Drink You Pretty

di sleepingwithghosts
(/viewuser.php?uid=163505)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


DRINK YOU PRETTY

Capitolo 1

 

 

 

Entrò nell’aula, in cui regnava il caos generale, e si sedette in quarta fila, secondo banco da sinistra, il suo solito posto. Dopo aver appoggiato lo zaino pressoché vuoto a terra, stese le gambe sotto il banco e incrociò le braccia al petto, in attesa.

La professoressa entrò in classe, guardando immediatamente nella sua direzione. Si dovette trattenere dal sorridere. Allora, dopotutto, la sua presenza non era indifferente per tutti. «Quale onore, signor Leto». Jared accennò un inchino con il capo, scatenando dei risolini nei compagni. La donna lo fissò per alcuni secondi con un sorriso che sembrava finto da quanto era tirato sulle labbra, e poi prese a sfogliare il libro aperto sulla cattedra. «Visto che abbiamo il grande onore di averla qui con noi, e devo dire che ne sono davvero sorpresa, ormai avevo smesso di credere nel miracoli da molto tempo (risate generali) mi chiedevo, se per caso, potesse parlarci dell’autore che andava studiato per oggi». Jared non rispose, sfidandola con lo sguardo. «Sembra  che lei non sappia nemmeno chi sia, signor Leto, o mi sbaglio?». Domanda retorica: ovvio che non lo sapeva. Non era stato presente alle ultime… quattro, cinque lezioni? Non lo ricordava nemmeno. Flash di bottiglie di alcool sparse per la camera da letto sua e di suo fratello gli permearono la mente. E anche qualche paio di gambe nude.

Sentì una fitta allo stomaco, come se qualcuno gli avesse dato una gomitata, e un respiro veloce sempre più vicino all’orecchio. Qualcuno gli aveva davvero dato una gomitata. Era una ragazza, che non aveva visto entrare né tantomeno sederglisi accanto. Solitamente nessuno occupava mai il posto vicino al suo, quando si presentava a scuola, era una regola non detta ma che tutti rispettavano perché la gente rispettava lui, come se fosse pericoloso. La ragazza lanciò uno sguardo alla professoressa e, tutto d’un fiato, soffiò «Egon Shiele», tanto che il suo respiro gli sembrò condensarsi sul lobo, per quanto era caldo e vicino.

Un sospiro uscì dalle labbra della professoressa. «Bene, credo che a questo punto l’unica cosa da fare si mandarla in presidenza e…».

«Era infelice», la interruppe Jared.

«Come, prego?»

«Ho detto che era infelice. La malinconia gli è rimasta attaccata addosso per tutta la vita».

«Perché dice ciò?», chiese la donna,  interrompendo i mormorii che continuavano a percorrere l’aula, e fissando lo sguardo su quello del ragazzo, incredula.

«La morte del padre quando era molto giovane, i cattivi rapporti con la madre, i conflitti interiori che lo condannarono per tutta la sua breve vita».

«Breve?»

«Morì a 28 anni».

«Sembra sapere molte cose. Ci parli della sua vita, della sua prima esposizione, delle amicizie…»

«È veramente importante?», domandò Jared, nella voce un tono diverso da quello che di solito utilizzava: piatto, indifferente. La ragazza che gli era seduta al fianco, e a cui lui non degnava nemmeno di uno sguardo, credette di sentire della rabbia, frustrazione forse, ma sicuramente vi sentì dell’irritazione. «Voglio dire, la sua vita, le date dei suoi dipinti, il numero di volte in cui ha incontrato Klimt al Cafè Museum di Vienna, chi finanziò le sue opere, tutte queste cose, sono davvero importanti in confronto a quello che voleva dirci con la sua pittura, rispetto a cosa ci urlavano quei tratti neri che delineavano i corpi? E quei colori così spenti, stanchi? Non sembra quasi che ci abbia voluto affidare il suo dolore così che potesse essere capito, perché magari nessuno lo ascoltava, perché magari mai nessuno lo aveva ascoltato? Perché, magari, si sentiva solo, e l’unica cosa che sapeva fare era dipingere la sua agonia, le sue mancanze, i motivi che lo rendevano triste, perso, affranto?», terminò la sua risposta con il fiato corto, il busto teso in avanti, come se fosse pronto a lanciarsi, alzarsi dalla sedia e correre fuori da quel posto, come un leone in gabbia che quelle sbarre che lo rinchiudono non le vuole più vedere, le dita puntate contro di lui nemmeno, come se tutti lo stessero giudicando, come se il vociare dei bambini che sentiva intorno avesse più influenza su di lui rispetto a quello che dava a vedere, perché non lo capiva, o lo faceva fin troppo bene.

