Mele Avvelenate

di LeFleurDuMal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Frutto dell'infanzia ***
Capitolo 2: *** Frutto degli dèi ***
Capitolo 3: *** Frutto dell'Inganno ***
Capitolo 4: *** Frutto Proibito ***



Capitolo 1
*** Frutto dell'infanzia ***


 

1. Frutto dellinfanzia

 

“Sui loro riccioli portavano il fuoco,

e non bruciava”

Euripide, Le Baccanti

 

 

Il profumo della macchia mediterranea si fondeva con quello del mare che risaliva dalla spiaggia, mugghiante delle onde dell’Egeo.

Per Milo sarebbe stato sempre l’odore dell’infanzia, di un’infanzia antica e ancestrale che veniva prima del Santuario, prima di tutto. L’odore che portava con sé il ricordo di Dimetrios.
Dimetrios era l’inizio. Non c’era nulla prima di lui, prima dei suoi occhi profondi e scuri, dei ricci neri e forti che sfidavano il vento. Non una madre, non un padre, niente. Se non Dimetrios.

E a Milo era sempre stato bene così.

Se non ricordava niente prima di Dimetrios, ricordava tutto a partire da quel pomeriggio, quando il traghetto lo aveva lasciato sulle pietre laviche del porto di Adamas, e Dimetrios era già lì.

Scrutava il mare: la camicia di tela e i pantaloni arrotolati sui polpacci, scalzo e forte come un pirata. Era venuto dalle frastagliate coste a sud a prendere l’allievo che Atene gli affidava e lo cercava nel porto. Non si aspettava un marmocchietto così piccolo, per questo non abbassava lo sguardo oltre una certa altezza: quando si era trovato tra i piedi Milo - letteralmente tra i piedi - aveva sollevato le sopracciglia sottili in un’espressione di gentile sorpresa.

“Benvenuto qui a Milo.” Gli aveva detto con voce carezzevole, come il vento sull’Egeo. Con il suo sorriso caldo come il sole.

“Milo sono io.” Aveva miagolato il bambino, confuso.

“…questa è l’isola di Milo, creatura. Benvenuto.” Dimetrios, con calma, ci aveva riprovato, piegandosi sulle ginocchia, informale. Per quanto al piccolo quel dialogo fosse risultato incomprensibile, aveva sentito immediatamente un moto d’affetto per quell’uomo che sorrideva come sorride il sole di Grecia.

“Milo è il mio nome.” Si era però sentito in dovere di insistere. “Mi chiamo Milo.”

Anche se aveva gradito molto l’idea di avere un’isola tutta sua, naturalmente.

Gli occhi scuri di Dimetrios si erano affilati per un momento. Quando aveva compreso, era sbottato in una risata aperta. “Alla faccia della predestinazione!”

Il vento soffiava leggero e la grande e bella mano di Dimetrios – ruvida di sale e di mare – aveva ingoiato quella minuscola dell’allievo e insieme avevano risalito il molo.

 

La verità era che il suo nome con la predestinazione non aveva proprio niente a che fare.

Ma Milo non ricordava nulla, prima di Dimetrios, niente se non immagini confuse e cacofonie di dialoghi che non riusciva a mettere insieme. Quindi, a Camus che adesso lo ascoltava sdraiato con lui nell’uliveto e gli teneva una mano sul petto, in atteggiamento rilassato, non aveva saputo raccontare meglio di così l’incontro tra lui e il suo maestro, né del divertente equivoco dei nomi.

La verità era che Milo non aveva nessun nome, prima di Milo, sballottato tra gli altri bambini così piccoli, tutti orfani, tra i quali il Santuario si prometteva di cercare i predestinati all’armatura d’oro.

Milo non si ricordava di essere stato separato dal mucchio, un giorno: era troppo piccolo. Due anni erano troppo pochi e non permettevano di ricordare nulla, prima di Dimetrios.

Era stato separato dal mucchio e messo su un traghetto con qualche accompagnatore del Mondo Segreto. E tutti - durante il viaggio e prima - tutti confabulavano tra loro, a volume basso e in una cacofonia di dialoghi incomprensibili all’orecchio di un bambino piccolo.

“Milo, a Milo”.

“E’ quello il luogo d’addestramento. E’ stato prefissato a Milo”.

“A Milo, andrai a Milo”

“All’isola di Milo. Deve andare a Milo”.

E a forza di sentirli parlare così, enormi e chini su di lui a guardarlo, il piccolo si era convinto di chiamarsi così.

Milo.

E gli piaceva, perché gli ricordava le mele, fresche e dolci. Milo nella sua lingua voleva dire mela.

Dando da allora per scontato il proprio nome e non ricordando nulla prima di Dimetrios, Milo ormai adulto, ormai Cavaliere, andò avanti a raccontare di se stesso, sussurrando nel sole all’orecchio di Camus, sdraiato con lui nell’uliveto, che lo ascoltava e gli teneva una mano sul petto, in atteggiamento rilassato.

 

L’isola a sud era disabitata. Abbandonata al respiro del mare e del vento, alle rocce dalla forma aspra, all’erica e al rosmarino. Lasciarsi alle spalle il porto significava lasciarsi alle spalle i centri marinai abitati e pieni di fermento.

A sud, dove abitava Dimetrios –  in quella casa dipinta di bianco, con una stanza sola e la porta di paglia - a sud l’Isola di Milo esisteva solo per se stessa e per lui. E adesso esisteva anche per il piccolo Milo.

C’era un meleto, dietro la casa, a proiettare un’ombra afosa e piena di cicale. A Milo piacevano le mele, per l’assonanza che avevano con il suo nome.

Dimetrios gli aveva fatto togliere lo zainetto di stoffa che si portava da Atene, lasciandolo in un angolo con noncuranza. Poi l’aveva guardato con un lampo strano negli occhi e l’aveva sfidato.

Così, subito. Apertamente.

“Chi arriva per ultimo è un Saint di Bronzo!” Prima di correre verso la spiaggia petrosa, verso l’Egeo. Milo aveva spalancato gli occhi azzurri, oltraggiato, e gli era corso dietro. Dimetrios si era gettato nella schiuma salina, schizzando intorno, e aveva riso guardando il bambino che cercava di raggiungerlo. Con i piedi scalzi troppo piccoli e delicati, Milo lo fissò indispettito, alle prese con gli scogli cocenti e acuminati.

“Creatura, ma tu lo sai che cos’è un Saint?”

Milo immerse i piedini nell’acqua con soddisfazione che si tramutò in disappunto, quando la sentì gelida: “No”, brontolò.

“Molto bene.” Dimetrios allungò una mano per tirarlo dentro e un’onda li sommerse entrambi. Quando riemersero, Dimetrios glielo spiegò.

Il profumo della macchia mediterranea si fondeva con quello del mare che risaliva dalla spiaggia, mugghiante delle onde dell’Egeo. Milo non avrebbe più dimenticato quel giorno e la sua vita sarebbe semplicemente cominciata da lì, dal momento in cui Dimetrios sorrise e la sua mano ruvida di mare e di vento iniziò a guidarlo. Dimetrios era l’inizio.

E a Milo era sempre sembrato un ottimo inizio. L’inizio migliore.

