Andante di Aurelia major (/viewuser.php?uid=20934)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 1 *** Preludio ***
Scoppietta
il
fuoco nel camino, fuori è gelo e buio, la neve cade in
morbidi fiocchi, non un
rumore disturba il suo posarsi lieve. Dentro la stanza è
illuminata dal tenue
bagliore delle fiamme e loro se ne stanno l’una di fronte
all’altra godendo del
silenzio e della reciproca compagnia. E’ singolare quanto
siano simili, il
colore dei capelli è il medesimo, la figura quasi gemella,
gli occhi entrambi
chiari, sebbene nessun legame di sangue le unisca.
Solo
ad un
esame più attento si potrebbe scoprire che lo sguardo verde
dell’una si
specchia in quello grigio dell’altra, che uno dei due
profili, entrambi
cesellati, è vivacizzato da una fossetta sul mento. Notevole
invece è la
difformità delle bionde chiome: una è essenziale,
corta, aerodinamica
la definirebbe
la sua stessa proprietaria, al di là del ciuffo scomposto,
che consente agli
sguardi di spaziare liberi sull’avvenenza del suo volto. Per
contro l’altra è
folta, ricorda un intrico di mangrovie, dove la luce penetra a sprazzi,
e le cade
sulle ossute spalle in ciocche sfrangiate e strinate dal sole.
In
mezzo a
loro un narghilè e di tanto in tanto ne aspirano una
voluttuosa boccata che
riempie l’aria d’aromi fruttati.
Una
ha
distese le longilinee gambe davanti a sé, come un impacciato
puledro dalle
zampe troppo lunghe, l’altra preferisce tenerle incrociate e
i suoi occhi sono
chiusi. A differenza della sua vicina che li tiene ben aperti invece,
come se
ancora non riuscisse a saziarsi della presenza di colei che le sta
davanti.
E’
singolare
il loro rapporto, un legame che nulla chiede, apparentemente
sfilacciato e
condizionato dalla distanza. Eppure è come se non si fossero
mai separate,
quantunque la bambina nel frattempo sia diventata assai diversa dalla
proiezione della sua mentore, e la ragazza d’un tempo si sia
spinta molto più
in là di quanti potrebbero azzardare in una vita intera.
Essenzialmente
comunque restano sempre le stesse e quanto di comune avevano
c’è ancora. In una
forse l’amore l’ha un po’ addomesticato,
mentre nell’altra è sempre vivido.
“Sai
una
cosa?” Chiede all’improvviso la più
giovane, come se le fosse venuto in mente
solo in quel momento. “Non mi hai mai raccontato niente della
tua vita prima che
c’incontrassimo.”
“Non
me l’hai
mai chiesto.”
Tranquillamente
l’interpellata lascia intravedere il suo sguardo cinereo
posandole gli occhi
addosso con affetto.
“Suppongo
che
sia perché per me sei sempre stata compiuta.
Davvero non sarei stata in grado d’immaginarmi un passato per
te, di vederti
diversa da quel che eri. E poi ero una mocciosa con ben altre
priorità!”
Ridono
insieme, quantunque l’ilarità di una sia venata
dal timore di venir considerata
po’ meno dall’altra alla luce delle scelte borghesi
che ultimamente ha fatto.
Non ne hanno mai parlato, supinamente le ha accettate senza esprimersi
in
merito, senza darle alcun segno di biasimo. Ciò non toglie
che così potrebbe
essere, per questo ora, tutto ad un tratto, le si è
risvegliato il desiderio di
sapere riguardo a quel che ha sempre ignorato.
“Ti
va
d’illuminarmi?”
“Certo,
ma
devi scegliere. Posso liquidarla con due parole, o metterci tutto il
tempo di
cui ha bisogno.”
“Non
sei mai
stata un tipo loquace, immagino quindi che se tu ti debba dilungare, un
motivo
ci sia.”
“Come
in tutto.”
Risponde pacata accarezzandola con un prolungato sguardo. Quanto sono
simili, eppure,
allo stesso tempo, assolutamente dissonanti.
“Voglio
raccontartelo per bene sì. Principalmente per darti modo di
assimilare quel che
sentirai. Ti apparirò così diversa, talmente
lontana dalla persona che conosci,
che vedrai, avrai bisogno di tutta la tua lucidità per
capire.“
“Avanti
Sid,
mi hai sempre lasciato pensare con la mia testa, perché
stavolta dovrebbe
essere altrimenti?”
“Giusto,
perché?” Chiede sorridendole di rimando. Prende
una prolungata boccata e pare,
ispirando il fumo e saturandone l’aria attorno a loro, che da
quella nebbia si
possano schiudere le porte del passato. E infine comincia.
“Avevo
tutto
e a molto altro avrei potuto aspirare ancora, sarebbe
bastato un cenno e la mia vita sarebbe
potuta essere completamente diversa… ma io scelsi di non
scegliere, ed è qui
che inizia la mia storia.”
Preludio
Era un Martedì
d’inizio Settembre, una giornata alquanto atipica per la
verità, poiché, volendo speculare sul calendario,
avrebbe dovuto far caldo,
tuttavia l’aria non era affatto estiva.
La città era avvolta
da una cappa insolita ed era spazzata da una brezza
fredda che stava incrementando la forza del mare e creando, laddove
fino a poco
prima c’era stata l’immota distesa sabbiosa, tanti
piccoli mulinelli, che
vorticando senza posa, avevano praticamente costretto alla fuga gli
ultimi coraggiosi bagnanti.
Statici invece apparivano gli
animali, i quali, nel loro
istinto primordiale, erano come bloccati, quasi immobilizzati
in una morsa, timorosi persino di respirare.
Tant’è che persino l’usuale
concerto pomeridiano
del frinire dei
grilli aveva subito un’improvvisa battuta, per poi arrestarsi
del tutto.
Qua e là,
persistente, ancora s’udiva l’occasionale
vociare dei turisti che normalmente in questo periodo affollavano il
litorale,
ma nel giro di pochi minuti l’incipiente mutare del bel tempo
aveva spinto
anche questi ultimi a riparare al coperto.
Finanche gli onnipresenti
piccioni erano svaniti nel nulla,
normalmente volavano tutt’intorno, raggruppandosi nelle
piazze o sulle guglie
della cattedrale, ma oggi no. Se ne stavano rintanati nei propri
cantucci in
attesa che il cielo sempre più
plumbeo cedesse nuovamente posto al sole.
C’era
un’aria come d’un indistinta minaccia, come se
un predatore avesse preso a volteggiare nell’etere
sovrastante, come se la
cittadina stessa fosse
stata
afferrata da due
possenti mani nere.
Poi, prima che l’acquazzone estivo scaricasse la tensione elettrostatica e
rasserenasse uomini
e animali, il vento rinforzò ulteriormente la sua sferza,
quasi che non volesse
concedere alcuna tregua, neppure momentanea.
Non era una semplice corrente
d’aria fredda e non
raggelava esclusivamente il corpo, ghiacciava penetrando, strato dopo
strato, fino a giungere in fondo, giù, alla fonte
delle emozioni, dando una netta
sensazione svuotamento e provocando una gran voglia di
piangere.
Sulla stessa rotta percorsa da
quel vento viaggiava
un aereo della compagnia di bandiera tedesca e, man a mano che si
avvicinava al
suo obiettivo, risentiva degli sbalzi
che quelle forti correnti d’aria provocavano sulla fusoliera.
A bordo, mescolata tra
gli altri passeggeri, ma inconfondibile anche per
chi l’avesse vista
una sola volta,
c’era una bionda adolescente,
la quale non prestava molta attenzione a ciò che la
circondava. Neppure i
frequenti vuoti d’aria che l’aereo subiva
riuscivano a scuotere
la sua aria pensosa, concentrata
com’era nel ricordo dell’ultimo scambio di opinioni
avute, tra le tante prima
della sua frettolosa partenza, con sua madre.
Le erano state rivolte frasi
sentite, ma che di
amorevole non avevano affatto traccia. Senza dubbio la sua
interlocutrice era
una retore eccellente, soprattutto quando si trattava di formulare
parole dure,
di congedo e di condanna, senza contare che quella non era neppure la
prima
volta che le declamava una filippica di
tal fatta.
Ad ogni modo aveva ascoltato
tutto e non aveva
battuto ciglio, neanche
quando infine sua
madre aveva concluso amara:
“Va pure Alexandra, la
totale indipendenza era
l’unica cosa che non avevi ancora provato. Mi pare chiaro,
ovviamente, che se fosse
dipeso solo da me, da qui non ti saresti
mai mossa.”
Sarah era furente,
l’aria serafica di sua figlia
aveva il potere di stizzirla oltre ogni immaginazione e lei, nemmeno
per un
minuto, era stata tentata di chiedersi il
perché del suo agire sconsiderato.
La guardò a lungo combattuta, ma
com’era possibile? Una ragazza così
bella, dotata d’un intelligenza acuta, perché
quella crisi di rigetto verso
quanto, per nascita e meriti, le spettava di diritto?
Non era una semplice rivolta
adolescenziale quella,
ne era certa e, a lasciar sedimentare quell’enzima
pericoloso, la situazione,
da arginabile che era, sarebbe diventata insostenibile. Pure il decano
della
famiglia, all’ennesimo disastro combinato da quella ribelle,
aveva in tal senso
sentenziato. Doveva partire e i suoi timori materni potevano pure
andare a
farsi benedire, ché la parola del Conte era legge e
Alexandra obbediva solo a
quella.
Sospirò rassegnata,
con la mente invasa da foschi
presagi e riprese, nella speranza che il suo velato monito sortisse
qualche
effetto.
“Comunque sia, anche
se sono certa che non mi credi,
mi auguro che almeno stavolta ti riesca di trovare un
barlume di normalità. Nei limiti dei tuoi
difetti, s’intende. Del resto il sangue di tuo padre scorre
dentro di te, e
solo se riuscirai a sopprimerlo potresti farcela.”
Anche innanzi a
quest’ultima sortita non aveva
raccolto la provocazione e, fissando deliberatamente
colei la quale l’aveva tenuta, un tempo ormai
immemore, nel suo caldo grembo, ancora una volta si ritrovò
a chiedersi perché
mai non riuscissero a capirsi. Tra
di loro
non c’era comunione, di
nessun tipo, come se neppure fossero carne della stessa carne. La cosa
l’aveva
sempre ferita, ma era inutile indugiarci ancora, soprattutto alla luce
di
quanto stava per andare a fare. Ché solo allontanandosi da
lei, e da tutto
quanto rappresentava, avrebbe potuto finalmente uscire dal bozzolo
opprimente
nel quale si sentiva ingabbiata. Quindi, perché non fingere
di dar poco peso
alle sue esortazioni? E dunque, ad ostentazione della sua noncuranza,
le rispose
con aria annoiata.
“E’ una
questione di punti di vista mater.
E quelli che ritieni essere
difetti, per me non sono altro che nitide manifestazioni di
unicità.
Naturalmente puoi essere d’accordo oppure no, ma in fin dei
conti non interessa
a nessuna delle due. Non temere comunque, se è per me ti
assolvo completamente dall’obbligo
di preoccuparti. Anche
se dubito che tu
l’abbia mai avuto. Arrivederci, se ne avrò il
tempo mi sforzerò
di telefonarti.
In caso contrario
potrai rivolgerti al Conte, se e quando, vorrai avere
notizie.”
Così aveva concluso,
abbozzando un gesto di saluto con
un dolente e imbarazzato abbraccio, prima di salire sull’auto
di famiglia con aria
triste, ma distaccata. Eppure era tutt’altro che infelice.
La libertà finalmente.
In tal modo Sarah van der Post
osservò andarsene,
senza sapere quando avrebbe fatto ritorno, la sua unica figlia. Si era
agli
sgoccioli dell’estate e mancavano poco meno di sei mesi al momento in cui Alexandra
van der Post,
diciassettesima in linea di successione per il titolo nobiliare cui si
fregiavano da secoli, avrebbe raggiunto la maggiore età.
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Capitolo 2 *** 2 ***
Alexandra van der Post
con un gesto fluido, tipico della sua natura, si fece largo tra i
passeggeri che ingombravano il corridoio dell’aereo per
accomodarsi al suo posto. Operazione questa un po’
difficoltosa a dire il vero, in quanto, data la stazza, interamente
sviluppata in altezza che non nella mole, più che sedersi,
si appollaiò sul sedile assegnatole.
Dovette dimenarsi un
po’ nel tentativo di trovare una posizione non troppo scomoda
e, quando infine sembrò riuscirci, anche se solo
parzialmente, con la massima disinvoltura si accese una sigaretta
ignorando l’occhiata di disapprovazione del suo vicino, che
probabilmente la riteneva troppo giovane per fumare.
Prese ad aspirare
ed inspirare con voluttà anche se s’era
accigliata un tantino. Già, probabilmente era stato un
grosso errore voler fare di testa sua e declinare la proposta di
giungere a destinazione tramite un aereo privato della compagnia, ma
ormai c’era e doveva fare buon viso a cattivo gioco. Del
resto, a parte qualche piccolezza, la classe turistica dopotutto non
era poi tanto male e, visto che aveva fortemente insistito nel voler
viaggiare come una studentessa qualsiasi, ora non le restava che
attaccarsi al tram. Bel paradosso, non era affatto avvezza a quanto
normalmente veniva definito comune, né si riteneva tale.
Riuscirò mai
ad abituarmici? Pensò perplessa mentre il passeggero alle
sue spalle dava l’ennesimo, ed irritante, spintone al suo
seggiolino. Chiuse gli occhi allo scopo di rilassarsi, ma, non appena
percepì che una certa distensione stava per essere
raggiunta, all'istante da dietro si avviò un cicaleccio
ininterrotto.
Ma perché, si
chiese seccata, la gente continua a parlare anche quando non ce
n’è affatto bisogno?
L’aereo
cominciò a rullare sulla pista e quando decollò
lei, anche se avrebbe voluto pensare a tutt’altro, non
riuscì ad evitare il corso di quelle che ultimamente erano
diventate le sue ossessive meditazioni. D’altronde poteva
tornarle utile tentare d’immaginarsi proiettata nel futuro
che l’attendeva, ché tutto quanto
l’aspettava già dall’indomani era
un’incognita e, ad essere onesta, non riponeva residue
illusioni sull’immediato avvenire.
E come avrebbe potuto,
visto che il Conte, dopo aver appreso del suo ennesimo bando, di punto
in bianco, l’aveva praticamente costretta ad andare a vivere
nella stessa città d’una persona che fortemente
detestava, cioè suo padre? Forse le aveva giocato quel tiro
per punirla della seconda espulsione cui incorreva, oppure, cosa di cui
si persuadeva ogni giorno di più, questo era il risultato
delle sue rimostranze riguardo alla maggiore libertà che
richiedeva.
Suo nonno era un tortuoso
infatti e, intanto che con una mano dava, con l’altra
toglieva. Per cui sì, le aveva graziosamente concesso
d’avere una certa autonomia, per modo di dire, ma il dazio
consisteva nello stare in prossimità di suo padre, avendo
l’implicita proibizione ad incontrarlo.
E bontà sua
che lo vedeva come un castigo! Per la verità non smaniava
affatto all’idea di questo possibile ricongiungimento, anzi,
se si soffermava a riflettere sul tipo di relazione, anzi non rapporto,
intercorrente tra loro, la prospettiva l’allettava meno che
mai. Poiché quando il pensiero di suo padre la sfiorava,
cosa non molto ricorrente, in primis le veniva in mente che non era
neanche nata e già era uscito dalla sua vita;
dopodiché non poteva far a meno d’interrogarsi sul
frettoloso divorzio consumato dai suoi dopo appena sei mesi di
matrimonio; per poi finire a rimuginare sul fatto che,
malgrado fosse la sua unica figlia, il suo amorevole babbo non aveva
mai fatto nulla per incontrarla. Buon dio, aveva quasi diciotto anni e
quello non s’era preso neppure la briga di vedere che faccia
avesse, che razza di persona fosse diventata o se fosse in salute
piuttosto che storpia!
D’altronde lei
stessa non che se ne fosse interessata più di tanto, a parte
una foto intravista una sola volta, prima che sua madre la strappasse
ed incenerisse, con un gesto teatrale che la diceva lunga, nel fuoco.
D’allora Sarah
si era rifiutata di rispondere a qualsiasi domanda in merito e, man a
mano che passavano gli anni e che lei realizzava appieno la valenza
dell’insofferenza materna contrapposta
all’indifferenza paterna, aveva cominciato a rifiutare a
priori ogni cosa avesse a che fare con il suo papà.
Tutto ad un tratto
invece, a coronamento d’una serie d’eventi uno
più increscioso ed assurdo dell’altro,
chissà se per una coincidenza, o se per un preciso volere
del Conte, e conoscendolo protendeva decisamente verso questa ipotesi,
ora stava per diventare concittadina di suo padre. Prospettiva
singolare, visto che costui sarebbe dovuto essere una guida e un
esempio, ma che difatti era semplicemente un estraneo, un
nome inizialmente pronunciato con curiosità e poi,
in definitiva, con odio sempre più crescente.
Per fortuna non
c’era necessità di averci contatti, anzi
l’esatto contrario, il che ben si accordava con
gl’intenti e il pensiero del Conte Roelf van der Post, decano
della famiglia, suo tutore, amato e temuto nonno. Forse in
quel momento era solo lui, l’autoritas che da
sempre aveva regolato la sua vita, ad essere
l’unico punto fermo che le restasse, poiché, dal
momento in cui sarebbe scesa da quell’aereo, la sua
vita avrebbe avuto una svolta determinante verso
un’indipendenza troppo a lungo agognata.
Ché non
sarebbe stata più oppressa dai docenti del collegio che fin
lì l’avevano limitata, finalmente
avrebbe potuto emanciparsi, anche se non del tutto purtroppo, dalle
soffocanti tradizioni e dalle rigide forme impostale dalla
posizione del suo casato, cui la rendevano una delle ultime
aristocratiche di Germania e dunque soggetta a determinati protocolli
in auge ormai solo nelle rappresentazioni da operetta. Ché
neppure le cosiddette famiglie regnanti, vuoi quella inglese o quella
monegasca, con tutti gli sputtanamenti e corna che si facevano tra loro
e che regolarmente venivano riportate sui giornali, si sognavano si
sottostare a certe convenzioni retrive.
Ma il Conte non
transigeva, né lei era Lady D, quindi le toccava di
sottostare a quell’educazione di stampo prussiano, anche se
quella parziale autonomia concessale era decisamente nello stile che
spettava ad una van der Post. Il che voleva dire che avrebbe
frequentato un prestigioso liceo, che come domicilio avrebbe
avuto un appartamento sito in un antico palazzo ottocentesco nel centro
storico della città, oltre al fatto che per il suo
mantenimento il Conte aveva corrisposto un cospicuo appannaggio
mensile.
