Wanderlust

di LoonyW
(/viewuser.php?uid=145174)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wanderlust ***
Capitolo 2: *** Up and Down ***
Capitolo 3: *** Lost and insecure ***
Capitolo 4: *** Nasvidenje ***



Capitolo 1
*** Wanderlust ***


Wanderlust.
                                                                                   

Il campanello che annunciava l’arrivo della posta trillò di nuovo e Dominique si affrettò ad aprire la porta per lasciare che le lettere si spargessero sulla sua scrivania. Con uno sguardo di annoiata rassegnazione, tornò controvoglia a sedersi sulla sedia traballante del suo piccolo ufficio e si armò di pazienza per smistare la vagonata di lettere come faceva ogni giorno. In quanto segretaria –una delle tante- dell’ufficio del magi-avvocato George Finnigan, i compiti di Dominique erano i seguenti: portare il tè, ricordare riunioni e appuntamenti, portare il pranzo, occuparsi dei reclami, essere carina e cortese e ovviamente smistare la posta, cestinando pubblicità e lettere inutili o indesiderate. Nulla di speciale o faticoso, tanto meno esaltante. Era suo compito anche essere gentile e servizievole con tutti gli avvocati e i collaboratori dell’ufficio, e tollerare senza fare storie il fatto che ci provassero con lei –e con tutte le altre giovani donne che vi lavoravano- ogni giorno.
Se penso che mi ci sono messa da sola qui dentro…
Dominique non aveva voluto proseguire gli studi oltre Hogwarts. Era convinta che sarebbe riuscita ugualmente a trovare la sua strada, e in un certo senso per il momento si reggeva con le sua gambe e aveva uno stipendio a sostenerla, ma non era questo il tipo di vita che aveva immaginato.
Venne il giorno in cui, smistando la posta, Dominique si trovò di fronte a una brochure di viaggi di un’agenzia magica, che organizzava tour nel mondo europeo babbano, alla scoperta di una società diversa. Le venne in mente quando, da bambina, promise a nonno Arthur che “da grande” avrebbe viaggiato nel mondo dei babbani e gli avrebbe portato qualcosa della loro cultura per ogni posto visitato.
Lo avevo promesso, nonno, scusami.
Le scappò qualche lacrima silenziosa, e cercò di nascondere il viso per non farsi notare dalla collega con cui divideva la stanza. Si asciugò in fretta gli occhi e si alzò per andare in bagno a darsi una calmata, ma in corridoio incontrò l’odiato Terry De Bourge, uno degli abituali rimorchiatori.
Oh, no. Non ora.
«Hey, Dom!» la salutò lui in tono casuale, cogliendo l’occasione al volo. «Bella gonna» le disse sorridendo in modo viscido «ti ringraziamo tutti per il panorama».
«Sì» rispose a caso Dominique, sgattaiolando per proseguire verso la sua strada.
«Hey, biondina» la bloccò lui, trattenendola per il braccio «potresti almeno dire grazie»
«Non mi sembra il caso» ribatté Dominique, cercando di nascondere gli occhi rossi evitando il suo sguardo.
«Dovresti cominciare a essere più grata del nostro interesse per le tua gambe, bambina» disse lui abbassando la voce «è grazie a loro che sei qui».
Dominique strattonò il braccio per liberarsi e gli rifilò un’occhiata disgustata, consapevole di non poter controbattere a tono, e marciando via per tenere sotto controllo le proprie reazioni. Odiava essere trattata come un oggetto, e ancora di più a volte odiava sé stessa perché doveva lasciarli fare. Se avesse reagito o anche solo risposto come avrebbe voluto, sarebbe stata licenziata e non poteva permetterselo. Non sapeva se sarebbe riuscita a trovare un altro lavoro che pagasse abbastanza da potersi permettere una stanza abbastanza centrale a Londra, dove le case notoriamente sono molto costose. Non voleva tornare a essere un peso per la sua famiglia. Le piaceva essere indipendente, vivere per conto suo, pagarsi da sola qualunque cosa le servisse, non dover rendere conto a nessuno di dove andava o cosa faceva. Tutto dipendeva da quel lavoro, anche se non la rendeva felice nel vero senso del termine.
Una volta in bagno, si sciacquò il viso con l’acqua fredda e osservò a lungo il suo riflesso pallido nello specchio: le occhiaie tipiche di chi non dorme bene, che davano un’aria quasi patita agli occhi azzurri e piccoli, la bocca sottile, così diversa da quella di sua madre e di Victoire. Nulla in lei faceva presupporre una lontana parentela con una Veela, al contrario di quanto si aspettassero gli altri. Il suo viso era assolutamente comune, e nemmeno i capelli biondi le davano un’aria principesca o più attraente.
Dominique sussultò quando vide nello specchio il volto di De Bourge, comparso all’improvviso.
«Rinfrescata?» chiese avvicinandosi minacciosamente.
Lei si ritrasse indietro ma lui fu più veloce e le strinse i polsi, baciandole il collo senza aspettare né una reazione né una risposta. Dominique cercò di divincolarsi ma lui era più forte e per qualche istante non riuscì a reagire; ma quando le mani di lui lasciarono i polsi per stringerle i fianchi, Dominique trovò la forza di muoversi e per la prima volta nella sua vita tirò un pugno. Faceva molto più male di quanto non immaginasse. E poi, in uno scatto d’ira repressa a lungo, gli tirò una ginocchiata tra le gambe.
«Porco!» gli urlò prima di lasciarlo inginocchiato a terra e tornare nel suo ufficio.
 
