Walks of life

di Laylath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. 1878. Che lo spettacolo abbia inizio! ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. 1879. Il principe ed il soldato. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. 1879. Dubbi. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. 1879. Non proprio come una favola. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. 1879. Sull'altalena dei sentimenti. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. 1879. Esame d'ammissione. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. 1880. Iniziative da persone grandi. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. 1880. La scorta dalla treccia nera. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. 1881. La principessa imprigionata. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. 1881. Principe azzurro al salvataggio. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10. 1881. Instabilità. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. 1881. La merenda del faccia a faccia. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. 1881. I prati dell'amore. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. 1881. Per dei biscotti al cioccolato. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14. 1881. Svolte decisive. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15. 1881 - 2. Le conseguenze impreviste. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16. 1882. Che fare? ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17. 1882. Soluzioni inaccettabili. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18. 1882. Decisioni infelici. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19. 1882. Ribellioni. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20. 1882. Legami rinsaldati. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21. 1882. A presto, soldato. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22. 1882. Heymans. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23. 1882. Meritare solo amore. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24. 1882. Lettera dal fronte. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25. 1883. Vuoi sposarmi? ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26. 1883. Anello di fidanzamento. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27. 1884. Amore. ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28. 1884. Prove di famiglia. ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29. 1885. Henry. ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30. 1885. Da sogno ad incubo. ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31. 1885. Kain. ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32. 1885. Non cedere. ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33. 1885. Rinunce. ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34. 1887. Crescite difficili. ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35. 1888. Crisi. ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36. 1889. Educazione differente. ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37. 1890. Dentro e fuori il nido. ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38. 1891. Vecchie ambizioni. ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39. 1891. Le scelte dei nonni. ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40. 1891. I cambiamenti. ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41. 1892. Piccoli geni e non. ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42. 1893. Amare verità. ***
Capitolo 44: *** Capitolo 43. 1893. Più semplice di quanto si creda. ***
Capitolo 45: *** Capitolo 44. 1895. Dialoghi tra genitori e figli. ***
Capitolo 46: *** Epilogo. 1896. Promesse di nuovi inizi. ***



Capitolo 1
*** Prologo. 1878. Che lo spettacolo abbia inizio! ***


Prologo.

1878. "Che lo spettacolo abbia inizio!"



1878
 
“Ellie Lyod, se non ti sbrighi finirai per far tardi il tuo primo giorno di scuola superiore! Scendi subito per la colazione e smettila di stare davanti allo specchio!”
“Arrivo, mamma!” esclamò la ragazza, in risposta alla voce che per la terza volta la chiamava dal piano di sotto.
Con un sospiro abbassò lo sguardo e squadrò con aria critica gli indumenti che aveva scelto per quel fatidico giorno. In genere l’azzurro le piaceva e, a detta di tutti, le stava molto bene, ma sembrava che quella gonna proprio non volesse dare le pieghe desiderate. E anche la camicetta a maniche corte non le sembrava niente di speciale o meglio non la valorizzava.
Insomma sembrava che tutto volesse andare storto proprio una mattina così campale.
Del resto inizio le scuole superiori: non sono più una bambina! Anche se non sembra che il mio corpo sia di questo avviso.
Rassegnandosi andò al grosso comò di noce e prese la spazzola, iniziando a pettinarsi i lunghi capelli neri, constatando con disappunto come fossero ribelli: proprio non ne volevano sapere di stare lisci come quelli di Annabell. Aveva sperato che almeno loro si dimostrassero collaborativi quella mattina, ma non c’era niente da fare. Le bastò vedere come continuassero ad arricciarsi in ciocche ribelli non appena terminava di passare la spazzola per capire che nessuna nuova pettinatura li avrebbe domati.
“Va bene, ho recepito il messaggio: trecce anche quest’anno…” sospirò.
Prese i suoi nastri dal cofanetto e con destrezza divise la sua chioma in due: le sue dita snelle e rapide furono abili a raccogliere ogni singolo ciuffo in due folte treccie che, alla fine, vennero spostate dietro la schiena. I ciuffi più corti invece si arricciarono ai lati della fronte, come sempre, rifiutandosi di collaborare minimamente per un aspetto finale più adulto.
“Primo giorno di scuola superiore – dichiarò, guardando allo specchio il risultato ottenuto – eppure sembro ancora una di prima media…uffa!”
“Ellie!”
“Arrivo, mamma!”
Non si poteva avere tutto dalla vita, questo era chiaro.
Di conseguenza, quando scese al piano di sotto per la colazione, Ellie Lyod, unica figlia di uno dei più grandi proprietari terrieri del paese, non era propriamente al settimo cielo. Tuttavia evitò di mostrare il broncio per evitare di attirarsi addosso qualche altro rimprovero da parte della madre.
“Buongiorno, papà – andò a baciare sulla guancia suo padre e poi fece altrettanto con la donna seduta accanto a lui – buongiorno mamma. Scusate il ritardo.”
“Più di mezz’ora per prepararti – la rimproverò Agnes Lyod, tirandole lievemente una delle grosse trecce – eppure non mi sembri assolutamente diversa da come ti vesti di solito. Posso sperare che i prossimi giorni sarai più puntuale?”
“Uguale al solito, vero? – la ragazzina sospirò sconsolata versandosi il latte – Proprio non sembro una studentessa delle scuole superiori.”
“Hai compiuto dodici anni ad aprile, tesoro, non puoi pretendere che il tuo corpo decida di cambiare in una notte solo per compiacerti. C’è tempo per queste cose, pensa piuttosto a farti onore anche quest’anno.”
“Oh, tranquilla, Agnes – Nicholas Lyod sorrise compiaciuto – sono sicuro che la mia splendida fanciullina sarà come sempre tra i migliori della sua classe.”
“Contaci, papà – Ellie sorrise, lieta di poter contare su questo punto di forza – farò del mio meglio. Però adesso devo proprio andare! E’ tardissimo e sono sicura che Annabell mi starà aspettando da un pezzo.”
“Potevi pensarci prima di stare così tanto tempo a prepararti.”
“Non accadrà più, mamma, promesso! – esclamò alzandosi dalla sedia e afferrando la tracolla che aveva precedentemente posato sul pavimento – Ma è il primo giorno delle superiori ed è un evento che non capita una seconda volta nella vita, me lo concederai. Buona giornata a tutti e due, ci vediamo all’ora di pranzo!”
 
“Ellie Lyod, se tardi un’altra volta in questo modo giuro che non ti aspetterò mai più!”
Il bel viso di Annabell McKenzie si contrasse in una buffa smorfia di disappunto. Ellie, ancora con il fiato corto, non poté far altro che congiungere le mani in gesto di preghiera e chinare il capo con profondo pentimento.
“Giuro, giurissimo, giurissimissimo! Non accadrà più, Annabell, come è vero che mi chiamo Ellie Lyod! Sono mortificata: non mi sono resa conto del tempo che passava… è che per il primo giorno delle superiori mi ero prefissata un’immagine di me stessa completamente diversa.”
“Intendi dire più adulta?” chiese l’amica con malizia, la sua rabbia che svaniva come neve al sole.
“Proprio così – Ellie recuperò una posizione eretta ed iniziarono ad avviarsi verso scuola – insomma, un’immagine per cui la gente che mi vede possa dire “Ah, ecco una ragazza di prima superiore. o qualcosa di simile. Però non credo di aver avuto successo.”
“Se ti riferisci al tuo abbigliamento stai bene come sempre.”
“Lo so, ma non è l’effetto da adulta che mi aspettavo.”
“Beh, ricordi cosa ha detto mia sorella? – Annabell la squadrò con aria di chi la sa lunga – il corpo inizia a crescere dopo che ti arriva il menarca. Come è successo a me proprio questa settimana!
“Eeeh? – Ellie si fermò interdetta in mezzo alla strada – Che cosa? Ti è venuto il ciclo?”
“Proprio così, mia cara – sorrise Annabell, guardandosi intorno per controllare che nessuno potesse sentire quei discorsi strettamente confidenziali – a suggellare il mio ingresso nel mondo delle donne: dovevi vedere mia madre, era commossa. Ha detto che non ci voleva credere che fossi cresciuta così tanto in un’estate.”
“Non ha tutti i torti…” ammise Ellie, guardando con un briciolo d’invidia la sua migliore amica.
Sembrava che quell’estate il sole avesse deciso di dare particolare forza al corpo di Annabell: era cresciuta di almeno due centimetri e non era più così piatta come alla fine della scuola. Alla luce della nuova rivelazione, Ellie vedeva chiaramente come ci fosse un nuovo inizio di rotondità nei fianchi e nel petto, anzi in tutto il corpo che era chiaramente più maturo.
Che diamine, perché l’adolescenza non vuole proprio sapere di arrivare anche per me?
“Perché fai quella faccia? – le chiese Annabell – A te ancora niente, vero?”
“Niente di niente.” ammise Ellie abbassando lo sguardo
“Oh beh, lo sai che non c’è un’età prestabilita per queste cose. Comunque, nonostante il tuo pessimismo, potevi fare qualche commento sulla mia nuova pettinatura, sai. Almeno tra migliori amiche si fa così.”
“Cosa? – la bruna spostò la sua attenzione sull’amica con aria colpevole: era così presa dai suoi problemi che non ci aveva fatto proprio caso – Oh, diamine! Niente più trecce!”
“Visto? Ho chiesto a mia madre se potevo smettere di farle, le trovo così infantili: ed ecco qua una bella coda! Il nastro me l’ha regalato mia sorella, lei ne ha così tanti. Oh, scusa, non volevo dire che le trecce sono infantili…”
“Invece lo sono, – sospirò Ellie che invidiava tanto i capelli lisci e biondi dell’amica – ma sono anche l’unico modo per tenere a bada questi stupidi capelli neri. Se mi facessi la coda come te sarebbe un disastro: i ciuffi andrebbero ovunque.”
“Siamo alle superiori ormai, stai tranquilla che i ragazzi non saranno più interessati a tirare i capelli alle femmine. Ah, maschi! Adesso è finalmente arrivato il momento di guardarci intorno.”
“Mmmh, – Ellie era molto perplessa in proposito, nonostante tutti i discorsi che avevano fatto durante le passeggiate estive – ma forse dobbiamo aspettare almeno al secondo semestre; che ha detto tua sorella su questo argomento?”
“Fidati di me, a guardare non si rischia niente: tanto fino alla festa del primo dicembre non si tentano approcci – Annabell annuì con convinzione, come se dalle loro prossime mosse fosse dipeso il loro futuro sentimentale – E ricorda, la cosa migliore è guardare fino alla terza superiore, dopo sono troppo grandi e non ci degnerebbero nemmeno di un’occhiata: tanto vale evitare da subito false speranze.”
“Ho paura che a me non guarderanno mai a prescindere dalla classe: insomma, oggi allo specchio mi sembrava di essere una studentessa di prima media. Sono piatta e tremendamente infantile con queste trecce. Accanto a te poi sfiguro…”
“Ma finiscila. Sei carina ed intelligente: nella tua pagella di fine anno hai avuto una menzione speciale da parte del preside come miglior scrittrice delle scuole medie. I tuoi temi sono dei veri capolavori, così come le tue poesie: sei una ragazza dall’animo romantico, Ellie, darei chissà cosa per avere un briciolo della tua fantasia.”
“Vorrei che anche il mio corpo fosse più fantasioso.”
“Vedrai che arriverà il momento. Ehi, guarda, ci sono Sally e Hilary… buongiorno ragazze!”
Ellie rimase lievemente indietro, mentre Annabell correva a salutare le loro compagne: anche loro sembravano terribilmente cresciute.
Dannazione, perché solo io…?
 
“Ultimo anno di scuola! Ed ultimo anno in cui quello stupido mi rovinerà le giornate! Non mi sembra vero, quasi quasi piango dalla gioia!”
Laura stiracchiò le braccia con grande soddisfazione, quasi colpendo il suo compagno di classe in piena faccia. Inarcò la schiena ed espose il viso all’ancora caldo sole del primo settembre. Con quella mossa i suoi capelli rossi caddero ancora di più sulla schiena, in una morbida cascata di fuoco.
“Se parti così prevenuta temo che anche quest’anno sarà una vera sofferenza per te.”
Andrew sorrise con rassegnazione, scuotendo lievemente la testa castana: sapeva che tra il docente di lettere e la sua migliore amica non correva buon sangue. Non che quell’uomo fosse tra gli insegnanti più apprezzati dagli studenti, ma sembrava che lui e Laura Hevans facessero gara per indispettirsi a vicenda.
“Prevenuta? – lei subito socchiuse gli occhi grigi, fissando Andrew con insofferenza – Mi odia, è un dato di fatto! Vogliamo ricordare quell’ingiustissima sufficienza stiracchiata nell’ultimo compito dell’anno? Ti giuro che stavo per tirargli il quaderno addosso, infame vecchio… borioso… arrogante… stupido!”
“Ehi, ehi, Laura – Andrew dovette trattenere la risata – suvvia calmati. Rovini il tuo bel visino da folletto con tutto quell’astio.”
“Parli così perché sei sempre stato il primo della classe ed i docenti ti hanno sempre tenuto in grande considerazione.”
“E dai…”
“Io invece con quell’uomo per strappargli un voto decente devo stare ogni volta china sui libri giorni interi, mentre per le altre materie non ho simili difficoltà. E’ solo persecuzione nei miei confronti, te lo dico io.”
“Fidati, Laura – dichiarò – non credo che il professore abbia voglia di infierire ancora su di te. E’ che ormai tu hai una reazione allergica non appena apri un libro di letteratura.”
“Me l’ha fatta odiare… e tu non fare quel sorriso divertito, Andrew Fury.”
“Non ho nessun sorriso divertito, semplicemente mi godo questa bella giornata.” mentì lui.
Non aveva intenzione di ferire la dignità della sua migliore amica, tutt’altro, ma a volte Laura Hevans si lanciava in veri e propri melodrammi. Ma faceva parte del suo carattere peperino, in perfetto tono con i capelli rossi.
Riflettendoci erano estremamente diversi tra di loro, ma sin dalle elementari avevano stretto una forte amicizia: Laura gli piaceva perché aveva sempre il sorriso pronto, qualche scherzo da fare, una battuta da dire, persino le prese in giro da parte sua erano divertenti.
Forse era così attirato dalla sua personalità perché andava a compensare la sua serietà: se doveva essere sincero lei e suo fratello avevano completamente rivoluzionato la sua vita troppo basata sui libri e sullo studio.
“E così è l’ultimo anno – la voce di Laura si era finalmente calmata e, come sempre, sembrava capire al volo i pensieri dell’amico – e poi questi tredici anni come compagni di classe saranno solo un ricordo. Mi sembra così strano pensare che l’anno prossimo, in questo giorno, tu sarai ad East City per l’Università.”
“Non sono ancora stato ammesso – scrollò le spalle Andrew fingendo noncuranza – l’esame di ammissione sarà a luglio e dicono che sia molto difficile. Da quanto so una buona percentuale di studenti viene bocciata: non c’è nessuna garanzia che l’Università mi apra le sue porte.”
“E a chi dovrebbe aprirle se non a te?”
“Dovrò mettermi sotto quest’anno. Dovrò studiare tantissimo rispetto al programma ordinario che dovremo fare a scuola: ci sono diverse materie che dovrò preparare per conto mio. Il livello che raggiungiamo qui in paese non mi basterebbe.”
“E’ di questo che hai paura? – la ragazza si fermò e gli prese un braccio – di non essere all’altezza solo perché non sei un cittadino, ma vieni da una piccola realtà come questa?”
“Non l’ho mai detto! Però non nego che… oh, ma stai tranquilla, Laura, ho intenzione di dare tutto me stesso per quell’esame. Andare all’Università è sempre stato il mio grande sogno e farò di tutto per realizzarlo.”
Disse quelle parole con sincera convinzione. Il suo mondo ruotava intorno alle leggi matematiche, fisiche, sulla statica di qualsiasi edificio, oggetto, materiale. Aveva sempre avuto le idee chiare sul proprio futuro e aveva deciso di andare all’Università sin da quando era in prima media.
Certo era strano pensare che suo padre facesse il notaio e che dunque lui avesse scelto un indirizzo di studi completamente diverso. Era forse l’unica cosa che gli dispiaceva: sapeva bene che il suo genitore aveva sperato che intraprendesse un tipo di studi diversi dall’ingegneria, in modo da affiancarlo nel suo lavoro di notaio. Ma nonostante tutto aveva rispettato i suoi desideri e, assieme alla moglie, l’aveva appoggiato in questa sua scelta.
“Bene, adesso mi sembra proprio il momento di smetterla con tutti questi pensieri sullo studio!” la voce gaia di Laura lo fece distogliere da quelle riflessioni personali.
“Tempismo perfetto per una dichiarazione simile, Laura Hevans – ridacchiò – siamo all’ingresso di scuola e non pensare allo studio non sarà molto produttivo.”
“Davvero spiritoso, Andrew Fury – mise il broncio lei – sono quasi tentata di tenere la bocca chiusa e non darti la notizia.”
“Va bene, ti chiedo scusa. Forza, dimmi pure.”
Lei lo squadrò con aria dubbiosa per qualche secondo, ma poi non ce la fece a tenere quella facciata di indifferenza e battendo le mani come una bambina estasiata esclamò:
“Indovina da chi è arrivata una lettera proprio ieri annunciando il suo rientro?”
Andrew si illuminò in viso e afferrò le spalle dell’amica.
“Henry torna in paese? Fantastico! Mancava ormai da cinque mesi .”
“Proprio così – annuì la ragazza con gioia –  il mio fratellone torna a casa! Pare che massimo entro novembre il suo plotone avrà un periodo di licenza e questa volta si fermerà per diverso tempo, forse due mesi. Vedessi, i miei non stanno più nella pelle: mia madre è sovreccitata più che mai… non la vedevo così da quando Henry ha terminato l’Accademia.”
“Adesso è caporale, vero?”
“Proprio così: nell’ultima lettera mi ha scritto che conta di diventare sergente nell’arco di due anni. Pare che sia molto stimato dai suoi superiori, ma del resto Henry è sempre stato perfetto.”
“Anche tu sei perfetta, piccola Laura.”
“Sono più grande di te di tre mesi, Andrew, non dimenticarlo.”
“Oh, certo, ma non sono io quella che sta saltellando allegramente intorno all’altro, manco avessi sette anni.”
“E allora? Sono solo felice… e siccome lo sei anche tu – e gli afferrò le mani iniziando a coinvolgerlo in un girotondo – allora dimostralo assieme a me!”
“Laura! E dai smettila!” arrossì, mentre buona parte dei ragazzi assisteva a quel siparietto così infantile.
“E dai, Andrew! Solo perché devi andare all’Università non vuol dire che debba fare il serioso tutto il tempo.”
“Laura Hevans – scosse il capo lui con rassegnazione, dopo essersi liberato dalla stretta – a seconda di come ti comporti a volte mi chiedo ancora perché tu sia in classe con me e non in terza elementare.”
“Credi che starei ancora bene con le trecce?” scherzò lei prendendosi i capelli con due mani e facendosi due code improvvisate.
“Sembreresti sempre un folletto con quei cappelli rossi e quelle lentiggini.”
“Spiritoso, davvero spiritoso… e comunque preferisco efelidi, è più carino.”
“Lentiggini, efelidi che differenza fa – scrollò le spalle lui – non cambi se uso un termine o l’altro, amica mia. E non sai quanto la cosa mi renda felice: se un giorno mettessi il broncio o diventassi triste sarebbe davvero un lutto per me.”
“Allora mi assicurerò di essere sempre allegra, tranquillo. Forza e coraggio, Andrew, che il nostro ultimo anno da studenti abbia inizio!”
 
“Ecco! Li vorrei proprio come quella ragazza!”
Ellie afferrò Annabell per la spalla ed indicò i giovani che stavano procedendo dall’altra parte del cortile, assieme agli altri studenti degli ultimi anni.
“Che cosa vorresti?” chiese l’altra perplessa.
“I capelli! Guardali: sono mossi e le cadono sulla schiena in maniera meravigliosa. Darei qualsiasi cosa per poterli tenere sciolti in quel modo.”
“Vogliamo provare?” chiese con malizia la biondina, prendendo una delle folte treccie di Ellie.
“No! Non scioglierla che poi è un disastro rifarla – si impanicò lei – e poi mi hai visto come sono a capelli sciolti… a volte sarei tentata di tagliarli, ma tanto so bene che anche corti non farebbero altro che stare dritti.”
“E dimmi, li vorresti rossi come lei? Però penso che dovresti pagare un grosso prezzo in lentiggini.”
“Parlavo solo del tipo di capelli, non del loro colore… se proprio devo scegliere li vorrei biondi, come i tuoi. Quando li hai sciolti sembrano il grano nel momento più bello dell’anno, oppure il sole che risplende e…”
“Ci risiamo, ecco che rinizi con le tue follie poetiche – Annabell sospirò – insomma, scusami tanto, ma preferirei che fosse un ragazzo a farmi simili complimenti, non la mia miglior amica.”
“Mi stai disdegnando?” Ellie era profondamente contrariata.
“Ahah! Ellie Lyod sei proprio una stupida! – la prese in giro l’altra, abbracciandola – Come se non fossimo migliori amiche da sempre! Non potrei mai disdegnare i tuoi continui romanticismi, lo sai bene. Capelli ribelli o no, credimi che sei una delle testoline più creative che abbia mai conosciuto.”
“Perché invece non confessi che stai solo cercando di guadagnarti una fetta di torta per merenda?”
“Beh, sbaglio o mi avevi promesso che per il primo giorno di scuola avresti fatto quella margherita che ti esce splendidamente?”
“Promessa mantenuta.” rise Ellie, restituendo l’abbraccio.
“Molto bene! Allora, Ellie Lyod, siamo pronte ad affrontare la nostra nuova vita da studentesse delle superiori?”
“Assolutamente, Annabell McKenzie – la ragazzina volse lo sguardo verso l’ingresso della scuola – che lo spettacolo abbia inizio!”





* tenete conto che l'età in cui si va a scuola non è regolamentata, dunque non deve sorprendere che Ellie abbia 12 anni e sia già in prima superiore. _________________________
nda.
Finalmente sono riuscita a trovare un titolo per lo spinoff, rendendo uno pseudo omaggio agli Dire Straits (walk of life).
Eccoci arrivate alle vicende di Andrew, Ellie, Laura e tutte le persone che girano loro attorno. Sono i personaggi di cui ho fatto più flashback nell'opera principale e sarà una vera sfida ricollegare tutto quanto. Ma allo stesso tempo è anche la storia che attendevo di più, perché dopo quello che ho creato, non vedevo l'ora di approfondire ulteriormente questi personaggi ^^
A questo giro non posso promettere disegni di Mary, considerato che è stra- impegnata con l'università. Se ne comparirà qualcuno sarà una bella sorpresa anche per me :)
Edit: eccolo invece un bellissimo disegno che comparirà ad inizio di ogni capitolo!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. 1879. Il principe ed il soldato. ***


Capitolo I

1879. Il principe ed il soldato.



Annabell aveva sempre definito Ellie un animo romantico ed era vero.
Altri, meno gentilmente, la definivano come una ragazza con la testa un po’ tra le nuvole e nemmeno loro cadevano troppo in errore.
Rispetto al resto delle sue coetanee, infatti, lei passava gran parte del suo tempo a fantasticare.
A volte rimaneva sdraiata nel suo letto, o su un prato, e sognava ad occhi aperti fino a quando qualcuno non veniva a chiamarla, immaginandosi mondi incantati dove vivere meravigliose avventure.
Amava scrivere, leggere, inventare storie: si innamorava di dettagli del mondo che la circondava che altri non avrebbero mai considerato.
Per esempio: quale delle sue compagne di classe sarebbe rimasta ore ed ore ad osservare i riflessi dell’acqua sullo stagno, immaginando che dietro quei giochi di luce ci fossero magici incantesimi fatti da miliardi di piccoli spiritelli dell’acqua? E ovviamente quegli spiritelli avevano una regina…
“… la saggia regina Ofelia vive nelle profondità dello stagno, in un castello così piccolo che nessun occhio umano potrebbe mai vederlo…”
“Oh, finiscila, Annabell! – arrossì Ellie, coprendo con le braccia il quaderno – Sei la solita indiscreta!”
“Un’altra delle tue storie fantastiche? Dovresti fare la scrittrice da grande, ma ti consiglio di tenere ben custoditi i tuoi quaderni: se li trova uno dei ragazzi è la tua fine.”
La bruna arrossì ancora di più nel constatare che la sua amica aveva ragione, ma non aveva resistito alla tentazione. In genere scatenava il suo estro il pomeriggio, dopo che aveva terminato di studiare, oppure dopo cena. Tuttavia quella storia la stava catturando così tanto che non aveva resistito alla tentazione e l’aveva portata a scuola per poterla continuare durante l’intervallo.
“Non sono così brava – scosse il capo, facendo scivolare sulla spalle una delle trecce – se leggessi qualche romanzo, oltre i libri di scuola, vedresti l’abisso di differenza.”
“Se ci fosse un tuo romanzo al negozio di libri lo comprerei di certo.”
“Annabell – dichiarò Ellie, chiudendo il quaderno – tu, se avessi soldi da spendere, in libreria non ci metteresti nemmeno piede. Andresti subito a comprarti fazzolettini ricamati, nastri, caramelle o chissà che altro. Ti conosco bene.”
“Per te farei un’eccezione – annuì l’altra senza troppa vergogna – Ma veniamo a problemi più seri: hai fatto gli esercizi di analisi logica?”
“Certamente.”
“Mi faresti dare un’occhiata? – supplicò, mettendosi addirittura a mani giunte – Dopo l’intervallo sono sicura che mi chiamerà alla lavagna e temo che diverse frasi siano sbagliate.”
“Va bene – sospirò Ellie, frugando sotto il banco per recuperare il quaderno – ma non ti garantisco che siano giusti.”
“Forse per matematica avrei qualche dubbio nel chiedere a te, ma per le materie letterarie sei la migliore. Grazie mille: ti prometto che domani porto un pacchetto di caramelle alla frutta e ce lo dividiamo durante l’intervallo.”
“Questo si chiama ragionare – sorrise lei – mi raccomando, quelle con lo zucchero sopra.”
“Affare fatto. Uh, la campana… meglio che mi dia una mossa!”
“Poi ripassami il quaderno, se il professore ci becca saranno guai.”
Fortunatamente i loro passaggi di compiti erano rapidi e forti di anni di esperienza: Annabell fu velocissima a controllare gli esercizi e fare le dovute correzioni ed il quaderno tornò nel banco di Ellie giusto cinque secondi prima che il professore facesse il suo ingresso in classe.
E dopo un quarto d’ora di lezione decise di interrogare e chiamò alla lavagna proprio la ragazza dai capelli color grano.
Ellie aveva sempre sostenuto che Annabell avesse il potere magico della preveggenza: ogni volta che sentiva di essere interrogata, puntualmente succedeva. Mentre la guardava correggere le frasi alla lavagna, la ragazza si immaginò che accanto alla sua amica ci fosse una sfera di cristallo, dove vorticavano miliardi di informazioni, parole magiche, stelle, nuvole.
Se avessi una sfera di cristallo per prima cosa scoprirei quando questo corpo si deciderà a crescere un minimo.
Già, era novembre e ancora non c’era stato un sensibile cambiamento nella sua persona. Vedeva che tutte le sue compagne in qualche modo stavano crescendo, mentre lei sembrava ancora una bambina di prima media: era vero che era la più giovane della classe, l’ultima che doveva compiere i tredici anni, ma la situazione le sembrava profondamente ingiusta.
Questo contribuiva a farla sentire in parte delusa da quelle decantate scuole superiori: le aveva aspettate tanto, come se fossero una soglia decisiva della sua vita, ma oggettivamente…
Ci troviamo solo in un’ala diversa dell’edificio scolastico ed i banchi sono leggermente più grandi. Per il resto ci sono solo materie in più e nuovi docenti a spiegarcele: mi sembra tutto uguale a quando siamo passati dalle scuole elementari alle medie.
Quanto al famoso guardarsi attorno… ad inizio anno era partita con i migliori propositi, pronta a dimostrare che almeno in quello era cresciuta, ma non era facile. Non era una cosa che funzionava a comando come si era illusa: purtroppo scrivere e fantasticare continuava ad essere molto più interessante, al contrario di quanto succedeva per le altre. Qualche volta Annabell cercava di coinvolgerla in qualche caccia segreta ai ragazzi di seconda e terza (i loro compagni erano quasi da escludere: li conoscevano sin dalle elementari e dunque non andavano bene), ma non ci aveva trovato niente di eccezionale.
Erano semplicemente ragazzi, tutto qui: durante l’intervallo giocavano a palla o a qualche altra cosa di esuberante, a volte litigavano. Ma non c’era nessuna grande magia in loro.
Era tutto estremamente normale.
Ma quella nuvola non è normale – pensò sbirciando fuori dalla finestra – ha la forma di un bellissimo cigno. Chissà, forse è un principe che, colpito da un maleficio, fugge alla ricerca di…
“Signorina Lyod!”
“Uh? Sì, professore?” esclamò, alzandosi in piedi di scatto, tanto che la sua penna cadde a terra e fu costretta a raccoglierla con aria lievemente imbarazzata.
“Torna tra di noi, Ellie: ti ho chiesto se andavi in quinta superiore a recuperare i compiti in classe; ho concesso loro, in accordo con il docente di storia, di continuare anche per mezz’ora dopo l’intervallo.”
“Vado subito, signore.”
Uscì dalla fila dei banchi e si diresse verso la porta, scambiando una lieve occhiata con Annabell che, dalla lavagna, la osservava divertita. Come mise una mano sulla maniglia, la voce del professore la richiamo.
“Ah, Ellie…”
“Sì?”
“Segui il corridoio di noi comuni mortali e non quello del regno delle fate: vorrei avere i compiti qui tra due minuti e non scoprire che qualche drago li ha rubati assieme a te.”
A quella battuta, che ovviamente aveva suscitato le risate divertite dei suoi compagni, Ellie arrossì come mai le era capitato e desiderò che una voragine si aprisse sotto di lei per ingoiarla.
“Non si preoccupi, professore.” si costrinse a dire.
Sei un orribile e crudele orco!
Perdersi nei corridoi, ma quando mai! Aveva anche la testa tra le nuvole, ma se le davano un incarico lei era sempre puntuale nell’eseguirlo. Queste prese in giro se le poteva risparmiare, dopotutto era un professore e si presumeva un minimo di maturità da parte sua. E come se non bastasse era il docente di lettere, la materia che adorava di più sin dalle elementari… eppure era una persona così orribile che a volte temeva di perdere tutto l’amore che nutriva per la parola scritta.
Arrivò davanti alla porta della classe di quinta superiore e lì tutta la sua irritazione svanì. Si concesse un attimo per respirare profondamente e recuperare la calma: era sempre imbarazzante avere a che fare con ragazzi così grandi che, magari, si chiedevano che ci facesse una così piccola nella loro classe.
Tirando il fiato e raddrizzando la schiena bussò.
“Scusate il disturbo – disse con voce educata, tenendo lo sguardo sul docente – mi manda il professore di lettere a recuperare i compiti in classe.”
“Certamente, Ellie  – annuì l’uomo – sentito ragazzi? Quelli delle ultime file passino il compito a quelli avanti e poi fila centrale e di sinistra li passino ad Andrew.”
Mentre sentiva un rumore di fogli accompagnato dal mormorio della classe, il professore le fece un cenno positivo.
“Ne approfitto per congratularmi con te, signorina: stavo iniziando a correggere le relazioni di storia di voi di prima e la tua è veramente eccellente.”
“La ringrazio, signore.” arrossì lei con un sorriso: in quella relazione ci aveva messo notevole impegno, standoci per ben tre giorni di fila. Sapere di aver fatto un buon lavoro era davvero gratificante.
Ecco, questo sì che è un vero professore.
“Ecco i compiti.” disse una voce vicino a lei.
Ellie si girò verso il ragazzo del primo banco, pronta a recuperare la risma di fogli e…
Aveva il sorriso più bello del mondo, così dolce e maturo, e si rifletteva nello sguardo limpido. Gli occhi erano castani, con delle meravigliose sfumature d’autunno che solo lei era capace di vedere, ed erano così gentili, capaci di farla sentire in paradiso. In tutta la sua vita Ellie non si era mai persa in uno sguardo come in quel momento: la sua sfrenata fantasia aveva appena stabilito che quello era sicuramente un principe. Certamente, solo un principe poteva avere degli occhi capaci di incantarla in quel modo.
Tutto questo le passò nella mente nell’arco di due secondi netti.
Riuscì ad allungare la mano per prendere quei fogli che adesso erano davvero speciali.
 “G…grazie.” riuscì a dire, sperando di non arrossire troppo.
Lui le rispose con un cenno del capo ed un lieve accentuarsi del suo sorriso.
E a quel punto Ellie dovette usare tutto il suo autocontrollo per salutare il professore ed uscire dalla classe senza voltarsi a riguardarlo.
Come chiuse la porta si posò contro la parete e trasse un profondo sospiro.
Non si sarebbe persa nel corridoio della fantasia, no di certo: quello che stava percorrendo per tornare in classe era fatto di nuvole.
 
“Finalmente è arrivato il grande giorno – esclamò Laura qualche ora dopo – tra nemmeno cinque ore Henry sarà qui, non sto più nella pelle! Persino quell’odioso compito di lettere mi è parso facile.”
“Udite, udite! – esclamò Andrew, mentre si avviavano verso casa – Sei sicura di non avere la febbre? E’ un’affermazione molto grave da parte tua.”
“Dispettoso!” lei gli fece una linguaccia.
“Se fossi dispettoso non ti presterei i miei appunti per ripassare, quindi piano con le accuse.”
“Vediamo se farai ancora lo sbruffone con il mio fratellone a difendermi. Gli dirò che per tutto questo tempo che non c’era tu sei stato presuntuoso e antipatico con la sottoscritta.”
“Ma quanto puoi essere infantile? – Andrew si unì alla risata dell’amica – Non capisco perché non sei in classe con quella ragazzina che è venuta a ritirare i compiti.”
“Mi fanno troppa tenerezza i piccoletti di prima superiore, questa poi sembrava delle medie. Hai visto come teneva lo sguardo basso e come è arrossita quando le hai rivolto la parola? Credono sempre che li dobbiamo mangiare o chissà che altro…”
“Siamo così spaventosi?”
“Mah, chissà. Allora, il treno arriva alle quattro: l’appuntamento è alle tre e mezza davanti a casa mia, va bene? Puntualità, mi raccomando.”
“Sono sempre puntuale, lo sai – Andrew iniziò a salire i gradini dell’ingresso di casa – Buon pranzo.”
“Anche a te!” salutò lei, proseguendo per la strada.
Aspettò che la ragazza girasse dalla strada principale prima di terminare i pochi gradini che portavano al portone di casa sua, una delle più importanti di tutto il paese con i semipilastri che circondavano i due pannelli di pregiato legno. La famiglia di suo padre era sempre stata agiata e questa casa era loro da quando era stata costruita, tre generazioni prima.
“Sono tornato.” salutò, entrando.
“Bentornato Andy – immediatamente sua madre comparve all’ingresso e gli andò incontro, dandogli un bacio sulla guancia – tutto bene a scuola?”
“Certo, mamma – sorrise lui, ricambiando il gesto – tutto bene come sempre.”
“Tuo padre ha detto che voleva parlarti. Io adesso vado a controllare la cuoca, il pranzo è quasi pronto.”
“Va bene, io vado nello studio di papà e poi salgo in camera.”
“Scendi tra venti minuti, mi raccomando.”
Annuendo il giovane oltrepassò l’ampio salotto e bussò alla porta di legno che divideva la casa dallo studio di suo padre. Attese di sentire “l’avanti” ed entrò.
Andrew sapeva che la sua casa era elegante, anche rispetto alle altre famiglie agiate del paese, ma riteneva che lo studio del padre fosse un ambiente maestoso ed in qualche modo distaccato dal resto delle stanze che risentivano del raffinato e delicato gusto materno. Sin da bambino quello studio aveva suscitato in lui una sola parola: imponenza. Era come se tutto il sapere giuridico di suo padre fosse espresso da quelle poltrone di velluto rosso davanti al camino, dalla grande scrivania di noce, dalle librerie che occupavano tutta una parete e che erano ricolme di grossi volumi, perfettamente allineati tra di loro.
Adesso che aveva sedici anni era ormai riuscito a venire a patti con quel posto, ma sino a poco tempo prima aveva sempre avuto un timore quasi reverenziale nell’entrare in quell’ambiente ovattato.
“Ciao papà.”
“Bentornato, Andy, tutto bene?”
“Tutto bene – annuì andando accanto al genitore, seduto alla grande scrivania – anche il compito di letteratura è filato liscio. Mamma ha detto che volevi vedermi.”
“Sì, figliolo – annuì il notaio Andrew Fury, alzando lo sguardo dai documenti che stava controllando. Si somigliavano molto, nonostante i capelli dell’uomo iniziassero ad ingrigire sulle tempie – volevo parlarti a proposito dell’Università di East City: è stata stabilita la data degli esami d’ammissione.”
“Davvero?” a quella rivelazione Andrew dovette trattenersi per non mostrare troppa apprensione.
“E’ arrivata stamattina – annuì il notaio, recuperando una lettera – assieme alle materie che dovranno essere presentate. Le date sono state anticipate a fine giugno: avrai quasi un mese in meno per preparati.”
Fu una dichiarazione fatta in tono neutrale, ma gli occhi castani dell’uomo fissarono con attenzione la reazione del suo unico figlio. Gli aveva dato il suo stesso nome, ma la strada che stava prendendo era completamente diversa dal futuro che aveva progettato per lui; ma nonostante tutto era pronto ad appoggiarlo in quella che era stata la sua decisione.
La notizia di avere un mese in meno di preparazione avrebbe gettato nel panico la maggior parte delle persone, del resto l’esame d’ammissione era veramente molto pesante e difficile.
Ma tutto quello che il ragazzo fece fu annuire con serietà e dire:
“Va bene, vorrà dire che studierò più intensamente nel periodo che ho a disposizione. Se posso avere la lettera, già da stasera cercherò di recuperare i testi che mi servono.”
“Se vuoi posso parlare con i tuoi docenti per consentirti di avere maggior tempo per la preparazione.”
“No – scosse il capo il giovane – non pretendo alcun favoritismo, papà. Voglio farcela con le mie forze: sono sicuro che se mi metto d’impegno non ci saranno problemi, fidati di me.”
“Mi fa piacere sentirtelo dire, sei proprio mio figlio.”
Andrew sorrise a quella dichiarazione: sì, decisamente lui e suo padre si assomigliavano molto di carattere, entrambi con quella determinata calma che contraddistingueva la sua famiglia da sempre.
“Però, per questo pomeriggio non voglio pensarci – dichiarò – torna Henry.”
“Ah, allora è oggi. Ne sono felice: invitalo a casa uno di questi giorni, sarò felice di rivederlo… e ovviamente porta anche la sua graziosa sorella.”
“Il grazioso folletto, vorrai dire.”.
A quella risposta suo padre gli lanciò un’occhiata curiosa, ma lui rispose con un sorriso: no, non c’era niente tra lui e Laura, se era questo che sospettava. Certo, gli Hevans erano una buona famiglia ed era sicuro che i suoi genitori avrebbero visto bene un eventuale fidanzamento con la ragazza.
Ma se Andrew aveva le idee chiare sulla sua futura carriera di ingegnere, sapeva altrettanto bene che non era Laura la ragazza destinata a stagli accanto in quel modo. Lei era l’amica, la sorella che avrebbe sempre protetto, ma non era quella che gli avrebbe fatto battere forte il cuore.
Solo quando fu salito in camera ed ebbe chiuso la porta alle sue spalle si arrischiò a guardare con attenzione il contenuto di quella lettera: molte materie se le era aspettate, ma altre erano una vera e propria sorpresa.
Fece un rapido calcolo del tempo che gli restava e capì che doveva mettersi sotto da subito: doveva sfruttare ogni momento libero persino a scuola.
“Andy, scendi per il pranzo.”
“Arrivo, mamma – annuì, ripiegando quei fogli – arrivo subito…”
Da domani… questo pomeriggio non voglio pensarci.
 
Alle quattro meno dieci i due sedicenni erano seduti sull’unica panchina che stava nella piccola stazione ferroviaria. Erano arrivati prima del previsto, in quanto Laura per l’ultimo tratto di strada aveva accelerato il passo fino a correre, non curandosi assolutamente di Andrew che le suggeriva di non andare così in fretta perché tanto il treno non sarebbe arrivato in anticipo per loro.
“Mancano ancora almeno cinque minuti, cerca di stare calma: il treno arriva.” disse proprio il giovane, sentendola sbuffare per la decima volta.
“Oh, Andrew, come puoi stare seduto così tranquillamente: è così tanto che manca da casa!” Laura si alzò di scatto e andò fino all’orlo della banchina per sbirciare lungo le rotaie. Non avendo visto niente in lontananza prese a camminare impazientemente in quei trenta metri di granito grigio che spuntavano come uno strano fiore in mezzo al verde della campagna
“Consumare la banchina non lo farà arrivare prima. Dai Laura, siediti accanto a me e calmati.”
Con uno sguardo rassegnato la ragazza eseguì l’ordine e si risedette, sistemandosi le pieghe della gonna.
“E così il mio destino è sempre aspettare dei treni…” mormorò dopo qualche secondo.
“Cioè?”
“Beh, andrai all’Università, no? Sarà come per Henry, dovrò sempre attendere che un treno vi riporti a casa, non lo trovo molto giusto.”
“Se verrò ammesso, è già stabilito che tornerò ogni due mesi. E lo sai bene e saranno solo tre anni: poi ho intenzione di tornare in paese. C’è bisogno di un ingegnere e sono tante le migliorie da fare a questo posto.”
“Lo so, ma questi tre anni saranno duri: anche Henry ripartirà e io sarò sola e abbandonata.”
“Ma finiscila, con tutte le amiche che hai. Ti porterò un regalo ogni volta che tornerò, va bene?”
“Così la cosa si fa interessante, Andy!”
“No, non chiamarmi così – arrossì lui – un conto è a casa, ma tu lo puoi ampiamente evitare. Andrew va benissimo e lo sai.”
Laura stava per stuzzicarlo ancora, ma proprio in quel momento un fischio in lontananza li avvisò che il treno stava arrivando. Con un sorriso la ragazza scattò in piedi, mentre la sua gonna si agitava per il vento.
“Eccolo! Eccolo! Ah, finalmente a casa!”
Anche Andrew si alzò, proprio mentre la locomotiva iniziava ad entrare nella loro visuale: dopo una ventina di secondi, con stanchi sbuffi, il treno entrò nella stazione. Ovviamente nel loro paese raramente arrivavano visitatori e dunque non si sorpresero quando, oltre al fattorino che consegnava al capostazione il sacco con la posta, l’unico a scendere dal treno fu un soldato.
“Sapevo che avrei trovato un folletto ad attendermi!” esclamò Henry, prima di essere investito da Laura che gli saltò letteralmente addosso. Senza alcuna difficoltà, dato che aveva lasciato cadere la sua sacca da militare a terra, la afferrò per la vita ed iniziò a farla volteggiare come una bambina, con lei che rideva deliziata.
“Fratellone, che gioia averti di nuovo qui!”
“Ah, follettino mio – rise Henry, mettendola a terra e dandole un bacio in fronte – fatti vedere: ma quanto sei cresciuta in sei mesi che non ti vedevo!”
“Dici? – arrossì lei, facendo una giravolta – ti piace la mia gonna? L’ho fatta io da sola!”
“Non avevo dubbi. Ma adesso lasciami salutare anche Andrew, altrimenti gli avrai fatto fare un viaggio inutile fino alla stazione. Come va, amico mio?”
“In forma come sempre – sorrise Andrew, stringendo con vigore la mano che gli veniva offerta. Ma passò solo qualche secondo prima che si scambiassero un abbraccio e una pacca sulle spalle – come te del resto.”
Ed era vero: Henry Hevans aveva quasi ventuno anni e sembrava nato per portare la divisa dell’esercito. La sua figura per quanto snella era ben piantata e sicura nei movimenti: aveva i capelli rossi leggermente più corti di quanto ricordasse, ma il carisma negli occhi grigi era sempre lo stesso.
“Andrew Fury, ma guardati – mormorò il caporale, squadrandolo con soddisfazione come se fosse una recluta di cui si è particolarmente orgogliosi – ho detto a Laura che è cresciuta tantissimo, ma anche tu non scherzi, vero?”
“Oh, ma lui è ormai un quasi universitario – si intromise Laura, prendendo per il braccio l’amico e fissandolo con aria maliziosa – quest’estate ha l’esame d’ammissione ad East City.”
“Davvero? Beh, allora ne avrete di cose da raccontarmi mentre torniamo in paese – Henry recuperò la sacca e se la mise in spalla, circondando poi con affetto la vita della sorella – prima di essere sequestrato da mamma e papà voglio sapere tutto da voi due.”
“Non siamo mica obbligati ad andare di corsa.” rise Laura, capendo il sottinteso.
Andrew sorrise nel vedere quell’affiatamento così forte. Era sempre stato così. Laura ed Henry: mai visti due fratelli così uniti, così pronti a capirsi e a sostenersi. A volte gli sembrava che a lui fosse stato concesso di essere ammesso in un circolo esclusivo.
Si completavano a vicenda: Henry era carismatico, protettivo, un vero leader ed era pazzo per la sua unica sorella, sin da quando erano piccoli. Forse era stato per quello che quando Laura aveva stretto amicizia con Andrew aveva voluto immediatamente conoscerlo: voleva essere sicuro che la sua sorellina frequentasse una persona giusta… e la conseguenza era che nell’arco di poco tempo si era formato quello strano terzetto che, fino a quando Henry aveva frequentato la scuola, era inseparabile.
Ma anche con separazioni di mesi o anni ogni volta che ci ritroviamo sembra che ci siamo lasciati da solo un giorno – pensò con soddisfazione Andrew – e questa è una di quelle cose destinate a durare per sempre, ne sono certo.
 
Il periodo più brutto che Laura aveva mai dovuto affrontare nella sua giovane vita era stato quando il fratello era partito per i due anni di Accademia. All’epoca lei aveva tredici anni e le era sembrato che la casa venisse privata di un elemento fondamentale, così come la sua stessa vita: non che fosse diventata all’improvviso triste o musona, ma non poter sentire la voce del fratello nella sua quotidianità era stato qualcosa di strano e destabilizzante. Le lettere tra di loro erano sempre state numerose, ma ovviamente la parola scritta non poteva compensare la risata sicura, gli occhi che la guardavano con affetto, le braccia forti che la sollevavano come un fuscello… non potevano compensare quel posto vuoto a tavola, proprio accanto a lei, il bacio della buonanotte, il modo con cui le ciocche dei suoi capelli veniva scherzosamente tirate.
Fu quindi naturale per lei sgusciare nella camera del fratello la sera tardi, quando finalmente i loro genitori erano andati a dormire.
“I piccoli folletti non sono a letto a quest’ora tarda?” chiese lui, intento a disfare il proprio bagaglio.
“Volevo stare da sola con te – ammise la ragazza con un lieve broncio, mentre si sedeva nel letto – prima eravamo con Andrew e poi mamma e papà non ti hanno lasciato un minuto. Tempo per noi due da soli proprio non ce n’è stato.”
“Abbiamo due mesi di tempo tutti per noi, sorellina. Non parto a tua insaputa, stai tranquilla.”
Il ragazzo sorrise e si sedette accanto a lei, circondandole le spalle con un braccio e inducendola a posarsi contro il suo petto. Laura accolse con piacere quel gesto e si raggomitolò contro di lui, cercando di farsi il più piccola possibile ad imitazione di quando era una bambina.
“E’ tutto diverso quando tu sei qui, perché non mi porti con te?”
“E dove ti nascondo, sotto il letto? Sciocchina, lo sai bene che io devo stare in caserma con il mio plotone.”
“E’ che mi manchi…”
Ed era vero: senza Henry si sentiva privata di un senso di protezione naturale. Era lui il membro della famiglia con cui aveva maggiore affiatamento: con i suoi genitori aveva un buon rapporto, ma aveva iniziato a capire che c’era una lieve differenza di considerazione. Le parole di lode che si sprecavano per Henry erano tantissime, ma sembrava che lei non fosse niente di eccezionale. E a dire il vero era la prima a pensarla in questo modo: era sempre vissuta all’ombra del suo fratellone, ma Henry invece di disdegnarla l’aveva sempre trattata come il più prezioso dei tesori, preferendo molto spesso la sua compagnia a quella degli altri ragazzi.
“Il nostro giovane Andrew non riesce a farti degna compagnia?”
La voce scherzosa di Henry la fece riscuotere ed alzò lo sguardo per incontrare il viso sorridente e malizioso.
“E’ Andrew, che altro c’è da dire? – sbuffò, facendo muovere una ciocca rossa che le era caduta in fronte – Il solito studioso, responsabile, maturo, Andrew Fury che come sempre si vergogna quando lo coinvolgo in qualche gioco o chissà che altro. E sì, prima che tu me lo chieda, si è preso cura di me come sempre quando non ci sei… anche se non capisco cosa ci sia da curare: scuola, passeggiate, chiacchiere, lo sai che qui le cose non cambiano mai.”
“Non sembri però delusa.”
“E’ la nostra realtà, tutto qui. Sai, non vedo l’ora che finisca quest’ultimo anno… finalmente metterò via quei noiosi libri e potrò dedicarmi ad ago e filo: entro l’estate voglio fare un vestito tutto da sola. Quando l’ho detto a mamma mi ha risposto di non esagerare con l’ambizione, ma sono sicura di farcela.”
“Non so se tra le abilità dei folletti rientri anche quella di cucire… quelli non erano i ragni?”
“Stupido! – rise lei, allontanandosi con finto sdegno e dandogli un colpo sul braccio – Mi dai del ragnetto, adesso? Ti faccio vedere io!”
“Ragazzina impudente – Henry la guardò con finta ferocia – vuoi davvero metterti contro di me? Guarda come ti imprigiono in meno di cinque secondi!”
Nonostante Laura fosse rapida nei movimenti, Henry aveva uno scatto molto più deciso e bastarono tre secondi perché la imprigionasse nella sua presa, rovesciandola sul letto tra le risate di entrambi.
“No, Henry! – supplicò lei – Il ribaltone no!”
“E invece sì! Uno… due… tre! E adesso, Laura Hevans? Come la mettiamo ora che sei ribaltata di schiena e alla mia mercé? Vediamo quali torture mi posso inventare…”
“Mi metto ad urlare, ti avviso!”
“Oh ma aspetta! – lui nemmeno la ascoltò, assumendo un’aria estremamente concentrata, come se non gli comportasse niente tenerla imprigionata sul letto – sei già in camicia da notte e scalza! E tu soffri il solletico ai piedi!”
“No! Scemo! No…Henry!” la ragazza cercò di dimenarsi come poteva, ma scoppiò a ridere non appena quella minaccia venne attuata.
“Uh uhhh, ma guarda come ti agiti, sorellina – sghignazzò il soldato – proprio non ci siamo e…”
“Ragazzi smettetela di fare tutto questo chiasso! – la voce della loro madre li fece bloccare – Perché non siete ancora a dormire? Laura, tu domani devi andare a scuola e dovresti ben sapere che tuo fratello è stanco per il viaggio! Di corsa a letto, chiaro?”
“Sì, mamma! – esclamò Henry, liberando la sorella dalla presa e facendola rialzare – L’ho chiamata io perché dovevo dirle una cosa.”
“Non ce n’era bisogno – mormorò la ragazza, sistemandosi la camicia da notte – posso sopravvivere ad una sgridata di mamma, lo sai.”
“Niente sgridate finché ci sono io, è una promessa – il giovane la prese tra le braccia e le depose un bacio sulla fronte – buonanotte, follettino. Ci vediamo domani a colazione.”
“Buonanotte.”
Laura aspettò che il fratello aprisse con discrezione la porta e sbirciasse al di fuori: ricevendo il segnale di via libera sgusciò nel corridoio buio e si affrettò a raggiungere la sua camera da letto. Solo una volta che la porta si chiuse silenziosamente alle sue spalle si sentì al sicuro e si concesse di sorridere furbescamente, in maniera assai simile a quella del fratello.
“Sono solo le undici e mezza, mamma – dichiarò buttandosi nel letto e guardando l’orologio appeso sopra una mensola – e come ha detto Henry, niente sgridate quando c’è lui. Adesso siamo di nuovo insieme per due mesi… e lui è tutto per me, chiaro?”
Lieta di quella piccola presa di posizione, come se sua madre fosse stata davanti a lei, si mise sotto le coperte e spense la luce.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. 1879. Dubbi. ***


Capitolo II

1879. Dubbi.

 

“Finalmente sono riuscito a tirarti fuori da casa per un giretto assieme: questa tua propensione monastica nel periodo in cui sono in paese proprio non va bene.”
Lo scappellotto che raggiunse la nuca di Andrew fu amichevole, ma considerato che Henry era parecchio più alto e robusto di lui fece comunque vacillare leggermente l’equilibrio del giovane. Tuttavia Andrew ritenne di meritarsi quella piccola punizione: ormai erano a fine gennaio ed il periodo di licenza del soldato stava per terminare, ma nonostante i buoni propositi le occasioni per vedersi erano state meno del previsto. Tutta colpa della preparazione per l’esame d’ammissione all’Università: da quando aveva preso coscienza della vastità del programma, il giovane Fury si era letteralmente buttato sui libri, dedicando ad essi ogni momento libero dalla scuola. A pensarci bene quell’improvvisata di Henry era stata più che benefica: ora che stava passeggiando con lui per un sentiero di campagna si rendeva conto che, almeno ogni tanto, era meglio prendersi qualche ora di pausa, pena l’uscirne matto con largo anticipo rispetto all’esame.
“Perdonami, Henry – sospirò – ma più vado avanti più mi rendo conto di quanto ho ancora da studiare.”
“Uh, che tono preoccupato – commentò il rosso, fissandolo con attenzione – ed anche la tua faccia non è delle migliori. A sedici anni non ti dovresti spremere così, Andrew, ti fa male.”
“Cercherò di dosare meglio le forze, lo prometto, ma non posso permettermi di sbagliare.”
Scosse il capo con ostinazione, una ciocca di capelli castani che per il vento continuava ad agitarsi sulla fronte, procurandogli un lieve prurito. Prima di iniziare a studiare non si era reso veramente conto di quanto fossero grandi le aspettative sulla sua persona, sia da parte dei suoi genitori, ma anche da parte di se stesso. Man mano che procedeva iniziava a capire quanto ambizioso fosse il suo traguardo e questo da una parte lo stimolava, ma dall’altra lo metteva in soggezione.
E’ come scalare una montagna senza sapere se una volta in cima pianterò la bandiera o cadrò rovinosamente a valle.
“Andrew, mi stai ascoltando? – la voce di Henry lo riscosse – Dannazione, ha proprio ragione Laura quando dice che stai completamente andando fuori di testa a furia di studiare.”
“Ho paura di fallire – ammise il sedicenne, riuscendo a dire quella fatidica frase che non aveva osato pronunciare davanti ad altri, specie i suoi genitori – tutti qui mi considerano un ottimo studente e io stesso penso di esserlo. Ma continuo a temere che questo non basti, che East City non sia un livello a cui posso aspirare.”
Si arrischiò a guardare l’amico, ansioso di conoscere la sua opinione ed in parte timoroso di deludere anche lui con tutti questi dubbi e paure che lo assillavano giorno dopo giorno.
Henry si mise a braccia conserte e lo fissò con aria stranita: erano in pieno gennaio e faceva parecchio freddo, nonostante non nevicasse più da due settimane, eppure lui aveva solo una leggera giacca sopra il maglione a collo alto.
“La possibilità di fallire c’è sempre, è inutile negarlo – dichiarò infine – l’unica cosa che ti posso dire è di metterci tutto te stesso, senza sminuirti. Ti capisco: anche io i primi giorni di Accademia mi sentivo leggermente spaesato per venire da un posto così piccolo ed isolato, è normale. Ma sai una cosa? Sono diventato caporale in pochissimo tempo, superando tutti i miei compagni di corso che venivano da posti molto più grandi di questo, persino dalle città.”
“Davvero? – Andrew lo fissò con ammirazione, come del resto aveva sempre fatto– Oh beh, ma tu sei eccezionale, Henry. Quando eri in Accademia io e Laura non facevamo altro che ripeterci che saresti stato il migliore del tuo corso e così è stato.”
“E cosa impedisce a te di essere eccezionale, Andrew? Certo, se venissi in Accademia sarei un po’ perplesso, dato che in tutti questi anni che siamo amici non ti ho mai visto propenso a grandi attività fisiche, ma diamine qui stiamo parlando dell’Università: sono cose che ti hanno sempre interessato e che hai scelto come tuo futuro mestiere. E so che in questo campo tu sei eccezionale e non avrai difficoltà a dimostrarlo. Del resto provieni da una famiglia che vanta almeno tre generazioni di universitari, no?”
“Anche questa è una bella responsabilità – sospirò Andrew, mettendosi le mani guantate dentro le tasche del cappotto – tre generazioni di notai e poi arrivo io con questo cambiamento. So che mio padre è lievemente deluso da questa scelta, anche se non mi ha mai detto niente… e questo mi fa sentire ancora di più la tensione addosso. Credo di dover dimostrare molto di più rispetto che se avessi scelto un percorso di giurisprudenza.”
“Ma smettila, conosco tuo padre e sono sicuro che simili pressioni non te ne ha mai fatte. I tuoi genitori sono persone fantastiche che sono sempre state estremamente fiere di te. Comunque vadano le cose tu non devi avere alcun rimpianto.”
“Wow… sei bravo ad accogliere i miei sfoghi – Andrew sorrise con imbarazzo dopo qualche secondo di silenzio – non avevo avuto ancora la forza di parlarne con nessuno, nemmeno con Laura. Ci volevi tu per farmi uscire fuori tutto questo.”
“Insomma, tu e mia sorella proprio non potete stare senza di me! – scherzò il ragazzo dai capelli rossi, scoppiando in una fragorosa risata – Sembrate due cuccioli scodinzolanti, lo ammetto.”
A quella dichiarazione Andrew si sentì leggermente offeso, ma era abbastanza accorto da rendersi conto dell’effettiva dipendenza che lui e Laura avevano nei confronti del soldato. Per Laura era ovvio, considerato che Henry era stato estremamente protettivo con lei sin dalla più tenera età. Ma anche lui era accecato dall’aura di carisma di quel ragazzo più grande. Ed essendo figlio unico era stato quasi naturale trovare in lui una sorta di fratello maggiore con cui potersi confrontare: nonostante avessero caratteri estremamente differenti, Henry Hevans aveva una notevole empatia che lo portava ad intuire sempre il suo stato d’animo, anche se cercava di nasconderlo dietro la solita aria composta e matura.
“Quest’anno, ad agosto, compio diciassette anni – si lamentò, comunque offeso nella sua dignità di studente anziano della scuola – dirmi che sono un cucciolo mi pare esagerato, non trovi?”
“Oh, suvvia, non volevo offenderti!” rise Henry, allungando una mano e arruffandogli i capelli castani proprio come ad un cucciolo, quasi a smentire quanto aveva appena detto.
“Piuttosto come mai non ti sei portato dietro Laura? – chiese Andrew mentre riprendevano a camminare – Credevo che fosse inseparabile da te ogni momento della giornata.”
“Domani c’è l’interrogazione di letteratura.”
“Ah già, è vero che io sono già stato interrogato la settimana scorsa. Oh beh, sono certo che nonostante tutto l’astio che c’è tra lei ed il professore riuscirà a portare a casa un voto decente. Anche perché le ho prestato i miei appunti, come sempre.”
“Faccio molto affidamento su di te, lo sai?”
“Laura non ha bisogno di essere protetta, è perfettamente a suo agio – Andrew scrollò le spalle, non capendo quale grande pericolo potesse mai esserci ad incombere su quella ragazza così vitale e caparbia – E poi non sono minimamente paragonabile a te. L’unica cosa che le manca è il suo fratellone, ma penso che non smetta di ripetertelo ogni giorno.”
“Già, sente la mia mancanza – rifletté il rosso – ma non ci posso fare niente, le regole dell’esercito sono molto severe e non è sempre possibile tornare in paese con regolarità. Certo che se trovasse qualcuno…”
Gli occhi grigi lanciarono una rapida occhiata ad Andrew, ma anche se recepì quello sguardo carico di sottintesi, il giovane studente fece finta di niente.
“Henry! – un richiamo interruppe quel momento e subito i due si girarono dietro – Andy!”
“A proposito del vostro essere inseparabili…” ridacchiò Andrew, mentre Laura li raggiungeva con il fiatone e si buttava tra le braccia del fratello. Poi, con un sorriso malizioso, la giovane si girò verso di lui e gli tirò una ciocca castana.
“Non stavi preparando, e ti cito testualmente, la peggiore interrogazione della tua vita?” chiese Henry con indulgenza.
“Oh, ho fatto tutto quello che potevo – dichiarò lei, mettendosi tra i due e prendendoli a braccetto per incitarli a camminare – e poi con gli appunti di Andy…”
“Andrew, quante volte te lo devo dire?”
“… di Andy – rimarcò imperterrita lei – tutto è molto più facile. E quindi mi è rimasto il tempo per raggiungervi nella vostra passeggiata. Di stare a casa proprio non mi andava, anche perché la mamma mi avrebbe mandato a fare un sacco di commissioni per la cena di stasera, probabilmente avrebbe preteso anche che l’aiutassi a cucinare, anche se sa che detesto farlo.”
“Oh dai, il tuo tentativo di biscotti non era andato così male.” commentò Andrew, riferendosi a qualche mese prima quando aveva sfidato la ragazza a preparare da sola qualcosa e di portarla a scuola.
“Perché avevo grattato via la parte bruciata con un coltello – ammise lei, per niente sconfortata da questa piccola sconfitta culinaria – meno male che tu avevi portato quella splendida torta fatta da Elena: non c’è niente da fare, la vostra cuoca è eccezionale.”
“Veramente quella torta l’ha fatta mia madre – specificò Andrew – anzi, a proposito, se domani volete entrambi venire a casa per merenda, sono sicuro che ai miei farà veramente piacere.”
“Più che volentieri!” esclamò immediatamente Laura.
 
“La situazione lungo la maggior parte dei confini è stabile ormai da un anno, ecco perché il mio plotone ha avuto una licenza così estesa. Grazie mille, signora – Henry sorrise ad Anna, quando la donna gli porse la tazzina di caffè – Ma sappiamo come vanno queste cose: basta un niente e qualcosa si scatenerà di nuovo; sono solo trattati temporanei, come sempre.”
“Niente di nuovo, dunque – il signor Fury scrollò le spalle e girò il cucchiaino nella sua tazza – ma dati i precedenti, credo che si prospetti un periodo relativamente tranquillo. E’ sempre un piacere avere qui il nostro valoroso soldato: il fatto che tu ti stia facendo onore nell’esercito è motivo di grande orgoglio per tutti noi.”
“Conto di diventare sergente nell’arco del prossimo anno e mezza – una sfumatura di compiacimento accompagnò quella dichiarazione di Henry – i miei superiori mi hanno già segnalato diverse volte per i miei meriti.”
“Beh, non c’è da stupirsi. Il mio fratellone è il miglior soldato che ci sia in tutta Amestris, ne sono certa.” Laura sorrise con orgoglio, mentre con la piccola forchetta tagliava un pezzetto della sua fetta di torta.
Andrew, seduto vicino a lei nel piccolo divano, al contrario degli altri che stavano su delle poltrone, annuì con convinzione a quella dichiarazione e poi trattenne una risata nel vedere con quanto appetito la sua amica gustava il dolce.
“Però il paese non ha solo me di cui andare fiero, sono sicuro che molto presto avrà anche un ingegnere di cui vantarsi.”
Quelle parole fecero riscuotere il giovane Fury che si girò a guardare Henry con sorpresa. Non si sarebbe aspettato che il suo amico tirasse fuori l’argomento davanti ai suoi genitori, specie dopo la conversazione del giorno prima in cui aveva espresso tutti i suoi dubbi e le sue ansie. Subito si sentì incredibilmente a disagio, ma cercò di tenere la solita aria tranquilla, affrontando con un lieve sorriso l’occhiata orgogliosa dei suoi cari.
“Sta studiando moltissimo per l’esame – annuì Anna – fino a notte fonda. Sono felice che fra oggi e ieri si sia finalmente concesso qualche ora di pausa.”
“Oh, mamma, ti ho già detto che non devi preoccuparti: sto dosando le mie forze con cura.”
“E’ un ragazzo davvero diligente – il notaio rimarcò quanto detto dalla donna – sono veramente fiero della maturità e determinazione che sta dimostrando.”
“Consideratelo già alla prestigiosa Università di East City – Laura sorrise e gli afferrò la mano, stringendola con affetto – da lui non mi aspetto niente di meno.”
“Ah, a quanto vedo hai il pieno sostegno della nostra graziosa Laura – suo padre annuì soddisfatto – e credimi che questo vale molto, figliolo.”
“Lo so, papà – Andrew si girò a guardare l’amica che lo fissava con i suoi vivaci occhi grigi – il nostro piccolo follettino mi è di grande aiuto. Però… non è molto brava a cucinare e deve sempre grattare via il bruciato dai suoi dolci: un sostegno culinario non…”
“Andrew Fury! – Laura gli afferrò la manica della camicia iniziando a scuoterlo – Come ti permetti di raccontare i miei tentativi culinari?”
“E’ quel retrogusto di amarognolo…” continuò lui, lieto di aver sviato il discorso, dato che sua madre stava ridacchiando assieme ad Henry ed anche suo padre aveva un sorriso bonario sul volto.
“La prossima volta te li lancio in testa i biscotti!”
Fortunatamente il suo intento di cambiare argomento ebbe successo e la conversazione proseguì tranquillamente fino a quando i due ospiti si congedarono. Andrew uscì assieme a loro e gli accompagnò per qualche metro di strada.
“Hai avuto davvero un ottimo tempismo a sviare il discorso – Henry gli diede una piccola pacca sulle spalle – come stratega avresti successo nell’esercito.”
“Eh? Di che state parlando?” Laura si girò a guardarli con aria incuriosita.
“Niente, sorellina, cose tra di noi: ti conviene andare avanti e portare quella torta a casa.”
“Va bene! – sorrise lei con entusiasmo, consolidando la presa sul prezioso pacco che la signora Fury le aveva consegnato a fine serata – Così la sistemo già su un vassoio per il dopo cena. Buona serata, Andrew!”
“Ciao, Laura, ci vediamo domani per andare a scuola.”
Come la fanciulla si fu allontanata abbastanza, Henry tornò a fissare l’amico con malizia.
“Perché hai voluto dire quelle cose davanti ai miei genitori? – sospirò Andrew – Eppure ti avevo confidato come mi sento.”
“Non mi dire che sei arrabbiato.”
“No, non lo sono, però…”
“Era giusto per farti capire come i tuoi genitori, e anche noi, siamo fieri di te già da adesso, ragazzino. Non potresti mai essere una delusione, Andrew, perché ti ostini a non capirlo?”
“Lo so che siete già fieri di me – il sedicenne sorrise con lieve imbarazzo, nonostante tutto lieto di quelle parole – è che… proprio per questo voglio… oh, beh, lascia stare.”
“Mi correggo, saresti un vero disastro come stratega.” ridacchiò il rosso, arruffandogli i capelli.
 
“Questa torta è davvero eccezionale!” commentò Laura, finendo di mangiare la sua fetta.
“Perché non ti cimenti e provi a farla pure tu? – suggerì Susanna Hevans, posando il suo piattino sul tavolo – Basterebbe mettersi d’impegno.”
“Sono brava a cucire, non a cucinare.”
“Quando ti sposerai non pretenderai che tuo marito mangi stoffa e bottoni, spero.”
 “Mamma, ho sedici anni! – sospirò la ragazza – Il matrimonio è molto, molto, molto lontano, sempre che mi sposi. Per ora voglio solo diventare una sarta e preparare i più bei vestiti del paese.”
“Laura!”
“Ti farò convocare dall’esercito per ridisegnare le divise, allora.” scherzò Henry, strizzando l’occhio in direzione della sorella che ridacchiò.
“Non è per niente divertente – scosse il capo la donna – gli Hevans sono sempre stati una famiglia rispettabile: è più che ovvio che tua sorella debba fare un bel matrimonio. Se vorrai cimentarti nell’arte del cucito, benvenga, tuttavia non mi pare il caso di farne una vera e propria attività.”
“Perché no? E’ la cosa che so fare meglio – alzò le spalle lei – e comunque in cucina me la so cavare il minimo indispensabile, vorrei specificarlo: sono i dolci che non mi escono molto bene.”
“Beh, direi che con quest’ultima dichiarazione possiamo considerare chiusa questa cena – dichiarò Elias, bloccando sul nascere la risposta della moglie – la torta era ottima, spero che abbiate ringraziato come si deve il notaio e la sua famiglia.”
“Certamente, papà – annuì Henry – sono stati molto gentili con noi, come sempre.”
“Ho saputo che il ragazzo sta studiando sodo per l’ammissione all’Università.”
“E’ molto determinato e sono certo che ce la farà: credo che sia l’unico del vostro anno a voler proseguire gli studi, vero Laura?”
“Già – annuì la ragazza – siamo diciotto in classe, ma lui è l’unico. E’ anche vero che l’Università è un impegno economico che non tutti si possono permettere.”
“Non mi pare il caso di parlare di determinate cose a tavola.”
“E che c’è di sconveniente, mamma? – Henry scrollò le spalle, versandosi un bicchiere d’acqua – L’Università non è uno scherzo a livello economico, senza contare che chi arriva dai paesi deve anche affrontare la spesa dell’alloggio. E’ più che normale che non tutti se la possano permettere. L’Accademia Militare invece prevede solo selezioni durante i due anni per essere sicuri di avere sempre un buon ricambio di soldati.”
“Adesso non vorrai sminuire il tuo percorso  - scosse il capo Elias – dovresti essere sempre fiero della divisa che indossi.”
“E lo sono, papà, non fraintendermi, Facevo solo alcune considerazioni sul sistema in generale.”
“In ogni caso sono sicura che Andrew si farà onore.” Laura si girò verso Henry e lo fissò con aspettativa, sapendo bene che i loro genitori non potevano capire fino in fondo il valore del loro amico.
“Hai proprio ragione, sorellina. Su di questo non dobbiamo avere dubbi.”
 
Passò una settimana da quella giornata ed arrivò l’inizio di febbraio con la fine della licenza di Henry.
Come sempre ad accompagnarlo alla stazione furono Andrew e Laura: era un rituale iniziato quando ancora frequentava l’Accademia Militare e che, con gli anni, si era consolidato tanto che tutti e tre lo davano per scontato. E, come sempre, mentre per gli arrivi Laura sfoggiava un passo svelto, arrivando addirittura a correre, per le partenze teneva sempre un’andatura lenta e funerea.
Andrew la fissava con preoccupazione, ben sapendo che per i giorni successivi sarebbe stata particolarmente triste e propensa alle lacrime. Non era mai facile per lei affrontare nuovi mesi di separazione, senza sapere quando sarebbe stata la prossima licenza.
“Bene, eccoci qua – Henry posò la sacca da militare a terra e si girò verso i due amici – oh, dai, che sono quelle facce? Perché ogni volta devono esserci simili bronci? Mi riferisco a te, follettino… e dai, fammi un sorriso.”
Ma le sue parole invece che suscitare il sorriso provocarono le prime lacrime nella fanciulla che, dopo qualche secondo, si strinse a lui singhiozzando disperatamente. Con un sospiro il soldato la abbracciò, accarezzandole i capelli rossi e cercando di consolarla.
“Andiamo, Lauretta, ti scrivo prestissimo, promesso – mormorò – e appena sarà possibile torno a casa. Vedrai che l’attesa non sarà tanta ed il tempo passerà più velocemente di quanto creda.”
“Non è vero – pianse lei, senza nemmeno guardarlo – è una bugia…”
“Oh, sorellina – sospirò ancora il giovane, girandosi verso la ferrovia non appena sentì il fischio della locomotiva in lontananza – Dai, un sorriso: è tutto quello che ti chiedo… coraggio.”
A quella richiesta la ragazza alzò il viso su di lui e, asciugandosi le lacrime con il palmo della mano, fece un coraggioso e tremante sorriso. Anche se il risultato venne leggermente disturbato dal tirare su col naso.
“Molto bene – annuì il soldato con un ultimo abbraccio e baciandola sulle guance. Poi si avvicinò ad Andrew e gli strinse la mano – La prossima volta che ci vediamo devi essere un universitario, siamo intesi?”
“Va bene, Henry – annuì solennemente il giovane – ti prometto che farò del mio meglio.”
“Bravo, ragazzo… e prenditi cura del mio follettino.”
“Come sempre.”
“Grazie, so di poter contare su di te.”
Forse avrebbe aggiunto anche qualcos’altro, ma proprio in quel momento il treno si fermò davanti alla stazione e, sapendo bene che la sosta era di pochi minuti, Henry si affrettò a raggiungerlo. Salì con disinvoltura i gradini del vagone e poi si girò a guardare i due sedicenni, con Andrew che si era già accostato a Laura e le aveva cinto le spalle con un braccio in un gesto di conforto.
“Alla prossima, ragazzi. Comportatevi bene!” esclamò, accennando con la mano il saluto militare.
“A presto, fratellone!” salutò Laura, mentre Andrew si limitò a rispondere a quel gesto.
E, come tutte le altre volte, i due rimasero a guardare il treno che si allontanava, fino a sparire completamente dal loro campo visivo. Ancora una volta i giorni trascorsi con Henry sembravano pochi e brevissimi, mentre i mesi d’attesa che si presentavano davanti a loro apparivano più lunghi che mai.
“Dai, Laura – Andrew prese dalla tasca un fazzoletto e lo porse alla ragazza – va tutto bene, coraggio. E’ come le altre volte, lo sai: ti scriverà presto e prima che tu te ne renda conto sarà di nuovo qui. E poi ci sono io a farti compagnia…”
“Oh, ma se sei sempre chino sui libri – sbottò lei, asciugandosi le lacrime – lascia stare che è meglio.”
“Suvvia – sorrise con indulgenza, abituato a quegli sfoghi appena dopo la partenza – come potrei fare senza il tuo prezioso sostegno? Sul serio, follettino, come potrei?”
“Prometti che in questi pomeriggi vieni a trovarmi a casa? O che usciamo a fare delle passeggiate? – un broncio supplichevole apparve sui bei lineamenti della rossa – Lo so che devi studiare, ma proprio non ce la faccio a stare da sola dopo che lui è andato via e…”
“Promesso, sciocchina. Non c’era nemmeno bisogno di chiedere. Forza, non è il caso di restare in questa stazione: vieni a casa che chiedo ad Elena di preparati la cioccolata calda con cannella che ti piace tanto.”
Laura riuscì a sorridere a quelle parole e, con un rapido saluto al capostazione che oramai li conosceva bene, i due si avviarono per tornare in paese.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. 1879. Non proprio come una favola. ***


Capitolo III

1879. Non proprio come una favola.

 
 
“Tieniti forte, fanciullina: ci facciamo una bella galoppata fino al fiume.”
Con un’esclamazione deliziata Ellie consolidò la sua presa sulla criniera del cavallo e fece giusto in tempo a sentire il braccio del padre che la cingeva più forte prima che l’andatura aumentasse sensibilmente.
Immediatamente la campagna attorno a lei si trasformò in un turbinio di suoni, odori e colori che la travolgeva in maniera inebriante, facendole sentire scariche di energia in ogni fibra del suo essere. Ma nonostante le sembrasse di essere un uccello lanciato a velocità incredibile sul mondo, restava la sicura presa paterna a tenerla dolcemente ancorata alla realtà.
Nicholas Lyod continuò ad incitare il suo purosangue bianco al galoppo attraverso i vasti campi che facevano parte della sua proprietà. Quando arrivò vicino alla staccionata che delimitava il confine dell’ultima coltivazione fece girare con destrezza l’animale per condurlo al piccolo varco poco distante: erano ormai in prossimità del grande fiume e solo una striscia di prato incolto larga una ventina di metri separava i campi dall’acqua.
Una volta giunti su quella distesa di erba fresca, l’uomo scese da cavallo e poi tese le mani per far scivolare giù anche la figlia. Non appena i suoi piedi toccarono terra, la ragazzina iniziò a ridere e correre gioiosamente sull’erba, sfogando l’adrenalina e l’eccitazione della cavalcata. Solo dopo qualche minuto si accostò al padre che, nel frattempo, si era comodamente seduto per terra.
“Oh, papà! – esclamò abbracciandolo – E’ stata la più bella cavalcata del mondo!”
“Ahah – rise lui, circondandole la vita con affetto – come potevo rinunciare a passare qualche ora con la mia fanciullina il giorno del suo compleanno? Ovviamente è meglio non dire a tua madre che ci siamo fatti una bella galoppata, no?”
“Ovviamente, papà – annuì Ellie con fare complice, accoccolandosi a lui – siamo sempre e solo andati al passo con Blanco.”
Era bello avere quei piccoli segreti, la faceva sentire estremamente vicina al suo adorato genitore: dato che le grandi proprietà distavano parecchio dal paese, non capitava spesso che suo padre le permettesse di accompagnarlo durante le sue visite e quando succedeva era sempre per occasioni speciali. Ellie si era sentita al settimo cielo quando quella mattina, a colazione, le aveva detto di mettersi un abito comodo e prepararsi per una bella gita: sapeva benissimo cosa voleva dire. Ed il rituale era stato rispettato: passeggiando mano nella mano erano andati fino ad un podere poco lontano dal paese, dove stava la stalla del purosangue di suo padre, Blanco. E da lì era iniziata una meravigliosa cavalcata per i campi, con Ellie che si era sentita come una principessa che il suo meraviglioso principe porta in groppa al suo destriero.
“Ma guardati – Nicholas le prese il mento e la fissò con affetto – tredici anni, non mi sembra vero. Quanto cresci in fretta, principessina.”
“Davvero mi trovi cresciuta?”
“Certamente, mi sembra ieri che gattonavi per casa, cercando di sollevarti in piedi.”
A quelle parole, tipicamente genitoriali, Ellie sorrise. Era ovvio che per suo padre non contavano molto i cambiamenti fisici anche perché, sotto quel punto di vista, non c’era proprio niente di cresciuto. Per quanto avesse cercato di essere razionale, una piccolissima parte di lei aveva sperato che, per magia, il suo corpo decidesse di farle un regalo di compleanno decente, ma non era andata così.
Tuttavia quello era un giorno speciale e la ragazzina non aveva minimamente intenzione di rovinarlo con questi pensieri: era tutto iniziato splendidamente con quella cavalcata assieme a suo padre e quel pomeriggio era prevista una grande festa a casa, con tutti i suoi compagni di classe. E, fatto incredibile, sua madre le aveva consentito di preparare da sola diversi dolci per la festa: e sapendo quanto Agnes Lyod fosse gelosa della sua cucina, era un evento più che straordinario.
“Papà, posso usare i quaderni che mi hai regalato già da stasera?” chiese lei, riferendosi ai bellissimi quaderni con la copertina rigida che aveva trovato sul tavolo per la colazione, legati da un bel nastro rosso. Li aveva sempre visti nella cartoleria di paese ed aveva sempre bramato di poterci scrivere sopra le sue storie, sicura che su quella carta, così diversa dall’ordinario materiale scolastico, i suoi personaggi avrebbero preso vita.
“Non vedo perché no, Ellie: sono o non sono il tuo regalo di compleanno? Tanto sono sicuro che la mia piccola scrittrice in erba ne farà ottimo uso.”
“Credi che da grande potrei diventarlo?” i suoi occhi scuri, eredità paterna, si alzarono con ansia sull’uomo, desiderosi di ricevere conferme su quella piccola grande ambizione.
“Non ho mai letto niente di tuo…”
“… oh, ma è perché mi vergogno…” arrossì lei.
“… ma considerato quanto scrivi e con quanta passione lo fai, direi che ci sono buone possibilità che lo diventi, Ellie.”
“E ne saresti felice?”
“Se tu lo sarai, allora andrà benissimo anche per me. Del resto per la mia fanciullina voglio solo il meglio. Tremo all’idea che un giorno un bel giovanotto ti porterà via da me…”
“Oh, ma papà! – rise lei, abbracciandolo con affetto – sei tu l’uomo della mia vita. Nessuno mai potrebbe prendere il tuo posto, promesso.”
 
Così come gli adulti ogni tanto dicono delle piccole bugie a fin di bene per compiacere i propri figli, così Ellie aveva fatto con quelle ultime parole, prima che la loro gita terminasse e tornassero a casa in tempo per il pranzo.
A dire la verità la ragazzina aveva qualcuno in mente e la mattina successiva, a scuola, come iniziò l’intervallo corse in cortile speranzosa di vederlo anche quel giorno. Facendo finta di camminare in cerca di un posto dove consumare la sua merenda e ignorando il richiamo di alcune sue amiche, si sedette nel muretto poco distante da un gruppetto di alberi. Sapeva di trovarsi nella parte della scuola dove in genere stavano i ragazzi delle ultime classi e la cosa la intimoriva non poco: aveva sempre paura che qualcuno le dicesse di tornare con quelli della sua età o la prendesse di mira. Tuttavia sembrava che quegli studenti così grandi non fossero minimamente interessati a lei. Così, con discrezione, iniziò a svolgere il fazzoletto che conteneva il pane bianco con marmellata, mentre i suoi occhi scuri sbirciavano alla ricerca di…
Oh eccolo!
Si dimenticò persino di masticare mentre lo osservava avanzare verso il gruppetto di alberi, rispondendo ogni tanto a qualche battuta dei compagni. Anche quel giorno aveva un libro sottobraccio e sembrava intenzionato a passare l’intervallo immerso nella lettura.
Il meraviglioso ragazzo dei libri, Ellie l’aveva ribattezzato così da quando, iniziata finalmente la bella stagione, l’aveva visto ogni giorno in cortile intento a studiare.
Perché da quella inguaribile romantica che era, Ellie Lyod non si era mai dimenticata di quel loro primo incontro più di sei mesi prima, di quel sorriso meraviglioso che l’aveva fatta sentire su un letto di nuvole.
Come poteva anche solo pensare a qualche altro ragazzo come facevano le sue amiche? Lei era perdutamente innamorata di lui, dell’unico figlio del notaio del paese, di Andrew Fury… alla faccia dei quattro anni di differenza che li separavano e che, alle scuole superiori, volevano dire veramente tanto.
Ma come potrei dimenticarmi di lui?
Era così bello con la schiena posata contro il tronco dell’albero, la testa castana china su quei libri. In lui c’era una concentrazione tale che la ragazzina aveva quasi paura di disturbalo con il respiro, nonostante fossero a diversi metri di distanza l’uno dall’altra e nel cortile ci fosse un chiasso ben più forte.
Sbirciando con curiosità lesse il titolo del libro a cui si stava dedicando quel giorno: un grosso volume di fisica, a conferma che gli interessavano le materie scientifiche. Ecco, forse sulle materie preferite non avevano molto in comune, ma questo non voleva dire niente.
Non devo guardarlo troppo – rifletté, abbassando lo sguardo sul suo panino e mandando giù il boccone – se si accorge che lo sto spiando si potrebbe offendere e restare in classe. Non vorrei che…
“Attenta!”
Ellie fece appena in tempo a recepire quel richiamo ed alzare lo sguardo che una pallonata la colpì in pieno viso. Questo bastò a farle perdere l’equilibrio su quel muretto e a farla cadere rovinosamente a terra. Il tutto era successo nell’arco di così pochi secondi che non aveva avuto nemmeno il tempo di urlare e di capire cosa stava accadendo. Semplicemente si ritrovò a quattro zampe sul terriccio, con le ginocchia ed i palmi delle mani tutti sbucciati per la caduta, ed un forte dolore alla testa, senza contare un disastroso pasticcio di pane bianco e marmellata che le copriva la parte inferiore del viso.
“Scusa tanto, non volevo.” disse qualcuno.
“Accidenti hai proprio fatto centro, Bob.”
“Si sarà fatta molto male? Credete che sia il caso di chiamare i professori?”
Capendo di essere al centro dell’attenzione, Ellie cercò di trattenere le prime lacrime che stavano per uscire considerato il dolore e l’umiliazione che stava provando. Voleva solo che una voragine si aprisse sul terreno e la ingoiasse seduta stante. Ma sembrava che le cose fossero destinate a peggiorare, perché…
“Ti sei fatta molto male? – quella voce le aveva parlato una sola volta in vita sua, ma era inconfondibile – Ce la fai ad alzarti?”
Delle dita fresche e gentili le sfiorarono la parte della testa colpita ed immediatamente venne presa per la vita ed aiutata a sollevarsi. E lei piangeva… piangeva come una fontana, facendo la figura della completa idiota proprio davanti a lui. Le lacrime erano tali da appannarle completamente la vista, tanto che non riusciva a distinguerlo.
Perché!? Perché mi devi vedere proprio in questo momento?
“Che cosa succede?” una nuova voce, questa volta femminile.
“Una pallonata in faccia ed è caduta… non sembra niente di grave. Laura, ce l’hai un fazzoletto? Ha il ginocchio che sanguina.”
“Dovrei averlo in tasca. Accidenti che lacrimoni! Su su, signorina, non è successo niente: con questi occhioni che ti ritrovi è un vero peccato piangere. Comunque è meglio riaccompagnarla dai suoi insegnanti.”
“Hai ragione: forza, piccolina, andiamo.”
Piccolina? Ho tredici anni! Tredici! Li ho appena compiuti… possibile che tu non lo capisca?
Ma mentre la sua mente protestava, tutto il resto della sua persona continuava a singhiozzare come una poppante, tanto che si dovette passare un  braccio sul viso per riuscire in parte a vedere dove stavano andando. Sapeva solo che lui aveva smesso di toccarla: la mano che stava posata sulla sua spalla, incitandola a camminare, era quella dell’altra ragazza.
Entrarono nell’edificio e proseguirono per i corridoi, fino ad incontrare un’insegnante.
“E’ successo un piccolo incidente in cortile – spiegò Andrew – una pallonata l’ha colpita ed è caduta.”
“Oh, cielo! – questa era la voce della sua insegnante di scienze – Tesoro, che disastro. Vieni, andiamo in bagno a pulire queste sbucciature e a controllare la testa. Grazie, ragazzi, siete stati molto gentili.”
“Di niente, professoressa – disse Laura – allora mi raccomando, signorina, cerca di riprenderti.”
“Tranquilla, piccolina, vedrai che non è niente di grave: solo un po’ di dolore ed un brutto spavento.”
“Sentito che gentili, cara? Non dovresti ringraziarli?”
“G… gra… grazie!” balbettò lei, asciugandosi gli occhi con la mano sporca di terra e ottenendo così un vero e proprio pasticcio. Non osò guardarlo in faccia, non voleva vedere la pietà nei suoi bellissimi occhi castani: rimase a testa bassa mentre sentiva i due che si allontanavano, facendo commenti sulla pericolosità del giocare a pallone troppo vicino agli altri studenti.
“Suvvia, cara – la consolò la professoressa, mentre la prendeva per mano ed andavano verso i bagni – non è il caso di piangere in questo modo.”
“Sì che lo è!” singhiozzò lei.
Aveva appena fatto la figura della completa idiota proprio davanti al ragazzo che amava.
 
“Hai bisogno d’aiuto per camminare?”
“No, mamma, va meglio – sospirò Ellie, mentre uscivano dallo studio del medico – voglio solo tornare a casa e sdraiarmi di nuovo.”
“Certo, cara: passiamo in farmacia per comprare il necessario per gli impacchi e poi torniamo.”
Il risultato di quella pallonata era stato un notevole gonfiore in tutta la parte destra del viso; Ellie ancora si chiedeva chi fosse il pazzo che aveva osato lanciarla con una forza simile: era sicura che ancora un po’ le avrebbe staccato la testa.
Il dottore per fortuna aveva detto che non era niente di grave e che l’occhio, nonostante fosse pesto, non aveva subito nessun danno degno di nota. Però per i prossimi giorni doveva stare a letto ed evitare di leggere e scrivere: una cosa che avrebbe fatto saltare di gioia qualsiasi studente, ma non Ellie.
Ma del resto sono di un umore così pessimo che non riuscirei a buttare giù parola…
La figuraccia con Andrew ancora le bruciava dentro l’anima. Si chiedeva con che faccia tosta poteva tornare a scuola e riprendere a fare merenda a pochi metri da lui. Sicuramente l’aveva già etichettata come la piccola scema della pallonata in faccia e…
“Ehilà, signorina, come stai?”
Alzando lo sguardo vide una ragazza coi capelli rossi che si avvicinava a lei e a sua madre. Si ricordava vagamente di lei: più volte aveva detto ad Annabell di invidiare i suoi capelli mossi e morbidi. Ma ad attirare la sua attenzione fu la voce.
Oh, ma certo! E’ lei che mi ha aiutato assieme ad Andrew.
Già, perché tra lacrime e sguardo basso non aveva fatto proprio caso all’aspetto fisico della seconda persona che l’aveva soccorsa quella stessa mattina.
“Uh… – arrossì – sto… sto bene, grazie.”
“Buon pomeriggio, signora – salutò ancora la giovane, rivolgendosi ad Agnes – sono Laura Hevans: stamattina ho aiutato sua figlia dopo il piccolo incidente che ha avuto.”
“Davvero? Che gentile! Ellie, non me l’avevi detto.”
“Oh, non ci siamo presentate considerata tutta la confusione… era troppo impegnata a lacrimare. Uh, ma che gonfiore: la pallonata è stata più forte del previsto.”
“Sì, ma per fortuna il medico ha detto che con qualche impacco e qualche giorno a letto passerà tutto – rassicuro Agnes con un sorriso – adesso andiamo in farmacia a compare il necessario.”
“Molto bene. Io stavo giusto andando da Andrew, l’altro ragazzo che ti ha soccorso: sarà felice di sapere che in un paio di giorni ti rimetterai in sesto.”
“Allora non mancare di ringraziare pure lui.”
“Ma certo, signora. Arrivederci… ciao, piccola Ellie.”
Ma la ragazzina riuscì a malapena a fare un cenno a quel saluto che le era stato rivolto. La sua mente si era bloccata nel momento in cui Laura aveva detto che stava andando a casa di Andrew.
Che… che rapporto ha con lui per andare a casa sua?
La guardò allontanarsi, così alta, bella, prosperosa… all’improvviso il confronto impietoso le cadde addosso come un macigno, facendole dimenticare completamente il dolore al viso.
“Uh, tesoro, sei così pallida – la voce di sua madre veniva da molto lontano – coraggio: andiamo in farmacia e poi potrai riposare.”
Riposare? Come posso farlo in un tragico momento come questo!
 
“Vediamo se fai due più due come me – Laura si sedette nel letto di Andrew e lo guardò con aria furba – ti ricordi dove l’hai già vista?”
Andrew alzò lo sguardo dal quaderno che gli aveva appena riportato l’amica e le dedicò tutta la sua attenzione. Era stato felice di sapere che quella ragazzina non si era fatta troppo male: da come piangeva sembrava che si fosse procurata le peggiori ferite di questo mondo.
“E’ uno dei tuoi giochetti, Laura?” chiese con pazienza, lieto di potersi concedere una mezz’oretta di pausa dagli studi.
“No, no… se pensi bene a lei ti renderai conto che l’hai già vista.” lei aveva lo sguardo malizioso: succedeva ogni volta che capiva qualcosa prima del suo amico.
“E’ figlia di qualche cliente di mio padre?”
“Errore! Ritenta, sarai più fortunato… comunque ho riconosciuto sua madre: è la moglie di Nicholas Lyod, sai il grande proprietario terriero.”
“Ah sì, ce l’ho presente.”
“Ma non è di questo che parlavo. Lei l’hai già vista e ci hai anche parlato… forza, spremi le tue preziose meningi per qualcosa che non sia l’esame.”
“Ti prego di ricordarmi l’occasione allora – sospirò rassegnato Andrew, davanti a quella lieve presa in giro dell’amica – sei tremenda a volte, te ne rendi conto?”
“Se vuoi ti dico anche la frase con cui avete esordito.”
“Avanti, sentiamo pure.”
Ecco i compiti… oppure una variante, ora non ricordo bene.”
A quella frase Andrew inclinò la testa di lato ed assunse un’espressione concentrata, come se stesse scavando nei cassetti più reconditi della sua memoria.
“Coraggio, ci sei vicino – lo stuzzicò Laura – ti voglio dare un secondo indizio: lo stesso giorno è arrivato Henry.”
A quel dettaglio Andrew collegò i pezzi del rompicapo.
“Ah, certo! La ragazzina che è venuta a prendere i compiti in classe! E’ vero, dovevo ricordarmi di quelle grosse trecce nere: erano un indizio abbastanza evidente.”
“Lo vedi? Stai decisamente studiando troppo! E’ indice che ti serve una pausa più sostanziosa.”
Laura disse quella frase con aria di chi la sa lunga, come se fosse un grande luminare che dà la sua opinione su un difficilissimo caso clinico. Era un’espressione così buffa che Andrew non poté far a meno di scoppiare a ridere.
“Mi hai convinto, diabolico folletto – le porse una mano per incitarla ad alzarsi – scommetto che sarai più che contenta di farmi compagnia a merenda. Specie se c’è la torta alla crema.”
“Questo si chiama parlare! Andiamo pure in cucina!”
La foga della ragazza era tale che lo precedette fuori dalla porta.
Con un sorriso indulgente, Andrew lanciò un’ultima occhiata ai libri.
Ma sì, per questo pomeriggio posso prendermi una pausa più sostanziosa.
“Ah, Laura – chiamò, rendendosi conto di un dettaglio – non mi hai ancora detto come si chiama la ragazzina.”
“Ah, già – esclamò lei, fermandosi al primo scalino che portava al piano di sotto – si chiama Ellie Lyod. E chi arriva ultimo si prende la fetta di torta più piccola!”
“Tanto so già che la tua sarà la più grande: non te la contendo! – rise Andrew, iniziando a raggiungerla. Poi quasi inaspettatamente si trovò a pronunciare quel nome – Ellie… eh?”
 
“Ellie, tesoro, sei sicura di non volere anche una fetta di torta?”
“No, mamma, mi basta così. Voglio solo stare sola.”
“Va bene, cara: cerca di riposare.”
Come sua madre fu uscita con il vassoio della cena ormai vuoto, Ellie smise la facciata di tranquillità e si ributtò sui cuscini in preda alla disperazione.
“A casa sua… quella è andata a casa del mio Andrew!”
Avrebbe dovuto pensarci: era ovvio che un bellissimo principe come lui facesse gola a tante altre ragazze. E Laura Hevans era bella, oh se lo era: a guardarla da vicino tutto era perfetto in lei, persino le lentiggini sul naso.
E poi ha un corpo bellissimo… ha un seno fantastico!
Dannazione, come si era potuta illudere in questo modo? Come aveva potuto pensare che Andrew Fury fosse sua esclusiva solo perché lo spiava ogni volta che poteva durante l’intervallo? Senza contare che ora che si era finalmente accorto di lei era andato tutto in maniera sbagliata.
Tragicamente sbagliata.
La cosa migliore da fare era convincere i suoi genitori a trasferirsi in un paese straniero, cambiare nome ed identità e riniziare tutto daccapo. Certo, era la soluzione migliore e…
“Oh, andiamo! – si mise a sedere di botto, tanto che ebbe un lieve capogiro – Ellie Lyod, non è da te arrenderti in questo modo! Ma certo! I grandi eroi non hanno mai vita facile ed è solo lottando che conquistano il loro grande amore!”
“Ellie, tesoro – la voce di sua madre la fece sussultare – hai chiamato?”
“Che? Oh no, mamma! Va tutto bene, mi sto mettendo a dormire… buonanotte!”
“Notte, tesoro: se hai bisogno chiama.”
“Certo!”
Aspettò qualche secondo, giusto per essere sicura che sua madre non comparisse in camera.
“Hai capito bene, Laura Hevans? – sibilò, mettendosi sotto le coperte – Andrew è solo mio!”

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. 1879. Sull'altalena dei sentimenti. ***


Capitolo IV

1879. Sull'altalena dei sentimenti

 


“E’ naturale che sia ancora livido, ma ti assicuro che è sgonfio.”
“Sei sicura? – Ellie fissò con aria supplichevole Annabell mentre camminavano per andare a scuola – E’ già abbastanza deprimente tornare a scuola con questa macchia giallognola in faccia. Se fosse anche gonfia proprio non ce la farei.”
“Fidati di me. Del resto sono passati tre giorni e gli impacchi hanno fatto effetto.”
“E già…”
Ellie sospirò e cercò di riportare alla mente tutti i motivi per cui era bello tornare a scuola. Tuttavia era un patetico tentativo: con quel livido tutti gli occhi sarebbero stati su di lei e se la cosa era tollerabile per i suoi compagni, non lo sarebbe stata di certo per gli altri studenti. Giù durante quella passeggiata aveva notato diversi sguardi nei suoi confronti: certamente l’episodio della pallonata e del suo poco dignitoso pianto erano ancora sulla bocca di tutti.
Senza contare che dopo quell’incidente non si poteva avvicinare ad Andrew con la disinvoltura di prima: adesso la conosceva fin troppo bene e si sarebbe reso conto in poco tempo del suo posizionamento strategico durante l’intervallo.
Ma forse è meglio che non mi veda fino a quando questo maledetto livido non sarà andato via. E’ stato già abbastanza brutto fare quella figura da poppante, figuriamoci sfoggiare davanti a lui questa…
“Buongiorno, signorina! – esclamò una nota voce, facendola sobbalzare – E così torni a scuola.”
Ellie ed Annabell si fermarono nella strada, con la prima che si irrigidiva: era proprio una mattinata sfortunata se iniziava con quell’incontro. Si costrinse a girarsi giusto in tempo perché Laura ed Andrew le raggiungessero.
Sono sempre insieme!
Quel pensiero disperato fece serrare le mani della ragazzina sulla sua tracolla. Era chiaro che tra i due c’era una relazione veramente forte: un maschio e una femmina di sedici anni non fanno la strada assieme se non per un preciso motivo, era risaputo.
“Eh sì…” si costrinse a dire, arrossendo suo malgrado davanti a quegli studenti più grandi. Divenne addirittura paonazza quando la mano di Laura le accarezzò una delle trecce.
“Come ti senti?” la voce di Andrew ebbe invece il potere di farle mancare il respiro: era così calma e posata, rassicurante. E poi si stava preoccupando per lei.
“Bene! – esclamò, alzando di colpo il viso ed incontrando il suo sguardo – Insomma non è stato niente di particolare e… e poi anche se c’è il livido non è più gonfio. Sai, mia madre mi ha fatto gli impacchi di arnica e…”
Cielo, Ellie, controllati! – ansimò impanicata nella sua mente – o ti prende per matta
“Ma che hai?” le sussurrò Annabell.
“Oh, ma stai tranquilla – ridacchiò Laura – Andrew mica morde.”
E con disinvoltura allungò una mano per arruffare i capelli castani dell’amico, un gesto che fece irrigidire in maniera estrema la ragazzina.
Non osare toccarlo!
“E dai, Laura – si liberò lui – non è il caso. Comunque sono felice che tu ti stia riprendendo bene: piangevi così tanto qualche giorno fa che mi stavo quasi preoccupando che ti fossi fatta male in maniera molto più grave.”
“Ma no! E’ che… io… io…”
“Oh, è sempre stata un po’ piagnona.” ridacchiò Annabell.
“Non si era notato – rise Laura – beh, è un piacere vedere che stai meglio, signorina. Ma ti consiglio di tenerti lontano dai ragazzi che giocano a palla durante l’intervallo. Adesso dobbiamo proprio andare: abbiamo un compito in classe alla prima ora… adesso che manca un mese alla fine della scuola gli insegnati tirano la cinghia. Buona giornata!”
“Ciao!” salutò con disinvoltura Annabell.
“Ciao – mormorò Ellie, ma poi, proprio quando i due si stavano avviando si fece coraggio, spinta da chissà quale impulso e aggiunse – io… Andrew, grazie ancora per l’aiuto!”
Lui si girò e le sorrise.
“Figurati, piccola Ellie.”
E a quel punto la ragazzina sprofondò in un mare di nuvole.
Piccola Ellie… sa il mio nome!
Persino quel piccola non aveva nessuna importanza.
Per tutto il resto della mattinata non riuscì a perdere quell’aria sognante: le ore di lezione passarono senza che lei nemmeno se ne accorgesse e a malapena rispose alle domande dei compagni e degli insegnanti che le chiedevano notizie sulle sue condizioni.
Considerando quest’atteggiamento fu più che prevedibile che, mentre stavano tornando a casa, Annabell capisse quello che stava succedendo. Tuttavia la sua reazione non fu delle più incoraggianti.
“Non avevamo fatto un discorso a proposito del pensare ai ragazzi solo fino alla terza superiore?” chiese all’improvviso, fissandola con arrabbiati occhi azzurri.
Solo a quel punto Ellie si riscosse, capendo di essere stata colta in castagna.
“Non… non capisco che cosa tu voglia dire.” rispose comunque, cercando di sviare il discorso.
“E’ me lo chiedi? Diamine, Ellie, quello deve compiere diciassette anni! Finisce le superiori tra poco più di un mese, te ne rendi conto? Come ti può saltare in mente di prenderti una cotta per lui?”
“Io… io – la bruna non seppe cosa rispondere – non l’ho scelto io, ma lui è arrivato nella mia vita come un principe meraviglioso e…”
“Ti ha solo raccolto dopo che quella pallonata ti ha abbattuto come una pera cotta.”
“Non è vero! Io ci pensavo già da prima e…”
Da prima? Ellie Lyod, mi vergogno di te! Siamo migliori amiche dalle elementari e non me ne hai fatto parola! Grazie tante, davvero!”
“Oh no, Annabell! – Ellie raggiunse l’amica che aveva accelerato il passo e continuava a guardare imperterrita davanti a se – Non è stata colpa tua, lo giuro! E’ che… come potevo dirtelo? Non pensavo nemmeno che prima o poi mi rivolgesse la parola. E… oh, Annabell, non trovi siano meravigliosi i suoi occhi?”
“Sono occhi castani, tutto qui. Ma lo sai che deve andare all’Università?” Annabell dopo qualche secondo si degnò di rivolgerle di nuovo la parola.
“L’avevo sentito.” annuì Ellie, lieta che la sua amica avesse ripreso a parlarle dopo quel momento di stizza. Ora che lei sapeva poteva darle qualche consiglio utile, del resto avevano sempre fatto così.
“Ellie, non so se ne sei informata, ma l’Università comporta di stare tre anni almeno ad East City – la bionda si fermò e le mise le mani sulle spalle, come a dare maggiore enfasi alle sue parole – tre anni. Mio padre è cliente di suo padre e mi ha detto che a fine giugno partirà per dare l’esame d’ammissione. E poi a settembre partirà per East City… tre anni! E’ una dannata eternità, capisci?”
“Tre anni…” mormorò Ellie che, pur sapendo che Andrew doveva andare all’Università, non si era mai fermata a pensare a questo dettaglio.
“E poi, non per essere cattiva, ma… insomma guardati…”
“Che vorresti dire?”
“Che sei… sei piccola per uno come lui! Non hai visto come ti guardava? Il massimo che potrai ottenere, se continui ad insistere, sarà venir considerata una sorellina minore.”
“Smettila!” scosse il capo lei, rifiutandosi di cedere all’evidenza del suo corpo.
“Stupida, cerco di levarti il prosciutto dagli occhi, non lo capisci? – sospirò Annabell – Voglio evitare che tu soffra per una cosa che non ha senso! E poi non hai visto quella ragazza? Mi pare chiaro che tra loro…”
“Annabell McKenzie, non dire una parola di più! – Ellie si scostò dalla bionda, delle lacrime che colavano sulle guance – I ragazzi di seconda, terza, quarta non mi interessano! Non mi interessa nessuno che non sia lui! Si potrebbe presentare davanti a me anche il più bel ragazzo del mondo, così fantastico che nemmeno i principi delle favole non possono reggere il suo confronto! Ma io sceglierò sempre e solo Andrew Fury, mi hai capito bene? A prescindere – ora singhiozzava – … a prescindere da quell’altra! E se… se tu sei così cattiva da voler distruggere così il mio sogno d’amore…”
“… ma quale sogno…”
“Allora tanto vale che non ne parliamo più! E tanti saluti! Siamo sempre amiche, ma… ma non mettere più il naso tra me ed Andrew!” in preda alla rabbia urlò quell’ultima frase, ignorando completamente tutti gli altri ragazzi che stavano percorrendo la medesima strada.
Si sentiva umiliata e offesa: invece di ricevere sostegno da parte dell’unica persona che forse poteva aiutarla, si doveva sentire tutte quelle cattiverie sul lasciar stare, sul fatto che con Andrew non ci fosse nessuna speranza. Vedere Annabell che continuava a fissarla con rassegnata irritazione, la testa bionda che si scuoteva in segno di diniego, le fece perdere anche quel poco di pazienza che le era rimasta.
Cercando di controllare le lacrime che colavano senza parere sulle guance corse verso casa.
 
Annabell ed Ellie non si rivolsero quasi la parola per tutte le settimane che mancavano alla fine della scuola.
Non facevano più la strada assieme e, durante l’intervallo, Ellie preferiva restare in classe da sola, mentre la bionda usciva in cortile con le altre ragazze. Per la classe era strano vedere le due amiche ai ferri corti: erano sempre state unite sin da piccole e non avevano mai avuto litigi che non si fossero risolti nell’arco di qualche giorno.
Ma se Annabell poteva essere disposta ad accettare un dialogo, ad aprire una prima trattativa verso la riappacificazione, Ellie non era dello stesso avviso. Le era stato toccato qualcosa di troppo prezioso per poter disseppellire l’ascia di guerra così facilmente. Andrew Fury era per lei una persona più importante di tutti i suoi quaderni di racconti: era un sogno che si era cullata gelosamente per tutti quei mesi, senza confidarsi con nessun’altra che la sua immaginazione. E quando qualche volta si era provata a convincere che, effettivamente, non c’erano i presupposti perché lui potesse accorgersi di lei, aveva sempre scosso con forza la testa ed era tornata ad affondare nelle sue fantasticherie.
E così fece in quelle calde giornate di maggio che, ben presto, cedettero il posto ai primi dieci giorni di giugno, alla fine della scuola… l’ultimo giorno per gli studenti di quinta superiore.
E fu quasi per magia che si ritrovò allineata con il resto della sua classe nel cortile della scuola, ascoltando il preside che faceva un discorso di commiato e augurava loro buone vacanze.
“… e a tutti voi di quinta, spero che la vita vi possa dare solo gioie e soddisfazioni. E che questi anni passati tra i banchi di scuola vi abbiano regalato elementi utili per la vostra crescita.”
Fu solo con l’applauso che ne seguì, al quale lei partecipò passivamente, che Ellie si accorse che era tutto finito, che adesso lui non era più uno studente delle superiori… che a settembre non sarebbe tornato a scuola e che, se tutto andava secondo i piani, sarebbe stato ad East City per tre anni di Università.
Le fila dei ragazzi si sciolsero e in tutto il cortile iniziarono a sentirsi risate e grida di giubilo per le vacanze ufficialmente iniziate: già diversi studenti si erano avviati verso l’uscita, mentre altri si attardavano per scambiare i saluti con i compagni di classe… una cosa un po’ paradossale considerato che, con tutta probabilità, non sarebbero mancate occasioni per vedersi durante l’estate.
Ma Ellie ignorò chiunque la chiamasse per salutarla e iniziò a cercare con frenesia nel punto dove c’erano stati i ragazzi di quinta. Ma ormai tutti gli studenti erano mischiati tra di loro ed era quasi impossibile trovare chi cercava in mezzo ad oltre centocinquanta ragazzi.
Ti prego… ti prego! – ansimò, facendosi largo tra la ressa – Dimmi che non sei già andato via… dimmi che non… non… Andrew dove sei?
Con uno sforzo riuscì a raggiungere l’ingresso del cortile, certa che sarebbe dovuto passare di lì, sempre che non fosse andato via in quei primi momenti di confusione. Si posò contro il muretto, per evitare di dare fastidio a chi usciva, ed iniziò a tormentarsi con ansia l’orlo del grembiule bianco che indossava sopra il semplice e leggero vestito azzurro. Grida, risate, corse… tutto era confuso, tutto sembrava remare contro di lei, quasi si fossero messi d’accordo per non farglielo vedere almeno un’ultima volta prima della sua partenza.
“Ehi, signorina, aspetti qualcuno?”
Laura deviò dall’uscita e si avvicinò a lei con un malizioso sorriso. Ed era così bella in quella giornata di giugno, come se il sole avesse deciso di baciare solo lei ed i suoi capelli rossi: quella camicetta verde chiaro le stava divinamente ed evidenziava ancora di più le sue forme quasi adulte.
Oh no! – pensò Ellie, in preda alla disperazione – perché proprio tu?
“No, nessuno – scosse il capo con timidezza – solo… riposavo un poco.”
Che scusa patetica! Avrebbe potuto dire che voleva aspettare un unicorno fatato e sarebbe stata più credibile. Ma che altro poteva fare? E, beffa che si aggiungeva al danno, per una volta tanto Andrew non era assieme a lei… proprio quando invece avrebbe voluto che ci fosse per poterlo salutare.
“Chissà, magari ci rivedremo in giro – sorrise la rossa, accarezzandole con tenerezza una ciocca di capelli che le cadeva ribelle sulla fronte – sai, ho intenzione di diventare sarta: magari preparerò qualche bell’abitino anche per te: così farai colpo su qualche bel giovanotto alla festa del primo dicembre.”
“Chissà…”
“Continua a studiare, mi raccomando – la salutò – sono ancora quattro anni, ma passeranno più in fretta di quanto tu creda, fidati. Adesso devo andare, ciao piccola Ellie.”
“Aspetta! – la ragazzina trovò la forza di richiamarla quando ormai aveva già fatto diversi metri fuori dal cortile. La raggiunse di corsa e cercando di controllare il tremito alla voce chiese – Come mai non… non c’è Andrew con te?”
“Volevi salutarlo? – sorrise l’altra volgendo lo sguardo verso il paese – Mi dispiace, ma è andato via appena il preside ha finito di parlare: doveva andare a casa a preparare la documentazione necessaria per l’esame di ammissione all’Università. A quanto pare ci sono scadenze ben precise e…”
Mentre Laura continuava a parlare di plichi da spedire per posta entro un determinato giorno, Ellie sentì la tristezza sommergere tutta la sua piccola persona: aveva perso l’occasione per poterlo salutare, per potergli augurare buona fortuna… perché nonostante andare all’Università voleva dire stare lontano per ben tre anni, lei voleva che Andrew potesse realizzare i suoi desideri ed i suoi sogni.
Però avrei voluto…
“Capisco…” si limitò a dire.
“Come lo vedo in questi giorni prima che parta per l’esame lo saluterò anche per te – la rassicurò Laura – buone vacanze, piccola Ellie.”
 
Ignaro che una tredicenne stava trattenendo le lacrime per colpa sua, Andrew controllava per l’ennesima volta che la documentazione necessaria fosse tutta in ordine. Annuendo si decise ad infilare tutto nella grossa busta dove già era scritto l’indirizzo dell’Università di East City: quel pomeriggio stesso avrebbe provveduto a portarla all’ufficio postale.
“Posso entrare, Andy?” Anna bussò discretamente alla porta.
“Certo, mamma.”
La donna entrò con un sorriso e senza dire parola lo abbracciò e lo baciò su entrambe le guance.
“Uh – arrossì lievemente lui, accorgendosi che ormai le arrivava al mento, e doveva ancora compiere diciassette anni – che succede?”
“Sciocchino – ridacchiò la madre – sei così impegnato per l’Università che non ti sei nemmeno reso conto che oggi hai terminato le scuole superiori. Volevo semplicemente farti gli auguri, Andy, così come te li ho fatti a fine di ogni anno scolastico.”
Il giovane si sentì veramente sciocco per essere stato colto in fallo così facilmente, ma poi si unì alla madre in quella risata, in fondo liberatoria. Era stato uno stupido a non godere nemmeno un momento di quello che alla fine era un nuovo traguardo raggiunto.
“Stasera o domani posso invitare Laura per una merenda di festeggiamento?” chiese, volendo rimediare a quel piccolo errore.
“Ma certo, tesoro – annuì la madre, sicuramente lieta di vederlo concedersi finalmente un momento di assoluta tranquillità – sarò più che felice di preparare assieme ad Elena qualcosa di speciale.”
E così, il pomeriggio successivo, una Laura raggiante si presentò a casa Fury per prendere parte a quella piccola merenda in onore della fine delle scuole superiori. Dopo aver brindato e festeggiato con i genitori di Andrew, i due ragazzi vennero lasciati soli a fare onore ai resti del cibo.
“Un brindisi a noi due, Andy – commentò Laura con un sorriso, versando il fondo della caraffa di succo di frutta sui bicchieri di entrambi – alla fine della tortura in quei banchi. E alla fine della persecuzione del professore di lettere!”
“Non aspettavi altro, vero? – rise Andrew, perdonando alla sua amica persino il nomignolo – E così Laura Hevans fu finalmente libera dalle catene dei libri.”
“Già, tutto sarebbe perfetto se qui ci fosse anche Henry – ammise lei, scrollando le spalle con indifferenza in parte falsa – ma pare che prima di settembre non tornerà. Mi è arrivata una lettera proprio ieri.”
“Anche a me.”
“Uh, e da quando scrive pure a te?”
“Da quando è ripartito… insomma, dubito che lo faccia con la stessa frequenza che ha con te. Credo che voglia farmi sentire la sua vicinanza per l’approssimarsi dell’esame di ammissione. Del resto sappiamo che tuo fratello pensa sempre a tutto, no?”
“Già, proprio a tutto! – sbuffò la ragazza – Mi ha detto di comportarmi bene nei giorni in cui tu non ci sarai, come se combinassi chissà quale guaio!”
“Ti conosce bene, allora, follettino!” la prese in giro Andrew, tirandole una ciocca di capelli rossi.
“Sbruffoni, sia tu che lui! Hmpf! Vedrete che fidanzato perfetto che mi troverò, alla faccia vostra! Chissà, magari lo incontro proprio nei giorni in cui sarai via.”
“No, non lo farai – Andrew la guardò con maliziosa sfida – perché tu vuoi altro rispetto a quelli che ti corrono dietro con gli occhi. Altrimenti avresti già ballato con qualcuno alla festa del primo dicembre, è chiaro, no?”
“Andy sei solo un sedicenne, che ne vorrai sapere?”
“Stupida: compio diciassette anni ad agosto, e tu li hai compiuti nemmeno tre settimane fa… che cosa ti fa presumere di essere più matura di me?”
“Le femmine maturano prima dei maschi, non lo sapevi?”
“Allora tu sei una eccezione bella e buona!” esclamò, prima che l’amica gli si scagliasse addosso, cercando di colpirlo. Nell’arco di pochi secondi erano semisdraiati sul divano, con Andrew per metà sopra di lei: i loro petti erano a contatto tra di loro, entrambi consapevoli che quello di Laura era notevolmente cresciuto.
Si guardarono per qualche secondo, le loro mani ancora intrecciate per quella breve ed intensa lotta, i visi a pochi centimetri l’uno dall’altro.
“Ti potrei anche sfidare a darmi un bacio – mormorò Andrew – ne avresti il coraggio?”
“E tu ce l’avresti? – ribatté Laura per niente impaurita – Ne hai il coraggio, quasi universitario?”
“Mi stai sfidando?”
“Sì, ti sfido, Andrew Fury.”
“Fallo tu, sono io che ti ho sfidato per prima.”
“No, fallo tu!”
Si guardarono con serietà per qualche secondo e poi scoppiarono a ridere in simultanea, la sfida che finiva così come era iniziata. Andrew si rimise in posizione seduta e aiutò l’amica a risollevarsi. Non ci furono momenti imbarazzanti di silenzio, come se entrambi fossero perfettamente consapevoli di quello che provavano l’uno per l’altra.
“Allora, quasi universitario – Laura, allungò una mano per prendere uno stuzzichino che ancora stava nel vassoio – parliamo di argomenti seri: come si svolge l’esame?”
 “Si articola in diverse fasi – spiegò, Andrew, imitandola ma scegliendo con cura il gusto del suo stuzzichino – tieni conto che l’Università ha più corsi e dunque è necessario che le prove siano diversificate. Le verifiche che dovrò fare io sono quattro: la prima è di nozioni generali e quella è uguale per tutti gli studenti che si vogliono iscrivere, a prescindere dall’indirizzo che scelgono.”
“Sei sempre stato bravo in tutte le materie, non credo avrai problemi per domande di letteratura, storia o geografia.” Laura annuì con convinzione, tanto che si dovette tirare indietro una ciocca di capelli che le era scivolata sulla fronte.
“Poi – proseguì il ragazzo, ignorando quel complimento e rigirandosi il bocconcino tra le dita come se fosse un oggetto da studiare – iniziano le prove specifiche: nel mio caso c’è un esame che prevede problemi di matematica, geometria piana e trigonometria, e poi un altro dedicato alla fisica e al disegno.”
“Uh, diamine, questo pare molto più difficile.”
“E dopo di questo, caro follettino, – continuò ancora, decidendosi finalmente a mangiare – nel caso ottenessi la sufficienza in tutte e tre le prove devo sostenere un colloquio davanti ad una commissione di docenti.”
“Ma diamine! – protestò Laura – Dovrebbero darti una laurea solo per aver fatto tutte queste cose! Che ti resta da studiare all’Università?”
Andrew ridacchiò e si posò pesantemente allo schienale del divano.
“Le materie che verranno affrontate durante i corsi sono molto più specifiche e complesse. In tre anni ci devono insegnare come progettare e realizzare edifici ed altre opere… capisci che sono cose con cui non si deve scherzare. Sbagliare i calcoli o commettere leggerezze vuol dire che la casa che costruisci crollerà o cederà. Ed è per questo che ci sono esami d’ingresso così severi: devi essere pronto per affrontare quei corsi, non puoi restare indietro.”
“Mamma mia, Andrew, sei proprio sicuro di voler andare in quel posto? Fai sembrare l’Accademia Militare una passeggiata…”
“E dai, adesso fai sembrare la cosa estremamente autolesionista.”
“Perché lo è, fidati. Insomma, capisco che ti piacciano le materie scientifiche, ma farti mettere sotto torchio in quel modo è pura crudeltà!”
“Cercherò di tenerlo a mente quando mi arrovellerò la testa durante le prove – ridacchiò il ragazzo – così quando torno in paese potrai prendermi in giro dicendo che avevi ragione tu.”
“A proposito di andata e ritorno – mormorò lei, seguendolo – dove vivrai? C’è un dormitorio come all’Accademia?”
“No, dovrò trovarmi una stanza: nella zona vicino all’Università ci sono diverse persone che affittano camere agli studenti. Ovviamente mio padre ha detto che non mi devo minimamente preoccupare per queste cose: dice che tutto il mio impegno deve essere rivolto allo studio.”
“E per i giorni dell’esame dove starai?”
“Papà ha detto che verrà con me e che staremo in albergo.”
“Non ne sembri molto felice.”
Andrew si girò a guardare l’amica e sorrise.
“Mi conosci bene, Lauretta, forse troppo. Non è che mi dispiaccia che mio padre sia lì… ma ho paura delle mie reazioni. Quando uscirò da quelle aule dovrò tenere la solita facciata di figlio perfetto e tranquillo, come se quelle prove fossero una banale passeggiata… non potrò mostrarmi spaventato, non potrei deludere mio padre in questo modo.”
Disse questo pensiero con estrema sincerità, accorgendosi che per molti versi trovava sfogarsi con Laura molto facile, quasi avesse vicino Henry. E sapeva che da lei si poteva aspettare la stessa franchezza del soldato… quella che in fondo a lui era sempre mancata.
“Andrew, secondo me ti perdi in un bicchiere d’acqua.” non c’era nessuna esitazione nella voce di Laura.
“Posso essere sincero fino in fondo? Preferirei che per quelle prove vicino a me ci fosse Henry.”
“Che grande idiozia! – lei lo fissò con aria sfastidiata – Non ho mai visto persone così disponibili come i tuoi genitori: te lo dicono in tutte le salse che sono fieri di te a prescindere. Andy, sarai per la prima volta lontano dal paese, ad affrontare qualcosa che non conosci… dovresti ringraziare tuo padre per essere accanto a te, come fai a non capirlo? E se sentirai l’esigenza di lasciarti andare… anche di piangere, allora fallo! Diamine è tuo padre, anche lui ha fatto l’Università, sono sicura che ti capisce meglio di chiunque altro.”
Andrew scosse la testa castana.
“Credo di aver fatto un grosso errore a parlarne con te.”
“Perché sai che ho ragione.” lei gli diede una lieve gomitata.
“Trova un modo per diventare minuscola: vorrei metterti in valigia con me per averti accanto tutte le volte che sarò sconfortato… mi conosco e temo che per i primi tempi sarà frequente.”
“Ci sono le lettere – lo abbracciò lei – e ogni volta pensa a me e a tutte le cose incoraggianti…”
“… o insultanti…”
“… giusto! O insultanti, che ti direi. Così ti sarò di conforto e mi meriterò anche i regalini che mi porterai ogni volta che scenderai in paese!”
“Sei tremenda! – rise Andrew restituendo l’abbraccio – Ah, follettino, sarà dura senza di te. Piccola sorella del mio cuore, te l’ho mai detto che sei insostituibile?”
“Ovvio che lo sono – sorrise lei – non nascono tutti i giorni ragazze meravigliose come me. Ah, a proposito di ragazze… tanti saluti dalla piccola Ellie, anche se in questo caso è meglio parlare di ragazzina.”
“Davvero? Grazie tante.”
“Speriamo solo che l’anno prossimo si tenga alla larga dalle pallonate, non ci sei più tu a soccorrerla!”

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5. 1879. Esame d'ammissione. ***


Capitolo V

1879. Esame d'ammissione.

 


Voglio tornare a casa!
Fu l’unico pensiero coerente che Andrew riuscì a formulare quella sera quando finalmente tornò in albergo e si buttò nel suo letto. Completamente esausto per poter anche solo mantenere una facciata di dignità col padre, affondò la testa nel cuscino e permise alle prime lacrime di uscire, in uno sfogo che ormai era assolutamente necessario.
Non ce la faceva più, le prove d’ammissione lo stavano distruggendo: l’unica consolazione era che le verifiche scritte erano finalmente terminate e bisognava aspettare tre giorni per sapere chi era stato ammesso al colloquio orale. Tre giorni di tregua, anche se al giovane Fury in quel momento l’idea dell’orale gli sembrava molto improbabile.
“Coraggio, Andy – la mano del padre gli accarezzò la testa castana – è normale un crollo simile.”
Crollo, forse non c’era parola più corretta per esprimere quello che stava provando: un groviglio di paure ed emozioni che si era accumulato sin da quando erano arrivati ad East City, il giorno prima che iniziassero le prove. Innanzitutto c’era stato l’impatto con quella grande città, con tutto quel movimento così diverso dalla tranquillità del paese: vedere così tanta gente sconosciuta era destabilizzante per chi, come lui, proveniva da un posto dove di vista ci si conosceva più o meno tutti. A quel senso di spaesamento si era aggiunta, tuttavia, una grande ammirazione per quegli edifici, per quell’architettura maestosa proprio nella zona dove stava l’Università: era stato questo a farlo in parte risollevare, come se finalmente avesse capito il vero motivo per cui era lì. Solo in un posto simile poteva imparare sul serio, era chiaro.
Forte di questi convincimenti, il giorno dopo si era presentato alla prima prova e forse era stato in quel momento che aveva subito il primo grande impatto che l’aveva fatto vacillare: erano tantissimi, troppi. Considerato che la prima prova era uguale per tutti quanti erano più di settecento, tanto che erano stati divisi in sette grandi aule da almeno cento posti ciascuna. Solo in quel momento il giovane Fury si era reso conto dell’altissimo livello di competizione di quel posto: tutti quei ragazzi si guardavano tra di loro con quella che si poteva definire ferocia. Come se uno volesse il fallimento di tutti gli altri per potersi assicurare un posto per il prossimo anno accademico. Per Andrew era difficile concepire un tipo di competizione così aggressiva: provenendo da una classe di una quindicina di studenti non aveva mai avuto problemi ad essere il primo in tutte le materie, ma non per questo era stato guardato con invidia. Semplicemente ciascuno pensava ai propri risultati, anzi ci si tendeva ad aiutare piuttosto che danneggiare. Ma in quelle aule decisamente le cose non andavano così: quando aveva chiesto al ragazzo seduto accanto a lui se sapeva quante domande c’erano nella prima prova, questi l’aveva guardato malissimo, come se fosse il suo peggior nemico e come se quella domanda fosse stata fatta solo per metterlo in difficoltà.
E poi le prove…
Le prove… quel maledetto problema…
“La formula – singhiozzò, soffocando la voce sui cuscini – devo averla sbagliata!”
Se ne era reso conto solo quando aveva già consegnato, quando tutto quello che desiderava era andare via da quel posto. Mentre camminava gli era venuto l’atroce dubbio che nel terzo problema di fisica avesse frainteso alcuni dati applicando la formula sbagliata… non sarebbe stato niente di improbabile considerato il suo stato di stress mentale. E forse era proprio nelle ultime prove che i docenti volevano vedere chi era veramente in grado di mantenere la lucidità.
“Sono sicuro che il tuo compito è stato fatto nel miglior modo possibile – Andrew senior continuò a consolarlo – sei solo tu che sei stanco ed esausto dopo questi impegni logoranti. So bene che cosa stai passando, Andy, è del tutto normale: otto ore di compito al giorno non sono uno scherzo.”
“Scusa, papà, non riesco a smettere con queste lacrime – cercò di asciugarsele, ma furono prontamente sostituite da altre – io non… non…”
“Buttale tutte fuori, ragazzo mio. Poi lavati il viso e vedrai che andrà meglio.”
La voce familiare di suo padre, quelle carezze sui capelli, quelle rassicurazioni erano come un balsamo dopo quelle otto ore passate in aula. Gli sembrava quasi di essere tornato a casa, finalmente al sicuro da tutti quei ragazzi che non vedevano l’ora che lui cadesse dal piedistallo. Non si accorse nemmeno di scivolare nel sonno, senza nemmeno levarsi le scarpe, senza asciugarsi il viso da quelle fastidiose lacrime salate.
Si svegliò direttamente la mattina successiva, con una gran fame, sentendosi svuotato in maniera positiva: quello sfogo gli aveva fatto recuperare la calma necessaria. Ora non restava che aspettare gli esiti degli scritti per sapere se aveva ottenuto l’accesso al colloquio orale.
E ora basta pensare a tutti gli altri – rifletté mentre si faceva un bagno ristoratore prima di scendere con suo padre per la colazione – non è a loro che devo rendere conto.
 
 Mentre Andrew trovava finalmente il giusto equilibrio per affrontare quella difficile prova della sua vita, Laura si trovava per la prima volta privata della compagnia del suo migliore amico. Aveva pensato che quella settimana passasse più in fretta del previsto, ma non stava andando affatto così: le giornate le sembravano eternamente lunghe e prive di interesse.
Eppure è strano – pensò, mentre stava sdraiata nel letto a fissare il soffitto – è già capitato che non ci vedessimo per qualche giorno, per esempio quando uno di noi due era malato.
Ma in cuor suo sapeva che era una cosa estremamente differente: adesso si sentiva tutta la lontananza fisica, quelle centinaia di chilometri di treno che li separavano. Non bastavano quei cinque minuti a piedi per raggiungerlo a casa sua, tutt’altro… e questo voleva anche dire che non poteva sostenerlo.
Proprio nel momento in cui avrebbe maggiormente bisogno di me.
Sbuffando per quell’impotenza, la stessa che a volte la attanagliava quando l’assenza di Henry si faceva sentire, si alzò dal letto e decise di andare a fare una passeggiata. Magari sarebbe passata a casa di Andrew per salutare sua madre, almeno si sarebbero confortate a vicenda.
“Mamma, io sto uscendo – annunciò – vado a fare una passeggiata.”
“E con chi? – sua madre la bloccò nel corridoio e la squadrò con attenzione – Dove vuoi andare?”
“Forse passo a trovare la madre di Andrew. Ti serve che faccia qualche commissione?”
“No – scosse il capo la donna – ma potresti sistemarti meglio i capelli: a parer mio dovresti raccoglierli dietro la testa, avresti un aspetto meno selvatico.”
Laura si passò la mano tra i folti capelli rossi, eredità materna così come gli occhi grigi: l’idea di tirarli indietro le dava estremo fastidio. Il suo viso aveva dei lineamenti non proprio delicatissimi che sarebbero stati troppo enfatizzati da una pettinatura tirata: i capelli sciolti, tenuti solo in parte da un fermaglio, le davano invece un fascino molto più sbarazzino e rendevano meno evidenti le sue efelidi: rosso con rosso del resto…
“Vanno bene così, suvvia! – sospirò con un broncio – Me lo dice sempre anche Henry.”
“Non tirare in ballo tuo fratello, adesso. Non è un mistero che è troppo accondiscendente con te.”
“Va bene – Laura si mise le mani sui fianchi con aria furba – papà! Sono belli i miei capelli rossi?”
“Che hai detto,Laura?” la voce di Elias giunse dal salotto.
“Ti piacciono i miei capelli rossi?” chiese ancora lei, correndo verso l’ambiente.
“Uh – l’uomo la fissò perplesso, mentre lei sorrideva e si scrollava la chioma – certo che mi piacciono.”
“Visto, mamma? – ridacchiò la ragazza – E con questo esco! Torno prima di cena, ovviamente, non vi preoccupate.”
“Laura Hevans!” chiamò sua madre.
Ma lei era già fuori dalla porta, estremamente compiaciuta di essersi liberata dall’ennesima predica di sua madre. Mentre si avviava per le strade si rese conto che da quando aveva finito la scuola, le attenzioni non proprio gradite nei suoi confronti erano aumentate.
Santo cielo, non pretenderà che mi cerchi un fidanzato e mi sposi a breve.
Però le parole futuro e vita adulta facevano sempre più capolino nei discorsi dei suoi genitori. Quasi temessero che ci fosse pochissimo tempo perché lei si sistemasse, ossia si sposasse. Una cosa del genere era inconcepibile per uno spirito libero come Laura: non che fosse contraria all’idea del matrimonio, ma riteneva che quest’eccessiva fretta fosse solo dovuta ad un modo di pensare abbastanza antiquato. O forse dipendeva dal fatto che i suoi genitori si erano sposati molto presto ma avevano avuto lei ed Henry solo dopo i trent’anni, chissà.
In ogni caso non voglio certo un matrimonio come il loro.
Non c’era reale amore tra Elias e Susanna Hevans, di questo Laura ne era abbastanza certa: per come la pensava il loro matrimonio poteva benissimo esser stato combinato, cosa nemmeno improbabile considerato che era avvenuto nella prima metà del secolo. Non che non ci fosse affetto, ma sembrava più che altro essere solo una conseguenza di anni e anni di vita assieme, dove impari ad accettare che il tuo compagno di vita è uno solo e basta. Forse era per questo che lei ed Henry facevano quasi sempre fronte comune contro i genitori: il loro rapporto era sincero e genuino sin da quando ricordasse, senza nessuna imposizione o simile.
Come sincero e genuino è l’amore dei genitori di Andrew.
Sorrise a questo pensiero, mentre saliva i gradini di casa Fury e bussava alla porta.
Adorava entrambi, sempre così gentili e disponibili con lei: e poi, nonostante fossero la famiglia più ricca e in vista del paese, non avevano mai fatto problemi a dimostrare reciprocamente il loro affetto. Laura impazziva di emozione quando vedeva il notaio prendere la mano di sua moglie con affetto, o quando passeggiavano a braccetto in strada: erano gesti così spontanei che le si stringeva il cuore.
Ecco il tipo di amore che voglio.
“Ciao, Laura – la salutò Anna – vieni pure dentro, tesoro. Mi fa davvero piacere la tua visita.”
“L’attesa è davvero dura – spiegò Laura, certa di essere capita – e se restavo ancora a casa impazzivo.”
“Oh, hai fatto bene: vieni, sediamoci e prendiamoci un caffè assieme.”
“Non si hanno notizie?”
“Ieri Andrew ha dato l’ultima verifica scritta e ora devono attendere tre giorni prima di sapere se è stato ammesso all’orale – Anna prese dalla tasca del vestito un telegramma e lo passò alla giovane – ovviamente è sfinito, ma sono sicura che questi tre giorni di riposo gli faranno bene.”
Laura si incupì a quelle parole: per far sfinire il suo studioso amico ci voleva davvero tanto; ad essere sincera non l’aveva mai visto esausto per delle verifiche o delle interrogazioni, nemmeno quando si trattava di compiti uno attaccato all’altro, come spesso accadeva a fine anno. Dove lei e gli altri compagni impazzivano di nozioni, Andrew aveva sempre avuto una grande calma e capacità organizzativa, ottenendo ottimi risultati in ogni caso. Anche durante la preparazione a questo esame non si era lasciato prendere troppo dal panico.
“Immagino che saranno i tre giorni più lunghi della sua vita – sospirò infine, posando il telegramma sul tavolo e prendendo la tazzina che le veniva offerta – spero tanto che l’esito sia positivo. Insomma, deve esserlo: stiamo parlando di Andrew, suvvia!”
“Sei proprio preoccupata per lui, vero?”
“Ovviamente.” annuì la ragazza, girandosi a guardare con curiosità la donna. Era bella, probabilmente era da lei che Andrew aveva preso alcuni atteggiamenti pacati e dolci, differenziandosi molto dagli altri suoi coetanei. Aveva una grande capacità di capire le persone, più di una volta Laura aveva pensato che la comprendesse meglio della sua stessa madre.
Ora la guardava con gentilezza, come se fosse estremamente felice di quella preoccupazione.
“E’ davvero un bene che Andrew abbia accanto una persona come te – disse infine – i vostri caratteri si completano a vicenda e tu sei l’unica che riesce a farlo sentire veramente a suo agio.”
“Signora…” Laura arrossì, temendo che si arrivasse ad un punto dove non si doveva arrivare. Adorava Andrew, lo considerava uno dei ragazzi più dolci del mondo, un fratello minore perfetto, nonostante a volte i ruoli si invertissero. Ma l’idea di baciarsi con lui… oh, ma quando mai! La cosa più vicina al bacio che poteva scambiare con Andrew Fury era quella piccola sfida che avevano fatto due settimane prima.
Io ed Andrew? Ma stiamo scherzando?
“Non mi fraintendere – ridacchiò la donna, notando il suo imbarazzo – non credo che tu e Andrew vi vogliate bene in quel senso. Ormai siete troppo uniti per poter evolvere i vostri sentimenti.”
“Oh, che sollievo, signora! – sospirò Laura – Meno male! Pensavo che volesse dirmi chissà che altro! Già a casa devo sorbirmi mia madre che probabilmente già mi vorrebbe fidanzata con chissà chi!”
“Suvvia, cara, hai compiuto diciassette anni e hai appena finito la scuola: c’è ancora tempo per queste cose. Non volevi fare la sarta?”
“A farlo capire anche a lei – mise un broncio degno di miglior causa – mi stava anche rimproverando per i capelli sciolti, andiamo! Tirati indietro mi stanno male e poi metterebbero in risalto le mie efelidi!”
“Ah, le piccole lotte tra madri e figlie – Anna sorrise – è più che normale, siete comunque due generazioni diverse.”
“Già, ma la mia ci mette particolare impegno…”
Rimasero a parlare per tutto il pomeriggio, riuscendo finalmente a smorzare l’ansia che le attanagliava.
Quando Laura uscì per tornare a casa si sentiva decisamente meglio ed ormai era sicura che Andrew avrebbe passato l’esame. Ma certo, era semplicemente rimasta troppo a rimuginare e si era fatta venire un sacco di dubbi in merito.
E se è successo a me, figuriamoci a lui…
Con una decisa deviazione si diresse verso l’ufficio postale e frugando nelle sue tasche tirò fuori il piccolo borsellino e il foglietto dove aveva scritto l’indirizzo dell’albergo dove stavano Andrew e suo padre.
“Ciao, Laura!” la salutò Marco, un suo compagno di classe figlio dell’impiegato.
“Ciao! – sorrise lei – Ti posso chiedere un favore? Mi dovresti dire quanto costa fare un telegramma.”
“Dipende da quanto è lungo – lui oltrepassò il banco dove stava e controllò le monete che la ragazza gli porgeva – oh, ma questi bastano e avanzano, a meno che tu non voglia scrivere un romanzo.”
“Ottimo… devo chiedere a tuo padre?”
“Scrivi il testo su questo blocchetto – le spiegò lui – io vado a chiamare papà.”
 
La porta dell’aula si aprì per la decima volta e ricomparve il giovane studente del terzo anni che era stato incaricato di affiancare la commissione nei colloqui orali.
Dei settecentotrentadue che avevano sostenuto il primo scritto di cultura generale, ben duecentotre erano intenzionati a seguire gli studi in ingegneria: a sostenere il colloquio con la commissione erano arrivati solo in centodue. Ed ora stavano tutti in quell’aula, aspettando che arrivasse il loro turno, ben sapendo che non era ancora del tutto fatta e che, per diversi di loro, non ci sarebbe stata l’ammissione all’anno accademico. Era risaputo che il numero medio di studenti per anno era di circa sessanta persone.
“Il prossimo candidato è Andrew Fury.” annunciò il giovane, scrutando tra tutti quei ragazzi seduti nella grande aula ad anfiteatro.
“Eccomi!” esclamò immediatamente Andrew, alzandosi dal suo posto e iniziando a scendere gli scalini.
Mentre avanzava sentì i commenti attorno a lui, ma non ci fece caso.
“Ah, ma è quello che ha preso i voti più alti agli scritti…”
“Tutta fortuna, vedrai che la commissione lo metterà alle strette.”
“Compiti praticamente perfetti, pare…”
“Magari avrà copiato…”
 Andrew scrollò le spalle mentre seguiva lo studente più anziano: quelle chiacchiere non lo interessavano perché sapeva benissimo che quei risultati erano stati il frutto del suo impegno e della sua intelligenza.
Era pronto: si sentiva completamente rigenerato, come se in quei tre giorni avesse trovato finalmente il giusto approccio alla grande realtà dell’Università di East City. Tutte le lacrime e le paure erano finalmente sparite e aveva ripreso il solito controllo della sua persona: i docenti a cui si doveva presentare erano semplicemente persone… quelle che gli avrebbero donato il sapere che cercava, e che lui doveva convincere.
Non era il momento di farsi prendere dal panico.
Entrato nella stanza, incredibilmente piccola rispetto alla grande aula dove stava fino a poco prima, gli venne indicata una sedia posta davanti ad un lungo tavolo al quale stavano sedute sette persone. Erano tutte vestite con notevole eleganza, gli ricordavano suo padre quando stava nel suo studio a lavorare.
“Prego, ragazzo, accomodati.” gli fece uno di loro.
“Grazie, signore.”
Si sedette composto nella sedia, tenendo le mani posate sul grembo: non abbassò lo sguardo, squadrò con tranquilli occhi castani tutta la commissione.
“Direi che possiamo iniziare – fece l’uomo che aveva parlato per primo – innanzitutto congratulazioni per gli splendidi compiti, giovanotto. Sono degni di lode.”
“La ringrazio, signore.”
“Ti dispiace se approfondiamo meglio qualche quesito e relativa risposta?”
“Assolutamente no, signore.”
“Bene: allora, nel compito di trigonometria nel terzo problema hai scritto che…”
E mentre quella voce parlava, Andrew assimilava la domanda e preparava già la risposta, la sua mente che collaborava perfettamente aprendo i giusti cassettini della memoria.
Ma per tutto il tempo del colloquio, più di un’ora in cui vennero affrontate tutte le materie, una piccola parte di lui fu pienamente consapevole del foglio di carta piegato in quattro che teneva nel taschino della camicia a maniche corte, proprio all’altezza del cuore.
“Non osare cadere nel panico e fatti onore, Andy. Non ripresentarti a casa se non vincitore o giuro che ti leverò il saluto per sempre.”
Come poteva fallire con un simile incoraggiamento?
 
Quando finalmente tornò in paese, Andrew non fece altro che respirare a pieni polmoni l’aria di campagna che tanto gli era mancata negli ultimi dieci giorni. Felice ed esausto non vedeva l’ora di potersi finalmente lavarsi e mettersi qualcosa di più fresco.
“Non voglio pensare più a niente – dichiarò con un sorriso mentre camminava col padre sul sentiero che conduceva al paese – fino a metà agosto non voglio sentire parola che riguardi l’Università!”
“Direi che te lo sei ampiamente guadagnato, Andy – annuì Andrew senior – goditi questa bellissima estate come è giusto che sia. L’Università inizia a metà settembre e c’è tutto il tempo per organizzare.”
Padre e figlio si guardarono per qualche secondo e poi il notaio passò un braccio attorno alle spalle del ragazzo, in uno spontaneo gesto d’affetto.
“Mi hai reso incredibilmente fiero di te, Andy: hai dimostrato davvero carattere in questi giorni.”
“Mi dispiace solo per quel crollo dopo le prove scritte…”
“Ti ha fatto più che bene, tranquillo. Mi sarei preoccupato se fossi rimasto calmo per tutto il tempo… anche io all’epoca del mio esame ebbi bisogno di uno sfogo simile.”
“Sul serio?” Andrew si fermò e guardò il padre con incredulità: gli sembrava incredibile che proprio lui, la persona che ammirava di più e che credeva pronta a tutto con la sua calma e tranquillità, potesse lasciarsi andare a gesti simili.
“Perché quella faccia, giovanotto? – lo prese in giro l’uomo – Non credi possibile che il tuo vecchio sia stato a sua volta diciassettenne e pieno di paure per quell’esame?”
“Scusa, ma proprio non riesco ad immaginarti in crisi, papà.”
“Siamo esseri umani, Andy, non dimenticarlo mai: nessuno e perfetto. E le lacrime, che siano di gioia, dolore o semplice sfogo, sono un qualcosa di cui non possiamo fare a meno. Tienilo a mente, ogni lacrima ha un suo motivo e da esse non puoi che trarre insegnamento… ed è una lezione che è bene non dimenticare.”
“Lo farò, promesso.”
“Non avevo dubbi – annuì il notaio, dando un’arruffata ai capelli castani del figlio – ma sbaglio o vedo una vispa ragazza rossa che corre verso di noi? Credo proprio che attendesse il tuo ritorno, eh?”
Girandosi a guardare la sua amica, Andrew sentì la gioia invadere tutta la sua persona: voleva festeggiare, voleva godersi quei momenti in cui la vita era meravigliosa e tutto il mondo era per lui.
Lasciando cadere la valigia a terra corse in quella direzione.
“Primo! Primo del corso!” esclamò quando ancora stavano lontani.
“Brutto stupido! – strillò lei, mentre ansimando colmavano quella distanza – Chi è che non credeva di farcela? Chi… uff che corsa… chi è che non… Andrew!” scoppiò a ridere raggiungendolo e abbracciandolo con foga.
“Oh Laura! – rise lui stringendola e sollevandola per quanto poteva – Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!”
“Certo che ce l’hai fatta! – lei piangeva di gioia – Se non fosse stato per quella rompiscatole di mia madre sarei venuta alla stazione… ma no! Nemmeno per il primo del corso posso andare da sola così lontano! Nemmeno per… questo scemo! – gli tirò i capelli mentre Andrew la rimetteva giù – Che non credeva di farcela… ed invece? Primo del corso! Sei da prendere a schiaffi!”
“Sono sicuro che mi perdonerai!”
“Giusto perché sei tu, ma considerati sequestrato per tutta l’estate, capito? Non intendo dividerti con nessun’altro!”
“Ovvio! – sorrise lui, asciugandole le lacrime e tirando fuori un foglio piegato in quattro – dopo questo telegramma te lo sei ampiamente guadagnato! Me lo sono portato dietro all’orale, cosa credi?”
“Consideralo come un talismano portafortuna, allora.”
“Sempre.”
“Oh, ma hai lasciato tuo padre con due valige!” esclamò lei.
“Uh, cavolo! – si riscosse Andrew, girandosi e vedendo suo padre che li stava per raggiungere – scusa, papà!”

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6. 1880. Iniziative da persone grandi. ***


Capitolo VI

1880. Iniziative da persone grandi.

 

“L’ultimo che arriva al pontile dello stagno è un pollo!”
Henry esclamò all’improvviso quella sfida ed iniziò a correre verso il traguardo, mettendo tra sé e la sorella diversi metri di distacco. Laura reagì con un grido irritato a quella provocazione e, sollevandosi in parte la gonna, iniziò a corrergli dietro; tuttavia la falcata del fratello era molto più lunga e dunque fu inevitabile arrivare al pontile almeno una decina di secondi dopo di lui.
“Oh, così non vale! – protestò, tempestandogli di pugni il petto – Hai barato, Henry, non ero pronta!”
“Sento una zanzara che mi ronza intorno – ridacchiò il soldato, guardandosi attorno con aria incuriosita – eh sì, questo fastidioso rumore deve essere proprio di una zanzarina… una zanzarina rossa, mi sa.”
“Stupido!” con un salto Laura colmò la differenza d’altezza e gli strinse le braccia al collo, restando appesa a lui, i piedi che ciondolavano ad almeno quindici centimetri da terra.
“Va bene – concesse lui, prendendola per la vita e tenendola sollevata – la prossima volta ti do un vantaggio e ti avviso per tempo. Ma giusto perché sei la mia sorella preferita.”
“Nonché l’unica! Mi lasci a sola ad affrontare mamma e papà… senza contare che ora che Andrew è all’Università anche le occasioni di uscire sono ridotte.”
Si fece rimettere a terra ed iniziò a camminare lungo la riva dello stagno, smuovendo con gli stivaletti il tappeto delle foglie autunnali. Con occhio critico considerò che non erano proprio rosse, forse dipendeva dalla tipologia di albero: certamente erano i suoi capelli ad avere una tonalità molto più accesa.
“Accidenti al destino: ci mancheremo giusto per una settimana: speriamo di essere più fortunati al prossimo giro. Comunque dalle lettere che ti manda pare che se la cavi bene…” le ricordò Henry, prendendo a camminare accanto a lei e sbottonandosi del tutto il leggero cappotto marrone, alla faccia del novembre inoltrato.
“Conosci Andrew – scrollò le spalle lei – gli è bastata una decina di giorni per ambientarsi bene e ora sta facendo faville, anche se nelle sue lettere non l’accenna mai. A volte quel ragazzo è maledettamente modesto.”
“Sono felice che si sia abituato alla realtà cittadina: ammetto che può essere destabilizzante.”
“Oh, dubito che esca molto: i corsi sono comunque tanti e gli occupano buona parte della giornata. E poi lui stesso si butta appassionatamente in tutte quelle materie: a volte leggendo tutti quei commenti entusiasti su chissà quale edificio o legge della fisica mi pare un bambino davanti a tanti giocattoli nuovi.”
“Significa che è un ragazzo serio e responsabile: l’anno prossimo diventate maggiorenni entrambi e a vent’anni lui terminerà gli studi – Henry alzò gli occhi al cielo, osservando con attenzione alcune nuvole che si muovevano rapidamente per il vento – è deciso a tornare in paese?”
“Sì, non ha mai avuto dubbi in merito – sorrise Laura – dice che è qui che vuole lavorare: non so quante idee abbia in mente e sono certa che con un Andrew Fury all’opera ci saranno un sacco di miglioramenti e di innovazioni. In fondo credo che porterà un’ondata di novità tra questa gente un po’ retrograda.”
“Uh, che commento cattivello per i tuoi compaesani.”
“Mamma e papà sono retrogradi.” alzò le spalle lei, quasi a sfidarlo a confutare quel dato di fatto.
“Vero, ma non credo che per loro basteranno dei progetti d’ingegneria innovativi.”
Laura si fermò e guardò con aria distratta la superficie placida dello stagno: una foglia scelse quel momento per staccarsi definitivamente dall’albero e cadde sull’acqua, creando una serie di cerchi che mano a mano si espandevano.
“La settimana scorsa ho fatto l’orlo ad una decina di fazzoletti di una mia vecchia compagna di classe… e ci ho anche ricamato le sue iniziali. Mi ha pagato per questo.”
Non l’aveva ancora detto a nessuno e ovviamente tutto era stato fatto in gran segreto dai suoi genitori. Ma lei si sentiva enormemente fiera di quel primo piccolo guadagno, nonostante fosse davvero irrisorio considerato che si trattava solo di banali fazzolettini: tuttavia era come se un primo briciolo d’indipendenza fosse stato finalmente conquistato.
“Ti ci sei comprata un pacchetto di caramelle con quei soldi?” Henry le arruffò i capelli rossi.
“No – scosse il capo lei – li ho messi da parte perché quando ne avrò abbastanza mi comprerò una scatola di cucito decente… di quelle professionali. Mamma e papà dicono che il materiale che ho basta e avanza, ma non è vero: se voglio lavorare come sarta mi serve molto di più.”
“Mamma ti chiude in camera a vita se le dici queste cose in faccia – la avvisò il fratello con aria seria – e poi papà butta la chiave nel fiume. Fai attenzione a come ti muovi, Lauretta.”
“E’ così brutto voler avere un lavoro ed un’indipendenza propria.”
“L’hai detto tu stessa che sono retrogradi – sospirò il soldato, prendendo un sassolino e lanciandolo nel lago – e non cambieranno questo modo di vedere, nemmeno per te. Anzi, forse soprattutto per te.”
“E tu cosa ne pensi? Dei miei progetti di vita, intendo…” lo sbirciò con curiosità mista a timore.
“Non ci vedo niente di male – sorrise lui – non è che mi stai dicendo che vuoi diventare una criminale o simili: sai cucire molto bene e ti piace farlo, trovo più che giusto che ne voglia fare il tuo lavoro. E spero che nel frattempo ti sistemerai anche con un bravo ragazzo… chissà, magari tra un tre anni o più.”
“Allora non pensi che dovrei cercarmi subito un fidanzato!” sospirò di sollievo lei.
“A diciassette anni? Mah, non ci vedo tutta questa urgenza… e lascia pure far bollire mamma nel suo brodo: non ti può imporre un ragazzo. In primis sei minorenne e poi i matrimoni combinati mica esistono più. Se poi la vuoi proprio mettere a tacere, dille che c’è già uno che ti interessa e…”
“Sì, così parte un vero e proprio interrogatorio!”
“… beh, se le dici che si tratta di Andrew non penso che debba chiedere molto, lo conosce bene.”
Quella frase fu detta con noncuranza, fin troppa. Laura alzò lo sguardo sul fratello e notò che la stava osservando con attenzione, come se volesse valutare la sua minima reazione. Anche se i suoi muscoli non fecero il minimo movimento, dentro di sé la ragazza sospirò: l’aveva sospettato da tempo che Henry era più che favorevole a vederla sistemata con Andrew, ma aveva anche sperato che col passare degli anni capisse il tipo di legame che li univa.
“Non userò Andrew come scudo contro mamma! – rise infine, dandogli un lieve colpo sul braccio – Andiamo, fratellone, che idee ti metti in testa? Povero Andrew, mai e poi mai lo obbligherei a venire a casa per fargli fingere di essere il mio ragazzo!”
“Ma…”
“Non mi consentono nemmeno di andare a prenderlo alla stazione quando torna: se lo facessi passare per mio fidanzato la mamma pretenderebbe di venire con me a prenderlo, ma ti pare? Lascia perdere questa folle idea, suvvia! Coraggio, dammi la rivincita: scommetto che torno alla radura prima di te!”
E con un agile scatto iniziò a correre, felice di aver evitato che quel discorso andasse troppo avanti e certa che suo fratello avesse capito l’antifona.
 