«È una buona interpretazione la sua, signor Leto», disse la giovane donna, mordendosi la lingua.

«La ringrazio, signorina Logan», rispose lui, sbeffeggiandola apertamente.

«Qual è la sua opera preferita?»

Jared giocherellò per alcuni secondi con la penna, rimanendo in silenzio, guardandola. «Kauerndes Maedchen», disse infine.

«È sicuro che sia una sua opera e non se la sia inventata al momento?»

«Qual è la sua? Mi sembra una di quelle persone a cui piace molto l’Abbraccio».

«Mi sta forse dicendo che sono una persona banale, dato che quella è la sua opera più conosciuta?»

«Io non sto dicendo nulla, ho solo fatto una domanda, come lei ne ha fatte molte a me».

La donna si schiarì la voce, spostando lo sguardo sul libro. «Io sono la sua professoressa, posso farle quante domande voglio e quando ne ho voglia, mi ha capito?»

«Certamente, le chiedo scusa», disse lui. La ragazza affianco a lui si sentì mancare un battito: se avesse chiesto a lei scusa con quel tono di voce, probabilmente ci avrebbe litigato costantemente, solo per sentirsi implorale in quel modo. In più, quella che aveva iniziato con l’essere una semplice interrogazione, ora sembrava una scena televisiva della migliore telenovela brasiliana, e lei non aveva intenzione di perdersene nemmeno un secondo. Forse, dopotutto, non era poi stato così male cambiare stato.

«Si alzi e venga alla lavagna». Jared raggiunse la cattedra della professoressa e, affiancandosi alla lavagna, le sfiorò la coscia con una mano. «Disegnami questo dipinto dal nome impronunciabile, mentre io vado avanti con la lezione». Gli passò un gessetto, che Jared si curò di prelevare sfiorando le sue dita in un gesto lento. Le voltò le spalle, e rimase ad occhi chiusi davanti alla superficie nera per alcuni secondi, respirando piano. Sentiva venti e più paia di occhi puntanti sulla sua schiena, anche mentre la professoressa aveva ricominciato a parlare, elencando le date più importanti della vita dell’autore, quelle che lui non aveva detto. Finito il disegno, appoggiò il gesso ormai consumato sulla cattedra e si avviò verso il suo posto, sedendosi poi con la solita posizione arrogante.

«Continuo a non conoscerlo», affermò la donna anche dopo averlo osservato a lungo.

Jared si alzò, raccolse lo zaino da terra, e con lentezza camminò verso la cattedra, guardò il suo disegno (e pensò che era venuto decisamente bene, anche se il piede della ragazza aveva qualcosa di sbagliato, e anche la pancia, quel ciuffo di capelli andava più folto… ma infondo lui non era Egon Shiele, si disse), incrociò lo sguardo della professoressa e uscì dall’aula, sentendosi alle spalle l’eco della voce della donna che lo chiamava. «Leto? Signor Leto? Jared! Oh per l’amore del cielo, torna indietro!». Sorrise e allungò il passo verso la biblioteca della scuola, fortunatamente poco distante dall’aula in cui si trovavano, prese un libro, lo sfogliò trovando esattamente quello che cercava, e ritornò in classe a grandi falcate, depositandolo sulla cattedra, sotto lo sguardo incredulo dei compagni.

«Come le dicevo, signorina Logan, il mio dipinto preferito di Shiele è Kauerndes Maedchen». Era a pochi centimetri da lei, sentiva la camicia sfiorarle la maglia leggera. Le si avvicinò ancora. «Non crede che le somigli, professoressa?».

Suonò la campanella.

Jared se ne andò, un sorriso sulle labbra, lasciando la giovane donna (i capelli rossi, la pelle diafana, il naso piccolo, la vita sottile, le gambe fine e lunghe, proprio come la ragazza del dipinto) con le gote rosse di imbarazzo e un’eccitazione nella pancia che raramente aveva provato nei suoi ventisei anni.

