Una rondine d'inverno

di _Nephilym_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una tipica mattina in casa Duncan... o quasi ***
Capitolo 2: *** C'è chi arriva tardi per scelta, e chi per destino. ***
Capitolo 3: *** Non si può scappare per sempre ***



Capitolo 1
*** Una tipica mattina in casa Duncan... o quasi ***


Quand'ero piccola, mia madre mi diceva sempre di non immischiarmi in guai troppo grossi per una piccoletta come me, e mio padre mi guardava da dietro il giornale ed annuiva per darle ragione, facendo così scivolare i suoi sottili occhiali lungo il dritto naso.

Io per “guai seri” intendevo il rincorrere i cani randagi, come ero solita fare, o il fare a pugni con i miei amichetti dopo aver fatto bisticcio, cosa che accadeva altrettanto spesso, ma crescendo ho capito cosa quella santa donna intendesse.

Il più grande guaio in cui una persona mentalmente sana possa cacciarsi e non uscirne mai indenne, per quanto possa suonare cinico e pessimista da dire è l'amore.

Voglio dire, avete mai provato ad innamorarvi, cazzo?! E' l'inferno in terra, una cresciuta guardando soap opera con la nonna nella sua casetta di campagna, pensa che prima o poi si trovi sempre il vero amore, e che non ci siano mai intoppi, che tutto sia dannatamente perfetto.

Ma l'amore non è così, l'amore è qualcosa di profondo, così tanto da farti girare la testa, così intenso da farti impazzire, ed è per questo che quando fu il mio turno di sentire il vero amore, questo mi colpì in pieno come una tempesta inaspettata.

Ma se per lei avrei dovuto sopportare tutto questo casino, allora l'avrei fatto più che volentieri.

 

 

 

 

“Jesse alza le chiappe, ADESSO!” urlò mia nonna dal piano di sotto.

Donna adorabile la nonnina, ottant'anni e aveva ancora le corde vocali di un pescatore norvegese.

Mi smossi sotto il pesante strato di lenzuola e coperte che mi sovrastava e mugugnai in disapprovazione,

“Per nostro signore muoviti o farai tardi, e non ho nessuna intenzione di ricevere un'altra chiamata dalla signorina Mc Fletchers per sentirmi dire che la mia ragazza è sgattaiolata in classe dalla finestra...”

Non mi scomposi più di tanto, dal momento che, assaporando ancora il mio sogno, non avevo compreso nemmeno un quarto di ciò che aveva detto,

“Il PRIMO GIORNO DI SCUOLA” concluse urlando.

Primo... aspetta cosa!?

Schizzai a sedere facendo volare dall'altro lato della stanza il cuscino che fino ad un momento prima mi stava in testa e tentai in ogni modo di liberarmi dall'intricato ammasso di lenzuola che mi legava le gambe, con l'unico risultato che precipitai a terra.

“Per l'amor del cielo Jessica Jane Duncan che diavolo stai combinando” sbottò esasperata mia nonna aprendo la porta, le sorrisi imbarazzata e feci un leggero cenno col capo, mentre finalmente liberavo le gambe e gettavo vittoriosa le coperte sul letto,

“Quello lo faccio dopo, ok Mak?” chiesi, e senza attendere risposta mi fiondai verso il bagno.

Avevo lasciato una vecchia camicia a quadri sulla sedia accanto alla porta e passando la presi al volo.

“Te n'eri dimenticata, non è vero?” chiese quasi arrendevole,mentre la sentivo muoversi nella stanza accanto,

“No, ma che dici?” dissi gettando a terra pantaloni e maglietta e girando la manovella della doccia

“Io dimenticarmi di un avvenimento così importante?” mi insaponai velocemente i capelli per poi passare al resto del corpo

“No, vedi ho solo...” uscii scivolando sul tappeto, e, afferrando miracolosamente il lavello presi il Phon ed iniziai ad asciugarmi, mentre i miei corti capelli castani sparavano da tutte le parti

“Dimenticato”

Afferrai un paio di mutande e un reggiseno che mia nonna mi porgeva dall'altro lato della porta e l infilai.

