ELEMENTS - Il Prescelto del Vento

di Gabri_1266
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** LEI ***
Capitolo 2: *** CAMBIAMENTO ***



Capitolo 1
*** LEI ***


1° Capitolo

LEI




 
"Quando ancora il Sole sorgeva da ovest il mondo della magia era percosso da guerra, malattia, fame.
I Tre Divini decisero così di convocare tutti i Puri e decidere cosa era meglio per lo stesso mondo magico. Tutti decisero di sacrificarsi per il bene della magia, in modo che i Tre Divini potessero ricreare la stirpe pura.
L’unico intralcio era il Dio Malio. Esso voleva il potere, il controllo e la supremazia sulla magia e sugli stessi Tre Divini. Allora il mondo ricadde nella guerra: Oscuri contro Lucenti.
Dopo mille anni la Divina Fenhora radunò a se i suoi quattro benedetti: Selena maga dell’aria, Hosel mago del fuoco, Denora maga dell’acqua e Guivorn mago della Terra.
Essi diventarono Elements e le ora loro note imprese salvarono Overon e le quattro terre.
La Divina Fenhora ora è la Salvatrice e fu lei a mandarci la salvezza attraverso gli Elements."

 Frammento da “Fenhora la Divina” , Biblioteca di Peren, Valli dell’Aria.

 
 
La città a quell’ora del mattino era gremita di gente. I passi riecheggiavano dappertutto sul lastricato delle strade e ai lati di esse gli artigiani non smettevano di gridare l' “alta qualità” della loro merce.

Eva scattava foto come se fosse impazzita. Lei amava acculturarsi su tutto e su tutti nonostante fosse una ragazza alquanto riservata e che amava farsi gli affari suoi.
La giornata che le si presentava di fronte era magnifica.

Il sole nuotava sereno fra le nuvole e risplendeva come se volesse far vedere a tutti i suoi raggi, il profumo del mare della Costa Azzurra apriva le narici ad Eva e la faceva sorridere.

Gli schiamazzi dei bambini si mescolavano al rumore della fontana di pietra che si innalzava nella piazza cittadina.

Eva si trovava proprio nella piazza dove si apriva un’ampia terrazza sulla spiaggia.

La ragazza si avvicinò e scattò una fotografia.

Dove la piccola pineta si apriva, si intravedeva il chiaro giallore della sabbia e gli ombrelloni multicolori aggiungevano alla giornata un tono ancora più allegro.

La sabbia, sul bagnasciuga, accoglieva il mare nelle sue calde braccia, mentre la gente passeggiava tranquilla in preda al relax e al caldo, che in quella giornata d’estate, regnava incessante.

Il cielo e il mare erano difficili da distinguere.

Infatti la enorme distesa d’acqua sembrava un quadro: era prevalentemente di un ciano molto chiaro ma qua e là si aprivano grosse macchie di tutte le tonalità di blu e azzurro.
Eva notò con la coda dell’occhio cinque signore che giocavano a carte sedute sulla sabbia bollente: rabbrividì.

Ormai, era ora di mangiare ed Eva tirò fuori un sandwich, avvolto nella carta d’alluminio, dalla borsa e cominciò a mangiarlo lentamente e goffamente mentre, sedendosi per terra poggiando la schiena sulla balconata, riguardava le foto di tutta la mattinata passata.

Erano circa 213 da quanto le diceva la sua vecchia e affidabile Nixon e tutte avevano un che di innaturale, quasi artistico.

Quando si alzò, qualcosa le venne addosso.

Era un bambino molto buffo con occhi grandi e capelli a caschetto.

«Mi scusi...» disse la madre arrivata col fiatone in fretta e furia «Era così bella quella maglietta»

«Non si preoccupi» rispose Eva con un gran sorriso.

La ragazza si alzò e, mentre proseguiva passeggiando, passò davanti ad una vetrina e si guardò nel riflesso.

I lunghi capelli castano chiaro si stagliavano in lievi ed impercettibili boccoli sulla grande canottiera bianca dove erano stampate due labbra rosso scarlatto. A livello dei fianchi, sempre sulla maglietta, c’era una grande chiazza rosa di gelato alla fragola che le aveva gettato il buffo bambino di prima. I collant neri risaltavano le sue snelle forme e finivano sulle converse bianche. Quel giorno Eva portava un capello alla stile “Cow-Boy” e degli occhiali da sole che le coprivano i suoi occhi color ghiaccio. I suoi zigomi dolci erano coperti con la massa di capelli che ricadeva sul seno. Aveva un naso dritto e due labbra leggermente carnose.

