Legami l'anima di Tresor (/viewuser.php?uid=9684)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Legami
l'anima
1°
Capitolo
-
Me ne vado!-
- Cosa?-
- Ho detto che me ne vado, abbiamo finito!-
Che dici, non capisco!
Cos’è
all’improvviso questo tono di voce così freddo, tagliente?
- Hiro, cosa…?- Riprovo a
chiederti.
Non
riesco a capire chi sia la persona che mi sta parlando.
Ma
sicuramente non sei tu.
Ti alzi, scivolando inesorabilmente dal mio abbraccio, e d’un tratto un
gelo
profondo, una sensazione di abbandono che non riesco a identificare, si
impadronisce di me.
E’
la cosa più sgradevole in assoluto che io abbia mai provato!
Che
succede?
Ho
fatto qualcosa che ti ha dato fastidio?
Un
attimo fa riposavi sul mio petto senza un pensiero pesante.
Un
braccio abbandonato al mio fianco.
Le
dita che mi sfioravano in una carezza lieve, quasi svogliata,
dolcissima, che mi provocavano mille brividi di gioia.
I
tuoi sospiri leggeri, caldi, che mi scaldavano la pelle.
Il
tuo corpo abbandonato contro il mio, rilassato, felice, stanco
di questi momenti magici che sono appena finiti, ma che ancora vivono e
danzano
dentro di noi.
Che succede?
Non
capisco: che succede?
Spiegami!
- Non abbiamo più niente da dirci. Quello che dovevamo fare l’abbiamo
fatto.
Posso anche andarmene! -
Ancora.
Ancora quella voce gelida, che non somiglia a nessuna delle tue
inflessioni che
pur conosco in ogni sfumatura.
Adesso ti stai rivestendo, recuperando i tuoi vestiti che avevamo
sparso per la
stanza troppo persi nella nostra ansia di liberarcene.
I
tuoi movimenti sono precisi, calcolati.
Non
un’esitazione.
Puro
automatismo dettato dall’abitudine.
Che succede?
Mi tiro su a sedere sempre più confuso mentre tu nemmeno mi rivolgi uno
sguardo.
E
non so nemmeno se vuoi evitarmi o cosa!
- Hiro, ti sei pentito di…- Provo con la prima cosa che mi
viene in
mente.
Mi sembra quasi la più logica, anche se in nessun istante di queste ore
passate
mi è parso dovesse esserci questo pericolo.
- Pentito!- Esclami tu, un sorriso obliquo sulle labbra, sprezzante.- E
di che,
scusa? Avevo voglia di farmi scopare da te e l’ho fatto.-
- S… scopare?-
Ma che modo di esprimersi è?
Tu
non parli mai così.
Sei
talmente timido su questo tipo di cose che parlarne e
arrossirne è un tutt’uno sul tuo viso.
E adesso non c’è quasi colore sulla tua pelle.
Che succede, dannazione?
E smettila di continuare a vestirti come se niente fosse!!
Scivolo fino all’orlo del letto, tirandomi dietro il lenzuolo che a
malapena mi
copre.
Ma
che m’importa, non mi vergogno certo di mostrarmi nudo davanti
alla persona con cui ho appena… fatto l’amore!!
Provo a fermare una delle tue mani, prendendoti per un polso, ma tu
strattoni
il braccio, allontanando il mio gesto con un moto brusco.
- Se non sei pentito, perché te ne stai andando? Ho fatto qualcosa che
non va?
Spiegami, non riesco a capire, Hiro!-
Tu ti giri verso di me e sbuffi con aria di sufficienza, come se ti
scocciasse
la mia ostinazione.
Chi sei, Hiro?
Non
so più se ti conosco adesso.
Non sei tu.
- Ma che c’è da capire? Mi sembri più sveglio di solito! Mi andava di
venire a
letto con te. E anche a te, mi pare. Ma ho da fare, quindi ciao!-
“Quindi ciao!”??
- Quindi ciao???- Quasi urlo mentre tu ti avvii alla porta e io salto
giù dal
letto per fermarti.
Ti prendo per le spalle, inchiodandoti alla parete senza troppi
complimenti.
Per un momento sembri sorpreso dalla furia che mi leggi negli occhi.
Si,
lo so che ci riesci, ma non ci vuole tutta questa intelligenza
per capirlo.
Poi riprendi coraggio e… quell’aria seccata che non ti ho mai visto in
tanti
anni che ci conosciamo.
Di nuovo quella specie di ghigno di sufficienza che ti incurva le
labbra.
Che succede, cazzo?
- Lasciami andare, Akira, non capisco perché ti agiti tanto!-
- No? E che c’è da capire nel fatto che abbiamo appena fatto l’amore e
tu ti
alzi e te ne vai senza nemmeno una parola.-
- Uhm… non mi sembra che servano parole quando si fotte con qualcuno!-
Cosa?
- Sei impazzito? Ma come parli?-
Fai spallucce e quasi ridi per il disappunto che mi scorgi in faccia.
- Oh quanto la fai lunga, adesso ti scandalizzi pure! Quasi non ti
riconosco
più!-
- No, sono io a non riconoscere te!- Stavolta non mi importa di
gridare. Non me
ne importa niente.- E’… stata la nostra.. prima volta. La sera più
bella della
nostra vita e tu… tu…-
- Hey, calma, mica ti avevo promesso niente! Andare a letto con
qualcuno mica
vuol dire per forza stare insieme. Che ti eri messo in testa scusa?-
Sono sempre più frastornato.
Ma che dice questo?
Non eri tu che sei venuto da me sconvolto per avermi visto insieme a
Rukawa e
aver pensato che io e lui stessimo insieme?
Non eri tu che hai preso il coraggio a quattro mani e mi hai confessato
di
amarmi e di ripensarci, prima ancora che riuscissi a dirti che io e
Kaede ci
eravamo incontrati solo perché lui ne ha combinata un’altra delle sue
con Hana?
E non eri tu che mi sei volato tra le braccia quando finalmente sono
riuscito a
spiegarti che l’unica persona che potrei mai amare è un certo ragazzino
scontroso e intrattabile che mi ha rubato il cuore da sempre?
E non eri tu che mi hai chiesto di fare l’amore con te mentre il tuo
volto
andava a fuoco che per un momento ho avuto paura stesse per venirti un’
attacco
di febbre improvvisa tanto scottavi?
Non eri tu….
Oppure finora ho sognato tutto questo e ancora non riesco a uscire da
questo…
-… INCUBO?- Sto urlando ancora, ma se non lo faccio divento pazzo,
perché non
capisco.
Non capisco questo tuo voltafaccia.
Questa tua espressione sprezzante, questo tono superficiale,
seccato.
Questo tuo voler a ogni costo minimizzare quello che è stato un atto
d’amore
che abbiamo voluto entrambi.
Non solo io.
Non solo tu.
Ma tutti e due?
- Mi sarò espresso male, mi spiace!- Mi dici atono.
E non vedo nessuna contrizione sul tuo volto.
Nessuna
traccia del dispiacere che dichiari a parole
.-
Per me è stato solo sesso. Non è mica la prima volta che vado a
letto con un uomo. Se tu hai capito un’altra cosa, non è colpa mia. E
adesso
lasciami, che devo proprio andare!-
- Hiro, è uno scherzo?- Sono ancora incredulo.
Scusate, ma proprio non c’arrivo.
Tu mi guardi con uno dei tuoi migliori sguardi innocenti.
Pensi davvero quello che dici?
Perché
se è uno scherzo, è durato troppo, ed è anche di pessimo
gusto.
- No, affatto. Non sei stato il primo e… di certo non sarai l’ultimo! -
Mi manca il respiro.
C’è qualcosa che si sta formando nel mio stomaco.
Una sensazione che va via via espandendosi come una nebbia sottile e
velenosa.
Una sorta di nausea che mi avvolge e si propaga dentro di me come se
volesse
imprigionarmi in una spirale da cui non so se riuscirò ad
uscire.
Mi sento soffocare.
Provo a inspirare aria nei polmoni, ma non ne vogliono sapere.
Si rifiutano di fare il loro lavoro.
Si rivoltano contro di me.
Perché?
Non mi avevi detto di aver avuto già esperienze con altri.
Quando ti ho preso, mi è sembrato fosse la prima volta per te.
Ho cercato in ogni modo di essere delicato, ma ti ho fatto male lo
stesso.
Sei… così stretto.
Due
lacrimosi grossi così sono scesi dai tuoi occhi serrati e mi
sono sentito morire per il senso di colpa.
Sono
stato sul punto di tirarmi indietro pur di non vederti
soffrire.
E
tu me lo hai impedito non so con quale forza.
Mi
hai pregato di continuare.
Che
stava passando tutto.
Che
non dovevo spaventarmi.
Ed eri stato già con altri!
Eppure ci diciamo sempre tutto.
Siamo
sempre stati l’uno il miglior amico dell’altro prima ancora
di diventare amanti.
Sono stato il primo a sapere che ti eri accorto di essere gay.
Il primo con cui hai trovato il coraggio di parlarne.
E non mi hai fatto mai parola di essere già stato a letto con
altri.
Perché?
Io ti ho raccontato sempre delle mie, poche, esperienze.
Avresti potuto dirmelo tranquillamente visto che non sapevi, e non ti
eri
accorto, che ero innamorato di te.
Non avresti potuto farmi male.
Anche se mi fa male, eccome, venirlo a sapere.
In questo modo poi.
In
un’occasione che… doveva essere speciale per noi!
Nella mia mente e nel mio cuore avresti dovuto essere solo
mio.
Avrei dovuto essere il tuo primo amore.
Il tuo primo amante.
Come lo sono stato io.
Dov’è il ragazzino scontroso e timido a cui si impicciavano la lingua e
il
cervello solo a sentir alludere a qualcosa di vagamente connesso con il
sesso?
Che svicolava e balbettava quando scherzavo su questo argomento per
prenderlo
in giro?
Dove?
Oddio, mi sembra di morire!
E
non è finita.
Lo so che non è finita.
Che succede?
- Allora cos’erano le parole che mi hai detto mentre facevi
l’amore con
me, Hiro?-
Lo
devo sapere, dannazione.
Devo sapere perché hai giurato di amarmi se non te ne fregava invece
niente.
Se era solo una… scopata come le altre.
- Senti, finiamola di tirarla per le lunghe. Siamo dei ragazzi. Stiamo
cominciando ora ad avere le nostre esperienze. L’amore è una parola
troppo
grossa per la nostra età. Anzi, la idealizziamo come ragazzine alla
prima
cotta. Non te la prendere, ok?
E poi non vedo perché ti sembra una tragedia. Mi pare che sia piaciuto
a tutti
e due. Tieniti questa sera come ricordo per quando sarai in America.
Quanto
manca alla partenza: due settimane? Beh, godiamocele, dico io!... Dai,
lasciami
adesso che sennò mi tocca discutere con i miei perché ho fatto tardi!-
Perché non rispondi?
Ti ho fatto un’altra domanda e tu non rispondi.
Credi che ti lasci andare così prima di avermi detto in faccia quello
che devi?
- Mi hai mentito solo per venire a letto con me?- La mia voce
è solo un
sussurro ormai.
Sento che le energie mi fluiscono via come se si fosse aperto un varco
da
qualche parte in me, uno squarcio enorme, e tutto esca fuori,
svuotandomi.
Anche le mie mani allentano la presa, scivolano giù lungo le tue
braccia fino
ad abbandonarsi lungo i miei fianchi.
Di nuovo scrolli le spalle con quel sorrisetto che comincio a odiare
con tutto
me stesso.
Ma non voglio arrivare a odiare te.
Io ti amo, Hiro!
E non conta niente se sono un ragazzo.
So quello che provo.
Lo so da sempre.
Non è da un mese, da un anno, ma da quando sono nato che so di
amarti.
Come posso odiarti? Sarebbe come dire che posso odiare me stesso.
- Spero che questo.. .frainteso non rovini la nostra amicizia, mi
dispiacerebbe!-
Dici
ancora, perfettamente a tuo agio.
Senza
un’esitazione che sia una!
-
Si dicono tante cose stupide in quei momenti. Senti, io adesso
vado. Quando.. parti, mi piacerebbe salutarti.. Ma… se non te la senti,
ti
capirò, ok? Ciao!-
Ciao!
Non ti amo.
Si dicono tante cose stupide in certi momenti!
Quanto
tempo è che sono qui a fissare questa porta chiusa?
Tresor
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo
2°
Sei
anni.
Aveva dovuto far passare sei lunghi anni per trovare il coraggio di
ritornare
nel suo paese.
Sei anni per dare una svolta alla sua vita.
Per costruirsi un futuro e una personalità forti.
Per diventare uno dei migliori giocatori di basket dell’NBA.
Per chiudere il suo cuore in una scatola a tenuta stagno e gettarla
insieme
alla chiave nelle profondità di se stesso, perché tanto non gli sarebbe
servito
mai più.
Sei lunghi anni trascorsi a studiare in un’università
straniera.
Ad allenarsi.
A giocare e vincere.
Per cosa?
Per tornare a casa, ritrovare gli amici del liceo, e farsi sbattere in
faccia
che ogni suo più piccolo sforzo di cominciare daccapo senza crepe o
ferite
nell’anima era stato uno spreco di tempo e di energie?
- Non ho capito!- Ammise Akira, allontanando dalle labbra il brik del
latte che
aveva appena prelevato dal frigo.
Tre paia d’occhi fissarono Hisashi e il suo compagno, seduti sul divano
del
salone.
Akira avanzò, varcando la porta della cucina e fermandosi accanto alla
poltrona
su cui Hisa era seduto a bere la sua tazza di tè.
Nella stanza calò un silenzio colmo di disagio.
Il giovane alzò lo sguardo e l’espressione sul suo volto non sembrò
delle più
felici.
- Scusa Akira…- Provò a dire, maledicendosi per non essersi assicurato
che
l’amico non fosse nei paraggi.
Non si era accorto che era sceso e si fosse diretto in cucina.
Nessuno
se ne era
accorto.
Doveva
essere passato
per la scala di servizio.
Non
c’era altra
spiegazione.
- Puoi ripetere, per favore?- Gli chiese quelli senza tradire la minima
emozione.
Hisashi sulle prime non seppe cosa dire.
Avrebbe tanto voluto tornare indietro nel tempo e la consapevolezza che
il suo
sarebbe rimasto un pio desiderio non lo fece sentire affatto bene.
E Kimi, seduto sul bracciolo della poltrona, dovette sentirsi nel
medesimo modo
dal momento che chinò il capo e spostò una mano timidamente sul braccio
del
compagno come a cercarvi rifugio.
Privo di parole adeguate.
Di una frase qualsiasi che in altre occasioni il suo carattere sempre
così
conciliante avrebbe certamente trovato.
Anche Hana e Kaede, seduti sul divano, erano ammutoliti, l’abbraccio
del primo
che si serrava intorno al corpo del secondo in un gesto
disorientato.
Lo sguardo blu cupo di Akira si spostò su ognuno di loro,
interrogativo e
vagamente irritato da quella inspiegabile reticenza.
Che avevano tutti e quattro?
Ci voleva tanto a rispondere a una domanda tanto semplice come quella
di
ripetere quello che stavano dicendo prima che lui arrivasse?
- Insomma, vi siete ingoiati la lingua tutti nello stesso momento?-
Sbottò.-
Non posso sapere anch’io che ne è stato dei nostri compagni ai tempi
del
liceo?... Stavate parlando di Koshino, no?-
Aveva sperato che pronunciare quel nome non sarebbe stato così
devastante.
Se lo era ripetuto per tutto il viaggio da Los Angeles a
Kanagawa.
Ma si era mentito.
Per sei lunghi, dannati, anni non aveva fatto altro che mentirsi.
Adesso lo sapeva con certezza e non poté che disprezzarsi per la
propria
inutile debolezza.
Il coltello che era rimasto fermo all’interno di una ferita mai
risanata adesso
stava dando uno scatto e si rigirava, come animato di vita propria.
Dolore.
Un dolore sordo!
Che
gli stracciava la
pelle.
- Si.- Ammise Hana, appena udibile, sfiorando i capelli scuri di Kaede
con un
bacio.
- Aki, non…-
- Che c’è, Kaede?- Lo interruppe lui di colpo, stufo.
Non era riuscito ad afferrare tutte le loro parole mentre era ancora in
cucina,
ma aveva sentito qualcosa a proposito del lavoro del suo compagno
d’infanzia e
poi avevano smesso accorgendosi di lui.
- Niente!- Fece l’amico, scuotendo la testa dispiaciuto.
- Tanto lo verresti a sapere lo stesso.- Completò Hana rassegnato.
Akira non seppe spiegarselo, ma all’improvviso gli venne su l’impulso
di
ridere.
E lo fece.
Ma fu una risata nervosa, inquieta, quella che gli uscì dalla bocca.
- Andiamo, è diventato forse un criminale?- Buttò là per gioco.
Eppure le facce che si contrirono gli fecero tremare il cuore tanto da
farlo
pentire di aver pronunciato quelle parole.
Tornò a fissare Hisashi quasi incredulo di aver detto qualcosa di anche
solo
vagamente sensato.
- No!- Rispose infine Kimi, al posto del compagno.
Trovò il coraggio di alzare la testa e di guardarlo, mentre
aggiungeva:-
… E’ all’università di S. Si è iscritto a scienze della comunicazione e
gioca
nella squadra di basket.-
Per un momento rincuorato, Akira annuì affatto sorpreso.
- E’ sempre stato il suo progetto quello di iscriversi a quella
facoltà.-
Confermò, ricordando tutte le volte che, negli anni passati, si erano
ritrovati
a parlare di quello che avrebbero voluto fare dopo il liceo.
- E’ andato via di casa circa sei anni fa.- Proseguì Hisashi, dimentico
della
tazza di tè che aveva ancora nelle mani, ormai freddo.
- Ah, che strano, alla fine i suoi lo hanno accontentato mantenendolo
fuori
casa!-
- No… Si mantiene da solo. Ha trovato un lavoro e si paga gli studi.-
Una sensazione di leggero orgoglio si impadronì di Akira.
Era contento malgrado tutto.
Ma perché quell’aria da funerale persisteva nella stanza e sulle facce
di quei
quattro allora?
C’era qualcosa che non andava?
Sembravano così strani!
All’inizio aveva pensato che si fossero dispiaciuti per lui che li
aveva
sentiti parlare di Hiroaki.
Sapevano
come era
finita tra loro sei anni prima.
E sapevano che non si erano più né visti né sentiti in tutto quel tempo.
Allora lui aveva avvertito la necessità di confidarsi e loro erano
stati gli
amici solleciti ad ascoltarlo e a offrirgli delle spalle su cui
piangere quando
aveva rischiato di perdersi.
Cosa c’era dunque?
- Beh?- Esordì impaziente.
Parlare di Hiro gli faceva male anche a distanza di tanti
anni.
E probabilmente si vedeva benissimo anche se stava cercando in ogni
modo di
apparire il più distaccato possibile.
Ma non gliene importava niente.
Di solito era un muro invalicabile con tutti.
Sorridente e gentile come lo era sempre stato, ma era solo la maschera
che
ormai aveva imparato a sfoggiare davanti a chiunque per tener lontani i
curiosi.
Ma con loro non doveva preoccuparsi di indossare alcuno schermo.
Certo, non avevano più parlato di quella storia morta e sepolta dopo i
primi
tempi.
Né
con Kaede e Hana,
che vivevano con lui a LA.
Né
con Kimi e Hisashi
che, si erano stabiliti invece a San Francisco.
Ma
probabilmente lo
conoscevano abbastanza bene per capire quel che ne era stato di quel
brutto
periodo.
Hisashi raccolse un profondo sospiro, si sarebbe detto sofferto, e
infine si
decise.
- Lavora in un locale da quando vive da solo…- Dannazione perché era
così
complicato dirlo? Imprecò Hisa contro se stesso, sentendosi soffocare.
Ma perché diavolo era toccato a lui trovarsi a dire quelle cose a uno
dei suoi
più cari amici.
Perché lui e non un estraneo?
- Che locale?-
- Un locale per… accompagnatori per soli uomini.- Disse Kimi
cautamente.
A
voce bassa.
- Fa la puttana, dannazione!!- Imprecò Hisashi al limite, scattando in
piedi e
facendo sussultare tutti per la sorpresa. – E’ inutile girarci
intorno!!-
A che serviva darsi la pena di trovare termini ricercati se il
significato
finale non cambiava?
Che senso aveva indorare la pillola se poi si sarebbe rivelata
ugualmente
amara?
E dopo tutto se non glielo avessero detto loro, sarebbe comunque venuto
a
saperlo da qualcun altro al ricevimento che Hana e Kaede avrebbero dato
da lì a
qualche settimana.
E forse era meglio così: venirlo a sapere da estranei avrebbe potuto
essere
molto più duro che detto da lui.
Trascorse qualche momento in cui Akira credette davvero di non aver
capito né
l’espressione, né la reazione di Hisashi.
Lo seguì mentre cominciava a camminare per la stanza avanti e indietro
come se
improvvisamente dentro di lui fosse scoppiata una tempesta.
Vide Kiminobu andargli vicino e tentare di calmarlo con una carezza, e
quelli
reagire con stizza, come infastidito.
In
verità soltanto
addolorato.
Registrò appena Kaede che si scioglieva dall’abbraccio del marito per
alzarsi e
raggiungerlo, togliergli con un gesto gentile il brik del latte dalle
mani, che
stavano perdendo la presa man mano che il senso di quel che la mente
aveva
ascoltato, andava facendosi strada in quella parte di sé che provava a
tradurne
il significato.
D’un tratto una fragorosa risata proruppe dalla sua gola, squarciando
il
silenzio come un tuono in pieno cielo estivo.
Quattro paia d’occhi gli si appuntarono addosso esterrefatti.
Hana scattò dal divano con il cuore in gola, artigliando la mano di
Kaede,
spaventato: perché Akira si era messo a ridere?
Inspiegabile.
Cosa c’era da ridere in una notizia del genere?
Ma non trovò alcuna risposta né nello sguardo del proprio compagno, né
in
quelli degli amici, rimasti inchiodati a pochi metri da loro,
altrettanto
inebetiti.
- Akira?- Kaede si riprese per primo.
- Questa è bella, non trovi?- Esordì di colpo il giovane, guardandolo
dritto in
faccia.
Non c’era ilarità nei suoi occhi, anche se il riso ancora gli incurvava
in viso
e gli incrinava la voce.
Una voce quasi non sua.
- Akira, senti…-
Nel sentirsi chiamare di nuovo, così com’era apparsa, la voglia di
ridere sparì
e Akira sentì una curiosa, fastidiosa, agitazione pizzicargli la
pelle.:
l’adrenalina, simile a quella che gli mandava il sangue a mille quando
era in
partita, adesso gli si propagava nel corpo e gli stava avvelenando ogni
fibra.
Ecco cos’era quella sensazione di orticaria.
- Perché?- Chiese senza fissare nessuno in particolare.
Hisashi scrollò le spalle.
- Non lo so! Non lo sa nessuno, anche perché lo vedono abbastanza di
rado da
quando il liceo è finito.-
- Hiroaki studia e lavora a Tokyo.- S’intromise Kimi.- Quasi nessuno sa
del
suo… lavoro. Secondo noi nemmeno i suoi genitori. Abbiamo pensato che
sia per
questo che si è spostato nella capitale.-
- Io sono venuto a saperlo non perché lo abbia detto lui, ma perché un
mio
amico frequenta quel locale e un giorno che ci siamo incontrati, me ne
ha
parlato. Mi ha detto che è un club privé molto esclusivo e che… Hiro è
uno dei
ragazzi più ricercati là dentro! Che per farsi fissare un appuntamento
con lui
è necessario mettersi in lista d’attesa.-
- Allora deve guadagnare parecchio!- Osservò Akira quasi casuale. In
realtà
piuttosto disorientato.-… E bravo il ragazzo!-
- Mi spiace che tu sia venuto a saperlo!-
- E perché, Hisa? E’ padronissimo di fare quel che gli pare della sua
vita. Non
sono affari miei.-
- E’ stata una… sorpresa anche per noi!- Ammise Kimi sempre più a
disagio.
- Sorpresa?!- Gli fece eco lui, e di nuovo gli venne da ridere.- Mi
sembra un
eufemismo. Mah… fatti suoi!... Io vado di sopra, scusate!-
E così dicendo si riprese il brik dalle mani di Kaede con un gesto
neanche
troppo gentile, e se ne andò senza degnarlo di uno sguardo.
-
Mi dispiace!- Disse
Hisashi dopo diversi minuti di silenzio, la voce soltanto un sussurro.
- Non te la prendere, amore, tanto glielo avrebbe detto sicuramente
qualcun
altro. Non c’era modo di tenerglielo nascosto una volta tornato a
Kanagawa.-
- Kimi ha ragione!- Replicò Hanamichi scorato, e si gettò di peso sul
divano,
portandosi le mani nei capelli ramati.- Oddio che situazione
incredibile, mi
sembra impossibile!!-
- A chi lo dici! Quando quest’amico di Hisa ce lo ha detto,
siamo rimasti
senza parole per almeno mezz’ora. Hiro è stato sempre un ragazzo di
buona
famiglia. Una persona schiva, con un caratteraccio scorbutico e un po’
chiuso,
ma questo di certo non ce lo aspettavamo.-
- E lui non ve ne ha mai parlato personalmente?- Chiese Kaede.
- No. Te l’ho detto, quando torniamo qui, lo vediamo poco e quasi
sempre per
caso. Ci si scambia qualche parola, niente di più. Noi non gli abbiamo
chiesto
niente. Non vogliamo creargli imbarazzi o fastidi. Credo… che sia una
situazione delicata!-
- Ahhh!!- Hana gettò fuori in un urlo di rabbia la propria
frustrazione.-
Questo è un casino, non c’è proprio niente di delicato, maledizione!...
Perché
non ce lo avete detto, avremmo provato a impedire ad Akira di tornare
in
Giappone almeno!-
- Non dire stupidaggini, Hana, come credi che avremmo potuto
impedirglielo
senza una ragione?-
- Kitsune, tu appoggio zero, eh?-
- Hn!-
- Ecco, appunto! Cheppalleee!!!!-
Tresor
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo
3
Lavora
in un locale.
Che locale?
Un locale per… accompagnatori per uomini.
Fa la puttana!
Le parole continuavano a girargli nella testa come un nastro inceppato.
Seduto sul davanzale della finestra in quel pomeriggio di primavera,
una gamba
piegata sulla soglia di marmo, il braccio abbandonato sul ginocchio con
la mano
che ancora teneva il brik semivuoto del latte un poco inclinato, lo
sguardo che
vagava per il giardino attraverso il tepore tiepido di una dolce brezza
che gli
sfiorava la pelle del volto e del petto privo di indumento, Akira non
tentava
neppure di farsene una ragione.
Fa la puttana.
Il mio Hiro si prostituisce!
Non posso crederci.
Com’è potuto succedere?
Lui così schivo, riservato.
Lavora in un locale.
Fa la puttana.
E’ uno dei ragazzi più ricercati.
Per avere un appuntamento con lui bisogna mettersi in lista d’attesa.
Se non fosse assurdo, mi verrebbe solo da ridere.
Se non fosse così insopportabilmente assurdo!
Assurdo!
Amore, ma che hai fatto?
Dio, aiutami!
Continuo
a pensarti
mio quando non lo sei mai stato!
Continuo a chiamarti amore nei miei pensieri e non lo sei mai stato!
Pensavo di essermi liberato di te.
Ho combattuto contro me stesso fino a sanguinare per liberarmi di te.
E tu sei ancora qui a farmi male e nemmeno lo sai.
Come puoi aver fatto una cosa simile?
Come hai potuto accettare di vendere il tuo corpo?
Permettere a mani estranee di toccarti, di fare i loro comodi con te?
Come è potuto succedere?
Per soldi?
No, non posso crederci che tu lo abbia fatto per denaro. Avresti potuto
cercarti qualsiasi altro lavoro.
Non puoi averlo deciso per dello sporco denaro.
Non tu!
Ma poi, perché mi fa così male saperlo?
Dovrei infischiarmene.
Dovrei provare repulsione per te.
Dovrei detestarti.
E non ci riesco.
Mi hai mentito sei anni fa.
Hai detto di amarmi e non era vero.
Mi hai tradito.
Hai tradito la nostra amicizia.
La fiducia che avevo sempre avuto in te.
Hai sputato sul mio amore senza farti alcuno scrupolo.
Perché?
Fa la puttana.
Fa la puttana.
No. No. No!!!
Non tu!
Dovevo dimenticarti.
Dovevo cancellare ogni traccia di te dalla mia mente.
Dai miei pensieri.
Dai miei sogni.
Dai miei incubi.
Dovevo riuscirci in tutto questo tempo.
Ci ho provato.
Il cielo sa se ci ho provato.
E ho perso solo tempo.
Tanto tempo prezioso.
Tempo che avrei potuto usare per costruirmi una vita decente.
Per trovare qualcuno che meritasse il mio amore.
Quell’amore che tu hai calpestato senza tener in conto neppure
l’amicizia.
Il rispetto.
E non ci sono mai riuscito.
Mai una volta che abbia potuto concedermi il lusso di ingannare questo
stupido
cuore, che ha continuato a cercare i tuoi occhi e il tuo volto in
quelli degli
altri.
Che ha voluto sentire all’infinito i tuoi sospiri nella passione di
altre
persone che non erano te.
Che se ne è infischiato di me e della mia volontà e ha continuato
ostinatamente
a impormi la sua folle ricerca dei tuoi sorrisi così rari nei sorrisi
di coloro
che nulla avevano di te.
E tu…
…
tu vendi il tuo
corpo.
Quel corpo che avrebbe dovuto essere soltanto mio.
Che avrei adorato come il più prezioso dei tesori.
Offri il tuo corpo a mani sconosciute che non hanno alcun rispetto di
te.
Hai venduto anche la tua anima al miglior offerente?
Come hai potuto?
Come?
Dimmelo, perché questa cosa mi sta facendo impazzire.
Adesso che avrei dovuto superare la prova del fuoco rivedendoti dopo
tanti
anni.
E nemmeno ti ho ancora incontrato.
E già ho fallito.
E già sto ricominciando a tormentarmi con domande inutili.
A odiare tutti quelli che ti hanno avuto.
A desiderare di vederli morti perché hanno osato toccarti!
A
questo punto
dovrei cominciare a odiare anche te.
Sarebbe giusto, no?
Sarebbe la naturale evoluzione della considerazione che ho sempre avuto
di te
anche quando mi hai dato il benservito.
Dovrei odiarti.
Dovresti farmi schifo addirittura.
Perché non è così allora?
Perché devo essere così stupido?
L’odio è un sentimento così semplice da provare.
Così ovvio.
Così naturale.
Facile tanto più che non ti sei preoccupato di farmi male, allora come
adesso.
Allora perché non ti odio?
Perché non ci riesco?
PERCHE’???
Tresor
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo
4
-
Cosa
stai lì a guardarlo con quell’espressione estatica sulla faccia? -
La
domanda gli giunse alle spalle sferzante e cattiva, e lo fece trasalire.
Si
girò di scatto, scontrandosi con l’alta figura di Hana, a pochi
centimetri da
lui, che lo guardava dall’alto in basso con evidente disprezzo.
Perduto
nella contemplazione di Akira, che era uscito ad accompagnare un amico
all’auto, non si era accorto del suo arrivo.
Hana
portò la sua attenzione alla finestra, e guardò la stessa scena che
aveva
seguito lui fino a quel momento.
Aki
era fuori in cortile e parlava con l’ultimo ospite che stava lasciando
casa in
quel momento, un suo ex compagno di liceo.
Ridevano
di qualcosa che si stavano dicendo, l’uno di fianco all’altro, mentre
quest’ultimo apriva la portiera della berlina scura parcheggiata sul
sentiero.
Hiro
sospirò inquieto.
-
Che
hai da sospirare? Non sei stato tu a buttarlo via e a girargli le
spalle? – Lo
colpì di nuovo il suo interlocutore, il timbro di voce e l’espressione
più dure
di prima.
Non
capì che cosa volesse da lui.
-
Non
sono cazzi tuoi! – Lo apostrofò infastidito.
-
Lo
sono più di quanto possano esserlo tuoi visto che non sei più nessuno
nella sua
vita! –
Il
giovane si girò di nuovo verso di lui, seccato dalla sua aggressione
immotivata.
-
Ma
che vuoi? Di che parli? –
-
Come
se tu non lo sapessi!!... –
-
Che
devo sapere? –
Hana
scrollò il capo incredulo.
-
Che
razza di stronzo! ... Rientri nella sua vita dopo anni che non ti fai
vivo e ti
permetti il lusso di mangiartelo con gli occhi come fosse la cosa più
bella del
mondo! ... –
Hiro
sussultò sconcertato.
Quanto
aveva lasciato trapelare dal suo atteggiamento da indurre Hanamichi a
dire
quelle cose?
Possibile
si fosse scoperto tanto e non se ne fosse accorto?
Eppure
era stato attento a nascondere ogni sua emozione in quei giorni.
Se
ne era accorto solo il rosso o anche gli altri?
Non
poteva essere.
-
Lui
“è” la cosa più bella del mondo! ... – Mormorò quasi tra sé.
-
E
te ne accorgi solo adesso? –
-
Ma
tu che cazzo vuoi, si può sapere? –
In
quel frangente ritornarono Kaede, Hisa e Kimi.
L’aria
pesante li colse immediatamente e li fece esitare in mezzo alla stanza.
Tuttavia
il primo si riprese immediatamente e raggiunse il compagno,
percependone
istantaneamente la tensione sul volto tirato e soprattutto nello
sguardo
dilatato dall’ira.
-
Hana,
che succede? – Gli domandò cauto, toccandogli un braccio.
Gli
occhi d’ambra gli si appuntarono addosso, trasmettendogli la loro
inquietudine.
-
Amore,
che hai? – Insisté.
-
Niente,
Kae, ho solo la nausea per quest’essere rivoltante che ci sta
infestando casa!
– Gli rispose disgustato, mentre gli carezzava la mano che gli si era
posata
addosso.
Hiroaki
ingoiò a vuoto, oppresso da un moto di ribellione.
-
Hana,
che dici? – S’intromise Hisashi meno conciliante.
-
E’
ospite di Akira, perché parli così? – Aggiunse Kimi, turbato dalla sua
acredine.
-
Dico
che questo stronzo non sta al suo posto come dovrebbe… E’ evidente che
nel
bordello da dove viene non gli hanno insegnato che deve limitarsi a
fare il suo
sporco mestiere senza mettere gli occhi sui clienti! … D’altra parte
che cosa
ci si può aspettare da una prostituta? La classe è una qualità insita
nella
propria natura, non la puoi imparare se non ce l’hai!! –
-
Hana!!!
–
Il
coro unanime di tre voci lo sgridarono per le sue parole offensive,
cercando di
capire che cosa gli stesse prendendo da esprimersi a quel modo.
Kaede
percepì quanto fosse arrabbiato senza bisogno di indagare troppo.
Non
erano forse giorni che rimuginava su tutta la situazione?
Che
metteva in discussione il comportamento del loro amico da quando si era
presentato in giro accompagnato da Koshino.
