Those Christmas Lights

di Jawn Dorian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** What if ***
Capitolo 2: *** Violet Hill ***
Capitolo 3: *** Those Christmas Lights ***



Capitolo 1
*** What if ***


Attenzione!
Questo capitolo è stato ispirato dall’ascolto di What If, dei Coldplay.
Per tanto, si consiglia ai gentili lettori di ascoltare la suddetta canzone.
Sì, solo perché è bella.
Grazie, e buona lettura.
 
 
 
 

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Dicembre, 2015

John Watson era una persona normale, calma, e tranquilla.
John aveva una casa normale e tranquilla.
Aveva una moglie normale e tranquilla.
Aveva un lavoro normale e tranquillo.
John Watson era profondamente infelice.
 
Si affacciò alla finestra, guardando la neve cadere giù.
Si affacciò, la notte di Natale, e guardò le luci appese fuori, che coronavano le strade.
Quelle meravigliose luci scintillanti di Natale.
E John desiderò ardentemente essere una di quelle luci, una qualsiasi.
Avrebbe voluto brillare. Anzi, no. Si sarebbe accontentato di aiutarle a brillare.
John avrebbe tanto voluto essere un conduttore di luce.
‘E’ tutto sbagliato’ si disse quella notte ‘è tutto sbagliato. Questa non doveva essere la mia vita.’
 
Era davvero una curiosa e controversa coincidenza, ma John Watson aveva perfettamente ragione nel pensare questa cosa.
Lui non avrebbe mai dovuto essere una persona normale, calma, e tranquilla.
 
 

 
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Act I  -   What if
 
 
Ottobre, 2009
 
“Allora, quanto rimani a Londra?”
“Non molto, temo. Non posso permettermela, con la mia pensione.”
“Ti ci vorrebbe un coinquilino, non trovi?”
“Ma andiamo. Chi mi vorrebbe come coinquilino?”
“Pffeh.”
“Che c’è?”
“Non sei la prima persona che me lo dice, oggi.”
“Chi è la prima?”
 
E così John Watson aveva conosciuto Phil Winterson. Il suo storico coinquilino per almeno tre anni.
Non che suo futuro migliore amico.
Phil era un uomo serio, ma simpatico, un avvocato. Grande e grosso, eppure non avrebbe mai fatto del male a una mosca. Era un tipo che non amava farsi gli affari suoi, ogni tanto. Ma in maniera ridanciana e goliardica. John si sentiva come quando era al Liceo, con lui.
Era l’uomo più estremamente semplice e piacevole che avesse mai incontrato.
Uscivano spesso la sera al bar, e chiacchieravano del più e del meno.
Ogni tanto Phil faceva delle battute a cui John fingeva di ridere per lo più per farlo contento.
Guardavano un sacco di partite, insieme.
Phil aiutava John come poteva con la sua gamba, che non era mai guarita.
Lo accompagnava in macchina tutte le mattine al lavoro in ambulatorio.
Lì ormai li conoscevano tutti. Li chiamavano ‘il dinamico duo medico-avvocato’, cosa che faceva ridere entrambi e che tentavano di sfruttare come arma di seduzione e che, puntualmente, falliva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Febbraio, 2010
 
“Che dire, lei…è fin troppo qualificato.”
“Lei dice?”
“Qui c’è scritto che era un soldato.”
“Già. Lo ero.”
“Sa fare qualcos’altro?”
“A scuola ho imparato a suonare il clarinetto.”
“Questo lavoro potrebbe risultarle banale.”
“Banale…va benissimo, la banalità a volte va proprio bene.”
 
E così John Watson aveva conosciuto Sarah Sawyer. La sua storica fidanzata per almeno tre anni.
Non che sua futura moglie.
Con Sarah, John era decisamente sereno e a suo agio.
 Tutti dicevano sempre che erano fatti l’uno per l’altra, che erano perfetti, che erano davvero affiatati e ben assortiti.
John però non capiva cosa avessero di diverso dalle altre coppie. In realtà, non avevano nulla di così speciale. Forse li definivano ‘perfetti’ perché effettivamente non avevano mai avuto litigi particolarmente pesanti o problemi di una qualche relativa importanza.
E così il tempo con Sarah era passato senza che nulla inceppasse il meccanismo.
E dopo tre anni, semplicemente, John aveva chiesto a Sarah di sposarlo.
L’aveva fatto in un ristorante di lusso, con un anello di lusso, e Sarah aveva pianto.
Ah, e ovviamente, aveva detto sì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Marzo, 2013
 
“Non posso credere che ti trasferisci, Mike.”
“E io non posso credere che tu ti sposi. E scusami di nuovo se non ci sarò.”
“Fa niente, amico. E’ così strano che io mi sposi?”
“No…hai ragione, sei proprio tipo da impegnarti seriamente per ogni cosa.”
“Ma dai, chi non lo farebbe!”
“Chiederai a Phil di farti da testimone?”
“Già.”
“Sono contento che siate così amici.”
“Ah, sì? Credevi che non saremmo andati d’accordo?”
“No, è che…sai, è un po’ ridicolo, ma credo di aver dovuto fare una scelta.”
“Come? Una scelta?”
“Sì. Quel giorno, sai, anche un altro tizio che conoscevo cercava un coinquilino.”
“Oh. E tu fra i due hai scelto Phil.”
“Già.”
“E perché non l’altro?”
“Beh…ti ho istintivamente presentato il più tranquillo dei due. Il più incline all’amicizia, diciamo.”
“Oh, Dio. Chissà che razza individuo era l’altro!”
 
Mike si sarebbe trasferito.
Per cui, lui e John si erano andati a prendere una birra - l’ultima birra assieme -  offerta da John.
Inaspettatamente finirono a parlare del candidato coinquilino numero due.
E John, solo per un minuscolo attimo, sentì un lampo attraversargli la mente, un lampo che diceva: ‘wow, magari se avessi avuto un coinquilino diverso, la mia vita sarebbe stata diversa.’
Aveva immediatamente scacciato quel ridicolo lampo.
Perché insomma, quanto un semplice coinquilino potrebbe mai influenzarti la vita?
John Watson, in procinto di sposarsi, inebriato dai preparativi e dalla gioia di quel periodo, non si rese conto di essere finito sulla strada sbagliata.
E potrete anche dire: beh, ma perché sbagliata? Dipende dai punti di vista. Per qualcuno sposarsi, metter su famiglia e vivere una vita normale e tranquilla potrebbe essere la strada giusta.
Sì. Per qualcuno sarebbe potuta essere la strada giusta, ma non per John Watson.
Lui non sapeva, e forse non avrebbe mai saputo, di aver bisogno di tutt’altro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Aprile, 2013
 
“Allora, la grande domanda.”
“Quale grande domanda?”
“Il testimone.”
“Oh, John, dai, sul serio?!”
“Certo. Voglio che sia tu il mio testimone.”
“Non ci credo! Amico, certo che voglio essere il tuo testimone, sono davvero onorato!”
“Ci stupirai con uno dei tuoi fantastici discorsi?”
“Andrò alla grande, vedrai!”
 
