Let it Beatles

di velvetmouth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - JOHN ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - PAUL ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - GEORGE ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - RINGO ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - JOHN ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - PAUL ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - JOHN ***


WHAT IF BEATLES 1 Ok, forse mi sto lanciando in un'impresa più grande di me anche perchè ho molte cose da scrivere in ballo, ma... Si sa, la mia più grande passione torna sempre a galla e ho tanto di quel materiale cartaceo sparso, nonchè pensieri ricorrenti i nostri 4 Beatles! Potrei stare qui a scrivere per ore di quanto li adori, quanto vorrei essere nata in quel periodo, averli visti almeno una volta nella vita ecc ecc ecc, ma mi dilungherei in chiacchiere inutili perciò, passiamo a quello che voglio raccontare sul serio:
'' E se la Beatlemania non fosse scoppiata negli anni '60? Come sarebbe andata la storia se i 4 di Liverpool fossero dei giovani d'oggi? Un'altra epoca, un mondo completamente diverso, le loro vite completamente differenti...Proverò a raccontarvi questa What if? con tutta la passione e l'amore possibili, sperando che possa piacere anche a voialtri! Peace & Love

PS:
premessa n°1= Essendo una what if non ricalcherò precisamente tutte le tappe fondamentali della vita o della carriera di John, Paul, George o Ringo, per ovvi motivi sia di epoca che di etica (voglio attingere, ma comunque creare un qualcosa ''ex novo''), quindi non se la prendano i fan più accaniti se non rispetto situazioni familiari, incontri, scontri ecc... (posso dirvi che gli eventi e i personaggi principalli rimarranno intoccati, anche se con le dovute variazioni del caso)
premessa n°2= Sarà una cosa alquanto impegnativa (ovviamente perchè lo voglio io. Potrei aggiornare ogni giorno, ma la qualità dello scritto secondo me ne risentirebbe, quindi preferisco curare ogni particolare e correggere, correggere correggere) dunque mi appello alla vostra santa pazienza (chi segue/ha seguito altri miei lavori ne sa qualcosa).
ED INFINE, non abbiate paura di lasciare i vostri pareri, siano essi positivi, negativi o so and so, l'importante è che le critiche siano costruttive e i complimenti esagerati e copiosi (i'm kidding) Ok basta vi ho ammorbati anche troppo, spero che vi piaccia! ENJOY!

CAPITOLO 1 - JOHN


La pioggia batteva sui vetri ruscellando instancabile. Comunque, niente di sconvolgente per gli standard climatici della città portuale di Liverpool, bagnata dal Mare d'Irlanda, a due passi dal confine con il Galles.
Un sedicenne smilzo se ne stava poggiato con la fronte sul vetro gelato del numero 251 di Manlove Avenue, scarabocchiando sulla condensa che formava il suo alito.
Anche se nato e cresciuto lì quello era pur sempre uno spettacolo svilente per un adolescente.
Si scollò sbuffando dalla finestra, arrotolandosi poi una manica del maglione per pulire il misfatto: già gli pareva di sentire Mimi urlare per le scale: ''Non sono la tua schiava, John Wiston Lennon! Le manate sulle finestre come un bambino di quattro anni!!! Non ho proprio parole per definirti!''
Richiuse le tendine per nascondere il panorama, poi passò lo sguardo lungo la camera. Sul letto il libro di letteratura era ancora aperto dove lo aveva lasciato, o meglio dove lo aveva abbandonato quando Mimi era entrata. Dietro la copertina spessa che raffigurava un'accozaglia di volti della tradizione britannica, mixati da un pessimo graphic designer, infatti, John teneva sempre il suo blocco da disegno. Quando la zia passava davanti alla sua porta semichiusa gettando uno sguardo per vedere cosa stesse combinando, John sembrava il perfetto studente modello, immerso nella lettura e nello studio; la verità era che stava componendo le sue poesiole scanzonate e strambe o disegnando caricature.
Passava i pomeriggi a quel modo, facendo schizzi, ascoltando musica sul suo mp3, immaginando di trovarsi altrove, via da Liverpool e dal suo clima, via dall'Inghilterra, in qualche posto nuovo, dove nessuno lo conosceva e dove lui stesso non conosceva niente.
Se ne stava ore con le cuffiette piantate nelle orecchie, mimando gli assoli di chitarra, muovendo le labbra come in playback, ballando come un forsennato per la stanza, finchè non cadeva esausto sul letto sfatto del giorno prima.
Mimi lo trovava spesso così a tarda notte, il computer ancora acceso, quella musica assordante che  gli rombava nei timpani e che le faceva domandare puntualmente come potesse riuscire ad addormentarsi in quel modo. Lei sgusciava furtiva dentro, facendo lo slalom tra jeans, calzini e cardigan sporchi, gli sfilava le scarpe da ginnastica, poi gli toglieva quelle diavolerie dalle orecchie e abbassava lo schermo del portatile. Solo in quel momento, osservando il profilo aquilino del nipote beatamente addormentato si sentiva libera di potergli sussurrare: ''Buonanotte Johnny-boy caro''

John non aveva mai pensato, neppure per un istante, di non essere riconoscente per quella zia che lo aveva tirato su tutta da sola. Sì, c'era stato lo zio George ma ormai anche lui era sottoterra da un po', pace all' anima sua.
No, di Mimi John non aveva mai avuto di che lamentarsi. Certo, era una donna di polso, molto severa e a tratti fredda, addirittura glaciale, ma... Con un cuore di burro e un'anima gentile le cui corde John sapeva solleticare ormai con maestria.
Dal canto suo Mary Elizabeth Stanley, vedova del compianto signor Smith, era tutto sommato fiera di quel ragazzo dall'aria scanzonata e spavalda che le aveva lasciato sua sorella. Non provava più risentimento per lei adesso, ma i primi tempi erano stati i peggiori.
Julia aveva lasciato il piccolo John da loro, dicendo che sarebbe stata via per un po', sicuramente dietro ad uno di quegli scapestrati che frequentava di solito, combinando chissà cosa, chissà dove. Mimi era disgustata dal comportamento della sorella, così incoscente e irresponsabile, d'altronde lo era sempre stata ma, ingenuamente Mimi aveva creduto che con la nascita di John le cose sarebbero potute cambiare.
Le due sorelle Stanley non potevano essere più diverse: Mimi era sempre stata una tipa di ferro sì, ma tradizionalista, legatissima alla famiglia, senza grilli per la testa e un incredibile senso del dovere, a volte anche troppo impostata ed austera per la sua giovane età.
Julia invece era il suo opposto, molto indipendente ma anche facilmente condizionabile, uno spirito naive con un'etica tutta sua della vita, ribelle fino al midollo e trascinata dalle passioni, che finivano per metterla nei guai.
Si era fatta mettere incinta da un poco di buono, Alfred, un tizio sempre ubriaco e rissoso che nel giro di poco tempo era sparito per non tornare mai più, così lei era andata a stare dalla sorella. Di tornare dai genitori non aveva pensato neppure per un minuto, erano anni che ormai non parlava più con loro e Mimi, seppur con molte obiezioni, aveva finito per accettare di aiutarla.
Vedersela comparire davanti alla porta con il pancione, gli abiti sporchi e nient'altro con se', se non una borsa sdrucita, aveva fatto esplodere in Mimi un miscuglio di emozioni che non seppe definire. Non poteva abbandonarla proprio adesso, in fondo era pur sempre sua sorella ed oltretutto stava per avere un bambino e, anche se non voleva ammetterlo perchè troppo orgogliosa ed ostinata, amava l'idea di stringere tra le braccia un nipotino.
John fu da subito croce e delizia, ma anche se il suo carattere pessimista e schivo continuava a borbottare dalle retrovie, Mimi aveva creduto veramente che sarebbe stato possibile trovare un equilibrio.
Non poteva sbagliarsi di più.
Una mattina scendendo per la colazione suo marito George aveva trovato un biglietto di Julia scritto a mano frettolosamente. Solo due parole: ''Mi dispiace''
Lì per lì Mimi era montata su tutte le furie e non perchè dovessero occuparsi di un bambino non loro, con due stipendi miseri e tutte le preoccupazioni o doveri che ne conseguivano, ma sopratutto perchè quella creatura avrebbe potuto essere cresciuta da chiunque al mondo, ma avrebbe sempre portato per sempre dentro di sè i segni indelebili di quelle perdite.
La testarda signora di Menlove Avenue si rimboccò le maniche e fece il possibile per educare quel ragazzino scalmanato e un po' particolare, che le dava già un mucchio di grattacapi, ma che amava come fosse suo. Lo preferiva mille volte fare marachelle in quartiere, che sbattuto chissà dove dietro quella dibosciata di sua sorella.
Poi anche George morì e Mimi si ritrovò dolorosamente sola, doveva lavorare e star dietro a John, che ormai aveva 14 anni ed iniziava a mostrare i primi segni di quell'irrequietezza giovanile tutta particolare che solo gli animi creativi possiedono.
Un pomeriggio se ne tornò a casa con un vistoso piercing al lobo, il sorriso a 32 denti bene impresso sulla faccia e l'aria da impunito.
- Cosa hai combinato a quell'orecchio?-
Per tutta risposta John aveva ondeggiato le spalle, sbuffando dal naso.
- Zia, come sei antica... ce lo hanno tutti!-
- Oh bhe, se tutti decidessero di forarsi la fronte con una trave di metallo tu lo faresti non è vero?-
Quel sorrisetto a labbra strette e gli occhi piccoli, scuri, da predatore, la prendevano in  giro ad ogni battito di ciglia.
Non aveva retto la stizza, si era avvicinata a lui e gli aveva stampato una bella cinquina sulla guancia; John non si aspettava una reazione del genere ed arretrò, le mani sul viso e lo sguardo ferito, incredulo.
Fu una delle occasioni in cui John non le parlò per giorni; poi però comprese il misfatto e, almeno in sua presenza cercava di togliersi quel brillocco che, appena messo piede fuori casa sfoggiava così orgogliosamente.
Non era certo facile avere a che fare con un adolescente: uscite con gli amici, il cellulare nuovo, la linea internet, andare ai concerti... Mimi non riusciva a stare al passo con le richieste del nipote. Il più delle volte gli vietava di mettere in pratica tutte le idee strampalate che si metteva in testa, ma presto scoprì che se non gli veniva permesso qualcosa, John Wiston Lennon se la prendeva lo stesso.
Non era raro che avesse a che fare con la polizia, che glielo riportassero a casa graffiato e ammaccato perchè partecipe ad una rissa nei quartieri più squallidi del porto.
Un giorno, vicino al 15esimo compleanno di John, mentre infilava in lavatrice gli abiti che lui aveva buttato a terra in giro per la camera, Mimi trovò un coltellino svizzero.
Aveva salito le scale come una furia, sbuffando come una locomotiva a vapore, era entrata sbattendo la porta mentre John stava parlando con un suo amico al telefono.
-Zia, posso avere un po' di intimità?-
Solito sorrisetto sardonico.
- Te la dò io la tua intimità, razza di criminale che non sei altro! Butta subito giù quell'arnese!-
- Stu, ti richiamo io, ok? Mia zia sta avendo un attacco di psicoqualcosa-
Mimi cercò di controllarsi, anche se la voce le tremava dalla rabbia e le mani stringevano il coltello, come fosse l'arma di un qualche delitto.
- Cosa ci faceva questo nei tuoi jeans, John?!-
Per tutta risposta il 15enne sollevò le spalle, un'espressione esasperatamente innocente.
- E chi lo sa... Qualcuno vorrà screditarmi, sai buttare fango sul mio buon nome!-
- Non fare il simpatico con me! Sai che se succede qualcosa e ti trovano con questo addosso puoi passare guai seri? Per non parlare poi di usarlo! Vuoi finire in prigione? Vuoi diventare un criminale senza futuro?!-
Non ce la fece a reggere oltre. La voce di Mimi si ruppe, lasciò andare il coltello, che cadde sul parquet graffiato della camera di John. La donna inizò a singhiozzare, le spalle incassate e la testa bassa.
- Zia ma cosa fai?-
- Sto piangendo, razza di somaro!-
Si guardarono per una manciata di secondi, forse vedendosi veramente per la prima volta.
Lui, un ragazzino acerbo e smilzo, con una smisurata fretta di diventare grande, la volontà di canalizzare quell'attenzione di cui sentiva non essere mai stato protagonista. Forse... Sì, probabilmente era anche in cerca di amore, sotto la scorza da duro che stava pian piano costruendo.
E lei, bisbetica e inacidita per nascondere il dolore e il peso di quella vita faticosa che, volente o nolente si era trovata a vivere.
Lo prese per le spalle, se lo portò al petto con uno strattone e poi lo strinse con quanta forza aveva in corpo.
- Io voglio solo che tu sia un bravo ragazzo, Johnny-Boy... Che tu ti tenga lontano dai guai che invece sembrano piacerti tanto...-
Poteva sentire il respiro del nipote strozzarsi, ma sapeva che non avrebbe pianto. Non aveva pianto nemmeno uscendo dal ventre di sua madre, nè quando lei era andata via, quando aveva 6 anni ed era solo al mondo. No, John Lennon possedeva forse poche lacrime, ma si poteva star certi che le avrebbe versate solo in situazioni di grande dolore e il separarsi definitivamente da quella madre che pensava un giorno di poter rincontrare era sicuramente il più grande di tutti.
Stettero molto tempo così abbracciati, Mimi piangendo sui capelli folti di John, John sussurrando promesse che all'ora di cena avrebbe già dimenticato.



