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“Aspettami Marie!” le risatine di mia sorella mi
indicavano la via come una scia di campanellini festosi.
Non c’era niente che mi
imponesse tutta quella fretta…d’altronde cosa mai sarebbe potuto succedermi
nel, seppur immenso, giardino di casa mia?
Eppure non mi sentivo
affatto tranquilla. C’era qualcosa che mi inquietava e la parte peggiore era
non capire cosa.
Era una bellissima
giornata estiva, forse anche troppo calda per i miei gusti e in sottofondo
potevo udire chiaramente il gorgoglio refrigerante della fontana che mia madre
aveva fatto piazzare nel centro esatto del parco.
Era una sensazione che mi
perseguitava da giorni ormai…come di essere perennemente osservata, scrutata,
spiata.
Non era affatto
piacevole.
“Evelyn corri!” trillò la
voce argentina di Marie.
Affrettai il passo,
diventando inquieta ogni secondo di più. All’improvviso il folto degli alberi
attorno a me cominciò a farsi oppressivo, come se mi trovassi immersa in un
labirinto verde scuro.
Percepivo la pressione di
quella muraglia che si estendeva dappertutto e nonostante il caldo cominciai ad
avvertire i brividi.
C’era decisamente
qualcosa di inquietante nell’atmosfera.
D’un tratto mi resi conto
che le risatine di mia sorella erano cessate e il mormorio della fontana solo
un’eco lontana ed ovattata, come se la percepissi al di là di una stanza dalle
pareti spesse.
Fu a quel punto che non
mi limitai più a camminare svelta, ma presi a correre furiosamente, la paura
che mi riempiva le orecchie e mi spingeva ad andare avanti.
Non avevo il coraggio di
guardarmi alle spalle ma avvertivo distintamente la presenza di qualcosa…così
forte da trapassarmi da parte a parte.
Qualcuno mi stava
inseguendo. Ne ero più che certa.
Impegnata com’ero a
correre, e ad uscire da quel labirinto di alberi, non mi accorsi di una radice
sporgente e vi inciampai, finendo rovinosamente a terra.
Il cuore mi martellava
furiosamente nel petto, rischiando di schizzare fuori da un momento all’altro,
e con fatica riuscii a sollevarmi, quel tanto che bastava per rendermi conto
che la mia gamba destra perdeva sangue.
La lunga gonna bianca si
era strappata in più punti e accanto alla gamba ferita cominciava a macchiarsi
di rosso scuro.
In silenzio cominciai a
piangere.
“Marie!” presi a gridare,
ma quello che mi uscii fu solamente un pallido tentativo disperato.
Riuscivo a stento ad
avvertirlo io stessa.
Fu allora che udii
distintamente un fruscio dietro di me.
Prima ancora di voltarmi,
sapevo di non essere sola.
Lei era lì…statuaria e
bellissima. L’incarnazione stessa della perfezione.
I lunghi capelli le
scendevano ad accarezzare la schiena come una dolce e sinuosa onda vermiglia,
attorcigliandosi in onde setose, il colore della pelle era quello
dell’alabastro, e la consistenza sembrava fosse la stessa, e quegli occhi…così
purpurei e dardeggianti da apparire come l’anticamera dell’inferno stesso.
“Ti sei fatta male?” la
sua voce era un canto di una sirena, incantevole e pericoloso nella stessa
misura.
Il mio volto era una
maschera di terrore.
Non c’era niente di
vagamente umano in quella creatura.
“Lascia che ti aiuti”
continuò la sirena.
Ero combattuta…desideravo
ardentemente lasciarmi toccare da quelle lunghe dita, diafane ed affusolate, di
sentire sulla mia pelle il profumo che ero certa emanasse la creatura, ma allo stesso
tempo un moto incontrollato ed indefinito di repulsione mi invadeva le viscere,
contraendomi il respiro.
Non ebbi comunque neanche
il tempo di pensare che la donna fu china sopra di me, i capelli rossi che le
scendevano a coprire il volto perfetto.
Profumo di
caramello…quella fu l’ultima cosa che avvertii.
Salve! Questa è la mia prima fanfiction sulla saga di Twilight e se
devo essere sincera per adesso è ancora un po’ oscura per me…non so bene dove
voglio andare a parare, ma dato che le idee sono tante e tutte spingono per
farsi ascoltare, ho dovuto metterle per iscritto :D
Mi svegliai di soprassalto, spalancando gli occhi in preda al terrore e
mi drizzai a sedere tra le coperte, lo sguardo vagante
Mi svegliai di
soprassalto, spalancando gli occhi in preda al terrore e mi drizzai a sedere
tra le coperte, lo sguardo vagante per la camera, sicura di trovarmi nel mezzo
di un bosco ombroso.
Ma non c’era. Quello che
riuscivo a vedere nell’oscurità della mia tranquilla camera erano soltanto
mura, qualche vestito buttato alla rinfusa sul pavimento, e la scrivania col
portatile.
Niente di più
rassicurante, pensai. Quindi calmati Janine, davvero.
Mi passai una mano tra i
capelli e li trovai bagnati di sudore attorno alla fronte.
Onestamente, non poteva continuare ancora per molto
quella storia.
“Tesoro, magari ti
aiuterebbe parlarne con qualcuno…un esperto forse…” la voce di mia madre era
stata incerta quando qualche tempo prima a colazione aveva accennato l’argomento.
La notte precedente mi aveva trovata accovacciata sulle mattonelle del bagno
che piangevo a dirotto.
Mio padre aveva alzato lo sguardo preoccupato e mi
aveva posato una mano calda sul braccio. “Non ci sarebbe niente di male
Janine…magari ti aiuterebbe a capire qualcosa in più…”
A quel punto aveva
lasciato cadere la conversazione. Sapeva di aver toccato un tasto dolente. Chi
fossi io era un mistero per chiunque, compresa me stessa.
Il mio primo ricordo
risaliva all’età di 5 anni, ed era il viso di mia madre bello e sorridente che
mi guardava e mi prendeva in braccio.
Prima di ciò non c’era
niente.
Un po’ troppo recente
come primissimo ricordo in assoluto. Voglio dire, non avevo nemmeno flash o
sprazzi di ricordi degli anni precedenti. Solo oscurità. Come se fossi stata
nascosta nel buio e all’improvviso qualcuno avesse acceso la luce.
Il fatto è che io sono
stata adottata e quindi la spiegazione più plausibile era che prima che
qualcuno mi portasse all’orfanotrofio di Seattle e i Leaving mi prendessero con
sé, io abbia subito una qualche specie di trauma che abbia spento la luce su
quella primissima parte della mia vita. L’unica cosa che mi era rimasta erano i
sogni. E di quelli ne avrei fatto volentieri a meno.
Non succedevano spesso
per fortuna, e nemmeno con una qualche logica. Non c’erano ricorrenze
particolari, o stati d’animo ben precisi che mi portavano a farli…semplicemente
a volte capitavano.
Non riuscivo a spiegarmi
il perché di quei sogni perché apparentemente erano senza motivo. C’era un bosco,
o forse un giardino, ed io che mi trovavo a correre per scappare da qualcosa di
indefinito e poi c’era lei…
E lì in genere mi
svegliavo urlando.
Comunque stavo
cominciando a migliorare. Non avevo neanche urlato adesso, limitandomi a
squadrare l’oscurità circostante.