E così John Watson aveva chiesto a Phil Winterson di fargli da testimone per il suo matrimonio.
E Phil si era messo subito a scrivere il discorso, entusiasta.
Sarebbe stata una stupenda cerimonia, e lo sposo meritava un discorso con i fiocchi, no?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Maggio, 2013
 
“Signori e signore, vi presento John Watson.
(qualche grido dal pubblico)
John, qui, signori miei, è un medico fantastico, un fidanzato premuroso, e un grande amico.
Ha superato guerre e momenti orribili. E' forte, sincero e detto fra noi anche il sogno di ogni donna.
Certo, non credevo che un giorno, una donna sarebbe riuscita davvero a realizzare questo sogno.
E oggi, sono qui per celebrare il grande amore di due persone davvero speciali.
John e Sarah.
(qualche fischio, con un leggero applauso)
Cara Sarah, che dire. Sei un vero splendore. Sei perfetta per John e so che avrete un futuro luminoso e pieno di gioie, insieme. Certo, sarà un po’ dura non avere più John in casa con me, ma ehi. Ragazze, sono uno scapolo d’oro con una stanza libera, ora. Chiamatemi.
(un boato provocatorio, e qualche risata)
Caro John, voglio che tu sappia…tu sai che io sono figlio unico. E tu sei stato il fratello che non ho mai avuto.
Mi hai sempre sostenuto, ci sei sempre stato, nei momenti belli, e in quelli brutti.
Io ti ringrazio profondamente di questo e ti auguro ogni bene, amico.”
 
Nella sala da pranzo dell’agriturismo dove John e Sarah Watson festeggiavano il loro matrimonio, si levò un leggero applauso, accompagnato da facce sorridenti e compiaciute.
Ma John non potè fare a meno di domandarsi, in quel preciso istante, quand’era esattamente che lui e Phil avevano superato assieme ‘momenti brutti’.
E forse fu la contentezza del momento a non fargli rendere conto che insieme, loro due, non avevano avuto modo di affrontare proprio un bel niente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Gennaio, 2014
 
“John, tesoro, io esco. Ci vediamo per cena, ok?”
“Ok. Copriti bene.”
“Certo che mi copro bene, amore.”
“Prenderesti il latte, già che esci?”
“Va benissimo.”
 
 Le cose nella testa di John si complicarono quando si rese conto di aver sostenuto quella conversazione almeno un miliardo di volte in neanche troppo tempo in quella casa.
Avevano il loro appartamento, adesso, che ogni tanto avrebbero lasciato vuota durante le loro vacanze.
Con una cucina componibile, e una stanza per gli ospiti.
Con il loro balcone, ed un barbecue che usavano nei week-end soleggiati.
Avevano un auto. Giapponese. Perché qualcuno in TV aveva detto che giapponesi ci sanno fare con le auto.
Era tutto semplicemente perfetto.
E questo giustificava ancora meno il fatto che ogni tanto, John Watson, sospirava.
Che la notte si svegliava accerchiato dagli incubi.
Che il suo tremore alla mano diventava sempre più forte ogni giorno che passava.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Maggio, 2014
 
[ Inviato il 12-5-2014 alle 13:10 ]
Phil? Sono John. Quando hai tempo, ti andrebbe una birra insieme?
 
[ Ricevuto il 13-5-2014 alle 11:18 ]
Scusa, amico, sono finito a lavorare su una causa importante.
Ti richiamo appena ho tempo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Dicembre, 2014
 
“Pronto?”
“Pronto? Phil?”
“John? Non ci credo! Come te la passi, sembra un secolo che non ci sentiamo!”
“Aha, beh, per la verità, sono passati mesi…”
“E’ vero, cavolo, scusa se non ti ho richiamato! In questo periodo sono pieno di roba da fare!”
“Senti, mi stavo chiedendo…magari questa vigilia ti va di vederci. Anche solo una birra.
Sai, no, come i vecchi tempi.”
“Ohh, cavolo, mi piacerebbe! Ma per la vigilia sono impegnato!”
“Oh. Capisco. Allora magari…per capodanno?”
“John, mi dispiace davvero, ma parto per tutte le vacanze di Natale con Leia.”
“Leia?”
“Oh, sì, è la mia ragazza. Te la devo presentare, magari quando torno.”
“Sì…sì, quando torni è perfetto! Sai, Phil…”
“Mh?”
“Io…in questo periodo non sto molto bene, e ho…ho bisogno di parlare, sai, con qualcuno.”
“Ah, cavolo, amico, mi dispiace. Dai, appena torno dalle vacanze ti chiamo e ci mettiamo d’accordo. Che ne dici, si può fare?”
“Certo. Ciao, allora. A presto.”
 
Arrivò Febbraio. E Phil non richiamò mai.
John cominciò a dormire sempre meno, la notte.
Sarah gli preparava del tè, con del latte, e del miele. E gli accarezzava la testa.
E, se possibile, John dormiva ancora peggio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Maggio, 2015
 
“Tesoro, hai preso il passaporto?”
“Sì, John, è nella tasca davanti del tuo borsone.”
“Grazie.”
“Tu ti sei ricordato di prendere la macchinetta fotografica?”
“Sì, è nella tasca interna della valigia.”
“Perfetto. Siamo pronti, allora!”
 
A Maggio, John e Sarah partirono per una vacanza alle Hawaii.
Spiaggia, sole e relax.
Perché questo era ciò che aveva consigliato il medico a John.
Assurdo, pensò John, che un medico dia consigli ad un altro medico.
E Sarah – dottoressa anche lei – gli aveva dato retta.
‘Sei stressato, John. Ti farà bene.’
E per un po’ aveva pensato anche lui di essere solo stressato.
Aveva seriamente pensato di poter risolvere tutto cercando di rilassarsi e non pensare a niente.
Ma andò diversamente.
Le spiagge erano fantastiche, il mare cristallino e il sole caldo e luminoso come non mai.
Era il paradiso.
Sarah si abbronzava, si divertiva, e rideva.
Anche John rideva.
Ma solo quando lei lo guardava.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Luglio, 2015
 
“Sarah? Sarah!”
“Tesoro, che è successo? Un altro incubo?”
“Sì…sì, io—“
“No, non ti alzare. Stai giù, non sforzare la gamba e cerca di tranquillizzarti. Vado a prenderti un bicchiere d’acqua. Magari ti preparo un tè, va bene? Aspettami qui.”
“No, Sarah! Aspetta, non andare, ho bisogno di—“
 
John era rimasto solo, nella stanza buia.
Si accucciò, e pianse silenziosamente, respirando a fatica.
Quella notte fu una delle più terribili della sua vita.
Contò i minuti in cui sua moglie era in cucina.
Ma la parte più terribile fu quando lei tornò, e lui se ne rese conto.
Si rese conto che la sua presenza non riusciva minimamente a farlo sentire meglio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Luglio, 2015
 
“John, è tutto ok. Hai degli incubi, va bene, e quindi? Sei stato in guerra, dopo tutto.”
“Ma la guerra non c’entra.”
“Certo che c’entra. Cosa vuoi che c’entri, allora?”
“Sarah, io— In guerra, io ero…facevo…mi sentivo utile. Adesso, io—“
“Tesoro, non mi dirai che ti manca la guerra.”
“No! Non è questo, è solo che…mi manca qualcosa. Sento che…mi manca qualcosa.”
 
