Together through the years

di benzodiazepunk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 Settembre 1996 ***
Capitolo 2: *** 26 Novembre 1997 ***
Capitolo 3: *** 24 Dicembre 1998 ***
Capitolo 4: *** 29 Maggio 1999 ***
Capitolo 5: *** 4 Agosto 2000 ***
Capitolo 6: *** 15 Novembre 2001 ***
Capitolo 7: *** 9 Marzo 2002 ***
Capitolo 8: *** 30 Aprile 2003 ***
Capitolo 9: *** 10 Ottobre 2004 ***
Capitolo 10: *** 18 Settembre 2005 ***
Capitolo 11: *** 17 Dicembre 2006 ***
Capitolo 12: *** 1 Settembre 2007 ***
Capitolo 13: *** 30 Marzo 2008 ***



Capitolo 1
*** 1 Settembre 1996 ***


1 Settembre 1996 - Bill
 
Ecco che finalmente spunta il sole; lo vedo filtrare dalle tende della finestra, la luce aumenta a vista d’occhio, lentamente, senza fretta, ma io ho già aspettato abbastanza. Getto da un lato le coperte, mi siedo e appoggio i piedi sul pavimento. È freddo, è il primo settembre e non fa più caldo come in estate ma non me ne importa troppo, e mi avvicino alla porta senza cercare né le calze né le scarpe. Piano, senza far rumore, esco in corridoio. La casa è ancora silenziosa, tutti dormono o almeno, la mamma dorme, Tom non lo so; forse no, forse anche lui aspettava questo momento con trepidazione come me, forse anche lui se ne sta a letto a osservare la luce che filtra dalla finestra.
Sorrido tra me e me; lo scoprirò subito.
Appoggio la mano sulla maniglia della sua porta, esito per un secondo ma è solo un attimo, poi la abbasso e, in punta di piedi, entro. La camera di Tom è molto simile alla mia; sul lato destro c’è una scrivania dove mio fratello dovrebbe fare i compiti ma alla fine li facciamo quasi sempre insieme in cucina; a destra c’è il letto mentre proprio davanti a me c’è una finestra, oscurata da tende identiche alle mie; la stanza è immersa nella penombra a quest’ora del mattino, ma anche così riesco a scorgere mucchi di vestiti sparsi dappertutto, libri abbandonati sulla scrivania e in generale un caos impressionante. Diciamo che la mia camera è un po’ più ordinata… ma non più di tanto, dice la mamma.
Sempre in punta di piedi mi avvicino al letto del mio gemello che, scopro, dorme ancora. Delicatamente scosto le coperte e mi infilo di fianco a lui, che sospira, borbotta qualcosa e tenta di buttarmi giù.
Trattengo una risata mettendomi una mano davanti alla bocca e Tom finalmente si sveglia.
«Che diavolo c’è Bill? È ancora mattina» si lamenta sottovoce.
«Buon compleanno Tom» mi limito a rispondergli, gettandogli le braccia attorno al collo. Lui ricambia con fare seccato ma sento che sta sorridendo sulla mia spalla. Mi separo da lui e lo fisso negli occhi. «Ora abbiamo sette anni» affermo. «Siamo entrati ufficialmente nell’età della ragione»
«E con questo?» ribatte confuso.
«E con questo» spiego io con fare un po’ saccente. Mi piace far arrabbiare Tom e lui si arrabbia sempre se faccio il saputello. «E con questo, dobbiamo deciderci a mettere la testa a posto. Dobbiamo decidere cosa fare del nostro futuro» affermo.
«Come possiamo saperlo? Siamo solo dei bambini» sbotta lui alzando gli occhi al cielo.
«Io voglio diventare famoso» decreto senza nemmeno ascoltarlo. «E tu diventerai famoso insieme a me. Magari potremmo diventare dei medici che vanno in Africa a salvare le persone, come quel dottore del film di ieri!»
«Oppure dei pittori, come dicevi lunedì! Oppure ancora degli astronauti, come volevi la settimana scorsa dopo quella gita al museo? Oppure dei ninja» sogghigna. «Eri così certo di voler diventare un ninja, quest’estate!»
Mi sta prendendo in giro e me ne accorgo benissimo. Incrocio le braccia al petto così strette che ci vorrebbe uno scalpello per separarle, metto il broncio e mi giro dall’altro lato.
«Dai, non prendertela» mi dice Tom con un tono più accondiscendente dandomi una pacca sulla schiena.
«Ahia!» esclamo facendo una faccia sconvolta.
«Ma se ti ho appena toccato!»
Si rimette sdraiato e mi gira le spalle.
Mi sdraio anche io a pancia in su. «Potremmo diventare degli attori, e lavorare sempre in coppia. Saremmo famosi e tutti ci vorrebbero» dico dopo qualche minuto.
Tom si gira e mi guarda in faccia per un po’. «Buon compleanno Bill» mi risponde solamente.

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Capitolo 2
*** 26 Novembre 1997 ***


26 Novembre 1997 – Tom
 

Sono arcistufo di oziare in casa. È pomeriggio inoltrato, è domenica e non ho altro da fare che guardare la tv dove oltretutto danno solo programmi cretini. Basta, ho deciso, ora vado di là e butto mio fratello giù dal letto. Mamma aveva detto che saremmo andati allo zoo oggi, insieme a Gordon, per fare qualcosa tutti insieme e Bill mi aveva promesso che prima di uscire avremmo fatto una partita a pallacanestro. Ma ovviamente l’ora della gita è quasi arrivata e lui non è ancora uscito dalla sua stanza.
Mi avvio con passo pesante verso le scale, poi spalanco la porta della camera di mio fratello con un certo cipiglio.
Bill nemmeno mi sente. È alla scrivania curvo su quello che sembra un foglio tutto scarabocchiato; ha una penna in mano con cui ogni tanto si gratta la testa per poi tornare a scrivere i suoi scarabocchi.
Incrocio le braccia e lo osservo per qualche secondo, poi «Bill» esclamo sempre più seccato dalla sua indifferenza.
Mio fratello sobbalza come se non si fosse accorto della mia presenza, si volta di scatto e inaspettatamente di fronte alla mia espressione arrabbiata si apre in un enorme sorriso tutto denti.
«Tomi vieni a vedere!» esclama poi facendomi segno con una mano. «Vieni a vedere se ti piace»
Vorrei dirgli di non rompere, che se lui non gioca a basket come aveva detto io non guardo proprio niente, vorrei girare i tacchi e andarmene, vorrei tirargli un pugno e dirgli che non giocherò mai più con lui nemmeno se me lo chiederà, ma non faccio nulla di tutto questo. Sbuffo e mi avvicino alla scrivania. Bill mi tende il suo prezioso foglio e sorride ancora.
«Leggi leggi dai! Dimmi se ti piace»
«Che roba è?» gli chiedo.
«È una canzone. Beh, la mia canzone!» Il suo entusiasmo è evidente e io resto per un attimo imbambolato a fissarlo.
Una canzone? Perché mai si sarebbe messo a scrivere canzoni ora? Sogghigno, chissà che razza di temino sarà ‘sta cosa, ma mi decido a leggere. Di fronte alle follie di mio fratello sono impotente. 
Leggo, e quando arrivo in fondo rileggo tutto un’altra volta. Mi fermo a fissare il testo, poi lo rileggo ancora. Infine alzo gli occhi su Bill che mi osserva impaziente.
«Allora?!» esclama, incapace di trattenersi oltre. «Che te ne pare? È decente?»
«Decente? Bill questa è una canzone vera!» So che deve sembrare sciocco perché lui sbuffa.
«Ma certo che lo è, te l’ho detto. Ma è bella? Ti piace?»
«Certo che mi piace, e come non potrebbe? È una specie di opera d’arte, è una canzone come quelle che si sentono alla radio, è… Se la fai leggere a qualche cantante famoso te la compra di sicuro, e potrebbe pagarti anche tanti soldi!»
Bill scuote la testa sorridendo sotto i baffi. «No che non la vendo. La posso cantare anche io e tu potresti suonare, magari puoi inventare una musica. Magari potremmo…»
«Frena, frena, frena!» lo blocco. «Sei ammattito per caso? Bill abbiamo otto anni ok? Nessun bambino di otto anni diventa famoso con una canzone, e nemmeno a dieci, o a dodici, o a quindici anni, quindi…»
«Con una canzone no, ma io posso scriverne altre. E poi Gordon che si vanta tanto di essere esperto di musica potrebbe aiutarci con tutte le cose che servono per farci diventare famosi. Così sarebbe utile per qualcosa, una volta tanto»
Bill storce la bocca, lo so che non è ancora del tutto convinto di Gordon e della decisione della mamma di vivere insieme a lui facendo come se fosse il nostro papà; nemmeno io sono convinto, ancora. Anche se Gordon è un bel tipo ed è pure simpatico.
Rido e Bill scoppia a ridere insieme a me.
«Allora lo facciamo?»
«Ma cosa?» chiedo esasperato.
«Diventiamo dei cantanti?»
«Io non canto proprio niente» chiarisco, ma poi di fronte all’espressione carica di aspettativa del mio gemello lascio da parte la mia arrabbiatura; gli prendo il foglio dalle mani, corro via, e sento che lui mi insegue.
Non mi pare che “l’età della ragione” abbia fatto mettere a Bill la testa a posto; ma d’altronde se non sfornasse idee bizzarre e impossibili non sarebbe Bill.