“Di...”

Schizzai nella mia stanza infilandomi un paio di vecchi jeans neri e una T-shirt bianca con la bandiera dell'Inghilterra sopra.

“Puntare la sveglia” dissi infilandoci sopra la camicia, ravviandola ai gomiti e abbassandomi ad afferrare il vecchio zaino scalcagnato ai piedi del letto.

“La tua sveglia è rotta da sei mesi” sbuffò lei non riuscendo a trattenere il sorriso che le si era stampato in faccia.

Mi avvicinai e mi chinai ad abbracciarla

“Menomale che ci sei tu” risi, le lascia un veloce bacio sulla guancia e corsi verso il corridoio quando un suo richiamo mi fermò di botto

“E tu vorresti andare a scuola con le ciabatte dei pokemon?” mi chiese indicando i miei piedi, ma non appena rialzai lo sguardo mi lanciò il mio più vecchio, scalcagnato ed adorato paio di converse nere.

“Che farei se non ci fossi tu” risi scendendo le scale, corsi verso il bancone della cucina, dove un'ormai congelata colazione a base di puncake e muffin attendeva, addentai una fetta di pane tostato, e con la metà rimanente ancora in bocca spalancai la bianca porta d'ingresso e mi slanciai attraverso il giardino, salii sulla mia moto verde smeraldo e indossai il casco, sentendo mia nonna che mi urlava di non rompermi il collo contro un palo dalla finestra.

Sorrisi e partii.

 

Quando arrivai a scuola, com'era da prevedere, il parcheggio era deserto, se non si tiene conto di tutte le macchine posteggiate lì in attesa che il loro giovani proprietari uscissero da quel carcere minorile quale era la Green forrest High school.

Posteggiai vicino all'entrata, mentre le pesanti nuvole che scurivano il cielo si facevano più fitte, rendendo vano ogni tentativo del sole di far trasparire i suoi raggi.

Venite in Sud Carolina, abbiamo delle ottime crostate di mele, rievocazioni storiche da urlo e un tempo di merda!

Mi affrettai verso l'entrata, e, dopo aver centrato in pieno una pozzanghera e essermi morsa la lingua nel tentativo di non imprecare, che si dimostrò vano, salii le vecchie scale di marmo ed aprii la grande porta in metallo rosso, sapendo già che al di là di essa, mi attendeva la pimpante signora Mc fletchers con i suoi capelli neri, gli occhiali posizionati in maniera così obbrobriosamente rigida sul suo naso, da pensare che vi fossero stati attaccati con la colla, e il suo dannato cardigan azzurro, pronta a farmi gioire del mio tanto atteso ritorno a scuola sbattendomi in presidenza.

Mi ero sbagliata tante volte in vita mia, ma quello fu sicuramente il più bel errore di tutta la mia vita.

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Capitolo 2
*** C'è chi arriva tardi per scelta, e chi per destino. ***


