Lai dei Monti

di Delirious Rose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** XIII ***
Capitolo 15: *** XIV ***
Capitolo 16: *** XV ***
Capitolo 17: *** XVI ***
Capitolo 18: *** XVII ***
Capitolo 19: *** XVIII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


b Prologo a

 

Con un fragore di legno spezzato, il manipolo di soldati sfondò la porta e si lanciò lungo la scala che si avvolgeva a spirale nel corpo della torre.

«Presto! Presto!» urlò un uomo, l’occhio sinistro nascosto da una benda sporca di sangue mezzo rappreso e che non copriva completamente la ferita. Delle frecce iniziarono a piovere su di loro, e lui ringhiò: «Alzate quei cazzo di scudi e proteggete la Sua Eccellentissima Signoria!»

L’ordine fu eseguito con qualche difficoltà, dovuta più allo scarso spazio che alla volontà dei soldati, eppure qualcuno riuscì a sollevare lo scudo su un cavaliere dall’armatura finemente decorata e dall’elmo forgiato come la testa di uno sparviero, che alzò appena il capo per valutare il numero dei nemici e la loro disposizione.

«Fin quando le guardie ci attaccheranno, saremo ancora in tempo. Ma una volta che quell’abominio avrà finito, sarà la fine per noi,» ringhiò abbastanza forte da essere sentito dai soldati che lo circondavano, quindi aggiunse con un grido: «Ricordate che l’Innominabile è mia! Per i Santi Gemelli ed Elanne!»

Quell’incitazione ebbe l’effetto sperato e, come un’onda di marea viva, gli uomini avanzarono con furia crescente. La lotta sulle scale si faceva più aspra con ogni scalino, ogni ballatoio guadagnato e quando riuscirono a raggiungere l’ultima rampa, una botola si aprì nel ripiano e dell’acqua bollente si riversò su di loro. Alcuni soldati urlarono per il dolore e, con un gesto repentino, l’uomo dall’occhio bendato spinse contro il muro il cavaliere, proteggendolo con il suo stesso corpo.

«Siamo ancora in tempo!» sibilò con una vena di gioia malsana nella voce.

L’altro esitò un attimo, cercando di trovare lo sguardo del suo signore dietro la visiera dell’elmo, senza riuscirci. «Vostra Eccellentissima Signoria, quella che volete compiere è un’empietà. Siete certo di voler…»

Un urlo quasi disumano gli fece morire le parole in gola, mentre schegge di legno e parti umane iniziarono a piovere su di loro. Un mostro d’uomo, dalla pelle piena di tagli e di un colorito innaturalmente verdastro stava distruggendo la botola a colpi d’ascia, incurante che nel processo si trovassero sotto i fendenti nemici o amici, e quando ritenne d’aver allargato sufficientemente l’apertura, s’issò nella stanza posta sulla sommità della torre.

«Andiamo, prima che Grodega mi rubi la mia preda!» ringhiò il cavaliere, scostando gli uomini dal suo cammino con dei gesti impazienti.

La maggior parte delle guardie presenti nella stanza era impegnata con l’uomo dalla pelle verdastra oppure giacevano in pozze di sangue vivo: il cavaliere ignorò quell’opera da macellaio e si diresse a passo spedito verso la tenda giallo oro che delimitava un’alcova, protetto da alcuni dei suoi uomini che lo avevano seguito.

«Non ti permetterò di avanzare oltre, Calliram Gabirai!» gli urlò un uomo sbucando da sotto la tenda e calando la propria spada su di lui. «Non ti lascerò torcere un solo capello alla mia cara Perinni!»

L’uomo dall’occhio bendato parò il fendente e lo ingaggiò in un duello.

«Avresti dovuto pensarci prima di rifiutare mia sorella per quell’abominio, Anchar re di Agrirani,» sogghignò in risposta, quasi sputando con disprezzo quelle ultime quattro parole mentre si toglieva l’elmo e alzava la propria spada sulla tenda.

La testa della levatrice rotolò via con uno sprazzo di sangue e il corpo si accasciò in avanti.

«Per i Santi Gemelli ed Elanne!» ripeté a pieni polmoni, mentre conficcava il proprio pugnale nel ventre della partoriente.

Quella che volete compiere è un’empietà, ripeté la voce del suo braccio destro mentre Calliram Gabirai colpiva di nuovo la donna al petto. Allontanò mentalmente quel pensiero, il viso altero deformato in un ghigno sadico: forse la bellezza esotica sbattuta dal travaglio avrebbe ingannato i più, ma non gli occhi, non quegli occhi così simili a quelli di un neonato. Perché Perinni di Agrirani aveva solo l’aspetto di donna ma non la natura. Perché Perinni di Agrirani era un’Innominabile, un abominio della peggior specie, che solo in quel momento – col ventre ancora gravido – poteva essere ucciso dalla lama o dal veleno, dall’acqua o dal fuoco, dalla terra o dall’aria.

Perinni di Agrirani lo fissò con gli occhi sgranati e gli strinse il polso con una forza inaspettata.

«Ti ammanti di propositi pii ma leggo nei tuoi occhi che sei qui per quel dono che spetterebbe alla mia progenie,» mormorò con una voce sottile e liquida, «per cui imprimi nella tua mente queste parole, Calliram di Vernolia.
«Due volte la tua lama ha affondato in un santo grembo, due volte hai peccato contro i tuoi stessi déi: possano tutte le tue speranze essere come germogli arsi dal gelo e come arbusti avvizziti dalla calura.»

«Non so che farmene delle tue bestemmie, abominio,» rispose lui squarciandole il petto.

E mentre la vita abbandonava Perinni di Agrirani, Sua Eccellentissima Signoria, Suurinos Calliram, calò il proprio sorriso sulla ferita e assaporò quel sangue empio che lo avrebbe protetto dalle lame e dai veleni dei suoi fratelli. Solo quel pugnale che stringeva nella destra, ormai, aveva il potere di porre fine ai suoi giorni, ma era suo e lo avrebbe distrutto.

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Capitolo 2
*** I ***


b I a

 

 

 

La strada che partiva da Passo Palandum e arrivava a Bordos-sul-Sandalo, era costeggiata da un lato dal fiume e dall’altro da appezzamenti di terra circondati da siepi: la loro funzione primaria, era di delimitare campi, frutteti e pascoli, ma l’apparente incuria li trasformava in pericolosi nascondigli per dei ribelli in agguato. Era per questo motivo che il Comandante Hraustrion Relda, nominato Viceré di Agrirani da Sua Eccellentissima Altezza Suuritnias Calliram all’inizio dell’estate, aveva ordinato che il suo predecessore fosse scortato fino ai confini con Vernolia.

Anche se farebbero un enorme favore a Sua Eccellentissima Altezza, togliendogli dai piedi quell’inetto di genero, era stato il commento che, la sera prima, aveva fatto il nuovo Viceré alla presenza della moglie, della concubina e due dei figli che lo avevano seguito ad Agrirani. Ma quel fantomatico Principe, che sette anni prima aveva dato il via alla ribellione contro il dominio straniero, non aveva voluto far questo favore e gli uomini di scorta stavano tornando nella capitale senza che alcuno li avesse attaccati. Quarantacinque fra fanti e cavalieri, e altri cinque che sorvegliavano la strada dall’alto, in groppa ai loro draghi, che non avevano fretta di tornare, perché il compito affidatogli si era rivelato più leggero di quello che avevano creduto.

Una delle cinque silhouette ondeggiò un attimo, prima di calarsi fra il fiume e la strada, incurante del nervosismo che l’arrivo improvviso del drago aveva scatenato nei cavalli.

«Qualcuno si sta avvicinando,» disse il giovane, mentre con una mano guantata accarezzava il collo del rettile per calmarlo.

Uno dei cavalieri in rosso sfilò un tubo d’ottone dal proprio tascapane e si sollevò dalla sella, premendo lo strano strumento contro l’occhio destro.

«Che cosa vedi con quell’aggeggio, Mercante?» chiese il capitano con una punta di diffidenza.

«Si chiama cannocchiale, signore: se ha permesso al capitano della Regina Ornies di sventare degli attacchi dei pirati, allora può essere utile anche per dei miserrimi soldati come noi.
«È una donna… una guaritrice e… sta andando verso la fattoria,» disse infine, prima di riporre il cannocchiale.

Il giovane in sella al drago lo fissò corrugando la fronte. «Come puoi essere certo che si tratta di una guaritrice, Galas? Si racconta che alcune donne di Agrirani prendano un’arma per marito.»

L’altro rise. «Portava i calzoni e cavalcava come un uomo, inoltre credo di averla incrociata un paio di volte al mercato: se sorridesse un po’ di più, uno potrebbe anche farci un pensierino.»

Heran strinse le labbra a quell’ultimo commento: se le donne di Agrirani avevano fama d’essere di facili costumi, questo non giustificava certi atteggiamenti da parte dei suoi compagni. Tuttavia, quel pensiero lo distrasse solo un attimo, perché avevano almeno un’altra ora prima di arrivare a Bordos e in quell’arco di tempo poteva accadere tutto e il contrario di tutto: spronò il drago per riferire agli altri quattro cavalieri che sorvolavano l’area la non pericolosità dell’individuo.

Una nota lunga, due corte, e la nota lunga fu spezzata all’improvviso. Dalla sua posizione a mezz’aria, Heran vide chiaramente i ribelli sbucare dalle siepi e prendere i soldati alle spalle e di fianco, lasciando loro come uniche vie aperte la strada e il fiume: fece per ritornare al suolo, ma un’ombra, immensa, oscurò il sole facendo imbizzarrire i cavalli e perfino i draghi.

«Calmo, Mornaü, calmo,» sibilò fra i denti, cercando di riprendere il controllo sul rettile.

L’ombra scura sfrecciò poco distante, troppo simile a un getto di liquido per essere una comune bestia: le ali si spiegarono larghe, sostenendo un corpo un po’ drago e un po’ uccello dal piumaggio di un bruno iridato, i grandi occhi come oro liquido fissi sul giovane cavaliere.

“Un’Innominabile,” pensò Heran con un nodo alla gola.

Non avevano armi per contrastare quell’essere immondo ed empio, che fossero di metallo o legno o sottile veleno; perfino i loro cinque draghi silverini erano come dei gattini appena nati al cospetto di quella creatura. Heran pregò mentalmente i Santi Gemelli ed Elanne per avere, almeno, una morte gloriosa e spronò Mornaü contro l’Innominabile: per la prima volta, il drago non solo non obbedì, ma si ribellò al giovane che portava in groppa e si dimenò come se volesse liberarsi di un insetto fastidioso. Heran strinse con tutta la sua forza le redini, ma un colpo di reni lo disarcionò: e nell’attimo preciso in cui sentì il proprio corpo rovinare sulla riva sassosa del fiume, vide una seconda Innominabile librarsi nel cielo terso.

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Capitolo 3
*** II ***


b II a

 

 

 

Quando riaprì gli occhi, Heran si trovò in un ambiente sconosciuto, a malapena illuminato da un bagliore rossastro che filtrava attraverso una tenda. Il cavaliere ispezionò con lo sguardo la stanza: il giaciglio in cui era disteso era abbastanza grande da accogliere due persone ed era impregnato di un odore d’erbe e di qualcos’altro che non riusciva a individuare; i suoi abiti erano stati ripiegati su una cassapanca e la lancia era appoggiata vicino alla tenda. Fece per alzarsi e solo allora comprese che una fasciatura gli bloccava il braccio e la spalla destri, ma a parte questo e un’insolita spossatezza, si sentiva in grado di combattere se fosse stato necessario.

«Farvardin! Perinni!»

La destra di Heran scattò istintivamente al fianco, lì dove abitualmente avrebbe incontrato l’impugnatura della lancia, e il movimento improvviso ebbe l’effetto di propagare nel braccio e nel resto del corpo un dolore così acuto da mozzargli il fiato, eppure nessuno entrò nella stanza, nessuno giunse per porre fine alla sua vita. La voce urlò di nuovo qualcosa nella lingua locale, carica di rabbia mista a qualcosa che s’imparentava al rispetto. Trattenendo il respiro, Heran si alzò dal giaciglio e si avvicinò alla tenda: riusciva a malapena a intravedere l’uomo cui apparteneva la voce – forse un boscaiolo o un cacciatore – ma non i suoi interlocutori. Lo vide ringhiare e sputare sul pavimento di terra battuta alla risposta, leggermente stizzita, pronunciata da una donna, quindi incrociò le braccia sul petto mentre chiedeva qualcosa con una punta di sfrontatezza: a parlare fu un’altra donna, più giovane della prima, che nominò due villaggi e poi una parola – nidtou. Heran ebbe la quasi certezza che stavano parlando di lui, poiché quella era una delle poche parole agriranensi di cui conosceva il significato, il termine con cui i locali chiamavano i soldati di Vernolia. L’uomo alzò le mani al cielo e roteò gli occhi, soffiando un’imprecazione, e la ragazza gli si avvicinò e gli porse un pacchetto.

Heran sentì muscoli che non sapeva tesi rilassarsi appena, una volta che l’uomo uscì dalla capanna: le due donne tacevano, come se volessero parlare di qualcosa, ma non sapendo come introdurre l’argomento. Infine la più anziana disse qualcosa e la ragazza scosse la testa: il giovane si sentì inaspettatamente in imbarazzo nell’udire quelle parole, come se una parte nascosta della sua mente ne avesse colto il significato. Si disse che forse era meglio far finta d’essere ancora privo di sensi, ma non fece neanche in tempo a voltarsi verso il giaciglio, che sentì una presa alla nuca.

«Credevo che voi Uomini Liberi di Vernolia vantaste un’educazione superiore alla nostra, e origliare non è per niente buona educazione…» lo sbeffeggiò la donna più anziana usando la lingua franca, tenendolo come se fosse un gattino.

«Ed io, che voi donne di Agrirani non conoscete il pudore,» fece lui di rimando, indicando con il naso i propri abiti e cercando di non lasciar trapelare il proprio imbarazzo.

«In effetti non è la prima volta che vediamo un uomo nudo come il giorno in cui è nato: renditi presentabile prima di venire di là, se ci tieni così tanto.» E lo scaraventò in malo modo.

Heran si chiese che cosa gli stava succedendo, era come se gli anni di addestramento non fossero mai esistiti: Mornaü non si era mai comportato in quel modo, neanche durante la domatura, e lui si era appena fatto cogliere alla sprovvista da una donna.

“Forse è a causa della caduta o di qualche erba medicinale che mi hanno dato mentre ero incosciente”, pensò mentre indossava la tunica: esitò un attimo sul prendere la lancia con sé, poi la strinse quasi con disperazione prima di scostare la tenda.

La stanza era illuminata dalle fiamme che danzavano nel focolare e da una lampada di terracotta poggiata al centro del tavolo; appese alle travi del soffitto c’erano fasci d’erbe essiccate cui si alternavano salsicce e prosciutti salati; un forte odore pareva provenire da alcuni vasi allineanti lungo le mensole e le due donne lo fissavano in silenzio, guardinghe, come se fosse una fiera selvatica di cui era impossibile prevedere le reazioni. La luce rossastra delle fiamme facevano sembrare l’espressione della più giovane ferina, e Heran fu stupito di riconoscere in lei una ragazza che a volte aveva visto accompagnare Saba, un nobile agriranense che si era messo al servizio di Sua Eccellentissima Altezza e degli uomini che lo rappresentavano a Bordos-sul-Sandalo. Non doveva avere più di vent’anni, i capelli scuri raccolti in una treccia e abbigliata con il tipico giustacuore delle donne agriranensi e dei calzoni di cuoio morbido; un singolo orecchino di osso le pendeva dal lobo destro, identificandola come levatrice o guaritrice. L’altra donna aveva un’aria ancor più selvatica, con la sua pelle d’ebano e la parte inferiore del suo volto era coperta da una fascia di stoffa scura, secondo l’uso di Kima. Qualcosa che non riusciva a decifrare nella sua figura, metteva il giovane a disagio.

«A quanto pare ti sai reggere in piedi da solo,» esordì la ragazza, inarcando un sopracciglio, «voi Uomini Liberi di Vernolia siete più resistenti di quanto immaginassi.»

«Non si diviene cavaliere in un solo giorno raccogliendo margherite,» rispose Heran, ricambiando lo sguardo.

«E ha pure una bella lingua! Chissà se sarebbe riuscito a tenere a bada Ubarna a belle parole!» rise la donna di Kima. Poi scosse la testa, mormorando qualcosa a se stessa, quindi aggiunse: «Basta con le chiacchiere e spicciati a levarmi dai piedi il nidtou, altrimenti arriverà per l’ora di pranzo. E tu, non ti illudere di partire con il ventre pieno del nostro pane e del nostro sale!» concluse agitando il dito contro Heran.

«Non mi offre neanche un bicchiere d’acqua?» ribatté lui sarcastico.

«Troverai una pozzanghera lungo il cammino cui abbeverarti, non ti preoccupare. E ora, sciò! E tieni le mani lontano da Perinni o avrò il tuo fegato per cena!»

Heran preferì tacere, il tono con cui gli erano state rivolte quelle parole gli aveva fatto comprendere che Farvardin era capace quello che diceva: si limitò a fare un cenno col capo. L’altra gli prese la lancia, con un la riavrai quando arriveremo, e prima che lui potesse dire o fare qualcosa, Farvardin gli bendò gli occhi.

«Perinni, passami della corda per legarlo: con questi tizi le precauzioni non sono mai abbastanza.»

Heran si sentì offeso da una tale affermazione, ma preferì tenere per sé ogni commento: lo avevano disarmato e aveva il braccio destro fratturato, che cosa avrebbe mai potuto fare contro di loro in quelle condizioni? Gli era stato insegnato a mai infangare il proprio onore, in nessuna circostanza, perché sua madre restava una Lamnes e nelle loro vene scorreva un po’ del sangue di Elanne.

Camminarono per un tempo indeterminato, di tanto in tanto la ragazza strattonava la corda come se lui fosse stato un cane recalcitrante, e ogni volta che Heran protestava, lei tirava così forte da fargli quasi perdere l’equilibrio: improvvisamente il giovane sentì un ostacolo sui suoi passi, ma la sua caduta fu impedita dalla presenza dell’agriranense.

«Ehi! Ma dico io, anche legati come salami non sapete fare a meno di mettere le mani addosso?!»

«Non è colpa mia se sono inciampato: se avessi potuto vedere dove mettevo i piedi, non sarebbe successo.»

«E correre il rischio di farti ritrovare la nostra capanna? No grazie, nidtou! In ogni caso, fra un po’ arriveremo al crocicchio e potremo evitare la pagliacciata di giocare come bambini,» borbottò la ragazza, spingendolo indietro con una gomitata allo stomaco e tirando al tempo stesso sulla corda.

Camminarono ancora, poi la ragazza lo fermò e l’obbligo a girare su se stesso diverse volte, fino a dargli le vertigini, e solo allora gli tolse la benda: si trovavano a un crocicchio nella foresta, con nessuna indicazione per Bordos ma solo un antico idolo ricoperto di muschio all’angolo fra due strade, illuminato dalla flebile fiammella di una lampada a olio. Heran storse istintivamente le labbra a quella vista: le sue conoscenze sulla religione di Agrirani erano piuttosto lacunari, ma ne sapeva abbastanza per ritenerla più che altro un insieme di credenze pagane e blasfeme. La ragazza lo strattonò ancora una volta, lanciandogli un’occhiata di traverso, e lo condusse lungo il sentiero che andava a sinistra: il loro cammino era illuminato dai rari raggi lunari che filtravano attraverso la volta della foresta, e dalla lanterna che la ragazza aveva appeso alla lancia del cavaliere.

«Perché lo avete fatto?» Quella era una domanda che da un po’ gli bruciava sulle labbra.

«Fatto cosa?» chiede a sua volta la ragazza, voltandosi appena per scrutarlo con la coda dell’occhio.

«Perché mi avete salvato e adesso mi riaccompagnate a Bordos?»

La guaritrice non rispose subito.

«Se sono intervenuta e ti ho curato, è perché volevo evitare una rappresaglia: poco più di una luna fa i tuoi amici hanno messo a ferro e fuoco Grifomolino, solo perché alcuni abitanti si erano trovati al posto sbagliato al momento sbagliato.»

Heran abbassò il capo stringendo le labbra, non osando riavviare la conversazione, nonostante più di una volta si era trovato sul punto di chiedere, di voler sapere: era questo ciò che suo padre gli rimproverava spesso, il suo non fermarsi alle apparenze. Suo padre aveva sempre ritenuto Bamni Tomdeb, il suo predecessore, la scelta meno opportuna per controllare Agrirani, e mentre lo avevano scortato fino ai confini, Heran aveva avuto modo di appurare che il nobile aveva sfruttato la sua posizione per arricchirsi. Lo sapevi che ha aumentato i pedaggi per le mercanzie in provenienza da Dwerissi? Gli aveva mormorato in un orecchio Galas Pilberi quella mattina, mentre consumavano il primo pasto della giornata nella Sala Comune del castello: non era la prima volta che gli aveva fatto certe confidenze e, anche se il Mercante-Cavaliere non lo avesse mai chiesto esplicitamente, era un modo per far comprendere al nuovo Viceré quali fossero i desideri della Gilda dei Mercanti.

«Da questo punto in poi puoi proseguire da solo,» disse la guaritrice, fermandosi.

Solo dopo aver osservato quell’angolo di foresta, si rese conto d’essere nei pressi della Porta dei Pastori di Bordos-sul-Sandalo, ma anche che il cielo aveva iniziato a biancheggiare. La guaritrice lo guardava, esitando prima di rendergli le sue armi, e lui ricambiò lo sguardo in silenzio.