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Capitolo 3
*** 24 Dicembre 1998 ***


24 Dicembre 1998 – Bill
 

Tom gioca ai videogiochi continuamente. Mi fermo sulla porta del salotto a braccia incrociate ed espressione truce; l’ho chiamato venti minuti fa per fargli vedere un video che ho fatto ma lui ancora non si è staccato da lì. Mi sento invidioso di una consolle.
«Ma allora, vuoi venire o no?»
«Non adesso ti ho dettoo!» cantilena lui, protendendosi ancora di più verso lo schermo della televisione.
«Perché no?»
«Perché sono occupato, oh, Bill! Che palle!»
«Era solo una cosa veloce ma a te non te ne frega niente! Allora và a quel paese Tom, vedi te se non ti rompo qualcuno di quei giochi schifosi qualche volta, quando non vedi!»
«Provaci e vedrai che ti succede! E smettila di rompermi, sennò ti picchio»
«E provaci se ne hai il coraggio»
Lui nemmeno mi risponde; mi ignora e basta e questo mi fa arrabbiare ancora di più. Mi avvicino al televisore senza sapere quasi nemmeno cosa sto facendo, ecco cosa significa essere accecati dalla rabbia; prendo la spina e la stacco.

Per un attimo restiamo bloccati dallo stupore entrambi, io a fissare la spina che stringo in mano, Tom la tv ora nera e spenta. Poi lui balza in piedi e mi si avventa addosso. Mi tira i capelli urlandomi quanto sono cretino, mi fa cadere per terra e io strillo perché ho sbattuto la spalla contro l’angolo del mobile e mi sta facendo male.
Nessuno arriva a vedere cosa sta succedendo come accadrebbe in un giorno qualsiasi perché per una volta la mamma ci ha lasciati a casa da soli per andare con Gordon a prendere le ultime cose di Natale. Lei ci separerebbe se ci fosse e ci aiuterebbe a trovare un compromesso senza picchiarci e dirci cattiverie. Scalcio per levarmi mio fratello di dosso ma lui è più bravo di me a fare a pugni di solito e perciò so già che non ci riuscirò mai; solo che mi sta facendo male davvero non riesco quasi più a respirare e lui non mi ascolta oppure non gli importa, così gli tiro un pugno nella pancia. Deve essere stato abbastanza forte perché Tom trattiene il fiato e la presa su di me si allenta un po’; si allontana quanto basta per permettermi di vedere che ha le lacrime agli occhi, chissà se per il male o per aver perso tutti i dati della sua partita.

Mi lancia uno sguardo pieno d’odio che mi fa rimanere di stucco, poi si alza e corre via e poco dopo sento la porta della sua camera che sbatte.
Tiro su col naso mentre la spalla pulsa lì dove ho sbattuto, e penso che Tom non mi ha mai guardato così, come se mi odiasse per davvero.
Mi alzo in piedi, riattacco la spina della televisione e metto a posto il videogame di mio fratello, poi salgo mestamente le scale e mi avvicino alla porta della sua stanza. Mi fermo indeciso sul da farsi. Vorrei entrare ma non ne ho il coraggio. Vorrei fare la pace come tutte le altre volte in cui abbiamo litigato ma non sono sicuro che lui voglia parlarmi.
Appoggio la mano sulla maniglia e mi blocco di nuovo. No, di sicuro lui non vuole parlarmi più, ora mi odia. Ritiro la mano senza sapere che fare, poi la appoggio di nuovo. Ma forse è meglio almeno bussare così invece che aprire batto sulla porta tre volte molto piano. All’inizio penso che Tom non abbia sentito così batto un’altra volta più forte ma la sua voce dall’interno mi blocca a metà.
«Vattene via, non voglio parlarti mai più! Ti odio!» grida, e io ritiro la mano come se il legno tutt’a un tratto scottasse.
Rimango lì, colpito dalle sue parole nel profondo. Non ho più voglia di fare video o qualsiasi altra cosa adesso. 
Mi siedo davanti alla porta perché non so che altro fare e anche se non vorrei mi metto a piangere.
Non so quante ore Tom se ne sta rinchiuso in camera, ma quando la porta dietro di me si muove, comunque, la mamma non è ancora tornata.
«Oh» esclama lui, stupito di trovarmi lì.
Mi volto a guardarlo dal basso in sù con gli occhi ancora un po’ rossi e un’espressione che spero essere pentita, almeno. Mio fratello mi guarda ancora un po’ arrabbiato, poi mi tende una mano e mi fa alzare.
«Facciamo la pace?» mi chiede.
«Ma se hai detto che mi odi»
«No che non ti odio, e se vuoi lo guardo il tuo video»
«Non importa, è un video stupido» abbasso lo sguardo.
«Ma allora la facciamo la pace o no?»
«L’hai detto, che mi odi»
«Lo so, ma non era vero. Siamo fratelli, non possiamo odiarci»
«Ma può anche succedere, chi può dirlo»
«No che non può. Non fra noi che dobbiamo diventare famosi insieme»
«Cantanti?» chiedo io con un barlume di ritrovato entusiasmo.
Tom si limita ad alzare le spalle e a sorridere.

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Capitolo 4
*** 29 Maggio 1999 ***


29 Maggio 1999 – Tom


L’aria mi scompiglia i capelli mentre corro; siamo al parco giochi che c’è vicino alla scuola, la mamma finalmente si è decisa ad accompagnarci ora che sta arrivando il bel tempo e la scuola è quasi finita.
«Dai Tom, corri!» grida Alan poco più avanti di me.
Raggiungiamo ansanti le postazioni delle altalene, tiriamo fuori dalle tasche le carte e ci prepariamo al baratto. Ben presto altri bambini ci raggiungono e formano un cerchio stretto intorno a noi, alcuni limitandosi a osservare, altri mostrando a loro volta carte rare o meno e cercando di fare scambi. Non per vantarci ma Alan ha la migliore collezione della classe, tutti vogliono fare affari e lo invidiano ma lui è furbo e fa scambi solo vantaggiosi. A volte frega certi bambini in maniere vergognose e io e lui ridiamo per giorni al pensiero di come sono stati fessi.

«Dammi Uria Signore delle Fiamme Ardenti in cambio di Mago Nero, dai!» propone un bambino di prima.
«Non ci penso nemmeno» scuote la testa Alan. «A maggior ragione perché… di Mago Nero ne ho due» conclude sventolando le due carte davanti al naso del bambino con un sorrisetto soddisfatto. «Altre offerte per Uria? Nulla? Peccato. Tom, la vuoi tu? Per il tuo Drago Bianco Occhi Blu, mi manca»
Io sorrido mentre un coro di brontolii scontenti si alza dal cerchio. Molte delle offerte che Alan ha ricevuto valevano più del mio Drago Bianco, ma sappiamo bene perché lui la vuole scambiare con me.
Ad un tratto la voce della madre del mio amico sovrasta le nostre trattative.
«Oh… io devo andare» afferma tristemente. «Ci vediamo domani»
E corre via.
Tutti i bambini si disperdono per il parco e io mi avvio verso l’angolo in fondo, quello delle giostre dove c’è il gruppo di Bill.
Mentre cammino mi si affianca Luick, un tipo insopportabile della classe di fianco alla mia.
«Ciao Kaulitz-uno» mi saluta sogghignando.
Mi da sui nervi.

«Ciao»
«Non ha fatto grandi scambi eh? Il tuo amichetto. Forse sta perdendo la mano per gli affari? O forse gli altri si stanno accorgendo di quanto sia disonesto, lui e anche tu?»
«Solo perché con te non fa affari nessuno non vuol dire che gli altri sono disonesti» rispondo asciutto.
Lui sogghigna ancora. «E dove vai adesso? Dal fratellino? Dal gruppo sfigato del fratellino sfigato?»
«Togliti dai piedi»
Lui però mi supera e mi si para davanti costringendomi a fermarmi. «Cos’è, non vuoi parlare con me? Devo dirlo a tua mamma, che dischimini i compagni e fai il bullo?»
«Si dice discrimini» lo correggo tanto per fare il superiore.
«Eh? Devo dirglielo?» continua, ignorando il mio intervento. «Tu e le tue stupide carte, che non sai nemmeno collezionare. E ora hai anche i dread-cosi, che schifo, ti stanno pure male. Ma lo sai qual è l’unica cosa più patetica della tua cosiddetta collezione e dei tuoi capelli osceni? Beh, ora te lo dico. Le musichette che scrivi per le canzoni ridicole del tuo fratellino. Cosa credi, che sia un segreto? Tutta la scuola ride di voi, due poveri imbranati penosi. Cosa c’è, non sai più cosa dire? Eppure dicono che la parlantina non ti manca. Aah no, quello è Kaulitz-due»
Mi rode ammetterlo ma non so più cosa rispondergli. In fondo lo immaginavo anche io che se si fosse venuto a sapere tutti quanti avrebbero riso di noi, a scuola.
«Di cosa parlano le vostre canzoncine, delle carte? Oppure dei fiorellini o di “sole cuore amore”, eh?»
«Non ci mettiamo a illustrartele Luick, non ci arriveresti a capirle» afferma una voce.
Dal nulla, dietro le spalle di Luick spunta Bill. Mi affianca con tutta la calma del mondo, le mani infilate nelle tasche e un sorrisetto rilassato sul volto.
«Ooh, ecco Kaulitz-due! Hai scritto una nuova canzoncina sulle farfalle?»
«Non credo che a scuola ci prenda in giro qualcuno» ribatte Bill ignorando la domanda. «Alan trova l’idea di diventare cantanti “fantageniale”» cita, virgolettando la parola inventata dal mio amico con un segno delle dita. «La maestra dice che scrivo come un ragazzo delle medie e Lea ci saluta ogni volta che ci vede, perché dice che quando saremo famosi vorrà poter dire di conoscerci bene»
Sul viso di Luick si alternano almeno cinquecento espressioni diverse, tutte legate alla rabbia e alla vergogna; tutti sanno che ha un debole per Lea e che lei l’ha rifiutato.
«Ora dobbiamo proprio andare» si finge dispiaciuto Bill. «Ci vediamo alla festa di compleanno di Lea. Oh!» esclama poi candidamente, con un’espressione così imbarazzata e pentita che se non fossi suo fratello crederei nella sua genuinità. «Tu non sei stato… beh ci vediamo domani»
Ci allontaniamo cercando di mantenerci seri ma faticheremo a guardare in faccia Luick per settimane, ricordando l’espressione con cui l’abbiamo lasciato oggi.
«Davvero Lea e Alan dicono così?» chiedo.
«No» risponde innocentemente Bill, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, lasciandomi spiazzato.
«Come no? Ma Luick…»
«Ma tanto lui non lo verrà mai a sapere» mi fa l’occhiolino mio fratello.

