In Anima eius Vita

di alchemist
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Res ***
Capitolo 3: *** Spiritus ***
Capitolo 4: *** Res ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


*Prologo*

 
- Papà, che cos’è la Storia della Vita? - domanda complicata da fare di prima mattina. Feonor Carden sposta gli occhi dalla pancetta che sfrigola a suo figlio, il quale però ha seppellito lo sguardo dorato in una tazza di cereali ormai freddi.
- É una leggenda che racconta come siamo nati noi Rakut. - spiega circospetto il padre.
- Ma è vera?
- Chi te l’ha detto?
Il piccolo Res non risponde, raschia il fondo della tazza con il cucchiaio, aggrottando le sopracciglia.
Feonor sospira: che figlio complicato, mai che dica una cosa fino in fondo... ma ormai ci ha fatto l’abitudine, a tirare a indovinare.
- Sai di cosa parla?
Res scuote la testa e lo guarda: il massimo che si possa ottenere da lui come incitamento a raccontare. Feonor toglie la padella dal fuoco e versa la matassa di pancetta abbrustolita in due piatti, poi si siede davanti al figlio al tavolo della cucina, la sedia protesta sotto il suo peso.
- Allora... C’era una volta...
 
- Le sconsiglio di tradurre "Hn cronos en ote"* con “C’era una volta”, signorina Raiv. - la professoressa di greco, piegata sulla sua traduzione ha da ridire dalla prima frase, e Spiritus Raiv non la sopporta.
- Ho cercato di fare una traduzione libera, come aveva spiegato lei, professoressa. - mormora la bambina, controllando a fatica il proprio tono di voce.
- Questa non è una semplice favola, il suo modo di tradurre sminuisce l’importanza e la sacralità di questo testo. La traduzione più corretta, in questo caso, è quella letterale: “In quel tempo.”
La piccola Spiritus cancella la frase iniziale con un movimento stizzito dell'indice sul tablet e si mette a rileggere il testo che ha tradotto fino ad allora, mentre l’insegnante gira tra i banchi come un avvoltoio.
“In quel tempo, i Rakut volavano ancora attraverso i cieli. La Madre Celeste aveva dato loro un esile corpo, creato dall’aria, dall’arcobaleno aveva creato loro ampie ali con squame e piume lucenti, dall’aquila i grandi occhi acuti e dall’avvoltoio gli artigli taglienti.
Tuttavia, essi volavano soli nel cielo, incapaci di sollevare i loro figli. I Rakut si cibavano a terra e così i loro figli, non potendo volare per la tenera età. Ma le belve feroci uccidevano i bambini costretti a terra, prima che imparassero ad usare le loro ali.
Anche il primogenito della regina dei Rakut fu mangiato dalle belve. E la fiera mangiò anche un braccio della madre che non voleva abbandonare il figlio. La regina si rivolte allora alla Grande Madre Celeste, chiedendole un modo di salvare i suoi figli.
La Dea Celeste rispose alla sua chiamata e fece della Regina la sua sciamana. Così la Regina Sciamana prese la forza delle belve e la mise nel proprio ventre, creando una nuova vita.
Nacquero due maschi, tanto grossi e forti che le ali non potevano sollevarli, ma che combattevano le belve della terra con la loro stessa forza, e proteggevano la loro madre...
Spiritus osserva l’insegnante muoversi dalle file e dare consigli di traduzione alle sue compagne: come può quell’assurda storia essere più di una favola per bambini? C’è davvero qualcuno così stupido da credere ad una simile assurdità? A quanto sembra, sì...
 
- Come nella canzone? - chiede Res, mettendo i piatti nel lavandino.
- Eh? Che canzone? - domanda suo padre, perdendo il filo della storia.
- Quella che fa: ..e come un gigante buono su di te io veglierò... mai lontano più di un soffio con te respirerò...
- Sì, sì... come quella roba lì.
- Non è così, però. Mia madre è nell’Alcova. E anche zia Silia.
Lo sguardo di Feonor si fa malinconico al suono del nome della sorella, come se sopportarne la lontananza fosse una sofferenza grandissima: - Già, sono solo leggende. Vuoi sentire o no la fine della storia?
Res rimase in silenzio e il padre continua: - Allora, dove eravamo? Ah, già... a quel punto i suoi figli erano grandi e grossi, no? Tipo due o tre volte più grandi della madre, ma non ce la facevano a vivere senza che qualcuno continuasse a dargli la forza, e quindi la Regina Sciamana fece un incantesimo... aspetta, fammi ricordare le parole... “La forza da me creata sarà nutrita dalla vita e dall’amore che scorre nelle mie vene di madre... da queste cose i miei figli trarranno la vita e il desiderio di proteggermi sempre.” E poi fece in modo che lo stesso valesse per le sorelle...
- E per le figlie e le zie, le cugine...
- Sì, sì... tutte le femmine della famiglia, insomma.
- É per questo che la zia ti manda il suo Nutrimento. E mia madre lo manda a me. - a Res quella storia sembra un po’ assurda, ma almeno spiega un po’ le cose ed è sempre meglio di niente.
Suo padre si alza e prende due fiale di vetro dal frizer, su una c’è scritto il suo nome e sull’altra quello di suo figlio: - Già, infatti è arrivato il momento di prenderne una.
Res si alza di scatto dal tavolo e afferra lo zaino di scuola, sporco e mezzo vuoto: - Io sto bene! Lo prendo domani, cia...
Viene riacchiappato per la nuca dalla grossa mano di suo padre: - Dove credi di scappare, cretinetto? Oggi è martedì e il martedì si prende la fiala. Punto.
Res si divincola, ma non c’è nulla da fare, ha solo otto anni, non può certo rivaleggiare con la massa di muscoli di un Rakut adulto.
L’unica cosa che quella storia non dice è: perché mandare giù quella roba deve bruciare così tanto?
 