Che
si faceva mille domande sui motivi che lo avevano spinto a richiederlo
alla
casa di appuntamenti per tutte quelle settimane?
Erano
domande e riflessioni che si stavano ponendo tutti loro e che
occupavano
parecchie delle loro conversazioni negli ultimi tempi.
E
di cui non si erano ancora dati delle risposte esaustive.
Tanto
più che Akira non veniva loro incontro con delle spiegazioni chiare,
eludendo
ogni tentativo di interrogarlo, o pronunciando mezze parole gettate là
per
tacerli, ma niente affatto risolutive.
Sempre
sfuggente, evasivo.
Che
stava cercando di fare?
Se
lo stavano chiedendo da parecchio.
E
non lo avevano ancora capito.
-
Hiro,
per favore, accetta le mie scuse, Hana è solo nervoso in questi giorni.
– Tentò
di dire, scoccando al tempo stesso un’occhiataccia intimidatoria al
marito.
Che
però non se ne diede per inteso e non si lasciò redarguire
dall’espressione di
Kaede che, in altre occasioni, sarebbe stata sufficiente a riportarlo
nei
ranghi.
-
Di
che ti scusi, tesoro? E’ lui che dovrebbe giustificarsi per il suo
comportamento importuno in casa nostra…
Noi
lo ospitiamo e lui fa lo smorfioso con un nostro caro amico,
dimenticandosi di
quale sia il suo ruolo. -
-
Ma
si può sapere di che cosa stai parlando? - Replicò l’oggetto del suo
attacco,
saltando su esasperato. – Io non ho fatto niente che possa averti
offeso e… -
-
Il
solo fatto che sei qui è di per sé offensivo! Una puttana in casa
nostra...
tsè!! –
-
Hana,
vuoi darci un taglio? -
-
Perché Hisashi? Non lo hai
visto come guarda
Akira quando pensa che nessuno stia guardando lui! ... Non ha nessun
diritto di
permettersi tante libertà, visto come lo ha trattato. –
-
Non sai di che cosa stai
parlando! – Sibilò Hiro
furibondo ormai.
Hana
gli si fece d’appresso in un lampo, sfuggendo alla presa di Kaede,
colto di
sorpresa dalla sua reazione.
Hiro
indietreggiò ancora più stupito e preoccupato che avesse potuto
aggredirlo.
Fu
Hisashi a frapporsi repentino tra i due.
-
Che
vuoi fare, rosso? Questi non sono affari nostri. –
-
Non
dirmi che non sono affari nostri, Hisa! – Hana saltò su poco
accomodante,
sputando le parole tra i denti serrati dalla rabbia.
-
Sta
solo ad Akira stabilire i suoi rapporti con Hiro, non a noi! –
-
Hisa
ha ragione, Hana. –
-
No,
Kaede, non ce l’ha proprio per niente! ... Questo individuo sta
rimettendo gli
occhi su Akira, e io non voglio che lo faccia star male di nuovo. E non
lo vuoi
nemmeno tu. E tu, Hisa! ... E nemmeno tu, Kimi! –
E
così dicendo, guardò ognuno di loro, sfidandoli a contraddirlo, sicuro
che
ciascuno sapesse a cosa si stesse riferendo.
-
Nessuno
di noi lo vuole! – Lo assecondò Kimi, avvicinandosi. – Ma non sappiamo
niente,
e non possiamo trarre conclusioni avventate solo perché tu hai visto
Hiro
guardare Akira in qualche modo che non ti è piaciuto, cerca di capire
che… -
-
Cosa
devo capire? Che prima lo ha ferito a morte e ora ci sta ripensando?
Ora che è
diventato ricco e famoso? … Quest’opportunista del cazzo che non si è
fatto
nessuno scrupolo… -
Improvvisamente
Hiro lo spinse via dalla propria strada, bypassando Hisashi, e si
allontanò
dalla finestra.
-
Ma
che ne sai tu, razza di idiota? – Soffiò inacidito. – Di me, di noi?
Non farei
mai del male ad Akira.
-
E
non voglio niente da lui.
Non
sono qui per mia decisione.
Non
l’ho cercato io.
Lui
mi ha richiesto in agenzia e non so nemmeno perché?
Ma
non sono fatti che ti riguardano, perciò piantala di prendertela con
me: io non
ci volevo venire qui, ma non ho avuto voce in capitolo. –
-
Ah,
la povera vittima! – Lo derise Hana sprezzante.
– Chissà che sacrificio dev’essere stato essere portato in
hotel a 6
stelle, ristoranti esclusivi e scarrozzato su una fuoriserie… Sembra
quasi che
questa situazione ti opprima.
Che
ipocrita!
Se
così fosse non avresti accettato la sua richiesta in agenzia e ti
saresti fatto
sostituire da qualche altro “collega”. –
E
calcò con disgusto e sarcasmo sulla parola “collega” di proposito.
-
Non
ho potuto.
Non
ho saputo chi fosse se non quando mi ha aperto la porta della camera.
E
anche allora non me ne sono potuto andare come avrei voluto fare
immediatamente, perché avrei dovuto ripagare io il mancato guadagno di
un
cliente così generoso.
E
non ce l’ho la cifra che lui ha sborsato per avermi queste tre
settimane.
Non
ho potuto fare altro che piegare la testa, anche se la situazione mi è
parsa paradossale.
–
-
E
non solo la testa, immagino! –
-
Hana,
la vuoi smettere con queste allusioni gratuite? –
-
Kaede,
questo si prostituisce, mica fa il rappresentante, quali allusioni e
allusioni!!
–
-
Ok,
faccio la puttana, ma non ce l’hai lo stesso il diritto di offendermi…E
se ti
può far stare meglio, non ho mai esercitato in questi giorni,
evidentemente
faccio troppo schifo al tuo amico per essere usato per quel che ha
pagato.
E
domandalo a lui il motivo, perché io non lo conosco e non gliel’ho
chiesto.
Aspetto
solo che finisca tutta questa storia insensata e di potermene andare.
Perché
non ne posso più.
Non
so che pensare.
E
non so come affrontarlo.
Ma
non cerco niente da lui.
Quello
che volevo, l’ho avuto anni fa, quando l’ho lasciato andare via.
E
questo mi è bastato finora. -
-
Tu
lo hai ucciso, non te ne rendi conto? ... Hai una vaga idea di quello
che gli
hai fatto sei anni fa o proprio non ci sei mai arrivato? –
-
Tu
che vuoi saperne di quello che ho fatto a me e a lui? ... Non c’eri e
non sai
un cazzo! –
-
Io
so quello che è successo dopo e mi è bastato per detestarti… Ho visto
come lo
ha ridotto il tuo comportamento egoista: al fantasma di se stesso.
Lo
abbiamo visto tutti noi, che siamo stati lì a cercare di tenere insieme
i pezzi
di lui che crollavano e lo distruggevano di dolore e di furia.
Perché
non si faceva una ragione del modo in cui lo avevi usato, voltandogli
poi le
spalle.
Perché
non accettava che la persona che lui conosceva così bene, di cui si
fidava,
improvvisamente si fosse trasformato in uno sconosciuto che aveva
approfittato
dei suoi sentimenti, calpestandolo senza pietà.
Gli
sembrava impossibile di essere stato trattato come uno straccio da
quello che
aveva considerato sempre il suo migliore amico, prima ancora che il
ragazzo di
cui si era innamorato.
Credo
che ancora oggi non si sia dato una spiegazione accettabile. –
-
La
colpa è solo mia e me ne assumo ogni responsabilità, ma non ho potuto
fare
altrimenti. – Replicò, Hiro.
Atono.
Sentiva
l’agitazione scuoterlo fin nel profondo per il resoconto che stava
ascoltando.
Per
anni si era interrogato sulle reazioni di Akira quando lo aveva
lasciato.
Sapeva
tutto di lui: carriera, vita sociale, frequentazioni, ingaggi, guadagni.
Internet
e i funclubs ufficiali e non, sorti intorno ai giocatori della squadra
di
basket erano fonti inesauribili di informazioni se sapevi come e dove
cercare.
Non
se ne era lasciata sfuggire una.
Aveva
vissuto di quell’ossigeno.
Ma non aveva mai potuto
sapere niente dei suoi
sentimenti.
Di
quel che pensava.
Tuttavia
non era così stupido da non capire che gli aveva fatto molto male.
Hana
aveva ragione: erano stati l’uno il miglior amico dell’altro per tutta
la loro
vita, prima che amanti.
E
solo lui sapeva come e quanto profondamente lo aveva ferito e ingannato
con il
suo comportamento.
E
sentirlo dalla voce di uno dei suoi amici non faceva che confermargli
tutti i
suoi timori.
Ma
aveva avuto forse scelta?
Un’alternativa
per evitare tutto quello a entrambi?
-
Non
sono riuscito a trovare un’altra soluzione! – Ribadì il concetto,
scorato e
stanco.
-
Non
sei riuscito…. – Interloquì d’un tratto Kimi, facendoglisi vicino. –
Scusami,
Hiro, non capisco. Una soluzione a cosa? –
Hiro
lo fissò qualche istante, scorgendo l’allerta che le sue parole avevano
suscitato nell’altro.
Poi
scosse la testa.
A
che serviva nascondere la verità ormai?
Qualunque
cosa avesse detto non avrebbe certo cambiato l’opinione pessima che si
erano
fatti di lui in quegli anni.
E
non gli poteva dar torto: erano diventati loro i migliori amici
dell’uomo che
amava, e sapeva come ci si sentiva quando si era impotenti ad aiutare
qualcuno
a cui si voleva bene come loro ne volevano ad Akira.
Che
sapessero dunque e si mettessero l’anima in pace.
Forse
un po’ di quiete sarebbe calata anche sul suo animo tormentato perché
era la
prima volta che ne poteva finalmente parlare con qualcuno che non fosse
se
stesso.
-
Aki
non voleva più partire per gli Stati Uniti perché voleva rimanere con
me. –
Buttò fuori tutto d’un fiato, senza guardare nessuno.
-
Non
glielo potevo permettere.
Era
l’occasione che stava aspettando da sempre.
Buttare
via il proprio talento per stare con me era una follia che qualcuno gli
doveva
impedire di commettere.
Perciò
l’ho allontanato.
Solo
così lui avrebbe rinunciato alla sua pazza convinzione che io fossi
preferibile
al suo futuro in NBA.
Eravamo
due ragazzini, cosa ne potevamo sapere di amore eterno e cazzate simili.
Tra
uomini, poi!
Le
uniche certezza erano le sue indiscusse doti di cestista e la proposta
che gli
era stata fatta di vederle realizzare ai massimi livelli.
Tutto
il resto erano solo sogni di bambini. –
Preso
dalle proprie elucubrazioni non si era reso conto del silenzio caduto
nella
stanza fin quando non ebbe bisogno di riprendere fiato, e si avvide che
le
persone intorno a lui lo fissavano increduli e sorpresi.
-
E’
stato lui a dirtelo? – Gli domandò Kaede, interpretando il pensiero di
tutti.
-
N..
non esattamente. –
-
Vuoi
dire che ti sei fatto tutte queste seghe mentali per qualcosa che non
ti ha
nemmeno detto, mandando all’aria il suo equilibrio, e che lui non ne sa
niente?
– Sibilò Hana inviperito.
-
Non
ti permettere di giudicarmi. Non hai idea di quel che ho dovuto fare
senza
poter chiedere aiuto a nessuno, e meno che mai a lui. –
-
Brutto
egoista, testa di cazzo, non ergerti a vittima di un sacrificio che
nessuno ti
ha chiesto.
Hai
deciso tutto da solo, mandando la sua vita a farsi fottere… E ti sei
consolato
anche troppo presto, facendoti sbattere da chissà quanti una volta che
te lo
sei tolto dai piedi…
Povero
Akira, mi domando se si sia mai reso conto di quanto il suo migliore
amico
facesse tanto la verginella scontrosa con lui, e poi amasse farsi
inculare
dagli altri uomini! –
A
quel dire, Hiro partì d’istinto, divorato da una vampata di odio puro,
e tentò
di gettarglisi addosso per afferrarlo e massacrarlo.
Hana,
già sul piede di guerra, si preparò a fronteggiarlo, pronto a
scaraventarlo sul
pavimento per schiacciarlo come un insetto.
Erano
giorni che gli prudevano le mani dalla voglia di farlo a pezzi.
Ma
lo scontro non avvenne mai.
Fulmineo
Kimi si parò davanti al primo, ricorrendo a tutta la sua forza per
farlo
indietreggiare, afferrandolo per le braccia e respingendolo, mentre
cercava di
assorbire la spinta omicida, che avviluppava il giovane, scaricarsi su
di lui.
Intanto
che Hisa e Kaede agguantavano Hana, uno sospingendolo indietro di
malagrazia, i
palmi schiacciati contro il suo petto, e l’altro afferrandolo per le
spalle da
dietro, nel disperato tentativo di contenerlo.
Sapevano
entrambi che quando si infuriava, la forza fisica di Hana era difficile
da
gestire, anche per loro due messi insieme.
Ed
erano giorni che il giovane cercava di imporsi un autocontrollo ferreo
solo
perché sollecitato da più parti a star calmo.
Negli
attimi che seguirono temettero di non riuscire a trattenerlo.
-
Hana,
no, ti prego!! – Gli intimò il compagno, imperioso.
-
Calmati,
testarossa, se Akira si accorge di quel che sta succedendo, sono guai!
– Tentò
di avvertirlo Hisashi, ringhiandogli a voce bassa direttamente in
faccia.
-
.…
Lui non dovrà mai saperlo! -
Soffiò
Hiroaki, sforzandosi anch’egli di controllare la voce.
-
Calmati,
per favore, sono sicuro che Hana non voleva dire quel che ha detto: è
solo
dispiaciuto! – Cercò di ammansirlo Kimi, senza lasciarlo andare.
Hiro
gli dedicò una fugace occhiata, distratto più dal suono supplice della
sua voce
che dal senso delle sue parole.
Non
capiva più niente.
Era
così furibondo per le volgarità che gli erano state rivolte.
Così
esausto di sentirsi continuamente i loro sguardi astiosi addosso.
La
sensazione costante, pervicace e velenosa di disagio che aveva dovuto
respirare
da che era entrato in quella casa.
Delle,
poche, parole di circostanza che gli erano state rivolte fino a quel
momento
solo per rispetto al loro amico.
E
poi il pensiero improvviso e crudo che Akira potesse davvero rientrare
da un
momento all’altro e sorprenderli in quelle condizioni, lo mandò in
panico.
Lontano
dalla finestra non sapeva più se fosse ancora fuori o meno.
Non
poteva rischiare per colpa di quel pazzo che non vedeva l’ora di
assalirlo,
forte delle sue patetiche certezze.
-
…
- Non importa quel che ne è stato della mia vita, non l’ho decisa io la
fine
che ho fatto… è successo e non me ne è importato più niente…
Ma
la sua è andata nella direzione che il destino aveva in serbo per lui,
ed è
questo che contava per me…
Quello
che è diventato in questi anni mi ripaga della mia che è finita quel
giorno…
Solo questo importa.
Con
me non sarebbe mai andato lontano.
E la
rinuncia al suo sogno lo avrebbe reso infelice prima o poi.
E
avrebbe distrutto anche noi.
Sarei stato soltanto un peso che lo avrebbe trattenuto a terra, mentre
aveva
tutto il diritto di volare…-
-
E
non ti sei chiesto quello che hai fatto tu alla sua di vita? -
La
voce di Hana, incrinata ora dal dolore, oltre che dall’ira, lo colpì
come uno
schiaffo in pieno volto.
Dietro
la “barriera” dei due compagni, lo vide fissarlo impietoso, mentre
tentava di
respirare a fondo per ricacciare indietro l’istinto di picchiarlo.
L’interrogativo
gli penetrò nel cuore già sanguinante, come una lama di ghiaccio, ma
non lo
fece indietreggiare di un passo.
Che
voleva saperne lui…
Nessuno
avrebbe mai potuto capire.
-
Mi sono fatto mille
domande... Fino a farmi
scoppiare il cervello.
Credi
che non fossi cosciente del male che gli avrei fatto allontanandolo da
me?
Facendogli credere di essermi preso gioco dei suoi sentimenti e di
essere il
mostro bastardo che lui non aveva mai immaginato esistesse in me?
… Ma non avevo scelta.
Nessuna.
E
l’ho capito fino in fondo la notte stessa in cui siamo stati insieme
per la
prima volta.
Quando
mi è stato chiaro che stava pensando di non partire affatto, sapendo
che non
avrei potuto seguirlo nel suo sogno.
Quando
mi ha detto che non se la sentiva di lasciarmi adesso che ci eravamo
finalmente
capiti e trovati.
Che
se fosse andato via, la lontananza avrebbe potuto rovinare tutto.
Perché
eravamo due ragazzi.
E
perché già la nostra relazione sarebbe stata difficile di suo visti i
pregiudizi e le incomprensioni sui gay.
Ho
provato a ignorare i suoi vaneggiamenti.
Era
a metà tra il sogno e la veglia, ma non stava delirando… Era anche
troppo
lucido…
E
questo mi ha spaventato, e fatto vedere le cose con quella chiarezza
che ancora
non ero riuscito a raggiungere.
Come
avrei potuto fargli capire che io non ero importante.
Che
solo lui contava e che non gli avrei permesso di sacrificare e
vanificare tutto
il suo talento per stare con me.
Io
non potevo seguirlo e questo era un fatto.
Non
era a me che avevano offerto una possibilità straordinaria di sfondare
nel
basket professionistico perché non ero la promessa che invece era
sempre stato
lui.
E
non avevo voti così alti per poter chiedere una borsa di studio in
qualche
università americana.
E
non avevo neppure le possibilità economiche per pensare di partire con
lui.
Come
avrei potuto mantenermi in un paese straniero?
La
mia era una famiglia di modesti operai: non c’erano le possibilità
economiche
per potermi aiutare.
Avrei
potuto cercare di convincerlo che non sarebbe stata la lontananza a
dividerci e
a indebolire il nostro amore.
Fargli
mille discorsi sdolcinati e melensi da femminuccia innamorata.
Ma
la verità rimane che lui non sarebbe partito senza di me, e,
conoscendolo,
sapevo che niente lo avrebbe convinto.
Perché
vedeva voi altri che andavate via insieme ai vostri compagni.
L’unica
soluzione che mi rimaneva era quella di distruggere quel che di bello
era
appena nato tra noi, e permettergli così di andare per la sua strada,
lasciandomi indietro. -
-
Non
hai neppure provato a parlargli…-
-
-
Sarebbe stato inutile: è sempre stato categorico nelle sue decisioni…-
-
-
Tu eri l’unico che riusciva a farlo ragionare… A te dava ascolto,
maledizione!!... Eri il suo miglior amico prima che l’uomo della sua
vita.
Invece
di arrogarti il diritto di prendere da solo tutte le decisioni, avresti
potuto
farti ascoltare e…-
-
-
Ma che vuoi saperne tu? - Hiro glielo gridò in faccia a denti stretti.
Non
ne poteva più.
Si
sentiva stanco, sfiancato dallo stillicidio di accuse e sguardi di
condanna che
gli piovevano da tutte le parti in quella stanza, circondato da persone
che non
avrebbero potuto capire la sua follia e la sua disperazione.
Hana
non demorse.
Da
un po’ sentiva la mano di Kaede che tentava di riportarlo verso di sé
perché si
calmasse, ma l’aveva ignorata, accecato dall’indignazione di quel
ragionamento
folle e incongruente.
Avrebbe
voluto mettere fine alle chiacchiere.
Afferrare
quell’insulso essere delirante e sbatterlo contro la parete perché
finalmente
provasse anche lui un decimo del dolore che aveva inflitto al suo amico
in
quegli anni.
Forse
così l’adrenalina che lo agitava si sarebbe canalizzata e concentrata
su
qualcosa, magari sul suo sangue che sporcava il muro.
Se
solo non avessero provato a fermarlo ancora.
-
Hana,
ti prego, basta adesso!!- La voce bassa di Kaede gli sfiorò l’orecchio,
profonda e dolce.
Ruotò
appena la testa per vedere il compagno accanto a sé.
Colse
il suo sguardo apprensivo e fermo al tempo stesso che cercava di
placarlo.
-
Ti
rendi conto di cos’ha fatto questo pazzo? - Mormorò incredulo. - Ha
deciso
della vita di Akira senza nemmeno interpellarlo… Lo ha gettato via
senza
pensare che così lo avrebbe fatto impazzire. -
Si
girò di nuovo verso Hiro, che sotto il suo sguardo accusatore, fece
inconsapevolmente
un altro passo indietro, terrorizzato di essere agguantato da un
momento
all’altro.
Per
quanto tempo ancora i suoi amici sarebbero stati in grado di tenerlo a
freno
prima che fosse riuscito ad afferrarlo e fargli male?
-
Tu
chiedi a noi che cosa vogliamo saperne? - Riattaccò Hana. - Tu,
piccolo,
stronzo, stupido essere inutile? Tu!!... Cosa vuoi saperne TU di quello
che hai
fatto all’uomo che dici di amare? ... Si, certo, si è realizzato… E’
diventato
quello che tutti si aspettavano diventasse… Ma a che prezzo? … A che
cazzo di
prezzo, te lo sei domandato? -
-
-
Amore!!-
-
No,
Kaede, no!!! Lo deve sapere, questa puttana, che ne ha fatto… qualcuno
deve pur
dirglielo…-
Kaede
gli fece segno di no con la testa, supplicandolo di tacere.
Avrebbe
voluto accontentarlo: gli faceva male vederlo così teso per causa sua.
Ma
ora che il vaso era scoperto tanto valeva buttar fuori tutto e
togliersi quel
macigno dal cuore che aveva oppresso tutti in quegli anni bui per il
loro amico
e anche per se stessi.
Non
osava immaginare la fine che avrebbe fatto Akira se non fossero stati
al suo
fianco.
Schiantato
nell’anima, aveva dapprima cercato di farsi assorbire completamente
dalla sua
nuova vita, buttandosi nel gioco come un pazzo.
Diventando
presto un titolare.
Prima
in una squadra, poi in un’altra.
Ma
a un certo punto non gli era più bastato.
Aveva
cominciato a passare le sue notti di locale in locale, da un partner
all’altro,
senza distinzione di sesso o rango sociale.
Tra
l’alcool e le droghe che circolavano in quei posti maledetti.
Riducendo
la sua vita a due punti fissi, il basket e la vita notturna, la seconda
che
annullava il primo inesorabilmente.
Rischiando
di giocarsi ogni cosa e la propria stessa esistenza.
Quanto
ci avevano messo a tirarlo per i capelli fuori da quel vortice mortale?
Tutti
insieme.
Senza
lasciarlo mai.
Nemmeno
quando lui gli urlava di levarsi dai piedi.
Che
li odiava.
Che
non aveva bisogno di loro.
Quante
notti in bianco.
Quante
litigate furiose.
Quanti
pugni, urla, lotte, porte sfondate.
Quante
parole, minacce, promesse.
Quante
corse da una parte all’altra della città per trovarlo.
Quante
docce fredde, inflitte a forza, per neutralizzare i cocktail micidiali
di cui
si imbottiva per non pensare.
Per
scuoterlo, riportarlo a galla.
Fargli
riprendere coscienza di sé e di quello che si stava facendo per
qualcosa che
non valeva più la pena.
Infine
c’era stata la svolta.
Agognata.
Sperata.
Ma
era stato un bene o un male?
Vederlo
riafferrare le redini della propria esistenza e trasformarsi in
qualcosa che
non era quasi più lui.
Hana
e gli altri se lo erano domandati infinite volte.
Senza
sapere se maledire quella trasformazione.
O
gioirne.
Tenendolo
costantemente d’occhio, ancora adesso, come un sorvegliato speciale,
terrorizzati che avesse potuto di nuovo regredire e sfuggire al
controllo.
-
Lo
sai perché in campo lo chiamano La Furia Bianca? ... – Domandò alla
causa di
tutti i loro problemi, sospirando amareggiato.
-
…
Perché quando mette piede sul parquet non è più un essere umano, ma una
macchina
che travolge tutto e tutti senza sentimenti.
E’
come se qualcosa scattasse in lui che gli fa odiare l’unica cosa che ha
invece
sempre amato, e che lo tiene ancorato a questa terra: il basket.
Diventa
inarrestabile, come se giocando trovasse l’unica valvola di sfogo alla
rabbia e
al dolore che si porta dentro da 6 anni.
Non
lo ferma nessuno.
E non vede e non sente.
Semplicemente non c’è.
E
fuori non va meglio.
E
sai perché non c’è?
Perché
non ha più né cuore né anima.
E
glieli hai strappati TU facendogli credere di averlo usato e buttato
via quella
maledetta notte!
…
Eri TU quello che lui desiderava.
Non
la passione per il basket, ma il tuo amore era tutto quel che avrebbe
voluto.
…
Che se ne sarebbe fatto del successo senza poterlo condividere con la
persona
che amava?
Te
lo sei mai chiesto? -
-
Non
ho avuto scelta!
Se
non lo avessi fatto, lui non sarebbe andato via. - L’ultima, flebile
protesta
venne pronunciata dalle labbra esangui del ragazzo in un sussurro
esausto.
Non
ne poteva più.
Che
lo lasciassero andare o lo uccidessero, non gli importava niente.
Ma
che per carità, mettessero fine a tutto quello: non ce la faceva più!!!
-
Mi
dispiace avervi sconvolto così tanto l’esistenza.
Io
non volevo venirci qui…
Non
lo so perché mi ha voluto con sé.
Ero
deciso a buttarmi giù dal ponte di **** appena fossi uscito dal suo
albergo, la
prima sera… volevo morire, farla finita una volta per tutte.
Ma
non mi ha lasciato andare, dicendomi che sarei dovuto rimanere con lui
per tre
settimane.
Non
ho capito più niente! -
-
Tu
sei…-
-
Hiro ha
ragione. -
Tresor
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo
5
-
Hiro ha
ragione. -
Le
parole caddero in mezzo a loro all’improvviso, cogliendoli di sorpresa.
Tutto
e cinque si volsero verso la direzione da cui era arrivata la voce.
Akira,
rimasto tutto il tempo nel corridoio, venne avanti a passo lento, il
viso
tirato, gli occhi blu scuriti dalla sofferenza che non si curò di
nascondere.
A
pochi centimetri da sé, Hiro, venne investito dal suo profumo così
familiare e
in quell’istante credette che sarebbe caduto lì a terra morto.
La
testa ebbe una vertigine e i polmoni smisero di pompare aria.
Il
cuore gli si contrasse dolorosamente e gli inviò una fitta lancinante
al petto.
Voglio
morire…
Vi
prego,
uccidetemi, fatemi morire!!
Ma
nessuno esaudì la sua preghiera.
Nessun
dio che lo stava ad ascoltare.
Non
c’era mai stato!
Akira
lo oltrepassò senza nemmeno degnarlo di un’occhiata, e raggiunse Hana
in mezzo
alla stanza, che se ne stava immobile, i pugni serrati lungo i fianchi,
scosso
dal litigio e ammutolito dalla sua apparizione inaspettata.
Si
erano così lasciati coinvolgere dall’incalzare della discussione,
d’aver
dimenticato che lo stavano tenendo d’occhio dalla finestra proprio per
non
farsi sorprendere.
E
non si erano accorti di quando fosse rientrato in casa.
Sembrava
un assurdo gioco del destino che lui dovesse comparire sempre nei
momenti
sbagliati.
Akira
scrollò il capo con un sorriso amaro che gli increspò la bella bocca,
pieno di
affetto per quella testa rossa che lo aveva sempre difeso a spada
tratta da
tutto e da tutti.
Sollevò
una mano, gliela fece scivolare dietro la nuca e con un gesto lento, lo
spinse
contro di sé, stringendolo forte.
Sentì
tutta la tensione del suo corpo spezzettarsi e liberare i muscoli
contratti
fino a quel momento, Hana che lo assecondava arrendevole e gli si
abbandonava
contro, le braccia morbide che gli cingevano la vita, il respiro caldo
che
usciva dalle sue labbra contro la sua spalla, facendo defluire la
rabbia via da
sé.
-
Grazie,
amico mio! - Mormorò nei suoi capelli, mentre i suoi occhi incontravano
quelli
di Kaede oltre la sua testa, nello stesso muto ringraziamento.
-
Aki…-
-
Ssttt,
va tutto bene, non preoccuparti più! -
Stettero
così per qualche istante nel silenzio assoluto caduto intorno a loro.
Poi
lo lasciò andare, sospingendolo delicatamente verso il marito, che
subito lo
accolse nel proprio abbraccio, pronto a proteggerlo anche da se stesso.
Fece
loro un sorriso, lontano fantasma di quelli suoi sereni, infine si girò
per
incontrare la propria vittima.
Hiro
smise del tutto di pensare, inchiodato dal suo sguardo che non seppe
decifrare.
Odio.
Pena.
Rancore.
Indifferenza.
Cosa?
Non
sapeva cosa stesse passando in quelle iridi che amava e sognava, e che
lo
perseguitavano a ogni ora della sua esistenza da sei anni.
-
Hiro
ha ragione. - Lo sentì ripetere, la voce bassa, soffusa da una vaga
inflessione
ironica. - Rinunciare a partire per l’America era l’intenzione che
stavo
maturando. -
Un
singhiozzo proruppe dalle labbra del ragazzo davanti a lui, immobile e
tremante.
-
Non
serve più a niente parlarne ormai! - Rispose Hisashi, scrollando la
testa
deluso.
Kimi
gli si strinse contro, travolto dalla sua tristezza, e lui lo abbracciò.
-
E’
vero, non serve più! - Lo assecondò Akira con un mezzo sorriso, senza
smettere
di fissare il proprio obiettivo, paralizzato sul pavimento. -… Ma non
voglio
che continuiate a massacrare Hiro per quel che ha fatto, perché non gli
ho dato
alternative. -
E
così dicendo, piantò gli occhi in quelli del giovane senza più
concedergli
scampo.
Uccidimi,
ma
non guardarmi.
Non
guardarmi.
Uccidimi.
-
Smetti
di tremare, amore, nessuno qui ti farà del male. - Gli disse dolce.
Hiro
si sentì venir meno.
Lo
conosceva quel tono affettuoso.
Era
il suo.
Quello
che rivolgeva solo a lui.
A
lui soltanto.
Non
chiamarmi
amore.
Non
guardarmi.
Ti
prego.
Ti
prego!!
-Non
ti ho dato scelta, e tu hai fatto l’unica cosa che pensavi fosse giusta
per me…
Sei sempre stato tu quello con buonsenso, non io.
Io
ero quello passionale, istintivo, romantico.
Avrei
rinunciato a ogni cosa per te.
Che
mi importava del resto del mondo se non c’eri tu con me a condividerlo?
Avrei
dovuto sapere che tu non me lo avresti permesso: ti conoscevo bene.
E
tu conoscevi bene me.
Ed
eri quello di noi due con la testa sulle spalle.
Quello
concreto, che sapeva sempre qual era la cosa giusta da fare. -
-
Aki…-
-
Perdona
i miei amici per questa aggressione.
Mi
sono stati vicini in questi anni sempre pronti anche quando ho cercato
di
rompere i ponti con loro.
E’
naturale che reagiscano così nei tuoi confronti: hanno visto la
macchina che
sono diventato, e non hanno mai approvato, perché il contrasto con
quello che
conoscevano era troppo stridente.
Loro
non sapevano che lo hai fatto solo per amore.
Ma
adesso lo sanno.
E
io lo so… adesso.
E
non ti odio. -
-
Dovresti!
- Sussurrò Hiro, più una disperata supplica che un’affermazione.
Le
lacrime gli scendevano libere lungo le guance, la voce spezzata, il
tremore che
non accennava a svanire neppure ora.
Distrutto.
Questo
sentiva di essere.
E
non avrebbe mai immaginato di provare una sensazione tanto devastante,
convinto
com’era di essere morto da tanto di quel tempo ormai.
Che
lui gli stesse dicendo di non odiarlo, che lo stesse giustificando e
difendendo
agli occhi dei suoi amici non alleggeriva affatto il suo cuore,
schiacciato da
un macigno.
Al
contrario acuiva i suoi sensi di colpa.
Affilava
ancora di più le unghie che gli graffiavano il cuore, sfilacciandolo
sempre di
più in brandelli dolorosi e sanguinanti.
Non
lo odiava.
E
gli credeva.
Pensò.
Adesso,
come sempre in passato, gli era sufficiente perdersi in quelle iridi
blu
cobalto per comprendere che era sincero.
In
quel suo modo disarmante.
Onesto.
Semplice.
Limpido.
Soltanto
annegando dentro di lui.
E
soffocò.
Ancora
di più se fosse stato possibile.
Perché
non era giusto.
Che
lo difendesse ancora.
Che
lo proteggesse anche da sé.
Ancora.
Dal
desiderio feroce e necessario di sentirsi condannato, punito per quel
che gli
aveva fatto.
Da
tutti, ma soprattutto da lui.
Per
quel che aveva provocato alla propria vita e che tanto disprezzo
suscitava.
Perché
non si comportava come i suoi amici?
Che
se avessero potuto, lo avrebbero picchiato.
Che
se lui non ci fosse stato, gli sarebbero saltati addosso e lo avrebbero
colpito
come era giusto che fosse.
Dove
teneva imbrigliata la Furia bianca che tanto terrorizzava chi
incrociava la sua
strada.
Perché
non si manifestava anche con lui, travolgendolo, annullandolo,
cancellandolo
per sempre e ponendo fine a ogni sofferenza?
Perché
non la lasciava prevalere?
Non
la liberava e gliela scagliava contro per annientarlo una volta e per
sempre?
Perché
doveva guardarlo a quel modo?
Come
se il tempo non fosse passato.
Come
se quello fosse il giorno dopo la loro unica notte d’amore e nulla
fosse
successo.
Perché
tutto andava bene.
Niente
aveva dilaniato e disfatto in mille pezzi il cuore e l’anima e la vita
stessa.
Niente
aveva fermato il mondo.
Il
loro mondo.
E
c’era solo amore in quello sguardo.
Un
amore che conosceva bene.
Di
cui si era nutrito in tutti quegli anni, idealizzandolo,
amplificandolo, trasformandolo
in una magia chiusa nella sua mente.
Per
tirare avanti, non aveva mai saputo nemmeno lui per quale motivo oramai.
Le
ginocchia gli si spezzarono di colpo senza che si rendesse conto del
momento in
cui era accaduto, e si ritrovò a crollare al suolo, piegato in due.
Cercò
d’istinto di puntare le mani sulle gambe.
Le
dita scivolarono senza energie sulla superficie dei jeans, e urtarono
il
pavimento, stridendo per l’urto, ma per fortuna si fermarono,
impedendogli di
cadere lungo disteso.
Gli
parve ci fosse del movimento intorno a lui, ma non riuscì a capire né a
vedere
niente, tanto le lacrime gli offuscavano la vista.
Il
capo curvato sotto il peso della propria angoscia.
Eppure
qualcuno gli stava sfiorando un braccio, serrando la stretta intorno
per
impedirgli di andare più giù.
Come
realizzò quel contatto, la propria mente gli suggerì impietosa chi ne
fosse
l’autore, spingendo a forza e senza preavviso in ogni cellula di sé il
profumo
e il calore che conosceva.
