoggio - non sono sempre puntuale e precisa nel rispondere (anzi, non lo sono mai), ma sappiate che vi adoro, e soprattutto adoro il fatto che siate sempre pronte a dire la vostra, nel bene e nel male. Spero veramente con tutto il cuore di non perdervi per strada =)






La lunga strada verso casa






Capitolo diciannovesimo
Eravamo una famiglia. Come ha potuto
rompersi e dividersi e ora siamo uno contro l'altro,
ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto
a perdere il bene che ci era stato dato,
lasciarlo scivolare via,
disperdersi, distruggersi?
Cosa ci impedisce di uscire,
toccare la gloria?.1


Torino, 3 marzo 2014


    La conversazione con Alice mi ha precipitata nel panico e nella confusione, anche più di quanto fosse riuscita a fare la sola visione di Shannon. Ho seguito quasi tutta la cerimonia in streaming, alternando momenti di lucidità a brevi sonnellini, ma la mia proverbiale fortuna non mi ha consentito di perdermi la premiazione di Jared, il suo toccante discorso di ringraziamento e, soprattutto, la tenerezza del bacio che Shannon, seduto in platea, ha stampato sulla guancia della madre. Anche volendo, non potrei mentire a me stessa: ho invidiato Constance Leto, in quel preciso istante. Avrei voluto con tutto il cuore essere io la donna seduta accanto a lui, e avrei voluto con tutto il cuore che fosse la mia guancia a ricevere quel bacio, o meglio ancora le mie labbra. Mi sono stretta nella coperta e ho trascorso il resto della notte a ripensare alle parole di Alice, rendendomi conto che se è la mia migliore amica da una vita un motivo di certo c'è, e il motivo è che lei è la sola persona al mondo in grado di rimettere le cose in prospettiva, l'unica in grado di riportare la verità in prima fila, dissipando le menzogne con le quali cerco continuamente di coprirla. La verità è che io sono scappata da quella meravigliosa fiaba parigina per paura, e non per mancanza d'amore – perché io Shannon lo amo, ormai non posso più concedermi il lusso di negarlo. Lo amo, e l'ho lasciato per paura – paura di non essere abbastanza per lui, paura di non bastargli, paura che il resto del mondo non mi credesse abbastanza per lui. Accettare di stare con lui avrebbe significato accettare di dividerlo con il resto del mondo, uscire allo scoperto e subire il giudizio di un universo intero – e per quanto gli Echelon siano un popolo completamente diverso dal resto del mondo, di certo non avrei mai potuto sperare di piacere a tutti. Avevo paura di tutto questo, avevo paura del giudizio di mio padre, avevo paura di perdere le poche certezze che ho impiegato una vita a costruire. Avevo paura di perdere la mia integrità, avevo paura di perdere la mia identità. Avevo paura di perdere Alice – una paura folle di perdere le nostre confidenze, le nostre conversazioni fatte di scemenze, le pizze divise davanti ad un film strappalacrime, il semplice fatto di esserci, sempre e comunque, l'una per l'altra. Stare con Shannon avrebbe significato sopportare la lontananza, imparare a fidarsi del prossimo – il che, per una che non a malapena si fida di se stessa, sarebbe stata certamente una prova troppo grande. Stare con Shannon avrebbe significato imparare a fidarsi del mondo, abbandonarsi alla buona fede della gente, abbandonarsi completamente ad un amore che persino in un film sarebbe sembrato troppo assurdo, troppo bello per essere vero. E se un giorno mi avesse chiesto di sposarlo? Che cosa sarebbe successo se mi avesse chiesto di metterci di mezzo un anello, di dare un nome a ciò che saremmo stati? In quel caso avrei quasi certamente dovuto scegliere di spostare la mia casa in un Paese straniero – il che, per una che ha sempre creduto fermamente nell'importanza di avere accanto la propria famiglia e i propri amici, sarebbe stato semplicemente impossibile da accettare. E di certo non avrei potuto costringere lui ad abbandonare la sua famiglia, la sua patria, quella vita che ha conosciuto per più tempo di me, e che sicuramente non gli sarebbe mai stata restituita. Mi è costato una notte di sonno, ma finalmente sento di essere riuscita a fare più chiarezza nel mio cuore: non ho lasciato Shannon perché non lo amassi, ma per paura di non riuscire ad amarlo nel modo in cui un uomo straordinario come lui merita di essere amato.


*



Los Angeles, 3 marzo 2014


    Jared aspetta che mamma chiuda la porta di casa dietro di sé, prima di far cenno all'autista di ripartire. «Ti fermi a dormire a casa mia?» mi domanda all'improvviso, voltandosi verso di me. «Non ho voglia di restare solo. Probabilmente non riuscirò nemmeno a chiudere occhio, mi serve qualcuno da tormentare.»
    «Se accetto, intendo dormire» ribatto, slacciando il cravattino che mi sono costretto a sopportare per l'intera serata. «Tu fai quello che vuoi, ma non ti azzardare a rompermi le scatole.»
    «E va bene, prometto che tenterò di non essere troppo molesto» risponde con un mezzo sbadiglio, gesto che mi rassicura: certamente a questo punto l'adrenalina nel suo sangue deve essere scesa, facendogli abbandonare quello stato di eccessiva eccitazione e ansia che lo accompagna da almeno un paio di giorni. Se lo conosco bene, comunque, nonostante l'ora tarda domani mattina salterà giù dal letto alle otto del mattino, in forma come non mai e pronto a perseguire chissà quale strano e impegnativo progetto.
    Nascondo un breve sorriso, tornando a guardare fuori dal finestrino: la notte è scura, ma le mille luci di Hollywood illuminano quasi a giorno il cielo, e di questo ringrazio. La notte è il momento peggiore per me, da qualche settimana a questa parte: è come se l'oscurità cancellasse la realtà dei miei giorni e costringesse le memorie a farsi avanti, ferendomi più a fondo di quanto possa sopportare. Riposare, la notte, si è fatto difficile: spesso me ne sto disteso a letto rigirandomi continuamente tra le lenzuola, come se stessi su un materasso fatto di chiodi, ed è per questo che spesso non rimango a dormire da Christine, quando capita di uscire insieme – so che non farei altro che agitarmi, impedendo anche a lei di dormire e facendola preoccupare inutilmente. E quando anche riesco a prendere sonno, spesso mi capita di fare un certo sogno – sempre lo stesso, sempre ugualmente disturbante e doloroso: continuo a rivedermi scendere da un taxi, muovere un paio di passi e poi fermarmi, come se all'improvviso non riuscissi più a comandare le mie gambe. Ed è a quel punto che arriva la vera pugnalata: in fondo alla strada compare Daria, e appeso al suo braccio c'è quell'uomo al quale l'ho vista dare un bacio, quella ormai famosa e terribile serata. Ridono, scherzano, mi passano accanto senza accorgersi della mia presenza, e tutto ciò che posso fare è restare in silenzio a guardare – in silenzio, perché oltre a non muovermi non riesco nemmeno a parlare. Ogni volta mi sento dannatamente impotente, e ogni volta preferirei morire, piuttosto di rivivere ancora una volta quella scena.