La ricreazione suona e le bambine si alzano, lisciandosi la divisa della loro costosa scuola elementare privata di livello avanzato. I banchi si ritirano nel pavimento per evitare che qualcuna di loro ci sbatta contro giocando e si faccia male. Spiritus odia tutto quel controllo: non sono più delle neonate, perché dovrebbero sbattere contro i banchi?
Melian, la bambina vicina a lei si alza e si avvicina alle sue amiche, nascondendo qualcosa dietro la schiena: - Guardate che bello! - sorride in un sussurro, mostrando alle altre un piccolo fiore intagliato in un pezzetto di legno chiaro: se la professoressa o qualcun altro della sicurezza scoprisse che ha portato con lei qualcosa del genere sarebbe messa in punizione. Quell’oggetto sicuramente non è ancora stato sottoposto al rigido controllo della scuola. Anche se comunque doveva essere stato sterilizzato all’entrata nell’Alcova
Le altre bambine sembrano entusiaste della piccola trasgressione di Melian, ma non si azzardano a toccare il fiore.
- L’ha fatto il mio papà! Non è bellissimo? - continua sottovoce Melian, contenta e orgogliosissima del suo ninnolo.
Spiritus non si avvicina: odia quando le altre bambine parlano dei loro padri.
 
Ancora oggi l’antico incanto è vivo. Perché nessuna donna Rakut si senta al sicuro senza un padre, un figlio o un fratello e nessun uomo Rakut possa vivere senza il Nutrimento di una madre, una figlia o una sorella.
 
La versione di esercitazione è finita così.
Lei non ha nessun fratello e suo padre è morto prima che lei crescesse abbastanza da poterlo nutrire e tenere in vita.
Che stupida storia quella che ha appena tradotto: se l’incanto è ancora attivo, allora perché lei non sente nulla?





* L'ho scritto in greco nel testo, ma qui non si può inserire... perdono, cercherò di limitarmi nell'inserimento di lingue astruse XD

Salve! Questo è il prologo di una storia che sto scrivendo molto lentamente, ne ho già scritte sulle 90 pagine, quindi se qualcuno è interessato a leggerla lo avverto in anticipo: andrà per le lunghe. sono fondamentalmente incapace di scrivere storie corte, mi dispiace :)
Anche se dal prologo non si capice molto spero che qualcuno voglia commentare! Sono davvero alla ricerca disperata di commenti anche duri, critici e cattivi, (mille volte più costruttivi di un "Bello" buttato lì da mia sorella) l'importante è che siano veri! Voglio migliorare!
p.s. Naturalmente ogni domanda o precisazione è altrettanto apprezzata :)

 

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Capitolo 2
*** Res ***


In questa storia i capitoli sono raccontati a turno dal punto di vista di diversi personaggi, ma solo i due protagonisti principali sono alla prima persona. Per cui, eccovi Res!


*RES* 
20 settembre 2215

 
 