 

 

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Capitolo 2
*** Frutto degli dèi ***




2. Frutto degli dèi


“O dèi onnipossenti

o dèi, o dèe,

voi, che di ogni evento

sapete il termine"

Eschilo, I sette contro Tebe




Milo era un’isola piccola a forma di mela.
Una delle più belle e preziose, si diceva: in tutto l’arcipelago la chiamavano la perla dell’Egeo.
Per mostrarne il disegno a Camus, appoggiato nel sole contro di lui, Milo, ormai Cavaliere d’Oro, unì le mani ricreando tra le dita un ovale, facendo toccare le falangi dei pollici.
Il vento soffiò nell’uliveto. Fece frinire le foglie argentate, portò su dalla costa l’odore del sale e questo rese tutto più naturale agli occhi di Aquarius, quando abbassò lo sguardo dal volto alle dita del compagno.
“Ecco, vedi? Milo è come due mani che si toccano. E lo spazio che si forma in mezzo è il golfo di Adamas.”


“Creatura, ma tu lo sai che cos’è un Saint?”
Milo immerse i piedini nell’acqua con soddisfazione che si tramutò in disappunto, quando la sentì gelida: “No”, brontolò.
“Molto bene” Dimetrios allungò una mano per tirarlo dentro e un’onda li sommerse entrambi.
Milo riemerse tossendo, gli occhi azzurri irritati dal sale e resi enormi dalla sorpresa. Emise un strillo indignato e si gettò con rabbia contro Dimetrios, deciso a rendergli la pariglia.
Milo avrebbe sempre fatto così, da allora in futuro: avrebbe pensato ai pro e ai contro di un’azione, come un vero stratega, scrupoloso. Ci avrebbe pensato molto, affilando gli occhi nella sera, sotto le stelle e, a vederlo così, si sarebbe pensato a lui come a una persona estremamente riflessiva. Il punto è che Milo avrebbe sempre pensato dopo.
Dopo
avere parlato.
Dopo
essersi scagliato all’attacco.
Dopo
avere trafitto a suon di tecniche segrete corpi di avversari ammutoliti, prima ancora che potessero dichiarare il loro nome e appartenenza celeste.
L’impulsività sarebbe sempre stato il rimprovero maggiore che Dimetrios avrebbe rivolto all’allievo, negli anni successivi, ma l’avrebbe fatto con un sorriso obliquo: “E’ incredibile, creatura, come tu apprenda alla perfezione tutti i miei difetti”.
Avrebbe scosso la testa con la preoccupazione sottile del Maestro, ma anche con il malcelato orgoglio di un padre che guarda il figlio portare chiaro lo stampo dei propri lineamenti.
Così Milo si gettò contro Dimetrios d’istinto, senza pensare alla differenza tra sé e l’altro. I capelli biondi grondanti sulla faccia, i suoi due anni scarsi e l’Egeo che si gonfiava e riabbassava sulla risacca gli concessero solo un paio di passi impacciati, nell’acqua, e una leggera pressione delle manine aperte sulle spalle del Maestro, seduto nelle onde della riva.
L’uomo rovesciò la testa all’indietro, in una risata aperta, raccolse Milo come si raccoglie un gattino e se lo mise sulle ginocchia. Il bambino osservò con curiosità la dentatura bianchissima di quel sorriso che sembrava il sole e di colpo dimenticò il risentimento per lo scherzo subìto.
Dimetrios gli raccontò di una ragazza bella e mentre lo fece si sporse a disegnare il profilo di lei con il dito, sulla sabbia bianca.
“Si chiama Athena” disse, e Milo guardò quel viso nobile, appena tracciato, chiedendosi se l’avrebbe mai vista. “E’ una dea, figlia di Zeus. Tu sai chi è Zeus, Milo?”
Milo fece cenno di no. A due anni, Milo non lo conosceva.
Dimetrios era bravo a raccontare e lo fece per la prima volta nell’acqua e nel sole, guardando il suo allievo fisso negli occhi, come un cacciatore, senza lasciarlo scappare. Incominciò con voce bassa, suadente e narrargli degli immortali bellissimi e capricciosi che abitavano un monte alto, in terra di Grecia, di come amassero le mele, che erano un frutto sacro e si chiamavano come lui.
Di come uno fosse scampato alla furia del padre, che aveva divorato gli altri figli e li aveva uccisi, di come si fosse seduto sul trono celeste. Milo lo aveva guardato affascinato e spaventato, rannicchiandosi contro di lui: quella storia non l’avrebbe dimenticata mai.
Dimetrios sorrise e gli disse, al ritmo delle onde sulla risacca, che c’era un dio per ogni cosa.
“Per la bellezza, per la guerra e per l’amore. C’è anche un dio del mare, Poseidon.” lo schizzò con l’acqua salata, per gioco “Poi Hades, che è il dio della morte. E sono entrambi fratelli di Zeus”.
“E Athena?”
“Athena è la dea della battaglia. Indossa un’armatura scintillante e presiede alla Giustizia”.
Dimetrios si interruppe per poco, le labbra serrate e lo sguardo velato, ma per poco. Milo non se ne accorse, impegnato a studiare il profilo di una dea sulla sabbia bianca e il Maestro continuò.
“Nel campo di battaglia, intorno a lei, si raccoglievano ragazzi che la proteggevano. Questi erano i Saint. Erano ragazzi che avevano forza e coraggio da vendere, creatura, e arrivavano da tutto il mondo. La dea odiava le armi e per proteggerla combattevano solo con l'uso dei loro corpi, senza l'ausilio di nessun'arma”.
Milo comprese anche a due anni che c’era qualcosa che non andava e guardò Dimetrios con tutto lo scetticismo concesso dalla sua breve vita.
“Eh…” Dimetrios trattenne un ghigno, che il moccioso lo faceva divertire, abbastanza da dimenticare la malincoinia leggera che l’aveva pervaso poco prima, “Ma i loro pugni fendevano l'aria, mio caro Milo dell’isola di Milo, e i loro calci erano in grado di spaccare la terra.”