Non che fosse un vero litigio. Ma Sarah sembrava davvero amareggiata, quella sera.
Così John il giorno dopo, per farsi perdonare, la portò a cena in un ristorante italiano.
Le chiese scusa, e le disse che con lei al suo fianco non gli mancava niente.
Sarah sorrise in modo così bello e sincero che John si sentì in colpa, e per un attimo, un solo attimo, pensò di dirle tutta  la verità, tutto quello che si teneva dentro: non ce la faccio più. Mi manca qualcosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Agosto, 2015
 
[ Inviato il 1-8-2015 alle 14:55 ]
Ciao Phil, sono John.
E’ un sacco che non ci sentiamo. Mi piacerebbe rivederti.
Chiamami, quando puoi.
 
[ Inviato il 10-8-2015 alle 16:45 ]
Ehi, Phil.
Per caso sei molto impegnato in questo periodo?
 
[ Inviato il 25-8-2015 alle 12:09 ]
Magari hai cambiato numero.
 
[ Ricevuto il 30-8-2015 alle  13:07 ]
Ciao, John! Scusa se non ti ho risposto, ma ho molto da fare.
Ci sentiamo presto, bello!
 
[ Inviato il 30-8-2015 alle 13:10 ]
Oh, ok.
Mi chiami per farmi sapere quando sarai libero?
 
Ma non arrivò nessuna chiamata. Mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Settembre, 2015
 
“John, guarda cosa è arrivato!”
“Cos’è?”
“Un invito al matrimonio di Phil!”
“Cosa? Phil si sposa?!”
“A quanto pare. Con una certa Leia.”
“Oh, già…mi aveva detto che si era trovato una ragazza, l’anno scorso.”
“Non è fantastico? Magari rivedere Phil ti farà bene!”
“Io…non lo so. Non ci sentiamo da parecchio, e—“
“Che sciocchezze che dici, John! E’ sempre stato il tuo migliore amico, hai intenzione di mancare al suo matrimonio?”
 
John avrebbe avuto giusto leggermente qualcosa da ridire sul termine ‘sempre’ e un pochino anche sulla parola ‘amico’, considerato che in quel periodo buio il suo così detto ‘migliore amico’  non si era nemmeno degnato di rispondere ai suoi messaggi.
Ma non gli sembrava il caso di litigare per quello.
E quindi ci erano andati. Erano andati al matrimonio di Phil.
Finita la pomposa celebrazione, Phil era corso da John e l’aveva ringraziato, gli aveva dato tante di quelle pacche sulle spalle da fargli venire il mal di schiena, e gli aveva sorriso felice.
John finalmente aveva conosciuto Leia, che con i suoi angelici boccoli biondi e gli occhi di un verde scintillante, sembrava squadrarlo come se lui non fosse niente di molto importante. Qualcosa di piccolo.
Un accessorio in regalo col pacchetto che era suo marito. Se possibile, avrebbe tanto preferito cestinarlo.
Gli aveva sorriso solo con la bocca, e poi era passata a scambiare chiacchiere con il resto degli invitati.
Phil era rimasto con lui per un po’, ma in seguito durante il pranzo finirono in tavoli mostruosamente lontani, e John per tutto il resto della festa parlò solo con Sarah, che era già entusiasta all’idea di andare a cena con i coniugi Winterson in quattro.
Il testimone era il neo cognato di Phil.
E a John la cosa fece un certo effetto.
 Quando arrivò la sera, si scatenarono le danze.
Ma disse a Sarah di sentirsi stanco, e quindi tornarono a casa.
 
John se ne andò via presto dal matrimonio di Phil.
Insomma, chi lascia un matrimonio presto?
Fu così triste.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
25 Dicembre, 2015
 
“Tesoro, dove vai?”
 
“Torno subito. Faccio una passeggiata. Mi aiuta ad evitare gli incubi.”
 
Quella passeggiata, John Watson non l’avrebbe più dimenticata.
 
 
What if there was no light 
Nothing wrong, nothing right 
What if there was no time 
And no reason, or rhyme 
What if you should decide 
That you don't want me there by your side 
That you don't want me there in your life

{…}
Every step that you take
Could be your biggest mistake
It could bend or it could break
But that's the risk that you take 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



Note dell’autrice
Salve a tutti, belle personeh.
E il primo capitolo è andato. Forse un po’ corto, ma è andato.
E’ la prima volta in vita mia che mi cimento in qualcosa di veramente triste. Dio mio, non so perché ho voluto provarci. Non sono decisamente portata per queste cose.
E probabilmente questa sarà la cosa più infantile che avrete mai sentito, ma vi assicuro che ad ogni riga che scrivo il mio cuore muore un po’.
Perché me lo sono chiesto davvero: ma se John non avesse mai incontrato Sherlock?
Subito dopo ho anche pensato che non si poteva neanche immaginare una cosa del genere, e che era decisamente ridicolo.
E poi, siccome sono furba, giustamente, mi sono ritrovata a scriverlo.
Ma quanto sono brava.
Insomma, prima canzone andata: What If.
Spero che qualcuno abbia apprezzato questa specie di aborto.
Se siete arrivati fino a qui, grazie mille. E se recensirete e mi direte che sto riuscendo a farvi piangere un pochino, beh, vuol dire che avrò fatto un passettino avanti. Sperare non costa nulla.
Al prossimo capitolo, e alla prossima canzone.
Cercherò di postare in pochissimo tempo il prossimo. Tipo, tra una settimana, o giù di lì..?
Vedremo, insomma, se qualcuno vorrà leggere il seguito.
Sperare non costa nulla, già.
 
 
 

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Capitolo 2
*** Violet Hill ***


Attenzione!
Questo capitolo è stato ispirato dall’ascolto di Violet Hill, dei Coldplay.
Per tanto, si consiglia ai gentili lettori di ascoltare la suddetta canzone.
Sì, solo perché è bella.
Grazie, e buona lettura.
 