Si
divincolò furiosamente quasi fosse stato scottato.
Indietreggiò
colmo di spavento e orrore, senza guardare dove stesse andando.
Sbattendo
la schiena contro la parete dietro di sé, che lo fermò e gli precluse
definitivamente ogni via di fuga.
Allora
si lasciò andare, le orecchie assordate dal battito frenetico del
proprio
cuore.
Dal
sangue che gli fluiva in ogni recesso, rapido come un fiume sul punto
di
spezzare gli argini e straripare.
Da
un grido che si levò atroce, sordo, violento.
Dalla
sua gola.
Raschiandola.
Se
ne rese conto solo vagamente dal dolore che gli stava graffiando le
corde
vocali.
Si
portò le mani alla bocca per tacitarlo.
Compresse
le dita, artigliandosi la pelle del viso.
Nascondersi.
Sparire.
Stava
cercando di farlo con quel gesto inconsulto.
Se
ci fosse riuscito avrebbe potuto finalmente cancellarsi.
Altre
mani, quelle di lui, lo raggiunsero e gli afferrarono i polsi per
tirarle via.
Si
oppose di riflesso.
Una
forza superiore lo contrastò, annullando la propria, e non poté più
niente per
impedire che gli venisse liberato il volto dalla morsa in cui si era
avvinghiato.
Tra
le lacrime, scorse Akira inginocchiato davanti a lui, che lo sovrastava
e
tentava di dirgli qualcosa.
Non
riuscì a sentirlo.
Vedeva
soltanto le sue labbra muoversi, ma era sordo.
La
sua espressione preoccupata.
Non
poté far altro che lasciare che gli distendesse i palmi contratti e li
portasse
lontano.
Vedere
il suo petto avvicinarglisi mentre se lo tirava contro e lo circondava
con le
proprie braccia in una stretta forte che lo ingoiò.
La
guancia, bagnata dal pianto, posò contro il collo di Akira, freddo
contro
calore intossicante.
Il
suo respiro si infranse di nuovo.
E
di nuovo un urlo angosciato scivolò fuori violento e prolungato.
Ma
stavolta non si ritrasse.
Non
si divincolò per sfuggire.
Non
voleva più farlo.
Non
c’era una sola parte del suo corpo che la mente riuscisse a comandare
di fare
alcunché.
Percepiva
soltanto la propria sofferenza che lo sopraffaceva.
Lo
sommergeva.
Lo
ingoiava.
E
il calore dell’uomo che lo stringeva a sé.
Che
lo avvolgeva in una calda coperta protettiva, allontanando il gelo
paralizzante
che sempre sentiva dentro.
Che
gli faceva pensare di essere finalmente tornato a casa.
Al
sicuro.
Lontano
dal dolore e dalla morte.
Lontano
dal pericolo e dal disgusto di se stesso.
-
Basta,
amore mio, ti prego, basta! –
Tresor
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo
6
Le
parole gli furono sussurrate direttamente nell’orecchio, lenitive e
pietose.
Dolci
e meravigliose, come le aveva sempre soltanto sognate nelle notti
terribili in
cui mani e corpi sconosciuti lo avevano avuto e violato.
Salvifiche
e soffuse come le aveva costruite e curate nella propria mente, sempre
protesa
nello sforzo di sfuggire alla propria realtà.
Rifletté,
nella nebbia che gli intorbidiva la percezione di sé, che forse
quell’istante
era davvero un parto della propria testa in fuga.
Anzi
senza forse.
Doveva
essere sicuramente così.
Ancora
una volta, l’ennesima, i suoi pensieri, a un certo punto, non seppe
stabilire
in quale momento preciso, avevano ripreso la fuga dall’orrore che lo
circondava, e lo stavano trascinando via lontano in quel mondo, in
quell’isola
di salvezza, che si era costruito in quegli anni terribili.
Per
cercare un posto dove rifugiarsi.
Dove
nessuno lo avrebbe potuto raggiungere.
Toccare.
Sfiorare.
In
uno spicchio di sogno in cui c’erano soltanto lui e il proprio amore e
niente
altro.
Si,
era certamente così.
Perciò
si lasciò andare, percependo appena i suoi muscoli tesi fino a
quell’istante,
rilassarsi.
Akira
lo colse altrettanto nettamente.
Lo
aveva tenuto chiuso nel proprio abbraccio, impedendogli di ribellarsi,
frenando
con tutte le proprie forze le spinte ad allontanarsi di quel corpo nei
primi
attimi in cui lo aveva stretto.
Ed
ora lo sentì abbandonarsi.
Rilasciare
ogni fibra lentamente, ma inesorabilmente.
Non
lo sentiva più tentare di sfuggirgli.
Eppure
non allentò le proprie braccia.
Nemmeno
quando il respiro convulso di Hiro cominciò a tornare più regolare
contro la
propria pelle.
Sentì
che doveva rimanere così fin quando non fosse stato certo che lui
avrebbe
assorbito a pieno la consapevolezza che era lì e non lo avrebbe
lasciato da
solo.
E
non era ancora il momento.
Lo
avrebbe riconosciuto quando sarebbe giunto.
Tra
qualche attimo ancora.
Ma
lo avrebbe percepito.
Perché
lo conosceva come nessun altro.
Anche
dopo sei anni passati l’uno separato dall’altro.
Quello
che aveva tra le braccia era sempre il suo Hiro.
Con
i suoi strappi.
Le
sue ferite.
I
graffi che gli avevano aperto l’anima.
Il
sangue raggrumato nel suo cuore.
Ma
era lui.
Sempre.
E
sapeva riconoscere d’istinto, a pelle, ogni reazione, tremore, sussulto
del suo
corpo quando lo aveva così vicino a sé.
Ora
che finalmente se lo teneva stretto addosso.
Non
gli importava di ciò che sarebbe accaduto dopo.
Non
voleva pensarci e non gli interessava.
Qualcuno,
un dio pietoso, gli stava offrendo la possibilità di riportare indietro
il
tempo.
Miracolosamente.
Inaspettatamente.
Niente
e nessuno gli avrebbe impedito di sfruttarla quell’opportunità.
Niente.
Non
la sua sofferenza, né quella di Hiro.
Non
quei sei anni in cui l’uno aveva ignorato la vita dell’altro.
Le
trasformazioni, i mutamenti, inevitabili.
Non
le loro vite divise da strade parallele.
Non
il presunto rancore o il risentimento.
Niente.
Niente.
E
nessuno.
Mai…
…
più!
Quando
ebbe coscienza che la tempesta si stesse acquietando, allentò piano le
braccia
e cercò il viso del ragazzo, sempre premuto contro il suo collo.
Intravide
appena i suoi occhi chiusi, gonfi e arrossati dal pianto, le ciglia
lunghe e
nere imperlate di gocce trattenute, le sue labbra dischiuse, anch’esse
gonfie,
affamate d’aria, che permettevano al suo respiro caldo di raggiungerlo,
intrappolate in un angolo dai denti che le serravano ancora
convulsamente.
Le
braccia raccolte contro il suo petto, i pugni serrati che artigliavano
la sua
camicia, stropicciandola.
Il
corpo tutto raggomitolato come se avesse voluto inglobarsi in sé e
sparire.
Liberò
un braccio e glielo passò sotto le gambe, poi si diede una spinta e si
mise in
piedi, sollevandolo con sé.
Hiro
non si accorse nemmeno e non si mosse, lontano chissà dove in se stesso.
Non
guardò nessuno degli amici che erano rimasti ghiacciati spettatori
della scena.
Lentamente
si volse e uscì nel corridoio.
Salì
le scale per raggiungere il piano superiore ed entrò nella propria
camera.
Si
avvicinò al letto e si chinò per distendervi il ragazzo che aveva tra
le
braccia.
Gli
accompagnò dolcemente la testa sui cuscini e gli scostò i capelli dalla
fronte
madida, rimanendo a guardarlo un istante, quasi a volersi imprimere
nella mente
tutto il dolore fondo che ne trasfigurava i lineamenti delicati.
Poi
il suo sguardo venne catturato dal fruscio delle tende agitate dalla
brezza
della finestra lasciata aperta.
Vi
filtrava tutta la luce abbagliante del pomeriggio di quel giorno di
primavera.
Se
ne sentì quasi ferito.
Troppa
luce.
Andò
ad accostare le persiane esterne, creando una piacevole e più discreta
penombra
che si soffuse nell’ampia stanza.
Un
gioco di ombre danzò sul letto e sul corpo ancora raggomitolato del
giovane che
vi era disteso.
Tornò
da lui in silenzio.
Hiro
non si era mosso e sembrava quasi non respirasse, congelato nella sua
posizione.
Gli
si sedette accanto, lieve gli allungò le gambe, sciogliendole,
sentendole
arrendevoli, prive di alcuna opposizione.
Lo
liberò dalle Nike, lasciandole cadere ai piedi del letto.
Poi
si piegò su di lui, mettendo le mani ai lati del suo corpo,
avvolgendolo ma
senza comprimerlo con la propria presenza.
Percepì
limpido un sussulto provenire da lui, come si fosse accorto della sua
vicinanza.
Si
prese qualche istante in attesa di una sua reazione.
Che
però non venne.
Deglutì
una bolla d’aria che gli si era formata in gola, il cuore
improvvisamente in
tumulto, l’inquietudine che tornava su prepotente.
Ma
stavolta fu una sensazione di piacevole sconvolgimento dovuto alla
percezione
chiara, netta, vibrante del suo odore che fluiva dalla sua pelle
accaldata
dall’agitazione di quei momenti concitati.
Proprio
non lo aveva mai dimenticato.
Era
qualcosa radicato dentro di sé, impresso nella memoria di ogni sua
cellula, e
che non era mai stato cancellato da nessun altro profumo.
Avrebbe
voluto scoprirla quella pelle, toccarla finalmente, di nuovo, come non
si era
permesso mai di fare nelle due settimane in cui lo aveva affittato
dalla casa
di appuntamento.
Sfiorarne
la sericità, la morbidezza e il calore.
Ma
non era il momento quello.
Ne
era profondamente consapevole, benché i suoi sensi ne reclamassero la
proprietà
anche in quel frangente.
Importuni.
Insolenti.
Concentrò
la propria attenzione sul volto del ragazzo.
Non
si era addormentato.
Ne
era sicuro.
Per
quanto stordito e spossato dalla crisi di nervi, era vigile e teso.
Ancora.
Come
se si aspettasse, malgrado tutto, di essere aggredito, anche se non
fisicamente.
Lento
gli scivolò su un lato, distendendosi accanto a lui, ma senza toccarlo.
Poggiò
il capo sullo stesso cuscino, gli stessi centimetri di distanza
lasciati dal
resto del corpo.
Lontano,
ma non troppo, da non percepire su di sé il suo respiro.
E
rimase così, a guardarlo, mentre rimaneva chiuso, ermetico, ostinato,
nel suo
mondo, in fuga dalla realtà intorno a sé.
E
attese.
Mai
come negli attimi che seguirono Hiro percepì così vicina la sua
presenza.
Anche
senza aprire gli occhi lo sentiva che era lì.
Non
era solo il leggero reclinare del materasso quando si era sdraiato al
suo
fianco.
Ma
la sensazione prepotente, quasi invadente, del calore che emanava il
suo corpo,
e che lo avvolgeva tutto dalla testa ai piedi.
Come
se invece di rimanergli lontano, lo stesse abbracciando, tenendolo
ancora
contro di sé.
Perché
non si allontanava e lo lasciava andare?
In
qualche modo avrebbe trovato la forza di alzarsi e andarsene via.
Non
importava dove.
Non
importava se avrebbe dovuto trascinarsi, con la mente ancora sconvolta
e ogni
fibra di se stesso in subbuglio.
Cosa
lo tratteneva ancora a fare lì dopo quel che era accaduto?
Avrebbe
dovuto buttarlo fuori casa e non prenderlo in braccio per portarlo con
sé di
sopra.
Invece
non solo non lo aveva cacciato via, ma lo aveva raccolto da terra come
un
bambino che si era perso.
Aveva
sentito i suoi movimenti sicuri mentre saliva le scale in un silenzio
irreale.
Mentre
apriva la porta con un piede ed entrava.
Mentre
lo adagiava con cura sulle lenzuola.
Lo
sistemava perché stesse comodo.
Usandogli
attenzione e gentilezza che non meritava affatto.
Che
voleva fare?
Non
lo capiva.
Ed
era troppo stanco per analizzare quella situazione irragionevole che
non
avrebbe mai dovuto verificarsi.
Mosse
la bocca per prendere fiato, rendendosi conto che un lembo del labbro
inferiore
si era come incollato ai denti, forse mentre se le tormentava quando
stava
piangendo.
Vi
passò sopra la lingua per inumidirle.
Un
lieve bruciore lo colse lì dove la pelle era stata lesionata dal morso
che si
era dato inavvertitamente.
Trasalì.
E
così non si accorse di due occhi blu che avevano seguito rapiti i suoi
movimenti, senza perdersi un solo fotogramma.
-
Lasciami
andare! –
Era
suo il rantolo bisbigliato che aveva udito?
Non
riconobbe la propria voce.
Era
stato un graffio su un vetro.
-
Mai
più. –
Fu
la risposta.
Sussurrata
appena.
Non
detta a voce alta.
Soltanto
mormorata a fior di labbra.
Ma
lapidaria.
Inconfutabile.
Incontestabile.
Un’affermazione
senza incertezze.
Un
comando.
Privo
di inflessioni.
Di
equivoci.
Fu
questo che lo costrinse a schiudere finalmente gli occhi e a guardare
davanti a
sé, infrangendosi ineluttabilmente contro il proprio interlocutore.
Così
vicino.
Così
prepotentemente vicino.
Cercò
di raccogliere un profondo respiro mentre l’aria gli si negava in gola.
E
non riuscì.
Glielo
impedirono a forza quelle iridi blu che lo fissavano dritti dentro
l’anima,
oltrepassando ogni sua barriera.
Saltando
a piè pari qualunque muro avesse voluto alzare per impedirgli di
entrargli fin
nel profondo di se stesso.
Che
voleva dire con quelle due parole?
Se
lo chiese angosciato.
Akira
gli lesse l’inquietudine sul volto e gli sorrise.
Uno
di quei sorrisi che non faceva più nemmeno lui ricordava da quanto
tempo.
Ma
questo invece di trasmettere tranquillità, fece agitare ancor più Hiro,
che non
era più abituato a vederne e per questo lo spaventò.
-
Lasciami
andare, che te ne fai di me? –
-
Perché
vuoi andartene? Per buttarti dal primo ponte che trovi sulla strada? –
Hiro
sussultò violentemente.
-
E
se anche fosse? A chi importa? Avrei dovuto farlo già molto tempo fa. –
-
A
me importa. Se tu lo avessi fatto una settimana fa, avresti messo fine
anche
alla mia vita. –
-
Non
dirlo, sei pazzo!? –
-
Non più di te, amore mio! –
-
Non
chiamarmi così, fai di me quello che vuoi, ma non chiamarmi così, non
farlo, ti
prego, non farlo! –
-
Perché
no? E’ l’unico nome che conosco per chiamarti! -
Hiro
lo fissò sgomento: non capiva se lo stesse prendendo in giro o dicesse
sul
serio.
C’era
solo quell’espressione… dolce, disegnata sul suo viso bellissimo.
Ma
non poteva dire davvero.
Non
poteva pensare veramente quel che stava dicendo.
Non
di lui.
Sarebbe
stato troppo bello.
Un
sogno che diventava realtà nel mare di inganni e bugie e illusioni in
cui era
invischiato e dal quale non riusciva a uscire da sei anni.
-
Nessuno
può… nessuno… -
-
No,
nessuno. – Lo assecondò Akira, l’espressione di colpo incupita da un
pensiero
sgradevole. – Nessuno a parte me, non ne ha diritto nessuno! –
Il
ragazzo rotolò improvvisamente sul fianco, dall’altro lato del letto,
deciso ad
alzarsi e a scappare via.
Da
quella stanza.
Da
quella conversazione surreale e senza senso.
Da
lui… troppo vicino.
Ma
non fece i conti con il proprio corpo, intorpidito dalla crisi di nervi
che lo
aveva lasciato senza forze.
Se
ne rese conto nel momento in cui cercò di mettere i piedi per terra: le
gambe
lo tradirono.
E
lo ingannò l’imprevista sensazione di disorientamento che lo colse,
facendolo
rovinare oltre il margine del materasso.
Attese
l’impatto con il parquet, incapace di reagire per ripararsi in qualche
modo.
Ma
questo non venne.
Akira
lo aveva intercettato, balzando come un fulmine al di là del bordo,
afferrandolo prima che si spiaccicasse a terra.
Così
Hiro si ritrovò letteralmente spalmato su di lui, di nuovo intrappolato
tra le
sue braccia, a pochi centimetri dal pavimento, ma salvo.
-
Tutto
ok? –
-
S…
si! - Si sorprese a
balbettare confuso a
un soffio dalla sua bocca sorridente.
-
Troppo
vicino.
Gli
soffiò velenosa una vocina isterica nella testa.
Troppo!
Si
scostò, divincolandosi dalla sua stretta, e scivolò via da lui.
Akira
non lo trattenne.
Sapeva
che non sarebbe stato facile aver ragione di lui.
Troppo
sconvolto per sperare di farlo calmare.
Il
suo piccolo Hiro non aveva mai avuto tempi di ripresa rapidi.
Aveva
i suoi ritmi e bisognava rispettarli in certi momenti se si voleva
condurlo a
un minimo di raziocinio.
E
lui di tempo ne aveva.
Gli
avrebbe dato tutto quello di cui aveva bisogno.
Non
c’era fretta.
Paziente
si rimise in piedi.
Aggirò
il letto e per qualche attimo scomparve dalla visuale di Hiro, che non
aveva
sollevato la testa per capire dove fosse andato.
Se
lo ritrovò vicino improvvisamente, piegato sulle ginocchia, che gli
porgeva un
bicchiere d’acqua.
-
Tieni.
–
Lo
accettò dopo un momento di esitazione e lo portò alle labbra,
accorgendosi,
mentre qualche goccia scivolava giù, cauta, di avere la bocca secca e
la gola
riarsa e dolorante.
D’istinto
lo trangugiò tutto in una sola volta, assetato, incapace di tenere
sotto
controllo il bisogno di bere.
Ma
l’acqua gli andò di traverso, facendolo strozzare e tossire.
-
Hey,
attento, così t’affoghi!! – Akira scoppiò a ridere, mentre gli toglieva
il
bicchiere dalle mani e gli assestava dei colpetti nella schiena per
farlo
riprendere.
-
Cazzo!!
– Imprecò scombussolato e pieno di rabbia per la propria stupidità.
-
E
passata, tranquillo… Vuoi ancora un po’ d’acqua? –
-
No!
– Gracchiò lui ancora mezzo soffocato.
-
Hai
un piccolo taglio qui! – Gli fece notare Akira, sfiorandogli le labbra
con un
dito.
Mentre
si chiedeva perché improvvisamente la sua voce si era fatta più bassa,
sensuale
quasi, Hiro fece un balzo indietro, sfuggendo al suo contatto.
Aki
rimase per un momento con la mano a mezz’aria.
Finse
di ignorare la sua reazione e per tutta risposta si sedette a terra,
rimanendo
poco distante da lui per non invadere il suo spazio.
Lo
vide accartocciarsi su se stesso, portarsi le ginocchia al petto,
stringervi
intorno le braccia e nascondervi il volto, ancora come se avesse voluto
sparire
in se stesso.
Non
gli piaceva quel gesto, perché gli sembrava che si allontanasse e
impedisse a
chiunque di raggiungerlo.
Eppure
non disse nulla.
E
aspettò.
Senza
distogliere gli occhi da lui.
Tresor
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo
7
-
Perché
mi hai prenotato all’agenzia per queste settimane? –
La
domanda gli giunse così inaspettata, dopo parecchi minuti che erano
rimasti in
totale silenzio, che sussultò al suono della voce ancora rauca del
ragazzo che
cercava di farsi strada tra le braccia serrate.
-
Tre
settimane… - Continuò Hiro.
Sembrava…
esausto.
-
… camere separate… qualche parola, se necessaria… cene in ristoranti
costosi…
visite agli amici di un tempo, che non avrei mai voluto rivedere… e…
cosa? ...
Hai
pagato uno sproposito per avermi … per che cosa? ...
Non
mi hai toccato neanche una volta… neanche per sbaglio… lo sai che
l’agenzia ti
ha fatto pagare il doppio del prezzo per ogni mio appuntamento che è
stato
cancellato a causa della tua richiesta? ... –
-
Posso permettermelo. – Lo interruppe Akira, monocorde.
Hiro
rise.
Isterico.
Un
attimo.
-
Non
ne dubito… ma perché? Che senso ha? Non ho mai avuto il coraggio di
chiedertelo
in questi giorni perché… mi facevi paura… -
Una
piega corrucciata si formò sulla fronte del suo interlocutore, ma lui
non la
vide, ovviamente.
-
…
Mi faceva paura il tuo distacco.
Il
tuo guardarmi diretto, senza batter ciglio, che mi scavava dentro senza
che
riuscissi a sottrarmi.
Il
tuo non dirmi niente.
Neanche
una parola, se non strettamente necessaria nel momento in cui me la
rivolgevi.
La
tua freddezza.
Non
sembravi tu.
Eppure
non mi hai ignorato nemmeno un istante in questi giorni, lo so.
Lo
so bene!
Ma
è stato peggio che se lo avessi fatto perché… mi tenevi inchiodato
vicino a te
senza permettermi di andarmene.
E
io non capivo perché lo facessi.
Che
senso aveva?
Non
sono riuscito a trovare una risposta, per quanto mi sia lambiccato il
cervello
notte dopo notte.
Giorno
dopo giorno.
…
All’inizio, quando ho scoperto che eri tu ad avermi richiesto.
Quando
mi sono trovato davanti a te, nella tua suite in albergo, ho creduto a
uno
scherzo di cattivo gusto.
A
un tuo desiderio di vendicarti di me per quello che… -
Qui
Hiro dovette deglutire un nodo che gli si era stretto un po’ più forte
in gola
man mano che liberava i propri pensieri.
Davvero
in quei momenti di sorpresa, aveva pensato di buttarsi giù dal ponte
che c’era
poco dopo l’hotel.
Lo
avrebbe fatto.
Appena
uscito da quella suite.
Appena
fosse riuscito ad allontanarsi da lì.
Da
lui.
Poi
riprese, appena sentì di aver racimolato sufficiente aria nei polmoni
per
mettere insieme le parole che gli salivano alle labbra inarrestabili.
Le
aveva tenute tutte dentro di sé per 15 lunghissimi e difficilissimi
giorni, incapace
anche solo di pensare di riuscire a trovare il coraggio per tirarsele
fuori.
-
…
per quello che ti avevo fatto. – Completò. - Ma tu… niente… non mi hai
toccato
una volta.
E
allora perché?
Per
umiliarmi, costringendomi a stare con te?
Neppure.
Perché
mi hai trattato con ogni riguardo malgrado tutto, senza mai farmi un
torto.
Mancarmi
di rispetto.
Senza
mai farmi notare che tu eri il cliente e io la prostituta.
Allora
perché?
Dimmelo,
ti prego!!
Io
non ho diritti, lo so, ma… -
-
Non
sopportavo l’idea che avrebbero potuto averti mentre ero qui. – Gli
rispose
finalmente
Akira, cogliendolo di sorpresa.
Ancora
lineare.
Chiaro.
Senza
incertezza.
Come
fosse l’unica verità inconfutabile.
Hiro
sollevò la testa di scatto, scontrandosi inevitabilmente con il suo
sguardo che
non lo aveva lasciato neanche per un attimo.
Si
sentì risucchiare da quel blu profondo e vi cadde dentro senza
potervisi tirare
indietro.
-
Cosa? – Annaspò a corto di fiato.
-
Credo di essere impazzito quando Hisashi mi ha detto che lavoro facevi.
– Gli
confessò semplicemente, la bella bocca tirata da un sorriso sbiadito. –
Il
cervello mi è andato in tilt, perché le immagini che mi si formavano
dentro non
combaciavano con quelle della persona che conoscevo io.
Così
mi sono fatto dire il nome dell’agenzia e ho chiamato per richiederti.
Finché
ti avessi tenuto con me, nessuno avrebbe potuto averti.
Semplice
no? –
-
Sei
pazzo, hai buttato via un mucchio di soldi per niente! –
-
Può
darsi… Ma sarebbe stato peggio saperti così vicino e in mano a chissà
chi… era
un pensiero intollerabile. –
Il
ragazzo sospirò incredulo.
-
E
non sarà di nuovo così quando te ne andrai e io tornerò alla mia vita
di tutti
i giorni? –
Glielo
chiese convinto.
Perché
era quello che sarebbe successo una volta che fosse ripartito per gli
Stati
Uniti e quell’incubo, durato tre settimane, si sarebbe finalmente
concluso per
tutti.
-
E
cosa ti fa pensare che ti lascerò tornare alla tua vita? –
-
Che
stai dicendo? – Tremò per la luce contorta che gli vide trasfigurare i
lineamenti.
-
Tu
verrai con me! –
-
Non
puoi pensarlo sul serio. –
-
Tu
non hai ancora capito, vero, Hiro? –
Sforzandosi
di non soccombere alla nausea che gli azzannava lo stomaco, Hiroaki si
tirò in
piedi, appoggiandosi al davanzale della finestra, e per qualche istante
lo
sovrastò.
Barcollò
paurosamente, stordito da una vertigine.
Serrò
di più la mano per non cadere: perché maledizione gli girava tanto la
testa?
-
Capire
cosa, cazzo? – Gli urlò addosso disperato. - Che stai vaneggiando? Che
ti ha
dato di volta il cervello davvero? Che cazzo devo capire? Smettila di
dire
stronzate!
Di
prendermi in giro.
Di
illudermi di volermi ancora malgrado lo schifo che sono.
Uccidimi,
se proprio vuoi vendicarti: non te lo impedirò.
Almeno
finirà questo inferno infinito in cui sono intrappolato.
Ma
non hai il diritto di farmi questo.
Non
hai il diritto di cancellare questi anni così, come se niente fosse. –
-
Non
posso ucciderti, altrimenti finisco dentro e … -
-
Bastaaaaa!!!! Io non verrò con te da
nessuna parte! –
Akira
balzò in piedi e in attimo gli fu addosso.
Hiro
sussultò, ghiacciato.
Ma
nella posizione in cui si trovava non ebbe modo di sfuggirgli con la
parete su
un fianco e la finestra sull’altro.
Era
in trappola.
Sollevò
la testa per compensare la differenza di altezza ed ebbe nuovamente
paura.
Poteva
buttarsi di sotto.
Era
abbastanza alto per sperare di farsi almeno molto male… tutto pur di
sfuggire a
quel momento.
Il
pensiero lo colse.
Tentatore.
E
lo abbandonò subito dopo.
Akira
non glielo avrebbe permesso.
Lo
seppe con certezza semplicemente fissandolo.
E
poi la convinzione divenne ancora più prepotente quando lui lo afferrò
per
entrambe le braccia, scuotendolo e avvicinandolo a sé senza troppo
riguardo.
Provò
a sottrarsi almeno distogliendo la propria attenzione.
Inutile
tentativo.
-
Guardami!
– Gli comandò l’uomo imperioso.
Senza
alzare la voce.
Che
però risuonò lo stesso assordante come se lo avesse fatto.
Non
gli obbedì.
Non
poté.
-
Ti
ho detto: guardami! –
Una
scrollata più forte lo sollevò da terra e ve lo riportò.
-
No!
– Provò a protestare, flebilmente, null’affatto convinto.
Una
preghiera più che un diniego.
-
Guardami
o ti giro la testa a forza, fai tu! –
La
minaccia sortì l’effetto voluto.
Ritornò
a fissarlo, sentendosi soffocare per lo sforzo di sostenere i suoi
occhi
furenti, divenuti più scuri e cupi.
-
Guardami,
Hiro, e dimmi che non mi ami ancora. –
-
Ti
prego, lasciami andare! –
-
Ti
lascio andare solo se hai il coraggio di rinnegare le tue stesse
parole. –
La
presa sulla pelle si fece più intensa.
Il
volto di Akira più vicino al suo.
Il
respiro prossimo a divenire il proprio.
A
un soffio.
Vicino.
Troppo
vicino.
Troppo
familiare.
Troppo
a lungo desiderato.
I
muscoli si tesero allo spasmo e inviarono repentini un segnale dolente
al
cervello.
-
Ti
prego! – Una supplica, scivolata sulle labbra esangui.
Un
bisbiglio.
Null’altro.
-
Dimmi
che non provi più niente per me guardandomi negli occhi.
Che
ciò che hai detto giù davanti a tutti era solo una farsa inventata al
momento.
Dimmelo
e hai la mia parola che non ti tratterrò.
Avanti,
dimmelo!! –
Il
giovane scosse piano il capo.
-
Mi
stai facendo male, non stringere. –
-
Ti
spezzerò in due se continui a eludere l’inevitabile. –
-
Io
sono già spezzato in due… da sei anni! –
-
E
io? Io non lo sono? –
-
Mi
dispiace, non era questo che volevo. –
-
E
cos’è che volevi? –
-
Che
tu potessi essere felice. –
-
Senza
di te? –
-
Io
non ero importante… non lo sono … io… non…sono niente… più!! –
Una
nuova, violenta scrollata gli fece vorticare il mondo tutt’intorno e
torcere lo
stomaco, tanto che si persuase che da un momento all’altro la nausea lo
avrebbe
risucchiato e fatto vomitare.
-
Se
lo dici ancora ti prendo a schiaffi! –
-
Uccidimi!
–
-
No!
–
Un
respiro.
Un
solo respiro e le loro bocche si sarebbero toccate senza più scampo.
Il
cuore gli diede uno scarto nel petto, contorcendosi.
D’istinto
insinuò le mani tra loro, facendosi largo angosciosamente, e le
frappose a mo’
di barriera perché quel contatto non avvenisse.
Sarebbe
stata la fine.
Non
ne sarebbe uscito vivo stavolta dopo sei anni di astinenza.
Sei
anni in cui aveva anelato, desiderato, sognato quelle labbra come un
assetato
l’acqua che gli viene negata ripetutamente.
Sei
anni in cui aveva rincorso solo il ricordo del loro sapore.
Della
morbidezza nello sfiorarle.
Nel
lasciarsi baciare.
Nella
dolcezza di cui erano capaci quando lo accarezzavano.
-
A
che serve tutto questo, Aki? – Provò ancora implorante, in un ultimo,
scorato
tentativo di farlo ragionare. – E’ passato troppo tempo. Le nostre vite
sono
andate per strade diverse.
Non
possiamo più recuperare tutti questi anni.
Che
te ne fai di me?
Non
sono più il ragazzino con cui sei cresciuto.
Mi
sono perso e sporcato.
Non
potrei più offrirti niente.
Non
sono più degno di te.
Tu…
-
Per
qualche momento gli mancarono le parole, mentre le lacrime riprendevano
a
pungergli le iridi e a bruciare e a scivolare lungo le guance.
-…
Tu invece, malgrado tutto, sei diventato l’uomo bellissimo che avevo
sempre
pensato saresti stato.
Un
campione indiscusso.
Uno
dei migliori nel tuo campo.
La
persona meravigliosa in cui sapevo ti saresti trasformato crescendo.
Uno
come me non potrà mai essere al tuo fianco: ho venduto il mio corpo e
la mia
anima.
Per
sfuggire a un dolore più forte di me.
Quello
che ancora provo per te.
Che
custodisco gelosamente dentro di me e a cui mi sono aggrappato ogni
giorno, per
quanto bello, prezioso, non potrà ripulire il marcio che è andato
accumulandosi
in questi anni.
Non
potrà mai farmi ritornare limpido, innocente.
E
non voglio sporcare anche te. –
-
Dimmi
che non mi ami, Hiro… voglio solo sentirti dire questo, o non ci sarà
nessuna
parola che potrai pronunciare che varrà la pena di ascoltare! –
Akira
glielo ripeté per l’ennesima volta.
E
glielo avrebbe ripetuto finché non si fosse arreso e avesse messo fine
ai suoi
ragionamenti insensati.
In
risposta lo sentì tremargli tra le mani e il cuore gli diede una
stretta
lancinante.
Che
senso aveva farsi tanto male?
Intuiva
i suoi sensi di colpa.
Il
suo bisogno di cercare l’espiazione.
La
necessità di anteporlo a se stesso ancora e ancora.
Era
un istinto il suo.
Lo
era stato fin da quando si erano conosciuti da bambini: un istinto
primordiale,
insopprimibile, automatico.
Che
non aveva deciso, ma era nato e rimasto radicato nella sua natura.
Ma
aveva senso adesso?
Che
la verità era venuta fuori.
Che
le loro strade, per quanto divise, si erano incrociate nuovamente.
Malgrado
ogni suo tentativo di negarlo.
Di
sottrarvisi.
Di
trovarvi mille giustificazioni.
Tutte
giudiziose.
Tutte
vere.
Tutte…
inutili?
-
Dimmi
che non mi ami! –
Allentò
la presa sulle braccia per imprigionare le sue dita nelle proprie mani.
Senza
lasciargli il tempo di sperare che stesse per liberarlo.
Cercò
di assorbire il tremore incessante che Hiro non riusciva a
disciplinare, troppo
sconvolto dalle proprie emozioni e dal suo incalzare impietoso.
Ma
non poté permettersi il lusso di usargli pietà.
Per
quanto lo ripugnasse intimorirlo a quel modo.
Mettergli
tutta quella pressione addosso.
Per
quanto il cuore e l’istinto gli stessero urlando di avvolgerlo nel
proprio
abbraccio e cullarlo e proteggerlo dal proprio dolore.
Non
se lo poteva concedere.
Arretrare
anche solo di un millimetro.
Mostrare
anche il seppur minimo, lieve cedimento, avrebbe rischiato di aprire
una
breccia.
Ed
era sicuro che da lì lui avrebbe tentato di sfuggirgli definitivamente.
Perché
Hiro era convinto di quel che diceva.
Anche
se combattuto tra la rassegnazione di non avere nessuna speranza e il
desiderio
di credere a quel che gli stava offrendo.
Lo
sapeva che il suo carattere cocciuto e altruista gli avrebbe giocato
l’ennesimo
scherzo per precludersi l’unica risoluzione auspicabile per loro.
E
davvero non poteva concederselo.
Non
ora che era ad un passo dal mettere la parola fine a quegli anni
assurdi che
tanti danni avevano fatto.
Non
ora che era tornato in suo potere decidere quale svolta dare alle
proprie vite
disastrate.
Deviare
quel maledetto destino che gli era sfuggito di mano.
No,
proprio non poteva!
-
Dimmi….
che… non … mi … ami! – Gli sillabò ogni parola proprio là, su quelle
labbra che
aveva tentato di schermare un attimo prima nell’inutile speranza di
difendersi.
Inchiodandolo
a sé con gli occhi e con il corpo.
Nessuna
via di fuga.
Nessun
recupero di respiro.
Nessuna
tregua.
O
tutto sarebbe andato perduto.
Per
sempre.
Davvero!
-
Non
possooooo!!! – Gli urlò in faccia il ragazzo, cercando di divincolarsi.