Mentre Laura cercava di destreggiarsi con le sue nuove giornate cariche di relativa liberà e prive del suo migliore amico, per la maggior parte dei ragazzi del paese continuava la realtà scolastica.
“Ellie! – Agnes bussò discretamente alla porta – Tesoro, è già la terza volta che ti chiamo: sono le otto meno cinque, rischi di far tardi a scuola.”
Non ottenendo nessuna risposta a quel nuovo richiamo, la donna aprì la porta e si sorprese nel vedere ancora le tende tirate: sua figlia non era persona da alzarsi tardi. Come aprì la finestra vide che la ragazzina era ancora profondamente avvolta nelle coperte, solo qualche ciuffo dei ribelli capelli neri visibile sul cuscino.
“Ellie, tesoro, cosa c’è?” chiese accostandosi al letto e scostando le coperte quel tanto che bastava per vedere la parte superiore della testa. Posò una mano sulla fronte e la sentì piacevolmente tiepida, segno che non aveva la febbre.
“Mamma – mormorò Ellie – oggi sto male… per favore, mi prepari un the caldo?”
“Male allo stomaco? – chiese lei vedendo l’aria sofferente – Da quando?”
“Non lo so – ansimò lei, girandosi dalla sua parte – fa male! Sono fitte tremende…”
“Va bene cara, però conviene che ti alzi un attimo perché questo letto è un disastro. Magari sederti un attimo e bere un po’ d’acqua ti aiuta. Coraggio: districhiamo questo… oh!”
Ellie si girò al richiamo della madre e portò l’attenzione alla parte inferiore del letto, iniziando a capire cosa fosse quella spiacevole sensazione di bagnato e appiccicoso su buona parte della sua camicia da notte e sulle cosce.
“Oddio, mamma! – ansimò disperata – Ma è normale che ne perda così tanto!”
“Ti deve essere arrivato stanotte… che pasticcio! – annuì la donna, facendola alzare e prendendole il viso tra le mani – Ma cosa importa: la mia bambina adesso è cresciuta! Oh, Ellie, che emozione! Il tuo menarca!”
Menarca.
Fu la parola magica che fece capire definitivamente ad Ellie quanto era successo. A prescindere dal pasticcio che era il suo letto e la sua persona, a prescindere dal dolore che la stava martoriando… adesso lei era una donna. Il grande traguardo era stato finalmente raggiunto: dopo mesi e mesi di disperata attesa mentre tutte le sue amiche crescevano più in fretta di lei. Finalmente il sortilegio malvagio che la teneva legata alla sua infanzia era stato spezzato e quel sangue ne era la prova.
“Finalmente! – scoppiò a ridere – Oh, mamma! Finalmente! Non ne potevo più di… uargh!”
Si dovette piegare in due per la nuova fitta, tanto che la madre la sostenne.
“Eh, lo so, amore: le prime volte può fare parecchio male. Forza andiamo in bagno a sistemare il disastro: ti faccio vedere come bisogna fare...”
“Mi sento tutta emozionata! – riuscì a dire lei, mentre la fitta iniziava a svanire – E’ come essere stata ammessa nella grande e meravigliosa cerchia delle donne! Io… io devo andare a scuola! Devo dirlo assolutamente ad Annabell! Me lo sentivo! Lo sapevo che entro la fine dell’anno mi sarebbe arrivato il ciclo!”
“Tesoro, tu l’unica cosa che farai è sistemarti e prendere un the caldo: a scuola non ci fai niente se ti pieghi dal dolore ogni tre minuti. Vedrai che già da stasera andrà meglio e domani potrai andare a scuola.”
“Oh, mamma, ma perché? Non vedi che finalmente il malvagio anatema che stava sulla mia persona…”
“Ellie Lyod – sospirò Agnes, mentre entravano in bagno – è il menarca, non c’è niente di magico: anche a me è arrivato a quasi quattordici anni. Quindi smettila di dire sciocchezze e ora presta attenzione a quanto ti dico.”
Per quanto Ellie obbedì tranquillamente alla madre, niente le levò dalla testa che finalmente un malvagio sortilegio fosse stato finalmente spezzato. A conferma di quanto era successo la mattina successiva, guardandosi alla specchio in sola biancheria, fu certa di vedere già dei cambiamenti in positivo nel suo corpo: era certa che da quel momento la strada per diventare una vera donna sarebbe stata in discesa.
E c’era anche un motivo ben preciso per cui aveva accolto con gioia l’arrivo del menarca: ora sentiva che la distanza tra lei ed Andrew Fury era in qualche modo diminuita e che un grande ostacolo era stato superato.
Nonostante lui fosse ad East City già da più di due mesi e che, anche durante l’estate l’avesse visto poco e niente, Ellie non aveva minimamente abbandonato il suo grande amore.
Non passava giorno che si domandasse che cosa stesse facendo ad East City, se si trovava bene all’Università, se amava passeggiare tra quelle strade e quei palazzi che dovevano essere così grandi e maestosi. La sua fervida mente lavorava a più non posso, immaginandosi di camminare mano nella mano con lui, ascoltandolo parlare di quella bella e grande città. I suoi sogni erano tali che si era convinta che East City doveva essere per forza la città dell’amore.
Sommando tutti questi fattori fu più che naturale che la mattina successiva si presentasse a scuola con un gran sorriso.
“Ti è arrivato il ciclo? – Annabell la abbracciò quando le venne data la notizia durante l’intervallo – Wah che bello! Mancavi solo tu ormai!”
Ellie ricambiò l’abbraccio con una risata e poi offrì all’amica uno dei cioccolatini che si era portata dietro.
Nonostante le furiosa litigata che avevano mesi prima, piano piano avevano recuperato il loro rapporto: a fine estate avevano pianto l’una tra le braccia dell’altra giurandosi amicizia eterna e così, quando qualche giorno dopo era iniziata la scuola, erano di nuovo inseparabili. Tuttavia Ellie era abbastanza accorta da capire che una cosa era cambiata: anche se Annabell era sempre la sua migliore amica, non le avrebbe mai più detto nulla di Andrew. Il giovane figlio del notaio restava un argomento proibito, non perché avrebbe potuto scatenare un nuovo litigio, ma perché Ellie aveva scoperto che preferiva tenere qualsiasi cosa per sé e per le sue fantasie: parlare con Annabell significava sentire le solite stupidaggini sulla differenza d’età e quanto altro, mentre invece era molto più importante concentrarsi su quello che lui stava facendo all’Università.
“Mh, che buono! – commentò Annabell, finendo di mangiare il cioccolatino – però dovresti assaggiare quelli di East City: hanno una crema fantastica dentro.”
“Eh? E quando li hai assaggiati?”
“La settimana scorsa! Ho accompagnato papà dal notaio Fury per non so che cosa… e mentre loro parlavano, la signora mi ha offerto un cioccolatino e mi ha detto che veniva da East City.”
A quel punto Ellie fece rapidamente due più due e capì che doveva averli spediti Andrew: la cosa le diede notevolmente fastidio. Perché Annabell aveva mangiato qualcosa che aveva spedito il ragazzo che interessava a lei?
“Spero che giovedì prossimo quando il figlio torna ne porti altri.” la ragazza bionda si leccò l’indice dove c’era ancora una piccola macchietta di cioccolato e così facendo non si accorse dello sgranarsi degli occhi di Ellie. Molto probabilmente riteneva la questione Andrew Fury completamente seppellita.
In realtà la brunetta aveva ricevuto un’informazione davvero preziosa.
 
Cinque giorni dopo, quel fatidico giovedì, Ellie avanzava con passo esitante verso la piccola stazione ferroviaria. Nonostante distasse venti minuti di camminata dal paese non aveva avuto problemi ad ottenere il permesso dai genitori: era ancora il primo pomeriggio e poi conosceva bene la strada in quanto il capostazione era un suo vecchio zio, ormai prossimo alla pensione. Con la scusa di andare a trovarlo Ellie non aveva nulla da temere: il suo alibi era perfetto.
Certo, non sapeva ancora cosa avrebbe fatto una volta che il treno fosse arrivato: non poteva certo andare da Andrew e dirgli che era venuta a prenderlo. Ad essere sincera sperava tanto che fosse il giovane universitario a rivolgerle per primo la parola, in modo da risolvere questi piccoli problemi.
Ma già rivederlo sarebbe stata una grande gioia, e poi magari le avrebbe sorriso.
Chissà se questi mesi in città lo hanno cambiato tanto – pensò, mentre intravedeva ormai l’edificio solitario in mezzo alla campagna – sarà molto stanco per il viaggio? Oh, Andrew, non vedo l’ora di rivederti!
“Ohoh! Chi si vede? – appena arrivata in stazione venne salutata da suo zio – Ciao, Ellie, come stai?”
“Bene zio! – sorrise lei, andando a dargli un bacio sulla guancia – Avevo voglia di passeggiare e sono capitata qui.”
Si rimproverò mentalmente per quella piccola bugia: certo le faceva piacere vedere suo zio, ma era una cosa che succedeva spesso anche in paese e dunque quella camminata non aveva motivo di esserci.
“Hai fatto bene – l’uomo le sistemò una ciocca di capelli scuri – questo fine novembre ci sta regalando delle belle giornate tiepide ed è giusto approfittarne per farsi delle passeggiate.”
“Mh, già… ma non ti annoi a stare sempre qui in stazione?” chiese Ellie, scoprendosi incuriosita da quel posto dove era stata poche volte.
“Ahah, ragazza mia, anche se passa solo un treno ogni tanto mi tengo impegnato – disse, mostrando i vari registri – e poi ho sempre con me delle buone letture: questo vecchio orso non soffre di solitudine, tranquilla.”
Rimasero un altro quarto d’ora a chiacchierare del più e del meno, con Ellie sinceramente interessata a quel piccolo mondo che le faceva scoprire lo zio. Proprio quando le stava mostrando un vecchio nido proprio su una trave della piccola tettoia che si affacciava sulla banchina, si sentì il fischio di una locomotiva in lontananza.
“Uh, ora ti devo lasciare, Ellie – il capostazione recuperò il berretto che aveva posato sulla piccola panca di legno – è previsto l’arrivo di diversa corrispondenza e devo provvedere ad aggiornare i registri.”
Senza lasciarle il tempo di dire niente andò dentro il piccolo ufficio e ritornò con un sacco pieno per metà, sicuramente contenente la corrispondenza che dal paese partiva per altre destinazioni: una delle cose che aveva scoperto Ellie era che veniva smistata all’ufficio centrale di East City, a prescindere dalla destinazione.
Nel frattempo il treno era ormai a una cinquantina di metri dalla stazione e ci vollero solo dieci secondi prima che, sbuffando, si fermasse lentamente proprio davanti alla banchina.
“Allora io vado, zio – salutò Ellie, cogliendo la palla al balzo – tornerò a trovarti.”
“Ciao, cara, saluta i tuoi.” le rispose in maniera distratta l’uomo, andando verso uno dei vagoni chiaramente non destinati ai passeggeri.
Ma l’attenzione della ragazzina si era spostata su quello che era posizionato proprio davanti al centro della banchina, come se fosse un palcoscenico pronto ad accogliere l’eroe. La porta venne aperta ed Andrew scese con disinvoltura i gradini, come se quella valigia e quella tracolla non gli creassero alcun disturbo.
Ma…  – il cuore di Ellie ebbe un sussulto – come ha fatto a diventare ancora più bello?
Non era più alto e nemmeno il suo viso ed i suoi capelli erano diversi. Ma c’era una maturità del tutto nuova: come se fosse partito ragazzo e fosse tornato uomo. Come se il suo essere studente universitario si palesasse con tutta la sua importanza e prepotenza.
Oh, Andrew…
Rimase immobile, posata contro la parete di legno dell’edificio, osservandolo sistemarsi con disinvoltura la tracolla e rivolgere un cenno di saluto al capostazione. Poi, con passo sicuro si avviò verso l’uscita.
Fu quasi automatico per Ellie seguirlo a dieci passi di distanza.
Iniziarono così ad avviarsi verso il paese, con la ragazzina che non poteva far a meno di ammirare quella schiena dritta e forte. Le dispiaceva che non l’avesse praticamente notata, ma questo poteva andare a suo vantaggio: finché non si accorgeva di lei non le avrebbe potuto dire niente. Ma certo, stavano semplicemente facendo la stessa strada per tornare in paese.
Dopo dieci minuti di camminata, quasi a metà percorso, si accorse che la distanza tra di loro era praticamente dimezzata: riflettendoci bene non riuscì a capire se era stata lei ad accelerare il passo o lui a rallentare.
E piano piano… la distanza venne quasi annullata: erano uno affianco all’altra.
A quel punto il cuore di Ellie stava per scoppiare: insomma, sembravano due fidanzati che tornavano assieme in paese. Avrebbe dato chissà che cosa per tendere la mano e prendere la sua.
Pessima idea, Ellie – si ricordò, assumendo un’aria più decisa – ora che hai il ciclo sei una vera donna e devi pensare a cose più da grandi. Ecco, a braccetto sarebbe perfetto… però è troppo alto rispetto a me. Dannazione, speriamo che ora che ho il ciclo la mia altezza aumenti in fretta. Oh cavolo, ma quanto può star bene con questo cappotto?
E così i pensieri della ragazzina continuarono a correre sui sentieri della fantasia più sfrenata: nella sua mente si accavallavano decine e decine di scene su come Andrew si accorgesse di lei, di come le dicesse che era sempre stato innamorato sin dal loro primo incontro e quanto altro.
Fu quindi con sorpresa che si accorse che erano arrivati in paese e che dunque la sua passeggiata assieme ad Andrew era finita.
Che faccio? Lo saluto? Ma magari poi pensa che l’ho pedinato e…
“Ciao.” la prevenne lui, girandosi e facendole un lieve cenno con la testa.
Ma soprattutto le sorrise e questo bastò a convincere Ellie che il suo piano aveva funzionato alla perfezione. E che Andrew Fury era l’uomo della sua vita.
“Ciao…” mormorò in risposta, arrossendo lievemente.
Ma lui era già in cammino verso casa sua e probabilmente non l’aveva sentita.
“Oh ti prego – si disse in tono sognante, mettendosi le mani sulle guance rosse – ti prego non svegliarmi da questo bellissimo sogno, Andrew Fury!”
 
Mentre Ellie tornava a casa e si buttava nel suo letto in preda a visioni meravigliose di lei in abito da sposa, Andrew dopo qualche ora uscì ed andò a bussare ad una ben precisa porta.
“Buonasera, signora Hevans – salutò con educazione, quando la donna aprì – c’è Laura?”
“In questo momento credo che…” iniziò la donna.
“Andrew! – esclamò una voce dal corridoio e nell’arco di pochi secondi comparve la ragazza con un gran sorriso – Finalmente sei arrivato!”
“Sono tornato un paio di ore fa, ma giustamente dovevo stare con i miei e poi dovevo proprio riposarmi un pochino – sorrise lui di rimando – mi chiedevo, ti va di venire a casa a fare merenda? Così ti do anche il regalino che ti ho portato.”
“Ma certo! Prendo il cappotto! Non muoverti di qui!”
“A questo punto non ti chiedo nemmeno se vuoi entrare – sospirò Susanna, scuotendo la testa con disappunto – spero che si comporti meglio a casa tua.”
“Stia tranquilla, signora. E’sempre stata un’ospite graditissima.”
I due si guardarono con aria imbarazzata: era raro che Andrew andasse a casa di Laura e le poche volte non era riuscito ad avere un grande dialogo con quegli adulti.
“Lei… lei e suo marito state bene?”
“Sì, grazie.”
“Mi è dispiaciuto di non riuscire a tornare in tempo per salutare Henry.”
“Sono sicura che non mancherà occasione.”
“Certo… oh, eccoti!”
“Scusa il ritardo, ma non trovavo la sciarpa – sospirò Laura finendo di abbottonarsi il cappotto – ci vediamo per cena, mamma. A dopo.”
“Mi raccomando, comportati bene…”
“Certo, certo! Vieni Andy! Hai un sacco di cose da raccontarmi.”

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Capitolo 8
*** Capitolo 7. 1880. La scorta dalla treccia nera. ***


Capitolo VII

1880. La scorta dalla treccia nera.

 

“Il professore aveva gli occhi lucidi dalla commozione quando ha visto il tuo disegno. Stai certo che prenderai il massimo dei voti anche in questo esame.”
“Speriamo – sospirò Andrew – avrei voluto essere più specifico nella relazione.”
“Una relazione di oltre novanta pagine, Andrew! – sbottò Stephen con stizza – Contro tutte le altre, compresa la mia, che sono massimo di sessanta. Cosa tu abbia trovato da scrivere sull’architettura del secolo scorso ancora non lo capisco.”
Andrew ridacchiò ed evitò per un pelo il colpo di libro diretto alla sua testa.
Quella mattina si sentiva molto di buonumore: si erano appena lasciati alle spalle uno degli esami più tosti del primo anno e finalmente si prospettava un periodo di relativa tranquillità, senza lezioni o verifiche incombenti. E questo voleva dire solo una cosa…
“Tornerai al tuo paese per questa pausa di maggio?”
“Sì,e ci starò per due settimane buone questa volta. Considerando che a giugno e luglio ci sarà chiesto di seguire i docenti in alcune esercitazioni pratiche è bene che ne approfitti.”
“E quando parti?”
“Il treno è domani, ho già fatto il biglietto.”
“Allora abbiamo tempo per festeggiare: stasera propongo una bella cenetta fuori con qualche altro ragazzo. Per esempio… Michel! Andrej! – chiamò, rivolgendosi ad altri due studenti che camminavano nel cortile – Stasera cena di festeggiamento!”
“Alle otto al solito posto?” chiese uno di loro con un sorriso.
“Ma certo… e abbiamo anche Andrew con noi!”
“Uuuh! Allora bisogna proprio festeggiare: il monaco esce dal monastero!”
Andrew ridacchiò a quella lieve presa in giro, ma faceva tutto parte di un gioco che aveva imparato ben presto a fare con i suoi compagni di corso. Erano una cinquantina e dunque era abbastanza normale conoscersi tutti quanti: adesso che erano sicuri di essere passati, di far parte di quell’elite che erano gli ammessi ai corsi, sembrava che l’aria competitiva fosse finalmente sparita. Avevano tutti obbiettivi ben differenti: chi voleva tornare al proprio paese, chi aprire un’attività, chi aiutare il padre nel proprio mestiere… era come se fossero consapevoli che ognuno non pestava i piedi all’altro, anzi.
Questa nuova atmosfera era stata di grande aiuto al giovane Fury: gli aveva permesso di affrontare l’Università con maggiore serenità, sicuro di poter contare sui suoi compagni. Anche se a dire il vero, per quanto riguardava lo studio era l’esatto contrario: era lui il primo del corso, quello che i docenti tenevano d’occhio perché sapevano che poteva dare tantissimo. La cosa lo riempiva d’orgoglio, ma era abbastanza attento da non mostrarlo e non vantarsene, in primis non era nella sua natura e poi non voleva rovinare gli rapporti ottimi che aveva stretto con alcuni di quei ragazzi tra cui Stephen, il suo compagno di stanza.
Quel ragazzo dai capelli neri e la battuta pronta gli piaceva tantissimo: quando aveva scoperto che avrebbe dovuto dividere la stanza con un altro studente si era preoccupato, tanto che aveva pensato di chiedere a suo padre se era possibile un’altra sistemazione. Ma gli era bastato stare con Stephen per un quarto d’ora per essere contagiato dal suo entusiasmo e dal suo spirito d’iniziativa. Oggettivamente senza lo sprone del suo amico Andrew Fury sarebbe rimasto sempre in camera a studiare, senza godersi quei momenti che la vita universitaria offriva.
Quella notte la cena fu molto piacevole, come sempre: ormai quel ristorante, a metà strada tra l’Università, la casa dove alloggiavano e l’ospedale, era il loro preferito, tanto che i camerieri ormai li conoscevano e davano loro sempre lo stesso tavolo. Al contrario di altre volte in cui aleggiava qualche esame incombente, i quattro giovani erano spensierati e felici, tanto che a fine cena decisero di fare una passeggiata per il corso principale della città.
“Ehi, signorina! – fece Stephen con un gran sorriso, rivolgendosi ad una biondina che passeggiava con alcune amiche. In quel periodo di maggio non era raro che i giovani stessero fuori casa anche dopo cena e oltre all’Università quella zona vedeva la presenza anche di un istituto femminile – Ti va di darmi un appuntamento?”
Ovviamente la ragazza in questione ridacchiò, subito seguita dalle sue amiche. Accelerarono il passo, ma il quartetto di giovani poté sentire i commenti divertiti su chi era il più carino.
“Credo che qualcuna abbia detto qualcosa su di te – ridacchiò Stephen, dando una gomitata ad Andrew – se le rincontri tieni gli occhi aperti, magari ottieni un appuntamento al contrario di me.”
“Oh, smettila – sorrise Andrew – sicuramente parlavano di te o degli altri.”
“Il fascino campagnolo è intramontabile, fidati. O forse hai già una fidanzatina in paese e non ci hai mai detto nulla? Eh?”
“No, non c’è nessuna fidanzatina in paese – rispose tranquillamente il giovane – per cui non fatevi strane idee in testa.”
Fortunatamente nessuno dei suoi amici insistette, in questo erano molto discreti: una battuta o due e tutto finiva lì. L’amore era un qualcosa di bello e desiderabile, ma la vita universitaria li assorbiva più del previsto, specie il primo anno, e il massimo che si poteva ottenere da una ragazza era una timida passeggiata a braccetto al parco o una bibita fresca in qualche locale. Senza contare che erano tutti giovani provenienti da famiglie agiate, aventi un tipo di educazione abbastanza composta: essere troppo sguaiati non era da loro e le battute di Stephen erano il massimo a cui si arrivava.
Così, il giorno dopo, lieto di quella piccola rimpatriata fra colleghi, Andrew prese il treno felice di poter finalmente andare a casa. Ormai si era abituato a quelle ore di viaggio: l’andatura lievemente ondeggiante del treno non gli dava fastidio e dunque poteva passare il tempo a leggere o scrivere.
Ad un certo punto, dopo che aveva passato diverse ore a terminare un libro, tirò fuori dalla solita tracolla un quaderno e lo aprì. Non conteneva appunti o chissà che altro, ma annotazioni personali, disegni e tutto quello che gli passava per la mente. Era tutto cominciato a inizio anno, quando si era reso conto che ogni volta che camminava per la città gli venivano in testa un sacco di idee e che ogni edificio aveva dei dettagli degni di essere ricordati. Proprio in quel momento passava davanti ad una cartoleria e aveva visto quel bel quaderno con l’elastico a chiudere la copertina: non era un oggetto per uso quotidiano, aveva un certo pregio, ma aveva deciso di concedersi quello sfizio. Considerato che gli esami erano sempre alle porte e le lezioni infinite c’era stato ben poco tempo per usarlo, ma le prime dieci pagine erano già riempite di… intuizioni. Disegni, annotazioni, frasi… era un caos ordinato di cui era l’unico ad avere la chiave di lettura: solo lui sapeva che quel verso di poesia era relativo a quel particolare gioco di luce dovuto all’elemento architettonico, o che quel piccolo uccellino in fondo alla pagina era un  ricordo di quelli che volavano vicino alla sua finestra in paese.
Insomma in quel quaderno era corretto dire che c’era una parte di lui, forse la più intima.
Passò l’ultima parte viaggio a rileggerlo e a riempire due nuove pagine con degli schizzi dettagliati del ponte di East City, oggetto dei suoi ultimi esami e studi… a pensarci era proprio lì che spesso si incontravano le coppiette innamorate. Il ponte dell’amore era un soprannome abbastanza comune tra i giovani.
Amore… a quasi diciotto anni non ci aveva ancora pensato sul serio. Per uno strano collegamento rifletté che riusciva ad essere a casa per il compleanno di Laura e che avrebbe dovuto pensare ad un regalo speciale dato che erano diciotto anni anche per lei. Ma proprio in quel momento il treno cominciò a rallentare e, capendo che era la sua stazione, Andrew chiuse il quaderno e con esso i suoi voli pindarici.
Sistemandosi la tracolla e recuperata la valigia si apprestò a scendere, bramando la passeggiata in mezzo alla campagna che lo attendeva: non c’era niente di meglio che respirare aria di casa in tutta tranquillità e solitudine…
Solitudine… direi di no…
Due volte poteva essere una coincidenza, ma questa era la terza ed il sospetto era più che fondato.
La dinamica era sempre la stessa: stava posata contro la parete di legno della stazione e non appena lo vedeva girava lo sguardo dall’altra parte. Si ricordava bene di lei, come poteva dimenticare i suoi strilli quando quella pallonata in faccia l’aveva letteralmente abbattuta? Ed era abbastanza convinto che Laura provasse una simpatia speciale per quella bambina.
Bambina… adesso è più corretto dire ragazzina.
Ellie Lyod, ricordava persino il suo cognome da una lontana conversazione avuta con la sua amica.
A guardarla bene non era molto dissimile da tutte le sue coetanee: Andrew notò che i suoi capelli erano raccolti in un’unica folta treccia scura e che un nastro rosa interrompeva il nero di quella chioma. Fu un dettaglio interessante, perché il giovane era abbastanza sicuro di averla sempre vista con due trecce.
Un lieve rossore era comparso sulle guance della ragazzina, come se fosse appena stata sorpresa con le mani nell barattolo di marmellata. E questo confermò ad Andrew che era lui l’oggetto delle sue venute in stazione: del resto se lo seguiva fino al paese non era per caso.
Fece finta di niente e dopo aver salutato il capostazione uscì per avviarsi lungo il sentiero. Quasi immediatamente sentì pure lei che salutava l’uomo, chiamandolo zio, e subito dei nuovi passi si aggiunsero ai suoi.
Il ragazzo dovette trattenere un sorriso davanti a quel piccolo tentativo di passare inosservata: decisamente Ellie non aveva la minima idea di cosa fosse la discrezione. Decise di rallentare sensibilmente il passo, in modo che la sua piccola pedinatrice potesse avvicinarsi a lui: se doveva essere sincero quel piccolo gioco lo stava divertendo ed incuriosendo.
Quando la distanza tra loro fu ridotta al minimo decise di mettere a spalle al muro la ragazzina. Sarebbe scappata via o avrebbe reagito?
Si fermò di scatto e si girò verso di lei, squadrandola con estrema serietà.
“Ellie Lyod, come si chiama il tuo amico invisibile che viaggia in treno proprio gli stessi giorni in cui torno in paese? Sarei proprio curioso di conoscerlo… altrimenti mi viene da pensare che tu venga per me.”
 
Quelle parole ebbero quasi un impatto fisico su Ellie che dovette farsi forza per non indietreggiare e cadere nel prato accanto al sentiero. Il suo cuore iniziò a battere all’impazzata: era stata scoperta, aveva fatto la figura della ficcanaso e della stupida… e proprio con Andrew.
Dovevo pensarci! Dovevo capirlo che… che mi avrebbe scoperto! Ma perché diamine non viene mai nessun altro in treno?
Ma subito questi pensieri di frustrazione lasciarono il posto al panico: le aveva rivolto una domanda ed erano completamente soli, in mezzo alla campagna. Non c’era nessuno a salvarla… in quel momento persino la presenza di Laura Hevans sarebbe stata gradita.
“Ecco io…” iniziò a balbettare, abbassando lo sguardo a terra e cercando disperatamente qualcosa di decente da dire.
… io sono innamorata di te, da tanto tempo… e… e volevo solo che tu mi notassi. Oh diamine! Ma perché mi hai notato proprio adesso! Che ti posso dire?
Sentì un leggero movimento, probabilmente si era sistemato meglio la tracolla.
Ed era ancora fermo accanto a lei, aspettando una risposta.
… diglielo, diglielo, diglielo! Andiamo Ellie… è così facile e…
“Perché? Ti da molto fastidio se faccio la strada assieme a te?” disse in tono inconsapevolmente stizzito, alzando la testa quasi in gesto di sfida.
Oh no! No! No! Ma come posso rovinare tutto così… scusa, Andrew! Scusa! Non volevo usare questo tono e… che faccio? Gli chiedo scusa davvero?
Ma lui non sembrava minimamente offeso da quella risposta poco gentile. Si limitava a fissarla con curiosità, arrivando addirittura ad inclinare lievemente la testa di lato. Però, dopo qualche secondo un sorriso gli rischiarò il volto.
“No, non mi dà fastidio – disse con semplicità – Non credevo di meritare tante attenzioni da te.”
“Co…comunque il capostazione è mio zio! – arrossì ancora di più Ellie, cercando di mascherare in qualche modo i suoi pedinamenti – Mi fa piacere andare a trovarlo, davvero!”
“Ma certo…” ridacchiò Andrew rimettendosi in cammino.
“Uh – si riscosse lei, raggiungendolo – aspettami!”
Ne fu sicura: lui rallentò il passo per permetterle di raggiungerlo.
E così ripresero a camminare in silenzio ed Ellie poté finalmente rendersi conto di quanto stava succedendo: lei ed Andrew stavano davvero passeggiando assieme… nel senso che pure lui ne era consapevole e sembrava accettarlo. Chissà, magari aveva notato che era cresciuta molto in quei mesi che non si erano visti: da inizio anno si era alzata di almeno un centimetro e mezza e aveva constatato con piacere che era necessario allargare diverse delle sue gonne… e anche nelle camicette iniziava a sentire che i bottoni iniziavano a tirare un pochino. Insomma il suo percorso verso l’essere una donna era in pieno svolgimento e stava dando i suoi frutti, in tutti i sensi.
A passeggiare con Andrew si sentiva incredibilmente emozionata e continuava a chiedersi se dovesse fare qualche nuova mossa oppure dovesse accontentarsi di quella nuova e meravigliosa evoluzione del loro rapporto.
Beh, del resto se stiamo passeggiando assieme è giusto fare conversazione…
“E così…” iniziò.
“Dimmi pure.”
“Così sei un universitario…”
“Sembra proprio di sì.”
“E vai ad East City…”
“E già.”
“E torni più o meno ogni due mesi…”
“Questo sembri saperlo benissimo, vero Ellie?”
A quel punto la ragazzina arrossì e tacque, sentendosi incredibilmente stupida per quelle cose banali ed idiote che gli aveva appena detto. Certo che era un universitario ed andava ad East City, non aveva certo bisogno di lei che glielo ricordasse.
Ellie… Ellie! Suvvia, trova qualche cosa di interessante da dirgli.
“Due settimane fa ho compiuto quattordici anni e… e sai, a scuola non mi hanno più preso a pallonate in faccia, non… non…”
Si accorse che lui stava ridacchiando di gusto e questo la fece sprofondare nella depressione più totale. Oggettivamente tutte le sue ottime doti retoriche si stavano dimostrando inutili in presenza di Andrew. Ma forse era meglio così: i suoi argomenti magari non interessavano uno studente universitario.
“E’… è bella?” mormorò infine.
“Cosa?” chiese lui, girandosi a guardarla.
“East City… sai, mi sono sempre chiesta che aspetto avesse una grande città.”
Lo disse con sincerità: sapendo che lui era in quel posto, decine e decine di volte aveva fantasticato su come dovesse essere una città così grande tanto da avere un’Università.
“E’ molto bella – annuì lui – sono certo che resteresti a bocca aperta a vederla.”
“Mi racconti un po’ come è fatta? – chiese d’impulso lei – Tanto siamo ancora a metà strada…”
“Mi pare un buon ringraziamento per il tuo servizio di scorta… beh, vediamo da dove iniziare: la zona dove sta l’Università…”
 
“Diciotto anni e non sentirli! – sospirò Laura, sdraiandosi con soddisfazione sul prato erboso dopo la corsa – Al contrario di uno studente universitario di mia conoscenza.”
Andrew rimase ancora qualche minuto ad ansimare, sdraiato accanto a lei. Come sempre era iniziato tutto per gioco, durante una passeggiata, ma non avrebbe mai immaginato che la sua amica volesse sfidarlo alla corsa per un percorso così lungo. L’aveva sempre battuto, su questo non poteva mentire, ma il distacco non era mai stato così grande.
“Troppo studio e poco movimento fisico lo ammetto…” ansimò infine.
Lei rise di gusto, crogiolandosi come un gatto sotto il sole di metà maggio.
Andrew ne approfittò per squadrarla con attenzione, cercando di cogliere i cambiamenti che la ragazza aveva subito in questi ultimi mesi di assenza. Ma per quanto si sforzasse non ne vedeva: era sempre la stessa, così forte ed intensa come il sole di maggio dopo il timido caldo di aprile. I capelli rossi erano sempre meravigliosamente mossi e le efelidi sul naso risaltavano più che mai, donandole un fascino veramente particolare.
E la sua risata era estremamente accattivante… ecco, forse era in quello che Laura Hevans era cambiata un pochino: la sua voce ed i suoi toni avevano assunto un non so che di più morbido che rendeva estremamente piacevole ascoltarla.
Stephan ti chiederebbe di certo un appuntamento se ti vedesse camminare sul ponte di East City…
Fu un pensiero improvviso, come il gioco di luce che il sole aveva appena fatto su delle foglie mosse dal vento.
“Adoro queste gite fuori dal paese – sospirò ancora Laura, girandosi di fianco e posando la testa sul petto dell’amico – erano settimane che non ne avevo occasione. Come se la campagna avesse chissà quali grandi insidie per una giovane fanciulla in età da marito come me.”
“Ma che scemenze vai a dire?”
“Ah, chiedilo a mia madre… lo sai che ho deciso che me ne andrò di casa?”
“Scherzi…” non pose nemmeno un tono interrogativo, la considerava un’assurdità a prescindere.
“No no – lei alzò lo il capo per fissarlo con decisi occhi grigi – un due o tre anni e ti assicuro che avrò una buona clientela come sarta. E me ne andrò di casa: sono sicura che un posticino piccolo piccolo per la mia attività lo troverò.”
“A che gioco stai giocando?” Andrew iniziò a capire la serietà nelle intenzioni di Laura ed una prima nota di preoccupazione gli solleticò la nuca.
“A nessun gioco, sono serissima – la ragazza si mise a sedere – non voglio vivere con i miei: loro non aspettano altro che maritarmi, è chiaro.”
“Non ti possono imporre niente, suvvia. Che problemi ti fai?” chiese Andrew, seguendola nel mettersi seduto sul prato.
“Anche se non mi possono imporre niente non è facile vivere con loro, te lo assicuro. E poi prima avevo te ed Henry, poi lui è partito per l’Accademia e ora è soldato… e poi tu te ne sei andato all’Università e…”
“Sono ancora due anni! Poi lo sai che torno in paese… avessi un minimo di pazienza, io…”
“Ma mica ci sposiamo!”
“Che? Non ho mai detto che noi…”
“Stupido, non capisci che per i miei andava bene finchè eravamo ragazzini? Adesso, secondo il loro modernissimo modo di pensare – ci fu una cattiveria del tutto nuova in quelle parole dette con sarcasmo –  dovrei essere più discreta nel rapporto con gli uomini… persino con te! Diamine, siamo come fratelli!”
“E allora basterà farlo capire e…”
“Oh no, tu ormai sei compromettente per me… e poi presto sarai un uomo sposato, no?”
Quella frase cadde tra loro due come un macigno e rimasero a guardarsi con estremo stupore lui e con aria di chi la sa lunga lei.
“Scusa?” fece Andrew, sentendosi incredibilmente caldo sul collo e sul viso. Gli tornò in mente quel commento di Stephen a proposito di quella ragazza di East City… possibile che Laura pensasse che lui frequentasse qualcuna in città?
“Oh dai, lo sappiamo bene…”
“Ti assicuro che non…”
“Quella ragazzina che ti viene a prendere alla stazione! – Laura lo guardò con malizia – Ellie, no? Abbiamo fatto colpo, eh?”
“Laura, smettila…” iniziò Andrew, capendo l’equivoco e sentendosi molto imbarazzato. Era letteralmente assurdo quanto la sua amica stesse insinuando, per quanto fosse chiaramente una presa in giro… perché non poteva essere altro che quello.
Andrew Fury è innamorato,
come una pera dall’albero è cascato…”
“Non è divertente, smettila di cantare quella canzoncina per bambini – arrossì violentemente il giovane – Lei ha quattordici anni, diamine!”
Fra tutte le assurdità che poteva dire…
“Oh finiscila – rincarò la dose lei – se viene a prenderti alla stazione un motivo ci sarà, no? E tu se sembri particolarmente felice! Che carini!”
Andrew scosse il capo con irritazione, anche se una parte di lui si era tranquilizzato nel capire che era solo l’ennesimo scherzo di Laura.
Diciotto anni, certo… ma è ancora tremendamente infantile.
“Sto iniziando a pentirmi di averti raccontato queste cose…”
“Dai, non ardi d’amore per la tua giovane spasimante? – lei lo abbracciò con foga – Dev’essere il fascino del salvatore, sai? Dopo che l’hai soccorsa per quella pallonata deve essere letteralmente caduta ai tuoi piedi!”
“Quanta pazienza…” sospirò Andrew, alzando gli occhi al cielo.
Però Laura aveva detto una cosa vera: se Ellie veniva alla stazione per lui un motivo c’era ed era facile capirlo. Lui non aveva certo interesse per quella ragazzina di seconda superiore che ancora portava la gonna alle ginocchia: la trovava simpatica, certamente, ed in qualche modo buffa. Quando erano arrivati in paese lei gli aveva chiesto se poteva venire a prenderlo ogni volta e lui non ci aveva trovato nulla di male a dirle di sì… in fondo era una piacevole compagnia.
Forse avrebbe dovuto chiudere subito la questione e dirle di trovarsi qualcuno della sua età, ma gli sarebbe dispiaciuto ferirla in quel modo.
Oh, dai, ha quattordici anni… perderà interesse da sola. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. 1881. La principessa imprigionata. ***



Capitolo VIII


1881. La principessa imprigionata.

 
“Papà, mamma, avete presente quel ragazzo che abbiamo incontrato la settimana scorsa alla festa del comitato? Era con quei due ragazzi dai capelli rossi.”
Ellie si sentiva come una persona che aveva appena preso il respiro e si era tuffata da una rupe altissima, senza sapere se si sarebbe schiantata contro le rocce o sarebbe finita in acqua. Vide i suoi genitori alzare gli occhi dalla cena e prestarle immediata attenzione e questo la fece sentire ancora più in ansia: per la prima volta avrebbe preferito di gran lunga la noncuranza con cui a volte ascoltavano i suoi voli pindarici su qualcosa che l’aveva colpita.
“Quello che ti ha salutato? Certo, è il figlio del notaio – annuì sua madre – A dire il vero volevo chiederti come mai lo conoscevi, ma poi mi è passato di mente.”
Per una volta tanto sembrava sua madre quella da cui ottenere maggior appoggio: lo capiva dall’aria tranquilla che aveva assunto, riprendendo a tagliare la bistecca. Al contrario, lanciando una timida occhiata a suo padre, si accorse che c’era un non so che  di contrariato: a lui era difficile darla a bere quando sapeva di essere pienamente colpevole.
“Sì, il figlio del notaio – si costrinse a continuare – si chiama Andrew… ti ricordi che mi aveva aiutata quando avevo ricevuto quella pallonata in prima superiore.”
“Ah, certo! Erano stati lui e quell’altra ragazza dai capelli rossi. Hai presente, caro? La secondogenita degli Hevans: suo fratello è stato appena promosso sergente dell’esercito, ne parla tutto il paese.”
“Sì, ho capito di chi parli. Torniamo a noi, Ellie – Nicholas Lyod squadrò la figlia con attenzione – che cosa ci volevi dire del figlio del notaio. Se non sbaglio è all’Università.”
A quel punto Ellie vide gli scogli avvicinarsi in maniera impressionante a lei, tanto che fu certa di sentire le onde che si abbattevano contro di essi, rendendoli fin troppo reali. Ma ormai non poteva tirarsi indietro.
“Sapete, io e lui siamo amici – mormorò con vocina flebile, abbassando lo sguardo sulla tovaglia ed iniziando a giocare nervosamente con la forchetta – e… e non so se zio Lawrence ve l’ha mai detto, ma quando viene in paese e quando riparte lo accompagno sempre alla stazione o… o dalla stazione, ovviamente.” deglutì con nervosismo, capendo di essersi ormai esposta del tutto.
Il silenzio che cadde nella sala da pranzo fu grave: in tutta la sua vita Ellie non ricordava di aver mai sentito una sensazione di tensione così tangibile all’interno di casa sua. Però non capitava tutti i giorni di confessare ai propri genitori di aver frequentato, seppur in maniera del tutto innocente ed innocua, un ragazzo più grande di lei di ben quattro anni e per giunta a loro quasi del tutto sconosciuto.
“Considerato che avete un rapporto così stretto potevi anche presentarlo a casa, non credi? – sua madre spezzò il silenzio con tono di rimprovero – E poi potevi anche dirlo subito, invece di tirare fuori come scusa quelle passeggiate per andare a trovare lo zio.”
“Mi dispiace – ammise Ellie con tono mogio, rendendosi conto che per più di un anno aveva mentito ai suoi genitori – è che Andrew è più grande di me di quattro anni e avevo paura che diceste di no.”
“A volte ti complichi la vita in maniera davvero sciocca, figlia mia. E comunque sei davvero sconsiderata a non dirci niente per così tanto tempo: a quindici anni mi aspetterei più criterio, non credi?”
“Vero, mamma, ti chiedo scusa…”
Ma mentre diceva queste parole lanciò un’occhiata a suo padre e notò con terrore che il suo viso si era indurito fino a diventare impassibile.
“Oh, papà, ti prego, non proibirmi di andare – si trovò a supplicare – capisco che sei arrabbiato, e se mi metterai in punizione sarà più che giusto. Ma tra una settimana riparte… lo posso accompagnare?”
Quasi lacrimava: lo sapeva bene di aver violato la grande fiducia che c’era tra loro due e per di più aveva introdotto a casa l’argomento maschi… e non stava parlando di un suo compagno di classe.
“Ellie Lyod, simili bugie non devono più entrare in questa casa, intesi signorina?”
“Certo papà! – annuì lei – E’ che… che appunto volevo essere sincera.”
“Dopo più di un anno…”
“Sono mortificata…” ammise la ragazzina con le lacrime agli occhi.
“Suvvia, suvvia – intervenne Agnes con fare accondiscendente, rendendosi conto che il marito non era mai stato così furente con la figlia – non mi pare il caso di arrivare a piangere.”
“Gli… gli ho chiesto se potevo anche scrivergli… – confessò ancora Ellie, ormai rassegnata a svuotare del tutto il sacco – ma prima… prima lui mi ha detto che dovevo ottenere il vostro permesso…”
“Sicuramente ha più giudizio di te – Nicholas si alzò dal tavolo e la squadrò con estrema severità – piccola scriteriata, ringrazia che è un bravo ragazzo e non un mascalzone. Chissà che tutto poteva succedere in quel sentiero deserto.”
“Scusa…” adesso Ellie proprio singhiozzava.
“Fila in camera tua e restaci fino a domattina: non osare comparire se non per colazione. Per il resto della settimana esci di casa solo per andare a scuola. E non voglio sentire lamentele, chiaro? Altrimenti, quindici anni compiuti o meno, ti ritrovi sulle mie ginocchia a prenderle come quando eri piccola.”
Piangendo senza parere Ellie eseguì l’ordine e si ritirò in camera sua. Appena la porta si chiuse alle sue spalle si buttò nel letto e iniziò a singhiozzare tutta la sua disperazione, i suoi meravigliosi sogni che svanivano per la crudeltà di suo padre. Perché un conto era sfidare Annabell a mettersi tra lei ed Andrew, oppure prendere l’iniziativa e farsi accettare da quel ragazzo… ma mettersi contro suo padre era tutta un’altra faccenda. E lei aveva perso in partenza.
E, impietosamente, le tornò alla mente la promessa che aveva fatto ad Andrew la settimana prima mentre si avviavano verso il paese dopo che lui era tornato da East City per una pausa di dieci giorni.
“Allora, ti disturberebbe tanto se ti scrivessi?”
“Ellie, senti… non è come accompagnarmi, te ne rendi conto?”
“Non sarai obbligato a leggerle subito! Anzi se sarai troppo impegnato io…”
“Devi dirlo ai tuoi genitori.”
“Eh, ma perché? Del resto mio zio ci vede tutte le volte e tu sei una brava persona, che c’è di sbagliato?”
“Proprio perché non c’è niente di sbagliato devi dirglielo… Ellie, loro lo sanno che vieni qui per me?”
“Ecco… loro non… sanno che vengo a fare una passeggiata per trovare…”
“Ellie Lyod, decisamente non ci siamo. Devi dirlo ai tuoi genitori, chiaro?”
“E se ottengo il permesso…”
“Allora ti prometto che leggerò con piacere ogni lettera che mi scriverai.”
“Ecco, l’ho fatto! – pianse lei, girandosi supina – e guarda cosa ho ottenuto!”
 
La mattina successiva, mentre una dolente Ellie andava a scuola con il cuore gonfio d’angoscia, un soldato in licenza ed un universitario in vacanza si godevano il caldo sole di maggio.
Mancava il terzo membro del meraviglioso trio, ma Laura era chiusa a casa decisa a terminare una camicetta particolarmente complessa per via di non si sapeva quali modifiche che la sua mente artistica aveva pensato.
“Fortunatamente è una cosa che sta facendo per se stessa – sospirò Henry – e dunque non corre il rischio di essere scoperta: vedendogliela addosso la mamma non sospetterà che lei lavoricchia e mette da parte qualche soldo.”
“E’ più seria di quanto credessi – annuì Andrew – vuoi vedere che davvero riuscirà ad ottenere l’indipendenza ed andrà a vivere da sola?”
“No – il soldato scosse il capo con aria cupa – fosse in una città sarei di altro parere, ma qui in paese non ci riuscirà: una ragazza non maritata non vive mai da sola, se non in un unico caso, ossia quando la sua famiglia non c’è più per spiacevole decesso. La mia sorellina è forte e decisa a cambiare le cose, ma non può mettersi contro un intero paese.”
“E quindi come potrebbe risolvere la situazione? Ammetto che non è facile dialogare con i tuoi – Andrew sentì un leggero brivido al ricordo delle occhiatacce che Susanna Hevans ormai gli lanciava quando andava a prendere l’amica – ce l’hanno con me, a quanto pare.”
“Fidanzati con lei e risolvi la situazione, anzi ne risolvi due: Laura se ne va di casa ed i miei finiscono di guardarti con aria malevola… anche se dubito che a quel punto li rivedresti molto spesso.”
“Finiscila – Andrew si fece estremamente serio – non è il caso di giocare con il rapporto che c’è tra me e Laura. E poi fidanzarsi è un grosso impegno, non bisogna parlare alla leggera dell’amore.”
“Scusami – alzò le spalle Henry, anche se entrambi sapevano bene che non avrebbe mai smesso di vedere positivamente un legame tra sua sorella e l’amico – però è strano che ti lanci in frasi così profonde. Se devo essere sincero è la prima volta che ti sento tirare fuori la parola amore. Che ti succede? All’improvviso gli studi sono diventati noiosi?”
Disse quelle parole quasi per scherzo e stava sicuramente per aggiungere altro, ma poi vide l’aria estremamente crucciata di Andrew e si mise in attesa, sapendo che prima o poi l’altro avrebbe parlato di sua spontanea volontà. Ed infatti, dopo una decina di secondi, Andrew parve decidersi
“Henry, che ne pensi dell’amore?” la domanda aveva un tono estremamente incuriosito, come se si trattasse di una nuova materia che presentava molti lati oscuri.
Tuttavia il rosso si girò immediatamente verso di lui, gratificandolo di un’occhiata penetrante.
“Se mi fai una domanda simile vuol dire che c’è anche una fortunata – sorrise con aria incoraggiante –  di chi si tratta?”
Andrew si mise le mani dietro la testa e osservò il cielo con aria pensosa.
“Hai mai frequentato una ragazza?”
“Più di una – annuì il rosso con semplicità – sai, tra Accademia e caserma non mancano mai le andate ai pub o nei locali. Sono sicuro che la vita è molto più interessante di quella che conduci tu ad East City, oppure vuoi sorprendermi con qualche grande rivelazione?”
Nonostante il tono confidenziale, Andrew fu sicuro di sentire anche una minima componente di rimprovero: forse non era stato bello tacergli questo dettaglio della sua vita, considerato che gli aveva sempre confidato tutto, ma era stata un’esperienza così surreale che spesso non si capacitava di averla vissuta veramente.
Ma era anche vero che quella era un’occasione più unica che rara: chissà fra quanto tempo avrebbero beccato un momento in cui erano entrambi a casa.
“Ti è mai capitato di dare un bacio e di…”
“Oh wow! Aspetta! – Henry si mise in posizione seduta – Questo inizio merita tutta la mia attenzione!”
“… possibile che quando tu dai il primo bacio desideri essere ovunque meno che con la ragazza?”
Ecco, l’aveva detto: aveva appena ammesso che lui e l’amore non erano due universi molto compatibili dato che aveva trasformato la mitica esperienza del primo bacio in qualcosa di imbarazzante e di cui vergognarsi.
“Che? – Henry lo fissò così stranito che Andrew sentì l’esigenza di girarsi di lato e dargli le spalle – Ma come diamine hai fatto? Lei era così brutta?”
No – pensò tra se e se Andrew – era decisamente bella e sinceramente stava andando tutto bene…
Eppure la sua breve avventura con Sylvia non era stata delle migliori, nonostante fosse partita con i ottimi presupposti. Lei era una di quelle studentesse dell’istituto femminile che spesso passeggiavano per le vie dopo cena: a pensarci bene si dovevano essere visti diverse volte. Una delle sue compagne era cugina di Stephen... una sera che era uscito con lui si erano incontrati, si era iniziato a chiacchierare tutti assieme e, non sapeva nemmeno come, due settimane dopo passeggiava con quella deliziosa biondina per il parco vicino all’Università.
“Non so nemmeno io cosa sia successo – ammise, girandosi ad affrontare Henry, cercando in lui una spiegazione – insomma, ci parlavo, andava tutto bene. Però poi, arrivati vicino ad una fontana ci siamo fermati… e lei mi ha preso le mani… e… e sai come fanno le ragazze che protendono il viso chiudendo gli occhi…”
“Andrew, ti giuro – ridacchiò Henry – si sta rivelando la storia più divertente che abbia mai sentito.”
“… divertente? Come può essere divertente con lei messa in quel modo ed io che mi guardo intorno e sento che tutte le persone al parco mi osservano? E così mi chino e la bacio…”
“Bacio… nel senso di bacio vero, oppure…?”
“Diciamo… oltre il bacio a stampo – arrossì Andrew – diamine! Ma perché devi essere così desideroso di dettagli?”
“E ti ha fatto così schifo?”
“No! Solo che… Henry era tremendamente sbagliato perché per quanto fosse simpatica, carina ed intelligente io non… non la amavo!”
Disse quell’ultima frase con estrema gravità, mettendosi seduto, sentendosi la persona peggiore nella faccia della terra. Se ripensava a come si erano poi salutati e poi non si era fatto più sentire… Si era sentito estremamente sollevato quando Stephen gli aveva detto, due settimane dopo, che forse era interessata ad un altro ragazzo.
Ma il suo mea culpa venne interrotto dalla risata fragorosa di Henry.
Il soldato quasi lacrimava per l’ilarità e rimase diversi minuti a ridere di gusto, risdraiandosi nell’erba e respirando a fatica.
“Oddio! Oddio, scusami, Andrew! – esclamò infine, riuscendo a rialzarsi e dando delle pacche sulla spalla dell’amico – Ma sei… sei così dannatamente purista che fai quasi tenerezza!”
“Purista? – si offese lui – E perché mai?”
“Secondo te quando frequenti da poco una ragazza capisci subito se è amore o meno? Diamine, Andrew, mica te la sposavi… ed un bacio è estremamente piacevole quando ti levi questi stupidi pensieri dalla testa. Lei poi che ha fatto?”
“Da quanto ne so esce con un altro… senza rancore, pare.”
“Perché è intelligente – scrollò le spalle lui – Andrew, in ambienti più scanzonati come la città anche l’amore ha atteggiamenti più elastici: ci si incontra, si esce, ci si bacia… senza impegno, giusto per fare esperienza. Poi se le cose vanno per il verso giusto te la sposi. Certo, se ci vai a letto è tutta un’altra storia e…”
“Ma come ti viene in mente che io…”
“Ed infatti, se mi lasci finire il discorso – Henry gli puntò l’indice sulla fronte – ti direi che uno come te a letto ci andrà solo con sua moglie, la prima notte di nozze. Ma non prenderlo come un insulto: ad essere soldati spesso si finisce per essere molto più pragmatici… sarà la consapevolezza che prima o poi la guerra ti può portare via.”
“Non sono discorsi che mi piace affrontare – Andrew scosse il capo e si portò le ginocchia al petto – quando sei qui in paese non ci dovresti pensare.”
Henry lo fissò con aria pensosa per qualche secondo e poi gli arruffò i capelli.
“Sei molto diverso da me, Andy, ma non te ne devi vergognare. Sono solo uno stupido soldato che viene qui ogni tanto e che pretende di farti da maestro di vita… che sciocchezze. Non devo essere io a dirti che sensazioni ti deve regalare un bacio.”
“Pensi che sia l’unico a cui è successa una cosa simile?”
“Credo che succeda ogni giorno a centinaia di ragazzi, fidati.”
“E’ che… stare ad East City è come vivere in un mondo parallelo che però non è completamente mio – ammise il giovane con aria riflessiva – mi ci trovo bene, ho degli amici che spero di continuare a sentire anche dopo che finirò gli studi… ma è solo tornando qui che mi sento veramente bene, nel posto giusto.
“Allora la tua graziosa ragazza del primo bacio aveva solo un grande difetto – sentenziò Henry con aria seria – non faceva parte del posto giusto.”
“Forse è proprio come dici…”
 
“Tra tutte le cose… Ellie Lyod sei proprio folle! E una settimana di punizione è anche poco per quello che hai combinato!” Annabell si mise a braccia conserte e fissò l’amica con aria di profondo disappunto. E considerato che ormai era parecchio più alta di lei e molto più sviluppata sembrava proprio una sorella maggiore che la sgridava.
“Lo so… lo so! – ammise la mora, sedendosi sul muretto e sistemandosi meglio la gonna azzurra – è stata una follia, ma andava tutto così bene! E poi è Andrew, insomma non mi avrebbe mai fatto del male!”
“Non è questo il punto!”
“Identiche parole dei miei genitori. Oh, dai, non sgridarmi pure tu: è già brutto sapere che papà sarà furioso con me per tantissimo tempo, proprio lui che in genere mi perdona sempre in poche ore. Non mi ha mai messo in punizione in modo così brutto.”
“Almeno ti servirà di lezione e capirai che questa storia…”
“Annabell, in nome della nostra amicizia mi devi aiutare – Ellie afferrò la mano dell’amica – devi trovare Andrew e spiegargli la situazione!”
“Scordatelo! – la bionda ritrasse la mano con aria disgustata – tra tutte le cose che puoi chiedermi questa è l’ultima. Stupida! Devi dimenticarlo, non capisci che non fa per te? E’ stato bravo solo a farti litigare con i tuoi genitori! Non infrangerai il tuo castigo tramite me, Ellie Lyod, ringraziami anzi che non dirò ai tuoi genitori quanto mi hai chiesto.”
“Sei una vipera! Perché non vuoi capire?” Ellie balzò a terra e la fronteggiò.
“Perché vedo che la mia migliore amica sta passando solo guai per una cosa che non la porta a niente. Finché eravamo in prima superiore e tu avevi quella cotta ci poteva stare… ma diamine! Hai quindici anni, siamo alla fine del terzo anno: deciditi a crescere una dannata volta.
E con un’occhiata tagliente degli occhi azzurri, la ragazza si girò e si avviò a grandi passi verso il resto delle loro compagne.
Ellie invece si rimise a sedere nel muretto, non troppo sorpresa dell’esito di quella conversazione. Anche con Annabell era stata costretta a vuotare completamente il sacco e c’era d’aspettarsi che avrebbe reagito così male. Ma era giusto fare un tentativo, anche perché era forse l’unica carta che le restava da giocare.
Si sentiva come rinchiusa in una torre per colpa di un mago malvagio che, fastidiosamente, aveva le sembianze di suo padre: un nuovo e forte incantesimo stava ostacolando la sua storia d’amore con Andrew, proprio quando le cose sembravano andare per il meglio.
In questi casi, nelle storie che scriveva, l’eroina trova sempre un modo per fuggire e raggiungere il suo amato, ma era arrivato il momento di scontrarsi con la realtà dei fatti: sgarrare di un solo minuto il suo castigo voleva dire far infuriare davvero suo padre. E se prenderle poteva essere una cosa tollerabile, era il resto della punizione a spaventarla… una clausura perenne per chissà quale tanto tempo ed un controllo molto più ferreo sulla sua persona. E dunque la fine definitiva di qualsiasi passeggiata o incontro con Andrew.
Come posso fare? Neanche se pregassi mio padre in ginocchio mi permetterebbe di accompagnarlo alla stazione tra una settimana…
“Ellie! Ellie!” una vocina interruppe i suoi cupi pensieri e girandosi vide una bimba di seconda elementare avvicinarsi a lei.
“Ciao, Molly – sorrise, scendendo dal muretto e ritrovando il buonumore davanti alla sua vivace e piccola vicina di casa – cosa c’è?”
“Per te – la bambina le porse un foglio chiuso in quattro – però ha detto di non dirti chi era.”
“Chi?” chiese Ellie, prendendo con curiosità quel foglio e aprendolo.
“Il ragazzo che me l’ha data: sai, quello con i capelli biondi che ora sta nell’angolo.”
Davanti a quell’ingenua mancanza di discrezione Ellie ridacchiò, ma poi arrossì violentemente quando capì che in quella lettera c’era l’invito ad uscire assieme. Insomma un appuntamento.
“Dice che gli devi dare una risposta e che poi la porto io.”
La vocetta della bambina la fece riscuotere e si accorse che in fondo alla lettera, scritta con evidente impaccio, c’era lo spazio per la risposta. In un’altra occasione, un’altra esistenza, Ellie si sarebbe sentita profondamente felice ed onorata per quella lettera: solo le ragazze più fortunate le ricevevano, mentre le altre dovevano aspettare eventi particolari perché qualche maschio prendesse l’iniziativa. E aveva anche capito di chi si trattava: un anno avanti a lei ed una persona davvero gentile e carina.
Ma io ho già il mio principe azzurro…
Mentre pensava a questo si sentì incredibilmente triste: non era bello dare una delusione d’amore, specie ora che ne aveva in qualche modo ricevuta una. Con un sospiro si frugò nella tasca e tirò fuori una penna, posandosi contro il muro per poter scrivere la risposta negativa.
Almeno non dovrò dirgli di no in faccia e poi ambasciator non porta pena…
Come finì di pensare a quel detto, la penna venne premuta con forza contro il foglio, tanto che si dovette riscuotere per evitare che una macchia d’inchiostro rovinasse la risposta. Dopo aver riconsegnato la lettera alla bambina, corse in classe e si sedette nel banco: tirò fuori uno dei suoi quaderni di racconti e strappò l’ultima pagina.
Era una mossa disperata e azzardata, ma non le restava altro da fare.
 
Anna Fury  stava controllando che la tavola fosse apparecchiata come si doveva per il pranzo quando qualcuno bussò discretamente alla porta. A dire il vero pensò di essersi immaginata quel suono da quanto era flebile, ma poi decise di andare a controllare.
Fu grande la sua sorpresa quando aprendo la porta si trovò davanti una bambinetta sui sette anni, con due codette castane dritte e un viso rubicondo.
“Ciao!” salutò la piccola, per niente intimorita.
“Ciao, tesoro – sorrise la donna, chinandosi lievemente – ti posso aiutare?”
“E’ questa casa di Andrew?” chiese ancora lei.
“Sì, ma chi cerchi?”
“Cerco Andrew.” rispose la piccola, con aria sorpresa, ovviamente ignara che padre e figlio avessero lo stesso nome.
“E perché lo cerchi?”
“Gli devo dare questa – sorrise tirando fuori dal grembiulino un foglio piegato in più parti e tenuto fermo da una graffetta – ma è una cosa molto segreta. Mi è stato detto di darla solo a lui.”
“Ma davvero? – Anna sorrise, davanti all’aria d’importanza che aveva assunto quella bambina – Uhm, vediamo come posso aiutarti. Oh, ma siamo proprio fortunate: guarda, mio figlio Andrew sta tornando proprio adesso. Ciao, ragazzi.”
“Ciao, mamma.” salutò Andrew, comparendo assieme ad Henry.
Immediatamente la bambina si girò verso i nuovi arrivati e corse verso Andrew, afferrandogli un lembo dei pantaloni con la mano.
“Sei Andrew?” chiese.
“Sì, sono io. E tu sei…?”
“Io sono Molly e ti devo dare questo – sorrise lei dandogli il foglio – e però adesso devo andare via perché la mamma ed il papà mi aspettano per pranzo. Ciao ciao!”
Con una lieve risata la bambina iniziò ad allontanarsi, la tracolla rosa che le ciondolava allegramente sul fianco, rendendola una visione davvero buffa.
“Ehi, Molly – la chiamò ancora Andrew – ma da parte di chi è?”
“Da parte di una principessa in pericolo!” rispose la bambina, girandosi per l’ultima volta prima di scomparire per una via laterale.
“Da parte di una principessa in pericolo?” Henry si accostò all’amico osservando quel foglietto piegato, dove risaltavano alcune macchie di unto, certamente opera di Molly.
Anche Anna scese gli scalini e si avvicinò al figlio.
Andrew li fissò entrambi con imbarazzo e si allontanò di un passo per poter aprire quel foglio senza far vedere il contenuto a nessuno. Strategicamente portò lo sguardo alle ultime righe per vedere se era firmato e come lesse quel nome iniziò a capire che tipo di disastro fosse successo.
“Allora? – gli chiese Anna, in tono malizioso – Non vuoi dirci chi è questa famosa principessa in pericolo?”
“Diciamo che è una principessa un po’ particolare – riuscì a sorridere, ripiegando il foglio – e anche il tipo di salvataggio è un po’ particolare.”
Non capita tutti i giorni di dover difendere una principessa dal castigo dei genitori.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. 1881. Principe azzurro al salvataggio. ***


Capitolo IX

1881. Principe azzurro al salvataggio.

 

“Principessa in pericolo? – Laura guardò il fratello con aria stranita. Ma passò solo qualche secondo prima che i suoi occhi grigi si illuminassero di comprensione e scoppiasse a ridere di gusto – Oddio, ho capito di chi si tratta!”
Henry inclinò la testa con curiosità davanti a quello scoppio di ilarità da parte della sorella. La osservò sedersi nel letto e asciugarsi le lacrime con un lembo della gonna, le guance arrossate piacevolmente.
“E’ così divertente?” chiese, andando a sedersi accanto a lei.
“Decisamente sì, considerato che è la spasimante di Andrew… della veneranda età di quindici anni! Oh, diamine! Non pensavo che questa storia avesse risvolti così divertenti.”
“Quindici anni? Ma è una ragazzina che va ancora a scuola! – constatò Henry – che diamine ci fa Andrew Fury con una quindicenne?”
“Ah, non lo so – scrollò le spalle Laura – secondo me avrebbe dovuto chiudere da subito la questione, ma sai come è fatto Andrew: sicuramente non l’ha voluta ferire… e ora si becca la patata bollente. Beh, del resto era anche ora che si arrivasse ad una conclusione: è durata fin troppo… per quanto la cosa mi divertisse parecchio.”
“Andrew non sembrava così arrabbiato da questa famosa patata bollente – scosse il capo Henry – credo che andrà a salvare la principessa in pericolo. Anche se inizio a pensare che il pericolo non sia molto diverso da una buona tirata d’orecchie da parte dei suoi genitori.”
Laura arricciò il naso con disappunto davanti a quella affermazione e poi si sdraiò supina nel letto, osservando il soffitto con un lieve sorriso.
“No, fidati di me: lo farà solo per cortesia. Ma di Ellie Lyod ad Andrew non importa più di tanto: è stata solo una sciocca ragazzina che si è presa una cotta per lui e che ora liquiderà con la solita compostezza dei Fury.”
“Laura – Henry si sdraiò accanto a lei, spingendola verso la parete per conquistare una porzione di letto decente – non è che c’è un briciolo di gelosia nelle tue parole?”
“Gelosa io? Di Andrew e di… di Ellie Lyod? Senti, tu la dovresti solo vedere per capire che bambina assurda e con la testa tra le nuvole è! – esclamò la ragazza, incredula di sentire una cosa simile – E’ una che ha gli unicorni che le girano attorno alla testa, una ragazzina così non è fatta per il maturo Andrew Fury. Senza contare che è appunto una bambina.”
“Sarà – scrollò le spalle Henry, passando un braccio attorno alle spalle della sorella – ma non dimenticare che prima o poi anche le bambine crescono.”
 
Cresciuta o meno che fosse, la principessa in quel momento era stesa supina nel proprio letto, nella medesima posizione dei due fratelli Hevans. Solo che il suo sguardo non era divertito, anzi gli occhioni neri erano lucidi per le lacrime. Non poteva essere altrimenti considerato che Nicholas Lyod era ancora profondamente arrabbiato con lei.
Ellie amava profondamente i suoi genitori, ma aveva con loro dei rapporti completamente differenti: la madre era quella che si poteva arrabbiare, sgridarla, metterla in castigo, non capirla. Ma suo padre era qualcosa di completamente diverso: erano le braccia meravigliose che l’avevano sempre cullata e protetta quando il mondo reale sembrava brutto, l’aveva sempre sollevata e messa in groppa al proprio destriero, in cavalcate dove tutto l’universo si riduceva solo a loro due. Era il fantastico re delle favole che fa di tutto per la propria principessa.
Per dirla in parole povere Ellie era una figlia unica che il padre considerava il gioiello più prezioso e che, spesso e volentieri, aveva viziato. Sotto questo punto di vista era stato un bene che la madre avesse sempre controbilanciato quell’indulgenza che poteva rovinare il carattere troppo sognatrice della ragazzina.
E dunque sapere che suo padre era ancora arrabbiato con lei, tanto da non rivolgerle la parola durante il pranzo (quando le sue arrabbiature non erano mai durate più di qualche ora), sconvolgeva Ellie più di qualsiasi castigo. Aveva anche provato ad abbracciarlo a fine pasto, ma lui non aveva risposto a quel gesto e le aveva detto con voce impassibile di andare in camera sua.
“Lascia che sbollisca, Ellie – le aveva consigliato sua madre, vedendola salire le scale con aria desolata – ogni cosa a suo tempo.”
“Tempo… ma io non voglio aspettare! – sospirò mettendosi a sedere con le gambe incrociate – Sta andando tutto a rotoli ed io sono qui, senza fare niente.”
Spostò lo sguardo alla porta e la sua mente andò alla lettera che aveva consegnato nelle mani volenterose (e sporche di marmellata) di Molly. Chissà se era riuscita ad effettuare la consegna: le indicazioni che le aveva dato erano abbastanza precise anche per una bambina di sette anni.
O forse Andrew non vorrà venire… del resto è un guaio che ho combinato da sola. Però… oh, dai! Un principe azzurro viene sempre a salvare la propria dama. E poi lui ci tiene a me.
Si cullò in quel pensiero: ma certo, dopo più di un anno che si frequentavano non poteva essergli indifferente, altrimenti le avrebbe già impedito di accompagnarlo nei suoi viaggi alla stazione.
Verrà… verrà… ti prego, Andrew, vieni!
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta e ad Ellie smise di battere il cuore: possibile che l’avesse evocato con la forza del pensiero?
L’emozione fu tale che infranse anche il divieto di stare in camera sua e corse nel corridoio per affacciarsi sul pianerottolo. Non poté fare a meno di sorridere quando vide di chi si trattava.
“… e vorrei parlare con lei e suo marito – stava finendo di dire Andrew – anzi, mi scusi per essere venuto così, senza preavviso.”
“Non ti preoccupare – rispose Agnes, facendolo accomodare – ti prego di attendere un attimo qui: avviso mio marito della visita e poi ci sistemiamo in salotto.”
Rimasto solo il ragazzo alzò lo sguardo sulle scale ed Ellie gli sorrise.
“Scusa! – mosse solo le labbra non osando alzare la voce più di un bisbiglio – Grazie!”
“Torna in camera tua – le consigliò lui mantenendo un tono veramente basso e facendole un gesto eloquente con la mano – ci penso io!”
“Sei un tesoro!” sorrise ancora Ellie congiungendo le mani in gesto ringraziamento e di scusa.
Poi si sentirono dei passi e la ragazzina si affrettò a scappare nel corridoio. Fece giusto in tempo a sentire la voce di suo padre,tremendamente seria, che si presentava; poi fu costretta a chiudere delicatamente la porta alle sue spalle e sperare che andasse tutto bene.
 
Nicholas Lyod non era originario del posto.
La sua famiglia possedeva grandi allevamenti oltre il fiume, in un paese a quasi ottanta chilometri di distanza. Si era trasferito una ventina di anni prima con l’intenzione di far fruttare in maniera differente la parte di eredità che gli era toccata alla scomparsa prematura del padre. Al contrario dei suoi fratelli che avevano preso possesso di quasi tutti i capi di bestiame e dei relativi pascoli, lui aveva preferito prendere una discreta somma e andare in cerca di fortuna, forse spinto dall’essere l’ultimo di ben cinque figli maschi. Gli anni avevano dato ragione a questa scelta: arrivato al paese appena ventenne aveva trovato un’economia lievemente in crisi considerato il trasferimento di un grosso reparto dell’esercito che prima provvedeva allo sfruttamento di una vecchia miniera di carbone. L’assenza di una così grossa fetta di mercato aveva destabilizzato un'economia chiusa in se stessa e dunque molte aree coltivabili erano state messe in vendita a prezzi quasi irrisori. Tuttavia Nicholas Lyod aveva una conoscenza del mercato molto più aperta, avendo viaggiato più volte per affari di famiglia: dopo aver comprato i terreni aveva deciso di esportare la maggior parte dei prodotti verso il suo paese d’origine, sapendo bene che, essendo votato più che altro all’allevamento, veniva a mancare di determinati generi coltivati. Nell’arco di pochi anni il commercio era splendidamente avviato e molte persone avevano trovato lavoro in quelle grandi proprietà, con Nicholas che si era fatto fama di ottimo proprietario e generoso datore di lavoro.
Andrew conosceva a sommi capi la storia, così come tutti gli abitanti del paese: era chiaro che per fare una cosa simile ci voleva una bella dose di determinazione.
“Credimi, Andy, ho avuto occasione di parlarci una volta e non credo di aver conosciuto un carattere risoluto come il suo. Se a quarant’anni ha una fortuna simile non è solo per l’eredità: si è saputo costruire e gestire la sua sorte e tiene le redini del suo destino con la stessa fermezza con cui monta il suo cavallo.”
Effettivamente, osservando bene il suo ospite, Andrew si accorse che era molto differente dai tranquilli e bonari agricoltori del paese. Tutta la sua persona, a partire dall’abbigliamento elegante eppure sportivo, denotava un carattere vivace e forte.
Tuttavia in quel momento il viso era impassibile e lo squadrava con quella che si poteva definire ostilità.
Andrew non ebbe difficoltà a capirne il motivo: non c’erano dubbi che Nicholas Lyod fosse estremamente geloso dell’unica figlia… e che dunque lo vedesse come un pericolo.
Più o meno come i genitori di Laura? Diamine, ma perché devono avercela tutti con me?
“Sei stato molto gentile a farci visita, Andrew – disse Agnes, in tono incoraggiante, servendogli una tazza di caffè – anche se non abbiamo avuto occasione di presentarci formalmente so che sei impegnato all’Università di East City.”
“La ringrazio, signora – sorrise Andrew, lieto che ci fosse almeno una persona che non lo squadrasse con odio in quella stanza – è vero, sto frequentando il secondo anno di Università e a settembre comincerò l’ultimo. Se tutto va bene, conto di diventare ingegnere entro l’estate prossima.”
“E cosa viene a fare uno studente universitario, quasi ingegnere, a casa mia?”
La voce di Nicholas Lyod era piatta e tranquilla, ma nella stanza suonò chiaramente la vera domanda.
“E cosa salta in mente a te di mettere gli occhi sulla mia bambina?”
A quel punto una piccola parte di Andrew si chiese cosa ci faceva in quel salotto, ad affrontare un interrogatorio bello e buono per colpa di una ragazzina di quindici anni. Gli sembrava di essere sotto accusa per aver insidiato la virtù di Ellie, mentre invece la situazione era molto più semplice del previsto: perché doveva essere vissuta con un senso di catastrofe incombente?
“Ecco – si schiarì la voce – vorrei parlarle a proposito di sua figlia…”
L’occhiata furente degli occhi neri di Nicholas Lyod fu davvero temibile ed Andrew dovette controllare il lieve tremito che alla mano e che fece muovere il caffè dentro la tazzina.
“In questo momento mia figlia non può vedere nessuno.”
“Soprattutto te!”
Quel salotto sembrava avere la capacità di far echeggiare i pensieri del proprietario.
“Nicholas, suvvia, non essere scortese – Agnes mise una mano sulla spalla del marito – scusalo tanto, Andrew, ma credo che a mio marito risulti sconvolgente che un ragazzo come te sia nelle grazie di Ellie.”
“Agnes, smettila di dire certe idiozie!” sbuffò l’uomo.
“Ecco – arrossì Andrew – a dire il vero è proprio di questo che dovrei parlarvi… – fu certo di vedere una vena pulsare in maniera molto pericolosa sulla tempia del suo ospite e dunque si affrettò a correggere il tiro – sono venuto qui per scusarmi.”
“Oh, andiamo, Andrew – intervenne Agnes – non c’è niente di cui tu debba…”
“Che cosa è successo perché tu ti debba scusare? – sibilò Nicholas – Che hai combinato alla mia bambina?”
“Veramente – scosse il capo lui, rivolgendosi alla signora, sicuro che almeno lei l’avrebbe ascoltato con il giusto atteggiamento e magari avrebbe calmato il marito – mi volevo scusare per la mia mancanza di rispetto nei vostri confronti: avrei dovuto sincerarmi da subito che Ellie vi rendesse partecipe delle sue passeggiate con me. Non mi conoscete ed avete tutte le ragioni del mondo per preoccuparvi per vostra figlia. Ellie ha quindici anni, all’epoca era ancora più giovane… è stata impulsiva e ha sbagliato, ma la colpa è anche mia.”
“Certo che potevi fermarla da subito invece di fare il farfallone con lei!”
“Farfallone? – Andrew avvampò – Signore, sua figlia ha quindici anni, ma per chi mi ha…”
“Sssh, calmiamoci tutti quanti – Agnes bloccò di nuovo il marito – e cerchiamo di vedere le cose come stanno. Nicholas, per cortesia, smettila di insinuare cose che non sono vere. Non ci vedo niente di male se i due ragazzi sono amici e se nostra figlia vuole accompagnarlo alla stazione. L’unica problematica è che ce l’ha tenuto nascosto per tanto tempo, ecco.”
Andrew si poggiò allo schienale del divano, sempre più convinto a fare un monumento celebrativo di quella donna che finalmente metteva le cose al loro posto. Farfallone? Ma quando mai poteva saltargli in testa una cosa simile?
“E cosa fate durante le passeggiate?” chiese Nicholas con sospetto.
“Chiacchieriamo – rispose Andrew con semplicità – devo dire che Ellie ha una grande fantasia. Vede il mondo in una maniera davvero particolare ed è fantastico starla a sentire: mi sembra di riscoprire il posto in cui vivo, accorgendomi di  tantissimi dettagli a cui non avevo mai fatto caso.”
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma si accorse di aver parlato di getto, dicendo cose che non si era mai fermato a considerare. Ma era vero: gli piaceva camminare con quella ragazzina accanto, la sua voce che parlava e parlava come se fosse guidata da una grande fantasia che le apriva le porte di un mondo magico.
Ellie era la magia laddove Andrew era la razionalità.
“Oh già – sospirò Agnes – quando attacca a parlare è davvero difficile farla smettere. Ce la fai a seguire un filo logico in quello che dice? Io al terzo incantesimo mi perdo.”
“Non potrei mai perdermi con lei che mi fa da guida.” ammise Andrew pensando con dolcezza alla ragazzina. Parlarne così apertamente gli faceva rendere conto di quanto fosse davvero affezionato a lei ed iniziava a capire perché si trovava in quel salotto, perché non aveva lasciato che tutta questa storia finisse ed Ellie non facesse più parte della sua vita.
Perché io non voglio che se ne vada dalla mia vita, assolutamente.
“Lei è unica, te ne rendi conto?” Nicholas Lyod lo squadrò ancora una volta, ma c’era una prima forma di accettazione. Come se le parole dette l’avessero in parte convinto che era degno di fiducia.
“Certo che me ne rendo conto. E mi creda, signore, non vorrei mai che ad Ellie succedesse qualcosa di male. Le assicuro che la tratto sempre in maniera consona.”
Alla sua età…
“Beh, mi pare che la questione sia chiarita – sorrise Agnes – vado a chiamare Ellie, è giusto che si scusi con te per tutto il disturbo che ti ha dato, Andrew.”
“Signori – la bloccò il ragazzo, prima che la donna uscisse dalla stanza – vorrei chiedervi di permettere ad Ellie di continuare con le sue passeggiate per accompagnarmi. E, se ve ne ha parlato, vorrei anche che le deste il permesso di scrivermi: a me non crea nessun problema.”
“Sei sicuro? – chiese Agnes – Guarda che mia figlia è una vera grafomane: perderesti un sacco di tempo a leggere i romanzi che ti scriverà.”
“Le assicuro che non interferirà con i miei studi – sorrise Andrew – assolutamente.”
La donna annuì e uscì dalla stanza ed a Andrew non restò che spostare lo sguardo su Nicholas Lyod.
L’uomo lo fissava con odio misto a rassegnazione. Alla fine si batté una mano sulla coscia e gli puntò l’indice contro.
“Ti avviso, farfallone, se vedo la mia bambina piangere per colpa tua ti accorgerai che la stirpe dei Lyod prende molto sul serio determinate cose.”
“Signore, io…”
“Oh, papà! – Ellie arrivò di corsa in salotto e si buttò sopra il genitore, stringendogli le braccia al collo – Sei fantastico, il migliore del mondo: sai, temevo che saresti stato furioso con me per sempre, come se una magia malvagia ti avesse oscurato il cuore… ma non poteva essere così! Non su di te!”
“Calma, calma! – cercò di bloccarla Nicholas, pur non sciogliendo quella presa – Non credere di essere libera dalla punizione, signorina.”
“Oh, ma non importa! – sorrise lei, baciandolo sulla guancia prima di mettersi più composta – Capisco la punizione e la accetto! Ma la cosa che mi rende felice è che non impedirete a me ed Andrew di vederci!”
“E chi te lo dice che…”
“Ma certo, cara – intervenne Agnes – però cerca di non disturbare troppo il ragazzo, va bene? Lui è molto impegnato e le tue sciocchezzuole non devono interferire, chiaro?”
“Ma certo, mamma! – Ellie corse ad abbracciare pure lei – grazie! Grazie!”
Poi finalmente si girò verso Andrew e gli andò davanti, prendendogli le mani in un gesto impulsivo, senza rendersi conto che era la prima volta che avevano un contatto fisico così tangibile.
“Grazie – mormorò – sei venuto nonostante sia stata tutta colpa mia. E non finirò mai di chiederti scusa per tutto il disturbo che ti ho dato… è che ci tengo a te, Andrew.”
“Anche io tengo a te, piccola Ellie – sorrise lui, ricambiando la stretta e accorgendosi di quanto fossero delicate quelle mani così piccole – come potevo non venire? E poi, come ho detto ai tuoi genitori, è stata in parte colpa mia.”
“Comunque, signorina, tu sei ancora in punizione: torna in cam…”
“Non mi pare bello che Andrew sia venuto qui e che Ellie debba tornare subito in camera – Agnes prevenne per la decima volta il marito – visto che ci siamo propongo che la punizione venga momentaneamente sospesa. E’ quasi ora di merenda, perché non ti fermi da noi, Andrew?”
“Oh sì, sarebbe meraviglioso!” annaspò Ellie, gettando le braccia al collo del giovane.
E Andrew ricambiò quella stretta con tutta la spontaneità che gli era mancata tempo prima quando aveva dato quel fatidico e strano primo bacio.
 
“Sono così felice che papà mi abbia concesso uno sconto sulla punizione – sorrise Ellie una settimana dopo – altrimenti non sarei potuta venire ad accompagnarti.”
“Avete fatto pace del tutto?” chiese Andrew, osservando in lontananza se arrivava il treno.
“Sì, anche se continua a dirmi che devo fare attenzione ed eccetto te non devo parlare con altri sconosciuti! Non l’ho mai fatto.”
“Io ero uno sconosciuto o sbaglio?”
“Oh no, tu non sei mai stato uno sconosciuto – scosse il capo con convinzione – del resto ci siamo presentati dopo quella pallonata, no?”
“E’ stata la presentazione più originale del mondo, lo ammetto.” sorrise lui, sedendosi nella piccola panchina ed invitandola a fare altrettanto.
“Allora… per il poterti scrivere sei ancora d’accordo? – chiese Ellie con timidezza – Ho il permesso dei miei, lo sai. Però mi sono resa conto che ti ho creato così tanto disturbo che forse non ti va più…”
Per tutta risposta il ragazzo aprì la tracolla e tirò fuori un pacco avvolto in un bel cartoncino giallo.
“E’ per me?” chiese sorpresa Ellie.
“Se non sbaglio una ventina di giorni fa era il tuo compleanno, vero? Tanti auguri, sebbene in lieve ritardo.”
Ellie arrossì e si strinse al petto quel regalo, come se fosse la cosa più preziosa del mondo.
“Oh, Andrew! Grazie! Grazie! Sono così emozionata!”
“Perché non lo apri? – le propose lui riprendendo a guardare i binari – Non sei curiosa?”
“Ma come posso? Vorrei, ma è perfetto già così… mi dispiace anche solo l’idea di rovinare questa carta così meravigliosa e…”
“Aprilo entro dieci secondi altrimenti potrei cambiare idea, sai?” la prese in giro.
A quelle parole Ellie ridacchiò e si decise ad aprire il pacco, trattenendo il respiro quando vide di che si trattava.
“Mi hai chiesto se potevi scrivermi, no? – sorrise Andrew, posandole una mano sulla testa – Certo che puoi, e per farlo piuttosto che fogli strappati da quaderno e sporchi di marmellata, non ti sembra meglio usare un vero e proprio corredo per spedire lettere? Effettivamente è comodo avere fogli adatti e buste già a portata di mano, non credi? Ehi!”
“Oh, Andrew! Sei un tesoro!” Ellie, ormai libera da qualsiasi inibizione sul contatto fisico, saltò in ginocchio sulla panchina e gli strinse le braccia al collo.
“Nella tasca all’interno della custodia c’è anche l’indirizzo dove devi spedire le lettere – le spiegò, sciogliendo dolcemente quell’abbraccio – e prima che tu me lo chieda, sappi che le leggerò tutte e non mancherò di risponderti. Anche se ti avviso che non sono un grafomane come te.”
“Conserverò ogni tua lettera come il più prezioso dei tesori! E… oh no, il treno…”
“Sapevamo che era solo questione di un cinque minuti – la consolò lui, alzandosi e recuperando la valigia – consolati Ellie, a metà luglio torno ed iniziano le vacanze anche per me fino a metà settembre.”
“Una lettera alla settimana – Ellie protese il mignolo della mano destra, nel classico gesto del giuramento – è una promessa.”
“Una alla settimana – annuì Andrew, rispondendo a quel gesto – attendo con ansia la tua prima missiva, Ellie Lyod.”
E ancora una volta, si scoprì a pensare che quel gesto valeva molto di più di quel bacio ormai lontano.
Ma davanti a lui c’era solo una ragazzina di quindici anni che gli sorrideva con tutta l’innocenza del mondo.
E quando crescerà cosa farai? Non lo sai che le crisalidi prima o poi diventano farfalle?
 





lo splendido disegno è di Mary *___*

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Capitolo 11
*** Capitolo 10. 1881. Instabilità. ***


Capitolo X

1881. Instabilità.

 

Si era svegliata di pessimo umore, ma non era una novità considerato che Henry era partito solo due giorni prima e dunque si doveva ancora abituare alla sua assenza. Rientrava dunque nella norma che sua madre fosse particolarmente irritante e suo padre più silenzioso del solito: anche loro risentivano della mancanza del primogenito.
Così non vedeva l’ora che la colazione terminasse per poter uscire da casa: quel giorno aveva bisogno di respirare aria pura, non quella pesante che si poteva ancora un po’ tagliare col coltello che stava usando per spalmare il burro sul suo pane.
“Non mi piace quella camicetta – la voce di Susanna ruppe quel silenzio – è troppo frivola per una ragazza perbene come te. Non potresti cambiartela dopo colazione?”
La mano di Laura si strinse inconsapevolmente sulla fetta di pane, tanto che il suo indice si sporcò lievemente di burro. Aveva studiato e lavorato tanto per creare quell’indumento che a detta di Henry e delle sue amiche era bellissimo; perché sua madre doveva sempre criticare le cose di cui andava fiera?
“Non mi pare indecorosa – mormorò, cercando di tenere un atteggiamento rilassato per evitare di far scoppiare qualche litigio – Papà, tu che ne pensi?”
“Cosa? – Elias alzò lo sguardo dal caffè che stava rigirando con meticolosa attenzione, probabilmente perso in chissà quali pensieri – Santo cielo, dovete discutere già di prima mattina?”
“Tua figlia si veste come una civettuola e non dovrei dirle niente?”
“E’ solo una camicetta, Susanna. Dai, Laura, finiamola qui: dopo colazione ti cambi e la questione è chiusa.”
“Perché mi devo cambiare? – protestò la ragazza, sentendosi per la centesima volta in una gabbia. Inconsapevolmente il suo sguardo corse alla sedia vuota accanto a lei e un groppo le salì in gola nell’immaginarsi la voce di Henry che la difendeva, portando un minimo di giustizia in quella stanza – Ci sono stata ore ed ore a lavorarci, ma sembra che questo non importi a nessuno!”
“Mi limito a dire quello che penso del risultato finale, non sto criticando le tue ore di lavoro – scosse il capo la madre, guardandola con rassegnata irritazione – perché devi sempre fraintendere quello che dico?”
“Comunque non ho alcuna intenzione di cambiarmi – mise il broncio – non è indecorosa, se non per te. L’altro giorno ho incontrato anche la signora Fury e mi ha detto che mi sta molto bene.”
“Sono io tua madre e non lei: presumo che il mio parere conti di più. Ma dove ho sbagliato con te, figlia mai? Perché sei sempre così imbronciata e pronta a ribattere con sgarbo?”
“Scusate, mi è passato l’appetito – sospirò Laura, alzandosi in piedi – esco a fare una passeggiata. E prima che me lo chiediate non vado da nessuna parte in particolare e sono da sola.”
“Laura, la colazione non è finita.” le ricordò suo padre con tono impassibile.
“Lascia stare, papà, non ho voglia di litigare ancora con mamma.”
Tanto funziona sempre così – pensò, mentre chiudeva la porta alle sue spalle, ignorando volutamente i richiami di sua madre – è sempre meglio che io esca per evitare che le cose degenerino.
Aveva progettato di fare una passeggiata, ma quello che più importava era camminare con decisione per sfogare la rabbia che le montava dentro e che, altrimenti, sarebbe salita fino a farla piangere come già era successo altre volte. Detestava quel posto, quella gabbia maledetta che la soffocava ogni volta che cercava di essere felice: adesso che Henry ed Andrew non c’erano era come se tutto le andasse stretto ed ogni sua azione fosse tremendamente sbagliata. Più di una volta aveva pensato di correre alla stazione, comprare un biglietto del treno ed andare via, non importava dove… solo lontano da quel posto, dove voler vivere la propria vita non era considerata una cosa disdicevole.
E’ una camicetta! E’ solo una dannata camicetta! Perché devi sempre vedermi come una delusione? – era arrivata all’edificio scolastico appena fuori il paese e con rabbia entrò nel cortile, così silenzioso durante l’estate, andando verso il gruppetto di alberi dove spesso lei ed Andrew si erano sistemati durante l’intervallo. La rabbia fu tale che diede una forte manata sul tronco, facendosi male – Ti detesto con tutte le mie forze!
“Ma che ho di sbagliato? – mormorò, lasciandosi cadere per terra e rannicchiandosi contro quel tronco – Che cosa sta succedendo alla mia vita?”
Rimase in quella posizione per diverso tempo, permettendo che le lacrime portassero via un poco di quel senso di frustrazione che provava, lasciandola svuotata ma più leggera. Asciugandosi le guance prese in mano uno dei nastrini che decorava la camicetta, chiedendosi come fosse possibile che un pezzo di stoffa potesse crearle tanti problemi.
Ma se non è una camicetta sarebbe altro, di cosa ti illudi?
Sapeva benissimo di non essere mai stata la preferita tra i figli e anche lei era la prima a dire che Henry era fantastico. Ma a volte sembrava che sua madre facesse di tutto per farla sentire una delusione, per rimarcare quella preferenza che, a rigor di logica, un genitore non dovrebbe mai mostrare.
“Dannazione, non voglio tornare a casa…” si disse, rialzandosi in piedi e sistemandosi meglio la gonna che, durante quel trambusto, si era spiegazzata in maniera davvero orribile.
“Ehi, Laura Hevans, che ci fai qui?” una voce la costrinse a ricomporsi più in fretta del previsto e a sbattere le palpebre per cacciare via gli ultimi residui di lacrime. Come riconobbe la persona che la stava raggiungendo riuscì anche a sorridere.
“Ciao, Marco – salutò, andandogli incontro – oggi non sei ad aiutare tuo padre?”
“No – rispose lui – il lavoro è poco in questo periodo e papà mi ha detto che posso pure concedermi qualche ora di libertà. E così non trovo niente di meglio che farmi una passeggiata.”
“Niente di meglio?”
“Già – ridacchiò lui – buffo, vero? A scuola non aspetti altro che avere finalmente tempo libero, ma adesso ti risulta strano: forse tornare tra quei banchi ci farebbe apprezzare di più l’estate.”
“Ah, dopo quello che mi ha fatto passare Signor Sorriso – mise il broncio nel dire il soprannome dell’odiato docente di lettere – non tornerei in quei banchi nemmeno per dieci secondi.”
“E allora non è stata una bella scelta quella di venire qui – scrollò le spalle lui – ti va di unirti a me?”
“Perché no?” sorrise Laura, scoprendo di avere estrema voglia di uscire dalla sua disperata routine.
Lei e Marco si conoscevano ovviamente sin dalle elementari, ma non avevano mai stretto una forte amicizia. Un po’ dipendeva dal fatto che lei aveva sempre privilegiato il suo rapporto con Andrew, per quanto concerneva la parte maschile della classe, un po’ dal fatto che Marco era un ragazzo abbastanza tranquillo che tendeva a risaltare poco tra personalità più turbolente.
Parlare con lui era piacevole, una ventata d’aria fresca e di novità: le raccontò del suo lavoro all’ufficio postale, della sua famiglia, dei suoi hobby. Per quanto non ci fosse nulla ci eccezionale in lui era l’esempio più calzante della placidità del paese, quella che non ricercava altro che un’esistenza tranquilla.
“Spero che Andrew se la stia cavando bene all’università – disse ad un certo punto il giovane, mentre passeggiavano lungo un piccolo canale – certo che stare ad East City dev’essere strano.”
“Come mai mi chiedi di lui?” si sorprese Laura.
“Oh, perché sei quella che aveva il rapporto più stretto con lui – scrollò le spalle l’altro – e poi ultimamente mi sono capitate tra le mani delle lettere col suo nome, tutto qui.”
“Ah sì?”
“Mh, hai presente la figlia dei Lyod…?”
“Ah, capito, capito – Laura chiuse l’argomento con un gesto irritato – è solo l’amichetta di penna di Andrew. Non capisco ancora perché si ostini a darle corda invece di dirle di farsi gli affari suoi una buona volta.”
“Oh, andiamo, lo sai come è fatto Andrew – sorrise Marco – è sempre stato molto buono con tutti ed è ovvio che non voglia ferire una ragazzina.”
La conversazione si interruppe dopo quella frase, con l’umore di Laura che tornava cupo: perché oltre ai suoi genitori e alla mancanza di Andrew ed Henry doveva far fronte anche a quella mocciosetta? Non capiva ancora come l’avesse potuta trovare simpatica e carina nei primi tempi. In realtà era una piccola ficcanaso che non faceva altro che disturbare Andrew, sperando di ottenere chissà che cosa.
Avrei dovuto dire ad Andy di essere più deciso con lei… stupida io che ci ho riso.
Le ritornò in mente quella domanda che le aveva rivolto Henry, sull’essere gelosa. Ma le bastava pensare al suo amico per trovare incestuosa anche solo l’idea di baciarlo.
Semplicemente mi dà fastidio vederla ronzare come una piccola ape attorno a lui. Insomma, sono io quella che ha il rapporto privilegiato con Andrew, mica lei!
“Laura?”
“Eh?”
“Mi ascolti?”
“Ma certo – si ricosse – scusa, ero solo distratta.”
“Dicevo che puoi passare a trovarmi a lavoro quando vuoi, eh. Mi fa piacere e di certo non disturbi.”
Ma le parole di Marco suonavano lontane mentre Laura iniziava a rendersi conto di una nuova e tremenda realtà.
Lo sto perdendo… è lei a scrivergli, è a lei che risponde. Io lo sto perdendo e me ne sto rendendo conto solo adesso.
Insomma, l’aveva messo in conto che prima o poi Andrew avrebbe trovato qualcuna. Però sbattere addosso a questa consapevolezza la spiazzava in una maniera inaspettata. Cercò di razionalizzare, di riflettere che in fondo Ellie aveva solo quindici anni e che quelle lettere non volevano dire assolutamente niente.
No, non è vero! Forse lui non se ne rende nemmeno conto, ma non ha mai concesso una confidenza simile ad altra persona che fossi io. Ha quindici anni… ma presto ne avrà sedici… e poi diciassette.
E non c’erano dubbi che lei avrebbe perso il suo miglior amico, il suo secondo fratello, in una maniera tremenda. E scoprì che questo le faceva molto più male che pensare ad un eventuale matrimonio di Henry. Sapeva bene che suo fratello aveva avuto delle relazione nella sua vita da soldato, del resto anche quando era in paese era parecchio popolare tra le ragazze, ma la cosa non le dava minimamente fastidio.
Ma Andrew… no, Andrew era sua personale proprietà. Era il suo confidente, l’amico che sarebbe tornato quando l’Università sarebbe finalmente finita. L’idea che preferisse la compagnia di Ellie alla sua era totalmente intollerabile: era lei che aveva bisogno di posare la testa sulla sua spalla, di sfogare i suoi problemi, di sentire tutte le sue aspettative e le sue paure, come sempre era stato.
Fu con questi pensieri in testa che la sua passeggiata con Marco terminò.
E mentre tornava in paese vide la sua rivale che si dirigeva all’ufficio postale con un gran sorriso, tenendo in mano una grossa busta delle lettere. La seguì con lo sguardo, desiderando con tutto il suo cuore di prendere quei fogli e strapparli.
 
Qualche giorno dopo Andrew ricevette non una ma due lettere provenienti dal paese.
Una era quella canonica di Ellie, la terza ormai della loro promessa e dunque parte di una corrispondenza ormai avviata. Tuttavia la sua attenzione si soffermò sulla seconda e fu molto sorpreso quando scoprì che il mittente era Laura: la sua amica non amava molto scrivere ed erano rare le volte in cui gli aveva spedito qualche lettera. Questo perché preferiva di gran lunga parlare quando tornava in paese, tanto che una volta aveva sostenuto che anticipare le cose nelle lettere rovinava in parte il gusto di dirle. O per lo meno questo succedeva con lui: con Henry la ragazza aveva una corrispondenza molto più stretta, ma questo faceva parte della situazione di separazione che vivevano, dove non si sapeva quando sarebbe stata la prossima licenza del soldato.
Incuriosito e timoroso che ci fosse qualche novità di cui doveva essere avvisato, il giovane si sedette nel suo letto ed aprì la lettera, scoprendo che erano più fogli del solito. Le prime righe scorsero tranquille e questo lo fece rilassare: niente di preoccupante era successo alla sua miglior amica o ad Henry e questo era l’importante. Messa da parte la paura continuò a leggere la grafia leggermente inclinata di Laura, domandandosi che scopo avessero tutte quelle… chiacchiere. Non erano altro che i pettegolezzi del paese, come se all’improvviso la sua amica avesse deciso di raccontargli ogni singolo avvenimento che era successo in quelle tre settimane che era via. Nessun accenno ai suoi genitori o a qualche litigio: quella lettera era incredibilmente falsa.
E semplicemente devo scavare sotto queste parole. Che ti è successo, Laura?  - rifletté, socchiudendo gli occhi, quasi a cercare una seconda lettera sotto quelle frasi – Che è questa improvvisa smania di informarmi dei pettegolezzi?
Forse sentiva la mancanza sia sua che di Henry, ma la spiegazione non tornava del tutto: non era la prima volta che lui ed il soldato erano via contemporaneamente. No, sicuramente Laura era in difficoltà per qualcosa ed istintivamente gli chiedeva una mano in quel modo.
“Si tratta solo di una settimana ancora – mormorò, andando alla scrivania e prendendo un foglio per rispondere in qualche modo a quella lettera – tanto so bene che devo parlarti a quattr’occhi per capire che cosa ti succede, follettino. E capire perché, così all’improvviso, Marco diventa uno dei maggiori argomenti della tua lettera…”
Si dovette concentrare parecchio per buttare giù una risposta decente: non c’era niente di più complicato che cercare di calmare Laura quando non era presente. Se era troppo esplicito come minimo sarebbe scoppiata a piangere, se invece restava sul vago si sarebbe offesa… no, decisamente la corrispondenza non faceva per loro due: erano troppo abituati a guardarsi negli occhi e parlarsi di persona per affidarsi alla parola scritta.
Dopo aver scritto l’indirizzo nella busta, sperando che fosse Laura stessa a riceverla e non sua madre o suo padre, giusto per evitare di mettere altra legna su un fuoco fin troppo scoppiettante, fu veramente lieto di prendere in mano la seconda lettera… scritta da una persona che con la parola scritta si trovava veramente a suo agio.
“Carissimo Andrew,
avrei una noiosissima pagina di problemi di matematica da risolvere, proprio accanto a me, posso sentire persino il libro che mi chiama con stizza, ricordandomi che anche durante le vacanze ci sono i compiti. Ma in una giornata di luglio così bella sarebbe veramente disdicevole immergersi tra numeri ed espressioni, specie quando nella propria testa volano decine e decine di pensieri, proprio come gli stormi di uccelli che la sera volano verso il bosco…”
Mentre leggeva la prima di almeno dieci pagine, Andrew tornò a sdraiarsi sul letto, felice di immergersi nel mondo sospeso tra realtà e magia di Ellie. Era proprio vero che quella ragazzina era capace di fargli vedere il paese e la campagna in un modo del tutto nuovo: le sue parole erano così perfette e cariche di magia che era come venir guidati per un sentiero fatato. Nessuno aveva fantasia quanto Ellie Lyod, di questo il giovane studente ne era certo.
Le sue lettere erano ormai diventate qualcosa di estremamente atteso, come un romanzo di cui si aspetta con ansia il capitolo successivo. Al contrario di Laura che in qualche modo cercava di nascondere i suoi pensieri nelle parole, Ellie si affidava completamente alle lettere, permettendo alla sua parte più intima e personale di uscire. Andrew si rendeva pienamente conto di quanto quella ragazzina gli stesse concedendo, piccoli sogni e fantasie che probabilmente era reticente a dire anche alle persone più care… lei affidava tutto alla parola scritta ed aveva scelto lui come destinatario.
“… ieri ho annunciato ai miei che anche il tuo ultimo esame è andato benissimo. La mamma ti fa tantissimi complimenti e anche papà. Insomma, lui non l’ha proprio detto, ma si capiva che in fondo era contento del tuo risultato: credo che tu gli piaccia. Un giorno, quando sei in paese, posso provare a chiedergli se ti fa conoscere Blanco, il suo purosangue: è un cavallo spettacolare, proprio come quelli delle favole…”
All’idea di avere a che fare di nuovo con Nicholas Lyod, Andrew ebbe un brivido: non aveva mai conosciuto un padre così geloso della propria figlia. Ancora si chiedeva come fosse uscito indenne da quella casa, anzi con il permesso di continuare a frequentare la ragazzina.
E, a proposito di genitori, sarebbe stato educato presentare Ellie ai suoi, perlomeno a sua madre. Le aveva accennato vagamente di lei, quando aveva dovuto in parte spiegare la storia della principessa in pericolo, ma ormai era tempo di introdurre Ellie a casa. Non aveva dubbi che sua madre l’avrebbe adorata: Ellie aveva la dote di piacere a tutti, se non ricordava male anche Laura la trovava parecchio simpatica.
“… ed insomma, alla fine ho posto il fatidico punto e mi sono accorta che la storia era conclusa, così come il quaderno. Ed è stata una sensazione allo stesso tempo esaltante e triste, perché in quelle storie ci ho messo tanto impegno e credevo che non sarei mai riuscita a terminarle.
Ecco, mi chiedevo se magari quando torni ti va di leggerle…”
Andrew sgranò gli occhi con sorpresa nel leggere questa frase, tanto che si mise seduto.
I quaderni di storie di Ellie erano quasi un mito: ne aveva parlato diverse volte durante le loro passeggiate e nelle lettere erano saltati fuori in più occasioni. Da quanto aveva capito erano i suoi tentativi di scrittura, storie che si inventava e che mano a mano prendevano forma. Sembrava che solo una sua amica ogni tanto ne avesse letto qualche stralcio, ma quasi sempre per caso.
“Mi stai chiedendo di leggerli? – mormorò Andrew, incredulo – Oh, Ellie, per te è una vera e propria prova di coraggio mi sa…”
Perché si capiva che se da una parte ne andava estremamente fiera, dall’altra se ne vergognava profondamente. Era come se avesse la quasi totale certezza che nessuno avrebbe compreso le sue storie, giudicando le sue fantasie come sciocchezze infantili. E per lei che ci metteva tutta se stessa quando si trovava a scrivere in quei quaderni sarebbe stata una pugnalata al cuore.
Terminata la lettura di quella seconda lettera andò alla scrivania, preparandosi a rispondere: aveva scoperto che era veramente semplice scrivere ad Ellie. Era come se improvvisamente avesse una grande voglia di raccontarle le meraviglie di East City, delle sensazioni che gli procurava passeggiare tra tutte quelle opere architettoniche, tra quei parchi così curati. Con Laura si era sempre e solo limitato a descrivere la città e le persone, ma con Ellie sapeva di potersi spingere oltre.
Con lei c’era un affiatamento che non aveva mai avuto con alcuna persona.
 
“Buongiorno, Marco!” salutò Laura, entrando nell’ufficio postale.
“Buongiorno, Laura – sorrise lui, chinandosi da dietro il bancone e riemergendo due secondi dopo – ci sono ben tre lettere per te, oggi. O meglio, due per te ed una per i tuoi genitori.”
“Oh bene – Laura prese in mano le buste e constatò con piacere che si trattava di Henry che, come sempre, scriveva missive separate a lei ed ai loro genitori. Mentre l’altra era di Andrew, sicuramente in risposta alla sua di inizio settimana – effettivamente mi aspettavo che oggi ci fosse posta per me.”
“Sei passata solo per questo? Potrei offendermi.”
Marco si mise a braccia conserte, posandosi sul bancone e Laura sorrise con malizia, mentre si metteva le lettere nella tasca della gonna.
Non sapeva per quale motivo, ma da quella passeggiata, da quanto i suoi pensieri avevano subito quel brusco trauma di Ellie ed Andrew, si era ritrovata a frequentare quel ragazzo. Lei sapeva benissimo di esser sempre stata parecchio popolare tra i maschi, anche se nessuno le aveva mai detto niente, forse bloccati dal vederla sempre con Andrew.
Marco era carino: quando avevano finito le superiori aveva ancora un aspetto gracilino, ma in quei due anni era cresciuto molto ed era diventato parecchio più alto. Aveva morbidi capelli scuri che gli scendevano in ciocche dritte sulla fronte abbronzata, molto diversi da quelli di Andrew, castani e parecchio più corti.
Sicuramente aveva una mentalità molto semplice, ma si capiva che era un giovanotto di buon cuore e che… era chiaramente attratto da lei.
Ma sì, perché no? – rifletté, mettendosi davanti a lui ed assumendo la medesima posa, in modo che i loro visi fossero alla stessa altezza – Del resto Henry alla mia età aveva già baciato diverse ragazze e, sicuramente, anche se non mi ha detto niente, anche Andrew l’ha fatto. Perché loro e non io…?
“Mi dispiace di averti offeso – sorrise – c’è un modo per farmi perdonare?”
“Non saprei…” arrossì lui, iniziando a capire.
“Tuo padre salterà fuori nei prossimi dieci secondi?”
“No, è andato a fare alcune commissioni.”
Come disse quella frase si sporse e lo stesso fece Laura.
Spesso tra le compagne si era parlato delle esperienze dei primi baci: da quelle più semplici dei baci a stampo, a quelle più complesse dei baci adulti. Laura non fece caso a tutti quei ricordi, agì semplicemente come l’istinto le diceva, assaporando le labbra morbide del ragazzo, allungando una mano per passarla su quei capelli scuri e folti.
E si sentì bene, perché dopo tanto tempo la vita le sembrava di nuovo sua.
Nessun rimprovero da sua madre o suo padre, si sentì persino libera dalla presenza così protettiva di suo fratello: era come un uccellino che finalmente apre le ali e spicca il volo dal nido che per tanto tempo l’aveva tenuta imprigionata. E che scopre che volare regala un senso di libertà indescrivibile.
Fu Marco a interrompere quel bacio, così carico di significato, e a tirarsi indietro.
“Oh, Laura – sospirò – baci in maniera fantastica.”
“Non te la cavi male nemmeno tu – sorrise lei, leccandosi le labbra – sarebbe interessante rifarlo qualche volta, che ne pensi?”
“Direi proprio di sì.”
“Ma che rimanga tra di noi, intesi?”
“Ovviamente –annuì con un sorriso Marco – occhio che sta arrivando qualcuno.”
Laura annuì e con una strizzata d’occhio si girò per andarsene, ma si fermò quando vide che ad entrare era Ellie. Le due si squadrarono e una lieve ostilità apparve negli occhi di entrambe.
“Ciao, Ellie – la salutò Marco che ormai ben conosceva la ragazzina – so già cosa vuoi.”
A quel punto la ragazzina perse qualsiasi interesse per Laura e corse verso il bancone dove un sorridente Marco le porgeva una spessa lettera. Laura si girò a guardarla e notò come stava crescendo: l’aveva vista poche volte da quando aveva terminato la scuola ed era scioccante vedere quelle gambe snelle che uscivano dalla gonna al ginocchio, la vita snella, quella folta treccia… quella ragazza che piano piano stava rubando il cuore di Andrew. Erano ancora segnali appena accennati: ma annunciavano che entro i prossimi tre anni Andrew sarebbe capitolato davanti alla bellezza che prometteva di diventare Ellie Lyod.
Ti odio profondamente, Ellie Lyod… non pensare di poterti prendere l’esclusiva di Andrew in questo modo. Lui è stato mio per anni ed anni e non sarà il tuo visino delicato a cambiare tutto questo.
“Grazie mille, e tanti saluti al signor Ormel.” salutò Ellie, tenendo stretta la lettera appena ricevuta.
Di nuovo le due rivali si guardarono e le mani della ragazzina accentuarono la presa sulla lettera, quasi avesse il timore che Laura gliela potesse strappare via. Solo quando fu uscita con uno scampanellio della porta Laura si concesse di girarsi verso Marco.
“Tutto bene?” le chiese il giovane.
“Ovviamente – annuì lei – allora ci vediamo.”
“Ecco – Marco girò attorno al bancone ed andò davanti a lei, prendendole le mani – giovedì mattina solo libero… ti va di fare una passeggiata assieme? Come l’altra volta.”
“Ma certo – annuì Laura – ci vediamo alla scuola alla stessa ora dell’altra volta, va bene?”
“Perfetto!”
La ragazza sorrise e si mosse verso la porta.
Poi si rese conto di un dettaglio importante si girò di nuovo verso Marco.
“Ti piace la mia camicetta? – chiese con quella che si poteva definire ansia – L’ho fatta io, sai.”
“Trovo che ti stia molto bene – sorrise lui – mi piacciono molto quei nastrini verdi.”
E Laura si sentì incredibilmente felice, alla faccia di sua madre che non faceva altro che criticarla.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11. 1881. La merenda del faccia a faccia. ***


Capitolo XI

1881. La merenda del faccia a faccia.

 
 

“Bentornato a casa!”
Andrew fece appena in tempo a posare la valigia prima che Ellie gli si catapultasse addosso, stringendogli le braccia attorno alla vita. Per un secondo rimase interdetto davanti a quel saluto così entusiasta, ma poi abbassò lo sguardo sul viso sorridente, sugli occhi neri così luminosi nella gioia dell’incontro, e si trovò a ricambiare l’abbraccio.
“E’ bello rivederti, Ellie.” sorrise.
“Questa mattinata sembrava non passare mai – confessò la ragazza mentre si incamminavano verso casa – hai presente quando sei a scuola e c’è una lezione veramente noiosa? Sembra proprio che il tempo non scorra, come se piccoli spiritelli invisibili impedissero ai granelli della clessidra di scendere.”
“Sono felice di aver posto fine alla tua attesa – la incoraggiò – adesso puoi stare tranquilla: resterò a casa per un mese e mezza.”
“Un po’ sarà strano, sai? – ammise lei camminando con le mani dietro la schiena – ormai scriverti era un abitudine e non doverlo fare mi mancherà. In fondo era un po’ come sentirci… ed in paese non è che ci capiti molto spesso.”
“Se proprio desideri che non ci vediamo fai pure.” la prese in giro, sapendo di averla colta di sorpresa.
“Eh? – lei arrossì violentemente – Dici che ci possiamo vedere in questo periodo che sei qui? Sul serio? Non ti disturba?”
L’emozione nella voce di Ellie era tale che Andrew scoppiò a ridere.
“Sul serio, Ellie Lyod, che senso avrebbe aver sfidato tuo padre se poi non mi godo la tua compagnia una volta che sono qui? E poi io ho conosciuto i tuoi genitori, mi pare il caso di farti conoscere i miei, no?”
“I tuoi genitori? Vuoi dire… venire a casa tua?”
“In genere funziona così.”
“Oh, Andrew! E’ tutto così speciale e meraviglioso! – Ellie sospirò estasiata – E’ come se una magica luce avvolgesse quest’estate così speciale. Credevo che niente fosse più bello di ricevere le tue lettere, ma questo poi… oh, a proposito di lettere! Davvero la biblioteca dell’Università ha le vetrate così alte? Come leggevo la tua lettera mi sembrava di essere lì, in mezzo a tutti quei libri! Dev’essere una sensazione fantastica: ti senti circondato da tutta quella parola scritta ed in qualche modo è rassicurante.”
“Rassicurante?” lui la scrutò con attenzione, in parte felice che avesse scelto proprio quell’aggettivo, il medesimo che avrebbe usato lui.
“Sì, rassicurante. Un giorno la vorrei proprio vedere East City… anche se niente è come stare qui. Proprio ieri sono andata a fare una passeggiata e…”
“Andy!” una nuova voce interruppe la frase di Ellie ed i due si girarono con curiosità verso il paese ormai vicino. Una figura snella, chiaramente riconoscibile dai folti capelli rossi, correva verso di loro: arrivata a pochi metri, Laura tese le braccia e si buttò addosso all’amico, ridendo di gioia.
“Laura! – la abbracciò Andrew, sorpreso da quell’improvvisata – A che devo l’onore?”
“Non posso venire a prendere il mio Andy? – chiese lei con malizia, baciandolo sulla guancia – Almeno fino a cinquanta metri dall’ultima casa mi è consentito andare! Posso scortarti fino a casa, giovane universitario? Bisogna festeggiare la fine del tuo secondo anno e la tua ritrovata libertà per un mese e mezza.”
“Ehi, che impazienza – ridacchiò Andrew – ma che hai?”
“Sono solo felice che tu sia qui! Lo sai che senza Henry mi sento sola!”
La ragazza si staccò finalmente da lui e si protese a tirare la treccia di Ellie, come se fosse una bambina.
Andrew la osservò con attenzione e capì che era tutta apparenza, proprio come quella famosa lettera.
Che hai, Laura? Che ti succede?
“Allora vogliamo andare? – tese la mano lei – Così saluto anche i tuoi che è da un po’ che non li vedo. Tanto Ellie può tornare a casa da sola, vero?”
“Ma io…” protestò la ragazzina, guardando supplichevole Andrew.
Il giovane si girò verso di lei con aria di scusa, non volendo congedarsi da lei in modo così frettoloso, ma era come se un senso di urgenza gli dicesse di seguire Laura. Tutta la follia di quella lettera così frivola gli tornò prepotentemente in mente, assieme alla promessa che aveva fatto a se stesso di prendersi sempre cura di lei, specie quando non c’era Henry.
“Ti dispiace, Ellie? – le chiese mettendole una mano sulla spalla – vengo a trovarti in questi giorni, te lo prometto.”
“Va… va bene – annuì lei mestamente, abbassando il capo in segno di sconfitta – allora ti aspetto. Anzi, forse è meglio che vada… mi sono ricordata che devo finire delle cose!”
Fu chiaramente una fuga per non far vedere che stava per scoppiare a piangere e questo fece sentire Andrew un vero e proprio mostro, capace solo di rovinare il momento di felicità di quella ragazza. Ma per una che piangeva, l’altra era fin troppo allegra e al giovane Fury non restò che spostare l’attenzione su di lei.
“Tutto bene?” le chiese con aria significativa mentre si avviavano.
“Certo che va tutto bene – scrollò le spalle lei, smettendo in parte quella troppa felicità che aveva mostrato finché era presente Ellie – che c’è? Non posso mostrarmi felice per il tuo ritorno?”
“E’ solo che in genere venivo io a prenderti a casa tua. Mi pare strano che all’improvviso tu abbia deciso di cambiare le regole del gioco.”
“Dici questo perché ti ho levato due minuti in più con quella ragazzina? Scusa la domanda, ma chi è più importante tra noi due?”
“Laura… – Andrew sospirò, non volendo minimamente mettere a confronto due persone così diverse – si può sapere cosa ti sta succedendo?”
“Attendo una risposta.” lei si fermò in mezzo alla strada, squadrandolo con attenzione.
“Non l’avrai – scosse il capo con decisione – perché è una domanda così stupida che non merita nemmeno di essere presa in considerazione. E gradirei che invece di tenere questa facciata di spensieratezza mi dicessi che cosa ti disturba così tanto.”
“Disturbare? Qualcosa che disturba me? – lei lo guardò con aria di finta sorpresa – Quando mai è successo! Ho dei genitori che mi adorano, mia madre in particolare mi appoggia in tutto e per tutto. Mio fratello mi è sempre accanto, a volte anche troppo… ed il mio miglior amico…” si morse la lingua e tacque con aria stizzita.
“Ed il tuo miglior amico? – la incitò Andrew con aria seccata – Arriviamo al punto, coraggio.”
“Ciao, Laura! Ciao, Andrew, bentornato.”
“Ciao, Marco! – Laura si girò verso il nuovo arrivato con un gran sorriso – Pensavo che stessi lavorando.”
“Devo fare una commissione per mio padre. Allora, Andrew, tutto bene?
“Tutto bene – il giovane gli strinse la mano con un sorriso – è da parecchio che non ti vedevo. So che ora lavori all’ufficio postale di tuo padre.”
“Eh già, i classici affari di famiglia. E proprio questi mi spingono ad andare: ci vediamo.”
“Giovedì?” gli chiese Laura prendendolo per mano.
“Solita ora.” annuì lui con un sorriso.
Come si fu allontanato Andrew squadrò l’amica con attenzione e si accorse che lei lo guardava con quella che si poteva definire soddisfazione, quasi gli avesse dato uno smacco.
“Hai parlato spesso di lui nell’ultima lettera che mi hai mandato.”
“Qualcosa in contrario? – chiese lei, arricciandosi una ciocca attorno all’indice della mano destra – Almeno io me li scelgo di un’età decente… oh, ma scusa, non vorrei mai offendere la principessina dalla treccia nera.”
“Ma che stai dicendo?”
“Niente, niente… sai che ti dico? Mi è passata la voglia di accompagnarti. Ci vediamo in giro!”
 
Ellie chiuse la porta alle sue spalle e si buttò nel letto, permettendo a tutte le sue lacrime di uscire.
Odiava Laura Hevans, in quel momento non aveva mai provato così tanto odio per una persona.
Ma perché? Perché non le hai detto che preferivi stare assieme a me?
Era una pessima sensazione quella di sentirsi tradita proprio da Andrew. Aveva sperato tanto che il loro legame fosse speciale, tanto da avere la precedenza su tutti gli altri, ma a quanto sembrava Laura era ancora la preferita.
Forse… forse lui spera di fidanzarsi con lei e non mi vuole dire niente!
Fu un pensiero tremendo, ma aveva delle solide basi su cui fondarsi, prima tra tutte la bellezza matura e smaliziata di lei. Senza contare che si vestiva davvero bene e le sue forme erano valorizzate in maniera divina. Lei, invece, per quanto fosse cresciuta, non avrebbe mai raggiunto la prosperità di Laura: lo si capiva benissimo, anche perché nemmeno sua madre era molto abbondante di forme.
Col passare del tempo aveva accettato questo suo restare relativamente piccola e aveva puntato tutto sul fatto di essere ben proporzionata, di avere un viso dai lineamenti delicati e anche le sue gambe erano piacevoli a vedersi… ma sembrava che tutto questo dovesse crollare davanti alla perfezione di Laura Hevans, la ragazza a cui stavano perfettamente persino le lentiggini sul naso.
Rimase così per diverso tempo, crogiolandosi nell’autocommiserazione. Ma poi un primo moto d’orgoglio la colse e decise di passare al contrattacco.
“Papà! – si asciugò le lacrime e scese al piano di sotto, andando nella stanza dove suo padre si occupava della documentazione dei terreni – Papà! Io sono bella?”
“Diamine, principessa, certo che sei bella! – Nicholas posò i fogli che stava consultando e le dedicò immediatamente tutta la sua attenzione – Nessuna è paragonabile a te e… ma che sono questi occhi tristi? Quel… quel disgraziato! Lo sapevo!”
“No… no, papà, aspetta! – si impanicò Ellie, vedendo l’uomo che iniziava ad agitarsi – Non arrabbiarti con lui, davvero!”
“L’avevo avvisato che se ti avessi visto piangere per colpa sua…”
“Non è colpa sua! – lo bloccò Ellie – Lui è fantastico come sempre.”
“E allora che cosa provoca questo broncio nella mia bambina?” – Nicholas si accostò a lei e le sistemò una ciocca di capelli – Non rovinare il tuo visino così, fanciullina, non davanti a me.”
“E’… è quell’altra – ammise Ellie, abbracciandolo – è più grande di me ed è molto più bella. E ho paura che Andrew se ne accorga da un momento all’altro.”
“Qualcuna più bella di te? – l’uomo la sollevò da terra e la squadrò con aria decisa – Ellie Lyod non c’è nessuna più bella di te, sono stato chiaro? E se quell’idiota di Andrew Fury sceglie di…”
“Non è un’idiota!”
“… sceglie un’altra a prescindere dall’età che avete, è uno che non ti merita.”
Ellie meditò su queste parole, stringendosi ancora di più al genitore: tra le sue braccia si sentiva così sicura di se stessa, allo stesso modo di quando era sola con Andrew. Perché la presenza di Laura doveva metterla in simile difficoltà, facendola sentire così inadeguata sia fisicamente che mentalmente?
“Sai che ti dico? – esclamò all’improvviso, sentendosi estremamente offesa – Non me ne importa niente di lei! Andrew è solo mio e non ho intenzione di cederlo a nessuno! Lotterò con tutta me stessa, come è vero che mi chiamo Ellie Lyod!”
“Ahah, ragazza – suo padre la mise a terra e sorrise compiaciuto – così si fa! Una Lyod non si arrende mai e poi mai fino a quando non ottiene quello che vuole. E tu sei sangue del mio sangue, signorina, non puoi che essere la puledra vincente!”
“Nicholas Lyod! – Agnes era appena entrata nella stanza – ma come ti salta in mente di chiamare nostra figlia puledra! Non è un animale d’allevamento.”
“Ma sono vincente – corresse Ellie, mettendosi le mani sui fianchi ad imitazione della posa paterna – e te lo dimostrerò, Laura Hevans!”
“Che?” la donna guardò con preoccupazione la figlia.
“Va tutto bene, tesoro – Nicholas annuì con convinzione – mia figlia sta semplicemente per dimostrare che una Lyod non si arrende mai e poi mai.”
 
Una settimana dopo Andrew era arrivato alla conclusione che le femmine fossero una razza davvero strana e che due esponenti in particolare stavano facendo a gara per farlo impazzire.
Innanzitutto c’era Laura: sembrava ancora in parte offesa per quella piccola discussione che avevano avuto al suo arrivo. E sembrava gliela volesse far pagare facendosi vedere il più possibile in giro con Marco, come se ne dovesse essere estremamente geloso. Ora, Andrew non aveva niente contro il suo ex compagno di classe che considerava una bravissima persona, ma oggettivamente non lo vedeva come il fidanzato giusto per Laura e la cosa gli dispiaceva per entrambi. Sotto un certo punto di vista era sicuro che Laura stesse usando il giovane solo per dargli una lezione.
Lezione di cosa poi? Non capisco tutta questa gelosia.
E se gelosa era una anche l’altra non scherzava e questo era un argomento ancora più delicato.
In quei giorni Ellie aveva perso il suo atteggiamento spensierato per mostrarsi decisamente combattiva, anche se sembrava un combattimento fine a se stesso. Ogni volta che si incontravano per caso lei alzava le spalle, serrava i pugni, sembrava quasi che dovesse fare a botte con qualcuno, anche se in realtà voleva ostentare una sicurezza che non aveva; gli parlava in modo vago, girava il viso con sdegno, insomma sembrava che gliela volesse far pagare per quanto era successo al loro arrivo in paese.
Perché ovviamente è gelosa di Laura… cielo, che pasticcio.
“Andy – sua madre interruppe quei pensieri entrando in camera sua – mi avevi parlato di una tua amica che volevi invitare a casa uno di questi giorni. Hai già scelto quando? Così preparo qualcosa di speciale.”
“Tutto quello che voglio è prendere un treno per East City e scappare dalla follia delle ragazze – sospirò lui, abbandonando la posizione sdraiata nel letto e mettendosi più composto – Forse questo invito è il caso di rimandarlo, mamma.”
“Follia delle ragazze? – lei lo guardò con aria incuriosita – Che cosa possono averti mai fatto?”
“Sono follemente gelose una dell’altra, tutto qui. E ciascuna me lo dimostra a modo suo… il giorno che si incontrano per strada si ammazzano, credimi.”
“E tu cosa provi per queste ragazze?” gli si sedette accanto e gli accarezzò i capelli, incitandolo a parlare.
“Beh, Laura… lo sai cosa provo per lei. E’ la mia sorellina, la mia miglior amica: farei di tutto per vederla felice, ma in questo momento le sto procurando più dolore che altro. E credo… credo che si stia vedendo con una persona solo per punirmi in qualche modo.”
“E l’altra? Non credo di sbagliare nel dire che è la giovane figlia dei Lyod, vero?”
“E’ lei… – ammise Andrew, abbassando lo sguardo a terra – mamma, ti è mai capitato di incontrare una persona a cui ti senti di confidare anche le cose più segrete? Quelle sensazioni che probabilmente nessuno potrebbe mai capire?”
“Oh, Andy, ma qui stiamo parlando di cose serie…”
“Ellie ha appena quindici anni – scosse il capo – e lo sta pienamente dimostrando. E’ gelosa di Laura, tantissimo… e… sai quando una ragazzina si mette sempre a petto in fuori, sguardo imbronciato come a dire come puoi vedere sono una persona più forte di te?”
Anna scoppiò a ridere a quella buffa imitazione del figlio.
“Oh, piccolo mio – lo abbracciò infine – hai a che fare con due belle peperine, vero?”
“Non potranno mai andare d’accordo.”
“Non essere pessimista, suvvia. Del resto sono due ragazze importanti nella tua vita.”
“Un giorno Ellie potrebbe diventarlo in maniera incredibilmente seria – ammise lui per la prima volta – è che… ho la certezza che anche cercando per tutta Amestris non ne troverei un’altra che la possa eguagliare. E mi fa paura, perché sto parlando di una ragazzina.”
“Fisicamente provi qualcosa per lei?”
“Certo che no! – arrossì Andrew – Mi sentirei un mostro anche solo a pensarlo. Però… a leggere le sue lettere, a parlarci... lei è… è quella giusta, lo sento.”
“Allora la voglio proprio conoscere, tesoro – la donna lo baciò sulla guancia – e non ti preoccupare, so benissimo che non puoi pensare a lei in maniera fisica. Ma tu sei sempre stato così diverso dagli altri ragazzi ed è normale che abbia trovato una personalità speciale per completarti. E, prima che tu dica altro, ti assicuro che gli anni passano in fretta… ha quindici anni, hai detto? Andy, fidati che ne avrà diciotto prima di quanto tu creda. E ho il vago sospetto che i vostri sentimenti non potranno che crescere.”
“E Laura non lo accetterà mai – sorrise mestamente Andrew – per una che faccio felice l’altra piange o si infuria, pare che sia questo il destino. Dannazione… vorrei solo che riuscissero a capire che quello che provo per l’una non potrà mai cambiare quello che sento per l’altra.”
“E perché non glielo dici in faccia?”
“Perché… mi pare una cosa estremamente improbabile – la guardò lui, ma gli occhi castani diventarono remoti, come se una prima bozza di piano gli fosse venuta in mente – ma forse… forse proprio per questo… Mamma, ho cambiato idea su quella merenda: ti va bene se la facciamo questo venerdì?”
“Più che volentieri. Fammi indovinare, oltre ad Ellie viene anche Laura?”
“Sei proprio mia madre.” ridacchiò lui, baciandola sulla fronte.
 
Tre giorni dopo Ellie bussò alla porta di casa Fury sentendo un brivido d’eccitazione su tutta la sua piccola persona. Conoscere i genitori di Andrew era una novità del tutto nuova ed elettrizzante e per lei significava davvero tanto: era come se un altro piccolo passo verso il suo grande sogno d’amore fosse stato appena fatto. In quel pomeriggio Laura Hevans non aveva nessuna importanza.
“Ciao, Ellie – la salutò Andrew, aprendole – tutto bene?”
“Ma certo! – arrossì lei – Sono puntuale?”
“Puntualissima, entra pure. Che c’è in questo pacco?”
“So… sono dei biscotti che ho fatto io. Mi… mi sembrava carino portare qualcosa dato che i tuoi genitori sono stati così gentili da invitarmi a casa loro. Scusa… sono… sono un po’ agitata.”
“Rilassati – le sorrise, liberandola del pacco ben confezionato e chiuso con un nastro giallo – non hai nulla da temere. Sono felice che tu sia qui e sono certo che piacerai tantissimo ai miei genitori.”
“Lo spero tanto, tu piaci molto ai miei!”
“Vieni, il salotto è qui. Mamma, papà, voglio presentarvi Ellie Lyod, una persona per me davvero speciale: vi ho parlato di lei diverse volte.”
Ellie avanzò timidamente e strinse la mano a quelle due persone che le sembravano così eleganti e gentili. Aveva passato tutta la mattina cercando le frasi giuste per presentarsi a quella che comunque era una personalità molto importante come il notaio del paese e alla sua consorte.
“Felice di conoscerti, signorina – la salutò Andrew senior – mio figlio finalmente ti porta a casa.”
“Ma guardati, sei davvero graziosa – Anna, prevenne qualsiasi saluto formale abbracciandola – e questo vestito ti sta d’incanto, mette in risalto i tuoi splendidi capelli neri.”
“Oh grazie!” Ellie arrossì, sentendosi in paradiso.
“Mamma, Ellie ha fatto dei biscotti – intervenne Andrew – credo che si accosteranno perfettamente alla torta che hai fatto tu: hanno un profumo delizioso.”
“Davvero? Tesoro, non dovevi disturbarti tanto.”
“Mi… mi sembrava carino.”
“Accidenti, qui mi sa che abbiamo a che fare con una cuoca provetta, guarda che perfezione. Vado a sistemarli in un vassoio, intanto voi accomodatevi.”
Ellie a quel punto non ci vedeva più dalla gioia: quella merenda così importante stava procedendo in modo perfetto. I genitori di Andrew erano delle persone adorabili e facevano di tutto per metterla a suo agio: le chiesero della sua famiglia, dei suoi studi, parlare con loro non era assolutamente difficile.
E poi, cosa più importante, era seduta accanto ad Andrew, il suo Andrew. Come aveva mai potuto pensare che Laura glielo portasse via? Era lei la donna della sua vita, era più che chiaro. Altrimenti quell’incontro non sarebbe stato così perfetto.
Dopo mezz’ora circa si sentì bussare alla porta ed Andrew si alzò, lanciando una rapida occhiata a sua madre.
Ellie si chiese chi mai potesse essere, dato che la merenda era già in pieno svolgimento.
“… non ti preoccupare se avete già iniziato – quella voce arrivò dal corridoio – te l’avevo detto che avrei fatto circa mezz’ora di ritardo per via di alcune commissioni. Avete fatto più che bene. Buonasera signori Fury, è un piac…”
Ellie si alzò interdetta dal divano e fissò Laura, ferma alla porta assieme ad Andrew.
Nell’ordine tra le due rivali passò uno sguardo di incredulità, uno di odio furente, uno di comprensione. E fu proprio in quel momento che l’attenzione si spostò su Andrew, chiaro responsabile di quel complotto.
Come ha osato?! – i pugni di Ellie si strinsero con tale rabbia che divennero bianchi – come ha osato!
“Vieni, Laura, benvenuta…”
La presenza dei genitori di Andrew costrinse tutti a tenere un’aria di educata tranquillità, ma per la prima volta le due rivali erano faccia a faccia e questo era perfettamente intuibile. Per evitare di fare favoritismi, Andrew cambiò posizione e si sedette su una poltrona, con Laura ed Ellie che venivano a trovarsi rispettivamente alla sua sinistra e alla sua destra. Questo ovviamente lo espose ad un fuoco incrociato che nemmeno si era immaginato.
“E’ stato davvero un piacere trovare qui la giovanissima Ellie.”
“E per me è stato un piacere vederti arrivare, Laura Hevans. Sbaglio o sei sempre in giro con il figlio del proprietario delle poste negli ultimi tempi? Oh, ma assaggia i biscotti, li ho fatti io… e sono buonissimi, vero Andrew?”
“Ma certo e…”
“Che carina, ti diletti in cucina, e dimmi la tua mamma ti aiuta? Non sia mai che combini guai col forno… alla tua età si tende ad essere disastrosi, ma poi si cresce.”
“Ho fatto tutto da sola, cosa credi?”
“Mh, discreti.”
“Laura, e dai…” mormorò Andrew, guardando con aria di scusa i suoi genitori, in parte preparati a quanto stava succedendo… ma mai abbastanza. E, a dispetto della situazione precaria, i due sembravano anche divertirsi parecchio, al contrario del loro disperato figlio.
Ed il piano prevedeva che ad un certo punto i due grandi si ritirassero, adducendo come scusa di avere alcune faccende da sbrigare.
E fu con grande rammarico che il giovane Fury restò solo in mezzo alle due gatte infuriate.
“Comunque, Andrew – disse subito Ellie come restarono solo in tre – se a te piacciono i miei biscotti li posso fare ogni volta che vuoi. Te li puoi portare anche ad East City.”
“Ti ringrazio, è un pensiero gentile.”
“Oh, ma ci penso io per questo! – si intromise Laura – Del resto lo conosco da così tanto tempo che so a memoria i suoi gusti.”
“L’idea è stata mia, tieniti alla larga!”
“Ellie Lyod, finiscila, non sai nemmeno di che parli: torna a giocare con le bambole!”
“Buone…” mormorò Andrew.
“Torna tu a giocare col tuo bambolo! – Ellie si alzò in piedi con stizza – Andrew, è mio!”
“Tuo? – Laura scoppiò a ridere – ti prego! Non farmi ridere… Andy, ma la senti? Ottima dichiarazione, Ellie Lyod, meriti un applauso.”
“Sei… sei una persona perfida! – esclamò Ellie mentre le prime lacrime uscivano – Solo… solo perché ho quindici anni i miei sentimenti non contano?”
“No, no… Ellie, non piangere – intervenne Andrew, alzandosi e andando verso di lei – non è il caso di…”
“Sì che è il caso! – si ritrasse lei – E tu sei un perfido mascalzone che gioca con i sentimenti delle fanciulle ingenue! Ci tieni sul filo del rasoio entrambe! Ma che ti è saltato in mente di… di… di invitarci assieme?”
“Che? No, io…”
“No, no, proseguiamo il discorso – anche Laura si alzò in piedi – che cosa ti è saltato in mente di invitarci entrambe a questa sceneggiata?”
“L’ho detto prima io…” singhiozzò Ellie.
“Finiscila, frignona.”
“Sentite – Andrew non sapeva da che parte girarsi – perché non ci mangiamo una fetta di torta e ne parliamo con calma?”
“Io sono disperata e tu… tu proponi di mangiare la torta? Te la butto in faccia la torta!” esclamò Ellie.
“Ti spacco quel vassoio in testa, idiota!” esclamò contemporaneamente Laura.
“Insomma basta tutte e due!” scoppiò Andrew, alzando la voce come mai era successo ed ottenendo finalmente il silenzio desiderato. Non avrebbe mai pensato che la situazione potesse degenerare fino a quel punto, con lacrime e minacce da entrambe le parti (perché anche Laura aveva iniziato a piangere, giusto per rendere le cose più difficili). O prendeva in mano le redini o quelle due sarebbero andate avanti ad oltranza.
“Adesso… ci sgridi anche…” mormorò Ellie, singhiozzando.
“Ellie, finiscila, non sto sgridando nessuno – sospirò, accostandosi a lei e asciugandole le lacrime con un fazzoletto – adesso fai la brava e siediti. Forza, bevi un bicchiere d’acqua.”
“Andrew…”
“Laura, siediti pure tu, per favore, e calmati. E’ ora di finirla con questa lotta senza quartiere che vi siete dichiarate, va bene? Non ha alcun senso.”
“Per me ce l’ha – scosse il capo lei, andando verso la porta – e mi pare che tu abbia fatto già la scelta. Complimenti, signorina Lyod.”
“Ellie, ferma qui – mormorò Andrew, prima di correre dietro a Laura. La raggiunse che era ormai vicino all’ingresso e la afferrò per il braccio, scuotendola lievemente – La smetti di comportarti da cretina?”
“Cretina io? Senti chi parla!”
“Sì, cretina tu se invece di dirmi le cose in faccia continui a nasconderti dietro questi atteggiamenti idioti, Laura Hevans. Non ti farei mai del male, ma ti assicuro che vorrei davvero darti uno schiaffo in questo momento!”
“Benissimo, allora se non lo vuoi fare, lo faccio io!” esclamò lei, spiattellandogli una cinquina sulla guancia sinistra.
Fu un gesto così impulsivo che li lasciò di sorpresa entrambi. Laura ritirò la mano e lo guardò con aria stranita, come se non volesse credere di avergli appena dato un ceffone.
“Ti senti meglio ora? – mormorò Andrew, senza nemmeno portarsi una mano alla parte lesa – Mi hai punito abbastanza? Per cosa poi… vorrei proprio capirlo. Eppure il nostro rapporto è sempre stato chiaro, Laura.”
“Proprio per questo io… io – Laura scosse il capo, sentendosi sconfitta – è così importante per te quella ragazzina? Quella quindicenne?”
“Sì, lo è – annuì Andrew con serietà – e lo diventerà sempre di più Laura, perché negarlo? Lo so io e lo sai tu, le persone a me importanti se ne stanno accorgendo… e se mi conosci sai allora che la cosa mi spaventa. E non è questione dell’età, perché adesso lei non può significare niente sotto il punto di vista fisico… ma… Laura, fa paura scoprire che c’è una persona con cui esponi la parte più profonda di te stesso…”
“Oh, Andy…” sospirò Laura.
“Ma quello che posso provare per lei non cambia quello che siamo sempre stati, perché dovrebbe?”
“Non lo so…”
“Per me sei sempre la mia sorellina, Laura Hevans – il giovane la abbracciò con tutte le sue forze – mettiti in testa che è qualcosa che nessuno ti leverà mai e poi mai.”
“Giuramelo!” pianse lei, cedendo del tutto di fronte a quel contatto fisico.
“Ma che bisogno c’è di giurare? E’ una vita che va avanti così… e non sarà niente a cambiarlo, scema. Né Ellie, né Marco… per quanto debba ancora capire a che gioco stai giocando con lui.”
Lei non rispose subito: rimase a farsi cullare dal ragazzo per una decina di lunghi secondi, in cui finalmente il loro legame veniva rinsaldato dopo quella strana rottura che aveva subito.
“E’ strano – ammise lei dopo qualche secondo – è… è capire che non sei più solo mio. E… e questo vuol dire in parte perderti.”
“Siete due cose diverse…”
“Presumo – Laura alzò lo sguardo su di lui con rassegnazione – che ora dovresti tornare da lei e calmarla. Piccola scema, si è dichiarata e sicuramente ora ha paura del tuo rifiuto.”
“Ed appunto per questo è meglio che non restiamo soli – Andrew le diede un bacio sulla guancia – fai pace con lei, Laura, non mi piace l’idea che tra voi due ci sia questo odio.”
“Più che altro hai bisogno della tua sorellina, vero?” si asciugò le lacrime e strizzò l’occhio.
“Decisamente.”
 
“Perché stiamo tornando a casa assieme?” chiese Ellie con perplessità circa un’ora dopo.
“Benvenuta nel mondo delle manipolazioni di Andrew Fury – sospirò Laura, mettendole un braccio attorno alle spalle – vai a casa sua pensando una cosa e ne esci convinta dell’esatto contrario. Ecco perché adesso ci stiamo chiedendo come abbiamo fatto ad essere così stupide da non capire quanto stava succedendo.”
“Io veramente avevo tutto il diritto di cadere in errore: ti comportavi in maniera così possessiva con lui… da fidanzata gelosa.”
“No, quella sei tu, mia cara.”
“Davvero per te è solo come un fratello? – Ellie alzò lo sguardo timorosa verso la rossa – me lo giuri?”
“Te lo giuro – sorrise Laura – e ti chiedo anche scusa. Essendo più grande di te mi sarei dovuta mostrare più matura. Se non sbaglio nei nostri primi incontri provavo simpatia per te… penso di poterci riuscire di nuovo.”
“Sai, temo di aver fatto un disastro – disse ancora la brunetta dopo un minuto di silenzio imbarazzato, dove però aveva accettato appieno il contatto fisico con Laura – mi sono praticamente dichiarata ad Andrew.”
“Fidati che non se n'è accorto.”
“No? Sei sicura? Eppure sono stata così esplicita – si agitò lei – eppure mi sono sempre detta di non correre troppo, ma non mi sono trattenuta.”
“Ellie, parola mia, per certe cose Andrew non capisce subito.” mentì.
“Oh, che sollievo! Se lo dici tu che lo conosci bene allora mi fido… credi che possiamo essere amiche allora? Da quanto ho capito Andrew ci tiene molto.”
“Già, Andy ci tiene molto… eccoti arrivata, signorina. Allora, amiche?”
“Amiche!” annuì Ellie, mentre si stringevano la mano.
“E comunque i tuoi biscotti erano eccezionali – ammise Laura – i miei non uscirebbero mai così.”
“Un giorno li possiamo fare assieme se ti va.”
“Chissà – scrollò le spalle Laura – adesso torna pure a casa. Ci vediamo in questi giorni.”
“Va bene. Arrivederci, Laura, buona cena.”
“Anche a te – si allontanò lei, ma poi si riscosse e si girò proprio prima che lei aprisse la porta – Ah, Ellie!”
“Sì?”
“Li preferisce al cioccolato!”
“Grazie! Questa sì che è un’informazione preziosa! La prossima volta saranno al cioccolato!” 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12. 1881. I prati dell'amore. ***


Capitolo XII

1881. I prati dell'amore.

 
 
Se c’era una cosa che Andrew adorava fare durante le pigre giornate d’agosto era di trovarsi qualche campo incolto, sdraiarsi all’ombra di un albero e godere del tempore estivo. Erano momenti che preferiva trascorrere in solitudine, riflettendo su qualcosa o cercando di studiare come quel particolare pomeriggio. Ma il libro di architettura era finito ben presto sull’erba, accanto a lui, e si era mezzo appisolato con le braccia dietro la testa, cullato dal frinire delle cicale.
Finalmente si godeva le sue vacanze dopo quell’inizio burrascoso provocato dalla crisi diplomatica tra Ellie e Laura: adesso le due ragazze della sua vita sembravano in rapporti se non d’amicizia almeno cordiali e lui non si sentiva più come un pupazzo tirato per un braccio da ciascuna. L’unica sua preoccupazione, se così poteva definirla, era di non abbandonare del tutto lo studio. Tuttavia, anche uno studente costante come Andrew Fury non poteva che cedere davanti agli ozi della campagna: le aule di East City e la realtà universitaria fatta di ore passate sui libri e ascoltando docenti gli sembrava estremamente lontana. In quel momento esisteva solo la campagna e tutta la sua pace.
Non si rese conto del preciso momento in cui chiuse gli occhi, abbandonandosi al sonno, né fu in grado di quantificare il tempo passato nel mondo dei sogni. Ma ad un certo punto si destò, senza tuttavia aprire gli occhi, proprio come quando ci si sveglia di prima mattina ma piace crogiolarsi ancora nell’idea di dormire.
Gli altri sensi erano comunque vigili e dunque sentì quando, qualche minuto dopo, dei passi ed il fruscio dell’erba disturbata da qualcuno in movimento turbarono la quiete. Il nuovo arrivato si fece sempre più vicino e si fermò accanto a lui.
“Andrew?” mormorò la voce di Ellie.
Il giovane non se ne sorprese: oramai la fanciulla sapeva quale era il suo posto preferito per quei pomeriggi di ozio e dunque spesso lo raggiungeva. Avrebbe dovuto aprire gli occhi a quel richiamo, ma spinto da chissà quale curiosità non lo fece.
“Andrew, dormi?” chiese ancora Ellie dopo qualche secondo, con voce flebile.
Il frinire delle cicale tornò a farla da padrone, ma ad Andrew sembrava quasi di sentire la piccola mente di Ellie che si chiedeva cosa fare. Probabilmente non voleva svegliarlo e…
Una mano delicata iniziò ad accarezzargli i capelli e a quel punto il giovane si disse che era il caso di aprire gli occhi. Ma mentre pensava questo si crogiolava in quelle carezze: da piccolo aveva sempre adorato quando sua madre gli accarezzava i capelli e sentire di nuovo delle dita delicate sulla sua chioma e sulla sua testa era una sensazione meravigliosa. Ellie aveva un tocco splendido, capace di mandarlo in estasi.
“Io… io ti amo, sai?” la voce della ragazzina spezzò ancora quel silenzio. Era una dichiarazione così timida e sincera che Andrew poté anche immaginare il suo viso mentre la diceva: sicuramente era arrossita e aveva abbassato lo sguardo. Forse aveva…
Delle labbra morbide e setose si posarono sulle sue, in un bacio timido ed esitante.
Oh, Ellie… dannazione avrei dovuto smettere da subito con questa finzione.
Non poteva aprire gli occhi adesso: sarebbe equivalso a farla fuggire per sempre. Non gli rimase che restare fermo ed accettare quelle labbra che sapevano lievemente di miele, dolci come il sole di quel caldo pomeriggio di fine agosto. Durò solo cinque secondi, poi la ragazza smise quel contatto.
Andrew ne approfittò per girarsi di fianco, sentendola sobbalzare per la sorpresa. Ma non aprì gli occhi, preferì aspettare ancora qualche minuto, per rassicurarla del fatto che non aveva percepito nulla di quelle carezze e di quel bacio.
Approfittò di una folata di vento che fece cadere una foglia su di lui per aprire gli occhi.
“Ti sei svegliato – mormorò Ellie, seduta a pochi centimetri da lui, tanto che la prima cosa che vide fu la gonna gialla del suo abito – ti ho trovato che dormivi e non ho voluto disturbati.”
“Ciao, Ellie – la salutò con un sorriso, mettendosi seduto, cercando di notare se ci fosse qualche segno di imbarazzo nel suo viso. Ma eccetto un lieve rossore sulle guance, perfettamente attribuibile al sole di agosto, non vide niente – sei qui da molto? Potevi svegliarmi senza nessun problema… a dire il vero non mi sarei nemmeno dovuto addormentare.”
“Stavi studiando? – sorrise lei, prendendo il libro abbandonato sull’erba – Accidenti che grosso che è! E’ molto difficile?”
“No e nemmeno noioso, prima che tu me lo chieda. Solo che con un pomeriggio così mi sono lasciato prendere dalla pigrizia.”
“Capisco, hai fatto più che bene! – ridacchiò la ragazzina – Anche io avrei fatto così.”
Solo allora Andrew vide che posati accanto a lei c’erano dei quaderni dalla copertina rigida. Si era chiesto se prima o poi Ellie avrebbe trovato il coraggio di portarglieli: lui ovviamente non aveva mai fatto pressioni in merito, anzi non ne aveva mai fatto accenno. Aveva voluto che fosse una decisione esclusiva di Ellie.
“Ecco, ti ricordi che nell’ultima lettera che ti ho mandato ti avevo accennato al fatto che avevo finito le mie storie? – Ellie arrossì e abbassò lo sguardo, prendendo in mano i quaderni – Tu poi mi avevi detto che ti avrebbe fatto piacere leggerle… perdonami, se ti ho fatto aspettare, ma mi sento così agitata all’idea che qualcuno legga…”
“Solo se lo vuoi – disse Andrew, mettendo una mano su quei quaderni – non ti devi sentire assolutamente obbligata, Ellie, davvero.”
“Ma io voglio che tu le legga! – esclamò lei, spingendo i quaderni verso di lui – Solo… solo non ridere troppo, va bene?”
“Posso leggere già qui?”
“Vuoi davvero? – annaspò Ellie, felice e spaventata – Cioè, voglio dire… certo che puoi. Ecco, in questo ci sono storie sparse, in quest’altro lo stesso… in questo azzurro invece c’è un’unica storia e… diamine, mi sento così imbarazzata all’idea che tu le legga.”
“Me ne hai parlato così tanto che sono curioso – ammise Andrew, prendendo il quaderno di storie sparse – e dalle lettere che mi scrivi ho idea che saranno davvero interessanti.”
“Scusa se ogni tanto ci sono cancellature o simili…”
“Fa niente.”
Andrew aprì il quaderno e si apprestò a leggere la prima pagina.
Nel frattempo Ellie si guardava attorno con imbarazzo, cercando qualcosa da fare per ingannare quell’attesa tremenda. Così prese il libro di Andrew e fece per riporlo nella tracolla del ragazzo, posta poco distante. Fu aprendola che si accorse della presenza di un quaderno dalla copertina rigida e con l’elastico.
“Sono appunti dell’università?” chiese, affascinata dal pregio dell’oggetto.
“Quello? – Andrew si girò a guardarla – Non proprio, è un quaderno dove annoto tutto quello che mi passa per la testa.”
“Sul serio? – lei sorrise e se lo strinse al petto – E’ fantastico! Un po’ come un diario… posso leggere? Così tu leggi qualcosa di mio e io qualcosa di tuo.”
“Che sarebbe? Uno scambio equivalente?” – ridacchiò Andrew, ricordando le parole di un suo collega universitario che contemporaneamente alle materie accademiche stava anche prendendo lezioni di alchimia – Comunque non ci vedo niente di male: leggi pure se vuoi… ma non troverai un ordine specifico. Come ti ho detto sono solo disegni e pensieri, forse ti annoierà.”
“Non potrebbe mai annoiarmi – scosse il capo Ellie – in questo quaderno ci sei tu.”
Se lo strinse al petto, come se avesse paura che il prezioso tesoro le potesse venir strappato via. Era così bella quel pomeriggio: Andrew non le aveva mai visto quel vestito giallo e si accorse che le stava divinamente. Per un attimo si ricordò del sapore di miele che aveva quel bacio e si soffermò a guardare quelle labbra rosate e perfette, schiuse in un timido sorriso a mostrare un barlume bianco dei denti.
A quando un bacio in cui io non farò finta di dormire, Ellie? Avrai ancora il sapore del miele e dell’estate?
“Beh, allora buona lettura – si costrinse a dire per cacciare quei pensieri – direi che fino all’ora di tornare a casa siamo impegnati.”
“Buona lettura anche a te!” sorrise lei, sistemandosi seduta a pochi centimetri da lui.
Ed Andrew si dovette trattenere per non annullare quella distanza ed indurla ad appoggiarsi al suo fianco.
 
“Sei pazzo se credi che io salti da qui! – protestò Laura, mettendo le gambe a penzoloni dal grosso ramo di salice – E’ troppo alto.”
“Ti prendo io, fidati – la rassicurò Marco, tendendo le braccia verso di lei e sfiorando appena la punta del sandalo bianco di lei – lasciati cadere.”
“No!” mise il broncio lei.
“E che devo fare? Venire su e portarti a spalla?”
“Magari! Mi piace come idea e… uaah!”
Si era sporta troppo in avanti e così aveva perso la presa sul ramo. Per fortuna ci pensò Marco a prenderla al volo, proprio come aveva promesso. Solo che era stato un gesto così inaspettato che il giovane vacillò all’indietro e si trovò sdraiato nel prato con Laura sopra di lui.
Esaltata da quella piccola scarica di adrenalina la ragazza scoppiò a ridere e si accasciò sulla spalla del giovane.
“E’ davvero così divertente questo salvataggio? – chiese Marco, cercando di rimettersi seduto – Fatta male?”
“No, l’unico danno è che ho perso i sandali e sono a piedi scalzi – sorrise lei, trovando piacevole aggiungere una piccola novità nel suo rapporto con il giovane. Stare sdraiata su di lui non era niente male – Giuro che non tenterò più scalate sugli alberi… eppure quando lo fa mio fratello sembra estremamente facile.”
“Questione di abitudine ed esercizio, presumo – fece lui, prendendo una ciocca di capelli rossi e arricciandola con la mano – stai comoda sopra di me?”
“Sì, direi di sì… e potresti anche baciarmi per rendere la cosa più piacevole.”
Il giovane non se lo fece ripetere due volte e Laura si trovò di nuovo immersa nel piacevole mondo del bacio. Uscire con Marco le piaceva abbastanza, ma trovava che mancasse completamente di fantasia: essendo abituata ai discorsi di Henry ed Andrew trovava che quelle chiacchierate sul lavoro e sulla famiglia fossero noiose, almeno dopo la terza volta. Aveva provato più volte a tentarlo con altri discorsi: viaggiare, vedere il mondo… almeno East City, ma sembrava che la cosa lo spaventasse.
Gli manca la chiusura mentale estrema dei miei, ma per il resto non è differente.
Certo era bello potersi baciare e lui era un bel ragazzo… ma c’erano momenti in cui Laura invidiava le chiacchierate che sicuramente facevano Ellie ed Andrew durante le loro uscite. La vita era ingiusta se dava il brio perfetto ad una relazione che relazione ancora non era, considerato che Andrew non aveva la minima intenzione di sfiorare la fanciullina per almeno altri tre anni.
Paradossale… a lui i discorsi intelligenti e non l’amore fisico ed a me l’esatto contrario. Una via di mezzo no?
Le braccia di Marco la strinsero e in seguito ad una rapida torsione si trovò stesa nell’erba.
“Sei fantastica, Laura, lo sai?” mormorò lui, scendendole a baciarle il collo.
“Ovvio che lo sono – ridacchiò la ragazza – oggi ci sentiamo audaci, eh?”
Lo stava invitando a continuare? Ad andare oltre i canonici baci? Forse… chissà, magari avrebbe reso le cose decisamente più interessanti tra di loro. Aveva bisogno di sentirsi viva, di trovare la felicità in quel posto: voleva che l’ennesimo litigio con sua madre sparisse per almeno il resto della serata.
Pensare ad un fidanzato… ma certo! Magari scelto da te, manco fossimo nel secolo scorso.
D’impulso prese la mano di Marco e se la portò al seno, incitandolo a stringere con forza.
Cercò il suo bacio mentre gemeva per quell’inaspettata sensazione di piacere.
Almeno a livello fisico era felice.
 
L’indice di Ellie seguì incantato la forma perfetta della voluta della colonna.
La sua fervida mente ne immaginò decine e decine di identiche, a formare un corridoio di un palazzo fatato, dove lei ed Andrew camminavano tenendosi per mano.
“… spirale di onde spumose che si frange nelle rocce,
può il volo del gabbiano portarmi nell’oblio,
dove muore il tempo e rinasce il mondo?”
I versi scritti accanto al disegno la catturarono, la scrittura così precisa eppure così elegante sembrava riflettere il movimento delle onde. Si chiese di quale autore fosse quella poesia: non aveva mai avuto occasione di leggere qualcosa di simile.
Alzò lo sguardo, pronta a chiedere ad Andrew, ma si fermò ad osservarlo trovando che fosse immensamente bello chino a leggere le sue storie. Chissà se nel sonno aveva provato qualcosa per quelle carezze che gli aveva fatto, per quel bacio che gli aveva dato. Non aveva resistito: vedendolo così placido nel sonno non si era saputa trattenere. Da tempo voleva scoprire che sensazione dava passare la mano su quei capelli castani così folti… provare che sapore avevano le labbra di un ragazzo.
Era stato strano: era diverso da baciare la pelle della guancia, così liscia e setosa. Le labbra di Andrew erano leggermente umide e morbide, le avevano lasciato addosso un lieve sapore salato.
Mi bacerai da sveglio prima o poi? Mi…
“E’ notevole.”
La voce di Andrew la fece trasalire e si accorse che il giovane aveva chiuso il quaderno e si era girato a guardarla.
“Notevole? Che cosa?”
“I tuoi racconti – fece lui, porgendole il quaderno – Ne ho letto tre di fila e non penso di aver mai letto niente di simile.”
“Sul serio? – lei finalmente si rese conto che le stava facendo i complimenti – Pensi davvero che… siano notevoli? Oh, si possono migliorare! Tieni conto che sono scritti di getto e sicuramente ci sarà anche più di un refuso… a volte mi lascio andare troppo nelle descrizioni e sembra tutto staccato ma…”
“Ellie – la bloccò lui, mettendole una mano sulla spalla – sei una scrittrice nata, fidati di me.”
“Oh, Andrew… Andrew!” gli saltò addosso e lo abbracciò con forza, singhiozzando tutta la sua felicità.
Non erano i soliti complimenti di Annabell, che sì facevano piacere, ma sembrava che non fossero veramente consapevoli di tutto quello che c’era dietro. Andrew sapeva, era come se gli avesse confidato tutte le emozioni e le aspettative che metteva in ogni parola scritta: ricevere i complimenti da lui era la cosa più bella del mondo.
“E’ che si sta facendo tardi – sorrise lui, inducendola ad alzarsi – altrimenti ne leggerei anche altri.”
“Ti presto i quaderni!” si offrì subito lei.
“Davvero? Magari solo quello che sto leggendo… gli altri posso cominciarli la prossima volta che ci vediamo, no? Mi piace leggerli in mezzo alla natura: considerato che parli molto spesso di animali parlanti che vivono nei boschi è più adatta come ambientazione.”
“Oh, hai letto del coniglietto Oscar – Ellie arrossì, ricordandosi di quella favola che lei stessa ormai considerava infantile: avrebbe voluto strapparla via, ma avrebbe rovinato il quaderno – quello… quello è stato solo un pomeriggio in cui ero a casa col raffreddore e non…”
“E’ una storiella dolcissima, fidati… secondo me ai bambini piacerebbe molto.”
“Bambini? – per un attimo lei impazzì, nella sua mente una visione di lei ed Andrew con almeno tre figli tra le braccia – In che senso…?”
“Come la piccola Molly, no?”
“Ah, certo! Quei bambini!”
“E quali altri?”
“No… no, niente, scusa! Pensavo a cose stupide!”
“Torna coi piedi per terra, Ellie Lyod – la prese in giro lui, alzandosi in piedi – anche perché è ora di avviarci verso casa. Prima che tuo padre venga a cercarci a cavallo di Blanco!”
“Sei ancora spaventato perché quando l’hai conosciuto la settimana scorsa ti ha dato una musata in testa? Forse è perché il tuo odore gli era nuovo.”
“Diciamo che è il degno cavallo di tuo padre.” sospirò Andrew, ricordando di come Nicholas Lyod gli fosse sembrato ancora più temibile in groppa a quel mastodonte. Per qualche tremendo secondo aveva anche pensato che gli caricasse contro.
“Vero? – sorrise Ellie, mentre raccoglievano le loro cose e si avviavano verso l’uscita del campo – Non sembra un re sul proprio destriero? Adoro quando mi porta con lui. Quando sarò più grande mi farà cavalcare, me l’ha promesso: devo solo crescere ancora un poco così arrivo bene alle staffe… ma sono sicura che se glielo chiedi a te permetterebbe di…”
“Ma no, lasciamo stare. Torniamo piuttosto ai tuoi racconti…”
 
La mano di Marco che superava l’elastico della gonna fece sgranare gli occhi a Laura.
Fu come se si spezzasse un incantesimo e finalmente si rese conto di essere con la camicetta del tutto slacciata, in mezzo ad un campo deserto, con un ragazzo il cui respiro era sempre più corto.
“Fermo!” esclamò, rizzandosi a sedere e sentendo improvvisamente di aver paura.
“Che? – fece lui, staccandosi – Oh scusa… però… però non mi hai… sembrava ti piacesse…”
Rotolò via da lei, andando a sedersi mezzo metro distante e chiudendo gli occhi. Solo allora Laura si accorse che la sua reazione fisica era parecchio evidente.
Ed io?... che è questo calore? Perché mi sento così fuori controllo?
“Non dovevamo – ammise, abbottonandosi la camicetta con mano tremante, sentendo i seni che le facevano leggermente male per quelle strette che avevano ricevuto… e che lei stessa aveva richiesto – ci siamo lasciati andare.”
Cercò di calmarsi respirando profondamente, più e più volte, ma non ottenne alcun risultato. Voleva essere ovunque tranne che in quel prato, con quel ragazzo che all’improvviso le sembrava un perfetto sconosciuto.
Dov’era il Marco simpatico e banale di sempre? Perché l’aveva trasformato in quel ragazzo che ancora stava ad occhi chiusi e teneva le mani sulla testa?
“E’ meglio che non ci vediamo più – ammise, alzandosi in piedi e cercando con disperazione i suoi sandali bianchi a qualche metro di distanza -  perdonami, è stata tutta colpa mia.”
“Laura, aspetta… è colpa di entrambi.”
“Forse… però… Marco, per favore lasciamo stare… ti giuro che sto impazzendo.”
“Va tutto bene! – fece lui alzandosi e prendendola per il braccio – Laura, siamo sempre noi due, capisci? Semplicemente siamo andati oltre il bacio, come spesso succede… è che, non sospettavamo che fosse così… fuori controllo.”
Laura sapeva che aveva ragione ed una parte di lei voleva credergli e ricominciare come se niente fosse accaduto: solo passeggiate e baci appassionati. Ma era come se capisse che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quel rapporto: forse lei, forse lui, forse un’alchimia che non era mai nata… che lei aveva immaginato solo per non sentirsi lasciata indietro, per credere che aveva qualcuno tutto per sé, da non condividere con altri.
“Mi sono accorta che non funziona…” mormorò, abbassando lo sguardo.
“Non funziona? – si sorprese lui – Dopo quello che… Laura, ma che hai?”
“E’ che… è che è tutto sbagliato ed io non avrei mai dovuto – si liberò da quel contatto fisico che ora bruciava e che la faceva sentire in qualche modo sporca – Scusami, ti prego… tu sei una persona molto buona e meriti molto di più di una folle come me… Marco io…”
“Laura…”
“… devo proprio andare…”
Nemmeno si preoccupò di rimettersi i sandali: scappò via da quel prato, da quell’esperienza che l’aveva sconvolta così tanto. Sentiva i piedi che le dolevano per i sassolini che incontrava nella sua corsa, ma preferiva zoppicare piuttosto che fermarsi. Delle lacrime iniziarono a scendere dalle sue guance e cercò di convincersi che erano dovute a quello stupido dolore ai piedi.
I sandali continuavano ad essere tenuti stretti tra le mani.
 
