Imprese suicide - Eroi ribelli

di Rainbows_Butterflies
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Avviso. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Imprese suicide
-
E
roi ribelli
[Storia interattiva]
 
Prologo


Come erano potuti arrivare a quel punto?
William Harper continuava a domandarselo da minuti interi, mentre ascoltava attentamente e con vago orrore le parole mormorate da Chirone.
Il centauro l'aveva convocato molto presto, quella mattina, appena l'alba era sorta.
Per qualche istante, William aveva pensato di aver combinato qualche guaio e che Chirone avesse intenzione di sgridarlo. Poi, quando gli era stata spiegata la situazione, William aveva pensato che avrebbe preferito una delle strigliate di Chirone a quello.
«Quindi... la storia sta per ripetersi? E noi non abbiamo un Percy Jackson o un Jason Grace da mandare a sconfiggere l'oscura divinità di turno che sta per risvegliarsi ed un gruppo di semidei voltafaccia?», domandò lentamente, incredulo, quando Chirone smise di parlare.
Il centauro sembrò trattenere il respiro, mentre gli dedicava un'occhiataccia che, se avesse potuto, avrebbe incenerito William sul posto.
«Più o meno», rispose, altrettanto lentamente «è la prima volta che Caos tenta di manifestare la propria volontà. Crono e Gea sono vissuti davvero, milioni di anni fa, ma Caos no. È sempre esistito, certo, ma non ha mai fatto niente. Proprio niente, intendo, a parte generare qualche figlio, di tanto in tanto, tra cui la stessa Gea e Tartaro».
Chirone sospirò, e William raddrizzò le spalle. La stupida domanda che spontaneamente gli stava sorgendo in gola, ovvero come potesse Caos generare dei figli da solo, sembrò rigirarsi e sparirgli nelle viscere. Non si trattava esattamente del momento giusto per fare dell'ironia.
«Caos ha un potere quasi illimitato, Will, è questo che devi capire», riprese Chirone, dopo qualche istante «potrebbe distruggere l'umanità, o la Terra, oppure l'universo intero, se acquisisse totalmente una propria volontà. Adesso siamo solo agli inizi, l'hai visto anche tu. Qui al Campo siamo rimasti in poco più di una cinquantina, gli altri sono scappati e se ne sono tornati a casa loro, oppure Caos è riuscito ad arruolarli dalla propria parte. Non ne ho idea. Ed è per questo che qualcuno di voi deve partire».
William sgranò i suoi grandi occhi grigi e minacciosi, dello stesso colore delle cupe nubi che offuscavano il cielo estivo, fuori dalla Casa Grande, e sobbalzò sulla sedia.
«Come?», domandò, stupito «vuole dire che ci dà davvero il permesso di avviare un'impresa, Chirone?».
«A malincuore, sì», rispose il centauro, visibilmente preoccupato, poi riprese «William, Ares ha fatto il tuo nome. Ti vuole schierato in prima linea, per questa battaglia».
William corrucciò le sopracciglia e si passò una mano tra i biondi capelli ribelli, un po' troppo lunghi per i suoi gusti, e scosse il capo.
Ares lo voleva in un'impresa? Quale novità! Non l'aveva mai sopportato, eppure, per qualche ignota ragione, il dio tentava continuamente di farlo partecipare a qualche impresa di dubbia riuscita. Forse, pensò, Ares sperava che qualcuno lo facesse fuori per poterselo, così, togliere dalle divine scatole. A quell'idea, appellativi decisamente poco “divini” nei confronti del dio gli ronzarono nelle orecchie, ma il ragazzo decise che sarebbe stato più saggio non commentare ad alta voce.
«È per questo che sono qui, dunque? Perché mio padre vuole mandarmi a combattere una divinità contro cui non sarei mai in grado di vincere, neanche con settant'anni di addestramento?» chiese allora, con quanta più calma riuscì a mantenere, incrociando le braccia al petto «assurdo. Gli altri penseranno che sono un raccomandato».
Chirone intrecciò le dita sotto al mento e, per l'ennesima volta da quando William l'aveva raggiunto, sospirò profondamente.
«Questo è l'ultimo dei tuoi pensieri, William. Sei qui perché io ci ho pensato molto attentamente», disse poi, cauto «e tu sei il semidio più grande, forte ed addestrato del Campo. Vai in giro a combattere mostri da quando avevi appena otto anni. Hai più di dieci anni di addestramento alle spalle, sei il leader ideale per un'impresa di questo calibro. E poi, i ragazzi si fidano di te, no? Anch'io mi fido di te».
“Sono io che non mi fido di me”, pensò William, ma di nuovo preferì non esprimersi.
«Che cosa devo fare?», domandò invece.
Chirone non parve affatto sollevato dalla sua risposta, perché strinse i denti con più forza e poggiò la fronte sulle mani.
«Scegli un gruppo di semidei tra i ragazzi rimasti qui. A questo punto, non importa il numero. Forse ci stiamo persino muovendo troppo tardi, ma dobbiamo provarci», mormorò «in questo momento, l'unica pista da seguire che abbiamo è quella dei semidei scomparsi, perciò...».
«Ma Chirone...», lo interruppe William, balzando in piedi con uno scatto felino «sono scomparsi... non riusciremo mai a trovarli. E poi, Rachel non ha... ehm... comunicato alcuna profezia? Ed Ella non ne sa nulla? Ottaviano non ha visto niente, nei suoi peluches?».
Chirone sbiancò improvvisamente, e questa volta fu il turno di William di trattenere il respiro.
Cosa poteva spaventare Chirone fino a quel punto? Qualunque cosa fosse, il semidio non era certo di volerne venire a conoscenza.
«Una minaccia mai prima affrontata dissolve la pace da tempo incontrastata», recitò piano il centauro «rapisce dell'Olimpo la prole, e ai divini nel cuore dole. Gli eroi si organizzano al meglio, ma fiumi di sangue sono il costo del mancato risveglio».
William lasciò andare il fiato che non si era accorto di trattenere.
«Okay, questa suona proprio come una profezia», bofonchiò, un po' intimorito «non c'è proprio altro che possiamo fare, oltre al partire?».
Chirone scosse il capo in un cenno di diniego.
«Niente», mormorò «io e il Signor D. resteremo qui al Campo e cercheremo di preparare i ragazzi alla battaglia...».
«Battaglia?», lo interruppe di nuovo William, assottigliando lo sguardo «quale battaglia?».
Chirone posò le mani sulla scrivania e cominciò a raccogliere nervosamente le carte del Pinnacolo, poi lanciò un'occhiata fuori dalla finestra.
«Ho parlato con Ermes qualche giorno addietro, e mi ha riferito che non c'è traccia di mostri in giro per il mondo dei mortali. Questo, a parere mio e degli dei, può significare solamente che si stanno radunando e che sferreranno un attacco congiunto ai Campi», rispose «ed è per questo che c'è bisogno di scoprire dove sono finiti i semidei scomparsi. Corriamo il rischio di dover combattere contro volti che un tempo ci sono stati amici. Tu saresti in grado di batterti e magari uccidere qualcuno che hai chiamato “amico”?».
William ci pensò su per alcuni istanti.
No. Decisamente no.
Alla fine, ne era certo, si sarebbe potuto persino lasciar morire, pur di non ferire un altro essere umano. Un essere umano che aveva conosciuto, poi? Figuriamoci.
William Harper sarebbe stato spacciato.
«Sì», dichiarò invece, dopo un momento di esitazione «se combattono contro di noi, non sono più nostri amici».
Chirone, di nuovo, scosse lievemente il capo.
«Sei coraggioso, Will», disse «va' e rinfrescati un po' le idee, poi decidi chi portare con te. Pensaci attentamente, e stai attento».
William scivolò fino alla porta e prese una boccata d'aria fresca.
«Lo farò, Chirone» promise «anzi, lo faremo. Riporteremo quei voltafaccia sulla retta via».
Il centauro, da dietro la sua scrivania, intrecciò le dita sotto il mento e socchiuse stancamente gli occhi.
«Lo spero, William» mormorò, quando il semidio fu troppo lontano per sentirlo «lo spero».








Angolo di Butterflies

Ciao a tutti, semidivini babbani! (?)
Per prima cosa, considerando che sono nuova qui, mi presento: Sono Rainbows_Butterflies, ma voi potete chiamarmi Butterflies – o Rainbows, o come preferite, insomma – e sono felicissima di conoscervi ^^
Perdonatemi il prologo un po'... ugh, non so come definirlo - a parte “demente”, s'intende -, ma mi serviva per introdurvi questa mia proposta: una storia interattiva.
Ho notato che questo tipo di fan fiction, in media, non arriva a più di sette capitoli e avevo una gran voglia di pubblicare qualcosa con questo mio account creato decenni fa e ancora inutilizzato.
Così, eccomi qua: pronta ad infestare il fandom con una storia insulsa e probabilmente senza senso ^^”


Tutto questo per dirvi che, se volete, potete partecipare anche voi, inviandomi i dati dei vostri personaggi - possibilmente, ragazze, non create tutte semidee di sesso femminile, altrimenti la storia sarà più noiosaaa(aaa) di quanto sarà comunque – tramite messaggio privato. Non c'è un vero motivo per il quale non voglio vedere i dati nella recensione (ma sentitemi, parlo come se qualcuno mi cagherà davvero :'3), solo che è una cosa mi da sui nervi u.u


Nome:
Cognome:
Sesso:
Età e compleanno (no anno):
Aspetto fisico:
Segni particolari (occhiali, lentiggini, tatuaggi, cicatrici ecc.):
Carattere:
Genitore divino e rapporto con esso:
Famiglia umana e rapporti con essa:
Abbigliamento tipico:
Arma e nome dell'arma:
Poteri particolari (se ce l'ha):
Storia:
Altro:


Ripeto: se volete partecipare, inviatemi il vostro personaggio per messaggio privato!


Quanto sono acida, oggi, santi dei D: giuro che non sono sempre così, è colpa di George Martin. Prendetevela con lui. È lui che mi fa del male, con i suoi dannati libri ç.ç (?)
Okay, sto cominciando a parlare come mia nonna. Di solito, questo è il segnale che devo piantarla. Dunque ciao, e... partecipate! xD (nonvistosupplicandononvistosupplicando)








Okay, vi sto supplicando ^^”

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


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Capitolo 1
 

Una minaccia mai prima affrontata
dissolve la pace da tempo incontrastata
rapisce dell'Olimpo la prole,
e ai divini nel cuore dole.
Gli eroi si organizzano al meglio,
ma fiumi di sangue sono il costo del mancato risveglio”

[Dalle profezie dell'Oracolo Rachel Elizabeth Dare, anno 2017]


Da quando Chirone aveva dato l'annuncio ufficiale dell'impresa, il Campo Mezzosangue si era tramutato in campo di battaglia. Più del normale, s'intende.
Semidei e semidee, bardati in pesanti armature greche, combattevano con più forza e determinazione che mai, persino fuori dall'Arena, affondando e parando con le loro lunghe spade di bronzo celeste, e mozzando i capi dei manichini animati dai figli di Ecate.
I figli di Apollo scoccavano una freccia dopo l'altra, senza tregua. I più abili di loro riuscivano a lanciarne persino otto contemporaneamente, e tutte otto andavano a conficcarsi con assoluta precisione all'interno dell'anello rosso che indicava il cuore del nemico.
Persino i figli di Afrodite, che avrebbero certamente preferito riordinare le loro stanze a tutto quel sudore, avevano abbandonato la loro Casa e si stavano allenando, ignorando la fatica e la stanchezza.
Arrampicato tra i rami di un vecchio castagno, William Harper osservava attentamente i movimenti dei suoi fratelli e dei suoi cugini, rimuginando tra sé e chiedendosi se Chirone non avesse commesso un errore colossale ad affidare a lui la guida dell'impresa.
Non sapeva neanche, esattamente, da dove cominciare e chi portare con sé. E poi, sarebbe stato in grado di ritrovare i ragazzi smarriti? E se li avesse ritrovati, cosa avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a convincerli a tornare al Campo, oppure quelli non avrebbero neanche voluto sentirne parlare?
«Ancora qua a crogiolarti nei tuoi problemi, Harper?».
La voce flemmatica di Susan Graymark annullò di colpo tutti i suoi pensieri, e William, sorpreso, sobbalzò, rischiando di cadere.
La semidea rise lievemente, scivolando a sedere sul ramo di fianco a lui.
William, come sempre, pensò che la sua fosse la risata più bella dell'intero Campo Mezzosangue.
«Mi hai fatto prendere un infarto», la sgridò, agitandole un pugnale sotto al naso «lo sai che apparire alle spalle di un semidio così silenziosamente non è mai una buona idea? Avrei potuto infilzarti e ferirti, o peggio».
Susan non si lasciò intimidire, e gli sorrise. Un sorriso disarmante, che fece tremare il cuore di William come una foglia scossa da un uragano. Forse arrossì persino un po', ma sperò che Susan non lo notasse. Se lo notò, lei non disse niente.
«Allora, è vero quello che dicono quei pettegoli dei figli di Afrodite?», riprese lei, dopo averlo scrutato in volto per alcuni istanti «hai paura per l'impresa?».
William sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
«Non ho paura» precisò, calcando sul “non” «però sono preoccupato. Chirone e tutti voi vi fidate di me, delle mie capacità, ma io...».
«Non ci sei solo tu dentro, Harper» gli fece notare lei, spostandosi una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio «ci siamo tutti. Tu, io, Chirone, gli altri ragazzi... persino gli dei stessi. Dobbiamo solo collaborare ed impegnarci parecchio, se vogliamo uscirne vincitori».
William dondolò le gambe nel vuoto, ed il vento fresco gli carezzò delicatamente i muscoli irrigiditi.
«Questo lo so, ma l'impresa è praticamente impossibile da portare a termine. I ragazzi potrebbero essere in qualunque parte del mondo, adesso» brontolò «trovarli sarà...».
«Non dirlo», lo interruppe inaspettatamente lei, alzando le mani con il palmo rivolto verso il viso del ragazzo «non dire la parola “impossibile” davanti a me, Harper, o giuro che ti spiaccicherò come una pulce. Niente è impossibile per il figlio di un dio».
William sorrise e rilassò le spalle.
«È bello sapere che c'è chi la pensa come te, Graymark» disse «anche se fa strano, detto da una che è figlia del dio dei morti».
Susan fece spallucce e guardò verso il basso, dove due semidei si stavano dando battaglia con sin troppo fervore.
«C'è bisogno di ottimismo, in questo Campo», disse poi, tornando a guardare William negli occhi, ma con più serietà «è per questo che devi riportare qua i ragazzi. Harry, Isabelle, Lewis e tutti gli altri che se ne sono andati. Quando l'esercito di mostri ingaggiato da Caos arriverà, avremo bisogno di tutto l'aiuto possibile per combattere e se loro saranno qui... forse anche gli altri saranno più motivati e ci salveremo».
«Credi anche tu che attaccheranno il Campo Mezzosangue?», chiese William, perplesso.
Susan prese una profonda boccata d'aria, ed i suoi occhi del colore del cielo parvero fiammeggiare.
William inarcò un sopracciglio. Quando si comportava in quella maniera, lo spaventava davvero un po'; come lo spaventava suo padre. Era pazzo, quello là.
«Avanti, tutti i cattivi vogliono distruggere il nostro Campo», sbuffò lei «Crono e Gea, per esempio. Il Campo Mezzosangue è stata la prima cosa che hanno tentato di debellare, ancor prima di ricordarsi come si chiamavano».
«Già, ma allora qua vi erano eroi del calibro di Percy Jackson e di Annabeth Chase» commentò William «non c'è più nessuno come loro. Nessuno che possa rappresentare una minaccia».
«Ogni generazione ha i propri eroi, Harper», rispose lei, abbassando poi il tono della voce «noi abbiamo te».
«E te», rispose lui, senza darsi il tempo di riflettere su come sarebbero suonate le sue parole alle orecchie della ragazza.
Susan gli sorrise di nuovo, e William poté quasi giurare di averla vista arrossire. Non che fosse qualcosa di molto difficile da notare, con la pelle pallida che si ritrovava.
Allora, con un balzo felino, William saltò giù dal ramo ed allargò le braccia nella direzione della ragazza.
«Vieni anche tu!», le propose, a voce sin troppo alta.
Susan si guardò intorno furtivamente, come se il fatto che qualcuno avesse potuto sentirlo la preoccupasse.
«Io?» domandò poi, incerta «io... io non ho mai partecipato a nessuna impresa, non penso che...».
Questa volta, fu William a ridere.
«Avanti, ci sono io, no?», la pregò «e poi, non sembra qualcosa di troppo pericoloso, no, trovare dei ragazzi scomparsi? Non ci sono neanche mostri, in giro».
Susan alzò gli occhi al cielo, soffocando una risatina.
«Questo ti farà smettere di dire sciocchezze?», domandò, ed il sorriso di William si allargò.


Jonathan stava diventando un vero e proprio nerd.
Se ne rese conto improvvisamente, mentre il suo personaggio di Aion saliva di livello per l'ennesima volta.
«Oh no, ragazzi, sta arrivando pure un terribile troll lavavetri!», gemette il ragazzo seduto vicino a lui, Marlon Hughes, indicando qualcosa sullo schermo.
«Killalo! Killalo!», replicò un altro, Helias McCollought, saltando quasi in piedi.
Jonathan lanciò un'occhiata obliqua al pc, poi ai suoi compagni ed inarcò le sopracciglia.
Come era finito, esattamente, tra un branco di tizi che indossavano magliette con la scritta “WHO NEED A GIRLFIEND? I HAVE A GAME CONSOLE!”?
«Non puoi aggrare se prima il tank non pulla il mob!», fece notare Helias, arricciando il naso «pensavo tu lo sapessi».
Jonathan si aggiustò gli occhiali sul naso, preoccupato da fatto di aver davvero capito, senza la minima difficoltà, cosa l'amico avesse appena detto. La cosa si stava facendo grave, soprattutto considerando che lui preferiva nerdeggiare in solitudine che in gruppo.
Fu tentato di alzarsi e tornarsene nella sua Casa, quando la porta si spalancò, rivelando la sagoma allampanata di William Harper, palesemente di ottimo umore.
Jonathan di nuovo, si sistemò meglio gli occhiali e cercò di non agitarsi troppo. Era sempre pericoloso, quando il figlio di Ares si avvicinava spontaneamente a qualcuno.
«Hey, ragazzi!», salutò William, rivolgendo a tutti un sorriso complice «come ve la passate?».
«Conosciamo tutti quella tua espressione, Will», dichiarò Helias che, fino a quel momento, aveva giocato ad Aion senza interruzioni «se hai bisogno di qualcosa, dillo e basta, okay?».
William allargò il suo sorrisetto, e Jonathan ebbe l'impressione che si rivolgesse proprio a lui. Assottigliò lo sguardo, sospettoso.
«Nella mia impresa, voglio Jonathan Leyachet», rispose il ragazzo, puntando l'indice contro il semidio in questione.
Jonathan sbatté velocemente le palpebre un paio di volte, confuso. Aveva sentito bene, o stava davvero cominciando ad impazzire?
«Che cosa...?» domandò debolmente «che cosa? Che cosa?!».
William rise appena, allegro, e Jonathan si domandò che cosa diamine gli stesse passando per la testa. Aveva assunto qualche strana droga, si faceva di dosi esagerate di caffè zuccherati, oppure la sua follia aveva semplicemente preso il sopravvento?
«Vuoi venire o no?», chiese «se non vuoi venire, non c'è problema. Mi troverò qualcun altro, ma mi avrebbe fatto piacere averti nella squadra».
Jonathan inarcò un sopracciglio, perplesso. William era risaputamente pazzo, ma Jonathan non si sarebbe mai aspettato che lo fosse fino a quel punto. Cosa poteva spingere il figlio di Ares a domandare a lui, proprio a lui, di accompagnarlo in un'impresa? Non erano neanche amici, o almeno non esattamente: avevano scambiato, sì e no, quattro parole in croce.
L'aveva davvero colto di sorpresa, una simile richiesta.
«No, certo che no!», si affrettò a rispondere Jonathan «cioè, no, aspetta! Voglio dire sì, voglio venire».
William parve molto soddisfatto, tanto che, se non fosse stato un figlio di Ares, Jonathan avrebbe potuto tranquillamente pensare che avesse intenzione di abbracciarlo.
Non ebbe il tempo di domandarsi quale fosse il motivo dell'improvviso buon umore di quel lunatico di un semidio, che quello scattò verso la porta da cui era entrato con la mano alzata in un cenno di saluto.
«Bene, allora lo farò sapere a Chirone», disse, senza smettere di sorridere «ci vediamo questa sera al falò!». E scomparve.
Jonathan era abbastanza certo che quel ragazzo non fosse normale.
Si lasciò cadere sulla sua sedia, davanti al pc, dove il suo povero personaggio era stato lasciato da solo a vedersela contro un paio di bizzarri esseri.
«Wow, che fortuna hai, amico», commentò Marlon, chiudendo lo schermo del suo pc portatile.
«Mmh...?», fece Jonathan, per tutta risposta.
«Puoi partire per un'avventura vera, mentre noi dobbiamo restarcene qui a faticare con Chirone che brontola. Buon per te», disse l'altro.
A Jonathan non pareva affatto che Marlon si stesse affaticando troppo, in realtà, ma preferì non dire niente. Non fosse mai che quello tirasse fuori una spada laser di Strar Wars e tentasse di farlo a fette.
«Ma sì!», ribatté Helias, illuminandosi in volto come per un'improvvisa rivelazione «sarà come in Dungeons&Dragons, per te! Però vero!».


«Rose, avanti, ti prego», supplicò Ferdinand, lasciando cadere la sua lancia a terra e raggiungendo la ragazza «ti ho chiesto scusa un'infinità di volte...».
Rose si voltò verso il figlio di Ares con uno scatto tanto rapido da lasciarlo sorpreso e gli puntò l'indice contro il petto con fare d'accusa. Fu fortunato che non decise di utilizzare il pugnale.
«Tu», ringhiò, spingendo il dito contro il pettorale dell'armatura del ragazzo «ti avevo chiesto espressamente di sparire, se non sbaglio».
Ferdinand, dal canto suo, non si spostò di un millimetro, ma strinse le labbra in una linea sottile.
«Rose...», riprese poi, in tono conciliante «sono passati mesi...».
Rose ritirò l'indice e s'infilò le mani in tasca, in un gesto di stizza. Conosceva Ferdinand Bristil sin da quando era giunta al Campo Mezzosangue e, un tempo, erano stati molto amici. Rose era arrivata persino ad amare quel figlio di Ares dai capelli ramati e gli occhi scuri, anche se non era mai riuscita a rivelarglielo. Ma questo, ovviamente, era accaduto molto prima che Ferdinand tentasse di farla a fettine, durante uno sciocco litigio.
Rose aveva giurato a se stessa che non lo avrebbe mai perdonato, neanche se lui l'avesse supplicata in ginocchio, e così era stato. Almeno fino a quel momento.
«Non sono il tipo di persona che perdona e dimentica, Ferdinand» intimò lei, voltandogli le spalle ed allontanandosi a passo di carica «non sono Gesù e non ho l'Alzheimer!».
Ferdinand le corse dietro e la raggiunse con poche ampie falcate.
«Questo lo so, ma...», cominciò.
«Non c'è nessun “ma”», dichiarò Rose, interrompendolo «voi figli di Ares siete tutti uguali. Non fate altro che pensare alla guerra e al combattere, e quando non pensate a questo, pensate a come far imbestialire i vostri compagni. Siete pessimi».
«Credevo che fosse un problema tra noi», ribatté Ferdinand, spalancando le braccia «in nome di Zeus, lascia fuori i miei fratelli da questa faccenda!».
Un tuono rombò nel cielo, ed il ragazzo scoccò un'occhiataccia in direzione del cielo foderato di cupe nubi grige.
«E tu che vuoi?!», chiese «quaggiù c'è qualcuno che sta tentando di farsi perdonare, eh!».
«Visto? Sei borioso», ribatté allora Rose, sforzandosi di camminare più in fretta di Ferdinand. Peccato che il ragazzo fosse molto più rapido di lei.
«È assurdo pensare che, una volta, avevo davvero creduto che tu fossi differente» continuò lei, lasciando perdere il suo vano tentativo di seminarlo.
«Senti, Rose», sospirò Ferdinand «puoi prendertela con me per tutto il tempo che vuoi, ma troverò un modo per farmi perdonare da te, dovessi impiegarci tutta la vita. E sappi anche che ci sono figli di Ares che fanno del male e altri a cui viene fatto del male, esattamente come tra voi figli di Ermes c'è chi ruberebbe persino ad una vecchietta sordomuta e chi invece, al massimo, ha rubato una caramella al supermercato».
Rose incrociò il suo sguardo per un istante, quel tanto che bastò perché lei potesse leggere negli occhi scuri di lui tutta la sua determinazione. E allora, le parole le uscirono tutte d'un fiato, senza che lei potesse fermarle in alcun modo.
«Voglio chiedere a Harper il permesso di entrare a far parte del suo gruppo di eroi» disse, e Ferdinand sgranò gli occhi.
«Che cosa?», domandò, incredulo «dopo tutto quello che hai detto sui figli di Ares, tu... tu vuoi partire proprio con uno di loro? Con Will? Sei impazzita, per caso?».
Rose incrociò le braccia.
«L'hai detto tu, no, che non siete tutti uguali?» rispose, testarda ed irritata «si dice in giro che Harper sacrificherebbe la sua stessa vita purché non venga torto neanche un solo capello ai suoi compagni. Se questo è vero, e ne dubito, non dovrei correre alcun pericolo».
«Già» rispose Ferdinand, incrociando le braccia con amarezza «e tu glielo lasceresti fare? Sacrificare la sua vita per te, intendo».
“No, certo che no!”, pensò Rose, ma non lo disse ad alta voce. Anche se era certa che lui lo sapesse bene, non avrebbe dato a Ferdinand la soddisfazione di sentirglielo dire.
«Forse», rispose fermamente.
«Bugiarda», ribatté Ferdinand, aggrottando le sopracciglia «puoi dire quello che vuoi e fare l'antipatica quanto ti pare, ma non puoi ingannare me. Tu non sei così, Rose, tu sei buona, dolce, gentile e... se vuoi partire per l'impresa, io verrò con te».
Rose per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
«Non pensarci neanche!», quasi gridò «non ti voglio intorno durante un'impresa di quel calibro, mi deconcentreresti e chissà cosa potrebbe accadere!».
«Allora ti aspetterò qui» sbottò Ferdinand, più testardo di lei «e quando tornerai, dovrai dirmi che avevo ragione».
«E va bene, Mr Sono-figlio-di-Ares-e-ne-vado-fiero», brontolò Rose, al limite della pazienza «se Harper accetterà di portarmi con sé e dimostrerà di valere almeno un po' più di te, quando tornerò, potrei anche farlo. A patto che anche tu t'impegni ad aiutare Chirone e gli altri ragazzi con il massimo delle tue capacità».
«D'accordo», rispose Ferdinand, serio, porgendole la mano «è una promessa?».
«È una promessa» confermò Rose, afferrando la mano del ragazzo con la sua.
«Giuralo sullo Stige».
«Lo giuro sullo Stige».


Quando Altair Ibdan-La giunse al Campo Mezzosangue, era ancora troppo irritato per poter prestare attenzione alla totale confusione che vi trovò.
Era stato parecchie volte al Campo dei Greci, ma mai per motivi tanto assurdi. Quasi non ci credeva neanche lui.
Per l'ennesima volta quel giorno, fulminò con lo sguardo la busta di carta bianca che teneva tra le mani ed arricciò il naso, perplesso. Quella lettera gliel'aveva consegnata Ottaviano in fretta e furia, infilandogliela tra le dita ed intimandogli di recapitarla al più presto al centauro Chirone del Campo Mezzosangue, neanche fosse stato il suo messaggero privato.
Non era il fatto di dover incontrare i Greci a dargli fastidio, figuriamoci. Erano tipi strani, certo, ma dopo un po' che te li ritrovavi intorno ci facevi l'abitudine. Ormai, addirittura, quasi gli piacevano.
Il punto era che non riusciva a capire per quale motivo avessero dovuto mandare proprio lui a consegnare quella benedetta lettera, quando, qualunque cosa Ottaviano avesse avuto da dire a Chirone, avrebbe benissimo potuto farlo con un messaggio-Iride o tramite una delle loro aquile, o con un piccione viaggiatore o, insomma, qualunque altra cosa.
Perché spedire un Centurione della Terza Coorte dall'altra parte dell'America?
Si augurò che fosse un messaggio davvero molto importante, altrimenti avrebbe strozzato Ottaviano con le sue stesse mani. Poco gli importava che l'augure avesse più di novant'anni.
Forse, se adesso si trovava lì, era proprio perché Ottaviano si stava rimbambendo, con l'età.
In ogni caso, rischiò la vita almeno tre volte, prima di raggiungere le porte della Casa Grande.
La prima, quando la freccia scoccata da un figlio di Apollo gli sfiorò il cranio, scompigliandogli i capelli scuri come una folata di vento. Si voltò di scatto, tentando di individuare chi avesse lanciato il dardo, ma si ritrovò a fissare solo un gruppo di figlie di Afrodite che borbottavano in gruppo riguardo una chissà quale imminente impresa a cui non avevano intenzione di partecipare “neanche se il mondo fosse caduto”.
Scosse il capo e si voltò, e fu allora che la biga rischiò di investirlo.
«Togliti di mezzo!», gridò il ragazzo alle redini.
A giudicare dalla stazza, doveva trattarsi di un figlio di Ares.
Per un istante, Altair pensò di invocare il potere del fulmine ereditato da Giove e folgorarlo sul posto, ma poi ci ripensò.
Andrew e Maya, i Pretori del Campo Giove, si erano raccomandati spesso di non far arrabbiare, ferire o uccidere i Greci, poiché “la pace con loro era stata conquistata con fatica e con dolore, e per niente al mondo si doveva tornare a darsi battaglia”.
Chiamò a raccolta tutta la sua pazienza e la sua lungimiranza e continuò ad avanzare. Stava per bussare contro la porta, quando qualcuno gridò: «ATTENTO!».
Rapido come un lampo, si piegò sulle ginocchia ed uno strano disco di metallo volò sopra la sua testa emettendo un bizzarro ronzio.
Cos'era? Stavano tentando di ucciderlo?
La ragazza che aveva gridato lanciò un sospiro di sollievo, poi si riscosse ed indicò un gruppo di ragazzi.
«Prendetelo!», esclamò «questa volta non dobbiamo lasciarcelo sfuggire!».
Per un attimo, Altair pensò che la ragazza si riferisse a lui e corrucciò la fronte, perplesso. Prima che potesse chiederle di ripetere, però, quella era già schizzata via insieme al suo gruppo di amici.
Solo a quel punto, finalmente, Altair riuscì a bussare e ad incontrare Chirone.
«Oh, Altair», esordì il centauro, appena lo riconobbe «che sorpresa! Come mai qui?».
Altair accennò un sorrisetto e gli porse la busta.
«Per lei», disse «da parte di Ottaviano».
Il centauro aggrottò la fronte, afferrando la lettera con entrambe le mani, quasi si trattasse di un tesoro prezioso e non di un pezzo di carta.
«Immagino che sia qualcosa di molto... oh», Chirone, appena scorse le prime righe, si interruppe con un'espressione indecifrabile dipinta sul viso «oh!».
Altair, incuriosito, inarcò un sopracciglio.
Non poteva trattarsi di un'altra brutta notizia. No. Negli ultimi tempi erano state talmente tante, le brutte notizie, che quando qualcuno diceva “hey, ho qualcosa da dirvi!”, Altair poteva tranquillamente cominciare a deprimersi prima ancora di aver sentito la novità.
«Qualcosa non va?», domandò allora, e il centauro rialzò lo sguardo su di lui.
«Vorrei che qualcosa non andasse per il verso sbagliato, mio caro Altair», disse, accompagnando quelle parole con un sorriso mesto ed un sospiro.
“Ovviamente”, si disse sarcasticamente Altair “doveva essere stata un'ottima notizia, certo”.
«Altair, vuoi fermarti per la notte, prima di tornare al Campo Giove?», gli domandò gentilmente Chirone.
Altair annuì lentamente. Non se era reso conto prima di quel momento, ma aveva impiegato parecchie energie durante il viaggio, e adesso si sentiva spossato ed i muscoli gli dolevano terribilmente.
Chirone, di nuovo, gli sorrise con calore.
«Cerca William Harper, lui ti farà preparare un letto e ti dirà tutto ciò che hai bisogno di sapere» disse «lo riconoscerai di certo. È un ragazzo biondo e abbronzato, molto alto. Penso si trovi nelle zone dell'Anfiteatro».
Altair ringraziò il centauro e, con il nome non del tutto nuovo del ragazzo che gli rimbalzava nella mente, si avviò verso la famigerata costruzione.