 
 
 
 
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“Afghanistan o Iraq?”
 
Dio. Se solo avesse sentito prima quella frase.

 
 
 
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Act II  - Violet Hill
 
 
 
 25 Dicembre, 2015
 
Si affacciò alla finestra, guardando la neve cadere giù.
Si affacciò, la notte di Natale, e osservò le luci appese fuori, che coronavano le strade.
Quelle meravigliose luci scintillanti di Natale.
E John desiderò ardentemente essere una di quelle luci, una qualsiasi.
Avrebbe voluto brillare. Anzi, no. Si sarebbe accontentato di aiutarle a brillare.
John avrebbe tanto voluto essere un conduttore di luce.
‘E’ tutto sbagliato’ si disse quella notte ‘è tutto sbagliato. Questa non doveva essere la mia vita.’
 
 
“Tesoro, dove vai?”
Appena uscita dalla doccia, beccò suo marito nell’atto di infilarsi il cappotto.
Erano  tornati nemmeno dieci minuti prima dalla cena di Natale dai suoi genitori, e Sarah avrebbe tanto voluto spendere le ultime ore della serata con del buon vino, davanti al camino.
John non sembrava della stessa opinione.
La guardò sorridendo rassicurante, come al solito, infilandosi il berretto di lana – regalo di sua suocera – e prendendo le chiavi dalla ciotola sul mobile all’ingresso.
“Torno subito. Faccio una passeggiata. Mi aiuta ad evitare gli incubi.”
Sua moglie sorrise accondiscendente di rimando. Evitare gli incubi era sempre cosa buona e giusta.
John, accompagnato dal suo fedele bastone, si diresse verso la porta d’ingresso, e le donò un ultimo sguardo. Un lungo sguardo.
Era cieca. Erano tutti ciechi.
Non lo vedevano, giusto? Non avrebbero mai visto.
 
 
John camminò a lungo sul marciapiede innevato.
Ogni volta che si appoggiava al bastone, ringhiava. Dannata, dannatissima gamba!
Ad un tratto, si strappò il berretto di lana di dosso e lo lanciò lontano.
Lo scagliò via con una rabbia tale, che un passante vicino a lui sussultò dalla sorpresa, e lo guardò storto.
Ma John non se ne curò.
Era come se si fosse liberato da un peso tremendo.
Continuò a camminare.
A Saint James Park c’erano le luci sugli alberi.
Era bello. Era come se le stelle si fossero incastrate tra i rami, e John decise che era arrivato al capolinea.
Scelse una panchina qualsiasi e si sedette, non trattenendo in nessun modo le lacrime.
Il suo pianto fu silenzioso e decoroso, privo di lamenti o mugolii, ma solo pieno di lacrime che scendevano senza pietà giù dagli occhi fino al mento. Da bravo soldato.
‘Non era così che doveva andare’ pensò, e non poteva esserne più sicuro.
E non poteva avere più ragione.
 
 
 
 
 
“La sua vita deve essere tremendamente noiosa.”
John spostò lo sguardo dalle sue scarpe ad un altro paio di scarpe, perfettamente pulite e nere, attaccate a due lunghe gambe nascoste da un cappotto altrettanto nero, che ora gli si parava di fronte.
“Scusi?”
“E’ seduto su una panchina a Saint James Park nella notte di Natale a non fare niente.”
“Non sono affari suoi.”
John, stizzito dall’osservazione, con un veloce ed orgoglioso colpo di manica, cancellò ogni traccia di lacrime dalla sua faccia, e si prese un momento per identificare lo sconosciuto.
Per prima cosa trovò degli occhi che lo analizzavano. Azzurri, intensi.
Il viso pallido, asciutto, gli zigomi accentuati, dei riccioli neri quanto il cappotto e le scarpe,  indomabili, si riversavano sulla fronte. Sembrava finto.
Quell’uomo era forse un fantasma dei Natali passati?
“Chi è lei?” chiese John, quasi per inerzia, sperando davvero che fosse un fantasma, o un angelo, o qualcosa di cinematografico e subnormale pronto a strapparlo dalla sua vita.
L’attesa che arrivò sembrò rendere frizzante e trepidante l’aria e il territorio circostanti.
“Sherlock Holmes.”
“John Watson.”
Sul viso di Holmes soggiunse un’espressione scocciata e priva di interesse, ma John non si offese affatto, anzi quasi gli scappò da ridere, il che era ridicolo.
“Non sono qui per delle presentazioni, io credo di avere…un…problema—“
Non riuscì a finire la frase. John lo vide oscillare pericolosamente in avanti.
Si alzò di scatto, appena in tempo per riceverlo tra le braccia.
“Oh mio Dio! Si sente bene?!”
“Lei…lei che cosa dice?”
Arrancando per via della gamba dolorante, ma senza perdere un momento, John fece stendere l’uomo tenendolo saldamente per la nuca, e lasciando che la schiena aderisse alle sue ginocchia.
“Signor Holmes?”
Con un movimento fulmineo gli sbottonò il cappotto, e frugò come in cerca di qualcosa che era sicuro di trovare.
“Oh, merda…”
Nonostante l’avesse previsto, John non potè fare a meno di impallidire un minimo, quando la sua mano riemerse totalmente sporca di sangue.
“Un taglio. L’hanno accoltellato! Qualcuno chiami un ambulanza!”
Si accorse con orrore di essere l’unico essere umano nel raggio di almeno un chilometro.
Non perse la calma.
Frugò nelle proprie tasche, e finalmente trovò il cellulare.
“Pronto?! Saint James Park, un uomo ha subito una ferita al fianco destro, sanguina molto! Temo sia una tremenda emorragia, fate presto! Ok…sì, sono un medico, farò quello che posso!”
Neanche aveva chiuso la comunicazione, John aveva già preso la sciapa che l’uomo aveva al collo, e aveva iniziato a fare pressione sulla ferita più che poteva.
“Vita noiosa, ha detto…Dio, ma almeno nessuno mi ha accoltellato!” gridò, mentre con la mano libera lo sosteneva per il viso, dandogli qualche piccolo colpo, per tenerlo vigile.
“Resista!”
“Penso…tu mi possa dare del tu. Dopo tutto…mi hai appena sbottonato…il cappotto.”
John lo fulminò con lo sguardo, esterrefatto.
“Ti stai sforzando di parlare con un’emorragia per sfottermi? Sei uno psicopatico o cosa?!”
“Sociopatico iperattivo. Info…rmati.”
“Sherlock? Sherlock, rimani con me!”
“E poi…ho ragione…io.”
“Come?”
“Mi hanno…accoltellato. Ma…non sono annoiato come te.”
Ci fu un lungo scambio di sguardi, tra loro.
Quell’uomo aveva maledettamente ragione.
“Oh, stai zitto, per l’amor del cielo!”
“John?”
Strano, si disse, come suonava incredibilmente bene il suo nome, uscito da quella bocca.
E strano, si disse ancora, come in lui si stesse facendo strada la preoccupazione crescente di non sentirlo mai più pronunciato in quel modo.
“Cosa, cosa c’è?”
John avrebbe avuto voglia di urlare esasperato: di tutti i pazienti che aveva curato, anche i più insopportabili, nessuno aveva mai avuto l’incredibile faccia da schiaffi di criticare la sua vita, specialmente con una ferita da taglio ben assestata sul fianco. Non che i suoi pazienti con un emorragia avessero mai avuto la forza di parlare, prima d’ora.
“Rispondimi, stai con me! Cosa c’è?”
“Afghanistan o Iraq?”
John colse sulle labbra di Sherlock un sorriso breve ma carico di un’infinita soddisfazione, di fronte al suo totale sconvolgimento.
Fu l’ultima frase che gli sentì dire, prima di vederlo perdere i sensi.
 