“Signorina Duncan” sentii pronunciare ad una voce squillante alle mie spalle, quindi mi voltai, avvilita,on è forse così?” 
“Giorno a lei” dissi mentre la vecchia ciabatta in questione mi si avvicinava con fare impettito,
“Passa l'estate ma le cattive abitudini restano, non è forse così?” “Che le posso dire, non riesco ad iniziare un anno se prima non ho avuto una di queste adorabili conversazioni con lei” sorrisi strafottente.
-Brava Jess, parti bene- pensai mordendomi un labbro,
“Credo che conosca la prassi, mi segua prego” sorrise vittoriosa, come se avesse passato l'intera estate pregustando quel momento, e conoscendola, lo aveva fatto.
Scossi la testa rassegnata, strinsi ancor di più la spallina dello zaino, che mi pendeva tristemente sulla spalla destra, e la seguii lungo il largo corridoio con il lucido pavimento giallo tirato a lucido, le cui pareti sarebbero presto state ricoperte dagli annunci dei club emergenti, e gli armadietti dai nuovi insulti in pennarello indelebile che Kal (il bidello) avrebbe passato ore a pulire.
Gli unici suoni che occupavano l'edificio erano il rumore del vento, che quasi stancamente si infrangeva contro le scrostate pareti blu della scuola, le voci ovattate dei professori al di là dei muri nelle aule e l'insopportabile quanto ritmico suono dei tacchi della vecchia che mi zampettava di fronte.
Ma quando voltammo l'angolo arrivò un nuovo ed inaspettato suono, un suono che non mi sarei aspettata di sentire mai e poi mai al di fuori di quell'angusto ufficio che da ormai tre anni mi accoglieva il primo giorno di scuola.
Sentii la profonda voce del preside in vicinanza, che andava sempre più avvicinandosi, ma non era solo, no c'era anche un suono sommesso, come se qualcuno accennasse ad una leggera risposta ogni singola volta che il preside taceva. Vidi la segretaria fermarsi a poca distanza da me,  e intuii che anche ella avesse sentito le voci, e difatti, dopo una manciata di secondi dal vertice opposto del corridoio comparve il preside.
Il preside Davis era un omone afroamericano  di un metro e novanta, per almeno cento chili, e non intendo di muscoli, con i capelli rasati, e un pizzetto spruzzato qua e là da una leggera sfumatura di grigio.
Era intento a fissare qualcosa alle su spalle mentre avanzava velocemente, ma quando si accorse della nostra presenza si fermò e fissò prima la donna al mio fianco e poi me, facendosi sfuggire una leggera risatina.
“Dio Jess, non riesci proprio a farne una giusta, eh?” rise avvicinandosi, notai qualcuno alle sue spalle, ma chiunque fosse era totalmente coperta dall'uomo.
“S'è rotta la sveglia” borbottai arrossendo.
“E l'hanno scorso avevi perso il pullman, e quello prima ancora...” lasciò che le parole si perdessero nell'aria regalandomi uno sguardo di rammarico, a cui risposi con un sorriso appena accennato,
“Beh, fa niente, ora che hai inaugurato l'anno scolastico farai meglio a seguirmi, o farete tardi, più di quanto non lo siate già”.
Fu allora che la vidi.
Come posso descriverla?
Era...
“Questa è la signorina Marshall, e frequenterà i tuoi stessi corsi, se non erro, il tuo coordinatore è ancora Jacobson,giusto?”  tentò lui, cercando di attirare la mia attenzione ma fu inutile.
Io rimasi imbambolata a fissarla.
La ragazza di fronte a me aveva dei lunghi capelli castano chiaro, la pelle candida come la neve in una mattina di dicembre, il naso sottile e piccolo, leggermente arrossato per il freddo, e dei lucenti occhi azzurro mare che non si staccarono mai dai miei. Indossava una giacca nera aperta che lasciava intravedere una maglietta dei red sox sulla quale pendeva una morbida sciarpa verde, lunghi leggins neri e delle converse abbastanza ammaccate da essere paragonate alle mie, se non fosse stato per il fatto che erano di un giallo limone, macchiato dall'acqua.
Sentii la voce del preside chiamarmi e mio malgrado mi riscossi, dandomi mentalmente dell'idiota, perchè mi ero imbambolata in quel modo?
“Jacobson, si...” riuscii a formulare finalmente.
Lui parve soddisfatto, congiunse sonoramente le mani di fronte la petto e  indicò nuovamente la ragazza alle sue spalle, che imperterrita continuava a fissarmi.
“Questa è...”
“Luce Marshall” completò lei con voce soffice.
Lui si volse e le sorrise indicandomi col pollice
“Questa invece è...”
“Jessica Duncan, ma preferisco Jess” non aggiunsi il solito -se non ti dispiace-, non volevo sembrare troppo gentile, la ragazza aveva qualcosa, e quella vocina interiore che fino a quel giorno mi aveva salvato le chiappe in ogni sorta di occasione mi urlava che io non volevo scoprire cos'era.
“Si infatti, Luce inizia oggi, si è trasferita da Boston, quindi ti sarei grato di essere gentile con lei” mi fulminò con lo sguardo, ma davvero?
Cioè anche il preside sapeva della mia gentilezza inaudita? Quale onore.
“Alla prima ora mi pare abbiate fisica con la Ritter, quindi andate e buono studio” sorrise solare.
Luce si limitò al portarsi accanto a me e attese che io la guidassi.
Presi un respiro e mi mossi voltando i tacchi e girando a sinistra, il laboratorio di chimica stava al primo piano, quindi dovevamo prendere le scale, salii il più in fretta possibile e sentii le sue scarpe fischiare sul pavimento.
“Che è successo due anni fa?” chiese all'improvviso.
Fui tentata di fermarmi, ma non lo feci, non dovevo mostrarmi debole, non lo ero.
Non più, almeno.
“Perché?” 
“Il preside prima ha detto che l'anno scorso hai perso il bus, ma quando stava parlando di due ani fa si è interrotto, perchè?” 
Miseriaccia a quel grassone.
“Non lo so, magari non gli andava di perdere la giornata a parlare dei miei ritardi” 
Mancava ancora poco all'aula, potevo farcela, potevo sviare il discorso.
“Dai basta con le balle, che hai combinato?” rise portandosi di fianco a me con aria di sfida.
Mi fermai davanti alla porta della classe, e feci di tutto per non guardarla negli occhi, sussurrai appena un
“Non ti riguarda” e abbassai la maniglia, sentendo la stridula voce della Ritter interrompersi mentre il suo sguardo confuso occupava il mio campo visivo.