La situazione precipitò proprio quel giorno piovoso di novembre, un mese e dieci giorni dopo il sedicesimo compleanno di John.
Qualcuno suonò alla porta, John era ovviamente rinchiuso in camera sua, Mimi sperò che stesse studiando, perciò decise di non disturbarlo. Lasciò la tv accesa e arrivò nell'ingresso. Si chiese che genere di pazzo uscisse con un tempo del genere, ma guardando dallo spioncino non fu certo sorpresa di chi le si trovasse davanti.
-Stuart, prego...Entra pure-
Quel ragazzo non le era mai stato a genio, ma doveva dolorosamente riconoscere che nel duo Lennon-Sutcliffe la vittima era senza dubbio quest'ultimo.
Il ragazzo era fradicio da testa a piedi, l'utilizzo del K-Way si era rivelato del tutto inutile col diluvio universale che si era scatenato fuori.
- Grazie signora Smith!-
Stuart Sutcliffe entrò gocciolando sul pavimento del salotto, lasciando pozzanghere lungo tutto il tragitto.
-Stuart, caro, non puoi stare con quella roba fradicia addosso... Vado a chiamarti John, ti presterà qualcosa di comodo e asciutto!-
Stava per mettere il piede sul primo scalino, quando il ragazzo la interruppe.
- Non c'è bisogno che lei vada a chiamarlo, gli mando un messaggio!-
Il sorriso di Stuart era furbesco come quello di John, ma in modo più candido, quasi innocente.
Mimi in tutta risposta alzò le mani di fronte a quelle diavolerie tecnologiche e tornò in cucina a preparare una delle sue famose torte di mele.
Pochi minuti dopo il ciabattare rumoroso di John per le scale annunciò la sua apparizione teatrale avvolto in un plaid rosso scuro.
I due si salutarono come vecchi compagni che non si vedono da una vita, poi Stuart si infilò una delle felpe di John ed un paio di pantaloni scuri.
-Era proprio necessario che mi facessi mettere la roba più imbarazzante che avessi?-
Stuart sollevò il sopracciglio nell'indicare il maglione con una stampa enorme di Topolino sul davanti.
- Ma tesoro! Se ti sta una fa-vo-la!!!-
Mimò John con voce effemminata, carezzando Stuart sulla spalla. Iniziarono a spintonarsi, ridendo come ossessi e rivolgendosi ogni sorta di insulto. John per poco non inciampò nella sacca che Stu aveva portato con se'.
- Hey, che ci tieni qui dentro? Il cadavere della fidanzatina?-
John sfoderò un sorriso inquietante, facendo alzare le sopracciglia.
- Una specie... Anche se è tutt'altro che morta!-
Stu sorrise di sbieco, facendo l'occhiolino al compagno, poi, inginocchiandosi vicino alla borsa iniziò a sfilare la lampo.
All'interno riposava una chitarra acustica di legno chiaro, leggermente graffiata, ma comunque in buono stato.
Il sorriso di John si allargò per tutta la faccia, illuminandosi come fosse un faro.
- Cazzo, Stu! Questa dove l'hai recuperata?-
- L'ho trovata nel garage di mio nonno... Che te ne pare? Non sembra messa poi tanto male!-
- Male?! A me sembra perfetta!!!-
John balzò in piedi, iniziando a ridere come un matto. Poi, spintonando Stu, si riaccovacciò vicino alla chitarra. Lasciò che le dita gli scivolassero lungo il profilo affusolato delle corde.
Ed eccola là, la sua ossessione ormai da mesi. Voleva imparare a suonare, sentiva che la musica era quel qualcosa che mancava nella sua vita, come musicista intendeva. No, come ''ascoltatore'' John poteva vantare una vasta gamma di interessi e stili, ma ciò che gli mancava era entrare sul serio nella Musica, comporre a sua volta, sentire qualcosa di suo prendere forma e svolazzare per la stanza. Lui e Stu si erano messi in testa di trovare qualcosa da fare, un hobby che non fosse marinare la scuola.
Era stato proprio Lennon a insistere che iniziassero a suonare uno strumento, Stuart non ne era molto convinto. Aveva sempre preferito pennelli e carboncini alla musica. Già si vedeva diplomato all'istituto d'arte col massimo dei voti, idolatrato poi nei più grandi musei, nelle mostre d'arte più prestigiose. Ma come passatempo, la musica poteva andare alla grande.
Conoscendo però le idee seriose di zia Mimi, John non si era nemmeno sognato di farle sapere cosa aveva in mente e sopratutto di chiederle dei soldi per comprare una chitarra. Dopo quella volta in cui aveva trovato del fumo in camera sua Mimi aveva smesso di dargli soldi, se non in situazioni del tutto particolari. E quella sicuramente non sarebbe stata una di quelle. Perciò Stuart si era sobbarcato l'impegno di rimediare uno strumento malmesso che avrebbe potuto permettergli di imparare le basi.
- Cosa combinate voi due, lì per terra?-
Nemmeno un battito di ciglia che il borsone fu di nuovo ermeticamente chiuso. Mimi, rimase sulla soglia della cucina, i guanti da forno infilati alle mani.
I ragazzi sembravano strani. Non che non lo sembrassero sempre a suo avviso, ma sembravano nascondere qualcosa, stavolta. Decise di non ossessionarsi inutilmente con idee catastrofiche e sperò che non si stessero cacciando nei guai.
- Stu è venuto per studiare zia Mimi, ci stavamo organizzando...-
''Che bugiardo impunito''
- Certo, John... E io sono la regina Elisabetta! Forza, venite ad assaggiare la torta che ho appena sfornato prima di gettarvi a capofitto nel vostro...''studio''-
Stuart balzò in piedi come se avesse sentito suonare l'armonia più celestiale dell'universo.
- Sei un fottuto voltafaccia, Sutcliffe!-
Lo apostrofò John, lo sguardo incollato alla sagoma scura del borsone abbandonato sul parquet. Dopo la scorpacciata di una delle proverbiali torte di zia Mimi, John e Stu si erano rinchiusi in camera con tutto l'intento di studiare, sì... Ma della musica.
- Devi assolutamente rimediare uno strumento, John... Non possiamo imparare con una chitarra in due! E sopratutto le lezioni serie costano un sacco di soldi...-
John osservava la strada da più di dieci minuti, ascoltando la voce dell'amico o il pizzicare tenue di qualche accordo mentre Mimi passava l'aspirapolvere al piano di sotto.
- Sai che i soldi sono un problema per me, Stu... E per quanto riguarda le lezioni, non abbiamo bisogno di imparare niente da nessuno! Possiamo fare tutto da soli!-
Sutcliffe guardò l'amico come se stesse blaterando in qualche lingua incomprensibile, poi dopo aver parlato ancora una qualche manciata di minuti, lo informò che doveva andare a trovare un'amica per ripassare l'ultimo capitolo di biologia.
- Ah-ah, Sutcliffe! Scommetto che a fine giornata sarai un asso in Anatomia!-
I due si separarono con una pacca sulla spalla e sorrisetti ammiccanti. John rimase sulla porta ad osservare l'amico scomparire nell'aria fumosa e rarefatta dalla pioggia, il borsone sulle spalle che sbatteva ad ogni passo.
Si richiuse la porta alle spalle, sbuffando afflitto, conscio che quel desiderio non sarebbe stato facile da realizzare, specie con Mimi tra i piedi. Doveva trovare un modo per imparare a suonare, ma prima di tutto, trovare uno strumento.
- Cosa ti affligge, Lennon?-
Mimi stava stirando le camicie della sua uniforme scolastica e, anche se nel bel mezzo delle sue centinaia di faccende, riusciva comunque a capire quando qualcosa gli stava passando per la testa.
Lui le si fece accanto, poggiandole il mento sulla spalla.
- Niente mi afflige, zietta cara!-
Le stampò un bacetto frettoloso sulla guancia, mentre la guardava di sguincio.
Una risata sprezzante e roca uscì dalla gola della zia.
- Se stai per chiedermi dei soldi, nipotino caro, sappi che conosci bene la mia risposta, e adesso levati dai piedi e torna a studiare!-
Scansò John con una spintarella affettuosa, ma la voce estremamente ferma e solida, come al suo solito.
John non insistette. Non era dell'umore adatto per scherzare su qualcosa che gli stava così a cuore; a volte odiava l'atteggiamento della zia, avrebbe voluto essere solo, senza la sua presenza arcigna e severa continuamente fra i piedi. Spesso si prendeva gioco di lui, come per ricordargli che fino a prova contraria, era lei ad avere potere sulla sua vita almeno fino al compimento dei suoi 18 anni. Aspettava quel momento come fosse Natale, quando finalmente si sarebbe liberato di quella presenza ingombrante, che lo frenava e limitava le sue aspirazioni.
Uscì dalla stanza strascicando i piedi su per le scale.
- E con studiare intendo incollare gli occhi sulle pagine del libro, non scarabocchiare con quell'album da disegno e la musica nelle orecchie!-
John le fece il verso boccheggiando alle parole della zia, poi arrivato in cima alle scale, si chiuse dentro camera sua.
Mimi Smith sapeva bene ciò che vorticava nella testolina ricciuta del nipote in quei momenti. La dipingeva come un tiranno dispotico, ai danni del quale il giovanotto spesso tentava sommosse rivoluzionarie che non facevano altro che inasprire le repressioni nei suoi confronti.
Mimi non avrebbe voluto comportarsi a quel modo, ma John non le dava scelta. Il taglio dei viveri era stato necessario visto l'uso distruttivo che ne faceva.
''Porta ancora della droga in questa casa, Lennon, e io ti sbatto in collegio! E sai a che tipo di collegio io alluda''
Sì, quello che sarebbe servito a John era un istituto vecchio stampo, con una ferrea educazione religiosa ed ai sani principi, una pesante infarinatura di rispetto ed onestà, condita da un'immancabile dose di restrizioni. Non voleva essere una dittatrice, ma John non le lasciava scampo.
Iniziava seriamente a pensare che quel Sutcliffe, come chissà quali altri ragazzacci frequentasse, non facessero altro che peggiorare l'attitudine già ribelle del nipote.
E pensare che aveva fatto di tutto per fare in modo che trovasse una sua dimensione, si sentisse a suo agio! Notando le sue difficoltà e la sua insofferenza alla Querry Bank High School, Mimi l'aveva iscritto alla Liverpool Collage of Art, dove sperava che le sue qualità sarebbero venute fuori in maniera meno burrascosa.
Il ferro da stiro passava sulla camicia stropicciata di John, rendendola liscia come una tavola, e così Mimi avrebbe voluto fare con lui, modellarlo, addrizzare tutte le storture del suo carattere, ma non per cattiveria o per prevaricare la sua individualità, tutt'altro... Proprio perchè lo amava così immensamente, per lui non poteva che desiderare il meglio. Dove sarebbe andato a finire se non avesse finito la scuola? Se si fosse abbandonato alla droga e a quella vita di stravizi che era stata tanto cara al padre? Non poteva permettergli di buttare la sua vita dopo tutti i sacrifici fatti per lui. Aveva solo 16 anni, Mimi continuava a ripetersi che sarebbe stata solo una fase ma... In alcuni momenti quando si ritrovava da sola riusciva a stento a trattenere le lacrime al pensiero di come stesse sempre più fallendo nella missione di educare il ragazzo.
''Forse non gli ho dato abbastanza affetto... Con le mie punizioni non ho fatto altro che alimentare la rivalsa nei miei confronti''
Proprio mentre se ne stava immersa nei pensieri, con la voce petulante di qualche venditore alla televisione come sottofondo, Mimi sentì bussare alla porta.
Fu un rumore quasi impercettibile, visto il continuo ruscellare della pioggia che quel giorno sembrava proprio non voler smettere.
Pensò che dovesse trattarsi di nuovo di Stuart, così attraversò il salotto velocemente e senza nemmeno guardare dallo spioncino, aprì la porta.
- Cosa ti sei dimenticato stavol....-
Le parole le morirono in gola in un rantolo strozzato e incredulo.
Davanti a lei non c'era nessun ragazzino di 16 anni, bensì sua sorella Julia, fradicia dalla testa ai piedi, quasi irriconoscibile coi capelli davanti alla faccia.
Un moto di rabbia e furore si impossessò delle sue membra.
- Tu cosa ci fai qui?-
Sibilò, socchiudendo la porta alle spalle.
Non le avrebbe permesso di rovinare tutto, adesso che John sembrava aver superato la sua perdita. Non poteva permetterle proprio di piombare di nuovo nella vita di quel povero ragazzo... Cosa voleva ancora da lui? Se ne era disinteressata completamente fino a quel momento.
Julia per tutta risposta indicò la porta.
- Tu non entrerai qui dentro!-
- Voglio solo vedere mio figlio...-
- Non è affatto figlio tuo! Tu lo hai partorito, sì... Ma chi si è preso cura di lui? Chi lo ha curato quando era ammalato? Chi si è presa carico della sua istruzione, educazione? Chi gli ha dato tutto l'amore che essere umano può provare? Siamo stati io e il povero George... Ed ora io sono tutta sola... Ed io e John abbiamo trovato un equilibrio e, giuro su Dio, Julia, non permetterò che tu venga qui a rovinare tutto!-
La pioggia sembrava aumentare d'intensità, formando un fiumiciattolo che scivolava e scivolava fino all'incrocio della strada. Dopo pochi minuti, Mimi era già fradicia fino al midollo, ma non intendeva tornarsene dentro finchè Julia non se ne fosse andata via per sempre, lontana da casa sua e da John.
- Sparisci!-
Le intimò fra i denti, guardandola con sguardo infuocato
Julia la osservava dritta negli occhi, senza dar segno di arretrare, piantata lì sul portico, le braccia lungo i fianchi e i capelli appiccicati alla testa.
- Ehi Mimi?! Che ci fai impalata sotto la pioggia?-
John si materializzò dietro di lei, la sua sagoma appena visibile dietro il vetro offuscato della porta d'ingresso semichiusa.
- Non ti preoccupare, Johnny caro, torna pure di sopra...-
Julia trattene il respiro in quella manciata di secondi che impiegò il ragazzo ad aprire la porta quel tanto che bastasse per capire cosa diavolo stesse combinando sua zia sotto quel diluvio.
Lo sguardo dei due si incontrò: John la osservava mentre Julia gli si faceva sempre più vicina e Mimi, sconfitta, si faceva da parte poggiando le spalle contro il muro.
Li separavano ormai una manciata di spanne quando il sorriso di Julia si illuminò, splendente come un sole.
John trattenne a stento le domande dolorose che avevano punzecchiato la sua mente in tutti quegli anni e si abbandonò a quell'abbraccio caldo e tenero che, a dispetto di tutte le previsioni che avrebbe potuto fare, lo fece sentire amato e finalmente desiderato.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - PAUL ***


WHAT IF BEATLES 2 CAPITOLO 2 - PAUL


La luce filtrava appena dalla porzione di tapparella lasciata semichiusa. Si rigirò nel letto ignorando il sussurro di Mike che lo chiamava. Odiava essere svegliato nel bel mezzo di un sogno e odiava ancor più non ricordarsi minimamente cosa stesse sognando.
- Ti vuoi alzare? Il pullman passa tra meno di mezz'ora!-
Suo fratello era sceso dal letto, si era fatto accanto a lui e adesso lo picchiettava sulla spalla.
Aveva un braccio ciondoloni, totalmente abbandonato fuori dalle coperte. Mugugnò mentre si voltava, dandogli le spalle.
- Fai come vuoi, dannazione!-
Sparì fuori dalla stanza e dopo qualche minuto sentì il rumore dell'acqua che scorreva dal rubinetto. Fece un'incredibile fatica nell'aprire gli occhi ancora incollati dal sonno. Diede uno sguardo distratto alla sveglia che aveva sul comò. Sperò che suo fratello avesse esagerato, come faceva la mamma, che per farlo alzare, inventava che fosse un'ora diversa da quella che in realtà era.
No, stavolta Michael aveva ragione: 7.30, doveva alzarsi.
Riemerse dalle coperte come uno zombie. Barcollò verso il bagno, nel quale entrò con gli occhi ancora chiusi e abituati all'oscurità. Suo fratello si stava guardando allo specchio, corrucciato, interdetto.
Gli dette le spalle, iniziando a far pipì. Sospirò, un sorrisetto sarcastico che gli allargava le labbra.
- Mike, la barba non ce l'hai... Inutile che controlli ogni mattina-
- Vaffanculo!-

James ''Jim'' McCartney stava leggendo il giornale alla prima luce del giorno quando vide Paul scendere le scale, il viso ancora assonnato e gli occhi scuri, grandi, lievemente cerchiati.
Non sollevò neppure lo sguardo quando il ragazzo prese posto davanti a lui, scostando leggermente la sedia.
- Fatto ancora tardi per studiare immagino...-
Paul annaffiò la sua tazza di cereali con un'abbondante dose di latte sorridendo al padre.
- Dovrei continuare a minacciarti fino alla laurea di questo passo, per vedere risultati!-
Jim aveva promesso al figlio che se avesse portato a casa dei buoni voti gli avrebbe fatto una sorpresa. Niente poteva stuzzicare la curiosità di un adolescente come una proposta del genere.
In cuor suo Paul sperava ardentemente che il padre gli comprasse una chitarra, perchè conosceva bene le ambizioni e i desideri del figlio quattordicenne. Jim poi, aveva suonato in un gruppo quando era più giovane e amava la musica da sempre, specialmente il jazz, e da sempre aveva voluto che i figli diventassero musicisti come lo era stato lui. Adesso si dilettava perlopiù a suonare il piano, un bellissimo strumento verticale in legno che aveva comprato al negozio di Harry Epstein in Walton Road.
- Sai che riuscirò ad essere il migliore della classe, pà... Dopotutto non sarebbe una novità!-
Paul ammiccò al padre mentre portava alla bocca una cucchiaiata di cereali.
Jim rise della ''modestia'' del figlio e mentre addentava la sua fetta biscottata imburrata si ritrovò a pensare che per la prima volta dopo la morte di Mary si sentiva abbastanza felice.

Sul pullman verso il Liverpool Institute Paul si sedeva spesso vicino ad un certo George Harrison, un tipino smilzo e timido, sempre silezioso e con lo sguardo torvo. Conoscendolo aveva capito che in realtà di torvo e minaccioso non aveva nulla, se non il cipiglio, e che nascondeva invece un paio d'occhi mezzi spauriti.
Gli piaceva farsi vedere con quel ragazzino e, anche se aveva solo 8 mesi più di lui, spesso si comportava da spaccone, per quel gusto tutto suo che aveva di primeggiare.
- Hey Harrison!-
Gli si mise accanto, facendo scivolare lo zaino sulla spalla destra, sul lato esterno. Notò che il ragazzino non lo aveva sentito, dato che aveva infilate nelle orecchie un paio di cuffiette. Ripetè il saluto, stavolta parandosi davanti e agitando la mano.
- Ciao Paul!-
Una mano sottile e ossuta fece sparire l'arnese dentro la tasca dei jeans.
McCartney notò che il compagno stava di nuovo scarabocchiando sui libri.
- Ancora a disegnare chitarre, eh?-
Diede uno sguardo alle forme impresse a lapis sulle pagine. Decine e decine di chitarre di ogni sorta e dimensione, acustiche, elettriche, dalla forma sinuosa o appena accennata, con foro rotondo, fatte di plastica o di legno, multicorde, con manici rinforzati o semplici. Un vero patito.
- Dannazione ti sei proprio fissato...-
Constatò Paul, indicandone una disegnata fra le fiamme. Onestamente riusciva a immaginarsi tutto, un asino con le ali, un orso che ballava il tip tap o persino suo padre con una folta cascata di capelli, ma non Harrison come chitarrista.
George lo guardò con quei suoi occhi che sembravano sempre un po' tristi e malinconici.
- Sono la mia ossessione... Non riesco a pensare ad altro, almeno finchè non ne avrò una... Ma, mi dispiace far spendere soldi ai miei, insomma non navighiamo nell'oro... Già per avere questo...-
Estrasse dalla tasca dei suoi jeans chiari l'mp3 di prima, lasciando morire il discorso.
McCartney abbozzò un sorrisetto tirato. Certo, gli dispiaceva per lui, ma poteva benissimo trovare uno strumento anche a poche sterline. E non nascose neppure di sentirsi ringalluzzito al pensiero che suo padre gliene avrebbe presto regalata una.
Si sentì in dovere di farlo sapere a George, dopotutto, amava essere idolatrato dai più piccoli.
- Sai, io a breve ne avrò una...-
Gli rivelò, passandosi la mano tra i capelli scuri.
- Te la farò provare se vuoi!-
Gli occhi di George si illuminarono e quelle enormi orecchie a sventola che si ritrovava gli diventarono tutte rosse per l'emozione.
- Lo prendo come un sì!-
Paul gli dette una pacca sulla spalla, assaporando quella inebriante sensazione di superiorità.