Davvero niente male come
inizio, non sembrava affatto una penitenza sotto questi allettanti
punti, eppure la percepiva come tale, altrimenti, perché tra
tanti luoghi mandarla dove prima o poi avrebbe potuto imbattersi in suo
padre? Senza contare che, se aveva strepitato tanto, era proprio
perché avrebbe voluto condurre un’esistenza meno
pomposa, più appartata, lontana da
quell’esteriorità che ultimamente aveva preso a
pesarle tanto e che, a volte e sempre più
frequentemente, temeva di non poter reggere ancora a lungo.
Inoltre c’era
un altro dato che non deponeva a favore di tutta questa situazione. Una
nuova scuola infatti significava pure che avrebbe dovuto socializzare
e, per la verità, era decisamente restia a fare
nuove amicizie. Le bastava la sua vecchia amica Claudia Contro, da
sempre sua granitica e infaticabile oppositrice, il resto
rasentava lo zero assoluto.
Amici? Per la
verità poco le interessava intrecciare legami di cameratismo
con quanti avrebbe incontrato sulla sua strada, giacché il
suo sentirsi diversa rispetto a loro aveva una valenza che poco aveva a
che fare con il classismo inculcatole fin dalla prima infanzia. Di
fatto, in fondo, lei era il risultato del connubio tra ovaie
ariane e lombi italici, quindi la sua ritrosia era dovuta
più che altro alla radicata consapevolezza di non poter
essere assolutamente in sintonia con chicchessia. No, per scuotere la
sua naturale riluttanza, era convinta sarebbe dovuto occorrere un
individuo speciale, una persona talmente sopra le righe e paradossale,
così ai suoi estremi, da poterla scuotere da ciò
che era l’ordinario andazzo. E, per trovare una simile perla
nel letamaio, necessitava una fortuna che non riteneva
possedere, giacché tutta quanto la somma dei suoi legami
personali fin lì era stata un vero calvario.
Beh certo,
c’era anche una punta di snobismo nel suo ragionamento, ma
pensava fosse poco e giustificabile, del resto, essendo
l’unica erede di un patrimonio immenso e di un titolo
nobiliare perpetratosi per secoli, pensava fosse quantomeno
inevitabile. Anche perché non si trattava soltanto di questo
e sarebbe stata ingiusta verso sé stessa se
l’avesse pensato, ché Alexandra riteneva di
conoscersi abbastanza bene ed era fortemente persuasa che un simile
atteggiamento scaturisse soprattutto dal radicato disgusto che le
suscitavano gli stupidi e i mediocri, i quali, ahimè,
risultavano essere la maggioranza assoluta della popolazione.
In tutti i modi questo
non era il momento, né il luogo, per dibattere su
questo fatto. Ce ne sarebbe stato d’avanzo di tempo per
farlo, quindi relegò il problema e, sporgendo la testa verso
l’oblò, si rese conto che ci mancava
poco per giungere a destinazione. E lei? Quando sarebbe giunta alle
considerazioni finali?
Partendo si era lasciata
alle spalle un contesto familiare che, una volta tanto, aveva avuto il
potere di stupirla, ché incredibilmente, alla notizia della
sua espulsione da Le Rosembourg, non c’erano
state tutte le reazioni prevedibili. Sua madre, naturalmente,
era diventata una furia e, tanto aveva urlato, che sul serio aveva
temuto le venisse un coccolone da un momento all’altro.
Fortunatamente Sarah era molto più coriacea di qualsiasi
arrabbiatura, il che si era tradotto in un sermone
furibondo punteggiato da recriminazioni e minacce
nient’affatto velate.
“E’
la seconda scuola da cui ti fai cacciare!”
L’aveva
accusata fulminandola con un cipiglio tremendo. “Che cosa
stai cercando di dimostrare eh? Dove credi d’arrivare
comportandoti in questo modo?” Aveva concluso aspettandosi da
lei una spiegazione esauriente, ma siccome Alexandra aveva il
fondatissimo sospetto che, seppure avesse tentato di spiegarglielo una
mezza dozzina di volte, sua madre non sarebbe mai stata in grado di
capire, si era limitata ad alzare le spalle con indifferenza. Cosa che
aveva definitivamente seppellito qualsiasi speranza di dialogo, anche
perché Sarah, esasperata dal suo gesto di chiusura, aveva
girato i tacchi e se n’era andata sbattendo pesantemente la
porta. Probabilmente per andare a manifestare il suo biasimo alle
orecchie paterne, nella certezza che lui fosse il solo che potesse
darle una raddrizzata.
Convinzione che lei
Alexandra condivideva ampiamente, tant’è che si
era aspettata una dura lezione del Conte. Già si figurava la
scena, come ouverture il solito, lunghissimo, discorso
sull’onore della famiglia, che con il suo gesto
sconsiderato aveva compromesso. Dopodiché le avrebbe
illustrato cosa c’era d’aspettarsi da lei
come unica depositaria del prosieguo della discendenza dei van der
Post, e per finire, che quella sarebbe stata
l’ultima volta che le permetteva di toccare il fondo,
poiché, d’ora innanzi, le avrebbe reso
la vita estremamente dura.
Il che, avrebbe
aggiunto mentre sceglieva il frustino adatto al tavolo dove li teneva
in bell’ordine, non perché gradisse impartirle
punizioni, quanto al fine di farle intendere appieno, e una
volta per tutte, come avrebbe
dovuto comportarsi un’aristocratica.
Dopodiché,
senza ulteriori indugi né sollecitazioni da parte
dell’uomo, si sarebbe chinata a novanta gradi e suo
nonno le avrebbe somministrato una bella reprimenda a base di
scudisciate, ché anche quella era una tradizione di famiglia.
Invece, con suo immenso
stupore, Roelf non l’aveva convocata in biblioteca, stanza
che solitamente aveva la stessa funzione del prato davanti alla
Bastiglia, né l’aveva sottoposta ad altre
umiliazioni.
In verità il
Conte, com’ebbe a confidare a sua figlia, mentre questa
continuava a concionare sul comportamento impossibile della
ragazza, non si era meravigliato troppo di quel che era
successo.
“Me
l’aspettavo da un pezzo.” L’aveva
interrotta secco innanzi alla velata accusa di star giustificandola.
“Alexandra è rimasta a Le Rosembourg quasi quattro
anni. Un vero record, considerata la sua irrequietezza.”
Aveva aggiunto imperscrutabile mentre Sarah, attonita, con
livore mal represso, aveva replicato:
“Sei sempre
stato esigente con lei, molto più che con me, il che
è tutto dire! Ci hai modellato entrambe su di un modello di
rigore e, ora che dovresti riprenderla più che duramente, la
giustifichi?”
“So quel che
faccio.” Con piglio autoritario, irritato dalla
palese impertinenza, nonché continua opposizione di sua
figlia, repentino l’aveva messa duramente al suo
posto.
“Conosco tua
figlia meglio di te Sarah e, anche se capita raramente da queste parti,
non ci vuol poi tutto questo acume per accorgersi della sua
insofferenza. E’ stufa, irrequieta. Certo, per palesarlo
non aveva bisogno di spandere i denti di un suo professore
sul pavimento, e per questo atto la censurerò
senz’altro. Ma per il resto credo di poterla, se
non giustificare, almeno capire.”
Detto ciò
aveva fatto una pausa per riflettere, come se ancora volesse ponderare
sulla decisione che già da tempo aveva preso.
Risoluzione della quale non aveva ritenuto opportuno mettere a parte
Sarah e non tanto per il peso ininfluente che esercitava
sull’educazione di sua figlia, quanto per
problemi puramente logistici. Infatti questa viveva ad
Hannover e solo in occasione delle feste comandate, o quando un evento
importante si profilava, la famiglia si riuniva. Per questo motivo
Roelf riteneva che fosse
del tutto inutile perder tempo in lunghe discussioni telefoniche,
meglio esser pratici e comunicarle il tutto vis a vis.
“Spesso mi sono
chiesto come assicurare, al di là di ogni dubbio, alla
nostra stirpe un futuro illimitato. Di conseguenza, altrettanto di
frequente mi sono interrogato su ciò che è meglio
per Alexandra. E’ nelle sue mani infatti la
continuità di tutto quanto i nostri avi hanno significato,
ed io stesso rappresento.”
Posto questo preambolo il
Conte si era avvicinato alla finestra e aveva lasciato che lo sguardo
gli spaziasse sui possedimenti della loro avita tenuta. Innanzi a lui
si stendeva una vasta distesa di verde, tutte le sfumature e le
tonalità di questo colore si affastellavano nel parco fino a
confondersi con le prime propaggini della Foresta Nera. La leggenda
narrava che nelle vene dei van der Post scorresse il sangue di Arminio
e Roelf non sapeva se fosse vero oppure no, pure, ogni volta che
guardava quelle selve, sentiva nascere in lui un tumulto potente,
quanto mai vago certo, ma forte, d’appartenenza alle sue
radici. E non poteva permettere alla sua unica erede di contravvenire
alla voce del sangue e della consuetudine. Per cui almeno per stavolta
sarebbe stato permissivo, ché giovava di tanto in tanto
foderare il pugno di ferro con un guanto di velluto.
“Ho valutato
pro e contro di ogni possibile alternativa, e alla fine ritengo che la
soluzione sia una ed una sola. Quindi per un certo periodo le
consentirò di starsene per conto suo come desidera. Sono
persuaso infatti che lontano da me e fuori dalle mura del collegio si
evolverà. Sì, sarà un ottimo banco di
prova per capire se sono riuscito a cancellare
definitivamente dal suo carattere le tracce delle indoli
mollicce e inutili di suo zio e di suo padre.”
Aveva concluso deciso
esibendo una piccola smorfia di disgusto alla menzione dei due, uno dei
quali era il suo primogenito.
“E voglio che
vada in Italia, non è lontana, ma neppure troppo vicina, il
che accontenterà le esigenze di entrambe le parti.
Là avrà modo di mettere alla prova la sua tempra
e, anche se l’idea mi sorride poco, prima o poi
incontrerà Giorgio Malaparte. Ja Sarah, voglio che lo
conosca e dalla sua reazione capirò con certezza
se davvero è il successore di cui c’è
l’esigenza.”
A questa chiosa Sarah non
aveva raccolto la provocazione e aveva replicato calma, come se
l’intenzionale accenno al suo ex marito, e peggio ancora a
suo fratello, non l’avessero affatto toccata.
“Se
è questo quel che pensi sia opportuno, non mi
opporrò. Per quel che varrebbe poi! Avevi deciso da un bel
pezzo Domine, oggi hai solo ritenuto dovermene mettere al
corrente.” Aveva aggiunto amara, ben sapendo che
non avrebbe potuto far nulla per convincerlo del contrario.
“Con Alexandra sembrerebbe tu non abbia mai fallito un colpo
e probabilmente t’ascolterà anche stavolta. Che
dirti? Forse maturerà davvero nell’indipendenza,
staremo a vedere.”
E questo era quanto
avevano deliberato il Conte e Mather e ora eccola qui, finalmente
disgiunta dall’atmosfera claustrofobica delle torri
medievali del collegio e dalla formale routine di Ranfield
Hall. Si accingeva a calpestare l’italico suolo ed
era piena di curiosità, ma anche di tanto
scetticismo, innanzi a quel che l’aspettava. Eppure
di una cosa era sicura, andasse come sarebbe dovuta andare, non avrebbe
mai ceduto innanzi al suo avversario, chiunque questi fosse.
Cosicché,
caricata a dovere la sua determinazione, non appena ebbe ritirato parte
del suo bagaglio, il resto sarebbe arrivato poi, impaziente si diede a
perlustrare tutto intorno in cerca di Claudia. Questa invece
l’aveva individuata subito e, appena Alexandra
varcò i cancelli dell’uscita, le corse
incontro.
Erano entrambe raggianti
e, stringendosi felici le mani, incapaci per il momento di articolare
alcunché dal senso compiuto, restarono per un bel pezzo in
quella posizione.
Del resto, per quanto
riguardava Claudia, erano anni che attendeva questo momento, finalmente
le era concessa la possibilità di trascorrere un tempo
indeterminato in sua compagnia, senza lo spettro
d’una partenza imminente che sciupasse il piacere dei loro
incontri.
“Ciao
Alekòs.” Riuscì ad articolare infine e,
senza neppure provare a resistere alla tentazione,
scombinandole i capelli sulla sommità del capo.
“Benvenuta nella terra dei poeti, santi e navigatori. Mi
sembri in forma, anche se un po’ dimagrita. Difficile il
distacco da Le Rosembourg?”
“Con calma
Clà.“ Rispose strizzandole l’occhio
complice. “Non mi sembra il caso di parlarne mentre
c’è tanta gente nei paraggi.” Concluse
accennando lievemente con la testa verso il padre di Claudia, al quale
poi si rivolse con un cordiale: “Salve signor Contro, come va
?”
“Non male
Alexandra.” Replicò questi ostentando
familiarità, ma sotto, sotto un po’ innervosito.
Poiché, d’accordo che la ragazza frequentava da
anni la sua casa, ma restava comunque il suo futuro direttore generale,
ragion per cui, il confine che divideva la confidenza dalla deferenza,
era oltremodo esiguo. Sì certo non c’erano tracce
della boria che contraddistingueva il Conte nel suo comportamento,
tuttavia, sebbene Alexandra con molta nochalance sorvolasse sul palese,
entrambi sapevano benissimo chi stava sopra e chi sotto. Quindi
l’uomo badò bene a mantenere entro un certo limite
la giovialità con la quale le si rivolgeva.
“Ben arrivata,
spero ti troverai bene qui. Sai, non si vive affatto male da queste
parti. Comunque toglimi una curiosità, sei cresciuta
d’un altro mezzo metro dall’ultima volta che
t’ho vista? Guardati, sarai perlomeno sul metro e
ottanta.”
“Qualcosa in
più credo.“ Precisò sperando di
smorzare gli ulteriori sviluppi ai quali quel dialogo poteva portare,
ma la sua vaghezza non sortì l’effetto voluto,
infatti l’uomo partì in quarta.
“Chissà
se mia moglie ti riconosce!“ Esclamò confermando
all’istante le supposizioni della sua
interlocutrice e, considerato quanto gliene poteva importare ad
Alexandra del parere della signora Contro, va detto a suo beneficio che
perlomeno tentò d’apparire
interessata a quelle chiacchiere fatue.
“Sai mia moglie
è rimasta talmente colpita dal vostro ultimo dialogo che non
fa che parlarmi di te.”
“Immagino,
probabilmente avrete passato serate a non far altro.”
Ipotizzò
meditabonda fissandolo in maniera talmente convincente che il suo non
sembrò affatto un dileggio, ma se la sua faccia di bronzo
convinse il padre, impressionò ben poco la figlia,
ché Claudia sapeva piuttosto bene cosa normalmente carburava
sotto quella chioma angelica e dietro quello sguardo fintamente
meditativo, e non voleva che il genitore ne facesse le spese.
Già, le ironie di Alexandra, seppur benevole, potevano
essere tremende, quindi s’intromise tempestiva nella
conversazione e invitò entrambi a darsi una mossa motivando
il tutto con ragionevoli fattori.
“Andiamo
Alekòs, se tardiamo ancora incapperemo nel traffico del dopo
lavoro e, almeno per il momento, credo vorrai risparmiarti un
bell’ingorgo a croce uncinata.”
L’esortò con un’occhiata quanto mai
significativa e ne venne ricambiata da una decisamente divertita, ma
consapevole. Tanto che la piantò lì e
lasciò all’uomo il monopolio della conversazione
mentre attraversavano la tangenziale in direzione della
città.
Giunti alla loro meta,
una discreta villetta su due piani nella zona residenziale, Alexandra
ebbe appena il tempo di darsi una sommaria rinfrescata,
poiché la famiglia al completo l’aspettava
per cenare. L’intera durata del pasto, che di certo
non le fece rimpiangere la cucina svizzera, fu punteggiata dalle menate
a fuoco incrociato dei coniugi Contro e dagli irritanti infantilismi
dei due figli piccoli, lagne a cui non era affatto avvezza ma alle
quali, per amor d’educazione e l’affetto che
nutriva per Claudia, sorrise blanda per tutto il tempo. Inoltre, se
tutto ciò non fosse stato abbastanza, mamma Contro, ad
intervalli regolari, prorompeva in esclamazioni del tipo: “Ma
come ti sei fatta carina!”, il che stava straziando
oltremisura i suoi ormai doloranti timpani.
Stoicamente
sopportò e solo dopo un paio d’ore, che comunque
le sembrarono un’eternità, di questa
maratona di cretineria lei e Claudia ebbero l’agio di
ritirarsi di sopra. Ripararono nella stanza di
quest’ultima, un locale ampio, ma
completamente stipato di libri e carte.
Finalmente potevano
parlare a tu per tu e per la verità non ne vedeva
l’ora, nondimeno Alexandra restava in attesa,
poiché non le veniva facile dare l’avvio. Proprio
non le riusciva, nonostante si conoscessero da anni e la loro amicizia
avesse superato molte prove. Inoltre era da sempre Claudia a nutrire il
fuoco dell’affiatamento, alimentandolo a base di domande
opportune e, molto spesso, talmente impertinenti, che non si potevano
affatto ignorare.
Così si
distese supina, incrociando le mani dietro la testa, mentre Claudia le
si accomodava accanto prendendo la posizione del loto.
Assunti i rispettivi e soliti atteggiamenti, entrambe tirarono fuori le
sigarette e, accostandole alla fiamma dell’unica accendino,
per poi inalare soddisfatte la prima boccata, con quel semplice gesto
sembrarono sbloccarsi all’unisono e cominciarono a parlare
contemporaneamente.
Come un fiume in piena,
le parole traboccarono copiose e finalmente poterono dilungarsi nei
dettagli, cominciando a riempire quel vuoto che durava da troppo.
Conversarono precipitosamente, interrompendosi di continuo, perdendosi
in parentesi sul perché e il percome di questo o di
quell’argomento marginale, per poi tornare al pretesto che
aveva dato origine a quelle divagazioni. Domande su domande
s’incrociavano e si accavallavano sulle loro teste e le
risposte, a volte sorprendenti, altre previste, alternativamente le
facevano ridacchiare o fermarsi per un momento a rifletterci su, per
poi riprendersi e sparare la bordata successiva che avrebbe soddisfatto
quegli interrogativi che giacevano insoluti da tempo.
A notte fonda, quando
ormai tutti, salvo loro, dormivano saporitamente da ore, Claudia
tornò dabbasso con una cuccuma di caffè fumante
e, piazzandogliene davanti una tazza corretta con
un’abbondante dose di brandy, alla fine le pose la questione
della quale più le premeva di sapere. Giacché sul
fattaccio avvenuto a Montreux, fin lì Alexandra era stata
piuttosto reticente.
