Ti insegnerò ad amare

di origasmo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Segreti da ricordare (prologo) ***
Capitolo 2: *** 1. ***



Capitolo 1
*** Segreti da ricordare (prologo) ***


Angolo Intestazione scrittrice
Salve amici lettori.
Non so come voi siate finiti in questa pagina web, se per curiosità o su consiglio di un amico, in qualunque caso, vi ringrazio infinitamente. Di solito le note della scrittrice vanno messe alla fine del racconto, ma non lo trovo corretto, perché qualcunque lettore può decidere, in base a questa presentazione se continuare o no la lettura. Quindi, mio caro lettore, ti avviso in anticipo che questa storia può essere amata solo se la leggi davvero, come se tu fossi la protagonista, Sara, o Christian, personaggio fondamentale della storia. Spero vivamente che questa mia prima "opera" vi piaccia, perché, come dico spesso, in ogni parola che scrivo, c'è dentro un po' di me. Buona lettura
- Serena -



 
 


Prologo




La più antica macchina fotografica fu costruita a Parigi nel lontano 1839, e di certo il suo inventore non avrebbe neanche immaginato dove la sua invenzione sarebbe arrivata. In un secolo e mezzo quella scatolina nera senza capacità di colore è diventata oggetto di continue trasformazioni, evoluzioni, che si sono rivelate piacevoli a molte persone sul Pianeta. Chi non possiede una macchina fotografica? A parte le persone più sfortunate dei Paesi più poveri, tutti! Ci divertiamo a scattare fotografie nelle situazioni più felici: in ricorrenza di un compleanno, di una vacanza, di una giornata passata con la persona più cara. Per poi stampare quelle immagini e depositarle in qualche scatolone in soffitta, e magari, qualche tempo più tardi, ripescarle per ricordarsi di aver avuto dei momenti felici. Oppure, molti anni dopo, quando un figlio o un nipote ci chiederà storie sulla nostra giovinezza non dovremo neanche sprecare le parole per raccontare, perché saranno impresse lì, su quella carta sbiadita di tanti anni prima.

Cosa sarebbero gli uomini senza ricordi?

Per questo non vogliamo dimenticare. Passiamo la vita ad vivere momenti  che diventeranno ricordi, e a non dimenticarli. O a sforzarci di farlo.
Ed era quello che stava facendo Sara Miller, seduta in uno dei più squallidi posti sulla faccia della Terra, schiacciata tra il martello del dottor Hudson e l’incudine della prigione.

-Signorina Miller, glielo chiederò per l’ultima volta. Dove ha visto per l’ultima volta Christian Catcher?-

Quella domanda l’aveva sentita. Eccome se l’aveva sentita. E sapeva anche la risposta, solo che a volte ci sono situazioni in cui non si può parlare, o non si vuole parlare. Il nome di Christian Catcher, che per il poliziotto poteva sembrare “uno dei tanti”, in realtà, per quella figura scheletrica dagli occhi color ghiaccio, aveva rappresentato la vita negli ultimi sei mesi. Ma nemmeno questo poteva dire.  E allora taceva, e dietro quell’incessante silenzio danzavano a ritmo veloce la curiosità e la paura di fallire.

-Va bene, facciamo così: io le lascio tutta la notte per pensarci. La lascio qui in questa stanza tranquilla, ma quando tornerò, vorrò sapere tutto nei minimi dettagli, altrimenti la arresterò per ostacolo alle indagini.-

Con questa minaccia, il detective Hudson, uscì dalla stanza, lasciando dietro di se altro silenzio. Nel profondo, a Sara, faceva paura quello che l’uomo le aveva detto, ma in cuor suo, ricordava la promessa che aveva fatto e, anche se si sforzava di dimenticarla, non poteva farlo.
 L’idea di una nottata tranquilla senza quelle insistenti domande, le parve il paradiso, ma allo stesso tempo si chiedeva cosa avrebbe risposto al detective una volta tornato. Non aveva la possibilità di scappare, date la sbarre alle finestre, la porta blindata e le numerose telecamere: sarebbe finita in carcere ancor prima di confessare che lei non c’entrava nulla con quella storia. Non poteva raccontare il falso, perché, ammesso che tutto il racconto fosse coerente, le forze dell’ordine avrebbero verificato la sua versione dei fatti, prima di lasciarla libera. Raccontare la verità? Avrebbe potuto farlo, dato che lei non era stata macchiata di nessun crimine, ma cosa sarebbe successo una volta uscita di là? Christian sarebbe stato arrestato e condannato all’ergastolo, o peggio, avrebbe ricevuto una pena capitale e lei avrebbe vissuto per sempre con il rimorso.


