Legami l'anima

di Tresor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Legami l'anima

1° Capitolo


 

- Me ne vado!-
- Cosa?-
- Ho detto che me ne vado, abbiamo finito!-
Che dici, non capisco!

Cos’è all’improvviso questo tono di voce così freddo, tagliente?

 - Hiro, cosa…?- Riprovo a chiederti.

Non riesco a capire chi sia la persona che mi sta parlando.

Ma sicuramente non sei tu.
Ti alzi, scivolando inesorabilmente dal mio abbraccio, e d’un tratto un gelo profondo, una sensazione di abbandono che non riesco a identificare, si impadronisce di me.

E’ la cosa più sgradevole in assoluto che io abbia mai provato!

Che succede?

Ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio?

Un attimo fa riposavi sul mio petto senza un pensiero pesante.

Un braccio abbandonato al mio fianco.

Le dita che mi sfioravano in una carezza lieve, quasi svogliata, dolcissima, che mi provocavano mille brividi di gioia.

I tuoi sospiri leggeri, caldi, che mi scaldavano la pelle.

Il tuo corpo abbandonato contro il mio, rilassato, felice, stanco di questi momenti magici che sono appena finiti, ma che ancora vivono e danzano dentro di noi.
Che succede?

Non capisco: che succede?

Spiegami!
- Non abbiamo più niente da dirci. Quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto. Posso anche andarmene! -
Ancora. 
Ancora quella voce gelida, che non somiglia a nessuna delle tue inflessioni che pur conosco in ogni sfumatura. 
Adesso ti stai rivestendo, recuperando i tuoi vestiti che avevamo sparso per la stanza troppo persi nella nostra ansia di liberarcene.

I tuoi movimenti sono precisi, calcolati.

Non un’esitazione.

Puro automatismo dettato dall’abitudine.
Che succede?
Mi tiro su a sedere sempre più confuso mentre tu nemmeno mi rivolgi uno sguardo.

E non so nemmeno se vuoi evitarmi o cosa!
- Hiro, ti sei pentito di…- Provo con la prima cosa che mi viene in mente. 
Mi sembra quasi la più logica, anche se in nessun istante di queste ore passate mi è parso dovesse esserci questo pericolo.
- Pentito!- Esclami tu, un sorriso obliquo sulle labbra, sprezzante.- E di che, scusa? Avevo voglia di farmi scopare da te e l’ho fatto.-
- S… scopare?- 
Ma che modo di esprimersi è?

Tu non parli mai così.

Sei talmente timido su questo tipo di cose che parlarne e arrossirne è un tutt’uno sul tuo viso.
E adesso non c’è quasi colore sulla tua pelle.
Che succede, dannazione?
E smettila di continuare a vestirti come se niente fosse!!
Scivolo fino all’orlo del letto, tirandomi dietro il lenzuolo che a malapena mi copre.

Ma che m’importa, non mi vergogno certo di mostrarmi nudo davanti alla persona con cui ho appena… fatto l’amore!!
Provo a fermare una delle tue mani, prendendoti per un polso, ma tu strattoni il braccio, allontanando il mio gesto con un moto brusco.
- Se non sei pentito, perché te ne stai andando? Ho fatto qualcosa che non va? Spiegami, non riesco a capire, Hiro!-
Tu ti giri verso di me e sbuffi con aria di sufficienza, come se ti scocciasse la mia ostinazione. 
Chi sei, Hiro?

Non so più se ti conosco adesso. 
Non sei tu.
- Ma che c’è da capire? Mi sembri più sveglio di solito! Mi andava di venire a letto con te. E anche a te, mi pare. Ma ho da fare, quindi ciao!-
“Quindi ciao!”??
- Quindi ciao???- Quasi urlo mentre tu ti avvii alla porta e io salto giù dal letto per fermarti.
Ti prendo per le spalle, inchiodandoti alla parete senza troppi complimenti.
Per un momento sembri sorpreso dalla furia che mi leggi negli occhi.

Si, lo so che ci riesci, ma non ci vuole tutta questa intelligenza per capirlo.
Poi riprendi coraggio e… quell’aria seccata che non ti ho mai visto in tanti anni che ci conosciamo. 
Di nuovo quella specie di ghigno di sufficienza che ti incurva le labbra.
Che succede, cazzo?
- Lasciami andare, Akira, non capisco perché ti agiti tanto!-
- No? E che c’è da capire nel fatto che abbiamo appena fatto l’amore e tu ti alzi e te ne vai senza nemmeno una parola.-
- Uhm… non mi sembra che servano parole quando si fotte con qualcuno!-
Cosa? 
- Sei impazzito? Ma come parli?-
Fai spallucce e quasi ridi per il disappunto che mi scorgi in faccia.
- Oh quanto la fai lunga, adesso ti scandalizzi pure! Quasi non ti riconosco più!-
- No, sono io a non riconoscere te!- Stavolta non mi importa di gridare. Non me ne importa niente.- E’… stata la nostra.. prima volta. La sera più bella della nostra vita e tu… tu…-
- Hey, calma, mica ti avevo promesso niente! Andare a letto con qualcuno mica vuol dire per forza stare insieme. Che ti eri messo in testa scusa?-
Sono sempre più frastornato. 
Ma che dice questo? 
Non eri tu che sei venuto da me sconvolto per avermi visto insieme a Rukawa e aver pensato che io e lui stessimo insieme?
Non eri tu che hai preso il coraggio a quattro mani e mi hai confessato di amarmi e di ripensarci, prima ancora che riuscissi a dirti che io e Kaede ci eravamo incontrati solo perché lui ne ha combinata un’altra delle sue con Hana?
E non eri tu che mi sei volato tra le braccia quando finalmente sono riuscito a spiegarti che l’unica persona che potrei mai amare è un certo ragazzino scontroso e intrattabile che mi ha rubato il cuore da sempre?
E non eri tu che mi hai chiesto di fare l’amore con te mentre il tuo volto andava a fuoco che per un momento ho avuto paura stesse per venirti un’ attacco di febbre improvvisa tanto  scottavi?
Non eri tu…. 
Oppure finora ho sognato tutto questo e ancora non riesco a uscire da questo…
-… INCUBO?- Sto urlando ancora, ma se non lo faccio divento pazzo, perché non capisco. 
Non capisco questo tuo voltafaccia. 
Questa tua espressione sprezzante, questo tono superficiale, seccato. 
Questo tuo voler a ogni costo minimizzare quello che è stato un atto d’amore che abbiamo voluto entrambi. 
Non solo io. 
Non solo tu. 
Ma tutti e due?
- Mi sarò espresso male, mi spiace!- Mi dici atono. 
E non vedo nessuna contrizione sul tuo volto.

Nessuna traccia del dispiacere che dichiari a parole

.- Per me è stato solo sesso. Non è mica la prima volta che vado a letto con un uomo. Se tu hai capito un’altra cosa, non è colpa mia. E adesso lasciami, che devo proprio andare!-
- Hiro, è uno scherzo?- Sono ancora incredulo. 
Scusate, ma proprio non c’arrivo.
Tu mi guardi con uno dei tuoi migliori sguardi innocenti. 
Pensi davvero quello che dici?

Perché se è uno scherzo, è durato troppo, ed è anche di pessimo gusto.
- No, affatto. Non sei stato il primo e… di certo non sarai l’ultimo! -
Mi manca il respiro. 
C’è qualcosa che si sta formando nel mio stomaco. 
Una sensazione che va via via espandendosi come una nebbia sottile e velenosa. 
Una sorta di nausea che mi avvolge e si propaga dentro di me come se volesse imprigionarmi in una spirale da cui non so se riuscirò ad uscire. 
Mi sento soffocare.
Provo a inspirare aria nei polmoni, ma non ne vogliono sapere. 
Si rifiutano di fare il loro lavoro. 
Si rivoltano contro di me. 
Perché?
Non mi avevi detto di aver avuto già esperienze con altri. 
Quando ti ho preso, mi è sembrato fosse la prima volta per te.
Ho cercato in ogni modo di essere delicato, ma ti ho fatto male lo stesso. 
Sei… così stretto.

Due lacrimosi grossi così sono scesi dai tuoi occhi serrati e mi sono sentito morire per il senso di colpa. 

Sono stato sul punto di tirarmi indietro pur di non vederti soffrire.

E tu me lo hai impedito non so con quale forza.

Mi hai pregato di continuare.

Che stava passando tutto.

Che non dovevo spaventarmi.
Ed eri stato già con altri!
Eppure ci diciamo sempre tutto.

Siamo sempre stati l’uno il miglior amico dell’altro prima ancora di diventare amanti. 
Sono stato il primo a sapere che ti eri accorto di essere gay. 
Il primo con cui hai trovato il coraggio di parlarne. 
E non mi hai fatto mai parola di essere già stato a letto con altri. 
Perché? 
Io ti ho raccontato sempre delle mie, poche, esperienze. 
Avresti potuto dirmelo tranquillamente visto che non sapevi, e non ti eri accorto, che ero innamorato di te. 
Non avresti potuto farmi male. 
Anche se mi fa male, eccome, venirlo a sapere. 
In questo modo poi.

In un’occasione che… doveva essere speciale per noi!
Nella mia mente e nel mio cuore  avresti dovuto essere solo mio. 
Avrei dovuto essere il tuo primo amore. 
Il tuo primo amante. 
Come lo sono stato io.
Dov’è il ragazzino scontroso e timido a cui si impicciavano la lingua e il cervello solo a sentir alludere a qualcosa di vagamente connesso con il sesso?
Che svicolava e balbettava quando scherzavo su questo argomento per prenderlo in giro?
Dove?
Oddio, mi sembra di morire! 

E non è finita. 
Lo so che non è  finita.
Che succede?


- Allora cos’erano le parole che mi hai detto mentre facevi l’amore con me, Hiro?-

Lo devo sapere, dannazione. 
Devo sapere perché hai giurato di amarmi se non te ne fregava invece niente.
Se era solo una… scopata come le altre.
- Senti, finiamola di tirarla per le lunghe. Siamo dei ragazzi. Stiamo cominciando ora ad avere le nostre esperienze. L’amore è una parola troppo grossa per la nostra età. Anzi, la idealizziamo come ragazzine alla prima cotta. Non te la prendere, ok?
E poi non vedo perché ti sembra una tragedia. Mi pare che sia piaciuto a tutti e due. Tieniti questa sera come ricordo per quando sarai in America. Quanto manca alla partenza: due settimane? Beh, godiamocele, dico io!... Dai, lasciami adesso che sennò mi tocca discutere con i miei perché ho fatto tardi!-
Perché non rispondi? 
Ti ho fatto un’altra domanda e tu non rispondi. 
Credi che ti lasci andare così prima di avermi detto in faccia quello che devi?
- Mi hai mentito solo per venire a letto con me?- La mia voce è solo un sussurro ormai. 
Sento che le energie mi fluiscono via come se si fosse aperto un varco da qualche parte in me, uno squarcio enorme,  e tutto esca fuori, svuotandomi. 
Anche le mie mani allentano la presa, scivolano giù lungo le tue braccia fino ad abbandonarsi lungo i miei fianchi. 
Di nuovo scrolli le spalle con quel sorrisetto che comincio a odiare con tutto me stesso.
Ma non voglio arrivare a odiare te. 
Io ti amo, Hiro! 
E non conta niente se sono un ragazzo. 
So quello che provo. 
Lo so da sempre. 
Non è da un mese, da un anno, ma da quando sono nato che so di amarti. 
Come posso odiarti? Sarebbe come dire che posso odiare me stesso.
- Spero che questo.. .frainteso non rovini la nostra amicizia, mi dispiacerebbe!-

Dici ancora, perfettamente a tuo agio.

Senza un’esitazione che sia una!

- Si dicono tante cose stupide in quei momenti. Senti, io adesso vado. Quando.. parti, mi piacerebbe salutarti.. Ma… se non te la senti, ti capirò, ok? Ciao!-
Ciao!
Non ti amo.
Si dicono tante cose stupide in certi momenti!

 

 Quanto tempo è che sono qui a fissare questa porta chiusa?

 Tresor


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2°


 

Sei anni. 
Aveva dovuto far passare sei lunghi anni per trovare il coraggio di ritornare nel suo paese.
Sei anni per dare una svolta alla sua vita.
Per costruirsi un futuro e una personalità forti.
Per diventare uno dei migliori giocatori di basket dell’NBA.
Per chiudere il suo cuore in una scatola a tenuta stagno e gettarla insieme alla chiave nelle profondità di se stesso, perché tanto non gli sarebbe servito mai più.
Sei lunghi anni trascorsi a studiare in un’università straniera. 
Ad allenarsi. 
A giocare e vincere.
Per cosa?
Per tornare a casa, ritrovare gli amici del liceo, e farsi sbattere in faccia che ogni suo più piccolo sforzo di cominciare daccapo senza crepe o ferite nell’anima era stato uno spreco di tempo e di energie?
- Non ho capito!- Ammise Akira, allontanando dalle labbra il brik del latte che aveva appena prelevato dal frigo.
Tre paia d’occhi fissarono Hisashi e il suo compagno, seduti sul divano del salone.
Akira avanzò, varcando la porta della cucina e fermandosi accanto alla poltrona su cui Hisa era seduto a bere la sua tazza di tè.
Nella stanza calò un  silenzio colmo di disagio.
Il giovane alzò lo sguardo e l’espressione sul suo volto non sembrò delle più felici.
- Scusa Akira…- Provò a dire, maledicendosi per non essersi assicurato che l’amico non fosse nei paraggi.
Non si era accorto che era sceso e si fosse diretto in cucina.

Nessuno se ne era accorto.

Doveva essere passato per la scala di servizio.

Non c’era altra spiegazione.
- Puoi ripetere, per favore?- Gli chiese quelli senza tradire la minima emozione.
Hisashi sulle prime non seppe cosa dire. 
Avrebbe tanto voluto tornare indietro nel tempo e la consapevolezza che il suo sarebbe rimasto un pio desiderio non lo fece sentire affatto bene.
E Kimi, seduto sul bracciolo della poltrona, dovette sentirsi nel medesimo modo dal momento che chinò il capo e spostò una mano timidamente sul braccio del compagno come a cercarvi rifugio. 
Privo di parole adeguate. 
Di una frase qualsiasi che in altre occasioni il suo carattere sempre così conciliante avrebbe certamente trovato.
Anche Hana e Kaede, seduti sul divano, erano ammutoliti, l’abbraccio del primo che si serrava intorno al corpo del secondo in un gesto disorientato. 
Lo sguardo  blu cupo di Akira si spostò su ognuno di loro, interrogativo e vagamente irritato da quella inspiegabile reticenza. 
Che avevano tutti e quattro? 
Ci voleva tanto a rispondere a una domanda tanto semplice come quella di ripetere quello che stavano dicendo prima che lui arrivasse?
- Insomma, vi siete ingoiati la lingua tutti nello stesso momento?- Sbottò.- Non posso sapere anch’io che ne è stato dei nostri compagni ai tempi del liceo?... Stavate parlando di Koshino, no?-
Aveva sperato che pronunciare quel nome non sarebbe stato così devastante.
Se lo era ripetuto per tutto il viaggio da Los Angeles  a Kanagawa. 
Ma si era mentito. 
Per sei lunghi, dannati, anni non aveva fatto altro che mentirsi.
Adesso lo sapeva con certezza e non poté che disprezzarsi per la propria inutile debolezza. 
Il coltello che era rimasto fermo all’interno di una ferita mai risanata adesso stava dando uno scatto e si rigirava, come animato di vita propria.
Dolore. 
Un dolore sordo!

Che gli stracciava la pelle.
- Si.- Ammise Hana, appena udibile, sfiorando i capelli scuri di Kaede con un bacio.
- Aki, non…-
- Che c’è, Kaede?- Lo interruppe lui di colpo, stufo.
Non era riuscito ad afferrare tutte le loro parole mentre era ancora in cucina, ma aveva sentito qualcosa a proposito del lavoro del suo compagno d’infanzia e poi avevano smesso accorgendosi di lui.
- Niente!- Fece l’amico, scuotendo la testa dispiaciuto.
- Tanto lo verresti a sapere lo stesso.- Completò Hana rassegnato.
Akira non seppe spiegarselo, ma all’improvviso gli venne su l’impulso di ridere. 
E lo fece. 
Ma fu una risata nervosa, inquieta, quella che gli uscì dalla bocca.
- Andiamo, è diventato forse un criminale?- Buttò là per gioco.
Eppure le facce che si contrirono gli fecero tremare il cuore tanto da farlo pentire di aver pronunciato quelle parole.
Tornò a fissare Hisashi quasi incredulo di aver detto qualcosa di anche solo vagamente sensato.
- No!- Rispose infine Kimi, al posto del compagno.
 Trovò il coraggio di alzare la testa e di guardarlo, mentre aggiungeva:- … E’ all’università di S. Si è iscritto a scienze della comunicazione e gioca nella squadra di basket.-
Per un momento rincuorato, Akira annuì affatto sorpreso.
- E’ sempre stato il suo progetto quello di iscriversi a quella facoltà.- Confermò, ricordando tutte le volte che, negli anni passati, si erano ritrovati a parlare di quello che avrebbero voluto fare dopo il liceo.
- E’ andato via di casa circa sei anni fa.- Proseguì Hisashi, dimentico della tazza di tè che aveva ancora nelle mani, ormai freddo.
- Ah, che strano, alla fine i suoi lo hanno accontentato mantenendolo fuori casa!-
- No… Si mantiene da solo. Ha trovato un lavoro e si paga gli studi.-
Una sensazione di leggero orgoglio si impadronì di Akira. 
Era contento malgrado tutto. 
Ma perché quell’aria da funerale persisteva nella stanza e sulle facce di quei quattro allora? 
C’era qualcosa che non andava? 
Sembravano così strani!
All’inizio aveva pensato che si fossero dispiaciuti per lui che li aveva sentiti parlare di Hiroaki.

Sapevano come era finita tra loro sei anni prima. 
E sapevano che non si erano più né visti né sentiti in tutto quel tempo.
Allora lui aveva avvertito la necessità di confidarsi e loro erano stati gli amici solleciti ad ascoltarlo e a offrirgli delle spalle su cui piangere quando aveva rischiato di perdersi.
Cosa c’era dunque?
- Beh?- Esordì impaziente. 
Parlare di Hiro gli faceva male anche a distanza di tanti anni. 
E probabilmente si vedeva benissimo anche se stava cercando in ogni modo di apparire il più distaccato possibile. 
Ma non gliene importava niente. 
Di solito era un muro invalicabile con tutti. 
Sorridente e gentile come lo era sempre stato, ma era solo la maschera che ormai aveva imparato a sfoggiare davanti a chiunque per tener lontani i curiosi.
Ma con loro non doveva preoccuparsi di indossare alcuno schermo.
Certo, non avevano più parlato di quella storia morta e sepolta dopo i primi tempi.

Né con Kaede e Hana, che vivevano con lui a LA.

Né con Kimi e Hisashi che, si erano stabiliti invece a San Francisco.

Ma probabilmente lo conoscevano abbastanza bene per capire quel che ne era stato di quel brutto periodo.
Hisashi raccolse un profondo sospiro, si sarebbe detto sofferto, e infine si decise.
- Lavora in un locale da quando vive da solo…- Dannazione perché era così complicato dirlo? Imprecò Hisa contro se stesso, sentendosi soffocare.
Ma perché diavolo era toccato a lui trovarsi a dire quelle cose a uno dei suoi più cari amici. 
Perché lui e non un estraneo?
- Che locale?-
- Un locale per… accompagnatori per soli uomini.- Disse Kimi cautamente.

A voce bassa.
- Fa la puttana, dannazione!!- Imprecò Hisashi al limite, scattando in piedi e facendo sussultare tutti per la sorpresa. – E’ inutile girarci intorno!!-
A che serviva darsi la pena di trovare termini ricercati se il significato finale non cambiava?
Che senso aveva indorare la pillola se poi si sarebbe rivelata ugualmente amara?
E dopo tutto se non glielo avessero detto loro, sarebbe comunque venuto a saperlo da qualcun altro al ricevimento che Hana e Kaede avrebbero dato da lì a qualche settimana. 
E forse era meglio così: venirlo a sapere da estranei avrebbe potuto essere molto più duro che detto da lui.
Trascorse qualche momento in cui Akira credette davvero di non aver capito né l’espressione, né la reazione di Hisashi. 
Lo seguì mentre cominciava a camminare per la stanza avanti e indietro come se improvvisamente dentro di lui fosse scoppiata una tempesta. 
Vide Kiminobu andargli vicino e tentare di calmarlo con una carezza, e quelli reagire con stizza, come infastidito.

In verità soltanto addolorato.
Registrò appena Kaede che si scioglieva dall’abbraccio del marito per alzarsi e raggiungerlo, togliergli con un gesto gentile il brik del latte dalle mani, che stavano perdendo la presa man mano che il senso di quel che la mente aveva ascoltato, andava facendosi strada in quella parte di sé che provava a tradurne il significato.
D’un tratto una fragorosa risata proruppe dalla sua gola, squarciando il silenzio come un tuono in pieno cielo estivo. 
Quattro paia d’occhi gli si appuntarono addosso esterrefatti.
Hana scattò dal divano con il cuore in gola, artigliando la mano di Kaede, spaventato: perché Akira si era messo a ridere? 
Inspiegabile. 
Cosa c’era da ridere in una notizia del genere? 
Ma non trovò alcuna risposta né nello sguardo del proprio compagno, né in quelli degli amici, rimasti inchiodati a pochi metri da loro, altrettanto inebetiti.
- Akira?- Kaede si riprese per primo. 
- Questa è bella, non trovi?- Esordì di colpo il giovane, guardandolo dritto in faccia. 
Non c’era ilarità nei suoi occhi, anche se il riso ancora gli incurvava in viso e gli incrinava la voce. 
Una voce quasi non sua.
- Akira, senti…-
Nel sentirsi chiamare di nuovo, così com’era apparsa, la voglia di ridere sparì e Akira sentì una curiosa, fastidiosa, agitazione pizzicargli la pelle.: l’adrenalina, simile a quella che gli mandava il sangue a mille quando era in partita, adesso gli si propagava nel corpo e gli stava avvelenando ogni fibra.
Ecco cos’era quella sensazione di orticaria.
- Perché?- Chiese senza fissare nessuno in particolare. 
Hisashi scrollò le spalle.
- Non lo so! Non lo sa nessuno, anche perché lo vedono abbastanza di rado da quando il liceo è finito.-
- Hiroaki studia e lavora a Tokyo.- S’intromise Kimi.- Quasi nessuno sa del suo… lavoro. Secondo noi nemmeno i suoi genitori. Abbiamo pensato che sia per questo che si è spostato nella capitale.-
- Io sono venuto a saperlo non perché lo abbia detto lui, ma perché un mio amico frequenta quel locale e un giorno che ci siamo incontrati, me ne ha parlato. Mi ha detto che è un club privé molto esclusivo e che… Hiro è uno dei ragazzi più ricercati là dentro! Che per farsi fissare un appuntamento con lui è necessario mettersi in lista d’attesa.-
- Allora deve guadagnare parecchio!- Osservò Akira quasi casuale. In realtà piuttosto disorientato.-… E bravo il ragazzo!-
- Mi spiace che tu sia venuto a saperlo!-
- E perché, Hisa? E’ padronissimo di fare quel che gli pare della sua vita. Non sono affari miei.-
- E’ stata una… sorpresa anche per noi!- Ammise Kimi sempre più a disagio.
- Sorpresa?!- Gli fece eco lui, e di nuovo gli venne da ridere.- Mi sembra un eufemismo. Mah… fatti suoi!... Io vado di sopra, scusate!-
E così dicendo si riprese il brik dalle mani di Kaede con un gesto neanche troppo gentile, e se ne andò senza degnarlo di uno sguardo.

 

- Mi dispiace!- Disse Hisashi dopo diversi minuti di silenzio, la voce soltanto un sussurro.
- Non te la prendere, amore, tanto glielo avrebbe detto sicuramente qualcun altro. Non c’era modo di tenerglielo nascosto una volta tornato a Kanagawa.-
- Kimi ha ragione!- Replicò Hanamichi scorato, e si gettò di peso sul divano, portandosi le mani nei capelli ramati.- Oddio che situazione incredibile, mi sembra impossibile!!-
- A chi lo dici! Quando  quest’amico di Hisa ce lo ha detto, siamo rimasti senza parole per almeno mezz’ora. Hiro è stato sempre un ragazzo di buona famiglia. Una persona schiva, con un caratteraccio scorbutico e un po’ chiuso, ma questo di certo non ce lo aspettavamo.-
- E lui non ve ne ha mai parlato personalmente?- Chiese Kaede.
- No. Te l’ho detto, quando torniamo qui, lo vediamo poco e quasi sempre per caso. Ci si scambia qualche parola, niente di più. Noi non gli abbiamo chiesto niente. Non vogliamo creargli imbarazzi o fastidi. Credo… che sia una situazione delicata!-
- Ahhh!!- Hana gettò fuori in un urlo di rabbia la propria frustrazione.- Questo è un casino, non c’è proprio niente di delicato, maledizione!... Perché non ce lo avete detto, avremmo provato a impedire ad Akira di tornare in Giappone almeno!-
- Non dire stupidaggini, Hana, come credi che avremmo potuto impedirglielo senza una ragione?- 
- Kitsune, tu appoggio  zero, eh?-  
- Hn!-
- Ecco, appunto! Cheppalleee!!!!-

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

 

 


Lavora in un locale.
Che locale?
Un locale per… accompagnatori per uomini.
Fa la puttana!
Le parole continuavano a girargli nella testa come un nastro inceppato.
Seduto sul davanzale della finestra in quel pomeriggio di primavera, una gamba piegata sulla soglia di marmo, il braccio abbandonato sul ginocchio con la mano che ancora teneva il brik semivuoto del latte un poco inclinato, lo sguardo che vagava per il giardino attraverso il tepore tiepido di una dolce brezza che gli sfiorava la pelle del volto e del petto privo di indumento, Akira non tentava neppure di farsene una ragione.
Fa la puttana.
Il mio Hiro si prostituisce! 
Non posso crederci. 
Com’è potuto succedere?
Lui così schivo, riservato. 
Lavora in un locale.
Fa la puttana.
E’ uno dei ragazzi più ricercati.
Per avere un appuntamento con lui bisogna mettersi in lista d’attesa.
Se non fosse assurdo, mi verrebbe solo da ridere.
Se non fosse così insopportabilmente assurdo!
Assurdo!
Amore, ma che hai fatto?
Dio, aiutami!

Continuo a pensarti mio quando non lo sei mai stato!
Continuo a chiamarti amore nei miei pensieri e non lo sei mai stato!
Pensavo di essermi liberato di te.
Ho combattuto contro me stesso fino a sanguinare per liberarmi di te.
E tu sei ancora qui a farmi male e nemmeno lo sai.
Come puoi aver fatto  una cosa simile?
Come hai potuto accettare di vendere il tuo corpo?
Permettere a mani estranee di toccarti, di fare i loro comodi con te?
Come è potuto succedere?
Per soldi?
No, non posso crederci che tu lo abbia fatto per denaro. Avresti potuto cercarti qualsiasi altro lavoro.
Non puoi averlo deciso per dello sporco denaro. 
Non tu!
Ma poi, perché mi fa così male saperlo? 
Dovrei infischiarmene.
Dovrei provare repulsione per te.
Dovrei detestarti.
E non ci riesco.
Mi hai mentito sei anni fa.
Hai detto di amarmi e non era vero.
Mi hai tradito.
Hai tradito la nostra amicizia.
La fiducia che avevo sempre avuto in te.
Hai sputato sul mio amore senza farti alcuno scrupolo.
Perché?
Fa la puttana.
Fa la puttana.
No. No. No!!! 
Non tu!
Dovevo dimenticarti.
Dovevo cancellare ogni traccia di te dalla mia mente. 
Dai miei pensieri. 
Dai miei sogni. 
Dai miei incubi.
Dovevo riuscirci in tutto questo tempo. 
Ci ho provato. 
Il cielo sa se ci ho provato.
E ho perso solo tempo. 
Tanto tempo prezioso. 
Tempo che avrei potuto usare per costruirmi una vita decente. 
Per trovare qualcuno che meritasse il mio amore. 
Quell’amore che tu hai calpestato senza tener in conto neppure l’amicizia. 
Il rispetto. 
E non ci sono mai riuscito. 
Mai una volta che abbia potuto concedermi il lusso di ingannare questo stupido cuore, che ha continuato a cercare i tuoi occhi e il tuo volto in quelli degli altri. 
Che ha voluto sentire all’infinito i tuoi sospiri nella passione di altre persone che non erano te. 
Che se ne è infischiato di me e della mia volontà e ha continuato ostinatamente a impormi la sua folle ricerca dei tuoi sorrisi così rari nei sorrisi di coloro che nulla avevano di te.


E tu…

… tu vendi il tuo corpo. 
Quel corpo che avrebbe dovuto essere soltanto mio. 
Che avrei adorato come il più prezioso dei tesori. 
Offri il tuo corpo a mani sconosciute che non hanno alcun rispetto di te. 
Hai venduto anche la tua anima al miglior offerente?
Come hai potuto?
Come?
Dimmelo, perché questa cosa mi sta facendo impazzire.
Adesso che avrei dovuto superare la prova del fuoco rivedendoti dopo tanti anni.
E nemmeno ti ho ancora incontrato.
E già ho fallito.
E già sto ricominciando a tormentarmi con domande inutili.
A odiare tutti quelli che ti hanno avuto.
A desiderare di vederli morti perché hanno osato toccarti!

A questo  punto dovrei cominciare a odiare anche te. 
Sarebbe giusto, no? 
Sarebbe la naturale evoluzione della considerazione che ho sempre avuto di te anche quando mi hai dato il benservito.
Dovrei odiarti. 
Dovresti farmi schifo addirittura. 
Perché non è così allora?
Perché devo essere così stupido?
L’odio è un sentimento così semplice da provare. 
Così ovvio. 
Così naturale.
Facile tanto più che non ti sei preoccupato di farmi male, allora come adesso.
Allora perché non ti odio?
Perché non ci riesco?
PERCHE’???

 

Tresor

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4



-          Cosa stai lì a guardarlo con quell’espressione estatica sulla faccia? - 

La domanda gli giunse alle spalle sferzante e cattiva, e lo fece trasalire.

Si girò di scatto, scontrandosi con l’alta figura di Hana, a pochi centimetri da lui, che lo guardava dall’alto in basso con evidente disprezzo.

Perduto nella contemplazione di Akira, che era uscito ad accompagnare un amico all’auto, non si era accorto del suo arrivo.

Hana portò la sua attenzione alla finestra, e guardò la stessa scena che aveva seguito lui fino a quel momento.

Aki era fuori in cortile e parlava con l’ultimo ospite che stava lasciando casa in quel momento, un suo ex compagno di liceo.

Ridevano di qualcosa che si stavano dicendo, l’uno di fianco all’altro, mentre quest’ultimo apriva la portiera della berlina scura parcheggiata sul sentiero.

Hiro sospirò inquieto.

-          Che hai da sospirare? Non sei stato tu a buttarlo via e a girargli le spalle? – Lo colpì di nuovo il suo interlocutore, il timbro di voce e l’espressione più dure di prima.

Non capì che cosa volesse da lui.

-          Non sono cazzi tuoi! – Lo apostrofò infastidito.

-          Lo sono più di quanto possano esserlo tuoi visto che non sei più nessuno nella sua vita! –

Il giovane si girò di nuovo verso di lui, seccato dalla sua aggressione immotivata.

-          Ma che vuoi? Di che parli? –

-          Come se tu non lo sapessi!!... –

-          Che devo sapere? –

Hana scrollò il capo incredulo.

-          Che razza di stronzo! ... Rientri nella sua vita dopo anni che non ti fai vivo e ti permetti il lusso di mangiartelo con gli occhi come fosse la cosa più bella del mondo! ... –

Hiro sussultò sconcertato.

 

Quanto aveva lasciato trapelare dal suo atteggiamento da indurre Hanamichi a dire quelle cose?

Possibile si fosse scoperto tanto e non se ne fosse accorto?

Eppure era stato attento a nascondere ogni sua emozione in quei giorni.

Se ne era accorto solo il rosso o anche gli altri?

Non poteva essere.

-          Lui “è” la cosa più bella del mondo! ... – Mormorò quasi tra sé.

-          E te ne accorgi solo adesso? –

-          Ma tu che cazzo vuoi, si può sapere? –

In quel frangente ritornarono Kaede, Hisa e Kimi.

L’aria pesante li colse immediatamente e li fece esitare in mezzo alla stanza.

Tuttavia il primo si riprese immediatamente e raggiunse il compagno, percependone istantaneamente la tensione sul volto tirato e soprattutto nello sguardo dilatato dall’ira.

-          Hana, che succede? – Gli domandò cauto, toccandogli un braccio.

Gli occhi d’ambra gli si appuntarono addosso, trasmettendogli la loro inquietudine.

-          Amore, che hai? – Insisté.

-          Niente, Kae, ho solo la nausea per quest’essere rivoltante che ci sta infestando casa! – Gli rispose disgustato, mentre gli carezzava la mano che gli si era posata addosso.

Hiroaki ingoiò a vuoto, oppresso da un moto di ribellione.

-          Hana, che dici? – S’intromise Hisashi meno conciliante.

-          E’ ospite di Akira, perché parli così? – Aggiunse Kimi, turbato dalla sua acredine.