Milo non era capace di fendere l’aria, né di spaccare la terra. Per il momento trotterellava sulla sabbia o sulle pietre laviche della costa, annaspava tra gli arbusti della macchia profumata e tendeva le piccole mani per afferrarsi agli ulivi o ai meli attorno alla casa bianca.
Poiché l’aveva detto il Maestro, però, Milo non aveva dubitato nemmeno per un momento del fatto che un giorno avrebbe fatto tutte quelle cose e le avrebbe fatte bene.
Riguardo all’allenamento del bambino che gli era stato affidato, Dimetrios aveva bene le idee chiare: al mattino, fin dal sorgere del sole, si trattava di portarlo semplicemente a passeggiare, ma nei luoghi più impervi. E l’isola si prestava, con le sue lunghe spiagge bianche su cui i piedi infantili si agitavano a fatica, o con le rocce vulcaniche colorate ed enormi, che imponevano agli eventuali scalatori salti coraggiosi.
Riteneva che fosse indispensabile rendere l’allievo più agile possibile, liberandolo subito delle goffaggini tenere della prima infanzia, perché era un Cavaliere d’Oro quello che doveva allenare.
E Dimetrios - che quando doveva indossava un’armatura d’argento - spingendosi all’indietro i riccioli scuri, si domandava se ne sarebbe stato all’altezza.
Nel pomeriggio, l’avrebbe lasciato aggirarsi da solo.
L’avrebbe lasciato libero di andare, tra l’erica e il vento, sulle coste a strapiombo e sui sassi dei sentieri di quella parte d’isola in cui non andava mai nessuno.
Il piccolo Milo avrebbe dovuto cavarsela da solo, perché solo sarebbe stato: era quella la parte d’addestramento più pericolosa, perché le insidie erano tante, e se al mattino il Maestro avrebbe potuto allungarsi a prenderlo per mano o afferrarlo per la collottola nei casi estremi, nel pomeriggio ci sarebbero stati solo Milo e la sua isola.
D’altra parte, nessuna insidia deve spaventare un futuro Saint d’Athena, che con i pugni avrebbe dovuto fendere l’aria e con il calcio spaccare la terra. C’era poi da dire che se le mele erano frutti cari agli dei, allora lo sarebbe stato anche il piccolo Milo, che si chiamava come una mela e l’isola delle mele aveva adottato come propria.
Milo, infatti, non dimostrò paura, mai, ma solo entusiasmo alla prospettiva dell’esplorazione.
Dimetrios ne aveva, invece, che iniziava ad affezionarsi.
Ma era un Cavaliere d’Oro, quello che doveva allenare.
“Stai attento a non annegare, a non cadere, e stai attento agli scorpioni, che sono velenosi. Hai capito, creatura? Stai attento agli scorpioni, che qui è pieno”.
Milo sarebbe stato attento a non annegare, a non cadere e agli scorpioni. Non aveva la più pallida idea di che cosa fosse uno scorpione, ma non c’era dubbio che l’avrebbe riconosciuto, se ne avesse incontrato uno, e allora avrebbe potuto starci attento.
L’allenamento, però, sarebbe ricominciato l’indomani. Quel primo giorno Dimetrios schizzò in faccia a Milo l’acqua salata di Poseidon e se lo tenne sulle ginocchia, sulla risacca, accanto al profilo di una dea fanciulla disegnata sulla sabbia.
Gli raccontò degli immortali bellissimi e capricciosi che abitavano un monte alto, in terra di Grecia e innamorò l’allievo delle leggende del suo paese.
Da quel momento, Milo di mitologia e fiabe ne avrebbe volute sempre di più, fino a pretenderle.
Dimetrios avrebbe riso e gliele avrebbe date, approfittando delle leggende per istruire il bambino sulle prove della vita. Non aveva certo idea di quanto avrebbe reso difficile la vita di altri due Cavalieri d’Oro, anni più tardi, quando Milo, viziato, si sarebbe arrampicato sulle ginocchia di Aioros di Sagitter o avrebbe allegramente tirato i capelli di Saga di Gemini, a chiederne una dopo l’altra di favole legate alle stelle.
Se l’avesse saputo, Dimetrios non avrebbe prodotto altro che un deliziato sorriso obliquo.


“E poi?” domandò Milo, con gli occhi grandi, afferrandosi a Dimetrios, quando questi se lo fece scendere di dosso e si sollevò dalla sabbia bagnata e dalle onde dell’Egeo.
“E poi cosa, creatura?”
“Il serpente nel giardino!” miagolò disperato l’altro, che voleva sapere del resto della storia.
“Il serpente Ladone dalle cento teste. Ricordatelo” la grande e bella mano di Dimetrios – ruvida di sale e di mare – aveva ingoiato quella minuscola dell’allievo e insieme avevano risalito la baia, verso il meleto e verso casa. Il sole era sceso e inondava tutto di luce dorata, riscaldando il cuore e addolcendo le forme. “Vegliava sul giardino delle mele d’oro, affinché nessuno potesse cogliere”.
D’oro sembravano anche le mele mature sugli alberi che ombreggiavano la casa dipinta di bianco di Dimetrios, come se quei pochi alberi fossero un intero giardino fatato.
Il giovane camminò a piedi scalzi fin sulla soglia, a godersi il momento.
Milo osservava le mele come se fossero quelle della leggenda, circospetto come se si aspettasse di veder comparire il serpente Ladone da un momento all’altro, con tutte le sue teste.
Perché non poteva forse essere su quell’isola, magica, nata da un vulcano spento con le sue rocce colorate? Dimetrios aveva pensato che sarebbe stato bello se fosse stato così, la prima volta che era arrivato a Milo.
Milo era un’isola piccola a forma di mela.
Un’isola selvaggia eppure tenera, nella vita semplice della gente di mare piegata sull’Egeo.
Per mostrarne il disegno a Milo, in piedi di fronte a lui, Dimetrios allungò una mano a raccogliere un pomo dorato dal sole, dal frutteto sopra le loro teste, e lo spezzò a metà.
“Vedi, creatura? Milo è proprio una mela. E il nido più riparato con i semi, al suo interno, è il porto di Adamas.
“E noi?” articolò il bambino, appoggiando le mani su quelle grandi del Maestro.
“Noi siamo qui” Dimetrios fece scorrere il dito lungo il bordo inferiore del frutto a metà, sulla linea rossa della buccia.
Milo guardò il frutto a metà e le mani del maestro, che la teneva. Guardò e vide l’isola nella polpa del frutto e il golfo nel nido riparato dei semi.
Poi guardò le mani del Maestro e ci appoggiò le proprie. Le mani erano state il suo primo contatto con Dimetrios e quando in futuro avrebbe pensato a lui, prima ancora del suo viso, degli occhi profondi e scuri e del sorriso che sembrava di sole, Milo avrebbe ricordato le sue mani grandi e ruvide di sale e di mare.
Milo è come due mani unite che si toccano, pensò quando vice le proprie dita e quelle del Maestro unite nella forma della mela. E sarebbe così che avrebbe spiegato, anni più tardi, com’era fatta la sua isola
.



 

Rispondendo:
Ren-chan: çOç Si! Dime! çOç E speriamo di renderlo al meglio questo uk.. questo bastardo! *C*  *spuccia e fangirla*
Kijomi: ;O; Grazie *stringe e spuccia* Sì, gurda. Ormai è diventata proprio una roba malata e lo diventerà di più visti gli sviluppi di cui ti ho accennato. Vediamo come andrà avanti.  ...la cosa di Dimetrios fa imbizzarrire enormemente anche a me. Tu non sai quanto, visto che mi ha accompagnato a casa solo ieri sera. Vabbè. XDDD
roxrox: continuare, continuo. Grazie per essere passata, spero di vederti passare di nuovo >***<
EriS_San: ;O; ooooh! Grazie! Continuo di certo a raccontare, che ci pensavo da un po', ma se sarai al mio fianco, lo farò di certo con più piacere. Ti ringrazio per le parole che hai avuto çOç E scusa  per il ritardo >**<
Stateira: *C* ma no, ma no! Non preoccuparti del peggio! *C* Non scrivo cose TREMENDE e basta! ...beh, dell'angst ce ne sarà anche qui, ma nel complesso sarà una cosina solare, come è Milo. èOé Almeno spero. Beh, ci conto! Grazie per la menzione d'onore >///< sono cammei a cui tengo tantissimo.
Ichigo: Oh! Ma che cosa carina mi hai detto! ;O;  Il trittico è finito, sì. Mi stava ammazzando, davvero, ma sono contenta del risultato. Spero che questa cosina nuova possa piacerti altrettanto. Il nostro Milo, allora. ^__- Un bacio!
Damaris: XDDDD eh, già! XDDD Trattati alla stregua di umili soldati, questi poveri bronzetti XDDD Saori ha ridimensionato le cose, pare. XDD Sono contentissima di sapere che mi segui anche qui. L'infanzia di Milo mi è molto cara, come quella degli altri Gold Saint. Un po' ci lavoriamo anche nel prologo dell'Heramachia, ma volevo starci comoda, qui, a vivermi quella di Milo. Gh.  Grazie per le belle parole che hai sempre. Un bacio enorme.
ArabianPhoenix: grazie anche a te di tutto! Sì, seguirò l'addestramento di Milo fino al suo arrivo ad Atene, vediamo cosa viene fuori. ^__- Sei carinissima! >***<
ManuLani: Ti assicuro che questo genere di ripetizioni non fanno mai male! XDDD Grazie di tutto, sapere che mi leggi con tanto piacere mi commuove e riempie di piacere me. Un abbraccio forte!