La sirena ci sveglia poco prima delle tre. Scatto seduto e sbatto la testa al letto sopra il mio: e dire che dopo quasi cinque anni dovrei esserci abituato.
Brevi sequenze di tre suoni gracchianti riempiono l’aria dell’enorme dormitorio: tre suoni vuol dire un guasto. Un semplice guasto. Abbastanza grave da farci alzare alle tre del mattino... ma comunque solo un guasto.
Butto i piedi giù dalla branda e li infilo negli scarponi. Mi alzo e finisco contro il tizio che si sta alzando dalla branda della fila opposta e quello che dorme due letti sopra al mio, nel buio, mi cade praticamente addosso.
Ok, basta.
Il tizio che mi è caduto addosso vorrebbe filarsela senza farsi vedere: che illuso, nessuno è tanto bravo. La mia mano scatta fulminea e lo riacchiappa per la maglietta.
Lo fisso in cagnesco, dall’alto.
- S-scusa, amico, non ti avevo visto. – balbetta agitato: è solo un ragazzino, dev’essere uno di quelli appena arrivati, sedici anni al massimo, forse meno. Un peso piuma il cui corpo non ha ancora visto il risultato di questo lavoro. – Davvero, non l’ho fatto apposta! – continua a scusarsi, i suoi occhi fissano intimiditi i miei bicipiti gonfi che potrebbero scagliarlo via con un gesto. Non mi piace spaventare i ragazzini, ma è meglio che i pivelli imparino subito a stare al loro posto o si può finire male in un lavoro come questo.
La sirena si spegne, sostituita dal ronzio che precede gli ordini.
Lascio andare il ragazzo, mettendomi in ascolto.
<> chiama la voce. È il mio settore, il primo che viene chiamato quando succede qualche guaio. <>
Il messaggio viene ripetuto tutto un’altra volta, così che nessuno possa rimettersi a dormire e dire di aver capito male, poi rumori di sottofondo, altri ronzii, e l’altoparlante si spegne.
- Torna a dormire, ragazzino, per stavolta ci pensano i grandi. – dico al pivello ancora impalato al mio fianco.
Avanzo nella penombra, tra le file di letti a castello infilando le braccia nelle maniche della tuta da lavoro che mi pende dai fianchi e me la tiro sulle spalle. Nel farlo assesto gomitate a destra e a sinistra, nella calca, e in cambio ricevendo borbottii e sonnolenti versi di avvertimento, ma in fondo molti altri stanno facendo esattamente la stessa cosa e lo spazio è poco. Alcuni tornano a dormire, gli altri invece camminano nella mia stessa direzione. Stiracchiano le braccia, si grattano il mento e finiscono di chiudersi la tuta; un unico fiume di corpi diretto nello stesso luogo, verso il fondo del dormitorio.
Il bracciale elettronico che ho al polso emette un bip, riconoscendo l’IP del ragazzo che ora cammina al mio fianco: - Res. – mi saluta Thro Fayson: ci conosciamo da anni ormai, abbiamo cominciato insieme, in questo posto. - Ci aspetta un’altra notte di baldoria, sei contento? – scherza lui, ma io non la prendo altrettanto bene, ho sempre fatto fatica a condividere il suo spirito, soprattutto appena sveglio. Thro parla sempre troppo, la sua linguaccia mi ha procurato non pochi problemi, è vero, ma è un bravo ragazzo... e dove non riescono le sue parole, di solito rimediano i miei pugni. O quelli di...
Un altro bip: anche Nite Ritkov ci ha raggiunti e risponde per me alla battuta del nostro compagno di squadra: - Come no! Stiamo proprio facendo le capriole dalla gioia. - dice passandomi un braccio dietro il collo, facendomi piegare in avanti sotto i suoi due metri e trenta d’altezza. Sì, anche a Nite piace parlare appena sveglio e ancora di più il contatto fisico, ma lui è il mio più vecchio amico e ormai ci ho fatto l’abitudine.
I bracciali identificativi hanno registrato che la nostra squadra è al completo, e questo vuol dire che possiamo unirci alle altre squadre, davanti ai portelloni di uscita.
Davanti a noi un’altra squadra di tre elementi già formata si avvicina al portellone di metallo pressurizzato, che collega il grosso hangar in cui dormiamo direttamente con l’esterno. Uno dei manovali si volta, guarda le altre squadre: sono molte, ma solo quelle più sfortunate da essere arrivate alla porta per prime, andranno a lavorare questa notte. La nostra è la seconda e quindi ci tocca la solita fortuna di qualche straordinario non retribuito. Un membro della prima squadra si avvicinano alla porta, mettendo entrambe le mani sulla barra di apertura: - MASCHERE! – ordina e nessuno se lo fa ripetere. Tiriamo su la zip delle tute da lavoro, fino a che il colletto nero ricoperto di plastica ci copre il naso e la bocca. Con una serie di sibili attutiti, le maschere incorporate aderiscono alla parte inferiore del viso di ognuno di noi e si bloccano, cominciando a filtrare l’aria.
Il portellone viene fatto scorrere e noi corriamo all’aria aperta uno dopo l’altro, prima di richiuderlo in fretta e furia con un tonfo. Nonostante la maschera ci permetta di respirare senza beccarci chissà quali malattie, non fa molto per il puzzo tremendo che si respira quaggiù, all’ultimo livello: tutte quelle stronzate che ci dicevano i primi giorni “Ci si abitua!” “Tranquilli, tra qualche mese non ci farete più caso!”... stronzate appunto.
L’unica differenza rispetto a cinque anni fa è che ora sono un manovale dei primo settore e qui nessuno si lamenta più, caso mai ringraziamo di avere le maschere che quelli prima di noi non avevano