Sulla vetrina era scritto in grande “Boutique de le Perles de la Madame Freche”.

Eva era alquanto incuriosita. Davanti a lei c’erano decine di collier di perle adagiati su piedistalli di velluto blu.

Senza pensarci due volte, Eva entrò per la piccola porta di vetro e un campanello suonò.

Due signore si girarono.

Il negozio profumava di rose, pulito e aroma da signora.

Quando le due donne si girarono, Eva notò che una era dietro ad un bancone di marmo bianco mentre l’altra stava acquistando una collana formata da circa otto giri di perline minuscole.

«Posso aiutarla, Madame?» chiese la signora dietro il bancone con uno spiccato accento francese.

Da quel che riusciva a vedere, la ragazza, notò che portava un anello con un diamante e una lungo collier di perle giganti. I capelli di quella che secondo lei sarebbe stata Madame Freche erano biondi e raccolti in un basso chignon mentre la camicetta rosa pesca faceva risaltare i suoi fianchi formosi.

«Mi sa, Charlotte, che la signorina abbia avuto un po’ di curiosità» ora a parlare era stata la compratrice. Aveva un lievissimo accento inglese e portava un girocollo di diamanti. Due signore dell’alta borghesia, pensò subito Eva.

La signora inglese aveva i capelli grigi raccolti a nido d’ape e portava una giacca blu dai polsini color avorio e dai bottoni dorati. Aveva una gonna bianca che finiva poco sotto le ginocchia da dove spuntavano le calze nere. Le scarpe col tacco facevano risuonare il parquet del pavimento ad ogni suo movimento.

«Scusate» disse goffamente Eva «Ha ragione Miss…?»

«Chiamami Miss Ellis» rispose la cliente. Eva era abbastanza intelligente da capire che le signore francesi si chiamavano “madame” mentre quelle inglesi “miss”.

«Certo... Miss Ellis. Scusate me ne vado subito» rispose a disagio Eva. Poi la ragazza fece per uscire ma…

«Aspetta!» era Miss Ellis «Mettiti questo: è un portafortuna». Miss Ellis le offrì un braccialetto di semplici perle color ghiaccio come gli occhi di Eva.

«Gr-grazie, ma non doveva» disse imbarazzata.

«Suvvia è un semplice regalo. Ora vai, su!»
***

Eva era uscita dal negozio contenta, osservando il braccialetto. Ora il sole risplendeva ancora di più ed Eva era felice e soddisfatta.

Tirò fuori il cellulare che aveva appena emesso un biiip e lesse il messaggio: “Torna in hotel tesoro”. Era di sua madre ed Eva non se lo fece ripetere due volte.

Era un po’ stizzita, non voleva farsi sempre dire quello che doveva o non doveva fare.

Cominciò a riprendere la strada per l'albergo, ma in mezzo a tutta la gente che c’era in città si perse subito.

Tirò fuori il depliant dell’hotel e, come una turista curiosa, cominciò a leggere tutti i nomi delle stradine di quella cittadina di porto.

L’hotel Chantal, dove alloggiava lei, si trovava affacciato al mare.

Cominciò a leggere tutte le indicazioni e, con quel poco di francese che sapeva, cercò di cavarsela ma cominciava ad avere una crisi di nervi.

«Scusi» la interruppe una voce.

Lei si girò.

Era una donna che era vestita alla mo’ di detective. Portava un basco beige e un impermeabile dello stesso colore del capello. Dal basco usciva qualche ciocca corvina e la donna portava dei lunghi stivali di vernice nera che spuntavano da sotto l’impermeabile.

Fa un caldo pensò Eva E questa ha impermeabile e stivali di vernice.

«Ho visto che ha un depliant dell’hotel Chantal» disse la donna con voce elegante e strascicata, ma un po’ fredda.

Eva la guardò. Non si fidava. Aveva uno strano sospetto, qualche presentimento che le diceva di stare attenta.

«Sì» disse con un evidente tono sospettoso la ragazza.

«Mi saprebbe dire dove posso trovarlo?» chiese la donna.

«Allora…» la ragazza guardò la cartina «Deve salire per quel pendio» a quel punto Eva indicò una salita che si apriva a circa duecento metri da loro «Ed è il terzo hotel, le posso dire che ha i muri color nocciola.»