 
 
 
 
 
 
 
26 Dicembre, 2015
 
John era salito sull’ambulanza con Sherlock Holmes. E gli aveva tenuto la mano.
Non sapeva perché l’aveva fatto. Di sicuro Holmes era il genere di uomo che non lasciava che qualcuno gli tenesse la mano così facilmente, o che gli avrebbe chiesto di non essere toccato, se fosse stato cosciente. Sentiva semplicemente che ne aveva bisogno.
Ma non sapremo mai chi dei due ne aveva di più.
Mentre l’autovettura procedeva a gran velocità, John poteva giurare di aver sentito Sherlock ricambiare la stretta, e aveva visto quelle due fessure azzurrissime aprirsi e guardalo eloquentemente per pochi attimi, che a lui sembrarono un’eternità.
John non avrebbe mai saputo. Non avrebbe mai saputo cosa voleva dire quello sguardo:  ‘Non ce la farò, me lo sento. Ma grazie per averci provato. Sembri un tipo così stupidamente sentimentale. Un vero idiota. Eppure ho camminato un isolato intero con il cellulare in mille pezzi e una ferita da coltello per decidere di affidare la mia vita a te. Forse l’umanità non mi sarebbe sembrata così ridicola e stupida se ti avessi incontrato prima, sai?’
John aveva corso insieme ai medici in sala operatoria.
John era rimasto fuori dalla sala durante l’operazione, con la testa fra le mani, come se dentro ci fosse stato suo fratello, e non un uomo appena conosciuto che l’aveva provocato nel parco.
John aspettò il chirurgo con impazienza ed una sorta di inquietudine sempre peggiore.
John non voleva davvero sentirsi dire le parole fatidiche, che anche lui aveva detto un miliardo di volte, con una noncuranza ed una freddezza di cui si sarebbe pentito per sempre.
Chiese a Dio solo quel miracolo. Ma non sapeva perché.
Evidentemente, Dio era un tipo a cui servivano argomentazioni.
 
 
“Mi dispiace, ma non ce l’ha fatta.”
“…Oh.”
 
Delusione. Sconforto.
Gli crollarono addosso, lo mangiarono vivo.
Ma davvero non seppe spiegarsi perché.
“Ha perso troppo sangue durante il tragitto in ambulanza. Abbiamo scoperto troppo tardi che stava avendo anche un’emorragia interna per via della rottura della milza. Sul corpo c’erano numerosi segni di colluttazione. Ha lottato, prima di venire ferito.”
Aveva visto troppe persone morire sotto i suoi occhi, e in modi infinitamente più brutali di quello, per dirsi che tutto ad un tratto riusciva ad essere scioccato dalla perdita di uno sconosciuto qualsiasi.
Il chirurgo ora lo guardava come aspettando una qualche reazione, ma John rimase solo a fissarlo con la bocca semi aperta e lo sguardo più perso mai prodotto da un essere umano.
“Lo conosceva?”
Prima domanda legittima, di fronte a dei simili occhi smarriti.
“No, io…io ero- ero solo-“
“Si sente bene?”
“Sì. Sto bene. Mi scusi.”
Mentì, perché ormai era la cosa che sapeva fare meglio.
E anche perché non riusciva davvero a spiegare - prima di tutto a sé stesso - per quale motivo finì con l’accasciarsi sulla sedia più vicina a trattenere le lacrime, lasciando crollare il bastone a terra.
 
 
 
“Pronto?!”
“Pronto.”
“John! John, dove diavolo sei?! Sono le tre del mattino!”
“Sarah…”
“John…tesoro, che cosa è successo? Dove sei?”
“All’ospedale.”
“Come—come sarebbe a dire all’ospedale?! Che ti è successo?!”
“Niente. Assolutamente niente.”
“John…oh santo cielo, in che ospedale sei? Dimmelo, ti vengo a prendere!”
“…Saint Bart’s Hospital.”
 
Sarah arrivò tre quarti d’ora dopo.
Preoccupata, spaventata a morte.
Lo chiamò, cercò di scuoterlo in qualche modo, gli fece domande.
Ma John non rispose.
 
E forse finalmente aveva capito perché: Sherlock Holmes era l’unica scintilla di vita vera che si fosse mai ritrovato tra le mani. E se l’era lasciata scappare per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
27 Dicembre, 2015
 
“Buongiorno, dottoressa Watson.”
“Buongiorno. Scusi…ci— ci conosciamo?”
“Non proprio. Sto cercando suo marito, il dottor Watson.”
“Mi scusi, ma…mio marito è molto stanco e al momento non vuole parlare con nessuno.”
“Oh. Beh, sono certo che per me potrà fare un’eccezione.”
 