“Allora
teppista, stavolta perché t’hanno buttata
fuori?” L’apostrofò riempiendosi la
tazza e guardandola significativa.
“Routine.”
Fu la replica telegrafica che ne ebbe. In effetti Alexandra stava
tentando di prendere tempo, poiché sapeva che
l’altra avrebbe disapprovato sia i fatti che il
ruolo da lei svolto all’interno di questi.
“Davvero
Alekòs, la stessa routine della Pileford
Accademy?” Replicò soave ghignando. Al che,
considerato quanto fosse una vera marpiona l’amica, e
soprattutto, ritenendo effettivamente di non avere affatto nulla di cui
vergognarsi, si decise a vuotare il sacco.
“Oh no, molto
meglio, te l’assicuro. Almeno stavolta mi sono tolta la
soddisfazione di suonarle ad un tizio che mi aveva proprio rotto le
palle!” Affermò sorniona, soffiando, con un
broncio molto ben simulato, uno sbuffo di fumo azzurrino. Poi,
soddisfatta del tiraggio della sigaretta, attese la replica
dell’altra.
“Dai dimmi di
più, ho la vaga impressione che sia molto peggio di quel che
mi sto immaginando.” L’esortò Claudia
scuotendo il capo nella pantomima dell’esasperazione.
“Ho idea che alla notizia, come minimo, tua madre e il Conte
ti avranno fatto ballare la giga.”
“Non
più del solito Clà. Però Sarah
s’è incazzata così tanto che stava
lì, lì per avere una
gravidanza isterica.”
Affermò con un
espressione talmente singolare, un misto tra il costernato e il
dubbioso, che Claudia pian piano passò da un blando ghigno
ad una risata irrefrenabile. Era difficile resistere ad una
sghignazzata come quella e compiaciuta Alexandra se ne
lasciò contagiare, tanto che rincarò la dose:
“Tutto questo, cara mia, sapendo solo una parte dei fatti. In
caso contrario, a quest’ora avresti potuto contemplarmi solo
attraverso un vetro divisorio, te
l’assicuro.”
“Galera?”
Ipotizzò porgendole la battuta.
“No, piuttosto
il cristallo di una bara a vista!“ Ribatté
scatenando l’ennesimo scoppio d’ilarità.
Dopo un po’, quando ormai Alexandra si teneva lo stomaco e
Claudia i fianchi, contratti da un crampo, alla fine questa,
asciugandosi gli occhi, tentò di riportare la conversazione
al punto in cui si erano interrotte.
“Coraggio, che
hai fatto? Falla finita e dimmelo!”
“D’accordo.”
Capitolò conciliante, ben sapendo a cosa sarebbe andata
incontro una volta svelato l’altarino. “Ho
picchiato Behan, il professore di chimica.”
“Tu
cosa?!” Sbottò tornando all’istante
seria. Ché se Alekòs aveva fatto una cosa simile,
allora la situazione era più grave di quanto se
l’era figurata.
“Non cominciare
subito con la stura delle recriminazioni.”
L’avvertì piccata, non le piaceva affatto
l’espressione sgomenta, e parecchio contrariata, che
l’altra esibiva. Accidenti, non voleva mica un altro processo
alle intenzioni e soprattutto non tollerava che fosse la sua
più cara amica a farglielo.
Quindi tentò
di spiegarsi in qualche modo: “Sappi che non l’ho
steso solo per il gusto di farlo, o a causa di un diverbio
erudito.”
“Chiaramente,
su questo non avevo alcun dubbio. Come minimo ti avrà
pescata di nuovo fuori dal collegio a notte fonda e magari in
qualche pub, sbaglio?” Chiese scotendo il capo e dandole
un buffetto dietro la testa.
“Sì
sbagli, nel caso sarebbe stata una manna, credimi.” Ammise
sospirando. “No Clà, stavolta non
c’entravo niente con tutto quello che stava accadendo,
sì certo, c’ero anch’io al festino che
ha dato origine a tutto sto casino, ma la mia partecipazione era
limitata. Insomma”, aggiunse consapevole di essere stata poco
chiara, “le solite note si erano riunite nella stanza che
dividevamo io e Fiona, c’era persino Leila e sai benissimo
questo che vuol dire.” Sottolineò scoccandole
un’occhiata significativa.
“Tant’è c’erano pure un paio
d’ochette del primo anno in cerca di emozioni, come se poi
noi studentesse anziane fossimo state l’antitesi di tutte le
pruderie! Ad ogni modo, stavamo drinkettando a base di vodka,
accompagnandola con una robusta dose di maria libanese…
che fai Claudia, ti scandalizzi?” Fece notando che
la bocca di quest’ultima che aveva assunto un ovale perfetto,
quindi continuò salace, senza darle l’agio di
replicare: “Non dovresti sai? Innanzitutto perché
era una prassi, ma in special modo perché tutto il corpo
amministrativo, docenti e personale, sapeva. Figuriamoci, scoperchiare
sto vaso di Pandora non conveniva a nessuno! La principesca retta di
fine mese li avrebbe fatti passare sopra qualsiasi cosa,
purtroppo per me però, la sera di cui parlo non poterono
proprio ignorare la baraonda che si creò. I problemi
cominciarono quando quella debosciata di Leila e quelle
dementi di matricole, completamente sbronze, oltre che strafatte, si
misero a giocare a poker strip. Da lì fu un attimo
che Leila saltò addosso alla prima che si trovò a
portata di mano. Le altre, bontà loro,
erano talmente alleluia che furono più che appagate dal
semplice fatto di starsene lì a soddisfare i loro
impulsi voyeuristici. Quanto a me, che ero l’unica abbastanza
sobria, volevo solo buttarle fuori prima che
s’aggrovigliassero.”
Concluse con un eloquente
gesto della mano, mentre Claudia, per l’ennesima volta,
restava a bocca aperta. Ché più
Alekòs andava avanti nel suo racconto, più il suo
stupore cresceva. Certo non era una mammoletta, sapeva benissimo che
negli internati femminili, come in quelli maschili del resto, simili
episodi potevano accadere. Ma da quel che stava sentendo, pareva
proprio che Le Rousembourg fosse diventata la novella patria delle
adepte di Saffo. Già in passato l’amica aveva
accennato a quanto le alunne più grandi fossero attratte da
lei, ma si trattava di un discorso fatto quasi un lustro prima, quindi
l’aveva ritenuta una faccenda sporadica. Invece
così non era, anzi, a quel che aveva appena sentito, era
chiaro di quanto si fosse evoluta vieppiù.
Il guaio è,
pensò accendendosi l’ennesima sigaretta e
guardando furtivamente l’altra, che davvero non so
Alekòs come si ponga rispetto alla situazione.
Intanto Alexandra aveva
ripreso a parlare.
“Purtroppo per
me non ne ebbi il tempo e proprio in quell’istante
entrò Behan. Pare fosse stato attratto dai rumori, e credo
proprio che quando spalancò la porta rimase ben poco
sorpreso. Sai”, aggiunse grattandosi la testa tentennante,
“negli ultimi tempi non è che avessi una buona
nomea tra i professori.”
Detto questo si
rabbuiò visibilmente, tanto che Claudia preferì
esternare la domanda che aveva sulla punta della lingua fin
dall’inizio.
“Alekòs,
sicura che non c’è qualcos’altro che
dovresti dirmi?”
“No.”
Replicò lapidaria fissandola dritto negli occhi, occhiata
che Claudia sostenne col massimo della costanza.
“Lì dentro non mi sono scopata nessuna, se
è questo che volevi sapere.” Aggiunse sfidandola a
dir altro, ma Claudia capì immediatamente che se aveva cara
la sua amicizia doveva lasciar cadere l’argomento. Era chiaro
che aveva toccato un tasto dolente e che l’amica aveva in
merito una coda di paglia grossa così, e proprio per questo
era più saggio scegliere la via del silenzio. Quantomeno per
il momento.
Alexandra invece, con
estrema sollecitudine, riprese le fila del suo discorso, allo scopo,
neanche troppo nascosto, di non darle modo di rintuzzarla nuovamente a
quel dannato proposito.
“Comunque,
quando quel buzzurro s’introdusse
all’interno, urlando come un ossesso, quel che vide fu
così inequivocabile che le mie ospiti si diedero
istantaneamente alla fuga. E mentre loro fuggivano poppe al vento,
ovviamente quel tanghero se la rivalse con me. Mi prese per la
collottola e aveva tutta l’intenzione di
schiaffeggiarmi, secondo te che dovevo fare, farmi prendere a ceffoni
pur non avendo colpa?”
“Ma neanche per
sogno, è ovvio che ipotizzare altre soluzioni sarebbe stato
del tutto inutile. Oppure ti ci sarebbe voluto troppo tempo per
pensarci.” Replicò Claudia scialando
abbondantemente quanto a sarcasmo.
“Avrei voluto
vedere te!” Sbottò spazientita per la palese
ingiustizia, ma accidenti, che pretendeva? Va bene, aveva sbagliato, ma
col senno di poi l’avrebbe rifatto, in quanto sapeva e
sentiva di essere comunque nel giusto. Tuttavia tentò di
mediare.
“D’accordo,
d’accordo, forse non avrei dovuto tirargli il mio miglior
destro, magari avrei dovuto almeno provare a spiegarmi prima di fargli
saltare entrambi gl’incisivi... Eppure Clà, sai
qual’era la cosa più comica?” Chiese
d’improvviso sfoderando un sogghigno picaresco al quale era
difficile resistere e prendendo a ridacchiare gaia, per poi rispondersi
da sé senza attendere l’eventuale replica
dell’altra. “Vederlo carponi mentre cercava di
recuperarli! Stavo là a ridergli in faccia mentre lui
s’affannava tutt’intorno nella sua vana
ricerca!”
“Il che
certamente non avrà migliorato la tua situazione.”
“Vero, infatti
se ne andò incazzato da morire, per tornare dopo poco
con il preside alle calcagna, il
quale, davanti a prove così evidenti,
tipo i denti mancanti del suo sottoposto, o i vestiti che quelle
imbecilli non s’erano preoccupate di riprendersi, per non
parlare delle bottiglie sparse dappertutto, non poté far
altro che espellermi. Inoltre, per soprammercato, puzzavo
d’erba peggio d’un boliviano clandestino. Era
dispiaciuto però, temo che gli mancheranno le donazioni che
ogni anno il Conte gli snocciolava.” Concluse con
un’alzata di spalle, quindi si adagiò nuovamente
sui cuscini considerando chiuso il confronto.
“Vedo che la
cosa ti diverte.”
Commentò
Claudia pacata. Ché, ascoltando il finale rossiniano di
quella sorta di farsa, aveva avuto tutto il tempo di recuperare la
presenza di spirito atta a tentare di farla ragionare. In
verità era preoccupata, quella storia presentava alcuni
punti oscuri che l’amica non s’era
peritata di chiarirle. Oppure era solo un’impressione la sua?
In ogni caso era meglio cercare di darle un monito che
potesse moderare il suo temperamento in futuro, giacché
nella loro comune scuola non poteva mica combinare un altro
casino simile.
“Sai
Alekòs, mi chiedo quando ti deciderai a piantarla, forse ti
è sfuggito sorella, ma a breve sarai maggiorenne. Ma vedo
che l’idea di cominciare a mettere la testa a posto
neanche ti sfiora!”
“Che palle
Clà! In fondo non è la prima volta che finisco in
strada, quindi fammi la cortesia, le filippiche lasciale ad
altri.” L’esortò tentando di
minimizzare. Non aveva affatto voglia di tornarci su e un conto era
doverne discutere e giustificarsi con la famiglia, ben altro essere
costretta a farlo con colei la quale aveva sperato avessero potuto
riderne e basta.
“E’
proprio per questo che te lo dico.” Fece accorata ravvisando
l’aria chiaramente delusa dell’altra. Accidenti,
non voleva essere molesta e neppure bacchettona, per cui
provò a spiegarsi con più calma.
“Onestamente è un po’ di tempo che
faccio fatica a capirti. Sei strana e di conseguenza mi tocca andare a
tentoni, spesso sbagliando.”
“Ipocrita e
mendace!” La sfotté sollevata dal fatto che quella
sorta di paternale non era dovuta al biasimo, bensì
all’affetto. “Come se negli anni m’avessi
considerata nient’altro che normale! Su, vecchia mia, molla
l’osso, sai benissimo che non sono stata mai un modello di
tranquillità, quindi perché non spegni
quell’accidenti di luce e vediamo di farci qualche ora di
sonno?”
“Okay.”
Capitolò smorzando l’interruttore e ficcandosi a
letto. Ma non resistette che qualche minuto.
“Alekòs?”
“Uffa!”
“C’è
ancora una cosa che vorrei dirti.”
“Dai.”
“Mi raccomando,
quando farai il tuo ingresso nella nostra scuola cerca di non farti
classificare subito per quel che appari e non
sei.”
“Che cavolo
vorresti dire con quell’appari?”
Improvvisamente la stanza
si rischiarò a giorno mentre Alexandra balzava dal suo letto
a quello dell’amica. Con due dita le arpionò
l’orecchio ed esclamò:
“Dì un po’ non starai mica pensando
ancora a quello? Sul serio credi che me ne vada in giro ad
importunare le verginelle?!”
“Me
l’hai detto tu prima che non godi di una reputazione troppo
buona.” Rispose ilare accalappiandole il naso nella medesima
morsa e, mentre erano strette in quella sorta di scherzoso abbraccio,
si risolse a dirle quel che prima non aveva azzardato.
“Vorrei solo
darti una mano idiota! E visto che ci siamo, parliamone. Se non ti va
di raccontarmi di quel che stai combinando mi sta bene, ma sappi che la
tua apparenza può risultare equivoca e, ad una
pettegola o un pettegolo, che sono pure peggio, non ci vuol nulla ad
appiccicarti addosso un etichetta indelebile che tuo nonno ti farebbe
scontare con le pene dell’inferno.”
“Cazzo come sei
sollecita Clà!” Esclamò mollandole
l’orecchio per farle una cravatta astringente. Scherzava, ma
neppure tanto. “E chi m’insegnerebbe a diventare un
compito modello di femminilità, tu forse? Nel caso sembrerei
comunque un gufo occhialuto e molto intellettuale di
sinistra!”
Claudia
sogghignò enigmatica al paragone, ma soprattutto
all’indirizzo di sé stessa, ché aveva
colto perfettamente nel centro. E per il momento si disse che poteva
bastare, in fin dei conti non era necessario stuzzicarla
più del dovuto. Sì, più in
là avrebbe avuto modo di appurare se in qualche
modo le sue apprensioni fossero fondate. Quindi smorzò
notevolmente i toni, facendole intendere
d’aver frainteso completamente.
“ Ehi tonta,
l’apparenza alla quale mi riferisco è quella da
tossica. Sei magra da far paura e pallida peggio di una salma, io lo so
che non sei un’eroinomane, tanto meno un’anoressica
fissata, ma nel nostro liceo potrebbero pensarlo in molti. Per cui,
fatti un favore: almeno per i primi mesi evita di cacciarti nei guai o
in situazioni anomale, intesi? Fuori di lì fai
quel che ti pare, fuma, bevi, sniffa, menati con i camionisti, vestiti
sadomaso, scippa le vecchiette, tocca il sedere ai passanti, bestemmia,
insomma fai quel che più t’aggrada, ma
fuori ti prego.”
“D’accordo
rompicoglioni, proverò ad ascoltarti. Però
ricordati una cosa, sono le grane che vengono a me e non il contrario.
E poi, chi me lo dice che nel tuo convitto di sante e beatificati non
ci sia qualcuno che si comporta peggio di me? Vero che in
certe situazioni agisco come se fossi fuori di testa, ma non
esagerare, non sono mica il diavolo.”
“Ah no eh?
Staremo a vedere.”
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Capitolo 3 *** 2 ***
Mancavano
ancora una dozzina di giorni alla riapertura delle scuole e Alexandra
ne approfittò per impegnarsi in molteplici
attività, non ultima quella di
migliorare il suo italiano, il quale, sebbene fosse abbastanza buono,
conservava intonazioni eccessivamente auliche per essere scorrevole
come
avrebbe dovuto. Inoltre il suo accento tedesco risultava piuttosto
marcato, tanto che
Claudia le impose di leggere ad
alta voce libri e giornali mentre via, via la correggeva.
Un’attività che
impegnò loro parecchie serate, risultando un imprevisto
deterrente alla noia,
in quanto l’esercizio si trasformò rapidamente in
un piacevole passatempo,
visto che lo studio veniva inframmezzato da molteplici chiacchierate e
pause
per prendere il caffè.
Raus, raus
fraulen!
Motteggiava
Claudia sfottendola quando si bloccava incerta su di un
congiuntivo ostico e per tutta risposta Alexandra replicava, facendole
il saluto
militare, enfatizzando uno stentoreo: Jawoll!
Naturalmente il
problema linguistico non era la sua unica occupazione,
di regola era già fuori dal letto alle sette per andare a
fare jogging lungo la
costa. Amava il mare, la cui vista per tanto tempo le era stata
preclusa, e
appagata si crogiolava nella frizzante
aria salmastra. In seguito, dopo essersi abbigliata in un modo che in
collegio
non le sarebbe stato mai consentito, sebbene si trattasse di un jeans
sovrastato da una semplicissima t-shirt, girava per la città
allo scopo di
farsi un’idea del centro urbano e familiarizzare con
quell’ambiente così
diverso da quello a cui era abituata. Pranzava frugalmente, evitando
sistematica i locali alla moda a favore di un sandwich da consumare nel
parco,
per poi ammazzare il tempo fino a sera andando a cavalcare o
semplicemente
guardando le vetrine che esponevano i primi capi della stagione
autunnale. Cosa
che le ricordava che quanto prima avrebbe dovuto rinnovare il suo
guardaroba,
poiché finalmente poteva mandare in malora la pletora tutta
del suo abbigliamento
formale.
Quest’andazzo
andò avanti finché
non arrivò
il giorno del suo
debutto scolastico, avvenimento che per la verità non
l’emozionava più di
tanto, infatti come di consueto si
alzò
e andò a
correre, anche se un
po’ prima del solito. Una volta a casa si lavò e vestì
con noncuranza e, dando gli ultimi colpi di spazzola alla
folta chioma,
osservò spassionata la
sua immagine
riflessa meditando sull’impressione che avrebbe dato.
Si
esaminò da capo a piedi scevra da qualsivoglia presunzione,
finché ne
concluse che esteticamente poteva ritenersi immune da imperfezioni e
che, al di
là del piacere o meno, risultava
comunque
un bell’esemplare umano.
Forse,
pensò mettendosi di profilo e osservando perplessa la
silhouette
del naso e della mascella, l’uno era un po’
eccessivo e l’altra decisamente
squadrata, ma essendo la totalità della sua fisionomia
marcata, nell’insieme
non apparivano troppo pronunciati.