A scuola era sempre andato bene, anzi benissimo, e aveva anche la fortuna di avere un bell'aspetto, nonchè un certo modo di fare che lo salvavano dall'essere additato come ''secchione''. Tutt'altro, Paul era uno dei ragazzi più popolari della scuola e questo anche e sopratutto per la sua fama di ragazzo invidiabile.
Circolavano su di lui ogni genere di voci, più o meno veritiere, su quanto la sua vita fosse tutta rosa e fiori e costellata di successi. Dal canto suo Paul aveva molti amici, ma nessuno sapeva quanto in realtà la facciata del ragazzo popolare che gli si era costruita addosso fosse fragile.
Da quando la madre, Mary, era morta per un tumore al seno, Paul non era più stato lo stesso.
In quel suo paio d'occhi scuri, circondati da un paio di ciglia lunghissime, estremamente femminei e dolci, era scesa una patina di dolore che riusciva magistralmente a nascondere ai più. 
Era astuto, con un gran carisma e una dote ammaliante che sconcertava i più grandi, specialmente gli insegnanti. Non riuscivano proprio a spiegarsi come quel ragazzino dalla faccia pulita e l'aspetto di un angelo potesse essere una tale calamita d'interesse. Ma era evidente, McCartney aveva potere e questo lo aveva capito fin dalla tenera età.
Era una peculiarità tutta sua quella di riuscire a manipolare le persone, le rassicurava in un certo senso col suo aspetto indifeso e totalmente innocuo; anche per questo spesso usciva impunito dalle situazioni più disperate.
Era senza dubbio un bravo ragazzo, ben educato sì, ma anche estremamente consapevole della sua acuta intelligenza.
Non era di certo impensabile vederlo nel giro di qualche anno iscritto ad una delle principali università del Paese, un futuro costellato di successi accademici, con un lavoro invidiabile e una famigliola felice. Sì, James Paul McCartney era l'emblema del ragazzo modello, del figlio perfetto.
Ma come solo lui stesso ben sapeva, esisteva un lato di Paul che, associato al suo bel faccino, sembrava impensabile. Un lato oscuro e misterioso, che spesso, spaventava anche lui stesso. Gli piaceva pensare che fosse proprio come un diamante dalle mille sfaccettature e perciò impossibile da capire fino in fondo. Questa era senza dubbio una cosa che lo intrigava molto del suo stesso carattere: poteva apparire molto estroverso e ammaliante, ma anche scostante e snob. Amico di tutti e di nessuno, impenetrabile e aperto; dava la costante sensazione di conoscerlo a fondo, finchè non saltava fuori un comportamento totalmente diverso che rimescolava tutte le carte in tavola.
Era stato spesso accusato di comportarsi in modo ambivalente e sopratutto dalle ragazze additato come egocentrico e narcisista.
La sua prima fidanzata lo aveva definito ''un mostro insensibile e schifoso'' e gli aveva anche sputato in faccia, come se non bastasse. Con il suo aplomb invidiabile aveva superato l'imbarazzo con una scrollata di spalle e un sorriso goliardico verso gli amici, rimasti a bocca aperta ed occhi sgranati.
Il tutto era stato dimenticato in breve tempo, anche perchè aveva iniziato subito a vedersi con una ragazzina dai capelli ricci  e cosparsa di lentiggini, sulla quale circolavano voci di incoraggiante ''spigliatezza''.
Le sue conquiste d'altronde erano sempre velate da un profondo alone di mistero, il che rendeva la sua vita privata dannatamente eccitante agli occhi dei coetanei, che lo osservavano ammirati di quella sua abilità naturale nel riuscire vincente in ogni impresa.
Non era un tipo del quale rimanere indifferenti: o si amava o si detestava, ma di certo non passava inosservato.

-Ehi Macca!-
Si voltò, un lampo di sole negli occhi. Fu costretto a socchiuderli prima che la sagoma di Ivan Vaughan si stagliasse sopra di lui.
-Ciao Iv!-
Rispose stringendo il braccio dell'amico. Erano nati lo stesso giorno dello stesso anno nella stessa città, qualcosa voleva pur dire, no?
- Qualche novità? Che mi racconti di bello?-
Ivan ammiccò, stringendosi la lingua contro i denti in un'espressione furbesca.
- Ti ricordi quella tipa, Laura?-
Paul annuì, un mezzo sorrisetto stampato sulle labbra.
- Bhe, le ho chiesto il numero e ci siamo incontrati giovedì...-
Le sopracciglia di McCartney si inarcarono. C'era solo una cosa che gli interessava sapere, solo una cosa che Ivan doveva fare. O almeno avrebbe dovuto fare.
L'amico fu pronto ad alzare subito le mani, scuotendole a mezz'aria.
- L'ho baciata, l'ho baciata!-
Paul scattò in piedi, una pacca sulla spalla del compagno.
- Oh, figliuolo, sono fiero di te!-
Si complimentò contraffacendo il tono di voce. Vaughan rise a bocca aperta, acchiappando l'amico per la vita. Lo sguardo di Paul si fece di nuovo torvo.
- Spero tu abbia seguito le mie regole d'oro, Vaughan... Altrimenti mi renderesti un maestro molto deluso!-
Ivan scondinzolò come un cucciolo attorno alle gambe del padrone.
- Non l'ho cercata, ne' richiamata, ne' niente di niente!-
Teneva una mano sul petto, l'altra dietro la schiena, come in un giuramento da scout.
- Bravo il mio allievo! Potresti quasi superare il maestro! QUASI!-
Entrambi scoppiarono a ridere.
- Ma... Cioè, lei mi piace... Perchè non mi ha cercato lei, scusa? Cioè, l'ho anche aggiunta su facebook ed ho il suo numero... Ma lei, niente... Cioè voglio dire tu avevi detto...-
Paul alzò un dito, a poche spanne dal viso lungo e magro di Ivan, che serrò le labbra.
- Ehi, ehi, ehi, frena! Cos'altro ti ho detto però? Aspetta almeno tre giorni... Se dopo il terzo non si fa sentire, è solo una stronzetta che non merita le tue attenzioni, probabilmente sta frenando quelle sue preziose manine dallo scriverti un messaggio perchè è troppo dannatamente orgogliosa, ma vedrai... Entro stasera ti scriverà! Tu, però, non alzare un dito, intesi?-
Ivan pendeva dalle labbra a cuore dell'amico, ascoltava le parole di quel guru dell'Amore come fosse la più dolce melodia del mondo. Che tipo, quel McCartney!
- Cazzo, Paul, queste femmine... Sempre a farsi desiderare!-
Gli occhi verde scuro di McCartney si socchiusero di nuovo nella lama di luce che vi si specchiava. In quel preciso istante avrebbe tanto voluto potersi preoccupare di ragazze con Ivan, ma aveva qualcosa di meglio su cui canalizzare le sue attenzioni.
A breve avrebbe tenuto fra le mani una stupenda, nuovissima chitarra. La bramava più di ogni altra cosa al mondo, la sera accendeva il suo portatile e stava ore a guardare in loop video su video su video tutorial per imparare le basi. Ormai la sognava anche la notte: ne imbracciava una lucente e scura, illuminato dall'altro da una luce a cono, tipo raggio da una navicella UFO, indossava i suoi jeans chiari, le converse nere e il giacchetto di pelle con le spille di cui andava estremamente fiero.
Iniziava un interminabile riff, le dita delle mani che accarezzavano le corde come fosse la cosa più semplice del mondo, sentiva il sudore imperlargli la fronte, gocciolargli dai capelli e impregnargli la maglietta, ma non gli importava. Il suo sogno di gloria era finalmente esaudito. Lui, James Paul McCartney suonava su un vero palco e si sentiva dannatamente figo, molto più del solito almeno.

 Era entrato a casa dopo una giornata interminabile e piovosa. Non era di buon umore, affatto. Avrebbe voluto soltanto buttarsi a letto ascoltando musica dal suo cellulare. Si ricordò in un lampo doloroso che avrebbe prima dovuto terminare una ricerca di scienze sugli organismi monocellulari. Schifezze.
Entrò in cucina, dando uno sguardo in salotto, dove Mike stava giocando ad un videogioco di sbudellamenti zombie.
- Ehy Paulie, lo fai anche a me un panino?-
Sbuffò, ignorando volutamente il fratello, aprendo il frigo nella disperata ricerca di qualcosa di commestibile. Arraffò del prosciutto e formaggio a fette, chiudendo poi l'anta con la punta delle scarpe. Lo sguardo gli cadde su una foto, tenuta su da un paio di calamite, una di Tenerife e l'altra raffigurante la torre pendente di Pisa. Nella cornice sbeccata della foto sorrideva una donna a sedere su un prato, con due bambini paffutelli al suo fianco. Lui era appoggiato alla spalla destra, mentre Mike sedeva a gambe incorciate leggermente più vicino all'obiettivo.
Paul poggiò quello che aveva fra le mani senza staccare gli occhi di dosso alla figura.
Il sorriso candido, i capelli leggermente mossi che le cadevano sulle spalle. Un vestito a fiori che la rendeva raggiante, splendida su quel tappeto erboso e soffice. Non poteva ricordarlo ma quella era stata veramente una giornata felice.
''Un picnic sul prato, come ai vecchi tempi''
Ripeteva papà, sfiorando i bordi mentre gli occhi gli diventavano liquidi.
La mamma aveva i suoi stessi grandi occhi lievemente piegati all'ingiù, accoglienti, caldi, da cerbiatto, con quelle ciglia kilometriche.
- Hai delle ciglia da far invidia alle ragazze, Paulie-
Gli ripeteva sempre, quando ancora lo prendeva sotto le ascelle e se lo coccolava, tenendolo in grembo.
Aveva la voce più delicata e bella che avesse mai conosciuto; spesso mentre canticchiava in salotto, papà la accompagnava al piano. Era anche per questo che Jim aveva smesso di suonare, se non raramente, dopo la sua scomparsa.
- Ciao, mà, ti voglio bene...-
Sussurrò prima di accarezzare col dorso della mano il viso di lei, più piccolo di una moneta, come a volerlo imprimere per sempre.
La sera, mentre stava scrivendo al computer la sua ricerca qualcuno picchiettò alla porta di camera.
- Paulie, posso?-
- Vieni, pa, entra!-
Chiuse il file, salvandolo sul desktop ''quellarobaschifosaperscienze''.
La pelata del padre fece capolino prima di lui, seguito da quel sorriso dolce e gli occhi stretti.
Ammirava l'uomo che era suo padre. Senza di lui si sarebbe sentito veramente perso. Era la vera colonna della famiglia, specialmente dopo...
- Come vanno le cose?-
Rimase sullo stipite della porta, appoggiandosi con la spalla sinistra. Paul si alzò dalla sedia, buttandosi a pancia in sotto sul letto.
- Sono stanco morto, ho appena finito una ricerca tremenda per scuola...-
Sospirò, occhieggiando la reazione di Jim. Quello sorrise sotto i baffi.
- Ti stai impegnando veramente tanto, sono molto fiero di te...-
Si accostò al figlio, prendendo posto accanto a lui. Gli pose una mano sulla testa, scompigliandogli i capelli, tenuti leggermente più lunghi davanti. Erano scuri, come quelli di Mary, però lisci.
- Non è stato facile per te e Mike, lo so...-
Gli occhi chiari di Jim si velarono. Non avrebbe pianto, ormai Paul lo sapeva, ma ogni volta che si tornava sull'argomento ''mamma'', sembrava che tutta la carica vitale di Jim McCartney venisse meno.
Era un uomo energico, spiritoso e incredibilmente affascinante, ma aveva evidentemente perso una parte di sè e questo lo rendeva ingrigito.
Paul annuì. Era cresciuto molto in quell'ultimo periodo e, anche se spesso indossava quella sua maschera candida, adesso possedeva una consapevolezza tremenda eppure inevitabile: quella della morte.
Rimasero così in silenzio per qualche minuto, entrambi nel ricordare quella donna che in maniera differente era stata sia nella vita dell'uno che dell'altro un cardine essenziale.
Poi Jim ruppe improvvisamente il silenzio.
- Ti ho portato una cosa...-
Nella mente di Paul fu come se suonasse a intermittenza uno di quegli allarmi assordanti.
'' Questo è il momento. Il tuo futuro inizia adesso. Il resto della tua vita.''
Era cresciuto a pane e musica fino a quel giorno, sia per una sua naturale inclinazione, sia per la passione che aveva sempre trascinato suo padre, ma sentiva di non potersi più accontentare di ascoltare in silenzio il lavoro di altri.
Spesso scriveva, si ritrovava a pensare a melodie, parole, che sapeva sarebbero diventate canzoni, le aveva tutte in testa, doveva soltanto liberarle in musica.
Osservò il padre uscire dalla stanza. Si sollevò dal letto, trepidante come quando da piccolo doveva scartare insieme a Mike i regali per Natale.
Poi Jim rientrò, tenendo tra le mani un pacco. Anche lui sembrava raggiante di gioia, era tempo ormai che Paul non vedeva suo padre così. Quasi si commosse quando lo prese tra le mani ed iniziò a scartarlo.
Era una grossa confezione, gli sembrò comunque un po' piccola per una chitarra, ma si fece coraggio ed aprì, scoprendo il contenuto.
Sopra un'imbottitura di velluto riposava una scintillante tromba in ottone con pistoni e rinforzi brillanti.
Voleva sprofondare nel pavimento, venire inghiottito e non riemergere mai più.
Nascose il disappunto che sentiva serpeggiargli sul viso, pizzicargli la pelle della faccia. Non voleva dispiacere suo padre, non in quel momento almeno.
Sorrise tirato, le labbra che gli si increspavano irrimediabilmente verso il basso.
- Papà....E'....Stupenda....-
Jim lo abbracciò, non notando assolutamente il colore livido delle guance del figlio quattordicenne.
- Oh, Paul...Ho sempre voluto che tu imparassi a suonarla, proprio come me!-
McCartney junior cinse le spalle del genitore, abbandonandosi al di lui entusiasmo.
Stava già pensando a come rimediare a quell'inconveniente con uno dei suoi piani machiavellici. Avrebbe suonato una chitarra, era il suo sogno.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - GEORGE ***


CAPITOLO 3  - GEORGE


- Potresti anche smetterla di scarabocchiare e venirmi a dare una mano!-
Louise era veramente insopportabile quando ci si metteva.
- Non stavo scarabocchiando...-
Tentò di ribattere, polemico, raggiungendola in cucina. Per tutta risposta la sorella maggiore inarcò un sopracciglio, scettica. Poi si voltò di nuovo, dandogli le spalle e continuando a impilare i piatti del pranzo nella lavastoviglie.
- Faresti meglio a finire i compiti prima che mamma torni dal lavoro... Non voglio entrarci nulla, ti avviso!-
Stava ricominciando con la solita tiritera: lei era la più grande, aveva responsabilità nei loro confronti (di George, Harry e Peter), non voleva problemi con mamma e papà.
- Lavorano tutto il giorno e non hanno di certo voglia di combattere con te, una volta tornati a casa!-
George roteò gli occhi, prese posto sulla sedia e annuì distratto alla cascata di parole che fuoriuscivano dalle labbra della sorella.
Sapeva che tutto quello che stava dicendo era vero e che in gran parte aveva ragione, ma finì per concentrarsi più sul vassoio di biscotti messo proprio lì in bella vista, sotto il suo naso.
Erano di quelli tondi, spessi e friabili, con le gocce di cioccolato amaro che gli piacevano tanto.
Allungò una mano per arraffarne un paio, ma Louise fu più lesta di lui e con un gesto repentino sollevò il piatto sopra la testa di George.
- Ti ingozzerai dopo, quando avrai finito i compiti e mi avrai aiutato!-
Il ragazzino sospirò, guardando la sorella di sottecchi.
- Non puo' aiutarti Harry?-
Louise fece finta di non sentirlo, volgendogli di nuovo le spalle e mettendo a posto bicchieri e posate. George, sconfitto, le si pose accanto, e come in una catena di montaggio cominciò ad aiutarla nell'impilare le stoviglie che lei sciacquava e che lui metteva nella lavapiatti.
Fu un pomeriggio noioso e molto, molto lungo.
Sul cielo solitamente plumbeo di Liverpool i raggi solari sembravano far capolino timidamente, riscaldando a poco a poco ogni cosa. Poggiato sul palmo della mano destra George fantasticava sui giochi di luce che, come caleidoscopi, danzavano sui tetti, il fruscio lontano delle foglie, il rombare delle auto in strada. Persino le urla delle litigate fra vicini gli sembravano più eccitanti del libro che aveva davanti.
Algebra. Robaccia.
Sapeva che se avesse continuato così avrebbe sicuramente perso l'anno, ma sentiva che niente di quello che potevano insegnargli a scuola gli sarebbe servito veramente nella vita. Ciò che desiderava ardentemente era altro...
Il suo sguardo trasognato percorse le pareti della camera, che divideva con Peter. Tralasciando la parte del fratello, piena di Poster del Liverpool, con sciarpe e striscioni annessi, nonchè immagini di giovani seminude e ammiccanti, il muro sovrastante il letto di George era zeppo di fotografie ritagliate dai giornali o stampate da internet. Proprio sopra la testiera del letto campeggiava una gigantografia in HD del divino Jimi Hendrix intento nel suonare un assolo coi denti. Accanto figuravano, in ordine, le immagini di Eric Clapton, Jimmy Page, Chuck Berry e un poster plastificato dei Pink Floyd, regalatogli per il suo 13esimo compleanno da suo padre Harold con un David Gilmour ammiccante in primo piano.
Come sfondo del cellulare aveva l'immagine di Elvis Presley durante Jailhouse Rock, questa era una piccola grande passione ereditata da suo padre. Continuava a pensare a ciò che gli aveva detto quel Paul McCartney sul bus per la scuola.
Quello si che era un ragazzino che sapeva il fatto suo e, sopratutto, che avrebbe avuto presto tra le mani una chitarra. E di sicuro non di seconda mano.
Lasciò che i pensieri vagassero sciolti per la sua mente, li liberò completamente mentre scendeva meccanicamente le scale verso il piano di sotto. Louise era a tubare smancerie sdolcinate al cellulare con quel suo fidanzato mezzo scemo e George aveva finalmente via libera ai biscotti.