C’erano state volte,
quando ero piccola, che non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine della
donna dai capelli rossi che mi arrivava alle spalle e mia madre doveva tenermi
la mano per tutta la notte e accarezzarmi i capelli perché riuscissi a
tranquillizzarmi.
Forse è davvero il caso
che vada da uno strizzacervelli. Mi alzai dal letto e
scesi in cucina a prendere un bicchier d’acqua.
La casa era silenziosa e
l’unico rumore che si sentiva era quello della pioggia fine che batteva sui vetri
delle finestre. Un rumore in qualche modo confortante, che sapeva di casa.
Arrivai in cucina e preso
un bicchiere aprii il rubinetto dell’acqua corrente. Lo sguardo mi cadde su una
barretta mangiucchiata di “Caramello”, lo snack preferito di mio padre, che si
era dimenticato sul ripiano della cucina. Cercando di non dare peso alla
sensazione di nausea alla bocca dello stomaco, presi la barretta e la gettai
nel cestino.
L’odore del caramello mi
faceva venire da vomitare.
***
“Non hai fame?” alzai gli occhi dal mio piatto
stracolmo e li rivolsi in quelli di Chenille.
Presi a rimestare svogliatamente nel mio purè. “No,
oggi non ho appetito”
Il volto di Dan, accanto a me,si illuminò. “Dai qua!” afferrò il mio
piatto e inizio a svuotarne il contenuto nel proprio.
“Sei proprio un animale” esclamò Chenille schifata e
io accennai un sorriso.
Quel giorno mi riusciva difficile dimostrare
sentimenti allegri.
Credevo di averci fatto la pelle ormai, ma ogni
volta che l’incubo tornava a perseguitarmi, passavo una giornata da schifo. Non
tanto per il terrore provato durante il sonno, piuttosto per la frustrazione di
non capire perché e la consapevolezza di non arrivare mai a scoprirlo.
“Problemi notturni?” mi chiese Libby, guardandomi
preoccupata. Come al solito, lei capiva sempre.
Annuii vagamente e ricambiai il suo sguardo.
Nei suoi occhi scuri era evidente la preoccupazione.
Cercai di ricambiare con uno sguardo altrettanto lampante, cercando di farle
capire che non era importante, ma purtroppo i miei sguardi non sono mai stati
troppo ciarlieri.
“Ti va di parlarne?” continuò lei, il cui tono
preoccupato era la perfetta eco del suo sguardo.
Corrucciai le sopracciglia per tentare di sminuire
la cosa “No, non c’è niente da dire. Solita storia…brutto sogno, risveglio brusco,
mal di testa, non ho appetito.”
Capii che Libby non avrebbe lasciato perdere dal
modo in cui annuì. Libby non lasciava mai perdere. Rientrava nelle sue mansioni
di migliore amica non lasciare mai perdere. L’adoravo per questo, ma alcune
volte avrei preferito solo essere lasciata stare.
Questo non potevo certo dirglielo però. Se talvolta
mi comportavo da stronza bisbetica, non era certo colpa di Libby, che cercava
invece di comportarsi nel miglior modo possibile nei miei confronti.
Quando andavamo alle elementari non era stato facile
avere amici per me. Non che avessi qualcosa di strano, o fossi diversa, ma
semplicemente gli altri bambini preferivano evitarmi. Solo Libby, aveva
iniziato a sedersi vicino a me, a cominciare a chiedermi cose, a prestarmi le
penne e fu così tanto ardita da propormi di entrare a far parte della sua
societa segreta, che aveva il proprio covo nella soffitta di casa sua.
Anche se adesso non avevamo più 10 anni e le storie
di fantasmi avevano perso gran parte del loro fascino, lasciando il posto alle
confidenze di due adolescenti, la sua soffitta era ancora il posto dove ci
andavamo a nascondere, quando tutto il resto del mondo faceva schifo. Libby è
la classica persona che ti fa credere che le favole siano vere.Era così quando avevamo 10 anni, ed era così
quando ne avevamo 17.
Tra le due è sempre stata lei quella astratta,
quella che si inventava le storie più fantasiose, io quella con i piedi ben
piantati a terra.
“Hey gente…che facciamo questo week-end?” il tono
esuberante di Chenille, riportò l’umore della tavolata a un livello
accettabile.
Persino io trovai la forza di sorridere con più
entusiasmo.
“Cinema?” propose Mark.
“Ah, ma per favore Stone…non riesci proprio a
concepire l’idea di divertimento?” Dan gli dette una pacca scherzosa sulla
spalla, mentre noi scoppiammo a ridere.
“Gita a LaPush?” fece Libby. Probabilmente non
vedeva l’ora di ritrovarsi in riva all’oceano per trovare nuovi spunti
appassionanti al romanzo sui pirati che stava scrivendo.
Stavolta fu il turno di Chenille di storcere la
bocca.
“No, direi di no Libby…hai visto le previsioni?”
“Sì che le ho viste! Il vento che urla forte, le
onde che si infrangono poderose sugli scogli, la pioggia che picchietta la
sabbia, il fragore dei tuoni…” a questo punto del suo discorso, Libby aveva gli
occhi che brillavano.
“Libby…magari un’altra volta, d’accordo?” Chenille
stava già immaginandosi in riva all’oceano in mezzo ad una pioggia torrenziale,
i capelli liscissimi in condizioni disastrose.
Improvvisamente, la mia attenzione fu catturata da
due ragazze che si sedevano nel tavolo accanto al nostro.
Una era mia compagna di classe a Letteratura
Inglese…Jessica Stanley, la tappetta ricciolona e pettegola; l’altra non
l’avevo mai vista prima.
“Avete visto? E’ quella Isabella Swan!” Dan indicò
con la testa la ragazza sconosciuta. “Era nella mia classe di inglese. Yorkie
c’ha pure provato!” e scoppiò a ridere scuotendo la testa “Sfigato…”
“Sinceramente non mi pare un granchè…” commentò
Chenille guardandola di sottecchi.
“Tutto questo casino per una normalissima
ragazza…voglio dire, sono mesi che non si sente parlare d’altro. Sinceramente
mi aspettavo che fosse almeno abbronzata…”
“…o bionda!” si inserì Mark, unendosi alla
contemplazione della nuova arrivata.
“Esatto!” Chenille sembrò infervorarsi ancora di più
nella sua discussione contro Isabella Swan, incoraggiata dal supporto di Mark.
“Non doveva venire da Phoenix?”
Ascoltai a malapena il resto dei commenti dei miei
amici sulla nuova ragazza, lasciandoli come mormorio di sottofondo.
A me onestamente, Isabella Swan piaceva.
Ovviamente non era a proprio agio seduta a tavola
con quei sette imbecilli degli amici della Stanley, si capiva lontano un
chilometro.
Teneva lo sguardo basso e sorrideva quando qualcuno
le rivolgeva la parola, sicuramente per cortesia più che per vero desiderio di
sorridere.
Per una cosa dovevo concordare con Chenille…non
aveva certo l’aspetto di una della “valle del sole”, con quella pelle color
avorio e i capelli lunghi e scuri, ma tutto quell’insieme di cose mi piaceva.
Magari saremmo diventate amiche, chi poteva dirlo.
“Oddio che darei per sapermi muovere come Alice
Cullen” esclamò ad un tratto Libby, facendomi distogliere lo sguardo dal tavolo
affianco.