Chi l’aveva detto che non si poteva scegliere il proprio dipinto preferito in base a quale sarebbe stato più conveniente scegliere, in una determinata situazione?

 

 

«Chi sei tu per provocarmi in quel modo davanti ai miei studenti?», chiese lei, la voce alterata, dopo averlo preso per la camicia e averlo fatto entrare dentro un’aula vuota, alla fine delle lezioni.

Jared sorrise. «Un tuo studente». Allungò una mano e le carezzò la guancia con il dorso liscio, e lei chiuse istintivamente gli occhi. Sembrava che tutto il desiderio che una donna potesse provare si fosse trasformato in un grumo nella pancia, e ogni volta che il respiro di lui le colpiva il volto, o una parte del suo corpo toccasse accidentalmente quello di lui, il grumo di contraesse, come in estasi, come a voler disfarsi ed esplodere.

«Smettila».

Lui le si avvicinò, sfiorandole con le labbra la fronte, le palpebre chiuse, il naso piccolo (il respiro di lei comincia ad accelerare), il mento, l’incavo del collo, e poi prese soffiare sui suoi capelli sciolti sulle spalle, le cui punte terminavano in dei piccoli boccoli, per poi risalire e fermarsi a pochi millimetri dalla sua bocca. «Sai che non vuoi».

Lei sospirò, e quello che uscì assomigliava tanto ad un lamento. «Mi farai licenziare».

«Sono così stronzo con tutti i professori, i miei compagni non avranno notato la differenza tra il battibecco di oggi e quello di ieri con Mr. Stone». Lui le leccò il lobo dell’orecchio, come per confermare che lui era stronzo.

«Non qui», ansimò la donna.

«Oh, Emily, perché no?», soffiò Jared, mentre con una mano risaliva la coscia alzandole la gonna e con l’altra la premeva contro di sé. «Io non vedo nessuno oltre te, in questa stanza».

Emily lo fissò per qualche secondo e poi, all’improvviso, fece impattare le labbra con quelle di Jared, mordendogli il labbro inferiore appena ne ebbe l’occasione. «Non trattarmi mai più così in classe, hai capito?»

«Non mi sembra ti sia dispiaciuto poi così tanto», ridacchiò roco lui, togliendole la maglietta sfiorandole le braccia con le dita callose, lentamente.

«Volevo…».

«Cosa volevi, Emily?», la sua voce carezzò volutamente il suo nome, serrando le mani sui suoi glutei e facendola sussultare.

«Volevo sbatterti sulla cattedra», sospirò lei, per la confessione e per le carezze insistenti del ragazzo.

«Davanti a tutti?», domandò Jared. Lei annuì. «Mi dispiace deluderla, professoressa, ma sarò io che sbatterò lei sulla cattedra», disse con un sorriso.

«Aspetta», ansimò lei, mentre la bocca di Jared le esplorava il seno, «il disegno che hai fatto alla lavagna era molto bello». Lui non rispose nemmeno, infilando la lingua nell’ombelico di Emily. «Sono seria, guardami», gli alzò il mento con una mano, «perché ti impegni così poco, se poi sai fare cose come quel disegno?»

Jared fece spallucce, staccandosi da lei. «Perché mi annoio».

«A quanto pare la noia ti fa fare cazzate».

«Che cosa ne sai tu della mia vita? Niente. Non sai un cazzo».

Lei gli posò una mano sulla nuca, carezzandogli i capelli. «Sono preoccupata per te, per come ti pentirai di quello che stai facendo quando avrai la mia età».

«E cosa starei facendo di preciso?»

«A parte scoparti la tua insegnante di storia dell’arte? Non lo so, cosa stai facendo Jared? Io non so niente, lo hai appena detto. Ma tu sei infelice».

Jared scoppiò in una risata amara. «Come Schiele?»

«Non so che tipo di tristezza sia la tua, so solo che ti spingi sempre al limite, come se la banalità, i semplici gesti, la vita che normalmente si ha quando si hanno vent’anni, non ti bastasse. Non lo so che cosa sia capitato a te, tu non parli mai, so solo che potresti fare grandi cose».

«Non tutti sono nati Gustav Klimt».