George era sicuramente un tipo strambo, almeno agli occhi dei coetanei.
Per tutti era ''quello che ascolta la musica di mio nonno'' o ''il tizio con le orecchie a sventola'' che in classe rimaneva in silenzio negli ultimi banchi, spesso a disegnare, spesso a dormire.
Non portava vestiti firmati ne' alla moda, non era popolare, ne' tantomeno estroverso; non si guadagnava l'amicizia o la fiducia altrui facendo lo spaccone, il bullo o il tipo ricercato.
Il più piccolo, giovane e gracile della famiglia Harrison poteva benissimo passare del tutto inosservato . La sua timidezza lo rendeva tenero e impacciato, e di conseguenza totalmente invisibile all'interesse, specie dell'altro sesso. Ma questo sembrava non importargli più di tanto.
Alle prese in giro rispondeva spesso con una superiore gravità che si addiceva enormemente a quel suo sguardo serio e enigmatico; possedeva un'ironia pungente e sottile che spesso lasciava interdetti i più, come quella volta in cui rispose talmente per le rime ad un gruppo di ragazzi più grandi che tentavano di tormentarlo, da lasciarli completamente senza parole.
Era schivo e riservato, ma sapeva cogliere particolari e sfumature che spesso rimanevano ignoti alla superficialità altrui.
Mamma Louise ringraziava il cielo di avergli donato un figlio così sensibile e caro, era sempre un piacere per lei passare un pomeriggio con George a parlare del più e del meno. Il più giovane dei suoi figli possedeva una calma e una strana, adulta consapevolezza che aveva fatto fatica a riscontrare persino in persone molto più anziane ed esperte ''delle cose del mondo''.
Era come se, lasciando da parte l'ingombrante orgoglio materno, Louise si rendesse conto sempre più che George avrebbe combinato qualcosa di veramente importante nella vita. Ne andava particolarmente fiera.
D'altronde,tutto quello che voleva per ognuno dei suoi figli era che una volta cresciuti fossero felici, come d'altronde lo era lei, che non avessero rimpianti per ciò che non avevano potuto fare e, perciò, lasciava che le aspirazioni di ciascuno fossero coltivate con attenzione, amore e il pieno sostegno.
Non passava giorno in cui la signora non si accorgesse di quanto la Musica giovasse a George. Era un fan entusiasta di qualsiasi tipo di musica, specialmente rock'n'roll, di quello ''duro e puro'', più dei suoi tempi che di quelli attuali, ma che non facevano altro che accrescere nei genitori la stima per quel ragazzino intelligente e creativo.
Non era raro che si mettesse a cantare a squarciagola con la musica nelle orecchie, improvvisamente disinibito ed esibizionista, intrattenendo l'intero vicinato. Gli amici di famiglia si congratulavano per i gusti sopraffini del ragazzo, gli altri si limitavano a chiamare la polizia per schiamazzi notturni.
D'altronde, Louise si sentiva in qualche modo ''resposabile'' per quell'ereditarietà creativa che si portava dentro il suo piccolo Georgie.
Quando era incinta infatti, la donna ascoltava spesso la radio su stazione estere, specialmente musica indiana.
Era come se George, teneramente accolto nel suo grembo, le facesse capire quello che voleva. Così lei si alzava dal divano, pigiava il pulsante di accensione, si sintonizzava sulla frequenza e tornava a fare quello che stava facendo col suono mistico, distensivo, eppure così eccitante del sitar.
Quella musica esotica sembrava veramente riuscire a tranquillizzare il suo piccolo ospite, che smetteva improvvisamente di scalciare.
E dopotutto, ormai era evidente a tutti l'ossessione di George per le chitarre: le disegnava dappertutto, come in un tentativo falsamente innocente di messaggio subliminale. Sebbene inizialmente contraria, sopratutto per la scarsa riuscita di suo figlio a scuola, Louise aveva pian piano cambiato idea di fronte alla caparbietà e alla passione che spingevano Georgie, così aveva deciso di parlarne col marito.
Howard era a sua volta un grandissimo appassionato di musica, possedeva ancora vecchi vinili del padre e custodiva gelosamente in una vetrinetta i biglietti dei concerti a cui era stato, eppure, opponeva ancor più resistenza della moglie.
Percepiva appresione verso l'interesse del figlio di intraprendere una carriera musicale e continuava ad essere restio nel comprargli uno strumento.
- Potrebbe risolversi tutto nel giro di qualche mese, How... Magari è solo una passione adolescenziale...-
Quella sera stessa tornando dal lavoro, Louise aveva trovato George addormentato sul libro di Algebra, le pagine piene di chitarre disegnate a matita.
- Non voglio che si abitui ad avere tutto quello che chiede, anche perchè diciamocelo Louise, non passiamo un bel momento...-
La donna osservò il profilo del marito nella semioscurità della stanza. Si fece più vicina a lui, sotto le coperte, poggiandogli una mano sul petto. Sì, sapeva bene che era un periodo difficile per la loro famiglia.
Avevano la fortuna di lavorare tutti e due e di aver tirato su tre figli sani e meravigliosi, educati e senza grilli per la testa, ma odiava il fatto di prevaricare determinate scelte ed impedire così ai ragazzi di sentirsi soddisfatti.
- Non sto dicendo di viziarlo, Howard... Non lo abbiamo fatto mai, dopotutto... Non puoi negare che i nostri figli si sono sempre accontentati di ciò che potevamo dare loro e hanno sempre dimostrato maturità rispetto alla loro età...-
Osservò la reazione sul viso del marito, notando che sorrideva appena.
Sì, lo sapevano entrambi che, anche se non possedevano granchè sotto l'aspetto materiale, erano fortunatissimi ad avere una famiglia così ricca nell'animo. Non c'era giorno in cui Howard Harrison non si svegliasse col sorriso, contento del poco che aveva, della semplice esistenza che portava avanti. E no, sebbene con sacrifici e sudore non aveva mai voluto far mancare niente alla sua famiglia.
- So che il cugino di Philip sta vendendo del materiale di un suo vecchio negozio di musica... Magari riesco a rimediare una chitarra ad un prezzo di favore...-
Louise Harrison si accostò all'orecchio del marito, baciandogli poi dolcemente la guancia.

Pressapoco tutti i giorni, appena la campanella terminava di suonare la ricreazione, un paio di gambette agili e magre come quelle di un grillo sfrecciavano di corsa dall'altra parte del cortile.
L'uniforme scolastica gli stava larga in vita e la cintura in dotazione non aveva abbastanza buchi, così George doveva tenersi per evitare che gli si vedessero le mutande.
Arrivò alla panchina sotto l'albero vicino all'entrata e prese posto. Ancora non c'era nessuno, così si mise ad aspettare, il piede che gli tremava ritmicamente contro il selciato. Lo metteva sempre in ansia stare coi più grandi.
- Hey Harrison, spostati da lì, mi fai ombra con le orecchie!-
Risate rauche e sguaiate alle sue spalle.
Si voltò, impassibile e serio, nemmeno una ruga di disappunto sul viso allungato.
Un tipo grosso come un armadio gli si parò davanti, piegandosi poi a poche spanne dal suo naso.
- Il gatto ti ha mangiato la lingua, Harrison?-
Walter Rogers e suo fratello Kellan, gemelli identici se non che Walter picchiava mancino e Kellan usava la destra. Il viso largo e rozzo spruzzato di lentiggini, i capelli come spaghetti calati sugli occhi e una preoccupante fissazione per quelli come lui.
- Più che per la mia lingua mi preoccuperei del tuo alito-
Ribattè George, continuando ad osservare il portone d'entrata della scuola, dal quale iniziavano a scendere gli studenti.
Un grugnito animalesco proveniente dalle sue spalle e in pochi secondi si ritrovò agguantato per il colletto, le scarpe a pochi centimetri da terra e di nuovo il naso a patata di uno dei gemelli spiaccicato sul viso.
- Che cazzo hai detto?-
- Ma che diavolo fai, eh?-
La voce era calibrata, senza alterazioni, a dispetto delle parole.
George si voltò, per quanto le mani strette intorno al suo collo glielo consentivano, e lo vide.
Paul McCartney.
Paul McCartney in tutto il suo splendore e fascino da 14enne col viso pulito e gli occhi scuri. Aveva anche lui la divisa, ma a differenza di George, a lui scendeva in maniera impeccabile, quasi fosse stata creata per essere riempita dal suo corpo.
- Non ti immischiare McCartney... Chi è, la tua fidanzatina?-
Lo stuzzicò l'altro gemello appoggiato sornionamente contro il tronco d'albero a godersi la scena.
L'occhiataccia che gli riservò Paul lo fece tacere.
- Vuoi lasciarlo sì o no?-
Ripetè, stavolta con una nota di irritazione nella voce.
Quello che lo teneva per il collo, probabilmente Kellan, visto l'inchiostro che gli sporcava la mano destra, soffocò a stento una risata.
- Perchè senno' cosa fai? Chiami la mammina? Ah, no scusa...-
Uno sguardo d'intesa col fratello e continuarono a ridere, malignamente.
- Non credo che da morta potrebbe aiutarti molto...-
La cattiveria in quello sguardo fecero scattare qualcosa.
Altrimenti Paul non sarebbe corso verso Kellan, praticamente il suo doppio, con sguardo truce e vendicativo. Non si sarebbe slacciato il polsino della camicia, non avrebbe tirato indietro il gomito, per poi sferrare un pugno rumoroso contro il viso lentigginoso del bulletto.
Kellan Rogers mollò la presa, cadendo a terra come una pera cotta. George atterrò sui piedi, traballando malamente.
Paul schiumava di rabbia. Non pensava di averlo mai visto così trasfigurato. Era rosso in viso, i capelli scomposti.
Intanto, la scena aveva raccolto un discreto pubblico, che rimaneva silente aspettando una reazione da parte del peldicarota.
Intanto l'altro fratello sembrava sorpreso quanto il resto della scuola.
- Azzardati a nominare di nuovo mia madre e giuro che questo ti sembrerà solo un assaggio...-
Un comportamento del genere non era di certo da lui.
Nel giro di qualche minuto la folla si era diradata, i due gemelli erano spariti e all'ombra dell'albero uno accanto all'altro George Harrison e Paul McCartney si guardavano in silenzio.
-Grazie Paul...-
L'altro alzò le spalle, continuando a non proferire parola, il viso perfettamente ovale ancora leggermente avvampato.
- Dovresti iniziare a farti rispettare... Non sarò sempre qui a darti una mano...-
Gli disse, prendendo posto sulla panchina. George gli si fece accanto, tirando fuori dal cestino del pranzo due tramezzini al formaggio. Ne porse uno a McCartney, che lo accettò con un sorriso.
- Come ti senti tu, piuttosto?-
Chiese, indicando i segni violacei che George aveva sul collo smilzo. Per tutta risposta il più piccolo addentò il suo panino, iniziando a masticare rumorosamente.
- Quella chitarra? Sei riuscito ad averla?-
Chiese poi George, fingendo disinteresse, quando in realtà gli occhi gli si erano illuminati.
Un'ombra scura calò sul viso del bel compagno, rendendolo cupo, ma solo per una manciata di secondi.
- E' una lunga storia...-
Cercò di troncare il discorso, sgrullandosi di dosso le molliche incastratesi nel maglione.
George però non si accontentava di quella risposta e cominciò ad osservarlo con interesse, come a volerlo spronare a raccontare. Paul sollevò appena un sopracciglio, sbuffando.
- Il fatto è che... Mio padre voleva farmi una sorpresa... Mi ha regalato una fottuta tromba...-
L'ultima frase fu proferita come in un sussurro stridulo.
George dapprima sgranò gli occhi, poi, osservando l'espressione di disappunto sul viso di McCartney, iniziò a ridere sguaiatamente, colpendosi il ginocchio.
- Dannazione, cos'hai da ridere?-
George si interruppe subito, celando a malapena un sorrisetto.
- Vai a farti fottere, Harrison! La prossima volta col cavolo che ti dò una mano... -
Si guardarono, sorrisero e poi scoppiarono a ridere così forte che per poco George non si strozzò col suo panino; poi rimasero per il resto della ricreazione in silenzio, lo schiamazzo dei compagni in lontananza da sottofondo ai loro pensieri.

La mattina del suo quattordicesimo compleanno George si svegliò prestissimo. Scese a fare colazione prima degli altri, quando ancora tutta la casa era immersa in un silenzio incantato, quasi irreale.
Gli piacevano quei momenti di assoluta calma, forse perchè era sempre stato un amante della solitudine, forse perchè con una famiglia così numerosa gli attimi di pace erano rari o forse semplicemente perchè amava non dover per forza riempire il tempo e lo spazio con cose da dire o da fare... Era un tipo molto riflessivo e meditabondo, così tanto che, per chi non lo conosceva, poteva apparire un ragazzino estremamente serioso.
Scese le scale con tutta calma, assaporando la sensazione di sentirsi più grande, anche se a dire il vero non notava assolutamente nessuna differenza. Era un gelido sabato di fine febbraio e sulle finestre appannate iniziava a sciogliersi il sottile strato di brina notturno.
Entrò in cucina, aprendo meccanicamente il frigo, agguantò il cartone di latte per poi versarne il contenuto in una tazza larga nella quale tuffò una manciata di cereali al cioccolato, quelli glassati, di cui andava pazzo.
Proprio mentre stava per mettersi seduto, accendere il suo mp3 e guardare la tv in modalità muta, si accorse di un pacco poggiato sul tavolo. La carta era a strisce blu e gialle. Incastrato nel nastro che lo avvolgeva un biglietto.
Poggiò la tazza sul ripiano della cucina, si avvicinò al regalo quasi con riverenza, come pregustando l'attimo di tensione che precede un momento importante, magico, di svolta.
Lesse il biglietto, rigirandoselo tra le mani alla ricerca di un indizio, ma non c'era scritto altro se non ''Buon Compleanno, Joj! Da mamma, papà, Peter, Louise ed Harry''
Era quasi certo che contenesse la raccolta di enciclopedia marina che suo padre sperava potesse appassionarlo come era successo con lui, alla sua età. Non poteva sbagliarsi di più.
Sotto quell'involucro di carta, dalla forma lunga e affusolata era intrappolata una scatola legnosa, leggermente scheggiata.
Il respiro gli si mozzò quando vide in rilievo delle lettere dorate con accanto una chiave di violino.
Avrebbe voluto gridare, piangere di gioia. Quello scheletro esterno e venoso conteneva ciò che più aveva agognato in tutto quel tempo. O almeno così sperava. La sua euforia si smorzò per un attimo ricordando l'esperienza di Paul con la sua chitarra fantasma, che si era rivelata essere tutt'altro.
In un certo senso sarebbe stato comico ritrovarsi a scuola mesti e scontenti, lui con la sua tromba e George con una cornamusa.
Sollevò il coperchio della custodia con la stessa cura e attenzione con la quale dovette aver fatto l'uomo che per primo mise piede nella tomba di Tutankhamon. Si ritrovò le labbra morsicate a sangue e un rivolo di sudore freddo che gli correva lungo la schiena. Assaporò l'attimo che lo separava dall'oggetto del suo più profondo desiderio e poi la vide.
Era una chitarra decisamente usata; aveva il foro rotondo, un semplice strumento acustico di legno economico, era sbeccata e scrostata in più punti, si notava che qualcuno doveva averci passato qualcosa per renderla più lucente, nonostante i graffi e le ammaccature, ma agli occhi di George parve come un miraggio, una vera opera d'arte.
Aveva quasi paura a toccarla, come nei bei sogni, in cui il più lieve movimento fa sparire ogni cosa e lascia al risveglio una patina di infinita malinconia.
E invece no, il legno sotto le sue dita era reale, quasi vivo. Lo sentiva pulsare sull'impugnatura, fremere sulle corde.
Sorrise, illuminato da un flebile fascio di luce che penetrava dalla piccola finestra di cucina.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - RINGO ***


CAPITOLO 4 - Ringo
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Il campanello suonò, più volte, insistentemente. Bussavano anche alla porta.
Nel fragore assordante sembrava non riuscire a sentire il vociare fuori dalla finestra. Poi un urlo.
Meccanicamente, senza bisogno di interrompere il battere sui piatti, si alzò con noncuranza una cuffia, la sinistra.
Di nuovo lo scampanellìo, ancora più forte. Sbuffò, interrompendo il suono e trascinandosi verso la porta d'ingresso.
La aprì, trovandosi il faccione rubizzo del vicino di casa a poche spanne dal suo.
- Starkey, vogliamo farla finita con questo cazzo di rumore?!-
''Le urla di tua moglie che piange disperata per le botte, quando torni a casa ubriaco non sembrano darti fastidio però, vero lurido maiale?''
Per tutta risposta il ragazzo, sorrise, sfoderando una fila di denti immacolati.
- Scusi Mr. Durff, smetto immediatamente!-
Poi senza neanche aspettare una risposta, si richiuse la porta alle spalle.
Camminò di nuovo verso il soggiorno, dove stava ben piantata una batteria di seconda o forse terza mano, ma che amava come fosse un prolungamento del suo stesso corpo.
Si mise a sedere sul seggiolino, la cui imbottitura veniva fuori da tutte le parti, come la pancia di un vecchio orsacchiotto di peluche. Respirò a fondo, si calò di nuovo le cuffie sulle orecchie e, con un sorrisetto sornione ricominciò a battere sulla grancassa.