***
 
Naturalmente Dominique sapeva di essere arrivata al capolinea. Lo sapeva già dal momento in cui De Bourge era entrato nel bagno con quello sguardo famelico. Sapeva che sarebbe finita così: lei licenziata e  De Bourge al suo posto come se nulla fosse successo. Come se lei avesse dovuto far finta di niente e lasciarsi trattare come una bambola gonfiabile. Come se non avesse avuto anche un cervello e una dignità, oltre a delle gambe. Lo sapeva, faceva parte delle ingiustizie della vita.
In quel momento, però, mentre usciva dall’ufficio con in mano la scatola di cartone che conteneva le sue poche cose e la pioggia di Londra la inzuppava impietosa, le si presentò una domanda angosciosa: e adesso che faccio?
A completare il puzzle dei segni del destino, mentre fissava disperata il marciapiede, Dominique notò tra i mattoni qualcosa che luccicava tenuemente. Lo raccolse, perché tanto non aveva nulla da fare. Era un piccolissimo centesimo color bronzo –non un pence- con un numero cinque e una minuscola scritta in un alfabeto che non conosceva. Le venne in mente che, in quanto centesimo europeo, probabilmente poteva trattarsi di greco.
 
«E qual è il primo paese che visiteresti, se potessi partire adesso?»
«La Grecia. Voglio vedere l’Acropoli, le isole immerse nel mare limpido e imparare a ballare il sirtaki»
 
Il flashback, risalente forse a quando era bambina e parlava di viaggi con nonno Arthur o forse ai tempi di Hogwarts e alle chiacchiere con le amiche, era bastato a farle capire cosa doveva fare. Tornare al suo appartamento; fare lo zaino; prenotare il primo volo per la Grecia. Partire.
E fare, di quello che pensava sarebbe stato un viaggio di pochi giorni per staccare la spina, una lunga avventura in giro per l’Europa.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Up and Down ***