-          Dico che questo stronzo non sta al suo posto come dovrebbe… E’ evidente che nel bordello da dove viene non gli hanno insegnato che deve limitarsi a fare il suo sporco mestiere senza mettere gli occhi sui clienti! … D’altra parte che cosa ci si può aspettare da una prostituta? La classe è una qualità insita nella propria natura, non la puoi imparare se non ce l’hai!! –

-          Hana!!! –

Il coro unanime di tre voci lo sgridarono per le sue parole offensive, cercando di capire che cosa gli stesse prendendo da esprimersi a quel modo.

Kaede percepì quanto fosse arrabbiato senza bisogno di indagare troppo.

Non erano forse giorni che rimuginava su tutta la situazione?

Che metteva in discussione il comportamento del loro amico da quando si era presentato in giro accompagnato da Koshino.

Che si faceva mille domande sui motivi che lo avevano spinto a richiederlo alla casa di appuntamenti per tutte quelle settimane?

Erano domande e riflessioni che si stavano ponendo tutti loro e che occupavano parecchie delle loro conversazioni negli ultimi tempi.

E di cui non si erano ancora dati delle risposte esaustive.

Tanto più che Akira non veniva loro incontro con delle spiegazioni chiare, eludendo ogni tentativo di interrogarlo, o pronunciando mezze parole gettate là per tacerli, ma niente affatto risolutive.

Sempre sfuggente, evasivo.

Che stava cercando di fare?

Se lo stavano chiedendo da parecchio.

E non lo avevano ancora capito.

 

-          Hiro, per favore, accetta le mie scuse, Hana è solo nervoso in questi giorni. – Tentò di dire, scoccando al tempo stesso un’occhiataccia intimidatoria al marito.

Che però non se ne diede per inteso e non si lasciò redarguire dall’espressione di Kaede che, in altre occasioni, sarebbe stata sufficiente a riportarlo nei ranghi.

-          Di che ti scusi, tesoro? E’ lui che dovrebbe giustificarsi per il suo comportamento importuno in casa nostra…

Noi lo ospitiamo e lui fa lo smorfioso con un nostro caro amico, dimenticandosi di quale sia il suo ruolo. -

-          Ma si può sapere di che cosa stai parlando? - Replicò l’oggetto del suo attacco, saltando su esasperato. – Io non ho fatto niente che possa averti offeso e… -

-          Il solo fatto che sei qui è di per sé offensivo! Una puttana in casa nostra... tsè!! –

-          Hana, vuoi darci un taglio? -

-           Perché Hisashi? Non lo hai visto come guarda Akira quando pensa che nessuno stia guardando lui! ... Non ha nessun diritto di permettersi tante libertà, visto come lo ha trattato. –

-           Non sai di che cosa stai parlando! – Sibilò Hiro furibondo ormai.

Hana gli si fece d’appresso in un lampo, sfuggendo alla presa di Kaede, colto di sorpresa dalla sua reazione.

Hiro indietreggiò ancora più stupito e preoccupato che avesse potuto aggredirlo.

Fu Hisashi a frapporsi repentino tra i due.

-          Che vuoi fare, rosso? Questi non sono affari nostri. –

-          Non dirmi che non sono affari nostri, Hisa! – Hana saltò su poco accomodante, sputando le parole tra i denti serrati dalla rabbia.

-          Sta solo ad Akira stabilire i suoi rapporti con Hiro, non a noi! –

-          Hisa ha ragione, Hana. –

-          No, Kaede, non ce l’ha proprio per niente! ... Questo individuo sta rimettendo gli occhi su Akira, e io non voglio che lo faccia star male di nuovo. E non lo vuoi nemmeno tu. E tu, Hisa! ... E nemmeno tu, Kimi! –

E così dicendo, guardò ognuno di loro, sfidandoli a contraddirlo, sicuro che ciascuno sapesse a cosa si stesse riferendo.

-          Nessuno di noi lo vuole! – Lo assecondò Kimi, avvicinandosi. – Ma non sappiamo niente, e non possiamo trarre conclusioni avventate solo perché tu hai visto Hiro guardare Akira in qualche modo che non ti è piaciuto, cerca di capire che… -

-          Cosa devo capire? Che prima lo ha ferito a morte e ora ci sta ripensando? Ora che è diventato ricco e famoso? … Quest’opportunista del cazzo che non si è fatto nessuno scrupolo… -

Improvvisamente Hiro lo spinse via dalla propria strada, bypassando Hisashi, e si allontanò dalla finestra.

-          Ma che ne sai tu, razza di idiota? – Soffiò inacidito. – Di me, di noi? Non farei mai del male ad Akira.

-          E non voglio niente da lui.

Non sono qui per mia decisione.

Non l’ho cercato io.

Lui mi ha richiesto in agenzia e non so nemmeno perché?

Ma non sono fatti che ti riguardano, perciò piantala di prendertela con me: io non ci volevo venire qui, ma non ho avuto voce in capitolo. –

-          Ah, la povera vittima! – Lo derise Hana sprezzante.  – Chissà che sacrificio dev’essere stato essere portato in hotel a 6 stelle, ristoranti esclusivi e scarrozzato su una fuoriserie… Sembra quasi che questa situazione ti opprima.

Che ipocrita!

Se così fosse non avresti accettato la sua richiesta in agenzia e ti saresti fatto sostituire da qualche altro “collega”. –

E calcò con disgusto e sarcasmo sulla parola “collega” di proposito.

-          Non ho potuto.

Non ho saputo chi fosse se non quando mi ha aperto la porta della camera.

E anche allora non me ne sono potuto andare come avrei voluto fare immediatamente, perché avrei dovuto ripagare io il mancato guadagno di un cliente così generoso.

E non ce l’ho la cifra che lui ha sborsato per avermi queste tre settimane.

Non ho potuto fare altro che piegare la testa, anche se la situazione mi è parsa paradossale. –

-          E non solo la testa, immagino! –

-          Hana, la vuoi smettere con queste allusioni gratuite? –

-          Kaede, questo si prostituisce, mica fa il rappresentante, quali allusioni e allusioni!! –

-          Ok, faccio la puttana, ma non ce l’hai lo stesso il diritto di offendermi…E se ti può far stare meglio, non ho mai esercitato in questi giorni, evidentemente faccio troppo schifo al tuo amico per essere usato per quel che ha pagato.

E domandalo a lui il motivo, perché io non lo conosco e non gliel’ho chiesto.

Aspetto solo che finisca tutta questa storia insensata e di potermene andare.

Perché non ne posso più.

Non so che pensare.

E non so come affrontarlo.

Ma non cerco niente da lui.

Quello che volevo, l’ho avuto anni fa, quando l’ho lasciato andare via.

E questo mi è bastato finora. -

-          Tu lo hai ucciso, non te ne rendi conto? ... Hai una vaga idea di quello che gli hai fatto sei anni fa o proprio non ci sei mai arrivato? –

-          Tu che vuoi saperne di quello che ho fatto a me e a lui? ... Non c’eri e non sai un cazzo! –

-          Io so quello che è successo dopo e mi è bastato per detestarti… Ho visto come lo ha ridotto il tuo comportamento egoista: al fantasma di se stesso.

Lo abbiamo visto tutti noi, che siamo stati lì a cercare di tenere insieme i pezzi di lui che crollavano e lo distruggevano di dolore e di furia.

Perché non si faceva una ragione del modo in cui lo avevi usato, voltandogli poi le spalle.

Perché non accettava che la persona che lui conosceva così bene, di cui si fidava, improvvisamente si fosse trasformato in uno sconosciuto che aveva approfittato dei suoi sentimenti, calpestandolo senza pietà.

Gli sembrava impossibile di essere stato trattato come uno straccio da quello che aveva considerato sempre il suo migliore amico, prima ancora che il ragazzo di cui si era innamorato.

Credo che ancora oggi non si sia dato una spiegazione accettabile. –

-          La colpa è solo mia e me ne assumo ogni responsabilità, ma non ho potuto fare altrimenti. – Replicò, Hiro.

Atono.

Sentiva l’agitazione scuoterlo fin nel profondo per il resoconto che stava ascoltando.

Per anni si era interrogato sulle reazioni di Akira quando lo aveva lasciato.

Sapeva tutto di lui: carriera, vita sociale, frequentazioni, ingaggi, guadagni.

Internet e i funclubs ufficiali e non, sorti intorno ai giocatori della squadra di basket erano fonti inesauribili di informazioni se sapevi come e dove cercare.

Non se ne era lasciata sfuggire una.

Aveva vissuto di quell’ossigeno.

 Ma non aveva mai potuto sapere niente dei suoi sentimenti.

Di quel che pensava.

Tuttavia non era così stupido da non capire che gli aveva fatto molto male.

Hana aveva ragione: erano stati l’uno il miglior amico dell’altro per tutta la loro vita, prima che amanti.

E solo lui sapeva come e quanto profondamente lo aveva ferito e ingannato con il suo comportamento.

E sentirlo dalla voce di uno dei suoi amici non faceva che confermargli tutti i suoi timori.

Ma aveva avuto forse scelta?

Un’alternativa per evitare tutto quello a entrambi?

-          Non sono riuscito a trovare un’altra soluzione! – Ribadì il concetto, scorato e stanco.

-          Non sei riuscito…. – Interloquì d’un tratto Kimi, facendoglisi vicino. – Scusami, Hiro, non capisco. Una soluzione a cosa? –

Hiro lo fissò qualche istante, scorgendo l’allerta che le sue parole avevano suscitato nell’altro.

Poi scosse la testa.

A che serviva nascondere la verità ormai?

Qualunque cosa avesse detto non avrebbe certo cambiato l’opinione pessima che si erano fatti di lui in quegli anni.

E non gli poteva dar torto: erano diventati loro i migliori amici dell’uomo che amava, e sapeva come ci si sentiva quando si era impotenti ad aiutare qualcuno a cui si voleva bene come loro ne volevano ad Akira.

Che sapessero dunque e si mettessero l’anima in pace.

Forse un po’ di quiete sarebbe calata anche sul suo animo tormentato perché era la prima volta che ne poteva finalmente parlare con qualcuno che non fosse se stesso.

-          Aki non voleva più partire per gli Stati Uniti perché voleva rimanere con me. – Buttò fuori tutto d’un fiato, senza guardare nessuno.

-          Non glielo potevo permettere.

Era l’occasione che stava aspettando da sempre.

Buttare via il proprio talento per stare con me era una follia che qualcuno gli doveva impedire di commettere.

Perciò l’ho allontanato.

Solo così lui avrebbe rinunciato alla sua pazza convinzione che io fossi preferibile al suo futuro in NBA.

Eravamo due ragazzini, cosa ne potevamo sapere di amore eterno e cazzate simili.

Tra uomini, poi!

Le uniche certezza erano le sue indiscusse doti di cestista e la proposta che gli era stata fatta di vederle realizzare ai massimi livelli.

Tutto il resto erano solo sogni di bambini. –

Preso dalle proprie elucubrazioni non si era reso conto del silenzio caduto nella stanza fin quando non ebbe bisogno di riprendere fiato, e si avvide che le persone intorno a lui lo fissavano increduli e sorpresi.

-          E’ stato lui a dirtelo? – Gli domandò Kaede, interpretando il pensiero di tutti.

-          N.. non esattamente. –

-          Vuoi dire che ti sei fatto tutte queste seghe mentali per qualcosa che non ti ha nemmeno detto, mandando all’aria il suo equilibrio, e che lui non ne sa niente? – Sibilò Hana inviperito.

-          Non ti permettere di giudicarmi. Non hai idea di quel che ho dovuto fare senza poter chiedere aiuto a nessuno, e meno che mai a lui. –

-          Brutto egoista, testa di cazzo, non ergerti a vittima di un sacrificio che nessuno ti ha chiesto.

Hai deciso tutto da solo, mandando la sua vita a farsi fottere… E ti sei consolato anche troppo presto, facendoti sbattere da chissà quanti una volta che te lo sei tolto dai piedi…

Povero Akira, mi domando se si sia mai reso conto di quanto il suo migliore amico facesse tanto la verginella scontrosa con lui, e poi amasse farsi inculare dagli altri uomini! –

A quel dire, Hiro partì d’istinto, divorato da una vampata di odio puro, e tentò di gettarglisi addosso per afferrarlo e massacrarlo.

Hana, già sul piede di guerra, si preparò a fronteggiarlo, pronto a scaraventarlo sul pavimento per schiacciarlo come un insetto.

Erano giorni che gli prudevano le mani dalla voglia di farlo a pezzi.

 

Ma lo scontro non avvenne mai.

Fulmineo Kimi si parò davanti al primo, ricorrendo a tutta la sua forza per farlo indietreggiare, afferrandolo per le braccia e respingendolo, mentre cercava di assorbire la spinta omicida, che avviluppava il giovane, scaricarsi su di lui.

Intanto che Hisa e Kaede agguantavano Hana, uno sospingendolo indietro di malagrazia, i palmi schiacciati contro il suo petto, e l’altro afferrandolo per le spalle da dietro, nel disperato tentativo di contenerlo.

Sapevano entrambi che quando si infuriava, la forza fisica di Hana era difficile da gestire, anche per loro due messi insieme.

Ed erano giorni che il giovane cercava di imporsi un autocontrollo ferreo solo perché sollecitato da più parti a star calmo.

Negli attimi che seguirono temettero di non riuscire a trattenerlo.

-          Hana, no, ti prego!! – Gli intimò il compagno, imperioso.

-          Calmati, testarossa, se Akira si accorge di quel che sta succedendo, sono guai! – Tentò di avvertirlo Hisashi, ringhiandogli a voce bassa direttamente in faccia.

-          .… Lui non dovrà mai saperlo!  - Soffiò Hiroaki, sforzandosi anch’egli di controllare la voce.

-          Calmati, per favore, sono sicuro che Hana non voleva dire quel che ha detto: è solo dispiaciuto! – Cercò di ammansirlo Kimi, senza lasciarlo andare.

Hiro gli dedicò una fugace occhiata, distratto più dal suono supplice della sua voce che dal senso delle sue parole.

Non capiva più niente.

Era così furibondo per le volgarità che gli erano state rivolte.

Così esausto di sentirsi continuamente i loro sguardi astiosi addosso.

La sensazione costante, pervicace e velenosa di disagio che aveva dovuto respirare da che era entrato in quella casa.

Delle, poche, parole di circostanza che gli erano state rivolte fino a quel momento solo per rispetto al loro amico.

E poi il pensiero improvviso e crudo che Akira potesse davvero rientrare da un momento all’altro e sorprenderli in quelle condizioni, lo mandò in panico.

Lontano dalla finestra non sapeva più se fosse ancora fuori o meno.

Non poteva rischiare per colpa di quel pazzo che non vedeva l’ora di assalirlo, forte delle sue patetiche certezze.

-          … - Non importa quel che ne è stato della mia vita, non l’ho decisa io la fine che ho fatto… è successo e non me ne è importato più niente…

Ma la sua è andata nella direzione che il destino aveva in serbo per lui, ed è questo che contava per me…

Quello che è diventato in questi anni mi ripaga della mia che è finita quel giorno… Solo questo importa.

Con me non sarebbe mai andato lontano.

E la rinuncia al suo sogno lo avrebbe reso infelice prima o poi.

E avrebbe distrutto anche noi.
Sarei stato soltanto un peso che lo avrebbe trattenuto a terra, mentre aveva tutto il diritto di volare…-

-          E non ti sei chiesto quello che hai fatto tu alla sua di vita? -

La voce di Hana, incrinata ora dal dolore, oltre che dall’ira, lo colpì come uno schiaffo in pieno volto.

Dietro la “barriera” dei due compagni, lo vide fissarlo impietoso, mentre tentava di respirare a fondo per ricacciare indietro l’istinto di picchiarlo.

L’interrogativo gli penetrò nel cuore già sanguinante, come una lama di ghiaccio, ma non lo fece indietreggiare di un passo.

Che voleva saperne lui…

Nessuno avrebbe mai potuto capire.

-           Mi sono fatto mille domande... Fino a farmi scoppiare il cervello.

Credi che non fossi cosciente del male che gli avrei fatto allontanandolo da me? Facendogli credere di essermi preso gioco dei suoi sentimenti e di essere il mostro bastardo che lui non aveva mai immaginato esistesse in me?

       … Ma non avevo scelta.

Nessuna.

E l’ho capito fino in fondo la notte stessa in cui siamo stati insieme per la prima volta.

Quando mi è stato chiaro che stava pensando di non partire affatto, sapendo che non avrei potuto seguirlo nel suo sogno.

Quando mi ha detto che non se la sentiva di lasciarmi adesso che ci eravamo finalmente capiti e trovati.

Che se fosse andato via, la lontananza avrebbe potuto rovinare tutto.

Perché eravamo due ragazzi.

E perché già la nostra relazione sarebbe stata difficile di suo visti i pregiudizi e le incomprensioni sui gay.

Ho provato a ignorare i suoi vaneggiamenti.

Era a metà tra il sogno e la veglia, ma non stava delirando… Era anche troppo lucido…

E questo mi ha spaventato, e fatto vedere le cose con quella chiarezza che ancora non ero riuscito a raggiungere.

Come avrei potuto fargli capire che io non ero importante.

Che solo lui contava e che non gli avrei permesso di sacrificare e vanificare tutto il suo talento per stare con me.

Io non potevo seguirlo e questo era un fatto.

Non era a me che avevano offerto una possibilità straordinaria di sfondare nel basket professionistico perché non ero la promessa che invece era sempre stato lui.

E non avevo voti così alti per poter chiedere una borsa di studio in qualche università americana.

E non avevo neppure le possibilità economiche per pensare di partire con lui.

Come avrei potuto mantenermi in un paese straniero?

La mia era una famiglia di modesti operai: non c’erano le possibilità economiche per potermi aiutare.

Avrei potuto cercare di convincerlo che non sarebbe stata la lontananza a dividerci e a indebolire il nostro amore.

Fargli mille discorsi sdolcinati e melensi da femminuccia innamorata.

Ma la verità rimane che lui non sarebbe partito senza di me, e, conoscendolo, sapevo che niente lo avrebbe convinto.

Perché vedeva voi altri che andavate via insieme ai vostri compagni.

L’unica soluzione che mi rimaneva era quella di distruggere quel che di bello era appena nato tra noi, e permettergli così di andare per la sua strada, lasciandomi indietro. -

-          Non hai neppure provato a parlargli…-

-          - Sarebbe stato inutile: è sempre stato categorico nelle sue decisioni…-

-          - Tu eri l’unico che riusciva a farlo ragionare… A te dava ascolto, maledizione!!... Eri il suo miglior amico prima che l’uomo della sua vita.

Invece di arrogarti il diritto di prendere da solo tutte le decisioni, avresti potuto farti ascoltare e…-

-          - Ma che vuoi saperne tu? - Hiro glielo gridò in faccia a denti stretti.

Non ne poteva più.

Si sentiva stanco, sfiancato dallo stillicidio di accuse e sguardi di condanna che gli piovevano da tutte le parti in quella stanza, circondato da persone che non avrebbero potuto capire la sua follia e la sua disperazione.

Hana non demorse.

Da un po’ sentiva la mano di Kaede che tentava di riportarlo verso di sé perché si calmasse, ma l’aveva ignorata, accecato dall’indignazione di quel ragionamento folle e incongruente.

Avrebbe voluto mettere fine alle chiacchiere.

Afferrare quell’insulso essere delirante e sbatterlo contro la parete perché finalmente provasse anche lui un decimo del dolore che aveva inflitto al suo amico in quegli anni.

Forse così l’adrenalina che lo agitava si sarebbe canalizzata e concentrata su qualcosa, magari sul suo sangue che sporcava il muro.

Se solo non avessero provato a fermarlo ancora.

-          Hana, ti prego, basta adesso!!- La voce bassa di Kaede gli sfiorò l’orecchio, profonda e dolce.

Ruotò appena la testa per vedere il compagno accanto a sé.

Colse il suo sguardo apprensivo e fermo al tempo stesso che cercava di placarlo.

-          Ti rendi conto di cos’ha fatto questo pazzo? - Mormorò incredulo. - Ha deciso della vita di Akira senza nemmeno interpellarlo… Lo ha gettato via senza pensare che così lo avrebbe fatto impazzire. -

Si girò di nuovo verso Hiro, che sotto il suo sguardo accusatore, fece inconsapevolmente un altro passo indietro, terrorizzato di essere agguantato da un momento all’altro.

Per quanto tempo ancora i suoi amici sarebbero stati in grado di tenerlo a freno prima che fosse riuscito ad afferrarlo e fargli male?

-          Tu chiedi a noi che cosa vogliamo saperne? - Riattaccò Hana. - Tu, piccolo, stronzo, stupido essere inutile? Tu!!... Cosa vuoi saperne TU di quello che hai fatto all’uomo che dici di amare? ... Si, certo, si è realizzato… E’ diventato quello che tutti si aspettavano diventasse… Ma a che prezzo? … A che cazzo di prezzo, te lo sei domandato? -

-          - Amore!!-

-          No, Kaede, no!!! Lo deve sapere, questa puttana, che ne ha fatto… qualcuno deve pur dirglielo…-

Kaede gli fece segno di no con la testa, supplicandolo di tacere.

Avrebbe voluto accontentarlo: gli faceva male vederlo così teso per causa sua.

Ma ora che il vaso era scoperto tanto valeva buttar fuori tutto e togliersi quel macigno dal cuore che aveva oppresso tutti in quegli anni bui per il loro amico e anche per se stessi.

Non osava immaginare la fine che avrebbe fatto Akira se non fossero stati al suo fianco.

Schiantato nell’anima, aveva dapprima cercato di farsi assorbire completamente dalla sua nuova vita, buttandosi nel gioco come un pazzo.

Diventando presto un titolare.

Prima in una squadra, poi in un’altra.

Ma a un certo punto non gli era più bastato.

Aveva cominciato a passare le sue notti di locale in locale, da un partner all’altro, senza distinzione di sesso o rango sociale.

Tra l’alcool e le droghe che circolavano in quei posti maledetti.

Riducendo la sua vita a due punti fissi, il basket e la vita notturna, la seconda che annullava il primo inesorabilmente.

Rischiando di giocarsi ogni cosa e la propria stessa esistenza.

Quanto ci avevano messo a tirarlo per i capelli fuori da quel vortice mortale?

Tutti insieme.

Senza lasciarlo mai.

Nemmeno quando lui gli urlava di levarsi dai piedi.

Che li odiava.

Che non aveva bisogno di loro.

Quante notti in bianco.

Quante litigate furiose.

Quanti pugni, urla, lotte, porte sfondate.

Quante parole, minacce, promesse.

Quante corse da una parte all’altra della città per trovarlo.

Quante docce fredde, inflitte a forza, per neutralizzare i cocktail micidiali di cui si imbottiva per non pensare.

Per scuoterlo, riportarlo a galla.

Fargli riprendere coscienza di sé e di quello che si stava facendo per qualcosa che non valeva più la pena.

 

Infine c’era stata la svolta.

Agognata.

Sperata.

Ma era stato un bene o un male?

Vederlo riafferrare le redini della propria esistenza e trasformarsi in qualcosa che non era quasi più lui.

Hana e gli altri se lo erano domandati infinite volte.

Senza sapere se maledire quella trasformazione.

O gioirne.

Tenendolo costantemente d’occhio, ancora adesso, come un sorvegliato speciale, terrorizzati che avesse potuto di nuovo regredire e sfuggire al controllo.

 

-          Lo sai perché in campo lo chiamano La Furia Bianca? ... – Domandò alla causa di tutti i loro problemi, sospirando amareggiato.

-          … Perché quando mette piede sul parquet non è più un essere umano, ma una macchina che travolge tutto e tutti senza sentimenti.

E’ come se qualcosa scattasse in lui che gli fa odiare l’unica cosa che ha invece sempre amato, e che lo tiene ancorato a questa terra: il basket.

Diventa inarrestabile, come se giocando trovasse l’unica valvola di sfogo alla rabbia e al dolore che si porta dentro da 6 anni.

      Non lo ferma nessuno.

            E non vede e non sente.

            Semplicemente non c’è.

            E fuori non va meglio.

E sai perché non c’è?

Perché non ha più né cuore né anima.

E glieli hai strappati TU facendogli credere di averlo usato e buttato via quella maledetta notte!

… Eri TU quello che lui desiderava.

Non la passione per il basket, ma il tuo amore era tutto quel che avrebbe voluto.

… Che se ne sarebbe fatto del successo senza poterlo condividere con la persona che amava?

Te lo sei mai chiesto? -

-          Non ho avuto scelta!

Se non lo avessi fatto, lui non sarebbe andato via. - L’ultima, flebile protesta venne pronunciata dalle labbra esangui del ragazzo in un sussurro esausto.

Non ne poteva più.

Che lo lasciassero andare o lo uccidessero, non gli importava niente.

Ma che per carità, mettessero fine a tutto quello: non ce la faceva più!!!

-          Mi dispiace avervi sconvolto così tanto l’esistenza.

Io non volevo venirci qui…

Non lo so perché mi ha voluto con sé.

Ero deciso a buttarmi giù dal ponte di **** appena fossi uscito dal suo albergo, la prima sera… volevo morire, farla finita una volta per tutte.

Ma non mi ha lasciato andare, dicendomi che sarei dovuto rimanere con lui per tre settimane.

Non ho capito più niente! -

-          Tu sei…-

-          Hiro ha ragione. -

Tresor

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

-          Hiro ha ragione. -

 

Le parole caddero in mezzo a loro all’improvviso, cogliendoli di sorpresa.

Tutto e cinque si volsero verso la direzione da cui era arrivata la voce.

Akira, rimasto tutto il tempo nel corridoio, venne avanti a passo lento, il viso tirato, gli occhi blu scuriti dalla sofferenza che non si curò di nascondere.

A pochi centimetri da sé, Hiro, venne investito dal suo profumo così familiare e in quell’istante credette che sarebbe caduto lì a terra morto.

La testa ebbe una vertigine e i polmoni smisero di pompare aria.

Il cuore gli si contrasse dolorosamente e gli inviò una fitta lancinante al petto.

 

Voglio morire…

Vi prego, uccidetemi, fatemi morire!!

 

Ma nessuno esaudì la sua preghiera.

Nessun dio che lo stava ad ascoltare.

Non c’era mai stato!

 

Akira lo oltrepassò senza nemmeno degnarlo di un’occhiata, e raggiunse Hana in mezzo alla stanza, che se ne stava immobile, i pugni serrati lungo i fianchi, scosso dal litigio e ammutolito dalla sua apparizione inaspettata.

Si erano così lasciati coinvolgere dall’incalzare della discussione, d’aver dimenticato che lo stavano tenendo d’occhio dalla finestra proprio per non farsi sorprendere.

E non si erano accorti di quando fosse rientrato in casa.

Sembrava un assurdo gioco del destino che lui dovesse comparire sempre nei momenti sbagliati.

Akira scrollò il capo con un sorriso amaro che gli increspò la bella bocca, pieno di affetto per quella testa rossa che lo aveva sempre difeso a spada tratta da tutto e da tutti.

Sollevò una mano, gliela fece scivolare dietro la nuca e con un gesto lento, lo spinse contro di sé, stringendolo forte.

Sentì tutta la tensione del suo corpo spezzettarsi e liberare i muscoli contratti fino a quel momento, Hana che lo assecondava arrendevole e gli si abbandonava contro, le braccia morbide che gli cingevano la vita, il respiro caldo che usciva dalle sue labbra contro la sua spalla, facendo defluire la rabbia via da sé.

-          Grazie, amico mio! - Mormorò nei suoi capelli, mentre i suoi occhi incontravano quelli di Kaede oltre la sua testa, nello stesso muto ringraziamento.

-          Aki…-

-          Ssttt, va tutto bene, non preoccuparti più! -

Stettero così per qualche istante nel silenzio assoluto caduto intorno a loro.

Poi lo lasciò andare, sospingendolo delicatamente verso il marito, che subito lo accolse nel proprio abbraccio, pronto a proteggerlo anche da se stesso.

Fece loro un sorriso, lontano fantasma di quelli suoi sereni, infine si girò per incontrare la propria vittima.

Hiro smise del tutto di pensare, inchiodato dal suo sguardo che non seppe decifrare.

Odio.

Pena.

Rancore.

Indifferenza.

Cosa?

 

Non sapeva cosa stesse passando in quelle iridi che amava e sognava, e che lo perseguitavano a ogni ora della sua esistenza da sei anni.

-          Hiro ha ragione. - Lo sentì ripetere, la voce bassa, soffusa da una vaga inflessione ironica. - Rinunciare a partire per l’America era l’intenzione che stavo maturando. -

Un singhiozzo proruppe dalle labbra del ragazzo davanti a lui, immobile e tremante.

-          Non serve più a niente parlarne ormai! - Rispose Hisashi, scrollando la testa deluso.

Kimi gli si strinse contro, travolto dalla sua tristezza, e lui lo abbracciò.

-          E’ vero, non serve più! - Lo assecondò Akira con un mezzo sorriso, senza smettere di fissare il proprio obiettivo, paralizzato sul pavimento. -… Ma non voglio che continuiate a massacrare Hiro per quel che ha fatto, perché non gli ho dato alternative. -

E così dicendo, piantò gli occhi in quelli del giovane senza più concedergli scampo.

 

Uccidimi, ma non guardarmi.

Non guardarmi.

Uccidimi.

 

-          Smetti di tremare, amore, nessuno qui ti farà del male. - Gli disse dolce.

Hiro si sentì venir meno.

Lo conosceva quel tono affettuoso.

Era il suo.

Quello che rivolgeva solo a lui.

A lui soltanto.

 

Non chiamarmi amore.

Non guardarmi.

Ti prego.

Ti prego!!

 

-Non ti ho dato scelta, e tu hai fatto l’unica cosa che pensavi fosse giusta per me… Sei sempre stato tu quello con buonsenso, non io.

Io ero quello passionale, istintivo, romantico.

Avrei rinunciato a ogni cosa per te.

Che mi importava del resto del mondo se non c’eri tu con me a condividerlo?

Avrei dovuto sapere che tu non me lo avresti permesso: ti conoscevo bene.

E tu conoscevi bene me.

Ed eri quello di noi due con la testa sulle spalle.

Quello concreto, che sapeva sempre qual era la cosa giusta da fare. -

-          Aki…-

-          Perdona i miei amici per questa aggressione.

Mi sono stati vicini in questi anni sempre pronti anche quando ho cercato di rompere i ponti con loro.

E’ naturale che reagiscano così nei tuoi confronti: hanno visto la macchina che sono diventato, e non hanno mai approvato, perché il contrasto con quello che conoscevano era troppo stridente.

Loro non sapevano che lo hai fatto solo per amore.

Ma adesso lo sanno.

E io lo so… adesso.

E non ti odio. -

-          Dovresti! - Sussurrò Hiro, più una disperata supplica che un’affermazione.

Le lacrime gli scendevano libere lungo le guance, la voce spezzata, il tremore che non accennava a svanire neppure ora.

 

Distrutto.

 

Questo sentiva di essere.

E non avrebbe mai immaginato di provare una sensazione tanto devastante, convinto com’era di essere morto da tanto di quel tempo ormai.

Che lui gli stesse dicendo di non odiarlo, che lo stesse giustificando e difendendo agli occhi dei suoi amici non alleggeriva affatto il suo cuore, schiacciato da un macigno.

Al contrario acuiva i suoi sensi di colpa.

Affilava ancora di più le unghie che gli graffiavano il cuore, sfilacciandolo sempre di più in brandelli dolorosi e sanguinanti.

Non lo odiava.

E gli credeva.

Pensò.

Adesso, come sempre in passato, gli era sufficiente perdersi in quelle iridi blu cobalto per comprendere che era sincero.

In quel suo modo disarmante.

Onesto.

Semplice.

Limpido.

Soltanto annegando dentro di lui.

 

E soffocò.

 

Ancora di più se fosse stato possibile.

Perché non era giusto.

Che lo difendesse ancora.

Che lo proteggesse anche da sé.

Ancora.

Dal desiderio feroce e necessario di sentirsi condannato, punito per quel che gli aveva fatto.

Da tutti, ma soprattutto da lui.

Per quel che aveva provocato alla propria vita e che tanto disprezzo suscitava.

Perché non si comportava come i suoi amici?

Che se avessero potuto, lo avrebbero picchiato.

Che se lui non ci fosse stato, gli sarebbero saltati addosso e lo avrebbero colpito come era giusto che fosse.

Dove teneva imbrigliata la Furia bianca che tanto terrorizzava chi incrociava la sua strada.

Perché non si manifestava anche con lui, travolgendolo, annullandolo, cancellandolo per sempre e ponendo fine a ogni sofferenza?

Perché non la lasciava prevalere?

Non la liberava e gliela scagliava contro per annientarlo una volta e per sempre?

Perché doveva guardarlo a quel modo?

Come se il tempo non fosse passato.

Come se quello fosse il giorno dopo la loro unica notte d’amore e nulla fosse successo.

Perché tutto andava bene.

Niente aveva dilaniato e disfatto in mille pezzi il cuore e l’anima e la vita stessa.

Niente aveva fermato il mondo.

Il loro mondo.

E c’era solo amore in quello sguardo.

Un amore che conosceva bene.

Di cui si era nutrito in tutti quegli anni, idealizzandolo, amplificandolo, trasformandolo in una magia chiusa nella sua mente.

Per tirare avanti, non aveva mai saputo nemmeno lui per quale motivo oramai.

 

Le ginocchia gli si spezzarono di colpo senza che si rendesse conto del momento in cui era accaduto, e si ritrovò a crollare al suolo, piegato in due.

Cercò d’istinto di puntare le mani sulle gambe.