“… spirale di onde spumose che si frange nelle rocce,
può il volo del gabbiano portarmi nell’oblio,
dove muore il tempo e rinasce il mondo?”
Ellie recitò quello stralcio di poesia proprio mentre arrivavano davanti a casa sua.
“Conosci Julien Lewan?” sorrise Andrew.
“No, ho letto questi versi nel tuo quaderno e mi hanno colpito tanto. Adesso che so l’autore cercherò un libro delle sue opere.”
“Se passi domani a casa te lo presto io: fa parte della biblioteca di casa, è uno degli autori preferiti di mia madre.”
“Davvero? Sei gentile –arrossì lei – e comunque il tuo quaderno è fantastico. C’è molto di te in quelle frasi ed in quei disegni: ti ringrazio per avermi permesso di leggerlo.”
“E’ un privilegio che hai solo tu, sappilo – le strizzò l’occhio Andrew – allora ti aspetto domani a casa. Se vieni verso le quattro facciamo merenda assieme, va bene?”
“Certo. A domani!”
Con un ultimo saluto Andrew iniziò ad incamminarsi verso casa sua, sentendosi veramente rilassato e contento per il pomeriggio che aveva trascorso. Quasi per istinto si sfiorò le labbra con l’indice, rievocando il sapore di miele che aveva lasciato il lieve bacio di Ellie.
“Ciao…” lo chiamò una voce, mentre stava per arrivare vicino a casa sua.
Girandosi e lasciando andare quei ricordi, vide Laura che si avvicinava a lui con le lacrime agli occhi.
“Laura! – esclamò, andandole incontro – Ma che è successo? E perché sei scalza?”
Lei scosse il capo e gli buttò le braccia al collo, iniziando a singhiozzare come una disperata.
Andrew ricambiò l’abbraccio e fu abbastanza accorto da capire che stare in mezzo alla strada non era il posto giusto per un simile spettacolo. La condusse a casa sua e la portò in camera, non volendo che nemmeno i suoi genitori la vedessero ridotta in quel modo.
La fece sedere nel letto e continuò ad accarezzarle i capelli fino a quando non sentì che i singhiozzi diminuivano. Non disse niente, non la forzò.
Attese che la frase uscisse da sola.
“Io e Marco abbiamo rotto.”
“Va tutto bene – la rassicurò – non ti devi preoccupare.”
“Mi voglio sentire grande, ma poi ne ho paura – sospirò lei – mi sento imprigionata e quando provo a volare mi accorgo che non ce la faccio… Andrew… portami via da qui, portami ad East City… da mio fratello… ovunque ma non qui.”
“Sei solo sconvolta, Lauretta – la strinse a se – adesso ti calmi e ti accorgerai che va tutto bene.”
“Voglio solo… voglio solo sparire.”
Andrew non rispose, ma la sua mente ripercorse la poesia di Lewan.
“… spirale di onde spumose che si frange nelle rocce,
può il volo del gabbiano portarmi nell’oblio,
dove muore il tempo e rinasce il mondo?...
Ali bianche, forti e coraggiose
sfidano il mare e le tempeste, vogliose di vita.
La pioggia batte su un corpo bianco che ansima tra gli scogli.
Quella porta di un altro mondo ancora chiusa oltre il mare.”



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pew! ce l'ho fatta a finire il capitolo per stasera.
Per una settimana non sono a casa e quindi non posterò :P

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Capitolo 14
*** Capitolo 13. 1881. Per dei biscotti al cioccolato. ***


Capitolo XIII

1881. Per dei biscotti al cioccolato.

 

Ultimo esame.
Erano le due parole che circolavano di più tra gli studenti del terzo anno quel mese di novembre. Una volta superato quello scoglio fatidico del primo semestre la maggior parte delle loro fatiche sarebbe finalmente giunta a termine: il secondo semestre sarebbe stato dedicato alla stesura della tesi e dunque alla fine del loro percorso universitario.
Ma trattandosi dell’ultimo esame era particolarmente difficile ed ostinato, tanto da mettere in difficoltà persino Andrew. Ormai mancavano solo sei giorni a quella fatidica data ed il giovane passava tutte le sue giornate chiuso in camera sua a studiare come un ossesso: che fosse il primo del corso non c’erano dubbi, ma per orgoglio personale voleva prendere il massimo dei voti in quell’ultima materia così tosta. Aveva completamente annullato se stesso: non si concedeva uscite e anche il tempo per riposare era stato drasticamente ridotto. Stephen lo prendeva in giro dicendo che se lui si comportava in questo modo, allora tutti gli altri studenti si sarebbero dovuti direttamente suicidare.
Ma ad Andrew non importava: voleva chiudere in bellezza e l’avrebbe fatto. Ci sarebbe stato tempo per riposare: una volta terminato quell’esame sarebbe tornato a casa e ci sarebbe rimasto fino a giugno quando avrebbe discusso la sua tesi e sarebbe diventato finalmente ingegnere. Ma per quel momento mancavano ancora più di sette mesi.
La sezione principale si divide in tre parti… riferimento al progetto n°3 del 1827…
“Ciao, Andrew – lo saluto Stephen, entrando in camera dopo che aveva passato la mattina in biblioteca – come sono rientrato la padrona di casa aveva appena ricevuto la posta. C’è un pacco per te, viene da casa tua.”
“Mh, mh…” mugugnò Andrew, segnandosi nel quaderno le misure di riferimento.
“Che faccio, lo apro?”
“Mmmh… un sesto delle proporzioni iniziali…”
“Uh, forse è il libro che avevi chiesto…”
“Passamelo – Andrew nemmeno si voltò, si limitò a tendere la mano – adesso posso verificare le misure del precedente progetto…”
Iniziò a sfogliare con impazienza quelle pagine, cercando di ricordarsi il punto esatto dove aveva visto il progetto che lo interessava: se tornava tutto quanto poteva fare davvero un figurone.
“Uh, nel pacco c’è anche un sacchettino di biscotti… posso assaggiarli?”
“Mangiali pure tutti – commento Andrew con tono lievemente seccato, non volendo essere ulteriormente disturbato – in questo momento l’idea di qualcosa di dolce mi dà la nausea.”
“Peccato per te – mormorò Stephen – questo cioccolato è divino.”
Ma Andrew aveva già archiviato quella frase come non pertinente all’esame e dunque non importante.
 
Una settimana dopo Ellie attendeva con impazienza l’arrivo del treno, sentendosi incredibilmente felice ed emozionata: finalmente Andrew tornava a casa ed ormai non sarebbe andato più ad East City se non per qualche giorno fino alla discussione della tesi a giugno. Quei periodi così lunghi fatti solo di lettere erano finalmente terminati e questo voleva dire che una fase del loro rapporto era conclusa e ne poteva iniziare una nuova e ricca di novità.
A dire il vero lei aveva già dato l’avvio a questo nuovo progetto: nelle ultime settimane, data la difficoltà dell’esame, non aveva voluto tediarlo con le sue lettere, capendo perfettamente che lo studio non doveva subire interruzioni. Ma proprio una settimana prima della fatidica data, approfittando della signora Anna che doveva spedirgli un libro, gli aveva preparato dei biscotti al cioccolato. Ci aveva messo così tanto amore nel prepararli, rifacendoli ben due volte fino a quando non aveva ottenuto un risultato perfetto… e, sentendosi audace, oltre alla canonica forma tonda, ne aveva fatto anche una decina a forma di cuore: forse era troppo prematuro un gesto simile, ma voleva in qualche modo far sapere ad Andrew che lei gli dava tutto il sostegno possibile, anche tramite il suo amore.
Le sue ansie vennero interrotte dal fischio della locomotiva e si mise a saltellare sul posto per la gioia, mentre il treno faceva il suo arrivo nella piccola ed isolata banchina in mezzo alla campagna.
“Oh, Andrew! – esclamò, correndo incontro al giovane non appena questi scese dal vagone – bentornato a casa! Finalmente sei qui!”
Fu meraviglioso sentire quelle braccia che la stringevano, potersi posare contro il suo petto (adesso ormai gli arrivava all’altezza del cuore), riconoscere il suo buon odore, così rassicurante
“Ciao, Ellie! – la sua voce, così tanto attesa, la fece ridestare da quel mare di sensazioni – Hai visto che è passato anche quest’ultimo periodo? Finalmente torno in pianta stabile in paese.”
“Hai preso il massimo dei voti, vero?” chiese lei sentendosi estremamente orgogliosa.
“Massimo dei voti e primo del corso – annuì il giovane, con un pizzico di vanteria che lo rendeva ancora più affascinante – il docente mi ha fatto tantissimi complimenti.”
“Ne ero sicura – Ellie lo prese a braccetto e lo incitò a camminare – avanti, raccontami tutto.”
La loro solita passeggiata verso il paese procedette come al solito. Ellie era estremamente felice di riaverlo accanto, di sapere che era andato tutto per il meglio. Tuttavia, mano a mano che procedevano si accorse che non c’era stato ancora alcun accenno ai suoi biscotti. Eppure si erano sempre scambiati dei commenti sulle varie lettere che si erano mano a mano spediti ed Andrew le aveva fatto diverse volte i complimenti come cuoca. Perché proprio per questi che avevano un significato tutto speciale non proferiva verbo?
Perché non dice niente questa volta? Non gli sono piaciuti? Eppure li ho assaggiati ed erano ottimi ed erano impacchettati così bene che non si possono esser seccati per il viaggio…
“Il libro che ti ha spedito tua madre ti è arrivato per tempo?” chiese infine, decidendo di affrontare l’argomento da lontano.
“Sì, e meno male: mi ha dato occasione di aggiungere molti particolari che non avrei potuto trovare in nessun altro testo.”
Andrew sorrise nel dare quella risposta, ma non aggiunse altro, lasciando Ellie nel dubbio.
Dunque il pacco era arrivato... allora perché nessun riferimento ai suoi biscotti e al bigliettino di buona fortuna che gli aveva scritto? Il suo cuore iniziò a battere più forte, chiedendosi quale tremendo imprevisto fosse successo.
O forse… forse sono stata troppo spudorata con quelli a forma di cuore e lui si è offeso!
Quel pensiero tremendo la fece fermare in mezzo al sentiero: possibile che avesse rovinato tutto quanto?
Girandosi a guardare il ragazzo si accorse che passeggiava come al solito e niente sembrava turbarlo.
Ma potrebbe farlo per semplice cortesia…
“Andrew…” mormorò infine, facendosi coraggio.
“Dimmi pure.”
“Ti… ti sono piaciuti i biscotti?”
“Biscotti? Quali biscotti?”
Se prima Ellie si era quasi fermata nel sentiero, a quella risposta detta con noncuranza si bloccò del tutto, il mondo che le crollava addosso. Tutte le ore messe in quella preparazione così speciale, tutte le sue buone intenzioni distrutte da quell’affermazione.
“Nel… nel pacco del libro – balbettò confusa – ci… ci dovevano essere… dei biscotti…”
Andrew sembrò rifletterci su per diversi secondi, come se cercasse di ricordare un dettaglio che fino a quel momento gli era parso di poca importanza.
“Ah! Aspetta, mi pare di ricordare che Stephen diceva qualcosa a proposito di biscotti… Sì, ora mi sembra tutto più chiaro. Beh, li ha mangiati lui, ma perché lo chiedi?”
In genere Ellie era una persona più che accomodante: tendeva a passare sopra le cose che non andavano e a vedere il lato positivo della situazione. In altre occasioni per un equivoco simile avrebbe fatto spallucce e ci avrebbe riso su, promettendo di fare dei nuovi biscotti. Ma vedendo come Andrew liquidava la questione con aria di appena sufficienza, si sentì profondamente offesa: era come se glieli avesse buttati in faccia uno per uno, dicendole che facevano schifo e che avrebbe potuto fare a meno di mandarglieli.
“Ci ho messo tutta la giornata a prepararli…” mormorò, abbassando lo sguardo a terra.
“Uh… li hai… li hai fatti tu?”
Ovvio che li ho fatti io! Li ho fatti al cioccolato perché sapevo che era il tuo gusto preferito.”
“Oh, diamine Ellie – la voce di Andrew indicava che era in difficoltà – non… non ci ho fatto caso. Ero così teso per l’esame che…”
“Ed il biglietto?” chiese, alzando lo sguardo furente.
“Quale? – lui era proprio nel panico – Ellie, sarò sincero, il pacco l’ha aperto il mio compagno di stanza e io gli ho chiesto solo di darmi il libro. Quando ha parlato dei biscotti gli ho detto che poteva mangiarli tutti lui…”
Cosa?”
“… non sapevo che erano tuoi, lo giuro! Non me l’ha detto! Del biglietto non ho saputo nulla, probabilmente l’ha buttato senza nemmeno vederlo.”
“C’erano i miei auguri per l’esame – lei iniziò a piangere, sentendosi veramente umiliata – volevo… volevo che tu sapessi che ti ero vicina… ed invece li ha mangiati il tuo compagno di stanza.”
“Oh no, dai non piangere…” Andrew si accostò a lei e cercò di prenderle le mani.
“Siamo arrivati in paese – si scostò Ellie – da qui puoi anche fare da solo!”
E spiccò la corsa verso il paese, senza nemmeno girarsi a guardarlo. L’umiliazione era tale che tornò immediatamente a casa e salì in camera sua, buttandosi nel letto e affondando il viso nel cuscino. Non si esibì nei soliti singhiozzi disperati: questa volta uscivano solo silenziose lacrime di rabbia; anche se aveva solo quindici anni lui non aveva assolutamente il diritto di liquidare il suo regalo in quel modo, specie quando lei ci aveva messo tutta se stessa.
E quell’idiota del suo amico se li è mangiati tutti e non ha nemmeno letto il bigliettino.
“Dannazione! Studenti universitari vi odio con tutta me stessa!”
 
“E’ fantasticamente furente – commentò Laura due giorni dopo mentre lei ed Andrew facevano merenda a casa di lui – non credo di averla mai vista così arrabbiata con te. Questa volta l’hai proprio combinata grossa, caro mio.”
“Da quando tu e lei siete come pane e marmellata?” chiese il giovane, leggermente seccato da quel tono divertito. Gli sembrava che in qualche modo i ruoli si fossero invertiti e che ora fosse Laura a vedere le cose nel modo giusto, mentre lui era stato in qualche modo privato della sua preziosa razionalità. Ma era il prezzo da pagare per essere coinvolto emotivamente con una persona.
“Mi è sempre piaciuta quella ragazzina, suvvia.”
“Ma se c’è stato un periodo in cui non vi potevate vedere…”
“Acqua passata – Laura scrollò le spalle con noncuranza – adesso che i nostri ruoli sono stati chiariti è come avere a che fare con una sorellina pasticciona. Credo che anche lei si sia affezionata a me, almeno il tanto per confidarsi.”
“Forse dovrei andare a casa sua e…”
“Così suo padre ti ammazza! – la ragazza ridacchiò, chiaro segno che si stava godendo appieno quel piccolo dramma d’amore – Non so quanto possa essere conveniente: questa volta dubito che lei ti difenderebbe.”
“Erano solo dei biscotti – sbottò Andrew, non riuscendone a mangiare nessuno di quelli che aveva davanti in quel momento – perché se la deve prendere così tanto? Proprio lei che in genere passa sopra a tutto!”
“Tipica mancanza di tatto maschile – commentò l’amica con un’occhiataccia – era così fiera del suo operato, sai quelle cose estremamente romantiche dove tu, prendendo in mano i biscotti, dovresti sentire tutto il suo amore e così via…? Lei si era fatta un quadretto simile in testa, ed invece lo spietato razionalista Andrew Fury ha fatto crollare tutto.”
“Mi dispiace – mormorò Andrew con sincerità dopo qualche secondo – ma in quei giorni avevo la testa altrove: se l’avessi saputo, se Stephen avesse avuto la decenza di trovare quel biglietto invece di mangiare e poi buttare tutto il pacco, io di certo avrei…”
“Mi dispiace per te ma ormai la frittata è fatta e le semplici scuse non basteranno.”
“Che cosa vorresti dire?” chiese Andrew, guardando l’amica che aveva assunto un’aria molto seria.
“Non dovrei dirtelo – ammise lei, abbassando lo sguardo sulla tazza di cioccolata che teneva in mano – ma, vedi… mi ha detto che una decina di quei biscotti erano a forma di cuore, capisci cosa vuol dire?”
“Cazzo…” mormorò lui, mettendosi le mani in testa e capendo i sottintesi… del resto se lo doveva aspettare che prima o poi Ellie prendesse qualche nuova iniziativa, ma non si aspettava qualcosa di simile entità.
“Oh, wow! Sentirti dire una parolaccia è davvero raro: siamo proprio in difficoltà, eh? Beh, come non potresti con una dichiarazione d’amore simile… e completamente voluta questa volta.”
“E’ un bel problema – ammise il giovane dopo una decina di secondi di silenzio – questa volta non posso far finta di ignorarla. Laura, sono ad un punto di non ritorno.”
“Sì che lo sei, caro mio – annuì la rossa, abbracciandolo – o fai diventare la tua storia con Ellie qualcosa di serio o lasci stare per sempre. Devi mettere le cose in chiaro, tutto qui.”
Andrew annuì e si crogiolò in quell’abbraccio, consolandosi del fatto che almeno con Laura il rapporto era tornato ad essere quello delle origini, dove non c’erano silenzi ed incomprensioni. In quei mesi sembrava che le nubi di malumore che avevano caratterizzato gli ultimi due anni fossero sparite: era tornata spensierata e felice, con grandi speranze per il futuro. Quella brutta rottura con Marco era stata pienamente superata ed ora i due si parlavano senza problemi, come se niente fosse successo. Persino a casa sua la situazione sembrava in un periodo particolarmente buono: Andrew non sapeva se questo era dovuto a qualche cambiamento da parte dei genitori o semplicemente ad un momento di tregua reciproca.
“Ti direi di aspettare il ritorno di Henry per chiedergli consiglio – continuò Laura, facendolo tornare alla problematica principale – ma lui torna il venti dicembre e ci vuole ancora quasi un mese. Tu dovresti agire prima.”
“Ho paura…” Andrew fece estrema fatica a dire quella frase, ma dovette cedere: si sentiva come quando da piccolo, qualche volta, era andato con lo slittino sopra delle colline particolarmente alte. Ma questa volta buona parte dell’adrenalina era cancellata e restava solo il timore.
Avrei voluto aspettare di più, prendere tempo…
Eppure sapeva benissimo che non ci sarebbe stato niente di sconveniente, ma l’idea di far capire ad Ellie che lui contraccambiava quei sentimenti in qualche modo lo spaventava.
“Andy, suvvia… è Ellie – lo consolò Laura – non hai di che avere paura.”
“Se ti stai per impegnare seriamente avresti paura pure tu, credimi.”
“Ha quindici anni, devi comunque impostare la cosa in modo differente. Non vorrai baciarla, spero.”
“Ci mancherebbe altro! – borbottò lui, sciogliendosi da quella stretta – e questa è un’ulteriore difficoltà: devo rendere le cose a portata di Ellie, capisci? Devo… devo fare in modo da non sembrare un maniaco che insidia una ragazzina e… diamine, forse è quello che sono.”
“Ma smettila.”
“Laura, sul serio, come posso fare?”
C’era una sincera nota di disperazione nella sua voce: aveva appena scoperto che gestire quella situazione era molto più difficile che affrontare il fatidico ultimo esame. Si era appena accorto che si stava per mettere in gioco in maniera davvero compromettente, e la posta in palio era una ragazzina che doveva ancora crescere e maturare e che, dunque, poteva diventare una persona completamente diversa da quella che era abituato a conoscere. Ne valeva davvero la pena?
Perché devo tentennare adesso? Mi sembrava tutto così scontato fino ad una settimana fa… che cosa sta succedendo?
“La festa del primo dicembre potrebbe essere una buona occasione…”
La voce di Laura squarciò il pesante velo dei suoi dubbi.
“Sì – annuì con voce distratta – potrebbe esserlo.”
 
Il fatto che Laura fosse di splendido umore non era solo un’impressione che aveva avuto Andrew.
Dopo quella fase critica che aveva passato durante l’estate era come se finalmente l’instabilità fosse stata cacciata via dalla sua giovane vita, lasciando spazio all’antica gioia di vivere, carica di speranze per il futuro. A dire il vero non era successo niente di particolare per provocare quel cambiamento: era come se da un giorno all’altro, alzandosi da letto, si fosse resa conto che a tenere un atteggiamento simile stava solo perdendo quello che comunque era un bellissimo periodo della sua vita.
La sua capacità come sarta stava iniziando a farsi conoscere tra diverse coetanee ed ormai le ordinazioni erano abbastanza frequenti: si era cimentata in diversi tipi di indumenti e sempre con ottimi risultati ed apprezzamenti. E finalmente aveva raggiunto la cifra adatta per comprarsi una scatola da cucito professionale, un traguardo che non le sembrava ancora vero, ma che la faceva sentire maggiormente libera dalla presa dei suoi genitori.
Ad onor del vero persino loro si erano dati una calmata negli ultimi mesi: forse avevano intuito che con quell’atteggiamento ostile, teso solo a riprenderla, non ottenevano altro risultato che inimicarsela. I commenti sarcastici di sua madre erano diminuiti in maniera esponenziale e così pure i sospiri di suo padre. Poi, ora che l’arrivo di Henry si avvicinava, la casa era carica di un clima di aspettativa più che tangibile.
Insomma, quella che si presentò il giorno dopo a casa di Ellie era una Laura di splendido umore, decisa più che mai a fare la sua parte in quella fase cruciale della vita sentimentale di Andrew.
Agnes, che ormai la conosceva, la fece salire al piano di sopra e le indicò la stanza della figlia.
“Ehilà, piccola infelice – la salutò, entrando e chiudendo la porta alle sue spalle – ancora col broncio per il torto subito dal tuo grande amore?”
“Non sei divertente – commentò Ellie, girandosi dalla scrivania – ho ricevuto una delusione tremenda e tu ci ridi sopra. Sei cattiva, Laura.”
“Oh, ma povera cucciola – la ragazza non poté far a meno di ridacchiare mentre si accostava ad Ellie e la abbracciava con tenerezza – e così hai scoperto che nemmeno Andrew è perfetto, eh? Ma non mi pare il caso di fare un dramma per quei biscotti.”
“Ci avevo messo tutta me stessa…” si lamentò lei, ancora profondamente offesa nell’orgoglio.
“E’ molto dispiaciuto, credimi. L’ultima cosa che vuole è ferirti.”
“Lo so che non l’ha fatto apposta – ammise Ellie, abbassando lo sguardo a terra – però mi sento ancora così umiliata… capisci? Li ha mangiati il suo amico e poi ha appallottolato tutto buttandolo nel cestino dei rifiuti. Il bigliettino che li accompagnava non è stato mai letto…”
“Ci avevi scritto qualcosa di compromettente?” Laura la incitò ad alzarsi e a sedersi nel letto accanto a lei.
“No, almeno non mi pare – ammise Ellie, mettendosi a gambe incrociate e abbracciando uno dei cuscini – però c’erano i biscotti a forma di cuore, lo sai. Uff! E’ tutto un disastro… e ora che ci penso è anche brutto che mi sia offesa tanto con lui, considerato che era impegnato per l’esame.”
“Secondo me sei troppo carica di pensieri – commentò la rossa tirandole la treccia – sai qual è la cosa migliore? Non stare ad arrovellarsi e dedicarsi a cose più piacevoli.”
“Ma Andrew…”
“Fidati che è meglio aspettare un po’… andiamo su discorsi più importanti: fra una settimana c’è la festa del primo dicembre. Hai già deciso che indossare?”
“Oh sì! – sorrise la ragazzina, alzandosi in piedi e correndo verso l’armadio per tirare fuori un bell’abito azzurro chiaro – che te ne pare? E’ fantastico!”
“Che dici, ci facciamo anche qualche modifica? – propose Laura, mostrando la scatola da cucito che aveva tirato fuori dalla sua borsa – se spezziamo un poco quella monocromia sarà anche meglio.”
“Davvero lo faresti? – Ellie era estasiata a quell’idea – le cose che fai con ago e filo sono fantastiche!”
“Fidati di me, Ellie Lyod – dichiarò Laura con aria di grande importanza – alla festa del primo dicembre non ci saranno occhi che per noi due.”
“Voglio gli occhi di una sola persona, lo sai bene.”
A quella dichiarazione Laura alzò lo sguardo dal suo materiale da lavoro. Ellie si stava spogliando con disinvoltura al centro della stanza, la camicia già levata e il suo corpo snello in piena mostra. Ma a colpire la rossa era stato il tono usato dalla sua amica: non più la supplica o la speranza di una ragazzina, ma la volontà di una donna.
Eh sì, caro Andrew, qui è proprio il caso che tu dia una svolta. Perché se non lo fai tu lo farà lei, e allora voglio proprio vederti.
Ma decise di far passare quel discorso in secondo piano e così dopo qualche minuto, stavano chiacchierando amabilmente delle altre novità.
“Ah, hai visto che ci sono degli operai alla locanda? – chiese Ellie mentre sollevava le braccia per permettere a Laura di lavorare col metro – Papà dice che devono sistemare un tratto della ferrovia proprio vicino alla stazione.”
“Davvero? – mormorò la rossa con aria distratta, mentre fermava la stoffa con un paio di aghi – Ogni tanto anche in questo paese ci sono delle novità. Ma adesso resta ferma, non voglio pungerti.”

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Capitolo 15
*** Capitolo 14. 1881. Svolte decisive. ***


Capitolo XIV

1881. Svolte decisive.

 
 
Se c’era una festa amata dai giovani del paese era quella del primo dicembre, nel grande capannone appena fuori dalla città. Le altre occasioni mondane erano spesso legate al mondo dell’agricoltura e del raccolto e dunque mancavano di quell’atmosfera di eccitazione e aspettativa che invece si trovava in quel particolare momento di aggregazione. Forse dipendeva che, al contrario delle altre feste, era sempre presente l’orchestrina e dunque i balli non mancavano mai… e i balli sono l’occasione migliore per tentare un approccio con il sesso opposto o comunque consolidare ed ufficializzare davanti a tutti una relazione. Forse agli occhi di un cittadino una cosa simile sarebbe sembrata oltremodo sciocca, ma in un mondo di campagna dove i sentimenti e le conseguenti manifestazioni sono più semplici, accettare o proporre un ballo ad una determinata età poteva significare molto. Ecco perché questa particolare festa era tanto attesa e le ragazze mettevano particolare attenzione nel loro abbigliamento: poteva essere finalmente l’occasione buona perché il ragazzo che tanto ammiravano a scuola chiedesse loro di ballare, oppure che un timido fidanzato si decidesse a rendere più ufficiale la relazione. Insomma, era chiaro che la festa del primo dicembre costituiva un importante momento di vita sociale all’interno del paese.
Era probabilmente l’unico evento in cui era presente tutta la comunità, grazie anche all’ampiezza dei due capannoni (uniti ormai in un unico grande edificio) che poteva radunare tutte quelle persone.
“Laura, tesoro, sei uno splendore!” Anna Fury prese le mani della ragazza e la ammirò proprio come una madre guarderebbe la propria figlia.
Laura fu ovviamente deliziata da quella reazione e fece addirittura una piroetta su se stessa, creando aggraziate pieghe sulla sua gonna verde. Ogni complimento per lei valeva doppio quella sera: quell’abito verde scuro, in perfetto tono con i capelli color fuoco, era una sua personale creazione e ne andava estremamente fiera. Al contrario di tutte le sue precedenti creazioni, piuttosto semplici, questo era particolarmente elaborato ed era normale che attirasse lo sguardo invidioso di più ragazze. Ed inoltre lei, con il suo corpo  morbido e attraente, era la modella migliore per un simile capo.
“Mi avevi detto che avevi intenzione di essere la reginetta di questa festa – commentò Andrew, baciandola sulla guancia e strizzandole l’occhio – allora non era uno scherzo.”
“Non sono mai stata così seria – sorrise Laura, sistemandosi una ciocca ribelle, lasciata fuori apposta dal fermaglio – quest’anno la festa del primo dicembre è mia, Andrew Fury, te lo garantisco. Tu solo sei esonerato dal guardarmi.”
A quelle parole Anna lanciò un’occhiata incuriosita ai due ragazzi ed Andrew arrossì. Con un cenno fece capire all’amica di voler parlare da solo con lei e la condusse verso uno dei tavoli ancora vuoti, approfittando del fatto che era relativamente presto e la gente stava ancora arrivando e persino l’orchestra non aveva ancora preso posto nel piccolo palco davanti alla pista da ballo.
“Evita simili commenti davanti ai miei – mormorò Andrew, fissandola con aria indispettita – la situazione è già abbastanza difficile… senza contare che quello che farò sarà anche davanti ai genitori di lei. Se il padre non mi ammazza in quest’occasione non lo farà mai più.”
Laura lo fissò con aria perplessa per qualche secondo, ma poi capì cosa aveva in mente di fare l’amico.
“Ci vogliamo esporre in maniera davvero compromettente, eh? Davanti a tutto il paese…”
“L’hai detto tu stessa che dovevo dare una svolta, no? E mi sono reso conto che è vero… Ellie è mia, Laura, e stasera ho intenzione di farlo capire a tutti.”
Qualche giorno prima la giovane Hevans si era accorta che Ellie aveva parlato come una donna che esprime la propria volontà, adesso anche il tono di Andrew era simile. Quei giorni di arrabbiatura da parte di Ellie gli avevano fatto finalmente assimilare del tutto l’idea che era lei quella con cui si voleva impegnare.
“E allora guardala pure, Andy – commentò la rossa, accennando all’ingresso del capannone – e ti faccio notare che parte dell’aspetto fantastico che ha stasera è dovuto a me. Per l’occasione te l’ho voluta fare più bella del previsto.”
“Non potevi fare lavoro migliore.” sorrise Andrew, ammirando Ellie che si levava il cappotto e si mostrava in tutto lo splendore di quell’abito azzurro.
 
Dopo circa un’ora la festa era in pieno svolgimento: tutti si erano distribuiti tra i tavoli colmi di cibarie, le panche disposte lungo le pareti o in altre sedie portate per l’occasione, in modo che tutti avessero un posto dove accomodarsi. Come sempre il centro dell’attenzione era la pista da ballo: gli occhi di tutti erano puntati sulle coppie che mano a mano trovavano il coraggio di cimentarsi nella danza… e ovviamente c’era la curiosità di sapere se quell’anno qualcuno tra i giovani avrebbe trovato il coraggio di fare un passo avanti.
Ellie in quel frangente si trovava leggermente in difficoltà: aveva passato la prima parte della serata con le sue compagne di classe, godendosi il clima di pettegolezzo e di complicità. Ma ad un certo punto aveva notato che alcuni ragazzi guardavano proprio verso di loro e tra di essi c’erano alcuni che più di una volta le avevano mandato dei bigliettini a scuola.
“Hai successo tra quelli dell’ultimo anno, eh? Diamine, quello è David… fossi in te io accetterei.”
Le parole di Annabell erano state eloquenti e più di una compagna le aveva fatto cenno di dare segnali a quei ragazzi. Ma la giovane Lyod non aveva nessuna intenzione di accettare quelle attenzioni, nemmeno per semplice cortesia: farlo alla festa del primo dicembre era troppo compromettente. E poi a quella festa c’era anche Andrew e non avrebbe mai accettato che la vedesse in compagnia di qualcun altro: avrebbe potuto farlo per ingelosirlo, ma le sembrava un gesto estremamente pessimo e non da lei.
Ma era anche vero che non gli aveva ancora perdonato quell’equivoco dei biscotti e dunque o veniva lui a cercarla e chiederle scusa (cosa che non aveva ancora fatto da quando avevano litigato) o non sarebbe accaduto proprio niente.
“Che hai principessa? – chiese Nicholas, seduto accanto a lei nella panca – Sei il fiore più bello della serata, dovresti sorridere e godere di questa festa. Perché non torni dalle tue compagne?”
“Sono un po’ stanca – mentì lei – sai, a stare così tanto in piedi…”
“Se vuoi dopo ti porto a ballare – le promise il padre – sei leggiadra come tua madre nella danza, lo sai bene. Che ne dici, Agnes, andiamo a mostrare a questi ragazzini come si balla?”
“Ovviamente, caro – sorrise la donna, incantevole quanto la figlia nel nuovo abito – torniamo tra poco, Ellie.”
Con un sorriso la ragazza osservò i suoi genitori che si facevano largo tra le coppie ed iniziavano a danzare: non passava anno che dessero sfoggio delle loro doti ballerine davanti a tutto il paese ed infatti un grande applauso accolse la loro discesa in pista. Nicholas Lyod ne andava fiero, quasi quanto la sua abilità di cavallerizzo: nel sangue dei Lyod c’erano un sacco di abilità, era solito dire.
Libera finalmente di potersi lasciar andare, Ellie posò la schiena contro la parete di legno e sospirò. Non si stava divertendo come gli altri anni, assolutamente: doversi nascondere per evitare degli inviti da parte dei ragazzi non era per niente bello. Guardandosi attorno notò come Laura fosse al centro dell’attenzione di un gruppo di coetanei: lei sì che non disdegnava quella compagnia, tutt’altro.
Diamine, è davvero bella… è un bene che lei ed Andrew siano come fratelli. Non avrei avuto la minima possibilità contro una simile avversaria.
Ellie sapeva di essere bella: nell’ultimo anno aveva capito di essere la più carina delle superiori e che la sua mancanza di prosperità non la sminuiva affatto. Le sue proporzioni erano incredibilmente armoniose ed il viso aveva una delicatezza completamente diversa dagli ordinari lineamenti della gente di campagna.
Era l’unica figlia di un grande proprietario, aveva una bellezza fuori dal comune… questo a volte le dava la spiacevole sensazione che parte dei suoi ammiratori la vedesse solo come un buon partito. Forse era sciocco pensarlo a quindici anni, ma la sua parte Lyod era propensa a valutare quella possibilità.
Quasi avvisata da un sesto senso si girò alla sua sinistra e vide che David, uno dei suoi corteggiatori più insistenti, l’aveva notata da sola e si stava avvicinando.
Era troppo tardi per potersi alzare ad andare via: sarebbe stato troppo palese il tentativo di fuga.
Oh no… no, no, no… per favore non chiedermelo…
“Ciao, Ellie…” il giovane la raggiunse.
“Ciao…” mormorò lei, facendosi piccola piccola e abbassando lo sguardo a terra.
“Posso chiederti se…”
“Buonasera, Ellie, come stai?”
Ellie aveva il viso rivolto a terra per cui nessuno notò come i suoi occhi si dilatarono nel riconoscere quella voce. Immediatamente alzò lo sguardo verso il nuovo arrivato e le sue guance divennero rosse di piacere.
Come sto?... come posso stare se tu sei così bello stasera?
“Ciao, Andrew…” sorrise timidamente.
“Ti dispiace? – Andrew si rivolse a David che, ovviamente, fu costretto a nascondere la sua espressione stordita e ad allontanarsi da loro due: cosa poteva uno studente sedicenne contro un diciannovenne quasi laureato? Poi il giovane Fury riportò la sua attenzione alla ragazza – Sei sola soletta, Ellie, non è bello alla festa del primo dicembre.”
“Succede – arrossì lei, sentendosi mancare per l’emozione. Quelle frasi sembravano quelle di circostanza prima di un invito a ballare, ma non poteva essere vero… sarebbe stato troppo bello – è che mi sono voluta sedere un po’, tutto qui.”
“Quel giovanotto voleva invitarti a ballare, credo… ho rovinato qualcosa?”
“No! – si affrettò a rispondere lei, alzandosi di colpo in piedi – Non potrei mai accet… oh, ma mi stai prendendo in giro!”
“Adesso però torno serio – ridacchiò Andrew – ti va di ballare con me?”
Ellie aveva letto tanti romanzi e più di una volta si era incantata davanti a quelle descrizioni di sentimenti così forti e tangibili da sembrare veri. Quante volte le protagoniste sentivano il loro cuore impazzire, le gambe tremare, una scarica di felicità per tutto il corpo? Ma nemmeno la descrizione migliore che avesse mai letto poteva paragonarsi allo stato di estasi che la pervadeva.
“Allora ti va?” chiese ancora lui, tendendo la mano.
Un piccolo angolo della mente di Ellie si chiese se doveva rifiutare e fare l’offesa per la storia dei biscotti, ma fu solo per un millesimo di secondo. Con le lacrime agli occhi accettò quella mano tesa, impazzendo di felicità quando la sentì chiudersi sulla sua.
“Ti avviso che non sono un ballerino esperto – ammise Andrew, mentre la conduceva verso la pista da ballo tra i commenti di tutti – spero mi perdonerai.”
“Tu sei perfetto – riuscì a sorridere Ellie – non potrei ballare con altra persona che con te.”
L’orchestra proprio in quel momento suonava un lento: forse non era proprio la musica adatta per una coppia così particolare, a meno che non si volesse davvero rendere esplicite le cose. Ma ad Andrew non importava: che lo capissero tutti o meno era un dettaglio secondario, a lui interessava solo che Ellie fosse finalmente sua, senza più sottintesi. Tre anni sarebbero volati in fretta, fin troppo.
“Andrew Fury – sibilò una voce vicino a loro – che cosa diavolo combini con mia figlia?”
I due giovani si girarono e videro Agnes e Nicholas che li fissavano… e lo sguardo di lui era completamente furente.
“Signor Lyod – disse Andrew, affrontandolo – ho semplicemente chiesto ad Ellie l’onore di diventare la mia personalissima compagna di ballo per questa festa del primo dicembre.”
E per tutte quelle a venire.
“Oh, Andrew…” Ellie sospirò felice, appoggiandosi al suo petto e cingendogli la vita con le braccia.
“Prima o poi ti ammazzo – Nicholas lo fissò con astio – non credere che…”
“Suvvia caro! Lasciali tranquilli! Godetevi il ballo figlioli.”
“Signora, poi posso presentarvi ai miei genitori? – Andrew concluse la sua perfetta esibizione con quella stoccata: che lo sfidassero a rendere la cosa più ufficiale – Mi pare giusto farvi conoscere.”
“Non pensare di cavartela così e…”
“Più che volentieri – annuì Agnes, incitando il marito ad allontanarsi da loro – ma ora pensate al ballo.”
E fu quello che Andrew ed Ellie fecero.
 
Vedendo Andrew ed Ellie che ballavano felici, Laura si sentì così soddisfatta che si versò un bicchiere di vino più che abbondante e lo tracannò di gusto. Si sentiva in parte artefice di quella coppia appena dichiarata e godeva un mondo nel sentire la sala che mormorava come impazzita.
Il figlio del notaio e la figlia del più grande proprietario terriero… se questo non era un fidanzamento coi fiocchi! Tutto il paese ne avrebbe parlato per mesi.
Ma conoscendo i miei polli so benissimo che a loro non interesserà per niente.
Era felice, ma un briciolo di nostalgia era innegabile: il suo Andy era ormai cresciuto e quella sera l’aveva affidato ufficialmente nelle mani di Ellie. Era come averlo lasciato andare in una maniera definitiva, per quanto avrebbero continuato a vedersi quotidianamente e ad essere presenti l’uno nella vita dell’altra.
“Uh, Laura, vacci piano con il vino – commentò Sean, un suo amico – è vero che i tuoi sono già tornati a casa da un pezzo, ma qui si esagera.”
Ma mentre diceva questa frase il giovane ridacchiò e le versò un nuovo bicchiere di quella bevanda così inebriante. Il vino della festa del primo dicembre era leggermente speziato, teso a riscaldare il sangue delle persone per l’inverno imminente. Laura ovviamente aveva già bevuto vino in diverse occasioni, ma non si era mai lasciata andare in quel modo. Sentiva che quel sapore così dolce la faceva emergere ancora di più alla festa, facendola splendere di una luce propria. Non sentiva sintomi da ubriacatura particolari, solo un piacevole senso di leggerezza e vitalità.
“Devo stare lontana da te, Sean – ridacchiò, bevendo un nuovo sorso – sei tentatore!”
“Tu sei tentatrice con la tua bellezza, signorina Hevans – le strizzò l’occhio – se vuoi far sfigurare Andrew e la ragazzina perché non balliamo insieme?”
“Tesoro, quei due non li fa sfigurare nessuno stasera, fidati di me! – lo respinse lei, suscitando le risate degli altri loro amici – e poi, che diamine! Hai avuto decine di feste del primo dicembre per chiedermi di ballare: ti smuovi solo adesso?”
“Come si dice meglio tardi che mai!”
“Si dice anche che il treno passa solo una volta!” sentenziò la rossa, mettendosi le mani sui fianchi con aria di chi la sa lunga. E sentendosi piacevolmente accaldata decise di andare a prendere una boccata d’aria, lasciando Sean e gli altri a prendersi in giro a vicenda.
Quando raggiunse finalmente l’ingresso l’aria fredda della notte dicembrina la fece rabbrividire. Ma fu un effetto che lei aveva bramato, alla faccia dei rischi che correva con un cambio di temperatura così brusco: un’influenza o un raffreddore erano un prezzo equo per quella splendida serata.
Accorgendosi che preferiva un po’ di silenzio si allontanò dall’ingresso del capannone, sistemandosi le spalline del vestito per proteggersi meglio dal freddo. Il suo sguardo colse una lieve scintilla poco distante da lei e poco dopo la brace di una sigaretta accesa le fece capire che qualcuno stava fumando.
Lo sconosciuto forse la vide e si spostò poco distante, andando alla luce di una delle torce che erano state messe per illuminare il percorso verso il luogo della festa.
Laura lo riconobbe: era uno degli operai che stavano lavorando alla ferrovia da una decina di giorni. Nonostante fosse giorno di riposo, avevano aiutato di loro iniziativa ad allestire il palco per l’orchestra e la pista da ballo e così era stato più che naturale che si aggregassero alla festa. Essendo facce sconosciute era stato facile per la ragazza identificarli subito… quello davanti a lei era il più giovane del gruppo.
“Troppo rumore là dentro?” chiese con un sorriso, avvicinandosi.
“Non sono molto amante della musica – scrollò le spalle lui, spalle belle robuste ma diverse da quelle di chi lavorava nei campi – meglio una sigaretta in santa pace.”
“E’ raro che qualcuno fumi.”
“Nemmeno io fumo molto, signorina. Ma era una scusa come un’altra per uscire… a dire il vero il sapore mi fa proprio schifo. Le chiederei se vuole assaggiare, ma presumo che non funzioni così con le signorine come lei.”
Laura annusò l’odore dolciastro e acre della sigaretta che le veniva offerta, ma poi scosse il capo con una smorfia di disgusto: meglio quello inebriante del vino. Vedendo la sua reazione l’uomo sogghignò e si spense la sigaretta sulla suola della scarpa, lanciando via la cicca.
“Decisamente non siamo dei fumatori nati, non crede?”
“Decisamente – Laura sorrise, trovando piacevole la compagnia di quella persona, così diversa da quella dei soliti ragazzi, persino da quella di Andrew od Henry – allora, come ci si sente a partecipare ad una festa di paese?”
“Non molto peggio di come mi sentivo a quelle del mio paese.”
“Molto distante da qui?”
“Distretto del Sud, vicino al confine con Aerugo.”
“Comunque io sono Laura.”
“Gregor.”
Non era un uomo dalla grande bellezza, ma c’era in lui qualcosa di particolare. Era robusto e forgiato dal duro lavoro, si capiva, anche il volto aveva i lineamenti piuttosto forti. I capelli erano di un comune color castano e alla luce della torcia assumevano delle sfumature davvero piacevoli.
“Come mai uno schianto come te è qui fuori, signorina Laura? – le chiese lui – I ragazzi del paese non ti stanno correndo dietro?
Laura liquidò Sean ed i suoi amici con una scrollata di spalle. Aveva scoperto che la compagnia di quell’uomo le andava più a genio rispetto all’immaturità che ancora la faceva da padrone nei suoi coetanei. I più maturi, come Andrew, non partecipavano più a determinati giochi perché si erano impegnati in cose molto più seri, a prescindere dall’età della fortunata. I patetici e divertenti tentativi di Sean non valevano la metà della frase detta da Gregor.
“Si vede che li ho seminati – ammise con un sorriso – ti dispiace se resto qui con te?”
“Affatto, signorina, rendi più piacevole questa serata fredda.”
 
“Due passi fuori?” chiese Andrew, mettendo un braccio attorno alle spalle di Ellie.
“Volentieri – arrossì lei, non riuscendo ancora ad abituarsi a quei gesti così affettuosi e soprattutto plateali – effettivamente mi sento accaldata. Ma forse è stata tutta l’emozione della serata.”
Andrew sorrise e la accompagnò fuori dal capannone, lasciando che i suoi genitori si districassero con quelli di lei. Fortunatamente sembrava che Nicholas Lyod si fosse dato una calmata, probabilmente per merito di quella santa donna di sua moglie, e dunque, quando le famiglie si erano presentate ufficialmente il clima era abbastanza disteso o, perlomeno, non c’erano state minacce di morte.
Ma il giovane si accorse che la cosa non gli importava: adesso aveva Ellie a cui pensare. Abbassò lo sguardo sulla figura snella che teneva il capo chino con timidezza, chiaramente incerta se posarsi contro il suo fianco o meno.
“Scusami ancora per i biscotti – le disse quando finalmente furono fuori – ti posso chiedere di rifarmeli?”
“Ma certo! – annuì lei con entusiasmo – e saranno ancora più buoni, lo giuro.”
“Acqua passata?”
“Arrivata fino a valle e finita in mare! – esclamò Ellie – Oh, Andrew, come potrei non perdonarti dopo questa serata! Non credo di esser mai stata così felice in vita mia… quando ho visto David avvicinarsi ho pensato che sarebbe stata una notte tremenda, che in qualche modo tra noi due si fosse spezzato qualcosa ed invece… sei arrivato come un cavaliere e mi hai portata in salvo.”
“Fantasiosa come sempre – ridacchiò il giovane – ma ti adoro per questo, lo sai?”
Si erano fermati nello spazio tra due torce, ma nonostante la luce soffusa fu chiaramente visibile il rossore di Ellie.
“Andrew, io ti amo…” mormorò la ragazza, trovando la forza per dichiararsi.
“Sssh – lui le mise un dito sulle labbra – Ellie, hai quindici anni…”
“Non è impor…” cercò di parlare lei, temendo di essere rifiutata.
“Lasciami finire, da brava – Andrew si chinò e le loro fronti si toccarono, quella di Ellie che bruciava come se avesse la febbre – ti adoro, Ellie, e sono sicuro che sei la persona destinata a farmi battere il cuore per sempre. Non riesco ad immaginare altre persone al mio fianco… ma non posso dirti "ti amo", non ancora. Mi capisci? Sarebbe una bugia…”
“Ma io ero sincera quando te l’ho detto – sospirò lei ad occhi chiusi – Andrew…”
“Ti credo, piccola meraviglia – sorrise il giovane – ma se avrò il privilegio di averti accanto a me tra qualche anno e mi ridirai le medesime parole, scoprirai che sarà molto diverso. Puoi capirmi, Ellie? Puoi accettare una promessa per il futuro?”
Lei rimase in silenzio, segno che si stava perfettamente rendendo conto dell’impegno. Le romanticherie erano una cosa bellissima, certo, ma qui si stava parlando di un qualcosa di veramente concreto che avrebbero dovuto costruire passo dopo passo a partire da loro stessi.
Non è come intrecciare i mignoli e promettersi una lettera alla settimana.
“Un bacio – disse infine – ti chiedo solo questo.”
“Ellie…”
“Se tu credi al mio ti amo, anche se sai che si evolverà… io voglio un tuo bacio…”
Non gli diede il tempo di reagire: si strinse contro di lui e chiuse gli occhi. Non protese le labbra o qualcosa di simile, lasciò a lui decidere se darglielo o meno.
E le labbra fresche di Andrew si posarono sulla sua fronte, mentre le sue braccia la cingevano con dolcezza.
“E’ tutto quello che posso darti per ora, Ellie…” mormorò dopo qualche secondo.
“E’ tutto quello che voglio da te.” sorrise Ellie, sentendosi la donna più felice del mondo
E si stava così bene, stretti l’uno all’altra in quel freddo di inizio dicembre, consapevoli di aver finalmente trovato la persona destinata a completarci, quella che ti starà accanto tutta la vita. Perché quei quattro anni di differenza in quel momento non contavano niente: certe cose si capivano a prescindere dall’età.
 
Un piccolo angolo della mente di Laura tornò a qualche mese prima, a quel pomeriggio di agosto così caldo dove lei e Marco avevano fatto i primi e goffi approcci col mondo dell’amore fisico. Allora era solo il sole ad essere rovente, mentre le carezze ed i baci del giovane erano impacciati e smaniosi.
Le braccia di un uomo esperto regalavano sensazioni totalmente diverse: sapevano farla impazzire anche se c’era la spessa stoffa del vestito a separarle dalla pelle nuda.
Non sapeva come era arrivata a questo punto, ma stava amoreggiando con un quasi totale sconosciuto in un piccolo capanno degli attrezzi poco lontano dal luogo della festa. Forse era colpa del troppo vino bevuto che l’aveva resa particolarmente vivace, forse era la voglia di provare qualcosa di nuovo che non fosse il pungente odore di sigaretta.
O forse era semplicemente quella voglia di fuggire che piano piano tornava a ripresentarsi.
Quel pretendere troppo dal mondo che spesso ti spezza il cuore e ti distrugge.
Le mani di Gregor almeno lo facevano in un modo meraviglioso, la sua bocca altrettanto bene.
Che sciocchi baci infantili erano stati quelli estivi: erano come le corse per la campagna, i tuffi nello stagno, le risate di bambini ancora ingenui su quanto è grande il mondo.
Erano stati la sciocca illusione di potersi accontentare.
“Voglio gli occhi di una sola persona, lo sai bene.”
Ellie aveva vinto: aveva lottato e si era presa Andrew, proprio come voleva.
Laura voleva essere libera, voleva poter volare lontano da quel mondo che in fondo la opprimeva.
E se per Ellie Lyod c’era il ballo con Andrew Fury, per Laura Hevans c’era l’amore passionale di Gregor Breda.
“…Ali bianche, forti e coraggiose
sfidano il mare e le tempeste, vogliose di vita…”
Il ricordo di una vecchia poesia imparata a scuola le tornò come per follia in mente proprio mentre le mani di lui le sollevavano la gonna. Poi fu solo un vortice di colori e buio.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15. 1881 - 2. Le conseguenze impreviste. ***


Capitolo XV

1881 - 2. Le conseguenze impreviste.

 

Immergendosi nella vasca di acqua calda, il profumo del sapone che occultava quello di sudore e vino, Laura si sentì rinascere e tutto quello che desiderò fu rimanere in quel paradiso per sempre. Trattenendo il fiato tirò indietro la testa fino a bagnarsi tutti i capelli ed il viso, in modo che nessuna parte del suo corpo venisse trascurata in quel bagno assolutamente necessario.
Finalmente si sentiva di nuovo Laura Hevans e non il relitto che era a malapena riuscito a tornare a casa, ad orario indefinito, e a buttarsi nel letto senza nemmeno levarsi gli stivaletti. L’unica nota positiva era che sua madre l’aveva svegliata senza entrare in camera, limitandosi a bussare alla porta, e dunque non aveva visto il disastro. Sgattaiolare in bagno e chiudersi a chiave era stato un conseguente gioco da ragazzi.
La mattina successiva alla festa in genere è tempo di bilanci, ma quello di Laura non era molto positivo.
Un grandioso mal di testa, nausea per il troppo bere, un vestito fantastico ridotto da schifo e probabilmente irrecuperabile e poi…
“Uhm…” mormorò, allungando lo sguardo verso la parte centrale della vasca dove c’era qualche chiazza di acqua più rosa del previsto.
Ed oltre a quel dettaglio, che provvide a lavare con cura, c’era anche tutto il resto del suo corpo che risentiva della focosa nottata che aveva trascorso. Oltre all’ovvio indolenzimento dovuto alla non troppo comoda ambientazione di un capanno degli attrezzi, c’erano muscoli della sua persona che erano stati forzati come mai le era successo. Ma più in generale tutto il suo corpo risentiva della passione del suo amante… perché in fondo era quello che era successo.
E questo, levando l’indubbio piacere provato, costituiva un problema non indifferente.
Beh, dai, avrei potuto perdere la verginità anche con Marco, se le cose fossero andate avanti… non credo che la maggior parte delle ragazze arrivi vergine al matrimonio…
Però, in genere, la maggior parte delle ragazze faceva l’amore per la prima volta con la persona che poi sposava. O comunque con un ragazzo del paese, non certo un operaio praticamente sconosciuto.
… e decisamente più grande di me, come minimo è sulla trentina.
“Laura – sua madre bussò alla porta – sei in bagno da più di mezz’ora. Sono le dieci passate, ragazza, non puoi restare a mollo fino a pranzo.”
“Sì, mamma, ho quasi fatto. Dieci minuti e sono pronta.”
L’idea che i suoi genitori scoprissero la conclusione della sua serata la fece rabbrividire: già sarebbe scoppiata la tragedia se avessero saputo di quello che aveva combinato con Marco quell’estate. Ma per Gregor l’avrebbero ammazzata.
Finendo di sciacquarsi uscì dalla vasca e si avvolse nell’asciugamano.
Guardandosi allo specchio vide la solita Laura Hevans: eccetto quel segno rosso sul seno destro che sarebbe sparito in pochi giorni non c’era niente che indicasse il suo nuovo status di donna… adulta. Questo la faceva ben sperare: insomma, ad un eventuale futuro fidanzato un dettaglio simile non sarebbe importato. Da come la guardavano i suoi amici si capiva benissimo che sarebbero passati sopra questo ed altro.
“Ma sì, non mi devo porre alcun problema in merito – si convinse con un sorriso – è stata solo l’avventura di una notte e via. Scommetto che non sarò stata nemmeno l’unica a finire ad amoreggiare con un ragazzo.”
L’unica cosa importante era nascondere bene l’abito verde fino a quando non fosse stato lavato come si conveniva.
 
“Folletto rosso in arrivo!” esclamò Henry, lasciando cadere la sacca e parando con abilità la sorella che si era tuffata tra le sue braccia con il solito entusiasmo. Come sempre la sollevò da terra e le diede un forte bacio sulle guance.
“Oh, Henry! – pianse Laura – Finalmente!”
“Vederti in periodo natalizio ti rende ancora più folletto – ridacchiò il soldato, recuperando la sua sacca – e allora? Ne abbiamo di cose da raccontare, vero? Ma prima lasciami salutare Andrew.”
“Tieniti forte – ridacchiò la rossa – adesso è praticamente impegnato con la sua Ellie.”
 “Ciao, Henry – salutò Andrew, stringendo la mano all’amico – è un piacere riaverti a casa.”
“Siamo cresciuti, Andrew Fury, eh? – il soldato lo strinse nel solito abbraccio – Abbiamo deciso di diventare grandi e di ufficializzare alcune cose, mi si dice.”
L’occhiata lanciata dagli occhi grigi fu molto perplessa, come se Henry dubitasse sinceramente di quella strana unione. Ovviamente sapeva di Ellie e delle sue famose passeggiate per accompagnarlo alla stazione; sapeva anche che col passare del tempo quell’amicizia era diventata più profonda, ma sicuramente non si era aspettato che l’evoluzione fosse arrivata sino a questo punto.
“Pare di sì, ma presumo che Laura ti vorrà fare tutto il resoconto e prendersi ogni merito.”
Andrew era arrossito lievemente per le parole dell’amico, ma era innegabile che fosse felice: i suoi occhi castani brillavano di una luce completamente nuova, come nuova era la sicurezza permeava la sua persona. Era come se l’impegno che si era scambiato con Ellie l’avesse reso estremamente maturo, consapevole di avere un percorso spianato da seguire.
“O suvvia – protestò Laura – al ballo del primo dicembre lei era splendida anche per merito delle modifiche che ho fatto al suo abito, ammettilo. Te l’ho preparata proprio a puntino.”
“Uh, mi sono perso una festa del primo dicembre coi fiocchi – rise Henry mentre si avviavano verso casa – Andrew Fury che si dichiara non è cosa da tutti i giorni.”
La passeggiata verso il paese trascorse tranquilla come sempre, con Laura che non mancò di lanciare palle di neve contro i due compagni. In quei momenti, era come se il meraviglioso trio non si fosse mai distaccato e tutto il mondo fosse solo una grande avventura da godere assieme. Il paesaggio innevato ed il clima natalizio non facevano che riportare alla mente i ricordi più lieti, quelli che avevano coltivato sin da bambini, quando tutto quello che volevano era giocare fino allo sfinimento e poi correre a casa e bere la cioccolata con la cannella.
Almeno questo era quello che pensava Laura quando salutarono Andrew e si avviarono verso casa. Era tutto perfetto, come non poteva esserlo ora che suo fratello era a casa?
“E così l’hai lasciato andare… – dichiarò Henry all’improvviso, fissandola con attenzione – lasciato andare o perso forse non l’hai capito nemmeno tu, vero?”
Laura abbassò lo sguardo davanti a quella frase impietosa che faceva riaffiorare quel senso di solitudine sepolto nel suo cuore. Solo Henry era riuscito a capirla davvero e gli era bastato il tempo di una passeggiata.
“Non ci saremmo mai potuti amare, lo sai bene.”
“E così la piccola Ellie ha fatto un bel salto in avanti rispetto alle passeggiate per accompagnarlo alla stazione. Ma Andrew è sempre stato molto idealista per determinate cose, non mi dovrebbe sorprendere la sua scelta: la differenza d’età sarà stato l’ultimo problema che si è posto. Solo lui poteva fare una cosa simile.”
“Che vorresti dire?” chiese la ragazza intercettando lo sguardo del fratello.
“Che nessun altro ragazzo avrebbe avuto il coraggio di riuscire a vedere una quindicenne in un modo simile. Ha dato la priorità alle affinità dell’anima o cose del genere impegnandosi in quel modo… un’altra persona avrebbe aspettato che lei crescesse e tanti saluti.”
“La situazione è sfuggita di mano e…”
“Laura, apri gli occhi – scosse il capo Henry, mentre arrivavano a casa – quell’incidente dei biscotti è stato solo un pretesto. Se Andrew non voleva farlo non si sarebbe fatto convincere da una stupidata simile. Ha voluto mettere una seria ipoteca su di Ellie, tutto qui.”
“Non credi nei suoi sentimenti?”
“Non credo che Ellie sia in grado di capire la serietà dell’impegno che ha preso: è una ragazzina. Vede Andrew con una luce tutta romantica ma fisicamente non ha la minima idea di cosa sia l’amore.”
“E quindi senza componente fisica non può essere innamorata?” Laura lo fulminò con lo sguardo.
“Non in modo vero – scosse il capo Henry con decisione – Ciao mamma, ciao papà!”
Laura osservò il ragazzo che abbracciava con entusiasmo i genitori e per qualche secondo lo odiò. Era arrivato come se fosse il grande esperto della situazione, giudicando il rapporto tra Andrew ed Ellie in maniera impietosa, senza capire tutto quello che i due ragazzi avevano passato prima di arrivare a quella decisione.
E’ vero, forse lei l’aveva perso o l’aveva lasciato andare, ma questo non voleva dire che…
Componente fisica… oh, Henry, ti assicuro che quella non comporta essere innamorati.
Per un attimo ebbe l’impressione di aver dimenticato qualcosa, ma poi scrollò le spalle.
Suo fratello era tornato a casa per natale e questo era l’importante: il secondo di odio che aveva avuto nei suoi confronti sparì come neve al sole.
 
“Sei gentile a ripararmi il nastro per capelli – sorrise Ellie mentre si accomodava nel letto di Laura qualche giorno dopo – volevo metterlo per il cenone di domani ma quello strappo è proprio evidente.”
“Ci metto un fiocco sopra, va bene? – Laura iniziò a frugare nella sua scatola di lavoro – ci impiego un paio di minuti… anzi, sai che facciamo? Ti faccio anche il ricamo sui bordi che riprende il fiocco.”
“Davvero? Oh, Laura! Sei fantastica! Spero che Andrew lo noti: sai il giorno dopo i suoi mi hanno invitato ad una merenda.”
“Se non nota il mio tocco artistico mi offendo – scherzò Laura – allora, come ci si sente ad andare a casa dei tuoi futuri suoceri? Ti stai trovando bene con loro?”
“Sì – annuì con entusiasmo la mora, abbracciando uno dei cuscini – sono gentilissimi con me, anche se penso che abbiamo diverse perplessità sulla mia età. Però io ed Andrew non facciamo nulla di sconveniente, non potrei mai.”
“E cosa vorresti fare di sconveniente alla tua età?” ridere fu praticamente inevitabile.
“Un bacio con lui sarebbe assai sconveniente, lo so. Mi rendo perfettamente conto che per quello dovrò aspettare almeno i diciassette anni.”
Quella frase riportò alla mente di Laura il discorso che aveva avuto col fratello qualche giorno prima. Non ne avevano più parlato, sembrava che la questione fosse chiusa lì: Ellie gli era stata presentata e lui l’aveva trattata nel migliore dei modi, senza prenderla in giro o fare allusioni con Andrew. Ma Laura era in qualche modo certa che suo fratello non fosse ancora sicuro di quella relazione: basare un fidanzamento sui sentimenti che avrebbe provato Ellie in futuro era un concetto che gli dava da pensare.
“Ellie, giusto per curiosità, cosa ne pensi di Andrew in senso fisico?”
Fu una domanda buttata in tono noncurante, ma ebbe il potere di mettere in imbarazzo la ragazzina.
“In senso fisico? – chiese incredula – Beh… lui è… è bellissimo, non credi? Insomma i suoi occhi sono di un castano fantastico e come sorride mi sembra di essere in paradiso. Sai, una volta mi è capitato di accarezzare i suoi capelli mentre dormiva…”
“Cosa?”
“… oh, non dirglielo mai, ti prego! Ma sono così belli e morbidi: giuro che li avrei accarezzati per sempre.”
“Sì, ma – la interruppe Laura – in senso più…” lasciò la frase sospesa ed Ellie capì.
“Oh… oh quello! – abbassò lo sguardo e strinse ancora di più il cuscino, le guance che si coloravano di rosso – Beh… presumo sia bello fisicamente, anche se non è altissimo e muscolosissimo, però non è che guardi molto a queste cose, per me lui è perfetto così. Però credo che quando sarò più grande e farò l’amore con lui sarà bellissimo… del resto lo amo tanto.”
“Credi di amarlo davvero considerato che fisicamente non sei ancora pronta?”
Ellie scosse il capo con ostinazione prima di rispondere.
“Lui mi ha detto che non era giusto che gli dicessi ti amo perché sarà molto diverso da quello che gli dirò quando sarò più grande. Ma io credo che per quello che sono adesso non potrei amarlo in maniera più intensa. Sai… mi rendo conto che è già un sentimento più evoluto rispetto a quando nemmeno ci parlavo ma mi limitavo a guardarlo nel cortile della scuola… perché dovrei sminuire quello che provo adesso in favore di quello che proverò domani?”
“Non ti stavo accusando – la calmò Laura, finendo di cucire il fiocco con abilità – ero solo curiosa di sapere il tuo punto di vista, tutto qui. Sai bene che si mormora sulla tua giovane età dopo quanto è successo al ballo del primo dicembre.”
“Capisco che molti si possano chiedere che cosa può fare un diciannovenne con una quindicenne come me: ho sentito già diverse voci di un matrimonio combinato dai nostri genitori, figurati. Però tu sai come sono andate le cose, Laura… conosci Andrew e non penso che lui…”
“Non iniziare a mettere il broncio che poi finisci in lacrime, stupidina – sospirò la rossa, osservando con aria critica il suo lavoro – Andy non ti lascerebbe andare mai. Sai, uno stupido mi ha chiesto se ti rendevi conto dell’impegno che avevi preso con lui… gli sembrava quasi una coercizione nei tuoi confronti. Ma quella persona non ha idea della tua testardaggine, signorinella… non sa che è per la maggior parte merito della tua volontà.”
“Sono felice che almeno tu sia dalla mia parte, è importante!”
“Comunque con le tue parole, ora mi sono convinta: si può amare anche senza esser pronti fisicamente.”
“Ed è anche il contrario?” chiese Ellie con curiosità.
“Scusa?”
“E’ un discorso che a volte fanno le ragazze più grandi, come la sorella di Annabell… fare l’amore senza però essere davvero innamorate. Credi sia possibile?”
Laura la guardò interdetta e immediatamente ripensò a Marco e Gregor. Con il primo si era illusa che fosse amore, ma sapeva di mentire a se stessa e, se doveva essere sincera, aveva rifiutato l’atto fisico proprio per quella consapevolezza. Ma con Gregor non c’era stata nemmeno l’illusione…
Era solo… sesso.
Quella parola la fece sentire improvvisamente sporca, ma ricacciò indietro quella sgradevole sensazione.
“Che domande ti poni, Ellie Lyod? – sbuffò, mollando il lavoro e sedendosi accanto a lei nel letto – Tanto sappiamo bene che quando farai l’amore sarà con l’uomo che ami da sempre, no? Che cosa ti deve importare di quello che dicono le altre ragazze? Magari sono le stesse che criticano la vostra differenza d’età!”
“Hai proprio ragione!” Ellie la abbracciò proprio come se fosse una sorella maggiore, felice di avere quel sostegno morale. Dopo qualche secondo però ebbe una smorfia di dolore.
“Stai male?” le chiese Laura.
“Ho le mie regole – ammise la ragazzina arrossendo – e a volte mi vengono dei crampi.”
“Che dici, ci prendiamo un the caldo? Tanto è ora di merenda.”
“Volentieri.”
“Stai comoda, vado in cucina a prepararlo.”
Lasciò la ragazzina e si recò in cucina, iniziando ad armeggiare con la teiera. Fortunatamente non c’era sua madre ad interromperla con qualche commento o qualcosa di simile: la cucina era tutta sua. Con un sorriso solidarizzò con Ellie: i primi anni anche il suo ciclo era stato spesso doloroso e…
… mi… mi sarebbe dovuto arrivare da già cinque giorni.
 
La consapevolezza di quel ritardo ebbe il potere di mandare la giovane Hevans in paranoia totale. Sapeva benissimo che il suo ciclo era precisissimo e che raramente sgarrava di un giorno e man mano che il tempo passava il suo terrore aumentava.
Cercò di ripercorrere con la mente quanto era successo quella fatidica notte con Gregor, ma era tutto così confuso che non si ricordava quel particolare dettaglio. L’idea di essere rimasta incinta non l’aveva nemmeno sfiorata.
No, dai! E’ rarissimo restare incinta la prima volta! Non è possibile… non può essere così!
Ma raro non voleva dire impossibile e quando il mese finì senza che le sue regole si presentassero iniziò a prendere forma la consapevolezza che il disastro era fatto e che nell’arco di poco tempo non l’avrebbe più potuto tener nascosto. La situazione le sembrava così surreale che non sapeva come comportarsi: le giornate continuavano a passare con tutte le persone attorno a lei che si comportavano con assoluta normalità, senza rendersi conto del grande cambiamento che era avvenuto in lei.
La cosa più angosciante era stare a casa in presenza dei suoi genitori: aveva il terrore assoluto che sua madre da un momento all’altro capisse quanto era successo e scatenasse la tragedia più assoluta. Come poteva anche solo pensare di dirglielo? Come minimo l’avrebbero segregata in camera a vita, se non peggio.
Per questo motivo passava tutto il tempo che poteva fuori di casa, in completa solitudine, evitando persino suo fratello. Sapeva benissimo che sarebbe bastato pochissimo ad Henry per capire cosa non andava.
Che cosa poteva fare? Da quanto ne sapeva il gruppo di operai di cui faceva parte Gregor era ancora nelle vicinanze del paese, intento a fare degli altri lavori che non riguardavano la ferrovia.
Se fosse andata da lui e gli avesse raccontato tutto?
Ma l’idea le risultò totalmente assurda: che cosa si poteva aspettare da lui? Era stata solo l’avventura di una notte, una ragazza brilla per il vino che si era concessa a lui… probabilmente le avrebbe riso in faccia e le avrebbe detto di andare a piangere miseria altrove. Oppure avrebbe negato tutto.
Che accettasse quella gravidanza non la sfiorò nemmeno per la mente.
E che soluzione resta?
Proprio in quel momento stava camminando nelle vie del paese e la sua attenzione venne attirata dal locale di prostitute. Da ragazza di buona famiglia quale era, le era stato sempre vietato anche solo di prenderlo in considerazione nei suoi pensieri: le domande sulle donne che lavoravano lì erano bandite, come se non esistessero davvero. Solo parlarne era poco dignitoso.
Ma di colpo le sembrò un posto incredibilmente reale… per la prima volta fu consapevole di quell’ingresso, di quelle imposte chiuse, delle persone che c’erano dentro e che ogni sera lavoravano… concedendosi agli uomini. Quasi fosse stata evocata, una ragazza aprì la porta ed uscì fuori, fumando una sigaretta e avvolgendosi meglio nel vestito scollato e provocante, mentre dietro di lei risate e musica iniziavano a farsi sentire.
Le sembrò così volgare e… dimenticata dal mondo, ai margini della società.
“Che c’è, bimba, non hai mai visto un vestito così?” le chiese la donna con voce roca, notando di essere osservata con tanta attenzione.
“Mi… mi scusi.” balbettò Laura, profondamente sconvolta, mentre immagini di lei in simili condizioni la facevano impazzire. No, non poteva succedere una cosa del genere: lei era una Hevans, una famiglia tra le più in vista del paese, una ragazza benestante con un’educazione, dei sani principi…
Ma se ti sei data ad uno sconosciuto in preda ai fumi dell’alcool!
“Va bene, va bene – ansimò, arrivando davanti casa e rimettendosi a posto i capelli – adesso calmati, Laura, calmati. Tra mezz’ora si cena e poi vai in camera tua… andrà bene. Almeno per stasera continuerà ad andare bene, forza e coraggio!”
Ma per quante sere ancora?
Se lo chiese decine di volte mentre sorrideva alle battute del fratello durante la cena, mentre aiutava sua madre a sparecchiare, mentre diceva di essere stanca e dava la buonanotte a tutti. Era solo un tremendo conto alla rovescia fino a quando la pancia non avrebbe iniziato a crescere… fra quanto? Due mesi? Lei non era snellissima e forse avrebbe potuto nascondere la cosa più del previsto…
E poi? E poi?... che faccio?
Si mise la camicia da notte, non riuscendo nemmeno ad abbottonarla decentemente per via delle mani che le tremavano. Involontarie lacrime cominciarono a sgorgare dagli occhi mentre si sedeva sul letto e sentiva la gabbia attorno a lei chiudersi inesorabilmente. Era solo una lunga camminata verso il patibolo, un trascinarsi inarrestabile verso la rovina… e lei non poteva…
“Ehi, follettino.”
La voce del fratello ebbe il potere di farla capitolare del tutto. Ebbe solo la forza di attendere che lui chiudesse la porta a chiave e si sedesse accanto a lei, abbracciandola, prima di scoppiare in violenti singhiozzi.
“Che hai, sorellina? – Henry continuava a cullarla con dolcezza, accarezzandole i capelli rossi – Cosa ti succede da un po’ di giorni a questa parte?”
Ma non la stava incitando veramente a parlare: per ora stava solo attendendo che lo sfogo passasse, dandole tutto l’affetto possibile, facendole sentire la sua presenza. Fu finalmente una sensazione di sollievo quella che travolse la giovane: l’illusione che il suo amato fratello avrebbe cancellato tutto questo orribile incubo, liberandola della follia che stava crescendo nel suo ventre, eredità di una notte che non ci sarebbe mai dovuta essere.
Ma con che coraggio posso dirtelo?
Se lo chiese mentre, finendo finalmente di piangere, alzava lo sguardo su quel viso così amato e adorato. Lui la guardava con tenerezza e preoccupazione, pronto come sempre a proteggerla e risollevarla.
Ma l’avrebbe fatto una volta scoperto il suo segreto?
“Da brava, Lauretta – Henry sussurrò quella frase, accostando la testa alla sua per baciarla in fronte – sono qui con te, va tutto bene.”
“No che non va tutto bene, va tutto malissimo!” mormorò disperata.
“Suvvia, sono sicuro che non è niente di irreparabile. C’entra Andrew?”
“No!” scosse il capo lei… per un secondo desiderò davvero che c’entrasse lui. Perché avrebbe avuto la certezza di non venir abbandonata, di avere a che fare con una persona affidabile e sicura.
“E allora che è successo, follettino?”
“Non posso…”
“Si che puoi, tesoro – lui la strinse – ehi, ma mi riconosci? Sono io, sorellina, quando mai non puoi dirmelo? Hai paura che mi arrabbi?”
“Sì!” singhiozzò ancora.
“Ma quando mai! Andiamo, follettino, mi fa male vederti così e non sapere cosa ti turba…”
“Non… non permetterai che finisca in quel posto, vero?” chiese lei con ansia.
“In quale posto?”
“Quello là, quello dove… io non so che cosa mi è preso! Non avrei mai dovuto! Henry… Henry non voglio finire lì, ti prego… per favore, non permetterlo.”
“Laura – il soldato la scrollò lievemente – non capisco di che posto stai parlando, calmati! Non permetterò che ti accada qualcosa di male, te lo giuro… ma se non mi dici cosa è successo non posso aiutarti.”
“Giurami… giurami che non…”
“Non mi arrabbio – garantì lui in tono esasperato – promesso, Laura, sul serio.”
“Sicuro?”
“Ovvio.”
“Oh, Henry – sospirò lei, cedendo del tutto – sono incinta.”
Ma non ebbe il coraggio d guardare il fratello in faccia: fissò con tristezza il suo piumone rosso, rosso come quel sangue mensile che non era arrivato.

 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16. 1882. Che fare? ***


Capitolo XVI

1882. Che fare?

 

Andrew aprì la finestra per arieggiare la sua stanza, approfittando della piacevole ed inaspettata mattinata tiepida di gennaio. Aspirò a pieni polmoni l’aria frizzante e poi si girò verso la scrivania dove giaceva una grossa risma di fogli bianchi, pronti ad accogliere la sua tesi di laurea: dopo il lungo periodo di vacanza che si era concesso, dedicandosi solo ad oziare e alla sua storia con Ellie, era giusto rimettersi a lavoro per terminare finalmente il suo percorso di studi. Sei mesi ed avrebbe finalmente terminato, nonostante la tesi che gli aveva assegnato il suo docente fosse veramente complicata in quanto si trattava di adattare le scoperte del secolo scorso a dei progetti d’ingegneria moderna. Era una bella impresa, ma Andrew ne era veramente stimolato: aveva deciso che avrebbe preso come riferimento l’ingegnere Heymans Corel, la personalità che in tutto il suo percorso di studi l’aveva affascinato di più.
“Bene, non mi pare il caso di rimandare oltre – ammise, sedendosi alla scrivania e prendendo un quaderno bianco – stamattina voglio almeno impiantare lo schema della tesi in modo da poter fare un programma più specifico per i mesi a venire.”
Distrattamente aprì una scatoletta di latta che stava al lato della scrivania e un ottimo profumo di cioccolato arrivò alle sue narici. I biscotti di Ellie erano qualcosa di eccezionale: come aveva potuto permettere a Stephen di mangiarsi i primissimi che lei gli aveva mandato?
Adesso ho solo io la prerogativa di queste delizie e…
Delle grida interruppero i suoi pensieri, squarciando la tranquillità di quella mattina di gennaio.
Pensò che fosse successo qualche incidente e che fossero grida d’aiuto, ma il tempo di arrivare alla finestra e capì che erano urla furenti, segno che era in corso qualche litigio. Non aveva mai sentito niente del genere in paese, era una situazione così surreale e fuori dalla normalità che dovette passare qualche secondo prima di capire che lui conosceva quella voce.
Ma è il padre di Henry e Laura!
Fu come se qualcosa scattasse dentro di lui, facendolo uscire da quella forma di paralisi che la sorpresa aveva provocato. Senza pensarci due volte uscì di corsa dalla sua stanza, preoccuparsi a malapena di prendere un cappotto. Al piano di sotto intercettò i suoi genitori che, ovviamente, stavano sentendo tutto e avevano riconosciuto la persona che stava sbraitando in quel modo.
“Andrew, ma che sta succedendo?” lo chiamò la madre.
“Niente di buono, mi sa – scosse il capo lui, facendo capire che non sapeva niente in merito – una cosa è certa, non posso lasciare Henry e Laura da soli.”
Non diede altre spiegazioni ai suoi genitori, il suo unico impulso fu di avviarsi a passo rapido verso la strada dove abitavano gli Hevans, cercando di ignorare tutte quelle persone affacciate alle finestre o ferme in strada che mormoravano sorprese.
“Pare sia incinta!”
“Ma chi? La ragazza?”
“Sì, ha urlato proprio così… quella coi capelli rossi, no? Laura.”
“Ma come?”
“E l’ha chiamata anche sgualdrina…”
Furono frasi sconnesse che entrarono nella mentre di Andrew come schegge impazzite. Laura incinta? No, erano solo assurdità, non poteva essere vera una cosa simile. Erano solo accuse infondate da parte di quell’uomo che ad Andrew non era mai realmente piaciuto, assieme a sua moglie. Sapeva che Laura non aveva un buon rapporto con loro… era chiaro che era solo un litigio che era degenerato.
E allora perché? Perché sei corso fino a casa loro e ora hai paura anche solo di bussare?
Non si sentivano più le urla, era come se tutto si fosse consumato. Eppure sentiva che dentro quelle pareti c’era la sua miglior amica che stava piangendo e che aveva bisogno di lui.
Scuotendo il capo corse alla via laterale dove sapeva che si affacciava la finestra di camera di Laura.
“Laura! Henry!” chiamò con urgenza, sperando di ottenere risposta.
Fu questione di una decina di secondi prima che la finestra si aprisse ed Henry si affacciasse. La sua faccia in genere gioviale era cupa ed esausta, come se avesse combattuto una delle più feroci battaglie della sua vita.
 
Vedere Laura in quelle condizioni gli fece malissimo, più di quando l’aveva vista sconvolta negli anni passati, quando la sua turbolenza ed insoddisfazione la portavano ad avere continui sfoghi. Stava seduta nel letto, le mano strette sul ventre, come a nascondere la causa dello scandalo, il capo chino con i capelli rossi che le cadevano davanti in ciocche scomposte. Il viso era pallido e solcato dalle lacrime che proprio non riuscivano a smettere e si vedeva una grossa chiazza rossa sulla guancia destra, laddove il padre l’aveva schiaffeggiata.
Ed era tremendo pensare che i genitori che l’avevano aggredita in un simile modo si trovassero in un'altra stanza di quella stessa abitazione: Andrew aveva il terrore che arrivassero da un momento all’altro pronti ad infierire ancora su quella ragazza così sconvolta.
“Amica mia – sospirò, sedendosi accanto a lei e abbracciandola – va tutto bene, coraggio…”
Lei rimase inerte, senza dare nessun cenno di risposta a quella stretta: una tremenda apatia si era impossessata di lei, come se dopo quell’estenuante prova dell’aver affrontato le ire dei suoi genitori, non fosse più in grado di fare niente.
E se apatica era la sorella, Henry invece era un animale furente.
Camminava avanti ed indietro per la stanza, lo sguardo fisso sul pavimento: Andrew ad un certo punto fu anche sicuro di vedere i fumi che uscivano dalla sua testa rossa. Era chiaro che si stava arrovellando per trovare una soluzione a quel problema così spinoso.
Ma che soluzione si può trovare? E’ incinta di quasi due mesi…
Abbassò lo sguardo sull’amica, ancora incredulo del fatto che nel suo ventre, nascosto dalle braccia, ci fosse una creatura che stava crescendo. E che il padre fosse un perfetto sconosciuto. Provò a riportare alla mente i volti di quegli operai che, almeno una volta, era sicuro di aver visto lavorare, ma non ci riuscì. Erano estranei, persone che non sarebbero mai dovute entrare nelle loro vite, ed invece uno di loro aveva segnato Laura in maniera così profonda e tremenda.
“Laura, se vuoi puoi venire a casa mia… se stare qui ti spaventa non hai che da dirmelo, davvero.”
“No, lei deve restare – lo bloccò subito Henry – se adesso esce da quella porta i miei non la faranno più rientrare, fidati di me. Li devo tenere sotto continuo ricatto emotivo in questi primi giorni, lo capisci? E volente o nolente Laura deve fare la sua parte.”
Andrew scosse il capo non riuscendo a capire quel ragionamento: era chiaro che stare in quella casa era la cosa che meno faceva bene alla ragazza. Almeno a casa sua avrebbe trovato un clima più sereno e non quella tensione e rabbia che si tagliava a fette.
“Mi… mi hanno chiamato puttana – mormorò Laura, parlando per la prima volta da quando Andrew era arrivato – mi… mi hanno detto che… che per quelle come me c’è un solo posto…”
“Sssh, stai tranquilla – la consolò subito il giovane – sono sicuro che non lo pensano davvero.”
“Sì che lo pensano! – singhiozzò lei, iniziando a tremare – E mi ci manderanno, lo so… Io… io non voglio venir violentata ogni sera, per favore.”
“Loro non ti manderanno da nessuna parte – dichiarò Henry a voce particolarmente alta, col chiaro intento di farsi sentire anche dai genitori che stavano in un’altra stanza – disconoscono te e perdono anche me, su questo sono stato chiaro. Devono solo provare a buttarti fuori di casa o ad alzare le mani su di te e ti assicuro che non ci vedranno mai più.”
Andrew non aveva mai visto Henry arrabbiato, tra di loro non era mai capitato che si arrivasse a situazioni simili. Si accorse che il suo amico faceva davvero paura: il suo viso era contratto in una maschera furente e sembrava raddoppiato di stazza, tanto da occupare buona parte della stanza. Incuteva un timore tale che Andrew non ebbe alcun dubbio che avrebbe attuato la sua minaccia.
Ma poi il soldato volse lo sguardo verso di loro e la sua ira svanì: tornò solo la preoccupazione e l’amore per la sua sorella minore. Infatti, con gesto gentile, si accostò a loro ed arruffò i capelli rossi della giovane.
“Non temere, follettino, non ti abbandonerò in questa situazione. E troveremo una soluzione, te lo prometto. Ci siamo io ed Andy con te, non sei da sola.”
“E’ vero, Laura – annuì Andrew con entusiasmo, cercando di dare manforte all’amico – puoi sempre contare su di noi, fidati. Dai, asciugati le lacrime.”
“Te la posso affidare per mezz’ora? Vi chiudo a chiave dall’esterno – mormorò Henry andando verso la finestra – E’ solo per poco, ve lo assicuro: non voglio che mamma e papà entrino quando non ci sono io.”
“Dove vuoi andare?” chiese Laura, alzando lo sguardo impanicato su di lui: l’idea che uscisse la terrorizzava.
“Devo andare immediatamente all’ufficio postale – spiegò lui – tra cinque giorni scade la mia licenza. Chiederò all’esercito un periodo di congedo.”
“Sul serio puoi farlo? – chiese Andrew con sollievo – Te lo concederanno?”
“La situazione militare ai fronti è tranquilla per adesso e non ci dovrebbero essere problemi. Voi aspettatemi qui e fate i bravi.”
 
Rimasto solo con Laura, Andrew sentiva come se tutto il peso del mondo fosse gravato su di lui.
Si sentiva come un bambino che di notte sta terrorizzato con le coperte rimboccate fino al naso, aspettando i mostri che inevitabilmente si nascondono dietro ogni minimo cigolio o rumore. Solo che questa volta i mostri erano più reali del previsto ed erano i genitori di Laura. Quella porta chiusa a chiave gli dava pochissima sicurezza, come se da un momento all’altro la serratura potesse venir forzata. Che avrebbe fatto allora? Sarebbe riuscito a difendere la sua amica? Come si sarebbe potuto opporre ad un uomo forte come Elias Hevans?
“Oh, Andy, scusa – sospirò Laura, distraendolo da quei cupi pensieri – non dovresti essere coinvolto in questo modo…”
Per quanto fosse sempre stretta tra le sue braccia, ora sembrava molto più calma e tranquilla. Gli occhi grigi erano ancora leggermente umidi e qualche traccia di lacrima macchiava ancora le guance, specie quella rossa per lo schiaffo ricevuto. Ma almeno il respiro era più calmo e nessun tremore tormentava quel corpo.
“Ma cosa dici, sciocchina? – cercò di sorridere per farle forza – Quando mai non dovrei lasciarmi coinvolgere da te.”
“Sei spaventato…” non fu una domanda, ma una semplice constatazione ed Andrew si odiò nell’ammettere che era vero. In quel momento in cui lui avrebbe dovuto essere forte per entrambi, si sentiva terrorizzato e assolutamente impreparato a reagire.
“Sono solo un po’ sconvolto, me lo concederai. Oh, Lauretta – mormorò, baciandola sulla chioma rossa – ma perché l’hai fatto? Avrei potuto capire Marco, quest’estate, ma…”
“Non so cosa mi è preso – ammise lei, mettendosi in posizione più dritta e sciogliendosi dal suo abbraccio. Si passò una mano sugli occhi e si tirò indietro i capelli – credimi, vorrei dare tutta la colpa al vino che ho bevuto quella sera, ma mentirei nel dire che non ero in me…”
“Eppure stava andando tutto così bene…”
“Eravate fantastici tu ed Ellie, sai? Forse eri così impegnato a vivere il tuo sogno ad occhi aperti, ma anche a guardarvi con occhi esterni stavate davvero bene…”
“… Laura…”
“… a pensarci mi pare impossibile pensarti con un’altra persona a tuo fianco che non sia lei. Dev’essere fantastico provare una simile felicità.”
“E perché hai provato a cercarla con uno sconosciuto?”
Si guardarono in faccia per la prima volta, sapendo bene di non potersi mentire. Andrew l’aveva capito: in parte era stato il suo farsi avanti con Ellie a scatenare le emozioni che avevano spinto Laura verso quel gesto sconsiderato. E la rossa non poteva negarlo, sarebbe stato inutile considerato quanto si conoscevano bene.
“Felicità – fece un sorriso ironico – a volte credo che questa parola non si potrà mai adattare a me… volevo solo essere… essere qualcosa di diverso da quello che… diamine, che idiota che sono stata. Uno molto più grande e perfettamente sconosciuto… forse hanno ragione mamma e papà nel dire che il posto per quelle come me è uno solo.”
“Smettila, un genitore per quanto arrabbiato non dovrebbe mai dire cose simili alla propria figlia.”
“C’è genitore e genitore, l’ho sempre detto.”
“Laura…”
“Oh, non sono mai piaciuti nemmeno a te, perché mentire? Sono all’antica e per quanto io non sia stata una figlia facile, mi hanno soffocato così tante volte che… che ogni via di fuga era buona.”
“Questa non è stata molto buona.”
“Qui stavo solo fuggendo da me stessa, mi sa. Che schifo… sono una filosofa sprecata.”
“Sei solo la solita sciocchina, Laura Hevans – sorrise Andrew, attirandola di nuovo nel suo abbraccio – ma anche se sei così il bene che ti voglio non cambierà mai. Credimi, farò di tutto per aiutarti.”
“Sei il solito scemo, Andy – sospirò lei, raggomittolandosi nel suo abbraccio – ma ringrazio il cielo che tu sia sempre al mio fianco.”
 
La voce si diffuse in paese con una velocità incredibile: nell’arco del giornata ormai tutti parlavano della secondogenita degli Hevans che era incinta nonostante fosse ancora nubile. Già si cercava di capire chi fosse il padre del bambino, molti tiravano fuori il nome di Marco o quello di Andrew, ma nessuno era ancora arrivato a capire la verità. Una piccola grazia in un mare di guai.
Andrew rimase per parecchio tempo a casa degli Hevans, anche dopo che Henry fu tornato dalla sua commissione alle poste. Restò assieme a Laura nella sua camera, assicurandosi che lei mangiasse il pasto che le era stato portato, mentre Henry discuteva di chissà che cosa assieme ai suoi genitori. Si accertò che completasse il pasto, sino all’ultimo boccone: aveva preso consapevolezza che dentro la sua amica c’era una nuova vita, completamente innocente, che andava protetta e nutrita… mentre invece Laura non l’aveva ancora fatto, ne era in qualche modo convinto… e nemmeno Henry. Ad un certo punto si arrischiò ad allungare una mano verso il ventre dell’amica, ma lei lo fissò con aria sconvolta, come se lo pregasse di non avvicinarsi a quel marchio di vergogna e disonore.
La consapevolezza che nessuno si era ancora preoccupato che il problema fosse un bambino lo devastò a tal punto che uscì da quella casa con un lieve senso di nausea.
“E’ un bambino – continuava a mormorare, mentre si abbottonava il cappotto, dicendo a voce alta quello che aveva taciuto in quelle ore – per favore… per favore pensate anche a lui, non si può odiare un bambino.”
 Era così sconvolto, come se andare via da quel posto l’avesse reso consapevole del tutto dell’enormità della questione, che sentì la disperata esigenza di rivedere Ellie: aveva bisogno di vedere il suo viso innocente, il suo sorriso dolce e amorevole. Aveva bisogno di vedere qualcosa di meraviglioso e adorabile che gli dicesse che il mondo era ancora un posto bellissimo dove vivere.
Fu un gesto privo di qualsiasi razionalità, ma si trovò come per incanto davanti alla porta di casa Lyod, bussando con quella che si poteva definire impazienza.
Ad aprirgli fu Agnes.
“Ciao, Andrew – lo salutò, facendolo entrare – vieni pure.”
“Mi scusi l’improvvisata, signora – sospirò lui – c’è Ellie?”
“Dovrebbe tornare tra poco: è andata a casa di Annabell per recuperare degli appunti di scuola. Vieni, siediti in salotto: sarà questione di massimo dieci minuti.”
“Grazie…”
Si accomodò nel divano, rifiutando gentilmente la tazza di caffè che gli veniva offerta.
Dallo sguardo leggermente imbarazzato della signora si rese conto che la notizia doveva aver raggiunto pure la casa dei Lyod, sebbene fosse tra le più esterne del paese. E Agnes sapeva benissimo che lui e Laura erano grandi amici e chissà, magari stava pensando se qualche pettegolezzo che riguardava lui fosse vero.
Rimasto solo sospirò e si poggiò contro i morbidi cuscini, chiudendo gli occhi e cercando di ritrovare un minimo di pace.
“Ehi, Fury.”
La voce di Nicholas Lyod lo fece sobbalzare e si accorse che l’uomo era accanto al divano ad osservarlo con aria estremamente seria. Andrew si alzò in piedi stordito, chiedendosi per quanto tempo fosse rimasto ad occhi chiusi, estraniandosi completamente dal mondo.
“Signore…”
“E’ vero quello che si dice in paese? – chiese l’uomo con voce piatta, bloccando le parole di Andrew – Quello riguardante la tua amica dai capelli rossi?”
“Sì, è vero – annuì lui, scoprendosi pronto a difendere Laura con le unghie e con i denti almeno dalle accuse di quell’uomo – è incinta nonostante sia nubile.”
“Mh…”
Nicholas non disse altro e si allontano a grandi passi, le mani dietro la schiena dritta e orgogliosa, fino a raggiungere una delle grandi finestre.
“Ci sono anche alcune voci su di te…”
“Che sono io il padre? – il giovane scosse il capo, il tono di voce insolitamente sarcastico – signore, davvero mi conosce così poco.”
“Che sono cazzate è chiaro. Non ti permetterei di frequentare mia figlia se avessi il minimo sospetto su di te, cretino. Davvero, mi conosci così poco?”
L’uomo si voltò di scatto verso di lui, con un non so che di animalesco, tanto che Andrew fece un involontario passo indietro. Ma poi si accorse che non c’era una reale minaccia, anzi una prima forma di comprensione e solidarietà… quei sentimenti così salutari che a casa Hevans sembravano spariti per sempre.
“Ellie negli ultimi tempi è diventata molto amica di quella ragazza, Laura, vero? E dalla tua faccia capisco che… mphf, dovresti guardarti allo specchio, giovanotto.”
“Mi scusi per l’aspetto poco presentabile…”
“Sei lo spudorato che mi ha portato via la mia piccola Ellie – sbottò Nicholas, andando verso un piccolo tavolino tondo che stava ad un lato della stanza ed iniziando ad armeggiare con una bottiglia di vetro – ma nonostante abbia il desiderio di ucciderti almeno tre volte al giorno per questo tuo ardire, riconosco che sei un ragazzo di buon cuore e pronto ad aiutare gli altri. Forse questo ti procura più grane che altro, ma sei uno coerente con i propri principi… non affiderei Ellie ad una persona che non fosse come te. Avanti, bevi.”
Era tornato davanti a lui con in mano due bicchierini contenenti un liquido tra il marrone e l’arancione.
“Signore, io non…”
“Sì, tu non bevi, posso immaginarlo – sbottò l’uomo, mettendogliene uno in mano – sei così smidollato del resto. Ingegnere… tze! Allevamento e agricoltura sono i veri mestieri per un uomo. Tu fai solo i tuoi bei disegnini… fidati, pivello, questo ti tira su, e considerato il periodo d’inferno che ci aspetta ne abbiamo proprio bisogno entrambi. Forza, tutto d’un fiato come faccio io. Salute.”
Andrew obbedì con docilità, ormai stanco di combattere ed in parte ammansito dalle parole in fondo comprensive del suo grande nemico. Il liquore gli bruciò la gola e gli lasciò un senso di amaro in bocca, ma nonostante questo ebbe il potere di farlo sentire effettivamente meglio.
“Posso… posso averne un altro?” si trovò a chiedere.
“Che c’è, pivello? Hai scoperto il miracolo del liquore? Questo è troppo forte per te, un bicchiere basta e avanza… forza, ora prendi qualcuno di quei biscotti e mangia. Mi pare di capire che sei praticamente digiuno e l’alcool da solo è deleterio.”
Seguendo il consiglio dell’uomo Andrew riuscì finalmente a recuperare un minimo di lucidità. Si accorse persino di avere fame e ne mangiò almeno cinque prima di sentirsi soddisfatto.
“Sta tornando Ellie…” annunciò Agnes, affacciandosi alla porta.
A quelle parole, il giovane si alzò con ansia.
“Andrew – lo bloccò Nicholas, mettendogli una mano sulla spalla – lo so che farai di tutto per la tua amica, e fai bene. Ma tieni Ellie fuori da questa storia quanto più possibile, va bene?”
“Sissignore…”
Forse si sarebbero detti anche altro, ma in quel momento il salotto fu illuminato dall’arrivo di Ellie. Non si era nemmeno levata il pesante cappotto rosa e la chioma nera era in parte coperta dal berretto di lana del medesimo colore.
“Ciao, Andrew! – corse subito verso di lui, abbracciandolo – Sono così felice che tu sia qui.”
Il giovane non rispose, si limitò a stringerla a sé, incurante del cappotto lievemente umido per la neve che aveva ripreso a cadere. Gli importava solo della forza vitale che gli regalava quel corpo così minuto, quegli occhi così belli e carichi d’amore.
“Levati almeno il cappotto, signorina – la riprese Nicholas – dico a tua madre di preparavi una cioccolata bollente.”
Recuperato il soprabito della figlia, l’uomo uscì dal salotto lasciandoli soli.
Immediatamente Ellie, vestita con una pesante gonna azzurra ed u maglione bianco, si sedette nel divano, facendo cenno ad Andrew di accomodarsi accanto a lei. La gaiezza iniziale era sparita dal viso delicato della giovane, sostituita da una grande preoccupazione.
“E’ vero quello che si dice di Laura?” chiese, cercando conforto posandosi contro il suo fianco.
Andrew sospirò, attirandola contro la sua persona: aveva desiderato con tutto se stesso che almeno Ellie venisse preservata da quella notizia. Ma era praticamente impossibile: se non l’avesse saputo quella mattina, l’avrebbe scoperto il giorno dopo.
“E’ vero, meraviglia.” si limitò a dire.
“Ma come è possibile… poverina, immagino che debba essere così spaventata.”
“Fortunatamente c’è suo fratello con lei: sai, ha preso un periodo di congedo così le starà vicino – cercò di tranquillizzarla – andrà tutto bene.”
“E poi ci saremo anche noi, no?” Ellie lo fissò con un gran sorriso carico di buona volontà.
“Meglio che per ora tu non la veda, va bene?”
“Ma…”
“Lo so che vuoi aiutarla, ma… è un momento difficile e per quanto siate buone amiche è meglio che stia sola. Sai, anche a casa sua la situazione non è facile e non è come andare a farle una normale visita di cortesia.”
“Ma tu le starai vicino anche per me, vero? – Ellie lo chiese con voce impaziente – farai di tutto per aiutarla, promettimelo, Andrew, qualsiasi cosa.”
“Ma certo, te lo prometto.” annuì Andrew, sentendosi rinfrancato, sentendo che in qualche modo lui avrebbe aiutato Laura ad uscire dal guaio in cui si trovava.
Te lo prometto, amica mia, non ti abbandonerò.
 
Il lieve bussare alla porta ridestò Laura dal sonno tormentato in cui era caduta.
Si mise a sedere con aria impaurita, ma poi sospirò di sollievo quando vide Henry entrare con un vassoio in mano: non si era resa conto che si era avvicinata l’ora di cena.
“So che probabilmente hai lo stomaco chiuso – ammise il giovane posando il vassoio nella scrivania – ma devi mettere qualcosa sullo stomaco, sorellina. Ti ho preparato un po’ di brodo, coraggio.”
“Preparato? L’hai fatto tu?” chiese perplessa, alzandosi e scoprendo che effettivamente quell’odore aveva una certa attrattiva.
“Non ti garantisco nulla per il sapore…” sorrise con lieve imbarazzo il soldato.
“Mamma si rifiuta di cucinare per me, vero? – capì la giovane con tristezza – Oh, Henry, mi dispiace tanto… persino questo ti tocca fare.”
“Preparati da mangiare è l’ultimo dei problemi – sorrise mestamente lui, sedendosi nel letto e osservandola mettersi in bocca la prima cucchiaiata – magari si trattasse solo di questo.”
“Già… che… che cosa succederà, adesso?”
“La risposta al mio congedo arriverà entro due giorni e, come ti ho detto, non ci saranno problemi perché venga accolta – rispose il rosso in tono disinvolto – nel frattempo mamma e papà sbolliranno da questo primo trauma che hanno avuto.”
“Con tutto il paese che ne parlerà per sempre? Non credo proprio…”
“Concedi loro qualche giorno, sorellina: almeno parleranno con più razionalità.”
“Papà mi avrebbe ucciso con le sue mani se non ci fossi stato tu – a quel ricordo la ragazza lasciò cadere il cucchiaio sul vassoio e si strinse le braccia attorno al corpo – c’era un odio così feroce nei suoi occhi. Henry… mi fanno paura, sul serio.”
“Ci devono solo provare, Laura… ci devono solo provare, fidati di me.”
E Laura lo fece, ma solo perché non sapeva che altro fare.
La voce forte e sicura di suo fratello la faceva sentire protetta almeno per il momento, così come la mano che arrivò immediatamente a cingerle le spalle. Ma per qualche breve istante sentì la mancanza della voce più pacata e timida di Andrew.
Non abbandonatemi… vi prego… vi prego.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17. 1882. Soluzioni inaccettabili. ***


Capitolo XVII

1882. Soluzioni inaccettabili.

 

Quando Andrew aveva promesso ad Ellie ed a se stesso che avrebbe fatto di tutto per aiutare Laura diceva sul serio. La sua mente iniziò a cercare tutte le soluzioni possibili per risolvere il problema dell’amica, ma per quanto le sue intenzioni fossero ottime si dovette ben presto rendere conto che la situazione era più critica del previsto: quel bambino prima o poi sarebbe venuto al mondo, era un qualcosa a cui Laura non poteva sfuggire e dunque bisognava provvedere.
“La cosa importante è tutelare Laura ed il bambino – dichiarò il giorno dopo, parlando con suo padre – ma non so se è possibile senza matrimonio.”
Lanciò un’occhiata supplichevole al genitore, chiedendogli chiaramente di dargli qualche dritta in merito.
“Il diritto familiare è un ramo della legislazione che non ho avuto modo di affrontare nella mia carriera – ammise Andrew senior, alzandosi dalla sedia del suo studio e andando verso la libreria – certo che un bambino senza cognome è segnato in maniera profonda…”
“Sono sicuro che tu puoi trovare una soluzione, papà – il giovane si accostò a lui e gli mise una mano sulla spalla – per favore, si tratta di Laura. Non voglio che le succeda qualcosa di male…”
“Certo che poteva tenere un po’ di più la testa sulle spalle alla festa…” sospirò il notaio con tono profondamente triste. Voleva molto bene pure lui a Laura e ad Henry ed era ovvio che quella notizia l’aveva sconvolto più del previsto.
“Ma tu non l’avresti minacciata di buttarla fuori di casa…”
“Ma cosa dici, Andy! – borbottò ancora, girandosi a guardare il figlio – quando mai avrei fatto una cosa simile proprio a Laura. Certo mi sarei arrabbiato e ne sarei stato deluso, ma diamine, se fosse mia figlia non la abbandonerei mai in un guaio simile.”
“E non la abbandonerai nemmeno ora?”
“Ovvio che no, adesso torna a lavorare alla tua tesi, giovanotto, e lasciami vedere che cosa posso fare.”
“Grazie, papà!” sorrise il giovane, baciando la guancia del genitore con sincero affetto, lieto di vedere che la sua famiglia aveva una mentalità molto più aperta e generosa rispetto agli Hevans.
E quando un notaio di peso come Andrew Fury si metteva all’opera, di sicuro qualcosa ne sarebbe uscita fuori.
 
Nel frattempo che si cercava di trovare una soluzione, i giorni passavano e i pettegolezzi in paese non accennavano a diminuire. La famiglia Hevans era segregata in casa, le commissioni affidate al solo Henry, l’unico che non avesse remore di uscire, e tutti si chiedevano come sarebbe andata a finire la scandalosa questione: ancora ci si domandava chi fosse il padre del bambino e le visite di Andrew davano adito a diversi sospetti. Tuttavia, da contraltare, c’era il fatto che continuasse a frequentare la figlia dei Lyod e, conoscendo tutti la tempra del focoso proprietario terriero, sembrava logico pensare che non fosse lui il colpevole di quella gravidanza.
Laura, dal canto suo, viveva nella sua camera da letto segregata in parte per volontà dei suoi in parte per propria scelta: l’idea di uscire ed affrontare sua madre e suo padre la terrorizzava come mai era successo e anche le rare volte che si avventurava fuori per andare in bagno tremava all’idea di incontrarli.
Anche se non li poteva sentire sapeva che stavano cercando un modo per potersi liberare di lei. Li conosceva da una vita, sapeva quando odiassero gli scandali e quello che aveva creato lei era oltre qualsiasi soglia di tolleranza. E a separarla dalla loro ira c’era solo Henry, con la tensione in casa che aumentava di giorno in giorno.
E prima o poi esploderà tutto, lo so…
Si sdraiò di lato sul letto, abbracciando il cuscino.
Avrebbe voluto piangere: singhiozzare per diversi minuti la lasciava svuotata, ma almeno si sfogava e per qualche ora le cose sembravano andare meglio. In quella vita di clausura anche quei piccoli intervalli di quiete erano diventati preziosi.
Ma ormai le lacrime sembravano prosciugate: a piangere troppe volte al giorno si arrivava a questo risultato.
La chiave girò nella serratura e alzò di scatto la testa.
“Ehi, sorellina – le sorrise Henry, restando sull’uscio – vieni, da brava.”
La stava chiamando proprio come avrebbe fatto con un gattino spaventato e questo mise subito sul chi vive la giovane. Se la voleva far uscire fuori dalla stanza c’era un solo motivo.
“No – mormorò, mettendosi a sedere e rannicchiandosi contro la parete dove stava posato il letto – non voglio vederli.”
“Ci sarò pure io con te – lui divenne serio – non succederà niente. Ma hanno acconsentito a parlare, Laura, non possiamo sprecare quest’occasione, lo capisci? Te l’avevo detto che avrebbero ceduto prima o poi. Coraggio, andiamo.”
Ovviamente Laura non era in grado di disobbedire ad una richiesta da parte di Henry, specie se il soldato usava quel tono calmo ma deciso. Ma gli costò davvero enorme fatica avanzare per quel corridoio vedendo che il salotto, con la presenza dei suoi genitori che si faceva sempre più tangibile e minacciosa, si avvicinava. In cuor suo si sarebbe voluta sciogliere dalla stretta di Henry, raggiungere la porta di casa e scappare da Andrew: i Fury erano garanzia di sicurezza, protezione, gentilezza e amore, tutti sentimenti di cui lei aveva un disperato bisogno e che a casa sua non avrebbe mai trovato.
Ma mentre con la sua mente scappava verso casa del suo amico, il suo corpo entrò nel salotto e fu costretta ad affrontare la presenza dei suoi genitori.
Stavano seduti al grande tavolo di legno, suo padre capotavola come sempre e sua madre alla destra: rigidi e impassibili, ma era incredibile quanto il loro disprezzo e la loro rabbia potessero aleggiare nella stanza.
E Laura si sentiva come un coniglio che è appena entrato nella tana dei lupi, certo di essere il prossimo pasto di quelle bestie così feroci, suoi naturali predatori.
Lei ed Henry si sedettero dall’altra parte del tavolo, strategicamente lontani dai genitori, come se fosse meglio mettere una salutare distanza tra di loro e l’oggetto dello scandalo.
Tieni lo sguardo basso, tieni lo sguardo basso – continuava a ripetersi Laura cercando di stare il più immobile possibile – presto finirà tutto quanto, presto finirà…
“Alza lo sguardo, ragazza.” la voce di suo padre fu secca come una sferzata e Laura eseguì l’ordine automaticamente. Dovette controllare il tremito alle mani quando i suoi occhi incontrarono quelli scuri del genitore: la guancia tornò a dolergli per lo schiaffo ricevuto giorni prima e tutto il terrore che aveva cercato di tenere sotto controllo si presentò sotto forma di lacrime.
“Smettila di piangere – la rimbrottò la madre – è tardi per questo, te ne rendi conto? Cerca piuttosto di recuperare un minimo di autocontrollo e di affrontare i guai che ti sei creata.”
“S… sì…” riuscì a balbettare. La sua mano, sotto il tavolo, andò a stringere i pantaloni di Henry, incitandolo a dire qualcosa per spezzare quel contatto diretto coi genitori.
“Avete detto che volevate parlare con noi – disse subito il soldato con calma – a proposito del futuro di Laura.”
Futuro?
Questa parola fece impallidire ancora di più la giovane: avevano dunque deciso che cosa fare di lei?
“Abbiamo riflettuto – annuì Elias, mettendosi a braccia conserte – e per quanto sia uno scandalo bello e buono che tu ti sia concessa ad uno sconosciuto, sarebbe ancora peggio che noi ti disconoscessimo. A conti fatti è meglio averti a casa piuttosto che in un bordello… per quanto senza cognome tu saresti sempre mia figlia agli occhi del paese.”
C’è speranza? – Laura trattenne il fiato – non mi butterai via di casa? Non mi manderai in bordello?
“Ma devi abortire.”
La frase giunse pesante come un masso, portando il silenzio nella sala.
Abortire.
Fu la prima volta che Laura si portò la mano al ventre con la consapevolezza che dentro di lei c’era qualcosa di vivo. Non riusciva a sentirlo e a dire il vero non sapeva che cosa provava nei suoi confronti, ma...
Lo devo uccidere?
“No – scosse il capo Henry – è troppo pericoloso per Laura.”
“Siamo a fine gennaio: è al secondo mese di gravidanza – spiegò Susanna con voce stanca – sempre che non abbia mentito e ti sia concessa prima di quella disgraziata festa. Sono sicura che si può procedere senza problemi eccessivi… almeno ci liberiamo del problema maggiore e con un po’ di fortuna prima o poi le dicerie diminuiranno.”
“No – ribadì Henry – anche se fosse la prima settimana di gravidanza lei non abortisce.”
“Quanta ostinazione per un bastardo…”
“E’ suo figlio – la voce del soldato si alzò di colpo e la sua mano batté sul tavolo con rabbia – e non si uccide in maniera così indiscriminata. Laura si prenderà tutte le sue responsabilità, ma non compirà un gesto così vigliacco come l’aborto.”
“Invece di parlare tu, sentiamo quello che dice la signorina – lo bloccò Elias – avanti, ragazza, hai l’occasione per tornare a fare una vita decentemente normale: certo dovrai stare chiusa in casa per un bel po’, ma col tempo potrai tornare ad uscire e…”
“Ma con che coraggio la ricatti in questo modo, papà? – Henry si alzò, furente in volto – Non lo vedi che è sconvolta dalla paura di essere cacciata via da casa? Non le stai proponendo una scelta…”
“Sì che ha modo di scegliere: aborto o casa… le opzioni ci sono e spetta a lei di…”
“La parola aborto non deve essere mai più pronunciata! – il giovane bloccò quel discorso. Prese Laura per un braccio e la fece alzare con forza – Pensavo volessimo discutere di modi utili per risolvere la questione. Ma queste idiozie non fanno proprio al caso nostro.”
“Un bastardo? Le vuoi far partorire un bastardo?” Susanna si alzò in piedi e sfidò il figlio con aria sconvolta.
“Suo figlio, mamma… proprio tu che sei madre dovresti capire quello che sto…”
“Voi siete miei figli legittimi, Henry, non osare nemmeno paragonare la cosa!”
“Henry…” supplicò Laura, stringendo il braccio del fratello, sentendosi impazzire davanti a quelle discussioni dove tutti stavano decidendo per la sua vita e quella del bambino, privandola di qualsiasi controllo su se stessa.
“Torna pure in camera tua, Laura – annuì il giovane – e cerca di dormire, è tardi.”
Più che tornare lei scappò nella sua stanza: chiuse la porta dietro di se per cercare di attutire le parole roventi che ancora si sentivano. Henry alzava la voce per sovrastare quella di entrambi i genitori, ma alla ragazza non bastava più: la casa ormai era troppo pregna di odio e tensione per poter trovare conforto.
Corse all’armadio e frugò nel fondo, ritirando fuori un grosso pupazzo che aveva tenuto come ricordo della sua infanzia: si sdraiò sul letto e lo abbracciò con tutte le sue forze, coprendo con esso anche il suo ventre, proteggendo per la prima volta, sebbene in maniera inconsapevole, il bambino dentro di lei.
Voglio solo che finisca…
 
Tre giorni dopo quella fatidica discussione, Andrew correva verso casa degli Hevans sentendosi la persona con il padre migliore del mondo. Sapeva che il suo adorato genitore non l’avrebbe deluso e difatti era stato così: aveva trovato una soluzione perfetta per il problema di Laura, e pensare che il diritto di famiglia non era nemmeno quello di cui si occupava.
Stava per girare l’angolo quando vide Henry che usciva dall’ufficio postale.
“Henry! – deviò improvvisamente per raggiungerlo – Aspettami!”
“Ciao, Andrew – lo salutò il soldato – stavi venendo a casa? Laura oggi…”
“Tuo padre può riconoscerlo!” lo bloccò il giovane con entusiasmo, ansioso di annunciare la grande notizia e sentendosi enormemente fiero, come se in parte fosse merito suo.
“Cosa?”
“Tuo padre può riconoscere il bambino! – spiegò Andrew con un cenno del capo – Mio padre ha fatto delle ricerche ed è possibile che il capofamiglia riconosca il nascituro di una figlia nubile: capisci? Il bambino prende il cognome Hevans così tutto sarà risolto, senza bisogno di matrimoni o timore che sia illegittimo.”
“Tuo padre ha trovato una scappatoia simile?” si sorprese il soldato, guardando Andrew con nuovo rispetto, come se fosse stato lui a scoprire quella via legale.
“Ci sono voluti diversi giorni: è stato difficile perché qui in paese non è registrato alcun caso simile. Ma mi ha detto che in città grandi, come East City, ci sono precedenti: è una pratica perfettamente legale. Non credi che sarebbe la soluzione perfetta? Forza, andiamo a dirlo a Laura e…”
Il suo inizio di corsa venne bloccato dalla mano di Henry: il giovane dai capelli rossi lo fissava con aria dubbiosa, come se non fosse assolutamente certo del suo piano.
“Forse è meglio non dire niente a Laura…” mormorò infatti.
“Che? – Andrew si girò completamente verso di lui, non riuscendo a capire – ma perché? Insomma è perfetto, no? E’ la soluzione migliore che potessimo trovare, così Laura non dovrà ricorrere ad un matrimonio riparatore e…”
“Fossi io il capofamiglia non ci sarebbero problemi – scosse il capo Henry – ma è mio padre.”
Andrew iniziò a capire cosa volesse dire il suo amico, ma una parte di lui si rifiutò di credere che una soluzione così ideale venisse scartata solo per stupida ostinazione ed attaccamento a vecchi principi. C’era in gioco la vita di Laura e del bambino, non potevano far finta di niente.
Arrivano fino a questo punto?
I suoi occhi castani posero la domanda a quelli grigi di Henry.
“Facciamo che ne parlerò io con i miei, con tempi e modalità che sono ancora da stabilire. Però preferisco che Laura non lo venga a sapere, capisci? Se… se ci fosse un rifiuto sarebbe solo un modo per farla soffrire di più ed è già in uno stato abbastanza prostrato.”
“Capisco – ammise Andrew con aria mogia – allora… allora lascerò tutto nelle tue mani. Se ti serve qualche altro dettaglio puoi venire a chiedere a mio padre quando vuoi, davvero. Non farti problemi.”
“Sei davvero un amico, Andrew Fury – Henry gli strinse la spalla con sincero affetto – tu e la tua famiglia state facendo così tanto per noi. Ringrazia infinitamente tuo padre: ovviamente pagherò per questo consulto che…”
“Pagare? – Andrew lo fissò sorpreso – Ma nemmeno per sogno! Come hai detto tu siamo amici, no? E tra amici funziona così… anzi, tu sei il mio migliore amico, Henry, così come lo è Laura. Siete i miei fratelli, vi voglio un bene infinito… parlare di soldi è… oh, non farmi andare oltre!”
“I Fury sono una grande stirpe, Andrew – sorrise Henry – non lo dimenticherò mai. Vieni, andiamo a trovare Laura: sarà felice di passare un po’ di tempo con te.”
 
A posteriori fu un bene che Laura non fosse stata resa partecipe della scoperta di Andrew: come aveva previsto Henry, i coniugi Hevans si rifiutarono di riconoscere il figlio illegittimo portato in grembo dalla ragazza.
“Dannazione! Non credo di aver mai conosciuto delle persone così odiose! – sbottò il giovane universitario una mattina di metà febbraio mentre faceva colazione con i suoi genitori – Sembra che lo facciano apposta ad ostacolare qualsiasi cosa io ed Henry facciamo per Laura. Che cosa costava dare il loro cognome a quella povera creatura?”
“Proprio perché sai come sono fatti non ti dovresti sorprendere – lo rabbonì Anna, posandogli una mano sulla guancia in un gesto di conforto – hanno i loro preconcetti, purtroppo, e l’idea di un figlio illegittimo li spaventa davvero tanto. Anche se adesso più che al loro orgoglio dovrebbero pensare a quella povera ragazza. Come procede la sua gravidanza?”
“Non me ne intendo molto di queste cose, mamma – sospirò Andrew arrossendo lievemente – ma so che diverse volte ha la nausea: è da circa una decina di giorni che va avanti così.”
“E’ più che normale, caro, ma dovrebbero passarle a breve: siamo al dieci febbraio ed ormai è entrata nel terzo mese di gestazione.”
“La pancia inizierà a crescerle?”
“Non in maniera visibile – scosse il capo la donna – Laura è anche di costituzione robusta e dunque penso che fino al quarto mese non si vedrà praticamente nulla.”
“Questo mi dà un minimo di sollievo, almeno c’è ancora tempo – sospirò Andrew, ma poi guardò entrambi i genitori e scosse il capo con amarezza – ma che vado a dire? Anche se non si vede il bambino c’è, la situazione non cambia. Dannazione, mi sento veramente impotente: ogni sera mi addormento cercando di trovare una soluzione, ma per quanto mi sforzi non riesco a… mi sento un fallito come amico.”
“Non dire sciocchezze, figliolo – lo rimproverò il padre, alzandosi dalla sedia e arruffandogli i capelli – non ti rendi conto che sei l’unica persona che sta veramente accanto a quei due fratelli? Questo vuol dire molto per loro, fidati: dovresti avere maggior stima di te stesso.”
“Ma questo non salverà Laura dal guaio in cui si trova.”
“Vedrai che la soluzione si troverà: coraggio, non dovevi andare da loro?”
 
Quelle parole affettuose, come sempre, ebbero l’effetto concreto di dare un po’ di conforto al ragazzo.
Ma era anche vero che Andrew sentiva che la sua vita gli stava in parte sfuggendo dalle mani, senza che lui potesse far qualcosa per recuperarla. Si sentiva tremendamente diviso a metà: da una parte c’era la sua vita di tutti i giorni fatta di lavoro alla tesi, la sua famiglia, e la dolce presenza di Ellie. Dall’altra c’erano Henry e Laura, i suoi fratelli, i suoi migliori amici che in qualche modo si allontanavano sempre più da lui. Voleva trovare una soluzione non solo per aiutare Laura, ma anche perché aveva una tremenda paura che se non si fosse risolto in qualche modo il problema lui avrebbe perso i due ragazzi in una maniera che ancora non riusciva a comprendere. Tuttavia la sgradevole sensazione continuava ad incombere su di lui.
Per questo quando bussò a casa degli Hevans cercò di assumere un’aria più tranquilla: voleva dispensare Laura almeno dai suoi dubbi e paure.
“Ciao, Andrew – lo fece entrare Henry: veniva sempre lui ad aprirgli, sapendo benissimo che era l’unica persona che venisse a trovarli – vieni, Laura ha giusto finito di fare colazione.”
“Come andiamo oggi? – chiese mentre si dirigevano verso la camera della ragazza, evitando accuratamente di guardare verso il salone dove c’erano i coniugi Hevans. Incontrarli dopo che avevano rifiutato la soluzione che aveva trovato assieme a suo padre sarebbe stato troppo per lui – Sta meglio?”
“Le nausee hanno dato un po’ di tregua e ha dormito abbastanza bene. Speriamo che sia una giornata buona: ehi, follettino, c’è Andrew.”
La ragazza era seduta sul letto, la camicia da notte protetta da una calda vestaglia di lana. Si era appena lavata e pettinata e appariva meglio di altre volte che Andrew l’aveva vista. Teneva tra le braccia un vecchio pupazzo: nell’ultimo periodo sembrava trarre parecchio conforto da quel balocco dell’infanzia.
“Ciao, Lauretta – Andrew si sedette subito accanto a lei e la abbracciò, baciandole con tenerezza la guancia – ho saputo che oggi stai meglio.”
“Pare di sì – annuì lei, con voce più rilassata del previsto. Nell’ultimo periodo alternava giornate buone ad altre di umore cupo e, fortunatamente, sembrava che questa fosse una delle prime – sono persino riuscita a gustarmi la colazione.”
La conversazione rimase su argomenti tranquilli per diverso tempo: Laura chiese dei genitori di Andrew e di Ellie, mostrandosi sinceramente interessata a loro. Sembrava essere dimentica del bambino che portava in grembo, come se almeno per qualche ora avesse deciso di concedersi un’illusione di libertà.
“Sentite – disse Henry quando infine la conversazione tornò sull’argomento cardine – è da un po’ che ci rifletto e penso di aver trovato la soluzione migliore al nostro problema. A dire il vero mi sento anche un po’ stupido a non averla pensata prima.”
“Davvero? – Andrew si illuminò subito in viso, certo che l’idea di Henry non potesse che essere quella vincente. Da un grande stratega e soldato come lui che cosa poteva aspettarsi? – Avanti, non tenerci sulle spine.”
“Coraggio, fratellone – anche Laura sembrava ottimista, fiduciosa che il fratello non le avrebbe mai proposto niente di dannoso per lei ed il bambino – dicci tutto.”
“Andrew, ti va di sposare Laura?”
La domanda venne pronunciata in tono deliberatamente tranquillo, come se avesse appena chiesto di andare a prendere un bicchiere d’acqua. Ma sia Andrew che Laura si irrigidirono nella loro posizione seduta nel letto, completamente spiazzati da quanto era stato loro proposto.
“Cosa?” il giovane Fury riuscì a riscuotersi solo dopo qualche secondo. Se prima solo una parte della sua vita sembrava sfuggire al suo controllo, ora sentiva pericolosamente instabile anche quella su cui si fondavano le sue certezze. E, spiacevole a dirsi, gli sembrava quasi che Henry si stesse imponendo su di lui, facendosi forte del suo carattere prevalente al quale raramente il giovane Fury sapeva dire di no.
“Sì, sposarla – annuì il rosso, seduto nella sedia, incrociando le braccia al petto – hai capito bene.”
Andrew non seppe che dire, si limitò a scuotere il capo mentre una parte della sua mente non poteva fare a meno di ammettere che poteva essere davvero la soluzione ideale.
Ma c’era Ellie…
“Henry, ma io…” riuscì a balbettare, infine.
“Le vuoi tantissimo bene – lo bloccò lui, come ad ostacolare qualsiasi ripensamento – so che non è amore, Andrew… ma sono sicuro che saresti un ottimo marito per lei – lo fissò con brillanti occhi grigi – Ti darebbe tanto fastidio crescere un figlio non tuo?”
Andrew sciolse il suo abbraccio da Laura, sentendosi per la prima volta in vita sua incredibilmente minacciato da Henry. Per quanto non ci fosse cattiveria o odio nel suo sguardo, era come se lo stesse trascinando in un qualcosa che…
… che non è mio. C’è Ellie!
Ma c’è anche quel bambino!
Si sentiva impazzire.
“Sai bene che non sono tipo da prendermela con un bambino innocente – cercò di prendere un minimo di tempo, come se dovesse decidere entro i prossimi minuti – specie se è figlio di Laura, ma…”
“E allora? Sarebbe perfetto! State bene assieme, non lo capisci? – Henry si alzò per enfatizzare quelle parole – E questo bambino avrà il tuo cognome, senza che Laura debba finire in mano a quel maledetto…”
Andrew alzò lo sguardo sull’amico, incredulo che avesse parlato per la prima volta di quell’operaio. Una piccola parte di lui fu sicura che fosse un accenno fatto ad hoc per mettergli paura, per far apparire una minaccia concreta per Laura dalla quale proteggerla.
Ma come posso? Come posso fare?
“… farai di tutto per aiutarla, Andrew, promettimelo. Qualsiasi cosa.”
Quella frase che aveva pronunciato Ellie tornò beffardamente nella sua mente, quasi la piccola Lyod lo spingesse verso quella decisione così assurda.
“Henry, no – la voce di Laura fu come una lama che riuscì a squarciare il velo di follia che annebbiava la mente del giovane. Fissò la sua amica e si accorse che il suo viso era deciso come non lo era da tempo – non puoi chiedergli questo.”
Henry parve destabilizzato da questo improvviso intervento di Laura, come se non si aspettasse che lei prendesse la parola. E soprattutto che la prendesse per opporsi a quella decisione.
“Laura, ma che dici?” le chiese in tono incredulo.
La giovane posò il vecchio pupazzo nel letto e prese il braccio di Andrew.
“C’è già Ellie nel suo cuore… non può pagare per un errore mio.”
Il giovane Fury dovette trattenere una lacrima di sollievo: Laura aveva appena detto quello che lui pensava… quello che lo faceva sentire una persona pessima perché in qualche modo le stava sbattendo la porta in faccia. A lei ed al bambino.
“Ellie capirà, andiamo! – Henry si riprese da quel piccolo shock e liquidò la questione con un gesto della mano – E’ una ragazzina di nemmeno sedici anni. Qui stiamo parlando di dare una famiglia decente a questo bambino e a te!”
“Avrà anche quindici anni – continuò Laura – ma non è assolutamente concepibile che la sua felicità venga distrutta per colpa mia. La felicità sua e di Andy… non posso rovinare la loro vita in questo modo.”
“Laura, tu non rovini…” cercò di bloccarla Andrew, sentendosi incredibilmente in colpa.
“No, noi non ci sposiamo, capito? – gli diede una spinta quasi che l’allontanamento fisico sottolineasse il concetto – Anche se mi portate all’altare con la forza io direi di no, chiaro? Non ti permetterò di fare il più grande errore della tua vita.”
“Finiscila di essere sciocca – la rimproverò Henry – non hai la minima idea di quello che dici.”
“Sì che ce l’ho! – Laura si alzò addirittura in piedi – forse in questo caso sono l’unica ad avere la giusta lucidità in questa stanza. Andrew, tu la ami Ellie?”
“Laura…”
“Rispondi solo a questa domanda: la ami? Vuoi che diventi tua maglie un giorno?
“Sì…” mormorò il giovane a testa bassa.
“Capisci? Non è questo suo figlio… non è… un giorno lui terrà tra le braccia i bambini di Ellie, i suoi bambini. Non posso privarli di tutto questo, Henry, cerca di capirlo. Tu non c’eri alla festa del primo dicembre, non c’eri a vederli assieme…”
“Sono solo romanticherie che non portano a niente.”
“Come questa follia che hai appena proposto!”
“Andrew, dì qualcosa – Henry fissò lo sguardo irato sull’amico – almeno tu cerca di essere un minimo razionale, andiamo!”
“Non puoi – Laura si accostò al giovane e posò la fronte contro la sua – Andy, non puoi distruggere così tutto quello che avete costruito assieme. Lei ti ama alla follia, farebbe di tutto per te… sai benissimo che quindici anni o diciotto non fanno la differenza per voi due. Non perderla, non farlo…”
“Ellie…” Andrew invocò quel nome con voce strozzata, quasi supplicando che la giovane Lyod comparisse nella stanza e lo prendesse per mano.
“E per il bambino?” Henry li incalzò entrambi.
“Il bambino ha un padre – Laura disse quella frase con voce piatta – e sappiamo bene chi è.”
E con quella frase si chiuse la discussione.
 
Andrew stava sdraiato nel suo letto sentendosi la persona peggiore del mondo.
La discussione era avvenuta quella mattina, nemmeno cinque ore prima, eppure gli sembrava stranamente lontana e surreale. Ma nonostante questo gli sembrava di aver appena commesso il peggior delitto della sua vita, consegnando Laura a quell’uomo, non offrendole l’aiuto che si era ripromesso di darle.
E tutto per Ellie… per una quindicenne.
D’improvviso l’idea di essere fidanzato con lei le sembrò così assurda… e lui aveva dato la priorità a questo rapporto piuttosto che a Laura e al suo bambino.
Sono un mostro…
Era andato via da casa Hevans sentendo lo sguardo di Henry trafiggerlo. Sapeva bene che il suo amico non gli avrebbe mai perdonato uno sgarro simile, un tradimento di fiducia tale. Si sentiva completamente lacerato e privo di qualsiasi controllo della sua vita. Lui non…
“Avanti” mormorò, sentendo bussare alla porta.
“Ciao, Andrew – salutò Ellie – tua madre mi ha detto di salire perché eri in camera.”
“Ciao – si mise a sedere sul letto, cercando di darsi un’aria più composta – non ti aspettavo.”
“E’ che ero a casa di Annabell a fare una ricerca di geografia e così quando ho finito ho pensato di passare a trovarti: ieri e avantieri non ci siamo visti. Ma stavi riposando? Se vuoi vado via.”
“No – scosse il capo lui facendole cenno di avvicinarsi – ero solo un po’ pensieroso, tutto qui.”
“Sei passato a trovare Laura?”
La domanda innocente di Ellie fu come una pugnalata.
Sì, ed in qualche modo le ho voltato le spalle.
“Sì, sta bene. Ha chiesto anche di te, sai.”
“Davvero? Ne sono felice. Spero prima o poi di poterla andare a trovare.”
“Chissà.”
“Ma che hai? Sei triste?”
“Solo pensieroso, te l’ho detto.”
Senza pensarci due volte Ellie lo abbracciò, stringendogli le braccia al collo. Profumava di dolce, di serenità, se mai un sentimento simile potesse avere un odore, ed era capace di donare un minimo di pace all’animo tormentato del giovane.
“… la ami?”
Sì che la amo, con tutte le mie forze.
Andrew ricambiò quell’abbraccio come mai aveva fatto. Nascose il viso sulla spalla di Ellie, abbandonandosi completamente a lei per la prima volta: voleva trovare una conferma, capire che aveva fatto la scelta giusta decidendo di amare sempre e solo lei.
“Ti amo…” la voce di Ellie era flebile, quasi avesse paura di farsi udire. Giungeva come uno degli incantesimi delle sue storie, riuscendo a rompere la maledizione che lo colpiva.
Ti amo…
Andrew non lo disse a voce alta, ma la strinse ancora di più.
 
Erano ormai le undici passate quando Laura si alzò per andare in bagno.
Fortunatamente non si trattava di nausea, ma di normali esigenze fisiologiche.
Camminare nel corridoio durante la notte le faceva meno paura rispetto al giorno: sapendo che tutti dormivano si sentiva più libera e tranquilla. Come tornava in camera sua, tuttavia, si accorse che da sotto la porta di Henry usciva un filo di luce, segno che era ancora sveglio.
Con un sospiro aprì la porta e lo vide sdraiato nel suo letto, supino e con le braccia incrociate dietro la testa.
“Stai male, follettino?” le chiese con aria distratta.
“No – scosse il capo lei, chiudendo la porta alle sue spalle – e tu?”
“Tutto bene, mi sento un po’ un fallimento come fratello maggiore, ma per il resto non mi lamento.”
Laura non rispose a quella piccola provocazione: con un sorriso si infilò sotto le coperte e si strinse a lui.
“Posso dormire con il mio fratellone stanotte?” chiese posando il capo sulla sua spalla.
“E’ tutto quello che posso fare per te, Laura.”
“Non potevi chiedere una cosa simile ad Andy – sospirò infine – è stata una follia e l’hai messo in estrema difficoltà.”
“Ti fa così schifo l’idea di formare una famiglia con lui?”
“Sì, mi fa schifo se penso che sarebbe un’imposizione bella e buona quando lui non c’entra nulla. Mi sentirei in colpa ogni giorno della mia vita sapendo che ho separato lui ed Ellie per un mio errore… ma tu non lo capirai mai, vero Henry?”
“Scusami se ho una mentalità più pratica che pensa alle cose serie. Adesso dormi, follettino: chiudi gli occhi e riposa, da brava.”
“Henry…”
“Che c’è?”
“Lo so che forse per la tua mentalità pratica ci vorrà tempo, ma… cerca di far pace con Andy.”
“Non ce l’ho con lui.”
“Bugiardo…”
“Laura, sul serio, ho ben altro a cui pensare. Devo trovare un dannato modo per provvedere a te e al bambino prima che nasca. Ora dormi.”
“Va bene, buonanotte.” si arrese la giovane, sapendo di non poter ottenere di più.
Ma in cuor suo si sentiva sollevata: aveva evitato che Andrew, spinto dalla compassione, compisse il più grande errore della sua vita.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18. 1882. Decisioni infelici. ***


Capitolo XVIII

1882. Decisioni infelici.

 

 

“Proprio così: ormai dovrebbe essere quasi al quarto mese di gravidanza. Probabilmente inizia a vedersi anche la pancia.”
“Uh, cavolo, allora meno che mai uscirà di casa: io mi vergognerei a morte!”
Ellie continuò impassibile a riporre i suoi libri nella tracolla mentre sentiva le sue compagne spettegolare poco distanti dal suo banco. Era inevitabile che si parlasse di Laura, probabilmente le chiacchiere su di lei non sarebbero mai finite, ma non poteva fare a meno di provare un grande fastidio. Quelle ragazze non la conoscevano e non era per niente bello che facessero tutti quei commenti, specie su una situazione così delicata.
“Allora sul padre non si sa ancora niente?” la domanda giunse puntuale.
“No, almeno non si è fatto avanti… ma sapete bene quali sono i due nomi.”
“Sssh, piano che Ellie è dall’altra parte della classe.”
“Credete sia possibile?”
“Mah, certo che questo fidanzamento pare tanto una cosa combinata. Che in realtà nasconda qualcosa?”
A quel punto Ellie non ce la fece più e si alzò in piedi di scatto, chiudendo con malagrazia la tracolla e fissando con occhi roventi le sue compagne di classe. Ovviamente queste erano arrossite per l’imbarazzo, ma dai loro sguardi si capiva che nutrivano seri dubbi su tutta la questione.
“Pettegole!” si limitò a sbuffare uscendo fuori dalla classe a grandi passi.
Iniziò a camminare furente verso l’uscita, ignorando tutti quelli che incontrava, cercando di sfogare il senso di frustrazione che stava provando da una decina di giorni.
Perché, che le piacesse o meno, anche lei era coinvolta in quella brutta storia.
Aveva capito benissimo che la sua famiglia ed Andrew stavano cercando di tenerla il più possibile al di fuori di tutta la vicenda, ma come unico risultato avevano ottenuto che lei sentisse solo le voci che circolavano a scuola ed in paese. Le dava profondamente fastidio che mettessero in dubbio la fedeltà di Andrew nei suoi confronti, spesso lanciandole occhiate di pietà, ma ancora di più detestava le cattiverie che venivano dette su di Laura.
Ormai la conosceva bene ed era arrivata a considerarla una sorella maggiore: più di Annabell lei riusciva a farla sentire a suo agio, senza contare che era stata l’unica che le fosse stata davvero vicina nei suoi passi per avvicinarsi ad Andrew. Prima rivale, poi complice, per Ellie non poter andare a trovarla costituiva una dura proibizione: le sembrava di mancare come amica, quando invece le amicizie si vedono soprattutto nel momento del bisogno.
Ma come si poteva fare? Non poteva andare a bussare a casa degli Hevans e chiedere di vederla.
Forse non potrò fare niente per lei… però a me farebbe piacere se un’amica venisse a trovarmi.
E poi, sapeva che era sciocco ed indelicato, ma voleva sapere chi era il padre del bambino: non che dubitasse di Andrew, sicuramente andava a casa sua solo per confortarla, eppure quelle voci così insistenti continuavano a farle fischiare le orecchie.
Rallentando leggermente il passo si accorse che era proprio vicino alla casa degli Hevans: per qualche secondo, come accedeva spesso, fu tentata di avvicinarsi nella speranza che Laura si affacciasse alla finestra, in modo da poter scambiare con lei almeno un saluto.
Ma oltre a Laura in casa c’erano anche i suoi genitori ed il fratello maggiore.
Ecco… lui è un altro bel problema.
Aveva il vago sentore di non piacere del tutto a quel giovane dai capelli rossi. Era stato cortese ed educato quando si erano presentati, ma Ellie aveva avuto la spiacevole sensazione di essere vista come un incomodo in un gruppo perfetto senza di lei.
E sono sicura che c’entra qualcosa con il malumore di Andrew di questi giorni – le sue mani guantate torsero la tracolla – devono aver litigato per qualche cosa e… oh, ma è lui.
Quasi ad evocarlo il robusto ragazzo aveva appena chiuso la porta di casa e si era messo a camminare a grandi passi verso l’uscita del paese, in direzione della casa di Ellie. La ragazza esitò, indecisa sul da farsi: se doveva essere sincera Henry le faceva una discreta paura e di certo non si trovava a suo agio con lui, al contrario di quanto succedeva con la sorella. Ma era anche un modo per chiedere notizie di Laura, considerato che Andrew non era molto loquace…
E magari mi consentirà anche di andare a trovarla.
Così iniziò a pedinarlo silenziosamente, tenendosi a debita distanza e domandandosi cosa andasse a fare sempre più lontano dal paese, verso un piccolo bosco dove c’erano gli operai che da tempo stavano ormai lavorando a diverse opere per la comunità. La presenza degli alberi favoriva la segretezza di quell’inseguimento: Ellie si era infatti decisa ad aspettare che lui terminasse le sue commissioni per potergli parlare.
Ormai era arrivata in prossimità del luogo di lavoro di quegli operai e si nascose dietro una catasta di tronchi da poco abbattuti. Sbirciò con un misto di timore e curiosità quelle figure a lei praticamente sconosciute, sentendosi in qualche modo minacciata dall’essere sola assieme a loro: non che fossero cattive persone, ovviamente… ma, avrebbe tanto voluto che ci fosse qualcuno di conosciuto assieme a lei, giusto per sicurezza.
Scuotendo la testa decise di non pensare a quella situazione e si mise a cercare Henry: era bastata una decina di secondi di distrazione per perderlo di vista, ma era chiaro che era venuto a parlare con quelle persone. Forse dipendeva dal suo essere membro dell’esercito: magari doveva fare loro qualche richiesta particolare.
Oh, eccolo!
Sospirò di sollievo come lo vide allontanarsi da quel gruppetto di uomini assieme ad un operario particolare, forse il capo. Facendo attenzione a non essere notata dagli altri, cosa molto semplice considerato che era piccola ed agile, superò la radura e si diresse verso la macchia di alberi dove i due si erano appartati.
Va bene, non è educato origliare – pensò, sistemandosi con la schiena contro un grosso tronco – ma si tratta solo di aspettare che finiscano e poi ci parlo e…
“E così sei tu Gregor Breda – la voce di Henry aveva un non so che di pesante e questo fece distogliere Ellie dai suoi buoni propositi – immagino che tu sappia il motivo per cui ti ho cercato.”
“Proprio no, signore – rispose l’altro, voce calma e piatta – a dire il vero non credo di conoscerla.”
“Però conosci mia sorella. Ti do una mano a ricordarla: si chiama Laura ed ha i capelli rossi come i miei, una così non si dimentica, non credi?”
Ci fu un pesante silenzio che durò per svariati secondi. Ellie fu tentata di girarsi e sbirciare, ma si trovò a trattenere il fiato nel terrore che si accorgessero di lei. Non stavano parlando di lavoro, proprio no: una prima intuizione della verità giunse spietata nella mente della ragazzina.
Lui?
“Ah, ho capito – la voce di Gregor spezzò finalmente quella pausa: c’era una lieve tensione che l’orecchio attento di Ellie fu pronta a cogliere – allora presumo che tu sia venuto a parlarmi di quanto è successo alla festa del primo dicembre.”
“Vedo che ci intendiamo…”
“Non mi pare che fosse minorenne ed era perfettamente consenziente… se non l’avete controllata come si deve non è affar mio: forse dovreste farvi qualche domanda sulla presunta virtù della ragazza, non credi?”
A quella frase Ellie serrò gli occhi, rifiutandosi di credere a quanto stava sentendo.
Non con un operaio sconosciuto… non con una persona che… che dice queste cose!
“Mi pari più grande di lei, un minimo di maturità potevi dimostrarlo lasciandola stare!” la voce di Henry era diventata incredibilmente tesa, sicuramente si stava trattenendo dall’aggredire fisicamente l’uomo.
“E cosa vuoi da me tre mesi dopo questa storia?”
“Non vuoi provare ad immaginarlo, eppure dovresti sapere che voci circolano in paese…”
“Voci? Vuoi dire… oh no – ci fu una risata incredula – non mi vorrai dire che è lei la ragazza incinta.”
“E’ lei… e vediamo se arrivi anche a capire chi è il padre.”
“Non c’è nessuna prova.”
“Senti, maledetto – dei passi improvvisi e minacciosi, tanto che Ellie si fece ancora più piccola – mia sorella si sarà anche concessa a te, ma questo non ti consente di insinuare che lei sia…”
“E come la vuoi chiamare una che si concede ad uno sconosciuto? Che cosa ti dice che prima e dopo non abbia fatto la stessa cosa con altri?”
“Solo con te, me l’ha giurato.”
“Non mi pare una molto credibile… ehi! Non scaldarti, ragazzo!”
Ci fu un altro intervallo di silenzio, tanto che Ellie si immaginò come i due avversari si squadrassero tra di loro con occhi irati. Desiderò poter correre via da quel posto e non aver mai sentito niente di tutto quello, ma le circostanze la obbligavano a stare ferma e a respirare il più piano che poteva.
“Sei tu il padre, che ti piaccia o meno – la voce di Henry tornò calma – ormai il danno è fatto.”
“E cosa vorresti da me?”
“Che tu ti prenda le tue responsabilità… e non fare quella faccia, sappi che sei l’ultima persona che vorrei accanto a mia sorella.”
“E allora trovati qualcun altro: tra i ragazzini del paese ci sarà sicuramente qualcuno che se la prenderà anche in quello stato, non credi? Io me ne tiro fuori.”
No, tu non te ne tiri fuori, te lo assicuro. Ti posso garantire che ho tentato altre vie per evitare di arrivare a questa decisione, ma per mia sfortuna nessuna è andata bene. Tu ti sposi mia sorella, chiaro?”
“Assolutamente no.”
“No, forse non hai capito bene – una lieve nota di sarcasmo comparve nella voce di Henry – tu te la sposi, e anche in poco tempo, chiaro? Questo bambino non nascerà senza un cognome.”
“Questo bambino non è…”
“E’ tuo, bastardo maledetto! E gli dai il tuo fottuto cognome! E tra massimo un mese tu ti sposi mia sorella! E non farmi incazzare ulteriormente, chiaro? Non hai idea di quanto mi costi essere qui a dirti queste cose, quando invece quello che vorrei fare è prenderti a pugni fino ad ucciderti.”
“Non…”
“Sono un sergente dell’esercito – la voce di Henry si fece fredda e letale – posso provocarti più guai di quanti tu creda, fidati. Non mi piace giocare sporco, ma sappi che se costretto non mi tiro indietro. E allora chi avrà ragione? La mia divisa o tu?”
“Siamo al ricatto, eh?”
“Mi ci stai portando tu, Gregor Breda. Prenditi questa fottuta responsabilità e la faccenda si chiude qui.”
Ancora silenzio, un pensante e tremendo silenzio, spezzato solo dalle lacrime di Ellie che scendevano senza parere sulle guance.
No, ti prego… non permettere che Laura sposi una persona così! Ci dev’essere un altro modo!
“Non ho una casa dove portarla, nel mio paese non torno da una vita… che cosa vuoi che faccia con una moglie ed un marmocchio in arrivo?”
“A questo provvederò io, non ci devi nemmeno pensare. Non permetterò certo che mia sorella abbandoni il paese per te: tu ti devi solo presentare quando te lo dirò io, chiaro?”
“Andata – sospirò l’altro – stupida mocciosa…”
“E idiota tu che le hai dato retta. Ti tengo d’occhio Gregor Breda, da ora e per sempre, proprio come in un matrimonio: prova a fuggire dal paese e ti inseguirò fino all’angolo più remoto di Amestris, credimi.”
Un lieve brusio, un borbottare d’assenso e poi dei passi che si allontanavano da quel posto.
Con la coda dell’occhio Ellie vide che era quell’operaio che andava via.
Voglio tornare a casa… per favore Henry, vai via.
“Ellie Lyod.”
La voce la fece sobbalzare e girandosi dalla parte opposta vide che Henry era praticamente accanto a lei, arrivato silenzioso come se fosse in grado di fare chissà quale magia.
“Io… io – iniziò a balbettare tra le lacrime – volevo solo… chiederti…”
“Ascoltami bene, ragazzina – la mano di lui le afferrò il braccio con forza – non una parola su quanto hai visto oggi, chiaro? Né con Andrew, né coi tuoi, né con nessuno, intesi?”
“Intesi, lo giuro! – esclamò lei, terrorizzata da quegli occhi così freddi – Non… non volevo fare niente di male, te lo assicuro. Volevo… volevo solo sapere di Laura e ti ho seguito… non… non pensavo che… per favore… per favore, mi stai facendo male al braccio.”
“Come pensi che stia Laura? – Henry le lasciò il braccio di malagrazia – Stupida ragazzina, torna a giocare con le bambole: hai già fatto abbastanza guai con la tua presenza in tutta questa storia.”
“Io?” sgranò gli occhi incredula.
“L’hai visto, vero? Hai visto con che persona finirà mia sorella? Notevole, vero? – c’era un sarcasmo davvero cattivo in quella voce – E per cosa poi? Perché quello scemo di Andrew… oh, lasciamo perdere. Più ci penso e più mi viene il voltastomaco!”
“Andrew? – Ellie si fece forza nel sentire il nome del fidanzato – Che cosa c’entra Andrew? E’ per questo che è così di malumore? Avete litigato per Laura? Io devo saperlo… io non…”
“Vuoi proprio saperlo? – la afferrò per le spalle e si chinò in modo che i suoi occhi fossero all’altezza di quelli scuri di Ellie – Ti accontento subito, signorina viziatella… è per colpa tua che Laura sposa quel maledetto, capisci? Perché l’alternativa migliore, quella che ho cercato di far valere con tutte le mie forze, è stata stroncata dalla tua presenza. Perché quell’idiota di Andrew ha anteposto al bene di Laura e di un bambino il suo inutile amore per te… che non hai nemmeno sedici anni! Capisci? – la scrollò con forza – Se non fosse per te…”
“Io e Andrew ci amiamo!” protestò Ellie divincolandosi.
“Amore? – Henry ridacchiò con cattiveria e la lasciò andare – Sei così ingenua sulla vita, Ellie. Torna tra i banchi di scuola che è meglio e lascia che questa storia me la gestisca io: sono l’unico che ha un briciolo di razionalità a quanto pare.”
“Volevo solo… io non…”
“Il tuo piagnucolare non serve a niente. Fammi solo il favore di tenere la bocca chiusa su quanto hai sentito e su quanto ci siamo detti: mi ci mancano solo nuove complicazioni – si limitò a guardarla di sbieco, ma era chiara la minaccia – intesi, signorina?”
“Sì…” annuì lei, sentendo di detestare profondamente sia lui che Gregor Breda.
 
Laura chiuse la porta alle sue spalle e diede un giro di chiave.
Ansimò disperatamente, cercando di calmare il groppo in gola che le mozzava il fiato, rischiando di soffocarla. Le gambe presero a tremarle con violenza tanto che si lasciò scivolare contro la porta, mentre un forte rombo le invadeva le orecchie, come se milioni di insetti fossero dentro la sua testa.
Matrimonio.
“No…” riuscì a mormorare con le lacrime agli occhi.
Non c’era altra via d’uscita, stupida, che cosa pensavi?
“No…” ripeté.
Non potevi pretendere di restare per sempre in questo limbo, no?
“No!” esclamò a voce più alta iniziando a singhiozzare con forza.
La gabbia prima era chiusa con forza attorno a lei, ma dopo quanto le aveva annunciato Henry, in presenza dei suoi genitori, era come se si fosse trasformata in un covo di serpenti che si avvinghiavano attorno alla sua persona stritolandola e mordendola.
Sposare Gregor Breda le appariva come la cosa più disgustosa del mondo.
Era per colpa sua che era marchiata in maniera così feroce, che dentro di lei c’era quella prova di colpevolezza che l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita. Era per colpa di quell’uomo che si sentiva così sporca e lurida, così lontana dalla ragazza felice che era stata.
E’ anche colpa tua, Laura, non negarlo! – si ripeté impietosa – sei stata tu ad accettare! Sei stata tu ad… oddio, ma perché l’ho fatto?
“Volevo solo essere felice – singhiozzò raggomitolandosi su se stessa sul freddo pavimento di legno – volevo solo… è così sbagliato? E’… è così… ingiusto voler essere felici?”
A quanto pare sì.
“Io… io non posso… non posso…”
 
La voce del matrimonio si era sparsa per il paese e dunque era finalmente saltato fuori il nome di Gregor Breda come autore di quella paternità così discussa. Ovviamente se prima si mormorava, adesso i toni si erano alzati: un conto era di pensare ad Andrew o a Marco, riportando il gesto all’esuberanza giovanile e dunque a qualcosa di più facilmente perdonabile. Ma con quell’operaio praticamente sconosciuto la gente voleva avere pochissimo a che fare e questo segnava ulteriormente la vita di Laura.
Mancavano due settimane a quel fatidico matrimonio ed Ellie era stata colpita dall’influenza che stava circolando in quel periodo. La cosa le fece enormemente piacere: voleva solo stare chiusa in camera sua, evitando di sentire tutte quelle voci, quelle accuse, quel clima di tensione e pregiudizio che la stava soffocando. Sapeva benissimo che ora i pettegolezzi su Andrew sarebbero terminati, ma quella piccola grazia non riusciva a consolarla.
E’ davvero colpa mia?
Le accuse di Henry continuavano a tormentarla, facendola sentire incredibilmente sporca e colpevole, come se la gravidanza di Laura e quel matrimonio così odioso fossero colpa esclusivamente sua.
Detestava quel soldato, lo odiava ogni giorno che passava… eppure c’era un fondo di verità nelle parole rabbiose che le aveva rivolto la settimana prima.
Davvero Andrew avrebbe potuto sposarla?
Certo che avrebbe potuto: era chiaro che sarebbe stata la via di fuga migliore per Laura e il bambino. Andrew li avrebbe certamente trattati come meritavano e, col passare del tempo, non c’erano dubbi che sarebbero stati una famiglia serena e quel bambino sarebbe stato amato e protetto.
Ma c’era lei.
E alla luce di quella prospettiva sembrava che il suo amore per Andrew fosse la cosa più egoista del mondo e lei la persona peggiore dell’universo. Avrebbe dovuto lasciarlo andare, dirgli di sposarla: con una situazione così grave era giusto mettere da parte i propri sentimenti, no? E poi si stava parlando di Laura, mica di una sconosciuta.
Ma io lo amo…
Come sarebbe vissuta a vederlo tutti i giorni sposato con un’altra persona che non era lei? Come avrebbe potuto fare nel vederlo prendere in braccio un bambino non loro, tenersi per mano con Laura, mentre lei se ne stava in un angolino a non farsi vedere.
Non è questo che voglio… ma come posso fare? Santo cielo… Andrew! Andrew, non abbandonarmi.
Lo stato di lieve torpore in cui era aveva reso quelle immagini estremamente reali, come un brutto sogno, tanto che alcune lacrime le scesero dagli occhi chiusi.
Il bussare alla sua camera la fece ridestare del tutto con un sussulto.
“Ellie, sei sveglia? – sua madre aprì discretamente la porta – c’è una visita per te.”
“Davvero? – sgranò lievemente gli occhi, pensando subito ad Annabell – Va bene.”
“Vieni, Andrew, tanto la febbre è praticamente passata da stamane.”
“Grazie, signora.”
Ad una visita di Andrew in camera sua, Ellie in genere sarebbe balzata sul letto vergognandosi profondamente del suo abbigliamento in camicia da notte e della treccia mezzo disfatta. Ma questa volta non fu così: nel capire che era lui si girò di fianco, la faccia contro il muro, cercando di trattenere le lacrime.
“Ciao, meraviglia – la salutò Andrew, la sua voce sempre così bella e dolce, così diversa rispetto a quella di Henry – come va oggi?”
“Bene…” mormorò lei.
Una mano fresca e gentile le scostò una ciocca di capelli neri dalla fronte.
“La febbre sembra davvero scesa del tutto. Mi dispiace non essere potuto passare in questi giorni, ma ho avuto molti impegni. Mh, ma che hai?”
“Niente…”
“Niente? – il dorso della sua mano si posò sulla sua guancia tiepida – Non mi pare. Suvvia, che succede?”
“E così Laura si sposa con quell’uomo…”
Ci fu un lungo silenzio, uno di quelli che Ellie aveva scoperto di odiare con tutte le sue forze. Le accuse di Henry tornarono prepotenti e una piccola parte di lei aveva tanta voglia di raccontarle ad Andrew per trovare un minimo di conforto. Ma Ellie Lyod aveva promesso e quanto era successo quella mattina così surreale l’avrebbe portato nella tomba con sé.
“A quanto pare – annuì Andrew, la sua mano che si spostava sulla spalla accaldata in un gesto di conforto – ma ora non ci devi pensare, Ellie. Pensa a guarire, da brava.”
“Voglio essere felice…” quella frase uscì spontanea, così come le prime lacrime.
“Cosa?”
“E’… è così sbagliato voler essere felice? – si girò lentamente sul letto fissando Andrew con occhi lucidi – rispondimi, ti prego.”
“No che non è sbagliato, Ellie – la consolò lui, leggermente sorpreso da quella strana reazione – che domande vai a fare? Hai tutto il diritto di essere felice.”
“Ce l’aveva anche Laura…”
“Ellie…”
“Ed io… io voglio essere felice con te. Perché… perché tutto questo deve apparire come una colpa?”
“Colpa? Ellie, ma che dici?”
“Io ti amo – singhiozzò lei, alzandosi a sedere e prendendogli la mano – ma… ma forse non è importante, non davvero. Non… non per una di quindici anni.”
“Sssh – le braccia di lui la strinsero delicatamente, il viso di Ellie che si trovò premuto contro quel maglione che sapeva di pulito – che sciocchezze stai dicendo? Non hai nessuna colpa in quello che è successo, davvero… e la tua felicità ed il tuo amore sono le cose che più contano per me, capito? E per quella storia dell’età, non ne avevamo già parlato?”
“Voglio solo essere felice con te…” supplicò Ellie.
“E lo saremo, Ellie, sul serio.”
Sì, ma come posso dimenticare che… sarà tutto costruito sull’infelicità di Laura?
 