«Qual è il vostro nome?» disse Heran infine.

Lei, che non si aspettava quella domanda, sbatté le palpebre un paio di volte.

«P-Perinni. Perinni Timandæ.»

Allora s’inginocchiò davanti a lei, appoggiandosi al giavellotto. «Perinni Timandæ, se un giorno fosse nel bisogno, io, Heran Relda del Drago d’Argento, sarò il suo campione.»

Perinni era stata presa di contropiede, e solo dopo un tempo che parve interminabile, si riscosse.

«Lo terrò a mente nidtou

Heran rispose con un cenno del capo, rialzandosi con difficoltà, e si avviò verso la città: stava per superare la cintura d’alberi, quando si sentì chiamare. Si voltò e afferrò un pacchetto dall’odore pungente che gli era stato lanciato.

«Fra un paio d’ore l’effetto dell’elisir che ti ho dato terminerà: due pizzichi di queste erbe in un calice d’idromele caldo ti aiuterà a guarire il braccio,» gli disse la voce di Perinni, nascosta fra le ombre della foresta.

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Capitolo 4
*** III ***


b III a

 

 

La donna si svegliò di colpo, quindi si stropicciò gli occhi e trattenne uno sbadiglio, mentre gettava un’occhiata oltre la finestra della cappella: accolse con sollievo il biancheggiare del cielo, felice che la notte giungesse finalmente al termine, e spostò lo sguardo sulla sant’effige lanciando un muto ringraziamento. Eppure si sentì stringere la gola alla vista della donna inginocchiata davanti all’altare, con gli occhi arrossati dalla lunga veglia fissi sull’immagine dei Santi Gemelli e di Elanne.

Se qualcuno avesse interrogato Cypris Nojapi sui suoi sentimenti nei confronti di Dama Bluma, lei non avrebbe potuto negare di aver odiato visceralmente quella donna che era diventata la moglie di Hraustrion Relda al suo posto: l’aveva odiata, quell’acqua cheta così giovane da poter essere sua figlia, troppo avvenente per non essere altro che una donna di malaffare. E aveva odiato anche Hraustrion e gli aveva dato dell’ipocrita, rinfacciandogli tutte le promesse che lui le aveva fatto nei quindici lunghi anni durante i quali lei lo aveva aspettato, il giorno in cui l’aveva condotta in casa loro.

Avresti dovuto darla a Faion, invece di tenerla per te! Gli aveva urlato alla presenza di tutta la famiglia mentre gli lanciava addosso oggetti che lui non si era neanche premurato di scansare. Tuttavia, l’odio aveva lasciato il posto alla compassione, la notte in cui Harilika era stata concepita, nel momento preciso in cui Cypris si era resa conto della tragedia di quella giovane che aveva solo ambito di servire al Tempio, ma maledetta dalla propria bellezza. Era esagerato dire che fossero diventate amiche, così com’era errato immaginare che fra loro esistesse la proverbiale rivalità fra mogli e concubine.

Cypris sistemò la coperta sulle proprie spalle e trattenne l’ennesimo sbadiglio: aveva voluto vegliare assieme a lei per tutta la notte, pregando i Santi Gemelli di far tornare Heran sano e salvo da loro così come, durante l’epidemia di cinque anni prima, Bluma aveva vegliato i gemelli assieme a lei. Un brivido le corse lungo la schiena al pensiero di trovarsi in quella situazione, al pensiero di non veder tornare uno dei suoi cinque figli da una battaglia – Alnerir era ancora un bambino, ma già si preparava a seguire le orme di suo padre – e si sentì un po’ morire dentro.

«Bluma? È quasi giorno,» mormorò piano con la voce rotta dal sonno, ma Dama Bluma non l’aveva udita, tanto la sua mente era presa dalla preghiera – dalla disperazione.

Cypris sospirò, tentata dalla prospettiva di buttarsi sul proprio letto per qualche ora, e sbadigliò di nuovo realizzando che avrebbe avuto tante, troppe cose da fare per recuperare un po’ di sonno: i suoi occhi piccoli si spostarono sull’immagine di Elanne, una statua finemente scolpita in un unico blocco di legno e dipinta a colori vivaci.

“Dicono che i Lamnes abbiano il tuo sangue: perché continui a farle pagare per una colpa che le è stata imposta?”

Cercò una posizione più comoda sulla panca di legno, per allontanare il formicolio che si era impossessato delle sue natiche. Cypris sbadigliò ancora, chiudendo gli occhi brucianti di sonno.

Un colpo la fece trasalire, rendendosi conto che la luce del giorno si era fatta più viva, che si era addormentata proprio lì, nella cappella. Bluma era ancora in ginocchio, il busto voltato verso la porta: fissava gli occhi arrossati sulla figura allampanata di Jonald.

«Come?» la voce della donna era un misto d’incredulità e speranza.

«Heran è tornato, zia,» disse il giovane, «papà mi ha detto di avvertirvi solo dopo che avesse finito di far rapporto: adesso è con Mastro Midio. È solo un braccio rotto, zia, poteva andare peggio,» si affrettò ad aggiungere scorgendo il terrore negli occhi della donna.

La stanchezza della veglia parve calare su di lei di un colpo, tanto che si stese sul pavimento di pietra, il capo verso l’altare. «Siate lodati, o Lirtim, Geret e Iver! Siate lodata, Casta Elanne!»

Cypris aspettò un po’, sentendosi a sua volta sollevata, quindi la raggiunse e la spronò ad alzarsi, dicendole che molto probabilmente Heran volesse rassicurarla di persona: Bluma levò su di lei gli occhi, il cui rossore faceva risaltare ancor il color di cielo delle iridi, e annuì accettando l’aiuto che la concubina le offriva.

 

 

 

Quando Dama Bluma e Cypris arrivarono nella parte di castello adibita a infermeria, trovarono Mastro Midio intento a rifare la fasciatura al braccio di Heran: mentre volgeva le bende, l’archiatra aveva spiegato che, nonostante la medicazione fosse stata fatta a regola d’arte, non si fidava e che c’era la possibilità che sia l’unguento sia le erbe fossero un veleno, per cui aveva lavato via il primo e distrutto le seconde. Heran, dal canto suo, si era limitato a rispondere con dei monosillabi alle domande di sua madre, ammettendo solo alla fine che si sentiva la testa girare come se avesse bevuto troppo vino.

«L’effetto di qualche mistura,» spiegò Mastro Midio scrollando le spalle. «Gli ho somministrato un antidoto generico per precauzione: forse funzionerà o forse renderà gli effetti del veleno più blandi e in quest’ultimo caso sarebbe più facile individuare la sostanza tossica.»

Cypris lanciò un’occhiataccia all’archiatra sopprimendo a malapena la tentazione di forzare un’oncia di buon senso nella testa: nonostante la sua massima aspirazione fosse stata e rimaneva quella di servire al Tempio, Bluma era la più apprensiva delle madri che conosceva, tanto che più di una volta le aveva rimproverato la sua eccessiva ingerenza nella vita dei suoi figli, soprattutto di Heran. Non che non comprendesse i suoi sentimenti o, peggio, che non li condividesse, ma era sempre stata dell’opinione che un genitore dovesse lasciar liberi i figli di prendere delle decisioni autonomamente, vivere la loro vita e perfino lasciarli commettere degli errori. Le sue labbra si arricciarono in un mezzo sorriso ripensando a come aveva difeso la decisione di Heran e Jonald di entrare nei Cavalieri del Drago d’Argento: non era stata fiera di vedere il secondo tornare a Eimerado dopo neanche tre mesi, ma aveva saputo che quella era stata un’esperienza costruttiva per il suo ragazzo.

«Dovresti lasciarlo un po’ tranquillo…» azzardò infine, togliendo dalle mani di Bluma il calice che cercava di far bere al ragazzo e accogliendo la silenziosa richiesta d’aiuto di Heran.

Bluma fece per protestare, ma strinse rapidamente le labbra mentre i suoi occhi di cielo si spostavano su un punto imprecisato oltre le spalle della concubina e Cypris la vide irrigidirsi prima di forzare un sorriso stitico.

«Buona giornata a voi, Messer Saba,» disse infine Dama Bluma con una voce leggermente più stridula del solito. «Cosa vi conduce qui, a quest’ora?»

Messer Saba era un uomo sulla sessantina, con il cranio rasato e lo sguardo indaco vivace come quello di un ragazzino: fratello maggiore del precedente re di Agrirani, era stato uno dei pochi esponenti della nobiltà locale – se di nobiltà si poteva parlare – a esserti schierati dalla parte di Suuritnias Calliram quando aveva conquistato il regno. Saba non aveva mai fatto mistero del senso d’ingiustizia che aveva provato da quando gli era stato preferito il fratello minore come nuovo regnante, né tantomeno dell’astio che finalmente aveva potuto esprimere nei confronti di quell’Innominabile che, secondo lui, aveva sedotto Anchar: non gli aveva contestato il trono, tutt’altro, si era offerto di fargli da intermediario con la popolazione. Anzi, era stato lui stesso a scoprire che la regina Perinni aveva portato in grembo due gemelli e che l’unico che era riuscito a partorire era stato portato in salvo prima che le difese del castello cedessero: se aveva ottenuto la fiducia di Suuritnias Calliram, era stato grazie allo zelo con cui aveva cercato e continuava a cercare l’infante.

L’uomo fece un mezzo inchino rigido, poggiandosi alla canna che stringeva nella mano sinistra. «Buona giornata a voi, mia Signora,» rispose alzando gli occhi su Dama Bluma. «La mia gamba non mi ha dato sollievo per tutta la notte, e poi… volevo vedere con i miei occhi che le voci fossero vere.» Il suo sguardo si spostò su Heran e la sua bocca si allargò in un sorriso asimmetrico che mostrava dei denti piccoli e rovinati. «Se quel che ho sentito è vero, devo suppore che siete tornato grazie soprattutto al fascino che avete ereditato da vostra madre.»

Heran strinse le labbra, perché non riusciva a comprendere se quello fosse un complimento o un insulto: schiuse le labbra per ribattere, eppure da un lato non poteva dargli torto, poiché aveva perso il conto di quante volte gli era stato detto che assomigliava molto a sua madre. Poi trasalì, come colto da una rivelazione.

«Quella giovane, Perinni… voi la conoscete.» La sua non era una domanda, ma un’affermazione.

Saba sbuffò divertito e inclinò appena la testa, rispondendo: «Conosco molte persone, mio signore, e Perinni è un nome abbastanza comune, soprattutto tra le giovani donne fra i diciotto e i ventitré inverni.»

«Parlo della giovane guaritrice che a volte viene a farvi visita.»

A quelle parole, l’espressione di Saba si fece corrucciata. «Parlate di quella Perinni?» Si lisciò pensieroso il mento, poi soffiò fra i denti. «Ignoro quali possano essere i suoi secondi fini, se ce ne sono, ma chiunque può garantire della perizia con cui svolge la sua professione: come guaritrice non è né migliore né peggiore di molti altri, ma come levatrice dicono che sia tanto abile che non ha mai chiesto a un uomo di scegliere fra la madre e il nascituro. È un’allieva di Oska il Minore, il suo maestro me la manda in sua vece quando non può o non ha voglia di vedermi: ultimamente capita sempre più spesso.»

Dama Bluma lo guardò sorpresa e corrucciata: schiuse le labbra per dire qualcosa a sua volta – Cypris avrebbe scommetto che volesse sapere a quali secondi fini Saba si riferisse – tuttavia preferì ingoiare quella domanda.

«Dovremmo ringraziarla…» mormorò infine, più a se stessa.

«Allora, se la mia Signora lo desidera, potrei condurla da voi la prossima volta che verrà al castello,» propose Saba con un leggero cenno del capo, poi batté leggermente il bastone contro la propria gamba sinistra. «Adesso, se voleste scusarmi, gradirei che questa vecchia ferita smettesse di dolere.»

 

 

Note

Santi Gemelli: la triade divina venerata a Vernolia.
Elanne: la sposa umana di uno dei Santi Gemelli.
Zia: appellativo con cui i figli si rivolgono alla moglie e alle altre concubine del proprio padre.
Suuritnias: titolo vernoliano con cui si indica l'erede al trono.

Dato che Hyrie aveva lamentato della mancanza delle note esplicative, riprendo questa vecchia abitudine: non nascondo che volevo un po' provare a vedere se la storia rimanesse fruibile anche senza XXDDD Inoltre in questo capitolo si trova anche la risposta alla domanda che mi fece Enteri nel prologo. Giusto per la cronaca, per una questione di spazio ho dovuto tagliare dal prologo la scena sul parto, anche per evitarvi dei dettagli decisamente gore dato che mi ero ispirata all'ultimo parto di Caterina de' Medici, nessun dettaglio escluso: se vi resta la curiosità, su Wikipedia potrete trovare le informazioni necessarie ;-)

 

Grazie a chi non solo leggerà queste righe, ma lascerà anche un commento.

 

Kindest regards,

D. Rose 

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Capitolo 5
*** IV ***


b IV a

 

 

Hraustrion Relda lesse corrucciato il rapporto, mormorando quasi impercettibilmente le parole: si sentiva addosso gli occhi di Saba e sapeva che l’uomo trovava lo spettacolo che stava dando di lui una divertente dimostrazione di debolezza. E in fondo, non poteva dargli torto: non era forse divertente un viceré che sa a malapena leggere?

“Sempre meglio di uno completamente analfabeta,” si disse, ripensando a come l’arrivo di Bluma avesse aperto ai suoi figli molte più porte di quelle che Cypris e lui avrebbero mai potuto offrire loro. Di certo, ventitré anni prima non avrebbe immaginato che avrebbe assunto una carica così importante o che gli sarebbe diventata indispensabile un’iniziativa presa più per dare l’esempio.

L’indice sinistro scivolò lungo la cicatrice che gli attraversava il viso dal ciglio al mento in un gesto meccanico e strinse le labbra mentre l’occhio buono si alzava sull’uomo davanti a lui, stringendosi in una sottile fessura.

«Siete certo che l’informazione sia giusta?» Non riusciva a leggere i pensieri di Saba e, di conseguenza, non riusciva a fidarsi di lui.

Saba annuì, stirando le labbra in un sorriso divertito. «Mio nipote sembra essere attaccato alle tradizioni, non tenterà di catturare l’Uccello di Fuoco prima del suo ventunesimo autunno: se non supera la prova, perfino i suoi sostenitori non lo considereranno più come il legittimo sovrano di Agrirani.»

«Potrebbe riuscirci.»

«E potrebbe fallire, come me,» ribatté Saba colpendo con la canna la gamba. «Potrebbe anche morire, come molti.»

«Potrebbe morire…» ripeté Hraustrion pensieroso, poi congiunse i polpastrelli premendo gli indici contro le labbra sottili. «Avete degli usi un po’ bizzarri ad Agrirani.
«La conoscenza è la chiave di tutto: sapere ci dona il potere, o almeno è questo ciò che sostiene il fratello di mia moglie e mio figlio ha fatto sua questa massima. Non nego che a volte può essere utile avere questo tipo di atteggiamento mentale, ma ci sono cose che è meglio non sapere…» Si alzò e fece qualche passo intorno al tavolo, mentre l’occhio buono indugiò sulla mappa del paese, poi esordì: «Mastro Midio ha confermato che la convalescenza di Heran sarà lunga e che molto probabilmente avrà bisogno di tutto l’inverno per riprendere perfettamente l’uso del braccio. Detesto l’inoperosità e non voglio che abbia una scusa per poltrire, per quanto plausibile, per cui desidero che gli insegniate tutto quello che c’è da sapere su Agrirani: lingua, tradizioni, usanze… tutto.»

Saba scoppiò in una risata talmente fragorosa da piegarlo in due: rise a lungo, scuotendo la testa e ripetendo qualcosa nella sua lingua natia.

«Tutto?» chiese una volta che fu abbastanza calmo da parlare, asciugandosi un occhio col pollice. «Con tutto rispetto, mio signore, non avete una considerazione un po’ troppo alta di vostro figlio? Sarà anche un ragazzo intelligente e forse in un inverno potrei insegnargli il grosso della nostra cultura, ma le differenze fra le nostre lingue sono tali che in un tale lasso di tempo potrei renderlo capace di avere a malapena una conversazione elementare.»

Hraustrion non condivise l’ilarità del Consigliere e restò impassibile, fissandolo serio: solo quando Saba si rese conto della tensione che si era creata fra loro e si fosse schiarito la voce per ritrovare un certo contegno, il Viceré tornò a guardare la mappa posandovi una mano sopra.

«Mi rendo conto che sei o sette mesi sono pochi, tuttavia se Heran cercherà di apprendere il più possibile, allora voi dovrete insegnargli il più possibile. Questo è un ordine, Saba, sono stato chiaro?»

L’uomo aprì la bocca per dire qualcosa, quando una guardia annunciò l’arrivo di Heran.

«Sei in ritardo, ragazzo,» sibilò Hraustrion con la sua solita severità.

Il giovane cavaliere rispose con un gesto militaresco e con un leggero cenno di capo rivolto al consigliere.

«La medicazione ha preso più tempo del previsto, signore.»

Hraustrion accolse la giustificazione con un sospiro stizzito, prima di spiegare per la seconda volta che cosa desiderasse da suo figlio e da Saba: poiché Heran aveva già dimostrato una certa curiosità nei confronti della cultura locale, aveva ritenuto utile per il proprio governo di coltivare tale interesse, e giacché parte delle difficoltà dei precedenti viceré stava proprio nei fraintendimenti che regolarmente si creavano con la popolazione, Hraustrion aveva deciso di cercare di eliminare il problema alla radice. Il viceré, il consigliere e il cavaliere discussero a lungo su come procede e a cosa dare la priorità, tuttavia quando terminato, Hraustrion ordinò a Heran di trattenersi. Con l’occhio morto fisso sulla porta e quello vivo sulla mappa, Hraustrion rimase in silenzio tanto a lungo che Heran credette che suo padre si fosse dimenticato della sua presenza.

«Non mi sono mai fidato si Saba,» mormorò infine, con una voce talmente bassa da essere quasi inaudibile, «per cui voglio che ogni sera tu mi venga a riferire ogni sua parola e azione.»

Heran strinse le labbra, grattando soprappensiero la fasciatura e senza alzare lo sguardo per non palesare il suo disappunto. «Da quando sono diventato una spia?» sibilò cercando di mantenere un tono di voce neutro.

«Dal momento in cui chiedesti a quei mercanti di parlarti di Agrirani oppure da quando ti sei rotto il braccio, non importa. Dato il tuo carattere, mi sei sembrato la scelta migliore.»

Il giovane non rispose, preferendo lasciar sedimentare quelle parole nella sua mente per cercare di coglierne il significato nascosto, eppure non poteva fare a meno di provare una certa delusione: era stato felice di lasciare Eimerado e l’indolenza che permeava la capitale, giacché si era sempre visto come un uomo d’azione – come un cavaliere artefice di gesta valorose – ma neanche il tempo di arrivare a Bordos-sul-Sandalo che si trovava costretto all’inazione.

«Un’altra cosa, Heran: le mappe di Agrirani che abbiamo sono incomplete e imprecise e i cartografi reali stanno insistendo per avere l’appoggio di almeno un Cavaliere per i rilevamenti del territorio. Non sei in grado di combattere per il momento e non posso risparmiare nessuno degli uomini a mia disposizione: non appena Mastro Midio riterrà il tuo braccio sufficientemente guarito, uscire per queste indagini ti permetterà di renderti utile, senza contare che potresti fare qualche... incontro

Questa volta il volto del giovane s’illuminò e rivolse uno sguardo di riconoscenza a suo padre. Aveva subito colto il messaggio segreto che gli stava mandando: trovare le vie utilizzate dai ribelli, i loro nascondigli e conoscere il terreno di una probabile, futura battaglia, era una missione d’avanscoperta che implicava una tattica sottile. Heran si considerava un buon stratega e un buon attore, quando le circostanze lo richiedevano: forse non sarebbe stata un’esperienza completamente negativa, quella di fare da spia.

 

 

Note d’autore

 

Uccello di Fuoco: considerato il nume tutelare di Agrirani, secondo alcuni non è altri che la forma assunta dalla prima regina del regno, la Noide Ralma, secondo altri è una divinità dimenticata venerata anticamente dalla popolazione autoctona della valle di Palandum. Il costume locale vuole che solo chi sia in grado di prendergli una penna o una piuma abbia il diritto di diventare il re: ogni uomo che abbia compiuto almeno ventun anni ha diritto di partecipare alla prova, indipendentemente che sia figlio o meno del precedente sovrano. Quando vi prese parte, Saba ricevette una ferita tale che i guaritori furono costretti ad amputargli una gamba, rendendolo incapace di partecipare alla prova una seconda volta: per questo motivo e per l’alto numero di casualità, consigliò a Suuritnias Calliram di non cercare l’Uccello di Fuoco.

Bon, non credo che ci sia molto da aggiungere in queste note.

Grazie non solo a chi leggerà queste righe, ma lascerà anche un commento.