«Grazie » disse grata la donna. Poi scomparve nel nulla.
***
 
Tornando all’hotel Chantal Eva ascoltava il “Concerto in re minore per due violini di Bach”. Era una delle poche ragazze della sua età che amava la musica classica invece dei rapper o delle rockstar. Era una ragazza estroversa, che amava il suo modo di vedere e il suo mondo dei sogni e per questo si distraeva subito appena cominciava a vagare nel suo mondo delle nuvole. A volte persino suo padre si meravigliava di quanto goffa e distratta potesse essere.
 
Quell’anno erano andati in vacanza perché Eva amava la Francia e sua madre aveva usato i risparmi di tre anni proprio per accontentare la sua “piccola”.
 
Lei si ricordò quando gli avevano dato la notizia. Era al settimo cielo e per poco non rompeva le molle del letto di camera sua a forza di saltare. A sua madre era riuscita a dire solo un debole “grazie” fra le lacrime di gioia.
 
L’hotel era carino e molto grazioso. Aveva un’entrata colma di piante di ogni colore possibile, e, anche se non sembrava molto famoso nemmeno in quella cittadina, le sembrava caloroso e familiare. Era uno de quegli alberghi che vogliono imitare il lusso più sfrenato, ma con evidente sfortuna, anche se a Eva piaceva molto.
 
I suoi genitori: Delia e Richard Altec erano rientrati verso le due e mezzo del pomeriggio mentre ora erano le tre passate. Appena le avevano detto che erano stanchi e che si dovevano riposare, Eva aveva sbuffato; non ne poteva più di stare sola.
 
Eva prese l’ascensore e premette il pulsante del 1° piano.
 
L’ascensore era piccolissimo, con pannelli di legno a cui erano attaccate numerose cartoline di tutti i posti più famosi di Francia: La Tour Eiffel, la Corsica, Monte Saint Michelle, la Normandia.
 
Quando le porte dell’ascensore si aprirono, la camera 34/B era lì di fronte con la porta bianca socchiusa. Nel momento in cui aprì la porta Eva assistette ad una scena alquanto buffa che però la fece arrabbiare.
 
Sua madre portava una vestaglia verde smeraldo con ricamata sopra una fantasia a fiori gialli, mentre in testa portava un turbante formato da un asciugamano rosa shocking (tipici dell’hotel); dal turbante usciva qualche ciocca color biondo scuro, mentre suo padre Richard era sdraiato sul letto, portava solo le mutande e guardava la televisione.
 
«Eccomi» disse con tono di stizza la ragazza.
 
A quel punto i suoi genitori la fissarono.
 
Eva era furiosa. Le avevano detto che erano stanchi, ma erano lì tranquilli a guardare stupidi telefilm francesi.
 
La solita presa in giro pensò la ragazza
 
«Scusaci» disse sua madre avvicinandosi per darle un bacio in fronte. Eva si scostò.
 
«Alla faccia della stanchezza» disse Eva prima di allontanarsi verso la porta del bagno.
 
Il bagno della loro camera era alquanto minuscolo: rettangolare con un intero lato occupato dalla doccia-vasca da bagno.
 
Si spogliò davanti allo specchio e si accorse che le lacrime stavano scendendo velocemente sulle sue guance.
 
Stupida si disse Sei solo una stupida! Piangi per ogni cavolata.
 
Ma si sentiva stupidamente tradita dai suoi stessi genitori. Manco fosse l'ultimo giorno nel quale poteva star con loro!
 
La ragazza scrollo le spalle sotto la luce al neon del bagno ed entrò nella doccia.
 
L’acqua era calda e Eva chiuse gli occhi.
 
Le serviva quel momento per sé, per pensare, come solo lei amava fare.
 
Mentre l’acqua scendeva la ragazza si mise seduta sulla porcellana del pavimento della doccia, come per rannicchiarsi e nascondersi dal mondo che le era sconosciuto.
 
Eva era così: paurosa, goffa, secchiona e anche un po’ lagnosa (almeno così si definiva lei).
 
Il vapore si alzava in volute lente e pigre dalla doccia mentre la ragazza canticchiava il concerto che stava ascoltando poco fa. Erano note arzille e veloci, che si incastravano tra loro come un puzzle.
 