“Ho parlato con il sindaco e la cerimonia sarà tra una quindicina di giorni – Henry diceva quelle cose con noncuranza, come se fossero dettagli di una questione poco importante: probabilmente lo faceva apposta per svelenire la situazione – poi Laura e suo marito potranno andare a vivere nella vecchia casa della prozii, sapete quella nella terza via: ho contattato i nostri cugini e sono felici di darcela. Stando ad East City non sapevano proprio che farsene.”
“Spero che tu non abbia detto loro della situazione nelle tue lettere!” chiese subito Susanna.
“No, mamma – ribatté lui con una smorfia di disappunto – in ogni caso quello che conta è che tutto è sistemato.”
“Sistemato – sbuffò la donna – sai bene come la penso su quell’uomo e su tutta questa storia.”
“Io ho finito – mormorò Laura, alzandosi dal tavolo e recuperando le sue stoviglie per portarle in cucina – scusate ma sono davvero stanca: vado a dormire.”
“Ma certo, follettino, buonanotte.”
I suoi genitori non dissero niente, si rifiutarono persino di guardarla in faccia: ancora Laura non capiva perché da una settimana le avessero concesso di partecipare di nuovo ai pasti in famiglia, ma se doveva essere sincera avrebbe preferito di gran lunga continuare a stare al sicuro nella propria camera.
Oh, dai che lo sai bene perché lo fanno: si stanno per liberare di te e della tua vergogna. Mostrare un minimo di pietà probabilmente li fa sentire meglio.
Pietà… forse era la parola giusta che si adattava a lei in quel momento.
Arrivata in camera chiuse la porta alle sue spalle ed iniziò a cambiarsi per la notte. Come si levò l’abito e la biancheria, restando completamente nuda, non resistette ed aprì l’anta dell’armadio per guardarsi allo specchio appeso sulla parte interna. Si mise di lato, imponendosi di stare perfettamente dritta.
Eccolo… quel dannato e maledetto primo accenno di pancia.
Aveva sperato fino all’ultimo che non comparisse, ma adesso era proprio visibile.
E’ tutta colpa di questa cosa se adesso sono costretta a sposare quell’uomo! Questa dannata pancia!
E sarebbe diventata sempre più grande, enorme, obbligandola a nascondersi per sempre agli occhi del mondo. E sempre per colpa sua sarebbe stata costretta ad andare a vivere con Gregor, a conti fatti uno sconosciuto. Che cosa doveva fare? Non si voleva allontanare dalla sua camera che l’aveva così tanto protetta in quei mesi, non voleva vivere sotto un tetto diverso da quello di Henry, privandosi così della sua protezione… in una casa nuova sarebbe stata completamente esposta.
E poi c’era lui, Gregor. Con che coraggio poteva guardarlo negli occhi? Probabilmente la odiava a morte per il guaio in cui l’aveva coinvolto.
“… contenta ragazzina? Goditi il tuo nuovo marito… spero che ti riempia di botte come meriti!”
Le parole orribili di sua madre, pronunciate qualche giorno prima all’annuncio del matrimonio, le tornarono prepotenti alla mente, quasi ad augurarle un futuro di completa infelicità. Del resto che cosa si prospettava per lei?
Ormai sono solo un pupazzo in balia degli eventi… decidono tutti per me ed io sto qui senza fare niente, senza poter prendere nessuna decisione! Persino questa pancia decide per me!
Il vecchio senso di ribellione si fece sentire.
Tutto questo non era giusto, non era da lei.
Quella storia doveva finire e forse lei era l’unica a poterlo fare.
In modo definitivo.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19. 1882. Ribellioni. ***


Capitolo XIX

1882. Ribellioni.

 

Era sempre stata ostinata, sin da bambina.
Una delle caratteristiche che tutti le riconoscevano era che quando voleva fare qualcosa la faceva. A niente erano servite sgridate e rimproveri: col passare degli anni non aveva minimamente cambiato questo aspetto del suo carattere a volte poco consono per una ragazza.
E dunque se Laura aveva deciso di chiudere definitivamente quella storia, così sarebbe stato.
Come sempre accadeva non perse tempo a rimuginare su un piano: l’obbiettivo che voleva raggiungere era chiaro e semplice e non c’era alcuna necessità di indugiare.
Quando fu sicura che tutti in casa dormivano, l’orologio indicava mezzanotte e mezza, si alzò dal letto e si recò alla scrivania. Da un vecchio quaderno di scuola strappò un foglio bianco e iniziò a scrivere: poche righe, senza giri di parole. Che senso aveva scrivere un poema su un suicidio? Avrebbe reso le cose solo più difficili. Ci fossero stati solo i suoi genitori non si sarebbe nemmeno sprecata a scrivere quella breve lettera, ma c’era Henry e anche Andrew e loro non meritavano un addio simile, senza una minima spiegazione.
Posò la penna e, alla luce della lampada della scrivania, rilesse quella breve pagina: un saluto, una conferma di quanto li amasse profondamente… perché in fondo erano queste le cose importanti, quelle che preferiva ricordare loro. Avrebbe voluto che nei loro pensieri lei fosse sempre la ragazza spensierata, come se quegli ultimi mesi non fossero davvero esistiti.
Con un leggero brivido piegò in due il foglio e si alzò dalla sedia.
Un lampo rischiarò improvvisamente il cielo, l’ennesimo temporale che riniziava, come succedeva sempre in quel periodo dell’anno. Ad uscire fuori ci doveva essere molto freddo, non c’erano dubbi.
Che c’è, Laura? Vuoi metterti comoda per andare a morire?
Sorrise sarcasticamente a quel pensiero e andò ai piedi del letto per recuperare la sua veste da camera. Con un gesto deciso si strinse la cintura alla vita e fu costretta a soffocare un lieve lamento: non si era resa conto quanto una simile compressione le desse fastidio.
Che c’è? – chiese al suo corpo, a quella pancia che iniziava a farsi vedere – vuoi farmi desistere? Non credo proprio!
Recuperò le scarpe da sotto il letto ma non le infilò: l’avrebbe fatto solo fuori casa.
Senza nemmeno accedere la luce del corridoio avanzò fino alla camera del fratello e fece scivolare la lettera sotto la porta: l’avrebbe sicuramente trovata la mattina successiva, quando ormai non ci sarebbe stato più niente da fare.
Mi dispiace fratellone – ammise, posando la testa contro quella porta – ma sono stufa che tutti prendano delle decisioni per me. E non è questa la vita che voglio…
Perché per quanto Henry si fosse preoccupato e l’avesse protetta, non poteva chiederle di passare la vita assieme a quell’uomo. Non poteva pretendere che lei rinunciasse a se stessa e alla sua autodeterminazione solo perché era rimasta incinta.
Alla fine è la soluzione più giusta, no?
Si concesse di sorridere sarcasticamente mentre si dirigeva all’ingresso di casa sua, maledicendo silenziosamente i suoi genitori quando passò accanto alla loro camera da letto. Persone malvagie e retrograde, per loro non ci sarebbero state parole di commiato, nemmeno in quell’ultima notte.
Come mise la mano sulla maniglia si accorse che erano mesi che non usciva di casa, quelle mura che erano diventate la sua comoda e terribile prigione. Una scarica di adrenalina le attraversò la schiena: era come se la gabbia finalmente si aprisse, concedendole di essere di nuovo libera, di poter camminare, respirare, di essere Laura Hevans.
Accolse con piacere l’aria fredda mista a pioggia che le sferzò il viso non appena uscì di casa. L’impatto con il freddo di inizio marzo fu incredibilmente doloroso, ma in qualche modo la fece sentire viva come mai era stata.
“E io sto andando a morire… proprio adesso.”
Disse quella frase a voce alta, nonostante il rombo del temporale rendesse inutile ogni suono che usciva dalla sua bocca, come per farsi coraggio. Come a consolidare quella decisione così importante che aveva preso da sola, senza che nessuno le levasse la sua libertà di scelta.
Ma se da una parte si sentì in qualche modo meglio, dall’altra un forte brivido le percorse tutto il corpo. Cercò di ignorarlo, ma capì benissimo che non si trattava del freddo pungente.
Aveva appena detto che andava a morire, che la sua vita sarebbe terminata in breve tempo.
Io non…
Ma non si permise di continuare quel pensiero.
Aveva preso quella decisione e doveva portarla avanti.
 
Il fiume scorreva a mezzo chilometro dalla fine del paese, il suo rombo violento che si sentiva anche a grandissima distanza, quasi a fare da richiamo. Con tutta la pioggia delle ultime settimane era diventato talmente pericoloso che alcuni iniziavano a parlare di possibile piena.
Laura avanzava verso quel rumore, guidata solo dalla lieve luce provocata dai costanti lampi e dal rumore di quelle acque che scorrevano impietose. Si sentiva più debole mano a mano che avanzava, come se stare in casa per tutto quel tempo le avesse risucchiato tutte le energie. Ogni passo in quel sentiero fangoso era una sofferenza, quasi la terra la trattenesse con cento invisibili mani, ed il vento le soffiava contro sbattendole pioggia e detriti sul viso e sul corpo, assai poco protetto da quegli indumenti leggeri.
Ti prego… ti prego… ma non c’era un pontile?
Il freddo era tale che i suoi pensieri erano diventati incoerenti: l’unica cosa che continuava a rimbombarle nella testa era di concludere quello che aveva iniziato. Di liberarsi di quelle nozze forzate e di quella gabbia tremenda che era diventata la sua vita. Trovare quel pontile era diventata la soluzione a tutti i suoi problemi.
Un nuovo lampo particolarmente forte illuminò a giorno il paesaggio, rendendo finalmente visibile la struttura in legno, dove le onde dell’acqua si abbattevano con forza.
Solo una ventina di passi, coraggio… però la corrente è così forte.
“E’ questo che vuoi…”
Ho paura… ho paura… paura! Perché l’acqua fa questo rumore così tremendo?
“E’ solo un attimo, sarà rapido… finirà tutto, tutto quanto!
“Laura!”
Fu quasi il miraggio di una voce, ma riuscì a penetrare attraverso la mente febbricitante della ragazza, superando persino il rombo del temporale e del fiume.
Suo fratello la stava cercando. Possibile che si fosse accorto della sua fuga?
Certo che è qui. Lui viene sempre a salvarmi…
Ma non adesso, pazza! O sarà tutto vano!
“Laura!”
“Coraggio…” i suoi occhi erano vitrei, quasi argentei per la febbre, mentre percorreva il breve spazio che la separava da quel pontile invaso dalle acque. Il fiume avrebbe fatto il resto, avrebbe fatto quello che nessun altro era in grado di fare: liberarla.
Il suo piede destro tocco il legno umido della prima trave ed un lieve senso di scivolata la rese insicura. Inconsapevolmente si strinse le mani al ventre, per proteggersi da quegli schizzi gelidi che ormai arrivavano fino a lei.
Tum tum!
I suoi occhi grigi si dilatarono ancora di più.
Qualcosa si stava… muovendo dentro di lei.
Le dita della sua mano destra premettero ancora di più, andando ad insinuarsi dentro la veste da notte, cercando un contatto più diretto con il ventre.
Niente.
Eppure… eppure c’era stato, ne era sicura. Era stato come il battito del cuore, ma qualcosa si era mosso dentro di lei.
Dentro di me c’è un bambino.
Suo figlio. Era la prima volta che pensava quella parola: figlio.
Perché lei l’aveva sentito sempre come la causa di tutti i suoi guai, come il problema che le avrebbe distrutto la vita. Ma era un bambino talmente minuscolo che appena si sentiva, appena faceva percepire la sua presenza con quella pancia che iniziava a crescere.
Ed era suo! Suo e di nessun altro. Era dentro di lei e chiedeva di essere protetto e amato.
Come ho…
Fece un passo indietro, poi un altro… quel pontile e quel fiume che le sembravano la cosa più tremenda del mondo, non più promessa di libertà, ma solo di morte. Perché suicidio vuol dire morte… per lei ed il bambino innocente nel suo grembo.
Cadde in ginocchio in mezzo a tutto quel fango, le sue lacrime che si mischiavano alla pioggia. Stava per uccidere il suo bambino, il suo piccolo e indifeso bambino.
“Non posso! Non posso! – singhiozzò continuando a tenersi stretta la pancia – Cielo… cielo, piccolo mio, perdonami!”
“Laura! Laura, che diamine fai? – la voce di Henry si fece più vicina e nell’arco di due secondi le sue braccia la strinsero con forza – Che ti salta in mente?”
Si lasciò andare contro quella giacca fradicia che in qualche modo cercava di proteggerla dalla pioggia, ma le sue mani continuarono a tenere stretto il ventre.
“Non posso! E’ il mio bambino! E’ mio figlio!” singhiozzò disperata, sentendosi per la prima volta madre, ma la madre peggiore del mondo per quello che aveva cercato di fare.
“Sei congelata – il giovane la prese in braccio, incurante del fango che ormai sporcava la maggior parte della sua persona – devi tornare immediatamente a casa.”
“Il mio bambino – adesso che sentiva la presenza di Henry accanto a sé, si lasciò andare, permettendo alla debolezza di avere la meglio – non potevo… non… è mio figlio.”
 
Una pezzuola fresca che le veniva passata sul viso la fece ridestare dal sonno agitato.
Il suo corpo continuava a tremare e, nonostante le coperte, quella sensazione di gelo proprio non voleva andare via. Prendere coscienza era sempre difficile, voleva dire sentirsi male e restare stordita, senza rendersi nemmeno conto del tempo che aveva trascorso a letto.
“Henry…” mormorò, muovendo leggermente la testa.
“Laura – una voce gentile la chiamò – amica mia, come ti senti? Henry è a comprare le medicine, ci sono io con te, non temere.”
“Il mio bimbo!” ansimò, cercando di aprire gli occhi, ma era come sollevare dei macigni. Le sue mani cercarono di andare al ventre ma erano così impigliate tra camicia da notte sudata, lenzuola e coperte che ogni tentativo fu vano.
“Sssh, va tutto bene – la pezza bagnata le venne passata anche sugli occhi – ma hai la febbre altissima, devi stare calma.”
“Andy – una piccola parte di lei riconobbe finalmente il suo interlocutore – il bimbo! Il mio piccolo… il mio… ti prego, dov’è? Dammelo… ridammelo.”
“Il bambino è dentro di te, tranquilla – le coperte vennero mosse e una mano fresca le afferrò il polso, conducendola finalmente al ventre – sta bene, il medico ha detto che non ha risentito della tua influenza. Non devi temere, è al sicuro nel grembo della sua madre.”
“Madre – sospirò la giovane, assaporando per la prima volta quella parola, ma sentendosi incredibilmente in colpa: trovò la forza di aprire gli occhi e di tornare lucida – Andy, come posso chiamarmi madre dopo quello che ho fatto?”
Si girò a guardarlo, cercando conforto in quell’espressione così calma e tranquilla, in quegli occhi castani che le avevano sempre trasmesso serenità e pace. Potevano assolverla? Potevano liberarla dal tremendo peccato di non essersi presa cura del suo bambino fino a quel momento?
“Henry mi ha raccontato quanto è successo – Andrew aspettò qualche secondo prima di parlare – prima di svenire continuavi a chiamare il tuo bambino… da quanto mi è dato di capire tu non hai fatto… quel gesto perché ti sei preoccupata per lui. Laura, che cos’è questo se non essere madre?”
“L’ho messo in pericolo… lo stavo per uccidere! – singhiozzò – e con questa febbre… Andy sto male, tanto! E lui è dentro di me… non sa difendersi!”
“Adesso stai facendo di tutto per difenderlo e proteggerlo ed è questo quello che conta – la fronte del giovane si posò contro la sua, regalandole un sollievo più forte di quel panno bagnato – ora tutto quello che devi fare è pensare al tuo piccolo, quello che è successo prima non importa. Amica mia, te ne rendi conto? Diventerai mamma, terrai un bimbo tra le tue braccia tra nemmeno sette mesi!”
Per la prima volta Laura sorrise. Riuscì a districare le braccia da quelle coperte e le strinse attorno al collo dell’amico, stringendolo il più possibile contro di sé.
Oh, Andy… Andy! Sei sempre stato l’unico… l’unico a capire che questo piccolo non era un problema ma una benedizione.
“Divento mamma, Andy… avrò un bimbo tutto mio.”
“Ci scommetto che avrà i tuoi capelli rossi, follettino!” la baciò in fronte lui.
“Credi che mi amerà, Andy? Credi che sarò una buona madre e non… non sarò come i miei genitori? Ti prego, rispondimi sinceramente… devo saperlo…”
“Sciocchina – il giovane ridacchiò e le accarezzò i capelli sudati, tirandoli indietro – sarai la migliore mamma del mondo per questo bambino, non devi dubitarne.”
“Anche se… – esitò e abbassò lo sguardo – se questo vuol dire… sposare Gregor.”
Un lieve imbarazzo calò tra i due, la gioia di quei momenti che veniva rovinata da tutta la pesante situazione che incombeva sulla ragazza. Rimasero a guardarsi negli occhi, proprio come avevano fatto anni prima, appena finito il liceo, quando tutto anche un primo bacio sembrava un gioco.
Andrew sospirò e poi posò le labbra su quelle dell’amica, in un casto bacio fraterno.
“Essere madre vuol dire anche essere forti, Laura – ammise prendendole la mano e portandosela al cuore – ti posso solo promettere che io ci sarò sempre per te e per il bambino. Anche se può sembrare poco io…”
“Verrai al matrimonio? – chiese lei – Non mi lascerai sola?”
“Ci sarò, amica mia – promise Andrew – e non sai quanto sono fiero di te. Il mio desiderio è che tu possa trovare la tua felicità… non ritenerlo impossibile, ti prego. Non è un sogno ancora spezzato, non davvero… Ellie direbbe che è solo oscurato da un brutto incantesimo, ma sono sicuro che un giorno questa stregoneria si spezzerà e tornerà la felicità che meriti.”
“Voglio crederlo, voglio… oddio, Andy, è così difficile.”
“Ma non impossibile… del resto ora hai anche un grande aiuto in più, no?” posò una mano sul punto delle coperte dove stava il ventre di Laura e la fissò con aria significativa.
Lei sorrise ed annuì.
Fino a quel momento non si era resa conto che la sua forza più grande stava crescendo dentro di lei.
 
Nella sua giovane vita aveva partecipato diverse volte a dei matrimoni, restando elettrizzata dal clima di eccitazione che aleggiava per tutto il giorno. E se c’era una cosa che aveva sempre adorato era l’avanzare della sposa a braccetto del padre: un incedere così felice e regale, con tutta l’attenzione focalizzata su di lei e sul bellissimo vestito bianco che indossava… così puro e bello, risaltante in quell’arcobaleno di colori dato dai fiori e dagli abiti di festa.
Quasi sempre nei giorni successivi a quegli eventi, lei e le sue amiche giocavano al matrimonio.
Giocare al matrimonio era immaginarsi di camminare in mezzo a tutte le persone, essere protagonista… in quelle cerimonie legate all’infanzia raramente c’era un marito a cui dire sì: c’era sempre un'altra amichetta che faceva da spalla, ma giusto perché a sposarsi si doveva essere in due. Ma era la sposa quella che contava, quella che tutte volevano fare.
Laura ripensò a queste cose mentre lanciava l’ennesima occhiata a quella scarna sala di rappresentanza del municipio: dov’erano i bei fiori, i nastri colorati? Dov’erano tutti i suoi parenti ed amici? Dov’era il clima di festa?
Dov’è il vestito bianco?
Abbassò gli occhi sul semplice vestito grigio chiaro che indossava, forse il più modesto del suo guardaroba. Ma era anche l’unico che non si stringeva troppo in vita, tanto che doveva usare una cinta di velluto come accessorio per sistemarlo un minimo. Non era il vestito bianco che aveva sempre sognato, decorato con ricami a forma di rosa, con un velo di trina a incorniciarle i capelli rossi raccolti in un elegante acconciatura.
Le sue mani, tenute congiunte davanti, sfioravano la gonna in un gesto imbarazzato: in genere la sposa aveva un mazzo di fiori freschi, ma non era così per lei.
Perché per Laura Hevans non c’era un matrimonio felice come per le altre spose.
Mentre il sindaco, dall’altra parte del tavolo, borbottava cercando di sistemare i documenti per poter iniziare quella breve cerimonia, la giovane alzò gli occhi davanti a sé e scrutò quello che tra qualche minuto sarebbe diventato suo marito.
Era la prima volta che lo rivedeva dopo quella disgraziata notte: adesso il suo viso non era più illuminato dalla luce soffusa delle torce, ma dalla luce del giorno che penetrava dalle grandi finestre.
Non avevi un’espressione così dura quella notte…
Era bello? No, non lo era. Per Laura bello era Marco, con i suoi capelli neri e la sua semplicità, era bello Andrew, con il suo viso dolce e tranquillo, la sua voce pacata, quella maturità che a lei era sempre mancata. Gregor era… un uomo. Poteva avere un suo fascino se avesse sorriso come aveva fatto quella notte, ma la sua espressione in quel momento era solo profondamente seccata, come se gli avessero appena ordinato di fare qualcosa di sgradito. Teneva le braccia conserte, qualche volta si passava la mano sugli arruffati capelli castani. Anche lui non vestiva niente di elegante: semplici abiti da lavoro, ma almeno puliti.
Ti prego, guardami… dobbiamo iniziare qualcosa insieme, non credi? Se non per me per il bimbo.
Ma non si erano rivolti nemmeno una parola da quando si erano visti, solo un unico sguardo imbarazzato. E anche se avessero voluto, la presenza delle altre persone impediva qualsiasi forma di dialogo.
“Stai bene?”
Henry, come sempre accanto a lei, la prese per un braccio e le lanciò un’occhiata interrogativa. Nemmeno lui aveva cercato un’apparenza di serenità quel giorno: si era assunto il compito di accompagnarla dallo sposo, nonostante poi la maggior parte dei documenti li avesse dovuti firmare suo padre. Ma era solo un dovere, si capiva: non vedeva l’ora che tutto questo finisse… perché in fondo non è per niente bello assistere alla cerimonia della propria sconfitta come fratello maggiore. O almeno la vedeva in questo modo.
Anche se era stata delirante per la febbre per quasi una settimana, Laura aveva recepito il profondo cambiamento che era avvenuto in suo fratello. Prima Henry aveva qualche speranza di salvarla da quel matrimonio, ma nessuno dei suoi piani era andato a buon fine. Questo gli doveva pesare tantissimo, se c’era una cosa che detestava era quando le cose non andavano come voleva lui.
“Tutto bene, tranquillo…” mormorò con un accenno di sorriso.
Certo sarebbe andato meglio se qualcuno le avesse dato un minimo di serenità… ma in quella sala erano presenti solo i suoi genitori, Henry, Gregor ed uno dei suoi colleghi a fare da testimone, ed il sindaco. Decisamente nessuno di loro era dell’umore giusto e questo le fece una grande tristezza.
Era come se le stessero distruggendo uno dei più bei sogni dell’infanzia, spogliando quella cerimonia di tutte le belle cose che aveva sempre desiderato.
Possibile che non meritasse niente di tutto questo? Nemmeno un sorriso, un augurio…
Lo so… lo so che è stupido anche solo pensarci. Ma perché non vi sforzate… per favore. Mi sto sposando, deve esserci almeno qualcosa di bello… solo qualcosa, non chiedo molto.
Ci fu un lieve bussare e poi la porta di elegante legno scuro si aprì per far entrare Andrew e la sua famiglia.
“Perdonate il ritardo.” disse il notaio con un gesto di scusa.
“Signor Fury, non dovevate prendervi tanto disturbo…” disse Elias, quasi imbarazzato da quegli ospiti a sorpresa.
“Nessun disturbo, assolutamente – scosse il capo l’uomo – Vieni cara, siediti qui.”
Mentre i due coniugi si accomodavano, Andrew si fece avanti e prese le mani di Laura tra le sue.
“Scusa il ritardo – sorrise – sei una sposa bellissima, te l’hanno detto?”
Lei scosse il capo con un sorriso, cercando di trattenere le lacrime.
No, nessuno gliel’aveva detto, nemmeno Henry… e sentirlo la fece sentire così bene, per un attimo quel matrimonio sembrò avere qualcosa di giusto, qualcosa da poter ricordare con gioia. Davvero era bella? Anche con i capelli rossi raccolti dietro la nuca in una semplice pettinatura? Anche con quell’abito grigio e modesto, senza nessun velo o gioiello?
Sono una sposa, Andy. Davvero sono bella?
Fu solo per cinque secondi.
Henry fece un cenno con la testa ed invitò Andrew ad allontanarsi: era chiaro che il soldato non vedeva l’ora che tutto questo finisse e sicuramente stava disapprovando qualsiasi gesto cercasse di dare colore a quella cerimonia. Con uno sguardo di scusa verso l’amica, il giovane Fury fece qualche passo indietro, per poi andare a raggiungere i genitori.
“Bene, direi che possiamo iniziare – disse il sindaco, schiarendosi la gola – se volete firmare questo registro in quanto testimoni, poi procedo con la lettura dei diritti e doveri degli sposi.”
Laura trasse un profondo respiro mentre quell’ultimo atto legale prima della cerimonia venisse compiuto.
Ancora una decina di minuti e tutto finirà.
Non era questo il matrimonio che si era immaginata, non era quel rumore di penna che scriveva nervosa quello che avrebbe voluto sentire: l’odore d’inchiostro era pungente e le dava fastidio.
“E’ importante!” una voce soffocata la fece girare verso la porta.
Una delle ante si socchiuse, facendo entrare Ellie, il viso rosso ed imbarazzato. Dietro di lei l’assistente del sindaco che cercava di fermarla.
“Signorina, dovresti essere a scuola e…”
“Si sta sposando la mia amica – protestò Ellie, facendo un passo di lato per sottrarsi alla presa dell’anziano uomo – devo esserci.”
“Scusate, signor sindaco – sospirò l’uomo – adesso andiamo via e…”
“Ellie – Andrew raggiunse i due litiganti – che cosa ci fai qui?”
“E me lo chiedi? – la ragazzina lo fissò con aria incredula, la sua voce che spezzava il silenzio prepotente di quella stanza. La sua tracolla scolastica le pendeva di fianco e tra le mani teneva un grosso mazzo di bucaneve – Sono qui per Laura, ovvio.”
“Ragazzina prepotente…” Laura sentì Henry sbuffare quella frase.
“Ellie – Andrew, più imbarazzato che mai cercava di porre rimedio a quell’imprevisto – non ne avevamo già parlato? Da brava, aspetta fuori e…”
“Sono per me?” Laura fece quella domanda con voce rotta, sentendosi incredibilmente commossa.
“Ovvio che sono per te – Ellie interpretò quella frase come l’autorizzazione a stare e si diresse con passo sicuro verso la sposa, proprio come una damigella d’onore – li ho raccolti proprio stamane, sapessi che fatica per trovarli in mezzo a tutta la neve di questi giorni. Ma ero sicura che c’erano.”
Mentre avanzava nel pavimento di legno, Laura notò come il cappotto rosa fosse sporco di neve e fango nell’orlo e nelle maniche; anche gli stivaletti e le calze che sporgevano da essi non avevano avuto migliore fortuna. Era chiaro che per prendere quei fiori la ragazzina si era avventurata in mezzo ai campi incolti.
I bucaneve erano una ventina, bianchi per la maggior parte, ma con alcuni cenni di lillà che spuntavano delicati in quella massa disordinata.
Con un timido sorriso Ellie le porse quell’insolito bouquet tenuto insieme da un fazzoletto bianco ricamato tenuto stretto da… un nastro per capelli.
“Scusa, sono ancora un po’ bagnati – ammise – ho cercato di asciugarli, ma proprio non ne vogliono sapere. Con tutta quella rugiada… oh, però sono proprio perfetti sai? I bucaneve parlano di nuovo inizio e di speranza…”
“Grazie, Ellie – Laura prese quel mazzo di fragili fiori e lo strinse al petto, incurante di bagnarsi il vestito. Incluse nella stretta anche la ragazzina, forse l’unica vera amica che le era rimasta. Perché solo lei era venuta a quella cerimonia, incurante di tutto e tutti, portandole i fiori… quei fiori che una sposa deve avere, ma a cui nessuno aveva pensato – grazie… grazie…”
“Possiamo iniziare adesso? – chiese Henry con voce leggermente irritata – O ci sono altre persone che devono fare il loro ingresso?”
A quel punto Ellie lanciò un’occhiata di sfida al giovane soldato e diede un bacio sulle labbra di Laura, come era tradizione tra sposa e damigella d’onore. Poi, asciugandosi le mani sul cappotto ormai imbrattato, fece un passo indietro e raggiunse Andrew e la sua famiglia.
 
Quando aveva dieci anni e giocava al matrimonio Laura non faceva altro che pensare a quanto sarebbe stato bello il suo vestito e a quanto sarebbe stata grandiosa la sala addobbata, la gente vestita bene, l’atmosfera di festa. Nella sua mente ingenua non faceva altro che dirsi che avrebbe sempre ricordato ogni minimo dettaglio di quel giorno così speciale… e cosa importava se non sapeva ancora chi era lo sposo? In ogni caso sarebbe stata una cosa meravigliosa, come solo il proprio matrimonio poteva esserlo.
La realtà aveva spezzato quel sogno dell’infanzia femminile, quel momento per il quale si era esercitata tante volte nei giochi con le amiche, dove un grembiule bianco era in realtà l’abito da sposa più bello.
Col passare dei giorni e dei mesi, Laura si sarebbe accorta che di quella mezz’ora passata in municipio non si ricordava più niente. Né le parole del sindaco, né come erano vestiti i presenti, né chi disse cosa, anche se probabilmente ci furono poche ed imbarazzate parole.
Solo due cose rimasero impresse nella sua memoria, custodite gelosamente come il più prezioso dei tesori: il complimento che le aveva fatto Andrew, ed il bouquet di bucaneve portato da Ellie e dato con quel bacio così imbarazzato e timido.
Erano i gesti che le avevano restituito il suo sogno d’infanzia quando tutto il resto del mondo lo stava distruggendo senza pietà.




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sono lieta di annunciarvi che sono stati aggiunti dei disegni di Mary.
Due riguardano lo spin off dei Falman:
abbiamo un piccolo Vato pronto a traslocare assieme al suo inseparabile Lollo http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2725367
e poi sempre Vato che assieme al suo amico orso studia il fenomeno dei temporali http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2768672&i=1
Per quanto riguarda invece la fic in atto, direttamente dal capitolo 9 abbiamo una raggiante Ellie che ringrazia Andrew per averla liberata dalla sua punizione http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2813475

Andate a vederli perché sono splendidi *-*

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20. 1882. Legami rinsaldati. ***


Capitolo XX

1882. Legami rinsaldati.

 

“Ti prego! – Ellie congiunse le mani in segno di preghiera – Solo un’altra volta, ti giuro che è l’ultima.”
“Ellie – Andrew alzò gli occhi al cielo, sebbene una parte di lui si sentisse estremamente compiaciuta – l’hai detto anche cinque minuti fa.”
“Questa è davvero l’ultima, promesso.”
“E va bene – si arrese, schiarendosi la voce – Andrew Fury siamo lieti di insignirti del titolo di ingegnere con il massimo dei voti e menzione speciale da parte di tutto il corpo docente, per i risultati conseguiti…”
“… durante il percorso di studi! – Ellie terminò con un’esclamazione gioiosa e gli strinse le braccia al collo, baciandolo più volte sulla guancia – Oh, Andrew, solo tu potevi essere il migliore, lo sapevo. Non hai idea di quanto avrei voluto essere presente per applaudirti!”
“Sì, però adesso basta, va bene? – le strizzò l’occhio lui, cingendole la vita con un braccio e attirandola a sé – godiamoci finalmente quest’estate, meraviglia. Io ho finito l’università e tu la quarta superiore: ci meritiamo un po’ di vacanza visti i risultati conseguiti, no?”
“Hai proprio ragione – Ellie ridacchiò mentre si lasciavano cadere sdraiati in quel prato incolto, saziandosi del sole di fine giugno – ancora un altro anno scolastico e finalmente termino pure io. Ma pensiamo a te, che cosa farai adesso?”
“Quest’estate proprio niente: voglio godermi le mie meritate vacanze. E poi… beh, ovviamente sono tutti molto orgogliosi di avere un ingegnere in paese.”
“E chi non lo sarebbe? – la ragazza si accoccolò a lui – Sei unico, Andrew.”
“Credo che se presenterò progetti al sindaco non ci saranno molti problemi… certo, prima devo pensarci davvero bene: non posso andare da lui e dal consiglio e pretendere chissà quali lavori. Diciamo che dovrò iniziare con calma e pazienza.”
“Secondo me potresti pretendere già di più, insomma con tutti i complimenti che ti hanno fatto all’Università.”
“La teoria non è la pratica, mia cara – le ricordò guardandola con lieve divertimento – non forziamo le cose, proprio come facciamo per noi. Non lo trovi giusto?”
“Lo so, ho sedici anni e ne devono ancora passare due – sospirò lei – però lo sai che ti amo?”
“Come può amare una sedicenne.”
“A quindici anni non ti avrei mai dato baci sulla guancia con tale disinvoltura – quasi a conferma gliene diede un altro, ma poi perse l’aria spavalda e posò la testa sul suo petto – Andrew… a diciassette anni ce lo potremmo dare un bacio da grandi? Penso che per quell’età sarò pronta, non credi?”
“Non è l’età anagrafica quella che conta, suvvia.”
Ellie arricciò il naso con lieve irritazione, ma non replicò.
Andrew apprezzò quella decisione, anche perché intuiva che probabilmente quell’estate il corpo di Ellie avrebbe dato una svolta abbastanza importante. Il giovane per la prima volta si stava accorgendo di osservare con interesse i cambiamenti che stavano avvenendo nella sua fidanzata ed era quasi sicuro di vedere giorno dopo giorno una crescita sensibile. Insomma la crisalide stava diventando farfalla, come era giusto alla sua età, e prometteva di diventare davvero splendida.
Diciassette anni per un bacio? Non potrebbe essere una cattiva idea, Ellie.
Era passato quasi un anno da quando lei gli aveva dato quel timido bacio pensando che dormisse. Abbassando gli occhi su quel viso rilassato sul suo petto, Andrew si soffermò ad osservare quelle labbra rosate e morbide: avevano ancora lo stesso sapore di miele?
Smettila, non pensarci… altrimenti quest’altro anno non passerà mai.
Rimasero in silenzio per qualche minuto a sentire il frinire delle cicale, godendosi quegli attimi di pace e serenità. All’improvviso il giovane si ricordò di un annuncio importante che doveva fare.
“Ah la settimana prossima festeggiamo ufficialmente la mia laurea a casa con un pranzo: tu ed i tuoi genitori siete invitati, ovviamente. Niente di particolare, siamo solo noi sei e qualche altro parente.”
“Davvero? Oh, che meraviglia! Certo che ci saremo… uh, ma che c’è?”
Andrew aveva messo le mani dietro la testa e fissava il cielo con aria pensosa. Ellie si mise seduta e lo fissò con attenzione, cercando di capire cosa ci fosse di sbagliato nella notizia che le aveva appena dato. E fu rapida ad arrivare alla soluzione.
“Lui non credi che verrà, vero?” chiese, aggrottando lievemente le sopracciglia.
“Non è stato nemmeno il caso di pensarci, Ellie – sospirò Andrew – e poi non… deve pensare a Laura del resto: il momento del parto si avvicina ed è ovvio che le voglia stare vicino. Se c’è una cosa della mia laurea che apprezzo è che almeno le voci su di lei sono diminuite un pochino per spostarsi su di me.”
“Secondo me ti sta trattando male ingiustamente – la ragazzina non ce la fece a trattenere il commento, memore di quella conversazione che non avrebbe mai rivelato a nessuno ma che le avrebbe bruciato dentro l’anima per sempre – non hai nessuna colpa di quanto è successo. E poi si tratta della tua laurea, non succede tutti i giorni: un vero amico non può mancare ad un simile avvenimento. Laura sono sicura che verrebbe, se potesse.”
Andrew scosse il capo davanti a quelle parole irate e riprese a guardare il cielo.
Il rapporto tra lui ed Henry si era davvero raffreddato dopo il matrimonio di Laura.
Apparentemente non era successo niente di grave, ma il giovane Fury era convinto che il casus belli erano stati quei gesti così fuori luogo da parte sua e di Ellie. Detestava ammetterlo, ma Henry non era perfetto: se aveva deciso che in quel momento tutti dovevano essere scontenti allora così doveva andare. Non si era reso conto che in quel momento a Laura serviva più che mai sentirsi amata e felice.
Ma quella era solo la punta di qualcosa che aveva radici più profondi e che coinvolgevano anche Ellie.
Lo so bene, avrebbe sempre voluto vedere me e Laura come coppia… e se prima era un desiderio poi è diventato una necessità con la storia del bambino. Ma io non ho fermato e modificato la mia vita per lei, non così radicalmente come Henry si aspettava da me. Devo essergli sembrato una recluta di cui si va particolarmente fieri che all’improvviso si ribella all’ordine.
Questo era tradire un’amicizia? Spesso se lo chiedeva, ma non se la sentiva di dare una risposta definitiva. Poteva essere certo motivo di delusione, ma per un’amicizia non si potevano snaturare in modo così definitivo i propri sentimenti. Pure Laura la pensava nel medesimo modo.
Diciamo che le gerarchie sono crollate… o è più giusto dire che ormai ciascuno di noi è abbastanza grande per far valere le proprie scelte. Anche se non avrei mai voluto un tipo di crescita del genere, non con simili conseguenze e…
“Ciao!”
Quel richiamo di Ellie quasi lo fece sobbalzare: alzando lo sguardo vide che il viso di lei si trovava a pochi centimetri da suo, solo che…
“Quando ti sei messa alle mie spalle?” chiese, trovando assai strano parlare con quella faccia rovesciata.
“Vediamo… più o meno tra il sesto ed il settimo sospiro malinconico che hai emesso – lo prese in giro lei, con la chiara intenzione di non cambiare quella posizione – uh… aspetta! Un peletto di barba sul mento! Andrew! Da quando ti cresce la barba?”
“Che? – Andrew arrossì violentemente e si portò una mano alla parte interessata – Ellie, ma che dici?”
“Aspetta, aspetta! – lei scostò con decisione la mano – ecco, proprio qui!”
“Ahia! Non tirare! Mi è semplicemente sfuggito… e comunque, per tua informazione, io mi faccio la barba da ormai tre anni buoni…! Il fatto che mi rasi non vuol dire che non mi cresca, sai!”
“Scusa! – ridacchiò lei – Oh, però fai attenzione, mi raccomando… a me piaci così, la barba mi da fastidio. Quando papà ogni tanto se la lascia crescere mi pizzica ogni volta che lo bacio sulla guancia. Se tu te la fai crescere non potrò più baciarti.”
“Sul serio?” lui spostò la mano in modo da afferrarle la nuca ed indurla ad avvicinarsi, i loro nasi che si sfioravano.
“Ecco… forse… oh, dai, c’è sempre la fronte!”
Davanti a quella soluzione così originale Andrew scoppiò a ridere. Guardò con amore quegli occhi scuri così gai e sorridenti, capendo perfettamente che l’intento della ragazza era stato raggiunto.
“Ma chi sei tu, piccola fata? – chiese con voce sommessa – Ogni volta arrivi a consolarmi, e mi ricordi che il mondo è bello… solo perché ci sei tu.”
Ellie sorrise enigmaticamente ma non rispose: posò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi.
Andrew la imitò, lasciando che la pace tornasse a farla da padrone assieme al canto delle cicale.
 
“Forza, ti prego – ansimò Laura, sventolandosi il canovaccio davanti al viso – finisci di cuocere, dannato!”
L’orologio sembrava andare deliberatamente lento per non far passare quei venti minuti di cottura previsti, costringendo la giovane a stare in una cucina al dir poco rovente, considerato anche il caldo di fine giugno. Ed il fatto di avere un pancione in continua crescita non aiutava, tutt’altro.
Ad un certo punto proprio non ce la fece e nonostante mancassero ancora due minuti spense il forno e lo aprì con cautela, scostandosi quando un’ondata di aria calda la investì.
“Bruciato? – si sorprese, aprendo meglio e vedendo gli inequivocabili segni neri sulla pietanza – come hai fatto a bruciarti se sei rimasto in forno anche meno del previsto! Cavolo!”
Con disgusto recuperò quello che doveva essere un arrosto e lo mise sul tavolo. Era incredibile, ma era riuscito a bruciare all’esterno e restare freddo all’interno, in barba a qualsiasi legge fisica.
O buonsenso culinario…
Si sedette sconsolata al tavolo, notando con rassegnazione la cucina ridotta ad un disastro per questa sua nuova sperimentazione. Forse, come le aveva sempre detto Andrew, era meglio che si dedicasse a pietanze più semplici.
Certo che poi non poter nemmeno chiedere a tua madre perché non ti rivolge più la parola da mesi…
“Non essere negativa, suvvia – cercò di consolarsi – forse hai preteso troppo con la storia del ripieno: la prossima volta lo fai normale e magari esce meglio e…”
Si interruppe sentendo la porta della cucina aprirsi.
Gregor entrò e si guardò attorno con aria profondamente imbarazzata.
“Sto uscendo, volevo avvisarti…” disse.
“Ah, non resti a pranzo? – chiese lei con una lieve delusione – Ho preparato… uh… ecco, sarebbe…”
“… arrosto?”
“In teoria – ammise, rendendosi conto che quella cosa non era certo il massimo della presentabilità – se vuoi posso provare a preparare qualcos’altro… non so, io…”
“Non ti disturbare, ci vediamo stasera.”
“Va bene.”
Si scambiarono un’altra occhiata imbarazzata e poi lui uscì dalla cucina senza dire niente: nemmeno venti secondi dopo si sentì il rumore della porta di casa che si chiudeva.
“Tutta colpa tua…” sbottò Laura, rivolgendosi all’arrosto dentro la teglia.
Ma poi con un sospiro si lasciò cadere nella sedia e rifletté sul fatto che quello non era che l’ennesimo tentativo andato a male di essere una brava moglie, o almeno una casalinga decente.
Badare ad una casa propria, sebbene più piccola rispetto a quella dei suoi genitori, non era per niente facile. E non era solo per via del pancione, Laura non faticava ad ammetterlo: semplicemente nelle faccende domestiche non si era mai applicata con serietà e trovarsi all’improvviso con tante cose da gestire la faceva letteralmente uscire fuori di testa. Forse negli anni passati avrebbe fatto meglio a prestare maggior attenzione a quello che le insegnava sua madre.
“Beh, a te andrà meglio – sospirò accarezzandosi il pancione e rivolgendosi al piccolo – per i primi mesi avrai il latte e poi la mamma spera di migliorare in cucina in tempo per non avvelenarti.”
Stiracchiò la schiena come un gatto e chiuse gli occhi: pensare al piccolo in arrivo la faceva sempre sentire meglio. Ormai scalciava molto spesso e tutto procedeva per il meglio: le nausee e la paura dei primi mesi erano solo un brutto ricordo, così come quel terribile tentativo di suicidio che aveva messo a repentaglio anche la vita del futuro nascituro.
“Ehi, follettino, sono arrivato!”
“Uh – a quel richiamo dall’ingresso, Laura aprì gli occhi e si alzò con sorpresa – ciao, Henry! Sono in cucina, vieni! E non fare caso al disastro, mi raccomando.”
“Uao! – esclamò il soldato entrando e guardandosi attorno – la grande generalessa Laura Hevans ha combattuto la più aspra delle sue battaglie a quanto pare.”
“Sì, ma con una grande sconfitta… a meno che non ti piaccia il contrasto bruciato – gelato. Oh, dai accomodati: preparo una frittata in cinque minuti, almeno con quella me la cavo.”
“Faccio io, sorellina – la precedette il giovane, andando a dare una carezza al pancione – mio nipote ha l’aria di diventare ogni giorno più pesante.”
Con un sorriso Laura accolse quella proposta, anche se una piccola parte di lei si rendeva conto che se le cose andavano avanti così non avrebbe mai acquistato la giusta indipendenza in cucina. Però a quel punto della gravidanza era davvero comodo che qualcuno la coccolasse in quel modo.
Henry era diventato come il più premuroso dei padri. Finalmente era riuscito a superare il periodo di delusione immediatamente successivo il matrimonio e aveva iniziato ad apprezzare l’idea di diventare presto zio.
Anche se, davvero, pare lui il padre e non Gregor.
Già Gregor… non si poteva dire che le cose andassero a gonfie vele tra di loro: piuttosto che di marito e moglie era corretto parlare di sconosciuti sotto lo stesso tetto. Ed era davvero difficile andare oltre questo rapporto di educata ed imbarazzata convivenza.
“Ovviamente per te ci aggiungo anche il formaggio – commentò Henry – lo so che ti piace così.”
“Uh, sì grazie.”
“Eh, se non ci fossi io a prendere in mano la situazione che cosa faresti, follettino?”
“Mangerei cose bollenti fuori e gelate dentro – scherzò Laura – è chiaro, no?”
Prendere in mano la situazione…?
Beh, effettivamente la casa aveva anche un terzo inquilino, anche se ufficialmente abitava ancora con i suoi genitori. Ma era vero che Henry stava più con lei che con gli altri: se non arrivava la mattina, era comunque presente a pranzo e restava per tutto il pomeriggio. Provvedeva a tutto lui: spesa, commissioni, si stava persino preoccupando di montare la culla per il bambino assieme al resto della cameretta.
Oggettivamente perché mi sono sposata? Saremo potuti andare a vivere assieme noi due fratelli e tutto sarebbe stato perfetto…
Era un pensiero assurdo, ma Laura iniziava a pensare che la presenza di Gregor non fosse davvero necessaria. Non condividevano nemmeno la stessa stanza: Henry aveva preteso che lei dormisse da sola considerata la gravidanza. Un ordine a cui Gregor non aveva osato disobbedire.
A conti fatti Gregor sembra solo un inquilino che non rientra nelle simpatie del padrone di casa.
Ma era anche vero che prima o poi il congedo di Henry sarebbe finito e centinaia di chilometri avrebbero ripreso a dividerli. E a quel punto sarebbe rimasto solo quello che in teoria era il marito.
Ed Andrew, come posso dimenticarmi di lui?
Quel pensiero le fece spostare automaticamente gli occhi sul fratello.
“Ieri è passato Andy, sai?”
“Ah sì? – la voce di lui era atona, come c’era da aspettarsi – e che dice?”
“Mi ha voluto far vedere la sua pergamena di laurea – ammise la donna, abbassando lo sguardo, sapendo bene che ormai Henry non rivolgeva la parola all’amico da almeno due mesi – ed era così felice. E’ stato il migliore, sai.”
“Ovvio che è stato il migliore: quei libri erano la sua vita ormai.”
“Ha semplicemente dato il massimo… come è da lui.”
“Beh, sapevamo che sarebbe stato il migliore ed ora è diventato ingegnere. Tra poco potrà giocare a costruire. Prepara due piatti, sorellina, qui è praticamente pronto.”
Laura sospirò provvedendo ad apparecchiare: sapeva che Henry stava cercando di glissare l’argomento. Ma era stanca di vedere il trio così distaccato: era ora che suo fratello scendesse da quel piedistallo di orgoglio ferito che si era costruito.
“La settimana prossima farà un pranzo per festeggiare. Credo che volesse invitare anche te…”
“Ho altro a cui pensare, non credi? – Henry scrollò le spalle mentre divideva la frittata in due parti e la metteva nei piatti – Se lui pensa di essere utile passando ogni tanto, giusto per vantarsi della sua laurea.”
“Andrew passa ogni sera.” Laura scosse il capo e fissò con aria d’accusa il fratello.
“Davvero? – se ci fu incredulità durò solo un attimo – Non ci siamo mai incontrati.”
“Perché passa sempre quando sa che tu non ci sei, ossia dopo cena.”
“Nessuno gli proibisce di venire quando ci sono io.”
“Oh Henry – la giovane si alzò e andò ad abbracciare il fratello, con tutte le difficoltà provocate dal pancione – ma perché lo devi trattare così? E’ Andy! Il tuo miglior amico… non merita tutto questo. Da quando mi sono sposata le poche volte che ci hai parlato sei stato gelido e sai come è fatto: ci è rimasto malissimo.”
“Non mi pare un discorso da affrontare.”
“A me sì, invece. Eravamo sempre uniti, Hen… perché vuoi distruggere anche questo? Per quella storia che ha preferito Ellie a me? Sai bene che gliel’avrei impedito io di sposarmi, quindi non mi pare…”
“Laura, per favore…”
“Per favore tu, Henry. Stai perdendo il tuo miglior amico quando invece dovresti solo ringraziarlo per tutto quello che ha fatto per me… chi oltre a lui è venuto a casa in tutti questi mesi? Quale delle altre persone che si sono sempre definite nostre amiche l’ha fatto?”
“Gli devo dare una laurea anche per questo?”
“Forse dovresti, considerato che non era mica obbligato a farlo… specie per le voci che giravano sulla sua presunta paternità. E’ il nostro migliore amico, Henry, ma ha una sua vita… e se lui riesce a realizzare i suoi sogni, come la laurea in ingegneria, dovremmo essere felicissimi per lui. Io lo sono… e tanto!”
“Non mi pare il caso di piangere – si imbarazzò lui, asciugandole le lacrime con un dito – va bene, follettino, va bene… ho capito. Parlerò con Andrew, contenta?”
“Sul serio?”
“Promesso… però adesso mangia, va bene? Devi pensare anche al piccolo.”
 
Il giorno successivo, dopo cena, Andrew uscì di casa con un grosso pacco in mano: a cena sua madre aveva preparato una delle sue fantastiche torte e ne era avanzata davvero tanta. E, manco a farlo apposta, i suoi gusti e quelli di Laura in fatto di torte coincidevano e dunque anche la sua preferita.
Stava già pregustando la faccia che avrebbe fatto Laura quando si fermò di colpo. Ormai era nei pressi della strada dove si trovava la casa della sua amica e aveva notato una figura che avanzava verso di lui: subito, riconoscendola, si fece da parte.
Gregor Breda proprio non riusciva a piacergli.
L’aveva incontrato per la prima volta al matrimonio, anche se, sicuramente, l’aveva intravisto in qualche altra occasione con il resto degli operai. Adesso che i suoi colleghi erano ormai ripartiti da quanto ne sapeva non lavorava più a nessun cantiere. Aveva chiesto a Laura come si comportava a casa, ma la ragazza non gli aveva saputo rispondere con esaustività.
Da una parte il giovane capiva che da un matrimonio così affrettato non si poteva certo aspettare un grande affiatamento di coppia, ma aveva la spiacevole sensazione che l’uomo non ci mettesse il minimo impegno per creare un dialogo con sua moglie. Almeno per il bene del bambino…
Insomma, se fossi nelle sue condizioni cercherei di… ma perché deve sempre uscire la sera?
Già, era praticamente una costante ed Andrew aveva anche una vaga idea di dove andasse e la cosa non gli piaceva per niente. Effettivamente in quel locale si poteva andare anche solo per bere, ma c’erano anche quelle ragazze e Gregor non gli sembrava un tipo che si faceva molti problemi… del resto non se li era fatti nemmeno con Laura.
Come la robusta figura passò oltre, Andrew sospirò e fece per entrare nel vicolo, ma una mano che gli si posò sulla spalla lo fece sobbalzare, tanto che salvò il pacco della torta solo per miracolo.
“Ehi, non farti venire un infarto, Andrew!”
“Henry? – il giovane sgranò gli occhi nel riconoscere l’amico – Che… che succede?”
“Passo a trovare mia sorella dopo cena, non posso?”
“C… certo che puoi –  Andrew annaspò con difficoltà, cercando di districarsi da quella complicata situazione: il fatto che Henry gli stesse rivolgendo la parola dopo tanto tempo era qualcosa di inaspettato. E che non usasse un tono gelido lo era ancora di più – Anzi, se puoi portale questo… è da parte di mia madre. Io ora devo andare.”
 “Perché non vieni anche tu? Tanto quel buono a nulla di Gregor è uscito di casa.”
“Sì, l’ho visto – annuì Andrew, facendosi serio e dimenticando per qualche secondo il subbuglio di emozioni che gli stava provocando quell’incontro – non credi che…”
“Meglio così, meno sta vicino a Laura meglio è.”
“Però va…”
“Può andare anche all’inferno per quel che mi riguarda – Henry fece un’espressione così irritata che Andrew non osò replicare – meno tempo passa in casa più sono felice. Tanto a lei ci penso io… e anche tu a quanto capisco. Nonostante tu stia giocando all’eroe discreto che passa solo dopo cena.”
“Discreto? Ma no è che passando dopo cena non disturbo e…”
“Sei pietoso come bugiardo, te l’ho sempre detto.” Henry sospirò e gli arruffò i capelli castani.
A quel gesto Andrew rimase interdetto e commosso, gli sembrava una vita che non riceveva una confidenza simile da Henry. Gli venne uno stupido groppo in gola che fu rapido a ricacciare indietro.
“Henry… per qualsiasi cosa abbia fatto…” si arrischiò a dire, non riuscendo più a trattenersi.
“Non mi hai ancora raccontato nulla della laurea – Henry lo interruppe e gli passò un braccio attorno alle spalle – e questo non va bene. Coraggio, andiamo da Laura, ho proprio voglia di sentire che grandi lodi ti hanno fatto i professori di East City.”
“Sul serio?”
“Certo, scemo… e se ogni tanto questo soldato si comporta di idiota non lo fa per colpa tua.”
“Oh Henry, ma tu non sei…”
“Lo sono stato nei tuoi confronti, lo ammetto. Pace fatta?”
“Ovviamente!” Andrew quasi si sovrappose nel dire quella frase. Se non avesse avuto l’impiccio della torta avrebbe anche abbracciato l’amico con entusiasmo. La sensazione di sollievo che provava in quel momento era indescrivibile, era come se un pezzo della sua vita fosse tornato miracolosamente al suo posto
Oggettivamente avrebbe potuto tenere il broncio davanti a quell’improvviso cambiamento di Henry: del resto sapeva benissimo di essere stato nel giusto per tutto quel periodo. Ma se quest’idea gli passò per la mente fu per un secondo così piccolo che nemmeno se ne accorse.
Tutto quello che importava era che il trio fosse di nuovo assieme e affiatato.
 
Quella sera Henry andò via prima del previsto: già era stata un’eccezione che si presentasse dopo cena, ed inoltre preferiva non fare mai troppo tardi per evitare di indisporre i genitori.
“Sono sempre una bomba ad orologeria che va tenuta sotto controllo – ammise con Andrew, mentre si alzava dal divano, in un momento che Laura era in cucina a riporre i piatti sporchi di torta – ma va bene così. Non credo che daranno problemi a Laura: ora che non è più a casa si sono decisamente rilassati… chissà, forse mamma prima o poi si deciderà ad uscire ogni tanto.”
“Questo è un bel sollievo.”
“Ti hanno sempre fatto una gran paura, ammettilo.”
“Sono persone difficili da affrontare, lo sai bene.”
“Domani me la fai vedere la penna che ti ha regalato tuo padre?”
“Certamente! Potresti anche passare a casa – annuì con entusiasmo Andrew – i miei genitori sarebbero davvero felici di rivederti, manchi da tanto ormai…”
“Promesso, passerò.”
“E per la settimana prossima?”
“Verrò, tranquillo. Non potrei mai mancare a quel pranzo – sogghignò il soldato, nel vedere l’ansiosa aspettativa dell’amico. Gli diede un’ultima arruffata di capelli e poi alzò la voce per farsi sentire dalla sorella – Ciao, follettino, io vado. Passo domani a metà mattina.”
“Va bene, a domani!” salutò Laura dalla cucina.
“Resti ancora un po’ con lei?” chiese mentre veniva accompagnato alla porta.
“Sì, ancora un dieci minuti, tanto tra poco andrà a dormire.”
“Ottimo… allora a domani, ingegnere.”
“A domani.”
“Ah, Andrew – Henry si fermò qualche passo fuori dalla porta – vacci piano con il profumo che metti dopo la rasatura. Si sente troppo.”
“Oh, davvero? E’ che stamane come mi facevo la barba ho ecceduto… lascia stare, una storia troppo strana con Ellie e…” si interruppe, accorgendosi di aver detto un nome forse ancora proibito.
“Uh uh – sorrise Henry, inarcando un sopracciglio con malizia – inizia a pensare anche a queste cose… occhio che quella ti spenna prima del matrimonio, ragazzino! Buonanotte!”
“Sp… spenna?” arrossì violentemente, restando imbambolato sulla porta.
Ma il soldato non si girò a dargli spiegazioni, molto probabilmente trovava più divertente lasciarlo di stucco.
Come del resto aveva sempre fatto da quando erano amici.
“Allora – chiese Laura raggiungendolo – pace fatta?”
“Sì, direi di sì…” sospirò Andrew.

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21. 1882. A presto, soldato. ***


Capitolo XXI

1882. A presto, soldato.

 


“Un brindisi al nostro ingegnere Andrew Fury! Che con il suo talento possa migliorare questo piccolo angolo di mondo! Ma tanto siamo sicuri che lo farà!” con una strizzata d’occhio Henry concluse il brindisi e mandò giù un generoso sorso di vino, imitato dalla maggior parte dei presenti nel salone di casa Fury.
Andrew strizzò lievemente gli occhi quando il sapore deciso di quel vino gli pizzicò il palato, ma poi sorrise, sentendosi veramente felice di essere il protagonista di quella festicciola. In genere non gli piaceva molto stare al centro dell’attenzione, ma in quell’occasione tutta speciale era diverso. Vedere la sua famiglia così fiera di lui gli colmava il cuore di gioia: nonostante avesse spezzato una tradizione di tre generazioni vedeva che suo padre era orgoglioso come se fosse diventato il migliore dei notai.
Le chiacchiere ripresero tranquille ed il giovane posò il bicchiere sul tavolino, risedendosi poi nel divano accanto ad Ellie che ancora beveva il suo succo di more. Con un gesto del tutto spontaneo le cinse la vita con un braccio per attirarla a sé, come ormai era solito fare.
“Non far scendere la mano un millimetro di più, Fury!”
Il sibilo di Nicholas Lyod arrivò come l’alito di un fantasma, facendolo rabbrividire.
“Signore – mormorò, mentre Ellie, ignara di quanto era successo, si accoccolava al suo fianco con aria soddisfatta – non sto mica…”
“Non stai ma vorresti – l’uomo lo fissò con occhi furenti – ricorda che è la mia bambina e le devi rispetto.”
“Ovviamente!” mise il broncio il giovane, capendo di avere il consenso a tenere il braccio in quel mondo, ma capendo anche di essere tenuto costantemente d’occhio. Effettivamente gli era sembrato strano che il signor Lyod non gli avesse ancora rivolto qualche frecciatina: evidentemente la presenza di tutte le altre persone lo aveva tenuto a freno, ma appena c’era stata l’occasione non aveva perso tempo.
Ah, Ellie – pensò con un sospiro – che grande prova d’amore sarà avere tuo padre come suocero…
Ma nonostante tutto era felicissimo di vedere come le loro due famiglie fossero molto affiatate tra di loro: in particolare sembrava che Anna ed Agnes avessero diversi argomenti di conversazione considerato che stavano mormorando sin da quando si erano spostati in salotto per il dolce… fu persino sicuro che ad un certo punto sua madre gli lanciasse un’occhiata molto maliziosa.
“E’ una festa magnifica, Andrew – commentò Ellie – non credi?”
“Sì, sta venendo veramente bene – annuì convinto – stasera ne farò ampio resoconto a Laura.”
“Credi che potrò passare a trovarla pure io? Mi farebbe davvero piacere.”
“Io vado dopo cena, lo sai.”
“Però se passi a prendermi e poi mi riaccompagni, magari i miei non fanno problemi…”
“Non lo so, Ellie, effettivamente non è una cosa…”
“Prova a chiederlo – intervenne Henry all’improvviso, sedendosi vicino a loro – a Laura farebbe estremamente piacere ne sono certo.”
La coppia si girò sorpresa verso di lui, non aspettandosi una concessione così tranquilla. Davvero era possibile che Henry, tutto ad un tratto, accettasse Ellie in maniera così definitiva? In particolare la ragazzina lo guardò con lieve ostilità, incredula di un simile cambiamento.
“Ah, Andy – chiamò all’improvviso il notaio – vieni un secondo qui…”
“Arrivo, papà” si alzò subito il giovane, lasciando così i due antagonisti a fronteggiarsi.
Per cinque lunghissimi secondi Ellie resse lo sguardo degli occhi grigi di Henry, ma poi si girò sdegnosamente dall’altra parte.
“Uhm, siamo ancora arrabbiati, vero signorina?” fece il soldato.
“Scusa tanto se non sono del tutto convinta di questo improvviso cambiamento…” replicò lei, per nulla intimidita, forte di essere in una stanza con tante persone adulte pronte a difenderla. Ma soprattutto ormai consapevole che lei aveva il pieno diritto di essere felice assieme ad Andrew.
Non ci fu risposta sprezzante da parte di Henry e questo indusse la ragazzina a guardarlo di sottecchi: si rigirava il bicchiere di vino tra le mani, con un sorriso che sembrava rassegnato.
“Oggi è stata la prima volta che ho avuto occasione di vedere te ed Andrew assieme, in senso vero – spiegò Henry, senza alzare lo sguardo su di lei – nonostante vi abbia visto già altre volte, mi dicevo sempre che con una simile differenza d’età e di maturità era solo uno stupido scherzo che prima o poi sarebbe finito. Era solo questione di tempo prima che Andrew aprisse gli occhi.”
“Mi consideri davvero così poco?” Ellie si girò verso di lui.
“Considerarti poco… forse è il termine corretto. Se Andrew avesse avuto ventiquattro anni e tu venti non mi sarei posto tanti dubbi, ma oggettivamente ti ho sempre visto come una ragazzina, anche se adesso stai crescendo. Però mi dicevo che per l’età che avevi non potevate avere uno scambio di sentimenti sincero, almeno per il mio modo di vedere.”
“Sono sempre stata sincera con Andrew – si difese Ellie – e lui lo sa!”
“Certo che lo sa, l’ha sempre saputo e ha preso la cosa tremendamente sul serio. A posteriori da lui mi dovevo aspettare una cosa simile.”
“Volevi che sposasse Laura, capisco… però…”
“Però solo tu lo rendi davvero felice.”
Henry disse quella frase come se fosse la cosa più ovvia del mondo. In realtà stava ammettendo di aver sbagliato, davanti ad una ragazzina di sedici anni, ma sembrava che una volta levato l’orgoglio restasse solo una persona profondamente comprensiva. Per la prima volta Ellie vide una somiglianza più profonda con Laura, a sottolineare il loro legame di sangue.
“Io lo amo, con tutte le mie forze… e… ed è stato un colpo di fulmine ad appena tredici anni. Per mesi e mesi mi sono detta che… che era solo uno stupido sogno ad occhi aperti, ed anche la mia migliore amica non faceva che rimproverarmi per questa storia – le vennero le lacrime agli occhi nel ricordare tutte le difficoltà che aveva affrontato – però… non potevo rinunciare a lui. Come potevo? Come… se bastava un suo sguardo o un suo sorriso a rendermi felice?”
“Dannazione – sghignazzò Henry, allungando una mano per tirarle una ciocca di capelli – tu ed Andrew vi meritate a vicenda: avete una visione dell’amore maledettamente purista e romantica. Un’affinità di anime, come si suol dire.”
“E non dovrebbe funzionare così nell’amore?” chiese la ragazza perplessa.
“Nell’amore romantico che voi due avete trovato l’uno con l’altra direi di sì. Ma per esperienza, signorina, ti assicuro che è un sentimento che ha tantissime facce e sfumature. Tu ed Andrew avete avuto la fortuna di beccarvene una delle più belle… credo proprio che sarete molto felici nella vostra vita.”
“Anche tua sorella lo sarà.”
“Sei davvero ostinata nelle tue opinioni, vero? – il soldato la guardò con una forma di rispetto del tutto nuova – Dietro quel visino delicato nascondi una forza considerevole, Ellie, te ne rendo atto. Credi davvero che Laura potrà essere felice nonostante tutto?”
“Deve esserlo: tutti meritano la felicità!”
“Laura mi ha detto che scrivi molte favole, scommetto che hanno tutte un bellissimo finale.”
“Sì – arrossì lei – però…”
“Non è così nella realtà, Ellie, non per tutti. Il mio obbiettivo è consentire a Laura di avere una vita almeno tranquilla, tutto qui. E parte di questa tranquillità deriverà dal fatto che tu ed Andrew possiate realizzare il vostro sogno d’amore. Una cosa che in fondo… in fondo mi sono accorto di voler pure io.”
“Davvero?”
“Andrew è sempre stato un fratello per me – annuì Henry – voglio solo che sia felice, gli auguro il meglio dalla vita, sinceramente. E tu sei il meglio che poteva desiderare.”
Ellie arrossì davanti a quelli che in fondo erano complimenti alla sua persona. Avere a che fare con quella versione più aperta di Henry era abbastanza destabilizzante, ma non poteva negare di provare un grande piacere. In fondo aveva sempre desiderato l’approvazione di quel soldato: Andrew lo considerava come un fratello maggiore e non rientrare nelle sue grazie era stata una sensazione davvero sgradevole.
“Eccomi di ritorno – li interruppe Andrew, riprendendo il suo posto accanto ad Ellie – mi sono perso qualcosa?”
“No – scosse il capo Henry – scambiavamo solo qualche chiacchiera.”
“Già – annuì Ellie, prendendo la mano del fidanzato – niente di particolare.”
 
Quella notte Andrew andò a dormire sentendosi felice come ormai non accadeva da tempo.
La festa era stata un vero successo ed una versione più ridotta era stata fatta anche da Laura dopo cena, con la speciale partecipazione di Ellie a cui i genitori avevano concesso quell’uscita notturna. Per il giovane Fury era stata una gioia vedere le due amiche di nuovo assieme: Ellie era veramente emozionata per la prossima nascita del bambino e aveva passato gran parte del tempo a toccare con meraviglia il pancione di Laura, emettendo un gridolino di gioia quando il piccolo aveva scalciato.
E Laura era felice di tutte quelle attenzioni per lei ed il piccolo: sicuramente poter parlare con un’amica era un'iniezione di normalità che le mancava da tanto tempo.
“E’ incredibile – si disse, finendo di infilarsi il pigiama – va tutto bene, non mi pare vero.”
Con un sorriso, sistemandosi il colletto, andò alla scrivania e prese in mano la sua nuova penna. Non si aspettava che suo padre gli facesse un regalo così bello: era davvero pregiata con quella clip argentata ed il tratto pulito e preciso. Dopo tutti quei festeggiamenti in grande stile non pensava che gli venisse fatto anche un altro regalo e la cosa l’aveva fatto commuovere.
Questa è una penna per le cose importanti – si disse, levando il tappo e ammirando la punta del pennino di color argento – voglio usarla per firmare il mio primo progetto. Il mio primo lavoro.
Il mondo dei progetti e dei cantieri si apriva davanti a lui, così atteso e così temuto. Certo non sarebbe stato semplicissimo i primi tempi, sapeva di dover trovare un buon compromesso tra tutto quello che aveva studiato e l’inevitabile pratica.
“Che con il suo talento possa migliorare questo piccolo angolo di mondo!”
Il brindisi di Henry gli tornò alla mente e sorrise compiaciuto. Migliorare quel piccolo angolo di mondo: l’idea lo eccitava più che mai.
Rimettendo la penna nella sua custodia, decise di mettere in ordine le poche cose sparse nella scrivania: la sua tesi di laurea che aveva mostrato con orgoglio a tutti quanti ed alcuni oggetti di cancelleria. Alla fine gli rimase in mano solo il suo vecchio quaderno di appunti. Con lieve nostalgia sfogliò quelle pagine cariche di pensieri e di disegni che l’avevano accompagnato durante i suoi anni universitari. Si accorse che ci aveva scritto così tanto che non erano rimaste che due pagine vuote.
E’ stato un percorso davvero intenso, non c’è che dire.
Tra le pagine trovò anche una foglia ormai secca, sicuramente ce l’aveva messa Ellie una delle tante volte che era rimasta a leggere il quaderno nel prato, mentre lui leggeva le sue storie. Dolce e fantasiosa fanciulla, il fatto che finalmente Henry l’avesse accettata metteva la parola fine ad un periodo di incomprensioni che aveva messo a dura prova tutti quanti.
Quella giornata di festa aveva davvero rimesso a posto le loro vite.
 
Fu con quelle piacevolissime premesse che giugno lasciò il posto al settimo mese dell’anno. Ormai il caldo la faceva da padrone e, come spesso capitava, prometteva di essere un’estate particolarmente soffocante.
Ellie in quel periodo era particolarmente eccitata: suo padre ormai la riteneva alta abbastanza da permetterle di fare lezioni d’equitazione. Certo, la giovane non poteva aspirare a cavalcare un colosso come Blanco, ma la vivace puledra figlia del purosangue si dimostrava perfetta per lei.
Ed Andrew suo malgrado era stato coinvolto in queste lezioni, sebbene lui ed il robusto cavallo pezzato che gli era stato assegnato non trovassero un buon feeling.
“Diamine, Fury – lo riprese per la decima volta Nicholas – se non tieni dritta quella dannata schiena e non assecondi i movimenti del cavallo non riuscirai mai ad andare oltre il passo. Raddrizzati, cavolo!”
Il frustino dell’uomo si abbatté alla base della schiena di Andrew con una velocità tale che il giovane nemmeno se ne accorse. Per sua fortuna venne colpita la parte ancora protetta dai pantaloni: considerata la forza usata, se fosse stata colpita la parte della schiena protetta solo dalla camicia sarebbe equivalso a ricevere una vera e propria frustata.
Dannato, forse lo volevi fare davvero – rifletté Andrew, facendo una smorfia di dolore ma riuscendo a trattenere il lamento.
“Oh no, papà! – intervenne subito Ellie, spostando con perizia la propria puledra tra gli altri due cavalli – non fare così! Non devi trattarlo male.”
“Sono solo un maestro esigente – ribatté Nicholas – anche con te farei la stessa cosa, ma tu sei così brava, fanciullina, che devo solo dirti come fare la prima volta. Si vede che sei sangue del mio sangue.”
“Ma ti prego…” mormorò Andrew nauseato, contrariato anche da quell’ora passata in compagnia del suo futuro suocero quando invece avrebbe preferito una tranquilla cavalcata al passo con Ellie. Odiava stare a cavallo: il posteriore gli doleva per ore ed ore anche dopo la lezione, il suo animale gli stava davvero antipatico (era certo che Nicholas Lyod l’avesse scelto con cura) e soprattutto si sentiva completamente inetto.
“Papà, posso fare una cavalcata sino alla quercia là in fondo da sola?”
“Va bene, fanciullina, dimostrami quello che sai fare!”
“Ellie – iniziò Andrew – forse è peric…”
“Yu huuu!” esclamò la ragazza, incitando la sua cavalcatura che non perse tempo a scattare in avanti.
Andrew si bloccò inorridito, non sapendo se incitare altrettanto il suo cavallo in modo da correre a fermarla. Però dopo qualche secondo la paura cedette il posto all’ammirazione perché vedere Ellie così bella e selvaggia in groppa a quel brioso animale, era come vedere un lato di lei del tutto nuovo.
“Sangue dei Lyod, figliolo – sentenziò Nicholas al suo fianco – raro e prezioso, sarai un uomo fortunato. E percepisci bene il futuro… sarai.”
“Sì, signore…” mormorò Andrew, senza nemmeno ascoltarlo, intento ad osservare Ellie che con abilità faceva girare il cavallo attorno alla quercia per lanciarsi nella sfrenata cavalcata di ritorno. Con una perizia incredibile la fanciulla si fermò proprio accanto ad Andrew, sporgendosi per dargli un bacio sulla guancia.
“Molto bene, tesoro – si complimentò Nicholas – però adesso vi devo lasciare: devo andare a parlare con alcuni fattori più a nord e rientrerò solo a sera.”
“Non possiamo venire con te, papà?” supplicò Ellie.
“No, cara, ci sono diverse cose di cui devo occuparmi: adesso tu ed Andrew tornate pure alla fattoria a lasciare i cavalli ed andate a casa. Ci vediamo dopo.”
Con un rapido cenno di saluto l’uomo diede uno strattone alle redini di Blanco e lo fece voltare con perizia sul sentiero. Con un colpo ai fianchi dell’animale lo spronò al galoppo, sparendo ben presto alla visuale dei due giovani.
Lieto di quella liberazione Andrew mise il suo cavallo, Corso, al passo, pregustando il momento in cui sarebbe finalmente potuto tornare con i piedi sulla salda terra.
“E così anche questa lezione è finita – sospirò Ellie – che peccato.”
“Un’ora e mezza basta e avanza, non credi? – la consolò Andrew – ma capisco che cavandotela così bene a te piaccia parecchio.”
“A te no?”
“Sono per il più tradizionale camminare – ammise il giovane, dando comunque alcune pacche sul collo del suo destriero – e poi tuo padre è un insegnante un po’ difficile.”
Adesso è passato anche al frustino… col cavolo che continuerò le lezioni con lui a fare il sadico.
“Oh dai, non dire così – Ellie si girò verso di lui, le guance rosse per l’eccitazione della cavalcata, gli occhi brillanti e carichi di vita – in realtà si è molto affezionato a te. Dubito che avrebbe permesso a qualcun altro di fare lezione assieme a noi. Vuole solo che tu impari bene.”
“A furia di scudisciate – bofonchiò il giovane, ripromettendosi di controllare se il colpo gli aveva lasciato qualche segno – spero che non l’abbia mai usato su di te quello strumento di tortura.”
“Cosa? – Ellie lo guardò perplessa ma poi scoppiò a ridere – Oh, ma quando mai! Papà è sempre così buono, secondo me stai estremizzando la situazione! Piuttosto guarda, vicino alla stalla, non è Henry?”
“Eh sì, pare proprio lui – ammise Andrew riconoscendo la chioma rossa dell’amico – pare ci stia aspettando.”
“Allora non facciamolo attendere oltre!” subito Ellie spronò al trotto la sua puledra.
“Ehi! Ellie, aspettami!”
 
“Ammetto che non sono molto sorpreso di questa chiamata – ammise Henry con voce calma, osservando la lettera posata sopra il tavolo della cucina di Laura – quando ho preso congedo il fonte contro Aerugo si stava per riaprire: a conti fatti mi è andata meglio del previsto.”
Andrew annuì con apatia, mentre Laura non riusciva a fermare le lacrime.
Era successo l’inevitabile, eppure tutti loro si erano in qualche modo illusi che quel momento non dovesse arrivare mai, almeno non prima della nascita del bambino.
Per la ragazza la notizia era stata davvero sconvolgente: questo avrebbe cambiato radicalmente la sua quotidianità che, ormai, era impostata sulla presenza del fratello maggiore. L’idea di restare da sola con Gregor, a badare ad una casa che in fondo non sentiva sua, la terrorizzava.
“Ehi, follettino, non piangere così, ti prego.”
“Non piangere? – singhiozzò lei – Come puoi pensare… oddio, Henry ti prego, non andare.”
“Non posso, sorellina, la chiamata è senza possibilità di rifiuto. Il mio plotone è stato riformato e dobbiamo andare al fronte.”
“Ma il tuo plotone non è mai stato mandato al fronte – protestò ancora la giovane, serrando la mano sul braccio del fratello – perché proprio ora?”
“Per via del ricambio truppe: quando si apre un fronte è indispensabile. Oh, piccola mia, mi dispiace… avrei voluto essere qui per la nascita del bimbo, ma sono sicuro che te la caverai egregiamente.”
Ma nonostante l’abbraccio di Henry, Laura non si rassegnava: l’esercito e la guerra non avevano il diritto di portarlo via proprio in quel momento così delicato. Non ce l’avevano mai avuto in tutti quegli anni, in quel momento poi era intollerabile.
“Ti scriverò, sorellina – Henry continuava ad accarezzarle i capelli – come abbiamo sempre fatto. Non vedo l’ora di sapere del piccolo e quando tornerò sarà fantastico, vedrai. Passerà in fretta il tempo, stanne certa.”
“E’ una bugia, lo sai! L’abbiamo sempre detto…ma siamo sempre stati dei bugiardi. Hen, ti prego, resta! Fallo per me…!” i singhiozzi le impedirono di continuare, tanto che Andrew si alzò e andò a prenderle un bicchiere d’acqua.
“Possono davvero chiederti di partire così presto? – chiese, tornando a sedersi – praticamente devi prendere il treno di dopodomani.”
“All’esercito non importa molto di dove abiti – ammise il soldato, prendendo il bicchiere e porgendolo con dolcezza alla sorella – se la data di ritrovo è quella, quel giorno devi trovarti nella sede richiesta.”
“Così poco…”
“Già, ecco perché vorrei concludere alcune faccende in questo poco tempo che ci resta qui. Laura, ascoltami… è importante. Asciugati queste lacrime, coraggio.”
“Scusa!” sospirò lei, asciugandosi gli occhi con il grembiule.
“Tranquillo, follettino… senti, quando io non ci sarò per qualsiasi cosa ti devi appoggiare ad Andrew e la sua famiglia, capito? Ho già parlato anche con suo padre e non ci sono problemi. Dubito che mamma e papà ti diano fastidio… ma nel caso dillo subito ad Andrew, va bene?”
“Sì…” annuì Laura, come una bambina diligente.
“Molto bene. Ora, ne ho già parlato con Andrew e suo padre: c’è la questione del testamento…”
“Non dirlo nemmeno per scherzo!” Laura gli afferrò di nuovo il braccio.
“Non è uno scherzo, Laura – la bloccò Henry – ascoltami…”
“No… tu torni, Henry… non c’è bisogno di fare una cosa simile! – protestò lei, impanicata – E’ solo una stupidaggine che non… non dovresti nemmeno pensarci!”
“Sssh, va bene… hai ragione tu, è una stupidaggine. Tanto tornerò, lo sappiamo. Però permettimi di stare tranquillo sotto questo punto di vista… giusto un piccolo sfizio che mi levo, va bene? E’ tutto affidato al padre di Andrew, chiaro? E’ stabilito che…”
“Andrew tu lo sai cosa è stabilito?” lo interruppe Laura, volgendosi verso il giovane Fury.
“Sì, Laura, lo so.”
“Allora non voglio nemmeno sentirlo – si tappò le orecchie con ostinazione – avete già deciso tutto… l’esercito ha già deciso tutto. Io… dannazione, ma perché?”
“Va bene, va bene – si arrese Henry, tornando a stringerla – adesso ti sfoghi quanto vuoi, follettino. E’ giusto, tranquilla… ssssh, stai calma: se ti viene il singhiozzo magari lo passi anche al bimbo.”
Laura nascose il viso sulla spalla del fratello e rimase in quella posizione a lungo. Andrew non seppe far altro che restare in silenzio e osservare quell’abbraccio tra i due fratelli. Avrebbe voluto piangere pure lui, ma non ci riusciva e non avrebbe potuto farlo… non era il caso di aggiungere ulteriori difficoltà.
Però capiva bene le parole di sfogo della sua amica e pure lui ce l’aveva a morte con l’esercito.
Faceva paura: la guerra era sempre sembrata una cosa lontana, quasi irreale, destinata a non toccare mai il suo amico. Ma era stata solo l’illusione di un ragazzo di un piccolo angolo di mondo che non aveva mai capito quali fossero davvero i doveri di un soldato e quali rischi reali comportassero.
Sta andando in un posto dove la gente muore…
Era tremendo… destabilizzante. Sapere che ogni momento passato in quelle trincee poteva essere l’ultimo per il suo miglior amico lo faceva impazzire. Maledisse il giorno in cui Henry era entrato in Accademia, il giorno in cui si era candidato per diventare un possibile cadavere. I soldati vanno in guerra, i soldati muoiono… e a lui e Laura non restava che aspettare e pregare ogni giorno che non toccasse proprio ad Henry, che per lui fosse davvero come in un racconto di Ellie, dove tutto finiva bene.
Lascia tutto a Laura, dovrò essere io l’esecutore testamentario… ci leghi l’uno all’altra ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno. Ma sono solo sciocchezze, vero? Tornerai e ci rideremo sopra per quest’inutile precauzione… andrà così, vero amico mio?
 
Avessero avuto più tempo per assimilare la notizia sarebbe stato più facile.
Invece, due giorni dopo, si trovarono alla stazione del treno, aspettando di sentire il fischio della locomotiva che annunciava l’arrivo del convoglio.
Per Laura era una sensazione stranissima trovarsi di nuovo seduta in quella panchina. Le sembrava un secolo che aveva atteso l’arrivo di Henry a dicembre dello scorso anno, quando ancora tutta la vita sembrava appartenerle e non sospettava minimamente di essere incinta.
Henry le aveva proposto di restare a casa, ma lei si era rifiutata.
A costo di sfidare i suoi compaesani era uscita con il pancione ed aveva accompagnato il fratello alla stazione assieme ad Andrew, come aveva sempre fatto
E come farò sempre.
Rivederlo con quella divisa, con la sacca in spalla, le faceva male in una nuova maniera, molto più profonda. Non era più l’Accademia, il Quartier Generale, la grande città… era una trincea lontana, dove bombe e granate mettevano a repentaglio la vita delle persone. Laura non sapeva come funzionava una guerra, ma sapeva che era una cosa ingiusta, perché impediva a molti soldati di tornare a casa dalle loro famiglie.
Non lo farà anche per te, vero fratellone? Noi siamo sempre stati un trio… tornerai. Saremo sempre in tre. Saranno davvero i soliti mesi di attesa.
“Credo che ormai manchi poco – annunciò Andrew, guardando l’orologio – massimo cinque minuti.”
“Sì, sento il treno in lontananza. – annuì Henry, facendo cenno ai due amici di avvicinarsi – Allora è il caso di salutarsi davvero.”
“Non è mai facile…”
“Lo so – Henry sospirò ed abbracciò Laura – mi dispiace di non essere qui per quando nascerà il piccolo. Promettimi che farai da brava, sorellina, mh?”
“Scrivimi, mi raccomando…” mormorò lei, senza nemmeno provare a trattenere le lacrime.
“Ehi, abbracciarti con questo pancione è davvero difficile – scherzò il soldato, baciandola in fronte – Non vedo l’ora di sapere di mio nipote.”
“Henry, non hai idea di quanto mi mancherai.”
“Sarà solo per qualche mese, massimo sei… poi ci sarà il ricambio delle truppe, come al solito.” si staccò dalla sorella, seguendo il rituale ben preciso e si rivolse ad Andrew che sorrideva a braccia incrociate, cercando di tenere un atteggiamento tranquillo.
Proprio in quel momento il treno arrivò in stazione con un fischio assordante.
“A presto, amico mio.” mormorò il giovane, incurante di quel rumore.
“Te la affido, Andrew Fury… prenditi cura di lei.” Henry gli strinse la mano ma poi lo abbracciò con calore, arruffandogli i capelli con gentilezza.
“Lo farò, stai tranquillo.” promise lui affondando il viso sulla sua spalla, cercando di trovare una sicurezza che proprio non riusciva a sentire.
“Andrew… perdonami per quando ti ho chiesto di sposarla. So che poi sono stato abbastanza freddo con te per diverso tempo. Per tutto quello che hai fatto e ancora fai per me e Laura… non credo di aver avuto mai amico migliore.” il soldato mormorò ancora una volta quelle scuse, come se volesse chiudere in maniera definitiva la questione
“Oh, Henry, non devi scusarti per delle cose simili, sul serio.”
“Facciamo così – sogghignò, mentre si staccavano –  per farmi perdonare, quando tu ed Ellie vi sposerete, e non penso che dovremo aspettare tanto, ti faccio da testimone.”
“Affare fatto!” sorrise Andrew, trovando l’idea veramente fantastica.
“Adesso vado, il treno sta per partire… se lo perdo dovrei aspettare altri due giorni e l’esercito non ne sarebbe felice…” sorrise nel dire quella battuta, ma né Andrew né Laura trovarono la forza di rispondere a quel sorriso.
Saliti i due gradini che portavano all’entrata del vagone, il sergente Henry Hevans si voltò verso la sorella ed il miglior amico, facendo loro uno scanzonato saluto militare ed il più sfacciato dei suoi sorrisi.
A quel gesto Laura si strinse ad Andrew che fu pronto ad abbracciarla. Con il braccio libero, l’ingegner Andrew Fury rispose a quel saluto militare, come aveva fatto sin da quando aveva tredici anni ed andava ad accompagnare il suo miglior amico che andava all’Accademia militare.
Sarà come tutte le altre volte… deve andare così. La guerra non…
“Tornerà, vero?” Laura interruppe quei pensieri.
“Come sempre, amica mia – la incoraggiò lui, baciandola in fronte – come sempre…”

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Capitolo 23
*** Capitolo 22. 1882. Heymans. ***


Capitolo XXII

1882. Heymans.

 

 

Laura aprì gli occhi ed emise uno stanco sospiro: non aveva dormito che poche ore e male anche quella notte. Non ricordava di aver mai sofferto il caldo come quell’estate, ma sicuramente dipendeva anche dalla gravidanza: con quel pancione era davvero difficile trovare una posizione confortevole nel letto.
Si mise a sedere con fatica, sentendo con fastidio che la camicia da notte era sudata ed appiccicata al suo corpo: la finestra aperta non serviva a molto se il tempo era umido senza un alito di vento.
“Nascere in estate non sarà proprio un grande affare, vero? – chiese toccandosi la pancia e sperando che tutto quel sudore non stesse dando fastidio al bambino – Caldo e umido… la mamma spera solo che si metta un po’ di vento i prossimi giorni, giusto per smuovere l’aria.”
Ormai per lei era automatico parlare con il bambino, le sembrava di instaurare con lui un legame ancora più forte rispetto al solo portarlo in grembo. E poi, stando in quella casa, era praticamente diventata un’esigenza avere un dialogo sereno con qualcuno, anche se le uniche risposte che poteva ottenere erano dei lievi movimenti nella pancia.
Erano passate quasi due settimane dalla partenza di Henry e ancora non si era abituata alla sua assenza. Sperava sempre di vederlo arrivare per pranzo o durante la mattinata, ma doveva sempre scuotere la testa e dirsi che ormai c’erano centinaia di chilometri a separarli.
Con un sospiro prese dal comodino l’ultima lettera che le era arrivata proprio il giorno prima e che aveva riletto decine e decine di volte durante quella notte insonne. Era così diversa rispetto alla corrispondenza che si erano sempre scambiati, come se suo fratello avesse in parte perso quell’aria scanzonata tipica di lui.
E Laura sapeva anche il perché: era la prima lettera che le scriveva dal fronte.
La carta era leggermente sporca, come se non fosse riuscito a trovare un luogo pulito in cui scrivere, ma non era quello il vero punto: in quelle parole, in quelle frasi che in fondo si erano sempre detti, trasudava la guerra e tutte le conseguenti emozioni che un soldato al fronte poteva provare. Per la prima volta Laura si rendeva conto che suo fratello aveva paura.
Massimo sei mesi, Henry… nemmeno, considerato che sei lì da già quattro giorni. Passeranno in fretta, coraggio.
Ma sembrava un conto alla rovescia davvero patetico e, oggettivamente, non avrebbe mai avuto il coraggio di scrivere una cosa simile nella risposta che aveva in mente di spedirgli: se c’era una cosa che Henry detestava era ammettere di avere paura e farne riferimento nella lettera sarebbe servito solo a rendere la situazione più difficile.
Il bambino scalciò con prepotenza, interrompendo quei pensieri
“Uh, va bene – annuì – mi stai dicendo che devo alzarmi e andare a lavarmi: evidentemente una mamma sudata proprio non ti piace, vero?”
Cercando di non fare caso alle caviglie gonfie e alla schiena dolorante, ormai qualsiasi posizione sdraiata o seduta non le era più comoda, si alzò e provvide a levare le lenzuola dal letto matrimoniale: erano così pregne di sudore che andavano sicuramente cambiate. Ma se una brava casalinga le avrebbe già portate in bagno e messe nel cesto della roba sporca, Laura si limitò a fare un grosso cumulo che lasciò sopra il materasso: ci sarebbe stato tempo più tardi, magari la sera, quando faceva più fresco.
Anche lavarsi e cambiarsi ormai era difficile e pesante sebbene il contatto con l’acqua fresca le diede notevole sollievo: anche il piccolo sembrò apprezzare quel refrigerio perché smise di agitarsi.
“Ma che hai oggi? – chiese la donna, finendo di legarsi i capelli dietro la nuca – non sei mai stato così agitato. Anche a te capitano le giornate no come alla mamma? Pensa che però adesso tu te ne starai tranquillo dentro la pancia, mentre lei dovrà preparare la colazione.”
Parlare di cibo le fece capire di avere notevole appetito, specie di frutta fresca… un paio di quelle meravigliose pesche che le aveva portato Andrew da parte di Ellie la sera prima.
Entrando in cucina rimase sorpresa nel trovarci Gregor che girava il cucchiaino in una tazzina di caffè.
“Buongiorno.” la salutò con un cenno del capo.
“Oh, buongiorno – si sorprese lei, rendendosi poi conto che effettivamente era rimasta troppo tempo a letto – scusa, oggi mi sono alzata tardi.”
“Non fa nulla, presumo non sia facile con quella pancia. Ho fatto da solo: c’è ancora del caffè se ne vuoi.”
“Caffè? – arricciò il naso con disgusto sedendosi al tavolo, dato che non doveva preparare niente – No, grazie… piuttosto frutta. Le pesche vanno benissimo.”
“Tieni, erano ancora nel sacchetto: le ho sciacquate e messe in questa terrina.”
“Fantastico, grazie mille.”
Addentando la prima pesca, Laura si rese conto che aveva appena sostenuto con Gregor una conversazione di più di due frasi che non si era conclusa con una sua uscita di casa. La cosa la sorprese ma, a rifletterci, non era la prima volta che avveniva una cosa simile. Sembrava che dopo la partenza di Henry, suo marito fosse decisamente più rilassato e meno smanioso di scappare via di casa, almeno durante il giorno.
Vivendo assieme da diversi mesi Laura aveva capito dove andava la sera: il paese era piccolo e c’era un solo locale dove uno straniero era accettato senza troppi problemi. A confermare il tutto le era capitato di vedere come, parecchie volte, la mattina Gregor presentasse i chiari sintomi di una sbornia.
Certamente sapere queste cose del proprio marito non era bello, ma Laura non se la sentiva di dire qualcosa in merito: sarebbe stato tremendamente ipocrita considerato che… a casa propria non si sentiva il benvenuto.
Chissà, però… potremmo riuscire a costruire almeno un dialogo che duri più di cinque minuti.
“Allora – iniziò – uhm… come ti senti?”
“Bene – inarcò il sopracciglio lui con sorpresa – e tu?”
“Un po’ appesantita – strizzò l’occhio – e accaldata.”
“Presumo che con questo caldo sia anche peggio, vero?”
“Già, spero che si alzi un po’ di vento.”
“Già da stasera, tranquilla.”
“Uh, e come lo sai?”
“Il caldo così intenso dura al massimo tre giorni, poi arriva il vento: stamattina il cielo aveva un colore tutto particolare, vedrai che massimo dopo cena l’aria rinfresca.”
“E dove hai imparato dei trucchi simili? – Laura era sinceramente affascinata, tanto che per un attimo le sembrò di parlare con il Gregor della notte della festa – Non credevo che…”
“A viaggiare tanto per lavoro si imparano anche questi trucchi, specie se sei all’aperto.”
“Sei stato in molti posti? Forse me l’avevi già detto alla festa, ma non mi ricordo…”
“Diversi – scrollò le spalle lui – ma mai in grandi città. Sì, forse te ne parlai quella notte… faresti fatica ad entrare in quell’abito verde che avevi, mi sa.”
“Eh già – Laura si guardò la pancia e poi sorrise con rassegnazione – purtroppo però quell’abito si è rovinato in maniera irrimediabile, sai. L’ho dovuto buttare.”
“Peccato, il verde ti sta bene.”
“Grazie.”
Si guardarono entrambi con imbarazzo per qualche secondo, come se l’idea di far normale conversazione fosse strana e fuori luogo. Fu lui a spezzare quello stallo, scrollando le spalle e posando la tazzina sul lavandino.
“Ti serve che compri qualcosa? Adesso devo uscire.”
“Comprare? No, grazie… la spesa è stata fatta ieri e praticamente c’è tutto – anche Laura si riscosse, alzandosi in piedi con discreta fatica – Uhm… torni a pranzo?”
“Sì, tranquilla. Ci vediamo dopo.”
Solito copione con la fuga di lui in salotto e, dopo cinque secondi, il rumore della porta che si chiudeva.
Laura sospirò e guardò la cucina di nuovo vuota: non che il suo tentativo di conversazione fosse andato male, ed era sicura che sarebbe tornato a pranzo, ma non era il massimo pensare di stare sola a casa per così tanto tempo. Quando c’era Henry non andava di certo così.
“Beh, proprio sola no – ammise risedendosi e prendendo un’altra pesca – siamo in due a farci compagnia, vero piccolo? Spero che sarai più loquace di tuo padre, altrimenti mi annoierò a morte.”
Quasi a risponderle il bambino riprese a scalciare.
Ma che ha oggi?
 
“Mi raccomando, divertitevi e salutatemi tanto gli zii.” Andrew baciò la guancia di sua madre e la accompagnò alla porta dove già il notaio la attendeva.
“Non mancheremo, tranquillo – annuì l’uomo aprendo la porta – ah, giusto in tempo. Sono venuti a prenderci con il carro. Penso ci rivedremo direttamente domani, Andrew: probabilmente faremo tardi e sarai già a dormire.”
“Nessun problema – sorrise il giovane uscendo assieme a loro e facendo un cenno di saluto al fattore che era venuto a prenderli – buona cena.”
Con aria rilassata rimase a fissare il carro che si allontanava verso i sentieri di campagna, fino a quando non sparì del tutto dalla sua visuale. Era veramente felice che i suoi genitori avessero accettato quell’invito da parte di alcuni parenti materni: era da tanto che non andavano a cena fuori ed era sicuro che sua madre lo desiderasse parecchio. Certo la vita di paese offriva molti meno spunti rispetto ad una realtà come East City e una cena poteva essere una grande occasione di svago.
Sarebbe stato felice di partecipare pure lui, ma andare in quella fattoria così lontana, almeno a piedi, voleva dire non poter andare a trovare Laura dopo cena e questo Andrew Fury non se lo sarebbe mai perdonato.
Da quando era andato via Henry aveva preso maggiormente sul serio il suo ruolo di protettore. Però, nonostante tutto, ancora non riusciva ad andare a casa dell’amica alla luce del giorno, come invece aveva sempre fatto il fratello. Trovarsi faccia a faccia con Gregor Breda era l’ultima cosa che voleva anche perché… oggettivamente non aveva la minima idea di come affrontarlo.
Col passare del tempo si era accorto di odiare profondamente quella persona: aveva cercato di trovare un minimo di giustificazione a quanto era successo, ma non ci riusciva. Certo, parte della colpa era di Laura, questo era innegabile… ma era lui quello più adulto e maturo… quello che doveva capire che anche se una ragazza gli si concedeva, non era il caso di accettare. Se a lui fosse successa una cosa simile con Ellie o anche con la stessa Laura, le avrebbe immediatamente portate a casa e fatte riprendere dal troppo bere.
Per poi, ovviamente, fare loro una ramanzina tale da evitare simili episodi.
Però se con la mente si era bravi a fare simili progetti, nella realtà un uomo della stazza di Gregor, con un simile atteggiamento ostile e chiuso, faceva notevole paura. Di conseguenza Andrew preferiva restare l’eroe discreto che passava dopo cena, quando era sicuro di non trovarlo a casa.
“Oh bene, vento! – esclamò soddisfatto, sentendo le prime folate – ci voleva proprio!”
Facendo un rapido calcolo mentale aveva tutto il tempo per prepararsi la cena ed andare a trovare la sua amica: sicuramente quel fresco l’avrebbe tirata su di morale.
 
Circa un’ora dopo Laura attendeva con ansia l’arrivo del suo amico, ma non perché si sentiva sola ed aveva voglia di parlare con qualcuno.
“Respira, respira… uff… uff… oh, Andrew! Andrew, accidenti a te, perché non arrivi…ohi!”
La nuova contrazione la costrinse ad aggrapparsi al tavolo con forza, tanto che il bicchiere si rovesciò versando l’acqua sulla tovaglia.
Che cosa succede al mio corpo? deve nascere tra un paio di settimane! Aiuto! Aiuto!
Anche se non voleva peggiorare la situazione, fu inevitabile iniziare a singhiozzare: era accaduto tutto così all’improvviso ed in maniera così violenta che non era ancora riuscita ad alzarsi dalla sedia di cucina dove stava cenando con tranquillità fino ad un quarto d’ora prima.
Forse… forse tutto quello scalciare era un segnale di qualcosa… ma che hai? Non vorrai nascere stanotte… non vorrai…
“Aaaahhuuuu!” il dolore le lancinò il ventre mentre qualcosa di bagnato le inzuppava la gonna. Spostandosi goffamente in piedi, lanciò un’occhiata alla sedia e vide che sul basso cuscino che usava per stare più comoda c’era una chiazza rossastra.
Sangue? Ma devo perdere sangue quando iniziano le contrazioni? Le acque non sono un’altra cosa? Oddio… oddio! E se sta male il piccolo?
“Aiuto! Per favore… aiuto!” chiamò al limite della disperazione.
Possibile che nessuno dei vicini la sentisse? Eppure le case erano praticamente attaccate le une alle altre. Possibile che le persone decidessero di ignorarla fino a quel punto?
“Henry – mormorò tra le lacrime, in un momento di tregua tra quelle contrazioni così dolorose – per favore… per favore dove sei? Ho bisogno di te… ho bisogno di…”
“Laura, sono arrivato!”
La voce di Andrew arrivò come una benedizione, come se Henry l’avesse davvero ascoltata e avesse deciso di mandarle un aiuto dalla trincea.
“Andy! – chiamò cercando di spostarsi verso la porta, ma era così scossa che cadde in ginocchio, facendosi un gran male – Andy!”
Dei passi concitati e la porta della cucina che si apriva, fortunatamente senza colpirla.
Non sono più sola… oddio grazie! Grazie!
“Laura! – Andrew le fu immediatamente accanto, aiutandola ad alzarsi – che cosa ti succede? Che… cavolo, stai sanguinando!”
“Andy sembrano doglie – ansimò lei, mentre veniva condotta in salotto, ogni passo che le costava enorme fatica – no, no, no! Non prendermi in braccio! Sei pazzo!”
“Ma ti devo… non ci stai nel divano!” il giovane la rimise a terra, rinunciando a quel goffo tentativo, chiaramente impossibilitato a sostenere il peso e la massa ingombrante di una donna incinta.
“Piano… un passo alla volta – sospirò lei, cercando di dare una calmata all’amico che, chiaramente, stava entrando nel panico – aiutami, coraggio.”
“Dovrei chiamare il medico…”
“Prima aiutami a fare queste dannate scal… gnaagh!” serrò le mani contro il corrimano mentre una nuova ondata di dolore la obbligava a piegarsi in due.
“Giusto… giusto le scale! – la voce di Andrew era ansimante, ma sembrava che fosse ancora in grado di tenere una minima lucidità mentale – ti porto a letto e poi chiamo il medico…”
“E tua madre magari!” supplicò.
“Perdonami! Ti prego non pensavo… Laura, i miei sono fuori a cena e non torneranno che…”
Fantastico! – sibilò tra i denti, mentre in cuor suo iniziava a detestare quest’inutilità assolutamente fuori luogo – Non fa niente… aiutami! Devo arrivare a quel maledetto letto!”
E nel frattempo dentro di lei il bambino si agitava come un forsennato.
Sei vivo, l’ho capito! Vuoi nascere stasera!
 
Da quando era partito Henry, Andrew sapeva che per il parto di Laura sarebbe stato lui a dover far la parte del leone. Ma per come se l’era immaginata si sarebbe dovuto solo preoccupare di chiamare il medico e sua madre e poi di attendere fuori dalla porta fino alla nascita del piccolo.
Il tutto, ovviamente, in pieno giorno…
Però era chiaro che i bambini potevano nascere anche dopo cena: effettivamente lui stesso era nato poco prima della mezzanotte. E che, volenti o nolenti, gli adulti dovevano sottostare a questi orari arbitrari, mandando all’aria tutti i piani che si erano fatti.
“Mi scusi terribilmente, dottore – disse per la decima volta mentre conduceva il medico su per le scale, i lamenti di Laura che si facevano più chiari – è che… è successo dopo cena e noi non…”
“Ragazzo, il parto non si comanda a bacchetta. Non è la prima volta che vengo chiamato fuori dall’orario del mio ambulatorio… che fai non entri?”
“Non è mia… – Andrew inorridì all’idea di entrare di nuovo in quella stanza: non appena aveva fatto sdraiare l’amica nel letto le lenzuola si erano inzuppate di uno strano liquido rosato – sono solo un… ecco non credo che…”
“Sì, sì… ho capito! Allora fammi il favore di andare a chiamare gli interessati! qui ci penso io.”
“Va bene – annuì subito il giovane, lieto di potersi allontanare di nuovo da quelle grida – gli interessati…”
Però scendendo le scale si accorse che gli interessati erano le ultime persone con cui aveva a che fare.
Ma che cosa poteva fare? Era l’unica persona che potesse avvisarli.
E forse… forse per la nascita del piccolo le cose saranno diverse…
Spinto da quest’ondata di ottimismo, un po’ forzato a dire il vero, uscì di casa e corse verso il locale gestito dalla donna chiamata Madame Christmas. Per tutto il tragitto cercò di non fare caso al tipo di posto che stava andando a visitare: del resto si trattava solo di individuare Gregor, avvisarlo dell’imminente parto di Laura e andare via assieme a lui.
Insomma sarà questione di massimo un minuto…
“Ehi, orsacchiotto, che ci fai qui?” arrivato davanti al locale venne subito richiamato da una ragazza che era fuori a fumare una sigaretta.
“Veramente sto cercando una persona – arrossì, salendo i pochi gradini che portavano al piccolo patio esterno – anzi, se magari me la potrebbe chiamare, io…”
“Ahah, tesoro, che c’è sei venuto a cercare il tuo paparino?”
“Che? – Andrew si ritirò indietro quando gli arrivò un forte odore di sigaretta – oh, lasci stare. Faccio io!”
Con una smorfia di disgusto, chiedendosi se quella fosse solo la premessa, aprì le porte del locale e rimase sorpreso. Si era sempre immaginato che un posto simile fosse cupo, con luce soffusa e tanto fumo… e soprattutto facce losche. Non si aspettava minimamente una sala ben illuminata, piacevole musica che veniva da una radio, tavoli con risate: a conti fatti non era molto diverso da un locale di East City dove era andato qualche volta con i suoi colleghi. E poi i visi a quei tavoli gli erano conosciuti: persone insospettabili che non avrebbe mai pensato di vedere in quel posto… alcuni gli lanciarono occhiate in tralice, magari timorosi di essere scoperti.
“Sei nuovo del locale, piccolo – una ragazza si avvicinò a lui, al contrario dell’altra aveva un’espressione più dolce e accomodante – ti posso aiutare?”
“Cerco una persona – annuì Andrew – c’è sua moglie che sta partorendo ed io… Gregor, si chiama Gregor Breda. E’ robusto, alto più di me… viene sempre verso l’ora di cena e…”
“Ahi ahi, cucciolotto – sospirò lei – se è chi penso io non credo che si sveglierà prima di mezzanotte. E’ per caso quello solo al tavolo nell’angolo?”
“Cosa? Oh no! – Andrew corse al tavolo in questione, dove la grossa sagoma di Gregor era posata pesantemente e russava – Andiamo, svegliati! Svegliati! Laura è in travaglio! Ti prego… per una dannata volta dimostrati un minimo responsabile!”
“Tesoro, perdi tempo…” continuò a dire la fanciulla.
 
“Doveva nascere ad agosto!” esclamò Laura, cercando di darsi un minimo di spiegazione per affrontare meglio il dolore.
“Ha paura che ci sia qualcosa che non va, signora? – le chiese il medico, mettendole una mano sul ginocchio per evitare che chiudesse di nuovo le gambe – Si fidi che il bambino è semplicemente pronto per uscire. Un paio di settimane non fanno la differenza a questo stadio della gravidanza… a giudicare dalla sua pancia è già sviluppato del tutto, ed è anche bello grosso.”
“Oh cielo, grazie!” sospirò la giovane, lasciandosi ricadere nel letto.
Ma era una magra consolazione in confronto alla situazione difficile che stava vivendo: nonostante il medico le garantisse che stava andando tutto bene, sentiva che il suo corpo faceva estrema difficoltà a gestire il bambino che cercava di uscire. Le contrazioni erano lunghe ed irregolari e la lasciavano sempre senza fiato per il dolore.
E non aveva alcun sostegno morale accanto a lei: quel medico, per quanto lo conoscesse da anni, era comunque una persona estranea al suo concetto di famiglia. Essere nuda dalla vita in giù davanti a quello sguardo la faceva morire di vergogna.
Andrew! Andrew! Dove sei? Perché non torni?
“Alla prossima contrazione potrebbe essere il momento di iniziare a spingere.”
“Spingere? – sgranò gli occhi lei – Che cosa?”
Dove cavolo era andato a finire Andrew?
 
“Signori Hevans, vostra figlia sta partorendo e ha bisogno di voi… almeno di lei, signora. Ecco… ecco, dovrebbe andar bene così.” Andrew se lo disse per la decima volta mentre bussava a casa dei genitori di Laura. 
I suoi tentativi di svegliare Gregor erano andati tutti male e dopo cinque minuti aveva capito che non c’era niente da fare. Non gli era rimasto che lasciare il locale, anche tra le risate di qualcuno, e andare a cercare le seconde persone che a rigor di logica dovrebbero essere presenti al parto di una ragazza: i genitori.
Magari con loro avrebbe avuto più fortuna… almeno per solidarietà femminile la madre si sarebbe sentita in dovere di venire ad aiutare.
Andiamo, l’avete cresciuta per diciannove anni… non potete cancellare di colpo i sentimenti che provate per lei. Non in questo momento.
Finalmente la porta si aprì ed Elias Hevans fece la sua comparsa.
“Andrew? – lo squadrò con attenzione – Che ci fai qui a quest’ora?”
“Chi è, caro? – Susanna arrivò subito dopo – Oh, Andrew… Henry… è successo qualcosa ad Henry?”
“No, signora – scosse il capo lui – è per Laura: sta partorendo e…”
“Ti fermo subito qui, ragazzo – l’uomo fece un gesto seccato – la cosa non ci riguarda.”
“Cosa? Ma… ma ha bisogno di…” Andrew annaspò incredulo davanti ad una simile freddezza.
“Tutto quello che riguarda quel bambino non ha a che vedere con noi. E ora, se ci vuoi scusare, stiamo terminando di cenare.”
“Ma è vostra figlia!” il giovane ebbe la forza di mettere una mano sulla porta per impedire che gli venisse chiusa in faccia. Come potevano pensare alla cena quando Laura stava soffrendo le pene dell’inferno per mettere al mondo il bambino?
“Buona serata, Andrew Fury.” la voce di Elias fu secca e perentoria e con un gesto di forza gli chiuse la porta in faccia. L’impatto fu tale che il giovane fece due passi indietro, restando incredulo a fissare quel legno scuro, vagamente illuminato dalla luce proveniente dalle finestre delle case vicine.
Gli vennero le lacrime agli occhi: doveva cercare aiuto, ma tutto quello che aveva trovato era stato un marito troppo ubriaco anche solo per aprire gli occhi, e due genitori che ritenevano più importante finire di cenare piuttosto che aiutare la loro figlia nel difficile momento del parto.
“Siate tutti maledetti! – esclamò con rabbia, serrando i pugni – Andate tutti affanculo!”
Che cosa poteva fare?
Uscendo dalla strada laterale guardò pensieroso la strada che portava fuori dal paese. Andare a chiamare sua madre? Ma ci avrebbe messo un sacco di tempo solo per raggiungere la fattoria dei suoi parenti… a piedi e al buio poi…
Troppo tempo!
Non gli restava che tornare da Laura e fare tutto il possibile.
 
“Aaaaahuuuuu!”
“Stia ferma, signora – il medico le tenne aperte le gambe a forza – il bambino sta cercando di girarsi, ma lei deve stare sdraiata così.”
Il dolore impedì a Laura di lanciare contro quell’uomo tutte le maledizioni che conosceva: come poteva dirle di stare ferma quando il dolore la stava uccidendo? Muoversi era l’unica possibilità di salvezza.
Si era ripromessa di non urlare… nella sua idea di parto perfetto tutto doveva andare rapido e veloce, con lei che riusciva a tenere a bada il dolore, dimostrando a tutti che era una persona forte e coraggiosa. Ma non stava andando così… non avrebbe mai immaginato che delle contrazioni potessero far così male, dandole la sensazione di essere tagliata in due.
“Per pietà – singhiozzò, afferrando il lenzuolo con le mani – qualcuno mi aiuti…”
“Infatti qualcuno deve darci una mano – sbottò il dottore – resti tranquilla e respiri, la contrazione e passata e ci vorrà qualche minuto prima della nuova.”
“Oh no… no dottore non mi lasci – pianse – le giuro… le giuro che faccio la brava… faccio… aiuto, Henry… Henry, dove sei?”
La stavano abbandonando tutti quanti, era chiaro. La lasciavano morire da sola in quel letto ormai zuppo di sangue e sudore, col bimbo dentro di lei che soffriva per uscire invano. Possibile che meritasse davvero tutto questo?
“… Ellie scusami… ti giuro che non guarderò niente, ma non posso lasciarla sola!”
Quella voce tremante ma decisa ebbe il potere di farle girare il viso verso la porta e scoprì che Andrew stava praticamente strisciando contro la parete, tenendo lo sguardo basso. Quando fu quasi alla fine della stanza, alzò finalmente gli occhi e si catapultò verso di lei, inginocchiandosi nella parte di letto vuota accanto a lei e prendendole la mano.
“Non ce la faccio, Andrew!” ansimò, tuttavia sollevata nel veder ricomparire il suo amico, l’unica luce di salvezza in quella sera da incubo.
“Andiamo, Laura – esclamò lui, aiutandola a sollevarsi seduta, il tono di voce identico a quando a scuola facevano delle gare con i compagni e faceva sempre tifo per lei – Ci sono io con te, coraggio! Andrà tutto alla perfezione!”
“Dio… dio fa così male…” sospirò lei, mentre i cuscini venivano sistemati meglio e finalmente trovava una posizione più confortevole per la sua schiena straziata.
“Fatti forza… tra poco terrai tra le braccia il tuo bambino, ci pensi?”
Laura si girò verso di lui, desiderosa di prenderlo a parolacce per tutto quell’entusiasmo così fuori luogo. Perché tanto non era lui a soffrire come un disperato. Ma quando vide l’espressione fiduciosa ed incoraggiante, non poté far a meno di annuire.
Proprio in quel momento arrivò una nuova contrazione.
La sua mano si serrò sul polso di Andrew.
Per quanto ancora!?
 
Non lo seppe quantificare. Le contrazioni furono tante, troppe a prescindere.
Quando arrivò l’ultima e decisiva credeva di essere ormai senza fiato per lanciare un urlo, ma mentre si piegava in avanti e sentiva un qualcosa di enorme che la squarciava in due, fu costretta a trovare nuove forze per gridare.
“E’ un maschio! – annunciò con soddisfazione il medico – Congratulazioni, signora!”
E’ un maschio? Vuol dire che è nato? E’ nato? – non le sembrava vero.
“Mio figlio – invocò, mentre era costretta a sdraiarsi di nuovo – mio figlio…”
Sentiva un forte pianto che riempiva la stanza, un qualcosa di incredibilmente vivo e che aveva la capacità di far passare in secondo piano il dolore e la stanchezza. Lasciando il polso di Andrew tese le mani verso il medico, supplicando di darle la propria creatura… di restituirle il motivo per cui aveva sopportato tutto quello.
Le venne messo sul petto, sporco di sangue, col cordone ombelicale ancora attaccato, ma erano dettagli secondari: ai suoi occhi era la cosa più bella del mondo.
“Sei perfetto – pianse, abbracciando quel corpicino viscido e tremante – amore mio, sei qui… sei qui…”
“Oh, Laura – la voce strozzata di Andrew indicava che anche lui stava piangendo – è fantastico!”
“Cucciolo – mormorò, cullando appena il bambino – amore mio… amore mio…”
“Un ottimo lavoro, signora – si congratulò il medico avvicinandosi a lei – ce la siamo sudata, ma è andata.”
“Oh no – protestò, mentre il bambino le veniva portato via con gentilezza – perché?”
“Lo deve solo lavare e tagliare quel cordone, amica mia – la confortò Andrew aiutandola a mettersi seduta – tu come ti senti?”
“Lo voglio qui… Andrew, ti prego…”
“E’ qui, guardalo… è a pochi metri da te. Abbi pazienza – la baciò in fronte – sei stata così brava, follettino. Henry sarà fiero di te. Laura, sei mamma adesso! Una mamma!”
“Una mamma – sospirò lei, assaporando quella parola e scoprendola incredibilmente vera ora che sentiva il pianto del suo bambino – Andy… oh Andy!”
Entrambi rimasero ad abbracciarsi, ridendo e piangendo allo stesso tempo. Non smisero un secondo di guardare il neonato che, nelle esperte mani del medico, veniva finalmente pulito dal sangue e avvolto in una leggera copertina bianca.
“Tre chili e mezza… ecco perché è nato con alcune settimane di anticipo – dichiarò l’uomo, porgendolo a Laura – se la gravidanza andava avanti fino ad agosto ci potevano essere molte complicazioni nel parto.”
“Ecco perché scalciavi, amore – Laura baciò estasiata la manina tremante che usciva dalla copertina – volevi uscire perché eri già tanto grande… oh, ma guardati…”
“Sta aprendo gli occhi!” Andrew allungò una mano per toccare il bambino, ma si fermò a pochi centimetri da lui, incerto se sfiorarlo o meno.
“Prendilo, coraggio – lo incitò l’amica – è anche grazie a te se è qui… Andy sei stato… ti prego, prendilo.”
Con mosse impacciate il giovane prese tra le braccia quel fagottino che si agitava: non riusciva a credere che il figlio di Laura fosse finalmente nato e che si potesse provare una sensazione così incredibile a tenerlo in braccio. Osservandolo bene si accorse che aveva  ciuffetti rossicci sulla testa, mentre gli occhietti erano grigio indaco, come succedeva nei neonati.
Oh, ma prometti di averli grigi come quelli della tua mamma…
“Ehi – mormorò, alzandosi in piedi e cullandolo – finalmente ci conosciamo. Tre chili e mezza, siamo belli grandi…”
“E’ in ottima salute, così come la madre: non è stata una passeggiata ma è andato tutto a meraviglia.”
“Grazie dottore, sul serio…” Andrew si sentiva come il più riconoscente dei padri: se non avesse avuto il bimbo in braccio sarebbe corso ad abbracciare quell’uomo meraviglioso che aveva aiutato Laura.
“Tornerò domani a visitarla, signora. Adesso pensi a riposarsi.”
“Ehi… Laura… Laura, è bellissimo – Andrew tornò a rivolgersi all’amica, trovandola bella, come mai era stata: viso pallido, guance umide, capelli stravolti… tutti dettagli trascurabili: la maternità le aveva donato qualcosa di così affascinante che era impossibile non accorgersene –  Quando Henry lo saprà ne sarà felicissimo! Come vuoi chiamarlo?”
La giovane parve sul punto di rispondere, ma poi rimase qualche secondo in silenzio e si leccò le labbra prima di dire:
“Vorrei che gli dessi tu il nome.”
“Che? – la guardò incredulo –  Ma no! Non posso; non l’avevi già deciso? E’ una cosa importante, spetta a te…non posso levarti questo privilegio.”
“Andrew Fury, non so cosa avrei fatto senza di te. Assieme ad Henry sei l’unica persona che mai mi ha abbandonato… e stasera hai ancora una volta dato dimostrazione di che meraviglioso amico sei. Dagli un nome, ti prego, ci terrei davvero che il mio piccolino avesse un simile regalo da te.”
Il bambino, avvolto nella copertina, prese a ciangottare dolcemente, agitando il pugnetto contro di lui. Non poteva fare a meno di restare incantato da quell’espressione così innocente e vispa. Doveva dargli un nome: un qualcosa che gli sarebbe rimasto per sempre…
Che possa essergli d’ispirazione…
“Heymans ti piace? – si trovò a dire, rivolgendosi al piccolo –  E’ stato un ingegnere importante, sai? Chissà, magari farai grandi cose come lui. Di sicuro per me è stato di grande ispirazione… e se poi crescendo vuoi fare di tutto meno che l’ingegnere fa niente, non penso sia un problema.”
“Heymans? Mi piace…” sorrise Laura.
“Proviamo: ehi, Heymans? Ah, vedi? Mi guarda… allora affare fatto, ragazzo mio. Adesso però credo che sia giusto che tu torni tra le braccia di tua madre.”
“Vieni, Heymans – mormorò Laura, con una dolcezza del tutto nuova nella voce – vieni dalla mamma.”
Ed Andrew rimase estasiato a vedere quella scena, antica come il mondo, che si ripeteva dalla notte dei tempi, ma che non mancava mai di destare stupore. Una madre che guarda negli occhi il proprio bimbo appena nato era l’espressione d’amore più pura che riuscisse a concepire.
Ne è davvero valsa la pena.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23. 1882. Meritare solo amore. ***


Capitolo XXIII

1882. Meritare solo amore.

 
 
Laura si appoggiò con gratitudine al braccio della madre di Andrew, le sue gambe che facevano davvero difficoltà a camminare. Un lieve senso di vertigine la accompagnò fino a quando non fu finalmente adagiata sui cuscini del letto dalle lenzuola pulite e profumate.
“Cielo che fatica – sospirò – eppure sono solo andata in bagno.”
“Tesoro, hai partorito nemmeno dieci ore fa – Anna le sistemò meglio il lenzuolo – è più che normale. Senza considerare le dimensioni del tuo bimbo: il tuo corpo ha proprio bisogno di riprendersi.”
“Mi dispiace di averla costretta a passare la notte qui.”
“Oh, tranquilla, mi dispiace solo di non essere stata presente per il parto, mia cara – la donna si avvicinò alla culla che stava al lato del letto e prese tra le braccia il neonato che ciangottava dolcemente – Eccoci qua, giovanotto, scommetto che vuoi andare il braccio alla tua mamma. Ma lo sai che sei proprio un bel bimbone?”
Laura sorrise estasiata come Heymans le venne messo tra le braccia: ammirarlo alla luce del giorno era qualcosa di completamente nuovo. La pelle aveva già perso parte del rossore dovuto allo stress del parto ed i ciuffi rossicci erano più evidenti.
“Prova da sola questa volta – le consigliò Anna – ormai dovresti riuscire ad attaccartelo al seno.”
La giovane annuì, confortata anche dal sostegno di quella donna esperta: con mosse ancora un po’ impacciate si sbottonò parte della camicia da notte e avvicinò il bambino al seno. Con le dita aiutò la piccola bocca a trovare la presa e sospirò di sollievo quando lo sentì attaccarsi ed iniziare a mangiare. I momenti di panico che aveva vissuto quella notte quando proprio non ci riusciva erano stati tremendi: solo l’arrivo della madre di Andrew aveva riportato la calma.
Avrebbe dovuto esserci mia madre ad aiutarmi in queste cose… lavarmi, cambiare le lenzuola, sistemare il bambino. Se non ci fossero stati Andrew e sua madre non so proprio come avrei fatto.
“Come sta Andy? – chiese all’improvviso – Stamane non l’ho ancora visto.”
“Sta dormendo nel divano – ridacchiò Anna – era così stravolto che è crollato non appena ha visto che tu e il piccolo chiudevate finalmente gli occhi. Diciamo che ha passato una nottata interessante.”
“Non so proprio come sdebitarmi con voi, signora – non poté far a meno di abbassare lo sguardo e accarezzare un braccio del bambino che usciva dalla tutina smanicata – avete sempre fatto così tanto per me, mi avete sempre trattato come una figlia. Ammetto di essere molto mortificata anche con voi per come mi sono comportata… sono stata un’irresponsabile.”
“Non ti avremmo mai cacciata di casa, se è questo quello che stai alludendo – Anna le si sedette accanto e le sistemò una ciocca di capelli rossi – ti saremo stati vicino ed il bambino sarebbe stato accettato con tutto l’amore possibile. Tesoro, mi dispiace, posso immaginare quello che devi aver passato in questi mesi. Spesso io ed Andrew ci chiedevamo se potevamo fare di più, ma…”
“Oh no, non potevate compromettervi fino ad un simile punto – Laura scosse il capo – già Andy ha fatto troppo, rischiando anche il suo rapporto con Ellie.”
“Andrew si è comportato proprio come ci saremmo aspettati io e mio marito. Non possiamo che essere fieri di lui… di entrambi. Tienilo sempre a mente: un bambino è un gesto d’amore e di coraggio, il più profondo che una donna può compiere. Non te ne devi mai vergognare.”
“Su di Heymans non ho assolutamente dubbi – posò l’indice sulla testa del bambino e gli lisciò un ciuffo ramato – è su di me e sul resto della sua famiglia che ne ho. Spero davvero che la sua nascita aggiusti le cose, almeno in parte.”
Una piccola e razionale parte di lei le diceva che erano solo fantasticherie: alla pancia si era sostituito un bambino e dunque le cose non cambiavano, anzi forse peggioravano. Ma tutto il resto della sua persona si diceva che non si poteva provare sentimenti negativi davanti a quel neonato così dolce, indifeso, bisognoso di tutto l’amore del mondo.
Non su di te, amore mio, non si possono far ricadere le colpe su di te.
 
“Andy, tesoro, coraggio svegliati.”
“Uh – Andrew aprì di colpo gli occhi e scattò in piedi, pronto a correre ovunque gli dicessero – che succede? Devo andare a chiamare…?”
“Tranquillo, caro – lo bloccò Anna con un sorriso – va tutto bene. Il medico è appena andato via e ha detto che Laura ed il bambino sono in ottima forma. Vorrei tornare a casa per lavarmi e cambiarmi, ti dispiace? E lo dovresti fare pure tu, sul serio, sei proprio disastrato.”
“Posso immaginare – sospirò mettendosi seduto nel divano e sentendo le ossa protestare. Scuotendo un braccio mezzo addormentato per la posizione che aveva assunto si accorse di avere il polso livido: non credeva possibile che Laura potesse stringere in quel modo – Facciamo così, vai pure tu e riposati… fino a pomeriggio posso stare io qui. Sono solo leggermente maleodorante e trasandato, ma il sonno l’ho recuperato. E poi come torni vado a casa io e mi sistemo, va bene?”
La donna annuì, accarezzando una guancia del giovane con amore.
“E suo marito?” chiese infine.
“E’ rientrato ieri notte stessa, mentre tu ti occupavi di Laura – spiegò Andrew, lanciando uno sguardo irritato verso le scale – Era così ubriaco che non mi ha nemmeno ascoltato mentre gli dicevo che era nato il bambino: credo stia ancora russando della grossa nella sua stanza.”
“Cielo, che situazione – Anna scosse il capo, mettendosi una mano sulla tempia – povera Laura e povero piccolo. Spero solo che quell’uomo cambi radicalmente ora che Heymans è nato.”
“Ne dubito…”
“Dici?” chiese mentre si avviavano verso la porta
“E’ difficile da spiegare, mamma – Andrew le cinse le spalle con un braccio, grattandosi il mento dove già sentiva le puntine della barba che cresceva – ma io credo che di quell’uomo non mi potrò mai fidare completamente… anzi proprio per nulla. Ad Henry bastava che stesse lontano da Laura, ma è comunque suo marito e non funziona così. Io spero vivamente di sbagliarmi, però non… oh, ma dai, lascia stare. Ora torna a casa e riposati: ieri ti ho praticamente trascinato qui che nemmeno ti eri cambiata dalla cena.”
“Ci vediamo tra un paio di ore, Andy – lo bacio sul naso e gli arruffò i capelli castani – mi raccomando mangia qualcosa e fai mangiare anche Laura. Un pasto leggero, va bene?”
“Ci penso io. A più tardi… e dì a papà se passa Ellie di spiegarle cosa è successo e di scusarsi tanto. Andrò a trovarla io stasera stessa o domani.”
Dopo aver preso congedo dalla madre ed essere andato in bagno a darsi una sciacquata al viso, Andrew si sentì in grado di affrontare anche quella mattinata. Ancora non ci poteva credere che aveva aiutato la sua miglior amica a partorire: prendere tra le braccia Heymans e potergli dare il nome era stata una delle sensazioni più belle che avesse mai provato in vita sua. Era questo che si provava ad essere genitore? O forse, considerato che Heymans non era figlio suo, era qualcosa di ancora più elevato?
Genitore… beh, in ogni caso è giusto che poi racconti ad Ellie quanto è successo ieri notte – rifletté, sistemandosi i capelli arruffati – non posso tenerle nascosto che ero presente alla nascita del bimbo.
E comunque un giorno anche lui ed Ellie avrebbero…
Il pensiero lo fece arrossire, ma gli diede anche un senso di aspettativa del tutto nuovo che lo mise di buonumore come mai era successo. Adesso poteva andare a preparare qualcosa da mangiare.
 
Circa un’ora dopo Laura stava sdraiata di fianco e osservava Heymans che, avvolto nella copertina, dormiva della grossa. Per la decima volta premette delicatamente l’indice sul palmo della manina aperta e sorrise nel vedere come le piccole dita si chiudevano su di esso.
Ancora era meravigliata dall’idea che il bambino fosse reale e accanto a lei: era un qualcosa di così morbido e adorabile che le ricordava molto un pupazzo che aveva da piccola e al quale era particolarmente affezionata. Ora, sapeva bene che un bimbo vivo richiedeva molte più attenzioni di un pupazzo, tuttavia guardandolo così placido e tranquillo si chiese che problemi le potesse mai causare. Per questo bambino non si prospettava che amore, certamente, non poteva che essere così.
Il mio perfetto bimbo…
“Heymans… – sussurrò, accarezzandogli il fianco – lo sai che il dottore ha detto che sei già grande quando un bimbo di due settimane? Ma non ci offendiamo, no… vero? Perché noi sappiamo che sei un bimbone grande e… tremendamente spupazzabile.”
Dovette trattenere una risata a quell’ultimo aggettivo, ma come altro poteva definirlo?
“… con un pancino così, del resto, sì, siamo proprio spupazzabili.”
Qualcuno bussò alla porta e subito si girò.
“Ehi, Lauretta – Andrew fece il suo ingresso – come va?”
“Benone – sorrise lei, protendendo le braccia per abbracciare ancora una volta il suo amico: aveva scoperto di aver voglia di abbracciare il mondo intero quella mattina – e come potrebbe andare male con lui che è qui con me? Guardalo, Andy, non trovi che spupazzabile gli stia benissimo? Non sembra un grosso pupazzo da stringere? Quello che avevo da bambina, ti ricordi?”
Ma Andrew rispose solo con un vago sorriso e poi tornò serio.
“Ci sono i tuoi genitori al piano di sotto – annunciò – sono venuti a trovarti a quanto pare.”
“Davvero? – Laura sgranò gli occhi incredula: un evento simile non se lo sarebbe mai aspettata – sono venuti qui? Di loro iniziativa?”
“Sì… senti, Laura – iniziò il giovane – ieri siamo stati così impegnati con il parto che non ti ho potuto dire una cosa che mi è successa…”
“Possibile che abbia funzionato? – lei si mise a sedere sul letto – Possibile che la nascita di Heymans abbia cambiato le cose e che in qualche modo tutto si possa aggiustare?”
“Che? Laura, aspetta, non credo che… insomma, sono venuti di loro volontà, è vero. Ma non credo che… amica mia, non voglio che tu resti delusa non per la millesima volta. Quelle persone non sono buone, dovresti saperlo… anche se sono i tuoi genitori.”
“E’ il loro nipote… forse a questo punto hanno in parte accettato che… oh, ma insomma, Andy, guardalo! Per lui non ci deve essere solo amore? Non puoi odiarlo… loro non possono.”
“Laura, loro non sono venuti ad aiutarti nel parto nonostante io li avessi avvisati – la bloccò Andrew – senti, facciamo che vado giù e gli dico che sei stanca e non… ti prego, non riceverli.”
“Devo – sospirò lei, accarezzandogli una guancia – voglio dare loro quest’occasione. Non posso privare Heymans della possibilità di avere dei nonni solo per quello che è successo. Sono sicura che anche Henry mi direbbe di fare così.”
“Dici?”
“Sì, ne sono convinta. Avanti, chiamali pure, vedrai che andrà tutto bene.”
Vedendo l’espressione del suo amico che usciva dalla stanza, Laura capì che era tutto meno che soddisfatto di quella decisione. Ma poi volse lo sguardo su di Heymans che nel sonno si era mosso spostando la copertina e restando in parte privo di protezione. No, non poteva permettere che dissapori personali pregiudicassero una serena vita familiare per il suo piccolo: era disposta a fare un passo indietro, dimenticare. Se questo dava la possibilità a suo figlio di avere dei nonni, così sarebbe stato.
Sistemò meglio la copertina in modo da coprire anche la testina addormentata e poi si mise in una posizione più confortevole nei cuscini, passandosi una mano tra i capelli in modo da apparire più presentabile.
Hai avuto terrore di loro in tutti quei primi mesi di gravidanza. Ma adesso sei una madre, Laura, una donna comunque sposata e adulta. Non possono farti nulla in ogni caso.
Si ripeté mentalmente queste frasi mentre la porta si apriva ed Andrew faceva entrare i suoi genitori e poi tornava fuori dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.
“Ciao, mamma, ciao papà” salutò con un lieve sorriso.
Elias le rivolse appena un cenno di saluto e la fissò con aria profondamente imbarazzata, ma Laura non ci fece caso: sapeva benissimo che suo padre era molto restio a vederla in camicia da notte. Però fu sicura di vedere una minuscola nota di sollievo nei suoi atteggiamenti: forse era felice che tutto fosse andato bene.
Sua madre invece la scrutava con attenzione, le mani tenute davanti al grembo.
Lo so che è difficile riniziare – pensò Laura, fissandoli con aria incoraggiante – però dai… ce la possiamo fare.
“Stai bene?” chiese infine sua madre, dopo essersi schiarita la voce.
“Sì, mamma – annuì lei, felice di quell’inizio di dialogo – lo vuoi vedere il piccolino?”
Certo che dovevano vederlo: era il bimbo che aveva rivoluzionato la sua vita, il suo modo di vedere il mondo. Poteva cambiare le cose per la loro famiglia, ne era certa. La sua mano andò alla copertina che avvolgeva il piccolo: sperava di non svegliarlo… o forse sì? Del resto da sveglio emetteva dei versi così dolci e ti fissava in un modo al dir poco adorabile.
“No”
“No?” Laura si girò a guardarla con incredulità, mentre l’incantesimo si rompeva. Immediatamente la vecchia paura e diffidenza tornò a ripresentarsi. Fu anche sicura di sentire i peli dietro la nuca rizzarsi per il pericolo, proprio come succedeva nei gatti. All’improvviso si rese conto che non era molto felice di essere nella stanza assieme a loro.
“Come puoi essere così felice?” chiese ancora Susanna, con voce a metà tra l’incredulo e il rimprovero.
“E’ mio figlio: è nato e sta bene – Laura non poteva credere di sentire cose simili da una madre – Come puoi farmi una domanda simile? Certo che sono felice…”
Come aveva detto la madre di Andrew? Che mettere al mondo un bambino era il gesto d’amore più profondo. Sua madre aveva messo al mondo sia lei che Henry… come poteva non capire la gioia che lei stava provando in quel momento?
“Non capisci che sarebbe stato molto meglio se fosse nato morto?”
“Cosa?”
Morto
Quella parola cadde pesante nella stanza, ma soprattutto nel cuore di Laura. Immediatamente un senso di profondo disgusto la pervase, gli ultimi fili di un legame che venivano drasticamente recisi. Sentì una disperata esigenza di difendere il suo piccolo da quelle persone, da quella parola che era stata detta in maniera così cattiva. Lo prese tra le braccia e se lo strinse con forza al petto.
Quel gesto ovviamente lo fece svegliare e subito iniziò a piangere, protestando per quell’irruenza che aveva turbato il suo riposino. Ma quei vagiti per Laura significavano ancora di più: andavano a contrastare la parola proibita che ancora echeggiava nella stanza. Il suo bambino era vivo e stava bene.
“Se fosse nato morto avresti potuto ricominciare una vita relativamente normale – Susanna si mise una mano sulla tempia con aria esasperata, proprio come succedeva ogni volta che discutevano – per quanto ormai sposata con quello là. Ma questa storia del figlio partorito cinque mesi dopo il matrimonio…”
Ma Laura nemmeno ascoltava quelle farneticazioni: scuoteva il capo fissando a turno la donna e suo padre che continuava a restare nel suo patetico e dignitoso silenzio.
Avevi ragione, Andy… avevi ragione. Sono delle persone orribili!
“Se è questo tutto quello che hai da dire, allora vattene via e non osare mai posare gli occhi sul mio bambino” disse questa frase con voce calma e spietata, ma ci mise tutto il rancore che provava nei confronti di quelle due persone che l’avevano abbandonata quando aveva maggiormente bisogno di loro e che ora si ripresentavano… augurandole la morte di Heymans.
“Non capisci…”
“No, tu non capisci! – alzò la voce, sovrastando il pianto del piccolo – Né tu né papà! Andate via! Subito! Andrew! Andrew… ti prego!”
Il giovane si catapultò dentro la stanza, quasi sfondando la porta, facendo chiaramente capire che era rimasto fuori pronto ad intervenire alla minima occasione. Tenendo la schiena più dritta possibile e guardando in faccia i due coniugi, disse con voce leggermente tremante ma sicura.
“Signori Hevans, credo che sia ora che andiate via.”
“Patetico ragazzo – sbuffò Elias, parlando per la prima volta – vieni, cara, andiamo via.”
Susanna lanciò un’ultima occhiata alla figlia e poi seguì il marito fuori dalla porta.
Mentre Andrew li accompagna fuori, sicuramente per sincerarsi che andassero via davvero, Laura permise alle lacrime di colare giù dagli occhi. Si sentiva così addolorata, ma soprattutto tremendamente in colpa.
“Amore… amore, scusa – singhiozzò, cercando di calmare il bambino – la mamma non voleva svegliarti così… la mamma non voleva che succedesse questo… sssh, per favore… per favore scusami.”
Scusami… ci dovrebbe essere solo amore per te… scusami… scusami…
“Sssh, ehi, Heymans – Andrew le fu accanto e le tolse il piccolo dalle braccia, iniziando a cullarlo – va tutto bene, piccolo mio, è stato solo un brusco risveglio.”
“Oddio, Andy, quanto avevi ragione…” sospirò Laura, facendosi cadere sui cuscini e asciugandosi le lacrime. Sentiva che il pianto del bambino andava scemando e questo la fece sentire meglio.
“Non ne vale la pena, amica mia, sul serio… non pensare più a loro.”
“Volevo… Andrew come possono aver augurato la morte del bambino?”
“Stavo per sfondare la porta come ho sentito quella frase – la voce di Andrew era dura come mai era successo – sono solo dei vigliacchi, Laura. Meglio perderli che trovarli, lo sai. Sssh, bravo piccolo, dormi… adesso ti metto decisamente più comodo tra le braccia della mamma.”
“Vieni, cucciolo – la giovane riprese il piccolo, baciandolo in fronte – va tutto bene. C’è lo zio Andy a proteggerci, come potrebbe non andare bene?”
E lo voleva credere davvero, altrimenti che altro le restava?
 
Quella pomeriggio Andrew accolse sua madre che tornava a dargli il cambio.
Si era finalmente calmato dalla rabbia che aveva provato qualche ora prima con quella sgradevolissima visita da parte dei genitori di Laura. Raccontò brevemente alla donna quanto era successo e la rassicurò che comunque la giovane si era ripresa abbastanza bene.
“… per quanto possibile. Quello che ha detto quella donna non ha giustificazioni.”
“Ma come si può arrivare a tanto? – sospirò Anna, profondamente desolata mentre salivano le scale – vado da Laura e poi preparo qualcosa da mangiare in modo che per stanotte non si debba preoccupare di niente. Tu ora vai a casa a lavarti e cambiarti, caro.”
“Si, però prima…”
Un cigolio di una porta che si apriva e Gregor fece la sua comparsa.
I tre si guardarono con un lieve imbarazzo, ma poi Andrew prese in mano la situazione.
Chissà perché ora quell’uomo non gli faceva più paura, così come i genitori di Laura.
“Non so se ti ricordi di me – disse, facendosi avanti – sono Andrew Fury, un amico di Laura e lei è mia madre: eravamo presenti al tuo matrimonio.”
“Sì, mi ricordo – annuì Gregor, arruffandosi i capelli castani – posso chiederti che cosa succede?”
“Ieri forse non eri in condizioni di capirlo, ma Laura ha partorito il bambino.”
“Ah…”
Fu tutto quello che riuscì a dire: rimase fermo sulla soglia della stanza, invece di correre da Laura o almeno chiedere come stava. Questo non fece che confermare ad Andrew quanto pensava di lui.
Sei un irresponsabile, Gregor Breda. Ti odio con tutte le mie forze.
Ma non era il caso di scatenare nuove discussioni.
“Laura è ancora molto debole per il parto e mia madre la sta aiutando… vai pure da lei, mamma.”
“Vai a casa, Andrew” annuì Anna, mettendogli una mano sulla spalla.
“Ma…”
“Vai pure – ripeté lei – sono sicura che al signor Breda non creerà problemi che io resti fino all’ora di cena per assicurarmi che vada tutto bene, vero?”
“Certo, signora – annuì Gregor – anzi la ringrazio per l’aiuto che sta dando.”
“Visto? E’ tutto a posto, Andrew. Forza, vai.”
“Torno a prenderti alle otto, va bene?”
“Perfetto tesoro.”
Andrew annuì un’ultima volta davanti a quel viso così calmo e sicuro di sé. Spesso tendeva a dimenticare che nonostante i modi pacati e la voce tranquilla sua madre era una donna molto forte: non avrebbe corso rischi a stare da sola in quella casa, ne era certo. E poi sarebbe stata quasi tutto il tempo con Laura ed il piccolo e dubitava che Gregor avrebbe messo piede in quella stanza di sua spontanea iniziativa.
Maledetto, eppure è tuo figlio.
Uscire da quella casa fu come respirare di nuovo. Non se ne era nemmeno reso conto, ma praticamente aveva passato quasi un giorno intero tra quelle mura: decisamente aveva bisogno di sgranchirsi le gambe e di godersi un minimo di libertà dopo quelle ore così intense e difficili.
La prima cosa che fece fu tornare a casa a farsi un bagno lungo almeno venti minuti, il che contribuì a levargli la maggior parte dello stress accumulato. Di conseguenza quando fece un ampio resoconto a suo padre di quanto era successo era molto più lucido del previsto. Tuttavia non restò a casa a riposare: sentì l’esigenza di uscire e di andare a trovare una determinata persona.
Come arrivò a casa Lyod sentì la sua voce che cantava una vecchia melodia e questo lo portò a girare attorno alla casa ed andare sul cortile posteriore. Ellie era sulla piccola altalena che era stata costruita su un grosso ramo di quercia: non si dondolava, ma si limitava a stare seduta ad intrecciare alcuni fiori che teneva in grembo. Vedendola così bella e pura, alla luce della sera, il giovane rimase a fissarla, beandosi di quella voce cristallina che cantava. Fu solo come l’ultima strofa finì che si avvicinò
“Ciao, meraviglia.”
“Andrew! – i fiori caddero per terra come lei si alzò per corrergli incontro – Oh, Andrew! Ho saputo! Sono passata a casa tua e tuo padre mi ha raccontato tutto! Allora? Come sta Laura? Ed il bambino è bello? Vorrei tanto vederlo!”
Decine e decine di domande lo subissarono: domande felici, di una persona entusiasta di quella nascita che invece per altri era un problema. Questo lo fece sentire meglio, come se il mondo riprendesse a muoversi per il verso giusto. Ci mise quindi tutto l’impegno possibile per rispondere a quelle curiosità, come il colore di occhi e capelli, come stava Laura e così via.
“Sono stato presente al parto – ammise infine, quando entrambi erano seduti sul prato – non mi sembra corretto nascondertelo. Ho tenuto la mano di Laura e l'ho incitata come potevo, spero che questo non ti…”
Il bacio di lei sulla guancia lo interruppe.
“Oh, Andrew – mormorò, stringendogli le braccia al collo – sei una persona meravigliosa, me lo confermi ogni giorno di più. Sei stato fantastico ad aiutare Laura in un momento così.”
“Sono felice di queste tue parole, meraviglia…”
“Un giorno anche noi avremo dei bambini – continuò lei, arrossendo lievemente – mi piacerebbe tanto una femminuccia, ma anche un maschietto… Sai, a volte ritengo che sia noioso essere figlia unica: mi sarebbe sempre piaciuto un fratello maggiore, ma anche una sorella maggiore… però a pensarci bene anche dei fratellini e delle sorelline minori devono essere fantastici, del resto adoro andare dai piccoli delle elementari durante l’intervallo…”
“Ehi, quante pretese! – ridacchiò Andrew, arrossendo pure lui – ma quanti ne vuoi di bimbi?”
“Oh, tanti! Li adoro… e tu?”
“Se saranno i nostri il più possibile – disse in assoluta sincerità, incurante del fatto che lei avesse sedici anni: ma del resto sapevano benissimo che il loro futuro era assieme – tutti quelli che vuoi, meraviglia.”
“E… e io e te… faremo l’amore, Andrew. E sarà bello, bellissimo… perché ci amiamo tanto.”
“Certo, Ellie, sarà bellissimo.”
Ti darò tutto me stesso, Ellie, su questo puoi starne certa. Ti sarò vicino per tutti i bambini che metterai al mondo: voglio essere lì ad abbracciarli assieme a te, ad esserne orgoglioso e felice. A baciarti e dirti che sono l’uomo più fortunato del mondo ad avere te.
Voglio che per noi due il mondo ruoti nel verso giusto.
 
Qualche ora dopo Laura si alzò dal tavolino che stava nella stanza dove aveva consumato la sua cena.
Aveva notato con piacere che il senso di vertigine nello stare seduta dritta era finito e anche le sue gambe stavano decisamente meglio: camminare non era più così difficile.
Quella notte se la sarebbe cavata da sola, ne era certa: anche se la madre di Andrew si era offerta di restare ad aiutarla, aveva insistito perché tornasse a casa sua. Domani mattina, come sarebbe tornata, le avrebbe dimostrato che tutto era andato per il meglio.
Male che vada posso chiedere aiuto a Gregor.
Incredibilmente suo marito le aveva detto che sarebbe rimasto a casa quella sera.
E questo la faceva ben sperare: forse la nascita del bambino aveva avuto un buon effetto almeno su di lui.
Però non riusciva a capire perché non fosse ancora entrato a vederlo.
Quasi ad evocarlo Gregor bussò discretamente ed entrò nella stanza.
“Se hai finito di cenare posso portare via il vassoio.”
“Cosa? Oh, ma certo – annuì Laura, seduta sul bordo del letto proprio accanto alla culla di Heymans – ecco… io…”
“Ti serve altro?”
Laura esitò.
Non lo vuoi vedere?
“Non l’hai ancora guardato – mormorò, abbassando lo sguardo sul bambino – non vuoi?”
Sentì i passi dell’uomo che si avvicinavano alla culla e poi tutto rimase in silenzio: nessun gesto o parola.
“L’ho chiamato Heymans – decise di essere lei ad intavolare il dialogo, magari era solo questione di spezzare il silenzio – ti piace?”
Alzò lo sguardo e vide che Gregor continuava a fissare il piccolo dormiente senza dire niente: non riusciva ad interpretare i suoi sentimenti. Era… apatico.
Oh ti prego, non rifiutarlo così.
“Se… se gli tocchi la manina non lo svegli – continuò – è tranquillo… ha appena mangiato…”
“State bene entrambi?” finalmente lui si riscosse, levando lo sguardo da Heymans.
“Sì…”
“Meglio così…” andò a recuperare il vassoio dal tavolo ed uscì dalla stanza.
Laura provò a richiamarlo, ma poi si rese conto che era inutile: non poteva forzarlo in questo modo.
Con un sospiro triste tornò a contemplare Heymans che dormiva beatamente, completamente ignaro dei rifiuti che aveva subito in poche ore.
“Ti prometto che andrà tutto bene, amore mio. Ci sarà sempre la mamma ad amarti e proteggerti – mormorò, accarezzandogli la guancia – tu non devi aver paura di niente. Lascia fare a me.”
Un bambino doveva esser sempre motivo di gioia e felicità.
Per diverse persone Heymans non lo era stato, tutt’altro.
Ma Laura aveva appena deciso di proteggere il suo bambino anche da questo.
Per la prima volta in vita sua era veramente sicura di qualcosa.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24. 1882. Lettera dal fronte. ***


Capitolo XXIV

1882. Lettera dal fronte.

 

 

Con uno sbuffo Laura impilò la biancheria e la ripose nel cassettone, provando particolare soddisfazione quando vide l’armadio finalmente in ordine. E girandosi il suo orgoglio aumentò constatando che la stanza matrimoniale aveva decisamente un aspetto più accogliente del solito.
“Visto che brava la mamma, Heymans? – chiese andando alla culla e prendendo il bambino – finalmente sta venendo a patti con tutta la casa e i lavori domestici non le sono più così ostici.”
Il piccolo la guardò con curiosità, i suoi occhi che adesso riuscivano a mettere maggiormente a fuoco. Poi, probabilmente, capì che era stato preso in braccio per un motivo ed iniziò a ciangottare con aspettativa.
“Lo capisci sempre al volo quando è ora di mangiare, vero? – ridacchiò Laura, sedendosi nel letto e sbottonandosi la camicetta – Sei decisamente un grosso pupo mangione, eh? Sei raddoppiato da quando sei nato, sai? Se continuiamo così come farò a prenderti in braccio, me lo dici?”
Ma mentre lo allattava non poteva fare a meno di accarezzare quelle braccia e quelle gambe così paffute: lo riteneva un bimbo estremamente bello proprio per questa sua caratteristica. I ciuffi rossi erano cresciuti ulteriormente ed ora tutta la testa era ricoperta da quei capelli così sottili e setosi.
“Sì, decisamente hai i capelli rossi di mamma e di zio – commentò – chissà che faccia farà quando ti vedrà per la prima volta. Gliel’ho scritto, sai, che sei un grosso e grasso pupo spupazzabile… che cresci così velocemente che quasi non riesco a crederci. Ma quando mai ad un mese e mezzo si pesa più di sei chili, eh?”
Effettivamente il medico aveva detto che era davvero insolito uno sviluppo fisico così precoce, ma sembrava che niente non andasse nel piccolo. E Laura non era preoccupata: intuiva che se capelli, e probabilmente occhi, li aveva presi da lei, per la stazza era stato invece il sangue paterno a farla da padrone. Gregor effettivamente era molto massiccio e grosso e tutto faceva pensare che col passare degli anni Heymans gli sarebbe somigliato parecchio. Una piccola parte di lei era dispiaciuta: avrebbe preferito che diventasse simile ad Henry, ma forse questa somiglianza avrebbe aiutato padre e figlio a creare un rapporto che in quel momento ancora non esisteva.
“Hai finito? – chiese, sentendo che il bimbo mollava la presa dal seno – Allora adesso vieni in cucina con la mamma. Tanto ti riaddormenti subito e puoi stare nel cesto mentre lei inizia a pensare alla cena, va bene?”
A dire il vero avrebbe potuto lasciarlo tranquillamente nella culla: Heymans si era dimostrato sin dai primi giorni un bambino estremamente buono che piangeva solo per mangiare o essere cambiato. Persino quel temporale settembrino che stava imperversando da diverse ore sembrava non turbarlo minimamente.
Tuttavia Laura preferiva sempre averlo accanto quando era sola in casa: aveva scoperto che averlo in una stanza diversa da quella dove stava le creava notevole ansia. Sapeva che spesso, nei primi mesi, era normale avere un attaccamento così maniacale alla propria creatura e dunque non se ne preoccupava: del resto Heymans poteva aver bisogno di lei in qualsiasi momento e dunque era anche una questione di mera comodità averlo vicino.
“… che ne pensi – chiese mentre scendeva le scale – dopo cena verrà a trovarci lo zio Andy?”
Ma sarebbe stato improbabile considerata quella pioggia: spesso, dopo luglio ed agosto particolarmente caldi, la prima parte di settembre era costellata di temporali improvvisi che duravano diverse ore. In queste occasioni il fresco autunnale arrivava prima del previsto: secondo una vecchia storia era così che il tempo faceva ammenda per il caldo troppo afoso dell’estate.
“… afoso è luglio, seguito da agosto,
poi arriva settembre e piove tosto.
… No, decisamente non sembri interessato alla canzoncina della mamma.” sospirò nel vedere come Heymans fosse già bellamente addormentato tra le sue braccia. Lo depose nella cesta che teneva in cucina e che altrimenti portava in giro per la casa e si mise a fare mente locale su quello che aveva intenzione di preparare.
… oh dai, la crema la faccio lo stesso. Anche se a Gregor non piace, non è escluso che Andy passi lo stesso dopo cena.
Sembrava che suo marito e Andrew si dessero una sorta di cambio la sera: non si incontravano praticamente mai, ma dopo massimo dieci minuti che Gregor usciva, Andy si presentava da lei per vedere come stava. Non ne avevano mai parlato, ma Laura era certa che Andrew odiasse Gregor, e questa era una cosa veramente strana perché da quando lo conosceva era sicura di non aver mai visto il suo amico odiare qualcuno. Nel trio era Henry quello che poteva mostrare sentimenti così radicali, lei stessa, ma non Andrew Fury… lui era sempre la persona che cercava un compromesso, un modo per placare gli animi, quello che era disposto a passar sopra e perdonare, credendo che ciascuno avesse dei lati positivi.
… ma proprio perché è così buono nel momento in cui odia diventa qualcosa di definitivo.
Questo la faceva sentire parecchio triste: il fatto che Andrew non avrebbe mai cambiato la sua opinione su Gregor poteva essere un grosso ostacolo. Lei ormai si era convinta che in suo marito c’era del buono: nonostante col bambino non avesse instaurato nessun rapporto, con lei invece iniziava a dimostrare un minimo di confidenza. Sebbene uscisse ogni sera, nelle ultime settimane tornava a casa prima della mezzanotte e mai ubriaco e, anche se non condividevano lo stesso letto, riuscivano a parlare e a stare nella stessa stanza con una certa tranquillità.
Laura era arrivata a ritenere che con il passare del tempo Gregor si sarebbe rivelato un buon marito e padre: probabilmente non ci sapeva fare molto con i bambini e l’idea di gestirne uno così piccolo lo metteva in difficoltà. Poteva succedere, non c’era nulla di strano: del resto nei primi anni di vita i bambini sono estremamente dipendenti dalle madri e non dai padri. Era solo questione di tempo prima che tra i due si creasse un legame, era chiaro.
… ma sì, è solo questione di aspettare e…
Un improvviso bussare alla porta la fece sobbalzare.
Era la prima volta che qualcuno veniva a trovarla a quell’ora e di certo non si poteva trattare di Andrew. Assicurandosi che il bimbo fosse ormai assopito nella cesta si recò all’ingresso, chiedendosi chi mai potesse essere: Gregor sarebbe tornato solo all’ora di cena e comunque di certo non avrebbe bussato.
Che sia Ellie che ha deciso di farmi un’improvvisata?
Tuttavia come aprì la porta rimase interdetta nel trovarsi davanti Marco, bagnato come un pulcino nonostante il leggero impermeabile che indossava sopra i vestiti.
“Marco?” Laura disse quel nome a voce alta, incredula che quel fantasma del suo passato si potesse presentare così all’improvviso. Per qualche secondo si sentì come se il tempo fosse tornato indietro e la loro relazione fosse stata rotta solo qualche giorno prima.
“Ciao, Laura – ansimò lui: chiaramente aveva fatto una corsa per arrivare sino a casa sua sotto quella pioggia – scusa se ti disturbo, ma è arrivata questa all’ufficio postale e credo sia urgente. Ne devo consegnare una anche ai tuoi genitori… e vengono entrambe dall’esercito.”
Solo in quel momento la giovane si accorse dell’apprensione che traspariva dai lineamenti dell’amico. Subito una bruttissima sensazione di gelo le attraversò la spina dorsale mentre allungava la mano tremante per prendere in mano quella busta leggermente umida per la pioggia.
“Io spero che… – iniziò il ragazzo, ma poi scosse il capo – devo andare a dare questa ai tuoi… scusami.”
Sistemandosi meglio il cappuccio gocciolante riprese la sua corsa verso le strade ridotte ad un pantano, ma Laura non lo seguì con lo sguardo. Era come fulminata, sulla soglia di casa sua, con quella lettera che sembrava pesare ogni secondo di più. Girandola vide che c’era il sigillo ufficiale dell’esercito… no, non poteva essere Henry che usava una cancelleria così particolare. Ed inoltre gli estremi erano scritti a macchina da scrivere e non a penna.
… ti prego… ti prego no…
Alcune gocce bagnarono ulteriormente la lettera mentre lei nemmeno trovava la forza di fare un passo indietro e chiudere la porta. Le sue mani presero a tremare in maniera incontrollata mentre si costringeva ad aprire quella busta per tirare fuori un unico foglio piegato in due.
Le bastarono le prime quattro parole.
Condoglianze formali dell’esercito…
Il mondo le crollò addosso come mai le era successo, una tremenda sensazione di vuoto che le si apriva nello stomaco.
“No! No… no!” singhiozzò cadendo in ginocchio, mentre diverse gocce di pioggia continuavano a raggiungerla. Ma lei sentiva solo il dolore che la faceva impazzire, mentre immagini di suo fratello continuavano a passarle per la mente… Henry che le prometteva di tornare, che le diceva che non vedeva l’ora di vedere suo nipote.
Quella dannata lettera spezzava tutto quanto, distruggeva la sua vita.
Cercando di soffocare i singulti si alzò in piedi e andò in cucina. Prese Heymans dalla cesta, ancora avvolto nella copertina, uscì di casa senza nemmeno chiudersi la porta dietro ed iniziò a correre, la lettera stretta in mano.
C’era una sola persona che poteva aiutarla, che poteva dirle che non era vero.
Corse verso casa sua, senza nemmeno rendersi conto della pioggia che sferzava su di lei ed il piccolo: in un gesto del tutto automatico strinse al petto il fagottino, ma non era consapevole di quanto stava realmente facendo. L’unica cosa che doveva fare era arrivare a quella casa, salire quei gradini, bussare fino a quando non le avrebbero aperto…
“Apri! – supplicò – Apri… ti prego… ti prego… Andrew…”
Quasi si accasciò contro la porta mentre le forze le venivano meno, ma proprio in quel momento si decisero ad aprirle e si trattava proprio di Andrew.
“Laura? – immediatamente la prese per le braccia e la fece entrare, portandola verso il salotto – Laura che è successo? Perché sei venuta con questa pioggia… col bambino poi! Gregor ti ha fatto qualcosa?”
La sommergeva di preoccupate domande mentre le prendeva il bambino dalle braccia e lo posava con delicatezza sul divano.
“Mio fratello! Mio fratello – singhiozzò, riuscendo finalmente a parlare – Andrew… ommiodio, mio fratello!”
“Laura, calmati! – tornò da lei e la prese tra le braccia – Sei fradicia… ma che è successo?”
“E’ arrivata poco fa – gli tese quella lettera gocciolante, non riuscendo a pronunciare quelle tremende parole che aveva letto – ommiodio… perché?”
Lo vide prendere la lettera e leggerla, fu questione di secondi prima che fossero stretti l’uno all’altra cercando conforto per una persona amata che non sarebbe più tornata da loro.
“No… no! – esclamò Andrew – Laura, Laura ti prego calma… Henry non vorrebbe… lui non… Dannazione!”
 