 

 

Kindest regards,

D. Rose

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Capitolo 6
*** V ***


b V a

 

 

Heran respirò l’aria d’alta quota a pieni polmoni, gustandone il sapore avidamente nonostante il gelido pizzicore che gli dava alla radice del naso, mentre Mornaü planava sui pascoli quasi disertati dalle greggi: l’autunno aveva vestito i boschi in una sinfonia di rosso e giallo che risaltava contro il cielo terso di Agrirani, perfino il verde dei prati aveva una tonalità calda, quasi dorata. Stringendo le redini fra i denti, il cavaliere annotava ogni punto di riferimento che scorgeva su una tavoletta incerata, mentre da terra gli giungevano le voci confuse dei cartografi reali che seguivano la sua ombra: avevano percorso tutto il paese per tre settimane, loro a piedi e lui in sella al suo drago, e finalmente erano giunti al luogo più importante di tutti, la Prova-del-Re. Secondo le voci che giravano e i rapporti degli esploratori, era proprio lì che quel fantomatico Principe e i suoi accoliti si erano rifugiati, approfittando della difficoltà di accesso e dell’aura sacra che circondava quella valle di cui, sulle mappe, era riportato solo il nome. Il passo per accedervi doveva essere particolarmente alto, tanto che Mornaü si posò in una prateria d’erba alta, in cui il silfio cresceva abbondante.

Una roccia, scura e nuda, si ergeva solitaria fra l’erba come se un gigante l’avesse posta lì per segnare qualcosa: seguendo questo pensiero, il cavaliere considerò opportuno segnarla come punto di riferimento in quella zona priva di sentieri e fece per avvicinarsi, ma Mornaü si mise all’erta, allargando leggermente le narici e dondolando il collo ritmicamente. Un paio di braccia si levò sulla roccia per poi sparire e subito dopo comparve una ragazza: era Perinni la Guaritrice che, dopo la sorpresa iniziale, guardò con circospezione il cavaliere.

«Buona giornata, Perinni Timandæ.»

«Che cosa ci fai qui, nidtou? Dovresti essere ancora a riposo.»

Heran rise, cercando di ammantarsi di un certo candore. «Siete della stessa opinione che mia madre, tuttavia mio pa... il viceré, non ama molto l’inattività e mi ha ordinato di percorrere il paese assieme ai cartografi reali: le mappe che abbiamo di Agrirani sono inesatte.»

La ragazza corrugò la fronte, pensosa. «Mappe? A che cosa possono servire dei pezzi di pergamena?»

«Sono utili per estimare le distanze, stabilire i percorsi più rapidi o agevoli e... non vi avvicinate!» esclamò non appena la vide a meno della distanza di sicurezza che la gente del popolo era tenuta a rispettare. «Perinni Timandæ, Mornaü sarà anche domato, ma resta pur sempre un drago.»

Tuttavia, Perinni ignorò l’avvertimento e si pose davanti a Mornaü: il drago sbuffò un paio di volte, girando la testa prima da un lato e poi dall’altro per studiare meglio la sconosciuta. Heran cercò di trattenerlo quando lo vide schioccare le fauci verso la ragazza, ma con suo grande stupore, il rettile emise una sorta di gorgoglìo estatico e sfregò il muso contro l’omero della guaritrice: questa ricambiò il saluto con un suono abbastanza simile e gli accarezzò la gola. Dire che il cavaliere era basito, era poco: nei sette anni che aveva condiviso con la sua montura, non aveva mai visto Mornaü dare così tanta confidenza a un estraneo, né tantomeno a una donna – tollerava sua madre e sua sorella, ma senza tutte quelle effusioni.

«Visto?» disse infine Perinni, alzando gli occhi su di lui. «Il tuo amico sa che non c’è nulla da temere da me. Ma tu sei stato un po’ ingiusto a non dargli fiducia, nidtou

«Ho agito per semplice precauzione: solitamente Mornaü non è amichevole con... gli sconosciuti,» si giustificò lui, smontando e iniziando ad accarezzare a sua volta il drago.

«In ogni caso, hai spinto il tuo amico troppo in alto: è solo un cucciolo di... vent’anni forse? I suoi polmoni non sono ancora abbastanza forti per quest’aria. E neanche tu sei abituato a queste altitudini.»

«Dite? Eppure mi sento più che bene: se il braccio non fosse ancora debole, potrei affrontare un intero esercito.»

Perinni alzò gli occhi e sbuffò, quindi gli fu accanto con quattro lunghe falcate, gli afferrò un braccio, gli sfilò il guanto e gli tastò il polso.

«Il tuo cuore sta battendo più in fretta e anche il fatto che tu ti senta così sicuro delle tue capacità è un sintomo del mal di montagna. Sarai arrivato ad Agrirani quasi due mesi fa, ma questa è la prima volta che sali a queste altezze: dovrei dirti di tornare subito a fondovalle, ma il tuo amico ha bisogno di riposarsi un poco.»

Heran tacque, confuso dalla familiarità con cui la guaritrice lo aveva sempre trattato ogni volta che si erano incontrati: all’inizio la cosa lo aveva indispettito, ma parlando con Saba e man mano che le sue conoscenze sulla cultura di quel paese aumentavano, aveva lasciato andare – gli Agriranensi si consideravano come un’unica famiglia, era normale per loro parlare alla gente in quel modo. Sospirò e si rese conto solo allora che il suo respiro era diventato più profondo del solito: guardò corrucciato la flora che lo circondava.

«Eppure dovremmo essere a mille, forse mille e cinquecento leigh più in alto di Eimerado...» mormorò, più a se stesso.

La risata di Perinni era cristallina, come mille campanelli d’argento. «Stai scherzando, vero? Oltre i confini di Agrirani a quest’altitudine troveresti solo licheni: perfino noi non andiamo oltre Piattapunta,» spiegò la guaritrice, indicando col naso la roccia, «anche perché la Prova-del-Re è una zona sacra. Attraversiamo Passo Sille solo per i Bivacchi, e non ci addentriamo più di un paio d’ore di cammino.»

Il cavaliere annotò mentalmente l’informazione, cercando di comprendere se fosse vera o falsa: da dove si trovava non poteva scorgere per bene l’espressione della ragazza e la sua voce era neutra. Fece il giro della roccia, estimandone le dimensioni e la posizione rispetto alle cime, quindi vi si arrampicò con poca difficoltà e si sedette alla maniera dei sarti: si sentiva autorizzato a non essere all’erta mentre aspettava i cartografi, poiché i guaritori non solevano attaccare la gente alle spalle e perché Mornaü era insolitamente tranquillo – tanto che il drago aveva iniziato a sonnecchiare, lì dove l’erba era più alta e soffice.

«C’è da dire che la valle ha una forma... insolita,» disse infine, grattandosi il mento.

La ragazza sorseggiò dalla sua borraccia e riprese a raccogliere le erbe.

«È perché fu qui che gli dei discesero su Teija,» rispose senza alzare gli occhi dal suo lavoro, «e la potenza del loro carro fu tale da appianare le montagne. Inoltre fu proprio qui che crearono la vita, prima di permetterle di disperdersi in ogni angolo del nostro mondo: per questo è una terra benedetta.»

«Davvero?» rispose lui, soprappensiero e quasi indifferente.

In tutta risposta, Perinni iniziò a cantare.

All’inizio Heran non aveva dato molto peso al canto, aveva solo pensato con una punta di rammarico che non conosceva quella lingua sufficientemente bene per comprendere il significato del testo, ma poi non aveva potuto far altro che volgere la testa verso la guaritrice che, ritta come un fuso, cantava sulla pendice del monte: la sua voce era cristallina e pareva insinuarsi fra i pensieri del cavaliere con la stessa dolcezza con cui il vento accarezzava l’erba alta. Ed Heran non poteva fare a meno di fissare gli occhi di cielo sulla sua figura che, forse a causa della posizione del sole, pareva splendere.

Mornaü sollevò la testa, come se la sua mente seguisse lo stesso filo dei pensieri del suo padrone, poi sbuffò appena e si alzò, passando dietro la roccia su cui era seduto Heran e raggiungendo la ragazza: si pose al suo fianco, fregando la testa di rettile contro il braccio e ronfando deliziato quando lei iniziò ad accarezzargli il muso, senza smettere di cantare, senza spostare lo sguardo da quella valle fertile e straripante di vita. Ed Heran fu di nuovo sorpreso da quel comportamento, perché i draghi erano creature guardinghe che non si lasciano avvicinare così facilmente, né davano fiducia con così tanta facilità – e questo anche se erano stati domati, tanto che un Cavaliere del Drago d’Argento non poteva prendere una donna qualsiasi come compagna. Si trovò a pensare che Perinni potesse essere gradevole anche per i canoni di Vernolia e che a corte sarebbe stata definita una bellezza rustica, con i capelli bruni e gli occhi un po’ a mandorla. Tuttavia quel canto e quel timbro di voce gli facevano intendere che c’era molto di più dietro gli occhi indaco della guaritrice.

E si accorse, forse un istante troppo tardi, che non aveva mai guardato una donna in quel modo.

 

 

Note d’autore 

Prova-del-Re (o Prova-del-Padre): zona di Agrirani, vulcanicamente ancora attiva.
Silfio: pianta aromatica usata come condimento e come medicinale. Le sue virtù afrodisiache la rendono molto richiesta a Vernolia.
Nidtou (ni-tto): cavaliere.
Leigh: unità di misura vernoliana, corrispondente a 121,92 cm.
Eimerado: città marittima capitale di Vernolia.
Bivacchi (Festa dei): detta anche Sagra di Primavera, ha luogo ogni anno un mese prima dell’equinozio di primavera. È in questa occasione che hanno luogo i riti di passaggio dei giovani di Agrirani e i matrimoni.
Per avere un’idea del canto di Perinni – lo stile ed il tipo di musicalità e voce, non il testo, perché quello non c’entra niente – ho ascoltato ab nauseam “Zaidi Zaidi Iasno Slantce”, noto ai più come “A message for the queen” nell’OS di “300”: ogni parallelismo fra il prato d’erba alta della storia e il campo di grano degno di una pubblicità Kellogg’s della scena in questione, è puramente casuale. Anche perché sarebbe più vicina a “Pilence Pee” o “Atomic Bird” di Yoko Kanno, che sono cantate a cappella e renderebbero poco a una voce sola. In alternativa, ci sarebbe del Bela Bartok se si vuole andare su qualcosa di classico e non folkloristico, ma dato che mio marito non mi ha dato alcun titolo da usare come esempio, non posso dare indicazioni più precise. Poi, vabbeh, ci sarebbe anche "Love Song" di Tigran Hamasyan, che mi fa pensare proprio al tipo di paesaggio descritto, nonostante sia del Jazz, forse per le origini armene di questo fantastico e giovane pianista. Per restare in tema e togliermi il sassolino dalla scarpa, la musica vernoliana la immagino come una cerniera fra Rinascimento e Barocco, l'Orfeo di Monteverdi potrebbe essere un esempio: c’è della polifonia, ma il melodramma è giusto ai suoi albori, a indicare che tutta la società si trova in una fase di cambiamento e di fine regno.

Beh, credo che si possa dire Galeotto fu il drago XXDDD
E so che questo è un orario insolito per postare, ma una delle bestiole mi ha tenuto in ballo per un'ora e mezza, per cui mi sono detta che potevo portarmi un po' avanti e preparare l'HTML del capitolo (che poi non è altro che un Ctrl+Shift+V e vari Ctrl+F con sostituzione in Dreamweaver) e aggiungere quest'ultima noticina e il saluti di rito.

Grazie a chi, non solo leggerà queste righr, ma lascerà anche un commento.

 

Kindest regards,

D. Rose.

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Capitolo 7
*** VI ***


b VI a

 

 

Molti degli uomini che avevano seguito Hraustrion Relda ad Agrirani non avevano mai visto la neve o, se la conoscevano, era grazie a quelle rare occasioni in cui una coltre sottile ed effimera era caduta sulle pianure: forse quelli che erano nati nelle regioni settentrionali di Vernolia oppure quei pochi veterani ancora in servizio che avevano combattuto nella campagna di conquista di Suuritnias Calliram avevano un’idea di quello che avrebbe potuto essere l’inverno a Bordos. Furono sufficienti due o tre bufere per chiudere i passi per Vernolia e Dwerissi, e una settimana per rendere impraticabili la maggior parte delle strade del paese: inizialmente la neve fu accolta con una gioia quasi infantile, poiché quelle condizioni atmosferiche implicavano un riposo forzato, tuttavia, con il trascorrere delle settimane, l’umore e la salute degli uomini non facevano che peggiorare. A detta di Saba, quello era un inverno insolitamente rigido anche per i canoni agriranensi.

Costretti a limitare le attività alle sole esercitazioni nella corte del castello e a delle rare uscite in quei giorni in cui il tempo era meno rigido, i soldati di Vernolia si ritrovarono con molto, troppo tempo libero. Galas ne approfittò per approfondire la propria conoscenza dei vari mercanti che, come la sua famiglia, si occupavano del commercio di tessuti e pellami: dotato di un indole espansiva e amichevole, era una compagnia ben accetta nelle varie locande di Bordos, e la sua apparente generosità ben celava il suo interessamento in beni di lusso come la seta di ragno – di cui sperava riuscire a ottenere il monopolio per l’esportazione a Vernolia. Forse qualcuno era riuscito a leggere le sue vere intenzioni, poiché durante i festeggiamenti del Solstizio fu avvicinato da alcuni accoliti di quel fantomatico Principe: Galas sapeva che i rapporti della Gilda con la corte del Falcone erano diventati sempre più tesi, specialmente dopo l’epidemia di cinque anni prima, e sapeva che quella era una mossa azzardata. Era stato a suo modo onesto, rimarcando che non era altro che un Cavaliere Rosso e che in inverno non era facile far giungere un messaggio a Vernolia senza destare sospetti, eppure la Gilda era riuscita a venire a conoscenza delle intenzioni di quel Principe.

La locanda era situata sulla piazza del mercato ed era lì che la maggior parte del mercanti stranieri trascorrevano l’inverno a Bordos: Galas aveva usato come scusa il dover trasmettere ai servitori della sua famiglia alcune direttive che suo zio gli aveva inviato –non era la prima volta che capitava e, per questo, era una scusa che non destava alcun sospetto. Il Mercante-Cavaliere cenò con i servitori, pagando di tasca propria una mezza dozzina di giri d’idromele e, quando li vide sufficientemente allegri, si avvicinò con disinvoltura al grande camino, allungando le mani verso la fiamma per scaldarle: poco dopo, un altro avventore lo imitò, avvicinandosi abbastanza per parlare senza dover bisbigliare.

«L’inverno è particolarmente freddo, quest’anno,» disse l’avventore come se niente fosse.

Galas gli scoccò un sorriso cauto e rispose: «Ma il giorno dei nidi è vicino, la primavera non tarderà a venire e…» La sua voce si fece un po’ più flebile. «… e presto Passo Palandum sarà di nuovo praticabile.»

L’avventore si sfregò le mani, ricambiando il sorriso annuendo, poi si volse come per salutare qualcuno e, in quel movimento, urtò contro Galas. Qualcosa cadde con un rumore simile a quello dei boccali di peltro con cui gli avventori brindavano.

«Vi è caduto questo, messere,» rise Galas, indicando con il piede il cilindro che recava impresso lo stemma della Gilda dei Mercanti.

«Non conosco la lingua di Vernolia.»

Galas seppe fin da subito che quella era una menzogna, anche se non era in grado di dire perché. La sua espressione s’incupì e la sua voce divenne poco più di un sibilo.

«Troverete un interprete per il vostro Fratello Maggiore: la mia parte l’ho fatta e ora la mia priorità è fare in modo che questa bella testa resti saldamente sul collo. »

L’uomo strinse le labbra prima di congedarsi con un cenno del capo. Galas lo seguì con lo sguardo fino alla porta che conduceva al cortile posteriore della locanda e poi tornò a fissare le fiamme che danzavano: quando il messaggio era arrivato, nascosto in una missiva di suo zio, era stato tentato di leggerlo per sapere quale fosse il partito della Gilda. Non era stato facile domare la sua curiosità, almeno per avere un’idea più chiara di come agire, ma c’era riuscito: se quella lettera fosse caduta nelle mani sbagliate, lui avrebbe potuto dire in tutta onestà che non aveva nulla a che fare con le macchinazioni della Gilda. Sorrise, battendo le mani, e ordinò al cantiniere altro arrosto e altro idromele prima di tornare al suo gruppo.

 

 

Galas scivolò lungo il muro di cinta del castello con la sicurezza di una persona che non segreti, verso una porta secondaria che usavano tutti quanti per entrare ed uscire durante il tempo libero. Si bloccò, vedendo una lanterna danzare poco più avanti e si avvicinò cauto, per poi sorridere con una punta di trionfo quando riconobbe le due figure: insieme a Jonald, aveva visto crescere l’interesse di Heran per quella guaritrice e, nonostante che alla presenza del diretto interessato fingevano di non sapere nulla, avevano scommesso sui probabili sviluppi di quel sentimento. Galas riteneva l’amico un po’ maldestro in certe situazioni e, conoscendo la fama che avevano le ragazze di Agrirani, sperava che per una volta mettesse da parte la sua tendenza a comportarsi come un cavaliere senza macchia e senza paura.

«Credevo che voi guaritori aiutaste la gente.» La voce di Heran era un sibilo di rabbia e disgusto.

Perinni gli rivolse uno sguardo appena macchiato di stizza. «Anche se il Voltagabbana ti ha insegnato due o tre cose su di noi, continui a guardare me e la mia gente con gli occhi di un invasore che si crede investito da chissà quale diritto divino. Io non trovo sensato la vostra usanza di mettere nel talamo una ragazza non appena questa diventi fertile, è come mettere una spada in mano ad un fanciullo e gettarlo nella mischia: ma è una vostra usanza ed io non ho il diritto di criticarla.»

«Non è la stessa cosa.»

«Sì che lo è, in un certo senso: le vostre bambine forse sognano il giorno in cui conosceranno uomo, così come le nostre ambiscono di offrire il loro sangue per i Bivacchi.
«Noi non uccidiamo bambine.»

Galas ebbe l’impressione che, per un istante, il volto di Perinni si fosse insolitamente contratto in una smorfia di rabbia, ma forse era stato solo un gioco di luci e ombre. La voce della guaritrice fu come lo schiocco di una frustra.

«Ti aspetto fra dieci giorni a Piattapunta, tre ore dopo il sorgere del sole: potrai vedere con i tuoi stessi occhi come sacrifichiamo le nostre vergini, nidtou. Sempre che tu ne abbia il fegato.»

Galas attese che la giovane donna fosse andata via, prima di raggiungere Heran e posare un braccio sulle sue spalle.

«Hai i capelli troppo chiari per un agriranense, posso darti dell’estratto di mallo di noce a credito, ma per il colore degli occhi non posso fare niente, quindi conto sul tuo buon senso,» esordì con un sibilo malizioso.

Heran trasalì. «Non so di cosa stai parlando.»

«Heran Heran… la Porta dell’Orso non è la più adatta agli incontri galanti: io sono una persona discreta, ma non sai mai chi potrebbe passare da quelle parti. E qualcosa mi dice che la ragazza ti piace,» disse lasciandolo andare e guardandolo divertito, poi si protese verso di lui e sorrise con un luccicore malizioso negli occhi. «Starai via per tre o quattro giorni: approfittane e parlale. Ma non dimenticare che le ragazze di Agrirani sono alquanto facili e vanno bene giusto per un po’ di su e giù.»

Heran sbuffò cercando di nascondere l’imbarazzo che gli causava quel genere di commenti.

 

 

 

Note d’Autore

Seta di ragno:(Orb-weaver spiders): la tela di questi ragni, di un color giallo dorato, è usata per ricavarne una stoffa pregiatissima e rarissima.
Fratello Maggiore: titolo con cui è chiamato il Principe nella lingua du Agrirani.

Qui lo dico e qui lo nego: questo capitolo non mi soddisfa appieno: sarà per il raffreddore/influenza che ho preso, sarà perché N.2 ha rognato queste ultime notti, ma ho l’impressione che il personaggio di Galas sia un po’ opaco e che il suo punto di vista – il punto di vista di un mercante – sia quanto meno raffazzonato. Questo è un personaggio cui mi sono affezionata: è tutto sommato positivo e apporta una buona dose di  freschezza e, perché no, comicità nella vita di Heran: sa essere un buon amico, tuttavia è difficile capire se i suoi consigli siano disinteressati, perché Galas non fa nulla e non dice nulla se non vede un vantaggio per se stesso o la sua famiglia – e per corollario, la Gilda. Il suo è anche un punto di vista interessante, poiché permette di descrivere le vicende attraverso uno sguardo più realista e materialista: spero davvero di riuscire a dargli le lettres de noblesse nella versione definitiva di questa storia.

Per qualche settimana non aggiornerò: un po’ ho bisogno di staccare da questa storia, e un po’ perché ho bisogno di prepararmi psicologicamente a un fine settimana prolungato a Parigi. No, non sarà un viaggio di piacere con romanticherie e cuoricini e pucciosità varie ed eventuali (anche se non escludiamo una visita allo zoo di Vincennes coi piccoli) per cui degli incrocini fra il 15 e il 18 maggio saranno più che benvenuti.

 

Grazie a chi, non solo leggerà queste righe, ma lascerà anche un commento.

 

 

Kindest regards,

 

D. Rose

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Capitolo 8
*** VII ***


b 7 a

 

 

Una folata di vento gelido schiaffeggiò Perinni, mentre squadrava Heran dalla testa ai piedi prima di spronarlo a prepararsi per l’ascesa: Heran si limitò ad annuire silenziosamente e, stretto un po’ di più il mantello, s’incamminò dietro la ragazza. Lasciarono Piattapunta a destra e seguirono un sentiero scavato nella neve, delimitato da alti paletti ornati di nappe gialle e rosse: il cavaliere contò i passi fra un paletto e l’altro, stupito da quello stratagemma che permetteva di ritrovare il cammino dopo una nevicata. Il sentiero saliva sinuoso lungo le pendici e scavalcava profondi crepacci su ponti sospesi, oppure costeggiava pareti rocciose rese nude dal vento: Heran ebbe l’impressione che loro non sarebbero mai giunti a destinazione, fino a quando Perinni non gli indicò un punto a qualche leigh davanti a loro.