Cling. Clang. Stock.
Il suono delle lame delle spade che cozzavano l'una contro l'altra era musica per le orecchie di Nathan Ayala. Il ragazzo dai capelli scuri disarmò il suo ennesimo avversario e ripose la sua spada nel fodero con un solo gesto fluido.
Qualcuno tra coloro che si erano soffermati ad osservare lo scontro si lanciò persino in un timido applauso, a cui Nathan rispose con un fiero inchino. Se c'era qualcosa che gli piaceva davvero molto, quello era l'essere al centro dell'attenzione. Ed in quel momento lo era. Eccome.
«Per oggi, sono a posto», dichiarò Nathan, soddisfatto.
«Come sarebbe a dire “sono a posto”?», sbuffò Thomas, il ragazzino che Nathan aveva appena disarmato «ma se hai appena cominciato!».
Nathan fece spallucce. In pochi minuti, aveva comunque mandato al tappeto più avversari di quanti avrebbe mai fatto Thomas in tutta la giornata e non si risparmiò dal dirlo.
«Sei solo uno sbruffone, Nathan!», rispose Thomas, recuperando la sua spada e fuggendosene via in fretta e furia.
Con noncuranza, Nathan si avviò per la via che conduceva alla Casa 11, dove alloggiava in compagnia dei figli di Ermes, gli altri ragazzi i cui genitori non avevano una propria Cabina e ai non riconosciuti. Essere figlio della dea delle feste, dopotutto, aveva quel piccolo svantaggio di dover condividere la camera con una moltitudine di persone che, il più delle volte, non lo trovavano affatto simpatico. Ma questo non gli importava poi molto.
«Hey, Nate», lo chiamò qualcuno dei suoi coinquilini, appena il ragazzo mise il naso dentro la Cabina «che ci fai già qui?».
«Ho finito» sorrise lui, tutto ingalluzzito dalla palese sorpresa dipinta sulla faccia dell'amico.
«Ma come? Di già?» replicò quello, mettendo su un'espressione tanto perplessa che Nathan cominciò davvero a pensare di aver dimenticato di fare qualcosa d'importante «quindi non t'interessa l'impresa? Proprio per niente?».
Un grosso punto interrogativo si disegnò sul bel volto di Nathan Ayala, evidentemente incuriosito.
«Quale impresa?», chiese.
Il suo compagno scoppiò a ridere.
«L'ha detto Chirone ieri sera, non te lo ricordi?», disse «ah, giusto. Forse eri troppo... va be', comunque, Ares vuole che Will trovi i ragazzi scomparsi o qualcosa del genere, e lui adesso sta cercando qualcuno da portarsi dietro».
«Un'impresa con William?», rispose Nathan, perplesso «non mi ricordo. Forse avevo davvero esagerato con la Diet Coke corretta».
«Se t'interessa, faglielo sapere prima del falò di stasera» fece l'altro, in un sorrisetto «almeno, se riesci a trovarlo. Credo che si sia nascosto da qualche parte per non essere sommerso dalle richieste, perché io non l'ho più visto da nessuna parte».
Nathan abbozzò un sorrisetto. L'idea di compiere un'impresa insieme a William Harper, doveva ammetterlo, lo allettava parecchio. Al Campo, consideravano William come un leader, ma Nathan sapeva che non ne aveva davvero la stoffa. Lui, a parer suo, sarebbe stato molto meglio come “capo”.
«Forse, dovrebbe essere lui a venire a cercare me» osservò, pensieroso «se vuole dei bravi combattenti, dovrebbe proprio...».
«Ma piantala», lo interruppe l'altro, agitando una mano in aria «e sbrigati».
Nathan lo liquidò con una piccola smorfia. Si passò una mano tra i capelli per pettinarli meglio ed uscì con nonchalance dalla Casa 11.
Non sapeva esattamente dove cercare William: il figlio di Ares aveva abitudini decisamente differenti dalle sue. Così, si limitò a guardarsi intorno e a domandare di tanto in tanto qualche indicazione a qualche semidio, ma nessuno sembrava sapere dove si fosse cacciato quel dannato semidio. Nathan stava quasi cominciando a pensare che, forse, avrebbe persino potuto rinunciare alla sua ricerca, quando la vide.
La figlia di Ade dai capelli color cioccolato camminava con la sua tipica andatura leggera lungo la strada principale. Sembrava quasi che i suoi piedi non toccassero terra, tanto era aggraziata.
Gli angoli delle labbra di Nathan si piegarono in un sorriso compiaciuto, quasi fosse stato lui a far apparire magicamente la ragazza.
«Hey, figlia di Ade!», la chiamò.
La ragazza si voltò alla ricerca di chi l'aveva chiamata, le eleganti sopracciglia corrucciate in un'espressione vagamente sorpresa e si fermò.
“Naturale”, pensò Nathan, provando quasi un po' di compassione “il fatto che un tipo come me le rivolga la parola, deve essere davvero molto difficile da credere, per lei”.
Gli occhi incredibilmente azzurri della ragazza parvero lampeggiare come due fari nella notte.
«Potresti evitare di chiamarmi in quel modo?» disse lei, con una sottile venatura di fastidio nella voce. Se lo notò, Nathan non lo diede a vedere.
«Non mi ricordo il tuo nome, in realtà», rispose candidamente. Non si trattava affatto di una scusa, ma di una pura e semplice verità. La ragazza, dal canto suo, non si scompose e non parve affatto stupita.
«Sarebbe “Susan”», rispose, regolando la voce su un tono più gentile «hai bisogno di qualcosa?».
«Solo di sapere dov'è William. Devo parlargli urgentemente», fece Nathan, accennando un sorriso smagliante «so che voi due siete molto amici, pensavo che sapessi dove trovarlo».
Susan reclinò il capo da un lato, come tentando di decidere se fosse degno di risposta o meno.
«Non lo so, mi spiace», disse poi.
«Non sai mentire», commentò Nathan, agitando una mano in aria «non farti pregare, Susan».
«Oh, d'accordo, ma io non ti ho detto niente, intesi? Sta parlando con Altair Ibdan-La, all'Anfiteatro», rispose lei, puntellandosi le braccia ai fianchi «ma è un po' nervoso, credo che non sia il caso di andare a disturb...».
«Grazie dell'informazione, dolcezza!» la interruppe lui, schizzando via.


Sem si rigirò tra le mani Tsunami, la sua nuova spada, osservando i giochi di riflessi che la luce creava sulla lama dritta ed affilata.
Gliel'aveva regalata il suo migliore amico, quella spada, un attimo prima di essere trafitto dalle corna dell'orrenda creatura che li aveva attaccati.
Sem, al ricordo, represse un singhiozzo e si affrettò a far sparire la piccola lacrima che minacciava di scivolargli via dagli occhi. Non fosse mai che qualcuna di quelle pettegole delle figlie di Afrodite lo scorgesse piangere, o l'avrebbero sbeffeggiato per il resto della vita. E lui, di questo tipo di cose, cominciava seriamente ad averne abbastanza.
Ma doveva ammetterlo: anche se si trovava al Campo solamente da poche settimane, la sua vecchia vita gli mancava parecchio.
Sem si stupì quasi, a quel pensiero.
Non avrebbe mai creduto di poter anche solo immaginare una cosa del genere, fino a poco tempo prima. La sua vita era stata piuttosto nauseante, a New York, tra le prese in giro dei compagni di classe e le altre difficoltà della scuola. Eppure, allora, la testa di Sem era molto più leggera ed il mondo in cui viveva, almeno, era solamente uno.
Adesso, invece, era stato sbalzato all'interno di due mondi, due realtà strettamente connesse ma meticolosamente separate, una delle quali popolata da mostri pericolosi che avrebbero tentato di farlo fuori appena avesse messo piede fuori del Campo Mezzosangue.
E lui, iperattivo com'era, cominciava a non poterne più di starsene lì con le mani in mano mentre il resto del mondo andava allo sfascio.
Gli piaceva, il Campo, certo. Là aveva incontrato altre persone come lui ed altre che erano il suo totale opposto, ma quasi tutte erano state buone con lui e lo avevano accolto senza fare una piega, neanche quando erano venute a sapere che suo padre era Poseidone.
Aveva conosciuto William, il figlio di Ares meno figlio di Ares dell'intero Campo. Un abilissimo guerriero che gli aveva insegnato a combattere, con una pazienza tale che gli dei avrebbero dovuto renderlo uno di loro. Aveva incontrato Skylar, figlia di Atena, una ragazza molto posata ed acuta, che lo aveva aiutato con il greco ed il latino. La bellissima quanto terrorizzante Elle, degna figlia di Afrodite, e quell'arrogante di Nathan, che, in un modo tutto suo, sapeva persino essere simpatico. E poi Susan, figlia di Ade, talmente empatica che Sem stava cominciando a pensare che fosse in grado di leggere nei pensieri. Oppure Rose, la figlia di Ermes che gli aveva rubato l'I-Pod il secondo giorno. O ancora James Blake, figlio di Nyx, che preferiva restarsene nell'ombra, piuttosto che incrociare qualcuno che avrebbe potuto infastidirlo. E poi, ovviamente, Chirone, il centauro che si era preso cura di lui sin da quando era arrivato. Era a lui che doveva tutte le cose buone che gli erano accadute e che aveva imparato al Campo.
Sem aveva scoperto di avere dei fratelli di cui fino ad allora aveva ignorato l'esistenza, e che uno dei più grandi eroi del posto era proprio un figlio di Poseidone, come lui. Percy Jackson, si chiamava, ed aveva salvato il mondo più di una volta, insieme ai suoi amici.
Lì, c'era chi pensava che Percy fosse addirittura solo una leggenda, che non fosse realmente esistito, ma Chirone aveva giurato che non fosse così, e Sem gli credeva. Insomma, se esistevano il Minotauro, Eracle e Dioniso, perché non poteva esserci stato un eroe come Percy Jackson?
In poche settimane, Sem aveva, inoltre, capito che la sua non era esattamente “dislessia”, ma che la sua difficoltà a leggere l'inglese dipendeva dal fatto che il suo cervello fosse “settato” sul greco antico. E poi, adesso era in grado, addirittura, di maneggiare una spada senza rischiare di infilzarsi un piede da solo.
Ma aveva dovuto lasciare sua madre, e quella era la cosa che più rimpiangeva. Senza di lui, lei era completamente sola.
Sem immerse i piedi nell'acqua fresca del lago, in un vano tentativo di soffocare tali pensieri che non gli si addicevano affatto. Si diede persino uno schiaffetto, ma la sua mente ostinata tornò all'argomento precedente.
Era inutile ignorare la cosa: voleva andarsene dal Campo, almeno per un po'. Uscire e rivedere sua madre, le stagioni e tutto ciò che al Campo Mezzosangue non poteva avere. Nemmeno la pioggia gli era concessa, poiché le barriere magiche non permettevano neanche ad sola una goccia di penetrare attraverso di loro e bagnare il suolo.
Stare lì, era come essere rinchiusi nella cella di lusso di una prigione. Sem non riusciva proprio ad abituarsi, per quanto ci provasse.
E poi c'era quell'impresa.
Quella ormai famosa e dall'apparenza neanche troppo pericolosa, ma forse impossibile da portare a termine. Sem era attratto da essa come una falena dalla luce di una lampadina.
Si sentiva estremamente inutile, all'interno del Campo, ed era una sensazione che detestava con tutto se stesso.
Se solo avesse potuto entrare a farne parte...
Sem scattò in piedi, ed una luce di assoluta determinazione brillò nei suoi occhi del colore del mare.
Sarebbe andato da Will e gli avrebbe chiesto di portarlo con sé, e lo avrebbe obbligato ad acconsentire. Certamente, gli avrebbe detto che era troppo piccolo per fare una cosa del genere, ma Sem non era disposto ad accettare un “no” come risposta.


Spazzolare i Pegasi stava diventando una delle attività preferite da Skylar, da quando al Campo Mezzosangue si era creata tutta quella confusione. Rinchiusa nel silenzio della stalla, con la sola compagnia di Stardust, il giovane ed iperattivo cavallo alato che aveva il compito di addestrare, Skylar riusciva quasi a respirare lo stesso clima di pace e tranquillità di cui poteva godere fino alla sera precedente.
«Hey, Stardust, tu che ne pensi?», chiese al pegaso, carezzandogli il muso con gentilezza «ne usciremo, da questo disastro?».
Per tutta risposta, quello sbuffò con le narici e scosse la criniera.
Skylar sorrise. Prendersi cura di un pegaso non era poi così difficile, finché non dovevi pulire loro le piume delle ali. Skylar aveva scoperto che detestavano essere toccati in quelle zone, soprattutto da mani non troppo delicate. Eppure, erano creature davvero splendide, eccezionali. A volte, le sarebbe piaciuto avere lo stesso potere del piccolo Sem, figlio di Poseidone, per poter scambiare quattro chiacchiere con loro.
«Ma certo che ne usciremo, sciocchina», rispose Rosaline, la sua migliore amica, comparendo sulla porta della stalla «piuttosto, ricordi quando ti dicevo che dovevi farti vedere più spesso? Intendevo anche da uno psicologo. Uno bravo, dico. Da quando parli con i cavalli?».
Skylar smise di strigliare Stardust e poggiò la spazzola sulla sua mensola, in perfetto ordine, poi scoccò un'occhiata a metà tra il divertito e l'incredulo all'amica.
«Non dovevi tenere d'occhio i tuoi fratelli, tu?», domandò, sviando il discorso.
«Oh, sì» rispose Rosaline, in una breve smorfia «ma è così noioso, quando si allenano tutti. E poi c'è Elle in giro. Sembra davvero decisa a farsi scegliere da Will come sua compagna per l'impresa. Ho il sospetto che tenterà di manipolarlo perché lui accetti di portarsela dietro».
Skylar represse un brivido di orrore.
«Ma dai, smettila, stai spettegolando» disse, regalando un'altra carezza a Stardust.
«Non sto spettegolando», ribatté Rosaline, incrociando le braccia al petto e mettendo su un grazioso broncio «sto solo riportando un dato di fatto».
«Un fatto che non ti riguarda», precisò Skylar «cioè, stai spettegolando».
«Come vuoi tu», replicò Rosaline, tutt'altro che turbata «comunque, invece che parlare con i cavalli, dovresti provare a parlare con un ragazzo differente da Max, non credi?».
Skylar alzò gli occhi al soffitto. Doveva essere almeno la miliardesima volta, da quando era giunta al Campo, che Rosaline le diceva una cosa del genere. Forse dipendeva dal fatto che fosse figlia di Afrodite, ma la semidea insisteva che Skylar dovesse assolutamente trovarsi un fidanzato. In genere, a quel punto, Skylar ribatteva di non essere affatto interessata ad avere alcun tipo di rapporto amoroso con nessuno degli immaturi ragazzi del Campo. Allora, l'altra cominciava a meditare e le stilava una lista dei ragazzi da lei reputati “i più maturi del posto”, la quale comprendeva, generalmente, persone che Skylar non aveva neanche mai sentito nominare in giro, o, più probabilmente, inventate di sana pianta dalla mente contorta della ragazza.
«Credo che faresti meglio a tornare all'Arena, Rose, prima che Elle cominci a minacciare qualcuno», rispose, in tono pacifico.
Rosaline sbuffò sonoramente.
«Ma figurati. Tanto chi la ferma, quella?», ribatté, come se Elle fosse una belva selvatica e non una delle sue sorelle «...ah! Ho appena avuto un'idea grandiosa!».
Skylar ebbe paura di domandarle quale mai fosse, ma lo fece comunque. In ogni caso, Rosaline glielo avrebbe detto lo stesso.
«Tu, Skylar Hastings, figlia di Atena, partirai per un'impresa!», dichiarò la ragazza.
Skylar rischiò seriamente di inciampare nei suoi stessi piedi, all'udire quella frase.
«Che cosa?», chiese, palesemente sorpresa «no, per l'amor degli dei, proprio no».
«Ma sì, invece» ribadì Rosaline, con fare saccente «ed io che credevo che tu fossi intelligente. Cosa c'è di meglio di un'impresa, per fare conoscenza con un ragazzo?».
Skylar, di nuovo, alzò gli occhi al cielo.
«Non ci sono imprese a cui partecipare, lo sai», rispose, senza scomporsi.
«Come no? C'è quella di Will», replicò Rosaline, testarda «lui è un bel tipo, penso. E, comunque, sono certa che ci saranno un sacco di altri ragazzi carini, se lui non ti piace».
«William non vorrà una come me, nel suo gruppo», osservò Skylar, inarcando un sopracciglio «non gli sarei di grande aiuto».
«Beh, potremmo sempre chiederglielo, no?» fece Rosaline, mentre uno dei suoi rinomati sorrisi pericolosi le si allargava sulle labbra «non potrà dire di no».
Al solo pensiero, a Skylar vennero i brividi. Conosceva il figlio di Ares solo per sentito dire. D'altronde aveva le mani in pasta un po' ovunque, lì al Campo, ma non aveva mai scambiato neanche mezza parola con lui. Sapeva però che Rosaline aveva ragione: se glielo avesse chiesto, William non avrebbe detto di no. Non diceva mai “no” a nessuno, o così si diceva, a meno che non si trattasse di qualcosa che andava contro ai suoi princìpi.
«Lascialo in pace, dai» pregò Skylar «deve essere già tremendamente sotto pressione per conto suo, s'innervosirà... e poi posso essere molto più utile qui, che in giro per il mondo».
Rosaline non parve affatto sentirla, o forse la ignorò semplicemente, perché corse via, rapida come se il fuoco la stesse inseguendo.
«Fermami, allora, Lady Sky!».


Elle stava cominciando a perdere davvero la pazienza.
Non solo era circondata da un branco di incapaci, ma quel codardo di William Harper si stava anche palesemente nascondendo da lei. Era un vero peccato, perché se Elle fosse mai riuscita a mettere le mani su di lui, forse nessuno l'avrebbe mai più rivisto tutto intero.
Per quanto potesse essere carino, non poteva di certo perdonargli di averle fatto fare il giro del Campo per almeno una decina di volte.
L'aveva cercato dappertutto, e ancora non era riuscita a trovarlo. Eppure era certa che fosse figlio del dio della guerra e non di quello della mimetizzazione, qualunque esso fosse.
Assurdo. Era come cercare un ago in un pagliaio, ed Elle detestava non riuscire in qualcosa, soprattutto se, in quel qualcosa, c'entrava un ragazzo.
Avrebbe dovuto saperli comandare a bacchetta, ma se non erano lì intorno, lei non aveva il benché minimo potere su di loro. E questo le scocciava parecchio, soprattutto quando avrebbe avuto davvero bisogno di averli a sua disposizione, come in quel momento.
Che cosa doveva fare, una povera figlia di Afrodite, per riuscire ad entrare a far parte di una stupidissima impresa?
Non che le importasse davvero del successo di essa, figuriamoci, era solo stufa della perfetta tranquillità del Campo Mezzosangue, dove il massimo del divertimento l'avevi quando il figlio di Ebe si ubriacava e cominciava a farfugliare sciocchezze, o quando si giocava la Caccia alla Bandiera.
Un'impresa come quella poteva essere particolarmente interessante e, soprattutto, poteva essere il suo biglietto di uscita da quella totale noia. Senza contare che, se fosse riuscita, al suo ritorno, sarebbe stata elogiata come un'eroina di prima qualità, e non solo come un bel visino.
E poi, di certo avrebbero avuto bisogno di lei. Tutti avevano bisogno di un bella ragazza, nella loro squadra. Era certa che William avrebbe chiesto di partecipare all'impresa ad almeno una persona, e quella sarebbe stata, senza ombra di dubbio, Susan Graymark, che, a parer suo, non era neanche lontanamente bella quanto lei, ma per la quale Harper aveva un'insensata cotta colossale sin da quando l'aveva conosciuta.
Elle superò, di nuovo, le postazioni del tiro con l'arco, rigida e superba come al solito, fulminando questo e quell'altro semidio che la fissava con una ridicola faccia da ebete.
«E tu che vuoi?», abbaiò, in direzione di un ragazzetto piccolo e smilzo, che la osservava di soppiatto da dietro una balla di fieno.
Il ragazzino, intimidito, parve trovare improvvisamente molto interessanti le punte delle sue scarpe, perché abbassò gli occhi su di esse e non li rialzò più.
«Io...» balbettò, talmente piano che Elle dovette chiedergli di ripetere «io volevo dirti che so dove puoi trovare Will, se... se t'interessa ancora, ovviamente».
Il bel volto di Elle parve illuminarsi dalla sorpresa e dall'esaltazione. La ragazza si avvicinò leggiadramente al ragazzino e si abbassò su di lui, fino a quando i loro nasi non si sfiorarono.
Il ragazzino parve pietrificarsi, ed Elle sorrise lievemente.
Sapeva di essere un po' crudele con lui, ma non le importava affatto. Anzi, la cosa la divertiva persino un po'.
«M'interessa», sussurrò, con voce suadente e confidenziale «dov'è?».
«Sta... sta discutendo con dei ragazzi vicino all'Anfiteatro», rispose lui, facendosi ancor più piccolo di quanto non fosse ed arrossendo visibilmente «credo che riguardi l'impresa, quindi...».
Elle assunse una posizione eretta talmente in fretta che il ragazzino si zittì, e gli angoli delle labbra della ragazza, dipinte di un seducente color prugna, si piegarono verso l'alto in un sorriso.
«Grazie», disse Elle, piano, senza risparmiarsi di scompigliargli i capelli con una mano «credo proprio di doverti un favore».
Il ragazzino, sconvolto, non ribatté. Assunse però uno spaventoso colorito verdastro, ed Elle suppose che stesse per vomitare. Temendo che le sporcasse le scarpe, fece rapidamente retro-front e si diresse verso le porte dell'Anfiteatro.
In realtà, era passata da quelle parti almeno una decina di volte nell'ultima mezzora, e non aveva scorto la folta chioma bionda ed arricciata di Harper da nessuna parte. Però, se il ragazzino le aveva detto che l'avrebbe trovato lì, significava che doveva per forza essere vero.
Nessuno, per quanto ne sapesse lei, voleva rischiare di farla arrabbiare a causa di un'informazione errata. A meno che non volesse morire, ovvio.
Veloce e decisa, quasi a passo di carica, Elle scivolò fino all'Anfiteatro, dove, questa volta, si accorse immediatamente della presenza di William, proprio davanti all'entrata. Era circondato da un branco di ragazzi che parlavano sovrapponendo le parole di uno con quelle dell'altro, creando una confusione in cui Elle non riuscì a cogliere neanche mezza sillaba.
“Tutti qui per l'impresa?”, si domandò Elle, inarcando con sorpresa un elegante sopracciglio scuro “quanta folla”.
Stava per avvicinarsi ed unirsi al gruppo, quando notò l'espressione dipinta sul volto di William ed esitò per un istante.
Era raro, forse più unico che raro, che Elle avesse timore di qualcosa o di qualcuno, ma doveva ammettere che, in quel momento, William Harper somigliava in tutto e per tutto ad una bomba a orologeria già innescata. Ed avvicinarsi ad una bomba non era mai la scelta migliore.


James Blake non ricordava esattamente quando si fosse addormentato, ma era abbastanza certo che quello fosse un sogno.
Insomma, l'ultima volta che aveva controllato, lui si trovava a Long Island, all'interno del Campo Mezzosangue, decisamente non in alta montagna. E poi, nella realtà, di certo non avrebbe potuto vedere se stesso da quell'angolazione.
Il James del sogno era nascosto dietro ad una grossa roccia del colore dei mattoni, staccatasi evidentemente da una delle pareti rocciose che lo circondavano, come se si trovasse in una conca.
James se ne rese davvero conto solo allora, lanciando un'occhiata intorno a sé, ma tutto era coperto da uno spesso strato di neve e ghiaccio.
Faceva freddo, parecchio.
James aveva la pelle raggrinzita in tanti piccoli brividi, anche a causa dell'abbigliamento poco consono ad una scalata che si ritrovava: jeans a metà gamba e la t-shirt arancione del Campo? Decisamente poco adeguati.
Eppure, anche se avesse indossato una tuta da sciatore, James aveva l'impressione che avrebbe avuto freddo esattamente allo stesso modo.
Ma la cosa strana, su quel monte, non era affatto la temperatura.
James sbirciò al di là della roccia dietro la quale era nascosto e corrucciò le sopracciglia, perplesso.
C'erano un sacco di ragazzi e di ragazze, da quelle parti, tutti affaccendati intorno alle rocce, intenti a spostarle una ad una, con la massima attenzione. E, nel fare questo, erano aiutati da altrettanti mostri.
James barcollò all'indietro, sorpreso, ma poi tornò a guardare la scena, troppo incuriosito per restarsene da parte. Non riusciva a crederci.
Gli parve persino di riconoscere qualcuno che aveva già visto, prima di allora. Il ragazzo dai capelli rossi ed il cappellino con la visiera, per esempio, somigliava parecchio a Lewis Cornell, uno dei figli di Efesto che era scomparso dal Campo parecchi giorni prima.
Non sembrava propriamente felice di trovarsi in quel posto, ma non pareva neanche particolarmente dispiaciuto. Gridava ordini di qui e di là, serio e gelido come il capo di un'armata militare, e tutti i presenti sembravano ubbidirgli ciecamente.
Oppure quella ragazza dai lunghi capelli color ebano e gli occhi di ghiaccio che aiutava Lewis nella direzione dei lavori, non era forse Isabelle Anderson, figlia di Afrodite? Anche lei non era più al Campo da diverso tempo.
James scosse il capo, senza capire. Che cosa stava succedendo, esattamente?
Poi, il sogno mutò ed il giovane semidio si ritrovò a brancolare nel buio più totale.
James non aveva paura del buio. Lui stesso, ormai, si considerava “il buio”, e sapeva benissimo cosa significava quell'improvvisa oscurità.
«Mostrati, forza», cominciò a sussurrare, chiudendo le palpebre per allertare meglio tutti i suoi sensi «mostrati, mostrati, mostrati».
La risata ispida della dea gli giunse all'orecchio, e James puntò gli occhi su di lei, Nyx.
Sua madre era esattamente come l'ultima volta che l'aveva vista, notò lui, altera ed inquietante, con quella sua pelle del colore della notte e foderata di stelle luminose. Lo innervosiva un po'.
«Ciao, Jem», lo salutò, agitando una mano nella sua direzione «è bello vederti di nuovo. Sei cresciuto, sai?».
«Ciao, mamma», rispose lui, stringendo i pugni ed i denti «da quanto t'intrufoli anche nei miei sogni?».
Nyx sorrise a suo figlio con tenerezza, ignorando la domanda impertinente.
«Ho una proposta per te, bambino mio», disse la dea, alla fine «come ben sai, io sono figlia di Caos, e come tale ho scelto di partecipare a questa guerra dalla sua parte. Immagino che sarà la parte vincente, quindi, pensavo che magari anche tu vorresti unirti a noi, come hanno fatto gli altri».
James non dovette neanche pensarci.
«No», rispose «grazie dell'offerta».
Nyx parve infastidita.
«No? Oh, Jem. Pensaci bene» disse «in fondo, cosa ti ha dato il tuo caro Campo Mezzosangue, a parte tanto dolore ed amici che non si fidano di te?».
«Questo... se mi odiano...», cominciò James, ma le parole non sembravano voler uscire spontaneamente dalle sue labbra «se mi odiano, il merito è tutto tuo».
«Mio?» ripeté Nyx, in tono di sfida «e perché mai, ragazzo? Sei tu che governi la tua vita».
«Già, sarebbe carino se anche loro la pensassero così», sbuffò James «ma tu sei mia madre, e tutti hanno sempre saputo che ti saresti alleata con Caos. Sei una traditrice. Ma io non sono come te. Piuttosto, preferisco la morte».
«E allora morirai» dichiarò la dea, alzando il mento con fare sprezzante «come tutti quelli come te».
James stava per ribattere che no, non sarebbe affatto morto, ma il sogno si dipinse di nebbia ed il ragazzo si ritrovò a sbattere le palpebre, di nuovo sveglio, nel bel mezzo di uno dei campi di fragole del Signor D.
La realtà di quanto aveva appena sognato gli si riversò addosso improvvisamente, come una gelida doccia inaspettata che, per alcuni istanti, lo lasciò senza fiato.
Si tirò a sedere talmente in fretta che ebbe un capogiro.
«Devo dirlo a Chirone!», esclamò, balzando in piedi e scuotendosi i jeans dall'erba «e dei, devo dirlo anche a Will!».


Quando James scorse William, la prima cosa che pensò fu che non sarebbe stato affatto prudente avvicinarsi ancora a lui.
Susan Graymark pareva pensarla esattamente come lui, perché si stava tenendo ben a distanza, fingendosi alquanto impegnata a raccogliere cartacce gettate a terra da qualche semidio negligente. Ma, di tanto in tanto, lanciava occhiatine sfuggenti a metà tra il divertito e il preoccupato in direzione del figlio di Ares.
Il ragazzo era letteralmente circondato da un ben forbito gruppetto di semidei. C'era la bellissima ed affascinante Elle Willow, il piccolo Sem Phoenix e persino il vanitosissimo Nathan, che avrebbe potuto battere in una competizione persino Narciso stesso. Vi era Rosaline, una delle figlie di Afrodite, e Rose Stevens, che si agitavano alle spalle di William in un complicato tentativo di farsi notare. Un po' in disparte, vi era persino il romano Altair Ibdan-La, che osserva la scena con un vago sconcerto dipinto sul viso.
“La vedo male”, pensò James, perplesso, ma non si attentò a parlare ad alta voce.
«Oh dei, li ucciderà tutti», commentò tra sé, invece, Skylar Hastings, «l'avevo detto, a Rosaline, che sarebbe successo».
James non l'aveva neanche notata, fino a quel momento.
«Sta per esplodere, non è vero?», chiese, un po' timoroso.
Skylar annuì piano, allarmata.
«Non sarà un bello spettacolo».
William se ne stava lì, in silenzio, nel bel mezzo di una chiassosa banda di ragazzi, le palpebre socchiuse e le labbra strette in una linea dura. Le braccia conserte ed una vena che pulsava nervosamente all'altezza della tempia destra.
Jonathan ebbe il tempo di uscire dalla Casa di Ecate e notare l'insolita confusione, prima che William folgorasse tutti quanti con una delle sue occhiatacce perfettamente degne di suo padre.
Il buon umore, si disse Jonathan, a quanto pareva, era andato a farsi benedire.
«ADESSO BASTA!», tuonò il figlio di Ares, a voce talmente alta e ferma che le pareti stesse dell'Anfiteatro parvero tremare.
Il manipolo di semidei si zittì improvvisamente, ed il ragazzo sospirò, esasperato.
«Beh, allora?», insistette Elle, piegando le labbra color prugna in un sorriso seducente. William abbassò lo sguardo su di lei per istante e corrucciò le sopracciglia, come se si fosse accorto della sua presenza solo in quel momento. Elle sbatté le palpebre, e Susan si lasciò sfuggire un versetto di scherno, che si affrettò però a soffocare immediatamente.
Jonathan le lanciò un'occhiata incuriosita, ma lei non gli badò affatto.
“Ragazze”, pensò Jonathan, ma suppose che fosse il caso di non esprimersi. Le ragazze erano sempre piuttosto irritabili.
«Sì, allora, William?», rincarò Nathan «cioè, io verrò comunque. Ma ho il tuo permesso o devo fare tutto di nascosto?».
«E io?», chiese Sem, alzandosi sulle punte delle scarpe per raggiungere almeno il livello delle spalle del ragazzo «per favore, Will».
William s'irrigidì, e Rose si trattenne saggiamente dall'esporre le sue considerazioni. Si fece un po' da parte, lasciandosi scivolare via di dosso la maggior parte della rabbia accumulata e si mise in ascolto.
«Tu sei troppo piccolo e non sei abbastanza addestrato, Sem» asserì William, rivolto al ragazzino «non puoi venire».
«Ma ci sarai tu!», si lamentò il figlio di Poseidone «e poi, avevi detto che ero in gamba».
«E lo sei», assicurò lui, portandosi una mano alla fronte con una certa disperazione «ma questo non vuol dire che sei a posto per un'impresa. Non so se sono pronto a...».
«Sono pronto io», assicurò Sem, e William sospirò di nuovo.
«Ricordati di portarti dietro un po' di ambrosia, piccoletto», sbuffò alla fine, sconfitto.
«E noi?», riprese a dire Nathan, spazientito «possiamo o non possiamo, quindi?».
William parve sul punto di afferrare per il collo tutti quanti e sbatacchiarli contro la porta della Casa di Era. Bofonchiò persino qualcosa che suonò vagamente come un “che Zeus vi fulmini”, ma poi tornò ad assumere la sua tipica aria imparziale.
«Non mi prenderò alcuna responsabilità per voi», disse, maledicendosi mentalmente per ciò che aveva appena fatto. Possibile che fosse talmente facile, convincerlo?
«Oh, grande, fratello! Sarà una festa!», esclamò Nathan, alzando il palmo di una mano per battere il cinque con lui. William lo ignorò, e Nathan riabbassò la mano, interdetto.
Dal canto suo, Elle si limitò a gettarsi i capelli all'indietro, soddisfatta della riuscita dei suoi piani.
«Oh, ma io non sono qui per me!», esclamò Rosaline, alzando una mano come avrebbe fatto a scuola per poter parlare «sono qui per Skylar!».
Skylar assunse lo stesso colorito rosso acceso delle fragole mature del Signor D.
William fece vagare il proprio sguardo nella direzione della semidea, e quando i loro occhi si incrociarono fu uno scontro tra due diverse tonalità di grigio: quello timido, color tempesta, delle grandi iridi di Skylar e quello più pigro ed indagatore, sfuggente come fumo, appartenente a William.
«Sei tu?», domandò William «vuoi venire davvero?».
Skylar aveva avuto un sacco di tempo per pensarci e sì, per quanto la cosa avesse sorpreso lei stessa per prima, voleva davvero partecipare all'impresa.
«Se possibile...», disse, e Rosaline le rivolse un gran sorriso.
«Bene, allora sei a bordo», commentò William «ci vediamo questa sera, al falò. Io me ne torno al mio...».
«Ehm, hey, senti!», lo interruppe Altair, facendosi avanti «stavate parlando di un'impresa, giusto? Un'impresa niente male, mh? Riguarda Caos».
«Esatto!», rispose Rose, incapace di starsene ancora in silenzio «sarà fighissimo».
«Lo immagino», annuì Altair, le iridi verdi che brillavano «vi scoccia se vengo pure io? Il Campo Giove è così noioso».
«Non posso dire cosa fare a te», rispose William, infilandosi le mani nelle tasche della tuta militare «il Campo Giove non rientra nelle mie competenze. Solo, avvisa i tuoi pretori. Non vorrei che Andrew mi tagliasse le dita per non aver chiesto il suo permesso».







*Piccole Note: “Aion” è davvero un gioco di ruolo, ci gioca il mio ragazzo (oh, sì. È tremendamente nerd, esattamente come sembra). Però, immagino che non vi siano troll lavavetri (?), là dentro.
Ah, non preoccupatevi se non capite un accidente di quello che ho scritto, in quella parte. Non lo capisco neanche io. Spero che sia di qualcosa di sensato*


Angolo di Butterflies:

Oh, miei dei.
Questa è stata, lo giuro, l'impresa più ardua da portare a termine di tutti i secoli.
Cioè, è una cosa lunghissima, per me D: quattordici pagine tonde tonde di OpenOffice (già. Word mi ha abbandonata secoli addietro, ormai. Finirà nei più profondi abissi del Tartaro).
No, ma io... adesso vedo virgole ovunque (?), persino sulle pareti. Forse mi devo prendere qualche ora di pausa, lol. Spero solo che ne sia valsa la pena, fatemi sapere ._.
Ah, un'ultima cosa: qualcuno avrà forse notato che Susan Graymark è apparsa un po' più spesso degli altri. Questo perché non ha un suo punto di vista, e per questo volevo farmi perdonare dalla sua creatrice, che poi sarebbe mia sorella. Già, perché questa deve essere la prima interattiva in cui c'è carenza di ragazze e l'autrice deve supplicare sua sorella di crearne una, lol.