“Sembra che balli una musica tutta sua” continuò ed
io guardai nella sua direzione, giusto in tempo per scorgere Alice che spariva
dalla porta secondaria della mensa.
Libby aveva una teoria su Alice e il resto dei
Cullen.
Per lei erano alieni.
In genere scherzavo sopra alle sue teorie fantasiose
e sconclusionate. Libby vedeva il mistero e il soprannaturale dappertutto.
Tuttavia, su quella teoria in particolare non
riuscivo a fare dell’ironia troppo pesante.
I Cullen
erano davvero strani.
Si erano trasferiti due anni prima dall’Alaska e
attorno a loro c’era sempre stato un alone particolare, una sorta di campo
magnetico negativo che portava chiunque ad allontanarsi.
Un po’ come ero io da piccola.
“A me non sembra così eccezionale…” Chenille riciclò
il commento fatto poco prima su Isabella.
“Chenille, onestamente il tuo parere non conta. Per
te non esistono ragazze carine all’infuori di te stessa” mi ritrovai a dire,
prima che il mio cervello capisse effettivamente cosa stava facendo.
Subito me ne pentii quando mi accorsi del suo
sguardo inceneritore, ma ormai il danno era fatto e comunque a Chenille le
arrabbiature passavano presto. Mi avrebbe tenuto il muso forse per tutta l’ora
successiva.
Non rimasi sopresa quando Mark e Dan non trovarono
niente da obiettare al nostro battibecco.
Era evidente che a loro Alice piaceva, voglio dire…a
chi non sarebbe piaciuta la sua bellezza devastante? In ogni caso nessuno di
loro aveva mai fatto commenti troppo espliciti su nessuno dei Cullen.
Come se quei cinque non facessero veramente parte
della scuola e fossero semplicemente un’entità a se’ stante.
Per nessuno i Cullen erano fonte di battute o
scherzi.
Per
qualche strana ragione la gente preferiva ignorarli.
Innanzitutto,
scusatemi per l’enorme assenza dalle scene…faccio pena..scusate..è che
l’ispirazione mancava, lo studio incombeva e ho lasciato perdere questa storia
per un bel po’…ma adesso sono tornata! E stavolta non ci metterò i millenni prima
di aggiornare, lo prometto!
Un grazie
particolarissimo alla mia unica commentatrice, doddola93! Grazie
mille per tutto quello che mi hai detto nel tuo commento, mi hai dato davvero
un aiuto a ritrovare l’ispirazione e la voglia di continuare!
“Vieni
da me dopo scuola?”mi chiese Libby non appena prendemmo posto al nostro solito
tavolo nel laboratorio di Biologia.
Il
chiacchiericcio dei nostri compagni era un mormorio talmente fastidioso per il
mio mal di testa incalzante che fui quasi tentata di scappare in corridoio.
“Dio,
devono proprio parlare così tanto?” esclamai massaggiandomi le tempie e
sbattendo con noncuranza il quaderno sul ripiano del tavolo. ”Comunque non
posso venire da te. Vado a Port Angeles con i miei. Sai mia madre quanto tiene alle
gite in famglia e via dicendo.”
“Peccato,
avremmo potuto goderci il temporale insieme..rovistare fra le vecchie cose
della mia bisnonna in soffitta, cose così…”
“Libby,
le cose della tua bisnonna le conosciamo a memoria. Ci abbiamo passato 7 anni
con i gomiti immersi in quei vecchi bauli, non ne hai ancora abbastanza?”
“Per
la verità no, Jan.”
Alzai
gli occhi al cielo e iniziai a prendere appunti mentre il signor Banner
iniziava la sua spiegazione sull’anatomia cellulare.
Era
quasi impossibile trovare qualcosa di più noioso della Biologia, eppure
esisteva…il signor Banner che la spiega. Quello era il top nella hit parade
della Noia Mortale; dopo neanche 10 minuti di spiegazione, e dopo che mi ero
persa nei suoi discorsi circa 25 volte, avevo rinunciato a prendere appunti,
limitandomi a scarabocchiare cose senza senso ai bordi del quaderno.
Ci
misi qualche altro minuto per la verità per rendermi conto che forse del tutto
senza senso, quegli scarabocchi non lo erano affatto.
Sollevai
la penna dal foglio e sbarrai gli occhi sulla pagina di fronte a me. Una
miriade di lettere B, dalle forme più contorte, la ricopriva completamente.
Corrucciai
la fronte confusa, forse avevo toccato il punto di non ritorno, mancava davvero
poco e mi avrebbero internato.
B? Non conoscevo nemmeno
nessuno il cui nome iniziasse per B, e poi…come diamine avevo scritto? Ero
sicurissima di non essere capace di scrivere in quel modo così arzigogolato,
ricercato…antico era l’aggettivo forse più appropriato.
“Cos’ha
Edward?” Libby che mi sussurrava impercettibilmente all’orecchio mi fece
distogliere lo sguardo dal quaderno.
Mi
voltai due file più indietro e aggrottai le sopracciglia.
Edward
Cullen ed Isabella Swan erano compagni di banco, ma lui sembrava tutt’altro che
felice in proposito. Stringeva convulsamente il pugno sulla sua gamba sinistra,
come se fosse sul punto di esplodere da un momento all’altro.
“Neanche
mi ero accorta che la nuova ragazza fosse nella nostra classe. Banner non ce
l’ha presentata…” mi limitai a commentare.
“…Dio
che faccia che ha Edward…” aggiunsi poi.
“L’avevo
detto che sarebbe successo. “ esclamò Libby continuando a sussurrare,
nonostante la nota di un’eccitazione palpabile le colorasse la voce. “La sua
parte aliena sta prendendo il sopravvento. La copertura sta per saltare Jan, e
noi saremo testimoni! Dio, devo prendere appunti!”
“Finiscila
stupida” le detti una gomitata e risi sottovoce.
“Non
trovi che sia affascinante? Cercare di trattenersi, di contrastare la propria
natura per non mettere in pericolo gli altri…”
Ok,
Libby era partita.
“Libby,
vuoi un consiglio? Metti tutte queste idee per iscritto e mandale al produttore
di Roswell. Sai quanto amavo quel telefilm, potresti scrivere un ottimo sequel
ed io ti sarei grata per la vita.”
“Non mi prendi sul serio Jan.”
“Ma come potrei?
Libby sbuffò e distolse lo sguardo dai nostri
compagni “Banner ci guarda…” e riprese a scrivere.
Trascorsi il resto della lezione con la testa
completamente sulle nuvole,quella
giornata era cominciata completamente distorta e man mano che andava avanti si
faceva sempre più difficile da sopportare.
Ci mancava solo che iniziassi a sentire le voci, e
poi tanto valeva che andassi a rinchiudermi in un manicomio con le mie stesse
mani.
Mai fui più contenta, perciò, di udire il suono della
campanella, che mi fece sbatacchiare il quaderno dentro lo zaino nel più
repentino dei modi.
Per fortuna avevo un’ora libera adesso che avrei
sicuramente impiegato in
biblioteca per portarmi avanti nella lettura di Dubliners
di James Joyce, uno dei miei scrittori preferiti.
Quando richiusi lo zaino e alzai gli occhi per
guardarmi attorno, notai che Libby e Mike Newton erano al tavolo di Isabella
Swan.
Edward si era volatilizzato, invece.
