Saviour

di rachel_hetfield
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** All Blue ***
Capitolo 2: *** Fotografie ***
Capitolo 3: *** Brivido ***



Capitolo 1
*** All Blue ***


Passi frettolosi, alcuni meno nervosi, i neonati nei passeggini, schiocchi di baci, camerieri, posate che graffiavano i piatti, bicchieri che tintinnavano, le telefonate e le ordinazioni. Era tutto così naturale e usuale, eppure tutto era così frenetico che mi confondeva, non sapevo a chi o a cosa prestare attenzione. Mi piaceva stare a sentire le persone parlottare cercando di catturare le loro conversazioni, delle volte qualche fidanzato portava a cena la propria donna per chiederle di sposarlo, oppure finivo sotto gli sguardi curiosi di ventenni universitari all’ora di pranzo, distrutti dalla loro vita da studenti, magari in cerca di distrazioni. Mi sedevo al solito posto, ogni giorno, alla stessa ora, nella speranza che qualche parola mi uscisse e la digitassi. In realtà le parole le trovavo, ma non appena scrivevo due righe, le eliminavo, e ricominciavo daccapo a scervellarmi. Mi guardavo intorno, aspettavo impaziente, cercavo l’ispirazione ovunque, consumavo il mio croissant e il caffellatte, lasciavo i soldi accanto alle consumazioni e andavo via.
Una monotona vita da scrittrice in crisi. Non pubblicavo un romanzo da più di un anno, e la casa editrice ne richiedeva uno nuovo, ma niente, non avevo argomenti da trattare o storielle da raccontare.
Quella mattina mi alzai stanca, senza voglia di uscire. Nemmeno le tre chiamate consecutive di Rosalie mi smossero, solo la risata contagiosa di Carla – o Carlita, la mia simpatica vicina di casa di orgini spagnole – mi sollevò di poco il morale. Decisi di fare una doccia, e quella doccia anche aiutò a riprendermi dalla notte precedente passata con una penna e il blocco degli appunti in mano, senza appuntare nulla.
Dopo la doccia presi il portatile e uscii, come al solito, al bar, che si chiamava All Blue. Amavo quel posto, era così profumato, di mattina di cornetti appena sfornati e di caffè, con un’atmosfera rilassata e mattiniera, dall’ora di pranzo fino alla sera si sentiva odore di cibi come carne, sandwich, portate di formaggi e stuzzichini vari, dove era tutto più caotico e affollato.
L’odore pungente del caffè mi raggiunse, proveniva dal bancone. C’erano quattro ragazzi, seduti più o meno uno davanti all’altro: gli ultimi due erano uno di fronte all’altro, il terzultimo si sporgeva verso di loro e il primo stava di spalle, poggiato sul bancone. Tutti e quattro bevevano il proprio caffè. Sulle spalle tenevano gli zaini semiaperti dai quali fuoriuscivano dei libri, studenti. Uno di loro, quello di spalle, non aveva uno zaino o una borsa, ai suoi piedi c’era una custodia, che molto probabilmente conteneva una tastiera, firmata CASIO. Uno di quelli che suonavano per strada, immaginai. Magari non conosceva nemmeno gli altri tre.
Accesi il portatile e come al solito, aprii quella maledetta schermata, quel foglio bianco, zero caratteri, zero parole, zero ispirazione. La osservavo, ci pensavo, e poi mi innervosivo. Una coppia seduta al tavolo davanti al mio, che era sempre all’angolo, si scambiava carezze e gesti dolci, e lui le imboccava un cucchiaino pieno di gelato di color giallo vaniglia, e pensai ad una plausibile storia d’amore, ma ritirai immediatamente il pensiero di scrivere qualcosa come sentimentalismi e introspettività.
Sbuffai, e Mary Lou, la sedicenne che lavorava lì come cameriera, mi si avvicinò sorridente.
«Ciao Lauren» salutò poggiando le mani chiuse a pugno sul tavolo «ti porto qualcosa?»
Ricambiai il saluto. «Il solito caffellatte.»
«Ancora nulla?» domandò indicando con un movimento del capo il portatile acceso e non toccato.
Scossi la testa afflitta. «Non arriva mai quell’ispirazione di cui ho davvero bisogno. Tu ancora nulla?»
Capì al volo che mi riferissi al suo Justin, che l’aveva mollata la settimana precedente con una scusa più che idiota. Purtroppo lei era sempre stata parecchio innamorata di lui, era il suo primo vero ragazzo, e ci soffriva e tentava di riprendere quel rapporto così bello, troppo bello, il più bello che avesse mai avuto.
Anche la ragazza con aria triste fece di no con la testa. «Non risponde alle mie chiamate, mi ha esternata del tutto. Non esisto davvero più.»
«Troverai di meglio, sei giovanissima. Uno di quei ragazzi ti stava fissando mentre parlavi al telefono davanti alla porta, perché non vai a fare due chiacchere?»
Si voltò verso il gruppo in un largo sorriso, facendomi l’occhiolino. Si sciolse i capelli biondi legati sempre in quella coda professionale. «Ti porto subito la tua ordinazione.»
Le sorrisi di rimando e tornai al mio computer con la schermata vuota, e venni colta di sorpresa dal cellulare che iniziò a vibrarmi nella tasca. Era di nuovo Rosalie, ma non sarei andata in quello sutdio di nuovo, non ne avevo bisogno, ero guarita. Risposi solo per darle quella soddisfazione, ma le avrei dato del filo da torcere.
«Rose?»
«Lauren, grazie al cielo! Cerco di contattarti da stamattina, non ti fai vedere da tre giorni» fece la sua voce nervosa ma pur sempre di quella fermezza professionale.
«Se non vengo è perché non voglio» mi giustificai «non devo dare spiegazioni di quello che faccio a ventisette anni.»
«E io a quarantadue non posso starti dietro con tutto il lavoro che ho, ma ho fatto una promessa e non voglio venirne meno, non mi importa dei soldi, devo aiutarti e lo farò fino in fondo.»
Lou poggiò il caffellatte accanto al mio portatile e le sorrisi, con il cucchiaino lo mescolai con aria stanca.
«Mi hai aiutata, il tuo lavoro può dirsi concluso.»
«Non stai ancora bene, il tuo direttore me lo dice che sei in crisi, non produci da un anno ormai.»
Se fosse stata davanti a me le avrei riso in faccia. «Non posso sfornare un romanzo all’anno.»
«Oltre al fatto che hai un blocco che non ti fa scrivere, non frequenti qualcuno da quando è successo tutto quel disastro» continuò con le sue provocazioni, come per convincermi a tornare in quello studio psicologico del quale non me ne facevo assolutamente nulla.
«Vuoi farmi una seduta per telefono?»
Lei ringhiò in disapprovazione. «Ti voglio nel mio studio oggi pomeriggio, alle quattro e mezzo. Te lo chiedo per favore.»
Stavo per ribattere ma riattaccò, impedendomi di deviare il cortese invito. Mi poggiai sullo schienale della poltrona in pelle bianca sorseggiando il caffellatte. Guardai fuori dalla finestra, il sole era brillante nel cielo limpido, blu, senza nuvole. I ragazzi al bancone chiaccheravano animatamente con Mary Lou, e per un attimo tirai un sospiro di sollievo nel vederla pensare a qualcosa che non fosse il suo ex.
Riflettendoci, io non frequentavo qualcuno da un sacco di tempo. dopo lui, niente mi avrebbe aperta alla vita sentimentale, non ero abbastanza pronta, faceva male ricordare tutto.
Il direttore mi aveva proposto di scrivere di lui, della sua vita, della nostra vita, ma mi rifiutai, mi sarei sentita solo una stupida a crederlo vivo anche dopo un anno che ero sola.
Sola, senza nessuno che mi amasse.
Nonostante vari uomini si fossero fatti avanti in quei sette mesi di solitudine al bar, non mi aprivo a loro, per paura di ricevere quello che avevo già avuto. Consapevole del fatto che il destino non mi potesse far elo stesso torto due volte, continuavo a non avere fiducia, e proseguivo a “vivere” in solitudine.
Non era più modo di continuare a fissare la schermata vuota, frequentare quel bar isolandomi ancora di più, non uscire la sera...
Avevo bisogno di una svolta, di qualcuno che mi aiutasse a svoltare. E non di certo Rosalie, che con la sua sfacciataggine e irruenza mi costringeva a parlare di me e di come mi sentissi ogni giorno. E com’era che mi sentivo ogni giorno? Apatica, stanca, senza obiettivi.
Derek aveva lasciato una voragine troppo grande affinché si riempisse con qualcosa di materiale o qualcuno di fastidioso come la psicologa.
Mi alzai dal mio posto, e lasciai come sempre i soldi della consumazione sul tavolo. Chiusi il portatile e lo misi nella valigetta, uscendo dal locale accennando un sorriso a Lou che dettava il suo numero a uno dei tre ragazzi.
Tornai a casa mia, che si trovava a pochi metri da lì. Era una mattina abbastanza calda per essere all’inizio di ottobre, ed il cielo era insolitamente così limpido. C’era molta più gente che sostava sui marciapiedi approfittando del tempo improvvisamente bello e soleggiato, mentre i giovani erano tutti a scuola, all’università, o quelli della mia età, al lavoro.
Guardai l’orario dal cellulare, erano le dieci e venticinque. Non ero stata poi così tanto tempo all’All Blue, mi ero sbrigata prima del solito. E questo forse era già un segno. Mentre passavo accanto al negozio di antiquariato non potei fare a meno di notare un bellissimo giradischi, un po’ impolverato, ma mi piacque da subito. Involontariamente la mia vista offuscò quello che c’era dietro la vetrina e guardai il mio riflesso nello specchio.
Poche volte riflettevo veramente come fossi diventata, in un anno di tempo. Nemmeno li contai i chili che perdevo di settimana in settimana, e diminuivano. Forse in sei mesi ero riuscita a raggiungerne quarantasette, su cinquantanove che ne pesavo. Non tagliavo o curavo i capelli, quindi avevano sempre la monotona acconciatura liscia e lunga, di un biondo sbiadito, quasi bianco. Ero anche impallidita. Vedermi per davvero in quel momento mi risvegliò una voce nella testa che iniziò a dire “cosa fai, Lauren? Vuoi passare il resto della tua vita in questo modo?”
Io volevo solo continuare a vivere, non a sopravvivere.
Forse la seduta nel pomeriggio con Rosalie mi avrebbe dato quella spinta in più per permettermi di cambiare, non radicalmente, ma almeno per socializzare con qualcuno.
 
