Andante

di Aurelia major
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***



Capitolo 1
*** Preludio ***


 

 

 

 

                               

 

 

 

 

Scoppietta il fuoco nel camino, fuori è gelo e buio, la neve cade in morbidi fiocchi, non un rumore disturba il suo posarsi lieve. Dentro la stanza è illuminata dal tenue bagliore delle fiamme e loro se ne stanno l’una di fronte all’altra godendo del silenzio e della reciproca compagnia. E’ singolare quanto siano simili, il colore dei capelli è il medesimo, la figura quasi gemella, gli occhi entrambi chiari, sebbene nessun legame di sangue le unisca.

Solo ad un esame più attento si potrebbe scoprire che lo sguardo verde dell’una si specchia in quello grigio dell’altra, che uno dei due profili, entrambi cesellati, è vivacizzato da una fossetta sul mento. Notevole invece è la difformità delle bionde chiome: una è essenziale, corta, aerodinamica  la definirebbe la sua stessa proprietaria, al di là del ciuffo scomposto, che consente agli sguardi di spaziare liberi sull’avvenenza del suo volto. Per contro l’altra è folta, ricorda un intrico di mangrovie, dove la luce penetra a sprazzi, e le cade sulle ossute spalle in ciocche sfrangiate e strinate dal sole.

In mezzo a loro un narghilè e di tanto in tanto ne aspirano una voluttuosa boccata che riempie l’aria d’aromi fruttati.

Una ha distese le longilinee gambe davanti a sé, come un impacciato puledro dalle zampe troppo lunghe, l’altra preferisce tenerle incrociate e i suoi occhi sono chiusi. A differenza della sua vicina che li tiene ben aperti invece, come se ancora non riuscisse a saziarsi della presenza di colei che le sta davanti.

E’ singolare il loro rapporto, un legame che nulla chiede, apparentemente sfilacciato e condizionato dalla distanza. Eppure è come se non si fossero mai separate, quantunque la bambina nel frattempo sia diventata assai diversa dalla proiezione della sua mentore, e la ragazza d’un tempo si sia spinta molto più in là di quanti potrebbero azzardare in una vita intera. Essenzialmente comunque restano sempre le stesse e quanto di comune avevano c’è ancora. In una forse l’amore l’ha un po’ addomesticato, mentre nell’altra è sempre vivido.

“Sai una cosa?” Chiede all’improvviso la più giovane, come se le fosse venuto in mente solo in quel momento. “Non mi hai mai raccontato niente della tua vita  prima che c’incontrassimo.”

“Non me l’hai mai chiesto.”

Tranquillamente l’interpellata lascia intravedere il suo sguardo cinereo posandole gli occhi addosso con affetto.

“Suppongo che sia perché per me sei sempre stata compiuta. Davvero non sarei stata in grado d’immaginarmi un passato per te, di vederti diversa da quel che eri. E poi ero una mocciosa con ben altre priorità!”

Ridono insieme, quantunque l’ilarità di una sia venata dal timore di venir considerata po’ meno dall’altra alla luce delle scelte borghesi che ultimamente ha fatto. Non ne hanno mai parlato, supinamente le ha accettate senza esprimersi in merito, senza darle alcun segno di biasimo. Ciò non toglie che così potrebbe essere, per questo ora, tutto ad un tratto, le si è risvegliato il desiderio di sapere riguardo a quel che ha sempre ignorato.

“Ti va d’illuminarmi?”

“Certo, ma devi scegliere. Posso liquidarla con due parole, o metterci tutto il tempo di cui ha bisogno.”

“Non sei mai stata un tipo loquace, immagino quindi che se tu ti debba dilungare, un motivo ci sia.”

“Come in tutto.” Risponde pacata accarezzandola con un prolungato sguardo. Quanto sono simili, eppure, allo stesso tempo, assolutamente dissonanti.

“Voglio raccontartelo per bene sì. Principalmente per darti modo di assimilare quel che sentirai. Ti apparirò così diversa, talmente lontana dalla persona che conosci, che vedrai, avrai bisogno di tutta la tua lucidità per capire.“

“Avanti Sid, mi hai sempre lasciato pensare con la mia testa, perché stavolta dovrebbe essere altrimenti?”

“Giusto, perché?” Chiede sorridendole di rimando. Prende una prolungata boccata e pare, ispirando il fumo e saturandone l’aria attorno a loro, che da quella nebbia si possano schiudere le porte del passato. E infine comincia.

“Avevo tutto e a molto altro avrei potuto aspirare ancora,  sarebbe bastato un cenno e la mia vita sarebbe potuta essere completamente diversa… ma io scelsi di non scegliere, ed è qui che inizia la mia storia.”

 

 

 

 

 

                                                     Preludio

 

 

 

Era un Martedì d’inizio Settembre, una giornata alquanto atipica per la verità, poiché, volendo speculare sul calendario, avrebbe dovuto far caldo, tuttavia l’aria non era affatto estiva.

La città era avvolta da una cappa insolita ed era spazzata da una brezza fredda che stava incrementando la forza del mare e creando, laddove fino a poco prima c’era stata l’immota distesa sabbiosa, tanti piccoli mulinelli, che vorticando senza posa, avevano praticamente costretto alla  fuga gli  ultimi  coraggiosi  bagnanti.

Statici invece apparivano gli animali, i quali, nel loro istinto primordiale, erano come bloccati,  quasi  immobilizzati in una morsa, timorosi persino di respirare. Tant’è che persino l’usuale concerto  pomeridiano del frinire dei grilli aveva subito un’improvvisa battuta, per poi arrestarsi del tutto.

Qua e là, persistente, ancora s’udiva l’occasionale vociare dei turisti che normalmente in questo periodo affollavano il litorale, ma nel giro di pochi minuti l’incipiente mutare del bel tempo aveva spinto anche questi ultimi a riparare al coperto.

Finanche gli onnipresenti piccioni erano svaniti nel nulla, normalmente volavano tutt’intorno, raggruppandosi nelle piazze o sulle guglie della cattedrale, ma oggi no. Se ne stavano rintanati nei propri cantucci in attesa che il cielo sempre più  plumbeo  cedesse  nuovamente posto al sole.  

C’era un’aria come d’un indistinta minaccia, come se un predatore avesse preso a volteggiare nell’etere sovrastante, come se la cittadina stessa  fosse stata afferrata  da due possenti mani nere. Poi, prima che l’acquazzone estivo scaricasse la  tensione elettrostatica e rasserenasse uomini e animali, il vento rinforzò ulteriormente la sua sferza, quasi che non volesse concedere alcuna tregua, neppure momentanea.

Non era una semplice corrente d’aria fredda e non raggelava esclusivamente il corpo, ghiacciava penetrando, strato  dopo  strato, fino a giungere in fondo, giù, alla  fonte  delle emozioni, dando una netta  sensazione svuotamento e provocando una gran voglia di piangere.

Sulla stessa rotta percorsa da quel vento viaggiava un aereo della compagnia di bandiera tedesca e, man a mano che si avvicinava al suo obiettivo, risentiva degli  sbalzi che quelle forti correnti d’aria provocavano sulla fusoliera. A bordo, mescolata  tra  gli  altri  passeggeri, ma  inconfondibile anche per chi l’avesse vista una sola  volta, c’era una bionda adolescente, la quale non prestava molta attenzione a ciò che la circondava. Neppure i frequenti vuoti d’aria che l’aereo subiva riuscivano a  scuotere la sua aria pensosa, concentrata com’era nel ricordo dell’ultimo scambio di opinioni avute, tra le tante prima della sua frettolosa partenza, con sua madre.

Le erano state rivolte frasi sentite, ma che di amorevole non avevano affatto traccia. Senza dubbio la sua interlocutrice era una retore eccellente, soprattutto quando si trattava di formulare parole dure, di congedo e di condanna, senza contare che quella non era neppure la prima volta che le declamava una filippica di  tal fatta.

Ad ogni modo aveva ascoltato tutto e non aveva battuto ciglio,  neanche quando infine sua madre aveva concluso amara:

“Va pure Alexandra, la totale indipendenza era l’unica cosa che non avevi ancora provato. Mi pare chiaro, ovviamente, che se fosse dipeso solo da me, da qui non ti saresti  mai mossa.”

Sarah era furente, l’aria serafica di sua figlia aveva il potere di stizzirla oltre ogni immaginazione e lei, nemmeno per un minuto, era stata tentata di chiedersi il  perché del suo agire sconsiderato.  La guardò a lungo combattuta, ma com’era possibile? Una ragazza così bella, dotata d’un intelligenza acuta, perché quella crisi di rigetto verso quanto, per nascita e meriti, le spettava di diritto?

Non era una semplice rivolta adolescenziale quella, ne era certa e, a lasciar sedimentare quell’enzima pericoloso, la situazione, da arginabile che era, sarebbe diventata insostenibile. Pure il decano della famiglia, all’ennesimo disastro combinato da quella ribelle, aveva in tal senso sentenziato. Doveva partire e i suoi timori materni potevano pure andare a farsi benedire, ché la parola del Conte era legge e Alexandra obbediva solo a quella.

Sospirò rassegnata, con la mente invasa da foschi presagi e riprese, nella speranza che il suo velato monito sortisse qualche effetto.

“Comunque sia, anche se sono certa che non mi credi, mi auguro che almeno stavolta ti riesca di trovare un  barlume di normalità. Nei limiti dei tuoi difetti, s’intende. Del resto il sangue di tuo padre scorre dentro di te, e solo se riuscirai a sopprimerlo potresti farcela.”

Anche innanzi a quest’ultima sortita non aveva raccolto la provocazione e, fissando deliberatamente  colei la quale l’aveva tenuta, un tempo ormai immemore, nel suo caldo grembo, ancora una volta si ritrovò a chiedersi perché mai non riuscissero a capirsi. Tra  di  loro non c’era comunione, di nessun tipo, come se neppure fossero carne della stessa carne. La cosa l’aveva sempre ferita, ma era inutile indugiarci ancora, soprattutto alla luce di quanto stava per andare a fare. Ché solo allontanandosi da lei, e da tutto quanto rappresentava, avrebbe potuto finalmente uscire dal bozzolo opprimente nel quale si sentiva ingabbiata. Quindi, perché non fingere di dar poco peso alle sue esortazioni? E dunque, ad ostentazione della sua noncuranza, le rispose con aria annoiata. 

“E’ una questione di punti di vista mater. E quelli che ritieni essere difetti, per me non sono altro che nitide manifestazioni di unicità. Naturalmente puoi essere d’accordo oppure no, ma in fin dei conti non interessa a nessuna delle due. Non temere comunque, se è per me ti assolvo completamente dall’obbligo di preoccuparti.  Anche se dubito che tu l’abbia mai avuto. Arrivederci, se ne avrò il tempo mi  sforzerò  di  telefonarti. In caso contrario potrai rivolgerti al Conte, se e quando, vorrai avere notizie.”

Così aveva concluso, abbozzando un gesto di saluto con un dolente e imbarazzato abbraccio, prima di salire sull’auto di famiglia con aria triste, ma distaccata. Eppure era tutt’altro che infelice.

La libertà finalmente.

In tal modo Sarah van der Post osservò andarsene, senza sapere quando avrebbe fatto ritorno, la sua unica figlia. Si era agli sgoccioli dell’estate e mancavano poco meno di sei mesi al  momento in cui Alexandra van der Post, diciassettesima in linea di successione per il titolo nobiliare cui si fregiavano da secoli, avrebbe raggiunto la maggiore età.

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


                       

      