Chissà perché, la cosa non mi stupì affatto.
Oddio, Mike iniziava già con i suoi patetici
tentativi da
“Sono-un-bravo-ragazzo-di-me-ti-puoi-fidare-non-voglio-portarti-a-letto” per
accattivarsi le simpatie della nuova arrivata, e per l’ennesima volta mi chiesi
cosa avessero i maschi al posto del cervello da non permettergli di notare che
trucchi del genere con ragazze come Isabella Swan erano tutt’altro che
vincenti.
“Serve aiuto per trovare la prossima lezione?” gli
sentii dire non appena mi avvicinai al gruppetto, e l’espressione che
accompagnava tale domanda avrebbe fatto venire la nausea a chiunque.
“Parti già all’attacco Mike?” intervenni io a quel
punto, sorridendo leggermente.
“Ciao, sono Janine” aggiunsi poi, tendendo una mano
ad Isabella.
“Bella” mi rispose lei, stringendomi la mano e
sorridendomi, decisamente sollevata da quell’interruzione.
“Comunque devo andare in palestra, credo di
potercela fare”
“Allora facciamo la stessa strada” esclamò Libby,
rintrufolandosi nella conversazione.
“Spero per te che ti piaccia la pallavolo”
“Veramente la odio”
“Perfetto, ci intendiamo da subito Bella” continuò
Libby sistemandosi gli occhiali sul naso e strizzando gli occhi, un gesto che
faceva sempre quando era felice.
A quel punto, Mike ritornò all’attacco “Ci vado
anch’io” esclamò al colmo dell’entusiasmo, come se avesse ricevuto la più
grande notizia della sua vita.
Da dietro le sue spalle alzai gli occhi al cielo in
direzione di Bella e lei scoppiò a ridere di rimando, proprio mentre il diretto
interessato si voltava per vedere cosa stava succedendo.
“Allora ci vediamo ragazzi” mi affrettai ad
esclamare, e zaino in spalla uscii dall’aula.
Il corridoio era semi deserto - immaginai che tutti
fossero già alle loro rispettive lezioni - e il troppo silenzio che vi regnava
mi stimolava pensieri di cui avrei fatto volentieri a meno.
Chi era B?? Aveva a che fare con i miei
sogni ricorrenti? Forse quel passato tanto lontano e dimenticato stava tornando
lentamente a farmi visita, in una maniera molto più definitiva stavolta.
Magari stavo iniziando a ricordare.
Sospirai sconsolata, perché non potevo essere una
normale diciassettenne con problemi simili a quelli di tutti gli altri? L’acne
e i fidanzati sarebbero stati un prezzo da pagare decisamente più
accettabileper gli anni burrascosi
dell’adolescenza, rispetto a sogni inquietanti e sprazzi di memorie
completamente dimenticate.
“Ciao Janine” mi voltai di scatto al suono di una
voce talmente melodiosa, che per un secondo mi domandai se l’avessi udita
veramente.
“R…Rosalie” riuscii a balbettare confusa, alla
vista della ragazza probabilmente più perfetta su cui avessi mai posato gli
occhi.
Da quando Rosalie Hale mi salutava?
Anzi, da quando Rosalie Hale salutava qualcuno che
non fosse i suoi fratelli?
“Stai andando a studiare anche tu?” notai che
stringeva un libro tra le mani e mi sorrideva amichevolmente.
Credetti di sognare.
Stava davvero sorridendo a me in quel modo così
amichevole? La Regina delle Nevi, come era stata simpaticamente ribattezzata da
Chenille?
“Beh veramente non proprio…leggo e basta”
“Oh, io devo ripassare Spagnolo”
Mi tenne la porta della biblioteca aperta sempre
continuando a sorridere con quella perfetta inclinazione delle labbra carnose
che mi stava facendo sentire inadeguata ogni istante di più.
C’era decisamente qualcosa di sbagliato in tutto
ciò.
“Possiamo metterci lì” proseguì la mia deliziosa
compagna di studio, indicandomi un angolino appartato, con un dito diafano e
sottile.
Annuii stupidamente e seguii il suo incedere
leggiadro verso il piccolo tavolo di legno scuro.
Se qualcuno dei miei amici mi avesse vista in quel
momento, avrebbe stentato a credere ai propri occhi, del resto io stessa ero
abbastanza restia a credere che ciò stesse capitando effettivamente a me.
Comunque, decisi di fare finta di niente. Aprii il
mio libro e iniziai a leggere, tentando di ignorare l’incombente presenza di
Rosalie seduta di fronte a me in un modo che avrebbe fatto invidiaa qualsiasi supermodella.
“Beh…” mi schiarii la voce dopo un po’, alzando gli
occhi dalle pagine e notando che Rosalie aveva lo sguardo fisso su di me, il
libro ancora chiuso.
“Non studi?”
“Già fatto, sono una lettrice veloce.”
“Ah…beh..io non ancora” e indicando con la testa il
mio libro, mi reimmersi nella lettura.
Non saprei dire quanto effettivamente passò prima
che la sua voce musicale tornasse a farmi distogliere l’attenzione dalle
vicende di Eveline e dalla sua decisione di non partire con il suo bel
marinaio.
“Non trovi anche tu che questa città faccia pena in
quanto a bei ragazzi?”
Alzai di nuovo lo sguardo su di lei, gli occhi
color topazio innaturalmente fissi. Per un attimo fui attraversata da un
brivido.
“Non saprei, Rosalie. I ragazzi non mi interessano
molto.”
Non battè ciglio.
“Poi tu hai Emmett, no? Ti assicuro che la quasi
totalità della popolazione femminile di questa scuola ti detesta per questo”.
Le sue labbra scolpite tornarono a sorridere “Già”
Più tempo passava, più mi convincevo dell’assurdità
della situazione.
“Hai detto che i ragazzi non ti interessano? Janine
non ci credo…ci dovrà pur essere qualcuno”
Sorrisi incredula. Adesso dovevo pure convincere
una completa sconosciuta della mia totale indifferenza verso il genere maschile
di Forks?
“Ti giuro. Tanto non starò a Forks per sempre. Non
ho bisogno di trovarmi un ragazzo.”
Il silenzio caddè nuovamente fra di noi, così
ripresi a leggere per l’ennesima volta.
Rosalie non mi interruppe più, e quella quiete
improvvisamente innaturale mi fece scivolare lentamente nel sonno.
“Nooooooooo!”il pavimento di
marmo era così duro da farmi sanguinare le ginocchia quando vi scivolai sopra allo
stremo delle forze.
In quel
momento non me ne importava niente del dolore fisico, non ora che il vuoto che
mi si era aperto nel petto mi stava trascinando verso un abisso dal quale
sapevo che difficilmente sarei riemersa.
“Nooooo!” aprii gli occhi spaventata e sconvolta, e
trovai la faccia preoccupata di Rosalie a un centimetro dalla mia.
“Va tutto bene? Ti sei addormentata e poi hai
cominciato a gridare”
Deglutii convulsamente e mi chinai a raccogliere il
libro, scivolatomi dalle ginocchia.
“E’ tutto a posto. Ho solo avuto un incubo, mi
capita spesso”
Per un attimo credetti di cogliere qualcosa nel suo
sguardo di miele, ma l’istante successivo, qualunque cosa fosse era scomparsa.
“E’ meglio che vada” mi alzai e senza aspettare una
sua risposta mi precipitai fuori.