E
ricevendo in risposta di venir artigliato ancora più tenacemente.
Il
senso di impotenza si amplificò nella sua testa, facendogli montare
dentro una
rabbia incontrollata.
Si
agitò violentemente, inutilmente, immobilizzato dalla forza del proprio
carceriere,
troppo soverchiante per poterla contrastare.
Akira
non accusò nemmeno il suo movimento, costringendolo a subire la propria
energia.
Hiro
annaspò, le lacrime che gli mischiavano la realtà.
Si
sollevò in punta di piedi per annullare la differenza d’altezza che lo
faceva
sentire piccolo e debole.
E
ottenne solo di finirgli addosso.
Di
toccare con il proprio il corpo di Akira, che tanto stava cercando di
evitare.
Di
percepire ancora più incombente, avvolgente, il calore bruciante che
gli veniva
da lui, prigioniero della sua morsa d’acciaio.
L’esasperazione
lo divorò come una fiamma gelida, fiaccandogli i pensieri spezzettati
nella
testa che sbattevano e si confondevano, impedendogli di riflettere
lucidamente.
-
Non
posso, non posso, non posso… - Ripeté ansante.
Ancora
diede uno strappo.
Ancora
Akira lo contenne.
-
Non
posso…! – Replicò rabbioso. – Quest’amore è mio, soltanto mio.
Mi
serve per respirare.
Per
ingoiare la vita di merda che faccio.
Non
c’entri più niente tu.
Senza
non sarei riuscito ad andare avanti.
Mi
hai capito?
Se
ti amo sono soltanto cazzi miei.
Non
ti deve importare da quanto continuo così.
Il
perché… -
-
Stai
delirando, amore mio… -
-
Non
chiamarmi così, ti ho detto, perché ti diverti a ripetere queste
maledette
parole? ... Non sono l’amore tuo… sono una puttana che hai pagato…
perché
cerchi di dimenticartelo? –
Il
ceffone che si abbatté sulla guancia gli girò la testa di lato.
Non
lo vide arrivare e non aveva potuto prevederlo.
Ma
ebbe il potere di annichilire ogni velleità di delirare che ancora gli
fosse
rimasta, zittendolo.
Il
giovane sgranò gli occhi per la sorpresa più che per il dolore.
Il
respiro rotto da qualche parte nel petto.
Anche
le lacrime gli si raggelarono.
Akira
gli afferrò il mento con una mano e lo costrinse a voltare nuovamente
il viso
verso di lui.
Lo
fissò per alcuni istanti, facendolo rabbrividire fin dentro l’anima.
Poi
calò lento su di lui, annullando ogni frammento di spazio tra loro, e
posò le
labbra sulle sue esangui.
Semplicemente
le sfiorò.
Senza
alcuna pressione.
Nessuna
pretesa.
Continuando
a tenerlo inchiodato a sé con lo sguardo.
Quasi
a volerlo sfidare a ritrarsi.
E
per Hiro fu come una stilettata conficcata in mezzo al cuore.
La
fitta atroce si attorcigliò come un serpente intrappolato, affondando
nella
carne e sfrangiandola.
Affilata
e rovente.
Impietosa.
Crudele.
Feroce.
Devastante.
Sconvolgente.
Conosciuta.
Familiare.
Ritrovata.
Dolce
e venefica al tempo stesso.
La
sua testa andò in completo black out, semmai ci fosse stato uno stadio
ulteriore di smarrimento e confusione in cui annegare.
Neppure
cercò di afferrare la propria ragione, o quel che ne restava.
Cedette.
Arrendendosi.
A
cosa non seppe pensarlo.
Cedette
e basta.
Era
ritornato a casa.
Nel
posto giusto.
L’unico
in cui si era sempre sentito al sicuro.
Protetto.
Amato.
Non
doveva più fuggire.
Lì,
sotto la pressione lieve della bocca di lui, che non lo forzava eppure
lo
paralizzava, era dove doveva essere.
Niente
altro aveva importanza.
Né
i suoi sensi di colpa.
Né
la vergogna per ciò che era.
Né
la sua smania di proteggerlo dalla propria inadeguatezza e indegnità.
C’erano
l’uomo che amava disperatamente, il suo respiro dolce e avvolgente e
lui che lo
beveva per la prima volta dopo tanto tempo.
E
seppe che non aveva atteso altro che quel momento.
Che
la mente non lo aveva mai ingannato nel conservare gelosamente il suo
sapore
tra le pieghe dei ricordi.
Che
era sopravvissuto nelle condizioni peggiori solo per giungere a
respirare
nuovamente la sua aria.
Sentirsela
scorrere in gola, nei polmoni, fino al petto.
In
ogni fibra del corpo.
Identificata
e accettata come propria parte di sé.
Ispirò
inconsapevolmente, quasi un atto meccanico, come chi è stato sul punto
di
soffocare e avesse bisogno di esser rianimato.
Percepì
la tensione defluire come acqua in ogni direzione, in ogni vena, quasi
si fosse
aperta un’emorragia da qualche parte.
Akira
colse chiaramente la sua arrendevolezza prendere il sopravvento sulla
ribellione.
Il
cuore esultò finalmente.
E
aumentò la pressione sulle sue labbra.
Misurato.
Senza
fretta.
Imbrigliando
la propria ansia a forza.
Arginando
e tenendo a freno il proprio desiderio furente di violare quella bocca
per
riconquistarla a sé.
Poteva
aspettare.
Non
doveva forzare la mano agli eventi.
Un
niente sarebbe bastato per un passo falso impossibile da cancellare.
Ma
non dovette attendere molto.
Spontaneamente
Hiro gli si offrì, schiudendosi a lui in una muta richiesta a non
fermarsi.
Le
mani di Akira scivolarono gentili sulle sue guance, imprigionandone il
volto
per dar vita infine a un bacio che fu dapprima dolce e casto, quasi
timoroso di
osare.
La
ricerca cauta di ritrovare una strada conosciuta e propria.
Si
ritrasse, il respiro ansante che si mischiava a quello del ragazzo.
Poi
gli depose un altro bacio riverente all’angolo sinistro della bocca.
E
un altro a quello destro.
Hiro
singhiozzò, smarrendosi nelle sensazioni che gli esplodevano nella
testa in
successione caotica e indeterminata.
Obbedendo
a un istinto incontrollato, gli fece scivolare le braccia intorno al
collo,
sospingendosi di più contro di lui, finendo per aderire completamente
al suo
corpo e trovando infine l’altra metà di sé perfettamente combaciante.
Akira
lo avvolse in un abbraccio soffocante e si impadronì ancora delle sue
labbra.
Cercò
la sua lingua con la propria, incontrandola e sospingendola a danzare
in un
contatto dapprima lieve, poi sempre più esigente, affamato, imperioso.
Sembrò
volerla divorare tanto violenta e imprevista fu la scossa di piacere
che lo
avvolse.
E
che avviluppò ogni cellula del proprio essere.
Quello
che era stato trattenuto come un ricordo remoto, gelosamente
conservato, ora
veniva su prepotente e vivido come se sei anni non fossero mai passati.
Come
se l’ultimo loro bacio fosse stato scambiato solo la sera prima e non
una
lontana, maledetta, meravigliosa, unica notte perduta da troppo tempo.
Hiro
lo stringeva forte, ansante e sperduto, lasciando vagare le proprie
dita tra i
suoi capelli in una carezza morbida, piacevole, dimentico di se stesso,
respirando soltanto lui e il suo corpo prorompente che gli premeva
contro.
Consapevole
soltanto della danza ipnotica della sua lingua nella sua bocca.
Che
lo confondeva e lo stordiva.
E
gli risvegliava ogni cellula del proprio essere, mandandogli mille
brividi
ovunque.
Rivoli
liquidi di piacere lievi, ma perentori, che lo avviluppavano in sottili
filamenti di eccitazione.
Sentì
il cuore accelerargli forte nel petto per l’emozione.
E
il cuore di Akira battere ancora più furiosamente contro il suo.
Non
poteva credere che stesse accadendo davvero.
Che
fosse tra le sue braccia.
Che
lui gli si stesse stringendo addosso.
Che
quel calore soffocante fosse il suo.
Poteva
morire adesso.
In
quel preciso istante di estasi.
Non
chiedeva più nulla dalla vita.
Non
voleva altro.
Era
felice.
Improvvisamente
un sussulto violento lo aggredì, attraversandogli ogni recesso del
corpo.
Avvertì
una sensazione mista tra paura e rapimento che lo disorientò.
Tremò
tutto, incapace di controllarla.
Portò
appena indietro la testa, mettendo un soffio di distanza inarticolato
tra le
loro labbra, d’un tratto a corto di fiato.
Guardò
Akira incredulo e stupito, mentre la mente sgomenta realizzava quel che
stava
per accadere.
E
dovette capirlo anche il suo compagno.
Che
lo sentì fremere e inarcarsi nel poco spazio lasciato dalle sue braccia.
Aki
lo strinse ancora più forte, percependo la sua erezione pulsante che
gli
premeva contro.
Si
strusciò languido e sensuale contro di lui, piacevolmente sconvolto
dalla sua
reazione, peggiorando la situazione.
Gli
avvicinò le labbra all’orecchio e teneramente gli suggerì: -
-
Lasciati
andare, amore mio, io sono qui! –
S’impossessò
di nuovo della sua bocca, e questo decretò la definitiva capitolazione
di Hiro.
Che
venne.
Semplicemente.
Incredibilmente.
Travolto
da un orgasmo violento e imprevisto.
Un
grido roco rotolò su per la gola, soffocato dal bacio in cui era
intrappolato.
Rimase
immobile, paralizzato, tremando da capo a piedi, gli occhioni scuri
spalancati
dallo stupore e dalla scarica di adrenalina che lo aveva sferzato.
Al
sicuro tra le sue braccia forti.
Le
gambe che repentinamente gli diventavano molli e cedevoli.
La
sensazione di bagnato che inumidiva slip e jeans e gli colava sulla
pelle
sensibile tra le gambe.
Si
era eccitato soltanto con quel bacio.
Il
pensiero si formò nitido come una bolla.
Non
gli era mai successo.
Mai,
in tutta la sua vita da solo.
La
tensione, la gioia e l’incredulità erano state così intense da fargli
perdere
il controllo del proprio corpo.
Com’era
stato possibile?
Akira
lo lasciò respirare, sorridendogli in quel modo tutto suo che lo mandò
ancor
più nel pallone.
Sentì
un calore virulento salirgli in faccia e in quel momento ebbe
l’assoluta
certezza di essere diventato tutto rosso.
Un
imbarazzo profondo lo invase man mano prendeva coscienza di quel che
era
successo.
Che
avrebbe pensato di lui?
L’interrogativo
si affacciò appena alla sua mente stordita.
D’impulso
premette il viso contro il suo petto, travolto da un incongruente
desiderio di
nascondersi e sottrarsi alla sua attenzione adorante.
-
Mi
dispiace, mi dispiace! -
Mormorò
affranto.
-
Perché?
E’ stato bellissimo! – Gli sussurrò sollecito il compagno, baciandogli
una
tempia.
Per
un momento Akira sembrò rivedere il piccolo, impacciato Hiro degli anni
addietro, che si infiammava anche solo per una semplice allusione
vagamente
sessuale.
Provò
un senso di profonda commozione per quell’inusitato candore.
Delizioso!
-
Che
vergogna, io… io non so… come… -
Si
sentì tirar su la testa con un gesto gentile, ma inesorabile.
Dovette
guardarlo per forza, ritrovando la sua espressione rapita che gli
illuminava i
bei lineamenti.
Come
sei
bello!
Pensò
distintamente, rimanendo senza fiato.
-
Sei
mio, amore, non devi vergognarti di nulla! – Gli soffiò suadente sulle
labbra.
-
…
Tuo! – Ripeté lui nella propria testa, ipnotizzato dalla sua voce,
incapace di
rendersi conto realmente della portata di quell’aggettivo.
Non
seppe mai se quella parola l’avesse davvero pronunciata o solo pensata.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo 8
-
Aki!!...-
Kimi
si accorse di lui mentre entrava nell’ampia cucina dove si erano
riuniti per un
caffè.
Gli
andò incontro, seguito dagli sguardi degli altri, un sorriso timido
sulle
labbra.
Dietro
la penisola ad armeggiare con le tazze, Hana lo seguì avanzare e fermò
quel che
stava facendo.
Notò
subito l’espressione provata sul suo volto.
Un
rimescolamento inquieto gli torse lo stomaco.
-
Come
stai? – Gli chiese Hisashi, girandosi sullo sgabello dall’altra parte
del
tavolo.
L’amico
li raggiunse e prese posto accanto a lui, salutandolo con una pacca
sulle
spalle.
-
Ti
va un caffè? – Gli propose Kaede, intento a programmare la macchinetta
automatica davanti a sé.
Lo
scrutò deciso com’era suo solito senza aggiungere parole superflue,
cercando di
trarre le proprie impressioni sul suo stato.
-
Si,
grazie, così mi sveglio un po’! – Rise lui.
Si
poggiò con entrambe le braccia sulla superficie di marmo nero e si
lasciò
andare a un profondo sospiro.
-
Hey!
– Lo scosse Hisa, ancora in attesa di risposta alla sua domanda.
-
E’
tutto ok! – Fece lui, per un momento senza guardare nessuno.
Poi
avvertì i loro sguardi su di sé e sollevò il proprio, trovandosi Hana
davanti,
null’affatto persuaso.
-
Sto
bene! – Ribadì più convincente. - … Sono solo un po’ stanco. –
-
Vuoi
mangiare qualcosa?
-
-
No,
Hana, grazie, il caffè va bene. –
Kaede
gliene porse una tazza ricolma, profumata e fumante.
-
Tieni.
– Aggiunse Kimi, offrendogli il latte e lo zucchero.
-
No,
grazie, nero va bene. – Fece lui, rifiutando con un gesto della mano.
Portò
la tazza alle labbra e ne ingollò un lungo sorso, incurante del fatto
che fosse
troppo caldo.
Questo
allertò l’attenzione di tutti, che si scambiarono fugaci occhiate
apprensive.
Ma
non dissero nulla.
Kaede
distribuì il caffè appena pronto, poi prese posto su uno degli sgabelli
dall’altra parte della penisola.
-
Hiro?
– Chiese, diretto come al solito.
-
Si
è addormentato. –
-
Sarà
stato esausto! – Osservò Kimi dispiaciuto.
-
Mhm,
si! –
-
Come
sta? –
-
Scosso.
–
-
Possiamo
fare qualcosa per lui? –
-
No,
Kimi, grazie. Gli farà bene dormire un po’ dopo tutto il trambusto di
prima.
Poi
ce ne torniamo in albergo. –
-
Perché?
– Chiese Hana d’istinto, senza riflettere.
Akira
lo fissò per un momento cupo.
Ma
subito i suoi tratti si distesero in un sorriso divertito.
-
Forse
perché si sente a disagio dopo le tue gentili premure? – Lo prese in
giro
indulgente.
-
Ah!
... – In effetti, rifletté l’amico, riavendosi subito. – Si, vero… hai
ragione…
scusa… per come l’ho trattato, forse ci sono andato giù un po’ troppo
pesante!
... Mi spiace… -
-
Solo
un po’… e non ti spiace affatto, bugiardo! ... Non ce l’ho con te, ma…
– Mise
una pausa sinistra, poi si raddolcì. - … non rifarlo: potrei ucciderti
la
prossima volta! -
Hana
divenne immediatamente tutto rosso d’indignazione, ma ebbe il buonsenso
di non
saltar su a sbraitare le proprie ragioni, redarguito anche
dall’occhiataccia
storta che gli lanciò il marito.
Si
accorse comunque che Akira davvero non ce l’aveva con lui e questo lo
sollevò
non poco.
Sebbene
fosse certo che per un momento, uno solo, una luce pericolosa era
passata
dietro quelle iridi profonde.
-
Devo
ringraziarti invece… – Proseguì l’amico, riportando la propria
attenzione al
liquido scuro che ondeggiava nella tazza. -… per aver sbloccato la
situazione.
– La voce gli si abbassò di una nota sotto il peso di quella
consapevolezza su
cui si soffermava a riflettere solo in quell’ istante.
-
Aki…
- Lo chiamò Hisa, mettendogli una mano sul braccio.
-
No,
davvero, grazie. – Replicò lui più convinto, guardando prima lui e poi
Hanamichi.
-
Avrei
dovuto essere meno triviale, mi spiace! – Fece questi sinceramente
mortificato.
Lui
scosse il capo.
–
Non so cosa mi è preso, ero talmente sotto pressione per il tuo strano
comportamento, che non ci ho visto più all’ennesimo sguardo adorante
che ti
lanciava mentre eri fuori. –
-
Sguardo
adorante? –
-
Non
sfottere, non puoi non essertene accorto!! –
Aki
sembrò davvero spaesato.
-
Io
ho sempre solo visto i leggendari bronci di Hiro tutte le volte che lo
scorgevo
a guardarmi: quelli non sono cambiati. –
Hana
lo fissò disorientato: ma diceva sul serio?
-
Penso
che Hiro abbia sofferto molto in questi giorni. – Rifletté Kimi,
distogliendo
la loro concentrazione da quel particolare che nessuno aveva ignorato,
tranne
lui, evidentemente.
L’attenzione
di tutti si appuntò su di sé.
-
Questo
è indubbio. – Assentì Hisashi, passandogli un braccio intorno alla vita
e
attirandolo delicatamente accanto a sé per rincuorarlo.
-
E’
stata tutta colpa mia! – Ammise Akira.
-
Adesso
credi di poterci dire perché lo hai costretto a stare con te finora? –
Gli
domandò Hana.
Aki
lo fissò un tempo interminabile, senza proferire parola.
Aveva
agito d’istinto due settimane prima, quando lo aveva richiesto, per
quella che
gli era parsa la ragione più ovvia e logica del mondo.
La
cosa giusta da fare per mettere a tacere la testa e il cuore.
Non
si era interrogato su quella che avrebbe potuto essere la reazione di
Hiro.
E
se lo aveva fatto, aveva zittito presto e sbrigativo la voce della
propria
coscienza, che pur gli aveva mandato segnali d’allarme sul male che gli
avrebbe
inflitto in quei giorni.
Adesso…
…
che aveva toccato con mano, fino in fondo, l’angoscia del suo
(finalmente!)
ragazzo, non gli pareva più così legittimo il suo modo d’agire.
-
Finché
stava con te, non avrebbe avuto… “impegni” con i clienti dell’agenzia.
–
Replicò per lui Kaede, catalizzando su di sé l’attenzione degli amici.
Si
guardarono in faccia, lui e Akira, escludendo tutti gli altri.
-
Hn!
–
-
L’avevo
immaginato… -
-
M’importava
solo questo. –
-
E
poi? – Lo incalzò Hisa. – Alla fine che avevi intenzione di fare? –
-
Non
lo so, non ci ho pensato… l’ho fatto e basta. –
-
Sei
pazzo! – Fece Hana, scuotendo il capo.
Aki
scoppiò in una risata nervosa, brevissima.
-
Si,
hai ragione, sono pazzo! – Convenne consapevole. – Per questo devo
ringraziarti
di esserti impicciato dei fatti miei una volta di più. –
-
Aki,
volevamo soltanto… -
-
No,
Kimi, non giustificarti, vi sono riconoscente davvero.
Io
e Hiro non abbiamo mai parlato di niente che ci riguardasse in questo
periodo.
Lui
chiuso nel suo mutismo spaventato.
Io
nel mio… insensato tentativo di … - Fece un cenno vago nell’aria con la
mano. -
… non lo so nemmeno io… se ci penso adesso, credo di aver vissuto in
una specie
di limbo anestetizzato, facendo mille pensieri, ma evitando di
concentrarmi
davvero su qualcosa.
Probabilmente…
anzi no, certamente lui ci è stato malissimo.
Io
invece ho fatto finta di non vedere il suo disagio.
Da
egoista mi son fatto bastare la sua presenza, sicuro che fosse lì con
me e non
chissà con chi.
Non
mi sono fatto nemmeno uno scrupolo.
Senza
pensare a quel che avrei fatto quando sarei ripartito.
Come
se ci fosse una specie di eterno momento e non il dopo.
Ancora
una volta avete dato voi una svolta alla mia inconcludenza, spingendo
gli
eventi invece di farli languire, come stavo facendo io. –
-
E…
- Tentò di indagare Hana. - … da che parte avremmo spinto questi
eventi? –
-
Secondo
te, testarossa? – Lo sfidò l’amico a trarre la logica conseguenza della
sua
ingerenza.
Il
giocatore trasecolò senza avere la più pallida idea di cosa volesse
dire.
Paziente,
Kaede si alzò, gli si fece vicino e gli posò un lieve bacio sulla
guancia.
Hana
lo guardò per un momento con un’espressione confusa, mentre gli si
formava in
testa un grosso punto interrogativo.
Il
compagno scrollò la testa scorato, ma non se la sentì di apostrofarlo
con il
solito “idiota” che gli dedicava ogni volta che tardava a capire le
cose più
ovvie.
Affettuosamente
gli fece scivolare un braccio intorno alla vita e in un orecchio gli
sussurrò:
-
-
Viene
con noi! –
-
Chi?
– Saltò su l’altro di riflesso.
Al
che ci fu una collettiva alzata di sguardi al cielo in una corale resa
all’ottusità.
Improvvisamente
gli occhi del ragazzo si spalancarono sotto un’evidente e imprevista
illuminazione.
Avvertì
appena la lieve carezza su un fianco della mano del marito.
Non
poteva crederci.
-
Lui…
tu… e noi… - Provò a dire, emettendo soltanto un inconcludente
balbettio
indecifrabile.
-
Amore,
conosci i pronomi personali, bravo! – Scherzò Kaede ironico.
-
Ooohhhh!
– Protestò lui stizzito, ottenendo uno sbuffo in risposta. – Aki, non
puoi fare
sul serio: vuoi portarlo davvero in America con noi? … Dopo tutto quel
che ha
combinato? ... –
-
Con
me, Hana! – Lo corresse Akira con una nota oscura nel timbro di voce,
indifferente alla sua reazione. – Non lo lascio qui, ora che so la
verità. –
-
Ma…
ma… -
-
Sei
sicuro, Aki? – Interpretò Hisa per lui, dedicandogli un’espressione
perplessa.
-
Si!
– Fu la risposta lapidaria che ricevette.
Non
c’era traccia di esitazione sul suo volto.
Questo
impressionò profondamente gli amici.
-
E
Hiro? – Soggiunse Kimi.
-
Non
ha avuto scelta! – Commentò Kaede, sicuro della propria affermazione.
Gli
bastava guardarlo in faccia per immaginare che non aveva dato al
compagno il
diritto di replica.
Aki
sostenne il suo sguardo, confermandogli l’ipotesi.
Hana
fece per dire qualcosa, evidentemente contrario a quello che riteneva
un colpo
di testa mal ponderato da parte dell’amico.
Ma
Akira lo bloccò sul nascere, incenerendolo con un’occhiata ostile,
forse più di
quanto fosse nelle sue intenzioni.
-
Non
voglio sentire niente! – Sentenziò.
Poi
si rese conto di essere stato troppo crudo.
Raccolse
un profondo respiro e cercò di riacquistare una sorta di serenità.
Tanto
la propria decisione era presa.
Nessuno
gli avrebbe fatto cambiare idea.
E
tuttavia voleva metterli a parte delle proprie motivazioni: erano i
suoi più
cari amici e, ne era certo, volevano solo il suo bene.
-
Ci
viene data un’altra possibilità… Riprovò più conciliante. - … cercate
di
capire: non voglio e non posso sprecarla… Non ve lo imporrò se proprio
vi dà
così fastidio, per un po’ ce ne staremo per conto nostro e… –
-
Che
cazzo c’entra questo? – Protestò Hana con veemenza. – Siamo tuoi amici:
accetteremo la persona che scegli.
Ma
siamo preoccupati per te. -
-
Lo
so, Hana, e vi ringrazio per esserci sempre e comunque, malgrado i miei
errori.
–
-
Ecco,
allora vedi di non escluderci dalla tua vita.
Siamo
una famiglia e dobbiamo sostenerci anche quando non siamo d’accordo.
Se
è lui che vuoi, proveremo a diventargli amico e a dimenticarci le
cazzate che ha
fatto… -
-
Grazie!
-
-
E
riuscirai a evitare che la vita che ha fatto fino ad oggi minacci la
vostra
unione futura? –
Di
nuovo Kaede, diretto come un proiettile.
Come
al suo solito senza perifrasi o mezzi termini.
Senza
delicatezza.
-
Nessuno
di noi due è stato un santo. – Cercò di schernirsi.
-
Non
è la stessa cosa, Aki. – Gli fece notare Hisa, altrettanto crudo.
Il
passato di escort di Hiro era un’incognita da non sottovalutare ed
aveva il suo
peso.
-
No,
non è la stessa cosa.
E
di certo non faccio salti di gioia se mi fermo a pensare a quanti lo
hanno
avuto. – Un brivido lo colse all’improvviso, scuotendolo bruscamente.
Sentì
il sangue rimescolarglisi nelle vene per la repulsione e la violenta
sensazione
di gelosia che ne scaturirono.
Si
sentì soffocare.
Kimi
gli sfiorò un braccio, cercando di rincuorarlo.
-
Non
so se avete avuto modo di parlarne… - Mormorò prudente, usando tutta la
delicatezza che il caso esigeva per non turbarlo ulteriormente. - … ma
ho avuto
l’impressione che il suo… lavoro… sia “accaduto” senza che lo avesse
progettato
di sua volontà. –
-
E
questo cosa cambia? – Contestò Hanamichi sempre più infastidito.
-
Niente!
– Si affrettò il ragazzo. - … Non cambia niente nei fatti, ma nelle
intenzioni
fa la differenza… -
-
Che
vuoi dire, cucciolo? –
Kimi
sospirò al compagno, scrollando la testa.
Hisashi
gli regalò un bacio lieve, trasmettendogli il proprio sostegno per
qualunque
tesi avesse voluto esporre loro: si fidava del suo giudizio e buonsenso.
Il
giovane gli sorrise grato.
Un
po’ più sicuro di sé.
-
Intendo
dire che il “come” si sia ritrovato a fare quel tipo di lavoro potrebbe
darci
la misura della sua disperazione.
Lo
avete sentito tutti, no? Si è ritrovato a prendere una decisione
terribile, che
avrebbe cambiato e stravolto la vita a lui e ad Akira per sempre.
Da
solo.
Senza
potersi consigliare con nessuno.
Un
ragazzino di 18 anni in balia dei propri sentimenti e delle proprie
paure.
Che
improvvisamente si ritrova da solo a gestire una situazione più grande
di lui.
Sapendo
di non poter contare sul suo miglior amico, con cui si era sempre
consultato e
confidato tutta la vita, perché la causa di tutto è proprio “quel
migliore
amico” che sente l’obbligo di salvare! -
A
quelle parole Aki trasalì violentemente, i sensi di colpa che d’un
tratto lo
aggredivano suo malgrado.
-
Riuscite
a immaginare in che stato di prostrazione e angoscia deve aver vissuto?
Se
a distanza di sei anni le sue reazioni sono state quelle che abbiamo
visto, che
orrore interiore deve aver respirato in completa solitudine? –
-
E
questo lo avrebbe autorizzato a prostituirsi? –
-
No,
Hana, ma quando si è così disperati si fanno cose che normalmente non
sarebbero
concepibili.
Si
può perdere la ragione e l’interesse per la vita stessa.
E
credo che tutti abbiamo colto nel suo racconto l’angoscia e
l’afflizione in cui
ha vissuto.
-
Kimi
ha ragione! – Si rese conto Hisashi rabbrividendo a ricordi che gli
tornavano
di colpo alla mente ascoltando le sue parole. – Abbiamo avuto la nostra
parte
di momenti bui nella vita.
E
sappiamo bene che cosa vuol dire affrontare da soli cose troppo più
grandi di
noi in età in cui avremmo dovuto avere la spensieratezza e la
leggerezza
dell’adolescenza.
Io
con i miei due anni da teppista di strada a soli 14 anni, quando mi
sono perso
per quel maledetto infortunio che aveva distrutto in un momento tutto
il mio
mondo.
Non
ho mandato all’aria tutto, dimenticandomi delle persone che mi volevano
bene
solo perché troppo risucchiato nel mio dolore?
Tu,
Hana… - Guardò l’amico, facendolo trasalire. - … quanto hai rischiato
il punto
di non ritorno dopo la morte di tuo padre, di cui ti sei sempre
colpevolizzato?
In
giro per strada ad azzuffarti con chiunque, rischiando la pelle peggio
di me,
pur di sfuggire alla tua angoscia?
Chi
ci ha tirati fuori dal baratro con la forza del proprio amore per noi?
Senza
farsi frenare dai casini che avevamo combinato e da quel che stavamo
diventando?
Ingoiando
repulsione, rabbia, condanna nei nostri confronti pur di salvarci?
Te
lo ricordi no, Hana?
Ho
massacrato di botte il mio Kimi nel tentativo di contrastare ogni suo
sforzo
nel tendermi il suo aiuto.
Perché
avevo paura di lui e della sua determinazione.
Perché
nella mia idiozia ero convinto di essere io il più forte, e invece lo
era lui
nella sua perseveranza.
Ma
lui non si è fermato e non è indietreggiato di un passo.
Ha
ingoiato il terrore che provava per la violenza che gli dimostravo,
ostinato,
finché non è riuscito ad aprire una breccia nel mio animo indurito e a
riportarmi indietro.
Restituendomi
alla mia vita.
Allo sport.
Avvolgendomi
stretto nel suo amore.
E
a te?
Chi
ti ha sollevato dal macigno che ti schiacciava e ti aveva tolto la
capacità di
trovare una motivazione per continuare a vivere?
Non
è stato Kaede, che per te è stato capace di uscire fuori dal suo mondo
chiuso e
isolato fatto solo di basket?
Che
si è messo in discussione, stravolgendo il proprio carattere e la sua
esistenza, pur di attrarre la tua attenzione e aiutarti a uscire dal
tunnel
della strada, offrendoti nuove ragioni di vita: se stesso e lo sport?
Se
si fossero lasciati frenare dalle nostre debolezze e dalle nostre
condotte
deprecabili, ora forse…. Beh, forse non saremmo qui, insieme, a
discuterne. –
D’improvviso
si vide avvolgere da un abbraccio convulso dal suo ragazzo, commosso e
sul
punto di mettersi a piangere per le sue parole.
Subito
lo accolse e lo strinse forte, un nodo che gli si formava in gola a sua
volta.
-
Ti
amo tanto, Sashi!! – Singhiozzò Kimi felice di essere stato compreso a
pieno.
-
Tesoro,
anch’io ti amo tanto… che avrei fatto senza di te!! –
Il
momento di emozione colpì nel profondo tutti gli altri.
Kaede
fece scivolare la mano sulla superficie di marmo per raggiungere quella
di Hana
e intrecciare forte le proprie dita con le sue.
Prontamente
ricambiato dal compagno, che gli dedicò uno sguardo colmo d’amore e
gratitudine.
Akira,
dal canto suo, avvertì i propri propositi rafforzarsi.
Se
ce l’avevano fatta loro, non sarebbe stato da meno.
Lo
doveva a se stesso.
A
Hiro.
Alla
sofferenza che aveva avvinto lui e il compagno.
Alle
loro vite troppo a lungo tormentate.
A
qualunque costo.
-
Non
ne abbiamo parlato. – Rispose alla prima domanda che gli era stata
rivolta,
traendo un profondo respiro. - …. Ma non permetterò che questa cosa ci
rovini
l’esistenza… per quanto mi dia fastidio…. è accaduta… quando e se lui
vorrà, ne
discuteremo… abbiamo tante cose di cui parlare… e allora capirò perché
si è
trovato in questa situazione assurda proprio lui. –
-
Sarà
stato scioccante per te che ci sei cresciuto insieme. – Osservò Hisa
stringendosi nelle spalle.
-
Scioccante
è un termine riduttivo, ti assicuro! – Ammise Akira, sentendosi lo
stomaco
compresso in una morsa atroce.
Abbandonò
la tazza del caffè ancora mezza piena e si alzò.
Tese
le braccia in aria, stirando i muscoli indolenziti, poi si portò
entrambe le
mani alla testa. – Cazzo, che mal di capo! – Imprecò quasi incredulo.
-
E’
stata una giornataccia, perché non vai a riposare un po’ anche tu? –
-
Mi
sa che è quello che farò, Kimi… ci vediamo più tardi. –
Salutò
con un gesto vago della mano e uscì nel corridoio senza guardare
nessuno.
Trascorsero
alcuni minuti nei quali nessuno parlò.
Ognuno
assorto nei propri pensieri.
In
un silenzio immobile, interrotto solo dal cinguettare degli uccellini
che
entrava dalle porte aperte sul giardino.
Poi
la quiete venne infranta.
-
Chi
lo rialzerà se questa storia va a farsi fottere? – Dalla voce scorata e
preoccupata di Hanamichi.
-
Non
essere così sfiduciato! – Replicò di rimando Kimi, in un botta e
risposta che
sembrò scattare a molla in un meccanismo inevitabile.
-
Sono
due persone adulte: parleranno, si chiariranno e proveranno a
riprendere da
dove hanno lasciato. – Analizzò Hisashi, cercando di trovare supporto
alle
proprie parole negli occhi del suo ragazzo.
-
Si,
sarà proprio così se i sentimenti che ancora provano l’un altro sono
tanto forti
come sembra. –
-
Sta
accadendo tutto troppo in fretta! … Avete sentito, no? Se lo porta via
senza
nemmeno avergli domandato se è d’accordo… -
-
Non
credo che se non lo volesse anche lui, Hiro sarebbe disposto a
seguirlo. –
-
E
che ne sappiamo? … Quello non ha mica tutte le rotelle a posto con
tutti quei
suoi ragionamenti contorti. –
-
Hana!
– Cercò di riprenderlo Kaede.
Il
giovane sbuffò esasperato.
-
Si,
si, Kae, lo so che stai per dire, che Akira è adulto e vaccinato, che
non ci
dobbiamo impicciare più del dovuto… Ma se quel… quel… coso… -
-
Quel
“coso” ha un nome, Hana, e dovremo rispettare le volontà di Aki se lo
rivuole
al suo fianco.
Perciò
dovremo accoglierlo tra noi e imparare a conoscerlo e a metterlo a suo
agio in
futuro. –
-
Kaede
ha ragione! – Rincarò Hisa annuendo convinto. – Se le cose andranno
bene, farà
parte della nostra famiglia anche lui, e come tale dovremo trattarlo,
per
rispetto ad Akira soprattutto. –
-
Se
gli fa di nuovo del male, giuro che lo levo dalla faccia della terra! E poi ammazzo Aki per non
averci dato retta,
e… – Imprecò il giocatore, aggiungendo altre invettive per buona misura.
Il
marito gli tappò improvvisamente la bocca con un bacio mozzafiato che
lo
disorientò non poco.
-
Ne
siamo sicuri, amore! – Lo ammonì affettuoso e lo ribaciò pur di
tacitarlo una
volta per tutte.
Tresor
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo
9
Quanto
aveva dormito?
Hiro
se lo chiese cercando di mettere a fuoco la stanza intorno a sé, ancora
confuso
dalle maglie del sonno.
