Courier

di Desperate Housewriter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gambi di tulipano ***
Capitolo 2: *** Puff! ***
Capitolo 3: *** Storie di sottili differenze tra orate ed occhiate ***
Capitolo 4: *** Trasparens ***
Capitolo 5: *** Spiritose ***



Capitolo 1
*** Gambi di tulipano ***


Non servirebbe scrivere che questo racconto si ispira a una storia vero, che idiozia.
Ne conoscete forse uno che non lo sia?
 
 
 
 
Courier
 
*Chi effettua, per conto di terzi, servizi di trasporto o porta notizie urgenti, relazioni, messaggi diplomatici, ecc. 
 
 
Sarebbe mai riuscita a vedere il vuoto?
Da quando era lì era diventato il suo obiettivo. Per quanto ci provasse, riusciva solo a vedere oltre. Anche guardando il vetro del vaso sul tavolo rotondo, ciò che stava veramente osservando non era il vetro ma il verde dei gambi dei tulipani. Quanto avrebbe voluto individuare la trasparenza.
Alf Woodstock della porta accanto ci era riuscito.
«Voi siete convinti che il trasparente sia un colore» le aveva detto «ma io l'ho visto e ti assicuro che... Che è ben diverso, ecco!»
Rifletteva.
«Esattamente. E' piombata qui all'improvviso, dice di chiamarsi Montgomery Graham.»
Il mondo non era in sè un insieme di colori? Com'era possibile vedere qualcosa senza un colore?
«Abbiamo cercato e non è stata denunciata la scomparsa di nessuna Montgomery Graham. Non risulta nemmeno la sua esistenza, dottor Cubbling.»
Guardò gli altri e li imitò appoggiando la testa sulla spalla destra. Erano proprio svitati.
«Dice che Montgomery può essere un soprannome? Non ci avevo nemmeno fatto caso, è un nome da maschio!»
Chissà perchè l'avevano portata lì, insieme a loro. Forse perchè avevano bisogno di un po' di compagnia.
«Cielo, mi sono dimenticata di dirLe la cosa più stramba! Continua a ripetere che presto morirà.»
Però c'era qualcuno tra di loro che si ostinava a pensare che lei appartenesse al gruppo e questo la tormentava.
«Nathalie, da quant'è che è qui? Da... Da quasi sei mesi, circa. Lei non è alla portata dei nostri psicologi, dottor Cubbling, è più... I nostri pazienti sono ben diversi, voglio dire.»
D'altronde gli svitati non pensano mai di essere svitati, credono che siano piuttosto gli altri ad essere svitati. Doveva fare un po' di pratica e comprare un libro di sinonimi, esprimendosi in questo modo non sarebbe mai riuscita a farsi pubblicare neanche una pagina!
«Insomma, dottor Cubbling, lo sa come siamo messi qui. Abbiamo pochi fondi e andiamo avanti a fatica.»
Quindi, era del tutto giustificabile il fatto che pensassero che fosse svitata.
«Poi è arrivato il dottor Blast che mi ha detto "prova a rivolgerti al dott. Crispin Cubbling, è un uomo in gamba e si è laureato a Londra" e così ho fatto. Deve aiutarci a... A capire chi sia e a trovare la sua famiglia.»
Montgomery regalò un largo sorriso a una signora anziana che giocava a carte da sola, poverina.
«Grazie, dottore, Lei è un sant'uomo! Domani alle 8:30, mi raccomando. Grazie, grazie, grazie!»
«Ehi, Montie, sei riuscita allora a individuare il vuoto?»








Ciao!
Avendo già pubblicato due racconti abbastanza lunghi tutti in una volta, mi sono resa conto che potevano risultare pesanti.
Quindi questa volta ho deciso di spezzettare in più parti il terzo. Quindi, essendo un racconto non avrà molti capitoli e sarà piuttosto veloce.
Ho inserito sotto Missing Moments perchè si collega al mio secondo racconto, ma non è necessario leggerlo se non ne avete voglia, può essere benissimo una storia indipendente. Comunque, se vi può interessare, lo troverete sulla mia pagina, si chiama: Alètheia.
Che altro ho da dire? Siete riusciti a capire qualcosa da questo piccolo prologo? Che cosa ve ne pare?
Pubblicherò il seguito a breve, visto che è già scritto!
Fatemi sapere.
Baci,
Desperate.

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Capitolo 2
*** Puff! ***


Courier
Puff!





«Vedi, è qui che sbagli, Montie.»
Gesticolando, Alf Woodstock si esprimeva ad alta voce: «Non devi badare a ciò che vedi. Tutto quello che già conosci... Puff! Deve sparire. Tutto ciò che è intorno a te in questo momento è solo una bugia, non capisci? La verità sta in ciò che non vedi. Troppo facile sennò!»
Montgomery era persuasa dalle parole di Alf e, stando lì, ogni giorno imparava nuove cose.
«E' lì, la donna con i capelli corti e la sciarpa.»
«Ma... Ma come faccio a non vedere quello che è attorno a me con gli occhi aperti?»
Alf appoggiò la guancia sulla mano destra.
«E come faccio a spiegarti? Non lo so, ma ti assicuro che ci vuole un dono per riuscirci. Sono sicuro che tu ce l'abbia, Montie. Tu sei come me. O, almeno, lo stai diventando. Basta solo che ti sforzi.»
Montgomery strizzò gli occhi, tentando ancora.
«Posso interrompervi?»
Un uomo abbastanza basso con una camicia e dei pantaloncini corti, probabilmente appena tornato dalla spiaggia, apparse.
«Mi chiamo Crispin Cubbling e vorrei parlare con la signorina Montgomery Graham. Sapete se è qui da queste parti?»
«Se è la signora Montgomery Graham che intende, allora è qui di fronte a Lei.»
Crispin sorrise: «Diamoci pure del tu, Montgomery!»; si schiarì la gola «Possiamo fare una chiacchierata?»
«A che proposito?» chiese la donna.
«Beh, ho molte cose da dirti e molte cose da chiederti, soprattutto.»
Montgomery guardò Alf Woodstock che a sua volta guardò Crispin e alzò le spalle. Così seguì l'uomo che la condusse in una stanza.
«Che cosa c'è di tanto importante?»
Crispin incrociò le gambe e si mise comodo, non aveva intenzione di andare da nessuna parte.
«A dire il vero ti voglio aiutare, Montgomery.»
«Sai già?» chiese Montie stupita.
«Non del tutto. Per questo dobbiamo parlare, devo sapere bene ogni dettaglio.»
«Non credo di potermi fidare.» Montgomery, imbarazzata, cercò di nuovo di trovare il punto nel vuoto.
«Bene. Facciamo così, io farò le domande e tu deciderai se rispondermi oppure no. Che dici?»
La donna annuì.
«Il diciassette gennaio di prima mattina sei andata all'areoporto di Valletta e hai detto di dover urgentemente andare a Monroeville, in Nord America.»
Montie non disse nulla, inclinò la testa verso sinistra.
«Dicevi che era questione di vita o di morte.»
«Lo è ancora.» Montgomery non guardava mai nessuno negli occhi, sembrava vagare attorno alla stanza e il suo pensiero appariva irraggiungibile.
«Morirai?» Crispin lo disse normalmente, d'altronde non morivano solamente i supereroi.
«Già, a breve.»
«C'è una cosa che però non capisco e mi tormenta. Perchè andare proprio a Monroeville?»
«Solo una persona può cambiare il mio destino.»
«Chi è? Un medico, una persona fidata?»
Montgomery si morse il labbro e scosse la testa.
«Non me lo vuoi dire. Posso sapere almeno perchè?»
«Perchè sei uno svitato.»
Il dott. Gubbling tossì. «Come, scusa?»
«Alf Woodstock dice che in questo mondo sono tutti svitati, a parte lui. E ha detto che io sono sulla buona strada per diventare normale. Solo lui sa da chi voglio andare, ma mi ha detto che se lo dicessi ad uno svitato non capirebbe. Dice sempre che gli svitati credono di essere normali e fanno sentire i veri normali come se fossero degli svitati.»
Crispin sorrise. «E io quindi sono svitato?»
«Non lo so, bisogna vedere che cosa dice Alf. Credo proprio di sì.»
Ci fu un lungo minuto di silenzio.
«Ti hanno portata qui per questo?»
«Cosa?»
«Voglio dire, ti hanno portata qui perché eri normale?»
«Già, vogliono sapere il mio vero nome, ma io gliel'ho detto. Come mi dovrei chiamare? Montgomery Graham, ma non vogliono capirlo! E vogliono sapere anche da dove vengo, io glielo dico ma non mi credono. Non hanno mai sentito nominare l'Alabama?»
«Alabama? E come ci sei finita qui?»
«Non lo so. Un giorno mi sono svegliata in una stanza completamente diversa dalla mia.»
Il dott. Cubbling non riuscì a trattenere uno sguardo stranito e Montgomery se ne accorse. La donna si avvicinò piano a Crispin, quasi piangendo. «Sto infrangendo le regole. Sto vivendo una vita non mia.» Per un attimo i loro sguardi si incrociarono, ma lei li abbassò subito verso il pavimento. «Questa non è la mia storia.»
Che cos'avrebbe detto Woodstock della loro conversazione?
«Ma queste cose non dovrei dirtele, Alf Woodstock ha detto di no.»
«Facciamo così: che dici se tu e Alf pensate un po' se fidarvi di me oppure no e io torno domani?»
«Non farei niente di male.»
«Infatti.»
Crispin rimase seduto mentre Montgomery avanzò verso l'uscita trotterellando.
«Ehi, Montgomery!»
«Sì?»
«Dov'è che vivi, in Alabama?»
«A Maycomb.»