P.S: se volete mandarmi una foto di un presta volto per il vostro personaggio, sapete dove trovarmi! Pensavo, dietro consiglio, che sarebbe carino creare un banner - se qualcuno si offre volontario come tributo (?) per farlo, gli faccio un regalo (?) - con le immagini degli OC da mettere all'inizio della storia.
Voi che ne pensate?
E, oh, se potete anche dirmi qualcosa tipo: il mio personaggio potrebbe andare d'accordo con Tizio, Caio e Sempronio, mentre penso che Mevio e Filano gli starebbero altamente sulle scatole e che Calpurnio gli farebbe un po' paura, mi aiutereste parecchio nello sviluppo della storia :3


*Grazie a tutti quelli che partecipano*

 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


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Capitolo 2



Intorno al falò, il clima non pareva affatto dei più allegri.
Il centauro Chirone grattava nervosamente la terra sotto le sue zampe con uno zoccolo, come un cavallo in un recinto troppo stretto, sbuffando di tanto in tanto.
I semidei se ne stavano sotto gli stendardi delle proprie Case, e solo un lieve brusio sommesso e il crepitare dell'inquieto fuoco verdastro impedivano il silenzio più totale.
Susan, dalla sua postazione sotto l'emblema di Ade, sentiva il cuore batterle a mille. Tra non molto, Harper avrebbe annunciato a tutti i nomi di coloro che aveva deciso di portare con sé.
Non riusciva ancora a credere che lui l'avesse chiesto proprio a lei. Insomma, erano buoni amici e tutto quanto, ma non le aveva mai domandato di accompagnarlo in un'impresa o, in generale, di fare qualcosa per lui. C'erano un sacco di altre persone ben più esperte di lei, lì al Campo Mezzosangue o al Campo Giove, non aveva molto senso. Eppure, anche se molto, molto sorpresa, ne era stata felice. Le piaceva l'idea che qualcuno si fidasse di lei, a prescindere dal fatto che fosse figlia di un dio tanto poco cordiale quale Ade.
Sapeva di non somigliare affatto a suo padre, cosa di cui non poteva fare a meno che essere felice, ma sembrava che tutti fossero convinti che i figli del dio portassero con loro una sorta di maledizione e la maggior parte di loro tendeva ad evitarla come peste.
A lei, dal canto suo, non pareva di essere particolarmente maledetta. Non più di tutti gli altri semidei, comunque. Ma che importava se fosse maledetta o meno, in fondo, quando il resto del mondo rischiava di essere cancellato per l'eternità da una divinità dalla mentalità psicolabile?
Susan stava tentando di essere ottimista al riguardo. Ci stava provando davvero, come sempre. Come quando sua madre era morta in quell'incidente stradale e i suoi nonni si erano rifiutati di tenerla con loro, o come quando il tribunale l'aveva costretta a trasferirsi dal Colorado a New York, perché era là che viva Zia Meredith, l'unica sua parente che avesse mai “accettato” la sua esistenza.
Oh, forse sarebbe stato meglio essere affidata ad un gruppo di suore arrabbiate in uno dei collegi di Denver che a Zia Meredith. Susan aveva desiderato fuggire da lei molto spesso da quando aveva messo piede nella sua bella villa newyorkese, ma, per qualche ragione, non l'aveva mai fatto.
Zia Meredith non aveva fatto altro che sgridarla continuamente, addossandole colpe improbabili e sparlando con sua figlia Charlotte, sua coetanea, dell'irresponsabilità dell'ignoto padre di Susan e della stupidità di sua madre, che si era lasciata “compromettere” da un tale conosciuto solo poche settimane prima. Lei lo aveva spiegato più volte, come a suo tempo aveva fatto sua madre, che era figlia di una delle più grandi divinità greche, ma loro, giustamente, l'avevano presa per pazza e l'avevano spedita dritta dritta da uno psicologo, amico di famiglia, che poi si era licenziato ed era fuggito a coltivare patate in Sud America. Ovviamente, Zia Meredith non si era risparmiata dall'incolpare sua sorella per la pessima formazione di Susan.
Elizabeth si comportava sempre come se non avesse altro a cui pensare oltre a quel suo stupido lavoro. Studiosa di fenomeni paranormali, come no! L'unica cosa paranormale che c'era a Denver, era lei. Non mi sorprende affatto che le sia uscita una figlia così!”, ripeteva continuamente.
Susan odiava quel tipo di discorsi, quando Charlotte e Zia Meredith parlavano fitto fitto, lanciandole solo vaghe occhiate di avversione e disgusto. Disgusto per cosa, poi, esattamente?
Non era sicuramente colpa sua se suo padre era un dio dei morti che aveva di certo cose più importanti da fare che badare alla figlia illegittima avuta da una mortale. Lei aveva accettato la cosa senza troppe difficoltà, dopo aver assimilato l'idea che un gruppo di dei degenerati si era accampato al seicentesimo piano dell'Empire State Building. Perché non potevano farlo anche loro, neanche dopo che aveva fatto apparire in giardino un maggiordomo cadavere?
Non le era mai sembrato di essersi neanche comportata in maniera troppo terribile, quando ancora viveva tra i mortali. Certo, a parte quella volta in cui aveva accidentalmente appiccato fuoco alle travi di legno del soffitto in una palestra. O quando aveva fatto crollare quel bel lampadario nell'ufficio di uno dei sette diversi presidi che aveva avuto. Oppure quando... be', okay, effettivamente non era stata una mortale modello, ma si era trattato sempre di piccoli incidenti. Potevano capitare a tutti, gli incidenti, no?
«...William, a te la parola».
Susan si riscosse e puntellò i gomiti sulle ginocchia, perplessa e più attenta.
Come le erano venuti certi pensieri? Diamine, un po' di allegria! Ne era stata talmente presa da essersi persa persino l'intero discorso di Chirone. Li scacciò rapidamente ed inarcò le sopracciglia in direzione di William, in un silenzioso gesto d'incoraggiamento.
Non che Harper ne avesse bisogno”, si affrettò a ricordarsi.


Harper ne aveva bisogno, eccome.
Avrebbe avuto bisogno anche di una buona dose del coraggio di suo padre, in realtà. Non tanta da sorridere come un pazzo e cominciare a tagliare teste alle Idre; solo un pochino. Quel tanto che bastava per farlo smettere di pensare che avrebbe combinato qualche pasticcio e distrutto il mondo.
Nonostante il calore dell'estate ormai alle porte e il fuoco che gli bruciava la pelle, il ragazzo dovette reprimere il piccolo brivido gelido che minacciava di corrergli su per la schiena.
Non ricordava un momento nella sua intera vita, neanche durante la sua prima impresa, in cui si fosse sentito più a disagio di allora, con gli occhi fiduciosi dei suoi compagni puntati addosso.
Non gli piaceva stare al centro dell'attenzione a quel modo. Gli piaceva vincere, certo, e anche essere riconosciuto come vincitore, ma non quello. Non quando l'impresa che avrebbe dovuto guidare e portare a termine poteva essere di grande, enorme rilievo per l'intero universo e lui non aveva fatto altro che perdere la pazienza ed arruolare dei ragazzi che sarebbero probabilmente finiti col farsi male. E la colpa sarebbe stata interamente sua.
Stupido”, si ripeté per l'ennesima volta in quella sera “non sei altro che un dannato stupido!”.
Aveva detto ai ragazzi che non si sarebbe preso alcuna responsabilità per loro, se lo avessero seguito nell'impresa. Lì per lì ci aveva quasi creduto anche lui, ma era un pessimo bugiardo. Almeno con se stesso, s'intende.
Se fosse successo qualcosa a uno qualunque di quei ragazzi, si sarebbe sentito tremendamente in colpa.
Non sei un granché, per essere figlio di Ares”, l'aveva sbeffeggiato la voce cavernosa ed irritante del suo sogno “forse, non sei davvero figlio suo. Forse sei figlio di Atena, con quegli occhi grigi e i capelli biondi. Ma no, non sei abbastanza intelligente, neanche al confronto con il più piccolo di essi. Apollo, magari? Sai suonare discretamente il violino, ma con l'arco e la medicina sei negato. No. Forse Iride? Demetra? Comunque, non qualcuno di pericoloso”.
E aveva riso. Un suono graffiante come lo stridio delle unghie che strisciano sulle lavagne.
Quella risata lo stordì allora come nel sogno, e William dovette sbattere le palpebre un paio di volte, prima di riuscire ad esprimersi in una frase sensata. Cosa che lo fece sentire piuttosto idiota, a dire il vero.
Si schiarì la voce e si passò una mano tra i capelli, spettinandoli ancor più di quanto già non fossero.
«Con me, verranno Susan Graymark, della Casa di Ade. Skylar Hastings, figlia di Atena; Rose Stevens, di Ermes; Elle Willow, per Afrodite», disse, infilandosi le mani nelle tasche «e poi Jonathan Leyachet, figlio di Ecate; Nathan Ayale, figlio di Ebe; Sem Phoenix, di Poseidone; Altair Ibdan-La, del Campo Giove e, in fine, James Blake, figlio di Nyx».
Lui e James non ne avevano parlato esplicitamente, ma, quando il ragazzo era corso a raccontargli del suo sogno, William aveva dato per scontato che sarebbe venuto anche lui. Insomma, aveva avuto lui la visione sui ragazzi che stavano andando a riprendersi. Era un chiaro segno che avrebbero avuto bisogno di lui.
Per conferma, si voltò a guardarlo.
James sembrava un po' colto di sorpresa, e vagamente intimidito dall'essere osservato da decine di occhi semidivini iniettati di una buona dose d'invidia, ma non pareva intenzionato a tirarsi indietro.
Will si lasciò sfuggire un sorrisetto sghembo.
I suoi compagni gli piacevano, anche se non era stato esattamente lui a scegliere di portarseli tutti dietro. Lui aveva pensato di individuare un massimo di cinque, sette semidei, e adesso sarebbero partiti in dieci. Dieci che, in effetti, potevano essere davvero utili all'impresa.
Elle, con il suo fascino. Skylar, con la sua forza d'animo. Rose con la sua furbizia. Jonathan, con la sua magia. Il piccolo Sem e il suo potere sull'acqua. Altair, con il potere di Giove. James e il suo controllo sul buio. Persino quello sbruffone di Nathan aveva il suo lato positivo: …be', a questo doveva ancora pensarci, ma gli sarebbe venuto in mente qualcosa.
E poi, pensò, ritrovandosi a sorridere come un vero stupido, ci sarebbe stata Susan. A lei era riuscito a domandarlo ben prima di essere assalito dall'orda barbarica di mezzosangue, e lei aveva detto “sì”.
Non poteva essere più felice della sua comitiva semidivina.


James, mentre osservava le cupe fiamme verdastre del falò trasformarsi in un inquieto intreccio color indaco, non riusciva a far altro se non ascoltare le fastidiose chiacchiere dei ragazzi seduti vicino – o meglio, il meno vicino possibile – a lui.
«Ha deciso di portare il figlio di Nyx...», bisbigliò qualcuno, visibilmente sorpreso e diffidente, tra i figli di Demetra, chinandosi fino a sfiorare l'orecchio di un amico con le labbra.
«Io non l'avrei mai fatto», puntualizzò un altro, scrutandolo di sottecchi.
«Sua madre è figlia del Caos...», ricordò un terzo, portandosi una mano davanti alla bocca per non farsi sentire troppo forte.
James strinse i pugni sulle ginocchia, trattenendosi dal saltare in piedi e dal colpire in faccia quei deficienti. Non sarebbe stato molto civile, certo, ma questo eccome se li avrebbe sorpresi.
Decise che non ne valeva la pena. Altre parole come “traditore”, “inaffidabile” e “nemico” gli giunsero alle orecchie, ma lui le ignorò, come aveva sempre fatto. Effettivamente, non gli era mai andata molto bene, riguardo agli amici. Né quando era solo un normale, se così si può dire, bambino delle elementari, né quando si era rivelato essere figlio di una dea.
I bambini l'avevano sempre evitato, etichettandolo come “strano” e lanciandogli palline di carta quando credevano che lui non li vedesse. Incredibile quanto potessero essere crudeli, i bambini. E i ragazzi, purtroppo, non parevano essere molto meglio.
Quando era arrivato al Campo, tre anni prima, James aveva pensato di aver trovato, finalmente, una famiglia disposta ad accettarlo per ciò che era e che il suo fardello potesse alleggerirsi un po'. Sbagliato. C'erano state discussioni anche là, prese in giro, malelingue a livelli insopportabili. Le figlie di Afrodite, poi, non avevano fatto altro che spettegolare su di lui dal primo momento in cui l'avevano visto, definendolo dapprima “carino” e, in seguito al riconoscimento di Nyx, “un vero peccato”.
James aveva sempre cercato di non dare peso a certe cose, che fossero dette da parte di mortali o da semidei. Ma gli dava fastidio.
“Fregatene e basta”, s'impose, tamburellando nervosamente con un indice su un ginocchio, mentre aspettava che l'ora del falò terminasse “sarà sempre così”.
Ma non era tanto semplice come voleva far credere, accettarlo.
Persino suo padre, a New York, l'aveva sempre ritenuto strano e non aveva mai pensato, neanche per un momento, di capirlo o di ascoltarlo. Quando gli aveva riferito di essere figlio di una dea, poi, non si era rivelato esattamente ben disposto a recepire la cosa.
Questo finché non era stato ucciso, certo.
Allora c'era stata Jasmine, figlia di Ecate e una delle poche ragazze del Campo che non avesse smesso di rivolgergli la parola dopo aver saputo di chi era figlio. Anzi, gli era stata ancor più vicina.
Troppo vicina, forse, e quella era stata la sua condanna.
James ricordò, d'un tratto, il sangue di suo padre che imbrattava il pavimento di casa loro, i malviventi armati di pistole, la fuga verso il campo, la pistola puntata contro. Poi Jasmine, che si parava tra lui e i criminali, lo sparo, la sua furia, altro sangue. La corsa disperata verso la Casa Grande, i grandi occhi luminosi di Jasmine fissi nei suoi, e quel “ti amo”, appena sussurrato.
Non c'era stato niente da fare, per Jasmine. Il proiettile l'aveva colpita mortalmente, e neanche i curatori di Apollo avevano potuto fare niente per salvarla.
E James lo sapeva che, in fondo, quella era stata colpa sua.
James prese una profonda boccata d'aria, intimandosi di non fare lo stupido ed alzò il capo.
William si stava ritirando, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni militari e un lieve sorriso sghembo ad increspargli le labbra. E, James poteva giurarlo, si stava dirigendo proprio nella sua direzione.
Con suo immenso stupore, William si sedette sotto lo stendardo di Ermes, di fianco a lui, e gli rivolse uno dei suoi sorrisetti storti, incurante dei mormorii degli altri semidei.
«Se mi trovi irritante, me ne vado», giurò il figlio di Ares, inarcando le sopracciglia in maniera eloquente, come a dire “non puoi trovarmi irritante. Io sono meraviglioso”.
Molto modesto, insomma. Ma James non poté fare a meno d'indirizzargli un sorrisino incerto.


Skylar stava pensando ad Atena, in quel momento.
Non sapeva, esattamente, per quale motivo le fosse venuta in mente sua madre.
Forse era troppo in ansia per l'impresa, e si stava aggrappando a lei, alla sua saggezza? Forse sì, forse no. Non avrebbe saputo dirlo con certezza.
Si stava chiedendo che cosa stesse facendo, sull'Olimpo. Se la stesse guardando e fosse fiera di lei, o se fosse preoccupata, oppure se non stesse affatto seguendo la scena, troppo presa dallo studiare un piano per contrastare Caos per poter prestare attenzione a lei.
Però Skylar sapeva che Atena le era vicina. Da sempre, sin da quando non era altro che una bambina di ottima famiglia e con una salute pessima.
Anche allora, quando Skylar era più piccola e non poteva fare niente, tranne starsene rinchiusa nella villa di suo padre a suonare il piano o a imparare il galateo con qualche noiosissimo insegnante monotono come Mr George, aveva avuto dei buoni rapporti con la dea.
Non che l'avesse mai incontrata davvero, ma le immagini disegnate tra le pagine dei suoi libri si animavano spesso, dandole la possibilità di sentire i profumi pungenti dei gigli, quelli più dolci delle rose o quelli puri dell'aria di montagna, proprio come se lei fosse stata davvero lì. Persino di sentire con le sue stesse dita la morbidezza del pelo dei coniglietti, e la freschezza dell'acqua delle sorgenti.
Atena non era stata la madre migliore del mondo, certo, ma neanche la peggiore, per essere una dea. Ares doveva essere molto peggio, considerando che era un sanguinario dio della guerra. Per il diciottesimo compleanno, aveva regalato a William una lancia su cui era stata affissa la testa decapitata di un mostro. Rivoltante. Da quanto ne sapeva Skylar, William non aveva mai usato quell'arma. Oppure c'era Afrodite, la dea dell'amore, madre della sua amica Rosaline e di Elle Willow. Doveva essere terribile avere una madre psicopatica come quella che, se ti voleva particolarmente bene, lo dimostrava rendendo la tua vita sentimentale un vero e proprio inferno.
Skylar aveva sentito parlare dell'inferno, o meglio, dell'Ade. Non si trattava esattamente del tipo di posto in cui si sarebbe fatta volentieri un viaggetto. Per niente.
«E, per riscaldarci un po' il cuore, che ne dite di una partita di Caccia alla Bandiera?», propose Chirone, accennando il suo primo vero sorriso della serata.
Skylar si strinse nelle spalle. Mancava solo una settimana all'inizio ufficiale dell'estate, ma la sera faceva ancora parecchio freddo. Un po' di movimento, forse, li avrebbe scaldati un po'.
E poi, giocare a Caccia alla Bandiera era divertente.
«Perché non la Corsa delle Bighe?», propose una ragazza alta, massiccia e dal viso coperto di lividi, probabilmente figlia di Efesto.
Un figlio di Ares le fece eco, saltando quasi in piedi per l'eccitazione.
«Deve essere una cosa superadrenalinica! Perché non la facciamo più?».
Skylar trasalì. Quella roba era stata eliminata dal Campo Mezzosangue per ben due volte a causa della sua pericolosità. I semidei rischiavano di spezzarsi l'osso del collo, con le bighe, e Skylar ci teneva abbastanza, all'integrità dell'osso del suo collo e di quello degli altri ragazzi del Campo.
Fortunatamente, Chirone negò immediatamente la possibilità di riaprire la corsa.
«Siamo già rimasti in sin troppo pochi, qui, non voglio che qualcuno di faccia troppo male», spiegò il centauro, incrociando le braccia al petto, poi borbottò qualcosa come: «ma senti questi, divino Zeus».
Skylar si sentì sollevata e, dopo essersi stirata le pieghe dei jeans con le mani, si alzò, e le sue ginocchia scrocchiarono appena. Stava per raggiungere i suoi compagni della Casa di Atena per discutere della strategia, quando Susan Graymark le scivolò piano accanto, lieve come una farfalla.
Skylar conosceva bene quel modo di muoversi, silenzioso ed aggraziato, “da vera signorina”, come diceva suo padre, perché lei aveva passato mesi a provare quel tipo di passo sotto la guida di un educatore.
La ragazza le rivolse un cenno di saluto militare molto meno elegante, per poi dirigersi verso la Capocabina di Atena e domandare di unirsi alla squadra rossa; e Skylar pensò che non le sarebbe dispiaciuto affatto condividere il viaggio insieme a una come lei.


Un'altra cosa che Nathan amava, dopo l'essere adorato, glorificato e il trovarsi al centro assoluto dell'attenzione altrui, era la Caccia alla Bandiera.
Guerra. Sangue. Strategia.
Tutte cose fantastiche, purché la strategia vincente fosse la sua e il sangue no.
Negli ultimi tempi, avevano giocato molto raramente e Nathan stava cominciando a pensare che sarebbe diventato vecchio, brutto e grasso prima di aver di nuovo modo di mostrare a tutti quanto fosse bravo in quella gara. Be', forse, non proprio brutto, e neanche proprio grasso. Lui non sarebbe mai diventato brutto o grasso. Era fisicamente impossibile, no? Se non fosse stato fortunato, poi, non sarebbe neanche diventato vecchio.
Comunque, quando aveva quasi smesso di sperarci, Chirone aveva detto quella benedetta frase e lui l'aveva accolta quasi si fosse trattata di una manna mandata direttamente dall'alto dell'Olimpo. Una bella partita a Caccia alla Bandiera era esattamente ciò che gli serviva per rilassare i nervi, prima di partire l'indomani verso meta ignota.
Perché sì, anche lui, Nathan Ayala, provava una strana ed incomprensibile sensazione di pericolo, quando l'idea dell'impresa gli sfiorava la mente. Forse, si disse lui, si trattava solo di un po' di nervosismo. Hey, si trovava al Campo Mezzosangue da sette lunghi anni e ne aveva messo piede fuori solo poche volte! L'agitazione era più che comprensibile, no?
Non ne era troppo convinto. C'era qualcos'altro, sotto. Ma cosa? Nathan aveva l'impressione di doverlo sapere, ma non gli venne in mente niente, a parte il fatto che Jordan Bugle, giorni addietro, avesse infilato un panino al formaggio sotto al materasso di Gregory Kyle. Era abbastanza sicuro che quel panino fosse ancora là. Ecco perché la Casa di Ermes puzzava un po', da qualche giorno a quella parte. Dannato Bugle: l'avrebbe ridotto a pezzettini tanti piccoli che la sua ragazza avrebbe dovuto passare i prossimi cinque mesi a tentare di ritrovarli tutti.
Nathan, seccato, si grattò lievemente il naso, avviandosi verso il gruppo dei ragazzi di Ecate insieme ai suoi compagni di Casa, a passo lento e calibrato.
Sperava davvero che la bionda Capocabina della 11, Lucy Honeycutt, riuscisse a convincere Gwendolyn Sparks a collaborare con loro durante la partita.
Era sempre meglio avere un po' di magia dalla propria parte. E poi, i figli di Ecate erano quanto di più vicino agli dei avessero al Campo. Roba forte, insomma, anche se lui non l'avrebbe ammesso neanche sotto tortura.
Poi, dopo aver convinto loro, avrebbero pensato ai figli di Ares.
Certo, Nathan avrebbe preferito mille volte allearsi con quelli di Atena, ma i figli della dea della sapienza avevano promesso solennemente che mai, mai e poi mai, si sarebbero più messi a combattere insieme a loro finché le gemelle Crooks sarebbero state ancora in vita. Una reazione esagerata, a parere di Nathan, quella dei figli di Atena, solo perché le due ragazze avevano riempito la loro Casa di tanti piccoli ragnetti di plastica.
Gwendolyn incrociò le braccia, esaminando con sguardo critico i componenti della Casa di Ermes, e Nathan le restituì la medesima occhiata, come a dire che be', se non volevano unirsi a loro, lui era già abbastanza magico per tutti. Gwendolyn alzò gli occhi al cielo.
«D'accordo», disse «ma ci dovete pulire la Cabina per il resto della settimana».
«Accetta, Lucy», fece eco Nathan, lasciandosi comparire un sorrisetto diabolico sulle labbra «non è un'offerta pessima».
Lucy, a dire il vero, non sembrava al settimo cielo. Nemmeno al sesto, di cielo, in realtà.
Nathan la capiva, ovvio, neanche a lui sarebbe piaciuto pulire la Cabina dei figli di Ecate a mani nude, mentre quelli avrebbero potuto benissimo farlo utilizzando la magia. Però, era anche vero che Nathan, il mattino seguente, si sarebbe imbarcato insieme ad altri nove semidei in un'impresa, e questo significava che lui non avrebbe dovuto pulire proprio un bel niente.
A quel pensiero gli venne quasi da ridere, ma cercò di trattenersi. Non voleva far irritare Lucy, e nemmeno qualche figlio di Ecate: sapevano essere tremendi. E poi, un piano per vincere la Caccia alla Bandiera stava già prendendo forma all'interno della sua mente, e lui non avrebbe di certo messo a repentaglio la sua vittoria... pardon, la vittoria della squadra blu, per una risatina insensata.


Jonathan non stava esattamente morendo dalla voglia di partecipare alla Caccia alla Bandiera, ed i motivi erano tutti pienamente comprensibili.
Per prima cosa, la sua squadra vinceva molto raramente. Gli avversari erano soliti massacrarli dal primo uomo all'ultimo, soprattutto se si trattavano in gran parte di figli di Ares, senza darsi la pena di pensare che qualcuno avrebbe anche potuto farsi davvero male.
Una volta, William aveva seriamente rischiato di decapitarlo con un boomerang, ma almeno lui aveva chiesto scusa, l'aveva aiutato a ritirarsi in piedi ed era sembrato sinceramente dispiaciuto. Non come quel gran pallone gonfiato di suo fratello, Martin Walker, che l'aveva spinto nel fiume e poi era scoppiato a ridere come se avesse appena realizzato il più grande scherzo del secolo.
In oltre, l'ultima volta che avevano giocato, gli occhiali gli erano caduti a terra ed un ragazzo di Efesto li aveva calpestati. Cosa che non gli era piaciuta affatto, considerando che una lente era rimasta crepata e la montatura nera si era spezzata a metà, e lui aveva dovuto passare un'intera notte insonne a tentare di ripararli. Alla fine non ci era riuscito ed aveva dovuto buttarli via comunque, salvo poi domandare ai figli di Ermes se, per puro caso, non ne avessero avuti un paio di scorta. Ovviamente ce li avevano, e lui li aveva dovuti pagarli a caro prezzo.
Certo, forse avrebbe potuto chiedere a suo padre di spedirgliene un bel pacchetto da cento, ma la sola idea gli faceva venire il latte alle ginocchia.
L'ultima volta che si erano visti era stata cinque anni prima, quando lui era stato costretto a scappare di casa.
Un mostro gli aveva teso un'imboscata, evidentemente preparata da giorni e con meticolosa attenzione. Era sbucato fuori dal nulla, gli aveva offerto un paio di “deliziose tartine pre-morte”, e poi aveva preteso di farlo secco. Jonathan si era ritrovato ad utilizzare la magia contro di lui, senza avere idea di come diamine riuscisse a farlo.
Alla fine, il mostro era esploso in una pioggia di polvere dorata, molto simile a sabbia, e si era dissolto nel niente. Non prima di aver combinato qualche disastro con la Foschia, comunque.
Jonathan non aveva idea di che cosa avessero visto i mortali, ma stava di fatto che suo padre e la sua orribile matrigna erano rimasti a fissarlo con un'espressione d'orrore misto a panico dipinta sul volto. Jonathan aveva pensato che avessero avuto paura del mostro, ma Kate si era riscossa per prima e l'aveva chiamato “demonio”, puntandogli un dito accusatore contro. Suo padre, ovviamente, aveva immediatamente seguito il buon esempio. Aveva detto che il diavolo si era portato via il suo bambino e che aveva lasciato un demonio al posto suo.
Al “tu non sei mio figlio, vattene!” di suo padre, lui non se l'era fatto ripetere due volte. Aveva raccolto qualche vestito e del cibo nel suo zainetto della scuola e se ne era andato di casa. Sua sorella piangeva, mentre si allontanava, e a lui si era spezzato il cuore.
Amy non era davvero sua sorella, non del tutto, ma Jonathan le voleva davvero bene. Era l'unica della famiglia cui lui, in seguito, aveva pensato di rivelare la verità. Amy non aveva battuto ciglio per l'intera durata del racconto di Jonathan, e alla fine aveva sorriso e gli aveva detto che gli credeva. Era stato un gran sollievo avere qualcuno dalla propria parte.
Jonathan sbuffò ed incrociò le braccia, guadagnandosi un'occhiata perplessa da parte di Nathan, suo futuro compagno di viaggio.
Già, a proposito, bella quella.
Lui, Jonathan Leyachet, sarebbe partito l'indomani per un'impresa. Destinazione ignota. Missione pressoché impossibile.
Assurdo.
Era sempre più convinto che William si fosse bevuto il cervello, prima di andare a cercarlo e invitarlo a far parte della missione. Insomma, che cosa se ne facevano di un tipo come lui? Jonathan non lo sapeva, e non era nemmeno certo di volerlo sapere. La risposta alla sua domanda poteva essere piuttosto inquietante, considerando il sorrisetto folle che William aveva disegnato sulle labbra.
Tutto sommato, forse, sarebbe stato più saggio non farsi troppe domande ed affrontare il futuro così come sarebbe venuto.


Elle aveva una voglia matta di stendere qualcuno, così, tanto per preparazione all'impresa, e Chirone le aveva appena servito su un vassoio d'argento l'opportunità perfetta per farlo.
Con la punta delle dita di una mano dalle lunghe unghie laccate di viola, Elle sfiorò la morbida crocchia che le raccoglieva i capelli sulla testa, tenuta su dalle sue armi preferite: due letali aghi lunghi e sottili. Uno dei regalini di sua madre.
Afrodite aveva lasciato quegli aghi in custodia a suo padre, un uomo “splendido”, che glieli aveva consegnati al compimento del sedicesimo anno d'età, insieme a quegli adorabili sandali d'oro che Ermes aveva regalato a sua madre. Li aveva chiamati Elxi e Dilitirio: Attrazione e Veleno. Perché era quello che era lei, quello che era l'amore.
Insieme al suo potere sugli uomini, Elxi e Dilitirio la rendevano una combattente al limite della perfezione e questo la rendeva... be', molto felice.
L'unica cosa che, in effetti, sua madre avesse mai fatto per renderla felice era stato proprio regalarle quegli oggetti.
Elle arricciò il naso. Non sapeva bene che cosa provare per Afrodite.
Era sua madre, d'accordo, ed essere sua figlia ti donava in automatico una bellezza senza pari e di cui lei, purtroppo, non poteva essere che grata.
Ma per il resto, a parte quando le appariva nei sogni per prendere una tazza di tè insieme a lei e parlarle di quanto avrebbe dovuto essere “meno spigolosa”, non c'era mai stata.
Mai. Né per il suo primo compleanno, né per la sua prima recita, né per consolarla dopo la prima delusione in amore.
In effetti, Afrodite non era stata un granché, per essere una madre immortale ed eterna, il cui sangue era un'icore dorata.
Ma gli dei erano strani, Elle lo sapeva.
C'erano bizzarre leggi sull'Olimpo e lei, per quanto intelligente potesse essere, non era certa di comprenderle tutte a pieno.
“Incontrate i vostri figli una volta all'anno, e solo se avete il permesso. Anche se siete dei e quindi, in teoria, potreste fare quello che vi pare”.
“Zeus, Ade e Poseidone, non proliferate. La Grande Profezia è passata da un pezzo e i vostri figli hanno salvato l'Olimpo più volte di quante voi siate mai andati al gabinetto in tutta la vostra eterna vita, ma chi se ne frega”.
“Era, tu sei la dea della fertilità, ma non puoi avere figli al di fuori del matrimonio. Considerando quello che fa tuo marito, comunque, il tuo animale sacro non dovrebbe essere il pavone, ma il cervo maschio”.
“Ah, ed Efesto, tu talmente brutto che tua madre ti ha buttato giù da un monte. Io rifletterei molto su questo. Ah-ah”.
Bah.
Elle aveva rinunciato a tentare di capire gli dei molto tempo prima di allora, quando aveva scoperto che la prima cosa che faceva Zeus, quando succedeva qualcosa di brutto, era chiudere l'Olimpo. Allora, come sempre, era compito dei semidei risolvere la situazione, perché, se fosse stato per gli olimpi, l'oscura divinità di turno – come l'aveva chiamata William Harper -, avrebbe ridotto l'universo in un enorme barbecue fumante e non avrebbe invitato nessuno alla sua festa; perché tutti sarebbero già stati belli e che morti.
Era tanto difficile, per quelle divine teste vuote, imparare a collaborare? Era inutile negare l'evidente bisogno che gli dei avevano dell'aiuto dei loro figli.
Anche in quel momento, chi era che stava per partire alla ricerca di un gruppo di idioti scomparsi per tentare di salvare il Campo e forse il mondo intero da Caos? E chi era, invece, che se ne stava rintanato sull'Empire State Building a scagliare fulmini o a provocare maremoti? Gli dei o i loro figli?
Elle stava davvero per prenderli a pugni, tutti quanti.
Sorrise solo quando Rosaline, la Capocabina di Afrodite, corse dai ragazzi di Atena per proporre un'alleanza tra loro.
Era sempre così facile, vincere, quando si aveva la tattica di Atena dalla propria parte.


Altair non aveva mai partecipato ad un gioco come quello.
“Caccia alla Bandiera”, gli avevano detto. E lui si era immaginato Chirone con una bandierina bianca in mano che chiamava numeri a caso e i semidei disposti su due linee parallele che schizzavano via appena il centauro chiamava il numero che era stato assegnato loro.
Giochi da campi estivi, insomma. Il classico dell'animazione.
Aveva supposto che i greci fossero davvero dei tipi stani ed un po' superficiali. Al Campo Giove, i loro giochi consistevano in cose molto più divertenti, come: combattimenti in perfetto stile “gladiatore”, ludi di guerra, guerre simulate e guerre, guerre e ancora guerre.
Non si era mai sbagliato così tanto.
La prima cosa che gli dissero fu che aveva chiaramente bisogno di un elmo. E già lì, Altair aveva intuito che la cosa non si sarebbe fatta per niente amichevole.
Gli posizionarono tra le braccia un elmo greco col pennacchio rosso.
«Tu sei con noi», aveva detto poi una ragazzetta piccola e smilza, regalandogli un occhiolino «faresti meglio a metterlo, quell'elmo. C'è chi non ci va leggero, con la spada».
«Con la spada?», aveva chiesto Altair, perplesso «si combatterà? Ma non dovevamo fare un gioco con una bandiera?».
La ragazza aveva ridacchiato.
«Lo vedrai, romano», gli aveva detto, ridendo «adesso vieni con me».
Era suonato parecchio come una minaccia.
Altair raggiunse i ragazzi della sua squadra e li osservò.
Erano tutti chini su una mappa, probabilmente del Campo Mezzosangue, e indicavano i vari punti con la fronte aggrottata, disponendo uomini a destra e a manca e ordinando di fare questo e di non fare quell'altro. Alla fine, si accorsero di lui.
«Ma tu non sai cosa fare!», esclamò un ragazzo, quasi la sua presenza l'avesse sorpreso «dei, cosa ti facciamo fare? Assalto, difesa o caccia?».
Altair non avrebbe saputo dire a chi, esattamente, si stesse rivolgendo.
«Me lo porto dietro io», rispose la ragazza che l'aveva accompagnato lì, e l'altro corrucciò ancor di più le sopracciglia.
«Attenta a non farlo ammazzare, Daisy» disse «deve tornarsene vivo al Campo Giove, o Andrew ci taglierà le dita. Lo sai com'è fatto».
Altair non gradì molto quelle parole. Farsi ammazzare, non era esattamente il suo hobby preferito, e tanto meno gli piaceva farsi difendere da una semidea greca figlia di un dio minore quale sicuramente era Daisy. Inarcò un sopracciglio.
«Hey, gente», disse «io sono figlio di Giove, mica di Cerere. So cavarmela da solo, se mi dite che roba è questa e cosa devo fare».
A quel punto, fu Daisy ad inarcare un sopracciglio.
«Ah sì?», disse, puntellandosi le mani ai fianchi «e quali problemi avresti, sentiamo, con i figli di Demetra?».
Altair ebbe la sensazione che Daisy, improvvisamente, non fosse più tanto desiderosa di dargli una mano.
«Oh, nessuno», si affrettò a rispondere, quando cominciò a sentirsi troppi sguardi omicidi puntati addosso «adoro i figli di Demetra, di Cerere o in qualunque modo voi vogliate chiamarla. Sono incantevoli. Come tutti gli altri, del resto».
«Forse ci troverai un po' meno incantevoli, quando cominceremo a combattere» commentò Daisy, ma ad Altair non pareva avere la faccia di una che si era bevuta le sue frottole.
Altair era abituato a certi sguardi di fuoco, e non gli importava granché di far innervosire determinati semidei. Non finché era al Campo Giove.
Lì tra i greci le cose erano diverse, però, perché Maya e Andrew, i pretori, avevano dato ordini precisi.
Niente risse con i greci. Niente offese. Niente problemi.
Più facile a dirsi che a farsi.