Se lo ritrovò davanti.
Non aveva voluto vedere nessuno, come a voler riposare gli occhi dopo tutto quello che avevano subito, eppure quell’uomo si presentò comunque di fronte a lui.
Alto, elegante, distinto, pareva di ghiaccio.
Lo osservava austero, fiero, a testa alta, in modo quasi presuntuoso, ben artigliato al suo ombrello, come un re col suo scettro, e con quel completo così impeccabilmente elegante da stonare con l’arredamento di casa. John, seduto sulla sua poltrona, gli donò dal basso uno sguardo distrutto da un dolore ridicolo e ingiustificabile all’occhio di ogni essere dotato di intelletto.
“Buongiorno, dottor Watson.”
“Lei chi è?”
“Mi chiamo Mycroft Holmes.”
“Holmes? Lei è…”
“Sono il fratello di Sherlock Holmes.”
Mycroft Holmes -  John certamente non poteva saperlo  – era uno di quei uomini che si scompongono difficilmente. Forse avrebbe dovuto capirlo dal modo in cui aveva a mala pena alzato un sopracciglio ad un solo giorno dalla morte di suo fratello minore.
Fatto sta, che John ebbe l’incredibile privilegio di vederlo contrarre il viso in un’espressione quanto meno genuinamente stupita, quando lui si alzò con un balzo dalla poltrona facendosi leva con il bastone, e quasi gli ringhiò a pochi centimetri dalla faccia.
“Lo hanno preso?”
“Mi scusi…di chi—“
“Il criminale che l’ha accoltellato” sputò John, senza un minimo di auto-controllo, stringendo il bastone così forte, che il signor Holmes riuscì quasi a provare timore nel vederselo scagliare in testa.
“Lo hanno preso?”
Mycroft innanzi tutto si concesse un ulteriore sopracciglio alzato, prima di rispondere con la sua solita serafica calma: “Sì, lo hanno preso.”
Seguì un lungo silenzio, che neppure uno come Mycroft Holmes che – John non sapeva, di nuovo – era il governo inglese in persona riuscì in nessun modo a decodificare.
“So che…lei ha fatto il possibile per salvare mio fratello. I medici mi hanno detto che ha aspettato per tutto il tempo, e che…gli è stato vicino in ambulanza.”
A quel punto John non proferì parola. Forse per il fatto che non sapeva come commentare, o spiegare, o motivare quello che era stato appena detto, in nessun modo.
“Se volesse venire al funerale domani mattina al cimitero di Londra, lo apprezzerei.”
Un altro silenzio stranamente privo di aspettativa aleggiò nella stanza per attimi interi.
“Ci sarò.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
28 Dicembre, 2015
 
A quel funerale non venne quasi nessuno. Quasi.
C’era una vecchia signora. Singhiozzava disperata, con il fazzoletto al naso.
C’era un uomo dall’aria stanca, con i capelli brizzolati e l’impermeabile stropicciato.
C’era una ragazza minuta, che tentava in tutti i modi di essere composta e forte, ma sembrava dover crollare da un momento all’altro.
Nell’angolo riservato ai parenti, stavano solo due coniugi dai capelli bianchi e gli occhi dello stesso azzurro infinito che John aveva visto tre giorni prima.
Di Mycroft Holmes non c’era alcuna traccia.
 
“John?”
“Mh?”
“John, se ne sono andati via tutti. La celebrazione è finita.”
“Lo so.”
“…Ma quindi…lo conoscevi?”
“…Sì.”
“Oh…non me ne hai mai—“
“Sarah, scusami. Potresti lasciarmi solo un momento?”
“Sì…sì, ti aspetto in macchina.”
 
 
John non era uno sdolcinato. Romantico sì, ma non sdolcinato.
E sapeva che non puoi dire di aver conosciuto una persona in poco più di otto minuti.
Ma adagiò comunque una mano sopra il marmo freddo di quella tomba.
Si schiarì la voce. Guardò per terra. Si sistemò la cravatta, più e più volte.
Sentiva di avere così tanto da dire, nonostante avesse parlato con Sherlock Holmes per esattamente poco più di otto minuti. Eppure, davvero, non puoi conoscere una persona nel tempo necessario ad un ambulanza di Londra per arrivare al Saint James Park.
Prese un lungo respiro.
 
“Afghanistan.”
 
Lui non avrebbe mai dovuto essere una persona normale, calma, e tranquilla.
Lui avrebbe dovuto essere un conduttore di luce.
Della più brillante, splendida, sorprendente, imprevedibile e capricciosa luce.
 
 
“Io e te…non ci conoscevamo, ma…posso chiederti solo un favore? Uno solo, solo per me.
 Non essere morto.
Torna indietro. Spiegami come facevi a sapere dell’Afghanistan.”
 
Troppo tardi.
 
It was a long and dark December
From the rooftops I remember
There was snow
White snow

Clearly I remember
From the windows they were watching
While we froze down below

{…}
If you love me, won’t you let me know?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice
…E felice anno nuovo.
So che è presuntuoso da dire, ma credo di meritarmi almeno una riga di recensione solo per la manciata di ansiolitici che ho dovuto buttare giù per scrivere una cosa del genere.
Scherzi a parte.
Ecco il secondo capitolo.
E santa Madonna non ci posso credere che l’ho scritta davvero io, questa cosa. Non ho mai finito in vita mia una storia con la frase ‘troppo tardi’. Beh, ahimè, c’è sempre una prima volta.
Ora, passiamo alle spiegazioni: questo capitolo potrebbe avere una sua logica tutta giusta, come tutta sbagliata. Questo perché io faccio parte della scuola di pensiero fermamente convinta che Sherlock ce lo saremmo giocato in A study in pink  per via della pillola cattiva, se non ci fosse stato John.
Ma vabbè. Dovevo farli incontrare, anche se solo per quindici secondi.
Per quanto riguarda il ‘ma ehi, com’è che al funerale ci sono solo i suoi genitori, Molly, la signora Hudson e Lestrade?’. Semplice: senza John, Sherlock non ha avuto nessun blogger, di conseguenza non è mai diventato famoso.
C’è poco da girare intorno al cosa ho scritto, perché l’ho scritto, e perché vi ho rovinato il fegato con il mio stile di scrittura orripilante: se John e Sherlock non si fossero incontrati, le loro vite sarebbero andate a rotoli. John avrebbe vissuto nella noia mortale. E Sherlock avrebbe vissuto da solo. E – nel peggiore dei casi – da tossicodipendente.
Il resto è fuffa.
Il prossimo capitolo sarà l’ultimissimo, sarà più corto, e finalmente smetterò di dilaniare questo fandom con le mie immense stronzate.
Ancora una volta, se avete letto fino a qui, grazie di cuore.
Alla prossima settimana.
 
Ah, dimenticavo: Violet Hill mi fa del male fisico per quanta tristezza mi fa venire.

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Capitolo 3
*** Those Christmas Lights ***


Attenzione!
Questo capitolo è stato ispirato dall’ascolto di Those Christmas Lights, dei Coldplay.
Per tanto, si consiglia ai gentili lettori di ascoltare la suddetta canzone.
Sì, solo perché è bella.
Grazie, e buona lettura.
 
 
 
 
 
 
 
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27 Dicembre, 2015
 
“Non sono riuscito a salvarlo, Sarah.”
“John, non è colpa tua. Tu hai fatto il possibile.”
“Il possibile non è abbastanza.”
 