Angolo Autrice
Scusate per la cortezza del capitolo, ma è nato per essere un racconto tutt'uno quindi... Comunque, dalla prossima volta i capitoli saranno più densi.
Che cosa ve ne pare fin qua?
Critiche accettate.
Baci,
Desperate.

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Capitolo 3
*** Storie di sottili differenze tra orate ed occhiate ***


Courier
Storie di sottil differenze tra orate ed occhiate




Crispin aveva deciso di portare dei pasticcini quella sera. Una torta poteva non piacere. Naturalmente il regalo per il festeggiato l'aveva comprato.
Prima di suonare il campanello si sistemò la cravatta.
«Ciao Crispin! Vieni, entra.»
Crispin si pulì le scarpe. «Auguri, Demodocus! Benvenuto nel mondo degli adulti.»
«Grazie, grazie. Dì un po', come ti sei conciato?»
«Non mi vesto in giacca e cravatta per lavoro, lascia che lo faccia almeno per il tuo diciottesimo compleanno!»
Non c'era mai nessuno al piano terra, l'avevano ridotto ad un ripostiglio. Salì le scale.
Chissà perché l'avevano invitato. Insomma, dopotutto li conosceva da neanche un anno. Prima di essere uno psicologo, Crispin aiutava Milman con la gestione della pescheria. Da quando si rese conto che non era quello che desiderava fare e mollò, per continuare gli studi per diventare psicologo che aveva abbondonato, non si risentirono più. Dopo l’abbandono della madre, Milman l’aveva contattato per chiedere di fare da psicologo ai figli. Non se l’era sentita, perché dopo solo una seduta già aveva capito che non era una situazione adatta a lui. Ma in cambio gli aveva consigliato un'altra persona in gamba a cui rivolgersi. Era stata un’occasione che li aveva rimessi in contatto e aveva fatto conoscere a Crispin dei lati dell’amico che prima non conosceva.
«Senti, ti ho portato un regalino, ma lo apri dopo con tutti. Che dici?»
«Vediamo, fammi sentire… E’ incartata in modo rettangolare ma sotto è vuoto a parte per dove sto toccando. Sarà mica un fucile? »
Il dott. Cubbling si sentì due mani che gli stringevano lo stomaco. «Crispin!»
«Ciao Calypso. Fatti vedere, sei cresciuta ancora?»
Calypso fece un giro su se stessa e si mise in punta di piedi, per vedere quanto sarebbe mancato per raggiungere lo psicologo.
Ci vollero dieci minuti per riunire tutti a tavola e iniziare a mangiare. Alcinous si era occupato della preparazione del cibo. Aveva sempre amato cucinare e lo faceva sempre, per tutta la famiglia. Poseidon, invece, aveva insistito per apparecchiare e mettere in ordine la casa. Amava la precisione. Questo lo faceva un po' litigare con i fratelli, che non ritrovavano più le cose perchè Poseidon le aveva messe in ordine in posti che nemmeno lui ricordava. Molte volte i fratelli avevano chiesto a Crispin di farlo visitare, sospettando un Alzheimer.
«Per mille quattrini, non ci posso credere, carne!» esultò Nestor. «Oh, Crispin, aspettavamo la carne come Penelope il marito.»
Crispin rise.
«Anche se Alcinous ci ha cucinato la bistecca come pochi sanno fare, non c'è niente che possa sostituire il pesce» ribatté Milman.
«Io sono sicuro, papà, che dopo aver lavorato con il pesce per una vita intera e soprattutto dopo averlo mangiato per una vita intera non ti dispiaccia avere della carne in tavola.» Disse Alcinous, assaporando il primo boccone.
«Tu che dici, Crispin?» chiese Demodocus.
«Beh, io intuisco molte cose del rapporto che ha vostro padre con il pesce, ma non sono autorizzato a dirvele.»
«Segreto professionale» lo appoggiò Poseidon.
«E dai, Crispin… Qualche strappo alla regola si può fare, no? Hai qualcosa di stuzzicante da dirci sul babbo? Siamo tutt’orecchie!» insistè Alcinous «Crispin, sembri un po' pensieroso oggi. Che succede?» chiese poi.
«Niente. Sono normalissimo. Perchè dici questo?»
«Sono sicuro che ti turbi qualcosa come son sicuro che dentro a quella cosa lunga incartata c'è un'arma» osservò Demodocus.
«Beh, non è che mi turbi qualcosa... E' solo che per la prima volta non ho le idee ben chiare su una mia paziente.» Ammise, dopo aver bevuto un sorso di vino. «Non sto qui a spiegarvi i dettagli, ma... Dice di aver vissuto in un posto strano... Insomma, avevo dieci in Geografia e sono andato anche a cercare ma...»
Crispin era confuso come non mai. A volte, quando si metteva con le mani in tasca e con la schiena curva, Nestor lo paragonava a Woody Allen.
«Come... Come si chiama il posto?» chiese timidamente Poseidon «Magari ti ha detto il nome di un paesino, non puoi conoscere tutte le cittadine del mondo.»
«Internet, da quanto è efficace, mi farebbe stare a contemplarlo per giorni e… notti, mi azzarderei a dire.» disse Nestor.
«No, ma non è questo, ragazzi. Molto probabilmente non esiste. E' una sua fantasia, è questo il punto. Ma devo capire dell'altro...»
«E' normale, Crispin, quante volte abbiamo confuso un’orata da un’occhiata?» chiese il padre.
«Infinite!» Milman si abbandonò ad una fragorosa risata. «Comunque, io sono per Gozo e basta. Me ne sto qui buono buono, ho il mio lavoro e la mia famiglia… Non mi è mai interessato degli altri posti.»
«Ma com'è che si chiama?» richiese Poseidon.
Crispin strizzò gli occhi. «Si dovrebbe chiamare... Maycomb, sì, ecco, appunto! Maycomb.»
«Maycomb?» sbottò Calypso, che se n'era stata a gustare la bistecca senza dire una parola.
«Esattamente.»
«Certo che non esiste!»
«Non credi che prima ci dovremmo accertare?» chiese Poseidon.
«Ma no! Maycomb è una cittadina inventata di un libro.» Calypso adorava scoprire qualcosa.
«Perbacco, sentivo delle campanelline accennarmi un suono nella testa. Ora ne scopro il motivo, ho una certa familiarità con il suo nome: "Il buio oltre la siepe".» Anche Nestor se ne rese conto.
«Mamma me lo leggeva sempre. Era il suo libro preferito» ricordò Calypso.
Ci fu un istante di silenzio. Mise molto a disagio la bambina.
«Te lo vado a prendere. Ce l'ho in camera, nel mio scaffale, almeno che Poseidon l'abbia spostato.»
«Grazie, Calypso, mi sarà utile.» Crispin sorrise.
Il resto della serata fu la parte migliore del ritrovo. Demodocus aprì il suo regalo e Crispin dopo essere stato salutato calorosamente da tutti se ne tornò a casa.
Tuttavia non bastò a frenare il tormento di Crispin. Maycomb, apparentemente una semplice cittadina inventata. Ma c'era dell'altro?
 