Ero ancora agitata dalla nitidezza del sogno,
stavolta era stato così vivo, reale…e completamente diverso da tutti gli altri.
Non la smettevo di ansimare e mi fermai contro la
parete degli armadietti per prendere aria.
Il dolore che avevo provato in quel sogno era stato
così intenso che mi fece scoppiare a piangere.
Non avrei mai potuto credere che si potesse provare
un’ atrocità simile.
“Pensavo di essere stata
chiara Mark, non ci esco con te!” la particolare tonalità squillante della voce
di Chenille mi fece immediatamente riprendere consapevolezza della realtà
circostante.
Eravamo ancora a scuola.
Ed io ero ancora seduta
sul pavimento con l’aria da disperata…o almeno fu quello che dedussi nel
momento stesso in cui mi accorsi della pila di libri che crollava rumorosamente
a terra dalle mani della mia amica.
In meno di mezzo secondo
percorse il tratto di corridoio che ci separava e si inginocchiò proprio di
fronte a me.
“Oh mio Dio, Janine!”
La preoccupazione era
lampante nei suoi occhioni blu e gliene fui sinceramente grata.
Chenille poteva apparire
come la tipica ochetta da concorso di bellezza, destinata ad una vita scialba
di commessa nel centro commerciale cittadino, la verità era che nessuno si
prendeva mai la briga di andare oltre con lei ed il suo punto di forza,
d’altronde, stava proprio nel fregarsene.
“Sto bene” farfugliai in
qualche modo, tentando di riprendere il controllo sulle mie facoltà
psicofisiche.
“Non fare la sciocca”
continuò lei, quasi intenerita dai miei eroici tentativi di mostrare una forza
che palesemente non possedevo.
Mi strinse forte, finchè
ogni singola nota fruttata del suo shampoo al melone non ebbe invaso le mie vie
respiratorie e poi si tirò su, trascinandomi con sé.
“Sta bene ragazzi, sta
bene” esclamò rivolta a Mark e Dan che nel frattempo avevano fatto capannello
accanto a noi.
“Un brutto voto in
Biologia, tutto qui. Sua madre la ucciderà probabilmente”.
Annuii, asciugandomi alla
meno peggio le lacrime impiastricciate di mascara dal viso.
Non volevo sapere che
aspetto avessi.
“Andiamo, ti porto a
casa” mi sussurrò ad un orecchio, ed insieme ci avviammo verso l’uscita.
*
“Grazie di tutto
Chenille” sorrisi alla mia amica mentre si rimetteva il cappotto, rimirandosi
di fronte allo specchio di camera mia.
“Ti pare, spero solo che
tu stia meglio adesso”
Stavo meglio,
decisamente.
Un pomeriggio trascorso
fra tazze di camomilla, pasticcini al pistacchio e una quantità clamorosamente
industriale di riviste per teenagers in piena crisi ormonale, aveva sortito
l’effetto desiderato.
I brutti pensieri,
l’angoscia, l’inquietudine si erano calmanti, nonostante riuscissi a percepire
fin troppo bene la temporaneità della situazione.
“Comunque dovresti fare
come dicono i tuoi…vai da uno strizzacervelli, potrebbe aiutarti sul serio”
Non sapevo cosa
risponderle onestamente e mi limitai a fissare l’oscurità fuori dalla finestra.
Probabilmente aveva
ragione, probabilmente quella era l’unica cosa da fare anche se mi costava
moltissimo ammetterlo.
Alla fine annuii, ma più
che altro per chiudere lì quella conversazione e tentai un rapido sorriso.
“Ci vediamo domani a
scuola”
“D’accordo”
Prese la borsa a tracolla
e scomparve dalla porta.
Una volta sola, il panico
cominciò ad impossessarsi gradualmente di me. Lo avvertivo a lievi ondate, come
la spuma marina che si infrangeva sullo scoglio della mia anima.
Prima o poi l’avrebbe
erosa.
“No!” mi imposi
mentalmente.
Non succederà, stai
tranquilla.
Ero letteralmente
terrorizzata dall’idea di addormentarmi e di finire intrappolata in un altro
dei miei incubi, avevo come la chiara sensazione che non ne sarei uscita troppo
bene stavolta…ero ancora troppo scossa da quello che avevo avuto quel
pomeriggio a scuola.
Accesi lo stereo ma
scoprii ben presto che la musica invece di calmarmi mi innervosiva ancora di
più.
Con un gesto stizzito lo
spensi e mi alzai dal letto, decisa a farmi una cioccolata calda da bere di
fronte alla Tv.
Purtroppo i miei avevano
deciso comunque di andare a Port Angeles, mio padre aveva un importante
colloquio di lavoro, ed anche se avevano insistito tantissimo per restare con
me, li avevo convinti che davvero stavo bene e che non avrei avuto nessun
bisogno urgente, me la sarei cavata…in fondo si trattava solo di uno
stupidissimo sogno.
Adesso però cominciavo a
rimpiangere le mie parole. L’idea di essere completamente da sola nella mia
grande casa, piena di angoli bui, stanze vuote non mi era di molto aiuto.
Se qualcuno fosse entrato
di nascosto, nessuno se ne sarebbe accorto, dal momento che non avevamo vicini
di casa.
Mi avrebbero potuto
seppellire nel bosco dietro il giardino con una facilità disarmante.
Il rumore della fiamma sotto al pentolino e il
brusio della Tv accesa mi calmarono un poco, anche se non di tantissimo.
Forse avrei dovuto
chiamare Libby.
Presi in mano la cornetta
del telefono, e dopo qualche secondo la misi a posto.
Non potevo chiamarla
adesso, non potevo proprio.
Avevo come la netta
sensazione di dovermi tenere libera, di non poter avere altre occupazioni in
quel momento, avevo come la netta sensazione di aspettare qualcuno.
Quando il campanello
suonò repentino perciò, feci un salto assurdo.
Il cuore mi schizzò
dritto in gola e tornò al suo posto nella cassa toracica in meno di una
frazione di secondo.
Cercai di controllare la
respirazione e preso il coraggio a due mani andai ad aprire.
Probabilmente erano i
miei di ritorno da Port Angeles, si erano sicuramente scordati le chiavi di
casa.
Fuori il temporale
imperversava violento e brutale; quella che era una normalissima pioggia
pomeridiana si era trasformata in un diluvio di dimensioni considerevoli, fu
per quel motivo che dapprima non vidi chi mi stava di fronte, quell’oscurità
bagnata si era inghiottita tutto.
Poi però un lampo
luminoso e frastornante illuminò il bosco circostante, rendendo tutto più
chiaro…ed allora lo vidi.
Mai, nemmeno nei miei
sogni più sfrenati ero riuscita ad immaginare tanta perfezione; era
semplicemente impossibile per un cervello umano concepirla…per questo quel
ragazzo che mi stava di fronte, bagnato da capo a piedi, doveva appartenere per
forza a qualche mondo sconosciuto.
Nel mio, creature di tale
bellezza, non potevano esistere.
“Posso entrare?” mi
chiese, mostrando una fila di denti bianchissimi.
Un altro lampo illuminò
l’oscurità dipingendo sul suo volto alabastrino ombre inquietanti e il fragore
del tuono che seguì mi scosse portandomi alla consapevolezza di non aver
aspettato altro che lui.