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Capitolo 5
*** 4 Agosto 2000 ***


4 Agosto 2000 – Bill
 

È da due giorni che siamo in vacanza con papà; siamo al mare, il tempo è bellissimo e Tom è felicissimo. Lui è affezionato a papà forse anche più di me e non vedeva l’ora di partire. Con papà è tutto molto strano; ci siamo portati dei compiti da fare ma per ora non ci ha mai detto di studiare, a pranzo in spiaggia mangiamo panini senza la frutta e a cena sempre pizze, spaghetti, o cinese. Forse è perché lui non sa cucinare molto, e nemmeno io o Tom, però è così divertente. Se lo sapesse la mamma non sarebbe molto contenta, lei dice sempre che mangiare frutta e verdura è importante e fa bene però, penso io, se per due settimane ne mangiamo un po’ meno non fa niente no? Sono solo due settimane e poi la mamma ricomincerà a rimpinzarci di insalata e carote, quindi non è gravissimo.
Io e Tom sguazziamo nell’acqua perché, anche se sono le sette di sera, fa molto caldo.
«Dici che Gordon ce la fa a farci suonare alla fiera di settembre?» mi chiede a un tratto.
«Sono sicuro di sì. Lui conosce bene quello che organizza e dice sempre che il gruppo che suona alla fiera è pietoso. Almeno noi siamo bravi»
«Forse sì. Ma dobbiamo ancora finire quell’accompagnamento al computer però, e non so se avremo tempo»
«Ma si che avremo tempo, vedrai»
Rimaniamo in silenzio per un po’, tuffandoci, nuotando e osservando il fondale.
«La mamma e il papà non torneranno più a vivere insieme vero? Adesso ci toccherà Gordon per sempre» sbotta mio fratello.
«Ma Gordon non è poi male…» tento di sdrammatizzare anche se non lo penso davvero proprio del tutto.
Certo è che sembra meglio del previsto, adesso che lo conosciamo meglio e che ci aiuta con la musica. Però non è papà, e non lo sarà, punto e basta.

«No, non è male. Diciamo che non sarà male se ci farà suonare»
«Vorrei tanto che qualcuno potesse sentirci»
«Ma se ti sentono tutti tutti gli anni a Natale, ti fanno sempre cantare, si sa che sei bravo»
«Vabbè ma che centra… le canzoni a Natale non valgono. Io voglio cantare le mie canzoni con te che suoni»
«Magari poi alla fiera non possiamo suonare perché siamo troppo piccoli, e addio tutto»
«Perché sei sempre così pessimista Tom?»
«Meglio essere pessimisti che delusi»
«Se sei pessimista non credi nei tuoi sogni, e se non credi nei sogni non si avverano di sicuro»
Tom sospira perché sa benissimo che a parole non potrà battermi mai. Come mi avesse letto nel pensiero si butta su di me ridendo e schizzando, tentando di affogarmi.
Rido anche io schizzandolo a mia volta, e penso che è proprio uguale a me quando ride, e che sta proprio bene con quei capelli folli.

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Capitolo 6
*** 15 Novembre 2001 ***


15 Novembre 2001 – Tom
 

«Bill! Farete tardi a scuola!» grida la mamma rivolgendosi alla silenziosa, povera scala che si becca strigliate di questo genere tutte le mattine.
«Tom, ti prego, và a vedere se scende» sbuffa, e io mi avvio sbuffando a mia volta verso l’antro del mio gemello.
«Bill, se non esci da quella stanza entro tre secondi vengo dentro e ti butto giù dalla finestra e stai pur certo che la mamma non avrà nulla da ridire»
Proprio in quel momento la sagoma di mio fratello spunta sulla soglia, e io resto a fissarlo basito, non osando credere ai miei occhi. Beh, effettivamente mi sarei già dovuto abituare da un pezzo alle stranezze di mio fratello eppure, sarò io ingenuo, resto sempre incredulo. Ma mai incredulo come stamattina.
Bill se ne sta lì, un’espressione titubante, con gli occhi pesantemente truccati di nero.
«Ma… cosa… che diavolo fai?» articolo alzando un sopracciglio con fare al tempo scettico e stupito.
«Vengo a scuola così, truccato. Ho deciso»
«Tu sei tutto matto, Bill» affermo ponendo particolare enfasi sull’aggettivo. «Perché mai vorresti andare a scuola così?»
«Perché mi piace»
O
vvio.
«Sì ma» obietto. «Cosa penserà la gente, dai!»
«Ma che me ne frega di cosa pensa la gente! Tu smetterai di parlarmi se lo faccio?»
«Certo che no» rispondo con fare arrendevole.
«E allora andiamo» Mi supera con decisione e scende le scale.
«E la mamma?» chiedo alla sua schiena, leggermente preoccupato per la probabile crisi di nervi che avrà mia madre quando lo vedrà.
«Oddio Tom, quanti problemi ti fai. Cos’ha detto quando hai voluto farti i dread a tutti i costi?»
«Non è esattamente la stessa cosa» rispondo con un sogghigno.
Bill si ferma e si volta verso di me così all’improvviso che rischio di finirgli addosso. 
«Cosa vorresti dire con questo, che truccarsi è una cosa da femmine e che quindi per questo sarei una checca?» mi chiede con una forza incredibile per un dodicenne.
Ha un cipiglio così sicuro e solido che mi sento come quando papà ci sgridava da bambini.

«No, no, certo che no» ritratto in fretta. «Però… nessuno lo fa, sembra così strano, tutto qui»
«Sembri come vuole» afferma, tornando al suo normale tono di voce. «Io credo di stare benissimo così, no?» mi chiede sorridendo, e io come al solito non ce la faccio proprio a deludere un sorriso del genere, tutto innocenza e aspettativa.
«Sì è vero» gli rispondo. «Stai bene»
«Sembro una vera rock star adesso! Quando uno suona in un gruppo anche l’occhio vuole la sua parte» ciancia, scendendo verso l’ingresso. «E nessuno può credere sul serio che siamo una rock band se non lo sembriamo affatto. Vedrai Georg come ne sarà entusiasta! Forse loro la prenderanno ancora peggio di te» ride. «Ma ne varrà la pena. Eccoci mamma» conclude balzando in macchina sotto lo sguardo allucinato di mia madre.
Io rido sotto i baffi. Questo si che sarà un viaggio movimentato.

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Capitolo 7
*** 9 Marzo 2002 ***


9 Marzo 2002 – Bill
 

Non sono io che odio la scuola. È Tom che non vuole andarci. Da più fastidio a lui che a me il fatto che mi prendono in giro. Ovviamente non prendono in giro solo me, quando si ha a che fare con cretini del genere è difficile definire una sola categoria di gente perseguitata però ovviamente io sono il bersaglio preferito; forse perché sono diverso dagli altri, Tom me lo dice sempre anche se lui lo dice per complimento, forse perché non so difendermi se non a parole e quando ci sono quattro ragazzi che ti prendono di mira continuamente le parole dopo un po’ non servono più a niente del tutto.
Così me ne sto su un gradino del cortile in un angolo mentre tutti ridono, scherzano e mangiano. Nessuno mi vede se sto qui e mi sta bene così.
Ogni tanto vorrei essere come Gustav, che se ne frega di tutto e di tutti e non si fa mai sconvolgere da nulla; lui presta attenzione solo a ciò che gli interessa e ignora con tutta la calma di questo mondo tutto il resto. Oppure come Georg, che ride di sé stesso più di quanto possa ridere di lui chiunque altro così se qualcuno lo prende in giro lui fa una contro-battuta, lascia quello di stucco, e se ne va da vincitore.
Vorrei essere come Tom. A lui non da mai fastidio nessuno perché ha un sacco di amici, e perché se qualcuno di questi bulli gli da uno spintone o gli fa cadere l’astuccio lui non ci mette niente a dargliele di santa ragione.
Insomma, non è che sono un emarginato e tutti mi odiano o cose simili; ho molti amici e poi sono quasi sempre con Tom perciò sono piuttosto popolare anche io, però… non voglio che Tom se la prenda per i miei problemi relazionali, come invece fa.
A volte penso di avere qualcosa che non va… forse hanno ragione quei ragazzi a dire che sono strano e anche un po’ matto.
Una mano si abbatte sulla mia spalla e mi fa fare un balzo da terra.
«Tom!» boccheggio, col cuore oramai in tachicardia.
«Cosa ti succede gemello? Avanti, racconta»
«Niente, tutto normale» rispondo fingendo indifferenza. «Perché?»
«Lo sai che non puoi darla a bere a me Bill. Siamo fratelli ricordi? Lo vedo cosa ti passa per la testa»
«Allora cosa chiedi a fare? Se sai già tutto risponditi da solo»
«Bene, così sia. Il gruppo di Valer ti ha dato di nuovo fastidio e tu ti stai deprimendo, pensando a quanto sei sbagliato, insopportabile e asociale»
Non gli rispondo e mi giro dall’altra parte. So di avere il trucco un po’ sbavato perché, pur avendo ben dodici anni e rifiutandomi categoricamente di ammetterlo davanti a mio fratello, nell’intervallo mi sono ritrovato in bagno a piangere così mi strofino delicatamente sotto gli occhi e un segno nero più sbiadito di quanto temessi mi macchia il dito.
«Cosa ti hanno detto?»
«Ma niente Tom! Che te ne frega poi»
«Me ne frega molto più di quanto tu possa immaginare e verrà un giorno in cui nessuno più ti prenderà in giro, te lo prometto Bill»
Mi giro di nuovo a guardarlo in faccia sorridendo. «Ma non fa niente, non devi promettermi queste cose. E per favore, non dire niente a Valer e ai suoi amici, E» lo prevengo. «Non andare a picchiarli stando zitto per aggirare la mia preghiera. Veramente, non mi interessa quello che dicono»
«Però te ne stai qui da solo» ribatte.
«Posso anche seguirti tutto il giorno se ti fa piacere»
Tom sbuffa. «Piantala» e mi spinge la testa di lato con un gesto stizzito ma affettuoso.
«Beh, se ci ripensi e vuoi vendicarti, chessò, chiamami» mi dice alzandosi.
Si avvia verso le panchine dove, lo so, i suoi amici lo aspettano come si aspetta un leader, ma all’ultimo minuto lo fermo.