*
Raggiunsi lo studio di Rose mezz’ora prima, ero stufa di aspettare in casa senza far nient’altro che spazzare il pavimento e lucidare i mobili e i quadri appesi nel corridoio. Ripulii addirittura tutte le fotografie piene di polvere, quelle fotografie abbandonate che non guardavo più da troppo tempo. Tirai un sospiro, nostalgico, e accesi lo stereo. Non usavo più nemmeno quello. C’era sempre silenzio in casa, a meno che non ci fosse il rumore dell’acqua che scrosciava dal lavandino, dal lavello, o la lavatrice, l’aspirapolvere, le mie dita che battevano freneticamente sulla tastiera per poi eliminare di nuovo tutto quanto, la tosseo o gli starnuti.
Neanche parlavo se non al telefono. Ero rimasta senza amici. Nessuno metteva piede in casa mia da troppo tempo, e mi stringeva il cuore pensare che probabilmente solo il vento sarebbe entrato se avessi continuato così.
La porta dello studio scattò, e misi piede nell’atrio dove una ragazza, seduta sulla poltroncina, aspettava il suo turno. Non riuscii a darle un’età, aveva il viso di un’adolescente ma i movimenti di una donna. Mi sedetti sulla poltrona di fronte a lei, e la guardai per qualche secondo, poi distolsi lo sguardo temendo che se ne accorgesse e che la mettessi in imbarazzo.
«Sophie?» disse la voce di Rose dall’altra parte della porta di legno di ciliegio, poi la sua testa color rosso fuoco fece capolino nella sala d’attesa. Mi lanciò uno sguardo d’approvazione.
Mi iniziò a battere il cuore all’impazzata, senza un determinato motivo. Sentii improvvisamente calore alle guance, le gambe tremanti. Dalla porta uscì un ragazzo alto, molto magro, dal viso coperto da una barba folta e due baffi molto lunghi, e come copricavo aveva un cappellino di lana molto alla raggaeton.
«Kyle» mormorò un’altra voce, profonda. Mi voltai e un altro ragazzo, molto più basso di lui, lo guardava preoccupato dall’uscio. Poi uscirono dalla porta principale e se la chiusero alle spalle. Chissà cos’aveva, mi domandai.
Quella sensazione terribile non passava, ero ansiosa.  Vedere quel ragazzo uscire così dallo studio mi aveva intimorita, eppure frequentavo quel posto da parecchi mesi ormai, e non lo avevo mai visto uscire o entrare.
Passò circa una mezzoretta, e la porta principale che scattò mi fece sobbalzare. Entrò un uomo sulla quarantina, con le mani in tasca. La ragazza di prima uscì dallo studio e andò via, accompagnata da quello che sembrava suo padre: capelli neri come la pece, sguardo spento. Rosalie mi fece cenno di entrare, ero rimasta solo io come “paziente” lì dentro.
Lo studio non era mai apparso così diverso come quel giorno. Prima potevo vederlo come un luogo sicuro, dove potevo dire tutto quello che volevo, non volevo più sopportare quel peso. Ero stanca di rinchiudermi in me stessa, e raccontavo tutto a Rosalie, ma dopo quella mattina non ci riuscivo, non volevo sfogarmi.
Mi fece accomodare sulla poltrona davanti alla sua sedia, e mi stesi.
«Come stai, Lauren?»
Socchiusi gli occhi, guardandomi i le scarpe. Sospirai. «Sono stanca.»
«Di cosa?»
«DI essere sola.»
Sollevai le palpebre per osservarmi intorno. Rosalie era accanto a me, che prendeva appunti su un blocco note frettolosamente, mi girai dall’altra parte e vidi uno specchio, messo in orizzontale, lungo poco più del lettino su cui stendersi.
«Cosa vedi in quello specchio?» mi chiese all’improvviso, mi voltai e la guardai per poi posare di nuovo lo sguardo su quello specchio. Osservai il mio riflesso, come avevo fatto quella mattina stessa, e non vedevo altro che me rovinata. Ero rovinata. Non ero più la Lauren sorridente, allegra, spensierata dell’anno precedente. Quella Lauren si era come bruciata lentamente, lasciando dietro di sé una scia di bei ricordi, che non sarebbero mai potuti tornare, in nessun modo. Mi rifiutavo prontamente di ricordare tutto, per non sprofondare più in basso, anche se ero già al limite.
«Vedo la solitudine.»
«Tu non sei sola.»
«E invece sì» ribattei prontamente. Era un momento di estrema debolezza, un momento in cui lentamente stavano riaffiorando le scene del passato, stavano tornando a tormentarmi, a non lasciarmi dormire, a bruciarmi, di nuovo, fino a consumarmi. Ma non mi sarei lasciata consumare del tutto. Io volevo vivere, e volevo farlo davvero.
«C’è sempre qualcuno là fuori che ti sta cercando, anche se non ne è cosciente» prese a fare i soliti discorsi da deficiente che si improvvisava psicologa. «E non lo sai nemmeno tu.»
Sospirai silenziosamente. «Io lo avevo trovato.»
«Evidentemente non ti bastava.»
Scossi il capo e mi misi a sedere, sotto lo sguardo rigido della psicologa. «Lo amavo, Rose, lui amava me, e questo bastava a rendermi felice.»
«Tu hai bisogno di aiuto, ancora, devi conoscere quel qualcuno che ti sconvolge, che ti faccia stare bene come Derek.»
«La cosa sta diventando ridicola, io me ne vado. Ho finito di frequentare questo studio...» mi alzai  dirigendomi verso la porta «quando vuoi, il mio numero ce l’hai.»
Uscii chiudendomi la porta alle spalle, tirando un grosso respiro. C’erano un paio di clienti che erano troppo assorti nei loro pensieri per badare a me, che mi strofinavo gli occhi pur di reprimere le poche lacrime che mi erano rimaste. Non dovevo piangere. Non volevo più essere debole.
Andai via a passo svelto, salendo in sella alla mia bici e andando a casa piuttosto in fretta, col batticuore, e la voglia di rompere qualcosa. Ero a pezzi ogni volta che qualcuno nominava Derek, ricordandomi quanto stessi bene insieme a lui.
Presi le chiavi e senza volerlo le sbattei all’interno della serratura. Poggiai la testa sulla porta, inspirando ed espirando, attirando l’attenzione di Carlita che stava innaffiando i fiori del suo giardino curatissimo.
«Tutto bene, señorita?» chiese con la sua voce, al solito, premurosa. Le rivolsi un sorriso e un ok con la mano, girai la serratura ed entrai in casa.
Accesi il portatile non per tornare a fissare quella schermata bianca, ma per accedere sul mio profilo Facebook che non usavo da tempo e di scrivere a quella che era stata la mia migliore amica finché non è successo tutto.
“Jenny, sono io, sono ancora viva, ma non credo ti interessi. Ho bisogno di te, adesso. Per favore.”
 