Ebbene, eccoci qui con un
altro capitolo :D Ci tengo a ringraziare enormemente la Dod per le cose
meravigliose che mi dice sempre…tu lo sai quanto siano importanti le recensioni
per chi scrive, quindi puoi capire l’effetto che mi fanno le tue, ogni volta mi
riempi il cuore di felicità…sapere che quello che scrivo, nel quale metto gran
parte di me stessa, piaccia così tanto a qualcuno…è semplicemente fantastico.
Ahahaha hai ragione per adesso
corre parallela a quella dei nostri cari vampiretti, ma poi..chissà XD
Non ti preoccupare, adesso che
aggiorno ti mando subito una mail!
Mi sa che ancora con questo
capitolo non ho soddisfatto la tua curiosità..ma presto si scoprirà :D
Nel frattempo ti ringrazio ancora
per tutto, dal profondo del cuore.
Non so dire esattamente quanti minuti effettivamente trascorsero prima
che mi facessi da parte e lasciassi entrare quella sple
Non so dire esattamente quanti minuti effettivamente
trascorsero prima che mi facessi da parte e lasciassi entrare quella splendida
creatura nel mio ingresso, il quale adesso mi pareva più scialbo che mai
confrontato allo splendore allucinante di quel ragazzo.
Mi sarei quasi aspettata di vedermi crollare sul
pavimento dalla tensione, tanto i miei nervi erano tirati a quel punto mentre
il mio sguardo si prendeva la libertà di girovagare su di lui e di assaporare
ogni più piccola sfumatura di quel viso d’angelo d’altri tempi.
“Forse vuoi chiudere la
porta?” mi fece notare ad un tratto, parlando con una melodia tale nel tono
della voce da indurmi a credere di essere finita direttamente in paradiso e di
stare parlando con uno dei suoi messaggeri angelici.
Io rimasi semplicemente
pietrificata a fissarlo ancora e fu a quel punto credo che capì la portata
dell’effetto che aveva prodotto su me, perché sorridendomi si affrettò a
chiuderla lui la porta, prima di ritornare a guardarmi con un calore insolito
in quegli occhi dorati.
“Io…ti conosco?”
farfugliai finalmente, sostenendo a malapena il suo sguardo. C’era un non so
che di familiare in lui. Come se qualcosa fosse finalmente tornata al suo posto
semplicemente guardandolo.
Rimase per un poco in
silenzio, soppesando le mie parole e poi finalmente sorrise e scosse la testa
“No, non mi conosci. Sono nuovo in città.” Si passò una mano fra i capelli
fradici d’acqua “Mi si è fermata la macchina proprio qui davanti e speravo di
poter usare il telefono…posso?”
Di nuovo un brivido solo
a fissarlo.
“Sì..certo che puoi” con
non so bene quale parte di me stessa riuscii a fargli strada verso il salotto e
a indicargli il telefono, poi mi dileguai in cucina.
Dire che il mio cervello
fosse in tilt in quei momenti sarebbe proprio minimizzare la cosa perché mi
ritrovai ben presto ad aprire e chiudere i cassetti senza un obiettivo preciso,
a controllare la dispensa almeno 3 volte e ad accendere per poi rispegnere
subito la tv senza nessun motivo apparente.
In poche parole
sragionavo.
“Ok, allora passa a
prendermi mio zio. È un problema se lo aspetto qui?”
Al suono della sua voce
accanto a me, saltai in aria dallo spavento e mi voltai a guardarlo
terrorizzata.
“Scusa, non volevo
spaventarti.”
“No figurati” farfugliai
io, tentando di riprendere a respirare normalmente. “Tuo zio hai detto?” mi
voltai a guardarlo e provai una fitta allo stomaco.
Dio se era bello.
“Sì, non abita proprio
qui in città. Forse lo conosci, è il Dr. Cullen”
Ma come avevo fatto a non
pensarci prima? Naturale che fosse uno dei Cullen. La bellezza devastante era
come un marchio di fabbrica per quella famiglia.
“Sì certo che lo conosco.
Tu sei imparentato proprio con lui? Perché voglio dire, sì insomma…Emmett,
Edward e gli altri…loro non sono davvero figli…” mi bloccai prima che la
situazione potesse diventare ancora più imbarazzante.
Ma che cosa stavo
dicendo? Grandioso Janine. Mettersi a parlare dei problemi di famiglia di un
perfetto sconosciuto, davvero non potresti fare di meglio.
Fortunatamente il ragazzo
sorrise e impercettibilmente si avvicinò.
“Sì è davvero mio zio.
Fratello di mio padre per l’esattezza. Anche se i miei sono morti…beh un po’ di
tempo fa ormai…” vagò un attimo con lo sguardo in cerca di chissà quale memoria
lontana. “Quando stai troppo tempo da solo, puoi iniziare a stancarti e così
eccomi qui. Voglio dire, qui a Forks. Certo non prevedevo che la mia macchina
si mettesse a fare i capricci.”
Annuii, sono sicura come
la più idiota delle idiote, a quel punto avrebbe benissimo potuto parlare di
cose senza senso che avrei annuito lo stesso, e lui tentò un’altra volta di
avvicinarsi.
“A proposito, non mi sono
neanche presentato.”
Sorridendo, mi tese la
mano. “Benjamin Cullen.”
Quasi non caddi a terra
morta quando le nostre mani entrarono a contatto. Non c’era niente, niente di
normale in quella stretta. Era forte, decisa ma soprattutto fredda come la
neve, anzi molto di più. Esattamente come se avessi infilato la mano dentro al
freezer.
Ma non era solo questo.
C’era anche un calore
strano che ero sicura si fosse sprigionato nel momento stesso in cui la nostra
pelle si era toccata. Un’energia forse. O qualcosa di infinitamente più
complicato.
Ero sicura che anche lui
avesse provato le stesse sensazioni, ma nonostante questo, quando alzai lo
sguardo lo trovai a fissarmi come se niente fosse successo.
“Non vuoi dirmi il tuo?”
esclamò invece, con un tono canzonatorio.
Solo allora mi resi conto
di essere rimasta a guardarlo sbigottita per tutto il tempo della
presentazione.
“Janine Leaving”
balbettai e poi tolsi velocemente la mano dalla sua e la infilai in tasca, come
se volessi cancellare quello che era appena successo, come se la scarica di
adrenalina che avevo provato fosse sbagliata, o comunque impossibile e volessi
semplicemente dimenticarla.
Forse non potevo
semplicemente credere a quello che ogni singola parte di me stessa mi stava
gridando di credere.
Quel ragazzo non era
umano.
E ad una come me,
abituata a stare con i piedi per terra, credere a spettri e cose simili non era
consentito.
“Credo che mio zio sia
arrivato” esclamò poi, nonostante nessuno avesse suonato il campanello.
Non feci neanche in tempo
a stupirmi dell’assurdità di quell’affermazione, che davvero suonarono alla
porta e a quel punto avevo letteralmente esaurito la mia scorta di incredulità
che non riuscii nemmeno a scandalizzarmi più di tanto.
Andai ad aprire credendo
di trovarmi in un sogno impazzito e salutai il Dr. Cullen, alla meno peggio,
cercando quantomeno di formulare una frase corretta.
Aveva smesso di piovere,
notai.
Brava, focalizzati
sulle cose normali, ti aiuterà a non impazzire.
“Salve Janine. Credo che
mio nipote sia qui.”