Le dita scivolarono senza energie sulla superficie dei jeans, e urtarono il pavimento, stridendo per l’urto, ma per fortuna si fermarono, impedendogli di cadere lungo disteso.

Gli parve ci fosse del movimento intorno a lui, ma non riuscì a capire né a vedere niente, tanto le lacrime gli offuscavano la vista.

Il capo curvato sotto il peso della propria angoscia.

Eppure qualcuno gli stava sfiorando un braccio, serrando la stretta intorno per impedirgli di andare più giù.

Come realizzò quel contatto, la propria mente gli suggerì impietosa chi ne fosse l’autore, spingendo a forza e senza preavviso in ogni cellula di sé il profumo e il calore che conosceva.

Si divincolò furiosamente quasi fosse stato scottato.

Indietreggiò colmo di spavento e orrore, senza guardare dove stesse andando.

Sbattendo la schiena contro la parete dietro di sé, che lo fermò e gli precluse definitivamente ogni via di fuga.

Allora si lasciò andare, le orecchie assordate dal battito frenetico del proprio cuore.

Dal sangue che gli fluiva in ogni recesso, rapido come un fiume sul punto di spezzare gli argini e straripare.

Da un grido che si levò atroce, sordo, violento.

Dalla sua gola.

Raschiandola.

Se ne rese conto solo vagamente dal dolore che gli stava graffiando le corde vocali.

Si portò le mani alla bocca per tacitarlo.

Compresse le dita, artigliandosi la pelle del viso.

Nascondersi.

Sparire.

Stava cercando di farlo con quel gesto inconsulto.

Se ci fosse riuscito avrebbe potuto finalmente cancellarsi.

 

Altre mani, quelle di lui, lo raggiunsero e gli afferrarono i polsi per tirarle via.

Si oppose di riflesso.

Una forza superiore lo contrastò, annullando la propria, e non poté più niente per impedire che gli venisse liberato il volto dalla morsa in cui si era avvinghiato.

Tra le lacrime, scorse Akira inginocchiato davanti a lui, che lo sovrastava e tentava di dirgli qualcosa.

Non riuscì a sentirlo.

Vedeva soltanto le sue labbra muoversi, ma era sordo.

La sua espressione preoccupata.

Non poté far altro che lasciare che gli distendesse i palmi contratti e li portasse lontano.

Vedere il suo petto avvicinarglisi mentre se lo tirava contro e lo circondava con le proprie braccia in una stretta forte che lo ingoiò.

La guancia, bagnata dal pianto, posò contro il collo di Akira, freddo contro calore intossicante.

Il suo respiro si infranse di nuovo.

E di nuovo un urlo angosciato scivolò fuori violento e prolungato.

Ma stavolta non si ritrasse.

Non si divincolò per sfuggire.

Non voleva più farlo.

Non c’era una sola parte del suo corpo che la mente riuscisse a comandare di fare alcunché.

Percepiva soltanto la propria sofferenza che lo sopraffaceva.

Lo sommergeva.

Lo ingoiava.

E il calore dell’uomo che lo stringeva a sé.

Che lo avvolgeva in una calda coperta protettiva, allontanando il gelo paralizzante che sempre sentiva dentro.

Che gli faceva pensare di essere finalmente tornato a casa.

Al sicuro.

Lontano dal dolore e dalla morte.

Lontano dal pericolo e dal disgusto di se stesso.

 

-          Basta, amore mio, ti prego, basta! –

 

 

Tresor

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

 

 

 

Le parole gli furono sussurrate direttamente nell’orecchio, lenitive e pietose.

Dolci e meravigliose, come le aveva sempre soltanto sognate nelle notti terribili in cui mani e corpi sconosciuti lo avevano avuto e violato.

Salvifiche e soffuse come le aveva costruite e curate nella propria mente, sempre protesa nello sforzo di sfuggire alla propria realtà.

 

Rifletté, nella nebbia che gli intorbidiva la percezione di sé, che forse quell’istante era davvero un parto della propria testa in fuga.

Anzi senza forse.

Doveva essere sicuramente così.

Ancora una volta, l’ennesima, i suoi pensieri, a un certo punto, non seppe stabilire in quale momento preciso, avevano ripreso la fuga dall’orrore che lo circondava, e lo stavano trascinando via lontano in quel mondo, in quell’isola di salvezza, che si era costruito in quegli anni terribili.

Per cercare un posto dove rifugiarsi.

Dove nessuno lo avrebbe potuto raggiungere.

Toccare.

Sfiorare.

In uno spicchio di sogno in cui c’erano soltanto lui e il proprio amore e niente altro.

 

Si, era certamente così.

Perciò si lasciò andare, percependo appena i suoi muscoli tesi fino a quell’istante, rilassarsi.

Akira lo colse altrettanto nettamente.

Lo aveva tenuto chiuso nel proprio abbraccio, impedendogli di ribellarsi, frenando con tutte le proprie forze le spinte ad allontanarsi di quel corpo nei primi attimi in cui lo aveva stretto.

Ed ora lo sentì abbandonarsi.

Rilasciare ogni fibra lentamente, ma inesorabilmente.

Non lo sentiva più tentare di sfuggirgli.

Eppure non allentò le proprie braccia.

Nemmeno quando il respiro convulso di Hiro cominciò a tornare più regolare contro la propria pelle.

Sentì che doveva rimanere così fin quando non fosse stato certo che lui avrebbe assorbito a pieno la consapevolezza che era lì e non lo avrebbe lasciato da solo.

E non era ancora il momento.

Lo avrebbe riconosciuto quando sarebbe giunto.

Tra qualche attimo ancora.

Ma lo avrebbe percepito.

Perché lo conosceva come nessun altro.

Anche dopo sei anni passati l’uno separato dall’altro.

Quello che aveva tra le braccia era sempre il suo Hiro.

Con i suoi strappi.

Le sue ferite.

I graffi che gli avevano aperto l’anima.

Il sangue raggrumato nel suo cuore.

Ma era lui.

Sempre.

E sapeva riconoscere d’istinto, a pelle, ogni reazione, tremore, sussulto del suo corpo quando lo aveva così vicino a sé.

Ora che finalmente se lo teneva stretto addosso.

Non gli importava di ciò che sarebbe accaduto dopo.

Non voleva pensarci e non gli interessava.

Qualcuno, un dio pietoso, gli stava offrendo la possibilità di riportare indietro il tempo.

Miracolosamente.

Inaspettatamente.

Niente e nessuno gli avrebbe impedito di sfruttarla quell’opportunità.

Niente.

Non la sua sofferenza, né quella di Hiro.

Non quei sei anni in cui l’uno aveva ignorato la vita dell’altro.

Le trasformazioni, i mutamenti, inevitabili.

Non le loro vite divise da strade parallele.

Non il presunto rancore o il risentimento.

Niente.

Niente.

E nessuno.

Mai…

… più!

 

Quando ebbe coscienza che la tempesta si stesse acquietando, allentò piano le braccia e cercò il viso del ragazzo, sempre premuto contro il suo collo.

Intravide appena i suoi occhi chiusi, gonfi e arrossati dal pianto, le ciglia lunghe e nere imperlate di gocce trattenute, le sue labbra dischiuse, anch’esse gonfie, affamate d’aria, che permettevano al suo respiro caldo di raggiungerlo, intrappolate in un angolo dai denti che le serravano ancora convulsamente.

Le braccia raccolte contro il suo petto, i pugni serrati che artigliavano la sua camicia, stropicciandola.

Il corpo tutto raggomitolato come se avesse voluto inglobarsi in sé e sparire.

Liberò un braccio e glielo passò sotto le gambe, poi si diede una spinta e si mise in piedi, sollevandolo con sé.

Hiro non si accorse nemmeno e non si mosse, lontano chissà dove in se stesso.

Non guardò nessuno degli amici che erano rimasti ghiacciati spettatori della scena.

Lentamente si volse e uscì nel corridoio.

Salì le scale per raggiungere il piano superiore ed entrò nella propria camera.

Si avvicinò al letto e si chinò per distendervi il ragazzo che aveva tra le braccia.

Gli accompagnò dolcemente la testa sui cuscini e gli scostò i capelli dalla fronte madida, rimanendo a guardarlo un istante, quasi a volersi imprimere nella mente tutto il dolore fondo che ne trasfigurava i lineamenti delicati.

Poi il suo sguardo venne catturato dal fruscio delle tende agitate dalla brezza della finestra lasciata aperta.

Vi filtrava tutta la luce abbagliante del pomeriggio di quel giorno di primavera.

Se ne sentì quasi ferito.

Troppa luce.

Andò ad accostare le persiane esterne, creando una piacevole e più discreta penombra che si soffuse nell’ampia stanza.

Un gioco di ombre danzò sul letto e sul corpo ancora raggomitolato del giovane che vi era disteso.

Tornò da lui in silenzio.

Hiro non si era mosso e sembrava quasi non respirasse, congelato nella sua posizione.

Gli si sedette accanto, lieve gli allungò le gambe, sciogliendole, sentendole arrendevoli, prive di alcuna opposizione.

Lo liberò dalle Nike, lasciandole cadere ai piedi del letto.

Poi si piegò su di lui, mettendo le mani ai lati del suo corpo, avvolgendolo ma senza comprimerlo con la propria presenza.

Percepì limpido un sussulto provenire da lui, come si fosse accorto della sua vicinanza.

Si prese qualche istante in attesa di una sua reazione.

Che però non venne.

Deglutì una bolla d’aria che gli si era formata in gola, il cuore improvvisamente in tumulto, l’inquietudine che tornava su prepotente.

Ma stavolta fu una sensazione di piacevole sconvolgimento dovuto alla percezione chiara, netta, vibrante del suo odore che fluiva dalla sua pelle accaldata dall’agitazione di quei momenti concitati.

Proprio non lo aveva mai dimenticato.

Era qualcosa radicato dentro di sé, impresso nella memoria di ogni sua cellula, e che non era mai stato cancellato da nessun altro profumo.

Avrebbe voluto scoprirla quella pelle, toccarla finalmente, di nuovo, come non si era permesso mai di fare nelle due settimane in cui lo aveva affittato dalla casa di appuntamento.

Sfiorarne la sericità, la morbidezza e il calore.

Ma non era il momento quello.

Ne era profondamente consapevole, benché i suoi sensi ne reclamassero la proprietà anche in quel frangente.

Importuni.

Insolenti.

 

Concentrò la propria attenzione sul volto del ragazzo.

Non si era addormentato.

Ne era sicuro.

Per quanto stordito e spossato dalla crisi di nervi, era vigile e teso.

Ancora.

Come se si aspettasse, malgrado tutto, di essere aggredito, anche se non fisicamente.

Lento gli scivolò su un lato, distendendosi accanto a lui, ma senza toccarlo.

Poggiò il capo sullo stesso cuscino, gli stessi centimetri di distanza lasciati dal resto del corpo.

Lontano, ma non troppo, da non percepire su di sé il suo respiro.

E rimase così, a guardarlo, mentre rimaneva chiuso, ermetico, ostinato, nel suo mondo, in fuga dalla realtà intorno a sé.

 

E attese.

 

Mai come negli attimi che seguirono Hiro percepì così vicina la sua presenza.

Anche senza aprire gli occhi lo sentiva che era lì.

Non era solo il leggero reclinare del materasso quando si era sdraiato al suo fianco.

Ma la sensazione prepotente, quasi invadente, del calore che emanava il suo corpo, e che lo avvolgeva tutto dalla testa ai piedi.

Come se invece di rimanergli lontano, lo stesse abbracciando, tenendolo ancora contro di sé.

Perché non si allontanava e lo lasciava andare?

In qualche modo avrebbe trovato la forza di alzarsi e andarsene via.

Non importava dove.

Non importava se avrebbe dovuto trascinarsi, con la mente ancora sconvolta e ogni fibra di se stesso in subbuglio.

Cosa lo tratteneva ancora a fare lì dopo quel che era accaduto?

Avrebbe dovuto buttarlo fuori casa e non prenderlo in braccio per portarlo con sé di sopra.

Invece non solo non lo aveva cacciato via, ma lo aveva raccolto da terra come un bambino che si era perso.

Aveva sentito i suoi movimenti sicuri mentre saliva le scale in un silenzio irreale.

Mentre apriva la porta con un piede ed entrava.

Mentre lo adagiava con cura sulle lenzuola.

Lo sistemava perché stesse comodo.

Usandogli attenzione e gentilezza che non meritava affatto.

Che voleva fare?

Non lo capiva.

Ed era troppo stanco per analizzare quella situazione irragionevole che non avrebbe mai dovuto verificarsi.

 

Mosse la bocca per prendere fiato, rendendosi conto che un lembo del labbro inferiore si era come incollato ai denti, forse mentre se le tormentava quando stava piangendo.

Vi passò sopra la lingua per inumidirle.

Un lieve bruciore lo colse lì dove la pelle era stata lesionata dal morso che si era dato inavvertitamente.

Trasalì.

E così non si accorse di due occhi blu che avevano seguito rapiti i suoi movimenti, senza perdersi un solo fotogramma.

-          Lasciami andare! –

Era suo il rantolo bisbigliato che aveva udito?

Non riconobbe la propria voce.

Era stato un graffio su un vetro.

-          Mai più. –

Fu la risposta.

Sussurrata appena.

Non detta a voce alta.

Soltanto mormorata a fior di labbra.

Ma lapidaria.

Inconfutabile.

Incontestabile.

Un’affermazione senza incertezze.

Un comando.

Privo di inflessioni.

Di equivoci.

 

Fu questo che lo costrinse a schiudere finalmente gli occhi e a guardare davanti a sé, infrangendosi ineluttabilmente contro il proprio interlocutore.

Così vicino.

Così prepotentemente vicino.

 

Cercò di raccogliere un profondo respiro mentre l’aria gli si negava in gola.

E non riuscì.

Glielo impedirono a forza quelle iridi blu che lo fissavano dritti dentro l’anima, oltrepassando ogni sua barriera.

Saltando a piè pari qualunque muro avesse voluto alzare per impedirgli di entrargli fin nel profondo di se stesso.

 

Che voleva dire con quelle due parole?

Se lo chiese angosciato.

Akira gli lesse l’inquietudine sul volto e gli sorrise.

Uno di quei sorrisi che non faceva più nemmeno lui ricordava da quanto tempo.

Ma questo invece di trasmettere tranquillità, fece agitare ancor più Hiro, che non era più abituato a vederne e per questo lo spaventò.

-          Lasciami andare, che te ne fai di me? –

-          Perché vuoi andartene? Per buttarti dal primo ponte che trovi sulla strada? –

Hiro sussultò violentemente.

-          E se anche fosse? A chi importa? Avrei dovuto farlo già molto tempo fa. –

-          A me importa. Se tu lo avessi fatto una settimana fa, avresti messo fine anche alla mia vita. –

-          Non dirlo, sei pazzo!? –

-           Non più di te, amore mio! –

-          Non chiamarmi così, fai di me quello che vuoi, ma non chiamarmi così, non farlo, ti prego, non farlo! –

-          Perché no? E’ l’unico nome che conosco per chiamarti! -

Hiro lo fissò sgomento: non capiva se lo stesse prendendo in giro o dicesse sul serio.

C’era solo quell’espressione… dolce, disegnata sul suo viso bellissimo.

Ma non poteva dire davvero.

Non poteva pensare veramente quel che stava dicendo.

Non di lui.

Sarebbe stato troppo bello.

Un sogno che diventava realtà nel mare di inganni e bugie e illusioni in cui era invischiato e dal quale non riusciva a uscire da sei anni.

-          Nessuno può… nessuno… -

-          No, nessuno. – Lo assecondò Akira, l’espressione di colpo incupita da un pensiero sgradevole. – Nessuno a parte me, non ne ha diritto nessuno! –

Il ragazzo rotolò improvvisamente sul fianco, dall’altro lato del letto, deciso ad alzarsi e a scappare via.

Da quella stanza.

Da quella conversazione surreale e senza senso.

Da lui… troppo vicino.

Ma non fece i conti con il proprio corpo, intorpidito dalla crisi di nervi che lo aveva lasciato senza forze.

Se ne rese conto nel momento in cui cercò di mettere i piedi per terra: le gambe lo tradirono.

E lo ingannò l’imprevista sensazione di disorientamento che lo colse, facendolo rovinare oltre il margine del materasso.

Attese l’impatto con il parquet, incapace di reagire per ripararsi in qualche modo.

Ma questo non venne.

Akira lo aveva intercettato, balzando come un fulmine al di là del bordo, afferrandolo prima che si spiaccicasse a terra.

Così Hiro si ritrovò letteralmente spalmato su di lui, di nuovo intrappolato tra le sue braccia, a pochi centimetri dal pavimento, ma salvo.

-          Tutto ok? –

-          S… si! -  Si sorprese a balbettare confuso a un soffio dalla sua bocca sorridente.

-           

Troppo vicino.

 

Gli soffiò velenosa una vocina isterica nella testa.

 

Troppo!

 

Si scostò, divincolandosi dalla sua stretta, e scivolò via da lui.

Akira non lo trattenne.

Sapeva che non sarebbe stato facile aver ragione di lui.

Troppo sconvolto per sperare di farlo calmare.

Il suo piccolo Hiro non aveva mai avuto tempi di ripresa rapidi.

Aveva i suoi ritmi e bisognava rispettarli in certi momenti se si voleva condurlo a un minimo di raziocinio.

E lui di tempo ne aveva.

Gli avrebbe dato tutto quello di cui aveva bisogno.

Non c’era fretta.

Paziente si rimise in piedi.

Aggirò il letto e per qualche attimo scomparve dalla visuale di Hiro, che non aveva sollevato la testa per capire dove fosse andato.

Se lo ritrovò vicino improvvisamente, piegato sulle ginocchia, che gli porgeva un bicchiere d’acqua.

-          Tieni. –

Lo accettò dopo un momento di esitazione e lo portò alle labbra, accorgendosi, mentre qualche goccia scivolava giù, cauta, di avere la bocca secca e la gola riarsa e dolorante.

D’istinto lo trangugiò tutto in una sola volta, assetato, incapace di tenere sotto controllo il bisogno di bere.

Ma l’acqua gli andò di traverso, facendolo strozzare e tossire.

-          Hey, attento, così t’affoghi!! – Akira scoppiò a ridere, mentre gli toglieva il bicchiere dalle mani e gli assestava dei colpetti nella schiena per farlo riprendere.

-          Cazzo!! – Imprecò scombussolato e pieno di rabbia per la propria stupidità.

-          E passata, tranquillo… Vuoi ancora un po’ d’acqua? –

-          No! – Gracchiò lui ancora mezzo soffocato.

-          Hai un piccolo taglio qui! – Gli fece notare Akira, sfiorandogli le labbra con un dito.

Mentre si chiedeva perché improvvisamente la sua voce si era fatta più bassa, sensuale quasi, Hiro fece un balzo indietro, sfuggendo al suo contatto.

Aki rimase per un momento con la mano a mezz’aria.

Finse di ignorare la sua reazione e per tutta risposta si sedette a terra, rimanendo poco distante da lui per non invadere il suo spazio.

Lo vide accartocciarsi su se stesso, portarsi le ginocchia al petto, stringervi intorno le braccia e nascondervi il volto, ancora come se avesse voluto sparire in se stesso.

Non gli piaceva quel gesto, perché gli sembrava che si allontanasse e impedisse a chiunque di raggiungerlo.

Eppure non disse nulla.

E aspettò.

Senza distogliere gli occhi da lui.

Tresor

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 Capitolo 7

-          Perché mi hai prenotato all’agenzia per queste settimane? –

La domanda gli giunse così inaspettata, dopo parecchi minuti che erano rimasti in totale silenzio, che sussultò al suono della voce ancora rauca del ragazzo che cercava di farsi strada tra le braccia serrate.

-          Tre settimane… - Continuò Hiro.

Sembrava… esausto.

- … camere separate… qualche parola, se necessaria… cene in ristoranti costosi… visite agli amici di un tempo, che non avrei mai voluto rivedere… e… cosa? ...

Hai pagato uno sproposito per avermi … per che cosa? ...

Non mi hai toccato neanche una volta… neanche per sbaglio… lo sai che l’agenzia ti ha fatto pagare il doppio del prezzo per ogni mio appuntamento che è stato cancellato a causa della tua richiesta? ... –

- Posso permettermelo. – Lo interruppe Akira, monocorde.

Hiro rise.

Isterico.

Un attimo.

-          Non ne dubito… ma perché? Che senso ha? Non ho mai avuto il coraggio di chiedertelo in questi giorni perché… mi facevi paura… -

Una piega corrucciata si formò sulla fronte del suo interlocutore, ma lui non la vide, ovviamente.

-          … Mi faceva paura il tuo distacco.

Il tuo guardarmi diretto, senza batter ciglio, che mi scavava dentro senza che riuscissi a sottrarmi.

Il tuo non dirmi niente.

Neanche una parola, se non strettamente necessaria nel momento in cui me la rivolgevi.

La tua freddezza.

Non sembravi tu.

Eppure non mi hai ignorato nemmeno un istante in questi giorni, lo so.

Lo so bene!

Ma è stato peggio che se lo avessi fatto perché… mi tenevi inchiodato vicino a te senza permettermi di andarmene.

E io non capivo perché lo facessi.

Che senso aveva?

Non sono riuscito a trovare una risposta, per quanto mi sia lambiccato il cervello notte dopo notte.

Giorno dopo giorno.

… All’inizio, quando ho scoperto che eri tu ad avermi richiesto.

Quando mi sono trovato davanti a te, nella tua suite in albergo, ho creduto a uno scherzo di cattivo gusto.

A un tuo desiderio di vendicarti di me per quello che… -

Qui Hiro dovette deglutire un nodo che gli si era stretto un po’ più forte in gola man mano che liberava i propri pensieri.

Davvero in quei momenti di sorpresa, aveva pensato di buttarsi giù dal ponte che c’era poco dopo l’hotel.

Lo avrebbe fatto.

Appena uscito da quella suite.

Appena fosse riuscito ad allontanarsi da lì.

Da lui.

 

Poi riprese, appena sentì di aver racimolato sufficiente aria nei polmoni per mettere insieme le parole che gli salivano alle labbra inarrestabili.

Le aveva tenute tutte dentro di sé per 15 lunghissimi e difficilissimi giorni, incapace anche solo di pensare di riuscire a trovare il coraggio per tirarsele fuori.

-          … per quello che ti avevo fatto. – Completò. - Ma tu… niente… non mi hai toccato una volta.

E allora perché?

Per umiliarmi, costringendomi a stare con te?

Neppure.

Perché mi hai trattato con ogni riguardo malgrado tutto, senza mai farmi un torto.

Mancarmi di rispetto.

Senza mai farmi notare che tu eri il cliente e io la prostituta.

Allora perché?

Dimmelo, ti prego!!

Io non ho diritti, lo so, ma… -

-          Non sopportavo l’idea che avrebbero potuto averti mentre ero qui. – Gli rispose

finalmente Akira, cogliendolo di sorpresa.

Ancora lineare.

Chiaro.

Senza incertezza.

Come fosse l’unica verità inconfutabile.

Hiro sollevò la testa di scatto, scontrandosi inevitabilmente con il suo sguardo che non lo aveva lasciato neanche per un attimo.

Si sentì risucchiare da quel blu profondo e vi cadde dentro senza potervisi tirare indietro.

- Cosa? – Annaspò a corto di fiato.

- Credo di essere impazzito quando Hisashi mi ha detto che lavoro facevi. – Gli confessò semplicemente, la bella bocca tirata da un sorriso sbiadito. – Il cervello mi è andato in tilt, perché le immagini che mi si formavano dentro non combaciavano con quelle della persona che conoscevo io.

Così mi sono fatto dire il nome dell’agenzia e ho chiamato per richiederti.

Finché ti avessi tenuto con me, nessuno avrebbe potuto averti.

Semplice no? –

-          Sei pazzo, hai buttato via un mucchio di soldi per niente! –

-          Può darsi… Ma sarebbe stato peggio saperti così vicino e in mano a chissà chi… era un pensiero intollerabile. –

Il ragazzo sospirò incredulo.

-          E non sarà di nuovo così quando te ne andrai e io tornerò alla mia vita di tutti i giorni? –

Glielo chiese convinto.

Perché era quello che sarebbe successo una volta che fosse ripartito per gli Stati Uniti e quell’incubo, durato tre settimane, si sarebbe finalmente concluso per tutti.

-          E cosa ti fa pensare che ti lascerò tornare alla tua vita? –

-          Che stai dicendo? – Tremò per la luce contorta che gli vide trasfigurare i lineamenti.

-          Tu verrai con me! –

-          Non puoi pensarlo sul serio. –

-          Tu non hai ancora capito, vero, Hiro? –

Sforzandosi di non soccombere alla nausea che gli azzannava lo stomaco, Hiroaki si tirò in piedi, appoggiandosi al davanzale della finestra, e per qualche istante lo sovrastò.

Barcollò paurosamente, stordito da una vertigine.

Serrò di più la mano per non cadere: perché maledizione gli girava tanto la testa?

-          Capire cosa, cazzo? – Gli urlò addosso disperato. - Che stai vaneggiando? Che ti ha dato di volta il cervello davvero? Che cazzo devo capire? Smettila di dire stronzate!

Di prendermi in giro.

Di illudermi di volermi ancora malgrado lo schifo che sono.

Uccidimi, se proprio vuoi vendicarti: non te lo impedirò.

Almeno finirà questo inferno infinito in cui sono intrappolato.

Ma non hai il diritto di farmi questo.

Non hai il diritto di cancellare questi anni così, come se niente fosse. –

-          Non posso ucciderti, altrimenti finisco dentro e … -

-          Bastaaaaa!!!!  Io non verrò con te da nessuna parte! –

Akira balzò in piedi e in attimo gli fu addosso.

Hiro sussultò, ghiacciato.

Ma nella posizione in cui si trovava non ebbe modo di sfuggirgli con la parete su un fianco e la finestra sull’altro.

Era in trappola.

Sollevò la testa per compensare la differenza di altezza ed ebbe nuovamente paura.

Poteva buttarsi di sotto.

Era abbastanza alto per sperare di farsi almeno molto male… tutto pur di sfuggire a quel momento.

Il pensiero lo colse.

Tentatore.

E lo abbandonò subito dopo.

Akira non glielo avrebbe permesso.

Lo seppe con certezza semplicemente fissandolo.

E poi la convinzione divenne ancora più prepotente quando lui lo afferrò per entrambe le braccia, scuotendolo e avvicinandolo a sé senza troppo riguardo.

Provò a sottrarsi almeno distogliendo la propria attenzione.

Inutile tentativo.

-          Guardami! – Gli comandò l’uomo imperioso.

Senza alzare la voce.

Che però risuonò lo stesso assordante come se lo avesse fatto.

Non gli obbedì.

Non poté.

-          Ti ho detto: guardami! –

Una scrollata più forte lo sollevò da terra e ve lo riportò.

-          No! – Provò a protestare, flebilmente, null’affatto convinto.

Una preghiera più che un diniego.

-          Guardami o ti giro la testa a forza, fai tu! –

La minaccia sortì l’effetto voluto.

Ritornò a fissarlo, sentendosi soffocare per lo sforzo di sostenere i suoi occhi furenti, divenuti più scuri e cupi.

-          Guardami, Hiro, e dimmi che non mi ami ancora. –

-          Ti prego, lasciami andare! –

-          Ti lascio andare solo se hai il coraggio di rinnegare le tue stesse parole. –

La presa sulla pelle si fece più intensa.

Il volto di Akira più vicino al suo.

Il respiro prossimo a divenire il proprio.

A un soffio.

Vicino.

Troppo vicino.

Troppo familiare.

Troppo a lungo desiderato.

I muscoli si tesero allo spasmo e inviarono repentini un segnale dolente al cervello.

-          Ti prego! – Una supplica, scivolata sulle labbra esangui.

Un bisbiglio.

Null’altro.

-          Dimmi che non provi più niente per me guardandomi negli occhi.

Che ciò che hai detto giù davanti a tutti era solo una farsa inventata al momento.

Dimmelo e hai la mia parola che non ti tratterrò.

Avanti, dimmelo!! –

Il giovane scosse piano il capo.

-          Mi stai facendo male, non stringere. –

-          Ti spezzerò in due se continui a eludere l’inevitabile. –

-          Io sono già spezzato in due… da sei anni! –

-          E io? Io non lo sono? –

-          Mi dispiace, non era questo che volevo. –

-          E cos’è che volevi? –

-          Che tu potessi essere felice. –

-          Senza di te? –

-          Io non ero importante… non lo sono … io… non…sono niente… più!! –

Una nuova, violenta scrollata gli fece vorticare il mondo tutt’intorno e torcere lo stomaco, tanto che si persuase che da un momento all’altro la nausea lo avrebbe risucchiato e fatto vomitare.

-          Se lo dici ancora ti prendo a schiaffi! –

-          Uccidimi! –

-          No! –

Un respiro.

Un solo respiro e le loro bocche si sarebbero toccate senza più scampo.

Il cuore gli diede uno scarto nel petto, contorcendosi.

D’istinto insinuò le mani tra loro, facendosi largo angosciosamente, e le frappose a mo’ di barriera perché quel contatto non avvenisse.

Sarebbe stata la fine.

Non ne sarebbe uscito vivo stavolta dopo sei anni di astinenza.

Sei anni in cui aveva anelato, desiderato, sognato quelle labbra come un assetato l’acqua che gli viene negata ripetutamente.

Sei anni in cui aveva rincorso solo il ricordo del loro sapore.

Della morbidezza nello sfiorarle.

Nel lasciarsi baciare.

Nella dolcezza di cui erano capaci quando lo accarezzavano.

-          A che serve tutto questo, Aki? – Provò ancora implorante, in un ultimo, scorato tentativo di farlo ragionare. – E’ passato troppo tempo. Le nostre vite sono andate per strade diverse.

Non possiamo più recuperare tutti questi anni.

Che te ne fai di me?

Non sono più il ragazzino con cui sei cresciuto.

Mi sono perso e sporcato.

Non potrei più offrirti niente.

Non sono più degno di te.

Tu… -

Per qualche momento gli mancarono le parole, mentre le lacrime riprendevano a pungergli le iridi e a bruciare e a scivolare lungo le guance.

-… Tu invece, malgrado tutto, sei diventato l’uomo bellissimo che avevo sempre pensato saresti stato.

Un campione indiscusso.

Uno dei migliori nel tuo campo.

La persona meravigliosa in cui sapevo ti saresti trasformato crescendo.

Uno come me non potrà mai essere al tuo fianco: ho venduto il mio corpo e la mia anima.

Per sfuggire a un dolore più forte di me.

Quello che ancora provo per te.

Che custodisco gelosamente dentro di me e a cui mi sono aggrappato ogni giorno, per quanto bello, prezioso, non potrà ripulire il marcio che è andato accumulandosi in questi anni.

Non potrà mai farmi ritornare limpido, innocente.

E non voglio sporcare anche te. –

-          Dimmi che non mi ami, Hiro… voglio solo sentirti dire questo, o non ci sarà nessuna parola che potrai pronunciare che varrà la pena di ascoltare! –

Akira glielo ripeté per l’ennesima volta.

E glielo avrebbe ripetuto finché non si fosse arreso e avesse messo fine ai suoi ragionamenti insensati.

In risposta lo sentì tremargli tra le mani e il cuore gli diede una stretta lancinante.

Che senso aveva farsi tanto male?

Intuiva i suoi sensi di colpa.

Il suo bisogno di cercare l’espiazione.

La necessità di anteporlo a se stesso ancora e ancora.

Era un istinto il suo.

Lo era stato fin da quando si erano conosciuti da bambini: un istinto primordiale, insopprimibile, automatico.

Che non aveva deciso, ma era nato e rimasto radicato nella sua natura.

Ma aveva senso adesso?

Che la verità era venuta fuori.

Che le loro strade, per quanto divise, si erano incrociate nuovamente.

Malgrado ogni suo tentativo di negarlo.

Di sottrarvisi.

Di trovarvi mille giustificazioni.

Tutte giudiziose.

Tutte vere.

Tutte… inutili?

-          Dimmi che non mi ami! –

Allentò la presa sulle braccia per imprigionare le sue dita nelle proprie mani.

Senza lasciargli il tempo di sperare che stesse per liberarlo.

Cercò di assorbire il tremore incessante che Hiro non riusciva a disciplinare, troppo sconvolto dalle proprie emozioni e dal suo incalzare impietoso.

Ma non poté permettersi il lusso di usargli pietà.

Per quanto lo ripugnasse intimorirlo a quel modo.

Mettergli tutta quella pressione addosso.

Per quanto il cuore e l’istinto gli stessero urlando di avvolgerlo nel proprio abbraccio e cullarlo e proteggerlo dal proprio dolore.

Non se lo poteva concedere.

Arretrare anche solo di un millimetro.

Mostrare anche il seppur minimo, lieve cedimento, avrebbe rischiato di aprire una breccia.

Ed era sicuro che da lì lui avrebbe tentato di sfuggirgli definitivamente.

Perché Hiro era convinto di quel che diceva.

Anche se combattuto tra la rassegnazione di non avere nessuna speranza e il desiderio di credere a quel che gli stava offrendo.

Lo sapeva che il suo carattere cocciuto e altruista gli avrebbe giocato l’ennesimo scherzo per precludersi l’unica risoluzione auspicabile per loro.

E davvero non poteva concederselo.

Non ora che era ad un passo dal mettere la parola fine a quegli anni assurdi che tanti danni avevano fatto.

Non ora che era tornato in suo potere decidere quale svolta dare alle proprie vite disastrate.

Deviare quel maledetto destino che gli era sfuggito di mano.