“Beh,
togliamoci il pensiero.”
Concluse, a
metà strada tra il serio e il faceto, infilando la porta e
buttandosi
la cartella su di una spalla. La scuola non era troppo lontano dal suo
appartamento, tanto che se ne scorgeva la sommità. Stava
procedendo ad andatura
svagata, presa com’era dall’osservazione della
costruzione imponente che man a
mano si rivelava, ed era quasi arrivata al cancello
d’entrata, quando una
bici in corsa rischiò di travolgerla.
D’istinto scartò di lato, rovinando atterra,
mentre l’incauto ciclista terminava la sua corsa sul solido
muro di cinta.
“Mein gott!“
Imprecò
scuotendo il capo ancora sorpresa dall’accidenti che le era
capitato addosso, quindi si voltò a fronteggiare il suo
investitore, per
rendersi conto sorpresa di non trovarsi innanzi ad un motociclista
spericolato
come aveva immaginato, bensì ad una normalissima bici da
passeggio. Al che le
venne da ridere, poiché, per un’appassionata di
sport estremi quale lei era,
rischiare di finire con l’osso del collo spezzato per via di
una comune
bicicletta, sarebbe stata una bella beffa.
“Che
mi dannino!”
Esclamò
avvicinandosi a rapidi passi verso la figura che giaceva
scomposta sul selciato e, notando i piedi calzati da ballerine,
nonché una gran
massa di capelli scuri, ne dedusse sollevata che
quell’alterco non si sarebbe
concluso con una scazzottata, a meno che l’incauta ciclista
non fosse a caccia
di rogne. Per il momento non sembrava, in quanto era occupata a
raccogliere il contenuto
della sua borsa che s’era sparpagliato
tutt’intorno, ma al suo approssimarsi
sbottò stranita:
“Accidenti,
perché non fai attenzione a dove metti i piedi?”
Stupita da
tanta faccia tosta Alexandra non replicò subito, preferendo
attardarsi ad accendersi una sigaretta mentre osservava incuriosita
quell’estranea che, sebbene fosse palesemente nel torto
marcio, aveva pure l’ardire
di rivolgersi in quel modo a lei. Intanto la sconosciuta, conclusa la
sua cernita,
le piantò addosso uno sguardo dai toni bruni come una tazza
di cioccolato caldo
e continuò a strepitare.
“Si
può sapere che diavolo stavi cercando di fare piantata
giusto in
mezzo al viale?”
Per tutta
risposta, stupendo persino sé stessa la benevolenza del
gesto,
Alexandra le tese la mano tirandola su senza alcuno sforzo, tanto
questa era
leggera, quindi lievemente ironica si diede la pena di risponderle.
“Aspettavo
che una nana su una bici tre volte più grande di lei mi
tirasse sotto!”
Fece
squadrandola da sotto in su, giacché, adesso che si
fronteggiavano,
la differenza era notevole. In effetti al suo cospetto appariva
ulteriormente
minuta, oltre al fatto che i suoi colori chiari stridevano con la
carnagione
zingaresca che aveva davanti.
Inoltre,
pensò Alexandra viepiù interessata da
quest’aspetto inconsueto,
non che fosse brutta,
ma neppure la
quint’essenza dell’avvenenza. Di certo non si
sarebbe fatta notare in mezzo
alla gente, pure se ne stava lì a fissarla senza riuscire a
risolversi ad andarsene.
Né questa pareva ne avesse intenzione, la stava sottoponendo
al medesimo
scrutinio infatti, quantunque di sottecchi, mentre si spazzolava la
giacca
sbaffata di polvere di gesso.
Per la
verità, essendosi presa una bella paura, Lara aveva reagito
involontariamente
all’imprevisto, ma ora che aveva realizzato la dinamica
dell’accaduto, per
riflesso titubava alquanto e non sapeva come superare
l’impasse. Le spiaceva
proprio averla assalita a quel modo e spontaneamente le fece un sorriso
imbarazzato, fidando sull’istintiva simpatia che solitamente
suscitava.
Neppure
Alexandra parve risultarne immune, ciò nonostante ritenne
fosse
il caso di mettere i puntini sulle i.
“Senti,
ero di spalle e non potevo certo vederti, ma tu
sì.”
Puntualizzò
accennando ironicamente alla bici che dopo l’impatto
risultava sbilenca, in effetti aveva la forcella completamente storta,
e sulla
stessa falsariga continuò: “Chi ti ha messo in
mano quest’arnese avrebbe dovuto
metterci un paio di freni in più, oltre che delle rotelle.
Comunque, ti sei
fatta male?” Si degnò di chiederle infine e,
ricevutone un segno d’assenso,
fece per incamminarsi ma Lara la trattenne.
“Mi
spiace, scusami.“ Rispose conciliante. “Posso
offrirti un caffè per
farmi perdonare? Stanno per arrivare i miei amici, si potrebbe andare
tutti
insieme.”
Propose
invitante senza poter immaginare che, se solo avesse evitato
d’includere altre persone, Alexandra avrebbe accettato
volentieri. Invece non
appena intese che le sarebbe toccato d’interagire con quello
che considerava un
eccesso d’individui, piuttosto che la confidenziale
conversazione a due che
avrebbe preferito, si ritrasse in tutta fretta.
“Magari
la prossima volta.”
Replico
lasciandole volutamente aperto uno spiraglio, poiché, e dio
solo
sapeva perché, quella cozza nera aveva qualcosa che
l’impediva di chiuderle
tutte le porte. Ridacchiò, a dispetto di sé
stessa e di tutti i propositi che
s’era fatta in precedenza, e facendole un segno di saluto si
avviò verso
l’ufficio scolastico per appurare in quale classe fosse
finita.
Lara
restò a fissarla assorta, ma non ebbe l’agio di
formulare alcun
pensiero poiché in pochi istanti fu raggiunta da due dei
suoi più cari amici, i
quali da lontano avevano potuto
assistere a tutto quanto era accaduto. La prima ne rideva,
mentre l’altro
appariva piuttosto preoccupato.
“Ma
che è successo?“
Le chiese
ansioso fissando in malo modo la figura che s’allontanava
adagio,
ché lo sviluppato istinto di protezione che sentiva nei
riguardi di Lara,
nonché la vista della bicicletta deformata, non lo
disponevano favorevolmente
nei riguardi di quella, che a tutta
prima pareva proprio avesse aggredito la ragazza di cui era innamorato.
“Nulla
Luigi, è stato uno scontro inevitabile.”
Replicò
quest’ultima misteriosa, sorridendo tra sé e
sé. Cosa che
aumentò notevolmente la latente antipatia che già
cominciava a nutrire. Si
trattava di un sentimento a pelle, d’una
avversione istintiva, viscerale, attecchita al vago ed inspiegabile
timore che
potesse sottrargli qualcosa. Poiché, quando Lara cominciava
a comportarsi in un
certo modo, significava che si stava intrigando e non gli piaceva
affatto.
“Chi
è?”
Si
limitò a chiedere l’altra, la
quale, pur avendo rovistato nel vasto archivio delle sue conoscenze,
non aveva
trovato tracce della persona in questione. E va sottolineato che Steffi
faceva
il paio con l’anagrafe per la quantità di gente
che conosceva, fosse pure solo
di vista.
Per tutta
risposta Lara scosse il capo, per poi farsi una bella risata,
strizzarle l’occhio e aggiungere: “Non ne ho idea,
ma intendo scoprirlo!”
Dopodiché
i tre si avviarono verso la loro classe, ognuno animato da
sentimenti contrastanti: Steffi era alquanto riottosa alla prospettiva
di un
altro barboso anno scolastico, Luigi invece s’era immusonito
davanti all’ennesima
amichevole infatuazione di Lara, mentre quest’ultima non
vedeva l’ora di andare
incontro a quanto la vita le riservava, poco importava di cosa si
trattasse
nello specifico.
Nel frattempo
Alexandra, che aveva appurato di non essere nella stessa
classe di Claudia, e si era diretta verso la sua con
l’intenzione di dare
un’occhiata in giro, favorita dal fatto che aule e corridoi
apparivano ancora
semideserti. Le classi si dimostrarono esattamente come se
l’era aspettate, un
po’ retrò, dalle finestre alte, i banchi
sgangherati e le mura zeppe di scritte
e graffiti lasciati
là a beneficio dei
posteri. Ad ogni modo non si perse in preamboli e andò ad
accomodarsi
all’estremità della stanza nell’ultima
fila, giacché le passate esperienze le
avevano insegnato che inevitabilmente ci sarebbe finita.
Non
passò tempo che cominciarono ad arrivare alla spicciolata
altri
studenti, i quali non poterono evitare di lanciarle più
d’uno sguardo
inquisitore. Non gli diede nessun peso e continuò ad
attendere che gli eventi
procedessero, persino quando si vide entrare Lara in classe e si
scambiarono un
cenno di reciproco riconoscimento, anche allora continuò a
restarsene
impassibile. Quantunque la sua fosse tranquillità e non
freddezza come poteva
sembrare suggerire
il suo contegno.
Al suono della
prima campanella arrivò un professore, forse quello di
matematica stimò, valutandone l’atteggiamento
sussiegoso, e non sbagliava
perché iniziò immediatamente
l’ouverture
del più tedioso discorso d’inizio d’anno
che le fosse mai capitato d’ascoltare.
Lungamente illustrò come, quanto e cosa li avrebbe attesi
nei mesi a seguire, come
pure quel che si aspettava in merito all’impegno e al
rendimento di ciascun
elemento lì presente. Fu solo dopo un paio d’ore,
con grande gioia di tutte quelle
menti votate allo studio, che finalmente
si decise a farla finita e dar luogo all’appello e, quando arrivò
al cognome van der
Post, Alexandra si tenne pronta per quel
che ne sarebbe seguito.
“Sono
io.”
Si
presentò con semplicità, senza imbarazzi,
alzandosi e incarnando, inconsapevolmente, tutto l’opposto
di quel che avrebbe
desiderato. Avrebbe voluto apparire neutrale e invece, ergendosi in
tutta la
sua altezza, evitando di far smorfie e restandosene immobile,
risultò arrogante
e piena di sé come un uovo.
“Straniera?”
Chiese il
professore con uno sguardo, di evidente disapprovazione, al
di sopra degli
spessi occhiali.
Alexandra annuì e probabilmente commise un altro errore, in
quanto questo
impermalì ancora di più l’uomo, cui
quella sicumera gli suggeriva tutti
gli elementi del
classico piantagrane.
“Voce
van der Post. E’ belga?”
Insisté
severamente e questo mandò definitivamente a puttane la
buona
disposizione d’animo della nostra ché,
d’accordo che se n’era venuta fin lì per
cambiare vita e tentare di temperare gli eccessi del suo comportamento,
ma
Alexandra era pur sempre un’abbiente dai mezzi illimitati,
nobile di nascita,
nonché tedesca, il che voleva dire che si riteneva una
persona superiore e, di
conseguenza, nei suoi riguardi nessuno poteva usare un simile tono,
fosse stato
anche domine dei!
“Tedesca.”
Assentì con un tono penetrante e continuò
seccata: “E’ la
prima volta che vengo in questo paese e ignoravo che per presentarsi
fosse
necessario urlare.”
“Se
vuole può farsi un giro in presidenza tanto per cominciare,
così
magari si presenta anche col direttore, che ne dice?”
Davanti alla
nient’affatto velata minaccia Alexandra stava per
rispondergli di sì e che magari ci portasse pure sua sorella
già che c’erano,
poi però ripensò ai moniti di Claudia ed
esitò. Dopodiché le sovvennero le
restanti conseguenze alle quali sarebbe andata incontro imboccando
questa china
e capì di dover darsi una calmata, il Conte non sarebbe
stato altrettanto
tenero se anche stavolta avesse mancato.
“No.”
Ammise
educatamente
ma molto, molto a malincuore. Soprattutto quando si vide liquidare con
un gesto
infastidito, come se fosse poca cosa, un di più, per
quell’insegnate che ne
aveva fin sopra i capelli di studenti di bassa lega. E allora, presa
com’era
nella sua mortificazione, gliela giurò. A lui e a tutti
quelli che avevano
presenziato alla sua umiliazione, perciò, quando
all’intervallo in molti le si accostarono
per fare la sua conoscenza, gelò chiunque con modi e frasi
sferzanti. E fu così
efficace che persino i più arditi si scoraggiarono e
nessuno, in capo ai
successivi dieci minuti, ovverosia il tempo sufficiente per far
comprendere l’antifona,
ritentò un approccio.
Tutti tranne
Lara
ovviamente, l’unica alla quale lo scambio di battute tra
alunna e professore era
sembrato strano e che aveva iniziato a nutrire dei seri dubbi in
proposito a
quanto Alexandra sembrava essere. Giacché la boria che aveva
mostrata era
inspiegabile, specialmente tenendo conto del comportamento avuto con
lei appena
qualche ora prima. E allora dove stava la realtà? Per
scoprirlo non ci voleva
molto, si disse, e diede il via all’approccio.
“Ehi Kaiser, ti ricordi di me?
Ci siamo incontrate stamattina.”
Esordì
con fare brillante, urtando vieppiù i nervi già
tesi della sua
interlocutrice la quale, in differente ed analoga situazione, sarebbe
potuta
essere cordiale, peccato che sul momento avesse solo bisogno di un
bersaglio su
cui sfogare tutto il suo malumore.
“Che
vuoi?” La rimbalzò in malo modo.
“Non
ti sarai mica fatta male prima?” Provò nuovamente
cominciando a
preoccuparsi, dopotutto
l’astio che le
stava riservando poteva derivare da quello.
“Se
pensi che un tappo come te mi possa fare del male, ti sbagli di
grosso microbo!”
“Ma
chi ti credi di essere?” Proruppe Lara di rimando,
innervosita da quel
tono, ancorché non del tutto e ancora interessata ad averci
una qualche forma
di dialogo.
“Semplicemente
qualcuno totalmente diverso da voi.”
Replicò
lapidaria e fu tutto, benché l’inflessione usata,
più che
superba, a Lara parve rassegnata, come quella di chi soggiace ad un
dato di
fatto anche non volendo. Stava per farle una domanda in proposito,
testardamente
e recidiva, visto che era chiaro che Alexandra non aveva alcuna
intenzione di
darle spago, considerando l’argomento definitivamente chiuso,
tant’è le voltò
le spalle e se ne andò in bagno a fumarsi una
sigaretta di straforo.
Claudia la
raggiunse dopo poco e notò
da subito l’aria adombrata dell’amica, ma
continuò a fumare come se niente
fosse. Solo una smorfia sotto i baffi tradiva la sua
consapevolezza e, qualunque cosa fosse accaduta,
ne era soddisfatta. Già, se Alekòs era
a
tal punto alterata, voleva dire che qualcosa o qualcuno
era riuscito a scalfire la sua
barriera e questo non poteva che essere un bene. Ma non ne
parlarono,
non era ancora il momento, anche se Claudia si augurò per
l’ennesima volta che arrivasse
presto.
Pia speranza e
da quel giorno, e per gli altri che lo seguirono, fino a
formare la prima settimana di lezioni, nessun altro si
arrischiò ad attaccarle bottone.
Naturalmente questo non impedì che la curiosità
nei suoi riguardi
aumentasse, né che le notizie sul
suo conto circolassero. Così,
tra una
lezione di storia e
una di greco, si
seppe che la van der Post abitava in un avito
palazzo del centro storico
e pure che aveva dei domestici che la servivano e riverivano.
Informazione
questa fornita dalla zia di un loro compagno di classe, che era appunto
la portiera
della gentilizia dimora. Pure, confermò la stessa perplessa, nonostante ciò
la ragazza era d’un educazione
squisita e pareva adottare un profilo molto basso quanto a stile di
vita.
Insomma aveva tutti i marchi della grandeur, ma in sostanza, anche se
avrebbe
potuto permetterselo, assicurava la donna, non era una di quelle che andava in carrozza e
godeva a farcisi vedere.
Queste e tante
altre erano le voci incontrollate che si diffondevano,
a pezzi e bocconi,
su quella, ma chissà
perché, quando sovente
se ne parlava, tutti millantavano indifferenza, tuttavia tiravano fuori
un
udito straordinario. D’altro canto Alexandra non se lo diede
per inteso,
continuò a starsene per i fatti suoi, senza dar
soddisfazione a nessuno, finché
un Sabato questa stasi bruscamente s’interruppe.
Quel mattino
era stata più taciturna del solito e, davanti ad un
rinnovato
e insistito invito da parte di Lara, se ne uscì con una
frase sulfurea,
talmente incendiaria che Luigi ci vide
l’occasione
appropriata sia per difendere la
sua protetta, che per darle una lezione. Davvero non la reggeva
più
quell’insopportabile straniera e adirato continuava a
chiedersi perché mai Lara si facesse
trattare a
quel modo.
Dunque
abilmente ne approfittò per offenderla e provocarla, le si
piantò
davanti in tutta la sua stazza e le diede della zotica, razzista e
naziskin.
Allo stesso modo, aggiunse come ciliegina sulla torta, di tutti i suoi
grossolani compatrioti. Quindi estremamente pago, sentendosi un eroe ad
aver
compiuto il suo dovere mettendo a posto colei che instancabile aveva
offeso con
la sua arrogante condotta lui e tutti i suoi amici, ne attese la
reazione. Tanto
che poteva fare? Nulla, al massimo rispondergli per le rime.
Alexandra non
si diede la pena, l’ignorò del tutto rovinandogli
completamente il momento di gloria, per cui si vide costretto ad
incalzarla
alzando notevolmente il tiro.
“Non
rispondi figlia del Führer? O
l’aver capito che avete
perso la guerra ti ha finalmente fatto mettere la lingua in
culo?”
Neppure questo
le fece battere ciglio, finì di ficcare i libri in borsa
e continuò ad ignorarlo, poi il trillo della campanella
annunciò il termine
delle lezioni e finalmente si concesse di prestargli attenzione.
Allegra,
incredibilmente briosa dato il contesto, indicò col pollice
l’esterno e
aggiunse:
“La sistemiamo fuori questa
faccenda
jong? Così potrai
mostrarmi come hai
fatto a vincere la guerra!”
“Non alzo le mani
sulle donne, io!”
Replicò fiero,
generando l’ennesimo plauso collettivo
di quanti stavano seguendo la lite dandosi il gomito. Alexandra non ci
badò e
si limitò a rispondergli disincantata.
“Oh,
non temere jong, non sei
capace neppure di fare la differenza. Io m’avvio, non mancare
mi raccomando, se
non venissi mi si spezzerebbe il cuore!”