Andò a finire che mi ritrovai seduta accanto a testa a palloncino melman accanto alla finesrta in prima fila, mentre la nuova arrivata fu costretta a sedersi in un banco al centro della classe vicino a Bezzie motosega, chiamata così perché suo padre, il boscaiolo più inutile ed idiota della città, l'aveva messa su come se fosse un ragazzo, tanto che nei suoi ottanta chili di lardo, non si distingueva dalla metà maschile ed obesa della scuola.

Dopo un ora passammo all'aula di storia, dove Jacobson ci costrinse a rileggere uno dei passi dell'odissea, nonostante non fosse in programma solo perchè si era dimenticato di creare il programma, poi fu il turno della letteratura, dove la Piccadilli, come se si trovasse di fronte ad un branco di mocciosi di prima elementare, e non una classe di quarto superiore, ci costrinse a parlare della nostra estate.
Io mi salvai con un semplice
“Sa, sempre il solito, di mattina al lago e di pomeriggio al loccale ad aiutare mia nonna”.
Altro adorabile particolare della nostra ridente cittadina, tutti, e dico tutti, sapevano ogni minuscolo segreto, o fatto riguardante qualcuno, si trattasse anche di un orecchino smarrito, che il giorno dopo veniva ritrovato davanti casa, o di una ragazza che lavorava al locale di sua nonna, potevi stare certo che lo sapeva chiunque.
Infatti la Piccadilli annuì cordiale, sapendo già quale sarebbe stata la mia risposta, dato che in estate aveva cenato ogni santa sera al nostro bar, chiedendomi sempre se stessi ripassando per l'imminente ritorno a scuola.
Quando mi disse che potevo tornare a sedermi, mi chinai sul banco poggiando il volto sulle braccia incrociate, fissando il vuoto cielo grigio fuori dalla finestra.
Il resto della classe si limitò a risposte come, ho aiutato in casa o sono uscito con gli amici, ma non mi sorprese più di tanto, era dalle elementari che sentivo sempre le stesse domande e risposte, come se me ne fregasse qualcosa del fatto che Bill Tomphson avesse comprato una piscina gonfiabile e ci avesse fatto la muffa per tutta l'estate o che claire eldwin si fosse fatta una bella gita al campeggio Cristiano, dove di sicuro aveva passato ore a limonare con il primo che le capitava a tiro uscendo di tenda.
Fu solo quando sentii nominare 
“Luce Marshall”, che ,senza una ragione apparente, mi sollevai allungando il collo per vedere l'esile figura che si era alzata in quel momento, dall'altro lato della classe
“Non posso certo competere con esperienze mozzafiato come quelle dei miei compagni” ci fu una risatina generale, al cui io non partecipai “Comunque posso dire che ho passato l'estate in giro per Boston, cercando di fotografare ogni posto nascosto, ogni angolino in cui avevo passato qualche attimo prima della partenza, così da avere dei ricordi di casa mia” si interruppe voltandosi verso di me 
“E ho perso l'autobus” poi senza dire altro si sedette riprendendo a scarabocchiare come aveva fatto durante il resto delle lezioni precedenti.
Sentii le mie labbra piegarsi leggermente in su, in un piccolo sorriso, prima di tornare a perdermi nel vuoto del cielo.