No, proprio non poteva!

-          Dimmi…. che… non … mi … ami! – Gli sillabò ogni parola proprio là, su quelle labbra che aveva tentato di schermare un attimo prima nell’inutile speranza di difendersi.

Inchiodandolo a sé con gli occhi e con il corpo.

Nessuna via di fuga.

Nessun recupero di respiro.

Nessuna tregua.

O tutto sarebbe andato perduto.

Per sempre.

Davvero!

-          Non possooooo!!! – Gli urlò in faccia il ragazzo, cercando di divincolarsi.

E ricevendo in risposta di venir artigliato ancora più tenacemente.

Il senso di impotenza si amplificò nella sua testa, facendogli montare dentro una rabbia incontrollata.

Si agitò violentemente, inutilmente, immobilizzato dalla forza del proprio carceriere, troppo soverchiante per poterla contrastare.

Akira non accusò nemmeno il suo movimento, costringendolo a subire la propria energia.

Hiro annaspò, le lacrime che gli mischiavano la realtà.

Si sollevò in punta di piedi per annullare la differenza d’altezza che lo faceva sentire piccolo e debole.

E ottenne solo di finirgli addosso.

Di toccare con il proprio il corpo di Akira, che tanto stava cercando di evitare.

Di percepire ancora più incombente, avvolgente, il calore bruciante che gli veniva da lui, prigioniero della sua morsa d’acciaio.

L’esasperazione lo divorò come una fiamma gelida, fiaccandogli i pensieri spezzettati nella testa che sbattevano e si confondevano, impedendogli di riflettere lucidamente.

-          Non posso, non posso, non posso… - Ripeté ansante.

Ancora diede uno strappo.

Ancora Akira lo contenne.

-          Non posso…! – Replicò rabbioso. – Quest’amore è mio, soltanto mio.

Mi serve per respirare.

Per ingoiare la vita di merda che faccio.

Non c’entri più niente tu.

Senza non sarei riuscito ad andare avanti.

Mi hai capito?

Se ti amo sono soltanto cazzi miei.

Non ti deve importare da quanto continuo così.

Il perché… -

-          Stai delirando, amore mio… -

-          Non chiamarmi così, ti ho detto, perché ti diverti a ripetere queste maledette parole? ... Non sono l’amore tuo… sono una puttana che hai pagato… perché cerchi di dimenticartelo? –

Il ceffone che si abbatté sulla guancia gli girò la testa di lato.

Non lo vide arrivare e non aveva potuto prevederlo.

Ma ebbe il potere di annichilire ogni velleità di delirare che ancora gli fosse rimasta, zittendolo.

Il giovane sgranò gli occhi per la sorpresa più che per il dolore.

Il respiro rotto da qualche parte nel petto.

Anche le lacrime gli si raggelarono.

Akira gli afferrò il mento con una mano e lo costrinse a voltare nuovamente il viso verso di lui.

Lo fissò per alcuni istanti, facendolo rabbrividire fin dentro l’anima.

Poi calò lento su di lui, annullando ogni frammento di spazio tra loro, e posò le labbra sulle sue esangui.

Semplicemente le sfiorò.

Senza alcuna pressione.

Nessuna pretesa.

Continuando a tenerlo inchiodato a sé con lo sguardo.

Quasi a volerlo sfidare a ritrarsi.

E per Hiro fu come una stilettata conficcata in mezzo al cuore.

La fitta atroce si attorcigliò come un serpente intrappolato, affondando nella carne e sfrangiandola.

Affilata e rovente.

Impietosa.

Crudele.

Feroce.

Devastante.

Sconvolgente.

Conosciuta.

Familiare.

Ritrovata.

Dolce e venefica al tempo stesso.

La sua testa andò in completo black out, semmai ci fosse stato uno stadio ulteriore di smarrimento e confusione in cui annegare.

Neppure cercò di afferrare la propria ragione, o quel che ne restava.

Cedette.

Arrendendosi.

A cosa non seppe pensarlo.

Cedette e basta.

Era ritornato a casa.

Nel posto giusto.

L’unico in cui si era sempre sentito al sicuro.

Protetto.

Amato.

Non doveva più fuggire.

Lì, sotto la pressione lieve della bocca di lui, che non lo forzava eppure lo paralizzava, era dove doveva essere.

Niente altro aveva importanza.

Né i suoi sensi di colpa.

Né la vergogna per ciò che era.

Né la sua smania di proteggerlo dalla propria inadeguatezza e indegnità.

C’erano l’uomo che amava disperatamente, il suo respiro dolce e avvolgente e lui che lo beveva per la prima volta dopo tanto tempo.

E seppe che non aveva atteso altro che quel momento.

Che la mente non lo aveva mai ingannato nel conservare gelosamente il suo sapore tra le pieghe dei ricordi.

Che era sopravvissuto nelle condizioni peggiori solo per giungere a respirare nuovamente la sua aria.

Sentirsela scorrere in gola, nei polmoni, fino al petto.

In ogni fibra del corpo.

Identificata e accettata come propria parte di sé.

Ispirò inconsapevolmente, quasi un atto meccanico, come chi è stato sul punto di soffocare e avesse bisogno di esser rianimato.

Percepì la tensione defluire come acqua in ogni direzione, in ogni vena, quasi si fosse aperta un’emorragia da qualche parte.

Akira colse chiaramente la sua arrendevolezza prendere il sopravvento sulla ribellione.

Il cuore esultò finalmente.

E aumentò la pressione sulle sue labbra.

Misurato.

Senza fretta.

Imbrigliando la propria ansia a forza.

Arginando e tenendo a freno il proprio desiderio furente di violare quella bocca per riconquistarla a sé.

Poteva aspettare.

Non doveva forzare la mano agli eventi.

Un niente sarebbe bastato per un passo falso impossibile da cancellare.

 

Ma non dovette attendere molto.

Spontaneamente Hiro gli si offrì, schiudendosi a lui in una muta richiesta a non fermarsi.

Le mani di Akira scivolarono gentili sulle sue guance, imprigionandone il volto per dar vita infine a un bacio che fu dapprima dolce e casto, quasi timoroso di osare.

La ricerca cauta di ritrovare una strada conosciuta e propria.

Si ritrasse, il respiro ansante che si mischiava a quello del ragazzo.

Poi gli depose un altro bacio riverente all’angolo sinistro della bocca.

E un altro a quello destro.

Hiro singhiozzò, smarrendosi nelle sensazioni che gli esplodevano nella testa in successione caotica e indeterminata.

Obbedendo a un istinto incontrollato, gli fece scivolare le braccia intorno al collo, sospingendosi di più contro di lui, finendo per aderire completamente al suo corpo e trovando infine l’altra metà di sé perfettamente combaciante.

Akira lo avvolse in un abbraccio soffocante e si impadronì ancora delle sue labbra.

Cercò la sua lingua con la propria, incontrandola e sospingendola a danzare in un contatto dapprima lieve, poi sempre più esigente, affamato, imperioso.

Sembrò volerla divorare tanto violenta e imprevista fu la scossa di piacere che lo avvolse.

E che avviluppò ogni cellula del proprio essere.

Quello che era stato trattenuto come un ricordo remoto, gelosamente conservato, ora veniva su prepotente e vivido come se sei anni non fossero mai passati.

Come se l’ultimo loro bacio fosse stato scambiato solo la sera prima e non una lontana, maledetta, meravigliosa, unica notte perduta da troppo tempo.

Hiro lo stringeva forte, ansante e sperduto, lasciando vagare le proprie dita tra i suoi capelli in una carezza morbida, piacevole, dimentico di se stesso, respirando soltanto lui e il suo corpo prorompente che gli premeva contro.

Consapevole soltanto della danza ipnotica della sua lingua nella sua bocca.

Che lo confondeva e lo stordiva.

E gli risvegliava ogni cellula del proprio essere, mandandogli mille brividi ovunque.

Rivoli liquidi di piacere lievi, ma perentori, che lo avviluppavano in sottili filamenti di eccitazione.

Sentì il cuore accelerargli forte nel petto per l’emozione.

E il cuore di Akira battere ancora più furiosamente contro il suo.

Non poteva credere che stesse accadendo davvero.

Che fosse tra le sue braccia.

Che lui gli si stesse stringendo addosso.

Che quel calore soffocante fosse il suo.

Poteva morire adesso.

In quel preciso istante di estasi.

Non chiedeva più nulla dalla vita.

Non voleva altro.

Era felice.

 

Improvvisamente un sussulto violento lo aggredì, attraversandogli ogni recesso del corpo.

Avvertì una sensazione mista tra paura e rapimento che lo disorientò.

Tremò tutto, incapace di controllarla.

Portò appena indietro la testa, mettendo un soffio di distanza inarticolato tra le loro labbra, d’un tratto a corto di fiato.

Guardò Akira incredulo e stupito, mentre la mente sgomenta realizzava quel che stava per accadere.

E dovette capirlo anche il suo compagno.

Che lo sentì fremere e inarcarsi nel poco spazio lasciato dalle sue braccia.

Aki lo strinse ancora più forte, percependo la sua erezione pulsante che gli premeva contro.

Si strusciò languido e sensuale contro di lui, piacevolmente sconvolto dalla sua reazione, peggiorando la situazione.

Gli avvicinò le labbra all’orecchio e teneramente gli suggerì: -

-          Lasciati andare, amore mio, io sono qui! –

S’impossessò di nuovo della sua bocca, e questo decretò la definitiva capitolazione di Hiro.

Che venne.

Semplicemente.

Incredibilmente.

Travolto da un orgasmo violento e imprevisto.

Un grido roco rotolò su per la gola, soffocato dal bacio in cui era intrappolato.

Rimase immobile, paralizzato, tremando da capo a piedi, gli occhioni scuri spalancati dallo stupore e dalla scarica di adrenalina che lo aveva sferzato.

Al sicuro tra le sue braccia forti.

Le gambe che repentinamente gli diventavano molli e cedevoli.

La sensazione di bagnato che inumidiva slip e jeans e gli colava sulla pelle sensibile tra le gambe.

 

Si era eccitato soltanto con quel bacio.

Il pensiero si formò nitido come una bolla.

Non gli era mai successo.

Mai, in tutta la sua vita da solo.

La tensione, la gioia e l’incredulità erano state così intense da fargli perdere il controllo del proprio corpo.

Com’era stato possibile?

Akira lo lasciò respirare, sorridendogli in quel modo tutto suo che lo mandò ancor più nel pallone.

Sentì un calore virulento salirgli in faccia e in quel momento ebbe l’assoluta certezza di essere diventato tutto rosso.

Un imbarazzo profondo lo invase man mano prendeva coscienza di quel che era successo.

Che avrebbe pensato di lui?

L’interrogativo si affacciò appena alla sua mente stordita.

D’impulso premette il viso contro il suo petto, travolto da un incongruente desiderio di nascondersi e sottrarsi alla sua attenzione adorante.

-          Mi dispiace, mi dispiace! -   Mormorò affranto.

-          Perché? E’ stato bellissimo! – Gli sussurrò sollecito il compagno, baciandogli una tempia.

Per un momento Akira sembrò rivedere il piccolo, impacciato Hiro degli anni addietro, che si infiammava anche solo per una semplice allusione vagamente sessuale.

Provò un senso di profonda commozione per quell’inusitato candore.

Delizioso!

-          Che vergogna, io… io non so… come… -

Si sentì tirar su la testa con un gesto gentile, ma inesorabile.

Dovette guardarlo per forza, ritrovando la sua espressione rapita che gli illuminava i bei lineamenti.

Come sei bello!

Pensò distintamente, rimanendo senza fiato.

-          Sei mio, amore, non devi vergognarti di nulla! – Gli soffiò suadente sulle labbra.

-          … Tuo! – Ripeté lui nella propria testa, ipnotizzato dalla sua voce, incapace di rendersi conto realmente della portata di quell’aggettivo.

Non seppe mai se quella parola l’avesse davvero pronunciata o solo pensata.

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

 

 

 

-          Aki!!...-

Kimi si accorse di lui mentre entrava nell’ampia cucina dove si erano riuniti per un caffè.

Gli andò incontro, seguito dagli sguardi degli altri, un sorriso timido sulle labbra.

Dietro la penisola ad armeggiare con le tazze, Hana lo seguì avanzare e fermò quel che stava facendo.

Notò subito l’espressione provata sul suo volto.

Un rimescolamento inquieto gli torse lo stomaco.

-          Come stai? – Gli chiese Hisashi, girandosi sullo sgabello dall’altra parte del tavolo.

L’amico li raggiunse e prese posto accanto a lui, salutandolo con una pacca sulle spalle.

-          Ti va un caffè? – Gli propose Kaede, intento a programmare la macchinetta automatica davanti a sé.

Lo scrutò deciso com’era suo solito senza aggiungere parole superflue, cercando di trarre le proprie impressioni sul suo stato.

-          Si, grazie, così mi sveglio un po’! – Rise lui.

Si poggiò con entrambe le braccia sulla superficie di marmo nero e si lasciò andare a un profondo sospiro.

-          Hey! – Lo scosse Hisa, ancora in attesa di risposta alla sua domanda.

-          E’ tutto ok! – Fece lui, per un momento senza guardare nessuno.

Poi avvertì i loro sguardi su di sé e sollevò il proprio, trovandosi Hana davanti, null’affatto persuaso.

-          Sto bene! – Ribadì più convincente. - … Sono solo un po’ stanco. –

-          Vuoi mangiare qualcosa?    -

-          No, Hana, grazie, il caffè va bene. –

Kaede gliene porse una tazza ricolma, profumata e fumante.

-          Tieni. – Aggiunse Kimi, offrendogli il latte e lo zucchero.

-          No, grazie, nero va bene. – Fece lui, rifiutando con un gesto della mano.

Portò la tazza alle labbra e ne ingollò un lungo sorso, incurante del fatto che fosse troppo caldo.

Questo allertò l’attenzione di tutti, che si scambiarono fugaci occhiate apprensive.

Ma non dissero nulla.

Kaede distribuì il caffè appena pronto, poi prese posto su uno degli sgabelli dall’altra parte della penisola.

-          Hiro? – Chiese, diretto come al solito.

-          Si è addormentato. –

-          Sarà stato esausto! – Osservò Kimi dispiaciuto.

-          Mhm, si! –

-          Come sta? –

-          Scosso. –

-          Possiamo fare qualcosa per lui? –

-          No, Kimi, grazie. Gli farà bene dormire un po’ dopo tutto il trambusto di prima.

Poi ce ne torniamo in albergo. –

-          Perché? – Chiese Hana d’istinto, senza riflettere.

Akira lo fissò per un momento cupo.

Ma subito i suoi tratti si distesero in un sorriso divertito.

-          Forse perché si sente a disagio dopo le tue gentili premure? – Lo prese in giro indulgente.

-          Ah! ... – In effetti, rifletté l’amico, riavendosi subito. – Si, vero… hai ragione… scusa… per come l’ho trattato, forse ci sono andato giù un po’ troppo pesante! ... Mi spiace… -

-          Solo un po’… e non ti spiace affatto, bugiardo! ... Non ce l’ho con te, ma… – Mise una pausa sinistra, poi si raddolcì. - … non rifarlo: potrei ucciderti la prossima volta! -

Hana divenne immediatamente tutto rosso d’indignazione, ma ebbe il buonsenso di non saltar su a sbraitare le proprie ragioni, redarguito anche dall’occhiataccia storta che gli lanciò il marito.

Si accorse comunque che Akira davvero non ce l’aveva con lui e questo lo sollevò non poco.

Sebbene fosse certo che per un momento, uno solo, una luce pericolosa era passata dietro quelle iridi profonde.

-          Devo ringraziarti invece… – Proseguì l’amico, riportando la propria attenzione al liquido scuro che ondeggiava nella tazza. -… per aver sbloccato la situazione. – La voce gli si abbassò di una nota sotto il peso di quella consapevolezza su cui si soffermava a riflettere solo in quell’ istante.

-          Aki… - Lo chiamò Hisa, mettendogli una mano sul braccio.

-          No, davvero, grazie. – Replicò lui più convinto, guardando prima lui e poi Hanamichi.

-          Avrei dovuto essere meno triviale, mi spiace! – Fece questi sinceramente mortificato.

Lui scosse il capo.

– Non so cosa mi è preso, ero talmente sotto pressione per il tuo strano comportamento, che non ci ho visto più all’ennesimo sguardo adorante che ti lanciava mentre eri fuori. –

-          Sguardo adorante? –

-          Non sfottere, non puoi non essertene accorto!! –

Aki sembrò davvero spaesato.

-          Io ho sempre solo visto i leggendari bronci di Hiro tutte le volte che lo scorgevo a guardarmi: quelli non sono cambiati. –

Hana lo fissò disorientato: ma diceva sul serio?

-          Penso che Hiro abbia sofferto molto in questi giorni. – Rifletté Kimi, distogliendo la loro concentrazione da quel particolare che nessuno aveva ignorato, tranne lui, evidentemente.

L’attenzione di tutti si appuntò su di sé.

-          Questo è indubbio. – Assentì Hisashi, passandogli un braccio intorno alla vita e attirandolo delicatamente accanto a sé per rincuorarlo.

-          E’ stata tutta colpa mia! – Ammise Akira.

-          Adesso credi di poterci dire perché lo hai costretto a stare con te finora? – Gli domandò Hana.

Aki lo fissò un tempo interminabile, senza proferire parola.

Aveva agito d’istinto due settimane prima, quando lo aveva richiesto, per quella che gli era parsa la ragione più ovvia e logica del mondo.

La cosa giusta da fare per mettere a tacere la testa e il cuore.

Non si era interrogato su quella che avrebbe potuto essere la reazione di Hiro.

E se lo aveva fatto, aveva zittito presto e sbrigativo la voce della propria coscienza, che pur gli aveva mandato segnali d’allarme sul male che gli avrebbe inflitto in quei giorni.

Adesso…

… che aveva toccato con mano, fino in fondo, l’angoscia del suo (finalmente!) ragazzo, non gli pareva più così legittimo il suo modo d’agire.

-          Finché stava con te, non avrebbe avuto… “impegni” con i clienti dell’agenzia. – Replicò per lui Kaede, catalizzando su di sé l’attenzione degli amici.

Si guardarono in faccia, lui e Akira, escludendo tutti gli altri.

-          Hn! –

-          L’avevo immaginato… -

-          M’importava solo questo. –

-          E poi? – Lo incalzò Hisa. – Alla fine che avevi intenzione di fare? –

-          Non lo so, non ci ho pensato… l’ho fatto e basta. –

-          Sei pazzo! – Fece Hana, scuotendo il capo.

Aki scoppiò in una risata nervosa, brevissima.

-          Si, hai ragione, sono pazzo! – Convenne consapevole. – Per questo devo ringraziarti di esserti impicciato dei fatti miei una volta di più. –

-          Aki, volevamo soltanto… -

-          No, Kimi, non giustificarti, vi sono riconoscente davvero.

Io e Hiro non abbiamo mai parlato di niente che ci riguardasse in questo periodo.

Lui chiuso nel suo mutismo spaventato.

Io nel mio… insensato tentativo di … - Fece un cenno vago nell’aria con la mano. - … non lo so nemmeno io… se ci penso adesso, credo di aver vissuto in una specie di limbo anestetizzato, facendo mille pensieri, ma evitando di concentrarmi davvero su qualcosa.

Probabilmente… anzi no, certamente lui ci è stato malissimo.

Io invece ho fatto finta di non vedere il suo disagio.

Da egoista mi son fatto bastare la sua presenza, sicuro che fosse lì con me e non chissà con chi.

Non mi sono fatto nemmeno uno scrupolo.

Senza pensare a quel che avrei fatto quando sarei ripartito.

Come se ci fosse una specie di eterno momento e non il dopo.

Ancora una volta avete dato voi una svolta alla mia inconcludenza, spingendo gli eventi invece di farli languire, come stavo facendo io. –

-          E… - Tentò di indagare Hana. - … da che parte avremmo spinto questi eventi? –

-          Secondo te, testarossa? – Lo sfidò l’amico a trarre la logica conseguenza della sua ingerenza.

Il giocatore trasecolò senza avere la più pallida idea di cosa volesse dire.

Paziente, Kaede si alzò, gli si fece vicino e gli posò un lieve bacio sulla guancia.

Hana lo guardò per un momento con un’espressione confusa, mentre gli si formava in testa un grosso punto interrogativo.

Il compagno scrollò la testa scorato, ma non se la sentì di apostrofarlo con il solito “idiota” che gli dedicava ogni volta che tardava a capire le cose più ovvie.

Affettuosamente gli fece scivolare un braccio intorno alla vita e in un orecchio gli sussurrò: -

-          Viene con noi! –

-          Chi? – Saltò su l’altro di riflesso.

Al che ci fu una collettiva alzata di sguardi al cielo in una corale resa all’ottusità.

Improvvisamente gli occhi del ragazzo si spalancarono sotto un’evidente e imprevista illuminazione.

Avvertì appena la lieve carezza su un fianco della mano del marito.

Non poteva crederci.

-          Lui… tu… e noi… - Provò a dire, emettendo soltanto un inconcludente balbettio indecifrabile.

-          Amore, conosci i pronomi personali, bravo! – Scherzò Kaede ironico.

-          Ooohhhh! – Protestò lui stizzito, ottenendo uno sbuffo in risposta. – Aki, non puoi fare sul serio: vuoi portarlo davvero in America con noi? … Dopo tutto quel che ha combinato? ... –

-          Con me, Hana! – Lo corresse Akira con una nota oscura nel timbro di voce, indifferente alla sua reazione. – Non lo lascio qui, ora che so la verità. –

-          Ma… ma… -

-          Sei sicuro, Aki? – Interpretò Hisa per lui, dedicandogli un’espressione perplessa.

-          Si! – Fu la risposta lapidaria che ricevette.

Non c’era traccia di esitazione sul suo volto.

Questo impressionò profondamente gli amici.

-          E Hiro? – Soggiunse Kimi.

-          Non ha avuto scelta! – Commentò Kaede, sicuro della propria affermazione.

Gli bastava guardarlo in faccia per immaginare che non aveva dato al compagno il diritto di replica.

Aki sostenne il suo sguardo, confermandogli l’ipotesi.

Hana fece per dire qualcosa, evidentemente contrario a quello che riteneva un colpo di testa mal ponderato da parte dell’amico.

Ma Akira lo bloccò sul nascere, incenerendolo con un’occhiata ostile, forse più di quanto fosse nelle sue intenzioni.

-          Non voglio sentire niente! – Sentenziò.

Poi si rese conto di essere stato troppo crudo.

Raccolse un profondo respiro e cercò di riacquistare una sorta di serenità.

Tanto la propria decisione era presa.

Nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea.

E tuttavia voleva metterli a parte delle proprie motivazioni: erano i suoi più cari amici e, ne era certo, volevano solo il suo bene.

-          Ci viene data un’altra possibilità… Riprovò più conciliante. - … cercate di capire: non voglio e non posso sprecarla… Non ve lo imporrò se proprio vi dà così fastidio, per un po’ ce ne staremo per conto nostro e… –

-          Che cazzo c’entra questo? – Protestò Hana con veemenza. – Siamo tuoi amici: accetteremo la persona che scegli.

Ma siamo preoccupati per te. -

-          Lo so, Hana, e vi ringrazio per esserci sempre e comunque, malgrado i miei errori. –

-          Ecco, allora vedi di non escluderci dalla tua vita.

Siamo una famiglia e dobbiamo sostenerci anche quando non siamo d’accordo.

Se è lui che vuoi, proveremo a diventargli amico e a dimenticarci le cazzate che ha fatto… -

-          Grazie! -

-          E riuscirai a evitare che la vita che ha fatto fino ad oggi minacci la vostra unione futura? –

Di nuovo Kaede, diretto come un proiettile.

Come al suo solito senza perifrasi o mezzi termini.

Senza delicatezza.

-          Nessuno di noi due è stato un santo. – Cercò di schernirsi.

-          Non è la stessa cosa, Aki. – Gli fece notare Hisa, altrettanto crudo.

Il passato di escort di Hiro era un’incognita da non sottovalutare ed aveva il suo peso.

-          No, non è la stessa cosa.

E di certo non faccio salti di gioia se mi fermo a pensare a quanti lo hanno avuto. – Un brivido lo colse all’improvviso, scuotendolo bruscamente.

Sentì il sangue rimescolarglisi nelle vene per la repulsione e la violenta sensazione di gelosia che ne scaturirono.

Si sentì soffocare.

Kimi gli sfiorò un braccio, cercando di rincuorarlo.

-          Non so se avete avuto modo di parlarne… - Mormorò prudente, usando tutta la delicatezza che il caso esigeva per non turbarlo ulteriormente. - … ma ho avuto l’impressione che il suo… lavoro… sia “accaduto” senza che lo avesse progettato di sua volontà. –

-          E questo cosa cambia? – Contestò Hanamichi sempre più infastidito.

-          Niente! – Si affrettò il ragazzo. - … Non cambia niente nei fatti, ma nelle intenzioni fa la differenza… -

-          Che vuoi dire, cucciolo? –

Kimi sospirò al compagno, scrollando la testa.

Hisashi gli regalò un bacio lieve, trasmettendogli il proprio sostegno per qualunque tesi avesse voluto esporre loro: si fidava del suo giudizio e buonsenso.

Il giovane gli sorrise grato.

Un po’ più sicuro di sé.

-          Intendo dire che il “come” si sia ritrovato a fare quel tipo di lavoro potrebbe darci la misura della sua disperazione.

Lo avete sentito tutti, no? Si è ritrovato a prendere una decisione terribile, che avrebbe cambiato e stravolto la vita a lui e ad Akira per sempre.

Da solo.

Senza potersi consigliare con nessuno.

Un ragazzino di 18 anni in balia dei propri sentimenti e delle proprie paure.

Che improvvisamente si ritrova da solo a gestire una situazione più grande di lui.

Sapendo di non poter contare sul suo miglior amico, con cui si era sempre consultato e confidato tutta la vita, perché la causa di tutto è proprio “quel migliore amico” che sente l’obbligo di salvare! -

A quelle parole Aki trasalì violentemente, i sensi di colpa che d’un tratto lo aggredivano suo malgrado.

-          Riuscite a immaginare in che stato di prostrazione e angoscia deve aver vissuto?

Se a distanza di sei anni le sue reazioni sono state quelle che abbiamo visto, che orrore interiore deve aver respirato in completa solitudine? –

-          E questo lo avrebbe autorizzato a prostituirsi? –

-          No, Hana, ma quando si è così disperati si fanno cose che normalmente non sarebbero concepibili.

Si può perdere la ragione e l’interesse per la vita stessa.

E credo che tutti abbiamo colto nel suo racconto l’angoscia e l’afflizione in cui ha vissuto.

-          Kimi ha ragione! – Si rese conto Hisashi rabbrividendo a ricordi che gli tornavano di colpo alla mente ascoltando le sue parole. – Abbiamo avuto la nostra parte di momenti bui nella vita.

E sappiamo bene che cosa vuol dire affrontare da soli cose troppo più grandi di noi in età in cui avremmo dovuto avere la spensieratezza e la leggerezza dell’adolescenza.

Io con i miei due anni da teppista di strada a soli 14 anni, quando mi sono perso per quel maledetto infortunio che aveva distrutto in un momento tutto il mio mondo.

Non ho mandato all’aria tutto, dimenticandomi delle persone che mi volevano bene solo perché troppo risucchiato nel mio dolore?

Tu, Hana… - Guardò l’amico, facendolo trasalire. - … quanto hai rischiato il punto di non ritorno dopo la morte di tuo padre, di cui ti sei sempre colpevolizzato?

In giro per strada ad azzuffarti con chiunque, rischiando la pelle peggio di me, pur di sfuggire alla tua angoscia?

Chi ci ha tirati fuori dal baratro con la forza del proprio amore per noi?

Senza farsi frenare dai casini che avevamo combinato e da quel che stavamo diventando?

Ingoiando repulsione, rabbia, condanna nei nostri confronti pur di salvarci?

Te lo ricordi no, Hana?

Ho massacrato di botte il mio Kimi nel tentativo di contrastare ogni suo sforzo nel tendermi il suo aiuto.

Perché avevo paura di lui e della sua determinazione.

Perché nella mia idiozia ero convinto di essere io il più forte, e invece lo era lui nella sua perseveranza.

Ma lui non si è fermato e non è indietreggiato di un passo.

Ha ingoiato il terrore che provava per la violenza che gli dimostravo, ostinato, finché non è riuscito ad aprire una breccia nel mio animo indurito e a riportarmi indietro.

Restituendomi alla mia vita.
Allo sport.

Avvolgendomi stretto nel suo amore.

 

E a te?

Chi ti ha sollevato dal macigno che ti schiacciava e ti aveva tolto la capacità di trovare una motivazione per continuare a vivere?

Non è stato Kaede, che per te è stato capace di uscire fuori dal suo mondo chiuso e isolato fatto solo di basket?

Che si è messo in discussione, stravolgendo il proprio carattere e la sua esistenza, pur di attrarre la tua attenzione e aiutarti a uscire dal tunnel della strada, offrendoti nuove ragioni di vita: se stesso e lo sport?

 

Se si fossero lasciati frenare dalle nostre debolezze e dalle nostre condotte deprecabili, ora forse…. Beh, forse non saremmo qui, insieme, a discuterne. –

D’improvviso si vide avvolgere da un abbraccio convulso dal suo ragazzo, commosso e sul punto di mettersi a piangere per le sue parole.

Subito lo accolse e lo strinse forte, un nodo che gli si formava in gola a sua volta.

-          Ti amo tanto, Sashi!! – Singhiozzò Kimi felice di essere stato compreso a pieno.

-          Tesoro, anch’io ti amo tanto… che avrei fatto senza di te!! –

Il momento di emozione colpì nel profondo tutti gli altri.

Kaede fece scivolare la mano sulla superficie di marmo per raggiungere quella di Hana e intrecciare forte le proprie dita con le sue.

Prontamente ricambiato dal compagno, che gli dedicò uno sguardo colmo d’amore e gratitudine.

Akira, dal canto suo, avvertì i propri propositi rafforzarsi.

Se ce l’avevano fatta loro, non sarebbe stato da meno.

Lo doveva a se stesso.

A Hiro.

Alla sofferenza che aveva avvinto lui e il compagno.

Alle loro vite troppo a lungo tormentate.

A qualunque costo.

 

-          Non ne abbiamo parlato. – Rispose alla prima domanda che gli era stata rivolta, traendo un profondo respiro. - …. Ma non permetterò che questa cosa ci rovini l’esistenza… per quanto mi dia fastidio…. è accaduta… quando e se lui vorrà, ne discuteremo… abbiamo tante cose di cui parlare… e allora capirò perché si è trovato in questa situazione assurda proprio lui. –

-          Sarà stato scioccante per te che ci sei cresciuto insieme. – Osservò Hisa stringendosi nelle spalle.

-          Scioccante è un termine riduttivo, ti assicuro! – Ammise Akira, sentendosi lo stomaco compresso in una morsa atroce.

Abbandonò la tazza del caffè ancora mezza piena e si alzò.

Tese le braccia in aria, stirando i muscoli indolenziti, poi si portò entrambe le mani alla testa. – Cazzo, che mal di capo! – Imprecò quasi incredulo.

-          E’ stata una giornataccia, perché non vai a riposare un po’ anche tu? – 

-          Mi sa che è quello che farò, Kimi… ci vediamo più tardi. –

Salutò con un gesto vago della mano e uscì nel corridoio senza guardare nessuno.

 

Trascorsero alcuni minuti nei quali nessuno parlò.

Ognuno assorto nei propri pensieri.

In un silenzio immobile, interrotto solo dal cinguettare degli uccellini che entrava dalle porte aperte sul giardino.

Poi la quiete venne infranta.

-          Chi lo rialzerà se questa storia va a farsi fottere? – Dalla voce scorata e preoccupata di Hanamichi.

-          Non essere così sfiduciato! – Replicò di rimando Kimi, in un botta e risposta che sembrò scattare a molla in un meccanismo inevitabile.

-          Sono due persone adulte: parleranno, si chiariranno e proveranno a riprendere da dove hanno lasciato. – Analizzò Hisashi, cercando di trovare supporto alle proprie parole negli occhi del suo ragazzo.

-          Si, sarà proprio così se i sentimenti che ancora provano l’un altro sono tanto forti come sembra. –

-          Sta accadendo tutto troppo in fretta! … Avete sentito, no? Se lo porta via senza nemmeno avergli domandato se è d’accordo… -

-          Non credo che se non lo volesse anche lui, Hiro sarebbe disposto a seguirlo. –

-          E che ne sappiamo? … Quello non ha mica tutte le rotelle a posto con tutti quei suoi ragionamenti contorti. –

-          Hana! – Cercò di riprenderlo Kaede.

Il giovane sbuffò esasperato.

-          Si, si, Kae, lo so che stai per dire, che Akira è adulto e vaccinato, che non ci dobbiamo impicciare più del dovuto… Ma se quel… quel… coso… -

-          Quel “coso” ha un nome, Hana, e dovremo rispettare le volontà di Aki se lo rivuole al suo fianco.

Perciò dovremo accoglierlo tra noi e imparare a conoscerlo e a metterlo a suo agio in futuro. –

-          Kaede ha ragione! – Rincarò Hisa annuendo convinto. – Se le cose andranno bene, farà parte della nostra famiglia anche lui, e come tale dovremo trattarlo, per rispetto ad Akira soprattutto. –

-          Se gli fa di nuovo del male, giuro che lo levo dalla faccia della terra!  E poi ammazzo Aki per non averci dato retta, e… – Imprecò il giocatore, aggiungendo altre invettive per buona misura.