Non
era la sua camera.
Rifletté
in prima istanza.
Cercò
di raccogliere i pensieri e fare il punto della situazione prima che si
addormentasse.
E
subito ricordò.
Quella
era la stanza di Akira.
E
quello su cui era disteso il suo letto.
Ce
lo aveva portato lui…
Quando?
…
I ricordi lo avvilupparono tutti insieme cogliendolo impreparato ad
affrontarli.
Fotogrammi
delle ultime ore gli affollarono la testa uno dietro l’altro, repentini
e in
tutta la loro cruda violenza.
Le
accuse di Hanamichi.
I
suoi tentativi di smarcarsi prima e di controbattere dopo.
L’ansia
e il terrore.
Il
dolore e l’avvilimento.
La
paura di trovarsi faccia a faccia con Akira e le verità rivelate.
Gli
mancò il respiro mentre il cuore gli faceva un balzo al centro del
petto,
trafiggendolo spietato e gelido con la stilettata che tanto gli era
familiare.
Aki
che sapeva tutto adesso.
Che
lo aveva riaccolto nel suo abbraccio malgrado tutto.
Che
lo chiamava “amore mio”.
Che
lo baciava e lo eccitava.
Che
lo rivoleva nella propria esistenza.
Di
nuovo.
Malgrado
tutto.
Richiuse
gli occhi, serrandoli come se così facendo avesse potuto rimandare il
tempo indietro.
Cancellare
ogni cosa.
Ritornare
all’attimo esatto in cui aveva avuto la brillante idea di aspettarlo
alla
finestra mentre accompagnava l’amico alla macchina.
Lo
sguardo sognante che non riusciva a tenere per sé e che aveva scatenato
l’aggressione del padrone di casa.
Ma
non funzionò.
Se
ne accorse sgomento quando la solita vocina insolente e spietata gli
urlò in
faccia che stava perdendo il suo tempo e che tutto era davvero accaduto.
Che
non poteva cancellarlo semplicemente chiudendo gli occhi e desiderando
di non
essere lì.
Mica
era così facile?
No,
non lo era proprio per nulla.
Li
riaprì angosciato e si girò.
E
allora lo vide.
Akira
era disteso al suo fianco, sull’altro lato del letto, profondamente
addormentato.
Trasalì
violentemente, colto impreparato.
Non
se ne era andato.
Era
rimasto lì con lui tutto quel tempo?
Eppure
era sicuro che a un certo punto fosse uscito, poco prima che lui
cadesse preda
di un sonno esausto.
Se
ne ricordava bene.
Dopo
quel bacio struggente e meraviglioso.
Dopo
essere rimasti abbracciati un momento lunghissimo.
Era
stato riaccompagnato sul letto, stremato dalle troppe emozioni, e per
un po’,
accanto a lui, Aki gli aveva accarezzato la schiena in un massaggio
lieve e
rilassante, che pian piano lo aveva cullato.
E
mentre le maglie del assopimento lo intrappolavano invitanti, lo aveva
sentito
alzarsi e uscire dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle in
silenzio.
E
ora era di nuovo lì, accanto a sé.
Rimase
immobile a guardarlo.
Rapito.
Akira
dormiva, supino, il braccio sinistro abbandonato sull’addome, quello
destro
ripiegato all’indietro sul cuscino, la testa girata di tre quarti verso
di lui.
Un’espressione
serena che gli distendeva i bellissimi tratti del volto.
La
bocca appena schiusa.
Hiro
rimase incantato, suo malgrado.
Era
un uomo quello che gli stava accanto.
Non
più il ragazzo che aveva lasciato andare via, sempre alto, sempre bello.
Ma
un uomo fatto.
Il
corpo più definito, massiccio, slanciato.
Maturo
e possente.
Gli
stretti jeans neri gli fasciavano le lunghissime gambe, e la leggera
maglia di
cotone color crema sottolineava ogni piega dei muscoli, modellati da
anni di
allenamento, e ricadeva morbida sul suo ventre piatto.
Le
sue belle mani dalle lunghe dita, curate e candide come la sua pelle.
Quelle
dita che sapevano essere leggere e invadenti, capaci di mandarlo in
confusione
o di accarezzarlo con devozione.
Che
sapevano fargli male ed eccitarlo.
E
quel suo volto perfetto, senza neppure un’imprecisione, mascolino e
affascinante.
Su
cui era sparita ogni traccia di adolescenza.
Con
quegli occhi del blu cobalto più singolare che avesse mai visto.
Capaci
di passare da una sfumatura chiara a una scura e cupa a seconda delle
emozioni
che attraversavano il loro proprietario.
Dal
taglio allungato, che
gli conferiva uno sguardo ipnotico e sconvolgente.
A cui
non aveva mai saputo
resistere fin da bambino.
Il naso
dritto, altrettanto
perfetto.
E le
labbra che sembravano
disegnate, carnose e rosee.
E
morbide e dolci.
Gli si
rimescolò lo stomaco
mentre le fissava ammaliato, percependo mille brividi lungo la schiena
al
ricordo di quanto potessero essere insolenti e invadenti.
O lievi
e gentili.
Deglutì
un nodo che,
dispettoso, gli si formò in gola.
Poteva
permettersi il lusso
di pensare che quel giovane e meraviglioso uomo potesse essere, di
nuovo, suo?
Non
osò.
Terrorizzato.
Il
senso di inadeguatezza e di indegnità ritornò ad aggredirlo,
serpeggiandogli
sotto la pelle, viscido e freddo.
La stessa, identica,
medesima sensazione che
aveva provato da ragazzino, quando si era scoperto innamorato di lui.
Solo
per ragioni diverse.
Drasticamente
differenti.
Possibile
potersi sentire di nuovo parte di quel dio perfetto e altero, che
guardava lui,
piccolo, sporco, essere inutile e ignobile come fosse stato la cosa più
desiderabile?
Che
doveva fare?
Rimanere
lì e provare a crederci?
O
alzarsi e scappare, adesso, in quel momento in cui non avrebbe potuto
fermarlo?
Se
avesse deciso di restare avrebbe dovuto affrontare sconvolgimenti a cui
non era
preparato e di cui non aveva la più pallida idea.
E
non erano quelli di natura logistica o pratica a spaventarlo.
Come
cambiare esistenza, paese, casa.
Erano
le implicazioni sentimentali a mandarlo in panico.
Dover
recuperare e confrontare sei anni di vita, impossibili da cancellare o
rivalutare.
Conviverci
e subirne le conseguenze che, malgrado ogni tentativo, si sarebbero
manifestate
in futuro.
Sei
anni di vita che aveva condotto, letteralmente sul marciapiede.
Sebbene
quel marciapiede fosse stato rappresentato da sconosciute camere da
letto.
Non
se li poteva buttare semplicemente alle spalle, sbattendo una porta.
Avrebbero
pesato e creato chissà quali danni.
Erano
un peccato troppo grave per poterlo relegare a ricordo di un periodo
sbagliato
della propria esistenza.
Sperare
che non avesse influito sulla loro possibile vita futura insieme era
un’assurda
utopia.
Non
era così folle da non esserne cosciente.
Ma,
al contrario, andarsene, avrebbe provocato un’unica, irrevocabile
conseguenza a
quel punto.
Morire.
Non
avrebbe retto, lo sapeva altrettanto bene.
Era
una consapevolezza cruda e drastica.
Ma
oggettiva.
Uscire
di lì e allontanarsi dal fulcro intorno a cui aveva sempre ruotato
tutta la sua
vita, nei giorni spensierati come in quelli bui, avrebbe significato
mettervi
fine una volta e per tutte.
E
lo avrebbe fatto: fosse stato giù da un ponte o sotto un treno.
Senza
di lui non avrebbe più potuto pensarsi in quel mondo, mai più.
Non
adesso.
Non
dopo che finalmente erano riusciti a parlarsi di nuovo.
Rabbrividì
di terrore.
Che
doveva fare?
Era
solo con se stesso per l’ennesima volta.
Solo
con le proprie paure e incertezze.
O
no?
Tornò
a concentrarsi sull’oggetto dei suoi pensieri caotici.
Quanto
bello era?
Piano
mosse una mano per cancellare la minima distanza che li separava,
raggiungendo
quella che Akira teneva sul cuscino accanto alla testa, il palmo aperto
come in
un muto invito.
Si
fermò a pochi millimetri da esso, spaventato di toccarlo e rischiare di
svegliarlo.
Avrebbe
voluto affondarvi le dita e intrecciarle con le proprie.
E
non azzardò.
Si
accontentò di percepirne il lieve tepore: andava bene lo stesso.
Sospirò
inquieto.
Ma
così perso nella sua piccola bolla di effimera felicità, non si accorse
di
quanto il proprio desiderio si trasformasse improvvisamente in realtà
se non
quando le lunghe dita di Akira davvero si insinuarono tra le sue,
paralizzate a
mezz’aria, e si chiusero su di esse, intrappolandole in una morsa
prepotente e
tenera.
Due
polle blu scurissime gli si appuntarono addosso, oltrepassando pelle e
ossa e
conficcandosi nel profondo.
-
Ciao,
amore mio! –
Tre
parole, “quelle” parole, sussurrate a fior di labbra e un unico, fluido
movimento per avvicinarsi a lui e abbracciarlo tutto contro di sé.
Hiro
si ritrovò chiuso in un bozzolo caldo e protettivo e possessivo tra le
lenzuola
e il corpo del dio risvegliato.
E
si dimenticò di inspirare.
Non
poteva più fuggire.
-
Respira,
amore! – Gli comandò la voce giocosa di lui.
-
Io…
scusami, non ti volevo svegliare! – Provò a dire.
Ma
non sentì la propria voce.
Ne
l’ossigeno che gli tornava con difficoltà nei polmoni.
Aki
gli sorrise e gli diede un lieve bacio.
-
Ero
sveglio da qualche minuto. – Gli svelò. -… Cercavo di sentire i tuoi
pensieri!
–
Hiro
sussultò spaventato.
-
Io…
-
-
Non
avere paura, amore mio, andrà tutto bene, te lo prometto! -
Sembrò
che davvero avesse “sentito” le sue riflessioni ingarbugliate.
Ma
non ne rimase sconvolto come avrebbe dovuto.
In
fondo non si erano sempre capiti senza troppe parole?
Questa
consapevolezza infuse una sorta di cauto lenimento alle proprie ferite,
facendolo sentire appena meglio.
Forse
non era solo come pensava.
Forse
non era tutto perduto e rovinato.
Forse…
Si
accorse di essere rimasto rigido nel suo abbraccio.
Allora
si rilassò, solo un poco, cautamente, sempre frenato dall’insicurezza
che
percepiva a fior di pelle e di cui non riusciva a liberarsi.
In
risposta la stretta di Akira si fece un po’ più decisa, mentre una
delle mani
partiva in un lieve massaggio lungo la sua schiena tesa.
Sotto
quello sguardo indagatore che non lo lasciava un istante, raccolse un
profondo
respiro e piegò la testa per nascondere il volto contro il suo collo.
Era
ancora troppo difficile reggerlo senza provare inevitabilmente
imbarazzo e
vergogna.
Forse
col tempo… sarebbe riuscito.
Adesso…
….
Era troppo presto!
L’uomo
sorrise ai suoi capelli e se lo strinse ancor più addosso,
intrappolando anche
le sue gambe con le proprie.
-
Rilassati,
sei al sicuro. –
-
Ho
paura… tanta… -
-
Perché?
–
Sussurri
di parole nella camera silenziosa.
Hiro
scosse il capo, provocando uno sfregamento contro la sua pelle tiepida.
Rabbrividì
di nuovo senza poterci far niente.
-
Non
lo so! – Sospirò affranto. – Non ce la faccio… -
-
A
far cosa? –
-
A
superare tutto questo… non capisco se è un incubo o un sogno… ho solo
paura. –
-
E
se fosse semplicemente la realtà? –
-
La
fai sempre facile tu. –
-
E’
facile: basta andare avanti e vedere che succede, piccolo!! –
Hiro
saltò su di colpo, sconvolto.
Afferrò
la maglia con entrambe le mani, costringendo Akira ad allentare
l’abbraccio e a
fissarlo un po’ sorpreso.
-
Guardami
in faccia… - Gli sibilò, gli occhi di nuovo pericolosamente colmi di
lacrime.
-
Ti
sto guardando, Hiro, e sei bellissimo. –
-
Ohhhh,
ti prego, basta! –
Come
poteva fargli capire?
-
Vuoi
ricominciare a litigare? –
-
No…
non voglio litigare… sono stanco! –
-
Anch’io
sono stanco. Questa giornata non vuol finire a quanto pare. – Replicò
Akira
amareggiato.
Hiro
s’ammutolì all’istante.
Aveva
ragione.
Erano
ore che andava avanti quella specie di stillicidio.
Parole,
a fiumi, che si riversavano tra loro, sfiancandoli.
Si
era fatta sera.
Sarebbe
mai finito quel giorno o ne avrebbero avuto ancora per il resto della
notte?
-
Possiamo
andar via? - Gli
chiese, la voce ridotta
a una flebile, esausta preghiera.
-
Torniamo
in albergo, vuoi? –
-
Si,
per favore, non ce la faccio più a stare qui. –
-
D’accordo,
andiamo allora, forse ti sentirai meglio. –
Il
ragazzo annuì grato.
Poi
si accorse che aveva ancora le mani attaccate al tessuto della sua
canotta e le
ritrasse di scatto.
-
Scusa!
–
Lui
gli sorrise indulgente.
-
Puoi
tenerla se ti fa piacere! – Lo prese in giro.
Ricevendo
in cambio un’occhiata inceneritrice che lo fece scoppiare a ridere.
Lo
sciolse dal proprio abbraccio e scivolò giù dal letto, porgendogli la
mano per
fare altrettanto.
Hiro
accettò in automatico, ritrovandosi messo in piedi con un sol gesto,
vicinissimo al suo fianco.
Lo
guardò da sotto in su un lunghissimo istante, un poco scombussolato
dallo
sguardo sempre dolce e adorante del compagno.
Infine
si sottrasse e si liberò dalla sua presa.
-
Ho
bisogno di cambiarmi. – Balbettò, arrossendo di colpo al ricordo dello
stato in
cui era rimasto dopo l’imprevista, sconvolgente reazione che aveva
avuto il suo
corpo prima che si addormentasse.
E
uscì quasi di corsa dalla stanza.
Akira
scosse il capo continuando a ridere per quel pudore ingiustificato e al
tempo
stesso così incantevole da rimescolargli il sangue d’eccitazione.
Tresor
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo
10
Qualche
tempo dopo scendevano entrambi dalla scala centrale per raggiungere il
piano
terra e salutare.
Il
primo che incontrarono fu Kaede, che in quel momento stava rientrando
dalla
porta sul giardino.
Era
in tuta e accaldato, mentre si detergeva una guancia con un asciugamano
di
spugna blu chiaro.
-
Hey!
– Lo salutò Akira, mentre Hiro rimaneva qualche metro indietro insieme
al
trolley che stava portando con sé, come a volersi nascondere.
Di
lì a qualche istante sopraggiunsero anche gli altri della compagnia,
anch’essi
sudati e un po’ su di giri.
-
Aki!
– Lo accolse Hanamichi, con una pacca sulle spalle. – Siamo andati a
fare due
tiri in palestra, tanto per non perdere l’abitudine. –
-
E
tu avrai sicuramente perso. – Lo provocò l’amico con un sorriso
sornione
stampato in faccia, certo della sua reazione.
Che
esplose all’istante: il giocatore saltò su afferrandolo malamente per
il
colletto della camicia e diventando scarlatto.
-
Checccossa
dici, brutto bastardo, io non posso perdere! – Ruggì sfondando i
timpani di
tutti i presenti con i decibel della propria melodica voce.
Tuttavia
fu chiaro a tutti, al suo obiettivo per primo, che non c’era né forza
bruta
nella sua presa, né livore nel tono.
Era
solo il solito gioco di sfottò che era diventato il rito preferito di
tutti.
Soltanto
Hiroaki sobbalzò spaventato a quella presunta aggressione,
Non
aveva certo dimenticato quanto Hana fosse facilmente infiammabile anche
da
ragazzino, suscettibile e pronto a fare a botte con chiunque lo
provocasse.
Kaede
passò accanto al suo compagno, gli diede uno schiaffo sul sedere, e
andò oltre.
-
E’
stato bravo! – Buttò là casuale e atono, noncurante quasi.
Hana
si ringalluzzì immediatamente, mollando la presa su Akira, e scoppiò a
ridere,
tutto felice che il suo uomo gli avesse manifestato il proprio
riconoscimento
pubblicamente, visto che per indole era palesemente restio a simili
complimenti.
-
Ve
ne andate? – Esordì Hisashi, passando lo sguardo da Akira a Hiro, che
sfuggiva
tutti tenendo il capo rivolto altrove, e ritornando a concentrarsi sul
primo.
L’amico
annuì con un lieve sorriso.
-
Davvero
non volete restare? – Fece Kaede, soffermandosi sul compagno di squadra
e sul
suo ragazzo.
Che
però non volle incontrare il suo sguardo.
-
Grazie,
ma preferiamo tornare in hotel per ora. – Rispose Akira per entrambi.
Hana
lo fissò qualche istante, ovviamente consapevole delle motivazioni di
quella
partenza.
Gli
dispiaceva.
Anche
se capiva.
Akira
ricambiò il suo sguardo con un’espressione serena disegnata sul volto,
come a
sottolineare che non provava alcun risentimento nei suoi confronti per
quel che
era successo.
Ed
era sincero.
-
Noi
siamo qua. – Volle rassicurarlo.
-
-
Ci sentiamo nei prossimi giorni. – Promise lui.
Hana
lo attirò a sé con il braccio sinistro, abbracciandolo d’impulso in una
stretta
brusca e affettuosa, prontamente ricambiato dall’amico.
Poi,
lo aggirò e si diresse verso Hiroaki, rimasto impalato indietro.
Il
quale, nel vederlo avvicinarsi, trasalì terrorizzato e provò l’impulso
di fare
un passo indietro come a cercare una via di fuga da un suo possibile
assalto.
Per
un momento l’aria, in effetti, si cristallizzò intorno a loro.
Akira
girò su se stesso, ma non si mosse subito, sicuro che non ci fosse
alcun
pericolo.
-
Spero
accetterai le mie scuse per quel che è successo oggi. – Attaccò
Hanamichi, il
timbro di voce insolitamente serio e posato.
Hiro
lo fissò poco conciliante e non si curò certo di nasconderlo.
-
Non
sto dicendo che non pensavo tutte le cose che ti ho detto.
Le
pensavo e le penso. – Il giovane sgranò gli occhi allibito da tanta
sfrontatezza. – Devi capire, Hiro, Aki è un caro amico, e vederlo star
male e
come far male di conseguenza anche a noi.
In
questi anni abbiamo imparato a sostenerci e soccorrerci quando abbiamo
avuto
bisogno l’uno dell’altro.
Questo
ha significato molto vivendo in una terra straniera.
E
quando uno di noi ha qualche problema, tutti noi altri reagiamo
d’istinto.
Perciò
il casino di oggi era quasi inevitabile per come la vedo io.
Ciò
non toglie che ognuno di noi gestisce la propria vita in totale libertà.
E
gli altri ne rispettano le scelte, anche quando non le condividono.
Aki
è parte della nostra famiglia, chi lo tocca deve fare i conti con gli
altri. –
Quelle
parole suonarono come una minaccia alle orecchie di Hiro.
Tuttavia
continuò a rimanere in silenzio.
Intanto
Kaede s’era avvicinato al marito come a voler mitigare il suo tono
vagamente
intimidatorio.
_
Quel che vuol dire Hana… - Prese la parola, passando un braccio intorno
alla
vita del compagno, che lo lasciò volentieri proseguire. - … è che,
qualunque
cosa decidiate tu e Akira, sei il benvenuto tra noi.
Il
tempo aiuterà tutti noi a capirci e, spero, a dimenticare questo
giorno… se tu
vuoi! –
Hiro
fece un cenno di assenso con il capo, ma non disse niente.
Voleva
solo andare via.
Non
aveva la serenità necessaria per dare il giusto valore alle parole che
gli
venivano rivolte, anche se, ne era convinto, fossero in buona fede.
E
per questo preferì non rispondere.
Akira
lo trasse d’impaccio, prendendolo per mano, intrecciò le dita con le
sue e le
strinse forte come a rassicurarlo che andava tutto bene.
-
Grazie,
ragazzi… di tutto. – Rispose per entrambi. – Buonanotte. –
Guidò
il compagno fuori dalla porta fin sotto il portico.
Per
un attimo fu tentato di chiedergli di aspettarlo lì mentre andava in
rimessa a
tirar fuori l’auto.
Ma
poi ritenne non fosse il caso di lasciarlo da solo con gli altri, e se
lo tirò
dietro, lui e il suo trolley, fino al garage sul retro.
Sistemati
i bagagli, gli aprì la portiera, invitandolo a sedersi.
Hiro
obbedì, sempre turbato da quel gesto galante.
Dopo
di che lo vide mettersi alla guida, accendere il motore, che subito
rombò
furioso nel silenzio della sera, e la fuoriserie scivolò liquida e
potente sul
vialetto fino al cancello, che si stava aprendo, e uscì in strada.
Trascorsero
diversi minuti, ognuno chiuso nei propri pensieri.
Akira
concentrato sulla strada, la luce azzurra del cruscotto che creava
misteriosi e
inquietanti arabeschi sul suo volto.
Hiro,
la testa girata appena verso il finestrino a fissare il paesaggio scuro
che
scorreva fuori rapido man mano che la vettura acquistava velocità.
Dopo
un po’ si sentì posare una mano sul ginocchio ed ebbe un lieve
trasalimento,
sorpreso.
Portò
l’attenzione a quel gesto, scorgendo le dita dell’uomo ferme sulla
stoffa dei
suoi jeans.
Il
calore del contatto gli si propagò lungo tutto l’arto, soffondendogli
di
brividi la pelle, e gli suscitò al tempo stesso ansia e conforto.
Trovò
il coraggio di ruotare ancora un poco il capo nella sua direzione, ma
lui
continuava a fissare la strada, intento a dar fondo all’acceleratore.
Rifletté
che quell’auto gli metteva addosso una sorta di inquietudine quando la
spingeva
a velocità sempre crescente.
Ma
non era la voracità con cui bruciava l’asfalto a spaventarlo, quanto il
fatto
che Akira lo faceva quando non era tranquillo.
Aveva
imparato a intuirlo in quelle settimane passate insieme.
Semplicemente
standogli accanto e percependo il mutamento di luce sul suo viso o nei
suoi
occhi espressivi.
E
ora, nelle ombre dell’abitacolo, in cui le uniche luci erano quelle
della
strumentazione, l’espressione che gli leggeva mentre osservava il suo
profilo
perfetto, gli suggerivano che era tutto tranne che sereno.
D’istinto
portò la propria mano vicino alla sua.
Aki
la ghermì impossessandosene, seppur con un movimento controllato, e si
mosse un
po’ più su, fermandosi sulla coscia.
Hiro
percepì la stretta convulsa e ne ebbe timore.
Tuttavia
non disse niente.
Soltanto
scivolò un poco sul fianco andando a reclinare la testa sulla sua
spalla.
Il
compagno non ebbe alcuna reazione evidente, ma in risposta la velocità
della
Porche si ridusse quel tanto da non essere più minacciosa.
Il ragazzo provò un istantaneo sollievo e rimase in quella posizione
per tutto
il tragitto fino alla capitale, istintivamente persuaso di aver calmato
un poco
il suo animo.
Tresor
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Capitolo
11
Davanti
all’ingresso dell’hotel, un addetto del personale li salutò e prese in
consegna
la fuoriserie per portarla in garage, mentre i due passeggeri
scendevano con i
bagagli e si avviavano verso uno degli ascensori di vetro.
La
card magnetica fece scattare la serratura della porta della suite nel
silenzio
del lungo corridoio.
Si
richiuse alle loro spalle intanto che le luci si accendevano
automaticamente.
Akira
abbandonò il proprio trolley nei pressi e seguì con lo sguardo Hiro che
avanzava
più in là.
Il
ragazzo si guardò intorno come a sincerarsi che tutto fosse rimasto
come
l’avevano lasciando partendo qualche giorno prima.
Si
fermò davanti alla grande vetrata che dava sullo skyline della città,
immersa
nel buio della notte e nelle mille luci degli altri grattacieli.
E
non lo sentì raggiungerlo, i passi ovattati dalla moquette.
Se
non quando la voce dell’uomo gli fu a pochi centimetri dall’orecchio,
mandandogli un brivido traditore lungo la schiena.
-
Vuoi
uscire a cena fuori o preferisci che ordiniamo qui? – Si sentì chiedere
in un
semplice sussurro.
Incontrò
l’immagine di Akira che si rifletteva sulla superficie lucida del vetro.
-
Preferirei
rimanere qui, se per te fa lo stesso. – Espresse a bassa voce,
fissandolo
soltanto un momento. – Non ho voglia di stare in mezzo alla gente. -
Lui
gli sorrise.
-
D’accordo,
chiamo il servizio in camera. Vuoi qualcosa in particolare? –
-
Decidi
tu, va bene lo stesso. –
L’immagine
rifratta assentì e si allontanò.
Hiro
sospirò, un peso immane sul petto a schiacciarlo.
Sentì
la voce profonda e sicura di Akira che parlava con qualcuno al telefono.
Non
aveva fame, a dire il vero, lo stomaco ancora stritolato dalla morsa
permanente
che non lo aveva lasciato un istante in quella lunga giornata.
Ma
avrebbe fatto finta di piluccare qualcosa tanto per non deludere le
aspettative
del proprio ospite.
In
realtà l’unica cosa che davvero desiderava con tutto il cuore a quel
punto era
chiudersi nella stanza che gli era stata assegnata e andare a dormire,
provando
a escludere ogni brutto pensiero fosse stato anche con l’aiuto di un
sonnifero.
Tuttavia
fu consapevole, nell’istante in cui formulò quel desiderio in sé, che
la sua
sarebbe rimasta una misera e impossibile ambizione.
Sarebbe
stata una lunga notte, si disse sgomento e rassegnato.
Qualcuno
bussò alla porta parecchi minuti dopo.
Un
addetto al piano condusse il carrello della cena in stanza appena Akira
andò ad
aprire.
Fu
cordialmente licenziato e la porta si richiuse.
Hiro
registrò appena i rumori alle sue spalle, paralizzato lì dove si era
fermato,
rifiutandosi mentalmente di distinguere le immagini che pur scorrevano
sulla
superficie scura davanti a sé, come fosse stato un enorme schermo,
rincorrendo
le luci esterne piuttosto che quelle all’interno.
Suo
malgrado, però scorse la figura alta e slanciata di Akira che gli
ritornava
alle spalle.
Doveva
essersi cambiato perché adesso indossava i pantaloni scuri del pigiama
e la
camicia dello stesso, lasciata negligentemente aperta a mostrare la
pelle
scolpita del torace e degli addominali.
E
a piedi nudi avanzava per raggiungerlo.
Il
ragazzo non poté impedirsi di provare un violento rimescolamento
all’altezza
dello stomaco, sconvolto irrimediabilmente da quell’immagine ammaliante.
Per
l’ennesima volta in tutti quei giorni insieme, si domandò se Aki fosse
consapevole del proprio fascino e lo usasse con deliberata provocazione.
O,
più probabile, se ancora da qualche parte era rimasto quello che lui
ricordava,
era semplicemente naturale e incurante dell’effetto che faceva il suo
corpo
impunemente mostrato.
Raccolse
un profondo respiro, tentando di trovare il coraggio di tenere a freno
le
proprie emozioni, ma non ne fu molto sicuro, mentre girava su se stesso
per
ritrovarselo non più riflesso, ma davanti in tutta la sua sfrontata
invadenza.
-
E’
pronto, vuoi venire? –
Si
sentì chiedere da un sorridente Akira, ignaro del suo stato d’animo.
Hiro
inghiottì aria e fece un cenno impercettibile con la testa.
Lo
seguì, lo stomaco sempre più chiuso e dolorante, e un imprevisto,
imbarazzante
irrigidimento delle sue parti basse.
Pregò
disperatamente che lui non se ne accorgesse.
Sull’immenso
tavolino di cristallo, davanti al divano, erano stati deposti due
vassoi con
del sushi, disposto ad arte da mani sapienti, due calici e una
bottiglia di
vino bianco di una nota marca.
-
Ho
pensato che volessi qualcosa di leggero. –
-
Grazie,
va bene. –
-
Non
vuoi metterti più comodo prima di mangiare? –
Il
ragazzo non seppe come interpretare le sue parole.
Si
limitò a scuotere il capo.
Akira
non aggiunse altro, gli fece un gesto con la mano per invitarlo a
sedersi.
Lo
vide accomodarsi sull’orlo della penisola del divano, lontano da dove
sarebbe
stato logico prender posto, e cioè davanti al tavolino, ma non glielo
fece
notare.
Tempo
e spazio.
Si
impose, paziente, e sedette a sua volta poco distante, deciso a
concedergli
tutto il tempo che gli serviva e a non invadere troppo il suo spazio
per non
soffocarlo.
Perché,
lo vedeva, Hiro sembrava muoversi come su un campo minato, concedendosi
di
respirare lo stretto necessario per pompare aria sufficiente nei
polmoni.
E
non riusciva a rilassarsi.
Completamente.
Nemmeno
nel loro viaggio di ritorno, quando gli si era accoccolato sulla
spalla, lo
aveva sentito lasciarsi andare.
Anzi,
ancora si sorprendeva del suo gesto.
Ma
ne era stato felice, malgrado il suo disagio fosse palpabile.
Tempo
e spazio.
Si
ripeté silenziosamente come un mantra.
Sapeva
che ricondurlo a sé non sarebbe stata impresa facile.
Troppe
barriere.
Troppe
parole ancora da dire.
Troppe
verità da pronunciare.
Non
tutte quella sera.
Non
tutte insieme almeno.
-
Hiro?
– Lo chiamò piano.
Il
giovane trasalì e lo guardò.
-
Scusami,
ho dimenticato di lavarmi le mani. – Scattò più nervoso di quanto
avesse
previsto.
-
O..
ok, ti aspetto! –
Lo
vide rimettersi in piedi e avviarsi verso il corridoio.
Quando
scomparve alla vista, sprofondò nel divano, lasciandosi andare contro
la
spalliera.
Con
una mano cercò il telecomando delle luci che aveva lanciato lì vicino,
e regolò
l’illuminazione, diminuendone l’intensità.
L’immensa
stanza cadde in una penombra accogliente e meno invasiva.
Si
dispose ad attendere.
L’acqua
scorse fresca e rapida dal rubinetto del lavandino, appena fu sfiorata
la
fotocellula sensibile.
Hiro
si lavò le mani e si rinfrescò il viso accaldato, sperando così di
raffreddare
il resto del proprio corpo agitato.
Il
getto si arrestò nel momento in cui si allontanò e il liquido
trasparente
mulinò nello scarico.
Sollevò
lo sguardo all’enorme superficie riflettente davanti a sé e l’immagine
che lo
specchio gli sbatté in faccia non gli piacque granché.
Aveva
gli occhi arrossati e stanchi, con delle occhiaie paurose.
La
pelle pallida e tirata.
Le
labbra esangui e serrate.
Faceva
schifo.
Giudicò
impietoso, distogliendo gli occhi.
Puntò
le mani sul bordo della vaschetta di porcellana, fece un passo
indietro,
incurvandosi e lasciò cadere la testa pesante in avanti.
Non
se la sentiva di ritornare subito di là: percepiva chiaramente il
proprio corpo
stravolto da una serpeggiante eccitazione che gli pizzicava la pelle.
Ogni
terminazione nervosa risvegliata da una violenta ondata di calore che
si
propagava dalla punta dei piedi, risaliva rapida e si concentrava come
una
bolla urgente e pulsante tra le gambe, rendendogli improvvisamente i
pantaloni
troppo stretti e l’erezione dolorosa.
L’immagine
di Akira stampata nel cervello, bello e seminudo, e ignaro, e quel suo
profumo
familiare e sottile, inusitatamente gli risvegliava sensazioni che non
provava
più da anni.
Che
non aveva più provato per nessuno dopo che era rimasto solo, neppure
per
qualcuno dei clienti che si erano succeduti in agenzia.
Quel
piacere strisciante, insinuante e sconvolgente che aveva provato
quell’unica,
indimenticabile, volta e che nessun altro uomo era stato in grado di
replicare,
ora lo aggrediva cogliendolo drammaticamente impreparato.
Negli
anni era stato un susseguirsi meccanico di reazioni automatiche,
indotte dalla
mera stimolazione fisica di mani e corpi sconosciuti, durante centinaia
di
amplessi tutti uguali e insignificanti pur nelle loro variabili, che
non erano
mai riusciti a raggiungere e toccare la sua mente, e meno che mai il
suo cuore.
Quante
volte aveva pensato incurante di essere diventato impotente e
insensibile, a
dispetto delle risposte del proprio corpo?
E
adesso, eccola di nuovo, “quella” sensazione che gli esplodeva dentro,
avvolgendolo come una fiamma, e distruggeva ogni convinzione cementata
nel
tempo.
Eccola,
percepirla e provarla ancora e soltanto per l’unica persona che l’aveva
creata
per lui, gliel’aveva fatta assaporare e gliel’aveva piantata dentro,
conficcandola nel profondo come la lama di un pugnale affilato.
Il
cuore aumentò i battiti, suscitandogli un lieve mancamento.
Doveva
esserne felice o spaventarsene?
Non
seppe deciderlo.
L’unica
cosa di cui era certo in quel momento era la tempesta che si era
scatenata
dentro di sé e l’inadeguatezza a disciplinarla.
Semplicemente
perché non era preparato.
Così
si prese qualche minuto.
Il
tempo di darsi una calmata.
Si
disse nel tentativo di convincersi a riprendere il controllo di sé.
Perché
malgrado tutto, in quel momento, nello stato di prostrazione in cui
era,
sfinito dalle mille emozioni di quella giornata assurda, non avrebbe
voluto che
accadesse nulla tra loro.
Per
quanto una parte di sé lo desiderasse costantemente, soverchiando la
ragione e
il buonsenso.
Non
DOVEVA accadere nulla.
Anche
se lui lo provocava, sebbene involontariamente – o no? – mostrandosi
con quel
pigiama nero che nulla lasciava all’immaginazione, rilucendo sulla sua
pelle
bianca e perfetta.
Non
DOVEVA!
Infine
si tirò su e raccolse un altro, l’ennesimo, profondo respiro.
Le
condizioni non erano migliorate granché, ma forse poteva azzardare a
mostrarsi
senza suscitare l’attenzione della causa di tutti i suoi guai.
Se
lo ripeté mentalmente mentre gettava un’ultima occhiata ostile alla
propria
immagine riflessa.
Si
passò le dita tra i capelli per darvi un senso, ma le ciocche ribelli
non
vollero intendere e alcune gli ricaddero sulla fronte.
Le
ignorò prima di cedere all’impulso irrazionale e rabbioso di
strapparsele e
uscì dalla stanza.
Sgomento
si ritrovò Akira a pochi passi da lui e trasalì vistosamente.