**Angolo di Neph.**
OoooK eccoci qui, allora, vorrei iniziare dicendo che il primo capitolo era più per introdurre anche perchè non si vede manco Luce, comunque, vorrei scusarmi con chiunque stesse seguendo la mia fanfic sulla brittana, ragazzi mi spiace, ma sono arrivata ad un punto morto con quella, ma non bsogna perdere la speranza, magari un giorno ci tornerò.
La storia è solo all'inizio, credo si sia capito, spero vi piaccia, non mi rivolterebbe una recensione, ma se non vi va non vi costringo, ma comunque spero che qualcuno volgia dirmi che ne pensa.
Cercherò di aggiornare regolarmente e al più presto, un saluto.
N.

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Capitolo 3
*** Non si può scappare per sempre ***


Fu quasi una liberazione quando sentii il trillo della campana che mi scuoteva dallo stato di dormiveglia in cui ero finita, seguito dalla voce rauca della prof che annunciava che eravamo liberi di tornarcene a casa, era il primo giorno quindi orario dimezzato.

Afferrai lo zaino e mi alzai di scatto scivolando fra i banchi, e comandandomi mentalmente di non alzare mai lo sguardo dal consunto pavimento di linoleum. Sentii una voce chiamare il mio nome, ma non ci badai, e oltrepassai in fretta la porta porta, cercando di mettere il più distanza possibile fra me e lei, quando sentii un braccio stringermi il collo e le spalle e mi voltai di scatto sospirando,

“Mi chiedevo quando ti saresti dato la briga di far vedere le tue chiappe in giro” e Desmond rise.

Desmond Gemelli era un giovane italo americano di mia conoscenza alto muscoloso e stupido dalla testa ai piedi, che io definivo, di tanto in tanto, il mio migliore amico.

“Ma falla finita, come se tu fossi stata tutte le lezioni sveglia” brontolò tirandomi lungo il corridoio

“Io ho fatto prima e sono rimasto fuori”

“Ragionamento tanto inutile quanto stupido Des” mi fermai al mio armadietto e vi lasciai cadere dentro tutti i libri che occupavano il mio zaino,

“Peccato che se mia nonna venisse a sapere che un certo signor gemelli marina, di sicuro per lui finirebbero i pasti gratis al locale” mi volsi verso di lui, lo vidi impallidire e scoppiai a ridere,

“Non lo farebbe mai, tua nonna mi ama” ribatté convinto mentre uscivamo nel parcheggio

“Oh ma ama anche me, questo non le impedisce di mettermi in punizione nove volte al mese”.

Il sole aveva perso la sua battaglia e il cielo era sempre lo stesso, se non addirittura più cupo e minaccioso.

Lui iniziò a blaterare di ragazze del primo che non gli dispiacevano affatto, di nuovi arrivati con auto da migliaia di dollari e partite degli athletics.

Arrivammo di fronte alla mia moto che aveva iniziato a parlare della sua colazione, e io ormai ero tanto irritata da mangiarmi mezzo labbro pur di non urlargli di chiudere il becco, quando il suo sguardo si posò su qualcosa dietro di me, e voltandomi scoprii con sgomento he l'oggetto del suo interesse era Luce.