“Ringraziate di avere i rampini magnetizzati, adesso!” “Guardare che una volta scarponi ad attrito graduato se li sognavano!” “Vedete di non romperle, tra voi e un bel cancro ai polmoni c’è solo quella maschera!” Il capo direzione lavori non fa che ripetere sempre le solite cose, dalla mattina alla sera... lo odiano tutti, un raccomandato di merda, dicono: è stata sua madre a inventare le maschere e la sua equipe le ha inserite in modo funzionale nel nostro equipaggiamento, circa otto anni fa. Come risultato immediato, il figlio dell’inventrice ha sorpassato quelli che avevano sputato sangue per il posto di capo direzione lavori e gliel’ha soffiato da sotto il naso. Ora è lui a far partire la sirena che ci ha spaccato i timpani questa notte e quelle precedenti, ed è lui a ricordarci che meno errori si fanno alla luce del giorno meno se ne devono riparare poi nel cuore della notte. Sinceramente, non scambierei il suo lavoro col mio neanche per mezzo milione di rett: talmente odiato e sfottuto da tutti... mi stupisco che dopo otto anni sia ancora tutto intero.
Attraversiamo la strada avvolta nella nebbia giallognola che fa sembrare sempre tutto appannato e malato. Da un lato si estendono i dormitori, edifici bassi, non più di due piani, colorati a seconda del tipo di operai che ci passano le notti, dall’altro le viscere tortuose e infinite dell’Alcova:  ovvero ciò per cui ci ammazziamo di fatica ogni santo giorno e non poche notti.
Aspetto che siano entrati tutti e poi li seguo nell’ascensore di manutenzione, chiudendo la grata di sicurezza. Tre delle sei squadre scendono dopo solo quattro piani: cercheranno e ripareranno al più presto i problemi nel condottò d’entrata dell’areazione dell’Alcova, nove uomini scaricati alla base di quel grosso motore ronzante che sarà grande come cinque dormitori. Al livello sette scendiamo anche noi tre insieme alle altre due squadre. Siamo sempre nello stesso motore di areazione, solo qualche piano più su degli altri. Ormai lo conosco bene, la nostra squadra se ne occupa da tre anni.
I settori di lavoro tra noi operai sono tre: primo, secondo e terzo settore.
Il mio è il primo settore: uomini dai ventidue ai trentacinque, i più forti e esperti, in poche parole, i migliori. Il terzo settore è quello dei pivelli, dai quindici ai vent’anni circa, quelli che di solito combinano i casini, quelli che vengono lasciati a dormire fino alla terza sirena, che se suona vogliono dire guai seri; e poi c’è il secondo settore, quello che tutti sperano di non fare mai: è lì che va a finire chi non trova un buon posto in un reparto superiore. Sono i più esperti, certo, ma solo perché lavorano come manovali da... sicuramente da troppo tempo, e nessuno vuole fare il manovale per tutto quel tempo.
Ricordo che eravamo entrati nella FOSM da tre anni quando io, Thro e Nite venimmo fatti avanzare nel primo settore.
Mi piaceva l’idea di non essere più considerato un ragazzino alle prime armi e, anche se non sono uno che esulta come Thro (quel pazzo era uscito dall’ufficio del direttore lavori per ultimo con un sorriso più grande di una casa, aveva urlato, facendosi sentire da tutto il quinto piano “Sì, cazzo! Siamo dei grandi!” e aveva abbracciato Nite stampandogli un bacio sui cortissimi capelli viola cupo. Guadagnandosi un pugno sul naso e un sorriso, che è il modo di Nite per manifestare gioia condivisa e affetto. Io avevo semplicemente dato una pacca ad entrambi: “Dai, vi offro qualcosa.”), ero felice di quella promozione, dell’aumento sullo stipendio e di poter continuare a lavorare con loro a qualcosa d’importante, come il motore per il filtro dell’aria dell’Alcova, ma la poca esaltazione che avevo provato nell’eseguire le nuove mansioni era sfumata subito, ricordando che, di motori come questo, ce ne sono altri diecimila. Per ognuno dei quali lavorano circa 570 uomini l’anno. Non ho mai ragionato su quale enorme numero di individui ne esca fuori.
- Ecco il problema. – Thro indica una trave di acciaio che si è staccata dal sostegno e ha forato un condotto di cinque metri di diametro. Lo squarcio sarà lungo due metri e il fumo giallo-verde che sta riempiendo la stanza non mi dice nulla di buono. - Che vi avevo detto? Ci sarà da divertirsi! - Se solo anche io potessi prendere così un lavoro di saldatura nel cuore della notte...
- Sarà stato uno di quei maledetti ragazzini... una trave di quelle dimensioni non cade per magia. – borbotta uno dell’altra squadra. E io sospiro, senza dire nulla.
- Dai, diamoci una mossa, o qualche donna vorrà le nostre teste! – esclama Nite: ridiamo, ma sappiamo tutti che questa è una possibilità che non può mai essere esclusa.
- Prendo i cavi di traino e salgo su, ci penso io a fissare la trave. – dico.
- Ce la fai da solo? - chiede Thro, dubbioso: mi crede un po’ troppo spericolato. Semplicemente mi fido delle mie capacità e, per quanto i miei amici siano dei bravi carpentieri, io preferisco lavorare da solo.
- Voi pensate ad agganciarlo e a tirarlo su, lo so che le altezze non fanno per voi. - ribatto ad entrambi.
- Ha parlato la bimba del cielo! Dì, sei nato sulla cima dell’Alcova forse? – ride Nite.
- Perché, tu? – lo riprende Thro. – Idiota, siamo tutti nati lassù!
- Già, e un’ora dopo ci avevano già buttato nel fondo dell’inferno. – ribatto io.
Infilo un auricolare, sospiro un “play” e, mentre il lettore musicale mi accontenta, comincio a salire una scala che pare infinita.
 