Ci aveva anche pensato di leggere il libro, ma chi avrebbe preso in giro?
Il dottor Cubbling non aveva mai letto una sola pagina in vita sua, eppure dava l’impressione alla gente di un uomo acculturato. Gli bastava a volte buttare un occhio su qualche citazione letteraria famosa o in latino e poi ripeterla all’impazzata in qualsiasi occasione, conoscendone raramente il significato.
Così, scelse la via più comoda, andò a cercare sul web qualche riassunto. Sì, forse era uno di quei tanti titoli ripetuti per anni consecutivi nelle liste delle letture consigliate che Crispin ignorava ancora ai tempi delle superiori. Ma lo psicologo non trovava nessun elemento che potesse essere collegato con la storia di Montgomery. Forse era solamente un libro che le piaceva? No, poco probabile.
Dopo essersi bevuto una fresca birretta, Crispin si ritrovò di nuovo davanti il libro che Calypso le aveva prestato. Schiacciò freneticamente bottoni a caso sulla tastiera, tentato ad iniziare. Ma poi, esaurito d’idee e di energie, digitò “Montgomery Graham To Kill a Mockingbird”.
Strizzò gli occhi e si avvicinò allo schermo. Da tempo i dottori gli dicevano che davanti alla televisione o al computer avrebbe dovuto mettersi degli occhiali, ma lui non ci badava molto.
Apparse una parte di riassunto.
Non conosciamo il nome della madre di Scout, si sa solo che apparteneva alla famiglia Graham, di Montgomery. Era quindici anni più giovane del padre e morì di infarto due anni dopo la nascita della piccola.
Il dottor Cubbling batté un pugno sul tavolo ed esultò. La sua paziente si era immedesimata in un personaggio di un libro. Peccato che aveva complicato la situazione per tutti, dato che la scrittrice della storia non aveva attribuito un nome alla madre morta, aveva dovuto farlo Montgomery chiamandosi… Già, Montgomery, come il posto in cui il personaggio viveva un tempo, giusto?
Ancora una volta Crispin era riuscito ad arrivare dove desiderava senza andare ad immergersi nel mare tempestoso e pieno di sale, prendendo semplicemente l’aereo.
Ma una volta messosi sotto le coperte, il dottore riuscì ad inquietarsi da solo.
«Questa non è la mia storia » gli aveva detto Montgomery quasi piangendo.
Era proprio vero. Solo il dottor Cubbling sarebbe riuscito a farle raccontare la sua vera storia ma questa volta, ahimè, avrebbe dovuto leggerla.





Non ho avuto riscontri, ma fa niente!
Anche se forse nessuno recensisce, spero che ci sia qualche lettore silenzioso.
Comunque, questo capitolo non piace nemmeno a me, ma è necessario.
Potrebbe sembrare stupido, ma servirà.
Aspetto con ansia qualche commento!
Baci,
Desperate.

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Capitolo 4
*** Trasparens ***


Courier
Trasparens




«Lo sai da che cosa deriva la parola trasparente?»
Montgomery era sdraiata per terra e osservava le gocce della pioggia scendere lentamente dalla finestra.
«No.» Crispin lo sapeva eccome, ma era un'occasione buona per farla parlare.
«Io e Alf l'abbiamo cercato sul dizionario. "Dal latino medievale trasparens", dice.»
Aveva smesso di piovere, ma per fortuna quelle gocce non erano scomparse.
«E' molto interessante. Praticamente si divide in altre due parole. Il prefisso trans indica un passaggio oltre un termine, un mutamento da una condizione ad un'altra, una specie di attraversamento. Mi spiego? E parere invece significa apparire.»
«Quindi è una specie di...» continuò «apparizione ad una seconda condizione.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che non c'è scritto che qualcosa scompare, semplicemente passa ad un'altra condizione. Esiste comunque, giusto? Cambia e basta, eppure noi non riusciamo a vederla.»
«Quindi tu credi che non sia invisibile, ma che solamente si trasformi in qualcos'altro.»
«Non è che credo, così c'è scritto e così è.»
«Tu pensi che la seconda condizione sia conscia di essersi mutata?»
«In che senso?»
Crispin provò a spiegarsi con altre parole. «Mi spiego meglio. Tu credi che ciò che cambia sappia che prima era qualcos’altro? Oppure vive una vita completamente nuova dimenticandosi di quella passata? Così, da capo... Ma soprattutto: sa di esistere?»
«Beh, credo che sappia di esistere. Insomma, se qualcuno vive, vive... No? Però non sono sicura che sappia che prima era qualcun altro. Sarebbe un'ottima domanda da fare ad Alf Woodstock.»
Crispin aveva percepito che Montgomery, seppur inconsciamente, lo stava come invitando a scoprirla. Lei era diventata una seconda condizione e per questo si sentiva invisibile, un’anima dispersa. Per aiutarla al dottor Cubbling non restava altro che scoprire chi era un tempo, quando tutti erano in grado di vederla.
«Lascia stare ciò che pensa Woodstock, Montgomery, a me interessa la tua opinione.»
La donna scosse la testa, confusa.
«Beh, io penso solo che…» fece un colpo di tosse «anzi, credo che… Se qualcosa vuole cambiare, sarebbe egoista non lasciarglielo fare solo perché poi noi non riusciremmo a vederlo. Noi siamo convinti che sparisca, non è vero!»
«Perché, dottor Cubbling, se qualcosa cambia viene sempre abbandonato?»
Crispin sorrise, non sapeva che cosa rispondere.
«Beh, perché non lo vediamo Montgomery. E’ per questo che lo abbandoniamo, perché non lo vediamo più.»
«Ma se ci impegnassimo, potremmo riuscire a vederlo ugualmente!»
«Forse non ci accorgiamo che è scomparso.»
«Quindi, non ci interessa più?» Montgomery estrasse una sigaretta dalla felpa e Crispin la guardò allibito, non si sarebbe mai aspettato che quella donna fumasse. Non disse nulla.
«Spero che tu non abbia ragione, Crispin» disse tra un tiro e l’altro, «sarebbe veramente triste».
Montgomery aveva ancora lo sguardo rivolto verso la finestra. Crispin non sarebbe mai riuscito a catturare pienamente la sua attenzione, ma non avrebbe nemmeno forzato le cose. Aveva sempre odiato farlo. Amava invece lasciare al caso i piani della sua vita.
«Lo vedi il fumo?» la paziente aspettò un secondo  «prima si muoveva ad onda, spinto dal mio soffio. E ora? Tu dove credi sia andato?»
«Non ne ho la minima idea.»
«Non provi anche tu a volte la sensazione di volere andare con lui?»
Crispin chiuse gli occhi e per un attimo si immaginò svanire nel vuoto. Di lui non rimaneva più nulla e il suo essere diventava solitario, nuovo ed illeso.
«Sarebbe bello, Montgomery, sarebbe molto bello.»
 