Il marito gli tappò improvvisamente la bocca con un bacio mozzafiato che lo disorientò non poco.

-          Ne siamo sicuri, amore! – Lo ammonì affettuoso e lo ribaciò pur di tacitarlo una volta per tutte.

 

 

 Tresor

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

 

 

 

 

Quanto aveva dormito?

Hiro se lo chiese cercando di mettere a fuoco la stanza intorno a sé, ancora confuso dalle maglie del sonno.

Non era la sua camera.

Rifletté in prima istanza.

Cercò di raccogliere i pensieri e fare il punto della situazione prima che si addormentasse.

E subito ricordò.

Quella era la stanza di Akira.

E quello su cui era disteso il suo letto.

Ce lo aveva portato lui…

Quando?

… I ricordi lo avvilupparono tutti insieme cogliendolo impreparato ad affrontarli.

Fotogrammi delle ultime ore gli affollarono la testa uno dietro l’altro, repentini e in tutta la loro cruda violenza.

Le accuse di Hanamichi.

I suoi tentativi di smarcarsi prima e di controbattere dopo.

L’ansia e il terrore.

Il dolore e l’avvilimento.

La paura di trovarsi faccia a faccia con Akira e le verità rivelate.

Gli mancò il respiro mentre il cuore gli faceva un balzo al centro del petto, trafiggendolo spietato e gelido con la stilettata che tanto gli era familiare.

Aki che sapeva tutto adesso.

Che lo aveva riaccolto nel suo abbraccio malgrado tutto.

Che lo chiamava “amore mio”.

Che lo baciava e lo eccitava.

Che lo rivoleva nella propria esistenza.

Di nuovo.

Malgrado tutto.

 

Richiuse gli occhi, serrandoli come se così facendo avesse potuto rimandare il tempo indietro.

Cancellare ogni cosa.

Ritornare all’attimo esatto in cui aveva avuto la brillante idea di aspettarlo alla finestra mentre accompagnava l’amico alla macchina.

Lo sguardo sognante che non riusciva a tenere per sé e che aveva scatenato l’aggressione del padrone di casa.

 

Ma non funzionò.

 

Se ne accorse sgomento quando la solita vocina insolente e spietata gli urlò in faccia che stava perdendo il suo tempo e che tutto era davvero accaduto.

Che non poteva cancellarlo semplicemente chiudendo gli occhi e desiderando di non essere lì.

Mica era così facile?

No, non lo era proprio per nulla.

Li riaprì angosciato e si girò.

E allora lo vide.

Akira era disteso al suo fianco, sull’altro lato del letto, profondamente addormentato.

 

Trasalì violentemente, colto impreparato.

Non se ne era andato.

Era rimasto lì con lui tutto quel tempo?

Eppure era sicuro che a un certo punto fosse uscito, poco prima che lui cadesse preda di un sonno esausto.

Se ne ricordava bene.

Dopo quel bacio struggente e meraviglioso.

Dopo essere rimasti abbracciati un momento lunghissimo.

Era stato riaccompagnato sul letto, stremato dalle troppe emozioni, e per un po’, accanto a lui, Aki gli aveva accarezzato la schiena in un massaggio lieve e rilassante, che pian piano lo aveva cullato.

E mentre le maglie del assopimento lo intrappolavano invitanti, lo aveva sentito alzarsi e uscire dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle in silenzio.

 

E ora era di nuovo lì, accanto a sé.

 

Rimase immobile a guardarlo.

Rapito.

Akira dormiva, supino, il braccio sinistro abbandonato sull’addome, quello destro ripiegato all’indietro sul cuscino, la testa girata di tre quarti verso di lui.

Un’espressione serena che gli distendeva i bellissimi tratti del volto.

La bocca appena schiusa.

 

Hiro rimase incantato, suo malgrado.

Era un uomo quello che gli stava accanto.

Non più il ragazzo che aveva lasciato andare via, sempre alto, sempre bello.

Ma un uomo fatto.

Il corpo più definito, massiccio, slanciato.

Maturo e possente.

Gli stretti jeans neri gli fasciavano le lunghissime gambe, e la leggera maglia di cotone color crema sottolineava ogni piega dei muscoli, modellati da anni di allenamento, e ricadeva morbida sul suo ventre piatto.

Le sue belle mani dalle lunghe dita, curate e candide come la sua pelle.

Quelle dita che sapevano essere leggere e invadenti, capaci di mandarlo in confusione o di accarezzarlo con devozione.

Che sapevano fargli male ed eccitarlo.

E quel suo volto perfetto, senza neppure un’imprecisione, mascolino e affascinante.

Su cui era sparita ogni traccia di adolescenza.

Con quegli occhi del blu cobalto più singolare che avesse mai visto.

Capaci di passare da una sfumatura chiara a una scura e cupa a seconda delle emozioni che attraversavano il loro proprietario.

Dal taglio allungato, che gli conferiva uno sguardo ipnotico e sconvolgente.

A cui non aveva mai saputo resistere fin da bambino.

Il naso dritto, altrettanto perfetto.

E le labbra che sembravano disegnate, carnose e rosee.

E morbide e dolci.

 

Gli si rimescolò lo stomaco mentre le fissava ammaliato, percependo mille brividi lungo la schiena al ricordo di quanto potessero essere insolenti e invadenti.

O lievi e gentili.

 

Deglutì un nodo che, dispettoso, gli si formò in gola.

Poteva permettersi il lusso di pensare che quel giovane e meraviglioso uomo potesse essere, di nuovo, suo?

 

Non osò.

Terrorizzato.

 

Il senso di inadeguatezza e di indegnità ritornò ad aggredirlo, serpeggiandogli sotto la pelle, viscido e freddo.

 La stessa, identica, medesima sensazione che aveva provato da ragazzino, quando si era scoperto innamorato di lui.

Solo per ragioni diverse.

Drasticamente differenti.

 

Possibile potersi sentire di nuovo parte di quel dio perfetto e altero, che guardava lui, piccolo, sporco, essere inutile e ignobile come fosse stato la cosa più desiderabile?

 

Che doveva fare?

Rimanere lì e provare a crederci?

O alzarsi e scappare, adesso, in quel momento in cui non avrebbe potuto fermarlo?

 

Se avesse deciso di restare avrebbe dovuto affrontare sconvolgimenti a cui non era preparato e di cui non aveva la più pallida idea.

E non erano quelli di natura logistica o pratica a spaventarlo.

Come cambiare esistenza, paese, casa.

Erano le implicazioni sentimentali a mandarlo in panico.

Dover recuperare e confrontare sei anni di vita, impossibili da cancellare o rivalutare.

Conviverci e subirne le conseguenze che, malgrado ogni tentativo, si sarebbero manifestate in futuro.

 

Sei anni di vita che aveva condotto, letteralmente sul marciapiede.

Sebbene quel marciapiede fosse stato rappresentato da sconosciute camere da letto.

Non se li poteva buttare semplicemente alle spalle, sbattendo una porta.

Avrebbero pesato e creato chissà quali danni.

 

Erano un peccato troppo grave per poterlo relegare a ricordo di un periodo sbagliato della propria esistenza.

Sperare che non avesse influito sulla loro possibile vita futura insieme era un’assurda utopia.

Non era così folle da non esserne cosciente.

 

Ma, al contrario, andarsene, avrebbe provocato un’unica, irrevocabile conseguenza a quel punto.

 

Morire.

 

Non avrebbe retto, lo sapeva altrettanto bene.

Era una consapevolezza cruda e drastica.

Ma oggettiva.

 

Uscire di lì e allontanarsi dal fulcro intorno a cui aveva sempre ruotato tutta la sua vita, nei giorni spensierati come in quelli bui, avrebbe significato mettervi fine una volta e per tutte.

 

E lo avrebbe fatto: fosse stato giù da un ponte o sotto un treno.

 

Senza di lui non avrebbe più potuto pensarsi in quel mondo, mai più.

Non adesso.

Non dopo che finalmente erano riusciti a parlarsi di nuovo.

 

Rabbrividì di terrore.

Che doveva fare?

 

Era solo con se stesso per l’ennesima volta.

Solo con le proprie paure e incertezze.

 

O no?

 

Tornò a concentrarsi sull’oggetto dei suoi pensieri caotici.

Quanto bello era?

Piano mosse una mano per cancellare la minima distanza che li separava, raggiungendo quella che Akira teneva sul cuscino accanto alla testa, il palmo aperto come in un muto invito.

Si fermò a pochi millimetri da esso, spaventato di toccarlo e rischiare di svegliarlo.

Avrebbe voluto affondarvi le dita e intrecciarle con le proprie.

E non azzardò.

Si accontentò di percepirne il lieve tepore: andava bene lo stesso.

Sospirò inquieto.

 

Ma così perso nella sua piccola bolla di effimera felicità, non si accorse di quanto il proprio desiderio si trasformasse improvvisamente in realtà se non quando le lunghe dita di Akira davvero si insinuarono tra le sue, paralizzate a mezz’aria, e si chiusero su di esse, intrappolandole in una morsa prepotente e tenera.

Due polle blu scurissime gli si appuntarono addosso, oltrepassando pelle e ossa e conficcandosi nel profondo.

-          Ciao, amore mio! –

Tre parole, “quelle” parole, sussurrate a fior di labbra e un unico, fluido movimento per avvicinarsi a lui e abbracciarlo tutto contro di sé.

Hiro si ritrovò chiuso in un bozzolo caldo e protettivo e possessivo tra le lenzuola e il corpo del dio risvegliato.

E si dimenticò di inspirare.

 

Non poteva più fuggire.

 

-          Respira, amore! – Gli comandò la voce giocosa di lui.

-          Io… scusami, non ti volevo svegliare! – Provò a dire.

Ma non sentì la propria voce.

Ne l’ossigeno che gli tornava con difficoltà nei polmoni.

Aki gli sorrise e gli diede un lieve bacio.

-          Ero sveglio da qualche minuto. – Gli svelò. -… Cercavo di sentire i tuoi pensieri! –

Hiro sussultò spaventato.

-          Io… -

-          Non avere paura, amore mio, andrà tutto bene, te lo prometto!  -

Sembrò che davvero avesse “sentito” le sue riflessioni ingarbugliate.

Ma non ne rimase sconvolto come avrebbe dovuto.

In fondo non si erano sempre capiti senza troppe parole?

Questa consapevolezza infuse una sorta di cauto lenimento alle proprie ferite, facendolo sentire appena meglio.

 

Forse non era solo come pensava.

Forse non era tutto perduto e rovinato.

Forse…

Si accorse di essere rimasto rigido nel suo abbraccio.

Allora si rilassò, solo un poco, cautamente, sempre frenato dall’insicurezza che percepiva a fior di pelle e di cui non riusciva a liberarsi.

In risposta la stretta di Akira si fece un po’ più decisa, mentre una delle mani partiva in un lieve massaggio lungo la sua schiena tesa.

Sotto quello sguardo indagatore che non lo lasciava un istante, raccolse un profondo respiro e piegò la testa per nascondere il volto contro il suo collo.

Era ancora troppo difficile reggerlo senza provare inevitabilmente imbarazzo e vergogna.

Forse col tempo… sarebbe riuscito.

Adesso…

…. Era troppo presto!

L’uomo sorrise ai suoi capelli e se lo strinse ancor più addosso, intrappolando anche le sue gambe con le proprie.

-          Rilassati, sei al sicuro. –

-          Ho paura… tanta… -

-          Perché? –

Sussurri di parole nella camera silenziosa.

Hiro scosse il capo, provocando uno sfregamento contro la sua pelle tiepida.

Rabbrividì di nuovo senza poterci far niente.

-          Non lo so! – Sospirò affranto. – Non ce la faccio… -

-          A far cosa? –

-          A superare tutto questo… non capisco se è un incubo o un sogno… ho solo paura. –

-          E se fosse semplicemente la realtà? –

-          La fai sempre facile tu. –

-          E’ facile: basta andare avanti e vedere che succede, piccolo!! –

Hiro saltò su di colpo, sconvolto.

Afferrò la maglia con entrambe le mani, costringendo Akira ad allentare l’abbraccio e a fissarlo un po’ sorpreso.

-          Guardami in faccia… - Gli sibilò, gli occhi di nuovo pericolosamente colmi di lacrime.

-          Ti sto guardando, Hiro, e sei bellissimo. –

-          Ohhhh, ti prego, basta! –

Come poteva fargli capire?

-          Vuoi ricominciare a litigare? –

-          No… non voglio litigare… sono stanco! –

-          Anch’io sono stanco. Questa giornata non vuol finire a quanto pare. – Replicò Akira amareggiato.

Hiro s’ammutolì all’istante.

Aveva ragione.

Erano ore che andava avanti quella specie di stillicidio.

Parole, a fiumi, che si riversavano tra loro, sfiancandoli.

Si era fatta sera.

Sarebbe mai finito quel giorno o ne avrebbero avuto ancora per il resto della notte?

-          Possiamo andar via?  - Gli chiese, la voce ridotta a una flebile, esausta preghiera.

-          Torniamo in albergo, vuoi? –

-          Si, per favore, non ce la faccio più a stare qui. –

-          D’accordo, andiamo allora, forse ti sentirai meglio. –

Il ragazzo annuì grato.

Poi si accorse che aveva ancora le mani attaccate al tessuto della sua canotta e le ritrasse di scatto.

-          Scusa! –

Lui gli sorrise indulgente.

-          Puoi tenerla se ti fa piacere! – Lo prese in giro.

Ricevendo in cambio un’occhiata inceneritrice che lo fece scoppiare a ridere.

Lo sciolse dal proprio abbraccio e scivolò giù dal letto, porgendogli la mano per fare altrettanto.

Hiro accettò in automatico, ritrovandosi messo in piedi con un sol gesto, vicinissimo al suo fianco.

Lo guardò da sotto in su un lunghissimo istante, un poco scombussolato dallo sguardo sempre dolce e adorante del compagno.

Infine si sottrasse e si liberò dalla sua presa.

-          Ho bisogno di cambiarmi. – Balbettò, arrossendo di colpo al ricordo dello stato in cui era rimasto dopo l’imprevista, sconvolgente reazione che aveva avuto il suo corpo prima che si addormentasse.

E uscì quasi di corsa dalla stanza.

Akira scosse il capo continuando a ridere per quel pudore ingiustificato e al tempo stesso così incantevole da rimescolargli il sangue d’eccitazione.

 

 

Tresor

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

 

 

 

Qualche tempo dopo scendevano entrambi dalla scala centrale per raggiungere il piano terra e salutare.

Il primo che incontrarono fu Kaede, che in quel momento stava rientrando dalla porta sul giardino.

Era in tuta e accaldato, mentre si detergeva una guancia con un asciugamano di spugna blu chiaro.

-          Hey! – Lo salutò Akira, mentre Hiro rimaneva qualche metro indietro insieme al trolley che stava portando con sé, come a volersi nascondere.

Di lì a qualche istante sopraggiunsero anche gli altri della compagnia, anch’essi sudati e un po’ su di giri.

-          Aki! – Lo accolse Hanamichi, con una pacca sulle spalle. – Siamo andati a fare due tiri in palestra, tanto per non perdere l’abitudine. –

-          E tu avrai sicuramente perso. – Lo provocò l’amico con un sorriso sornione stampato in faccia, certo della sua reazione.

Che esplose all’istante: il giocatore saltò su afferrandolo malamente per il colletto della camicia e diventando scarlatto.

-          Checccossa dici, brutto bastardo, io non posso perdere! – Ruggì sfondando i timpani di tutti i presenti con i decibel della propria melodica voce.

Tuttavia fu chiaro a tutti, al suo obiettivo per primo, che non c’era né forza bruta nella sua presa, né livore nel tono.

Era solo il solito gioco di sfottò che era diventato il rito preferito di tutti.

Soltanto Hiroaki sobbalzò spaventato a quella presunta aggressione,

Non aveva certo dimenticato quanto Hana fosse facilmente infiammabile anche da ragazzino, suscettibile e pronto a fare a botte con chiunque lo provocasse.

Kaede passò accanto al suo compagno, gli diede uno schiaffo sul sedere, e andò oltre.

-          E’ stato bravo! – Buttò là casuale e atono, noncurante quasi.

Hana si ringalluzzì immediatamente, mollando la presa su Akira, e scoppiò a ridere, tutto felice che il suo uomo gli avesse manifestato il proprio riconoscimento pubblicamente, visto che per indole era palesemente restio a simili complimenti.

-          Ve ne andate? – Esordì Hisashi, passando lo sguardo da Akira a Hiro, che sfuggiva tutti tenendo il capo rivolto altrove, e ritornando a concentrarsi sul primo.

L’amico annuì con un lieve sorriso.

-          Davvero non volete restare? – Fece Kaede, soffermandosi sul compagno di squadra e sul suo ragazzo.

Che però non volle incontrare il suo sguardo.

-          Grazie, ma preferiamo tornare in hotel per ora. – Rispose Akira per entrambi.

Hana lo fissò qualche istante, ovviamente consapevole delle motivazioni di quella partenza.

Gli dispiaceva.

Anche se capiva.

Akira ricambiò il suo sguardo con un’espressione serena disegnata sul volto, come a sottolineare che non provava alcun risentimento nei suoi confronti per quel che era successo.

Ed era sincero.

-          Noi siamo qua. – Volle rassicurarlo.

-          - Ci sentiamo nei prossimi giorni. – Promise lui.

Hana lo attirò a sé con il braccio sinistro, abbracciandolo d’impulso in una stretta brusca e affettuosa, prontamente ricambiato dall’amico.

Poi, lo aggirò e si diresse verso Hiroaki, rimasto impalato indietro.

Il quale, nel vederlo avvicinarsi, trasalì terrorizzato e provò l’impulso di fare un passo indietro come a cercare una via di fuga da un suo possibile assalto.

Per un momento l’aria, in effetti, si cristallizzò intorno a loro.

Akira girò su se stesso, ma non si mosse subito, sicuro che non ci fosse alcun pericolo.

-          Spero accetterai le mie scuse per quel che è successo oggi. – Attaccò Hanamichi, il timbro di voce insolitamente serio e posato.

Hiro lo fissò poco conciliante e non si curò certo di nasconderlo.

-          Non sto dicendo che non pensavo tutte le cose che ti ho detto.

Le pensavo e le penso. – Il giovane sgranò gli occhi allibito da tanta sfrontatezza. – Devi capire, Hiro, Aki è un caro amico, e vederlo star male e come far male di conseguenza anche a noi.

In questi anni abbiamo imparato a sostenerci e soccorrerci quando abbiamo avuto bisogno l’uno dell’altro.

Questo ha significato molto vivendo in una terra straniera.

E quando uno di noi ha qualche problema, tutti noi altri reagiamo d’istinto.

Perciò il casino di oggi era quasi inevitabile per come la vedo io.

Ciò non toglie che ognuno di noi gestisce la propria vita in totale libertà.

E gli altri ne rispettano le scelte, anche quando non le condividono.

Aki è parte della nostra famiglia, chi lo tocca deve fare i conti con gli altri. –

Quelle parole suonarono come una minaccia alle orecchie di Hiro.

Tuttavia continuò a rimanere in silenzio.

Intanto Kaede s’era avvicinato al marito come a voler mitigare il suo tono vagamente intimidatorio.

_ Quel che vuol dire Hana… - Prese la parola, passando un braccio intorno alla vita del compagno, che lo lasciò volentieri proseguire. - … è che, qualunque cosa decidiate tu e Akira, sei il benvenuto tra noi.

Il tempo aiuterà tutti noi a capirci e, spero, a dimenticare questo giorno… se tu vuoi! –

Hiro fece un cenno di assenso con il capo, ma non disse niente.

Voleva solo andare via.

Non aveva la serenità necessaria per dare il giusto valore alle parole che gli venivano rivolte, anche se, ne era convinto, fossero in buona fede.

E per questo preferì non rispondere.

Akira lo trasse d’impaccio, prendendolo per mano, intrecciò le dita con le sue e le strinse forte come a rassicurarlo che andava tutto bene.

-          Grazie, ragazzi… di tutto. – Rispose per entrambi. – Buonanotte. –

Guidò il compagno fuori dalla porta fin sotto il portico.

Per un attimo fu tentato di chiedergli di aspettarlo lì mentre andava in rimessa a tirar fuori l’auto.

Ma poi ritenne non fosse il caso di lasciarlo da solo con gli altri, e se lo tirò dietro, lui e il suo trolley, fino al garage sul retro.

 

Sistemati i bagagli, gli aprì la portiera, invitandolo a sedersi.

Hiro obbedì, sempre turbato da quel gesto galante.

Dopo di che lo vide mettersi alla guida, accendere il motore, che subito rombò furioso nel silenzio della sera, e la fuoriserie scivolò liquida e potente sul vialetto fino al cancello, che si stava aprendo, e uscì in strada.

 

Trascorsero diversi minuti, ognuno chiuso nei propri pensieri.

Akira concentrato sulla strada, la luce azzurra del cruscotto che creava misteriosi e inquietanti arabeschi sul suo volto.

Hiro, la testa girata appena verso il finestrino a fissare il paesaggio scuro che scorreva fuori rapido man mano che la vettura acquistava velocità.

Dopo un po’ si sentì posare una mano sul ginocchio ed ebbe un lieve trasalimento, sorpreso.

Portò l’attenzione a quel gesto, scorgendo le dita dell’uomo ferme sulla stoffa dei suoi jeans.

Il calore del contatto gli si propagò lungo tutto l’arto, soffondendogli di brividi la pelle, e gli suscitò al tempo stesso ansia e conforto.

Trovò il coraggio di ruotare ancora un poco il capo nella sua direzione, ma lui continuava a fissare la strada, intento a dar fondo all’acceleratore.

Rifletté che quell’auto gli metteva addosso una sorta di inquietudine quando la spingeva a velocità sempre crescente.

Ma non era la voracità con cui bruciava l’asfalto a spaventarlo, quanto il fatto che Akira lo faceva quando non era tranquillo.

Aveva imparato a intuirlo in quelle settimane passate insieme.

Semplicemente standogli accanto e percependo il mutamento di luce sul suo viso o nei suoi occhi espressivi.

E ora, nelle ombre dell’abitacolo, in cui le uniche luci erano quelle della strumentazione, l’espressione che gli leggeva mentre osservava il suo profilo perfetto, gli suggerivano che era tutto tranne che sereno.

D’istinto portò la propria mano vicino alla sua.

Aki la ghermì impossessandosene, seppur con un movimento controllato, e si mosse un po’ più su, fermandosi sulla coscia.

Hiro percepì la stretta convulsa e ne ebbe timore.

Tuttavia non disse niente.

Soltanto scivolò un poco sul fianco andando a reclinare la testa sulla sua spalla.

Il compagno non ebbe alcuna reazione evidente, ma in risposta la velocità della Porche si ridusse quel tanto da non essere più minacciosa.
Il ragazzo provò un istantaneo sollievo e rimase in quella posizione per tutto il tragitto fino alla capitale, istintivamente persuaso di aver calmato un poco il suo animo.

 

Tresor

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

 

 

 

Davanti all’ingresso dell’hotel, un addetto del personale li salutò e prese in consegna la fuoriserie per portarla in garage, mentre i due passeggeri scendevano con i bagagli e si avviavano verso uno degli ascensori di vetro.

 

La card magnetica fece scattare la serratura della porta della suite nel silenzio del lungo corridoio.

Si richiuse alle loro spalle intanto che le luci si accendevano automaticamente.

Akira abbandonò il proprio trolley nei pressi e seguì con lo sguardo Hiro che avanzava più in là.

Il ragazzo si guardò intorno come a sincerarsi che tutto fosse rimasto come l’avevano lasciando partendo qualche giorno prima.

Si fermò davanti alla grande vetrata che dava sullo skyline della città, immersa nel buio della notte e nelle mille luci degli altri grattacieli.

E non lo sentì raggiungerlo, i passi ovattati dalla moquette.

Se non quando la voce dell’uomo gli fu a pochi centimetri dall’orecchio, mandandogli un brivido traditore lungo la schiena.

-          Vuoi uscire a cena fuori o preferisci che ordiniamo qui? – Si sentì chiedere in un semplice sussurro.

Incontrò l’immagine di Akira che si rifletteva sulla superficie lucida del vetro.

-          Preferirei rimanere qui, se per te fa lo stesso. – Espresse a bassa voce, fissandolo soltanto un momento. – Non ho voglia di stare in mezzo alla gente. -       

Lui gli sorrise.

-          D’accordo, chiamo il servizio in camera. Vuoi qualcosa in particolare? –

-          Decidi tu, va bene lo stesso. –

L’immagine rifratta assentì e si allontanò.

 

Hiro sospirò, un peso immane sul petto a schiacciarlo.

Sentì la voce profonda e sicura di Akira che parlava con qualcuno al telefono.

Non aveva fame, a dire il vero, lo stomaco ancora stritolato dalla morsa permanente che non lo aveva lasciato un istante in quella lunga giornata.

Ma avrebbe fatto finta di piluccare qualcosa tanto per non deludere le aspettative del proprio ospite.

In realtà l’unica cosa che davvero desiderava con tutto il cuore a quel punto era chiudersi nella stanza che gli era stata assegnata e andare a dormire, provando a escludere ogni brutto pensiero fosse stato anche con l’aiuto di un sonnifero.

 

Tuttavia fu consapevole, nell’istante in cui formulò quel desiderio in sé, che la sua sarebbe rimasta una misera e impossibile ambizione.

Sarebbe stata una lunga notte, si disse sgomento e rassegnato.

 

Qualcuno bussò alla porta parecchi minuti dopo.

Un addetto al piano condusse il carrello della cena in stanza appena Akira andò ad aprire.

Fu cordialmente licenziato e la porta si richiuse.

Hiro registrò appena i rumori alle sue spalle, paralizzato lì dove si era fermato, rifiutandosi mentalmente di distinguere le immagini che pur scorrevano sulla superficie scura davanti a sé, come fosse stato un enorme schermo, rincorrendo le luci esterne piuttosto che quelle all’interno.

 

Suo malgrado, però scorse la figura alta e slanciata di Akira che gli ritornava alle spalle.

Doveva essersi cambiato perché adesso indossava i pantaloni scuri del pigiama e la camicia dello stesso, lasciata negligentemente aperta a mostrare la pelle scolpita del torace e degli addominali.

E a piedi nudi avanzava per raggiungerlo.

Il ragazzo non poté impedirsi di provare un violento rimescolamento all’altezza dello stomaco, sconvolto irrimediabilmente da quell’immagine ammaliante.

Per l’ennesima volta in tutti quei giorni insieme, si domandò se Aki fosse consapevole del proprio fascino e lo usasse con deliberata provocazione.

O, più probabile, se ancora da qualche parte era rimasto quello che lui ricordava, era semplicemente naturale e incurante dell’effetto che faceva il suo corpo impunemente mostrato.

 

Raccolse un profondo respiro, tentando di trovare il coraggio di tenere a freno le proprie emozioni, ma non ne fu molto sicuro, mentre girava su se stesso per ritrovarselo non più riflesso, ma davanti in tutta la sua sfrontata invadenza.

-          E’ pronto, vuoi venire? –

Si sentì chiedere da un sorridente Akira, ignaro del suo stato d’animo.

Hiro inghiottì aria e fece un cenno impercettibile con la testa.

Lo seguì, lo stomaco sempre più chiuso e dolorante, e un imprevisto, imbarazzante irrigidimento delle sue parti basse.

Pregò disperatamente che lui non se ne accorgesse.

 

Sull’immenso tavolino di cristallo, davanti al divano, erano stati deposti due vassoi con del sushi, disposto ad arte da mani sapienti, due calici e una bottiglia di vino bianco di una nota marca.

-          Ho pensato che volessi qualcosa di leggero. –

-          Grazie, va bene. –

-          Non vuoi metterti più comodo prima di mangiare? –

Il ragazzo non seppe come interpretare le sue parole.

Si limitò a scuotere il capo.

Akira non aggiunse altro, gli fece un gesto con la mano per invitarlo a sedersi.

Lo vide accomodarsi sull’orlo della penisola del divano, lontano da dove sarebbe stato logico prender posto, e cioè davanti al tavolino, ma non glielo fece notare.

 

Tempo e spazio.

 

Si impose, paziente, e sedette a sua volta poco distante, deciso a concedergli tutto il tempo che gli serviva e a non invadere troppo il suo spazio per non soffocarlo.

Perché, lo vedeva, Hiro sembrava muoversi come su un campo minato, concedendosi di respirare lo stretto necessario per pompare aria sufficiente nei polmoni.

E non riusciva a rilassarsi.

Completamente.

Nemmeno nel loro viaggio di ritorno, quando gli si era accoccolato sulla spalla, lo aveva sentito lasciarsi andare.

Anzi, ancora si sorprendeva del suo gesto.

Ma ne era stato felice, malgrado il suo disagio fosse palpabile.

 

Tempo e spazio.

Si ripeté silenziosamente come un mantra.

Sapeva che ricondurlo a sé non sarebbe stata impresa facile.

Troppe barriere.

Troppe parole ancora da dire.

Troppe verità da pronunciare.

Non tutte quella sera.

Non tutte insieme almeno.

 

-          Hiro? – Lo chiamò piano.

Il giovane trasalì e lo guardò.

-          Scusami, ho dimenticato di lavarmi le mani. – Scattò più nervoso di quanto avesse previsto.

-          O.. ok, ti aspetto! –

Lo vide rimettersi in piedi e avviarsi verso il corridoio.

Quando scomparve alla vista, sprofondò nel divano, lasciandosi andare contro la spalliera.

Con una mano cercò il telecomando delle luci che aveva lanciato lì vicino, e regolò l’illuminazione, diminuendone l’intensità.

L’immensa stanza cadde in una penombra accogliente e meno invasiva.

Si dispose ad attendere.

 

L’acqua scorse fresca e rapida dal rubinetto del lavandino, appena fu sfiorata la fotocellula sensibile.

Hiro si lavò le mani e si rinfrescò il viso accaldato, sperando così di raffreddare il resto del proprio corpo agitato.

Il getto si arrestò nel momento in cui si allontanò e il liquido trasparente mulinò nello scarico.

Sollevò lo sguardo all’enorme superficie riflettente davanti a sé e l’immagine che lo specchio gli sbatté in faccia non gli piacque granché.

Aveva gli occhi arrossati e stanchi, con delle occhiaie paurose.

La pelle pallida e tirata.

Le labbra esangui e serrate.

Faceva schifo.

Giudicò impietoso, distogliendo gli occhi.

Puntò le mani sul bordo della vaschetta di porcellana, fece un passo indietro, incurvandosi e lasciò cadere la testa pesante in avanti.

Non se la sentiva di ritornare subito di là: percepiva chiaramente il proprio corpo stravolto da una serpeggiante eccitazione che gli pizzicava la pelle.

Ogni terminazione nervosa risvegliata da una violenta ondata di calore che si propagava dalla punta dei piedi, risaliva rapida e si concentrava come una bolla urgente e pulsante tra le gambe, rendendogli improvvisamente i pantaloni troppo stretti e l’erezione dolorosa.

L’immagine di Akira stampata nel cervello, bello e seminudo, e ignaro, e quel suo profumo familiare e sottile, inusitatamente gli risvegliava sensazioni che non provava più da anni.

Che non aveva più provato per nessuno dopo che era rimasto solo, neppure per qualcuno dei clienti che si erano succeduti in agenzia.

Quel piacere strisciante, insinuante e sconvolgente che aveva provato quell’unica, indimenticabile, volta e che nessun altro uomo era stato in grado di replicare, ora lo aggrediva cogliendolo drammaticamente impreparato.

Negli anni era stato un susseguirsi meccanico di reazioni automatiche, indotte dalla mera stimolazione fisica di mani e corpi sconosciuti, durante centinaia di amplessi tutti uguali e insignificanti pur nelle loro variabili, che non erano mai riusciti a raggiungere e toccare la sua mente, e meno che mai il suo cuore.

Quante volte aveva pensato incurante di essere diventato impotente e insensibile, a dispetto delle risposte del proprio corpo?

E adesso, eccola di nuovo, “quella” sensazione che gli esplodeva dentro, avvolgendolo come una fiamma, e distruggeva ogni convinzione cementata nel tempo.

Eccola, percepirla e provarla ancora e soltanto per l’unica persona che l’aveva creata per lui, gliel’aveva fatta assaporare e gliel’aveva piantata dentro, conficcandola nel profondo come la lama di un pugnale affilato.

Il cuore aumentò i battiti, suscitandogli un lieve mancamento.

Doveva esserne felice o spaventarsene?

Non seppe deciderlo.

L’unica cosa di cui era certo in quel momento era la tempesta che si era scatenata dentro di sé e l’inadeguatezza a disciplinarla.

Semplicemente perché non era preparato.

 

Così si prese qualche minuto.

Il tempo di darsi una calmata.

Si disse nel tentativo di convincersi a riprendere il controllo di sé.

Perché malgrado tutto, in quel momento, nello stato di prostrazione in cui era, sfinito dalle mille emozioni di quella giornata assurda, non avrebbe voluto che accadesse nulla tra loro.

Per quanto una parte di sé lo desiderasse costantemente, soverchiando la ragione e il buonsenso.

Non DOVEVA accadere nulla.

Anche se lui lo provocava, sebbene involontariamente – o no? – mostrandosi con quel pigiama nero che nulla lasciava all’immaginazione, rilucendo sulla sua pelle bianca e perfetta.

 

Non DOVEVA!

 

Infine si tirò su e raccolse un altro, l’ennesimo, profondo respiro.