«Tomi»
Lui si gira di nuovo verso di me e questa è l’ennesima cosa che adoro di mio fratello, il fatto che non si stanchi mai dei miei capricci e delle mie stranezze, che accetti sempre tutto non con rassegnazione ma con la serena calma di un vero fratello maggiore.

«Vorrei essere come te» dico, così piano che credo quasi che non mi abbia sentito. E da un lato, forse, ci spero.
«Io vorrei essere come te Bill. Non sai quanto» mi risponde lasciandomi davvero stupito.
Perché mai uno come lui dovrebbe voler essere come me?

«Beh, essendo gemelli siamo quasi uguali, perciò…» affermo, giusto per rompere questo silenzio e non sapendo cosa dire di meglio.
Tom scoppia a ridere e torna indietro. Si appoggia al muretto e si siede nuovamente al mio fianco. 
«Hai ragione ma… lascia stare» scuote la testa, strappando i fili d’erba che crescono tra le crepe del selciato.
«No, cosa?» lo incito.
«Niente»
Resto a guardarlo in silenzio; so che parlerà se non lo forzo.
«Ieri Gabriel mi ha chiesto se…» si interrompe e io gli faccio un cenno con la testa per spingerlo a proseguire. «Se vuoi diventare una specie di… donna»
Un’ondata di calore mi investe, come quando la prof mi sorteggia e io non so niente; per qualche secondo la mia mente si annebbia e la testa mi gira, colto completamente alla sprovvista dalla notizia, ma nonostante tutto il tono sprezzante che Tom ha usato per riferirmi la frase del suo amico mi fa quasi sorridere.
«Gli ho chiesto se per caso sua madre era fatta quando l’ha concepito, lui si è offeso e ci siamo picchiati. E da ieri non ci parlo più con quello, né io né gli altri»
«Oh, no, Tom, ma non dovevi!» esclamo. «Siete amici da anni, non dovete litigare per me! Non fa niente, davvero, tanto ci sarà sempre qualcuno che mi criticherà per come sono e che dirà cattiverie sul mio conto. Non fa niente»
«No invece. La devono smettere, tutti quanti, di dire cavolate e se un mio amico, quello che credevo un mio amico, se ne esce con una frase del genere allora che se ne vada al diavolo»
Resto in silenzio perché in fondo, anche se non voglio che litighi con i suoi amici perché poi ci sta male, penso che abbia proprio ragione del tutto. Ma che razza di mente può pensare di andare a dire una cosa del genere al fratello del soggetto in questione?
«Bill. Non rattristarti adesso, per favore»
«Non mi rattristo per quello che ha detto Gabriel»
«Lo so. Il problema è che sei troppo condiscendente con queste teste di cavolo, la reazione giusta sarebbe…»
«Picchiarli tutti? Diventare uno specie di bullo come Valer? Ognuno reagisce a suo modo non c’è una maniera giusta per farlo» lo interrompo.
«Quanta saggezza» proferisce godendosi a occhi chiusi il sole primaverile.
Chiudo gli occhi anche io mentre la gente intorno a noi parla, pensa, vive. Ma forse non è cosa che ci riguardi.

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Capitolo 8
*** 30 Aprile 2003 ***


30 Aprile 2003 – Tom
 

La sveglia non fa a tempo a terminare il primo squillo questa mattina che già sono balzato giù dal letto, nemmeno il materasso fosse cosparso di spilli. Oggi torna Bill, torna da Star Search col suo secondo premio. Mio fratello è arrivato secondo. Quasi quasi non ci credo.
Mi infilo una maglietta a caso, un paio di larghi jeans e corro giù dalle scale.
«Gordon, sono qui?» chiedo, arrivando in cucina con tanto slancio che quasi cappotto una sedia.
«Tom sono solo le sette del mattino. Ci vorranno ancora almeno un paio d’ore minimo; mettiti tranquillo e fai colazione» mi incita sorridendo e posando sul tavolo un piatto di frittelle.
«Un paio d’ore?!» esclamo. «E io che diavolo faccio per due ore?»
«Aspetti in santa pace»
Sbuffando mi metto a sedere. Mia madre e mio fratello sono via da un mese e in tutto questo tempo sono potuto andare a trovarli solamente due volte, quando Bill ha superato i provini e quando è passato alle finali. A quel punto mi hanno anche intervistato, a me, Gordon, Gustav e Georg; volevano conoscere le sensazioni della band al completo sapendo che il loro cantante era uno dei migliori del paese. Eravamo tutti e tre emozionatissimi, sapevamo bene che Bill è bravo ma sapevamo anche che a quel punto tutta la Germania avrebbe conosciuto i nostri nomi e questo era meraviglioso. Mia madre, poi, era costantemente commossa, chissà se per l’orgoglio di avere un figlio così dotato o se per il fatto di vedere finalmente riconosciute le sue capacità. E Bill. Bill non stava fermo un attimo, correva di qua e di là come una trottola, rideva, parlava con tutti, sembrava conoscere a memoria ogni angolo dei locali delle quinte e ogni volta che ci incontrava nel suo volteggiare ci prendeva le mani sorridendo e dicendoci quanto fosse contento che fossimo lì con lui.
Per tutto il resto del tempo, però, sono dovuto rimanere a casa con Gordon a guardare mio fratello dalla tv, a rischiare un infarto ogni volta che dovevano comparire i voti, a distruggere i nervi del mio patrigno che vedeva aumentare la probabilità di dover restituire a mia madre la casa distrutta ogni volta che Bill finiva una canzone inondato di applausi.
Ma ora finalmente la mia tortura sta per finire. Oggi Bill e la mamma tornano a casa insieme al regalo speciale di cui mio fratello continua a parlarmi senza peraltro avermi rivelato cosa sia, e che la mamma gli avrebbe promesso dopo i fantastici risultati finali.
Nessuno di noi avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato così in alto, tantomeno Bill che si è iscritto solo per dare visibilità alla band e che si sarebbe accontentato di passare le selezioni iniziali. Ovviamente lo sognava ma non si sarebbe mai azzardato a parlarne.
Ritorno alla realtà e mi accorgo che non ho quasi toccato cibo, perso com’ero nei miei pensieri, così mi affretto a riempirmi il piatto di ottimi pancake e il bicchiere di succo d’arancia. Il succo d’arancia non mi va esattamente a genio, preferisco nettamente quello alla pera o Ace ma la spesa la fa Gordon ultimamente e perciò mi accontento in religioso silenzio.
Cerco di mangiare il più lentamente possibile, salgo al piano di sopra ed entro nella doccia dove perdo una marea di tempo; quando esco, dopo essermi asciugato i capelli più di quanto io abbia mai fatto negli ultimi tre anni, osservo deluso che sono solamente le otto e quaranta.
Scendo ciabattando in salotto con l’intenzione di fare una partita a GTA ma il televisore è sintonizzato sul TG del mattino e so per esperienza che a Gordon salterebbero i nervi se spegnessi ora. Infinitamente annoiato mi siedo sul divano cercando di prestare attenzione alle notizie di politica, economia, cronaca nera…
Non so come, mi addormento. A svegliarmi è un rumore di ruote sulla ghiaia; immediatamente sveglio balzo in piedi e corro in cortile proprio mentre l’automobile di mia madre rallenta accanto al capanno degli attrezzi. Il veicolo non è ancora fermo che la portiera anteriore si spalanca e Bill salta giù, con un sorriso lungo da un orecchio all’altro, e mi corre incontro. Copro in un attimo i pochi passi che ci separano e lo stritolo in un abbraccio che, per una volta, lui non liquida lamentandosi della mia brutalità. Quando si stacca da me mia madre mi raggiunge e mi bacia su entrambe le guance sistemandomi la fascia atta a tenere indietro i miei dread.
«Tom» mi chiama mio fratello.
«Sei stato grande alla finale Bill» lo interrompo. «Quel pivello non meritava il primo posto, e visto? Quasi tutto il pubblico era d’accordo con me» sorrido.
Bill sogghigna con una lieve sfumatura di delusione sul viso che però dura solo un attimo. Il secondo dopo è già di nuovo entusiasta come prima.