«Tu potresti essere migliore di lui, se lo volessi. È solo che non vuoi, e non ti fai aiutare». Emily si sistemò i vestiti, lisciandoseli addosso con i palmi delle mani, poi lo guardò e gli sorrise. «Ricordati sempre che tu sarai l’unico Jared Leto che ci sarà fino a quando la Terra non verrà distrutta da qualche strano evento astronomico. E che, per quanto possa valere, io credo in te. Sii te stesso, sii quel Jared che ho visto oggi davanti alla lavagna con gli occhi chiusi: sicuro di sé, determinato ad aver ragione, i piedi ben piantati a terra, ma la mente che vagava, a cercare dettagli che Schiele non aveva visto in quella ragazza con i capelli rossi, ma che tu avevi scorto, sapevi che c’erano, anche se quella modella non l’avevi mai conosciuta». Gli si avvicinò e, con la bocca accostata al suo orecchio, disse «Sii coraggioso». Dopo avergli stampato un bacio sulla guancia, lo guardò per un ultima volta ed uscì dalla stanza, un sorriso sulle labbra mentre gli diceva «Ci vediamo a lezione, Signor Leto. E la prossima volta cerchi di disegnare le mie tette esattamente come sono, le sarei molto grata».

Sei anni dopo:

 

«C’è sempre una ragazza con i capelli rossi, nei tuoi dipinti. In quei pochi che mi hai fatto vedere, almeno», disse lui con un tono scherzoso, le dita che sfioravano una tela resa spessa dalla tempera.«Il tuo primo amore?»

«Qualcosa del genere».

«E io, io cosa sono?»

«Se andiamo avanti di questo passo», disse Jared buttando giù l’ennesimo bicchierino di vodka e sentendosi la gola in fiamme per qualche secondo, «sarai l’ultimo».

«Che cos’è, una dichiarazione?», rise lui. La sua risata era la cosa più orribile e tenera che avessero mai udito le sue orecchie. Assomigliava al rumore di un motore ingolfato in una fredda mattina d’inverno.

«È più una condanna. Tu, lo sei, apparentemente».

Di nuovo quella risata mentre gli assestava un colpo sulla spalla. «Devo andare, amico, ci si vede in giro».

Jared fece un cenno con il capo.

Che cosa stava facendo? Sii te stesso, sii coraggioso. A quanto pare la sua coscienza era una bastarda di quelle della peggior specie, perché ci teneva a ricordarglielo in ogni secondo che lui, l’unico Jared Leto sulla Terra, colui che al college si scopava sui banchi di scuola la propria professoressa, colui che aveva sedotto perfino la sua migliore amica, per poi ritrovarsi dieci ore dopo essersi addormentato come un cagnolino nel suo letto, con il mal di testa post sbornia più epico della storia, un post-it attaccato in fronte con su scritto “Prima regola per rimorchiare una ragazza: non vomitarle sui piedi quando stai cercando di baciarla”; lui, latin lover incallito, amante indiscusso delle tette, si era preso una colossale, gigantesca, mastodontica cotta per quello stramaledetto ragazzo finlandese, che con la sua voce roca l’aveva fatto eccitare più di mille paia di tette messe insieme. Beh, non esageriamo, non così tanto, però quasi.

«Hei, fatina, stai pensando troppo, le rughe non ti donano», disse la sua coinquilina, non che migliore amica, non che prima causa del disboscamento della foresta Amazzonica a causa del suo compulsivo uso di post-it, di cui le pareti di casa loro – e più spesso di quanto non volesse ammettere, anche la sua fronte – erano tappezzate, irrompendo nella stanza a piedi nudi, con addosso una sua vecchia maglia bianca che un giorno aveva deciso di adibire ad uso di pigiama, rubandogliela spudoratamente dal cassetto dell’armadio, e la mascella slogata dai troppi sbadigli. Ebbe un flash della prima volta che la vide: gli aveva dato un gomitata e gli aveva suggerito l’argomento della lezione all’orecchio.

«Credo di essere sbronzo».

«Sono le dieci di mattina, non ti sembra un po’ presto?»

«Se n’è appena andato», sospirò, facendo gli occhi dolci alla bottiglia di vodka. Bicchierino più, bicchierino meno. Allungò la mano per versarsene ancora, quando qualcosa lo colpì alla testa.

«Non sei un soldato dell’Armata Rossa, Cristo Santo. In più l’alcool non lo reggi, e la voglia di tenerti la tua bellissima testolina mentre consumi un tête-à-tête con la tazza del water di primo mattino non ce l’ho, quindi datti una calmata».