Salve! Questo è il vero primo capitolo. Scrivendo questa storia sto sperimentando modi di scrivere che non mi sono molto usuali, ma spero riescano a trasmettere quello che voglio al meglio. La scelta di un vocabolario semplice e un po' ripetitivo è "colpa" di questo personaggio, ho voluto rendere che tipo è anche attraverso la scrittura (è una delle cose più difficili che abbia mai fatto) e spero che stia venendo decente.
Se qualcuno sta leggendo, un commentino, please? :)

 

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Capitolo 3
*** Spiritus ***


*SPIRITUS*
20 settembre 2215

 
 
Il sole della mattina inoltrata ferisce le mie sottili palpebre perlacee facendomi riemergere da un sogno di cui non rimane traccia.
Quella che mi si prospetta è una giornata come tutte le altre, niente di più e niente di meno, nulla per cui valga la pena alzarsi, comunque. Mi volto con fatica nell’ampio letto, cercando di liberarmi delle lenzuola di seta che mi si sono attorcigliate al corpo. Allungo le braccia verso l’esterno e le mie dita toccano la calotta di vetro che circonda il letto.
Lentamente disegno un cerchio sulla superficie facendo oscurare la calotta protettiva di qualche grado: voglio concedermi il lusso di credere che sia ancora notte, solo per un altro po’. Ma l’illusione è troppo effimera per resistere alle pressioni della mia asettica realtà: un altro giorno è arrivato, come mi annunciano il calendario luminoso sul vetro della capsula e quello sul plasma di cui è rivestita la parete davanti al letto.
Un'icona verde acqua appare sul vetro semitrasparente a pochi centimetri dal mio viso, mostrandomi il nome e il viso della persona che mi sta chiamando e mettendosi a trillare piano.
Poi un po’ più forte, poi ancora più insistentemente, fino a che il suono diventa insopportabile, costringendomi a rispondere. Non appena la voce di Esperanza Ernez risuona squillante all’interno della capsula, mi pento di non aver attaccato: - Finalmente! Buongiorno, eh! – esclama la voce della ragazza, squadrandomi dal monitor con aria esasperata. – Non mettere mai la sveglia, mi raccomando, hai visto che ore sono? Ti rendi conto che hai degli impegni? Non posso essere la tua agenda per tutta la vita, ho un'azienda da mandare avanti, nel caso non te ne ricordassi. Hai delle ore di laboratorio stamattina e sei già in ritardo. Non c’è posto per le scansafatiche nel mio gruppo, alzati. Spiritus, ORA!
Alzò di poco la testa per guardare l’orologio gigante che fa scorrere i secondi senza rumore, ma sgridandomi per il mio ritardo con un indignato lampeggiamento biancorosso. Sono le 9.15.35 e io dovrei essere in laboratorio già da quindici minuti.
Con un gesto spazientito della mano caccio via la calotta di vetro e quella si ritira docile dentro la parete.
- Come mai si sono alzate le capsule? C’è stato qualche problema, questa notte? – domando sbadigliando ad Esperanza.
- Stai scherzando, voglio sperare! Hai continuato a dormire con tutti quei suoni di allarme? Mi hanno svegliato alle tre così d’improvviso da farmi venire la tachicardia...
- Davvero? - borbotto poco interessata, scompigliandomi i capelli color magenta e reprimendo uno sbadiglio - io non ho sentito nulla... cosa è successo?
- Qualche problema nei condotti di areazione, suppongo. - risponde Esper, riavviandosi un invisibile capello fuori posto sulla tempia e togliendosi un pelo altrettanto invisibile dal suo tajer su misura. - Lo sai com’è... mai nessuno che si degni di dare informazioni precise. Ho chiamato Lorence per indagare: quegli sciagurati della sicurezza non si sarebbero nemmeno posti il problema, se non ci fossi stata io a mettere una parola.
- Scandaloso. - borbotto, lasciando che il mio tono ironico venga scambiato per uno insonnolito. La mia amica continua, senza quasi aver notato il mio intervento: - Comunque è difficile che dell’aria inquinata sia arrivata fin quassù, me l’hanno assicurato. Le calotte fanno solo parte del protocollo. A dire il vero la mia era già abbassata, non si sa mai cosa potrebbe capitare mentre si dorme, la cosa migliore è avere un controllo costante.
- Certo, la cosa migliore. – butto lì di rimando, riuscendo finalmente ad interrompere il suo fiume di parole. Mi tiro in piedi e mi dirigo verso il bagno, poi un giramento di testa mi costringe ad appoggiarmi alla parete per qualche secondo, aspettando che passi: sicuramente è dovuto alla pressione bassa, a sua volta dovuta al fatto che ho dormito troppo a lungo, dovuto al fatto che odio mettere la sveglia.
- A dopo, Esper. Ti richiamo io. - attacco prima che abbia il tempo di rispondermi o di lamentarsi per il nomignolo ed entro nel grande bagno. Quando i miei piedi lasciano il parquet riscaldato e toccano le piastrelle non avverto nessuno sbalzo di temperatura: quindi il problema di questa notte non ha riguardato il riscaldamento... oppure è già stato sistemato a dovere. Mi guardo allo specchio, appoggiandomi al lavandino: quello che vedo non mi piace.
Sciacquo il viso e applico una crema vitaminica per la pelle che dovrebbe rendere più resistenti i miei tessuti. Ora la pelle del viso sembra un po’ meno trasparente e malsana, ma le sfumature violacee alla base degli occhi non si potrebbero togliere nemmeno con un chilo di trucco. Se zummassi abbastanza lo schermo della specchiera, sono sicura che riuscirei a distinguere il reticolo di vene e capillari che alimentano la mia fragile pelle traslucida.