La voce di Anna che cantava una ninna nanna al bambino aveva un non so che di confortante per Andrew. Ma era solo per qualche secondo: non appena usciva da quello stato di trance in cui piombava ad intervalli irregolari da quando si era seduto nel divano, la tremenda realtà gli piombava addosso e lo schiacciava con tutto il suo tremendo peso.
Eppure doveva fare qualcosa.
Una parte di lui gli diceva che, ora che non c’era Henry, doveva essere lui a pensare a Laura. Era una promessa che aveva sempre fatto fin da quando l’amico era in Accademia, ma ora più che mai doveva mantenere.
Mantenerla? Come posso… come posso? Henry, non è vero! E’ solo una bugia… non ci possiamo essere salutati con uno stupido gesto come se fosse scontato rivederci.
“Laura – la voce di sua madre lo fece di nuovo riscuotere e notò che si era accostata alla ragazza che era raggomitolata su una poltrona – tesoro, devi dargli da mangiare. E’ affamato, coraggio…”
Ma la ragazza sembrava non capire e prese tra le braccia Heymans con apatia. Il bambino continuava a piagnucolare ed agitarsi, la sua testolina rossa che istintivamente si girava verso il petto della madre.
Fu Anna a sbottonarle con gentilezza la camicetta il tanto che bastava per permettere al bambino di trovare la presa ed iniziare a mangiare; in tutto questo Laura aveva solo ripreso a piangere.
Per senso del pudore Andrew trovò la forza di alzarsi ed uscire dalla stanza: si rifugiò nello studio di suo padre.
“Papà – mormorò – hai del liquore? Qualcosa di forte… per favore.”
Il notaio lo fissò con lieve sorpresa, ma poi si alzò dalla scrivania e si diresse verso una piccola credenzina.
Andrew si accostò a lui: si era ricordato del vago senso di sollievo che gli aveva dato il liquore offertogli dal padre di Ellie. Se poteva servire anche in quest’occasione tanto meglio.
“Buttalo giù tutto d’un fiato – gli consigliò il notaio porgendogli un bicchierino – è fuoco, figlio mio.”
“Fuoco? – Andrew scosse il capo con amarezza prima di mandare giù quel liquido bruciante – No… no, è la dannata guerra! Quella stupida guerra che non serve a niente, perché tanto i confini sono sempre quelli! E chi se ne frega se dei soldati muoiono per questa guerra… tanto a quei dannati al potere non succede niente… non vanno in mezzo alle granate… non…”
“Calmo, Andy – gli consigliò il padre, mettendogli una mano sulla spalla – modera la voce e pensa a Laura nell’altra stanza.”
“Nemmeno il corpo restituiscono – sibilò lui, ricacciando indietro per l’ennesima volta le lacrime – lui… lui meriterebbe la sepoltura ed invece… quelle dannate granate l’hanno… Cielo, ma come può una persona morire in un modo così orribile?”
“Lo so, lo so – suo padre lo abbracciò con comprensione – è una cosa tremenda… che sia successa ad Henry rende tutto ancora peggiore, me ne rendo conto. Sfoga pure tutto il tuo dolore, figlio mio, è giusto.”
“Nemmeno una tomba – sospirò Andrew contro la sua spalla – non… non ci sarà nemmeno una maledetta tomba per lui. Non si può… non si può…”
“Sssh, lo so – la mano gentile del notaio gli accarezzò i capelli castani – lo so, ragazzo mio.”
“Nell’ultima lettera che ci siamo scambiati gli ho detto… ci vediamo presto. Cavolo! Non so nemmeno se ha mai potuto leggerla… se è arrivata in tempo per… io… io avrei dovuto…” ansimò, il pianto che gli si bloccava in gola e non riusciva ad uscire.
“Andrew ti affido mia sorella in tutti i modi possibili, va bene? Devi provvedere a lei e al bambino anche nel caso dovesse succedermi qualcosa. Ti chiedo di essere forte come non mai, fratellino, solo di te mi fido a tal punto… Laura avrà bisogno di te.”
“Se lo sentiva… lo so…”
Quello sfogo venne interrotto da un lieve bussare e dall’ingresso di Anna.
“Che succede?” chiese subito Andrew, sciogliendosi dall’abbraccio del padre.
“L’ho fatta sdraiare, povera cara, ma è distrutta… cielo, Andy, vai da lei e stalle vicino. Credo che in questo momento tu e il piccolo siate le uniche persone che possono confortarla.”
“… ti affido mia sorella…”
“Vado subito, mamma.”
Non poteva permettersi di crollare, non ancora.
 
Correva dietro al fratello, continuando a chiamarlo, pregandolo perché lui la aspettasse. Succedeva sempre così quando andavano a fare delle passeggiate in campagna: all’improvviso lui si metteva a correre e a lei non restava che seguirlo… ma a otto anni era davvero difficile stare dietro ad un dodicenne.
“Fratellone! – chiamò tendendo la mano – Fratellone, aspetta!”
“Dai, folletto – lui si girò a guardarla senza tuttavia smettere la sua corsa in mezzo all’erba – muovi quelle gambette, coraggio!”
“Ma vai troppo veloce! – ansimò, sentendosi stanca – Ti prego, fermati!”
“Forza, fino a quella staccionata lì in fondo!” la incoraggiò, girandosi di nuovo in avanti.
Fece uno scatto per provare a raggiungerlo, ma il suo stivaletto destro inciampò su una radice e cadde rovinosamente a terra.
“Henry, aspettami! – singhiozzò, mettendosi a sedere e sentendo le ginocchia dolerle per la caduta. Era tutta sporca di terra: la mamma l’avrebbe sgridata – Henry! Henry…”
“Henry…”
“Laura…”
Sentì una mano che le accarezzava i capelli ed il sogno svanì.
Aprendo gli occhi vide il viso di Andrew ad una trentina di centimetri dal suo.
Capì che erano sdraiati sullo stesso letto e alzando lievemente lo sguardo riconobbe quella come la camera degli ospiti di casa Fury.
“Ti sei addormentata – mormorò il giovane, continuando ad accarezzarle le ciocche rosse – e ti abbiamo portato qui. E poi mi sono sdraiato accanto a te…”
“Da quanto?”
“Alcune ore, ma non ti preoccupare: sono andato ad avvisare tuo marito che per stanotte dormi qui.”
Dettagli… erano solo degli stupidissimi dettagli, lo sapevano entrambi.
Adesso erano solo in due, il mitico trio che era stato distrutto in una maniera orribile e irreparabile: erano improvvisamente senza capo, senza guida e questo li faceva sentire sperduti in mezzo ad una tempesta.
Si guardarono negli occhi, come a chiedersi chi avrebbe preso in mano la situazione adesso… chi si sarebbe assunto il compito di confortare l’altro, di colmare un vuoto che li stava straziando.
Con un sospiro Laura abbassò lo sguardo e solo allora si accorse che c’era Heymans tra loro due, pacificamente addormentato con la bocca che ciucciava la manica della tutina. Seguendo la direzione del suo sguardo, Andrew smise di accarezzarle i capelli e andò a sfiorare il fianco del bambino.
“Andy… Andy, prendiamo Heymans ed partiamo…”
“E dove vuoi andare, follettino?” sorrise tristemente lui, salendo ad accarezzare il braccio del piccolo, come se fosse suo padre...
“… lontano da qui, lontano da tutto questo – sospirò lei, girandosi supina per levare gli occhi da quella scena così dannatamente perfetta da farle male. Perché era quello che Henry avrebbe voluto… perché loro erano un trio perfetto ed era giusto che – dove… dove forse possiamo tornare ad essere noi stessi… dove…”
“Non scappare.”
La mano di Andrew le afferrò il polso e lei si sentì obbligata a guardarlo negli occhi.
Da quando sei così cresciuto, Andrew? Tu eri quello che restava indietro nelle corse… eri quello che…
“Lui è morto, Andy… è morto e non tornerà più…” mormorò.
“Lo so, ma…”
“Era mio fratello, mio fratello, capisci? Era… era tutto per me!” nuove lacrime uscirono, dolorose come tutte le altre.
“Proprio perché era tuo fratello devi… devi continuare a… scusami, pare una frase così patetica.”
“Evita di dirla, fammi il favore.”
Andrew si alzò a sedere nel letto e solo in quel momento Laura si accorse che i suoi occhi erano perfettamente asciutti: non aveva versato una lacrima.
“… lo sappiamo già, Laura, perché negarlo? – disse con semplicità – Farà male, lo farà sempre, ma noi andremo avanti con le nostre vite perché funziona così. Lui era… era dannatamente pragmatico certe volte, tanto che mi irritava, però lo faceva perché sapeva come andavano le cose. Eravamo noi quelli con gli occhi chiusi, Laura, non lo capisci? E ora… ora ci sta chiedendo di tenerli aperti e non rifugiarci di nuovo nella nostra sciocca illusione che… cerca di capirmi. Hai tuo figlio a cui pensare, ha bisogno del tuo amore non del tuo dolore o di una tua fuga. Non ce lo possiamo più permettere, follettino: possiamo solo tenerci per mano ed andare avanti, anche se siamo rimasti in due…”
Heymans scelse quel momento per svegliarsi: il suo dolce ciangottare parve smuovere qualcosa in Laura. Gli occhi grigi persero parte della dolorosa apatia che avevano avuto per tutte quelle ore e andarono a contemplare il bambino.
“L’avrebbe adorato – mormorò, accarezzandogli la testina rossa – non credi?”
“Non ho nessun dubbio in merito.” sospirò Andrew.
 
La settimana successiva trascorse come uno strano limbo dove Laura capiva ben poco.
Tornata a casa aveva ripreso automaticamente il suo ruolo di casalinga e madre, ma era come se svolgesse tutto senza pensarci: persino allattare Heymans e stare con lui non le dava più nessuna sensazione. Le uniche vere dimostrazioni di emozioni le aveva quando il ricordo del fratello si ripresentava prepotente e sentiva l’esigenza di sfogare di nuovo quel dolore: allora le lacrime ed i singhiozzi la straziavano per diversi minuti, ma poi si sentiva svuotata ed in qualche modo viva.
Grazie a questo normale e spontaneo processo di elaborazione del lutto, dopo sette giorni era tornata relativamente tranquilla e riusciva persino a sorridere quando vedeva il suo bimbo ciangottare e muoversi nella sua culla. Nel frattempo, protetta nel nido della sua casa, il mondo esterno le giungeva solo tramite le notizie che le portavano Andrew e la sua famiglia.
Seppe così che i suoi genitori erano andati via dal paese.
La morte di Henry li aveva devastati più del previsto: per diversi giorni le strilla di Susanna si erano sentite anche in strada. Alla fine, nell’arco di due giorni, avevano organizzato la partenza ed erano andati via.
“Non hanno lasciato detto o scritto nulla – spiegò Andrew mentre sedeva con lei in cucina a sorseggiare una tisana calda – ma sembra che il sindaco abbia avuto il compito di vendere la casa appena possibile. Gli ho chiesto se eventualmente potevo recuperare la tua roba e lui non ha fatto problemi. Quindi se vuoi…”
Laura lo bloccò scuotendo il capo con fastidio: di quello che c’era in quella casa non le importava più niente.
Per quanto riguardava i suoi genitori ancor meno, anzi dopo quanto era successo alla nascita di Heymans era una benedizione che fossero finalmente lontani.
“Va bene – sospirò Andrew – questa questione è chiusa… adesso ti devo parlare del testamento di Henry, Laura, è importante.”
La giovane alzò lo sguardo sull’amico, pronta a dire che non le importava niente nemmeno di quello.
Fu la prima volta che si accorse di quanto fosse pallida faccia di Andrew. Sembrava di vedere il fantasma del suo amico tanto era sciupato e distrutto: aveva il viso scavato, lo sguardo stanco, anche la voce denotava sfinimento. Ma un dettaglio particolare attirò l’attenzione di Laura.
I tuoi occhi sono ancora asciutti…
“… ieri parlando con mio padre ho pensato che la cosa migliore sia prendere ogni mese una piccola somma per provvedere alle necessità tue e di…”
“Andy…”
“C’è qualcosa che non stai capendo? Interrompimi pure quando vuoi, ti spiego ogni cosa che…”
Lo bloccò, prendendogli una mano e stringendola.
“Andy, sei riuscito a prenderti un attimo per te stesso?”
“Che? Oh, dai, Laura, non è il caso di pensare a queste cose – scosse il capo lui – dobbiamo fare…”
“Non mi hai risposto.”
“Lo faro, promesso – le concesse distrattamente – però adesso cerca di ascoltarmi…”
Laura scosse il capo con stizza e stava per ribattere, ma poi si accorse che qualsiasi cosa dicesse non sarebbe riuscita a smuoverlo.
Andrew si era assunto il ruolo di proteggerla, andando a raccogliere così l’eredità di Henry. Adesso era lui il leader del gruppo: un compito che non era adatto a svolgere, ma dal quale non si sarebbe mai tirato indietro. E non avrebbe mostrato dolore o debolezza, non davanti a lei.
E nemmeno davanti a te stesso, perché hai paura di cedere e di non sentirti all’altezza. Però… Andy, quelle lacrime vanno tirate fuori.
E se con lei non l’avrebbe mai fatto, c’era solo una persona che poteva avere successo.
“Sei stato da Ellie in questi giorni?”
“No, ci siamo visti di sfuggita e le ho detto che ho davvero molto da fare. E poi lei ha ripreso la scuola e dunque ha i suoi impegni, sai è l’ultimo anno. Comunque, credo che…”
“Vai da lei questo pomeriggio.”
“Uh? Devo dirle qualcosa da parte tua?”
“Sì – annuì, prendendo uno dei fogli bianchi che c’erano sopra il tavolo – le devi dare un messaggio.”
 
Ellie stava sistemando il suo armadio quel pomeriggio: il tempo faceva capire che ben presto i vestiti a maniche corte non sarebbero più serviti e dunque aveva deciso di iniziare il fantomatico cambio di stagione, o per lo meno di iniziare a tirare fuori ed arieggiare qualche indumento più pesante.
Piegando un maglioncino color panna alzò lo sguardo e si soffermò a guardare la sua immagine allo specchio: si vedeva così diversa, così adulta… se prima il suo corpo dimostrava meno dell’età effettiva, adesso le sembrava l’esatto contrario. Ma più che il fisico, ormai in pieno sviluppo, era qualcosa nel suo viso e nella sua espressione.
e in me stessa.
Qualcosa era cambiato in lei: il mondo dorato e incantato dell’infanzia era finito e quello dell’età adulta era ormai incominciato. Era una specie di limbo dove i piccoli sogni e le magie della sua anima andavano ad intrecciarsi con le aspettative dell’essere grandi.
… quando capisci che vorresti stare vicino ad una persona anche per esserle di conforto. Oh, Andrew, scommetto che ti stai tenendo tutto dentro, vero?
Non si erano praticamente visti da quando era arrivata quella brutta notizia: si erano parlati una volta, ma lui era praticamente scappato via, adducendo come scusa il fatto che doveva pensare a diverse cose. La verità era che aveva paura di mostrarsi debole davanti a lei.
Non va bene così, Andrew. Io sono qui anche per questo… per starti vicino nei momenti difficili. Che senso ha stare insieme se poi ti nascondi in questo modo?
“Ellie – la chiamò sua madre – sta salendo Andrew, va bene?”
“Andrew? – sussultò nel sentire il suo nome – Ma certo, mamma!”
Con mosse affannate prese gli indumenti posati sul letto e mise dentro l’armadio, chiudendolo giusto un secondo prima che lui bussasse alla porta ed entrasse.
“Ciao, meraviglia.”
“Ciao, Andrew – lo accolse con il più dolce dei suoi sorrisi – come stai?”
“Bene – si fece prendere per mano e condurre nel letto – sono appena stato da Laura, ho un bigliettino che ha scritto per te.”
“Davvero? – prese quel foglietto piegato – Per me?”
Lo lesse e poi sospirò, spostando lo sguardo verso il fidanzato: tralasciando ogni forma di formalità aveva abbandonato la posizione seduta per farsi cadere all’indietro e ora fissava il soffitto con aria stanca.
“Andrew – mormorò Ellie, accarezzandogli i capelli – lui non torna più…”
Vide i muscoli della sua mascella contrarsi, mentre deglutiva con fatica.
“Ellie…”
“Era il tuo miglior amico, praticamente un fratello: è sbagliato non lasciarsi andare. Andrew… io sono qui per te, lo sai.”
“Non doveva succedere a lui – sussurrò il giovane, mentre una prima lacrima usciva – lui… lui è il mio miglior amico… i migliori amici non dovrebbero abbandonarti in… in un modo così orribile!”
Ellie si spostò e gli fece posare la testa sul suo grembo, in un gesto d’intimità del tutto nuovo.
Lo sentì singhiozzare come un bambino e tutto quello che poté fare fu stringerlo a se ed offrirgli un conforto per quello sfogo trattenuto per troppo tempo. Le faceva male vederlo soffrire in questo modo, lei stessa non poté far a meno di versare qualche lacrima. Ma sapeva benissimo che in quel momento lei era l’unica che poteva fare qualcosa.
Il bigliettino caduto a terra conteneva solo una frase.
“Solo tu puoi vedere le sue lacrime”
Solo con chi si ama si ha il coraggio di mostrarsi deboli.

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Capitolo 26
*** Capitolo 25. 1883. Vuoi sposarmi? ***


Capitolo XXV

1883. Vuoi sposarmi?

 

“Un brindisi al nostro ingegnere Andrew Fury! Che con il suo talento possa migliorare questo piccolo angolo di mondo! Ma tanto siamo sicuri che lo farà!”
“Certo, come no!” Andrew sbuffò nel ricordare quella frase di Henry e con un colpo di mano fece cadere i fogli che stavano sulla scrivania. L’unico rimasto illeso venne preso e accartocciato con disgusto per poi essere lanciato con forza contro il muro.
Scuotendo il capo il giovane si alzò dalla sedia dove aveva passato le ultime tre ore di quel pomeriggio infruttuoso, mentre un ormai familiare senso di frustrazione lo assaliva. Non era così che si era immaginato il suo lavoro, proprio per niente.
Lavoro? Ma di che lavoro sto parlando… io non ho un lavoro.
E non avere un lavoro voleva anche dire non avere uno stipendio e dunque essere ancora completamente dipendente dai suoi genitori. Eppure quando si era laureato, quasi un anno prima, aveva progettato qualcosa di diverso. Però la realtà del paese lo stava mettendo alle strette.
Idee ne aveva tante in mente ed era sicuro che ad East City non avrebbe avuto nessuna difficoltà a metterle in atto, supportato dai suoi ex docenti e colleghi di Università. Ma soprattutto supportato da una città che era viva e aveva continua voglia di rinnovarsi e guardare verso il futuro.
Il piccolo angolo di mondo dove stava, invece, sembrava procedere su una strada totalmente opposta: le migliorie e le innovazioni sembravano quasi invenzioni del demonio a cui guardare con diffidenza. Progetti di canalizzazioni, cisterne o simili, con i quali l’agricoltura avrebbe avuto sicuramente ottimi risultati, erano qualcosa di così alieno rispetto alla mentalità della gente che non venivano nemmeno presi in considerazione.
Insomma tutti erano estremamente orgogliosi di avere un ingegnere in paese, ma sembrava che nessuno avesse effettivamente bisogno di lui. Anche per riparare un vecchio ponte di legno o qualcosa di simile bastava l’esperienza di generazioni di vita contadina: progetti? Solo spreco di carta ed inchiostro… cifre e formule che probabilmente la quasi totalità delle persone non avrebbe capito.
“Ma che ci faccio qui? – mormorò, sdraiandosi nel letto e sentendo il solito forte mal di testa che arrivava – A cosa servo se nessuno mi vuole dare nemmeno una possibilità?”
Era una realtà estremamente dura che gli fece venire le lacrime agli occhi. Forse avrebbe fatto meglio a seguire le orme di suo padre: un notaio serviva sempre considerate le vaste proprietà di campagna. Atti di eredità, piante per delimitare i confini e tutta la relativa documentazione a cui si aggiungeva ovviamente la collaborazione con il consiglio cittadino per rendere ufficiali eventuali atti o simili. A seguire i corsi di giurisprudenza avrebbe avuto la strada spianata, con suo padre pronto a farlo socio del suo studio.
Possibile che abbia sbagliato in maniera così radicale? – si sdraiò prono e nascose il viso sul cuscino – Ho ponderato così male le reali possibilità che avevo?
“Andrew, caro – sua madre bussò alla porta e dopo qualche secondo entro – ti ho portato una limonata fresca: con un pomeriggio così caldo ne avrai proprio bisogno. Ma che succede? Stai male?”
“Mal di testa – ammise, rimettendosi supino e osservando la donna che posava il bicchiere sulla scrivania e si accostava al letto per tastargli la fronte – Piano, per favore… è proprio lì e fa un male tremendo.”
“Qui in mezzo? – Anna gli massaggiò delicatamente la parte interessata – E se scendo tra gli occhi?”
“Anche, ma non ti preoccupare: riposo un po’ e sono sicuro che passa.”
Ma sua madre non era per niente convinta.
“Tesoro, dovresti farti vedere dal medico, sul serio. E’ da alcune settimane che questo mal di testa ti tormenta e non va bene.”
“Mi succedeva anche quando ero all’Università – scosse il capo lui – è solo lo stress, non c’è nulla da preoccuparsi. E’ che lavorando a quei disegni e consultando molti libri mi stanco.”
“Andrew, osserva il mio dito – lo bloccò Anna, mettendogli l’indice a una ventina di centimetri dal viso e spostandolo lentamente – non è che tutto questo ti affatica gli occhi? Potrebbe essere la causa di quei mal di testa.”
“Ma no – cercò di convincersi lui, notando però che per un attimo il dito di sua madre gli era apparso sfuocato – il mal di testa in questo caso è causato dalla mia inutilità in questo posto.”
“Inutilità? Oh, piccolo mio, ma perché devi pensare cose simili? Inutile tu? Il migliore del tuo corso?”
“E’ come se tutti gli stimoli mi fossero stati portati via – sospirò Andrew, sfogandosi con lei – è come se… se ogni progetto a cui metto mano sia inutile sin dalla prima riga che traccio. Non credo di servire davvero al paese… forse… forse dovrei andare via da qui.”
Ad East City avrebbe trovato sicuramente lavoro, certo, ed era sicuro che in poco tempo si sarebbe fatto una discreta fama e fortuna. Ma era così brutto ammettere una propria sconfitta: era sempre stato il suo sogno mettere una sua personale impronta al suo amato paese, al posto che conosceva da sempre.
“E’ solo un inizio difficile, Andy – lo consolò Anna, accarezzandogli i capelli – a volte succede. Certo non te l’aspettavi e la cosa ti confonde, ma non devi disperare. Del resto non è nemmeno un anno che sei laureato: alcune cose richiedono tempo.”
“Dici? – mormorò caustico – Non mi pare di ricordare che papà…”
“Tuo padre ha iniziato a lavorare subito perché lo studio di tuo nonno era già avviato. Non fare paragoni sciocchi, non è da te.”
“E’ che… c’è anche il fatto che prima o poi vorrei chiedere ad Ellie di sposarmi. Oh, non fare quel sorriso, dai! Però mi rendo conto che se non inizio a lavorare non avrò molto da offrirle… e quella bestia di suo padre mi sta sempre col fiato sul collo.”
“E’ solo molto geloso della propria figlia – ridacchio Anna, mentre il giovane si metteva a sedere con un lieve broncio – ma sono sicura che è davvero affezionato a te. E comunque la nostra piccola Ellie ha compiuto diciassette anni due settimane fa: c’è ancora tempo, amore mio. E poi questa stupida madre non può che essere felice di avere il suo bambino in casa ancora per un anno o più.”
“E scommetto che questa stupida madre non mi lascerà in pace finché non vado dal medico, vero? – la abbracciò Andrew, lieto del conforto che gli era stato offerto negli ultimi minuti – Ci vado domani, promesso.”
 
“Occhiali?” Andrew si irrigidì quando, la mattina successiva, il medico gli disse cosa ne pensava di quei mal di testa.
“Sì, giovanotto: quando lavori ai tuoi progetti o leggi per più di venti minuti devi indossare degli occhiali. Aiuteranno gli occhi a non stancarsi e questo ti eviterà seri problemi alla vista in futuro. Invierò la richiesta ad un laboratorio di città e arriveranno entro una settimana.”
Mentre l’uomo iniziava a scrivere su alcuni fogli, Andrew arricciò il naso con disappunto: l’idea di indossare degli occhiali non lo attirava per niente ed in qualche modo era convinto che il medico si fosse sbagliato. Tuttavia una parte di lui si ricordava di quel brevissimo attimo di vista sfuocata e l’idea di fantomatici problemi futuri lo metteva in allarme.
“Non ho problemi alla vista, vero?” si trovò a chiedere.
“No: del resto hai vent’anni ed i tuoi occhi stanno benissimo. Ma, per il tipo di attività che fai, a lungo andare potrebbero nascere dei problemi: adesso sono solo dei mal di testa, magari perché sei anche stressato per altro, ma non mi pare il caso di rischiare, non credi?”
“Probabilmente ha ragione.”
“Torna qui la settimana prossima e avrai  i tuoi occhiali.”
Uscito dallo studio del medico, Andrew decise di non tornare immediatamente a casa, ma di andare a fare una passeggiata. Prendere aria gli avrebbe fatto certamente bene: nell’ultima settimana si era letteralmente chiuso in casa per lavorare a dei progetti.
inutili. Oh, dai, non ci pensare… non per la prossima mezz’ora almeno.
Ma era anche vero che doveva trovare una via d’uscita a quello snervante periodo di stasi. Il suo lavoro doveva iniziare in qualche modo altrimenti era come avere la conferma che aveva sbagliato tutto nella vita.
Mentre questi pensieri poco positivi lo assillavano, venne attratto da un gran vociare e si accorse che i suoi passi l’avevano portato appena fuori dal paese, dove c’era il grande edificio scolastico.
In quel momento della mattina i ragazzi stavano facendo ricreazione e tutto il cortile brulicava di visi sorridenti e impegnati nelle più disparate attività. Ma soprattutto iniziava a sentirsi in maniera estremamente tangibile l’aspettativa per l’arrivo delle vacanze: ancora una ventina di giorni e poi quell’edificio sarebbe stato dimenticato per tutta l’estate, per lasciar spazio alle gite e alle corse, alla spensieratezza di mattinate passate in libertà.
Un sorriso nostalgico apparve sul volto del giovane Fury, mentre si avvicinava al basso muretto di pietra che delimitava il cortile: era così bella e facile la vita quando frequentava la scuola, quando il futuro si spingeva solo all’estate che stava per arrivare o alle vacanze natalizie. Quando i peggiori problemi che si potevano avere erano compiti in classe o professori troppo bacchettoni, o magari qualche litigio con i compagni…
“Ellie, dai! Ancora una storia!”
“Ti prego, solo un’altra! Quella della farfalla e della volpe!”
“No, adesso tocca a me scegliere! Ellie, quella della fata del bosco!”
“Bambini! Bambini! Piano! L’intervallo ormai è quasi finito, non ci sarebbe tempo e sarebbe brutto lasciare la favola a metà, non credete?”
“Oh nooo! Ti prego!”
“Suvvia, non mi pare il caso di fare questi musetti tristi. Domani prometto che vi racconto tutte e due le favole che avete chiesto e vi porto anche i biscotti!”
“Biscotti? Evviva!”
“Oh, Ellie, sei così buona! E poi me lo insegni a fare il gioco con gli elastici?”
“Ma certo, Corinne. Però adesso ci alziamo tutti in piedi, va bene? Iniziate ad andare verso la maestra, da bravi.”
Mentre quella piccola scena si svolgeva, Andrew si era avvicinato al muretto e non aveva levato gli occhi per un secondo da Ellie Lyod. Vederla seduta sull’erba, circondata da almeno una decina di bambini che ascoltavano rapiti le sue storie, riusciva a rischiarare il mondo.
“Ciao, Andrew – la ragazza lo notò e si avvicinò a lui – come mai qui?”
“Una passeggiata. Credi che il regolamento scolastico impedisca i baci sulla guancia?”
“Il regolamento non lo so – sorrise lei con malizia mettendo le mani dietro la schiena e sporgendosi per dargli il bacio richiesto – e gli sguardi maliziosi che ci sta lanciando metà cortile non mi interessano affatto. Un bacio al mio fidanzato è molto più importante.”
“Lasciamoli spettegolare, allora – mormorò lui, prendendole il mento tra le dita e baciandola di rimando sulla guancia destra – sei così bella oggi, meraviglia mia.”
“Con il grembiule pieno di macchie di marmellata ed erba? – rise lei – Quei piccoletti sono davvero tremendi, ma sono anche estremamente adorabili. Ormai ad ogni intervallo vengo qui, dalla parte delle elementari, a raccontare favole. Il giorno che mi rapiscono e mi portano nella loro classe, come tanti piccoli gnomi, non mi sorprenderò.”
“Perché saresti una maestrina adorabile, ragazza mia.”
“Allora, come è andata la visita dal medico? Forza, in fretta prima che la campanella suoni.”
“Niente di grave, ma sembra che dovrò mettere gli occhiali quando leggo e lavoro ai progetti: così la vista non si stancherà troppo. Pare che sia questo a causare i miei mal di testa” lo disse con una certa noncuranza, ma in realtà un po’ temeva la reazione di Ellie alla notizia degli occhiali. Era comunque un fattore estetico non indifferente e, quando era ad East City, aveva notato che a volte alle ragazze non piaceva.
“Non è che molte persone abbiano gli occhiali – ammise lei fissandolo con aria pensosa – però… uhm, secondo me ti staranno molto bene. E ti renderanno ancora più affascinante.”
“E dai…” arrossì lui.
“Sarò proprio curiosa di vederti, tesoro. E comunque la cosa importante è che questi mal di testa finalmente spariscano… ero così preoccupata negli ultimi giorni.”
“Prometto che sarai la prima a vedermi.”
“Ci tengo e… oh no! Ecco la campanella: devo andare… mi devono interrogare in geografia.”
“Sono certo che te la caverai come sempre, meraviglia.”
“Conto di prendere almeno otto e mezza – annuì lei con aria importante – ma ti racconterò tutto questo pomeriggio. A più tardi, tesoro.”
 
La settimana successiva, di primo pomeriggio, Ellie era sdraiata su un prato fiorito e scriveva in uno dei suoi quaderni: finalmente le interrogazioni erano terminate e dunque lo studio non le occupava più buona parte delle sue giornate. Ed era così bello potersi dedicare un po’ alla propria attività preferita, rifugiandosi nella quiete della natura.
Il racconto procedeva spedito, la sua penna che scriveva instancabile su quelle pagine. Nonostante la posa non fosse proprio comodissima, stando sdraiata sull’erba, l’atmosfera era così perfetta che tutto procedeva a meraviglia: la sua scrittura pulita ed ordinata continuava a narrare le vicende dei suoi personaggi. Ed erano racconti così diversi da quelli di qualche anno prima: adesso aveva una capacità di scrittura molto più forte e anche le trame si evolvevano in maniera differente, senza tuttavia perdere quel senso di magia e di fantastico che li aveva sempre caratterizzati.
Però dovrei pensare anche a qualche altra nuova favola per i bambini – si disse, voltando pagina – ormai quelle che ho già scritto le conoscono a memoria.
Già, i bambini.
Erano diventati i suoi migliori compagni con cui passare l’intervallo. Da ormai diversi mesi veniva accolta con entusiasmo e fatta sedere nell’erba, per essere poi subissata di domande e giochi infantili. E lei era così felice di poterli incantare, di raccogliere le loro dolci confidenze, i loro abbracci e baci così teneri ed irruenti.
Una delle maestre delle elementari una volta, quando i bambini stavano tornando in classe, le aveva detto che era proprio tagliata per fare quel mestiere.
Ed Ellie aveva scoperto che l’idea le piaceva tantissimo: i bambini erano la sua passione e niente le piaceva di più che poter passare il tempo con loro. A pensarci bene ormai la fine della scuola si avvicinava e dunque doveva decidere del suo futuro: si era informata e aveva scoperto che per diventare maestra delle elementari doveva sostenere un esame dopo i diciotto anni e poi fare un altro anno di studio e di pratica, affiancando altre maestre. Le possibilità di insegnare erano ottime: una maestra seguiva gli alunni dalla prima alla quinta elementare e quindi spesso ne servivano di nuove.
Certo, era quello il suo percorso di vita: nel frattempo lei ed Andrew si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli loro.
In questi giorni lo dirò a mamma e papà che ho deciso di diventare maestra e…
“Ciao, signorina.” Andrew le si sedette accanto e la baciò sui capelli neri.
“Non ti ho sentito arrivare – sorrise lei chiudendo il quaderno e girandosi a guardarlo – sei silenzioso.”
“O sei tu che sei assorta nello scrivere.”
“Avanti, non aver paura – si mise su un fianco, posando la guancia su una mano – fammi vedere come stai.”
A quella richiesta Andrew sospirò e dalla tasca tirò fuori una custodia: con gesti un po’ impacciati prese gli occhiali e se li mise sul naso.
“Ebbene?” chiese con voce incerta.
“Sei bellissimo – sorrise lei – ma lo sei sempre stato. Visto? Rapido ed indolore.”
“Già, sono io che mi faccio troppi problemi a quanto pare – ridacchiò il giovane, notevolmente sollevato, levandoseli e rimettendogli nella custodia – ma l’importante è che riesca sempre a vederti bene.”
A quel complimento Ellie sorrise in maniera seducente e si mise supina sull’erba. Si era accorta da qualche tempo che Andrew ormai la mangiava con gli occhi ogni volta che ne aveva l’occasione e niente le dava più soddisfazione che vederlo con uno sguardo così carico di desiderio. Nemmeno un anno prima avrebbe approfittato immediatamente di quelle situazioni per rubargli il primo bacio, ma adesso…
Oh no, voglio che ti decida tu, Andrew Fury. Voglio che sia tu ad abbassare finalmente la guardia e lasciarti andare.
Si leccò le labbra con fare innocente.
“Non ti sdrai accanto a me? Devi andare via?”
“Andare via quando c’è una bellissima fata sdraiata sul prato che mi guarda in questo modo? – Andrew scosse il capo e si sdraiò accanto a lei, prendendole la treccia e iniziando a giochicchiarci – Sarei un folle.”
Ellie sorrise e si accoccolò al suo petto, facendo in modo che il suo collo fosse proprio a portata delle labbra del fidanzato. Sentì le sue braccia che la stringevano, il suo respiro proprio sopra la scapola: fu certa di cogliere un lieve ansito di desiderio… e finalmente le sue labbra si posarono sul collo in un tocco bruciante.
Durò solo tre secondi, poi il pudore tornò a farla da padrone ed Andrew si staccò lievemente da lei.
“Pensavo a quello che voglio fare dopo la scuola – sorrise Ellie, tornando supina, appagata di quella nuova concessione che si erano dati – che ne dici se divento una maestra delle elementari?”
“Tenendo conto di quanto adori i bambini mi pare la tua strada – Andrew rispose a quel sorriso, evidentemente lieto che lei non avesse preteso di più – e le tue ambizioni di scrittrice? I tuoi quaderni non li abbandoni mai, a quanto vedo.”
“Oh quelle? – Ellie spostò lo sguardo sulle pagine bianche con la penna a tenere il segno – beh, resterà una grande passione, però mi sono resa conto che la mia vera vocazione sono i bambini. Del resto molte storie che ho scritto sono adatte a loro, quindi tutto torna, no?”
“Vocazione, eh?” Andrew mise le braccia dietro la testa.
“Già, un qualcosa che senti che devi fare perché è parte di te… i discorsi di Annabell e delle mie compagne sui ragazzi e simili non mi interessano assolutamente. L’essermi fidanzata con te così presto in fondo mi ha esclusa da parte della vita scolastica, anche se i pettegolezzi quando passi a trovarmi durante l’intervallo non mancano mai…” sorrise maliziosamente arricciandosi una ciocca di capelli con l’indice.
“Pettegolezzi… e per cosa poi? Che siamo fidanzati lo sanno…”
“Oh, ma non finiremo mai di fare scalpore, lo sai. Avevo solo quindici anni quando mi hai chiesto di ballare.”
“Non avrei mai permesso a quel ragazzino di ballare con la mia fidanzata, sia chiaro.”
“A proposito di fidanzata – cominciò lei – mia mamma mi ha detto di chiederti se dopodomani vieni a pranzo da noi e… oh, dai! Non fare quella faccia! Papà ha promesso di ridurre al minimo le critiche…”
“… insulti…”
“… critiche su di te. E poi preparerò io il dolce: faccio la tua torta preferita. Suvvia, non dire di no.”
“Sopporterò tuo padre, ma solo perché me lo stai chiedendo in questo modo, Ellie… solo per questo.”
 
Se c’era una cosa che Andrew odiava dei pranzi con la famiglia di Ellie era l’essere bersagliato da Nicholas Lyod e dal suo pesante sarcasmo. Andrew aveva sinceramente sperato che con il passare dei mesi quell’uomo si ammorbidisse un minimo nei suoi confronti. Ma anche se il burbero proprietario terriero l’aveva accettato come futuro marito di Ellie, non aveva smesso di dimostrargli il suo disappunto.
Si poteva ormai considerare una tradizione di famiglia.
“… si tratterà di studiare da sola, poi gli esami si tengono in paese: vengono degli ispettori apposta – stava dicendo Ellie entusiasta – non credete sia fattibile?”
“Mi sembra un’ottima idea, cara – annuì Agnes – del resto i bambini ti piacciono così tanto che l’insegnamento pare proprio la tua vocazione.”
“E’ più che giusto applicarti in qualcosa di produttivo – dichiarò solennemente Nicholas – i disegnini li fanno i bambini, non i veri uomini… non trovi, ingegnere?”
“… si chiamano progetti.”
“Progetti, scarabocchi… siamo sempre lì. Tze! Manco hai imparato a cavalcare decentemente.”
“E questo cosa c’entra?” chiese Andrew esasperato.
“Un uomo deve dimostrare di esserlo, capisci Andrew Fury!? Devi dimostrare di avere delle palle quadrate per…”
“Nicholas!”
“Oh, papà… per favore!”
“Ma quanto siete!... essere determinato, ragazzo, capisci il concetto?”
“E andare a cavallo cosa c’entrerebbe?” chiese ancora il giovane cercando di tenere un tono minimamente garbato.
“Lascia stare, che cosa ne vorrai capire tu… nelle vene non hai sangue ma acqua saponata. Adesso anche gli occhiali devi mettere! Dannazione a me, ma a chi sto concedendo la mia preziosa bambina?”
“Oh dai, papà, smettila – supplicò Ellie – gli occhiali li porta solo quando lavora: per il mestiere che fa è normale sforzare la vista così.”
“Mestiere, eh? – Nicholas squadrò Andrew con aria seccata – Non mi pare di vederti lavorare molto spesso, signorino. Come speri di mantenere la mia bambina se non porti a casa un minimo di…”
“Adesso credo sia arrivato il momento del dolce! – intervenne Agnes, alzandosi in piedi – Ellie stavolta si è superata, vero?”
Il pranzo si concluse così senza troppi incidenti: madre e figlia erano fin troppo brave ad intervenire quando la situazione tendeva a diventare troppo pesante. Tuttavia a questo giro Andrew era stato punto nel profondo: girare il dito nella sua personale piaga in quel modo era tremendo… anche perché c’era un fondo di verità. Con che coraggio poteva sposare Ellie se non aveva un lavoro per mantenerla?
“Se hai finito di contemplare quel dannato piattino, allora direi che ci possiamo spostare un attimo nel salotto, Fury.”
La voce del padre di Ellie giunse così improvvisa che Andrew quasi sobbalzò.”
Lanciò un’occhiata interrogativa alla fidanzata e alla madre che stavano sparecchiando, ma quello che ottenne fu una scrollata di spalle.
Che cosa vuoi ancora, dannato? – si chiese mentre si alzava e lo seguiva con aria scontenta – Non ti è bastata quest’ora e mezza d’inferno che mi hai fatto passare?
Osservò il suo grande antagonista andare al vassoio degli alcolici e servirsi un generoso bicchiere di liquore.
“A te niente – dichiarò – cose così forti le bevi solo nelle occasioni speciali. Ti voglio lucido, Fury, voglio parlare seriamente con te del tuo lavoro.”
“Del mio lavoro? – Andrew scosse il capo, deciso a non andare oltre – penso che abbia già detto tutto a tavola e non ci sia altro da aggiungere…”
“Ellie mi ha parlato di cose come cisterne e canalizzazioni, è vero?”
A quella domanda il giovane lanciò un’occhiata sospetta all’uomo che nel frattempo mandava giù l’ultimo sorso di liquore. Perché gli chiedeva una cosa simile?
“E’ vero, mi ci sto dedicando – ammise – ma sono tutti progetti che non…”
“La scorsa estate, luglio ed agosto sono stati così caldi che parte del raccolto è andata perduta, lo sapevi?”
“Sì, signore…”
“Siccità e altre beffe del tempo sono l’incubo dell’agricoltura, ragazzo mio. Questo paese lo sa bene, ma è così sciocco da tenere gli occhi chiusi: si spera nel tempo favorevole e amen, fare qualcosa per rendere tutto più facile non sia mai!”
Andrew non disse nulla, ma condivideva pienamente quel pensiero. Ci stava sbattendo la faccia da almeno sei mesi con quella mentalità così dannatamente chiusa.
“Canalizzazioni, eh? – Nicholas si avvicinò a lui e si passò le mani sulle labbra: sembrava un allevatore che giudica se acquistare o meno un capo di bestiame – Certo sono una bella spesa ed un qualcosa di estremamente innovativo… un rischio che…”
“No, non sono un rischio, ma una certezza – si trovò a dire Andrew con convinzione – le ho studiate con attenzione, ho visto i progetti che sono stati applicati in alcune zone del distretto Ovest. La produzione aumenta almeno del trenta per cento, i rischi per la siccità sono ridotti di quasi il novanta per cento. I costi per costruire il tutto quanto vengono recuperati nell’arco di due anni.”
“Continua, giovanotto, ti sto ascoltando.”
Ed Andrew iniziò a parlare, sciorinando tutti i dati che poteva su quei progetti che tanta fatica gli erano costati. Per la prima volta sentiva che qualcuno lo stava ascoltando veramente, senza quel dannato paraorecchie che rendeva così restii all’innovazione. Ad un certo punto della conversazione, il signor Lyod gli fece cenno di seguirlo e lo condusse nel suo studio, dove tirò fuori le mappe dei suoi terreni. Senza aspettare domande o simili, Andrew iniziò a ipotizzare ad alta voce, a spiegare come meglio conveniva procedere per ogni singolo caso… era un lavoro così poderoso, considerata la vastità di quelle terre, che una piccola parte di lui impazzì nel pensare a quanto poteva costare una cosa simile.
“Ed i costi?” chiese infatti Nicholas alla fine.
“Molti – ammise Andrew, senza nemmeno pensarci – ma saranno ben ripagati, gliel’ho detto. Per quanto riguarda il tempo, ci vuole un anno di lavoro buono, lavorando ogni giorno e con una squadra di almeno dieci uomini. E’ comunque non…”
“Andata.”
“Andata? – il giovane strabuzzò gli occhi, come se si fosse appena svegliato da un sogno – Che cosa è andata?”
“Oggi è il 25 maggio, ragazzino: entro il 25 giugno voglio un progetto dettagliato su questa scrivania, capito? Le spese le copro io e la squadra te la fornisco io: i miei dipendenti ci sanno fare, fidati: tu gli insegni una volta e loro te lo eseguono. Ma voglio un sistema di irrigazione con i controfiocchi, roba che non si è mai vista da queste parti, chiaro?”
“Signore, ma io…” Andrew impallidì, capendo di essere appena stato assunto per un qualcosa di veramente grande e sicuramente non da primo lavoro.
“Attributi, smidollato, vedi di mostrarmeli una volta tanto. Come credi che abbia funzionato per me? Sono rimasto nel mio paese a piangermi addosso perché non sarei mai riuscito a fare fortuna con quell’eredità che mi era toccata ma senza un capo di bestiame? Al diavolo: ho preso tutto e sono venuto qui a dimostrare quanto valevo… iniziativa, figliolo, sfruttare le occasioni, ecco come funziona. Fai muovere quell’acqua saponata che hai nelle vene! Forse se produce bolle e schiuma otteniamo qualcosa di vagamente simile al sangue. Sfrutta quanto ti viene offerto, Andrew Fury: se stai ad aspettare gli altri stai fresco.”
“Lo sta facendo perché sono fidanz…”
“Imbecille, il fatto che tu un giorno eventualmente sposerai mia figlia non c’entra un cavolo. O forse tutti quei dannati dati sugli incrementi di produzione non valgono niente solo perché i terreni sono i miei? Funzionano solo per i terreni del distretto dell’Ovest? Balle! Ma per chi mi prendi? Sono un dannato proprietario terriero, non uno di quei salami che vivono nel loro piccolo e simpatico orticello… voglio profitto, dannazione a te! Come credi che sfami i miei dipendenti?”
Andrew fece un passo indietro davanti a quella sfuriata: la luce negli occhi di Nicholas Lyod era quella di un predatore, uno dei migliori. Del resto se era arrivato ad avere tutto quell’impero… No, Ellie era un discorso differente: in questo caso l’uomo aveva semplicemente fiutato l’affare dell’innovazione.
Mi ero ripromesso di partire con qualcosa di più tranquillo, qualcosa di più modesto – la mente di Andrew impazziva – Come posso pretendere di gestire un progetto simile senza alcuna esperienza?
“Accetto – annuì con sua stessa sorpresa – avrà i progetti e le stime tra un mese esatto.”
“Qua la mano, ingegnere, a quanto pare un minimo di palle ce le hai.”
Certo che le ho… e le dimostrerò di cosa sono capace con i miei scarabocchi.
 
Due settimane dopo una Ellie raggiante ascoltava il preside fare il discorso di commiato per la fine dell’anno scolastico. Le sembrava incredibile che finalmente quella parte della sua vita fosse terminata, però non poteva fare a meno di provare un’ondata di nostalgia: ormai quei banchi e quei libri erano diventati suoi cari amici, tanto spesso fonte di soddisfazione e orgoglio.
Ma sarà solo questione di un paio di anni – si ripromise con un sorriso soddisfatto – tornerò, ma questa volta come maestra.
“… e a voi dell’ultimo anno, spero che la vita sia carica di gioie e di soddisfazioni. E che le ore passate tra questi banchi vi siano in qualche modo servite per formare le vostre giovani menti e il vostro spirito. Vi auguro tutto il bene possibile, davvero. E ora, buone vacanze a tutti voi.”
Uno scrosciante applauso, con fischi ed esclamazioni di gioia accolse la fine di quel discorso.
Subito le righe si sciolsero e finalmente gli studenti furono liberi di correre uno verso l’altro per scambiarsi le congratulazioni e le promesse di rivedersi durante l’estate.
“Molto bella questa camicetta bianca – sorrise Annabell, prendendola a braccetto – chi te l’ha fatta?”
“Una mia cara amica – spiegò Ellie, non volendo pronunciare il nome di Laura – a dire il vero ha fatto solo delle modifiche, per il resto era molto simile a quella celeste che hai tu. Allora, che cosa hai deciso di fare ora che è finita la scuola?”
“Quest’estate andrò con mia sorella a trovare alcuni parenti a Meox, penso torneremo a settembre.”
“E poi?”
“Beh, poi si vedrà: non ho ancora fatto alcun progetto particolare. C’è tempo per quello. Però scommetto che tu hai già tutto programmato vero? I vostri genitori hanno già fissato la data?”
“Che? – arrossì Ellie – Ma che cosa c’entrano i  nostri genitori?”
“Suvvia, non ne hai mai parlato, ma è chiaro che le vostre famiglie…”
“Ma se io ero innamorata di Andrew che ancora avevo tredici anni! Annabell, mi meraviglio! Proprio tu dovresti sapere che non c’è nulla di combinato.”
“Parlassi di più con le tue compagne… l’ultimo anno ci siamo frequentate davvero poco, lo sai. Anche durante l’intervallo hai preferito i marmocchi di prima elementare a noi. La verità è che crescendo abbiamo preso vie diverse, Ellie Lyod.”
“Forse hai ragione – sospirò lei – però sei stata la mia miglior amica per anni, Annabell, questo rimarrà sempre.”
“Ma certo, sciocca – ridacchiò l'affascinante bionda – però adesso devo scappare: mia madre e mia sorella mi aspettano a casa per preparare le valige per il viaggio: sai partiamo dopodomani e c’è un sacco di roba da fare. Buone vacanze, Ellie.”
La bruna fece appena in tempo a rispondere al saluto dell’amica prima di vederla catapultarsi fuori dal cortile della scuola. E così finiva anche quella storia che durava dalle elementari, era triste pensarlo. Ma era chiaro che lei ed Annabell ormai avevano davvero poco in comune.
Se me l’avessero detto tre anni fa non l’avrei mai creduto possibile.
Ma purtroppo non sempre i legami restavano saldi come quello di Andrew e Laura e…
“Andrew? – esclamò sorpresa, vedendo il giovane che la attendeva appoggiato ad un albero poco fuori dall’ingresso di scuola – Oh che bello! Sei venuto a prendermi!”
“Un piccolo omaggio per la più bella ragazza dell’ultimo anno – sorrise lui, porgendole un mazzo di rose rosse – auguri di fine scuola, Ellie Lyod.”
“Ma sono bellissime! – lei era estasiata mentre prendeva in mano quel regalo: mai Andrew le aveva fatto un pensiero simile – Come torno a casa le metto subito in un vaso e sistemo i gambi. Sai credo che possano resistere per… ehi, ma che succede?”
Lui le aveva cinto la vita con un braccio e l’aveva incitata a camminare, ma non in direzione del paese, ma dall’altra, verso l’aperta campagna. Passeggiarono per un cinque minuti, fino a quando non arrivarono ad un bivio isolato.
“Davanti a tutte quelle persone… – iniziò Andrew – oh Ellie, sei qualcosa di meraviglioso, te l’ho mai detto? La mia vita non avrebbe senso senza di te.”
Lei si sentì avvampare come mai le era successo. Che era quella dichiarazione così improvvisa?
D’istinto posò il mazzo di rose e la tracolla a terra e rimase ferma, davanti a lui, sentendosi impazzire.
“Andrew – mormorò – ti prego, dimmelo… adesso!”
“Ti amo, Ellie Lyod – sussurrò lui, chinandosi leggermente per sfiorarle il naso con un bacio – ti amo da impazzire, non ne hai idea. Dimmelo pure tu…”
“Ti amo – lei gli cinse le braccia attorno al collo – Andrew…”
Fu un secondo e le loro labbra erano unite. Non in un bacio rubato mentre lui dormiva, non in qualcosa che avevano sempre più sfiorato nelle ultime settimane… era un bacio vero, consapevole. Di un’intensità che nessuno dei due aveva mai creduto possibile. Le labbra di Andrew erano qualcosa di incredibilmente morbido e assaporavano le sue con tutta la tenerezza che sapeva metterci. Rimasero così per diverso tempo, godendosi quel momento che avevano saputo attendere con pazienza, sapendo che solo una vera maturazione di entrambi l’avrebbe reso davvero speciale, circondati solo dal canto degli uccelli e dagli odori dell’estate… perché era un momento esclusivamente loro.
“Ellie – alla fine Andrew si staccò, ma continuò a darle dolci baci sulle guance, sul naso, sulla fronte: sembrava non saziarsi mai di lei – Ellie, vuoi sposarmi?”
A quella domanda il cuore della ragazza smise di battere per due secondi buoni. Non le sembrava vero, era come un bellissimo sogno che diventava realtà… era tutto così perfetto, come nella più splendida delle dichiarazioni che si era immaginata. Perché lei non aveva bisogno di altro che di quei baci, di quella persona, di quell’anima affine che aveva trovato nella mattinata di quattro anni prima.
Si accorse di piangere, non se ne era resa conto… ma come poteva con le sue labbra che le asciugavano in maniera così meravigliosa?
“Lo voglio… – riuscì a sussurrare, prima di cercare un altro bacio appassionato – certo che lo voglio…”

 


il meraviglioso (e bucolico) disegno è ovviamente di Mary ^^

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Capitolo 27
*** Capitolo 26. 1883. Anello di fidanzamento. ***


Capitolo XXVI

1883. Anello di fidanzamento.

 

 

“… e quindi io ed Andrew abbiamo deciso di sposarci l’anno prossimo, a fine aprile, non appena compio i diciotto anni, non è meraviglioso?” Ellie batté le mani estasiata mentre dava la fatidica notizia ai suoi genitori.
Dal canto suo, Andrew fece un sorriso più moderato e sereno, sperando che le reazioni fossero buone come quelle che l’annuncio aveva avuto a casa sua nemmeno un’ora prima. Ma lanciando un’occhiata al suo futuro suocero capì che questa speranza era vana. Se più di una volta gli era sembrato che le pareti di quel salotto echeggiassero i veri pensieri di Nicholas Lyod, ora fu sicuro di sentirle urlare, mentre l’uomo si limitava a fissarlo con occhi omicidi.
“Maledetto furfante pervertito, e così alla fine ti sei fatto avanti per allungare le tue luride mani sulla mia bambina, eh?”
“Accidenti, che notizia improvvisa – commentò Agnes con aria leggermente confusa – e quando l’avete deciso?”
“Ieri… oh, mamma, sapessi che meravigliosa proposta di matrimonio è stata. Il bacio che ci siamo scambiati è stato così speciale che… oh, ma del resto un primo bacio non poteva che esserlo, ma così…”
“Hai osato baciare mia figlia?! – quelle pareti parevano tuonare mentre Andrew si faceva piccolo piccolo e sentiva l’aura dell’uomo schiacciarlo contro il divano – Io ti polverizzo, maledetto bastardo! Hai osato traviarla in questo modo osceno ad appena diciassette anni… una bambina!”
“E tu non dici niente, signor ingegnere?” la voce reale di Nicholas, fredda e letale, quasi lo fece sobbalzare.
“Io… ecco io – balbettò Andrew, sentendo un rivolo di sudore freddo che gli colava sulla nuca – ovviamente la prima cosa che abbiamo deciso di fare…”
“… dopo che l’hai baciata…”
“… è stato di dirlo alle nostre rispettive famiglie. La vostra approvazione è importante.”
“Approvazione, eh?” lo sguardo del futuro suocero si spostò significativamente su una doppietta appesa in bella mostra al muro. Seguendo quella direzione Andrew iniziò a chiedersi se doveva denunciare quell’uomo alla polizia per intenzioni omicide nei suoi confronti, giusto a titolo precauzionale.
Se non mi ammazza adesso non lo fa più…
“Beh, era chiaro che prima o poi ci avreste dato una notizia del genere – disse Agnes con voce quieta – ma non vi sembra di correre troppo? Potreste aspettare che Ellie diventi insegnante, no? Del resto badare alla casa e studiare contemporaneamente sarebbe molto duro.”
“Oh no, mamma, ma che dici? – Ellie si alzò e andò a prenderle le mani – Adoro fare le faccende domestiche e sai che non mi pesa, anche se sarò sola in casa. E per studiare lo sai che mi metto sempre di grande impegno, specie se si tratta di una cosa così importante come diventare maestra… Ma è tutta la vita che aspetto di sposarmi con la persona che amo. E lui mi ha appena fatto la dichiarazione più dolce e speciale del mondo, come posso aspettare ancora? Già questi dieci mesi che mancano ai miei diciotto anni mi sembrano un’eternità!”
“Andrew…”
“Signora, vivere con Ellie è la cosa che desidero di più al mondo. Le giuro che sarò il migliore dei mariti per lei e le darò tutto il sostegno possibile per realizzare i suoi progetti ed i suoi sogni.”
“Ma sentilo, lo sbruffone…”
“Oh, papà! Caro, dolce, papà! Ti prego, dimmi che sei felice come me – Ellie corse ad abbracciarlo – è il momento più speciale della mia vita, io… io sono così innamorata.”
“Beh, del resto aspettano che lei abbia diciotto anni…” anche Agnes si rivolse al marito, ormai convinta di quella scelta.
“Signore – si ritenne in dovere di intervenire Andrew, per dare manforte – le assicuro che…”
“Ti assicuro io che per questi dieci mesi ti tengo d’occhio, Andrew Fury. E se vedo qualcosa che non mi piace ti giuro che…”
“Oh, papà! Hai detto di sì! – Ellie gli strinse le braccia al collo – Grazie! Grazie!”
“Ti giuro che ti appendo a testa in giù e poi ti squarto in due come si fa con i maiali!”
“Chiarissimo!” deglutì Andrew.
“Chiaro cosa?” chiese Agnes.
“Nulla… proprio nulla!”
Odio questo salotto!
In ogni caso, nonostante quando presero congedo Nicholas strinse la spalla di Andrew con una forza tale da rompere sicuramente qualcosa, il permesso venne dato e fu deciso che il matrimonio si sarebbe celebrato il trenta di aprile, due giorni dopo il compleanno di Ellie.
“Non mi sembra vero! – esclamò la fanciulla, gettando le braccia al collo di Andrew e baciandolo – Ti rendi conto, amore mio? Nemmeno un anno e finalmente saremo marito e moglie: questi sono i giorni più belli della mia vita.”
Andrew la strinse con amore, non riuscendo ancora a credere che per tanto tempo era riuscito a fare a meno di quei baci che, adesso, erano necessari come l’aria, come il battito del cuore. Sentire il sapore dolce delle labbra di lei era tutto quello che poteva desiderare e non poté fare a meno di mordicchiarle teneramente e prolungare quel bacio.
“Piano! – ridacchiò Ellie staccandosi da lui – c’è ancora una persona a cui dobbiamo dirlo oggi, no?”
“Giusto. Direi che possiamo andare anche adesso: Gregor è impegnato in un lavoro fuori in campagna.”
 
“Wawablaaa!”
“Hai finto di mangiare, amore – Laura levò il piatto dal seggiolone di Heymans e lo portò al sicuro nel lavandino – ti sei mangiato tutto quanto, non lo vedi?”
Ma il piccolo non sembrava molto felice della fine del suo pasto. Iniziò a battere le manine sul piano di legno, protestando per la mancanza di una nuova porzione.
“Santo cielo, quanta pazienza – sbuffò bonariamente lei, andando a prenderlo e levandogli il bavaglino – su, da bravo, adesso andiamo in salotto e dai un po’ di tregua alla tua povera mamma. Ti metti sul tappeto e giochi mentre lei si riposa, va bene?”
Acquietato dalle braccia materne Heymans parve più collaborativo e smise le sue rimostranze. Si fece posare diligentemente sul tappeto e iniziò a mettere mani ai giochi che aveva attorno. Rivolse persino un sorriso felice alla madre quando questa gli accarezzò i capelli rossi.
“Uh, amore, quanto sudi con questi capelli – constatò la donna, prendendo una copertina e passandola sulla testa del piccolo – mi sa che se va avanti così te li taglio, almeno sulla nuca. Comunque visto che sei così accaldato, meglio levarti anche i pantaloncini.”
Libero da quell’ingombro, con solo pannolino e magliettina, Heymans iniziò a gattonare per radunare i suoi giochi, dedicando tutta la sua attenzione alla nuova attività. Questo permise a Laura di sdraiarsi senza troppe cerimonie sul divano lì vicino e prendersi una pausa. Da circa un mesetto il bambino aveva ridotto notevolmente la frequenza dei suoi pisolini e questa nuova vivacità aveva in parte scombussolato le abitudini di Laura. Era molto differente da avere un neonato che mangia, dorme e si sveglia solo per essere cambiato o nutrito: adesso era molto più indipendente ed ansioso di scoprire il mondo. Stare nella cesta non gli andava più bene: voleva essere messo per terra, gattonare, prendere tutto quello che gli stava a portata di mano… l’attenzione di Laura nei suoi confronti era letteralmente raddoppiata.
Constatando che non c’era niente di pericoloso a portata di bambino, la giovane chiuse gli occhi e si concesse un breve riposo. Il fatto che Gregor fosse assente anche quel giorno per via del nuovo lavoro che aveva trovato le dava fastidio: negli ultimi mesi si era così abituata alla sua presenza in casa da sentirne la mancanza in queste occasioni.
Forza e coraggio, non fare la viziata… sta iniziando ad andare bene tra di voi.
Ed era vero: con orgoglio Laura poteva dire di essere riuscita nel suo intento di formare una famiglia. Lei e Gregor ormai si parlavano tranquillamente, riuscivano a scherzare, ad avere un minimo di empatia l’uno con l’altro. A conoscerlo bene non si sarebbe mai innamorata di lui, di questo la giovane era sicura, ma considerati gli eventi che li avevano costretti a quel matrimonio, le stava andando meglio del previsto.
Gregor non era dolce e sensibile come Andrew e mancava anche dell’arguzia di Henry o della semplicità di Marco: era un uomo molto compassato, spesso chiuso in se stesso… sicuramente la sua vita non era stata tutta rose e fiori. Forse era questo dettaglio a dargli un certo fascino: il suo viso deciso aveva quell’espressione navigata che effettivamente lo rendeva diverso da tutte le altre persone del paese. E per Laura, che della diversità aveva sempre fatto il suo punto di forza, una cosa simile non poteva che piacerle.
Si stavano avvicinando, lo sentiva: qualcosa le diceva che tra non molto sarebbero potuti passare ad una fase successiva, riprendendo quell’intimità che avevano avuto…
… avuto? Cielo, è stata solo una questione di sesso.
Però questo non poteva escludere a prescindere la possibilità di condividere il letto assieme. Se doveva essere sincera Laura ricordava con estremo piacere quelle mani che sapevano come farla fremere di piacere e ultimamente aveva scoperto di desiderare di nuovo quel tocco così esperto sul suo corpo.
“Maaaahaaa!” una manina batté con forza sulla sua guancia e subito dovette aprire gli occhi.
Heymans, aggrappato con la sinistra all’orlo del divano la chiamava con un gran sorriso, sebbene fosse in procinto di cascare seduto all’indietro.
“Ohi, patatone, attento! – cercò di afferrarlo Laura, ma con una frazione di secondo in ritardo. Il bimbo perse la presa già incerta e cadde seduto sul tappeto, rischiando anche di capovolgersi – come va? Fatto male?”
Dovette trattenere una risata nel vederlo cercare di recuperare l’equilibrio rotolandosi su se stesso. I bambini alla sua età erano praticamente di gomma e considerato che lui era particolarmente cicciottello il rischio che si facesse male era davvero basso.
“Serve una mano? Oh, ma ormai ci riusciamo da soli, vero? Bravissimo!”
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma in quel momento bussarono alla porta.
Subito si fece vigile, ben sapendo che non era l’ora canonica in cui passava a trovarla Andrew. Lanciando un’occhiata al bambino si diresse con cautela alla porta ed aprì.
“Ciao, Lauretta.” sorrise Andrew.
“E che ci fate voi due qui a quest’ora? – sorrise immediatamente la rossa, aprendo maggiormente la porta – Non mi aspettavo proprio una vostra vis…”
“Io ed Andrew ci sposiamo!” Ellie non le fece nemmeno finire la frase. Con entusiasmo si buttò tra le braccia dell’amica, ridendo di gioia.
“Vi sposate? – Laura rimase per qualche secondo incredula a restituire l’abbraccio, ma poi il suo viso si illuminò al pari di quello della bruna – Oh, congratulazioni! Finalmente questa proposta è arrivata! Ti sei deciso, Andy, eh?”
“A quanto pare – arrossì Andrew con un sorriso imbarazzato – sei la prima a saperlo dopo i nostri genitori, ovviamente.”
“E mi sarei profondamente offesa se fosse stato diversamente! – sbottò lei, facendoli entrare – Forza e coraggio voglio sentire tutti i dettagli. Metto Heymans nel seggiolone e poi sono tutta per voi… vieni, giovanotto, mi dispiace ma adesso devi stare…”
“Heymans? Piccolino?...Ciao! Amore, quanto sei dolce!” Ellie tese immediatamente le braccia verso il bambino che già protestava per essere stato interrotto nei suoi giochi.
“Ehi, che sorriso. Gli piaci davvero tanto – commentò Laura mentre il bimbo cambiava espressione ed iniziava a sgambettare tendendo le braccia verso Ellie. Nel suo irruente balbettio infantile iniziò anche a sbavare, ma alla giovane non sembrava interessare un dettaglio simile e così la rossa si arrese – Tienilo pure il braccio, Ellie. No… no, Heymans, non si tirano i capelli.”
“Oh, gli piace la mia treccia! – sistemandosi il piccolo su un braccio, Ellie usò l’altra mano per prendere la sua folta treccia e agitarla davanti al piccolo – Tranquilla, Laura, non la sta tirando, ci sta solo giocando. Allora, leoncino, perché con questa chioma rossa sei proprio un leoncino… mi fai vedere i tuoi giochi?”
“Hanno stretto amicizia, eh?” commentò, mentre Ellie si sedeva nel tappeto ed iniziava a giocare assieme al bambino, felice di tutte quelle nuove attenzioni.
“Oh, Ellie adora i bambini. Dice che ne vuole almeno tre…” un lieve rossore comparve sulle guance di Andrew mentre lui e Laura si dirigevano in cucina per preparare qualcosa da bere per tutti.
“Sa del parto di Heymans?” chiese mentre da uno scaffale prendeva il barattolo del caffè.
“Sì, le ho detto tutto… non potevo tenerle nascosto niente, non era corretto.”
“E che ha detto?” 
“Che aveva capito da subito che ero l’uomo della sua vita e che quanto ho fatto per te è una conferma di quanto sia meraviglioso. Non so ancora che ho fatto per meritarmela.”
Laura sorrise teneramente nel vedere l’espressione confusa e allo stesso tempo felice del suo amico: si capiva benissimo che era su di giri per questa nuova svolta nella sua vita. Il maturo Andrew Fury finalmente si lasciava andare del tutto alle gioie dell’amore e della famiglia.
Questi pensieri vennero interrotti dai versi esagitati di Heymans e dalle risate di Ellie. Sbirciando dalla porta vide che la ragazza si era letteralmente sdraiata sul tappeto e teneva il bambino sollevato in aria, proprio come se fosse un pupazzo.
“Credo che sarà un’ottima madre, anche se adesso sembra più una sorella maggiore – ammise, tornando a rivolgersi ad Andrew che, nel frattempo si era seduto – I suoi hanno fatto problemi?”
“No, sono felici – spiegò lui, anche se una strana forma di paura gli apparve nello sguardo – certo, erano un po’ esitanti per via della sua giovane età. Ma ad aprile compie diciotto anni: il matrimonio sarà qualche giorno dopo. Verrai?” fece quella fatidica domanda dopo qualche secondo di esitazione.
E Laura si odiò per quanto stava per rispondere: dare quella delusione ad Andrew era l’ultima cosa che voleva, ma un gesto così palese come partecipare al suo matrimonio poteva costarle davvero caro e far crollare tutto quello che stava con fatica costruendo.
“Oh, Andrew, mi piacerebbe tantissimo…” sospirò alla fine, mentre metteva le tazzine in tavola.
“Ma non è il caso di stuzzicare troppo Gregor, vero?” lui sorrise tristemente, abbassando lo sguardo sul tavolo. Dal suo tono si capiva che si era aspettato una risposta simile, ma nonostante tutto c’era chiaramente rimasto male.
Dannazione, sono la sua miglior amica… e dopo tutto quello che ha fatto per me…
“Mi dispiace… doveva esserci Henry a farti da testimone ed è morto – ammise prendendogli la mano – E dopo che hai fatto tutto questo per me non… Sei l’ultima persona che lo merita.”
“Dai, non fare quella faccia – lui scosse il capo e la abbracciò – L’importante è che stia andando bene con lui: Heymans è un bambino vivace e sano e anche tu sei serena, di certo più di quanto lo sia stata negli ultimi tempi.”
“Vanno bene le cose… sono sorpresa di poterlo dire.”
“E allora questo è il miglior regalo di matrimonio che potessi farmi.”
“Andy, Andy – sorrise Laura, baciandolo sulla guancia – adesso sei proprio cresciuto: metti su famiglia… non mi sembra vero.”
“Daaaaaha! Daddddaaaa!”
“Perché ridi? Perché ridi? Perché ti ho imprigionato tra le mie braccia? E se adesso ti mangio di baci come la prendi? Ohi… bimbone! Ma ti posso rapire e portare a casa? Sei un pupazzone da mettere sopra il letto e da abbracciare!”
“E’ particolarmente entusiasta, vero? Credo che tra lei e mio figlio ci sia particolare simpatia. Spero che poi recuperi abbastanza dignità per mostrarmi l’anello.”
A quella fatidica parola Andrew arrossì.
“Ecco – iniziò imbarazzato, mentre l’amica andava a levare la caffettiera dal fornello – non c’è alcun anello da mostrarti, mi sa.”
Il rumore metallico indicò che parte del caffè era caduto e un’imprecazione soffocata fece capire che Laura aveva perso la presa sul manico, andando a bruciarsi.
“Andrew Fury – sibilò, portando la caffettiera sporca sul sostegno sopra il tavolo e scuotendo la mano offesa – vuoi dire che sei stato talmente indelicato da non prenderle l’anello? Con che coraggio le hai fatto la proposta?”
“Le ho regalato un mazzo di rose!” protestò lui, ma chiaramente consapevole di essere nel torto.
“Proposta di matrimonio uguale anello! Possibile che nei tuoi studi universitari una simile formula matematica non l’abbia mai incontrata! Cavolo!”
“Ti stai arrabbiando più tu che… ma che dico? Ellie nemmeno ci ha fatto caso!”
“Perché è cotta come una pera per te, stupido! – Laura allungò una mano e gli diede uno scappellotto sul collo – le avessi dato un mazzo di erbacce sarebbe stata felice lo stesso. Dannazione, Andy, questa da te non me l’aspettavo: Ellie merita un matrimonio stupendo, a partire dalla dichiarazione.”
“Non ho saputo aspettare, lo so – sbottò lui – è tutta colpa mia. Però… inizierò a lavorare solo a luglio, quando suo padre approverà i miei progetti, capisci? Non potevo andare dai miei e chiedere i soldi per comprarle l’anello… è una cosa che voglio fare con le mie forze.”
“Inizi a lavorare a luglio? – Laura si mise le mani sui fianchi – massimo due mesi dovevi aspettare! Dannazione, Andy! Eppure sei tu quello che calcola sempre tutto quanto no?”
“Oh, su di Ellie non potevo calcolare, non più. Se non lo facevo sarei impazzito… ho affrontato persino le ire di quel folle di suo padre pur di farle la proposta.”
“Non era felice scusa?”
“Lascia stare, i miei rapporti con lui sono sempre al limite dell’omicidio del sottoscritto. Ma presumo che come datore di lavoro sarà onesto e mi farà un regolare contratto.”
“E’ proprio un tipico suocero, non trovi?” sghignazzò la rossa.
“Smettila!”
“Ehi! – annunciò Ellie – stiamo arrivando io e un bellissimo bambolotto rosso!”
E con l’arrivo della futura sposa si chiuse quella conversazione.
 
Ovviamente la questione dell’anello Andrew se l’era posta sin da subito, ma per una volta tanto la sua mente razionale aveva ceduto davanti all’impeto dell’amore. Se gliel’avessero detto qualche anno prima avrebbe commentato che aspettare qualche mese in più non faceva differenza, ma all’epoca non era follemente innamorato e dunque poteva permettersi di valutare tutto con occhi diversi.
Sposare Ellie era ormai per lui un’esigenza: si era accorto di aver bisogno di lei ogni momento della sua giornata. Non sopportava più l’idea che stessero in case separate, per quanto distanti nemmeno dieci minuti di camminata l’una dall’altra: voleva vederla a colazione, pranzo, cena, sentire la sua voce in una casa che potevano definire soltanto loro.
La voglio amare come se non ci fosse un domani!
Ecco, quella era anche una nuova considerazione: a diciassette anni Ellie era di una bellezza incredibile e più di una volta Andrew si era ritrovato a pensare a come doveva essere senza vestiti. Intuiva che quel corpo doveva avere delle proporzioni perfette e spesso si era dovuto trattenere per non scendere con la mano su quei seni piccoli e alti, su quei fianchi morbidi… se prima il suo amore per Ellie era stato solo platonico, ora iniziava a diventare anche fisico.
L’avrebbe amata se lei gli si fosse offerta, magari nel prato dove spesso si incontravano? Fare l’amore con lei doveva essere la cosa più meravigliosa del mondo, certamente.
No, non lo potrei mai fare. Non prima del matrimonio.
Anche se era Ellie, anche se mancava sempre di meno al matrimonio, l’esperienza di Laura l’aveva bruciato così tanto che la sola idea di mettere nei guai la sua fidanzata lo faceva stare male.
Erano questi i pensieri che gli circolavano in testa a novembre, quasi cinque mesi dopo la sua dichiarazione. La settimana scorsa Nicholas Lyod gli aveva dato il suo stipendio per il lavoro che stava svolgendo, dimostrandosi incredibilmente soddisfatto di lui. Era già la terza busta paga che riceveva e ormai era riuscito a mettere da parte una discreta somma. Avrebbe voluto comprare l’anello ad Ellie già dopo il suo primo stipendio, ma per forza di cose aveva dovuto spendere quasi tutto per un tavolo da disegno professionale che aveva fatto arrivare da East City: i suoi progetti diventavano sempre più specifici ed una banale scrivania non gli bastava più.
“Speriamo che le piaccia… speriamo che le piaccia…” continuava a ripetersi mentre si dirigeva verso la casa della fidanzata. Era tornato da East City quel giorno stesso: ci era andato con la scusa di consultarsi con alcuni suoi ex colleghi a proposito di alcune varianti del progetto (cosa che effettivamente aveva fatto), ma il suo intento principale era di comprare un bell’anello per Ellie. Voleva qualcosa di diverso, qualcosa che nel piccolo negozio del paese non aveva mai visto.
Certo, era rimasto spiazzato davanti a tutta la vasta scelta che la commessa gli aveva offerto, ma alla fine aveva optato per un delicato anello d’oro con delle gocce d’ambra incastonate. La scelta era caduta su quello perché l’ambra era un colore che lui immediatamente associava ai baci di Ellie, dolci come il miele.
Stupidissima motivazione, dannazione a te. Magari a lei manco piace l’ambra… ma a che altro mi potevo aggrappare? Non l’ho mai vista con dei gioielli addosso.
Eccetto i piccoli orecchini a perlina che indossava sempre infatti Ellie non aveva mai portato dei gioielli che potessero dare degli indizi al fidanzato. Se non fosse stato per la tradizione di dare un anello di fidanzamento, Andrew avrebbe semplicemente aspettato il giorno del matrimonio per metterle al dito direttamente la vera nuziale.
“Ciao, Andrew!” la voce di lei lo salutò ed alzando lo sguardo vide che era alla finestra di camera sua, al piano superiore dell’edificio.
“Scendi, in fretta – si trovò a dire con voce ansiosa – ti devo parlare!”
“Uh? Ma che succede? E’ quasi ora di cena e…”
“Ti prego!”
“Arrivo.”
Come scomparve dalla finestra, Andrew si mise la mano in tasca rigirandosi l’anello tra le dita. L’aveva levato dalla scatolina per paura di farlo cadere mentre l’apriva, ma forse era stata una mossa sbagliata.
Che le dico? Che l’ho lasciata a casa e gliela porto domani? Ma forse conviene rimandare… ma perché deve esser tutto così tremendamente complicato? Quando le ho dato quel mazzo di rose non è stato così difficile e…
E come poteva continuare a farsi paranoie mentali se lei usciva di casa con un vestito grigio perla che, illuminato dalle luci provenienti dalle finestre, assumeva della sfumature bellissime, mettendo in risalto la pelle chiara e gli occhi scuri?
“Allora, che succede?” lei gli si accostò con un sorriso.
Ma Andrew non rispose: si mise in ginocchio e tirò fuori l’anello, senza nemmeno rendersi conto di tenerlo al rovescio.
“So che ti ho già chiesto di sposarmi, ma sono talmente innamorato di te che lo rifarei mille volte… vuoi sposarmi?” lo disse tutto d’un fiato, senza smetterla di guardarla negli occhi. Come se non avessero deciso niente, come se il loro futuro assieme dipendesse solo ed esclusivamente da quanto aveva detto.
“Oh, Andrew – sussultò lei, portandosi le mani alla bocca in un gesto emozionato – è l’anello più bello del mondo!”
“E’ un sì? – sorrise lui – ti prego dimmi che è un sì, amore mio.”
“Ma certo che è un sì – lei tese la mano – che altra risposta potrei mai darti?”
Ed Andrew trattenne le lacrime mentre le infilava il gioiello all’anulare, scoprendo solo in quel momento che era al rovescio e quindi da girare per mostrare le gocce d’ambra incastonate. Rimase in ginocchio, prendendo quella mano e baciandola sul palmo con tutta la tenerezza possibile.
“Ti amo, anima mia – mormorò infine – e… cavolo quanto sembrano lunghi questi cinque e passa mesi che ancora mancano al matrimonio. Dimmi che mi starai sempre accanto, Ellie, ti prego.”
Per tutta risposta la giovane lo strinse a sé, facendogli posare la testa sul suo ventre.
“Ovvio che ti starò sempre accanto – sussurrò – sei il mio unico grande amore, Andrew.”
“Ti chiederei di sposarmi tutti i giorni, te lo giuro.”
“Guarda che potrei abituarmici – ridacchiò lei, mentre lo aiutava ad alzarsi – però ora credo che rientrerò, fa davvero freddo e non mi sono messa nemmeno una sciarpa addosso.”
“Scusa – la abbracciò – ti ho fatto uscire così di fretta.”
“Per questo anello e questa proposta sarei uscita anche in biancheria.” sorrise con malizia.
E Andrew scoprì che lo avrebbe desiderato davvero tanto.
Cinque mesi e ventisette giorni… ma perché il tempo deve scorrere così lento?

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Capitolo 28
*** Capitolo 27. 1884. Amore. ***


Capitolo XXVII

1884. Amore.

 

 

La casa dove Andrew ed Ellie sarebbero andati ad abitare dopo il matrimonio non si trovava in paese, ma in una piccola collina a circa a venti minuti di camminata procedendo verso est. Era stata costruita da dei prozii di Andrew che, come era d’uso nel secolo precedente, avevano voluto evidenziare il loro status sociale con quella piccola residenza lontana dal centro abitato.
Si trattava di un villino a due piani circondato da una folta pineta che terminava giusto per lasciare spazio ad un piccolo giardino, largo cinque metri, che girava tutt’intorno all’edificio. Al contrario di altre case di campagna, costruite con legname, erano stati usati pietra e mattoni ed il risultato ottenuto era un esterno di colore bianco sfumato dove risaltava il blu scuro delle imposte e del tetto. Un villino così era certo di gran pregio, considerate anche le stanze ampie e luminose, ma dopo la morte dei prozii era rimasto praticamente disabitato: era stato impossibile venderlo considerato che, in un paese basato sulla vita campagnola, una dimora simile risultava più che altro scomoda data la sua distanza dai campi ed il suo relativo isolamento.
E così col passare degli anni era entrata in uno stato d’abbandono, con il giardino ormai invaso dalle erbacce, diverse parti del tetto rovinate e uno strato di polvere e muffa che aveva piano piano conquistato tutte le stanze.
A dire il vero Andrew aveva proposto quella soluzione ad Ellie con leggero imbarazzo, credendo che la fidanzata non avrebbe mai voluto andare in un posto simile considerata la distanza dal paese e l’isolamento. Non poteva immaginare che la ragazza era rimasta affascinata da quella casa così bella, isolata e misteriosa, sin da quando, a dieci anni, l’aveva scoperta in una delle sue passeggiate in campagna. Si era sempre chiesta a chi appartenesse quella villetta che emanava tutto quel fascino sulla sua personalità così fantasiosa e così, quando era venuta a sapere che sarebbe stata la loro casa, era letteralmente impazzita di gioia.
Ovviamente il notaio e sua moglie erano stati ben felici di donare ai due futuri sposi quella dimora: non solo era per loro un piacere poter contribuire al loro mettere su famiglia, ma era anche un bel sollievo sapere che finalmente quella villetta trovava qualcuno che volesse andare ad abitarci.
Così, ad una settimana dal matrimonio, la villetta ormai era come nuova e la futura sposina terminava di sistemare il suo corredo nei cassettoni dell’armadio.
“Ellie, sei qui? – la chiamò Andrew entrando – Io ho finito di sistemare giù nello studio, se hai fatto possiamo tornare a casa: si sta facendo tardi.”
“Arrivo!” annuì lei estasiata, chiudendo l’armadio e raggiungendolo.
Come ormai era tradizione fecero un giro di tutte le stanze, controllando che tutto fosse in ordine, ma soprattutto perché ad entrambi dava un grande senso d’orgoglio vedere come quella casa era cambiata da quando, due mesi prima, Andrew l’aveva riaperta trovando estrema difficoltà nel far girare la chiave nella serratura ormai arrugginita. Ma nonostante quell’inizio non proprio incoraggiante i due ragazzi avevano subito capito che quella era la loro casa dei sogni e così si erano messi di buona lena a lavorare. Fortunatamente l’edificio era solido e ben costruito ed eccetto alcune opere di manutenzione come sistemare il tetto e cambiare i pali di legno che sostenevano il piccolo portico, era richiesta solo una grande opera di pulizia. Opera che si era assunta quasi del tutto Ellie, dimostrando di essere una vera e propria donna di casa: al contrario di molte sue coetanee lei adorava fare le pulizie, sistemare la roba; potersi prendere cura della casa la faceva sentire estremamente appagata ed era instancabile quando si trattava di lavori domestici.
“Beh, direi che ci siamo, no? – chiese Andrew mentre scendevano al piano di sotto – hai sistemato la casa da cima a fondo, ragazza mia: non penso che ci sia tazzina o cucchiaio che non sia passato indenne dalla tua opera di pulizia.”
“Vogliamo parlare del fantastico servizio da te dei tuoi prozii? E’ così bello! Sei sicuro che tua madre non lo voglia? In questa casa effettivamente ho trovato così tante cose splendide e pregiate… spetterebbero a lei.”
“E’ tutto per noi, amore mio – la rassicurò Andrew – mia madre sa benissimo cosa c’è in questa casa e ha detto che potevamo tenere tutto: se qualcosa le interessava l’avrebbe preso già da anni, non credi?”
“Già…” annuì lei, prendendo la tracolla che aveva lasciato all’ingresso.
Uscirono fuori e mentre Andrew chiudeva la porta a chiave, Ellie respirò profondamente l’aria fresca e pulita di quella sera d’aprile. Con orgoglio osservò il giardino ormai pulito dalle erbacce, dove le piante ed i fiori iniziavano a sbocciare, felici di poter finalmente respirare come si deve: con somma sorpresa della giovane tutto era sopravissuto, aspettando solo di essere liberato, come in un giardino segreto.
“Allora – il fidanzato la prese a braccetto – tra una settimana il nostro nido sarà pronto ad accoglierci, meraviglia. Sei pronta a diventare Ellie Fury?”
“Non sono mai stata più pronta di così!”
 
Che Ellie fosse prontissima non c’erano dubbi: aveva passato gli ultimi mesi a lavorare nella villetta e a  progettare nei minimi particolari il proprio matrimonio, e su di un fatto aveva sempre avuto la certezza: al suo abito da sposa ci avrebbe pensato Laura. Non aveva voluto sentir ragioni: se la sua amica non poteva essere presente alla cerimonia, almeno avrebbe indossato il suo vestito.
Ovviamente Laura era stata più che entusiasta di quella proposta: considerate le sue condizioni di reclusa non aveva avuto più occasione di dedicarsi seriamente ad ago e filo. Quella sfida così grossa aveva riacceso in lei una fiamma sopita ormai da tempo, facendole riscoprire il piacere di cimentarsi in nuove sfide, come poteva essere un abito da sposa.
“E direi che ci siamo! – commentò quattro giorni prima delle nozze, mentre girava attorno ad Ellie vestita di bianco – hai deciso la pettinatura?”
“Niente di particolare – ammise lei – con i capelli che ho non posso permettermi molta fantasia. Semplicemente la treccia a fare da corona, hai presente?”
“Ma dai che ti starà benissimo. Ecco, tieniti i capelli così: voglio vedere l’effetto del velo, ma direi che è una meraviglia. Accidenti, non avrei mai pensato che potesse uscire così bene: fare un vestito da sposa non è uno scherzo.”
“E’ bellissimo – Ellie la abbracciò commossa – come poteva non esserlo dato che l’hai fatto tu?”
“E’ il mio regalo per te, signorina – strizzò l’occhio Laura, facendola girare ed iniziando a slacciarglielo – non ti ho mai ringraziato abbastanza per l’improvvisata che hai fatto al mio matrimonio, sempre che così lo possa definire.”
“Ammetto che è sembrato tutto meno che un matrimonio – sospirò la bruna, sfilandosi con attenzione il vestito e restando in biancheria – non è giusto. Insomma, si doveva fare qualcosa per renderlo.. più matrimonio.
“Non ci pensare – scosse il capo l’amica iniziando a ripiegare la stoffa bianca – quello che conta è che le cose vadano bene in casa.”
“Sei sicura? Insomma il fatto che io ed Andrew dobbiamo sempre venire quando tuo marito non c’è non è proprio una cosa… normale.”
Davanti a quella dichiarazione così innocente Laura non poté far a meno di sospirare. Gregor non vedeva di buon occhio quelle visite, ma in cuor suo ne capiva il motivo: il fantasma di suo fratello ancora lo tormentava. Andrew era una figura profondamente legata ad Henry e di conseguenza anche Ellie lo era.
La rossa lo sapeva benissimo che tra suo marito e suo fratello non era mai corso buon sangue… e come poteva considerate le circostanze? La morte di Henry aveva in qualche modo sollevato Gregor da un forte peso: la loro maggiore intimità era sicuramente dovuta a questo. Certo, Andrew ed Ellie non erano assolutamente minacciosi quanto Henry, tuttavia generavano nel suo ombroso marito un certo malcontento. E anche se non diceva niente, quando in rare occasioni si imbattevano gli uni con l’altro, si capiva che preferiva evitare simili incontri.
Senza contare che Andy lo odia con tutte le sue forze.
“E’ tutta una situazione particolare – si giustificò, facendo un vago gesto con la mano – figurati che non posso ancora uscire senza che non si spettegoli alle mie spalle. Sai il detto dare tempo al tempo? Ecco, va applicato anche al mio caso.”
“Sarà – mormorò Ellie, finendo di rivestirsi e sedendosi nel letto dove dormiva Heymans – però mi dispiace, davvero… uh, buongiorno, leoncino! Stavamo dormendo così tanto che non ci siamo accorti che è venuta zia Ellie, eh?”
“Elli! Elli! – Heymans fu immediatamente desto e gattonando si buttò sul grembo della giovane – Ochi Elli!”
“Oh no, tesoro, zia Ellie deve andare via – sospirò lei, abbracciandolo – ma vorrei tanto giocare con te.”
“Ed infatti stanno bussando alla porta – Laura posò l’abito ed si apprestò ad uscire dalla stanza – questo è sicuramente il tuo futuro maritino che ti viene a prendere.”
“Allora scendo pure io.”
Con ancora in braccio il piccolo Ellie raggiunse l’amica e scesero assieme le scale. Una volta che Andrew fu entrato, Heymans iniziò a fare le feste e a tendere le mani verso di lui.
“Andi Andi!”
“Ciao, ragazzone! – lo salutò l’uomo, prendendolo in braccio e baciandolo sulla guancia – allora, sei riuscito a vedere Ellie con l’abito da sposa? Io sono tremendamente curioso, ma a quanto pare è tradizione che non possa vederla fino al momento in cui entrerà nella sala delle cerimonie.”
“E la tradizione verrà rispettata – ribadì Laura con aria di sfida – anzi adesso vado di sopra ed impacchetto per bene l’abito così lo metto al sicuro da sguardi indiscreti. Sorvegliate il bimbo per due minuti, io torno subito.”
Rimasti soli, Ellie si accostò al fidanzato e prese la manina di Heymans. Il piccolo era particolarmente felice di trovarsi in mezzo a loro, non faceva altro che girarsi verso l’uno e poi verso l’altra, indeciso a chi rivolgere le sue attenzioni.
“Ce lo possiamo portare via? – sospirò la ragazza – Lo amo troppo, è stupendo.”
“E poi come lo spieghi a Laura?”
“Voglio un bambino pure io – mise il broncio la ragazza – tutto mio… tutto per me.”
“E per me no?” la prese in giro lui.
“Ovviamente. Comunque Heymans è davvero grosso, non credi? Vero patatone?”
Andrew osservò con amore il bimbo tra le sue braccia: a quasi due anni era davvero un bimbo di dimensioni notevoli. Definirlo in carne era un eufemismo. Adesso che era cresciuto abbastanza era facile capire che sarebbe assomigliato molto a Gregor: il taglio degli occhi leggermente infossato, il viso dai lineamenti decisi, nonostante fosse presente ancora la morbidezza dell’infanzia, la stazza… da grande sarebbe stato quasi una copia di suo padre. Il giovane Fury aveva sperato che il piccolo somigliasse maggiormente ad Henry o a Laura, ma l’unica eredità dal ramo degli Hevans erano il colore di occhi e capelli, identici a quelli dello zio. La sfumatura arancione, differente rispetto al rosso più scuro di Laura, era la stessa di Henry, così come il grigio più chiaro delle iridi.
Ma forse è un bene, piccolo mio, se assomigliassi troppo a tuo zio sarebbe un peso troppo grande per te.
“Eccomi qua – annunciò Laura, scendendo le scale con un pacco avvolto nella carta – abito da sposa pronto e finito. Si deve parlare per anni della tua bellezza, Ellie Lyod, capito?”
“E’ una promessa!” sorrise la bruna.
 
Quella stessa sera, la famiglia Breda cenava in tranquillità con Laura che ovviamente portava avanti la conversazione, informandosi sul lavoro del marito.
“Quindi il cantiere durerà ancora almeno quattro mesi.”
“Già, il progetto si è ampliato. Una bella fortuna. Comunque mi complimento – Gregor fece un sorriso significativo mentre tagliava l’arrosto – rispetto ai tuoi primi tentativi c’è un sensibile miglioramento.”
“Non sottovalutarmi – sorrise lei in risposta con aria di chi la sa lunga – sono piena di sorprese.”
In quel momento Heymans terminò il suo biberon di latte ed iniziò a richiamare l’attenzione dei due adulti. Subito Laura gli levò l’oggetto dalle mani, mettendolo al sicuro sopra il tavolo, e gli asciugò il mento col bavaglino.
“Mamma, dove Andi?” chiese il piccolo fissandola con occhi speranzosi. Aveva imparato che quella era l’ora in cui di solito passava Andrew ed ovviamente era ansioso di vederlo.
Tuttavia quella domanda ebbe il potere di far gelare il sangue nelle vene a Laura. Con cautela lanciò un’occhiata al marito, ma sembrava che Gregor avesse deciso di far finta di niente.
“Vieni, patatone – sorrise, prendendo in braccio il bambino – adesso è ora di fare la nanna, va bene? La mamma ti mette nel tuo lettino e ti racconta una favola così ti addormenti subito.”
Ovviamente Heymans era troppo piccolo per capire quanto le sue parole potevano provocare. Per lui Ellie ed Andrew erano delle persone che lo prendevano sempre in braccio e lo coccolavano, degli zii perfetti insomma. Ma chiamarli in questo modo, proprio davanti a Gregor, poteva essere un problema molto grave.
Se solo tuo padre ti desse un minimo di attenzione.
Cambiando il bambino per la notte si rese conto che era quello il vero rompicapo della sua vita: sembrava che Gregor proprio non volesse instaurare nessun rapporto con Heymans. Adesso il bambino era abbastanza cresciuto per poter interagire: parlava a modo suo, capiva quello che gli si diceva seppur in maniera semplice… c’erano tutti i presupposti per cercare un primo contatto, anche a livello di sguardi o tatto. Ma padre e figlio erano completi estranei: effettivamente Heymans pronunciava pochissime volte la parola papà: sapeva che era da attribuire a Gregor, ma Laura era certa che se fosse dipeso dal bambino avrebbe chiamato in questo modo Andrew, senza pensarci due volte.
“Mamma, favola!”
“Ma certo, tesoro – si costrinse a sorridere, mettendolo a letto – quella degli orsetti, va bene?”
Con sommo sollievo della donna bastarono solo cinque minuti prima che il bimbo si addormentasse. Dopo avergli rimboccato le coperte scese di nuovo in cucina, lieta di vedere come Gregor non avesse approfittato di quella sua breve assenza per scappare via, come a volte ancora succedeva dopo momenti imbarazzanti come quello.
“Si è addormentato – sorrise, iniziando a sparecchiare – vuoi che ti prepari il caffè?”
“No, tranquilla – si alzò lui – sto bene così. E comunque ottima cena, Laura, davvero.”
A sentirsi chiamare per nome arrossì: succedeva così di rado che le faceva sempre uno strano effetto
“Accidenti, l’arrosto mi è davvero uscito bene se ricevo simili complimenti.”
“Cuoca suscettibile.”
“Può darsi – arricciò il naso, intuendo che si era appena creata una strana scintilla nell’aria tra loro due: si girò a guardarlo, scoprendo che quei complimenti come cuoca non le bastavano – alla festa del primo dicembre però non mi hai fatto complimenti per le mie doti di cuoca.”
“Te ne ho fatti ben altri.” ammise l’uomo rispondendo a quello sguardo carico di sottintesi.
“Dopo più di due anni sono davvero così cambiata? A prescindere dal vestito che indosso…”
“Con quell’abito verde eri uno spettacolo, Laura – le si avvicinò e le mise una mano sul mento – ma ti assicuro che anche adesso sei bellissima.”
A sentire quella mano su di lei Laura fremette: desiderava ardentemente che scendesse a toccarle il seno, a sfilarle il vestito, a farla sentire donna come era successo quasi tre anni fa. Probabilmente lui si accorse di questa suo desiderio, perché i suoi occhi castani si accesero di brama.
“Quel capanno degli attrezzi non è stato il massimo della comodità – ammise lei, prendendogli con cautela la testa tra le mani – credi che… che sul letto matrimoniale sarebbe…”
Dovette bloccarsi quando lui si chinò a baciarle il collo, il fuoco della passione che si riaccendeva, come se tutto fosse cancellato e lei fosse tornata ad indossare quel vestito verde.
“Quel capanno degli attrezzi decisamente ci ha limitato – sussurrò Gregor – e questa volta voglio vederti senza alcun vestito addosso, Laura.”
 
“E dai, Andrew! Prendimi!” Ellie scoppiò a ridere mentre si sollevava leggermente la gonna e iniziava a correre per quegli ultimi trenta metri di salita prima di arrivare al giardino della villetta.
“Gli scatti non valgono! – la raggiunse lui con un leggero fiatone – Ma perché siamo qui?”
“E’ il giorno del mio compleanno – disse lei con aria importante mentre percorreva il sentiero del cortile e si fermava davanti alla porta – e posso fare quello che voglio: diciotto anni arrivano una volta sola. Dai, coraggio, apri!”
“Mamma mia, che bambina viziatella che sei ogni tanto – ridacchiò Andrew, tirando fuori dalla tasca la chiave ed aprendo la porta – eccoti nel tuo regno, Ellie Lyod, ma ti ricordo che ci sposiamo solo dopodomani. Devi avere ancora un briciolo di pazienza prima di diventare la regina del tuo castello.”
Lei gli rivolse un’occhiata significativa e, senza dire una parola, attese che chiudesse la porta e poi gli fece cenno di seguirla su per le scale, fino alla loro camera matrimoniale. Era tutto perfetto, dal letto già fatto, alle tende aperte per far entrare la luce: era la stanza che la giovane preferiva assieme alla cucina.
“Con tutti i preparativi per il matrimonio alla fine per festeggiare il mio compleanno c’è solo la cena di stasera, ma non sarà niente di particolare…” ammise.
“L’hai detto tu stessa che preferivi così – Andrew alzò le spalle con noncuranza – e ti ho anche chiesto che regalo volevi, ma tu mi hai detto che…”
“… che non dovevi assolutamente comprare niente, che ti avrei detto io al momento giusto cosa volevo.”
“E così ho fatto – Andrew si stava davvero divertendo in quella strana caccia al tesoro che era scoprire che cosa volesse Ellie – adesso dimmi, mia piccola fanciulla, che cosa desideri? Mancano dieci ore alla mezzanotte e alla fine dell’incantesimo del tuo compleanno… vorrei poterti regalare qualcosa, ma se tu non mi dai alcun indizio…”
Si interruppe perché lei gli era andata incontro e l’aveva baciato. Come succedeva sempre le cinse la vita e la avvicinò ancora di più a se, i loro corpi che entravano in contatto: adorava sentire la morbidezza di Ellie premuta contro il suo petto, così come lo facevano entrare in estasi le sue mani che gli accarezzavano i capelli.
Oh, Ellie, sei un sogno meraviglioso…
“Andrew…” lo chiamò lei, staccandosi lievemente e alzando lo sguardo su di lui.
“Sì?” mormorò, pronto a riprendere quel bacio.
“Facciamo l’amore… qui… adesso.”
“Che? – queste parole gli fecero sgranare gli occhi – Ellie, ma che fai?”
La giovane si era sciolta dalla sua presa e si era portata a qualche passo di distanza da lui, iniziando a slacciarsi la camicetta azzurra che indossava. Ed era arrossita in maniera incredibile, ma i suoi occhi scuri non erano mai stati così sicuri di qualcosa.
“Voglio fare l’amore con te – sorrise lei, facendo cadere la camicetta a terra ed iniziando a sfilarsi la gonna. Nell’arco di dieci secondi rimase solo con la sottoveste che le arrivava appena al sopra il ginocchio – non posso più aspettare… e per il mio compleanno hai promesso di regalarmi quello che volevo.”
“Ellie – lui scosse il capo, cercando una soluzione a quella situazione così assurda – mancano due giorni, noi non…” ma la giovane si era di nuovo accostata e gli aveva preso le mani, conducendole al suo seno, così perfettamente percepibile sotto la leggerissima stoffa della sottoveste.
Andrew avrebbe voluto interrompere tutto quello, almeno si diceva che era la cosa migliore da fare. Ma a quel contatto non poté far a meno di stringere la presa su quel petto così perfetto che sembrava esser disegnato apposta per le sue mani. E sentendo il gemito di lei capì che non poteva tornare indietro.
Oh no, non è che non posso… io non voglio tornare indietro.
A che serviva il pudore in quel momento? Che cosa gli importava di aspettare altri due giorni? Ellie era stretta a lui, e gli stava chiedendo di amarla… ed era mesi che ormai aspettava questo momento. Le sue mani si staccarono dal seno e andarono sulla schiena, scendendo fino all’orlo della sottoveste e sollevandolo.
“Amami… amami…” continuava a ripetere Ellie con voce sensuale, mentre tra un bacio e l’altro gli slacciava la camicia. Sentire le sue labbra morbide scendere sul petto era come essere colpiti da un fulmine.
Con una brama che non credeva possibile Andrew le sfilò la sottoveste, lasciandola solo in biancheria intima. La sua mano andò quindi alla treccia, al nastro rosa che la teneva.
“Oh no – mormorò lei – ti prego, sono un disastro con i capelli sciolti…”
“Se ti devo amare non devi indossare niente – scosse il capo lui, tirando il nastro – questi capelli li devi tenere sciolti solo per me…” ed erano qualcosa di incredibilmente morbido. Andrew affondò le mani sulla nuca e poi scese in quella folta massa di lana scura che, libera dalla treccia, cadeva ribelle sulla schiena della giovane. Perché lei era perfetta così: completamente nuda, con quel non so che di selvaggio e ribelle, come una creatura dei boschi che si concede ad un essere umano in tutta la sua magia e splendore.
L’amore di Ellie non conosceva limiti: voleva essere completo e perfetto, liberandosi anche di quella convenzione per cui bisognava essere sposati per scoprire i propri corpi ed amarsi. Ed i pantaloni e la biancheria erano la cosa più inutile del mondo, in quel momento, quando la donna perfetta si sdraiò nel letto e lo invitò con uno sguardo a cui era impossibile dire di no.
Andrew voleva solo perdersi in quel mare di capelli scuri come la notte, voleva solo fondere il proprio corpo con quello di lei, certo che era un qualcosa a lui destinato da sempre.
 
Un paio di ore più tardi Ellie si stiracchiò con soddisfazione sul letto. L’idea di farsi un bagno la attirava parecchio e così scostò le lenzuola per andare a lavarsi, ma qualsiasi altro tentativo di movimento venne interrotto dal braccio di Andrew che la afferrò per la vita costringendola a sdraiarsi.
“Dove pensi di andare?”
“Ah, allora sei sveglio – ridacchiò – sembrava dormissi.”
“Sonnecchiavo, ma questo non ti dà il diritto di fuggire da me, meraviglia – le disse, prima di mordicchiarle il fianco – sei mia prigioniera in questo letto e devo ancora decidere se torneremo a casa per la cena. L’idea di ricominciare di nuovo mi attira parecchio.”
“A questo punto sembra più un regalo di compleanno per te piuttosto che per me – sorrise con malizia lei, ma poi non oppose resistenza e si sdraiò di nuovo accanto a lui – ne è passata di acqua sotto i ponti prima di arrivare a questo, vero?”
“Dannati diciotto anni che non arrivavano – sbuffò Andrew – credevo di essere l’unico ad impazzire di desiderio, negli ultimi tempi tu sembravi solo provocarmi.”
“Ma che fai?” rise la ragazza, mentre il fidanzato le scostava del tutto le lenzuola.
“Ammiro la tua perfezione, non posso? Sei fantastica, Ellie, fare l’amore con te è la cosa più bella del mondo, non smetterò mai di dirtelo.”
“Ti amo – sussurrò lei, andandogli sopra con una mossa sensuale – ti amo Andrew Fury, sei solo mio.”
“Andrew… mi hai sempre chiamato così. Perché non hai mai usato Andy?”
“Perché tu sei il mio uomo – spiegò la giovane baciandolo sul petto – non un fratello, non un amico… Andy è un nomignolo che in qualche modo sminuisce quello che sei per me. E’ infantile, e non è quello che ho sempre visto in te.”
“Adesso mi sembra assurdo pensarti come una bambina – ammise lui, accarezzandole i capelli e cercando di ignorare la nuova ondata di desiderio che lo travolgeva nel sentirla sopra di se – sei senza età Ellie, ma sei incredibilmente sensuale che… hai persino sfatato il mito che a voi ragazze la prima volta fa male.”
“Ah già… dovrò cambiare le lenzuola e lavarle – sospirò indicando con lo sguardo la parte del lenzuolo che recava le tracce della sua verginità – dettagli. Ma se vuoi proprio saperlo non ha fatto male: è stato più o meno come levare di colpo un piccolo cerotto… che hai? Il fatto che mi muova così sembra quasi…”
“Ellie…” Andrew serrò gli occhi.
“Non hai detto che l’idea di riniziare ti stuzzicava?” gli chiese con malizia.
“Sei solo mia… di nessun altro. A prescindere da quello che può dire uno stupido certificato di matrimonio tra due giorni, Ellie Lyod. Ti prego, dimmelo.”
“Sei solo mio, Andrew, come io sono solo tua…” mormorò lei.
E ripresero a fare l’amore, persi nella felicità di essere vivi e di avere accanto la persona che si ama. Il tempo che passava non aveva alcun senso in quei momenti di perfetta unione, dove il mondo si riduceva solo a loro due. Avevano raggiunto un traguardo incredibile dopo anni di attesa e maturazione.
Non potevano chiedere altro a quell’amore bellissimo
 
Due giorni dopo, vedendo Ellie che avanzava verso di lui con quello splendido abito bianco, ma ancora di più con quell’espressione raggiante, Andrew si sentì l’uomo più fortunato del mondo. Una piccola parte di lui notò che il bouquet della sposa era costituito da gigli bianchi con in mezzo alcune rose rosse, legate assieme da un nastro bianco.
Per qualche istante si chiese se avesse un significato del tutto particolare quella scelta, quasi un intimo messaggio tra loro due per prendere in giro tutto il resto dei presenti. Perché se anche tutto era perfetto e festeggiare con gli amici e parenti era bellissimo, lui e la sua sposa sapevano benissimo che qualcosa era andato perso due giorni prima e che, forse, tutto quel bianco del vestito di Ellie non era azzeccato.
Ma se il vecchio Andrew avrebbe fatto caso ad una cosa simile, sentendosi anche in colpa, la sua nuova versione non poteva far a meno di essere estremamente divertito da tutto questo. E lo sguardo malizioso che gli rivolse Ellie ad un certo punto della cerimonia, mentre il sindaco parlava, gli fece capire che anche lei la pensava allo stesso modo.
Perché in fondo che potevano saperne quelle persone del loro amore? Certo, alcuni più di altri ne avevano visto alcune parti e sfumature, magari esternando tutti i loro dubbi su quella differenza d’età.
Ma non avevano la minima idea di quello che aveva provato Ellie nel sentire per la prima volta il suo cuore impazzire quando uno studente dell’ultimo anno le aveva passato i compiti in classe di lettere.
Non sapevano della divertita tenerezza che Andrew aveva sviluppato nei confronti di quella ragazzina impacciata e sporca di terra e marmellata che era stata scaraventata a terra da una pallonata.
Non sapevano di tutte quelle ore passate a chiacchierare di East City, dell’Università, di favole scritte su quaderni dalla bella copertina e fatti leggere solo dopo molto tempo per paura di svelare troppo se stessi, o ancora di lettere così attese e sincere dove, di pagina in pagina, ci si era scoperti sempre più vicini e affini.
Che ne potevano sapere di quelle magie che avevano accompagnato la loro storia? Incantesimi cattivi che avevano messo una quindicenne in punizione e che solo l’intervento di un principe aveva potuto spezzare. O incantesimi meravigliosi come quello che li aveva avvolti nel loro primo ballo alla festa del primo dicembre, permettendo loro di dichiararsi come era giusto che fossero.
Pianti, sorrisi, sguardi, un amore così perfetto che solo loro due potevano capire davvero cosa potesse significare.
Il finale che pronunciarono era solo la fine della prima parte del loro personalissimo romanzo e l’inizio della nuova, ancora più bella e splendente, dove i sogni non potevano che diventare realtà.
E quando Nicholas Lyod, durante il ricevimento, prese Andrew da parte e lo minacciò di essere delicato quella notte o sarebbe stato ucciso, tagliato in almeno cento pezzi ciascuno dei quali sarebbe stato sepolto in un punto diverso delle vaste proprietà, il giovane riuscì solo a rivolgergli uno sciocco sorriso ed un cenno del capo.
Non poteva certo immaginare il regalo di compleanno che aveva fatto ad Ellie due giorni prima.
E quella sera, finalmente soli nella loro casa, si amarono di nuovo e di nuovo, con la stessa passione e lo stesso desiderio.
La vita era perfetta in quella casa di quel piccolo angolo di mondo, la notte del trenta aprile 1884.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28. 1884. Prove di famiglia. ***


Capitolo XXVIII

1884. Prove di famiglia.

 

 

Al segnale stabilito i meccanismi vennero azionati ed Andrew trattenne il fiato. Per dieci interminabili secondi non accadde nulla, ma poi, con un sordo rombo, l’acqua iniziò a correre nei piccoli canali che attraversavano i campi. Solo in quel momenti si sentì leggero come mai gli era successo, mentre attorno a lui sentiva commenti meravigliati ed estasiati per quella grande opera di canalizzazione.
“Il progresso arriva in ogni dove – commentò Nicholas Lyod, in piedi accanto a lui, dando un colpetto di frustino al suo stivale da equitazione – hai dato una bella lezione a questo paesello, ragazzo mio.”
Che il suocero fosse estremamente soddisfatto era chiaro: dopo più di un anno di lavori finalmente i cantieri erano finiti ed i risultati non sarebbero tardati ad arrivare: comodità, risparmio, certezza di avere acqua anche nei periodi di siccità. Era una poderosa accelerata verso un futuro migliore.
“Signor Lyod, questo sistema è veramente fantastico – commentò uno dei proprietari terrieri che era venuto ad assistere alla piccola inaugurazione – mi chiedevo se…”
“Chieda all’ingegnere – lo bloccò l’uomo con uno sbuffo – costi e progetti li decide lui. Mi auguro solo che lo stipendiate bene: ne vale davvero la pena anche se a guardarlo di primo acchito non gli si darebbe un soldo.”
Ormai abituato a quegli insulti, Andrew non ci fece caso, anche perché, in nemmeno cinque secondi, si trovò circondato dagli altri proprietari terrieri che lo sommergevano di domande su quell’opera così eccezionale ed innovativa. Le stesse persone che nemmeno due anni prima non gli avevano dato la minima fiducia ora pendevano dalle sue labbra, come se fosse portatore delle verità assolute.
Ma anche se erano solo verità scientifiche e meccaniche, per Andrew significavano un futuro lavorativo certo e dunque l’indipendenza economica che aveva sempre voluto. Dopo quell’inizio così difficile, finalmente la strada era tutta in discesa, proprio come se l’era immaginata.
“… e presumo che presto il sindaco ed il consiglio vorranno conoscere anche quali sono le possibilità per…”
“… davvero notevole…”
“… eh, l’ingegneria fa davvero miracoli…”
“… le migliori congratulazioni…”
Era tutto incredibilmente inebriante, proprio come alla sua laurea i docenti ed il rettore non si erano risparmiati in lodi e complimenti per lui. Tutto questo avrebbe sicuramente meritato un festeggiamento in famiglia, anche perché, volente o nolente, doveva dare il giusto merito anche a suo suocero… ma si sa, a volte sono necessari anche dei piccoli sacrifici.
Ma stasera festeggio solo con mia moglie.
 
Dopo essere riuscito a prendere congedo da tutte quelle persone, con decine di appuntamenti fissati per andare a controllare dei terreni, Andrew finalmente si avviò verso casa. Da ormai cinque mesi percorreva quel sentiero isolato in mezzo agli alberi ed aveva scoperto che gli piaceva tantissimo: era una passeggiata quotidiana che lo aiutava a scaricare tutto l’eventuale stress ed arrivare a casa con l’umore giusto, come se per entrare in quel cortile e poi in quelle stanze fosse necessario purificarsi dal resto del mondo.
Ma forse era più che giusto considerando che dentro casa trovava sempre la più adorabile delle mogli, colei che avrebbe sempre visto come una fata meravigliosa che gli aveva concesso il suo amore.
“Andrew, sei tu? – lo chiamò proprio lei, come chiuse la porta – sono in cucina.”
“Sentendo un simile odore l’avrei indovinato anche se stavi zitta – la prese in giro lui entrando nella stanza – anche stasera ci superiamo ai fornelli, vero meraviglia?”
Dire che Ellie si stava superando era un eufemismo: il tavolo di cucina era ingombro di piatti, terrine, pentole, ma non era il caos di una cuoca pronta a far esplodere la cucina, era piuttosto quello di una cuoca esperta che trova estremo gusto nel cimentarsi in nuove pietanze. Da quando infatti aveva scoperto dei vecchi ricettari della prozia di Andrew, ogni giorno voleva sempre provare qualche ricetta nuova, con risultati più che eccellenti.
“Forse ho esagerato – ammise lei, tornando a lavoro dopo averlo baciato – ero indecisa se provare la ricetta della mousse di fragole e lamponi o la torta ripiena di frutti di bosco e così le ho fatte entrambe. Oh dai, quello che avanza lo mettiamo da parte, è che mi sono lasciata trasportare… però non volevo assolutamente sprecare tutto quello che sta crescendo nella pineta, hai presente i cespugli di more e lamponi che ci sono dietro casa? Nonostante siamo a settembre inoltrato stanno ancora dando frutti, non approfittarne sarebbe stato un delitto e…”
“… e mangerò qualsiasi cosa tu mi metta davanti, Ellie – la bloccò Andrew con una risatina – del resto si deve festeggiare. Oggi tuo marito ha inaugurato la sua opera di canalizzazione nei terreni di tuo padre…”
“… e me lo dici solo ora? Come è andata?” lei quasi fece cadere una terrina nell’impazienza di sapere.
“… mah, diciamo che molti altri proprietari sono ansiosi di parlare con me – fece lui con finta modestia, ma poi non si trattenne più – Vogliono tutti la mia collaborazione! Ellie! Ellie, sono praticamente l’uomo del momento… persino il sindaco vuole che io…”
Ma il bacio entusiasta di lei lo bloccò e in pochi secondi si trovò i capelli imbrattati di impasto dolce. Ma la notizia era troppo bella per non festeggiare in quel modo e così si trovò a stringere Ellie, incurante del grembiule leggermente infarinato che gli sporcava la camicia.
“Non mi sembra vero! Oh, tesoro, lo sapevo che prima o poi tutti avrebbero riconosciuto il tuo valore!”
“Devo rendere grazie a tuo padre, anche se mi secca dirlo – sbuffò lui, con aria leggermente contrariata – ma pazienza, del resto se devo sopportarlo occasionalmente si può fare.”
“Papà ti adora, e tu lo sai – lo prese in giro Ellie – è solo che è un po’ burbero, tutto qui.”
“Ma se mi ha minacciato di morte e occultamento di cadavere il giorno del nostro matrimonio.”
“Scherzava, e dai!”
“No, non scherzava, tu sei sua figlia e non hai mai visto i suoi occhi con lo sguardo omicida, io sì invece e… oh, ma chi se ne importa di tuo padre? Io so solo che adesso ti prenderei in braccio, ti porterei in camera da letto e festeggerei con te tutta la sera…”
“No! – protesto lei, allontanandosi prima che quella minaccia potesse essere attuata – Ho una torta in forno, non rovinerai il mio esperimento culinario, Andrew Fury. Trattieni i tuoi bollenti spiriti per ancora… Andrew!”
“E dai – ridacchiò lui, bloccandola di nuovo e mordicchiandole l’orecchio – suvvia… che sei incredibilmente desiderabile con il viso sporco di farina.”
“Ti prego – supplicò lei, cercando di trattenere le risate – solo cinque minuti, la torta ha quasi finito…”
“Oh dai – lui si volse verso il forno e lo spense ignorando l’esclamazione di protesta della donna – rimane al caldo e così finisce di cuocere. Non ci sono più scuse, per cui, Ellie Fury, adesso vieni rapita e portata in camera da letto.”
A dire il vero era una scena che si ripeteva spesso: come è tipico dei giovani e novelli sposi, l’entusiasmo per determinate attività sotto le coperte non finiva mai ed ogni occasione era buona. Certo, nessuno a vedere quella coppia così tranquilla e affabile che a volte scendeva in paese assieme, avrebbe mai detto una cosa simile: se c’era una cosa che colpiva dei coniugi Fury era la pacatezza ed l’essere persone perbene, almeno per i vecchi moralisti. Ma Andrew ed Ellie non si preoccupavano minimamente di quelle chiacchiere: il loro essere coppia riguardava solo loro due e se lo gestivano come meglio preferivano.
“… ovviamente quando avremo dei figli spero che non ci saranno scene simili – sospirò Ellie, mezz’ora dopo, allontanandosi una ciocca di capelli dal viso e guardando con aria di rimprovero il marito – vero?”
“Se ti stai ancora preoccupando per la tua torta, sono sicuro che sarà buonissima: prometto di mangiarla tutta quanta. E sì, ti prometto che quando ci saranno bambini in questa casa si cenerà all’orario previsto – sorrise Andrew, baciandola sulla punta del naso – quindi, finché siamo solo noi due, concediamoci questi strappi.”
“Mi hai persino impedito di dirti le mie di novità – continuò lei, facendo la finta offesa – l’anno prossimo, a luglio, potrò dare l’esame per diventare maestra. Ho avuto conferma proprio oggi quando sono scesa in paese. E se lo passo potrò fare quel famoso anno di affiancamento prima di poter avere una classe tutta mia.”
“Davvero? Tesoro, ma è fantastico.”
“Ed inoltre, c’è una lettera per te: viene da East City, presumo sia di qualche tuo collega. Te l’ho messa nel tuo studio.”
“Grazie mille – la baciò con dolcezza sulla fronte – comunque adesso è necessario che tu ti dedichi allo studio per quell’esame, amore mio. Quindi se hai bisogno che io…”
“Sono perfettamente in grado di studiare e badare alla casa, non credi? Non ho bisogno di nessun aiuto, Andrew Fury: non permetterò a nessuno di mettere mano al mio piccolo castello.”
“E chi ti potrebbe mai usurpare?” rise Andrew, vedendo quel broncio infantile.
 
“… allora è quello il bambino…”
“… certo che ci vuole un bel coraggio a portarlo fuori.”
Quelle parole arrivarono all’orecchio di Laura e istintivamente strinse la mano di Heymans.
Il bambino alzò lo sguardo su di lei con perplessità, ma poi sorrise e riprese a guardarsi attorno, facendosi condurre docilmente per le vie del paese. I suoi occhi grigi continuavano a fissare meravigliati tutto quel mondo che vedeva per la prima volta: era chiaramente eccitato nello scoprire che c’erano tante altre persone, oltre a lui e la sua famiglia, tanti suoni, odori e cose che non aveva mai pensato esistessero. Ovviamente la nuova situazione lo metteva anche un po’ in soggezione e spesso si assicurava che la mamma fosse sempre accanto a lui e non gli lasciasse all’improvviso la mano.
“Mamma, che cosa questo?” chiese indicando con l’indice la terra battuta sotto i suoi piedi.
“Si chiama strada, amore – spiegò Laura – vedi? Si usa per andare da un posto all’altro. No, non ti chinare a toccarla, ti sporchi le manine.”
“Va bene… e quelle?”
“Quelle sono le nuvole, ti ricordi che ci sono anche nei libri di favole? A volte portano la pioggia, altre volte coprono solo il sole e fanno ombra.”
“Ombra? Questa ombra!” esclamò lui con fierezza, indicando la propria sulla strada.
“Esatto, ma quanto siamo bravi, eh?”
“Mamma, anche domani passeggiata, vero?”
“Se ti comporti bene più che volentieri – concesse la donna – però adesso vieni con me, dobbiamo entrare qui che devo comprare alcune cose.”
La presenza del bambino attirava l’attenzione davvero tanto, ma Laura aveva preso la fatidica decisione di portarlo fuori. Ormai aveva più di due anni: era necessario che uscisse e scoprisse il mondo: tenerlo in casa era una vera e propria crudeltà. Anche se c’era sempre la paura dei commenti.
Dopo che Ellie ed Andrew si erano sposati la donna si era fatta coraggio e aveva ripreso ad uscire: adesso che non vedeva più i suoi amici quotidianamente, considerata la distanza da casa loro, aveva capito che doveva recuperare piano piano la sua indipendenza. Del resto non aveva commesso alcun crimine e aveva tutto il diritto di andare a fare la spesa o altre commissioni.
Ma questi sguardi e questi commenti… perché non vi fate gli affari vostri?
Credeva che col passare del tempo l’attenzione su quanto le era successo scemasse, ma sembrava che il paese non avesse minimamente dimenticato. Sussurri e brutte occhiate erano presenti ad ogni uscita e spesso anche le persone con cui doveva parlare, come i proprietari dei negozi, non erano certo gentili.
Sperava che cambiassero atteggiamento almeno in presenza del bambino.
Entrando nel negozio si accorse che Heymans si stringeva a lei: non era abituato a vedere così tante persone in uno spazio così ristretto ed inoltre il sentirsi osservato lo metteva a disagio.
“Tranquillo, amore – mormorò, accarezzandogli i capelli rossi – la mamma è qui.”
Cercando di mantenere la calma davanti a tutte quelle donne che li fissavano, consegnò la lista al droghiere e rimase in attesa. Abbassando lo sguardo sul figlio vide che si teneva stretto alla sua gonna e la fissava supplicante, chiedendole implicitamente di far smettere quella pressione così tangibile. Davanti ad una richiesta d’aiuto così palese, Laura decise di intervenire.
“Vieni in braccio, cucciolo: questa camminata sicuramente ti ha stancato. Allora – sorrise, indicando alcuni barattoli di canditi colorati sopra il bancone – vogliamo giocare a riconosce i colori? Questo che colore è?”
“Rosso…” mormorò lui timidamente, per niente felice di far sentire la sua voce a tutti quegli estranei.
“Che bravo, e questo?”
“Blu.”
“Molto bene, questo invece è più difficile, stai attento… aran…?”
“Arancia!”
“No – ridacchio – l’arancia è quella che a volte la mamma ti dà a merenda. Però è proprio il colore dell’arancia, coraggio. Arancio…?”
“Arancione!”
“Ma che bravo, sai che fa la mamma? Ti compra anche un candito, sei contento?”
“Dolce!” Heymans batté le mani estasiato a quella prospettiva, dimentico finalmente delle altre persone.
Mangiare un dolce per il bambino era sempre motivo di gioia e così, quando uscì dal negozio, con una mano si teneva alla madre, con l’altra si portava alla bocca il candito promesso. Vedendolo così sereno, Laura si complimentò con se stessa: voleva continuare a portarlo fuori, anche se questo voleva dire proteggerlo da tutte quelle persone ostili.
“Mamma, sei arrabbiata?”
“No, amore, perché?”
“Sei triste – spiegò il piccolo, finendo di leccarsi le dita e fissandola con attenzione – non sorridi.”
“Oh no, amore, la mamma non è triste, pensava solo a delle cose, tutto qui… oh, hai visto? C’è un cagnolino lì, salutalo. Ciao, bau bau…”
Heymans si girò in quella direzione con un sorriso, pronto a scoprire qualcosa di nuovo, ma come vide l’animale che sonnecchiava tranquillamente davanti ad una casa non ebbe la reazione prevista. I suo occhi grigi si dilatarono ed immediatamente si aggrappò alla gonna di Laura, con la mano destra ancora leggermente appiccicosa per lo zucchero.
“Via! – gridò, serrando gli occhi – Mamma, via!”
“Che? – Laura si preoccupò nel vederlo così terrorizzato – Heymans, amore, ma che c’è? Guarda, sta dormendo, non…”
“Via! – singhiozzò – Per favore! Mamma! Mamma, in braccio!”
Posando la busta della spesa, la donna si inginocchio e lo abbracciò, sentendolo tremare come mai era successo. Subito, come fu alla sua altezza, Heymans le strinse le braccia attorno al collo, in una morsa feroce e disperata.
“Piccolo, amore mio, tranquillo… ci sono io, non devi aver paura – gli sussurrò, accarezzandogli i capelli rossi – vieni, la mamma ti prende in braccio e recupera la spesa e torniamo a casa, va bene?”
“Via!”
“Sì, amore, andiamo via, lontano dal cane… sssh, ora calmati. Non piangere così.”
Solo quando furono tornati a casa il bambino parve calmarsi veramente, anche se il suo cuore continuò a battere all’impazzata per diversi minuti. Preoccupata per quella reazione, Laura si sdraiò con lui nel letto matrimoniale e lo accarezzò, cantandogli la ninnananna, fino a quando non riuscì a farlo addormentare.
“Amore, che spavento – mormorò, vedendolo finalmente respirare con tranquillità – ma che ti è successo? E’ la prima volta che vedi un cane, perché ti ha fatto così paura?”
Rimase ancora accanto a lui, accertandosi che il sonno fosse davvero profondo. Si alzò solo quando sentì bussare alla porta: avrebbe riconosciuto quel modo di bussare ovunque. Questo bastò ad illuminarle la giornata e le parve quasi un dono della provvidenza che lui passasse a trovarla proprio in quel momento: gli avrebbe potuto chiedere un parere in merito.
“Andy! – esclamò aprendo la porta e abbracciando l’amico – Da quanto tempo!”
“Esattamente otto giorni – sorrise lui, restituendo l’abbraccio – mi dispiace di non essere passato prima, ma con gli orari al cantiere ed il fatto che tuo marito ormai resta a casa dopo cena…”
“Sì, sì – sbuffò lei con aria ironica – diciamo invece che ti stai godendo la tua mogliettina, eh?”
“Ma quanto sei maliziosa, follettino – sogghignò lui, senza però smentire – non cambi mai.”
“Quanto sei cambiato invece tu – constatò Laura, mentre andavano in cucina – prima del matrimonio saresti arrossito ad una considerazione del genere. La vita coniugale ti ha dato una bella svegliata.”
“E anche un paio di chili in più – ammise lui – Ellie non fa che prepararmi pasti strepitosi, credo di essere ingrassato negli ultimi tempi, nonostante lavorassi quotidianamente al cantiere che, per la cronaca… è terminato ieri con un gran plauso da parte di tutti quanti!”
“Brutto scemo! Aspetti solo ora per dirmelo? Dovevi gridarlo non appena aprivo la porta – esclamò lei, abbracciandolo e tirandogli i capelli – Sapevo che avresti sfondato, Andy, era solo questione di tempo!”
“Già! Festeggia pure tu, Lauretta: nel pacchetto c’è una parte della torta ai frutti di bosco opera di Ellie. Te la manda con tutti i suoi saluti.”
“Ragazza nata cuoca, quanto la invidio! – sospirò Laura, svolgendo il pacco e ammirando la perfezione di quella porzione di torta – Nei dolci mi fa dieci a zero. E non guardarmi così, lo so benissimo che non sono mai stata brava in questo.”
“Dovresti farla assaggiare anche ad Heymans. Come sta?”
“Adesso meglio, sta dormendo nel lettone.”
“Meglio? E’ malato? – subito il viso di Andrew si tese per la preoccupazione – Dovevi farmelo sapere.”
“Malato? No – ammise lei con aria perplessa – è solo che… oh, ma lascia che ti racconti.”
Gli fece un breve riassunto di quel piccolo dramma di nemmeno un’ora prima, rassicurandolo che ora il bimbo sembrava aver superato e dormiva sereno.
“… cinofobico?” chiese Andrew con perplessità, alla fine della storia.
“Pare… però… non ha mai visto un cane prima di oggi, figuriamoci essere morso o qualche altra cosa che possa averlo traumatizzato. Eppure quando vede il gatto dei vicini dalla finestra lo indica con entusiasmo e lo saluta, insomma le reazioni normali di un bambino. Non riesco a spiegarmi che gli è preso… però penso di portarlo dal medico, aveva il cuore che gli batteva così tanto.”
“Vedrai che non è niente – l’uomo le strinse il braccio con affetto – però fammi sapere, va bene?”
“Sai ogni tanto chiede ancora di te ed Ellie – sospirò Laura con tristezza – ma sempre di meno. Adesso che ho iniziato a farlo uscire credo che… cavolo, che situazione schifosa! Mio figlio si deve dimenticare di voi per la tua inimicizia con Gregor, proprio non…”
“Ehi, sai benissimo come la penso su di lui – la bloccò Andrew – e sai bene che per Heymans farei di tutto. Ma sai anche che non è colpa mia: la mia presenza rischia di indisporre tuo marito e se il bambino continua a cercare me ed Ellie sarebbe solo una difficoltà per entrambi.”
Lo disse senza nascondere la sua amarezza: se c’era una cosa che rimpiangeva in quegli ultimi mesi era di essersi dovuto allontanare da Heymans in maniera così netta. Anche quando si vedeva con Laura dovevano far attenzione che il bambino non ci fosse o dormisse: dovevano assolutamente evitare che si portasse dietro l’eredità di due persone che il padre non avrebbe mai accettato.
Laura lo sapeva benissimo e non poteva biasimare la rabbia di Andrew: adorava Heymans, praticamente gli aveva fatto da padre per tutto il tempo che aveva passato con lui. Provocare quella traumatica separazione al bambino lo aveva fatto stare davvero male.
“Non c’è stata scelta, lo sappiamo bene.”
“Mi piacerebbe almeno che questa decisione dia i suoi frutti – sbuffò Andrew – tuo marito si è finalmente deciso a degnare il bambino di un minimo d’attenzione? Dal tuo sguardo mi pare proprio di no.”
“Che c’è? Vuoi prenderlo e portarlo da Ellie nella tua bella e magica casetta?” chiese con acidità Laura, per niente felice di quello sguardo che in parte accusava lei.
“Non ho mai…”
“Sto cercando di far funzionare questa dannata famiglia, Andrew, possibile che non lo capisca? – batté le mani sul tavolo – Non è come per te che torni a casa e trovi Ellie col grembiulino lindo che ti serve una deliziosa cenetta, capisci? Tu vivi nel mondo delle favole, ma la realtà è ben più dura! E’ costruire un rapporto dove non è mai esistito, un maledetto giorno dopo l’altro. E sì, mio marito considera poco e niente Heymans, ma stanno nella stessa stanza assieme, lo riconosce come figlio suo… ed io ogni sera mi sforzo di farli parlare! Un passo alla volta, capisci?”
“Calmati adesso – la bloccò lui, prendendole la mano – hai ragione, scusami tanto… sono uno scemo, lo so. Vivi una situazione difficile ed è encomiabile quello che stai facendo per la tua famiglia. E vedrai che tra Gregor ed Heymans le cose miglioreranno piano piano e… no, dai, non le lacrime.”
“Dio mio, Andy, credo di essere di nuovo incinta…” sospirò Laura.
Che cosa?
“Presumo che sia normale nella vita matrimoniale – cercò di sorridere lei – però… ossignore non sai che angoscia l’idea di dirlo a Gregor.”
Andrew non disse niente: continuava a fissare l’amica con incredulità e tristezza. Di nuovo quella maledetta situazione per la quale un bambino poteva non essere motivo di gioia ma solo di problemi.
“Beh – disse alla fine, passandosi una mano sui capelli con imbarazzo – presumo che… questa volta la notizia non lo dovrebbe sconvolgere così tanto. Se la vostra vita… uhm… coniugale. Insomma, sappiamo tutti come nascono i bambini, no?”
“E se non lo vuole? Insomma, già vedo le difficoltà che ha con Heymans… caricarlo di un altro figlio.”
“Laura, ma ti rendi conto di che verbo hai appena usato? Caricare? Santo cielo, possibile che si debba sempre distorcere una cosa bellissima in questo modo? Tu sei contenta di essere incinta o no?”
“Ma si che lo sono…” sospirò lei, asciugandosi le lacrime con la mano.
“Senti, vuoi che glielo dica io?”
“Giusto per peggiorare le cose? No, lascia stare… è già da qualche giorno che cerco di affrontare il discorso, ma poi ci rinuncio. Però non posso aspettare che si accorga della mia pancia che cresce, no?”
“A che mese sei?”
“Presumo terzo – riuscì persino a sorridere – se i miei calcoli sono giusti nasce a marzo dell’anno prossimo. E se fosse maschio… credi sarebbe una follia chiamarlo Henry?”
Quel nome cadde tra di loro con il suo carico di tristi ricordi. Era stato difficile, ma alla fine erano andati avanti, tuttavia il dolore ogni tanto tornava prepotente a ripresentarsi. L’ingiustizia di quella morte non avrebbe mai smesso di tormentarli. Dare quel nome ad un bambino voleva dire davvero tanto: sarebbe stato un po’ triste all’inizio, ma in qualche modo era il modo giusto per ricordare la persona che tanto aveva riempito le loro vite.
“No – riuscì a rispondere Andrew, sentendosi un lieve groppo in gola – sarebbe la cosa migliore, a prescindere da quello che può dire Gregor.”
Rimasero per qualche secondo in silenzio, cercando l’uno la mano dell’altra. Ma poi l’uomo si riscosse e sorrise.
“Mi sono persino dimenticato il motivo per cui sono qui. Ti volevo parlare di una cosa e, manco a farlo apposta, c’entra Henry. Ieri mi è arrivata questa lettera, da parte di alcuni miei ex colleghi di università. A quanto pare si sono dati da fare e hanno aperto un’impresa edile.”
“Sembra bello – ammise lei – ma non credo che tu parta ad East City per unirti a loro, vero?”
“No, direi proprio di no. Tuttavia mi hanno chiesto se voglio entrarne a far parte come socio mettendo una piccola somma di capitale. In questo modo come inizierà ad ingranare coi lavori mi darà una rendita discreta.”
“Presumo che tu abbia ragione, ma lo sai che la matematica non è mai stata il mio forte. E poi cosa c’entra con me?” adesso Laura era davvero perplessa.
“Ecco, ci ho riflettuto tutta la notte e stamane ne ho anche parlato con mio padre. Il progetto è buono e pare sicuro: mi fido di quei ragazzi. Come ben sai sono l’esecutore testamentario di Henry e tu mi hai lasciato il compito di amministrare l’eredità che ti ha lasciato… vorrei investire una parte di questa somma nella società, che te ne pare? Così invece di tenere quei soldi fermi li facciamo fruttare. E si vanno ad aggiungere alla rendita che l’esercito per ora ti passa in quanto famiglia di un soldato caduto in guerra.”
“Ovviamente sai che non sono molto indicata a dire qualcosa in merito…”
“E’ che… insomma vorrei mettere il più da parte possibile per te ed il bambino, anzi i bambini. Lo so, ora mi guarderai male, ma non sono assolutamente certo che Gregor manterrà il lavoro o comunque continuerà a comportarsi degnamente per sempre.”
“Ormai la tua opinione su di lui è troppo falsata, Andy.”
“Io la considero realista. In ogni caso, mi dai il permesso di investire? Non sarà una cifra grossa, così nel caso di fallimento te la posso risarcire con tranquillità.”
“Fai quello che vuoi, lo sai che mi fido di te.”
“Perfetto allora – sorrise lui con soddisfazione, chiaramente felice di poter in qualche modo provvedere a lei e ai bambini – quando avrò i documenti da firmare te li porterò. E poi… ovviamente preferirei che tutto fosse tenuto segreto a tuo marito, va bene? La cifra mensile che ti passo ogni volta è solo una rendita che ti danno i tuoi genitori…”
“Una delle bugie più grosse della mia vita.”
“Ma forse la migliore…” commentò Andrew, lieto che la piccola fortuna di Laura fosse al sicuro da quell’uomo.
 
Probabilmente incoraggiata dalla discussione con Andrew, Laura decise che quella sera stessa avrebbe dato la notizia della sua gravidanza a Gregor: tenere nascosta la cosa sarebbe stato inutile e probabilmente dannoso, tanto valeva levarsi subito il dente e vedere come reagiva suo marito.
Aspettò il dopo cena, quando Heymans venne messo a letto, ma quanto stava per affrontare l’argomento Gregor le prese il mento con le dita e la baciò con passione. Era un chiaro messaggio che voleva fare l’amore con lei e, tutto sommato, Laura si accorse che aveva bisogno di un qualcosa che la facesse totalmente distogliere dall’apprensione che provava.
Così, come sempre succedeva, si ritrovò nuda nel proprio letto a gemere sotto il corpo di suo marito che aveva sempre la capacità di farla impazzire di piacere. Col passare dei mesi erano riusciti a trovare un buon affiatamento e si poteva dire che, sotto quel punto di vista, la loro vita matrimoniale andava a gonfie vele.
Di conseguenza, quando terminarono, Laura trovò un grande piacere nel posarsi alla sua spalla e sentire il braccio di lui che le cingeva la vita, con la mano che andava a scendere nella sua parte più intima, sfiorandola con sensualità.
“Sei stata fantastica oggi, ragazza – le disse – ma lo sei sempre, del resto.”
Lei non rispose a quel complimento, ma si limitò a baciarlo sul petto, accoccolandosi ancora di più alla sua persona. Per una decina di secondi la sfiorò l’idea di rimandare tutto ancora una volta e godersi quei momenti di tranquilla intimità tra loro due, ma poi si disse che se continuava a ragionare in questo modo non sarebbe andata da nessuna parte.
Fatti coraggio, Laura…
“Domani porto Heymans dal medico… credo che abbia qualcosa, ma niente di grave.”
“Mi pare sano e robusto – ammise lui, girandosi a guardarla – a cena non ha avuto problemi.”
“E’ che si è spaventato molto stamattina e il suo cuore ha davvero accelerato, ma poi è tornato tutto normale. Però sai, per sicurezza…”
“Vedrai che sarà tutto in regola, ma se vuoi tranquillizzarti fai bene a portarlo dal medico.”
“Senti… uhm… ti devo dire una cosa che riguarda noi due…”
“Dimmi pure.”
“Ecco, è da un po’ che non ho le mie regole… credo di essere incinta.”
La mano che la stava accarezzando si fermò e si irrigidì. Tutto il corpo di Gregor fu attraversato da una nuova tensione e questo fece allarmare Laura che, per qualche secondo, giurò che non si sarebbe sorpresa se suo marito si fosse volatilizzato da un momento all’altro.
“Incinta, eh?”
“Beh, considerato che noi… capisco che forse, considerate le modalità del nostro matrimonio, non è proprio una grande notizia – cercò di convincerlo lei – però…”
“Un figlio tutto nostro – lui si girò di nuovo e la baciò in fronte – certo che sono felice, ragazza. Effettivamente avevo notato che a volte eri più pallida del previsto, ma non ho approfondito.”
“Eh già, adesso iniziano le nausee…” sorrise lei con imbarazzo.
“A che mese sei? Quando pensi nascerà?”
“A marzo credo – lei era veramente colpita da questo entusiasmo – allora… allora la notizia ti piace?”
“Ovviamente, ragazza!”
“Ah, caro – si strinse maggiormente a lui baciandolo – ti confesso che avevo paura a dirtelo, ma ora sono così felice, incredibilmente felice.”
“Domani, quando porti Heymans dal medico, fatti controllare pure tu, mi raccomando.”
“Tranquillo, vedrai che sarà tutto apposto.”
Passarono qualche minuto a chiacchierare e poi Gregor scivolò nel sonno. Laura rimase appoggiata a lui, le piaceva sempre quando dormivano nudi sotto le coperte: il contatto dei loro corpi la faceva sentire in qualche modo protetta. Era così estasiata da quella reazione inaspettata che il suo cervello decise di dimenticare una frase precisa che era stata pronunciata dal marito.
“Un figlio tutto nostro.”

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Capitolo 30
*** Capitolo 29. 1885. Henry. ***


Capitolo XXIX

1885. Henry.

 

 

“Sai qual è una cosa che detesto? – chiese Ellie mentre lei ad Andrew uscivano da un negozio – E’ che ancora la gente, quando vede noi due, debba per forza far riferimento alla storia di Laura.”
“Fossero solo questi i problemi – scosse il capo l’uomo, mentre la liberava dall’ingombro dei pacchi – le chiacchiere delle persone sono l’unica cosa che non ci deve interessare. Allora, abbiamo preso tutto quanto?”
“Mi pare di sì, ma dammi una parte di questa roba: non caricarti come un asino.”
“La devi tenere giusto per qualche minuto – concesse lui – ne approfitto per comprare della cancelleria per lavorare ai progetti: ci metto due secondi.”
Ellie annuì e lasciò che il marito entrasse nel negozio dall’altro lato della strada. Posò i pacchi e le buste a terra e attese con pazienza, sistemandosi meglio la sciarpa attorno gola per far fronte a quel freddo vento di marzo. Ogni due settimane lei ed Andrew scendevano in paese assieme per fare la cosiddetta spesa grossa e questo voleva dire fare il viaggio di ritorno carichi di roba, uno dei pochi difetti dell’abitare così lontani.
Nonostante questo ad Ellie piaceva moltissimo passeggiare a braccetto di suo marito durante queste sortite in paese: nella sua ingenua vanità di giovane sposa le piaceva sfoggiare il fatto che lei era la moglie del giovane più quotato del momento. Oggettivamente, se lei era stata un buon partito in quanto figlia del più grande proprietario terriero della zona, anche Andrew lo era, considerato il suo cognome importante e l’agiato stile di vita che conduceva. Solo ora si rendeva conto che, mentre aveva sempre visto Laura come sua unica possibile rivale, molte altre ragazze avrebbero potuto aspirare a lui, specie dopo che aveva ottenuto la laurea. E adesso che era richiestissimo per i suoi progetti, era sicura di aver visto qualche occhiata gelosa da parte di vecchie conoscenze scolastiche.
Mi dispiace per tutte loro – pensò con un pizzico di cattiva malizia – ma me lo sono conquistata io.
Tuttavia non era tipo da indugiare in questi pensieri per molto: la sua attenzione si spostò al viavai nella strada, un qualcosa che aveva sempre amato osservare. Ovviamente niente la attirava di più che vedere delle madri con i propri figli: i bambini erano sempre nei suoi pensieri e non desiderava altro che dare finalmente quell’esame, fra quattro mesi, per poter iniziare ad affiancare le maestre alle scuole elementari.
Però, nel frattempo, niente le impediva di osservare eventuali suoi futuri studenti.
Per esempio il figlio del nuovo capitano di polizia: lo riconobbe subito mentre passeggiava assieme quella che doveva essere sua madre. Anche se non l’aveva mai visto, considerato che si erano trasferiti solo da pochi mesi, aveva sentito le chiacchiere sui suoi capelli bicolore. Ma era solo un dettaglio che contribuiva a renderlo estremamente adorabile agli occhi della ragazza.
Oddio, sta andando in giro con l’orso di pezza! E’ la cosa più tenera del mondo!
Le dispiacque tantissimo quando i due entrarono in un negozio sfuggendo così alla sua visuale. Ma per uno che spariva ne arrivava subito qualcun altro e questi erano bimbi che conosceva: subito venne circondata da cinque bambini che quando lei era all’ultimo anno stavano in prima elementare.
“Ciao, Ellie!” la salutò uno, abbracciandola, immediatamente seguito dagli altri.
Subito si creò un chiassoso e vivace campanello con Ellie al centro e i bambini adoranti attorno a lei: nonostante fossero passati quasi due anni si ricordavano benissimo della loro magica amica di ricreazione e dunque era più che giusto darle tutte le attenzioni possibili.
“Oh, ma come siete cresciuti! – Ellie si era persino chinata per stare alla loro altezza – I miei fiorellini adorati! Adesso siete in terza, vero?”
“Ellie! Ellie, guarda – la chiamò una bambina – ho ancora il braccialetto che mi hai fatto tu!”
“Davvero? Che bello, Corinne, sono proprio felice che lo abbia tenuto.”
“Ellie, torni a scuola con noi? Ci manchi!”
“Sì dai!”
“Mi piacerebbe tanto, Simon, scommetto che avreste un sacco di cose da raccontarmi, vero?”
“Lo sai che adesso leggo le fiabe da sola? Ma era più bello quando le raccontavi tu, Ellie!”
“Oh sì, tu facevi le voci così bene!”
“Ellie – fece la piccola Clara, con le guance che arrossivano – ma è vero che ti ha rapito quel signore che ogni tanto veniva a trovarti in cortile? Era il tuo principe azzurro? Perché era bello!”
“Perché non lo chiedi a lui – sorrise la donna, prendendola in braccio – allora, Andrew, sei un principe azzurro che mi ha rapita?”
“Che? – arrossì l’interpellato che, proprio in quel momento, tornava dalla sua commissione – Principe azzurro io?”
“Non gli piace dirlo davanti a tutti – disse Ellie, rivolgendosi con aria cospiratoria alla sua amichetta – ma in realtà lui è davvero un principe azzurro e ora vivo nel suo castello magico.”
“Oh che bello! Come nelle favole!”
Ovviamente questo suscitò entusiasti commenti da parte dei bambini e ci vollero parecchi minuti prima che Ellie riuscisse a congedarsi da loro. Alla fine lei ed il marito si ridistribuirono la spesa  e ripresero a camminare verso l’uscita del paese.
“Si ricordano di te con vero amore – commentò Andrew con una risata – ci sai proprio fare con i pargoli.”
“Già, mi dispiace solo che Heymans ormai non si ricorda più di noi. Adoro quel piccolo: è da tanto che non lo vedo… senti, perché non passiamo a trovare Laura uno di questi giorni? E’ anche al termine della gravidanza e vorrei sapere come sta.”
“Ellie – iniziò Andrew con aria sconsolata – sai che non puoi stare col bambino. Se ti riconosce sarà come riniziare tutto daccapo e sarà ancora peggio: ha quasi tre anni e la sua memoria è molto più forte.”
“Solo per salutare Laura, suvvia – supplicò ancora – facciamo attenzione che Heymans sia a dormire o impegnato in altro, andiamo!” mise addirittura il broncio per ottenere quella concessione. Era da troppo tempo che non vedeva la sua amica, ma sapeva che per andare a trovarla era meglio che ci fosse anche suo marito.
“Va bene, vedremo di andare in questi giorni – concesse lui alla fine – ma solo una rapida visita, intesi?”
“Ah! Sapevo che avresti ceduto! Grazie, tesoro, sei il migliore! Su, forza, adesso torniamo a casa: siamo davvero carichi di roba.”
 
“Sei sicura di farcela?” chiese Gregor, facendo distendere Laura nel lettone.
“Sì – ansimò lei, cercando di trovare una posizione confortevole – adesso vai a chiamare il medico: ho idea che non ci impiegherà molto a nascere.”
Questa sensazione ebbe il potere di spiazzarla: da una parte significava che il parto sarebbe durato relativamente poco e la cosa non poteva che farle piacere, ma dall’altra voleva anche dire che il dolore maggiore sarebbe arrivato prima del previsto… ed il ricordo di quanto aveva passato con Heymans non era per niente confortante.
“Allora vado – annuì l’uomo, senza perdere tempo – cerca di stare tranquilla: farò il prima possibile.”
Mentre lo vedeva uscire dalla stanza senza tentennamenti, Laura rifletté come avesse un atteggiamento completamente diverso da quello impanicato di Andrew la notte di quasi tre anni prima. Gregor era stato il massimo dell’efficienza sin da quando la prima improvvisa contrazione l’aveva bloccata nel bel mezzo di un gioco con Heymans, mentre tutti e tre erano in soggiorno. Aveva mantenuto la calma, prendendola in braccio e portandola su per le scale come se fosse un fuscello, come se il pancione non esistesse: l’aveva aiutata a togliersi i vestiti e a mettersi la più comoda veste da camera ed infine si era proposto di andare ad avvisare il medico.
Incredibilmente efficace… meno male… meno male…
“Mamma…” una vocina tremante attirò la sua attenzione e vide che Heymans era sulla soglia della camera, le mani aggrappate allo stipite della porta e il visino teso e preoccupato.
“Amore, non è niente – dichiarò, facendo dei profondi respiri e cercando di sorridere – sta arrivando il tuo fratellino, tutto qui. Non c’è niente da temere.”
Non era proprio una bella situazione ma poteva gestirla per quei minuti che Gregor avrebbe impiegato a tornare col medico.
Il piccolo rispose timidamente a quel sorriso, ma era chiaro che non era del tutto convinto. Infatti come la vide piegarsi leggermente per una nuova fitta fece un passo indietro ed iniziò a singhiozzare.
“No, Heymans, no – cercò di consolarlo lei, girandosi di lato nel letto e cercando una posizione più confortevole, anche se era un’impresa impossibile – va tutto bene. Adesso il papà torna con il dottore e vedrai che passa tutto in fretta.”
“Mamma, stai male!” pianse lui, ovviamente sconvolto da quel ribaltamento di situazione: era la mamma a prendersi cura di lui quando stava male e di conseguenza la mamma non poteva stare male.
“Oh no…” sospirò Laura, non sapendo proprio come calmarlo.
Avrebbe voluto farlo avvicinare al letto, accarezzargli la chioma rossa, ma era chiaro che era troppo terrorizzato per percorrere quei pochi metri di sua iniziativa. Ed inoltre le smorfie di dolore che a intervalli irregolari le contraevano il viso non dovevano essere proprio incoraggianti.
Però, nonostante il terrore, il piccolo restava lì: non se ne andava, continuava a fissarla con occhi terrorizzati ma in qualche modo desideroso di darle sostegno. Ad un certo punto tese anche una manina verso di lei, ma proprio in quel momento una contrazione particolarmente forte la costrinse ad un lieve grido e questo fece arretrare il piccolo di un passo, mentre le lacrime continuavano a scorrere ed anche il nasino cominciava a colargli.
 “Venga, dottore, da questa parte.”
La voce dal piano di sotto, accompagnata dalla porta che si chiudeva la fece sospirare di sollievo: Gregor ci aveva impiegato davvero poco per fortuna. Nell’arco di pochi secondi il medico e suo marito furono di nuovo nella stanza, con Heymans che si faceva da parte giusto in tempo per non essere travolto.
“Allora, signora – chiese il medico, tastandole la pancia – questa volta facciamo più in fretta, vero? Il bambino è praticamente pronto: sente l’esigenza di spingere?”
“Decisamente!” annuì lei con una smorfia.
“Allora io aspetto fuori – annunciò Gregor – non è un momento per un maschio che non sia un medico.”
“Gregor – sgranò gli occhi Laura, incredula davanti a quella dichiarazione – ma…”
Andrew è entrato in questa stessa camera e non mi ha lasciato la mano fino a quando nostro figlio non è nato… Andrew non ha…
“Tipico di certi mariti – sbuffò il medico – non sarà né il primo né l’ultimo caso che vedo in vita mia. In realtà hanno paura, signora. Però direi che questa volta ce la possiamo cavare solo noi due: direi che in una decina di minuti abbiamo fatto.”
“Solo dieci minuti? Oh signore…”
“Eh sì. Adesso come arriva la prossima contrazione spinga con tutta se stessa.”
E a Laura non rimase che arrendersi alla natura e continuare il rito del parto.
 