Jared si accasciò impotente e si accasciò sul divano, un broncio in faccia. «Mi ha detto “olet kaunis”»

«Che cosa vuol dire?»

«Non lo so, ma suona benissimo».

Lei alzò gli occhi al cielo. «Jared?»

«Sì, Linda?»

«Ti piacciono ancora le tette, giusto?». Lui mugolò in modo affermativo. «E allora devi spiegarmi perché questo finlandese tenebroso ti sta facendo perdere la testa che neanche Mr. Darcy con Elizabeth».

«Cosa?»

«Citazione letteraria». Jared non rispose. «Mi hai fatto un monologo sul suo culo qualche sera fa, ma probabilmente non te lo ricordi perché, quale novità, eri sbronzo», sbottò Linda.

«Biadesivo», biascicò Jared.

«Cosa hai borbottato?»

«Biadesivo. Sono come il biadesivo».

Linda tossì e si fece seria. «Quindi fammi capire bene: in una scala dalle tette della qui presente Linda Sloane, alle tette di Emily Logan, quanto cotto sei per questo sconosciuto finnico secco come un merluzzo sottovuoto ma dotato di un culo particolarmente interessante e, sto per citare le tue esatte parole, con capelli così scuri che ricordano i cavalieri notturni di quei tuoi libri pallosi scritti durante il romanticismo, meglio noto come Ville Valo?»

«Tette di Emily Logan quando indossava quella camicetta trasparente verde acqua, te la ricordi?»

«Me la ricordo». Linda gli posò la testa sulla spalla. «Sei fottuto, amico mio».

 

 

 

 

 

 

Bidibibodibibuh

Boh, non so. Che cos’è questa cosa, vi chiederete? Non lo so, boh.

Primissima cosa che scrivo su Ville, il mio recente ma fulminante innamoramento per quel finnico pelle e ossa è, come ho già detto, stato fulminante, tanto che passo le notti a guardarmi concerti e interviste ridacchiando tra me e me come se fossi una pazza.

Jared Leto invece me lo sogno di notte e di giorno neanche fosse veramente il mio ragazzo, e non solo nella mia fervida immaginazione. E lo fai gay, vi chiederete voi? Apprezza ancora le tette, è un particolare molto importante e da tenere a mente. Donne, c’è ancora speranza per noi.

No, ma immaginateveli quei due insieme, dovete farlo perché sì.

Ora me ne vado, ma vi prego, non prendete questa cosa troppo sul serio, non voglio correre il rischio di ricevere pomodori o palline da tennis in faccia.

Deb.

 

Ps: non so il finlandese, ovviamente, ma a quanto pare olet kaunis significa sei bello, secondo accurate ricerche, ovvero secondo google traduttore.

Pps: il titolo della storia è il titolo di una canzone dei Placebo. Tendo a dare a tutte le mie storie il titolo di una canzone dei Placebo. Boh.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo due ***


DRINK YOU PRETTY

Capitolo 2

 

 

1991

 

Ville si nascose fra le gambe del padre, sotto il bancone del negozio, i crampi alla pancia causati dalle risate che gli scuotevano le viscere. Stava cercando di non emettere nessun rumore, e probabilmente sarebbe presto morto in mancanza d’aria al cervello.

«Grazie e arrivederci», disse suo padre alla donna che, dopo aver pagato la merce, si infilò degli occhiali da sole scuri e uscì dal negozio. Peccato che ad Helsinki il sole, quel giorno, non ci fosse. Quando finalmente la porta le si chiuse alle spalle, Ville allungò le gambe – facendo una sorta di sgambetto al padre, che dovette reggersi per non cadere – e rise con quella sua risata strana, tenendosi la pancia con le mani. «Mi dici, per favore, che cosa diavolo sta succedendo?»

Il ragazzo si asciugò le lacrime. «Quella era la mia professoressa di matematica».

Il padre strabuzzò gli occhi, e dopo un momento scoppiò a ridere anche lui. «Hai capito la professoressa!»

Vi era una cosa certa: Ville non sarebbe più riuscita a guardarla nello stesso modo. Avrebbe pensato ai giochi che aveva appena acquistato nel negozio di suo padre ogni volta che l’avesse guardata negli occhi, lo sapeva. Uno si aspetta di tutto nella vita, ma non che la propria professoressa di matematica faccia costosi acquisti in un sexy shop, quella è una cosa difficile da accettare.