Richard Starkey Jr. viveva in una casa a Dingle, chiamato così dagli immigrati irlandesi che vi andarono ad abitare nei primi del novecento, a ricordo di un' idilliaca radura del paese natale. Ma la Dingle di Liverpool era tutt'altro che un'oasi di pace e serenità. Era da sempre stata uno dei quartieri centrali più malfamati e vecchi di tutta la città, abitata in anni passati da operai e artigiani e adesso da famiglie che riuscivano a barcamenarsi alla meno peggio.
Liverpool non era in genere un bel posto dove vivere, questo Ritchie l'aveva sempre pensato. Era una città portuale, vitale in ambito di commerci e scambi, ma era comunque una vitalità tetra, brutale, che lui sentiva non appartenergli appieno.
Molte delle case del suo quartiere erano rimaste quelle della prima metà del '900, alcune ricostruite dopo la guerra, ma comunque delle vere e proprie catapecchie a schiera, con un accenno di cancello sul davanti e una porta che dava sul retro.
Viveva con sua madre Elsie, una donna sempre sorridente e allegra, dalla battuta pronta e una grande forza d'animo.
Era veramente una donna di carattere, una di quelle che sanno benissimo cosa vogliono e sono disposte a tutto pur di ottenerlo, come quel figlioletto, l'unico che avesse avuto e che aveva desiderato così tanto da avere poi una paura folle di perderlo.
Aveva conosciuto il futuro marito, Richard Sr., durante una serata a ballare e aveva capito subito che quello era proprio l'uomo fatto apposta per lei: affascinante, estremamente simpatico, gioviale e di bell'aspetto.
Fu un amore profondo, ma divertente: ad entrambi piaceva spassarsela bevendo tutta la notte di locale in locale.
Decisero di sposarsi quasi subito, perchè entrambi desideravano metter su famiglia e mettere anche un po' la testa a posto. Dopo 3 anni di matrimonio, proprio quando Elsie iniziava ad abituarsi all'idea che non sarebbero mai arrivati dei bambini, rimase incinta e il 7 luglio 1990 mise al mondo Richard Starkey Junior.
Qualcosa però cambiò in Richard Sr.: sentiva che le attenzioni di Elsie erano tutte rivolte a quel piccolo nuovo arrivato e che il suo ingombrante Ego ne stesse risentendo fin troppo. A pensarci bene, dopotutto, non era pronto per diventare padre, voleva continuare a divertirsi, uscire con gli amici, fare baldoria, avere altre donne...
Ormai certo di essere stato soppiantato nel cuore di Elsie da quell'esserino piagnucoloso, Richard Sr. si allontanò sempre più dalla famiglia, gettandosi in una spirale di tradimenti, sotterfugi, uscite notturne e bagordi senza fine, perse il lavoro e anche l'affetto della moglie.
Elsie resistette tre anni prima di riuscire a buttar fuori di casa quello che aveva sempre creduto essere l'amore della sua vita, e questo ovviamente non senza delle conseguenze, ma era una donna forte, che si rimboccava le maniche e stringeva i denti e, ottenuto il divorzio e il conseguente mantenimento, si diede da fare nell'accettare ogni sorta di lavoro che le permettesse di tirare avanti.
Era una donna ancora giovane, attraente e molto estroversa, con un paio di occhi vispi e limpidi... Non le fu perciò difficile trovare lavoro come barista in un pub non molto lontano da casa.
Per via del lavoro della madre, Ritchie era dunque costretto a stare da solo per molto tempo, escludendo la compagnia dei nonni e di un'amica della madre, che spesso le faceva il favore di badare al suo piccolino.
Elsie era iper protettiva nei suoi confronti, sia perchè era l'unico suo figlio, sia perchè dopo l'abbandono di suo padre, Ritchie rappresentava per lei un intero universo. Adorava quel bambino piccolo e gracile così tanto da essere con lui anche fin troppo indulgente e permissiva.
Era una santa donna, niente da aggiungere: una lavoratrice instancabile, una mamma amorevole e una donna veramente tosta.

-Ritchie, tesoro... Il signor Durff si è lamentato un'altra volta del casino che facevi oggi pomeriggio...-
Se avesse dovuto decidere chi salvare da un imminente Diluvio Universale, parte II, non avrebbe fatto fatica nella scelta: sua mamma, la persona che amava in assoluto più di ogni altra cosa al mondo. Non era il classico amore filiale il suo, quanto una vera e propria stima, che rasentava l'idolatria. Ecco, se avesse dovuto pensare a sua madre, sicuramente l'avrebbe immaginata nei panni di una Wonder Woman forzutissima e cazzuta, la sua personale supereroina.
Avrebbero dovuto scrivere un fumetto o almeno riservargli una serie televisiva.
Ritchie non era mai stato un ragazzino con tanti grilli per la testa, ne' particolarmente piantagrane, anzi tutt'altro. Da piccolo era stato estremamente cagionevole e verso i 6 anni aveva anche rischiato di morire a causa di una peritonite, che lo aveva destabilizzato per mesi e mesi portandolo persino al coma.
Era stato un periodo tremendo per sua madre, Elsie. Ogni giorno, appena poteva assentarsi dal lavoro, andava a trovare il piccolo all'ospedale, sperando che quei bellissimi occhioni blu potessero riaprirsi.
I dottori non avevano dato molte speranze, preparando la donna alla notizia più terribile.
Ma poi, quasi per miracolo Richard aprì veramente gli occhi, ''Ciao mammina'' disse, prima di perdere di nuovo i sensi.
Per Elsie fu uno dei giorni più belli della sua vita.
Il piccolo però dovette rimanere in riabilitazione per ancora molti mesi a seguito di una ricaduta, che lo lasciarono ancora più destabilizzato. Una volta tornato a casa, dopo ormai un anno, Ritchie aveva saltato talmente tante lezioni che fu costretto a perdere l'anno. Per un bambino così fragile e solitario, per via dei ricoveri e l'assenza di amicizie o anche solo di una vicinanza con altri coetanei, la scuola divenne un vero incubo e si riufiutò di metterci piede, dopo essere stato preso in giro e ostracizzato.
Ma Elsie, come sempre, si rimboccò le maniche e fece in modo che suo figlio non rimanesse indietro ed anzi, sacrificò il suo tempo libero dal pub per accettare un lavoro di pulizie, pur di pagare al bambino le lezioni private.
Ma salute pareva essere una persecuzione per il piccolo Ritchie: anche a tredici anni a seguito di uno shock polmonare dovette perdere la scuola per due anni.
Con tutti quegli anni persi, Ritch si sentiva estremamente demoralizzato, riusciva a malapena a leggere e sua madre era profondamente preoccupata per il suo futuro.
Era rimasta al suo capezzale per giorni, sperando che il piccolo si risvegliasse, quando era entrato in coma.
Aveva versato tutte le lacrime che un essere umano potesse consumare e alla fine, dopo innumerevoli preghiere, gli occhioni blu del suo bambino si erano riaperti.
Lo aveva stretto forte al suo petto, non avrebbe mai più permesso che niente e nessuno lo portassero via da lei; le si stringeva il cuore quando, finito l'orario di visite doveva lasciare quella piccola creaturina stesa tra le lenzuola di quell'immenso letto di ospedale. E adesso era successo di nuovo.
Una volta dimesso dall'ospedale, Elsie avrebbe voluto che Richard terminasse la scuola, ma non i soldi per pagare le lezioni private non bastavano più e Ritchie non se la sentiva di tornare a scuola a 15 anni, così avevano lasciato che ad occuparsi della sua istruzione fosse il patrigno Harry, che aveva sposato Elsie l'anno prima.

Il rapporto tra i due ''uomini'' della casa non fu idilliaco sulle prime; Ritchie, così visceralmente legato alla madre non sopportava molto la presenza di quel ''coglione coi baffi'', perciò almeno inizialmente, decise di rendergli la vita difficile.
Ma Harry era un uomo di spirito e profondamente buono, molto comprensivo e dotato di una dolcezza quasi femminile.
Non fu difficile accaparrarsi l'affetto del ragazzo, a poco a poco.
Fu proprio Harry il primo a notare la predilizione del ragazzino per la musica: casualmente notò come il figliastro passasse il tempo a battere sulla testiera del letto d'ospedale ogni genere di attrezzo che si trovasse sotto mano, passava il tempo a quel modo, tenendo il tempo e facendo baccano mentre gli altri ragazzini rimanevano ore incollati alla tv.
Grazie ad un progetto musicale all' interno dell'ospedale Ritchie scoprì che la sua passione così viscerale e innata aveva un nome: percussioni. Inizialmente il suono era piatto e privo di verve, ma a poco a poco, e senza prendere lezioni, Ritchie si rese conto di possedere un'energia e un'inclinazione innata per quei ritmi complicati e le dinamiche di tempo.
C'era come un istinto naturale in quello che faceva, anche se in realtà non sapeva cosa stesse facendo. Gli bastava impugnare le bacchette per poi dar vita a vivaci strutture ritmiche, la cadenza ,la sincope, il movimento, lo slancio.
Non c'era niente di accademico o tecnico in quello che riusciva a creare, si lasciava trascinare dalla cinetica, semplicemente.
Fu così che una volta tornati a casa l'uomo decise di comprargli una batteria tutta sua, che Ritchie ormai aveva imparato a padroneggiare proprio durante la permanenza in ospedale.
Adesso era diventato piuttosto bravo e suonava in un gruppo con altri ragazzi conosciuti alla scuola serale.
Richard non amava di certo lo studio e tutto il tempo perso per via della sua salute non aveva di certo migliorato la situazione; quello era forse il solo cruccio che Elsie avesse... Per il resto il suo Ritchie era un ragazzo d'oro, un po' ribelle certo, ma chi non lo era alla sua età?!

- Può lamentarsi di quello che gli pare, non mi sembra di infrangere la legge se riempio quelle sue orecchie di stronzo con la mia musica!-
-Ritchie, sai che non sopporto questo linguaggio!-
Richard sollevò i palmi delle mani, in segno di resa.
-Sì, ma' scusa... Ma sai che genere di persona è, e poi...-
- Non sono affari nostri, Ritch... Tu pensa a non infastidire troppo con quella tua batteria e cerca di suonarla un po' più piano!-
Harry, che stava guardando il notiziario in salotto grugnì, nascondendo a malapena il ridere, a cui si unì Ritchie, esplodendo in una fragorosa risata.

Marie Maguire.
Quella sì che era una ragazza.
Intelligente, dolce, simpatica e bella da star male.
Aveva quattro anni più di lui da quando ne aveva memoria, si era sempre presa cura di lui: lo controllava quando usciva con i suoi amici, lo ammoniva se lo scopriva a fare qualche casino e una volta gli aveva persino dato uno schiaffo, sorprendendolo a farsi una canna.
Ma una volta gli aveva detto che il suo naso non era poi così male. E il suo naso era veramente molto brutto.
La conosceva da quando ne aveva ricordo. Le loro mamme erano amiche e spesso Marie aveva anche provato ad aiutarlo con i compiti.
Si vergognava da cani quando doveva leggere o scrivere davanti a lei, con quella calligrafia sgangherata da analfabeta, ma dimenticava ogni cosa quando guardava negli occhi scuri e profondi di lei.
Richard era certo che lei non sospettasse nulla, erano sempre stati solo amici e niente di più e così voleva che le cose rimanessero.
Non riusciva a capire perchè ma in sua presenza si sentiva impacciato e sfigato. Non che fosse proprio uno spaccone in generale, ma aveva il fascino del ''ragazzo disastrato''.
Faceva tenerezza, perchè aveva un sorriso in grado di far sciogliere come il burro, un'aria abbattuta e un po' mesta che faceva esplodere l'istinto da crocerossina che hanno tutte le brave ragazze.
Ma la sua dote principale (oltre al ritmo, certo) era senza dubbio quell'ironia pungente che lo rendeva subito simpatico a tutti;
anche se un po' soffocato dall'amore esagerato della mamma, Ritchie era sempre stato un tipo molto sveglio e aveva imparato ben presto a cavarsela da solo e ad affilare la lingua con una dialettica spigliata e scattante, sicuramente ereditata da Elsie. La parola era lo strumento che più prediligeva, essendo piccolo di statura e facilmente preda dei bulli di quartiere e Dingle era piena di attaccabrighe e brutti ceffi.
Per non parlare poi del suo buon cuore, cercava sempre di aiutare chi ne avesse bisogno, a dispetto dell'apparenza piuttosto torva e schiva. Un tipo che sapeva divertirsi insomma, dalla battuta pronta e la lingua tagliente, ma che gli rimaneva del tutto asciutta di fronte al sorriso candido e timido di Marie.
Al Caldwell, nome sul palco Rory Storm, col quale suonava ormai da qualche mese, lo prendeva quotidianamente in giro per via di quella storia.
-E allora, Rings? Di che colore sono le mutandine della bella suor Marie? Uhm? Uhm?-
Il più delle volte il biondino doveva cercare di schivare una delle sue bacchette.

Ripensandoci, non sapeva nemmeno perchè le avesse dato appuntamento quel pomeriggio. Si sentiva un perfetto idiota.
Si era messo una camicia a maniche corte, a quadri bianchi e rossi e più si guardava allo specchio, più gli sembrava di assomigliare ad una tovaglia. Si rigirava febbrilmente gli anelli che portava alle dita, uno dei suoi vezzi più peculiari... Proprio per questo Rory lo aveva soprannominato Rings, poi tramutato inevitabilmente in Ringo e in breve tempo tutti avevano preso a chiamarlo così, persino sua madre doveva riflettere qualche istante prima di ricordarsi il suo ''vero'' nome.
Sbuffò, osservando l'ora lampeggiare sullo schermo del suo cellulare.
Le aveva mandato un messaggio perfettamente idiota. Le aveva chiesto aiuto per una recensione di Moby Dick per la scuola serale, lei lo aveva letto, poteva per caso aiutarlo?
Sì, bella scusa... Non avevano nemmeno mai parlato di Moby Dick a scuola... che figura avrebbe...?
Il campanello suonò, chiaro, argentino, squillante. Ringo sperò che non si trattasse di lei. Qualunque cosa ma non lei... La regina Elisabetta, la vicina che chiedeva un po' di sale, lo scoppio di una nuova guerra mondiale, tutto sarebbe stato migliore di trovarsela davanti e dover avere a che fare con quell'ansia tremenda.
-Ritchie! C'è Marie!-
-Porca troia!-
- Che hai detto, Ritch?-
Si voltò lentamente, maledicendo il telo da pic nic che portava addosso. Lei era lì, sulla soglia della porta di soggiorno.
Indossava una camicetta bianca, che esaltava perfettamente la pelle leggermente abbronzata, un paio di jeans scuri e delle scarpe da ginnastica consumate.
-Ciao Marie! Come va?-
Le andò incontro, scrutando il viso interdetto di lei, poi se la strinse fra le braccia per una manciata di secondi. Sentì nettamente il suo seno contro il petto e per un attimo gli sembrò che il basso ventre gli andasse a fuoco. Si discostò sorridendo.
- Sto bene, Ritchie... E tu?-
Con un cenno del capo indicò la batteria, piantata nel mezzo del salotto.
-La mia bimba sta bene, grazie dell'interesse!-
Marie sorrise, scuotendo la testa.
- Meglio se ci mettiamo a lavoro, caro il mio batterista!-
Ritch la prese sottobraccio, con quel fare scanzonatorio.
- Ringo Starr, baby... Sentirai parlare di me! Orde di fans urlanti invocheranno il mio nome, strappandosi i capelli!-
Per tutta risposta Marie lo agguantò per il colletto della camicia e gli dette uno spintone, che lo fece finire lungo disteso sul divano.
- Pensiamo a Moby Dick, adesso!-
Ammiccò la ragazza, mettendosi affianco a lui, che intanto nascondeva a malapena quel suo sorrisone a 32 denti.

Studiare non era il suo forte, ma studiare con affianco quella visione celestiale lo era ancora di meno.
Se ne stava seduto, la testa poggiata sul palmo della mano osservando le labbra umide di Marie che si contraevano ad ogni parola, gli occhi bassi, nascosti sotto un paio di ciglia lunghissime, scorrere sulle pagine e quanto adorava quel gesto, quel tic di arrotolarsi una ciocca di capelli attorno all'indice.
-...La solenne lotta dell'uomo contro le forze del Male trova nel romanzo di Melville la sua più grandiosa espressione, infatti... Ritch, mi stai ascoltando?-
Il palmo della sua mano fece su e giù davanti ai suoi occhi, perfettamente imbambolati.
- Ah? Uh! Certo che sì! Ero preso, cioè sono preso da questo romanzo voglio dire è strafigo, la balena bianca gigante, il capitano Aaron e la nave insomma...-
- Il capitano è Achab, Rings...-
Marie lo lasciò farfugliare, avrebbe voluto ricordargli che se avesse continuato su quella strada non si sarebbe mai diplomato in tempo e che rischiava di perdere l'anno persino alla scuola serale, che avrebbe dovuto impegnarsi di più, che c'erano cose più importanti della batteria, ad esempio pensare ad un futuro migliore... Ma lasciò morire tutto nello spazio di un sorrisetto abbozzato, che non riesciva a trattenere.
Ringo la guardò di sottecchi, mentre continuava a fare il buffone.
- Per non parlare poi del finale, quando osserva la montagna di scatolette che son venute fuori dalla balena!-
-Rich, nel finale  la balena e il capitano muoiono assieme e la nave affonda... Il solo a sopravvivere è il narratore, Ishmael! Sei senza speranza...-
- Però stai continuando a ridere!-
- Perchè sei un buffone!-
Marie si avvicinò a lui, sollevò una mano e il fiato del ragazzo si mozzò di colpo, gli occhi blu spalancati e la bocca semi-aperta.
Ma non avvenne nulla di quello che avrebbe immaginato, Marie si limitò a scompigliargli i capelli.
Il resto del pomeriggio lo passarono a studiare, senza che niente di incredibile accadesse, poi quasi verso sera qualcuno suonò alla porta.
La mamma e Harry erano a lavoro, così Ritch si alzò dal divano e arrivò fino all'ingresso.
Davanti alla porta uno dei ragazzi più affascinanti di tutta Liverpool, Alan Caldwell.
Erano diventati amici ormai, anche se si conoscevano da relativamente poco tempo, infatti lo stesso Al (che però usava principalmente il suo nome da palcoscenico: Rory) aveva appositamente chiesto di lui come batterista per il suo gruppo, gli Hurricanes.
Inizialmente Ritch aveva dovuto farsi un po' desiderare, visto che suonava già in altre formazioni, tutte molto abbozzate e in tutta onestà abbastanza scadenti. Gli Hurricanes invece erano già una band abbastanza affermata, almeno in città e spesso venivano chiamati a suonare nei locali della zona.
Rory era un tipo estroverso, aperto e un grande intrattenitore: sembrava essere nato per il palcoscenico. Eppure, dietro questo suo lato spaccone e tronfio si nascondeva un animo altruista e gentile che Ringo stava imparando a conoscere.
A volte il biondino tendeva ad esagerare, in linea di massima però si trovavano molto d'accordo, sopratutto perchè erano due compagnoni a cui piaceva scherzare e spassarsela.
Dopo qualche settimana di attesa, di visite e messaggi (quasi di supplica, che per l'ego di Rory erano una vera tortura) Ritch aveva deciso di accettare ed unirsi agli Hurricanes.
- Era la cazzo di ora!-
Gli aveva sibilato Rory, che poteva rivelarsi una vera tempesta inattesa a volte, di nome e di fatto.