*



Torino, 3 marzo 2014


    Negli ultimi giorni la pioggia sembra aver dato una tregua alla città, e sebbene quello che splende in cielo non si possa proprio definire sole, è caldo abbastanza da invogliare ad uscire e fare due passi al parco del Valentino. Non avendo voglia di rimanere sola, chiedo di accompagnarmi ad una delle ultime persone che mi sarei aspettata di invitare fuori per una passeggiata: mia madre.
    «Come mai questa improvvisa voglia di passare del tempo con me?» domanda dopo un intenso periodo di silenzio, lungo abbastanza da permetterci di coprire metà del parco. «Insomma, è vero che stiamo lentamente recuperando i rapporti, ma la tua telefonata mi ha comunque stupita molto. C'è qualcosa che non va? Se posso permettermi, hai un aspetto che non mi piace per niente. Non è che stai covando un po' di influenza? Questo tempo gioca brutti scherzi.»
    «No, non sono malata» rispondo, scuotendo la testa. «Non ho dormito bene, questa notte. Beh, a dire il vero non mi è capitato solo stanotte.»
    «Hai qualche preoccupazione? Se hai bisogno di qualcosa, lo sai, devi solo chiedere. So che non ci sono mai stata, per te, ma adesso sono qui. Puoi parlarmi di tutto.»
    Alzo per un istante lo sguardo su di lei, chiedendomi se la mia idea sia davvero così geniale, se raccontare dei miei guai sentimentali ad una donna altrettanto incasinata non finirebbe con il confondere ancora di più le acque. Incrocio per un istante il suo sguardo, colmo all'inverosimile di quel misto di preoccupazione e paura che soltanto una madre può provare, e mi convinco che tentare non nuocerà. «Avrei bisogno di un consiglio sentimentale.»
    Ride, coprendosi la bocca con una mano, nello stesso gesto che spesso compio anche io. «Santo cielo, penso proprio di essere la persona meno indicata per dare consigli sentimentali! Guarda che cosa sono stata in grado di fare a tuo padre...»
    «Beh, è proprio per questo che vorrei un consiglio da te» ribatto, sperando di farle capire che si tratta di una cosa seria, e che davvero ho bisogno del suo supporto e della sua esperienza.
    «E va bene, se proprio credi che sia la persona più indicata, dimmi cos'è che ti preoccupa» risponde, recuperando la propria compostezza.
    «Ho conosciuto una persona, lo scorso autunno. Un uomo più grande di me» sento subito il bisogno di puntualizzare, forse per farle inquadrare meglio la situazione. «Un uomo molto più grande di me, in effetti. Ha vent'anni più di me.» Mi fermo per un istante, aspettando un qualunque commento, ma la sua assenza di reazioni mi spinge a continuare. «Anche se è successo tutto molto rapidamente, sono sicura di quello che provavo per lui. È stato come se... non lo so, come se l'avessi guardato e all'improvviso avessi capito di amarlo. E sono abbastanza sicura che per lui fosse lo stesso. Non che abbia questa grande esperienza in fatto di uomini, ma sono abbastanza sicura che mi amasse anche lui.»
    «E allora perché lo hai lasciato?» mi domanda. «Insomma, stai parlando di lui al passato, quindi presumo che sia finita.»
    «Ho avuto paura» ammetto, abbassando il tono della mia voce. «Ho avuto paura di quello che avrebbe potuto pensare la gente, ho avuto paura di quello che avrebbe potuto dire papà, ho avuto paura che la mia vita cambiasse, ho avuto paura di perdere tutte le mie certezze... e poi ho avuto paura di non riuscire ad amarlo come meritava. Di non riuscire ad amarlo abbastanza, diciamo. Ho avuto paura di non essere la donna giusta per lui.»
    Si prende qualche secondo per riflettere sulla risposta, e comprendendo quanto sia importante per lei darmi la risposta più corretta, decido di attendere, nonostante stia morendo dalla voglia di sentire ancora la sua voce. «Non darò giudizi sulla sua età, questo no» esordisce infine. «Il mio secondo marito era più vecchio di me, e guarda i tuoi nonni! C'erano quattordici anni di differenza tra loro, eppure hanno tirato su una famiglia incredibile.» Fa un'altra pausa, raccogliendo le ultime impressioni. «Avere paura è normale, quando si conosce una persona che ci colpisce quanto ti ha colpita quest'uomo. La paura non deve essere per forza negativa, sai? Anzi, a volte un po' di paura può essere una buona cosa. Se ti sei sentita impaurita, significa che non l'hai presa alla leggera, che ti sei posta dei dubbi e che hai ragionato sull'intera faccenda, e questo è un bene. Sarebbe stato peggio se non avessi avuto alcun timore, perché avrebbe significato che ti eri buttata nella storia a testa bassa, e ti assicuro che non è mai un bene essere troppo impulsivi.» Sento il suo sguardo fisso su di me, ma continuo a camminare guardando dritto davanti a me. «Dunque lo hai lasciato. Che cosa è successo poi?»
    «Non l'ho più rivisto. Un paio di mesi più tardi ho iniziato a vedermi con un altro ragazzo, ma ci ho dato un taglio quando ho capito che... beh, quando ho capito che non avevo dimenticato l'altro uomo. Sapevo che non l'avrei mai più rivisto, ma siccome non ero ancora riuscita a sradicarmelo dal cuore... beh, continuare quella relazione sarebbe stato come mentire a me stessa, e soprattutto avrebbe significato mentire ad una persona buona che non meritava di essere presa in giro. Perciò ho chiuso anche con l'altro.»
    «Ma continui a pensare al primo.»
    «Molto più di quanto vorrei.»
    «Hai pensato di chiamarlo, di riprendere i contatti? Sono passati soltanto pochi mesi, forse nemmeno lui ti ha dimenticata.»
    «Sì, in verità mi è passato per la mente, ma... non lo so, ho paura che sia troppo tardi. O forse ho paura di averlo ferito così tanto da non riuscire a perdonarmi nemmeno se tornassi da lui strisciando. O forse ho soltanto paura di andare da lui e scoprire che non mi amava tanto quanto credevo, e che si è già rifatto una vita con un'altra.» Dimenticandomi, aggiungo dentro di me, senza avere il coraggio di esprimere ad alta voce un concetto tanto terribile. Mi sento già abbastanza distrutta così, e credo che scoprendo Shannon già impegnato in una nuova storia con un'altra donna non riuscirei a sopravvivere.
    «Potrebbe averci provato» ribatte lei, facendo spallucce. «In fondo, è la stessa cosa che hai provato a fare anche tu. E come te, forse potrebbe aver fallito. In questo preciso momento potrebbe essere impegnato in una conversazione simile alla nostra, non ti pare?» Non rispondo, troppo impegnata a fissare l'erba che si piega sotto le mie scarpe. «Il solo consiglio che ti posso dare è questo: non aspettare. Se davvero sei pentita della tua decisione, se davvero lo ami ancora e credi di poter costruire qualcosa di serio con lui, non aspettare che arrivi chissà quale momento propizio. E fidati, sto parlando per esperienza. Non esiste il momento giusto per chiedere scusa ad una persona che hai ferito. Esiste soltanto il momento in cui ti alzi e bussi alla sua porta.»