Uno dei ricordi peggiori che aveva della nascita di Heymans era quello di essersi ritrovata senza fiato per il gran urlare, ma di essere stata costretta a trovare nuove forze nella contrazione finale che aveva portato all’uscita del bambino. Il tutto nonostante, nella sua beata ingenuità, si fosse ripromessa di essere forte e di ridurre al minimo gli strilli
Questa volta le urla furono ridotte ed anche il dolore, sebbene forte, si rivelò molto più gestibile. Forse dipese anche dal fatto che il tempo per partorire fu incredibilmente breve: dieci minuti, massimo venti ed il bambino scivolò fuori dal suo grembo.
“Anche questa volta si tratta di un bel maschietto, signora – annunciò il medico con soddisfazione – complimenti.”
Laura accolse con un sorriso quell’annuncio, mentre si lasciava ricadere esausta nel letto. I suoi occhi iniziarono a pizzicarle per le lacrime come sentì i primi vagiti del bambino e come l’altra volta, non appena lo ebbe tra le braccia, si sentì la donna più felice del mondo.
“Ciao, piccolino – mormorò, baciando la testolina ancora sporca di sangue – eccoti arrivato, finalmente.”
Una piccola parte di lei notò immediatamente che era più piccolo rispetto a come era stato Heymans ed anche il fatto che ci avesse messo così poco tempo non faceva che confermare quest’ipotesi.
Come il medico iniziò a pulirlo per poi tagliargli il cordone ombelicale, lei si girò di lato.
Inconsapevolmente i suoi pensieri andarono ad Andrew, a come il suo pianto si era unito al suo tre anni prima. Ripensò al suo viso sfinito e felice, alla sua tenera paura mentre allungava una mano per sfiorare per la prima volta Heymans… sentiva che questa volta le era mancato qualcosa di…  di importante.
Ma fu solo per qualche minuto: come le venne riconsegnato il bambino non riuscì a pensare ad altro che a lui: così piccolo, così perfetto, pure lui con i ciuffetti rossi in testa.
“Se vuole faccio entrare suo marito – disse gentilmente il medico, come le ultime contrazioni del parto portarono all’espulsione della placenta e finalmente la giovane poté essere coperta con cura – qui abbiamo finito ed è andato tutto alla perfezione.”
“Oh sì, per favore – sorrise lei, mettendosi seduta tra i cuscini, felice di poter condividere la sua gioia con Gregor – lo faccia entrare.”
Mentre sentiva suo marito ringraziare il dottore si sentiva al settimo cielo: il piccolo era finalmente nato, il tassello fondamentale per terminare il lavoro che aveva pazientemente svolto in tutti quei mesi. Adesso finalmente erano una famiglia vera e propria, con due bambini da amare e nessuna ombra su di loro. Quello che era iniziato come un incubo si stava risolvendo nel migliore dei modi.
“Ed è tutto merito tuo, piccolo mio – sussurrò, baciando il figlio sulla fronte – Henry…”
Finalmente Gregor entrò nella stanza ed immediatamente andò accanto a lei: il suo viso era rischiarato da un orgoglioso sorriso che divenne raggiante non appena posò gli occhi sul bambino.
“Mio figlio…” mormorò, posando una mano sulla copertina che lo avvolgeva.
“E’ bellissimo, vero? – chiese Laura, commossa da quel momento così perfetto – E’ perfetto… vuoi prenderlo in braccio? Ecco, devi tenerlo bene sotto la testa.”
Gregor annuì e pochi secondi dopo si era sollevato e teneva il bambino tra le sue braccia, come se fosse una cosa estremamente naturale, come è giusto che sia per ogni padre che prende per la prima volta in braccio il proprio figlio. Del resto anche Andrew non si era comportato allo stesso modo con Heymans?
“E’ perfetto. Mio figlio, il mio perfetto figlio – sorrise ancora, mentre il piccolo piangeva vivacemente – sei stata fantastica, ragazza.”
Laura sorrise a quel complimento, sentendosi particolarmente compiaciuta come se le avesse detto che era la donna più sensuale del mondo: sentire cose simili da un uomo parco di commenti come lui valeva davvero tanto. Ma subito un movimento attrasse la sua attenzione e vide che Heymans si era riaffacciato alla soglia della porta, nella medesima posizione di nemmeno mezz’ora prima. Non piangeva più, evidentemente sentiva che la tensione si era notevolmente allentata e che la sua mamma non stava più provando quei dolori così brutti.
I suoi occhi grigi si spostarono con curiosità verso la fonte di quel pianto e vedendo quello strano fagottino tra le braccia del padre fece degli esitanti passi fino ad aggrapparsi alla sua gamba. Succedeva di raro che padre e figlio avessero un contatto così fisico e questo indicava come Heymans fosse davvero elettrizzato da quella grande novità in casa.
“Papà!” chiamò, sperando di ricevere risposta e di poter vedere la fonte di quel pianto… non molto dissimile al suo. Del resto la mamma gli aveva parlato spesso di un fratellino in arrivo: aveva tutto il diritto di vederlo, no?
“Non seccare, Heymans – disse Gregor, degnandolo appena di uno sguardo – dai, vai via.”
Non ci fu rimprovero o cattiveria in quelle parole, ma il bambino era ugualmente spiazzato e non sapeva come reagire.
“Heymans, amore – lo chiamò Laura – vieni a dare un bacio alla mamma, da bravo.”
“Mamma!” a quel richiamo il piccolo sorrise e non perse tempo a correre verso il letto. Adesso che la mamma stava bene tutto era tornato tranquillo ed era questo l’importante. Tutte le paure che aveva provato svanirono nel momento in cui sentì le sue morbide braccia stringerlo con amore. Bramoso di contatto fisico e rassicurazione cercò di sdraiarsi sul suo grembo.
“Piano, tesoro, la mamma è stanca – lo bloccò Laura, trovando tuttavia una sistemazione accettabile per entrambi – Lo sai? Adesso hai un fratellino: devi essere molto responsabile con lui.”
“Fratellino!” Heymans annuì felice, appellicciandosi ancora di più al petto materno.
“Bravo – sorrise la donna, accarezzandogli la chioma rossa e osservandolo chiudere gli occhi finalmente rilassato – il tuo fratellino…”
Come capì che il bambino si era mezzo addormentato tra le sue braccia volse l’attenzione al marito che ancora continuava a tenere il piccolo.
“Me lo vuoi dare? – chiese, sistemando meglio Heymans – così lo posso allattare e smette di piangere.”
“Ma certo – annuì lui, accostandosi di nuovo al letto – questo giovanotto è sicuramente affamato.”
“Certo – Laura sorrise con infinito amore nel riprendere tra le braccia il secondogenito. Si sbottonò la camicia da notte e gli offrì il seno, quietando finalmente il suo pianto – il mio amore ha fame. Senti, ti volevo parlare del nome… a dire il vero ho voluto aspettare che nascesse per vedere se era maschio o femmina.”
“Ovvio che era un maschio – scosse il capo lui – non poteva essere altrimenti. Che cosa volevi dirmi a proposito del nome? Ne hai già in mente qualcuno?”
“A dire il vero sì – ammise lei, profondamente convinta nella sua decisione – volevo chiamarlo Henry, sempre che a te non dispiaccia.”
Ecco, l’aveva detto, senza nemmeno troppi giri di parole: aveva pronunciato il nome proibito dopo tanto tempo. Trattenne il fiato mentre osservava l’espressione del marito, ma una parte di lei si sentì pronta a lottare per dare questo nome al bambino: lo doveva a suo fratello, era l’unico dono che poteva fargli dopo che aveva fatto così tanto per lei.
“E sia – acconsentì lui, dopo una decina di secondi – del resto presumo che dargli il nome di un fratello morto in guerra sia una cosa importante.”
“Allora ti va bene? – chiese Laura, incredula davanti alla facilità con cui aveva ottenuto l’assenso – Oh, caro, ne sono così felice.”
“Però non caricare nostro figlio di sciocchezze – aggiunse subito lui – capisco dargli il nome di tuo fratello, ma la cosa deve finire qui.”
“Ma certo, il piccolo non ha nessun carico sulle sue spalle… è semplicemente nostro figlio. Ehi, ma è incredibile – sospirò con le lacrime agli occhi – adesso siamo in quattro.”
E niente le importava di più dell’avere Henry ed Heymans entrambi tra le sue braccia.
 
Circa due mesi dopo, mentre la famiglia Breda si godeva il nuovo nato, Ellie sospirava con rassegnazione e chiudeva il libro che stava studiando da due giorni. Proprio non riusciva a concentrarsi, del resto quella materia era così noiosa ed inoltre, dopo un’intera serata passata sui libri, aveva bisogno di staccare.
Ormai dovevano essere le dieci passate ed Andrew ancora non era salito in camera da letto.
Non era una novità: quando lavorava ai progetti nel suo studio a volte capitava che la raggiungesse davvero tardi, quando lei era già addormentata.
Uff, ma perché anche questa sera? – pensò con il broncio, posando il libro sul comodino e rotolandosi al centro del letto – E dai! Sali in camera!
Si mise a fissare la porta con ostinazione, quasi per attirare il marito con la forza del pensiero. Ma sembrava che queste cose funzionassero solo nelle storie che scriveva perché, dopo una decina di minuti, il risultato ottenuto era solo un lieve fastidio alla fronte per aver tenuto così a lungo l’espressione concentrata.
A dire il vero si sarebbe potuta mettere sotto le coperte e addormentarsi, ma proprio non aveva sonno.
Forse dipendeva dal fatto che ormai quella che prima era solo una sensazione stava diventando una certezza, o forse lo era già. Anche se il suo ciclo non era regolarissimo era troppo che tardava e questo poteva voler dire solo una cosa.
Era abbastanza strano: si era sempre immaginata il momento di scoperta della gravidanza come una grande festa, con lei che gridava, correva ad abbracciare Andrew, piangeva di gioia. In fondo avere dei figli era la cosa che desiderava di più al mondo, da sempre.
Però… è strano.
Forse perché non sentiva alcun cambiamento sul suo corpo e non aveva ancora la conferma assoluta, ma non si sentiva ancora incinta, non veramente. Eppure aveva pensato che il bambino fosse percepibile da subito, almeno per lei che era la madre.
Insomma, quel limbo di incertezza non le piaceva per niente, tant’è vero che non sapeva ancora se dirlo ad Andrew o meno. E se poi si sbagliava ed era solo un ritardo veramente grosso? Del resto a volte un mese l’aveva saltato.
Ma qui sono ormai due…cielo che incertezza.  
Non poteva continuare a stare da sola in camera, questo era chiaro: voleva la compagnia di Andrew per farle dimenticare per un po’ quella situazione.
Però, ad alzarsi ed uscire dalla stanza, si sentiva un po’ come una bambina disobbediente che va a disturbare i genitori ancora svegli mentre lei dovrebbe essere a dormire da un pezzo.
“Ma che diamine penso? – sbottò, mettendosi a sedere – Ellie, svegliati! Compi diciannove anni tra otto giorni e sei una donna sposata! E’ tuo marito, cavolo!”
Con decisione si alzò in piedi, ignorando il brivido di freddo dato dal camminare scalza, e uscì dalla stanza. Senza nemmeno accendere la luce del corridoio scese le scale ed arrivò alla porta dello studio di Andrew, da sotto la quale usciva un filo di luce.
Trattenendo il respiro aprì delicatamente l’uscio. A dire il vero quella stanza era un po’ il sancta sanctorum di Andrew ed entrarci le provocava sempre un certo timore, persino quando faceva le pulizie. Non che fosse arredata in modo da incutere timore, tutt’altro, ma Ellie percepiva sempre che era un lato della vita di suo marito che non condividevano.
Accidenti come gli stanno bene gli occhiali.
Non poté far a meno di pensarlo mentre si fermava a guardarlo, chino sul suo tavolo da disegno a muovere con perizia matita e squadre. Ellie aveva sempre sostenuto che ogni persona assume un fascino del tutto particolare quando è assorto in qualcosa che ama fare, ma riteneva che Andrew estremizzasse questa caratteristica. Il suo volto aveva una bellezza incredibile così concentrato e sicuro… per non parlare delle mani: le sue dita si muovevano con l’abilità e la rapidità di un musicista in movimenti così coordinati da far rabbrividire chiunque fosse estraneo alla materia. Improvvisamente Ellie sentì l’impulso disperato di baciare quelle dita una ad una, per poi portare quelle mani sul suo corpo e rabbrividire di piacere per tutte le carezze che erano capaci di fare.
“Non vieni a letto?” chiese a voce bassa per attirare l’attenzione.
“Eh? – lui si raddrizzò leggermente sullo sgabello e la guardò con sorpresa – Scusa, cara, sto facendo tardi anche stasera. Però puoi iniziare ad andare a dormire: arrivo tra poco, promesso. Ci impiego massimo venti minuti a finire.”
Ellie si strinse le braccia attorno alla vita mentre avanzava verso di lui.
E no, caro mio, non ho nessuna intenzione di condividerti ancora con squadra e matita. Adesso ci sono io.
“Che hai? – le chiese Andrew, posando sul sostegno del tavolo sia la squadra che la matita – Oh, ho capito: vuoi ancora farmi qualche commento su quanto è carino Henry: l’hai rivisto due giorni fa ma scommetto che ne parlerai ancora per settimane e settimane e…”
Si fermò, perché Ellie gli aveva preso la mano destra ed aveva iniziato a baciare ogni singolo dito. Lo faceva ad occhi chiusi, con una sensualità che aveva dimostrato poche volte.
Andrew sentì un brivido lungo la schiena man mano che quei baci proseguivano, passando poi all’altra mano: le labbra di Ellie avevano sempre la capacità di farlo impazzire. Ma se da una parte era avvinto da quell’iniziativa, dall’altra ancora era incredulo davanti a quella strana invasione di territorio: era come se lui si fosse presentato in cucina e…
“Sai che sei tremendamente affascinante con gli occhiali? – mormorò lei, come ebbe finito di baciare tutte le sue dita. I suoi occhi scuri erano davvero languidi e promettevano la più dolce delle conclusioni – Ti donano molto, ingegnere.”
“Ti ringrazio – arrossì lui con un sorriso imbarazzato – ma anche tu sei tremendamente affascinante, Ellie, anche con la camicia da notte spiegazzata.”
“Posso migliorare – ammise la donna con un sorriso malizioso – che ne dici se ora ti alzi e ti sposti sulla sedia imbottita che hai alla scrivania?”
“Sento che potrebbe essere qualcosa di interessante – concesse l’uomo, inarcando leggermente il sopracciglio quando lei inizio a sbottonarsi la camicia da notte – ma esponimi nei maggiori dettagli il tuo progetto, signorina: sono tutto orecchi…”
“Se salgo a cavalcioni su di te nello sgabello rischiamo di cadere -  si limitò a dire la ragazza, sfilandosi l’indumento e restando nuda davanti a lui – altre domande?”
“Assolutamente no.” disse lui, con serietà, prima di alzarsi e di prenderla tra le braccia.
Fare l’amore in quella posizione del tutto nuova fu inebriante ed eccitante, non che l’appagamento sessuale fosse mai mancato nel loro matrimonio. Tuttavia Ellie, in quel frangente, aveva l’assoluto bisogno di sentirsi estremamente viva: i suoi baci e le sue carezze avevano una foga del tutto nuova, così come quello che pretese dal marito.
Quando si accasciò contro di lui, ansimante e sudata, dovette chiudere gli occhi per lo sfinimento.
Solo allora l’aria fresca della notte di aprile si fece sentire e subito rabbrividì. Ma ci volle solo qualche secondo prima che Andrew la scostasse lievemente da se per levarsi la camicia e mettergliela sulle spalle. Poi la strinse di nuovo a se, baciandola sul collo.
Ed era così bello sentirsi protetta e al sicuro tra quelle braccia.
Le sue ansie e le sue paure svanirono come neve al sole.
“Andrew…”
“Sì, meraviglia?”
“Credo di essere incinta.”

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Capitolo 31
*** Capitolo 30. 1885. Da sogno ad incubo. ***


Capitolo XXX

1885. Da sogno ad incubo.

 

 

Confidarlo a suo marito, dirlo ad alta voce, fu il segnale che convinse Ellie di essere davvero incinta. Solo in quel momento si permise finalmente di essere felice, di far uscire quelle lacrime di gioia che aveva trattenuto nell’incertezza di quelle settimane.
Un bambino! Nel suo ventre c’era un minuscolo ed adorabile bambino, frutto dell’amore di lei e di Andrew: non riusciva a pensare ad un miracolo più bello. L’aveva tanto desiderato, ma non si aspettava che potesse succedere così in fretta, dopo nemmeno un anno di matrimonio. Ma erano dettagli che non avevano importanza: quel piccolo era tutto suo, meravigliosamente suo. Adesso giurava di poterlo sentire: mettendosi la mano sul ventre ancora piatto era sicura di percepire quel piccolissimo cucciolo che in quel momento aveva bisogno solo di lei e di tutto il suo amore.
E anche Andrew era estasiato da quella notizia: dopo dieci secondi in cui l’aveva fissata con occhi increduli, l’aveva baciata e abbracciata, dichiarando di essere l’uomo più felice del mondo, di amarla tantissimo, di non vedere l’ora che il bambino arrivasse. L’aveva presa in braccio e portata a letto e lì erano rimasti abbracciati, parlando di milioni di progetti per il futuro e per quella nuova vita che presto sarebbe giunta tra di loro: preparare la camera, a chi sarebbe somigliato, se sarebbe stato maschio o femmina. Era come se fossero di nuovo fidanzati e stessero progettando il loro futuro una volta sposati, con il mondo che si presentava meraviglioso ed eccitante.
“Saremo genitori, Ellie – mormorò Andrew, baciandola sulle labbra – non mi sembra vero. E questo bambino… sì il nostro piccolo avrà tutto l’amore possibile. Sarò il padre migliore del mondo per lui, non gli farò mai mancare nulla, ci sarò sempre quando avrà bisogno di me.”
“L’ho desiderato così tanto… cielo, Andrew che meraviglia!”
“Grazie, anima mia, è il dono più bello che potessi farmi.”
E si sentiva così bene mentre la baciava e si sentiva l’uomo più felice del mondo.
Dopo tutto quello che era successo con Laura ed Heymans, finalmente sentiva che lui ed Ellie stavano rimettendo il mondo nel giusto asse: la nascita di un bambino era finalmente una splendida notizia sin dal principio. E il tutto valeva ancora di più perché quella creatura era figlia sua e di Ellie, il frutto di un amore così bello e felice che a volte stentava a crederci.
 
Decisero che per dirlo alla famiglia avrebbero aspettato il compleanno di Ellie, la settimana successiva.
Per la ragazza fu veramente difficile tenere il segreto così a lungo, ma sia lei che Andrew riuscirono ad arrivare alla fine del pranzo senza lasciarsi scappare nulla. Poi, dopo che suo padre ebbe fatto un brindisi in onore dei suoi diciannove anni, scambiò la fatidica occhiata col marito e gli prese la mano.
“Ecco, credo che sia il momento giusto – iniziò con voce timida – io ed Andrew vorremo fare un annuncio a tutti quanti voi… io… noi aspettiamo un bambino!” quasi strillò quell’ultima frase, di nuovo rapita dall’eccitazione della notizia.
“Oh, tesoro, è meraviglioso! – immediatamente sua madre si alzò e la abbracciò – E mi sembrava che fossi un po’ diversa in questi giorni, avrei dovuto immaginarlo!”
“Cielo, un nipotino!” esclamò Anna, prendendo la mano del notaio e sorridendo incredula.
“Ebbene sì – ridacchiò Andrew, guardando con malizia i genitori, felice di averli colti di sorpresa in quel modo – a inizio novembre diventerete tutti nonni.”
“Con questo vorresti dire che ci consideri vecchi? – gli chiese Nicholas, passando accanto a lui per andare dalla figlia e dandogli uno schiaffo sulla nuca – ti faccio dieci a zero, pivello!”
“Ma io non intendevo…”
“Sta zitto, fammi il favore… e tu vieni qua, signorinella, sei proprio capace di rendere felice tuo padre. Ah, la mia piccola puledrina, quanto sei cresciuta.”
“Oh, papà, sono così felice! – pianse lei – Il tuo primo nipotino, ci pensi?”
Eccome se ci pensava. Ci pensavano tutti quanti: era una notizia veramente splendida.
 
Laura cercava di trattenere le risate mentre osservava Heymans che cercava di destreggiarsi con forchetta e coltello. Ma sembrava proprio che la sottile bistecca sul suo piatto non ne volesse sapere di stare ferma e di collaborare, con grande disappunto del bambino che, nonostante tutto, si ostinava a massacrarla con le posate.
Ovviamente la donna era pronta ad intervenire non appena il coltello fosse diventato troppo pericoloso nelle mani inesperte del bambino: Heymans cercava di imitare le mosse che aveva sempre visto, ma la sua impugnatura non riusciva ad essere quella più complicata degli adulti ed era scontato che i suoi tentativi fossero vani. Però era più che giusto che, a quasi tre anni, iniziasse a provare simili cose.
Alla fine, con un’esclamazione di disappunto quando la bistecca rischiò per l’ennesima volta di uscire dal piatto, il piccolo si arrese. Ma invece di chiedere aiuto alla madre, lasciò cadere sul tavolo forchetta e coltello e afferrò il suo pranzo con le mani, portandoselo alla bocca ed iniziando a masticarlo e ciucciarlo come poteva.
“Oh no, Heymans! – Laura scattò in avanti troppo tardi per evitare quel disastro che avrebbe sporcato tavolo, sedia e figlio – Ma cosa fai?!”
“Mangio!” esclamò lui con la bocca piena, cercando di staccare un pezzo di bistecca con i denti.
“Aspetta che ci pensa la mamma – cercò di levargli dalle mani la parte di bistecca ancora integra – te la taglio io, amore, no… no, ma che fai!”
Con aria furba Heymans si era girato di lato e aveva così rinsaldato la presa sul suo pranzo. Evidentemente ci stava provando diverso gusto a mangiare in questo modo, e del disastro che stava facendo con i suoi vestiti gli importava ben poco.
Avendo capito che c’era poco da fare, Laura sospirò e si alzò in piedi per andare a prendere uno strofinaccio con il quale iniziare a rimediare al danno. Non appena si girò verso il lavandino, Heymans ne approfittò per scendere lui stesso dalla sedia, ancora con la bistecca metà in bocca e metà in mano, ed accostarsi alla cesta dove dormiva Henry.
“Fratellino – esclamò – pappa anche per te!”
Ovviamente Henry dormiva della grossa dopo aver fatto la sua poppata e non aprì gli occhi a quel richiamo. Perplesso, Heymans, consolidò la presa della bistecca con i denti e con la mano libera e sporca iniziò a scuoterlo fino a destarlo… e farlo piangere.
“Che? – Laura si girò ed accorse verso quella scena disastrosa – Oh no, Heymans! Ma che fai?”
“Non vuole la pappa…” mormorò il piccolo, perplesso davanti alla reazione negativa del fratello.
“Che pasticcio – la donna si inginocchiò, non sapendo da che parte iniziare – Heymans, tuo fratello non mangia quelle cose, lui prende il latte da mamma, capito?”
“Ma la bistecca è buona.”
“Lo so che è buona… cielo, caro, fa veramente impressione… è tutta mangiucchiata. Senti, dalla a me: direi che hai mangiato abbastanza, va bene?”
“E la frutta?”
“Vuoi la frutta? – Laura lo guardò stranita mentre prendeva in braccio Henry e cercava di calmarlo – va bene, va bene… però prima cambio tuo fratello e anche te. Siete pieni di sugo e pezzi di bistecca.”
“Buono il sugo.” sorrise il bambino, leccandosi la mano.
“Immagino, forza inizia ad andare in camera, Heymans Breda: la frutta la mangerai quando tu, tuo fratello e questa cucina sarete di nuovo puliti.”
“Va bene, mamma.”
Vedendo che il bambino si avviava tranquillamente verso il piano di sopra, Laura sospirò di sollievo e si poté dedicare completamente ad Henry che, irritato per quella sveglia, continuava a piangere. Heymans ci teneva molto a fare il fratello maggiore, ma a volte i risultati non erano dei migliori: aveva provato a spiegargli che Henry per diverso tempo avrebbe avuto solo bisogno di essere allattato e cambiato, ma per un bambino di quattro anni spesso era difficile capire perché quello che faceva lui non poteva farlo anche il fratellino.
“Oh bene, benissimo – sospirò, vedendo che il neonato si stava calmando – sì, lo so, non è il massimo essere sporchi di sugo. Adesso la mamma ti cambia la tutina e vedrai che tutto si risolve e… ma perché proprio adesso devono bussare alla porta!”
Chiunque fosse il visitatore aveva davvero un pessimo tempismo, considerato che aveva un bambino sporco di sugo in braccio ed un altro che era salito in camera e poteva combinare chissà quali danni con le mani sporche e gocciolanti. Tenendo Henry andò ad aprire, sperando che chiunque fosse non la prendesse per una madre sull’orlo di una crisi di nervi: semplicemente c’era stato un piccolo disastro casalingo.
“Voi? – sorrise vedendo Ellie ed Andrew – non vi abbraccio e non toccate Henry perché siamo reduci da un problema con una bistecca al sugo! Vi farei entrare, ma c’è Heymans sopra che…”
“Lo so, non è momento di visite – la interruppe Andrew – ma dobbiamo darti una notizia. Vediamo se indovini…”
Laura lo fissò perplessa, ma poi spostò l’attenzione ad Ellie che ancora un po’ saltava sul posto per l’eccitazione. Ed un simile entusiasmo l’aveva dimostrato solo in occasione della proposta di matrimonio.
“Sei incinta! – esclamò, facendo due più due – Sei incinta!”
“Sì! – Ellie non resistette e abbracciò l’amica, frenandosi giusto per non soffocare Henry in quella stretta – Oddio, Laura! Aspetto un bambino! Un piccolo pulcino è dentro la mia pancia, non ci credo!”
“Aspetta, aspetta… scusa, Andy, tieni il bambino un secondo perché io… se non posso abbracciarti come si deve… oh, Ellie, sono così felice per voi – delle lacrime non poterono far a meno di uscire – un piccolo Fury, non mi sembra vero. Il primo della vostra nidiata, sono così emozionata! Diamine, che disastro… adesso voglio abbracciare pure te, quasi papà! Passa il bambino a tua moglie e fatti stringere… oh, Andy, sono… non ho parole. E quando nasce?”
“Secondo i calcoli dovrebbe nascere ad inizio novembre – spiegò Ellie, cullando Henry ed ignorando come suo solito eventuali macchie di sporco che potevano rovinarle il bel vestito azzurro che indossava – sono praticamente ad inizio terzo mese.”
“A novembre… cielo, mi pare così lontano! Oh, dannazione, vorrei farvi entrare e sapere tutti i dettagli, ma ho Heymans che mi aspetta in camera sporco di sugo come poche volte: deve ancora stringere amicizia con forchetta e coltello e capire che Henry prende ancora solo il latte… però… dai, passate a casa uno di questi pomeriggi dopo le quattro: a quell’ora entrambi i bambini sono addormentati e Gregor è a lavoro.”
“Affare fatto! – annuì Ellie con entusiasmo – e porto la torta che bisogna festeggiare! E’ che non potevamo aspettare così tanto per darti la notizia: dopo i nostri genitori tu dovevi essere la prima a saperlo!”
“Ovvio che sì – rise Laura, ancora estasiata dalla notizia – ci tengo. Mi ritengo in parte responsabile della vostra unione, ormai è risaputo.”
Tutti e tre sarebbero voluti restare a parlare ancora, lo sapevano benissimo. Ma un rumore dal piano di sopra fece capire che era il momento di congedarsi: se Heymans appariva in cima alle scale potevano crearsi spiacevoli imbarazzi e non era il caso.
Tuttavia come la porta si fu richiusa, Laura si sentì incredibilmente felice e sollevata.
Da quando erano stati costretti a impedire ad Heymans di avere rapporti con Ellie ed Andrew si sentiva incredibilmente in colpa. Niente le avrebbe fatto più piacere che i suoi bambini potessero avere degli zii così dolci e affettuosi. Soprattutto si sentiva incredibilmente in colpa per l’aver dovuto spezzare il legame tra Heymans ed Andrew, dopo che l’uomo aveva fatto così tanto per lei ed il bambino.
Ma adesso finalmente avranno un piccolo tutto loro – pensò con gioia salendo le scale – saranno dei genitori fantastici! Sono nati per essere padre e madre di decine di bambini! Cavolo, il mio Andy che diventa papà, non mi pare vero… Henry ne sarebbe estremamente felice.
“Mamma, con chi parlavi?” Heymans la guardò curioso come finalmente entrò nella camera dove lui la aspettava.
“Con alcune persone, caro – gli spiegò con disinvoltura, posando Henry sul letto e poi inginocchiandosi accanto a lui – mi dovevano dare una bella notizia, tutto qui. Forza, alza le braccia che mamma ti leva la maglietta.”
“Mamma, poi posso dare un po’ della mia frutta ad Henry?”
“Tesoro, te l’ho spiegato già mille volte: il tuo fratellino prende solo il latte dalla mamma, proprio come facevi tu alla sua età. E’ piccolino.”
“Posso farlo giocare con i giochi?”
“Anche per questo è troppo piccolino.”
“Oh…” lui abbassò lo sguardo sconsolato, tanto che Laura si sentì in dovere di accarezzargli la cresta di capelli rossi: da qualche mese ormai aveva l’abitudine di tagliarglieli attorno alla nuca per evitare che sudasse troppo.
“Che hai, patatone? – gli chiese usando la maglietta appena levata per pulirgli un po’ le mani – Cosa c’è che non va?”
“Volevo fare qualcosa con lui…”
“Lo farai, tesoro, ma quando sarà cresciuto: adesso è troppo piccolino per giocare con te, cerca di capirlo.”
“Però papà sta sempre con lui quando è a casa…”
Per la prima volta Laura sentì un grande rimpianto nella voce del suo primogenito e la cosa la fece stare profondamente male. Ma era vero, non poteva negarlo: Henry non aveva ancora due mesi ma stava al centro dell’attenzione di Gregor. Una cosa del genere non era mai successa per Heymans: lei aveva sperato che si trattasse solo di un atteggiamento un po’ chiuso del padre nei confronti di un bambino effettivamente ancora piccolo, ma questa disparità di trattamento era troppo palese ed era ovvio che Heymans cominciasse a notarla.
“Sai com’è – provò a sorridere con imbarazzo – a volte succede che i piccolini attraggano così l’attenzione. E poi tu sei il fratello maggiore, devi essere responsabile, no?”
“Mamma, ma io piaccio a papà, vero?”
“Ma certo, amore mio – lo abbracciò con tutte le sue forze, sentendosi un grande fallimento come madre – come si potrebbe non voler bene a un patatone come te?”
Non aveva ancora quattro anni, l’abbraccio della mamma risolveva sempre tutto, eppure…
Una volta ho detto ad Andrew se avrebbe voluto prenderlo e portarlo a vivere con lui ed Ellie… forse… forse sarebbe stata la cosa migliore. Avrebbe un padre che lo ama ed io… io non dovrei mentirgli così. Cielo, come faccio?
“Mamma… senza maglietta ho freddo…”
“Oh, scusa, amore. Adesso la mamma cambia te ed Henry e poi andiamo a mangiare la frutta, contento?”
“Sì!”
 
Mentre Laura presagiva che la sua situazione familiare non era destinata ad avere tempi facili, Ellie invece era al settimo cielo e assieme al marito continuava a progettare mille cose per l’arrivo del bambino.
Scelsero quale delle tre camere degli ospiti sarebbe diventata la stanza del bambino e optarono per quella più vicina alla loro camera da letto. I vecchi mobili vennero levati ed iniziarono ad essere montati quelli adatti per l’arrivo del neonato: ridendo Andrew diceva che montare culla e fasciatoio era l’applicazione più entusiasmante delle conoscenze ingegneristiche.
Un altro problema che andava risolto era quello del progetto di Ellie di diventare insegnante: ovviamente l’arrivo di un figlio scombinava tutti i suoi progetti, ma lei non si era persa d’animo. Dopo averci riflettuto ed aver consultato il preside della scuola, aveva deciso che a luglio avrebbe comunque dato la famosa prova, mentre per il tirocinio avrebbe aspettato che il bambino fosse un minimo grandicello ed indipendente.
E così a metà giugno, la sua preparazione per l’imminente esame procedeva a gonfie vele, così come la gravidanza: ormai la pancia iniziava ad essere evidente considerato che era quasi al quinto mese.
L’esame non la preoccupava: era sempre stata un’ottima studentessa e quel ripasso non le aveva creato problemi. Considerato che mancavano solo due settimane e che il programma era stato svolto secondo il programma stabilito, si stava dedicando a determinati punti sui quali aveva ancora qualche dubbio.
Però, quel pomeriggio, decise di smettere di studiare prima del previsto.
Un lieve senso di malessere la avvolse mentre stava comodamente seduta nel divano con il libro aperto.
Sulle prime pensò che fosse un residuo della nausee della gravidanza che decideva di farle quello scherzetto, ma l’esigenza di rimettere non venne.
Forse un te caldo? O una tisana?
L’idea le sembrò ottima, magari stava confondendo un banale raffreddore o momento di stanchezza con qualcosa di legato alla gravidanza. Sicuramente sarebbe bastato qualcosa di caldo a rimetterla in sesto.
Ma come si alzò in piedi, facendo sempre movimenti calmi e controllati, sentì delle forti fitte alla pancia e questo la fece entrare nel panico più totale.
“Andrew! – chiamò terrorizzata, aggrappandosi al bracciolo del divano e risedendosi – Andrew!”
Fortunatamente proprio quel giorno suo marito non era andato in cantiere, ma era rimasto a casa per terminare alcuni dettagli del progetto. Fu solo questione di pochi secondi prima che arrivasse da lei.
“Ellie! – subito le si inginocchiò accanto – Che succede?”
“Non lo so – ansimò lei, iniziando a tremare – ho delle fitte tremende…”
“Fitte alla pancia? Vieni, amore, ti metti a letto e vedrai che tutto si risolve: sotto le coperte passerà tutto, coraggio, alzati in piedi. Ti sostengo io e…”
“Andrew – Ellie quasi strillò come seguì lo sguardo del marito e vide che c’erano delle gocce di sangue sul pavimento – Andrew… ti prego… ti prego… il piccolo…”
“Sdraiati nel divano, coraggio – cercò di calmarla lui – amore… amore va tutto bene, stai tranquilla. Vado a prenderti una coperta e poi chiamo il dottore.”
“E anche mia mamma – singhiozzò lei – per favore…”
“Ma certo… certo, anima mia – la baciò il fronte e sulle guance per asciugarle le lacrime – vedrai che il nostro piccolino sta bene e che è solo una cosa da niente. Ma tu adesso stai tranquilla, faccio il più in fretta che posso.”
Ovviamente Andrew stava solo cercando di calmarla, Ellie era abbastanza lucida per capirlo. Ma come sentì chiudersi la porta di casa e capì di essere sola entrò nel panico più totale: si portò le mani al ventre, cercando di farsi passare quelle fitte con la forza del pensiero, ma sembrava che non volessero proprio smettere. E non erano le fitte di un mal di pancia, ormai l’aveva capito: era il bambino, il suo piccolo ed indifeso bambino che era in difficoltà.
“Pulcino – lo chiamò tra i singhiozzi – ma che hai? Stai buono… la mamma è qui e ti ama… ti ama tantissimo. Non devi aver paura, non devi… Kain…”
Quel nome le piaceva tanto, se fosse stato un maschietto l’avrebbe di certo chiamato così: era un perfetto miscuglio tra Nicholas ed Andrew in quanto univa le prime due lettere di entrambi i nomi.
In quel momento sentiva la disperata esigenza di chiamare il bambino per nome, cullandolo, tranquillizzandolo, sperando che bastasse il suo amore infinito per far smettere quel sangue che stava continuando ad uscire… lo sentiva.
“Piccolino – mormorò disperata – per favore… per favore calmati. Papà torna presto col dottore, amore, vedrai che passerà tutto.”
Ma mentre continuava a ripetersi queste frasi e a chiamare il bambino, si sentiva sempre più debole e sfinita. Il tremito che la tormentava divenne ancora più forte, tanto che si dovette avvolgere più che poteva nella coperta che Andrew le aveva drappeggiato sopra. E pregava, pregava con tutta se stessa, invocando alternativamente il bambino, il marito e sua madre, supplicando che qualcuno tornasse presto ad aiutare lei e Kain.
Piccolo mio… pulcino adorato… Kain…
Continuò ad invocarlo fino a quando perse i sensi.
 
Quando finalmente la porta della camera da letto si aprì e il dottore uscì fuori assieme alla madre di Ellie, Andrew si alzò in piedi dal pavimento dove era seduto da almeno un’ora.
Era stordito ed esausto, quell’orribile pomeriggio che gli sarebbe rimasto impresso nella mente per il resto della sua vita: la corsa disperata in paese per chiamare il medico, l’aver trovato Ellie svenuta nel divano in un lago di sangue e poi quell’attesa, quella tremenda e impossibile attesa senza sapere se suo figlio e sua moglie fossero ancora vivi, senza che nessuno gli dicesse qualcosa. Per tutto quel tempo avrebbe voluto sfondare quella porta, ma aveva paura di disturbare il medico e la signora Agnes… e poi aveva paura, una tremenda paura: di essere impotente, di non poter fare nulla davanti a sua moglie agonizzante, colei che aveva giurato di amare e proteggere con tutto se stesso.
“Vieni, ragazzo – lo scosse il medico – andiamo a preparaci una camomilla che ne abbiamo tutti bisogno, soprattutto tu. E prima che me lo chieda, non è in pericolo di vita.”
Sei parole che ebbero il potere di sollevare il macigno di terrore che gravava sulle spalle di Andrew. A confortarlo ulteriormente ci pensò l’abbraccio di sua suocera, materno e dolce, proprio quello di cui aveva bisogno: così, docile come un bambino, si fece condurre in cucina.
“Che cosa è successo?” chiese infine, come si fu seduto nel tavolo davanti al medico, mentre Agnes iniziava a preparare quella camomilla che, a quanto pare, era davvero indispensabile per tutti loro.
“Ha avuto un principio di aborto e non so per quale miracolo il bambino è ancora vivo.”
“Aborto?” Andrew sgranò gli occhi nel sentire quella parola.
Ellie era ormai all’inizio del quinto mese, gli aborti di solito avvenivano nei primi tre mesi di gravidanza.
“Ha perso molto sangue, ma per fortuna è stato solo quello: un’emorragia. Le contrazioni che ha avuto non sono state così forti da portare all’espulsione del feto. Il piccolo è ancora nel grembo e si è mosso, segno che è ancora vivo.”
“Oh cielo, grazie – Andrew si mise a piangere a quella notizia – grazie…”
“Siamo appena all’inizio, ragazzo – lo bloccò il medico, iniziando a sorseggiare la camomilla che Agnes gli aveva messo davanti – li abbiamo ripresi entrambi, ma quello che è successo è molto grave. Le contrazioni in uno stadio simile della gravidanza non sono mai un buon segno, capisci?”
“Che cosa vuole dire? Ellie si riprenderà, no?”
“La ragazza non si deve muovere da quel letto fino alla fine della gestazione, mi sono spiegato? Niente sforzi, nemmeno il minimo: deve rimanere sotto controllo giorno e notte; è stato un caso fortunato questa volta, ma simili episodi si possono ripetere.”
“Santo cielo – sospirò Agnes, sedendosi accanto ad Andrew e accarezzandogli la guancia con affetto – mi dica, dottore, la mia bambina adesso è ancora in pericolo?”
“Il peggio è passato, ma l’emorragia potrebbe ripresentarsi. Signora, lei deve stare qui pronta ad intervenire: se tra una settimana non avrà più perdite allora la crisi sarà superata.”
“Certamente, dottore.”
“Ma perché? – chiese ancora Andrew, asciugandosi le lacrime con un braccio – andava tutto bene… insomma, fino a ieri non ci sono stati problemi, non c’erano avvisaglie che…”
“La medicina deve ancora fare molti passi in avanti, figliolo. Certe volte noi medici non possiamo far altro che arrenderci alla natura e al destino. Le contrazioni sono diminuite da sole e questo mi ha consentito di fermare l’emorragia, altrimenti non avrei potuto fare niente e sarebbe stato già un bel risultato salvare la madre. Capisci l’entità di quello che ti dico? Siamo all’inizio del quinto mese, i bambini nascono al nono, massimo all’ottavo: dobbiamo fare in modo di arrivarci.”
“Faremo tutto il possibile.”
“Adesso la ragazza è debolissima, mi raccomando a voi. Io tornerò a visitarla domani mattina, va bene? Non lasciatela mai sola e se ci sono nuove emergenze correte subito a chiamarmi.”
Andrew annuì, rassicurò, promise… in realtà sentiva il mondo crollargli addosso.
 
Ovviamente quell’incidente mise in moto entrambe le famiglie: Anna ed Agnes si trasferirono immediatamente a casa di Andrew ed Ellie, pronte ad intervenire al minimo problema. Anche Nicholas Lyod e Andrew senior promisero di passare tutti i giorni e si assicurarono che per Andrew non fosse necessario scendere in paese per nessun motivo, in modo che potesse restare sempre accanto ad Ellie.
Ma fu solo quando a notte fonda si poté sdraiare accanto ad Ellie che il giovane Fury si sentì veramente libero di poter respirare. Adesso era solo con lei, la poteva vedere con il viso rilassato, il respiro calmo e regolare nonostante la dura prova che aveva da poco superato. Ed era pallida, così pallida, come se tutto il sangue le fosse stato portato via.
Andrew le accarezzò la guancia con amore, timoroso di romperla da quanto le sembrava fragile e piccola. Era di nuovo una ragazzina di tredici anni, così insicura e bisognosa di rassicurazioni… non c’era più la sua compagna dolce e sensuale. L’idea di aver fatto l’amore con lei per qualche secondo gli sembrò perversa.
Ellie… Ellie, ma che ci sta succedendo?
“Kain…” mormorò lei, aprendo debolmente gli occhi.
“Sssh, amore – la consolò – va tutto bene, devi riposare.”
“Andrew… Andrew che… è successo? – chiese debolmente – Che ho fatto al piccolo?”
“Il piccolo sta bene, è ancora nel tuo grembo, Ellie – la rassicurò – ma hai perso davvero tanto sangue e per il resto della gravidanza devi stare a letto, ordini del dottore.”
“Gli ho fatto male…”
“Ma no, che dici?”
“Era spaventato… tanto… Andrew, che… che cos’ha il mio corpo di sbagliato? Perché… perché ho fatto del male al piccolo?” le lacrime uscivano senza parere mentre lei si sentiva la madre peggiore del mondo: suo figlio nemmeno era nato e aveva rischiato di ucciderlo. Non l’aveva saputo proteggere.
“Non è colpa tua, amore – la abbracciò Andrew – non devi…”
“No! Non toccare la pancia, ti prego!”
“Sssh, va bene, va bene… guarda, ti sto solo abbracciando in modo che tu possa appoggiare la tua testa a me, meraviglia. Sei spaventata, lo capisco, ma non è colpa tua quanto è successo. E comunque vedrai che si risolve tutto: le nostre madri sono a dormire nella camera degli ospiti, pronte ad intervenire, ma sono sicuro che non sarà necessario… non piangere.”
“Volevo… volevo solo essere felice ed avere un bimbo tutto mio…”
“E lo avremo, amore, non preoccuparti. Adesso riposa e pensa al nostro piccolo, anche lui ha bisogno di riposare, non credi?”
“Kain…”
“Eh?”
“Si chiama Kain…”
“Kain? Ma certo amore mio, Kain è il nome perfetto per nostro figlio…” annuì lui, senza contraddirla dicendole che sarebbe potuta anche essere una femmina.
Ellie annuì e si sentì meglio: chiamando il bambino per nome lo rendeva più reale, più forte.
Le dava l’illusione che tutto sarebbe andato bene, nonostante quel dolore di sottofondo proprio non la volesse lasciare. Nonostante si sentisse la madre peggiore del mondo.
Ma io ti amo… pulcino, credimi, la mamma ti ama. Non voleva tutto questo…





Heymans alle prese con forchetta e coltello è opera di Mary.
In realtà fa parte di un disegno più grosso che potete trovare nella sua pagina fb 
https://www.facebook.com/1495560104036539/photos/pb.1495560104036539.-2207520000.1415011756./1496039447321938/?type=3&theater

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Capitolo 32
*** Capitolo 31. 1885. Kain. ***


Capitolo XXXI

1885. Kain.

 
Quell’aborto evitato fu l’inizio di un vero e proprio calvario per Ellie.
Le ci vollero più di dieci giorni per riprendersi sensibilmente, ma lo stato di continuo malessere e debolezza continuava a persistere, accompagnato da una fastidiosa febbriciattola che non le dava tregua.
Era costretta a restare a letto, possibilmente in posizione supina per evitare che il bambino subisse dei nuovi traumi: ogni tanto doveva girarsi, per impedire che le venissero delle piaghe da decubito, ma lo faceva sempre con l’aiuto di qualcuno per evitare movimenti pericolosi. Persino per andare in bagno doveva essere letteralmente sostenuta: quella ventina di passi dal letto e lungo il corridoio le sembravano un’infinità e le causavano un forte senso di malessere.
Per una ragazza come lei che era sempre stata sana e vitale, non andando mai oltre le normali influenze stagionali, vivere in una simile condizione era veramente prostrante e destabilizzante. Si chiedeva se si sarebbe mai ripresa del tutto, terrorizzata dall’idea di restare fragile e debole per il resto della vita. Ma soprattutto era spaventata all’idea che quella situazione danneggiasse gravemente il bambino. Prima che iniziasse il disastro non l’aveva mai sentito scalciare o muoversi, almeno non in maniera sensibile, tuttavia era appena al quinto mese di gravidanza e dunque era anche abbastanza improbabile che il piccolo rendesse così evidente la sua presenza. Ma, mano a mano che la pancia cresceva, seppur con una lentezza che lei trovava preoccupante, i suoi segni di vita erano davvero pochi, tanto che a volte credeva di essersi immaginata qualche lieve movimento all’interno del suo ventre.
“Non fare quel broncio, fanciullina – la consolò Nicholas una mattina che le stava facendo compagnia – non mi piace vederti in questo stato.”
“Oh, papà, non mi riconosco più – sospirò lei, finalmente girata di fianco per un’ora di tregua dalla posizione supina  - mi sento così debole e non… non lo so se riuscirò a tornare come prima. Ho paura…”
“Certo che torni come prima, Ellie – le arruffò i capelli con gentilezza – sei una Lyod, dannazione. Sei una puledra vincente, no?”
“Evidentemente no – una lacrima involontaria uscì – papà… mi dispiace, ti sto deludendo. Non sono così forte come credevi… non sono una Lyod. Io… io… ho paura di morire, papà… tanta!”
“Ma che dici, sciocchina – incurante delle raccomandazioni Nicholas la sollevò a sedere e la strinse tra le braccia – non sono parole degne di te. Morire? Ma quando mai! La mia piccola non è assolutamente una delusione: vedrai che andrà tutto bene, bambina mia. Tra un paio di mesi scodelli il marmocchio e poi in una settimana, massimo due, sarai di nuovo in splendida forma… e festeggeremo tutto con una bella cavalcata. Ti farò montare Blanco, sei contenta?”
“Siamo a metà luglio – Ellie si accoccolò maggiormente contro di lui: intuiva che anche se non era una posizione raccomandata, per una volta tanto non sarebbe successo nulla – e il bambino deve nascere per lo meno dopo la metà di ottobre… mi pare un’eternità. E mi sento così male all’idea che lui stia risentendo di tutto questo.”
“C’è sangue Lyod nelle sue vene – le ricordò – vedrai che non è minimamente disturbato. Forse è solo seccato di vedere sua madre così arrendevole e lo posso capire. Avanti, puledrina, un bel sorriso: hai tenuto il broncio per troppi giorni e ora che il peggio è passato non è più necessario, non credi?”
“Mi dispiace – invece di sorridere lei si depresse ancora di più – sto creando così tanto disturbo a voi e ai genitori di Andrew… e lui… povero caro, mi è sempre accanto, rinunciando al suo lavoro… mi sento così desolata.”
“Sta solo facendo il suo dovere di marito, Ellie: l’avrei già fucilato se non fosse stato così. E’ uno smidollato, ma ha sani principi, glielo concedo.”
“Papà…”
“Dimmi, piccola mia.”
“Il bimbo nascerà e starà bene, vero?”
“Ma certo, tesoro – la baciò sulla chioma arruffata – non temere.”
 
Se Ellie si sentiva desolata e spaventata, Andrew si sentiva completamente impotente e la cosa non lo faceva stare certo bene. Non ne poteva più di stare accanto a sua moglie e vederla in quelle condizioni senza non poter far altro che stringerle la mano, accarezzarle i capelli, baciarle la guancia… persino i suoi movimenti dovevano essere controllati per evitare che si scatenasse di nuovo qualche guaio.
Ed Ellie continuava a sembrargli così piccola… troppo. Solo adesso si rendeva conto di quanto fosse effettivamente minuta e che, forse, il suo corpo non era in grado di sostenere una gravidanza. L’idea che morisse di parto continuava a tormentarlo giorno e notte: perdere la sua amata compagna, l’altra metà di se stesso non era tollerabile.
Quel pomeriggio era uscito di casa con la scusa di andare a fare delle commissioni, ma la verità era che non ce la faceva più a stare accanto a lei senza fare niente. Persino andare a fare un minimo di spesa gli sembrava più produttivo. E fu quasi scontato che si ritrovasse davanti a casa di Laura, alla ricerca di un conforto emotivo che non riusciva proprio a trovare e che, in realtà, avrebbe dovuto dare lui a sua moglie.
Entrambi i bambini dormivano, Gregor non c’era, e dunque non ci fu nessun problema a sedersi in cucina per poter parlare.
“Coraggio che si riprende – lo consolò Laura, stringendogli la mano con affetto – è la ragazza più forte che conosca, Andy, andrà tutto bene.”
“E’… è così piccola – mormorò lui con lo sguardo basso – Laura… ti ricordi quanto erano grandi sia Heymans che Henry quando sono nati? Io ho il terrore che…”
“Cielo, Andy! Pensa a me e Gregor! Non siamo certo dei figurini: è ovvio che i nostri figli fossero belli robusti sin dalla nascita, soprattutto Heymans. Ma tu ed Ellie avete una costituzione più minuta, vedrai che il bambino non sarà così grande ed Ellie non avrà nessun problema nel parto. E quell’incidente che ha avuto verrà superato alla grande, dalle tempo.”
“Andava tutto così bene…”
“E continuerà ad andare bene, coraggio – Laura era davvero destabilizzata nel vederlo così rassegnato – posso immaginare che sia difficile vederla in quelle condizioni, ma passerà tutto. E tra qualche mese nascerà il vostro figlioletto.”
“Se è maschio chiamerà Kain – fu l’unico sorriso che fece – Ellie ha già scelto il nome.”
“Kain? Mi piace – annuì Laura – chissà magari i nostri ragazzi un giorno saranno grandi amici.”
“Un giorno, chissà… scusami, ti sto ammorbando con queste preoccupazioni, quando in realtà dovrei chiederti come va a casa. E’ da parecchio che non passavo.”
“Splendidamente – mentì lei con un sorriso – i piccoli crescono sani e robusti e con Gregor va tutto bene. Come puoi vedere me la so cavare anche senza di te. Ed è un bene dato che devi pensare alla tua famiglia. Adesso che mi ci fai pensare mi pare che pure la sorella maggiore di Myra, la nostra compagna di classe, avesse rischiato di perdere il piccolo che aspettava: ma adesso sta benissimo è ne ha ben due di figli. Come vedi sono cose che si superano.”
Andrew annuì distrattamente, forse nemmeno la stava ascoltando. Voleva sentire parole che lo rassicurassero, era vero, però il suo pensiero tornava sempre ad Ellie, a quello stato di debolezza che proprio non la lasciava. Capiva che c’era qualcosa che non andava e, pur odiando se stesso per il solo pensarlo, intuiva che ci sarebbero stati altri problemi.
 
Luglio passò senza altri intoppi, con la salute di Ellie che piano piano migliorò: la febbre finalmente decise di abbandonarla e questo contribuì a farle recuperare in parte le forze.
Ma proprio quando tutti stavano esultando per questo miglioramento, a nemmeno metà agosto ci fu una nuova crisi e anche questa volta ci fu il concreto rischio che perdesse il bambino: la dinamica fu la stessa, con l’arrivo di contrazioni improvvise ed emorragia. Questa volta ovviamente erano tutti preparati ad una simile emergenza, ma comunque fu un vero e proprio calvario per Ellie che si ritrovò di nuovo priva di qualsiasi energia.
Ormai si era convinta che c’era qualcosa che non andava ed aveva il terrore che la prossima volta sarebbe stata quella decisiva in cui avrebbe perso il suo bambino e forse anche la vita. Per questo ogni ora ed ogni giorno diventavano preziosi: davano a suo figlio tempo in più per crescere e svilupparsi… sapeva che novembre era ancora dannatamente lontano, ma era tutto quello che poteva fare per Kain: continuare a resistere.
 
“Se si tratta di scegliere tra me ed il piccolo – mormorò una notte, mentre stava con la testa poggiata contro il petto del marito – salva lui, va bene?”
Sentì la mano che le cingeva la spalla irrigidirsi, ma che senso aveva rimandare ancora un discorso che andava fatto? Ormai erano ad inizio settembre, al settimo mese di gravidanza: adesso osava sperare che sarebbe magari arrivata ad ottobre. E all’ottavo mese un bimbo aveva molte possibilità di sopravvivere.
“Non dovresti dire cose simili: starete bene entrambi…”
“Lo pensi anche tu che succederà di nuovo, vero? – sorrise tristemente Ellie, accorgendosi di quanto quelle braccia fossero l’unica protezione contro la paura di morire – Perché nasconderlo? Sai… credo di aver sentito che qualche volta il dottore per far nascere il bambino può aprire la pancia della madre…”
“No!”
“Se servisse a salvare il bambino?”
“Ellie – Andrew modificò la posizione, in modo che si potessero guardare negli occhi: era buio, certo, ma dalla finestra la luce lunare entrava il minimo indispensabile per vedersi – non puoi chiedermi una scelta del genere, non puoi…”
“Non merita una possibilità? – mormorò lei, prendendogli la mano e portandosela al ventre. Un contatto che aveva proibito a tutti quanti, persino a se stessa – E’… è il nostro piccolino.”
“Come puoi chiedermi di scegliere?” scosse il capo lui, cercando di ignorare il contatto con quel ventre dove c’era suo figlio.
“Sto scegliendo io – sospirò baciandolo con tenerezza – ti amo… Andrew, non hai idea di quanto ti ami. Sei stato il sogno più bello di tutta la mia vita e non puoi immaginare quanto… cielo, Andrew, non voglio morire!” pianse, aggrappandosi a lui, cedendo davanti alla paura.
“Tu non devi morire – la strinse con forza, bagnandole la fronte con le sue lacrime – Ellie… Ellie, ti prego. Non puoi farmi una cosa simile! Che senso hanno avuto tutti questi anni d’attesa se poi dobbiamo dividerci così? Non… sei tutta la mia vita, non posso andare avanti senza di te…”
Faceva paura, troppa. Era come se quella separazione potesse arrivare da un momento all’altro, quando non erano assolutamente pronti ad una cosa simile. Certo, volevano salvare il bambino, ma perdere la vita di Ellie era un prezzo troppo alto da pagare.
Andrew continuava a pensare al parto di Heymans, a quelle grida di dolore da parte di Laura… a quello sforzo fisico che a volte poteva essere fatale.
Ed Ellie continuava a sembrargli così piccola e quella pancia destinata a crescere ancora…
 
Fu per pura fortuna che, quattro giorni dopo, il nove settembre, il dottore fosse lì per la visita quotidiana alla giovane. E fu anche un bene che Ellie si fosse relativamente ripresa dall’ultima crisi e dunque fosse abbastanza in forze.
Il medico aveva appena terminato la visita e lei stava seduta sul letto, aspettando che sua madre le sistemasse meglio i cuscini per farla stare più comoda una volta sdraiata. Fu come un improvviso pugno alla pancia e si ritrovò piegata in due dal dolore. Ed era così diverso dalle altre volte, dove le contrazioni iniziavano con una forza più moderata per poi crescere d’intensità.
“Mamma!” chiamò, rischiando anche di cadere dal letto se non fosse stata prontamente sorretta.
“Ellie! Ellie! Dottore, presto!”
Immediatamente la fecero distendere, notando come ci fosse una nuova emorragia in corso. Ma se le altre volte il medico aveva subito cercato di tamponare l’uscita di sangue, questa volta le sue mani corsero a tastare il ventre della donna. Dopo qualche secondo fissò con aria cupa Agnes e dichiarò.
“Il bambino sta nascendo.”
“Cosa? – Ellie parve recuperare la lucidità nonostante il dolore – oh no, dottore, no! E’ solo il settimo mese! Non può nascere adesso…”
“Mi dispiace, figliola – sospirò il medico – ma si è smosso qualcosa nel tuo grembo… forza, stenditi adagio e cerca di calmarti!”
“No! – trovando nuove forze nella disperazione, Ellie scatto al centro del letto, ignorando i capogiri provocati da quel movimento così brusco e dalla perdita di sangue – E’ solo come le altre volte… lui deve ancora crescere! Deve ancora stare dentro di me!”
“Ellie! Ellie, che succede?” immediatamente Andrew entrò, attirato dalle grida che aveva sentito.
Fu immediatamente tallonato anche da sua madre e da Nicholas.
“Non può nascere adesso – supplicò lei, inginocchiandosi nel letto e aggrappandosi al marito – non ancora! Andrew… Andrew… per favore, non permetterlo!” una smorfia di dolore le attraversò il viso pallido, ma si morse il labbro tanto da farlo sanguinare pur di non urlare, quasi a negare la contrazione.
“Ha delle contrazioni molto forti ed il bambino si è spostato – spiegò il medico, arrotolandosi di nuovo le maniche della camicia – dobbiamo farlo nascere o rischiamo di mettere in pericolo la vita della ragazza più di quanto non lo sia già. Signora, cerchi di essere ragionevole…”
“Andrew, ti prego – pianse invece Ellie, cercando con lo sguardo il marito che ancora la teneva stretta – è il nostro piccolo… è Kain… non permettere che lo uccidano… non… non… per favore!”
Andrew fissò il medico e tutti i presenti, cercando qualcuno che gli desse una maledetta alternativa, qualcosa che impedisse quanto stava per succedere. Perché lo sapeva bene: a sette mesi far nascere il bambino voleva dire farlo praticamente morire. Troppo piccolo, lo sviluppo non ancora terminato: creature del genere spiravano nelle ore successive la nascita, sempre che non uscissero dal grembo già morte.
 Ma nessuno, nemmeno Nicholas Lyod poteva opporsi a quanto diceva il medico: l’unica cosa da fare, in quel momento, era pensare ad Ellie e alla sua vita.
“Amore – mormorò, capendo che toccava a lui il tremendo compito di convincerla – amore, ascolta… stai partorendo, non puoi rimandare… non…”
“Terrò le gambe chiuse… fino a quando… fino a quando queste dannate contrazioni non smettono!gridò Ellie – Non posso uccidere Kain… gli posso dare ancora tempo… per favore… ti prego, Andrew. E’ troppo piccolo per nascere…”
“Anima mia, per favore! – le lacrime tornarono a farla da padrone – Non… non si può… ascolta, sdraiati, resto con te per tutto il tempo, promesso…”
“No… no – ansimò lei, troppo debole per opporsi a quelle mani che la costringevano a stendersi – per favore… papà! – cercò anche il padre nella disperazione – ti prego, fai qualcosa!”
“Fatti forza, bimba mia – fu tutto quello che riuscì a dire Nicholas con voce rotta – devi essere forte come mai lo sei stata…”
“Va bene, adesso esca, signor Lyod – il medico prese in mano la situazione – e voi, signore, per favore, aiutatela a sistemarsi meglio. Devo arginare questa perdita di sangue.”
“Andrew…” pianse Ellie, la voce ridotta ad un sussurro.
E tutto quello che lui riuscì a fare fu di baciarle la fronte, pregando che quell’incubo finisse presto.
 
Tutti erano partiti con l’idea che si trattasse di un aborto vero e proprio, con la placenta che si era ormai staccata dal grembo ed il bambino già morto. Di conseguenza, ritenevano anche che si sarebbe trattato di un parto relativamente rapido, considerate anche le dimensioni davvero ridotte del feto.
Tuttavia, man mano che il tempo passava, con le contrazioni di Ellie sempre profondamente irregolari tra di loro, Andrew vide che il medico assumeva un’aria profondamente cupa. Continuava a tastare la pancia della donna e a controllare tra le sue gambe dove, per fortuna, la perdita di sangue era stata momentaneamente arginata.
Che cosa c’è che non va? – Andrew sentì un gelido brivido lungo la schiena – Perché non esce?
“Andrew…” Ellie lo chiamò esausta, ormai prossima allo svenimento. Ogni contrazione aveva la capacità di farla piegare in due per il dolore, ma era chiaro che non sarebbe potuta andare avanti per molto ancora.
“Sssh, tranquilla, amore – la consolò, passandole un fazzoletto sulla fronte madida di sudore – sono qui con te.”
“Kain… come sta? Come sta… il nostro piccolo?” delirò lei, agitando la testa sui cuscini.
“Deve… – ingoiò a fatica il groppo amaro che aveva in gola – deve ancora nascere amore… ma tu stai andando benissimo, sul serio. Come senti la prossima contrazione spingi ancora, va bene?”
“E’ che… che mi fa male… tanto…”
A quel punto Andrew lanciò un’occhiata interrogativa al medico: che almeno gli spiegasse cosa stava succedendo. Aveva già assistito al parto di Heymans, sapeva benissimo che non stava andando come previsto.
In quel momento Ellie ebbe una nuova improvvisa contrazione e si alzò improvvisamente a sedere, per quanto le forze glielo consentissero. La sua mano si serrò sul braccio del marito con rinnovata forza, le unghie che penetrarono sulla pelle quasi a farlo sanguinare.
“Dannazione! – sibilò il medico – Ecco spiegato tutto… è podalico. Ovvio, al settimo mese ancora non era pronto a girarsi.”
“Santo cielo – sospirò Anna, accanto al medico, l’abito imbrattato di sangue – si vede un piedino.”
Andrew cercò di sporgersi per vedere pure lui, ma era troppo impegnato a sostenere Ellie che si era riaccasciata sui cuscini dopo quell’ennesima spinta.
“Signora – fece il medico rivolgendosi ad Agnes, la quale sosteneva Ellie dall’altra parte del letto – sostenga sua figlia. E tu ragazzo, vieni con me: dobbiamo parlare.”
Quella frase ebbe il potere di terrorizzare Andrew: il momento in cui avrebbe dovuto scegliere tra Ellie ed il bambino era arrivato? Ma il bimbo non era morto?
Cielo, non puoi chiedermelo, non puoi… non puoi…
“Ascoltami – lo scosse il medico come furono nell’angolo della stanza – quello che sto per fare non sarà per niente piacevole, ma se portiamo avanti questo parto ancora per una decina di minuti rischiamo di perderla davvero.”
“Allora non le apre la pancia con… con quelle…” Andrew si dovette poggiare contro il muro per il sollievo.
“Ma che dici!? E poi il bambino è già nel canale del parto! – sbuffò il medico – La situazione è questa: tua moglie non ha più forze per spingere, è chiaro. Ed il bambino, data la posizione, è bloccato… ma deve uscire.”
“E’ vivo?” si trovò a chiedere Andrew.
“Non lo so, non si capisce, ma non è questo il punto… ehi, guardami negli occhi, è importante. Devo salvare tua moglie, lo capisci? Alla prossima contrazione devo afferrare il bambino per il piede e tirarlo fuori.”
“Tirarlo fuori?” all’improvviso realizzò.
“Tieni ferma tua moglie più che puoi che non sarà per niente bello. Ma preferisco che passi venti secondi d’inferno piuttosto che vederla morta. Signore, avete sentito?” si rivolse anche ad Agnes ed Anna.
Andrew spostò lo sguardo sulla madre di Ellie e vide come ormai piangesse senza parere davanti alla tragedia che stava colpendo sua figlia. Ma era determinata a salvarla, lo si capiva da come consolidava la presa su di lei.
“Forza, Andy – gli mormorò Anna, come ciascuno tornò in posizione – ce la puoi fare, figlio mio.”
Andrew, annuì a quelle parole, ma si sentiva il mostro più orribile del mondo: Ellie stava per soffrire in maniera estrema per partorire un bambino quasi sicuramente morto.
Questo non è…
“Andrew…” Ellie lo chiamò debolmente come lo sentì prenderle di nuovo la mano.
“Alla prossima spingi forte, amore mio – la baciò in fronte – andrà tutto bene… andrà tutto bene… andrà tutto…”
Ma arrivò la contrazione ed Andrew fece appena in tempo a girarsi verso il medico per vederlo compiere quella tremenda manovra. L’urlo straziante di Ellie fu quello di una persona squartata viva.
 
“Anche il cordone attorno al collo… dannazione! Ecco di nuovo l’emorragia: forza, signora, mi passi altri asciugamani! Dobbiamo agire in fretta.”
La voce del medico sembrava giungere da molto lontano, così come quella di sua madre.
Andrew però non ci faceva nemmeno caso: fissava stordito quella cosina cianotica che era stata deposta in tutta fretta sul letto. Man mano che sbatteva gli occhi per cacciare via le lacrime, riuscì a distinguere dei tratti umani: braccia, gambe, testa, sebbene raggomitolati e… imprigionati.
“Il bambino – chiamò – dottore… il piccolo.”
“Lo so, dannazione! – sbottò il medico – Signora, continui a premere qui… devo pensare al cordone.”
Recuperò un paio di forbici e cercò di trovare un punto dove tagliare: alla fine fu costretto a far passare un dito tra il cordone ed il collo del bambino prima di poter recidere quella cosa che lo stava strangolando. Libero da quell’ingombro il piccolo parve in parte svolgersi da quella posa appallottolata che aveva assunto.
“E’ un maschio – disse il medico, avvolgendolo in un asciugamano e frizionandogli la schiena con forza – il peggior podalico della mia vita…”
Andrew continuava a fissarlo stordito: perché lo stava massaggiando in modo così brutale? Ma poi ci fu un minuscolo colpo di tosse e dalla bocca del piccolo uscì del liquido.
“E’ vivo? – osò pronunciare quella parola che fino a poco prima gli sembrava impossibile – il piccolo è vivo?”
“Per i prossimi minuti – sospirò il medico, passando, questa volta con estrema delicatezza, un lembo dell’asciugamano sul volto sporco di sangue del neonato – sono sorpreso che sia nato vivo, lo ammetto. Non credo di aver mai visto un neonato così piccolo in vita mia.”
“Kain…” mormorò Andrew, posando delicatamente Ellie semisvenuta sui cuscini e lasciandola alle cure della madre. Con meraviglia si accostò a quel cosino minuscolo che, impercettibilmente, si muoveva. Il medico si fece da parte e lasciò che fosse lui a finire di pulire quella testolina così perfetta, nonostante la prematurità
Sei qui… sei qui, figlio mio… Kain…
“Mamma – mormorò, alzando lo sguardo sulla donna – è… è nato…”
“Lo so, Andy – sorrise lei con tristezza – è bellissimo.”
“Bene… benissimo! – il medico li fece riscuotere da quel momento – Il sangue si sta fermando. Oserei dire che l’abbiamo recuperata.”
“Cielo, grazie – Anna scoppiò a piangere, andando a baciare la fronte pallida di Ellie, ancora mezzo incosciente – la mia piccola… la mia bambina è salva!”
Quel gesto fece gemere la puerpera che riuscì ad aprire gli occhi.
“Kain…” chiamò.
A quel richiamo flebile, Andrew si fece forza e sollevò il piccolo tra le sue braccia. Lo sapeva bene, forse sarebbe morto nei prossimi minuti… e forse era una crudeltà bella e buona quella che stava facendo: sarebbe stato molto più pietoso evitare ad Ellie di soffrire anche quello.
No… non è vero. Ha tutto il diritto di tenerlo stretto sino alla fine.
“Eccolo, amore mio – mormorò posandole il bimbo ancora avvolto nell’asciugamano sul petto – è con te, va tutto bene…”
Odore di sangue, sudore… di morte sfiorata ed ancora incombente. Andrew si sentiva nauseato da quanto aveva appena vissuto, da quanto probabilmente sarebbe accaduto nelle prossime ore. Ed Ellie era accanto a lui che con mano debole e tremante sfiorava quel corpicino che di segni di vita ne dava davvero pochi. Non c’era il sorriso estatico che aveva visto in Laura, non c’era quell’assoluta felicità che invece dovrebbe sempre esserci per la nascita di un piccolo.
C’era solo Ellie che accarezzava Kain e sicuramente si chiedeva perché non l’aveva nemmeno sentito piangere.
 
“Sei così piccolo, pulcino… tanto piccolo…”
Circa un’ora dopo Ellie continuava a ripeterlo, quasi fosse una ninnananna, mentre con l’indice accarezzava il braccio di suo figlio. Era finalmente arrivato da lei, così minuscolo e tuttavia così perfetto, ma così fragile che sembrava che anche un soffio di vento dovesse portarlo via.
A quel pensiero, la sua mano andò a sistemare meglio la copertina che lo avvolgeva e lo strinse maggiormente al suo petto. Doveva proteggerlo, doveva regalargli tutti gli attimi che poteva.
Amore mio, perdonami, la mamma non ha saputo fare di meglio… stai soffrendo, piccolo? Essere così minuscolo ti procura tanto dolore?
Guardò quella boccuccia semi aperta che respirava piano piano: come poteva una creatura così minuscola trovare tanta forza di volontà?
“La mamma sarà forte per te, pulcino – mormorò – lei e papà ti aiuteranno in tutto e per tutto… Kain, ti prego… ti prego, vivi…”
Una lacrima le scese sulla guancia e se la asciugò rapidamente: non se lo poteva permettere, doveva essere forte. Sapeva benissimo che, fuori da quella stanza, il medico stava parlando con i suoi genitori e con Andrew dicendo loro che il bambino era destinato a morire presto.
Ma non doveva nemmeno nascere vivo!
Lei ed Andrew avrebbero lottato fino all’ultimo, lo sapeva. Non c’era stato bisogno di dirselo: era bastato l’abbraccio carico d’amore con il quale avevano avvolto Kain nemmeno venti minuti prima. Era il loro bambino tanto voluto e cosa importava se era nato a soli sette mesi?
Bussarono alla porta e lei si irrigidì leggermente sui cuscini, ma come vide suo padre entrare si rilassò.
“Ciao, puledrina – sorrise Nicholas sedendosi nel letto accanto a lei – ci avete fatto passare una pessima giornata tu e il bambino, eh? Ma tu sei una Lyod, sapevo che non mi avresti deluso.”
“Oh, papà – riuscì a sorridere, rendendosi conto che comunque lei era viva e che dunque avrebbe continuato a vedere le persone che amava – ti voglio tantissimo bene!”
“Anche io, signorina – la baciò in fronte – e vedrai che andrà tutto per il meglio. Non dare retta a quello che si dice sui bambini nati così presto.”
“E’ così minuscolo…” ammise Ellie, facendogli vedere Kain per la prima volta.
“Dannazione è davvero minuscolo e rachitico – borbottò l’uomo – e lo sai perché? Perché quello smidollato di tuo marito al posto del sangue ha acqua saponata, l’ho sempre detto. Tze! Doveva far fare di più al sangue Lyod, stupido idiota!”
“Papà… e dai – sorrise la giovane, baciando il piccolo sulla fronte – è il tuo nipotino…”
“E vedrai che sopravvive: nonostante tutto ha anche il sangue Lyod nelle vene e vedrai che quello farà la differenza! E quindi si chiama Kain, eh?”
“Sì, Kain Fury, il mio piccolo pulcino…”
E pronunciò quel nome con tutto l’amore infinito che provava per lui, proprio come aveva sempre fatto.
E come avrebbe continuato a fare sempre. 

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Capitolo 33
*** Capitolo 32. 1885. Non cedere. ***


Capitolo XXXII

1885. Non cedere.

 
A svegliare Ellie fu un lieve e lamentoso vagito.
Aprendo gli occhi si accorse con fastidio che la lampada del comodino era stata lasciata accesa e accennò a girarsi per schiacciare l’interruttore. Ma quel movimento le provocò un grande fastidio in tutto il corpo e questo dettaglio, assieme a quel suono, le fece ricordare quanto era successo.
Guardando verso la parte centrale del letto, dove era girata, si accorse che accanto a lei c’era Kain avvolto in una copertina che agitava lievemente la testolina calva. A una ventina di centimetri di distanza, Andrew dormiva profondamente, il viso rivolto verso di lei, sicuramente pronto ad intervenire alla minima chiamata.
Mi sono addormentata per così tanto? – sospirò, mettendosi seduta e prendendo il piccolo tra le braccia – Eppure avevo chiuso gli occhi solo per un paio di minuti.
Ma quei minuti evidentemente erano diventati ore, considerato che ormai doveva essere notte fonda.
Rivolgendo la sua attenzione al bambino si accorse che muoveva la testina in avanti, tentando di prendere in bocca la stoffa della coperta. Aveva sicuramente fame, considerato che era nato da più di dodici ore ed ancora non aveva mangiato.
Istintivamente la donna iniziò a sbottonarsi la camicia da notte, ma quando stava per accostarsi il figlio al seno esitò.
Posso allattarlo? – si chiese con un tremendo senso di dubbio – e se il suo corpo non è in grado di assimilare il latte? Forse rischio di soffocarlo… di ucciderlo. Ma non posso farlo morire di fame.
“Kain – mormorò, sentendo che comunque il suo seno pulsava leggermente in risposta a quei richiami, segno che la montata a latte era arrivata nonostante il parto al settimo mese – piano piano, va bene?”
Non sapendo come fare provò ad accostarlo al seno, ma era chiaro che non riusciva ad attaccarsi da solo. Con esitazione provò ad aprirgli meglio la bocca per infilarvi il capezzolo, sperando di non rendergli impossibile una respirazione già difficile. Come vide che cercava debolmente di tirarsi indietro lo aiutò a liberarsi da quella presa soffocante e lo sentì tossire.
“No… no, no – ansimò – amore, non così. Aspetta, riproviamo, piano piano… adagio.”
Ritentò quella manovra stavolta tenendo le dita vicino alla bocca del bambino in modo da aiutarlo in quella difficile presa. Rimase ferma per una decina di secondi, trattenendo il fiato, ma poi sentì un lieve senso di fastidio al seno e si accorse che stava mangiando. Lentamente, con molta difficoltà, ma stava prendendo il latte.
“Cielo… cielo, grazie – singhiozzò, cercando di tenere quella posizione, quasi il minimo cambiamento potesse rompere quel miracolo – mangia, amore mio, mangia che ne hai tanto bisogno. Devi crescere, pulcino, tanto…”
Lo osservò con amore, constatando come la testolina riprendesse in parte la curva del suo seno. Non era ancora riuscito ad aprire gli occhi, anche se era sicura che ci avesse tentato diverse volte; per il resto il viso non presentava anomalie: i lineamenti, il nasino, le orecchie, erano perfetti nonostante in miniatura. Ma era così rachitico e debole, lo sapeva bene: la copertina nascondeva un corpicino davvero pietoso e la sua paura più grande era che gli organi interni non si fossero del tutto sviluppati.
Del resto non era quello che aveva detto il medico?
Con un sospiro si girò a guardare suo marito che dormiva, sicuramente esausto dopo quella giornata così difficile per tutti loro. Andrew non poteva immaginare che lei aveva sentito tutto quanto, mentre credevano che dormisse, ma era stato preferibile sapere subito come stavano le cose, piuttosto che vivere nell’ignoranza e nell’illusione.
Kain ebbe un sussulto e mosse la testolina. Ellie interpretò quel gesto come l’aver mangiato abbastanza e lo aiutò a staccarsi, notando come muovesse leggermente le labbra quasi tenesse ancora il capezzolo.
“Mangiato, amore? – sorrise – Eri affamato, vero? Adesso vuoi restare in braccio alla mamma finché non ti riaddormenti?”
Lo avvolse meglio nella copertina, provvedendo a proteggere anche la testolina: doveva fare di tutto per tenere al sicuro quel bambino, l’unico figlio che le era stato concesso. Perché era questa la dura realtà che non le avevano ancora voluto dire: non sarebbe stata più in grado di portare avanti una gravidanza.
Le parole del medico risuonarono impietose nella sua mente.
“… forse sarà ancora in grado di concepire, ma il suo grembo non riuscirebbe a tenere un piccolo. Abortirebbe nell’arco dei primi due mesi.”
E lei che si era sempre immaginata madre di tanti bambini. Quante volte aveva fantasticato sui nomi da dare loro, sulle sue speranze che assomigliassero sia a lei che ad Andrew… che magari qualcuno diventasse scrittore, un altro ingegnere, un altro ancora notaio. Ma di fronte alla nuova realtà sembravano soltanto le sciocche fantasie di una bambina, proprio come le favole che aveva inventato fino a due anni prima. Il suo corpo era provato e ci avrebbe impiegato mesi prima di riprendersi del tutto, ma era ormai segnato in maniera indelebile.
“… e Kain?”
“Sono sorpreso che sia ancora vivo, lo ammetto. Però non è il caso di illudervi… se non di ore è probabilmente questione di giorni. E forse è un bene: nascendo così prematuro chissà che problemi si porterebbe dietro, non solo fisici…”
Questa parte del discorso le fece serrare gli occhi per la rabbia ed il dolore.
Nessuno dava speranze a Kain, probabilmente ritenevano che sarebbe morto durante la notte.
I loro genitori erano tutti venuti a vederlo e le avevano sorriso, dicendo che era bellissimo. Ma era solo un gesto pietoso, quasi a nascondere la situazione drammatica che si stava vivendo. Una sorta di macabra recita per illuderla e non farla disperare troppo.
“Non devi pensare alle cose che hanno detto, Kain – sussurrò, rivolta al bambino – mamma e papà ti ameranno sempre, comunque vadano le cose. Non devi aver paura di crescere e diventare grande: noi ti saremo sempre accanto.”
Nel frattempo Kain si era riaddormentato, evidentemente quel breve pasto era stato davvero faticoso.
Se solo ti avessi tenuto dentro il mio grembo per un’altra settimana almeno… dentro il mio grembo, al sicuro, protetto…
 
Quando Andrew aprì gli occhi, qualche ora dopo, svegliato dal suono degli uccellini fuori dalla finestra, per un attimo pensò di doversi andare a preparare per andare al cantiere. Ma poi vide Ellie che dormiva accanto a lui e realizzò che c’era qualcosa di diverso dalle sue solite mattinate.
Ah, già!
Immediatamente si sollevò a sedere e si protese per sfiorare la fronte della moglie, sospirando di sollievo quando la sentì piacevolmente tiepida. Nessuna febbre post parto era venuta a tormentarla e questo era un segno più che positivo.
Dannazione a me, meno male che mi ero ripromesso di controllarla per tutta la notte…
Ma era stata una giornata così spossante che era stato oggettivamente impossibile chiedere al suo corpo uno sforzo simile: si era addormentato non appena aveva posato la testa sul cuscino e probabilmente non l’avrebbero svegliato nemmeno delle cannonate.
Si soffermò a guardare Ellie, sdraiata di fianco, rivolta verso il centro del letto: era ancora pallida ed il viso recava i segni della tremenda esperienza che aveva passato; tuttavia aveva un’aria più rilassata e la morbida treccia scura le cadeva sul petto.
Vedendola dormire così serena gli procurò un immenso sollievo, tanto che dovette trattenere nuove lacrime di gioia: la sua tremenda paura di perderla era stata finalmente scacciata via. Sarebbe tornata sana e vitale, l’avrebbe di nuovo accolto con il suo dolce sorriso ogni volta che tornava a casa, l’avrebbe potuta abbracciare senza rischiare di farle male, senza chiedersi se poteva essere l’ultimo gesto d’amore o meno.
Passandosi la mano sugli occhi per eliminare quelle prime lacrime, abbassò lo sguardo e si accorse che il fagottino che avvolgeva il bambino era sparito. Per un attimo rimase incredulo davanti a quella scoperta, ma poi il panico si impossessò di lui: possibile che durante la notte fosse caduto o l’avessero in qualche modo schiacciato?
Oh no! Dove…? Dove è finito?
Scostò con gentilezza la coperta dalla figura di Ellie, l’ultima cosa che voleva era che la donna si svegliasse ed entrasse nel panico per…
Oh cielo, ma come lo sta tenendo?
Rimase sbigottito: Kain era ancora avvolto nella sua copertina ed era posato sul ventre di Ellie, la quale aveva assunto una posizione rannicchiata, molto simile a quella fetale. Era come se la donna stesse cercando di simulare l’averlo ancora in grembo, come se quella posizione potesse aiutare il bambino a svilupparsi con maggiore facilità. O almeno era questo ciò che chiaramente Ellie aveva avuto l’intenzione di fare.
Con esitazione Andrew allungò la mano e la posò su quel fagottino, cercando di coglierne il minimo movimento. Tuttavia, dopo dieci secondi si accorse che non accadeva nulla, nessuna percezione di respiro o altro.
“No – balbettò, accostandosi di più alla moglie e scoprendo in parte il bambino – no… ti prego…”
Ma del resto il dottore non gli aveva detto che poteva succedere da un momento all’altro? Che era quasi da sciocchi attaccarsi a quei deboli respiri che erano destinati a terminare nell’arco di pochi giorni?
Le lacrime uscirono senza parere quando tastò la carotide del bimbo e non colse alcun segno di vita.
Era finita: nemmeno un giorno intero era sopravvissuto quel povero bimbo.
Si sentì invadere da un’enorme tristezza: era stato il più spietato egoista del mondo… gli era importato solo che Ellie fosse viva e che stesse bene. Solo dopo si era preoccupato del bambino: davvero uno splendido esempio di padre. Con che coraggio insultava Gregor se poi lui stesso assumeva atteggiamenti così innaturali?
Innaturale come quello che stava per fare, ma questo gliel’aveva detto il medico.
“Andrew…? – Ellie si svegliò, probabilmente disturbata dai suoi singhiozzi – And… che succede?”
“Mi dispiace – ammise lui – non… non respira… non… Ellie, mi dispiace tanto…”
La vide impallidire, ma prima che potesse fare qualcosa afferrò il corpicino di Kain. Doveva impedire che Ellie lo stringesse a se, che diventasse un macabro feticcio a cui attaccarsi: nelle condizioni emotive in cui si trovava, sua moglie poteva fare anche questo.
Come quando una femmina di animale impedisce di avvicinarsi al proprio cucciolo morto…
“Che fai? – chiese lei con voce impanicata – No… Andrew, no! Dammelo!”
“Ellie, non…” purtroppo non fu così rapido e lei riuscì ad afferrare il bimbo per il piccolo busto.
“Lascia stare mio figlio!
Gridò con disperazione ed in quel momento entrambi diedero un lieve strattone a quel fagottino.
Un vagito di protesta si scatenò, tremendamente vivo.
Fu una scoperta così destabilizzante che Andrew mollò la presa. Ellie invece fu rapida a consolidare la sua e dopo due secondi teneva Kain piangente stretto al suo petto.
“Amore – singhiozzò con disperazione – non aver paura, ti prego. La mamma è qui, va tutto bene… va tutto bene.”
“Ti giuro che – Andrew ansimò, cercando di spiegare – lui… sembrava non respirasse. Ti giuro… Ellie… Ellie sono…”
“Non è morto! – gridò lei, fissandolo carica di cieca rabbia come mai era successo – Credevo… credevo che tu fossi diverso da tutti gli altri! Che avessi fiducia in lui!”
“Anima mia – cercò di accostarsi, con esitazione – ti giuro che non volevo…”
“Lasciatemi in pace! – singhiozzò Ellie, dandogli le spalle e nascondendo Kain alla sua vista – Lasciate me e il mio piccolo da soli… pensate tutti che morirà! Non volete… non volete dargli la minima possibilità!”
Andrew provò ad abbracciarla, ma lei si scostò in maniera così violenta che lo lasciò interdetto.
Si sedette dalla sua parte del letto e rimase a fissare la schiena della moglie, mentre il pianto di Kain piano piano si affievoliva fino a ridursi a lievi lamenti, subito chetati dalla voce materna. Era come se potesse vedere una nuova e tremenda barriera che si era creata tra lui ed Ellie, un muro praticamente invalicabile sorto dopo quel gesto così sconsiderato, ma che forse aveva dei germi sin da quando c’era stato quel primo mancato aborto al quinto mese.
Ellie aveva sempre e comunque anteposto la vita del bambino alla sua: nonostante la paura ed il dolore era pronta a morire pur di dargli la minima possibilità di sopravvivere. Ma lui? Per quanto ci tenesse a Kain e desiderasse sinceramente che vivesse, aveva messo la vita di Ellie al primo posto.
Nel cuore della notte diverse volte si era detto che se non sarebbe stato quella volta, ci sarebbero state altre possibilità di avere figli… come se il piccolo non fosse già dentro il grembo di Ellie.
Non ho fiducia in lui? Non… ho creduto che fosse morto e la prima cosa che ho cercato di fare è stata portarlo via dalla madre. Io… io sono un mostro.
“Scusami…” mormorò un’ultima volta, alzandosi dal letto e andando via da quella stanza.
Non poteva affrontare Ellie dopo che si era comportato così.
 
Passarono due giorni e Kain continuava a vivere, sebbene alternasse momenti sereni ad altri in cui faceva qualche difficoltà a respirare: con sommo sollievo di Ellie anche le normali funzioni fisiologiche avevano iniziato a presentarsi e questo faceva ben sperare che la maggior parte degli organi fosse comunque sviluppata del tutto. Il medico veniva una volta al giorno e le assicurava che la sua convalescenza procedeva per il meglio, tuttavia non si soffermava mai troppo a parlare di Kain: lo controllava minuziosamente, diceva che per il momento tutto andava bene, ma non osava aggiungere altro. Come tutti gli altri non voleva darle delle false speranze, un atteggiamento che ormai Ellie si lasciava scivolare alle spalle.
Quello che le importava era che Kain continuasse a prendere il latte, a dormire, a piangere, a fare tutti quei piccoli e miracolosi gesti tipici di un neonato. Per il resto ci avrebbe pensato lei: forse l’idea di problemi legati alla prematurità spaventava gli altri, ma per lei che Kain da grande sapesse parlare o meno, fosse intelligente o no, non le creava nessun angoscia. L’avrebbe accettato per quello che era, amandolo alla follia in qualsiasi sua peculiarità. Lei era l’unica che poteva farlo.
Per tutto quel tempo Andrew stette veramente poco con lei: non appena arrivavano sua madre o quella di Ellie si ritirava nel suo studio e ne usciva solo quando era il momento di andare a dormire. Anche allora riduceva al minimo le parole con la moglie: le chiedeva se andava tutto bene, se aveva bisogno di qualcosa e la pregava di svegliarlo per la minima esigenza. Educato, gentile, pronto a compiere il suo dovere alla perfezione, proprio come ci si aspettava da Andrew Fury… eppure non osava guardarla negli occhi.
Ellie dal canto suo non cercò di spezzare quella barriera che si era creata tra di loro: a dire il vero la vedeva come una protezione per lei ed il bambino. Il gesto di Andrew l’aveva profondamente sconvolta e per la prima volta vedeva il marito non come un sostegno ma come una minaccia, sebbene capisse che non c’era stata nessuna cattiva intenzione in quanto aveva cercato di fare.
Ma la consapevolezza che non aveva dato fiducia a Kain la faceva impazzire.
Nelle prime ore successive al parto se c’era una persona a cui si era affidata era lui, certa che il suo amore per il loro bambino non era per niente differente rispetto al suo. Andrew le era parso l’unico scudo contro tutto il resto del mondo che non dava speranze al piccolo, l’unico che l’avrebbe amato e protetto proprio come faceva lei. Ed invece…
 
La terza notte Ellie si svegliò per il pianto del bambino che richiedeva di mangiare e di essere cambiato.
Con un sospiro si mise a sedere e poi lo prese in braccio, pronta ad andare verso la piccola cesta che fungeva da fasciatoio. Solo quando si fu alzata si accorse che Andrew non era nella sua metà del letto.
Eppure la notte è sempre qui – si disse, mentre si sedeva su una sedia accanto alla cesta e provvedeva a cambiare il piccolo con qualche difficoltà. Con quel corpicino così minuto era complicato fare in modo che il pannolino si adattasse in maniera decente. Così come era un po’ complicato evitare che nuotasse nella tutina che lo avvolgeva: lei e sua madre gli avevano in tutta fretta modificato alcuni indumenti, ma a quanto sembrava ancora non bastava.
“Fame, pulcino?” chiese con tenerezza, accostandoselo al seno e aiutandolo a trovare la presa.
Mangiava veramente poco, evidentemente non riusciva ad assimilare più di tanto ed ogni volta lei lo doveva aiutare perché la presa sul capezzolo non lo soffocasse. Come sempre, durante quei minuti, Ellie si soffermò ad osservarlo con immenso amore, riuscendo a trovare dei piccoli miglioramenti, come la pelle più rosea, la manina che faceva movimenti più decisi o cose simili.
Però non ha ancora aperto gli occhi… mai del tutto…
I tentativi erano continuati per tutto quel tempo, ma le palpebre si sollevavano di pochissimo ogni volta, come se non avesse le energie sufficienti per compiere un gesto così semplice. Questo aveva instillato in Ellie la paura che fosse cieco o che avesse qualche serio problema alla vista, ma non osava parlarne con nessuno, così come non osava sfiorare quella parte del piccolo. Francamente, anche se lei era pronta ad amare Kain con qualsiasi difetto fisico, era terrorizzata dall’idea di scoprire che il primo fosse proprio su un senso così importante come quello della vista.
“La mamma ti amerà in ogni caso, Kain – disse con ansia, mentre aiutava il bimbo a staccarsi dal seno e gli puliva la boccuccia con un fazzolettino – non devi aver paura… non devi…”
Ma spesso le paure si fanno sentire maggiormente di notte, specie se si è soli nella propria camera e manca quella persona dall’altra parte del letto. Ellie avvertì l’improvvisa esigenza di posare la propria testa sulla spalla di Andrew, sentire le sue braccia che l’avvolgevano… sentire che, anche non la faceva passare, almeno condivideva la paura assieme a lei.
Non si rese nemmeno conto che si era alzata dalla sedia, con il bimbo tra le braccia, e si era avviata verso la porta.
Era la prima volta che Kain usciva dalla camera da letto e per qualche secondo si chiese se questo cambiamento gli avrebbe fatto male. Ma scosse il capo, limitandosi a stringerselo meglio al petto: questa era la sua casa, non poteva fargli del male.
“Andiamo da papà…” mormorò dolcemente, notando come fosse leggermente agitato per tutto quel movimento che sentiva attorno a se.
Arrivata alle scale sospirò e si apprestò a scendere il primo gradino: certo, ormai riusciva a camminare fino al bagno quasi senza aiuto, ma fare le scale sarebbe stata una fatica ben maggiore. Ma proprio quando stava per allungare il piede nudo, notò una leggera luce che filtrava dalla prima camera subito dopo le scale.
La camera di Kain?
Si avvicinò perplessa, constatando che la luce era accesa e che dunque Andrew doveva essere là dentro.
Consolidando la presa sul piccolo, posò una mano sulla maniglia, scoprendo che le provocava una certa apprensione entrare in quel posto: era da giugno che non ci metteva piede. Come sarebbe stato entrare in quella camera che lei ed Andrew avevano iniziato a preparare con tanto amore, mettendoci tutti i loro infantili sogni di coppia felice che ancora non aveva capito niente della vita? Sarebbe stato come aprire uno dei suoi quaderni e scoprire quanto fosse stata ingenua? Sarebbe stato farsi male ancora una volta scoprendo che in realtà quella coppia felice che montava la culla assieme non c’era più?
Abbiamo perso tutto, Andrew?
La mano si abbassò e la porta si aprì con delicatezza, senza il minimo rumore.
Ed Ellie dovette trattenere le lacrime per quello che vide.
Quando aveva avuto la prima crisi a giugno, la cameretta non era nemmeno a metà: solo le pareti dipinte e la culla montata e tutte le altre cose ancora accatastate in delle scatole di cartone accumulate lungo il muro. Adesso invece la camera era perfetta: i mobili erano stati montati, i giochi ed i pupazzi sistemati, persino il fasciatoio era pronto all’uso vicino alla culla.
Ed in tutto questo Andrew era seduto a gambe incrociate per terra, in pigiama e con una coperta sulle spalle, e si destreggiava con un cacciavite per far funzionare un vecchio carillon con dei pulcini di ceramica che lei aveva voluto recuperare da casa quando aveva scoperto di essere incinta.
“… perché quando ero piccola la sua musica mi faceva sempre smettere di piangere, mamma lo racconta spesso. Però è rotto, ma forse riesci ad aggiustarlo, no?”
Una nota un po’ scordata uscì fuori dalla scatola quando il cacciavite toccò un punto sensibile del meccanismo. E a quel suono Kain emise un verso sorpreso che fece girare Andrew.
“Ciao…” lo salutò Ellie.
“Hai bisogno di qualcosa?” chiese lui, abbassando immediatamente lo sguardo sul piccolo giocattolo.
“No – scosse il capo, andando a sedersi nella sedia a dondolo imbottita che in teoria avrebbe dovuto utilizzare ogni volta che avesse allattato il bambino – va tutto bene… e questa stanza quando l’hai terminata?”
“In queste due notti – ammise l’uomo – mi… mi sembrava brutto che fosse stata lasciata a meno di metà.”
Un'altra nota acuta del carillon.
“Proprio non vuole funzionare?” chiese Ellie.
“Non sono molto bravo con questi meccanismi – si giustificò lui, manovrando con leggera goffaggine quel cacciavite – a volte si pensa che gli ingegneri si sappiano destreggiare in tutto, ma non è vero. Questo meccanismo è così piccolo… si ha paura di romperlo in ogni momento.”
Come nostro figlio.
Rimasero in silenzio, il solo rumore del cacciavite tra di loro, assieme a quel muro… quel muro che le loro paure avevano innalzato, dividendoli invece di unirli. E se prima era sembrato una difesa, adesso invece faceva estremamente male.
“Andrew…”
“Mi dispiace, Ellie – sospirò lui, passandosi un bracciò sugli occhi, forse per stanchezza, forse per nascondere delle lacrime – ti ho deluso… ho deluso me stesso. Amo nostro figlio con tutte le mie forze, eppure… eppure non gli ho dato una possibilità. Probabilmente stava solo respirando veramente piano, ma io ho voluto… ho voluto vedere solo quello che temevo. Non è così che si dovrebbe comportare un padre.”
“Ho reagito male pure io, perdonami.”
“Ho… ho una tremenda paura – confessò, chiudendo il portellino del carillon e posandolo per terra – paura che muoia da un momento all’altro, paura che salti fuori che ha qualche grave problema… ho il terrore di non essere all’altezza come genitore per lui. Del resto – permise alle lacrime di scendere libere – del resto… non sono bravo nemmeno ad aggiustare un carillon…”
Come posso aggiustare la sua vita?
A quella dichiarazione, vedendolo così prostrato, Ellie si alzò dalla sedia e, con qualche difficoltà, si andò a sistemare accanto a lui, sempre tenendo Kain tra le braccia.
“… e comunque dovresti essere a letto – istintivamente Andrew si levò la coperta dalle spalle e la usò per avvolgervi la moglie – sta… sta iniziando a rinfrescare.”
“Prendilo.”
Ellie gli porse il bambino, un gesto che non aveva mai fatto con nessuno in quei giorni: si era letteralmente impossessata di suo figlio, impedendo persino ad Andrew di prenderlo in braccio. Come aveva potuto privare suo marito di un simile legame fisico?… e anche Kain.
“No – scosse il capo – ha bisogno di te…”
“Ha bisogno di entrambi – lo corresse – proprio come io ho bisogno di entrambi. Non lasciarci… ti prego, Andrew, non abbandonarci. Non cedere… non ora.”
Gli mise il  bambino tra le braccia quasi a forza, ignorando quella parte di lei che le gridava di non lasciarlo prendere a nessun altro. Se non rinsaldavano il loro legame, se non buttavano giù quell’improvviso muro, sarebbe stato tutto estremamente difficile, forse troppo.
Lo so, è dura, ma dobbiamo ricostruirci da zero… dobbiamo ricostruire la nostra famiglia, Andrew. Ma non possiamo esserci sbagliati così tanto sul nostro amore, non può crollare tutto così: le fondamenta ci sono sempre state, lo sappiamo. E’ solo che… che dobbiamo costruire un qualcosa di diverso, adatto a Kain.
E forse era possibile, perché c’era solo tenerezza nello sguardo che Andrew rivolgeva al neonato. Certo, c’erano tutte le paure che provava anche lei, ma venivano solo dopo quell’amore assoluto che ogni genitore prova nei confronti del proprio figlio.
“E’ così indifeso…” mormorò l’uomo, sfiorando la tempia del neonato.
Ellie si rilassò visibilmente nel sentire quelle parole che promettevano che lui avrebbe fatto di tutto per il bambino. No, lei ed Andrew non si sarebbero lasciati andare, avrebbero lottato con ogni fibra del loro essere per dare ogni possibilità a Kain.
Distrattamente prese il carillon e girò la chiave, sentendo che faceva diversa resistenza. Le prime note furono un po’ scordate e affannose, ma poi la melodia iniziò a risuonare per la stanza, mentre i pulcini di ceramica cominciavano a muoversi delicatamente in cerchio, attorno al fiore giallo.
“Non te la cavi male, ingegnere – riuscì a prenderlo in giro – proprio no… uh, ma che c’è?”
“Sta aprendo gli occhi…” Andrew trattenne quasi il fiato per la meraviglia.
A quelle parole Ellie sentì il cuore smetterle di batterle: con ansia si accostò al bambino e vide che gli occhietti si stavano davvero aprendo. Non i deboli tentativi che si riducevano sempre a poco più di una fessura, questa volta le palpebre si stavano alzando del tutto e nell’arco di tre secondi, due grandi occhi blu cupo iniziarono a fissarli con perplessità.
“Amore – pianse Ellie – amore, ciao… ciao… siamo mamma e papà…” portò dolcemente la mano davanti agli occhi del piccolo e scoppiò in singhiozzi quando scoprì che seguiva i lenti movimenti che faceva. Non era cieco, ci vedeva benissimo.
E lei ed Andrew piansero di gioia abbracciati l’uno all’altro, con il bambino stretto tra loro due, come era giusto che fosse. Perché Kain ci vedeva, mangiava, respirava… da grande avrebbe fatto i più bei miracoli del mondo. Dal loro perfetto figlio non si aspettavano altro.

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Capitolo 34
*** Capitolo 33. 1885. Rinunce. ***


Capitolo XXXIII

1885. Rinunce.

 
 
La mattina del primo dicembre il paese era sempre carico d’eccitazione, addirittura forse più della vigilia di Natale. Tutti si affaccendavano per compiere le ultime commissioni prima della festa di quella sera: i membri del comitato organizzativo sciamavano come api operaie attorno al capannone, la drogheria e la merceria del paese erano invase da madri e figlie che, all’ultimo minuto, avevano trovato delle cose che non andavano nei loro abiti e così via… Insomma camminare per le strade era come essere in un ronzante ed operoso alveare, dove decine e decine di persone correvano per le strade innevate, scambiandosi saluti concitati e affrettati, con la promessa di rivedersi quella sera alla festa.
A Laura era sempre piaciuto quel clima particolare, soprattutto quando pure lei attendeva la festa del primo dicembre con trepidante ansia. Pure lei era stata una rapida e precisa ape che sapeva bene in che negozio andare per trovare quello che le serviva per la festa. A volte aveva coinvolto pure Andrew ed il fratello in quelle sue ore di spese sfrenate e spesso era tornata a casa con i suoi due accompagnatori carichi di pacchi e pacchetti.
Davvero sono stata così spensierata?
Se lo chiese mentre vedeva una ragazzina che correva, incitando quello che chiaramente era suo fratello a sbrigarsi, in una scena praticamente identica a quella che faceva lei alla sua età.
Ma adesso non era più una di quelle api così frenetiche: si dirigeva con calma verso l’ufficio postale, facendo attenzione che Henry, beatamente addormentato nella fascia che portava trasversalmente sul petto, non prendesse freddo. Ci mancava solo che si beccasse pure lui l’influenza come era successo ad Heymans due giorni prima.
“Ciao, Marco, come stai?” salutò, entrando e vedendolo dietro il bancone. Fortunatamente non c’era nessun’altro in quel momento e dunque avrebbe fatto abbastanza in fretta.
“Ciao, Laura – rispose lui con un sorriso imbarazzato, come sempre succedeva – tutto bene, grazie. E tu?”
Si mise a frugare tra le lettere che aveva in un portadocumenti lì accanto, sapendo bene per cosa era venuta: il primo di ogni mese arrivava il sussidio che l’esercito mandava per la famiglia del soldato deceduto in battaglia e siccome era Laura l’intestataria, toccava a lei recuperarlo. Non che la cosa le dispiacesse: Marco era una delle poche persone che le parlasse con relativa tranquillità, sebbene non mancasse mai un certo imbarazzo.
“Heymans ha l’influenza – ammise – la medicina l’ha stordito così tanto che dormirà per le prossime sei ore almeno, poveretto.”
“Uh, se si tratta della maledetta polverina che davano anche a noi da piccoli, mi dispiace per lui.”
“Proprio quella – sospirò Laura, ricordando con disappunto il sapore amaro di quella medicina che a tutti loro era toccata svariate volte durante l’infanzia – capirai il dramma per dargliela due volte al giorno.”
“Ha tutta la mia solidarietà – ridacchiò, porgendole la lettera – ecco qua.”
“Grazie mille.”
“Marco – una voce interruppe la risposta del giovane – che fai?”
Girandosi Laura vide una ragazza carica di pacchetti che stava sulla soglia dell’ufficio e li guardava con aria sospettosa. Facendo mente locale si ricordò che a scuola era forse due classi indietro a loro.
“Papà oggi non sta bene e sto solo io qui – spiegò il giovane – non mi avevi parlato di spedire qualcosa…”
“No, volevo solo sapere se potevi venire con me a fare spese, ma se non c’è tuo padre…”
“Eh già. Però stasera chiudiamo prima. Passo a prenderti a casa o ci vediamo direttamente alla festa?”
“Direttamente alla festa, sai come papà ci tenga alla formalità – un sorriso apparve sul viso della giovane, anche se l’aria leggermente astiosa nei confronti di Laura rimase – dai, a dopo.”
Come furono usciti la rossa squadrò l’amico.
“Betty se non ricordo male…” commentò.
“Già – lui arrossì vistosamente – sai, io e lei ci sposiamo l’anno prossimo, a primavera.”
“Davvero? Non me l’avevi detto – Laura sgranò gli occhi con sorpresa – Congratulazioni!”
“Grazie… è che… non sapevo se dirtelo o meno, insomma sai…”
“Perché abbiamo avuto quella relazione di qualche mese?” lo guardò incredula.
“Anche…” lo disse con estremo imbarazzo, come se se ne vergognasse profondamente. Adesso capiva perché Betty le aveva lanciato quella strana occhiata: non solo lei era la poco di buono del paese, ma aveva anche osato insidiare Marco in tempi non sospetti.
Come se potessi sedurlo perché vado a ritirare la posta! Con un neonato tra le braccia!
La stupidità e la chiusura mentale di quella gente non avrebbe mai smesso di sorprenderla.
Come uscì dall’ufficio postale, tuttavia, si sentì profondamente turbata anche per un altro motivo. E così Marco si sposava: un altro pezzetto di quella piccola parte di persone che le era in qualche modo rimasta amica metteva su famiglia. E pensare che al posto di Betty ci sarebbe potuta essere lei…
Ma che vado a pensare? Con Gregor le cose vanno bene…
Era semplicemente con il resto del paese che le cose andavano male. E se avesse sposato Marco tutto questo non sarebbe successo: sarebbe stata libera di correre pure lei per i negozi per farsi bella per la festa di quella sera. Invece il capannone non l’avrebbe nemmeno visto: a suo marito non andava l’idea che uscisse di casa, se non per le solite commissioni. Se ne era resa conto negli ultimi mesi soprattutto, ma era già iniziato con la nascita di Henry: Gregor aveva una visione di famiglia abbastanza retrograda, forse in modo ancora più marcato rispetto a quella dei suoi genitori. Per lui la moglie doveva solo ed esclusivamente pensare ai figli e alla casa, persino una festa del primo dicembre gli sembrava sconveniente.
Diamine, eppure mi ha incontrato a quella festa!
Il vecchio spirito di ribellione riaffiorò all’improvviso, proprio come succedeva a volte quando litigava con i suoi genitori. Ma poi, al contrario del passato, quel moto di orgoglio si sgonfiò in pochi secondi. Andare alla festa, certo… e per cosa? Per essere ostracizzata anche lì in maniera più evidente? Conoscendo certe persone l’avrebbero potuta anche cacciare via a male parole.
E poi non ho nemmeno tempo per queste cose… ho dei piccoli a cui pensare di cui uno con l’influenza. Quella stupida festa non mi interessa.
Era ormai quasi arrivata vicino alla strada dove stava casa sua, quando all’improvviso si fermò.
Era vero, la festa del primo dicembre non la riguardava e non le interessava. Tuttavia lei era una donna libera e aveva il diritto di fare quello che voleva. Heymans avrebbe dormito ancora per alcune ore e Gregor sarebbe tornato di pomeriggio. Considerato che non era ancora metà mattina poteva permettersi di fare un’eccezione alla sua solita routine quotidiana… come per esempio andare a trovare la sua più cara amica a casa sua.
Del resto ha partorito da quasi tre mesi e ancora non ho visto lei ed Andy… ho potuto solo chiedere notizie al notaio e sua moglie una volta che li ho incontrati per caso. Non posso continuare a rimandare.
Lanciò un’occhiata ad Henry che dormiva della grossa e poi si avviò con decisione verso l’uscita del paese.
 
Ellie si asciugò le mani con il canovaccio e poi si guardò attorno con aria soddisfatta: la cucina era in perfetto ordine ed il pranzo era già nel forno pronto ad essere riscaldato non appena fosse arrivata l’ora.
Stiracchiandosi con un sospiro, sentendo con piacere la spina dorsale che si allungava, si sentì in pace con il mondo e non vedeva l’ora che Andrew tornasse a pranzo per poter chiacchierare un po’ con lui.
Perché era così bello sentirsi viva ed in forma dopo che aveva passato così tanto tempo a letto. Era già da una quindicina di giorni che era tornata a pieno regime, ma sentiva come il bisogno di recuperare il tempo perduto: non c’era angolo della casa che non avesse ripulito da cima a fondo, tovaglia che non avesse lavato, camera che non avesse arieggiato. Era come se avesse voluto liberare definitivamente la casa dall’aura di morte e dolore che l’aveva fatta da padrone per così tanto tempo.
Il vagito proveniente dalla cesta la fece sorridere, gli occhi che si illuminavano di tenerezza, e subito si accostò al figlioletto.
“Lo so, pulcino, è ora della pappa per te – lo prese tra le braccia e si accomodò su una sedia, sbottonandosi la parte superiore dell’abito – adesso ci pensa la mamma.”
Kain si attaccò al seno con sicurezza ed iniziò a mangiare con sano appetito.
Finalmente le sue condizioni fisiche parevano essersi stabilizzate ed era da circa una settimana che non aveva avuto nessun problema. Ellie sapeva bene che era solo un periodo di tregua per il suo fragile bambino, ma non per questo si scoraggiava: Kain era sopravvissuto nonostante tutto, dimostrando di possedere una grande forza di volontà. Ciò che dovevano fare lei ed Andrew era di stargli accanto ed aiutarlo il più possibile.
Del resto era già migliorato tantissimo: quando era nato assomigliava paurosamente ad un uccellino spiumato, di quelli che qualche volta si trovano caduti dal nido, così sproporzionato e rachitico. Ma dopo quasi tre mesi le sue dimensioni erano raddoppiate e adesso era grande come un bambino di circa quattro settimane. Certo, questa differenza tra età effettiva e aspetto fisico indicava che c’erano ancora dei problemi, ma l’istinto materno diceva ad Ellie che semplicemente Kain aveva i suoi tempi e le sue modalità di crescita.
In quel momento il piccolo la guardava con placidità mentre continuava a prendere il latte. I suoi occhi erano sempre blu cupo, ma Ellie già sapeva che sarebbero diventati neri come i suoi. Sua madre infatti aveva notato che erano del medesimo colore di quando lei era neonata. E a conferma c’erano anche i capelli scuri e folti che da circa un mesetto erano comparsi sulla testa del bambino. Probabilmente come colori le sarebbe somigliato parecchio, ma Ellie ancora sperava che prendesse i lineamenti di Andrew.
“Non vuoi somigliare al tuo papà, pulcino? – gli chiese accarezzandogli la chioma corvina – Oh sì che vuoi, vero? Che il tuo papà è il più bello del mondo… e speriamo che torni presto per il pranzo.”
E già: ora che era tornata nel pieno delle forze era riuscita a convincere Andrew a tornare a lavorare ai suoi cantieri. Tuttavia, nonostante fosse sicura di aver fatto la scelta giusta, non poteva fare a meno di sentirne la mancanza, un effetto collaterale dell’essere stati assieme ventiquattro ore su ventiquattro per così tanto tempo. Era più che giusto che ciascuno riprendesse la sua indipendenza, lo capiva dallo sguardo soddisfatto che vedeva negli occhi del marito quando tornava a casa. Stare lontano dai suoi progetti gli era pesato davvero tanto, ma per moglie e figlio avrebbe fatto questo sacrificio e tanti altri.
Questo perché, dopo quel momento di tremenda crisi subito dopo la nascita del piccolo, lei ed Andrew si erano completamente reinventati come coppia e come famiglia: il loro obbiettivo primario era di far sopravvivere il loro bambino, circondarlo di tutto l’amore possibile, e questo aveva dato il via ad una nuova e affiatata collaborazione che, a conti fatti, stava dando ottimi frutti.
Con un verso soddisfatto, Kain mollò la presa sul seno e chiuse gli occhi, chiaramente intenzionato a riprendere il sonnellino interrotto. Ellie non ebbe nemmeno necessità di cantargli qualcosa che era già addormentato e dunque si limitò a rimetterlo nella cesta e coprirlo con premura.
“Ehilà, Ellie?” un richiamo che spezzò la quiete di quella mattinata la fece voltare verso la porta che dava sul cortile del retro. Con aria interrogativa andò ad aprire e rimase di stucco quando trovò Laura sorrideva.
“Laura! – esclamò con gioia, correndole incontro – che gioia rivederti!”
“Piano! – la bloccò lei quando tentò di abbracciarla – c’è lui da non schiacciare.”
“Oh! Ma che splendore! Accidenti, non possiamo stare qui in mezzo alla neve: forza, entra! Ti preparo subito qualcosa di caldo!”
Se c’era una cosa che ad Ellie era sempre dispiaciuta era di non aver mai potuto avere Laura come ospite a casa. Nel corso del suo primo anno di matrimonio diverse sue compagne erano venute a trovarla, prima fra tutte Annabell, ma niente era paragonabile a quella visita così tanto attesa.
Come la rossa si liberò del cappotto ed Henry venne sistemato nella cesta accanto a Kain, Ellie si buttò finalmente tra le sue braccia, riuscendo a stento a trattenere le lacrime. E per Laura fu del tutto naturale ricambiare quella stretta con il medesimo ardore: sapeva bene quanto aveva rischiato la sua giovane amica e niente le era dispiaciuto di più che starle così distante proprio quando avrebbe avuto bisogno di lei.
“Piccola amica mia – sospirò infine, baciandola sulla fronte – fatti vedere… sei così bella. Ma allora tutto quello che mi hanno raccontato erano bugie.”
“Magari lo fossero state – Ellie scosse il capo, rifiutandosi di smettere il contatto fisico con quella sorella maggiore di cui aveva sentito tanto la mancanza – ora mi vedi in forma, ma ti assicuro che ancora un mese fa ero uno spettacolo tremendo. Ma ora sto benone, te lo giuro!”
“Questa è una grande notizia e sono sicura che anche il tuo bimbo sta bene.”
“Anche lui dovevi vederlo prima – la bruna questa volta si staccò da lei e andò davanti alla cesta – santo cielo che differenza… mi pare incredibile che ci siano solo sei mesi di stacco tra di loro.”
Effettivamente vedere i due bimbi così vicini faceva impressione: Henry era praticamente il doppio di Kain e nell’arco di quei pochi minuti aveva monopolizzato la cesta costringendo il più piccolo nell’angolino. Laura fece per riprendere in braccio il figlio, ma Ellie la tranquillizzò con un gesto.
“No, a Kain piace raggomitolarsi così: lo fa molto spesso. Henry non gli dà nessun fastidio… oh, ma quanto è bello: ha i tuoi colori, si vede. E invece il mio leoncino come sta? Avrei tanto voluto vederlo.”
“Di pessimo umore perché è influenzato. Ma l’ho lasciato che dormiva della grossa e se tanto mi da tanto non si sveglierà prima dell’ora di pranzo: potenza della medicina. Ma suvvia, ne abbiamo di cose da raccontarci, non credi?”
Fu strano potersi parlare per la prima volta da madri: era come se fossero incredule che ci fossero così tante paure e dubbi in comune. E soprattutto per Laura era un grande sollievo perché a lei questo confronto era mancato sin da principio, mentre Ellie aveva avuto accanto la propria madre, ed inoltre, nonostante avesse già avuto parecchia esperienza con Heymans, con Henry era stato in parte ricominciare tutto daccapo.
Tuttavia, nonostante questa nuova evoluzione del loro rapporto, Laura non poté far a meno di notare come Ellie manteneva parte di quella freschezza e spontaneità che erano state tipiche di lei sin da quando la conosceva. Era come se la maternità avesse aggiunto solo un briciolo di esperienza nel suo sguardo, senza però andare ad intaccare quell’aspetto innocente e sognatrice che ben conosceva, quello per il quale Andrew era letteralmente capitolato.
“Ovviamente quest’anno la festa del primo dicembre la salti, vero?” chiese infine.
“E come potrei andare con il mio pulcino? – sorrise Ellie, per niente dispiaciuta di quella scelta – Sarà la prima volta che non ci vado, sarà davvero strano adesso che ci penso. Ma pazienza, ci andrò quando Kain sarà un po’ più grandicello.”
“Piangeranno tutti la vostra assenza, mi sa: niente rende il paese più fiero di vedere la sua coppia di sposini preferita ballare.”
“Ci pensano i miei genitori a rendere onore alle danze – rise Ellie con gusto – mio padre ne va assai fiero: dice sempre che tutti dovrebbero imparare da lui e la mamma. Però ammetto che mi dispiacerà non poter ballare con Andrew. Ma comunque, a parte questo, ho già chiesto a mia madre di raccontarmi tutti i pettegolezzi della festa e di chi ballerà con chi.”
“Ti ricordi di Marco?” chiese Laura con noncuranza.
“Sì, certamente – annuì l’altra inarcando un sopracciglio – non potrò mai dimenticare il mio postino dell’amore… sai gli avevo dato questo soprannome quando Andrew era all’università e ci scambiavamo tutte quelle lettere. All’epoca ti vedevi spesso con lui…” lo disse con aria maliziosa, proprio come una ragazzina che spettegola con l’amica dei primi imbarazzanti amori.
E Laura in quel momento ripensò con nostalgia a quel prato dove si era in parte concessa al giovane. Se fosse andata fino in fondo con lui… se Heymans fosse stato suo figlio… Sarebbe stato perfetto: certo, matrimonio chiacchierato, ma nell’arco di un paio di mesi sarebbe stata di nuovo accettata dal paese. L’unico commento che ci sarebbe sempre stato, e con il sorriso sulle labbra, avrebbe fatto riferimento alla classica impazienza giovanile. E lei e Marco sarebbero stati felici, ne era certa: sarebbero andati assieme alla festa del primo dicembre con i loro figli, lei sarebbe uscita tranquillamente per andare a trovare Ellie ed Andrew, anzi diverse volte sarebbero stati ospiti gli uni a casa degli altri e…
“… che mi volevi dire di Marco?” la voce incuriosita di Ellie la riportò alla realtà.
“L’anno prossimo si sposa. Betty, hai presente?”
“Betty? Ah sì! Era due classi avanti a me… non lo sapevo! E… uhm, come l’hai presa?”
“In che senso?”
“Beh, è stato il tuo fidanzato per qualche mese, no? Immagino che un po’ ti dispiaccia…”
Laura sospirò… ecco Ellie, con le sue domande ed osservazioni tremendamente ingenue e sincere. Ma forse era stata lei stessa a voler sentire quella domanda: come si sentiva a quella notizia?
Come vedere che ho perso l’ennesimo treno… ma in cuor mio sapevo che era già partito da molto tempo, non so nemmeno perché ancora ci pensassi.
“Fa strano, lo ammetto – scrollò le spalle – ma gli auguro davvero tutta la felicità del mondo. E’ un caro ragazzo e sono sicuro che avrà una bellissima famiglia con Betty.”
“Laura… mi dispiace, forse non dovevo chiedertelo…”
“Ma no! Che dici? – si alzò in piedi e le mise le mani sulle spalle – ho due bellissimi bambini tutti miei, le cose non le cambierei mai e poi mai. E, a proposito di bambini, è meglio che vada: il mio patatone si sveglierà tra poco e voglio controllare come sta.”
“Giusto! – Ellie si alzò assieme a lei e la osservò rimettersi il cappotto e la sciarpa – Mi ha fatto tanto piacere vederti! Mi dispiace solo che non ci sia anche Andrew, ma gli dirò che sei passata.”
“Salutamelo tanto – annuì lei, sistemandosi la fascia di stoffa attorno alla spalla e poi prendendo Henry dalla cesta – e complimenti per il vostro piccolino. Lo sai che mi ricorda molto una foto di Andy da neonato? Gli assomiglierà da grande, anche se occhi e capelli saranno i tuoi.”
“Davvero? – Ellie batté le mani estasiata – Oh che bella notizia! Ci speravo tanto!”
Laura non poté far a meno di sorridere: no, Ellie Lyod non sarebbe mai cambiata.
 
Tutto il buonumore che quella rimpatriata le aveva causato morì di colpo quando entrò in casa e vide Gregor seduto sul divano. L’uomo la fissò con aria di offeso rimprovero, senza nemmeno salutarla, ma l’attenzione di Laura fu subito catturata dal pianto di Heymans al piano di sopra.
“Si è già svegliato?”
“E da una decina di minuti che va avanti così – rispose lui laconico – in questa casa non c’è un attimo di tregua a quanto pare.”
La donna nemmeno rispose a quella critica: posò Henry nella solita cesta che stava nel salotto e poi corse al piano di sopra, nella camera del figlio maggiore.
“Oh no, cucciolo – mormorò, districandolo dalle coperte e prendendolo tra le braccia – ma che c’è? Hai bagnato tutto il letto e sei tutto sudato.”
“Mamma!” pianse Heymans, ovviamente spaventato dalla febbre e dall’averla chiamata senza successo per così tanto tempo. Si aggrappò a lei con forza, nascondendo il viso accaldato sulla sua spalla.
“Tesoro, bruci per la febbre – sospirò la donna sollevandosi ed iniziando a prendere il necessario per cambiarlo – siamo proprio all’apice dell’influenza, eh? Scusami, scusami tanto… la mamma era fuori per fare delle commissioni e pensava che tu avresti dormito ancora per parecchio tempo.”
“Non lasciarmi!” supplicò il bimbo.
“Ma no, amore, quando mai potrei lasciarti? Sei il mio patatone, il mio grosso e grasso pupo spupazzabile… è stato solo un brutto momento, ma adesso passa. Vieni, andiamo in bagno a cambiarci e poi ti metti nel lettone della mamma, va bene?”
Ci volle diverso tempo per riuscire a calmarlo e farlo riaddormentare e per tutta la successiva mezz’ora, mentre lo accudiva, Laura si sentì la peggior madre del mondo per averlo lasciato solo proprio quando era malato e più bisognoso di lei. Sentirlo supplicare di non lasciarlo era un qualcosa che le lacerava il cuore e dovette trattenere le lacrime mentre lo rassicurava che, no, lei non l’avrebbe mai abbandonato.
Fu solo quando si addormentò tra le sue braccia che riuscì a rilassarsi. Ma nel metterlo sotto le coperte si accorse di un importante dettaglio che la fece rabbrividire.
Perché lui era nel divano? Perché non è intervenuto nonostante Heymans piangesse così disperatamente?
Trasse diversi respiri prima di farsi forza e scendere giù ad affrontarlo: sapeva bene di essere nel torto per essere rimasta via di casa così tanto, ma non poteva credere che Gregor avesse lasciato il proprio figlio a lamentarsi per la febbre senza nemmeno intervenire. Poteva capire un’eventuale preferenza per Henry, per tutta una serie di motivazioni che tutto sommato potevano essere una giustificazione. Ma il suo istinto di madre, davanti a quanto era successo, le gridava prepotentemente di proteggere le sue creature.
“Si può sapere dove sei stata? – le chiese Gregor come finì di scendere le scale – Sono tornato da mezz’ora e ti ho aspettato.”
“Ero a fare delle commissioni, tutto qui – rispose lei, omettendo volontariamente la sua visita ad Ellie – perché non sei andato a controllare cosa avesse Heym…”
“Che tipo di commissioni? Non sei tornata con nessuna busta della spesa.”
“Svariate cose tra cui passare all’ufficio postale per ritirare il sussidio dell’esercito.”
Fece volontariamente quel riferimento ad Henry? Poteva darsi… in quel momento era così furente per via di Heymans che gli fece quasi piacere vedere una scintilla della vecchia paura nei suoi occhi.
“Comunque cerca di metterlo a tacere quel marmocchio.”
“Ha l’influenza ed è ovvio che pianga… poteva essere qualcosa di grave, perché non sei andato a controllare, Gregor? Eppure sei tornato prima a casa, l’hai detto tu stesso.”
“Senti, donna – si alzò in piedi e per la prima volta Laura ne ebbe davvero paura. Solo in quel momento si accorse che la sua stazza poteva essere minacciosa – ai mocciosi ci devi pensare tu, mica io. Quando sono a casa vanno tenuti a freno, chiaro?”
“Perché sei tornato prima?” osò chiedere Laura, andando istintivamente alla cesta e prendendo Henry tra le braccia.
“Quel dannato cantiere è finito, capisci? – fece lui, passandosi una mano tra i corti capelli castani – adesso si sposteranno più a nord, come succede sempre. Ma che cosa ne parlo con te che proprio non ne capisci niente. La morale della storia è che sono senza lavoro, ecco perché sono tornato prima a casa scoprendo la tua bella vita.”
“Bella vita!? – scosse il capo incredula – Ti ho già detto che ero…”
“Finiamola qui che è meglio. Lo prepari il pranzo? Ho parecchia fame.”
Fu come se si sgonfiasse mentre si risedeva nel divano. Si capiva che la perdita di quel lavoro lo turbava parecchio… non poteva provvedere più al sostegno economico, ma forse, e soprattutto, non poteva più fuggire quotidianamente dalla realtà del paese e della sua gente. Quel gruppo di operai stranieri adesso partiva e chissà quando sarebbe arrivato il prossimo.
Ma se una piccola parte di Laura capiva tutto questo, dall’altra non poteva perdonare quell’abbandono di Heymans febbricitante. E faceva più comodo dare la colpa a Gregor piuttosto che a lei stessa.
Festa del primo dicembre – sorrise sarcasticamente mentre andava al piano di sopra per mettere Henry nella culla – sono finiti quei tempi, Ellie. Sono finiti i tempi in cui eravamo senza pensieri, sia io che te. Ma almeno tu hai Andrew…
No, voler paragonare la sua vita a quella dell’amica era solo una vigliaccata senza senso.
 
“Anche stasera la mia adorata meraviglia si è superata con la cena – sorrise Andrew, posandosi con soddisfazione allo schienale della sedia – non lo dire mai a mia madre, ma sei riuscita a superarla come cuoca.”
“Lo sai che questa è occasione di ricatto per tutta la tua vita?” scherzò Ellie, alzandosi per sparecchiare.
“Prendilo invece come il miglior complimento che ti potessi fare.”
Ellie ridacchiò mentre Andrew le afferrava al volo un lembo del fiocco che le legava il grembiule e lo tirava con destrezza, sciogliendolo. Tuttavia fece finta di niente e portò i piatti al lavandino, preparandosi a lavarli.
Quella serata era stata davvero perfetta con la cenetta speciale che aveva preparato: in qualche modo aveva voluto festeggiare il primo dicembre e così si era data da fare ai fornelli. Una scusa come un’altra per non sentire la nostalgia della festa.
Anche se non so cosa darei per indossare un vestito nuovo e poter ballare…
La sua mente sognatrice iniziò a suonare una delle melodie che preferiva e chiuse gli occhi mentre si immaginava con un bellissimo abito azzurro mentre ballava stretta a suo marito, proprio come succedeva nei finali delle favole perfette.
“Ehi, sognatrice? – la richiamò Andrew, andandole dietro e stringendola con tenerezza – Credo che il nostro bimbo voglia mangiare, ma ci puoi pensare solo tu…”
Sentendo i richiami di Kain, Ellie tornò alla realtà e asciugandosi le mani sul grembiule corse subito alla cesta per recuperare il figlio.
“Oh no! – protestò, vedendo che Andrew terminava di lavare i piatti – Ci penso io, amore, sul serio.”
“Lascia stare, meraviglia – sorrise lui – piuttosto devo chiederti una cosa importante. Come sono tornato ho messo sopra il letto una camicia che dovresti rammendare: la volevo mettere stamane, ma mi sono accorto che c'è uno strappo.”
“Ci penso tra poco – annuì Ellie, accarezzando i capelli di Kain – senti che ne dici se stasera stiamo un po’ insieme? Sai penso che potremmo…”
“Oh, scusa meraviglia – Andrew chiuse il rubinetto con aria profondamente desolata – ma se non termino delle modifiche a dei progetti per domani sarò nei guai. Ed è parecchia roba…”
“Davvero? Mh, va bene…” abbassò gli occhi con un lieve broncio.
“Scusami tanto, Ellie – la baciò sulla fronte – senti, mi metto subito a lavoro e poi vedo di…”
“Ma no, non ti preoccupare – sospirò lei, ritrovando il sorriso – vai pure e fai con calma. Io metto il pulcino nella culla e poi penso alla tua camicia, tranquillo.”
“Grazie, mogliettina – sorrise baciandola questa volta sulle labbra – e tu, ometto, passa una buona notte, intesi?” accarezzò con amore il pancino del bimbo prima di deporre un bacio sulla testolina bruna.
Poi, rapido come una visione, uscì dalla cucina e dopo qualche secondo Ellie sentì la porta del suo studio che si chiudeva. Solo allora smise il sorriso e si permise di rimettere il lieve broncio, proprio mentre Kain finiva di mangiare e la guardava con perplessità.
“Oh, non ci pensare, pulcino – gli sorrise – la mamma a volte è un po’ sciocchina... pensava di passare una bella serata con il papà dato che non può andare alla festa… ma il papà deve lavorare tanto. Sai, fare l’ingegnere è difficile.”
Kain ciangottò con dolcezza nei suoi confronti, un gesto che ebbe la capacità di farle dimenticare tutta la tristezza. Festa? Che cosa le importava se aveva tra le braccia il suo bambino.
“Coraggio, adesso andiamo a metterti a nanna, pulcino – decise, alzandosi dalla sedia e andando in soggiorno per raggiungere le scale – si sta facendo tardi per te. Così la mamma si mette a rammendare la camicia e poi si mette a leggere un buon libro.”
Arrivata in camera accese la luce e provvide a mettere a letto il piccolo che, dopo due secondi già era nel mondo dei sogni. Solo allora si girò verso il letto, pronta a mettersi a lavoro con ago e filo, ma i suoi occhi si sgranarono di curiosità quando al posto della camicia vide che c’era un pacco avvolto nella carta velina.
Accostandosi vide che sopra di esso c’era un biglietto e come lo lesse dovette trattenere le lacrime.
“Posso avere l’onore di ballare con la più bella del mondo?”
Con mano tremante posò il bigliettino e svolse quel pacco, scoprendo che dentro di esso c’era un bellissimo vestito azzurro chiaro, proprio dello stesso colore del suo precedente sogno ad occhi aperti. Quando e come Andrew avesse trovato il tempo per andare e comprarglielo era un mistero e, a pensarci, doveva esserci lo zampino di sua madre… ma che importava? Prendendolo si accorse che era davvero bello e, mentre lo indossava, sentì quel familiare brivido di aspettativa che la prendeva sempre quando, ogni anno, si preparava per andare alla festa. Si fece bella quella sera, impiegandoci tutto il tempo richiesto… del resto il biglietto non diceva chiaramente che voleva ballare con la più bella del mondo?
E quando scese le scale con i suoi migliori stivaletti e quel vestito da favola si sentiva davvero così: si era persino raccolta la folta treccia attorno alla testa, bloccandola con un fermaglio a forma di fiore. Come arrivò davanti alla porta dello studio sentì una lieve musica provenire da esso.
La radio? Oh, ma certo… oh, Andrew, sei fantastico.
Fece un profondo respiro prima di aprire la porta ed entrare.
E lui era lì, in mezzo alla stanza, le mani dietro la schiena, con la radio sulla scrivania che proprio in quel momento trasmetteva della bellissima musica classica, quella perfetta per un ballo romantico.
“Ellie Lyod – sorrise, facendosi avanti e porgendole una splendida rosa rossa che aveva tenuto nascosta – non ho parole per la tua bellezza, mi dispiace. Risulterei banale…”
“Andrew – arrossì violentemente – ma dai…”
“Se non possiamo andare alla festa, che male c’è a portare un piccolo ballo anche qui? – le strizzò l’occhio lui, baciandola sulla guancia – Io, te, splendida più che mai, la musica… direi che c’è tutto quanto, no? Anzi, forse è anche meglio, soli soletti…”
E si baciarono con passione, accorgendosi di voler ballare per ore ed ore e poi concludere facendo l’amore, come non succedeva ormai da tanto tempo. Il primo dicembre andava festeggiato a prescindere e non c’era bisogno del capannone e del resto del paese.

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Capitolo 35
*** Capitolo 34. 1887. Crescite difficili. ***


Capitolo XXXIV

1887. Crescite difficili.

 

“Mamma, lo prendo io!” Heymans tese le braccia verso di lei con un sorriso volenteroso.
“Tesoro, è troppo pesante per te – ridacchiò Laura, prendendo la grossa busta che il droghiere le porgeva – ti cadrebbe tutto quanto, lo sai.”
“Ma io sono grande – scosse il capo lui, mentre la cresta rossiccia di muoveva in maniera davvero buffa – adesso ho cinque anni.”
“Veramente li compi tra due giorni, giovanotto.”
“E’ davvero cresciuto – sorrise il droghiere, ormai in parte affezionato a quel bambino che spesso e volentieri accompagnava la madre a fare acquisti – e si vuole rendere utile.”
“Fin troppo volenteroso a volte – commentò Laura con pazienza frugando nella busta– facciamo così: tu prendi questo sacchetto con le patate, va bene? Così la busta è più leggera e la mamma fa meno fatica a portarlo.”
“Va bene – il piccolo prese con orgoglio quel piccolo sacchetto – ci penso io, mamma, stai tranquilla. Non ne faccio cadere nemmeno una. A presto, signore!”
Laura si aggiunse a quel saluto, lieta che suo figlio avesse ogni tanto a che fare con qualcuno che gli regalava qualche sorriso. Vedendo trotterellare accanto a lei, tutto teso a non far cadere il sacchetto che teneva tra le braccia, si accorse di quanto la sua espressione ed i suoi atteggiamenti cambiassero quando la accompagnava a fare la spesa. Era molto più vivace e spensierato, proprio come un cucciolo a cui viene concesso di prendere una boccata d’aria per qualche ora.
“Mamma, tra due giorni è il mio compleanno…” lo disse con voce speranzosa, senza però osare guardarla negli occhi. Ma si capiva che le voleva chiedere qualcosa di speciale.
“E sì – annuì Laura, sperando che le chiedesse qualcosa di fattibile – cinque anni, santo cielo come vola il tempo. Ma ci pensi che tra nemmeno due mesi vai a scuola? Scommetto che ti divertirai un mondo ad imparare un sacco di cose nuove.”
Lo disse con disinvoltura, proprio come ogni madre farebbe per incoraggiare il proprio figlio alla nuova esperienza che magari appare un po’ paurosa, ma in realtà chi era spaventata era lei. Per la prima volta l’avrebbe lasciato completamente privo della sua protezione in un ambiente del tutto nuovo, dove non avrebbe potuto nascondergli la realtà delle cose. Si era già chiesta se era il caso di parlare con gli insegnati, pregandoli di essere gentili con il bambino, ma aveva il timore che a fare una cosa del genere li avrebbe indisposti ulteriormente.
“Credi che potrò giocare con gli altri bambini?”
“Non vedo perché no, caro.”
“Speriamo! Mi piacerebbe tanto!” era veramente emozionato a quella prospettiva, lo si capiva dal sorriso. Ed in parte dipendeva dal fatto che con il fratellino aveva notevoli difficoltà ad interagire. Non perché Henry fosse un bambino difficile, anzi a due anni era più che propenso al gioco, ma perché Gregor sembrava voler limitare il contatto tra i due. Henry era ancora troppo piccolo per capire e bastava che ci fosse qualcuno che giocava con lui per essere felice… ed in questo Gregor era davvero presente. Ma Heymans ormai aveva capito che non piaceva a suo padre, anche se la sua piccola persona ancora non riusciva ad accettare la situazione: semplicemente non ne comprendeva il motivo.
 “Mamma…”
“Sì?”
“Mi fai la torta con le candeline come per Henry? Per favore!” lo disse con timore, quasi sapendo la risposta, ma volendo comunque fare quell’ultimo tentativo. E a Laura venne tanta voglia di piangere e si sentì la madre più orribile del mondo per la delusione che stava per dargli. Ma come poteva fare?
Dannazione a tuo padre… dannazione a tuo padre… ma con che coraggio può essere così crudele con un bambino di cinque anni!
La netta differenza di trattamento che Gregor riservava ai due figli era diventata ancora più marcata col passare degli anni, mano a mano che Henry diventava sempre più indipendente ed aveva preso a camminare e dire le prime parole. Prima nei confronti di Heymans c’era stata solo indifferenza, nonostante tutti i tentativi che lo stesso bambino avesse fatto per avvicinarsi a quella figura che in fondo temeva. A Laura spezzava il cuore vederlo ogni tanto mettersi vicino a Gregor impegnato a giocare con Henry, in attesa che l’attenzione venisse rivolta anche a lui. Rimaneva lì in piedi, con aria timida e sconsolata, senza osare prendere l’iniziativa: ogni volta doveva essere lei ad intervenire e distrarlo con qualche nuovo gioco.
Ma anche se sorrideva, il bambino ormai intuiva che era solo un modo per consolarlo… in questo era dannatamente perspicace, proprio come lo era stato suo zio.
Adesso, poi, era come se l'uomo volesse far capire al figlio maggiore che non era lui il preferito e che dunque dovevano esserci dei trattamenti diversi. Per Henry le cose procedevano come era giusto che avvenisse in una famiglia: per il suo secondo compleanno c’era stata una festicciola ed era stata fatta una torta, Gregor gli aveva regalato degli animaletti intagliati nel legno, l’aveva preso in braccio e fatto giocare fino allo sfinimento.
Se faccio la torta con le candeline per Heymans potrebbe succedere chissà che disastro.
Perché Gregor era imprevedibile: da quando aveva perso il lavoro aveva ripreso a frequentare quel locale diverse volte alla settimana. Non che a casa fosse ubriaco o simili, ma Laura capiva di non potersi assolutamente fidare di lui come aveva fatto tempo prima. L’ultima cosa che bisognava fare era indisporlo, specie per qualcosa come una festa di compleanno. L’idea di una sua scenata davanti ai figli la faceva impazzire di paura e dunque era preferibile dare ad Heymans una delusione addolcita piuttosto che rischiare un trauma così tremendo.
“Tesoro, suvvia – gli disse cercando di apparire spensierata – non hai detto che ormai sei grande? Le candeline sono per i bambini piccoli, non credi?”
Stai calma Laura, appari credibile, tieni l’apparenza…
“E… e non possiamo fare che fino a quando non le soffio sono ancora piccolo? Non ho ancora cinque anni!” la guardò supplicante, disposto persino a mettere da parte l’orgoglio pur di ottenere quella concessione.
Ma perché si era fissato con quella storia delle candeline?
“Beh, tu pensa a fare il bravo in questi giorni…” si limitò a dire, considerandolo né un sì né un no.
“Va bene, mamma!” ma ovviamente lui l’aveva preso per un sì, sicuro che il suo comportarsi bene gli avrebbe fatto guadagnare quella piccola soddisfazione. Era così lieto che trotterellò in avanti e girando l’angolo della strada andò a sbattere contro una persona e la busta con le patate gli cadde a terra.
“Oh no! – esclamò iniziando a raccoglierle – Tutte quante!”
“Heymans, fai att…” iniziò Laura, ma si fermò quando vide che l’uomo contro cui aveva sbattuto il bimbo non era altri che Andrew che, estremamente imbarazzato, era incerto se aiutarlo o fuggire via prima che lui alzasse lo sguardo. Ma vedendolo in estrema difficoltà, dato che la busta non ne voleva sapere di rimettersi dritta per accogliere di nuovo le patate, si chinò e lo aiutò, lanciando un’occhiata significativa a Laura.
“Grazie!” esclamò Heymans con un sorriso quando finalmente gli ortaggi ribelli tornarono nella loro gabbia. Solo allora alzò gli occhi grigi verso il suo aiutante e questo fece mancare il respiro ai due adulti. Effettivamente per qualche secondo il bimbo rimase perplesso a guardare Andrew, come se cercasse di capire che cosa non andava, ma poi si limitò a fare un grande sorriso e a riprendere tra le braccia il suo carico.
“Prego, giovanotto – sorrise Andrew, arruffandogli i capelli – ma fai più attenzione, mi raccomando.”
“Sì!” annuì il piccolo arrossendo leggermente.
“An… signor Fury – si corresse Laura, evitando di chiamare l’amico col solito nomignolo – come sta?”
“Tutto bene, signora Breda, e lei?”
“Tutto bene pure io. Si faceva giusto un po’ di spesa.”
“Ed io aiuto la mamma! E… e se faccio da bravo lei mi fa la torta con le candeline per il mio compleanno! – aggiunse Heymans, particolarmente loquace dopo aver visto che la madre sorrideva a quello sconosciuto – Compio cinque anni, signore!”
“Che grande che sei. E sei proprio un bravo bambino se aiuti così tanto la tua mamma.”
Forse era per un qualche ricordo che tornava improvvisamente nella sua mente, o forse era perché era sempre bello sentire tante belle parole, ma Heymans sembrava particolarmente conquistato da Andrew. Laura fu sicura che, se non fosse stato per l’ingombro della busta, suo figlio avrebbe teso le braccia per farsi sollevare.
Meglio non andare troppo oltre, Andy – pensò, lanciando un’occhiata eloquente all’amico – non si sa mai.
“Bene, vieni Heymans, dobbiamo proprio andare. Di ciao al signore e ringrazialo ancora.”
“Ciao, signore, e grazie ancora!”
“Ciao a te, piccolo.”
 
Quando tornò a casa Andrew era particolarmente felice: aver rivisto Heymans dopo tanto tempo gli aveva fatto un immenso piacere. Era davvero cresciuto ed il sorriso nel suo viso paffuto era così caldo e sincero che sembrava che tutto a casa Breda andasse bene: del resto tra due giorni sarebbe stato il suo compleanno, certamente Laura aveva intenzione di festeggiare le cose in grande.
“Papi! Papi! – una vocetta ansiosa arrivò da dietro il divano e dopo due secondi apparve Kain che camminava in maniera traballante ed insicura verso di lui, tendendo le manine – Casa, papi!”
Andrew lo recuperò in tempo per evitare un ruzzolone che avrebbe messo subito in ansia Ellie e se lo sistemò tra le braccia, arruffando con immenso amore la chioma bruna.
“Ciao, ometto – lo salutò, mentre il piccolo si appellicciava a lui – tutto bene?”
“Ci!” annuì Kain, sfregando la testolina contro il suo collo.
“Certo che stai bene – mormorò Andrew baciando la fronte eternamente calda del bambino, quasi a sincerarsi che non avesse la febbre alta – allora, che cosa ha fatto il mio ragazzo mentre ero fuori?”
“Kain fatto bavo – spiegò lui, indicandogli il divano, smanioso ovviamente di mostrare il suo passatempo – fatto casetta bau bau e lietto!”
“Ah, la casetta per i tuoi amici cagnolino e coniglietto – sorrise l’uomo mentre si sedeva evitando accuratamente il cuscino dove erano sistemati i dadi disposti in cerchio con dentro il pupazzo di un cane e quello di un coniglio – veramente bella, Kain. Sono fiero di te.”
“Hai visto che bravo? – Ellie arrivò dalla cucina – E’ stato davvero di parola: mi ha promesso che sarebbe stato buono sul divano mentre iniziavo a preparare il pranzo e ha fatto la casetta per i suoi amici. E adesso dammi un bacio, pulcino, coraggio.”
Con un gran sorriso Kain si mise in piedi sul divano, prudentemente sostenuto per la vita da Andrew, e protese le manine per prendere il viso della madre e darle un bacio sulle labbra. Non pago girò con esitazione, data la precaria stabilità del divano per i suoi piedini, e riservò il medesimo trattamento anche al padre.
“Bene – commentò Ellie – o torno in cucina o rimango qui a strapazzarlo di coccole. Ma nel secondo caso rimaniamo senza pranzo. Ci pensi tu a lui, tesoro? Tanto tra una decina di minuti è pronto.”
“Certamente.” annuì Andrew, mentre faceva sedere il figlio a cavalcioni sulle sue ginocchia e gli passava uno dei pupazzi.
Osservandolo stringere il cagnolino di pezza con un sorriso felice, Andrew stentò a credere che tra nemmeno due mesi il suo bambino avrebbe compiuto due anni. Nonostante l’altalena di problemi di salute che aveva costellato la sua breve vita, Kain stava per arrivare a quell’importante traguardo.
Dall’aspetto si capiva che era un bimbo davvero fragile: era rimasto molto piccolo per la sua età e nonostante avesse messo su diversi chili, riuscendo finalmente ad uscire dalla sua condizione di sottopeso, rimaneva comunque gracilino… per quanto fosse proporzionato. La carnagione era pallida e le vene azzurrognole si vedevano fin troppo distintamente sulle braccia e sulla fronte. A volte sembrava di aver a che fare con un piccolo fantasma che si poteva frantumare al minimo contatto.
“Papi… papi, abbaccio Kain…” mormorò il bambino raggomittolandosi al petto di Andrew, col chiaro desiderio di essere coccolato.
“Vieni qua, piccolo mio – lo abbracciò il padre – lo sai che oggi i nonni hanno chiesto di te? Ti mandano tanti saluti e hanno promesso di venire a trovarti uno di questi giorni.”
“Nonni! – Kain alzò il visino, mentre gli occhi nerissimi, identici a quelli della madre, si illuminavano di gioia – I nonni! Bello! Kain felice nonni a casa!”
“Sì, i nonni – annuì Andrew alzandosi in piedi e tenendolo sempre in braccio – andiamo a lavarci le mani adesso, è sicuramente pronto in tavola. Vogliamo contare gli scalini? Uno, due…”
“… teee, attooo, ciqueee, seeeeiiii!” Kain seguiva quella conta con un gran sorriso, lo sguardo fiero e intelligente mentre indicava con l’indice ogni gradino. Alla sua nascita si era pensato a chissà quale ritardo mentale data la sua prematurità, invece si stava dimostrando un bimbo dalla mente particolarmente vivace: dove il corpo era debole invece l’intelligenza era forte e pronta ad assimilare qualsiasi nuova informazione o scoperta.
Se soltanto smettesse di ammalarsi così spesso e all’improvviso…
Mentre lo teneva sollevato per farlo arrivare al lavandino, Andrew sospirò sapendo benissimo che nell’arco di una settimana al massimo quel periodo di buona salute sarebbe terminato. Non era per essere pessimisti, ma l’esperienza ormai aveva insegnato a lui ed Ellie che non c’era da illudersi. Succedeva sempre così: la mattina sembrava in ottima forma e poi la sera era a letto con la febbre o stanchissimo, come se il suo corpicino non riuscisse a reggere un periodo di salute eccessivamente lungo. Eppure Kain non era un bambino propenso a correre o ad agitarsi molto, tutt’altro: gli piaceva stare accoccolato sul letto o sul divano, a giocare con i dadi o i suoi pupazzi. Amava molto il contatto fisico, i momenti di tranquillità…  il suo carattere era poco propenso al movimento.
“Papi, poi stai con Kain?”
“Kain dopo pranzo devi fare la nanna, lo sai – gli ricordò mettendolo a terra e asciugandogli bene le manine – però papà può stare accanto a te finché non ti addormenti, va bene?”
“Favola?”
“Chi racconta bene le favole è la mamma, ma resterò con voi: pure io ho voglia di ascoltarla. Però adesso mi devi promettere che a pranzo mangi tutto, va bene?”
“Ci!”
Non che Kain fosse disobbediente e schizzinoso col cibo, ma sembrava che facesse davvero eccessiva difficoltà a terminare un pasto: per quanto Ellie gli preparasse cose leggere si capiva che dopo qualche boccone subentrava una sorta di malessere che impediva di procedere tranquillamente, levando al piccolo il gusto delle pietanze e rendendo dunque ogni boccone un piccolo supplizio.
Anche a quel pranzo ci volle tutta la pazienza del mondo per fargli mangiare il piatto di minestrina fino in fondo: gli ultimi cucchiai vennero mandati giù con le lacrime agli occhi e alla fine Kain si dimenò sul seggiolone piagnucolando disperato e chiaramente nauseato.
“La frutta la mangi dopo, amore, va bene – annuì Ellie, levandogli il bavaglino e prendendolo in braccio – è tutto a posto, coraggio.”
“Nanna!” supplicò Kain.
“Oh no, pulcino – la donna si sedette nella sedia – se ti sdrai subito rischia di risalirti tutta la minestrina. Rimani in braccio alla mamma mentre lei finisce di mangiare? Nel frattempo possiamo cantare qualche filastrocca, ti piacerebbe?”
“No!” singhiozzò il bambino, iniziando a tremare.
“Non mi dire che gli sta salendo la febbre – sospirò Andrew accostandosi e baciandogli la fronte – ecco qua, ci risiamo. Che è quella faccia? Ti sta risalendo il pr…”
Non fece in tempo a terminare la frase che il bambino ebbe un primo conato e rigettò tutta la minestra mangiata con tanta fatica. Ellie ebbe solo la prontezza di rivolgerlo verso il pavimento per evitare che facesse un disastro sul tavolo, ma non riuscì ad evitare che parte del suo vestito venisse sporcato.
“Va tutto bene, Kain – cercò di tranquillizzarlo mentre il piccolo piangeva e si trovava in chiara difficoltà con i conati di vomito residui – coraggio, non trattenere butta fuori anche il resto… mamma non si arrabbia.”
Dato che si era abituati a simili evenienze, fu solo questione di cinque minuti prima che il piccolo venisse sistemato nel lettone matrimoniale, mentre era chiaro che gli stava salendo una febbre non indifferente.
“Più di due settimane senza febbre – commentò Ellie, quando finalmente lo fece addormentare – mi sembrava troppo bello per essere vero. E va bene, è andata anche questa volta: speriamo che la febbre alta duri solo due giorni e poi cali come al solito.”
Cercò di tenere un’espressione noncurante, ma ovviamente Andrew percepì tutta la sua delusione e preoccupazione, che in fondo erano anche le sue, e si accostò immediatamente per abbracciarla .
“Chissà, magari la prossima volta starà bene per tre settimane, meraviglia. Vedrai, adesso dorme per un paio di orette e poi andrà meglio: era spaventato perché ha rigettato il pranzo così all’improvviso, mentre di solito la febbre gli arriva la sera sul tardi.”
“Dici?”
“Ma sì, tesoro, coraggio – la baciò sulla guancia – resta con lui, vado a recuperare il suo pupazzo dal divano. Così quando si sveglia se lo trova accanto ed è più tranquillo.”
 
Due giorni dopo, dopo cena, Laura salì al piano di sopra e dovette recuperare tutte le forze che aveva per aprire la porta di camera di Heymans. Già da lì sentiva i suoi singhiozzi soffocati e sapere di essere in parte colpevole per quella tristezza la faceva sentire la donna più orribile del mondo.
Voglio solo prenderlo… prendere lui ed Henry e scappare via. Non è possibile che debba finire così.
Ma sei stata tu la prima a far finire le cose così.
Come sempre auto compassione e pungente senso di colpa facevano a gara per avere il predominio dentro la sua anima. Ma con una scrollata di spalle decise di ignorarle entrambe: almeno questo lo doveva a suo figlio… che sicuramente dimostrava più fegato di lei ad aver tenuta nascosta la delusione fino a quando non era andato a letto. Finalmente si decise ad aprire la porta e dovette ingoiare il groppo che aveva in gola quando vide la sagoma nascosta sotto il lenzuolo, scossa da piccoli singhiozzi.
“Ciao, patatone – mormorò sedendosi accanto a lui e accarezzando quella che si capiva essere la schiena – vogliamo uscire da queste lenzuola?”
“No…” mormorò la voce rotta dal pianto.
“Ricordi cosa mi hai detto? – si sdraiò per quanto le consentissero le piccole dimensioni del letto e lo abbracciò, ancora avvolto dal lenzuolo – Che ora sei un bimbo grande… il mio bimbone. Ora che sei grande non posso nemmeno tenerti stretto?”
A  quei richiami Heymans finalmente fece emergere il viso rigato di lacrime, fissando la madre con aria profondamente desolata.
“Mamma… non… non sono stato bravo?”
“Tu sei sempre bravo, Heymans – lo strinse ancora di più, quasi a nasconderlo dal resto del mondo – sei il bimbo più bravo del mondo. E la mamma e così fiera di te, amore mio, non hai idea…”
“Volevo… volevo la torta…”
“Sssh, lo so, cucciolo, lo so…”
Ma proprio quel giorno Gregor si era dimostrato di umore intrattabile: un minimo accenno al compleanno del bambino sarebbe stato come accendere la miccia ad una bomba. Laura si era trattenuta fino all’ultimo dal prendere dalla credenza gli ingredienti per preparare il dolce… almeno per la cena. Ma niente, non era stato possibile: quello doveva essere solo un normalissimo giorno di luglio.
“Perché Henry si e io no?”
“Senti, quando inizi la scuola te ne preparo una così ogni giorno ne porti una fetta per merenda, va bene?”
“Ma manca tanto… e non… non è…”
“La faccio alla crema – insistette Laura – a te piace tanto alla crema, vero? Ci metto anche le schegge di cioccolato, mh? Così le sgranocchi come fanno gli scoiattolini del bosco…”
“Mamma, perché papà…”
“Sssh, ti ricordi la filastrocca? – lo interruppe – Quella degli animaletti del bosco… ho proprio voglia di cantarla tutta, ma non credo di ricordarmi qual è il primo animale… il pettirosso? Lo scoiattolino? Mh, no… accidenti sono proprio distratta…”
“…la… la volpina…” le ricordò lui, tirando fuori una mano per asciugarsi le lacrime.
“La volpina? Giusto, amore, che bravo che sei – sorrise la donna aiutandolo ad asciugarsi con il lembo del lenzuolo – allora, la vuoi cantare insieme alla mamma?”
“La canti solo tu? – chiese – Per favore…”
“Ma certo, cucciolo, tu ora chiudi gli occhi ed immagina gli animaletti…”
Ovviamente fu facile farlo addormentare: era così esausto per il gran piangere che nemmeno alla terza strofa il respiro si era fatto più regolare e le manine si erano istintivamente strette al collo materno. Tuttavia Laura arrivò alla fine della filastrocca, riprendendo poi a cantarla dall’inizio, quasi a trovare una consolazione anche per se stessa in quelle stupide storielle di animali.
Adesso l’inizio della scuola le sembrava una cosa preferibile piuttosto che tenerlo in casa dove la situazione stava diventando davvero logorante: forse quelle ore di distanza avrebbero reso Gregor più tollerante nei confronti del bambino e anche Heymans sarebbe riuscito a trovare una nuova dimensione dove essere felice.
In quel momento non poteva far a meno di illudersi di un qualcosa del genere, altrimenti rischiava di uscirne matta.
Semplicemente hai avuto la conferma di non essere una buona madre per loro. Senza tuo fratello non sei in grado di proteggerli veramente.
 
Ellie osservava con apprensione il medico che posava lo stetoscopio sul piccolo torace pallido di Kain, provocando un lieve lamento del piccolo quando il freddo metallo toccò la pelle. Aveva già visto quella scena decine e decine di volte nel corso degli ultimi due anni, ma ogni volta era uno strazio: la faceva sentire impotente davanti al suo bambino che subiva le sofferenze dell’ennesima malattia.
La febbre non era scesa negli ultimi tre giorni, non aveva avuto il solito decorso a cui ormai erano abituati. Aspettare ancora un giorno sarebbe stato sulla soglia di tolleranza, ma c’erano quei dolori che il bambino lamentava che non facevano chiudere occhio alla donna.
Non è come le altre volte… non è come le altre volte… Cielo, pulcino, ma che hai?
Il medico si levò lo stetoscopio e poi prese con delicatezza una mano del bambino tra le sue.
Il lamento emesso da Kain fu così straziante che subito Ellie corse accanto a lui, accarezzandogli i capelli sudati e mormorandogli parole di conforto. Tuttavia il medico invece di lasciare la presa passò le dita su tutte le articolazioni del bambino provocando ancora delle lacrime e dei singhiozzi supplicanti, tanto che Ellie fu sul punto di intervenire per dire all’uomo di lasciarlo stare.
“Che ha, dottore? – chiese Andrew, distogliendo la moglie da quei pensieri – Non è come le altre febbri che lo tormentano di solito.”
“No – scosse il capo l’uomo, posando finalmente la manina del piccolo sul letto – è un altro tipo di febbre. Non credo di sbagliarmi nell’identificarla come febbre reumatica: i dolori alle articolazioni sono dei sintomi abbastanza chiari.”
Febbre reumatica.
Queste due parole caddero addosso ad Ellie, l’ennesimo macigno nel calvario quotidiano del suo bambino. Si dovette fare forza per ingoiare le lacrime: sapeva bene che erano l’ultima cosa di cui Kain aveva bisogno. Doveva essere forte: capire in cosa consisteva questa nuova malattia e dare a suo figlio tutto il sostegno possibile per guarire.
“Che cosa ha di diverso dalle solite febbri? – chiese, recuperando la posizione dritta – come ci dobbiamo comportare con lui? Ci sono medicine specifiche?”
“E’ una febbre che tra i vari sintomi ha i dolori articolari, ma credo che l’avete già notato voi stessi.”
“Sì – annuì Andrew, con aria stanca – caviglie, spalle, gomiti… ma soprattutto le mani, se ne lamenta di continuo e molto spesso ci sono degli spasmi.”
“Assieme alla febbre alta sono i sintomi principali di questa malattia… purtroppo non posso dargli altro che le solite medicine che dovrebbero far abbassare la febbre e i dolori dovrebbero andare via assieme ad essa. E’ che si tratta di una forma di influenza molto più violenta rispetto alla solita.”
“Va bene, allora gli faremo le solite iniezioni – sospiro Ellie, passandosi una mano sugli occhi esausta da quei tre giorni di continua assistenza al bambino – c’è altro? Per i dolori non si può aiutarlo?”
“No, avete visto cosa succede a toccargli le mani e le articolazioni interessate – scosse il capo il medico – sono infiammazioni interne che si devono risolvere da sole, purtroppo. Ai pazienti di una certa età do diversi farmaci per l’artrite, ma sono oggettivamente pesanti per un bambino di due anni, non me la sento di comprometterlo ancora di più, specie per il cuore.”
“Il cuore?” Ellie si aggrappò ad Andrew con disperazione.
“Una delle possibili evoluzioni della malattia è che potrebbe, a lungo andare, interessare anche il cuore. Per adesso va tutto bene, il battito è regolare e non c’è alcun suono che faccia temere. E’ solo una possibilità, capite, ma a voi due è bene che metta in guardia su tutto quanto. In due anni questo signorino ce ne ha già fatte vedere delle belle…”
Come Andrew ebbe congedato il medico, Ellie si sdraiò accanto al figlioletto, accarezzandogli la guancia arrossata per la febbre.
“Mamma – pigolò lui, aprendo gli occhi lucidi per la malattia – mamma bua… male!” mosse anche le manine alla ricerca dell’abbraccio materno, ma questo provocò una nuova ondata di dolore, tanto che serrò gli occhi ed iniziò a strillare.
“No, amore mio, no! – lo bloccò Ellie – tieni ferme le tue manine, da bravo, vedrai che passa… vedrai che passa. La mamma è qui, accanto a te, non temere. Guarda, adesso viene pure il papà… sei con noi, al sicuro.”
“Papi… papi… via bua! Via – supplicò – Kain non vuole… non bua cattiva!”
“Coraggio, ometto, vedrai che passa – Andrew gli mise vicino il suo pupazzo – devi solo stare tranquillo. Adesso ti diamo la medicina e vedrai che starai decisamente meglio.”
Alla fine Kain cedette al sonno, più per sfinimento che per effettivo conforto.
Andrew rimase a fissare Ellie che, sdraiata accanto al figlio, continuava ad accarezzargli i capelli neri, sussurrandogli una ninnananna. Ogni volta restava affascinato da quella forza consolatrice che quella donna così minuta era capace di sprigionare… se soltanto fosse stata capace di allontanare la malattia con un incantesimo proprio come nelle favole…
“Andrew… gliel’hai chiesto al medico, vero? – Ellie alzò gli occhi su di lui – So che l’hai fatto…”
Lui si passò una mano tra i capelli castani, cercando di trovare la forza per darle quell’ennesima brutta notizia. Ma non poteva mentirle, era inutile.
“E’ recidiva – sospirò infine – si può ripresentare ad intervalli irregolari e senza preavviso.”
Ellie chiuse gli occhi e per qualche tremendo secondo sembrò cedere del tutto. Del resto come le si sarebbe potuto dare torto? La malattia poteva interessare anche il cuore e per un bambino fragile come Kain era molto probabile che si presentasse questa eventualità… forse letale.
Ma fu solo per poco…con incredibile fermezza scosse il capo e si alzò dal letto.
“Fra mezz’ora gli facciamo prendere la medicina: vado a controllare se c’è tutto il necessario.”
Una sola occhiata intercorse tra loro due, ma il messaggio fu chiaro.
Le parole “complicazioni cardiache” non vanno pronunciate nemmeno per errore.
Non sul loro bambino.
Non su Kain.