-Ti prego non dirlo-

“Cristo quella non è male, non mi spiacerebbe una passata”

Ecco appunto.


 

Sentivo Desmond fare questi discorsi da una vita, all'asilo diceva che non gli sarebbe dispiaciuto abbracciare qualcuno, alle medie si era evoluto

nella sua idiozia passando al limonare, poi, da quando al secondo anno era entrato nella squadra di football era passato dalle parole agli atti e si era portato a letto tre quarti della scuola, di cui io ovviamente non facevo parte, grazie al cielo, ma quando sentii dire quella frase, che era ormai di routine, riguardo a luce, mi scattò qualcosa dentro.


 

Strinsi il casco fra le mani, sforzandomi di ignorare quel ruggito che andava aumentando alla base dello stomaco e me lo infilai senza una parola, feci partire l'ignizione e voltai la moto, concedendomi un'ultima occhiata alla ragazza, che, insieme ad altre tre di cui ignoravo l'identità si affrettava verso il cumulo d'auto e potrei giurare che mi sorrise.


 

Quando arrivai di fronte al midday\night, il locale di mia nonna notai che il parcheggio laterale era già ricolmo d'auto, tra cui il fuori strada dello sceriffo, ed una nuova curiosità mi attanagliò lo stomaco.


 

La nonna aveva passato un intera estate parlando dell'improvviso crollo del vecchio sceriffo, lou, un simpatico vecchietto con la pancia prominente e dei soffici baffoni, che a luglio era stato ricoverato in una clinica per anziani a Savannah perchè dopo l'ennesima urlata ai vandali che riempivano le mura del cinema con i loro “affreschi moderni” era stramazzato a terra privo di sensi, ed ora il suo rimpiazzo era finalmente arrivato.


 

Entrai sentendo il familiare campanellino sulla mia testa e sorrisi all'odore di crostata di mele e patatine fritte, mi avviai al bancone, salutando di tanto in tanto chiunque alzasse lo sguardo e mi guardasse e mi sedetti al mio solito posto vicino la finestra che dava sul parchetto.

“Ehi J.J, mi sei mancata oggi” sentii dire a qualcuno alle mie spalle e senza girarmi sorrisi e salutai mia nonna, che dalla finestrella della cucina mi sventolava la mano,

“Non è colpa mia se la legge mi costringe ad andare a scuola” mi voltai verso samantha che mi guardò stupita,

“Ma hai 17 anni, non sei costretta a frequentare dalla legge...”

“Infatti io parlavo di mia nonna” risi meritandomi uno scappellotto sul braccio.


 

Altra presentazione obbligatoria è quella di Samantha, detta anche Sam, una giovane e bionda cameriera di ventidue anni che lavorava nel locale di mia nonna da quando frequentava le superiori, ed era una delle mie peggiori rompipalle.


 

“Ti porto il solito?” chiese passando dall'altro lato del bancone e iniziando a riempire una caraffa di coca-cola.

“Doppio bacon, mi raccomando” mi limitai a dire, per poi far voltare lo sgabello e iniziare a scrutare i clienti che mangiavano silenziosamente i propri cheese burger con insalata, tanto per tenersi in forma e mangiare sano, e andai alla ricerca del tipico marrone spento della divisa dello sceriffo, ma quando la mia ricerca si concluse mi fermai orripilata.

-No ti prego, non anche qui-


 

Il nuovo sceriffo, un alto uomo con dei corti capelli biondi, sedeva comodamente ad uno dei tavoli più lontani dal bancone, accanto alla finestra, e conversava allegramente andando di tanto in tanto sgranocchiando una patatina intrinseca di maionese.

Ma non fu quello a storcermi lo stomaco, bensì chi gli sedeva accanto a lui.


 

Giacca nera, lunghi capelli ondulati che le ricadevano sulle spalle, sciarpa verde e un maledetto sorriso da togliere il fiato.

Tentai di voltarmi nuovamente, di scostare lo sguardo da quegli occhi che per una volta in quella giornata non erano attanagliati ai miei, ma non ci riuscii, rimasi impalata con i gomiti fissi al bancone e lo sguardo perso verso di lei.