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Capitolo 3
*** Frutto dell'Inganno ***




3. Frutto dell'inganno


“A quelle parole avevano tutti e due
il volto bagnato di lacrime
sia lui che dava gli ordini
sia lei che li riceveva"

Ovidio, Le Metamorfosi



Quando Milo vide per la prima volta Stephanos fu sicuro di essersi imbattuto in uno scorpione e tentò di girare al largo. Si era convinto presto che tutti gli uomini molto alti e molto grossi – come quelli che l’avevano portato lì sul traghetto, per intenderci – fossero scorpioni, e Stephanos era molto alto e molto robusto.

Stai attento a non annegare, a non cadere, e stai attento agli scorpioni, che sono velenosi. Hai capito, creatura? Stai attento agli scorpioni, che qui è pieno”.

Quando gli rivolse il saluto, quindi, si appiattì giù nell’erica profumata e ruvida, pronto a balzare via se avesse allungato una mano.

 

Dopo mezzogiorno aveva cominciato ad alzarsi il vento; arrivava dal mare portando con sé la salsedine delle onde e batteva le rocce e le distese d’erica tra di esse, piegandole sotto il suo fischio.

Dimetrios aveva sparecchiato dai resti del pasto frugale il tavolo sbucciato che aveva portato fuori, sotto il meleto: preferiva pranzare all’aria aperta, ma erano anni che non lo faceva.

Si girò a cercare Milo e non lo trovò: interessante inizio per un maestro che intendeva sguinzagliare l’allievo in giro per l’isola. Gli bastò gettare uno sguardo all’interno per vederlo gattonare con evidente interesse verso la branda nell’angolo.

“Cosa fai, creatura? Vieni fuori da lì”.

Milo infilò la testa sotto il letto.

“Ho detto fuori. Avanti” lo raggiunse con un paio di ampie falcate e lo rimise in piedi.

“Allora?”

“…c’è una bestiola sotto al letto!”

“…mi fa piacere. Ce ne sono molte anche fuori, ma quando ti dico una cosa devi farla. Hai capito?”

“Si”.

“Adesso mi ascolti?”

“Va bene”.

“Ah. Molto gentile, da parte tua, creatura”.

Milo ascoltò ancora una volta le istruzioni e le raccomandazioni di Dimetrios. Pochi istanti dopo trotterellava scalzo sotto al meleto, libero di andare dove volesse, con l’unico compito di tenere d’occhio il viaggio del sole nel cielo per tornare indietro quando sarebbe sceso nel mare.

 

Camus sedette al tavolo e tagliò la mela a metà. Si soffermò a contemplare la stella che il taglio trasversale rivelava all’interno del frutto, con i suoi semi disposti come gemme, e alzò gli occhi su Milo, che veniva da un’isola a forma di mela.

“E hai incontrato qualche scorpione?”

Milo appoggiò il piatto e si sedette davanti a lui. Il sole entrava tra le colonne in raggi obliqui, riscaldando piacevolmente la Casa dello Scorpione del Cielo.

“Chissà”, sogghignò.

Aquarius gli passò metà della mela e Scorpio raccontò ancora.

 

Milo uscì dal meleto relativamente tardi, dal momento che, proprio dietro la casa di Dimetrios, aveva cercato di allungarsi il più possibile per prendere un frutto da un ramo che l’ultima pioggia aveva piegato verso il basso. Allungarsi il più possibile per un bambino di nemmeno tre anni significava franare sul sedere la metà dei tentativi e, nel caso di Milo, fu esattamente quello che accadde. Sporse il labbro inferiore in un broncio, fissando la mela con ostilità. Poi, qualcosa che si muoveva dietro, sul muro immacolato della casa, attrasse la sua attenzione.

Milo zampettò sulla terra brulla fin sotto, alzando lo sguardo: sulla parete, ben visibile dato il colore scuro, si muoveva una grossa bestia, ben più grande della sua mano aperta.

Milo si alzò di nuovo sulle punte dei piedi, con entusiasmo, per afferrarla, affascinato dalla sua lucentezza, dalle zampe davanti che terminavano in due chele robuste e dalla bella coda arcuata, minutamente cesellata e appuntita, come un gioiello.

Era uguale uguale alla bestiola che dormiva sotto la branda in casa e che si era rifugiata in una crepa nel muro, quando aveva gattonato troppo vicino.

Questa volta l’avrebbe presa.

Vagliò la possibilità di chiamare Dimetrios per fargliela vedere, ma poi pensò che sarebbe scappata; così si appoggiò al muro e si allungò bene, spingendo il braccio più su che poteva: non abbastanza per raggiungere l’animale che pigramente avanzò verso il tetto, del tutto incurante del bambino.

Milo si rassegnò e si allontanò dal frutteto nel momento esatto in cui la barca di Stephanos attraccava alla spiaggia di Kleftico, a pochi chilometri da lì.

 

Non si era allontanato troppo, ma abbastanza considerate le gambette incerte e la curiosità che lo spingeva a fermarsi di continuo. I sassi sul sentiero avevano colori troppo belli per non esserne sconvolti, in disegni concentrici, e Milo avrebbe imparato solo più tardi delle origini vulcaniche che li avevano determinati. Per il momento li immaginava giochi divini.

L’erba cresceva rada, in ciuffi alti e taglienti, e quando il vento si alzava la faceva piegare, sferzandola insieme alla terra riarsa e alla sabbia trasportata dalla costa, facendo saltare i grilli da una pietra all’altra. Milo ne aveva perfino seguiti un paio, ma si era stancato perché non erano belli come la bestia lucida a casa del Maestro. E perché era caduto sul sentiero sbucciandosi le ginocchia e le mani nel tentativo.

Il profumo della macchia mediterranea si fondeva con quello del mare che risaliva dalla spiaggia, mugghiante delle onde dell’Egeo e per Milo sarebbe stato per sempre l’odore dell’infanzia e di Dimetrios, da quel momento in avanti.

Il sole aveva descritto un arco, nel cielo, da quando il Maestro l’aveva spinto ad allontanarsi. Non era ancora rosso e non si stava buttando in mare, così Milo proseguì. Non si spinse fino alle rocce bianche che vedeva davanti a sé, quelle che davano sulla parete scoscesa sul mare, anche se l’idea l’aveva visto combattuto: da una parte aveva paura, nell’avvicinarsi alla costa a strapiombo, dall’altra sentiva le mani e le gambe formicolare per l’emozione e la bellezza nel fare una cosa così audace e pericolosa. Avanzò solo di un passo e si promise che ogni giorno ne avrebbe fatto uno in più fino a raggiungerla. Gli parve una buona idea.

Stava cercando di strappare uno stelo di erica, quando scorse Stephanos: aveva visto che il gambo era duro, ruvido e resistentissimo e si bruciava le dita a tirare, ma l’arbusto non veniva via.

La cosa era ormai un affronto personale ed era deciso a vincere la sfida quando l’ombra enorme di Stephanos si stagliò su di lui.