Con quel sorriso da marpione Rory allungò il collo verso l'interno della casa: dall'ingresso la visuale del salotto era perfetta, si vedeva la nuca bruna di Marie china sui fogli.
- Disturbo?-
Disse tra i denti ben esposti in un ghigno sardonico.
Richard avrebbe voluto strozzarlo.
Lo fermò con i palmi delle mani sul petto, prima che potesse fare un passo con quelle sue gambe lunghe e magre.
- Rory sai che ti voglio bene e tutto quanto, ma entra adesso in questa casa e giuro che ti rompo il culo!-
L'altro per tutta risposta fece un passo indietro, la sua bocca si tramutò in una ''O'' perfetta, per poi prendere a battere vistosamente i denti, gli occhi che viaggiavano febbrilmente da una parte all'altra.
- Oh, oh, signor Starkey, che gran paura!-
 Intanto dal salotto si sentivano i passi di Marie che avanzavano. Ritch mimò a Rory la morte violenta che da lì a poco gli sarebbe toccata.
- Hey Ritch, finiamo la recensione dai... Fra poco devo tornare a casa, sai quanto è paranoica mia ma...-
Silenzio.
Un silenzio dolorosissimo per Ritch, che osservava come se fosse lontano anni luce, il lampo che aveva d'improvviso acceso gli occhi del suo tenero amore. E ovviamente quel lampo non era affatto per lui.
Rory intanto se ne stava appoggiato alla porta d'ingresso, un sorrisetto allusivo bene impresso su quella sua faccia tosta.
- Ciao!-
Le guance di lei avvamparono per un attimo.
- Tu sei Rory, vero? Quello degli Hurricanes?-
- Anche io suono negli Hurricanes, se mai qualcuno se lo fosse dimenticato!-
Lo sguardo al fiele di Ritch non scalfì neppure per sbaglio il momento.
Rory dal canto suo si limitò ad annuire, laconico e misterioso. A Ritch sembrava di sentire il pulsare violento del cuoricino innamorato di Marie. Quello era e sarebbe stato sempre il suo destino: ogni ragazza che gli fosse anche lontanamente interessata si sarebbe tolta le mutande davanti a Rory e alla sua capigliatura platino.
Non ribolliva di rabbia come avrebbe creduto, era più un fastidio incontrollato alla bocca dello stomaco, ma questo come al solito non lo diede a vedere. Mascherò la sua galoppante gelosia con battute e risate.
Nel giro di un quarto d'ora insieme sapeva già che Marie era cotta e stracotta. Non faceva altro che fissare Rory, sembrava pendere dalle sue labbra, perennemente incurvate in un sorrisetto irriverente.
Dopo essere rimasti per qualche tempo a parlare, Marie dovette andare a casa.
Rory si offrì di accompagnarla, ma lei rifiutò ringraziandolo e diventando rossa come un peperone. Evidentemente aveva preferito dire di no perchè sicuramente si sarebbe sentita male di fronte a quell'emozione esplosiva.
Una volta rimasti soli, Ringo aveva una faccia da funerale che Rory non gli aveva mai visto.
- Comunque, a cosa devo la fantastica visita?-
Ironizzò Ritch, mettendosi a sedere alla batteria. Voleva liquidarlo al più presto  e suonare fino a che non gli fossero sanguinate le mani; era l'unico modo di sfogarsi che non contemplasse il bel faccino di Rory.
L'amico gli si fece accanto, poggiandogli una mano sulla spalla.
- Dai, Rings... Mica ce l'avrai con me? Non ci stavo provando, cioè non te la farei mai una cosa del genere... Hai visto come mi guardava no? Non meriti una che non è minimamente interessata a te e lo sai...-
Gli strinse la mano attorno alla spalla e Ritch vide quel gesto consolatorio come l'apoteosi della pena che doveva suscitargli in quel momento. Lo osservò dal basso, seduto sul suo sgabello malconcio.
Per un attimo lo invidiò; una stilettata al petto che durò solo una manciata di secondi, ma che gli fece salire alle labbra il sapore acido della gelosia. Alto, bello, biondo, sorriso smagliante... Cosa avrebbe potuto desiderare di più una ragazza?
Ma questi non erano pensieri da Ringo e lo sapeva anche lui, fin troppo bene. Non gli appartenevano sentimenti di odio, rancore o collera, anzi. Lui era sempre stato il collante, quello che riusciva a sdrammatizzare anche nel momento più nero, per le occasioni più meste.
Sì, Rory era sincero e dopotutto non era colpa sua se aveva quel fascino innegabile e se gli piaceva giocarci su. Ma non poteva nascondere che questo lo faceva soffrire da matti, perchè in cuor suo sapeva che la cotta per Marie non sarebbe sparita a comando.
Si limitò a riservargli un sorriso tirato, rassicurandogli che gli sarebbe passata presto, ma non ci credeva poi molto.
Rory buttò a terra la maschera dello spaccone e si mise a sedere sul divano, di fronte a lui.
Lo guardò per qualche minuto e, così intensamente che per poco Ritch non gli chiese se avesse voluto una foto.
Poi, finalmente un sorrisetto complice si fece largo sulla faccia perfettamente simmetrica del bel biondino:
- Andiamo in Scozia, Rings... Ti conviene preparare i bagagli!-

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - JOHN ***


CAPITOLO 5 - JOHN


Qualcuno bussò alla porta, ma nel dormiveglia gli sembrò solamente frutto della sua immaginazione, quindi si girò dall'altra parte, tutto intenzionato a dormire per il resto del pomeriggio.
Poi di nuovo bussare, al che sbuffando si alzò dal letto.
La testa gli pulsava dolorosamente, come trafitta da un migliaio di spilli appuntiti.
La sera prima era andato a bere con alcuni amici della scuola e la sbronza non gli era ancora passata.
Caracollò verso la porta abituando gli occhi alla penombra, poi la aprì.
- John, sono le 5 del pomeriggio!!!-
Il tono di Mimi gli faceva saltare i nervi ancor più di quanto non fossero già.
Sbuffò di nuovo, rimanendo appoggiato alla porta.
- Cosa c'è Mimi?-
I rapporti fra loro erano tesissimi, molto più di come non fossero mai stati.
Lo sguardo della zia era gelido, ma la conosceva troppo bene per non vederci una venatura di preoccupazione che le divorava il cuore.
- Ha telefonato tua madre...-
John tese bene le orecchie. Sapeva cosa poteva voler dire quella cosa, era quasi certo solo che... Non voleva farci troppo l'idea, per scaramanzia.
Mimi lo osservava di sottecchi, come per saggiare la sua imminente reazione. Le sembrava quasi di poter vedere i nervi tirati come corde di violino, sotto la pelle del giovane nipote.
Ed era furiosa. Sì, furiosa e amareggiata perchè fra lui e Julia sembrava esserci un patto segreto, fatto di promesse e volto solo e unicamente al danneggiare lei.
Sopportava malamente la complicità di quei due e sopportava ancora meno quell'aria incantata e volutamente stupida che si dava Julia in presenza di John, quasi fingesse per accattivarsi l'amore di un figlio che non aveva mai accudito, quasi fosse una sorta di modo per rimediare all'abbandono.
-...Ha detto che è arrivato un pacco per te...-
John non le fece nemmeno finire la frase, che già si stava buttando alla ricerca di una maglietta pulita e saltellava su un piede nel disperato tentativo di infilarsi le scarpe.
Mimi sollevò gli occhi al cielo.
Ci era riuscita. Dopo anni di totale disinteresse, quella stupida di Julia era riuscita a sottrarre John dalla sua tutela, dal suo affetto, rendendo vane tutte le fatiche che aveva compiuto per renderlo un ragazzo per bene.
Da quando lei era tornata, John non faceva altro che stare a casa sua, era diventato sempre più sfuggente, non rispondeva mai al cellulare e se per qualche motivo Mimi non avesse avuto idea di dove si trovasse il ragazzo, le bastava telefonare a Julia in modo da sapere tutti i suoi spostamenti.
Con la sorella si confidava, le diceva cose che a lei non aveva detto neppure in anni... Mimi si sentiva impotente e fragile.
Ci aveva messo fatica, sudore e sangue per instaurare un rapporto con quel ragazzino difficile, aveva fatto sacrifici per farlo  sentire amato e le sembrava che Julia fosse arrivata proprio nel momento in cui Mimi era ad un passo dal decifrare l'ingarbugliato mistero che si annidava nell'animo di John, a poche spanne dalla scoperta del segreto che l'avrebbe finalmente resa partecipe di ciò che lo tormentava, che li avrebbe uniti per sempre.
Una voce cattiva le si fece strada nella mente, mentre osservava il ragazzo pettinarsi con cura davanti allo specchio.
''Tu non sei sua madre, non ti amerà mai come potrà amare lei... Anche se lo abbandonerà mille altre volte, non la odierà come odia te... Che hai sempre e solo voluto prendere il suo posto''
Mimi Smith si morse quasi a sangue il labbro inferiore, per impedire alle lacrime di serpeggiarle giù per le guance.
- Allora io vado, Mimi... Tornerò per cena!-
La donna voltò il viso nell'esatto momento in cui John arraffava lo zaino e la sorpassava, schioccandole un bacio frettoloso su una guancia. Non voleva farsi vedere così da lui.
Lo salutò dalla cima delle scale, mentre inforcava la porta e scompariva di nuovo.

Era arrivata, era vero!!! Non poteva crederci, finchè non l'avesse impugnata e stretta fra le braccia.
Pedalava come un forsennato mentre immaginava il momento magico nel quale avrebbe finalmente imbracciato la sua prima e nuovissima chitarra acustica.
Mollò la bici sul vialetto, cadendo quasi mentre scivolava su per l'acciottolato.
Si attaccò al campanello, continuando a spingere il bottone finchè non vide la porta aprirsi.
Sua madre gli stava davanti, quel fantastico sorriso a 32 denti che le illuminava il viso.
- Johnny Boy! E' arrivata!-
Si misero a saltellare entrambi, tenendosi per mano come due bambini tantoché si unirono a loro anche Julia e Jackie, le sorellastre di John.
- Ciao Johnny!-
- Eccole! Le due bambine più carine dell'universo!!-
Le prese entrambe per la vita, tenendole sotto braccio come fossero state due bambole. Iniziarono a ridere come due ossesse, finchè non uscì di casa anche Bobby, che diede una pacca sulla spalla di John.
- Sospettavo che ci fossi di mezzo tu, pazzoide!-
Lo apostrofò, scombinandogli i capelli.
- Entrate dai... Scartiamo tutti insieme il regalo di vostro fratello!!-

La chitarra l'aveva ordinata una settimana prima, su internet.
Aveva tartassato così tanto la madre con quella storia che Julia, alla fine, aveva ceduto. Ad una sola condizione però, che il corriere recapitasse il pacco a casa sua, perchè immaginava già quale sarebbe stata la reazione della sorella.
John era raggiante, entusiasta e sembrava fuori di sé dall'eccitazione.
Julia lo attirò a sè, cingendolo con un braccio. Erano sul divano, entrambi con gli occhi fissi sulla sagoma sinuosa di quella bellissima chitarra nuova di zecca.
Julia stampò un bacio sonoro sulla fronte del figlio, che per tutta risposta la guardò dal basso.
Quella era sua mamma, per davvero.
Non era un fantasma, non era una visione, non era un sogno come ne aveva fatti per anni ed anni, macerandosi nel dolore e in quell'odio cieco che non l'aveva portato ad altro che a incattivirsi sempre più.
No, quel cuore che sentiva battere affianco al suo, quella mano delicata che gli carezzava i capelli e quel calore buono erano reali, carne contro carne.
E sentiva di amarla, di volerle bene in modo viscerale, inaspettato, automatico... Quasi come se non se ne fosse mai andata.
Nel periodo in cui si erano riavvicinati aveva passato alcuni dei momenti più belli della sua vita, fino a quel momento.
Julia era vitale, frizzante, a tratti spregiudicata e bellissima... Aveva un sorriso caldo e rassicurante, in grado di illuminare completamente una stanza.
Eppure, c'era una parte di lui, quella più profonda e molto probabilmente la più ferita, che ancora non riusciva a lasciarsi andare completamente, che ancora metteva in dubbio quello che Julia gli diceva, quello che gli dimostrava.
- Ora dovremmo dirlo a Mimi...-
John si discostò da lei, come se avesse appena pronunciato una bestemmia.
- Non puoi tenerle nascosta una chitarra, quando la suoni!-
Precisò lei, sorridendogli mentre gli dava un buffetto sul naso.
- Ma lei non capisce... Vuole solo che io mi rompa le palle su quei dannati libri... E per quella storia di mezza canna me la sta ancora facendo scontare!-
- Abbassa la voce, John... E torna a sedere... Ascoltami...-
John ubbidì, cercando di mantenere la calma.
- Ci parlerò io con Mimi, tu sta tranquillo.... Promettimi solo una cosa...-
Lo sguardo serio di Julia fece trasalire John. Non l'aveva mai vista così corrucciata.
-... Devi diventare il chitarrista più bravo e più figo di tutta Liverpool! Altrimenti... Non mettere più piede qui dentro!!!-
Scoppiarono a ridere entrambi, rimanendo abbracciati come fossero stati incollati.

Dire che Mimi avesse preso bene l'idea che John iniziasse a perder tempo anche dietro a quell'arnese sarebbe una bugia, ma dopotutto non ne sollevò neppure una tragedia. Si limitò a sospirare teatralmente all'entrata del nipote in salotto, con la chitarra legata dietro alla schiena da una fibbia di pelle.
C'era stata una discussione al telefono, poco prima, fra lei e Julia e John era rimasto sapientemente dietro la porta d'ingresso, aspettando che la rabbia imminente fosse quantomeno un po' evaporata.
Ma ben sapeva che la zia non ce l'aveva affatto con lui o almeno non del tutto. Comunque, a dispetto del suo caratterino, a John non sembrava opportuno testare la pazienza di Mimi, perciò iniziò ad essere più attento a non infastidirla troppo.
Percepiva che se ci fosse stato un punto di rottura, non ci sarebbe stato un dietrofront... Se avesse fatto il passo più lungo della gamba sapeva benissimo che Mimi non era una di quelle che tornano ad elemosinare affetto. Se le avesse voltato le spalle lei non lo avrebbe cercato più.
Per il primo periodo aveva anche cercato di rimettersi in pari con la scuola, di studiare ogni giorno, di cercare di dar retta per quanto poteva alle raccomandazioni e alle lamentele della zia... Ma era durato poco, veramente poco.
L'unica cosa che sembrava assorbire febbrilmente la sua attenzione era quella chitarra, che continuava a strimpellare senza sosta, notte e giorno, notte e giorno senza essere intenzionato a farla finita.
Di discussioni, sfociate anche in pesanti liti, ce ne furono parecchie, sopratutto perchè a dispetto degli iniziali buoni propositi John aveva ricominciato a comportarsi in modo totalmente irrispettoso.
Sarebbe passato sopra a tutto ed a tutti pur di continuare a suonare. Mimi non lo sopportava.
Aveva quasi smesso di andare a scuola, di studiare benchè meno... L'unica cosa che faceva continuamente era pizzicare quelle maledette corde.
- JOHN WINSTON LENNON!!! SMETTILA CON QUESTO FRACASSO INFERNALE!-
- MI HAI ROTTO, MIMI!!!-
Le urla si sentivano fino in strada e Mimi non sembrava esser stata mai fuori di sè come in quel momento.
John le stava davanti, il viso contratto in un'espressione odiosa e arrogante, la bocca distorta all'ingiù, impugnando per il manico quel dannato attrezzo.
- Cosa hai detto?!-
Lo sfidò lei, parandosi ancora più vicina al viso affilato del nipote.
- Mi hai sentito bene! Mi hai rotto! Non ti sopporto più! Questo è quello che voglio fare, cazzo! Nè tu, nè nessun'altro potrà impedirmelo! Me l'ha detto anche mamma!-
Il cuore di Mimi si fermò per quello che le sembrò essere un tempo interminabile. Non tanto per il tono cattivo e irrispettoso che aveva usato, quanto per quello che aveva detto: ''mamma''.
Fino ad allora John non l'aveva mai chiamata a quel modo, almeno non davanti a Mimi... Si limitava a chiamarla Julia.
Era fatta. Lo aveva perso, probabilmente per sempre.
Mimi sentiva di non aver neppure più la forza per ribattere o anche solo per alzare una mano e dargli uno schiaffo.
Lo fissò per qualche istante, poi si mise a sedere e indicò la porta.
- Va' da tua madre, allora...-
Non era un segno di sfida, ma semplicemente la presa di coscienza della sconfitta.
Dal canto suo John non parlò neppure, si limitò a mettersi la chitarra sulla spalla, prendere uno zaino e uscire di casa, sbattendo la porta.
 