 
 
30 Dicembre, 2015
 
“John? Non ci credo! Che ci fai in qui al centro? Fai compere per la tua signora? Che mi dici, bello? Come stai?”
“Non bene, Phil.”
“Che ti prende? …John? Ma cos'è quella faccia? Andiamo. Siamo amici. Con me puoi parlare.”
“Ah, davvero, Phil? Siamo amici? Allora dimmi: da quanto non mi fai una cazzo di telefonata? Da quanto non mi scrivi per sapere come sto? Adesso ci incontriamo per strada per sbaglio e sono di nuovo tuo amico? Mi spieghi cosa vuol dire ‘amico’, per te?”
“Ok, senti, ammetto di averti trascurato un po’, negli ultimi tempi…”
“Negli ultimi tempi? Phil, per l’amor di Dio, non ci vediamo dal giorno del tuo matrimonio!”
“Tu sei come un fratello per me, John! Che diamine, abbiamo condiviso un appartamento assieme per anni, io— Ok, senti…ero infognato con il lavoro, il matrimonio, ero—“
“Anch’io lo ero, ma questo non mi ha impedito di—“
“John, senti…ora devo andare. Leia mi sta chiamando, io— pace fatta, sì? Amici come prima, no? Stammi bene, ok? Mi sembri un po’ stressato.”
 
 
“John? Chi era? Mi sembrava Phil.”
“Andiamo a casa, Sarah.”
“Aspetta un secondo! Mi vuoi dire chi era?”
“Nessuno.”
 
 
 
 
31 Dicembre, 2015
 
“Ehi. Io ti conosco.”
“Come?”
“Sì…sì, tu…tu eri al funerale di Sherlock, vero?”
“Io—“
“Sei il tizio che è salito con lui in ambulanza, vero?”
“Lei- Lei era..?”
“Piacere, Greg. Greg Lestrade.”
“John. John Watson.”
“Di un po’. Ti andrebbe di fare due chiacchiere con un ispettore di polizia semi ubriaco, John Watson?”
 
“…Sì.”

 
 
 
 
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 Act III – Those Christmas Lights
 
 

Aprile, 2016
 
“…in pratica, stavamo là disperati. Eravamo già pronti al peggio: la banca che stava per saltare in aria, gli ostaggi ancora dentro, e nessuno di noi era venuto a capo di quell’indovinello.”
“E poi che è successo?”
“L’impossibile. E’ arrivato Sherlock. L’ha risolto in circa quindici punto sette secondi.”
“E da dove cavolo ti è uscita adesso questa cifra così precisa?”
“Da lui. Non faceva altro che ripeterla, dicendo che era stato troppo lento.”
“Troppo lento?!”
“Mi hai sentito bene. Era…pazzesco. Riusciva a capire certe cose solo con un colpo d’occhio.”
“Fantastico.”
 
John guardò Greg, intento a buttare giù la sua birra come se non ne avesse vista una da anni.
Era davvero un’incredibile fortuna averlo trovato.
Perché lui sapeva. Lui sapeva perché Sherlock aveva capito dell’Afghanistan.
Si erano incontrati la notte di Capodanno in un pub. Greg l’aveva riconosciuto immediatamente, e John dopo un paio di minuti aveva finalmente identificato in lui l’uomo con l’impermeabile stropicciato al funerale. Avevano finito per fare conversazione.
Era saltato fuori che Greg era un Detective Ispettore di Scotland Yard, che aveva un matrimonio duro, che il suo lavoro era frustrante, e che lui e Sherlock collaboravano da anni.
Sì perché, tra le altre cose, era saltato fuori anche che John aveva visto svenirgli tra le braccia un consulente investigativo.
Per la precisione, l’unico al mondo.
Da quella notte, ogni venerdì sera, John non potè più fare a meno di spendere la serata al pub con il Detective Ispettore Lestrade,  ascoltando le avventure più emozionanti ed incredibili che avesse mai sentito. Ora non rimanevano che quei ricordi. E qualche ritaglio di giornale.
 
 
 
 
 
 
 
 
Giugno, 2016
 
Greg quel venerdì lo aveva guardato in un modo diverso dal solito.
Era stata un’occhiata di pochissimi secondi, tra un sorso di birra ed un racconto, ma John l’aveva notata.
Gli occhi neri di Lestrade erano sempre stanchi,  ma luminosi,  - quel luminoso che da coraggio e che sembra dire ‘mah, la vita è un po’ uno schifo a volte, ma che ci possiamo fare, si tira avanti’ – mai spenti.
Per un singolo istante, in loro aveva fiammeggiato qualcosa di simile alla rabbia, o comunque all’amarezza.
“Che c’è?”
“Come che c’è?”
“Mi hai appena guardato.”
“Ma no, ho solo-“
Intercorsero pochi secondi di silenzio, prima che Greg cedesse.
Era un tipo schietto, lui. Non mentiva così facilmente.
“Ok, senti. Forse ti potrà sembrare una cretinata, ma mi è venuto da pensare…non so, che se tu e Sherlock vi foste incontrati prima, forse lui— Nel senso, non ho mai visto una persona così interessata a lui e a quello che faceva in tutti questi anni quanto te, John. E ci hai parlato per qualcosa come dieci minuti!
Immagina se ci avessi parlato tutti i giorni, magari lo avresti aiutato, e lui—“
Si bloccò di colpo.
“…Ahh, sto sparando un mucchio di stronzate tipiche di chi non vuole accettare la morte di qualcuno. Cristo. Ho bisogno di un’altra birra.”
John, invece, non si era fermato assieme a Greg.
Nella sua immaginazione si figurò come sarebbe stato vivere con Sherlock Holmes.
Cancellò la macchina di Phil, e la sostituì con un taxi.
Rimosse le partite e le battute, per dare spazio ai casi e alle avventure.
Per un attimo, un attimo solo, eliminò dalla sua testa Phil stesso, e si girò sull’altare trovando al suo fianco Sherlock, annoiato ma solenne, nel suo vestito da testimone.
 
Quello che vide gli piacque fin troppo.
Anche lui ordinò un’altra birra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
24 Dicembre, 2016
 
Per Natale Sarah gli aveva regalato un nuovo berretto di lana – visto che l’altro era misteriosamente sparito l’anno prima - e un orologio da polso.
John aveva regalato a Sarah un ciondolo d’argento. Perché lei adorava l’argento.
E perché se regalavi a Sarah dei gioielli non potevi che azzeccarci.
 
Avevano fatto il giro di tutte le strade, di tutti i negozi, di tutti i parchi. E John aveva visto di nuovo tutte quelle luci, tutte quelle stelle incastonate tra i rami.
Ma le luci non gli avrebbero mai più ricordato nulla di buono.
Avrebbe dovuto farci l’abitudine.
 
 
 
25 Dicembre, 2016
 
“John, dove stai andando?”
“…A fare una passeggiata.”
“Vai di nuovo al cimitero, vero?”
“Sarah…”
“Diamine, John. Sono tre volte, questo mese! Tra meno di due ore dobbiamo partire per andare dai miei.”
“Ti prego. Oggi lasciami andare. E’ l’anniversario.”
“…E va bene. Ti aspetto tra un’ora. Non tardare, d’accordo?”
 