Lo derise
pacata, ché ce ne sarebbe stato di tempo dopo per umiliarlo come si
meritava. Dopodiché non
stette ad attenderne replica, raccolse le sue cose e si
avviò a passo sicuro
verso l’uscita. C’era qualcosa nella sua andatura
che infastidì enormemente Luigi,
sembrava infatti che persino le movenze fossero studiate in modo da
sottolineare la sua superiorità rispetto al resto del
creato.
La faccenda
poteva anche spegnersi lì, con un niente di fatto, ma i
presenti si riversarono fuori dall’aula per vedere se i due
avrebbero fatto sul
serio e Luigi, Lara e Steffi non poterono che seguirli.
Quest’ultima poi spronava
l’amico a dargliele di santa ragione, mentre
l’altra li ascoltava preoccupata.
Era ingiusto che si fosse arrivati a questo, soprattutto
perché, per un inutile
diverbio, Alexandra stava per finire con l’orgoglio
calpestato davanti a quelli
che potenzialmente potevano diventare suoi amici. Inoltre Luigi era
grande e grosso,
per soprammercato anche pugile, il che voleva dire che per Alexandra
non c’era
assolutamente speranza, persino se lui si fosse comportato da
gentiluomo.
Probabilmente, pensò contrariata dalla quella testardaggine
manifesta, solo un
impulso vanaglorioso e folle l’aveva
spinta a sfidarlo impune.
“Rompile
il culo, così impara a dire stronzate a
sproposito!” Lo stava
incitando nel frattempo
Steffi tutta
infervorata all’idea di vedere quella sbruffona col suo
brutto muso irrimediabilmente
rovinato.
“Le
farò sputare sangue!”
Confermò
il ragazzo convinto, poi però si voltò verso Lara
e perse tutta
la sua sicumera. “Che ne pensi? In fondo è con te
che se la prende sempre.”
E se Luigi si
stava aspettando sproni o riconoscenza, ne rimase deluso,
Lara infatti era decisamente
orientata
verso un rifiuto della violenza e
cercò
di dissuaderlo.
“Lascia
perdere, sarà anche antipatica, ma non dà noia a
nessuno. A me
non importa se mi
tratta male, in fin dei
conti sono io che vado a cercarmela. Se ti risulta tanto fastidiosa non
prenderla in considerazione e basta.”
“Per te lo farei”,
affermò
lanciandole uno sguardo da agnello sacrificale, “ma guarda
là.” Aggiunse
indicandole Alexandra che l’attendeva nel cortile con un
ghigno sarcastico stampato
in faccia. “Non posso fare la figura del guappo di cartone
per colpa sua.” Concluse
scansando il braccio della ragazza
che tentava di trattenerlo e si avviò in direzione della sua
avversaria che
fumava tranquilla, come se niente fosse.
Uno spettacolo
questo che lo lasciò costernato ed indeciso, davvero non
se la sentiva di picchiare una donna, ma d’altro canto questa
in particolare non
gl’ispirava affatto l’abituale senso di protezione
maschile, anzi ne incitava l’antagonismo.
Inoltre gli dava l’impressione che non vedesse
l’ora d’affrontarlo, aveva
giusto l’espressione di chi ha una gran voglia di menare le
mani, standosene in
maniche di camicia mentre si sgranchiva il collo e non mostrava alcun
timore.
“Allora
jong, ti decidi o vuoi
un invito scritto?” L’incitò senza aver
bisogno d’alzare la voce
per farsi udire.
“No
Lara“, si disse come se stesse ancora parlandole,
“devo darle una
lezione.”
Si
liberò del giubbotto e le si parò davanti,
Alexandra scagliò la cicca
lontano e lo squadrò valutativa.
Costui
era dotato di una corporatura da mediomassimo, ma questo notevole
dettaglio non
la impensieriva. Lo osservò alzare i pugni e cominciare a
saltellare e senza scomporsi
iniziò a farsi schioccare le dita della mano destra e poi
della sinistra, sorridendo.
Irritato Luigi
si spostò di lato compiendo un semicerchio e subito
l’imitò
facendogli il verso. Un
giro di danza a
destra faceva lui, un giro di danza a destra gli replicava questa e
quando il
ragazzo sparò una leggera sventola Alexandra lo
schivò senza modificare più di
tanto la sua posizione.
“Ha
esperienza!”
Pensò stupito, ma poi
un
fremito di gioia lo colse, poiché questo avrebbe reso la sua
vittoria ancora
più gradevole, ché annientare un’inetta
sarebbe stato fin troppo facile. Giusta
osservazione, ma quel che il ragazzo non poteva sapere era che
Alexandra in
effetti s’intendeva anche
di pugilato,
in quanto fin dall’infanzia era stata addestrata alla difesa
personale. Il Conte
infatti aveva ritenuto che un’arte marziale non solo le
sarebbe stata utile in
casi estremi, ma pure che sarebbe stata un ottimo strumento per
disciplinarla,
così la rampolla aveva appreso con profitto e dedizione le
tecniche della boxe
Tailandese. Inoltre, per non farsi mancare
assolutamente nulla, la scherma le aveva fatto acquisire scatto e
velocità,
mentre l’occhio e la precisione le provenivano dal tiro con
l’arco, senza
contare la resistenza
infaticabile delle gambe raggiunta con l’equitazione. Insomma
Alexandra era una
vera e propria macchina da guerra, indubbiamente aveva meno forza del
suo
avversario, ma compensava in agilità, senza contare che
Luigi era uso
esclusivamente ai pugni, mentre lei non aveva che l’imbarazzo
della scelta…
ginocchia, piedi, gomiti, doveva solo scegliere.
Per cui, non appena questi
provò
un allungo di destro si trovò a colpire l’aria,
ché il suo bersaglio
già non c’era più. Frenetico si
voltò a cercarla, ma ne poté udire solo la voce.
Proveniva da un punto
imprecisato alle sue spalle, rapido si volse ma altrettanto rapidamente
Alexandra gli si riportò a tergo.
“Dov’è
che guardi pivello?
Io sono qui.”
Lo
chiamò sardonica e
Luigi folle di rabbia cominciò a mulinare cazzotti nella sua
direzione, ma
incredibilmente nessuno andava a segno.
Dove doveva esserci
cartilagine e ossa da spaccare trovava il vuoto o
un’impenetrabile
difesa, quella maledetta badava bene a tenersi coperti viso e fegato,
sottraendosi alla portata pesante dei suoi pugni.
Alexandra dal
suo canto avrebbe potuto mettere la parola fine a tutta
quella baraonda con molta rapidità, e onestamente non
desiderava altro, ma
quell’imbecille se l’era voluta, ergo era sua
intenzione fargli sorbire l’amaro
calice fino in fondo. Inoltre lo stava valutando come atleta, aveva una
certa
esperienza, glielo consentì e in una rissa da osteria
avrebbe fatto furore, ma era
rozzo e fin troppo lento per lei.
E
così l’attese continuando a difendersi senza colpo
ferire, finché non
azzardò un diretto pieno di tutta la forza
della rabbia che aveva
in corpo e lì spietatamente lo colse. E Luigi,
sbilanciato e ancora concentrato sul suo colpo, non
poté difendersi. Un jab
maligno e rapido come una vipera ne aprì la difesa,
dopodiché lo stordì con una
combinazione veloce di sinistro, destro,
sinistro che lo
costrinsero a chiudersi a riccio. Cosa che gli fece commettere
l’errore di scoprirsi
e il montante di Alexandra lo raggiunse al mento, barcollò
stordito da un lato,
ma venne subito rimesso in piedi da un gancio alla testa che lo
mandò definitivamente
in bambola. Eppure ancora tentò di reagire, ma lei non
gliene diede
opportunità, con due passi si fece indietro e, ruotando sul
perno di una gamba,
con l’altra gl’inflisse un calcio che gli
spazzò le gambe facendolo sbattere
pesantemente col la faccia atterra.
Qui
s’arrestò attendendo che si rialzasse e lo vide
asciugarsi incredulo
un rivolo di sangue che
gli colava dal naso,
adesso la bilancia pendeva da una sola parte e lo sapevano entrambi,
eppure
testardo riprese con i suoi saltelli, che ormai risultavano patetici.
Sì,
pensò Alexandra nauseata da tutta quella storia che non
aveva
cercato, né voluto, potevano piantarla, ché
questo giochetto non aveva più
ragione di andare avanti. Pure volle concluderlo con un gesto
spettacolare e
prendendo la rincorsa, fino a darsi un leggero slancio,
volteggiò su sé stessa,
ruotando a mezz’aria nell’esecuzione di un calcio
aereo che colpì esattamente
dove aveva inteso affondasse. Fu un colpo di tallone e così
ben assestato che
Luigi sbatté nuovamente al suolo. Stavolta però
non si sarebbe rialzato.
Interessata
Alexandra andò a controllare i danni che gli aveva provocato
e constatò sollevata di aver calibrato il movimento alla
perfezione, in modo
da illividirgli il
viso senza rompergli naso
o i denti.
Levò
il capo a fissare gli astanti, nessuno accennò a soccorrere
l’amico, né nella totalità
c’era qualcuno che avesse il coraggio d’affrontare
i
suoi occhi carichi di rimprovero.
Siete contenti
ora? Avrebbe voluto chiedergli, ma sarebbe stato inutile,
poiché lo sarebbero stati se con la testa nella polvere ci
fosse stata lei,
ovvio. Beh per lo meno adesso avevano tutti le idee più
chiare nei suoi
riguardi.
“Ora”,
affermò richiamando nuovamente l’attenzione dei
presenti,
“chi altri ha da ridire su di me e sulla mia
nazionalità venga pure. Ne
parleremo insieme!”
Nessuna
risposta ribatté quella palese provocazione, per cui
Alexandra
non stette a perdere altro tempo e si allontanò accompagnata
dagli sguardi
ostili e dai suoi foschi pensieri. Era arrabbiata, non voleva arrivare
a tanto,
né ci aveva goduto ad infliggergli un castigo
così drastico, ma quando il
sangue iniziava a ribollirle nelle vene nulla poteva fermarla, neppure
la brama
di pace che l’aveva condotta a questi lidi.
Una fitta di
dolore la colse alla spalla, ecco che la sua vecchia
lussazione alla clavicola si faceva risentire e così, presa
dalle sue
meditazioni, massaggiandosi la parte dolente, se ne andò,
dimenticandosi in un
angolo la tracolla contenente i suoi libri.
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Capitolo 4 *** 4 ***
Non
ci tornò su che a sera e neppure allora lo fece
intenzionalmente, ché per lei
la pratica di quanto avvenuto a scuola era sta bella che archiviata nel
momento
stesso in cui il grugno del suo antagonista aveva toccato terra.
Non
che ad Alexandra mancasse il senso del pentimento, o, bontà
sua, fosse immune
dalle perplessità che postume
assillano, tutt’altro. Solo che nel caso specifico riteneva
che la situazione non
meritasse ulteriori meditazioni e che quel tanghero avesse avuto
esattamente
quel che con tanta insistenza aveva cercato.
Inoltre
aveva passato un pomeriggio tale che sarebbe stato un vero peccato
sciuparselo simulando
una contrizione del tutto fuori luogo. Già
perché, potendo approfittare della
superiore preparazione fornitole dall’avanzato programma
d’istruzione del
collegio da cui proveniva, lo studio non le aveva preso che un paio
d’ore e
quindi non aveva che da scegliere come impiegare il tempo che le
avanzava. E andò
a cavalcare naturalmente, giacché nulla le risultava
più gradito della
comunione che s’instaurava tra lei, il destriero che montava
e il paesaggio
circostante. Chiaro che una semplice passeggiata a cavallo attorno alla
palizzata di uno spiazzo non le avrebbe consentito una simile catarsi,
pure
ancora una volta il distinguo che la rendeva dissimile da chiunque
altro
operava, cosicché il suo stallone era comodamente alloggiato
nelle scuderie
della tenuta vinicola d’un vecchio amico del Conte. Il che
voleva dire che
poteva galoppare a perdifiato negl’illimitati spazi oltre i
viticci, acri e
acri circondati da boschi, che molto le ricordavano il Bois
de Boulogne.
Al
punto che si ritrovò a canticchiare
lasciando
che Nemesis, il suo purosangue olandese dal manto nero come una notte
senza
luna, e alto un metro e mezzo al garrese, decidesse da sé
l’andatura da tenere.
E tanto parve gradire il morso allentato che optò per un
trotto via, via sempre
più martellante, dandole l’agio di seguire filo
discontinuo dei pensieri,
abbandonandosi ad innumerevoli sogni ad occhi aperti. In questo modo si
godette
appieno la pace che gliene scaturiva quando s’allontanava da
tutto, da tutti, e
restava sola con il suo sé essenziale.
Così
facendo si ritrovò a ridosso del crepuscolo senza neanche
accorgersene e, dopo
aver dimesso la sua tenuta da cavalleggero, prima
d’accomiatarsi, si accinse a
completare il rito. Ché riteneva senza dubbio la cura del
cavallo le spettasse
e non in quanto dovere, piuttosto come atto d’amore verso
quello splendido
esemplare. Amava Nemesis d’un amore che trascendeva le
plausibili spiegazioni, poiché,
proprio come l’ombra di cui aveva la sfumatura, questi
l’aveva seguita ovunque,
partecipando col suo galoppare magnifico alle innumerevoli
trasformazioni che l’avevano
coinvolta.
Ed
era singolare quanto s’assomigliassero tra loro,
pensò mentre vigorosamente ci
dava dentro con la striglia, incurante della spalla dolorante.
Poiché Nemesis,
che più d’uno stalliere aveva mandato a gambe
all’aria con i suoi modi
irascibili, ora soffiava soddisfatto dalle froge vellutate e sembrava
assolutamente
inoffensivo.
“Oh
sì”, rifletté ghignando, “
‘sto quadrupede collerico è lo specchio dei miei
stessi comportamenti. Capace da un momento all’altro di
passare dalla rabbia
più completa ad una dolcezza insospettabile.”
Mise
da parte la brusca e si diede a districare i nodi formatisi nel fluente
crine e
qui un’altra riflessione le sovvenne facendola sorridere
meditabonda.
“Del
resto chi crederebbe mai che la stessa persona che a pranzo ha rotto le
ossa a
quel bellimbusto, all’imbrunire se ne stia a spazzolare
premurosamente la sua
bestiolina preferita? Come se poi non dipendesse dal soggetto con cui
si ha a
che fare, indipendentemente dal fatto che la maggior parte dei
sedicenti esseri
umani in molti casi sono assai più involuti degli animali ai
quali erroneamente
li si paragona.”
Ne
concluse ironica conducendolo verso
il suo box, poi, ponendogli davanti una generosa porzione di biada, si
attardò
a vezzeggiarlo ancora un po’, non foss’altro
perché, a paragone dei suoi
compagni di classe, attuali e passati, ne usciva altresì
superiore. E qui,
tranquilla come non era da tempo, con come giudice
nient’altro che la sua
coscienza, poté dirsi spassionata che probabilmente lei
stessa, alla stregua
cavallo, reagiva in modo consono solo e soltanto innanzi a pochi
privilegiati
individui. Di conseguenza, data la difficoltà nel trovarne e
soprattutto nel
riconoscerne, perlopiù era portata ad attaccare e ferire.
Salvo, chiaramente,
quando non optava per l’indifferenza, o peggio ancora per il
disprezzo.
E
questo fu tutto quello che si meritò a livello riflessivo il
pesante scorno che
aveva inflitto a Luigi quel mattino. Dopodiché
relegò del tutto la somma ed il
risultato delle sue azioni, incurante se queste già stavano
dando la stura ad
un copiosa cova di risentimento crescente, e se ne tornò a
casa oltremodo
soddisfatta dalle motivazioni che aveva testé riconosciute a
molti dei suoi
impulsivi atteggiamenti.
E
cosa c’era di meglio in una simile sera che non ascoltare una
bella selezione
di musica operistica mentre godeva del caldo che ancora consentiva di
starsene
seminuda? Regolò il volume e andò ad appollaiarsi
sul divano mentre ringraziava
il cielo per il clima mediterraneo, pensava infatti alle piogge che
inevitabilmente già dovevano essere cominciate a Montreux e
di quanto queste
esasperassero la sua propensione al pessimismo.
Tendenza questa che sembrava
dilatarsi ed espandersi tanto quanto il progressivo avanzare della
notte sul
giorno e dell’ingiallire delle foglie.
Qui
invece l’Autunno pareva ancora lontano e si sentiva
spensierata, come se quel
calore che ancora indugiava avesse sciolto una parte della calotta
gelida da
cui si sentiva intrappolare.
Sospirò
beata, lasciandosi trasportare dalla musica ora impetuosa, ora
tristissima, veicolando
attraverso la melomania tutto quanto aveva relegato nel dimenticatoio.
E mentre
le arie si susseguivano incessanti, la voce sublime del soprano
riverberava tra
le pareti non già della stanza, ma del suo stesso essere.
Sorrise
e ricordò, scremando gli attimi e lasciando fluire soltanto
quelli nei quali
poteva avvolgersi come in un abbraccio. Quegli occhi, quello sguardo,
per
quanto tempo aveva tentato di dimenticarseli? Beh stasera voleva
ricordare e
volentieri se ne lasciò trasportare, perdendosi in
quell’indaco frangiato da
lunghe ciglia la cui reminiscenza, e la conseguente fuga, erano
entrambe
diventate una necessità.
Simili
momenti sarebbe magnifico durassero fin tanto fosse possibile, a
maggior
ragione non dovrebbero essere interrotti da una scampanellata
insistita, soprattutto
quando l’assolo
del soprano supera le
quattro ottave e tu che ascolti sei lì a rivangare, vibrando
all’unisono con la
musica. Ma fu esattamente ciò che avvenne, non ci si
stupisca quindi che
Alexandra aprì la porta con lo stesso slancio e
cordialità della biblica carica
dei maiali posseduti dal satanasso. Praticamente poco ci
mancò che la
scardinasse, ma tentò di darsi una calmata quando
scoprì chi aveva arrestato i
suoi trasporti.
“Ciao!”
Trillò
Lara scoprendo il sorriso a trentadue denti di chi assolutamente non
è sfiorato
dal dubbio d’essere inopportuno e, senza far caso al cipiglio
che aveva di
fronte, agilmente s’introdusse all’interno senza
attendere inviti di sorta.
“Ti
sei dimenticata questa stamattina.”
Aggiunse
mostrandole la sacca della quale effettivamente Alexandra si era
completamente
scordata, quindi, dopo essersi guardata attorno con
curiosità, riportò gli occhi
sulla padrona di casa e solo allora parve intuire che forse questa
riteneva si
stesse prendendo eccessive confidenze. O almeno fu
l’impressione che ne ebbe la
tedesca, ma fu smentita all'istante.
“Non
startene sulla porta Alex, che ne dici di offrirmi qualcosa da
bere?” Si sentì
dire infatti mentre Lara trovava da sé la strada verso
l’interno.