Alexandra van der Post con un gesto fluido, tipico della sua natura, si fece largo tra i passeggeri che ingombravano il corridoio dell’aereo per accomodarsi al suo posto. Operazione questa un po’ difficoltosa a dire il vero, in quanto, data la stazza, interamente sviluppata in altezza che non nella mole, più che sedersi, si appollaiò sul sedile assegnatole.
Dovette dimenarsi un po’ nel tentativo di trovare una posizione non troppo scomoda e, quando infine sembrò riuscirci, anche se solo parzialmente, con la massima disinvoltura si accese una sigaretta ignorando l’occhiata di disapprovazione del suo vicino, che probabilmente la riteneva troppo giovane per fumare. 
Prese ad aspirare ed  inspirare con voluttà anche se s’era accigliata un tantino. Già, probabilmente era stato un grosso errore voler fare di testa sua e declinare la proposta di giungere a destinazione tramite un aereo privato della compagnia, ma ormai c’era e doveva fare buon viso a cattivo gioco. Del resto, a parte qualche piccolezza, la classe turistica dopotutto non era poi tanto male e, visto che aveva fortemente insistito nel voler viaggiare come una studentessa qualsiasi, ora non le restava che attaccarsi al tram. Bel paradosso, non era affatto avvezza a quanto normalmente veniva definito comune, né si riteneva tale.
Riuscirò mai ad abituarmici? Pensò perplessa mentre il passeggero alle sue spalle dava l’ennesimo, ed irritante, spintone al suo seggiolino. Chiuse gli occhi allo scopo di rilassarsi, ma, non appena percepì che una certa distensione stava per essere raggiunta, all'istante da dietro si avviò un cicaleccio ininterrotto.
Ma perché, si chiese seccata, la gente continua a parlare anche quando non ce n’è affatto bisogno?
L’aereo cominciò a rullare sulla pista e quando decollò lei, anche se avrebbe voluto pensare a tutt’altro, non riuscì ad evitare il corso di quelle che ultimamente erano diventate le sue ossessive meditazioni. D’altronde poteva tornarle utile tentare d’immaginarsi proiettata nel futuro che l’attendeva, ché tutto quanto l’aspettava già dall’indomani era un’incognita e, ad essere onesta, non riponeva residue illusioni sull’immediato avvenire.
E come avrebbe potuto, visto che il Conte, dopo aver appreso del suo ennesimo bando, di punto in bianco, l’aveva praticamente costretta ad andare a vivere nella stessa città d’una persona che fortemente detestava, cioè suo padre? Forse le aveva giocato quel tiro per punirla della seconda espulsione cui incorreva, oppure, cosa di cui si persuadeva ogni giorno di più, questo era il risultato delle sue rimostranze riguardo alla maggiore libertà che richiedeva.
Suo nonno era un tortuoso infatti e, intanto che con una mano dava, con l’altra toglieva. Per cui sì, le aveva graziosamente concesso d’avere una certa autonomia, per modo di dire, ma il dazio consisteva nello stare in prossimità di suo padre, avendo l’implicita proibizione ad incontrarlo.
E bontà sua che lo vedeva come un castigo! Per la verità non smaniava affatto all’idea di questo possibile ricongiungimento, anzi, se si soffermava a riflettere sul tipo di relazione, anzi non rapporto, intercorrente tra loro, la prospettiva l’allettava meno che mai. Poiché quando il pensiero di suo padre la sfiorava, cosa non molto ricorrente, in primis le veniva in mente che non era neanche nata e già era uscito dalla sua vita; dopodiché non poteva far a meno d’interrogarsi sul frettoloso divorzio consumato dai suoi dopo appena sei mesi di matrimonio; per poi  finire a rimuginare sul fatto che, malgrado fosse la sua unica figlia, il suo amorevole babbo non aveva mai fatto nulla per incontrarla. Buon dio, aveva quasi diciotto anni e quello non s’era preso neppure la briga di vedere che faccia avesse, che razza di persona fosse diventata o se fosse in salute piuttosto che storpia!
D’altronde lei stessa non che se ne fosse interessata più di tanto, a parte una foto intravista una sola volta, prima che sua madre la strappasse ed incenerisse, con un gesto teatrale che la diceva lunga, nel fuoco.
D’allora Sarah si era rifiutata di rispondere a qualsiasi domanda in merito e, man a mano che passavano gli anni e che lei realizzava appieno la valenza dell’insofferenza materna contrapposta all’indifferenza paterna, aveva cominciato a rifiutare a priori ogni cosa avesse a che fare con il suo papà.
Tutto ad un tratto invece, a coronamento d’una serie d’eventi uno più increscioso ed assurdo  dell’altro, chissà se per una coincidenza, o se per un preciso volere del Conte, e conoscendolo protendeva decisamente verso questa ipotesi, ora stava per diventare concittadina di suo padre. Prospettiva singolare, visto che costui sarebbe dovuto essere una guida e un esempio, ma che  difatti era semplicemente un estraneo, un nome inizialmente pronunciato con curiosità e poi, in  definitiva, con odio sempre più crescente.
Per fortuna non c’era necessità di averci contatti, anzi l’esatto contrario, il che ben si accordava con  gl’intenti e il pensiero del Conte Roelf van der Post, decano della famiglia, suo tutore, amato e  temuto nonno. Forse in quel momento era  solo lui, l’autoritas che da sempre aveva regolato la sua  vita, ad  essere l’unico punto fermo che le restasse, poiché, dal momento in cui sarebbe scesa da  quell’aereo, la sua vita avrebbe avuto una svolta determinante verso un’indipendenza troppo a lungo agognata.
Ché non sarebbe stata più oppressa dai docenti del collegio che fin lì l’avevano limitata, finalmente  avrebbe potuto emanciparsi, anche se non del tutto purtroppo, dalle soffocanti tradizioni e dalle  rigide forme impostale dalla posizione del suo casato, cui la rendevano una delle ultime  aristocratiche di Germania e dunque soggetta a determinati protocolli in auge ormai solo nelle rappresentazioni da operetta. Ché neppure le cosiddette famiglie regnanti, vuoi quella inglese o quella monegasca, con tutti gli sputtanamenti e corna che si facevano tra loro e che regolarmente venivano riportate sui giornali, si sognavano si sottostare a certe convenzioni retrive.
Ma il Conte non transigeva, né lei era Lady D, quindi le toccava di sottostare a quell’educazione di stampo prussiano, anche se quella parziale autonomia concessale era decisamente nello stile che spettava ad una van der Post.  Il che voleva dire che avrebbe frequentato un prestigioso liceo, che  come domicilio avrebbe avuto un appartamento sito in un antico palazzo ottocentesco nel centro storico della città, oltre al fatto che per il suo mantenimento il Conte aveva corrisposto un cospicuo appannaggio mensile.
Davvero niente male come inizio, non sembrava affatto una penitenza sotto questi allettanti punti, eppure la percepiva come tale, altrimenti, perché tra tanti luoghi mandarla dove prima o poi avrebbe potuto imbattersi in suo padre? Senza contare che, se aveva strepitato tanto, era proprio perché avrebbe voluto condurre un’esistenza meno pomposa, più appartata, lontana da quell’esteriorità che ultimamente aveva preso a pesarle tanto e che, a volte e sempre più frequentemente,  temeva di non poter reggere ancora a lungo.
Inoltre c’era un altro dato che non deponeva a favore di tutta questa situazione. Una nuova scuola infatti significava pure che avrebbe dovuto socializzare e, per la verità, era decisamente restia a fare  nuove amicizie. Le bastava la sua vecchia amica Claudia Contro, da sempre sua granitica e  infaticabile oppositrice, il resto rasentava lo zero assoluto.
Amici? Per la verità poco le interessava intrecciare legami di cameratismo con quanti avrebbe incontrato sulla sua strada, giacché il suo sentirsi diversa rispetto a loro aveva una valenza che poco aveva a che fare con il classismo inculcatole fin dalla prima infanzia. Di fatto, in fondo, lei  era il risultato del connubio tra ovaie ariane e lombi italici, quindi la sua ritrosia era dovuta più che altro alla radicata consapevolezza di non poter essere assolutamente in sintonia con chicchessia. No, per scuotere la sua naturale riluttanza, era convinta sarebbe dovuto occorrere un individuo speciale, una persona talmente sopra le righe e paradossale, così ai suoi estremi, da poterla scuotere da ciò che era l’ordinario andazzo. E, per trovare una simile perla nel letamaio, necessitava una fortuna che  non riteneva possedere, giacché tutta quanto la somma dei suoi legami personali fin lì era stata un vero calvario.
Beh certo, c’era anche una punta di snobismo nel suo ragionamento, ma pensava fosse poco e giustificabile, del resto, essendo l’unica erede di un patrimonio immenso e di un titolo nobiliare  perpetratosi per secoli, pensava fosse quantomeno inevitabile. Anche perché non si trattava soltanto di questo e sarebbe stata  ingiusta verso sé stessa se l’avesse pensato, ché Alexandra riteneva di conoscersi abbastanza bene ed era fortemente persuasa che un simile atteggiamento scaturisse soprattutto dal radicato disgusto che le suscitavano gli stupidi e i mediocri, i quali, ahimè, risultavano essere la maggioranza assoluta della popolazione.
In tutti i modi questo non era  il momento, né il luogo, per dibattere su questo fatto. Ce ne sarebbe stato d’avanzo di tempo per farlo, quindi relegò il problema e, sporgendo la testa verso l’oblò, si rese  conto che ci mancava poco per giungere a destinazione. E lei? Quando sarebbe giunta alle considerazioni finali? 
Partendo si era lasciata alle spalle un contesto familiare che, una volta tanto, aveva avuto il potere di stupirla, ché incredibilmente, alla notizia della sua espulsione da Le Rosembourg, non  c’erano state  tutte le reazioni prevedibili. Sua madre, naturalmente, era diventata una furia e, tanto aveva urlato, che sul serio aveva temuto le venisse un coccolone da un momento all’altro. Fortunatamente Sarah era molto più coriacea di qualsiasi arrabbiatura, il che si era tradotto in un sermone furibondo   punteggiato da recriminazioni e minacce nient’affatto velate.
“E’ la seconda scuola da cui ti fai cacciare!”
L’aveva accusata fulminandola con un cipiglio tremendo. “Che cosa stai cercando di dimostrare eh? Dove credi d’arrivare comportandoti in questo modo?” Aveva concluso aspettandosi da lei una spiegazione esauriente, ma siccome Alexandra aveva il fondatissimo sospetto che, seppure avesse tentato di spiegarglielo una mezza dozzina di volte, sua madre non sarebbe mai stata in grado di capire, si era limitata ad alzare le spalle con indifferenza. Cosa che aveva definitivamente seppellito qualsiasi speranza di dialogo, anche perché Sarah, esasperata dal suo gesto di chiusura, aveva girato i tacchi e se n’era andata sbattendo pesantemente la porta. Probabilmente per andare a manifestare il suo biasimo alle orecchie paterne, nella certezza che lui fosse il solo che potesse darle una raddrizzata.
Convinzione che lei Alexandra condivideva ampiamente, tant’è che si era aspettata una dura lezione del Conte. Già si figurava la scena, come ouverture il solito, lunghissimo, discorso sull’onore della famiglia, che con il  suo gesto sconsiderato aveva compromesso. Dopodiché le avrebbe illustrato cosa c’era  d’aspettarsi da lei come unica depositaria del prosieguo della discendenza dei van der Post, e per finire, che quella  sarebbe stata l’ultima volta che le permetteva di toccare il fondo, poiché,  d’ora innanzi, le avrebbe reso la vita  estremamente dura.
Il che,  avrebbe aggiunto mentre sceglieva il frustino adatto al tavolo dove li teneva in bell’ordine, non perché gradisse impartirle punizioni, quanto al fine di farle intendere appieno, e una  volta  per  tutte,  come  avrebbe dovuto comportarsi un’aristocratica.
Dopodiché, senza ulteriori indugi né sollecitazioni da parte dell’uomo,  si sarebbe chinata a novanta gradi e suo nonno le avrebbe somministrato una bella reprimenda a base di scudisciate, ché anche quella era una tradizione di famiglia.
Invece, con suo immenso stupore, Roelf non l’aveva convocata in biblioteca, stanza che solitamente aveva la stessa funzione del prato davanti alla Bastiglia, né l’aveva sottoposta ad altre umiliazioni.  
In verità il Conte, com’ebbe a confidare a sua figlia, mentre questa continuava a concionare sul comportamento impossibile della ragazza,  non si era meravigliato troppo di quel che era successo.
“Me l’aspettavo da un pezzo.” L’aveva interrotta secco innanzi alla velata accusa di star giustificandola. “Alexandra è rimasta a Le Rosembourg quasi quattro anni. Un vero record, considerata la sua irrequietezza.” Aveva aggiunto imperscrutabile mentre Sarah, attonita, con  livore  mal  represso, aveva replicato:
“Sei sempre stato esigente con lei, molto più che con me, il che è tutto dire! Ci hai modellato entrambe su di un modello di rigore e, ora che dovresti riprenderla più che duramente, la giustifichi?”
“So quel che faccio.”  Con piglio autoritario, irritato dalla palese impertinenza, nonché continua opposizione di sua figlia, repentino l’aveva messa duramente al suo posto. 
“Conosco tua figlia meglio di te Sarah e, anche se capita raramente da queste parti, non ci vuol poi tutto questo acume per accorgersi della sua insofferenza. E’ stufa, irrequieta. Certo, per palesarlo non  aveva bisogno di spandere i denti di un suo professore sul pavimento, e per questo atto la censurerò  senz’altro. Ma per il resto credo di poterla, se  non  giustificare, almeno  capire.”
Detto ciò aveva fatto una pausa per riflettere, come se ancora volesse ponderare sulla  decisione che già da tempo aveva preso. Risoluzione della quale non aveva ritenuto opportuno mettere a parte Sarah e non tanto per il peso ininfluente che esercitava sull’educazione di sua figlia,  quanto per problemi  puramente logistici. Infatti questa viveva ad Hannover e solo in occasione delle feste comandate, o quando un evento importante si profilava, la famiglia si riuniva. Per questo motivo
Roelf riteneva che fosse del tutto inutile perder tempo in lunghe discussioni telefoniche, meglio esser pratici e comunicarle il tutto vis a vis.
“Spesso mi sono chiesto come assicurare, al di là di ogni dubbio, alla nostra stirpe un futuro illimitato. Di conseguenza, altrettanto di frequente mi sono interrogato su ciò che è meglio per Alexandra. E’ nelle sue mani infatti la continuità di tutto quanto i nostri avi hanno significato, ed io stesso rappresento.”
Posto questo preambolo il Conte si era avvicinato alla finestra e aveva lasciato che lo sguardo gli spaziasse sui possedimenti della loro avita tenuta. Innanzi a lui si stendeva una vasta distesa di verde, tutte le sfumature e le tonalità di questo colore si affastellavano nel parco fino a confondersi con le prime propaggini della Foresta Nera. La leggenda narrava che nelle vene dei van der Post scorresse il sangue di Arminio e Roelf non sapeva se fosse vero oppure no, pure, ogni volta che guardava quelle selve, sentiva nascere in lui un tumulto potente, quanto mai vago certo, ma forte, d’appartenenza alle sue radici. E non poteva permettere alla sua unica erede di contravvenire alla voce del sangue e della consuetudine. Per cui almeno per stavolta sarebbe stato permissivo, ché giovava di tanto in tanto foderare il pugno di ferro con un guanto di velluto.
“Ho valutato pro e contro di ogni possibile alternativa, e alla fine ritengo che la soluzione sia una ed una sola. Quindi per un certo periodo le consentirò di starsene per conto suo come desidera. Sono persuaso infatti che lontano da me e fuori dalle mura del collegio si evolverà. Sì, sarà un ottimo banco di prova  per capire se sono riuscito a cancellare definitivamente dal suo carattere le tracce delle indoli  mollicce e inutili di suo zio e di suo padre.” 
Aveva concluso deciso esibendo una piccola smorfia di disgusto alla menzione dei due, uno dei quali  era il suo primogenito.
“E voglio che vada in Italia, non è lontana, ma neppure troppo vicina, il che accontenterà le esigenze di entrambe le parti. Là avrà modo di mettere alla prova la sua tempra e, anche se l’idea mi sorride  poco, prima o poi incontrerà Giorgio Malaparte. Ja Sarah, voglio che lo conosca e dalla sua reazione  capirò con certezza se davvero è il successore di cui c’è l’esigenza.”
A questa chiosa Sarah non aveva raccolto la provocazione e aveva replicato calma, come se l’intenzionale accenno al suo ex marito, e peggio ancora a suo fratello, non  l’avessero affatto toccata.
“Se è questo quel che pensi sia opportuno, non mi opporrò. Per quel che varrebbe poi! Avevi deciso da un bel pezzo Domine, oggi hai solo ritenuto dovermene mettere al corrente.” Aveva aggiunto  amara, ben sapendo che non avrebbe potuto far nulla per convincerlo del contrario. “Con Alexandra sembrerebbe tu non abbia mai fallito un colpo e probabilmente t’ascolterà anche stavolta. Che dirti? Forse maturerà davvero nell’indipendenza, staremo a vedere.”
E questo era quanto avevano deliberato il Conte e Mather e ora eccola qui, finalmente disgiunta  dall’atmosfera claustrofobica delle torri medievali del collegio e dalla formale routine di Ranfield Hall.  Si accingeva a calpestare l’italico suolo ed era piena di curiosità, ma anche di tanto scetticismo,  innanzi a quel che l’aspettava. Eppure di una cosa era sicura, andasse come sarebbe dovuta andare, non avrebbe mai ceduto innanzi al suo avversario, chiunque questi fosse.
Cosicché, caricata a dovere la sua determinazione, non appena ebbe ritirato parte del suo bagaglio, il resto sarebbe arrivato poi, impaziente si diede a perlustrare tutto intorno in cerca di Claudia.  Questa invece l’aveva individuata subito e, appena Alexandra varcò i cancelli dell’uscita, le corse  incontro.
Erano entrambe raggianti e, stringendosi felici le mani, incapaci per il momento di articolare alcunché dal senso compiuto, restarono per un bel pezzo in quella posizione.
Del resto, per quanto riguardava Claudia, erano anni che attendeva questo momento, finalmente le era concessa la possibilità di trascorrere un tempo indeterminato in sua compagnia, senza lo spettro  d’una partenza imminente che sciupasse il piacere dei loro incontri.
“Ciao Alekòs.” Riuscì ad articolare infine e, senza neppure provare a resistere alla tentazione,  scombinandole i capelli sulla sommità del capo. “Benvenuta nella terra dei poeti, santi e navigatori. Mi sembri in forma, anche se un po’ dimagrita. Difficile il distacco da Le Rosembourg?”
“Con calma Clà.“ Rispose strizzandole l’occhio complice. “Non mi sembra il caso di parlarne  mentre c’è tanta gente nei paraggi.” Concluse accennando lievemente con la testa verso il padre di Claudia, al quale poi si rivolse con un cordiale: “Salve signor Contro, come va ?”
“Non male Alexandra.” Replicò questi ostentando familiarità, ma sotto, sotto un po’ innervosito. Poiché, d’accordo che la ragazza frequentava da anni la sua casa, ma restava comunque il suo futuro direttore generale, ragion per cui, il confine che divideva la confidenza dalla deferenza, era oltremodo esiguo. Sì certo non c’erano tracce della boria che contraddistingueva il Conte nel suo comportamento, tuttavia, sebbene Alexandra con molta nochalance sorvolasse sul palese, entrambi sapevano benissimo chi stava sopra e chi sotto. Quindi l’uomo badò bene a mantenere entro un certo limite la giovialità con la quale le si rivolgeva.
“Ben arrivata, spero ti troverai bene qui. Sai, non si vive affatto male da queste parti. Comunque toglimi una curiosità, sei cresciuta d’un altro mezzo metro dall’ultima volta che t’ho vista? Guardati,  sarai perlomeno sul metro e ottanta.”
“Qualcosa in più credo.“ Precisò sperando di smorzare gli ulteriori sviluppi ai quali quel dialogo poteva portare, ma la sua vaghezza non sortì l’effetto voluto, infatti l’uomo partì in quarta. 
“Chissà se mia moglie ti riconosce!“ Esclamò confermando all’istante le supposizioni della sua  interlocutrice e, considerato quanto gliene poteva importare ad Alexandra del parere della signora Contro, va detto a suo beneficio che perlomeno  tentò d’apparire  interessata  a quelle chiacchiere fatue. 
“Sai mia moglie è rimasta talmente colpita dal vostro ultimo dialogo che non fa che parlarmi di te.”
“Immagino, probabilmente avrete passato serate a non far altro.”
Ipotizzò meditabonda fissandolo in maniera talmente convincente che il suo non sembrò affatto un dileggio, ma se la sua faccia di bronzo convinse il padre, impressionò ben poco la figlia, ché Claudia sapeva piuttosto bene cosa normalmente carburava sotto quella chioma angelica e dietro quello sguardo fintamente meditativo, e non voleva che il genitore ne facesse le spese. Già, le ironie di Alexandra, seppur benevole, potevano essere tremende, quindi s’intromise tempestiva nella conversazione e invitò entrambi a darsi una mossa motivando il tutto con ragionevoli fattori.
“Andiamo Alekòs, se tardiamo ancora incapperemo nel traffico del dopo lavoro e, almeno per il momento, credo vorrai risparmiarti un bell’ingorgo a croce uncinata.” L’esortò con un’occhiata quanto mai significativa e ne venne ricambiata da una decisamente divertita, ma consapevole. Tanto che la piantò lì e lasciò all’uomo il monopolio della conversazione mentre attraversavano la tangenziale in direzione della città.
Giunti alla loro meta, una discreta villetta su due piani nella zona residenziale, Alexandra ebbe  appena il tempo di darsi una sommaria rinfrescata, poiché la famiglia al completo l’aspettava per  cenare. L’intera durata del pasto, che di certo non le fece rimpiangere la cucina svizzera, fu punteggiata dalle menate a fuoco incrociato dei coniugi Contro e dagli irritanti infantilismi dei due figli piccoli, lagne a cui non era affatto avvezza ma alle quali, per amor d’educazione e l’affetto che nutriva per Claudia, sorrise blanda per tutto il tempo. Inoltre, se tutto ciò non fosse stato abbastanza, mamma Contro, ad intervalli regolari, prorompeva in esclamazioni del tipo: “Ma come ti sei fatta carina!”, il che stava straziando oltremisura i suoi ormai doloranti timpani.  
Stoicamente sopportò e solo dopo un paio d’ore, che comunque le sembrarono un’eternità, di questa  maratona di cretineria lei e Claudia ebbero l’agio di ritirarsi di sopra. Ripararono nella stanza di  quest’ultima, un  locale ampio, ma completamente  stipato di libri e carte.
Finalmente potevano parlare a tu per tu e per la verità non ne vedeva l’ora, nondimeno Alexandra restava in attesa, poiché non le veniva facile dare l’avvio. Proprio non le riusciva, nonostante si conoscessero da anni e la loro amicizia avesse superato molte prove. Inoltre era da sempre Claudia a nutrire il fuoco dell’affiatamento, alimentandolo a base di domande opportune e, molto spesso, talmente impertinenti, che non si potevano affatto ignorare.
Così si distese supina, incrociando le mani dietro la testa, mentre Claudia le si accomodava  accanto prendendo la posizione del loto. Assunti i rispettivi e soliti atteggiamenti, entrambe tirarono fuori le sigarette e, accostandole alla fiamma dell’unica accendino, per poi inalare soddisfatte la prima boccata, con quel semplice gesto sembrarono sbloccarsi all’unisono e cominciarono a parlare contemporaneamente.
Come un fiume in piena, le parole traboccarono copiose e finalmente poterono dilungarsi nei dettagli, cominciando a riempire quel vuoto che durava da troppo. Conversarono precipitosamente, interrompendosi di continuo, perdendosi in parentesi sul perché e il percome di questo o di quell’argomento marginale, per poi tornare al pretesto che aveva dato origine a quelle divagazioni. Domande su domande s’incrociavano e si accavallavano sulle loro teste e le risposte, a volte sorprendenti, altre previste, alternativamente le facevano ridacchiare o fermarsi per un momento a rifletterci su, per poi riprendersi e sparare la bordata successiva che avrebbe soddisfatto quegli interrogativi che giacevano insoluti da tempo.
A notte fonda, quando ormai tutti, salvo loro, dormivano saporitamente da ore, Claudia tornò dabbasso con una cuccuma di caffè fumante e, piazzandogliene davanti una tazza corretta con un’abbondante dose di brandy, alla fine le pose la questione della quale più le premeva di sapere. Giacché sul fattaccio avvenuto a Montreux, fin lì Alexandra era stata piuttosto reticente.
“Allora teppista, stavolta perché t’hanno buttata fuori?” L’apostrofò riempiendosi la tazza e guardandola significativa.
“Routine.” Fu la replica telegrafica che ne ebbe. In effetti Alexandra stava tentando di prendere tempo, poiché  sapeva che l’altra  avrebbe disapprovato sia i fatti che il ruolo da lei svolto all’interno di questi.
“Davvero Alekòs, la stessa routine della Pileford Accademy?” Replicò soave ghignando. Al che, considerato quanto fosse una vera marpiona l’amica, e soprattutto, ritenendo effettivamente di non avere affatto nulla di cui vergognarsi, si decise a vuotare il sacco.
“Oh no, molto meglio, te l’assicuro. Almeno stavolta mi sono tolta la soddisfazione di suonarle ad un tizio che mi aveva proprio rotto le palle!” Affermò sorniona, soffiando, con un broncio molto ben simulato, uno sbuffo di fumo azzurrino. Poi, soddisfatta del tiraggio della sigaretta, attese la replica dell’altra. 
“Dai dimmi di più, ho la vaga impressione che sia molto peggio di quel che mi sto immaginando.” L’esortò Claudia scuotendo il capo nella pantomima dell’esasperazione. “Ho idea che alla notizia, come minimo, tua madre e il Conte ti avranno fatto ballare la giga.”
“Non più del solito Clà. Però Sarah s’è incazzata così tanto che stava lì, lì per avere una  gravidanza  isterica.”
Affermò con un espressione talmente singolare, un misto tra il costernato e il dubbioso, che Claudia pian piano passò da un blando ghigno ad una risata irrefrenabile. Era difficile resistere ad una sghignazzata come quella e compiaciuta Alexandra se ne lasciò contagiare, tanto che rincarò la dose: “Tutto questo, cara mia, sapendo solo una parte dei fatti. In caso contrario, a quest’ora avresti potuto contemplarmi solo attraverso un vetro divisorio, te l’assicuro.” 
 “Galera?” Ipotizzò porgendole la battuta.
“No, piuttosto il cristallo di una bara a vista!“ Ribatté scatenando l’ennesimo scoppio d’ilarità. Dopo un po’, quando ormai Alexandra si teneva lo stomaco e Claudia i fianchi, contratti da un crampo, alla fine questa, asciugandosi gli occhi, tentò di riportare la conversazione al punto in cui si erano interrotte.
“Coraggio, che hai fatto? Falla finita e dimmelo!”
“D’accordo.” Capitolò conciliante, ben sapendo a cosa sarebbe andata incontro una volta svelato l’altarino. “Ho picchiato Behan, il professore di chimica.”
“Tu cosa?!” Sbottò tornando all’istante seria. Ché se Alekòs aveva fatto una cosa simile, allora la situazione era più grave di quanto se l’era figurata.
“Non cominciare subito con la stura delle recriminazioni.” L’avvertì piccata, non le piaceva affatto l’espressione sgomenta, e parecchio contrariata, che l’altra esibiva. Accidenti, non voleva mica un altro processo alle intenzioni e soprattutto non tollerava che fosse la sua più cara amica a farglielo.
Quindi tentò di spiegarsi in qualche modo: “Sappi che non l’ho steso solo per il gusto di farlo, o  a causa di un diverbio erudito.”
“Chiaramente, su questo non avevo alcun dubbio. Come minimo ti avrà pescata di nuovo fuori dal  collegio a notte fonda e magari in qualche pub, sbaglio?” Chiese scotendo il capo e dandole un  buffetto dietro la testa.
“Sì sbagli, nel caso sarebbe stata una manna, credimi.” Ammise sospirando. “No Clà, stavolta non c’entravo niente con tutto quello che stava accadendo, sì certo, c’ero anch’io al festino che ha dato origine a tutto sto casino, ma la mia partecipazione era limitata. Insomma”, aggiunse consapevole di essere stata poco chiara, “le solite note si erano riunite nella stanza che dividevamo io e Fiona, c’era persino Leila e sai benissimo questo che vuol dire.” Sottolineò scoccandole un’occhiata significativa. “Tant’è c’erano pure un paio d’ochette del primo anno in cerca di emozioni, come se poi noi studentesse anziane fossimo state l’antitesi di tutte le pruderie! Ad ogni modo, stavamo drinkettando a base di vodka, accompagnandola con una robusta dose di maria libanese… che  fai Claudia, ti scandalizzi?” Fece notando che la bocca di quest’ultima che aveva assunto un ovale perfetto, quindi continuò salace, senza darle l’agio di replicare: “Non dovresti sai? Innanzitutto perché era una prassi, ma in special modo perché tutto il corpo amministrativo, docenti e personale, sapeva. Figuriamoci, scoperchiare sto vaso di Pandora non conveniva a nessuno! La principesca retta di fine mese li  avrebbe fatti passare sopra qualsiasi cosa, purtroppo per me però, la sera di cui parlo non poterono proprio ignorare la baraonda che si creò. I problemi cominciarono quando quella debosciata di Leila  e quelle dementi di matricole, completamente sbronze, oltre che strafatte, si misero a giocare a poker  strip. Da lì fu un attimo che Leila saltò addosso alla prima che si trovò a portata di mano. Le altre,   bontà loro, erano talmente alleluia che furono più che appagate dal semplice fatto di starsene lì a  soddisfare i loro impulsi voyeuristici. Quanto a me, che ero l’unica abbastanza sobria, volevo solo buttarle fuori prima che s’aggrovigliassero.”
Concluse con un eloquente gesto della mano, mentre Claudia, per l’ennesima volta, restava a  bocca aperta. Ché più Alekòs andava avanti nel suo racconto, più il suo stupore cresceva. Certo non era una mammoletta, sapeva benissimo che negli internati femminili, come in quelli maschili del resto, simili episodi potevano accadere. Ma da quel che stava sentendo, pareva proprio che Le Rousembourg fosse diventata la novella patria delle adepte di Saffo. Già in passato l’amica aveva accennato a quanto le alunne più grandi fossero attratte da lei, ma si trattava di un discorso fatto quasi un lustro prima, quindi l’aveva ritenuta una faccenda sporadica. Invece così non era, anzi, a quel che aveva appena sentito, era chiaro di quanto si fosse evoluta vieppiù.
Il guaio è, pensò accendendosi l’ennesima sigaretta e guardando furtivamente l’altra, che davvero non so Alekòs come si ponga rispetto alla situazione.
Intanto Alexandra aveva ripreso  a parlare.
“Purtroppo per me non ne ebbi il tempo e proprio in quell’istante entrò Behan. Pare fosse stato attratto dai rumori, e credo proprio che quando spalancò la porta rimase ben poco sorpreso. Sai”, aggiunse grattandosi la testa tentennante, “negli ultimi tempi non è che avessi una buona nomea tra i  professori.”
Detto questo si rabbuiò visibilmente, tanto che Claudia preferì esternare la domanda che aveva sulla punta della lingua fin dall’inizio. 
“Alekòs, sicura che non c’è qualcos’altro che dovresti dirmi?”
“No.” Replicò lapidaria fissandola dritto negli occhi, occhiata che Claudia sostenne col massimo della costanza. “Lì dentro non mi sono scopata nessuna, se è questo che volevi sapere.” Aggiunse sfidandola a dir altro, ma Claudia capì immediatamente che se aveva cara la sua amicizia doveva lasciar cadere l’argomento. Era chiaro che aveva toccato un tasto dolente e che l’amica aveva in merito una coda di paglia grossa così, e proprio per questo era più saggio scegliere la via del silenzio. Quantomeno per il momento.
Alexandra invece, con estrema sollecitudine, riprese le fila del suo discorso, allo scopo, neanche troppo nascosto, di non darle modo di rintuzzarla nuovamente a quel dannato proposito.
“Comunque, quando quel  buzzurro s’introdusse all’interno, urlando come un ossesso, quel che vide fu così inequivocabile che le mie ospiti si diedero istantaneamente alla fuga. E mentre loro fuggivano poppe al vento, ovviamente quel tanghero se la rivalse con me. Mi prese per la collottola e aveva tutta  l’intenzione di schiaffeggiarmi, secondo te che dovevo fare, farmi prendere a ceffoni pur non avendo colpa?”
“Ma neanche per sogno, è ovvio che ipotizzare altre soluzioni sarebbe stato del tutto inutile. Oppure ti ci sarebbe voluto troppo tempo per pensarci.” Replicò Claudia scialando abbondantemente quanto a sarcasmo.
“Avrei voluto vedere te!” Sbottò spazientita per la palese ingiustizia, ma accidenti, che pretendeva? Va bene, aveva sbagliato, ma col senno di poi l’avrebbe rifatto, in quanto sapeva e sentiva di essere comunque nel giusto. Tuttavia tentò di mediare.
“D’accordo, d’accordo, forse non avrei dovuto tirargli il mio miglior destro, magari avrei dovuto almeno provare a spiegarmi prima di fargli saltare entrambi gl’incisivi... Eppure Clà, sai qual’era la cosa più comica?” Chiese d’improvviso sfoderando un sogghigno picaresco al quale era difficile resistere e prendendo a ridacchiare gaia, per poi rispondersi da sé senza attendere l’eventuale replica dell’altra. “Vederlo carponi mentre cercava di recuperarli! Stavo là a ridergli in faccia mentre lui s’affannava tutt’intorno nella sua vana ricerca!”
“Il che certamente non avrà migliorato la tua situazione.”
“Vero, infatti se ne andò incazzato da morire, per tornare dopo poco con  il  preside alle calcagna,  il quale,  davanti a prove  così evidenti, tipo i denti mancanti del suo sottoposto, o i vestiti che quelle imbecilli non s’erano preoccupate di riprendersi, per non parlare delle bottiglie sparse dappertutto, non poté far altro che  espellermi. Inoltre, per soprammercato, puzzavo d’erba peggio d’un boliviano clandestino. Era dispiaciuto però, temo che gli mancheranno le donazioni che ogni anno il Conte gli snocciolava.” Concluse con un’alzata di spalle, quindi si adagiò nuovamente sui cuscini considerando chiuso il confronto. 
“Vedo che la cosa ti diverte.”
Commentò Claudia pacata. Ché, ascoltando il finale rossiniano di quella sorta di farsa, aveva avuto tutto il tempo di recuperare la presenza di spirito atta a tentare di farla ragionare. In verità era preoccupata, quella storia presentava alcuni punti oscuri che l’amica non  s’era peritata di chiarirle. Oppure era solo un’impressione la sua? In ogni caso era meglio cercare di  darle un monito che potesse moderare il suo temperamento in futuro, giacché nella loro comune  scuola non poteva mica combinare un altro casino simile.
“Sai Alekòs, mi chiedo quando ti deciderai a piantarla, forse ti è sfuggito sorella, ma a breve sarai maggiorenne. Ma vedo che l’idea di cominciare a mettere la testa a  posto neanche ti sfiora!”  
“Che palle Clà! In fondo non è la prima volta che finisco in strada, quindi fammi la cortesia, le filippiche lasciale ad altri.” L’esortò tentando di minimizzare. Non aveva affatto voglia di tornarci su e un conto era doverne discutere e giustificarsi con la famiglia, ben altro essere costretta a farlo con colei la quale aveva sperato avessero potuto riderne e basta. 
“E’ proprio per questo che te lo dico.” Fece accorata ravvisando l’aria chiaramente delusa dell’altra. Accidenti, non voleva essere molesta e neppure bacchettona, per cui provò a spiegarsi con più calma. “Onestamente è un po’ di tempo che faccio fatica a capirti. Sei strana e di conseguenza mi tocca andare a tentoni, spesso sbagliando.”
“Ipocrita e mendace!” La sfotté sollevata dal fatto che quella sorta di paternale non era dovuta al biasimo, bensì all’affetto. “Come se negli anni m’avessi considerata nient’altro che normale! Su, vecchia mia, molla l’osso, sai benissimo che non sono stata mai un modello di tranquillità, quindi perché non spegni quell’accidenti di luce e vediamo di farci qualche ora di sonno?”
“Okay.” Capitolò smorzando l’interruttore e ficcandosi a letto. Ma non resistette che qualche minuto.
“Alekòs?”
“Uffa!”
“C’è ancora una cosa che vorrei dirti.”
“Dai.”
“Mi raccomando, quando farai il tuo ingresso nella nostra scuola cerca di non farti classificare subito  per quel che appari  e non sei.”
“Che cavolo vorresti dire con quell’appari?”
Improvvisamente la stanza si rischiarò a giorno mentre Alexandra balzava dal suo letto a quello dell’amica. Con due dita le arpionò l’orecchio ed esclamò:  “Dì un po’ non starai mica pensando ancora a quello? Sul serio credi che me ne vada in giro ad  importunare le verginelle?!”
“Me l’hai detto tu prima che non godi di una reputazione troppo buona.” Rispose ilare accalappiandole il naso nella medesima morsa e, mentre erano strette in quella sorta di scherzoso abbraccio, si risolse a dirle quel che prima non aveva azzardato.
“Vorrei solo darti una mano idiota! E visto che ci siamo, parliamone. Se non ti va di raccontarmi di quel che stai combinando mi sta bene, ma sappi che la tua apparenza  può risultare equivoca e, ad una pettegola o un pettegolo, che sono pure peggio, non ci vuol nulla ad appiccicarti addosso un etichetta indelebile che tuo nonno ti farebbe scontare con le pene dell’inferno.”
“Cazzo come sei sollecita Clà!” Esclamò mollandole l’orecchio per farle una cravatta astringente. Scherzava, ma neppure tanto. “E chi m’insegnerebbe a diventare un compito modello di femminilità, tu forse? Nel caso sembrerei comunque un gufo occhialuto e molto intellettuale di sinistra!”
Claudia sogghignò enigmatica al paragone, ma soprattutto all’indirizzo di sé stessa, ché aveva colto perfettamente nel centro. E per il momento si disse che poteva bastare, in fin dei conti non era  necessario stuzzicarla più del dovuto. Sì, più in là avrebbe avuto modo di appurare se in qualche  modo le sue apprensioni fossero fondate. Quindi smorzò notevolmente i toni, facendole intendere  d’aver  frainteso  completamente.
“ Ehi tonta, l’apparenza alla quale mi riferisco è quella da tossica. Sei magra da far paura e pallida peggio di una salma, io lo so che non sei un’eroinomane, tanto meno un’anoressica fissata, ma nel nostro liceo potrebbero pensarlo in molti. Per cui, fatti un favore: almeno per i primi mesi evita di cacciarti nei guai o in situazioni anomale, intesi?  Fuori di lì fai quel che ti pare, fuma, bevi, sniffa, menati con i camionisti, vestiti sadomaso, scippa le vecchiette, tocca il sedere ai passanti, bestemmia, insomma  fai quel che più t’aggrada, ma fuori ti prego.”
“D’accordo rompicoglioni, proverò ad ascoltarti. Però ricordati una cosa, sono le grane che vengono a me e non il contrario. E poi, chi me lo dice che nel tuo convitto di sante e beatificati non ci sia  qualcuno che si comporta peggio di me? Vero che in certe situazioni agisco come se fossi fuori di  testa, ma non esagerare, non sono mica il diavolo.”
“Ah no eh? Staremo a vedere.”