Sem era pronto, agitato, e parecchio su di giri.
Stavano accadendo un sacco di cose e tutte insieme, forse troppe.
Prima, aveva scoperto un mondo fatto di mostri, Foschia e dei.
Roba da mal di testa.
Poi, era riuscito a convincere Will a lasciarlo partecipare a quella famosa impresa. Sarebbe stata sua prima impresa, tra l'altro.
E in fine, Chirone aveva annunciato la partita di Caccia alla Bandiera.
Sem sapeva dell'esistenza di quel gioco, o meglio, di quell'addestramento, sin dal primo giorno in cui aveva messo piede al Campo, però non aveva mai avuto la possibilità di parteciparvi.
Chirone aveva smesso di proporlo circa un mese prima, pochi giorni prima che lui arrivasse al Campo, quando gli squilibri dovuti a Caos erano cominciati. Aveva intensificato gli altri allenamenti, e, alla fine della giornata, tutti erano talmente stanchi che a malapena riuscivano a tenere gli occhi aperti. Figuriamoci a combattere ancora.
Così, Sem si era ritrovato solo a sentirne parlare ed aveva pensato che fosse stato proprio un peccato, non avervi potuto partecipare.
E poi, eccolo lì: bardato nella sua armatura greca ed armato della sua bellissima spada.
Sapeva di non avere un'aria pericolosa come quella degli altri ragazzi del Campo in quel momento, né pensava di essere neanche lontanamente bravo come loro. Però era contento.
Gli piaceva combattere, farsi valere e dimostrare di non essere solo un bambino di dodici anni che si era imbarcato troppo presto nella sua prima impresa. Quella era una bella occasione, soprattutto per dimostrare a Will che poteva fidarsi di lui e che non si sarebbe dovuto pentire di averlo preso con sé. Era piccolo, forse, e nemmeno il guerriero più esperto del campo. William si addestrava da quando aveva appena otto anni, e adesso ne aveva diciannove. Lui ne aveva solo dodici ed aveva cominciato l'allenamento solo da poche settimane, ma doveva fare qualcosa. Non poteva restarsene lì al Campo Mezzosangue con le mani in mano, nell'attesa che un esercito di mostri e semidei li assaltasse, mentre gli altri se ne andavano a cercare di fermarli.
Sarebbe impazzito di preoccupazione, e l'ansia se lo sarebbe mangiato vivo.
Non sarebbe stato facile, Sem sapeva anche questo, ma ci avrebbe messo tutto se stesso.
Chirone diede il via alla partita proprio in quel momento, e decine di semidei cominciarono a correre in decine di direzioni diverse.
I figli di Apollo sembravano scimmie nel loro habitat naturale, pensò Sem, mentre una figlia del dio gli sfrecciava sotto il naso, aggrappandosi ai rami degli alberi come Tarzan sulle liane. Anche Will se ne stava appollaiato su un ramo, osservando dall'alto ciò che accadeva, attento come un cane da caccia che ha puntato la sua preda.
Sem non si chiese che diamine ci facesse William su un albero. Era inutile: lui faceva sempre quello che voleva. Così come diceva sempre quello che gli andava, e Sem, spesso, pensava che sarebbe stato meglio per tutti che i semidei gli dessero ragione, anche se avesse detto che il suo sangue era azzurro e fatto di unicorni.
L'idea di farlo arrabbiare lo innervosiva, come lo innervosiva l'idea di irritare Elle Willow.
Sem si morse il labbro inferiore, nascondendosi dietro un tronco caduto per non farsi notare da un ragazzo della squadra avversaria.
Quello non si accorse della sua presenza finché non provò a scavalcare il tronco, ma a quel punto era già troppo tardi.
Sem l'afferrò per i piedi con le mani, ed il ragazzo ruzzolò a terra, battendo la testa a terra ed imprecando in greco antico. Gli parve di sentirlo dire qualcosa come “marmocchio”, ma Sem era già schizzato via quando lui si rialzò.
«Ben fatto, pulce!», esclamò William, superandolo con un balzo «ci vediamo al fiume!».
E scomparve tra gli alberi.
Sem non sapeva se prenderlo davvero come un complimento o come una presa in giro.
“Pulce...”.
«Pulce?!», esclamò, riscuotendosi «hey, tu!».


Fortunatamente, Ferdinand aveva smesso d'infastidirla quando lei aveva giurato solennemente di dare una piccola chance a lui e ai suoi fratelli.
Rose si sentiva parecchio stupida. Non tanto per la promessa, ma per il modo in cui aveva giurato.
“Sullo Stige, Rose?”, si disse, mentre s'inoltrava nel bosco con l'elmo a coprirle il capo “sul serio?”.
Come aveva fatto a cadere nella trappola di Ferdinand? Non ne aveva idea, e non aveva più la minima intenzione di pensarci. Chi se ne importava, di Ferdinand.
“Piantala”, s'impose “non si merita tutta quest'attenzione”.
La piantò.
Veloce e furtiva come solo una figlia di Ermes poteva essere, scivolò tra le fronde degli alberi, diretta verso il centro della foresta, dove aveva ricevuto l'ordine di recarsi.
Raggiungerlo non fu semplice quanto aveva sperato. Niente era mai semplice come sperava.
I due le si pararono di fronte, armati di spada e lancia, un sorrisetto determinato ad increspargli le labbra ed i capelli nascosti dall'elmo. Non riusciva a vederli bene, ma dovevano trattarsi di due figlie di Ares.
“E ti pareva?”, pensò, stringendo con più forza Pantera, la sua spada color carbone. Se li trovava sempre tra i piedi, quei tizi. Ma quanti erano?
I loro sguardi s'incrociarono per un momento, e le due sorrisero leziosamente. Sbruffone.
«Levati dai piedi, figlia di Ermes», ruggì una delle due.
«A meno che tu non voglia farti male», le fece l'eco la compagna, rivelando un sorriso da squalo.
Rose non si lasciò intimidire, ed puntò la spada verso di loro.
«Fatevi sotto, facce da carlino», disse.
Le ragazze non gradirono il complimento.
Si lanciarono verso di lei, ma Rose era più veloce. Scartò di lato, e le due la mancarono. Una rotolò di lato, e scomparve tra dei cespugli di rovi.
La sua spada cozzò contro quella di una delle ragazze. Vista da vicino, era ancora più brutta. Molto più somigliante somigliante ad un carlino di quanto Rose avesse mai creduto possibile.
Poveri carlini.
«Lascia perdere, figlia di Ermes», ringhiò l'altra «non puoi battere un figlio di Ares in una guerra».
Rose fece scivolare la lama lungo quella della spada avversaria, trovandosi di nuovo libera di muoversi, poi fece l'unica cosa logica che le venne in mente: cominciò a correre.
«Dove scappi, ragazzina?!» le gridò dietro la ragazza con la lancia.
«Ma io non sto scappando!», le rispose, mentre un buffo sorrisetto le si dipingeva sulle labbra.
La figlia di Ares non ebbe neanche il tempo di domandare che cosa stesse dicendo, che la trappola la colse di sorpresa. La rete scattò su dal terreno con la rapidità di una molla, e la semidea rimase appesa a mezz'aria, intrappolata.
«Sì!», esclamò Rose.
Il suo esultare venne immediatamente interrotto dalla lancia. Se non avesse avuto dei riflessi tanto ottimi, l'avrebbe colpita in piena fronte. Si abbassò appena in tempo, e quando si rialzò, il volto graffiato dell'altra ragazza incombeva su di lei.
«Oh-oh», bisbigliò, mentre l'altra tentava di afferrarla. Ci riuscì, e la sbatté a terra.
L'impatto col terreno le fece schizzare via la spada dalle mani. La ragazza le fu addosso.
«Guarda cosa hai fatto!», esclamò, indicandosi il viso con una mano «non la passerai liscia, figlia di Ermes!».
Rose non la pensava così; per niente.
Approfittò del fatto che l'altra avesse un braccio sollevato per liberare le braccia e l'afferrò in un preciso punto tra il collo e la spalla destra e fece lievemente pressione con le dita, come le aveva insegnato Chirone.
La figlia di Ares capovolse gli occhi e stramazzò su di lei con tutto il suo peso, svenuta.
Rose dovette soffocare un'imprecazione in greco antico, quando la testa di lei batté violentemente contro la sua. Se la levò di dosso e si rialzò, toccandosi la fronte con le dita. Il giorno dopo le sarebbe venuto un bernoccolo terribile. Grandioso.


 
♣       ♣       ♣       ♣       ♣       ♣


William camminava rapidamente avanti e indietro sotto al padiglione della mensa, sbuffando di tanto in tanto e facendo saltare i nervi a tutti gli altri semidei.
Aveva chiesto ai ragazzi di riunirsi perché, mentre cercava di prendere la bandiera – cosa che, alla fine, non era riuscito a fare -, era stato colto da un'improvviso dubbio. Due, a dire il vero. E nessuno sembrava in grado di trovare una risposta.
«Harper, puoi smetterla di girare in tondo, per l'amor degli dei?», commentò Susan, alzando gli occhi al cielo.
«Mi stai facendo venire il mal di mare», borbottò Sem, piano, disegnando un cerchio invisibile sul tavolo con l'indice «ed io sono figlio di Poseidone. Non so se mi spiego».
William si fermò, e nove semidei sospirarono di sollievo.
«Era l'ora», sbuffò Elle, incrociando le braccia.
William, per tutta risposta, la fulminò con lo sguardo. Non letteralmente, per fortuna. Poi si rivolse a James.
«Sei sicuro che i semidei stessero aiutando i mostri?», domandò, per la millesima volta in quei dieci minuti «che non stessero combattendo?».
James si mosse a disagio, sotto il grigio sguardo inquisitore del ragazzo. Non gli piaceva ripetere troppe volte la stessa cosa, ma non poteva neanche dirgli di piantarla.
«Così sembrava», disse.
William arricciò il naso, chiaramente poco felice, e scrutò gli amici in volto, uno per uno. Quando il suo sguardo incrociò quello di Rose, la ragazza ebbe l'istinto di tirarsi un po' indietro.
Era pur sempre un figlio di Ares, si disse.
«Hai detto che le rocce del tuo sogno avevano un colore rossiccio, giusto?», chiese ancora Will, più rivolto a se stesso che a chiunque altro «dove le troviamo, delle rocce così?».
«Non a New York», rispose Nathan, annoiato «poco ma sicuro».
«Neanche a San Francisco, se è per questo», fece Altair, stiracchiandosi «e nemmeno in Alaska».
«Tu sei stato in Alaska?», chiese Rose, inarcando un sopracciglio «forte. Non è un luogo “al di fuori del dominio degli dei”?».
«Ragazzi», li richiamò Will «possiamo tornare alle nostre rocce?».
Rose ed Altair si zittirono.
Skylar alzò la mano, come un'alunna particolarmente educata che vuol prendere parola.
«Sì, Skylar?», rispose William, incuriosito. Se ne era rimasta in silenzio per tutto il tempo, ma a William era quasi sembrato di vedere gli ingranaggi del suo cervello che si muovevano come impazziti, alla ricerca di una risposta. Forse, l'aveva trovata.
«Potrebbero essere in Colorado», rispose lei, lentamente, quasi avesse il timore di dire qualcosa di sbagliato «è per questo che si chiama così, lo stato. Deriva dallo spagnolo, per il colore particolare della terra».
«Ma non possiamo mica scalare tutte le montagne del Colorado», fece Jonathan, perplesso, prendendo una profonda boccata d'aria prima di parlare «non possiamo, vero?».
Susan raddrizzò il capo, come se avesse appena ricevuto una scossa.
«È vero, ci sono le Montagne Rocciose», disse, quasi stupita «ci sono stata, una volta, quando vivevo ancora a Denver».
«Tsk», commentò Elle, inarcando un sopracciglio «le Montagne Rocciose sono una delle catene montuose più vaste del mondo. Non riusciremo mai ad ispezionarle tutte, neanche se avessimo tutto il tempo del mondo».
«Già, e questo ci porta dritti al secondo punto», bofonchiò William «quanto tempo abbiamo per portare a termine l'impresa, prima che i mostri e gli altri attacchino il Campo o che Caos si desti sul serio? In entrambi i casi, saremmo nei guai».
I ragazzi tacquero, pensierosi.
«Magari, ancora una settimana», azzardò Nathan, spezzando il silenzio teso che era andato a crearsi «tra una settimana esatta sarà il ventuno giugno, il solstizio d'estate. In quel giorno, il potere degli dei è più forte...».
«Forse, vale anche per Caos», terminò Susan «anche lui è una divinità, giusto?».
«Non proprio», fece Skylar, aggrottando le sopracciglia «ma credo che il concetto sia lo stesso».
«Pensate che le due cose siano collegate?», chiese Jonathan, la voce incerta «i semidei scomparsi e il risveglio di Caos, intendo».
«È possibile», rispose William, pensieroso «è per questo che Chirone ci ha spediti a cercarli. E se così fosse... oh, dei!».
«“Oh, dei” che cosa, Harper?», sbuffò Elle «vuoi dirlo anche a noi, di grazia?».
William la ignorò totalmente, tornando a rivolgersi a James, che piantò gli occhi in quelli del figlio di Ares.
«I mostri e i semidei stavano lavorando insieme», disse, serio «spostavano le rocce, insieme».
Fece una pausa, poi continuò: «come possono lavorare insieme, senza che i mostri si mangino i semidei o che, per lo meno, non tentino di assaggiarli?».
«Detta così, i semidei sembrano panini al formaggio» replicò Altair.
«Deve essere Caos a guidarli. Li sta obbligando a fare qualcosa per lui», continuò William, imperterrito «non farebbero mai qualcosa del genere solo per distruggere noi. E poi, comunque, che senso avrebbe mettersi a spostare delle rocce in Colorado per poi venire ad attaccarci? C'è qualcosa dietro».
Dal modo in cui brillavano i suoi occhi, pareva aver appena scoperto una cura per una malattia mortale.
«La cosa delle rocce... potrebbe essere un incantesimo?», chiese Sem, aggrottando le sopracciglia.
«Potrebbe», rispose Jonathan «ma io sono figlio di Ecate, e un incantesimo simile non l'ho mai sentito. Magari è più una specie di rito».
«Prendi tutti i libri sull'argomento che trovi, John» sbottò William, riprendendo a camminare avanti e indietro, come un cavallo imbizzarrito in un recinto troppo stretto «ce li portiamo dietro. Tenteremo di capirci qualcosa durante il viaggio».
“John” esitò per un istante al nomignolo, poi annuì.
«Sì, ehm... a questo proposito...», cominciò Rose «con che cosa partiamo? Qual è il mezzo di trasporto?».
William si bloccò a metà passo e la fissò.
«A questo non avevo pensato», disse, lentamente.
«Ma va'», replicò Elle, inarcando un sopracciglio «quindi siamo a piedi? In una settimana, non arriveremo neanche a un quarto della strada».
«Ci vogliono almeno due giorni solo per raggiungere il Colorado, in auto», commentò Susan.
«C'è sempre la nave», disse Nathan, inarcando un sopracciglio «l'Argo II».
«Neanche per idea!», decretò William, sobbalzando come se Nathan l'avesse appena colpito alla testa con una mazza da baseball «io non me ne vado in giro con la nave di Leo Valdez!».
“Sarebbe un sacrilegio”, pensò James, tamburellando con le dita sul tavolo, in silenzio.
«E poi, noi dobbiamo andare in montagna» osservò Altair, storcendo il naso «non ci serve, una nave».
«La nave può volare», precisò Susan. Ma, dal modo in cui lo disse, i ragazzi intuirono che non fosse esattamente “felice” della cosa; anzi.
«Zeus ci fulminerebbe, se io e Susan ce ne andassimo a spasso nel cielo», fece notare Sem, stropicciandosi le dita «è il suo territorio».
«Giusto», commentò Nathan, sbuffando «allora che si fa?».
«La Casa di Ares non ha quella sua sottospecie di pullman mimetico, da qualche parte?», fece Elle, con fare ovvio.
William si batté una mano sulla fronte.
«Sono davvero un idiota!» esclamò, per poi voltarsi verso la figlia di Afrodite «sei un genio, Elle! Il pullman è nostro. Ci vediamo qui domani mattina all'alba».
«Allora è fatta?», chiese Rose, speranzosa «possiamo andare a dormire, adesso? Per favore?».
William alzò gli occhi al cielo.
«Vestitevi pesante», li congedò.


Angolo di Butterfly
Ciao a tutti, e grazie per essere arrivati fino a qui u.u
Volevo solo dirvi che, dal prossimo capitolo, non inserirò i punti di vista dei vari personaggi, ma sarà qualcosa di più "continuo". Un po' perché ci metto troppo a scrivere i capitoli, e un po' perche alla fine sono davvero troppo lunghi per un qualsiasi essere umano. Okay che avete più di una settimana di tempo per leggere ogni capitolo prima del successivo aggiornamento, ma penso che sia un po' stancante (?).
Volevo dirvi anche che stavo pensando di dividere la storia in due parti. Alla fine della prima, chi volesse continuare a partecipare, me lo dovrà far sapere e nuovi partecipanti potranno iscriversi. Ma di questo ne riparleremo ^^
P.S: perdonatemi la lunghezza - giuro, è l'ultima volta che scrivo così tanto - e gli eventuali errori. Sono sicura che qualcuno sarà sfuggito ai miei occhi da Elfo cieco.


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


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Capitolo 3


A nessuno di loro erano mai piaciuti gli addii.
Chirone e qualcuno degli altri semidei, quella mattina, si erano affrettati a raggiungere i ragazzi al momento della partenza, per augurare loro buona fortuna e salutarli. O forse solo per curiosare un po', chissà. Tra di essi vi era persino Ferdinand, della Casa di Ares.
Rose, appena lo vide, avvertì l'impulso di rompergli il naso con un pugno. Si trattenne esclusivamente perché il ragazzo pareva star avendo una muta conversazione più con William che con lei; e non aveva la minima intenzione di interromperli. Farsi fulminare da una delle occhiatacce del biondo non era affatto divertente, così lei preferì tornare a rivolgere la sua attenzione al suo mentore.
Chirone si era presentato nella sua tenuta da centauro completa di zoccoli e pelliccia bianca, evitando di trascinarsi dietro la sua intralciante sedia a rotelle magica. Indossava una t-shirt colorata, sulla quale spiccava la scritta bianca e rosa “I LOVE MY LITTLE PONY”; e sorrideva lievemente. Non era un sorriso allegro, però. Era più simile a quello triste e melanconico che si rivolge ad un conoscente che ha appena perso una persona cara, un attimo prima di porle le proprie condoglianze.
Anche il loro precettore pensava che quella sarebbe stata l'ultima volta che li avrebbe visti vivi. Davvero fantastico.
Altair lo scrutò attentamente, sperando che al centauro non desse troppo fastidio essere osservato.
Era la prima volta che lo vedeva senza sedia a rotelle. Pensò che, se quello era il loro direttore, non c'era affatto da stupirsi che i semidei del Campo Mezzosangue fossero tutti un po'... sì, ecco, fuori di testa. Insomma... i My Little Pony? Sul serio?
«Bene, ragazzi», cominciò il centauro, intrecciando le dita all'altezza della vita «contiamo tutti su di voi. Se le vostre teorie sono esatte e riuscirete nell'impresa, forse non dovremo neanche combattere».
William sorrise brevemente a Chirone. Sembrava molto più rilassato del giorno precedente, come se dormire sopra ai suoi problemi l'avesse reso più sicuro. Oppure più stupido. Gli altri non avrebbero saputo dirlo con certezza, ma la seconda ipotesi pareva la più probabile. Non che ci tenessero a farglielo sapere, ovvio. Anche se era un po' più cortese dei suoi fratelli, era pur sempre un figlio di Ares armato fino alla punta dei capelli – forse persino un po' di più –, dopotutto.
«Faremo del nostro meglio, Chirone», disse il ragazzo «ma voi tenetevi comunque pronti».
Susan gli rifilò un'occhiata di traverso. Aveva avuto modo di conoscerlo piuttosto bene, da quando era arrivata al Campo Mezzosangue. Sapeva riconoscere le sue espressioni, e quella che aveva stampata sul viso in quel momento urlava “sto nascondendo qualcosa!”. E lei si sarebbe data da fare per scoprire che cosa. Più tardi, però, se fossero riusciti a rimanere da soli per un istante.
Chirone annuì, incrociando le braccia.
«Avete preso tutto?», domandò poi «ambrosia, nettare...?».
William si voltò verso i compagni per una conferma.
James annuì, indicando lo zaino dietro la sua schiena.
Non vi aveva messo dentro molte cose, in realtà, a parte il nettare ed un paio di maglie pulite. Non aveva molto da portarsi dietro, e per viaggiare era bene restare leggeri. Andava bene così. L'unica cosa che lo preoccupava erano i mostri e i semidei che li attendevano in cima alla montagna.
«Molto bene», commentò Chirone, osservandoli.
Sembrava titubante all'idea di lasciarli partire, e questo Skylar lo intuì senza alcuna difficoltà. Le persone, per i figli di Atena, erano semplici da leggere come libri di cui già conoscevano la trama. Skylar ebbe l'impulso di fare un passo avanti ed abbracciarlo, ma si trattenne. Non era certa che Chirone avrebbe gradito il gesto, e non era di certo il tipo di comportamento che suo padre si sarebbe aspettato da lei.
«A William ho già parlato, ma voglio che facciate tutti molta attenzione», riprese il centauro, serio «ci sono luoghi ed individui pericolosi, sulla strada che avete intenzione di percorrere».
Nathan inarcò un sopracciglio. Era abbastanza certo che Chirone avesse detto chiaramente che non avrebbero potuto incontrare alcun tipo di mostro durante il viaggio. Be', almeno fino alla loro destinazione, ovvio. A quanto pareva, erano tutti concentrati su quella montagna a fare chissà cosa.
Persino Elle, solitamente gelida e sprezzante come una regina di spine, parve confusa.
Aggrottò delicatamente la fronte e si portò le dita di una mano a sfiorare la sua guancia, mordendosi lievemente il labbro inferiore e soppesando il centauro con quei suoi inquietanti occhi di ghiaccio.
Il centauro si rivolse nuovamente a William.
«Li hai presi?», domandò, a voce più bassa, come se gli avesse appena domandato di un segreto. Peccato che fosse circondato da un branco di semidei curiosi e parecchio indispettiti dall'essere stati tagliati fuori dalla conversazione.
Jonathan cercò di incrociare lo sguardo del figlio di Ares, senza riuscirvi.
“Preso che cosa?”, si chiese il ragazzo, confuso. Da quando Chirone e William parlavano in codice? Forse gli sarebbe servito qualche tipo di cheat, un trucco, come quelli dei videogiochi, per decifrare quei due.
Il figlio di Ares annuì rapidamente, nascondendo le mani dietro la schiena.
Sem, dal canto suo, squadrò l'amico da capo a piedi, incuriosito ed un po' sospettoso. Cos'avevano da confabulare tanto, lui e Chirone? E perché non dicevano niente, a loro? Sem non ne aveva idea, ma l'argomento poteva rivelarsi piuttosto preoccupante. Soprattutto se, per pura disgrazia, di mezzo ci fossero state delle armi. E, con Will, le armi di mezzo c'erano sempre.
Chirone sospirò.
«Credo che faremmo meglio a non perdere altro tempo. Oggi è il quattordici di giugno, tra sette giorni esatti sarà il solstizio d'estate e, se avete ragione, avete tempo fino all'alba di quel giorno».
I ragazzi annuirono all'unisono, decisi a partire; ma non riuscirono comunque ad andarsene finché tutti i loro fratelli non li ebbero abbracciati – e minacciati di morte se non fossero tornati – un po'.


Nessuno tentò di minacciare Elle, né tanto meno di abbracciarla. E fortunatamente, altrimenti qualcuno si sarebbe ritrovato con un ago piantato in mezzo alla fronte. E no, non gli sarebbe piaciuto affatto.
La figlia di Afrodite si fece da parte, annoiata, scrutando i suoi cosiddetti “compagni” mentre si scambiavano sorrisini e promesse idiote.
Non le importava un fico secco di loro, e, in tutta onestà, non le importava nemmeno che l'universo intero stesse per essere distrutto da Caos. Forse, sarebbe stato addirittura meglio se tutto quello schifo umano fosse stato distrutto al più presto. A lei bastava semplicemente non dover rimanersene lì, “al sicuro”. Sul serio, poteva essere davvero snervante.
«Ah, il destino dei belli, eh?».
Elle non si voltò a vedere chi avesse parlato, non ne aveva bisogno. Sapeva già chi era: un idiota.
«Dubito che tu possa saperne qualcosa, Ayala, del “destino dei belli”», replicò lei, seccata dalla sua presenza «ora togliti dai piedi, stai invadendo il mio spazio personale».
Il ragazzo si poggiò con disinvoltura al pullman di Ares, parcheggiato di fianco a lei. Non sembrava affatto toccato dalle parole pungenti come spine della mezzosangue.
«Sono invidiosi e troppo stupidi», continuò Nathan, con fare filosofico, indicando i suoi futuri compagni di viaggio con un indice «nessuno ci vuole intorno».
Elle lo squadrò da capo a piedi, voltando ostentatamente il capo nella sua direzione.
«Già, chissà perché», disse.
La sua voce era intrisa di sarcasmo a livelli mostruosi, ma Nathan finse di non accorgersene.
«Proprio non lo so», disse.
Elle alzò gli occhi al cielo, infastidita.
In quello stesso istante, Susan Graymark li raggiunse, poggiandosi anche lei alla fiancata del pullman e salutandoli con un sottile “hey”.
Nathan notò che aveva una falce dalla lama di bronzo su una spalla. Sembrava un modernissimo tristo mietitore in versione femminile e senza veste nera.
Il figlio di Ebe inarcò un sopracciglio.
«Hey, tu non fai parte dei belli e dannati», osservò.
La ragazza inarcò un sopracciglio di rimando, a metà tra lo stupito, il divertito e l'offeso.
«Belli e dannati?», chiese «di che Ade stai parlando?».
Elle, di nuovo, alzò gli occhi al cielo: quell'impresa sarebbe stata una tortura, altro che il suo biglietto d'uscita dall'ordinaria routine.


William, nel frattempo, si era lanciato in una discussione all'apparenza molto personale con Ferdinand. I due figli di Ares si erano allontanati un po' dal gruppo, e parlottavano fitto fitto.
«...del Campo», stava dicendo William, con i capelli biondi arruffati sulla testa, come se non avesse avuto tempo di pettinarli.
Ferdinand, invece, scuoteva il capo come se non fosse d'accordo su qualcosa. Qualcosa di spaventoso, a giudicare dalla sua espressione.
Rose li scrutava attentamente con la coda dell'occhio, tentando di capire che cosa diamine si stessero dicendo. Insomma, se il tizio a capo dell'impresa a cui stava per partecipare era in combutta con un altro tizio per giocarle qualche brutto tiro, lei voleva saperlo.
«Che cosa stai guardando?», domandò Lynnette, una delle sue sorellastre, cercando di seguire la traiettoria del suo sguardo. Quando ci arrivò, il suo commento fu: «ah, quello».
«Non riesco a capire che cosa ci trovi Harper in quell'idiota», rispose Rose, smettendo finalmente di osservare i due. Lynnette le regalò un sorrisetto buffo.
«Forse, la stessa cosa che ci trovavi tu», disse «ti piaceva, no? Magari si sono scoperti improvvisamente gay e adesso hanno una tresca segreta di cui nessuno è a conoscenza e che non possono rivelare al mondo perché sarebbe una specie d'incesto».
«E magari il cielo è viola e fatto di porcospini», replicò Rose, scoccandole un'occhiata scettica e divertita. Lynnette rise, e Rose non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
«Comunque, non darti troppa pena per lui, Rose», continuò Lynnette, lanciando un'occhiatina breve a William e a Ferdinand. Quest'ultimo adesso sembrava molto serio e determinato, mentre l'altro sorrideva lievemente, come se avesse appena compiuto la sua buona azione giornaliera.
«No, certo che no», ribatté Rose, come se la cosa fosse stata ovvia.
«E fai attenzione», riprese Lynnette, abbassando il tono della voce «ho sognato papà, questa notte. Ha detto che dobbiamo tenere tutti la guardia alta, perché tra di noi ci sono delle spie. E se ha ragione, allora i traditori saranno già stati informati della vostra impresa».
Disse la parola “traditori” come se fosse stato qualcosa di estremamente repellente.
Rose avvertì un brivido sfiorarle la colonna vertebrale, come per una carezza di un dito gelido.
«Quindi, immagino che dovremmo scordarci l'idea del “niente mostri” in giro per New York», sospirò.
Lynnette si strinse nelle spalle, visibilmente preoccupata.
«Ho paura che i mostri peggiori abbiano il nostro sangue nelle vene, Rose», dichiarò. E Rose ebbe la terribile sensazione che l'amica avesse pienamente ragione.


Altair non sapeva bene che cosa fare, esattamente: lui non aveva proprio nessuno da salutare, lì al Campo Mezzosangue.
Così, se ne stava in silenzio ad osservare, le braccia incrociate al petto, rimuginando sul guaio in cui era andato a cacciarsi di sua spontanea volontà.
C'era una voce, nella sua testa, roca ed acuminata, che continuava a domandargli in tono petulante se non si fosse bevuto il cervello prima di parlare a William.
“Un'impresa con i greci, Altair, ma davvero?”, gli ripeté la voce, divertita ed un po' scettica “non lo sai che i greci portano solamente guai a quelli come noi?”.
“Taci”, le intimò Altair “i greci e i romani possono cooperare. L'hanno già fatto, in passato”.
La voce rise sguaiatamente, ed Altair tentò di scacciarla battendosi tre dita di una mano sopra la tempia, come se volesse spiaccicare un insetto posatosi lì per sbaglio.
Sem, poco lontano, lo guardava come se fosse impazzito improvvisamente e lui avesse assistito all'intera metamorfosi: da normale – per quanto potesse essere normale un semidio – a squilibrato.
«Hey, tutto okay?», gli domandò, perplesso.
Altair abbassò lo sguardo su di lui, inarcando un sopracciglio per la sorpresa.
Non si era ancora reso conto che un ragazzino come quello avrebbe preso parte all'impresa. Quanti anni poteva avere? Undici, dodici? Certamente, non più di tredici.
Però c'era qualcosa, Altair lo sentiva sottopelle, come un sottile pizzicore o una lieve scossa.
Quel ragazzino aveva una forza straordinaria, diversa da quella degli altri semidei, molto simile alla sua e a quella di Susan.
Forse, se n'era accorto anche William. Era per quello che l'aveva lasciato andare insieme a loro anche se era solo un bambino?
Inarcò anche l'altro sopracciglio, incuriosito. Doveva essere il figlio del dio del mare. Sapeva che ce n'era uno nuovo.
D'un tratto, notò che la voce non lo stava più infastidendo, e si riscosse.
«Sì, grazie», rispose, scompigliando i capelli del ragazzino con le dita «tutto alla grande, marmocchio».
Sem arricciò il naso.
Cominciava ad averne abbastanza dei ragazzi più grandi che lo chiamavano “marmocchio” o “pulce”. Prima o poi, si sarebbero ritrovati l'acqua, possibilmente inquinata o – meglio ancora – di fogna, persino nelle mutande.


«...e prometti di non morire, finire mutilata o schiacciarti qualche vertebra?».
Mallory, una delle figlie di Apollo, andava avanti così da più di cinque minuti, e Rosaline annuiva convinta ad ogni parola che snocciolava.
Dal canto suo, Maxwell, figlio di Apollo e grande amico di Skylar, sospirava ed alzava gli occhi al cielo come se volesse supplicare suo padre di trasformare Mallory in un alloro o qualcosa del genere, pur di farla star zitta.
«Prometto», rispose Skylar, in un sorriso «adesso posso andare?».
«Aspetta, aspetta, aspetta», la fermò Rosaline, puntandole l'indice contro il naso con fare accusatorio «prima devi dirmi se pensi che lui sia carino».
«Che cosa?», rispose Skylar, perplessa.
«Non “che cosa”, ma “chi”, semmai», corresse la figlia di Afrodite, con fare ovvio «quel tipo laggiù. È uno dei ragazzi che parte con te, no?».
«Perché, tu lo trovi carino?», ribatté Maxwell, scoccandole un'occhiata indagatrice.
Skylar soffocò un sorriso.
«Ma no, scemo», replicò Rosaline, mettendo su un sorrisetto buffo «per me, sei carino solo tu».
Mallory si batté una mano sulla fronte.
«Di Immortales, siete diabetici», borbottò la ragazza.
«Suvvia», ribatté Rosaline, in un sorriso, tornando a rivolgersi a Skylar «tu resta molto concentrata sulla tua situazione sentimentale, okay?».
Skylar alzò gli occhi al cielo, e Mallory con lei.
«Dai, Lady Sky, girati e dimmi se ti piace», insistette Rosaline. Skylar scosse la testa all'udire quel nomignolo, ma si voltò comunque. Rosaline non le avrebbe permesso di andarsene, se non l'avesse fatto.
Il ragazzo che Rosaline indicava aveva i capelli talmente neri da sembrare quasi blu notte, e gli occhi scuri, come zaffiri immersi nel catrame. Era James, il figlio di Nyx. Skylar aveva già parlato con lui, anche se era stata una conversazione molto breve ed incentrata sull'idea che i loro compagni sarebbero stati trucidati da un figlio di Ares esasperato.
Lo stesso figlio di Ares che, in quel momento, aveva passato un braccio intorno alle spalle del ragazzo e una intorno a quelle di Jonathan, il figlio di Ecate, e li strizzava come se fossero stati due adorabili pupazzetti a cui si era particolarmente affezionato.