Aveva vagato in strada per qualche tempo, ascoltando il rumore di ventosa che faceva la suola delle scarpe da ginnastica contro l'asfalto umido.
Poi, insofferente e ancora arrabbiato, si era incamminato verso casa della madre. Non aveva voglia di bighellonare in città alla ricerca di qualcuno e anche volendo non poteva contattare nessuno visto che il cellulare era scarico. Superò quindi il campo da football del quartiere e si diresse verso una delle villette a schiera.
Quasi come se avessero intuito del suo arrivo vide Julia e Jackie fargli le boccaccie dal vetro del salotto. Tirò fuori la lingua, facendole ridere a crepapelle.
Julia e John parlarono molto, seduti di fronte ad una tazza di té caldo.
A Julia piaceva osservare il profilo appuntito del figlio, la cascata di capelli folti e riccioli, tenuti più lunghi davanti e corti sui lati.
Non era un pensiero tipicamente materno... No, Julia sapeva che dentro quella testolina quel ragazzo nascondeva un potenziale infinito, un genio sopito e pronto ad esplodere, illuminando tutto ciò che gli si fosse trovato vicino.
Sapeva, ne era certa, che il suo John sarebbe diventato qualcuno.
Si ritrovò a sorridere, le labbra increspate leggermente in un sorriso mentre guardava il suo ragazzo parlare.
- Ma', mi stai ascoltando?-
Il brusio della tv sintonizzata sui cartoni animati la fece risvegliare dal torpore.
Aveva perso il filo del discorso, ma sapeva per certo che John stava inveendo contro Mimi.
- Non dovresti essere così duro con lei...-
A quelle parole, il ragazzo si spazientì, interrompendola con un gesto stizzito della mano.
- Cosa dovrei dire di tutte le volte in cui lei è stata dura con me?! Non mi capisce... Non lo ha mai fatto! Vorrebbe che io fossi il suo principino gentile, ma ancora non ha capito che quello che io voglio è altro! E non sono disposto a sacrificarlo per niente e nessuno al mondo... Non la sopporto...-
- John! Non dire così!-
Il rimprovero di Julia lo scosse dentro.
Non aveva mai visto il viso della mamma distorto a quel modo. Era sempre scherzosa e mai accigliata, sembrava un'amica più che un genitore, ma in quel momento gli sembrò profondamente offesa dalle sue parole.
- Se c'è qualcuno con cui dovresti avercela, quella sono io...-
Gli occhi verdi di Julia si abbassarono per un attimo sul pavimento, per poi tornare in quelli obliqui del figlio, che la guardava senza capire, o meglio senza volere che arrivasse a dire ciò che temeva.
Gli ci era voluto del tempo per abituarsi a quella nuova realtà, a quella ritrovata ''normalità'' che aveva sempre desiderato.
Aveva una madre adesso, anche se in realtà l'aveva sempre avuta... Ed era da poco che la sua mente aveva smesso di torturarsi con pensieri dolorosi di rifiuto e abbandono.
Ma adesso, adesso sapeva bene dove Julia stava andando a parare e non era certo di volerla stare a sentire.
Dopotutto, era facile ''odiare'' Mimi, riversare tutto il malcontento su di lei perché non gli permetteva fino in fondo di esprimere se stesso. Ma ad odiare sua madre aveva passato quasi metà della sua vita attuale e non intendeva andare oltre... Non voleva più soffrire a quel modo.
- No...NO, NO NO! STA ZITTA!-
Con uno scatto si sollevò dalla sedia, facendola traballare pericolosamente.
Julia lo guardava ad occhi sgranati, persino Jackie e Julia jr avevano spento la tv e avevano fatto capolino dalla porta scorrevole che dava nel salotto.
-Mammina?-
Aveva pigolato una delle due, impaurita dal tono brusco del fratellastro.
- Tornate a guardare i cartoni animati, pulcini... Mamma e John devono parlare!-
Julia aveva accompagnato il ritorno delle piccole esortandole con entrambe le mani poggiate sulle loro schiene, poi aveva debitamente accostato la porta.
John era ancora in piedi e respirava rumorosamente, lo sguardo basso e la fronte arricciata.
- So che non vuoi sentirlo dire, John... Ma Mimi ha fatto tanto per te... Più di quanto potessi fare io stessa!-
John continuava a scuotere la testa, guardava fuori, le parole della madre che lo trapassavano come spilli.
- Si è fatta in quattro per poterti dare tutto ciò che hai adesso e se solo ti sembra un po' dura, devi capire che è il suo modo di essere e di volerti bene... Io non le sarò mai abbastanza grata per quello che ha fatto...-
- DOVRESTI SMETTERLA! BASTA!-
Julia indietreggiò.
John era trasfigurato: il viso arrossato, il respiro affannoso e gli occhi come due pozzi.
- Non voglio sentire queste storie del cazzo! Non voglio sentire quanto tu sia fottutamente dispiaciuta per non aver cresciuto tuo figlio, di come tu lo abbia sbolognato a tua sorella, di come... Di come io non avessi mai saputo che vivessi a qualche cazzo di km da me! E IO ALLORA, UH?-
John battè energicamente un pugno contro il petto, alzando la voce e digrignando i denti. Julia lo lasciò fare, ghiacciata dal dolore.
- Cosa ne dici, Julia, se iniziassi a parlare di quello che IO ho dovuto passare?! Delle notti insonni, chiedendosi cosa mai avessi fatto per meritare di essere abbandonato come un sacco dell'immondizia dalla mia stessa madre!!!
Delle discussioni con Mimi, infinite discussioni su cosa fosse adatto a me, cosa non dovessi fare, cosa CAZZO FOSSE GIUSTO E COSA SBAGLIATO!
Ma sai una cosa? Hai ragione, perfettamente ragione... Non ce l'ho affatto con Mimi, anche se è più facile scaricare le tue colpe su di lei... Ma la realtà è che la vera madre che io abbia mai avuto è lei! NON TU! TU NON SEI ALTRO CHE UN'IPOCRITA!
E' facile fare la morale e i bei discorsi adesso, che il peggio è passato e sono cresciuto e tu puoi tornare come se nulla fosse stato! MA E' LEI QUELLA CHE HA AVUTO LE PALLE DI TIRAR SU UNO COME ME! TU SEI SCAPPATA!!! SEI SCAPPATA! DOVE ERI, EH MAMMA? DOVE CAZZO ERI????-
Le lacrime gli uscirono dagli occhi senza che se ne accorgesse, fin quando non sentì la vista appannarsi.
Ritornò a respirare, come se fosse un qualcosa a cui era disabituato e capì di aver urlato così tanto da svegliare Bobby, che era sceso dal piano di sopra talmente velocemente da avere il fiatone.
Lo vide sull'uscio col viso ancora assonnato e  spiazzato, ma un'espressione contrariata che non lasciava spazio a dubbi.
Quella era casa sua e lui era un estraneo e, ovviamente, non doveva permettersi di trattare così sua moglie di fronte alle bambine, nè di urlare come un indemoniato.
- Che sta succedendo?!-
Julia si affrettò ad appianare la situazione, ma John stava già raccogliendo le sue cose.
- John, ma dove stai andando?-
- Al diavolo, probabilmente!-

-Cosa stai facendo?-
Alzò gli occhi.
Il cielo era tristemente plumbeo, come al solito, probabilmente a momenti sarebbe scoppiato a piovere.
Di fronte a lui si stagliava una ragazza bionda. Era vestita con una tuta e portava i capelli legati.
- Hey, hey, guarda qui chi abbiamo! Miss Hoylake!-
La appellò, guardandola dal basso all' alto e facendole un sorrisetto. Lei rispose al sorriso e prese posto vicino a lui.
- Cosa ci fai qua su questo muretto, tutto da solo?-
Era una ragazza deliziosamente eccitante, ma John ancora non aveva capito a fondo se ne fosse consapevole o meno e quanto fingesse quell'arietta candida.
Erano in classe insieme e l'aveva conosciuta ad inizio anno scolastico, quando aveva cambiato dalla Quarrybank all'Istituto d'Arte.
- Stavo aspettando te...-
Le rispose, facendo volutamente il farfallone e increspando le labbra in un sorrisetto sardonico.
La biondina avvampò per un attimo, prima di cambiare discorso.
- E' un po' che non ti si vede a scuola, stai bene?-
''Ecco un'altra crocerossina del cazzo''
- Ti sembra forse il contrario? Mh?-
Quel tono aggressivo e sprezzante la fecero quasi sobbalzare, ma John non sembrò farci nemmeno caso.
John Lennon era così: un tipo strambo e scostante, uno di quei bulletti da cui stare a debita distanza. Ma Cynthia non era assolutamente intenzionata a lasciarsi scappare la possibilità di avere a che fare con lui.
Lo osservava di profilo, mentre con gli occhi piccoli e scuri osservava di fronte a sè, così sicuro e affascinante, totalmente indifferente nei suoi confronti. Questa era una cosa che la stuzzicava moltissimo.
Poi notò la sacca che John aveva abbandonato affianco a lui, sul muretto. Doveva essere una chitarra.
- Stai imparando a suonare?-
Gli chiese poi, continuando a cercare il suo sguardo, anche se John non aveva intenzione di darle soddisfazione.
- Così sembrerebbe-
- Ed è difficile?-
- Powell, cos'è questo un terzo grado, cazzo?-
Finalmente la guardò negli occhi e, a dispetto dell'atteggiamento da galletto e la sua scontrosità, decise di sorridergli e basta, ancorandolo con i suoi occhioni da cerbiatta.
John rimase per qualche istante perso in quella profondità rassicurante, ma discostò lo sguardo subito dopo affrettandosi a rispondere.
- Non più di tanto...-
Minimizzò, sistemandosi la giacca.
In realtà stava avendo non pochi problemi nell'imparare ed ora che aveva litigato a quel modo con sua madre, che si era impegnata ad insegnargli, non vedeva come avrebbe potuto continuare senza pagare delle lezioni.
Però gli piaceva non poco fare lo spaccone e sapeva benissimo le voci che circolavano sul suo conto: che fosse un tipo misterioso e problematico... E questo alle ragazze piaceva sempre.
Ci fu qualche attimo di silenzio, silenzio durante il quale John ripensò a quella giornata schifosa e a come avesse in poche ore buttato tutto all'aria con Mimi, con Julia... Tutto. Eppure non se la sentiva di fare il primo passo in nessuna delle due direzioni. In quel momento gli sembrò proprio che la sua vita facesse schifo, tremendamente schifo.
Un'ombra scura gli annebbiò il volto.
Cynthia se ne era rimasta lì per tutto il tempo, facendo dondolare le gambe dal muretto e lanciandogli ogni tanto un'occhiatina.
- Sei sicuro di star bene?-
Ripetè, mettendosi in piedi di fronte a lui.
John si limitò ad annuire, perso in pensieri e congetture più grandi di lui.
La biondina annuì a sua volta, poi lo salutò allontanandosi lungo la strada principale.
John le guardò il sedere stretto nei pantaloni da ginnastica muoversi ritmicamente, come a formare un ''8''.

Il pensiero di tornare a casa, da Mimi, neppure gli attraversò il cervello, d'altro canto pure tornare a casa da sua madre dopo la sfuriata del pomeriggio e quella faccia di cazzo di Bobby, che lo guardava manco fosse un criminale, non se ne parlava assolutamente.
Aveva voglia di stare solo, di riflettere su tante cose, di canalizzare la rabbia e il risentimento che provava in altro modo.
Fosse stato per lui sarebbe andato in Mathew Street, si sarebbe preso una sbronza e probabilmente si sarebbe trovato in mezzo a qualche rissa.

Per fortuna finì per passare la notte a casa di Peter Shotton, un suo vecchio compagno alla Quarrybank.
Non c'era stato bisogno di spiegazioni, John era riuscito a mandargli un messaggio con l'ultimo respiro di batteria del telefono, dove spiegava che aveva avuto i soliti casini a casa e Peter gli aveva proposto di rimanere a dormire da lui.
- Ehy Petie, grazie mille!-
- Ma che cazzo dici, Lennon!-
I due si erano scambiati una pacca sulla spalla e poi avevano passato quasi tutta la serata a parlare ed ascoltare musica.
Poi Peter aveva aperto una scatola di latta dove teneva un assortimento infinito di soldatini, che aveva iniziato a buttare sul letto, alla rinfusa.
- Non credi di essere leggermente cresciuto per 'ste cose?-
Gli chiese John iniziando a ridere.
Senza rispondere ne' fiatare, dopo aver un po' cercato, dal fondo della scatola Pete estrasse un involucro di stagnola.
John se ne stava a guardarlo, la testa poggiata sui palmi, mentre la musica al computer faceva di sottofondo alla scena.
- Et voilà, monsieur! La gradisce una cannetta?-
Pete si avvicinò col bottino: due quartini di canapa odorosissima.
John non se lo fece ripetere due volte e andò a frugare nello zaino alla ricerca di cartine e filtri, mentre Peter si assicurava di aprire la finestra e controllare che i suoi dormissero sonni tranquilli.
Si misero all'opera nella costruzione, continuando a parlare del più e del meno, di progetti futuri e sogni vari.
Venne fuori che anche Peter stava prendendo lezioni di chitarra e non se la cavava neppure male, mezzi fumati e eccitati improvvisarono un duo che, magari per gli effetti della canna, magari per reale capacità sembrò funzionare a entrambi.
- Pete... Ho un'ideona...-
Biascicò John osservando il soffitto, prima di scivolare in un sonno profondo.
- Mh?-
- Da oggi si aprono le iscrizioni al gruppo più fico e di successo di Liverpool...-
- Ovvero?-
- Ma il nostro, coglione! I Quarrymen!-

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - PAUL ***


CAPITOLO 6 - PAUL


- Paulie, sai che papà potrebbe arrabbiarsi per questo?-
L'idea di portarsi dietro Mike non era stata una delle migliori, adesso Paul se ne stava rendendo conto.
Stavano camminando lungo Walton Road e per tutto il tragitto Mike non aveva fatto altro che blaterare sulle possibili ripercussioni della scelta azzardata che il fratello maggiore stava per intraprendere.
Dopo l'ennesima osservazione non richiesta, Paul aveva inchiodato, aveva afferrato Mikey per le spalle e, con aria estremamente seria e compita gli aveva spiegato quanto la sua opinione al riguardo gli importasse: meno di niente.
- Sono affari miei, ma se non te la senti e hai paura di andarci di mezzo sei liberissimo di tornartene indietro!-
Mike aveva deglutito rumorosamente. Di tornarsene a casa da solo non aveva per niente voglia, sopratutto perchè a dispetto del timore verso la reazione del padre, moriva dalla voglia di essere partecipe del fatto.
Quindi si limitò a scuotere la testa e continuare a trotterellare affianco al fratello.
Entrarono nel negozio di Harry Epstein annunciati da un antiquato campanello sulla porta. All'interno, apparte qualche ragazzo che controllava dischi o ammirava gli strumenti, non c'era nessuno.
A Paul non andava a genio starsene lì ad aspettare, per cui si avvicinò spedito al bancone.
In realtà il negozio era adesso gestito dal figlio di Harry, Brian, un giovane dall'aspetto curato e alla moda.
Giravano su di lui voci che fosse un finocchio, ma a Paul non interessava nulla... Non gli erano mai piaciute quelle prese in giro da deficienti, anzi, stimava Brian per l'abilità imprenditoriale e il fascino indiscusso che emanava.
- Ciao, Paul! Come sta tuo padre?-
Entrambi gli Epstein conoscevano bene Jim McCartney, assiduo compratore e visitatore del negozio, proprio per questo appena Brian gli rivolse parola per un attimo Paul rimase di sasso, forse non era stato propriamente il caso di andare proprio in quel posto, ma oramai era troppo tardi e poi...
- Forse dopo quello che sto per fare, non molto bene...-
Paul abbozzò un sorriso, mentre Brian lo osservava a metà fra l'incuriosito e l'interdetto.
Poi capì.
Il ragazzo estrasse dallo zaino che portava sulle spalle un astuccio bello grosso, che fece scivolare sul bancone.
- Questa scatola la conosco...-
Lo sguardo di Brian era allusivo e vivace, molto probabilmente aveva già intuito quello che Paul voleva proporgli.
Lui dal canto suo abbozzò un sorrisetto imbarazzato.
- Sì, bhe... Non è propriamente quello che mi aspettavo, anche se... L'ho apprezzato moltissimo eh!-
Ci tenne a precisare, passando con cura una mano sulla confezione bombata.
Brian lo guardò, sorridendogli di rimando.
- Non c'è bisogno che tu dica niente...-
Lo anticipò, raggiungendolo oltrepassando la cassa, poi gli poggiò una mano sulla spalla e lo guidò nella sala affianco, il vero e autentico paradiso della Musica.
Sembrava il posto più bello e meraviglioso che Paul avesse mai visto e non era la prima volta che ci entrava, ovviamente, però era come se lo vedesse per la prima volta e ne scoprisse il potenziale, come se per la prima volta fosse veramente alla sua portata.
Sulla parete di fondo erano posti in maniera ordinatissima e sistematica tutti gli strumenti a percussione: rullanti, grancasse, rototom, pedali e piatti di ogni genere e dimensione, amplificatori e chi più ne ha più ne metta. Ma il vero splendore, che sembrava riempire i suoi occhi fino a scoppiare consisteva nelle due pareti che si trovavano alla sua destra e sinistra, completamente ornate di chitarre dai colori e forme più accattivanti.
Si ritrovò a guardare a bocca aperta tutta quella meraviglia, mentre Brian sorrideva sotto i baffi.
- Sei certo di voler cambiare quella bellissima tromba con una di queste?-
- E me lo chiedi?!-

Il ritorno a casa fu in un certo senso più ''pesante'', ma senza dubbio a cuor molto più leggero.
L'esemplare di tromba che Jim aveva regalato a Paul era veramente di ottima fattura e per via dell'amicizia che legava il genitore agli Epstein, Brian gli aveva dato in cambio una chitarra semiacustica mancina a cassa stretta, di manifattura eccellente e dalle potenzialità eclettiche.
A Paul sembrava di toccare il cielo con un dito, anche se non sapeva bene come il padre avrebbe potuto prenderla.
Quando lui e Mike arrivarono a casa, Jim era rientrato da poco da lavoro e stava guardando il notiziario alla tv. Li salutò distrattamente, mentre sembrava tutto preso da quello che il giornalista stava dicendo.
Mentre Mikey correva di sopra a giocare coi videogiochi, Paul rimase sulla soglia del soggiorno incerto sul da farsi, gli sembrava quasi di sentire il cuore pulsargli violentemente nelle tempie.
Jim McCartney non era un uomo da temere, ma Paul provava comunque una punta di vergogna mista alla paura della delusione che avrebbe potuto provare il padre... Dopotutto il gesto di regalargli una tromba era stato bellissimo ed emblematico: era come una consegna del testimone e adesso lui aveva buttato tutto al vento. Per la prima e unica volta Paul si pentì di ciò che aveva fatto.
Ma proprio in quel momento Jim si voltò e lo vide, lì impalato come uno stoccafisso.
- Paul, che ci fai lì dietro al buio, come un avvoltoio?-
Jim abbassò il volume della tv guardando il figlio che si sedeva sul divano.
- Come è andata oggi?-
Gli chiese, osservandolo da sotto gli occhiali.
Paul si trovò ad un bivio: avrebbe potuto mentire e allungare il tormento finchè non fosse stato inevitabile parlare o avrebbe potuto vuotare subito il sacco ed aspettarsi l'inevitabile conseguenza.
Scelse di parlare.
- Papà devo dirti una cosa...-
Jim non lo fece nemmeno finire.
- L'unica cosa che mi dispiace è che io non posso aiutarti...-
- Uh?-
- Con la chitarra, intendo...-
Sul viso disteso di Jim McCartney si fece largo un gran sorriso.
- Non so suonarla, la chitarra!-
- Ma tu come fai...?-
- Caro il mio pivello, un padre sa tutto!-
Paul quasi balzò dal divano e soffocò il padre in un abbraccio stritolante.