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Capitolo 3
*** 2 ***


 

Mancavano ancora una dozzina di giorni alla riapertura delle scuole e Alexandra ne approfittò per impegnarsi in molteplici attività, non ultima quella di migliorare il suo italiano, il quale, sebbene fosse abbastanza buono, conservava intonazioni eccessivamente auliche per essere scorrevole come avrebbe dovuto. Inoltre il suo accento tedesco risultava piuttosto marcato,  tanto che Claudia le impose di leggere ad alta voce libri e giornali mentre via, via la correggeva. Un’attività che impegnò loro parecchie serate, risultando un imprevisto deterrente alla noia, in quanto l’esercizio si trasformò rapidamente in un piacevole passatempo, visto che lo studio veniva inframmezzato da molteplici chiacchierate e pause per prendere il caffè.  

Raus, raus fraulen!

Motteggiava Claudia sfottendola quando si bloccava incerta su di un congiuntivo ostico e per tutta risposta Alexandra replicava, facendole il saluto militare, enfatizzando uno stentoreo: Jawoll!

Naturalmente il problema linguistico non era la sua unica occupazione, di regola era già fuori dal letto alle sette per andare a fare jogging lungo la costa. Amava il mare, la cui vista per tanto tempo le era stata preclusa, e appagata si crogiolava nella  frizzante aria salmastra. In seguito, dopo essersi abbigliata in un modo che in collegio non le sarebbe stato mai consentito, sebbene si trattasse di un jeans sovrastato da una semplicissima t-shirt, girava per la città allo scopo di farsi un’idea del centro urbano e familiarizzare con quell’ambiente così diverso da quello a cui era abituata. Pranzava frugalmente, evitando sistematica i locali alla moda a favore di un sandwich da consumare nel parco, per poi ammazzare il tempo fino a sera andando a cavalcare o semplicemente guardando le vetrine che esponevano i primi capi della stagione autunnale. Cosa che le ricordava che quanto prima avrebbe dovuto rinnovare il suo guardaroba, poiché finalmente poteva mandare in malora la pletora tutta del suo  abbigliamento formale.

Quest’andazzo andò avanti finché  non  arrivò il giorno del suo debutto scolastico, avvenimento che per la verità non l’emozionava più di tanto, infatti come di consueto si  alzò e andò  a correre, anche  se  un po’ prima del solito. Una volta a casa si lavò e  vestì  con noncuranza e, dando gli ultimi colpi di spazzola alla folta chioma, osservò spassionata  la sua immagine riflessa meditando sull’impressione che avrebbe dato.