 Up and Down




Ovviamente Dominique non aveva mai volato in aereo. Seduta sullo stretto sedile blu scuro di una a lei ignota compagnia aerea babbana, si disse che era proprio una strana maga: aveva mollato la sua vita magica per partire nel vero mondo babbano come una di loro. Per sé stessa, principalmente, ma anche perché aveva una promessa in sospeso con nonno Arthur.
Non aveva mai sentito un tale misto di eccitazione, paura, impazienza, angoscia e felicità tutte insieme. Nemmeno quando si era presa la sua prima cotta, o quando era arrivata a Hogwarts il primo settembre di molti anni prima. Nulla in confronto alla consapevolezza che stava facendo una totale follia. Partire da sola, senza la minima conoscenza del mondo esterno, con pochi soldi, uno zaino sulle spalle piuttosto pesante e nessuna idea su dove andare di preciso o come mantenersi. Avrebbe dormito in un ostello nelle periferie di Atene, questo era il suo solo punto fermo.
Ma era tutto così nuovo e strano nel mondo babbano, che soffermarsi sugli aspetti pratici allora le sembrava troppo noioso. (Avrebbe capito qualche giorno dopo che una migliore organizzazione le avrebbe evitato di mettersi nei guai).
Ad esempio, la specie di balletto che la signorina con la divisa stava facendo nel mezzo dell’aereo per Dominique era decisamente divertente, ma stava trattenendo le risate dato che non sembrava che gli altri passeggeri lo trovassero buffo.
Carino il giubbotto giallo che si è messa la ragazza, pensò Dominique mentre guardava il “balletto” –ovvero la demo- delle assistenti di volo, chissà a che serve. Magari lo porto a nonno Arthur come souvenir. Di sicuro gli piacerà.
Dopo qualche minuto l’aereo stava passeggiando per la pista, e Dominique guardava fuori dal finestrino –posto che era riuscita ad accaparrarsi con un Confundus magico, ovviamente- chiedendosi perché mai quel trabiccolo con le ali dovesse fare un giro immenso prima di partire.
Certo che la vita dei babbani sarebbe più semplice se avessero i mezzi che abbiamo noi. È quasi un’ingiustizia.
L’aereo prese velocità all’improvviso e Dominique si ritrovò con le spalle al sedile, sentendo i propri battiti che acceleravano, conscia di stare per lasciare il suolo inglese –e il mondo magico con esso- per la prima volta.
Ci fu un attimo di silenzio sospeso, nel quale Dominique si chiese cosa fosse successo; ma quando guardò fuori dal vetro capì di non essere più a terra, ma su un aggeggio di metallo e chissà cos’altro che incredibilmente riusciva a sostenersi nel cielo senza nessuna magia.
Dominique guardò meravigliata il suolo che si allontanava.
I babbani sono fantastici. La magia ci rende tutto più facile, e loro che vivono senza sono stati in grado di inventare macchinari del genere. Nonno Arthur ha ragione, sono geniali.
Rimase per un poco a osservare il paesaggio, mentre l’adrenalina andava affievolendosi nel suo corpo, sostituita da un senso di quiete che venne immediatamente interrotto dal ricordo dello sguardo deluso e contrariato dei suoi genitori –e in particolare di sua madre- quando aveva comunicato loro la sua intenzione di partire immediatamente. Una parte di lei era consapevole che partendo per conto suo aveva segnato un profondo distacco dalla famiglia, e ne era spiacente; l’altra si stava convincendo di aver fatto ciò che era giusto fare, perché era quello che voleva davvero. Neanche Victoire l’aveva sostenuta –anzi: le aveva rivolto uno sguardo tagliente quasi quanto quello di sua madre. L’unico sorriso di partecipazione che aveva visto tra i suoi familiari era proprio quello di nonno Arthur, che l’aveva incoraggiata con un abbraccio e due parole che l’avrebbe accompagnata per tutto il viaggio: Buona strada.
Prese una rivista dalla tasca del sedile davanti e buttò uno sguardo alle foto fatte in giro per il mondo, al catalogo di vari aggeggi babbani, lesse qualche articolo e guardò il menù della compagnia aerea.
Le assistenti di volo avevano appena fatto la loro apparizione con il carrello lungo il corridoio, quando l’aereo ebbe un violento e inatteso scossone. Le assistenti di volo continuarono imperturbabili il loro giro, rassicurando i passeggeri con un sorriso zen e servendo loro caffè, biscotti e cibarie varie.
Il carrello era quasi arrivato alla metà dell’aereo e di nuovo una scossa li fece tremare tutti.
«È solo un po’ di turbolenza» spiegò gentilmente l’assistente di volo con i capelli rossi e un viso delicato da bambina. Assomigliava vagamente a zia Ginny.
Alcuni passeggeri si tranquillizzarono e tornarono alle loro occupazioni, altri rimasero in allerta, stringendo il bracciolo o torturando di domande ansiogene il vicino. Fortunatamente per Dominique, l’uomo corpulento alla sua destra, sui cinquanta circa, dormiva profondamente con una mascherina sugli occhi e russava leggermente. Non si era nemmeno accorto degli sbalzi dell’aereo.