 

“Hey Jesse, ci vuoi anche la salsa barbecue sull'hamburger?” sentii quasi urlare, ma quando provai a voltarmi fu sempre troppo tardi, lei si voltò non appena ebbe sentito il mio nome, e i suoi occhi si spalancarono di sorpresa quando mi vide, ma c'era altro... felicità?

Perchè mai avrebbe dovuto essere felice di vedermi?

Di certo io non lo ero, quella ragazza mi mandava nel pallone, e non mi piaceva.

Abbassai lo sguardo imbarazzata e mi volsi accennando a Sam, tirai il piatto in porcellana verso di me e diedi un feroce morso al panino, mentre sentivo quegli occhi cristallini bruciarmi sulla schiena.


 

Fu quasi una liberazione quando velocemente mi alzai dallo sgabello salutando in fretta mia nonna per poi schizzare verso l'uscita come se fossi inseguita dal demonio.

Peccato che quello non mi stesse inseguendo, ma fosse proprio davanti a me,

“Quindi non mi sbagliavo, la moto che ho visto a scuola è tua”.

Avevo avuto così tanta fretta nel trovare una via d'uscita a quella situazione che ero finita dritta di fronte a lei,

-Non guardarla negli occhi- mi imposi

“Già” bofonchiai torturandomi le mani nel tentativo di trovare qualcos'altro da guardare che non fossero i suoi meravigliosi occhi

“Puoi guardarmi negli occhi, non mordo” disse ridendo sommessamente, alzai lo sguardo intenzionata a risponderle a tono ma non appena incrociai il suo sguardo la mia strafottenza parve venire meno, ma non la sua,

“Sai non mi hai ancora detto cosa hai combinato due anni fa, non avrai mica fatto arrabbiare mammina” rise.


 

Strinsi il mazzetto di chiavi in mano e mi avvicinai a lei, al che parve ammutolire, e la idi fissare il suo sguardo al mio.

Ero così vicina da poter sentire il suo fresco alito sul viso, e, giuro, fu come sentire una scarica entrarmi in corpo a quel solo accenno di contatto.

“Stammi lontana” sbottai oltrepassandola e aprendo di scatto la porta.


 


 

Inutile menzionare il fatto che per la settimana che seguì questo evento, feci del mio meglio per evitare luce Marshall, ma nonostante ciò, lei tentava in continuazione di avvicinarsi a me: mentre di mattina entravo nell'edificio scolastico scivolando fra la folla, a mensa, quando restavo impigliata nell'interminabile fila di fronte al bancone, o persino durante gli allenamenti della squadra di baseball.

Per quanto io potessi impegnarmi, per quanto tentassi di evitare con tutta la mia forza quegli occhi magnetici, per quanto potessi accelerare il passo al solo sentirla pronunciare il mio nome provocandomi una fastidiosa quanto inspiegabile scossa elettrica che attraversava ogni minuscola fibra del mio corpo, non sembrava essere il mio destino quello di riuscire nel mio intento di stare alla larga da quella che ormai sembrava essere la mia ombra.

Quindi quel piovoso pomeriggio di un'esatta settimana dopo, decisi di arrendermi, di smettere di provare, e di scivolare in quei due oceani limpidi che erano i suoi occhi.


 


 

Stavo seduta ad un tavolo del locale di mia nonna, quello all'estremo angolo della sala, da cui si poteva scorgere tutto il parchetto attraverso la grande finestra a vetrata.

Il locale era semi deserto, essendo già le quattro del pomeriggio, infatti, tutti coloro che erano arrivati per pranzare, anche i ritardatari, si erano oramai dileguati, e gli unici rumori scaturivano dalla mia penna che strusciava contro la carta del mio quaderno, e una musichetta somessa che fuoriusciva dalle cuffiette di Sam, che se ne stava in piedi dietro il bancone strofinandolo distrattamente.


 

Ero così concentrata su quell'insolvibile equazione d'algebra che quasi non sentii il campanello della porta, che tintinnava tristemente.