Si esaminò da capo a piedi scevra da qualsivoglia presunzione, finché ne concluse che esteticamente poteva ritenersi immune da imperfezioni e che, al di là del piacere o meno,  risultava comunque un bell’esemplare umano.

Forse, pensò mettendosi di profilo e osservando perplessa la silhouette del naso e della mascella, l’uno era un po’ eccessivo e l’altra decisamente squadrata, ma essendo la totalità della sua fisionomia marcata, nell’insieme non apparivano troppo pronunciati.

“Beh, togliamoci il pensiero.”

Concluse, a metà strada tra il serio e il faceto, infilando la porta e buttandosi la cartella su di una spalla. La scuola non era troppo lontano dal suo appartamento, tanto che se ne scorgeva la sommità. Stava procedendo ad andatura svagata, presa com’era dall’osservazione della costruzione imponente che man a mano si rivelava, ed era quasi arrivata al cancello d’entrata, quando  una bici in corsa rischiò di travolgerla. D’istinto scartò di lato, rovinando  atterra, mentre l’incauto ciclista terminava la sua corsa sul solido muro di cinta.

Mein gott!“

Imprecò scuotendo il capo ancora sorpresa dall’accidenti che le era capitato addosso, quindi si voltò a fronteggiare il suo investitore, per rendersi conto sorpresa di non trovarsi innanzi ad un motociclista spericolato come aveva immaginato, bensì ad una normalissima bici da passeggio. Al che le venne da ridere, poiché, per un’appassionata di sport estremi quale lei era, rischiare di finire con l’osso del collo spezzato per via di una comune bicicletta, sarebbe stata una bella beffa.

“Che mi dannino!”

Esclamò avvicinandosi a rapidi passi verso la figura che giaceva scomposta sul selciato e, notando i piedi calzati da ballerine, nonché una gran massa di capelli scuri, ne dedusse sollevata che quell’alterco non si sarebbe concluso con una scazzottata, a meno che l’incauta ciclista non fosse a caccia di rogne. Per il momento non sembrava, in quanto era occupata a raccogliere il contenuto della sua borsa che s’era sparpagliato tutt’intorno, ma al suo approssimarsi sbottò stranita:

“Accidenti, perché non fai attenzione a dove metti i piedi?”

Stupita da tanta faccia tosta Alexandra non replicò subito, preferendo attardarsi ad accendersi una sigaretta mentre osservava incuriosita quell’estranea che, sebbene fosse palesemente nel torto marcio, aveva pure l’ardire di rivolgersi in quel modo a lei. Intanto la sconosciuta, conclusa la sua cernita, le piantò addosso uno sguardo dai toni bruni come una tazza di cioccolato caldo e continuò a strepitare.

“Si può sapere che diavolo stavi cercando di fare piantata giusto in mezzo al viale?”

Per tutta risposta, stupendo persino sé stessa la benevolenza del gesto, Alexandra le tese la mano tirandola su senza alcuno sforzo, tanto questa era leggera, quindi lievemente ironica si diede la pena di risponderle.

“Aspettavo che una nana su una bici tre volte più grande di lei mi tirasse sotto!”

Fece squadrandola da sotto in su, giacché, adesso che si fronteggiavano, la differenza era notevole. In effetti al suo cospetto appariva ulteriormente minuta, oltre al fatto che i suoi colori chiari stridevano con la carnagione zingaresca che aveva davanti.

Inoltre, pensò Alexandra viepiù interessata da quest’aspetto inconsueto, non che fosse  brutta, ma neppure la quint’essenza dell’avvenenza. Di certo non si sarebbe fatta notare in mezzo alla gente, pure se ne stava lì a fissarla senza riuscire a risolversi ad andarsene. Né questa pareva ne avesse intenzione, la stava sottoponendo al medesimo scrutinio infatti, quantunque di sottecchi, mentre si spazzolava la giacca sbaffata di polvere di gesso.

Per la verità, essendosi presa una bella paura, Lara aveva reagito involontariamente all’imprevisto, ma ora che aveva realizzato la dinamica dell’accaduto, per riflesso titubava alquanto e non sapeva come superare l’impasse. Le spiaceva proprio averla assalita a quel modo e spontaneamente le fece un sorriso imbarazzato, fidando sull’istintiva simpatia che solitamente suscitava.

Neppure Alexandra parve risultarne immune, ciò nonostante ritenne fosse il caso di mettere i puntini sulle i.

“Senti, ero di spalle e non potevo certo vederti, ma tu sì.”

Puntualizzò accennando ironicamente alla bici che dopo l’impatto risultava sbilenca, in effetti aveva la forcella completamente storta, e sulla stessa falsariga continuò: “Chi ti ha messo in mano quest’arnese avrebbe dovuto metterci un paio di freni in più, oltre che delle rotelle. Comunque, ti sei fatta male?” Si degnò di chiederle infine e, ricevutone un segno d’assenso, fece per incamminarsi ma Lara la trattenne.

“Mi spiace, scusami.“ Rispose conciliante. “Posso offrirti un caffè per farmi perdonare? Stanno per arrivare i miei amici, si potrebbe andare tutti insieme.”

Propose invitante senza poter immaginare che, se solo avesse evitato d’includere altre persone, Alexandra avrebbe accettato volentieri. Invece non appena intese che le sarebbe toccato d’interagire con quello che considerava un eccesso d’individui, piuttosto che la confidenziale conversazione a due che avrebbe preferito, si ritrasse in tutta fretta.

“Magari la prossima volta.”

Replico lasciandole volutamente aperto uno spiraglio, poiché, e dio solo sapeva perché, quella cozza nera aveva qualcosa che l’impediva di chiuderle tutte le porte. Ridacchiò, a dispetto di sé stessa e di tutti i propositi che s’era fatta in precedenza, e facendole un segno di saluto si avviò verso l’ufficio scolastico per appurare in quale classe fosse finita.

Lara restò a fissarla assorta, ma non ebbe l’agio di formulare alcun pensiero poiché in pochi istanti fu raggiunta da due dei suoi più cari amici, i quali da lontano avevano potuto  assistere a tutto quanto era accaduto. La prima ne rideva, mentre l’altro appariva piuttosto  preoccupato.

“Ma che è successo?“

Le chiese ansioso fissando in malo modo la figura che s’allontanava adagio, ché lo sviluppato istinto di protezione che sentiva nei riguardi di Lara, nonché la vista della bicicletta deformata, non lo disponevano favorevolmente nei riguardi di quella, che a tutta prima pareva proprio avesse aggredito la ragazza di cui era innamorato.

“Nulla Luigi, è stato uno scontro inevitabile.”

Replicò quest’ultima misteriosa, sorridendo tra sé e sé. Cosa che aumentò notevolmente la latente antipatia che già cominciava a nutrire.  Si trattava di un sentimento a pelle, d’una avversione istintiva, viscerale, attecchita al vago ed inspiegabile timore che potesse sottrargli qualcosa. Poiché, quando Lara cominciava a comportarsi in un certo modo, significava che si stava intrigando e non gli piaceva affatto.

“Chi è?”

Si limitò a chiedere l’altra,  la quale, pur avendo rovistato nel vasto archivio delle sue conoscenze, non aveva trovato tracce della persona in questione. E va sottolineato che Steffi faceva il paio con l’anagrafe per la quantità di gente che conosceva, fosse pure solo di vista.

Per tutta risposta Lara scosse il capo, per poi farsi una bella risata, strizzarle l’occhio e aggiungere: “Non ne ho idea, ma intendo scoprirlo!”

Dopodiché i tre si avviarono verso la loro classe, ognuno animato da sentimenti contrastanti: Steffi era alquanto riottosa alla prospettiva di un altro barboso anno scolastico, Luigi invece s’era immusonito davanti all’ennesima amichevole infatuazione di Lara, mentre quest’ultima non vedeva l’ora di andare incontro a quanto la vita le riservava, poco importava di cosa si trattasse nello specifico.

Nel frattempo Alexandra, che aveva appurato di non essere nella stessa classe di Claudia, e si era diretta verso la sua con l’intenzione di dare un’occhiata in giro, favorita dal fatto che aule e corridoi apparivano ancora semideserti. Le classi si dimostrarono esattamente come se l’era aspettate, un po’ retrò, dalle finestre alte, i banchi sgangherati e le mura zeppe di scritte e graffiti  lasciati là a beneficio dei posteri. Ad ogni modo non si perse in preamboli e andò ad accomodarsi all’estremità della stanza nell’ultima fila, giacché le passate esperienze le avevano insegnato che inevitabilmente ci sarebbe finita.

Non passò tempo che cominciarono ad arrivare alla spicciolata altri studenti, i quali non poterono evitare di lanciarle più d’uno sguardo inquisitore. Non gli diede nessun peso e continuò ad attendere che gli eventi procedessero, persino quando si vide entrare Lara in classe e si scambiarono un cenno di reciproco riconoscimento, anche allora continuò a restarsene impassibile. Quantunque la sua fosse tranquillità e non freddezza come poteva sembrare  suggerire il suo contegno.

Al suono della prima campanella arrivò un professore, forse quello di matematica stimò, valutandone l’atteggiamento sussiegoso, e non sbagliava perché iniziò immediatamente  l’ouverture del più tedioso discorso d’inizio d’anno che le fosse mai capitato d’ascoltare. Lungamente illustrò come, quanto e cosa li avrebbe attesi nei mesi a seguire, come pure quel che si aspettava in merito all’impegno e al rendimento di ciascun elemento lì presente. Fu solo dopo un paio d’ore, con grande gioia di tutte quelle menti votate allo studio, che  finalmente si decise a farla finita e dar luogo all’appello e,  quando arrivò al cognome van  der Post, Alexandra si tenne pronta per quel che ne sarebbe seguito.

“Sono io.”

Si presentò con semplicità, senza imbarazzi, alzandosi e incarnando,  inconsapevolmente,  tutto l’opposto di quel che avrebbe desiderato. Avrebbe voluto apparire neutrale e invece, ergendosi in tutta la sua altezza, evitando di far smorfie e restandosene immobile, risultò arrogante e piena di sé come un uovo.

“Straniera?”

Chiese il professore con uno sguardo, di evidente disapprovazione, al di  sopra degli spessi occhiali. Alexandra annuì e probabilmente commise un altro errore, in quanto questo impermalì ancora di più l’uomo, cui quella sicumera gli suggeriva tutti gli  elementi del classico piantagrane.

“Voce van der Post. E’ belga?”

Insisté severamente e questo mandò definitivamente a puttane la buona disposizione d’animo della nostra ché, d’accordo che se n’era venuta fin lì per cambiare vita e tentare di temperare gli eccessi del suo comportamento, ma Alexandra era pur sempre un’abbiente dai mezzi illimitati, nobile di nascita, nonché tedesca, il che voleva dire che si riteneva una persona superiore e, di conseguenza, nei suoi riguardi nessuno poteva usare un simile tono, fosse stato anche domine dei!

“Tedesca.” Assentì con un tono penetrante e continuò seccata: “E’ la prima volta che vengo in questo paese e ignoravo che per presentarsi fosse necessario urlare.”

“Se vuole può farsi un giro in presidenza tanto per cominciare, così magari si presenta anche col direttore, che ne dice?”

Davanti alla nient’affatto velata minaccia Alexandra stava per rispondergli di sì e che magari ci portasse pure sua sorella già che c’erano, poi però ripensò ai moniti di Claudia ed esitò. Dopodiché le sovvennero le restanti conseguenze alle quali sarebbe andata incontro imboccando questa china e capì di dover darsi una calmata, il Conte non sarebbe stato altrettanto tenero se anche stavolta avesse mancato.

“No.”

Ammise educatamente ma molto, molto a malincuore. Soprattutto quando si vide liquidare con un gesto infastidito, come se fosse poca cosa, un di più, per quell’insegnate che ne aveva fin sopra i capelli di studenti di bassa lega. E allora, presa com’era nella sua mortificazione, gliela giurò. A lui e a tutti quelli che avevano presenziato alla sua umiliazione, perciò, quando all’intervallo in molti le si accostarono per fare la sua conoscenza, gelò chiunque con modi e frasi sferzanti. E fu così efficace che persino i più arditi si scoraggiarono e nessuno, in capo ai successivi dieci minuti, ovverosia il tempo sufficiente per far comprendere  l’antifona, ritentò un approccio.

Tutti tranne Lara ovviamente, l’unica alla quale lo scambio di battute tra alunna e professore era sembrato strano e che aveva iniziato a nutrire dei seri dubbi in proposito a quanto Alexandra sembrava essere. Giacché la boria che aveva mostrata era inspiegabile, specialmente tenendo conto del comportamento avuto con lei appena qualche ora prima. E allora dove stava la realtà? Per scoprirlo non ci voleva molto, si disse, e diede il via all’approccio.

“Ehi Kaiser, ti ricordi di me? Ci siamo incontrate stamattina.”

Esordì con fare brillante, urtando vieppiù i nervi già tesi della sua interlocutrice la quale, in differente ed analoga situazione, sarebbe potuta essere cordiale, peccato che sul momento avesse solo bisogno di un bersaglio su cui sfogare tutto il suo malumore.

“Che vuoi?” La rimbalzò in malo modo.

“Non ti sarai mica fatta male prima?” Provò nuovamente cominciando a preoccuparsi,    dopotutto l’astio che le stava riservando poteva derivare da quello.

“Se pensi che un tappo come te mi possa fare del male, ti sbagli di grosso microbo!”  

“Ma chi ti credi di essere?” Proruppe Lara di rimando, innervosita da quel tono, ancorché non del tutto e ancora interessata ad averci una qualche forma di dialogo.

“Semplicemente qualcuno totalmente diverso da voi.”

Replicò lapidaria e fu tutto, benché l’inflessione usata, più che superba, a Lara parve rassegnata, come quella di chi soggiace ad un dato di fatto anche non volendo. Stava per farle una domanda in proposito, testardamente e recidiva, visto che era chiaro che Alexandra non aveva alcuna intenzione di darle spago, considerando l’argomento definitivamente chiuso, tant’è le voltò  le spalle e se ne andò in bagno a fumarsi una sigaretta di straforo.

Claudia la raggiunse dopo poco e  notò da subito l’aria adombrata dell’amica, ma continuò a fumare come se niente fosse. Solo una smorfia sotto i baffi tradiva la sua  consapevolezza e, qualunque cosa fosse accaduta, ne era soddisfatta. Già, se Alekòs  era  a tal punto alterata, voleva dire che qualcosa o qualcuno era riuscito a scalfire la sua  barriera e questo non poteva che essere un bene. Ma non ne parlarono, non era ancora il momento, anche se Claudia si augurò per l’ennesima volta che arrivasse presto.

Pia speranza e da quel giorno, e per gli altri che lo seguirono, fino a formare la prima settimana di lezioni, nessun altro si arrischiò ad attaccarle bottone. Naturalmente questo non impedì che la curiosità nei suoi  riguardi aumentasse, né che le notizie sul suo conto circolassero. Così,  tra una lezione di  storia e una di greco, si seppe che la van der Post abitava in un avito palazzo del centro storico e pure che aveva dei domestici che la servivano e riverivano. Informazione questa fornita dalla zia di un loro compagno di classe, che era appunto la portiera della gentilizia dimora. Pure, confermò la stessa perplessa,  nonostante ciò la ragazza era d’un educazione squisita e pareva adottare un profilo molto basso quanto a stile di vita. Insomma aveva tutti i marchi della grandeur, ma in sostanza, anche se avrebbe potuto permetterselo, assicurava la donna, non era una di quelle che  andava in carrozza e godeva a farcisi vedere.

Queste e tante altre erano le voci incontrollate che si diffondevano, a  pezzi e bocconi, su quella, ma chissà perché, quando sovente se ne parlava, tutti millantavano indifferenza, tuttavia tiravano fuori un udito straordinario. D’altro canto Alexandra non se lo diede per inteso, continuò a starsene per i fatti suoi, senza dar soddisfazione a nessuno, finché un Sabato questa stasi bruscamente s’interruppe.

Quel mattino era stata più taciturna del solito e, davanti ad un rinnovato e insistito invito da parte di Lara, se ne uscì con una frase sulfurea, talmente incendiaria che Luigi ci vide   l’occasione appropriata sia per difendere la sua protetta, che per darle una lezione. Davvero non la reggeva più quell’insopportabile straniera e adirato continuava a chiedersi perché mai Lara si facesse trattare a quel modo.

Dunque abilmente ne approfittò per offenderla e provocarla, le si piantò davanti in tutta la sua stazza e le diede della zotica, razzista e naziskin. Allo stesso modo, aggiunse come ciliegina sulla torta, di tutti i suoi grossolani compatrioti. Quindi estremamente pago, sentendosi un eroe ad aver compiuto il suo dovere mettendo a posto colei che instancabile aveva offeso con la sua arrogante condotta lui e tutti i suoi amici, ne attese la reazione. Tanto che poteva fare? Nulla, al massimo rispondergli per le rime.

Alexandra non si diede la pena, l’ignorò del tutto rovinandogli completamente il momento di gloria, per cui si vide costretto ad incalzarla alzando notevolmente il tiro.

“Non rispondi figlia del Führer? O l’aver capito che avete perso la guerra ti ha finalmente fatto mettere la lingua in culo?”

Neppure questo le fece battere ciglio, finì di ficcare i libri in borsa e continuò ad ignorarlo, poi il trillo della campanella annunciò il termine delle lezioni e finalmente si concesse di prestargli attenzione. Allegra, incredibilmente briosa dato il contesto, indicò col pollice l’esterno e aggiunse:

“La  sistemiamo fuori questa faccenda jong? Così potrai mostrarmi come hai fatto a vincere la  guerra!”

“Non alzo le mani sulle donne, io!”