«E Gustav e Georg? Vengono qui ‘sto pomeriggio vero?»
«Li ho invitati ieri e Gustav era molto stupito» rispondo prontamente.
«E perché?»
«Diceva che loro pensavano fosse ovvio che sarebbero venuti»
Bill scoppia a ridere e mi passa un braccio intorno alle spalle. «Oh Tom, sei cresciuto!» esclama, e ride ancora più forte.
Gli assesto un coppino sulla nuca prima di rivolgermi nuovamente a lui. 
«Ma il regalo della mamma?» suggerisco, perché so che lui non vede l’ora di parlarmene e sinceramente sono curioso di scoprire la sorpresa.
«Ooh si Tomi tu dovrai essere con me quando lo… prenderò»
«Perché?»
«Primo perché non ho il coraggio di andare da solo» ridacchia nervosamente, cosa davvero strana per mio fratello. «E secondo perché voglio che sia un doppio regalo, sia per me che per te»
«Devo preoccuparmi?» chiedo ancora più curioso di prima e ora leggermente sospettoso.
«…forse» sorride enigmaticamente lui.
«E quando andiamo?»
«Mamma!» grida Bill corricchiando verso casa. «Quando andiamo? Per il regalo?»
«Quando vuoi» risponde distrattamente lei, già impegnata a disfare le valigie.
«Allora oggi! Oggi prima di pranzo perché voglio farlo vedere a Georg e Gustav quando vengono, va bene?»
«Solo se vi accompagna Gordon, parla con lui, guarda. Non voglio aver niente a che fare con questa follia» sospira mia madre con fare rassegnato.
Un quarto d’ora dopo siamo tutti e tre in macchina, direzione: città.
Una volta entrati nei primi quartieri di periferia Gordon si dirige verso il centro, nella zona dei negozi che due volte al mese diventa pedonale e interdetta al traffico. Accosta, trova un parcheggio e ci fa strada; camminiamo per giusto una manciata di minuti, poi il nostro patrigno si ferma davanti alla vetrina di un tatuatore e apre la porta che si spalanca tintinnando. A questo punto sono confuso.
«Vuoi fare un tatuaggio?» chiedo allibito.
«Mannò! Guarda» Bill indica una serie di foto appese a una parete che ritraggono piercing. Piercing in qualsiasi parte del corpo, dalle sopracciglia come quello di mio fratello alle orecchie, all’ombelico, addirittura ne vedo uno sulle nocche delle dita, allucinante.
«Un altro? E dove vuoi farlo?»
Bill non mi risponde e invece mi fa una linguaccia. Al momento non collego le due cose, poi la consapevolezza arriva tutta in una volta.
«Tu sei pazzo!» esclamo, guardandolo con tanto d’occhi. «Bill, sei il nostro cantante ricordi? Se ti fai quel coso e ti viene tutta la lingua gonfia poi come fai a cantare? E come facciamo noi, eh? No senti, davvero» cerco di dissuaderlo.
«E tu dove lo fai?» mi chiede per tutta risposta.
«Di certo non sulla lingua» gli rispondo in tono beffarlo facendogli una boccaccia.
«Eddai Tom, non essere bigotto. Non mi farà infezione, e canterò alla perfezione, uguale identico a prima! Vero?» chiede al negoziante che ci ha raggiunti proprio in questo momento.
«Certamente» risponde quel viscido accalappiatore di polli. «Le reazioni allergiche sono molto rare perciò, a meno che non ti abbia spurgato quello» dice indicando l’orecchino al sopracciglio del mio gemello. «Puoi stare tranquillo»
«Bene. E allora tu? Dove?» chiede nuovamente rivolto a me. «Ti prego, ho paura da solo» aggiunge ridendo.
«E va bene. Sta a vedere come si fa, pivello!» lo rimbecco dirigendomi verso la postazione degli orecchini e illustrando la mia idea al negoziante.
Nel momento in cui prende l’attrezzo per i piercing però, la mia spavalderia mi viene meno. Lancio un’occhiata che dev’essere piuttosto terrorizzata a Bill e lui mi raggiunge prendendomi la mano.

«Verrà un capolavoro» afferma.
Quando usciamo dal negozio, un po’ pallidi ma al tempo stesso euforici, qualcuno dei passanti guarda male questi due ragazzini ribelli, uno con i rasta e un piercing al labbro, l’altro con uno sulla lingua e i capelli tinti di nero, ma questo non fa che farci ridere ancora di più.

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Capitolo 9
*** 10 Ottobre 2004 ***


10 Ottobre 2004 – Bill
 

«Mi rendo conto che lo svago è necessario ma dobbiamo provare, punto e basta» sbotto piantandomi le mani sui fianchi con fare piccato. «Siete dei capricciosi»
«E tu sei noioso» ribatte Georg che è stravaccato sul divano della sua camera d’albergo senza nessuna intenzione di alzarsi.
«Mettiamo ai voti! Siamo un gruppo, ci vuole democrazia»
«Ci vuole senso di responsabilità più che altro» affermo, mentre mio fratello si versa della coca in un bicchiere estraniandosi dalla discussione.
«Beh, io sono troppo stanco per essere responsabile. Ho voglia di prendere un gelato, non di lavorare»
«Un gelato a ottobre?!» prorompe Gustav, lanciandogli un’occhiata interdetta.
«Anche una cioccolata se preferisci. Fatto sta che voglio mangiare qualcosa, non starmene qui a sentire le stonature di Bill tutta la mattina»
«Hey!» esclamo leggermente offeso, e Georg mi fa una linguaccia.
«Dai Bill, facciamo shopping questa mattina e il pomeriggio lo dedichiamo tutto alle serie incombenze della carriera va bene?»
Sbuffo perché quando Tom si mette a fare da mediatore vuol dire che stiamo proprio toccando il fondo, e annuisco sconfitto. «E va bene. Ma giuro che se questo pomeriggio osi sederti di nuovo dicendo che sei stanco ti picchio» metto in guardia Georg, che mi guarda con aria innocente.
Alloggiamo in un albergo, il che è di per sé già fantastico ma la cosa veramente geniale è che abbiamo un budget mensile che possiamo usare come vogliamo, budget piuttosto consistente oltretutto. David ci concede una giornata al mese per uscire a far compere e, anche se di solito l’unico che la sfrutta per dei veri acquisti sono io dato che gli altri preferiscono andare ad abbuffarsi nelle sale da tè oppure perdere ore e ore nei centri dei videogame, aspettiamo tutti sempre con ansia la giornata di libertà. Questo mese però la nostra giornata-shopping è già arrivata e passata e questa uscita improvvisata sarebbe illegale, almeno per quanto concerne le regole indette dal manager.
Nessuno però sembra preoccuparsene più di tanto perciò a piedi ci dirigiamo verso una delle vie principali del centro; ci avviciniamo sotto tacito accordo a un chiosco di caldarroste anche se sono solo le dieci e un quarto siamo già affamati e fa freddo perciò compriamo tre sacchetti di castagne e continuiamo la nostra passeggiata seminando gusci per la strada.
«Ooh guarda!» esclama ad un tratto Gustav, additando una vetrina; come ipnotizzato mi lascia il sacchetto e si dirige verso un negozio di abbigliamento sportivo nella cui vetrina fa bella mostra di se una giacca rossa fiammante.
«Dev’essere della nuova collezione» commenta ammirato. «È fantastica»
«Anche il costo non è male» sogghigna Georg, osservando il listino a tre cifre.
«Ma che vuoi che sia, è una giacca di vera pelle lavorata a mano» lo rimbecca l’altro appiccicando il naso al vetro.
«La compri?»
«Cosa?!» mi risponde lanciandomi un’occhiata alla ‘sei pazzo sul serio o stai scherzando?’.
«Cosa ci danno a fare dei soldi se poi non li spendiamo mai? Mi avete trascinato nei vostri frivoli affari mondani, tanto vale che ci concediamo qualche follia» affermo, spingendo la porta d’entrata seguito a ruota dagli altri.
Tecnicamente questo non è proprio il mio genere di negozio; troppe felpe, troppe tute e troppo pochi accessori, però inizio ad aggirarmi per le corsie ugualmente, vuoi mai che riesca a trovare qualcosa di decente. Cammino tra magliette di ogni colore e trama, shorts da ginnastica e una serie infinita di scarpe da tennis, traspiranti, molleggiate e chi più ne ha più ne metta; incrocio mio fratello che si dirige verso i camerini con due paia di jeans sottobraccio e infine torno sui miei passi, deciso a scoprire se Gustav ha comprato la giacca oppure no.
Il ragazzo si sta effettivamente misurando il capo, ancora più bella che in vetrina devo ammettere, specchiandosi e osservandosi da ogni angolazione.
«Che dici» mi chiede. «La prendo?»
«Siì, ti sta bene» affermo io dandogli una pacca sulla spalla.
Continuiamo a girare per negozi per tutta la mattina, entrando dappertutto e uscendo mai a mani vuote; soprattutto io che, come dice mio fratello, ho le mani bucate. La verità è che ho gusto nel vestire e che amo fare shopping.
Quando torniamo in sala registrazione siamo tutti allegri e ridiamo spensierati per una battuta di Tom, e le discussioni della mattina sono dimenticate; dimenticate per tutti tranne che per David, che ci aspetta sulla soglia a braccia conserte e con un’espressione piena di disapprovazione. Ci blocchiamo con i sorrisi mezzi congelati sul volto.
«Ecco» sbotta Georg allargando le braccia in modo teatrale. «Ve l’avevo detto che saremo dovuti restare qui a provare, e invece siete voluti uscire a fare shopping per forza!»
Io gli lancio un’occhiata a metà fra lo scioccato e il furente ma tutti scoppiano a ridere, David compreso, così lo supero e, scuotendo il capo, entro nell’edificio.