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Los Angeles, 3 marzo 2014


    Sono appena passate le quattro del mattino, e come avevo previsto non sono ancora riuscito a chiudere occhio. Dopo aver trascorso l'ultima ora a rigirarmi tra le coperte come un'anima in pena, decido di alzarmi per sgranchirmi le gambe e fumare una sigaretta. Conoscendo le restrittive regole di Jared circa il fumo, esco in giardino, portandomi dietro un posacenere immacolato recuperato dal salotto. Mi guardo attorno per qualche secondo, in cerca del posto più adatto, e alla fine trovo il mio rifugio sul muretto di cinta. La casa di Jared sorge su una collinetta dalla quale si gode di un ottimo panorama, e siccome questa sera la mia mente è più affollata che mai, fissare lo sguardo su qualcosa di potenzialmente rilassante, mi sembra una buona idea. Mi siedo a cavalcioni sul muretto e accendo la sigaretta, inspirando a fondo: lo scorso autunno ero quasi riuscito a smettere con questo brutto vizio, ma la separazione da Daria ha riportato in superficie molti dei miei lati oscuri, con sommo dispiace di quel salutista di mio fratello.
    Fisso lo sguardo sulle colline in lontananza, incredibilmente oscure se paragonate all'estrema luminosità della città, che anche in piena notte, come New York, sembra brulicare di vita. Osservo e fumo, portandomi la sigaretta alle labbra con gesto meccanico, esattamente come quando sto suonando e le bacchette sembrano trovare da sole il percorso giusto tra i diversi tamburi. Questa sera mi sono divertito, ho applaudito e gioito per la buona sorte di mio fratello, ma ora che è tutto finito mi sento ancora più vuoto di prima, come se il prezzo da pagare per poche ore di estrema felicità fosse il dover soffrire per il resto della vita. Questa sera ho avuto modo di osservare molte coppie felici, uomini e donne mossi da un puro e sincero amore nei confronti del partner, e questo mi ha fatto giungere alla conclusione che ciò che Christine ed io ci illudiamo di avere non è vero amore – non più. Per questo, poco dopo la fine della cerimonia, le ho inviato un sms per avvertirla che ho bisogno di parlare faccia a faccia con lei. E lei, lo so, non è una donna stupita, perciò deve aver capito che dietro quella richiesta di un appuntamento si cela un unico scopo: lasciarla. Ci ho provato, ho provato davvero con tutte le mie forze a tenere in piedi un rapporto stabile, ma sono abbastanza onesto con me stesso da ammettere che non ci posso riuscire, che stare con lei è una cosa che esula dalle mie possibilità, una missione impossibile che nemmeno in un milione di anni potrei portare a termine. Così desidero essere onesto anche con lei, e lasciarla libera prima che il veleno che mi scorre nelle vene finisca con l'infettare anche lei, portandola sull'orlo di un abisso cui non merita di arrivare. Schiaccio il mozzicone nel posacenere pulito, soffiando via l'ultima boccata di fumo, e resto immobile a guardare il panorama. L'aria della notte è frizzante, ma non mi dispiace: il freddo mi tiene sveglio, mi costringe a ricordare che sono ancora vivo e che faccio ancora parte di questo mondo, per quanto abbia smesso di sentirmi vivo nell'istante in cui ho visto Daria baciare un altro uomo – uno che, ne sono certo, non potrà mai amarla quanto l'ho amata io.
    Scuoto la testa, cercando di scacciare i cattivi pensieri, e nello stesso momento prendo un'altra sigaretta dal pacchetto. Mentre la accendo la mia mano trema, e lo so, non è per il freddo. Non è soltanto quello del fumo il brutto vizio che ho ripreso, e di questo mi vergogno immensamente. Nonostante avessi buttato via ogni forma di alcol per impedirmi di ricadere nel baratro, non sono riuscito a resistere, e alla mia prima visita al supermercato non sono riuscito a trattenermi dall'attraversare il reparto degli alcolici. Ho comprato una bottiglia di scotch, e quella è stata la mia fine: per qualche giorno l'ho ignorata, poi il bisogno di aprirla è stato più forte che mai. Soltanto un goccio, mi sono detto la prima volta, soltanto un sorso prima di andare a letto. Ma poi, come prevedevo, farmi un bicchiere prima di dormire è diventata un'abitudine, e prima che me ne rendessi conto la bottiglia era vuota. Bere è il solo modo che conosca per anestetizzare il dolore, per addormentare le voci che sento dentro la testa, quelle dannate voci che continuano a ripetere che non sarò felice mai più, ora che ho perso Daria. È da vigliacchi nascondersi dietro una bottiglia, ma la vigliaccheria è l'ultimo rifugio di un uomo disperato che sa di aver perso ogni cosa, e che non ha più mezzi per combattere.
    Abbasso la testa, cercando di convincermi che il pizzicorino che mi fa prudere gli occhi siano soltanto lacrime causate dal fumo: avevo promesso a Jared che non sarebbe accaduto di nuovo, che non mi sarei di nuovo perso, ma nonostante tutti i miei sforzi ci sono ricascato, e questo mi fa sentire più in colpa che mai. Lui è sempre stato buono con me, mi ha sempre offerto tutto l'aiuto possibile, e il solo modo in cui sono in grado di ripagare il suo immenso amore è questo: il tradimento.