John non avrebbe mai e poi mai immaginato che il Natale avrebbe rappresentato l’anniversario della sua sconfitta nella vita, un giorno. Ma se non altro, aveva il privilegio di essere l’unico a sapere di quella sua particolare disfatta.
Sarah avrebbe anche potuto pensare che non andasse davvero al cimitero, ma avesse un’amante, ma non l’aveva fatto. John, per molti dei suoi colleghi, e forse un po’ anche per sue moglie, ora era diventato ‘il dottore zoppo che va sempre al cimitero’, ma se non altro era degno di fiducia.
 
“Ciao, John.”
“Ehi, Greg.”
“Fuggito anche tu da tua moglie?”
“Non proprio. Devo essere a casa tra un’ora.”
“Aahh, donne. Ti do il cambio. Buon Natale.”
“Buon Natale, amico.”
 
Non c’era alcuna amante. C’era solo la tomba di Sherlock Holmes.
E ogni tanto, c’era Greg.
Gli lasciò il posto, filandosela con le mani in tasca e il solito sguardo sfiancato.
 
John si mise di fronte alla lapide. La guardò come si guarda una persona.
E lo vide. Come tutte le altre volte. Vide Sherlock materializzarsi di fronte a lui.
Era nitido e sembrava così reale. Col suo cappotto, la sua sciarpa, i suoi riccioli, e quegli occhi magnetici. Forse stava facendo il pieno di follia, nell’immaginare una cosa simile.
“Ehi, Sherlock.”
E Sherlock gli rispose.  Nella sua testa. Ma gli rispose.
“Ciao, John.”
Sorrise. Era incredibile come ancora quel nome suonasse così incredibilmente bene detto da lui, anche se solo nella sua immaginazione. Si sentì a casa, per un secondo.
 “Greg mi ha detto che abitavi al 221b di Baker Street. Ci ho dato un’occhiata.”
“Violazione di domicilio? Che audacia.”
“Ma no, scemo. Ho chiesto il permesso alla padrona di casa.”
“Oh. Hai conosciuto la signora Hudson.”
“Già. Le manchi tantissimo, credo. Non vuole affittare l’appartamento a nessuno.”
“Oh.”
Era sempre così.
Sherlock, anche se solo nella testa di John, non sapeva mai come prendere le conversazioni che vertevano verso qualcosa di sentimentale. John non poteva sapere quanto diavolo ci avesse azzeccato, la sua testa.
“Hai lasciato un vero casino sul tavolo della cucina.”
“Quello non è un ‘casino’.  E’ un esperimento sulle reazioni di zolfo e sangue combinati a cui stavo lavorando prima che—“
“D’accordo, d’accordo! Ho afferrato il concetto. Sai chi altro ho conosciuto?”
“Chi?”
“Molly Hooper. E’ una ragazza davvero carina. Credevo che fosse la tua fidanzata.”
“La mia—certo che ne dici di sciocchezze, John. Fidanzata. Non ho mai sentito nulla di più ridicolo.”
Gli scappò un risolino. Era divertente cercare di metterlo davanti a dei sentimentalismi.
Sentiva che avrebbe voluto provocarlo per tutta la vita, come si faceva tra amici del cuore alle medie.
“Bene. Cos’era, allora?”
“ Era…non lo so. La mia patologa?”
Perché, quando sei un consulente investigativo ti assegnano una patologa? Come si fa? Devi avere una licenza? Un patentino?”
“Possiamo cambiare discorso, per favore?”
Rise. Non era la cosa più triste del mondo, il fatto che il momento migliore delle sue giornate fosse parlare con una lapide? Forse avrebbe dovuto ascoltare Sarah e cercarsi una brava analista.
 
Non l’avrebbe mai fatto.
Quelle luci di Natale gli avrebbero per sempre ricordato quanto avesse imboccato la strada sbagliata. Avrebbe potuto sposare una donna diversa, avrebbe potuto avere una famiglia diversa, amici diversi. Amici veri.
 
“Sherlock?”
 
“Mh-mh?”
 
Quelle luci di Natale gli avrebbero ricordato per sempre Sherlock Holmes.
 
“Ti avrei voluto nella mia vita.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
25 Dicembre, 2017
 
“Dottor Watson, è nato! Sì, è nato, è un maschietto!”
 
 
 
 
 
“Guarda un po’, c’è papà.”
 
“Oh, Dio. E’ bellissimo, Sarah.”
 
“Dagli un nome, John.”
 
“Io? Posso scegliere io?”
 
“Certo.”
 
“Sei sicura?”
 
“Sei il suo papà. Certo che sono sicura. Scegli pure un nome. Quello che preferisci.”
 
 
 
 
 
 
“…Sherlock.”
 
 
Christmas night, another fight
Tears, we cried a flood
Got all kinds of poison in
Of poison in my blood
{…}

Those Christmas lights light up the street
Down where the sea and city meet
May all your troubles soon be gone
Oh, Christmas lights, keep shinin' on


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice
…io non shippo la Johnlock, mi volete bene comunque?
Ed eccomi qui con l’ultimo capitolo un po’ prima del previsto.
Il punto è che devo partire per New York e mi sembrava davvero atroce andarmene e lasciarvi aspettare per otto giorni in più del previsto. Visto che – non ci credo, incredibile ma vero! – questa fic è piaciuta a qualcuno. Ma ora, parliamo pure del capitolo…
Vediamo di essere ottimisti: nessuno di voi vuole farmi a fettine, vero?
No perché se così fosse, vi assicuro che ho sofferto anche io nel scrivere questa storia.
E’ finita, insomma. Questo super-iper-giga-mega-What if è finito.
Sento già i sospiri di sollievo di tutti.
Sì, perché non sono esattamente sicura di aver scritto correttamente e in modo logico e soprattutto decente. Sapete cosa c’è? Sempre meglio provare.
E io ci ho provato. Ecco qua l’ultimissimo capitolo.
Those Christmas Ligts, la canzone di Natale speranzosa per eccellenza.
Le luci della speranza: un figlio in arrivo, una lapide con cui fare conversazione, e ovviamente Greg. Perché io amo Greg. E Greg va inserito. Sempre.
Grazie veramente di cuore se siete arrivati fino a qui.
Grazie davvero per tutte le recensioni, tutti i complimenti, grazie infinite.
Ah, dimenticavo: nei precedenti capitoli non ho risposto alle recensioni per mancanza di tempo, ma per quest’ultimo lo farò di certo…per cui se avete domande o dubbi di ogni genere non esitate a chiedere.
E…che dire, grazie di nuovo.
 
Grazie di tutto. Grazie, grazie, grazie di essere arrivati fino a qui.

 
 
 

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