Con un sospiro, mi strofino le mani con il disinfettante e infilo il mignolo nell’apposito foro al lato del lavandino. Un microscopico spillo sul fondo dell’apparecchio, così piccolo che lo percepisco a malapena, preleva una goccia del mio sangue e mi restituisce un responso luminoso sulla specchiera. In fondo ai miei valori (più o meno costanti) c’è un rassicurante “Nella norma" per cui posso evitare di essere indirizzata dal mio medico, relegata in camera sotto la capsula e riempita di integratori e staminali. Almeno per oggi.
Mi vesto lentamente: tanto, qual'è la differenza tra 30 minuti di ritardo o 60?
Pantaloni e maglietta attillati e super leggeri che mettono in risalto la mia piccolissima figura snella e fragile, quasi non ci fossero a ricoprire le mie leggere ossa traforate. Ancora intontita dal sonno ci metto cinque minuti buoni per infilare le lunghe ossa alari che ho sulla schiena nei buchi della maglia. 
Do uno sguardo ai parametri di temperatura esterna, comparandoli con quelli della mia stanza e decido di prendere una giacca: verde con rifiniture oro, esattamente come i miei occhi. Infilo gli scarponcini tutelanti che si stringono autonomamente e subito camminare mi sembra un po’ meno faticoso. Poi prendo il bracciale identificativo: fino a che non è al mio polso la serratura della porta di casa non verrà sbloccata. Decido di metterlo al polso destro, perché l’ho portato per quattro giorni al sinistro e comincia a vedersi la traccia violacea di un livido circolare. Esco dalla mia stanza e attraverso il salottino e la sala d’ingresso: non c’è tempo per la colazione e, ad ogni modo, non ho molta dimestichezza con le piastre da cucina, le padelle... da quando mi sono trasferita in questo appartamento sarò entrata in cucina sì e no due volte, e solo per mettere del cibo che avevo ordinato in un piatto. Davanti alla porta di casa, imposto la temperatura dei miei abiti termici sul piccolo display olografico del bracciale identificativo e scorro velocemente il piano della giornata. Proprio come ha detto Esperanza, ancora laboratorio e poi lezioni di etica medica, nel pomeriggio.
Sospiro aprendo la porta... e mi ritrovo Shizuka a un palmo dal viso. Non faccio in tempo a frenare il gigantesco sbadiglio che preme per uscire e quindi il mio “buongiorno” risulta piuttosto deformato.
- Buongiorno a te. Sarai contenta di sapere che non hai nessuna carie e che forse la tua perinectarea è un po’ ingrossata. – ironizza la ragazza, alzando un sopracciglio blu notte.
- Sì, certo, come se avessi qualcuno da sfamare, io! La Dea Celeste me ne scampi! – sorrido, passandomi distrattamente la lingua sul fondo del palato, accarezzando il tessuto teso dei muscoli della così detta “porta del Nettare”.
Shizuka sorride e scuote la testa: lei, che un fratello e un cugino, ne sa molto più di me in questioni di nutrimento e so per certo che mi vede come una bambina immatura tutte le volte che esprimo il mio parere. Solo che, dopo tanti anni, ha rinunciato a farmi cambiare idea, per fortuna.
“Guarda che è una bella cosa!” mi aveva detto alcuni anni fa, mentre ce ne stavamo sedute su una terrazza del centosettesimo girone a guardare il cielo oltre i diversi metri di vetro protettivo: doveva essere la prima volta che affrontavano l’argomento. “Nutrire un fratello, un figlio... permettere alla loro vita di andare avanti, anche se in qualche posto lontanissimo da te ti fa sentire completa e... meno sola. Se avrai un figlio maschio lo saprai.”
Beh, certo, molte donne della nostra razza sarebbero d’accordo che lei... tutte, praticamente. Personalmente non ho la minima intenzione di nutrire qualcuno nella mia vita, anche se questo  dovesse causarmi problemi ormonali e psicologici; anche se, come dicono nei programmi scientifici, è clinicamente testato che una donna che non ha mai nutrito ha il 30% di possibilità in più di morire di cancro alla bocca.
Comunque, per questa mattina, pare che Shizuka non abbia intenzione di farmi una ramanzina, si limita a chiedermi, come ogni brava amica responsabile: - Hai fatto colazione?
Scuoto la testa, mentre insieme ci avviamo agli ascensori per andare ai piani ristoranti. Non mi piace molto parlare appena sveglia, e Shizuka lo sa bene: sono anni che ci conosciamo ormai. Entriamo nell’ascensore insieme ad altre due donne e ci posizioniamo nei riquadri di sicurezza liberi sul pavimento che vibrano di flebile luce blu. Non appena ci posiamo i piedi veniamo immobilizzate: un sistema di sicurezza in caso di scossoni o brusche fermate dell’ascensore. Perché per noi, una caduta può voler dire parecchie ossa rotte e svariati anni di convalescenza e riabilitazione. 
Almeno ho ancora il controllo delle braccia e quindi infilo una mano in tasca, tirando fuori due auricolari wireless usa e getta. Scelgo un brano dalla playlist "Alzataccia forzata" che ho memorizzato nel bracciale id e alzo il volume, poi offro l’altro a Shizu. Lei lo accetta senza dire nulla, lo toglie dalla bustina ermetica e lo infila in un orecchio, sintonizzandolo con un click.