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Capitolo 10
*** 18 Settembre 2005 ***


18 Settembre 2005 – Tom
 

Nel buio sento mio fratello che finalmente si infila nel letto; penserà che io stia dormendo a quest’ora. E invece me ne sto qui a fissare il soffitto nero della stanza d’albergo che condivido con lui, chiedendomi cosa diavolo fa nella hall fino all’una di notte e sognando e immaginando il giorno di domani, la prima data del nostro nuovo tour.
Ammetto che ho paura.
Bill non lo nasconde, ogni volta che facciamo un live è teso come una corda di violino e nelle ore precedenti l’esibizione diventa intrattabile; poi inizia a girare di qua e di là incapace di stare fermo e tutti capiamo che è entrato in modalità panico pre-spettacolo.
Io sono quello che cerca di tranquillizzarlo perché, modestamente, sono l’unico che ha un minimo di ascendente su di lui in quei momenti; non entro mai nel panico, non mi preoccupo mai e questo è in parte vero. Non mi preoccupo perché la mia musica l’ho scritta in buona parte io, non mi preoccupo perché Gustav e Georg saranno lì con me a darmi il tempo, a guardarmi e a comunicare con me con il nostro alfabeto di sguardi, non mi preoccupo perché so che Bill non sbaglierà, come invece lui teme.
«Billy» lo chiamo nel buio, e sento che lui si volta nella mia direzione.
«Sei ancora sveglio?»
«Disse quello che torna in camera all’una di notte» gli rispondo.
«Stavo giù a chiacchierare»
«Con chi?» mi sfugge anche se forse non sono affari miei.
«Con il barman. Mi ha chiesto se è vero che siamo qui per un tour e abbiamo parlato un po’. Sono preoccupato per domani»
«Anche io» affermo asciutto.
Sento che Bill si alza appoggiandosi su un gomito. «Veramente?» mi chiede, una nota quasi incredula nella voce. Poi ridacchia nervosamente. «Era ora, mi sembrava di essere sempre solo io il cretino che ha paura del palco»
«Non sei solo tu, è solo che sei talmente agitato, ogni volta, che non ci sembra il caso di farti sapere che anche noi siamo in ansia. Bastano e avanzano i tuoi, di scleri, sai»
«Oh. Mi dispiace di fare questo effetto, siate pure terrorizzati anche voi quanto volete almeno non mi sentirò solo» Il suo sorriso a trentadue denti brilla nel buio e io sorrido involontariamente.
«Allora te lo dico fin da subito. Me la sto facendo addosso in vista di domani, ho una paura stramaledetta»
«Fa niente Tom, fa parte del gioco» afferma rimettendosi sdraiato e facendosi un po’ più vicino a me. «Arrivare su quel palco carichi di adrenalina, anche dovuta alla paura, è uno dei fattori indispensabili per un concerto. Siamo noi che ci siamo ficcati in questo casino dell’essere cantanti, ora ci dobbiamo beccare tutte le pastiglie»
«Ma non è poi così male» borbotto, pensando che definire la paura del palco addirittura pastiglie amare sia un poco esagerato.
Bill ride silenziosamente. 
«Vedi che allora facciamo il lavoro giusto?»
«Non potremmo fare nient’altro» gli rispondo. Lui mi si avvicina ancora, arrivando a sfiorarmi sotto le coperte.
«È quello il nostro posto, ed è il posto giusto. Ogni tanto mi domando se siamo pazzi o cosa, con tutta quella gente che ci attacca su internet e ci manda lettere, a insistere a fare la nostra musica; mi chiedo se forse non hanno ragione. Siamo solo ragazzini, forse è vero che vogliamo fare i grandi a tutti i costi e che ci stiamo infilando a forza in un mondo che non ci appartiene, ma poi vedo voi, Georg, Gustav, anche David che a volte è più entusiasta di noi, ma soprattutto tu, sai, e me ne accorgo benissimo che è la cosa giusta, tutto mi torna chiaro in un lampo»
«Questo è il nostro sogno. Non è sbagliato inseguire i propri sogni» affermo con un tono sicuro che mi fa quasi sobbalzare perché è quello che usa Bill quando la questione “è così punto e basta”.
«No» sorride nel buio. «Non è sbagliato cercare di essere felici»
Si piega un po’ da un lato e appoggia delicatamente la testa alla mia spalla.
«Poi mi dovrai spiegare perché ci hanno dato una matrimoniale e non una doppia» borbotto, ma intanto anche io piego la testa e la appoggio alla sua.
«Forse lo sapevano che avremmo avuto paura, questa notte» sussurra. Non faccio tempo a rispondere nulla, perché mio fratello, al sicuro accanto a me, già dorme.

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Capitolo 11
*** 17 Dicembre 2006 ***


17 Dicembre 2006 – Bill
 

«Ennesima intervista» afferma Georg scrocchiandosi le articolazioni delle dita.
«Pronti per un nuovo assalto di pazze furiose?» ridacchia Tom, sbirciando dalla porta del camerino dalla quale qualcuno ci chiamerà quando sarà ora di entrare in scena.
Tutti ridono perché è una cosa davvero assurda questa frenesia che prende tutte le ragazze quando ci vedono. Manco fossimo, chessò, i Beatles. O i Green Day, e lì potrei quasi capire.

Mi guardo di nuovo allo specchio, sistemo i capelli peraltro già perfetti, lancio un’occhiata al trucco che non è mai stato così preciso e liscio la maglietta perfettamente stirata.
Un uomo ci fa cenno di avanzare, sbuca all’improvviso e non ho il tempo di pensare a niente che sono già in cammino dietro agli altri verso il centro della sala per il bagno di folla che ci attende, per ricevere grida entusiastiche e baci lanciati dal pubblico, per parlare di noi, della nostra musica, della fama che ci è piovuta addosso così, quasi all’improvviso, quasi senza che ce ne accorgessimo.
Quasi, perché la verità è che abbiamo lavorato per anni e come dei dannati per arrivare fin qui, la verità è che è da quando ho otto anni che sogno la mia carriera, la verità è che è da quando abbiamo visto pubblicato il nostro primo album che abbiamo iniziato a credere davvero di potercela fare, di poter arrivare in alto, di poter battere tutti e diventare grandi.
Grandi come siamo ora.
Le luci dello studio sono accecanti, ci illuminano il viso tirando fuori il meglio da ciascuno di noi; riguardando le registrazioni delle riprese ogni volta mi sembra di vivere uno specie di sogno, di vedere qualcosa che non è davvero accaduto. Ogni intervista è più facile, si prende confidenza con queste cose man mano che le si fa ma l’emozione è sempre la stessa e l’effetto che fa rivedersi lì, sorridenti sotto le luci della ribalta, è sempre impressionante. Sembriamo perfettamente a nostro agio nel parlare ai conduttori, nel sorridere e nel fare battute, siamo davvero affascinanti e in quei momenti devo ammetterlo, capisco le fan. Un pochino.
Le urla del pubblico arrivano forti e chiare alle mie orecchie, mi sembrano amplificate dopo il silenzio precedente; non riesco a distinguere vere e proprie parole, forse non ci sono proprio vere parole da distinguere, sento solo grida acute e scioccanti e non ci posso credere che sono anche per me. Per me che a scuola venivo preso in giro, per me che non ho mai avuto una vera ragazza, una di quelle con cui vai in giro per mano, che ti abbraccia in pubblico, per me che sono sempre stato strano e felice di esserlo. E invece è così. La folla ci ama, questa folla ci acclama e grida i nostri nomi, strilla alla ricerca di uno sguardo, di un cenno, di qualsiasi cosa che sia nostro. Le prime volte mi voltavo ogni volta che sentivo chiamare il mio nome, mi sentivo disorientato, non sapevo dove girarmi o chi stare a sentire, i richiami mi facevano distrarre; ora li ignoro, quasi non li sento più. Rispondo solo alle voci conosciute, quelle di mio fratello, dei miei famigliari, dei miei amici, tutto diventa più semplice col tempo e così non rischio di perdere l’equilibrio tentando di rispondere a ogni grido. Mi fa tenerezza ripensare a me stesso qualche anno fa.
Quattro anni fa, non sono poi molti se ci si pensa eppure quante cose sono successe, quanto siamo cambiati, quanto siamo cresciuti.
Il sorriso del presentatore che ci aspetta in mezzo allo studio è per me l’indicazione da seguire in mezzo a tutto questo casino che ho intorno.
Sfoggio il mio sorriso tutto denti, sperando davvero con tutto me stesso che questa possa essere per sempre la mia vita.