Non tornò per un mese. Aveva avvertito la signora Portman che non sarebbe riuscito a venire regolarmente una volta a settimana, ma a loro andava bene lo stesso. Aveva anche altri casi importanti a cui badare. Non sul caso Montgomery, ma su Montgomery.
Credeva di essersene innamorato, o perlomeno attratto. Se le percezioni che aveva su se stesso erano esatte, non avrebbe potuto più continuare a farle da psicologo.
Più tardi, però, si rese conto che era solo una sciocchezza e non avrebbe assolutamente dovuto perdere tempo. Se proprio ne era attratto come credeva, non lo era della sua paziente ma di un personaggio del libro. E lui di letteratura non ne voleva sapere. Già, come dimenticare, le avrebbe dovuto menzionare anche di quella rilegatura di pagine vecchie che teneva in mano. Non l’aveva fatto subito ma aveva solo perso il suo tempo. Crispin rinviava sempre all’indomani. E poi, cosa rimediava?
Quel giorno lasciò venire anche Alf Woodstock.
«L'hai mai letto questo?» chiese il dottor Cubbling, porgendoglielo.
La donna sembrò come esterrefatta.
«Da dove l'hai preso?»
«Me l'hanno prestato. L'hai mai letto?»
La donna lo guardò attentamente, sfogliandolo.
«Non te lo possono avere prestato, questa copia è mia.»
Il dottor Cubbling alzò le sopracciglia, sbigottito: «Come hai detto?»
Montgomery lo pose nel suo comodino. «Sì, lo vedi? C'è un'altalena, proprio come nella mia copia. Non possono avertelo prestato. Lo devi aver preso da qualche parte all'ospedale, era da tempo che lo cercavo.»
Alf rise, divertito. «Montgomery, forse il dottor Cubbling per una volta ha ragione. Lo sai quanti libri hanno la stessa copertina? Non li stampano tutti diversi...»
La donna sorrise e si tranquillizzò. «Già, hai ragione. Però... »
«Te lo puoi tenere, se ci tieni. A me non serve, Montgomery» disse gentilmente Crispin.
Montgomery lo andò a riprendere e glielo riporse.
«No, no... Tieni, te lo puoi riprendere. Tanto lo so a memoria.»
«A memoria?»
Il dottor Cubbling non si sarebbe certo aspettato che la sua paziente ricordasse di averlo letto e per questo ne rimase stupefatto.  
«Ma scusa, tu non conosceresti parola per parola di una storia di cui tu sei un personaggio?»
Crispin era veramente tentato nel rispondere che non sarebbe stato nemmeno capace di riconoscere il suo personaggio, figurarsi la storia. Poi si ricordò di essere uno psicologo.
«Tu fai parte della storia?»
Montie diede uno sguardo furtivo ad Alf Woodstock.
«Via, dottor Cubbling, chi vogliamo prendere in giro?» chiese questo «Lei è uno psicologo. Ci vuole negare che Lei non è a conoscenza di chi sia la nostra Montgomery?»
Crispin sorrise. «Sì, mi sono fatto un’idea. Ma ci sono molte cose che devo ancora capire.»
Montie guardò di nuovo Woodstock, completamente persa e insicura, e lui le fece un leggero cenno con la testa.
«Ho due figli, sono l’amore della mia vita;» iniziò lei con la voce tremolante «si chiamano Jem e Scout. Mio marito è un avvocato. Sono cresciuta a Montgomery e non ho nome. Ho deciso io personalmente di chiamarmi come la cittadina in cui sono cresciuta. Ho una splendida famiglia e dottor Cubbling io…»
Si fermò per un attimo. I suoi occhi verdi le bruciavano. Non sarebbe riuscita a continuare se Alf non le avesse dato una leggera pacca sulla spalla. Il dottor Cubbling non se lo sarebbe mai aspettato da parte sua.
«Oh, eravamo felicissimi!» gridò sbattendo un piede per terra, ormai si era lasciata andare ed era riuscita a buttar fuori quello che da tempo si teneva dentro. «Fino a che un giorno mi ritrovo qui, ma devo assolutamente tornare. Io gliel’ho detto, che fra poco morirò. C’è scritto e ormai non c’è nulla da fare. Ma non posso morire, ho una famiglia da mantenere, capisci? Però… Mi rimane un solo modo per cambiare il mio destino.»
«C’entra con Monroeville, come mi aveva già accennato, mi sbaglio? » chiese il dottor Cubbling, la sua calma e la sua pazienza permettevano a qualsiasi persona di concedergli la più completa fiducia, anche se a volte come nel caso di Montgomery ci voleva del tempo.
«Esatto. Tu hai figli, Crispin?»
«No.»
La donna si morsicò le labbra. «Beh, se ce li avessi, per loro faresti di tutto. A Monroeville, la persona che… Si ricorda che le avevo accennato di una persona? »
«Certo che me lo ricordo.»
«Ebbene, quella persona si chiama Harper Lee ed è la scrittrice del libro. Dipende tutto da lei. Io devo trovarla e raggiungerla. Ma sono bloccata qui, che diamine! Sembra che lo facciano apposta. Tu mi devi aiutare, Crispin.»
Sebbene il sedere del dottor Cubbling fosse poggiato sulla poltrona più comoda e pregiata dell’ospedale, benché le sue piume erano di pavone ed erano state importate dalle foreste dell’India per il loro colore blu elettrico dai riflessi metallici, quest’ultimo non riusciva a sentirsi comodo. Se prima la sua paziente l’aveva fatto divenire desideroso di svanire nel vuoto, ora era riuscita a scaturire in lui un senso di fastidio per essere in qualche modo incollato alla sedia. Non l’avrebbe certo potuta assecondare, ma perlomeno si promise che avrebbe cercato in tutti i modi non solo di scoprire la sua vera identità ma anche di dar sfogo alle sue sensazioni di vendetta all’oppressione.
«Non ti biasimo, Montgomery. Mi duole il cuore ma il massimo che posso fare è assegnarti un compito. Per quanto tu lo possa ritenere stupido o privo di senso, non lo è e ti farà bene. Devi credermi e se collabori ti assicuro che potrà servire. Sei disposta?»
La donna sospirò, ma gli occhi le brillavano un poco e il suo interessamento sembrò crescere.
«Che cosa devo fare?» chiese.
«Scrivere. Voglio leggere qualcosa scritto da te.»
«No, non è possibile. Ho provato a scrivere, Crispin, credimi ma… Ho sempre finito per odiare a morte ogni mia parola e non ce l’ho più fatta.»
Alf Woodstock intervenne. Crispin non poteva negarlo, a volte lo irritava molto, anche se diceva cose che senz’altro approvava.
«Ogni scrittore mentre scrive racconta di sé, è per questo che odia sempre tutto ciò che produce.»
Alf si soffiò la fronte per far spostare il ciuffo verso destra, era uno dei suoi vizi. «Dovrebbe dirglielo, dottor Cubbling, il suo intento.»
Crispin non badò al suo commento.
«No… Io odio quello che scrivo perché… Copio, prendo troppo spunto dalla vita altrui e dai loro pensieri. Magari potessi prendere spunto da me, è questo il punto!» affermò affranta Montgomery.
«Il copiare è sempre visto male, perché mai? E’ di natura per l’uomo apprendere fin dalla nascita l’arte dell’imitazione.» osservò allora lo psicologo «Altrimenti non si parlerebbe nemmeno.»
Quella risposta l’aveva usata innumerevoli volte, si ritrovava a dirla in ogni seduta. Alf Woodstock però non lo sapeva e rimase a bocca aperta del fatto che in così poco tempo fosse riuscito a formulare una frase così breve ma così efficace.
«Che cosa devo scrivere di preciso?» chiese Montie, un po’ più convinta.
«Mi piacerebbe molto sapere un po’ della tua infanzia, ma qualsiasi storia andrà bene. Romantica, fantastica, avventurosa… Se sei abile, potrai inventarla da cima a fondo, ma sappi che niente si scrive per caso!»
«Veramente mi aiuterà?»
«Su questo non ti devi preoccupare.»
«Lo faccio ad una condizione.» decise Montgomery «Voglio una macchina da scrivere.»
«Lo sai che non ce ne abbiamo qui, Montie» intervenne Alf «però se non vuoi scrivere con carta e penna c’è un computer a disposizione vicino alla segreteria.
«No, io voglio una macchina da scrivere.»
A volte Montgomery dava l’aria di essere riflessiva e intelligente, altre invece i suoi lineamenti infantili facevano pensare ad una bambina in preda ad un capriccio e quegli sguardi a Crispin sembravano essere molto familiari.
«Posso sapere perché?» chiese lo psicologo.
«Le colonne che contengono i caratteri sono esattamente allineate e aiutano a favorire la mia concentrazione. In più, la scrittura è pratica e leggibile e sul computer così non se ne trovano.»
«Se mi posso permettere, Montie…» iniziò Woodstock «il computer ti potrebbe accontentare lo stesso. C’è un carattere chiamato Courier, creato da Kettler nel ’55 ed è stato progettato per assomigliare ai caratteri delle macchine da scrivere. Lo usano spesso per i copioni delle sceneggiature, proprio per le qualifiche che tu prima hai elencato. Pensa che stava per essere chiamato Messenger ma Kettler disse "una lettera può essere solo un messaggero ordinario, o può essere il corriere (Courier), che irradia la dignità, il prestigio e la stabilità".»
«Sembra molto informato, signor Woodstock. Allora, Montgomery, ti va bene lo stesso procedere con qualcosa che ha le sembianze di ciò che desideri?»
La donna disse che le andava bene, non avrebbe certo potuto rifiutare una proposta di Alf Woodstock.
«Prima che mi dimentichi, ho fatto venire qui anche te, Alf, perché voglio accertarmi di una cosa. Il compito è assegnato solamente ed esclusivamente alla signora Graham. Non posso negare di aver notato che Montgomery si fa molto influenzare dalle sue idee. Non c’è assolutamente nulla di male, ma questa volta la mia paziente dovrà fare da sola.»
La signora Graham e il signor Woodstock non si fecero problemi ad accettare, anche se si poteva scorgere un leggere irritamento da parte dell’ultimo. Il dottor Cubbling spiegò della sua situazione e di quanto avrebbe potuto fare raramente visita alla sua paziente. Montgomery avrebbe dovuto quindi approfittarsi dei lunghi periodi per scrivere tutto quelle che le venisse in mente.
Montie accettò anche questo, anche se si sentì sempre a disagio ogni qualvolta si trovasse di fronte alla tastiera.