 
Writer’s wall
Eccomi! Innanzitutto mi voglio scusare con chi aveva letto Rotten, la precedente long  della quale avevo pubblicato il primo capitolo che poi è sparito.
Ho deciso di eliminarla perché non l’avrei continuata,  e poi in testa avevo già intenzione di scrivere qualcosa di diverso che i soliti casini stile Back To The Time.
Beh, questa è molto più introspettiva, diciamo che è la prima volta che scrivo qualcosa così, di romantico, solitamente io ci metto le storie d’amore all’interno di una vicenda piuttosto movimentata, come Back to the time.
Questa invece si incentra sui sentimenti della protagonista, di ciò che pensa, di come viene stravolta. Spero vi piaccia e che non vi annoi troppo, mi metterò presto a scrivere il secondo capitolo!
A presto, Angelica

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Capitolo 2
*** Fotografie ***


Stavo attendendo con ansia la sua risposta, sempre se avesse voluto rispondermi. Distolsi lo sguardo dal computer per osservare fuori dalla finestra. Improvvisamente il cielo si era fatto più grigio, e dalla finestra della cucina tirava un forte vento freddo.
Sembrava troppo bello avere finalmente un giorno di sole splendente, infatti pochi minuti dopo iniziò a scendere quella pioggia leggera ma fitta. Chiusi in tempo le finestre prima che entrasse troppa acqua. Con uno straccio ripulii la piccola pozzanghera d’acqua che si era creata in cucina, sotto la finestra. La strizzai e la gettai nel lavello, tornando a sedermi sulla sedia davanti alla scrivania. Quando alzai lo sguardo c’era la risposta di Jenny, e il cuore prese a battermi velocemente.
“Preferisco non parlarne così. Vuoi venire da me?”
Rilessi quella domanda almeno cinque volte, e continuavo a ripetermela mentalmente senza sapere cosa dire. Probabilmente l’avevo disturbata. E se in quell’anno si fosse trovata qualcuno, e non mi voleva tra i piedi?
No, mi aveva invitata da lei, magari non ce l’aveva con me del tutto. Tirai un grosso respiro, ne stavo tirando troppi quel giorno, stavo pensando troppo agli altri, cosa che non facevo da parecchio ormai.
“A che ora?”
Deglutii cliccando il tasto invio. Poggiai la testa tra le mani, e quando la risollevai c’era già la sua risposta.
“Anche adesso, sono libera.”
Annuii a me stessa più volte, mi alzai dalla sedia senza spegnere il portatile, presi solo le chiavi e la bicicletta, e corsi immediatamente da lei, uno spiraglio di luce, che mi aveva sempre aiutata fino a quel giorno. Attraversai tre isolati senza fermarmi mai, fanculo la pioggia e fanculo le automobili, tanto era un’orario in cui le macchine non circolavano quasi mai, ed ero troppo occupata a pensare a cosa dirle, a come avrebbe reagito vedendomi così diversa dall’ultima volta.
Mi era mancata tantissimo. E quando scesi sotto il suo portone suonando ripetutamente il campanello ebbi la conferma che ero mancata anche a lei. Aprì la porta e mi abbracciò forte, ricambiai quasi subito, stringendola a me. Era l’unica persona che amavo ancora. Non avrei mai potuto stare così tanto tempo senza di lei.
Le scappò un singhiozzo sulla mia spalla. «Credevo non ci saremmo più parlate.»
Scossi il capo accarezzandole i capelli, tirando su con il naso. Non potevo negare che avrei voluto piangere anch’io.
Si staccò da quell’abbraccio così sentito, così affettuoso, facendomi segno di entrare. La guardai bene, di diverso aveva solo gli occhi più arrossati, più spenti. Immaginai che, al contrario di me, non avesse superato la faccenda. Lei aveva un peso ben più pesante rispetto a me sulle spalle. Io avevo saputo. Lei aveva visto.
La sua casa era sempre la solita, stretta, piena di mobili ingombranti e poco ordinati, la casa di chi aveva sempre vissuto tra amici, feste, vacanze e nottate fuori.
Mi sedetti sul divano arancione e polveroso, incrociando le braccia al petto. Lei prese posto accanto a me, poggiando una mano sulla mia gamba.
«Cosa ti serve?» mormorò con voce spezzata, come se fossi lì solo per farmi aiutare.
«In realtà niente.»
Lunghi attimi di silenzio. Jenny teneva lo sguardo fisso per terra, la guardavo ogni tanto, mi piaceva osservare i suoi capelli arancio sbiadito muoversi  con il vento che soffiava leggero da uno spiraglio di finestra aperta. Era solo più rotonda, sia nel viso che nelle forme del corpo. Aveva sofferto di disturbi alimentari esattamente come me, dovuti a uno “shock” come preferiva definire Rosalie.
«Se sei qui per ricordarmi di Derek allora faresti meglio ad andartene...» il suo tono non cambiò, era sempre malinconico.
Aprii bocca per dire qualcosa ma non uscì nulla. Non ero lì per quello.
«Lauren, ti prego» sembrava stesse per piangere.
Le afferrai la mano stringendola forte. «Voglio solo che entrambe facciamo quel passo di... andare avanti.»
«E come? Non ho più amici, nessuno, sono tutti andati via.»
Sospirai. «Io sono tornata.»
L’aria nonostante fosse ventilata sembrava più pesante del solito. Non respiravo nemmeno a tratti, entrambe guardavamo le nostre mani strette. Eravamo amiche sì, avevamo litigato, ma eravamo tornate insieme per non finire allo stesso modo.
«Non voglio stare chiusa in casa» mormorai «sta anche smettendo di piovere.»
Lei annuì mettendosi in piedi e la seguii fino alla porta. Se la chiuse alle spalle girando la chiave nella serratura. Ci guardammo per qualche secondo, e l’una negli occhi dell’altra vedevamo lo stesso dolore che avevamo sopportato per un anno.
Basta pensarci, mi dissi, avevo represso tutto quanto per undici mesi, sapevo che se avessi voluto cambiare e andare avanti avrei dovuto tirare fuori tutto quanto ed affrontarlo, ma non così, non con lei, non restando in silenzio. Avevo davvero bisogno di qualcuno. Volevo qualcuno che mi amasse come aveva sempre fatto lui.
Eravamo ancora ferme davanti alla porta, ormai il cielo si era rischiarato di poco. Quella pioggia sottile e passeggera, che rinfrescava di poco le giornate, se n’era già andata. «Cosa intendi fare adesso?»
La sua voce mi risvegliò dai miei pensieri. «Stasera voglio... voglio uscire. Andare da qualche parte.»
«Non contare su di me allora» fece una smorfia.
«Perché?» improvvisamente alzai il tono di voce.
«Perché tu non vuoi fare altro che rimpiazzarlo» rispose anche lei con meno tranquillità.
Strinsi le labbra e le buttai un’occhiataccia. «Non credo che sarebbe felice di vederci entrambe in questo stato, cosa ne pensi?»
«Penso che sia sbagliato.»
«Non è sbagliato» abbassai lo sguardo «stasera all’All Blue c’è un gruppo che si esibisce. Io ci vado sempre in quel posto, se vuoi venire mi trovi lì dalle sette e mezzo.»
Girai i tacchi e salii sulla bicicletta. Non mi aspettavo che reagisse così, pensavo fosse disposta ad aiutarmi e di conseguenza essere aiutata, invece aveva fatto la parte della vittima e continuare a soffrire in quel modo la solitudine senza fare niente. Ma non sarei stata come lei, io avrei smesso di vivere quella vita così monotona.
 