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Capitolo 12
*** 1 Settembre 2007 ***


1 Settembre 2007 – Tom
 
Diciotto anni.
Diciotto anni.
Ben diciotto anni.
Continuo a ripetermelo da tutto il giorno nella speranza di iniziare a crederci ma nonostante tutti i miei sforzi questi benedetti diciotto anni io non me li sento affatto. Non mi sembro un diciottenne, mi sento un ragazzino, nulla di più.
Maggiorenne? Io? Ma và!
Eppure…
Mi guardo allo specchio sistemandomi i vestiti scelti accuratamente per la festa di questa sera e penso che il tempo passa troppo in fretta, dovrebbe davvero rallentare dannazione, o tra poco più di un battito di ciglia mi ritroverò trentenne.
Mi trovo impeccabile, un Tom Kaulitz perfetto e nella sua forma più smagliante. “I diciotto anni mi donano” penso ridacchiando fra me e me e pensando alla risposta che mi darebbe immediatamente Bill riguardo la mia immodestia se fosse qui.
Bill.
Stringo delicatamente nella mano la busta che contiene la lettera che ho scritto per lui, tremando al solo pensiero di doverla leggere davanti a tutti. Eviterei volentieri, molto, molto volentieri ma lui lo fa sempre. Voglio dire, dimostra sempre l’affetto che prova per me, sempre e pubblicamente, e oggi voglio farlo anch’io, per una volta devo.
Apro la finestra della mia camera assaporando la frizzante aria settembrina; il mondo non è cambiato da ieri, la città è sempre grigia e rumorosa, il lampione qui fuori, sul ciglio del marciapiede, continua a lampeggiare come sempre, mezzo bruciato, il nostro vicino di fronte canta sotto la doccia, l’incubo delle nostre domeniche mattina, la giornalaia chiude bottega e inforca la bici in perfetto orario come sempre. Nemmeno io sono cambiato da ieri, eppure…
Eppure sento che sto crescendo, sento che sto cambiando, che non è più la vita a trascinarmi ma sono io a manovrarla. Sento che qualcosa è cambiato da un anno, forse meno, a questa parte, e che le cose continueranno a cambiare perché è così che va la vita. Si cambia, si cresce, si matura, la mentalità muta e in un attimo, non si sa come, ti accorgi di essere adulto.
Qualcuno batte alla porta, è Bill di sicuro, riconosco il suo modo di bussare. E infatti l’attimo dopo la sua testa leonina sbuca dal corridoio.
«Sei pronto?» mi domanda.
I diciotto anni gli donano davvero.
«I diciotto anni ti donano fratellino, te l’avevo già detto?» esclama chiudendosi la porta alle spalle.
Scoppio a ridere senza potermi trattenere. 
«Stavo pensando esattamente la stessa cosa di te, che tu ci creda o no!»
«Grazie, ma io mi sento esattamente uguale a prima»
«Anche io, ma non si cresce tutto in un giorno»
«Da quand’è che ho un fratello saggio? Ho qualcosa per te» afferma poi cambiando argomento all’improvviso.
«I regali non ce li diamo dopo?»
«Non è un regalo. È la mia lettera. Quest’anno voglio che la leggi qui in privato»
Bill le sue lettere per me le ha sempre recitate come un discorso, rigorosamente a memoria, infarcendole di volta in volta con aggiunte del momento. Il bello è che non sono veri e propri discorsi né vere e proprie lettere né biglietti di auguri, sono un po’ uno scherzo fra noi. Mentre siamo con tutti gli altri, siano parenti o amici, nel bel mezzo di una qualsiasi conversazione lui improvvisamente si collega a una frase di qualcuno, a un argomento, a qualsiasi cosa, e inizia a parlare di me. All’inizio nessuno capisce che non stiamo più parlando di ciò di cui parlavamo fino a un attimo prima, tutti dopo un po’ si ritrovano lì a pendere dalle sue labbra e io sono l’unico che sa che quello è il suo regalo speciale per me. È un po’ un segreto fra noi e anche se lo sentono sempre tutti è questo il bello: noi due siamo gli unici a capire davvero. Quando Bill finisce non ci sono applausi come in un discorso, semplicemente lui mi fa l’occhiolino, si continua a chiacchierare e il discorso riprende.
«La devo leggere da solo?»
«Sì, aspetta, ecco» dice porgendomi la busta, bianca e semplice con su scritto il mio nome in bella grafia. «Ora me ne vado e tu la leggi, e poi ci vediamo di sotto. Non fare tardi» mi raccomanda.
L’idea di leggermi la lettera per conto mio non mi va a genio, mi piace sentire la voce di mio fratello anche se parla così tanto che non lo ammetterei mai, e vorrei sentire questa lettera dei diciotto anni letta da lui, come sempre.
«Non vuoi leggerla tu?»
«Pensavo che avessi imparato a leggere dopo dodic’anni di scuola!» mi prende in giro.
«Sì, sì, molto simpatico»
«No, leggila tu. Stavolta è così»
E mi molla qui con un sorrisetto enigmatico, con questa busta fra le dita. Scocciato dal fatto che ce l’ha sempre vinta lui alla fin fine, sfilo un foglio e lo spiego; è scritto a mano, non è lunghissimo, una paginetta piuttosto rada, le frasi sono spezzate, va a capo spesso senza usare tutto lo spazio. Mi siedo per leggere, la voce che sento in testa scorrendo le righe è quella del mio gemello.

Nella notte in me tutto diventa pian piano freddo
Ci pensi, per quanto tempo ancora potremo stare Qui insieme?
Voglio che tu rimanga con me,
perché le ombre, altrimenti, mi afferreranno.
Quando andremo via, andremo via insieme.
Tu sei tutto ciò che io sono,
tutto ciò che scorre nelle mie vene
Ci sosterremo sempre,
non importa dove o come cadremo, non importa a quale profondità,
solamente io non voglio essere lì da solo.
Facciamo in modo di essere insieme
Nella notte.
Sento quando urli, anche se silenziosamente,
sento ogni tuo respiro,
e anche se il destino ci farà a pezzi non importa cosa verrà dopo,
tutto questo è ciò che divideremo sempre.
Non voglio essere solo,
ma noi saremo insieme, nella notte.
Solo insieme a te.
Ma tu tienimi, tienimi, o verrò trascinato via, solo, nella notte,
e io non voglio, non voglio essere solo.
Facciamo in modo di essere insieme in questa notte.
Perché tu sei tutto ciò che io sono, tutto ciò che scorre nelle mie vene,
e anche se prima o poi sarà tempo,
noi saremo insieme, nella notte.

Questo non è uno scherzo, non è un discorso da ridere detto per farci l’occhiolino fra noi.
Questa è la bozza di una canzone e io lo so.
Questa è una canzone per me e so anche questo.
Non è ancora pronta, lui la modificherà ma ha voluto che io la vedessi e la leggessi così come l’ha pensata, così come è nata, allo stato grezzo, sincera come non potrebbe mai essere una volta pubblicata. Ora capisco perché non ha voluto leggerla lui, Bill si vergogna sempre di leggere ad alta voce i suoi testi, quello scemo; sono così belli invece.
Leggermente imbambolato mi alzo dal letto e mi costringo ad uscire dalla stanza; Bill impazzirà se farò tardi.
La festa è uno sballo e tutto è perfetto. Ci sono tutti i nostri amici, anche gente che non vediamo da tanto, troppo tempo, parenti da ogni dove e paparazzi che cercano di fotografarci schiacciando nasi e obbiettivi alle finestre. Non siamo tantissimi, solo le persone a noi più care che comunque formano un bel gruppo. Non potrei chiedere di più.
Nostra madre volteggia come una farfalla tra i tavoli da perfetta padrona di casa (anche se siamo nel salone di un albergo si è calata perfettamente nella parte) e credo che io e Bill non siamo mai stati più sorridenti di oggi.
Mi è bastato uno sguardo per comunicargli tutte le emozioni che la sua lettera mi ha trasmesso, gli è bastato quello sguardo per capire tutto quanto; mi ha sorriso arrossendo leggermente e abbassando gli occhi, e nessun’altro si è accorto di nulla.
Ora è quasi il momento. So che la mia lettera non è un gran che, che non sono bravo come Bill con le parole e non a caso è lui il cantante, so che sembrerò un cretino ma so anche che mio fratello adora questo genere di cose, e come regalo, beh, è perfetto anche se mi fa sentire scemo.
La torta è quasi intatta nel mio piatto quando richiamo l’attenzione dei presenti su di me; mi vergogno da morire.
Aiutoaiutoaiuto.
Ora capisco perché non ho mai voluto fare una cosa del genere.
«Volevo dire solo due parole» esordisco. Mi schiarisco la voce. «Per una volta potete essere certi che saranno due sul serio perché sarò io a dirle e non mio fratello» sorrido, e la gente intorno a me scoppia in una risata generale. «È da questa mattina che cerco di capacitarmi di avere diciotto anni, senza risultato peraltro. Credo che compiere diciotto anni sia un traguardo importante» La lettera è stretta nella mia mano, chiusa. Avevo scritto tutto per bene ma ora quelle stesse parole mi escono dalla bocca come un fiume senza sforzo. «È l’ingresso ufficiale nel mondo degli adulti, delle persone mature e responsabili, o così si pensa anche se riguardo noi due avrei qualche dubbio» Altre risate. «No, in ogni caso credo di essere entrato in questo mondo degli adulti già da un pezzo in verità, anche se ero troppo giovane, troppo immaturo e forse non ero pronto; ma per tutto questo tempo l’unica cosa che è riuscita a non farmi mollare, a non permettermi di tornare a casa urlando, a darmi fiducia nel futuro sempre e comunque, è stata la presenza di mio fratello»
Bill arrossisce alzando all’improvviso uno sguardo scioccato su di me. Non si aspettava un discorso in suo onore eh?
«Io sono nato dieci minuti prima di lui» continuo cercando di soffocare un sorrisetto. 
«Sono il fratello maggiore a tutti gli effetti, eppure spesso e volentieri è Bill che da la forza a me piuttosto che viceversa»
Ora lo vedo scuotere il capo sorridendo sotto i baffi, per niente d’accordo con quello che sto dicendo, lo so.