Ciao!

Avevo detto che sarei stata veloce... Promessa mantenuta.
Riuscite già a prevedere che cosa ci sarà nel prossimo capitolo?

Un bacio,
Desperate.

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Capitolo 5
*** Spiritose ***


SPIRITOSE
Courier

Come sia capitata con quelle sei pazze donne da rinchiudere in manicomio, per favore, non chiedermelo.
Vivevano in un appartamento circondato da oleandri, ognuna aveva un piano a testa. Credo che si fossero messe d’accordo assieme, per mettere oleandri ogni dove dico. Almeno, tutte e cinque erano d’accordo sul fatto che non volevano che portassi ragazzi né che mi sposassi. Non so bene il motivo, forse non volevano scocciature.
So solamente che mettere gli oleandri fu l’unica e sola cosa in cui tutte furono d’accordo.
Ogni lunedì prendevo la mia valigetta e facevo le scale al piano superiore, a parte il quinto lunedì in cui scendevo e ritornavo al primo.
Praticamente, con malavoglia avevano deciso di dividermi ad una settimana a testa di sopportamento. Il loro compito stava nel farmi da mangiare e fornirmi un posto dove dormire.
La prima settimana la passavo da Cliona Marina Cordula Wanda Shelfish. Mi dispiace, ma questa è la prima e ultima volta che ripeto il suo nome per intero, tant’è che ho dovuto fare uno sforzo consistente per ricordarmi tutti i suoi nomi. Non voleva essere chiamata per nessun motivo al mondo Cordula. Delle voci dicevano che il suo fidanzato la chiamava sempre così. Si doveva sposare, ma appena arrivata all’altare scappò accusando l’indecenza dei capelli dello sposo.
A volte, quando tornavo da scuola vedevo sempre un uomo scendere goffamente dal terrazzo. Ho avuto sempre la sensazione che fosse lui.
Ci teneva a sottolineare Shelfish: “con l’acca dopo la esse e con solo una elle.”
Io, per sicurezza, non la chiamavo mai. Era meglio non alterare i suoi nervi.
La signora del primo piano era estremamente abitudinaria. Amava paragonarsi ad un pesce e alla sua botola.
«Guarda» mi diceva, osservando il suo pesce «lui gira e gira qui e non ha bisogno di nulla e di nessuno oltre a, per carità, un po’ di cibo. Lui è un giusto.»
Si alzava alle cinque del mattino per contemplarlo. Se ne stava lì per ore. Poi per colazione se lo mangiava.
Mi chiedevo se presto avrei fatto la fine di quelle povere creature.
Più tardi, giocava a solitario con le carte fino a che non mi svegliavo io. Non ho mai conosciuto la sua routine pomeridiana. Alla sera era sempre lo stesso procedimento, contemplava il pesce e se lo mangiava. Poi giocava a solitario.
Le piaceva stare in casa e non l’ho mai vista uscire in vita mia.
Infatti, nel guardaroba non aveva nemmeno un paio di scarpe. Girava sempre con dei calzini grigi e sporchi, forse ce ne aveva tanti dello stesso modello, ma per me era fornita solo di quelli.
Ci sono diverse leggende sul motivo per cui non esca mai. C’è chi dice sia ricercata dalla Polizia per non aver pagato il conto dei preparativi del matrimonio. Altri raccontano che un giorno in un acquario uno squalo era così attratto da lei che spaccò il vetro e l’attaccò. Non le capitò nulla di grave, ma ne fu talmente spaventata che si chiuse in casa e non uscì mai più.
La sua storia, comunque, è stata vincolata da questo suo lato casalingo. Mi raccontò che i Pirati Graham durante la notte con la loro nave erano andati addosso alla casa, abbattendo il muro. Moribondi e pieni di sangue a causa del tragico incidente, mi avevano consegnata a lei e le avevano chiesto di prendersi cura di me. Da quel giorno aveva odiato a morte i Pirati.
Essendo sincera tutte le voci di cui hai sentito parlare, Crispin, non sono altro che Dulce Redshark: la signora del secondo piano.
Non volevo introdurla prima del tempo perché desideravo procedere per un filo logico.
Dulce Redshark mi raccontò che un giorno un angelo le apparse e le comunicò che io sarei arrivata e che lei sarebbe dovuta essere la mia guida. Forse la sua storia ricorda troppo Maria e la comparsa dell’angelo Gabriele.
Ma ne raccontava tante, di storie. Io sapevo che quello che mi diceva non era assolutamente vero ma mi divertivo comunque a sentirla. Molte sere parlavamo fino a notte fonda, sentendo qualche sparo, a volte (ma andiamo con ordine).
Sosteneva che in ogni pettegolezzo ci fosse una realtà fondata, seppur minima.
Io mi fidavo di lei e le dicevo tutti i miei segreti, anche se pochi giorni dopo scoprivo che già tutte le donne dell’appartamento ne erano a conoscenza.
Ricordo, per esempio, che le avevo raccontato del mio primo amore, un mio compagno di classe. Si chiamava White, White Guide. Le avevo raccontato ogni singolo dettaglio. Di quanto bene si esprimesse, di come mi facesse sentire diversa e di quanto noi due insieme fossimo diversi. Il giorno dopo trovai i famosi oleandri in tutte e cinque le terrazze. Mi sono dimenticata di accennare che quelle piante portano sfortuna agli amori delle figlie femmine in famiglia. Perlomeno mi consideravano una figlia, fu una grande soddisfazione per me.
Eppure, mi era impossibile non dir nulla a Dulce Redshark. Era sì la donna più pettegola che avessi mai conosciuto, ma qualcosa mi spingeva a parlarle anche dei sentimenti più intimi. Credo fosse stata la chiave del suo successo come confidente.
Certo, se avesse venduto le informazioni che dava a questi tempi sarebbe già milionaria. Peccato che non l’abbia fatto.
Oltre a discutere dei fatti altrui, Dulce amava la cucina. Mi vedeva sempre fin troppo magra e mi preparava di tutto. Io, dopo tutto il pesce che ero costretta a mandare giù con la signora del primo piano, non mi lamentavo di certo.
Adoravo entrare nella sua casa e sentire quegli odori che facevano sempre venire l’acquolina in bocca. Era come se già il profumo si potesse mangiare. E mi bastava il naso, per saziarmi.
Dulce Redshark un difetto ce l’aveva. Non era per niente ordinata. Buttava tutto all’aria, quando cucinava lo faceva dappertutto: pavimento, letto, vasca da bagno…
«Ho fin troppo!» diceva sempre allegramente. Non aveva tutti i torti. Credo che Dulce si occupasse anche di molte delle faccende della signora del primo piano.
Sicuramente era lei a comprarle il pesce e forse a volte glielo cucinava anche, ma comunque faceva sempre la spesa per tre.
Dulce di aspetto era come ognuno di noi se la può immaginare. Non era bella, era abbastanza robusta e si vedeva che aveva la gola per la buona cucina. Ma c’era qualcosa in lei che la faceva rendere simpatica a prima vista. Forse perché era sempre sorridente, anche dopo che le cadevano cento piatti di cera da un cassetto troppo pieno, o dopo che faceva andare la cucina a fuoco. O forse per i suoi modi goffi, chi lo sa. A volte sono proprio i difetti a caratterizzare una persona e a renderla diversa. Sì, credo proprio sia così.
Ti ricordi che ho detto che a notte fonda sentivamo degli spari se io e Dulce facevamo troppo baccano?