«Pà, io vado a provare», disse prendendo la chitarra dallo stanzino sul retro e dando una pacca sulla spalla di suo padre prima di uscire. Non faceva troppo freddo, era ottobre e la scuola era appena iniziata, ma lui preferiva di gran lunga i pomeriggi passati al negozio con il padre, o le ore nel garage a provare la sua musica. La musica, l’unica cosa che apparentemente sapeva fare bene, che sapeva fare bene a lui. Si abbassò il cappello di lana fina sulle orecchie, e ficcò le mani in tasca. Alzò gli occhi per guardare il cielo e incontrò lo sguardo felino di un gatto dal muso bianco nascosto dietro una finestra. Sorrise e si immaginò il gatto sorridergli di rimando.

Bussò tre volte la porta sul retro della casa di Elias e dopo pochi secondi vide la sua testa spuntare. «Sei in anticipo, amico». Ville si strinse nelle spalle, e spingendolo da parte, superò l’uscio a grandi falcate, andando direttamente a sedersi sul piccolo divano del salone. «Tutto bene?», chiese l’altro, infilandosi un paio di pantaloni e grattandosi la pancia.

Ville lo guardò: i corti capelli biondi gli stavano sparati in testa come se si fosse appena alzato dal letto – cosa molto probabile, pensò –, le occhiaie erano marcate e aveva dei segnacci rossi e viola sulle braccia, le gambe, l’addome. «Al solito, grazie».

Elias gli si sedette affianco, un sorriso idiota sulle labbra. «Non mi chiedi come sto io?»

«Ho perso il conto al quinto succhiotto, immagino tu stia più che bene».

L’altro rise. «Una nottata da sballo».

«Sono le quattro del pomeriggio», precisò Ville, incrociando le braccia dietro la testa.

«Oh, ma essere felice per me mai? Me li scelgo proprio male gli amici, cazzo».

«Sono felice per te», spirò Ville, guardandolo e mettendo su un sorriso che durò appena due secondi.

«Tu non sei mai felice».

«Mhhh».

«Cosa?», chiese Elias esasperato.

«Sono felice quando suono». Pausa. «A tal proposito, quando arrivano gli altri?».

Elias fece spallucce. «Non ne ho idea, magari non vengono nemmeno».

Ville sbuffò. «Sempre la solita storia». Si alzò, raccolse la chitarra mettendosela in spalla, e fece per andarsene, ma la mano sulla spalla dell’amico lo fermò. «Cosa c’è?»

«Proviamo io e te. Facciamo un po’ di canzoni acustiche, così saremo preparati se ci chiederanno si suonare in un pub o da qualche altra parte. Ti va?»

Ville deglutì. Eccome se gli andava. Con lui si sarebbe buttato dentro un fiordo, se solo gli avesse chiesto di farlo. Annuì. «Mi va».

Si posizionarono uno di fronte all’altro, le chitarre sulle gambe per accordarle, e solo quando entrambi furono pronti provarono una vecchia canzone del gruppo, che ormai le dita suonavano automaticamente. Finito il brano Elias fermò le dita sulle corde, cosa che invece Ville non fece. Continuava a produrre musica, una serie di note sconosciute, accompagnate da mormorii che uscivano timidi dalle sue labbra. Non alzò mai lo sguardo dalle corde, e se lo fece tenne gli occhi ben chiusi, come se, nonostante stesse cantando davanti a qualcuno, volesse tenersi le parole per sé. «…my baby, how beautiful you are», sussurrò infine, scandendo bene le parole, in un soffio. Fermò la musica e alzò gli occhi, puntandoli in quelli di Elias, e sorrise.

«Non era finlandese quello, o sbaglio?»

Ville scosse la testa. «Inglese».

«Sembra molto bella».

«Devo ancora lavorarci su», disse Ville.

«Di cosa parla? Non sono riuscito ad afferrare bene le parole, sai che con l’inglese faccio schifo».

«Parla di una persona bella, triste, persa. Una persona che credo di amare».

«Taira?».