«Ecco Sille: una volta superato il passo, la strada sarà meno faticosa.»

Il cavaliere annuì, ansimando per l’altitudine e lo sforzo fisico, e una volta arrivato in alto, osservò il paesaggio: gran parte della valle era nascosta da una coltre di nebbia e gli era impossibile individuare un sentiero o dei punti di riferimento.

“Avrò più fortuna al ritorno,” si disse, mentre la ragazza lo istruiva su come comportarsi e come rispondere mentre erano ai Bivacchi.

«… e non dimenticare che se ti scoprono, saremo entrambi nei guai.»

«Allora perché mi avete proposto di venire con voi?»

Perinni non rispose subito, e quando lo fece, non si volse a guadarlo.

«Perché ero stufa di vedere la tua bocca piena di pregiudizi e menzogne.» Sputò nella neve con disprezzo. «I vostri preti hanno un’immaginazione contorta e di cattivo gusto, o forse ci accusano di atti che non hanno il fegato di compiere loro stessi.
«A nessuno è reciso il prepuzio o l’imene prima del suo quindicesimo inverno, e prima del diciassettesimo non è concesso a nessuno di partecipare alle danze

Heran annuì, nonostante il dubbio gli fosse rimasto, ma decise di mettere da parte questi pensieri e di concentrarsi sul cammino che stavano seguendo. Non c’era roccia, arbusto o albero che sfuggisse alla sua vista e cercava di calcolare la distanza percorsa nonostante la neve e le numerose svolte non gli rendevano il compito semplice, ma a complicare le cose, era proprio la sua guida: più di una volta Heran si era sorpreso a osservare la guaritrice camminare davanti a lui, con i ricordi di sogni ridicoli che riaffioravano. E con loro portarono le parole di Galas: Heran sapeva che erano un buon consiglio e una verità poco piacevole, aveva imparato ad apprezzare Agrirani e il suo popolo, ne comprendeva gli usi e i costumi, tuttavia c’erano cose che gli erano difficili accettare e che cozzavano con ciò in cui aveva sempre creduto. Questo era uno dei motivi per cui aveva accettato l’invito di Perinni, per mettere alla prova le proprie convinzioni e cercare di trovare una risposta a ciò che la guaritrice aveva scatenato nel suo animo.

 

 

Arrivarono al luogo dei Bivacchi tre ore dopo aver superato il passo. Delle capanne circolari erano state costruite ai piedi di una parete rocciosa, in cui si apriva una grotta, e un enorme falò bruciava al centro dello spiazzo: l’aria odorava di fumo e di resina bruciata, di cibo e di animali, e risuonava di risate e canti, del crepitio del fuoco e del vento fra i rami nudi. In un angolo dei bambini ascoltavano un vecchio raccontare miti e saghe, in un altro delle ragazze s’intrecciavano i capelli con nastri gialli di seta di ragno, mentre più in là dei giovani lottavano nudi in un’arena di fango e neve. Qui le donne cuocevano pani e focacce nei forni improvvisati oppure rimestavano enormi calderoni di zuppa e brodo, e là gli uomini sgozzavano agnelli e li arrostivano sulla fiamma viva usando lance come spiedi.

Perinni lo presentò come un cugino cresciuto a Vernolia, uno dei tanti bambini presi in ostaggio dopo la caduta di Bordos e che tornava ad Agrirani per la prima volta, scusando ogni sua dimostrazione d’ignoranza sui costumi della terra di sua madre.

«In questo modo nessuno sospetterà del tuo accento e nessuno si sentirà offeso quando ti rifiuterai nella Capanna degli Uomini. Tuttavia, questo non ti autorizza ad abbassare la guardia: non fare domande e rispondi in modo vago ma soddisfacente,» gli mormorò Perinni quando, all’ora del tramonto, furono costretti a separarsi per i riti.

Con una trepidazione che assomigliava all’ansia in petto, Heran esitò un attimo prima di accodarsi agli altri uomini: ispirò profondamente e cercò di lavar via ogni sentimento dal proprio volto, mentre nella sua mente riecheggiavano i luoghi comuni che si raccontavano a Vernolia. Quanta verità e quanta menzogna c’erano in quelle dicerie? Quanta efferatezza e quanto abominio vi erano in quei riti cui nessuno straniero aveva assistito prima di lui? Trovò la risposta nel mezzo, mentre osservava i giovani essere privati delle loro pelurie con la resina calda, come se fossero tutti attori con il ruolo di fanciulle; mentre li purificavano con i vapori e con la neve; mentre guaritori vestiti da sacerdoti incidevano la loro pelle e recidevano loro il prepuzio, come se fossero criminali o schiavi. Heran vide un atto di compassione il medicare quelle ferite rituali, poiché tutti i presenti avevano un ruolo da svolgere in quelle prime fasi, ma quando queste furono terminate e la notte fu profonda, a stento trattenne il proprio ribrezzo dinanzi a quelle pratiche che, a Vernolia, erano riservate alle prostitute e agli effemminati.

 

 

Heran fu svegliato poco prima del sorgere del sole da alcune grida e dal rumore di cimbali e tamburi. Vide uscire dalla grotta una bambina non più grande che sua sorella Harilika ed essere ingaggiata in quello che sembrava un dialogo rituale con un’anziana dal viso rugoso: la bambina poneva una domanda e la vecchia rispondeva sempre allo stesso modo, e ogni volta la prima si levava un indumento e lo gettava fra le fiamme. Quando rimase completamente nuda – erano stati bruciati perfino i nastri con cui erano stati intrecciati i capelli – prese dalle mani dell’anziana una lama di bronzo dorato e la portò alla gola. Spronato da un impulso che non poteva trattenere, Heran fece per impedirle di compiere quel gesto, ma qualcuno lo bloccò: Perinni era comparsa, chissà come, al suo fianco e gli aveva afferrato il braccio.

«Guarda.»

Con orrore, il cavaliere rivolse nuovamente lo sguardo sulla scena: la bambina passò la lama sulla propria gola, ma questa rimase intatta, e subito fu avvolta in un panno di lana grigia e informe.

«La bambina è morta,» riprese Perinni, «ma la donna non è ancora nata. Solitamente questo è un rito privato, riservato alle donne della famiglia, ma per i Bivacchi è diverso.»

«Cosa le accadrà, adesso?»

«Sarà un Bozzolo fino al suo quindicesimo inverno: solo allora potrà saltare sul fuoco, romperà il suo sandalo e il sigillo le sarà tolto.»

Il giovane annuì senza scostare lo sguardo dalla bambina, mentre frammenti di conversazioni riaffiorarono nella sua mente e si unirono a formare la scena cui aveva appena assistito, come le tessere di un mosaico. Si era sempre chiesto perché i genitori di Agrirani parlavano della morte delle loro figlie con una certa fierezza: adesso sapeva che era una metafora deformata da una traduzione approssimativa. Pensò a sua sorella Harilika e a Suuritnias Calliram che l’avrebbe presa come concubina di lì a poco, ed Heran non poté fare a meno di chiedersi quale fosse l’usanza più barbara.

 

I riti di passaggio furono seguiti da un grande banchetto, in cui non vi erano differenze di rango, sesso o età, in una promiscuità che a Vernolia sarebbe stata definita indecente: ognuno sedeva ora con l’uno, ora con l’altro, servendovi dallo stesso piatto e dalla stessa coppa. Eppure anche in quell’apparente mancanza di limiti vi erano delle regole che tutti erano tenuti a rispettare, poiché anche il gesto più anodino si caricava di significati: Heran cercò di non allontanarsi troppo da Perinni, in modo che lei potesse dargli un indizio ogni volta che le circostanze lo lasciavano dubbioso sul miglior modo d’agire. Spesso coglieva frammenti di conversazioni fra la guaritrice e altri ragazzi della loro età: se riconoscere gli inviti gli dava una brutta sensazione allo stomaco – troppo simile a quella che provava quando qualcuno era troppo espansivo nei confronti di sua sorella – sentirla rifiutare gli procurava un certo sollievo. Il cavaliere attribuì quella sensazione all’ansia che tutto andasse bene, e che l’attrazione che provava per la guaritrice aveva poco a che fare con tutto questo.

“Dovresti concentrarti su cose ben più importanti!” si disse infine.

Il suo sguardo aveva vagato sulle cime dei monti che s’intravedevano in lontananza oppure sui volti di quelli che potevano essere dei guerrieri. Intravide Saba e per un attimo temette d’essere stato riconosciuto; riconobbe il figlio di un boscaiolo mostrare a Perinni le ferite del suo ultimo duello. E infine, come una breve apparizione, qualcuno che indossava un’armatura, l’elmo calato sul viso: Heran cercò di ritrovarlo con lo sguardo, perché era l’unico a non essere abbigliato come tutti gli altri; quando Perinni gli fu abbastanza vicina da parlarle senza dare troppo nell’occhio, le chiese se sapesse chi fosse.

«È il nostro Fratello Maggiore, che voi chiamate Principe: dicono che il suo corpo fu orribilmente sfigurato dall’Uccello di Fuoco, quando lo salvò dopo la caduta di Bordos.»

 

Note

Leigh: unità di misura vernoliana, corrispondente a 121,92 cm. Secondo la legge di Vernolia, un uomo di rango inferiore non può avvicinarsi a una donna di rango superiore a meno di tre leigh.
Riti (di passaggio)1: la quindicesima festa dei Bivacchi è il momento che segna per i giovani agriranensi il passaggio definitivo fra l’infanzia e l’età adulta. Essendo, all’origine, una cultura guerriera, viene data molta importanza alla sopportazione del dolore: questa viene dimostrata per gradi, iniziando con l’epilazione tramite l’uso di resine calde (questa rientra anche nelle pratiche igieniche locali), il tatuaggio, la scarificazione rituale e la circoncisione.
Effemminati: se la a Vernolia è considerata un’empietà, ad Agrirani l’omosessualità è vista come una dimostrazione d’amicizia e apprezzamento fra persone dello stesso sesso.
Rito (di Passaggio)2: il menarca segna per una ragazza la fine definitiva dell’infanzia, anche se non è ancora considerata adulta. La frase con cui si annuncia tale evento è “*nome della ragazza* è morta”, da cui la credenza che gli agriranensi pratichino il sacrificio umano.
Bozzolo: termine agriranense per indicare una ragazza mestruata di età inferiore ai diciassette anni. Una volta avuto il menarca, infatti, le giovani agriranensi sono allontanate dalla famiglia e dal villaggio per essere educate alla vita adulta.
Fratello Maggiore: titolo con cui è chiamato il Principe nella lingua di Agrirani.

Come ho già detto, ad Agrirani l’omosessualità è tollerata e, inoltre, quella cui assiste Heran rientra in quella rituale: mi sono, infatti, basata sull’uso rituale della fellatio per le tribù Sambia (Papua Nuova Guinea), per le quali l’ingestione del seme permette ad un giovane di inglobare la forza virile dei membri più anziani della comunità. E dato che siamo in tema, ad Agrirani c’è la credenza che, quando praticata da una donna con il marito, la terrà al sicuro da un probabile aborto (scientificamente parlando, è perché il corpo della madre “conosce” già le proteine paterne, rendendo meno probabile un rigetto dell’embrione: tengo a precisare che si tratta di una teoria che non è stata ancora dimostrata scientificamente).
Nella storia non descrivo i riti di passaggio per le ragazze di quindici anni ma sostanzialmente sono gli stessi, con l’asportazione chirurgica dell’imene in luogo della circoncisione: anticamente si trattava d’infibulazione per le une e di subincisione per gli altri, pratiche che furono abbandonate sotto la regina Ralma. Quanto alla scarificazione femminile, è un modo per dimostrare che la ragazza è pronta per la maternità: queste vengono eseguite sul ventre, i seni e le cosce e sono considerate molto attraenti per gli uomini.
Inoltre, l’educazione delle ragazze fra i quindici e i diciassette anni riguarda principalmente la sfera sessuale, in quanto una ragazza poco esperta fra le lenzuola è considerata poco maritabile: di questo se ne occupano le mezzane. Se ad Agrirani, è una donna sterile o una Skjaldmær – cui è concesso l’uso del silfio come contraccettivo – a prendersi cura l’educazione sessuale dei ragazzi fra i quindici e i diciassette anni, a Vernolia un padre –o chi ne fa le veci – conduce il figlio in un bordello dopo il suo quattordicesimo compleanno: questo è uno dei pochi casi in cui è tollerata la frequentazione di una prostituta. Gli altri sono: se un uomo che non abbia introiti sufficientemente regolari per avere una concubina, oppure quando si è in viaggio per lunghi periodi.

Grazie non solo a chi leggerà queste righe, ma lascerà anche un comment.

 

Kindest regards, 

D. Rose

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Capitolo 9
*** VIII ***


b 8 a

 

 

Partirono prima che le danze nuziali terminassero e con la neve che aveva appena iniziato a cadere. Heran si volse indietro, guardando i bivacchi che si allontanavano.

«… alla fine, soffocano i fuochi e, nel buio, giacciono con la prima persona che trovano, sia essa uomo o donna, vecchio o bambino.»

Aveva quasi la certezza che anche quella diceria fosse una verità deformata e il fatto di volersene sincerare avrebbe costituito un’ottima scusa per restare ancora qualche ora: conosceva suo padre e sapeva che il viceré non sarebbe stato soddisfatto dalle poche informazioni che era riuscito a raccogliere sul capo dei ribelli. Ma Perinni era stata irremovibile, asserendo che erano rimasti anche troppo a lungo.

«Se tu vuoi restare, fai pure!» borbottò la guaritrice. «Di certo non sarò io a impedire di divertirti e, di conseguenza, a farti scoprire.»

«Non vedo come potrebbero capi…»

Heran si bloccò nella neve e per qualche istante, delle immagini imbarazzanti – i ricordi dei suoi sogni ridicoli – esplosero nella sua mente: il buio non avrebbe celato l’assenza di scarificazioni sul suo corpo. Si riscosse prima che la luce della lanterna di Perinni fosse inghiottita dal buio e corse per raggiungerla.

Man mano che avanzavano, la neve cadeva sempre più fitta e prima che potessero raggiungere Passo Sille, si trasformò in una bufera. La ragazza iniziò ad agitare la sua lanterna indicando qualcosa poco più avanti, ma la sua voce era soffocata dal vento, quindi raggiunse il cavaliere e lo afferrò per un polso.

«C’è un rifugio, poco più avanti, temo proprio che dobbiamo restarvi fino a quando la tempesta non si sia calmata.»

Entrarono tremanti nella capanna, bloccando la porta dietro di loro: Heran decise di occuparsi subito del cavallo che gli era stato prestato, levandogli dalla groppa i loro pochi bagagli e portandolo presso un mucchio di foraggio, mentre Perinni cercava di accendere un fuoco. L’edificio era formato da un unico ambiente e la più parte della stanza era scavata nel fianco della montagna: il pavimento di terra battuta in parte coperto da stuoie di giunco, una catasta di legna nell’angolo più asciutto, dei ripiani di legno grezzo su cui erano poggiati dei vasi di terracotta e delle coperte di lana, dei salumi e delle trecce di bulbi appesi alle travi costituivano la mobilia e la decorazione del ricovero. Dopo essersi occupata del fuoco, Perinni riempì di neve un paiolo annerito, lo appese alla catena che pendeva dalla canna fumaria e dispose alcuni tegami di coccio all’interno del focolare. Dal canto suo, Heran cercava di tenersi occupato spazzolando via la neve dal manto del cavallo: da quando aveva accettato l’invito della guaritrice, aveva saputo che avrebbe potuto trascorrere almeno una notte solo con lei, ma adesso che quell’ipotesi si era realizzata, il cavaliere non poteva fare a meno di sentirsi un po’ a disagio.

«Trascorrerete due o tre giorni insieme: approfittane e parlale La voce di Galas riecheggiò nella sua mente, maliziosa.

Parlale.

La sentiva occupata con l’acqua ricavata dalla neve, la sentiva intingere e strizzare qualcosa a periodi regolari, la sentiva soffiare come un gatto bagnato, e forse gli era anche parso di sentire i nodi del suo corsetto essere disfatti. Forse stava cercando di lavarsi alla bell’e meglio.

Parlale.

«Ehm… siete certa di non poter fare niente per Harilika?»

Non sapeva neanche perché aveva posto quella domanda, o forse era stato per il ricordo della vergine sacrificale che, quella mattina, aveva visto spogliarsi di tutti i simboli della propria infanzia.

«L’ho già detto a tua madre: posso darle qualcosa per impedirle di restare incinta, non per evitarle il sangue d’ogni mese. Ma tua sorella resterà una bambina almeno fino alla seconda luna di primavera.»

«Come possiamo esserne certi? Se dovesse essere fertile per l’arrivo di Suuritnias Calli…» Heran si morse la lingua, nonostante la sua voce fosse stata solo un bisbiglio, perché aveva quasi divulgato un’informazione confidenziale a un potenziale nemico – ma i guaritori dovevano restare sopra le parti – e guardò Perinni di sottecchi: la ragazza stava intrecciando i capelli appena umidi, quindi si lavò le mani e rimescolò il contenuto di una pentola. Non sembrava aver udito quello che il cavaliere aveva detto.

«Vieni a mangiare, nidtou, e non crucciarti con questioni di donne,» disse lei, porgendogli una ciotola fumante.

Mangiarono il loro pasto in un silenzio interrotto solo dal soffio del vento e dallo scoppiettare del fuoco. Heran lanciava spesso delle occhiate alla ragazza, chiedendosi come facesse a restare così tranquilla, quasi indifferente, nel trovarsi in una situazione del genere: qualcosa dentro di lui lo pungolava in maniera spiacevole, facendolo sentire quasi piccato. Probabilmente le cose sarebbero più facili per lui, se anche Perinni avesse mostrato un certo disagio, ma il suo viso continuava a essere scevro d’emozioni.

Parlale, ripeté ancora una volta la voce di Galas.

Alla fine, le chiese se non avesse paura.

«Di cosa dovrei aver paura?» rispose con aria di sfida.

Lui deglutì appena, scostando lo sguardo e cercando di reprimere un impulso che iniziava a salire nel suo basso ventre. «Forse di cose… ridicole

«E quale sarebbe la cosa ridicola che è anche formidabile

Fu impossibile trattenere l’impulso, così come fu impossibile dire chi fosse il più sorpreso fra i due. Heran premette Perinni contro la stuoia di giunchi intrecciati, il viso a un soffio da quello di lei e un’espressione incredula e bramosa allo stesso tempo.

«Questo tipo di cose ridicole,» mormorò con la bocca secca. «E a questo punto mi vedo costretto a parlare, poiché vi devo almeno una spiegazione. Perché è già da un po’ di tempo che non riesco a non pensare a voi, al modo in cui guardate quello che vi circonda, alla conoscenza che avete condiviso con me. E non chiedetemi perché desideri sapere come siano i vostri capelli al tatto, o se la vostra pelle ha il sentore dei vostri medicamenti, o se la vostra bocca ha il sapore del miele: io non ho una risposta. Perché voi? Perché non un’altra? Sono domande che cerco d’ignorare, ma adesso sono diventate come l’acqua che bolle in quella pentola. Tuttavia…» Inspirò profondamente, contemplandola attraverso le ciglia; poi si alzò e la guardò serio stringendo le labbra. «… tuttavia desidero fare le cose come si deve: per cui porrò la mia spada fra noi, questa notte, per indicare che non vi toccherò, sempre che non siate voi a volerlo.»

Perinni ricambiò il suo sguardo in silenzio e lui si sentì ancor più frustrato, perché non sapeva se le quasi impercettibili variazioni dei suoi lineamenti fossero dovute a quello che lei provava o fossero solo frutto della luce danzante del fuoco. Con un sospiro, Perinni si rimise a sedere e, dopo un attimo d’esitazione, raccolse le stoviglie sporche e buttò nel fuoco i rimasugli di cibo non riutilizzabili.

 

Heran aveva difficoltà ad addormentarsi, un po’ per i rumori della tempesta che imperversava e un po’ per la consapevolezza che Perinni dormiva a poco più di una spanna da lui: si strinse nel mantello di pelliccia e chiuse gli occhi, cercando di non pensare al comportamento scandaloso che aveva avuto nei suoi confronti. Nel dormiveglia, sentì la ragazza muoversi sul giaciglio di paglia improvvisato e poi un lieve sospiro: improvvisamente il giovane cavaliere percepì una tensione inconscia nei suoi muscoli, come l’imminenza di un pericolo. La sua mano scattò improvvisamente e serrò il polso della guaritrice: Perinni non disse nulla e si limitò a reggere il suo sguardo. Le braci morenti gettavano una luce fioca nella stanza, appena sufficiente per distinguere le forme: forse fu un gioco delle ombre, ma ebbe l’impressione di cogliere una leggera variazione nell’incurvatura delle sue labbra, le sue gote imporporarsi appena appena e una luce scintillare nei suoi occhi.

Col cuore che si gonfiava di speranza, Heran si protese verso di lei, mentre la mano di Perinni, liberata dalla presa, scivolò sulla spada che giaceva fra loro e la lasciò cadere per terra.

Perinni dormiva accoccolata al suo fianco, un braccio posato mollemente sul suo torace in un gesto che si sarebbe potuto definire possessivo: Heran guardava il suo viso, il modo in cui le sue labbra, ancora gonfie, si muovevano nel sonno.