“Zio” lo salutò una voce
alle mie spalle e voltandomi feci giusto in tempo a scorgere la sfumatura di
qualcosa sul volto glaciale di Benjamin.
Come una sorta di
messaggio nascosto trasmesso allo zio nel giro di un nanosecondo.
Volevo rinunciare a
capire i Cullen, ma per qualche strana ragione sembrava che ciò mi fosse
impossibile.
“Scusa per il disturbo
Janine. Manderò qualcuno a portare via la macchina dal tuo vialetto.”
“Non preoccuparti”
“Allora ci vediamo”
Annuii e chiusi la porta
dietro di loro.
Volevo solo addormentarmi
e far cessare quella pazzia per sempre. Sogno, realtà, era come se tutto si
fosse mescolato e non ci fosse più niente di vero, di autentico, nessuna
certezza.
Ripensandoci, neanche io
ero una certezza dal momento che neanche sapevo chi fossero i miei veri
genitori, la mia vera identità.
Onestamente, come si
faceva a restare sani mentalmente con un contorno del genere?
“Allora, dormito bene?” mi accolse la voce di Libby
nell’abitacolo caldo e confortante della sua Polo arancione.
Ci doveva essere
sicuramente del sarcasmo nella sua voce, se aveva notato le occhiaie scure che mi
solcavano le guance neanche le avessi scolpite col martello, ma ero troppo
stanca per ribattere qualsiasi cosa.
Mi chiusi lo sportello e
mi accomodai sul sedile, sospirando rumorosamente.
“Se il buongiorno si vede
dal mattino…” continuò lei, prima di inserire la marcia e di partire.
Onestamente, avevo
dormito da schifo.
Anzi, non si può proprio
dire che avessi dormito perché non l’avevo fatto. Ero stata tutta la notte a
rigirarmi fra le coperte in pena, con un’unica immagine in testa…quella di
Benjamin.
Non c’era stato verso che
riuscissi a pensare ad altro, solo lui e le sensazioni irragionevolmente
intense che avevo provato in quei pochi minuti che eravamo stati insieme.
Quando i miei erano
rientrati, dopo solo un’oretta, li avevo salutati e molto candidamente avevo
comunicato che non avrei cenato e sarei andata dritta a letto.
Beh a letto c’ero andata,
che avessi dormito era tutta un’altra storia.
Fortunatamente Libby non
era in vena di molte chiacchiere quella mattina e così potei passare i minuti
del tragitto in macchina per arrovellarmi ancora un altro po’ il cervello su
Benjamin.
Già, come se servisse.
Quel ragazzo era un
autentico mistero. Di certo se ne avessi parlato a Libby sarebbe partita in
quarta con le sue elucubrazioni e teorie una più inverosimile dell’altra su
come arrivasse da un altro pianeta, o magari addirittura da un’altra epoca e
avesse scoperto per caso un buco temporale e come io avrei finito per andare a
vivere insieme a lui nel XVII secolo.
Ok, forse questa è la
trama di Kate & Leopold…comunque ero certa che Libby non se ne sarebbe
distaccata poi molto.
Arrivammo a scuola e
Libby posteggiò al solito posto all’angolo, volgendomi uno sguardo strambo
prima di scendere dalla macchina.
“Lo sai vero che quando
vorrai parlarmene io ti ascolterò”
“Certo che lo so. Ma
davvero, non c’è niente di cui parlare…solite cose. Mi annoio da sola”
“Jan stai bene? I tuoi
hanno deciso di lasciarti sopravvivere dopotutto?” Dan si avvicinò a noi non
appena mettemmo piede a terra.
“Sì, hanno pensato che magari
gli servisse ancora una babysitter per il nascituro” scherzai io.
“Meglio così, mi sarebbe
dispiaciuto non averti più attorno mostricciatolo” fece Mark scompigliandomi
affettuosamente la treccia che mi ero fatta quella mattina, già penosa di per
sé.
“Ti ringrazio Mark.”
Sospirai, disfacendola del tutto e sciogliendo i capelli.
“C’ho messo un’eternità
stamani a fare questo capolavoro di treccia che tu hai provveduto ad abbattere
nel giro di un secondo”
Ridacchiò e mi passò un
braccio attorno alle spalle “Lo sai che ti preferisco con i capelli al vento”
“Cosa?” scoppiai a ridere
“E Chenille? Non pensi a lei? Le si spezzerà il cuore quando saprà che mi
corteggi.
“Ah, possiamo sempre
tenere le cose nascoste, no?” e mi fece l’occhiolino.
“Sei un caso perso Stone,
sappilo.”
Ci avviammo tutti insieme
verso l’ingresso della scuola e venimmo raggiunti a metà strada da Chenille che
quella mattina si era fatta accompagnare dal padre.
Le sorrisi non appena si
avvicinò e lei fece lo stesso, prima di lanciarsi in un dettagliatissimo
racconto di quello che le era capitato la sera prima, ovvero il ragazzo di sua
sorella aveva provato a baciarla nel retroscala e, disgrazia delle disgrazie,
lei c’era stata.
“Onestamente..c’è
qualcuno che può biasimarmi? Lo sapete tutti che ho una cotta per Trev da
quando…”
“…a 5 anni ti tirò i
capelli mentre giocavate a nascondino.” Finimmo io e Libby all’unisono, alzando
gli occhi al cielo.
“Esatto! Non è colpa mia se
Pat si è messa in mezzo portandomelo via. Io ero ancora troppo piccola. Ma
adesso è diverso. Adesso finalmente lui si è reso conto che quello che c’è fra
noi è innegabile…”
Bla, bla, bla.
Nessuno ovviamente la
stava ascoltando più.
Chenille era capace di
condurre dei monologhi allucinanti, nei quali si faceva domande e si dava
risposte da sola, per ore e ore senza accorgersi che tutti quanti attorno a lei
si erano dileguati.
Ormai c’era abituata e
non se la prendeva nemmeno più e dato che lei era la classica persona che se la
prendeva per tutto, questo dovrebbe darvi un’idea su quanto ormai tutti quanti,
lei compresa, fossimo abituati a quelle sue filippiche senza fine.
“Guardate c’è la Swan”
esclamò Dan, quando incrociammo Bella che si allontanava dal suo pick-up rosso
fuoco.
“Oddio, ma con che cosa
viene a scuola?” Chenille non era riuscita a contenere il suo disgusto alla
vista del mezzo di trasporto di Bella.
“Oh finiscila Nille, a me
piace” fece Libby prima di salutare la ragazza.
“Oh ciao…Libby” disse
Bella, dopo un attimo di smarrimento negli occhi castani.
“Pronta per pallavolo?
Oggi mi sa che ti toccherà giocare” continuò Libby sorridendole.
“Non dirmelo..ho avuto
gli incubi per tutta la notte al pensiero”
Poi si accorse di me e mi
sorrise. “Ciao Bella” feci io, passando poi a presentarle il resto della nostra
allegra combriccola.
Mi sembrava un tantino
più a suo agio rispetto al giorno prima ma era innegabile che qualcosa la
turbasse.
Glielo leggevo nello
sguardo, sfuggente e intimorito come alla costante ricerca di qualcosa che
tuttavia sperava di non trovare.
Oh, al diavolo
avevo già abbastanza problemi per me, non potevo mettermi ad analizzare pure
quelli di Bella, altrimenti sarei impazzita.