Sono capitata bene, pensò Dominique osservando la bambina urlante qualche posto più avanti e il trentenne con l’aria da psicopatico che strizzava il braccio di un malcapitato adolescente di tredici anni che cercava di isolarsi nelle mega cuffie che gli coprivano le orecchie.
Dominique tornò a rilassarsi, ma un altro scossone li sbalzò tutti su e giù. Ne seguì un altro più lungo e intenso, e Dominique vide con la coda dell’occhio le assistenti di volo che portavano via il carrello dal corridoio. Qualche istante dopo, la scritta “Allacciare le cinture” si illuminò di rosso e si sentì una voce femminile annunciare che si trovavano in una zona di turbolenza, ma niente di cui preoccuparsi e così via.
Dominique non aveva pensato neanche per un secondo all’eventualità che un aereo cadesse. Insomma, non era stato esattamente il suo primo pensiero. E poi inconsciamente credeva ci fosse qualche sistema di sicurezza pseudo-magico che impedisse cose del genere. Si ritrovò dunque a pensare che se un aereo poteva essere sbalzato su e giù da delle nuvole, allora poteva anche cadere nel nulla. Affacciandosi al finestrino, vide una massa scura e compatta che li circondava e la pioggia che iniziava a scendere fitta e violenta.
Eppure poco fa c’era un così bel sole.
Stavolta l’aereo sobbalzò forte, e Dominique vide le teste dei passeggeri davanti a lei ondeggiare per un attimo in alto e tornare giù un secondo dopo. Ma non finì subito, continuò per qualche secondo e Dominique sentì l’aereo chinarsi da un lato, come ad evitare un ostacolo improvviso.
L’urlo continuo di un bambino –o forse due, Dominique non riusciva a capirlo- non aiutava gli altri pallidi passeggeri a tranquillizzarsi, anzi, sembravano tutti prossimi al vomito o allo svenimento. Dominique chiuse gli occhi, confortata dalla presenza della bacchetta nella tasca destra del pantalone, e si concentrò su un posto tranquillo, privo delle nuvole scure che in quel momento la circondavano: le venne in mente la Tana, il suo covo d’infanzia.
Un vuoto d’aria improvviso la riportò alla realtà surreale che la circondava. Il signore accanto a lei si era finalmente svegliato tra le urla dei passeggeri e le chiese confuso cosa stesse succedendo.
«Turbolenza..» spiegò Dominique laconica.
L’uomo tossicchiò e si aggiustò la cravatta a righe blu e bianche e poggiò di nuovo la testa sul sedile piuttosto basso per la sua altezza e stretto per la sue fattezze fisiche.
«Non è la prima volta che mi capita» mormorò tranquillo, mentre gli altri passeggeri davano di matto in seguito a un altro vuoto d’aria.
«Deve volare spesso, allora» rispose Dominique con un mormorio appena udibile.
«Prima volta per lei?» chiese il signore con uno sguardo comprensivo.
«Si nota molto?» sbuffò Dominique con un sorrisetto, rivolgendo il primo vero sguardo al suo vicino. Era un uomo piuttosto grasso, con pochi capelli scuri e un viso rotondo che gli regalava un’aria affabile e pacioccona.
«No, ho tirato a indovinare. Quasi tutti hanno la sua espressione in caso di turbolenza forte» spiegò incurante degli scossoni dell’aereo.
Fino a quel momento Dominique era rimasta quasi tranquilla. Dopo lo scoppio che venne da un punto imprecisato, il panico si impadronì di lei. Perfino il suo vicino sbiancò.
«Deve averci colpito un fulmine» cercò di spiegare, insicuro.
L’aereo aveva sussultato, come se avesse avuto un grosso singhiozzo. Ma c’era un ronzio persistente che non era un buon segnale. Probabilmente era vero, erano stati colpiti da un fulmine.
Ma perché cominciavano a perdere quota? Non potevano essere già arrivati, erano passate circa due ore dalla partenza, e il volo avrebbe dovuto durare almeno tre ore e mezza.
Passò un quarto d’ora prima che un’assistente di volo annunciò che stavano cominciando la discesa all’aeroporto di Lubiana, in Slovenia, per un atterraggio di emergenza. Il panico si diffuse in pochi secondi, i passeggeri cominciarono chi a protestare, chi a urlare, chi a piangere.
La voce dell’assistente di volo continuò a parlare pregando i passeggeri di calmarsi e spiegando che avevano avuto un guasto tecnico, al motore o qualcosa del genere, percepì Dominique confusamente. Infine venne annunciato che di lì a pochi secondi avrebbero cominciato a spiegare le procedure di sicurezza e per tale motivo erano pregati di rimanere a posto e ascoltare molto attentamente.
Dominique percepiva i suoi battiti correre un po’ troppo veloce, ma non riusciva a frenarli: si sentiva in uno stato di trance emotiva, mezza addormentata e incosciente, mezza vigile. Non sapeva cosa fare, non aveva calcolato nulla di quello che stava succedendo e la sua mente era occupata da mille domande: stiamo atterrando, dove? Lubiana? E dove sta? E come si fa un atterraggio di emergenza? È un modo di dire babbano per far gentilmente sapere ad altri che stanno per morire schiantati in un incidente aereo? Come si fa ad atterrare con un guasto tecnico?