«Hey», disse William, in tono allegro «non siate timidi, salutate».
Così dicendo, fece un rapido cenno a qualcuno, probabilmente una figlia di Demetra, che rispose con un sonoro: «quando torni, ti preparo i biscotti!».
Jonathan non volle immaginare che cosa sarebbe successo se Susan l'avesse sentita. Quando Elle aveva fatto gli occhi dolci al ragazzo – anche se erano palesemente un metodo per convincerlo a lasciarla partecipare all'impresa – la figlia di Ade gli era sembrata sul punto di colpirla sul naso con un pugno.
Lui e James si scambiarono un'occhiata. Non era facile avere a che fare con un figlio di Ares fuori di testa, iperattivo e che assumeva troppa caffeina.
Chirone rise; un suono basso e roco, che fece sorridere anche gli altri due.
«Avanti, William, non tormentarli», lo ammonì, ma sembrava più divertito che arrabbiato.
Lui non li mollò, ma smise di tentare di convincerli a “fare un salutino, uno solo, piccolo piccolo”.
James si appuntò mentalmente di non lasciarsi più acciuffare da lui. Mai. Anche se non gli dava davvero fastidio averlo intorno. In fondo, era una delle poche persone del campo che non lo avesse mai trattato come se fosse malato di peste o chissà di quale altra malattia contagiosa. Stava provando ad essergli amico, e questo lo apprezzava.
«Non si preoccupi, Chirone», replicò William, strizzandoli ancora un po' «sono in buone mani».
Ripensandoci, si disse James, apprezzava di più la possibilità di respirare.
«Sì, sì» rispose Chirone, guardando ora James e ora Jonathan «lo vedo».
William sembrava soddisfatto, così Jonathan decise di non dirgli che, probabilmente, quello di Chirone era puro sarcasmo. Non molto rassicurante, in effetti.
Il centauro si guardò intorno, poi posò di nuovo l'attenzione sui tre.
«Penso che ora dobbiate andare davvero», disse «non potete perdere una giornata intera qui, no?».
«No, certo che no», risposero tutti e tre, in un inquietante unisono che probabilmente non si sarebbe mai ripetuto.
Così, William si trascinò dietro gli altri due fino al pullman, quasi come se avesse paura che sarebbero scappati, e costrinse tutti quanti a raggiungerlo.


Più che ad un pullman, quello di Ares somigliava ad una grossa Jeep, di quelle che vengono utilizzate per le gite escursionistiche.
La carrozzeria, palesemente bianca in origine, doveva essere stata riverniciata in seguito dai ragazzi, perché la vernice mimetica era stata stesa in maniera troppo scomposta. Aveva anche svariati graffi sulla fiancata, come se qualcuno si fosse divertito a strusciarla più volte contro un muro, ma per il resto sembrava a posto.
William s'infilò immediatamente al posto di guida, e nessuno ribatté. Ma questo probabilmente perché lo specchietto retrovisore era ornato da un nido di filo spinato, da cui si calava, appesa ad una sottile catenella, quella che somigliava pericolosamente ad una piccola bomba a mano.
I ragazzi sperarono che si trattasse semplicemente di una decorazione, ma se ne tennero comunque ben a distanza.
Susan andò a sedersi di fianco a William, al posto del copilota, e cominciò a giocherellare con l'orribile statuetta di un cinghiale dalla testa ciondolante poggiata sul cruscotto.
William la guardò per un istante, poi si voltò verso gli altri, seduti nei sedili posteriori.
Avrebbero dovuto rivedere il loro concetto di “vestirsi pesante”, tutti quanti. Poco ma sicuro.
La maglia a maniche corte del campo ed i jeans non erano esattamente ciò che aveva in mente lui, quando li aveva salutati la sera prima.
«Spero che vi siate portati almeno una giacca», disse, scrutandoli attentamente prima di mettere in moto la jeep.
«Tranquilla, mamma», rispose Rose, alzando gli occhi al cielo.
I ragazzi ridacchiarono sotto i baffi.
«Abbiamo tutto negli zaini», disse Sem, ed indicò la pila ordinata di zainetti disposti sul retro della jeep.
«Non moriremo di freddo», aggiunse Nathan, agitando una mano in aria come a voler scacciare un moscerino fastidioso «abbiamo la pelle dura».
«Tu hai anche la testa, dura», commentò Elle, lasciandosi cadere elegantemente su uno dei sedili dell'ultima fila.
Altair, Rose e Sem, seduti vicini, risero, ma la piantarono appena Nathan rivolse loro una delle sue occhiatacce.
William abbozzò un sorrisetto ed accese il motore, che ruggì sotto i loro piedi con un rombo agghiacciante. Qualcosa scricchiolò.
«Mmh... ma è sicuro, questo coso?», domandò Jonathan, allarmato, sporgendosi per guardare fuori dal finestrino. A quanto pareva, erano partiti.
«Reggerà», rispose William, ed un sorriso pericoloso gli arricciò le labbra «credo».
James, che fino a quel momento si era semplicemente guardato intorno, sgranò gli occhi ed alzò il capo di scatto. Incrociò lo sguardo di Skylar, altrettanto preoccupata, che aveva già cominciato a tenersi aggrappata allo sportello.
«Tu credi?!», replicò Altair, dando voce ai pensieri di tutti i semidei presenti.
«Be', è sempre meglio di un “no” secco, giusto?», ribatté l'altro, sin troppo di buon umore.
«Moriremo tutti», decretò Nathan, accostando il capo contro il poggiatesta del suo sedile «meraviglioso».




Angolo di Butterflies
Hey, belli! (?)
Lo so, lo so: c'est l'horreur. Ma siccome vi lamentate che i capitoli sono troppo lunghi e non riuscite ad arrivare in fondo (xD), ho cercato un modo per abbreviare i capitoli e... beh, questo è il terribile risultato u.u anche perché mettere tutti i punti di vista adesso si fa un po' più complicato, visto che devono starsene tutti e dieci stipati in una jeep e non possono farsi ognuno gli affaracci propri u.u
Cooomunque, questo capitolo è solo un esperimento probabilmente fallito, e non c'è da preoccuparsi se fa così schifo, tanto non è successo quasi niente d'importante u.u 
Arg, lo ammetto, mi fa proprio schifoooo

P.S: Volevo dirvi che io e una ragazza del fandom abbiamo scelto i prestavolto per chi non me l'ha inviato per il banner. Spero vi vada bene^^" 
P.P.S. un po' cattivo ed egocentrico: calcolatemi, oh voi (??) che avete creato gli OC che si muovono in questa storia, non mi piace faticare una settimana intera per poi non essere cacata di striscio ♥ 
P.P.P.S. che non c'entra un accidente con tutto questo: c'è qualcuno che shippa Malec, qui in giro? Ditemi di sì e che non sono l'unica *^*

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***



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Capitolo 4

 

Il viaggio andò storto sin dal principio.
Fuori dalle barriere magiche del Campo Mezzosangue, il tempo faceva le bizze. Il sole non si vedeva neanche per errore, e pioveva a dirotto, con gocce grandi quanto l'unghia del pollice di Sem. L'acqua appannava il vetro anteriore della jeep come se sopra vi fosse stato calato un lembo di stoffa bianca. Lampi improvvisi abbagliavano i semidei nella jeep, ed i tuoni scuotevano i loro cuori come tamburi.
Anche per la vista acuta di William, dopo poche ore, guidare stava diventando un problema.
«Erre es korakas...», imprecò il semidio, lanciando un'occhiataccia alle nubi cupe che li sormontavano.
Un boato più forte degli altri rimbombò nell'aria. C'era odore di ozono e zolfo.
«Non credo che sia una buona idea, Harper, mandare ai corvi il dio più potente dell'Olimpo», osservò Susan.
La semidea scrutava fuori dal finestrino come se si aspettasse che un fulmine colpisse improvvisamente la jeep e li facesse saltare in aria. La cosa non avrebbe stupito nessuno, con lei e Sem a bordo: Zeus doveva davvero odiarli già parecchio per conto suo, non era affatto necessario il contributo di William.
«Scusa, Graymark», brontolò il ragazzo «è solo che non si vede un accidente. Non voglio andare a sbattere da qualche parte o finire fuori strada. E lui di certo non sta aiutando, con questa tempesta».
Susan lanciò un'occhiata verso il retro della jeep, dove i loro compagni parlottavano nervosamente tra di loro.
Elle si era spiattellata contro lo sportello destro dell'ultima fila di sedili e scrutava le nubi in maniera inquietante, come se stesse pensando che le sarebbe piaciuto davvero molto squartare chi le aveva create. Un pensiero che, con tutta probabilità, le stava davvero attraversando la mente.
Al totale opposto della figlia di Afrodite, nei sedili appena dietro a quello del guidatore, James, Jonathan e Skylar stavano chiacchierando sottovoce.
Skylar sembrava un po' rigida. Era seduta vicino alla portiera, con Jonathan di fianco, mentre James si era accomodato su un sedile singolo.
All'inizio non si era rivolti la parola: tutti e tre erano troppo timidi per cominciare una conversazione. Poi, tra una curva presa sin troppo male e un fulmine caduto decisamente troppo vicino, alla fine avevano iniziato a parlare.
Sembravano anche andare piuttosto d'accordo, in fin dei conti. Jonathan aveva persino fatto qualche battutina divertente, e gli altri due avevano riso.
La situazione era un po' più critica nei posti centrali, dove Nathan stava infastidendo Rose.
La mano della ragazza continuava a scattare sin troppo spesso verso l'impugnatura della sua spada.
Il figlio di Ebe si trovava nel sedile anteriore a quello della ragazza, ma si era voltato indietro e parlava a raffica, come se avesse intenzione di spulciare ogni più remoto segreto di lei.
Come riuscisse a non farsi venire il mal d'auto, era un mistero per tutti.
«Quindi, tu sei figlia del dio dei ladri», stava dicendo il ragazzo «saresti capace di rubare un'automobile da un parcheggio, in pieno giorno?».
Rose alzò gli occhi al tettuccio della jeep. Pareva sull'orlo di un esaurimento nervoso.
«Ma per chi mi hai presa?», domandò «certo che ne sarei capace. L'ho fatto, in realtà. Due volte».
Altair, accomodato di fianco alla ragazza, mollò un buffetto leggero – ma non troppo affettuoso – contro la fronte di Nathan.
«Hey!», ribatté quello, offeso.
«Lasciala in pace, dai», sbuffò l'altro, incrociando le braccia «è dall'inizio del viaggio che la tormenti».
Probabilmente, Nathan gli avrebbe volentieri mollato un pugno in mezzo agli occhi, ma Sem s'intromise, sbucando tra i sedili di Rose ed Altair come un piccolo fantasma.
Era il più piccolo del gruppo, ma probabilmente era anche il più giudizioso.
«Credete che ci sia un bagno, qui in giro?», domandò, imbarazzato.
Altair rise ed indicò qualcosa fuori dal finestrino, probabilmente alberi.
«Bagno, bagno e bagno! Il mondo è pieno di bagni», concluse, strizzando un occhio al figlio di Poseidone. Sem avrebbe riso, se solo non avesse pensato che, se lo avesse sentito, qualche ninfa l'avrebbe accoltellato sul posto per aver dato del “bagno” ad un ginepro.
«Romani», replicò Nathan, alzando gli occhi al cielo «di sicuro, ci sarà qualche bar a cui chiederlo».
«Ehm... Harper, ci possiamo fermare due minuti?», chiese Rose, a voce più alta «emergenza vescica».


Alla fine, William accostò ad un fast food.
«Non mi piace, qui», borbottò Altair, storcendo il caso come per un cattivo odore.
«Già, gli alberi erano molto meglio per un sano svuotamento di vescica, vero?», rincarò Nathan, in un sorrisetto beffardo.
Altair alzò gli occhi al cielo, nel quale, in risposta, un fulmine lampeggiò, regalando un'aria sinistra alla costruzione che i ragazzi avevano di fronte.
Il fast food non era un grande spettacolo.
Si trattava di un edificio di un unico piano, perfettamente rettangolare, con le porte a vetro e le rare, piccole finestre color sangue. Aveva il tetto pianeggiante, sul quale si ergeva la mascotte di un cavallo in versione chibi che addentava un gigantesco sandwich ripieno.
C'era anche una scritta, ma, con la dislessia che si ritrovavano, i ragazzi riuscivano a leggere solamente qualcosa come “IAP INNI IDE DDOEMIE”.
«Sbrighiamoci», intimò William, con fare nervoso «siamo dieci semidei, siamo facili da individuare come una casa in mezzo a un prato».
Skylar era d'accordo con lui. Se i mostri avessero voluto trovarli, per loro sarebbe stato uno scherzo. Aveva l'impressione che sarebbero dovuti tornare immediatamente tutti alla jeep e filare via da lì il prima possibile. Sfiorò la sua collana con la punta delle dita, ansiosa.
William scoccò un'occhiata all'interno del fast food.
Nonostante i presentimenti non troppo buoni, sembrava tutto tranquillo. C'erano quattro cameriere annoiate ed un po' infastidite che servivano schifezze ai loro pochi clienti ed un uomo alla cassa che si apprestava a restituire il resto ad un cliente dall'aria distratta.
«Okay», disse il figlio di Ares «entriamo, facciamo quello che dobbiamo fare, e poi usciamo subito».
«D'accordo, faremo in fretta», replicò Susan, aprendo la porta con un rapido gesto.
Appena la maniglia si abbassò, le quattro cameriere e l'uomo alla cassa schizzarono sull'attenti, come se avessero appena scovato un serpente a sonagli tra le patatine fritte.
Gli occhi del gufo della collana di Skylar cominciarono a lampeggiare freneticamente, come facevano sempre quando qualcosa non andava.
Pericolo”, pensò la ragazza, bloccandosi immediatamente sulla soglia della porta.
«Ragazzi...», cominciò lei.
«Oh, buongiorno, ragazzi» la interruppe il cassiere, in un gran sorriso «cosa volete ordinare?».
Rose aggrottò la fronte, tentando di capire se ci fosse qualcosa di sospetto il lui.
Era un tizio sulla cinquantina, con i capelli corti e brizzolati e i lucidi occhietti neri. Indossava una camicia azzurra ed un paio di jeans, sui quali portava un grembiule rosso.
«Ehm... ce le avete le enchiladas?», domandò Jonathan, avvicinandosi al bancone.
Il cassiere aveva un cartellino appeso al grembiule, e il ragazzo intuì che vi dovesse essere scritto qualcosa come “Ciao! Mi chiamo...”, ma le lettere presero ad andarsene a spasso per il foglietto ben prima che lui potesse decifrare il nome.
«Ma certo! Ci vuoi qualche condimento speciale?», rispose quello, sfregandosi le mani «ah! Abbiamo quelle al formaggio, alla salsiccia, al...».
«Al formaggio va bene», rispose Jonathan.
«Due al formaggio, allora», intervenne James, poi guardò Skylar, ancora sulla soglia della porta ed aggiunse «facciamo tre».
Il commesso annotò il tutto su un blocchetto da disegno.
«Altro?», domandò poi, senza smettere di sorridere.
Era un po' inquietante. Elle lo scrutò da lontano, poggiata contro ad una delle pareti dipinte di bianco. Le ricordava un po' un vecchio clown in pensione.
«Io vorrei un burritos», disse.
«Arriva al volo, signorina», rispose lui, rivolgendosi poi a Rose «e tu, tesoro, vuoi qualcosa?».
«No, grazie», rispose lei, accomodandosi ad uno dei tavoli disposti nel locale «io sono a posto».
«Possiamo usare il bagno?» intervenne Altair, indicando Sem con il pollice della mano destra.
Gli occhi dell'uomo parvero accendersi come la miccia di una bomba. Cosa non molto rassicurante.
Tutti i ragazzi mossero simultaneamente un rapido passo all'indietro. Rose saltò in piedi, rovesciando quasi il tavolo.
Elle sfiorò i suoi aghi con la punta delle dita, pronta a sfilarseli dai capelli e ad attaccare.
Anche gli altri clienti cominciarono ad agitarsi, ed i ragazzi si chiesero che cosa la Foschia stesse mostrando loro.
«Tu!», ringhiò il commesso, puntando l'indice contro Altair «maledetto tu e la tua stirpe, figlio di Giove!».
Sem schizzò via da lì alla velocità della luce, correndo a fiancheggiare William.
«E tu come fai a sapere che io...», cominciò Altair, ma s'interruppe subito. Il commesso stava cominciando a crescere. Letteralmente. Stava diventando più grande.
Adesso, sfiorava il tetto del fast food con il capo.
Somigliava ad un vecchio clown in pensione gigantesco e molto arrabbiato.
Anche la penna con cui aveva scritto le ordinazioni si era trasformata in una grossa lancia acuminata. La scagliò subito in direzione di Altair, che però la evitò buttandosi di lato.
L'arma atterrò ai piedi di Jonathan, che la raccolse anche se non aveva idea di come si utilizzasse un'arma del genere. L'importante, era toglierla dalle mani del gigante, no?
«È stato uno come te!», esclamò il gigante, fissando il figlio di Giove con sguardo di fuoco «è stato uno come te, a mandarmi per la prima volta!».
«E ti ci manderà di nuovo, bestia, chiunque tu sia!», sbottò William, avanzando di un rapido passo. Teneva qualcosa di piccolo e sottile tra le dita.
«Ah! Un figlio di Ares!», esclamò il gigante, con un nuovo bagliore negli occhi ed un perfido ghigno «tu, tu più di tutti dovresti sapere chi sono io».
Il semidio aggrottò le sopracciglia, confuso.
«Ragazzi, è Diomede!», esclamò Skylar, dalla porta «il tipo delle giumente carnivore!».
L'avevano studiato tutti, sia al Campo Mezzosangue che al Campo Giove.
C'era questo grande – in ogni senso – re della Tracia, figlio di Ares e di Cirene, una donna incredibilmente coraggiosa. Possedeva quattro giumente bellissime, ma estremamente pericolose, poiché si nutrivano esclusivamente di carne umana.
Il re si chiamava Diomede, e dava da mangiare ai suoi animali i corpi dei guerrieri che cadevano in battaglia. In tempo di pace, però, non aveva niente da dare loro in pasto. Così, per evitare si mangiassero lui, ogni giorno organizzava una bella festa a casa sua e regalava i suoi ospiti alle "cure" delle giumente.
Poi, un giorno...
«È stato Ercole! Ti ha fatto sbranare dalle tue stesse cavalle!», esclamò Altair, facendo scivolare la mano verso la sua spada «e lui era figlio di Giove... ecco perché ce l'hai con me!».
Sem storse il naso. “Ercole”, “Eracle”... quel cambio di nomi dal greco al romano lo confondeva sempre.
«Oh, dei», commentò invece William, fissando Diomede in volto con sospetto e ribrezzo insieme «vuol dire che tu sei una specie di... mio fratello?».
«Noto una certa somiglianza, in effetti», fece Susan in tono scherzoso, ma sembrava parecchio concentrata su Diomede, quasi volesse staccargli la testa in quel preciso istante.
«Hey! Non sono così brutto!» replicò l'altro, offeso.
Elle scoccò un'occhiataccia ad entrambi.
«Vi sembra il momento?» domandò Rose, con la spada nera puntata contro il gigante «qui c'è qualcuno che vuole farci a pezzettini».
Il volto di Diomede parve illuminarsi.
«Ah! Alle mie bambine piacerete un sacco, a pezzettini!», disse, facendosi comparire tra le mani una mannaia dall'aria sin troppo affilata.
James fu il primo a notare le cameriere che avanzavano verso di loro.
Solo che non erano più cameriere: erano cavalli. Inquietanti giumente color carbone, che probabilmente non vedevano l'ora di assaggiarli.
Nessuno dei semidei ne era altrettanto entusiasta.
«Ehm... ragazzi...», mormorò James, indicando i cavalli «credo che...».
«Oh, Di Immortales!», si lamentò Jonathan, quando il fiato caldo di una delle giumente gli sfiorò il collo. Puzzava di sangue e fango.
Diomede rise.
«È così tanto tempo che non assaggiano un semidio», disse, facendo roteare la mannaia «sono sempre stati il loro pasto preferito. E voi sembrate parecchio appetitosi».
Le giumente, per tutta risposta, si leccarono le labbra.
«Credi davvero che ci lasceremo uccidere così?», ribatté Nathan.
«Ma certo!», replicò quello, sorridendo «adesso basta perdere tempo, non credete? Le mie bambine hanno fame».
Bastò un'occhiata tra di loro, e tutti seppero esattamente che cosa fare, come se combattessero insieme da anni e non se ne fossero mai resi conto.


Altair e William schizzarono in avanti.
Il figlio di Giove infilzò il piede di Diomede con la sua spada, che strillò di dolore.
William lanciò ciò che aveva in mano: un piccolo disco nero che andò a conficcarsi nel braccio del gigante e vi affondò, emettendo un inquietante fumo nero.
«Argh!», ruggì il gigante, scuotendosi la spada dal piede «vi ammazzo!».
Fece per colpirli con un pugno, ma i ragazzi erano più piccoli e veloci, così Diomede ottenne il solo effetto di aprire una brutta crepa nel pavimento.
«Hey, brutto muso!», lo chiamò Altair «hai fatto liscio!».
E, così dicendo, lo folgorò con un lampo.
Diomede rimase intontito per un istante, poi s'infuriò ancora di più.
Si mosse in avanti, agitando il suo coltellaccio come un pazzo omicida. Probabilmente li avrebbe persino colpiti, se solo la mannaia non gli fosse sfuggita di mano.
Diomede gridò e, per un istante, Altair non comprese che cosa gli fosse accaduto. Poi il fumo catturò la sua attenzione, e si voltò a guardare William.
In quel momento, somigliava davvero parecchio ad un figlio di un antico dio della guerra.
Altair si appuntò mentalmente di non farlo mai arrabbiare: la carne dell'arto di Diomede stava letteralmente friggendo.


Nel frattempo, Susan ed Elle cercavano di colpire la cameriera più vicina a loro, Elle con i suoi aghi e Susan con la sua falce.
Erano una coppia bizzarra, quelle due. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che, un giorno, avrebbero fatto qualcosa insieme senza tentare di ammazzarsi a vicenda.
«Attenta!», esclamò Susan, quando la cavalla cominciò a caricare, in perfetto stile “toro alla corrida”.
«Sono sempre attenta, Graymark!», replicò l'altra, preparandosi ad accogliere la giumenta con il suo ago paralizzante.
La cavalla dalla pelliccia color petrolio si lanciò nella loro direzione, furiosa e pronta a tutto pur di ottenere la sua colazione.
Elle lanciò il suo ago, che volò verso la giumenta.
La colpì al centro perfetto della fronte, e l'animale s'immobilizzò di colpo. La sua testa venne contemporaneamente tagliata di netto dalla lama della falce di Susan, e rotolò a terra, vicino ai piedi delle due ragazze.
Era una delle cose più disgustose che entrambe avessero mai visto. Fortunatamente, un istante dopo, il corpo dell'animale si sbriciolò in una nube di polvere dorata che rotolò via, come spazzata da un vento invisibile.
Susan starnutì, ed Elle le regalò un'alzata di sopracciglio.
«Che c'è? Sono allergica a questa roba», commentò l'altra, arricciando il naso.


Non lontani, Nathan e Jonathan erano impegnati a combattere contro una seconda cavalla carnivora.
Non che stessero esattamente “collaborando”.
Nathan sembrava voler fare tutto da solo, e Jonathan sbuffava di continuo.
«Che stai facendo, Leyachet?!», brontolò Nathan, spingendo di lato il figlio di Ecate «togliti dai piedi e lasciami combattere!».
«Ma piantala!», replicò Jonathan, schivando un morso del cavallo per un soffio ed incoccando una freccia nel suo arco «invece di litigare, pensa a colpire questo coso».
Nathan ringhiò forte almeno quanto Diomede.
«Ti ho detto che voglio ucciderla io», ribatté «non ci riesco, se ci sei tu in mezzo».
«Che cosa? In mezzo? Ma se sono...», Jonathan scoccò la freccia, lasciando cadere il discorso.
Il dardo fischiò nell'aria come una locomotiva impazzita, poi andò a ficcarsi nella spalla della giumenta, che nitrì infastidita, li fissò con occhi di fuoco, e poi tornò alla carica.
Jonathan incoccò un'altra freccia, ma Nathan gli si posizionò di fronte a spada tratta.
Fu fortunato che il figlio di Ecate non lo colpì in pieni polmoni.
La spada a due mani di Nathan, Komma, affondò nel petto del cavallo con la stessa facilità di un coltello nel burro.
La giumenta esplose nella solita sabbia dorata, che si disperse immediatamente.
Jonathan, per un istante, fu seriamente tentando di infilzare il figlio di Ebe con una delle sue frecce, ma poi si disse che William, probabilmente, non avrebbe gradito lo spargimento di sangue di un suo compagno.


Skylar e Sem, invece, stavano avendo qualche piccolo problema con la giumenta che avevano preso di mira, che non sembrava affatto intenzionata a lasciarsi spappolare il fegato da nessuno dei due.
Continuava a correre verso di loro a denti scoperti, mordere le loro scarpe e trotterellare indietro, come per prenderli in giro.
«Non sei affatto divertente», replicò Sem.
Il ragazzino stava davvero cominciando a perdere la pazienza. Se fosse stato per lui, avrebbe fatto esplodere qualche tubatura del condotto idraulico e avrebbe affogato tutti i mostri. Per lui non sarebbe stato di certo un problema, ma dubitava che gli altri ragazzi fossero in grado di respirare sott'acqua.
«E pensare che a me, di solito, i cavalli piacciono», mormorò Skylar, lo sguardo puntato in quello della giumenta «al mio tre, affonda con la spada. Okay?».
Sem annuì.
Skylar aveva calcolato tutto ciò che era possibile calcolare: la velocità del cavallo, la distanza tra loro e la bestia, la lunghezza della spada e persino il tempo di reazione di Sem.
Quando la bestia fu nel punto prestabilito, disse: «adesso!».
Sem si portò in avanti e la spada colpì la cavalla dritta al collo, all'arteria principale. Un viscoso liquido dorato, l'icore degli immortali, scivolò rapidamente fuori dalla ferita e, un istante dopo, al posto dell'animale vi era la cara, vecchia e molto più apprezzabile polvere dorata.
Skylar e Sem si batterono il cinque.


«Ci deve essere un punto, qualcosa...», stava intanto dicendo Rose, mentre la sua cavalla si lamentava per la fame «credi che questi cosi ce li abbiano, quei nervi che quando vi fai pressione...».
James la guardò, perplesso, la spada stretta tra le dita come se fosse la cosa più preziosa che possedeva.
Diomede, in sottofondo, gridava di dolore.
«Non ne ho idea», rispose, per poi tornare a fissare la giumenta inferocita «...sta arrivando».
«Oh, pazienza», replicò Rose, sollevando anche lei la spada «vorrà dire che userò questa».
Rose preferiva di gran lunga stordire i suoi avversari prima di farli a fettine, ma se proprio non aveva altra scelta, poteva sempre liberarsi di loro in maniere più... cruente, ecco.
Lei e James colpirono l'animale in perfetta sincronia con le loro spade, uno a sinistra e l'altra a destra del collo, e la bestia si ridusse letteralmente in polvere.
«Che schifo», commentò Rose, scuotendosi le scarpe da ginnastica ed i jeans dalla sabbia dorata «ma perché non incontriamo mai un mazzolino di adorabili fiorellini felici?».
James abbozzò un sorrisetto.
«La cosa più simile ad un mazzolino di fiorellini che ho incontrato, sono stati i Karpoi», disse «ma non sembravano molto felici».
Rose annuì.
«Noi semidei siamo sempre tanto fortunati», replicò, sarcastica.


Diomede, nel frattempo, stava ancora strillando ed imprecando come un ossesso.
Il braccio gli fumava e friggeva, e doveva essere parecchio doloso. Aveva i capelli dritti in testa, come se un fulmine l'avesse appena colpito, ed anche i suoi abiti erano tutti bruciacchiati.
Aveva perso la presa su tutte le sue armi, e adesso tentava di calpestare William ed Altair come se fossero cicche di sigarette che andavano assolutamente spente.
«Che cosa hai fatto, William Jay Harper?!», ruggiva intanto «tu dovresti essere dalla mia parte! Gli dei non ti daranno mai i piaceri che potrebbe darti il mio Signore. Hai passato la vita a combattere per loro, e l'unico risultato che otterrai sarà quello di morire lentamente ed in maniera orribile! Che cosa mi hai fatto?!».
William rabbrividì. Come conosceva il suo nome completo, quel mostro? Che ne sapeva, della sua vita?
«È fuoco greco, idiota», replicò pacatamente Susan, raggiungendoli di corsa «ti consumerà dall'interno finché non t'incenerirai».
Altair si accigliò almeno quanto il gigante.
«Io non avevo mai visto fare questo genere di cose al fuoco greco», disse, evitando di farsi spiaccicare dall'enorme pollice puzzolente di Diomede.
«È tecnologia greca di ultimissima generazione, mio carissimo romano», spiegò Rose, aggregandosi alla lotta contro il gigante «raffinato e letale, modificato e perfezionato dai nostri più bravi ingegneri della Casa nove!».
«Ah», fu il commento perplesso di Altair «siete tutti così... strani».
«Io lo dico da anni, amico!», replicò Nathan, indietreggiando per non farsi colpire.
Elle e Skylar si avvicinarono cautamente, ben attente a non lasciarsi ferire da Diomede.
«Uccidetelo, no?!», sbuffò Elle «che state aspettando? La fata turchina?».
«Parli come se fosse semplice! Perché non lo immobilizzi come hai fatto con...», replicò William, poi gridò «Sem! Sem stai attento!».
«Non posso, è troppo grosso!», ribatté Elle, stizzita.
Sem evitò di essere calpestato per un soffio, ed il figlio di Ares tirò un sospiro di sollievo.
James e Jonathan si scambiarono un'occhiata preoccupata. Erano partiti da sole poche ore e già rischiavano di farsi trucidare da un gigante che avrebbe dovuto essere bello e che morto sin dai tempi di Eracle.
Rose si domandò dove avesse guardato, suo padre, prima di riferire a Chirone di non aver avvistato mostri in giro per il mondo. Poi, un pensiero più inquietante si fece largo nella sua mente.
«Chi è il tuo Signore, Diomede?!», gridò «ti ha mandato lui?».
Diomede focalizzò la sua attenzione su di lei. Grugnì e le mostrò una sfilza di denti ingialliti e cariati.
«Il mio Signore dice che dovete essere fermati», ruggì «non vi lascerà arrivare vivi alle Montagne Rocciose».
Skylar e Susan si scambiarono una rapida occhiata d'intesa: ci avevano visto giusto, sul luogo delle montagne.
Diomede sembrò rendersi conto di essersi lasciato sfuggire qualcosa di troppo, perché imprecò e cercò di colpire la figlia di Ermes, che però utilizzò la spada per piantargliela nel piede.
Diomede ululò di dolore.
Rose imprecò, fissando la sua spada ancora infilzata nel piede di Diomede.
Fu allora che i semidei scattarono all'attacco in contemporanea, tutti con il solo scopo di togliersi dalle scatole quel mostro enorme e puzzolente.
«Non vale!», si lamentò il Diomede, in tono talmente affranto che Skylar fu tentata di lasciarlo in pace «siete dieci contro uno!».
Diomede cercò di levarseli di dosso, ma i ragazzi erano veloci, intelligenti, e decisamente stufi della situazione.
Altair evocò un altro fulmine, che sferzò l'aria e colpì il gigante in pieno petto, facendogli perdere l'equilibrio.
Non toccò neanche il pavimento del fast food, perché prima divenne polvere come le sue cavalle.
I mortali nella stanza gridarono di terrore, tutti stretti in un angolo del locale sin da quando il combattimento era iniziato.
«Via!», gridò loro James «andate via!».
Quelli non se lo fecero ripetere due volte: sparirono alla velocità della luce.
«Siamo vivi», commentò Rose, stupita.
Elle si poggiò di nuovo al muro e sospirò, come se si stesse annoiando a morte.
«State tutti bene?», domandò Skylar, preoccupata «c'è qualcuno di ferito?».
«Solo qualche graffio», rispose Susan, in un sorrisetto agitato.
Jonathan borbottò qualcosa, poi si diresse dietro il bancone e vi sparì.
«Che sta facendo?», chiese Altair, inarcando un sopracciglio.
«Colazione, direi», rispose Sem, poi sembrò ricordarsi di qualcosa e scappò verso i bagni.
Nathan si scosse i pantaloni dalla polvere di mostro e fulminò William con lo sguardo.
«Bella scelta per una pausa, Harper», disse.