«Fin da quando eravamo piccoli Bill ha sempre avuto le idee chiare riguardo la nostra vita; voleva diventare un cantante, a tutti i costi, aveva talento e lo sapeva, voleva diventare famoso e voleva che io lo diventassi con lui. Nessuno dei due ha mai preso in considerazione l’eventualità di separarci, di intraprendere una carriera senza l’altro, ma la verità è che se ora siamo quello che siamo per larga parte io lo devo a lui, che col suo entusiasmo ci ha sempre trascinati permettendoci di superare anche i momenti peggiori, quei momenti in cui ti viene voglia di mollare e di mandare tutto al diavolo, in cui inizi a dubitare di ciò che stai facendo. La verità è che Bill è la cosa migliore che mi sia mai capitata, mi spiace deludere le vostre aspettative ma il miglior regalo che potessi ricevere l’ho già ricevuto, esattamente dieci minuti dopo la mia nascita; era piccolo così» dico misurando con le mani. «Ed era bellissimo»
Sorrido, e non mi sfugge che mio fratello si sta commuovendo. Ma non ho ancora finito.
«Bill, con la sua immagine da genio folle, è sempre stato il sognatore fra noi due ma un tipo di sognatore che non si trova in giro e che io non ho mai incontrato se non contiamo lui, perché non si limita a sognare, lui i sogni li fa avverare; e non stiamo parlando di fortuna, di casi della vita o chissà che altro. Io da solo un musicista non lo sarei mai diventato. Bill sapeva come fare, fin da quando aveva otto anni e mi ha costretto a leggere la sua prima canzone e io so, io sono sicuro, che tutto ciò che vorrà lui lo realizzerà. Ecco, spero solo che nei suoi sogni io sia sempre presente perché sono perso senza di lui. Siamo fratelli, siamo gemelli, e insieme siamo meglio che per conto nostro, lo siamo sempre stati. Ti voglio bene Bill, come non ne voglio a nessun altro e anche se mi sento un perfetto cretino a dire queste cose davanti a tutti voglio che tu sappia che questo non cambierà mai, qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa tu faccia. Io sarò sempre qui per te, come hai detto nella tua canzone no? Ich bin da, und halt dich das auch nicht zuruck, dann spring ich fur dich»

Taccio e la sala è invasa dal silenzio. Guardo negli occhi mio fratello, lui mi guarda di rimando, e non ci serve altro perché c’è un legame speciale fra noi, a unirci per sempre. Lascio che questa consapevolezza mi riempia il cuore mentre gli applausi sovrastano qualsiasi altro rumore, e mi accorgo che io l’ho sempre saputo, inconsciamente. Questo nostro legame speciale esiste, e non si può rompere, nemmeno volendo.

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Capitolo 13
*** 30 Marzo 2008 ***


30 Marzo 2008 – Bill
 

Irrequieto, mi alzo di nuovo dal letto per poi risedermici per l’ennesima volta. Mio fratello, seduto su una sedia in una posizione tesa che non gli ho mai visto, mi fissa.
Ho una paura tremenda, credo di non aver mai avuto tanta paura in tutta la mia vita; con la mente ripercorro i momenti in cui mi sono sentito perso, terrorizzato, sconfortato.
Quando papà se n’è andato di casa: ricordo lo smarrimento, ero solo un bambino e non capivo perché qualcuno potesse voler fare una cosa del genere; io e Tom ce ne stavamo in piedi, ritti come due fusi sulla soglia del salotto, stretti l’uno accanto all’altro per sostenerci, per non rischiare di cadere in terra per lo shock. Mamma era furibonda, papà uscì sbattendo la porta e io mi sentivo spaventato per il futuro, avevo davvero paura che non avrei mai più rivisto mio padre.
Quando da bambino sono finito sott’acqua al mare: sentivo le orecchie che mi fischiavano e il bisogno di respirare più forte di qualsiasi altra cosa ma la superficie del mare si allontanava sempre più e sapevo bene che non potevo inspirare acqua; pensavo che sarei affogato, che nessuno si sarebbe accorto della mia assenza in mezzo al delirio delle onde, davvero alte quel giorno. Avevo la mente annebbiata e tutto ciò che riuscii a provare nei pochi secondi che passai sott’acqua era paura e folle speranza che qualcuno mi tirasse fuori.
Quando Tom si è rotto una caviglia saltando giù dal fienile: ci stavamo rincorrendo, io sono saltato giù come avevamo fatto migliaia di volte entrambi ma lui seguendomi ha messo male la caviglia e invece che atterrare agilmente in piedi, piegando un po’ le ginocchia per attutire il colpo come sempre, è piombato in terra e lì è rimasto, immobile. Ho davvero pensato che fosse morto in quegli attimi che mi sono serviti per raggiungerlo di corsa, e fino a oggi ho sempre creduto che fossero stati i momenti di maggior terrore mai vissuti.
Riprendo a spremermi le meningi. Tutte le volte che sono salito su un palco, quando ho dovuto iniziare le mie prime interviste, quando la preside ci ha convocati, me e mio fratello, per poi dirci che non saremmo stati più in classe insieme, troppo casinisti. Quando mamma ha trovato un incidente di ritorno dalla città e ha ritardato di quattro ore il suo rientro senza poterci avvertire, il giorno in cui sono tornato a casa con il mio primo tatuaggio senza averlo detto ai miei, tutte le volte in cui i bulli a scuola mi si avvicinavano.
Ma nulla regge il confronto, per quanto mi sforzi non trovo un solo momento in tutta la mia vita in cui io sia stato più spaventato e atterrito di oggi.
Mi devo operare, e questo già di per sé è una cosa orribile.
Mi devo operare alle corde vocali, e nessuno che non sia un cantante può davvero capire cosa significhi.
Ho sentito David l’altro ieri dire che “la sto prendendo davvero male”, ma sul serio, vorrei vedere lui. Io sono uno che… sono un tipo insopportabile, lo so; parlo tutto il tempo, tutto il giorno, canto in continuazione, non sto zitto un momento: canticchio preparando la colazione, inondo mio fratello di chiacchiere appena mette piede giù dal letto, canto sotto la doccia, racconto cose mentre mi trucco perfino, canto cucinando, parlo mangiando, parlo parlo parlo e non sto zitto mai. Sono sempre stato così e cantare è la mia vita. Canto da quando sono nato o forse anche da prima, chissà che non abbia scocciato Tom anche nella pancia di nostra madre, fatto sta che non potrei fare nient’altro nella mia vita. È automatico: Tom? Suona, parla di ragazze, ascolta rap tedesco, si prende cura del fratello. Bill? Canta. Fine. Non c’è nient’altro da dire riguardo me.
Se l’intervento dovesse andare male la mia vita sarebbe finita ed è per questo che ho paura, una paura folle che non mi permette di stare fermo in un punto per più di dieci secondi di fila e che mi fa tremare da capo a piedi. Se qui con me non ci fosse Tom sarei già ammattito, non scherzo.
Anche lui è preoccupato, ha paura quasi quanto me, perché siamo fratelli: quello che prova uno lo prova anche l’altro ed è proprio per lui che cerco di stare il più calmo possibile, di dimostrarmi più forte di quello che ora sono, di non fargli capire del tutto quanto è grande il mio terrore.
Gli lancio un’occhiata e lui mi sorride, o almeno, tenta di sorridermi. Mi viene quasi da ridere ma il mio scoppio di ilarità viene brutalmente interrotto dalla porta che si apre. Tom si gira di scatto e io faccio un balzo dal letto nemmeno mi avessero fatto l’elettroshock, il cuore inizia a battermi a mille nelle orecchie mentre la testa dell’infermiera fa capolino.
«È ora caro» esordisce. «Indossa quella vestaglia che ti ho lasciato prima. Lui può…» dice poi voltandosi nella direzione di mio fratello, ma la mia espressione deve averle comunicato qualcosa perché finisce la frase con un «Può restare»
A questo punto vorrei davvero potermi mettere a urlare, a maggior ragione perché non posso.
Indosso la vestaglia da sala operatoria sotto gli occhi di Tom, poi mi siedo nuovamente a letto. So che non mancano nemmeno pochi minuti al momento in cui mi porteranno via, sento già i passi per il corridoio e so che sono per me.
«T-Tom» gracchio nella mia voce da cornacchia. Il mio gemello balza verso di me con un’espressione tra lo scioccato e il terrorizzato.
«No Bill non puoi parlare! Non fare lo scemo, stai zitto!» esclama, e io alzo gli occhi al cielo.
Ma non c’è tempo per i battibecchi tra fratelli, le infermiere stanno arrivando. Velocemente prendo la lavagnetta che mi è servita per comunicare qui in ospedale e durante i giorni che ho passato a casa e scrivo: “Tu sarai qui vero?” proprio mentre le due infermiere si infilano nella mia stanza e iniziano a spingere il mio letto verso la porta.

Tom mi guarda, con uno sguardo così sicuro e pieno d’amore che non potrei non credergli nemmeno se lo volessi, e mi sorride.
«Ovvio»
E so che non si sta riferendo solo a quando tornerò dalla sala operatoria, a quando aprirò gli occhi, a quando dovrò lavorare e sudare per riconquistare forse la mia voce di un tempo.
Lui intende sempre.
Per sempre.
Ed è l’unica cosa che volevo sapere.

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