Ville alzò gli occhi e gli sorrise. Dopotutto, quella era una domanda lecita, dato che Taira era la sua ragazza. E forse la amava; di sicuro le voleva bene. Le voleva bene quando si avvicinava e appoggiava la guancia alla sua, perché non sapeva come ma era sempre morbida, come la buccia di una pesca. Le voleva bene quando disteso accanto a lei, le mani intrecciate alle sue, sentiva il suo profumo entrargli nelle narici. Le voleva bene quando facevano l’amore, perché lei faceva tutto quello che lui voleva, e lo faceva bene, con dolcezza. Non credeva di amarla poi così tanto. Non l’amava come la persone a cui dedicava le sue canzoni, per esempio.

«No, non è Tiara», rispose quindi. Elias si corrucciò, e Ville scoppiò a ridere. «Non credo sia la mia anima gemella, ho quindici anni e se tutto va bene conoscerò persone di cui mi innamorerò come ora lo sono di Tiara, forse di più. Spero di più».

«Quindi questa persona non esiste o ho capito male?»

Ville annuì. «Esiste eccome, solo che non l’ho ancora conosciuta».

Elias gli sorrise e si grattò la testa. «Okay». Non era mai stato un tipo troppo sveglio, era l’opposto di Ville. Erano come il dì e la notte, la luce e il buio, e forse era proprio per quello che a Ville piaceva così tanto. Gli piaceva più di Tiara, in tutti i sensi possibili. Era un amico, il suo migliore amico, con cui parlava per ore, con cui stava in silenzio per ore e stava meglio, anche se le ferite lo laceravano dentro. A tutto ciò andava aggiunta una tremenda attrazione sessuale, che Ville reprimeva ogni qual volta l’odore di Elias lo colpiva. Quante volte avrebbe voluto baciarlo, morderlo, sbatterlo al muro e scoparselo? Voleva ma non poteva, come al solito. Non lo amava, lo sapeva; non lo amava nello stesso modo in cui non amava Tiara, eppure era così attratto da lui che, se glielo avessero chiesto, in quel momento avrebbe dato la sua vita per salvare quella di Elias. Se qualcuno avesse letto la sua mente, sicuramente, avrebbe trovato il tutto decisamente contraddittorio e confuso, ma Ville era così: pieno di contraddizioni, misterioso, confuso, innamorato dell’amore, affascinato dalla morte. L’amore l’avrebbe portato alla morte, lo sapeva.

«Credo gli altri non verranno», affermò Elias.

Ville annuì. «Già. Usciamo?»

«Ordiniamo qualcosa da mangiare, piuttosto? Ho talmente fame che mi mangerei da solo un orso».

«Va bene, ma paghi tu stavolta. Sono stanco di offrirti sempre vagonate di cibo. Sei una pattumiera», ridacchiò Ville. «A quarant’anni avrai una pancia che non finirà più, già ti ci vedo».

Elias gli diede un pugno sul braccio, cercando di nascondere un sorriso. «Tu invece sarai talmente secco che un palo della luce sarebbe grasso, in confronto».

«Come adesso, insomma. Il mio fascino sta tutto nelle mie ossa», disse alzandosi la maglietta e toccandosi le costole con un dito, ridendo.

«Hai delle belle ossa, ecco cosa ti diranno le ragazze mentre te le scoperai».

«E tu, pensi che io abbia delle belle ossa?», chiese. Che cosa diavolo stai facendo, imbecille?

Elias gli si avvicinò e gli alzò la maglia, un sorriso sulle labbra. Posò una mano sul suo ventre e poi salì, fino ad incontrare le costole, e poi scese, fino alle ossa del bacino, infine alzò lo sguardo sul viso di Ville che, se possibile, era diventato ancora più pallido: le viscere gli ribollivano dentro, come se un secchio d’acqua caldo fosse stato buttato loro addosso, e le avesse distrutte. «Sono spigolose».  

«Non mi sembra esattamente un complimento», disse Ville dopo aver deglutito.

«Eddai», disse l’amico allontanandosi da lui, «non sono io quello che deve giudicare quanto tu sia bello. Non sarò io quello che ti scoperà, ricordi? Fino a prova contraria ho ancora un pene».

«Certo», rispose Ville cercando di mascherare la sua delusione. «Ovviamente hai ancora un pene, altrimenti non ti saresti divertito tutta la notte, dico bene?».

«Dici bene», rispose Elias con un sorriso sornione, gli occhi chiusi. «Come mi sono divertito». Ville sospirò, si alzò dal divano e infilò la chitarra nella custodia. «Dove stai andando?», chiese l’amico una volta aver aperto gli occhi.