«Mettere nel talamo una ragazza non appena questa diventa fertile, è come mettere una spada in mano a un bambino e gettarlo nella mischia

Non sapeva dire se questo fosse un costume migliore o peggiore di quelli di Vernolia, dove una ragazza poteva entrare in una casa come concubina non appena fosse diventata fertile e un ragazzo, per il suo quattordicesimo compleanno, era condotto dal proprio padre nel quartiere delle Lanterne Rosse per tre sere di seguito. Lui non conservava un ricordo eccezionale di quell’esperienza, complice l’educazione che aveva ricevuto nella sua prima infanzia presso i parenti di sua madre. Perinni gli aveva dimostrato che in certi gesti ci poteva essere più dei doveri verso la famiglia.

Mentre accarezzava con gli occhi il profilo della ragazza, dovette ammettere a se stesso che in fondo non gli interessasse più di tanto se lui non era il primo, perché questo non cambiava nulla nel carattere e nel modo di essere di Perinni. E poi, quale compagna migliore di una guaritrice per un soldato? Potevano considerarsi come appartenenti alla stessa classe sociale: tuttavia, lui era un cavaliere e non sapeva se delle nozze straniere avessero valore per le leggi di Vernolia così come non poteva sapere se la guaritrice avrebbe accettato d’essere solo una concubina fino allo scadere del suo quindicesimo anno di servizio.

“Ancora tredici anni…”

Parlale.

Chiuse gli occhi, tirando un lembo della pelliccia su di loro: le avrebbe parlato, e questa volta avrebbe fatto le cose davvero come si deve.

 

Il mattino seguente, trovò Perinni già vestita e pronta per partire, e una semplice colazione di cereali pestati e latte fermentato caldo che lo aspettava vicino al camino. Heran la guardò oltre il bordo della scodella, cercando le parole per esprimere la risoluzione che aveva maturato qualche ora prima.

«Perinni…»

«Vorrei che, una volta oltrepassata quella porta, dimenticassimo quello che è successo.»

Le parole della guaritrice furono come la lama di un pugnale che gli straziarono il cuore. Heran deglutì e fissò gli occhi di cielo sul suo viso, cercando di leggere i suoi veri sentimenti sotto quella maschera inespressiva.

«È stato un errore da parte mia indulgere in speranze perché…» Con un moto di rabbia, Perinni si alzò e, afferrata la pentola, fece per uscire, fermandosi sulla soglia. «… perché non sono libera di dare la mia mano a chi voglio.»

«È il figlio di quel boscaiolo, giusto?» Adesso era Heran a provare rabbia. Rabbia mista a dolore e al sentimento d’esser stato abusato.

«Cosa c’entra Jano adesso?»

«Non è il tuo… fidanzato?»

Tutto si aspettava Heran che vederla scoppiare a ridere: si asciugò una lacrima e lo guardò con uno dei suoi rari sorrisi.

«Se fossi stata promessa a Jano o a chiunque altro, adesso sua madre mi verserebbe idromele augurandoci un figlio per il prossimo inverno. Ma pur non essendo fidanzata, non sono libera di scegliere chi…» Strinse le labbra e abbassò il capo. «Non sono stata corretta nei tuoi confronti e tu non mi conosci.»

Il cavaliere la raggiunse e la obbligò a guardarlo negli occhi. «Ti conosco abbastanza da essere certo di quello che provo nei tuoi confronti.»

Una leggera variazione del modo in cui stringeva le labbra, un piccolo e rapido movimento delle sopracciglia: Perinni combatteva per non lasciar trapelare quello che provava e per reggere il suo sguardo. «No, tu non mi conosci, per cui adesso ti chiedo: il giorno che mi conoscerai, ripeterai le parole che mi hai detto questa notte?»

E oltrepassò la soglia, affondando i passi nella neve della notte.

 

 

Note 

Ridicolo: nel senso esteso (impensabile, incredibile, assurdo, inaccettabile).
Formidabile: nel senso primo di spaventoso, tremendo, terribile. Esattamente come lo utilizzò Hugo.
Anni di servizio: ogni militare di Vernolia ha l’obbligo di celibato durante i primi quindici anni di servizio –addestramento escluso. Questo, ovviamente, non impedisce loro di avere una o più concubine.
Il passaggio dal “voi” al “tu” è voluto.

 

Lo so che ho pubblicato questo capitolo con qualche giorno di ritardo, ma questo non è un periodo facile per me: non parlo di lavoro, perché quello bene o male un pochino c’è –ho una consegna da fare per luglio, sperando di riuscire a rimpinguare un po’ il mio esile conto in banca – quanto per delle questioni familiari di cui non abbiamo ancora idea quanto siano grandi / profonde. La butto sul ridere e dico che ho un mezzo Changeling in casa: dico mezzo perché i resoconti sono al momenti incoraggianti e ho letto testimonianze di situazioni ben peggiori. Ma sto divagando e ho parlato troppo di cose che probabilmente al lettore medio non interessano. 

Su questo capitolo non ho molto da dire, ma mi sento in dovere di spendere due parole sull’uso non molto comune dei due aggettivi di sopra. L’idea mi è venuta ripensando a una digressione che mio marito fece nei suoi anni di scuola (media o liceo non so e poco importa) sul significato della parola formidabile di Hugo e di come, avendo nel tempo quest’aggettivo perso la sua connotazione negativa di allora, il lettore moderno fosse portato a immaginare non-ricordo-quale-personaggio-di-quale-romanzo con un aspetto fisico completamente diverso da quello inteso dall’autore. Da lì a mettere in bocca a Heran la parola ridicolo invece di imbarazzante è andato da sé, anche perché me lo sono sempre immaginato quasi ingenuo da questo punto di vista. E mentre scrivevo questo mi sono resa conto che forse Dama Bluma potrebbe essere una madre inconsciamente castratrice.

Oh, e in questo capitolo c'è un omaggio a un autore latino: un'informata di cookies virtuale a chi la trova :P 

Grazie a chi, non solo leggerà queste righe ma lascerà anche un commento.

 

 

Kindest regards, 

D. Rose

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Capitolo 10
*** IX ***


b 9 a

 

 

Suuritnias Calliram era partito da Eimerado una settimana dopo che l’ultima carovana di mercanti era arrivata da Agrirani. Era partito con una scorta di diecimila uomini, portando appresso sua moglie e l’ultima figlia nubile che gli era rimasta, e aveva svernato a Faggioneve: non appena Passo Palandum fu di nuovo praticabile, aveva ripreso la marcia per Bordos-sul-Sandalo. Gli archiatri di corte gli avevano fortemente sconsigliato di imporre a Souritia Àntere un viaggio così lungo e difficile ma Suuritnias Calliram aveva risposto che era stata la salute compromessa di sua moglie a fargli prendere quella decisione: Hraustrion Relda gli aveva ricordato, in una sua missiva, dell’abilità dei guaritori agriranensi. In realtà, Suuritnias Calliram era ansioso di prendere la giovane Harilika Relda come concubina e non avrebbe disprezzato se, nel processo, sua moglie avesse avuto il buon gusto di tirar le cuoia.

Il giorno del suo arrivo, Hraustrion Relda volle aggiornarlo sulla situazione ma Suuritnias Calliram allontanò le sue parole con un gesto della mano.

«Non ora, Relda, il Generale Linet ha insistito per unirsi a noi e aggiungerà alle nostre forze altri quindicimila uomini: in totale saranno di meno rispetto all’altra volta, ma la Gilda si è rifiutata di mettere altro denaro in questa scaramuccia. Nel frattempo, voglio che Saba raduni i migliori guaritori del paese.» Attraversò il cortile fra due ali di soldati e rivolse uno strano sorriso al suo braccio destro. «Ma dimmi, Hraustrion, potrò godere della compagnia di tua figlia, questa notte?»

Hraustrion strinse le labbra e chinò il capo. «Sono desolato, Vostra Eccellentissima Altezza, Harilika non è ancora…»

«Non devi scusarti, sono cose su cui non abbiamo alcun potere. L’attesa renderà più intenso il piacere e probabilmente potrò offrirle delle pantofole fatte con la pelle di quel principe, quando le taglierò i capelli.» Il suo sguardo indugiò sulla cappella, costruita sulle fondamenta di una torre, e il suo sorriso si allargò aggiungendo con malsana dolcezza: «Quanti anni sono trascorsi, Hraustrion? Ventitré, ventiquattro forse? Eppure solo adesso ritrovo tutta la dolcezza di quel ricordo.»

 

 

 

Saba non impiegò molto tempo per eseguire l’ordine di Suuritnias Calliram e, cinque giorni dopo, si presentò negli appartamenti di Souritia Àntere con sette guaritori e cinque guaritrici: Suuritnias Calliram li scrutò uno per uno e rivolse un sorriso derisorio a Oska.

«I Santi Gemelli devono trovarvi proprio divertente, se vi hanno permesso di incontrare nuovamente la Nostra persona.»

Il guaritore sollevò il mento con un’aria di sfida che poco si addiceva al suo aspetto di bambino e ricambiò il sorriso. «Tieni per te i tuoi dèi, Patrigno, non so che farmene.»

«Avete la lingua affilata di sempre, e se vi risparmiamo di testare quanto sia affilata la lama del Nostro boia, è solo per il bene di Souritia Àntere,» sibilò minaccioso, poi spostò lo sguardo sulla ragazza accanto al guaritore. «Anche voi, non siete un po’ troppo giovane?»

La giovane donna non rispose, limitandosi a chinare il capo: fu Saba in persona a parlare per lei.

«Data la… natura del male della Vostra Eccellentissima Sposa, Perinni è fra le levatrici più indicate a ispezionare la persona di Sua Eccellentissima Altezza, Souritia Àntere: non ha mai dovuto chiedere a un uomo di scegliere.»

«Perinni…» mormorò Suuritnias Calliram, stringendo gli occhi a due fessure e sollevandole il mento per osservare meglio i suoi lineamenti. «Ha un’aria famigliare.»

«Ah-ehm, forse la Vostra Eccellentissima Altezza ricorderà mia cugina, Olma delle Mille Lame: è la sua unica figlia.»

Suuritnias Calliram si limitò ad annuire senza sembrare completamente convinto, prima di ordinare che l’esame fosse eseguito. I guaritori visitarono Souritia Àntere e le posero delle domande attraverso Saba, l’unico a conoscere sufficientemente bene la lingua di Vernolia, poi le coprirono la parte inferiore del corpo con un lenzuolo in modo che le cinque donne potessero ispezionarle le parti basse: Suuritnias Calliram osservò con attenzione i loro volti, cercando di comprendere dal tono delle loro voci quanto ritenessero grave il male di sua moglie. Li vide discutere con una concitazione trattenuta a stento, li vide proporsi l’un l’altro chissà quali soluzioni, li vide scuotere la testa e li vide lanciargli un rapido sguardo di biasimo: sapeva perfettamente quale sarebbe stata la diagnosi e sapeva perfettamente che a sua moglie non restava che morire, perché il male era troppo vecchio, troppo radicato nel suo corpo per poterlo estirpare.

Nascose un sorriso quando gli dissero che, tutto quello che potevano fare per Souritia Àntere, era concederle un sonno che scivolava dolcemente nella morte; nascose un sorriso quando Oska gli rinfacciò il non aver condotto prima sua moglie da loro. Nascose un sorriso quando li accusò tutti quanti di rifiutarsi di curare Souritia Àntere, che erano dei traditori e degli accoliti di quel Principe ribelle; nascose un sorriso quando le guardie accorsero alla sua chiamata per arrestare i sette uomini e le cinque donne, perché sapeva che quel Principe ribelle avrebbe visto quel suo gesto come una provocazione.

Suuritnias Calliram sorrise quando, affacciato a una finestra, osservò i suoi uomini continuare a esercitarsi per le future battaglie anche mentre i dodici prigionieri erano condotti nei sotterranei.

 

Note  

Mi scuso ancora una volta per il ritardo, cercherò di essere nuovamente il più regolare possibile con gli aggiornamenti. Un breve capitolo di passaggio, questo, con l'introduzione del Barone Vladimir Arkonen Suuritnias Calliram: spero che lo amerete e lo odierete quanto me :-)

Grazie a chi, non solo leggerà queste righe ma lascerà anche un commento.

 

 

Kindest regards, 

D. Rose

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Capitolo 11
*** X ***


b 10 a

 

 

Lo sparviero dei Gabirai pareva risplendere sul velluto verde mirto dello stendardo che, sospeso al soffitto della sala, celava alla vista dei presenti il vecchio trono di pietra: forse troppo scomodo o non abbastanza largo per la sua mole, Suuritnias Calliram gli aveva preferito un confortevole e meno regale scranno di legno e pelle. 

Non appena aveva terminato il suo servizio quotidiano, Heran era corso nella sala del trono per assistere al processo: in tutta Eimerado si sapeva quanto fosse malata Souritia Àntere, tanto che alcune guardie avessero ipotizzato, a mezza voce, che con quel viaggio attraverso le piane di Vernolia e i Monti Takisti, l'Erede al Trono avesse cercato di liberarsi di quella donna, diventata ormai inutile. E, in piedi dietro sua madre e sua sorella, il giovane cavaliere si chiedeva perché Suuritnias Calliram avesse preferito quella farsa al calice di dolcemorte che gli era stato offerto per la moglie. 

«… e nella nostra innocenza, ci appelliamo agli dèi.»

Un sorriso asimmetrico si dipinse sul volto del principe e Dama Bluma cercò istintivamente la mano del figlio, stringendola con una forza inaspettata.

«Un giudizio divino, un'ordalia, è questo che volete?» I dodici guaritori annuirono come se fossero una sola persona, e una luce maligna parve illuminare per un attimo gli occhi di ghiaccio del sovrano. «Non si dica che non siamo clementi: scegliete fra voi un rappresentante, giacché vi considerate parimenti innocenti. Ma preferiremmo che questo non sia Mastro Oska: un vecchio dall'aspetto di bambino non sarebbe granché come svago per Grodega.»

Nell'udire quel nome, Heran sentì la mano di sua madre tremare, mentre suo padre scosse la testa.

«Se questa non è una provocazione…» mormorò Hraustrion Relda, più a se stesso.

Con un nodo che gli attanagliava la gola, Heran non osava spostare lo sguardo dai dodici guaritori: nessuno fra i sei uomini gli sembrava essere abbastanza forte da affrontare Grodega e solo un codardo avrebbe accettato di far avanti Oska o una delle cinque donne. Li osservò confabulare fra loro, scuotendo la testa o agitando una mano, poi ognuno di loro strappò un bottone dai propri abiti, li misero in un sacchetto e fecero avvicinare un bambino: estratto un bottone, i dodici accusati lo osservarono con solennità. Il più anziano di loro alzò il capo verso Suuritnias Calliram e si schiarì la voce.

«Che i nostri e i vostri dèi siano testimoni della nostra innocenza, sta a loro la scelta del nostro campione: è su Perinni Timandae che hanno posato il loro sguardo.»

Heran si sentì morire, poiché sapeva a cosa andasse incontro la guaritrice. Tuttavia adesso sapeva cosa fare e, senza dire una parola, si volse per tornare nelle sue stanze: era tempo di pagare il suo debito con Perinni, e lo avrebbe pagato con il giavellotto e la spada di suo nonno.

 

Sembrava che lo squallore della cella non toccasse Perinni. Come le altre quattro donne, per il processo la giovane aveva indossato i suoi abiti migliori, quelli della festa: la luce del meriggio entrava dall'unica finestra e faceva sembrare più bianca la sua pelle, cui la polvere di mica aveva dato una qualità madreperlacea. Heran attese che la porta dietro di lui fosse chiusa per potersi avvicinare, con un po' di apprensione: era la prima volta che era solo con lei, dopo quello che era accaduto l’ultima notte dei Bivacchi.

«Volevo solo rassicurar…» Esitò un attimo su come dovesse rivolgersi a lei. «…vi che manterrò la mia parola: sarò il vostro campione e vi ripagherò di quanto faceste per me all'inizio della nostra conoscenza.»

«Perinni Timandæ, se un giorno foste nel bisogno, io, Heran Relda del Drago d’Argento, sarò il vostro campione.»

Lei non rispose, non subito. Un angolo della sua bocca si sollevò appena, in un accenno di sorriso divertito. «Ho sempre pensato che quelle fossero solo parole di circostanza, nidtou: le promesse impegnano solo chi crede in esse. E poi dimentichi che il mio è un popolo di guerrieri: è una cosa ben trista, la ragazza che non sa usare un'arma nel momento del bisogno, inoltre…» Le sue labbra s'incresparono in uno strano sorriso e sollevò appena il mento. «… inoltre io sono una guaritrice, so perfettamente dove affondare la mia lama.»

«È una follia!» Dimentico di ogni precauzione, Heran la raggiunse con due lunghe falcate, le strinse gli omeri e aggiunse con un fil di voce, carica di ansia: «sai chi sarà il tuo rivale? Hai una pallida idea di quello che ti aspetta?»

«Il Falso Padre ha nominato un certo Grodega, il suo boia, immagino.»

«Quell'essere è un mostro cui piace giocare col cibo nel suo piatto: non sarà una morte onorevole, quella che ti aspetterà domani! E poi… e poi come puoi chiedermi di restare a guardare mentre lui… lui…» Ma per quanto fosse bassa la sua voce, le parole sembravano bloccate nella sua gola.

Il volto di Perinni si rabbuiò.

«Mentre lui mi usa violenza prima di uccidermi? Ti ringrazio per avermi avvertito: ho un motivo in più per chiederti di non essere il mio campione.» Sollevando le braccia, fece scivolare le mani di Heran dalle sue spalle, fece qualche passo indietro e si volse verso la finestra. «Questo Grodega, era con il Falso Padre durante il Sacco di Bordos, giusto? Se il tuo signore desidera assistere a un'esecuzione, è quello che avrà. Il nostro Fratello Maggiore non permetterà che si faccia gioco dei nostri voti: confido in lui.»

Heran aprì la bocca per protestare, per dirle di non essere testarda e che non era solo una questione d'onore, ma non poté dire nulla perché qualcuno bussò nervosamente alla porta e udì la voce concitata di Jonald sibilare: «Devo farti uscire, fratellino!»

Il giovane cavaliere sospirò, dirigendosi verso l'uscita, ma prima di varcare la soglia, si volse un'ultima volta verso di lei, per imprimere nella sua mente l'immagine di Perinni che, ritta come un fuso, si bagnava nella luce del meriggio e sembrava non essere toccata dallo squallore della cella.

 

 

Note  

Dato che i capitoli accumulati sono quattro, li faccio tutti subito così mi tolgo il pensiero :P
Siamo più o meno a metà della storia e si sente che non abbia molto tempo di inserire le note esplicative: penso proprio che le metterò in un'appendice a parte. Anzi, quasi quasi lo faccio subito dopo aver postato questo capitolo: non credo sia contro il regolamento, no?

Grazie a chi, non solo leggerà queste righe ma lascerà anche un commento.

 

 

Kindest regards, 

D. Rose

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Capitolo 12
*** XI ***


b 11 a

 

 

La lancia s’infilzò nel manichino di paglia con una forza tale da divellerlo: Heran rimase in posizione per qualche attimo, il corpo teso ad arco, inspirò ed espirò profondamente e poi si rizzò, andando a recuperare l'arma. Era arrabbiato con Perinni che si ostinava a rifiutare il suo aiuto, era arrabbiato con suo padre che per il giorno seguente lo aveva assegnato alla guardia Suuritnias Calliram, impedendogli la possibilità di farsi avanti come campione per difendere l'innocenza della guaritrice. Era arrabbiato perfino con Mornaü, il suo drago, che aveva accolto il suo sfogo con insolita indifferenza, come per dirgli che non aveva altro da fare che lasciare Perinni al suo destino. Dopo essersi girato e rigirato nel proprio letto, l'unica idea che aveva avuto per sfogare la sua rabbia era stata allenarsi: delle tre lune di Teija, due erano alte nel cielo e la loro luce, argentea e azzurrina, era sufficiente per vedere i bersagli.

«Dovete essere proprio di cattivo umore, per trattare quel povero manichino in questo modo, Heran.»

Non aveva bisogno di voltarsi per vedere chi fosse comparso alle sue spalle: conosceva fin troppo bene quella voce, e se fino alla scorsa estate la particolare enfasi con cui aveva pronunciato il suo nome lo aveva messo in imbarazzo, adesso suonava irritante alle sue orecchie.

«Non sentite freddo?»

Una mano delicata si pose sulla sua spalla nuda. Rouva Albirea, la figlia minore di Sua Eccellentissima Altezza, era cresciuta dall'ultima volta che l'aveva vista: era più alta e più donna di quanto ricordasse. I lunghi capelli biondi, mai tagliati dalla nascita, incorniciavano il viso dai lineamenti ben cesellati e un naso leggermente adunco, i suoi occhi di giada si perdevano sull'incarnato bianco latte spruzzato di efelidi: senza gli artifizi cosmetici che era solito vederle addosso, non era né più né meno bella che qualsiasi altra ragazza di Vernolia. Il giovane cavaliere si ritrovò a pensare a Perinni e a quel qualcosa che la faceva distaccare da tutte le altre donne che aveva incontrato e che la rendeva diversa, speciale.

“Gli occhi… forse sono gli occhi…”

«So che abbiamo già avuto questo genere di discussione, mia giovane signora, ma dovrebbe essere a letto,» disse lui infine, riuscendo a estrarre l'arma. «Oppure fare qualcosa per togliervi questa pessima abitudine di andare in giro di notte: è pericoloso ed è sconveniente.»

«Non corro alcun pericolo se ho al mio fianco un cavaliere integerrimo come te. E ti avevo chiesto di chiamarmi Albirea, quando siamo soli.»