“Stai attento a non annegare, a non cadere, e stai attento agli scorpioni, che sono velenosi. Hai capito, creatura? Stai attento agli scorpioni, che qui è pieno”.
Milo era stato attento a non annegare e a non cadere. Non aveva la più pallida idea di che cosa fosse uno scorpione, ma alzando lo sguardo su Stephanos, alto ed enorme, pensò che lui lo fosse.

Quando gli rivolse un saluto, quindi, si appiattì giù nell’erica profumata e ruvida, pronto a balzare via se avesse allungato una mano.

 

Dimetrios versò due bicchieri di retsina e ne appoggiò uno davanti a Stephanos.

“Bevi, su”.

“Grazie”. Prese il bicchiere tra le grosse dita e lo fece roteare appena, osservando il colore rosato del vino infiammarsi ai raggi del sole che filtravano dal meleto. A Milo sembrarono dita spaventosamente forti eppure delicatissime insieme.

Erano bastati pochi minuti per convincerlo che Stephanos non fosse un pericoloso scorpione: si era piegato su un ginocchio, nell’erica, e gli aveva mostrato un gioco di ombre fatto proprio con quelle mani grandi. Quando aveva provato lui a riprodurlo, mettendo impacciata attenzione sulle sue manine, l’uomo gliele aveva prese e gliele aveva fatte battere insieme, in uno scherzo divertente. Milo aveva riso e gli occhi nocciola dello sconosciuto avevano riso con lui.

Dimetrios vuotò in silenzio il proprio bicchiere, aspettando che Stephanos iniziasse a parlare.

“Ottimo” furono le sue parole alla fine “Era molto tempo che non ne bevevo di così buono”.

Dimetrios sogghignò: “lo tengo per le occasioni importanti. Perché sei qui?”

“Ah, ogni tanto si deve fare ritorno. Soprattutto quando si ha una figlia”.

Dimetrios annuì.

“Anche tu hai fatto ritorno”.

“Io?” Dimetrios alzò lo sguardo. “Io sono quasi sempre qui a Milo”.

Stephanos battè la mano ruvida e abbronzata sul tavolo di legno, la vernice sbucciata dal tempo “Era tua usanza mangiare all’aperto solo anni fa. Non lo facevi da tanto”.

L’altro rise. “E a te chi l’ha detto?”

“Il mare porta molte notizie, Dimetrios, da qui ad Atene. Anche quelle che non sembrano importanti”.

“Però.” Milo vide il maestro svuotare allegramente un secondo bicchiere. “E’ un bel chiacchierone questo mare, mh?”

Dimetrios aveva messo piede ad Atene una volta sola nella sua vita. Era stato il giorno in cui aveva ottenuto l’investitura a Silver Saint. Ricordava bene l’arena polverosa, le scalinate marmoree e i templi, bellissimi, futura residenza dei Cavalieri d’Oro. Non aveva immaginato, all’epoca, che sarebbe stato chiamato all’onore di addestrarne uno, un giorno. Ricordava il Pontefice che in un attimo soltanto aveva sollevato la sua vita e poi l’aveva precipitata.

“Il destino ha scelto” aveva detto il Grande Sacerdote Shion, quando Dimetrios si era dimostrato degno “L’armatura di Orione ti appartiene. Ma oltre agli onori ci sono oneri, per tutti i Saints di Athena, ma per te in particolare. Orione volge da secoli ormai le spalle ad Atene e il volto ai confini: l’armatura chiede il tuo esilio. Prendi con te chi ti è fidato e allontanati dal Tempio”.

E così Dimetrios non calpestava la Terra Sacra da quel giorno. Ed erano passati quasi vent’anni in cui il premio dell’armatura d’argento gli era parso un inganno oltraggioso.

“Orione, l’armatura punita, l’esilio delle vestigia era quello del Saint che le avrebbe ottenute”, mormorò, amaro. Spesso, lontano dalla Terra Sacra e dal Mondo Segreto, si era domandato quale fosse il significato della parola Giustizia, per gli Achei. Sembrava coincidere con la serenità della vita di tutti gli esseri umani, con la protezione costante dell’ordine cosmico: ma sembrava insensibile a colpe vecchie di secoli che venivano espiate da chi non chiedeva che di servire una dea fanciulla. Ingiusto, come un mito antico che non apparteneva ad Atene, quello in cui l’uomo e la donna venivano cacciati dal Paradiso Terrestre dopo avere accettato l’ingannevole dono di  una mela lucente.

 

Camus - che all’epoca del ritorno di Stephanos a Milo aveva tre anni scarsi e si allenava in Siberia -  in quel momento, negli appartamenti di Scorpio, addentò uno spicchio del frutto che aveva tagliato e masticò, prendendo tempo, prima di indagare con discrezione:

“L’armatura di Orione è tra quelle che si macchiarono di tradimento nell’antichità. Non compare nemmeno tra le Silver cloth ufficiali. Non se ne parla mai, né di coloro che se le aggiudicano. Mai”.

Milo piegò la buccia della mela fino a romperla in piccoli pezzi, distrattamente, impilandoli sul piatto. “Mi sembra stupido, non parlarne”.

“A me sembra ipocrita”. Camus era sempre stato sincero e retto, e quando c’era da dire le cose come stavano le dicevano. “Vai avanti”.

 

Stephanos non aveva ottenuto un’armatura, mai, anch’egli pretendente al cloth di Orione. Il suo cuore sgombro di invidia lo aveva portato però ad accettare l’esilio forzato come se l’avesse invece avuta, ed era stato al fianco di Dimetrios per anni, prima di sciogliersi nell’isola di Milo come un uomo comune, o nel resto di Grecia, volgendo le spalle al Mondo Segreto che lo aveva rifiutato: aveva visto l’antico compagno d’arme rabbuiarsi e aggrapparsi all’isola come un’aquila al nido, mangiando chiuso in quella piccola casa giorno dopo giorno quando invece aveva sempre amato consumare i suoi pasti all’aperto, tra l’erba e il vento. Seduto al tavolo sbucciato, adesso all’aperto nuovamente, Stephanos vi batté ancora la mano, nel sole e sotto al meleto: “Anche tu sei tornato, Dimetrios”.

Questa volta, Dimetrios di Orione –  costellazione dell’esilio, armatura dell’inganno –  rise apertamente e parve tornato agli anni dell’addestramento: “Ce n’era bisogno, Stephanos”. Quasi senza pensare spostò lo sguardo sul bambino che il Santuario gli aveva affidato, come dono, dopo averlo piegato con l’allontanamento: come una riabilitazione.

“E’ per lui? E’ tuo, vero? L’ho capito subito che era tuo” rise Stephanos versandosi dell’altro vino, gustandolo lentamente “Un allievo?”

Milo, l’allievo, annoiato da discorsi che non capiva continuava ad osservare sotto la branda, seduto sul pavimento. Ad avere pazienza, la bestiola magari sarebbe uscita.

“Il mio riscatto: a me è stato affidato l’allenamento di un Gold Saint”. Lo disse d’un fiato, come se temesse che la frase si spezzasse, che sarebbe un cattivo auspicio.

Stephanos sgranò gli occhi.

“Un Gold Saint”.

“Così pare. Gold Saint di Scorpio, dell’Ottava Casa del Tempio”.

Stephanos sbotto in un sorriso smarrito, fissando negli occhi Orione che, nel mito, dallo Scorpione era stato ucciso.

“Alla faccia…”

“Alla faccia della predestinazione, sì” ghignò l’altro.