«Ho un impegno».

«Non dovevamo mangiare insieme?»

«Ho detto che ho un impegno, me ne ero dimenticato».

Elias si strinse nelle spalle. «Come vuoi, amico. Ci vediamo domani? Per provare, intendo».

Ville fece solo un cenno del capo, e se ne andò, la parola amico che continuava a sbattergli sulle pareti del cervello. In quell’istante avrebbe voluto amare Tiara così tanto da considerarla la Felicità con la effe maiuscola. E invece lei era, purtroppo, solo un passatempo, un divertimento che non lo divertiva neppure più.

Aveva quindici anni e si sentiva infelice come un uomo di quaranta che ha appena divorziato dalla moglie che ama ancora e che per di più non gli lascerà vedere i propri figli. Faceva proprio tutto schifo.

 

 

Sei anni dopo

 

La neve cadeva, appoggiandosi leggera sui capelli scuri di Ville. Camminava per le strade di New York con il cappotto aperto, abituato alle temperature ghiacciali della sua Finlandia. Il freddo era casa, il suo habitat naturale. E come un fiocco di neve, Ville entrava nella vita delle persone silenziosamente, pacatamente, e poi la sua presenza cominciava ad essere più prepotente, ingombrante, necessaria.

Infilò le chiavi nella toppa e aprì la porta del suo squallido appartamento situato in un angolino buio e dimenticato della città, se la chiuse dietro le spalle e un forte odore di formaggio gli entrò nelle narici. Gli venne un conato di vomito, che represse andando ad aprire la finestra più vicina: era aria inquinata quella che inspirò, ma sempre meglio di quel fetore infernale.

«Sei tu, Ville?», chiede Tiara sporgendosi dalla porta della cucina con una sorriso sulle labbra.

Ville alzò una mano in segno di saluto, si tolse il cappotto buttandolo sul letto, si lavò viso e mani con dell’acqua calda ed infine si sedette a tavola. «Io il formaggio non lo mangio».

«Lo sto cucinando per me. Ti ho fatto le polpette di carne, quelle che ti piacciono».

«Grazie».

«Non c’è di che», disse lei baciandogli la testa. «Com’è andata la mattinata con i ragazzi, avete inciso qualcosa?»

Ville scosse la testa. «A quanto pare non eravamo ispirati, oggi. Non abbiamo combinato molto». La verità era che quella mattina, lui e i suoi colleghi, se così poteva chiamarli, non si erano visti, nemmeno per sbaglio. Aveva passato la mattina in una caffetteria, una bibita fin troppo bollente fra le mani, ad aspettare una persona che non si era presentata.

«Recupererete domani», lo rassicurò dolce Tiara. Dubito, pensò Ville, non si è ancora fatto sentire, non una chiamata per scusarsi, per fissare un nuovo appuntamento, niente.

Finito il pranzo disgustoso che sua moglie gli aveva preparato con tanto amore, averla vista uscire dalla porta carica di borse da portare in lavanderia dopo averle dato un bacio sulle labbra, prese il telefono dalla tasca dei pantaloni.

Mandare o non mandare? Mandare. «Grazie per avermi dato buca, ora ho la conferma che sei davvero una bella persona. Grazie anche delle scuse mandate per posta aerea, le ho davvero apprezzate. Il the alla menta che avresti sicuramente ordinato è già pagato dal sottoscritto, quindi se ti capita di passare di là, ti consiglio di andare a ritirarlo». Dopo aver premuto il tasto inviò si sentì talmente stupido da aver voglia di rotolare giù dalle scale antincendio nudo. Alcuni minuti dopo, comunque, il suo cellulare cominciò ad emettere un suono irritante. Lo aprì e lesse il messaggio. «Impegno improvviso. Volevo chiamarti ma avevo perso il tuo numero. C’è un modo in cui posso farmi perdonare?»

Qualche modo, a Ville, venne sicuramente in mente, ma dopo essersi morso la lingua rispose semplicemente «99 Palmetto St».

«Sto arrivando». Ville sorrise.






Breve ed inutile, I know. La mia ispirazione si è suicidata, l'hanno scritto sulla pagina dei defunti di "Dispezione Times", qualche mese fa.
Chiedo il vostro perdono come sempre. Deb.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2762174