Le condizioni non erano migliorate granché, ma forse poteva azzardare a mostrarsi senza suscitare l’attenzione della causa di tutti i suoi guai.

Se lo ripeté mentalmente mentre gettava un’ultima occhiata ostile alla propria immagine riflessa.

Si passò le dita tra i capelli per darvi un senso, ma le ciocche ribelli non vollero intendere e alcune gli ricaddero sulla fronte.

Le ignorò prima di cedere all’impulso irrazionale e rabbioso di strapparsele e uscì dalla stanza.

 

Sgomento si ritrovò Akira a pochi passi da lui e trasalì vistosamente.

-          Scusa, non volevo spaventarti, è che stavo venendo a vedere che fosse tutto a posto: sei stato chiuso dentro per parecchio tempo. –

La sua risata leggera, mentre gli parlava, gli riscaldò il cuore per un istante, facendogli dimenticare lo spavento.

-          Mi spiace, non mi ero accorto! – Mentì in un sussurro, subito distogliendo lo sguardo.

Il giocatore gli fece scorrere un braccio intorno alle spalle, avvicinandolo un poco a sé, e lo sospinse gentile a seguirlo.

La seta nera scivolò appena di lato con il movimento dell’arto, scoprendogli parte del torace: una folata di profumo avvolse il ragazzo come un secondo, impalpabile abbraccio, mandandogli i sensi in ulteriore confusione.

-          Stai bene, si? –

-          Si, grazie. – Ma il cuore di Hiro riprese a battere impazzito al centro del petto.

Di quel passo non sarebbe sopravvissuto, pensò, curandosi di non fissarlo.

Sedettero vicini sul morbido divano e solo allora si accorse che l’atmosfera era mutata dalle luci abbassate.

Di male in peggio!

-          Mangia qualcosa, ti prego, è tutto il giorno che non tocchi praticamente nulla. – Gli chiese Akira, offrendogli un piatto colmo di sushi.

Lui lo prese meccanicamente e se lo poggiò sulle gambe unite.

Per un momento ne fissò il contenuto chiedendosi che cosa farne, quasi avesse dimenticato il significato stesso di quel che aveva davanti.

Poi scacciò quell’assurdo interrogativo e prese un quadratino di pesce con le dita portandoselo alla bocca.

Lo masticò piano, lasciando che il cervello ne recepisse il gusto e la consistenza.

E si accorse che rimanevano quasi indifferenti, lui, la testa e lo stomaco, malgrado, ne era certo, sapesse che quel sushi fosse della miglior qualità e costasse anche uno sproposito.

Pur inappetente, si sforzò di mandar giù qualche boccone in più, giusto per non provocare ulteriore attenzione da parte del compagno, che era rimasto a fissarlo con un sorriso d’incoraggiamento disegnato sulla bella bocca.

-          E’ buonissimo. – Mormorò, sentendosi in dovere di commentare.

-          Sono contento che ti piaccia. – Approvò Aki annuendo felice.

Stette a guardarlo mangiare per qualche minuto, seguendo ogni suo gesto.

Dopo un po’ gli scostò una ciocca di capelli dalla guancia, portandogliela dietro l’orecchio, dove la sistemò perché stesse ferma.

E lasciò che le dita indugiassero sulla sericità e la morbidezza di quella porzione di pelle.

Hiro si arrestò turbato e dal gesto e dal tepore che gli stava trasmettendo alla guancia.

-          Ti stanno bene i capelli così. – Sussurrò l’uomo con un tono di voce più basso, accarezzandolo con uno sguardo colmo di affetto. – Non li hai mai portati tanto lunghi. –

-          Gr… grazie. –

-          Ti senti un po’ più tranquillo, amore mio? –

Il giovane deglutì a vuoto: ogni volta che sentiva pronunciare quelle due parole era una stoccata nelle costole.

Ed erano dolore e felicità al tempo stesso: gli piaceva così tanto chiamarlo in quel modo.

Gli era sempre piaciuto fin da quando si erano dichiarati la prima volta.

Gli sovvenne il ricordo traditore.

Istintivamente reclinò appena la testa verso la sua carezza morbida, lasciando che la guancia strusciasse contro i polpastrelli, ma non disse nulla, ben consapevole che qualunque cosa avesse risposto, sarebbe stata una bugia, ‘che non era tranquillo proprio per niente.

Aki si chinò su di lui, sfiorandogli le labbra con un bacio, assaporando lui e il gusto del sushi che gliele inumidiva.

 

Pietà!

 

Implorò Hiro dentro di sé, disperato, non osando fare un solo fiato.

Lo sentì ridere d’un tratto a un soffio dalla sua bocca.

-          Respira, piccolo, respira! – Gli disse sempre più sensuale.

-          Non prendermi in giro! –

-          Non lo farei mai. – Il blu cobalto delle iridi piantate nelle sue dilatate dall’ansia.

-          Stai ridendo di me. –

-          Non è vero, sei delizioso! - 

-          E tu un deficiente! –

Appena pronunciò l’insulto si pentì: aveva fatto un passo falso?

Se lo chiese mentre il sorriso sul volto davanti a sé si allargava invece di avvizzire.

-          Ma lo sai quanto tempo era che non mi apostrofavi così? – Esultò Akira con un entusiasmo che il ragazzo non riuscì a spiegarsi.

Certo che lo sapeva da quanto non lo rimbrottava con il suo aggettivo preferito e che più gli si attagliava: da quando si erano separati.

Glielo diceva così spesso quando erano ragazzini.

Se lo meritava tutte le volte per il suo atteggiamento sempre e costantemente leggero e felice.

Perché non prendeva quasi nulla sul serio, forte della sua filosofia la-vita-è-bella-perché-farci-problemi-inutili? che gli faceva affrontare tutto a cuor leggero.

E per questo entrando spesso in contrasto con lui, più posato e riflessivo, e caratterialmente più pessimista.

Esasperandolo e facendolo andare in escandescenze una volta su due.

 

S’accorse, mentre si perdeva in quella riflessione, di quanto, invece di offenderlo, lo avesse reso contento.

Beh… non che Akira se la fosse mai presa davvero.

Anzi, di solito gli veniva da ridere.

O da guardarlo con uno dei suoi classici sguardi da gatto sornione che avrebbero puntualmente smontato ogni sua velleità di punirlo per qualcosa a seconda del caso.

 

Impossibile.

Questo era sempre stato quell’uomo.

Impossibile da scoraggiare o da smontare.


Quante arrabbiature si era preso?

Aveva perso il conto.

 

Ricevette un altro bacio a fior di labbra, ma stavolta si permise di sorridere appena, felice di aver ritrovato un pezzettino del vecchio compagno di quegli anni.

Forse, da qualche parte di lui, c’erano ancora piccole schegge di ciò che era stato quando la vita era quella quotidiana di ogni adolescente pieno di voglia di vivere e di aspettative e di progetti.

E niente aveva dilaniato o indurito il suo entusiasmo.

Sperò con tutto il cuore di poterne rintracciare altre e mettere insieme i cocci.

… Con quel che restava di sé.

 

-          Ridillo! –

-          Cosa? –

-          Insultami ancora! –

-          Che? -

-          Daiiii! –

Aki lo baciò ancora in attesa che l’accontentasse, regalandogli sempre quei baci casti e lievi.

E ancora.

E di nuovo.

-          Se non la pianti di baciarmi come faccio a parlare, deficiente? – Sbottò Hiro di colpo, alterandosi di riflesso, ma senza convinzione.

Non si scostò tuttavia da lui e dal contatto con la sua vicinanza, le sue dita sulla guancia e la sua bocca irriverente e morbida sempre lì a un respiro da sé.

Per niente al mondo sarebbe stato disposto a staccarsi da tutto quello, qualunque cosa fosse.

Il cuore gli ballava in mezzo allo sterno, e assordava la ragione, che pur tentava di imporsi al di sopra del chiasso che faceva.

In un batter d’occhio si ritrovò stretto in un abbraccio soffocante che quasi lo stritolò.

Un angolino della mente gli fece registrare che il piatto sulle ginocchia stava per fare un volo sul tappeto.

Istintivamente lo afferrò perché non cadesse mentre l’ossigeno gli si frantumava tra i polmoni e la gola.

Ma Akira lo liberò subito, venendo in suo soccorso, e lo aiutò a tenerlo.

Così facendo gli sfiorò il tessuto dei jeans tra le gambe, poco più su del ginocchio, in un gesto in verità casuale, null’affatto intenzionale o provocatorio.

Tuttavia tanto bastò perché Hiro, in preda al panico, reagisse con uno scatto nervoso, allontanandogli la mano con una specie di schiaffo.

-          Hey, tranquillo, non voglio far niente! – Cercò di rassicurarlo l’altro sincero.

-          Mi dispiace, scusami… io… tu…  - Scattò in piedi irrequieto, portando il piatto con sé, completamente dimentico dell’uso che ne dovesse fare.

Anzi, lo abbandonò sul tavolino rapidamente e mosse qualche passo lontano sotto lo sguardo perplesso di Akira.

Che gli concesse soltanto qualche attimo prima di raggiungerlo.

Con un gesto fluido e delicato, gli fece scivolare le braccia intorno ai fianchi, e se lo tirò contro piano, facendo aderire la sua schiena al proprio petto.

Piegò il capo sulla sua spalla, affondando il volto nel suo collo bollente e attese interminabili istanti che si tranquillizzasse, percependo e assorbendo distintamente l’inquietudine che lo scuoteva.

-          Mi dispiace. – Pigolò il ragazzo in un sussurro, rabbrividendo da capo a piedi. – Tu hai pagato per avermi, non ho il diritto di sottrarmi, scusami, non volevo… -

La presa intorno a lui si fece più drastica, provocandogli un principio di soffocamento.

-          Non dire cazzate, te lo proibisco! – Il sibilo feroce che gli sfiorò l’orecchio gli fece dubitare di chi fosse quella voce. – Tu sei mio, ma non è per “averti” che ho pagato.

Calmati adesso, stavo solo cercando di aiutarti a tenere il piatto prima che si rovesciasse, nient’altro. –

-          Perdonami, sono stanco, non… non so più neppure che sto facendo. –

Immediatamente l’abbraccio ritornò dolce e pieno d’affetto, permettendogli di respirare.

Hiro girò un poco la testa alla sua sinistra, incrociando il respiro caldo e lo sguardo adorante di Akira.

Ebbe tuttavia la sensazione netta e paralizzante che se si fosse voltato un momento prima, si sarebbe scontrato con un muro di ghiaccio ostile.

Non volle soffermarsi, intimorito.

-          Andiamo a dormire. – Gli disse lui conciliante. – Questa giornata è stata davvero troppo lunga… -

Gli stampò un bacio leggero sulla bocca socchiusa e lo liberò dalla propria stretta.

Lo prese per mano e lo accompagnò fino alla porta della sua camera, aprì e ve lo sospinse gentile, inoltrandosi soltanto di un metro all’interno.

Qui lo strattonò leggero, riavvolgendolo nel proprio abbraccio e lo baciò per l’ennesima volta senza alcuna pretesa, con casta e limpida devozione, come se stesse sfiorando un oggetto prezioso e fragile.

-          Buonanotte, amore mio! – Si congedò, l’espressione riverente e affettuosa negli occhi e il timbro di voce così suadente che tanto bene gli riusciva, e che mandava in crisi la sua vittima.

Infine tornò sui suoi passi e si richiuse la porta alle spalle.

Lasciando un Hiro attonito e stordito, avvolto in una scia intensa di profumo, impossibilitato a capacitarsi di cosa fosse successo nel giro di un istante.

 

 

Tresor

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

 

 

 

 

 

Venti minuti dopo un trillo elettronico infranse il silenzio della sala immersa nel buio della notte.

Chiuso nei propri pensieri, Akira appena registrò la vibrazione.

Si tirò fuori guardandosi intorno, cercando di ricordarsi dove avesse lasciato lo smartphone.

Il bagliore azzurrognolo dello schermo si palesò sulla consolle alle spalle del divano, spegnendosi appena lo ebbe notato.

Facendo uno sforzo, lasciò la poltrona in cui era sprofondato, e si avviò verso il mobile.

Avrebbe potuto ignorare il suono, chiunque fosse lo scocciatore che disturbava a quell’ora.

Ma poi pensò che forse Hana o uno degli altri gli mandavano un messaggio per chiedergli come stesse, e non se la sentiva di far finta di niente: poteva cancellare chiunque, procuratore e allenatore compresi, ma non i suoi amici.

 

Recuperato il dispositivo, sfiorò lo schermo e si accorse che ad avergli inviato un messaggio su whatsapp era stato Hiroaki.

Ne fu talmente sorpreso che istintivamente ruotò la testa in direzione della porta della camera del ragazzo, quasi si fosse aspettato di vederlo uscire da un momento all’altro.

Ma ovviamente non fu così.

Tuttavia attraversò la stanza a lunghe falcate e si fermò davanti l’uscio.

Avrebbe fatto prima a entrare e a sentire cos’avesse da dirgli piuttosto che utilizzare un cellulare.

Gli suggerì l’istinto.

Eppure rimase immobile a riflettere: se Hiro aveva scelto quel canale per comunicare con lui, probabilmente non se la sentiva di fare altrimenti.

Così si arrese e decise di non forzare la situazione: gli andava bene qualunque cosa pur di parlare con lui e non rimanere a interrogarsi da solo coi propri pensieri.

 

“Aki?”

 

Un semplice richiamo in neretto campeggiava sullo sfondo aranciato del messenger.

 

“Sono qui, amore mio!”  Scrisse rapido e inviò.

 

Mentre aspettava una risposta, scivolò giù e sedette sulla soffice moquette, le spalle poggiate alla parete, le gambe incrociate e le mani abbandonate nel mezzo a tenere lo smartphone.

Lasciò vagare lo sguardo intorno nella stanza Illuminata solo dalle luci che provenivano dallo skyline della vetrata, e in quel momento si rese conto che il cuore gli stava battendo un po’ ansioso nel petto.

 

Inquietudine.

 

Definì la sensazione che avvertiva.

Nel non sapere che parole gli sarebbero arrivate.

Per distrarre il tempo, sfiorò nuovamente il touchscreen ed entrò nei contatti alla ricerca del nome con cui aveva archiviato il numero di Hiro.

Pigiò la funzione “modifica” e al posto del nome del giovane scrisse “amore mio”.

E salvò.

Rientrando in whatsapp comparve la variazione e sorrise, sentendosi un po’ scemo: sembrava un liceale smielato che mandava cuoricini ed emoticons romantiche alla propria fidanzatina.

Hiroaki lo avrebbe di certo guardato storto.

 

Il trillo di un nuovo messaggio in arrivo lo distolse da quelle sciocchezze.

Il testo comparve sullo sfondo arancio.

 

Aki… ma tu davvero vuoi ancora accanto a te uno come me?

 

Non ebbe bisogno di prendersi alcun tempo per replicare.

Più di ogni altra cosa al mondo!”

 

Ancora un paio di interminabili, snervanti, minuti.

 

Ho paura… tanta!

“Di cosa?”

Di danneggiarti… non voglio…

“Danneggiarmi?”

Se si venisse a sapere… che stai con un ex escort, sarebbero guai!

“In America non si fanno di queste paranoie”

Aki… tu sei un basketman famosissimo.

Un fotomodello richiesto dalle riviste più prestigiose.

Dalle case di moda.

Che accadrebbe se venisse fuori che ti sei scelto per compagno uno come me?

Sarebbero seccature anche nella democratica e libera America, lo sai!

 

“Hai dimenticato che sono anche un talento maledetto: sarebbe proprio nel mio stile avere un fidanzato dal passato singolare.”

Passato singolare…. Che eufemismo! ...

“Nessuno deve dirmi chi devo scegliermi come compagno di vita!”

…Compagno di vita… io? ...

“Tu, amore mio! … Nessun altro mai…”

Aki?

“Dimmi!”

Vorrei… dirti che ti amo tanto… ma non so se ne ho il diritto!!

 

L’uomo lesse quelle parole e gli parve quasi di sentire un singulto disperato uscire dalle labbra del giovane dall’altro lato del muro.

Eppure non sentì nessun rumore, tranne il silenzio ovattato dell’ambiente in cui era da solo.

Gli si strinse il cuore al tempo stesso felice e affranto per quel suo sentirsi indegno del più naturale dei sentimenti.

 

“Dimmelo, ti prego, non sai quanto ho bisogno di sentirtelo dire!”

Gli scrisse, pregando che insieme a quello sterile messaggio elettronico gli giungesse anche l’urgenza del proprio desiderio.

E tuttavia passarono altri lunghi istanti, prima che il display si illuminasse di nuovo e il trillo familiare gli giungesse alle orecchie.

 

Ti amo… più della mia vita… sempre!

 

Akira si strinse lo smartphone al petto come se avesse avuto Hiro tra le braccia e rimase così per attimi lunghissimi, il cuore che gli batteva fortissimo, il sangue che gli pulsava furioso in gola, facendolo rabbrividire fin nel profondo.

 

Quanto tempo avevano perso?

Per cosa?

 

Per l’ennesima volta quelle domande gli riecheggiarono angoscianti nella testa.

 

“Non mi importa di quel che pensano gli altri, amore, tu sei mio e nessuno dovrà mai osare interferire.”

Io vorrei solo che tu stessi bene, Aki, affronterei qualunque pregiudizio per te. Qualunque avversità … anche il disprezzo e l’umiliazione…. Purché tu stessi bene!

 

“Starò bene solo se starai accanto a me, sempre. Abbiamo già perso tanto di quel tempo che non ci basterà il resto della vita per recuperare!”

Aki?

“Si’”

Perdonami!

Farò qualunque cosa perché tu possa perdonarmi tutto il male che ti ho fatto…

“Non ho nulla da perdonarti, amore mio, avrei voluto solo che tu avessi parlato con me… anche dopo che sono partito… “

E come avrei potuto?

A quel punto mi odiavi… che cosa avrei potuto dirti senza che tu mi respingessi?

E credimi, ci ho pensato tanto, soprattutto quando arrivavo al punto da non reggere più quello che ti avevo fatto.

Avrei voluto chiamarti… spiegarti i miei perché…

 

“Non ti ho mai odiato anche se ho provato a farlo, forse sarei stato meglio.

Ma tutte le volte che ho tentato, ogni cellula del mio corpo si ribellava perché era una sensazione che non sarei mai riuscito ad associare a te.

Non ho mai capito il tuo comportamento, ignorando la verità, ma non l’ho mai nemmeno accettato perché non eri tu.

Ti conoscevo così bene, non era possibile che qualcosa mi fosse sfuggito in tanti anni e non mi fossi accorto di qualche tuo mutamento caratteriale.

Sono sempre rimasto con mille domande e dubbi.

Come se avesse dovuto esserci per forza un’altra spiegazione che io non riuscivo però a trovare da solo.

… E tu ti eri rifiutato con tanta ostinazione anche solo di incontrarmi.

Sei sparito di colpo, tua madre mi disse che eri andato da un parente e che avevi lasciato detto di non dire a nessuno dove.

Povera donna, si scusò così tante volte con me.

Ma nemmeno lei seppe spiegarmi e spiegarsi il tuo comportamento.

Era tutto così insensato e incomprensibile.”

Non potevi capire, non ho mai detto niente a nessuno, nemmeno ai miei.

Mamma ha sospettato che fosse accaduto qualcosa tra noi, e che fosse colpa mia, ma non mi ha mai chiesto nulla, forse aspettandosi che gliene parlassi io un giorno.

Ma non l’ho mai fatto.

E’ tutto andato a rotoli dopo.

Mi sono perso… dopo.

Sei mesi… te ne eri andato da sei mesi e io non ce l’ho più fatta a reggere.

 

Quelle parole fecero scattare uno strano campanello d’allarme nell’attenzione di Akira.

 

Ci ho provato, sai?

… A uccidermi… davvero…

 

Il respiro gli si spezzò in gola, facendolo rabbrividire.

Non fu sicuro di voler leggere ancora.

D’impulso toccò il touchscreen con un movimento brusco delle dita, oscurandolo.

Improvvisamente c’era qualcosa, un ricordo, o un immagine, ancora non seppe, che gli affiorava nella testa e che gli diede la netta sensazione di sapere già quel che stava per raccontargli.

L’aveva scorto per caso qualche giorno dopo averlo richiesto.

Lo sguardo gli era caduto causalmente, ne era rimasto colpito, ma non vi si era soffermato a riflettere, archiviandolo come una svista.

Poteva esserci qualunque spiegazione, e non aveva certo contemplato quella meno ovvia.

Perché poi?

Non sapeva niente di quello di cui era cosciente adesso.

 

Sperò con tutte le proprie forze che non fosse ciò che la mente e l’istinto tentavano di suggerirgli, insinuandosi tra le trame fitte del rifiuto che stava opponendo loro.

 

Accettarla come un’eventualità più che logica sarebbe stato come ammettere a voce alta che lui non c’era stato ad aiutarlo.

Che Hiro era stato davvero solo con se stesso… senza di lui pronto a raccoglierlo e a difenderlo come aveva sempre fatto.

Una consapevolezza che gli bruciava ed era insopportabile da tollerare.

Anche se sapeva bene di non averne avute le possibilità.

 

Te lo ricordi il Club Rainbow?

 

Il messaggio arrivò inesorabile e il display si illuminò per l’ennesima volta a dispetto di ogni suo tentativo di oscurarlo.

Il Club Rainbow.

Un locale gay.

Certo che se lo ricordava.

Ce lo aveva portato lui una sera.

Hiro si era opposto per giorni alla sua idea di passare una serata tra persone che non avrebbero avuto niente da ridire sul loro legame.

Alla fine era riuscito a persuaderlo lanciandogli una sfida: dimostrargli che non aveva paura di essersi scoperto omosessuale e per di più innamorato.

Il ragazzo ci era cascato, punto nell’orgoglio.

E lui ne era stato felice: per una volta avrebbero potuto scambiarsi effusioni in pubblico senza temere gli sguardi malevoli della gente e i commenti schifati degli omofobi.

Che a lui non avevano mai dato fastidio, indifferente all’ottusità di certe persone.

Ma che a Hiro facevano salire il sangue alla testa e lo spingevano continuamente a nascondersi e a trattenere qualunque slancio, soprattutto dopo aver preso coscienza completa che lo amava.

Gli sembrava che chiunque potesse fraintendere anche il più semplice dei gesti che “prima”, da amico d’infanzia non s’era mai curato di trattenere.

Quel lontano giorno aveva trascorso tutto il pomeriggio con la testa nell’armadio alla ricerca dell’abbigliamento adatto a renderlo irresistibile agli occhi del suo ritroso e riservato ragazzo.

Poi in serata era passato a prenderlo.

Hiro era venuto ad aprirlo in jeans e camicia nera, lasciata morbida fuori dai pantaloni – lo aveva trovato adorabilmente sexy! -  ed era rimasto imbambolato sulla porta di casa, incantandosi a guardarlo, confermandogli di non aver perso inutilmente il proprio tempo per prepararsi.

Poi si era riavuto e, recuperata la giacca su una sedia, lo aveva spinto fuori, burbero e scontroso come al solito, e lui non se l’era sentito di prenderlo in giro sul proprio malcelato imbarazzo per quella strana serata in arrivo.

 

Al Club Rainbow il loro ingresso non era passato inosservato.

Parecchie paia di occhi si erano voltate nella loro direzione, concentrandosi inevitabilmente su di lui.

Subito c’erano stati dei temerari pronti a invitarlo a bere qualcosa o a intrattenersi in passatempi più interessanti, alludendo alle camere da letto che il locale metteva a disposizione della clientela al piano superiore.

Ovviamente Akira aveva rifiutato, godendosi divertito un furibondo Hiroaki, che fulminava con lo sguardo quei pazzi che ci provavano con il suo ragazzo proprio davanti a lui, accecato dalla gelosia e dalla voglia impellente di fare una strage.

 

Quel che non si era aspettato, il piccolo, ingenuo, adorabile Hiro, erano state le avances di cui era stato oggetto egli stesso.

Gli occhioni sgranati dallo stupore di essere obiettivo delle stesse attenzioni che aveva dato per scontate sarebbero state riservate soltanto al suo compagno, si era lasciato trascinare a un tavolo da un Akira in versione bodyguard, che aveva dovuto difenderlo perché lui non ne era stato in grado.

E dire che lo aveva avvertito di quell’epilogo, ma Hiro non gli aveva voluto credere, sempre impacciato e insicuro di sé.

 

Era stata tuttavia una bellissima serata.

Protetto letteralmente dalle attenzioni del proprio ragazzo, Hiro si era infine rilassato e immerso nella conversazione con lui.

Avevano cenato e ballato sulla pista, sempre trascinato dapprima a forza, e poi felice di esserci, nascosto tra le sue braccia, colmo di vergogna e poi dimentico di ogni imbarazzo quando ebbe presa totale coscienza che nessuno li stava giudicando.

 

Certo che ricordava il Club Rainbow.

Era diventato la loro meta preferita.

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

 

 

E’ successo una notte… 

 

Il messaggio giunse spietato.

Akira lo lesse e d’istinto spense il display: ebbe paura di sapere la verità!

Un pensiero insinuante gli affiorò, incapace di poterlo ignorare.

Lui stesso aveva cercato di distruggersi nei primi anni in America.

Aveva toccato il fondo più di una volta, senza cercare la morte esplicitamente, questo no, ma il suo vivere senza controllo e senza freni non era stato poi molto diverso dal volerla fare finita.

Se non fosse stato per la tenacia e l’ostinazione dei suoi amici, probabilmente in uno dei suoi excursus notturni in giro per i locali notturni di LA, imbottito di alcool e droghe, ci sarebbe rimasto secco prima o poi.

Non aveva mai avuto difficoltà ad ammetterlo con se stesso.

 

Sono uscito dal Rainbow un po’ confuso.

Avevo bevuto qualche cocktail di troppo.

 

Il “Rouge Corallo”.

Pensò Akira, leggendo le parole.

Era sempre stato il preferito di Hiro.

Non era troppo alcoolico, ma berne uno dietro l’altro, aveva i suoi effetti inevitabili.

E Hiro non aveva mai tollerato troppo bene l’alcool.

 

Forse cinque o sei Rouge… poi il barista si è rifiutato di servirmene altri.

Mi sono arrabbiato, ho preso il bicchiere che avevo in mano e sono uscito in strada sul retro.

Ho urtato contro qualcosa, il bicchiere mi è caduto e si è rotto.

Mi sono piegato a raccoglierlo… non so nemmeno io perché…

Il vetro mi ha tagliato un dito.

Ho guardato il sangue sporcarmi la pelle e mi è parso così ovvio.

Così ho preso un pezzo e l’ho passato sui polsi.

La carne si è aperta con una facilità incredibile!

Un brivido gelido tagliò in due il respiro di Akira.

Le aveva viste quelle cicatrici sui suoi polsi.

Era stata una visione fugace, due righe sottilissime che increspavano la pelle sotto la camicia.

Due ombre.

Ne era stato turbato perché a sua memoria Hiro non aveva mai avuto nulla.

E si era chiesto cosa potessero mai essere.

Ma non aveva saputo darvi il giusto nome.

Fino ad allora.

 

Ho un ricordo chiaro di quel momento.

Mi è parso un gesto così giusto e logico.

Forse non ho sentito nemmeno dolore.

Non lo so.

Mi sono sentito soltanto… alleggerito di un peso.

Il sangue mi colava lungo le braccia e addosso, ma io mi sono sentito quasi bene…

… Sei stato il mio ultimo pensiero, Aki… mentre mi lasciavo andare a una strana, improvvisa voglia di dormire, ho pensato che ti volevo bene e… mi è parso quasi che tu fossi lì con me a farmi compagnia mentre mi addormentavo.

… Anzi, nella mia testa tu eri lì.

Mi accarezzavi i capelli e mi abbracciavi.

Era una sensazione talmente reale!!

Ero contento.

 

“No che non ero con te, non c’ero e non ti ho potuto aiutare!”

Fu il pensiero desolato e lancinante.

Disperato, Akira si portò le braccia alla testa e vi si seppellì.

“Perché?”

Imprecò divorato dall’impotenza.

“Perché è dovuto succedere tutto questo?”

 

Di nuovo il cellulare gli vibrò tra le mani.

 

Aki… perdonami, forse non dovrei dirti queste cose… ti sto facendo altro male…

 

“Perché?”

 

Perché senza di te non ce la facevo.

Mi mancava l’aria e non riuscivo a portare i pensieri altrove.

Non serviva a niente che mi ripetessi continuamente che quello che avevo fatto era solo per il tuo bene e che dovevo essere contento di questo.

… Solo che… mi hanno impedito di andarmene.

Mi hanno tolto l’unica libertà che avrei voluto avere: morire!

 

“Dovevi tornare da me!”

 

Non potevo.

Ti avevo ferito troppo.

 

… E’ stato Louis, il gestore della casa d’appuntamenti, a salvarmi quella sera.

E a offrirmi di rimanere all’agenzia.

Mi ha portato lì e mi ha curato.

Per un mese intero ha aspettato che mi riprendessi dallo stato catatonico in cui ero precipitato.

Si è infilato nel mio letto, convinto che regalandomi le sue “attenzioni” mi avrebbe riportato indietro.

Ha cercato di farmi parlare perché gli raccontassi il perché del mio gesto.

Ha provato a essermi amico.

A ripetermi che chiunque mi avesse spezzato il cuore, non meritava tutto quel mio sacrificio.

Non gli ho mai detto niente.

Lo sentivo parlarmi, ma non ho mai risposto a nessuna delle sue domande.

Certe volte ho pregato perché tacesse.

L’ho mandato a quel paese.

E mi sono chiuso di più in me stesso.

Ma lui non si è mai arreso.

E’ stata la persona più vicina che ho avuto in questi anni.

 

… Non so quando esattamente ho cominciato a prostituirmi.

Non ho un ricordo preciso… so soltanto che a un certo punto mi è parso non ci fosse mai stato un prima a quella specie di nuova vita.

D’un tratto mi ritrovavo in camere da letto sconosciute con facce che non avevo mai visto e non mi importava.

Non aveva senso niente di quel che mi accadeva.

Delle mani che mi toccavano.

Degli uomini d’affari che mi portavano in giro come un oggetto da esibire perché strano.

Ero indifferente, anche a me stesso, ma chissà perché questo era motivo di attrazione invece che di rifiuto.

E gli affari dell’agenzia sono improvvisamente aumentati.

Louis è stato contento di aver scoperto uno come me e mi ha trasformato nel giocattolo più richiesto.

Si è convinto che fosse stato un bene avermi salvato la vita.

Crede di avermi fatto un favore.

Ha stabilito le regole che i clienti avrebbero dovuto osservare per avermi.

Il prezzo.

E io l’ho lasciato fare perché non mi importava.

Non provavo interesse per niente.

Non ho chiesto nulla.

Mi sono lasciato trascinare.

Non lo so… forse sperando nel profondo di me stesso… che una volta o l’altra qualcuno dei miei clienti avesse trovato irritante la mia apatia e avesse deciso di uccidermi…

… Invece non mi hanno mai usato nemmeno violenza.

Hanno sempre rispettato le regole della casa: niente baci in bocca, niente giochi sadomaso, usare sempre il preservativo.

Qualcuno mi ha anche offerto di diventare il suo amante e di lasciare il mestiere che facevo.

Mi hanno corteggiato per convincermi.

Ci avresti mai creduto?

La gente è pazza, davvero!

 

“Non era il tuo posto quello, qualcuno lo avrà capito!”

 

Non mi importava.

Non mi importava niente di nessuno.

Di me.

Della fine che avrei fatto.

Mi era tutto così indifferente.

Ogni cosa mi scivolava addosso e non mi toccava più.

 

“Penso… di poterti capire più di chiunque altro.”

Ammise Akira, scrivendo lentamente i caratteri sul touchscreen.

“Credo che mi sia accaduta la stessa cosa dopo un po’ che ero negli Stati Uniti.

I primi mesi ci sono stati talmente tanti cambiamenti intorno a me che hanno assorbito tutte le mie energie.

L’università, una squadra nuova, gli allenamenti, i modi e le abitudini diverse.

Ho ricacciato nel profondo di me stesso tutto il dolore e la disperazione per come ci eravamo lasciati.

Ho smesso di farmi domande credo… perché pormele mi faceva impazzire.

E mi sono lasciato assorbire completamente dalle novità che mi accadevano.

Per un po’ è sembrato che mi fossi lasciato alle spalle tutto il mio passato.

Come se la cosa non mi toccasse più.

Dopo i primi tempi in cui non facevo che parlarne coi i ragazzi, più confusi di me sui perché, ho smesso, di botto, come se avessi chiuso un canale.

Da un giorno all’altro non ho più pianto, spaccato oggetti, passato ore interminabili al cellulare con loro.

Il mio cervello si è come spento.

Non ricordavo più nemmeno il tuo nome.

Non me lo ripetevo più a ogni ora del giorno.

… Ora che ci penso… si ora che ci penso… penso sia accaduto più o meno sei mesi dopo che ero partito.

Non è strano?

Tu che hai cercato di ucciderti e io che sono cambiato di colpo.

Sei mesi esatti.

D’inferno.

Mi sono buttato a capofitto negli allenamenti senza darmi tregua.

E la notte… ho cominciato a frequentare i locali notturni, all’inizio stordendomi con i superalcolici e facendomi tutti quelli che mi passavano per le mani.

Poi qualcuno mi ha passato delle pillole.

Non mi sono chiesto cosa fossero, lo sapevo.

Le ho prese ed è tutto cambiato.

Ogni cosa si è accelerata nella mia testa ed era una sensazione incredibile di velocità, onnipotenza, energie inesauribili.