Per tutto il pomeriggio si era alzato il vento; arrivava dal mare portando con sé la salsedine delle onde e batteva le rocce e le distese d’erica tra di esse, piegandole sotto il suo fischio.

Pochi minuti dopo Stephanos avrebbe lasciato il frutteto per dirigersi a nord, verso Adamas, a cercare la figlia e la cittadina che aveva nel cuore. Avrebbe salutato Milo, intento  a guardare sotto la branda, e Dimetrios, prima di ripercorrere l’antica strada verso casa, sotto il pomeriggio che diventava sera.

Adesso però versò due bicchieri ancora di retsina, levando il proprio verso le mele che lo sovrastavano:

“Allora bisogna brindare, Dimetrios, amico mio!”



Rispondendo:

Shinji: çOç felice che ti sia piaciuta e ancor più che ti piaccia Dimetrios. L’affetto incondizionato per quest’uomo maledetto servirà pure a qualcosa! çOç *infila nella fanfiction* Grazie per esserci! çOç E teniamo alto il fanclub di Ikki, il più forte dei Gold Saints!

Ren-chan: *O* amore mio, questo non te lo faccio leggere in anteprima cosi, per farti una sorpresa. Speriamo che sia venuto bene! …le mele a coniglietto usciranno in qualche capitolo, vedrai. *GH*

Stateira: çOç <3 Sì! Mi adotti? Merce rara le cocche, merce rara! çOç Come dicevo, le mele a coniglietto usciranno sicuro: non te le ricordi affatto solo tu è il motivo per cui siamo TUTTE cotte di Galan – a parte la sua figaggine innata e il suo braccio di acciaio inox – e per cui ancora io seguiti a leggere il G, anche se non ci sto capendo un cavolo da dieci numeri. *C*;; Yay per le mele a coniglietto! *C* <3

EriS_San: Milo è piccolo e ingenuo, ma crescerà. è__é stando in canon avrà l’armatura a sette anni, quindi dovrà anche darsi una mossa in fretta *C* Già dal prossimo capitolo gli mettiamo il turbo, per amore o per forza. ._.; Grazie per i complimenti. Ti abbraccio forte! >O<

Damaris: devo dire con rammarico che quell’immagine non è del tutto mia: è una parafrasi più o meno azzeccata del dialetto veneto con cui i “nativi” definiscono la Serenissima. Quando lavorai a Venezia e mi venne descritta così la città me ne innamorai perdutamente. Sono immagini che si incastrano con prepotenza çOç.  Mele Avvelenate è una favola a suo modo: questi anni di Milo sono così verdi da essere una fusione tra realtà, sogno e mito, l’età della bruma e delle fiabe. Speriamo di non rovinare tutto. >O< Grazie per la tua lettura e le tue interpretazione e grazie per il tuo occhio attento su Dimetrios. Spero che possa continuare a restare in equilibrio. Un bacio immenso, Damaris.

Malu Lani: ;O; sono così contenta se ti ci affezioni! E’ una cosa che mi riempie di calore, il pensiero che tu possa affezionarti a questa storia quanto lo sono io. Grazie per esserci così spesso. çOç e per il modo dolce con cui ti avvicini sempre.    *C* Se… Se Kurumada mi assumesse sarebbe il mio CAPO. …per Athena! *C*; Adesso gli mando una mail. *C* 

Juka: Saint Seiya è anche uno dei miei amori: irrimediabilmente da sempre. Che si può fare Juka? Ci dobbiamo rassegnare. <3  Detto da te, altra fan dell’antico zoccolo duro, il complimento che mi hai fatto decuplica. Grazie, grazie infinitamente. Continuo sperando di non perderti, di non deluderti  e di vederti ancora. Ti abbraccio.

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Capitolo 4
*** Frutto Proibito ***




3. Frutto proibito


“In quale colpa ti ha sorpreso Zeus,
che così ti sfregia e ti tormenta?"

Eschilo, Prometeo Incatenato



C’era il riflesso del sole che filtrava dagli alberi, dorato, sulle sue dita. Sotto al melo lo scricchiolio della sedia di Dimetrios mossa del vento. Dal mare arrivava un profumo leggero, salmastro, si confondeva con quello dolce del frutteto.
Milo vi chiuse la piccola mano sopra.
Poi ci fu un lampo di dolore incredibile.
Poi più niente.


“Conosci la leggenda di Discordia, no?” domandò Milo, appoggiato alla colonna dell’Undicesimo Tempio. Una domanda retorica, era naturale che Camus la conoscesse bene.
“La ninfa Eris che promise una mela d’oro alla dea più avvenente” ricordò infatti Aquarius. I racconti di Milo erano piacevoli nella calura estiva, dopo gli allenamenti pomeridiani.
Scorpio annuì: “E con una cosa così bella, ha fregato tutti”.
“E’ sempre così, bada”. Lo ammonì distrattamente ed entrambi pensarono alle rose di Aphrodite “In Russia e nei libri del mio maestro si racconta una leggenda cristiana sulle mele e sugli inganni. Di un demone serpente che indusse l’uomo in tentazione”.
“Ma guarda” rise Milo “Sembra che ai piani alti sia diventata un’abitudine. Ma è vero quello che hai detto: le cose più belle sono sempre quelle più pericolose”.
Camus alzò di nuovo lo sguardo su di lui, incuriosito.


Passato mezzogiorno, Dimetrios si era allontanato. Non aveva lasciato detto all’allievo dove sarebbe andato, né il piccolo Milo l’aveva chiesto: era stato troppo impegnato a cercare di salire su un albero. L’impresa era notevole considerata l’età, ma non dubitava di farcela.
Il suo Maestro dubitava eccome, invece, osservando il tronco nodoso del melo davanti casa e le gambette piccole del suo moccioso. Ma era giusto che ci provasse e si rendesse conto da solo.
Così era andato.
Camminava per Adamas, adesso, sulla pietra calda del porto, scalzo. Stephanos e sua figlia erano seduti sul molo. Lei teneva le caviglie incrociate nell’acqua, che si rifrangeva calma nel golfo, la gonna leggera tirata su oltre il ginocchio. Sorrise quando lo vide arrivare, lo salutò. Baciò suo padre sullo zigomo e si ritirò, per lasciarli parlare.
Dimetrios le strizzò l’occhio. Poi sedette accanto a Stephanos, dall’altra parte.
“Sono già arrivati?”

“E’ un po’ presto, no?” Dimetrios sorrise, guardando l’acqua.
“Niente affatto. E’ un Cavaliere d’Oro quello che stai addestrando, ricordalo sempre”.
Dimetrios annuì. Credeva comunque che fosse troppo presto. Milo non era lì che da due settimane, alla fine. Non ci voleva forse un po’ di più perché lui potesse dare a ragione qualche giudizio oggettivo?
Mosse i piedi nell’acqua e Stephanos rimase fermo a scrutare l’orizzonte. Il suo sguardo era vecchio, molto più del suo viso e Dimetrios si chiese quanto gli occhi dell’amico vedessero più in là dei suoi.