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Torino, 4 marzo 2014


    «Ciao, Daria. Andato bene il finesettimana?»
    «Ciao, Marco. Beh, diciamo che non è successo molto» rispondo, sfilandomi il cappotto. «Senti, io avrei un favore da chiederti.»
    «Approfitti del mio buon umore per darmi qualche cattiva notizia, eh?»
    «Più o meno. Sai quelle due settimane di ferie che ti avevo chiesto per l'inizio di maggio? Sarebbe un problema anticiparle alla settimana prossima, o al massimo a quella successiva?»
    Marco strabuzza gli occhi, senza riuscire a credere alle proprie orecchie. «Beh, credo... ma sì, credo che si possa fare. Hai in mente qualche viaggio?»
    «Più o meno» rispondo. «Sempre che riesca a convincere Alice a venire con me, nonostante i mille impegni che ha per via della tesi.»
    «Sono sicuro che accetterà. Quando mai ti lascerebbe partire senza di lei? Dove hai in mente di andare, se posso farmi gli affari tuoi?»
    «Los Angeles. Ho sempre voluto visitarla e ho trovato una buona offerta per l'aereo e l'alloggio» mento, sapendo che Marco non è esattamente la persona più giusta cui rivelare lo scopo del mio viaggio. «Solo che per beneficiarne dovrei partire per forza entro due settimane, quindi...»
    «Non dire altro, hai le ferie. Me la caverò anche senza di te» sorride, tornando a trafficare con la casssa. È in questo momento che mi rendo conto di quanto tenga a me, e di come sia riuscito a perdonarmi anche se gli ho spezzato il cuore. Forse è proprio questo che intendeva mia madre ieri, dicendomi che non esiste un momento giusto per rimettere a posto le cose: deve succedere e basta, e il più presto possibile è l'unico momento davvero adatto per farlo.



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Los Angeles, 4 marzo 2014


    Sono al parco, lo stesso in cui ho incontrato di nuovo Christine dopo vent'anni di niente, e ce ne stiamo seduti insieme sull'erba baciata dal sole, mentre Bruce corre intorno a noi abbaiando al vento e rotolandosi come un cucciolo. «Il dobbiamo parlare del messaggio significa quello che penso, vero?» mi domanda lei, interrompendo finalmente il silenzio. Non ho il coraggio di guardarla negli occhi, perciò tengo la testa bassa e annuisco. «Non so perché, ma me lo sentivo che sarebbe arrivato questo momento. Era tutto troppo bello per essere vero.»
    «Mi dispiace.»
    «Non ti devi dispiacere. Preferisco che le cose vadano così, se devo essere sincera. Non avrei sopportato di trascinare avanti troppo a lungo una cosa che non funziona, e magari svegliarmi, una mattina, chiedendomi che fine abbia fatto il resto della mia vita.»
    «Suonerà incredibilmente retorico, ma non è colpa tua. Se ci fossimo incontrati soltanto quattro o cinque mesi prima, forse avrebbe funzionato. È solo che...»
    «Pensi ancora a quella ragazza, vero?»
    «Ogni giorno» ammetto. «Provo con tutte le mie forze a non farlo, ma sembra che sia più forte di me. Non riesco a togliermela dalla testa.»
    «Forse perché è lì che deve stare» suggerisce lei, ravviandosi i capelli con una mano. «Insomma, se dopo tutto questo tempo il suo pensiero condiziona ancora la tua vita, forse... beh, forse è perché non deve essere cancellato.»
    «Con lei è finita, Christine» affermo, quasi stanco di dover continuare a ripetere all'infinito lo stesso concetto – prima a Jared, poi a lei, e infine a me stesso, ancora e ancora. «Lei sta con un altro, non ci sono possibilità che possiamo tornare insieme.»
    «Come vuoi» replica lei. «Certo, se tutto ciò che fai è restare seduto ad aspettare il suo ritorno, di sicuro le cose non cambieranno» aggiunge, alzandosi.
    Stringo il pugno per impedirle di vedere il tremolio della mia mano, che costantemente mi ricorda la mia rapida discesa all'inferno. «Io ci ho provato, a cambiare le cose. Ci ho provato, ma non ha funzionato.»
    «Strano, lo Shannon che conoscevo non si sarebbe arreso così, senza lottare fino alla morte.»
    «Non sono più lo stesso di vent'anni fa, lo hai detto anche tu.»
    «Vero, l'ho detto. E mi dispiace tantissimo che sia così, perché lo Shannon che conoscevo era un uomo straordinario, uno che avrebbe fatto la fortuna di molte donne. È un peccato che tu non sia più quell'uomo, perché avresti potuto essere vergognosamente felice.» Sposta il peso da un piede all'altro, indecisa su che altro dire. «Io adesso devo andare, ho una riunione a cui non posso mancare. Vorrei dire che vederti è stato bello, ma direi una bugia. So che odi sentirti fare la paternale, ma tu non stai bene. Non sei in pace con te stesso, Shannon, e come posso vederlo io sono certa che lo veda anche il resto del mondo. Se hai bisogno di aiuto, io...»
    «Ti chiamerò» taglio corto, alzandomi per salutarla con un abbraccio fraterno. La guardo allontanarsi in silenzio, sapendo che questo segnerà davvero la mia fine. Finché avevo Christine, potevo illudermi di avere un motivo per non lasciarmi andare completamente, ma ora che anche con lei ho tagliato i ponti, non c'è più nulla in grado di trattenermi dal saltare.