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Capitolo 36
*** Capitolo 35. 1888. Crisi. ***


Capitolo XXXV

1888. Crisi.



“Venite, bambini, dobbiamo tornare in classe.”
A quel richiamo una quindicina di bambini tra i cinque ed i sei anni si raccolse attorno alla donna, proprio come dei pulcini farebbero con una chioccia. Alcuni si aggrapparono alla gonna e altri tesero le mani: tutti volevano un gran bene alla loro maestra.
“Da bravi, piccolini – li esortò la giovane con un sorriso – in fila per due come vi ho insegnato: ciascuno prenda per mano il compagnetto con cui è uscito all’intervallo.”
Docilmente Heymans si accostò a Sofì e la prese per mano: entrambi si sorrisero, lieti di aver eseguito prontamente la richiesta della maestra. Ed inoltre erano carichi di aspettativa: una volta tornati in classe avrebbero dovuto fare un bel disegno sulla primavera appena iniziata e tutti loro adoravano quell’attività.
“Maestra, non c’è più Jean!” il richiamo di Billy, rimasto senza compagno di fila, fece girare tutti quanti.
“Jean? – subito nel volto della donna apparve una fin troppo familiare espressione di terrore – Oh, cielo, di nuovo… è scappato di nuovo? Jean Havoc, dove sei andato a finire?! Bambini, voi iniziate ad andare in classe, da bravi: in fila ordinati… poi sedete nei banchi ed iniziate il disegno.”
Abituati ad obbedire, i piccoli di prima elementare si mossero ordinati e andarono in classe: ovviamente le loro vocine non facevano altro che commentare la prodezza del loro scalmanato compagnetto.
“Ma perché lo fa? – chiese Sofì perplessa – La maestra dice che non ci si deve allontanare. Jean è davvero tanto disobbediente, vero Heymans?”
“Sì, hai ragione – annuì lui – la maestra lo sgrida sempre ma lui non smette di comportarsi così. Credo che parlerà di nuovo con i suoi genitori.”
“Oh no, povero Jean! – si preoccupò subito lei – Se lo farà verrà punito. Come l’altra volta!”
“Beh, ma se disobbedisce sempre se lo merita – ammise Heymans mentre entravano in classe – e poi è brutto far arrabbiare così la maestra.”
“Vero… tu hai già deciso cosa disegnare?”
“L’uccellino che abbiamo visto ieri – annuì lui – lo faccio sul nido con la mamma ed i fratellini!”
“Oh, che bell’idea! – esclamò Bran, un suo vicino di banco – Vorrei averla avuta io… io disegnerò casa mia con tanti fiori che crescono nel giardino, ho deciso!”
Immediatamente quindici vocine iniziarono a scambiarsi idee ed opinioni, entusiasti nel sentirsi piccoli artisti e pronti a cimentarsi con pastelli e matite. Il fatto che un loro compagno fosse assente era stato quasi del tutto dimenticato.
Anche Heymans era tutto preso dal scambiare quei pareri con i suoi compagni.
Andare a scuola aveva rivoluzionato il suo piccolo mondo e l’aveva fatto sentire molto più sicuro di se stesso e felice: quelle cinque ore passate in quell’edificio appena fuori dal paese erano le più belle della giornata. Andare a scuola voleva dire scoprire un sacco di cose nuove, provare l’emozione di imparare a leggere e scrivere, stare con tanti altri bambini e giocare assieme a loro, ascoltare la maestra che era sempre gentile e premurosa. Era come se gli fosse stato aperto un mondo magico dove era accettato in tutto e per tutto, come se varcare l’ingresso di quel basso muretto di pietra gli consentisse di essere finalmente se stesso.
Prendendo il pastello giallo iniziò a disegnare il nido degli uccellini, la sua manina paffuta che eseguiva le linee in maniera ancora goffa ed incerta, ma che sapeva dare forme ben definite: sapeva bene che poi la maestra avrebbe visto tutti i disegni e avrebbe fatto i complimenti a ciascuno di loro… e non c’era niente che lo facesse sentire più appagato.
Nessuno sarebbe stato escluso da quel momento felice e…
“Jean Havoc, giuro che queste tue fughe mi hanno davvero stufata!” la voce arrabbiata della maestra, anzi era il caso di dire furente, fece zittire il vivace mormorio della classe e tutti si volsero verso la porta per vederla entrare tenendo per l’orecchio il loro turbolento compagnetto.
“Ahia! Maestra, mi fai male!” protestò il bambino con una smorfia di dolore e di irritazione.
“Quante volte ti avrò detto che non devi mai e poi mai uscire fuori dal cortile, disobbediente che non sei altro? Aspetta che ne parli con i tuoi genitori!”
“Che? – si impanicò lui, guardando la maestra con supplicanti occhi azzurri – Oh no, maestra, no!”
“E’ un po’ tardi dopo che mi fai preoccupare così per la decima volta in un mese – scosse il capo lei, impassibile – e adesso in piedi nell’angolo: faccia contro il muro. Santa pazienza…”
“Brutta antipatica…” borbottò Jean a voce abbastanza udibile, facendo sussultare tutti i suoi compagni.
“Che cosa hai detto, Jean? – lo richiamò la maestra, girandosi di nuovo verso di lui – Benissimo, allora alza anche le mani e tienile incrociate dietro la testa fino alla fine dell’ora di disegno.”
“Così tanto?!”
“E assoluto silenzio da parte tua, mi sono spiegata?”
Con un broncio degno di miglior causa il bambino eseguì l’ordine e quello fu sufficiente per riportare la calma in tutta la classe: del resto erano ormai abituati a scenate simili.
Heymans lanciò di sottecchi un’ultima occhiata a Jean: proprio non riusciva a capire come quel bambino, biondo e con gli occhi azzurri, potesse essere così disobbediente e monello. Non c’era giorno in cui non ne combinasse qualcuna: o scappava dal cortile, o portava insetti in classe, o tirava i capelli alle bambine, o si sporcava tutti i vestiti rotolandosi nell’erba… e anche se veniva sempre rimproverato o messo in castigo il giorno dopo era sempre pronto a ricominciare, come se la lezione non fosse servita. Heymans lo trovava un po’ strano e se doveva essere sincero era uno dei compagnetti con cui aveva meno a che fare: era troppo turbolento per i suoi gusti e di certo non era il caso di seguirlo nelle sue scorribande. No, decisamente non avrebbe mai voluto che la maestra parlasse con sua madre di qualcosa di brutto che aveva combinato.
La mia mamma deve essere fiera di me.
“Ma che bravo, Heymans, è un nido di uccellini?” la voce della maestra lo fece riscuotere ed immediatamente sorrise nel vedere che la donna era accanto a lui e protendeva la mano per accarezzargli i capelli.
“Sì, maestra, quelli che abbiamo visto ieri.”
“Molto bene, continua pure così, tesoro.”
Il resto della mattinata trascorse senza intoppi: alla fine dell’ora di disegno a Jean fu permesso di tornare al suo banco e, fortunatamente, mantenne un atteggiamento tranquillo per il resto della lezione.
Alla fine della giornata scolastica Heymans si diresse verso casa, un percorso di nemmeno dieci minuti che non aveva problemi ormai a fare da solo, tenendo conto che, per la maggior parte del tempo, bastava seguire il resto dei ragazzi che si dirigeva in paese. Tra le mani teneva con orgoglio il disegno che aveva fatto e che la maestra aveva giudicato tra i più belli della classe: ci teneva a farlo vedere alla mamma, sicuramente sarebbe stata fiera di lui e avrebbe sorriso.
E niente faceva più piacere ad Heymans che vederla sorridere.
Tuttavia, come arrivò alla porta di casa, non entrò con esuberanza come avrebbe fatto qualsiasi altro bambino: aprì con cautela, restando sollevato quando vide che suo padre non era seduto nel divano come invece spesso succedeva. Se c’era una cosa che imbarazzava il bambino era incrociare lo sguardo con il genitore… anche se questo lo faceva sentire molto arrabbiato con se stesso. Capitava spesso che cercasse di attirare la sua attenzione quando giocava con Henry e non con lui, e dunque era da sciocchi non approfittare di quei momenti in cui c’era incontro almeno visivo. Però, in quelle occasioni, il piccolo non poteva far a meno di abbassare lo sguardo e camminare timidamente, cercando di tenersi il più possibile lontano da lui.
Ma questi pensieri tristi sparirono quando entrò in cucina e vide sua madre che dava da mangiare ad Henry.
“Ciao, mammina!” corse immediatamente verso di lei, abbracciandole le gambe.
“Bentornato, amore mio – Laura, si chinò per abbracciarlo e dargli un bacio sulla guancia – come è andata a scuola oggi? Hai fatto il bravo?”
“Guarda, mamma, l’ho fatto io – esclamò gioioso, mostrando il disegno – e la maestra ha detto che è uno dei più belli della classe. E’… è l’uccellino che abbiamo visto ieri in cortile, sai. E’ con la mamma ed i fratellini nel nido, vedi?”
“Ino! Ino!” esclamò Henry, dimenandosi nel seggiolone, ansioso di essere reso partecipe pure lui.
“Ma che bello – sorrise la donna e poi lo mostrò al bimbo piccolo – hai visto, caro? L’ha fatto tuo fratello: vedi? Sono degli uccellini… i cip cip.”
Vedendo il fratellino che faceva le feste nel vedere quel disegno, Heymans si sentì doppiamente orgoglioso della sua opera. Spinto dall’entusiasmo si fece avanti.
“Vedi? Sono nel nido con la mamma… quella più grande! La maestra dice che la mamma quando fa freddo li protegge con le ali, come quando la mamma ci abbraccia, capisci?”
“Insomma, che cos’è tutto questo chiasso?”
Quella voce fece sussultare il bambino e subito si aggrappò alla gonna di Laura, nascondendo il visino contro di lei. Quando osò spostare lo sguardo vide che il padre era sulla soglia della cucina e guardava nella sua direzione con aria sfastidiata.
“Heymans stava raccontando cosa ha fatto a scuola, caro – spiegò Laura, piegando con cura il disegno e ridandolo al figlio maggiore – tutto qui. Ha fatto un disegno e ci stava spiegando degli uccellini…”
“Molto entusiasmante – commentò lui con sarcasmo – piuttosto è pronto il pranzo?”
“Quasi… vai, tesoro, poggia la tua roba di scuola in camera e poi lavati le mani. Io finisco di far mangiare tuo fratellino, va bene?”
“Sì, mamma…” Heymans quasi sussurrò quelle parole e stringendo a se il disegno si accostò al padre, che stava ancora fermo davanti alla porta. Per un attimo sollevò lo sguardo verso di lui e fu sinceramente tentato di fargli vedere il disegno di cui era tanto fiero, ma poi approfittò di un varco e sgusciò via, correndo verso le scale.
Non ce l’aveva fatta nemmeno questa volta.
 
Qualche settimana dopo quell’episodio, Ellie compiva ventidue anni, tuttavia quella che si prospettava essere una bella giornata di festa non iniziò come voleva. Si svegliò che nemmeno era fatto giorno colta da forti crampi al ventre e questo la fece sussultare di disperazione.
Oh no, ti prego…
Con discrezione scivolò fuori dal letto, facendo attenzione a non svegliare Andrew, e corse in bagno, ma intuiva che ormai non c'era più niente da fare.
Aveva abortito.
Che cosa ti aspettavi, scema? – si chiese, con le lacrime agli occhi, mentre preparava la vasca per farsi un bagno e lavare quel disastro, tutto sommato non dissimile alle sue regole – Credevi davvero che avrebbe funzionato?
Eppure lei nella sua disperata ingenuità ci aveva creduto: quando le sue regole non si erano presentate aveva capito di essere rimasta incinta ed aveva esultato. Certo, ricordava bene le parole del medico sulla sua incapacità di portare avanti una nuova gravidanza, ma si era convinta che… tenendo nascosto il fatto una settimana alla volta, sarebbe andato tutto bene. Insomma, da un mese, si arrivava a due… a tre, a cinque… a nove…
Nemmeno due mesi…
Come si immerse nella vasca di acqua calda permise finalmente alle lacrime di uscire liberamente, iniziando ben presto a singhiozzare. Era così ingiusto. Perché proprio a lei doveva succedere una cosa simile? Avrebbe voluto tantissimi figli, ma se proprio non poteva averne tanti… almeno un altro.
Uno che stia bene…
Fu un pensiero dettato dalla stanchezza, ma per un attimo si sentì la madre più snaturata del mondo.
Ma forse quell’aborto era provocato anche dallo stress dell’ultima settimana passata a vegliare Kain in preda all’ennesimo attacco di febbre reumatica. Forse se fosse rimasta a riposo e tranquilla sarebbe arrivata al secondo mese e da lì sarebbe stato più facile… o almeno possibile che…
“Cielo, come mi odio!” singhiozzò con disperazione, mentre vedeva che l’acqua diventava rosata per l’ovvia perdita ancora in corso. Ecco che fine faceva il suo nuovo cucciolo… mischiato con acqua e sapone, senza nemmeno avere una possibilità di venire al mondo.
Mentre le lacrime colavano senza parere, andando a cadere sull’acqua della vasca, si concesse di immaginarsi passeggiare felice con Andrew e con una bambina dai capelli castani come quelli del padre. Annie… quanto l’avrebbe voluta chiamare così: la piccola e dolce Annie, con gli occhi color d’autunno come Andrew, lo stesso sorriso dolce, la sua perfetta e sana bambina. Sarebbe stata una splendida amazzone e sarebbe andata a cavallo su Blanco sin da piccola, certo. E suo padre sarebbe stato così fiero della nipotina…
"...Annie…” mormorò, mezzo intontita da quell’acqua calda e dalla piccola emorragia che comunque l’aveva colpita. Non si rese nemmeno conto di scivolare verso il basso fino a quando la sua bocca semiaperta non entrò in contatto con l’acqua e il sapore amaro del sapone la ridestò. Sgranando gli occhi fece uno scatto verso l’alto, proprio come da piccola faceva quando andava allo stagno a fare il bagno e cercava di trattenere l’aria il più possibile… il cuore le iniziò a battere a mille.
“Cosa… cosa sto facendo? – mormorò con ansia, non riuscendo a credere di aver avuto un cedimento simile… quasi da suicidio – Cielo… cielo, Ellie Lyod, ma che combini?”
Improvvisamente quell’acqua calda le parve simile ad un lago di sangue avvelenato e si alzò in piedi, affrettandosi ad uscire. Si avvolse nell’asciugamano e si asciugò più in fretta che poteva, accorgendosi che stare sola in quel bagno la spaventava. Non appena ebbe finito ed indossato un cambio e una camicia da notte pulita, corse in camera da letto, raggomittolandosi contro Andrew, cercando di fondersi con lui.
“Mh? – mormorò l’uomo, svegliato da quell’improvviso e forte contatto – Ellie…?”
“Scusa… scusa, solo un brutto sogno…” sussurrò lei, tremando e sentendosi così spaventata.
“Ci sono io con te, meraviglia – Andrew nemmeno aprì gli occhi, ma la strinse a sé, come era solito fare – non aver paura, va tutto bene… dormi… dormi…”
Ellie serrò gli occhi e cercò di seguire quel consiglio, ma si sentiva impazzire per quanto era successo, ed il breve sogno che aveva fatto su Annie le sembrava più reale che mai… come se quella bambina fosse davvero stata con lei, in uno strano limbo, e le avesse teso le mani, chiedendole di essere portata nel mondo reale.
Era nel sangue… in quel sangue nella vasca…
Le venne di nuovo da piangere e si strinse al marito profondamente addormentato: non voleva svegliarlo, l’ultima cosa che voleva fare era di dovergli spiegare quanto era appena successo. No, non gli avrebbe mai parlato di quest’aborto, assolutamente: sarebbe rimasto un suo intimo segreto. A che sarebbe servito poi? A far sopportare pure a lui una nuova ondata di dolore? Come se non bastasse tutto quello che stavano sopportando? Sapeva benissimo che Andrew le sarebbe stato accanto, dolce e premuroso come sempre, però in questo caso no… Annie era un segreto solo suo.
Fatti forza, Ellie… tra un paio di ore inizia la giornata e avrai altro a cui pensare.
 
“Mamma…” Kain si strinse maggiormente al petto di Ellie con espressione spaventata.
“Va tutto bene, cucciolo mio – sorrise lei – siamo quasi arrivati a casa dei nonni, tranquillo. Andrew, lo copri meglio per favore?”
Immediatamente la copertina che avvolgeva il piccolo venne sistemata come si conveniva: erano passati solo due giorni da quando la febbre l’aveva lasciato ed era necessario evitare la minima esposizione a qualsiasi corrente d’aria o che dir si voglia.
“Oh, ma sono con il figlio…”
“Quel fagotto che lei tiene tra le braccia?”
“Pare che sia fragilissimo… forse anche storpio…”
“Del resto nato settimino… poveretti, eppure sembrava che il loro matrimonio fosse così felice. Certo che una disgrazia simile capitasse a loro nessuno se lo aspettava…”
Quei commenti sussurrati la facevano impazzire, tanto che a un certo punto serrò gli occhi.
Da quando era nato Kain raramente le era capitato di scendere in paese, le commissioni affidate quasi del tutto ad Andrew, e le rare volte che era successo non le era mai capitato di sentirsi sommersa da quella morbosa curiosità. Nel sogno che aveva fatto i commenti per Annie erano tutti così belli e orgogliosi: sulla perfezione dei suoi capelli, sulle guance rosate e piene, sulla vitalità e gioia di vivere… una figlia di cui essere felici ed orgogliosi…
“Mamma…”
Ellie abbassò lo sguardo sul visino che spuntava dalla coperta, così pallido e spaventato, con gli occhi che sembravano davvero l’unico tratto vivo. Per lui uscire era una novità assoluta e destabilizzante, ma aveva insistito tanto per poter andare a casa dei nonni per il compleanno della mamma.
“… forse anche storpio…”
No, non era vero… solo che, quando aveva la febbre reumatica le sue articolazioni si gonfiavano e su un corpicino così esile risaltavano tantissimo. Le manine erano ancora parecchio rigide e sembravano un po’ degli artigli per come erano aggrappate al suo vestito.
Non era storpio… era…
E’ un piccolo uccellino sgraziato – lo pensò con pietà, la prima volta che provava un sentimento simile nei confronti del bambino.
“…Certo che una disgrazia simile capitasse a loro nessuno se lo aspettava…”
“Ellie, va tutto bene?” la voce di Andrew la scosse e alzò lo sguardo verso di lui, trovando un minimo di conforto nei bei occhi castani, nell’espressione rassicurante, in quella figura solida e sicura.
“Sì, voglio solo arrivare così lo possiamo far sdraiare nel divano.”
“Eccoci qua, meraviglia – annuì lui, mentre finalmente giungevano davanti a casa Lyod – coraggio, ometto, adesso vedi i tuoi nonni, sei felice? Ci sono tutti quanti.”
“Nonni…” Kain mormorò quella parola con un soffio, un piccolo pigolio che cercava rassicurazione in quel termine così familiare.
E la risata felice di Annie risuonò impietosa nella testa di Ellie.
 
Dopo un poco che erano arrivati Kain si addormentò profondamente tra le braccia della nonna paterna, stringendo con posa un po’ rigida il pupazzo a forma di cavallino bianco che gli era stato appena regalato.
“Povero caro – commentò la donna, rivolgendosi ad Andrew ed Ellie – forse non era il caso di portarlo.”
“Ma no, mamma – scosse il capo Andrew – succede sempre che per qualche giorno dopo la febbre resti particolarmente letargico. Ma nei momenti in cui si sveglia è in forma e sarebbe stato un peccato farlo rinunciare a quest’esperienza… e poi, sinceramente, volevamo farlo uscire di casa almeno una volta.”
“Già, è la prima volta che lo portate fuori – annuì il notaio, sedendosi accanto alla moglie e posando la copertina sopra il nipote – sarà stato emozionato per questa passeggiata.”
“Più che altro spaventato…” ammise Ellie con un sospiro rassegnato.
Si accorse immediatamente di aver fatto un errore nell’usare un tono di voce simile: subito sentì su di lei gli sguardi di suo padre e di Andrew, occhiate veramente penetranti che si chiedevano cosa le fosse successo.
Stupida! Tieni un tono più gaio…
“Beh – si costrinse a sorridere – il mio pulcino dormirà per le prossime due orette di sicuro. Mamma, ti posso dare una mano in cucina? Mi manca tanto poterti aiutare!”
“Ma certo, tesoro, vieni con me: è tutto avviato ma ci sono ancora diverse cose da fare.”
Con un sospiro di sollievo Ellie si congratulò con se stessa, la sua abile mossa per poter sviare il discorso aveva avuto successo: del resto Kain era appena uscito fuori da una settimana di malattia, era ovvio che tutti pensassero che anche lei avesse bisogno di momenti di respiro e svago. Forse fu per questo che sua madre non le fece alcuna domanda mentre erano in cucina: probabilmente interpretava quei piccoli sbalzi d’umore come qualcosa di assolutamente normale.
Ma sì, insomma! Nessuno lo sa e lo verrà a sapere!
Ed il pranzo fu molto gradevole ed Ellie scoprì di aver sentito la mancanza di ricorrenze simili: per la prima volta si accorgeva di quanto Kain l’avesse letteralmente imprigionata dentro casa per praticamente tre anni, se si considerava anche la gravidanza difficile. Per quanto lei amasse badare al suo piccolo castello, il poter uscire, andare a trovare i suoi, poter pranzare con loro… erano tutte cose che le erano estremamente mancate. Ed era una cosa che Andrew non poteva capire perché, tutto sommato, lui la sua libertà l’aveva quasi subito recuperata: andare a lavoro era comunque una valvola di sfogo incredibile.
Ma lei no… e Kain faceva fatica a respirare, e rigettava, e aveva la febbre… no, lei non era come le altre madri che potevano prendere i propri figli e portarli in paese a fare una passeggiata, vantarsene con le amiche per far vedere quanto erano belli. Lei Andrew e Kain non erano mai andati assieme a fare spese, con il piccolo tenuto per mano in mezzo a loro che sorrideva estasiato al mondo, curioso di scoprire tantissime cose.
Suo figlio aveva paura del mondo e l’aveva tenuto nascosto in una copertina. Per proteggerlo dal freddo, certo, ma anche per nasconderlo… perché se non era storpio era comunque bruttino e rachitico e faceva pena a guardarlo.
Mentre Annie invece…
Cielo, Ellie, smettila! Smettila – sorrise disperatamente al brindisi finale – Annie non esiste! Non esiste! E’ morta stamattina, capisci?
Fortunatamente dopo quel momento si spostarono in salotto e l’attenzione si volse su Kain che si era svegliato ed era felicissimo di stare con i nonni.
“Ellie…” mormorò Andrew, prendendole la mano.
“Va tutto bene, amore, sul serio – sorrise lei – accidenti, non ero più abituata ai brindisi… e mi ero dimenticata di quanto fosse forte il vino che usano mamma e papà!”
“Mamma… il cavallino!” Kain la chiamò con aspettativa mostrandole il pupazzo tenuto con presa incerta.
“E’ bellissimo, vero? – riuscì a sorridergli, cercando disperatamente di ignorare quei polsi e quelle dita ancora rigidi e leggermente gonfi – Lo vuoi chiamare Blanco come il cavallo del nonno?”
“Blanco? – sorrise il piccolo con timidezza – Posso, nonno?”
“Ma certo, ragazzo mio – Nicholas si accostò a lui e gli arruffò i capelli scuri – Chiamalo pure Blanco… lo sai che anche quello smidollato di tuo padre ha cavalcato qualche volta?”
“Papi, davvero?” gli occhioni scuri di Kain si puntarono su Andrew, ovviamente ignorando il significato della parola smidollato.
“Certo, ometto – sorrise Andrew, inginocchiandosi davanti a lui – lo sai che i cavalli corrono davvero veloce? Sai, una volta…”
E mentre il piccolo ascoltava estasiato il racconto del padre, Nicholas si scostò dal gruppetto e prese per il braccio la figlia.
“Vieni, ragazza – mormorò – queste stupide lacrime non riesci a trattenerle ancora per molto. Noi andiamo a prendere una boccata d’aria, signori, continuate pure…”
“Oh, papà…” Ellie quasi scoppiò a piangere mentre si lasciava condurre prima nello studio del padre e poi nella grande veranda adiacente ad esso.
“Che hai, fanciullina? – le chiese l’uomo con gentilezza, quando ebbe chiuso la porta finestra alle sue spalle – è da quando siete arrivati che ho capito che c’è qualcosa che non va. E, mi dispiace dirlo, non credo sia colpa di quell’imbecille di tuo marito… Riguarda il piccolo?”
“No… sì… non lo so – la giovane si mise le mani sui capelli sentendosi impazzire – papà… cielo, io non ce la faccio più! Non doveva andare così… perché è dovuto succedere proprio a me?”
Scoppiò in lacrime, permettendosi uno sfogo che chiedeva di uscire da tempo, da quando i suoi sogni erano stati in buona parte spezzati dalla realtà. Aveva cercato di essere forte, di mettercela tutta, ma per quanto si sforzasse di accettare il suo destino, non poteva far a meno di scontrarsi ancora con i suoi meravigliosi sogni di gioventù, con quelle gloriose promesse per il futuro che aveva tanto cullato nella sua anima.
“Che è successo, tesoro? – le braccia del padre la avvolsero – Raccontami tutto, da brava.”
“Sono un mostro! – si sfogò – E’ lui è così indifeso… gli sto dando colpa di tutto! Cielo… cielo, papà, ma che mi succede? Non mi riconosco più!”
“Tu e Kain? – Nicholas la scrollò leggermente, fissandola con gli occhi scuri così simili ai suoi – Ellie, ma che dici? Tu non sei un mostro e Kain non ha colpa di niente, così come te… ragazza, calmati, sono sicuro che sono solo stupide paranoie.”
“Oh, papà… ma perché non posso avere altri bimbi?” si strinse di nuovo al genitore, senza nemmeno cercare di controllare le lacrime ed i singhiozzi.
“Perché la vita a volte è davvero vigliacca, amore mio – la consolò l’uomo – ma le persone forti si rialzano e tu sei forte: hai Kain, l’hai fatto sopravvivere quando tutti noi lo davamo per spacciato. Lui…”
“Lui non è Annie…” sussurrò Ellie.
“Annie?”
“Ho… ho avuto un aborto stamane… ti prego non dirlo ad Andrew! Ora sto bene lo giuro! – esclamò impanicata, staccandosi da lui – Era solo il secondo mese…”
“Sciocca! Dovevi restare a casa a riposare! Adesso vai subito a sdraiarti e…”
“Papà… papà, ti prego, ascoltami fino in fondo, sennò impazzisco. Ho… ho immaginato che… che fosse una bambina… ed era così bella e perfetta, con i colori di Andrew! E andava a cavallo di Blanco fin da piccola, ed era così brava… così ammirata e amata da tutti… Ed Annie… è un nome così bello… vero? Vero che è bello?”
“Ellie – Nicholas le asciugò le lacrime – Annie non esiste… a due mesi il bambino non è ancora…”
“Papà, per la prima volta mi sono resa conto di quanto Kain sia… oddio non lo so nemmeno dire. Fino a ieri era il mio tesoro, il più bel bambino del mondo… ma non lo è! E’… cielo ma che sto pensando di mio figlio!”
“Ehi! – lo schiaffò che le diede fu del tutto improvviso – ragazza, riprenditi! Questo aborto ti ha fatto perdere anche il sangue che ti tiene acceso il cervello? L’idiota è tuo marito, non tu!”
Ellie si portò una mano alla guancia, incredula di quel gesto, ma era come se il lieve dolore facesse in parte svanire la nebbia velenosa che la circondava. Si guardò attorno, come se non credesse ai suoi occhi di trovarsi nella sua vecchia casa, in quella veranda dove tante volte aveva parlato con suo padre, confidandogli i suoi piccoli grandi segreti, le sue ansie, le sue paure…
“E’ stato bruttissimo sentire quei crampi allo stomaco – riuscì a dire – mi ha ricordato di quando Kain… cielo, papà è stato orribile.”
“Come tornate a casa tu ti sdrai a letto e fai fare tutto a tuo marito, chiaro? Ellie, fanciullina, non è una cosa da niente quella che hai passato stamane, capisci?”
“Perché sto dando la colpa a Kain?”
“No, stai dando la colpa a te stessa, ma stai completamente andando fuori strada – Nicholas le accarezzò la guancia che le aveva schiaffeggiato – ora mi sembri in te, ragazza, ma per averne la certezza che ne dici di andare dal tuo piccolo? Si starà ancora gingillando con quel pupazzo e scommetto che non vede l’ora che tu gli racconti qualcosa a proposito di cavalli alati o simili… e tranquilla per quella guancia, non si nota.”
Con un sospiro tremante Ellie si fece condurre di nuovo nel salotto, ma tenne lo sguardo basso, non osando affrontare Kain: dopo che aveva pensato tutte quelle cose orribili su di lui, come poteva anche solo pensare di…
“Mamma! Mamma, eccoti!”
Come poteva tenere lo sguardo basso a quel richiamo?
Kain si fece mettere per terra dal padre le gambe ancora insicure dopo le sofferenze della febbre reumatica. Ma anche se potevano dargli fastidio o dolore e non obbedire del tutto ai comandi del cervello, non ci fece caso e con un gran sorriso iniziò a trotterellare verso di lei, in parte sbandando, come se fosse ubriaco.
“Piano, amore mio, piano – Ellie si inginocchiò giusto in tempo per accoglierlo tra le braccia – che le tue gambette sono ancora stanche, lo sai.”
“Mamma, lo sai che Blanco dà i bacini? – Kain protese il pupazzo verso di lei, in modo che il muso andasse sulle labbra – li ha dati a tutti quanti, è buono!”
“Sì? – lo sollevò da terra, sentendolo così caldo e vivo, smanioso di lei come nessun’altro poteva esserlo… come quella bambina del sogno non poteva… Perché quello che le regalava Kain con la sua piccola e coraggiosa presenza valeva infinite volte di più di quella perfetta bambina che cavalcava un cavallo troppo grande per lei – Che bravo… e tu me lo dai un bacio, pulcino?”
“Tanti baci!” esclamò lui, sempre pronto ad elargirle amore.
E quello bastò a far sparire del tutto l’incubo vissuto ore prima.
Il mondo riprese a scorrere nel modo giusto e Kain non fu più un cosino per cui provare pietà e amarezza, ma la sua più bella ragione di vita.

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Capitolo 37
*** Capitolo 36. 1889. Educazione differente. ***


Capitolo XXXVI

1889. Educazione differente.



 

“Mamma, perché un bambino non può parlare con un altro bambino per colpa della sua famiglia?”
La domanda di Heymans fu così improvvisa che a Laura quasi cadde il piatto che stava prendendo dalla credenza. Il suo cuore per un attimo smise di battere mentre cercava di assumere l’aria più disinvolta possibile prima di girarsi verso suo figlio che, seduto a tavola, attendeva il pranzo assieme ad Henry.
“Perché mi chiedi una cosa simile, tesoro?”
“Sai, a scuola c’è un nuovo bambino e a quanto pare molte mamme non vogliono che parliamo con lui.”
“Ah! – lieta di scoprire che la questione non riguardava loro, la donna si fece più curiosa – e come mai dicono così?”
“Dicono che sta con una zia – spiegò lui con espressione confusa – e che quella zia sta in un posto brutto. Però non ho capito bene di che cosa si tratta… forse è come nelle favole, mamma? Però credevo che la strega cattiva che teneva chiusi i bambini era solo una storia… e poi non era stata uccisa dal cacciatore buono?”
Finalmente Laura ricollegò i pezzi della vicenda a diverse chiacchiere che aveva sentito negli ultimi giorni a proposito del nipote della proprietaria del bordello del paese. A quanto pareva era solo un bambino, non un ragazzo come aveva precedentemente capito.
“E in che classe sarebbe?”
“In terza elementare… sai, durante l’intervallo l’abbiamo guardato da lontano, però non mi è sembrato strano come tutti dicevano. Però se ne stava tutto da solo e nemmeno quando la sua maestra l’ha chiamato per giocare al girotondo con gli altri si è avvicinato. Bran ha detto che è un orfano, ma non so cosa vuol dire… è una cosa brutta?”
“Orfano vuol dire che non ha più la mamma ed il papà, caro – Laura gli accarezzò i capelli, provando tanta pena per quel nuovo bambino – ecco perché è andato a vivere con la zia.”
“Oh…” Heymans alzò lo sguardo su di lei, evidentemente sconvolto da quella rivelazione. Forse per la prima volta capì che avere una madre presente non era così scontato e fu dunque istintivo per lui allungare le mani per stringersi al petto di Laura.
“Stai tranquillo, caro – sorrise lei, abbracciandolo – la mamma è qui, non lascia te ed Henry.”
“Non voglio mai diventare orfano!”
“Ma quando mai, Heymans. Forza, non pensare a queste cose brutte: prima mi dicevi che oggi era il compleanno di Sofì e che le avete cantato la canzoncina in classe, vero?”
“Sì – annuì lui, lieto di farsi dirottare su discorsi più felici – e lei ha offerto i biscotti che le ha fatto la sua mamma, erano molto buoni, sai! E domani farà una bella festa a casa sua… però…”
“Però?” Laura lo vide incupirsi.
“Mi ha detto che io non posso andare perché la sua mamma non vuole…” ammise.
Il panico che Laura aveva creduto di aver superato tornò con violenza a quella dichiarazione: questo sì che era un qualcosa che coinvolgeva direttamente suo figlio e aveva solo dieci secondi per inventarsi qualcosa prima che lui iniziasse a diventare troppo sospettoso o peggio.
“Oh, le mamme a volte sono così, lo sai…”
“Così come?”
“Strane.”
“Mamma, ma tu non sei strana – scosse il capo il piccolo – e perché poi tutti meno che…”
“E’ che questa storia dei compleanni è così stressante, hai visto cosa succede sempre per il tuo, no?”
“Ma è papà che non vuole.”
“Ah – Laura guardò verso il tavolo con imbarazzo: non si immaginava che suo figlio fosse così perspicace – lo vedi che sono strani i genitori? L’importante è che Sofì ti voglia bene, no?”
“Sì, lei mi vuole bene, me l’ha detto!” sorrise Heymans, con orgoglio.
“E allora non ti deve importare di una festa, no? Pensa se andassi alla festa e poi lei non ti volesse bene tutti gli altri giorni di scuola, non sarebbe brutto?”
“Beh, hai ragione…”
Ovviamente c’era qualcosa che lasciava perplesso il bambino, era facile capirlo: Laura stessa sapeva bene che il suo ragionamento era un po’ campato in aria, ma era come se la morale finale fosse corretta e dunque non importava come ci si era arrivati. Per cui alla fine il piccolo le diede ragione ed il successivo approssimarsi del pranzo spostò la sua attenzione ad altri argomenti.
Qualche ora dopo, mentre osservava il figlio maggiore che faceva i compiti nel tavolo di cucina, Laura si sorprese nel vedere quanto fosse cresciuto: nemmeno tre mesi e avrebbe compiuto sette anni… ed ogni giorno che passava fisicamente diventava più simile a Gregor. Questo era davvero un peccato, considerato che sarebbe invece potuto assomigliare allo zio o comunque prendere dalla famiglia Hevans: sembrava quasi un perverso gioco del destino che nonostante questa palese parentela padre e figlio non avessero che un minimo rapporto e fatto quasi sempre di incontri casuali.
Ed invece l’attenzione di Gregor era tutta spostata su Henry: sul figlio che portava quel nome tanto temuto e che da grande sarebbe assomigliato tantissimo al defunto soldato, a Laura bastava guardarlo per capirlo.
E allora cambierà atteggiamento anche con lui?
Scosse il capo, preferendo non pensarci e d’istinto abbassò lo sguardo sul piccolino che, seduto sul pavimento faceva lottare due pupazzi tra di loro, con tanto di versi fatti con la bocca. Certo che il padre non gli insegnava giochi molto gentili, tutt’altro… ma era anche vero che con i figli maschi spesso funzionava così. Suo fratello ed Andrew erano state eccezioni: in fondo le loro famiglie appartenevano a quella parte alta della società che non vedeva di buon occhio baruffe e simili: sotto quel punto di vista avevano avuto un tipo di educazione e disciplina molto differente. Parolacce, botte con gli altri bambini, vestiti strappati o quanto altro volevano sempre dire una punizione e una predica sul comportarsi bene.
Forse dovrei dire a Gregor di andarci piano con il bambino – rifletté – non mi va che si abitui a determinati atteggiamenti e modi di dire. Ah, che diamine… adesso inizio anche a pensare come mia madre!
Scosse il capo con ostinazione, rifiutando con orgoglio di somigliare a quella donna anche solo in minima parte. Il ricordo di quanto era successo immediatamente dopo la nascita di Heymans la fece rabbrividire inconsapevolmente.
Non pensarci, stupida. Sono chissà dove e non possono più farti niente. Che marciscano pure nella loro dannata torre di orgoglio ferito!
“Mamma, cosa c’è?”
“Niente, caro – si girò subito verso Heymans che aveva posato la penna e la guardava perplesso – ti serve una mano con i compiti?”
“No, guarda li ho finiti. Sono stato bravo?”
“Ma certo: sono sicura che la maestra ti metterà un bel voto domani.”
“Speriamo.”
“Heymans…”
“Sì?”
“Tu sei bravo ed educato a scuola, vero?” le venne quasi d’impulso fare una domanda simile.
“Eh? Sì, mamma, perché?”
“Non dici parolacce o vieni messo in castigo, no?”
“No, mamma, quello è Jean te lo dico sempre – scosse il capo con sincerità – come oggi che ha spaventato Clara con i vermi di terra e l’ha fatta piangere. Perché? La maestra ti ha detto che non sono bravo?”
“No, lascia stare – sospirò Laura – ma ricordati che devi sempre fare il bravo bambino.”
“Certo, mamma.”
“Ottimo.”
E volle sentirsi estremamente fiera nell’essere riuscita a dare una buona educazione a suo figlio: in realtà sapeva bene di bearsi di un successo abbastanza facile, considerato che Heymans aveva sempre sentito solo la sua campana. Il vero successo come madre ed educatrice l’avrebbe avuto se fosse riuscita a far crescere degnamente Henry: sapeva benissimo che l’influenza paterna poteva essere molto negativa… era brutto da fare come discorso, ma la differenza di classe sociale si faceva sentire per determinate cose.
Te la sei cercata, Laura, te la sei… oh, basta! Ti sei già detta che non devi pensarla come tua madre, no? E’ solo questione di buonsenso che Henry capisca come comportarsi…
“Mami, quando torna papà?” chiese il bimbo, alzandosi in piedi sempre con i due pupazzi in mano.
“Forse all’ora di cena, caro.”
“Se vuoi giochiamo insieme!” propose subito Heymans scendendo dalla sedia con entusiasmo.
Henry lo fissò perplesso, come se stesse valutando attentamente la cosa: era strano vederlo esitare in un simile modo, del resto una proposta di gioco era sempre allettante per un bambino.
“No, papà non vuole.” scosse il capo alla fine, correndo subito via dalla cucina.
“Come, papà non vuole? – chiese Laura – Henry, torna subito qui, forza!”
Heymans la guardò in modo stranito: era raro che la mamma usasse un tono così autoritario. Ma effettivamente l’effetto fu quasi immediato ed il bambino di quattro anni rientrò in cucina con un broncio sul viso.
“Sì, mamma?”
“Che sarebbe questa storia che papà non vuole che tu giochi con tuo fratello?” chiese Laura guardandolo con attenzione.
“Dice così – ammise lui, fissando il pavimento, per nulla contento di quella che in fondo era una sgridata per colpe non oggettivamente sue – e non devo disobbedire al papà.”
“E nemmeno alla mamma, se è per questo: e la mamma vuole che tu adesso giochi con…”
“Mamma – Heymans le tirò la gonna – lascia stare, non mi va più.”
“Ma tesoro…”
“Non mi va più ho detto! Lasciami in pace!” dichiarò ancora, recuperando i suoi quaderni dal tavolo e andando via di corsa.
“Heymans! Aspetta! – lo richiamò Laura, mentre Henry approfittava di quel momento per scappare via verso la sua cameretta – No, Henry pure tu… oh, insomma!”
Ma nemmeno il tono di comando ebbe il potere di farli tornare: sentì le due porte chiudersi e lei rimase impotente in cucina. Sarebbe dovuta andare a prenderli e sgridarli per un simile atteggiamento… per un comportamento simile alla loro età persino Andrew sarebbe stato messo in punizione dai suoi calmi e pacati genitori.
Ma come posso metterli in punizione? Non è la loro reale volontà.
In quel momento odiò profondamente suo marito, ma odiò anche se stessa: come genitori non si stavano dimostrando all’altezza della situazione.
 
Mentre Laura rifletteva su queste problematiche di educazione, rendendosi conto che i suoi due figli stavano ricevendo delle basi completamente diverse, manco vivessero in case separate, Ellie ed Andrew si squadravano con quella che si poteva definire ostilità all’interno dello studio di lui.
“Non sono assolutamente d’accordo – ribadì Ellie a braccia conserte, fissando il marito con astio, come forse era successo solo per quel vecchissimo incidente dei biscotti al cioccolato – non ha ancora quattro anni e non è proprio il caso di punirlo.”
“Alla sua età certe cose è perfettamente in grado di capirle – scosse il capo Andrew, assumendo la medesima posa – che c’è? Tuo padre non ti ha mai messo in punizione alla sua età? Oh no, aspetta, non sia mai che lui punisse la sua fanciullina…”
“Per tua norma e regola mio padre non si è mai fatto problemi a punirmi, lo stai accusando di indulgenza? O forse vogliamo ricordare che sei dovuto venire a salvarmi perché ero imprigionata in casa per colpa tua, vorrei specificare?”
“Colpa mia? Ellie Lyod, non rigirare la frittata! Se non sbaglio fu una folle ragazzina di quattordici anni a tenere nascosta ai suoi genitori tutta la relazione che intratteneva con me.”
“E’… è stata una cosa completamente diversa! – arrossì lei con violenza – E comunque per Kain simili cose non sono nemmeno da pensare… insomma è così piccolo e fragile, non si può punirlo.”
“Ellie – scosse il capo Andrew – non ho nessuna intenzione di fargli qualcosa di tremendo, che scene stai andando ad immaginare?”
“Stava solo giocando con i gessetti colorati, perché dobbiamo farne un dramma? Tanto ho pulito tutto in un secondo!”
“Ah, e solo perché pulisci tutto senza problemi lui si deve sentire autorizzato a disegnare ogni volta sul pavimento? Scusa tanto, ma non permetterò che mio figlio cresca male per un tuo eccesso di indulgenza.”
“No, sono io che non permetterò che rimanga traumatizzato per una tua eccessiva severità!”
“Diamine lo devo solo mettere in castigo nell’angolo per dieci, dannatissimi, minuti!”
“Perché gli devi far passare i dieci minuti peggiori della sua vita adesso che è tranquillo da un paio di settimane? Vuoi forse far riniziare la febbre?”
Come se si fosse concluso un primo round di quello scontro, i due si voltarono in modo da darsi le spalle.
Era la prima volta che si trovavano in palese disaccordo su qualcosa ed il fatto che riguardasse Kain li rendeva più combattivi che mai. Nessuno l’avrebbe mai sospettato quella mattina, quando si erano svegliati e sembrava una giornata come le altre.
Le cose procedevano abbastanza bene ed era da una ventina di giorni che Kain godeva di buona salute, tanto che stava riuscendo a mangiare senza troppi problemi quasi tutti i giorni. Forse era proprio per questo motivo che Ellie era più apprensiva che mai: non le sembrava vero che tutto stesse andando per il meglio e voleva evitare che il minimo turbamento facesse riammalare il suo bambino.
“Sei stato tu a regalargli quei gessetti colorati! Io nemmeno volevo per paura che se li mettesse in bocca!” sbottò la donna, tornando alla carica.
“I gessetti colorati li abbiamo avuti tutti alla sua età, con tanto di album da disegno… il pavimento non è contemplato come superficie da colorare. Diamine, Ellie, ma perché stiamo qui a litigare? Ti rendi conto che è una sciocchezza?”
“No che non lo è – scosse il capo lei – è così piccolo ed indifeso… perché devi spaventarlo con una sgridata, me lo spieghi?”
“Ellie, tutti siamo stati sgridati dai nostri genitori: ha tre anni e mezza, suvvia. Non ho intenzione di fare niente di grave: lo rimprovero, lo metto in castigo per dieci minuti e poi finisce tutto… sarò io stesso ad andare ad abbracciarlo appena termina il castigo, se ti può tranquillizzare.”
Andrew sospirò quando vide sua moglie iniziare persino a piangere: non riusciva a credere che si stesse arrivando a tutto questo per una cosa normalissima. Era assurdo che Ellie trasponesse le sue apprensioni per la salute di Kain in questioni puramente educative.
Suvvia, è perfettamente in grado di assimilare un castigo! – se lo disse con forza, cercando di convincersi ed eliminare quella piccola scintilla di dubbio che le lacrime della donna stavano accendendo in lui.
“Per favore…è già così spaventato!” supplicò ancora lei.
“Ti fidi di me?” chiese, prendendola per le spalle e cercando di chiudere definitivamente la questione .
“Non è questo che…”
“Ripeto – sorrise leggermente, capendo che stava per cedere – ti fidi di me come genitore di Kain?”
“Giurami che non alzi troppo la voce…” concesse.
“Non una nota più del necessario – annuì baciandola in fronte – e asciugati queste lacrime, meraviglia, fammi il favore, va bene?”
Lieto di aver vinto quella piccola battaglia, Andrew uscì fuori dallo studio, cercando di assumere un’espressione credibile per poter mettere in punizione Kain. A dire il vero pure lui era leggermente stranito da quella situazione: non gli era mai capitato di dover prendere dei provvedimenti nei confronti di suo figlio e la cosa lo spiazzava leggermente. Per quanto sapesse che era una dinamica del tutto normale nell’ambito familiare, c’era il timore che per il proprio fragile bambino fosse un qualcosa che andava trattata in maniera differente.
Oh, finiscila, Andrew… l’hai appena convinta e ora sei tu ad avere dubbi?
“Kain – chiamò, entrando in camera del bambino – dobbiamo parlare.”
A quel richiamo fatto con voce tranquilla ma severa il bambino si alzò in piedi dal letto dove era seduto e fissò il padre con aria timorosa. Ovviamente sapeva di aver sbagliato e niente lo spaventava di più sapere che tra lui ed i suoi genitori c’era un nuovo e strano ostacolo di cui non capiva ancora il senso: non c’era più il classico “no, non si fa”, ma qualcosa che andava oltre.
D’istinto le sue braccia si strinsero attorno al cavallino di pezza.
“A proposito di quanto hai combinato oggi, signorino – iniziò Andrew, mettendosi a braccia conserte – voglio che ti sia ben chiaro che i gessetti colo… no… no, no, aspetta! Non piangere…”
Ma era stato come aprire un rubinetto, proprio come era successo con Ellie, e il bambino era scoppiato in singhiozzi, con lacrimoni enormi che iniziavano a colare sulle guancie arrossate.
Che faccio? – pensò Andrew – Se lo abbraccio e lo consolo addio punizione… ma se non faccio qualcosa la disciplina andrà a farsi benedire. Dannazione, ma perché è in grado di piangere in modo così straziante?
“Non odiare Kain!” singhiozzò il bambino, correndogli incontro e aggrappandosi ai suoi pantaloni.
“Odiare? Oh, no, no… no, piccolino, ma che cosa dici? – fu costretto ad inginocchiarsi ed abbracciarlo – Ma quando mai papà ti odia? Senti, perché non ti calmi e ne parliamo?”
“Mai più gessetti! Mai più!” strillo lui.
“Non è così che funziona, Kain – lo sollevò da terra – coraggio, non piangere più…”
“Nasino…”
“Devi soffiare il nasino? – armeggiò nella tasca per prendere un fazzoletto – ecco qua, andiamo soffia forte, da bravo…”
Ci vollero svariati minuti, ma alla fine il bambino parve calmarsi. Peccato che era così esausto dal gran piangere che si appellicciò alla spalla del padre con tutto l’intento di addormentarsi seduta stante.
“Senti, Kain – Andrew scosse il capo e si accomodò nel letto, facendogli assumere una posizione seduta sulle sue ginocchia in modo da evitare quel sonnellino improvvisato – adesso che ti sei calmato ne possiamo parlare?”
“Kain buono…” pigolò il piccolo, guardandolo con aria triste.
“Sì lo so che sei buono, ma hai fatto una cosa sbagliata – spiegò l’uomo accarezzandogli i capelli corvini – e papà non ti odia, va bene? Ma non vuole che tu faccia di nuovo quella cosa va bene? I gessetti colorati si usano solo sull’album da disegno, intesi?”
“Non ci gioco più coi gessetti, promesso.”
“No, Kain, non è che non ci devi più giocare – sospirò – solo non nel pavimento, va bene?”
“Va bene…”
“Oh, vedi? Non c’era niente di tragico – sorrise ancora Andrew, lieto che almeno quella parte fosse andata a buon fine – Adesso vai nell’angolo per dieci minuti e poi è tutto finito.”
“Perché?” chiese Kain perplesso.
“Ecco… perché quando succede che fai qualcosa che non va è bene che ci pensi su, così non lo ripeti.”
“Ma io non lo faccio più, l’ho detto… non credi a Kain? – supplicò lui aggrappandosi alla camicia del padre con gli occhi pericolosamente lucidi per nuove lacrime – no?”
“Sì che ci credo, tranquillo! E’… è solo per ricordare meglio, va bene?”
“Mh – Kain annuì con ansia, asciugandosi gli occhi con i pugnetti chiusi – va bene. Nell’angolo…”
“Bravo, ometto – sorrise Andrew, mettendolo a terra – papà è fiero di te: ora vai e… che c’è?”
“Vieni con Kain, papi – tese la mano il bambino – insieme…”
“No… no, Kain, non funziona così: devi andare tu a riflettere nell’angolo.”
“Con te – sorrise lui speranzoso – con papi Kain impara sempre!”
“Senti – lo prese per mano, profondamente imbarazzato ed interdetto da come stava andando male quel momento genitoriale che si era ripromesso di condurre con fermezza – papà ti accompagna nell’angolo, va bene? Però è necessario che resti da solo a riflettere, capisci?”
“Non resti con me?” mise il broncio.
“Mi siedo nel letto e aspetto – concesse Andrew – ma chi deve riflettere sei tu… no, faccia contro il muro.”
“Perché?”
“Perché funziona così, fidati. Adesso rifletti per dieci minuti: te lo dice papà quando puoi smettere. E per tutto questo tempo devi stare zitto, chiaro?”
“Va bene, papi! – sorrise Kain, felice di obbedirgli – Kain buono e fa come dici tu!”
“Sì, ecco bravo!” annuì Andrew, risedendosi nel letto e convincendosi di essere riuscito almeno in parte a salvare la situazione.
Rimase un minuto in assoluto silenzio prima di arrischiarsi a guardare suo figlio.
Se ne stava in piedi, composto, proprio come ci si aspettava da un bambino in punizione: peccato che non avesse minimamente lo sguardo contrito ma anzi fosse estremamente felice di fare quello che suo padre gli aveva detto. In qualche strano e assurdo modo Kain aveva ribaltato il suo castigo.
Oh dai, il pentimento per il pavimento colorato c’è stato… bisognerà lavorare sul resto.
Ma non poté far a meno di sorridere nel vedere come le gambette che fuoriuscivano dai pantaloncini corti fossero decisamente più robuste e finalmente prive di quei gonfiori per la febbre reumatica. E anche le braccia erano più in carne, così come il viso.
Ti prego, sarebbe un miracolo meraviglioso… ti amo, piccolo mio, non ne hai idea. Voglio solo che tu stia finalmente bene… proprio come in questi giorni.
“Andrew…” sussurrò Ellie sedendosi accanto a lui.
“Sssh!” la bloccò facendogli un cenno eloquente.
“No, mamma, fai silenzio – si girò Kain con aria importante – devo riflette come dice papi!”
“Oh, scusa tanto, pulcino!” annuì lei, ma come il piccolo si rigirò dovette mettersi una mano davanti alla bocca per trattenere la risata.
Però, come si vantò Andrew poco dopo, i dieci minuti nell’angolo Kain li fece tutti quanti.
E di certo non avrebbe più usato i gessetti colorati nel pavimento.
 
Quella sera, dopo cena, Laura si mise a guardare Gregor che giocava con Henry.
“Avanti, ragazzino, picchia duro, coraggio! – lo incitava l’uomo, mettendo i palmi delle sue grosse mani per parare i piccoli pugni – Forza così!”
Ed Henry ci metteva tutto il suo impegno possibile, con un sorriso soddisfatto. Del resto quale bambino non sarebbe stato felice di vedere il proprio padre così compiaciuto? E anche se non c’era niente di male che padre e figlio giocassero alla lotta, Laura non poteva far a meno di vederci qualcosa di sbagliato.
Non è così che mio padre ed il padre di Andrew hanno educato lui ed Henry. Mai e poi mai li ho visti fare una cosa simile…
“Henry, Gregor, perché non giocate a qualcos’altro che non sia la lotta? – chiese con calma posando sul grembo la maglietta che stava rammendando – Così evitate anche di stancarvi troppo… perché invece non giocate assieme ad Heymans a qualcosa che si può fare in tre?”
A quelle parole, Heymans, che si trovava sul primo gradino delle scale a sistemare i suoi animaletti di legno, ebbe un sussulto e si girò a guardarla con aria stranita. Un po’ tutti lo fecero, come se avesse appena proposto una cosa veramente assurda.
“Finiscila di dire sciocchezze, donna – sbottò Gregor – il ragazzo mica si stanca, vero Hen? Forza, colpisci di nuovo!”
A quel segnale il bimbo si riscosse e con un sorriso riprese il gioco interrotto, mettendoci una foga tutta nuova in quei piccoli pugni. Heymans, dal canto suo, mise con diligenza i suoi giochi nella piccola scatola di cartone e salì al piano di sopra.
Brava, Laura, complimenti! Un ottimo tentativo… che ha reso la situazione ancora più difficile.
Con un sospiro terminò di rammendare la maglietta e prendendola in mano si avviò al piano di sopra.
“Ehi, tesoro – sorrise, entrando in camera del figlio maggiore – la tua maglietta è di nuovo a posto. La puoi mettere anche domani per andare a scuola. Te la sistemo dentro il cassetto, va bene?”
“Grazie, mamma.” annuì lui seduto per terra, mentre disponeva di nuovo gli animali sul pavimento. E Laura notò che lo faceva con ordine: un piccolo esercito schierato a cuneo. Aspettò qualche secondo che le rivolgesse la parola di sua spontanea volontà, ma poi vedendo che quell’ostinato silenzio continuava, decise di essere lei a rompere il ghiaccio.
“Vuoi giocare con me? – chiese, sedendosi accanto a lui – A quello che vuoi, tesoro.”
“Non serve – scosse il capo il bambino – mamma, sono io quello sbagliato, vero?”
“Sbagliato? Oh no, amore…”
“E’ per qualcosa che ho fatto che papà non vuole stare con me e non vuole che stia con Henry, vero? E’ forse è la stessa cosa per cui Sofì non mi può invitare al suo compleanno… mamma, sono un orfano come quel bambino nuovo?” non c’erano lacrime negli occhi grigi, solo una disperata necessità di riuscire a capire, trovare finalmente una spiegazione ai dubbi che lo laceravano.
“No, amore mio – sospirò Laura, abbracciandolo – tu non hai niente che non va, e non sei orfano. E’ una cosa che sei ancora troppo piccolo per capire, credimi. E alla mamma dispiace tanto che tu sia triste… si sente così in colpa per tutto questo.”
“Oh no, mamma, non dire così! – immediatamente restituì l’abbraccio – Tu non c’entri! Tu sei buona e bella, sei la miglior mamma del mondo… sono io che non vado bene, dev’essere così. Ma tu no! Aspetta! Aspetta… giochiamo, dai! Voglio fare una casetta per gli animali del bosco con le costruzioni – annaspò disperato a prendere la scatola con i piccoli cubetti di legno – vuoi? Ti prego dimmi che vuoi…”
“Ma certo, amore mio – Laura si obbligò a cacciare indietro le lacrime e sorridere – facciamo una bella casetta per i tuoi amici animali.”
“Bene! – annuì Heymans, come se fosse sollevato da un grande peso – A me importa solo di te, mamma, sul serio: voglio che tu sia sempre felice con me, sempre sempre!”
“Sempre sempre, patatone, promesso!” giurò lei, baciandolo sulla chioma rossa.
 
“Ma che bravo, pulcino – sorrise Ellie, mentre Kain mostrava con un sorriso il piattino vuoto – hai mangiato tutta la tua carne.”
“Era buona, mamma, tanto.” dichiarò il bambino, mentre Andrew gli passava il bavaglino sul mento.
Anche per quella cena aveva mangiato senza alcun problema, una cosa che come sempre rendeva felicissimi entrambi i genitori. Su consiglio del medico avevano provato a dargli anche cibi più complessi rispetto ai soliti omogeneizzati e minestrine e sembrava che non ne risentisse assolutamente.
“Bravo, ometto – annuì il padre – la carne ti fa tanto bene. Adesso, se hai pazienza, mamma e papà terminano di cenare e poi ci possiamo spostare in salotto, va bene?”
“Sì, papi – sorrise Kain con diligenza posando le manine sul piano del seggiolone ormai libero e pulito – Kain aspetta.”
“Tanto manca solo il dolce – spiegò Ellie portando in tavola i piattini con la torta al cioccolato – ecco qua, caro: uscita dal forno nemmeno un’ora fa.”
Mentre Andrew gustava il primo boccone, riconoscendo ancora una volta che Ellie con i dolci era davvero insuperabile, si accorse di essere osservato. Alzando il viso notò che Kain aveva gli occhi sgranati e brillanti di aspettativa, la piccola bocca semiaperta quasi a richiedere un assaggio.
“Secondo te lo può mangiare un po’ di cioccolato?” chiese all’improvviso.
Ellie alzò lo sguardo e rimase dubbiosa.
Certo, negli ultimi tempi lo stomaco di Kain aveva dimostrato di poter assimilare meglio i cibi ed era ovvio che, iniziando a gustare i propri pasti, volesse provare anche nuove pietanze, specie quelle con un odore piacevole come la torta al cioccolato. Ma era anche vero che gli zuccheri dei dolci erano più pesanti rispetto alle proteine della carne o simili.
Però… un bambino che non mangia dolci fa così tristezza…
Per la prima volta mise da parte tutte le sue apprensioni e disse.
“Oh beh, se può stare in castigo per dieci minuti direi che un cucchiaino di cioccolato lo può mangiare.”
Capendo di aver ottenuto la concessione Kain batté le manine deliziato e poi iniziò a guardare prima l’uno e poi l’altro genitore, indeciso su chi gli avrebbe dato quella pietanza che aveva quell’odore così piacevole.
“Coraggio, ometto – disse infine Andrew, porgendo il cucchiaino con il pezzetto di torta – apri bene la bocca e attento a non far cedere le briciole.”
“Aaaaaaaaaaah!”  Kain addirittura si sporse dal seggiolone davanti a quell’offerta.
Andrew ed Ellie lo osservarono masticare la torta come se fosse un cuoco esperto che valuta una pietanza di un dilettante. La tenne in bocca per diverso tempo, tanto che ad un certo punto furono sicuri che l’avrebbe sputata, ma poi, dopo qualche secondo, ingoiò il boccone.
“Cos’è, mamma?”
“Cioccolato, pulcino… ti è piac…”
“Ancora! – esclamò gioioso battendo le manine sul seggiolone – Ancora coccolato! Coccolato!”
“Non coccolato, cioccolato – lo corresse Andrew, allungando un'altra cucchiaiata – però non esageriamo, va bene? Questa e basta… e ripetilo bene: cioccolato.”
“Cioccolato!” esultò il bimbo, sentendosi estremamente felice per quella scoperta.
“Gli piacciono i dolci…” costatò Ellie, con un sorriso incredulo.
Suo figlio non le era mai sembrato così normale.




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Capitolo 38
*** Capitolo 37. 1890. Dentro e fuori il nido. ***


Capitolo XXXVII

1890. Dentro e fuori il nido.



 

“Allora, Jean – la maestra invitò il bambino biondo ad alzarsi dal proprio banco – perché non ci racconti della tua nuova sorellina. Scommetto che sei molto eccitato all’idea di essere diventato fratello maggiore, vero? Avanti, siamo tutti curiosi.”
I bambini di terza elementare mormorarono eccitati, aspettando che il loro compagno raccontasse della nuova sorellina: era successo solo un’altra volta che uno di loro diventasse fratello maggiore durante le elementari, ed era stata una novità davvero straordinaria.
“E’ una fregatura bella e buona!” sbottò Jean, mettendosi a braccia conserte e alzando gli occhi al soffitto con aria sdegnata.
“Che? – la maestra lo fissò con incredulità – Ma come? E’ la tua sorellina…”
“Appunto! Per tutti questi mesi i miei genitori mi hanno sempre parlato di un fratellino, invece è una stupida femmina. Che ci faccio con una sorella? Io volevo un fratello!”
“Sei il solito cattivo!” protestò una bambina, subito seguita dalle altre.
“Ecco appunto, già ci siete voi! Adesso ne ho una pure a casa! Stupide antipatiche!”
“No, bambini! Sedetevi! – la maestra cercò di riportare l’ordine in classe – Anche tu, Jean, da bravo.”
“… una sorella, ma guarda che cosa mi è toccato!”
“Ci dici almeno come si chiama?”
“Janet...” bofonchiò il bimbo.
“Un bellissimo nome… bene, ragazzi, adesso alzino la mano tutti quelli che hanno un fratello o una sorella, non importa se più grandi o più piccoli.”
Heymans alzò la mano insieme a diversi suoi compagni, ma per una volta tanto sperò che la maestra non chiedesse a lui di parlare. Per qualsiasi altra cosa sarebbe stato lieto di dire la sua, ma trovava che suo fratello fosse un argomento veramente complesso e difficile e preferiva tenere i suoi compagni nell’ignoranza quasi più totale.
“E tu, Heymans?”
“Ho un fratello più piccolo. Adesso ha cinque anni…” disse con lo sguardo basso.
“Molto bene, e tu Pat?”
Sospirando di sollievo, il rosso riprese a guardare i suoi compagni, quando Jean, che sedeva dietro di lui, lo punzecchiò con un dito.
“Sei fortunato – disse – con un fratello di quell’età potrai giocare ad un sacco di cose. Io invece non solo ho una sorella, ma è anche così piccola che debbo aspettare che cresca un minimo per farci qualcosa di decente.”
“Ma finiscila…”
“Una sorella certo non mi aiuta a litigare con quelli di quarta e quinta.”
“Se lo fai ancora la maestra lo dirà ai tuoi, lo sai bene – gli ricordò Heymans – perché non pensi invece a studiare: ti mette sempre dei brutti voti.”
“E chi se ne frega! Hai presente le bande dei ragazzi grandi? Un giorno ne farò parte pure io!”
Lo disse con estremo orgoglio posandosi contro lo schienale e mettendosi a braccia conserte. Heymans per tutta risposta scosse il capo e si rigirò a guardare avanti: il fatto che quell’anno il biondino fosse nel banco dietro al suo non aveva fatto che creargli problemi. Jean Havoc proprio non ce la faceva a smettere di essere chiassoso e distratto durante le lezioni e questo ovviamente provocava disturbo anche ai suoi vicini di banco: sembrava che ogni anno, a turno, toccasse a qualcuno di loro con buona pace del resto della classe.
Bande… ne vuole già far parte?
Alla fine di terza elementare si sapeva dell’esistenza delle bande, ma era chiaro che era un qualcosa riservato ai grandi delle scuole medie e superiori: da quanto ne sapeva Heymans erano dei gruppi di ragazzi che spesso litigavano fra di loro o facevano delle strane prove di coraggio. La problematica era che, molto spesso, erano delle cose che facevano arrabbiare gli insegnanti ed i genitori, quasi delle sfide contro gli adulti… e decisamente se queste faccende proibite avevano un fascino del tutto particolare per uno come Jean Havoc, di certo non l’avevano per Heymans Breda.
“E i tuoi genitori che cosa diranno quando lo verranno a sapere?” chiese, girandosi di nuovo verso di lui, a costo di essere ripreso dalla maestra.
Il biondino per tutta risposta fece un sorriso furbo.
“Mio padre quando era giovane picchiava più forte di tutti! Sarà fiero di me!”
“Ah, ma certo!” sbottò il rosso, rigirandosi questa volta in maniera definitiva.
Certo, è chiaro che il suo papà è come il mio.
 
Mentre tornava a casa Heymans rifletteva che se al posto di un fratello avesse avuto una sorella, le cose a casa probabilmente sarebbero state più facili. Per avere quasi otto anni era un bambino molto sveglio e soprattutto capace di analizzare l’ambiente e le persone attorno a lui: la sua mente era abbastanza spietata e molto spesso tendeva ad evitare le solite illusioni infantili che i piccoli si creano per proteggere se stessi e la loro innocenza.
Il rossino aveva capito da tempo che la sua famiglia era diversa dalle altre a partire da lui stesso: una volta aveva visto un disegno che Sofì aveva fatto della sua famiglia e aveva notato come fossero tutti presi per mano e sorridenti. Ma se un disegno simile l’avesse fatto lui non avrebbe usato certamente le stesse pose e le stesse espressioni.
Ma nonostante fosse consapevole che c’erano dei problemi che ancora sua madre si rifiutava di dirgli, era comunque convinto che lei fosse la persona più buona e dolce del mondo e che sul suo amore avrebbe sempre potuto contare. Era lei l’unico membro della famiglia con cui si sentisse davvero se stesso, l’unica con la quale poteva, in determinati momenti, agire da bambino.
Però era anche vero che la situazione, per il resto, era di assoluto e teso stallo e difatti, quando entrò a casa, subito abbassò lo sguardo a terra nel vedere che suo padre era seduto nel divano, intento a giocare con Henry.
Non biascicò nemmeno un “ciao”, preferendo essere ignorato piuttosto che interagire con quell’adulto che era ancora un doloroso mistero nella sua esistenza ed in quella di sua madre, sebbene lei lo negasse. Silenzioso come solo anni d’esperienza gli avevano insegnato ad essere, salì in camera per andare a posare la tracolla, ma piuttosto che scendere in cucina come faceva di solito, si sedette alla sua scrivania a braccia conserte, meditando attentamente sulla sua situazione.
“La famiglia è composta da me, mamma, papà ed Henry – mormorò, prendendo un foglio e una matita colorata e disegnando quattro cerchi – io voglio bene a mamma, papà vuole bene ad Henry, mamma vuole bene a me ed Henry… ed io…” le linee che stava disegnando man mano che esponeva quei collegamenti avevano formato un reticolo davvero strano, un qualcosa di così complicato che indicava chiaramente qualcosa di sbagliato.
“Ah, sei tornato, amore – la voce di sua madre da dietro lo fece sobbalzare – come è andata a scuola?”
“Benissimo, mamma – rispose subito, accartocciando il foglio e volgendosi verso la donna che era entrata in camera – vuoi che venga in cucina ad aiutarti?”
“Vuoi darmi una mano ad apparecchiare? Ma certo, caro, vieni pure, così mi racconti della tua giornata.”
Ovviamente annuì e subito si alzò dalla sedia, ma una piccola parte della sua mente gli diceva che anche in quel normale gesto tra di loro c’era qualcosa di sbagliato: era come se stessero nascondendo a loro stessi che qualcosa non andava, come se stessero cercando una normalità che invece non c’era.
“Mamma…”
“Sì, caro?”
“No, niente d’importante…”
Tanto lo sapeva bene che da lei non avrebbe ottenuto nulla.
 
Per quanto fosse giovane, Heymans aveva in qualche modo assimilato, seppur a livello incosciente, il concetto che gli adulti sono esseri fallibili e che dunque non ci si può aspettare tutto da loro.
Kain invece aveva quasi cinque anni ed in quel momento la sua piccola volontà stava lottando contro una delle sue più grandi paure. Si aggrappò con forza allo stipite della porta della cucina e per l’ennesima volta lanciò un’occhiata timorosa al cortile davanti a lui
“Non trovi che sia una bellissima giornata di metà maggio, pulcino – sorrise Ellie dietro di lui, finendo di sistemare i piatti appena lavati – il sole è bello caldo e in cortile ci sono tanti fiori colorati, hai visto?”
“Fiori colorati… sono belli, tanto.” annuì il piccolo, contemplando il cespuglio di margherite ad appena una decina di metri da lui. Certo che gli piacevano, così come gli piaceva tutto quel verde, il rumore fatto dagli insetti e dagli uccellini, quegli odori così intensi che gli solleticavano il naso. Aveva sempre visto il giardino solo dalla finestra, sempre con i vetri a schermarlo da quell’impatto così forte, inebriante e… spaventoso.
Sì, perché era tutto così grande e vasto rispetto al mondo ovattato e tranquillo di casa: al bambino sembrava che oltrepassare la soglia e mettere il piede sulla terra nuda avrebbe voluto dire essere rapito da chissà quale mostro che si nascondeva dietro quei colori meravigliosi.
“Vuoi aiutare la mamma a scuotere la tovaglia?”
“Eh?” Kain si girò perplesso e con terrore vide sua madre che si stava accostando a lui con la tovaglia appallottolata tra le braccia. Con che coraggio riusciva ad andare fuori in cortile senza aver paura del mostro invisibile? I suoi occhi neri si sgranarono ancora di più come la vide uscire fuori canticchiando un motivetto come se nulla fosse.
“Forza, vieni, pulcino – lo chiamò – adesso la mamma ti fa vedere come si fa.”
“Non ci sono i mostri?” chiese con voce flebile, smanioso di raggiungerla.
“Mostri? Ma no, piccolo mio, è solo il cortile: coraggio, vieni dalla mamma.”
“E perché prima non – mosse un primo esitante passo e poi corse ad aggrapparsi alla sua gonna – … non ci potevo andare?”
“Perché prima avevi sempre la febbre, Kain – spiegò Ellie con un sorriso – ma ormai sono un due mesi che non stai più male e quindi puoi uscire senza troppi problemi. E poi è una così bella giornata… forza, adesso prendi questo lembo della tovaglia e tienilo stretto.”
“Va bene…”
Il piccolo ebbe un sussulto come sentì la madre allontanarsi da lui di qualche passo, ma vedendola così serena si disse che forse il mostro del cortile non esisteva o almeno non quando c’era la mamma con lui.
“Pronto? Allora tieni forte forte… e uno, due, tre! – esclamò Ellie – Oh, ma guarda quante briciole!”
“Tante briciole!” Kain gioì nel vedere tutta quella cascata di briciole che veniva sollevata in aria per poi cadere a terra: era una delle tante magie della mamma che non si sarebbe mai stancato di osservare. Perché Kain, dalla mente fantasiosa che era, si era convinto che la  sua mamma fosse in realtà una delle fate delle storie che spesso gli raccontava: del resto gli narrava di animali che parlavano, di magie, di mondi fantastici… ovvio che li doveva conoscere tanto bene.
“Attento, Kain Fury – Ellie interruppe quei pensieri andandogli accanto e avvolgendolo nella tovaglia con aria cospiratoria – allontaniamoci di qualche metro: arrivano gli uccellini.”
“Uccellini?” il piccolo trattenne il fiato estasiato, mentre si aggrappava alla donna e si nascondeva ancora di più tra le pieghe della tovaglia, quasi dovesse restare nascosto per assistere a quell’ennesima magia.
“Sssh, piano che altrimenti si spaventano… eccoli, amore, guarda… i cip cip. Mangiano le briciole che gli abbiamo lasciato, vedi?”
Bastò quella prima meravigliosa scoperta per trasformare il cortile da posto spaventoso a luogo incantato. Kain lasciò andare tutte le sue paure per farsi trasportare dall’entusiasmo: tenendo per mano la mamma andava da un fiore all’altro, chiedendo il nome, ripetendolo, sentendosi eccitato per ogni farfallina od insetto che gli passava vicino. Non aveva mai pensato che fuori casa il mondo potesse essere così affascinante e carico di scoperte.
Quando poco dopo vennero raggiunti anche da Andrew, non vedeva l’ora di raccontargli le meravigliose cose che aveva imparato: il cortile sul retro non faceva altro che riecheggiare della sua vocetta impazzita.
 
Heymans chiuse il quaderno con soddisfazione, lieto di aver terminato i suoi compiti con discreto anticipo. Anche se non se ne vantava apertamente, gli piaceva essere il più bravo della classe: poter primeggiare tra i suoi compagni lo faceva sentire in qualche modo compensato della posizione di subordinazione che invece subiva a casa.
Notando come fosse bello quel pomeriggio di maggio, si fece forza e decise di scendere di sotto: se si metteva d’impegno poteva persino convincere sua madre a lasciarlo uscire di casa. Era una cosa che era già avvenuta qualche volta, quando c’era qualche commissione da fare e lei era troppo impegnata per uscire. Ovviamente Heymans aveva ben capito che aveva paura che lui se ne andasse in giro da solo per il paese, ma aveva ricollegato la faccenda alla classiche apprensioni materne che erano frequenti anche tra i suoi compagni. In ogni caso aveva dato ampia prova di essere responsabile e dunque quei permessi erano ottenuti con relativa facilità.
Arrivato in cima alle scale si fermò, la sua espressione che si faceva più dura.
“Ehi, non si disfano i gomitoli della mamma!”
“Stavo solo giocando – disse Henry, volgendosi con sorpresa verso di lui – vedi? Il verde è il prato, il blu il cielo, il rosso le case e…”
“Quei gomitoli li usa per cucire, capito? Perché non pensi alla fatica che poi fa a…”
“Mi ha detto lei che posso!” protestò il piccolo, mettendo il broncio e fissando la sua opera con aria di sfida.
“Che? Ma che dici, lei…”
“Bambini? Che succede?” Laura uscì dalla cucina, fissandoli con curiosità.
“Mamma! – protestò Henry – Vero che mi hai detto tu che potevo giocare coi gomitoli?”
“Ma certo, caro.”
“Vedi? Sei solo uno stupido!”
Mentre osservava il fratellino che, stizzito da quella sgridata ingiusta, recuperava i gomitoli e scappava al piano di sopra, Heymans mantenne un’espressione impassibile. Una piccola parte di lui era dispiaciuta per quel malinteso, ma dall’altra non poteva far a meno di essere convinta che comunque era nel giusto: Henry faceva molto spesso delle cose sbagliate e quasi mai veniva ripreso dal papà, tutt’altro. E sembrava che persino la mamma fosse molto indulgente nei suoi confronti…
“Che hai tesoro?” gli chiese Laura.
“Niente… ma perché gli hai detto che può giocare coi gomitoli? Non ti servono più?”
“Sono quelli vecchi, caro – spiegò lei – e ormai è quasi estate. Piuttosto che buttarli subito li ho dati a lui per giocarci, tutto qui. Oh, dai, non fare così il serioso, non è successo niente di grave. Vieni, ti do un succo di frutta: con questo caldo ce n’è proprio bisogno.”
“Posso uscire?”
“Uscire?”
“Sì, andare a fare qualche commissione – spiegò il bambino, prendendo il bicchiere che gli veniva dato – ho già fatto tutti i compiti e mi andava di uscire. Ti prometto che non mi caccio nei guai, come sempre.”
Sua madre lo squadrò con aria perplessa per qualche secondo, ma Heymans ci mise tutto se stesso nel fare uno sguardo supplichevole: sapeva di poterla convincere.
“Beh, effettivamente mi mancano alcune cose per la cena… se passi in drogheria mi fai un favore.”
Heymans sorrise felice, aspettando con pazienza che la lista venisse compilata: finalmente avrebbe avuto l’occasione di uscire un po’ di casa. Erano due i motivi per cui voleva fare quella piccola spedizione: in primis perché gli piaceva e poi perché voleva iniziare a capire qualcosa della sua famiglia e, ovviamente, da sua madre non avrebbe avuto nessun indizio. Ed era risaputo che dal droghiere c’erano sempre tante signore che parlavano tra di loro e dunque avrebbe potuto scoprire qualcosa di interessante.
Così, nell’arco di dieci minuti era al bancone e passava al droghiere la lista della spesa.
“Prendi pure un candito, giovanotto – gli strizzò l’occhio l’uomo – io ti preparo la busta.”
“Grazie!” sorrise lui, mettendosi in punta dei piedi per arrivare al barattolo di vetro.
Con fare noncurante si guardò attorno, notando che alcune signore l’avevano adocchiato e avevano iniziato a parlottare tra di loro. Tendendo l’orecchio il più possibile afferrò solo alcune parole come matrimonio e figlio, ma non era niente che lo potesse aiutare.
Certo che una mamma ed un papà si sposano, altrimenti come possono diventare mamma e papà e avere figli?
“Tieni, Heymans, e saluta la mamma.”
“Uh, sì, ecco i soldi. Grazie tante.”
Prese la busta, facendo attenzione a mettersela bene in equilibrio tra le braccia e si avviò verso l’uscita, salutando cortesemente le signore di lato. Queste lo guardarono esitanti per qualche secondo e poi risposero al suo saluto.
“Almeno pare ben educato…” commentò una, quando Heymans ancora poteva sentirle.
Certo che lo sono – pensò con lieve fastidio – perché pensate che non lo sia?
No, decisamente gli adulti erano davvero difficili da capire.
Forse devo dar retta alla mamma ed aspettare ancora. Rischio di non capirci nulla.
 
Kain sedeva sul divano con le lacrime che continuavano a colare senza parere, il respiro singhiozzante e una grande paura che ancora lo tormentava.
“Su su, ometto – lo consolò Andrew, sedendosi accanto a lui e abbracciandolo – non è successo niente di grave, solo un ruzzolone dal muretto.”
“Fa male! – pianse il bambino – Brucia tanto!”
Si raggomitolò contro il fianco paterno, cercando di convincersi che ormai quel cortile non gli poteva fare più niente: ora che era di nuovo al sicuro dentro casa, con i suoi genitori, non sarebbe successo niente di male. Eppure si stava divertendo così tanto… aveva raccolto tante pietroline colorate e tante foglie e petali di fiori assieme alla mamma e li avevano messi dentro un barattolo di vetro per fare una strana cosa chiamata spupurrì, o almeno gli era sembrato di capire così… ma sicuramente si trattava di una delle magie della mamma.
Però poi, quel bel pomeriggio era finito in maniera orribile: mentre la mamma era in cucina col papà per preparare la merenda lui si era messo ad inseguire una farfallina. Sicuramente voleva giocare con lui perché non faceva altro che svolazzargli attorno e ad un certo punto si era persino posata sul suo naso. Però non si lasciava prendere e anzi, ogni tanto si allontanava e volava davvero alta. Allora, per raggiungerla era salito su un muretto di pietra e…
“Sono solo delle sbucciature: adesso le disinfettiamo e passa tutto.”
“No – singhiozzò lui – brucerà tanto, lo so. Non voglio più uscire! Cortile cattivo!”
“Oh no, pulcino – sorrise Ellie, tornando con la bottiglietta dell’odiato disinfettante e del cotone – non dire così: anche mamma e papà da piccoli sono caduti tante e tante volte, succede. Forza, vediamo queste ginocchia tutte sporche…”
“No no… brucia, mamma, per favore! – supplicò lui – non voglio!”
“Dai, fermo, ometto – lo bloccò Andrew con fermezza – è questione di un minuto.”
Piangendo senza parere, Kain sopportò quella dolorosa medicazione, cercando con aria supplichevole la madre non appena questa finì di sistemare la lieve fasciatura al secondo ginocchio. Si sentiva così spaventato ed umiliato da quella pessima esperienza: tutto quello che voleva era stare al sicuro tra le braccia materne, le uniche assieme a quelle del papà, che lo proteggevano da tutto e tutti.
E difatti, come venne preso in braccio, sentì che il dolore alle ginocchia ferite diminuiva in maniera esponenziale, tanto che riuscì persino a sorridere.
“Finito di piangere, pulcino? – sorrise Ellie, accarezzandogli la guancia – Lo sai che la mamma non vuole vedere i lacrimoni nel tuo visino.”
“Scommetto che fa già meno male, vero? – lo prese lievemente in girò Andrew, arruffandogli i capelli – in braccio alla mamma passa sempre tutto.”
“Perché mamma è magica – spiegò Kain, tirando su col naso e cercando di darsi un contegno – lei può perché è la mia mamma, solo lei…”
“E papà non è magico?” chiese Ellie, baciandolo in fronte.
“Mh – Kain parve rifletterci – no, non è magico. E’ igenere.
“Ingegnere, piccolo – ridacchiò Andrew – ed effettivamente ammetto di non essere magico come la mamma. Quel ruolo spetta a lei.”
“Ma io ti voglio bene lo stesso, papi – si affrettò a dire il bambino, tendendo le mani verso di lui – anche se non sei magico. Ecco, prendimi in braccio, per favore!”
Nella sua ingenua mentalità Kain non voleva assolutamente che uno dei suoi genitori si sentisse poco amato: certo, c’era una lieve preferenza per la mamma, ma era per questioni puramente fisiche. La mamma lo abbracciava e coccolava molto di più, gli cantava sempre canzoncine, gli pettinava i capelli, gli faceva il bagnetto… era oggettivamente quella più presente. Il papà invece era quello forse a volte più severo, che non poteva che essere ammirato ed adorato per tutte le cose che sapeva e spesso gli raccontava: stare con lui non faceva altro che infondere sicurezza al bambino e a spronarlo ad andare avanti anche se aveva paura.
E loro hanno paura? – si chiese timidamente mentre veniva stretto da entrambi i genitori – Oh no, sono la mia mamma ed il mio papà: non hanno mai paura.
“Senti un po’ ragazzino – propose Andrew – vogliamo andare di nuovo in cortile?”
“Che? Oh no! No, papi, per favore – supplicò – è cattivo il cortile, stiamo qui, va bene?”
“E dai, viene papà con te, ti tengo per mano così sei più tranquillo...”
“Dobbiamo proprio?” ansimò con disperazione.
“Andrew, dai – mormorò Ellie, baciando i capelli arruffati del bambino – per oggi direi che basta. E’ stanco, credo che sia l’ora di fare un sonnellino, vero amore?”
“Si, sonnellino – annuì Kain – sono stanco.”
Effettivamente lo era, ma era più il sollievo di non dover uscire in cortile per una seconda volta. Si fece mettere a letto con docilità e dopo cinque minuti era già nel mondo dei sogni.
“Se non domani, dopodomani dovrà uscire di nuovo – commentò Andrew, osservando la moglie che rimboccava le coperte al bambino – perché rimandare?”
“Era abbastanza traumatizzato, non era il caso di forzarlo – scosse il capo lei, accarezzando la chioma del figlio prima di rimettersi in piedi – accidenti a noi che l’abbiamo perso di vista per un minuto: dovevamo stare più attenti… non pensavo provasse a salire sul muretto.”
“E’ un bimbo di quasi cinque anni, certo che fa questo tipo di cose. Dai, come prima uscita non è andata male: aveva delle guance belle rosse, eh?”
“Tutto quel movimento… non è che stiamo esagerando?”
“Ellie, sta bene.”
“Sssh, ti prego non dirlo – lei corse ad abbracciarlo – e se poi… cielo e se stasera gli sale la febbre? Con tutto quello che ha fatto non…”
“Anche il medico ha detto che sta bene, tranquilla. E’ ormai da due mesi che non si ammala e anche le ultime volte che ha avuto la febbre era solo una forma leggerissima e non reumatica. Sta mangiando bene e con appetito: ancora cinque chili e peserà come un bimbo della sua età. Va tutto bene, Ellie… sul serio.”
“Beh, passare dalla febbre alle ginocchia sbucciate è un bel cambiamento.”
“Più che positivo, direi. Vedrai che smetterà di essere così pauroso col tempo – la baciò sulla tempia – è solo che è tutto nuovo per lui. Gli altri bambini a quattro anni sono già stati tante volte in cortile, ma lui ha tempistiche diverse.”
“Ma sì, lo sai che sono io apprensiva – sospirò – vado a preparare una torta al cioccolato, così per cena sarà bello felice. Inizio a pensare che il cioccolato sia la panacea di nostro figlio.”
“Buon per lui che sei così brava a preparare dolci.”
 
Heymans era di buon umore quella sera: suo padre era andato fuori dopo cena e dunque poteva stare nel salone senza sentire tutta quella tensione addosso. Erano quelle le serate che preferiva: gli sembrava che anche sua madre e suo fratello fossero diversi ed in qualche modo si sentiva il vero uomo di casa.
“Henry – chiamò Laura – è ora di andare a letto per te, da bravo.”
“Di già? – protestò il bambino mettendo il broncio – non posso stare alzato altri cinque minuti.”
“No, tesoro, ti devi ancora cambiare e lavare i denti.”
Heymans vide che il fratello obbediva docile a quell’ordine e si compiacque: se ci fosse stato il padre magari avrebbe ottenuto di restare alzato fino a tardi, ma le cose non funzionavano così.
“Tu tra venti minuti, caro – lo riscosse Laura – va bene?”
“Ma certo, mamma – annuì, ben sapendo che rispetto ad Henry aveva un po’ più di tempo per restare alzato – ti serve una mano con quella roba da cucire?”
“No, tranquillo, ho fatto tutto. Allora, vieni qua: è da un po’ di tempo che non ti coccolo come si deve.”
“Ma ormai sono grande – ridacchiò, salendo tuttavia in grembo alla donna e facendosi abbracciare – però va bene, ma solo un po’… solo perché sei la mia mamma!”
“Oh, che gentile concessione Heymans Breda – rise Laura – mi sento onorata.”
Godendosi quel momento speciale, il bambino si ritrovò a pensare al piccolo schema che aveva creato quel pomeriggio, a quelle righe che collegavano i vari pallini tra di loro.
“Ci vuole un papà e una mamma per fare un figlio, vero?” si trovò a chiedere
“Ma certo, caro: una mamma ed un papà.”
“E si sposano, vero?”
“… sì, amore mio, si sposano ed hanno un bambino.”
“E’ andata così anche per me, vero?”
“Perché me lo chiedi? – la voce della donna si fece leggermente tesa e le sue braccia si irrigidirono – Certo che è andata così anche per te, Heymans. Come non potrebbe?”
“Era… erano solo pensieri, mamma…” mormorò lui, perplesso.
“Davvero? Oh beh, certo… mh, il mio patatone, te l’ho mai detto che sei il più bello del mondo?”
Ma mentre Heymans sorrideva a quelle coccole, una piccola parte di lui annotò quel breve cambiamento d’umore che c’era stato.
Le signore del negozio parlavano di matrimonio e figli… ma io sono nato proprio così. Che problema c’è?

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Capitolo 39
*** Capitolo 38. 1891. Vecchie ambizioni. ***


Capitolo XXXVIII

1891. Vecchie ambizioni

 

“Occhiali? – Nicholas Lyod sbuffò e prese in braccio il nipote – Quel medico non capisce proprio nulla!”
“Invece ne capisce – scosse il capo Ellie – e sono stata una sciocca pure io a non pensarci: pure Andrew soffriva di quei mal di testa e gli sono passati non appena ha iniziato a portare gli occhiali nei momenti di lavoro. Evidentemente Kain ha ereditato lo stesso problema che è saltato fuori adesso che inizia a provare a leggere.”
“Non voglio mettere gli occhiali!” protestò il bambino.
“Non fare i capricci, pulcino – lo consolò Ellie – non è niente di spaventoso o doloroso: vedrai che la settimana prossima, come li metterai, vedrai benissimo e non ti verrà più il mal di testa.”
“Non voglio!” si ostinò Kain, rifugiandosi ancora di più sulla spalla del nonno, suo unico alleato in quel frangente.
“Il mio ragazzo ha più che ragione – sbottò l’uomo, arruffandogli i capelli scuri – finalmente sta bene e gli dobbiamo subito creare nuovi problemi? Ah, sciocchezze! Fidati del nonno, figliolo, una vita sana e all’aperto e questa storia degli occhiali viene dimenticata. Domani ti porto a fare una cavalcata con Blanco, sei contento?”
“Il tuo cavallino? – Kain sgranò gli occhi davanti all’idea di vedere per la prima volta quell’animale meraviglioso di cui aveva sentito tanto parlare nelle storie della mamma – Davvero, nonno?”
“Ma certo, così anche tua madre si fa una bella cavalcata: è da un bel po’ che non monta in groppa alla sua puledra, ma sono sicuro che farà faville.”
Ellie stava per protestare, l’idea di Kain in sella ad un cavallo grande come Blanco che la faceva impazzire di paura, ma poi si trattenne vedendo come nonno e nipote sorridevano ed interagivano tra di loro. Era stato un incontro casuale, nel mezzo del paese, proprio mentre stavano uscendo dall’ambulatorio del medico: avevano sentito il richiamo dell’uomo e Kain era corso felice verso di lui, dimentico di tutta la sua timidezza nel vedere tanta gente in giro per le strade.
“Va bene, andremo a cavallo – annuì, sentendosi in parte sfidata e scoprendo di essere impaziente di provare di nuovo l’ebbrezza dello stare in sella – domani mattina alle dieci, va bene?”
“Perfetto, ragazza! Adesso però, vi devo lasciare – annunciò rimettendo Kain a terra e dandogli una lieve sculacciata per incitarlo ad andare di nuovo dalla madre – devo risolvere alcune questioni da tuo suocero.”
“Ah sì? – Ellie lo guardò sorpresa – E che bisogno c’è di un notaio? E’ successo qualcosa?”
“Niente di importante, fanciullina, tranquilla. Mi raccomando, giovanotto, domani ti voglio in splendida forma, va bene?”
“Va bene, nonno!” annuì Kain con aria fiera, orgogliosissimo di aver avuto l’onore di quell’invito.
Mentre osservava il padre allontanarsi, Ellie si sentì felice in un modo del tutto nuovo: finalmente le sembrava di essere arrivata a quella normalità familiare che aveva tanto desiderato. Ormai si era convinta pure lei che i problemi di salute di Kain erano superati: il piccolo aveva ormai cinque anni e mezza ed era praticamente un anno che non aveva più nessun tormento. Ormai aveva superato la sua paura di uscire fuori, anzi non c’era angolino del cortile di casa che non avesse minuziosamente esplorato; questo aveva delle ripercussioni più che positive su di lui: il viso era finalmente pieno e rosato, le braccia e le gambe forti e pronte a scattare… certo restava piccolino rispetto ai suoi coetanei, ma questo l’aveva ereditato da lei che era sempre apparsa più minuta del previsto.
Prendendolo per mano si avviò verso l’uscita del paese, rispondendo con un gran sorriso ai saluti di varie persone. Anche da quel punto di vista le cose erano cambiate tantissimo: prima sembrava quasi che tutti avessero paura di salutarla per poi doverle chiedere del bambino, ma adesso sentiva che quel periodo di timore nei suoi confronti era finito. Finalmente sentiva solo commenti positivi, per esempio sul fatto che lei e Kain avevano gli stessi capelli, o che era davvero un bambino dal viso dolce.
Certo che lo sei, pulcino mio – lo osservo trotterellare accanto a lei, il pollice tenuto in bocca – sei il bimbo più bello del mondo.
“… però si vede già che da grande assomiglierà all’ingegnere. Lo ricorda parecchio…”
“… vero? C’è proprio l’aria di famiglia, ma i colori sono quelli della madre.”
“… sono davvero felice per loro. Pensavamo chissà cosa del bambino ed invece è bello sano: si vede che ha superato quella fragilità di cui tanto si parlava…”
Appunto! Appunto! Ammirate pure il mio perfettissimo bimbo – Ellie sentì di camminare in un sentiero di nuvole – il mio pulcino bellissimo.
“Mamma, comunque io non voglio gli occhiali!”
“Ti ho già spiegato che li devi mettere, caro. E’ per evitare quei mal di testa che ti vengono: sforzi troppo la vista e questo non va bene.”
“Non la sforzo più.”
“Non funziona proprio così, Kain. Suvvia, basta con il broncio ed i capricci… non ha proprio senso.”
“L’ha detto anche il nonno.”
“Tuo nonno non ha sempre ragione – scosse il capo Ellie – ed io e papà siamo perfettamente d’accordo con quanto ha detto il medico. Vedrai che è solo questione di abitudine, caro… uh, guarda, ci sono i bambini della scuola che fanno ricreazione: ci vogliamo avvicinare?”
Lo prese in braccio per permettergli di vedere bene oltre il muretto di pietra che delimitava il cortile e si sorprese a pensare che erano anni che non vedeva più i bimbi intenti a giocare nel cortile della scuola: ormai i piccoli a cui lei pensava tempo addietro dovevano essere alle medie e probabilmente si erano quasi del tutto scordati di lei. Sbirciò con attenzione nel cortile per vedere se riconosceva qualcuno e trattenne il fiato quando vide l’inconfondibile chioma fulva di Heymans: in quel momento stava giocando con alcuni suoi compagni a salto alla fune e sorrideva felice mentre faceva girare la corda all’unisono con un amico, mentre una bambina saltava cantando una filastrocca infantile.
Cielo, è in quarta elementare ormai… come è cresciuto.
Le vennero le lacrime agli occhi nel pensare a quando lo prendeva in braccio e lo coccolava: se c’era una cosa che le piaceva era la risata di quel bambino. Così innocente, così forte e vitale… ogni volta sembrava che riempisse di gioia quella casa, nonché la vita della sua amica. L’aveva rivista qualche mese fa, mentre portava Kain dal medico per un controllo: le sembrava tranquilla e serena, ma il suo istinto le diceva che qualcosa non andava. Non aveva indagato oltre, del resto non era il caso che le vedessero assieme per strada, le voci in paese avevano la capacità di girare molto in fretta, però capiva che era solo una facciata di felicità.
Non ne aveva parlato con Andrew, non ne aveva avuto il coraggio: gli aveva solo detto di quell’incontro e poi si era comportata con la solita spensieratezza. Col passare del tempo era arrivata alla conclusione che suo marito e Laura avessero creato una sorta di menzogna alternativa: si dicevano entrambi che le cose andavano bene anche se non era vero per paura di non essere all’altezza della situazione. Era anche vero che Andrew aveva ben poco diritto di intromettersi in quella che in fondo era la vita di coppia della sua amica e del marito, però era da considerare che la famiglia Breda costituiva un caso particolare.
“Ellie? – una donna la riconobbe e si avvicinò a lei – Allora sei proprio tu! Ciao, cara, come stai?”
“Signorina, buongiorno! – sorrise Ellie, riconoscendo la maestra che spesso aveva aiutato nel suo ultimo anno come studentessa – tutto bene, grazie, e lei?”
“Benone, sempre badando ai bambini… quest’anno sono in quinta elementare e mi toccherà lasciarli. Piange sempre un po’ il cuore al quinto anno, non ci si abitua mai. E questo bel bimbo?”
“Lui è Kain. Dì “ciao” alla signorina, pulcino. Se tanto mi da tanto sarà la tua maestra alle elementari.”
“Inizia a settembre? – sorrise lei, accarezzando la guancia del piccolo che, timidamente, si era accoccolato alla spalla materna – Allora sì, sarà mio allievo. Ne sono felice… ciao, Kain, fra qualche mese sarai in classe con me, sei felice? Impareremo un sacco di cose nuove ed interessanti.”
“Anche sui fiori e sugli animali?” chiese lui con voce flebile.
“Ma certo, tesoro. Vedrai, ci divertiremo molto assieme.”
“Fidati, Kain, la signorina Robyn è molto brava e paziente: ti troverai bene.”
“E tu, Ellie? Il tuo grande progetto di diventare insegnante l’hai abbandonato del tutto?”
A quella domanda Ellie rimase in silenzio, non sapendo proprio cosa rispondere. Da quando aveva avuto il primo rischio di aborto durante la gravidanza di Kain quel pensiero le era completamente sparito dalla mente. A distanza di quasi sei anni le sembrava davvero surreale tornare a riflettere su quella possibilità.
“Veramente non lo so – ammise con titubanza – diciamo che questo giovanotto ha un po’ sconvolto i miei progetti. Non sono stati anni molto facili per la sua salute.”
“Eh, lo so: in paese spesso si parlava di voi… hai fatto bene a dare la priorità al bambino, ma adesso pare che sia in splendida forma. E poi ormai è grandicello, quanto ha?”
“Sei anni a settembre.”
“Ora che inizia ad andare a scuola potresti effettivamente riprendere i tuoi studi – commentò la donna, mettendosi a braccia conserte – te lo dico perché sei davvero portata per fare la maestra: hai il raro dono di conquistarti subito la fiducia e la simpatia dei più piccoli. E poi si vedeva che adoravi dedicarti a loro anima e corpo: la tua era proprio una vocazione, credimi.”
Ellie arrossì davanti a tutti quei complimenti e lanciando un’occhiata a quel cortile pieno di bambini si sentì incredibilmente attratta da loro: avrebbe dato chissà che cosa per andare in mezzo a tutte quelle personcine così piccole e dolci e giocare, raccontare favole, insegnare tante cose nuove…
“Maestra! Maestra! – una bimba corse verso di lei – Roy e Maes stanno litigando con ragazzi di prima media, vieni!”
“Cosa? Oh, diamine, quei due sono sempre nei guai! – la donna si girò con aria preoccupata – Ti devo lasciare ora, cara, però ripensa a quanto ti ho detto, mi raccomando!”
“Lo farò…” mormorò Ellie, mentre la osservava allontanarsi verso un folto gruppo di bambini che, chiaramente stavano assistendo al litigio in corso.
“Mammina – chiamò Kain, accarezzandole la treccia come era solito fare – anche tu sei una maestra?”
“Eh? – si riscosse – No, pulcino, non lo sono. Allora, vogliamo tornare a casa? La mamma deve preparare il pranzo e si sta facendo tardi.”
“Ti aiuto pure io!” si offrì prontamente lui.
“Grazie mille, caro. Oggi ci siamo solo io e te a pranzo, perché papà è fuori a lavoro.”
“Oh…” i dritti capelli neri parvero quasi afflosciarsi per la delusione.
“Che dici? Facciamo lo sformato di verdure? Così quando torna a cena ne mangia pure lui e sai bene quanto gli piace."
“Buone le verdure, piacciono anche a me! Va bene, mamma! Così anche papà è felice a cena!”
 
Capitava a volte che Andrew restasse fuori per lavoro, specie quando i cantieri erano parecchio distanti da casa e fra percorso di andata e ritorno tornare a casa per la pausa pranzo sarebbe stato controproducente. A dire il vero, in quanto capocantiere, si sarebbe potuto permettere delle pause più prolungate rispetto ai suoi operai, ma nemmeno una volta gli era passato per la testa di usufruire di questo privilegio. In primis lo considerava un insulto nei confronti della sua squadra con cui ormai aveva un grande affiatamento e poi perché amava essere presente a qualsiasi fase del lavoro, anche la più banale. Se c’era una cosa che gli dava gioia era vedere le sue opere crescere: in quanto progettista aveva l’onore di vederle nascere e svilupparle lui stesso con i suoi progetti. Ogni giorno passato in cantiere si convinceva sempre di più che quella era la sua strada… certo, le giornate difficili non mancavano, ma il suo amore per quel lavoro era tale che riusciva ad infondere la stessa passione anche ai suoi uomini.
E quando si lavora con passione spesso si finisce anche prima del previsto.
“Ottimo lavoro, davvero – si congratulò il proprietario terriero per il quale avevano appena terminato un sistema di cisterne – e con due giorni di anticipo rispetto alla consegna. Con lei, ingegnere, si è sempre sicuri del risultato.”
“Siamo stati favoriti dal bel tempo – scrollò le spalle Andrew, mentre osservava i suoi uomini smontare le attrezzature ed il piccolo campo di lavoro che avevano allestito – e non ci sono stati problemi con i fornitori di materiali.”
“Ottimo, ottimo. Allora venga pure con me, andiamo pure a saldare il conto.”
A quella dichiarazione diversi operai fischiarono con entusiasmo: ovviamente la parte del pagamento era quella che preferivano e sapere di avere i soldi con due giorni in anticipo contribuiva ad alzare il morale del gruppo. Andrew sorrise con indulgenza e fece cenno ad uno di loro di prendere il comando della situazione mentre lui andava in paese a ritirare la paga di tutti quanti.
“Accidenti – commentò il suo datore di lavoro – mi sembra impossibile che fino a un sette anni fa facevamo a meno di queste innovazioni. Eh, è proprio come diceva mio nonno: si ha sempre paura delle novità. Quando arrivò la ferrovia qui la maggior parte della gente rifiutava di salirci… la riteneva opera del demonio o chissà cosa.”
“Sono felice che il paese si sia ricreduto – ridacchiò Andrew – vuol dire che la mia laurea è stata spesa più che bene, no?”
“Splendidamente direi. Ovviamente conto su di lei per altri lavori futuri.”
“Sempre a disposizione. Perché? Mi pare che nei suoi terreni ormai non manchi nulla.”
“Mah, possibili ampliamenti, per ora sono solo voci. Ma sembra che il vecchio Lyod voglia vendere qualche terreno… e alcuni sono confinanti con i miei, capisce…”
“Ah, davvero?” Andrew rimase leggermente stranito a quella rivelazione. Non che avesse un grande dialogo con suo suocero, il loro rapporto di odio reciproco in fondo non sarebbe mai finito, ma durante i pranzi di famiglia non mancava mai di dire eventuali novità.
Che stia succedendo qualcosa?
Gli sembrava impossibile. Del resto lavorando con i proprietari terrieri era sempre al corrente di vendite o simili, anche perché erano eventi parecchio rari in una campagna che tendeva a restare statica e senza variazioni di confini.
Ma no – rifletté, mentre andava nella casa del suo datore e veniva pagato, firmando le carte di chiusura del contratto – saranno solo delle stupide voci.
Una volta che venne raggiunto dai suoi uomini ed ebbe distribuito quelle buste paga, con un brindisi finale assieme a loro, decise di fare un giro per il paese. Prima di tutto voleva comprare un regalino per Kain, giusto per fargli una sorpresa quella sera, e poi sarebbe passato anche dai suoi genitori ad annunciare la chiusura anticipata del cantiere: gli faceva sempre piacere vedere i loro volti che si illuminavano d’orgoglio.
Era così spensierato che entrò in casa senza nemmeno bussare.
“Ehilà, mamma? Papà? Ci siete?”
“Ciao, caro – lo salutò subito Anna, andandogli incontro e baciandolo sulla guancia – come mai qui? Non eri a lavoro?”
“Finito con due giorni in anticipo e tanti complimenti da parte del signor Caster. Sono passato a fare un salutino a te e papà.”
“Oh, bravo, bambino mio! Mi rendi sempre fiera di te… uh, e quello?”
“Un regalino per Kain stasera torno a casa prima e gli volevo fare una sorpresa.”
“Ho saputo che deve mettere gli occhiali.”
“Ah, è questo il responso del medico? Hai incontrato Ellie stamane?” domandò, mentre si avviavano verso il salotto.
“No, l’ha incontrata tuo suocero e poi è passato da noi, doveva parlare con tuo padre.”
“Ah sì? – questo fece ritornare alla mente di Andrew quanto gli era stato detto a proposito di possibili vendite dei terreni – Posso entrare da papà o c’è qualche cliente?”
“Oh, c’è qualcuno – sorrise Anna, prendendogli il pacchetto di mano e posandolo sul tavolo – ma penso che tu possa entrare senza problemi.”
Andrew aprì la porta con curiosità ed immediatamente il suo viso si illuminò.
“Laura!”
“Andy! – subito lei si alzò dalla sedia e corse ad abbracciarlo – Oh, il mio Andy! Non credevo che saresti passato! Da quanto tempo!”
I due si strinsero con forza, finalmente senza la paura di essere visti da occhi pettegoli ed indiscreti, certi che Gregor non avrebbe saputo niente di quell’incontro. Ed in quell’istante si sentirono di nuovo ragazzi, quando niente turbava le loro felici esistenze ed il loro rapporto di fratellanza non doveva essere nascosto.
“Follettino – ridacchiò lui, alla fine, quando si staccarono, tenendola comunque tra le braccia – ma guardati… ti trovo benissimo!”
“Anche tu sei in forma, ingegnere. Tuo padre mi stava giusto dicendo dei tuoi grandi successi lavorativi.”
“Ma che ci fai qui?”
“Sono venuta per dare disposizioni sulla quota che è appena arrivata… sai i tuoi amici che hanno la società ad East City. Adesso che la rendita dell’esercito è finita devo comunque gestire le cose diversamente.”
“Ho saputo del fondo che hai voluto aprire per i ragazzi un paio di mesi fa.”
“Sì, infatti, mi sento più tranquilla a garantire loro almeno una sicurezza economica per il futuro. E niente… eccomi qua. E’ incredibile come riusciamo a non vederci per tanto tempo nonostante sia così piccolo il paese.”
“Siamo particolarmente bravi, vero? – ammise lui con un sospiro – Ehi, va tutto bene a casa?”
Una frazione di secondo d’esitazione: entrambi la colsero ma la ignorarono come sempre. Fosse stata più prolungata l’emergenza ci sarebbe stata davvero, ma così breve indicava che, sì, la situazione non era proprio idilliaca, ma non era nemmeno peggiorata.
“Tutto bene – annuì Laura mentre abbassava lo sguardo – vedessi come crescono i bambini. E a settembre Henry va in prima elementare, come vola il tempo. A quanto pare lui e Kain saranno compagni di classe.”
“Diventeranno buoni amici, me lo sento.”
“Sono così felice che il tuo piccolino ora stia bene. L’ho visto qualche mese fa con Ellie, te l’avrà raccontato presumo: ti assomiglia davvero tanto. Un mini Andy Fury.”
“Ha molto anche di Ellie, lo sai. Gli ho comprato un regalino per stasera: le figurine di legno del coniglietto e della volpe mancavano alla sua collezione.”
“Che tenero! Gli stessi giochi che piacevano a te, me lo ricordo. Allora possiamo ben pensare che fra una quindicina di anni avremo un nuovo ingegner Fury.”
“E chissà…”
Rimasero a parlare ancora per diverso tempo, in parte imbarazzati da quella barriera che Ellie aveva ben intuito. Andrew per tutta la conversazione non le lasciò le mani, quasi volesse trattenerla ancora a casa sua, impedendole di tornare da suo marito. Il suo più grande desiderio sarebbe stato che Laura andasse a vivere con i suoi genitori assieme ai bambini, finalmente protetta e senza più quella barriera a dividerli.
Certo… che fai, la vuoi mantenere come si farebbe con un’amante?
La smorfia d’amarezza che fece venne scorta dalla donna.
“Ehi, ma che c’è?”
“Va tutto bene, vero?” mormorò, quasi con supplica.
“Ma sì che va tutto bene – sospirò lei – non ti preoccupare.”
 
Qualche ora dopo Kain si addormentò placidamente tra le braccia del padre, tenendo stretta la nuova figurina di legno. Con un sospirò Andrew gli prese il giocattolo e lo posò nella mensola del caminetto.
“Crollato – mormorò – oggi sei stato di difficile gestione, ometto.”
Facendo attenzione a non svegliarlo si levò gli occhiali e li posò accanto al giocattolo.
A quanto sembrava Kain non era molto entusiasta alla prospettiva di dover indossare gli occhiali e si profilavano molti capricci all’orizzonte. Così, per cercare di fargli accettare meglio l’idea, li aveva tenuti addosso tutta la sera in modo che il piccolo vedesse che non c’era nulla di male.
Certo, per Kain sarebbe stato differente: li avrebbe dovuti indossare sempre e non solo per leggere o altre attività simili. Tuttavia in confronto ai problemi che aveva avuto sembrava una cosa priva d’importanza e sia lui che Ellie erano sicuri che era solo questione di avere pazienza ed aiutarlo ad accettare la situazione.
Dopo averlo messo a letto si recò in camera sua: se doveva essere sincero parte del buonumore per la conclusione del cantiere gli era passata e sapeva bene il perché. Sentiva che tra lui e Laura ormai mancava quella sincerità che aveva sempre contraddistinto il loro rapporto e nessuno dei due faceva qualcosa per cambiare quella situazione.
Ci va davvero bene così, Laura? Siamo davvero obbligati a mentirci in questo modo?
Non era vero che andavano bene le cose per la sua amica.
Non è che non va bene… è che non sei felice.
E sapeva bene il perché: quel maledetto uomo l’aveva rinchiusa in una prigione dalla quale era impossibile uscire. Anche se non era maltrattata, Laura era chiusa in una gabbia fatta di mentalità chiusa e ricatto emotivo, con quei due bambini innocenti da proteggere. Proprio lei, proprio Laura Hevans… quella che voleva essere libera, che sentiva quel posto troppo stretto per lei e le sue ambizioni.
Quanto hai dovuto rivedere i tuoi progetti, amica mia. Dannazione, ma perché sei stata così sciocca a quella dannata festa?
Scosse il capo con forza. Non doveva pensare a simili cose: Heymans ed Henry erano delle benedizioni, non avevano nessuna colpa di tutta quella storia.
“Ah… si è già addormentato?”
Ellie, seduta sul letto, raccolse con imbarazzata fretta alcuni libri che stavano sparsi sulla coperta e li mise dentro il cassetto del comodino.
“Sì, è crollato a metà del racconto di quando mio padre mi ha regalato la penna della laurea. E poi gli stavo facendo i grattini sulla nuca, lo sai che sono come dei narcotici per lui. Che stavi combinando?”
“Chi? Io? Niente!” arrossì lei con aria noncurante.
“Ma se hai la faccia di una bambina sorpresa a rubare la marmellata – la prese in giro, sedendosi accanto a lei – non sei molto brava a nascondere le cose, specie se ti colgo sul fatto, Ellie Lyod.”
“Non è proprio marmellata – ammise la donna tirando fuori i libri e mostrandoli – solo questi. Mi ero quasi dimenticata che esistessero…”
“I tuoi libri per l’esame da insegnante?”
“Oggi sono passata vicino alla scuola e una maestra mi ha chiesto se avevo ancora intenzione di diventarlo, tutto qui.”
Quella frase bastò per far dimenticare ad Andrew qualsiasi pensiero su Laura. Per un sogno che si era spezzato uno poteva essere invece ripreso e realizzato: se Ellie aveva intenzione di riprendere quegli studi lui era pronto a darle tutto il sostegno possibile.
“Mi pare una splendida idea, amore – la baciò sulla guancia – tanto Kain ora inizierà la scuola e avrai più tempo per dedicarti allo studio.”
“Già, la scuola… se penso che fino ad un anno fa sembrava scontato che l’avremmo dovuto far studiare a casa. Oggi ha anche conosciuto la sua maestra, ne è molto contento.”
“E’ un’ottima cosa. Beh, allora conviene aspettare settembre per…”
“Andrew, non voglio più proseguire gli studi.”
Ellie scosse il capo, impilando di nuovo i libri e fissandoli con un pizzico di nostalgia.
“Ma che dici? – mormorò l’uomo, accarezzando la treccia della moglie – Era il tuo più grande sogno.”
“Beh, in quasi sei anni le cose cambiano, così come le persone – spiegò con serenità – sai, ci ho pensato tanto tutta la giornata, non è una decisione presa alla leggera, cerca di capirmi.”
“Ci provo, però mi è difficile.”
“Perché per te è diverso, amore – sorrise lei, accoccolandosi alla sua spalla e facendosi abbracciare – il tuo lavoro è così diverso da quello di maestra, ovvio che non puoi capire del tutto. Il mio sogno era prendermi cura dei bambini e ammetto che, quando stamane ho visto tutti quei piccoli delle elementari, Heymans compreso, ho provato davvero l’impulso di riprendere gli studi…”
“Ma?”
“… ma ora c’è Kain. E lo so cosa mi stai per dire: ormai è grandicello e non sta più male… sono cose che so benissimo pure io e sono consapevole che potrei studiare e poi lavorare. Però – alzò gli occhi sul marito – ho scoperto che il mio più grande appagamento è pensare a te e Kain. Voglio essere a casa quando lui torna da scuola, quando tu torni da lavoro… dedicarmi al mio piccolo castello e alla mia famiglia. Adoro i bambini però… per come sono andate le cose stare così tanto con loro credo che alla lunga mi deprimerebbe.”
“Non dire così.”
“Non sarebbero veramente miei, capisci? Ed un conto è pensarlo quando appena sposata credi che avrai tutti i figli che desideri, un altro è pensarlo quando sai che avrai sempre e solo un unico figlio. E’… capisco che è difficile da comprendere, ma…”
“E rinunci così al tuo sogno?” Andrew lo chiese senza nemmeno pensarci: per un attimo gli sembrò incredibilmente ingiusto che Ellie mollasse in questo modo quando invece aveva questa nuova opportunità. Gli sembrò egoista nei confronti di Laura che invece era ormai intrappolata.
“L’ho semplicemente modificato, tutto qui… che hai? Sei… sei arrabbiato.”
“No, non potrei mai… è una decisione che spetta a te.”
“Ehi, siamo una famiglia, no? – la donna lo baciò sulla guancia – Niente segreti, lo sai.”
“E’ che… che non posso far a meno di pensare a me, te e Laura come eravamo nemmeno dieci anni fa. Così pieni di sogni ed ambizioni… io con il mio glorioso futuro da ingegnere, tu che volevi diventare maestra e che eri una promettente scrittrice… Laura con il suo talento di sarta e con tanta smania di essere libera.”
“Il tuo sogno si è avverato, no?”
“Perché solo il mio? Non è giusto… almeno tu, Ellie… almeno…”
“Oh, amore – Ellie lo abbracciò con estrema tenerezza, accarezzandogli i capelli – sei stupendo, lo sai? Non smetti mai di pensare alla mia felicità e a quella di Laura e non sai quanto ti amo per questo.”
“E allora spiegami, Ellie – mormorò lui, restituendo quell’abbraccio – perché proprio non capisco.”
“Il mio sogno era quello di essere felice assieme a te… essere maestra o scrittrice erano solo aggiunte alla nostra vita assieme. Al posto di quelle ambizioni ora c’è Kain che è decisamente meglio, non credi? E ora che sta bene mi sento estremamente appagata. Vedi che il mio sogno è realizzato?”
“E’ che fa strano pensare a quando…”
“Sei anni ed un bambino come Kain modificano tante cose, amore mio. Diventare madre cambia la vita.”
“Anche diventare padre.”
“Ma è differente, credimi. E’ un tipo d’amore diverso, ma non meno importante del tuo.”
Andrew si scostò da lei e le prese il viso tra le mani, scrutandola con severa attenzione. Quell’analisi durò una decina di secondi e poi le disse.
“Sai che farei di tutto per la tua felicità, Ellie. Qualsiasi cosa tu voglia io ti sosterrò… se il tuo desiderio è prenderti cura del nostro nido e di me e Kain, per me va benissimo. E scusami per prima, sono stato uno sciocco a fare il broncio.”
“Ma di che! – ridacchiò lei abbracciandolo e lasciandosi cadere all’indietro nel letto, in modo da trascinarlo con se – Non sono offesa, lo sai. Comunque, chiusa questa parentesi, che ne dici di festeggiare il tuo cantiere terminato?”
“Idea piacevole, direi – ammise Andrew, spostandosi sopra di lei e accarezzandole il collo – effettivamente me lo merito… non credi?”
“Vanitoso! Ma adoro quando lo fai con me, grande ingegnere… ah, aspetta, ma quindi sei libero domani.”
“Tutto per te, amore – mormorò, baciandola sulla spalla e andando con la mano al primo bottone della camicia da notte – adesso però…”
“Domani io e Kain andiamo a fare una cavalcata con papà.”
“Eh?” si scostò da lei guardandolo incredulo.
“Vuoi venire anche tu, caro? – gli occhi scuri erano carichi di aspettativa – per Kain sarebbe un’esperienza meravigliosa, lo sai. Suvvia, non farti pregare!”
“Ellie, tuo padre l’ultima volta che siamo andati a cavallo mi ha dato una scudisciata nella schiena!”
“Oh, non sarà certo così severo con Kain.”
“Ci mancherebbe altro! Ma non è questo che intendevo…”
“E dai, amore! – supplicò – Sarebbe così bello stare tutti assieme! E poi andiamo a pranzo a casa dei miei, che ne dici? Dai, dai, dai!”
“Mmmmmh!” sbottò lui, arrendendosi.
“Grazie!”

 
 

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Capitolo 40
*** Capitolo 39. 1891. Le scelte dei nonni. ***


Capitolo XXXIX

1891. Le scelte dei nonni

 

Ellie trattenne un’esclamazione spaventata quando vide suo padre lanciare Blanco al galoppo con Kain che si teneva alla criniera del grande destriero.
“Piano, papà! Oh, santo cielo!”
“Dubito che tuo padre lo lasci cadere – la consolò Andrew, fermando la sua cavalcatura accanto a quella della moglie – e dai, meraviglia, non essere così apprensiva. Kain si sta divertendo un mondo e con tuo padre è più che al sicuro.”
“Da quando ti fidi così tanto di lui? – Ellie osservò con occhi terrorizzati Blanco che faceva una curva a suo parere azzardatissima, nonostante fosse la medesima che faceva da anni e per la qualche lei stessa aveva strillato deliziata – Oddio, si sta agitando troppo, lo so.”
“Finiscila di essere così apprensiva – il marito le mise una mano sulla spalla – Kain sta benissimo ed è a cavallo con tuo padre, capisci? Probabilmente il miglior cavaliere di tutto il paese, quello che ti ha portato su quel mastodonte sin da quando eri piccola… se non ci si può fidare di lui mi dici di chi?”
Ellie scosse il capo, stringendo le mani sulle redini della sua puledra: il suo cuore non poteva far a meno di impazzire dalla paura sapendo che il suo bambino stava facendo delle cose così avventate. Nonostante una parte di lei continuasse a ripetersi che non c’era alcun pericolo, tutto il resto della sua persona si diceva che per Kain le cose erano differenti e che quindi bisognava fare maggior attenzione ed impedirgli determinate attività che potevano metterlo in pericolo.
“Mamma! Mamma! – esclamò il piccolo quando finalmente Nicholas Lyod tornò accanto a loro – Hai visto quanto andavamo veloci? E’ bellissimo! E Blanco è il più bel cavallo del mondo! Papà! Papà, mi hai visto?”
Il viso di Kain era rosso per l’eccitazione e gli occhi neri gli brillavano di gioia mentre parlava delle meraviglie di quella cavalcata.
“Va bene, pulcino – annuì Ellie, vedendolo finalmente fermo – però adesso vieni in sella davanti alla mamma, va bene?”
“E’ nato per stare in sella mio nipote – dichiarò con fierezza Nicholas, sollevando il piccolo con un braccio e passandolo alla donna – il sangue Lyod non mente mai.”
“Mamma, vuoi correre pure tu?” chiese il bimbo estasiato.
“Proprio no, Kain – scosse il capo lei con aria seria – adesso andiamo al passo fino alle stalle: si sta facendo tardi e la nonna ci aspetta per il pranzo.”
“Almeno al trottolo?”
“Si dice trotto, caro… magari negli ultimi metri, va bene? Ma adesso cerca di calmarti: sei tutto rosso ed hai il fiatone.”
Mentre Ellie incitava la sua cavalcatura a procedere, con la vocetta di Kain che continuava estasiata a parlare di quella splendida mattinata a cavallo, Nicholas fece cenno ad Andrew di restare leggermente indietro.
“Parecchio apprensiva, non trovi? – fece sistemandosi meglio i guanti – Prima non si faceva certo così tanti problemi quando mandavo Blanco al galoppo.”
“Credo che dentro di sé Ellie non riuscirà mai a vedere Kain come un bimbo sano ed in grado di fare tutto – ammise Andrew – o almeno sarà così per parecchio tempo. Il parto ed il primi quattro anni di salute incerta del bambino l’hanno segnata profondamente.”
“Ed ovviamente è troppo testarda per cambiare idea.”
“La testardaggine è parte fondamentale di Ellie, signore.”
I due incitarono i propri cavalli al passo, Andrew che si scopriva ancora in grado di stare in sella nonostante fossero passati anni dalle sue impietose lezioni di equitazione. Stranamente quella mattina Nicholas Lyod non aveva la battuta pronta nei suoi confronti, anzi la conversazione che avevano sostenuto fino a quel momento era stata più che tranquilla, definibile persino civile. L’attenzione di entrambi era rivolta alla snella figura di Ellie che, dritta sulla sua puledra dal manto chiaro, procedeva tranquilla sul sentiero: l’eleganza innata non era stata minimamente intaccata da quei sei anni di fermo. Ma era chiaro che, al contrario della vivace e briosa ragazzina che non desiderava altro che spronare la propria puledra al galoppo, la giovane madre preferiva tenere un’andatura più pacata.
“Scommetto che hai sentito delle voci a proposito della vendita dei miei terreni.”
A quella frase Andrew volse la sua completa attenzione al suocero: si era completamente dimenticato di quelle chiacchiere, ritenendole del tutto infondate. Del resto gli sembrava privo di senso che il suo ricco e scaltro parente acquisito si separasse alla leggera dalle sue proprietà di cui andava tanto fiero.
“Pensavo fossero solo voci, signore – rispose causticamente – del resto lei non ci ha informati di nulla.”
“Ho cinquantadue anni, ormai – dichiarò l’uomo, assumendo automaticamente una posa più dritta quasi a smentire l’età – e sono l’ultimo di cinque figli. Tra me e mio fratello maggiore c’erano quasi vent’anni di differenza, sai? Ellie non ha mai conosciuto i suoi zii ed i suoi cugini e considerato quanto sta succedendo adesso sono felice che sia così… mi vanto sempre del sangue Lyod di mio padre, ma a quanto pare sono stato l’unico ad averlo messo bene a frutto.”
“Che intende, signore? – Andrew notò l’aria notevolmente rassegnata e sfastidiata – è successo qualcosa nel suo paese d’origine?”
“E’ successo che circa due mesi fa è morto mio fratello maggiore, l’unico che, almeno, teneva assieme baracca e burattini, per quanto in maniera del tutto incompetente. Non perdere tempo in condoglianze che proprio non è il caso: non hai idea del vespaio che è successo quando morì mio padre e ci fu da spartire l’eredità… un branco di sciacalli che volevano pezzi di proprietà, ecco cos’erano: non ci volevano credere quando io pretesi solo una somma di denaro e nessun terreno. Stolti! I terreni ed il bestiame non servono a molto se in mano ad incapaci… povero papà, si starà rivoltando nella tomba per l’inettitudine della maggior parte dei suoi figli.”
“Problemi di gestione e di nuova eredità?”
“Diciamo che quello che era il fiore all’occhiello dell’allevamento bovino ed equino di questa parte di paese sta andando in malora per colpa dei miei fratelli rimasti e dei loro figli. Ci pensi, ingegnere? Mio padre aveva lasciato un’azienda enorme e splendidamente avviata, con amministratori e fattori capaci: tutto quello che dovevano fare quegli scemi era godersi quei soldi e far fare tutto a chi ne era in grado… ed invece è sull’orlo del fallimento. Con la morte di Thomas sono saltati fuori dei debiti da far paura… e allora ci si ricorda del fratello minore che, guarda a caso, è quello con la grana e senza problemi.”
“Vogliono che lei rientri in azienda?”
“Vogliono che io metta il mio denaro nell’azienda, è diverso – Nicholas fece una risata amara – e pensano che io vada lì con i soldi, felice di essere riaccolto in famiglia. Diamine, non me li ricordavo così coglioni, credimi. Ci deve essere qualcosa di malsano in quel paese per far crescere un così gran numero di idioti: sia ringraziato questo posto che mi ha dato Agnes e una figlia intelligente come Ellie. I miei nipoti pare che siano uno più scemo dell’altro.”
Andrew rimase incredulo nel sentire quella sfuriata da parte di una persona che si era sempre vantata del proprio sangue Lyod. Ma una parte di lui non poté che sentirsi estremamente solidale con un uomo che della terra aveva fatto la propria ragione di vita: era come se a lui parlassero di crolli di edifici e ponti per colpa di ingegneri incompetenti. E questo paragone gli fece anche capire che suo suocero aveva intenzione di prendere in mano la situazione.
“Tornerà al suo paese, vero?” disse con pacatezza.
“Non sei scemo, Fury – ammise l’uomo con un secco colpo di frustino sullo stivale da equitazione – a volte pecchi d’ingenuità ma non sei sprovveduto. Mio padre ci ha messo tutto se stesso per costruire l’azienda, non permetterò che venga smembrata per la gioia dei debitori.”
“E quindi vende i suoi terreni qui e investirà nell’azienda di famiglia.”
“Ti ho appena detto che non eri scemo, ragazzo – lo guardò male – non smentirmi, che diamine! Vendo solo alcuni terreni di confine: gli altri li affido agli uomini che ci lavorano, con la promessa che diventeranno di loro proprietà alla mia morte… sto già provvedendo a mettere tutto per iscritto con tuo padre, mappe e confini compresi in modo che non ci siano problemi. Ma fino alla mia dipartita il cinquanta per cento dei proventi andrà a me. Sei una mente matematica, figliolo, e conosci le mie proprietà, fatti un attimo i calcoli di quanto frutterà ogni anno.”
Andrew arrossì e sbuffò: come aveva potuto pensare anche solo per cinque minuti che non ci sarebbe stato del sarcasmo nei suoi confronti? Però la sua mente obbedì all’ordine e fece un calcolo della fortuna che ogni anno sarebbe entrata nelle tasche di suo suocero. A volte tendeva a dimenticarsi che lui ed Ellie appartenevano alle famiglie più facoltose del paese.
“E allora che ha intenzione di fare?”
“I terreni che vendo mi forniranno i soldi per pagare i debiti più gravi… per il resto ho intenzione di tornare a casa e di prendere in mano l’azienda. Quanto tempo credi che ci impiegherò a rimetterla in piedi, ragazzo?”
Andrew si trovò a sorridere: non aveva dubbi che nell’arco di un paio di anni i grandi allevamenti di famiglia sarebbero tornati al loro originario splendore, se non di più.
Però questo vuol dire che…
“Quando lo dirà ad Ellie?”
“In questi giorni – ammise lui – ho fatto in modo che, a prescindere da come vadano le cose con questa storia, l’eredità della mia bambina non venga toccata: la fortuna che mi fruttano questi terreni andrà tutta a lei e a Kain, tanto so che l’amministrerai con sapienza, ragazzo.”
“Non è questo che conta per Ellie, lo sa bene…”
“Lo so, idiota, per chi mi prendi? Ma come padre mi preoccupo anche di questo aspetto del futuro di mia figlia e di mio nipote. So bene che anche la tua famiglia non ha certo problemi economici, tutt’altro, ma come padre mi sento in dovere di fare la mia parte. Per gli studi di Kain, l’eventuale Università e quanto altro… in quel piccolo c’è sangue Lyod oltre che Fury: l’amore per il cavallo non viene certo da te, non credi?”
Andrew annuì distrattamente mentre arrivavano alle stalle e scendevano dai cavalli, immediatamente raggiunti dall’eccitatissimo Kain e da Ellie che ancora protestava per quella corsa così fuori luogo di poco prima. Capiva che tutti quei discorsi sui soldi che spettavano alla giovane erano solo un modo per nascondere la tristezza della prossima separazione. E scoprì che, nonostante tutto, quel burbero uomo sarebbe mancato pure a lui
E sono sicuro che Ellie non la prenderà per nulla bene…
 
La settimana dopo arrivarono gli occhiali di Kain e, come avevano previsto Andrew ed Ellie, non fu semplicissimo convincere il bambino ad indossarli. Per quanto ci vedesse oggettivamente meglio li considerava comunque un corpo estraneo ed i primi giorni il peso della struttura sul naso non era proprio piacevole da sopportare: di conseguenza erano innumerevoli i momenti in cui cercava di levarseli ed Andrew, che in quei giorni era libero, si era assunto il compito di controllarlo assiduamente.
“No – lo bloccò quella mattina, sistemandogli di nuovo gli occhiali sul naso – manine giù, Kain. Sai bene che li puoi levare solo quando vai a dormire.”
Il piccolo piagnucolò mentre non riusciva ad opporsi alle mani paterne che lo obbligavano a mollare la presa sulle stanghette scure. Chiedeva solo qualche ora di libertà da quell’oggetto infernale, ma sembrava che i suoi genitori, in genere così buoni, non sentissero ragioni in merito.
“Non voglio!” protestò, non avendo altra soluzione che ricorrere al capriccio.
“Anche se non vuoi è così, signorino – scosse il capo Andrew – è solo questione di abitudine, hai visto che anche papà li porta.”
“Ma non sempre.”
“Perché è diverso, ma dovresti capire che è per il tuo bene, ormai sei grande abbastanza. E non fare quel broncio, intesi? Non ti serve a niente e rende solo le cose più difficili.”
“Danno fastidio!” protestò ancora lui non resistendo alla tentazione di tornare con le mani alle stanghette. Ma anche questo nuovo tentativo venne bloccato dal padre.
“Ehi, giovanotto, basta con i capricci – Andrew si mise l’indice davanti al naso ad intimare il silenzio: raramente ricorreva alla sgridata, ma riteneva che in determinate situazioni fosse necessaria – altrimenti dieci minuti nell’angolo non te li leva nessuno.”
A quella minaccia Kain tirò su col naso e si accoccolò sull’angolino del divano con aria mogia, senza tuttavia provare a levarsi di nuovo gli occhiali. Andrew annuì consapevole di aver vinto la battaglia ma non la guerra: ci sarebbero stati nuovi tentativi di ribellione… alcuni da calmare con dolcezza altri con severità. Ma sperava che nell’arco di una settimana la questione si risolvesse. Del resto Kain non lo stava facendo apposta ad essere così capriccioso, lo sapeva bene.
Con un sospiro raccolse il pupazzo del cavallino, caduto a terra, e glielo mise accanto.
“Su, vedi? – gli disse, accarezzandogli i capelli – Anche Blanco non vuole che tu faccia i capricci: se poi andassi nell’angolo in punizione sarebbe triste, non credi?”
Kain annuì mestamente, abbracciando il suo pupazzo preferito, il labbro inferiore che tremava leggermente per un inizio di pianto trattenuto. A quel gesto Andrew sospirò e pregò che Ellie tornasse presto dalla sua discesa in paese: in determinate occasioni serviva maggiormente la sua dolcezza e pazienza.
Quasi ad evocarla la porta si aprì e la donna fece la sua comparsa in casa.
Andrew si girò subito per accoglierla, ma quando vide l’espressione furente capì che qualcosa non andava: infatti Ellie non salutò nessuno e andò dritta in cucina a posare la busta della spesa che teneva tra le braccia.
“Mamma?”
“Sssh, Kain – lo bloccò Andrew – resta qui, da bravo.”
Sentendo la tensione che si tagliava con un coltello, l’uomo raggiunse la moglie e vide che stava sistemando la roba comprata con quella che si poteva definire rabbia.
“Che succede, meravi…”
“Lo sapevi! – si girò lei, con sguardo accusatore – Lo sapevi da più di una settimana e non mi hai detto nulla! Tu e mio padre siete proprio una bella coppia, davvero!”
Quelle parole fecero immediatamente capire l'arcano: Nicholas Lyod si era finalmente deciso a parlare con la figlia e, come era stato ampiamente previsto, la reazione non era stata per niente buona.
“Non spettava a me dirtelo, lo sai.”
“Tornare da quelle persone così ingrate – Ellie scosse il capo con rabbia – sai che non si sono nemmeno degnate di spedire gli auguri per il matrimonio dei miei o la mia nascita? E ora di colpo… zac! Lo richiamano come se niente fosse: ho detto chiaro e tondo a papà che dovrebbe fare di quella lettera.”
“Non lo sta facendo per loro, ma per l’azienda di suo padre.”
“E per compiacere il suo ego… credi che non lo sappia? E’ la grande occasione per dimostrare a tutti loro che lui è il migliore. E chi se ne importa se per questo se ne va via da qui, trascinando mia madre in un paese sconosciuto? E’ un egoista, ecco quello che è! Sai che ha anche avuto la faccia tosta di chiedermi se volevamo andare pure noi con lui?”
“Davvero?” Andrew sgranò gli occhi a quella rivelazione.
“Ma certo! Un ingegnere serve sempre in queste occasioni! – il barattolo di conserva venne sbattuto così forte nel tavolo che la busta con metà spesa ancora dentro si rovesciò – Col cavolo che ti sposterai da qui, Andrew Fury, ti impedirò con tutta me stessa di diventare un mero motivo di vanto per mio padre: scordati qualsiasi idea in merito!”
“Non ho mai detto di voler andare via da qui – la bloccò lui, prendendola per le spalle – e tuo padre non mi ha mai fatto una proposta simile. Andiamo, Ellie, prendi fiato.”
“Ma certo… che importa di prendere le persone e spostarle come se fossero capi di bestiame – iniziò a piangere lei – tanto sono tutti ai piedi del grande Nicholas Lyod… come può farmi questo! Come può abbandonarmi così?”
“E tua madre che ha detto?”
“Non era in casa in quel momento… dannazione, Andrew, potevi dirmelo.”
“Ti ho già detto che non spettava a me – la baciò in fronte – ma lui ti adora, Ellie, non ti ferirebbe così alla leggera se non ritenesse che…”
“Ha detto anche che ha pensato alla questione dell’eredità… santo cielo, adesso parla anche di dipartita!”
“E’ solo previdente e vuole assicurarsi che, comunque vadano le cose in azienda, il futuro tuo e di Kain sia garantito e niente di quello che ti spetta venga intaccato.”
“Ma che mi importa di quei soldi… voglio che mio padre e mia madre restino qui.”
“Mamma, dove vanno i nonni?”
I due si girarono e videro che Kain era sulla porta della cucina, con il pupazzo stretto tra le braccia. Li guardava con aria stranita, perplesso nel sentire tutta quella tensione e accorgersi che la sua mamma stava piangendo.
“Ma che bravo, pulcino – sorrise subito Ellie, andando ad abbracciarlo – stai tenendo gli occhiali.”
“Altrimenti papà mi mette in castigo – ammise lui – e poi Blanco ci resta male. Mamma, ma noi stiamo sempre assieme, vero?”
“Ma certo, amore mio, quando mai ci potremmo separare? Vieni, andiamo a leggere una favola.”
“Uh… e la spesa? C’è ancora la busta nel tavolo.”
“Ci pensa papà, caro. Adesso la mamma vuole stare con te.”
 
Che Ellie si sentisse profondamente tradita da suo padre era un dato di fatto. Le sembrava che gli affari e il suo ego avessero la precedenza sulla famiglia e sulle cose che contavano davvero e questo non lo poteva tollerare. Ma soprattutto l’idea di non avere più i suoi genitori vicini la spaventava tantissimo: nonostante fosse sposata e dunque sicura della presenza di Andrew, avere la certezza di sua madre e suo padre pronti ad intervenire per qualsiasi emergenza era un qualcosa a cui non voleva rinunciare. Se sua madre non le fosse stata vicino quotidianamente in tutti quegli anni dopo la nascita di Kain probabilmente sarebbe stato tutto molto più difficile: era la sua guida, il suo conforto femminile, tra le sue braccia si sentiva al sicuro come quando era bambina. E suo padre era ancora di più… era quel qualcosa di rassicurante e grandioso che l’aveva sempre messa su uno splendido piedistallo, coccolandola e viziandola come solo lui sapeva fare.
E scoprire all’improvviso di essere messa in un ruolo subordinato la faceva impazzire.
Per quanto ci potesse essere ovvio sgomento e rabbia per quel trasferimento che si prospettava l’anno prossimo, Ellie Lyod stava facendo scatenare tutto il suo essere figlia unica abituata a stare al centro dell’attenzione. Nonostante in presenza di Kain si comportasse da madre esemplare, per il resto teneva un broncio degno di miglior causa e non perdeva occasione per rincarare la dose su suo padre che egoisticamente faceva quello che meglio credeva, senza preoccuparsi minimamente degli altri.
E per una volta tanto Andrew non la spalleggiava del tutto: la comprendeva, su questo non c’erano dubbi, ma difendeva anche la decisione del suocero.
Proprio lui che l’ha sempre odiato! – sbottò, una mattina in cui era impegnata a tagliare le verdure per il pranzo – adesso all’improvviso fa comunella. Proprio un bell’atteggiamento!
“Mamma, sei arrabbiata?” chiese timidamente Kain, seduto accanto a lei ed intento a giochicchiare con la buccia delle patate.
“No, Kain – rispose automaticamente, ma mettendoci particolare forza nel recidere la punta della carota – va tutto alla perfezione.”
“Uhm… hai visto che oggi non ho fatto capricci per gli occhiali?”
“Bravo, è quello che mi aspetto da te.”
“Non voglio più essere messo in castigo da papà come ieri – ammise il piccolo – sul serio.”
“Ottima decisione, pulcino.”
“Ecco – Kain probabilmente aveva capito che quella particolare mattina la mamma non era di ottimo umore come al solito – posso andare nello studio col papà?”
“Vai pure, caro.”
Scendendo dalla sedia con attenzione, Kain trotterellò fuori dalla cucina, tirando un piccolo sospiro di sollievo quando sentì la tensione scemare sensibilmente. Adorava la sua mamma, ma in quella determinata occasione qualcosa gli diceva che era meglio lasciarla sola.
“Papà?” chiamò, battendo la manina contro la porta dello studio paterno. Durante il passaggio in salotto aveva recuperato Blanco e ora lo teneva stretto contro il petto.
“Che succede, Kain? – Andrew aprì la porta e lo fece entrare – Non eri con la mamma?”
“Posso restare con te?”
“Papà sta lavorando – spiegò lui, tornando al tavolo da disegno – Perché non vai a giocare?”
“Papà, perché la mamma è arrabbiata?”
“Arrabbiata?”
“Sì, taglia le verdure in modo strano.”
“Ah sì? E in che modo strano?”
“Così!” Kain imitò lo sguardo cattivo di Ellie e mimò il gesto del coltello che cala giù con forza. Era una parodia davvero buffa con il visino impegnato a mantenere la smorfia di rabbia.
“Davvero? Ma no, non è niente – lo rassicurò Andrew, ben sapendo che la questione era ben lungi dall’essere risolta fino a quando padre e figlia non si sarebbero affrontati di nuovo – Comunque, a ripensarci, puoi restare qui. Guarda, papà ti dà un foglio bianco e tu ti metti sul tappeto a disegnare, va bene?”
“Va bene! – sorrise il piccolo – Posso andare a prendere i gessetti colorati?”
“Vai pure, ometto, ti lascio aperta la porta.”
 
“Mamma, come sono i miei nonni?”
Heymans fece questa domanda con noncuranza, ma fu un bene che in quel momento Laura fosse di spalle: in questo modo non vide il viso materno diventare impassibile, con gli occhi grigi che si accendevano di una rabbia fuori dal comune.
“Come mai me lo chiedi, caro?” si costrinse a domandare la donna, girandosi verso di lui con un sorriso.
“Ne stavamo parlando oggi con i miei compagni – spiegò lui, sistemando i piatti per la cena – e mi sono accorto che io effettivamente non li conosco i nonni.”
“I nonni paterni non so proprio come siano, caro – spiegò lei – tuo padre non è del paese e quindi i suoi genitori vivono tanto lontano, capisci?”
“Oh… ed invece i tuoi?”
“Ecco, i miei sono andati via dal paese che tu avevi pochi mesi.”
“Perché?”
“Perché… sai, a volte le persone sentono l’esigenza di andare via, di cambiare aria. Così hanno preso le loro cose e sono andati via, tutto qui.”
“Ti devono mancare molto, vero? – il bambino le andò accanto e le prese la mano – Insomma se tu andassi via mi mancheresti tanto.”
“Ma io non me ne andrò mai via, tesoro – Laura sospirò di sollievo, pensando che finalmente quella parte così imbarazzante della discussione fosse terminata – come potrei lasciarti?”
“Ed erano buoni i nonni? – chiese invece Heymans, incuriosito da quelle figure di cui sentiva parlare per la prima volta – Sai, i nonni dei miei compagni sono sempre buoni: fanno un sacco di regali ai loro nipoti.”
Laura si costrinse a ingoiare la rabbia che aveva in gola: Heymans non poteva e non doveva sapere quello che era successo. Non poteva caricargli addosso anche quest’altro tremendo peso.
“Non capisci che sarebbe stato molto meglio se fosse nato morto?”
Il ricordo di quella frase giunse come una pugnalata ed immediatamente Laura abbracciò il figlio, proteggendolo contro quella minaccia ormai passata, ma che le sembrava incredibilmente attuale. Come se sua madre fosse ancora capace di far del male al bambino solo con quella maledizione che gli aveva lanciato.
Sei contenta, maledetta? Mio figlio vive con la consapevolezza che suo padre non lo ama e che c’è qualcosa che non va in lui. Vive nel castello di menzogne che prima o poi mi crollerà addosso e non ho la minima idea di cosa succederà… se tutto questo sarà troppo grande per lui e lo distruggerà. Ti costava così tanto posare gli occhi su di lui, provare affetto… o almeno capire che era innocente e che non meritava tutto questo?
“I tuoi nonni erano… sai, si preoccupano di noi e ogni mese ci mandano dei soldi – si obbligò a dire – così non abbiamo problemi per comprare quello che ci serve.”
“Davvero? Oh, allora sono davvero delle brave persone.” gli occhi grigi del bambino si illuminarono a quella rivelazione e a Laura si strinse il cuore nel vedere quanto il colore fosse identico a quello di Henry.
Dovrebbe essere qui con noi… dovrebbe essere qui a dirti quanto è fiero di te e quanto di adora. Dovrebbe proteggerci da tutto questo…
“Mamma?”
“Niente, caro… comunque, sì, i nonni sono davvero delle brave persone.”
“Quando sarò più grande penserò io a te, mamma – dichiarò lui con orgoglio – e così ringrazierò i nonni e penserò pure a loro. Pensi che potrò farlo?”
Si capiva che lo desiderava: rendersi utile era una cosa che gli piaceva tantissimo perché lo faceva sentire accettato e appagato. Sentire dei sentimenti così innocenti e sinceri rivolti verso quelle persone che non l’avevano mai accettato fu l’ennesima pugnalata.
“Tu potrai fare quello che vuoi, Heymans – lo abbracciò, accarezzandogli la chioma rossiccia – ma adesso sei ancora piccolo.”
“A Luglio compio nove anni… e poi vado in quinta elementare.”
“Vediamo – lo prese in braccio, accorgendosi che stava diventando parecchio pesante – alla tua età io ero così grande che ero in grado di prepararmi la merenda per la scuola da sola. Che dici, da settembre vogliamo provare?”
“Beh… ma non è così importante…” ovviamente era perplesso davanti a quella concessione che gli appariva ben poca cosa rispetto ai progetti che si era fatto.
“Per me sì.”
“Oh, allora si può fare!”
“Affare fatto… che dici, adesso finisci di apparecchiare?”
“Certo, mamma.”
Osservandolo tornare al tavolo con entusiasmo, Laura rifletté sulla situazione.
Nove anni… di già? Sono quasi nove anni che è nato, che Henry è morto, che i miei sono andati via…
Dieci anni prima lei era la ragazza ribelle, lo spirito libero che voleva andare via da quel posto così stretto che non soddisfava le sue aspettative. E adesso?
Si guardò le mani e si sentì incredibilmente stanca e rassegnata: quei nove anni di matrimonio le avevano risucchiato tutta la sua vitalità. Adorava i suoi bambini, certo, e vederli crescere così belli e sani era la sua più grande gioia. Ma per il resto si stava trascinando: ormai con Gregor era finito quel periodo felice che aveva portato alla nascita di Henry: adesso suo marito era quasi sempre a casa, senza lavoro, con le serate passate a bere in quel locale.
Un locale di prostitute… mi tradisce?
Fu la prima volta che ci pensò e fu molto amaro capire che c’erano serie probabilità che questo fosse avvenuto. Del resto anche lei non si sentiva più bella come una volta: aveva appena compiuto ventinove anni, eppure… anche se i suoi capelli erano sempre rosso fuoco, il suo corpo morbido e prosperoso, era come se fosse venuta a mancare quella scintilla che le dava la consapevolezza di essere bella e desiderabile.
L’idea di fare l’amore adesso la nauseava, o per lo meno l’idea di farlo con Gregor.
Perché non poteva essere che una cosa passeggera: era solo sesso, appagamento fisico… e lei, in fondo, nonostante tutto il suo dichiarare di essere diversa e ribelle, tutto quello che desiderava era avere accanto una persona che la amasse normalmente. Come tutte le altre ragazze del paese.
Perché a ventinove anni vorrei già essere morta? Non dovrebbe funzionare così… non dovrebbe!
“Ecco, mamma, ho finito – Heymans attirò la sua attenzione – posso aiutarti anche con la cena?”
“Vuoi? – mormorò lei con un sorriso tirato – Va bene, allora prendi la sedia e vieni qua: se mi mescoli il contenuto di quella pentola mentre bolle mi sarai davvero di grande aiuto.”
Devo resistere… devo resistere per lui ed Henry. 

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Capitolo 41
*** Capitolo 40. 1891. I cambiamenti. ***


Capitolo XL

1891. Cambiamenti

 

Ellie aveva sempre avuto un rapporto conflittuale con i suoi capelli: li riteneva troppo grossi e ribelli, incapaci di affrontare qualsiasi pettinatura che non fosse la treccia. Spesso non si rendeva conto che erano uno dei suoi punti di forza per quanto concerneva la bellezza fisica: erano neri come l’ala di un corvo, morbidi e le valorizzavano il viso in una maniera del tutto speciale con quelle ciocche ribelli che sfuggivano al nastro che era solita indossare. Sapeva bene che suo marito li adorava: quando facevano l’amore una delle prime cose che faceva era sciogliere la treccia ed immergere la mano tra i suoi capelli. E questo era un dettaglio che in qualche modo le aveva fatto far pace con la sua chioma.
Kain aveva preso da lei, su questo non c’erano dubbi, ma essendo maschio e dunque tenendoli corti, non c’era molta possibilità di addomesticare quei ciuffi ribelli con qualche pettinatura. Però, nonostante tutto, ogni giorno si ostinava a passargli la spazzola, sperando prima o poi di ottenere un risultato decente e non una testolina dai capelli perennemente dritti e arruffati.
“E’ inutile che ci stai così tanto – ridacchiò sua madre che quella domenica mattina era passata a trovarli – non riuscirai a domare quel tipo di capelli.”
“Lo so – ammise Ellie, seduta nel lettone matrimoniale con il figlio in grembo – ma a lui non dispiace e alla fine è quasi rilassante. Vero, topolino? Hai cinque secondi per dare un bacio alla mamma, coraggio.”
Kain, mezzo addormentato per l’effetto sedativo che aveva la spazzola passata ripetutamente sulla sua testa, elargì il bacio richiesto e poi rinunciò a qualsiasi tentativo di tenere gli occhi aperti e si posò pesantemente contro il petto materno.
“Oh no, amore, così rovini tutto. Ma che dico… non c’è niente da rovinare…”
Agnes le prese la spazzola di mano e, sedutasi dietro di lei, le sciolse la treccia scusa, iniziando a pettinarle i capelli. Ellie non si oppose a quella coccola materna: sua madre era l’unica che avesse il diritto di vederla con la chioma sciolta. E sin da quando era piccola, quello era uno dei momenti in cui si confidava con lei.
“Tuo padre ha intenzione di partire tra un mese – annunciò con calma – stiamo già preparando il trasloco.”
Ellie ovviamente si irrigidì: erano passati quasi sei mesi da quando aveva litigato con suo padre, ma per l’ostinato orgoglio dei Lyod, come l’aveva definito Andrew, non avevano ancora fatto veramente pace. Avevano ripreso a parlarsi, certamente, ma la giovane non aveva ancora perdonato del tutto quello che considerava un abbandono bello e buono.
“Santo cielo – ridacchiò Agnes – siete proprio uguali tu e Nicholas: quando vi offendete non c’è proprio nulla da fare.”
“Possibile che a te non dia minimamente fastidio tutto questo?”
“Mi dispiace stare lontano da te, Andrew ed il piccolo, come non potrebbe – ammise la donna, iniziando a rifarle la treccia – ma non potrei mai lasciare tuo padre, cara. C’è sempre bisogno di qualcuno che tenga a bada il bollente sangue dei Lyod.”
“Non meritano papà – scosse il capo Ellie incupendosi – non l’hanno mai considerato in tutti questi anni.”
“Lo so, in parte è una questione di mero orgoglio. Ma dall’altra c’è l’immensa passione che tuo padre ha per l’agricoltura e l’allevamento. E’ più forte di lui: sa che ci sono un sacco di persone che rischiano di andare in rovina, e non mi riferisco solo ai suoi parenti, e così non può fare a meno di intervenire… anche se in apparenza è solo lo spietato uomo d’affari che tutti conoscono.”
Ellie abbassò il capo a quelle parole: non si era mai soffermata a pensarla sotto quel punto di vista, eppure conosceva bene suo padre e sapeva quando fondamento c’era in quanto le aveva detto sua madre. Però le faceva male ammettere di aver sbagliato perché in qualche modo autorizzava i suoi genitori ad andare via.
“E’ così lontano… e ora Kain ha anche iniziato la scuola e non è facile per lui. Avrebbe bisogno dei suoi nonni…”
“Ha bisogno dei suoi genitori, Ellie: i nonni sono una cosa differente. E vedrai che col tempo si adatterà.”
“Anche io ho bisogno dei miei genitori.”
“Piccola mia – la abbracciò Agnes – certo che mi mancherai, ogni giorno che passerò lì. Ci vorranno anni per rimettere in sesto quell’azienda, lo so bene… male che vada una decina, in modo da poterla lasciare in mani fidate. Ma poi tuo padre ha tutta l’intenzione di tornare qui, credimi.”
“Dieci anni… cielo, sono così tanti.”
“Lo so, ma il cuore di tuo padre è ormai in questo paese dove ha conosciuto me e dove sei nata tu. Farà quello che è giusto e poi torneremo a goderci una serena vecchiaia a casa. Fammi un favore, bambina mia, metti da parte il tuo orgoglio Lyod e fai prevalere una volta tanto il sangue della mia famiglia, va bene? Fai pace con tuo padre: niente lo rende più infelice che il tuo broncio.”
Ellie abbassò il capo in segno di resa, anche se non proferì parola: in realtà le serviva solo un’ultima spinta prima di far pace con suo padre, anche se il momento non era dei migliori. Accarezzò i capelli di suo figlio, pensando al colloquio che tra un paio di giorni aspettava lei ed Andrew: era un periodo così delicato che la presenza dei suoi genitori sarebbe stata davvero utile, ma a quanto pareva avrebbe dovuto fare a meno di loro.
 
“E’ stato anche sfortunato a capitare in una classe così…” la signorina Robyn sospirò e si alzò dalla cattedra.
“Possibile che in tre mesi non ci sia stato nemmeno un miglioramento?” chiese Andrew.
“Beh, non piange più tutti i giorni, questo è l’unico miglioramento che c’è stato. Credimi, Ellie, sto cercando di fare tutto il possibile, ma è effettivamente una situazione difficile.”
Difficile era un eufemismo e nessuno dei tre adulti qualche mese prima avrebbe pensato che l’andata a scuola di Kain sarebbe stata così drammatica. Il bambino a casa aveva sempre dimostrato grande interesse per i libri e tutte le cose che i genitori gli insegnavano e la sua mente era agile e sveglia, tanto che già prima di iniziare le scuole sapeva scrivere il suo nome e contare fino a venti. Ad essere sinceri il problema non era lo studio in sé che, anzi, era l’unica cosa che il piccolo affrontasse con piacere, ma tutto il resto.
“E’ la prima volta che sento di una classe di soli maschietti – ammise Ellie – la mancanza di femminucce a equilibrare un po’ le cose si fa sentire, vero signorina?”
“E su tredici almeno un sette, otto sono tutti dei peperini pronti a fare i giochi più spericolati. E’ stato difficile tenerli sin dal primo giorno… non è stato proprio l’ambiente ottimale per un bimbo timido come Kain, tutt’altro.”
Ed Ellie non poteva che confermare quelle parole: ogni mattina era un vero e proprio trauma convincere il bambino ad andare a scuola. Piangeva, non si voleva staccare da lei, la supplicava con tale veemenza che talvolta la donna pensava che avrebbe avuto una crisi isterica. E, nonostante tutto, non parlava mai di quello che gli succedeva in classe: tornato a casa si chiudeva in un terrorizzato mutismo e solo dopo pranzo, probabilmente rassicurato dall’essere a casa, si lasciava andare e tornava ad essere sereno… fino alla mattina successiva. Era una situazione così destabilizzante che né lei né Andrew sapevano più come prendere il loro stesso bambino.
“Proprio non ha stretto amicizia con nessuno?”
“No e teniamo conto che i bambini a quest’età possono essere particolarmente crudeli.”
“Crudeli…” mormorò Andrew.
“Non è un termine bello, lo ammetto, e mai lo userei davanti ai piccoli, ma l’esperienza mi ha insegnato che in gruppo sono tremendamente schietti tra di loro e se qualcosa non gli piace non si fanno problemi a dimostrarlo. E semplicemente Kain a loro non piace… e forse viceversa.”
L’uomo scosse il capo con aria cupa, mentre Ellie annuì: aveva già visto situazioni simili, anche se non così estreme… e sapeva che i bambini se avevano da dire qualcosa lo facevano.
“E poi il problema è anche Kain stesso – continuò la signorina – è il primo a non dimostrarsi collaborativo in questo frangente. Durante l’intervallo cerco sempre di coinvolgerlo, facendo giochi tutti assieme, ma lui si aggrappa a me e dice che non vuole… e questo indispone tantissimo gli altri. Non è abituato a tutti gli altri bambini, si sente più tranquillo con gli adulti, e forzarlo è possibile solo fino a un certo punto.”
“E come si può fare?” chiese Andrew.
“Posso solo continuare così, cercando di coinvolgerlo e sperando che prima o poi lui e gli altri piccoli trovino un punto d’incontro. Vi ho chiamato qui proprio per questo, per dirvi che non è che si possa fare molto: Kain ha delle tempistiche molto differenti rispetto agli altri bambini.”
“Le ha sempre avute – ammise Ellie – credo che sia conseguenza dell’essere rimasto chiuso in casa per tanto tempo. Beh, non ci resta che aspettare e continuare ad incoraggiarlo.”
Mentre si dirigevano verso il paese per recuperare il bambino che stava dai nonni, Ellie si accorse che Andrew aveva un’aria profondamente contrariata.
“Vedrai che è solo un problema passeggero – gli disse, prendendolo a braccetto – per sei anni è stato abituato solo a noi ed i nonni, è normale che si senta spaesato.”
“Sì, ma siamo a dicembre: dopo tre mesi buoni di scuola un simile disagio si supera senza problemi. Secondo me andrebbe spronato di più.”
“No, lo sai bene che si chiuderebbe a riccio… e dai, tesoro, per lui è già difficile. Non forziamolo più del dovuto – rimase in silenzio per qualche secondo e poi intuì – Ti dispiace che non abbia stretto amicizia con il figlio di Laura, vero?”
“Ma no, Kain ed Henry non devono diventare amici per forza solo per compensare…” si interruppe e scosse il capo, smentendo appieno quanto aveva appena detto. Era ovvio che gli sarebbe piaciuto tantissimo che almeno i loro figli si potessero frequentare senza nessun problema, ma sembrava che non fosse possibile. E sembrava che il problema fosse solo ed esclusivamente di Kain: Henry non aveva avuto alcun problema a socializzare con il resto dei compagnetti, tutt’altro.
“Alle elementari hai mai avuto problemi simili?” chiese distrattamente.
“Io? – Ellie lo guardò stranita – No, assolutamente. Certo i primi giorni ero un po’ timida, ma poi io ed Annabell abbiamo legato subito ed altre bambine le conoscevo già perché abitavano vicino a me. Dai, Andrew, non fare dei paragoni con noi: tieni conto che abitiamo anche distanti dal paese e quindi non ha avuto possibilità di stringere conoscenze con altri bimbi.”
“Vedi sempre le cose con ottimismo, meraviglia – la baciò in fronte – non so cosa farei senza di te.”
 
Chi invece non aveva problemi di socializzazione era Henry.
Quel pomeriggio Laura lo stava controllando mentre faceva i compiti e non poteva far a meno di sorridere davanti all’entusiasmo del suo secondogenito. Gregor non era minimamente interessato all’attività scolastica del figlio e aveva lasciato quel ruolo a lei: in questo modo madre e figlio si erano avvicinati in una maniera del tutto nuova perché era chiaro che il bambino era ansioso di condividere le meravigliose esperienze che viveva a scuola.
Se doveva essere sincera era stata molto meno apprensiva rispetto a quando ad iniziare le elementari era stato Heymans. Oggettivamente era più probabile che le diffidenze le incontrasse il maggiore piuttosto che Henry: Laura lo sapeva, conosceva bene i suoi compaesani e la loro mentalità secondo cui bastava che un bimbo nascesse all’interno del matrimonio per accettarlo. Ai loro occhi Henry era adattissimo a stare con tutti gli altri piccoli, ad essere integrato in tutte le attività della piccola società scolastica, come feste, merende e così via… una sciocca ipocrisia che, se aveva in parte leso Heymans, almeno non sfiorava Henry.
“Oh oh… attento, caro – mise un dito sul quaderno – non vuole la doppia.”
“Hai ragione, mamma! – esclamò subito lui, recuperando la gomma per correggere – adesso lo scrivo giusto e sto più attento.”
Era intelligente, davvero tanto: la maestra era davvero felice di lui. Certo era un po’ esagitato, ma questo era parte del suo carattere: se doveva dirla tutta Laura aveva scoperto di riconoscersi parecchio nel figlio minore. Heymans le ricordava più Henry, così attento e responsabile, anche se al bambino mancava l’energia che aveva contraddistinto suo fratello. Henry invece era proprio come lei: entusiasta delle sue amicizie, pronto a giocare e scatenarsi… gli mancava solo un Andrew in miniatura da coinvolgere nelle sue birichinate.
Già, non ha mai parlato di Kain… possibile che proprio non lo consideri?
“Finito, mamma! Guarda che bravo!”
“Oh ma che bella scrittura che hai – sorrise, accarezzandogli i capelli rossi – sei proprio bravo, peperino mio. Adesso la mamma ti prepara la merenda, sei contento? Intanto raccontami, ti diverti con i tuoi compagnetti? Quanti hai detto che siete in classe?”
“Tredici, tutti maschi – rispose il bambino, felice di parlarne – domani all’intervallo dobbiamo fare una partita a palla nera, sai?”
“Oh, ma siete dispari. Farete giocare anche la maestra?”
“No, saremo in dodici. Tanto quello non gioca mai, meglio così.”
“Quello?”
“Sì, quel bambino strano con gli occhiali. Piange sempre e si tiene aggrappato alle gonne della maestra. Non piace a nessuno, a me nemmeno un po’.”
Dal dettaglio degli occhiali ovviamente Laura identificò subito il figlio di Andrew ed Ellie e si sentì incredibilmente triste nel sentire le parole appena dette dal bimbo. Aveva sperato che lui e Kain stringessero amicizia proprio come avevano fatto lei ed Andrew.
“Forse è solo timido e ha paura – propose – perché non provate a farlo giocare?”
Henry parve riflettere qualche secondo, ma poi scosse il capo con aria furba.
“No, la maestra ha provato a dirgli di giocare, ma lui non vuole. Io ho già i miei amici e con loro mi diverto tanto, non mi serve la compagnia di quel bambino strano e frignone.”
Laura fu tentata di dirgli qualcos’altro, ma poi si accorse che poteva essere controproducente: alla sua età se l’avessero forzata a stringere amicizia con qualcuno che non le piaceva avrebbe reagito davvero male e magari si sarebbe vendicata proprio sull’altro bambino. Considerato che Kain stava avendo già diversi problemi non era il caso di mettergli contro proprio Henry.
Peccato però… scommetto che anche Andrew ci teneva parecchio.
 
“Maestra! Maestra, aspettami!” Kain corse ansioso verso la donna e si aggrappò al suo vestito.
“Che c’è, caro – gli accarezzò i capelli dritti – non vuoi andare con i tuoi compagnetti a giocare?”
“No. Posso stare con te, per favore?”
“Oh, Kain – sospirò lei, inginocchiandosi per prenderlo in braccio – proprio non vuoi? Perché ti fanno tanta paura i tuoi compagnetti? Guarda sono bimbi come te, e giocare con loro è divertente… vuoi che venga pure io? Così giochiamo tutti assieme.”
Il bambino fissò con aria timorosa i suoi compagni di classe che giocavano poco distante da loro: si lanciavano la palla con entusiasmo e gridavano come forsennati. E lui aveva il tremendo sospetto che se si fosse messo a giocare con loro gli avrebbero lanciato la palla veramente forte e si sarebbe fatto male.
“Dai – lo spronò ancora la maestra – un tiro o due, giusto per provare. Ehi bambini, lanciate la palla anche a Kain, da bravi: gioca con noi.”
Il piccolo Fury ansimò disperato mentre veniva messo a terra: la maestra l’aveva spiazzato completamente prima che lui potesse dire qualcosa in merito a quella proposta. Con passo esitante si avvicinò ai suoi compagni di classe che lo fissavano con sfastidiata curiosità, quasi a chiedersi che cosa ci facesse lì… e a dire il vero lui era il primo a chiederselo.
“Coraggio, Henry – chiamò ancora la maestra – lancia la palla a Kain, da bravo.”
Gli occhi scuri di Kain corsero a quelli grigi del suo compagno, uno di quelli che gli faceva più paura. Erano tutti molto più grandi di lui, fisicamente parlando, e anche se Henry non lo era c’era qualcosa nel suo viso che aveva il potere di spaventarlo a morte.
“Va bene, maestra. Ehi, Kain… prendi questa! Palla nera!”
Fu questione di due secondi esatti: Kain invece di protendere le braccia in avanti per recuperare quel tiro così forte, serrò gli occhi e rimase con le mani istintivamente strette al petto, quasi a raggomitolarsi in posizione di difesa. La pallonata lo raggiunse in pieno viso, facendogli volare via gli occhiali e gettandolo a terra.
“Oh no! Kain! Kain, ti sei fatto molto male?” subito la maestra lo sollevò e lo prese in braccio.
“Ma perché non l’ha presa?”
“Che stupido… con lui non voglio giocare, ci farebbe perdere sempre.”
“Ecco, adesso si mette a piangere…”
“Sai che novità!”
“Forza, riprendiamo la partita.”
“Coraggio, piccolo, fai vedere – la maestra gli bloccò la testolina scura – oh, ti è caduto il dentino che si muoveva… no, non ti spaventare, è normale un po’ di sangue.”
Ma nonostante le rassicurazioni, Kain si calmò solo diversi minuti più tardi quando la maestra lo fece sedere nel suo banco con un panno bagnato premuto sulla fronte. La testa gli pulsava e sentiva il sapore del sangue in tutta la bocca.
“Voglio la mia mamma – singhiozzò debolmente – maestra, per favore, voglio la mia mamma.”
“Devi avere pazienza, caro: tra un paio di ore viene a prenderti.”
“Adesso!” serrò gli occhi con disperazione, l’idea di quelle ore che gli sembrava tremendamente infinita.
“Sssh, sei solo spaventato. Dai che stasera passerà la fatina dei dentini.”
“Voglio mia mamma!” si alzò dalla sedia barcollando leggermente, spinto solo dall’esigenza di tornare a casa e di andare via da quel posto ostile.
“Sssh, da bravo, calmo. Aspetta, sai che facciamo? Chiedo alla maestra di seconda di badare ai tuoi compagnetti e ti porto a casa dei nonni, va bene? Tanto facciamo in cinque minuti… così ti sdrai e stai più tranquillo, sei contento?”
“Dai nonni? – tirò su col naso lui, in parte consolato – Possiamo?”
“Ma certo, forza prepariamo la tracollina.”
Quando cinque minuti dopo la maestra bussò a casa dei nonni, Kain si sentiva già più tranquillo: gli era bastato andare via da quel posto per stare meglio, anche se un piccolo magone gli tormentava l’animo. Sapeva che il papà non sarebbe stato molto felice di sapere che era andato via da scuola: negli ultimi tempi aveva realizzato che, al contrario della mamma, lui non era molto comprensivo. Gli aveva sempre raccomandato di essere forte e comportarsi da ometto, ma lui proprio non c’era riuscito e si sentiva molto colpevole per questo.
“Kain?” fu inaspettatamente proprio suo padre ad aprire.
“Piccolo incidente a scuola – sospirò la maestra – una pallonata in faccia e ha perso il dentino. Piangeva così tanto che ho pensato di portarlo dai nonni.”
“Grazie, signorina – Andrew prese in braccio il figlio – mi dispiace per il disturbo.”
“Ma no, si è spaventato per il sangue e per la botta, tutto qui. Adesso però scappo, devo tornare dagli altri. Ciao, Kain, oggi riposa e vedrai che domani starai benissimo.”
“Ciao, maestra…” pigolò lui, salutando con la manina e quasi desiderando di tornare a scuola con le piuttosto che affrontare il suo papà.
“Fai vedere la bocca – sospirò Andrew quando furono entrati dentro casa – il dentino ti sarebbe caduto a giorni, lo sai bene. Ed è capitato a tutti di prendere una pallonata in faccia.”
“S… scusa, papà…”
“Ecco la nonna. Su, vai a sciacquarti di nuovo la bocca e poi sdraiati nel divano.”
E Kain si sentì così desolato mentre andava verso la nonna. Perché il suo papà non era così buono e gentile come una volta?
Tutta colpa della scuola…
 
“Capisci? Tornare a casa per una pallonata in faccia… che frignone!”
Heymans accolse quella dichiarazione di Henry con una scrollata di spalle: da una parte, effettivamente, non poteva che dargli ragione. Insomma, era proprio da frignoni farsi portare a casa per una pallonata: chi non ne aveva preso durante i giochi? Certo magari versare qualche lacrima era normale, ma qui si esagerava. Però un’altra parte di lui si chiese come avrebbe reagito la mamma a quelle parole e si disse che certamente non avrebbe approvato quel tono da presa in giro.
“Vabbè, si è fatto male, non mi pare il caso di canzonarlo così.”
“Ma lui piange sempre… diventa anche fastidioso dopo qualche giorno. Io due giorni fa sono caduto ma non ho versato nemmeno una lacrima, eppure la sbucciatura era brutta ed è uscito tanto sangue.”
“I bambini non sono tutti uguali.”
“Già… senti, Heymans, perché non facciamo una corsa prima di tornare a casa?”
“Perché? Lo sai che la mamma si preoccupa se facciamo tardi.”
“E dai! In quei campi dietro la scuola! I miei compagni mi hanno detto che ci sono alcune tane di animali: sarebbe fantastico vederle.”
“Non possiamo – lo prese per mano il maggiore – poi la mamma sta in pensiero ed il papà…” non terminò la frase.
“Oh, dai, papà non se la prende, ne sono certo!”
“Devi comportati da bravo bambino!”
“Sono bravo – rispose con stizza Henry – ma tu a volte rompi davvero tanto!”
“Rompo?”
“Sì, le scatole!”
“Ehi! Queste cose in prima elementare non si dicono – lo rimproverò Heymans che mai e poi mai a sei anni avrebbe detto una cosa simile – se la mamma ti sente saranno guai.”
“Cos’è? Ora lo dirai alla mamma per fare lo spione?”
“Che?... no, però…”
“Oh, lascia stare! Sei davvero noioso, Heymans.” con un brusco strattone si liberò della stretta del fratello maggiore e iniziò a correre verso casa. Se Kain lo irritava, Heymans aveva la capacità di farlo arrabbiare ancora di più: lui non era un frignone, assolutamente, però si comportava sempre come un signor-so-tutto. Quella era una cosa che dovevano fare i grandi e le maestre, non i fratelli maggiori. Aveva provato a coinvolgerlo in qualche gioco, qualche cosa da fare loro due e basta mentre non erano in casa, ma evidentemente ad Heymans Breda proprio non importava. Aveva perfettamente ragione suo padre quando gli diceva di lasciarlo perdere.
Sei un fratello maggiore veramente stupido!
 
Quasi venti giorni dopo quella giornata disastrosa, Kain stava in braccio a nonna Agnes e si stringeva a lei. Era veramente triste: non voleva che i suoi adorati nonni partissero lontano. Lui voleva vederli tante volte alla settimana, come sempre succedeva: voleva andare a cavallo di Blanco col nonno e farsi coccolare dalla nonna… perché dovevano prendere il treno ed andare via?
E anche la mamma era triste, stava addirittura piangendo.
“Smettila, puledrina – la abbracciò Nicholas Lyod, finalmente riappacificato con la sua testarda figlia – non mi piace vederti piangere così…”
“Scusa… scusa – mormorò Ellie, singhiozzando – mi mancate già, papà, come posso smettere?”
“Torneremo presto a trovarvi, sciocchina e vedrai che questi anni passeranno in fretta.”
“E’ qui che c’è la parte migliore dei Lyod…”
“Ovvio, fanciullina, non ne dubitare. Ah, la mia puledrina scatenata, non sai quanto sono fiero di te.”
La baciò più volte sulle guance arrossate, ripensando chiaramente a quanto era cresciuta la sua unica figlioletta. Poi, per evitare che la commozione lo travolgesse in maniera poco dignitosa, la condusse dalla madre e si avvicinò quindi ad Andrew.
“Genero…”
“Signore…” Andrew lo guardò leggermente impaurito, notando come lo sguardo fosse di nuovo quello di antica minaccia.
“Ci sono più di ottanta chilometri tra qui ed il posto dove vado, lo sappiamo entrambi. Ma sappi che i miei occhi sono sempre puntati su di te, Fury – la mano sulla spalla di Andrew si strinse con forza – non chiedermi come o perché, ma sappi che ti osservo ogni secondo della tua vita… e se scopro che la mia bambina e mio nipote sono tristi per colpa tua, giuro che non vivrai a lungo per raccontarlo!”
“Nicholas, smettila di minacciarlo!” lo richiamò Agnes.
“Saluto solo mio genero, cara – rispose lui, prima di tornare a rivolgersi ad Andrew che, ad onor del vero, sembrava di nuovo il ragazzo spaventato che per la prima volta sedeva nel salotto di casa Lyod – capito, farfallone? Non pensare di esserti liberato di me, assolutamente… questi ottanta chilometri non ti mettono al sicuro dalla mia doppietta.”
“S… sì, signore.” si trovò a balbettare Andrew.
“Ricordalo bene, Andrew Fury…” la presa sulla spalla diminuì e un attimo dopo Andrew si trovò stretto in un abbraccio da orso. Forse era un tentativo di stritolamento per risolvere il problema in maniera definitiva, ma durò solo pochi e surreali secondi, poi fu di nuovo libero di respirare.
E io che sono venuto qui triste per la tua partenza, dannato! Con tutto quello che mi hai fatto sudare in questi anni, per me questo giorno dell’anno sarà sempre da festeggiare. Avanti, parti!
Lo pensò con rabbia mentre si massaggiava la spalla prima di accostarsi a sua suocera che invece lo abbracciò con delicatezza.
“In realtà lui ti considera un figlio, lo sai…” ridacchiò, baciandolo sulla guancia.
“Pensi se invece non mi considerava tale…” sbottò Andrew.
“Prenditi cura di Ellie e Kain, caro.”
“E lei si prenda cura di suo marito.”
“Ovviamente!”
Agnes Lyod, quella sì che era una donna meritevole di santità: Andrew la abbracciò con sincero calore, sapendo bene che senza di lei le cose sarebbero state molto più difficili. Ecco, lei sì che gli sarebbe mancata davvero tanto.
Il treno arrivò proprio in quel momento e ci fu davvero poco tempo per gli ultimi saluti: e così i coniugi Lyod abbandonavano quel piccolo angolo di mondo, con la promessa di ritornare presto. Stringendo a se la moglie e Kain, Andrew si rese conto che era una vita che non restava nella banchina osservando il treno che partiva.
Fu solo per un tremendo istante, ma mentre i vagoni iniziavano a muoversi, gli parve di vedere Henry che lo salutava con la solita aria furba, facendo l’immancabile saluto militare.
“Che hai? – gli fece Ellie, asciugandosi le lacrime, mentre il treno fischiava e abbandonava la piccola banchina – sei impallidito di colpo.”
“Niente, davvero…” rispose, fissando stranito il treno che si faceva sempre più lontano.
Stupida immaginazione…
“Torniamo a casa? – chiese Ellie, prendendo in braccio Kain – Se stiamo ancora qui mi deprimo sul serio.”
“Sì, forse è meglio.”
 
Kain era parecchio triste quella sera, tanto che non aveva nessuna voglia di giocare. I nonni gli mancavano già tantissimo ed inoltre capiva alla perfezione che pure la mamma ed il papà non erano felici della loro partenza.
Ma perché l’hanno fatto se ora siamo tutti tristi?
In quegli ultimi mesi si era accorto che molte cose della vita erano tristi e brutte. Era diverso da quando stava male: lì era sicuro che c’erano la mamma, il papà ed i nonni ad accudirlo. In qualche modo si sentiva protetto.
Ma adesso sentiva che, piano piano, tutte le sue protezioni stavano sparendo. I nonni erano lontani adesso e poi c’erano quelle ore da passare a scuola ogni giorno…
“Sono nello studio, tesoro, va bene?”
Alzò lo sguardo sul padre che passava accanto a lui dandogli una distratta arruffata di capelli.
E poi c’era il suo amato papà… che non lo capiva più come una volta. Kain sarebbe voluto andare da lui e appellicciarsi al suo petto come era solito fare…
Però forse non è così che sono un ometto.
Come si faceva ad essere grandi e coraggiosi?
Sentendo dei rumori insoliti dallo studio di suo padre, la porta stranamente aperta, si fece coraggio e andò a sbirciare quanto stava succedendo. I suoi occhi scuri si sgranarono quando vide che sulla scrivania c’era quel grande oggetto di legno chiaro che aveva sempre visto sopra la libreria. Suo padre stava girando alcune manopole con aria contrariata e dopo qualche tentativo, senza ottenere risultato apparente, sbuffò.
“E no, è proprio andata – dichiarò – non c’è niente da fare.”
“Che cos’è?” chiese il piccolo, affascinato.
“Oh, sei qui. E’ una radio, ometto – spiegò Andrew raccogliendo il cacciavite che era caduto a terra – ma ormai si è rotta e la dovrò buttare, un vero peccato… ne comprerò una nuova.”
“Radio…” Kain assaporò quel nome, gli occhi che proprio non riuscivano a staccarsi da quell’oggetto che, ora che stava così vicino a lui, gli sembrava così meraviglioso.
“Sì, sai si sente la musica e le notizie con questo, ma adesso si è rotta.”
“Non buttarla! – si trovò a supplicare – Ti prego!”
“Eh?”
“La posso prendere io?” lo chiese con ansia, non riuscendo a tollerare che una cosa così bella venisse buttata via.
“Cosa? Ma non funziona, Kain, non…”
“La uso per giocarci, non importa se non funziona!”
“Beh, se proprio vuoi… però attento a questo cavo, capito? E’ staccato dalla corrente, ma può essere pericoloso. Te la porto in camera, va bene?”
“Grazie, papà!” corse ad abbracciarlo Kain.
“Ehi, che entusiasmo, ometto – sorrise Andrew, accarezzandogli i capelli – però domani vai a scuola senza capricci, promesso?”
“Promesso!”
Per quella radio avrebbe promesso ben altro.

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Capitolo 42
*** Capitolo 41. 1892. Piccoli geni e non. ***


Capitolo XIL

1892. Piccoli geni e non

 

“Mamma, posso prendere una forchetta?”
“Tieni pure, amore – mormorò distrattamente Ellie, impegnata in una ricetta particolarmente difficile di un vecchio ricettario – poi riportala qui, mi raccomando.”
“Certamente. Grazie, mammina.”
Fu solo dopo circa un quarto d’ora, ossia quando finalmente l’impasto venne messo in forno, che la donna si rese conto della strana richiesta che le era stata fatta. Ora, una forchetta nelle mani di un bimbo di sei anni può essere pericolosa se usata al di fuori dei pasti, ma le sembrava assurdo che Kain avesse in mente qualcosa di spericolato. Tuttavia il suo essere madre apprensiva ebbe la meglio e si preoccupò di correre su per le scale, sperando di non trovare il piccolo in un lago di sangue o peggio.
La porta della camera di Kain era aperta e così vide la scena, evitando dunque di lanciare un richiamo preoccupato. Fu una visione così incredibile che si fermò sulla soglia ad osservare suo figlio di sei anni che stava sondando gli ingranaggi della radio del padre con la forchetta. Per tre secondi Ellie fu certa che si trattasse solo di un gioco, magari per emulare il padre come spesso fanno i bambini, ma poi si accorse che i gesti di Kain non erano fatti a caso: gli occhietti scuri erano concentrati su quel lavoro e anche la mano si muoveva con una delicatezza estrema.
Non può star solo giocando…
Il più silenziosamente possibile, in modo da non disturbare il bambino, scese al piano di sotto e andò nello studio del marito: doveva assolutamente fargli vedere quella scena.
“Andrew, vieni.”
“Che c’è?” chiese lui, alzando lo sguardo da alcuni documenti che stava controllando.
“Tu vieni e basta.”
Ne era sicura: Kain in qualche modo stava capendo quello che faceva. Riconosceva nell’espressione concentrata se stessa quando scriveva oppure Andrew quando lavorava ai progetti. E, senza false modestie, riteneva che suo marito fosse una mente brillante e che tutto sommato non c’era niente di strano che avesse donato una simile elasticità mentale al proprio figlio. Una dote innata, insomma.
E come osservò la reazione di Andrew non appena vide Kain, si convinse di aver ragione.
“Uh – fece il piccolo, accorgendosi finalmente di essere osservato – ciao, mamma; ciao, papà.”
“Che stai facendo?” gli chiese con gentilezza Andrew, andando a sedersi sul pavimento, accanto a lui.
“Volevo vedere come era fatta dentro – spiegò il piccolo, stranamente privo di timidezza – e così l’ho aperta e ho scoperto che ci sono un sacco di cose interessanti.”
“E come l’hai aperta?”
“Con la forchetta: vedi quelle cose lì? Ho provato a girarle con le unghie ma non ci riuscivo e allora ho chiesto alla mamma una forchetta.”
“Si chiamano viti.”
“Viti? – ne prese in mano una, come ad imprimersi bene il nome – perfetto. E poi ho pensato che forse è rotta qui, perché si muove… qui invece no e stavo provando a rimettere bene, ma forse devo usare un cucchiaino. Mamma, te ne posso chiedere uno per favore?”
“Te lo prendo subito, caro…” Ellie annuì stranita.
Mentre osservava Kain gingillarsi tra quei circuiti come se fosse la cosa più normale del mondo, Andrew rifletté sull’evoluzione che aveva avuto il piccolo da quando gli aveva dato quella radio nemmeno dieci giorni prima. Aveva smesso di fare i capricci per andare a scuola e, anche se non parlava più della sua vita in classe, a casa sembrava totalmente sereno. Aveva smesso di giocare in salotto, portandosi dietro i suoi pupazzi, adesso stava sempre in camera sua… e sembrava proprio che il motivo fosse la radio.
A sei anni può davvero riuscirci? – rifletté, osservando la forchetta tastare con delicatezza il punto rotto dell’apparecchio – Che fosse intelligente lo si capiva, ma qui… qui si va nel campo della genialità.
“Kain, secondo te come funziona?” chiese quasi con noncuranza.
“Funzionare? Beh, forse c’è qualcosa che passa attraverso questi fili, lo vedi che girano tutti attorno e poi vanno in tante direzioni? Questi vanno alle manopole e quindi come le giri fanno fare qualcosa di particolare, e questi invece vanno al pulsante per accendere… e se è per accendere allora come lo premi deve mettere in movimento la cosa dentro i fili, però ancora non so cosa è e non mi va di aprirne uno: poi non saprei come richiuderlo.”
“E’ la corrente, Kain: sai il filo che collego alla presa, no?”
“Corrente? Ah, ma quella della luce?”
“Esatto.”
“Tieni, pulcino, il cucchiaino.” tornò Ellie, sedendosi poi sopra il letto per osservare meglio la scena.
Mormorando appena un ringraziamento, in quanto completamente immerso nel magico mondo della radio, Kain mosse le sue piccole ed agili dita in mezzo a quei meccanismi così delicati, manovrando con destrezza il cucchiaino.
Andrew seguì con attenzione quei movimenti e capì come lo stesse usando a mo’ di cacciavite.
Ha individuato il guasto e lo sta riparando…
Non poteva essere altrimenti: guardando bene i meccanismi si accorse pure lui che quella piccola vite era allentata. E Kain aveva fatto tutto come se stesse semplicemente mettendo a posto la pila dei suoi dadi colorati. Con calma richiuse la radio e riavvitò il coperchio, servendosi del retro della forchetta data la dimensione più ampia delle viti.
“Adesso è guarita!”
“Si dice aggiustata, pulcino.” lo corresse Ellie.
“Va bene, mamma. Papà, credi che si possa vedere se è aggiustata?”
“Certo che sì, piccolo mio.”
E come mise la presa nella spina, Andrew non fu per nulla sorpreso di sentire la musica diffondersi nella stanza.
 
Andrew ed Ellie ovviamente avevano sperato che con questa nuova, grande, passione, finalmente Kain acquisisse maggior sicurezza in se stesso e dunque ci fossero dei risvolti positivi anche nella sua vita scolastica. Effettivamente il bambino aveva smesso i suoi capricci mattutini per non andare a scuola e sembrava che anche i suoi pianti durante le lezioni e l’intervallo fossero calati in maniera più che sensibile.
Tuttavia non era proprio come si immaginavano.
Kain semplicemente aveva fatto un logico ragionamento: aveva capito che la scuola era inevitabile e dunque cercava di godersi solo gli aspetti positivi, tralasciando tutti gli altri. Sapeva bene che una volta uscito da quell’edificio pieno di ragazzini lo aspettava la quiete di casa sua con quel meraviglioso oggetto chiamato radio. Piano piano stava imparando tutti i nuovi termini: suo padre gli aveva comprato un manuale base di elettronica e anche se non sapeva leggere speditamente, adorava guardare quelle figure che, lentamente, iniziavano ad avere un senso nella sua testolina sveglia. Quando inciampava in parole troppo difficili, a lui sconosciute, chiedeva a uno dei genitori di pronunciarle e così le memorizzava: viti, cavi, resistenza, elettroni… un piccolo grande mondo gli si era aperto davanti.
Proprio come è successo alla mamma, solo che lei è entrata nel mondo incantato e ha scoperto tutte le storie che mi ha raccontato.
Perché nella sua fantasia infantile Kain ancora non vedeva niente di scientifico nell’elettronica: era solo un qualcosa di magico di cui lui aveva la chiave d’accesso.
Tuttavia, molto spesso, l’eccitazione per queste nuove scoperte è tale che la si vuole condividere con gli altri. Per questo dopo qualche settimana che aveva il libro di elettronica, si trovò a sbirciare con curiosità i suoi compagni: ormai la maestra non provava più a coinvolgerlo nei giochi durante l’intervallo e spesso restava da solo in classe o in un angolino del cortile, senza però esserne turbato.
Però quella mattina voleva condividere le sue grandi scoperte: si sentiva talmente eccitato che prese coraggio e raggiunse i suoi compagni che, in quel momento, stavano facendo la conta per decidere chi avrebbe cercato nel primo turno del nascondino.
“…ambaraba cici cocò! Tocca a te contare – disse Henry, indicando un altro bambino – almeno fino a venti, va bene? Uh… che c’è?” gli occhi grigi si socchiusero con sospetto quando vide Kain vicino a loro.
Tutti gli altri volsero l’attenzione sul loro strano e timido compagno occhialuto, davvero increduli che fosse venuto di sua spontanea volontà a giocare con loro.
“Se vuoi giocare a nascondino allora conti tu – disse subito uno – l’ultimo arrivato è mal accontentato.”
Kain a quelle parole dette con aria lievemente ostile, perse parte del suo coraggio, ma poi fece un ulteriore passo in avanti, cercando un modo per iniziare l’argomento. Sua mamma gli diceva sempre che si trattava di fare il primo passo, il resto sarebbe venuto da solo.
“Elettroni!” esclamò, facendosi coraggio e serrando gli occhi.
“Eh? El… che?”
“Ma che ha detto?”
“Non conosco questa parola… e voi?”
“Proprio no – ammise Henry, fissando Kain con aria stranita – che cosa sarebbe, un gioco?”
“Sono dentro i cavi – spiegò Kain, facendosi forza: aveva creduto che una volta detta la parola magica tutti ne sarebbero stati entusiasti, ma non stava andando come previsto – nella radio.”
“Scusa?” chiese ancora Henry che, ovviamente, non sapeva ancora cosa fosse una radio. Erano oggetti rari in paese e ovviamente nessuno di loro ne aveva mai vista una.
E, altrettanto ovviamente, Kain non poteva sapere di queste differenze tra la sua famiglia e quelle degli altri bambini: pensava che fosse assolutamente normale che ciascuno avesse una radio a casa sua.
“Ecco, la corrente passa dentro i cavi e fa funzionare…”
“La luce di casa? Che cosa c’entra?” chiese stizzito un altro bambino, mettendosi a braccia conserte e trovando quella discussione una chiara perdita di tempo.
“No, non proprio… cioè sì, però…”
“Senti, noi stiamo giocando a nascondino – tagliò corto Henry – vuoi giocare con noi? Però ti avviso subito che devi contare.”
“No, però…” ansimò Kain, capendo che le cose non erano andate come voleva lui.
“E allora spostati, scemo con gli occhiali!” lo minacciò, dandogli una spinta che lo fece cadere col sedere a terra. E prima che il piccolo moro potesse reagire si allontanò con gli altri bambini.
Al contrario di come avrebbe reagito qualche settimana prima, Kain non pianse: si limitò a guardare tristemente i suoi compagni che andavano a giocare, capendo che non c’era nulla da fare. Erano troppo diversi ed evidentemente loro non potevano capire il regno dell’elettronica: forse era qualcosa di destinato solo a lui di cui gli altri dubitavano persino l’esistenza.
Così, in parte maturato da quel piccolo episodio, tornò in classe dove si mise a disegnare tranquillamente fino al termine dell’intervallo.
Quando terminò anche quel giorno la scuola, trovò sua madre ad attenderlo, come sempre appena dopo l’uscita del cortile. Ormai si era ad inizio aprile ed il bambino notò che era l’unica madre che venisse ancora a prenderlo: quasi tutti i suoi compagni erano stati accompagnati le prime settimane, ma poi si erano affrancati da quella scorta così particolare. Invece sua madre continuava a venire.
“Ciao, amore – lo baciò in fronte, prima di prenderlo per mano – come è andata oggi a scuola?”
“Bene, mamma – sorrise lui – abbiamo fatto il dettato e non ho sbagliato niente.”
“Che bravo, sono fiera di te. Su, andiamo: devo preparare il pranzo.”
“Mamma, se vuoi da domani posso andare e tornare da solo: la strada la conosco.”
Sentì la presa di sua madre farsi più stretta e per qualche secondo si chiese se avesse detto qualcosa di sbagliato. Sapeva che rispetto ai suoi compagni abitava più lontano, tuttavia non gli sembrava che quella strada in mezzo alla pineta fosse pericolo, anzi a lui piaceva parecchio: si vedevano sempre gli uccellini e gli scoiattoli tra gli alberi e qualche volta capitava anche di vedere qualche piccolo riccio.
“Vedremo, caro – rispose Ellie – ti dispiace che venga a prenderti?”
“No, però poi devi fare di corsa in casa. Se invece torno da solo il pranzo lo fai con più calma, no?”
“Oh, non ti preoccupare per questo. La mamma è felice di aspettarti all’uscita di scuola.”
Kain annuì distrattamente, ma dentro di sé aveva capito che sua mamma si preoccupava troppo per lui. Forse dipendeva dal fatto che spesso era stato tanto male e che poi, per molto tempo, aveva avuto paura di tutto quello che stava fuori casa. Però, adesso, la situazione era cambiata e gli sembrava più che giusto che la sua dolce mamma stesse più tranquilla.
“La maestra mi ha detto che ormai sono davvero bravo perché non piango più.”
“Ma certo che non piangi più, amore – sorrise Ellie – avevi solo i tuoi tempi, l’avevo detto.”
“Se non piango più vuol dire che sono cresciuto… e quindi posso anche provare a tornare da solo.”
“Te l’ho detto, pulcino, vedremo. Ne dobbiamo parlare anche con il papà, non credi?”
 
“Va bene, ometto, sono per te – Andrew sorrise davanti all’espressione estasiata di Kain nel vedere i piccoli attrezzi che gli aveva procurato – forchetta e cucchiaini devono stare in cucina.”
“Oh, grazie, papà! – lo abbracciò con gioia il bambino – Grazie!”
“Qualsiasi cosa per il mio ragazzo – annuì Andrew, restituendo quell’abbraccio e arruffando i capelli neri del figlio – direi che adesso le cose ti saranno più facili, no?”
“Posso andare a provarli?”
“Perché no?”
Mentre Kain saliva le scale in tutta fretta, Ellie si accostò al marito e lo fissò con un lieve broncio.
Non era per niente contenta di come si stava evolvendo la situazione: le sembrava che Kain fosse decisamente troppo piccolo per determinate cose e anche quegli attrezzi erano qualcosa di esagerato a parer suo.
“Non dovrebbe andare oltre il gioco – dichiarò a braccia conserte – dandogli quegli attrezzi rischi di far diventare quella radio un’ossessione. E poi con tutte quelle cose piccole... e se le ingoia? Alcuni di quegli arnesi sono appuntiti…”
“Che ti prende? – le chiese Andrew, guardandola leggermente stranito – Eri la prima ad essere contenta che Kain avesse trovato una passione che lo coinvolgesse così.”
“Sì, ma mi sto rendendo conto che non è una cosa propriamente infantile. E’ lui è così piccino…”
“Ah, capisco – annuì l’uomo – la storia del farlo andare e tornare da scuola da solo, vero?”
“Perché gli hai detto di sì? Potevamo aspettare almeno alla seconda elementare.”
“Ormai è arrivata la primavera e c’è bel tempo: non rischia più di beccarsi pioggia o vento. Lasciagli un po’ di indipendenza, Ellie, altrimenti starà sempre chiuso nel suo guscio.”
“Lo vuoi sempre far crescere in fretta.”
“Tutti noi siamo sempre andati e tornati da soli già dalle prime settimane di prima elementare.”
“Ma non abitavamo così lontani.”
“Ed infatti per Kain abbiamo aspettato diversi mesi, ma se te l’ha chiesto lui, vuol dire che si sente pronto. Senti, facciamo così: per le prime volte come esce lo seguo senza farmi vedere sia per l’andata che per il ritorno, sei contenta?”
“E’ una magra consolazione…”
“Ellie, è anche una questione di autostima per Kain: se continui a fargli da balia in maniera così serrata si sentirà sempre insicuro. Già sta notando che sei l’unica che ancora lo va a prendere, suvvia.”
“Senti – la donna si strinse le braccia attorno al busto, quasi a proteggersi – gli altri bambino sono appunto altri! Lui è il mio pulcino, solo io so cosa ha passato sin dalla nascita: deve essere protetto Andrew, come puoi non capirlo?”
“Ellie, un bozzolo di protezione troppo forte lo soffocherà.”
“Ma la mancanza del bozzolo potrebbe solo farlo soffrire.”
Ed il discorso terminò con quello strano pareggio, con i due adulti che capivano perfettamente che sotto certi punti di vista educativi non si trovavano affatto d’accordo.
 
Nonostante tutti i dubbi di Ellie, Kain ottenne quel primo piccolo tassello d’indipendenza, dimostrandosi degno della fiducia che gli era stata accordata. I primi giorni ovviamente ci fu una lieve paura nel fare quella camminata senza la compagnia della mamma, ma poi il bambino si lasciò andare all’osservazione della natura, aspettando quelle passeggiate con particolare entusiasmo.
E così quell’anno scolastico giunse alla fine senza troppi intoppi, con i bimbi di prima elementare che finalmente avevano trovato un vero e proprio equilibrio all’interno della classe e quelli di quinta che aspettavano con trepidazione ed ansia il loro ingresso alle scuole medie.
Heymans proprio l’ultimo giorno si ricordò di aver dimenticato un quaderno in classe e tornò indietro: tutto quello che voleva fare era tornare a casa e raccontare a sua madre di esser stato il miglior alunno di quinta elementare, con tanto di encomio da parte del direttore della scuola.
Stava per entrare quando sentì la voce della maestra e si fermò.
“Allora, Jean, promettimi che durante l’estate studierai tanto, va bene? Guarda, ti ho fatto uno schema delle cose che devi ripassare bene.”
“Che? Ma, maestra – la voce del bambino era scandalizzata – Mica ho te l’anno prossimo! Non ci sono compiti per le vacanze quando si passa alle scuole medie!”
“Lo so, caro, ma le scuole medie sono più difficili e tu hai bisogno di ripassare diverse cose, capisci?”
“Mica sono scemo! Crede che non capirò nulla?”
“No, non sei scemo – disse ancora la donna con voce calma – ma spesso e volentieri non hai studiato e io ci sono passata sopra, forse non avrei dovuto.”
“Come no! Ma se mi ha sempre riempito di note! Non sa quante volte ho dovuto mangiare in piedi per le botte prese dai miei.”
“Jean Havoc, santo cielo, ti rendi conto di essere stato per tutti questi cinque anni un vero e proprio discolo tra fughe, chiasso, chiacchiere, litigi, compiti non fatti e chi più ne ha più ne metta?”
No, lui nemmeno se ne rende conto, o se lo fa non gliene importa – pensò Heymans, posandosi contro il muro esterno dell’aula e provando tanta simpatia per la maestra. Anche in quest’ultimo giorno cercava di aiutarlo, ma Jean era un caso impossibile.
“E lei per cinque anni mi ha tartassato…”
“Senti, non importa. Questo è il programma che devi ripassare per bene se non vuoi avere troppe difficoltà in prima media: i professori sono più esigenti e le materie più complicate.”
“Bla bla bla… altro, signora maestra? Vorrei tornare a casa.”
“Promettimi che ti impegnerai, piccolo mio.”
“Sì, certo – Jean chiaramente sospirava – ehi! Piano con gli abbracci!”
“Sei proprio un demonietto biondo, Jean Havoc. Passa una bella estate.”
“Ci conti.”
Heymans fece finta di arrivare in quel momento, proprio mentre la maestra raccoglieva le sue cose e si apprestava ad uscire dalla classe. Si fecero un ultimo caloroso saluto e poi il rosso rimase solo con il suo compagno che, di malagrazia, riponeva la sua roba nella tracolla.
“Dimentichi questo – disse Heymans, prendendo il foglio dove la bella scrittura della maestra aveva pazientemente redatto quel programma di ripasso – è stata davvero gentile a…”
“Buttalo pure nel cestino – scosse il capo Jean con un sorriso furbo – mica mi serve. E’ proprio matta se pensa che sprecherò la mia estate a studiare.”
“Lo fa solo perché hai delle lacune e alle medie potresti avere difficoltà. Potevi almeno ringraziarla…”
“Che fai, spii? Dal miglior studente di quinta elementare non mi aspettavo queste cose cattive.”
“Non mi andava di entrare mentre stavate parlando – si difese Heymans – perché devi sempre fare di testa tua? L’hai fatta impazzire dalla prima elementare e nonostante tutto lei ha pensato a te.”
“Senti, mica sono scemo: alle medie si rinizia daccapo, studierò di più l’anno prossimo.”
“No, non è vero: ci vogliono le basi… e poi, tu? Studiare di più? Non sei credibile.”
“Pensa a te stesso, Heymans Breda, io penso a me. E se proprio ti piace quel foglio, tienitelo tu.”
Senza aspettare risposta, Jean uscì dalla classe, lasciando Heymans da solo con quel foglio in mano. Il ragazzino lo fissò con rassegnazione, non capendo come si potesse sprecare tempo per gente come Jean. Con un sospiro piegò quel programma di ripasso e lo mise in mezzo al quaderno che aveva dimenticato: la maestra ci aveva messo sicuramente tanta pazienza per farlo e non era giusto buttarlo. Magari sarebbe stato utile a lui.
Non è tonto… è solo stupido ed egoista.
 
Ed iniziò dunque l’estate in quel piccolo angolo di mondo: la scuola finalmente deserta e le risate dei bambini che riecheggiavano per le campagne.
Ellie non poteva far a meno di venir contagiata da quell’atmosfera di festa ogni volta che andava in paese e vedeva tanti ragazzini in giro per le strade. Quel giorno particolare, quasi a metà luglio, stava andando a spedire una lettera per i suoi genitori: sembrava che le cose non fossero facili nell’azienda di famiglia e sua madre le aveva scritto che Nicholas lavorava ininterrottamente mattina e sera tra documentazione ed incontri con i debitori.
Erano quelli i momenti in cui Ellie avrebbe voluto essere vicino a suo padre: non avrebbe potuto fare molto, d’amministrazione non ne capiva un granché, ma standogli accanto sapeva di dargli un grande sostegno. Per questo nella lettera che aveva scritto parlava solo di avvenimenti positivi: di Kain che ormai aveva preso ad uscire da solo anche il pomeriggio, di come fosse stato bravo a scuola, della sua radio, della sua ottima salute e di come lei ed Andrew stessero benissimo.
Ecco… aveva prudentemente evitato di accennare ai piccoli dissapori che c’erano tra di loro per via di Kain. Da una parte avrebbe voluto parlarne con sua madre, ma dall’altra non voleva creare preoccupazione… e a parlarne con i genitori di Andrew le sembrava di chiedere loro di schierarsi e non era corretto.
Dai, non ci pensare per adesso. Domani devi andare ad aprire casa dei tuoi così non c’è troppo odore di chiuso e…
“Ciao, Ellie – la salutò Laura mettendole una mano sulla spalla – come stai?”
“Ehi, ciao!” immediatamente abbracciò l’amica. I loro incontri erano sempre casuali, ma per quanto si ripromettessero sempre di non dimostrare il loro rapporto stretto, non potevano far a meno di scambiarsi calorosi abbracci.
“Vai alle poste? – chiese la rossa, vedendo la lettera che Ellie teneva in mano – Facciamo la strada assieme allora: devo andare a spedire questa, sai ero dal padre di Andy per firmare alcune cose e dato che c’ero mi sono offerta di andare a spedire alcune lettere.”
E così le due donne iniziarono a chiacchierare tra di loro, arrivando anche a tenersi a braccetto. Del resto il paese poteva essere anche ipocrita per certe cose, ma per altre sapeva chiudere un occhio: che Ellie e Laura fossero amiche di vecchia data, quando ancora le cose andavano bene, si sapeva.
“… oh, ma dai, non ti preoccupare – sorrise la rossa quando Ellie le parlò della troppa indipendenza che Kain, a suo parere, stava prendendo – è un bimbo responsabile. In questo scommetto che ricorda Andrew: quando era piccolo non voleva mai fare tardi a casa, nemmeno cinque minuti.”
“E’ che mi sembra che Andrew lo stia spingendo a crescere troppo in fretta. Io credo che invece Kain abbia i suoi tempi… adesso, poi, per la radio… insomma far imparare ad un bimbo di sei anni…”
“… quasi sette.”
“… tutte quelle cose complicate. Dovrebbe tornare a giocare con i pupazzi.”
“Ma dai, per me ti preoccupi troppo. Lo dico perché conosco Andrew e non credo che permetterebbe al bimbo di fare cose simili se le considerasse nocive per lui.”
“Sei la prima a cui lo confesso – ammise Ellie dopo qualche secondo – ma io credo che Andrew fosse in parte deluso da tutti i problemi di socializzazione che stava dimostrando Kain. E così quando ha visto questo suo talento ha in qualche modo compensato… non lo so, forse sono solo io che mi faccio giri mentali assurdi.”
Laura la guardò per qualche secondo, soppesando bene quell’ultima affermazione, ma poi scrollò le spalle.
“Forse sarà come dici tu, ma se c’è una cosa di cui sono certa è che Andrew Fury ama due cose sopra tutte le altre: sua moglie e suo figlio. Non farebbe mai niente contro di voi, specie dopo tutto quello che ha passato il piccolo. Vuole solo vederlo crescere forte e sano… e splendidamente intelligente. A proposito di intelligenza, lo sai che Heymans è stato il primo di quinta elementare? Sono così fiera di lui!”
“Ah, il mio leoncino! Quanto mi manca! – sospirò Ellie estasiata – a volte quando andavo a prendere Kain lo vedevo uscire! E’ così cresciuto e si vede che ha l’aria intelligente. Ed Henry?”
“Pure lui è molto bravo – sorrise Laura – un po’ scalmanato, ma bravo. Oh, eccoci… mh? Ma che è quel capannello di persone?”
Si avvicinarono con cautela al gruppetto di donne che stava parlottando tra di loro. Automaticamente il cerchio si aprì per far entrare anche le nuove arrivate: c’erano momenti in cui persino una reietta come Laura Hevans veniva ammessa al pettegolezzo… e questo voleva dire che la questione era importante.
“… ormai le resta poco, povera donna. L’ultima crisi è stata molto brutta.”
“Ma alla fine qual è il suo male?”
“Fisico debole – ammise una grossa donna che spesso veniva chiamata come levatrice quando il medico era impegnato altrove – è già stato un miracolo che non sia morta nel mettere al mondo la bambina. Anzi, non capisco come si sia trascinata per questi nove anni dopo il parto.”
“… che poi pare che a casa faccia tutto lei: da occuparsi delle faccende ad accudire quella creatura. Suo marito manco si degna di aiutarla. Strano uomo quello, parola mia. Ogni tanto vado a dare una mano, sapete essendo quasi vicine di casa… ma è un posto quella villetta… ce ne sarebbe di lavoro da fare.”
“Ma chi è?” chiese Laura con curiosità.
“Elisabeth Hawkeye, nella villetta alla fine del paese, hai presente?”
“Ah quella donna che si è trasferita col marito circa dieci anni fa – capì Ellie – ma non si è mai vista in giro.”
“Le commissioni le faccio io ogni settimana – spiegò ancora la donna che si occupava delle faccende – ma ci vuole poco per capire che è una famiglia con una storia strana alle spalle… vi ricordate le voci su un matrimonio contrastato dalle famiglie di entrambi, no?”
“Mah, non so che affare ha fatto quella poveretta ha sposare uno strambo come quello là. E la bambina poi? Non credo vada nemmeno a scuola…”
“No, credo ci pensi la madre: ha il salotto pieno di libri e si vede che è una donna di una certa cultura. E la bimba si fa vedere pochissimo quando ci sono io: è carina, assomiglia tanto alla mamma… ma vederla in quella casa è come vedere un fantasmino, a volte mi vengono i brividi.”
“E se quella poverina morirà presto….”
“Povera creatura, che il cielo l’assista con un padre così.”
Ellie e Laura, a quelle parole, si trascinarono fuori dal gruppetto: entrarono alla posta e fecero le loro commissioni in silenzio. Il fatto che Kain ed Heymans fossero stati così bravi a scuola sembrava cosa assai lontana contro quella tragedia che stava per incombere su una povera madre e quella che, a quanto sembrava, era una bimba di appena nove anni.
Uscendo dalla posta, Laura si congedò, dicendo che doveva assolutamente andare a preparare il pranzo.
Ellie invece rimase ferma per qualche altro istante nel portico dell’edificio.
L’idea di quella creatura che stava per restare orfana di madre le spezzava il cuore.
“… si, ricordi bene – le giunse la voce di una delle donne – si chiama Riza. Riza Hawkeye.”
Fatti forza, piccola Riza – pensò con tristezza, avviandosi verso casa.
Aveva il disperato bisogno di stringere Kain a sé.
 

 

piccola precisazione. 
Ovviamente parlando dell'ambientazione di FMA sto tenendo in conto che la tecnologia è leggermente più avanzata rispetto al mondo reale. Il fatto che nel 1892 la radio sia già presente ed usata dai privati non deve stupire. Così come la corrente elettrica in tutte le case del paese. :P

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Capitolo 43
*** Capitolo 42. 1893. Amare verità. ***


Capitolo XIIL

1893. Amare verità

 

“Mamma, stasera vado a studiare da un compagno di classe, va bene?”
Laura guardò con sorpresa il figlio maggiore, notando come non avesse un’espressione molto soddisfatta.
Era la prima volta che andava a casa di un amico e questo non poteva che rendere felice la donna: forse la gente aveva smesso di vedere Heymans come un reietto e aveva iniziato ad accettarlo.
“Non sei felice? – gli chiese, mentre terminava di sparecchiare – Oh, vedrai che vi divertirete: alla tua età spesso andavo a studiare a casa delle mie compagne e si finiva sempre per chiacchierare e giocare.”
“No, non sarà così – scosse il capo lui con aria cupa – in realtà devo andarci perché gli insegnanti mi hanno chiesto di aiutarlo. Rischia la bocciatura e siccome sono il più bravo tocca a me rimediare.”
“Ah, allora è per questo…” le belle speranze di Laura si sgonfiarono di colpo come si rese conto di quella che, più o meno, era un’imposizione e non un invito vero e proprio. Alla luce di questo non poteva essere sicura di come sarebbe stato accolto il suo ragazzo e questo la preoccupava non poco.
Era solo questione di tempo prima che Heymans scoprisse che cosa non andava in lui, ormai lo capiva: a quasi undici anni i bambini svegli cominciavano a porsi delle domande relative alla nascita dei figli e cose simili e dunque sarebbe arrivato presto alla verità sul suo concepimento. Era un momento inevitabile, lo sapeva bene, ma almeno c’era la consapevolezza di avergli fatto trascorrere le scuole elementari in relativa serenità.
“Chi è questo ragazzo?” chiese, cercando di capire chi fossero i suoi genitori per immaginare le loro reazioni.
“Jean Havoc, quello di cui ti ho parlato qualche volta – spiegò Heymans, finendo di passare il canovaccio umido sul tavolo – i suoi hanno un emporio a circa mezz’ora dal paese. Ci sei mai stata?”
“No, mai, però ho capito di chi parli.”
Anche se non li ho mai conosciuti di persona…
“Ovviamente ci dovrò andare diverse volte, capisci?”
“Certo, caro.”
“Però farò in modo di tornare sempre prima di cena, e poi le giornate si stanno ormai allungando – la tranquillizzò – non mi crea problemi fare quella strada da solo.”
Laura annuì, non era la strada che la preoccupava: da circa due anni Heymans usciva spesso di casa e si era dedicato ad esplorare i dintorni del paese. Sulle prime si era spaventata di lasciarlo andare, ma poi si era resa conto che per il maggiore dei suoi figli uscire di casa era un vero toccasana, libero dalla presenza così ingombrante di Gregor che, troppo spesso, lo faceva chiudere malamente in se stesso. In questo Heymans non assomigliava né a lei né allo zio: nessuno di loro due si era mai chiuso in silenzi così pesanti e prolungati, per quanto poi Heymans si sforzasse di essere sempre sorridente in sua presenza.
Ma del resto lo capisco… anche per me uscire di casa era diventata un’esigenza. E almeno lui può farlo senza troppi problemi.
“Considerato che è così distante è meglio che vada – sospirò Heymans con rassegnazione – ti serve una mano in qualcosa qui in cucina?”
“No, abbiamo finito… Senti, Heymans…”
“Sì, mamma?” chiese lui già avviato verso la porta.
“Mi raccomando comportati bene con i genitori del tuo amico.”
“Certamente – sorrise lui con aria furba – poi ti racconto come è andata, sei contenta?”
“Troppo gentile, Heymans Breda.” Laura non poté far a meno di rispondere a quel sorriso scaltro.
 
Quando arrivò in prossimità del grande emporio degli Havoc, Heymans trasse un gran sospiro per farsi forza: non l’aveva detto a sua madre, ma andare a casa di qualcuno lo preoccupava non poco. Aveva ben capito che la maggior parte della gente adulta aveva qualche problema con lui, anche se non ne conosceva ancora la natura. Si chiese se i genitori di Jean appartenessero a questa categoria di persone, oppure se fossero come i suoi insegnanti che l’avevano sempre trattato in maniera identica al resto della classe.
Però, nonostante questo, c’era anche un briciolo di emozione: anche se Jean non rientrava nella cerchia dei suoi amici stretti, si conoscevano dalla prima elementare; e anche se non era proprio volontario, era la prima volta che veniva invitato a casa di qualcuno.
Seguendo le indicazioni del suo compagno, non entrò nell’emporio, ma andò sul fianco del grande edificio, dove stava l’ingresso della casa della famiglia Havoc. Bussò con discrezione, chiedendosi se mai qualcuno l’avrebbe sentito considerata la grandezza di quella costruzione.
Ma non ebbe il tempo di pensarci che la porta si spalancò.
“Heymans? – una donna gli fece un gran sorriso e subito lo prese per un braccio facendolo entrare – Vieni pure dentro, caro! Ti aspettavamo!”
Il primo impatto che Heymans ebbe con la rumorosa famiglia Havoc fu quello: venir trascinato dentro da quella donna sconosciuta che, in due secondi, l’aveva già stretto a sé, come se fossero conoscenti di vecchia data.
“Ecco… ecco io…” balbettò, non essendo per niente abituato ad una simile… esuberanza.
“Io ti ringrazio infinitamente per esserti preso tutto questo disturbo – continuò la donna, conducendolo dentro la casa – sono certa che la tua presenza aiuterà quello zuccone di mio figlio! Ecco, vi sistemate in cucina, va bene? Aspetta che lo chiamo… Jean Havoc, scendi giù immediatamente!”
Heymans continuò a fissare con occhi sgranati quell’assurda donna che l’aveva travolto come un uragano. Era alta, leggermente rotondetta, ma la sua figura era incredibilmente agile e forte, ricordando in qualche modo una ragazzina. Aveva i capelli castano chiari, molto vicini al biondo, tagliati a caschetto come aveva visto solo in poche donne. Il viso, adesso concentrato in una smorfia di impazienza, era fresco e liscio, le guance rosse e due grandi occhi di un castano molto chiaro, quasi vicino al verde.
“Io… io, sono felice di conoscerla…” mormorò Heymans, cercando di recuperare un minimo di educazione.
“Che? Oh, ma scusami tanto, caro! – si riscosse lei – non mi sono presentata. Sono Angela Havoc, la mamma di Jean… aspetta, ora ti presento anche mio marito. James! – chiamò – Vieni, è arrivato il compagno di classe di Jean!”
“Mamma! – Jean arrivò di corsa, le braccia tese in avanti per tenere una bimbetta strillante – Questa cosa ha… ha cagato tutto quanto!”
“Modera i termini, disgraziato! – lo rimproverò Angela prendendogli la bambina – E non è una cosa, è tua sorella ed è più che normale che succeda! Perché non le hai cambiato il pannolino?”
“Scherzi? – inorridì lui – Te le gestisci tu queste cose… è già tanto che ti tenga quella pupattola per qualche ora al giorno. Che schifo!”
“Che è tutta questa confusione? – un omone, Heymans non lo seppe definire in altro modo, entrò nella stanza – Che hai combinato questa volta, figliolo? La dose di sculaccioni di dopo pranzo non ti è bastata? Devo sfilarmi la cintura?”
“Sempre a dare la colpa a me! – sbottò Jean – E’ Janet che si è tutta sporcata, io non c’entro nulla!”
“Angela, per l’amor del cielo, calma questa creatura!”
“Ci sto provando, ma con voi che urlate così!”
“E la porti via prima che l’odore della sua merd…”
“Finisci quella parola e ti arriva una sberla, Jean!”
Sono capitato in una casa di pazzi… - Heymans fu sul punto di scappare via da lì, ma quasi avessero capito le sue intenzioni, i due adulti si girarono verso di lui.
“James, lui è Heymans, l’amico di Jean – presentò Angela – scusate, torno tra cinque minuti, altrimenti Janet non la smette di piangere.”
“Piacere, figliolo! – James strinse la mano di Heymans in una morsa di ferro e gli diede una pacca sulla spalla tale da farlo traballare in avanti – Ti ringraziamo per l’aiuto che darai a nostro figlio. Scusa per questa scena che hai appena visto, è normale in casa Havoc… sentiti pure come parte della famiglia e non scandalizzarti troppo, va bene?”
“C… certo, signore…”
“Bene, adesso vi devo lasciare, devo tornare subito in magazzino: ci vediamo dopo… e tu, demonio biondo, cerca di essere diligente almeno per le prossime ore!”
Quasi fossero attori consumati di teatro, i due adulti si volatilizzarono nell’arco di nemmeno venti secondi, lasciando soli Heymans e Jean in quella cucina che, all’improvviso, era diventata così silenziosa che si poteva sentire l’aria muoversi.
“Beh – dichiarò Jean, spezzando quel silenzio – benvenuto in manicomio.”
 
Il concetto base di casa Breda era fare più silenzio possibile, specie in presenza di Gregor.
Il concetto base di casa Havoc era fare più casino possibile e sembrava che tutti i componenti della famiglia ci mettessero particolare impegno a seguire quell’unica, fondamentale regola.
Dopo due settimane di pomeriggi passati a dare ripetizioni a Jean, Heymans si addormentava con le voci esplosive di quelle persone che gli rimbombavano in testa, compreso, ovviamente, il pianto della bambina.
In genere si adattava alle situazioni, ma entrare nel vortice della famiglia Havoc sembrava decisamente fuori dalla sua portata. Ma se lui pensava questo, loro pensavano il contrario e già dal secondo giorno lo trattavano come uno di famiglia: dai baci entusiasti della signora, alle pacche del signor James, persino alla richiesta di tenere Janet in braccio.
Jean continuava a dirgli di non farci troppo caso, ma oggettivamente Heymans ancora non trovava un modo di approcciarsi con loro: con sua madre non aveva un rapporto simile, assolutamente, ed il fatto che delle persone praticamente sconosciute fossero così affettuose lo metteva davvero in crisi.
Però, nonostante tutto, non demordeva nel suo impegno di far recuperare a Jean tutte quelle lacune: ormai la considerava una sfida anche con se stesso e dunque ogni pomeriggio, alle tre spaccate, si presentava a casa Havoc pregando vivamente che almeno quella sera la piccola Janet decidesse di dormire tranquilla e non disturbare di continuo le lezioni già difficili di loro.
Per lo meno mi piacerebbe vedere qualche risultato… - pensò una mattina a scuola, mentre osservava Jean che con aria mogia andava alla lavagna per l’interrogazione di grammatica. Almeno il biondo aveva smesso di saltare così tante lezioni ed Heymans si augurava vivamente che i docenti tenessero conto anche di questo sforzo e fossero più accondiscendenti con lui.
“Andiamo – mormorò con aria concentrata – sono le dannate frasi che abbiamo fatto ieri, non puoi sbagliarle, Jean. Parti da quel dannato verbo…”
Metodo: era questo che mancava a Jean. Per cinque anni di elementari aveva recepito solo una piccola parte degli insegnamenti e così gli mancavano la maggior parte delle basi. A volte ad Heymans veniva voglia di sbattergli un libro in testa per vedere se almeno in quel modo qualcosa imparava.
“Ecco… vediamo…” Jean iniziò a balbettare, giochicchiando con il gessetto e tenendo gli occhi bassi.
“Guarda la frase, Jean – supplicò Heymans – guarda quel dannato verbo… le sai le cose.”
“Heymans, qualcosa non va?” chiese la professoressa dalla cattedra.
“Che? – arrossì lui, notando però come anche Jean si fosse girato a guardarlo – E’ che… che non riesco a vedere bene la frase alla lavagna. Jean mi sta coprendo il verbo principale…”
“Jean, spostati due secondi per favore.”
“Certo…” il viso del biondo si era illuminato a quella rivelazione e questo fece ben sperare ad Heymans che il messaggio fosse stato recepito.
Ed il miracolo effettivamente avvenne: Jean sottolineò il verbo principale ed iniziò a spiegare tutti i componenti della frase, certo con qualche confusione, ma rispetto alle scene mute a cui aveva abituato tutti era un bel cambiamento. La docente poi era incredula davanti a quei progressi, tanto che per quella che era un interrogazione da sufficienza stiracchiata, aggiunse anche mezzo voto, facendo tantissimi complimenti al biondo.
E mentre tornava al posto, Jean non poté far a meno di scambiare un cenno vittorioso con Heymans, una cosa che riempì di soddisfazione il rosso.
 
“Capisci? Sei e mezza! – Heymans era estasiato mentre raccontava a sua madre quanto era successo a scuola – ma vale quanto un dieci, te lo dico io! Pensavo che non ce la facesse, ed invece… wah! Meno male! Sono troppo felice!”
“E presumo che sarà felice pure il tuo amico.”
“Penso che a casa sua si stia festeggiando alla grande!” sogghignò il rosso, ben sapendo quanto era temuta questa interrogazione di grammatica. Sicuramente la signora Havoc avrebbe stritolato il figlio in un abbraccio orgoglioso, provocandone le proteste, mentre il padre gli avrebbe dato una pacca sulle spalle tale da buttarlo a terra.
E anche se lui farà finta di essere indignato in realtà ne sarà felicissimo.
“Ti sta simpatico, vero?” chiese Laura con malizia.
“E’ che prima non lo conoscevo bene. Certo ha molto da studiare e si capisce che non gli piace, però… non è male.”
E doveva ammettere che nell’ambiente delle scuole medie era la persona con cui passava più tempo.
Sembrava infatti che nel passaggio dalle elementari alle medie qualcosa fosse cambiato tra i vari compagni: prima si tendeva a giocare tutti assieme, adesso invece le femmine facevano un po’ gruppo a se stante e con loro anche la dolce Sofì. Non che non si salutassero o parlassero, ma era come se all’improvviso ci si fosse resi conto che i maschi e le femmine sono cose differenti e quindi un minimo andavano mantenute delle distanze.
Effettivamente in classe ronzava per la prima volta una strana e nuova parola: amore.
Heymans l’aveva sempre interpretato come un sentimento positivo: per la sua mamma provava amore, così come per la maestra e così via… ma sembrava che ci fosse un altro significato che fino a quel momento era stato per lo più sconosciuto alla maggior parte di loro.
“Beh… l’amore come quello dei genitori, no?”
“Sì, appunto. Hai presente quando si baciano o cose simili. Come fa anche mia sorella con il fidanzato.”
“Aspetta, fammi capire! Ci si può baciare anche se non si è sposati? Anche se non si è genitori?”
“Pare proprio di sì. E lo fanno anche i ragazzi grandi: quelli delle superiori…”
“E’ strano però…”
“Hm, secondo me c’è qualcosa che non va… insomma, non è come pensavamo.”
“Forse ce lo tenevano nascosto perché alle elementari eravamo troppo piccoli.”
“Può darsi. Ma quindi vuol dire che poi succede anche a noi?”
“Non lo so, ma forse c’entra con quella cosa che mia sorella chiama ciclo, ogni mese sento lei e la mamma che ne parlano, ma se mi chiedete che cosa sia proprio non lo so.”
“Come il ciclo delle piante che ci hanno spiegato a scienze?”
“Forse, ma che senso avrebbe?”
“Però, aspetta… avete sentito di quella storia del fiore e dell’ape?”
“Oh, che cose complicate. Sentite andiamo a giocare a pallone!”
Heymans scosse il capo ripensando a quelle discussioni fatte nell’angolo del cortile, quando si era certi che le ragazze non potessero sentire. Dimostrarsi ignoranti in quell’argomento poteva essere motivo di presa in giro ed inoltre era anche imbarazzante.
“Heymans?”
“Sì?”
“Ti chiedevo se a casa Havoc continui a trovarti bene – gli chiese Laura – sono gentili con te?”
“Molto, sai mi trattano come uno di famiglia. Anche se questo a volte vuol dire prendere in braccio la bambina piccola.”
“Ne sono proprio felice.”
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma si sentirono dei passi fin troppo familiari che scendevano le scale. Madre e figlio si guardarono con aria colpevole e smisero la conversazione, con Heymans che si alzava per andare da Jean ed evitare di avere qualsiasi rapporto con suo padre.
Non fece nemmeno un cenno di saluto mentre lui e Gregor si incontravano in salotto: tenne lo sguardo basso ed uscì di casa, sentendo di poter respirare più liberamente non appena la porta si chiuse alle sue spalle. E si sentì tremendamente in colpa, perché sua madre non aveva questa possibilità di fuga che invece aveva lui: suo padre non voleva, per lui le femmine dovevano stare in casa ed uscire solo per andare a fare la spesa.
No, non è così – rifletté, mentre si incamminava per la campagna – il signor Havoc non pensa sicuramente queste cose di sua moglie, si capisce.
E quello era un altro motivo per cui trovava la famiglia Havoc destabilizzante: il rapporto tra i suoi componenti era completamente diverso da quello che viveva a casa sua. E faceva male pensare che per sua madre e per lui non poteva essere lo stesso.
Quando arrivò a casa degli Havoc venne accolto come se fosse un eroe nazionale: la signora aveva quasi le lacrime agli occhi mentre lo abbracciava e lo ringraziava per la millesima volta, dandogli la maggior parte di merito per quel sei e mezza.
“No, suvvia – arrossì – suo figlio aveva studiato e le sapeva le cose, tutto qui.”
“In ogni caso dobbiamo festeggiare! Vi preparo una merenda davvero speciale, ragazzi: oggi riposate invece di studiare, ve lo meritate… anche perché mi serve la cucina libera.”
E così Heymans si trovò per la prima volta in camera di Jean, con la bambina seduta accanto a lui che ciucciava beatamente dal biberon, mentre Jean prendeva un sacchetto di biglie e le spargeva sul pavimento.
“Io le rosse tu le blu, va bene?”
“Affare fatto!”
Si misero a giocare senza troppi imbarazzi: fortunatamente avevano sviluppato una confidenza tale da non trovare più strano avere a che fare l’uno con l’altro. E Jean non era certo un tipo con i peli sulla lingua.
“Hai mai sentito parlare degli indipendenti?” gli chiese.
“Sì – annuì Heymans – sono quelli che non fanno parte delle bande, vero?”
Gli occhi grigi si puntarono sul biondo che, placidamente sistemava la sua biglia nel punto esatto per tentare il tiro. Non aveva fatto quell’accenno a caso, ne era certo.
“Hai presente quei due di seconda? Roy e Maes? Pare che siano indipendenti.”
“Seconda media?” Heymans sbuffò, ritenendolo alquanto improbabile.
“Pare che alcune bande li vogliano con loro, ma abbiano rifiutato. Questo è essere indipendenti, no?”
“Forse – ammise il rosso – ma da quanto ho capito devono anche dimostrare il loro valore… in lotte o simili.”
“Tu ci hai mai pensato ad entrare in una banda?”
“No, e non mi interessa – rispose schiettamente – le trovo cose sciocche ed inutili.”
“Ma perché? – chiese Jean con il broncio – io trovo che sia grandioso.”
“Perché a te piace azzuffarti sin da quando eri alle elementari.”
“Che male c’è?”
“Per te niente, a me non piace, tutto qui.”
“Eppure hai il fisico adatto.”
Ma Heymans scosse il capo, prendendo il braccio Janet che si era addormentata e mettendola nel letto del fratello maggiore. Ora che ci pensava quando Henry era così piccolo non aveva mai avuto molte possibilità di prenderlo in braccio: certo aveva diversi anni di meno e non aveva una presa così affidabile… ma sapeva anche che era stato suo padre ad impedire simili gesti.
“Quando è addormentata è persino simpatica, non trovi?” chiese Jean con un sorriso sarcastico che, tuttavia, nascondeva una strana sfumatura d’affetto.
“Te ne lamenti sempre ma in fondo le vuoi bene.”
“Forse… o forse semplicemente non posso buttarla fuori di casa senza che i miei si arrabbino e quindi tanto vale che trovi dei lati positivi. E poi ci ho riflettuto: quando lei va in prima elementare io sarò in seconda superiore: non mi servirebbe a niente nei combattimenti.”
“Ancora con questa storia?”
“Guarda che tengono d’occhio pure te…” Jean lo disse con una strana occhiata a cui il rosso non rispose.
Se ne era accorto, certamente, quelli delle ultime classi non guardavano mai a caso i novellini di prima.
Ma non me ne importa assolutamente niente. L’ultima cosa che voglio è creare problemi a mamma.
 
Qualche settimana dopo Heymans aveva dimenticato quella discussione e se ne stava beatamente nel cortile della scuola a godersi quel caldo intervallo di inizio maggio. Sembrava che Jean se la sarebbe cavata per quell’anno: tutti i professori si erano convinti del suo impegno ed i suoi voti avevano subito un buon miglioramento. Dunque anche se le ripetizioni continuavano quotidianamente, non c’era più la foga dei primi, disperati, giorni.
“Vogliono che entriamo nella banda – Jean si accostò a lui in gran fretta – sia me che te.”
“Chi?”
“Hai presente quello di quarta superiore? Frank, quello alto e bruno… è il capo della banda più forte.”
“Ah. E io cosa c’entro?” chiese il rosso mettendosi a braccia conserte.
Stava per sbattere in faccia a Jean tutte le sue ragioni a proposito del non voler entrare nella banda e di frenare una buona volta quell’entusiasmo, ma poi vide che il biondo non sembrava proprio felice.
“Appunto, tu non c’entri – spiegò – però a quanto pare dicono che o si entra entrambi o niente. E penso che stiano per venire a parlarci.”
“Perché proprio io?”
“Forse perché quando uno di terza media stava dando fastidio a Sofì e Rina, tu gli hai dato uno spintone come se niente fosse. Hai fisico, Heymans, te l’ho già detto. Però se non vuoi…”
“Non voglio infatti, quante volte te lo devo dire? Entrare in una banda non mi interessa!”
“Ah no?” una nuova voce li fece girare e si trovò davanti ad un paio di ragazzi così grandi che dovevano essere per forza delle ultime classi superiori.
Heymans in genere non amava sfidare chi era più grande di lui, in particolar modo i maschi: suo padre gli aveva lasciato questa strana forma di timore reverenziale addosso. Ma in questo caso, essendo anche al di fuori delle pareti domestiche, il rosso si fece più dritto e non ebbe remore a guardare quel ragazzo molto più grande di lui.
“No, non mi interessa.” disse con voce pacata.
“I benefici di essere all’interno di una banda sono tanti… e ai novellini di prima media capita raramente.”
“Sarà un onore, ma non mi interessa.”
“L’onore non si rifiuta, potrebbe essere pericoloso – disse un altro ragazzo – capisci cosa intendiamo, Breda? Jean, cerca di spiegarglielo.”
“Mi pare che abbia parlato chiaro – scrollò le spalle Jean – e se a lui non interessa, non interessa nemmeno a me, sia ben chiaro.”
Quest’affermazione, detta in modo assolutamente neutrale, ebbe la capacità di spostare l’attenzione sul giovane Havoc. Persino Heymans lo guardò con stupore: per tutto quel tempo aveva pensato che la massima aspirazione di Jean fosse entrare a far parte di una delle bande.
Perché?... perché ti stai tirando indietro proprio ora che ne hai la possibilità?
“Avevamo capito ben altro, Havoc…” fece Frank mettendosi a braccia conserte.
“Ho cambiato idea, non si può? – ribatté lui – Tanto ne avete tanti di membri della banda… io ed Heymans stiamo per conto nostro, capito?”
“Che? – un sorriso scaltro apparve sul viso dell’altro – Ci diamo addirittura arie da indipendenti? Non sarà un po’ troppo per dei pivelli di prima media… specie per uno che ha una madre come la tua, Heymans?”
A sentire tirare in mezzo sua madre Heymans si irrigidì.
“Ehi! Che vorresti dire? – sbottò subito Jean – le madri non si tirano mai in mezzo! E poi che avrebbe sua madre che non va? Che ne sai tu!”
“Mhpf! Ma certo: voi di prima siete ancora così ingenui… fatti i conti Heymans Breda: dal matrimonio dei tuoi alla tua nascita. Lo sa tutto il paese tanto…”
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma la campanella che annunciava la fine dell’intervallo cominciò a suonare e, obbedendo a quel richiamo, ciascuno dei ragazzi si ritirò nella propria zona. Tuttavia Heymans era impallidito e si accorse solo distrattamente di Jean che gli aveva messo la mano sulla spalla.
Che cos’è che sa tutto il paese?
 
Laura era sdraiata nel divano e si godeva la quiete di quella sera.
Gregor era uscito e i ragazzi erano ciascuno in camera loro e tra poco sarebbero andati a letto.
Quella sera era particolarmente propensa a lasciarsi andare ai dolci ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, come se fossero un balsamo che, spalmato ad intervalli irregolari, le rendeva più sopportabile quella vita di semi-reclusione che conduceva. Le risate con Andrew ed Henry, le corse sui prati, le merende sempre piene di gioia e di chiacchiere…
“Mamma, dormi?”
La voce sommessa di Heymans le fece aprire gli occhi e vide che il ragazzino era davanti a lei.
“Scusa, tesoro – sorrise, mettendosi seduta – riposavo solo un pochino. Dimmi ti serve qualcosa?”
“Possiamo parlare?” le chiese con aria seria.
“Oh, ma certo – annuì lei, facendogli cenno di sedersi accanto – dimmi tutto.”
Solo allora notò che era più rigido del solito, eppure quando erano solo in due mai accadeva, tutt’altro. Ed evitava di guardarla negli occhi, ma fissava un punto fisso davanti a sé, mentre le mani erano posate in grembo e si contorcevano lievemente.
“Heymans – mormorò subito, accarezzandogli i capelli – va tutto bene?”
“Ho… ho fatto una ricerca di scienze, sai – mormorò – su come nascono i bambini. Avrei… in genere si fa in seconda media, però…”
Laura capì subito dove stava andando a parare il discorso.
Il suo cuore smise di battere per due lunghissimi secondi, mentre cercava di trovare una via di fuga.
Ti prego… ti prego… faglieli almeno compiere undici anni. Dammi almeno un paio di mesi ancora…
“Ecco…”
“I bambini vengono con… concepiti – pronunciò con difficoltà quella parola fino a poco prima sconosciuta –  e poi impiegano circa nove mesi per nascere – continuò lui, abbassando la testa – il mio compleanno è il 22 luglio… e una volta mi hai detto che ti sei sposata a marzo.”
“Tesoro, non devi pensare che…”
“Mamma, io sono stato concepito diversi mesi prima del matrimonio, vero?”
Si girò a guardarla questa volta… e gli occhi erano così diversi. C’era una nuova e dolorosa maturità che per qualche secondo lo fece sembrare incredibilmente vecchio, come se il peso del mondo fosse caduto improvvisamente sopra di lui.
“Sì, amore, è così – si sforzò di dire Laura, ingoiando il groppo che aveva in gola – ma non devi pensare che per questo io non ti voglia meno bene che ad Henry. Dovresti saperlo bene…”
Lo abbracciò con forza, sentendo che per la prima volta non si abbandonava contro di lei.
“Mamma…” mormorò ancora.
“Sì?”
“Tu… tu hai sposato papà per colpa mia, vero?”
Colpa.
Laura non rispose, ma lo strinse ancora di più.
Per un perverso gioco del destino i ricordi degli anni ormai lontani tornarono, ma questa volta non era più una ragazzina, ma era già incinta di Heymans, dopo quel disperato tentativo di suicidio.
Ed Andrew le parlava, la tranquillizzava… per la prima volta le faceva vedere le cose nel modo giusto, per la prima volta capiva che il bambino non era una colpa, ma una benedizione.
“Credi che mi amerà, Andy? Credi che sarò una buona madre e non… non sarò come i miei genitori? Ti prego, rispondimi sinceramente… devo saperlo…”
“Sciocchina sarai la migliore mamma del mondo per questo bambino, non devi dubitarne.”
“Anche se… se questo vuol dire… sposare Gregor.”
“Essere madre vuol dire anche essere forti, Laura…ti posso solo promettere che io ci sarò sempre per te e per il bambino.”

E lei lo sapeva bene che il suo bambino non era assolutamente una colpa, tutt’altro.
Ma come faccio… Andy, come posso farglielo capire?

 

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Capitolo 44
*** Capitolo 43. 1893. Più semplice di quanto si creda. ***


Capitolo XIIL

1893. Più semplice di quanto si creda

 

Quello che stava facendo Laura era veramente fuori dall’ordinario, ma sentiva che la situazione le stava totalmente sfuggendo di mano. Si fosse trattato di lei e di Gregor sicuramente avrebbe mantenuto il silenzio e avrebbe cercato di risolvere le cose da sola, quasi sempre accettando passivamente le nuove restrizioni, ma in questo caso la questione riguardava Heymans e Gregor era l’ultima persona che doveva venirne coinvolta: le era bastata una sola frase da parte di quell’uomo per capire che da lui non avrebbe ottenuto nulla.
“Ci vuole tanto a capire cosa è successo, donna? Tuo figlio ha dimostrato di avere un minimo di fegato: a quanto pare sa rissare come tutti i maschi.”
Rissare…
Pensando a quel verbo e all’occhio nero di Heymans, Laura accelerò il passo per il sentiero di campagna, sentendo il senso di urgenza farsi ancora più pressante.
Il suo bambino era sempre stato così tranquillo e responsabile… con una maturità persino troppo sviluppata per la sua età. Scoprire che aveva fatto a botte con dei ragazzi più grandi di lui aveva sconvolto il suo universo, quel mondo di piccole certezze dove spesso era lei ad aggrappasi al figlio maggiore e non viceversa. Ma sembrava che questa strana, piccola, ancora di salvezza stesse iniziando a vacillare.
Tutto per colpa di quella scoperta. Santo cielo, eppure conosco mio figlio! Dovevo capirlo subito che non l’avrebbe assorbita con facilità, tutt’altro.
Era passata più di una settimana da quando aveva fatto quella scoperta così destabilizzante ed i loro rapporti erano drasticamente cambiati. Heymans la evitava di proposito, era chiaro, e tutte le volte che era costretto a parlare teneva lo sguardo basso e la voce sommessa. E Laura capiva bene che lo faceva non perché ce l’avesse con lei, ma perché si sentiva marchiato di una colpa tremenda: se c’era una cosa che aveva sempre voluto era vederla felice, sin da quando era piccolissimo. Scoprire di essere stato l’effettiva causa di quel matrimonio così mal riuscito l’aveva letteralmente distrutto.
“Ehi, Laura!”
Il richiamo la fece riscuotere e scoprì di essere arrivata alla sua meta: vedendo Andrew che scavalcava lo steccato di un campo dove c’erano diversi attrezzi da lavoro, fu inevitabile iniziare a correre verso di lui e abbracciarlo con disperazione. Sentire quelle braccia, diventate con gli anni così forti e sicure, che la stringevano le diede un immediato senso di conforto e per una decina di secondi non disse niente, crogiolandosi in quel nido di sicurezza che la illudeva che le cose si sarebbero potute risolvere.
“Che hai, amica mia? – le chiese la voce gentile di Andrew – E’ successo qualcosa di grave?”
“Ho bisogno di te – mormorò lei, alzando lo sguardo su quegli occhi così dolci e preoccupati – se non ne parlo con qualcuno impazzisco… Andy, mi sta sfuggendo tutto di mano!”
E con le lacrime trattenute a stento gli raccontò degli ultimi avvenimenti e del comportamento di Heymans.
“Ormai esce di casa ogni volta che ne ha occasione – spiegò, mentre lui la aiutava a scavalcare lo steccato e andavano a sedersi sull’erba – non riesce più a guardarmi negli occhi e adesso questa storia delle risse. Cielo, Andrew, non so più come comportarmi con lui: ho provato a parlarci, ma mi risponde a monosillabi oppure dice che va tutto bene… non so che fare.”
“Vedrai che è solo una fase – la consolò Andrew, passandole un braccio attorno alle spalle – ha bisogno di metabolizzare la cosa.”
“Vorrei aiutarlo, ma… sembra che la mia presenza sia più dannosa che altro. Mi dispiace tantissimo: in questo momento avrebbe bisogno di una figura maschile di riferimento, me ne rendo perfettamente conto, ma tutto quello che ho da dargli è un padre che si è accorto di lui solo perché l’ha visto tornare pesto a casa. E’ la prima volta che l’ho visto dire qualcosa su di Heymans con un minimo di soddisfazione.”
“Idiota…” sibilò l’uomo.
“Andy, come devo comportarmi? I nostri genitori mai e poi mai ci avrebbero consentito di tornare a casa in questo modo… un occhio nero! Figuriamoci! Saremo finiti in punizione a vita all’età di Heymans.”
A quelle parole lo vide passarsi una mano nei capelli castani con aria imbarazzata: era chiaro che non sapeva come risponderle. Nemmeno Henry nella fase più esuberante dell’adolescenza aveva mai fatto a botte con qualcuno: semplicemente era qualcosa che la loro educazione non contemplava. Quello del rispetto era un concetto che era stato inculcato nelle loro teste sin dalla più tenera infanzia.
“Ecco… è anche vero che i nostri figli vivono situazioni ben diverse dalle nostre…”
“Supponiamo che Kain iniziasse a tornare a casa pesto per le risse – lo bloccò Laura con un sospiro – ti daresti una simile giustificazione? E non dirmi di sì, non ti credo nemmeno morta.”
“Hai ragione, lo ammetto – sorrise Andrew con aria di scusa – io ed Ellie non siamo mai andati oltre una lieve sculacciata ogni tanto, ma credo che per l’occasione mi assicurerei di fargli imparare bene il concetto. Però… Laura, diamine, quello che vive Heymans non è facile: non puoi paragonarlo a Kain che, a conti fatti, non ha alcun motivo per comportarsi in un modo simile.”
“Devo giustificare mio figlio per quello che sta facendo?”
“Giustificare – Andrew soppesò quella parola – piuttosto attendere che si faccia un minimo di chiarezza. Laura, oggettivamente, noi abbiamo avuto una determinata educazione, è vero, però… ammettiamolo che siamo stati un’eccezione bella e buona, suvvia. In tutta onestà, se Henry avesse fatto a botte con qualcuno ne saremmo rimasti sorpresi?”
“No…” sospirò lei.
“E’ che siamo diversi l’uno dall’altro… e proprio come per me è impossibile vedere Kain rissare per tutta una serie di motivi, dall’altra tu ritieni possibile che Heymans possa avere comportamenti simili?”
“Henry li avrà – dichiarò la donna – me lo sento, ci vuole solo qualche anno ancora: Gregor l’ha spinto fin troppo verso quella direzione e già si vedono i primi segnali. Spintoni, prese in giro, ma è solo perché è in seconda elementare, poi peggiorerà. Se rimanesse semplice vivacità, magari un po’ maliziosa, sai come quella di Simon che non perdeva occasione per bisticciare con qualcuno… beh, mi andrebbe bene come cosa. Ma non lo so, con quel bimbo a volte rimango davvero spiazzata. Per quanto riguarda Heymans… oddio, sono ancora più confusa perché in lui c’è quel non so che di mio fratello… che hai detto prima? Se Henry avesse fatto a botte con qualcuno non saremmo rimasti sorpresi? Forse vale lo stesso discorso… ma se è tutto per colpa di quella storia…”
“Non ti ha detto la motivazione?”
“Pare che c’entrino le bande – sospirò Laura – ha detto qualcosa come… non volevano capire che noi non ne vogliamo fare parte. Ci credi? Mio figlio di quasi undici anni si dà arie da indipendente.”
Andrew inclinò con curiosità il capo nel sentir parlare di quelle realtà scolastiche che pure loro avevano vissuto tempo addietro: rendersi conto che adesso toccava ai loro figli lo faceva sicuramente sentire un po’ stranito. Però poi scosse il capo con un lieve sorriso.
“Sai, Lauretta, effettivamente Heymans come indipendente ce lo vedrei benissimo.”
“Lui e Jean, forse non lo sai ma sono in due… sembra che stiano diventando inseparabili.”
“La cosa ti dispiace?”
“Non lo conosco… è il figlio degli Havoc, hai presente? Pare che sia un combina guai, ma devo ammettere che, prima di tutta questa storia, Heymans aveva iniziato a parlare di lui e della sua famiglia in termini più che buoni. Di certo l’hanno sempre trattato bene.”
“Allora tuo figlio non è solo in tutta questa storia – sorrise Andrew, arruffandole i capelli – a volte è più utile un amico di un genitore, non credo di dover essere io a dirtelo. E’ semplice esigenza, Lauretta: se Heymans ha trovato qualcuno suo coetaneo con cui confrontarsi, tanto meglio, fidati.”
“Dici che devo stare tranquilla?”
“Dico che Heymans anche se inizierà a rissare, resterà sempre un ragazzo dagli ottimi principi. E ti adorerà sempre: deve solo uscire da questo piccolo momento di crisi.”
“Ci sono momenti in cui vorrei che potesse parlare con te… a volte capisco che avrebbe davvero bisogno di un padre con cui confrontarsi.” sospirò, alzandosi in piedi.
“Se non ci fosse Gregor sarei il primo a venire da lui, lo sai. Non lo so, Laura, se credi che sia un bene, in qualche modo posso riprendere i contatti con lui e…”
“No, adesso proprio no – scosse il capo – troppe rivelazioni lo farebbero andare fuori di testa. E poi… oggettivamente se compari tu salterebbe inevitabilmente fuori tutto il resto della storia e sarebbe un disastro, lo sai bene. E’ ancora troppo piccolo, non voglio caricarlo così tanto.”
“Prima o poi succederà, lo sai – le ricordò Andrew, mentre scavalcavano di nuovo lo steccato – da come me ne hai sempre parlato è un ragazzo molto maturo e presto sarà pronto.”
“Vedessi la maturità di un occhio nero…” Laura riuscì persino a sorridere.
“Immagino.”
“Scusami, non ti ho nemmeno chiesto di Ellie e Kain. Stanno bene?”
“Benone. Ellie è un po’ in crisi perché ora che inizia l’estate Kain vorrà iniziare a scorrazzare da solo per le campagne, ma è tutto nella norma.”
“Si abituerà. Beh, ora è meglio che vada: non vorrei che Gregor notasse la mia assenza prolungata.”
Si stava per avviare, ma Andrew la prese per un braccio e la fissò con attenzione, una tacita domanda che aleggiava tra di loro.
“No, Andy – mormorò la donna – non mi ha fatto nulla di male….”
Si liberò di quella stretta e si avviò verso il paese, in parte rassicurata sulla questione di Heymans.
 
Laura ci aveva visto giusto sul suo primogenito: se prima Heymans usciva di casa per allontanarsi da un ambiente familiare difficile, da quando aveva fatto quella scoperta così destabilizzante scappava da quelle quattro mura ogni volta che ne aveva l’occasione. Vedere suo padre, quella famiglia, gli faceva gravare addosso il senso di colpa che sentiva crescere dentro di sé. Sua madre aveva cercato di rassicurarlo, garantendogli che l’amore che provava per lui era la cosa più importante del mondo, ma Heymans si era fatto una precisa visione delle cose, secondo la quale era lui e solo lui il responsabile di tutta quella infelicità.
E, d’istinto, per una realtà familiare che rifiutava, ce n’era un’altra a cui si accostava alla ricerca di quella serenità che ormai gli era necessaria per non impazzire. Gli Havoc erano diventati un vero e proprio rifugio emotivo: così gentili, affettuosi, senza nessuna infelicità per cui sentirsi responsabile… l’avevano ormai accolto tra di loro come un vero membro della famiglia e niente lo faceva sentire più felice che stare in quella casa così rumorosa e carica d’amore. Oramai la sua presenza era così scontata che si andava oltre il mero studio con Jean: aiutava nel magazzino, badava a Janet, si rendeva utile come poteva, sentendo che in quel perfetto e collaudato meccanismo trovava spazio persino lui.
“Tieni, Heymans – gli disse un pomeriggio di metà giugno il signor Havoc, passandogli un bicchiere di succo di frutta – riposati. Sei stato davvero gentile ad aiutarmi a spostare tutta questa roba.”
“Si figuri, signore – sorrise lui, accettando comunque quel piccolo premio – è stato un piacere.”
Mentre osservava l’uomo che approfittava di quel momento di pausa per dissetarsi pure lui, Heymans rifletté su come ormai non provasse più nessun timore reverenziale nei confronti di quella figura così massiccia e muscolosa. Sulle prime quella stazza l’aveva spaventato non poco, anche perché molto spesso Jean gli faceva precisi resoconti sulla tipologia di punizione che quell’uomo era capace di infliggere, ma con il passare dei giorni aveva scoperto che in realtà James Havoc era una delle persone più buone e gentili del mondo. Era così diverso da suo padre e, soprattutto, trattava la sua famiglia con estremo amore: non faceva differenze tra i figli e adorava la moglie, per quanto molto spesso ci fossero rimbrotti e litigi. Ma Heymans, ben abituato a conoscere la vera tensione, sapeva benissimo che erano parte di una routine familiare ben collaudata e rumorosamente affettuosa.
“Ti sei completamente ripreso da quell’ultima litigata, vero? – gli chiese ancora l’uomo – accidenti, andare contro quelli di prima superiore non è uno scherzo per pivellini come voi di prima media.”
“Effettivamente io e Jean siamo cresciuti più del previsto.”
Ed era vero, anche se prima Heymans non se ne era mai reso conto: lui e Jean erano già più robusti dei loro coetanei e ci voleva poco perché venissero scambiati per ragazzi di terza media. Per quanto mancasse più di un mese al suo undicesimo compleanno, Heymans sentiva che il suo corpo stava crescendo in forza e potenza: correva molto più forte, sollevava pesi con facilità, si sentiva carico di una nuova energia… ed era un qualcosa che lo faceva stare estremamente bene.
“Veramente sono stati quegli stupidi che sono venuti contro di noi – disse Jean, che era entrato in cucina giusto in tempo per sentire le ultime frasi – se devo fare il gregario di gente come quella tanto vale essere indipendente, non credi Heymans?”
“Ahahaha! – scoppiò a ridere James – Puntiamo in alto, ragazzo mio. Ma sono felice di questa tua determinazione: siete una bella coppia tu e quest’altro!”
Heymans sorrise e squadrò con attenzione il suo amico: ormai provava una strana forma di stima e fiducia in lui. L’aveva sempre considerato uno scapestrato, un combina guai, senza però attribuirgli una cattiveria di fondo. Adesso, invece, iniziava a rendersi conto come in Jean fossero radicati quei principi che si respiravano a pieni polmoni a casa sua.
E poi apprezzava tantissimo la discrezione che aveva avuto sul quel commento relativo a sua madre: nessuna richiesta di spiegazione o simili, aveva semplicemente atteso che fosse lui stesso a parlargliene.
E quando aveva saputo tutta la storia, aveva scrollato le spalle e commentato con:
“Vabbè e chi se ne importa? Non vedo il motivo per dire cose brutte su tua madre, proprio no!”
Da quel preciso momento Heymans aveva capito di aver trovato il suo miglior amico.
Qualsiasi altro pensiero venne interrotto dall’ingresso della signora Havoc.
“State parlando di baruffe e risse, vero? – chiese in tono scontroso – Ah! Uomini… sempre a fare guai e poi noi donne a raccogliere i cocci. Che dice tua madre di questa storia della rissa, Heymans?”
“Che? – il rosso restò spiazzato a quella domanda – A dire il vero… non lo so…”
“Non te ne ha dette quattro quando ti ha visto tornare a casa ridotto in quel modo?”
“Uhm… non proprio.”
“Santa donna… cerca di non farla preoccupare troppo, va bene? – Angela gli andò vicino e lo squadrò con attenzione – Una madre si preoccupa sempre per i propri figli e i silenzi sono la cosa che detesta di più. E poi sei sempre stato così tranquillo… questo cambiamento la deve aver sconvolta. Fammi la cortesia di parlarle, va bene?”
Heymans annuì distrattamente, anche se in cuor suo non l’avrebbe mai voluto fare.
Che cosa poteva dire a sua madre? Che stava iniziando a rissare per colpa sua? Non era assolutamente vero: era una questione sua e di Jean che ormai andava oltre quell’insulto che aveva portato a quella scoperta così brutta. Era qualcosa di diverso, di più profondo che non era facile affrontare.
Ti ho messo io nei guai, mamma… non saresti infelice se non fosse stato per me.
“E non farti strani pensieri – sorrise Angela, vedendo la sua espressione turbata – noi madri ci possiamo anche arrabbiare, ma a voi figli perdoniamo tutto quanto, vero Jean?”
“Come no…” sospirò il ragazzo biondo.
“Che vorresti dire, sentiamo!”
“Niente, mamma, niente! Heymans, se devi andare ti accompagno per un tratto di strada, va bene?”
Ridacchiando Heymans si alzò dalla sedia, facendo giusto in tempo a scansarsi per non inciampare in Janet che si muoveva traballante sul pavimento, aggrappandosi a qualsiasi cosa trovasse a portata di mano. Sostenendola in tempo per evitarle l’ennesimo ruzzolone, la prese in braccio e la consegnò al padre, prima di salutare ed avviarsi con Jean fuori da casa Havoc.
Per qualche minuto camminarono tranquilli, godendosi il caldo piacevole di inizio giugno: da più di un mese ormai i vestiti pesanti erano stati abbandonati e i calzoncini e le magliette a maniche corte dei due ragazzi lasciavano vedere ancora i segni del recente scontro.
“Sul serio, come ha reagito tua madre ai lividi? – chiese Jean ad un certo punto – Deve esser stato un dramma per lei vederti tornare in questo modo.”
“Mah, era preoccupata, è ovvio – ammise infine il rosso – ma le ho detto che non era nulla di grave. Mi ha fatto gli impacchi, disinfettato il tutto ed è finita così.”
“Sicuro? La mia a me mi ha fatto…”
A me mi non si dice.”
“Giusto… comunque, dicevo, mi ha fatto una testa così con le ramanzine. Per fortuna che per queste cose papà è molto più tranquillo e si fa una risata sopra. Ed il tuo?”
“Con mio padre non ci parlo molto.”
“Oh…”
Heymans si dispiacque di aver messo a tacere Jean in quel modo. Era ovvio che non poteva sapere della sua situazione a casa: sicuramente immaginava che ogni famiglia fosse più o meno come la sua.
“Jean…”
“Dimmi.”
“Perché sei diventato mio amico?”
“E perché ci dovrebbe essere un motivo? – chiese il biondo grattandosi la testa – Ci siamo conosciuti meglio e mi sei piaciuto, tutto qui.”
“Tutto qui…”
“Perché? Come dovrebbe essere?”
“Ecco, a volte me lo chiedo pure io…” sospirò Heymans.
Ormai si rifiutava di accettare le cose come scontate: dopo che aveva scoperto quella distorsione in qualcosa di naturale come il matrimonio e la nascita di un figlio, era pronto a valutare con attenzione qualsiasi situazione. Nemmeno l’amicizia con Jean le sembrava una cosa spontanea… alla fine c’erano tutte quelle ripetizioni, senza contare che per cinque anni non si erano praticamente considerati.
“Heymans…”
“Eh?”
“Secondo me tu ti complichi troppo la vita – Jean gli diede una pacca sulle spalle – ce l’hai ancora per quella stronzata detta da quei cretini guidati da Frank?”
“Diamine, ma dove li impari certi termini alla nostra età?”
“Lascia stare – scosse il capo Jean – vuoi bene a tua madre? Un sì o un no, non voglio altre risposte.”
“Sì.”
“E lei ti vuole bene? Nel senso… il bene che una madre vuole al proprio figlio? Anche qui o un sì o un no, va bene?”
“Sì.”
“Perfetto, allora tutto il resto è inutile chiacchiera e tu non ti devi far condizionare.”
E con un sorriso felice, come se avesse appena risolto tutti i problemi del mondo, si mise le mani in tasca e riprese a camminare verso il bivio.
Heymans invece rimase leggermente indietro, guardando quelle spalle robuste che si muovevano con disinvoltura. Ecco l’aspetto che più gradiva di Jean: a volte riusciva a far vedere le cose in maniera davvero semplici.
Come forse lo sono… però… ci sono tante cose in ballo.
Anche se doveva ammettere che forse non si era comportato molto bene con sua madre negli ultimi giorni.
 
Forse Heymans avrebbe voluto fare qualche passo avanti nei confronti di Laura, ma era trattenuto da quella forma di vergogna che spesso si prova alla sua età. Capiva di aver avuto torto, ma non sapeva come rimediare, anche perché si sarebbe potuto intavolare un discorso assai spiacevole che avrebbe riportato alla luce tutti quei sensi di colpa che provava.
Tuttavia Laura era abbastanza attenta al comportamento del figlio e notò come stava cercando di riavvicinarsi a lei. Da una parte sarebbe voluta correre da lui, abbracciarlo, baciarlo, dirgli che andava tutto bene, ma memore della chiacchierata con Andrew, decise di lasciare al ragazzino le sue tempistiche.
Però c’era una cosa che voleva fare da tempo, ma per svariati motivi, tra cui la lontananza da casa e la paura di non sapere che reazione avrebbe avuto, aveva di continuo rimandato.
E così, una mattina, si recò all’emporio degli Havoc.
Era la prima volta che metteva piede in un ambiente così vasto: in genere lei era abituata alla drogheria e agli altri negozi del paese, i quali avevano una superficie molto più ridotta. La prima impressione che invece ebbe entrando in quel vasto ambiente dal pavimento di legno fu di ampio respiro. Gli scaffali erano solo lungo le pareti e non andavano ad occupare la superficie calpestabile: il cliente sembrava quasi guidato verso il lucido bancone che stava alla parete di fondo, proprio come il seggio di un sovrano. E dietro di esso, invece di un arazzo regale, altri scaffali, con una varietà di merci che Laura non avrebbe mai creduto possibile.
“S… salve…” salutò debolmente, notando come non ci fosse nessuno in quella stanza. La sua voce rimbombò in modo tale che ne sussultò e fece un passo indietro.
“Eccomi! Eccomi! – rispose una voce soffocata, proveniente da un luogo indefinito – Un secondo di pazienza!”
Laura si guardò attorno, cercando di capire da dove diamine potesse comparire una persona in un posto dove tutto era così visibile. Solo allora notò che di lato rispetto al bancone c’era una porta di legno semichiusa: incuriosita sbirciò in quella direzione giusto nel momento in cui Angela spalancava l’uscio ed entrava con aria affannosa.
“Scusi l’attesa! Mio marito è in magazzino e non…” si fermò come la vide.
“Ecco… io – iniziò Laura con imbarazzo – non… non ci conosciamo. Sono Lau… la madre…”
“La madre di Heymans, ma certo – annuì Angela con un gran sorriso girando attorno al bancone e stringendole la mano con affetto – come non riconoscerla con quei capelli e quegli occhi? Ci scusi, sa! Le abbiamo praticamente sequestrato suo figlio da un paio di mesi a questa parte!”
“Veramente sono qui per…”
“E posso capirla! – la bloccò Angela  - Vederli tornare a casa zeppi di lividi e sbucciature è un dramma ogni volta. Presumo che sia buona parte colpa di Jean se anche Heymans ha iniziato a rissare… gliel’ho detto non so quante volte a quel benedetto ragazzo. Ma sa, mio marito dice che sono botte che fortificano! Balle! Tanto sappiamo bene che poi siamo noi mamme a raccogliere i cocci…”
“A proposito di…” cercò ancora di intervenire Laura.
“… però Jean è un bravo ragazzo, in fondo. Da quando ha conosciuto Heymans è migliorato così tanto in tutte le materie. E suo figlio è proprio uno studente diligente… e così educato e premuroso. Deve vedere come è gentile con Janet!”
“Janet?”
“Sì, la mia bimba di due anni! Ormai lo considera un secondo fratello maggiore, si capisce… oh, ma mi scusi, mi sono lasciata trasportare come al solito, voleva dirmi qualcosa?”
“Grazie…” mormorò Laura con le lacrime agli occhi, stringendo la mano di Angela nella sua.
“Grazie? E di cosa?” chiese la donna con un sorriso sorpreso.
“Di… di essere così gentili con lui – continuò trattenendo il groppo che aveva in gola – di… di non fare nessuna maledetta discriminazione!” quella parola gli fece un gran male, ma la disse come se stesse sputando del veleno.
“Discriminare? Heymans? – Angela scosse il capo – Per quella stupida storia?”
“Non è stupida se quasi tutti…”
“Se quasi tutti sono scemi non deve essere un problema suo o di Heymans! Che diamine! Signora, lo so che la sua era una famiglia all’antica, lo sa tutto il paese… ma se crede che la maggior parte delle donne di qui sia arrivata vergine al matrimonio si sbaglia di grosso. Io per prima, se proprio lo vuole sapere… ha avuto sfortuna, tutto qui. Poteva succedere a chiunque di noi altre, suvvia.”
Laura iniziò a piangere, proprio non ne poté far a meno: sentire per la prima volta qualcuno che le diceva le cose in modo così semplice e schietto, presentandole in una strana maniera positiva, le dava un senso di sollievo non indifferente.
“E poi è venuto fuori un bel ragazzo come Heymans – continuò Angela, passandole un braccio attorno alle spalle – altro che sfortuna! Pagherei oro perché Jean avesse un minimo della sua maturità… no, detesto ammetterlo, ma non cambierei una virgola di quel demonio…”
“Nemmeno io cambierei una virgola di Heymans…” sorrise Laura.
“… signora, io sto andando – proprio il rosso si affacciò alla porta da dove prima era entrata Angela – grazie ancora per la mer… mamma?”
“Ciao, caro.” sorrise Laura, asciugandosi le lacrime.
“E’ successo qualcosa? – subito lui la raggiunse e le prese la mano – Perché piangi?”
“Sfoghi tra madri – spiegò Angela – Cerchiamo di ridurre lividi, occhi neri e quanto altro, va bene?”
“E’ per questo? Oh no, mamma, stai tranquilla. Ti ho già detto che non mi fanno male… sono questioni tra maschi, come dice Jean.”
“Maschi… quanta pazienza!” sbuffò Angela, arruffando i capelli del rosso.
“E già – sorrise Laura – allora, vogliamo tornare a casa assieme?”
Si guardarono negli occhi e finalmente quel muro che si era creato venne distrutto.
E fu un grande sollievo per entrambi: saper di poter sempre contare uno sull’amore dell’altro era indispensabile: c’era voluta tutta la schiettezza degli Havoc per far capire una cosa così naturale.

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Capitolo 45
*** Capitolo 44. 1895. Dialoghi tra genitori e figli. ***


Capitolo XIVL

1895. Dialoghi tra genitori e figli

 

Se c’era un ottimo ricordo che l’infanzia aveva lasciato ad Andrew, era quello di aver avuto dei genitori presenti e premurosi. Per quanto adesso si confrontasse con loro da adulto, non avrebbe mai potuto dimenticare il senso di sicurezza e di accettazione che gli aveva dato lo stare in loro compagnia.
Una delle cose che gli era sempre rimasta impressa era che, a prescindere dall’età, avevano sempre cercato il confronto: le imposizioni, per esempio, erano sempre state accompagnate da una spiegazione e dalla possibilità di dialogo. Certo, lui era il figlio che doveva obbedire, ma era anche una persona la cui opinione viene comunque tenuta in considerazione. E anche le rare volte che era stato punito o sgridato, i suoi genitori avevano sempre ascoltato e valutato le sue motivazioni.
Spinto da questo luminoso esempio dell’infanzia, Andrew si era spesso immaginato che tipo di rapporto avrebbe instaurato con suo figlio. Aveva sempre creduto di riuscire a riproporre l’esempio di suo padre e dunque di trovarsi davanti un bambino attento e obbediente, pronto al confronto e al dialogo.
Di conseguenza vedere Kain che, per l’ennesima volta, teneva ostinatamente lo sguardo a terra lo indisponeva non poco. Riteneva che il contatto visivo fosse fondamentale durante un dialogo, soprattutto se si trattava di qualcosa di serio come in quel momento.
“Signorino, guardami negli occhi quando ti parlo – disse con voce ferma, mettendosi a braccia conserte – se ti ho chiesto che cosa è successo a scuola è buona educazione dare una risposta. Questo mutismo non porta a niente.”
Se suo padre gli avesse detto una cosa simile, Andrew, da piccolo, avrebbe alzato immediatamente lo sguardo, arrossendo per tale mancanza. Ma sembrava che Kain, alla faccia dell’educazione che aveva ricevuto, non avesse nessuna intenzione di smettere di fissare quella precisa tavola del pavimento.
Non era la prima volta che succedeva una cosa simile, tutt’altro. Parlare della scuola era quasi addentrarsi in un terreno minato, con il bambino pronto ad esplodere e fuggire in camera sua da un momento all’altro.
Ed ogni volta, lui restava ad attendere una prova di maturità che proprio non voleva arrivare.
“Benissimo – annuì infine, vedendo che il silenzio si protraeva – allora vai pure in camera tua e restaci fino a quando non riprendi l’uso della parola.”
A quell’ordine Kain obbedì immediatamente, facendo le scale con passo pesante e scomparendo poi nel corridoio del piano superiore. Solo quando sentì la porta chiudersi Andrew si concesse di scuotere il capo con profonda irritazione.
Dove sto sbagliando con mio figlio? Dannazione, dove?
“Tesoro…” Ellie gli fu subito accanto e lo abbracciò con tenerezza.
Ogni volta che sgridava Kain, lei non interveniva, probabilmente per non mettere in discussione la sua autorità del genitore. Tuttavia Andrew sapeva benissimo che nell’arco di dieci minuti sarebbe salita dal bambino e che, in qualche strano modo, sarebbe riuscita ad interagire con lui.
“Ginocchia sporche, pantaloncini strappati, che altro? – commentò con voce stanca – Anche nel secondo quadrimestre di quarta elementare è la stessa storia. Possibile che non riesca ad ottenere un minimo di rispetto?”
Era questo che gli faceva profondamente male: Kain era un ragazzino intelligente, di buon carattere, aveva tutte le carte in regola per vivere una serena vita scolastica. Eppure non riusciva ad abbandonare quell’atteggiamento dimesso che l’aveva accompagnato sin dalla prima elementare. E questo Andrew non lo capiva: non stava chiedendo a suo figlio chissà quali miracoli, semplicemente di tenere lo sguardo alzato e di non aver paura dell’ambiente scolastico. Tutto il resto sarebbe arrivato per normale conseguenza.
Come se non gliel’avessi spiegato ogni benedetta volta.
“Ha i suoi tempi, prima o poi gli passerà.” continuò Ellie con voce sommessa e un sorriso fiducioso.
“Dici che sto sbagliando con lui?”
“Non è questione di sbagliare, amore – lo consolò lei, baciandolo sulla guancia – è che gli dispiace così tanto vederti così.”
“Poteva alzare lo sguardo allora: mi avrebbe fatto decisamente più contento…” disse con amarezza, sentendo che nel rapporto tra lui e suo figlio c’era qualcosa che non andava.
“Andrew…”
“E’ che… oh, lascia stare. Coraggio, tanto ora so che andrai a consolarlo – sospirò, accarezzandole la guancia – fai in modo che mangi qualcosa. Io adesso devo finire di lavorare ad un progetto.”
 
Una volta rimasta sola, Ellie sospirò con rassegnazione.
Ormai era abituata a quelle scene che si ripetevano almeno una volta alla settimana e sapeva benissimo che, con molta probabilità, padre e figlio non si sarebbero parlati sino all’ora di cena. Andrew sarebbe rimasto nel suo studio e Kain nella sua stanza, in un offeso mutismo che non faceva altro che accentuare la loro somiglianza.
Salendo al piano di sopra, la donna mise da parte quei pensieri e si recò nella stanza del figlioletto. Non rimase per nulla sorpresa di trovarlo seduto a terra, circondato da pezzetti elettronici ed intento a montarli assieme con gesti disinvolti ed automatici. Gli si sedette accanto, ma il bambino parve non accorgersene: come sempre sembrava completamente perso in una realtà tutta sua, gli occhi scuri che non esprimevano né rabbia né dolore… solo profonda attenzione verso il lavoro che stava facendo.
Aveva delle bellissime mani, Ellie l’aveva sempre sostenuto: dita snelle e rapide, così precise e delicate che erano perfette per lavorare con quei minuscoli componenti. Con quelle mani sarebbe potuto diventare un eccellente pianista, un chirurgo, un progettista… qualsiasi mestiere richiedesse alta precisione. Erano le stesse di Andrew, sebbene la pelle fosse leggermente più chiara: persino quella lieve tendenza a muovere il mignolo sinistro quando era titubante per qualcosa l’aveva ereditata dal padre. Sicuramente nel medesimo momento, nel suo studio, Andrew stava lavorando al suo progetto e lo muoveva allo stesso modo, ad indicare il suo nervosismo per la precedente sgridata.
Piccolo mio, non sai quanto gli somigli…
Con un sorriso decise che era arrivato il momento di spezzare quella strana trance. Funzionava ogni volta allo stesso modo: lo lasciava sfogare per qualche minuto e poi, con delicatezza, lo riconduceva su questo mondo.
“Ciao, pulcino – mormorò, accarezzandogli i capelli neri – allora, stai montando qualcosa di interessante?”
“No – scosse il capo lui, senza però guardarla – cose a caso.”
“Posso vedere quelle ginocchia? – chiese con gentilezza – Giusto così per essere sicura che sia solo terriccio e non ci siano graffi al di sotto.”
“Non credo –  smise la posizione a gambe incrociate e si girò verso di lei, fissandola con desolati occhi scuri – però… però mi dispiace di aver rovinato i pantaloncini…”
“Oh, tesoro, vieni qui, coraggio…” lo abbracciò lei, sapendo bene che dopo crisi simili aveva sempre bisogno di sentirsi protetto e amato. Lo sentì accoccolarsi al suo petto con forza, quasi a voler cacciare via i ricordi della pessima mattinata appena vissuta a scuola.
Nemmeno la quarta elementare procedeva in maniera positiva, anzi era comparso sicuramente qualche nuovo problema di cui Kain si rifiutava di parlare. Lo capiva dal suo sguardo ogni volta che tornava da scuola e gli era capitato qualcosa: c’era una nuova paura ad accompagnare la solita rassegnazione, un nuovo grosso scoglio con il quale il piccolo si stava confrontando senza però ottenere buoni risultati.
“Ti ha spinto, vero?” mormorò, accarezzando i capelli corvini e ottenendo un’occhiata turbata in cambio.
Sì, era andata decisamente così e doveva esser stata una spinta parecchio forte per buttarlo a terra e provocare un simile danno.
“Vieni, andiamo a pulire le ginocchia.”
“Papà è così arrabbiato…” riuscì a mormorare con le lacrime agli occhi.
“Ma no, tesoro, va tutto bene – lo prese per mano, incitandolo ad alzarsi in piedi – non è arrabbiato con te, stai tranquillo.”
 
E difatti Andrew era arrabbiato con se stesso perché ogni volta si rendeva conto di non essere quel fulgido esempio di genitore che si era ripromesso di diventare in gioventù. E soprattutto che si era promesso di diventare da quando aveva conosciuto Gregor Breda che di genitore aveva ben poco.
Ma sembrava che ogni suo tentativo andasse male.
Da quando Kain aveva iniziato ad andare a scuola sembrava che il loro rapporto andasse a rotoli, con silenzi che si protraevano per ore ed ore, senza che lui riuscisse ad oltrepassarli. Ed, in un certo modo, era geloso della maggior confidenza che Ellie aveva con Kain, per quanto non fosse per niente convinto che davanti al capriccio del bambino si dovesse reagire con tanta accondiscendenza.
Eppure Kain spesso gli somigliava così tanto. Perché non si comportava nella stessa maniera che aveva lui da piccolo? Aveva cercato di imitare i suoi genitori in tutto e per tutto, ma sembrava che il suo testardo figlio proprio non gli volesse venire incontro.
Possibile che fosse così differente da suo padre?
“Beh, che se ne stia pure chiuso nel suo mutismo – sussurrò con rabbia, finendo di scrivere alcune misure sul fondo del foglio – a quasi dieci anni mi aspetterei una maturità maggiore da parte sua.”
Tuttavia, istintivamente, il suo orecchio rimase testo verso la porta e fu in parte sollevato quando sentì la voce di Ellie che scendeva le scale e quella più timida di Kain che le rispondeva.
In fondo quello che importava davvero era che la crisi fosse superata anche quella volta.
 
Henry non aveva versato una lacrima per tutta la durata della medicazione, per quanto il dolore fosse stato davvero forte. In questo Laura si riconosceva tantissimo: la smorfia era la stessa di quando lei cercava di fare la coraggiosa davanti al fratello maggiore… solo che molto spesso non era riuscita a trattenere le lacrime così bene come faceva suo figlio.
“Tesoro, devi fare attenzione con queste prove di coraggio con i tuoi amici – lo rimproverò, rimettendosi dritta e iniziando a riporre cotone e disinfettante – adesso che senso aveva camminare in equilibrio nello steccato?”
“Senso? – il bambino si alzò dalla sedia e la squadrò con aria stranita – sono prove per vedere chi ha più fegato, non devono avere un senso vero e proprio. E poi non fa niente: mi sono fatto questi tagli, ma ho dimostrato a tutti che sono il migliore.”
“Ah, non darle retta, Hen – disse Gregor, seduto accanto a lui – è una donna, non può capire certe cose. Sono fiero di te, ragazzo mio: a dieci anni hai più fegato di uno di quindici.”
“Dici sul serio, papà? – Henry sorrise con fierezza, quel taglio sopra la tempia che lo rendeva in qualche modo estremamente affascinante e che si accostava perfettamente all’aria maliziosa che era solito tenere – La prossima volta voglio sfidarli io quelli di prima media, voglio vedere come si comportano.”
“Sì, ma non esagerare – lo rimproverò Laura – niente di estremo, siamo intesi?”
“Laura, smettila.”
“Voglio solo che mio figlio non si faccia troppo male, perché è così difficile da cap…”
“Ho detto di smetterla!”
Il tono di voce usato da Gregor fu tale che sia Laura che Henry lo fissarono con aria interdetta.
Era da qualche giorno che l’uomo non andava al locale a bere e questa astinenza faceva sentire i suoi effetti: scatti emotivi, arrabbiature improvvise e quanto altro. Sembrava di avere una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro.
La donna fu tentata di prendere Henry per le spalle e trascinarlo via da quella stanza, ma non osava fare mosse azzardate. Gregor la fissava con aria profondamente irritata e sembrava pronto a scattare in piedi ed aggredirla fisicamente: non era mai successo, ad onor del vero, ma tante volte era sembrato arrivare al limite della violenza.
“Mamma – mormorò Henry, interrompendo quel silenzio con voce flebile ma sicura – sono cose tra noi maschi, non puoi capirle. Dai, vai a mettere via quella roba: grazie tante per la medicazione… e fidati che starò sempre attento.”
Laura si dovette trattenere dallo scuotere il capo e rifiutare quell’ordine, ma lo sguardo urgente di Henry la obbligò a fare quanto le era stato detto. Era chiaro che il bambino stava cercando di spezzare quel momento così critico e bisognava assecondarlo: era l’unica persona che potesse in parte calmare Gregor.
“Hai più sale in zucca di tutti – disse infatti l’uomo, arruffandogli i capelli rossi con aria compiaciuta – si vede che sei proprio mio figlio.”
Nel frattempo Laura aveva guadagnato la porta, ma rimase appoggiata contro la parete del corridoio fino a quando non sentì di nuovo i due parlare con relativa tranquillità. Quando sentì Gregor ridacchiare si convinse che l’emergenza era davvero passata e si convinse ad andare a riporre i medicinali.
Proprio mentre tornava al piano di sotto, vide la porta aprirsi ed Heymans rientrare.
“Ciao, caro – lo salutò – come è andato il pranzo a casa degli Havoc?”
“Benone, mamma – sorrise lui, posando la tracolla – ci siamo divertiti parecchio.”
“E ci sono nuove risse delle quali devo essere messa al corrente?”
“No, ma che dici? – sorrise con malizia lui, mostrando le braccia e le gambe illese – Tutto tranquillo come sempre. Del resto gli indipendenti vengono lasciati in pace, no?”
“Già, gli indipendenti – Laura gli prese il viso tra le mani e lo baciò in fronte – tanto poi sono sempre le mamme a rimettere assieme i cocci, no? E’ così che dice la signora Havoc.”
“Uh, ma sai di disinfettante…” si accorse il ragazzo.
“Ah sì. Beh, tuo fratello si è lanciato in una nuova prova di coraggio ed i risultati si sono visti tutti.”
“Stupido – scosse il capo Heymans con aria seria – vuole farsi notare da qualche banda già in quarta elementare. Adesso vado a parlargli e…”
“Sssh, no – lo bloccò lei – è con tuo padre… e lo sai com’è in questi giorni. Meglio non stuzzicarlo.”
A quella rivelazione Heymans sgranò lievemente gli occhi, ed un briciolo di paura fece la sua comparsa. Ormai erano tutti condizionati pesantemente dalla presenza di Gregor e bastava solo fare accenno a lui per abbassare il tono di voce e guardarsi attorno con timore.
Quasi per tacito accordo andarono in cucina e come la porta fu chiusa alle loro spalle si sentirono decisamente meglio. Tuttavia nessuno aveva voglia di parlare di quell’argomento: quasi che quell’ambiente dovesse esser dedicato a dialoghi più distensivi, Heymans si costrinse a sorridere.
“Lo sai che oggi il padre di Jean ci ha fatto vedere una nuova mossa per fare lo sgambetto all’avversario?”
“Oh, santo cielo…” sospirò Laura con un sorriso rassegnato, sedendosi al tavolo.
“La vuoi vedere? E’ veramente forte!”
“Non pretenderai che faccia da cavia, spero.”
“Ma no! Quando mai… guarda, è semplice. Supponi che ci sia uno davanti a me…”
“Ti premetto già che non ci capirò niente…”
Però ascoltò con interesse quanto il figlio aveva da raccontarle. A quasi tredici anni aveva ormai trovato un vero e proprio equilibrio nella sua giovane personalità. Aveva rinunciato ad essere pienamente maturo e stare con Jean e la sua famiglia lo aiutava a sentirsi più normale del previsto. Di conseguenza quando era a casa non sentiva più l’assenza di un dialogo con Gregor: aveva scoperto che gli piaceva coinvolgere la madre in quei discorsi da maschi. Era come renderla partecipe del mondo esterno che ormai vedeva pochissime volte durante la settimana.
“Va bene, adesso prova a mettere le mani a pugno, così – la incitò il ragazzo – una davanti all’altra!”
“Avevamo detto di no – rise lei, imitando quella posizione – va bene così?”
“Sei perfetta! Pronta? Adesso schiva!”
Certo, non era proprio la tipologia di dialogo che si era immaginata di avere con il proprio figlio, ma era uno scambio così sincero che riusciva a farle dimenticare in parte la presenza di Gregor al piano di sopra.
L’unico, forte, rimpianto era che Henry ne fosse in qualche modo prigioniero.
 
Era ormai notte fonda quando Andrew venne svegliato da qualcosa che, con destrezza, saliva sul letto matrimoniale e gattonava fino a mettersi nello stretto spazio tra lui ed Ellie.
“Che c’è?” sospirò, mentre alla lieve luce della luna che filtrava dalla finestra, vedeva Kain che si sistemava con la schiena contro il petto di Ellie, venendo istintivamente avvolto dalle braccia materne.
“Niente.”
Era la prima parola che il bambino gli rivolgeva dal litigio di quella mattina e sembrava che non ci fosse nessun risentimento nella sua voce. E, a sua volta, Andrew si accorse che non ce l’aveva minimamente con lui, come avrebbe potuto? Era Kain, era il suo piccolo, prodigioso, bambino.
“Ehi – mormorò, allungando la mano per accarezzargli la chioma arruffata – sbaglio o stamane avevi anche un compito di matematica? Come è andata?”
“Benissimo – sorrise lui con timidezza – sapevo tutto quanto, conto di prendere dieci anche questa volta.”
Dannazione, se solo avessi la medesima sicurezza anche per il tuo relazionarti con il mondo. Sei intelligente e speciale, Kain, perché non te ne rendi conto?
“Papà?”
“Sì?”
“Sei ancora arrabbiato con me?”
“No, non sono arrabbiato, tranquillo – gli prese la manina e sentì che ricambiava la stretta – è che mi dispiace quando non vuoi guardarmi negli occhi.”
“Scusami…” Kain fece per avvicinarsi, ma intrappolato com’era nella presa di Ellie gli fu impossibile. E così fu Andrew ad accostarsi maggiormente a lui, baciandolo sulla fronte.
“Papà, mi parli?”
“E di cosa?”
“Di quello che vuoi… voglio sentire la tua voce. E’ brutto quando non mi parli per tante ore.”
Davanti a quella richiesta Andrew si sciolse del tutto.
Kain aveva sempre la capacità di spiazzarlo, di farlo sentire il migliore e al contempo il peggior genitore del mondo. Sentire il proprio figlio che ha bisogno di un simile contatto fisico e uditivo era indice che, ovviamente, era importantissimo nella scala di rapporti che Kain si era costruito col tempo. Ma allo stesso tempo, a fare da contraltare a questa meravigliosa prova d’amore, c’era il suo non aver capito ancora il modo migliore di approcciarsi a lui in determinate occasioni… che poi erano quelle in cui c’era maggior bisogno di lui. Era come se fossero destinati a chiarirsi sempre con diverse ore di differita.
“Vuoi che ti racconti di East City?” gli propose, sapendo bene che era uno degli argomenti preferiti.
“Sì! Dell’Università, ti prego…”
Con soddisfazione protese la testa contro di lui, sfregandosi contro la sua spalla, inducendolo come sempre ad avvolgere in un abbraccio sia lui che Ellie. Ed iniziò a raccontare, rendendosi conto che per certe cose Kain assomigliava davvero alla madre: per tutti gli anni del loro fidanzamento Ellie non aveva fatto altro che chiedergli di raccontare decine e decine di volte di East City e dell’Università.
Una volta le aveva chiesto come mai non si fosse ancora stancata di quelle storie.
“E come potrei? Mi piace così tanto la tua voce?”
E cosa aveva detto Kain?
“Voglio sentire la tua voce.”
Forse non c’era molto dialogo tra lui e suo figlio, ma di certo non si rifiutava di ascoltarlo.
 
Kain era un bambino ottimista per natura, in questo aveva preso dalla madre.
Proprio come Ellie, da ragazza, si svegliava ogni giorno sentendosi più vicina al traguardo di far innamorare Andrew di lei, nonostante tutti gli ostacoli che avrebbe incontrato, lui scendeva a fare colazione fiducioso che quella giornata sarebbe andata meglio delle altre.
La sua piccola mente scattante aveva fatto molti ragionamenti ed era arrivata alla conclusione che non dovevano essere quelle cinque ore a rovinare le restanti diciannove della giornata. Piano piano, col passare del tempo, sarebbe arrivato a patti con gli altri ragazzi della scuola… o comunque avrebbe terminato la scuola stessa e dunque il problema si sarebbe risolto in ogni caso.
E questo ottimismo raggiungeva gli apici le mattine dopo che si riappacificava con suo padre.
In qualche modo dormire vicino a lui, sentire la sua voce calma e amorevole, assieme, ovviamente, all’abbraccio materno, riportava il mondo in carreggiata ed una nuova ondata di fiducia si impossessava di lui. Quelle mattine era persino impaziente di andare a scuola, certo che dopo quel chiarimento con suo padre le cose non sarebbero potute che andare bene.
E, puntualmente, si scontrava con la dura realtà… che da un due mesi aveva due nuovi volti: quelli di due studenti di terza media.
“Ehilà, nano! – quella voce gli fece rimbalzare il cuore in gola, mentre tutto il suo ottimismo e la sua fiducia svanivano come neve al sole – Come andiamo oggi?”
“Oh – mormorò a voce bassissima, appena udibile, mentre si faceva piccolo piccolo, accentuando ancora di più la differenza fisica con quel gigante biondo – ecco… io…”
“La prossima volta non spingerlo così forte come ieri – commentò con un sorriso scaltro, l’altro ragazzo dai capelli rossi – è così mingherlino che cade subito. Non ci siamo, piccoletto, anche tu dovresti mettere su più muscoli, non credi?”
Kain non rispose, non osò nemmeno alzare gli occhi, per quando il secondo personaggio non gli avesse mai fatto niente di male. In cuor suo continuava a chiedersi che cosa avesse mai fatto per meritare le attenzioni di quei due… eppure lui, due mesi prima, stava solo cercando in cortile un quaderno che i suoi compagni gli avevano nascosto per dispetto. Non voleva affatto incappare in quei due… eppure erano bastati solo cinque secondi prima che quello biondo, più alto e muscoloso, lo afferrasse per la maglietta e gli facesse un sorriso cattivo.
E da allora era iniziato il calvario… almeno un paio di volte alla settimana quei due ragazzi così grandi venivano a tormentarlo: prendendogli i quaderni, spintonandolo, tirandogli i capelli. Ma che cosa ci trovavano di così divertente nel bistrattarlo? Non li conosceva nemmeno.
“Va bene, niente spinte! – annuì il biondo – Allora mi devo inventare qualcosa di nuovo… attento, nano! Ti casca la merenda!” e con una velocissima mossa della mano gli diede un colpo al braccio facendogli cadere a terra il fagotto dove teneva il panino che sua madre gli aveva preparato.
“Oh no!” esclamò, chinandosi per raccoglierlo e rimanendo rannicchiato a terra nella speranza che lo lasciassero in pace una buona volta.
“Forza, in piedi! Credi che abbia finito?”
“Buona idea, perché non la finisci?” una nuova voce e Kain lanciò una rapida occhiata di lato per vedere un paio di scarpe di tela bianche che si accostavano. Alzando ulteriormente lo sguardo vide che era una ragazza… a colpirlo maggiormente fu lo sguardo marziale che rivolse ai due compagni più grandi. Non aveva la minima paura di loro, nonostante fossero molto più grandi fisicamente.
“E tu chi saresti?”
“Se proprio ti interessa mi chiamo Riza Hawkeye e frequento la seconda media. Ma quello che ti deve interessare è che dovresti smetterla di dare fastidio a questo povero bambino. Ti osservo sai, Jean Havoc, sono settimane che lo tormenti! E tu Heymans Breda, non credi che gli potresti dire di smetterla?”
“Oh, sai anche il mio nome, complimenti! – alla risposta Kain spostò lo sguardo sul suo aguzzino che, a quanto sembrava, si chiamava Jean – Senti, signorina Riza Hawkeye, torna a giocare con le bambole e lasciami in pace. Sto solo facendo due risate con il nano!”
A sentirsi chiamato in causa, Kain impazzì: credendo di venir bersagliato una seconda volta, si affrettò ad alzarsi in piedi e a scappare per raggiungere la sicurezza della classe vuota. Non sarebbe mai più uscito per l’intervallo, era la cosa più sicura da fare.
Affrontarlo all’ingresso va bene… e anche all’uscita. Ma se posso evitare tanto meglio.
Jean Havoc ed Heymans Breda, e così i suoi aguzzini avevano finalmente un nome. Ed era ovvio che il rosso fosse imparentato con Henry, come aveva fatto a non capirlo? In fondo si spiegava tutta questa smania nei suoi confronti.
Sul serio, perché se la devono prendere tanto con me?
Ripensò alla sveglia così serena che aveva avuto quella mattina, stretto nell’abbraccio dei suoi genitori. Il ricordo della voce di suo padre gli venne in soccorso. No, per quella giornata non si sarebbe ripresentato a casa con il broncio, sarebbe stato forte.
Aprendo il fagotto della merenda e cercando di ricomporre il panino un po’ rovinato dalla caduta, ripensò a quella ragazza così coraggiosa che l’aveva aiutato.
Riza, eh? Forse dopo dovrei andare a ringraziarla…
Però poi si rese conto che i suoi rapporti interpersonali erano sempre un disastro. E se rovinava tutto anche questa volta? Magari Riza non aveva nessuna intenzione di parlare con lui e l’avrebbe indisposta.
No, forse era meglio continuare a pensare a lei come l’aveva conosciuta quella mattina… così marziale e coraggiosa… almeno in minima parte preoccupata per lui. E questo bastava per volerle già bene: doveva essere una persona meravigliosa, certamente.
Un giorno vorrei davvero fare qualcosa di speciale per lei…
Anche se magari non l’avrebbe più aiutato. Anche se era stata solo una coincidenza… ma non poteva esserlo, ne era certo. Del resto lei aveva detto qualcosa come lo tormenti da settimane, quindi se ne era accorta, non era nato tutto per caso.
Riza Hawkeye era decisamente degna di avere un posto speciale nel suo cuore.

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Capitolo 46
*** Epilogo. 1896. Promesse di nuovi inizi. ***


Epilogo

1896. Promesse di nuovi inizi

 

 Laura venne svegliata dalla debole luce del mattino che filtrava dalle tende chiuse.
Immediatamente girò la testa e richiuse gli occhi, credendo di avere a disposizione ancora un’oretta buona di sonno, ma poi si ricordò che era il 1 settembre e che dunque i ragazzi cominciavano la scuola.
Con un sospiro si mise a sedere sul letto, districando le gambe dal lenzuolo che durante la notte si era avvoltolato. Si riassettò lievemente i morbidi capelli rossi con la mano, mentre gli occhi grigi, ancora mezzo chiusi per il sonno, andavano a sbirciare la sagoma addormentata accanto a lei.
Ormai c’era una netta separazione con Gregor: era come se a metà del letto ci fosse un muro invisibile che gli impediva di raggiungerla. E, se doveva essere sincera, era molto felice della presenza di quel muro.
Ecco, ci risiamo… un’altra stupida sveglia passata a rimuginare su queste cose.
Ogni tanto succedeva e sapeva bene che, nel mese di settembre, avveniva con più frequenza, così come a dicembre. Probabilmente perché erano i periodi in cui erano successi gli episodi più brutti della sua vita: la morte di Henry e quel ballo del 1 dicembre che aveva segnato l’inizio della sua rovina. Anche se, tuttavia, per questo secondo episodio preferiva sempre ricollegarsi alla nascita di Heymans, un motivo di estrema gioia che aveva la capacità di tirarla su di morale.
Tuttavia, guardando Gregor che russava lievemente con il viso rivolto verso di lei, Laura si chiese come c’era potuta essere tanta intimità tra di loro. Erano ormai quattordici anni che erano sposati, ma era abbastanza sicura che fossero almeno sette anni buoni che non avevano più alcun tipo di rapporto matrimoniale. Ogni tanto, nella sua mente, cercava di richiamare i ricordi di quell’apparenza di vita felice che avevano avuto nei primi anni, ma ripensare a lei che traeva godimento per merito di quell’uomo la faceva sentire inevitabilmente sporca.
Il tuo matrimonio è finito circa un anno dopo la nascita di Henry, è chiaro… ma diciamo pure la verità, Laura Hevans, non è mai iniziato.
Perché un marito non deve diventare una prigione, non deve tenere moglie e figli in uno stato di ansia perpetua, nell’attesa che succeda una tragedia. Perché Laura lo sapeva, era solo questione di tempo… tempo che sperava non arrivasse mai, che si portasse avanti ancora un mese, una settimana, un giorno. Di lei ormai non le importava più di tanto, ma voleva che ai ragazzi venisse risparmiato almeno questo.
Scuotendo il capo davanti all’idea della sua famiglia allo sfascio, si alzò finalmente dal letto e uscì dalla camera matrimoniale, sentendosi leggermente sollevata quando, chiudendo la porta, non sentì più il russare di suo marito. Ieri aveva bevuto parecchio ed era tornato tardi: avrebbe dormito per ore ed ore e questo le concedeva una mattinata relativamente tranquilla.
Stava per scendere al piano di sotto per iniziare a preparare in cucina, quando, spinta dall’impulso, si avvolse meglio nella leggera vestaglia verde ed andò in camera di Henry.
Alla luce soffusa che penetrava dalle tende, vide che il bambino era ancora beatamente nel mondo dei sogni, prono e con le braccia spalancate sul cuscino. Sedendosi sul bordo del letto, gli accarezzò la chioma rosso cupo, notando come i capelli, sebbene corti, fossero lievemente mossi come i suoi.
Henry era proprio la sua versione maschile, non c’erano dubbi.
Vedendolo così sereno Laura serrò gli occhi e desiderò con tutto il cuore trovare un modo per liberarlo dall’influenza di Gregor. Era per colpa di quell’uomo che suo figlio si comportava in maniera così stupida: a fine anno scolastico aveva persino rubato la bandiera della scuola per una di quelle dimostrazioni di coraggio che faceva con i suoi amici. Era stato sospeso in quinta elementare… ed invece di ricevere dei rimproveri, aveva avuto solo complimenti da parte del genitore. E quando lei aveva cercato di obbiettare, era stato come far risvegliare una bestia.
No, purtroppo Henry era sotto il controllo di Gregor e per quanto cercasse di liberarlo non c’era alcuna possibilità. Ed era certa che  in fondo il bambino subisse la personalità del padre, piuttosto che esserne veramente attratto. Laura era certa di vedere il suo sguardo spaventato in diverse occasioni, come se fosse perfettamente consapevole di essere quasi un ostaggio di quell’uomo così malato.
“Amore, ti giuro che la mamma non permetterà che ti succeda niente – sussurrò, baciandolo sui capelli – ti proteggerà con tutte le sue forze.”
Dannazione, vorrei darti una figura su cui fare affidamento, una che ti liberi da tutto questo… non puoi andare avanti in questo modo Henry, non…
I suoi pensieri vennero interrotti da un lieve rumore nel corridoio. Per un tremendo secondo pensò che si trattasse di Gregor, ma poi si tranquillizzò nel sentire i discreti passi che provenivano dalla parte opposta rispetto alla camera matrimoniale.
Rimboccando il lenzuolo sopra la sagoma del bambino, Laura uscì discretamente dalla stanza  giusto in tempo per intercettare il figlio maggiore che stava per scendere le scale.
“Credevo fossi già in cucina – sorrise Heymans, già la tracolla in mano – o forse ti sei dimenticata che oggi iniziano le scuole?”
“Non me ne sono dimenticata, Heymans Breda – rispose al sorriso, mentre scendevano assieme le scale – stavo solo controllando che tuo fratello dormisse, tutto qui. Sono più che sveglia e pronta a farti la colazione, per chi mi hai preso?”
Arrivati in cucina l’atmosfera si distese del tutto: eccolo il loro angolo di serenità, quel momento meraviglioso che riuscivano a ritagliare solo per loro. Era il momento in cui a Laura piaceva fingere che fossero una famiglia perfetta e che tutto andasse bene: assieme al figlio maggiore si poteva permettere di cadere in questa piccola illusione per almeno una mezz’ora ogni mattina.
Oh, ma del resto lui è perfetto – pensò mentre metteva a scaldare il latte e lo osservava prendere le stoviglie per apparecchiare – è forse il mio miracolo più bello.
Perché nonostante l’infanzia che aveva vissuto, con un padre che non lo considerava ed un paese intero che non lo vedeva di buon occhio, Heymans era sbocciato in un adolescente così buono e perfetto che a volte a Laura sembrava impossibile, anche se a volte si diceva che era solo il cuore di madre che parlava in questo modo.
Vedeva tantissimo dello zio in lui, ogni anno che passava: per quanto, probabilmente, tutti gli altri vedessero solo la somiglianza con il padre, ed era innegabile che fisicamente Heymans fosse una piccola copia di Gregor, lei notava invece come la voce stesse diventando come quella di Henry, come il carattere si stesse piano piano sgrezzando mostrando tratti molto simili a quelli dello zio.
“Perché mi guardi così?” le chiese il ragazzo con un sorriso… identico ad Henry.
“Non posso? Comunque consideravo quanto sei bello, amore, tutto qui.”
“Bello io, andiamo, mamma! – arrossì lui finendo di apparecchiare la tavola – non prendermi in giro.”
“Sì che lo sei – sorrise avvicinandosi e accarezzandogli la cresta rossiccia – non hai idea di quanto mi ricordi una persona.”
Heymans la guardò con curiosità, inclinando la testa di lato: sapevano entrambi che non si stava riferendo a Gregor e dunque stava andando a riflette su chi potesse essere. E Laura si chiese quando sarebbe arrivato il giorno in cui gli avrebbe dovuto raccontare tutta la verità. Ma almeno sarebbe stata felice di potergli finalmente parlare di Henry, di far scoprire a quel ragazzo che non tutta la sua famiglia era marcia come ormai credeva.
Sì, ormai lo sai che i tuoi nonni non sono stati felici del mio matrimonio, anche se non immagini quanto profonda sia stata la loro crudeltà, ma ti assicuro che c’è stata una persona che è sempre stata diversa da loro, in tutto e per tutto… e tu gli assomigli così tanto.
“Chissà di che umore sarà Jean – si chiese il giovane, spezzando quel silenzio imbarazzato – i rientri a scuola sono sempre dei traumi per lui.”
“Sono sicuro che sarà comunque felice di riprendere la routine di vedervi ogni giorno.” sorrise Laura mentre si sedevano a tavola.
“Come se non ci fossimo visti ogni giorno per tutta l’estate!”
E ridendo sommessamente si godettero quei momenti di pace assoluta tra di loro, lasciando perdere i rimpianti, le paure, le ansie. Volevano solo stare tranquilli e godersi quell’angolo di quiete domestica.
 
Nello stesso istante, una Ellie dall’espressione impassibile fissava con severità Kain che scendeva le scale con diverse scatoline bucherellate tra le mani. Quando il bambino arrivò all’ultimo scalino, istintivamente fece un passo indietro per allontanarsi, a titolo cautelativo, dalla fauna che stava dentro quei contenitori.
Cavallette, lucertole, cicale… persino degli scarafaggi!
“Forza, portali fuori… ed esci fuori dal cortile prima di liberarli!”
Kain la fissò con espressione mogia, cercando di impietosirla e poter tenere almeno per qualche altro giorno i suoi amici del regno animale. Ma un’occhiataccia di Ellie lo ridusse a più miti consigli e con un sospiro andò alla porta di casa che suo padre gli stava tenendo aperta.
Come il bambino fu sparito dalla visuale, Ellie sbuffò mentre Andrew si concesse una risatina divertita.
“Davvero divertente – commentò lei fissandolo con il broncio – a me scende un mezzo infarto quando una cavalletta praticamente mi salta addosso, e tu ci ridi sopra.”
“Veramente ridevo per l’espressione di nostro figlio, cara – mentì Andrew, ricordando la visione di Ellie che saltava come impazzita per la stanza di Kain con il bambino che cercava di recuperare l’insetto fuggito – non potrei mai ridere di te…”
“Andrew Fury! – sbottò, andandogli accanto e dandogli un lieve colpo di canovaccio sulla gamba – Sei su di giri da quando se ne sono andati i miei la settimana scorsa.”
Andrew fece finta di niente, ma non poteva negare che fosse vero. Quando finalmente il treno era ripartito avrebbe volentieri stappato una bottiglia di vino per festeggiare.
Tre dannate settimane con quell’uomo a marcarmi stretto! Ventuno giorni di continui insulti e vessazioni… e mi chiedi se sono su di giri? Certo che lo sono! Mi odia ed io odio lui con tutte le mie forze!
Ovviamente non era vero, ma era chiaro che Andrew non avrebbe mai trovato un punto d’incontro con suo suocero e l’elevato numero di scappellotti che aveva ricevuto, persino in presenza di Kain, non faceva che confermare quello che ormai era un dato di fatto. Nemmeno la lontananza aveva ammorbidito Nicholas Lyod, tutt’altro. Ma almeno era un supplizio durato solo tre settimane.
“Liberati tutti, mamma – annunciò Kain, tornando con le scatole ormai vuote – come mi hai detto tu.”
“Molto bene – annuì Ellie, riprendendo l’aria da sgridata – allora riporta su quei contenitori e prendi la tua roba: si sta facendo tardi per andare a scuola… e che non trovi più insetti o simili in camera tua, sia chiaro!”
“Va bene…”
“Beh, dopo la sculacciata che gli hai dato stamane direi che per un paio di giorni eviterà di portarne altri – considerò Andrew – ma non penso che desisterà. La natura lo interessa troppo, sebbene non quanto la sua amata elettronica.”
“Ogni volta che entro in camera sua mi vengono i capelli dritti!”
“Posso scioglierti la treccia per controllare?” chiese lui con aria maliziosa.
“E dai, smettila – ridacchiò Ellie, mentre veniva presa per la vita e baciata sulla punta del naso – dai che ora torna Kain e se ci vede così tutta la sgridata non avrà senso.”
“Stasera ti imprigiono a letto, Ellie Lyod – le sussurrò Andrew all’orecchio, baciandola con sensualità sul lobo – non pensare di scampartela…”
“E chi vuole scamparsela…” sussurrò lei di rimando, inebriata all’idea.
“Papà, io sono pronto – esclamò Kain, scendendo le scale e facendoli sobbalzare colpevolmente – possiamo andare.”
“Perfetto – annuì Andrew – allora ci vediamo a pranzo, meraviglia.”
“A dopo, caro. – lo baciò sulle labbra Ellie. Poi squadrò Kain che si era accostato a lei con aria implorante – Beh, e tu che vorresti?”
“Un bacio pure io.”
“Dopo che mi hai portato tutti quegli insetti in camera nonostante il divieto?”
“Scusami, mamma – la abbracciò il bambino – ti prometto che non succederà più.”
“Certo, come no – sospirò Ellie, prendendolo in braccio ed elargendo il bacio richiesto – lasciamo stare che è meglio. Il mio pulcino… in prima media, ancora non ci credo. E tra otto giorni compi undici anni.”
“Verranno i nonni alla festa, vero papà?”
“Certamente, come potrebbero mancare – annuì Andrew – allora ci muoviamo? Non vorremo fare tardi il tuo primo giorno di scuola media.”
Ellie rimase sulla soglia di casa ad osservare padre e figlio che scendevano assieme verso il paese.
Aveva un sacco di cose da fare quel giorno e una festa da organizzare per la settimana successiva, eppure si concesse di andare a sedersi sul basso muretto di pietra che delimitava il cortile. La visita recente dei suoi genitori l’aveva riempita di gioia, ma era stata anche un’occasione per riflettere su quanto erano cambiate le cose in quegli anni.
Dodici anni che siamo sposati… quasi undici che siamo genitori.
A volte le sembrava un’eternità di cui non si sarebbe mai stancata, altre volte, come quella mattina, si sentiva una novella sposa, smaniosa dell’arrivo della notte per poter fare l’amore con suo marito. Eppure ne era passata di acqua sotto i ponti da quando lei ed Andrew non perdevano occasione per rotolarsi tra le coperte.
Beh, certo che con un bimbo in casa bisogna essere più discreti.
Già, il suo piccolo Kain. Così speciale, incredibile… vederlo scendere le scale ogni mattina era qualcosa che non avrebbe mai smesso di farle battere il cuore più forte del previsto. Era così sano e bello da mozzarle il fiato.
Istintivamente si portò la mano al ventre: dalla sua nascita erano passati quasi undici anni nel corso dei quali aveva avuto tre aborti. L’ultimo risaliva a quell’inizio primavera e, ovviamente, non aveva detto niente ad Andrew. Ogni volta credeva di essere rassegnata, ma poi arrivavano quei ritardi che le riaccendevano sempre le speranze… ma erano solo, appunto, speranze. Non era mai arrivata al secondo mese di gestazione.
Oh, smettila, Ellie… gli avevano dato poche ore di vita, di che ti lamenti? La vita è stata dura, ma non ti ha portato via Kain e questo è l’importante. Lui ed Andrew sono sempre con me.
“Basta con queste sciocchezze – si disse alzandosi in piedi – ho oziato anche troppo.”
Stava per rientrare in casa quando vide che la pianta di gelsomini era in piena fioritura. Con un sorriso recuperò le forbici da giardinaggio che stavano lì vicino e ne tagliò diversi fiori, respirandone il profumo.
Era così bella la vita quella mattina.
 
“Non porterò più insetti in casa, promesso!” dichiarò Kain, mentre lui ed Andrew proseguivano la loro passeggiata verso il paese.
“L’hai promesso anche l’ultima volta – lo prese in giro il padre, arruffandogli i capelli – ma ci caschi sempre. Cerca solo di non far scendere un infarto a tua madre ogni volta.”
“Senti, papà, perché non ci prendiamo un cagn…”
“Ti blocco subito – scosse il capo Andrew – sai bene quali sono le regole: niente animali in casa, quegli insetti sono già un’eccezione.”
Il bambino fece un breve lamento, mettendo il broncio e fissando il sentiero. Già da diversi anni aveva chiesto più volte un animaletto, ma lui ed Ellie non credevano fosse il caso.
Eppure, ad essere sinceri, quando aveva l’età di Kain, Andrew aveva un cane. A dire il vero era il cane di famiglia, il grosso e mansueto Lampo, ma ovviamente era lui a giocarci e ad usarlo come cuscino quando si sdraiava accanto al caminetto. Effettivamente tra lui ed Ellie era lui quello più propenso a cedere in questa determinata questione. Ma era una cosa per cui Kain non era ancora pronto ed Ellie era particolarmente irremovibile sotto quel punto di vista.
“Eccoci arrivati, ometto – disse, vedendo la scuola comparire davanti a loro – allora ci separiamo qui.”
“Buona giornata di lavoro, papà – salutò Kain, abbracciandolo – ti prometto che quest’anno sarà un nuovo inizio.”
“Me lo auguro proprio – annuì Andrew, abbracciandolo e sperando con sincerità che fosse vero – buona giornata a scuola, figlio mio. Fatti onore.”
Vedendo il bambino che correva verso il cortile pieno di ragazzi, Andrew sospirò.
Chissà forse le scuole medie avrebbero dato davvero una svolta alle difficoltà relazionali di Kain.
Stava per procedere verso il paese, quando da un altro sentiero vide arrivare un terzetto di ragazzi: una bimba dalle trecce bionde che saltellava felice, un ragazzo alto, biondo e muscoloso, con un broncio degno di miglior causa e…
Come sei cresciuto Heymans.
Ad Andrew si fermò il cuore nel vedere quel ragazzo così grande che sorrideva alla bambina bionda e le prendeva la mano. Per un istante ebbe un flash della sua infanzia e vide Henry fare il medesimo gesto con una piccola Laura.
Scosse il capo con violenza, mentre il trio arrivava al cortile della scuola e si confondeva con gli altri ragazzi.
A volte la mente poteva giocare davvero strani scherzi.
 
Laura quella mattina aveva deciso di uscire.
Non per spesa o commissioni, semplicemente per un’improvvisa e pressante esigenza di andare via almeno per qualche tempo da quella casa. Adesso che sia Henry che Heymans erano a scuola la sentiva incredibilmente vuota e allo stesso tempo piena della presenza di Gregor e questo non lo poteva sopportare.
Tenendosi le braccia strette al corpo, quasi a proteggersi da un freddo inesistente per quella bella mattinata di settembre, i suoi passi irrequieti la portarono alla fine del paese.
Quello era il confine oltre il quale non si poteva spingere. Quando Andrew tornava dall’Università non le era consentito andare a prenderlo alla stazione, ma doveva aspettare lì, quasi ci fosse una linea invisibile che le impediva di andare avanti.
E quella linea era ancora lì, solo che le impediva di vivere la sua vita.
Vedendo quel sentiero che si perdeva nella campagna lussureggiante, Laura sentì l’impulso di correre, arrivare in stazione, salire sul treno ed andare da qualsiasi altra parte che non fosse il paese. Dove nessuno la conosceva, dove avrebbe potuto ricominciare dall’inizio… ma per quanto quel desiderio fosse insistente come quando era una ragazzina, adesso c’erano tremende catene a tenerla ulteriormente ancorata a quel posto. E due erano le più belle e dolci del mondo… quelle avrebbe voluto prenderle e portarle con sé.
“Ehi – una mano le si posò sulla spalla – ciao, follettino.”
“Ciao…” nemmeno si girò. Chissà perché aveva previsto che l’avrebbe raggiunta lì.
Arrivava sempre nei momenti peggiori, come se avesse un sesto senso che lo avvisava quando aveva maggior bisogno di lui. Dopotutto, non le aveva promesso di esserci sempre?
“Aspetti qualcuno?” chiese Andrew, mettendo le mani dietro la schiena e fissandola con curiosità.
“Nessuno di speciale… anni fa attendevo un ragazzo che tornava dall’università, ma forse lo conosci.”
“Probabilmente. Ora che mi ci fai pensare si chiama come me…”
“Un nuovo inizio… forse è questo che attendo. Ma pare che sia un treno destinato a non arrivare mai.”
Le braccia dell’uomo la cinsero con dolcezza e lei non si oppose.
Ecco un’altra catena che la teneva legata a quel posto: ma questa era una di quelle belle, una per la quale era felice di restare e di essere lì.
“Quest’anno sarà un nuovo inizio.”
“Che?”
“Me l’ha detto Kain dieci minuti fa, poco prima di entrare a scuola. Se può esserlo per lui, perché non per te?”
“Oh, Andy – sorrise tristemente lei – mio dolce e caro Andy. Non so come avrei fatto senza di te… persino adesso riesci a farmi sperare ancora.”
“E’ un bellissimo primo settembre, non credi? – commentò Andrew, fissando come lei il sentiero che portava alla stazione – non credo che in nessun altra parte del mondo sia così.”
“Se la metti in questo modo allora vale la pena restare, vero?” capì Laura, guardandolo con malizia.
“Direi proprio di sì, folletto mio. Non hai bisogno di un treno, fidati di me.”
“No, hai ragione… oggi no. Oggi voglio credere che quest’anno sarà un nuovo inizio per me e per i ragazzi.”
“Ehi, guarda che l’ha detto mio figlio – scherzò Andrew – è una fonte degna di essere ascoltata.”
“La parola di un Fury vale più di quanto tu creda, Andy – sorrise la donna, mentre si riavviavano verso il paese – e non sono stata io a dire questa frase…”
E chiacchierando serenamente si avviarono verso il paese, volendo credere fermamente a quelle parole che promettevano un nuovo inizio.
Con una così bella giornata, in quel piccolo angolo di mondo, era quasi vietato esser senza speranza.




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nda.
Ebbene sì siamo arrivati anche alla fine di questo spin off, fortunatamente prima della pausa natalizia. Mi avrebbe fatto troppa rabbia lasciare in sospeso solo l'epilogo.
E' stato più lungo del previsto, lo so, ma obbligatoriamente dovevo partire dall'adolescenza di Ellie, Andrew e Laura per spiegare tutte le dinamiche che li legavano. E poi, dopo la nascita di Heymans ed il matrimonio di Andrew ed Ellie le vicende hanno preso due sentieri paralleli tanto che molto spesso ero obbligata a dedicare dei capitoli solo ed esclusivamente ad una famiglia.
Effettivamente è venuto uno spin off che è praticamente il doppio di quello dei Falman, ma si sapeva da principio che queste vicende erano molto più complesse. 
Alla fine ne sono discretamente soddisfatta: certo alcuni argomenti li avrei potuti trattare meglio ma c'erano veramente troppe cose da dire. Ho cercato soprattutto di rendere più fisica la presenza di Gregor che nell'opera principale è quasi sempre una minaccia invisibile o poco presente. E poi ho inserito ex novo la figura di Henry, una cosa che mi ha fatto enormemente piacere e di cui sono molto soddisfatta.
Alla fine Ellie è stata coinvolta più del previsto nelle vicende di Laura, ma effettivamente nell'opera principale il loro legame è davvero forte e dunque andava in qualche modo giustificato. Proprio per quanto riguarda Ellie sono abbastanza soddisfatta di come ho fatto comportare lei ed Andrew nella fase pre-matrimonio... speravo sempre di non sconfinare nella pedofilia, avevo proprio gli stessi dubbi di Andrew, ma suvvia ce l'abbiamo fatta!

Bene, non mi resta che augurarvi buone vacanze (praticamente da domani mattina non ci sono e mi connetterò poche volte fino all'8 gennaio) e ci vediamo l'anno prossimo con lo spin off degli Havoc :)

Grazie per aver seguito anche questa fic ^^

 

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