Angolo di Butterflies:
Ma ciao, carini (?) ♥
Non sono brava a descrivere le scene di combattimento, come avrete notato xD
Cooomunque, questa volta non ho molto da dire, in effetti, a parte... vi piace il Banner? L'ha fatto Lucrezia_2, e per questo la ringrazio u.u
Volevo ringraziare anche chi mi ha lasciato una recensione ai capitoli precedenti – grazie :'3 -, visto che è merito – o colpa? - loro se questa storia va avanti.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se non è un granché.
A presto,
Butterflies

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***



Image and video hosting by TinyPic Capitolo 5


I ragazzi si sedettero intorno ad uno dei tavoli del fast food con una mappa dell'America settentrionale di fronte e diversi bicchieri di coca-cola poggiati vicini.
Susan era l'unica ancora in piedi, e si aggirava per il luogo come una tigre in una gabbia troppo stretta.
Avevano deciso di fermarsi per qualche istante in più del previsto, giusto il tempo che la tempesta diminuisse d'intensità. Non avrebbero dovuto esserci troppi problemi se fossero rimasti ancora un po': Diomede e le sue bestie erano stati disintegrati, e loro avevano un gran bisogno di rilassare i muscoli e, soprattutto, di dare un senso a ciò che stavano facendo.
E poi, anche il gufo di Skylar aveva smesso di lampeggiare come un disperato.
«Adesso noi siamo qui», disse William, indicando un punto sulla mappa con le sopracciglia aggrottate «anche se avessimo altri imprevisti, riusciremmo comunque ad arrivare in Colorado entro sette giorni. Ma...».
«...ma abbiamo ancora quel piccolo problemino del “quale monte scalare”. Ci servirebbe almeno un anno e mezzo per beccare quello giusto», terminò Nathan, sbuffando.
I semidei sospirarono all'unisono, sconsolati.
«Potrebbero essere sul Monte Harvard o sul Blanca Peak...», tentò James, ma non ne era affatto convinto.
Rose arricciò il naso, per poi addentare il suo panino.
«È un punto morto», bisbigliò.
Ci fu un istante di silenzio.
«Sono nascosti su quello più alto», disse Jonathan, d'un tratto.
Tutti si voltarono a fissarlo.
Tutti tranne Elle, che sembrava troppo impegnata a cercare un canale interessante sulla grande televisione a cristalli liquidi posta al centro della parete sinistra.
«Come fai a dirlo?», domandò Altair, scettico.
Jonathan arrossì lievemente al sentirsi puntati addosso gli sguardi dei suoi compagni.
«Penso che sia la scelta più logica, ecco», bofonchiò lui.
«Giusto», intervenne Skylar, alzando il capo di scatto «se dovessi scegliere, anche io mi nasconderei sul luogo più alto possibile. Serve per vedere meglio cosa succede intorno. Facevano così i signori antichi, e così faceva anche l'Innominato ne “I promessi sposi” di Manzoni, e...».
James trattenne un sorriso, ed Elle alzò gli occhi al cielo.
«Puoi continuare ad essere fantastica dicendoci qual è questo luogo più alto?», supplicò Sem, accennando un sorrisino «per favore?».
Skylar si scusò, arrossendo. Era quella la pecca di essere figli di Atena: non riuscire a trattenersi, quando c'era di mezzo la logica.
«È il Monte Elbert», tagliò corto Elle, cambiando canale per la centesima volta.
William batté le mani sul tavolo con tanta forza che fece sobbalzare i suoi compagni.
«È vero», disse «torna tutto».
Somigliava vagamente ad un bambino che aveva appena scoperto un gioco meraviglioso. Era davvero inquietante, insomma.
«E anche se non fosse, non abbiamo altro da cui cominciare», sospirò Susan, smettendo finalmente di passeggiare per il fast food.
Sem lanciò un'occhiata fuori dalla finestra, dove il temporale non aveva ancora dato cenno di voler diminuire d'intensità.
«Quindi... adesso che si fa?», domandò.
Nessuno di loro stava morendo dalla voglia di tornarsene in quella jeep pericolante con quel tempo.
«Si riparte?», chiese Altair. Eccetto lui, ovviamente. Quella tempesta gli piaceva parecchio.
«No», rispose William «prima devo mandare un messaggio a Ferdinand Bristil».
Rose storse il naso e sbuffò.
«Perché proprio a lui?», chiese.
Non le piaceva affatto l'idea che William avesse un così bel rapporto con il suo peggior nemico.
«Perché è a lui che ho chiesto di tenere d'occhio il campo mentre io non ci sono, e se c'è qualche novità io voglio saperlo», replicò il figlio di Ares, accennando un sorrisetto «vado sul retro. Voi aspettatemi qui... e non fate danni, okay?».
«Vengo con te?», fece Susan. Lui annuì e le fece cenno di seguirlo.
«Come se ci fosse ancora qualcosa da rovinare», bofonchiò Nathan, un attimo prima che il ragazzo sparisse dietro la porta del fast food, seguito dall'amica.
Effettivamente, aveva proprio ragione: il fast food, dopo l'attacco di Diomede, aveva cominciato a somigliare parecchio ad una brutta rovina.


William camminava talmente in fretta che Susan aveva qualche difficoltà a stargli dietro.
«Hey, tu. Non tutti hanno le gambe lunghe come te, sai?», bofonchiò la ragazza.
Il figlio di Ares rallentò e le rivolse uno dei suoi migliori sorrisi da piantagrane.
«Scusa. A volte dimentico quanto tu sia nana, Graymark», fece.
Susan non si arrabbiò neanche, talmente era abituata ad essere punzecchiata da lui.
«Allora?», domandò, invece.
«Allora cosa?», chiese William, cominciando a frugare nelle tasche del suo giubbotto mimetico alla ricerca di una dracma da utilizzare come tributo ad Iride.
Susan gli si avvicinò ed incrociò le braccia.
«Mi ricordo cosa ti ha detto Chirone, prima che ce ne andassimo», disse.
«Mi hai seguita sul retro di un fast food per parlarmi di Chirone? Sul serio?» sorrise William.
«Ti ha chiesto se avevi preso qualcosa. Sembrava importante», lo ignorò lei «cosa intendeva?».
«Ah, quello», commentò William, irrigidendo le spalle «parlava dei denti».
Susan credette di non aver sentito bene.
«I denti?», rispose, sbattendo le palpebre «quali denti?».
William lasciò perdere le dracme e le mostrò la collana che portava al collo, nascosta sotto la maglia del campo. Somigliava vagamente ad una di quelle che indossavano gli uomini primitivi.
Vi erano le solite otto palline di terracotta provenienti dal Campo Mezzosangue - sei delle quali erano identiche a quelle che portava lei -, ma tra l'una e l'altra erano incastrati cinque oggetti pericolosamente simili alle zanne di un drago.
«Quelli sono...», cominciò, arricciando il naso.
«Sparti», concluse William «guerrieri che sorgono dalle ossa, sì. Ares li ha consegnati a Chirone e lui li ha dati a me. Ha detto che Ares pensava che, forse, ne avremo avuto bisogno».
«Tuo padre, ultimamente, ti fa un sacco di regali», osservò Susan, incerta.
«Già», sbuffò il ragazzo «la cosa si sta facendo snervante. Non mi piace usare la sua roba, mi fa...» esitò, come in cerca delle parole adeguate «...perdere la testa».
Susan lo scrutò attentamente in viso, corrucciando le sopracciglia.
«In che senso?», chiese, perplessa.
«Nel senso che mi fa arrabbiare», rispose lui, abbassando il tono della voce, come se non volesse farsi sentire dagli altri «non riesco a pensare lucidamente, come se tutto quello che volessi, in quei momenti, fosse sterminare ogni più piccola forma di vita presente sulla faccia della Terra. A volte, ho pensato di poterlo fare sul serio».
Susan si sentì improvvisamente a disagio. Ares aveva sempre avuto pessimi effetti sulle persone, e William era già un tipo abbastanza nervoso di suo, non era affatto necessario il suo contributo.
«Perché ti sei portato dietro gli sparti, allora?», chiese.
William sembrava persino più a disagio di lei. Tornò a tormentarsi le tasche del giubbotto, e questa volta ne estrasse una dracma d'oro. Se la rigirò tra le mani con fare pensoso.
«Mi fido di Ares abbastanza da credere che ci serviranno sul serio», disse, evitando accuratamente di guardarla «ho chiesto a Jonathan di venire con noi per un motivo preciso. Due, in realtà».
Lei rimase in silenzio, in attesa.
«Lui è figlio di Ecate, ha la magia dalla sua parte», spiegò il ragazzo, passandosi una mano tra i ricci biondi, come faceva sempre quando era agitato «può controllare la Foschia molto meglio di me, conosce incantesimi e cose che altri semidei possono solamente sognarsi. Ho pensato che, se avessi... uhm, dato troppo di matto, lui avrebbe saputo cosa fare. Magari conosce un modo per fermarmi senza uccidermi, prima che io finisca, che ne so, per radere al suolo qualche città».
«Non ti avremmo lasciato fare una cosa del genere anche senza Jonathan, lo sai», replicò lei.
«Hai mai cercato di fermare un figlio di Ares in modalità “uccidi”, di recente?», chiese William, scettico.
«E tu ti sei mai preso uno dei fulmini di Altair in piena fronte, di recente?», commentò Susan.
William accennò un sorriso, e Susan si ritenne soddisfatta del suo operato.
«E il secondo motivo, qual è?», domandò poi lei, ammorbidendo i toni.
«Non mi piace vedere le persone sole», rispose, poi arrossì «dei, non farmelo ripetere mai più».


Rose, Altair e Sem, nel frattempo, avevano cominciato a girare l'intero fast food alla ricerca di qualcosa di utile per il viaggio.
Per la loro felicità, Diomede si era dato parecchio da fare con la roba da mangiare, là dentro.
Certo, era tutto cibo spazzatura, ma almeno non sarebbero morti di fame. Probabilmente, non avrebbero più dovuto fermarsi da nessuna parte, prima di arrivare in Colorado.
Meglio, perché Altair non aveva alcuna voglia di dover combattere di nuovo contro un gigante dai piedi puzzolenti che detestava lui e la sua intera famiglia.
Il ragazzo si diresse verso la friggitrice e cominciò a riempire qualche sacchetto di carta con delle patatine fritte.
Gli piaceva il cibo dei fast food. Gli faceva tornare in mente sua madre, Sharifa Ibdan-La.
Aveva cercato di convincerla a trasferirsi a Nuova Roma insieme a lui diverse volte, ma lei continuava a rifiutarsi. Litigavano spesso per quel motivo. Altair, per riappacificarsi con lei, la portava sempre a mangiare in posti quello.
Non era di certo il massimo della raffinatezza, lo sapevano entrambi, ma era la maggiore idea di lusso che potevano permettersi, e a loro andava bene così.
Alzò lo sguardo dalle sue patatine solo quando Rose, a pochi metri da lui, scivolò silenziosamente verso la cassa e Sem inarcò un sopracciglio con fare circospetto, smettendo di fare ciò che stava facendo e drizzando la schiena.
Rose rimase qualche secondo a studiare l'oggetto, come se stesse cercando di capire in che modo aprirlo senza fare troppi danni. Evidentemente non ottenne il risultato sperato, perché afferrò la sua spada e, con un gesto deciso, lo scassinò.
Lo sportellino della cassa si aprì con uno scatto, e qualche dollaro svolazzò fuori.
Neanche un ladro esperto avrebbe potuto fare una cosa del genere con tanta semplicità.
Rose tuffò una mano tra le monete e se le infilò in tasca con noncuranza, poi passò alle banconote.
Cominciò a contarle, così, per il puro gusto di vedere quanti dollari stesse rubando a Diomede.
Sem incrociò le braccia e la guardò storto.
Fino a quel momento, il ragazzino se ne era rimasto tranquillo insieme a loro, mangiucchiando un panino al bacon e mettendosi, di tanto in tanto, qualche oggetto dall'aria utile nello zaino.
«Che c'è?», domandò lei, inarcando le sopracciglia.
«Tutto questo è rubare», affermò il dodicenne, assottigliando gli occhi azzurri, del colore del mare in tempesta.
Sembrava quasi che se ne fosse reso conto solo in quel momento e che... be', che la cosa non gli piacesse neanche un pochino.
Ad Altair, adesso impegnato a riempire il suo zaino con panini di ogni tipo, venne quasi da ridere.
Rose sorrise e scompigliò i capelli del figlio di Poseidone con una mano.
«Certo», disse « ma non c'è proprio niente di male a rubare ad uno che ha tentato di darti in pasto ai suoi animali da compagnia».
«È comunque rubare», ripeté Sem, calcando volontariamente sulla parola “rubare”.
Altair si tirò in piedi e li raggiunse, scompigliando anche lui i capelli del ragazzino, che lo fulminò sul posto con un'occhiataccia degna di Giove in persona.
«Che ti aspettavi da una figlia di Mercurio? Una sana educazione alla convivenza civile?», disse Altair, in un sorrisetto buffo «rubare è la sua specialità».
«Ermes», precisò Rose, agitando una banconota sotto il naso del ragazzo «mio padre è Ermes, non Mercurio».
Altair le rivolse un sorrisetto storto.
«È la stessa cosa, Miss Stevens», disse.
«Romani», sbuffò Rose, voltandogli le spalle e fingendosi offesa «prima o poi, direte che anche il Sole e la Luna sono la stessa cosa».
Altair ridacchiò sotto i baffi e rivolse un occhiolino a Sem.
«Ragazze», disse, come se la cosa spiegasse ogni cosa.


Jonathan tirò fuori un grosso tomo impolverato dal suo zaino e lo poggiò sul tavolo. Gli lanciò un'occhiataccia, come se il libro potesse morderlo da un momento all'altro.
«D'accordo», disse «intanto che aspettiamo quei due, io mi metto al lavoro».
Skylar e James si strinsero intorno a lui, un po' per curiosità ed un po' per solidarietà.
«Il rito», ricordò Skylar.
«Pensi che si tratti davvero di una di quella roba magica?», chiese James, perplesso.
Jonathan fece spallucce.
«Non ne ho idea», rispose, sincero «gli somiglia parecchio, ma questa “roba magica” è tantissima. Oppure, magari, stavano solo tentando di aprirsi un passaggio attraverso la montagna».
«Possiamo darti una mano?», propose Skylar, dopo un istante di esitazione.
Non voleva sembrare invadente o appiccicosa, e nemmeno voleva che Jonathan s'irritasse e tornasse a chiudersi in se stesso come aveva fatto fino ad allora. Voleva solo avere qualcosa da fare mentre aspettava che tutti fossero di nuovo pronti per la partenza, giusto per togliersi dalla testa altri pensieri non troppo piacevoli.
Anche se la sua collana aveva smesso di brillare, lei continuava ad avere la sensazione che avrebbero dovuto filarsela da quel posto al più presto.
James sembrava nervoso quanto lei, a giudicare dalla maniera frenetica con la quale continuava a strofinarsi le mani sui calzoni.
Jonathan annuì, cominciando a sfogliare le pagine ingiallite e grinzose libro.
Le sue dita erano affusolate ed un po' callose sui polpastrelli, come se avesse passato la vita a sfogliare pagine come quelle. Era concentrato, con gli occhi scuri nascosti dietro il suo solito paio di occhiali, le sopracciglia corrucciate e le spalle tese.
Skylar pensò che facesse un po' impressione, toccare un libro come il suo: antico, potente e terribilmente fragile. Se non fossero stati attenti, avrebbero rischiato di romperlo? Lei era brava a rompere le cose. Non voleva pensarci.
«Se riuscite a vedere un simbolo come questo, potremmo aver trovato la risposta», Jonathan indicò una sottospecie di “u” rovesciata disegnata a lapis su un angolo di una pagina.
Gli altri due annuirono.
Anche se le scritte erano in greco antico e non in inglese, James cominciò a distrarsi quasi subito: il suo disturbo da deficit dell'attenzione non lo risparmiava mai, neanche nei momenti più seri.
Invece che concentrarsi sui rituali, si concentrò su Skylar.
Era stata la prima ragazza del gruppo con cui avesse parlato serenamente, per non dire l'unica, senza sentirsi come un pesce fuor d'acqua o senza inciampare nelle parole come un idiota.
Gli era simpatica, e la trovava anche piuttosto carina. Come ogni figlia di Atena, possedeva dei lunghi ed indomabili capelli biondi ed un paio di scintillanti occhi grigi. Gli ricordava un po' Will, ma in versione femminile, più fragile, più graziosa e molto meno disinvolta.
Era davvero carina.
Appena formulò quel pensiero, si sentì subito terribilmente in colpa e si obbligò a tornare a fissare il tomo di Jonathan.
L'ultima ragazza che aveva definito “carina” era morta tra le sue braccia per salvarlo, dicendogli che lo amava.
Quando si riscosse, Skylar e Jonathan lo stavano fissando.
«Va tutto bene?», chiese Jonathan, con una mano sollevata a mezz'aria, come se si fosse interrotto proprio mente stava per voltare una pagina «sembra che tu abbia appena visto un fantasma».
James annuì velocemente.
«Sono un po' in ansia», rispose «credo che dovremmo andarcene da qui».
Non era esattamente la verità, ma non era neanche una bugia.
Jonathan, per tutta risposta, chiuse il suo libro con uno scatto e se lo infilò di nuovo nello zaino.
«Bene, allora spero proprio che William e Susan si sbrighino con quel messaggio-Iride», disse, lanciando un'occhiata verso la porta che dava sul retro del locale.
Skylar si limitò a scrollare le spalle.


Nathan ed Elle si ignoravano bellamente a vicenda, nonostante stessero facendo esattamente la medesima cosa. Ovvero, assolutamente niente.
Si erano posizionati di fronte al televisore, in attesa che tutti si decidessero a partire di nuovo.
Elle era seduta con eleganza, le gambe unite e la schiena ritta. Gli angoli delle labbra erano piegate all'ingiù, come se quel posto stesse cominciando a farle davvero schifo.
Somigliava ad una giovane regina molto annoiata.
Nathan, invece, era stravaccato sul suo sgabello in maniera scomposta, con i gomiti puntellati sulle ginocchia ed i capelli scuri in disordine, come avrebbero potuto essere le piume di un corvo investite da una corrente d'aria fredda ed inaspettata.
Giocherellava con il telecomando, facendolo dondolare in aria tra l'indice e il pollice della mano destra, anche lui palesemente seccato.
Entrambi fissavano lo schermo come se li stesse prendendo intenzionalmente per i fondelli.
In quel momento, stava andando in onda un documentario su Animal Planet.
«I cavalli sono animali erbivori. Bestie amichevoli ed eleganti», diceva la profonda voce maschile in sottofondo, mentre la telecamera inquadrava questo e quell'altro esemplare dal manto lucido.
«I mortali non sanno proprio un accidente» sbuffò Nathan, inarcando un sopracciglio «tsk, se solo avessero incontrato le cavalle di Diomede, non la penserebbero così».
«I mortali sanno quello che vogliono sapere, è così che opera la Foschia», replicò Elle «ed è molto meglio per tutti».
«E cosa pensi che abbia mostrato la Foschia, genio, a quelli che erano qui?», chiese lui, scettico.
«Che vuoi che ne sappia?», sbuffò Elle, infastidita da tutte quelle chiacchiere «di certo non la verità».
Nathan si voltò verso di lei. Probabilmente avrebbe detto qualcosa di odioso e di pungente, se il documentario non si fosse improvvisamente interrotto.
L'immagine si bloccò nel bel mezzo di un felice accoppiamento tra equini, ed in sovrimpressione apparve la figura di una donna dai capelli ricci, il trucco pesante e la giacca blu notte.
«Che palle», commentò Nathan, in uno sbuffo.
«Stai zitto», lo rimbrottò Elle.
«Interrompiamo il programma per una notizia appena giunta in redazione», annunciò la donna vestita di blu, portandosi un grosso microfono vicino alla bocca «pare che un noto fast food a poche ore di distanza da New York sia stato teatro dell'ultima scena di rapina e omicidio da parte di un gruppo di giovani, presumibilmente tutti in età da scuola: il più grande sui diciannove o vent'anni anni e il più piccolo sui tredici, forse addirittura dodici».
Nathan si batté una mano sulla fronte.
«Oh, fantastico», commentò «com'è che avevi detto tu? “I mortali sanno quello che vogliono sapere, ed è molto meglio per tutti”. Come no! Adesso siamo tutti dei criminali».
Elle si limitò a mordersi il labbro inferiore e ad irrigidire la schiena.
I mostri le andavano pressoché bene, ma quel genere di guai non le piaceva per niente. Non ci teneva ad essere arrestata dalla polizia.
«La baby gang formata, a detta dei sopravvissuti che hanno subito informato la polizia, da un totale di una decina di ragazzi e ragazze armati di pistole, avrebbe ingaggiato una dura lotta con il titolare e con le cameriere indifese, costringendo questi ultimi a consegnare tutti i ricavi, salvo poi ucciderli senza pietà. Neanche le loro suppliche hanno potuto fermare i cuori di pietra dei ragazzi», continuò la telecronista, con aria terribilmente affranta, quasi fosse stata lei stessa ad essere stata uccisa «la polizia di New York è ora in viaggio per raggiungere la scena. Si raccomanda alla popolazione di prestare la massima attenzione e di riferire ogni movimento sospetto alla polizia, poiché nessuno è in grado di sapere dove colpiranno la prossima volta. Vi forniamo ora una serie di identikit che ritraggono i giovani criminali implicati nella faccenda».
Nathan ed Elle schizzarono su dalle loro postazioni in contemporanea, ed i loro compagni si voltarono a guardarli come se fossero improvvisamente andati fuori di testa.
«Ragazzi, abbiamo un problema!», annunciò Nathan.



Angolo di Butterflies:
Ma salve!
Che dire, niente mostri in questo capitolo, per la gioia dei nostri semidei.
Da una parte, diciamo che è un capitolo un pochino più leggero degli altri, ma anche un po' più serio. Ci sono meno battute, e cominciamo a scoprire alcuni dei problemi personali che affliggono questi poveracci (?).
Adoro questo genere di cose, lol: nei libri di zio Rick, quei disgraziati dei mezzosangue vivono - finché vivono - immersi nei problemi (vedete Piper e il rapimento di suo padre; Frank e la sua vita legata a quel legnetto bruciacchiato; Hazel e il piccolo problema in perfetto stile “Metal Detector” - senza contare il fatto che è morta e poi risorta, ovviamente -; Percy con quella serie di adorabili profezie che gli tramutano la vita nel suo Tartaro personale; Annabeth e la sua storia difficile con suo padre e il ragazzo di cui era innamorata che si trasforma nel capo dei Titani; Talia che per un po' è stata un albero; Nico che viene da un'altra epoca e ha perso sua sorella... per non parlare di Leo: la sua vita è un disastro – tesoro mio ç.ç -. Insomma, avete capito u.u)
Quindi, dopo questa “cosa” più lunga dell'intero capitolo:
I vostri semidei hanno situazioni in sospeso da risolvere? Segreti da svelare? Genitori divini da incontrare? Armi o regalini vari da ricevere? Difetti fatali da dichiarare? Qualunque altra cosa da aggiungere alla scheda iniziale? Se sì, sapete dove trovarmi u.u
Un'altra cosa: le coppie. Oddei, sono un disastro in questo campo. Se quelle che si stanno creando - si stanno creando? - non vi piacciono, datemi voi un'opzione xD
N.B. Ci sono sei maschi e quattro femmine. Escludendo Sem che ha dodici anni, uno degli altri ragazzi mi rimane single ç.ç chi Ade gli rifilo?

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


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Capitolo 6


Il resto della giornata proseguì in maniera pressoché tranquilla, se si esclude la parte in cui il parabrezza venne ridotto in frantumi.
Appena Nathan ed Elle avevano riferito di quanto scoperto dalla televisione, i ragazzi erano subito saltati a bordo della jeep e da allora non erano più scesi.
Stavano viaggiando ormai da ore, la notte era calata e non potevano di certo dire che i sedili della jeep fossero la cosa più comoda sulla quale si fossero mai seduti.
Almeno, possedevano ventitré chili esatti di panini e patatine fritte, cosa di cui Susan sembrava particolarmente felice.
William aveva ceduto con una certa riluttanza il suo posto di guida ad Altair, e si era accomodato al suo posto vuoto, di fianco a Rose, che sembrava un po' a disagio.
Fortunatamente, il figlio di Ares si era addormentato quasi subito, così Rose non aveva dovuto combattere – non troppo, almeno – con il desiderio di mollargli uno schiaffo e di domandargli per quale assurdo motivo lui avesse deciso di assegnare un compito tanto importante a un idiota cronico come Ferdinand Bristil.
Susan, invece, era ancora seduta al posto del copilota e teneva una piccola mappa in una mano, mentre con l'altra si tamburellava le dita sulle ginocchia.
Sem era andato ad accoccolarsi su un sedile singolo, ancora arrabbiato per aver dovuto rubare un sacco di cose. Come se ciò non bastasse, gli facevano male i piedi, aveva sonno e non riusciva a dormire su quella jeep che lo sballottava di qua e di là.
Elle lo aveva imitato, tenendosi ben alla larga dagli altri, mentre Nathan stava giocherellando con uno strano nastro verde, simile alle strisce filanti che venivano utilizzate per Carnevale, sdraiato per occupare entrambi i posti centrali.
Jonathan, James e Skylar, invece, si erano accomodati negli ultimi sedili e tutti e tre stavano consultando alcuni dei libri di Jonathan per ingannare il tempo.
James era il più nervoso, tra loro. Continuava a sbirciare dal finestrino, tormentandosi le dita e corrucciando le sopracciglia, come se si aspettasse che la polizia comparisse da un momento all'altro e lo acciuffasse.
Skylar, alla fine, gli mollò un colpetto con il gomito.
«Tutto bene?», domandò.
«Sì», rispose lui, accennando un sorriso «non ti preoccupare».
Skylar e Jonathan si scambiarono un'occhiata incerta, ma decisero di lasciare perdere.
Se avesse voluto parlare, l'avrebbe fatto.


Nell'auto aleggiava un silenzio quasi irreale, interrotto solo, di tanto in tanto, dai mormorii del motore e da qualche chiacchiera.
Certo, così fu fino a quando William non saltò quasi fuori dal finestrino gridando: «DI IMMORTALES!».
I ragazzi sobbalzarono, Altair quasi sbandò dalla sorpresa, e gli altri si voltarono verso il ragazzo per fulminarlo con lo sguardo: Will aveva un modo tremendo di svegliarsi.
«Buongiorno anche a te, principessa», lo salutò Rose, in un brontolio.
William la guardò con una certa confusione nello sguardo e sbatté le palpebre.
“Un baccalà”, pensò Elle, scuotendo il capo.
«Era un sogno», osservò lui.
«Perspicace, Harper», ribatté Nathan, meritandosi l'occhiataccia che l'altro gli riservò.
Susan si voltò indietro, cercando di impedire la lite.
«Che cos'hai sognato?», chiese, curiosa.
Il figlio di Ares arricciò il naso.
«Ho fatto l'incubo sulle capre più strano del mondo», disse.
«Devi essere l'unico che fa incubi sulle capre, Will», commentò Altair, in un sorrisetto, senza però staccare gli occhi dalla strada.
«Capre proprio capre?», volle sapere Sem, riscuotendosi improvvisamente dal suo torpore «o capre tipo Satiri?».
«No, era proprio una capra», insistette William, poi corrucciò le sopracciglia «cioè, io ero la capra».
Elle inarcò le sopracciglia in un gesto di scherno.
William si mise meglio a sedere, scrutando i suoi compagni in silenzio e con sospetto.
«Non sono una capra, vero?», chiese, alla fine.
La domanda era talmente stupida che persino Skylar, nonostante la buona educazione le imponesse di rimanere seria, non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere.
Jonathan sbatté le palpebre un paio di volte, fissando l'amico come se avesse appena detto che aveva intenzione d'invitare Caos al suo prossimo compleanno.
«No, avresti un aspetto migliore», lo rassicurò Nathan.
«Hai bisogno di una cura, Harper», decise Susan, tornando a guardare la sua mappa, ed Altair rise.
«Era un sogno serio», disse William, adesso un po' accigliato «c'era qualcosa che m'inseguiva... cioè, non me. La capra, voglio dire».
I ragazzi rimasero in silenzio, ma non smisero di guardarlo come se davvero si fosse appena trasformato in una capra sotto i loro occhi.
«Oh, andatevene ai corvi», bofonchiò lui, incrociando le braccia e affondando nel suo sedile.
I ragazzi ridacchiarono, e anche, vicina a lui, Rose si rasserenò un po'.
D'accordo, William era figlio di Ares e questo non volgeva molto a suo favore, ma – quando non era assolutamente spaventoso – era quasi... buffo.