Cosa farebbe Christian?

Che strano: aveva perso il conto di quante ore aveva passato ad evitare di rispondere a delle domande, ed ora era lei che se le stava ponendo. Stanca di quella giornata, si alzò a fatica e strusciò la sua schiena lungo il muro freddo, fino a toccare il pavimento con il sedere. Guardò fuori dalla finestra e il suo sguardo dello stesso colore della neve sotto la luce notturna, incrociò quello del cielo, in un mix perfetto di tristezza e voglia di scappare. E allora si diede il permesso di pensare a lui. Le lacrime scesero da sole, in quel mare di silenzio e di stelle.

-dove sei Christian?-

Con questo ultimo sussurro, Sara, si lasciò cullare dal silenzio della notte, sperando che qualche malore istantaneo costringesse i medici a portarla fuori da lì. Mentre nei suoi sogni, nel frattempo, si facevano largo i ricordi...
 

N.B.: Oltre alle recensioni di comlimenti (se ce ne saranno) vorrei ricevere qualche consiglio, o critica (non offensive riguardo la storia o la sottoscritta), per migliorarmi, non solo nel modo di scrivere, ma anche come grafica, scrittura, banner ecc... 

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Capitolo 2
*** 1. ***


Intestazione scrittrice
Di nuovo salve a tutti, lettori.
Eh si, sono già tornata, pubblicando il primo capitolo della mia prima storia. Qualcuno potrebbe pensare che stia correndo un po' troppo, ma io credo fermamente che se un buon lettore voglia leggere una storia, questa debba essere almeno un po' avviata. D'altro canto ho visto che già tre persone seguono questa cross-over e ne sono veramente fiera, quindi ringrazio loro e le 40 visite. E poi mentirei nel dirvi che non sono eccitata dall'idea di sapere cosa ne pensate, quindi, almeno per i primi capitoli, riaffiorerò tra le Ultime Storie per parcchi giorni. 
Riguardo al primo capitolo, già lo avevo pronto da qualche tempo, ma, da una recenzione che ho avuto nel prologo ho cercato di aggiungere più particolari per far conoscere meglio i personaggi dall'interno. Mi piace molto come ho scritto questo capitolo e spero piacerà anche a voi, come al solito si accettano recenzioni positive e negative (costruttive per la mia scrittura). 
Buona lettura 
-Serena- 

 




1.
 
-Hai deciso cosa mettere alla festa di compleanno di Kate?-

In quell’istante ebbi brividi e tremori ovunque, e ancora non riesco a capacitarmi se furono le temperature sotto zero delle celle frigorifero del supermercato, o il pensiero di dire a mia madre che non sarei andata alla festa.

-Ehm, mamma, senti… oh guarda i Sofficini! Ti prego prendiamoli: mi è venuta una gran voglia di queste cose così morbide e ricche calorie mmh-

Feci, recitando una delle mie peggiori interpretazioni di "FigliaCheProvaPiacereAFareSpesaConLaMamma", e infilai nel carrello quattro o cinque confezioni di quei disgustosi bocconcini per cani, spacciati per cibo commestibile.

-Sara! Ma sei impazzita? A parte il fatto che non ti sono mai piaciuti i Sofficini, ma poi che diamine dobbiamo farci con cinque scatole se siamo quattro in famiglia? A volte mi sembri proprio tuo padre-

Mi rimproverò mettendo a posto le scatole nel loro posto originale. E ora avrei dovuto dirle la verità? Proprio non avrei voluto. Mia madre da ragazza aveva fatto parte delle Cheerleader, diplomata con il massimo di voti e, all’età di vent’anni aveva già organizzato il suo matrimonio con uno dei più forti giocatori della squadra di Baseball della città. Alla beata età di trentanove anni aveva già avuto due figli e il sabato sera di divertiva ancora con le sue amiche giocando a carte. Insomma, come avrebbe preso la notizia che sua figlia, una delle più sfigate della scuola, avrebbe saltato la festa più attesa di quell’anno scolastico perché non era stata invitata?