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Torino, 4 marzo 2014


    Quando apre la porta e si trova di fronte il sorriso di Daria, Alice comprende immediatamente che qualcosa sta per cambiare, o che forse è già cambiato. Poi nota la grossa scatola di cioccolatini che l'amica regge in bilico sulle braccia, e le è chiaro che deve essere successo qualcosa di veramente importante. «Hai preso una botta in testa o sei stata rapita dagli alieni?»
    «Nulla di tutto questo» risponde l'altra con un sorriso. «Mi sono accorta di essere stata una stronza intrattabile in questo ultimo periodo, e questo mi sembrava l'unico modo per farmi perdonare.»
    Alice studia con aria sospettosa la confezione di dolciumi, poi si scosta per far passare l'amica. «Nascondi quel ben di Dio in camera mia, prima che lo trovino le mie coinquiline. Ti va una tisana? L'acqua sta bollendo proprio ora.»
    «Volentieri» risponde Daria, dirigendosi a passo sicuro verso la stanza dell'amica.
    Alice la raggiunge un paio di minuti più tardi, reggendo due grosse tazze fumanti. «Siediti dove trovi posto» dice, indicando il letto e le sedie colmi di appunti e vestiti. «Dovrei fare ordine, in effetti.»
    «Mi andrà bene il pavimento» replica l'altra, sedendo a gambe incrociate sul tappeto e accettando una delle tazze. «A dire il vero non sono qui soltanto per chiederti scusa, ma anche per chiederti un favore.»
    «Se è qualcosa che posso fare, ben volentieri» ribatte Alice, appoggiando la tazza poco lontano per iniziare a scartare la confezione. «Di che si tratta?»
    «Di un viaggio. Lo so, so che è il momento meno opportuno, che sei piena fin qui di impegni per via della tesi, che devi studiare e che è tutto organizzato all'ultimo minuto, cosa che entrambe detestiamo, ma... credimi, non c'è un'altra persona a cui vorrei chiederlo.»
    «Un viaggio? Dove?» Daria abbassa la testa, poi la rialza con un breve sorriso, e anche senza parole Alice capisce. «Dimmi che stai scherzando, per favore. Dimmi che è un pesce d'aprile in anticipo, ti prego. Non puoi aver davvero deciso di... santo cielo, vuoi andare da Shannon!» esclama, senza dare all'affermazione il tono di una domanda cui la risposta, lo sa, è affermativa.
    «Beh... ci voglio provare. Ci devo provare. Magari non otterrò nulla, magari scoprirò che mi ha dimenticata o che non gli importa o che non mi ha mai amata, però... io non ho smesso di amarlo, perciò devo sapere
    «Mi sembra ovvio che io verrò con te, a questo punto. Oh, devo avere il passaporto da qualche parte. Sarà scaduto, ma non ci vorrà un secolo per rinnovarlo. Tu invece come sei messa? Avrai un sacco di pratiche da sbrigare, e ci sarà da prenotare l'aereo, e...»
    «Il passaporto lo avrò entro la fine della settimana, e per tutto il resto... beh, ho Emanuele che è un genio dei computer. Mi darà una mano a fare qualche prenotazione, no?»
    Alice si porta entrambe le mani davanti alla bocca, così felice della proposta di Daria da dimenticare tutto il resto: gli esami, la tesi, la laurea... per accompagnare Daria a riprendersi Shannon sarebbe disposta persino a mollare tutto e finire a cuocere hamburger da MacDonald's. E poi, incredibilmente, il suo pensiero corre subito a Jared, che per forza di cose prima o poi dovrà vedere, se davvero riusciranno ad imbarcarsi su un aereo e volare fino a Los Angeles – e incredibilmente, l'idea di incontrare uno dei suoi cantanti preferiti non la spaventa, perché in fondo tutte le telefonate che si sono scambiate nelle ultime sei settimane lo hanno fatto scendere da quel piedistallo, trasformandolo in un amico – un amico famoso in tutto il mondo che non ha mai visto di persona, certo, ma pur sempre un amico. Tornata in sé, infila la mano sotto il letto e tira fuori la scatola con i ricordi di Shannon. «Non dimentichiamoci che hai il numero di Emma. Potresti sempre chiamarla e farti aiutare da lei per organizzare la cosa.»
    «Ammetto di averci pensato, ma non voglio» risponde Daria, sorseggiando la tisana bollente. «Chiedere aiuto ad Emma vorrebbe dire rischiare di far sapere tutto a Shannon, e voglio fargli una sorpresa. O forse non voglio rischiare che mi chiami per dirmi di non andare, nel caso non volesse vedermi. Insomma, se proprio devo essere rifiutata preferirei... preferirei che lo facesse di persona.»
    «Comprensibile» risponde Alice, appoggiando comunque la scatola davanti all'amica, sperando di vederla prendere in mano le memorie dell'autunno precedente e convincersi che, a prescindere da come andranno le cose, stia finalmente facendo la cosa giusta. «Santo cielo, sono così fiera di te» sospira, sedendosi di nuovo sul tappeto insieme a lei. «Hai già pensato a cosa gli dirai, a come... non lo so, a come affronterai l'argomento?»
    «Non ne ho idea, a dire il vero. Ma immagino che le parole verranno fuori da sole, quando sarà il momento.»
    Incurante dell'orologio, indifferente di fronte ai mucchi di carta e inchiostro accumulati sulla scrivania, Alice rimane seduta accanto alla propria migliore amica con un grande sorriso stampato sulle labbra, felice che le cose stiano tornando al loro posto, anche se dopo così tanto tempo. «Cosa dirai alla tua famiglia? Insomma, come glielo spieghi che vai in America?» le chiede dopo almeno un'ora di chiacchiere e risate.
    «Penso che dirò la verità, una volta tanto» replica Daria, alzando le spalle. «In fondo mio padre sa praticamente tutto di Shannon, e da ieri lo sa anche mia madre. Abbiamo fatto una chiacchierata» aggiunge.     «Tu mi avevi quasi convinta, ma avevo bisogno del parere di una persona adulta.»
    «Io non sarei una persona adulta, quindi?» ribatte l'altra, tirandole un cuscino in faccia.
    «Non quando prendi a cuscinate in faccia le persone, questo è poco ma sicuro.»