Le assistenti di volo fecero la loro apparizione nel corridoio e cercarono di quietare i passeggeri come poterono, mentre continuavano a scendere sempre più in basso, troppo velocemente. Le orecchie di Dominique si erano tappate in modo doloroso, e tutto le sembrava ancora più irreale e ovattato.
Un’ assistente di volo si posizionò all’inizio del corridoio in modo da essere vista da tutti i passeggeri e spiegò le procedure di sicurezza, come proteggersi la testa con le braccia nel momento dell’atterraggio di emergenza, come avrebbero gonfiato degli scivoli per consentire a tutti i passeggeri di scendere dall’aereo, e come avrebbero trovato a terra una schiuma anti-incendio, perfettamente normale, e indicarono le uscite di sicurezza, segnalate anche da delle linee gialle. Fecero scendere le mascherine gialle per l’ossigeno e Dominique vi si aggrappò perfino contro la sua volontà, più desiderosa di ossigeno di quanto non si fosse resa conto.
Molti stavano svenendo, notò Dominique con la coda dell’occhio, e nemmeno lei si sentiva così bene. Scendevano, scendevano, scendevano, e a Dominique sembrava di affogare per il troppo repentino cambio di pressione.
Dopo un tempo che a lei sembrò lunghissimo e indefinito, cominciò a scorgersi un terreno in lontananza. Erano prossimi al fatidico atterraggio di emergenza, e Dominique non sapeva cosa aspettarsi. Si era perfino dimenticata di avere con sé una bacchetta che avrebbe potuto salvarle la vita. Non sapeva se avrebbe toccato il suolo viva, era quella la sua angoscia principale.
Senza rendersene conto, afferrò la mano del suo vicino e la strinse convulsamente. Il signore ricambiò la stretta, partecipe del suo terrore.
Il terreno si avvicinava, e dopo aver ripetuto la procedura di sicurezza ancora una volta, le assistenti di volo tornarono al loro posto e si prepararono all’atterraggio allacciandosi a loro volta le cinture.
Erano vicini, Dominique riuscì a vedere la pista mentre respirava profondamente nella mascherina. La voce annunciò di mettersi in posizione di sicurezza e tutte le teste nella cabina si poggiarono sul sedile di fronte e incrociarono le braccia sul capo.
Dominique incrociò per l’ultima volta lo sguardo del suo vicino, di cui non sapeva nemmeno il nome e notò che aveva gli occhi di un bel verde scuro, senza macchie.
«Grazie» gli disse sottovoce, non sapendo neanche il motivo. Forse perché così la sua ultima parola sarebbe stata di gentilezza e gratitudine.
L’impatto arrivò con durezza inaspettata. Fu più forte di quello che Dominique aveva previsto, più forte persino degli scossoni della turbolenza. Ci fu un rumore sinistro simile ad un acuto stridio che proseguì finché dopo un tempo interminabilmente lungo, l’aereo si fermò in modo brusco e improvviso.
Si accese la luce che annunciava che era giunto il momento di alzarsi, e la maggior parte dei passeggeri si fiondò verso le uscite calpestandosi a vicenda, sgomitando, cercando di sorpassare gli altri e uscire prima.
Dominique si alzò come un automa, sentendo le proprie gambe deboli. Il suo vicino la sostenne per un braccio senza dire una parola e la scortò nel corridoio, dove lei si limitò a seguire le linee gialle, per arrivare a ciò che in quel momento le sembrò la porta del Paradiso –o dell’Inferno, non riusciva a deciderlo. Si ritrovò accecata dalla luce di qualcosa che doveva essere un faro o chissà che, e superò la porta lasciandosi scivolare sullo scivolo di gomma gialla.
E quando diamine l’hanno montato?!, riuscì a chiedersi in uno sprazzo di lucidità.
Le sembrò quasi divertente scivolare su quel trabiccolo, finché non ricordò in che situazione si trovava. Quando arrivò alla fine e si alzò barcollante, si ritrovò immersa in una schiuma bianca che la copriva quasi fino alle ginocchia. Si guardò intorno confusa, stordita dalle urla e dai pianti che la circondavano, e sentì che qualcuno le prendeva il braccio, trascinandola in avanti.
Seguì la mano amica, pur non sapendo a chi appartenesse –la sua vista era annebbiata e la sua mente aveva smesso di funzionare quasi del tutto-, fino a che non si ritrovò nell’aeroporto e si accasciò senza forze su una panchina, chiudendo gli occhi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Voglio aggiungere una piccola nota al capitolo per puntualizzare che la descrizione dell’atterraggio di emergenza ovviamente –o almeno credo XD- non corrisponde alla realtà, per un semplice motivo: non ne ho mai vissuto uno. (Grazie al cielo) Mi sono basata più su scene di film, ecc, quindi se non corrisponde al vero, capitemi :P
Grazie a voi che seguite,
baci!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Lost and insecure ***