-
Scusa,
non volevo spaventarti, è che stavo venendo a vedere che fosse tutto a
posto:
sei stato chiuso dentro per parecchio tempo. –
La
sua risata leggera, mentre gli parlava, gli riscaldò il cuore per un
istante,
facendogli dimenticare lo spavento.
-
Mi
spiace, non mi ero accorto! – Mentì in un sussurro, subito distogliendo
lo
sguardo.
Il
giocatore gli fece scorrere un braccio intorno alle spalle,
avvicinandolo un
poco a sé, e lo sospinse gentile a seguirlo.
La
seta nera scivolò appena di lato con il movimento dell’arto,
scoprendogli parte
del torace: una folata di profumo avvolse il ragazzo come un secondo,
impalpabile abbraccio, mandandogli i sensi in ulteriore confusione.
-
Stai
bene, si? –
-
Si,
grazie. – Ma il cuore di Hiro riprese a battere impazzito al centro del
petto.
Di
quel passo non sarebbe sopravvissuto, pensò, curandosi di non fissarlo.
Sedettero
vicini sul morbido divano e solo allora si accorse che l’atmosfera era
mutata
dalle luci abbassate.
Di
male in peggio!
-
Mangia
qualcosa, ti prego, è tutto il giorno che non tocchi praticamente
nulla. – Gli
chiese Akira, offrendogli un piatto colmo di sushi.
Lui
lo prese meccanicamente e se lo poggiò sulle gambe unite.
Per
un momento ne fissò il contenuto chiedendosi che cosa farne, quasi
avesse
dimenticato il significato stesso di quel che aveva davanti.
Poi
scacciò quell’assurdo interrogativo e prese un quadratino di pesce con
le dita
portandoselo alla bocca.
Lo
masticò piano, lasciando che il cervello ne recepisse il gusto e la
consistenza.
E
si accorse che rimanevano quasi indifferenti, lui, la testa e lo
stomaco,
malgrado, ne era certo, sapesse che quel sushi fosse della miglior
qualità e
costasse anche uno sproposito.
Pur
inappetente, si sforzò di mandar giù qualche boccone in più, giusto per
non
provocare ulteriore attenzione da parte del compagno, che era rimasto a
fissarlo con un sorriso d’incoraggiamento disegnato sulla bella bocca.
-
E’
buonissimo. – Mormorò, sentendosi in dovere di commentare.
-
Sono
contento che ti piaccia. – Approvò Aki annuendo felice.
Stette
a guardarlo mangiare per qualche minuto, seguendo ogni suo gesto.
Dopo
un po’ gli scostò una ciocca di capelli dalla guancia, portandogliela
dietro
l’orecchio, dove la sistemò perché stesse ferma.
E
lasciò che le dita indugiassero sulla sericità e la morbidezza di
quella
porzione di pelle.
Hiro
si arrestò turbato e dal gesto e dal tepore che gli stava trasmettendo
alla
guancia.
-
Ti
stanno bene i capelli così. – Sussurrò l’uomo con un tono di voce più
basso,
accarezzandolo con uno sguardo colmo di affetto. – Non li hai mai
portati tanto
lunghi. –
-
Gr…
grazie. –
-
Ti
senti un po’ più tranquillo, amore mio? –
Il
giovane deglutì a vuoto: ogni volta che sentiva pronunciare quelle due
parole
era una stoccata nelle costole.
Ed
erano dolore e felicità al tempo stesso: gli piaceva così tanto
chiamarlo in
quel modo.
Gli
era sempre piaciuto fin da quando si erano dichiarati la prima volta.
Gli
sovvenne il ricordo traditore.
Istintivamente
reclinò appena la testa verso la sua carezza morbida, lasciando che la
guancia
strusciasse contro i polpastrelli, ma non disse nulla, ben consapevole
che
qualunque cosa avesse risposto, sarebbe stata una bugia, ‘che non era
tranquillo proprio per niente.
Aki
si chinò su di lui, sfiorandogli le labbra con un bacio, assaporando
lui e il
gusto del sushi che gliele inumidiva.
Pietà!
Implorò
Hiro dentro di sé, disperato, non osando fare un solo fiato.
Lo
sentì ridere d’un tratto a un soffio dalla sua bocca.
-
Respira,
piccolo, respira! – Gli disse sempre più sensuale.
-
Non
prendermi in giro! –
-
Non
lo farei mai. – Il blu cobalto delle iridi piantate nelle sue dilatate
dall’ansia.
-
Stai
ridendo di me. –
-
Non
è vero, sei delizioso! -
-
E
tu un deficiente! –
Appena
pronunciò l’insulto si pentì: aveva fatto un passo falso?
Se
lo chiese mentre il sorriso sul volto davanti a sé si allargava invece
di
avvizzire.
-
Ma
lo sai quanto tempo era che non mi apostrofavi così? – Esultò Akira con
un
entusiasmo che il ragazzo non riuscì a spiegarsi.
Certo
che lo sapeva da quanto non lo rimbrottava con il suo aggettivo
preferito e che
più gli si attagliava: da quando si erano separati.
Glielo
diceva così spesso quando erano ragazzini.
Se
lo meritava tutte le volte per il suo atteggiamento sempre e
costantemente
leggero e felice.
Perché
non prendeva quasi nulla sul serio, forte della sua filosofia
la-vita-è-bella-perché-farci-problemi-inutili? che gli faceva
affrontare tutto
a cuor leggero.
E
per questo entrando spesso in contrasto con lui, più posato e
riflessivo, e
caratterialmente più pessimista.
Esasperandolo
e facendolo andare in escandescenze una volta su due.
S’accorse,
mentre si perdeva in quella riflessione, di quanto, invece di
offenderlo, lo
avesse reso contento.
Beh…
non che Akira se la fosse mai presa davvero.
Anzi,
di solito gli veniva da ridere.
O
da guardarlo con uno dei suoi classici sguardi da gatto sornione che
avrebbero
puntualmente smontato ogni sua velleità di punirlo per qualcosa a
seconda del
caso.
Impossibile.
Questo
era sempre stato quell’uomo.
Impossibile
da scoraggiare o da smontare.
Quante arrabbiature si era preso?
Aveva
perso il conto.
Ricevette
un altro bacio a fior di labbra, ma stavolta si permise di sorridere
appena,
felice di aver ritrovato un pezzettino del vecchio compagno di quegli
anni.
Forse,
da qualche parte di lui, c’erano ancora piccole schegge di ciò che era
stato
quando la vita era quella quotidiana di ogni adolescente pieno di
voglia di vivere
e di aspettative e di progetti.
E
niente aveva dilaniato o indurito il suo entusiasmo.
Sperò
con tutto il cuore di poterne rintracciare altre e mettere insieme i
cocci.
…
Con quel che restava di sé.
-
Ridillo!
–
-
Cosa?
–
-
Insultami
ancora! –
-
Che?
-
-
Daiiii!
–
Aki
lo baciò ancora in attesa che l’accontentasse, regalandogli sempre quei
baci
casti e lievi.
E
ancora.
E
di nuovo.
-
Se
non la pianti di baciarmi come faccio a parlare, deficiente? – Sbottò
Hiro di
colpo, alterandosi di riflesso, ma senza convinzione.
Non
si scostò tuttavia da lui e dal contatto con la sua vicinanza, le sue
dita
sulla guancia e la sua bocca irriverente e morbida sempre lì a un
respiro da
sé.
Per
niente al mondo sarebbe stato disposto a staccarsi da tutto quello,
qualunque
cosa fosse.
Il
cuore gli ballava in mezzo allo sterno, e assordava la ragione, che pur
tentava
di imporsi al di sopra del chiasso che faceva.
In
un batter d’occhio si ritrovò stretto in un abbraccio soffocante che
quasi lo
stritolò.
Un
angolino della mente gli fece registrare che il piatto sulle ginocchia
stava
per fare un volo sul tappeto.
Istintivamente
lo afferrò perché non cadesse mentre l’ossigeno gli si frantumava tra i
polmoni
e la gola.
Ma
Akira lo liberò subito, venendo in suo soccorso, e lo aiutò a tenerlo.
Così
facendo gli sfiorò il tessuto dei jeans tra le gambe, poco più su del
ginocchio, in un gesto in verità casuale, null’affatto intenzionale o
provocatorio.
Tuttavia
tanto bastò perché Hiro, in preda al panico, reagisse con uno scatto
nervoso, allontanandogli
la mano con una specie di schiaffo.
-
Hey,
tranquillo, non voglio far niente! – Cercò di rassicurarlo l’altro
sincero.
-
Mi
dispiace, scusami… io… tu… -
Scattò in
piedi irrequieto, portando il piatto con sé, completamente dimentico
dell’uso
che ne dovesse fare.
Anzi,
lo abbandonò sul tavolino rapidamente e mosse qualche passo lontano
sotto lo
sguardo perplesso di Akira.
Che
gli concesse soltanto qualche attimo prima di raggiungerlo.
Con
un gesto fluido e delicato, gli fece scivolare le braccia intorno ai
fianchi, e
se lo tirò contro piano, facendo aderire la sua schiena al proprio
petto.
Piegò
il capo sulla sua spalla, affondando il volto nel suo collo bollente e
attese
interminabili istanti che si tranquillizzasse, percependo e assorbendo
distintamente
l’inquietudine che lo scuoteva.
-
Mi
dispiace. – Pigolò il ragazzo in un sussurro, rabbrividendo da capo a
piedi. –
Tu hai pagato per avermi, non ho il diritto di sottrarmi, scusami, non
volevo…
-
La
presa intorno a lui si fece più drastica, provocandogli un principio di
soffocamento.
-
Non
dire cazzate, te lo proibisco! – Il sibilo feroce che gli sfiorò
l’orecchio gli
fece dubitare di chi fosse quella voce. – Tu sei mio, ma non è per
“averti” che
ho pagato.
Calmati
adesso, stavo solo cercando di aiutarti a tenere il piatto prima che si
rovesciasse, nient’altro. –
-
Perdonami,
sono stanco, non… non so più neppure che sto facendo. –
Immediatamente
l’abbraccio ritornò dolce e pieno d’affetto, permettendogli di
respirare.
Hiro
girò un poco la testa alla sua sinistra, incrociando il respiro caldo e
lo
sguardo adorante di Akira.
Ebbe
tuttavia la sensazione netta e paralizzante che se si fosse voltato un
momento
prima, si sarebbe scontrato con un muro di ghiaccio ostile.
Non
volle soffermarsi, intimorito.
-
Andiamo
a dormire. – Gli disse lui conciliante. – Questa giornata è stata
davvero
troppo lunga… -
Gli
stampò un bacio leggero sulla bocca socchiusa e lo liberò dalla propria
stretta.
Lo
prese per mano e lo accompagnò fino alla porta della sua camera, aprì e
ve lo
sospinse gentile, inoltrandosi soltanto di un metro all’interno.
Qui
lo strattonò leggero, riavvolgendolo nel proprio abbraccio e lo baciò
per
l’ennesima volta senza alcuna pretesa, con casta e limpida devozione,
come se
stesse sfiorando un oggetto prezioso e fragile.
-
Buonanotte,
amore mio! – Si congedò, l’espressione riverente e affettuosa negli
occhi e il
timbro di voce così suadente che tanto bene gli riusciva, e che mandava
in
crisi la sua vittima.
Infine
tornò sui suoi passi e si richiuse la porta alle spalle.
Lasciando
un Hiro attonito e stordito, avvolto in una scia intensa di profumo,
impossibilitato a capacitarsi di cosa fosse successo nel giro di un
istante.
Tresor
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Capitolo
12
Venti
minuti dopo un trillo elettronico infranse il silenzio della sala
immersa nel
buio della notte.
Chiuso
nei propri pensieri, Akira appena registrò la vibrazione.
Si
tirò fuori guardandosi intorno, cercando di ricordarsi dove avesse
lasciato lo
smartphone.
Il
bagliore azzurrognolo dello schermo si palesò sulla consolle alle
spalle del
divano, spegnendosi appena lo ebbe notato.
Facendo
uno sforzo, lasciò la poltrona in cui era sprofondato, e si avviò verso
il
mobile.
Avrebbe
potuto ignorare il suono, chiunque fosse lo scocciatore che disturbava
a
quell’ora.
Ma
poi pensò che forse Hana o uno degli altri gli mandavano un messaggio
per
chiedergli come stesse, e non se la sentiva di far finta di niente:
poteva
cancellare chiunque, procuratore e allenatore compresi, ma non i suoi
amici.
Recuperato
il dispositivo, sfiorò lo schermo e si accorse che ad avergli inviato
un
messaggio su whatsapp era stato Hiroaki.
Ne
fu talmente sorpreso che istintivamente ruotò la testa in direzione
della porta
della camera del ragazzo, quasi si fosse aspettato di vederlo uscire da
un
momento all’altro.
Ma
ovviamente non fu così.
Tuttavia
attraversò la stanza a lunghe falcate e si fermò davanti l’uscio.
Avrebbe
fatto prima a entrare e a sentire cos’avesse da dirgli piuttosto che
utilizzare
un cellulare.
Gli
suggerì l’istinto.
Eppure
rimase immobile a riflettere: se Hiro aveva scelto quel canale per
comunicare
con lui, probabilmente non se la sentiva di fare altrimenti.
Così
si arrese e decise di non forzare la situazione: gli andava bene
qualunque cosa
pur di parlare con lui e non rimanere a interrogarsi da solo coi propri
pensieri.
“Aki?”
Un
semplice richiamo in neretto campeggiava sullo sfondo aranciato del
messenger.
“Sono
qui,
amore mio!” Scrisse rapido e inviò.
Mentre
aspettava una risposta, scivolò giù e sedette sulla soffice moquette,
le spalle
poggiate alla parete, le gambe incrociate e le mani abbandonate nel
mezzo a
tenere lo smartphone.
Lasciò
vagare lo sguardo intorno nella stanza Illuminata solo dalle luci che
provenivano dallo skyline della vetrata, e in quel momento si rese
conto che il
cuore gli stava battendo un po’ ansioso nel petto.
Inquietudine.
Definì
la sensazione che avvertiva.
Nel
non sapere che parole gli sarebbero arrivate.
Per
distrarre il tempo, sfiorò nuovamente il touchscreen ed entrò nei
contatti alla
ricerca del nome con cui aveva archiviato il numero di Hiro.
Pigiò
la funzione “modifica” e al posto del nome del giovane scrisse “amore mio”.
E
salvò.
Rientrando
in whatsapp comparve la variazione e sorrise, sentendosi un po’ scemo:
sembrava
un liceale smielato che mandava cuoricini ed emoticons romantiche alla
propria
fidanzatina.
Hiroaki
lo avrebbe di certo guardato storto.
Il
trillo di un nuovo messaggio in arrivo lo distolse da quelle
sciocchezze.
Il
testo comparve sullo sfondo arancio.
Aki… ma
tu
davvero vuoi ancora accanto a te uno come me?
Non
ebbe bisogno di prendersi alcun tempo per replicare.
“Più di ogni altra cosa al mondo!”
Ancora
un paio di interminabili, snervanti, minuti.
Ho
paura…
tanta!
“Di
cosa?”
…
…
Di
danneggiarti… non voglio…
“Danneggiarmi?”
…
…
Se si
venisse
a sapere… che stai con un ex escort, sarebbero guai!
“In
America
non si fanno di queste paranoie”
…
…
Aki… tu
sei un
basketman famosissimo.
Un
fotomodello
richiesto dalle riviste più prestigiose.
Dalle
case di
moda.
Che
accadrebbe
se venisse fuori che ti sei scelto per compagno uno come me?
Sarebbero
seccature anche nella democratica e libera America, lo sai!
“Hai
dimenticato che sono anche un talento maledetto: sarebbe proprio nel
mio stile
avere un fidanzato dal passato singolare.”
…
…
Passato
singolare…. Che eufemismo! ...
“Nessuno
deve
dirmi chi devo scegliermi come compagno di vita!”
…
…
…Compagno
di
vita… io? ...
“Tu,
amore
mio! … Nessun altro mai…”
…
…
Aki?
“Dimmi!”
…
…
Vorrei…
dirti
che ti amo tanto… ma non so se ne ho il diritto!!
L’uomo
lesse quelle parole e gli parve quasi di sentire un singulto disperato
uscire
dalle labbra del giovane dall’altro lato del muro.
Eppure
non sentì nessun rumore, tranne il silenzio ovattato dell’ambiente in
cui era
da solo.
Gli
si strinse il cuore al tempo stesso felice e affranto per quel suo
sentirsi
indegno del più naturale dei sentimenti.
“Dimmelo,
ti
prego, non sai quanto ho bisogno di sentirtelo dire!”
Gli
scrisse, pregando che insieme a quello sterile messaggio elettronico
gli
giungesse anche l’urgenza del proprio desiderio.
E
tuttavia passarono altri lunghi istanti, prima che il display si
illuminasse di
nuovo e il trillo familiare gli giungesse alle orecchie.
Ti amo…
più
della mia vita… sempre!
Akira
si strinse lo smartphone al petto come se avesse avuto Hiro tra le
braccia e
rimase così per attimi lunghissimi, il cuore che gli batteva
fortissimo, il
sangue che gli pulsava furioso in gola, facendolo rabbrividire fin nel
profondo.
Quanto
tempo avevano perso?
Per
cosa?
Per
l’ennesima volta quelle domande gli riecheggiarono angoscianti nella
testa.
“Non mi
importa di quel che pensano gli altri, amore, tu sei mio e nessuno
dovrà mai
osare interferire.”
…
…
Io
vorrei solo
che tu stessi bene, Aki, affronterei qualunque pregiudizio per te.
Qualunque
avversità … anche il disprezzo e l’umiliazione…. Purché tu stessi bene!
“Starò
bene
solo se starai accanto a me, sempre. Abbiamo già perso tanto di quel
tempo che
non ci basterà il resto della vita per recuperare!”
…
…
Aki?
“Si’”
…
…
Perdonami!
Farò
qualunque
cosa perché tu possa perdonarmi tutto il male che ti ho fatto…
“Non ho
nulla
da perdonarti, amore mio, avrei voluto solo che tu avessi parlato con
me… anche
dopo che sono partito… “
…
…
E come
avrei
potuto?
A quel
punto
mi odiavi… che cosa avrei potuto dirti senza che tu mi respingessi?
E
credimi, ci
ho pensato tanto, soprattutto quando arrivavo al punto da non reggere
più
quello che ti avevo fatto.
Avrei
voluto
chiamarti… spiegarti i miei perché…
“Non ti
ho mai
odiato anche se ho provato a farlo, forse sarei stato meglio.
Ma
tutte le
volte che ho tentato, ogni cellula del mio corpo si ribellava perché
era una
sensazione che non sarei mai riuscito ad associare a te.
Non ho
mai
capito il tuo comportamento, ignorando la verità, ma non l’ho mai
nemmeno
accettato perché non eri tu.
Ti
conoscevo
così bene, non era possibile che qualcosa mi fosse sfuggito in tanti
anni e non
mi fossi accorto di qualche tuo mutamento caratteriale.
Sono
sempre
rimasto con mille domande e dubbi.
Come se
avesse
dovuto esserci per forza un’altra spiegazione che io non riuscivo però
a
trovare da solo.
… E tu
ti eri
rifiutato con tanta ostinazione anche solo di incontrarmi.
Sei
sparito di
colpo, tua madre mi disse che eri andato da un parente e che avevi
lasciato
detto di non dire a nessuno dove.
Povera
donna,
si scusò così tante volte con me.
Ma
nemmeno lei
seppe spiegarmi e spiegarsi il tuo comportamento.
Era
tutto così
insensato e incomprensibile.”
…
…
Non
potevi
capire, non ho mai detto niente a nessuno, nemmeno ai miei.
Mamma
ha
sospettato che fosse accaduto qualcosa tra noi, e che fosse colpa mia,
ma non
mi ha mai chiesto nulla, forse aspettandosi che gliene parlassi io un
giorno.
Ma non
l’ho
mai fatto.
E’
tutto
andato a rotoli dopo.
Mi sono
perso…
dopo.
…
…
Sei
mesi… te
ne eri andato da sei mesi e io non ce l’ho più fatta a reggere.
Quelle
parole fecero scattare uno strano campanello d’allarme nell’attenzione
di
Akira.
Ci ho
provato,
sai?
… A
uccidermi…
davvero…
Il
respiro gli si spezzò in gola, facendolo rabbrividire.
Non
fu sicuro di voler leggere ancora.
D’impulso
toccò il touchscreen con un movimento brusco delle dita, oscurandolo.
Improvvisamente
c’era qualcosa, un ricordo, o un immagine, ancora non seppe, che gli
affiorava
nella testa e che gli diede la netta sensazione di sapere già quel che
stava
per raccontargli.
L’aveva
scorto per caso qualche giorno dopo averlo richiesto.
Lo
sguardo gli era caduto causalmente, ne era rimasto colpito, ma non vi
si era
soffermato a riflettere, archiviandolo come una svista.
Poteva
esserci qualunque spiegazione, e non aveva certo contemplato quella
meno ovvia.
Perché
poi?
Non
sapeva niente di quello di cui era cosciente adesso.
Sperò
con tutte le proprie forze che non fosse ciò che la mente e l’istinto
tentavano
di suggerirgli, insinuandosi tra le trame fitte del rifiuto che stava
opponendo
loro.
Accettarla
come un’eventualità più che logica sarebbe stato come ammettere a voce
alta che
lui non c’era stato ad aiutarlo.
Che
Hiro era stato davvero solo con se stesso… senza di lui pronto a
raccoglierlo e
a difenderlo come aveva sempre fatto.
Una
consapevolezza che gli bruciava ed era insopportabile da tollerare.
Anche
se sapeva bene di non averne avute le possibilità.
Te lo
ricordi
il Club Rainbow?
Il
messaggio arrivò inesorabile e il display si illuminò per l’ennesima
volta a
dispetto di ogni suo tentativo di oscurarlo.
Il
Club Rainbow.
Un
locale gay.
Certo
che se lo ricordava.
Ce
lo aveva portato lui una sera.
Hiro
si era opposto per giorni alla sua idea di passare una serata tra
persone che
non avrebbero avuto niente da ridire sul loro legame.
Alla
fine era riuscito a persuaderlo lanciandogli una sfida: dimostrargli
che non
aveva paura di essersi scoperto omosessuale e per di più innamorato.
Il
ragazzo ci era cascato, punto nell’orgoglio.
E
lui ne era stato felice: per una volta avrebbero potuto scambiarsi
effusioni in
pubblico senza temere gli sguardi malevoli della gente e i commenti
schifati
degli omofobi.
Che
a lui non avevano mai dato fastidio, indifferente all’ottusità di certe
persone.
Ma
che a Hiro facevano salire il sangue alla testa e lo spingevano
continuamente a
nascondersi e a trattenere qualunque slancio, soprattutto dopo aver
preso
coscienza completa che lo amava.
Gli
sembrava che chiunque potesse fraintendere anche il più semplice dei
gesti che
“prima”, da amico d’infanzia non s’era mai curato di trattenere.
Quel
lontano giorno aveva trascorso tutto il pomeriggio con la testa
nell’armadio
alla ricerca dell’abbigliamento adatto a renderlo irresistibile agli
occhi del
suo ritroso e riservato ragazzo.
Poi
in serata era passato a prenderlo.
Hiro
era venuto ad aprirlo in jeans e camicia nera, lasciata morbida fuori
dai
pantaloni – lo aveva trovato adorabilmente sexy! -
ed era rimasto imbambolato sulla porta di
casa, incantandosi a guardarlo, confermandogli di non aver perso
inutilmente il
proprio tempo per prepararsi.
Poi
si era riavuto e, recuperata la giacca su una sedia, lo aveva spinto
fuori,
burbero e scontroso come al solito, e lui non se l’era sentito di
prenderlo in
giro sul proprio malcelato imbarazzo per quella strana serata in arrivo.
Al
Club Rainbow il loro ingresso non era passato inosservato.
Parecchie
paia di occhi si erano voltate nella loro direzione, concentrandosi
inevitabilmente su di lui.
Subito
c’erano stati dei temerari pronti a invitarlo a bere qualcosa o a
intrattenersi
in passatempi più interessanti, alludendo alle camere da letto che il
locale
metteva a disposizione della clientela al piano superiore.
Ovviamente
Akira aveva rifiutato, godendosi divertito un furibondo Hiroaki, che
fulminava
con lo sguardo quei pazzi che ci provavano con il suo ragazzo proprio
davanti a
lui, accecato dalla gelosia e dalla voglia impellente di fare una
strage.
Quel
che non si era aspettato, il piccolo, ingenuo, adorabile Hiro, erano
state le
avances di cui era stato oggetto egli stesso.
Gli
occhioni sgranati dallo stupore di essere obiettivo delle stesse
attenzioni che
aveva dato per scontate sarebbero state riservate soltanto al suo
compagno, si
era lasciato trascinare a un tavolo da un Akira in versione bodyguard,
che
aveva dovuto difenderlo perché lui non ne era stato in grado.
E
dire che lo aveva avvertito di quell’epilogo, ma Hiro non gli aveva
voluto
credere, sempre impacciato e insicuro di sé.
Era
stata tuttavia una bellissima serata.
Protetto
letteralmente dalle attenzioni del proprio ragazzo, Hiro si era infine
rilassato e immerso nella conversazione con lui.
Avevano
cenato e ballato sulla pista, sempre trascinato dapprima a forza, e poi
felice
di esserci, nascosto tra le sue braccia, colmo di vergogna e poi
dimentico di
ogni imbarazzo quando ebbe presa totale coscienza che nessuno li stava
giudicando.
Certo
che ricordava il Club Rainbow.
Era
diventato la loro meta preferita.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Capitolo
13
E’
successo una notte…
Il
messaggio giunse spietato.
Akira
lo lesse e d’istinto
spense il display: ebbe paura di sapere la verità!
Un
pensiero insinuante gli
affiorò, incapace di poterlo ignorare.
Lui
stesso aveva cercato di
distruggersi nei primi anni in America.
Aveva
toccato il fondo più
di una volta, senza cercare la morte esplicitamente, questo no, ma il
suo
vivere senza controllo e senza freni non era stato poi molto diverso
dal
volerla fare finita.
Se non
fosse stato per la
tenacia e l’ostinazione dei suoi amici, probabilmente in uno dei suoi
excursus
notturni in giro per i locali notturni di LA, imbottito di alcool e
droghe, ci
sarebbe rimasto secco prima o poi.
Non
aveva mai avuto
difficoltà ad ammetterlo con se stesso.
Sono
uscito dal Rainbow un po’ confuso.
Avevo
bevuto qualche cocktail di troppo.
Il
“Rouge Corallo”.
Pensò
Akira, leggendo le
parole.
Era
sempre stato il
preferito di Hiro.
Non era
troppo alcoolico, ma
berne uno dietro l’altro, aveva i suoi effetti inevitabili.
E Hiro
non aveva mai
tollerato troppo bene l’alcool.
Forse
cinque o sei Rouge… poi il barista si è rifiutato di servirmene altri.
Mi
sono arrabbiato, ho preso il bicchiere che avevo in mano e sono uscito
in
strada sul retro.
Ho
urtato contro qualcosa, il bicchiere mi è caduto e si è rotto.
Mi
sono piegato a raccoglierlo… non so nemmeno io perché…
Il
vetro mi ha tagliato un dito.
Ho
guardato il sangue sporcarmi la pelle e mi è parso così ovvio.
Così
ho preso un pezzo e l’ho passato sui polsi.
La
carne si è aperta con una facilità incredibile!
…
…
Un
brivido gelido tagliò in
due il respiro di Akira.
Le
aveva viste quelle
cicatrici sui suoi polsi.
Era
stata una visione
fugace, due righe sottilissime che increspavano la pelle sotto la
camicia.
Due
ombre.
Ne era
stato turbato perché
a sua memoria Hiro non aveva mai avuto nulla.
E si
era chiesto cosa
potessero mai essere.
Ma non
aveva saputo darvi il
giusto nome.
Fino ad
allora.
Ho
un ricordo chiaro di quel momento.
Mi
è parso un gesto così giusto e logico.
Forse
non ho sentito nemmeno dolore.
Non
lo so.
Mi
sono sentito soltanto… alleggerito di un peso.
Il
sangue mi colava lungo le braccia e addosso, ma io mi sono sentito
quasi bene…
…
Sei stato il mio ultimo pensiero, Aki… mentre mi lasciavo andare a una
strana, improvvisa
voglia di dormire, ho pensato che ti volevo bene e… mi è parso quasi
che tu
fossi lì con me a farmi compagnia mentre mi addormentavo.
…
Anzi, nella mia testa tu eri lì.
Mi
accarezzavi i capelli e mi abbracciavi.
Era
una sensazione talmente reale!!
Ero
contento.
…
…
“No
che non ero con te, non c’ero e non ti ho potuto aiutare!”
Fu il
pensiero desolato e
lancinante.
Disperato,
Akira si portò le
braccia alla testa e vi si seppellì.
“Perché?”
Imprecò
divorato
dall’impotenza.
“Perché
è dovuto succedere tutto questo?”
Di
nuovo il cellulare gli
vibrò tra le mani.
Aki…
perdonami, forse non dovrei dirti queste cose… ti sto facendo altro
male…
“Perché?”
…
…
Perché
senza di te non ce la facevo.
Mi
mancava l’aria e non riuscivo a portare i pensieri altrove.
Non
serviva a niente che mi ripetessi continuamente che quello che avevo
fatto era
solo per il tuo bene e che dovevo essere contento di questo.
…
Solo che… mi hanno impedito di andarmene.
Mi
hanno tolto l’unica libertà che avrei voluto avere: morire!
“Dovevi
tornare da me!”
…
…
Non
potevo.
Ti
avevo ferito troppo.
…
E’ stato Louis, il gestore della casa d’appuntamenti, a salvarmi quella
sera.
E
a offrirmi di rimanere all’agenzia.
Mi
ha portato lì e mi ha curato.
Per
un mese intero ha aspettato che mi riprendessi dallo stato catatonico
in cui
ero precipitato.
Si
è infilato nel mio letto, convinto che regalandomi le sue “attenzioni”
mi
avrebbe riportato indietro.
Ha
cercato di farmi parlare perché gli raccontassi il perché del mio gesto.
Ha
provato a essermi amico.
A
ripetermi che chiunque mi avesse spezzato il cuore, non meritava tutto
quel mio
sacrificio.
Non
gli ho mai detto niente.
Lo
sentivo parlarmi, ma non ho mai risposto a nessuna delle sue domande.
Certe
volte ho pregato perché tacesse.
L’ho
mandato a quel paese.
E
mi sono chiuso di più in me stesso.
Ma
lui non si è mai arreso.
E’
stata la persona più vicina che ho avuto in questi anni.
…
Non so quando esattamente ho cominciato a prostituirmi.
Non
ho un ricordo preciso… so soltanto che a un certo punto mi è parso non
ci fosse
mai stato un prima a quella specie di nuova vita.
D’un
tratto mi ritrovavo in camere da letto sconosciute con facce che non
avevo mai
visto e non mi importava.
Non
aveva senso niente di quel che mi accadeva.
Delle
mani che mi toccavano.
Degli
uomini d’affari che mi portavano in giro come un oggetto da esibire
perché
strano.
Ero
indifferente, anche a me stesso, ma chissà perché questo era motivo di
attrazione invece che di rifiuto.
E
gli affari dell’agenzia sono improvvisamente aumentati.
Louis
è stato contento di aver scoperto uno come me e mi ha trasformato nel
giocattolo più richiesto.
Si
è convinto che fosse stato un bene avermi salvato la vita.
Crede
di avermi fatto un favore.
Ha
stabilito le regole che i clienti avrebbero dovuto osservare per avermi.
Il
prezzo.
E
io l’ho lasciato fare perché non mi importava.
Non
provavo interesse per niente.
Non
ho chiesto nulla.
Mi
sono lasciato trascinare.
Non
lo so… forse sperando nel profondo di me stesso… che una volta o
l’altra
qualcuno dei miei clienti avesse trovato irritante la mia apatia e
avesse
deciso di uccidermi…
…
Invece non mi hanno mai usato nemmeno violenza.
Hanno
sempre rispettato le regole della casa: niente baci in bocca, niente
giochi
sadomaso, usare sempre il preservativo.
Qualcuno
mi ha anche offerto di diventare il suo amante e di lasciare il
mestiere che
facevo.
Mi
hanno corteggiato per convincermi.
Ci
avresti mai creduto?
La
gente è pazza, davvero!
“Non
era il tuo posto quello, qualcuno lo avrà capito!”
…
…
Non
mi importava.
Non
mi importava niente di nessuno.
Di
me.
Della
fine che avrei fatto.
Mi
era tutto così indifferente.
Ogni
cosa mi scivolava addosso e non mi toccava più.
“Penso…
di poterti capire più di chiunque altro.”
Ammise
Akira, scrivendo
lentamente i caratteri sul touchscreen.
“Credo
che mi sia accaduta la stessa cosa dopo un po’ che ero negli Stati
Uniti.
I
primi mesi ci sono stati talmente tanti cambiamenti intorno a me che
hanno
assorbito tutte le mie energie.
L’università,
una squadra nuova, gli allenamenti, i modi e le abitudini diverse.
Ho
ricacciato nel profondo di me stesso tutto il dolore e la disperazione
per come
ci eravamo lasciati.
Ho
smesso di farmi domande credo… perché pormele mi faceva impazzire.
E
mi sono lasciato assorbire completamente dalle novità che mi accadevano.
Per
un po’ è sembrato che mi fossi lasciato alle spalle tutto il mio
passato.
Come
se la cosa non mi toccasse più.
Dopo
i primi tempi in cui non facevo che parlarne coi i ragazzi, più confusi
di me
sui perché, ho smesso, di botto, come se avessi chiuso un canale.
Da
un giorno all’altro non ho più pianto, spaccato oggetti, passato ore
interminabili al cellulare con loro.
Il
mio cervello si è come spento.
Non
ricordavo più nemmeno il tuo nome.
Non
me lo ripetevo più a ogni ora del giorno.
…
Ora che ci penso… si ora che ci penso… penso sia accaduto più o meno
sei mesi
dopo che ero partito.
Non
è strano?
Tu
che hai cercato di ucciderti e io che sono cambiato di colpo.
Sei
mesi esatti.
D’inferno.
Mi
sono buttato a capofitto negli allenamenti senza darmi tregua.
E
la notte… ho cominciato a frequentare i locali notturni, all’inizio
stordendomi
con i superalcolici e facendomi tutti quelli che mi passavano per le
mani.
Poi
qualcuno mi ha passato delle pillole.
Non
mi sono chiesto cosa fossero, lo sapevo.
Le
ho prese ed è tutto cambiato.
Ogni
cosa si è accelerata nella mia testa ed era una sensazione incredibile
di
velocità, onnipotenza, energie inesauribili.
E’
nato più o meno in quel periodo il soprannome di Furia Bianca.
In
campo non mi fermava nessuno e fuori ero sempre su di giri.
Una
macchina impazzita che spingeva sempre di più!
Improvvisamente
un lieve
fruscio dall’interno della camera lo distolse dai propri ricordi.
Akira
girò la testa alla sua
sinistra e poco dopo vide la porta che si apriva piano sul buio
dell’interno.