Replicò fiero, generando l’ennesimo plauso collettivo di quanti stavano seguendo la lite dandosi il gomito. Alexandra non ci badò e si limitò a rispondergli disincantata.

“Oh, non temere jong, non sei capace neppure di fare la differenza. Io m’avvio, non mancare mi raccomando, se non venissi mi si spezzerebbe il cuore!”

Lo derise pacata, ché ce ne sarebbe stato di tempo dopo per  umiliarlo come si meritava. Dopodiché non stette ad attenderne replica, raccolse le sue cose e si avviò a passo sicuro verso l’uscita. C’era qualcosa nella sua andatura che infastidì enormemente Luigi, sembrava infatti che persino le movenze fossero studiate in modo da sottolineare la sua superiorità rispetto al resto del creato.  

La faccenda poteva anche spegnersi lì, con un niente di fatto, ma i presenti si riversarono fuori dall’aula per vedere se i due avrebbero fatto sul serio e Luigi, Lara e Steffi non poterono che seguirli. Quest’ultima poi spronava l’amico a dargliele di santa ragione, mentre l’altra li ascoltava preoccupata. Era ingiusto che si fosse arrivati a questo, soprattutto perché, per un inutile diverbio, Alexandra stava per finire con l’orgoglio calpestato davanti a quelli che potenzialmente potevano diventare suoi amici. Inoltre Luigi era grande e grosso, per soprammercato anche pugile, il che voleva dire che per Alexandra non c’era assolutamente speranza, persino se lui si fosse comportato da gentiluomo. Probabilmente, pensò contrariata dalla quella testardaggine manifesta, solo un impulso vanaglorioso e folle  l’aveva spinta a sfidarlo impune.

“Rompile il culo, così impara a dire stronzate a sproposito!” Lo stava incitando nel  frattempo Steffi tutta infervorata all’idea di vedere quella sbruffona col suo brutto muso irrimediabilmente rovinato.

“Le farò sputare sangue!”

Confermò il ragazzo convinto, poi però si voltò verso Lara e perse tutta la sua sicumera. “Che ne pensi? In fondo è con te che se la prende sempre.”

E se Luigi si stava aspettando sproni o riconoscenza, ne rimase deluso, Lara infatti era  decisamente orientata verso un rifiuto della violenza  e cercò di dissuaderlo.

“Lascia perdere, sarà anche antipatica, ma non dà noia a nessuno. A me non importa se  mi tratta male, in fin dei conti sono io che vado a cercarmela. Se ti risulta tanto fastidiosa non prenderla in considerazione e basta.”

“Per  te lo farei”, affermò lanciandole uno sguardo da agnello sacrificale, “ma guarda là.” Aggiunse indicandole Alexandra che l’attendeva nel cortile con un ghigno sarcastico stampato in faccia. “Non posso fare la figura del guappo di cartone per colpa sua.”  Concluse scansando il braccio della ragazza che tentava di trattenerlo e si avviò in direzione della sua avversaria che fumava tranquilla, come se niente fosse.

Uno spettacolo questo che lo lasciò costernato ed indeciso, davvero non se la sentiva di picchiare una donna, ma d’altro canto questa in particolare non gl’ispirava affatto l’abituale senso di protezione maschile, anzi ne incitava l’antagonismo. Inoltre gli dava l’impressione che non vedesse l’ora d’affrontarlo, aveva giusto l’espressione di chi ha una gran voglia di menare le mani, standosene in maniche di camicia mentre si sgranchiva il collo e non mostrava alcun timore.

“Allora jong, ti decidi o vuoi un invito scritto?” L’incitò senza aver bisogno d’alzare la voce  per farsi udire.

“No Lara“, si disse come se stesse ancora parlandole, “devo darle una lezione.”

Si liberò del giubbotto e le si parò davanti, Alexandra scagliò la cicca lontano e lo squadrò  valutativa. Costui era dotato di una corporatura da mediomassimo, ma questo notevole dettaglio non la impensieriva. Lo osservò alzare i pugni e cominciare a saltellare e senza scomporsi iniziò a farsi schioccare le dita della mano destra e poi della sinistra, sorridendo.

Irritato Luigi si spostò di lato compiendo un semicerchio e subito l’imitò facendogli il verso.  Un giro di danza a destra faceva lui, un giro di danza a destra gli replicava questa e quando il ragazzo sparò una leggera sventola Alexandra lo schivò senza modificare più di tanto la sua posizione.

“Ha esperienza!”

Pensò stupito, ma poi un fremito di gioia lo colse, poiché questo avrebbe reso la sua vittoria ancora più gradevole, ché annientare un’inetta sarebbe stato fin troppo facile. Giusta osservazione, ma quel che il ragazzo non poteva sapere era che Alexandra in effetti s’intendeva anche di pugilato, in quanto fin dall’infanzia era stata addestrata alla difesa personale. Il Conte infatti aveva ritenuto che un’arte marziale non solo le sarebbe stata utile in casi estremi, ma pure che sarebbe stata un ottimo strumento per disciplinarla, così la rampolla aveva appreso con profitto e dedizione le tecniche della boxe Tailandese. Inoltre, per non farsi mancare assolutamente nulla, la scherma le aveva fatto acquisire scatto e velocità, mentre l’occhio e la precisione le provenivano dal tiro con l’arco, senza contare la  resistenza infaticabile delle gambe raggiunta con l’equitazione. Insomma Alexandra era una vera e propria macchina da guerra, indubbiamente aveva meno forza del suo avversario, ma compensava in agilità, senza contare che Luigi era uso esclusivamente ai pugni, mentre lei non aveva che l’imbarazzo della scelta… ginocchia, piedi, gomiti, doveva solo scegliere.

Per cui, non appena questi provò un allungo di destro si trovò a colpire l’aria, ché il suo  bersaglio già non c’era più. Frenetico si voltò a cercarla, ma ne poté udire solo la voce. Proveniva da un punto imprecisato alle sue spalle, rapido si volse ma altrettanto rapidamente Alexandra gli si riportò a tergo.

“Dov’è che guardi pivello? Io sono qui.”

Lo chiamò sardonica e Luigi folle di rabbia cominciò a mulinare cazzotti nella sua direzione, ma incredibilmente nessuno andava a segno.  Dove doveva esserci cartilagine e ossa da spaccare trovava il vuoto o un’impenetrabile difesa, quella maledetta badava bene a tenersi coperti viso e fegato, sottraendosi alla portata pesante dei suoi pugni.  

Alexandra dal suo canto avrebbe potuto mettere la parola fine a tutta quella baraonda con molta rapidità, e onestamente non desiderava altro, ma quell’imbecille se l’era voluta, ergo era sua intenzione fargli sorbire l’amaro calice fino in fondo. Inoltre lo stava valutando come atleta, aveva una certa esperienza, glielo consentì e in una rissa da osteria avrebbe fatto furore, ma era rozzo e fin troppo lento per lei.  

E così l’attese continuando a difendersi senza colpo ferire, finché non azzardò un diretto   pieno di tutta la forza della rabbia che aveva in corpo e lì spietatamente lo colse. E Luigi,  sbilanciato e ancora concentrato sul suo colpo, non poté difendersi. Un jab maligno e rapido come una vipera ne aprì la difesa, dopodiché lo stordì con una combinazione veloce   di sinistro, destro, sinistro che lo costrinsero a chiudersi a riccio. Cosa che gli fece commettere l’errore di scoprirsi e il montante di Alexandra lo raggiunse al mento, barcollò stordito da un lato, ma venne subito rimesso in piedi da un gancio alla testa che lo mandò definitivamente in bambola. Eppure ancora tentò di reagire, ma lei non gliene diede opportunità, con due passi si fece indietro e, ruotando sul perno di una gamba, con l’altra gl’inflisse un calcio che gli spazzò le gambe facendolo sbattere pesantemente col la faccia atterra.

Qui s’arrestò attendendo che si rialzasse e lo vide asciugarsi incredulo un rivolo di sangue   che gli colava dal naso, adesso la bilancia pendeva da una sola parte e lo sapevano entrambi, eppure testardo riprese con i suoi saltelli, che ormai risultavano patetici.

Sì, pensò Alexandra nauseata da tutta quella storia che non aveva cercato, né voluto, potevano piantarla, ché questo giochetto non aveva più ragione di andare avanti. Pure volle concluderlo con un gesto spettacolare e prendendo la rincorsa, fino a darsi un leggero slancio, volteggiò su sé stessa, ruotando a mezz’aria nell’esecuzione di un calcio aereo che colpì esattamente dove aveva inteso affondasse. Fu un colpo di tallone e così ben assestato che Luigi sbatté nuovamente al suolo. Stavolta però non si sarebbe rialzato.

Interessata Alexandra andò a controllare i danni che gli aveva provocato e constatò sollevata di aver calibrato il movimento alla perfezione, in modo da  illividirgli il viso senza rompergli naso o i denti.

Levò il capo a fissare gli astanti, nessuno accennò a soccorrere l’amico, né nella totalità c’era qualcuno che avesse il coraggio d’affrontare i suoi occhi carichi di rimprovero.

Siete contenti ora? Avrebbe voluto chiedergli, ma sarebbe stato inutile, poiché lo sarebbero stati se con la testa nella polvere ci fosse stata lei, ovvio. Beh per lo meno adesso avevano tutti le idee più chiare nei suoi riguardi. 

Ora”, affermò richiamando nuovamente l’attenzione dei presenti, “chi altri ha da ridire su di me e sulla mia nazionalità venga pure. Ne parleremo insieme!” 

Nessuna risposta ribatté quella palese provocazione, per cui Alexandra non stette a perdere altro tempo e si allontanò accompagnata dagli sguardi ostili e dai suoi foschi pensieri. Era arrabbiata, non voleva arrivare a tanto, né ci aveva goduto ad infliggergli un castigo così drastico, ma quando il sangue iniziava a ribollirle nelle vene nulla poteva fermarla, neppure la brama di pace che l’aveva condotta a questi lidi.

Una fitta di dolore la colse alla spalla, ecco che la sua vecchia lussazione alla clavicola si faceva risentire e così, presa dalle sue meditazioni, massaggiandosi la parte dolente, se ne andò, dimenticandosi in un angolo la tracolla contenente i suoi libri. 

 

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Capitolo 4
*** 4 ***


 

 

 

Non ci tornò su che a sera e neppure allora lo fece intenzionalmente, ché per lei la pratica di quanto avvenuto a scuola era sta bella che archiviata nel momento stesso in cui il grugno del suo antagonista aveva toccato terra.

Non che ad Alexandra mancasse il senso del pentimento, o, bontà sua,  fosse immune dalle perplessità che postume assillano, tutt’altro. Solo che nel caso specifico riteneva che la situazione non meritasse ulteriori meditazioni e che quel tanghero avesse avuto esattamente quel che con tanta insistenza aveva cercato.

Inoltre aveva passato un pomeriggio tale che sarebbe stato un vero peccato sciuparselo simulando una contrizione del tutto fuori luogo. Già perché, potendo approfittare della superiore preparazione fornitole dall’avanzato programma d’istruzione del collegio da cui proveniva, lo studio non le aveva preso che un paio d’ore e quindi non aveva che da scegliere come impiegare il tempo che le avanzava. E andò a cavalcare naturalmente, giacché nulla le risultava più gradito della comunione che s’instaurava tra lei, il destriero che montava e il paesaggio circostante. Chiaro che una semplice passeggiata a cavallo attorno alla palizzata di uno spiazzo non le avrebbe consentito una simile catarsi, pure ancora una volta il distinguo che la rendeva dissimile da chiunque altro operava, cosicché il suo stallone era comodamente alloggiato nelle scuderie della tenuta vinicola d’un vecchio amico del Conte. Il che voleva dire che poteva galoppare a perdifiato negl’illimitati spazi oltre i viticci, acri e acri circondati da boschi, che molto le ricordavano il Bois de Boulogne.

Al punto che si ritrovò a canticchiare lasciando che Nemesis, il suo purosangue olandese dal manto nero come una notte senza luna, e alto un metro e mezzo al garrese, decidesse da sé l’andatura da tenere. E tanto parve gradire il morso allentato che optò per un trotto via, via sempre più martellante, dandole l’agio di seguire filo discontinuo dei pensieri, abbandonandosi ad innumerevoli sogni ad occhi aperti. In questo modo si godette appieno la pace che gliene scaturiva quando s’allontanava da tutto, da tutti, e restava sola con il suo sé essenziale.

Così facendo si ritrovò a ridosso del crepuscolo senza neanche accorgersene e, dopo aver dimesso la sua tenuta da cavalleggero, prima d’accomiatarsi, si accinse a completare il rito. Ché riteneva senza dubbio la cura del cavallo le spettasse e non in quanto dovere, piuttosto come atto d’amore verso quello splendido esemplare. Amava Nemesis d’un amore che trascendeva le plausibili spiegazioni, poiché, proprio come l’ombra di cui aveva la sfumatura, questi l’aveva seguita ovunque, partecipando col suo galoppare magnifico alle  innumerevoli trasformazioni che l’avevano coinvolta.  

Ed era singolare quanto s’assomigliassero tra loro, pensò mentre vigorosamente ci dava dentro con la striglia, incurante della spalla dolorante. Poiché Nemesis, che più d’uno stalliere aveva mandato a gambe all’aria con i suoi modi irascibili, ora soffiava soddisfatto dalle froge vellutate e sembrava assolutamente inoffensivo.

“Oh sì”, rifletté ghignando, “ ‘sto quadrupede collerico è lo specchio dei miei stessi comportamenti. Capace da un momento all’altro di passare dalla rabbia più completa ad una dolcezza insospettabile.”

Mise da parte la brusca e si diede a districare i nodi formatisi nel fluente crine e qui un’altra riflessione le sovvenne facendola sorridere meditabonda.

“Del resto chi crederebbe mai che la stessa persona che a pranzo ha rotto le ossa a quel bellimbusto, all’imbrunire se ne stia a spazzolare premurosamente la sua bestiolina preferita? Come se poi non dipendesse dal soggetto con cui si ha a che fare, indipendentemente dal fatto che la maggior parte dei sedicenti esseri umani in molti casi sono assai più involuti degli animali ai quali erroneamente li si paragona.”  

Ne concluse ironica conducendolo verso il suo box, poi, ponendogli davanti una generosa porzione di biada, si attardò a vezzeggiarlo ancora un po’, non foss’altro perché, a paragone dei suoi compagni di classe, attuali e passati, ne usciva altresì superiore. E qui, tranquilla come non era da tempo, con come giudice nient’altro che la sua coscienza, poté dirsi spassionata che probabilmente lei stessa, alla stregua cavallo, reagiva in modo consono solo e soltanto innanzi a pochi privilegiati individui. Di conseguenza, data la difficoltà nel trovarne e soprattutto nel riconoscerne, perlopiù era portata ad attaccare e ferire. Salvo, chiaramente, quando non optava per l’indifferenza, o peggio ancora per il disprezzo.  

E questo fu tutto quello che si meritò a livello riflessivo il pesante scorno che aveva inflitto a Luigi quel mattino. Dopodiché relegò del tutto la somma ed il risultato delle sue azioni, incurante se queste già stavano dando la stura ad un copiosa cova di risentimento crescente, e se ne tornò a casa oltremodo soddisfatta dalle motivazioni che aveva testé riconosciute a molti dei suoi impulsivi atteggiamenti.

E cosa c’era di meglio in una simile sera che non ascoltare una bella selezione di musica operistica mentre godeva del caldo che ancora consentiva di starsene seminuda? Regolò il volume e andò ad appollaiarsi sul divano mentre ringraziava il cielo per il clima mediterraneo, pensava infatti alle piogge che inevitabilmente già dovevano essere cominciate a Montreux e di quanto queste esasperassero la sua propensione al  pessimismo. Tendenza questa che sembrava dilatarsi ed espandersi tanto quanto il progressivo avanzare della notte sul giorno e dell’ingiallire delle foglie.  

Qui invece l’Autunno pareva ancora lontano e si sentiva spensierata, come se quel calore che ancora indugiava avesse sciolto una parte della calotta gelida da cui si sentiva intrappolare.

Sospirò beata, lasciandosi trasportare dalla musica ora impetuosa, ora tristissima, veicolando attraverso la melomania tutto quanto aveva relegato nel dimenticatoio. E mentre le arie si susseguivano incessanti, la voce sublime del soprano riverberava tra le pareti non già della stanza, ma del suo stesso essere.

Sorrise e ricordò, scremando gli attimi e lasciando fluire soltanto quelli nei quali poteva avvolgersi come in un abbraccio. Quegli occhi, quello sguardo, per quanto tempo aveva tentato di dimenticarseli? Beh stasera voleva ricordare e volentieri se ne lasciò trasportare, perdendosi in quell’indaco frangiato da lunghe ciglia la cui reminiscenza, e la conseguente fuga, erano entrambe diventate una necessità.

Simili momenti sarebbe magnifico durassero fin tanto fosse possibile, a maggior ragione non dovrebbero essere interrotti da una scampanellata insistita, soprattutto quando  l’assolo del soprano supera le quattro ottave e tu che ascolti sei lì a rivangare, vibrando all’unisono con la musica. Ma fu esattamente ciò che avvenne, non ci si stupisca quindi che Alexandra aprì la porta con lo stesso slancio e cordialità della biblica carica dei maiali posseduti dal satanasso. Praticamente poco ci mancò che la scardinasse, ma tentò di darsi una calmata quando scoprì chi aveva arrestato i suoi trasporti.

“Ciao!”

Trillò Lara scoprendo il sorriso a trentadue denti di chi assolutamente non è sfiorato dal dubbio d’essere inopportuno e, senza far caso al cipiglio che aveva di fronte, agilmente s’introdusse all’interno senza attendere inviti di sorta.  

“Ti sei dimenticata questa stamattina.”