Il talento di Paul era innegabile, sembrava essere nato per suonare la chitarra. Prese qualche lezione, ma divenne presto chiaro che ce l'aveva nel sangue e che era tranquillamente in grado di continuare da solo.
Per imparare a dovere Paul sacrificò anche gran parte della sua vita sociale.
Gli amici erano increduli quando dopo infiniti tentativi al cellulare si vedevano costretti ad andarlo a chiamare per una bevuta o un'uscita in città e spesso venivano tranquillamente scacciati. La chitarra aveva monopolizzato la sua attenzione al punto di ossessionarlo.
Non era raro che Mike dovesse andare a portargli la cena in camera, fosse stato per Paul avrebbe tranquillamente evitato di mangiare.
Nessuna ragazza, nessuna altra passione, niente di niente aveva assorbito a quel modo il suo ardore... Era innamorato pazzo.
Nel giro di qualche settimana divenne un mago delle corde, imparò ad accordare lo strumento e a suonare quasi come un professionista, era così assennato e meticoloso che Jim ne rimase estasiato e autenticamente orgoglioso.
In poco tempo divenne ancor più famoso nella cerchia di amici e a scuola era già additato come ''quel figo che suona la chitarra'', inutile dire che questo appellativo lo aveva reso ancor più appetibile alle ragazze. E odioso ai ragazzi.
Quasi come se presagisse qualcosa verso il futuro, però, non aveva ancora accettato nessuna proposta di quelle che gli erano state rivolte per partecipare e suonare in band locali. Sentiva che meritava di meglio o almeno, qualcosa in cui credere profondamente.
Nel frattempo non perdeva tempo e a riprova di quanto quella passione fosse radicata profondamente e non solo un vezzo adolescenziale, Paul aveva iniziato a scrivere musica e testi propri.
Non voleva nutrire il suo Ego troppo smodatamente, ma da buon narcisista quale era, Paul era certo che sarebbe diventato qualcuno e un qualcuno molto molto importante.
Passava ormai le giornate a quel modo, sognando sempre più ad occhi aperti, esercitandosi fino ad avere i crampi alle mani.
Il suo talento sembrava obbedire ad un'energia nascosta, sopita e pronta ad esplodere. Il desiderio di farne qualcosa in più lo tormentava... Iniziava a sentirsi in qualche modo ''sprecato'', ma non sapeva cosa fare, né con chi. Era orgoglioso, ma non fino al punto di pensare di potersela cavare da solo, almeno non inizialmente. Sentiva che era solo questione di tempo prima che la situazione maturasse e che lui riuscisse a lasciare il segno. Qualche mese dopo avrebbe conosciuto John Lennon.

La festa della ''Regina di Rose'' era ormai un appuntamento annuale che aveva preso le sembianze della tradizione folkloristica a Woolton. Si organizzavano mercatini, volontariato ed era una festa adatta a grandi e piccini.
Negli anni era diventato un evento sociale immancabile per il quartiere e, anche se poco stimolante per i più giovani, rimaneva comunque una tappa obbligatoria per la prima settimana di luglio e un'occasione da non sottovalutare per musicisti emergenti.
Ormai da un decennio buono infatti si  teneva durante la festa una sorta di contest per piccoli gruppi amatoriali e non professionisti per saggiarne l'abilità e la presenza scenica. La gara era ovviamente volta al divertimento, senza premi in palio ad eccezion fatta del temporaneo prestigio.
La scuola era finita ormai da tempo e nell'aria si iniziava finalmente a percepire la sensazione meravigliosa di vacanza e totale relax della stagione estiva.
Paul aveva passato i primi giorni di libertà continuando ad esercitarsi con la sua chitarra, che dopo ormai 7 mesi sapeva destreggiare alquanto bene.
Quasi come svegliato da un sonno profondo si rese conto di non essersi affatto ''osservato intorno'', almeno non in ambito musicale. Aveva passato la prima parte dell'anno quasi sempre chiuso in camera con il suo strumento senza interessarsi minimamente alla concorrenza o perlomeno a cercare un gruppo di cui far parte. Pensò quindi che la festa a Woolton e la gara fra musicisti fosse l'occasione adatta per saggiare la situazione.
Perciò nel primo pomeriggio del 6 luglio si mise la chitarra a tracolla, salutò suo padre ed uscì di casa diretto laggiù.
Mandò un messaggio a Ivan, che gli rispose immediatamente di essere già lì alla festa e che era riuscito a sgraffignare qualche alcolico. Paul gli rispose di aspettarlo e di non scolarsi tutto da solo.
Per essere una festicciola di quartiere l'atmosfera sembrava abbastanza promettente, con giovani ragazzine sorridenti e cibo a volontà. Già un paio di sue compagne di scuola l'avevano salutato con gli occhi a cuoricino e risolini striduli.
Ivan lo raggiunse proprio mentre stava salutando Jane, una ragazza di un anno più piccola ma che sapeva già bene cosa piacesse a loro maschietti.
- Allora ci conto, Paul... Mi raccomando scrivimi!-
Un occhiolino ed era svanita tra la folla. Paul era rimasto a guardarla, indirizzandogli quel sorrisetto da impunito.
- Poi dovrai spiegarmi come cazzo fai a riuscirci ogni volta...-
Aveva commentato Ivan, salutandolo con una pacca sulla spalla, poi gli aveva offerto una bottiglia di birra e avevano preso posto all'ombra di un albero, leggermente discosti da un banco che vendeva zucchero filato.
Dopo aver chiacchierato un po', salutato amici e bevuto le loro birre, verso le quattro del pomeriggio un uomo salì sul palco improvvisato nel centro del parco retrostante la chiesa di St. Peter.
Tutti i festaioli si fecero più vicini, inclusi Paul e Ivan.
- Ci siamo!-
Gli sussurrò eccitato Ivan.
L'uomo si accostò al microfono informando che la gara fra band sarebbe iniziata a momenti. Mentre il tizio continuava a parlare ed enumerare i nomi dei vari partecipanti Ivan informò Paul che conosceva bene alcuni ragazzi che si sarebbero esibiti e che, secondo lui, promettevano bene.
Paul lo stette a sentire con la dovuta scetticità. Lo avrebbe valutato lui se fossero stati bravi come millantava lui, ma questo ovviamente non lo disse all'amico, ma si limitò ad annuire.
- E chi sarebbero?-
- Si son chiamati QuarryMen, come la scuola...-
- Che nome idiota!-
Commentò Paul, soffocando a stento una risata.
- L'ha scelto John, credo...-
- Chi è John?-
- Lennon, un amico di Peter... -
- Mai sentito...-
- Ma Peter Shotton?! dai lui lo conosci!-
- Ah sìsì, quello con la sorella figa!-
Commentò Paul dando una gomitata nel fianco di Ivan. Entrambi scoppiarono a ridere ed un signore con la telecamera, proprio davanti a loro si voltò con lo sguardo truce di qualcuno che probabilmente sta per riprendere l'esibizione del figlio.
Cercarono di soffocare l'ilarità, ma ovviamente il risultato fu tutto il contrario e per evitare problemi si spostarono sulla destra, così da avere anche una visuale migliore del palco. Il discorso ''John Lennon'' si perse.
Le prime band iniziarono ad esibirsi e, apparte qualche raro sprazzo di decenza, Paul fu veramente deluso di ciò che stava vedendo e ascoltando. Sì, ok erano per lo più ragazzini alle prime armi, molti anche più piccoli di lui, ma si sarebbe aspettato qualcosa di meglio. Negli anni precedenti, quando lui e Mike venivano a passare qualche giornata con la mamma e il papà non gli sembrava che si consumasse quel disastro musicale al quale invece stava assistendo in quel momento.
Arrivò alla conclusione che forse, essendosi ultimamente istruito così tanto in ambito musicale, avesse compreso molte più cose rispetto al passato. E che quelle band avevano sempre fatto schifo.
Il disappunto gli si leggeva sul suo bel faccino, le labbra a cuore all'ingiù che sbuffavano di continuo, gli occhi persi altrove, alla ricerca magari di qualche ragazzina carina. Ad un certo punto, quando un ragazzo sul palco si dimenticò l'accordo nel bel mezzo della canzone, Paul fu anche tentato di andarsene, ma Ivan lo prese per un braccio, promettendogli che il gruppo di questo fantomatico John era fatto di tutt'altra pasta.
Anche se scettico come al solito, il giovane McCartney decise di dare loro una chance e rimase in ascolto, con le braccia incrociate.
Dopo una mezza dozzina di esibizioni venne finalmente il momento dei famosi QuarryMen.
Già dall'aspetto non gli sembravano poi delle grandi star, anche se doveva ammettere che quello nel centro, con i capelli riccioli lunghi sul ciuffo sembrava avere una discreta presenza scenica, nonché una discreta faccia da schiaffi.
Il gruppetto consisteva nel classico quartetto: lead guitar, rithym guitar, batteria e basso.
Doveva essere una delle prime esibizioni perchè tutti quanti sembravano alquanto emozionati.
''Diciamo pure che se la stanno facendo addosso''
Pensò Paul con una punta di cattiveria.
- Scommetto che quello è John!-
Azzardò, avvicinandosi all'orecchio di Ivan. Quello gli mostrò il pollice, genuinamente entuasiasta per l'imminente performance del gruppo. Questi QuarryMen avevano trovato per lo meno il loro primo vero fan sfegatato.
- Allora branco di mummie, siete pronte a risvegliarvi??? Ragazzi... e...un...du'...tre!-
Senza dubbio John sapeva come parlare, ma sopratutto come muoversi. La tecnica non era delle migliori, si vedeva lontano un miglio, almeno per chi fosse abbastanza ferrato in materia, che aveva imparato tutto da solo e con gran fretta, senza stare tanto a pensare alle rifiniture. La chitarra inoltre era scordata e lui sembrava esserne totalmente all'oscuro.
Però c'era della magia, c'era un potenziale.
Anche la sua voce era molto originale, a tratti gracchiante e cruda, ma mai artificiosa. Il tutto era molto autentico e quasi arrangiato, ma molto molto intimo. Si vedeva che non era qualcosa di statico e troppo accademico. C'era dell'altro. Un qualcosa che volente o nolente ti catturava.
Il ritmo era serrato e la melodia ben eseguita, apparte il batterista, che non era poi così male, gli altri lasciavano un po' a desiderare, ma rispetto alle band che si erano esibite prima di loro, sembravano delle fottute rock stars.
Anche il pubblico sembrava vivamente sorpreso dal quartetto e avevano iniziato a spargersi in qua e là gridolini di ammirazioni e battiti di mano a tempo.
A qualche metro di distanza da loro una donna dai capelli rossi e il viso vivace non faceva altro che dimenarsi e urlare il nome di John, battendo le mani come un'ossessa. O era pazza o doveva essere sua madre.
Ivan si avvicinò al suo viso, il solito sorrisone prorompente.
- Allora, Paul?!-
- Non sono malaccio, dai...-
Concesse, iniziando ad applaudire sulle note di chiusura.
- Signor giudice, mi aspetto grandi cose da lei!-
Urlò John al microfono, per sovrastare l'entusiasmo generale, rivolto all'uomo addetto alla proclamazione del vincitore. Poi, dopo un inchino sconclusionato scese dal palco, spintonando i compagni sudati e sorridenti.
Questo Lennon gli sembrava abbastanza fuori di testa da essere un tipo interessante e magari lavorandoci su anche un bravo musicista. Era un po' grezzo nella tecnica, ma aveva un certo non so che.
Non rimasero oltre a guardare le ultime esibizioni, perchè Ivan ci teneva a presentarlo al gruppo.
Quasi corse verso il capanno temporaneo che fungeva da spogliatoio e deposito di oggetti personali dei musicisti.
- Siete stati grandiosi, cazzo!-
Esordì iniziando a menare pacche a destra e a manca.
Paul se ne stava a qualche passo di distanza, quasi in una rispettosa riverenza. Dopotutto era un ospite.
Dopo qualche battuta idiota Ivan sembrò ricordarsi della sua presenza e spingendolo per la schiena, quasi lo lanciò in mezzo agli altri.
John se ne stava sbracato su una sedia, una birra ghiacciata in mano e la camicetta a quadri arancioni aperta sul petto. Aveva gran goccioloni di sudore che gli serpeggiavano giù per il collo.
Lo osservò dall'alto in basso e a Paul sembrò veramente di essere sezionato.
Arricciò d'istinto il naso, sentendosi immerso in una bolla d'aria pesante.
- Volevo presentarvi Paul! Viene a scuola con me e... Anche lui suona! E' chitarrista grandioso, cazzo!-
A quelle ultime parole John esordì con una risatina soffocata, che Paul ignorò volutamente.
Le cose iniziavano a mettersi male, tutti si resero conto che il loro leader, il dio indiscusso fra loro si sentiva minacciato e stava tentando in ogni modo di ridimensionare il pericolo che quel mocciosetto poteva incarnare.
Gli altri, un po' per smorzare la pesantezza, un po' per gentilezza si presentarono a loro volta, stringendo la mano al ragazzo che si trovavano di fronte. Ma non John. Rimase qualche altro minuto in silenzio, fissando con insolenza i begli occhi scuri e profondi di Paul.
Stava cercando di intimidirlo, era ovvio. Ma quel ragazzetto doveva avere coraggio da vendere, ai limiti della superbia, visto che da tutti i punti in cui si guardava la situazione si trovava in pieno territorio straniero.
Poi, quasi cogliendo la silenziosa sfida di John, Paul prese posto di fronte a lui su una sedia pieghevole.
Senza interrompere lo sguardo che si stavano scambiando, si sfilò la chitarra da dietro la schiena, la tolse dall'astuccio e la impugnò.
Poi iniziò a suonare una vecchia canzone, una delle preferite di suo padre e onestamente anche delle sue. Doveva molto al rock anni '50 con influenze rockabilly. Era ''Twenty Flight Rock'' di Eddie Cochran ed era quasi certo che nessuno o almeno pochi dei presenti avessero idea di che cosa si trattasse.
Ma Paul, come anche John d'altronde, anche se lui ancora non lo sapeva, ritenevano quasi un dovere portare rispetto agli albori della musica moderna, a coloro che avevano posto le basi per tutto quello che era venuto dopo.
Aveva una voce bella, intonata e candida, ma che per l'occasione del brano aveva saputo sporcare e rendere roca.
Il ritmo era disinvolto, suonava con una facilità davanti alla quale era impossibile rimanere impassibili.
Dietro le spalle di John, Pete se ne stava a bocca aperta, osservando le dita agili di McCartney pizzicare le corde senza nessuna fatica.
Nella canzone c'era un passaggio particolarmente difficile, ma il bel Paul se la cavò senza alcuno sforzo.
Paul era estremamente bello, disinvolto e a suo agio, suonava bene la chitarra e sembrava saperlo altrettanto bene. Era evidente che John lo stava valutando e studiando ed era altrettanto ovvio che di fronte a quel piccolo prodigio si sentisse sia ammaliato che invidioso.
Gli spettatori dell'esibizione erano rismasti tutti impressionati, incluso John che era al limite dell'incredulo, ma ovviamente non poteva farlo notare.
Paul sapeva suonare e cantare meglio di tutti loro messi assieme, se non di più. Cantò e suonò altri pezzi, sempre con la stessa disarmante facilità e sicurezza da sembrare una vera performance da professionista.
Finita l'esibizione John sembrava cambiato, non aveva abbandonato del tutto la strafottenza che lo contraddiceva ma era in qualche modo rispettoso di fronte a Paul. Iniziarono a parlare in disparte, senza che gli altri potessero avvicinarsi per evitare di interrompere quel connubio.
Sembravano annusarsi, studiarsi e scrutarsi come due animali non ancora sicuri di potersi fidare.
L'unica cosa che entrambi compresero era che si erano riconosciuti a pelle, sentivano un qualcosa che li legava indissolubilmente e che rendeva simile l'impegno profondo che avevano riversato nella musica. Provarono un profondo sentimento di rispetto, così, d'improvviso. Entrambi sentivano per la prima volta una vicinanza che nessun'altro aveva mai fatto provare a nessun dei due.
Il risultato fu un autentico amore a prima vista.

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