E’ nato più o meno in quel periodo il soprannome di Furia Bianca.

In campo non mi fermava nessuno e fuori ero sempre su di giri.

Una macchina impazzita che spingeva sempre di più!

 

 

Improvvisamente un lieve fruscio dall’interno della camera lo distolse dai propri ricordi.

Akira girò la testa alla sua sinistra e poco dopo vide la porta che si apriva piano sul buio dell’interno.

Non si mosse aspettando di veder comparire Hiroaki.

E lo vide, il suo corpo esile e in ombra che si disegnava nello spiraglio appena spalancato.

Avanzò di pochi centimetri a piedi nudi, ancora vestito, e sedette sulla soglia, dandogli le spalle, il cellulare stretto tra le mano come un oggetto prezioso da difendere.

 

Non ho mai saputo queste cose.

Ho letto tutto quel che è stato scritto di te sui giornali, ma questo no.

Perché?

 

Le parole comparvero sul display di Akira.

Le lesse e sorrise.

Basta.

Non voleva più parlargli attraverso quell’aggeggio.

Lo spense e lo gettò lontano attraverso la stanza, incurante del destino che avrebbe potuto avere.

 

-          Perché mi è stato fatto muro intorno. – Mormorò nel silenzio ovattato.

Hiro emise un sospiro spezzato e lui lo sentì.

Avrebbe voluto abbracciarlo.

Ma non si mosse.

Seppe che era meglio non farlo.

Non ancora.

-          Sono andato in overdose due volte e altre due sono collassato in mezzo al campo di gioco nel giro di tre anni… ma nessuno ha saputo niente del vero motivo perché i ragazzi e l’allenatore, e la società mi hanno preservato da ogni fuga di notizie, proteggendomi strenuamente, pensando che se si fosse saputo in giro, la mia carriera ne sarebbe stata distrutta, e non era un bene per nessuno, me per primo.

-          Hanno scritto che i tuoi collassi erano dovuti a un esaurimento nervoso e che la società aveva deciso di tenerti a riposo per qualche tempo. -  Ricordò Hiro, la voce incrinata da un principio di pianto che non poté in alcun modo celare.

-          Dovuto a un eccesso di stress, si… La verità era che le anfetamine mi stavano uccidendo e io non avevo nessuna intenzione di rinunciarvi perché… beh, mi davano l’energia per andare avanti quando non ne avevo più nessuna voglia. –

-          E’ stata tutta colpa mia… che ti ho fatto!!? –

-          Non è stata colpa tua… ho deciso io di usarle.

Danno delle strane sensazioni, di avere il controllo di tutto, di poter fare qualunque cosa.

E’ il dopo che ti stronca, ma te ne accorgi tardi.

E per cancellare il malessere ne vuoi ancora… anche se sai che ti continuerai a far del male.

… Ed era quello che volevo… mi teneva vivo… altrimenti…. non avrebbe avuto alcun senso andare avanti… giocavo per puro automatismo, perché non sapevo fare altro, ma non mi importava di niente.

Sono andato vicino tanto così dal passare alle droghe pesanti. -

-           Non dirlo, ti prego! –

Una preghiera.

Pura disperazione.

Gli graffiava il cuore sentirlo.

Fissò il suo profilo, ma da quella posizione non riusciva a vederlo.

E ne aveva bisogno.

Un bisogno impellente.

Così scivolò sul tappeto e andò a sedersi difronte a lui, la schiena contro il telaio della porta, le gambe un po’ piegate, che sfiorarono quelle del ragazzo volutamente.

Hiro sussultò al contatto, ma non vi si sottrasse: il calore che lo raggiunse attraverso la stoffa dei jeans gli portò una parvenza di sollievo necessario.

Sollevò lo sguardo su di lui, scorgendolo tra le ombre della stanza.

Si accorse che gli sorrideva in quel modo tutto suo che gli riservava quando voleva consolarlo.

Ma non aveva diritto alla sua indulgenza, non dopo quello che gli aveva fatto.

Si rimproverò per l’ennesima volta, angosciato.

Tuttavia fu evidente che Akira non la pensava allo stesso modo.

Protese le braccia verso di lui e si impossessò delle sue mani con un gesto gentile, lieve, ma deciso.

Piano gli aprì le dita, gelide, per togliergli lo smartphone, che fece volare sul letto, e se le portò al volto.

Ne baciò i palmi, sentendolo rabbrividire, e poi risalì su fino ai due tagli sottili sui polsi.

D’istinto Hiro fece per ritrarsi, come se avesse voluto nascondergli la verità che gli aveva appena raccontato, spaventato dal suo giudizio.

Ma Akira non glielo permise, trattenendolo.

Lo sguardo due fessure ammonitrici, categoriche.

Fece scorrere i pollici sulle due cicatrici, ne percepì i piccoli rilievi che la carne, saldandosi, aveva creato, e in quel momento realizzò a pieno il loro significato.

Gli mancò il fiato per qualche istante, sgomento e impotente.

Una fitta di dolore intenso in mezzo al petto come se qualcuno gli avesse appena dato un pugno, lasciandolo stordito.

Aveva rischiato di perderlo, definitivamente, e probabilmente lo avrebbe saputo troppo tardi chissà quando, senza poterci fare niente.

Una consapevolezza cruda e inaccettabile.

Non aveva mai mandato giù niente di quanto era accaduto tra loro.

Gli anni gli erano scivolati addosso e aveva vissuto ai margini di se stesso, agendo come un automa, senza obiettivi e senza scopo.

Ma avrebbe mai retto a quella verità il giorno in cui sarebbe venuto a saperla?

Morto.

Il “suo” Hiro.

La persona più importante della sua vita.

L’amore con la A maiuscola!

Morto!

Senza di lui.

Lontano.

Solo.

 

Un brivido freddo gli solcò la schiena facendolo tremare.

Non volle indugiare più a lungo: era un pensiero che faceva troppo male.

Depose un bacio leggero su ognuna delle cicatrici e stringendo entrambe le mani tra le sue, se le tenne vicino al viso come a volerle custodire, preservare da qualunque male.

 

-          Perdonami! – Di nuovo la stessa supplica, per l’ennesima volta.

Un sussurro forte come un grido che squarciava il silenzio intorno.

-          Abbiamo cercato di distruggerci a vicenda, non è assurdo? – Gli chiese con una nota ironica nel tono di voce.

-          Perdonami, ti prego! –

-          Dovresti perdonarmi tu per non aver saputo capire niente di quello che ti tormentava.

Siamo cresciuti insieme, inseparabili, complici, l’uno l’ombra dell’altro, e io non ho capito un cazzo della tua disperazione quando avrei dovuto. –

-          E come avresti potuto? Non ti ho fatto capire niente, tenendomi tutto dentro. –

Akira si lasciò andare a una risata divertita che però, suonò drasticamente falsa.

-          Si, lo riconosco, sei stato bravo! – Ammise. E tuttavia aggiunse più onestamente: - E io troppo stupido… -

-          No!!! –

-          Si, invece. Ero così felice che avessi accettato di diventare il mio ragazzo, che svolazzavo su una nuvola rosa a tre metri da terra.

E così mi sono dimenticato di guardarti.

Ero al settimo cielo ed ero convinto che lo fosse tutto il mondo.

Tu mi avevi detto di sì.

Era tutto ciò che volevo.

E l’offerta di giocare nel basket professionistico era stata la ciliegina sulla torta.

Ogni cosa era perfetta.

Un sogno.

Io, te e l’NBA.

Non avrei potuto desiderare niente altro dalla vita. –

Hiro mosse le dita a sfiorargli la guancia su cui le teneva poggiate.

-          Eravamo troppo giovani per gestire tutto quello! … Gli eventi ci hanno travolto senza che riuscissimo a far niente per controllarli.

Io che volevo il meglio per te.

La mia inadeguatezza.

E tu che ti saresti fatto bastare l’amore che avevi per me.

Ebbi così paura.

Che tu perdessi la tua occasione e che avresti finito per odiarmi per non averti impedito di rinunciare. –

-          Non ti ho mai odiato, nemmeno dopo… - Gli ripeté lui più convinto che mai.

Il ragazzo replicò con un singulto straziante.

Allora Akira lo tirò di peso verso di sé, facendolo atterrare sulle sue gambe.

Se lo raccolse tra le braccia e se lo strinse forte al petto.

Hiro non si oppose, bisognoso di sentirsi per una volta al sicuro anche da se stesso.

-          Non ho capito niente, amore mio, proprio niente. E tu hai dovuto prenderti la responsabilità di tutto da solo. –

Gli sentì sussurrargli tra i capelli, la voce distorta da una nota al tempo stesso di rabbia e angoscia.

Tremò di dolore contro di lui, ottenendo di essere stretto ancora di più.

-          Non mi ripetevi sempre che su certe cose ero troppo svanito e superficiale? Che se ero felice io, non significava che automaticamente lo fosse tutto il mondo? ... E’ stato proprio questo l’errore che ho commesso.

Un errore fatale che ci è costato quasi la vita. –

-          Non c’è niente di male a voler essere felice, Aki! –

-          Ma non se questo ti rende cieco. E io lo sono stato verso di te... sì, d’accordo, il fatto che fossimo dei ragazzini non ci ha aiutato… ma perché tu sei stato capace di guardare così lontano e io no? –

-          … Perché quello con il sale in zucca ero io, non tu! – Hiro cercò di scherzare per smorzare la tensione sempre più solida intorno a loro.

-          Hey! – Il compagno stette al gioco, fingendosi offeso, ma sorridendo.

In fin dei conti non aveva tutti i torti.

Hiro si permise di ridere a sua volta.

Un po’ si sciolse dalla sua presa e gli fece scivolare le braccia intorno al collo.

-          Perché ti pare normale chiedermi di sposarti a tre anni? ... lo avevo capito già allora che eri tutto svitato! –

Akira comprese al volo a cosa si riferisse e scoppiò a ridere, una risata vera, stavolta, spontanea, leggera.

-          Ma io volevo sposarti davvero! – Rivendicò.

 

Ricordava perfettamente quell’episodio dell’asilo, quando si erano visti per la prima volta.

Avevano entrambi tre anni, ma la memoria di quel giorno era rimasta chiara e indelebile dentro di lui per sempre.

Gli parve di rivederlo quel bambino minuscolo, da solo sotto l’albero di ciliegio del giardino dell’asilo, con il suo solito muso lungo, l’espressione scorbutica di chi non vuole avere a che fare con nessuno, ma che in realtà è solo intimidito dalla novità.

Era stata una folgorazione per lui.

Vederlo e corrergli incontro con il suo fare allegro e travolgente era stato un tutt’uno.

“Ciao, io mi chiamo Akira Sendoh, e tu come ti chiami?”

Gli aveva detto tutto sparato, porgendogli la manina.

Un sorriso a trentadue dentini stampato sul faccino candido.

Il piccolo Hiro di tre anni aveva spalancato gli occhioni nel visetto imbronciato, fissandolo tra lo spaventato e l’infastidito, e aveva appena mormorato il proprio nome, senza muoversi, anche un poco impressionato dal bambino davanti a sé, già più alto della media per la sua età.

Il piccolo Akira aveva fatto un salto, tutto felice per la risposta.

E poi aveva esordito come fosse stata la cosa più ovvia del mondo:

“Mi vuoi sposare?”

“Noooo, cretino, siamo piccoli!!”

Aveva sbottato l’altro, già più assennato della media dei bimbi della sua età.

“Vabbé quando siamo grandi! “

Lo aveva liquidato il piccolo intraprendente senza minimamente scomporsi né per il rifiuto né per l’insulto – il primo di una lunga serie!! – che avrebbe invece dovuto scoraggiarlo.

Dopo di che lo aveva preso per mano trascinandolo a giocare con sé.

 

Erano diventati inseparabili.

Due opposti che si erano misteriosamente attratti.

 

Hiro condivise quel ricordo che anch’egli custodiva gelosamente e nitido nella propria memoria, avvertendo una punta di nostalgica tenerezza per quei due bimbi piccolissimi, così diversi e così complementari da trascorrere sempre insieme tutti gli anni che erano seguiti.

-          Aki! – Lo chiamò sottovoce, premendo la guancia contro quella di lui.

-          Lo voglio ancora, amore! – Gli sussurrò Akira dolce, sicuro.

Hiro trasalì suo malgrado.

-          Non siamo più quei bambini! –

-          No, direi di no, perciò non hai più scuse! –

Il cuore gli esplose di gioia mentre si concedeva di ridere a sua volta.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

 

 

Che ore erano?

Hiroaki se lo chiese schiudendo gli occhi sulle ombre che lo circondavano.

Si era addormentato.

Ne prese coscienza nel momento stesso in cui percepì il calore del corpo sotto e intorno a sé, e due braccia che lo custodivano attente e possessive.

 

Akira.

 

Sollevò la testa dal morbido “cuscino” che era stato il collo del suo uomo, e gli cercò il volto.

Un sorriso su una bocca perfetta si disegnò nel suo campo visivo, facendogli sentire immediatamente un intensa sensazione di gioia.

-          Ciao, amore! – La sua voce dolce, profonda, sensuale.

- … Ciao! – Pigolò lui confuso. - … Mi sono addormentato! –

- Si, quaranta minuti fa più o meno. –

- Ah! ... Non me ne sono accorto. –

- Non preoccuparti, eri stanco. –

Hiro provò a muoversi per liberarlo dal proprio peso, ma Akira lo trattenne.

-          Dove vai? –

-          Aki, ti si saranno addormentate le gambe con me sopra. –

-           Neanche un po’, sto bene… con te in braccio… Sto benissimo!! –

Il ragazzo provò a sondare la sua espressione, ma c’era poca luce per vederlo chiaramente, e così non insisté.

-          Che ore saranno? – Si chiese ad alta voce, guardandosi in giro.

Fuori era sempre buio e molte luci dei grattacieli intorno erano spente dall’ultima volta che le aveva guardate.

-          Le tre del mattino. – Gli svelò Akira, sfiorandogli la fronte con un bacio.

-          Ah! –

-          Andiamo a letto? –

Hiro trasalì senza volerlo e per tutta risposta sentì la risata sommessa di lui nell’orecchio.

Che valenza doveva dare a quella domanda?

Si domandò disorientato.

E Aki perché si stava prendendo gioco di lui?

Perché quello stava facendo con la sua risata maliziosa.

Come se gli avesse letto nel pensiero l’agitazione che d’un tratto lo coglieva, Akira gli baciò la tempia e lo sciolse dal proprio abbraccio.

-          Vieni, amore! – Gli disse sottovoce.

In un attimo si ritrovarono in piedi senza che Hiro si rendesse conto di come ci fossero riusciti.

Gli girava un po’ la testa e sentiva addosso una profonda stanchezza.

Avrebbe ricordato quella giornata come la più lunga della sua vita.

Questa fu l’unica certezza che ebbe, mentre Akira, tenendolo per mano, lo accompagnava davanti al letto della camera, sollevava il piumino, scostandolo in fondo, lo spingeva a sedersi e lo aiutava a stendersi, e glielo sistemava appena sopra le ginocchia.

Lo seguì con lo sguardo, per quel che poteva vedere nelle ombre che lì erano più scure.

Lo vide sedersi al suo fianco e sporgersi per accendere il lume appoggiato sul comodino lì di fianco.

E poi ritornare da lui e fissarlo intensamente.

Gli batté forte il cuore per l’emozione: sembrò così etereo e impalpabile, illuminato dalla tenue luce che lo lambiva.

Così forte e altero.

Così meravigliosamente bello.

Quei suoi occhi scuri e profondi che lo sondavano.

Seguì la sua mano che gli raggiungeva una guancia e si posava su di essa leggera e per la milionesima volta il respiro si fece difficile.

La sua bocca che calava su di sé a sfiorargli la propria.

Un bacio lieve che si disegnava sulle sue labbra.

L’odore della sua pelle che gli investiva i sensi.

Un brivido violento gli sferzò tutto il corpo, facendolo tremare suo malgrado.

Aki se ne accorse perfettamente e gli sorrise, mettendo un soffio di distanza tra loro.

Non disse nulla, lasciando che i suoi occhi intorpiditi parlassero per lui e gli affondassero fin dentro.

E si rituffò sulla sua bocca appena socchiusa nello sforzo di respirare, affondando la lingua alla ricerca della sua compagna da vezzeggiare.

La corteggiò lento con impertinente indolenza, soggiogandola, giocando, assaporandola languido.

La mano ancora sulla sua guancia a guidarlo in quella danza dolce e ipnotica, e l’altra che gli accarezzava un fianco al di sopra del tessuto del maglioncino, senza sconfinare al di sotto dove la pelle aveva cominciato a bruciare.

Hiro rimase per qualche momento immobile, completamente rapito da quell’intimità solo accennata.

Poi portò le braccia intorno al suo collo e glielo cinse, avvicinandolo di più contro di sé.

Si baciarono a lungo, concedendosi di inframezzare rapide boccate di ossigeno, purtroppo necessarie.

Sullo sfondo il silenzio della notte e il suono dei propri sospiri rotti dall’emozione crescente.

 

Poi, d’un tratto, inspiegabilmente la magia si infranse.

Akira rimise distanza tra loro, sciogliendo le sue braccia.

Gli prese le mani tra le sue, ne sfiorò il dorso di ognuna con un bacio e le riaccompagnò sul letto.

Infine gli regalò l’ultimo sorriso.

-          Buonanotte, amore, riposa! – Gli sussurrò.

-          Aki!? – Si lasciò sfuggire, Hiro, confuso dal suo comportamento.

L’uomo gli chiuse la bocca con l’ennesimo bacio e spegnendo il lume, si alzò e uscì dalla stanza, tirandosi la porta.

 

Cos’è successo?

 

Fu l’interrogativo raggelato che si formò nella mente frastornata del ragazzo, gli occhi spalancati nel buio.

Si portò entrambe le mani alle labbra, sigillando le dita su esse: sentiva ancora il calore intossicante e il sapore dolce di quelle di lui.

La tenerezza con cui lo aveva baciato da principio.

Che si era trasformata pian piano in passione, urgenza, voglia di possesso.

Agitandolo, confondendolo, risvegliando ogni sua terminazione nervosa, ogni parte della pelle, incendiandola, tendendola nell’eccitazione sempre più prepotente che li avvinceva.

Aveva cominciato a tremare di paura e di aspettativa per quel che gli era parsa la premessa di un’evoluzione ben più intima.

Non poteva essersi sbagliato.

 

E invece… tutto era svanito di colpo, senza alcuna avvisaglia, lasciandolo inebetito come un oggetto abbandonato in mezzo alla strada.

 

Cos’era successo?

Aveva fatto qualcosa di cui non si era accorto e che aveva infastidito Akira tanto da farlo allontanare?

 

Se lo domandò e non seppe trovare quel qualcosa.

Aveva risposto al suo bacio, lasciandosi coinvolgere perché…

 

non ho mai saputo resisterti, Aki!

Sei sempre stato il mio ossigeno.

Se mi tocchi…

O mi guardi…

O mi baci…

… io non capisco più niente…

… che ho fatto adesso per farti andare via?

… Non lo so!

 

Forse era solo stanchezza.

Si, eccolo il motivo.

Stanchezza per la tempesta che si era abbattuta su di loro da quel primo pomeriggio.

Avevano parlato all’infinito.

Arrivando a quell’ora del mattino.

Si erano raccontati tante verità, una più pesante dell’altra.

E non si erano ancora detti tutto di quei sei anni lontani.

E ne erano usciti esausti.

Entrambi.

Lui stesso si sentiva a pezzi emotivamente e fisicamente.

Non si era addormentato a tratti, rincorrendo un riposo che invece, malgrado tutto, non voleva venire ad alleggerire il suo cuore?

Doveva essere così anche per Akira, nonostante fosse il più forte tra loro due.

Si, era certamente così.

Avevano bisogno di dormire, tutti e due.

Ci sarebbe stato tempo per tutto… domani… e dopo… !!

 

Quasi convinto, si girò su un fianco e chiuse gli occhi, ricacciando a forza indietro la tentazione di cedere alle lacrime che pur lo pungevano.

Qualcosa di solido gli premette contro un braccio.

Cercò con la mano e riconobbe la liscia e fredda superficie di vetro del cellulare che era stato lanciato lì poco prima.

Lo accese, aspettandosi di trovare l’ultimo messaggio che aveva inviato lui prima che Akira glielo facesse volare via.

Invece ce n’era uno nuovo, che gli aveva inviato Akira stesso nemmeno un minuto prima.

Non lo aveva sentito!

Si rese conto incredulo.

Con il cuore a mille subito fece scorrere il dito sul display per visualizzarlo.

 

“Ti amo!”

 

C’era semplicemente scritto.

Folle di felicità e dimentico di ogni timore, digitò le parole “Anch’io, tanto!!”, inviò e poi si strinse l’oggetto al petto, ingoiando i singhiozzi.

 

 

“Anch’io, tanto!!”

 

Akira lo lesse mentre chiudeva la porta della propria camera e si avviava verso il letto.

Si gettò di traverso sul piumone, abbandonando il dispositivo, e rimase a fissare il buio intorno a sé.

Sentiva ancora l’adrenalina corrergli nelle vene e agitargli il sangue.

Per quanto autocontrollo si fosse imposto per interrompere quei baci pericolosi, per allontanarsi da Hiro, percepiva ancora netto e preciso il desiderio che gli scorreva nel corpo.

La smania di toccarlo, scostando quei vestiti importuni, sfiorare la sua pelle nuda e assaggiare di nuovo il suo sapore dolce e seducente, era stata pur violenta e irresistibile.

Finché un pensiero non era sopraggiunto a infrangere quegli attimi, si era insinuato come un cuneo nel suo cuore, spingendo in un angolo la voglia prepotente di farlo suo.

 

Non lo voleva così.

Aveva pagato per averlo.

Fino alla fine di quella settimana.

E mancavano ancora quattro giorni.

 

Non era così che lo voleva.

Sentiva che se avesse fatto l’amore con lui in quelle condizioni, cedendo a un puro istinto, avrebbe in qualche modo svilito e reso squallida la loro unione, che doveva essere il momento più bello e magico della loro riconciliazione.

 

Chissà come c’era rimasto Hiro.

Lo aveva abbandonato senza una spiegazione, in preda alla sua medesima eccitazione, lo sapeva bene.

 

Mi dispiace, tesoro, scusami!

Giuro che ti spiegherò tutto.

E tu capirai le mie ragioni, lo so.

 

Lo disse a voce alta, al silenzio e alle ombre intorno a sé.

Che gli risposero solidali avvolgendolo, dopo qualche istante, finalmente, nell’oblio di un sonno profondo e privo di sogni.

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15

 

-          Ciao, mamma! -  Disse Hiro con un timido sorriso alla donna minuta e sottile che gli aprì la porta.

Un’espressione di stupore e gioia si dipinse sul bel volto della signora Koshino, che subito gli si gettò addosso.

-          Amore di mamma, ma che bella sorpresa! – Trillò euforica. – Perché non mi hai telefonato che arrivavi? ... Come stai? ... Sei un po’ magro, mangi abbastanza? ... Dormi bene? -

Tutte queste domande gliele fece mentre lo tirava giù alla sua altezza, lo stritolava in un abbraccio che mai si sarebbe potuto attribuire così energico in una donnina esile come lei, e se lo baciava tutto senza lasciargli il tempo di dire niente.

Hiro si mise a ridere mentre cercava di contenerla e la abbracciava a sua volta, felice di rivederla dopo alcuni mesi che non passava da casa.

Si accorse che gli era mancata tanto e che aveva solo fatto finta di non pensarci per non farsi cogliere da una pericolosa nostalgia.

Di colpo un urlo gli stordì un orecchio.

La madre lo liberò dalla sua stretta e lo scostò di lato, incapace di credere ai propri occhi.

-          Akira, tesoro, ma sei proprio tu? – Strillò, guardando trasecolata il giovane uomo che si stava avvicinando lungo il vialetto, sorridendole in quel suo modo spontaneo e affascinante a cui nessuno sapeva resistere.

-          Zia Maiko! – La salutò Akira, anche più felice di lei, in cuor suo emozionato di ritrovarsi lì, davanti a quella casa, che lo aveva visto bambino e poi ragazzo.

E a quella piccola donna che lo aveva aiutato a crescere e a cui aveva voluto bene come a una seconda madre.

La donna gli spalancò le braccia e lui vi si tuffò come faceva da piccolo, sempre alla ricerca di coccole o di essere consolato per qualche tristezza che lo faceva piangere.

E subito lo raggiunse il profumo di buono e di lavanda che gli era così familiare: si sentì immediatamente a casa, e questo gli strinse lo stomaco in una morsa di contentezza che non provava più da tanto tempo!

-          Non posso crederci, sei davvero tu!!!! – Sussurrò lei stordita ed euforica al tempo stesso.

-          Si, sono io, sono così contento di rivederti! –

Maiko lo scostò un poco da sé, tenendolo per entrambe le mani.

-          Piccolo mio, quanto sei cresciuto, fatti vedere! – Lo tirò giù e gli baciò le guance, gli occhi appena lucidi di lacrime di commozione, squadrandolo da capo a piedi. – Questo è un giorno bellissimo, finalmente sei di nuovo qui! ... Che bello che sei, come stai? -

Ma non attese che le rispondesse, perché, sempre tenendolo per mano, si girò per cercare il figlio, che era rimasto in disparte a guardare la scena, muto, felice e incredulo quanto loro.

-          Hiro, tu vuoi farmi morire, vero? – Lo apostrofò arrabbiata. – Perché non mi hai detto niente? Se solo avessi saputo… la casa è sotto sopra e io sono impresentabile… o cielo, e Akira è tornato!! – E strillò di nuovo emozionata.

I due giovani si guardarono al di sopra di lei, Hiro un po’ disorientato dai mutamenti repentini, che pur conosceva bene, di sua madre, e Akira che gli sorrideva rassicurante.

-          Mamma, entriamo in casa, usciranno tutti i vicini se continui a urlare così. – Cercò di riprenderla il figlio, pronunciando le parole a voce bassa, davvero terrorizzato di suscitare le attenzioni del vicinato curioso.

-          Si, entriamo. Vieni tesoro, che bello che sei qui!! –

Akira la seguì obbediente, mettendosi a ridere: quanto gli era mancato quell’uragano di donna, per niente uguale a suo figlio, sempre taciturno e scorbutico.

Passando vicino al ragazzo, lo afferrò al volo per una mano e lo trascinò via con loro fino in casa.

La Sig.ra Maiko entrò in cucina e solo allora si accorse di avere in dosso il grembiule con cui fino a poco prima stava rassettando casa.

Se lo slacciò e lo tolse, facendolo volare in un cassetto, poi tirò giù Akira per un braccio perché si sedesse su uno degli sgabelli della penisola che si allungava a elle dal piano della cucina.

Lo fissò qualche attimo con un sorriso smagliante, guardandolo come fa una madre per assicurarsi che ogni cosa sia a posto sul volto del figlio e se lo abbracciò di nuovo con un singhiozzo.

-          Come sono felice, Aki! Ci sei mancato tanto! –

-          Anche voi mi siete mancati, zia Maiko! – Ammise lui, stringendola a sé.

La donna ritornò a fissarlo.

-          Ma quanto bello sei diventato? ... Cielo, sei un uomo, guardati! ... Il mio piccolo tornado che non stava mai fermo! ... Come stai, tesoro? Bene? –

-          Si, grazie, e tu? –

-          Sono felice che tu sia qui… Tua madre e io parliamo sempre di te, di tutte le cose belle che fai negli Stati uniti, di quanto sei bravo! ... Sono così fiera di te! –

-          Grazie, mamma mi manda sempre i vostri saluti… E zio Tori come sta? –

-          Bene, è al lavoro ovviamente. Ma torna per pranzo. Sarà felicissimo di vederti anche lui. Tu rimani a pranzo con noi, vero? ... – Ovviamente non gli diede modo di risponderle. – Certo che sì, ti preparerò tutti i piatti che ti piacciono di più e… -

-          Mamma, lascialo respirare. – S’intromise Hiroaki, cercando di interrompere il suo monologo concitato.

La donna scoppiò a ridere e annuì.

-          Si, hai ragione, piccolo mio… Scusami, Aki, è che sono troppo felice che tu sia qui…-

-          Non preoccuparti, zia, anch’io sono felice… E rimaniamo a pranzo, vero, Hiro? –

Il ragazzo lo fissò solo un attimo, ma poi annuì sorridendo.

-          Vado su in camera mia a prendere delle cose mentre voi parlate dei vecchi tempi! – Buttò là e sparì oltre la porta che dava nel corridoio.

-          Preparo un po’ di tè, vuoi? – Fece Maiko, dandosi subito da fare ai fornelli.

Akira si guardò intorno e si accorse che non era cambiato niente: ogni cosa era rimasta uguale a quando l’aveva vista l’ultima volta.

Ci aveva passato quasi tutta la sua vita tra quelle mura da quando aveva cominciato a frequentare l’asilo insieme a Hiro.

Accompagnando i figli il primo giorno, le loro madri avevano scoperto di essere vicine di casa ed erano subito diventate amiche, quasi sorelle.

E così i rispettivi mariti.

E la casa degli uni era diventata quella degli altri.

E di conseguenza lui e il piccolo Hiro erano venuti su in qualche modo con due madri e due padri, che si erano presi cura di loro, facendoli crescere come fratelli.

Si alzò per raggiungere la porta-finestra che dava sul giardino sul retro alla ricerca di qualcosa che, se non era stato tolto, doveva ancora essere lì oltre l’acero che ombreggiava la casa.

E lo scorse il canestro che il padre di Hiro aveva montato sulla parete del garage, e che era stato il loro campetto privato in cui avevano passato ore e ore ad allenarsi o semplicemente a giocare.

-          E’ sempre lì, non ti preoccupare! – Gli fece la voce affettuosa di Maiko, raggiungendolo alle spalle.

Lui si volse e le dedicò un sorriso.

-          Non è cambiato nulla qui! – Le rispose.

-          No, quasi nulla. – Disse lei con un’inflessione un po’ triste che Akira non seppe decifrare. – Vieni, sediamoci. –

Gli fece un cenno per invitarlo a sedersi e gli versò il tè nella tazza di porcellana.

Ne versò un po’ per sé e prese a girare il cucchiaino dopo averci messo un po’ di zucchero.

-          Sei venuto a prendere il mio piccolo, vero, Aki? – Gli domandò d’un tratto, la voce incrinata dall’emozione.

Akira la guardò negli occhi e capì immediatamente a cosa si stesse riferendo.

Trasalì sorpreso e per un momento non seppe cosa rispondere.

La donna gli sorrise amorevole e gli sfiorò il viso con il dorso della mano in una carezza piena d’affetto.

-          Zia Maiko! – Sussurrò lui confuso.

-          Ti stai chiedendo se so di te e lui? – Akira annuì ancora più incerto. – Sono una mamma, tesoro mio, e certe cose una madre le capisce prima ancora che le capiscano i suoi figli… -

-          Io… -

-          Non aver paura, sono sempre stata felice che fossi tu il ragazzo che aveva fatto innamorare il mio bambino.

Ne avrei avuta se fosse stato un estraneo.

Ma eri tu, il mio piccolo Aki, ed è stato un sollievo. –

-          Zia Maiko, io l’ho sempre amato. –

-          Lo so, tesoro, lo abbiamo sempre saputo, sebbene voi non ce ne abbiate mai parlato.

E se vuoi proprio saperla tutta, io e tua madre abbiamo scommesso su chi di voi avrebbe fatto la prima mossa a dichiararsi. –

-          Che cosa? – Esclamò Akira incredulo.

Non lo aveva mai saputo.

Maiko fece una risatina divertita, che poi si trasformò di nuovo in un sorriso materno.

-          E di sicuro non deve essere stato il mio piccolo, scorbutico, intrattabile bimbo. –

Stavolta fu il giovane a mettersi a ridere.

-          No, sono stato io. - 

-          Ah, ne ero sicura! ... Dovrò reclamare la mia vincita nei confronti di tua madre. Lei ha sempre insistito che sarebbe stato Hiro a fare il primo passo perché più giudizioso.

Io invece cercavo di convincerla che era impossibile perché troppo terrorizzato … E come non capirlo: non dev’essere stata una realtà facile da accettare! -

Akira non seppe che pensare: si era sempre confidato con i suoi, lui, perché parlare di quel sentimento che gli cresceva dentro con sempre maggiore chiarezza, era stata la cosa più naturale del mondo.

E sapeva invece che Hiro non lo aveva mai fatto con nessuno, già terrorizzato a un certo punto della sua adolescenza di scoprirsi gay, figurarsi ammettere di amare qualcuno, il suo miglior amico, per giunta.

Che Maiko la prendesse con tale semplicità lo disorientava non poco.

I genitori di Hiro erano brave persone, di ampie vedute, lo sapeva.

Ma non “così” ampie!

Davvero non se lo aspettava.

-… Zia Maiko… davvero non vi fa… non … - Non sapeva come spiegarsi, per la prima volta non sapeva che parole trovare.

Ma la donna lo tolse subito d’impaccio.

-          Vogliamo solo che stiate bene, tesoro, che siate due uomini non ha davvero alcuna importanza se i sentimenti sono veri… non è questo che vi abbiamo sempre insegnato? –

-          Si, ma… ecco… sono senza parole! –

Maiko rise di nuovo.

Poi trasse un profondo respiro e si intristì.

-          Solo… avremmo voluto che Hiroaki si fosse confidato con noi come tu hai fatto sempre coi tuoi genitori.