Lui sbuffò mentre tornava all'altro lato della corte, soppesando il giavellotto. «Non ricordo, dovevo essere ubriaco. E mi vedo costretto a invitarvi caldamente di spostarvi: rischierei di ferirvi.»

Albirea strinse le labbra, indispettita, ma si spostò alla sua sinistra in modo da non intralciargli i movimenti o farsi male.

«Prima di venire ad Agrirani non mi avresti parlato così, ti saresti affannato a tenerti a tre leigh da me arrossendo come un bambino sorpreso con le dita nel miele. Sei cambiato, Heran. Non che mi dispiaccia, sia chiaro: sono solo… sorpresa.»

Heran non rispose, deciso a ignorarla e a non lasciarsi coinvolgere: quando era ancora a Eimerado, aveva sempre avuto il sospetto che lei potesse nutrire per lui qualcosa di più del semplice rispetto. Aveva creduto che si trattasse semplicemente della cotta di una ragazzina di quattordici anni, fino a quando non si erano trovati in una situazione simile: quella volta lui aveva bevuto e Albirea gli aveva parlato delle speranze che nutriva per lui, arrivando persino a compromettersi, tuttavia lo stupore del cavaliere era stato sufficientemente breve per evitare l'irrimediabile. Mentre scagliava il giavellotto, Heran si ritrovò a pensare alla festa dei Bivacchi e a come le scarificazioni sul corpo di Perinni avevano guidato le sue mani.

«Perché sei cambiato, Heran? È a causa di quella ragazza che morrà domani?»

Questa volta Heran non poté ignorarla: la guardò con circospezione, come se fosse una fiera pericolosa attaccata a un guinzaglio marcio. «Che cosa ve lo fa pensare?»

Albirea fece un sorriso un po' forzato e, sulla punta dei piedi, si protese verso di lui, sfiorandogli l'orecchio con le labbra. Era cresciuta, e anche molto: questa volta non ebbe bisogno di arrampicarsi su di lui.

«Perché vorresti essere il suo campione, allora?» Rise frivola. «Andiamo, non crederai davvero che i tuoi movimenti di questo pomeriggio siano sfuggiti al mio Eccellentissimo Signor Padre… perché pensi che ti abbia voluto nella sua scorta, domani?»

«Io… io ho un debito nei suoi confronti.» E senza averne l'intenzione, raccontò come Perinni gli avesse salvato la vita, impedendo che dei ribelli lo uccidessero, e di come gli aveva anche permesso di recuperare l’uso del braccio in un tempo inferiore a quanto previsto da Mastro Midio.

La ragazza lo ascoltò, senza perdere d'occhio i due soldati che facevano la ronda sul muro di cinta.

«Una vita per una vita, dunque? La cosa ti fa onore, Heran Relda, ma non hai pensato che la tua Albirea possa aiutarti? Sia tu sia io sappiamo che quest’ordalia è solo una farsa: per cui sii gentile con me e, ne sono certa, il mio Eccellentissimo Signor Padre non mi negherà di graziare quella guaritrice.»

Così dicendo gli pose una mano sulla mascella e gli fece voltare il viso, ma prima che lei potesse baciarlo, lui le strinse il polso e la allontanò.

«Questa, senza dubbio, è la peggiore delle vostre cattive abitudini, mia giovane signora

Albirea lo guardò con gli occhi sgranati e la bocca socchiusa per lo stupore, poi la sua espressione si esacerbò quando si liberò dalla presa, fece qualche passo indietro e sollevò il mento. «È questo ciò che fate della mia amicizia, Heran Relda? Come desiderate, allora, ma vi avverto: sbagliate se credete che un'insulsa guaritrice, una Agriranense, possa frapporsi fra me e la realizzazione delle mie speranze.» Questa volta fu lui a essere stupito e Albirea sorrise trionfale. «Pensavate che fossi una stupida? Heran, solo un innamorato è abbastanza disperato da affrontare Grodega in singolar tenzone.

«E qualcosa mi dice che domani sera avrete bisogno di qualcuno che vi consoli,» concluse prima di andare via.

Una volta rimasto solo, Heran strinse un giavellotto così forte che le nocche della mano divennero bianche prima di piantarlo con rabbia a pochi passi dai suoi piedi, chiedendosi se non fosse il caso di andare da Perinni e rubarle un ultimo bacio.

 

 

Note  

Dato che i capitoli accumulati sono quattro, li faccio tutti subito così mi tolgo il pensiero :P
Enter Albirea e il suo rapporto con Heran, che conoscete già se avete letto "La regina di giada"
.

Grazie a chi, non solo leggerà queste righe ma lascerà anche un commento.

 

 

Kindest regards, 

D. Rose

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Capitolo 13
*** XII ***


b 12 a

 

 

Quando il corteo con i dodici prigionieri fu sul punto di partire dal castello, Suuritnias Calliram volle far prova di mansuetudine, offrendo loro salva la vita e una pena più leggera se avessero accettato di ridonare la salute a sua moglie, ma che altro potevano rispondere i guaritori, sennonché ciò era impossibile?

Un soldato fece per strattonare le catene che legavano i polsi di Perinni, spronandola ad avanzare, quando Rouva Albirea lo fermò.

«Tagliatele i capelli, una prostituta non ne ha diritto, tanto meno se è condannata a morte,» ordinò, sorridendo mentre guardava qualcuno afferrare la treccia bruna della ragazza e tranciarla con un pugnale: mandò una delle sue ancelle a recuperarla e, presala in mano, la osservò. «Senza dubbio, una donna di malaffare non merita una chioma così bella.» Poi sorrise in modo strano e la portò vicino al viso con uno sfarfallio di ciglia. «Dite, mi dona il bruno?»

Nessuno rispose, solo suo padre la degnò di un'alzata di spalle; Heran, invece, preferì guardare altrove: aveva intuito che quella era una provocazione nei suoi confronti.

Il luogo in cui si sarebbe svolta l'ordalia era stato preparato sulla sponda destra del Sandalo, nello stesso punto in cui, fino a oltre venti anni prima, erano eseguite le condanne a morte. Uno spesso palo di legno, con un anello di ferro sulla cima da cui pendeva una lunga corda, si ergeva al centro di uno spiazzo delimitato da una parte dalle tribune, costruite in fretta nei tre giorni precedenti, e dall'altra dal fiume ancora gonfio delle acque del disgelo. Sua Eccellentissima Altezza, Suuritnias Calliram, sembrava deciso a farne uno spettacolo di potere.

 

Suuritnias Calliram aveva ordinato di non toglierle le manette, suscitando scandalo non solo fra la gente di Agrirani venuta ad assistere, ma anche nei sacerdoti e una parte dei cavalieri di Vernolia. La guaritrice, invece, non aveva protestato e si era limitata a una mera scrollata di spalle. A Perinni era stata concessa comunque una spada, che la ragazza sembrava maneggiare con una certa abilità, riuscendo anche a compensare il peso eccessivo per la sua corporatura, tuttavia i suoi movimenti erano impediti della lunghezza della catena. Se il duello si stava protraendo in quel modo, era solo perché il suo rivale trovava tutto questo un gioco divertente.

Non si poteva definire Grodega un uomo, con quel suo viso cattivo, i muscoli gonfi e la pelle innaturalmente verdastra di chi consuma korehn: neanche suo padre Hraustrion sapeva dove Suuritnias Calliram lo avesse trovato, la cosa certa era che svolgeva per il principe i lavori più sporchi. La sua fama era talmente pessima che, a Eimerado e nelle campagne circostanti, le madri usavano il suo nome come spauracchio per i bambini disubbidienti.

Heran non poteva far altro che guardare e chiedersi se ci fosse onore in tutto questo. Ci sarebbe stato onore nello scavalcare la tribuna e frapporsi fra Perinni e Grodega, perché le aveva dato la sua parola - le aveva promesso che sarebbe stato il suo campione - ma, per quanto nobili potessero essere le sue intenzioni, un debito personale bastava a disobbedire gli ordini ricevuti? Per un attimo aveva accarezzato la fantasia in cui, in groppa a Mornaü, afferrava per la vita Perinni e la portava via, lontano dove nessuno li avrebbe riconosciuti e sarebbero stati felici, ma era solo una fantasia e in essa c'era ancor meno onore. Di certo vi era poco onore nell'uccidere Perinni lui stesso prima che Grodega avesse modo di metterle le mani addosso, ma forse dandole una morte più onorevole bastava a pagare il suo debito. La cosa certa era che non c'era onore in quel duello.

Quando, con un colpo ben assestato, Perinni fu disarmata, Heran chiuse gli occhi istintivamente e strinse i pugni spasmodicamente, per cercare di reprimere quella pulsione che gli incitava a soccorrerla.

«Non dimenticare che sei un soldato di Vernolia, ragazzo, e un Cavaliere del Drago d'Argento. Apri gli occhi e guarda.» La voce di suo padre era appena udibile, eppure l'autorità di cui era carica e l'abitudine spinsero il giovane a obbedire istantaneamente.

Perinni indietreggiò guardinga, e quando Grodega si decise a colpire, corse verso il palo di legno e vi si arrampicò, agile come un gatto: era ritta come un fuso, in equilibrio sulla cima, e forse sorrideva. Urlò una frase in una forma arcaica della lingua di Agrirani, rivolta alle tribune.

«Juhra!» rispose una voce di donna. 

«Juhra!» ripeterono forse una dozzina di voci.

«Juhra! Juhra! Juhra!» ripeté la gente di Agrirani all'unisono, battendo i piedi sulle assi di legno.

Ignorando l'aura di brutto presagio che era calata sull'arena, Grodega rise schioccando la lingua contro i denti e disse: «Smettila di miagolare, micetta, e scendi da quell'albero che voglio divertirmi ancora un po'!»

«Miao, miao! Se mi vuoi, vieni a prendermi!»

Fu tutto molto rapido. Un attimo prima Grodega era ai piedi del palo, schernendo la ragazza, e quello successivo scalciava furiosamente, sollevato da terra di una spanna o due e la catena attorno al collo. Perinni puntava i piedi puntati contro il legno e il viso rosso e deformato dallo sforzo, tirò il cappio usando tutto il suo peso: si dondolò, portandosi davanti all'uomo, sfilò dal fodero il pugnale che Grodega portava alla cinta e con questo gli squarciò il fianco destro.

«Juhra!» esclamò, alzando verso il cielo il fegato appena strappato prima di portarlo alla bocca.

Rouva Albirea svenne, come altre dame presenti, e la piccola Harilika Relda nascose il volto sul petto di sua madre, mentre buona parte dei vernoliani vomitò. Dama Bluma fu l'unica a non distogliere lo sguardo da quel gesto che, più tardi, avrebbe spiegato a suo figlio, essere simbolico.

Una freccia dalle penne rosse colpì il parapetto davanti Suuritnias Calliram: un uomo in armatura e con una balestra in spalla era in cima alla tribuna opposta. Heran sgranò gli occhi, riconoscendo in lui il Principe.

«Spero che ti sia piaciuto lo spettacolo, Calliram Gabirai,» disse sfrontato. «Questo era solo un avvertimento: raduna i tuoi cani e vattene da Palandum, o la prossima volta la mia freccia ti trafiggerà il cuore!»

 

 

Note  

... e quattro, mi son rimessa alla pari con le settimane :P

Grazie a chi, non solo leggerà queste righe ma lascerà anche un commento.

 

 

Kindest regards, 

D. Rose

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Capitolo 14
*** XIII ***


b 13 a

 

 

«Avete attirato su di voi le collere dei Santi Gemelli, Vostra Eccellentissima Altezza.»

Con quelle parole, i sacerdoti di Vernolia avevano voltato le spalle a Suuritnias Calliram: solo quando aveva acconsentito a ritirare l’ordine di cattura e la taglia sui dodici guaritori che i ribelli avevano liberato, gli fu concesso nuovamente di accedere ai riti.

«Non dovrei dirlo,» mormorò Galas col tono della confidenza, una settimana dopo l’ordalia, «ma non ha avuto molta scelta: ha già perso il sostegno della Gilda, non può permettersi di perdere anche i preti. Va da sé che, quelli che chiamano riti, in realtà non sono altro che questi.» E sfregò il pollice contro l’indice in un gesto eloquente.

Heran scosse la testa, ma preferì evitare di rimproverare all’amico tali propositi irriverenti: ormai lo conosceva e, per quante ammaccature la sua armatura avesse potuto ricevere, il cavaliere rosso restava pur sempre un mercante, figlio di mercanti e nipote di mercanti. Galas aveva almeno il buon senso di non nascondersi dietro dei buoni propositi colmi d’ipocrisia.

«A proposito di sparvieri,» aggiunse come se si fosse ricordato qualcosa all’improvviso, «secondo te questo andrebbe a Perinni?»

Heran osservò accigliato il cerchietto d’oro che l’amico gli mostrava, quindi lo prese per osservarlo meglio: era sottile, ornato di minuscole perle e schegge di pietre semipreziose e di fattura squisita.

«Perché me lo chiedi?»

«Perché sei tu quello che… la conosce meglio. E poi perché ho fatto una scommessa con un paio dei nuovi: se vinco facciamo a metà, promesso.» Davanti allo sguardo dubbioso dell’altro, il Mercante-Cavaliere roteò gli occhi. «Dopo l’attentato a Sua Eccellentissima Altezza, i ribelli approfittarono della confusione per liberare quei guaritori, giusto? Un paio di giorni fa, abbiamo ritrovato i loro ceppi: tutti erano stati forzati. Tutti tranne quelli di una certa ragazza di nostra conoscenza. Secondo alcuni si tratta di una stregoneria, io penso che Perinni abbia semplicemente delle mani piccole come le donne del Bevianstan: se il bracciale le va, ci sono sette sparvieri che voleranno nelle mie tasche, e altrettanti nelle tue.»

Heran tornò a osservare il bracciale, pensieroso. Non era esperto di gioielli, ma quel cerchietto gli sembrava più per una bambina che per una donna.

«Non… ho fatto mai caso alle sue mani. Ti spiacerebbe lasciarmelo? Fra meno di un’ora devo uscire.»

Galas annuì con un sorriso complice e, dopo aver salutato l’amico, corse negli alloggi per liberarsi di quella sua armatura smaltata di rosso.

 

 

 

Fu solo una volta tornato a Bordos, che Heran si sentì autorizzato a pensare al favore che gli aveva chiesto Galas: era dal giorno dell’ordalia che non aveva incontrato Perinni e un po’ temeva quel momento, senza sapere esattamente perché. Tuttavia, ogni volta che non aveva i suoi doveri ad assorbire tutta la sua attenzione, sentiva riecheggiare nella sua mente una domanda – quella domanda – che la guaritrice gli aveva posto il mattino dopo i Bivacchi.

«Il giorno che mi conoscerai, ripeterai le parole che mi hai detto questa notte?»

Sarebbe stato capace di ripeterle quelle parole, adesso che la sapeva capace di uccidere un uomo in quel modo? “Grodega non era un uomo come tanti, e fino all’ultimo ha fatto delle cose orrende.” Quel semplice dato di fatto bastava a giustificare il modo in cui Perinni aveva ucciso?

Fu distratto da quei pensieri da qualcuno che gli cinse la vita da dietro.

«Harilika?» Quando sentì sua sorella annuire contro la sua schiena, si volse e le prese le mani. «Souritia Àntere ti ha di nuovo trattato male?»

La bambina annuì di nuovo e il giovane sospirò: da quello che una volta gli aveva lasciato intendere Rouva Albirea, a nessuna delle cinque donne di Suuritnias Calliram piaceva la prospettiva che Harilika ne diventasse la concubina. E anche nella loro famiglia nessuno lo approvava, eppure suo padre non aveva potuto rifiutare quell’onore: quando lo aveva saputo, Cypris aveva commentato che, non avendo potuto avere la madre, Suuritnias Calliram si era semplicemente preso la figlia. A tredici anni non ancora compiuti, Harilika prometteva d’essere la degna erede di Dama Bluma: la stessa fronte alta, gli stessi capelli d’oro e di rame, lo stesso incarnato di latte, gli stessi occhi di cielo, le stesse mani delicate e sottili. Per un attimo Heran posò lo sguardo sulle mani di sua sorella ed ebbe un’ispirazione: frugò nel suo tascapane ed estrasse il bracciale che Galas gli aveva dato quella mattina.

«È… un bel bracciale,» mormorò Harilika, anche se dal suo sguardo era evidente che in realtà volesse sapere perché suo fratello aveva un monile simile.

«Ti spiacerebbe provarlo? Vorrei… verificare una cosa.»

La bambina scosse la testa e lasciò che il fratello le infilasse il gioiello, ma quando non ci riuscì, rise appena. «Forse potrei indossarlo, se fossi uno dei geni dell’acqua di nostra madre.»

Anche Heran rise, e stava per risponderle a dovere, quando un’ipotesi ben precisa gli si formò nella mente: il sorriso gli morì sulle labbra e i suoi occhi si riempirono d’angoscia. Tremando appena, lasciò che la mano di Harilika scivolasse dalle proprie e rimase così, senza dire una parola.

«Stai bene, fratello?»

Heran non rispose: il cavaliere andò via senza salutare o dare una spiegazione, correndo a perdifiato verso le fosse in cui erano custoditi i draghi. Ignorò le domande dei commilitoni che incontrava, recuperò i suoi finimenti e raggiunse Mornaü.

«Sai dove trovarla, giusto?» mormorò fissando i suoi occhi di cielo in quelli del rettile.

 

 

 

Trovarono Perinni sulla strada per Wigga-del-Ponte quando il sole quasi sparito dietro le cime dei monti: nei campi appena arati, i contadini riconducevano i loro animali verso le proprie fattorie e decine e decine di fili di fumo si elevavano dai comignoli con la promessa del tanto meritato pasto serale.

Mornaü non aveva ancora posato le zampe sulla strada che, con un agile salto, Heran scese dalla sua groppa: raggiunse la guaritrice di corsa e la fece scendere dalla sua cavalcatura.

«Se è il tuo braccio a darti problemi, adesso non ho tempo, nidtou,» protestò Perinni, un po’ beffarda. «Ho una partoriente che mi sta aspettando a Wigga.»

Il cavaliere ignorò le sue proteste e senza dire una parola le sfilò i guanti uno per volta, osservando i polsi e le mani della ragazza con attenzione: non erano piccole come quelle di Harilika e la pelle aveva una tinta leggermente verdastra e un forte odore di erbe. Non erano gonfie, non presentavano segni di fratture o slogature, e i polsi erano intonsi, senza neanche i lividi quasi assorbiti dovuti ai ceppi. Strinse le labbra e le prese il viso, stringendolo spasmodicamente ed esaminando con estrema attenzione gli occhi.

«Si può sapere che cosa ti prende?!»

Il loro colore, che a seconda della luce tendeva più sul blu o sul viola, aveva attirato la sua attenzione fin dalla prima volta che i loro cammini si erano incrociati: si era lasciato distrarre talmente tante volte da quell’indaco che non si era reso conto di come la proporzione fosse sbagliata. Perché Perinni aveva gli occhi come quelli di un neonato.

«Tu sei… sei…» La parola si rifiutava di uscire dalla sua bocca, come se temesse che, pronunciandola, rendesse vere le sue paure.

Fu Perinni a dirla.

«Una Noïde. E allora, che cosa farai adesso, nidtou? Berrai il mio sangue per ottenere l’invulnerabilità? Oppure m’ingraviderai per potermi uccidere?» C’erano rabbia e disprezzo nella sua voce.

Heran la lasciò andare come se si fosse scottato, distogliendo lo sguardo.

«Io non… ho pur sempre un debito da pagare.»

«Allora taci, almeno per questa volta, e saremo pari. Tuttavia… tuttavia non dimenticare che questo non cambia nulla di me.»

Questa volta fu lui a parlare con rabbia. «Perché non me lo hai mai detto?»

«Perché non me lo hai mai chiesto?»

Heran sbuffò, tornando a guardarla, ricambiando lo sguardo di sfida di Perinni. «Mi avresti risposto con sincerità, se ti avessi chiesto che cosa fossi? È questo che vuoi dire?»

«Se tu mi avessi fatto la domanda giusta, sì. Probabilmente.»

Tacquero senza parlarsi, Perinni limitandosi a salutare con un cenno del capo una famiglia che tornava dai campi e che li guardava con curiosità, mentre Mornaü ringhiò scoprendo i denti aguzzi in direzione dei contadini: fu solo quando quelli furono abbastanza lontani che la guaritrice pose di nuovo lo sguardo sul cavaliere, lottando per non far trapelare i sentimenti e le emozioni che si agitavano dentro di lei.

«E adesso, non posso fare a meno di parlare, Heran Relda del Drago d’Argento.» E lui non poté far altro che tornare a guardarla, stupito di come la luce del tramonto sembrasse farla risplendere, proprio come un pomeriggio di molti mesi fa, il giorno di quel loro incontro inatteso a Piattapunta. «Adesso che mi conosci, ripeterai le parole che mi dicesti quella notte?»

I ricordi esplosero nella sua mente senza che potesse riuscire a trattenerli. Le parole che si erano detti, le cose che avevano fatto l’uno all’altra… se il suo cuore non voleva rinnegare tutto questo, la mente non faceva altro che urlare che si trattasse di un’empietà.

Vedendo che lui non rispondeva, la guaritrice sospirò, abbassando gli occhi.

«No, suppongo di no,» mormorò Perinni, più a se stessa, quindi rimontò in sella al proprio cavallo e riprese la sua strada.