Beh, stiamo parlando di Orida Desserteagle. Il più spregiudicato individuo in circolazione sulla terra.
«Non dovresti badare alle cianfrusaglie che dice quella Redshank,» mi urlava (non conosceva i toni bassi, probabilmente) con ribrezzo e sottolineando la enne in modo eccessivo «prima o poi quella là…»
Non finiva mai la frase, ma lo vedevo stringere sempre il suo fucile. Dulce mi diceva che se lo metteva sotto il cuscino durante la notte e mi aveva chiesto di andare a controllare. Non ci pensavo nemmeno.
Anche mentre dormiva riusciva a fare confusione, russava talmente forte che passavo intere notti insonni. Grazie a lei, però, sono diventata una lettrice accanita.
Orida odiava i gatti. La sera si metteva sempre fuori in terrazzo e li mirava urlando loro offese. Poi era lei a non volere baccano.
Orida odiava il profumo che saliva dalla casa di Dulce alla sua. Odiava tutto di Dulce.
Ripensandoci, Orida odiava tutto in generale.
Mi lanciava in tavola sempre dei sandwich, e io, abituata ai piatti della settimana che era venuta li trovavo disgustosi. Non mangiava mai con me, a dire il vero non sapevo neanche se mangiasse.
Forse odiava il cibo?
Almeno aveva un amore spassionato per la guerra, sempre meglio di niente.
Sosteneva che servisse per mantenere l’orgoglio e la dignità. Mi parlava sempre dell’importanza del principio di questi.
Come esempio mi raccontava della Guerra di secessione e dell’ammirevole intervento della città di Montgomery.
Dulce Redshark diceva che si era travestita da uomo e ci aveva partecipato in persona, ma a questo non ci avevo mai creduto perché sarebbe stato a dire che Orida aveva passato i cento anni da un pezzo.
Anche la sua età è sempre rimasta un mistero. A guardarla sembrava sulla settantina ma a vederla… Le sue rozze espressioni, i suoi modi e la sua troppa energia… No, non poteva essere.
Lei mi raccontò che fece un lungo viaggio in Texas e che mi vinse ad un duello all’alba con un abile pistolero che tutti chiamavano Graham. Mi confessò che avrebbe preferito perdere. Ma io non davo molto peso a quello che mi diceva.
Dulce Redshark diceva che conosceva personalmente suo marito, «quel buon uomo giusto e devoto», e un giorno di lui non si seppe più nulla. Inutile citare il responsabile.
Personalmente credo che non si sposò mai, chi gliel’avrebbe fatto fare?
Sarebbe stata più probabile la voce che circolava dicendo che Orida mentre dormiva si metteva il ciuccio, come Dulce sospettava. Immaginarla con dei fiori e un abito da sposa sarebbe stato come pensare ad un astice che si mette da solo in padella a friggere.
Al contrario di Dulce, Orida Desserteagle non si faceva imbrogliare da nessuno. Fu lei a trovare tutti i nascondigli in cui mettevo le sigarette. Me le buttava fuori dalla finestra, non faceva nulla di più. Chi si interessò di più a questo problema fu la signora del primo piano. Era possessiva e terribilmente gelosa, da quando seppe che avevo cominciato a fumare non mi lasciava più nemmeno uscire, durante la sua settimana. Però, non mi chiese mai perché fumassi. Forse le sarebbe interessato.
Orida scopriva sempre anche quando buttavo via il suo panino o se Dulce veniva a portarmi del cibo fatto da lei. Non lo voleva assolutamente. Chissà perché, si sarebbe risparmiata la seccatura di prepararmelo ogni giorno.
Già, dimenticavo: «per orgoglio, per dignità e per principio».
Chi è Reetha Scatterbrain? Forse se l’è dimenticato pure lei.
Viveva al quarto piano, ma spesso non se lo ricordava e cercava inutilmente con le chiavi di aprire la porta di casa di Orida. Non voglio spingermi a raccontare le reazioni della signora Desserteagle.
Reetha era una maniaca dell’ordine e della pulizia. Prima si era proposta per pulire tutti gli appartamenti perché voleva racimolare qualche soldino, ma tutte dopo le prime esperienze l’avevano rifiutata.
Non si ricordava mai della settimana in cui mi doveva tenere e spesso si meravigliava quando bussavo alla porta.
«Chiedo scusa per il disordine» mi diceva ogni volta «ma non sapevo mica che dovevi venire.»
Io mi guardavo sempre intorno, ma non trovavo mai niente fuori posto. Se devo essere sincera, non l’ho mai vista tirare fuori qualcosa. In mia opinione non si ricordava dove metteva ogni cosa. Voleva solo eliminarle dalla sua vista. Erano come l’acqua sul pavimento, lei puliva quest’ultimo per togliere ogni traccia di sporco con la piena consapevolezza che non avrebbe più avuto di che dissetarsi. Le bastava solo vedere tutto scomparire e non aveva il minimo interesse per il destino dei suoi ricordi nascosti.
Quindi, tutti i suoi oggetti venivano trascurati. Anche Reetha trascurata un po’ lo era. Aveva sempre l’aria di una persona affranta. Le occhiaie ogni giorno che passava erano sempre più evidenti e con loro la stanchezza di vivere.
Dulce Redshank diceva che era ricchissima e che non aveva certo bisogno di «qualche soldo da racimolare», ma evidentemente questo non se lo poteva ricordare.
Ha detto che molti anni ha lavorato come modella per molte pubblicità, specialmente nel settore di creme. Poi però ha deciso di mollare perché non era abituata a tutte quelle attenzioni.
Era molto timida e non mi parlava molto. Era dolce, però, e mi sorrideva spesso. I suoi modi erano molto graziosi. La sera veniva sempre nella mia stanza per augurarmi la buonanotte e io l’aspettavo sempre.
«Credimi» mi diceva Dulce «le abitudini sono molto più potenti della buona memoria.»
La signora del terzo piano sosteneva fermamente che Reetha avesse una figlia molto tempo prima, ma un giorno il padre se ne andò portandola via. Lei nemmeno se ne accorse.
Io un po’ ci credevo. Anche perché spesso mi chiamava Lethe (sono ancora incerta su come si scriva).
Dulce dice anche che un giorno sua figlia fuggì dal padre e volle tornare dalla signora Scatterbrain, ma questa non la riconobbe.
Mi chiedo come ci si possa sentire a non essere riconosciuti dalla propria madre.
Provavo molta compassione per lei. Percepivo che era sempre altrove con la testa, persa, ma credo che lo facesse di proposito. Chissà, magari lassù il mondo era cento volte meglio. Perché stare qui?
Non mi raccontò mai nessuna storia su come fossi capitata a vivere con loro, e io non insistei notai di averla messa parecchio in difficoltà e lasciai perdere.
Anche se parlava molto poco, credo che gradisse la mia compagnia. Sembrava felici di avermi con sé. Le piaceva pettinarmi e farmi le treccine. A volte mi comprava anche da vestire.
Peccato che nessuno l’abbia amata.
Ingrid Buzzwords fece una storia molto articolata della mia venuta e si divertì molto. Correva l’anno 1871, quando l’avvocatessa Ingrid Buzzwords, amica di Antonio Meucci, riuscì a trovare delle prove che dimostravano la paternità dell’invenzione del telefono.
Ingrid non era mai riuscita ad avere figli, la sua carriera non le permetteva di pensare nemmeno a trovare marito. Alexander Graham Bell, tuttavia, riuscì a corromperla donandole una delle sue figlie illegittime, avuta con una contadina: Georgia Countryman.