Non si
mosse aspettando di
veder comparire Hiroaki.
E lo
vide, il suo corpo
esile e in ombra che si disegnava nello spiraglio appena spalancato.
Avanzò
di pochi centimetri a
piedi nudi, ancora vestito, e sedette sulla soglia, dandogli le spalle,
il
cellulare stretto tra le mano come un oggetto prezioso da difendere.
…
…
Non
ho mai saputo queste cose.
Ho
letto tutto quel che è stato scritto di te sui giornali, ma questo no.
Perché?
Le
parole comparvero sul
display di Akira.
Le
lesse e sorrise.
Basta.
Non
voleva più parlargli
attraverso quell’aggeggio.
Lo
spense e lo gettò lontano
attraverso la stanza, incurante del destino che avrebbe potuto avere.
-
Perché
mi è stato fatto muro intorno. – Mormorò nel silenzio ovattato.
Hiro
emise un sospiro
spezzato e lui lo sentì.
Avrebbe
voluto abbracciarlo.
Ma non
si mosse.
Seppe
che era meglio non
farlo.
Non
ancora.
-
Sono
andato in overdose due volte e altre due sono collassato in mezzo al
campo di
gioco nel giro di tre anni… ma nessuno ha saputo niente del vero motivo
perché
i ragazzi e l’allenatore, e la società mi hanno preservato da ogni fuga
di
notizie, proteggendomi strenuamente, pensando che se si fosse saputo in
giro,
la mia carriera ne sarebbe stata distrutta, e non era un bene per
nessuno, me
per primo.
-
Hanno
scritto che i tuoi collassi erano dovuti a un esaurimento nervoso e che
la
società aveva deciso di tenerti a riposo per qualche tempo. - Ricordò Hiro, la voce
incrinata da un
principio di pianto che non poté in alcun modo celare.
-
Dovuto
a un eccesso di stress, si… La verità era che le anfetamine mi stavano
uccidendo e io non avevo nessuna intenzione di rinunciarvi perché… beh,
mi
davano l’energia per andare avanti quando non ne avevo più nessuna
voglia. –
-
E’
stata tutta colpa mia… che ti ho fatto!!? –
-
Non
è stata colpa tua… ho deciso io di usarle.
Danno
delle strane
sensazioni, di avere il controllo di tutto, di poter fare qualunque
cosa.
E’ il
dopo che ti stronca,
ma te ne accorgi tardi.
E per
cancellare il
malessere ne vuoi ancora… anche se sai che ti continuerai a far del
male.
… Ed
era quello che volevo…
mi teneva vivo… altrimenti…. non avrebbe avuto alcun senso andare
avanti…
giocavo per puro automatismo, perché non sapevo fare altro, ma non mi
importava
di niente.
Sono
andato vicino tanto
così dal passare alle droghe pesanti. -
-
Non dirlo, ti prego! –
Una
preghiera.
Pura
disperazione.
Gli
graffiava il cuore
sentirlo.
Fissò
il suo profilo, ma da
quella posizione non riusciva a vederlo.
E ne
aveva bisogno.
Un
bisogno impellente.
Così
scivolò sul tappeto e
andò a sedersi difronte a lui, la schiena contro il telaio della porta,
le
gambe un po’ piegate, che sfiorarono quelle del ragazzo volutamente.
Hiro
sussultò al contatto,
ma non vi si sottrasse: il calore che lo raggiunse attraverso la stoffa
dei
jeans gli portò una parvenza di sollievo necessario.
Sollevò
lo sguardo su di
lui, scorgendolo tra le ombre della stanza.
Si
accorse che gli sorrideva
in quel modo tutto suo che gli riservava quando voleva consolarlo.
Ma non
aveva diritto alla
sua indulgenza, non dopo quello che gli aveva fatto.
Si
rimproverò per l’ennesima
volta, angosciato.
Tuttavia
fu evidente che
Akira non la pensava allo stesso modo.
Protese
le braccia verso di
lui e si impossessò delle sue mani con un gesto gentile, lieve, ma
deciso.
Piano
gli aprì le dita,
gelide, per togliergli lo smartphone, che fece volare sul letto, e se
le portò
al volto.
Ne
baciò i palmi, sentendolo
rabbrividire, e poi risalì su fino ai due tagli sottili sui polsi.
D’istinto
Hiro fece per
ritrarsi, come se avesse voluto nascondergli la verità che gli aveva
appena
raccontato, spaventato dal suo giudizio.
Ma
Akira non glielo permise,
trattenendolo.
Lo
sguardo due fessure
ammonitrici, categoriche.
Fece
scorrere i pollici
sulle due cicatrici, ne percepì i piccoli rilievi che la carne,
saldandosi,
aveva creato, e in quel momento realizzò a pieno il loro significato.
Gli
mancò il fiato per
qualche istante, sgomento e impotente.
Una
fitta di dolore intenso
in mezzo al petto come se qualcuno gli avesse appena dato un pugno,
lasciandolo
stordito.
Aveva
rischiato di perderlo,
definitivamente, e probabilmente lo avrebbe saputo troppo tardi chissà
quando,
senza poterci fare niente.
Una
consapevolezza cruda e
inaccettabile.
Non
aveva mai mandato giù
niente di quanto era accaduto tra loro.
Gli
anni gli erano scivolati
addosso e aveva vissuto ai margini di se stesso, agendo come un automa,
senza
obiettivi e senza scopo.
Ma
avrebbe mai retto a
quella verità il giorno in cui sarebbe venuto a saperla?
Morto.
Il
“suo” Hiro.
La
persona più importante
della sua vita.
L’amore
con la A maiuscola!
Morto!
Senza
di lui.
Lontano.
Solo.
Un
brivido freddo gli solcò
la schiena facendolo tremare.
Non
volle indugiare più a
lungo: era un pensiero che faceva troppo male.
Depose
un bacio leggero su
ognuna delle cicatrici e stringendo entrambe le mani tra le sue, se le
tenne
vicino al viso come a volerle custodire, preservare da qualunque male.
-
Perdonami!
– Di nuovo la stessa supplica, per l’ennesima volta.
Un
sussurro forte come un
grido che squarciava il silenzio intorno.
-
Abbiamo
cercato di distruggerci a vicenda, non è assurdo? – Gli chiese con una
nota
ironica nel tono di voce.
-
Perdonami,
ti prego! –
-
Dovresti
perdonarmi tu per non aver saputo capire niente di quello che ti
tormentava.
Siamo
cresciuti insieme,
inseparabili, complici, l’uno l’ombra dell’altro, e io non ho capito un
cazzo
della tua disperazione quando avrei dovuto. –
-
E
come avresti potuto? Non ti ho fatto capire niente, tenendomi tutto
dentro. –
Akira
si lasciò andare a una
risata divertita che però, suonò drasticamente falsa.
-
Si,
lo riconosco, sei stato bravo! – Ammise. E tuttavia aggiunse più
onestamente: -
E io troppo stupido… -
-
No!!!
–
-
Si,
invece. Ero così felice che avessi accettato di diventare il mio
ragazzo, che
svolazzavo su una nuvola rosa a tre metri da terra.
E così
mi sono dimenticato
di guardarti.
Ero al
settimo cielo ed ero
convinto che lo fosse tutto il mondo.
Tu mi
avevi detto di sì.
Era
tutto ciò che volevo.
E
l’offerta di giocare nel
basket professionistico era stata la ciliegina sulla torta.
Ogni
cosa era perfetta.
Un
sogno.
Io, te
e l’NBA.
Non
avrei potuto desiderare
niente altro dalla vita. –
Hiro
mosse le dita a
sfiorargli la guancia su cui le teneva poggiate.
-
Eravamo
troppo giovani per gestire tutto quello! … Gli eventi ci hanno travolto
senza
che riuscissimo a far niente per controllarli.
Io che
volevo il meglio per
te.
La mia
inadeguatezza.
E tu
che ti saresti fatto
bastare l’amore che avevi per me.
Ebbi
così paura.
Che tu
perdessi la tua
occasione e che avresti finito per odiarmi per non averti impedito di
rinunciare. –
-
Non
ti ho mai odiato, nemmeno dopo… - Gli ripeté lui più convinto che mai.
Il
ragazzo replicò con un
singulto straziante.
Allora
Akira lo tirò di peso
verso di sé, facendolo atterrare sulle sue gambe.
Se lo
raccolse tra le
braccia e se lo strinse forte al petto.
Hiro
non si oppose, bisognoso
di sentirsi per una volta al sicuro anche da se stesso.
-
Non
ho capito niente, amore mio, proprio niente. E tu hai dovuto prenderti
la
responsabilità di tutto da solo. –
Gli
sentì sussurrargli tra i
capelli, la voce distorta da una nota al tempo stesso di rabbia e
angoscia.
Tremò
di dolore contro di
lui, ottenendo di essere stretto ancora di più.
-
Non
mi ripetevi sempre che su certe cose ero troppo svanito e superficiale?
Che se
ero felice io, non significava che automaticamente lo fosse tutto il
mondo? ...
E’ stato proprio questo l’errore che ho commesso.
Un
errore fatale che ci è
costato quasi la vita. –
-
Non
c’è niente di male a voler essere felice, Aki! –
-
Ma
non se questo ti rende cieco. E io lo sono stato verso di te... sì,
d’accordo,
il fatto che fossimo dei ragazzini non ci ha aiutato… ma perché tu sei
stato
capace di guardare così lontano e io no? –
-
…
Perché quello con il sale in zucca ero io, non tu! – Hiro cercò di
scherzare
per smorzare la tensione sempre più solida intorno a loro.
-
Hey!
– Il compagno stette al gioco, fingendosi offeso, ma sorridendo.
In fin
dei conti non aveva
tutti i torti.
Hiro si
permise di ridere a
sua volta.
Un po’
si sciolse dalla sua
presa e gli fece scivolare le braccia intorno al collo.
-
Perché
ti pare normale chiedermi di sposarti a tre anni? ... lo avevo capito
già
allora che eri tutto svitato! –
Akira
comprese al volo a
cosa si riferisse e scoppiò a ridere, una risata vera, stavolta,
spontanea,
leggera.
-
Ma
io volevo sposarti davvero! – Rivendicò.
Ricordava
perfettamente quell’episodio
dell’asilo, quando si erano visti per la prima volta.
Avevano
entrambi tre anni,
ma la memoria di quel giorno era rimasta chiara e indelebile dentro di
lui per
sempre.
Gli
parve di rivederlo quel
bambino minuscolo, da solo sotto l’albero di ciliegio del giardino
dell’asilo,
con il suo solito muso lungo, l’espressione scorbutica di chi non vuole
avere a
che fare con nessuno, ma che in realtà è solo intimidito dalla novità.
Era
stata una folgorazione
per lui.
Vederlo
e corrergli incontro
con il suo fare allegro e travolgente era stato un tutt’uno.
“Ciao,
io mi chiamo Akira Sendoh, e tu come ti chiami?”
Gli
aveva detto tutto
sparato, porgendogli la manina.
Un
sorriso a trentadue dentini
stampato sul faccino candido.
Il
piccolo Hiro di tre anni aveva
spalancato gli occhioni nel visetto imbronciato, fissandolo tra lo
spaventato e
l’infastidito, e aveva appena mormorato il proprio nome, senza
muoversi, anche
un poco impressionato dal bambino davanti a sé, già più alto della
media per la
sua età.
Il
piccolo Akira aveva fatto
un salto, tutto felice per la risposta.
E poi
aveva esordito come
fosse stata la cosa più ovvia del mondo:
“Mi
vuoi sposare?”
“Noooo,
cretino, siamo piccoli!!”
Aveva
sbottato l’altro, già
più assennato della media dei bimbi della sua età.
“Vabbé
quando siamo grandi! “
Lo
aveva liquidato il
piccolo intraprendente senza minimamente scomporsi né per il rifiuto né
per
l’insulto – il primo di una lunga serie!! – che avrebbe invece dovuto
scoraggiarlo.
Dopo di
che lo aveva preso
per mano trascinandolo a giocare con sé.
Erano
diventati
inseparabili.
Due
opposti che si erano
misteriosamente attratti.
Hiro
condivise quel ricordo
che anch’egli custodiva gelosamente e nitido nella propria memoria,
avvertendo
una punta di nostalgica tenerezza per quei due bimbi piccolissimi, così
diversi
e così complementari da trascorrere sempre insieme tutti gli anni che
erano
seguiti.
-
Aki!
– Lo chiamò sottovoce, premendo la guancia contro quella di lui.
-
Lo
voglio ancora, amore! – Gli sussurrò Akira dolce, sicuro.
Hiro
trasalì suo malgrado.
-
Non
siamo più quei bambini! –
-
No,
direi di no, perciò non hai più scuse! –
Il
cuore gli esplose di
gioia mentre si concedeva di ridere a sua volta.
|
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Capitolo
14
Che
ore erano?
Hiroaki
se lo chiese schiudendo gli occhi sulle ombre che lo circondavano.
Si
era addormentato.
Ne
prese coscienza nel momento stesso in cui percepì il calore del corpo
sotto e
intorno a sé, e due braccia che lo custodivano attente e possessive.
Akira.
Sollevò
la testa dal morbido “cuscino” che era stato il collo del suo uomo, e
gli cercò
il volto.
Un
sorriso su una bocca perfetta si disegnò nel suo campo visivo,
facendogli
sentire immediatamente un intensa sensazione di gioia.
-
Ciao,
amore! – La sua voce dolce, profonda, sensuale.
-
… Ciao! –
Pigolò lui confuso. - … Mi sono addormentato! –
-
Si,
quaranta minuti fa più o meno. –
-
Ah! ...
Non me ne sono accorto. –
-
Non
preoccuparti, eri stanco. –
Hiro
provò a muoversi per liberarlo dal proprio peso, ma Akira lo trattenne.
-
Dove
vai? –
-
Aki,
ti si saranno addormentate le gambe con me sopra. –
-
Neanche un po’, sto bene…
con te in braccio…
Sto benissimo!! –
Il
ragazzo provò a sondare la sua espressione, ma c’era poca luce per
vederlo
chiaramente, e così non insisté.
-
Che
ore saranno? – Si chiese ad alta voce, guardandosi in giro.
Fuori
era sempre buio e molte luci dei grattacieli intorno erano spente
dall’ultima
volta che le aveva guardate.
-
Le
tre del mattino. – Gli svelò Akira, sfiorandogli la fronte con un bacio.
-
Ah!
–
-
Andiamo
a letto? –
Hiro
trasalì senza volerlo e per tutta risposta sentì la risata sommessa di
lui
nell’orecchio.
Che
valenza doveva dare a quella domanda?
Si
domandò disorientato.
E
Aki perché si stava prendendo gioco di lui?
Perché
quello stava facendo con la sua risata maliziosa.
Come
se gli avesse letto nel pensiero l’agitazione che d’un tratto lo
coglieva,
Akira gli baciò la tempia e lo sciolse dal proprio abbraccio.
-
Vieni,
amore! – Gli disse sottovoce.
In
un attimo si ritrovarono in piedi senza che Hiro si rendesse conto di
come ci
fossero riusciti.
Gli
girava un po’ la testa e sentiva addosso una profonda stanchezza.
Avrebbe
ricordato quella giornata come la più lunga della sua vita.
Questa
fu l’unica certezza che ebbe, mentre Akira, tenendolo per mano, lo
accompagnava
davanti al letto della camera, sollevava il piumino, scostandolo in
fondo, lo
spingeva a sedersi e lo aiutava a stendersi, e glielo sistemava appena
sopra le
ginocchia.
Lo
seguì con lo sguardo, per quel che poteva vedere nelle ombre che lì
erano più
scure.
Lo
vide sedersi al suo fianco e sporgersi per accendere il lume appoggiato
sul
comodino lì di fianco.
E
poi ritornare da lui e fissarlo intensamente.
Gli
batté forte il cuore per l’emozione: sembrò così etereo e impalpabile,
illuminato dalla tenue luce che lo lambiva.
Così
forte e altero.
Così
meravigliosamente bello.
Quei
suoi occhi scuri e profondi che lo sondavano.
Seguì
la sua mano che gli raggiungeva una guancia e si posava su di essa
leggera e
per la milionesima volta il respiro si fece difficile.
La
sua bocca che calava su di sé a sfiorargli la propria.
Un
bacio lieve che si disegnava sulle sue labbra.
L’odore
della sua pelle che gli investiva i sensi.
Un
brivido violento gli sferzò tutto il corpo, facendolo tremare suo
malgrado.
Aki
se ne accorse perfettamente e gli sorrise, mettendo un soffio di
distanza tra
loro.
Non
disse nulla, lasciando che i suoi occhi intorpiditi parlassero per lui
e gli
affondassero fin dentro.
E
si rituffò sulla sua bocca appena socchiusa nello sforzo di respirare,
affondando la lingua alla ricerca della sua compagna da vezzeggiare.
La
corteggiò lento con impertinente indolenza, soggiogandola, giocando,
assaporandola languido.
La
mano ancora sulla sua guancia a guidarlo in quella danza dolce e
ipnotica, e
l’altra che gli accarezzava un fianco al di sopra del tessuto del
maglioncino,
senza sconfinare al di sotto dove la pelle aveva cominciato a bruciare.
Hiro
rimase per qualche momento immobile, completamente rapito da
quell’intimità
solo accennata.
Poi
portò le braccia intorno al suo collo e glielo cinse, avvicinandolo di
più
contro di sé.
Si
baciarono a lungo, concedendosi di inframezzare rapide boccate di
ossigeno,
purtroppo necessarie.
Sullo
sfondo il silenzio della notte e il suono dei propri sospiri rotti
dall’emozione crescente.
Poi,
d’un tratto, inspiegabilmente la magia si infranse.
Akira
rimise distanza tra loro, sciogliendo le sue braccia.
Gli
prese le mani tra le sue, ne sfiorò il dorso di ognuna con un bacio e
le
riaccompagnò sul letto.
Infine
gli regalò l’ultimo sorriso.
-
Buonanotte,
amore, riposa! – Gli sussurrò.
-
Aki!?
– Si lasciò sfuggire, Hiro, confuso dal suo comportamento.
L’uomo
gli chiuse la bocca con l’ennesimo bacio e spegnendo il lume, si alzò e
uscì
dalla stanza, tirandosi la porta.
Cos’è
successo?
Fu
l’interrogativo raggelato che si formò nella mente frastornata del
ragazzo, gli
occhi spalancati nel buio.
Si
portò entrambe le mani alle labbra, sigillando le dita su esse: sentiva
ancora il
calore intossicante e il sapore dolce di quelle di lui.
La
tenerezza con cui lo aveva baciato da principio.
Che
si era trasformata pian piano in passione, urgenza, voglia di possesso.
Agitandolo,
confondendolo, risvegliando ogni sua terminazione nervosa, ogni parte
della
pelle, incendiandola, tendendola nell’eccitazione sempre più prepotente
che li
avvinceva.
Aveva
cominciato a tremare di paura e di aspettativa per quel che gli era
parsa la
premessa di un’evoluzione ben più intima.
Non
poteva essersi sbagliato.
E
invece… tutto era svanito di colpo, senza alcuna avvisaglia,
lasciandolo
inebetito come un oggetto abbandonato in mezzo alla strada.
Cos’era
successo?
Aveva
fatto qualcosa di cui non si era accorto e che aveva infastidito Akira
tanto da
farlo allontanare?
Se
lo domandò e non seppe trovare quel qualcosa.
Aveva
risposto al suo bacio, lasciandosi coinvolgere perché…
…
non ho mai saputo resisterti, Aki!
Sei
sempre
stato il mio ossigeno.
Se
mi
tocchi…
O
mi
guardi…
O
mi baci…
…
io non
capisco più niente…
…
che ho
fatto adesso per farti andare via?
…
Non lo
so!
Forse
era solo stanchezza.
Si,
eccolo il motivo.
Stanchezza
per la tempesta che si era abbattuta su di loro da quel primo
pomeriggio.
Avevano
parlato all’infinito.
Arrivando
a quell’ora del mattino.
Si
erano raccontati tante verità, una più pesante dell’altra.
E
non si erano ancora detti tutto di quei sei anni lontani.
E
ne erano usciti esausti.
Entrambi.
Lui
stesso si sentiva a pezzi emotivamente e fisicamente.
Non
si era addormentato a tratti, rincorrendo un riposo che invece,
malgrado tutto,
non voleva venire ad alleggerire il suo cuore?
Doveva
essere così anche per Akira, nonostante fosse il più forte tra loro due.
Si,
era certamente così.
Avevano
bisogno di dormire, tutti e due.
Ci
sarebbe stato tempo per tutto… domani… e dopo… !!
Quasi
convinto, si girò su un fianco e chiuse gli occhi, ricacciando a forza
indietro
la tentazione di cedere alle lacrime che pur lo pungevano.
Qualcosa
di solido gli premette contro un braccio.
Cercò
con la mano e riconobbe la liscia e fredda superficie di vetro del
cellulare
che era stato lanciato lì poco prima.
Lo
accese, aspettandosi di trovare l’ultimo messaggio che aveva inviato
lui prima
che Akira glielo facesse volare via.
Invece
ce n’era uno nuovo, che gli aveva inviato Akira stesso nemmeno un
minuto prima.
Non
lo aveva sentito!
Si
rese conto incredulo.
Con
il cuore a mille subito fece scorrere il dito sul display per
visualizzarlo.
“Ti
amo!”
C’era
semplicemente scritto.
Folle
di felicità e dimentico di ogni timore, digitò le parole “Anch’io,
tanto!!”, inviò e poi si strinse l’oggetto al petto,
ingoiando i singhiozzi.
“Anch’io,
tanto!!”
Akira
lo lesse mentre chiudeva la porta della propria camera e si avviava
verso il
letto.
Si
gettò di traverso sul piumone, abbandonando il dispositivo, e rimase a
fissare
il buio intorno a sé.
Sentiva
ancora l’adrenalina corrergli nelle vene e agitargli il sangue.
Per
quanto autocontrollo si fosse imposto per interrompere quei baci
pericolosi,
per allontanarsi da Hiro, percepiva ancora netto e preciso il desiderio
che gli
scorreva nel corpo.
La
smania di toccarlo, scostando quei vestiti importuni, sfiorare la sua
pelle
nuda e assaggiare di nuovo il suo sapore dolce e seducente, era stata
pur
violenta e irresistibile.
Finché
un pensiero non era sopraggiunto a infrangere quegli attimi, si era
insinuato
come un cuneo nel suo cuore, spingendo in un angolo la voglia
prepotente di
farlo suo.
Non
lo voleva così.
Aveva
pagato per averlo.
Fino
alla fine di quella settimana.
E
mancavano ancora quattro giorni.
Non
era così che lo voleva.
Sentiva
che se avesse fatto l’amore con lui in quelle condizioni, cedendo a un
puro
istinto, avrebbe in qualche modo svilito e reso squallida la loro
unione, che
doveva essere il momento più bello e magico della loro riconciliazione.
Chissà
come c’era rimasto Hiro.
Lo
aveva abbandonato senza una spiegazione, in preda alla sua medesima
eccitazione, lo sapeva bene.
Mi
dispiace, tesoro, scusami!
Giuro
che
ti spiegherò tutto.
E
tu capirai
le mie ragioni, lo so.
Lo
disse a voce alta, al silenzio e alle ombre intorno a sé.
Che
gli risposero solidali avvolgendolo, dopo qualche istante, finalmente,
nell’oblio di un sonno profondo e privo di sogni.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Capitolo
15
-
Ciao,
mamma! - Disse Hiro
con un timido sorriso alla donna
minuta e sottile che gli aprì la porta.
Un’espressione
di stupore e gioia si dipinse sul bel volto della signora Koshino, che
subito
gli si gettò addosso.
-
Amore
di mamma, ma che bella
sorpresa! – Trillò euforica. – Perché non mi hai telefonato che
arrivavi? ...
Come stai? ... Sei un po’ magro, mangi abbastanza? ... Dormi bene? -
Tutte
queste domande gliele fece mentre lo tirava giù alla sua altezza, lo
stritolava
in un abbraccio che mai si sarebbe potuto attribuire così energico in
una
donnina esile come lei, e se lo baciava tutto senza lasciargli il tempo
di dire
niente.
Hiro
si mise a ridere mentre cercava di contenerla e la abbracciava a sua
volta,
felice di rivederla dopo alcuni mesi che non passava da casa.
Si
accorse che gli era mancata tanto e che aveva solo fatto finta di non
pensarci
per non farsi cogliere da una pericolosa nostalgia.
Di
colpo un urlo gli stordì un orecchio.
La
madre lo liberò dalla sua stretta e lo scostò di lato, incapace di
credere ai
propri occhi.
-
Akira,
tesoro, ma sei proprio tu? –
Strillò, guardando trasecolata il giovane uomo che si stava avvicinando
lungo
il vialetto, sorridendole in quel suo modo spontaneo e affascinante a
cui
nessuno sapeva resistere.
-
Zia
Maiko! – La salutò Akira, anche
più felice di lei, in cuor suo emozionato di ritrovarsi lì, davanti a
quella
casa, che lo aveva visto bambino e poi ragazzo.
E
a quella piccola donna che lo aveva aiutato a crescere e a cui aveva
voluto
bene come a una seconda madre.
La
donna gli
spalancò le braccia e lui vi si tuffò come faceva da piccolo, sempre
alla
ricerca di coccole o di essere consolato per qualche tristezza che lo
faceva
piangere.
E
subito lo
raggiunse il profumo di buono e di lavanda che gli era così familiare:
si sentì
immediatamente a casa, e questo gli strinse lo stomaco in una morsa di
contentezza che non provava più da tanto tempo!
-
Non
posso crederci, sei davvero
tu!!!! – Sussurrò lei stordita ed euforica al tempo stesso.
-
Si,
sono io, sono così contento di
rivederti! –
Maiko
lo scostò un
poco da sé, tenendolo per entrambe le mani.
-
Piccolo
mio, quanto sei cresciuto,
fatti vedere! – Lo tirò giù e gli baciò le guance, gli occhi appena
lucidi di
lacrime di commozione, squadrandolo da capo a piedi. – Questo è un
giorno
bellissimo, finalmente sei di nuovo qui! ... Che bello che sei, come
stai? -
Ma
non attese che le rispondesse, perché, sempre tenendolo per mano, si
girò per
cercare il figlio, che era rimasto in disparte a guardare la scena,
muto,
felice e incredulo quanto loro.
-
Hiro,
tu vuoi farmi morire, vero? –
Lo apostrofò arrabbiata. – Perché non mi hai detto niente? Se solo
avessi
saputo… la casa è sotto sopra e io sono impresentabile… o cielo, e
Akira è
tornato!! – E strillò di nuovo emozionata.
I
due giovani si guardarono al di sopra di lei, Hiro un po’ disorientato
dai
mutamenti repentini, che pur conosceva bene, di sua madre, e Akira che
gli
sorrideva rassicurante.
-
Mamma,
entriamo in casa, usciranno
tutti i vicini se continui a urlare così. – Cercò di riprenderla il
figlio,
pronunciando le parole a voce bassa, davvero terrorizzato di suscitare
le
attenzioni del vicinato curioso.
-
Si,
entriamo. Vieni tesoro, che
bello che sei qui!! –
Akira
la seguì obbediente, mettendosi a ridere: quanto gli era mancato
quell’uragano
di donna, per niente uguale a suo figlio, sempre taciturno e scorbutico.
Passando
vicino al ragazzo, lo afferrò al volo per una mano e lo trascinò via
con loro
fino in casa.
La
Sig.ra Maiko entrò in cucina e solo allora si accorse di avere in dosso
il
grembiule con cui fino a poco prima stava rassettando casa.
Se
lo slacciò e lo tolse, facendolo volare in un cassetto, poi tirò giù
Akira per
un braccio perché si sedesse su uno degli sgabelli della penisola che
si
allungava a elle dal piano della cucina.
Lo
fissò qualche attimo con un sorriso smagliante, guardandolo come fa una
madre
per assicurarsi che ogni cosa sia a posto sul volto del figlio e se lo
abbracciò di nuovo con un singhiozzo.
-
Come
sono felice, Aki! Ci sei
mancato tanto! –
-
Anche
voi mi siete mancati, zia
Maiko! – Ammise lui, stringendola a sé.
La
donna ritornò a fissarlo.
-
Ma
quanto bello sei diventato? ...
Cielo, sei un uomo, guardati! ... Il mio piccolo tornado che non stava
mai
fermo! ... Come stai, tesoro? Bene? –
-
Si,
grazie, e tu? –
-
Sono
felice che tu sia qui… Tua
madre e io parliamo sempre di te, di tutte le cose belle che fai negli
Stati
uniti, di quanto sei bravo! ... Sono così fiera di te! –
-
Grazie,
mamma mi manda sempre i
vostri saluti… E zio Tori come sta? –
-
Bene,
è al lavoro ovviamente. Ma
torna per pranzo. Sarà felicissimo di vederti anche lui. Tu rimani a
pranzo con
noi, vero? ... – Ovviamente non gli diede modo di risponderle. – Certo
che sì,
ti preparerò tutti i piatti che ti piacciono di più e… -
-
Mamma,
lascialo respirare. –
S’intromise Hiroaki, cercando di interrompere il suo monologo concitato.
La
donna scoppiò a ridere e annuì.
-
Si,
hai ragione, piccolo mio…
Scusami, Aki, è che sono troppo felice che tu sia qui…-
-
Non
preoccuparti, zia, anch’io sono
felice… E rimaniamo a pranzo, vero, Hiro? –
Il
ragazzo lo fissò solo un attimo, ma poi annuì sorridendo.
-
Vado
su in camera mia a prendere
delle cose mentre voi parlate dei vecchi tempi! – Buttò là e sparì
oltre la
porta che dava nel corridoio.
-
Preparo
un po’ di tè, vuoi? – Fece
Maiko, dandosi subito da fare ai
fornelli.
Akira
si guardò intorno e si accorse che non era cambiato niente: ogni cosa
era
rimasta uguale a quando l’aveva vista l’ultima volta.
Ci
aveva passato quasi tutta la sua vita tra quelle mura da quando aveva
cominciato a frequentare l’asilo insieme a Hiro.
Accompagnando
i figli il primo giorno, le loro madri avevano scoperto di essere
vicine di
casa ed erano subito diventate amiche, quasi sorelle.
E
così i rispettivi mariti.
E
la casa degli uni era diventata quella degli altri.
E
di conseguenza lui e il piccolo Hiro erano venuti su in qualche modo
con due
madri e due padri, che si erano presi cura di loro, facendoli crescere
come
fratelli.
Si
alzò per raggiungere la porta-finestra che dava sul giardino sul retro
alla
ricerca di qualcosa che, se non era stato tolto, doveva ancora essere
lì oltre
l’acero che ombreggiava la casa.
E
lo scorse il canestro che il padre di Hiro aveva montato sulla parete
del
garage, e che era stato il loro campetto privato in cui avevano passato
ore e
ore ad allenarsi o semplicemente a giocare.
-
E’
sempre lì, non ti preoccupare! –
Gli fece la voce affettuosa di Maiko, raggiungendolo alle spalle.
Lui
si volse e le dedicò un sorriso.
-
Non
è cambiato nulla qui! – Le
rispose.
-
No,
quasi nulla. Disse lei con
un’inflessione un po’ triste che Akira non seppe decifrare. – Vieni,
sediamoci.
–
Gli
fece un cenno per invitarlo a sedersi e gli versò il tè nella tazza di
porcellana.
Ne
versò un po’ per sé e prese a girare il cucchiaino dopo averci messo un
po’ di
zucchero.
-
Sei
venuto a prendere il mio
piccolo, vero, Aki? – Gli domandò d’un tratto, la voce incrinata
dall’emozione.
Akira
la guardò negli occhi e capì immediatamente a cosa si stesse riferendo.
Trasalì
sorpreso e per un momento non seppe cosa rispondere.
La
donna gli sorrise amorevole e gli sfiorò il viso con il dorso della
mano in una
carezza piena d’affetto.
-
Zia
Maiko! – Sussurrò lui confuso.
-
Ti
stai chiedendo se so di te e
lui? – Akira annuì ancora più incerto. – Sono una mamma, tesoro mio, e
certe
cose una madre le capisce prima ancora che le capiscano i suoi figli… -
-
Io…
-
-
Non
aver paura, sono sempre stata
felice che fossi tu il ragazzo che aveva fatto innamorare il mio
bambino.
Ne
avrei avuta se fosse stato un estraneo.
Ma
eri tu, il mio piccolo Aki, ed è stato un sollievo. –
-
Zia
Maiko, io l’ho sempre amato. –
-
Lo
so, tesoro, lo abbiamo sempre
saputo, sebbene voi non ce ne abbiate mai parlato.
E
se vuoi proprio saperla tutta, io e tua madre abbiamo scommesso su chi
di voi
avrebbe fatto la prima mossa a dichiararsi. –
-
Che
cosa? – Esclamò Akira
incredulo.
Non
lo aveva mai saputo.
Maiko
fece una risatina divertita, che poi si trasformò di nuovo in un
sorriso
materno.
-
E
di sicuro non deve essere stato
il mio piccolo, scorbutico, intrattabile bimbo. –
Stavolta
fu il giovane a mettersi a ridere.
-
No,
sono stato io. -
-
Ah,
ne ero sicura! ... Dovrò
reclamare la mia vincita nei confronti di tua madre. Lei ha sempre
insistito
che sarebbe stato Hiro a fare il primo passo perché più giudizioso.
Io
invece cercavo di convincerla che era impossibile perché troppo
terrorizzato …
E come non capirlo: non dev’essere stata una realtà facile da
accettare! -
Akira
non seppe
che pensare: si era sempre confidato con i suoi, lui, perché parlare di
quel
sentimento che gli cresceva dentro con sempre maggiore chiarezza, era
stata la
cosa più naturale del mondo.
E
sapeva invece
che Hiro non lo aveva mai fatto con nessuno, già terrorizzato a un
certo punto
della sua adolescenza di scoprirsi gay, figurarsi ammettere di amare
qualcuno,
il suo miglior amico, per giunta.
Che
Maiko la
prendesse con tale semplicità lo disorientava non poco.
I
genitori di Hiro
erano brave persone, di ampie vedute, lo sapeva.
Ma
non “così”
ampie!
Davvero
non se lo
aspettava.
-…
Zia Maiko…
davvero non vi fa… non … - Non sapeva come spiegarsi, per la prima
volta non
sapeva che parole trovare.
Ma
la donna lo
tolse subito d’impaccio.
-
Vogliamo
solo che stiate bene,
tesoro, che siate due uomini non ha davvero alcuna importanza se i
sentimenti
sono veri… non è questo che vi abbiamo sempre insegnato? –
-
Si,
ma… ecco… sono senza parole! –
Maiko
rise di nuovo.
Poi
trasse un profondo respiro e si intristì.
-
Solo…
avremmo voluto che Hiroaki si
fosse confidato con noi come tu hai fatto sempre coi tuoi genitori.
Ma
il mio piccolo è sempre stato troppo chiuso e riservato, soprattutto su
questioni che lo mettevano in difficoltà.
Ci
vogliamo un bene dell’anima, ma quando si tratta di parlare, è
un’impresa
titanica con lui.