Heran non si mosse né la guardò andare via. Si riscosse dalla sua apatia solo quando Mornaü gli sfiorò una spalla col muso: il drago lo guardò, poi volse la testa in direzione della guaritrice e quindi di nuovo verso di lui, sbuffando come se volesse suggerirgli che cosa fare. Il cavaliere gli accarezzò il muso con una mano guantata, sovrappensiero, poi si riscosse e afferrò i finimenti mormorando: «Torniamo al castello.»

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Capitolo 15
*** XIV ***


b 14 a

 

 

 

 

Svegliarsi prima ancora che il sole facesse capolino fra le montagne, lavarsi con l’acqua resa gelida dalla notte, trangugiare una poltiglia insipida e bollente, esercitarsi per tutto il giorno senza interruzioni. Era rassicurante vedere come certe cose non cambiassero mai. Tuttavia, se i giorni erano gli uni uguali agli altri, nella stasi che annuncia la tempesta, le notti di Heran non erano altrettanto rassicuranti.

Il primo giorno, si era sentito così sporco da strofinarsi la pelle a sangue; poi si era reso conto che la cosa non aveva molto senso: in fondo erano trascorsi quasi due mesi dai Bivacchi e aveva sempre rispettato il calendario delle abluzioni rituali. Tuttavia, questa realizzazione non era sufficiente a liberarlo dal senso di tradimento che gli rendeva amara la natura di Perinni, non era sufficiente a liberarlo dall’anelito per Perinni, e il ricordo di quello che si erano detti e si erano fatti – il modo in cui le scarificazioni avevano guidato le sue mani lungo il corpo di Perinni – aveva assunto un sapore agrodolce, simile a quello di un cibo che, detestato all’inizio, l’abitudine e il consumo rendono apprezzabile. Heran aveva pensato che quell’impressione non fosse altro che il frutto di una malia che l’Innominabile gli aveva fatto a un certo punto della loro conoscenza, ed era andato da sua madre.

Dama Bluma ascoltò suo figlio con attenzione, poi s’inginocchiò davanti a lui: fu sincera nel dire che tutto quello che poteva fare per lui era sincerarsi che fosse sotto l'influenza di una fattura, ma che per toglierla avrebbe dovuto rivolgersi a un sacerdote. Heran annuì piano, perché sapeva che lei non poteva fare di più, perché sapeva fin troppo bene come Suuritnias Calliram l’avesse sottratta al Chiostro per darla a suo padre, poche settimane prima che pronunciasse i sacri voti.

Eseguito il rito, Dama Bluma lo guardò con un’espressione di sollievo e sofferenza, e sospirò. «Forse sarebbe stato più facile se la mia risposta fosse differente, ma ciò che ti angustia non è il frutto di un intervento esterno. Dovrai trovare le tue risposte altrove: ti sei confidato con qualcuno? Ti sei confidato con Mornaü

Heran scosse la testa, perché un po’ temeva che Jonald ridesse di lui per una questione di donne, e perché, nonostante lo stretto legame che lo univa al drago, non riusciva a comprendere quello che Mornaü voleva dirgli a proposito di Perinni – o forse non voleva comprenderlo. Aveva ripensato alle parole di sua madre per giorni, aveva cercato di trovare una risposta senza riuscirci, e a complicare le cose c’era Rouva Albirea, che all’improvviso non gli sembrava più una ragazzina alle prese con il primo amore, bensì una giovane donna che cercava di attirare la sua attenzione, di sedurlo per un motivo che gli sfuggiva.

 

 

 

«Ohi, Heran, mi puoi dare una mano?»

Il giovane si volse e fece un cenno di saluto verso Cypris, che spingeva un grosso cesto fuori dalle dispense. Scusatosi con i suoi compagni e assicurando loro che non avrebbe impiegato troppo tempo, raggiunse la concubina e si caricò la cesta sulle spalle: Cypris inarcò la schiena all’indietro e premé le mani sui lombi, facendo scricchiolare la colonna vertebrale, quindi lo ringraziò e gli chiese di accompagnarla fino alle cucine.

«Sono diventata troppo vecchia per certe cose,» borbottò come a volersi giustificare, «e Hraustrion è troppo arrendevole nei confronti di Sua Eccellentissima Altezza: capisco che ci sia troppa gente da nutrire, ma perché coinvolgere me

«Non sono pensieri da esprimere ad alta voce, zia, lui non è tenero con chi osa sfidarlo.»

Cypris lo guardò con la coda dell’occhio e, nonostante il suo tono fosse leggero, qualcosa nel suo atteggiamento indicava che era assolutamente seria. «Non sono Hraustrion, io, e deve solo provare a torcere un capello ai miei figli e vedrai che alcuni suoi sporchi segreti saranno esposti alla luce del sole.» Non appena si rese conto di quello che aveva detto, la donna premé una mano contro la bocca. «Fa finta che non abbia detto niente, d’accordo? E grazie per l’aiuto.»

Heran corrugò la fronte e lasciò cadere la cesta con un tonfo: Cypris non era mai stata una pettegola esuo padre l’aveva sempre lodata per quella sua naturale riservatezza, eppure per un momento si chiese la ragione di quel lapsus, e soprattutto perché gli avesse chiesto di dimenticare qualcosa che avrebbe comunque ignorato. Molto probabilmente era un segreto che suo padre le aveva confidato nell’intimità del talamo, qualcosa che lei non era tenuta a sapere.

«Di nulla, zia, e… non preoccuparti, so perfettamente che ci sono cose che è meglio ignorare,» rispose Heran, poi aggiunse più a se stesso: «Già, ci sono cose che fanno male sapere.»

Cypris lo guardò un attimo e poi sospirò. «È da un po’ di giorni che sei strano: se non sapessi che fra poco sarai di servizio, ti proporrei di fare due chiacchiere.»

Era quello il pregio che suo padre aveva sempre lodato della concubina, una predisposizione all’ascolto e una capacità di concreta obiettività che più di una volta avevano aiutato Hraustrion Relda a sbrogliare delle brutte matasse. Heran si disse che, forse, avrebbe dovuto prendere l’esempio di suo padre e confidarsi con lei: si ripromise di farlo non appena fosse stato possibile e si allontanò dopo averla salutata, ma, preso da un’improvvisa ispirazione, fece qualche passo indietro.

«Zia, secondo te quali sono i… difetti intollerabili in… in una…» e non riuscì a dire altro.

Cypris lo guardò basita. «Jonald mi aveva detto che ti eri preso una cotta, ma pensavo che stesse scherzando!» Gli sorrise con fare materno e pose le mani sulle anche. «Non conosco la ragazza in questione e di certo quello che io troverei intollerabile in una nuora, tu potresti considerarlo adorabile: prediamo Erdra, non capirò mai che cosa Cystan ci trovi in quella benedetta ragazza, ma è innegabile che siano felici l’uno dell’altra. Oppure prendiamo tuo padre: hai un’idea di quanto sia insopportabile il suo eccessivo servilismo nei confronti di Sua Eccellentissima Altezza? A volte ha accettato di fare cose che mi davano voglia di prenderlo a schiaffi.»

«Come con mia madre.» Non era una domanda, solo una constatazione.

«Come con tua madre. Come per Harilika. Accettare di far diventare tua sorella la nuova concubina di Suuritnias Calliram è un errore che anche lui riconosce, eppure non ha fatto nulla per evitarlo. Ma a sua discolpa, posso dire che quando entrò al servizio di Sua Eccellentissima Altezza, Hraustrion pagò a caro prezzo i suoi eccessi di schiettezza,» continuò con rabbia, stringendo le mani così forte che le nocche divennero bianche. Heran la fissò sorpreso, perché suo padre era un uomo che soppesava ogni singola parola prima di pronunciarla: vedendo la sua espressione confusa, Cypris sorrise amaramente. «Non guardarlo adesso: alla tua età, Hraustrion aveva meno peli sulla lingua che Faion, Carda e Jonald messi insieme. Per me, quella sua franchezza era uno dei suoi miglior pregi, ma per Sua Eccellentissima Altezza era un difetto intollerabile: una concubina ha molto meno peso di un signore nella vita di un soldato, per cui non ha avuto altra scelta che tenere a freno la lingua.

«Ehi, ma qui ci stiamo perdendo in chiac…»

Cypris non ebbe modo di terminare la frase: il suono di un corno li colse di sorpresa.

Una nota lunga, due corte, una lunga. Nemici alle porte.

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Capitolo 16
*** XV ***


b 15 a

 

 

 

La strada per Passo Sille attraversava la Foresta di Bahro, e la cosa non piaceva per niente a Heran: nell’impulsività con cui Suuritnias Calliram aveva ordinato di muoversi, gli alberi non erano stati abbattuti né tanto meno bruciati, e soldati arrivati l’anno precedente assieme a Hraustrion Relda sapevano che sarebbe stato fin troppo facile per i ribelli tendere loro un agguato in quelle condizioni. Non gli piaceva che si muovessero così in fretta, così in alto, senza dare il tempo a chi era arrivato poche settimane prima di abituarsi all’altitudine e all’aria rarefatta della montagna – Heran era fin troppo cosciente di come l’insolita flora di Agrirani tendesse a ingannare, che in realtà erano molto più in alto di quanto sembrasse, e che il mal di montagna invigliacchiva gli uomini o li rendeva troppo audaci. Il Comandante Relda condivideva quei suoi pensieri, tanto che aveva cercato di convincere Suuritnias Calliram e il Generale Linet ad attirare i loro nemici a valle, dove avrebbero potuto muoversi con meno difficoltà, piuttosto che attaccarli direttamente nella Prova-del-Re.

Una nota lunga, due corte, una lunga. Nemici in arrivo.

Ma l’ultima nota fu interrotta da una freccia, mentre da dietro i tronchi degli alberi, dal sottobosco e dalle fronde i nemici piombarono su di loro. Heran aveva sempre amato la battaglia e il modo in cui si sentiva un tutt’uno con Mornaü, anche nello spazio ridotto della foresta che impediva i movimenti del giovane drago. Prima ancora che il cavaliere potesse dargli il comando, il rettile spiccò un salto di lato, piantando le zampe artigliate in un’ombra che aveva la consistenza viscosa della lava.

“Un’Innominabile,” si disse il cavaliere, mentre cercava di colpire la creatura.

Imprevisto, indesiderato, per un rapido istante il volto di Perinni venne a disturbarlo. Una Noïde. E allora, che cosa farai adesso, nidtou? Affondò la lancia nella creatura con rabbia, con disperazione, perché c’era una possibilità che in quel momento stesse lottando proprio contro Perinni nella sua forma animale. Forse era stata proprio Perinni la creatura che lo aveva ferito alla fine dell’estate.

“Ma gli occhi erano di un altro colore.”

L’Innominabile aveva preso forma attorno a lui, un po’ uccello dalle piume di fiamme nere e un po’ rettile, gli occhi dorati come metallo fuso. Non erano gli occhi di Perinni e forse per questo Mornaü non esitò un istante ad addentarle il collo: Heran sapeva che quello era un duello perso in partenza, poiché non era possibile uccidere quegli esseri con le armi comuni, che fossero lame del miglior acciaio o il più letale dei veleni, soprattutto quando erano ancora in possesso dei loro pieni poteri.

Oppure m’ingraviderai per potermi uccidere?

Il cavaliere percepiva un’insolita animosità nella creatura, un disprezzo simile a quello che Rouva Albirea aveva dimostrato nei confronti di Perinni prima dell’ordalia, ma allo stesso tempo aveva l’impressione che qualcosa la trattenesse nonostante il desiderio di morte che l’Innominabile nutriva nei suoi confronti. Un altro Cavaliere del Drago d’Argento attaccò l’Innominabile, forse nella convinzione che in due sarebbero riusciti a sconfiggerla – quale gloria più grande dell’avere una spoglia di Innominabile da offrire all’altare dei propri Lari? – e per un attimo lo sguardo dei due cavalieri s’incrociò, in muto accordo i giavellotti furono scagliati mentre i draghi affondavano le zanne e i denti nella creatura.

Le armi si piantarono nel terreno, le fauci si chiusero nel vuoto, l’Innominabile si era sciolta nel liquido nero e vischioso per fuggire, per ritirarsi insieme ai ribelli che stavano ripiegando verso le montagne, verso Passo Sille e la Prova-del-Re. Molti si lanciarono all’inseguimento dei nemici, esaltati dalla vittoria certa, tutti tranne i soldati arrivati l’estate precedente e i Cavalieri i cui draghi subodoravano una trappola o un inganno. Heran non seppe mai perché si volse indietro o perché Mornaü preferì lasciar andare l’Innominabile e spostarsi verso il centro delle file.

Heran intravide suo padre e, quando i loro sguardi s’incrociarono, Hraustrion agitò un braccio in una richiesta di aiuto. Suuritnias Calliram, forte della sua invincibilità, aveva commesso l’imprudenza di indossare solo una cotta sotto la tunica verde mirto.

«Mi ha fregato, il bastardo… Il mio stesso pugnale… Grodega mi aveva assicurato che lo aveva distrutto con le sue mani,» ringhiò Suuritnias Calliram appoggiandosi ai due.

«Mio signore, è solo un graffio,» rispose Heran lanciando una rapida occhiata allo squarcio nella tunica e agli anelli rotti della maglia.

Suuritnias Calliram sbuffò con un sorriso sghembo. «Un graffio appestato col più potente dei veleni, ragazzo, l’unico che possa avere ragione di me. Dov’è il Generale Linet?» Heran rispose che lo aveva intravisto inseguire i nemici, e l’uomo sbuffò roteando gli occhi. «Al diavolo Linet! Hraustrion, ordina la ritirata: non mi resta molto tempo e voglio che quella faccenda sia conclusa a regola d’arte.»

Il Comandante Relda annuì, ordinando al figlio di caricare Suuritnias Calliram in groppa a Mornaü, di riportarlo immediatamente a Bordos e di avvertire lo scrivano reale.

 

 

 

Heran non sapeva perché si sentisse come se ci fosse un boia alle sue spalle, pronto a calargli l’ascia sul collo. Aveva fatto quanto gli era stato ordinato, aveva riportato Sua Eccellentissima Altezza a Bordos nonostante le proteste di Mornaü, lo aveva accompagnato fin nelle sue stanze e aveva chiamato, oltre allo scrivano reale come gli era stato ordinato, anche gli archiatri affinché si occupassero di quella ferita, apparentemente innocua ma che già aveva iniziato a puzzare di marcio. Suo padre era tornato tre ore più tardi, accompagnato dal Generale Linet e un gruppo di ufficiali: non appena aveva rimesso piede al castello, Hraustrion Relda si era affannato a cercare degli alti sacerdoti e a informarsi sui mercanti vernoliani presenti a Bordos in quel momento.

«Questo significa solo una cosa: il mio Eccellentissimo Signor Padre sta per morire e deve affrettarsi ad adottare un erede,» Rouva Albirea annunciò, mentre attraversava il cortile con il suo seguito di ancelle, altera e regale come sempre.

«Chi credete sarà scelto, mia giovane signora, fra Bamni Audo e il Generale Linet?» chiese la più anziana delle ancelle. «Fra i vostri eccellenti fratelli, sono gli unici che hanno seguito Sua Eccellentissima Altezza.»

«Ne siete sicure, signore?» disse Albirea, con il sorriso di chi conosce un segreto e non ha l’intenzione di rivelarlo, scoccando uno sguardo trionfante verso Heran.

Il cavaliere strinse le labbra, cercando di ignorare quello che Albirea aveva detto, il modo in cui aveva sorriso e lo aveva guardato. Strofinò il muso di Mornaü soprappensiero, cercando di ritrovare le sensazioni della battaglia, ma la lotta contro l’Innominabile non faceva altro che rievocare il ricordo di Perinni e della sua amarezza.

«A volte i Santi Gemelli conducono i nostri passi su un sentiero di spine per farci realizzare il nostro destino. Tu ne sei la prova, Consolazione.» Che cosa aveva voluto dire sua madre con quelle parole? Perché lui ne era la dimostrazione? Perché non riusciva a rendere detestabile il ricordo di Perinni e di quello che si erano detti? Fu salvato da quei pensieri da Jonald, che lo chiamava da una finestra perché la sua presenza era stata richiesta per l’atto di adozione.

“Eppure hanno tutti i testimoni necessari,” si disse Heran quando fu introdotto nella camera di Suuritnias Calliram.

Lo scrivano reale elencò i nomi dei testimoni ufficiali: tre mercanti appartenenti alle più importanti famiglie della Gilda, tre ufficiali d’alto rango, tre aristocratici, tre sacerdoti – cui seguirono quelli ufficiosi che Suuritnias Calliram aveva voluto per scrupolo. Furono pronunciate le formule previste dalla legge, furono fatte le dovute constatazioni sulla lucidità mentale dell’adottante – Suuritnias Calliram si era negato perfino la più banale delle pozioni per calmare il dolore proprio per questo motivo – non restava altro da fare che nominare l’adottato. Lo sguardo di ghiaccio di Suuritnias Calliram vagò per la stanza, come se non riuscisse a trovare il volto di Bamni Audo o del Generale Linet, quindi alzò appena la mano sinistra, pallida come il marmo e con le vene nerastre di veleno, facendo segno a qualcuno di avvicinarsi.

«Vieni, Heran Relda.» Nessuno si mosse, nessuno disse nulla. «Non farmi ripetere, ragazzo

«Perché io?» chiese Heran, dando voce al pensiero di ogni singolo testimone mentre una mano lo spingeva verso il letto.

Ma Sua Eccellentissima Altezza lo ignorò. «Chiamami padre, affinché io possa chiamarti figlio

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Capitolo 17
*** XVI ***


b 16 a

 

 

«La prima volta, credetti che i Santi Gemelli mi avessero graziato con la visione di Elanne. E come avrei potuto pensare altrimenti, vedendovi nei giardini del Tempio all’inizio della stagione delle battaglie? Camminavate fra i mandorli in fiore, con i petali candidi che cadevano attorno a voi come neve leggera. Seppi che eravate fatta di carne quando vi vidi evocare un genio dell’acqua, una scoperta che mi riempì di gioia e struggimento: avevate il Dono e, quindi, destinata al Chiostro.
«Non ebbi modo di conoscere il vostro nome perché sarei stato al Tempio per poche ore, il tempo necessario per far guadagnare al mio fu fratello un nuovo alleato e prendere una nuova concubina. Quando, più tardi, giacqui con quella sconosciuta, lo feci nell’oscurità, perché eravate voi che volevo sentire fremere sotto di me: voi con i vostri capelli biondi come una torcia accesa, con i vostri occhi di cielo, con l’ovale perfetto del vostro viso. E mi consolava un po’ il pensiero che nessun altro uomo avrebbe potuto gioire di voi, perché eravate destinata al Chiostro.
«La mia sorpresa, nel vedervi al seguito di Rouva Csilla fu tanto grande che non potei impedirmi, più tardi, di chiederle il vostro nome. “Una semplice novizia, Bluma Lamnes.” Fu la risposta di mia sorella.
«Lamnes… Il sangue degli Antichi Sovrani scorre nelle vostre vene, il sangue di Elanne stessa: era forse per questo che a corte tutti credettero che la Casta Sposa fosse tornata fra gli Uomini Liberi di Vernolia? Era per questo che ai miei occhi sembravate una regina, adorna solo della vostra perfetta bellezza? Ricordo gli sguardi che vi seguivano, pieni d’amore e desiderio, carichi di ammirazione e invidia: come mi rodevo nel dover condividere la vostra presenza con tanti altri! Come mi rodevo nel vedere altri scrivervi laudi e sonetti, nel dare il vostro sembiante a ninfe e antiche imperatrici di leggenda! Come mi rodevo nell’udire il mio fu fratello lamentare che foste destinata al Chiostro, e vaneggiare di sottrarvici per potervi fare sua, poiché null’altra donna avrebbe sopportato al suo fianco come regina! Ed io non potevo far altro che tacere, giacché la legge non mi permetteva di prendere un’ottava donna per il mio talamo.
«Fui scelto per accompagnare ad Agrirani Rouva Csilla, nella speranza di concludere un’alleanza matrimoniale o forse solo avere un pretesto sufficientemente plausibile per invadere e conquistare questa terra. Non so come feci a trattenermi dal parlarvi più del convenevole, dal cercarvi a ogni occasione: non era timor sacro, poiché non sono mai stato un uomo pio. E non vi nascondo che, quando la carovana giunse in prossimità dei Monti Takisti, accarezzai la fantasia in cui eravamo attaccati dai briganti, offrendoci la possibilità di fuggire insieme, voi ed io, in una terra lontana in cui nessuno avrebbe saputo chi eravamo, dove voi avreste imparato a volermi ed io avrei potuto avervi.
«Ricordo i giorni trascorsi a Bordos, il modo in cui sembravate fuggirmi, come se aveste intuito cosa si agitasse nel mio petto, ed io che vi rincorrevo di nascosto, come una fiera silenziosa che caccia una candida cerva. Il mio struggimento per voi era tale che --»

«Tacete!» Singhiozzò Dama Bluma stringendo i pugni, senza guardarlo. «Tacete… Se avessi saputo che volevate parlarmi di questo, non avrei mai accettato di venire!»

Suuritnias Calliram rise debolmente, il respiro sempre più corto. «Sareste venuta ugualmente, perché vi conosco e so che non potete esimervi dall’esaudire l’ultima richiesta di un moribondo.»

«Piuttosto, la speranza di un pentimento da parte vostra, ora che non vi resta che il tempo di morire.»

«Pentimento? E di cosa, di grazia?»

«Di cosa? Di cosa?» La sua voce si fece stridula, esacerbata, mentre le lacrime iniziavano a scorrerle sulle guance. «Fin da prima che il Dono si manifestasse, ho anelato di servire al Tempio, e voi mi ci avete sottratta per mettermi nel letto di Hraustrion Relda! Mi avete tolto tutto… tutto…»

«E vi ho dato due figli.» L’espressione di Dama Bluma si addolcì, senza perdere la sua amarezza: Suuritnias Calliram avrebbe dato chissà cosa per sapere a cosa lei stesse pensando. «Tacete, devo supporre che concordiate con me?»