Aggiunse mostrandole la sacca della quale effettivamente Alexandra si era completamente scordata, quindi, dopo essersi guardata attorno con curiosità, riportò gli occhi sulla padrona di casa e solo allora parve intuire che forse questa riteneva si stesse prendendo eccessive confidenze. O almeno fu l’impressione che ne ebbe la tedesca, ma fu smentita all'istante.

“Non startene sulla porta Alex, che ne dici di offrirmi qualcosa da bere?” Si sentì dire infatti mentre Lara trovava da sé la strada verso l’interno.

Non le restò che seguirla, indecisa se mandarla via, o più semplicemente, mandarla a cagare. Era paradossale quella sfacciataggine priva di qualsiasi formalismo, del resto, considerato il comportamento cui l’aveva abituata fin dal principio, poteva aspettarsi altrimenti da quella nana impertinente?

Temo di no.

Sospirò rassegnata, ma guardandola non poté far a meno di ghignare indulgente, dimenticandosi del tutto della stizza che le aveva suscitato col suo arrivo intempestivo, ché Lara sotto le volte del soffitto affrescato e al cospetto dei pesanti mobili di teak scuro, pareva ancora più minuta. Oltretutto con la carnagione olivastra che si ritrovava sembrava mimetizzarsi con l’arredamento.

Con un turbante, una livrea e un lume in mano può tranquillamente passare per un abat-jour barocco. 

Considerò ridacchiando sotto i baffi e attese, qualcosa infatti le suggeriva che la ragazza avrebbe tirato da sé le fila di quell’inaspettata visita e che non ci fosse alcun bisogno di un intervento da parte sua. Intanto Aida continuava a cantare il suo amore per Radamés,  ma era chiaro dall’espressione della sua ospite che né la musica, né l’ambiente tutto, riscuotevano il benché minimo consenso. In effetti Lara appariva perplessa, finché, sebbene fin lì avesse tentato d’impedirselo, un po’ per buona creanza, un altro po’ per non contrariarla, non ce la fece più e sbottò.

“Ma che razza di posto è questo? Un po’ di vita Alex e che diamine. Qui dentro manca solo il quadro di Teomondo Scrofalo e poi hai fatto completo!”

“Ignoro la ragione per cui secondo te un contadino avvinazzato stia bene nel mio salotto, esattamente come mi chiedo il motivo per cui stravolgi in modo ignobile il mio nome.”

Rispose tentando di mantenere un minimo di decoro, ché per la verità, all’idea di ritrovarsi di fronte, ogniqualvolta varcava la soglia, il ritratto dell’agricolo sopraccitato e che pareva scrutarla indirizzandole un brindisi del tipo bevo e me ne fotto, rischiò di perdere completamente la compostezza. 

Ma Lara ugualmente se ne accorse, così come ormai si era convinta che il modo in cui si esprimeva e rivolgeva al prossimo, che ai più pareva freddo e distante, non era altro che la conseguenza d’un apprendimento formale della lingua, che mal si equiparava al gergo quotidiano. Di conseguenza se con quelle parole Alexandra aveva inteso avvertirla che non le piaceva essere appellata a quel modo, non se lo diede affatto per inteso. Anzi ne approfittò per esternare quanto in precedenza non aveva potuto per mancanza di tempo ed opportunità.

“Perché dici così? Anzi dovresti ringraziarmi, trovo monumentale il tuo nome, un accidenti di pezzo di marmo dalla pesantezza inaudita. Alex invece è molto più carino.”

“Se tanto mi da tanto Lara, i tuoi genitori dovevano sapere che saresti rimasta una pigmea, altrimenti t’avrebbero dato un nome più esteso.”

Ribatté leggermente impermalita. Ma come si permetteva di chiosare su di un nome che tanto lustro aveva dato, e si sperava,  avrebbe seguitato a dare, alla sua famiglia?

“Sai che non ci avevo mai pensato? Potrebbe darsi, in ogni caso non corro il rischio di  un ulteriore diminutivo, ma te l’immagini?”

Scherzò, per nulla offesa da quella stoccata, accomodandosi e squadrandosela con un mezzo sorriso inspiegabile, tanto che Alexandra cominciò a sentirsi davvero in imbarazzo. Per uscirsene buttò fuori la prima cosa che le venne in mente.

“Io so solo che l’unica Lara di mia conoscenza era quella del Dottor Zivago e tu non le somigli per niente. Considerato poi che non ci si conosce affatto, brancolo nel buio. Soprattutto perché ho il fondato sospetto che, se pure tentassi d’intavolare una conversazione di circostanza, sarebbe del tutto inutile. Allora che si fa?”

“Di che ti preoccupi? Ci penso io, intanto metti su un caffè. E ti spiacerebbe spegnere quella lagna?”

Aggiunse riferendosi alla musica naturalmente. Il che portò Alexandra, che in cerca della moka nel frattempo si era avventurata in cucina, luogo cui raramente sostava per più di due minuti e mai con intenzioni fattive, a chiedersi che mai avesse da dire con qualcuno che definiva in quel modo la medesima composizione che non più tardi di cinque minuti prima stava quasi per farla sciogliere in lacrime.

Ma se il suo problema era limitato alla sola mancanza d’argomenti, ci pensò prontamente Lara a toglierla dall’impasse, giacché la raggiunse e, notando che non sapeva neppure da dove cominciare, prese in mano la situazione. Infallibile scovò tutto l’occorrente, muovendosi tra la credenza e il lavandino come se fosse in casa propria, intanto che chiacchierava come se niente fosse, al punto che pareva avessero appena lasciato uno specifico discorso a metà.

“No Alex, così non va affatto bene. La lirica intendo, dico, ma lo sai che la maggior parte delle storie su cui quei grassoni cantano ha come presupposto imprescindibile la brutta fine di qualcuno? Perlopiù donne.”

“E allora?”

Replicò stranita, non riuscendo a figurarsi dove stavolta quella bislacca ragazza volesse andare a parare. Certo lo sapeva da tempo che gl’italiani avevano una latente vena di pazzia, ma questa doveva essere un caso particolare.

“E dai è facile, pensaci un attimo. Non solo di persona già sei un travertino, mettici pure che casa tua sembra il mausoleo di Galla Palcidia, è chiaro che con ‘sto po’ po’ d’accompagnamento mi diventi ancora più pesante di quello che normalmente sei!”    

“E se fosse solo gusto? Potrebbe anche darsi che si tratti di preferenze personali e basta.”

Obiettò affabile, davvero interessata alla replica che ne avrebbe avuta, in quanto, stranamente, quel discorso non la stava oltraggiando. Qualcun’altro già l’avrebbe preso per la collottola e buttato fuori al suo posto, poiché chiunque altro simili perle gliele avrebbe dette implicitamente, con meschinità e assolutamente non a viso aperto. Forse si stava sbagliando, ma non riteneva l’offesa nelle intenzioni della ragazza e presumibilmente quello era  il suo modo di fare abituale. Del resto il personaggio era a tal punto surreale che ad un certo punto diventava quasi un obbligo farsene una ragione, per cui preferì sorvolare del tutto sui consueti canoni a cui era usa, preferendo gustarsi quella sorta d’autentica macchietta che aveva innanzi. E il bello era che non si capiva se ci era o ci faceva.

“Nààà Alex, non ci provare. Ti ho capita sai? A te piace la teatralità, l’incedere maestoso, il drappo con l’ermellino, la gondola col rondò veneziano che ti segue appena un passo indietro. Fa parte del tuo stile, altrimenti come potresti abbagliare al primo colpo? Magari a te tutto questo piace davvero. Ma quello che tu chiami gusto, viene molto dopo il piacere che ne ricavi da tutto l’insieme.”

Decretò piazzandole davanti una tazza fumante, dopodiché le si sedette di fronte, su uno degli sgabelli accanto alla penisola che divideva in due l’ambiente e continuò incoraggiata dall’espressione dubbiosa che aveva suscitato. In effetti Alexandra non aveva mai pensato alla questione in simili termini e, sentirselo spiattellare a quel modo, l’aveva sorpresa al punto che si era ammutolita.

“Insomma, stamattina con Luigi avresti potuto chiuderla mandandolo semplicemente a quel paese, o al massimo con un paio di schiaffi. Invece non solo ti sei presa la briga di sfottere per tutto il tempo quel poverino, ben sapendo come sarebbe andata a finire, ma hai pure voluto concludere con l’acrobazia. E se non è esibizionismo questo…”

“Vorrei ricordarti che quel poverino ha usato delle parole piuttosto pesanti.”

L’interruppe piccata, seccata non già dalla neanche troppo velata critica, quanto dalla constatazione che la sua venuta non si doveva a quanto aveva supposto. Altro che farle un favore riportandole quanto era suo, e di conseguenza attaccarle bottone, tutto quanto non era che una scusa per perorare la causa del suo amichetto. Ma neppure stavolta ebbe l’agio di dirle altro, poiché Lara l’interruppe nuovamente.

“Alex guarda che mica ti sto dando torto, dico solo che sei la quintessenza dell’ambivalenza e che, comportandoti in questo modo, è strano che ti risenta delle attenzioni altrui. Non puoi mica pretendere di far la ruota ed essere lasciata in pace, è chiaro che più ostenti, più stuzzichi.”

“E dall’alto delle tue intuizioni metafisiche cosa mi consiglieresti?”

Chiese con amabile sarcasmo, accendendosi una sigaretta ed avvolgendola intenzionalmente in una nuvola di fumo. Sapeva infatti che le dava molto fastidio, ché Lara ogniqualvolta transitava nei bagni non faceva che lamentarsi per la puzza stagnante delle innumerevoli bionde che lì si consumavano.

“Nulla, a me piace esattamente come sei. Solo non meravigliarti troppo se dopo il tuo exploit verranno a chiederti di unirti alla locale federazione di arti marziali. E a quel punto mi chiedo se e come potrai rifiutare.”

Concluse sventolando una mano per disperdere l’aria, intanto che approfittava della distanza ravvicinata per rimirarsela ben bene come fin ora non aveva potuto, soprattutto perché era la prima volta che si trovavano quasi alla stessa altezza e poteva cogliere quei particolari che dalla distanza del suo banco scolastico andavano irrimediabilmente perduti. Quello di cui non si accorse però fu che stava venendo sottoposta al medesimo scrutinio, sebbene dissimulato, laddove lei non ne faceva affatto mistero.

E così, intanto che l’altra replicava qualcosa a proposito della sua ferma intenzione di evitare qualsivoglia comunella, soprattutto sportiva, specialmente inerente la lotta, Lara rimirava attenta i suoi tratti: la chioma fitta dai riflessi del grano maturo, le sopracciglia dritte che conferivano agli occhi uno sguardo tagliente, stemperato però dal grigio delicato che li colorava, le guance incavate che rendevano gli zigomi ancora più pronunciati di quanto già non fossero, il naso aquilino sormontante le labbra austere, eppur piene, tanto che l’insieme stoico del tutto comunque risultava gradevole. Senza contare la fossetta che le divideva in due il mento e che le conferiva, lo volesse o no, un tocco di malandrino.

E quel corpo poi, non bastava che fosse slanciato come neppure nei suoi sogni più audaci aveva osato sperare per sé stessa, ma definito in tutta la sua muscolatura, un fascio di nervi praticamente. E poteva ben dirlo visto che Alexandra le si presentava allo sguardo vestita soltanto da un paio di striminziti short e una magliettina che lasciava intravedere l’ombelico. Peccato che fosse fin troppo magra, pensò adocchiando le clavicole che sporgevano, sì con qualche chilo in più addosso sarebbe stata decisamente meglio. Anche se così aveva un qualcosa d’indifeso che in un certo senso gliela faceva apprezzare ulteriormente, molto di più rispetto all’ottica in cui l’aveva considerata quel mattino, poiché non aveva affatto gradito l’impressione d’invulnerabilità che aveva voluto dare. Sì, per certi versi l’aveva trovata davvero odiosa.

Dall’altra parte del tavolo invece la tedesca valutava e rifletteva ancora una volta sulle stranezze incongruenti di quell’eccentrica ragazza. Ché era davvero strana, persino per quel che riguardava la mera esteriorità. Non c’era da cavillarci, assolutamente, e dire che l’aveva squadrata almeno un paio di volte da sotto in su per sincerarsi d’aver visto bene.  Perché minuta lo era, eppure, o calzava delle scarpe di almeno due misure più grandi, oppure si ritrovava un bel paio di fette al posto dei piedi. E, siccome spesso le estremità inferiori corrispondono più o meno a quelle superiori, gettò un’occhiata penetrante anche alle mani. Ebbene, pure quelle erano decisamente sproporzionate rispetto alla figura, perché grandi, dalle nocche forti e dalle dita affusolate. Indubbiamente belle certo, da pianista le sarebbe venuto da dire, ma inadeguate se paragonate alla piccolezza della persona che le possedeva.

D’altro canto, ora che la guardava da vicino e con intenzione, anche il naso appariva piuttosto pronunciato, sebbene per accorgersene bisognava che si girasse di profilo, giacché l’ovale perfetto del volto ne attenuava la prominenza. Esattamente come alleggeriva la bocca larga e dai denti forti, brillanti, che le donavano un sorriso notevole, smorfia alla quale stava scoprendo d’essere particolarmente esposta.

Ma come si poteva altrimenti? Quell’esplosione di bianco sulla pelle scura era una specie di miracolo, senza contare che le assottigliava gli occhi, riducendoli da grandi e tondi che erano, a due fossette luminose. Le ricordava decisamente qualcuno, ma mentre l’ascoltava cicalare in merito all’insistenza delle associazioni sportive della cittadina, delle quali lei faceva parte, essendo membro effettivo della squadra locale di pallavolo, proprio non le riusciva di definire precisamente chi.

 Non era una somiglianza definita, piuttosto un abbozzo di similitudine, come un embrione di quel che sarà, ma che al momento si può solo intuire. Meditabonda passò in rassegna nuovamente la gran massa di capelli castani, si soffermò sulle pupille nocciola, l’incarnato gitano, i lineamenti forti… Porca puttana!   

Si stupì facendo addirittura un piccolo salto sulla sedia, sussulto che anche Lara notò, tanto che s’interruppe e la fissò interrogativa.

“Ma che hai?” Chiese preoccupata, che uno scatto simile non poteva essere un brivido di freddo dato il caldo che faceva.

“Nulla, mi fa male la spalla e ogni tanto si fa sentire.” Fu la risposta che ne ebbe, pure non la convinse del tutto, Alexandra non aveva affatto l’aria di chi pativa, piuttosto sembrava soddisfatta e un ghigno appena accennato le aleggiava sul volto.

“Fa’ vedere.” Disse alzandosi e portandosi alle sue terga, non del tutto persuasa che le stesse dicendo la verità, tuttavia un certo gonfiore c’era. Cauta tastò il bozzo pronunciato che aveva al trapezio. 

“Ehi, giù le mani!” Protestò Alexandra alla fitta,  autentica stavolta, di dolore che le aveva provocato.

“Tranquilla van der Post, mio padre è fisioterapista e mi ha insegnato parecchi trucchetti, non è che per caso hai una pomata?” S’informò intanto che le faceva segno ti togliersi la t-shirt.

“Senz’offesa, ma preferirei evitare un intervento dell’apprendista stregone.”

“Cioè, fammi capire bene.” Ribatté incrociando le braccia e fissandola incredula. “Non hai avuto esitazioni davanti a quel bestione di Luigi e adesso te la fai addosso per un massaggio?” 

“Beh, lui non sapeva quel che faceva e temo non lo sappia neppure tu. E’ apprezzabile tanta disponibilità, davvero, ma preferisco lasciar fare ad un esperto.” Affermò ragionevole, dopodiché tentò d’indorare la pillola per moderare in qualche modo quel rifiuto. “E poi temo proprio di non aver nulla del genere in casa.”

Concluse alludendo a quanto le era stato richiesto, ma non aveva calcolato, o per meglio dire, non aveva idea, della testa dura di cui era dotata la sua interlocutrice.

“Oh ma quante storie, vorrà dire che faremo senza.”

Spazientita Lara aprì la dispensa, ne prelevò una bottiglia d’olio d’oliva e, incurante della differenza di mole, l’afferrò per un braccio, trascinandola letteralmente verso il divano in salotto.

“Ora togli quell’affare, stenditi a pancia in giù e chiudi il becco.”

Proruppe imperativa, al punto che lo stupore dell’altra aumento viepiù, e dire che già aveva raggiunto un bel traguardo durante la traversata che dalla cucina le aveva portate lì. Infatti si limitò a fissarla con la bocca a culo di gallina e persino Lara si rese conto d’aver esagerato.

“Senti, sto solo cercando di farmi perdonare. In fondo è anche per colpa mia se è successo quel casotto oggi. Ti pare che voglia aggravare ulteriormente le cose? Se ti dico che so quel che faccio, abbi fiducia. Anche perché non credo continuerai a farmela passere liscia ancora per molto.”

“Ma che cuore nobile.” Affermò la tedesca sghignazzando, ci poteva essere limite ad una simile faccia tosta? Pareva di no e d’impulso, stupendo sé stessa per prima, considerò che tutto sommato non sarebbe stato poi questo gran male a lasciarla fare. In fondo poteva anche sottrarsi qualora fosse stato chiaro che non era capace. Quindi fece come le era stato detto e, una volta prona, chiuse gli occhi rilassandosi ed ingiungendole a darsi da fare. 

Innanzi a tale esortazione Lara non perse tempo e, spostandole i lunghi capelli, notò che giusto in mezzo alle scapole spiccava una macchia di colore imprevista. E tutto si sarebbe aspettata, salvo che una bacchettona come Alexandra si fregiasse d’un tatuaggio, eppure era proprio così.

Chissà, si disse pensando ai contrabbandieri di sigarette, magari nel nord’Europa non erano esclusivo appannaggio di chi era transitato per le patrie carceri. Ma trattandosi di lei, considerò avvicinandosi per guardarlo meglio, naturalmente non poteva certo essere  l’usuale cuore trafitto. Difatti era ben strano come disegno.