Non
le restò che seguirla, indecisa se mandarla via, o
più semplicemente, mandarla
a cagare. Era paradossale quella sfacciataggine priva di qualsiasi
formalismo,
del resto, considerato il comportamento cui l’aveva abituata
fin dal principio,
poteva aspettarsi altrimenti da quella nana impertinente?
Temo
di no.
Sospirò
rassegnata, ma guardandola non poté far a meno di ghignare
indulgente, dimenticandosi
del tutto della stizza che le aveva suscitato col suo arrivo
intempestivo, ché
Lara sotto le volte del soffitto affrescato e al cospetto dei pesanti
mobili di
teak scuro, pareva ancora più minuta. Oltretutto con la
carnagione olivastra
che si ritrovava sembrava mimetizzarsi con l’arredamento.
Con
un turbante, una livrea e un lume
in mano può tranquillamente passare per un abat-jour barocco.
Considerò
ridacchiando sotto i baffi e attese, qualcosa infatti le suggeriva che
la
ragazza avrebbe tirato da sé le fila di
quell’inaspettata visita e che non ci
fosse alcun bisogno di un intervento da parte sua. Intanto Aida
continuava a
cantare il suo amore per Radamés, ma
era
chiaro dall’espressione della sua ospite che né la
musica, né l’ambiente tutto,
riscuotevano il benché minimo consenso. In effetti Lara
appariva perplessa,
finché, sebbene fin lì avesse tentato
d’impedirselo, un po’ per buona creanza, un
altro po’ per non contrariarla, non ce la fece più
e sbottò.
“Ma
che razza di posto è questo? Un po’ di vita Alex e
che diamine. Qui dentro manca
solo il quadro di Teomondo Scrofalo e poi hai fatto completo!”
“Ignoro
la ragione per cui secondo te un contadino avvinazzato stia bene nel
mio
salotto, esattamente come mi chiedo il motivo per cui stravolgi in modo
ignobile il mio nome.”
Rispose
tentando di mantenere un minimo di decoro, ché per la
verità, all’idea di
ritrovarsi di fronte, ogniqualvolta varcava la soglia, il ritratto
dell’agricolo sopraccitato e che pareva scrutarla
indirizzandole un brindisi
del tipo bevo e me ne fotto,
rischiò
di perdere completamente la compostezza.
Ma
Lara ugualmente se ne accorse, così come ormai si era
convinta che il modo in
cui si esprimeva e rivolgeva al prossimo, che ai più pareva
freddo e distante,
non era altro che la conseguenza d’un apprendimento formale
della lingua, che
mal si equiparava al gergo quotidiano. Di conseguenza se con quelle
parole Alexandra
aveva inteso avvertirla che non le piaceva essere appellata a quel
modo, non se
lo diede affatto per inteso. Anzi ne approfittò per
esternare quanto in
precedenza non aveva potuto per mancanza di tempo ed
opportunità.
“Perché
dici così? Anzi dovresti ringraziarmi, trovo monumentale il
tuo nome, un accidenti
di pezzo di marmo dalla pesantezza inaudita. Alex invece è
molto più carino.”
“Se
tanto mi da tanto Lara, i tuoi
genitori dovevano sapere che saresti rimasta una pigmea, altrimenti
t’avrebbero
dato un nome più esteso.”
Ribatté
leggermente impermalita. Ma come si permetteva di chiosare su di un
nome che
tanto lustro aveva dato, e si sperava,
avrebbe
seguitato a dare, alla sua famiglia?
“Sai
che non ci avevo mai pensato? Potrebbe darsi, in ogni caso non corro il
rischio
di un ulteriore
diminutivo, ma te
l’immagini?”
Scherzò,
per nulla offesa da quella stoccata, accomodandosi e squadrandosela con
un
mezzo sorriso inspiegabile, tanto che Alexandra cominciò a
sentirsi davvero in
imbarazzo. Per uscirsene buttò fuori la prima cosa che le
venne in mente.
“Io
so solo che l’unica Lara di mia conoscenza era quella del
Dottor Zivago e tu
non le somigli per niente. Considerato poi che non ci si conosce
affatto, brancolo
nel buio. Soprattutto perché ho il fondato sospetto che, se
pure tentassi
d’intavolare una conversazione di circostanza, sarebbe del
tutto inutile.
Allora che si fa?”
“Di
che ti preoccupi? Ci penso io, intanto metti su un caffè. E
ti spiacerebbe
spegnere quella lagna?”
Aggiunse
riferendosi alla musica naturalmente. Il che portò
Alexandra, che in cerca
della moka nel frattempo si era avventurata in cucina, luogo cui
raramente
sostava per più di due minuti e mai con intenzioni fattive,
a chiedersi che mai
avesse da dire con qualcuno che definiva in quel modo la medesima
composizione
che non più tardi di cinque minuti prima stava quasi per
farla sciogliere in
lacrime.
Ma
se il suo problema era limitato alla sola mancanza
d’argomenti, ci pensò
prontamente Lara a toglierla dall’impasse, giacché
la raggiunse e, notando che
non sapeva neppure da dove cominciare, prese in mano la situazione.
Infallibile
scovò tutto l’occorrente, muovendosi tra la
credenza e il lavandino come se
fosse in casa propria, intanto che chiacchierava come se niente fosse,
al punto
che pareva avessero appena lasciato uno specifico discorso a
metà.
“No
Alex, così non va affatto bene. La lirica intendo, dico, ma
lo sai che la
maggior parte delle storie su cui quei grassoni cantano ha come
presupposto
imprescindibile la brutta fine di qualcuno? Perlopiù
donne.”
“E
allora?”
Replicò
stranita, non riuscendo a figurarsi dove stavolta quella bislacca
ragazza
volesse andare a parare. Certo lo sapeva da tempo che
gl’italiani avevano una
latente vena di pazzia, ma questa doveva essere un caso particolare.
“E
dai è facile, pensaci un attimo. Non solo di persona
già sei un travertino,
mettici pure che casa tua sembra il mausoleo di Galla Palcidia,
è chiaro che
con ‘sto po’ po’
d’accompagnamento mi diventi ancora più pesante di
quello che
normalmente sei!”
“E
se fosse solo gusto? Potrebbe anche darsi che si tratti di preferenze
personali
e basta.”
Obiettò
affabile, davvero interessata alla replica che ne avrebbe avuta, in
quanto,
stranamente, quel discorso non la stava oltraggiando.
Qualcun’altro già
l’avrebbe preso per la collottola e buttato fuori al suo
posto, poiché chiunque
altro simili perle gliele avrebbe dette implicitamente, con
meschinità e
assolutamente non a viso aperto. Forse si stava sbagliando, ma non
riteneva
l’offesa nelle intenzioni della ragazza e presumibilmente
quello era il suo
modo di fare abituale. Del resto il
personaggio era a tal punto surreale che ad un certo punto diventava
quasi un
obbligo farsene una ragione, per cui preferì sorvolare del
tutto sui consueti
canoni a cui era usa, preferendo gustarsi quella sorta
d’autentica macchietta
che aveva innanzi. E il bello era che non si capiva se ci era o ci
faceva.
“Nààà
Alex, non ci provare. Ti ho capita sai? A te piace la
teatralità, l’incedere
maestoso, il drappo con l’ermellino, la gondola col
rondò veneziano che ti
segue appena un passo indietro. Fa parte del tuo stile, altrimenti come
potresti abbagliare al primo colpo? Magari a te tutto questo piace
davvero. Ma
quello che tu chiami gusto, viene molto dopo il piacere che ne ricavi
da tutto
l’insieme.”
Decretò
piazzandole davanti una tazza fumante, dopodiché le si
sedette di fronte, su
uno degli sgabelli accanto alla penisola che divideva in due
l’ambiente e
continuò incoraggiata dall’espressione dubbiosa
che aveva suscitato. In effetti
Alexandra non aveva mai pensato alla questione in simili termini e,
sentirselo
spiattellare a quel modo, l’aveva sorpresa al punto che si
era ammutolita.
“Insomma,
stamattina con Luigi avresti potuto chiuderla mandandolo semplicemente
a quel
paese, o al massimo con un paio di schiaffi. Invece non solo ti sei
presa la
briga di sfottere per tutto il tempo quel poverino, ben sapendo come
sarebbe
andata a finire, ma hai pure voluto concludere con
l’acrobazia. E se non è
esibizionismo questo…”
“Vorrei
ricordarti che quel poverino ha
usato
delle parole piuttosto pesanti.”
L’interruppe
piccata, seccata non già dalla neanche troppo velata
critica, quanto dalla
constatazione che la sua venuta non si doveva a quanto aveva supposto.
Altro
che farle un favore riportandole quanto era suo, e di conseguenza
attaccarle bottone,
tutto quanto non era che una scusa per perorare la causa del suo
amichetto. Ma
neppure stavolta ebbe l’agio di dirle altro,
poiché Lara l’interruppe
nuovamente.
“Alex
guarda che mica ti sto dando torto, dico solo che sei la quintessenza
dell’ambivalenza e che, comportandoti in questo modo,
è strano che ti risenta
delle attenzioni altrui. Non puoi mica pretendere di far la ruota ed
essere
lasciata in pace, è chiaro che più ostenti,
più stuzzichi.”
“E
dall’alto delle tue intuizioni metafisiche cosa mi
consiglieresti?”
Chiese
con amabile sarcasmo, accendendosi una sigaretta ed avvolgendola
intenzionalmente in una nuvola di fumo. Sapeva infatti che le dava
molto
fastidio, ché Lara ogniqualvolta transitava nei bagni non
faceva che lamentarsi
per la puzza stagnante delle innumerevoli bionde che lì si
consumavano.
“Nulla,
a me piace esattamente come sei. Solo non meravigliarti troppo se dopo
il tuo
exploit verranno a chiederti di unirti alla locale federazione di arti
marziali. E a quel punto mi chiedo se e come potrai
rifiutare.”
Concluse
sventolando una mano per disperdere l’aria, intanto che
approfittava della
distanza ravvicinata per rimirarsela ben bene come fin ora non aveva
potuto,
soprattutto perché era la prima volta che si trovavano quasi
alla stessa
altezza e poteva cogliere quei particolari che dalla distanza del suo
banco scolastico
andavano irrimediabilmente perduti. Quello di cui non si accorse
però fu che
stava venendo sottoposta al medesimo scrutinio, sebbene dissimulato,
laddove
lei non ne faceva affatto mistero.
E
così, intanto che l’altra replicava qualcosa a
proposito della sua ferma
intenzione di evitare qualsivoglia comunella, soprattutto sportiva,
specialmente
inerente la lotta, Lara rimirava attenta i suoi tratti: la chioma fitta
dai
riflessi del grano maturo, le sopracciglia dritte che conferivano agli
occhi
uno sguardo tagliente, stemperato però dal grigio delicato
che li colorava, le
guance incavate che rendevano gli zigomi ancora più
pronunciati di quanto già
non fossero, il naso aquilino sormontante le labbra austere, eppur
piene, tanto
che l’insieme stoico del tutto comunque risultava gradevole.
Senza contare la
fossetta che le divideva in due il mento e che le conferiva, lo volesse
o no,
un tocco di malandrino.
E
quel corpo poi, non bastava che fosse slanciato come neppure nei suoi
sogni più
audaci aveva osato sperare per sé stessa, ma definito in
tutta la sua
muscolatura, un fascio di nervi praticamente. E poteva ben dirlo visto
che
Alexandra le si presentava allo sguardo vestita soltanto da un paio di
striminziti short e una magliettina che lasciava intravedere
l’ombelico.
Peccato che fosse fin troppo magra, pensò adocchiando le
clavicole che sporgevano,
sì con qualche chilo in più addosso sarebbe stata
decisamente meglio. Anche se
così aveva un qualcosa d’indifeso che in un certo
senso gliela faceva apprezzare
ulteriormente, molto di più rispetto all’ottica in
cui l’aveva considerata quel
mattino, poiché non aveva affatto gradito
l’impressione d’invulnerabilità che
aveva voluto dare. Sì, per certi versi l’aveva
trovata davvero odiosa.
Dall’altra
parte del tavolo invece la tedesca valutava e rifletteva ancora una
volta sulle
stranezze incongruenti di quell’eccentrica ragazza.
Ché era davvero strana,
persino per quel che riguardava la mera esteriorità. Non
c’era da cavillarci,
assolutamente, e dire che l’aveva squadrata almeno un paio di
volte da sotto in
su per sincerarsi d’aver visto bene.
Perché
minuta lo era, eppure, o calzava delle scarpe di almeno due misure
più grandi,
oppure si ritrovava un bel paio di fette al posto dei piedi. E, siccome
spesso
le estremità inferiori corrispondono più o meno a
quelle superiori, gettò
un’occhiata penetrante anche alle mani. Ebbene, pure quelle
erano decisamente
sproporzionate rispetto alla figura, perché grandi, dalle
nocche forti e dalle
dita affusolate. Indubbiamente belle certo, da pianista le sarebbe
venuto da
dire, ma inadeguate se paragonate alla piccolezza della persona che le
possedeva.
D’altro
canto, ora che la guardava da vicino e con intenzione, anche il naso
appariva
piuttosto pronunciato, sebbene per accorgersene bisognava che si
girasse di
profilo, giacché l’ovale perfetto del volto ne
attenuava la prominenza.
Esattamente come alleggeriva la bocca larga e dai denti forti,
brillanti, che
le donavano un sorriso notevole, smorfia alla quale stava scoprendo
d’essere
particolarmente esposta.
Ma
come si poteva altrimenti? Quell’esplosione di bianco sulla
pelle scura era una
specie di miracolo, senza contare che le assottigliava gli occhi,
riducendoli
da grandi e tondi che erano, a due fossette luminose. Le ricordava
decisamente
qualcuno, ma mentre l’ascoltava cicalare in merito
all’insistenza delle associazioni
sportive della cittadina, delle quali lei faceva parte, essendo membro
effettivo della squadra locale di pallavolo, proprio non le riusciva di
definire precisamente chi.
Non
era una somiglianza definita, piuttosto un
abbozzo di similitudine, come un embrione di quel che sarà,
ma che al momento
si può solo intuire. Meditabonda passò in
rassegna nuovamente la gran massa di
capelli castani, si soffermò sulle pupille nocciola,
l’incarnato gitano, i
lineamenti forti… Porca puttana!
Si
stupì facendo addirittura un piccolo salto sulla sedia,
sussulto che anche Lara
notò, tanto che s’interruppe e la fissò
interrogativa.
“Ma
che hai?” Chiese preoccupata, che uno scatto simile non
poteva essere un
brivido di freddo dato il caldo che faceva.
“Nulla,
mi fa male la spalla e ogni tanto si fa sentire.” Fu la
risposta che ne ebbe,
pure non la convinse del tutto, Alexandra non aveva affatto
l’aria di chi
pativa, piuttosto sembrava soddisfatta e un ghigno appena accennato le
aleggiava sul volto.
“Fa’
vedere.” Disse alzandosi e portandosi alle sue terga, non del
tutto persuasa
che le stesse dicendo la verità, tuttavia un certo gonfiore
c’era. Cauta tastò
il bozzo pronunciato che aveva al trapezio.
“Ehi,
giù le mani!” Protestò Alexandra alla
fitta, autentica
stavolta, di dolore che le aveva
provocato.
“Tranquilla
van der Post, mio padre è fisioterapista e mi ha insegnato
parecchi trucchetti,
non è che per caso hai una pomata?”
S’informò intanto che le faceva segno ti
togliersi la t-shirt.
“Senz’offesa, ma preferirei evitare
un intervento dell’apprendista stregone.”
“Cioè,
fammi capire bene.” Ribatté
incrociando le braccia e fissandola incredula. “Non hai avuto
esitazioni
davanti a quel bestione di Luigi e adesso te la fai addosso per un
massaggio?”
“Beh, lui non sapeva
quel che faceva e temo
non lo sappia neppure tu. E’ apprezzabile tanta
disponibilità, davvero, ma
preferisco lasciar fare ad un esperto.” Affermò
ragionevole, dopodiché tentò
d’indorare la pillola per moderare in qualche modo quel
rifiuto. “E poi temo
proprio di non aver nulla del genere in casa.”
Concluse alludendo a quanto le
era stato
richiesto, ma non aveva calcolato, o per meglio dire, non aveva idea,
della
testa dura di cui era dotata la sua interlocutrice.
“Oh ma quante storie,
vorrà dire che faremo
senza.”
Spazientita Lara aprì
la dispensa, ne prelevò
una bottiglia d’olio d’oliva e, incurante della
differenza di mole, l’afferrò
per un braccio, trascinandola letteralmente verso il divano in salotto.
“Ora togli
quell’affare, stenditi a pancia
in giù e chiudi il becco.”
Proruppe imperativa, al punto
che lo
stupore dell’altra aumento viepiù, e dire che
già aveva raggiunto un bel
traguardo durante la traversata che dalla cucina le aveva portate
lì. Infatti
si limitò a fissarla con la bocca a culo di gallina e
persino Lara si rese
conto d’aver esagerato.
“Senti, sto solo
cercando di farmi
perdonare. In fondo è anche per colpa mia se è
successo quel casotto oggi. Ti
pare che voglia aggravare ulteriormente le cose? Se ti dico che so quel
che faccio,
abbi fiducia. Anche perché non credo continuerai a farmela
passere liscia ancora
per molto.”
“Ma che cuore
nobile.” Affermò la tedesca sghignazzando,
ci poteva essere limite ad una simile faccia tosta? Pareva di no e
d’impulso,
stupendo sé stessa per prima, considerò che tutto
sommato non sarebbe stato poi
questo gran male a lasciarla fare. In fondo poteva anche sottrarsi
qualora fosse
stato chiaro che non era capace. Quindi fece come le era stato detto e,
una
volta prona, chiuse gli occhi rilassandosi ed ingiungendole a darsi da
fare.
Innanzi a tale esortazione Lara
non perse
tempo e, spostandole i lunghi capelli, notò che giusto in
mezzo alle scapole spiccava
una macchia di colore imprevista. E tutto si sarebbe aspettata, salvo
che una
bacchettona come Alexandra si fregiasse d’un tatuaggio,
eppure era proprio così.
Chissà, si disse
pensando ai
contrabbandieri di sigarette, magari nel nord’Europa non
erano esclusivo
appannaggio di chi era transitato per le patrie carceri. Ma trattandosi
di lei,
considerò avvicinandosi per guardarlo meglio, naturalmente
non poteva certo
essere l’usuale
cuore trafitto. Difatti
era ben strano come disegno.
Sembrava quasi
un’insegna gentilizia con
quello scudo bipartito, sulla destra presentava quella che suppose
essere
l’aquila germanica e accanto aveva un falco ad ali spigate
che tra le zampe
teneva una spada. Al di sotto il clipeo era ornato d’alloro,
l’estremità superiore
invece di una corona sormontata da tre cartigli fittamente scritti in
caratteri
gotici. Nero ed arancio erano i colori dominanti.