Ho detto quasi.

Strinsi i denti esasperata ed accartocciai l'ennesima pagina strappandola dai lucidi anelli del carpettone e la lanciai verso il cestino, che puntualmente mancai.

Fu allora che la vidi.

Si era fermata vicino al bancone, e la palina di carta le era finita sui piedi, alzai lo sguardo consapevole di incontrare quel tanto conosciuto azzurro, e la vidi sorridermi,

“Hai intenzione di buttarti fuori dalla finestra, o stavolta lascerai che ti saluti?” chiese mentre si chinava a raccogliere il mio compito e lo gettava nel cestino accanto a se.

“Il solito?” chiese Sam sorridendole,

“Si grazie”.

-Oddio dimmi che non sta per sedersi qui-

Come se mi leggesse nella mente sorrise e si lasciò scivolare sul divanetto di pelle di fronte a me,

-Ma vaffanculo!-

“Sai iniziavo a sospettare di non piacerti” sorrise prendendomi la matita dalla mano e tirando via un foglio dagli anelli ancora aperti, iniziando a scribacchiarci sopra.


 

Feci del mio meglio per mettere insieme una frase di senso completo, ma riuscii solo a balbettare che non era così, era troppo vicina, riuscivo a sentire l suo leggero profumo di zucchero, il che mi provocava una strana sensazione.

“Sei una frana a mentire” rise lasciando cadere la matita e porgendomi il foglio.

Aveva completato l'equazione, non riuscii a trattenermi dal sorriderle,

“Grazie”

“Di niente, e poi frequentiamo gli stessi corsi, li avevo già fatti a casa” disse alzando le spalle ma senza abbandonare quel suo leggero sorriso.

“Quindi ora sei in debito con me” riprese mentre Sam si avvicinava porgendole una cioccolata calda con panna, per poi darne una identica anche a me.

“Non esaltarti troppo Marshall, non mi metterò ad uccidere per te adesso” scherzai prendendo un assaggio di panna.

Perché mi sentivo così... rilassata?

“Tranquilla, non devi accoppare nessuno, ancora” mi guardò ammiccando

“Ma mi pare di capire che mi devi una spiegazione, perché non ti piaccio?” chiese prendendo una punta di panna con l'indice e leccandola.

Quel semplice gesto mi mandò nel pallone.

“Io... non è che tu non mi piaccia, anzi è l'esatto contrario” borbottai continuando a fissare le sue sottili labbra, per poi rendermi conto di quello che avevo detto e darmi mentalmente della cazzona.

“L'esatto contrario mh...” disse lei fissandomi per qualche secondo, poi si alzò e dopo un altro sorso alla sua cioccolata appoggiò la tazza al tavolo e si diresse senza dire niente alla vecchia cassa in ottone, dietro alla quale stava seduta Sam, e fece per prendere qualcosa della sua tracolla, ma io l'anticipai,

“Offre la casa, almeno mi farò perdonare per essere stata un'idiota” le sorrisi colpevole,

lei mi guardò per poi sorridermi ed avvicinarsi,

“Ti servirà di più per farti perdonare Jess” si chinò dandomi un leggero bacio sulla guancia per poi scostarsi e restare a pochi centimetri da me,

“Stasera, al cinema, sette e mezza, non tardare” disse sorridente, prima di allontanarsi e scomparire fuori dalla porta.

Fissai Sam, che mi guardava a sua volta con un'espressione che assomigliava terribilmente alla fierezza, e abbassai lo sguardo verso il foglio di fronte a me, sul lato destro in alto c'era una serie di numeri con sotto scritto

Chiamami.

A quanto pare avevo un appuntamento con Luce Marshall.

**Angolo di Neph**
Ed eccoci qui, spero come sempre che vi sia piaciuto, e in caso sia così non mi spiacerebbe se lasciaste un commento, anche solo per dirmi cosa ne pensate sulla storia, o per farmi sapere se avete dei suggerimenti.
Un saluto,
N.

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