*
L’All Blue era davvero più affollato del solito quella sera. I proprietari avevano spostato i tavoli in modo da lasciare spazio a un piccolo palcoscenico, allestito con strumenti parecchio semplici: una chitarra acustica amplificata, tre microfoni, due tastiere e una batteria elettronica. Presi posto al mio solito tavolo con il divanetto, all’angolo, isolata da tutti. Non portai il portatile, ma ero agitata, troppo agitata all’idea di vedere qualcuno avvicinarsi a me. Come gestire una conversazione era un argomento messo troppo da parte, era difficile anche salutare qualcuno da lontano ormai. Però mi piaceva osservare.
Mary Lou era seduta ad un tavolo non molto lontano dal mio, a chiacchierare animatamente con un ragazzo del quale non raccolsi velocemente i particolari. Capelli neri, occhi chiari, pelle pallida. Niente di particolare. Qualche lentiggine qua e là, skinny neri e felpa grigia. Mi chiesi cosa ci trovava di interessante in lui, una ragazza così solare e piena di vita a parlare con uno che annuiva appena.
Finché non capii l’argomento della loro conversazione. Prestando attenzione alle parole di Lou, riuscii a sentire “viene tutte le sere qui, potrei presentartela”, e pochi istanti dopo inizò a guardarsi in giro. Mi salii il cuore in gola, sperai non mi vedesse. Ma purtroppo, lei sapeva dove mi sedevo solitamente, e quando mi vide mi salutò da lontano. Tutto pur di evitare una conversazione con qualcuno. Non ci riuscivo nonostante il mio obiettivo fosse quello. Ricambiai il saluto, e mi urlò un “vieni qui, voglio farti conoscere il cantante!”
Mi alzai dal mio posto e le andai vicino, senza degnare di uno sguardo il tipo con cui parlava che, a quanto pare, era il cantante di quella band nonché suo amico.
«Mi unirei volentieri Lou, ma mi fermo qui per un po’, ho del lavoro da sbrigare» inventai una scusa qualsiasi, ma risultai poco credibile.
«E dai, senti un paio di loro pezzi, non te ne pentirai» insistette facendo smorfie da cucciolo sperando di convincermi.
Sospirai. «E va bene, ma un paio.»
Mi sedetti verso di lei, troppo  in ansia per girarmi verso quel ragazzo che sembrava anche più grande di me. Lou mi tirò il braccio verso quello del ragazzo e involontariamente mi trovai a stringergli la mano. Lui, con un mezzo sorriso, si presentò. Non ascoltai nemmeno il suo nome, stavo sempre a guardarmi alle spalle cercando di cogliere la prima occasione per fuggire da lì, da quell’inferno, da quella follia che avevo compiuto senza nemmeno pensare.
Avevo sbagliato ad entrare in una sera così piena. Continuai a guardarmi intorno alla ricerca di qualcosa con cui distrarmi, quindi presi il cellulare e finsi di inviare messaggi a qualcuno. Aprii le note e iniziai a scrivere qualcosa a caso. Non mi ero accorta, però, che stavo iniziando a scrivere.
Con un sorriso sulle labbra, gli occhi fissi sullo schermo, stavo digitando sulla tastiera dell’iPhone scrivendo due, tre, quattro righe. Mai sentita meglio dopo tanto tempo. Non avevo nemmeno fatto caso a Mary Lou che mi chiamava. Alzai lo sguardo, e incontrai prima quello del ragazzo, poi quello della ragazza e infine quello di Jenny. Altro grande sollievo della giornata, mi aveva ascoltata. Mi alzai e l’abbracciai, grata del suo sostegno. Mi scusai con Lou e ci sedemmo al tavolo sul quale ero prima che la ragazza mi infilasse in quella presentazione così secca, disinteressata. Onestamente, non me n’era fregato nulla.
Salvai le note e non le riguardai, per non eliminarle di nuovo, poteva essere la volta buona.
«Chi era quello?» chiese a bassa voce Jenny, e alzai di nuovo la testa per vederlo.
«Il cantante della band di stasera» risposi distogliendo lo sguardo da lui e la ragazza che parlavano ancora. Avevo solo messo disagio quando mi ero seduta a quel tavolo, e andarmene aveva reso le cose più facili, ma non quando Jenny mi chiese se avessi potuto presentarglielo.
Deglutii. Non avrei accettato per nessun motivo al mondo. «Non lo conosco nemmeno.»
«Come si chiama?»
Mi strinsi nelle spalle. «Me lo aveva detto ma non ho ascoltato come si chiamasse.»
Lei annuì con la testa bassa, giocherellando con le dita. «È bello.»
Quella sua affermazione improvvisa mi fece mancare. Riusciva a considerare bello qualcuno? E come faceva, io non ero riuscita neanche a guardarlo in faccia da vicino per più di due secondi. Mi accorsi che Jenny lo stava fissando, e che lui lanciava occhiate verso il nostro tavolo. Mi sentii profondamente a disagio, e mi alzai dal tavolo catturando l’attenzione della mia amica. «Mary Lou è mia amica, puoi stare con loro. Io preferisco stare qui da sola.»
«Mi stai cacciando via?»
«No, ma vedo che quel cantante ti interessa abbastanza.»
Lei fece una smorfia di perplessità, ma con me non poteva fingere. Sapevo quanto lo stesse guardando e quanto desiderasse andare a parlarci, e chi ero io per fermarla? Ero anche contenta che fosse venuta, perché non si chiudesse più in casa a piangere. Solo che non volevo essere messa da parte, e quindi mi alzai dal mio posto e la lasciai passare. Mi guardò per chiedermi se fossi sicura, e risposi di sì, ma in realtà non ero per niente sicura di quello che le avessi detto di fare.
Lei si sedette accanto a Mary e, titubante, tese la mano alla ragazza, che ricambiò radiosa. Iniziò a dire qualcosa, e poi strinse la mano anche al tipo. Sentii qualcosa dentro, come un bruciore, ero gelosa degli sguardi che lui le rivolgeva e che non aveva rivolto a me. La guardava attentamente, con un sorriso leggero sul viso, gli occhi che le squadravano il viso. Jenny era sempre stata socievole, aveva solo bisogno di quella spinta che nessuno le aveva dato in un anno. Pensai che il mio lavoro era finito lì, e sospirai. Non me ne andai perché ero curiosa di sentire la band che si  esibiva quella sera. E intanto, avevo preso a fissare lui. Come Jenny, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Lei annuiva e si faceva sfuggire qualche sorriso, e Lou sembrava entusiasta dell’esito della serata. Ma mai quanto me. Ero contenta che finalmente la mia migliore amica si fosse aperta con qualcun altro che non fossi io. Poi lui si alzò dal suo posto e mi dispiacque vederlo sparire  tra i tavoli, verso il piccolo palco allestito dei pochi strumenti.
Guardai verso il palco e per poco mi sfuggì un sospiro troppo alto: c’era il ragazzo con i baffi che avevo visto da Rosalie, e rimasi di sasso vederlo lì.
Si scambiarono tutti degli ok con la mano, e fecero segno a qualcuno dall’altra parte della sala che erano pronti. Le luci si spensero, rimase acceso solo qualche riflettore azzurro  che indirizzava i quattro sul palco.
Il ragazzo del tavolo di prima prensentò il gruppo con un nome francese: Bastille. Non me lo sarei scordato.
 