Ma il mio piccolo è sempre stato troppo chiuso e riservato, soprattutto su questioni che lo mettevano in difficoltà.

Ci vogliamo un bene dell’anima, ma quando si tratta di parlare, è un’impresa titanica con lui.

E le volte in cui in qualche modo, abbiamo cercato di fargli capire che qualunque cosa avesse da dirci, poteva farlo senza problemi, e che saremmo sempre stati pronti a supportarlo… beh… puoi immaginarlo, sono stati tentativi inutili.

-          E’ stato difficile anche per me farlo aprire, zia! ... 

-          Non fatico a crederti, ma almeno con te l’ha fatto ed è già qualcosa… Solo che… poi qualcosa dev’essere successo tra voi, quando sei partito per gli Stati Uniti e Hiro non è stato più lui.

Qualcosa di grave che lo ha portato a litigare con te e ad allontanarsi anche da noi.

E per quanto abbiamo fatto per capire, non ci ha mai voluto spiegare niente.

Si è tenuto tutto dentro, si è chiuso nella sua ostinazione e a nulla sono valsi i tentativi buoni come quelli cattivi.

Se ne è andato a T. per studiare in un’università che fino a quel momento non aveva nemmeno preso in considerazione… e si è trovato un lavoro di cui non ci ha mai voluto parlare, in un locale, pare.

Ce lo vedi tu il mio bambino silenzioso in un locale?

E sono cinque anni che lo vediamo un mese sì e uno no.

E quando arriva, sta un po’ con noi, scambiamo giusto qualche frase di circostanza e poi se ne va in camera sua.

Ci ha giusto avvertiti per la cerimonia di laurea un anno fa.

E anche lì è stato facile intuire che non si era fatto molti amici neppure in facoltà. –

Maiko mise una pausa per esalare l’ennesimo sospiro addolorato.

Akira le cercò una mano per stringerla tra le sue e lei lo ricambio con un sorriso stentato.

-          Io non so cosa sia successo tra voi, Aki, nemmeno tua madre, pare, ne sappia niente… Mi ha sempre detto che avete litigato, ma non ne ha capito la ragione … abbiamo ipotizzato che forse Hiro se la fosse presa perché a te erano venuti a cercarti quelli del basket americano e a lui no… una questione di invidia, che so… -

-          No, zia, no, Hiro non è stato mai invidioso di me! –

-          E’ quello che ci siamo detti sempre anche noi, perché lo sapevamo bene quanto lui fosse orgoglioso di te e del tuo talento.

Non faceva che vantarsi con tutti di quanto tu fossi bravo, spettacolare, meraviglioso… E poi, di colpo, senza un motivo apparente, mette distanza tra voi e non vuol più parlarne… Non immagini quanto ci siamo rotti il cervello, io e suo padre, a trovare una spiegazione… -

Senza rendersene conto, la donna aveva cominciato a singhiozzare sommessamente, ancora disperata per quel suo unico, difficile figlio che aveva tagliato i ponti con tutto e tutti, senza che avesse concesso ad alcuno di intuire un motivo, di dare un senso al suo isolamento.

Akira provò una stretta al cuore e non seppe fare altro che stringerle le mani tra le sue per confortarla e cercare di calmarla.

La aiutò ad asciugarsi gli occhi e le sussurrò parole di incoraggiamento, mentre sentiva dentro fitte di angoscia che gli si attorcigliavano intorno allo stomaco, contraendolo in morse di dolore lancinante.

Si rese conto, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno, che non avevano sofferto soltanto loro due in quegli anni, ma anche le loro famiglie.

Che anche lui, come Hiro, a un certo punto si era rifiutato di discuterne con i suoi, lasciandoli definitivamente fuori dalle loro vite, distruggendo in pochi attimi una vita di condivisione e di bellissimi ricordi, impedendo a chiunque di loro di avvicinarsi.

-          Lo so che è stata colpa di mio figlio se voi vi siete divisi… - Fece per riprendere Maiko.

Ma Akira non glielo permise e la fermò non appena sentì la parola “colpa”.

-          No, zia Maiko, Hiro non ha fatto niente. – Le rispose accorato. – Lui ha solo voluto il mio bene, credimi. Ha sacrificato se stesso, mettendosi da parte, perché io potessi realizzarmi… Non ha fatto niente di male… ha pensato solo a me e non a lui! –

-          Perché? –

-          Lo sai com’è fatto, quando ama lo fa incondizionatamente e mette sempre se stesso in secondo piano.

E lo ha fatto anche 6 anni fa… -

E si lanciò nel racconto di quei terribili anni, lasciando la donna completamente esterrefatta.

Non le disse però quale fosse il “lavoro” in cui suo figlio si era trovato intrappolato, né che aveva tentato il suicidio: l’avrebbe uccisa, lo sapeva.

Semmai un giorno avesse voluto, sarebbe stato Hiro stesso a parlargliene, ma fino a quel momento avrebbe custodito gelosamente quel segreto che poteva soltanto fare più male alle persone a cui volevano bene.

-          Io… non avevo idea… - Balbettò Maiko interrompendo i suoi pensieri.

-          Nemmeno io, zia, fino all’altro giorno… -

-          Il mio bambino… sempre solo con se stesso… oh Aki!! –

Lui la abbracciò forte.

-          Adesso non più, zia Maiko, te lo prometto, non permetterò mai più che accada. –

La donna gli prese il viso tra le mani e gli depose un bacio in fronte.

-          E.. te lo porti via con te? – Gli chiese a metà tra lo speranzoso e l’incredulo.

-          Si, torniamo insieme per sempre, come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio. –

-          E… lui lo vuole? –

-          Certo che sì… abbiamo un’altra possibilità, non possiamo sprecarla. –

-          Non si perdonerà mai per tutto questo, lo so, lo conosco! –

-          Lo costringerò a farlo: siamo stati male abbastanza, adesso basta! –

Maiko annuì convinta.

-          Lui ti ha sempre amato tanto, Aki, sei sempre stato il suo punto fisso. Tutta la sua vita… -

-          E lui la mia, non ci rinuncerò e non lo permetterò mai più neanche a lui. –

-          Oh, tesoro mio!! – Lo abbracciò di nuovo con trasporto. - … Devi salire in camera sua, Aki, adesso. –

-          Come? ... Zia, Hiro mi ha chiesto di aspettarlo qui e… -

-          No, devi salire, e vedere coi tuoi occhi. –

-          Che cosa, non capisco! –

Lei si mise d’un tratto in piedi e tirò su anche lui.

Con una mano dietro la schiena, lo sospinse verso la porta del corridoio da dov’era uscito il figlio poco prima.

-          Vai su da lui, tesoro, la strada la conosci. – Lo incitò con un sorriso che di gioia non aveva nulla.

Akira la guardò inquieto, colto da una sensazione sgradevole che però non seppe definire, ma non ebbe animo di opporsi e obbedì, chiedendosi perché mai volesse a tutti i costi che salisse.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

 

Davanti alla porta della camera di Hiroaki, Akira si fermò incerto.

Zia Maiko aveva insistito perché salisse e “vedesse con i suoi occhi”.

Ma cosa avrebbe dovuto vedere?

E perché Hiro, invece, già prima ancora di scendere dalla macchina, gli aveva chiesto di aspettarlo di sotto, che avrebbe fatto presto e sarebbe ridisceso?

Non capiva.

Gli mancavano dei tasselli in un quadro che aveva una palese stonatura, ma non riusciva a comprendere quale.

E perché a un tratto non sapere lo disturbava tanto da fargli avvertire una sorta di ansia a fior di pelle?

Cosa mai poteva esserci dietro quella porta oltre la camera di un ragazzo che lui conosceva come le proprie tasche per averci passato insieme tutta la sua vita?

Decise che l’unica soluzione a quell’improvvisa angoscia era di bussare ed entrare.

E lo fece.

Ma dopo il primo tentativo non giunse alcuna risposta dall’altra parte.

Batté di nuovo le nocche sul legno della porta, stavolta con più energia.

-          Hiro, sono io, posso entrare? – Accompagnò il gesto pronunciando le parole in tono tranquillo.

Ancora un momento di silenzio, poi: -

-          Aki, aspettami giù, ho quasi finito! – La risposta del ragazzo che gli giungeva un po’ ovattata.

Era ansia l’inflessione che aveva percepito?

Si chiese Akira, turbato.

-          Amore, lasciami entrare, per favore! –

Ma perché doveva persuaderlo?

Che significava?

Cosa voleva nascondergli?

-          Ti prego, no! –

Adesso la risposta gli era giunta più vicina, segno che Hiro gli stava parlando da dietro la porta.

Addirittura lo stava pregando!

Perché?

Aveva sempre avuto libero accesso in camera sua come fosse stata la propria, per quale motivo ora cercava di impedirglielo?

Era sempre più confuso.

Questo tuttavia non lo dissuase, anzi, rafforzò in lui la convinzione che ci fosse qualcosa di strano.

-          Zia Maiko mi ha chiesto di salire espressamente da te, perciò non me ne vado, aprimi, ti ho detto! –

-          Mamma non sa quel che dice, non le dare retta, vai di sotto …  è meglio. –

La voce che si andava spegnendo quasi sotto la spinta di un principio di… cosa… pianto?

-          Amore mio, cosa c’è? –

Un profondo sospiro gli giunse alle orecchie.

-          Non vale se mi chiami così, smettila!! –

Per tutta risposta Akira mise la mano sulla maniglia e provò a girarla.

Si era aspettato di trovarla chiusa a chiave, invece questa scattò sotto la sua pressione, e si schiuse.

Piano aprì la porta e subito incontrò il profilo di Hiroaki, che, schiena contro la parete, fissava le proprie mani serrate una contro l’altra con tale forza da averle quasi bianche.

-          Hey! – Lo chiamò, avanzando verso di lui.

Hiro trasalì, ma non osò guardarlo direttamente, lasciando che entrasse nella camera.

Lo scorse che gli si fermava davanti e gli si chinava addosso, poggiando una mano al muro poco sopra la sua testa.

Inevitabilmente il suo profumo lo avvolse, stordendolo e mandandogli il cuore in confusione.

-          Amore, stai bene? – Si sentì chiedere in un soffio a pochi centimetri da sé.

Tutto quel che gli riuscì di fare fu un gesto incomprensibile con il capo che Aki non seppe interpretare come un sì o un no.

Lo scorse soltanto pallido e nervoso e non seppe spiegarsene la ragione.

A ben rifletterci lo era stato per tutto il viaggio dall’albergo a lì.

Avevano parlato del più e del meno senza addentrarsi in discorsi particolari o difficili come avevano fatto fino alle tre di quella mattina.

Hiro gli aveva riferito qualcosa del quartiere.

Lui gli aveva raccontato di essere andato a trovare i suoi qualche giorno prima.

Ma tra loro la sensazione di nervosismo da parte del ragazzo non si era stemperata.

Anzi, era cominciata già quando quella mattina a colazione gli aveva detto che lo avrebbe accompagnato per rivedere gli zii.

Hiro non si era mostrato null’affatto entusiasta.

Perché?

Senza più indugiare portò l’altra mano sotto il suo mento e glielo sollevò delicatamente perché finalmente lo guardasse, e Hiro obbedì al comando nemmeno troppo velato, ma distolse lo sguardo alla sua destra, evitandolo ancora.

Un’ombra contrariata e soprattutto preoccupata passò sul volto di Akira: lo stava spaventando!

Tuttavia decise di non attaccarlo frontalmente per evitare qualche sua brusca reazione.

Invece rifece pressione per rigirarlo verso di sé e gli posò un lieve bacio sulle labbra esangui.

In cambio ricevette il suo alito tiepido e dolce che usciva nell’ennesimo sospiro ansioso.

Lo aspirò senza staccarsi da lui, assorbendo la sua improvvisa e inspiegabile angoscia.

-          Amore mio, cos’hai? –

-          Dovevi aspettarmi giù… - Protestò ancora Hiro, flebile e poco convinto.

-          Perché? Cos’ è che non vuoi che veda? … Conosco camera tua … - Stette per fargli notare l’ovvio, mentre sollevava lo sguardo intorno con un gesto che avrebbe dovuto essere altrettanto scontato, e quel che vide gli spezzò le parole sulle labbra.

Era sempre la sua camera.

La scrivania sotto la finestra, l’armadio sulla sinistra, la libreria sulla destra.

Dietro la porta, il muro piegava nell’ampio vano dove il solito letto da una piazza e mezza era sistemato dove era sempre stato, creando una sorta di ambiente a sé, quasi una seconda, piccola camera, tenendolo appartato dal resto, e che gli era sempre piaciuto un sacco perché intimo e celato agli occhi di chi entrasse nella stanza.

Eppure non era la stessa camera che ricordava.

Gli spazi delle due pareti della zona a giorno, tra l’armadio, la scrivania e la libreria, erano tappezzati di poster che ritraevano lui sui campi di basket.

Sulle ampie ante dell’armadio stesso erano attaccate due gigantografie di due azioni diverse di una medesima partita che aveva disputato un anno indietro, e che riconobbe immediatamente.

I ripiani della libreria che una volta sostenevano i libri di scuola, le riviste di basket e i fumetti, adesso erano colmi di dvd tutti ordinatamente catalogati per data e argomento, altre riviste di basket chiaramente americane, e foto incorniciate, tutte diverse, tutte con il medesimo soggetto: se stesso.

Ritratto in altre azioni di gioco, o mentre usciva da un locale, o in mezzo alla strada.

Ma ciò che spinse il suo corpo a una torsione su se stesso fino a fermarsi a pochi centimetri dal letto, furono le sue foto a grandezza naturale sulle tre pareti della rientranza, e una sul soffitto che identificò con altrettanta rapidità.

 

La prima sul muro ai piedi del letto era del calendario che aveva fatto per beneficenza quasi due anni prima: giugno.

Era a torso nudo inginocchiato in riva al mare, completamente bagnato, le gocce d’acqua sulla sua pelle bianca formavano una cascata di milioni di cristalli risplendenti di luce.

Un paio di jeans neri, unico indumento, gli fasciavano le lunghe gambe, e la stoffa, fradicia, sembrava tendersi in uno sforzo sul punto di esplodere sotto la pressione dei muscoli tesi.

I primi due bottoni erano aperti e vi si intravedeva un accenno di biancheria intima bianca.

Le dita della mano sinistra vi si immergevano appena, come a voler sfiorare casualmente il suo sesso, in un gesto erotico, ma non volgare.

La mano destra invece cercava di tirare indietro le ciocche bagnate di capelli neri che gli si erano appiccicate sul viso.

Lo sguardo intenso, magnetico, appena socchiuso, fisso nell’obiettivo, che sembrava raggiungere e sprofondare nell’anima di chi lo guardava in una muto invito a toccarlo, sentirlo, fondersi con lui.

Un sapiente fotoritocco aveva accentuato il blu delle sue iridi, unico colore sul bianco e nero della foto, creando un effetto inquietante e sensuale al tempo stesso.

Una trappola senza scampo.

La bocca, piena, perfetta nel suo disegno, schiusa e brillante di gocce d’acqua, da cui faceva capolino la punta di una lingua impertinente che sembrava sussurrare “assaggiami” senza ombra di equivoci su quel che avrebbe voluto.

Erotica.

Letale.

Aggressiva.

Gli unici aggettivi che venivano in mente osservando quell’immagine.

 

La seconda gigantografia occupava la parte centrale del soffitto dove una volta c’era stata una lunga lampada al neon.

Era un fotogramma, sempre in bianco e nero, di uno spot pubblicitario di una nota marca di biancheria intima.

C’era solo lui, completamente nudo, disteso supino su un letto, con indosso un paio di jeans chiari, strappati sulle cosce e slacciati davanti, fermati al di sotto dei fianchi, che gli coprivano a malapena il bacino, senza tuttavia far intravedere alcunché.

Le braccia erano sollevate e incrociate sulla fronte, appena visibile solo una parte del viso, che però era stata tenuta ombreggiata, offrendo all’osservatore i muscoli dell’ampio torace e degli addominali, sottolineati dolcemente dal gioco del chiaroscuro, dove ombra e luce sembravano rincorrersi e rotolare fino a tuffarsi nell’incavo del ventre piatto.

Nello spot non era mai comparso nessun capo di biancheria.

In sottofondo era state messe le note della Sonata al chiaro di luna di Beethoven, sapientemente riarrangiata, e l’obiettivo della telecamera era scivolato lento e ipnotico sui più piccoli particolari del suo corpo, rilassato tra le lenzuola, soffermandosi qualche istante al confine delineato dalla cerniera aperta, come a evocare il prodotto che stava pubblicizzando, e che in effetti non c’era,  imitando il languore della musica, e lasciando all’immaginazione dello spettatore la libertà di far correre i pensieri.

Poi andava a nero, e compariva solo il marchio.

Akira ricordò vagamente che lo spot aveva avuto parecchio successo, mentre rifletteva che se si sdraiava sul letto, avrebbe potuto sollevare le braccia e accogliere idealmente il corpo ritratto come fosse stato reale.

 

L’ingrandimento sulla testata del letto invece era il manifesto pubblicitario di un profumo da uomo, dove di lui compariva solo la metà sinistra del volto.

La luce delineava il profilo deciso della guancia, le labbra serrate in una linea imperscrutabile.

Alcuni capelli, che sembravano essere sfuggiti ribelli a quelli tirati indietro, si allungavano sulla pelle liscia, oltre la carta stessa, come fili di seta sospinti da un immaginaria folata di vento.

L’unico occhio visibile, il cui blu dell’iride era stato estremizzato dalle mille sfumature del fotoritocco, e che riprendeva le screziature del cristallo in cui era racchiusa la fragranza pubblicizzata, fissava direttamente l’osservatore, l’espressione glaciale e arrogante come se avesse voluto entrare fino in fondo all’anima e lì imbrigliarla.

 

Rimaneva l’ultima, enorme foto, quella sulla parete di mezzo.

Delle altre non gliene importava nulla, erano state solo alcune delle tante della sua carriera di fotomodello e testimonial di prodotti commerciali.

Ma quella era la sua preferita.

Occupava un posto speciale nel suo cuore e per qualche ragione, a lui ancora sconosciuta, Hiro l’aveva scelta tra le tante e voluta proprio lì, senza che, ne era sicuro, ne conoscesse la genesi.

Una storia che nessuno conosceva, tranne lui.

La foto era a colori.

Era stata fatta un anno e mezzo prima per rappresentare i titolari della sua squadra in un servizio giornalistico sul Time.

La fotografa che gliel’aveva scattata aveva voluto qualcosa di originale che non fossero le solite pose estrapolate dalle partite.

E così aveva lavorato singolarmente con lui e gli altri ragazzi, chiedendo a ognuno di loro di scegliere quel che preferivano.

Per caso, in una pausa, lui si era seduto a terra contro il muretto di mattoni rossi dei giardini fuori dalla palestra dove si allenavano.

La palla arancione dimenticata a pochi centimetri da sé.

Era scalzo e a dorso nudo perché era estate, addosso solo un paio di pantaloncini corti neri con i profili bianchi sui fianchi stretti.

Teneva le ginocchia piegate e le gambe divaricate in una posa rilassata, le braccia appoggiate sulle cosce e le mani abbandonate nel mezzo.

E non c’era nulla di particolare nella posa.

Aveva il viso girato di lato, il profilo perfetto baciato dal sole del pomeriggio, lo sguardo perso lontano che guardava un punto qualunque.

Ma l’espressione era particolare.

Era rapita da un pensiero che gettava un’ombra dolce e melanconica sui suoi tratti.

Gli aveva incurvato impercettibilmente le labbra nell’accenno di un sorriso pieno di nostalgia e gli aveva messo negli occhi una luce dolorosa e tenera al tempo stesso.

 

Hiro.

 

Dove sei?

 

Quell’espressione aveva colpito la fotografa.

La donna lo aveva sorpreso in quella posizione e ne era rimasta inspiegabilmente turbata. Aveva voluto immortalarlo così ed era stata categorica sulla propria volontà di volere proprio “quello” scatto per l’articolo.

Ricordava che gli aveva chiesto a cosa stesse pensando in quel momento da trasfigurarlo in modo così meraviglioso e struggente.

Che, non sapeva perché, ma gli era parso di intravedere in quel breve istante di tempo, il frammento di un Akira tormentato e addolcito da un ricordo doloroso e dolce.

Lui le aveva semplicemente sorriso, ma non le aveva svelato il segreto.

E le aveva dato il permesso di usarla.

  

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

 

 

 

-          Non avevo dubbi che fossi il primo tra i miei fans! – Rifletté Akira, voltandosi verso la porta, dove Hiro era rimasto impalato ad attendere.

Il ragazzo trasalì al tono affettuoso della sua voce e arrossì suo malgrado.

-          Tutto quel che esiste su di te è qui dentro. – Gli confidò con un filo di voce, evitando accuratamente di sollevare lo sguardo su di lui.

-          Tutto! – Ripeté Aki colpito, deliziandosi del suo imbarazzo.

Hiro assentì e finalmente si staccò dalla parete con cui sembrava avesse voluto fondersi fino a quel momento senza tuttavia riuscirvi.

Accostò la porta e diede una mandata di chiave per bloccarla.

Poi gli si fece incontro, ma andò oltre, fermandosi davanti alla libreria.

-          Qui c’è tutto il mio mondo. – Riprese.

Con devota cautela passò le dita sul dorso dei numerosi dvd impilati sui ripiani come fossero stati preziosi oggetti di cristallo da maneggiare con cura, poi si portò la mano al petto e se la strinse con l’altra in un gesto avvilito.

Akira lo affiancò e rimase a osservarlo in attesa che gli fosse rivelato un altro doloroso spaccato della sua vita che aveva perso in quegli anni.

-          Ho registrato tutte le tue partite, le interviste sui campi di gioco. Ogni tua apparizione televisiva, casuale o rubata.

E quel che non sono riuscito ad avere, me lo son fatto mandare dai tuoi fanclubs.

Ho raccolto tutti gli articoli su di te sia di basket che di moda.

Tutte le pubblicità che ti hanno visto testimonial.

Qualunque cosa. –

-          Hiro… -

-          E’ stato il mio pane… lo scopo per cui mi sono trascinato pateticamente fino ad oggi. Questa stanza è il mio rifugio, dove mi chiudo dentro e dove posso vivere… con te!! –

-          Scricciolo!! – Aki fece per toccarlo, spezzato dal dolore che gli si stava propagando in mezzo al petto per quelle sue parole disperate.

Ma Hiro si scansò con un movimento istintivo, mettendo distanza tra loro come se in quel momento non avesse potuto sopportare alcun contatto fisico.

-          Qui ti guardo per ore e ti parlo di quel che mi passa per la testa. – Soggiunse mentre un pallido sorriso colmo di sarcasmo gli si disegnava sulle labbra pallide. – No, non della mia vita da prostituta… quello mai… ma dei miei pensieri! -

Aki sobbalzò, incapace di reprimere la sensazione di profondo fastidio che gli suscitava tutte le volte quella parola.

Il ragazzo se ne accorse e finalmente trovò il coraggio di sollevare gli occhi su di lui: gli parve ancora più bello con l’espressione contrariata che gli lesse sul volto rabbuiato.

-          Perdonami, ma è quel che sono! – Lo implorò in un sussurro scorato, rassegnato all’incontestabile verità.

Una luce violetta, sottile e affilata come una lama, scurì le iridi cobalto del suo compagno, costringendolo a distogliere di nuovo le proprie, colmo di vergogna per se stesso.

Fece qualche passo e andò a sedersi sul bordo del letto.

Qui si guardò intorno, cercando conforto nelle immagini del giovane uomo sulle pareti, che lo fissava con tutt’altre espressioni e che gli aveva regalato momenti di dolce intimità più di una volta.

Non poté però ignorare che quello vero, reale, lo stava raggiungendo.

Gli si contorse lo stomaco per la sofferenza: aveva tanto sognato di riaverlo proprio lì, tanto vero da poterlo toccare se solo avesse allungato una mano, senza scontrarsi con il freddo di un muro e di un foglio di carta patinata.

Percepire sotto le dita il calore e la morbidezza della sua pelle serica.

Sentirsi rabbrividire di piacere.

Aki gli si era avvicinato, ma lui aveva perso di nuovo il coraggio di guardarlo, spaventato da quel che poteva pensare di lui in quel momento.

Così non si accorse che si era soffermato accanto alla piccola consolle accanto al letto, dove oltre all’abat-jour erano abbandonate un paio di riviste di basket e dei minuscoli auricolari wi fi.

Solo quando con la coda dell’occhio lo vide che prendeva i due bottoncini bianchi dalla superficie e se li portava incuriosito alle orecchie, balzò di scatto in piedi e si slanciò verso di lui per sottrargliele.

Sorpreso dalla sua reazione, Akira si scansò, sfuggendo alla sua aggressione più per istinto che per volontà, Hiro si sbilanciò e cadde di fianco sul materasso.

-          Cosa…? – Stette per dire, quando lo stereo a cui le cuffie erano collegate si attivò in automatico, stimolato dal segnale radio partito dagli auricolari.

Ascoltò i suoni che lo raggiunsero, sulle prime senza capire cosa stesse ascoltando.

-          No, Aki, no! – Protestò Hiro fuori di sé, rimettendosi in piedi.

Ma non si protese verso di lui un’altra volta, cercò invece forsennato il telecomando dell’hi-fi per spegnerlo nel disperato tentativo di evitare l’ennesima umiliazione.

Tuttavia fu tutto inutile: l’infernale aggeggio ovviamente era irreperibile e il contenuto del cd che era partito, sembrò diventare eloquente a uno stupitissimo Akira, che si volse a guardarlo a bocca aperta.

Gli parve che il terreno gli si aprisse sotto i piedi e lo inghiottisse tutto di colpo.

Adesso lo sfacelo era compiuto, si ritrovò a pensare, incapace di fare un solo movimento: il corpo gli si paralizzò per il terrore che lo avvolse in una morsa soffocante e tagliente da fargli contrarre i polmoni.

Non gli riuscì più nemmeno di formulare un pensiero, una reazione, niente!

Nella testa si spandeva solo il vuoto sotto il peso della consapevolezza che nulla lo avrebbe potuto salvare dal disgusto che di lì a poco l’uomo davanti a sé gli avrebbe riversato addosso.

Già sentiva rivoli gelidi sferzargli la pelle e tutto il suo mondo di speranze ritornò ad accartocciarsi su se stesso, morto ancor prima di rivivere a nuova vita.

-          Hai… registrato quella notte! –

Le parole sconcertate presero corpo nell’aria immobile intorno a loro, diventando macigni roventi sulla pelle di Hiroaki.

Chiuse gli occhi per non vedere, sperando invano anche di non sentire più niente.

Akira continuò ad ascoltare i sospiri alterati dall’ansia, gli ansiti spezzettati, le sue parole d’amore sussurrate al suo ragazzo, che gemeva tra le sue braccia per il piacere che gli stava dando.

Riconobbe la preghiera che gli era stata rivolta di far piano e come in un flashback, rivide la scena della loro prima volta, di lui che paziente coccolava e corteggiava un Hiro imbarazzatissimo e nudo sotto di sé, ansioso di concederglisi, ma anche spaventato dalle sensazioni che stava provando, nuove e potenti e sconosciute.

Lentamente si tolse gli auricolari e li rimise sulla consolle.

-          L’hai registrata… perché? – Domandò al giovane adulto che gli stava impietrito davanti, incapace di un solo fiato.

Hiro non si mosse.

Allora lo prese per le braccia dolcemente, attento a non spaventarlo più di quanto già non fosse, e se lo avvicinò.

La prima cosa che fece fu baciargli la fronte, accorgendosi che era imperlata da un velo di freddo sudore.

Vi appoggiò una guancia mentre si tirava il suo corpo contro.

Poté sentire tutto il panico che lo faceva vibrare e desiderò riuscire a cancellarlo in qualche modo perché non ve n’era ragione.

-          Amore mio! – Gli sussurrò sgomento. – Quanto male ti sei fatto!! –

In risposta ricevé solo un singulto tormentato che gli fece arrivare sulla pelle il suo respiro tiepido.

Lo strinse a sé in un abbraccio che avrebbe voluto proteggerlo da tanta sofferenza.

 

-          Io sono impazzito, Aki! … - Gli giunse dopo parecchi minuti la voce rovinata di Hiro. - …L’ho registrata con il cellulare per poterne conservare il ricordo quando tu non ci fossi più stato.

… Se non avessi trovato una scappatoia, non ce l’avrei fatta.

Faceva così male senza di te… era una sensazione costante che non si affievoliva mai… più il tempo passava e più diventava intensa… non è vero che guarisce le ferite… nel mio caso la rendeva solo più enorme…

Un dolore insopportabile… insopportabile!!!... –

Raccolse un profondo respiro, ma lo espulse in frammenti sempre più piccoli man mano che le lacrime ritornavano ad aggredirlo.

Tremò tutto.

Akira rafforzò il suo abbraccio, accompagnandogli il capo contro il suo petto.

-          Prima o poi … avrei riprovato a uccidermi… perché andare avanti così era qualcosa che esulava dalle mie capacità… era inutile che Louis mi tenesse d’occhio… aspettavo solo che mi mollasse in qualche momento e lo avrei rifatto…

Poi… una notte… su un canale sportivo satellitare hanno mandato un servizio sul basket americano.

E ti ho visto. – Hiro premette il viso nel tessuto morbido della sua camicia. – Ti ho visto, Aki!! … E il mio cuore si è fermato… eri magnifico mentre eseguivi uno spettacolare Windmill Dunk… la mia testa è volata via con te verso il canestro e non è più tornata.

Dev’essere stato quello il momento in cui mi sono… come diviso in due…

… non lo so… è stato tutto così naturale… strano anche… non sono più riuscito a vedermi… c’era la parte di me che sottostava ai clienti dell’agenzia… e la parte di me che invece correva dietro a te… E nessuna delle due parti comunicava con l’altra…  Così è nato tutto questo! – E fece un gesto verso il contenuto della stanza intorno. - … Ho cominciato a crearmi questo mondo fatto solo di me e di te dove nessun altro entrava.

Era una cosa solo mia… una specie di parentesi in un altro universo…

… Mi ci sono nascosto per… rincorrere l’illusione di poterti avere con me… e… un po’ mi ha aiutato perché… ho cominciato a pensare di meno di voler morire.

Quando non ne potevo più, lasciavo tutto e tornavo a casa… e tu eri qui ad aspettarmi… e ci guardavamo attraverso le tue foto… i video delle tue partite… gli spot pubblicitari…

… Eri così meraviglioso… unico… e mi fissavi dall’obiettivo della telecamera…

… Ho fatto l’amore con te… - Nel dirlo la voce si fece più bassa, emozionata. - … Oh sì, tante volte, solo con te… gli auricolari nelle orecchie e le immagini di quegli spot dove tu non dici mai niente, ma è il tuo bellissimo corpo a farlo per te… così perfetto, sexy… irresistibile…

… E ti ho amato tanto, offrendoti me stesso… toccandomi come avrei voluto facessi tu… e solo allora ho provato delle sensazioni fortissime… così intense che a volte ho dovuto nascondermi nei cuscini per soffocare le urla e non farmi sentire…

Era così bello poterti avere dentro di me almeno nella mia testa… mentre fuori… non sentivo niente… niente mi arrivava da nessuno di quelli che si prendevano il loro piacere dal mio corpo… niente!!! –

Deglutì con difficoltà, ma stranamente si sentì finalmente più leggero.

Il fiume di parole che aveva buttato fuori sembrò in qualche modo aver fatto defluire l’orrore parossistico che aveva marchiato a fuoco la sua anima in quegli anni, stemperandone il peso.

L’unica cosa che lo inquietava ancora era il giudizio dell’uomo che lo teneva possessivamente stretto a sé.

Cosa potesse pensarne di lui non riusciva a immaginarlo.

Lo sapeva di non essere più stato sano di mente dalla loro separazione in poi.

Lo aveva sempre saputo malgrado tutto.

Anche se non gli era importato.

Ma Aki come lo avrebbe visto?

Sarebbe stato ancora fermo nella sua intenzione di ritornare insieme dopo tutto quel che gli stava raccontando?

O avrebbe riconsiderato la situazione alla luce della sua follia?

 

E lui faceva bene a essere così sincero?

 

Certo, glielo aveva promesso: da quel momento si sarebbero sempre parlati e raccontati tutto per evitare altri disastri alle loro vite.

Ma era giusto?

O avrebbe solo peggiorato le cose?

 

E se lo avesse spaventato con la sua instabilità mentale?

Una cosa era ritrovarsi e fantasticare su un loro possibile riavvicinamento…

Un’altra fare i conti con il casino che era diventata la sua vita.

 

Non tremare più, amore mio!

E’ tutto finito.

Non dovrai più vivere così, lo giuro!

Se solo avessi immaginato tutto questo…

… se solo avessi capito… intuito qualcosa… non sarei rimasto lontano tanto tempo a macerarmi nel mio dolore… sarei ritornato di corsa qui da te e al diavolo ogni cosa!

 

I pensieri si affollavano nella testa sgomenta di Akira mentre scioglieva le braccia e le mani raccoglievano il volto pallido e distrutto del suo piccolo, folle amore.

 

Rincorse i suoi occhi sfuggenti fino a intrappolarli con i propri, ma non riuscì a sorridergli.

-          Cureremo insieme tutte queste ferite, amore mio! – Gli sussurrò accorato. – Io sono qui adesso… per quanto tempo sia passato… sono qui e tu sei sempre mio… ricominceremo d’accapo… -

-          Aki, io ti amo… ma sono quello che sono… -

-          Tu sei il mio scricciolo bellissimo… !! –

 

Mio!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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