Stavano davvero per cominciare a rilassarsi, quando qualcosa saltò sul cofano della jeep e mandò il vetro del parabrezza in frantumi.
Altair inchiodò con tanta forza che i freni fischiarono e la macchina piroettò un paio di volte su se stessa.
«Erre... es... korakas...», imprecò Elle, in un ringhio, appena la jeep smise di girare.
«Oh, dei, l'abbiamo uccisa?!», gridò James, saltando su ad occhi sgranati. Aveva i capelli neri ritti in testa, come se avesse preso la scossa.
«Davvero ti preoccupi per quel... coso?», domandò Nathan, incredulo, tastandosi il petto come a volersi assicurare di essere ancora tutto intero.
Skylar si portò una mano all'altezza del cuore.
«Di Immortales...», le sfuggì.
Susan saltò subito fuori dalla jeep, talmente rapidamente che per poco non si storse la caviglia.
William cominciò subito a raspare dentro il suo zaino, borbottando imprecazioni ed un sacco di altre parole molto poco carine.
«Non salirò mai più su un'auto insieme a voi!», dichiarò Rose, seguendo Susan e quasi inciampando in una radice.
Non erano più in città, notò.
«Ma che cos'era?», sbottò Sem, fiondandosi giù dalla jeep.
«Non ne ho idea!», replicò Jonathan, preoccupato «la macchina funziona ancora?».
Altair, con il viso graffiato dalle schegge di vetro che l'avevano colpito, girò la chiave e la macchina ruggì di protesta, per poi tornare in moto.
«È viva!», annunciò il figlio di Giove, in un gran sorriso.
«E tu? Sei tutto intero?», domandò Rose.
William porse al ragazzo un quadratino di ambrosia e lui se lo mise in bocca. I tagli sul viso e sulle mani si rimarginarono immediatamente ed Altair fece cenno a Rose di stare bene.
«Era la capra», sentenziò William, mentre allungava un altro po' di ambrosia anche a Susan.
«Dov'è andata?», chiese Nathan, in uno sbuffo arrabbiato «voglio farle saltare tutti i denti».
«È sopravvissuta?», domandò Sem, scivolando anche lui fuori dalla jeep.
«Penso di sì», rispose Altair «è saltata sul cofano e poi è schizzata via».
«Sì», sentenziò Susan, afferrando la sua falce come se avesse intenzione di trovare l'animale e strappargli l'anima dal corpo in quell'esatto istante. Nathan parve apprezzare l'idea.
«Come fai ad esserne così sicura?», chiese Elle, inarcando un sopracciglio.
Susan la guardò come se fosse la domanda più insensata che avesse mai sentito.
«Sono figlia del dio dei morti», le ricordò «queste cose le sento».
Elle alzò le mani con i palmi rivolti verso la figlia di Ade.
«È da brivido», disse.
Susan arrossì. Più dal nervosismo che dall'imbarazzo, supposero gli altri.
«Ragazze», intervenne William «tregua, okay?».
«Okay», borbottò Susan, voltandosi dalla parte opposta e infilandosi le mani nelle tasche della felpa.
Elle si limitò a fare spallucce.
«Che si fa, adesso?», domandò allora Sem «si rimonta in...».
Una freccia fischiò sopra la sua testa e per poco non gli trafisse un orecchio.
I ragazzi schizzarono sull'attenti.
«Che succede?», domandò James, preoccupato.
«Stiamo per morire?», volle sapere Jonathan, scattando indietro di un paio di passi.
Un gruppo di ragazze armate di archi argentei, circa una ventina, fece capolino dal fondo della strada.
La ragazza a capo doveva avere circa quindici o sedici anni, ed aveva i capelli neri dritti sulla testa, come quelli di James dopo l'incidente. Portava una specie di diadema da principessa che stonava terribilmente con il resto degli abiti: pantaloni militari, maglia borchiata con la scritta “ti troverò e ti farò secco”, anfibi ed un paio di orecchini con i teschi.
«Sono le Cacciatrici di Artemide!», esclamò Skylar, in un sorriso emblematico «oh, Rosaline le odierebbe».
«Chi?», fece Altair, confuso «cosa?».
«Le Cacciatrici», rispose Rose, storcendo il naso «un branco di ragazzine limitatamente immortali che hanno prestato giuramento alla dea Artemide di rinunciare agli uomini».
«Li odiano, gli uomini», precisò Elle, lanciando un'occhiata inquietante a tutti i ragazzi.
«Io credo di odiare il vostro mondo greco», commentò Altair «mi fa sentire piuttosto stupido».
«Questo perché, probabilmente, sei stupido davvero», dichiarò una delle ragazze armate d'arco, mentre il gruppo di Cacciatrici si avvicinava a loro.
«Brianne, ti prego», fece la ragazza con il diadema, per poi rivolgere un sorriso frettoloso ai semidei «siete mezzosangue, se non sbaglio».
Loro annuirono, mentre quella li scandagliava uno ad uno con i suoi inquietanti occhi blu elettrico.
«William, ciao», disse poi, quando lo riconobbe «qual buon vento?».
«Nessun buon vento, Talia», rispose lui, rigido «è più come un'apocalisse, direi».
Talia storse il naso, ma poi porse una mano in direzione dei ragazzi.
«Mi chiamo Talia Grace», si presentò «sono la luogotenente delle Cacciatrici di Artemide».
I ragazzi si presentarono a turno – eccetto William, che già sembrava conoscerle e non ne sembrava troppo entusiasta -, finché tutti non conobbero i nomi degli altri presenti e, ovviamente, non se ne ricordarono neanche uno.
Sem rimase un po' indietro rispetto agli altri, perché le occhiate assassine che gli scoccavano alcune delle ragazze erano decisamente più terrorizzanti dello sguardo vacuo delle cavalle di Diomede. Cavalle di cui, tra l'altro, stranamente non era riuscito a cogliere i pensieri.
Quelle ragazze, invece, stavano chiaramente pensando che lo avrebbero volentieri fatto a pezzettini.
«Avete visto passare di qui un tizio strano coi capelli scuri, per caso?», domandò Talia, alla fine, scrutando l'orizzonte con circospezione.
«Inseguiva una cerva sacra alla nostra dea», spiegò Brianne, stizzita. Poi vide la jeep.
«Che cos'è successo alla vostra macchina?», domandò, assottigliando le palpebre.
Jonathan seguì la direzione del suo sguardo. Pensò che Brianne sarebbe stata una ragazza carina, se solo non avesse avuto quel cipiglio arrabbiato. Era chiaramente della loro epoca – al contrario di parecchie altre sue compagne –, perché indossava una maglia colorata di Hello Kitty e un paio di calzoncini di cotone. Aveva i capelli biondo cenere, più chiari di quelli di Skylar, intrecciati con delle perline colorate, e i suoi occhi color argento liquido scintillavano di diffidenza.
«Il vostro animale sacro, a quanto pare, ci ha sfondato il parabrezza», rispose William, inarcando un sopracciglio.
Si sentiva un po' in imbarazzo per aver scambiato una cerva per una capra, ma sperò che non si notasse troppo. Insomma, probabilmente era una grave offesa nei confronti di Artemide o della divinità delle capre. Qualunque essa fosse.
«Oh, dei», commentò Talia, battendosi una mano contro la fronte «dobbiamo trovare Eracle e salvare la nostra cerva prima che distruggano il parabrezza di qualche altro eroe».
«Se non ci fossimo fermati a parlare con... questi, forse adesso avremmo già piantato una freccia nel sedere di Eracle», osservò Brianne, acida.
Disse “questi” come avrebbe potuto dire “sterco nelle scarpe” o “mutande di Diomede”. E, fidatevi, nessuno avrebbe detto “mutande di Diomede” in tono sognante e felice.
Qualcuna delle altre Cacciatrici annuì in segno di assenso.
«Si chiama educazione», sbuffò invece Talia, alzando gli occhi al cielo «se non ci fossimo fermate a parlare con loro, avrebbero pensato che la divina Artemide non ci avesse educate a dovere. O che l'immortalità ci avesse dato alla testa».
«Non c'era bisogno, davvero», bofonchiò Jonathan, a voce talmente bassa che però nessuno, a parte James, lo sentì. Il figlio di Nyx gli diede un colpetto con il gomito, abbozzando un sorrisetto.
«Eracle?», domandò timidamente Skylar, sbattendo le palpebre «credevo che lui fosse confinato in mezzo allo Stretto di Gibilterra, alle Colonne d'Ercole, a fare da guardia al Mare Nostrum».
Brianne storse il naso.
«Ma magari», disse.
«Mio padre, Zeus, l'ha punito per un suo... ehm, capriccio. L'ha costretto a replicare tutte le fatiche che aveva compiuto per suo cugino per altre quindici volte e senza poteri divini», spiegò Talia, in un sospiro «solo che la divina Artemide, questa volta, non è intenzionata a lasciare che lui rompa le scatole a uno dei suoi animali sacri... così, be', siamo in guerra».
«Oh», fu la risposta molto intelligente di William.
Talia gli rivolse un sorrisetto, poi estrasse quattro biglietti d'argento e ne porse uno ad ogni ragazza del gruppo.
«È il nostro biglietto da visita», spiegò, facendo un occhiolino a Rose «nel caso vogliate unirvi a noi, siete le benvenute».
Rose afferrò il biglietto come se scottasse.
«Oh, grazie», disse «non credo ma... grazie».
Altair abbozzò un buffo sorrisetto nella sua direzione, e Rose alzò gli occhi al cielo, mormorando quello che suonò come un esasperato “romani...”.
Skylar lo prese di buon grado, ma le bastò pensare alla sua amica Rosaline – e anche, diciamolo, lanciare un'occhiatina a James – per decidere che non valeva la pena di vivere per sempre, se l'amore non poteva far parte della tua vita.
Elle, invece, sembrò sinceramente tentata di accettare lì su due piedi. Aveva sempre considerato gli uomini degli stupidi omuncoli privi di cervello o autonomia che lei poteva manipolare come preferiva. Ma era anche figlia della dea dell'amore. Conquistare e scaricare era il suo mestiere, e questo le impediva di accettare al volo l'offerta di Talia e di scaricare i suoi compagni lì, a metà strada dalla destinazione.
Susan afferrò il suo e se lo infilò svelta in una tasca delle felpa, sotto lo sguardo indagatore di William.
«Bene», disse il figlio di Ares, indicando qualcosa oltre la strada «credo che la cerva sia andata da quella parte».
«Non vedi l'ora di liberarti di noi, eh, eroe?», incalzò Brianne, in tono di sfida «maschi».
Le sopracciglia di William ebbero un guizzo verso l'alto.
Ora, ci sono un paio di cose che dovete sapere sui figli di Ares prima di usare certi toni con loro e sperare che se ne stiano zitti ad incassare.
La prima è che, come il loro genitore divino, amano le sfide. La seconda è che le prendono davvero troppo sul serio.
«Oh, no», bisbigliò Sem, quando il ragazzo mosse un paio di passi in direzione della Cacciatrice.
«Guai?», suppose James, in un sussurro, piegandosi verso Skylar.
«Guai», rispose lei, annuendo.
Susan si limitò a nascondersi gli occhi dietro una mano, e Jonathan, non sapendo cosa fare, le batté una pacchetta sulla spalla, come per incoraggiarla.
«Piantala di parlare come una vecchia zitella acida che ha appena sbattuto il mignolo di un piede contro lo spigolo di un mobile, Brianne», ringhiò William.
Brianne trattenne il fiato, arrossendo fino alla radice dei capelli.
«Non osare parlarmi in questa maniera, maschio», ruggì lei.
Talia sbuffò, ed Elle ridacchiò.
«Sempre la stessa storia», brontolò una delle Cacciatrici, calciando un sassolino.
Nathan non riusciva bene a capire che cosa stesse succedendo, e guardava ora William e ora Brianne come per una partita di ping-pong troppo combattuta.
«Troveremo quella cerva e vi porteremo Eracle legato come un salame», giurò William, ma adesso sembrava aver recuperato un briciolo di calma.
Rose e Altair si scambiarono un'occhiata preoccupata.
«Non abbiamo bisogno del vostro aiuto», sibilò Brianne.
«Okay, adesso basta», sbottò Talia, infilandosi tra i due «noi dobbiamo andare. Un aiuto ci farebbe comodo, lo ammetto. È di Eracle che stiamo parlando, non di un telchino o qualche mostro di scarso livello. Ma, se ci aiutate, vi dovremo un favore».
Skylar prese la palla al balzo, come si suol dire. Guardò William così intensamente che il ragazzo si voltò a guardarla. E capì.
«Pensiamo che ci sarà un attacco al Campo Mezzosangue, da parte dell'esercito del Caos», disse il ragazzo, nella maniera più amichevole che riuscì a trovare «se riusciamo a prendere Eracle... ehm, vi dispiacerebbe darci una mano?».
Talia non sembrò sorpresa.
«Artemide ci ha detto che ci sono dei semidei che si stanno alleando con i mostri, da qualche parte. E ho visto gli spiriti della tempesta agitarsi parecchio, negli ultimi giorni», rispose, pensierosa «sono creature del caos, quindi, forse...», si accigliò «Ecate è di pessimo umore, e Nyx è passata dalla parte del nemico insieme a Morfeo. Sì, succederà qualcosa di spiacevole».
Sembrava così sicura che un brivido gelido percorse l'intera schiena di Elle, dal basso verso l'alto, e poi tornò indietro.
«Quindi ci aiuterete o no?», chiese Nathan.
«Sì, vi aiuteremo», promise Talia «non avrebbe senso salvare la cerva da Eracle se tanto, poi, il mondo finirebbe».
«Il mondo finirebbe...?», ripeté Sem, con voce strozzata.
«È probabile», commentò Altair, posandogli una mano su una spalla. Il ragazzino se la scrollò di dosso.
«Almeno per come lo conosciamo noi», intuì Rose, preoccupata.
Talia annuì.
«Ho già combattuto un paio di fini del mondo», disse poi, tranquilla come se avesse detto che aveva appena portato il bucato in lavanderia «non sono divertenti. L'esercito di Caos vorrà distruggerci dal primo all'ultimo. Probabilmente, però, non punterà al Campo Mezzosangue, e nemmeno al Campo Giove».
«No?», chiese William, aggrottando le sopracciglia.
«Punterà direttamente all'Olimpo, come ha fatto Crono», proseguì Talia «i Campi sono troppo protetti. I mezzosangue potrebbero entrare, ma i mostri no, e allora non avrebbero alcuna possibilità».
«L'Olimpo...», sussurrò Susan «oh, ma è così ovvio! Perché non ci abbiamo mai pensato?».
«Perché siete circondate da maschi. E i maschi annebbiano il cervello», rispose Brianne, regalando una smorfia a William.
William ribatté fulminandola con lo sguardo.
«Chirone si sbagliava, quindi», mormorò Altair, poi fece una smorfia, ricordando la lettera che Ottaviano l'aveva costretto a recapitare al centauro e la reazione di quest'ultimo «vuoi vedere che...».
Lo fissarono tutti.
«Ottaviano deve aver visto qualcosa nei suoi pelu... ehm, negli auguri», spiegò «se mi trovavo al Campo Mezzosangue era perché lui mi aveva chiesto di consegnare una lettera a Chirone. Sono pronto a scommettere che la lettera riguardasse la battaglia. Forse, i romani raggiungeranno l'Olimpo e combatteremo insieme contro Caos».
I ragazzi trattennero il respiro per un istante, assimilando l'idea.
Se Ottaviano aveva ritenuto che fosse necessario inviare dei rinforzi, significava che, con ogni probabilità, non sarebbero riusciti a fermare la resurrezione di Caos sul monte Elbert.
Magnifico.



Angolo di Butterflies:
Ciao, ragazzi ç.ç
perdonatemi il capitolo penoso, ma sono davvero in coma. Due dei miei più grandi idoli sono schiattati in meno di una settimana, ed ora sono in totale depressione. Ma non mi ucciderò, io, tranquilli (?).
Perdonatemi, davvero, la voglia di scrivere mi era venuta un pochino meno e, come si noterà, questo capitolo ha delle piccole note drammatiche ç.ç
Adesso... esigo un Happy Meal.
...
*Sparisce nell'ombra insieme a Nico di Angelo*

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


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Capitolo 7
 
Il sogno cominciava con un grido troppo acuto, disumano, come il gracchiare di un'arpia a cui stavano bruciando le piume.
I ragazzi si trovavano tutti nascosti dietro un gruppo di rocce dal colore rossiccio, puntellate di candida e fredda neve bianca. I loro respiri si condensavano nel gelo immobile della montagna, soffiato fuori dalle loro labbra in lievi nuvolette di vapore.
Stavano guardando Lewis Cornell, il figlio di Efesto dai capelli rossi che si trovava alla guida della combriccola di Caos.
Come l'ultima volta che James l'aveva visto, il ragazzo era intento a dirigere i lavori sulla sommità della montagna. Con la sola differenza che, adesso, il tutto aveva un significato molto più inquietante per lui.
«Isabelle, fai spostare quel masso più a destra! La “u” non sta venendo perfettamente simmetrica!», gridò il ragazzo, gesticolando verso la ragazza in questione.
Isabelle si voltò a guardarlo.
I suoi occhi di ghiaccio fiammeggiavano, ma obbedì.
Elle avrebbe ringhiato contro quella che era stata una sua sorella, se solo il silenzio forzato del sogno le avesse permesso di farlo. Per quanto ci provasse, non un solo suono le usciva dalla bocca. Questo la fece arrabbiare ancora di più.
Lewis si aggiustò il cappellino sulla testa.
Un'empusa gli scivolo a fianco. Indossava un'armatura d'oro sopra ad un vestitino da cheerleaders che pareva aver avuto un incontro troppo ravvicinato con un trita-documenti.
«Mio signore», sibilò, accennando un rapido inchino «sento odore di mezzosangue».
«Certo che senti odore di mezzosangue, Kelli», replicò Lewis, senza smettere di osservare l'andamento dei lavori «ne sei circondata».
«No, mio signore», ribatté Kelli, guardandosi intorno con fare furtivo «ci sono delle spie. Stanno osservando».
Nathan strinse i denti.
Erano anni che non la vedeva, ma avrebbe riconosciuto quell'empusa anche se si fosse trovata in mezzo ad altre centinaia.
Era la stessa che aveva inseguito lui, suo padre e Marvel - il satiro - il giorno in cui lui aveva varcato per la prima volta i confini del Campo Mezzosangue.
Suo padre era morto per proteggerlo da lei.
Gli occhi gli bruciarono improvvisamente, come se stesse per scoppiare a piangere. Il che era assurdo, perché Nathan Ayala non piangeva mai.
«Te lo stai immaginando, Kelli» sbuffò Lewis «i mezzosangue che ti sono intorno t'intorpidiscono i sensi. Adesso smettila e lasciami lavorare, okay?».
«Ma mio signore, c'è odore di aquila all'arancia», ribatté l'empusa, annusando l'aria come un cane da tartufo «è un figlio di Giove o di Zeus. E nel nostro esercito non ci sono figli di Giove o di Zeus».
Altair, gli occhi verdi piantati sui mostri e sui ragazzi, trattenne il fiato.
Sapeva che i mostri erano in grado di fiutare gli odori dei semidei, ma non aveva idea che la cosa funzionasse anche in sogno.
D'un tratto, Rose gli afferrò il polso con tanta forza che Altair sobbalzò e dovette reprimere l'istinto di afferrare la sua spada.
Si voltò a guardarla per un istante, perplesso, ma la ragazza aveva lo sguardo fisso sulla scena esattamente come tutti gli altri, e non sembrava gradirla affatto.
Si lanciò un'occhiata anche al polso stretto tra le dita di lei e decise che – nonostante il blocco della circolazione sanguigna e lo scenario non dei più idilliaci – quella situazione non gli dispiaceva.
«Ne sei sicura?», chiese Lewis, corrucciando le sopracciglia e lanciando rapide occhiatine di qui e di là.
Adesso sembrava dubbioso.
Kelli odorò di nuovo l'aria, giusto per accertarsene, poi storse il naso.
«Oh», commentò «c'è odore anche di Lingue di Gatto e di aringhe affumicate. Figli di Ade e di Poseidone, senza dubbio. I loro odori sono più fievoli di quello del figlio di Giove. Forse sono più giovani o forse più deboli, ma ci sono».
Sem si morse l'interno della guancia.
Li avevano scoperti? Si poteva essere uccisi durante un sogno?
Cominciava a temere di sì, e la cosa non gli piaceva più di quanto gli piacesse spalare la cacca di pegaso nelle stalle del campo.
Lanciò un'occhiata a Susan, che, nello stesso istante, si era voltata a guardare lui.
“Non può farci del male”, mimò lei con le labbra, ma sembrava comunque preoccupata. Si notava dalla strana piega del suo sorriso e dall'angolazione delle sopracciglia. E dal modo in cui continuava a cercare Will con gli occhi.
Il figlio di Ares stava fissando Lewis con tanta rabbia nello sguardo che nessuno si sarebbe stupito se, tutto d'un tratto, la testa del rosso fosse esplosa.
Aveva le mani chiuse a pugno e le unghie conficcate nella carne, come se stesse cercando di trattenersi dall'uscire allo scoperto e urlare che i mostri avrebbero fatto meglio a buttarsi da un dirupo, o lui avrebbe sfoderato un'arma delle sue e avrebbe tagliato la testa a tutti.
Jonathan, dopo alcuni istanti di esitazione, gli posò una mano su una spalla.
Dal canto suo, lui ne aveva abbastanza di quel sogno.
La u non sta venendo perfettamente simmetrica”, aveva detto Lewis all'empusa.
Questo non faceva che ricordargli che probabilmente era sulla strada giusta, che il rito di cui si stavano servendo i loro nemici era del genere che Jonathan aveva supposto fosse, ma anche che lui non riusciva a trovarlo su nessuno dei suoi libri. E se non riusciva a trovarlo, non poteva sapere come contrastarlo.
Era una cosa snervante e parecchio deprimente.
Lewis si guardò intorno di nuovo, questa volta con sospetto.
«Lo so io, chi sono», assicurò, mentre un sorrisetto scaltro faceva capolino sul suo viso volpino «sono Harper e la sua banda di eroi».
Pronunciò la parola “eroi” nello stesso modo in cui Brianne, la Cacciatrice, diceva “maschi”.
Come se fossero la cosa più reprimente dell'universo. Come se lui non fosse uno di loro.
Skylar si strinse nelle spalle, reprimendo un brivido, causato un po' dalla scena e un po' dal il gelo.
Era normale che facesse tanto freddo, su quel monte? Eppure, il clima del Colorado non sarebbe dovuto essere così rigido.
Per un istante, ebbe l'impressione di essere tornata la bambina dalla salute cagionevole che era stata prima d'incontrare le miracolose cure dei figli di Apollo, quando il minimo sbuffo di vento avrebbe potuto causarle una polmonite mortale, ed ebbe l'impulso d'infilarsi cinque strati di maglioni.
Kelli si voltò all'improvviso nella loro direzione, ed un sorriso lezioso le arricciò le labbra.
«Beccati», bisbigliò.
E lanciò loro contro una lancia.


Il sogno s'infranse in una nube di polvere dorata.
William si drizzò a sedere con uno scatto degno del più rapido dei serpenti a sonagli e si passò una mano tra i ricci biondi.
Si alzò in piedi, certo che, per quella notte, non sarebbe più riuscito a chiudere occhio.
Era ancora notte fonda, e tutti gli altri stavano dormendo profondamente. C'era solo una piccola lanterna ad illuminare la tenda. Quella che Rose aveva insistito per tenere accesa.
Guardò i suoi compagni per un momento, esitante, poi sgusciò velocemente fuori dalla tenda che le Cacciatrici avevano allestito per loro.
I lupi che facevano da scorta alle ragazze erano di guardia, ma non badarono a lui più di quanto badarono a quelle poche falene che ronzavano intorno ai loro nasi.
William andò a sedersi ai piedi della jeep, il cui parabrezza era stato riparato da Artemide in persona, quando Talia l'aveva supplicata di farlo prima di andare a dormire.
«Padre» mormorò il ragazzo, irrigidendo la mascella per il nervoso che le sue stesse parole gli facevano crescere dentro «non avrei mai pensato di dirlo, ma ho bisogno del tuo aiuto. Se quello che abbiamo intuito si rivelasse veritiero, sto guidando i miei compagni verso morte cer...».
S'interruppe.
Un sottile fruscio gli giunse alle orecchie ma, di nuovo, nessuno dei lupi sembrò curarsene.
Will rilassò i muscoli solo quando la figura esile ed aggraziata di Susan scivolò vicino a lui.
«Hey...», lo salutò, parlando piano per non rischiare di svegliare gli altri.
«Che ci fai tu qui?» sospirò William, di rimando, ma era lieto di vederla.
Susan si accoccolò di fianco a lui, ignorandolo.
«Stavi cercando consigli da tuo padre?» chiese invece, stringendosi nelle braccia per l'aria frizzante.
«Per così dire», bofonchiò lui «non credo che sia interessato a me».
«Mi ricordi un po' Il Re Leone» rispose Susan, cercando di abbozzare un sorriso incoraggiante «sembri Simba che chiede aiuto ai grandi Re del passato».
«Mi sento anche come Simba», bofonchiò lui «solo che me, questi grandi re, non mi degnano di uno sguardo. Almeno Mufasa cercava di aiutare suo figlio. Mio padre, invece, mi ha dato una lancia e dei denti di drago e mi ha detto “tieni, vai a morire ammazzato insieme a tutti i tuoi amici. Io intanto me ne resto sull'Olimpo a fare niente e guardo l'universo che auto implode”».
«Non ha detto proprio così», commentò Susan, inarcando un sopracciglio «e, a proposito... ho sognato Lewis».
«Sì, anche io» commentò William «sembrava che gli avessero fatto il lavaggio del cervello».
Cominciò a giocherellare con la cerniera del suo giubbotto militare, incapace di starsene fermo.
«Non credevo che lui potesse avercela tanto con gli dei da cercare di distruggerli», replicò Susan.
William corrucciò le sopracciglia, assorto nei suoi ragionamenti, e non aggiunse altro.
Stava pensando alla profezia dell'Oracolo.
Rapisce dell'Olimpo la prole”... quella era la parte che lo stava tormentando in quel momento.
Nessuno veniva rapito di sua spontanea volontà, nemmeno la persona più fuori di testa del mondo.
E poi c'erano le espressioni e i comportamenti di Lewis, di Isabelle e degli altri semidei che avevano lasciato i confini del campo. Non sembravano loro.
«Harper...?» lo richiamò Susan, in un fil di voce.
«Che cosa, Graymark?» rispose lui, parlando altrettanto piano.
«Datti un po' di tregua, okay?» propose la ragazza «sembri sul punto di scoppiare. Pensa ad altro».
«La fine del mondo non è qualcosa a cui si possa non pensare, se è da te che dipende», ribatté William, voltandosi verso di lei. E a quel punto Susan fece la cosa più assurda di sempre, che ridusse in poltiglia i pensieri di William e trasformò il suo stomaco in un covo di farfalle iperattive: gli prese il viso tra le mani e lo baciò.
Così, di getto, come se fosse la cosa più semplice di sempre. Senza dargli il tempo di reagire o di elaborare quanto stesse succedendo, o anche solo di pensare a quanto bello fosse.
«Pensa a questo, va bene?» disse poi lei, sottovoce.
Gli sorrise per un frammento di secondo, poi si alzò da terra e schizzò di nuovo verso la tenda.


Dopo Lewis e l'empusa, Altair aveva sognato le frittelle.
Non aveva molto senso, ma era stato decisamente più piacevole dello scoprire che, per i mostri, lui odorava di aquila all'arancia.
Da quando in qua l'aquila si cucinava, poi?
Altair si svegliò con le prime luci dell'alba. Si tirò a sedere nel sacco a pelo e si strofinò gli occhi, poi sbadigliò e si guardò intorno, cercando di ricordare dove si trovasse.
Era la tenda delle Cacciatrici.
Avevano offerto loro rifugio per la notte, visto che il loro mezzo di trasporto aveva subito qualche piccolo danno da parte di un animale odioso e, a quanto pareva, molto sacro. Talia aveva pregato la sua dea di riparare il parabrezza e Artemide aveva esaudito il suo desiderio, ma poi lei aveva comunque insistito per fermarsi durante la notte e ripartire al mattino, perché i mostri erano più forti e tante altre cose che lui non aveva ascoltato.
«Mhpf...», fu la cosa più intelligente che Altair riuscì a mormorare, mentre si rendeva conto che molti dei suoi compagni stavano ancora russando.
All'appello mancava solamente William, ma non se ne preoccupò, perché l'unica cosa che aveva il potere di sconvolgerlo era seduta nel bel mezzo della tenda in compagnia di un paio di Cacciatrici.
E poi, c'era un certo borbottio che lo distraeva.
«Non è buio, non è buio, non...».
Altair individuò chi aveva parlato senza alcuna difficoltà e rivolse un sorrisetto ironico nella sua direzione, nonostante lei non potesse vederlo.
La ragazza era completamente nascosta dentro al suo sacco a pelo, vicina a lui.
«Hey, dolcezza. Il sole brilla nel cielo, gli uccellini cantano...», cominciò lui, in tono baldanzoso.
«E Rose Stevens staccherà la testa ad Altair Ibdan-La, se lui tenterà di nuovo di chiamarla in un modo tanto disgustoso come “dolcezza”», terminò Rose per lui, schizzando a sedere e puntandogli contro un indice, con fare accusatorio.
Altair scoppiò a ridere.
«Ce l'ha ancora con me per aver confuso Mercurio con Ermes, Miss Stevens?», domandò.
Rose sbuffò, spostandosi una ciocca di capelli scuri dal viso.
«Ovviamente, Mister Ibdan-La» rispose lei, ma era chiaro che stava tentando di trattenersi dal sorridere.
Altair scosse la testa ed alzò gli occhi al cielo.
«Sei davvero impossibile», concluse.
«Disse il tipo che è davvero convinto che Ermes e Mercurio siano la stessa cosa», replicò Rose.
«Ma sono la stessa cosa», ribatté Altair.
«No! Uno è greco e l'altro è romano» sbuffò Rose «è diverso».
«Se lo dice lei, Miss Stevens» commentò lui, sarcastico.
Rose gli rivolse una smorfia.
Altair sorrise, ma poi raccolse un po' di serietà.
«Hai sognato quel semidio anche tu, stanotte, vero?» chiese, dopo alcuni istanti.
Rose annuì, corrucciando un po' le sopracciglia.
«Lewis», precisò «è figlio di Efesto».
Gli rivolse un'occhiatina, come per sfidarlo a dire “Vulcano”, ma lui non fece commenti a riguardo.
«Non avevo mai visto una cosa del genere», disse invece Altair «semidei che lavorano con mostri che hanno sempre combattuto... è strano».
«È da brividi», mormorò Rose
Altair le rivolse un sorrisetto furbo, e Rose fu certa che stesse per dire qualcosa di seccante.
«Come il buio?», domandò lui.
Appunto.
Rose lo fulminò con un'occhiataccia, ed Altair scoppiò nuovamente a ridere.
«Dovresti vedere la tua faccia!», fece il ragazzo, rischiando quasi di soffocarsi.
«Dovresti vedere la tua, romano, dopo che ti avrò colpito con un pugno», bofonchiò lei.


Nathan si svegliò di pessimo umore, quella mattina.
Si tirò a sedere molto lentamente, corrucciato, e rimase a fissarsi le mani adagiate sulle gambe per un istante. Nonostante la notte di riposo, si sentiva completamente privo di ogni energia.
Kelli.
Quel nome gli rimbalzava nella testa come il motivetto di un carillon infernale.
Era passato talmente tanto tempo da quando aveva pensato a suo padre l'ultima volta, che rivedere quell'empusa aveva rischiato di causargli un collasso sul posto.
Erano passati ben sette anni da quando Isaia Ayala si era sacrificato, ma, tutto d'un tratto, a Nathan pareva di ricordare esattamente quella scena in ogni più piccolo dettaglio, dal più insignificante al più mostruoso. Era tutto spaventosamente impresso nella sua mente, come il marchio a fuoco sulla pelle di un bovino.
Gli venne una voglia improvvisa di chiamare il suo vecchio amico satiro, Marvel, e di farsi una bella chiacchierata insieme a lui. Almeno Marvel, al contrario della maggior parte delle persone che conosceva, non lo detestava. Forse, non si sarebbe neppure lamentato se lo avesse disturbato nel bel mezzo di uno dei suoi spettacoli con il flauto dolce.
«Che fai, piangi?», s'intromise Elle, incuriosita, tanto all'improvviso che Nathan rischiò l'infarto.
Lui si voltò lentamente a guardarla.
Si chiese come facesse, quella benedetta ragazza, ad essere tanto perfetta anche a quell'ora del mattino. Si era appena svegliata, eppure non c'era la minima imperfezione in lei.
Capì perché Susan fosse sempre tanto sulla difensiva quando lei si avvicinava troppo a William.
Era bella da mozzare il fiato.
Con i lunghi capelli color mogano sciolti che le sfioravano i gomiti ed i luminosi occhi azzurri che brillavano alla luce del mattino, somigliava ad un angelo dannato.
Indossava una corta gonna di jeans e una maglietta pulita del campo, sollevata sulla vita da un piccolo nodo. I suoi due aghi, Elxi e Dilitirio, facevano capolino dalla tasca anteriore della gonna.
«Perché dovrei?» replicò Nathan, ma aveva la voce arrochita. Probabilmente, non era mai stato tanto in silenzio in vita sua.
Elle lo guardò scettica, con l'aria di una che aveva capito tutto.
Le sue labbra, dipinte da un rossetto color prugna, si arricciarono in un sorrisetto cinico.
«Che pessimo bugiardo» dichiarò, lisciandosi i capelli come se avessero bisogno di essere ulteriormente pettinati «si notava da un chilometro di distanza, che stavi per scoppiare in lacrime come un bambinetto dell'asilo».
Nathan, di rimando, le rivolse una smorfia.
«Di solito sono io che tormento te», osservò «cos'è, ti mancavo?».
Elle lo guardò scetticamente.
«No», rispose «ti ho visto soffrire da lontano e non ho potuto fare a meno di avvicinarmi. Amo quando i tizi antipatici, viziati e rompiscatole soffrono. È talmente raro. Dovevo vedere da vicino».
«Che pessima bugiarda» replicò Nathan, in una vaga imitazione del tono di lei.
Elle si gettò i capelli dietro le spalle.
«Pensala come ti pare», disse «di sicuro non sono venuta per offrirti una spalla su cui piangere».
«Dei del cielo, ci sarebbe mancata solo questa» replicò Nathan, roteando gli occhi «e poi, anche se tu l'avessi fatto, io non l'avrei accettato. Perché io non stavo per piangere e non lo farò mai. È escluso».
«Se lo dici tu» replicò Elle, anche se sembrava ancora piuttosto scettica.
Nathan le rivolse un sorrisetto da piantagrane.
«Non è che, per caso, ti sei avvicinata perché io sono l'unico che ti calcola, oltre a, qualche volta, Harper?» chiese, in tono sornione «e non è che, sempre per caso, stai cominciando a considerarmi quasi un amico?».
«Balle», rispose lei, incrociando le braccia «non ho bisogno di essere calcolata dalla gentaglia che fa parte di questo gruppo di hippy disadattati. E non ho bisogno neanche di amici».


«James?».
La voce affabile di Skylar lo riscosse dai suoi pensieri, e James si voltò nella sua direzione.
Il ragazzo, nonostante le proteste del cervello, sentì gli angoli delle labbra sollevarsi un lieve accenno di sorriso.
Skylar sembrava particolarmente carina, quella mattina.
“Pensa a Jasmine, scemo”, bisbigliò una vocina nella mente del ragazzo “non puoi prenderti una sbandata per la prima ragazza che incontri e che non ti tratta come un probabile traditore. Non è un gran modo per ricordarti del suo sacrificio”.
“Non mi sono preso una sbandata per Skylar” ribatté lui, ma non era del tutto convinto.
La vocina ridacchiò.
«Hey», rispose «c'è qualche problema?».
Skylar si lasciò scivolare di fianco a lui e lo studiò un po', prima di parlare.
Era da quando avevano lasciato il fast food di Diomede che il ragazzo era nervoso e scattava sull'attenti ogni volta che avvertiva un suono, e la cosa stava cominciando a tormentare anche lei.
«Sembri un po'... assente, ecco, da un po'» gli fece notare lei, spostandosi una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio «c'è qualcosa che ti preoccupa?».
«No, è tutto okay», replicò lui, in tono gentile.
Ma Skylar era una figlia di Atena, dopotutto, e non abboccò.
Cominciò a giocherellare con la cerniera della felpa che indossava, un po' imbarazzata. Di solito non se ne andava in giro a chiedere ai ragazzi che problemi avessero, ma James stava diventando un amico. Se qualcosa lo turbava, Skylar voleva almeno provare ad aiutarlo.
Si limitò a guardarlo di sottecchi, ed i loro sguardi s'incontrarono.
James corrucciò le sopracciglia.
«Si nota molto?» domandò, alla fine.
«Solo un po'» cercò di rassicurarlo lei.
James sospirò lievemente, incerto.
«È che... ho avuto un po' di problemi con la polizia» disse, tutto d'un fiato.
Quando se ne usciva con quella frase, in genere, tutti si aspettavano che James avesse un passato da criminale, da spacciatore o qualcosa di simile.
Skylar, invece, lo guardò come per incitarlo a proseguire, senza la solita paura che spesso s'imprimeva negli occhi dei suoi interlocutori.
«Il fatto che siano sulle mie tracce, mi mette un po' di ansia. È... per una cosa che è successa con mio padre, un po' di tempo fa... ma è una storia brutta, Skylar» mormorò James, voltandosi di nuovo verso di lei «raccontarla non mi piace, e non voglio... spaventarti».
«Sono sicura che non hai fatto niente di male, tu, James», replicò lei.
James si grattò il capo, arruffandosi i capelli scuri e prendendo una profonda boccata d'aria.
«Ehm...» cominciò, un po' a disagio, senza sapere esattamente da che parte cominciare «io vivevo a New York insieme a mio padre, fino a qualche anno fa. Un giorno, quanto rientrai, trovai la casa completamente a soqquadro e mio padre era... morto».
La voce gli s'incrinò.
«Mi dispiace, James» sussurrò Skylar, pentita «se non vuoi parlarne...».
Lui scosse il capo, senza guardarla, e cominciò a tirarsi su la manica destra della felpa, scoprendo l'avambraccio ed una cicatrice.
«I ladri erano ancora in casa, quando arrivai» spiegò, fissando la cicatrice come se fosse la cosa più orribile che avesse mai visto in vita sua «scappai fino alla Collina Mezzosangue, ma poi mi presero al Pino. Questa me l'ha lasciata uno di loro con il coltello. Un'amica mi ha salvato, ma lei... le hanno sparato ed è morta. Uno dei ladri è scappato, mentre l'altro... l'ho... l'ho ucciso io. Non volevo, lo giuro, volevo solo spaventarlo e mandarlo via, ma ero così arrabbiato... e spaventato, e... adesso scapperai via anche tu?».
«No» rispose Skylar e, d'impulso, l'abbracciò «non ci penso neanche».


Le Cacciatrici di Artemide, nonostante un primo momento di diffidenza, a Sem e a Jonathan stavano cominciando quasi a piacere.
In fondo, erano delle ragazze come tutte le altre. Solo un po' più facilmente irritabili e molto meno disposte ad avere una conversazione civile con gli esseri umani – o mezzi umani – di sesso maschile.
Eppure, in un certo senso e mettendo da parte le occhiatacce, loro le ammiravano comunque.
Andavano in giro per il globo armate di arco e frecce, pronte a sconfiggere il nemico in un attimo.
Anche se erano un po' strane, erano forti.
Più tardi, tutti loro le avrebbero seguite alla ricerca della cerva, poiché anche se Talia aveva detto che non era necessario che le aiutassero a mettere al sicuro l'animale sacro, William aveva insistito per dare una mano.
Tutti sapevano che Will l'aveva fatto perché Brianne non gli piaceva e voleva darle contro, ma Jonathan aveva anche l'impressione che quella cerva avesse uno scopo ben preciso nella loro impresa.
Non riusciva a spiegarlo, ma sapeva che era importante.
Fu proprio Brianne a porgere a lui e a Sem i loro zaini.
«Ci abbiamo messo dentro del cibo vero», precisò la ragazza «tutti quei panini da fast food americano facevano ribrezzo persino ai nostri lupi. Ma quanti erano?».
«Circa una ventina di chili, credo» rispose Sem, arricciando il naso.
Brianne si batté una mano contro la fronte.
«Dei, che orrore» disse «se aveste mangiato davvero tutta quella roba, sareste diventati tutti dei ciccioni da almeno dieci quintali».
«Alcuni li avrebbe usati Susan per le sue... ehm, sedute spiritiche» rispose Sem, anche se non sembrava molto convinto «dice che i fantasmi li gradiscono».
«Oh» rispose Brianne, lanciando un'occhiata in direzione della ragazza in questione «capisco. È una figlia di Ade. Strane persone, i figli del dio dei morti».
Jonathan la guardò di sottecchi, mentre afferrava il suo zaino.
In fondo, anche Brianne non era così male come voleva lasciare ad intendere. E poi... quelle perline tra i capelli le stavano davvero bene.
«Sei una mezzosangue anche tu?», chiese Sem, curioso.
Brianne scosse la testa.
«No, io sono... ehm, ero una ragazza mortale, fino a un paio di mesi fa», rispose.
«Oh» fece Jonathan, perplesso «non credevo che anche le mortali potessero entrare a far parte delle Cacciatrici».
Brianne gli rivolse un buffo sorrisetto, con tanto di sopracciglia inarcate e sguardo compatente.
«Certo che possono», rispose «le ragazze possono fare qualunque cosa, al contrario dei ragazzi».
Jonathan decise che fosse bene non contraddirla, o una freccia gli avrebbe probabilmente trafitto un occhio.
«Comunque», riprese Brianne «è bello il tuo arco».
Jonathan seguì lo sguardo della Cacciatrice fino a quando scorse la sua arma.
Era poggiata al lato sinistro della tenda, dove lui aveva dormito.
«Si chiama Esali», gli uscì.
«La corda aveva qualche problema», gli fece sapere «ma ci ho pensato io. Adesso dovrebbe funzionare meglio. Ti ho lasciato anche qualche freccia speciale».
Jonathan dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto di ciò che Brianne aveva fatto per lui.
«Davvero?» chiese, stupito «cioè... grazie, non dovevi».
Sem, sempre più confuso, guardava ora Jonathan e ora Brianne senza riuscire a capire cosa esattamente stesse succedendo. Brianne sembra così... civile.
«Certo che dovevo» replicò la ragazza, alzando gli occhi al cielo e facendo spallucce «un arco come quello deve essere trattato con il massimo rispetto».