Secondo capitolo, questa volta vi propondo la protagonista. Lo so, non è molto simpatica, almeno all'inizio. Ma, ehi! non possono mica essere tutti perfetti!
Se qualcuno è arrivato a questo capitolo un commentino non ci starebbe male :)

 

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Capitolo 4
*** Res ***


*RES*
20 settembre 2215
 

 
 
- A un altro meritatissimo fine settimana! – il primo brindisi di Thro fa schifo come tutti i venerdì sera, ma in fondo se non ci fosse lui a sparlare e fare le figure di merda qualcun altro dovrebbe farlo al posto suo... e poi dopo quattro o cinque birre migliorano.
"Gruppo" forse è una parola grossa dato che siamo in tre, la nostra squadra, e finiamo i venerdì sera nello stesso bar da quasi cinque anni.
È un buon posto, mai troppo affollato, non così vicino al dormitorio centrale da attirare troppi operai, né troppo distante dalla stazione che mi riporta a casa nel fine settimana.
- Al letto di casa mia! – riabbatte Nite, battendo il primo boccale di birra contro quello dell’amico.
Poi mi guardano tutti e due. Io sospiro e mi chiedo ancora perché continuino ad aspettarsi che io partecipi a quella stupida... Nite mi rifila un pugno di avvertimento nelle costole e la sua solita occhiata da fratello maggiore, come se mi stesse dicendo di comportarmi bene a tavola e di non fargli fare brutta figura. Alzo la mia bottiglia di rossa guardandoli in cagnesco: - Alla tranquillità e al silenzio di casa mia, che fortunatamente è molto lontana da qui. Alla vostra! – dico bevendo.
- Simpatico come nettare scaduto. – sentenzia Thro, guardandomi allo stesso modo: sa benissimo che la parte sul silenzio era rivolta a lui.
- Rumoroso come un bordello nell’ora di punta. - ribatto io, sorridendo dietro a una sorsata di birra.
- Thro, mi spieghi perché continuiamo a sopportarlo? Siamo in due, siamo carpentieri... io dico che ce la facciamo a farlo sparire. – Nite: non è la prima volta che scherza con le minacce di morte. Ogni tanto mi chiedo se preoccuparmi. Invece mi sfugge un sorrisetto mentre abbasso la bottiglia sul tavolo.
- Ve lo spiego io perché mi sopportate ancora. – propongo.
- Oh! Quindi ammetti di essere uno stronzo insopportabile? – ribatte subito Thro: è dura da ammettere ma forse, dico forse, nella nostra squadra è il più sveglio... o semplicemente quello più svelto con le parole. Tra di noi, in questa città in particolare, non sono granché apprezzati quelli come lui: quelli troppo svegli, quelli che dicono le cose in modo un po’ troppo intelligente, insieme a quelli che a scuola rispondevano sempre a tutto o che capivano tutto al volo... beh, per molti non c’è motivo migliore che prendere a pugni qualcuno.  Tutte le volte che Thro fa una battuta che mi sembra un po’ troppo acuta, che gioca troppo con le parole, mi viene da pensare che non deve aver avuto vita facile da ragazzino, quando non era ancora grosso abbastanza da difendersi. Poi invece mi ricordo di tutte le fortune che gli sono piovute dal cielo e tutta la mia possibile solidarietà verso il suo passato scompare.
- Beh, allora dai, sentiamo! – fa Nite, con una manata sulla mia spalla, come se stesse spingendo un grosso bottone con scritto play. Io per un momento non gli rispondo, troppo preso dai pensieri. – Parlo con te, smettila di fissare la birra, guarda che non scompare per magia. - riprende lui sbatacchiandomi un po’, io me lo scrollo di dosso  e mi riscuoto, cercando di ricordare quello che volevo dire, ma non mi torna in mente.
- Mi sopportate perché... intanto questo lavoro ve l’ho fatto avere io.
- Vero. – approvano quasi all’unisono, ma dalle loro espressioni pare che non sia una motivazione sufficiente.
- Non faccio mai cazzate.
- Ma che modestia! – sorride Nite.
- É la verità. – dichiaro senza scompormi minimamente.
- Io avrei da ridire... – fa Thro guardandomi strano attraverso il vetro spesso del secondo boccale. Il suo sguardo mi ricorda qualcosa che avevo faticato secoli a dimenticare e da cui avevo imparato una lezione importante, all'ultimo anno di scuola: mai assecondare qualcuno solo perché dice che non hai le palle per fare una determinata cosa. Specialmente se quella cosa riguarda dell’erba confiscata da recuperare nell’ufficio del preside della scuola... dopo averla recuperata sarebbe bene andarsene subito, non fermarsi a fumarla con quel cretino del figlio del preside, finendo col ritrovarsi sua lingua in bocca mentre il padre rientra.
Thro, alle spalle del preside, aveva fissato le mie pupille dilatate per il fumo e il mio colorito che lentamente cominciava ad assomigliare a quello magenta dei miei capelli, poi aveva osservato l’espressione stralunata di quell’idiota di Jeam Liith e per poco non era scoppiato a ridere: lui doveva essere punito per una semplice rissa, a giudicare dal labbro spaccato, ma a quel punto la cosa era passata totalmente in secondo piano e lui aveva semplicemente fatto dietro front prima che il preside cominciasse a sclerare di brutto. - Molto carino come nostro primo incontro, ricordi? Io quella la classificherei come la cazzata della storia.
- Nulla che non abbia risolto da solo. – lo blocco immediatamente: preferisco che Nite continui a pensare che mi hanno sospeso perché ho picchiato Jeam... cosa che in effetti ho fatto, dopo averlo baciato. O era stato lui a baciare me... beh, comunque meglio non rivangare certe cose. – E poi... - riprendo, per cambiare discorso.
- Ancora? - sospira Nite.
- E poi vi paro il culo quando c’è da fare qualche lavoretto troppo in alto per voi cagasotto.
Thro alza le mani e Nite sbatte il boccale sul tavolo: - Hai vinto, ci servi, non ti uccidiamo.
- Grazie, voi sì che siete dei veri amici... Anche se siete dei cagasotto.
- Ehi, bimba del cielo, falla finita. – niente battute né parolacce in questa frase: devo averlo fatto irritare. Niente di nuovo, non gli piace molto che si scherzi sulla sua paura delle altezze. “Non delle altezze” mi ringhia addosso tutte le volte che lo dico “Dei posti in bilico, con pochi appigli e a mortale distanza dal suolo.”
Sarà che questa sera mi sento un po’ più annoiato del solito o sarà il fatto che è appena arrivata la mia seconda birra. Fatto sta che lo guardo fisso, con un sorrisetto di superiorità, e porto le mani dietro al collo, grattando con noncuranza le punte ossee che mi spuntano dalle scapole: sono queste che mi hanno valso il soprannome “Bimba del cielo”, non solo il fatto che mi senta piuttosto a mio agio su strutture traballanti. Per qualcuno potrebbe essere un soprannome irritante, ma in realtà non lo è affatto: quello che ho sulla schiena è qualcosa di cui andare fieri e... beh, vantarsi non fa mai male.
A quella mia mossa, Nite sbatte un pugno sul tavolo e mi guarda in cagnesco: - Stasera questo cerca la rissa. - dichiara con la sua potente voce bassa e qualcuno dal bancone butta un occhio verso il nostro tavolo, sperando in un po’ d’azione, forse.
- Dai, non fare il geloso. Non puoi mica strappargliele dalle spalle. – borbotta Thro, prendendolo per una spalla e tirandolo di nuovo a sedere. – Se cerchi un po’ di contatto fisico comunque io ci sto! - Eccolo, l’attacco della serata: Thro non riesce a fare a meno di trovare allusioni sessuali ovunque, soprattutto perché sa che a Nite da così fastidio.
Nite, infatti, guarda male anche lui, ma alla fine si rilassa sulla sedia, borbottando: - ‘Fanculo, sai che me ne faccio di un cimelio preistorico da mostrare in giro!