*
Era quasi mezzanotte, e io stavo scrivendo sul computer qualche accenno della serata. Forse così mi sarebbe tornata l’ispirazione. Ero andata via dopo aver sentito la prima canzone, sotto gli sguardi confusi di Jenny e Mary Lou che si stavano godendo alla grande lo spettacolo, Jenny soprattutto.
Andai a dormire dopo aver scritto sì e no cinque pagine, spensi il computer e mi addormentai quasi subito sul divano.
Al mattino dopo ero sveglia già alle otto. Dato che era un’orario inadatto per me per andare all’All Blue, presi quel vecchio album fotografico che non tiravo fuori da tanto tempo per non rivangare ricordi che mi avrebbero ferita oltre. Passai un fazzoletto di tessuto sulla copertina per togliere la polvere, mi sedetti per terra con le gambe incrociate e l’album aperto alla prima pagina poggiato sui polpacci. C’erano le mie foto da piccola insieme a Jenny e suo fratello, tutti e tre insieme, uniti da sempre. Giocavamo l’una a casa dell’altra. Poi altre foto mie e di Jenny adolescenti insieme al suo primo ragazzo, e ancora foto mie e di lei con il primo drink, alla prima festa, con le altre amiche, amici. Poi le foto mie e di suo fratello. Io e Jenny avevamo vent’anni, lui ne aveva ventitré. Io e Derek sott’acqua, Jenny sempre meno presente, fino alle foto della festa di fidanzamento mio e di Derek.
Mai, da piccola, avrei immaginato di potermi innamorare del fratello maggiore della mia migliore amica. Proprio lui, con cui avevo pianto, giocato, riso, preso la prima sbronza, con cui andavo in centro a fare shopping. Io sapevo tutto di lui, e lui sapeva tutto di me.
Sin da piccola provavo qualcosa verso di lui, così bello, così maturo, premuroso e gentile nei miei confronti, ma come avrei potuto immaginare che quel giorno di due anni fa, a cena, mi chiedesse di sposarlo? Quel batticuore che non si poteva esprimere a parole, quella felicità che facevi uscire con le lacrime. Le promesse di una vita felice, avevamo anche pensato a come chiamare i nostri figli. Lui era mia stato il mio primo bacio, il mio primo sballo, la mia prima volta, la mia prima festa, il mio primo amore.
Non mi ero accorta che mentre sfogliavo le ultime foto di noi due felici mi ero messa a piangere. Avevo bagnato le pellicole delle fotografie di lacrime che avevo represso per undici mesi. Strinsi al petto l’album di fotografie, in lacrime, sperando di poter tornare per un giorno solo a quei momenti di felicità.
Era tutto troppo bello per durare. Me lo aveva portato via, all’improvviso, senza lasciarlo tornare indietro.
Fui risvegliata dai pensieri dal cellulare che squillava. Jenny mi stava chiamando. Risposi con la voce roca e lei mi chiese se stavo bene.
«Sì. Dove sei?»
La sua voce era sempre la solita, solo con un pizzico di vitalità in più. «Sono andata al bar, volevo vedermi con Daniel. Tu sei ancora in casa?»
Mi chiesi chi fosse questo Daniel. Era così terrorizzata all’idea di conoscere qualcuno, ed era riuscita prima di me a fare amicizia con qualcun altro, e anche se non lo era, lo consideravo egoista. «Sì, non avevo molta voglia di uscire.»
«Beh, raggiungimi più tardi, noi siamo qui» e riattaccò. Quel noi era troppo familiare. Erano lei e Derek, ogni volta, a chiamarmi e chiedermi di raggiungerli. Mi vestivo in fretta e correvo da loro, o meglio, da lui.
Non volevo conoscere quel qualcuno che frequentava di già la mia amica, non ero pronta. Nel frattempo era passata più di un’ora, e decisi di lavarmi e vestirmi. L’All Blue non era l’All Blue senza di me, tutte le mattine, col mio caffellatte.
Non presi la bicicletta, tanto era vicino e non sembravano nuvole di pioggia quelle che coprivano il sole. La nebbia sottile già compariva, segno che ci si stava inoltrando verso l’autunno pieno. In pochi minuti ero già fuori dal bar, entrai salutando Mary Lou e fui colpita subito nel vedere che la mia amica stava seduta davanti al cantante della sera precedente. Non ero in grado di fare un passo verso di lei. Allora era interessata davvero a lui.
Di nuovo quel bruciore, quella voglia di scappare via o di urlare. Mi sedetti senza salutarli al mio tavolo, ignorando Jenny che mi chiamava. Mi sedetti sul divanetto tenendo lo sguardo sul tavolo. Fortunatamente qualcuno aveva lasciato un giornale poggiato lì, e lo sollevai per non guardarli. Sapevo di aver scatenato qualche sospetto, ma in quel momento volevo solo non aver mai chiesto a Jenny di uscire di casa. Magari la sua vita sarebbe migliorata, e io ero ancora seduta da sola su quei divanetti bianchi, isolata da tutti. Avevo bisogno come non mai di qualcuno che mi stesse accanto, che non fosse né Jenny né quel cantante.
La sera prima avevo ascoltato appena la prima canzone, non male, ma se mi fossero piaciuti sarei rimasta, ma mi annoiavano. Avevo scoperto di odiare la musica. Senza Derek poche cose mi piacevano ormai.
Abbassai il giornale vedendo Mary Lou avvicinarsi a chiedermi cosa ne avessi pensato della serata precedente. Notai Jenny che si alzava guardandomi, ma spostai lo sguardo sulla ragazza.
«Non mi hanno fatta impazzire» dissi sinceramente riguardo alla band.
«Sono veramente molto bravi a parer mio, e poi Dan è così carino...» fece una smorfia sognante, e guardai di nuovo verso il tavolo che stavolta era occupato solo da lui, dal cantante.
Annuii a tutto quello che diceva Lou su di loro, su quanto le piacesse il tipo, ma non prestai attenzione perché ero troppo occupata a guardarlo. Non ha niente di particolare, mi ripetei, non guardarlo. Eppure avevo lo sguardo fisso su di lui, sui suoi capelli insoliti, sul viso nascosto dalla grande mano poggiata sulla guancia, intento a guardare qualcosa sul suo cellulare, un iPhone anche il suo.
Sospirai, e Lou si accorse che l’avevo quasi totalmente ignorata. Si voltò nella direzione in cui guardavo e mi scoprii a fissarlo.
«Stavi guardando Dan?»
Colta con le mani nel sacco, dovetti inventare. «Il suo iPhone» finsi «è molto più bello del mio.»
All’inizio non sembrò beversela, ma fece finta di crederci.
«Dimmi una cosa» le chiesi «lui frequenta spesso questo bar?»
Scosse la testa. «Da quando ha preso un appartamento qui con un suo compagno della band ha detto di voler venire più spesso, gli piace l’atmosfera del luogo. È un tipo davvero strano, ma è proprio carino. E, diciamocelo, anche se ha almeno dieci anni in più di me lo trovo parecchio sexy.»
Ridacchiai. «Il fascino della differenza di età.»
«Avresti potuto parlarci ieri sera, ma la tua amica si è come fiondata, credo che le piaccia Dan» ammise stringendosi nelle spalle «anche se piace un po’ a tutte qui.»
Annuii di nuovo.
«Solito caffellatte?»
«Solito caffellatte.»
Si allontanò per portarmi la mia solita colazione, e non potevo fare a meno di guardarlo. Ogni tanto distoglievo lo sguardo per non farmi beccare a fissarlo o per non metterlo a disagio, e fingevo di guardarmi intorno quando spostava la testa o alzava gli occhi al cielo. Ogni tanto si toccava i capelli o si strofinava il viso con le mani. Era così semplice e insipido, e allora perché non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, di studiarlo?
Nemmeno a pensarci che scrissi un capitolo in tre giorni incentrato su di lui, su cosa ordinava, quello che faceva o che immaginai potesse piacergli fare. Sembrava uno così scontato. Avevo preso l’abitudine di alzarmi ogni giorno alle otto e uscire di casa alle nove e mezzo, e potevo essere sicura che lo trovavo solo, senza Jenny che non si era più fatta sentire. Non aveva bisogno di me, bene, nemmeno io ne avevo di lei.
Era così bello potermi alzare la mattina convinta che avrei fatto qualcosa, con un motivo per uscire di casa e andare a passo svelto al bar sperando di vederlo, con il cuore che batteva e una sorta di ansia pre-appuntamento. Ma io e lui non avevamo appuntamenti, non avevamo mai parlato, forse un paio di volte i nostri sguardi si erano incrociati prima che tornassi a scrivere sul mio portatile che non aveva più una pagina bianca ad aspettare di ricevere le parole di cui aveva bisogno. Le parole c’erano. E io speravo che arrivassero anche dal diretto interessato, anche se non arrivavano mai. Era sempre da solo ad aspettare forse qualcuno, ma quando arrivavo io vedevo Jenny uscire. Mi facevo sempre domande su di lui, e scrivevo sul suo alone di mistero che mi aveva tanto attratta.
Era domenica mattina quando rimasi delusa: lui non c’era nel bar. Chiesi a Mary Lou se sapesse perché non c’era, e lei rispose semplicemente che forse aveva dormito da qualcun altro, o aveva trovato un altro bar. Mi sentii stringere il cuore, avevo bisogno di vederlo e osservarlo per continuare a scrivere.
Osservare quel posto vuoto mi riempì solo di nostalgia. Avevo perso di nuovo qualcun altro, ma forse lui nemmeno lo sapeva quanto significasse la sua presenza.
La sera mi misi quasi a piangere rileggendo quanto avevo scritto su di lui. I giorni passavano, e lui non metteva ancora piede nel locale. Né lui, né uno della sua band. Non vidi più nemmeno quello che vidi allo studio di Rosalie, nessuno. Ero tornata a sprofondare, a leggere e rileggere venti pagine interamente su di lui, immaginando quale potesse essere la sua vita privata, il suo legame con la musica.
Non chiamai Jenny, poteva anche essere da lei la mattina. Magari si frequentavano. E io avrei perso il mio punto di riferimento, la mia musa ispiratrice, metaforicamente.
Smisi anch’io di frequentare il bar. Rimanevo a casa, a letto, a guardare le fotografie o a pensare al cantante così freddo e spento, isolato e silenzioso se non in compagnia di Jenny. Ero riuscita a rovinare un’amicizia con le mie mani per la seconda volta, avevo allontanato un’amica di una vita per cosa? Per gelosia.
Una mattina di fine ottobre ricevetti la chiamata di Rosalie. Mi voleva incontrare a casa sua, non nel suo studio per una volta, e anche se ero distrutta e delusa, accettai. Dovevo essere a casa sua per mezzogiorno, mi aveva invitata a pranzo da lei.
Erano già le undici, quindi spensi il computer e richiusi l’album di fotografie. Mi stavo facendo male da sola continuando a usarli.
Avevo stampato quello che avevo scritto su di lui per farlo leggere a Rosalie, era comunque l’unica persona rimasta con cui avrei voluto parlarne, e da quello che avevo scritto avrei potuto spiegarle cos’era successo e come mi sentivo.
Mi cambiai di malavoglia, sedendomi ovunque capitasse, anche per terra, mentre infilavo i jeans e il maglione. Pettinai i capelli facendo cadere la spazzola, ero come senza forze. Presi il cellulare e le chiavi, e salii sulla bicicletta. Passai davanti al bar che non frequentavo più da quasi una settimana, e quando lo vidi mi si fermò il cuore. Scesi rapidamente dalla bici, non sapevo perché lo stavo facendo, ma rivederlo aveva acceso qualcosa in me. Poggiai la bici vicino all’entrata, tanto nessuno avrebbe potuto prenderla. Una scossa di adrenalina mi fece catapultare all’interno del locale, attirando l’attenzione di Lou, un paio di camerieri, e quella di Daniel. Guardai dapprima lui, e involontariamente ci fissammo per qualche secondo, finché la ragazza non mi venne incontro.
«Che fine avevi fatto?» mi chiese allegramente, forse le ero mancata.
Spostai lo sguardo su di lei e le sorrisi forzatamente. «Ho avuto la febbre. Ora scusami, ma devo andare, volevo solo passare a salutarti.»
Indietreggiai guardando Dan, che non aveva smesso di fissarmi, e girai i tacchi uscendo di lì. Ero sul punto di piangere, ma dalla gioia.
 