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Los Angeles, 5 marzo 2014


    «Come mai tanto silenzioso, oggi?» domanda Emma, stupendosi di essere riuscita ad attraversare la stanza senza essere scelta come bersaglio per una delle mille idee strampalate che affollano la mente di Jared. «Pensavo che non avresti fatto altro che parlare dell'altra sera, invece per tirarti fuori due parole ho praticamente dovuto usare le pinze.»
    Jared si passa una mano tra i capelli, abbassando gli spartiti sui quali sta cercando di lavorare da almeno mezz'ora. «Tu che ne pensi di Shannon?»
    Emma torna indietro di qualche passo, confusa da quell'improvvisa domanda. «Che penso di Shannon in che senso?»
    «Non ti sembra... cambiato
    «Ho capito. Parliamo di Shannon in quel senso» replica lei, attraversando il salotto per sedersi in poltrona, in modo da stare esattamente di fronte a Jared. «Per caso è capitato qualcosa?»
    «Me lo chiedo anch'io» sospira l'uomo, spostando i piedi dal tavolino al tappeto e alzandosi, lasciando cadere i fogli sul divano. «Apparentemente sembra che vada tutto bene. Ha ricominciato ad uscire con Christine, sembra tutto normale, eppure... non lo so, ho la sensazione che stia per esplodere una bomba, e che il mio sesto senso sia guasto. Io di solito lo so, so quando sta per accadere qualcosa, e invece stavolta... niente
    «Hai provato a parlare con lui?»
    «Negherebbe all'infinito di avere un problema, lo conosci.»
    «Ma se c'è qualcuno che ha qualche possibilità di strappargli fuori una parola, quello sei tu. O tua madre, in casi di emergenza.»
    «Lo so, ma non posso fare irruzione a casa sua e chiedergli se per caso abbia...» esclama il cantante, bloccandosi un istante prima di dire quelle parole che, lo sa, cambierebbero definitivamente le cose.
    «Se per caso abbia cosa
    Jared si passa entrambe le mani sul viso, indeciso se parlare o meno. La logica gli suggerisce di tenere per sé certi dubbi, ma l'esperienza gli dice che se al mondo c'è una sola persona riservata su cui fare affidamento, quella è Emma. «Ho paura che si rimetta a bere» confessa infine. «Per non parlare di tutto il resto. L'ultima volta che ha avuto una delusione simile è finito in un brutto giro, ed è mancato poco che ci restasse secco» aggiunge a bassa voce, ripensando a quella terribile e ormai lontana notte in cui lo ha visto sdraiato in un letto d'ospedale, più bianco delle lenzuola che lo avvolgevano, così pallido e inerte da fargli credere che la vita lo avesse già abbandonato. «Il motivo per cui ha abbandonato il tour quando eravamo in Brasile è che aveva paura di ricadere nei vecchi vizi. Per questo è tornato. Solo che non è riuscito a sfuggire al nemico, perché il nemico non è in Brasile, bensì...»
    «...dentro di lui» conclude Emma, abbassando lo sguardo. «Soffre ancora, vero? Per Daria, intendo. Pensa ancora a lei?»
    «Non ne parla, ma io credo... sì, credo che lei faccia ancora parte della sua vita, in qualche modo. Non credo che vederla baciare un altro uomo sia stato sufficiente a levargliela dal cuore. Lui la ama ancora, ed è questo che lo ferisce di più. Nemmeno vedere che lei è andata avanti con la sua vita riesce a placarlo.»
    «E tu hai paura che si rimetta a bere per cancellarla?»
    «Alla festa, l'altra sera, ho incontrato Lupita. Mi ha preso da parte e mi ha detto che qualche sera prima lo aveva visto uscire dal Blue Moon in condizioni che non le piacevano affatto. E Lupita, lo sai, non è una che racconta storie. Se mi dice che l'ha visto piuttosto giù di corda, io le credo.»
    «Intendi fare qualcosa per aiutarlo?»
    Jared ci riflette su per qualche istante, poi punta lo sguardo verso di lei, e in quegli enormi occhi da bambino Emma riesce finalmente a vedere un uomo preoccupato di perdere tutto ciò che gli è più caro. «Come si fa ad aiutare uno che non vuole essere aiutato?»



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Torino, 5 marzo 2014


    Quando annuncio di voler partire per gli Stati Uniti per inginocchiarmi davanti a Shannon implorando perdono per la mia condotta, a mio padre va di traverso un boccone. «Come sarebbe a dire che vai a Los Angeles?» domanda tra un colpo di tosse e un sorso d'acqua, battendosi sul petto per liberarsi la gola.
    «Sarebbe a dire che intendo salire su un aereo e volare dall'altra parte dell'oceano» replico, incrociando lo sguardo sognante di Francesca, che probabilmente pensa sia la cosa più romantica del mondo.
    «Di certo non immaginavo ci saresti andata a nuoto» risponde lui, piccato. «Quello che non riesco a capire è perché tu voglia fare una cosa del genere. Non sarebbe più pratico... che ne so, fare una telefonata?»
    «Sicuramente sarebbe più pratico, ma sarebbe anche incredibilmente impersonale» ribatto, smettendo per un istante di mangiare. «Papà, capisco che tu sia spaventato all'idea che tua figlia vada all'altro capo del mondo senza di te, ma è necessario che lo faccio. Se voglio far capire a Shannon che sono davvero dispiaciuta per come mi sono comportata, è necessario che vada a chiedergli scusa di persona. Al telefono sono tutti bravi a chiedere scusa.»
    Lo vedo appoggiare le posate e passarsi una mano sul viso non rasato con aria pensierosa, come se sapesse che ho ragione e stesse a tutti i costi cercando un argomento valido con il quale smontare la mia tesi. «Almeno dimmi che non ci vai da sola» sospira infine, tornando a guardarmi.
    «Certo che non ci vado sola. Alice verrà con me» rispondo con un sorriso, cacciandomi in bocca un grosso pezzo di bistecca.
    «Santo cielo...» lo sento sussurrare mentre nasconde il viso dietro entrambe le mani. «Si faranno rapire, poco ma sicuro» aggiunge, scatenando in tutti un accesso di risatine isteriche.
    «Allora dopo ti aiuto a fare le prenotazioni online» commenta Emanuele, sezionando la carne come un chirurgo all'opera. Gli sorrido, annuendo, sapendo che dopo avermi aiutata nulla potrà salvarlo dal fare una chiacchierata con me circa il suo rapporto con Luca.