-Mamma, vedi, io… non posso andare a quella festa-
-Sara Marie Miller, non c’è niente che noi Miller non possiamo fare, se non..-
-se non per tre cause: morte, gravi malattie e perché non vogliamo. Lo so, lo so, mamma-
-e allora per quale motivo non vorresti partecipare alla festa per cui tutte le tua compagne di scuola si preparano da tutto l’anno?-

Sentivo già il sapore amaro della verità ferire mia madre, ma che potevo farci se nel DNA, i miei genitori, si erano dimenticati di metterci il carisma? In fondo non mi drogavo, andavo bene a scuola, ero ancora vergine in una giusta età e potevano ancora andare fieri di me.

-Non mi hanno invitata-

Soppressi le parole tra i denti, sperando che il volume della voce potesse regolare quello della vergogna

-come?-

Come al solito mi dimenticavo che uno dei pochi ma grandi difetti di mia madre fosse quello di sentire solo quello che le piaceva sentire, mentre trattamento diverso era riservato alle critiche o alla verità che le stava stretta.

-ho detto che non mi hanno invitata a quella festa-
-tesoro potresti parlare più forte, qui c’è un gran casino-
-Non mi hanno invitata a quella maledetta festa-

Sbottai e forse in quel momento realizzai che delle duemila persone iscritte a quella scuola, con più di dieci club sportivi e non, cinque differenti sezioni e settanta professori, io, ero stata l’unica a non essere stata inviata. Mi crollò come un macigno addosso e, come succederebbe nella realtà, provai un dolore proprio li, al centro dello stomaco. Guardai mia madre come si guarda un tuo compagno di classe che ricorda alla prof di non aver assegnato i compiti per casa.

-Oh, tesoro, sicuramente non ti è ancora arrivato l’invito-
-No, mamma, l’invito è arrivato a tutti e si, ho dato l’indirizzo giusto-

Ci fu un piccolo ma interminabile secondo di silenzio in cui mia madre, con mia grande soddisfazione e rabbia, ammise di aver perso. È stata dura, per una come lei ammettere di aver cresciuto una figlia completamente diversa da come l’avrebbe voluta, eppure, con quello sguardo aveva detto più parole di Barack Obama in uno dei suoi ispirati monologhi.

-Vado a prendere il burro-

Svoltai a destra verso la corsia dei latticini e il bianco delle celle frigorifere mi bruciò le pupille, già cariche di lacrime. Ma non capiva? Io non ero quello che lei pensava che fossi, ma doveva amarmi così no? Ero sua figlia. Non ancora avevo provato il piacere e il dovere di sentirmi mamma, ma io avrei amato mia figlia per quella che era: bella, brutta, grassa, magra, stupida, intelligente, con qualche talento o meno. Perché semplicemente era qualcuno che potevo affermare essere mio, quindi amarlo incondizionatamente.