Sembrava quasi un’insegna gentilizia con quello scudo bipartito, sulla destra presentava quella che suppose essere l’aquila germanica e accanto aveva un falco ad ali spigate che tra le zampe teneva una spada. Al di sotto il clipeo era ornato d’alloro, l’estremità superiore invece di una corona sormontata da tre cartigli fittamente scritti in caratteri gotici. Nero ed arancio erano i colori dominanti.  

Notevole, ammise colpita, ma che diavolo poteva mai significare? Oltretutto, ora che ci pensava bene, chi mai si sarebbe fatto tatuare una cosa simile se non avesse avuto un motivo particolare? E poi portarsi addosso una sorta di marchio vita natural durante presupponeva giocoforza un movente.

Piena di curiosità lo toccò chiedendosi quanto fosse stato doloroso il procedimento d’incisione, ma, contrariamente a quanto avrebbe voluto, non gliene fece parola, preferendo prima vedere come reagiva al trattamento cui stava per sottoporla. D’altronde  bersagliarla di domande importune intanto che tentava di decentrarle i muscoli non le pareva tanto una buona idea. 

E accidenti se era aggrovigliata! Rigida come un manico di scopa, nonostante in quel momento fosse assolutamente distesa. Sintomo inequivocabile, ponderò cominciando a lavorarle il dorso, di nervosismo somatizzato e raramente espresso. Altrimenti quell’annodamento non si spiegava. E dove poteva essere il punto nevralgico? Si domandò facendo scorrere la punta delle dita su e giù per la colonna vertebrale, cosa che provocò l’evidente consenso di Alexandra, reazione che diligentemente Lara accompagnò  fino a quando il sospiro non si mutò in un brontolio di protesta.

Infatti, non appena si era fermata alla base del collo, la musica era cambiata. Allora capì d’aver trovato il nodo che andava cercando e spietatamente prese a manipolarlo, incurante delle lamentele che stava suscitando. Ma non se lo diede per inteso e continuò, finché la tedesca non ne poté più di sopportare stoicamente.

“Ahio, mi stai massacrando!”

“Finalmente, mi stavo appunto chiedendo fino a quando avresti resistito.” Replicò reprimendo a stento un sorriso e senza interrompere il movimento incalzante delle mani.

“Beh ora lo sai, potresti piantarla?” Fece tentando d’alzarsi, ma Lara la tenne giù.

“Troppo tardi, se smetto adesso ti farà ancora più male. Piuttosto che ne dici d’illuminarmi a proposito della sorpresina che nascondevi sotto i capelli?” Buttò lì come se le fosse venuto in mente solo in quel momento.

“E sarebbe?”

“Oh andiamo Alex, Il tatuaggio. Non ti facevo così sovversiva, davvero, di quelli qui ce li hanno solo i pregiudicati, sai?”

“Non fare la bigotta, tra qualche anno saremo nel nuovo millennio e ti posso assicurare che tra un po’ cominceranno a proliferare anche qui. Dove stavo prima non c’era una studentessa che non ne avesse uno.”

Replicò ripensando agli innumerevoli ghirigori che decoravano le alunne del collegio. Però Lara non aveva tutti i torti, dacché si era trasferita non aveva visto nessuno che ne avesse. Certo non si sarebbe mai immaginata potesse essere una peculiarità da carcerato e se il Conte l’avesse saputo, non credeva sarebbe stato così indulgente con quel suo  singolare omaggio al casato.

“Tutte così?”

Le domandò Lara,  al che decise di svelarle l’arcano, in fondo dove stava il problema? Vero che a scuola ancora non si sapeva della sua effettiva origine, quantunque indubbiamente fosse palese il suo essere un’abbiente. Pure non si era mai presentata completamente e, d’altro canto, prima o poi avrebbe dovuto farlo.

Perché non adesso e con lei? Ruotò finché poté il capo e con estrema semplicità rispose: “Direi di no, visto che questo è lo stemma nobiliare della mia famiglia.”

Al momento di dirlo Alexandra aveva tentato di essere il meno pomposa possibile, per quanto fosse difficile fare un’affermazione del genere ed evitarlo, e l’aveva detto senza sapere quale reazione avrebbe suscitato. Tutto si aspettava però, salvo la gragnola di risate che seguirono le sue parole. E Lara tanto si stava sganasciando che ad un certo punto le crollò sulla schiena, sghignazzando insolente appoggiata proprio sull’emblema di famiglia.

Quando finalmente sembrò riaversi, riprese il massaggio da dove s’era interrotta accompagnandolo con uno sfottò senza uguali.

“Sì come no Alex, e dimmi sei la figlia del principe di Casador o la nipote del marchese Ottavio Favetti? Oppure no, magari sei la contessina del Pero. A saperlo mi sarei presentata qui vestita da pezzente, così facevamo Miseria e Nobiltà!”

“Libera di non crederci, ma è la verità.”

Spiegò senza nessun risentimento, del resto Lara era di quanto più lontano ci potesse essere dai convenzionalismi dell’aristocrazia prussiana e non c’era da stupirsi se la stava prendendo per una solenne fandonia. Che ne poteva sapere lei di quel mondo chiuso, foderato d’oro e piombo?

“E sentiamo”, seguitò sfiorando con attenzione il gonfiore infiammato, “perché mai una nobildonna come te se ne sarebbe venuta a svernare qui? Non dirmi che devi fare il debutto in società da queste parti?!”

“No, quello dopo la maggiore età, e c’è ancora qualche mese di tempo ringraziando il cielo.” Si lasciò sfuggire a quella menzione.

Già presto o tardi le sarebbe toccato pure quello e la prospettiva non le faceva assolutamente fare salti di gioia. Tanto che spesso si scopriva a caccia di un escamotage qualsiasi che la salvasse da quel capestro.  

“Ahà, ma sai che mi sovviene che in questo preciso istante sembro proprio una serva della gleba che riverisce la signora del castello? Pensaci, tu te ne stai distesa senza far niente e io sopra a sgobbare come un mulo. A Proposito, abbiamo finito  vostra signoria!”

“D’accordo Lara, l’antifona è chiara.”

Alexandra si mise in piedi e prese a tastarsi il collo, davvero sorpresa dalla rapidità del benessere che quel folletto le aveva porto. Peccato che non la smettesse più con quei dileggi.

“Grazie mille”, annuì con un cortese cenno del capo, “anche se non sei la più ortodossa delle ancelle. Ad ogni modo, se hai bisogno di confutazione a riguardo, chiedi pure a Contro della sezione B, la conosci vero?”

“Ma certo Alekòs!” Rispose maliziosamente avviandosi verso l’uscita. “E hai anche il coraggio di dire che Alex non ti piace?”

Sparò impunita prima d’accomiatarsi.

“Hai orecchie dappertutto eh?”

Alexandra si appoggiò allo stipite della porta rendendosi conto che quasi le spiaceva lasciarla andare, per tornare alla sua musica, ai suoi pensieri e l’austerità della casa. Pure, si disse, quello era solo un momento e si stava lasciando fuorviare dalla novità che Lara rappresentava. Per cui tenne a dire quanto affermò, più per ribadire il concetto a sé stessa che non all’altra.

“E sia, ma io sono davvero Alexandra Friederike, prossima contessa di van der Post e ventunesima discendente in linea dinastica. Il che per te può anche non significare niente, ma ti posso assicurare che io non posso fare a meno di farci i conti.”

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** 5 ***


Voltò pagina, sbuffò inquieta e si sforzò ad andare avanti.

Stava scorrendo svogliata le righe del testo, come se quel mero esercizio potesse distoglierla dal chiodo fisso attorno al quale da giorni ruotava. Pure, di tanto in tanto, ugualmente divagava. Non c’era nulla da fare, doveva cedervi e volgere gli occhi a guardar  fuori, oltre il vetro.

Ancora nevicava, i fiocchi scendevano lenti, impalpabili, posandosi tutt’intorno con una levità quasi trasognata. Nascevano dal cielo plumbeo e, sebbene fosse solo primo pomeriggio, fuori era quasi buio. Volse il capo e oppressa tornò al libro che aveva tra le mani, la luce dorata della lampada da tavolo l’illuminava debolmente. Aveva dovuto accenderla per avere la luce sufficiente a leggere, ma volentieri avrebbe preferito restarsene in penombra, per confondersi ed annullarsi con le ombre di quel chiaroscuro.

Era in balia d’un umore  tenebroso, di una melanconia insistita, la cui morsa non voleva allentarsi. Per questo motivo stava provando ad eluderla impegnando la mente in quel complicato esercizio. Aveva sperato infatti che, perdendosi nella traduzione di quella lingua remota ed aprendo con un tonfo il pesante vocabolario, avesse potuto azzittire le voci del passato. Appunto per questo aveva scelto la versione più difficile tra quelle assegnatele dal professore di latino. Per la verità di tempo ne avrebbe avuto d’avanzo, ché a causa della nevicata inaspettata che da giorni scendeva sulla città, la scuola aveva chiuso i battenti prima del previsto. Ciononostante, quel che era stata una manna per gli altri, non era per lei e si era ritrovata senza niente di meglio da fare, tranne che cercare di sfuggire ai suoi fantasmi.

Meno male che la partenza è imminente, pensò. In effetti aveva contati i giorni con ansia e finalmente l’indomani sarebbe partita. Tornava a casa, a Ranfield Hall, nome quanto mai singolare per una magione della nobiltà tedesca, ma che, come per tutto, aveva una spiegazione che si perdeva nella notte dei tempi. Avrebbe trascorso le festività in famiglia, dividendosi tra il Conte, Sarah e una pletora anonima di parenti minori. Per non parlare della servitù, naturalmente. Tre giorni da trascorrere in apnea, ingessata in abiti formali e comportamenti altrettanto formali, culminanti nello sterile abbraccio, tutti stretti intorno al grosso abete che decorava il salone delle feste, che avrebbe sancito la fine del rito.

Chissà se anche quest’anno le sarebbe toccato l’assolo di violoncello. Sperava di no, augurandosi che l’incombenza passasse a sua cugina René, virtuosa del pianoforte, oppure a suo fratello Manfred che faceva tanto il presuntuoso con quel suo flauto traverso.

“Loro sì che sono dei veri musicisti, mica come me.” Si disse e, quasi a voler suggellare quell’ammissione, disegnò sulla condensa del vetro una chiave di violino ché sigillò nel perimetro della stella di David. Una smorfia rattristata le deformò il volto mentre contemplava quello schizzo. Già, da quel giorno non era riuscita più a suonare. Ogniqualvolta ci provava si bloccava e veniva scossa da un tremito irrefrenabile, tanto che non riusciva neppure a tenere l’archetto in mano. Ma non poteva confessarlo al Conte, no, suo nonno non avrebbe capito e doveva continuare a fargli credere che il suo studio fosse costante. Strano però, egli sapeva che, malgrado lo strumento l’avesse seguita in questo suo ennesimo trasferimento, non aveva seguitato a prendere lezioni. S’era aspettata delle rimostranze, ma tutto taceva e da mesi la pesante custodia contenente il muto strumento giaceva poggiata al muro a prendere polvere.

“Sono una vigliacca.” Pensò, giacché l’aveva abbandonata là, evitando persino di guardarla. Aveva forse timore che se si fosse azzardata ad aprirla, come dal vaso di Pandora, ne sarebbero scaturite tutte insieme le furie dalle quali ancora stava scappando?

In ogni caso era successo egualmente. Pure, sarebbe stato assai preferibile che una volta a casa non l’invitassero ad esibirsi. Ma se tanto le dava tanto, supponeva che il Conte, né sua madre, si sarebbero azzardati. In fondo non era neppure loro interesse che quel vaso si scoperchiasse e da tempo avevano provveduto a sigillarlo con cura. Estrema cura.

Dove sarà? Che starà facendo adesso? Si chiese e, come sempre, dovette arrendersi alla sterilità dei suoi interrogativi. Non le era possibile sapere, non ne aveva i mezzi ed era vincolata ad una promessa che l’incatenava senza scampo all’ignoranza. Guardò i contorni del suo disegno sciogliersi, colare lentamente sulla superficie della finestra e stancamente si passò una mano sul volto.

Per sua fortuna non avrebbe soggiornato a lungo tra le imponenti mura domestiche, giacché, subito dopo il cerimoniale natalizio, si sarebbe diretta alla volta di Istanbul. Una sortita che, una volta tanto, metteva d’accordo gl’intenti del Conte con i suoi. L’uomo infatti riteneva che godere dell’ospitalità del consolato tedesco in Turchia fosse un modo assai profittevole cui impiegare i tempi morti di quella lunga vacanza.

“Sì”, aveva assentito durante la telefonata cui le aveva comunicato la notizia di quell’invito, “trovo opportuno che tu, quale futuro capo del gruppo van der Post, coltivi ed incrementi i rapporti con i vari  attacchè diplomatici che avrai la possibilità di conoscere.”  Un’affermazione che la diceva lunga e Alexandra non aveva avuta nessuna difficoltà ad immaginarsi il ragionamento che aveva portato a quell’assenso. Più che probabile che suo nonno ritenesse quelle relazioni quali favorevoli ad un suo graduale ingresso in seno a quell’elite prestigiosa. Senza contare che Roelf sapeva perfettamente che in quella sede avrebbe dovuto interagire, se non tra suoi pari, perlomeno con personalità di spicco.

Ja, era chiaro che il Conte sperava che così facendo avrebbe cominciato ad assaporare la reale portata del cardine plutocratico cui era destinata. E di conseguenza, ne aveva concluso Alexandra, non senza un certo cinismo rassegnato, doveva essere grata a quella particolare forma mentis per il grazioso benestare che l’era stato concesso. Per quanto la riguardava invece, al di là di quelle tortuose mire,  aveva contemporaneamente l’opportunità di visitare un paese che molto l’affascinava e modo di rivedere persone che davvero le stavano a cuore. L’ambasciatore Taddeus von Hoppel e sua moglie Margot infatti altri non erano che il suoi padrini e la trattavano come una figlia prediletta, da vezzeggiare e lasciar crescere in completa autonomia. Sicché dal loro rapporto Alexandra attingeva quanto difettava in quelli con la sua famiglia, ché l’uomo e la consorte avevano nei suoi riguardi una dolcezza ed una tolleranza che al Conte e sua madre mancavano del tutto.

In ogni caso comunque non era tanto l’impazienza per quest’incontro a  farle sospirare il momento della partenza, quanto piuttosto la fuga che rappresentava. Già, sapeva d’aver bisogno di tempo per sé sola, d’un altrove dal quale osservare quella che era diventata la sua quotidianità con calma e in successione, in modo da cercare di sanare le ferite che improvvisamente avevano ripreso a sanguinare.

Inquieta spense la luce e si sedette innanzi al camino piantando gli occhi  nelle braci incandescenti. “Colpa della neve.” Pensò risentita. Ma a che pro indignarsene? Prima o poi comunque si sarebbe trovata ugualmente spalle al muro, era inevitabile in un certo senso. Perciò tirò un lungo sospiro e prese a percorrere ancora una volta la somma degli aventi che, nel giro di pochi giorni appena, avevano avuto il potere di turbare la tranquillità che credeva d’aver finalmente raggiunto.

“Tutta colpa della neve.” Si ripeté e maledisse silenziosamente il momento in cui il rigore delle gelate e il morso insistito della tramontana avevano ceduto il passo a quel fioccare morbido, che tutto ingentiliva e nobilitava. Pure, paradossalmente, la stessa che smussava gli angoli appuntiti di strade ed edifici, aveva messo allo scoperto i suoi.

La sua pace aveva preso impercettibilmente a decadere nell’attimo in cui, durante un giorno di scuola come tanti altri, un’esclamazione di sorpresa  aveva interrotta  la voce monotona del professore. Probabilmente qualcuno stava osservando pigramente al di là delle finestre e non aveva potuto far a meno di far notare a tutti dei  fiocchi che avevano preso a cadere. Le fu detto poi che di rado si creavano le condizioni perché ciò avvenisse. Il che le rese più comprensibile la ragione per cui i suoi compagni di classe si fossero precipitati alla balconata con esclamazioni di stupore deliziato. Per loro quello doveva essere un avvenimento inaspettato, quanto piacevole, a differenza sua, che se n’era rimasta al suo posto senza scomporsi. Tuttavia non era stato il suo solito distinguo snobistico a fermarla, quanto piuttosto la sufficienza di chi, provenendo dal profondo nord ed essendo abituato a ben altro, non  trova niente di speciale in quel che vede.

Così, come al solito, si era tenuta ai margini senza lasciarsi coinvolgere dalla festosità altrui. Anzi, quando al termine delle lezioni, appena fuori l’ingresso  dell’istituto, erano cominciate a piovere pallate, il suo unico interesse era stato di verificare se qualcuno avesse avuto il coraggio di prenderla a bersaglio. Aveva indugiato apposta per quello, ma nessuno aveva osato e ghignando aveva voltato le spalle alla puerilità dei suoi coetanei, soddisfatta del sacrosanto rispetto che aveva generato nei suoi riguardi quanto era successo in cortile, mesi addietro ormai.

Insomma era d’umore eccellente, eppure lì, mentre ponderava la scarsa audacia di chi, pur detestandola, la temeva, inspiegabilmente si ritrovò tutto ad un tratto persa nel gorgo delle ossessioni che credeva l’avessero abbandonata. Ci cadde ignara tramite il fastidio che avvertii osservando da lontano quell’allegria.  Perché quel turbinio d’adolescenti che giocava con la neve le ricordò i suoi luoghi e i ricordi a loro connessi. E le fu intollerabile. Ma non era tanto la certezza della spensieratezza che sapeva d’aver perduto ad angosciarla, quanto l’insostenibile confronto tra ciò che vedeva con gli occhi e quel che sentiva nel cuore. Poiché finché il sito del suo esilio era rimasto un sé stante, un qualcosa di alieno nei cui confronti non poteva scattare nessun termine di paragone, era rimasta serena e vi si era adattata senza colpo ferire. Ma ora che la neve l’aveva avvolto, rendendolo analogo a ciò che aveva dovuto abbandonare, ne era scaturita un’associazione che prepotente riportava a galla quanto in lei covava appena sotto la superficie.