Mentre si metteva il bagnoschiuma alla vaniglia e al cocco. la ragazza sentì delle voci provenire dalla camera da letto, ma, in quel momento di relax e beatitudine, non ci badò.
 
Non voleva altre preoccupazioni. Voleva rilassarsi e non pensare a nulla.
 
Quando uscì dalla doccia, Eva aveva i capelli un po’ umidi a causa del vapore e il profumo del cocco le invadeva le narici.
 
Saresti anche bella si disse fra sé e sé o solo stupida. Ci sono altre ragazze decine di volte più belle di te. Tu sei secchiona e anche goffa. Ma chi ti vuole?
 
Non era stata lei a parlare, ma una vocina che le era impressa nella mente dal giorno in cui era nata a cui la ragazza dava sempre ascolto.
 
Si vestì con le cose che si era preparata prima di entrare in doccia: una canottiera di chiffon gialla, una giacca di pelle nera con le borchie che lei amava tanto, dei jeans scuri attillati e le sue converse nere.
 
Almeno così sembrò una sedicenne qualunque  pensò.
 
Eva stava uscendo dal bagno quando vide una donna che parlava con i suoi genitori.
 
Improvvisamente si bloccò: aveva uno strano presentimento, come una minaccia incombente in agguato. Solitamente non era una che si faceva i fatti altrui ─ anzi non se li faceva mai ─ ma non riuscì proprio a trattenersi, così la ragazza richiuse la porta silenziosamente e osservò la scena.
 
Era lei! La donna con cui aveva parlato prima. Un piccolo e fastidioso senso di rammarico le si affondava nel cuore come una spina velenosa.
 
Prima non aveva fatto tanto attenzione ai connotati della volto, tant'è che nel giro di pochi attimi si era già dimenticata il colore dei capelli. Però, adesso che la guardava da un angolo della stanza, doveva ammettere che era proprio una bella donna: alta, coi capelli di un nero irreale, li portava sciolti ed essi erano dritti come se avesse appena fatto la piastra. I suoi occhi, che prima erano coperti dagli occhiali, erano ─ e questo spaventò molto la ragazza ─ bianchi come il latte, gli zigomi come se fossero stati scolpiti nella dura pietra e il vestito che portava era bizzarro. Era fatto di stracci, tutti con diverse tonalità di nero; arrivava fino al pavimento e sulle spalle portava uno scialle di seta oscuro.
 
Nonostante fosse di una beltà quasi sovrannaturale, Eva aveva paura: c’era una strana aura che circondava quella donna. Una bellezza pulita, ma incredibilmente inquietante. Un pericolo.
 
Al fianco della donna, c’erano due uomini in smoking e dalla loro schiena uscivano due ali con le piume color carbone. Eva, quando se ne accorse, per poco non gridò e si dovette premere le mani sulla bocca per non far uscire alcun suono.
 
Erano orribili, come mostri.
 
Uno non aveva le iridi e il suo volto era attraversato da una grande cicatrice. I capelli erano brizzolati e si scurivano verso la radice.
 
Eva distolse lo sguardo e lo volse sull'altro.
 
L’altro uomo (se si poteva definire tale) era grasso e grosso come un armadio, aveva due tremendi occhi rossi e dai capelli candidi come neve uscivano alcune ciocche cremisi. come sangue fresco colato su un bianco manto innevato.
La ragazza era sconvolta. No, aspetta... si disse per tranquilizzarsi Questo è di sicuro un sogno. Un terribile sogno, ma che presto finirà...
 
Così stette ferma e immobile ad aspettare che quell'orribile incubo passasse. Ma sapeva, in un angolino nascosto del suo cervello, che non era affatto così.
 
La donna fece un passo leggero e felino verso sua madre, con aria minacciosa. «La Element, Altec» disse fredda. La donna aveva quella voce strascicata, elegante e affascinante uguale a quella che aveva avuto anche con lei.
 
«Scordatelo, Jeva» sibilò sua madre fissando torva gli occhi della donna.
 
Frena, frena, frena!
 
Che cosa era una Element?
 
La ragazza era spaventata, terribilmente spaventata. Che cosa volevano quelle persone? E perché erano simili a mostri?
 
Eva cercò di ripetersi che era solo un bruttissimo incubo. Ma più andava avanti in quel sogno, più le sembrava tutto maledettamente reale...
 
Jeva aggrottò le sopracciglia e fece qualcosa di totalmente inaspettato: con due movimenti della mano, fece crollare il pavimento sotto i piedi dei genitori della ragazza e quest’ultimi caddero nel vuoto.
 