«Sì, a causa vostra ho avuto Heran e Harilika. Tuttavia, il primo ve lo siete preso e la seconda non avrete il tempo per prendervela.»

Suuritnias Calliram stirò le labbra nere in uno strano sorriso, che generò un moto d’orrore nella donna. «Harilika,» scandì lentamente, gustando ogni sillaba del nome sulla punta della lingua. «Il nostro fiore di maggio. Vi assomiglia così tanto… come avrei potuto non desiderare anche lei?»

«Tacete! Tacete!» ripeté lei inorridita, indietreggiando e posando una mano sul petto come a voler proteggere sua figlia e se stessa.

A Suuritnias Calliram parve d’essere tornato indietro nel tempo, a quando lui era solo l’ultimo dei numerosi figli di Denev XVII, quello che nessuno si sarebbe aspettato a vedere sul trono. Che cosa era rimasto della fanciulla che aveva bramato così ardentemente? Tutto, perché il tempo sembrava aver sublimato la bellezza preternaturale di Dama Bluma. Che cosa era rimasto del giovane aitante e impavido che era stato? Nulla, tranne lo sguardo di ghiaccio e la passione blasfema per lei. L’aveva data a Hraustrion perché era l’unico in cui avesse sufficiente fiducia per affidargli qualcosa di così prezioso, eppure il senso del dovere del suo braccio destro non era stato sufficiente a impedire alla gelosia di prendere radici nel suo animo. Chi avrebbe mai preferito un’altra donna, avendo Bluma Lamnes fra le proprie lenzuola?

Si sentì bruciare dentro, forse a causa del veleno che lo stava uccidendo e che aveva trasformato le sue vene in una ragnatela nera. Oppure era proprio quella stessa passione che lo faceva ardere, come la fiamma di una candela brilla più intensamente un attimo prima di spegnersi.

 

 

Non appena udì l’urlo soffocato, Hraustrion Relda spalancò la porta, una mano sull’elsa della spada. Suuritnias Calliram era riverso per terra, esamine, con un rivolo di sangue nero e marcio che gli colava dall’angolo della bocca e le dita che stringevano convulsamente la sciarpa in seta di ragno della donna. Dama Bluma si premeva contro la parete, come se volesse fondersi con essa, l’abito slacciato e strappato, i begli occhi di cielo atterriti, il corpo tremante e tetanizzato. Hraustrion raccolse una coperta e la pose sulle spalle della moglie, ripensando a tutti gli anni trascorsi e a fin dove lo avevano spinto il senso del dovere e il desiderio di proteggere i suoi affetti.

«Signore?» mormorò la guardia, che distolse immediatamente lo sguardo dalla donna avvampando. Perché Bluma Relda Lamnes non aveva ancora eguali, perché la passione che Suuritnias Calliram aveva nutrito per lei non era più un segreto da anni. Si chinò sull’uomo a terra e avvicinò la lama del proprio pugnale al naso e alla bocca. «È morto, signore.»

Hraustrion non si mosse, stringendo la coperta ancora di più intorno a sua moglie.

«Va’ a chiamare l’Archiatra e trova tre testimoni per l’atto di decesso. E chiama anche mio fi…» Esitò un attimo, perché quelle parole gli sembravano ancora innaturali. «E chiama anche Sua Eccellentissima Altezza, Suuritnias Heran.»

La guardia rispose con un battito di talloni prima di correre via.

Lo sguardo di Hraustrion Relda indugiò sul morto per qualche istante prima di volgerlo sulla donna. «Bluma? Bluma?» mormorò con la tenerezza rassicurante di un padre. «È tutto finito adesso… è tutto finito.»

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Capitolo 18
*** XVII ***


b 17 a

 

 

Quando si svegliò, quella mattina, Heran credette che l’adozione fosse stata solo uno strano sogno frutto del mal di montagna o di un pessimo vino, ma una volta alzatosi, la realtà era stata come uno schiaffo. Non appena lo aveva sentito muoversi nella stanza, lo scudiero di Suuritnias Calliram entrò chiamandolo “Suuritnias Heran”: il titolo suonò innaturale alle sue orecchie, anche per l’eccessiva ossequiosità di quel nobile che non voleva mostrare il proprio disgusto a chiamare in quel modo il figlio di un semplice soldato. Una volta che si fu vestito ed ebbe mangiato quella colazione troppo abbondante e ricca, Heran si rese conto che non aveva alcuna idea di cosa dovesse fare o di quello che si aspettassero da lui e, più per abitudine, prese la sua scacchiera e vi dispose i pezzi d’acero e bosso. Poggiò un indice su un cavallo bianco, scolpito come un drago, facendolo dondolare appena: gli tornò in mente l’ultima partita che aveva giocato con suo nonno materno, la veglia del ritorno a Eimerado. Asier il Vecchio, nei suoi occhi di bambino, era stata l’immagine stessa della regalità, tanto che era rimasto deluso la prima volta che aveva visto re Denev XVII.

«Sulla scacchiera della vita, quale pezzo saresti,Consolazione

«Il cavallo!»

«Un pezzo leggero, importante soprattutto all’inizio della partita, il solo che possa saltare gli ostacoli… però un pedone può essere promosso, se riesce nell’impresa di raggiungere l’altra estremità della scacchiera.»

«Mentre un cavallo non può essere promosso a donna, né tantomeno a re,» mormorò piano, sentendosi quasi soffocare dal farsetto di velluto verde mirto. «Velluto, seta e merletti non sono adatti a un cavaliere,» aggiunse passandosi un dito nel colletto, pensando a quanto gli mancasse il pizzicore della tunica di lana che sua madre aveva cucito per lui. Fu distolto da quei pensieri dall’arrivo di Hraustrion e, forza dell’abitudine, lo salutò come aveva sempre fatto.

«Non ho più il diritto di essere chiamato padre da voi,» rispose Hraustrion con una formalità ancora innaturale, abbassando l’occhio vivo mentre quello morto restò fisso sul giovane, «le nostre posizioni si sono ribaltate: adesso sta a me obbedire e a voi comandare

Heran abbassò gli occhi, stringendo le labbra con rabbia. «Perché io? Perché non Bamni Audo che conosce bene la corte? Perché non il Generale Linet che sa meglio di me come condurre un esercito?»

Hraustrion sospirò e spostò il peso da un piede all’altro, quindi esordì: «Se, nella vostra magnanima mansuetudine, la Vostra Eccellentissima Altezza mi concede di parlare con franchezza…»

Le labbra di Heran s’incresparono in un sorriso: quella era la frase che suo padre aveva sempre usato con Suuritnias Calliram per annunciare il proprio dissenso. «Un padre dovrebbe esprimersi sempre con franchezza quando vuole consiglia-- »

Lo schiaffo fu soprattutto inatteso, tanto che Heran guardò basito il viso severo di Hraustrion.

«Torna in te, Heran, un soldato non deve lasciarsi cogliere alla sprovvista in questo modo. Io mi aspetto che tu faccia il tuo dovere come hai sempre fatto: anche a corte ci sono delle battaglie da combattere, ma se cadi in un’imboscata devi far finta di nulla e stare al gioco, al contrario di una guerra dove devi rispondere con altrettanta animosità se non vuoi perire.» Sospirò e chinò il capo. «Vi chiedo venia se sono stato troppo franco, Vostra Eccellentissima Altezza, tuttavia nella vostra situazione non potete permettervi certe debolezze: forse l’emblema dei Gabirai è uno sparviero, ma la loro corte è un nido di serpi.»

 

 

Poche ore dopo l’alba avevano ricevuto un’ambasciata del Principe, che proponeva tre giorni di tregua per seppellire i morti, e il consiglio di guerra di Suuritnias Calliram e i testimoni ufficiali dell’adozione ne avevano approfittato per riunirsi e stabilire le nuove priorità: Heran aveva ascoltato senza dire una parola, cercando di comprendere chi, fra loro, fosse un alleato potenziale. A priori non avrebbe dovuto avere problemi con i sacerdoti: aveva sempre rispettato il calendario dei riti e delle purificazioni, anche e soprattutto per i voti mancati di sua madre. Da quello che gli aveva raccontato Galas, sapeva che i rapporti fra la Gilda dei Mercanti e la Casa Reale non erano dei migliori: il modo più ovvio per averne il supporto era ristabilire la pace ad Agrirani e rendere di nuovo sicure le vie commerciali verso Dwerissi. L’esercito era una questione diversa: la maggior parte degli ufficiali erano i cadetti di famiglie nobili che lo avrebbero visto come un arrivista, soprattutto per le sue ormai certe nozze con Rouva Albirea.

Chiuse gli occhi, isolandosi dallo strepito che regnava nello studio, rievocando ogni volta che aveva incontrato Rouva Albirea: Heran aveva pensato che ciò che la ragazza provasse per lui non era altro che l’infatuazione di una bambina o il capriccio di una principessina viziata, ma si era visto costretto a riconsiderare quella sua opinione quando Rouva Albirea si era opposta alle nozze con Bamni Leusio o si era quasi compromessa per lui. Forse, la scelta più saggia era quella di cercare di rivolgere a lei quel sentimento che Perinni aveva fatto nascere per la prima volta nel suo cuore. Poi, gli tornò in mente quello che Rouva Albirea gli aveva detto la veglia dell’ordalia, il modo con cui l’aveva provocato e insultato il giorno dell’ordalia: Heran si chiese se la gelosia di una donna innamorata potesse giustificare un tale cambiamento. All’improvviso Rouva Albirea non gli sembrò più una ragazzina alle prese con il primo amore, bensì una giovane donna che sapeva quello che desiderava e, soprattutto, come ottenerlo: forse Rouva Albirea aveva sempre saputo quali fossero le intenzioni di Suuritnias Calliram, forse proprio per questo motivo aveva cercato di avvicinarsi a lui, di attirare la sua attenzione, di sedurlo, tanto che si chiese se lei lo avesse mai visto come un uomo o solo un mezzo per realizzare le proprie ambizioni.

«No, suppongo di no.»

Forse adesso Heran poteva capire l’amarezza delle ultime parole che Perinni gli aveva detto. Perinni che non lo aveva ingannato nonostante ne avesse il potere, Perinni che non lo aveva ucciso nonostante ne avesse avuta l’occasione, Perinni che non gli si era negata nonostante sapesse che dopo non ci sarebbe stato altro che disperazione. Perinni che lui non riusciva a rinnegare nonostante ormai la conoscesse. Non gli era mai veramente importato del passato di Perinni e degli uomini che poteva aver conosciuto prima di lui, perché allora doveva importargli del fatto che fosse un’Innominabile? Non era mai facile capire quali fossero le sue emozioni ma non simulava come Rouva Albirea, semplicemente si nascondeva. E adesso che Heran aveva forse capito, la sua amarezza cresceva perché non era più un semplice soldato, bensì Sua Eccellentissima Altezza Suuritnias Heran e come tale non era più libero di scegliere come propria sposa e compagna la donna che voleva: ora, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto ripetere le parole che disse a Perinni la notte dei Bivacchi.

La sua attenzione tornò al consiglio non appena sentì pronunciare il nome di sua sorella.

«Harilika?» sibilò Hraustrion Relda, fissando il mercante con sospetto. «Che cosa ha a che fare mia figlia in tutto questo?»

«Il Consiglio dei Dieci aveva suggerito a Suuritnias Calliram di combinare un matrimonio fra Rouva Albirea e il Principe e quindi nominarlo viceré di Agrirani: inutile dire che abbia rifiutato la proposta. Adesso, i costumi suggeriscono che Rouva Albirea sposi Sua Eccellentissima Altezza per rendere definitiva la sua adozione: concorderete che, se si deciderà di concludere la pace con un matrimonio politico, la scelta migliore sia la sorella di carne e di sangue di Suuritnias Heran.»

Sentendosi per la prima volta chiamato in causa, Heran si schiarì la voce. «Dimenticate, signore, che Agrirani non è Vernolia, inoltre mia sorella non è ancora fertile. Mettere nel talamo una vergine è come mettere una spada in mano a un fanciullo e gettarlo nella mischia sono soliti dire gli agriranensi: desiderate davvero che un barbaro ci accusi di abominio?» mormorò, cercando di avere lo stesso tono tagliente di suo padre.

Per un attimo il silenzio calò nello studio, poi Bamni Audo gli scoccò un sorriso ambiguo. «La Vostra Eccellentissima Altezza sembra conoscere i costumi di questi barbari.»

«Di certo li conosco meglio di voi, che siete ad Agrirani per la prima volta. Il Principe potrebbe tollerare la verginità di Harilika, non la sua età: contrariamente a quel che si crede, per loro è un abominio giacere con una ragazza prima del suo diciassettesimo inverno,» rispose Heran, fiero di se stesso per essere riuscito a non imporre anche questo a sua sorella, fiero di vedere con la coda dell’occhio suo padre annuire appena come se volesse complimentarsi con lui.

Piccati, alcuni sostennero che, in fondo, nulla vietava loro di proporre un matrimonio politico e di lasciare libero il Principe di consumarlo quando ritenesse più opportuno. Altri, invece, ribatterono che avrebbero dovuto attendere quattro anni prima che le nozze potessero essere considerate effettive, e che nessuno sapeva che cosa potesse accadere in quel periodo. Qualcuno, forse più per scherzo e per accattivarsi Heran lodandone l’abilità, propose di risolvere il conflitto con una partita a scacchi.

«E perché no? Non ci sarebbe alcuno spargimento di sangue e ci è giunta voce che il Principe desideri evitare tutte morti inutili,» rise uno dei mercanti, quindi riprese con un tono più serio: «Ma forse un singolar tenzone fra i rispettivi campioni sarebbe più consono. È una proposta da valutare.»

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Capitolo 19
*** XVIII ***


b 18 a

 

 

Il vento accarezzava l’erba, creando l’illusione di trovarsi in un mare verde tenero: non era alta come la prima volta che Heran era stato a Piattapunta, ma la sensazione di pace che gli dava quel luogo era la stessa. Mornaü sollevò il capo verso il cielo azzurro, in cui nuvole soffici e candide come agnelli si rincorrevano, poi si accovacciò nei pressi della grande roccia che dava il nome a quel luogo e chiuse gli occhi.

“Proprio come quella volta.” Si disse Heran aiutando sua sorella a smontare dal drago. E, immancabilmente, i suoi pensieri andarono a Perinni e al suo canto, a ciò che si erano detti e che avevano fatto in quel rifugio a due ore di cammino da lì, a come aveva scoperto che era in parte Noïde e a come aveva cercato di soffocare quel misto di repulsione e passione che provava per lei.

A quello che gli aveva detto Cypris e a come non aveva ancora trovato una risposta a quella domanda .

Adesso che mi conosci, ripeterai le parole che mi dicesti quella notte?

Strinse le labbra, deciso a non lasciarsi distrarre da certi pensieri. Il parlé doveva andare bene e quella guerra doveva terminare a ogni costo. Il suo sguardo si pose su Harilika, che cercava di nascondere la sua agitazione canticchiando a mezza voce, e si chiese se quello era un sacrificio disposto a fare davvero. Poi spostò gli occhi su Jonald, che aveva accettato di fargli da portabandiera, e sul vessillo che il fratello portava sulle spalle come se fosse un semplice bastone: il vento faceva sbattere contro le sue gambe la stoffa verde mirto su cui ricamato lo sparviero della casa regnante di Vernolia, ed Heran si trovò a pensare con una punta di rammarico che forse si sarebbe sentito più a suo agio con alle spalle le insegne della famiglia di sua madre, la fenice dei Lamnes.

Fu distolto dai suoi pensieri da Hraustrion, che attirò la sua attenzione in un punto oltre la curva del prato: il Principe avanzava verso di loro, circondato da Ubarna il Tagliaboschi e un terzo uomo che Heran non conosceva, un sacerdote o un saggio a giudicare dalle sue vesti. Misero circa quattro leigh fra loro, sufficientemente vicino per trattare ma abbastanza lontano da essere al sicuro da un possibile attacco.

«Ti avevamo concesso due testimoni, non tre, nidtou!» Ubarna lo apostrofò con la sua grossa voce, e poi rise. «Ma è anche vero che le vostre donne sono innocue come gattini cui siano stati estirpati gli artigli.»

«Ed io sono qui per parlare col Principe, non con un tagliaboschi.»

L’uomo fece per lanciarsi contro di lui, ma il suo signore pose una mano guantata sul suo braccio mentre il terzo uomo rispondeva: «Noi siamo qui per prestare bocca e orecchi al nostro Fratello Maggiore, starà a lui decidere se e quando parlare di persona.»

«Non mi piace questo,» mormorò Hraustrion in un orecchio di suo figlio, l’occhio morto fisso su di loro.
Heran strinse le labbra, senza spostare lo sguardo dal Principe. Vedendolo così da vicino, trovava la sua corporatura più esile di quanto pensasse, ma doveva essere abbastanza forte da combattere e sopportare il peso di un’armatura simile, inoltre l'elmo era forgiato in maniera tale che fosse impossibile vedere il suo volto anche con la visiera alzata. Prese un respiro profondo e si schiarì la voce.

«Mi è stato riferito che non desiderate altro spargimento di sangue, e anche se la nostra presenza è richiesta con una certa urgenza a Vernolia, non possiamo andare via come se nulla fosse.» Si sentiva strano a riferirsi a se stesso con il plurale maiestatis, ma nei giorni precedenti aveva ripetuto più volte quel discorso affinché non suonasse falso o incerto. Heran vedeva quel parlé come una prova, una dimostrazione a se stesso e agli altri che lui avrebbe fatto del suo meglio in quel ruolo che sentiva come la corazza forgiata per un altro uomo. «Troviamo nobile da parte vostra…»

«Vai al sodo, nidtou, o rischiamo di fare notte,» lo canzonò Ualan con un sorriso pieno di denti sghembi.

Heran deglutì, lanciando una rapida occhiata al padre in cerca di un consiglio, tuttavia il volto di Hraustrion Relda era reso impassibile dalla cicatrice che lo attraversava e dall’occhio morto.

«Ho una proposta da farvi, Principe. Anzi, due,» aggiunse, mordendosi la lingua non appena quelle due ultime parole erano fuoriuscite dalla sua bocca. «La prima: determiniamo l’esito della guerra che ci divide con un duello. Voi ed io oppure un campione, come preferite, ma per l’arma, il tempo e il luogo dovremmo accordarci.»

«E la seconda?» A parlare questa volta, era stato il sacerdote.

«La seconda…» Heran si sentì la bocca improvvisamente secca e si volse con una punta di disperazione verso Harilika, che gli sorrise dolcemente e annuì appena, avvicinandosi e stringendogli una mano: era lì perché lo aveva voluto lei stessa, vedendo del buon senso in quel matrimonio.

«Non dev’essere una persona cattiva, se piace perfino a Mornaü,» sussurrò Harilika, indicando con un piccolo cenno del capo il drago che emetteva dei gorgoglii di piacere, allungando il collo verso l’uomo in armatura.

«Lei… lei è Harilika, mia sorella,» disse Heran con voce tremante, perché non era sicuro di voler fare quel sacrificio. «Vi offro la sua mano per sancire un’alleanza fra noi. Conosco gli usi del vostro popolo e so che non la prendereste come moglie prima del suo diciassettesimo inverno: quattro anni dovrebbero esservi sufficienti per imparare a volerle bene.

«Lascio a voi la scelta, e se avete una terza proposta da fare, parlate.»

Heran si era preparato a tutto, tranne che a quella risata. Il Principe si appoggiò sulle ginocchia, scuotendo la testa e borbottando qualcosa nella sua lingua natia, e quando la crisi di risa finì, gli parlò per la prima volta con una voce deformata dalla foggia dell’elmo e di un’ottava più acuta di quello che il cavaliere aveva immaginato.

«Se tu conosci gli usi del mio paese, allora io ignoro quelli del tuo: a Vernolia una donna può sposarne un’altra?» Così dicendo, si sfilò l’elmo: i capelli bruni ricaddero sulle sue spalle e per una volta gli occhi a mandorla mostravano tutta l’ilarità che provavano. «No, suppongo di no.»

Heran sgranò gli occhi, fissando basito Perinni come se la vedesse per la prima volta, sentendo qualcosa stringergli le viscere. La giovane donna soffiò via una ciocca che le era caduta davanti agli occhi, e con quel gesto il suo viso riassunse l’espressione indecifrabile che la caratterizzava. «Questo non ci lascia altra scelta che il duello, nidtou: una fortuna che il tuo debito sia stato saldato, altrimenti ti saresti trovato in una situazione alquanto imbarazzante. Ti bastano due giorni per scegliere il tuo campione?»

Con uno scatto, Heran coprì la distanza che li separava e, afferratole il polso, tirò Perinni a sé, le labbra contro l’orecchio. Una domanda, una risposta, e lei si scostò facendo scivolare la propria mano dalla sua.

«Questo cambia tutto, nidtou, e non è una decisione che posso prendere liberamente.»

C’era una vena di amarezza mista a speranza nella sua voce.

Le due parti si congedarono con la promessa di far avere una risposta entro due giorni. Heran li osservò dirigersi verso il passo, mentre il sacerdote arrancava dietro di lei parlandole e Ualan che si voltava indietro per guardarlo di tralice: poteva immaginare che cosa le stessero chiedendo, così come poteva immaginare il rossore quasi impercepibile che, ne era certo, imporporava ancora le gote di Perinni.

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