-Dammi i soldi! Dammi i soldi ti ho detto!-

Improvvisamente, mi risvegliai dai miei cupi pensieri, chiamata da una voce, che in realtà non stava chiamando me. Alzai lo sguardo confuso e con la mente poco preparata a quello che avrei potuto vedere, rabbrividii alla scena che mi si presentò davanti: due persone, probabilmente uomini (difficile da dirsi, dati i larghi vestiti), tenevano sotto controllo le casse e la corsia della macelleria del supermercato con due pistole. Anche se non mi intendevo di questo genere di cose e non andavo matta per i film polizieschi e western, ho subito capito che non si trattava di pistole a giocattolo: lì nessuno voleva divertirsi.
Senza pensarci due volte mi buttai nel primo nascondiglio che trovai: tra lo scaffale degli yogurt e quello del formaggio. Faceva un gran freddo, ma niente poteva essere peggio di essere vittima di una sparatoria in un supermercato.
Passai i seguenti trenta secondi a pensare solo di calmarmi, ma questa strategia si rivelò piuttosto inutile, se non controproducente, perché, nei momenti successivi a quei trenta secondi, mi ritrovai a pensare al modo in cui sarei morta: forse rimasta uccisa in una sparatoria per salvare la commessa, amorevole madre di famiglia, oppure sarei stata presa come ostaggio da quei due malviventi, che più che viventi, li avrei voluti morti. In entrambi i casi avevo già in mente i titoli per la prima pagina del giornale locale.
Decisamente avere una pallottola conficcata in testa non era il primo modo in cui avevo pensato di andarmene da questo mondo, per lo più alla beata età di diciassette anni.
Inaspettatamente mi sentii molto stupida, ricordando quello che stavo pensando poco meno di dieci minuti prima. Cosa sarebbe mai potuto essere non partecipare ad una stupida festa, quando sei ad un passo dalla risposta alla domanda “cosa c’è dopo la morte?”. Per quanto superficiale e materialista fosse mia madre, ero sicura che anche lei lo stesse pensando. E in quel momento mi domandai dove fosse.
Sarà stato l’istinto di figlia, o l’adrenalina di quel momento, o forse la rassegnazione di dover morire comunque, fatto sta che uscii dal mio gelido nascondiglio e raggiunsi carponi la corsia dove io e mia madre stavamo discutendo l’ultima volta che l’ho vista.
Mi guardai velocemente intorno e corsi velocemente, per quanto possibile si possa correre sulle ginocchia, fino a dove avevo lasciato mia madre.
 In realtà non ero mai stata una persona religiosa e mi ero sempre definita “atea”, ma in quel momento capii che quando la mia prof di religione diceva “è impossibile non credere in niente”, aveva ragione. Iniziai a pregare dentro me stessa un Dio qualunque, Buddha, Cristo, Geova, e blaterare frasette che avrebbero fatto pena davanti alle preghiere di qualsiasi religione: volevo mia madre, e la volevo trovare sana e salva. Passo dopo passo le speranze affievolirono, fino a scomparire del tutto quando nel riflesso delle mie iridi azzurre, si proiettò l’immagine del corpo di mia madre.

Senza vita.

Il sangue scuro scorreva ancora fra i pacchi di patatine e filoni di pane. Come quel sangue, iniziarono a cadere le mie lacrime, solo che il liquido che usciva dai miei occhi non era di colore rosso, bensì trasparente e puro, come la mia anima prima di assistere a quello che non avrei augurato di vivere neanche al mio più grande nemico su questo schifo di Terra. Mia madre non sarebbe stata immortale, ma sarebbe stato decisamente diverso e migliore vederla morire nella più tarda età possibile, sul suo divano di casa, accanto all’uomo che aveva amato da una vita, permettersi un degno funerale grazie ai soldi messi da parte dopo anni di lavoro, ed essere salutata dignitosamente da amici e parenti in una chiesa, magari ben truccata e ben vestita, come piaceva apparire a lei. E invece le era toccata la sorte più crudele: morire nel bel mezzo della vita, prima ancora di affrontare la crisi di mezza età, festeggiare le nozze d’argento, guardare sua figlia andare all’altare e suo figlio diplomarsi. Morire all’angolo di una corsia di un supermercato, accanto a patatine e fette di pane, nel disgustoso bagno del suo sangue, con una pallottola conficcata alla tempia.
Si era difesa, prima di morire, lasciando la testimonianza della sua forza, anche nei suoi ultimi istanti di vita.
Nonostante combattei con me stessa per rimanere in silenzio, e piangere nell’amaro dolore, mi convinsi che quello era il modo peggiore per cacciare via la rabbia che avevo dentro, e dal profondo dello stomaco, dove prima pensavo fosse caduto un pesante macigno, buttai fuori l’urlo più disperato che avessi mai sentito. Non ebbi il tempo di pentirmi del segnale che avevo mandato, perché mi sentii come stordita, un forte giramento di testa, e in un tonfo, mi ritrovai con la testa nella stessa direzione di quella del cadavere. Vidi a pochi passi da me dei larghi vestiti neri, due passamontagna e due pistole, pronta a raggiungere mia madre ovunque ella fosse andata. 

 
 




 

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