Il resto della giornata
passò abbastanza tranquillamente. Nessun mal di testa per fortuna e riuscii
anche a divertirmi un po’ quando a Letteratura Inglese Matt Kingston iniziò a
recitare l’Amleto in un modo così accorato che fece quasi commuovere il
professor Mason.
A mensa poi ci sedemmo
accanto a Jessica, Mike, Bella ed altri, ma lo facemmo più per non lasciare
sola Bella in mezzo a quella massa di minorati mentali, che per vera volontà di
condividere il pranzo con la gang della Stanley.
Cercai di essere
quantomeno disponibile a chiacchierare con tutti, anche se con soggetti come
Lauren Mallory seduta di fianco vi assicuro che l’impresa era ardua.
In più mi resi
fastidiosamente conto che non facevo altro che voltarmi saltuarimente verso il
tavolo dei Cullen.
Era più forte di me, non
riuscivo a smetterla.
Il bello era che non
riuscivo nemmeno a capire perché.
Ammetto che c’era una
piccolissima parte che si domandava se Benjamin sarebbe stato presente, ed
un’altra altrettanto minuscola che sperava di trovarlo lì, sorridente e
bellissimo, in mezzo ai suoi cugini, ma in teoria una volta appurato che non
era quello il caso, avrei dovuto smetterla di guardarli e concentrarmi sulle
chiacchiere inutili dei miei compagni.
Invece no, non smettevo
di guardarli, cercando chissà quale risposta a non so bene quale domanda,
celata nella perfezione dei loro volti.
Cosa ancora più strana,
notai che anche Bella si era voltata a guardarli, ed in qualche modo il suo
volto si era incupito ancora di più.
Ad un tratto, i nostri
sguardi che ritornavano frettolosamente sulla tavolata si incrociarono e come
se fossimo entrambe state scoperte sul luogo di un misfatto ci sorridemmo a
malapena, quasi vergognandoci a vicenda.
“…e così ho finito per
mandarlo a quel paese” udii le ultime parole strascicate di qualcosa che aveva
detto Lauren e che aveva provocato l’ilarità di Chenille e cercai di tornare a
fare la persona normale.
Magari se mi impegnavo ci
sarei riuscita.
Bella sembrò dello stesso
avviso perché non si voltò più verso il tavolo dei Cullen, ma l’espressione che
troneggiava sul suo volto candido era quella di un condannato alla forca, e non
esagero davvero.
“Ok, sarà il caso di
andare a Biologia” esclamò Libby, mettendo via la sua copia di A Midsummer
Night’s Dream ed alzandosi dalla
sedia.
Io
la imitai, felice di aver trovato una via di fuga a quella tortura e dopo pochi
istanti anche Mike e Bella fecero lo stesso.
“Che
bello di nuovo Biologia” esclamò il nostro simpaticissimo compagno mentre ci
incamminavamo nel corridoio pieno di studenti.
Era
incredibile come non si separasse un istante che fosse uno dal fianco di Bella,
neanche fosse la sua guardia del corpo.
Riuscivo
a percepire l’irritazione di lei in maniera allarmante e non riuscivo a capire
come facesse lui a non accorgersene.
Quando
fummo sulla soglia della porta mi resi conto che l’agitazione di Bella si acuì
in modo particolare, per poi svanire l’istante successivo, non appena mettemmo
piede nell’aula.
Giurai
a me stessa che c’avrei visto chiaro in quella storia, e ne avrei ovviamente
messo a parte anche Libby. Non c’era nessuno migliore di lei nello scoprire
misteri e strani segreti.
Comunque
entrammo nell’aula e prima di dirigerci al nostro banco, io e Libby rimanemmo a
chiacchierare un po’ con Bella al suo tavolo, dove fortunatamente per lei,
considerando come si era comportato Edward il giorno prima, era sola.
Era
inutile sperare che Mike ci avrebbe un po’ lasciato stare, andando a farsi i
cavoli suoi, perché naturalmente rimase come uno stoccafisso a gravitarci
intorno e a tentare di convincere Bella ad unirsi a noi alla gita a LaPush.
“Ma
chi l’ha invitato Newton, scusa?” bisbigliai nell’orecchio di Libby quando
suonò la campanella e ci andammo a sedere alla nostra postazione.
“Ne
abbiamo parlato prima a mensa, Jan. Ne abbiamo parlato per l’intera durata del
pranzo. Dan ti ha anche chiesto se potevi chiedere a tua madre di preparare i
sandwich alla Leaving e tu hai annuito e detto che avresti riferito” mi rispose
lei, guardandomi davvero come se fossi appena scesa da una navicella spaziale.
“Davvero?”
“Ma
dove sei con la testa Janine Leaving? E soprattutto…perché non vuoi
parlarmene?” lessi dispiacere negli occhioni neri di Libby e mi sentii
immediatamente in colpa.
“Scusa
Libby. Non so cosa mi stia prendendo in questi giorni. Oggi ci vediamo, ti va?
Così ti spiego tutto…”
Lei
annuì, leggermente più sollevata ma non risollevò più la questione per colpa di
Banner e della sua interessantissima lezione sulla seconda parte dell’anatomia
cellulare.
Quando
uscii da scuola, due ore più tardi mi sentivo determinata a non lasciarmi
abbattere da stupide sensazioni senza senso. Non potevo trascorrere il resto
della mia adolescenza in questo stato di perenne ansia e timore di un qualcosa
di non identificato. Non era giusto. Soprattutto nei confronti dei miei amici, che
non ne potevano più di trovarsi di fronte una pazza visionaria anche abbastanza
antipatica.
Anzi,
soprattutto per me stessa, perché ero davvero stanca di seguire un tracciato
così sottile ed incomprensibile, perso in chissà quale anfratto della mia memoria,
del quale molto probabilmene non sarei mai venuta accapo.
Non
so cosa fu a darmi quella determinazione, se fu dovuto alla lezione di
educazione civica, o alle battute idiote di Mark che mi erano costate ben due
richiami da parte del professore per via del tono delle mie risate, o forse a
qualche molla che era scattata nel labirinto del mio cervello senza senso.
In
ogni caso, quando uscii da scuola quel giorno e mi misi ad aspettare Libby
appoggiata alla sua Polo, mi sentivo davvero diversa. Mi sentivo normale.
La
cosa tragica o comica, dipende da che punto di vista la si vuole vedere, è che
quella meravigliosa sensazione durò per circa 5 minuti scarsi.
Sì
perché poi nel mio campo visivo Benjamin Cullen fece la sua comparsa e tutti i
miei buoni propositi andarono allegramente a farsi fottere.
Ed eccomi di nuovo ad
aggiornare!
Non so onestamente cosa
sia successo che mi abbia fatto aggiornare così in fretta O.O però è successo
ahuahauah..non so se ne siate contenti o meno di questo…probabilmente dopo questo
schifo magistrale opterei per la seconda opzione, comunque eccoci qua :D
Un grazie infinito a
tutti quanti leggono questa storia, l’hanno inserita tra i preferiti ed un
grazie enorme va alla mia Dod!
Anche tu mi mancavi tanto
tesoro! Spero che ti sia piaciuto anche questo di capitolo, anche se non è
successo molto…ma è di transizione, diciamo così :D
Ti adoro sempre di più
per tutte le meraviglie che mi dici, le quali sono una forte motivazione a
scrivere (: