A volte Levi si chiedeva perché mai si sforzasse di tenersi Hange come amica. Era invadente, chiassosa, spiacevolmente intelligente... e conosceva tutti i suoi segreti più nascosti.

«Cos—» Fu tutto ciò che Levi riuscì a farfugliare nel mettere piede nel salotto dell'appartamento suo e di Eren, la sua valigetta scivolata a terra con un tonfo mentre cercava di comprendere quel che gli stava di fronte: Eren steso sul tavolo da pranzo, con solo un paio di slip (dello stesso colore dei suoi occhi) che lo preveniva dall'essere completamente nudo, e coperto da mini pasticcini e dolcetti.

Levi si avvicinò passivamente al tavolo,dove notò un bigliettino bianco posato affianco al bacino appena abbronzato di Eren; lo sollevò e vi lesse: "So quanto odi i party organizzati dalla compagnia ma quello di stasera era molto importante. Questo è il tuo premio per aver resistito fino alla fine. Divertiti~"

«Ha preparato un dannato nantaimori con dei dolci. Non ci posso credere, quell'idiota di una quattrocchi.» Commentò, lanciando un'occhiata discreta ai deliziosi pasticcini e al corpo tonico e familiare sotto di essi.

A volte Levi si chiedeva perché tenesse Hange come amica... era invadente, chiassosa ed irritante.

Ma sapeva anche come placarlo e come fa sì che la perdonasse.
 

«Ok, pronti?» Chiese Armin, una mano sulla bottiglia di vetro al centro del cerchio, pronto a farla roteare nuovamente; spostando lo sguardo su ognuno dei presenti, senza aspettare oltre, il biondo diede un colpo di polso.

Qualche giro più tardi, la bottiglia si fermò su Eren (era la quinta volta, iniziava a sospettare che ci fosse un trucco), che non riuscì a trattenere un lamento — era tutta la sera che gli facevano il terzo grado su Levi.

«Hai mai visto Levi piangere? Non sembra il tipo.» Stavolta a parlare fu Connie. Tutt'intorno, i presenti sembravano fin troppo interessati alla risposta.

Con un sospiro rassegnato, Eren disse: «Sì… quando ha ricevuto il nuovo divano completamente sfoderabile.»

Ce l'avevano fatta.

Sembrava quasi un miracolo, un'allucinazione — come se l'intera Legione stesse dormendo e questo si trattasse di un sogno condiviso... impossibile, ovviamente, inconcepibile. No, erano senza dubbio svegli, lontani dal conforto dei loro letti al Quartier Generale, e quelle che avevano davanti non erano altro che le rovine di Shiganshina.

Tra le fila di soldati regnava un silenzio carico di timore reverenziale. Era un luogo spettrale, devastato da quasi un decennio di passaggi di Titani senza scrupoli o senno che avevano demolito edifici e costruzioni e strade. In pochi, nella Legione, avevano visto la città piena di vita — molti soldati provenivano da zone del Wall Rose o Wall Sina.

Per un lungo momento nessuno si mosse dalle proprie postazioni, poi Eren, seguito da vicino da Mikasa ed Armin, si incamminò per le vie, una destinazione ben precisa in mente ed incurante di tutto ciò che lo circondava.

Ci volle un po', ai tre, per raggiungere la loro meta e, quando infine arrivarono, Eren si lasciò cadere su un ginocchio, il pugno destro al petto e la testa bassa, «Sono a casa, mamma.» disse con voce bassa e trasudante di devozione, tristezza e altre emozioni che lottavano per rompere la facciata composta che il ragazzo aveva costruito attentamente prima di entrare la sua città.

[«Com'è il mondo esterno, Capitano? —Ho sempre cercato di immaginare come potrebbe essere ma... lei c'è stato, lo ha visto con i suoi occhi.»] Eren aveva chiesto a Levi, cinque anni prima.

Ora, seduto sul tetto di una torre un po' pericolante, un tardo pomeriggio, il soldato dagli occhi verdi fissava con uno sguardo sfocato l'ombra del Wall Maria proprio davanti a lui... più vicino di quanto fosse stato negli ultimi anni ed ancor più oppressivo e soffocante di quant'era stato ai tempi in cui era stato un ragazzino che sognava un mantello verde-foresta con le Ali della Libertà ricamate sul retro.

Voleva salire lassù e guardare oltre, lo desiderava davvero, ma allo stesso tempo aveva anche moltissima paura...