Ingrid si sentì quasi costretta ad accettare, a volte si sentiva terribilmente colpevole nei confronti di Meucci ma ripeteva sempre: «come disse Shakespeare, “il sospetto tormenta sempre le menti colpevoli”.»
Adorava citare frasi altrui, non credo che capisse sempre ciò che ripeteva. Molte volte mi sembrava che le prendesse a caso e le diceva solo perché aveva voglia di far vedere quanto fosse acculturata. Si esprimeva con un linguaggio abbastanza antico.
Guardava film dalla mattina alla sera, la sua casa era una biblioteca di cassette.
Spesso, per farsela simpatica, prestava qualche pellicola di guerra ad Orida.
Sulla porta di casa aveva messo una frase di Woody Allen, «è assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla televisione.»
In questo modo, Reetha Scatterbrain sapeva che quella non era la sua porta.
Devo dire che era piuttosto egocentrica e non avere compagnia a poco a poco la stava uccidendo.
A volte a casa venivano dei fotografi e truccatori che lei pagava. Dopo qualche ora di trucco, si faceva immortalare. Ci sono un sacco di sue foto in giro per casa, vicino a quelle di Marylin Monroe, di Rita Hayworth e di Audrey Hepburn. Quasi come se desiderasse appartenere a quel mondo.
Di solito, sceglieva che cosa guardare in base al suo umore. Quando era triste voleva vedere qualcosa di drammatico, se voleva ridere qualcosa di comico, se si sentiva romantica qualcosa di sdolcinato, se si sentiva aggressiva qualcosa di violento e così via.
Negli ultimi anni, però, iniziava a guardare sempre cose sulla morte. Erano film introspettivi, poco noti. Erano cupi e pieni di riflessioni.
«Tu lo capisci?» mi aveva chiesto un giorno in cui mi ero seduta accanto a lei per guardare una di quelle opere cinematografiche «Il film, dico, lo capisci? Perché io non capisco un accidente, che diamine! E’ meglio morire piuttosto che non capire, ricordatelo sempre, Montgomery.»
Era divenuta più scorbutica, strana, i suoi discorsi non avevano né capo né coda. Spesso si atteggiava come la signora del primo piano. Credo avesse una profonda stima per lei.
Ha detto che le avrebbe lasciato l’appartamento, una volta morta. E me lo aveva ripetuto molte volte, che presto sarebbe morta.
«Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto» continuava a leggermi, dal libro “Walden, vita dei boschi.”
Ma io, abituata alle stravaganze delle donne, ignoravo che cosa mi diceva. E feci molto male.
Non mi resta che introdurre l’ultima donna dell’appartamento: Shawnee Shady.
So che le mie parole possono sembrare metaforiche ma non riuscirei a spiegare il mio rapporto con lei in modo diverso. Shawnee amava stare nell’ombra, questo è sicuro. Ma “ombra” non è inteso come luogo chiuso, come prigione. Era completamente diversa dalla signora del primo piano. Insomma, Cliona non si sentiva a disagio nel posto in cui stava. Mentre la signorina Shady sembrava attratta da ciò che considerava tenebra, ma costretta a stare in ciò che considerava luce. Ma a lei piaceva tutto questo: la tenebra, l’ombra, l’oscurità. Eppure si costringeva a stare in un posto in cui non voleva essere.
Aveva qualcosa che ricordava caratteristiche di tutte le vicine: ma lei le tagliava, le univa, le stropicciava e le modificava.
La notte aveva molti incubi. A volte si svegliava, urlando dal panico. Dovevano passare ore perché i suoi terribili sogni e la sua vita a sé stante si dividessero e si delineassero ben bene.
Dulce diceva che lei non era mai conscia di ciò che faceva, oppure lo era, ma pensava sempre di essere in un sogno.
«Ma Dulce» le ripetevo sempre io, «se la sua vita è un sogno fin dalla nascita per lei non è vita ugualmente?»
Lei mi diceva di stare all’erta perché avrebbe potuto rappresentare un pericolo, avrei dovuto prendermi cura di lei e farle le veci. Dulce a volte dubitata addirittura che fosse un fantasma morto da tempo che solo noi dell’appartamento eravamo in grado di vedere.
Quando, di notte, si alzava e vagava attorno alla stanza io tremavo dalla paura.
Ma la mia paura era diversa da quella che provavo con Orida. Quella con Orida era una paura brusca, soggettiva. Era una paura impulsiva, come quando ci si mette sotto i tavoli durante un terremoto.
Mentre la paura che provavo con Shawnee era come delle note musicali, apparentemente dolci, ma che non si vogliono suonare perché prima o poi arriveranno ad una fine. Insomma, era una angoscia che pian piano si accumulava, fatta di ricordi e di orrore per le conseguenze mai avvenute ma sempre immaginate.
Ma in fondo Shawnee non aveva colpe e nessuno l’avrebbe potuta capire. Credo di essere stata il mezzo giusto per confortarla, per rasserenarla a volte.
Come Ingrid negli ultimi anni, anche lei viveva in quest’angoscia.
Ma mentre Ingrid sembrava affranta da qualcosa di specifico, seppur nascosto, Shawnee era terrorizzata come modo di essere. Ce l’aveva nel sangue. Era come un impulso.
E solo io l’avevo capito. Solo io l’avevo capita. Nessuna delle altre signore sarebbe stata in grado di farlo.
Era una donna giovane, piccola, con una voce che racchiudeva grazia in mezzo al suo tormento. Lei mi raccontò di avermi trovata mentre mi tuffavo in un fiume, raggiungendolo a gattoni, senza conoscere né temere la morte.
«Non riuscii a salvarti, ma portai una parte di te con me» farfugliava nel sonno.
La Domenica a pranzo andavamo tutte a mangiare dalla signora del primo piano.
Veniva anche la signora Ginger Biber, la portinaia. Non conosceva mai l’abbigliamento adatto da portare. D’inverno era sempre in maniche corte, con il caldo si metteva i piumoni. Al contrario di Dulce, che le cose me le raccontava, lei invece me le chiedeva. Era interessata a sapere tutto di me e di loro. Ma credo fosse abbastanza riservata da tenersele per sé. Forse lo faceva più per avere un argomento con me di cui parlare.
Un giorno, quando ero già più grande, Orida dopo le varie denunce di disturbo alla quiete pubblica fu convocata al tribunale di Maycomb. Lì incontrai l’avvocato Atticus e con lui fuggii.
Dopo poco tempo, Dulce e Cliona mi scrissero una lettera, la quale mi incolpava della morte di Ingrid Buzzwords.
Ingrid era morta, e Shawnee Shady era la colpevole. Ma la vera responsabile ero io, per essermene andata. L’avevo preveduto, ma avevo preferito scappare. Shawnee era impulsiva e non rifletteva, sognava. Ma io lo sapevo e non ho fatto nulla. Non mi invitarono al suo funerale. Avrei potuto andarci comunque, ma non ci andai. Avrei voluto vedere la signora del primo piano finalmente uscire di casa, per andare al funerale. Ma non potevo. Avevo ucciso una vita umana. L’avevo preveduto, era come se la notizia non mi avesse sorpreso. Eppure pur sapendolo avevo preferito restarmene lontana, con la mia nuova vita. Le donne che mi avevano allevato ora mi rinnegavano.
Non era meglio fare come Reetha Scatterbrain? Non era meglio semplicemente dimenticarle?