Notevole, ammise colpita, ma che
diavolo
poteva mai significare? Oltretutto, ora che ci pensava bene, chi mai si
sarebbe
fatto tatuare una cosa simile se non avesse avuto un motivo
particolare? E poi
portarsi addosso una sorta di marchio vita natural durante presupponeva
giocoforza un movente.
Piena di curiosità lo
toccò chiedendosi
quanto fosse stato doloroso il procedimento d’incisione, ma,
contrariamente a
quanto avrebbe voluto, non gliene fece parola, preferendo prima vedere
come
reagiva al trattamento cui stava per sottoporla. D’altronde bersagliarla di domande
importune intanto che tentava
di decentrarle i muscoli non le pareva tanto una buona idea.
E accidenti se era
aggrovigliata! Rigida
come un manico di scopa, nonostante in quel momento fosse assolutamente
distesa.
Sintomo inequivocabile, ponderò cominciando a lavorarle il
dorso, di nervosismo
somatizzato e raramente espresso. Altrimenti
quell’annodamento non si spiegava.
E dove poteva essere il punto nevralgico? Si domandò facendo
scorrere la punta
delle dita su e giù per la colonna vertebrale, cosa che
provocò l’evidente consenso
di Alexandra, reazione che diligentemente Lara accompagnò fino a quando il sospiro non
si mutò in un
brontolio di protesta.
Infatti, non appena si era
fermata alla
base del collo, la musica era cambiata. Allora capì
d’aver trovato il nodo che
andava cercando e spietatamente prese a manipolarlo, incurante delle
lamentele
che stava suscitando. Ma non se lo diede per inteso e
continuò, finché la
tedesca non ne poté più di sopportare stoicamente.
“Ahio, mi stai
massacrando!”
“Finalmente, mi stavo
appunto chiedendo
fino a quando avresti resistito.” Replicò
reprimendo a stento un sorriso e
senza interrompere il movimento incalzante delle mani.
“Beh ora lo sai,
potresti piantarla?” Fece tentando
d’alzarsi, ma Lara la tenne giù.
“Troppo tardi, se
smetto adesso ti farà
ancora più male. Piuttosto che ne dici
d’illuminarmi a proposito della
sorpresina che nascondevi sotto i capelli?” Buttò
lì come se le fosse venuto in
mente solo in quel momento.
“E sarebbe?”
“Oh andiamo Alex, Il
tatuaggio. Non ti
facevo così sovversiva, davvero, di quelli qui ce li hanno
solo i pregiudicati,
sai?”
“Non fare la bigotta,
tra qualche anno
saremo nel nuovo millennio e ti posso assicurare che tra un
po’ cominceranno a
proliferare anche qui. Dove stavo prima non c’era una
studentessa che non ne
avesse uno.”
Replicò ripensando
agli innumerevoli ghirigori
che decoravano le alunne del collegio. Però Lara non aveva
tutti i torti,
dacché si era trasferita non aveva visto nessuno che ne
avesse. Certo non si
sarebbe mai immaginata potesse essere una peculiarità da
carcerato e se il
Conte l’avesse saputo, non credeva sarebbe stato
così indulgente con quel suo singolare
omaggio al casato.
“Tutte
così?”
Le domandò Lara, al che decise di svelarle
l’arcano, in fondo
dove stava il problema? Vero che a scuola ancora non si sapeva della
sua
effettiva origine, quantunque indubbiamente fosse palese il suo essere
un’abbiente. Pure non si era mai presentata completamente
e, d’altro canto, prima o poi avrebbe dovuto farlo.
Perché non adesso e
con lei? Ruotò finché
poté il capo e con estrema semplicità rispose:
“Direi di no, visto che questo è
lo stemma nobiliare della mia famiglia.”
Al momento di dirlo Alexandra
aveva tentato
di essere il meno pomposa possibile, per quanto fosse difficile fare
un’affermazione
del genere ed evitarlo, e l’aveva detto senza sapere quale
reazione avrebbe
suscitato. Tutto si aspettava però, salvo la gragnola di
risate che seguirono
le sue parole. E Lara tanto si stava sganasciando che ad un certo punto
le
crollò sulla schiena, sghignazzando insolente appoggiata
proprio sull’emblema
di famiglia.
Quando finalmente
sembrò riaversi, riprese
il massaggio da dove s’era interrotta accompagnandolo con uno
sfottò senza
uguali.
“Sì come no
Alex, e dimmi sei la figlia del
principe di Casador o la nipote del marchese Ottavio Favetti? Oppure
no, magari
sei la contessina del Pero. A saperlo mi sarei presentata qui vestita
da
pezzente, così facevamo Miseria e
Nobiltà!”
“Libera di non
crederci, ma è la verità.”
Spiegò senza nessun
risentimento, del resto
Lara era di quanto più lontano ci potesse essere dai
convenzionalismi
dell’aristocrazia prussiana e non c’era da stupirsi
se la stava prendendo per
una solenne fandonia. Che ne poteva sapere lei di quel mondo chiuso,
foderato
d’oro e piombo?
“E
sentiamo”, seguitò sfiorando con
attenzione il gonfiore infiammato, “perché mai una
nobildonna come te se ne sarebbe
venuta a svernare qui? Non dirmi che devi fare il debutto in
società da queste
parti?!”
“No, quello dopo la
maggiore età, e c’è
ancora qualche mese di tempo ringraziando il cielo.” Si
lasciò sfuggire a
quella menzione.
Già presto o tardi le
sarebbe toccato pure
quello e la prospettiva non le faceva assolutamente fare salti di
gioia. Tanto
che spesso si scopriva a caccia di un escamotage qualsiasi che la
salvasse da
quel capestro.
“Ahà, ma
sai che mi sovviene che in questo
preciso istante sembro proprio una serva della gleba che riverisce la
signora
del castello? Pensaci, tu te ne stai distesa senza far niente e io
sopra a
sgobbare come un mulo. A Proposito, abbiamo finito vostra
signoria!”
“D’accordo
Lara, l’antifona è chiara.”
Alexandra si mise in piedi e
prese a tastarsi
il collo, davvero sorpresa dalla rapidità del benessere che
quel folletto le
aveva porto. Peccato che non la smettesse più con quei
dileggi.
“Grazie
mille”, annuì con un cortese cenno
del capo, “anche se non sei la più ortodossa delle
ancelle. Ad ogni modo, se
hai bisogno di confutazione a riguardo, chiedi pure a Contro della
sezione B,
la conosci vero?”
“Ma certo Alekòs!” Rispose
maliziosamente avviandosi verso l’uscita. “E hai
anche
il coraggio di dire che Alex non ti piace?”
Sparò impunita prima
d’accomiatarsi.
“Hai orecchie
dappertutto eh?”
Alexandra si appoggiò
allo stipite della
porta rendendosi conto che quasi le spiaceva lasciarla andare, per
tornare alla
sua musica, ai suoi pensieri e l’austerità della
casa. Pure, si disse, quello era
solo un momento e si stava lasciando fuorviare dalla novità
che Lara rappresentava.
Per cui tenne a dire quanto affermò, più per
ribadire il concetto a sé stessa
che non all’altra.
“E sia, ma io sono
davvero Alexandra Friederike,
prossima
contessa di van der Post e ventunesima discendente in linea dinastica.
Il che
per te può anche non significare niente, ma ti posso
assicurare che io non
posso fare a meno di farci i conti.”
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Capitolo 5 *** 5 ***
Voltò
pagina, sbuffò inquieta e si sforzò ad andare
avanti.
Stava
scorrendo svogliata le righe del testo, come se quel mero esercizio
potesse distoglierla
dal chiodo fisso attorno al quale da giorni ruotava. Pure, di tanto in
tanto, ugualmente
divagava. Non c’era nulla da fare, doveva cedervi e volgere
gli occhi a guardar
fuori, oltre il vetro.
Ancora
nevicava, i fiocchi scendevano lenti, impalpabili, posandosi
tutt’intorno con
una levità quasi trasognata. Nascevano dal cielo plumbeo e,
sebbene fosse solo
primo pomeriggio, fuori era quasi buio. Volse il capo e oppressa
tornò al libro
che aveva tra le mani, la luce dorata della lampada da tavolo
l’illuminava
debolmente. Aveva dovuto accenderla per avere la luce sufficiente a
leggere, ma
volentieri avrebbe preferito restarsene in penombra, per confondersi ed
annullarsi con le ombre di quel chiaroscuro.
Era
in balia d’un umore tenebroso, di una
melanconia insistita, la cui morsa non voleva allentarsi. Per questo
motivo stava
provando ad eluderla impegnando la mente in quel complicato esercizio.
Aveva
sperato infatti che, perdendosi nella traduzione di quella lingua
remota ed
aprendo con un tonfo il pesante vocabolario, avesse potuto azzittire le
voci del
passato. Appunto per questo aveva scelto la versione più
difficile tra quelle assegnatele
dal professore di latino. Per la verità di tempo ne avrebbe
avuto d’avanzo, ché
a causa della nevicata inaspettata che da giorni scendeva sulla
città, la
scuola aveva chiuso i battenti prima del previsto. Ciononostante, quel
che era
stata una manna per gli altri, non era per lei e si era ritrovata senza
niente
di meglio da fare, tranne che cercare di sfuggire ai suoi fantasmi.
Meno
male che la partenza è imminente, pensò. In
effetti aveva contati i giorni con ansia
e finalmente l’indomani sarebbe partita. Tornava a casa, a
Ranfield Hall, nome quanto mai singolare per una magione della
nobiltà tedesca, ma che, come per tutto, aveva una
spiegazione che si perdeva
nella notte dei tempi. Avrebbe trascorso le festività in
famiglia, dividendosi
tra il Conte, Sarah e una pletora anonima di parenti minori. Per non
parlare della
servitù, naturalmente. Tre giorni da trascorrere in apnea,
ingessata in abiti
formali e comportamenti altrettanto formali, culminanti nello sterile
abbraccio, tutti stretti intorno al grosso abete che decorava il salone
delle
feste, che avrebbe sancito la fine del rito.
Chissà
se anche quest’anno le sarebbe toccato l’assolo di
violoncello. Sperava di no, augurandosi
che l’incombenza passasse a sua cugina René,
virtuosa del pianoforte, oppure a
suo fratello Manfred che faceva tanto il presuntuoso con quel suo
flauto
traverso.
“Loro
sì che sono dei veri musicisti, mica come me.” Si
disse e, quasi a voler
suggellare quell’ammissione, disegnò sulla
condensa del vetro una chiave di
violino ché sigillò nel perimetro della stella di
David. Una smorfia rattristata
le deformò il volto mentre contemplava quello schizzo.
Già, da quel giorno non
era riuscita più a suonare. Ogniqualvolta ci provava si
bloccava e veniva
scossa da un tremito irrefrenabile, tanto che non riusciva neppure a
tenere l’archetto
in mano. Ma non poteva confessarlo al Conte, no, suo nonno non avrebbe
capito e
doveva continuare a fargli credere che il suo studio fosse costante.
Strano
però, egli sapeva che, malgrado lo strumento
l’avesse seguita in questo suo
ennesimo trasferimento, non aveva seguitato a prendere lezioni.
S’era aspettata
delle rimostranze, ma tutto taceva e da mesi la pesante custodia
contenente il
muto strumento giaceva poggiata al muro a prendere polvere.
“Sono
una vigliacca.” Pensò, giacché
l’aveva abbandonata là, evitando persino di
guardarla. Aveva forse timore che se si fosse azzardata ad aprirla,
come dal
vaso di Pandora, ne sarebbero scaturite tutte insieme le furie dalle
quali ancora
stava scappando?
In
ogni caso era successo egualmente. Pure, sarebbe stato assai
preferibile che una
volta a casa non l’invitassero ad esibirsi. Ma se tanto le
dava tanto,
supponeva che il Conte, né sua madre, si sarebbero
azzardati. In fondo non era neppure
loro interesse che quel vaso si scoperchiasse e da tempo avevano
provveduto a
sigillarlo con cura. Estrema cura.
Dove
sarà? Che starà facendo adesso? Si chiese e, come
sempre, dovette arrendersi alla
sterilità dei suoi interrogativi. Non le era possibile
sapere, non ne aveva i
mezzi ed era vincolata ad una promessa che l’incatenava senza
scampo
all’ignoranza. Guardò i contorni del suo disegno
sciogliersi, colare lentamente
sulla superficie della finestra e stancamente si passò una
mano sul volto.
Per
sua fortuna non avrebbe soggiornato a lungo tra le imponenti mura
domestiche,
giacché, subito dopo il cerimoniale natalizio, si sarebbe
diretta alla volta di
Istanbul. Una sortita che, una volta tanto, metteva d’accordo
gl’intenti del
Conte con i suoi. L’uomo infatti riteneva che godere
dell’ospitalità del
consolato tedesco in Turchia fosse un modo assai profittevole cui
impiegare i
tempi morti di quella lunga vacanza.
“Sì”,
aveva assentito durante la telefonata cui le aveva comunicato la
notizia di
quell’invito, “trovo opportuno che tu, quale futuro
capo del gruppo van der
Post, coltivi ed incrementi i rapporti con i vari attacchè
diplomatici che avrai la possibilità di conoscere.”
Un’affermazione che la diceva lunga e
Alexandra non aveva avuta nessuna difficoltà ad immaginarsi
il ragionamento che
aveva portato a quell’assenso. Più che probabile
che suo nonno ritenesse quelle
relazioni quali favorevoli ad un suo graduale ingresso in seno a
quell’elite
prestigiosa. Senza contare che Roelf sapeva perfettamente che in quella
sede avrebbe
dovuto interagire, se non tra suoi pari, perlomeno con
personalità di spicco.
Ja,
era chiaro che il
Conte sperava che così facendo avrebbe cominciato ad
assaporare la reale
portata del cardine plutocratico cui era destinata. E di conseguenza,
ne aveva
concluso Alexandra, non senza un certo cinismo rassegnato, doveva
essere grata
a quella particolare forma mentis per il grazioso benestare che
l’era stato
concesso. Per quanto la riguardava invece, al di là di
quelle tortuose mire, aveva contemporaneamente
l’opportunità di
visitare un paese che molto l’affascinava e modo di rivedere
persone che davvero
le stavano a cuore. L’ambasciatore Taddeus von Hoppel e sua
moglie Margot infatti
altri non erano che il suoi padrini e la trattavano come una figlia
prediletta,
da vezzeggiare e lasciar crescere in completa autonomia.
Sicché dal loro
rapporto Alexandra attingeva quanto difettava in quelli con la sua
famiglia,
ché l’uomo e la consorte avevano nei suoi riguardi
una dolcezza ed una tolleranza
che al Conte e sua madre mancavano del tutto.
In
ogni caso
comunque non era tanto l’impazienza per
quest’incontro a farle sospirare il momento della
partenza,
quanto piuttosto la fuga che rappresentava. Già, sapeva
d’aver bisogno di tempo per sé sola,
d’un altrove dal quale
osservare quella che era diventata la sua quotidianità con
calma e in successione,
in modo da cercare di sanare le ferite che improvvisamente avevano
ripreso a
sanguinare.
Inquieta
spense la luce e si sedette innanzi al camino piantando gli occhi
nelle braci incandescenti. “Colpa della
neve.”
Pensò risentita. Ma a che pro indignarsene? Prima o poi
comunque si sarebbe
trovata ugualmente spalle al muro, era inevitabile in un certo senso.
Perciò
tirò un lungo sospiro e prese a percorrere ancora una volta
la somma degli
aventi che, nel giro di pochi giorni appena, avevano avuto il potere di
turbare
la tranquillità che credeva d’aver finalmente
raggiunto.
“Tutta
colpa della neve.” Si ripeté e maledisse
silenziosamente il momento in cui il
rigore delle gelate e il morso insistito della tramontana avevano
ceduto il
passo a quel fioccare morbido, che tutto ingentiliva e nobilitava.
Pure,
paradossalmente, la stessa che smussava gli angoli appuntiti di strade
ed
edifici, aveva messo allo scoperto i suoi.
La
sua pace aveva preso impercettibilmente a decadere
nell’attimo in cui, durante
un giorno di scuola come tanti altri, un’esclamazione di
sorpresa aveva interrotta la voce monotona del
professore. Probabilmente
qualcuno stava osservando pigramente al di là delle finestre
e non aveva potuto
far a meno di far notare a tutti dei fiocchi che avevano
preso a cadere. Le fu
detto poi che di rado si creavano le condizioni perché
ciò avvenisse. Il che le
rese più comprensibile la ragione per cui i suoi compagni di
classe si fossero precipitati
alla balconata con esclamazioni di stupore deliziato. Per loro quello
doveva
essere un avvenimento inaspettato, quanto piacevole, a differenza sua,
che se
n’era rimasta al suo posto senza scomporsi. Tuttavia non era
stato il suo
solito distinguo snobistico a fermarla, quanto piuttosto la sufficienza
di chi,
provenendo dal profondo nord ed essendo abituato a ben altro, non
trova niente di speciale in quel che vede.
Così,
come al solito, si era tenuta ai margini senza lasciarsi coinvolgere
dalla
festosità altrui. Anzi, quando al termine delle lezioni,
appena fuori
l’ingresso dell’istituto, erano
cominciate a piovere pallate, il suo unico interesse era stato di
verificare se
qualcuno avesse avuto il coraggio di prenderla a bersaglio. Aveva
indugiato apposta
per quello, ma nessuno aveva osato e ghignando aveva voltato le spalle
alla
puerilità dei suoi coetanei, soddisfatta del sacrosanto
rispetto che aveva
generato nei suoi riguardi quanto era successo in cortile, mesi
addietro ormai.
Insomma
era d’umore eccellente, eppure lì, mentre
ponderava la scarsa audacia di chi,
pur detestandola, la temeva, inspiegabilmente si ritrovò
tutto ad un tratto
persa nel gorgo delle ossessioni che credeva l’avessero
abbandonata. Ci cadde
ignara tramite il fastidio che avvertii osservando da lontano
quell’allegria. Perché quel turbinio
d’adolescenti che giocava
con la neve le ricordò i suoi luoghi e i ricordi a loro
connessi. E le fu
intollerabile. Ma non era tanto la certezza della spensieratezza che
sapeva
d’aver perduto ad angosciarla, quanto
l’insostenibile confronto tra ciò che
vedeva con gli occhi e quel che sentiva nel cuore. Poiché
finché il sito del
suo esilio era rimasto un sé stante, un qualcosa di alieno
nei cui confronti
non poteva scattare nessun termine di paragone, era rimasta serena e vi
si era
adattata senza colpo ferire. Ma ora che la neve l’aveva
avvolto, rendendolo
analogo a ciò che aveva dovuto abbandonare, ne era scaturita
un’associazione che
prepotente riportava a galla quanto in lei covava appena sotto la
superficie.