Lost and insecure




Dalle grandi vetrate dell’aeroporto si poteva capire che era quasi sera: il cielo stava lentamente stingendo in un colore rossastro e le luci si facevano mano a mano più fioche –il che contribuì a dare a Dominique quella strana sensazione di essersi appena svegliata da un sogno.
«Si è svegliata» sentì dire attorno a sé mentre lentamente apriva gli occhi.
Le si affacciò il viso di una signora di mezza età con la divisa del Pronto Soccorso che le controllò le pupille, le misurò i battiti del cuore e le fece qualche domanda per testare la sua lucidità.
«Come ti senti?» le chiese la signora in un inglese dall’accento indecifrabile.
«Un po’ intontita» rispose Dominique.
L’aiutarono ad alzarsi e la portarono in un punto in cui avevano allestito una tenda per controllare tutti i passeggeri e le misurarono anche la pressione. Venne a sapere che non c’erano state vittime, ma solo un ferito, su cui era accidentalmente caduto un bagaglio a mano durante l’atterraggio, ma nulla di grave.
«Dove siamo?» domandò Dominique.
«A Lubiana, in Slovenia» rispose l’altro volontario del Pronto Soccorso.
«Emh..» mormorò titubante Dominique, vergognandosi di non avere la minima idea di dove si trovasse la Slovenia.
La geografia non è mai stata il mio forte.
«…sì… Lubiana.. certo» tentò per fargli credere di aver capito.
Il ragazzo le sorrise con l’aria di chi la sapeva lunga. «Si trova tra Italia e Croazia. Sopra di noi c’è Austria» le spiegò.
«Oh!» fece Dominique, arrossendo un poco per la sua ignoranza.
Almeno l’Italia so dov’è.
«Lubiana è capitale» continuò il ragazzo, passandosi una mano tra i capelli castano chiaro per metterli a posto «penso che passerete qui qualche ora o forse un giorno in attesa di prossimo volo per Atene»
Dominique annuì pensierosa, notando quanto il suo accento suonasse molto meno strano e più familiare al suo orecchio, nonostante l’assenza di qualche articolo. «Tu.. sei di qui?»
«Oh, sì» rispose distrattamente lui, riponendo degli apparecchi in delle scatole. «Perché?»
«Niente, sai.. hai un buon accento» esplicò Dominique mentre lui le slacciava l’apparecchio per la pressione dal braccio.
«Forse è perché viaggio molto e parlo spesso inglese» sorrise lui. «Bene, sembra tutto a posto. Sei libera di andare»
«Grazie» sorrise lei a labbra strette, e scese dal lettino domandandosi cosa avrebbe fatto ora.
Andò a sedersi su una panchina, tra il via vai di altri passeggeri e attese che tutti finissero i controlli medici, finché una signorina con una divisa affine a quella della compagnia aerea con la quale aveva volato venne a dirle che avrebbero passato lì circa due giorni, in attesa del prossimo volo per la loro destinazione iniziale, e che la compagnia aerea avrebbe provveduto alla sistemazione in un albergo in città.
Dominique ringraziò la ragazza, si alzò sentendosi le gambe indolenzite e si diresse verso il primo bar che vide, dovendo aspettare almeno un’altra ora prima di poter partire per l’albergo. Si avvicinò al banco e si rese conto che non sapeva con quale moneta avrebbe dovuto pagare, dato che non aveva la minima idea di che valuta ci fosse lì. Fu piacevolmente sorpresa di sapere che c’era l’euro come in Grecia, e che poteva usare i pochi spiccioli già convertiti -destinati ai biglietti del treno- per pagarsi un caffè al bar.
Andò a sedersi da sola ad un tavolino all’entrata e bevve il caffè nel bicchierone a piccoli sorsi.
Qualche minuto dopo entrò il ragazzo che le aveva svolto i controlli medici nel tendone e ordinò un caffè anche lui. Quando la vide al tavolo, le fece un cenno e si avvicinò con il caffè in mano. «Vi hanno già trovato una sistemazione?»
«Sì, dicono che rimarremo qui due giorni circa. Tra un’ora passa a prenderci un autobus per portarci all’albergo»
«Bene, almeno potrete vedere qualcosa di Lubiana. È una città molto bella e tranquilla.» disse lui compiaciuto. «Due giorni basteranno, non è molto grande»
«Già, peccato che non ho la minima idea di dove cominciare» ammise Dominique.
Il ragazzo sembrò pensarci su, poi indicò la sedia del tavolino come a chiedere il permesso di sedersi.
«Prego!» si affrettò a dire Dominique, sollevata di poter parlare con qualcuno che l’aiutasse.
«Bene, innanzitutto, piacere» disse lui tendendole la mano «Danilo»
«Dominique» sorrise lei sentendosi meno sperduta.
«Non ci sarò per tutti i due giorni di tua permanenza, ma durante pause da mio lavoro posso mostrarti un po’ di mia città. Almeno saprai dove andare» propose lui, legandosi i capelli piuttosto lunghi in una specie di codino.
Dominique fu colta di sorpresa. «Davvero?»
Doveva aver fatto una faccia davvero colpita, perché Danilo scoppiò a ridere. «Sì, se non conosci nessuno qui non mi sembra carino farti passare due giorni sola in giro»
Dominique gli sorrise incredula «Io.. grazie. Va bene, accetto! È.. è davvero gentile da parte tua».
«Deve essere stata proprio brutta esperienza» disse Danilo bevendo un sorso del suo caffè.
«Be’.. non saprei dire. Di solito gli atterraggi normali come sono? Era il mio primo volo»
«Tuo primo volo?» si meravigliò lui «Tuo primo volo con atterraggio di emergenza? Che brutta sfortuna!»
«Già, quindi non ho un termine di paragone» ridacchiò Dominique.
«Di solito volare è molto bello. È… come dite voi, in inglese..» sembrò pensarci su per un attimo «mozzafiato».
«La prossima volta andrà meglio» sorrise Dominique, realizzando in quel momento che da quando si era imbarcata sul volo non si era ripulita né sistemata. Non osava immaginare le sue condizioni in quel momento: faccia sconvolta, occhiaie, capelli in disordine. Danilo fortunatamente non sembrava averci fatto molto caso.
Purtroppo, commentò mentalmente Dominique. È gentile, ma non ci sta provando.
Danilo finì di bere il suo caffè e si alzò. «Ora devo salutarti, Dominique. Ancora non abbiamo finito lavoro oggi». Fece per andarsene, quando sembrò improvvisamente ricordarsi di qualcosa e scribacchiò velocemente su un fazzoletto. «Che stupido, quasi me ne andavo senza lasciarti mio numero di telefono. Domani lavoro da mattina presto fino a ora di pranzo. Quando vuoi vedermi mandami messaggio e ti spiegherò dove incontrarci per fare giro in città, da
«Va benissimo» rispose Dominique piena di gratitudine. «A domani, allora»
Danilo le fece un cenno e tornò verso il tendone del pronto soccorso, mentre su Dominique ricadeva lentamente la stanchezza e lo stress degli eventi.
Trascorse un’altra mezz’ora nel bar dell’aeroporto, finché la stessa signorina in divisa di prima venne ad avvisarla che era arrivato il bus per raggiungere l’hotel.
Dominique si alzò sentendo le ossa pesanti e la testa che scoppiava, trascinandosi come un zombie prima a recuperare lo zaino e poi verso il bus. Cercò di tenersi sveglia per ammirare il paesaggio –o per lo meno le luci, dato che ormai si era fatta sera- ma si addormentò contro la sua volontà e venne svegliata all’arrivo dalla sua vicina di sedile, una ragazza che poteva avere al massimo qualche anno più di lei.
Sentendosi acciaccata e desiderando solo un letto su cui buttarsi, per un attimo a Dominique mancò casa. Durò poco, solo qualche secondo ma fu abbastanza per ricordarsi che era giunta fin lì per crescere e imparare a cavarsela da sola in qualsiasi circostanza, nonostante le mancasse avere il supporto di qualcuno accanto a sé.
Sei coraggiosa abbastanza, Dominique. Ce la puoi fare, pensò mentre percorreva i corridoi dell’hotel alla ricerca della stanza che le era stata assegnata.
Numero 23, aprì la porta e cercò la luce, trovandosi in una camera anonima ma pulita e ordinata. L’unica cosa che le serviva in quel momento era il letto, e subito vi si buttò sopra, togliendosi solo le scarpe e la giacca che aveva ancora addosso.
E poi non sono completamente sola. C’è Danilo qui, è già qualcosa, pensò appena prima di chiudere gli occhi e addormentarsi profondamente.
 