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Los Angeles, 5 marzo 2014


    Oggi sono così giù di morale da non aver voglia nemmeno di fingere di stare bene, tanto più che non c'è nessuno da ingannare, a parte un cane che sonnecchia ai piedi del mio letto e l'ombra che vedo riflessa nello specchio. Sono le quattro del pomeriggio  e me ne sto seduto a terra nello studio, la schiena appoggiata alle parete e le gambe allungate di fronte a me, ormai indolenzite a causa della prolungata immobilità. Accanto a me un pacchetto di sigarette, un posacenere colo per metà di mozziconi e una bottiglia che va svuotandosi un sorso alla volta. La mia mano ha smesso di tremare, placata dallo scotch, ma in compenso ora è il mio cuore quello incerto, quello che salta da un sentimento all'altro senza darmi tregua. E se avessi sbagliato tutto, quella sera, voltandomi e andando via? Cosa sarebbe successo se avessi aspettato ancora un po', soltanto qualche minuto? Cosa sarebbe potuto accadere se avessi avuto il coraggio di suonare quel campanello e aspettare? Mentre me ne sto seduto nella penombra ad aspettare che l'ennesima sigaretta si consumi, mi chiedo se quella sera non abbia frainteso tutto, se quell'uomo non fosse soltanto un tentativo, per Daria – un tentativo di andare avanti con la propria vita, un tentativo per convincersi di aver fatto la cosa giusta e di avermi dimenticato. In fondo io non ho provato a fare lo stesso con Christine? Bevo ancora, aspettando il momento in cui il mio cervello smetterà di indugiare nei dubbi, trascinandomi in quell'oblio che, ora come ora, mi pare la prospettiva più rosea cui aspirare.
    E poi, chissà come, mi ritrovo in mano il cellulare. Scorro la rubrica, ed eccolo ancora lì: Daria. Lo leggo chiaramente, chiaro come il giorno in cui l'ho salvato tra i miei contatti. Prima di lasciar scemare il coraggio, o forse solo prima di sentirmi troppo stupido per farlo, sfioro l'icona verde, facendo partire la chiamata. Uno squillo, due squilli, tre squilli... «Pronto?» La sua voce arriva forte e chiara al mio orecchio, quasi fosse seduta accanto a lei, ed è ancora identica al ricordo che avevo: il tono basso ed elegante, quella nota d'insicurezza di cui tutta la sua persona è impregnata, quella bizzarra pronuncia della lettera erre... c'è tutto di lei in quella semplice parola, ma stavolta è tutto troppo, per me, che non riesco a far altro che premere una mano sulle labbra per impedirle di sentire il singhiozzo cui mi sono abbandonato. «Pronto?» ripete, e i miei occhi si fanno lucidi. Sto per trovare il coraggio di parlare, quando in sottofondo sento chiaramente la voce di un uomo – e a questo la magia si spezza, l'emozione scompare. Senza nemmeno capire che cosa quell'uomo abbia detto, premo il tasto rosso, ripiombando nella mia solitudine.


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Torino, 5 marzo 2014


    «Daria, tesoro, puoi venire un attimo qui?»
    Mi allontano il cellulare dall'orecchio, studiando il numero del mittente – è un numero che non ho salvato in rubrica e che non riconosco, ma ho deciso di arrischiarmi a rispondere comunque, nel caso si trattasse di qualcosa di importante – e invece niente, soltanto silenzio. «Arrivo!» rispondo a mio padre, rimettendo il telefono in tasca.
    «Chi era?» domanda Emanuele, senza staccare gli occhi dalla schermata sulla quale sta inserendo i miei dati.
    «Non lo so, forse qualcuno che ha sbagliato numero. Ha riattaccato senza dire niente.»
    «Fa' attenzione quando ti chiamano numeri che non conosci» mi ammonisce, guardandomi per un istante. «Ci sono un sacco di truffatori che spillano soldi alla gente in questo modo. Se vuoi ti scarico un software per filtrare le chiamate.»
    «Grazie, Q, ci penserò» replico, sapendo quanto detesti essere paragonato al marchingegnere dei film di James Bond. «Vado a vedere che vuole papà, torno subito.»
    Tornata in corridoio, vedo che mio padre mi fa segno di andare in camera sua, guardandosi attorno come un ricettatore di strada in procinto di piazzare un pezzo che scotta. Appena varco la soglia mi mette in mano cinque banconote da cento euro. «Tieni questi. Come fondo per le emergenze.»
    «Papà, ti sei dimenticato che ho un lavoro? Non mi serve che...»
    «Portali con te per il viaggio. Un po' di soldi extra non fanno mai male.»
    «Ma papà, sono troppi, non posso...»
    «Mi hanno pagato un sacco di lavori, ultimamente. Tranquilla, non stai togliendo il pane di bocca né a me né ai tuoi fratelli. E anche se ci trovassimo a fare la fame, ci basterebbe attraversare il pianerottolo» mi interrompe, strizzandomi l'occhio. «E se non ti servono per il viaggio, potresti sempre comprarci qualche bel regalo per il tuo vecchio o per i tuoi fratelli, no?»
    Abbasso la testa sul denaro, che piego e ripongo in tasca. Poi, senza aspettare inviti, abbraccio mio padre con tutta la forza che ho in corpo. «Sei il papà migliore del mondo.»
    Ricambia la stretta, accarezzandomi la schiena e baciandomi i capelli, esattamente come faceva quando ero bambina. Forse, in effetti, sono ancora una bambina sotto molti punti di vista. «Questo è il minimo che possa fare, tesoro. Non importa quanti anni tu abbia, o quanto lontano tu viva. Io resto sempre tuo padre, e sai che attraverserei l'inferno per te.»
    Mi stacco da lui, cercando di non piangere. «Papà, se riuscirò a...»
    «Se è l'uomo che ami, lo accetterò senza riserve» mi interrompe, accarezzandomi il viso. «Certo, ci servirà sempre un interprete, e forse quando avrò imparato ad accettare il fatto di avere un genero che potrebbe essere mio fratello saremo entrambi vecchi» aggiunge con un sorriso, «ma se è lui l'uomo che ami, l'unico in grado di renderti felice, allora ti dico solo: vai. Vai a riprendertelo.»


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Los Angeles, 5 marzo 2014


    Mi stacco la bottiglia dalle labbra, mandando giù il sorso che ho bevuto come se stessi assumendo la dose di veleno che mi spedirà finalmente al creatore. La bottiglia è ancora piena per metà, eppure decido di alzarmi e lasciare la stanza, portando con me soltanto le sigarette. Accendo la prima mentre mi sto infilando il cappotto, le chiavi dell'auto al sicuro in tasca, certo che in questo momento il mio nemico più grande non sia la bottiglia, ma la solitudine.