No, non c’era confronto alcuno con i boschi innevati della Svizzera. Pensò misurando il presente con il passato, eppure,  prima che potesse impedirselo, quanto aveva intorno la rimandò a quel che tra quelle selve era avvenuto. “Ma era quasi estate allora.”.  Mormorò  intelligibile finché, con un soprassalto, non si rese conto di dove stesse errando il suo pensiero. E allora, colpevolmente, lo dirottò altrove guardando  nuovamente alla distesa immacolata che aveva davanti e raffrontandola al paesaggio che avrebbe potuto scorgere se fosse stata alle finestre della casa natia. Una divagazione necessaria questa, poiché le memorie appena evocate, s’accompagnavano ad un rimpianto che, lungi dall’affievolirsi, furtivo le aveva scavato dentro un solco profondo. E allora dovette ammettere quanto fino a quel momento aveva volutamente celato a furia di sola forza di volontà.

“Sono stata una stupida a credere che allontanandomene ne sarei guarita.” Si disse amareggiata. Poi fu colta da un’altra intuizione. Come l’era potuta sfuggire? Che stupida!  “Il Conte no, ne era certo. Per questo mi ha mandata qui senza far storie”.

Una riflessione questa che le mise addosso una smania prepotente d’urlare la sua frustrazione fino a perdere la voce, di correre a perdifiato in direzione ignota tanto da sfiancarsi e fare un qualcosa, qualsiasi cosa, di stupido, eccessivo e dannatamente teatrale.

Eppure non fece nulla di tutto ciò, limitandosi ad incamminarsi lentamente verso casa, per poi chiudercisi dentro e rifiutare sistematicamente qualunque contatto dall’esterno. Nei giorni successivi ne era uscita solo per andare a scuola e aveva accuratamente evitato di dar agio a chiunque di avvicinarsi. A nulla erano valse persino le insistenze di Lara, vanificate poi e fortunosamente da una provvidenziale influenza di stagione che l’aveva messa a tappeto.

Pure la sua reclusione era stata infranta quel mattino da Claudia la quale, dopo innumerevoli telefonate a vuoto e svariati tentativi d’abbordarla prima e dopo le lezioni, si era risolta a farle la posta sotto casa. Il che fu provvidenziale, Alexandra infatti era di ritorno da una lunga cavalcata, ma quell’umor nero pareva essere impermeabile ad ogni divagazione e nulla vi aveva potuto neppure il galoppare furioso di Nemesis. Perciò era ancora più abbattuta e l’energica botta che ricevette alla schiena la prese del tutto alla sprovvista. Disorientata si guardò intorno, nei paraggi non c’era nessuno, poi, resasi conto che quello scossone era il risultato d’una palla di neve molto ben assestata, con occhi minacciosi prese a scrutare tra gli alberi del vicino giardino.

“Sveglia Alekòs!” Fece Claudia spuntando da dietro un albero e rendendosi visibile, quindi le si parò innanzi e, incurante del cipiglio temporalesco che l’altra inalberava, continuò: “Dai, lamentartene pure! E’ da un pezzo che ti chiamo, lascio messaggi in segreteria e neanche mi dai retta.”

“Ho avuto da fare.” Fece evasiva la bionda per poi chiudersi subito a riccio. A che pro intavolare la discussione? Claudia avrebbe inteso alla svelta do dove prendessero le mosse le sue fisime e non c’avrebbe messo molto ad aprire il solito discorso. Del resto ai tempi dell’accaduto ne avevano parlato tanto, pure troppo, visto che Claudia era l’unica a sapere come fossero realmente andate le cose. O perlomeno, la sola che pur sapendo non ci si era immischiata, limitandosi ad offrirle una spalla su cui piangere e un sostegno che mai era venuto meno. Tuttavia Alexandra nicchiava titubante, non poteva rivelarle d’essere nuovamente al punto di partenza, d’aver finto di dimenticarsene per poi ricascarci così, al primo piè sospinto, senza contare che non aveva nessuna voglia di sentirsi ripetere la solita solfa. Ché per Claudia la soluzione era una e una sola, mentre per quel che la riguardava, non le era davvero possibile farla così facile. Per questo motivo preferiva tenersi per sé i suoi pensieri e, indossata una maschera quanto più possibile neutrale, la prese di contropiede e parlando del più e del meno, salirono nel suo appartamento.

Sì certo, le era grata per la distrazione portale dalla sua compagnia, eppure, nonostante le stesse prestando attenzione, non le riusciva d’essere del tutto presente e continuava a rimuginare sui pensieri che da giorni le giravano in testa.

Capita l’antifona all’istante Claudia si accomodò in poltrona chiedendosi nel frattempo se fosse il caso di lasciarla fare o di chiuderla all’angolo e darle spietatamente addosso. Ma davvero pensava di dargliela a bere così facilmente? Non ricordava che era là con lei quando la botola s’era spalancata? Si era forse dimenticata di quella notte terribile cui le aveva vuotato il sacco piangendo disperata?

Rimasta sola nel salotto, intanto che l’altra metteva su il tè, si guardò intorno intenta. Il violoncello era al suo solito posto, arreso all’inedia cui la sua padrona l’aveva condannato. Peccato, pensò, quando voleva riusciva a farlo vibrare con rara intensità. Ma poteva capire le ragioni cui addebitare quella rinuncia. Sospirò partecipe e da quello spostò lo sguardo allo scrittoio. I libri vi giacevano ancora aperti e c’erano innumerevoli fogli scarabocchiati che sporgevano dalle pagine. Segno, pensò Claudia scuotendo il capo, d’attività ossessiva nonché recente. In ultimo notò il disegno ormai completamente sbavato alla finestra. La chiave di violino era indistinguibile, ma le sei punte della stella giudea non si potevano confondere.

“Ariel.” Mormorò e allora Claudia pensò che doveva assolutamente porgerle un appiglio cui aggrapparsi e venirne fuori. Mio dio, da quanti giorni andava avanti così? E lei perché non c’aveva pensato prima? “Ora è inutile chiederselo.” Si disse mentre sorseggiava la profumata bevanda e Alexandra si accoccolava a gambe incrociate sul tappeto. La scrutò al di sopra della tazza, aveva mangiato ultimamente? Pareva di no, il volto appariva scavato e, considerate le sfumature violacee che le decoravano le occhiaie, doveva aver dormito assai poco. “Meglio prenderla alla lontana.” S’ingiunse quindi. Sì, meglio partire  da cardine primo, da quella tessera iniziale la cui caduta gli eventi avevano preso a girare, su, su, fino a culminare nella presenza dell’amica lì di fronte a lei.

“Pensi mai al professor Evangheliòs?” Chiese di punto in bianco. Domanda questa impossibile da ignorare e, dopo una pausa neanche troppo lunga, Alexandra annuì.

“Ogni santo giorno.” Ripose. Poi, come a suffragare quell’affermazione, tirò fuori da una tasca un koboloi ambrato e glielo mostrò. Gesto che per Claudia fu più esauriente di mille parole. Si ricordava perfettamente di quell’oggetto e del giorno in cui Alexandra l’aveva ricevuto in dono al cospetto di tutta la classe. A quel tempo erano entrambe allieve presso l’internato di Reinheit  in Engandina e Costas Evangheliòs era il loro insegnante di storia. Un uomo singolare questi, basso e rotondetto, dall’espressione placida ed incorniciata in una fluente barba da filosofo presocratico. Impressione questa rinnovata poi quando egli stesso aveva confermato d’essere d’origine greca. D’altro canto, aveva detto sorridendo alle alunne, con un nome simile era difficile potessero sbagliarsi. Ma non era solo questo a farlo differente dal resto del corpo insegnanti, composto perlopiù da madrelingua tedeschi. Ché il nuovo arrivato non solo spiccava tra loro per i suoi colori e corporatura mediterranea, ma soprattutto per l’approccio col quale era solito trattare le scolaresche. Evangheliòs non seguiva gli schemi dell’educazione calvinista, perciò non era sua abitudine mortificare i guizzi caratteriali o fustigare le divagazioni intellettuali delle sue alunne. Anzi pareva incoraggiarle e, appunto come il filosofo peripatetico cui lo si comparava, faceva lezione ovunque: in aula, in biblioteca oppure portandole a spasso in corridoio o giardino, quando il tempo lo consentiva. Tra l’altro era l’unico che le lasciava fumare a loro piacimento, giacché, asseriva sorridendo bonario, preferiva restassero in sua presenza a farlo, piuttosto che chiudersi in bagno e perdersi la lezione. Insomma era assolutamente fuori da ogni schema e, quando si era ritrovato Alexandra di fronte per la prima volta, ne era rimasto folgorato.

“Così dev’essere stato Alessandro Magno!” Aveva esclamato infatti fissandone la bionda chioma e i tratti efebici. E da allora Alexandra

era diventata Alexandròs, poi, più affettuosamente, soltanto Alekòs. E durante il corso di quell’anno i rapporti tra insegnante ed allieva fatalmente s’erano intensificati. Lei letteralmente l’adorava e lui aveva nei suoi riguardi una predilezione di cui non faceva affatto mistero. Al punto da regalarle libri, portarla a concerti e a visitare siti culturali dei vicini cantoni. Ma soprattutto era solito riceverla persino in forma privata nel suo studio e a qualsiasi ora, sempre pronto a rispondere alla sue domande e a trarne piacere dalla sua compagnia. Insomma ce n’era stato d’avanzo perché lei fosse preda ad una sorta d’infatuazione platonica e lui finisse nell’occhio del ciclone. Tant’è non c’era voluto molto perché le istituzioni scolastiche s’allarmassero e quei dettagli arrivassero all’orecchio attento e scandalizzato del Conte.

Claudia a tutt’oggi non era al corrente dei provvedimenti presi da costui, né di cosa il nobiluomo avesse accusata la nipote quando la richiamò al suo cospetto. Naturalmente non ci voleva molto ad intuirlo e, sebbene fosse certa dell’innocenza di Alexandra, restava il fatto che dall’oggi al domani era stata cacciata dall’istituto e che la mozione d’espulsione era partita nientedimeno che dallo stesso Evangheliòs. Comportamento immorale, aveva scritto a margine di quella nota. Tuttavia, nell’ultimo giorno che Alexandra trascorse alla sua presenza, le regalò quel rosario scacciapensieri. Claudia ricordava perfettamente che nel darglielo l’uomo non aveva avuto neppure il coraggio di guardarla direttamente negli occhi, mentre biascicava qualcosa a proposito dell’augurio di un proseguimento felice dei suoi studi ovunque fosse andata. E, ancor oggi, ricordare l’espressione ferita dell’amica, era un qualcosa che le faceva ancora molto male. Soprattutto perché, pur nell’ignoranza, non era difficile immaginarsi il turpe mercato che il Conte doveva aver proposto ad Evangheliòs. Di certo concerneva la tangibile minaccia di rovinarlo come uomo ed insegnante e senz’altro doveva averlo intimorito ad un punto tale che questi, mettendo sul bilancino il suo benessere e confrontandolo alla simpatia che provava verso la sua Alekòs, aveva dovuto scegliere. E il risultato era che Alexandra aveva dovuto lasciare la scuola e lui vi era rimasto, diventando poco dopo addirittura membro del consiglio direttivo. Morale? Roelf se l’era comprato e così facendo aveva messo a tacere la faccenda.

“Fu una vera fortuna che mio padre fu trasferito dopo la tua espulsione.” Dichiarò a questo punto Claudia ritornando al presente. Poi soggiunse a mo’ di spiegazione: “Non avrei sopportato di restare là dentro un attimo di più senza di te e specialmente dopo quel che ti avevano fatto.” Chiarì prendendole la mano e fissandola con occhi traboccanti d’affetto, perché ancora una volta sapesse che lei sarebbe stata dalla sua parte in ogni caso, sempre.

“Sai una cosa Clà?” Replicò questa divincolandosi dalla sua stretta e soppesando assorta il koboloi. “Quella delusione avrebbe dovuto insegnarmi ad andarci più cauta, invece sono sta così cretina da incappare nello stesso errore una seconda volta.” Crucciata Alexandra lasciò che quelle parole restassero ad aleggiare tra loro per un poco. Poi, visto che l’altra si limitava a fissarla dispiaciuta, continuando a giocherellare coi grani, aggiunse: “Però adesso ho imparato, eccome se l’ho fatto. E quest’affare continuo a portarmelo appresso perché me lo ricordi ogniqualvolta mi venga la tentazione di legarmi a qualcuno.”

Detto ciò le sembrò assolutamente superfluo aggiungere altro e Claudia capì che per il momento non ne avrebbero più parlato. Forse aveva ragione lei, chissà, ad ogni modo le voleva troppo bene per forzarla e farla stare peggio. Perciò restò lì ancora un poco, aiutandola a fare le valige e facendosi promettere che, una volta a casa, avrebbe tentato di starsene il più tranquilla, onde non suscitare le collere assai suscettibili dei suoi. Del viaggio seguente poi si raccomandò solo che ne approfittasse quanto più possibile per rilassarsi.

“Cerca di non pensarci troppo, d’accordo?” Fece sulla soglia di casa dopo averla stretta in un abbraccio premuroso.

“Certo”, rispose Alexandra esibendo addirittura un pallido ghigno, “andrò a seppellirlo da qualche parte in Anatolia.”

Meditabonda Claudia si diresse alla fermata del bus e sola coi suoi pensieri ne attese l’arrivo. Al momento del commiato aveva mascherata la preoccupazione, ma intanto non poteva arrestare il corso inesorabile delle riflessioni che la conversazione con Alexandra le aveva messo addosso.“Oh Alekòs”, pensò sentendosi stringere il cuore, “perché ti tocca  sempre la via più difficile?”

Salì a bordo e durante il tragitto verso la zona residenziale ripensò a quanto era successo durante il tempo della loro separazione. Lei era tornata in Italia con la sua famiglia, Alexandra invece aveva migrato nel cantone franco-svizzero di Vaud. In ogni caso, proprio come aveva avuto modo di dirle, aveva lasciato Reinheit senza nessun rimpianto. Certo sarebbe potuta restare, era un’alunna brillante e le prospettive a cui avrebbe potuto ispirare con in tasca un diploma simile sarebbero state assai più ampie rispetto a quelle che poteva garantirgli il titolo preso nel suo attuale liceo. Ciononostante era stata lieta di abbandonare quel nido d’ipocrisie moraliste. Così, mentre lei si riabituava a vivere in patria, Alexandra si adattava ai nuovi ritmi e volti dell’approdo di Montreaux. Un posto prestigioso cui la vita era più comoda e i divertimenti consentiti. Ma, sebbene vi si trovasse abbastanza a suo agio, la tregua che credeva avervi trovata, non era durata. E ancora una volta gli eventi avevano congiurato contro di lei. Tanti ne erano stati i protagonisti e nessuno era esente da colpa.

“Neppure io.” Si disse Claudia, consapevole del fatto che si era limitata ad assistere a quella caduta dalla grazia da lontano. Certo nulla avrebbe potuto per scongiurare l’inevitabile. Pure, quando alla fine aveva saputo, ugualmente se n’era sentita responsabile. Già, come dimenticarsi di quella notte in cui Alekòs, ubriaca fradicia, le aveva confidato il doloroso segreto che covava nel petto? Allora apprese di Ariel, insegnante di musica a Le Rosembourg e primo anello della catena, il cui essere ebrea e progressista l’avevano resa fatalmente vittima designata. Poi venne fuori quella maledetta Leila Williams, compagna di scuola di Alexandra e di lei fin dal primo momento sventuratamente infatuata, la cui delazione aveva dato inizio a quel susseguirsi di voci e reazioni che avevano portato l’insegnante sul banco degli imputati. E, ovviamente, chi poteva presiedere un simile tribunale condannante se non il Conte Roelf van der Post? Così tra i singhiozzi e con parole rotte Alekòs le aveva narrata l’ira funesta dalla quale era sfociata una rappresaglia ancora più crudele di quella riguardante il professor Evangheliòs. Ché innanzi all’ostinazione perpetrata di sua nipote nel legarsi alle persone sbagliate il Conte non aveva avuta nessuna pietà. Anzi si era impegnato ad essere altresì sottile nel suo castigo, rendendola completamente impotente e schiacciandola altresì in modo trasversale. Cosicché ancora oggi ne pativa e ne soffriva soprattutto perché la reazione di Ariel Kohner era stata assai diversa da quella di chi l’aveva preceduta.

“Vecchio bastardo!” Pensò Claudia stringendo i pugni nel pullman semivuoto. Intanto, all’altro capo della città, piangendo calde lacrime, Alexandra aveva finalmente liberato lo strumento dalla sua guaina di velluto. Al buio se lo accomodò tra le braccia e dal nulla una straziante partitura di violoncello prese ad accompagnare il lento cadere della neve al crepuscolo.

 

 

 

 

 

N.d.A.

Dopo quasi un anno di colpevole mancanza, finalmente riesco ad aggiornare questa storia. Me ne scusino quelli che la seguono, ma in questi mesi, sebbene ce l’avessi chiara in testa, proprio non mi riusciva di mettere due righe l’una dietro l’altra.

Si sarà constatato inoltre che in quest’ultimo capitolo c’è una sovrabbondanza di carne al fuoco. Vero, ma ciò non solo per cominciare a gettare sprazzi di luce sulla personalità e i comportamenti spesso inspiegabili della protagonista, quanto per gettare le basi di quel che verrà a seguire, giacché, in tempi assai brevi,  il capitolo successivo sarà on line.  Questo non solo perché è già parzialmente scritto, ma soprattutto perché in tal modo spero di farmi perdonare il lungo silenzio riguardo a questa storia. In conclusione quindi, uno speciale ringraziamento va a chi ha letto, recensito e soprattutto pazientemente aspettato.

Grazie mille.

 

Aurelia

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