Eva guardò la scena a metà tra lo sconvolto e il terrorizzato.
 
Jeva, insieme ai suoi due scagnozzi (si poteva definirli così?), si tuffò dentro al buco per raggiungere Delia e Richard Altec.
 
E solo in quel momento, sogno o meno che fosse, Eva si permise di andare seriamente nel panico.





NOTE: 
Ringrazio Francesca e Sara che mi hanno aiutato moltissimo nella storia e nel suo stile; senza di loro non ci sarebbe nessun "Elements". Ringrazio anche i fan che hanno saputo dirmi con franchezza cosa non andava nel mio stile quando ho pubblicato la precedente storia. Grazie !

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Capitolo 2
*** CAMBIAMENTO ***


1° Capitolo

CAMBIAMENTO



 
Dopo che Jeva fu sparita, Eva guardò attentamente il cratere: sembrava che finisse nella sala da pranzo.


Non provarci nemmeno, non sei mica così avventata! le disse una parte della sua coscienza. Ma, evidentemente, quel giorno avventata lo era perché, infiammata di un nuovo coraggio che non aveva mai avuto né provato prima, si buttò di sotto e atterrò sul parquet rosso prugna. Quando si rimise in piedi, un dolore cieco la percosse per tutto il corpo.


Eva si diede della stupida. Ma che diavolo aveva fatto! Ora gli sarebbe successo qualcosa di terribile alle gambe, anche se, stranamente, il dolore passò in un attimo e lei riuscì a muoversi come sempre era riuscita a fare. Okay. Forse stava diventando anche lei un mostro...


E' solo un sogno, Eva cercò di ripetersi Tra un po' ti risveglierai e farai come se non fosse successo nulla...


Ahimé! Mi duole dirlo, ma non è così semplice come Eva si faceva credere. Se solo avesse scoperto prima chi realmente era...


Una volta che si rimise in piedi, guardò la scena da un angolo remoto della stanza, nascosta dietro ad una pianta.


La sala da pranzo non era grandissima. Era tappezzata da broccato rosa e bianco, i tavoli erano di vimini con tovaglie a fiori ricamati: il tavolo del buffet era vuoto e la sala era completamente mutata.


I tavoli erano tutti gettati a terra e le tovaglie erano scivolate ed erano tutte stropicciate.


Al centro della sala vi erano cinque figure: due a terra e tre in piedi.


Eva sudava. Niente paura s'incoraggiò, anche se in realtà di paura ne aveva sin troppa Tra un po' accorrerà qualcuno e mamma e papà saranno salvi!. Ma sapeva che quello era solo un futile tentativo di autoconvinzione.


«Lo ripeterò un'ultima volta» ribadì glacialmente Jeva, con gli occhi improvvisamente ridotti a due fessure «Datemi la Element. ORA»


Ma chi o cosa diavolo era questa Element e perché Jeva insisteva tanto per farsela consegnare?!


Eva era nel panico totale. Quella donna sembrava già cattivissima di suo e, ora che era arrabbiata, sembrava potesse ammazzare un uomo solo con lo sguardo.


«Lo ripeterò un'ultima volta» gli rispose velenosa la madre di Eva, fissandola negli occhi «Scordatelo». Diana non sembrava temerla quanto Eva. Pareva una sua antica rivale, una che aveva odiato sin dal principio.


Dagliela e basta, mamma! avrebbe voluto urlare la ragazza. Stai giocando col fuoco! Non te ne rendi conto?


«Bene, lo hai voluto tu» dichiarò infine la donna, assumendo un aria tranquilla che stonava con l'espressione di poco prima.


Fece un cenno del capo ad uno dei due scagnozzi dietro di sé e questo si fece avanti, ingrandendo a dismisura le mani.


... Aspettate un attimo!


Da quando le persone sono intrise di potere? Okay che quelle non erano sicuramente persone normali... ma ad Eva non era mai riuscito di sollevare una tazza solo con la forza del pensiero.


Ma dato che la ragazza (così ingenua, eppure così cosciente) si ripeteva con tutte le forze che era solo un sogno, continuò la sua recita facendo la parte della ragazza impaurita e indifesa.


Insomma. Quello che realmente era.


No... Eva conficcò le unghie nella carne delle mani No, ti prego....