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Torino, 5 marzo 2014


    «Grazie di tutto, Ema» sorrido, prendendo i fogli appena sputati fuori dalla stampante. «Sapevo che avere un informatico in casa doveva avere una qualche utilità» aggiungo, passandogli una mano tra i capelli spettinati.
    «Scema» risponde, cercando di sottrarsi alla mia carezza. «Ora evapora, dai, che devo studiare» aggiunge, con un tono falsamente autoritario che tradisce il suo divertimento.
    «In realtà speravo che avessi qualche minuto per parlare con me» replico, facendomi seria.
    «Posso indovinare l'argomento?»
    «Mi stupirei se non lo facessi.» Mi appoggio di schiena alla scrivania, incrociando le braccia al petto, mentre lui giocherella con una matita. «Non devi pensare di essere il solo a non sapere che pesci prendere, sai? Anch'io all'inizio ero confusa, non ero sicura di che cosa volessi, però poi...»
    «Daria, io non sono come te» taglia corto lui, interrompendomi. «E non sono nemmeno come Francesca. Io non ci riesco, non riesco ad affezionarmi alle persone come fate voi. Io non... io non sono bravo con le persone, lo sai. Io capisco soltanto i computer, perché sono facili da capire, dicono solo sì e no.»
    «Nemmeno io sono un granché con le persone, lo sai» rispondo, cercando di rassicurarlo. «Credo di sapere che cosa ti spaventa. Tu hai paura di dover parlare con la mamma. È lei il problema, vero?» Improvvisamente si alza, fingendo di cercare un manuale sullo scaffale per potermi dare le spalle. «Ti capisco, sai? Nemmeno io ero entusiasta all'idea di avere di nuovo a che fare con lei, dopo tutto quello che ho passato a causa sua... però Luca è tutto un altro paio di maniche. Non è per causa sua se lei ha lasciato papà. Lui è stato soltanto una conseguenza. Se pensi che ignorare lui sia il modo migliore per punire lei, non...»
    «Io non intendo punire nessuno» mi blocca, voltandosi verso di me.
    «Ma è così che si sente lui. Si sente punito, triste, ferito... esattamente come ti senti tu, credo.» Vinco l'istinto di avvicinarmi, sapendo quanto detesti gesti di consolazionie universalmente amati come le carezze e gli abbracci. «So quello che hai passato, so come ci si sente a crescere senza un genitore. Ci si sente da schifo. Ma volendo trovare un lato positivo, tu ed io avevamo papà, la nonna, gli zii, e soprattutto avevamo l'un l'altra. Alla sua età, tu avevi molto più di quanto abbia lui adesso. Lui ha perso suo padre, lo ha perso per sempre, e tutto ciò che gli resta è una madre che gli ha tenuto nascosta la verità, una madre di cui forse non tornerà a fidarsi mai più.» Faccio una pausa, forse sperando che torni a guardarmi e dica qualcosa – speranza vana, perché tutto ciò che continuo a vedere sono le sue spalle. «Tu, io e Francesca siamo tutto ciò su cui possa contare quel bambino. Non ti posso obbligare a vederlo, o parlargli, questo no. Sei adulto, ed è giusto che tu prenda da te le tue decisioni. Solo, tutte le volte che inizi a pensare a quanto sia vuota la tua vita, pensa anche a quanto sia vuota la sua.» Prendo le mie cose ed esco dalla stanza, chiudendomi la porta alle spalle. Forse sono stata troppo brutale, troppo cattiva, ma era il momento di mettere alcune cose in chiaro – e se Emanuele non è in grado di farlo da sé, chi meglio di una sorella?
    Mentre cammino verso casa, stringendomi nel cappotto per sentire meno il freddo, improvvisamente Emanuele e Luca scivolano via dalla mia testa, lasciando la mente libera di concentrarmi sui fogli rinchiusi al sicuro nella mia borsa. Mercoledì sta volgendo al termine, e martedì dista solo cinque notti. Tra una settimana al massimo, con un po' di fortuna, riavrò la vita che voglio.



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Los Angeles, 6 marzo 2014


    Esco dal pub alle tre del mattino, dopo esserci rimasto per quattro buone ore. Ho bevuto molto, sicuramente più del consentito, ma mi sento ancora abbastanza lucido – forse troppo, giacché mi ero ripromesso di fare tutto il necessario per cadere nel totale oblio. Senza pensare alle conseguenze delle mie azioni mi metto al volante, ancora indeciso se tornare subito a casa o vagare senza meta per le strade della città degli angeli, quel magico paradiso che ha concesso a tutti i miei sogni di diventare realtà, ma che ora non riesce più a darmi ciò di cui ho bisogno. Guido e basta, senza badare né alla destinazione né alla strada, affidandomi semplicemente al mio istinto.
    Ma il mio istinto dimostra di essere annebbiato quanto i miei riflessi quando per poco non investo un ragazzo che stava attraversando la strada. Lo scampato incidente mi spinge a premere di più sull'acceleratore, più che mai deciso a lasciarmi alle spalle il malcapitato e i suoi insulti, che ancora una volta mi ricordano che sono ancora presente su questa terra, ancora vivo. Ma la mia fuga non ha vita lunga: pochi metri più avanti una volante della polizia mi affianca, abbagliandomi con la luce rossa dei suoi lampeggianti. Non ho scelta, se non quella di accostare. Tengo le mani sul volante, appoggio la testa al sedile e rimango in silenzio ad ascoltare il rumore sordo del motore in folle. Potrei quasi chiudere gli occhi e addormentarmi, se il poliziotto non bussasse al finestrino con le nocche, facendomi segno di abbassarlo. «Favorisca patente e libretto» mi ammonisce. Frugo stancamente nel vano portaoggetti e nel portafogli, poi gli porgo i documenti. L'agente li studia alla luce della torcia, poi punta la luce verso il mio volto. «Sa a che velocità stava andando?» Di nuovo non dico nulla, sapendomi condannato non appena sentirà l'odore di alcol che impregna l'abitacolo. «Ha bevuto?» domanda, studiandomi con attenzione. «Le dispiace scendere?» Obbedisco, sottoponendomi a tutti i suoi stupidi controlli senza lasciarmi sfuggire una parola. Nemmeno quando fa scattare le manette ai miei polsi e mi fa salire sul sedile posteriore della volante riesco a ribellarmi.
    Ormai non mi importa più di nulla. Sono un uomo a pezzi, e nulla potrà mai rimettermi insieme.



1Eravamo una famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno contro l'altro, ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto a perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare via, disperdersi, distruggersi? Cosa ci impedisce di uscire, toccare la gloria? | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata dal soldato Robert Witt (interpretato da Jim Caviezel) nel film La sottile linea rossa (1998), del regista statunitense Terrence Malick.

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