Angolo di Butterflies:
Okay.

Capitolino di passaggio che mia sorella mi ha costretto a scrivere u.u se non succede niente, è colpa sua. Prendetevela pure con lei, se vi va.
Will: non succede... niente? Sono ancora là, paralizzato dallo shock, e tu dici che non succede niente?!
Suvvia, Will, era solo un bacetto innocente.
Will: sì, un “bacetto innocente” che mi ha dato la ragazza che mi piace da tipo sempre e con cui non ho mai pensato di avere neanche mezza speranza! Devo ancora riprendermi!
Susan: …l'ho fatto dopo anni che ho pensato di farlo, e me l'hai fatto fare così?!
Nathan: TU, brutta strega, mi hai fatto quasi – e sottolineo il quasi – piangere. E mi hai fatto beccare da una come Elle! Sei un mostro!
Jonathan: stai davvero pensando di farmi innamorare di una Cacciatrice? Sono in un'impresa senza speranza di riuscita. Caos sta per svegliarsi. Non riesco a trovare il libro che mi serve. Sono ricercato in tutti gli Stati Uniti dalla polizia. Non sono già abbastanza sfigato, secondo te? Certo che no, mettiamoci pure un amore impossibile T.T
Rose: e perché hai detto a tutti che ho paura del buio?ç.ç
James: ...
...Bene! Prima che i vostri OC organizzino una rivolta verso l'autrice di questa... “cosa”..., vi saluto e spero che abbiate passato un buon Ferragosto.


Anzi, no u.u non ho ancora finito :3
Will: no? Uff...
No, perché una ragazza meravigliosa che ho già ringraziato tantissimo e ringrazio ancora, Scilotta78 - per la cui felicità (?) ho aggiornato con un giorno d'anticipo rispetto ai miei progammi -, ha trovato una canzone per tutti i personaggi(+1) di questa storia e vorrei condividerle con voi u.u


Rose: Kelly Clarkson - What Doesn't Kill You (Stronger)
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=N4L8fltjR7U

Altair: Jason Derulo - Fight For You
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=N4L8fltjR7U

Skylar: Zedd feat. Foxes – Clarity
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=BIi2fz2xCy4

Elle: David Guetta feat. Sia – Titanium
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=yj_alR22hCI

Sem: Avril Lavigne – Innocence
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=Ir2Sg_8hC3w

Jonathan: Panic! At the Disco: C'mon (with Fun)
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=pNZiy4rHYAY

Will: 30 Secon to Mars - This is war
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=jNLrbIHBcp0

James: The cab - Angel With Shotgun
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=6y5ltqkS0ik

Nathan: Simple Plan - Welcome to my life
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=J-HH3JZnGfs

Susan: Beth Crowley – Warrior
LINK: https://www.youtube.com/watch?v=Ir0MQngM6eU

Brianne: Christina Auguilera - Fighter
LINK: http://www.youtube.com/watch?v=jplkvf44v2c

Ora ho finito davvero u.u 
A presto e cercate i nessi tra le canzoni e gli OC u.u

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


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Capitolo 8


Il gruppo di semidei e di Cacciatrici – una trentina di adolescenti inquieti, in tutto – s'infiltrò all'interno di una foresta protetta che pareva sprizzare energia divina da ogni più piccolo arbusto.
I ragazzi camminavano appena dietro a Talia, guardandosi intorno attentamente e cercando di imprimere nelle loro menti ogni più piccolo dettaglio.
Non ne conoscevano il motivo neanche loro, ma tutto, in quel posto, faceva drizzare loro i peli sulle braccia.
A tutti tranne che a William, a quanto pareva, perché il ragazzo continuava a sorridere, arruffandosi i già spettinati ricci biondi e parlottando fitto fitto con Susan.
Nessuno riusciva a cogliere quanto si stessero dicendo, ma sembrava qualcosa di molto personale.
Susan, al contrario di lui, sembrava però sul punto di tornare sui suoi passi e dichiarare che avrebbe aspettato tutti alla jeep, al sicuro da mostri e da divinità probabilmente ostili.
Sem era piuttosto d'accordo con lei, su quel punto. Non aveva alcuna voglia di trovarsi di fronte ad un altro gigante o, peggio ancora, di imbattersi davvero in Eracle. O Ercole, come Altair si ostinava a chiamarlo. Sem era abbastanza certo che, prima o poi, tutta quella confusione tra nomi greci e romani l'avrebbe mandato fuori di testa.
Il figlio di Giove, dal canto suo, camminava vicino a lui, con Rose al fianco e la spada d'oro imperiale che gli ciondolava dalla cintura. Era teso come una corda di violino, come se stesse per incontrare la cosa più orribile del pianeta invece che un suo fratellastro.
Rose doveva continuamente ricordargli di respirare regolarmente.
Dietro di loro, vi erano Skylar e James.
La loro amicizia sembrava essersi rinsaldata parecchio dopo la sana dormita di quella notte, perché non parevano affatto intenzionati ad allontanarsi l'uno dall'altra.
Jonathan aveva cominciato a sentirsi un po' come un terzo incomodo, per cui si era accontentato della compagnia di Brianne, la quale, però, sembrava apprezzare molto più il suo arco che lui.
«È un oggetto meraviglioso» continuava a ripetere la ragazza, fissando l'arma di bronzo celeste appesa alla spalla del ragazzo e sospirando «sembra così letale... un pezzo unico. È davvero un peccato che ce l'abbia un maschio».
Nathan, invece, continuava a sbuffare come un centauro in trappola, guardandosi intorno e corrucciando le sopracciglia.
«Non mi piace questo posto», si lamentò «c'è troppa energia divina, per i miei gusti».
Elle gli rivolse un'occhiata sprezzante, arricciando le labbra color prugna.
«Hai fifa, Ayala?», chiese «i bambini paurosi e piagnucoloni possiamo anche lasciarli qui, ti pare?».
«Divertente, Willow» commentò lui, regalandole un'occhiataccia «hai un senso dell'umorismo davvero contorto, lo sai?».
Elle replicò con una smorfia.
«Okay, proviamo di qua» disse d'un tratto Talia, dopo ore che camminavano senza sosta, svoltando a destra ed abbandonando il sentiero che aveva seguito fino a quel momento «credo di aver visto...».
La voce le morì in gola, e gli occhi blu elettrico le si illuminarono come i fanali di un'automobile.
«Impronte», sussurrò Brianne.
La Cacciatrice non riuscì a trattenere un gridolino di entusiasmo, e Jonathan si chiese se davvero non fosse tutta matta come, durante la discussione della sera prima, aveva sostenuto Will.
I ragazzi avevano concordato con Talia che avrebbero passato la giornata alla ricerca della Cerva Cerinea insieme a loro, poi, se non l'avessero trovata, sia i mezzosangue che le Cacciatrici avrebbero messo da parte la questione.
I semidei avrebbero proseguito per la loro impresa, mentre le Cacciatrici si sarebbero dirette verso New York e l'Olimpo, pronte a dare man forte in caso di attacco nemico.
A quanto pareva, forse, Talia non se ne sarebbe andata a mani vuote.
La ragazza incoccò una freccia nel suo arco.
«Sono impronte fresche» osservò, scrutando con attenzione le forme degli zoccoli caprini impressi nel terriccio «non sono state lasciate più di cinque o dieci minuti fa».
«E tutto questo tu sai dirlo da delle impronte?» domandò Altair, stupefatto.
«Ti sorprenderebbe sapere quante cose si possono dire da un'impronta, fratellino» replicò Talia, in un sorrisetto.
Altair inarcò un sopracciglio scuro, ancora più perplesso.
«No, dai», disse «eri una figlia di Giove, prima di diventare una Cacciatrice?».
«Della sua forma greca», precisò Talia «e sono ancora figlia sua, quindi, dì qualcosa di sbagliato e riceverai il più grande elettroshock della tua vita».
Altair non aveva paura dei fulmini, ma decise che non fosse il caso di far innervosire una come Talia. Era quasi impossibile, ma non voleva rischiare che Giove – o Zeus – preferisse Talia a lui e decidesse che la sua immunità alle scosse elettriche poteva anche andare a farsi benedire.
Non ci teneva a finire per odorare di aquila all'arancia bruciata, ecco.
Rose, ancora vicino a lui, ridacchiava sommessamente.
«Andiamo» tagliò corto Brianne, alzando gli occhi al cielo. Poi, afferrò Jonathan per la giacca e lo trascinò via, seguendo le tracce sul terreno.
Lo tirò talmente forte che il figlio di Ecate dovette reggersi gli occhiali sul naso, giusto per evitare che gli cadessero.
Talia li osservò per un attimo con le sopracciglia corrucciate, in silenzio, finché William non le passò accanto e le mollò un pizzicotto su un braccio.
«Andiamo davvero, Talia» disse lui, indicando il resto del gruppo che già si stava addentrando tra gli alberi.
La ragazza fu seriamente tentata di fulminarlo, ma non era certa che il figlio di Ares sarebbe sopravvissuto ad una cosa del genere. Aveva già rischiato di uccidere un altro paio di salvatori – o potenziali salvatori – dell'Olimpo in passato, ma Chirone, allora, non ne era sembrato molto felice. Suppose che fosse il caso di lasciare perdere.


Seguirono le tracce per un'ora buona, poi, finalmente, riuscirono ad individuarli.
Non che fosse stato poi così difficile, una volta che la voce di Eracle aveva cominciato a sbraitare imprecazioni contro il padre in greco antico.
Erano tutti abbastanza certi che non fossero molti gli americani che sapevano parlare quella lingua, per cui non avevano esitato neanche un istante a correre nella loro direzione.
Eracle e la cerva stavano attraversando un ruscello. O, per lo meno, quella era la loro intenzione.
La cerva – un meraviglioso animale dalle corna d'oro e dagli zoccoli di bronzo e d'argento – era ormai dall'altra parte della riva, quasi in salvo, ma Eracle era bloccato sulla sponda opposta.
Una naiade decisamente inferocita gli aveva puntato un dito contro e sbraitava infervorata.
Sembrava una bambina di poco più di dodici anni. Aveva i capelli scuri, lunghi e ondulati come le anse di un fiume, ed i suoi occhi erano di un azzurro talmente chiaro da apparire quasi trasparente.
Sarebbe potuta essere considerata “carina”, ma era talmente arrabbiata che stava cominciando ad evaporare e, invece che arrossarsi dal nervosismo, le sue guance si erano fatte del blu intenso degli abissi marini.
«Non posso permetterti di attraversare questo corso d'acqua», brontolò la ninfa «è escluso. Voi semidei credete di poter fare tutto quello che volete solo perché siete figli di un dio. Ma la sai una cosa, carino? Tu non sei tuo padre o tua madre, o chiunque Ade sia il tuo genitore divino! E non attraverserai questo ruscello!».
Eracle si passò una mano tra i capelli scuri, visibilmente esasperato, mentre la cerva si fermava ad osservare incuriosita.
“Va' via!”, avrebbe voluto gridarle Susan, ma si trattenne.
«Come devo dirti che io sono un dio?», ribatté Eracle «sono Eracle! Sono solo in punizione!».
La ninfa emise una risatina di scherno.
«Come no» disse poi, in tono estremamente sarcastico «e io sono una trota!».
«Odio l'umidità», sbuffò Elle «mi arruffa i capelli».
«Ma se i tuoi capelli sono più lisci della cosa più liscia del mondo» commentò Nathan, inarcando un sopracciglio.
«Piantatela» intimò Rose, in un sibilo.
«Ma che stanno facendo?» sussurrò James, perplesso.
Talia sorrise come un giocatore di poker che sa di aver vinto una partita.
«Kismet ci sta dando una mano», rispose.
«Chi?» chiese Sem, confuso «cosa?».
«La naiade che vedete laggiù si chiama Kismet. È un'amica», sorrise Talia «andiamo a darle una mano».
Talia non aspettò la risposta.
Sgusciò fuori dal suo nascondiglio e puntò una delle sue frecce contro Eracle.
«Hey, tu!», gli gridò.
Eracle si voltò di scatto, ed i suoi occhi azzurri fulminarono la ragazza. Se avesse avuto ancora i suoi poteri da dio, con ogni probabilità, l'avrebbe “fulminata” in maniera molto più letterale.
«Oh, no, non di nuovo!», si lamentò lui «che cosa deve fare un povero dio per riuscire a catturare una stupida cerva?».
Brianne scattò in avanti.
«Non parlare della cerva sacra in questo modo, maschio!», sibilò.
Non aveva ancora smesso ti tirare Jonathan, anzi, adesso lo stringeva saldamente per il polso, come se stesse tentando di trattenerlo dal fuggire via. Non che ce ne fosse bisogno, in realtà.
«Ehm... Brianne», sussurrò il ragazzo «mi stai facendo male».
Brianne lo lasciò, orripilata.
«Ah! Germi di maschio!», esclamò.
Jonathan, per tutta risposta, alzò gli occhi al cielo.
«Volete cacciare questo strano tipo o devo affogarvi tutti?» si lamentò Kismet, stizzita.
«Menomale che è un'amica», commentò Nathan, lanciando un'occhiata a Talia.
«Non puoi affogarci, il tuo è un ruscello minuscolo», osservò Sem.
Kismet assottigliò le palpebre e le guance le si fecero ancora più blu.
«Solo perché sei figlio di un dio e credi di potermi intimidire, vero?», soffiò «be', ti sbagli!».
Sem sbatté le palpebre.
«È solo un dato di fatto» disse, a mo' di scuse.
«Bla, bla, bla. Voi semidei ce l'avete sempre con me. Non vi degnate neanche di pulirvi i piedi prima di passare, ed io sono stufa di dovermi togliere di dosso tutta quella robaccia che calpestate», commentò la ninfa, stizzita «adesso mandate via questo impostore!».
«Non sono un impostore, sono davvero un dio!» si lamentò ancora Eracle, agitando una clava come se volesse batterla in testa a Kismet.
«Ma finiscila!», replicò la ragazzina.
Eracle borbottò qualcosa che somigliò molto a “perché a me, padre?”.
Sem si voltò a guardare Skylar e James.
«Ma sono matti?», chiese.
Skylar si strinse nelle spalle.
«Forse un po'» rispose.
James soffocò un sorriso, ma non si espresse.
«Completamente» fece invece Rose, convinta, portandosi una mano davanti alla bocca per non farsi sentire da Eracle o dalla piccola ninfa.
Altair inarcò entrambe le sopracciglia in un gesto di scherno, dicendosi d'accordo.
«Davvero quello è tuo fratello?» chiese poi Rose, rivolta al figlio di Giove.
«Fratellastro», precisò lui.


«Lascia stare quella cerva, Eracle!» intervenne Susan, stufa di tutto quel battibeccare.
«E il ruscello!», insistette la ninfa «ricordatevi del mio ruscello!».
«Non posso!», sbuffo Eracle «catturarla e portarla da mio padre è l'unico modo che ho per tornare ad essere un vero dio! L'ho fatto arrabbiare, capite? Ce l'ha con me da quando ho cercato di far ammazzare quei due con la nave alle mie Colonne ... come si chiamavano? John e Pam... Penny e Mason... non ricordo! Ma adesso non ho neanche più i miei poteri da mezzosangue! Sono così... mortale!».
«E tale resterai» fece William, in tono pacato ed affabile, totalmente in contrasto con ciò che le sue parole significavano per Eracle.
Quel giorno, lui e Susan avevano parlato talmente poco con gli altri, presi com'erano da chissà quali discorsi, che i ragazzi si stupirono quasi di sentire le loro voci.
Eracle parve accorgersi della sua esistenza solo in quel momento.
«Ah!» esclamò, assottigliando le palpebre «mi hanno già parlato di te».
William non sembrò sorpreso.
Aveva un'aria talmente soddisfatta che, con ogni probabilità, non sarebbe potuto sembrare spaventato neanche se avesse dovuto disinnescare una bomba che avrebbe potuto far saltare in aria sua madre.
«Mi hanno detto che stai guidando un'impresa suicida e completamente inutile», continuò «ed anche che credi di avere sette giorni a disposizione, ma ti sbagli di grosso».
Eracle ottenne l'attenzione desiderata.
Susan assottigliò lo sguardo.
«Che vuoi dire?», domandò.
Eracle rise.
«Lasciatemi attraversare questo stupido ruscello e ve lo dirò», propose.
«No!», strillò Kismet.
«No» ripeté William, incrociando le braccia al petto «prima ci dici cosa sai, poi, forse, ti lasciamo attraversare il ruscello».
«Che cosa?!», strepitò la ninfa «non ti ho dato il mio permesso, semidio!».


Rose non aveva mai desiderato di strozzare qualcuno come in quel momento.
Eracle e Kismet le stavano facendo venire un esaurimento nervoso da clinica psichiatrica.
Si rimbracò le maniche come una lottatrice pronta allo scontro.
«Senti, Eracle» disse, stizzita «parla o ti dovremo spezzare l'osso del collo!».
«Chissà se adesso, senza i tuoi poteri, muori e basta o se ti trasformi in polvere come tutti i mostri», le fece eco Altair.
La diplomazia non era esattamente il loro forte.
«Vediamo cosa succede se si colpisce la testa di un semidio con una mazza, invece», propose Eracle «secondo me, otterrei lo stesso effetto se colpissi un cocomero».
Be', la diplomazia non era il forte neanche di Eracle. Di certo non aveva ucciso l'Idra di Lerna contrattandoci.
Infatti attaccò, roteando la sua clava, diretto verso la figlia di Ermes.
Altair brandì la sua arma, così come il resto degli altri ragazzi, pronto a difendere l'amica, ma non ce ne fu bisogno.
La ragazza sapeva badare benissimo a se stessa.
Schivò la clava e colpì Eracle dritto in mezzo agli occhi con il palmo della mano, ed Eracle si fermò, sbattendo le palpebre.
Sul viso aveva stampata l'espressione di uno che aveva appena sbattuto la faccia contro una porta a vetri che proprio non avrebbe dovuto trovarsi lì.
«Idiota», sbuffò la ragazza.
Non aveva neanche dovuto sfoderare Pantera, la sua spada.
«Bel colpo» fece Altair, stupito «roba da greci?».
«Arti marziali, veramente» rispose Rose, soffocando una risata.
«Me lo fai rivedere?» chiese il figlio di Giove, curioso.
«Appena si riprende», promise Rose «mica vogliamo ucciderlo, no?».


Appena si riprese, invece, Eracle cambiò subito direzione.
La prima cosa che fece fu lanciare la sua clava in direzione di Elle, per poi buttarsi anche lui verso di lei.
Nathan intercettò la clava e brandì Komma, il suo spadone, con entrambe le mani. La clava si divise in due appena entrò in contatto con la lama.
«Ringraziami più tardi, okay?» disse il ragazzo ad Elle, senza guardarla.
«Scordatelo» tagliò corto la figlia di Afrodite, spostandosi di lato per evitare che Eracle la scaraventasse a terra.
Elle rivolse tutta la sua attenzione ad Eracle, che stava di nuovo correndo verso di lei come un toro che ha puntato il torero alla Corrida.
«E tu, imbecille, fermati!», ordinò.
Eracle sembrò dapprima confuso, poi interruppe la sua marcia.
«...o-okay, come vuoi tu», disse.
«Ti conviene» minacciò la ragazza, assottigliando lo sguardo «siediti».
Eracle si sedette a terra.
«Ma cosa...?» prese a dire Nathan, confuso almeno quanto Eracle «come Ade hai fatto, Willow?».
Elle gli regalò un'occhiata di superiorità.
«Noi figlie di Afrodite non siamo tutte shopping e ragazzi, alcune di noi sanno anche fare qualcosa», disse «al contrario dei figli di Ebe, a quanto pare».
Nathan le rivolse un sorriso stiracchiato.
«Almeno io non sono uno stronzo acido ed insensibile», disse.
«Tu sei esattamente uno stronzo acido ed insensibile, Ayala», gli fece notare Elle.
«Non quanto te», precisò il ragazzo.
«Modestamente, se faccio qualcosa, lo faccio meglio di chiunque altro», fece Elle.
Nathan stralunò gli occhi.
«Cosa stavo...?», cominciò a chiedere Eracle.
Elle si rivolse agli altri.
«Volete legarlo o qualcosa del genere, oppure no? Non posso tenerlo qui per sempre!».


Legarono Eracle come un salame.
Kismet era al settimo cielo.
«Ben ti sta, scemo!» disse, pungolando le guance del prigioniero con le dita «questo succede agli sbruffoni che tentano di oltrepassare le mie acque!».
Sem scrutò con attenzione il capo ciondolante di Eracle.
Rose l'aveva nuovamente stordito, questa volta utilizzando un sistema molto più sottile del precedente e decisamente più duraturo: i punti di pressione. Le era bastato premere sul collo del semidio perché quello si abbandonasse sull'erba.
«Questo sarebbe il semidio più forte mai esistito al mondo?» domandò Sem, con una punta di scetticismo nella voce «andiamo bene».
«È privo dei suoi poteri», precisò Talia «un figlio di Zeus nel pieno delle sue forze non si lascerebbe mai battere da un branco di ragazzini in questo modo».
Sem notò che la Cacciatrice sembrava un po' seccata, forse perché non aveva avuto l'occasione di utilizzare alcuna delle sue frecce.
«Oh, dei!» esclamò invece Kismet, sgranando i suoi enormi occhi cristallini «volete dirmi che questo era davvero Eracle?».
«Certo che era davvero Eracle» rispose Sem, abbozzando un sorrisetto.
Gli veniva un po' da ridere, a guardarla.
In quel momento sembrava quasi una normale ragazzina isterica di dodici anni.
Kismet rimase in silenzio per alcuni istanti – cosa davvero strana perché, da quando i ragazzi l'avevano conosciuta, la giovane ninfa non aveva tenuto la bocca chiusa neanche per un istante –, fissando il corpo privo di sensi dell'uomo con un misto di terrore e sorpresa nello sguardo. Poi guardò Sem.
«Dimmi che gli dei non fulminano le povere ninfe che non riconoscono i loro figli, ti prego» lo supplicò, ma non aspettò la risposta. Cominciò a camminare intorno ad Eracle.
«Oh, dei, mi trasformeranno in una carpa o, peggio ancora, in uno scorfano! E io li odio, gli scorfani!», si lamentò la ninfa.
Sem sbatté le palpebre: quella tipa era davvero strana.


«Dovremmo tranquillizzarla o...», fece James, osservando la ninfa che si agitava intorno al loro prigioniero.
Skylar si strinse nelle spalle, mordendosi il labbro inferiore.
«Non saprei proprio come», ammise «hai mai cercato di tranquillizzare una ninfa?».
James sospirò.
Le naiadi del Campo Mezzosangue, quelle che vivevano sul fondo del loro lago, non gli erano mai sembrate così fuori di testa. Anzi, se ne stavano sempre là sott'acqua e non parlavano mai con nessuno. Al massimo, se eri loro simpatico, ti salutavano con un gesto della mano o ti ripescavano se cadevi in acqua dopo uno dei soliti atterraggi di fortuna.
Di certo non cominciavano a girare in tondo supplicando Zeus e gli altri dei di non trasformarle in scorfani per il solo fatto di non aver riconosciuto un semidio che neanche sembrava tale.
«Mai», rispose.
«Fidati, quando partono... partono», mormorò Skylar.
James accennò un sorriso divertito, e Skylar lo imitò, senza riuscire a trattenersi.
«Che cosa ne facciamo di lui, adesso?» domandò poi lui, rivolto un po' a Talia ed un po' a William, il quale si era inginocchiato di fronte ad Eracle e lo studiava da vicino.
«Proviamo a fargli dire quello che sa», rispose Talia «sembrava importante, per voi».
Anche lei si era accoccolata vicino al fratellastro e lo guardava con attenzione, quasi non riuscisse a credere che quel tizio avesse davvero un qualche grado di parentela con lei.
«Giusto» concordò Skylar, con un filo di voce.
Da una parte, la ragazza non stava esattamente morendo dalla voglia di scoprire che cosa avesse voluto dire Eracle con “credi di avere sette giorni a disposizione, ma, in un certo senso, ti sbagli di grosso”. Dall'altra, sapeva che dovevano scoprirlo.
James le sfiorò involontariamente il gomito con le dita, e Skylar si riscosse.
Si avvicinarono ad Eracle insieme agli altri, finché quello non fu completamente circondato da un gruppo ben assortito di Cacciatrici e semidei.
«E ora a noi, stronzetto», bisbigliò Brianne.


Eracle riprese i sensi pochi minuti dopo, ma nessuno dei ragazzi fu in grado di cavargli una parola di bocca.
Ci provò Susan con le buone, promettendogli di evocare qualche spettro che potesse aiutarlo nel compiere le sue fatiche. Ci provò Sem, dopo aver trovato un accordo con Kismet – o meglio, dopo averle spiegato che suo padre era Poseidone –, giurandogli che avrebbe potuto oltrepassare tutti i fiumi che voleva da lì al Kansas.
Ci provò anche Talia, minacciandolo di infilargli una pigna in parti del corpo in cui le pigne proprio non avrebbero dovuto essere infilate.
James stava dicendo ad Eracle che sapeva controllare piuttosto bene le ombre ed il buio in generale e che non ci avrebbe messo molto ad offuscargli la vista se non avesse parlato, quando uno scintillio sin troppo intenso li investì.
«Ma cosa...?» chiese Rose, perplessa, sbattendo le palpebre.
Jonathan ebbe un fremito.
La sensazione d'inquietudine l'aveva accompagnato sin da quando erano arrivati lì e adesso aveva anche paura di sapere il perché.
«Oh, no», bofonchiò «oh, no... no, cavolo».
«Cavolo?» fece Brianne, corrucciando le sopracciglia bionde «chi è che dice ancora “cavolo” per imprecare?».
Quando la Cacciatrice terminò la frase, una donna comparve tra gli alberi.
Sin da una prima occhiata, si poteva palesemente capire che non fosse umana.
Era bellissima, certo, ma i suoi occhi erano completamente neri, privi di sclera e di pupilla, come due piccoli buchi neri pronti ad abbattere ogni certezza di chi aveva la sfortuna di incrociarli.
Aveva i capelli dorati, lunghi e legati in una coda alta e l'abito che indossava era del colore del petrolio, in stile greco, ed ondeggiava lievemente.
Jonathan dovette trattenere il fiato: era Ecate, sua madre.
Lui fu il primo ad inginocchiarsi, insieme alle Cacciatrici.
Tutti ammutolirono, persino Kismet.
Ecate parve piuttosto felice della cosa, perché accennò un sorriso inquietante.
«Alzatevi, eroi» disse la dea, ed i ragazzi obbedirono.
Rivolse l'attenzione, per prima cosa, ad Eracle.
«Siete stati bravi a prenderlo», disse «io sono Ecate, dea della magia.».
Regalò una lunga occhiata a Jonathan, ed il ragazzo sbiancò.
Ecate gli sorrise.
«Non caverete un ragno dal buco con Eracle» disse, per poi rivolgersi ad Altair «o con Ercole, comunque voi vogliate chiamarlo. Quindi, dovrete fidarvi di me e... sì, William Jay Harper, temo che questa sia la vostra unica possibilità, anche se sei restio a farti aiutare dalle divinità».
William irrigidì le spalle. Detestava quando lo chiamavano con il suo nome completo. In genere, lo facevano i mostri o sua madre quando voleva fargli una ramanzina. E be', detestava anche quando qualcuno gli leggeva nel pensiero.
La dea mise su una bizzarra espressione compiaciuta e puntò i suoi vacui occhi neri su Elle.
«Il tempo a vostra disposizione è diverso da quanto pensavate, ma forse non inferiore come sostiene Eracle», disse la dea.
Man mano che parlava, passava in rassegna tutti i semidei, soffermandosi un po' su ognuno.
Era inquietante.
«Oggi è il quindici di giugno, se non erro. Voi dovete raggiungere la cima del Monte Elbert entro la fine del diciannove e tornare a New York il giorno stesso» spiegò Ecate «è importante che eseguiate questi passaggi o temo che il destino del mondo... diciamo così, non sarà piacevole».
«Ma come faremo, signora?» domandò Susan, educatamente «è fisicamente impossibile».
Ecate le sorrise dolcemente.
«Capirete quando sarà il momento, eroi», promise «voi, pensate solamente a tornare a New York».
Skylar si morse l'interno della guancia per soffocare una domanda.
«Avete una scelta, ovviamente» proseguì la dea, facendo guizzare lo sguardo su Sem «potete abbandonare qui la vostra impresa e cercare di tornare al Campo Mezzosangue per affrontare la battaglia – e la battaglia ci sarà, ragazzi, qualunque cosa voi ragazzi farete – insieme ai vostri amici. In questo caso, non dovrei dirvelo, ma perireste ancor prima di mettere piede a New York. La vostra fine sarebbe indolore. Una semplice esplosione e puff... tutto finito».
La dea spostò lo sguardo da Nathan a James un paio di volte, ed i due ragazzi strinsero i denti, a disagio.
«Se farete ciò che vi ho detto, invece, le vostre sofferenze saranno indicibili. Vedrete fiumi di sangue percorrere le strade della vostra città, le ossa dei vostri fratelli masticate dai mostri e persone che chiamavate “amici” vi trapasseranno con le loro spade; ma l'Olimpo e il mondo intero saranno salvi» disse, mentre i suoi occhi tornavano a puntarsi sul figlio «adesso sta a voi scegliere: preferite perdere ma non provare dolore o vincere nonostante la sofferenza?».
Jonathan non avrebbe saputo cosa scegliere, e di certo non perché entrambe le proposte fossero troppo allettanti.
Si passò una mano tra i ricci castani, agitato, mentre Ecate non smetteva di fissarlo con quei suoi strani occhi innaturali. Certo, sua madre lo chiamava una volta all'anno tramite IPhone ed il loro rapporto non era poi così pessimo, ma vederla dal vivo era completamente diverso e decisamente più imbarazzante.
«E Jonathan...» disse poi la dea, con voce vellutata, accennando un sorriso più dolce «non credo di averti regalato qualcosa per il tuo compleanno, perciò vorrei che tu prendessi questo».
Questo” era il libro più grande, bello ed antico che Jonathan avesse mai toccato in vita sua.
Doveva possedere almeno seimila pagine ruvide e vecchie come la Terra stessa, e tutte erano riempite da un'elegante scrittura a mano e da disegni ad inchiostro nero. Il tutto era rilegato in una copertina rigida e foderata da un consunto cuoio rosso e oro.
Jonathan lo ricevette con la stessa espressione che doveva aver avuto Mosè quando Dio gli consegnò le tavole dei dieci comandamenti.
«Se cerchi bene, vi troverai la risposta a quella questione che tanto ti assilla» disse Ecate, in tono solenne e delicato al contempo, per poi lanciare una rapida occhiata anche a Brianne, che fissava la dea come se non avesse mai visto niente di tanto affascinante e terrificante come lei «e, magari, anche a problemi che ancora non pensi di avere».
«Ti... ti ringrazio, ehm... mamma» provò a rispondere Jonathan, ma la voce gli uscì come un mormorio indistinto.
Skylar e James gli posarono una mano su una spalla ciascuno, come per infondergli coraggio e, in quel momento, una moffetta si avvicinò ai piedi di Ecate.
«Quella è una...» cominciò Elle, perplessa ed un po' disgustata.
«Una moffetta, sì», rispose Ecate «anche se tutti la scambiano sempre per una donnola ed io proprio non capisco il perché. Sono stata così brava a trasformare quella strega in questo animaletto... così è decisamente più gradevole. Si chiama Gale».
La moffetta sembrò un po' indispettita e cominciò a squittire qualcosa in tono concitato.
«Oh, bene» disse la dea, alla fine «devo proprio andare. Pare che Zeus non gradisca molto il fatto che io e Gale siamo ancora qui e...».
Puntò un indice contro Eracle, che sgranò gli occhi e si strinse nelle sue corde.
Un attimo dopo, era scomparso con un sonoro “CRACK”.
«La Cerva Cerinea adesso dovrebbe essere al sicuro per un po'. Ci vediamo a New York, ragazzi, se gli dei non verranno distrutti da... oh, non importa!», salutò la dea «fate del vostro meglio ed usate la testa, soprattutto tu, Jonathan, ci conto».
E, così dicendo, sparì anche lei in un luccichio.

Angolo di Butterflies:
Hola, ragazzi, come va? :3
Sono talmente di buon umore, oggi, che non so nemmeno cosa dire, quindi vi lascio subito in pace e me ne torno nel mio angolino del buon umore (?)
A presto e fatemi sapere cosa ne pensate,
Butterfliesss ♥

 

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Capitolo 10
*** Avviso. ***


*Una palla di fieno rotola solitaria nel deserto che è diventata questa fic*
 
Ciao, ragazzi! Volevo farvi sapere che la prossima settimana non potrò aggiornare - sarò in crociera con degli amici, aww ♥ -, per cui il capitolo 9 verrà pubblicato circa il 10 settembre e non il 3.
Sempre che la storia vi interessi ancora (e che io torni viva), visto che, fino ad ora, solo una persona mi ha calcolato lo scorso capitolo e la cosa è un pochino strana, preoccupante ed anche un tantino deprimente ç.ç
 
L’ avviso sarà cancellato con la pubblicazione del successivo capitolo o, in caso di necessità (ovvero nel caso mi diciate che la storia non interessa più ad anima viva, è orrenda e non serve a niente o proprio nessuno si farà sentire ç.ç -), verrà rimpiazzato con la scritta:
 
GLI DEI ODIAVANO LA STORIA ED HANNO DECISO UNANIMAMENTE DI TRASFORMARE L’AUTRICE IN UN DELFINO
-
e sapete qual è il bello dei delfini? Che non possono scrivere.
Muahahahahah!"
 
 Non fatemelo fare ahah, ci tengo a questa storia ç.ç

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