No,
non c’era confronto alcuno con i boschi innevati della
Svizzera. Pensò misurando
il presente con il passato, eppure, prima
che potesse impedirselo, quanto aveva intorno la rimandò a
quel che tra quelle
selve era avvenuto. “Ma era quasi estate allora.”.
Mormorò intelligibile finché,
con un soprassalto, non
si rese conto di dove stesse errando il suo pensiero. E allora,
colpevolmente,
lo dirottò altrove guardando nuovamente
alla distesa immacolata che aveva davanti e raffrontandola al paesaggio
che avrebbe
potuto scorgere se fosse stata alle finestre della casa natia. Una
divagazione
necessaria questa, poiché le memorie appena evocate,
s’accompagnavano ad un
rimpianto che, lungi dall’affievolirsi, furtivo le aveva
scavato dentro un
solco profondo. E allora dovette ammettere quanto fino a quel momento
aveva volutamente
celato a furia di sola forza di volontà.
“Sono
stata una stupida a credere che allontanandomene ne sarei
guarita.” Si disse
amareggiata. Poi fu colta da un’altra intuizione. Come
l’era potuta sfuggire?
Che stupida! “Il Conte no, ne era certo. Per questo
mi
ha mandata qui senza far storie”.
Una
riflessione questa che le mise addosso una smania prepotente
d’urlare la sua frustrazione fino a perdere la
voce, di correre a perdifiato in direzione ignota tanto da sfiancarsi e
fare un
qualcosa, qualsiasi cosa, di stupido, eccessivo e dannatamente
teatrale.
Eppure
non fece nulla di tutto ciò, limitandosi ad incamminarsi
lentamente verso casa,
per poi chiudercisi dentro e rifiutare sistematicamente qualunque
contatto dall’esterno.
Nei giorni successivi ne era uscita solo per andare a scuola e aveva
accuratamente
evitato di dar agio a chiunque di avvicinarsi. A nulla erano valse
persino le
insistenze di Lara, vanificate poi e fortunosamente da una
provvidenziale
influenza di stagione che l’aveva messa a tappeto.
Pure
la sua reclusione era stata infranta quel mattino da Claudia la quale,
dopo
innumerevoli telefonate a vuoto e svariati tentativi
d’abbordarla prima e dopo
le lezioni, si era risolta a farle la posta sotto casa. Il che fu
provvidenziale, Alexandra infatti era di ritorno da una lunga
cavalcata, ma quell’umor
nero pareva essere impermeabile ad ogni divagazione e nulla vi aveva
potuto
neppure il galoppare furioso di Nemesis. Perciò era ancora
più abbattuta e l’energica
botta che ricevette alla schiena la prese del tutto alla sprovvista.
Disorientata
si guardò intorno, nei paraggi non c’era nessuno,
poi, resasi conto che quello
scossone era il risultato d’una palla di neve molto ben
assestata, con occhi
minacciosi prese a scrutare tra gli alberi del vicino giardino.
“Sveglia
Alekòs!” Fece Claudia spuntando da dietro un
albero e rendendosi visibile, quindi
le si parò innanzi e, incurante del cipiglio temporalesco
che l’altra inalberava,
continuò: “Dai, lamentartene pure! E’ da
un pezzo che ti chiamo, lascio
messaggi in segreteria e neanche mi dai retta.”
“Ho
avuto da fare.” Fece evasiva la bionda per poi chiudersi
subito a riccio. A che
pro intavolare la discussione? Claudia avrebbe inteso alla svelta do
dove
prendessero le mosse le sue fisime e non c’avrebbe messo
molto ad aprire il
solito discorso. Del resto ai tempi dell’accaduto ne avevano
parlato tanto, pure
troppo, visto che Claudia era l’unica a sapere come fossero
realmente andate le
cose. O perlomeno, la sola che pur sapendo non ci si era immischiata,
limitandosi ad offrirle una spalla su cui piangere e un sostegno che
mai era
venuto meno. Tuttavia Alexandra nicchiava titubante, non poteva
rivelarle
d’essere nuovamente al punto di partenza, d’aver
finto di dimenticarsene per
poi ricascarci così, al primo piè sospinto, senza
contare che non aveva nessuna
voglia di sentirsi ripetere la solita solfa. Ché per Claudia
la soluzione era
una e una sola, mentre per quel che la riguardava, non le era davvero
possibile
farla così facile. Per questo motivo preferiva tenersi per
sé i suoi pensieri
e, indossata una maschera quanto più possibile neutrale, la
prese di
contropiede e parlando del più e del meno, salirono nel suo
appartamento.
Sì
certo, le era grata per la distrazione portale dalla sua compagnia,
eppure,
nonostante le stesse prestando attenzione, non le riusciva
d’essere del tutto
presente e continuava a rimuginare sui pensieri che da giorni le
giravano in
testa.
Capita
l’antifona all’istante Claudia si
accomodò in poltrona chiedendosi nel
frattempo se fosse il caso di lasciarla fare o di chiuderla
all’angolo e darle spietatamente
addosso. Ma davvero pensava di dargliela a bere così
facilmente? Non ricordava
che era là con lei quando la botola s’era
spalancata? Si era forse dimenticata
di quella notte terribile cui le aveva vuotato il sacco piangendo
disperata?
Rimasta
sola nel salotto, intanto che l’altra metteva su il
tè, si guardò intorno
intenta. Il violoncello era al suo solito posto, arreso
all’inedia cui la sua
padrona l’aveva condannato. Peccato, pensò, quando
voleva riusciva a farlo
vibrare con rara intensità. Ma poteva capire le ragioni cui
addebitare quella rinuncia.
Sospirò partecipe e da quello spostò lo sguardo
allo scrittoio. I libri vi
giacevano ancora aperti e c’erano innumerevoli fogli
scarabocchiati che
sporgevano dalle pagine. Segno, pensò Claudia scuotendo il
capo, d’attività
ossessiva nonché recente. In ultimo notò il
disegno ormai completamente sbavato
alla finestra. La chiave di violino era indistinguibile, ma le sei
punte della stella
giudea non si potevano confondere.
“Ariel.”
Mormorò e allora Claudia pensò che doveva
assolutamente porgerle un appiglio
cui aggrapparsi e venirne fuori. Mio dio, da quanti giorni andava
avanti così?
E lei perché non c’aveva pensato prima?
“Ora è inutile chiederselo.” Si disse
mentre sorseggiava la profumata bevanda e Alexandra si accoccolava a
gambe
incrociate sul tappeto. La scrutò al di sopra della tazza,
aveva mangiato
ultimamente? Pareva di no, il volto appariva scavato e, considerate le
sfumature violacee che le decoravano le occhiaie, doveva aver dormito
assai
poco. “Meglio prenderla alla lontana.”
S’ingiunse quindi. Sì, meglio partire da
cardine primo, da quella tessera iniziale la
cui caduta gli eventi avevano preso a girare, su, su, fino a culminare
nella
presenza dell’amica lì di fronte a lei.
“Pensi
mai al professor Evangheliòs?” Chiese di punto in
bianco. Domanda questa
impossibile da ignorare e, dopo una pausa neanche troppo lunga,
Alexandra annuì.
“Ogni
santo giorno.” Ripose. Poi, come a suffragare
quell’affermazione, tirò fuori da
una tasca un koboloi ambrato e glielo mostrò. Gesto che per
Claudia fu più
esauriente di mille parole. Si ricordava perfettamente di
quell’oggetto e del
giorno in cui Alexandra l’aveva ricevuto in dono al cospetto
di tutta la classe.
A quel tempo erano entrambe allieve presso l’internato di
Reinheit in Engandina e Costas Evangheliòs era il
loro
insegnante di storia. Un uomo singolare questi, basso e rotondetto,
dall’espressione placida ed incorniciata in una fluente barba
da filosofo presocratico.
Impressione questa rinnovata poi quando egli stesso aveva confermato
d’essere d’origine
greca. D’altro canto, aveva detto sorridendo alle alunne, con
un nome simile
era difficile potessero sbagliarsi. Ma non era solo questo a farlo
differente
dal resto del corpo insegnanti, composto perlopiù da
madrelingua tedeschi. Ché il
nuovo arrivato non solo spiccava tra loro per i suoi colori e
corporatura mediterranea,
ma soprattutto per l’approccio col quale era solito trattare
le scolaresche. Evangheliòs
non seguiva gli schemi dell’educazione calvinista,
perciò non era sua abitudine
mortificare i guizzi caratteriali o fustigare le divagazioni
intellettuali
delle sue alunne. Anzi pareva incoraggiarle e, appunto come il filosofo
peripatetico cui lo si comparava, faceva lezione ovunque: in aula, in
biblioteca oppure portandole a spasso in corridoio o giardino, quando
il tempo
lo consentiva. Tra l’altro era l’unico che le
lasciava fumare a loro
piacimento, giacché, asseriva sorridendo bonario, preferiva
restassero in sua
presenza a farlo, piuttosto che chiudersi in bagno e perdersi la
lezione. Insomma
era assolutamente fuori da ogni schema e, quando si era ritrovato
Alexandra di
fronte per la prima volta, ne era rimasto folgorato.
“Così
dev’essere stato Alessandro Magno!” Aveva esclamato
infatti fissandone la
bionda chioma e i tratti efebici. E da allora Alexandra
era
diventata Alexandròs, poi, più affettuosamente,
soltanto Alekòs. E durante il
corso di quell’anno i rapporti tra insegnante ed allieva
fatalmente s’erano intensificati.
Lei letteralmente l’adorava e lui aveva nei suoi riguardi una
predilezione di
cui non faceva affatto mistero. Al punto da regalarle libri, portarla a
concerti
e a visitare siti culturali dei vicini cantoni. Ma soprattutto era
solito
riceverla persino in forma privata nel suo studio e a qualsiasi ora,
sempre
pronto a rispondere alla sue domande e a trarne piacere dalla sua
compagnia. Insomma
ce n’era stato d’avanzo perché lei fosse
preda ad una sorta d’infatuazione
platonica e lui finisse nell’occhio del ciclone.
Tant’è non c’era voluto molto
perché le istituzioni scolastiche s’allarmassero e
quei dettagli arrivassero
all’orecchio attento e scandalizzato del Conte.
Claudia
a tutt’oggi non era al corrente dei provvedimenti presi da
costui, né di cosa il
nobiluomo avesse accusata la nipote quando la richiamò al
suo cospetto. Naturalmente
non ci voleva molto ad intuirlo e, sebbene fosse certa
dell’innocenza di
Alexandra, restava il fatto che dall’oggi al domani era stata
cacciata
dall’istituto e che la mozione d’espulsione era
partita nientedimeno che dallo
stesso Evangheliòs. Comportamento
immorale, aveva scritto a margine di quella nota. Tuttavia,
nell’ultimo
giorno che Alexandra trascorse alla sua presenza, le regalò
quel rosario
scacciapensieri. Claudia ricordava perfettamente che nel darglielo
l’uomo non
aveva avuto neppure il coraggio di guardarla direttamente negli occhi,
mentre
biascicava qualcosa a proposito dell’augurio di un
proseguimento felice dei
suoi studi ovunque fosse andata. E, ancor oggi, ricordare
l’espressione ferita
dell’amica, era un qualcosa che le faceva ancora molto male.
Soprattutto
perché, pur nell’ignoranza, non era difficile
immaginarsi il turpe mercato che
il Conte doveva aver proposto ad Evangheliòs. Di certo
concerneva la tangibile minaccia
di rovinarlo come uomo ed insegnante e senz’altro doveva
averlo intimorito ad
un punto tale che questi, mettendo sul bilancino il suo benessere e
confrontandolo alla simpatia che provava verso la sua
Alekòs, aveva dovuto
scegliere. E il risultato era che Alexandra aveva dovuto lasciare la
scuola e
lui vi era rimasto, diventando poco dopo addirittura membro del
consiglio
direttivo. Morale? Roelf se l’era comprato e così
facendo aveva messo a tacere
la faccenda.
“Fu
una vera fortuna che mio padre fu trasferito dopo la tua
espulsione.” Dichiarò a
questo punto Claudia ritornando al presente. Poi soggiunse a
mo’ di
spiegazione: “Non avrei sopportato di restare là
dentro un attimo di più senza
di te e specialmente dopo quel che ti avevano fatto.”
Chiarì prendendole la
mano e fissandola con occhi traboccanti d’affetto,
perché ancora una volta
sapesse che lei sarebbe stata dalla sua parte in ogni caso, sempre.
“Sai
una cosa Clà?” Replicò questa
divincolandosi dalla sua stretta e soppesando assorta
il koboloi. “Quella delusione avrebbe dovuto insegnarmi ad
andarci più cauta,
invece sono sta così cretina da incappare nello stesso
errore una seconda
volta.” Crucciata Alexandra lasciò che quelle
parole restassero ad aleggiare
tra loro per un poco. Poi, visto che l’altra si limitava a
fissarla dispiaciuta,
continuando a giocherellare coi grani, aggiunse:
“Però adesso ho imparato,
eccome se l’ho fatto. E quest’affare continuo a
portarmelo appresso perché me
lo ricordi ogniqualvolta mi venga la tentazione di legarmi a
qualcuno.”
Detto
ciò le sembrò assolutamente superfluo aggiungere
altro e Claudia capì che per
il momento non ne avrebbero più parlato. Forse aveva ragione
lei, chissà, ad
ogni modo le voleva troppo bene per forzarla e farla stare peggio.
Perciò restò
lì ancora un poco, aiutandola a fare le valige e facendosi
promettere che, una
volta a casa, avrebbe tentato di starsene il più tranquilla,
onde non suscitare
le collere assai suscettibili dei suoi. Del viaggio seguente poi si
raccomandò
solo che ne approfittasse quanto più possibile per
rilassarsi.
“Cerca
di non pensarci troppo, d’accordo?” Fece sulla
soglia di casa dopo averla
stretta in un abbraccio premuroso.
“Certo”,
rispose Alexandra esibendo addirittura un pallido ghigno,
“andrò a seppellirlo
da qualche parte in Anatolia.”
Meditabonda
Claudia si diresse alla fermata del bus e sola coi suoi pensieri ne
attese l’arrivo.
Al momento del commiato aveva mascherata la preoccupazione, ma intanto
non
poteva arrestare il corso inesorabile delle riflessioni che la
conversazione con
Alexandra le aveva messo addosso.“Oh
Alekòs”, pensò sentendosi stringere il
cuore, “perché ti tocca sempre la via
più difficile?”
Salì
a bordo e durante il tragitto verso la zona residenziale
ripensò a quanto era
successo durante il tempo della loro separazione. Lei era tornata in
Italia con
la sua famiglia, Alexandra invece aveva migrato nel cantone
franco-svizzero di
Vaud. In ogni caso, proprio come aveva avuto modo di dirle, aveva
lasciato Reinheit
senza nessun rimpianto. Certo sarebbe potuta restare,
era un’alunna brillante e le prospettive a cui avrebbe potuto
ispirare con in
tasca un diploma simile sarebbero state assai più ampie
rispetto a quelle che
poteva garantirgli il titolo preso nel suo attuale liceo. Ciononostante
era
stata lieta di abbandonare quel nido d’ipocrisie moraliste.
Così, mentre lei si
riabituava a vivere in patria, Alexandra si adattava ai nuovi ritmi e
volti dell’approdo
di Montreaux. Un posto prestigioso cui la vita era più
comoda e i divertimenti
consentiti. Ma, sebbene vi si trovasse abbastanza a suo agio, la tregua
che
credeva avervi trovata, non era durata. E ancora una volta gli eventi
avevano
congiurato contro di lei. Tanti ne erano stati i protagonisti e
nessuno era esente da colpa.
“Neppure
io.” Si disse Claudia, consapevole del fatto che si era
limitata ad assistere a
quella caduta dalla grazia da lontano. Certo nulla avrebbe potuto per
scongiurare l’inevitabile. Pure, quando alla fine aveva
saputo, ugualmente se n’era
sentita responsabile. Già, come dimenticarsi di quella notte
in cui Alekòs,
ubriaca fradicia, le aveva confidato il doloroso segreto che covava nel
petto? Allora
apprese di Ariel, insegnante di musica a Le Rosembourg e primo anello
della
catena, il cui essere ebrea e progressista l’avevano resa
fatalmente vittima
designata. Poi venne fuori quella maledetta Leila Williams, compagna di
scuola
di Alexandra e di lei fin dal primo momento sventuratamente infatuata,
la cui delazione
aveva dato inizio a quel susseguirsi di voci e reazioni che avevano
portato
l’insegnante sul banco degli imputati. E, ovviamente, chi
poteva presiedere un
simile tribunale condannante se non il Conte Roelf van der Post?
Così tra i
singhiozzi e con parole rotte Alekòs le aveva narrata
l’ira funesta dalla quale
era sfociata una rappresaglia ancora più crudele di quella
riguardante il
professor Evangheliòs. Ché innanzi
all’ostinazione perpetrata di sua nipote nel
legarsi alle persone sbagliate il Conte non aveva avuta nessuna
pietà. Anzi si
era impegnato ad essere altresì sottile nel suo castigo,
rendendola
completamente impotente e schiacciandola altresì in modo
trasversale. Cosicché ancora
oggi ne pativa e ne soffriva soprattutto perché la reazione
di Ariel Kohner era
stata assai diversa da quella di chi l’aveva preceduta.
“Vecchio
bastardo!” Pensò Claudia stringendo i pugni nel
pullman semivuoto. Intanto, all’altro
capo della città, piangendo calde lacrime, Alexandra aveva
finalmente liberato
lo strumento dalla sua guaina di velluto. Al buio se lo
accomodò tra le braccia
e dal nulla una straziante partitura di violoncello prese ad
accompagnare il
lento cadere della neve al crepuscolo.
N.d.A.
Dopo
quasi un anno di colpevole mancanza, finalmente riesco ad aggiornare
questa
storia. Me ne scusino quelli che la seguono, ma in questi mesi, sebbene
ce l’avessi
chiara in testa, proprio non mi riusciva di mettere due righe
l’una dietro l’altra.
Si
sarà constatato inoltre che in quest’ultimo
capitolo c’è una sovrabbondanza di
carne al fuoco. Vero, ma ciò non solo per cominciare a
gettare sprazzi di luce
sulla personalità e i comportamenti spesso inspiegabili
della protagonista,
quanto per gettare le basi di quel che verrà a seguire,
giacché, in tempi assai
brevi, il capitolo successivo sarà on
line. Questo non solo perché è
già
parzialmente scritto, ma soprattutto perché in tal modo
spero di farmi
perdonare il lungo silenzio riguardo a questa storia. In conclusione
quindi,
uno speciale ringraziamento va a chi ha letto, recensito e soprattutto
pazientemente
aspettato.
Grazie
mille.
Aurelia
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