Al posto delle unghie dell’uomo c’erano ora affilatissimi artigli che, dopo un impercettibile annuire di Jeva, cercarono di conficcarsi nel petto di Diana Altec.


Ma la madre di Eva fu più veloce: schivò e fece per andare addosso a Jeva. Ma, mentre Diana si stava lanciando verso la donna, questa puntò infastidita i suoi lattiginosi occhi bianchi su di lei, fece apparire un pugnale da non si sa dove e, una volta che l'altra si fu avvicinata abbastanza, questa lo andò a conficcare nello stomaco della rivale.


Il tempo sembrò fermarsi, il sangue rosso vivido colava in vellutati movimenti sulle pieghe del vestito di sua madre come gocce di vino su vetro di bottiglia. Suo padre urlò, ma era un urlo attutito e a Eva arrivò in ritardo come se avesse le orecchie tappate dal cerume.


Lei invece, spalancò solamente la bocca in un sconcertato urlo muto, mentre calde e tonde lacrime le stavano rigando le guance in una lenta discesa. Solo allora Eva si accorse che, stranamente, non vi era anima viva nell’albergo.


È solo un brutto sogno. Ora mi risveglierò dentro la doccia con l’acqua calda che mi scorre sui capelli cercò di consolarsi flebilmente Eva dentro la testa.


Ma non era vero, diamine, non era assolutamente vero! Lo sapeva benissimo che quella scena era fin troppo palpabile e concreta per essere qualcosa di palesemente fasullo. Però non riusciva a crederci: era come se il suo cervello avesse staccato la spina e fosse partito per la tangente.


E Eva, nonostante fosse una con la testa sulle spalle e anche intelligente, era sempre una ragazza innocua e talvolta anche imbranata. Per lei, una perdita di un parente, sarebbe stato devastante quanto la bomba nucleare di Hiroshima e Nagasaki.


Intanto, Jeva, i suoi scagnozzi e il padre di Eva erano spariti nel nulla.


Eva uscì dal suo nascondiglio.


E solo allora urlò.


«Mamma!» gridò con il dolore che si faceva mano a mano strada nel suo corpo.


Sua madre volse uno sguardo infelice al suo viso, mentre il sangue usciva a fiotti dalla sua bocca ad ogni sillaba che pronunciava. « Pic... cola... » riuscì a mormorare.


Eva si accasciò vicino a sua madre. Le poggiò la testa sulle ginocchia, disperata e piangente. «Mamma…» sussurrò con le lacrime agli occhi «MAMMA TI PREGO NON ANDARE!» questa volta urlò, incurante se fosse rimasto qualcuno nei paraggi «SONO STATA COSI' STUPIDA PRIMA! ME LA SONO PRESA PER NIENTE! NON VOLEVO! AVEVO COME IL PRESENTIMENTO CHE SAREBBE SUCCESSO QUALCOSA E TU... E PAPA'...» la voce le si smorzò in gola e le bruciava in maniera orribile, come se avesse ingerito quintali di acido solforico.


«Non... importa pic... cola mia…» bisbigliò lei. Il sangue le imbrattava i vestiti in una vermiglia colorazione di fluidi. Ma alla ragazza non importava: in quel momento, voleva solo riavere indietro i suoi genitori. «Mamma... tu guarirai...» cercò di sorridere tra le lacrime, sfiorandole piano la ferita con la mano insanguinata. Eva le mise una mano sul cuore. Aveva un battito leggero, attutito. «Tu guarirai e ritorneremo insieme a papà... e faremo come se nulla di tutto questo fosse successo... come un brutto incubo... di quelli che avevo quando ero piccola, ti ricordi?» e le cantò la canzone che i suoi genitori usavano per farla riaddormentare, con voce rauca e spezzata.


«Pic... cola...» disse sua madre in un bisbiglio appena appena udibile «Vi... vi...».


Solo allora Eva interruppe la canzone. Sua madre non respirava più.


E, come se fossero state racchiuse in una bolla d'aria che le isolava dal resto del mondo fino a quell'attimo, quest'ultima scoppiò, rivelando un pubblico che sembrava fosse stato invisibile fino a quel momento: decine e dozzine di persone, divise fra personale e clientela, si muoveva e sedeva compostamente sui tavoli magicamente rimessi a posto, con tovaglie, cibo e tutto il resto. Poi tutti gli occhi si andarono a soffermare sulle due figure al centro della sala, dapprima leggermente scombussolati, successivamente perplessi e, solo alla fine, spaventati e sconvolti.