 
Il telefono vibrava nel tavolo dello stesso colore di  quell’alba di prima mattina, ma Crispin interrotto dalla sua occupazione rimase ad osservarlo per qualche istante, prima di rispondere. Strano. Non era mai stato così assorto dagli scritti dei suoi pazienti.
Fu soddisfatto di essere anche lui un personaggio della storia, non gli era mai capitato. Anche se ci volle un po’ per riconoscersi, ma certo non poteva negare che Montgomery l’avrebbe potuto rappresentare solo come Ginger Biber: è lì, una semplice usciera che le apre le porte, sa tutto di Montie e osserva la sua storia senza mai raccontare della propria.
Al contrario, riconobbe alla velocità della luce Alf Woodstock. Chi se non il discorde White Guide?
Il dottor Cubbling si era chiesto spesso se la sua paziente avesse una relazione di cui lei stessa non ricordava e grazie agli oleandri ne ebbe la conferma. Montgomery, inconsciamente, era in conflitto con la sua identità precedente e sentiva una forte rivalità immaginaria crescere tra Alf Woodstock e il fidanzato, marito o quant’altro.
Per aver letto solamente l’inizio era già ad un ottimo punto. Anche se, purtroppo, due anni erano passati dalla prima seduta con Montgomery. Passava di rado e le poche volte che le faceva visita Montie non aveva niente da consegnargli. E quando gli veniva dato qualcosa Crispin si prometteva di leggerlo, ma lo rinviava sempre al giorno successivo. Quel giorno, invece, si era messo di buona volontà e si era alzato presto per avere il tempo necessario.
«Pronto?» disse emettendo uno sbadiglio che non riuscì a trattenere. Poi, però, il sonno senza rimedio che gli aveva appesantito la sua lettura interessata svanì con poco.
«Demodocus, non urlare, calmati! Non riesco a capire nulla. Fai un bel respiro e ripeti» lo rassicurò Crispin mentre si dondolava sulla poltrona.
«Com’è possibile?» il dottor Cubbling per poco non cadde.
«Ma non c’è nulla da fare? E... Tuo padre, dov’è tuo padre?»
Crispin cercò di contenersi, com’era sempre solito fare.
«Tuo padre è alla pescheria dalle cinque quindi non sa nulla? Ma l’hanno portato già via, non c’è nulla da fare? Demodocus, tu dove diavolo sei? E i tuoi fratelli più piccoli dove sono? Chi li avviserà?»
Solo che questa volta non ci riusciva.
«Tu andrai alla pescheria, io vado dai tuoi fratelli. Ma Demodocus, io non me la sento, lo sai che non sono la persona adatta!»
«Lo so che sono uno psicologo ma…»
Purtroppo era l’unico rimasto.
«Va bene, Demodocus, va bene. Non sai quanto mi dispiace, non sarà facile.»
Il dottor Cubbling gettò all’aria il telefono.
No, non sarebbe stato facile. Nemmeno per lui.
Si immaginò Nestor venire trasportato di corsa all’ospedale, sanguinante. E le facce compiaciute dei dottori, che scuotevano la testa.
Com’era possibile?
Nestor era morto. E niente per loro sarebbe tornato come prima.



Chiedo scusa a quei pochi poveri lettori!
Ho avuto dei problemi con internet, mi dispiace.
Non manca molto alla fine. Mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate.
Se avete letto, vi invito a dire anche solo che fa schifo, se non vi è piaciuto.
Grazie, comunque.
Un bacione,
Desperate

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