 
 
 
Note: salve a tutti! Aggiungo una nota per spiegare una piccolissima cosa che potrebbe sembrare un errore grammaticale. Danilo parla senza articoli per un semplice motivo: la sua lingua madre. Lo sloveno, come altre lingue slave non ha articoli, e lui –come molte persone che conosco- evita gli articoli anche nelle altre lingue che utilizza, tutto qui.
Baci a tutti :D

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Nasvidenje ***



Nasvidenje



Era stata una giornata fresca e rilassante, nonostante Danilo l’avesse fatta camminare per tutta la città a piedi. Lubiana non era una metropoli sconfinata e caotica, al contrario: tranquilla, non affollata, pulita –almeno le zone che Dominique aveva potuto vedere- quanto lo era il centro di Londra, un bel clima mite e persone cortesi. Ad un certo punto, mentre passeggiavano in un bel parco nel centro, delle ragazze si erano avvicinate per regalare lecca-lecca. Memore degli insegnamenti della madre, Dominique aveva immediatamente rifiutato, ma Danilo l’aveva rassicurata spiegando che spesso delle particolari marche alimentari per promuovere i loro articoli spedivano in giro per la città delle ragazze per regalare o far assaggiare prodotti del loro marchio. Dandosi mentalmente della stupida, Dominique ricordò subito che spesso aveva visto la stessa cosa a Londra, ma sarebbe stato difficile spiegare perché non si era fidata subito senza apparire diffidente o perfino razzista.
Dopo il giro di quasi tutta la città –la piazza principale, i ponti, tra cui il più bello era quello sul quale dei draghi sembravano essere i guardiani che controllavano chiunque passasse, il mercato centrale, un’esplosione di colori creata dalla frutta e dai fiori di tutti i tipi, una bellissima cattedrale barocca di cui Dominique non ricordava più il nome e altro ancora- finalmente si erano seduti a un tavolo vicino il parco principale perché Dominique aveva deciso di offrire un caffè o qualcos’altro alla sua guida.
Avevano parlato tanto durante il loro giro. Dominique temeva di non trovare argomenti, dato che lui non sembrava un gran chiacchierone e per di più spesso si “inceppava” un po’ con l’inglese, ma con sua grande sorpresa avevano parlato di così tante cose e così a lungo che volendo ricostruire il filo del discorso probabilmente non ci sarebbe riuscita.
Danilo non era un ragazzo dai modi sguaiati: non parlava ad alta voce né velocemente, sembrava riflettere molto prima di aprire bocca, si fermava spesso ad osservare qualcosa anche mentre conversavano. Aveva uno strano sguardo duro –non misterioso- come se ne avesse passate tante e avesse imparato ad aspettarsi di tutto dalla vita. Dominique aveva intuito che la sua famiglia non era unita. La madre si era trasferita anni prima in Svizzera e del padre non aveva parlato affatto. Aveva invece nominato spesso un fratello minore che si era trasferito in Canada. A quanto pare, era solo. C’era qualcosa in lui, che gli aveva regalato l’immediata fiducia di Dominique. Le aveva fatto molte domande sulla sua vita in Inghilterra e in particolare su Londra, e così Dominique aveva scoperto che un suo sogno nel cassetto era trasferirsi nel Regno Unito. Amava il suo clima, così aveva detto. Dominique non riusciva proprio a capirlo. Come si poteva amare la pioggia e quel freddo onnipresente? Lei era sempre stata una persona da sole e caldo –uno dei motivi per il quale aveva scelto la Grecia come prima destinazione.
«Perché non ti trasferisci subito, se è quello che vuoi?» chiese Dominique sperando di non risultare troppo indiscreta.
Danilo fece spallucce e fece un cenno con la mano, un misto tra un “e chi lo sa” e un “lascia stare”.
«Be’, è pieno di opportunità. Londra è un po’ cara per gli alloggi ma non è nemmeno l’unica in città in cui venire a cercare fortuna» insisté Dominique, che conosceva bene i dubbi e gli interrogativi che ci si pone prima di lasciare il proprio paese per cercare la propria strada da un’altra parte.
Lei lo osservò un po’ mentre sembrava immerso nei suoi pensieri. Aveva una cicatrice sul mento, le mani di un uomo che conosceva il duro lavoro, un viso dai lineamenti piuttosto duri e la pelle abbronzata, ma non una di quelle abbronzature da spiaggia, la sua era più una pelle cotta dal sole, come se ci avesse lavorato sotto per lungo tempo. Dominique non poté fare a meno di notare che sembrava l’opposto dei ragazzi londinesi con i quali aveva avuto a che fare finora. La maggior parte di loro erano abituati a una vita comoda, dove potevano scegliere un lavoro e un appartamento pagato dai soldi dei genitori. La sera sceglievano un locale alla moda e spendevano senza preoccupazioni. Erano abituati ad avere tutto quel che chiedevano, mentre era evidente che Danilo non aveva avuto una vita così facile.
«Ci sono altre cose che mi frenano» rispose infine il ragazzo, mentre il sole che tramontava dietro i ponti e le case di Lubiana gli tagliava in due il viso, metà illuminato, metà nell’ombra.
«Anche io avevo molte cose che mi frenavano» continuò Dominique «ma ho deciso di ignorarle»
«Evidentemente non sono stesse cose» ribatté Danilo con durezza.
Dominique chiuse la bocca. Avvertì involontariamente di aver toccato un tasto delicato «Hai ragione, scusa»
«No, scusami tu» sbuffò Danilo, sorridendo «a volte sono un po’ insensibile nel rispondere»
«Io direi che sei sincero» controbatté Dominique per prenderlo in giro.
«Non molti lo apprezzano»
«C’è molta gente cretina in giro» fece spallucce Dominique, facendolo sorridere.
«Sì, credo di averne incontrati uno o due nella vita» rispose lui sarcastico, facendo ridere lei in cambio.
«Fortunatamente sai cogliere sarcasmo» aggiunse Danilo con soddisfazione.
«È un’arma efficace, quando serve»
«Punge più lingua che.. è così che dite voi?»
«Che un zanna di basilisco» concluse Dominique automaticamente, mordendosi però la lingua subito dopo «cioè.. la spada, sì!»
«Una cosa di cosa, hai detto?» chiese lui sorridendo curioso.
«Ignorami» rispose Dominique arrossendo «a volte deliro, che ci vuoi fare»
«È un piacere ascoltare i deliri di una pazza, quindi spiega» la marcò stretto lui.
«Ma.. niente, sai, da piccoli io e i miei cugini cambiavamo i detti a nostro piacimento» inventò «nulla di che»
«E cosa sarebbe basilisco?» incalzò lui.
Un pericoloso mostro che a quanto pare un tempo abitava nella mia scuola di Magia dove mi hanno insegnato a fare incantesimi e pozioni. Vuoi che ti ci porti?