 
Writer’s wall
Ciao a tutti! Niente di che da dire su questo capitolo un po’ strano, ditemi cosa ne pensate voi piuttosto! Siccome è una storia che, nonostante per me sia difficile da scrivere, mi prende molto, ci sto mettendo tutto l’impegno possibile e potrei aggiornare molto velocemente oppure aggiornare lentamente per far sì che non ci siano troppi orrori grammaticali e di battitura.
In questo capitolo ho voluto evidenziare il rapporto che aveva Lauren con Jenny, e spolverare un po’ i ricordi che aveva di loro due e di Derek, nonché fratello di Jenny. Tutta la storia la saprete, ma più in là, per ora voglio tenervi sulle spine (sempre se ci sono riuscita).
Detto questo, grazie mille per le quattro recensioni al primo capitolo, sapete che siete sempre le prime a farmi venire la voglia di scrivere!
Un abbraccio, Angelica

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Capitolo 3
*** Brivido ***


Con un sorriso sulla bocca, Rosalie leggeva le pagine in fretta, spostando velocemente gli occhi da sinistra a destra. Ero ansiosa di sapere cosa ne pensasse, se era da continuare o erano tutte mie paranoie, perché ero terribilmente cotta di quel Dan. Non credevo l’avrei mai ammesso che mi sarebbe interessato qualcuno dopo Derek, ma quell’uomo aveva avuto un effetto completamente diverso su di me, non una specie di colpo di fulmine, più che altro ero così presa dal chiedermi perché a Jenny interessasse che sono finita per interessarmene anche io.
Che brutti scherzi che fanno i sentimenti.
«Ci vedi davvero tutte queste cose in uno sconosciuto?» chiese all’improvviso Rosalie quando stavo per portare via i piatti sporchi sul lavello.
Rimasi ferma a pensare la risposta, ma era una e anche ovvia. «Mi basta guardarlo e scrivo. Nella sua monotonia ci trovo un sacco di confusione e insicurezza. Magari sono supposizioni, ed è silenzioso di natura, avrà una bella vita e tutto, ma per me è come... un punto fisso con un carattere indeciso. Ho descritto quello che vedevo e che immaginavo, perché effettivamente è uno sconosciuto del quale conosco solo il nome.»
Lei annuì, la vedevo parecchio sollevata. Forse perché finalmente non era di Derek che parlavamo. «E senti un po’, non avresti voglia di sapere altro su di lui?»
La sua voce si era offuscata perché ero in cucina a posare i piatti che erano diventati pesanti da tenere in mano. Mi sedetti e non la guardai negli occhi, per non tradirmi da sola.
«No, perché cambierebbe tutto. Capisci? A me basta averlo davanti a farsi i fatti suoi per...»
«Stare meglio?»
Mi si bloccarono le parole in gola. Non avevo pensato a questo stare meglio, perché non era così, non stavo meglio, ero semplicemente presa da lui, e gliene ero silenziosamente grata, perché quando rimasi più di una settimana senza vederlo ero sprofondata di nuovo nei ricordi che avevo tenuto lontano per tanti mesi. E mesi di lavoro sembravano essersi vaporizzati, all’improvviso, in una nuvola di pensieri. E come al solito, ripensai a Jenny e alla possibilità che si frequentasse con Dan. Volevo andare a fondo a quella faccenda, non perché mi interessasse – o forse sì , ma perché avevo bisogno del suo modo di fare così noioso e sempre uguale. Non mi sarei mai immaginata che un uomo così dannatamente... monotono, potesse ispirarmi così tanto. Potevo addirittura immaginare quali fossero i suoi pensieri, le sue preoccupazioni, tutto.
Ma quella mattina, nell’All Blue, quando lo vidi, e senza preavviso, era diverso: non era più così insipido. Gli occhi erano puntati su di me, con un filo di interesse. Il cuore non mi batteva così forte per un uomo da tanto, troppo tempo.
«Lauren?» mi richiamò la psicologa schioccandomi le dita davanti al viso. Mi ero dimenticata che stesse aspettando una mia risposta, e onestamente dimenticai anche la domanda.
«Vieni con me all’All Blue stasera?» le domandai, sperando in un sì. Sia che fosse da solo, con i suoi amici o con Jenny, volevo vederlo.
Mi squadrò per un po’. «Devi promettermi una cosa però.»
La guardai allibita. Pensai a che tipo di promessa avessi dovuto mantenere, e risultò difficile convincermi a dire di sì, perché non ero pronta a tutto. Avevo paura di accettare una qualunque proposta, però annuii lo stesso.
«Lui non deve rimanere un semplice sconosciuto» sfoggiò un largo sorriso che mi sembrò più che provocatorio. Stavo per rimangiarmi il sì, dirle che non ci sarei mai riuscita perché non ero che una specie di stalker per lui, ma rimasi in silenzio. E si sa, chi tace acconsente.
Però avrei voluto dire qualcosa prima che mi interrompesse.
«Non crearti quesiti inutili, cosa c’è di male nel voler fare amicizia con qualcuno?»
«Potrebbe frequentarsi con Jenny, non voglio mettermi in mezzo.»
Lei scosse le spalle. «Chiedilo a lei.»
Provai a spiegare cosa fosse successo dopo quella sera al bar, che lei si era precipitata a conoscerlo, ma dissi semplicemente “non le importerebbe”.
Mi lasciavo condizionare, era pur sempre vero, ma non potevo fare altrimenti, non avrei mai fatto il primo passo verso uno sconosciuto dopo aver scritto un centinaio di pagine interamente sul suo conto. Mi sentivo come se fossi entrata inavvertitamente e senza permesso nella vita privata di qualcun altro, e non era poi così sbagliato questo mio ragionamento. Cosa avrebbe pensato lui sapendo che una scrittrice in crisi era riuscita a sbloccarsi prendendosi una cotta micidiale per lui e scrivendo sul suo conto, magari anche cose falsissime? Dopo che nemmeno mi ero degnata di guardarlo sedendomi al tavolo con lui e Mary Lou?
C’era da dire, però, che Lou era una gran testa di cazzo. O magari se fossi arrivata più tardi, avrei evitato tutto. O se Jenny avesse rifiutato di farsi vedere al bar. Io sarei stata ancora in crisi, ma un bel po’ di paranoie non si sarebbero presentate per sconvolgermi. Non ero abituata ad affrontare certe cose, l’unica persona di cui ero follemente innamorata era il fratello della mia migliore amica col quale ci sono cresciuta assieme, ci conoscevamo, eravamo come fratelli anche noi. E non tenevo una conversazione con uno sconosciuto da tanto, troppo tempo.
«Me lo prometti?» insistette, e non potevo più rifiutare a quel punto.
«Te lo prometto. Ma tu vieni con me stasera» le proposi, e accettò di buon grado. Potevo finalmente tirare un sospiro di sollievo, ma ero troppo ansiosa, troppo spaventata all’idea di dovermi avvicinare a lui. Sentivo che quella sera sarebbe successo qualcosa.
 