Non è uno spettacolo di tutti i giorni una mamma uccisa e una figlia piangente apparse improvvisamente dal nulla nel bel mezzo della cena pensò Eva con una punta rimasta di sprezzante ironia.


E, solo un secondo dopo che Eva ebbe formulato quel pensiero, ci fu un gran casino. La gente cominciò ad urlare e ad agitarsi, mamme allarmate che coprivano gli occhi ai loro figli impauriti, cameriere che facevano rovesciare vassoi con alimenti tipici della cucina francese imbrattando il pavimento, cuochi e maggiordomi che si spingevano per andare alla reception a denunciare il fatto o a telefonare la polizia.


La ragazza fissò con fastidio tutta quella confusione, non chiedendosi come diavolo avevano fatto i tavoli a rimettersi a posto e le persone a ricomparire dal nulla.


E' solo un incubo si ripeté per l'ennesima volta quel pomeriggio Solo un orribile incubo dove le vittime di turno siamo io e i miei genitori. Quando mi sveglierò, sarà tutto normale e forse avrò fatto un macello nel bagno con tutta l'acqua uscita dalla vasca.


Eva prese la mano di sua madre. Così concreta...


Solo un incubo... questa fu l'ultima cosa che accompagnò la mente della ragazza mentre i contorni delle cose si facevano più sfocati e una sagoma si soffermava nella sua visuale.


La mano di sua madre era ancora nella sua quando si accasciò stremata a terra.
Solo un incubo...


Poi non seppe più nulla.


***


La prima cosa che invase il suo campo visivo, quando si risvegliò, fu un'accecante luce bianca.


Dio...? pensò sul momento, non riflettendo. Poi, di colpo, si ricordò tutto e immaginò fossero i raggi del sole che filtravano oltre le cortine della sua finestra al primo piano della stanza d'albergo. Ma certo! I suoi genitori devono averla messa a letto dopo l'allagamento del bagno e adesso doveva essere mattina presto! Si, perché doveva essersi lavata verso il crepuscolo e Eva, che fin da piccola aveva il sonno lungo e pesante, si doveva essere ridestata quando ancora tutto l'hotel era nel sopore più profondo. Quindi, appena si sarebbe girata di lato, avrebbe visto i suoi dormire beatamente nell'altro letto, abbracciati e con un'espressione distesa sul viso aperto.


Così, colta da un moto di speranza, guardò dall'altra parte e...


Un comodino. Un odiosissimo, maledettissimo comodino. Un odiosissimo, maledettissimo comodino di plastica termoindurente grigia con sopra un vaso di fiori. E una flebo. Una flebo infilata nella carne del suo braccio. Una flebo infilata nella carne del suo braccio proprio vicino al comodino.


Le venne da piangere. Era tutto vero, dunque? Quel sogno, Jeva, i due tipi, i suoi genitori, sua madre morta... non se l'era semplicemente immaginato.


La ragazza si girò dalla parte occupata dal mobile e si rannicchiò su sé stessa, piangendo silenziosamente e con i singhiozzi che la scuotevano da capo a piedi. Non era tanto il dolore fisico quanto quello che sentiva dentro. Sembrava fosse diventata del tutto incapace di pensare razionalmente, perché la sofferenza aveva preso possesso di ogni cosa. Era viva. Ma allo stesso tempo era morta, perché la donna che l'aveva messa in quel pazzo e scellerato mondo adesso non c'era più.


Non seppe per quanto tempo rimase così, con la flebo che non le permetteva completamente di piegare il braccio sinistro e la disperazione che le pervadeva il corpo e l'animo. Fatto sta che sentì una porta aprirsi e di colpo smise di piangere.


Sentì delle persone confabulare. Era troppo triste per badare a cosa avevano da dirsi, e tra l'altro quelli parlavano in fitto francese. Però si fece un'idea di chi potessero essere.


«Non sto dormendo e non sono neanche sorda» disse non riuscendo a trattenersi «Però voi fate finta di niente, eh! Tanto, anche se mi rendeste partecipe, non me ne importerebbe e soprattutto non ci capirei niente di quello che dite».


Da quando era diventata così scettica? E poi non l'avrebbero mai compresa...


Gli altri smisero di colpo e Eva riconobbe un sussurro del tipo “Anglais...” prima di uno sbattere di una porta e di un silenzio carico di tensione, pesante.