Erano passate due settimane. Prendendo o lasciando un giorno o due, certo.
Due settimane avevano dato i loro frutti, già. Milo si muoveva con più agio di qualsiasi bambino della sua età, ormai, abituato a destreggiarsi tra le pietre vulcaniche colorate o nell’intricata macchia mediterranea. Già riusciva a correre, seppur con l’andatura altalenante dei bambini piccoli, e a fare più forza del normale sulle braccia.
Adesso che il Maestro era andato via – Milo se ne era reso conto vedendolo già lontano che spariva oltre il frutteto – avrebbe dovuto anche lui andarsene a spasso per l’isola a cercare cose nuove.
Era già arrivato decisamente più in là, in quelle due settimane, rispetto al punto in cui aveva incontrato Stephanos. Un passo alla volta, qualche volta anche un po’ di più, si era spinto verso i dirupi delle scogliere. Quel giorno contava di spostarsi fino al limite del precipizio, per sentire il vento pieno di sale alle spalle e guardare giù e vedere fin dove le onde si spingevano, infrangendosi sulle rocce. Il giorno prima era arrivato molto vicino e le aveva sentite mugghiare, feroci, sotto. Come mostri che si arrampicassero verso di lui.
Quel pomeriggio voleva vederle. Elettrizzato dall’avventura imminente, caracollò giù dai venti centimetri di tronco che era riuscito a salire e trotterellò nell’erba.
Ma aveva appena svoltato l’angolo della casa, che qualcosa catturò irrimediabilmente la sua attenzione.


“Forse sono io che prendo tempo, Stephanos. E’ che desidero vederli il meno possibile, gli emissari di Atene”.
Stephanos rise di gusto. “Sei un Sacro Guerriero. I tuoi rapporti con Athena e la la città cui presiede non possono essere tesi”.
"Sono un Sacro Guerriero in esilio”, precisò Dimetrios con puntiglio. Dimetrios era del segno dello Scorpione. Ma il suo ascendente Capricorno si faceva sentire un sacco.
Il fatto era che non aveva potuto ritirarsi dal compito che Atene gli aveva affidato insieme a quel bambino dai riccioli biondi. Lui, l’esiliato dalla dea, prendersi a carico l’addestramento di un Gold Saint? Eppure egli, dicevano nelle missive, egli era il grande Orione. Il più forte tra i Cavalieri d’Argento. Il Cacciatore arguto e potente. L’addestramento gli era stato imposto quanto l’allontanamento dalla Terra Santa.
Adesso, doveva ammettere, non gli dispiaceva più. Si era affezionato al bambino e aveva instaurato con lui, da subito, un’alchimia strana che si apriva con il sorriso di entrambi. Naturale come il sole e il mare di quell’isola selvaggia.
E si stava abituando all’idea di avere tra i piedi non solo un allievo amato, ma davvero un futuro Gold Saint.
“E se non lo fosse, Stephanos?” diede voce ai suoi dubbi. L’uomo si girò a guardarlo, con quel suo sguardo antico, di chi è abituato a guardare lontano.
“Cosa vuoi dire?” domandò sereno “I Gold Saint vengono addestrati. Ma la loro appartenenza alla costellazione guida è questione di predestinazione. Che cosa temi?”
“Milo mi è stato affidato come predestinato dello Scorpione del Cielo. Ma sai bene che nemmeno per il Pontefice, che esamina migliaia di bambini candidati c’è mai l’assoluta certezza fino alla fine”.
Stephanos annuì.
“E’ per questo che Atene manda i suoi messi. Per monitorare la situazione e intervenire. Verranno presto: aspettali”. Sorrise caldo, appoggiando una mano sulla spalla dell’amico più giovane. “ma non temerli: vengono a constatare quello che già sai”.
“E se il Cosmo di Scorpio si fosse già manifestato altrove, quando verranno? Che ne sarà di Milo?”
Stephanos tacque.
Che ne era dei bambini scartati dal potere vestito di sembianze sociali che era la sacra polis di Atene? Il loro destino non era diverso da quello dei neonati dell’antica Sparta giudicati troppo fragili: venivano eliminati. Uccisi, perché non fossero di intralcio. O, se in grado di sopravvivere comunque ad un allenamento pesante, finivano tra gli innumerevoli soldati senza volto dell’esercito.
“Tu ti stai affezionando troppo, Dimetrios”.  Sussurrò l’altro, dolce come le onde che accarezzavano loro i piedi. “E il troppo affetto ti fa temere: addestra il tuo ragazzino, il Pontefice sbaglia di rado. In ogni caso, il Cosmo non si è mai manifestato prima dei cinque anni, in nessun Cavaliere d’Oro, quindi mettiti il cuore in pace. C’è tempo”.
Dimetrios tacque, rendendosi conto di quanto fossero vere quelle parole. Milo aveva cominciato a rappresentare il nodo focale di tutta la sua vita, ormai. Non solo un allievo troppo simile a lui – quanto un figlio, un fratello – ma la possibilità di catarsi della sua sacra tragedia d’esilio.
Il suo personale riscatto dorato.


Milo pensò che se era riuscito a balzare sul tronco nodoso del melo, sarebbe riuscito a salire anche sul davanzale. Nella sua mente, la scogliera era già infinitamente lontana: le onde mugghianti le avrebbe viste un altro giorno.
Era caracollato giù dai venti centimetri di tronco che era riuscito a salire e aveva trotterellato nell’erba. Ma aveva appena svoltato l’angolo della casa, che qualcosa aveva catturato irrimediabilmente la sua attenzione.
Si trattava della grossa bestia lucente ed elegante che aveva già visto sul muro e che aveva la sua tana sotto la brandina che condivideva con Dimetrios.
La sorpresa di trovarsela davanti, a pascolare sulla parete esterna, lo aveva riempito di eccitazione. Era corso subito al muro intonacato, per vedere se riusciva a prenderlo. Si era alzato in punta di piedi, tendendo le braccia, ma niente: solo vicino.
“Bestiola!” aveva miagolato, invitante. L’animale, lucido e nervoso, aveva drizzato la coda. Era rimasto per un attimo immobile, le grosse pinze rivolte verso la mano del bambino e le sue piccole dita flesse.
La coda, agile e minacciosa, si era alzata di più nell’avvertimento.
Il messaggio era abbastanza chiaro: togliti dalle palle, su. Alza i tacchi. Ma Milo era troppo giovane, troppo attratto e assolutamente incurante del pericolo, per rendersene conto.
E aveva allungato la mano. “Vieni!” aveva implorato.
La bestia era rimasta ancora ferma, pronta a far scattare la coda e l’aculeo su di essa.
Invece, poi, aveva preferito girare su se stessa e sgambettare un po’ più in là, per la parete. Era rimasta immobile in un raggio di sole per un po’, ma sentendo Milo saltellare poco al di sotto, pensato di spostarsi ancora, mettendosi al sicuro fin sopra al davanzale di pietra.
Milo l’aveva guardata scomparire delusissimo, mettendo un broncio che avrebbe sciolto un cuore di pietra. Aveva fatto ricadere le braccine lungo il corpo.
Poi qualcosa si era indurito di determinazione nei suoi occhi azzurri: ci sarebbe salito anche lui, su quel davanzale, per vedere se la bestiola c’era ancora.