«Mah.. animali inventati.. sai, la fantasia dei bambini..» rispose Dominique, pensando che era stata abbastanza convincente.
«Una specie di lupo cattivo?» domandò ancora lui.
Peggio, pensò Dominique «Più o meno, sì»
«Drago?»
Ma perché gli interessa tanto? «Più un serpente. Nelle leggende si diceva fosse il Re dei serpenti»
«In mio paese c’è Lintver. È grande drago o serpente, dipende da zona di paese in cui sei, cui piace incenerire tutto. Mamme lo usano per spaventare bambini e convincerli a comportarsi bene» spiegò Danilo.
«Il basilisco è quasi lo stesso, ma invece di incenerire, pietrifica le persone con lo sguardo»
«Quindi in un certo senso anche lui incenerisce persone con sguardo, come dite voi in vostra lingua» sorrise Danilo.
«Oh, quindi conosci anche queste espressioni più familiari, eh» sorrise Dominique con compiacimento.
«Lingua inglese molto semplice rispetto a lingue slave. In sloveno ci sono declinazioni e coniugazioni di verbi, come in altre lingue slave»
Dominique arrossì, vergognandosi un poco nell’ammettere che conosceva solo l’inglese.
«Rimedierai viaggiando» la consolò Danilo.
Ormai era sera, il sole era definitivamente tramontato dietro i tetti di Lubiana e cominciava a tirare un vento piuttosto freddo.
Il giorno dopo, precisamente alle otto di sera, Dominique sarebbe partita di nuovo per raggiungere la sua destinazione. All’improvviso, però, divisa tra il rimorso e una prematura nostalgia, sentì che non voleva più andarsene.
Potrei rimanere. Potrei cercare un lavoro qui, imparare lo sloveno. Sembra un bel posto in cui vivere, un paese tranquillo e amichevole. Ci sarebbe Danilo ad aiutarmi.
Pensò questo mentre lo guardava e non poté fare a meno di pensare che non voleva salutarlo. La sua gentilezza e disponibilità, seppur contrastati da una patina di durezza apparente che poteva essere smantellata, l’avevano colpita fin da subito.
Ben pochi si sarebbero presi l’impegno di accompagnarla in giro per la città, darle consigli e farle compagnia senza conoscerla, se non con doppi fini. Invece lui si era lanciato avanti nell’aiutarla e non aveva mai dato segno di avere intenzioni sbagliate.
Se restassi qui, potremmo diventare buoni amici. Magari anche qualcosa di più. Sembra così affidabile e responsabile..
Senza pensarci due volte, aprì la bocca per cominciare a spiegare la follia che le stava passando per la testa «Sai..»
«Dober večer, fantje» si intromise una voce «lollipop?»
Alle spalle di Dominique era comparsa una ragazza di circa venticinque anni, alta e snella, con una lunga treccia biondo scuro e un viso dai tratti morbidi.
«Zdravo, Eva» rispose Danilo, mentre Dominique non capiva una parola di quello che stavano dicendo.
La ragazza si chinò per baciare Danilo e gli disse qualcosa in sloveno, mentre in Dominique si faceva lentamente strada la consapevolezza che i suoi piani erano appena saltati, perché quella splendida ragazza appena apparsa con dei lecca-lecca in mano era niente meno che la ragazza di Danilo.
«Dominique, lei è Eva, mia fidanzata. Non capisce e non parla lingua inglese, perciò scusala se non può rispondere in prima persona» spiegò Danilo, rivolgendosi poi alla ragazza al suo fianco per dirle qualcosa nella loro lingua.
Eva tese comunque la mano a Dominique e le rivolse un bellissimo sorriso dicendole «Dobrodošla!»
«Ha detto “benvenuta”» tradusse Danilo .
«Oh, grazie.. cioè, hvala» rispose Dominique, non riuscendo però a contraccambiare lo splendente sorriso della ragazza.
Ma questa è una modella, che diamine, non è una ragazza normale.
I due ragazzi si scambiarono ancora qualche parola e alla fine si salutarono con un bacio. Eva sorrise di nuovo a Dominique e lasciò un lecca-lecca –a quanto pare anche lei era una promoter- e la salutò con un “Nasvidenje”, saltellando via nel suo vestito floreale.
«È… è una ragazza dorabile» disse Dominique quando lei e Danilo furono rimasti soli.
«Sì, lo è» rispose semplicemente lui.
Un’improvvisa vampata di ingiustificata gelosia si fece strada dentro di lei. e il peggio era che non riusciva nemmeno ad odiare Eva, perché era bella e gentile, e lei e Danilo insieme erano una bellissima coppia.
«Come mai non parla inglese?» chiese Dominique tanto per rompere il silenzio.
«Non crede ce ne sia bisogno. Non ama viaggiare. Le piace stare qui, in suo paese. Dice che non c’è niente di cui possa avere bisogno nel mondo. Ha già tutto qui»
Dominique capì al volo. Era Eva la ragione per cui Danilo non si era trasferito. Era solo lei il vero motivo per cui aveva rinunciato ai suoi progetti. E, con riluttanza, Dominique ammise a sé stessa che se Danilo aveva rinunciato ai suoi sogni per lei, doveva amarla davvero tanto.
«Cosa stavi per dire prima?»
«Non ricordo più» rispose subito Dominique «evidentemente non era importante»
Sospirò, poi gli rivolse un sorriso di gratitudine. «Prima di andarmene volevo ringraziarti per essere stato così disponibile con me. Non sai quanto te ne sono grata»
«Di niente, Dominique. Mi hanno insegnato a non lasciare mai da sole le ragazze, specie se sono in una città straniera»
Dominque sorrise intenerita. Chiunque lo avesse cresciuto, aveva fatto un ottimo lavoro.  «Meglio andare, è ora che tu ti riposi, immagino. Avrai altri turni notturni»
«Sì, effettivamente sì»
Dominique si alzò e Danilo fece lo stesso. Senza pensarci troppo, lei lo abbracciò d’impulso e gli mormorò un pentitissimo grazie. Lui ci mise qualche secondo prima di ricambiare, seppur rigidamente, la stretta. Forse era stata un po’ troppo avventata –dopotutto non si conoscevano davvero- ma per una volta Dominique aveva scelto di dimenticare le regole sociali e fare quello che sentiva, e quello che sentiva era che non voleva andarsene, non voleva lasciare Danilo, non voleva lasciare Lubiana.
Ma il destino aveva parlato chiaro: dimenticati questo ragazzo, Dominique. È già felice con qualcun altro.
E così si erano detti addio, Dominique si era stampata in faccia un sorriso per nascondere la tristezza mentre si salutavano sotto l’hotel –al quale lui l’aveva gentilmente accompagnata, insistendo che era ormai notte e le serviva un accompagnatore- e lui era stato cortese, ma distaccato. E quella sera, in hotel, Dominique si era sentita di nuovo sola, ora che il suo solo punto fermo era svanito insieme alle sue illusioni e il volo per Atene si avvicinava sempre di più. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2762487