*
Il locale non era molto pieno, ma c’erano la maggior parte dei tavoli occupati. Il suo ancora no, perciò io entrai seguita da Rosalie. Ero tranquilla, ma non abbastanza. Sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro, e continuavo a respirare irregolarmente. Un po’ trattenevo il fiato, a volte inspiravo profondamente e altre sospiravo. La psicologa accanto a me, mi guardava come se fossi un’adolescente al suo primo appuntamento. Ma il mio non era un appuntamento. Volevo solo vederlo, e al più presto.
Quando, dopo infiniti minuti, varcò la soglia del locale, il mio cuore sembrò scoppiare. Perché mi sembrava ogni volta che lo vedessi, sempre più bello? Con un leggero sorriso mentre salutava Mary Lou con un ragazzo piuttosto piazzato e muscoloso, i capelli più ordinati ma sempre antigravitazionali, gli occhi bassi e la felpa grigia. Erano passate poche ore dall’ultima volta che lo avevo visto, ovvero quella mattina, eppure mi sembrava fosse passata un’eternità.
Il suo solito tavolo era già occupato, e si sedette a quello davanti al mio. Mi scordai anche che ci fosse Rosalie a ridacchiare, accanto a me, della mia reazione. Mi stava studiando, me ne ero resa conto, ma non diedi peso a lei. Dovevo imparare a controllare le mie emozioni però, perché stavo dando troppo spettacolo di quanto fossi contenta di rivederlo.
Lo stavo fissando con la fronte corrugata e lo sguardo sottile, come a voler realizzare di rivederlo da vicino, molto più vicino. Sembrava un divo. E invece, era sempre Daniel, silenzioso, forse un po’ più sorridente. Fu troppo tardi quando mi accorsi che aveva preso a guardarmi anche lui. Distolsi velocemente lo sguardo afferrando il cellulare e facendo finta di controllare delle cose e poi parlai con Rosalie, di qualunque, maledettissima cosa.
«Stai sudando freddo, Lauren» ridacchiò, mentre io sentivo il petto volermi implodere. Sperai avesse smesso di guardarmi e feci scivolare lo sguardo, e con piacere notai che stava osservando il palco sul quale si esibiva un’altra band alla quale non prestai la minima attenzione.
Scossi il capo prendendole la mano. «Posso venire meno alla promessa fatta?»
«No, perché rinunceresti a fare una cosa fin troppo semplice.»
Una scarica di adrenalina mi percorse il corpo, se mi fossi avvicinata di un solo millimetro a lui sarei crollata per terra. Preferivo guardarlo da lontano come avevo sempre fatto. Per la prima volta osservai il suo viso di profilo, ma sotto un’altra espressione. Era più solare, con un mezzo sorriso, gli occhi che guardavano qualcosa con interesse. Erano azzurri, non blu come avevo sempre visto. Forse la luce, forse il momento, forse ero io che stavo solo dando di matto, ma più lo guardavo più mi ricordavo quanto stravedessi per Derek.
A Rosalie scappò un sussulto. Mi voltai rapidamente verso di lei smettendo di perlustrare quel viso che vedevo finalmente sotto un’altra luce, e la vidi leggere ancora i miei fogli. La guardai con aria interrogativa, sperando mi dicesse cosa fosse successo.
«Perché qui lo hai chiamato Derek invece di chiamarlo Dan?»
Lo disse a voce troppo alta e impallidii. Sapevo che era una scusa, avevo riletto tre volte quelle pagine. Si era voltato nella nostra direzione sentendo il suo nome, e lei fece cadere apposta i fogli. Si abbassò ridendo e la maledissi. Intanto non ero sicura che il mio viso fosse ancora del suo colore naturale, ma sentivo il fuoco scorrermi sulla guance. Alzai lo sguardo e lui, con la testa bassa, si mordicchiava il labbro inferiore per non ridere. Sarei voluta sprofondare e non farmi vedere più. Scappare da lì, ma ero troppo codarda anche per alzarmi e andarmene davvero. In fondo, quella sua risata soffocata fece ridere anche me, risi di me, di quanto fossi infantile. Rose si rialzò con i fogli in mano e li sistemò, rimettendoli nella borsa.
«Non smetterò di odiarti per questo» nonostante fosse una frase provocatoria, lo dissi con un sorriso imbarazzatissimo sulle labbra. Mary Lou si alzò in piedi dirigendosi verso il bagno, e quando mi vide mi salutò con la mano. Ricambiai il saluto alzando il braccio, attirando di nuovo l’attenzione di Dan seduto di fronte a me. Mi fece segno di raggiungerla e mi alzai con le gambe tremanti, scusandomi con Rosalie, e la raggiunsi velocemente, passandogli davanti, sentendo il cuore battermi forte in petto.
Mi diede un abbraccio veloce che non feci in tempo a ricambiare. «Beh, hai parlato con Dan? Stamattina ho notato che vi siete fissati e ho pensato fosse successo qualcosa.»
Mi morì il sorriso sulle labbra. «Non lo stavo fissando, stavo riprendendo fiato.»
«Oh.»
«Chi erano quei ragazzi?» le feci un sorrisetto scaltro, e lei si imbarazzò guardando verso il tavolo dove c’era la sua dolce compagnia. Mi prese per un braccio e mi portò all’esterno del locale, per non farci sentire.
Mi persi tutto il racconto, ero troppo occupata a pensare a quanto fosse stato evidente quando avevo fissato Dan. Immaginai lui che gliene parlava a Jenny, le loro conversazioni, le mie paranoie. Mi rendevo conto sempre di più che agli occhi di Dan sarei potuta sembrare un’adolescente con crisi ormonali che sbavava dietro il frontman di una band di poco conto, ma non era così, lui non poteva sapere quanti aspetti di lui avevo immaginato e scritto. Non poteva sapere quanto lo avessi pensato, sperando di rivederlo il giorno dopo, e il giorno dopo ancora.
«...e quindi gli ha detto che era ora si presentasse decentemente, tutto qui.»
Improvvisamente prestai attenzione, ma solo quando ebbe finito di parlare. Tutto quello che mi uscì dalla bocca fu un “aah”, fallendo miseramente di sembrare sorpresa o meravigliata. O perlomeno, incuriosita.
«Sono contenta di averlo incontrato, ma tu quando farai il primo passo?»
Scossi la testa. «Ma io non sono interessata a lui.»
«Ah no?» si sorprese lei «Cavolo, e io che speravo in una vostra uscita.»
Indecisa sul da fare e su cosa dire, con una scusa qualsiasi, ringraziai Lou e rientrai nel bar, dicendo a Rosalie che preferivo andare a casa perché non mi sentivo bene.
«Vuoi che ti accompagni?»
Dissi di no, ma lei insistette.
«Cos’è successo?»
«Niente, davvero» la peggiore delle giustificazioni. Ma perché ero così codarda e spaventata all’idea di poter parlare con qualcuno che mi piace un sacco, e scappare via quando trovo l’occasione? Era interessato, a quanto sembrava da quello che aveva detto Lou, e io gli volevo sfuggire. Ero così tremendamente stupida, ingenua, codarda. Stavo scappando ancora una volta dalla possibilità di andare avanti, tornare a piangermi addosso per Derek, perché avevo davvero paura di sostituirlo. Mi ero così decisa a voler cambiare che non avevo pensato a questo. Non era facile, non da sola, non senza l’aiuto della mia migliore amica che sembrava essersi allontanata di nuovo insieme all’unico uomo che mi stava distogliendo dalla pesante realtà che mi circondava. Lou voleva che uscissi con Dan. Ma non lo avrei fatto, non quella sera. Volevo solo andarmene a casa, a dormire.
Presi il mio cappotto e la borsa e diedi un breve abbraccio a Rosalie ringraziandola del pranzo. «Manterrò la promessa, ma non oggi.»
Lei annuì poco convinta e poggiò la testa tra le mani. Ero un caso disperato. La donna più idiota sulla faccia della Terra finita tra le mani di una psicologa che non sapeva più cosa inventarsi.