Dimetrios si era rasserenato dopo la conversazione con Stephanos. Adesso avevano lasciato il molo, passeggiando sulla strada asfaltata di recente. Bruciava, sotto le piante dei piedi nudi di Dimetrios, ma il Silver Saint di Orione non era tipo da farsi piegare da simili sciocchezze.
Si sedettero al bar poco lontano, all’angolo del paese, a bere liquore all’anice, come facevano da ragazzi, e ci restarono per tutto il pomeriggio, fino a quando il carro del sole non cominciò a tendere verso il basso, colorandosi di toni caldi.
“Che programmi hai?”
Dimetrios si spinse indietro i capelli. Meditò di prendere dell’altro liquore e alla fine se ne versò un bicchiere. “Risponde bene agli stimoli: è curioso, vitale, si muove bene. Disubbidisce spesso, più per gioco che per altro. Come hai detto, per due anni abbondanti ancora il Cosmo resterà sopito. Fino a quel momento – se quel momento verrà, pensò in un angolo della propria mente – porterò avanti esercizi per irrobustirlo il più possibile e renderlo agile: gli attacchi dello scorpione necessitano della massima velocità”.
“Mh”. Fece Stephanos “Bravo. Ma adesso falla finita con quell’ouzo. O almeno allungalo con l’acqua…” fece per versargliene.
“Che accidenti fai, sacrilego?” rise e spostò il proprio bicchiere per un pelo. “Annaffia il tuo! …ma non temere, questo è l’ultimo”.


Milo era piccolo e, anche a tirarsi in punta di piedi, di arrivare al davanzale non c’era modo. Ma, se ancora scarseggiava in altezza, non mancava in inventiva e al davanzale ci arrivò da dentro, salendo in piedi sulla brandina, dopo sforzi notevoli.
Il letto di Dimetrios aderiva sul lato alla parete. Milo ci si buttò sopra di pancia, poi cercò di arrancare fin sopra, dimenandosi. Per un attimo rimase in bilico, sul bordo, e quasi non cadde all’indietro, per terra, dopo un volo non indifferente per un bambino così piccolo.
Bilanciato per puro istinto con una gamba, spinta di lato, non prese nemmeno in considerazione il possibile incidente.
Imbronciato, le guance rosse per lo sforzo, spinse il piede fino al bordo del materasso. In condizioni normali non ce l’avrebbe fatta: sarebbe potuto restare così, a sgambettare, fino all’arrivo del Maestro. Invece - il corpo e i riflessi affinati dal trotterellare sugli scogli, lo sfidare il vento e l’arrampicarsi sulle coste frastagliate - riuscì a puntellare il tallone. Ci mise più tempo e più fatica di quanto avesse immaginato, ma alla fine, i riccioli corti sparati attorno alla faccia come raggi di sole, cappottò sul letto e si mise in piedi.
Un passo sul materasso, che se fosse stato appena un po’ più morbido l’avrebbe fatto cadere di faccia. Era duro e spartano, invece, e il bambino sgambettò verso la finestra.
Il davanzale adesso gli arrivava all’altezza del naso.
Era cosparso di foglie e resina appiccicosa. C’era anche una mela bacata, caduta al mattino.
Stremato per lo sforzo, rimase lì qualche minuto, a respirare la salsedine e i profumi acri delle mele marce e di quelle ancora sugli alberi.
A infondergli nuova forza,  il ticchettare leggero e familiare delle zampette della sua preda, alla propria destra. Vicinissimo.
Si stava avvicinando al frutto troppo maturo: probabilmente era il suo odore che l’aveva attratta. Milo la guardò immobile, e la bestiola si fermò di scatto. Inarcò nuovamente la coda, descrivendo una forma perfetta, che esprimeva eleganza e potenza.
Il bambino l’ammirò spassionatamente. Lentamente alzò il braccio, per sporgerlo sull’animale. Non intendeva fargli male: voleva solo prenderlo. E chissà cos’avrebbe detto Dimetrios vedendolo!
C’era il riflesso del sole che filtrava dagli alberi, dorato, sulle sue dita. In basso lo scricchiolio della sedia di Dimetrios mossa del vento. Dal mare arrivava un profumo leggero, salmastro, si confondeva con quello dolce del frutteto.
Milo vi chiuse la piccola mano sopra.
Poi ci fu un lampo di dolore incredibile.
Poi più niente.


“Milo!” sibilò Camus e il suo tono fece scorrere un brivido gelato sulla schiena del compagno, anche in quel pomeriggio estivo. Aveva vissuto la scena con tanta intensità che gli parve più presente che mai e il suo rimprovero retrospettivo non gli parve abbastanza.

Dimetrios rincasò insieme al sole che tramontava. La costa si tingeva di rosso e i raggi infuocati si spingevano fino al frutteto, penetrando tra i tronchi e colorando le mura bianche. Regnava il silenzio, in quel regno profumato di sale e di mela, e nessuno gli era corso incontro al suo arrivo: Milo doveva essere ancora i giro.
Il vento si era placato e il mare era calmo. Il giovane si fermò sul sentiero, spingendo lo sguardo verso l’entroterra, per scorgere l’allievo, nel caso stesse rientrando: gli aveva imposto d’essere puntuale, la sera. Poiché non arrivava, rientrò per aspettarlo ancora qualche minuto, slacciando la camicia.
Sì fermò con la mano a mezz’aria, sentendo qualcosa spezzarsi dentro.
Nell’ombra densa, non sfiorata dal sole morente, i suoi occhi individuarono con fin troppa chiarezza il corpo rannicchiato di  Milo, esanime. Sembrava incosciente e non si muoveva, se non per orrendi spasmi irregolari. Di tanto in tanto gemeva ed era come il lamento di uno spirito nella sera.
Dimetros si rese conto di essersi lanciato verso di lui solo quando la sua mano già toccava la fronte e le guance riarse.

 

 

Rispondendo:
Gem: Grazie! çOç Non sai che piacere. Sono contenta ti piaccia. Spero di vederti ancora! >O< <3
Juka: Ti ringrazio tanto per i complimenti. Le cose che mi hai detto sulla narrazione le vedo adesso che me le hai fatte notare. E' interessante la tua osservazione sulla memoria, mi ha fatto molto piacere. Sì, Orione è stato seccato dallo Scorpione, nel mito *C*; che incidente spiacevole per i nostri amici qui, eh? *C* Comunque niente paura: io aggiorno, ma ho i miei tempi! ^__- Ti aspetto ancora!
Stateira: *C* eh si... ci avviciniamo ad un momento ostico. Lo scorpione si è rotto le palle di essere inseguito. Stammi vicina, ora, tesoroh *C* <3
Damaris: Sono così felice che ti piaccia Dimetrios! çOç Con questo personaggio ho un debito un po' particolare, le lodi che gli vengono, se ci sono, non possono che riempirmi d'orogoglio e d'amore per lui. La storia di Orione... ha un ruolo piuttosto fondamentale, qui,l spero di riuscire a renderla. la tua presenza mi incoraggia e sostiene moltissimo. Grazie infinite.  é__è Il paragone sottile con la cacciata dal paradiso e l'albero della conoscenza che porto avanti forse diventerà più chiaro. C'è il pericolo di mischiare un po' troppo le mitologie. Dimmi, continuando, se stona, secondo te. ^__- Un bacio immenso.
ArabianPhoenix: grazie anche a te! Gentilissima. Ah, beh, di ombre ce ne sono finchè ne vuoi, sotto tutti quei colori abbaglianti. Le scopro insieme a te! >O< <3
Ren_Chan: amore mio çOç grazie *SPUCCIA TUTTA* Dimetrios lo curo più che posso, anche perchè ci serve. ù__ù  "fissa l'ALTRO". Vai che tra poco lo incontri. *C* Sono contenta ti sia piaciuta tutta la storia di Orione: tienila d'occhio! XD Lo sai cosa muove Milo, in realtà. Quello che muove tutte le Nespole. La merce rara. ù__ù  Grazie per le tue parole su Stephanos. Grazie infinite.
Shinji: grazie a te per averlo letto. é__è e per i complimenti. E per la tua dolcezza, sempre. Ti adoro, caro.

 

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