Una voce familiare le giunse alla colonna vertebrale. «Ciao» disse, con un leggero accento inglese.


Eva si voltò. Miss Ellis le sorrideva benevola, gli opali che portava al collo e alle dita luccicavano alla luce al neon dell'ospedale come oro puro. «Come stai? Ti senti meglio?».


In un altro momento, in un'altra situazione, in un'altra vita, la ragazza si sarebbe sorpresa di vedere chi per lei era ancora una sconosciuta preoccuparsi e impensierirsi per le sue condizioni. Ma tutto era diventato irrilevante nel momento stesso in cui aveva decretato che la sua sanità mentale era completamente andata. Perché la sofferenza aveva preso possesso di ogni cosa. «Lei cosa ci fa qui? Non c'entra niente in questa storia» disse neutra.


Sembrò che l'anziana donna si aspettasse una reazione come quella, perché sospirò e le parlò con gentilezza. «Ho sentito cos'è successo e mi sono precipitata qui non appena ho saputo che eri viva».


Eva scoppiò in una breve e amara risata sarcastica. «Cos'ha, la palla di cristallo per sorvegliarmi?» domandò ironica «Prima con il braccialetto e adesso qui in ospedale. Guardi, non ho bisogno della sua pietà... tanto meno di vomitevoli parole di conforto che non farebbero altro che darmi sui nervi. Quindi, se è venuta qui solo per confortarmi, la prego di andarsene... al diavolo, possibilmente» e si rigirò, inveendo mentalmente contro la superficialità delle persone.


Perché la sofferenza aveva preso possesso di ogni cosa.


La donna non sembrò arrabbiarsi, né replicò. Semplicemente, rimase lì mentre lei le voltava le spalle.


A Eva tutta questa cortesia dette ancora più fastidio. Guardò appena sopra la sua spalla, verso la signora inglese che la guardava muta e senza batter ciglio. «Be'? Che fa ancora lì? Se ne vada!» esclamò furiosa.


La donna sembrò penetrarla con quei suoi occhi dell'argento liquido e la cosa non le piacque. «L'hanno ammazzata» disse «Non è così?».


A quelle parole, la ragazza scattò su come una molla. «Ma lei che cosa vuole da me, eh? Chi le da il diritto di sapere cosa accade nella mia stramaledettissima vita?!» urlò, pentendosene subito dopo dato che la porta si riaprì sbattendo.


Un ragazzo sui sedici anni entrò, i disordinati capelli castano scuro che gli finirono davanti la faccia. Aveva intensi occhi azzurri cielo e il colore della pelle molto pallido. Era abbastanza alto, con addominali leggermente scolpiti che si potevano notare sotto la maglietta bianca e Eva pensò subito fosse una bel ragazzo. Ma l'espressione preoccupata aveva un che di innocente che lo faceva apparire quasi un bambino ai suoi occhi. «Tutto bene nonna? Gliel'hai detto?» chiese lui.


Subito la ragazza assunse un'espressione furibonda. «Dirmi cosa? Ma siete per caso impazziti?!» ruggì.


La signora guardò suo nipote, incurante di Eva e delle sue occhiate incendiarie. «Sta' tranquillo Marc, qui ci penso io» lo rassicurò con voce calma e composta.


Marc tentennò, ma poi, lanciando uno sguardo preoccupato a sua nonna e un altro ben più duro a Eva, richiuse la porta e le lasciò sola.


Miss Ellis fissò Eva dritta negli occhi. «Dobbiamo parlare. Adesso. Sarà una chiacchierata lunga, per cui mettiti comoda e ascolta».


Eva, se ben fosse ancora parecchio scossa e sospettosa nel dover ascoltare una persona con la quale non aveva nulla a che fare, stranamente ubbidì e ascoltò una storia che, da quel giorno, le avrebbe aperto una visione del mondo ben più infida e minacciosa.


Perché la sofferenza aveva preso possesso di ogni cosa.


E quella sofferenza l'avrebbe travolta di nuovo. Oh come l'avrebbe travolta di nuovo, Eva ancora non lo sapeva.

 



NOTE:Ringrazio vivamente Francesca che ha saputo trasformare un capitoletto di tre pagine circa in cinque abbondanti facciate colme di fiumi di parole! Spero che questa storia comincia a piacervi sempre di più e spero che mi recensirete al più presto qualche vostra opinione :)!
Alla prossima!
Gabri_1266

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