Fortunatamente ero a piedi, quindi approfittai per fare una camminata verso il parco e prendere ancora un altro po’ di quell’aria così piacevole, lontana da qualunque muro, da casa mia, da quel bar, dallo studio, dal mondo. Mi sedetti sulla panchina e mi poggiai sullo schienale in legno, alzando lo sguardo verso il cielo. In quel momento la mia mente stava immaginando che all’improvviso apparisse Dan, sorridente, a sedersi accanto a me e parlare, ma non accadeva, non sarebbe mai accaduto, perché non lo volevo davvero. Stava accadendo tutto troppo velocemente, e non me lo sarei permessa. Abbassai la testa raddrizzando la visuale per guardare i lampioni sgargianti di luce che illuminavano le giostrine che nessun bambino stava usando quella sera più fredda, il viale attraversato da qualche anziano signore che faceva la passeggiata serale, o quelli che passeggiavano il cane, o da me, poco prima. Incrociai le gambe sulla panchina, sospirando. Presi il cellulare e scrissi al mio manager: “il prossimo romanzo sarà pronto tra qualche mese”. Non ricevetti risposta, ma non importava. Volevo altri tipi di risposte.
Chi ero per Dan? Perché, sotto sotto, Lou sperava che uscissi con lui? Forse perché era stato lui a far scattare la scintilla?
Immaginai che c’entrasse il fatto di Derek, ma non mi tornavano parecchie cose, sia del fatto che Dan e Jenny si vedessero al bar, sia che lei non volesse parlarmi, sia che lui non mi aveva mai rivolto uno sguardo durante il periodo in cui scrivevo di lui, prima che sparisse e che sparissi anch’io da quel locale. Con il cellulare in mano, a fissare l’orario, stavano passando i minuti. Alzai lo sguardo a fissare la strada, quando un uomo in una giacca grigia passò lentamente. Non poteva di certo essere lui, anche se mi ero agitata, quindi mi calmai. Quando alzò la testa, però, vidi che effettivamente era Dan. Sperai che mi vedesse o che non mi vedesse, magari che mi vedesse e guardarmi, ma non che si avvicinasse. Si voltò per un secondo nella mia direzione e continuò a camminare, immaginai vivesse da quelle parti, negli appartamenti. Tirai un sospiro di sollievo anche se ero delusa. I miei film mentali mi illudevano troppo. Mi alzai e senza nemmeno pensarci lo seguii nell’ombra, senza farmi vedere. Si fermò davanti la porta di casa sua, che si affacciava al parco, e frugò nelle tasche. Sentii rumori metallici, delle monete forse, e poi sbuffò. Era tutto così silenzioso che potevo sentirlo respirare, oppure mi stavo concentrando talmente tanto su di lui che esistevano solo i suoi respiri.
Prese in mano il cellulare e velocemente digitò un numero. Attese. Nessuna risposta. Riprovò. Questa volta qualcuno rispose, perché prese a parlare.
Era la prima volta che sentivo la sua voce, e mi sentii mancare.
«Kyle» disse, aspettando qualcuno che rispondesse. «Apri, per favore.»
Continuava a battere il piede per terra per il nervosismo, e si passò più volte la mano libera tra i capelli.
«Lo so cos’è successo con Janna, ma ti prego, apri che ne parliamo. Altrimenti dovrò dormire sugli scalini.»
Ascoltò quello che stava dicendo quello dall’altra parte dell’interlocutore, e poi chiuse la telefonata. Mi sentii come un istinto ad andare da lui, ma aspettai. Si sedette sugli scalini mettendosi la testa tra le mani, e nemmeno mi accorsi che le mie gambe si stavano muovendo verso di lui. Non alzò la testa quando gli fui davanti. Ero carica di adrenalina.
Teneva le gambe accavallate. Non me lo sarei mai immaginato così, rimasto fuori casa, come un barbone. Pensavo fosse una specie di principe azzurro, un po’ come accade nelle favole, incontri magicamente un uomo che ti fa battere il cuore all’impazzata, magari a bordo di qualche bella moto o bella macchina, e invece stava seduto lì, silenzioso, con la testa tra le mani, le gambe larghe su cui poggiava i polsi.
Mi avvicinai lentamente, squadrandolo da capo a piedi. Lui subito alzò la testa quando mi sentì vicina e ricambiò gli sguardi che gli stavo lanciando da parecchi secondi. Per un attimo aggrottò la fronte ma poi si rilassò e si mise in piedi mantenendosi a distanza.
«Sei Lauren?»
Mi sentii mancare quando sentii la sua voce. Gli assomigliava. Assomigliava alla voce di Derek. Cercando di regolarizzare il respiro e il battito cardiaco, annuii. Non capii se il suo era un sorriso forzato o un sorriso uscito così, spontaneo, ma non lo ricambiai, sembravo essere entrata in un altro mondo, ero così terrorizzata che non riuscivo nemmeno a guardarlo negli occhi, tenevo la testa bassa fissa sulla sua maglia.
«Ci eravamo già presentati» aggiunse, e annuii di nuovo, consapevole che stavo facendo la figura della bambina. «Puoi parlare, eh.»
Alzai gli occhi per guardarlo un attimo negli occhi e mi stava guardando con curiosità. Mi portai le mani dietro la nuca e dondolai sui piedi. «Ci aveva presentati Lou.»
Stavolta fu lui ad annuire. «Ti serve qualcosa?»
Scossi la testa. «Facevo un giro prima di tornare a casa e mi sono fermata, ti ho visto seduto qui.»
Ero una maledetta attrice, improvvisai di tutto pur di non apparire come una stalker adolescente che si era presa una cotta per il frontman di una band di poco conto.
«Oh sì» si guardò intorno, voltandosi verso la porta di casa sua «problemi con il mio coinquilino, sta passando dei brutti momenti e non vuole aprirmi.»
«Capisco.»
Si creò un silenzio imbarazzante, a momenti sarei scappata dall’altra parte della strada. E invece rimasi, perché adoravo sentirlo parlare, e sentirlo parlare con me, proprio io che pensavo non fosse mai accaduto. Era tutto così casuale, come una coincidenza.
«Ti inviterei a prendere qualcosa su, ma non posso salirci nemmeno io» scherzò, e feci un sorriso largo, ma mi pentii subito di aver sorriso così tanto. Sembrò accorgersene.
«Io sono apposto così» mi strinsi nelle spalle distogliendo di nuovo lo sguardo, e anche lui aveva smesso di guardarmi già da un po’. «E tu?»
«Io credo che resterò qui fuori stanotte, a prendere un po’ d’aria fresca» ironizzò di nuovo, e mi scappò un altro sorriso.
«Posso farti compagnia?» gli chiesi alzando lo sguardo, e i suoi occhi sembrarono brillare. Mi si era regolarizzato il battito cardiaco, ma ero comunque incapace di realizzare che stavamo parlando.
Lui si strinse nelle spalle. «Non voglio disturbarti.»
«Non mi aspetta nessuno in casa, quindi posso rimanere qui quanto voglio. Almeno finché non divento pesante per te.»
Fece una risata breve, e improvvisamente il mio cuore si alleggerì. Sentivo le farfalle nello stomaco in una maniera spaventosa ogni volta che sfoggiava quel sorriso, finché annuì. Mi sedetti su quegli scalini guardando l’orario dal mio iPhone. Il vento freddo sembrava essersi calmato, o forse lo percepivo di meno. Fatto sta, che nessuno dei due disse una parola per almeno trenta minuti.
«Non vuole proprio aprirti» gli feci notare, anche se lo sapeva già.
Scosse il capo con noncuranza, evidentemente non era la prima volta. Lo vidi scuotere le braccia come se fosse stato improvvisamente colpito da una scarica elettrica, ma era semplicemente un brivido di freddo. Decisi che non poteva marcire là sotto casa, al gelo, e io non potevo di certo stare sveglia tutta la notte, anche se c’era lui. Non ne avevo le forze. Ero una che amava la comodità.
«Che ne diresti di fermarti da me? Ho una stanza in più...»
Stavo per rimangiarmi quelle parole, data l’occhiata incredula che mi lanciò. Forse dovevo stare zitta. Forse non mi sarei dovuta avvicinare, parlargli, fargli compagnia. Forse quella serata era tutta uno sbaglio.
Sudai freddo.
La sua risposta sembrava un no secco, di disapprovazione, di repulsione. Era solo un’eruzione di sguardi, che non riuscivo a comprendere, mi pentii amaramente di averglielo chiesto.
 
 
Writer’s wall
Sono tornata dopo non so quanto tempo ma non importa, cioè forse a voi sì ma io ho avuto altri pensieri, ho un’altra fanfiction in corso e gestirmi tra le due sta diventando complicato. Comunque, ditemi cosa ne pensate, sul precedente capitolo non mi avete lasciato molte recensioni, anzi solo una, e ringrazio xGiorgias per aver recensito, e sprono tutti voialtri a farlo, per aiutarmi anche a migliorare.
Alla prossima, Angelica.

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