Non ribatto. Non è altro che la verità: quella che ho sulle spalle non è altro che una bella eredità senza valore. Sono servite a rimorchiare qualcuno, quelle poche volte che c’ho provato, quello sì, ma la loro utilità finisce tutta lì.
Sono solo ciò che rimane di quelle che una volta erano ali.
Almeno così ci hanno insegnato a scuola: da bambino non so quante volte mi sono trovato ad alzare la mano, quando gli insegnanti di scienze chiedevano se qualcuno aveva ancora delle punte ossee alari sviluppate. E poi dovevo alzarmi in piedi, sfilare la maglia e mostrarle... le elementari in fondo sono un periodo tremendo per tutti.
Una volta, a quanto sembra, anche noi uomini avevamo le ali. I Rakut discendono direttamente dagli uccelli, secondo la teoria dell’evoluzione, e quindi una volta avevamo ali gigantesche, ossa forate, un peso non superiore ai 50 kg e un’altezza inferiore ai 165 centimetri.
Quando a scuola te lo dicono per la prima volta, quasi tutti scoppiano a ridere. Ma a quanto dicono è vero, le donne l’hanno studiato a lungo: è un dato di fatto, per quanto possa sembrare irreale. Oggi non è rimasto nulla di queste caratteristiche, in noi uomini: abbiamo ossa spesse, piene e resistenti, e superiamo i 165 cm a dieci anni. Per non parlare del peso, che sarebbe già due volte tanto, senza contare i muscoli che la maggior parte della popolazione sviluppa con i lavori manuali.
Tutto quello che ci rimane di questo lontanissimo passato da esseri del cielo sono dei sovrossi al posto delle ali all’altezza delle scapole e, per i più fortunati, come il sottoscritto, due punte ossee di 4 o 5 cm.
Quello che è ancora più incredibile, comunque, qualcosa che nemmeno adesso sono del tutto sicuro essere vero, è che questi fantomatici antenati alati non avevano bisogno di Nutrimento.
Qualcosa di totalmente inconcepibile: vivere senza Nutrimento... come dire che vivevano senza respirare! Per questo a mio parere è solo una cazzata che raccontano per stupire i bambini.
Mi perdo qualche chiacchiera sui tornei della stagione e su dove andare dopo: tanto, con quasi quattro ore di treno per arrivare a casa, non credo che mi unirò a loro. Mi sento davvero troppo stanco per stare in piedi tutta la notte, è stata una settimana tosta: quattro guasti solo nel nostro dipartimento... qualcuno verrà sicuramente licenziato la prossima settimana.
Entrano cinque ragazzi dalla porta del locale e io li seguo distrattamente con lo sguardo.
Sembrano di buon umore, almeno quattro di loro, quello al centro invece ha il viso teso e giallognolo, anche se cerca di tenersi un faticoso sorriso sulla faccia. Viene praticamente sospinto dagli altri quattro verso il bancone.
Il barista alza un sopracciglio, osservandoli critico.
Uno dei ragazzi, si appoggia al banco. - Un giro di Zacapa per tutti!  – esclama allegro.
- Solo uno? – chiede il barista, tirando fuori da sotto il bancone la bottiglia di rum: tanta allegria va tenuta alta da più di un bicchiere a testa.
Un altro dei quattro prende la parola, ha i capelli viola chiaro quasi a zero e un sorriso che gli va da un orecchio all’altro. Sventola una fiala davanti al naso del barista, e con l’altro braccio circonda le spalle dell’amico malaticcio.
- Prima le cose serie, la festa vera comincia tra un’oretta.
- Ok, ragazzi, andatevi a sedere, ve le porto. Ben tornato in carreggiata, bello. – dice il barista a quello malato. Lo vedo arrossire un po’ guardando a terra e ringraziare a voce bassa, sembra sfinito.
- Che esibizionisti del cazzo. – sbotta Nite mentre passano di fianco al nostro tavolo, con l’intento di farsi sentire. Si becca qualche occhiataccia, ma sono tutti troppo felici per dargli corda e attaccar briga.
- Un amico che stava per morire, torna a vivere. Saresti felice anche tu. – obbietta subito Thro, sempre pronto a ricordare al mondo che amici e famiglia sono una cosa seria. Come se ci fosse davvero qualcuno pronto a ribattere.
- Ovvio che sarei felice, ma non per questo si deve organizzare una festa ancora prima che si regga di nuovo in piedi da solo. Insomma, se qualcuno mi stesse così appiccicato quando mi nutro, finirei per saltargli addosso.
- Ambiguo... – ridacchia Thro.
- Ti prego, non ricominciare. – sospiro io, buttando indietro la testa.
- Che ho detto?! – fa Thro allargando le braccia.
- Lo sai. E comunque Nite ha ragione. Non si pressa così uno che sta per cambiare nettare.
Thro scuote la testa: - Ma non diciamo cazzate, un cambio obbligato quando non ci si nutre da così tanto come quello lì? ... non è una cosa che si affronta bene senza qualcuno vicino.
- Perché, tu che ne sai? – chiedo, un secondo prima che lo faccia Nite in tono ben più irritato del mio.
- Ho due sorelle e una zia, non credere che sia facile passare dal nutrimento di una a quello di un’altra e io lo faccio sa sempre... per non parlare dei loro continui sbalzi d’umore.
- Un tratto di famiglia. – sorrido, cercando di sdrammatizzare.
- Continua a pure a sfottere, ma non mi cercare se...
- Ehi! – lo interrompe Nite. – Cerca di non attirare la sfiga. Non abbiamo tutti due sorelle e una zia pronte a nutrirci, sai?
Il discorso viene interrotto da un accesso di tosse violentissimo, seguito da un paio di bicchieri che si frantumano al suolo.
Ci voltiamo verso il tavolo dei cinque ragazzi in tempo per vedere quello malato che rovescia gli occhi all’indietro e l’inizio delle prime convulsioni. Poi gli amici gli sono addosso e lo bloccano con i loro corpi. Uno dei quattro urla a un altro di tenergli la lingua. In quello stesso momento Nite si alza di scatto: - Che cazzo! Lo dicevo io che non sono cose da fare in un bar.
Mi riscuoto, alzandomi: - Andiamo via. – concordo.
Thro ci guarda entrambi come se fossimo delle ragazzine troppo impressionabili, ma poi ci segue fuori dal locare.
- Ehi, tutto bene? – chiede battendo una pacca sulla spalla di Nite che potrebbe abbattere un palazzo. Nite lo spinge via, senza riuscire a far funzionare l’accendino per il nervosismo: - ‘Fanculo! – non so bene se lo ha detto a Thro o all’accendino, ma uno ha ritirato la mano e l’altro è appena finito in mille pezzi contro un muro.
Rimaniamo tutti e tre in silenzio per qualche secondo.
Poi Thro prende di nuovo la parola: - C’è una discoteca da queste parti... scarichiamo un po’ di adrenalina, eh Res? – rieccolo il tono malizioso che non lo abbandona mai del tutto.
Prendo la mia ultima sigaretta da dietro l’orecchio e l’accendo. Tiro due boccate e poi la passo a Nite che ne ha decisamente più bisogno di me. Lui mi guarda come gli avessi passato l’ultimo goccio d’acqua in mezzo al deserto e mi chiede se sono sicuro, io rispondo con un’alzata di spalle: - Io sto smettendo. – gli dico, tanto per mascherare un favore gratuito che altrimenti mi sembrerebbe troppo... intimo. - Me ne torno a casa, l’ultimo treno passa tra poco.
- Come al solito. – sospira Thro deluso. – Tu che fai, Nit?
- Non mi va di ballare.
- Andiamo! Nessuno va lì veramente per ballare! – sorride enigmatico Thro. – Non cercavi un’occasione per una “rissa”?
- Intendevo letteralmente. – borbotta Nite tra i denti.
Thro continua a sorridere, alzando le mani: - Ognuno si sfoga come crede..
- Niente ossa rotte, però. – li ammonisco blandamente. – Non voglio fare anche il vostro lavoro.
- Tu pensa ad arrivare in orario lunedì, capito campagnolo?
Non rispondo, mi limito a un cenno con la mano e poi mi volto, cominciando a camminare verso la stazione.

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