E
le volte in cui in qualche modo, abbiamo cercato di fargli capire che
qualunque
cosa avesse da dirci, poteva farlo senza problemi, e che saremmo sempre
stati
pronti a supportarlo… beh… puoi immaginarlo, sono stati tentativi
inutili.
-
E’
stato difficile anche per me
farlo aprire, zia! ... –
-
Non
fatico a crederti, ma almeno
con te l’ha fatto ed è già qualcosa… Solo che… poi qualcosa dev’essere
successo
tra voi, quando sei partito per gli Stati Uniti e Hiro non è stato più
lui.
Qualcosa
di grave che lo ha portato a litigare con te e ad allontanarsi anche da
noi.
E
per quanto abbiamo fatto per capire, non ci ha mai voluto spiegare
niente.
Si
è tenuto tutto dentro, si è chiuso nella sua ostinazione e a nulla sono
valsi i
tentativi buoni come quelli cattivi.
Se
ne è andato a T. per studiare in un’università che fino a quel momento
non
aveva nemmeno preso in considerazione… e si è trovato un lavoro di cui
non ci
ha mai voluto parlare, in un locale, pare.
Ce
lo vedi tu il mio bambino silenzioso in un locale?
E
sono cinque anni che lo vediamo un mese sì e uno no.
E
quando arriva, sta un po’ con noi, scambiamo giusto qualche frase di
circostanza e poi se ne va in camera sua.
Ci
ha giusto avvertiti per la cerimonia di laurea un anno fa.
E
anche lì è stato facile intuire che non si era fatto molti amici
neppure in
facoltà. –
Maiko
mise una
pausa per esalare l’ennesimo sospiro addolorato.
Akira
le cercò una
mano per stringerla tra le sue e lei lo ricambio con un sorriso
stentato.
-
Io
non so cosa sia successo tra
voi, Aki, nemmeno tua madre, pare, ne sappia niente… Mi ha sempre detto
che
avete litigato, ma non ne ha capito la ragione … abbiamo ipotizzato che
forse
Hiro se la fosse presa perché a te erano venuti a cercarti quelli del
basket
americano e a lui no… una questione di invidia, che so… -
-
No,
zia, no, Hiro non è stato mai
invidioso di me! –
-
E’
quello che ci siamo detti sempre
anche noi, perché lo sapevamo bene quanto lui fosse orgoglioso di te e
del tuo
talento.
Non
faceva che vantarsi con tutti di quanto tu fossi bravo, spettacolare,
meraviglioso… E poi, di colpo, senza un motivo apparente, mette
distanza tra
voi e non vuol più parlarne… Non immagini quanto ci siamo rotti il
cervello, io
e suo padre, a trovare una spiegazione… -
Senza
rendersene
conto, la donna aveva cominciato a singhiozzare sommessamente, ancora
disperata
per quel suo unico, difficile figlio che aveva tagliato i ponti con
tutto e
tutti, senza che avesse concesso ad alcuno di intuire un motivo, di
dare un
senso al suo isolamento.
Akira
provò una
stretta al cuore e non seppe fare altro che stringerle le mani tra le
sue per
confortarla e cercare di calmarla.
La
aiutò ad
asciugarsi gli occhi e le sussurrò parole di incoraggiamento, mentre
sentiva
dentro fitte di angoscia che gli si attorcigliavano intorno allo
stomaco,
contraendolo in morse di dolore lancinante.
Si
rese conto,
semmai ce ne fosse stato ancora bisogno, che non avevano sofferto
soltanto loro
due in quegli anni, ma anche le loro famiglie.
Che
anche lui,
come Hiro, a un certo punto si era rifiutato di discuterne con i suoi,
lasciandoli definitivamente fuori dalle loro vite, distruggendo in
pochi attimi
una vita di condivisione e di bellissimi ricordi, impedendo a chiunque
di loro
di avvicinarsi.
-
Lo
so che è stata colpa di mio
figlio se voi vi siete divisi… - Fece per riprendere Maiko.
Ma
Akira non glielo permise e la fermò non appena sentì la parola “colpa”.
-
No,
zia Maiko, Hiro non ha fatto
niente. – Le rispose accorato. – Lui ha solo voluto il mio bene,
credimi. Ha
sacrificato se stesso, mettendosi da parte, perché io potessi
realizzarmi… Non
ha fatto niente di male… ha pensato solo a me e non a lui! –
-
Perché?
–
-
Lo
sai com’è fatto, quando ama lo
fa incondizionatamente e mette sempre se stesso in secondo piano.
E
lo ha fatto anche 6 anni fa… -
E
si lanciò nel racconto di quei terribili anni, lasciando la donna
completamente
esterrefatta.
Non
le disse però quale fosse il “lavoro” in cui suo figlio si era trovato
intrappolato, né che aveva tentato il suicidio: l’avrebbe uccisa, lo
sapeva.
Semmai
un giorno avesse voluto, sarebbe stato Hiro stesso a parlargliene, ma
fino a
quel momento avrebbe custodito gelosamente quel segreto che poteva
soltanto
fare più male alle persone a cui volevano bene.
-
Io…
non avevo idea… - Balbettò
Maiko interrompendo i suoi pensieri.
-
Nemmeno
io, zia, fino all’altro
giorno… -
-
Il
mio bambino… sempre solo con se
stesso… oh Aki!! –
Lui
la abbracciò forte.
-
Adesso
non più, zia Maiko, te lo
prometto, non permetterò mai più che accada. –
La
donna gli prese il viso tra le mani e gli depose un bacio in fronte.
-
E..
te lo porti via con te? – Gli
chiese a metà tra lo speranzoso e l’incredulo.
-
Si,
torniamo insieme per sempre,
come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio. –
-
E…
lui lo vuole? –
-
Certo
che sì… abbiamo un’altra
possibilità, non possiamo sprecarla. –
-
Non
si perdonerà mai per tutto
questo, lo so, lo conosco! –
-
Lo
costringerò a farlo: siamo stati
male abbastanza, adesso basta! –
Maiko
annuì convinta.
-
Lui
ti ha sempre amato tanto, Aki,
sei sempre stato il suo punto fisso. Tutta la sua vita… -
-
E
lui la mia, non ci rinuncerò e
non lo permetterò mai più neanche a lui. –
-
Oh,
tesoro mio!! – Lo abbracciò di
nuovo con trasporto. - … Devi salire in camera sua, Aki, adesso. –
-
Come?
... Zia, Hiro mi ha chiesto
di aspettarlo qui e… -
-
No,
devi salire, e vedere coi tuoi
occhi. –
-
Che
cosa, non capisco! –
Lei
si mise d’un
tratto in piedi e tirò su anche lui.
Con
una mano
dietro la schiena, lo sospinse verso la porta del corridoio da dov’era
uscito
il figlio poco prima.
-
Vai
su da lui, tesoro, la strada la
conosci. – Lo incitò con un sorriso che di gioia non aveva nulla.
Akira
la guardò inquieto, colto da una sensazione sgradevole che però non
seppe
definire, ma non ebbe animo di opporsi e obbedì, chiedendosi perché mai
volesse
a tutti i costi che salisse.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Capitolo
16
Davanti
alla porta
della camera di Hiroaki, Akira si fermò incerto.
Zia
Maiko aveva
insistito perché salisse e “vedesse con i suoi occhi”.
Ma
cosa avrebbe
dovuto vedere?
E
perché Hiro,
invece, già prima ancora di scendere dalla macchina, gli aveva chiesto
di
aspettarlo di sotto, che avrebbe fatto presto e sarebbe ridisceso?
Non
capiva.
Gli
mancavano dei
tasselli in un quadro che aveva una palese stonatura, ma non riusciva a
comprendere quale.
E
perché a un
tratto non sapere lo disturbava tanto da fargli avvertire una sorta di
ansia a
fior di pelle?
Cosa
mai poteva
esserci dietro quella porta oltre la camera di un ragazzo che lui
conosceva
come le proprie tasche per averci passato insieme tutta la sua vita?
Decise
che l’unica
soluzione a quell’improvvisa angoscia era di bussare ed entrare.
E
lo fece.
Ma
dopo il primo
tentativo non giunse alcuna risposta dall’altra parte.
Batté
di nuovo le
nocche sul legno della porta, stavolta con più energia.
-
Hiro,
sono io, posso entrare? –
Accompagnò il gesto pronunciando le parole in tono tranquillo.
Ancora
un momento di silenzio, poi: -
-
Aki,
aspettami giù, ho quasi
finito! – La risposta del ragazzo che gli giungeva un po’ ovattata.
Era
ansia l’inflessione che aveva percepito?
Si
chiese Akira, turbato.
-
Amore,
lasciami entrare, per
favore! –
Ma
perché doveva persuaderlo?
Che
significava?
Cosa
voleva nascondergli?
-
Ti
prego, no! –
Adesso
la risposta gli era giunta più vicina, segno che Hiro gli stava
parlando da
dietro la porta.
Addirittura
lo stava pregando!
Perché?
Aveva
sempre avuto libero accesso in camera sua come fosse stata la propria,
per
quale motivo ora cercava di impedirglielo?
Era
sempre più confuso.
Questo
tuttavia non lo dissuase, anzi, rafforzò in lui la convinzione che ci
fosse
qualcosa di strano.
-
Zia
Maiko mi ha chiesto di salire
espressamente da te, perciò non me ne vado, aprimi, ti ho detto! –
-
Mamma
non sa quel che dice, non le
dare retta, vai di sotto … è
meglio. –
La
voce che si andava spegnendo quasi sotto la spinta di un principio di…
cosa…
pianto?
-
Amore
mio, cosa c’è? –
Un
profondo sospiro gli giunse alle orecchie.
-
Non
vale se mi chiami così,
smettila!! –
Per
tutta risposta Akira mise la mano sulla maniglia e provò a girarla.
Si
era aspettato di trovarla chiusa a chiave, invece questa scattò sotto
la sua
pressione, e si schiuse.
Piano
aprì la porta e subito incontrò il profilo di Hiroaki, che, schiena
contro la
parete, fissava le proprie mani serrate una contro l’altra con tale
forza da
averle quasi bianche.
-
Hey!
– Lo chiamò, avanzando verso
di lui.
Hiro
trasalì, ma non osò guardarlo direttamente, lasciando che entrasse
nella
camera.
Lo
scorse che gli si fermava davanti e gli si chinava addosso, poggiando
una mano
al muro poco sopra la sua testa.
Inevitabilmente
il suo profumo lo avvolse, stordendolo e mandandogli il cuore in
confusione.
-
Amore,
stai bene? – Si sentì
chiedere in un soffio a pochi centimetri da sé.
Tutto
quel che gli riuscì di fare fu un gesto incomprensibile con il capo che
Aki non
seppe interpretare come un sì o un no.
Lo
scorse soltanto pallido e nervoso e non seppe spiegarsene la ragione.
A
ben rifletterci lo era stato per tutto il viaggio dall’albergo a lì.
Avevano
parlato del più e del meno senza addentrarsi in discorsi particolari o
difficili come avevano fatto fino alle tre di quella mattina.
Hiro
gli aveva riferito qualcosa del quartiere.
Lui
gli aveva raccontato di essere andato a trovare i suoi qualche giorno
prima.
Ma
tra loro la sensazione di nervosismo da parte del ragazzo non si era
stemperata.
Anzi,
era cominciata già quando quella mattina a colazione gli aveva detto
che lo
avrebbe accompagnato per rivedere gli zii.
Hiro
non si era mostrato null’affatto entusiasta.
Perché?
Senza
più indugiare portò l’altra mano sotto il suo mento e glielo sollevò
delicatamente perché finalmente lo guardasse, e Hiro obbedì al comando
nemmeno
troppo velato, ma distolse lo sguardo alla sua destra, evitandolo
ancora.
Un’ombra
contrariata e soprattutto preoccupata passò sul volto di Akira: lo
stava
spaventando!
Tuttavia
decise di non attaccarlo frontalmente per evitare qualche sua brusca
reazione.
Invece
rifece pressione per rigirarlo verso di sé e gli posò un lieve bacio
sulle
labbra esangui.
In
cambio ricevette il suo alito tiepido e dolce che usciva nell’ennesimo
sospiro
ansioso.
Lo
aspirò senza staccarsi da lui, assorbendo la sua improvvisa e
inspiegabile
angoscia.
-
Amore
mio, cos’hai? –
-
Dovevi
aspettarmi giù… - Protestò
ancora Hiro, flebile e poco convinto.
-
Perché?
Cos’ è che non vuoi che
veda? … Conosco camera tua … - Stette per fargli notare l’ovvio, mentre
sollevava lo sguardo intorno con un gesto che avrebbe dovuto essere
altrettanto
scontato, e quel che vide gli spezzò le parole sulle labbra.
Era
sempre la sua camera.
La
scrivania sotto la finestra, l’armadio sulla sinistra, la libreria
sulla
destra.
Dietro
la porta, il muro piegava nell’ampio vano dove il solito letto da una
piazza e
mezza era sistemato dove era sempre stato, creando una sorta di
ambiente a sé,
quasi una seconda, piccola camera, tenendolo appartato dal resto, e che
gli era
sempre piaciuto un sacco perché intimo e celato agli occhi di chi
entrasse
nella stanza.
Eppure
non era la stessa camera che ricordava.
Gli
spazi delle due pareti della zona a giorno, tra l’armadio, la scrivania
e la
libreria, erano tappezzati di poster che ritraevano lui sui campi di
basket.
Sulle
ampie ante dell’armadio stesso erano attaccate due gigantografie di due
azioni
diverse di una medesima partita che aveva disputato un anno indietro, e
che
riconobbe immediatamente.
I
ripiani della libreria che una volta sostenevano i libri di scuola, le
riviste
di basket e i fumetti, adesso erano colmi di dvd tutti ordinatamente
catalogati
per data e argomento, altre riviste di basket chiaramente americane, e
foto
incorniciate, tutte diverse, tutte con il medesimo soggetto: se stesso.
Ritratto
in altre azioni di gioco, o mentre usciva da un locale, o in mezzo alla
strada.
Ma
ciò che spinse il suo corpo a una torsione su se stesso fino a fermarsi
a pochi
centimetri dal letto, furono le sue foto a grandezza naturale sulle tre
pareti
della rientranza, e una sul soffitto che identificò con altrettanta
rapidità.
La
prima sul muro ai piedi del letto era del calendario che aveva fatto
per
beneficenza quasi due anni prima: giugno.
Era
a torso nudo inginocchiato in riva al mare, completamente bagnato, le
gocce
d’acqua sulla sua pelle bianca formavano una cascata di milioni di
cristalli
risplendenti di luce.
Un
paio di jeans neri, unico indumento, gli fasciavano le lunghe gambe, e
la
stoffa, fradicia, sembrava tendersi in uno sforzo sul punto di
esplodere sotto
la pressione dei muscoli tesi.
I
primi due bottoni erano aperti e vi si intravedeva un accenno di
biancheria
intima bianca.
Le
dita della mano sinistra vi si immergevano appena, come a voler
sfiorare
casualmente il suo sesso, in un gesto erotico, ma non volgare.
La
mano destra invece cercava di tirare indietro le ciocche bagnate di
capelli
neri che gli si erano appiccicate sul viso.
Lo
sguardo intenso, magnetico, appena socchiuso, fisso nell’obiettivo, che
sembrava raggiungere e sprofondare nell’anima di chi lo guardava in una
muto
invito a toccarlo, sentirlo, fondersi con lui.
Un
sapiente fotoritocco aveva accentuato il blu delle sue iridi, unico
colore sul
bianco e nero della foto, creando un effetto inquietante e sensuale al
tempo
stesso.
Una
trappola senza scampo.
La
bocca, piena, perfetta nel suo disegno, schiusa e brillante di gocce
d’acqua,
da cui faceva capolino la punta di una lingua impertinente che sembrava
sussurrare “assaggiami” senza ombra di equivoci su quel che avrebbe
voluto.
Erotica.
Letale.
Aggressiva.
Gli
unici aggettivi che venivano in mente osservando quell’immagine.
La
seconda gigantografia occupava la parte centrale del soffitto dove una
volta
c’era stata una lunga lampada al neon.
Era
un fotogramma, sempre in bianco e nero, di uno spot pubblicitario di
una nota
marca di biancheria intima.
C’era
solo lui, completamente nudo, disteso supino su un letto, con indosso
un paio
di jeans chiari, strappati sulle cosce e slacciati davanti, fermati al
di sotto
dei fianchi, che gli coprivano a malapena il bacino, senza tuttavia far
intravedere alcunché.
Le
braccia erano sollevate e incrociate sulla fronte, appena visibile solo
una
parte del viso, che però era stata tenuta ombreggiata, offrendo
all’osservatore
i muscoli dell’ampio torace e degli addominali, sottolineati dolcemente
dal
gioco del chiaroscuro, dove ombra e luce sembravano rincorrersi e
rotolare fino
a tuffarsi nell’incavo del ventre piatto.
Nello
spot non era mai comparso nessun capo di biancheria.
In
sottofondo era state messe le note della Sonata al chiaro di luna di
Beethoven,
sapientemente riarrangiata, e l’obiettivo della telecamera era
scivolato lento
e ipnotico sui più piccoli particolari del suo corpo, rilassato tra le
lenzuola, soffermandosi qualche istante al confine delineato dalla
cerniera
aperta, come a evocare il prodotto che stava pubblicizzando, e che in
effetti
non c’era, imitando
il languore della
musica, e lasciando all’immaginazione dello spettatore la libertà di
far
correre i pensieri.
Poi
andava a nero, e compariva solo il marchio.
Akira
ricordò vagamente che lo spot aveva avuto parecchio successo, mentre
rifletteva
che se si sdraiava sul letto, avrebbe potuto sollevare le braccia e
accogliere
idealmente il corpo ritratto come fosse stato reale.
L’ingrandimento
sulla testata del letto invece era il manifesto pubblicitario di un
profumo da
uomo, dove di lui compariva solo la metà sinistra del volto.
La
luce delineava il profilo deciso della guancia, le labbra serrate in
una linea
imperscrutabile.
Alcuni
capelli, che sembravano essere sfuggiti ribelli a quelli tirati
indietro, si
allungavano sulla pelle liscia, oltre la carta stessa, come fili di
seta
sospinti da un immaginaria folata di vento.
L’unico
occhio visibile, il cui blu dell’iride era stato estremizzato dalle
mille
sfumature del fotoritocco, e che riprendeva le screziature del
cristallo in cui
era racchiusa la fragranza pubblicizzata, fissava direttamente
l’osservatore,
l’espressione glaciale e arrogante come se avesse voluto entrare fino
in fondo
all’anima e lì imbrigliarla.
Rimaneva
l’ultima, enorme foto, quella sulla parete di mezzo.
Delle
altre non gliene importava nulla, erano state solo alcune delle tante
della sua
carriera di fotomodello e testimonial di prodotti commerciali.
Ma
quella era la sua preferita.
Occupava
un posto speciale nel suo cuore e per qualche ragione, a lui ancora
sconosciuta, Hiro l’aveva scelta tra le tante e voluta proprio lì,
senza che,
ne era sicuro, ne conoscesse la genesi.
Una
storia che nessuno conosceva, tranne lui.
La
foto era a colori.
Era
stata fatta un anno e mezzo prima per rappresentare i titolari della
sua
squadra in un servizio giornalistico sul Time.
La
fotografa che gliel’aveva scattata aveva voluto qualcosa di originale
che non
fossero le solite pose estrapolate dalle partite.
E
così aveva lavorato singolarmente con lui e gli altri ragazzi,
chiedendo a
ognuno di loro di scegliere quel che preferivano.
Per
caso, in una pausa, lui si era seduto a terra contro il muretto di
mattoni
rossi dei giardini fuori dalla palestra dove si allenavano.
La
palla arancione dimenticata a pochi centimetri da sé.
Era
scalzo e a dorso nudo perché era estate, addosso solo un paio di
pantaloncini
corti neri con i profili bianchi sui fianchi stretti.
Teneva
le ginocchia piegate e le gambe divaricate in una posa rilassata, le
braccia
appoggiate sulle cosce e le mani abbandonate nel mezzo.
E
non c’era nulla di particolare nella posa.
Aveva
il viso girato di lato, il profilo perfetto baciato dal sole del
pomeriggio, lo
sguardo perso lontano che guardava un punto qualunque.
Ma
l’espressione era particolare.
Era
rapita da un pensiero che gettava un’ombra dolce e melanconica sui suoi
tratti.
Gli
aveva incurvato impercettibilmente le labbra nell’accenno di un sorriso
pieno
di nostalgia e gli aveva messo negli occhi una luce dolorosa e tenera
al tempo
stesso.
Hiro.
Dove
sei?
Quell’espressione
aveva colpito la fotografa.
La
donna lo aveva sorpreso in quella posizione e ne era rimasta
inspiegabilmente
turbata. Aveva voluto immortalarlo così ed era stata categorica sulla
propria
volontà di volere proprio “quello” scatto per l’articolo.
Ricordava
che gli aveva chiesto a cosa stesse pensando in quel momento da
trasfigurarlo
in modo così meraviglioso e struggente.
Che,
non sapeva perché, ma gli era parso di intravedere in quel breve
istante di
tempo, il frammento di un Akira tormentato e addolcito da un ricordo
doloroso e
dolce.
Lui
le aveva semplicemente sorriso, ma non le aveva svelato il segreto.
E
le aveva dato il permesso di usarla.
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Capitolo
17
-
Non
avevo dubbi che fossi il primo tra i miei fans! – Rifletté Akira,
voltandosi
verso la porta, dove Hiro era rimasto impalato ad attendere.
Il
ragazzo trasalì al tono
affettuoso della sua voce e arrossì suo malgrado.
-
Tutto
quel che esiste su di te è qui dentro. – Gli confidò con un filo di
voce,
evitando accuratamente di sollevare lo sguardo su di lui.
-
Tutto!
– Ripeté Aki colpito, deliziandosi del suo imbarazzo.
Hiro
assentì e finalmente si
staccò dalla parete con cui sembrava avesse voluto fondersi fino a quel
momento
senza tuttavia riuscirvi.
Accostò
la porta e diede una
mandata di chiave per bloccarla.
Poi gli
si fece incontro, ma
andò oltre, fermandosi davanti alla libreria.
-
Qui
c’è tutto il mio mondo. – Riprese.
Con
devota cautela passò le
dita sul dorso dei numerosi dvd impilati sui ripiani come fossero stati
preziosi oggetti di cristallo da maneggiare con cura, poi si portò la
mano al
petto e se la strinse con l’altra in un gesto avvilito.
Akira
lo affiancò e rimase a
osservarlo in attesa che gli fosse rivelato un altro doloroso spaccato
della
sua vita che aveva perso in quegli anni.
-
Ho
registrato tutte le tue partite, le interviste sui campi di gioco. Ogni
tua
apparizione televisiva, casuale o rubata.
E quel
che non sono riuscito
ad avere, me lo son fatto mandare dai tuoi fanclubs.
Ho
raccolto tutti gli
articoli su di te sia di basket che di moda.
Tutte
le pubblicità che ti
hanno visto testimonial.
Qualunque
cosa. –
-
Hiro…
-
-
E’
stato il mio pane… lo scopo per cui mi sono trascinato pateticamente
fino ad
oggi. Questa stanza è il mio rifugio, dove mi chiudo dentro e dove
posso
vivere… con te!! –
-
Scricciolo!!
– Aki fece per toccarlo, spezzato dal dolore che gli si stava
propagando in
mezzo al petto per quelle sue parole disperate.
Ma Hiro
si scansò con un
movimento istintivo, mettendo distanza tra loro come se in quel momento
non
avesse potuto sopportare alcun contatto fisico.
-
Qui
ti guardo per ore e ti parlo di quel che mi passa per la testa. –
Soggiunse
mentre un pallido sorriso colmo di sarcasmo gli si disegnava sulle
labbra
pallide. – No, non della mia vita da prostituta… quello mai… ma dei
miei
pensieri! -
Aki
sobbalzò, incapace di
reprimere la sensazione di profondo fastidio che gli suscitava tutte le
volte
quella parola.
Il
ragazzo se ne accorse e
finalmente trovò il coraggio di sollevare gli occhi su di lui: gli
parve ancora
più bello con l’espressione contrariata che gli lesse sul volto
rabbuiato.
-
Perdonami,
ma è quel che sono! – Lo implorò in un sussurro scorato, rassegnato
all’incontestabile
verità.
Una
luce violetta, sottile e
affilata come una lama, scurì le iridi cobalto del suo compagno,
costringendolo
a distogliere di nuovo le proprie, colmo di vergogna per se stesso.
Fece
qualche passo e andò a
sedersi sul bordo del letto.
Qui si
guardò intorno,
cercando conforto nelle immagini del giovane uomo sulle pareti, che lo
fissava
con tutt’altre espressioni e che gli aveva regalato momenti di dolce
intimità
più di una volta.
Non
poté però ignorare che
quello vero, reale, lo stava raggiungendo.
Gli si
contorse lo stomaco
per la sofferenza: aveva tanto sognato di riaverlo proprio lì, tanto
vero da
poterlo toccare se solo avesse allungato una mano, senza scontrarsi con
il
freddo di un muro e di un foglio di carta patinata.
Percepire
sotto le dita il
calore e la morbidezza della sua pelle serica.
Sentirsi
rabbrividire di
piacere.
Aki gli
si era avvicinato,
ma lui aveva perso di nuovo il coraggio di guardarlo, spaventato da
quel che
poteva pensare di lui in quel momento.
Così
non si accorse che si
era soffermato accanto alla piccola consolle accanto al letto, dove
oltre
all’abat-jour erano abbandonate un paio di riviste di basket e dei
minuscoli
auricolari wi fi.
Solo
quando con la coda
dell’occhio lo vide che prendeva i due bottoncini bianchi dalla
superficie e se
li portava incuriosito alle orecchie, balzò di scatto in piedi e si
slanciò
verso di lui per sottrargliele.
Sorpreso
dalla sua reazione,
Akira si scansò, sfuggendo alla sua aggressione più per istinto che per
volontà, Hiro si sbilanciò e cadde di fianco sul materasso.
-
Cosa…?
– Stette per dire, quando lo stereo a cui le cuffie erano collegate si
attivò in
automatico, stimolato dal segnale radio partito dagli auricolari.
Ascoltò
i suoni che lo
raggiunsero, sulle prime senza capire cosa stesse ascoltando.
-
No,
Aki, no! – Protestò Hiro fuori di sé, rimettendosi in piedi.
Ma non
si protese verso di
lui un’altra volta, cercò invece forsennato il telecomando dell’hi-fi
per
spegnerlo nel disperato tentativo di evitare l’ennesima umiliazione.
Tuttavia
fu tutto inutile:
l’infernale aggeggio ovviamente era irreperibile e il contenuto del cd
che era
partito, sembrò diventare eloquente a uno stupitissimo Akira, che si
volse a
guardarlo a bocca aperta.
Gli
parve che il terreno gli
si aprisse sotto i piedi e lo inghiottisse tutto di colpo.
Adesso
lo sfacelo era
compiuto, si ritrovò a pensare, incapace di fare un solo movimento: il
corpo
gli si paralizzò per il terrore che lo avvolse in una morsa soffocante
e
tagliente da fargli contrarre i polmoni.
Non gli
riuscì più nemmeno
di formulare un pensiero, una reazione, niente!
Nella
testa si spandeva solo
il vuoto sotto il peso della consapevolezza che nulla lo avrebbe potuto
salvare
dal disgusto che di lì a poco l’uomo davanti a sé gli avrebbe riversato
addosso.
Già
sentiva rivoli gelidi
sferzargli la pelle e tutto il suo mondo di speranze ritornò ad
accartocciarsi
su se stesso, morto ancor prima di rivivere a nuova vita.
-
Hai…
registrato quella notte! –
Le
parole sconcertate
presero corpo nell’aria immobile intorno a loro, diventando macigni
roventi
sulla pelle di Hiroaki.
Chiuse
gli occhi per non
vedere, sperando invano anche di non sentire più niente.
Akira
continuò ad ascoltare
i sospiri alterati dall’ansia, gli ansiti spezzettati, le sue parole
d’amore sussurrate
al suo ragazzo, che gemeva tra le sue braccia per il piacere che gli
stava
dando.
Riconobbe
la preghiera che
gli era stata rivolta di far piano e come in un flashback, rivide la
scena
della loro prima volta, di lui che paziente coccolava e corteggiava un
Hiro
imbarazzatissimo e nudo sotto di sé, ansioso di concederglisi, ma anche
spaventato dalle sensazioni che stava provando, nuove e potenti e
sconosciute.
Lentamente
si tolse gli
auricolari e li rimise sulla consolle.
-
L’hai
registrata… perché? – Domandò al giovane adulto che gli stava
impietrito
davanti, incapace di un solo fiato.
Hiro
non si mosse.
Allora
lo prese per le
braccia dolcemente, attento a non spaventarlo più di quanto già non
fosse, e se
lo avvicinò.
La
prima cosa che fece fu
baciargli la fronte, accorgendosi che era imperlata da un velo di
freddo
sudore.
Vi
appoggiò una guancia
mentre si tirava il suo corpo contro.
Poté
sentire tutto il panico
che lo faceva vibrare e desiderò riuscire a cancellarlo in qualche modo
perché
non ve n’era ragione.
-
Amore
mio! – Gli sussurrò sgomento. – Quanto male ti sei fatto!! –
In
risposta ricevé solo un
singulto tormentato che gli fece arrivare sulla pelle il suo respiro
tiepido.
Lo
strinse a sé in un
abbraccio che avrebbe voluto proteggerlo da tanta sofferenza.
-
Io
sono impazzito, Aki! … - Gli giunse dopo parecchi minuti la voce
rovinata di
Hiro. - …L’ho registrata con il cellulare per poterne conservare il
ricordo
quando tu non ci fossi più stato.
… Se
non avessi trovato una
scappatoia, non ce l’avrei fatta.
Faceva
così male senza di
te… era una sensazione costante che non si affievoliva mai… più il
tempo
passava e più diventava intensa… non è vero che guarisce le ferite… nel
mio
caso la rendeva solo più enorme…
Un
dolore insopportabile…
insopportabile!!!... –
Raccolse
un profondo
respiro, ma lo espulse in frammenti sempre più piccoli man mano che le
lacrime
ritornavano ad aggredirlo.
Tremò
tutto.
Akira
rafforzò il suo
abbraccio, accompagnandogli il capo contro il suo petto.
-
Prima
o poi … avrei riprovato a uccidermi… perché andare avanti così era
qualcosa che
esulava dalle mie capacità… era inutile che Louis mi tenesse d’occhio…
aspettavo solo che mi mollasse in qualche momento e lo avrei rifatto…
Poi…
una notte… su un canale
sportivo satellitare hanno mandato un servizio sul basket americano.
E ti ho
visto. – Hiro
premette il viso nel tessuto morbido della sua camicia. – Ti ho visto,
Aki!! …
E il mio cuore si è fermato… eri magnifico mentre eseguivi uno
spettacolare
Windmill Dunk… la mia testa è volata via con te verso il canestro e non
è più
tornata.
Dev’essere
stato quello il
momento in cui mi sono… come diviso in due…
… non
lo so… è stato tutto
così naturale… strano anche… non sono più riuscito a vedermi… c’era la
parte di
me che sottostava ai clienti dell’agenzia… e la parte di me che invece
correva
dietro a te… E nessuna delle due parti comunicava con l’altra… Così è nato tutto questo!
– E fece un gesto
verso il contenuto della stanza intorno. - … Ho cominciato a crearmi
questo
mondo fatto solo di me e di te dove nessun altro entrava.
Era una
cosa solo mia… una
specie di parentesi in un altro universo…
… Mi ci
sono nascosto per…
rincorrere l’illusione di poterti avere con me… e… un po’ mi ha aiutato
perché…
ho cominciato a pensare di meno di voler morire.
Quando
non ne potevo più,
lasciavo tutto e tornavo a casa… e tu eri qui ad aspettarmi… e ci
guardavamo
attraverso le tue foto… i video delle tue partite… gli spot
pubblicitari…
… Eri
così meraviglioso…
unico… e mi fissavi dall’obiettivo della telecamera…
… Ho
fatto l’amore con te… -
Nel dirlo la voce si fece più bassa, emozionata. - … Oh sì, tante
volte, solo
con te… gli auricolari nelle orecchie e le immagini di quegli spot dove
tu non
dici mai niente, ma è il tuo bellissimo corpo a farlo per te… così
perfetto,
sexy… irresistibile…
… E ti
ho amato tanto,
offrendoti me stesso… toccandomi come avrei voluto facessi tu… e solo
allora ho
provato delle sensazioni fortissime… così intense che a volte ho dovuto
nascondermi nei cuscini per soffocare le urla e non farmi sentire…
Era
così bello poterti avere
dentro di me almeno nella mia testa… mentre fuori… non sentivo niente…
niente
mi arrivava da nessuno di quelli che si prendevano il loro piacere dal
mio
corpo… niente!!! –
Deglutì
con difficoltà, ma
stranamente si sentì finalmente più leggero.
Il
fiume di parole che aveva
buttato fuori sembrò in qualche modo aver fatto defluire l’orrore
parossistico
che aveva marchiato a fuoco la sua anima in quegli anni, stemperandone
il peso.
L’unica
cosa che lo
inquietava ancora era il giudizio dell’uomo che lo teneva
possessivamente
stretto a sé.
Cosa
potesse pensarne di lui
non riusciva a immaginarlo.
Lo
sapeva di non essere più stato
sano di mente dalla loro separazione in poi.
Lo
aveva sempre saputo
malgrado tutto.
Anche
se non gli era
importato.
Ma Aki
come lo avrebbe
visto?
Sarebbe
stato ancora fermo
nella sua intenzione di ritornare insieme dopo tutto quel che gli stava
raccontando?
O
avrebbe riconsiderato la
situazione alla luce della sua follia?
E lui
faceva bene a essere
così sincero?
Certo,
glielo aveva
promesso: da quel momento si sarebbero sempre parlati e raccontati
tutto per
evitare altri disastri alle loro vite.
Ma era
giusto?
O
avrebbe solo peggiorato le
cose?
E se lo
avesse spaventato
con la sua instabilità mentale?
Una
cosa era ritrovarsi e
fantasticare su un loro possibile riavvicinamento…
Un’altra
fare i conti con il
casino che era diventata la sua vita.
Non
tremare più, amore mio!
E’
tutto finito.
Non
dovrai più vivere così, lo giuro!
Se
solo avessi immaginato tutto questo…
…
se solo avessi capito… intuito qualcosa… non sarei rimasto lontano
tanto tempo
a macerarmi nel mio dolore… sarei ritornato di corsa qui da te e al
diavolo
ogni cosa!
I
pensieri si affollavano
nella testa sgomenta di Akira mentre scioglieva le braccia e le mani
raccoglievano
il volto pallido e distrutto del suo piccolo, folle amore.
Rincorse
i suoi occhi
sfuggenti fino a intrappolarli con i propri, ma non riuscì a
sorridergli.
-
Cureremo
insieme tutte queste ferite, amore mio! – Gli sussurrò accorato. – Io
sono qui
adesso… per quanto tempo sia passato… sono qui e tu sei sempre mio…
ricominceremo d’accapo… -
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Aki,
io ti amo… ma sono quello che sono… -
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Tu
sei il mio scricciolo bellissimo… !! –
Mio!
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