Black moon

di Aurore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Porcelain ***
Capitolo 2: *** Paradise ***
Capitolo 3: *** You and me ***
Capitolo 4: *** Get to you ***
Capitolo 5: *** Collide ***
Capitolo 6: *** Open arms ***
Capitolo 7: *** Chasing cars ***
Capitolo 8: *** Madness ***
Capitolo 9: *** Into the fire ***
Capitolo 10: *** Trouble ***
Capitolo 11: *** Stay ***
Capitolo 12: *** Echo ***
Capitolo 13: *** Love illumination ***
Capitolo 14: *** Glitter in the air ***
Capitolo 15: *** Hurricane ***



Capitolo 1
*** Porcelain ***


Capitolo 1
Porcelain



In my dreams I'm dying all the time
as I wake its kaleidoscopic mind
I never meant to hurt you
I never meant to lie
so this is goodbye
this is goodbye.
Porcelain, Moby¹


Quando in sogni opprimenti e orribili l'angoscia tocca il grado estremo, è proprio essa che ci porta al risveglio,
con il
quale scompaiono tutti quei mostri notturni.
La stessa cosa accade nel sogno della vita, quando l'estremo grado di
 angoscia ci costringe a spezzarlo.
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena





È tarda mattinata. Il sole picchia forte, ma si sta bene vicino all'acqua, talmente trasparente che riesco a vedere benissimo i minuscoli pesciolini che nuotano sul fondale di sabbia, intorno alle mie caviglie. Un'acqua così esiste solo su quest'isola. Il vento soffia leggero, scompigliandomi i capelli e increspando appena la superficie dell'oceano animata da piccole onde simili ad ali di gabbiano.

Dei passi si avvicinano. Sorrido. Posso sentirlo perfettamente, ma faccio finta di nulla. Vorrà senz'altro cogliermi di sorpresa. Un attimo di silenzio, poi le sue braccia mi circondano veloci. China la testa per baciarmi la spalla lasciata scoperta dal prendisole, mi sorride, mi stringe con forza e mi solleva, facendomi girare insieme a lui, una, due, tre, quattro volte... Strillo, sorpresa, divertita e un po' spaventata, un brivido di eccitazione che mi corre lungo la schiena. I miei piedi sfiorano il pelo dell'acqua, tracciando intorno a noi un cerchio di perfezione e di felicità. Scoppio a ridere e lui ride con me, mentre serro le sue braccia con le mie, quasi intrappolandolo a mia volta, e lascio andare la testa all'indietro, contro la sua spalla, godendomi la sensazione divina del vento tra i capelli.
Poi perde l'equilibrio e cadiamo entrambi sul bagnasciuga, rotoliamo sulla sabbia che si attacca alla pelle, ai vestiti, ai capelli, ridendo come pazzi. Quando ci fermiamo sono sopra di lui. Ha smesso di sorridere e mi fissa con aria seria: sembra in attesa di qualcosa di importante. Le sue labbra sensuali sono leggermente dischiuse ed io non resisto alla tentazione di toccarle con le mie. Mi cinge la vita con un braccio, spingendomi verso di lui, mentre con l'altra mano mi accarezza piano la coscia. Scossa dai brividi, premo con più forza la bocca contro la sua, come se volessi entrargli dentro. La lingua si fa strada verso la sua, audace come mai prima d'ora.
A malincuore sono costretta a staccarmi per prendere fiato e all'improvviso mi sento spossata: mi sembra che in quel romantico corpo a corpo abbia consumato tutte le mie energie. Mi lascio ricadere sulla sabbia, ansimante, e per un po' resto così, ferma, fissando il cielo azzurro chiaro e perfettamente terso. Amo questo posto. Io vengo da qui, lo sento. Il tempo scorre in modo strano, sembra dilatarsi all'infinito. Potrei essere sdraiata qui da un'eternità. Fa caldo, ma fa più caldo dentro di me. Giro la testa per guardare lui, disteso al mio fianco, e il sorriso si congela all'istante sulle mie labbra: il suo corpo è stranamente immobile e pallido, gli occhi spalancati sono fissi e vitrei, privi di espressione, come le finestre di una casa abbandonata.
No. Non è possibile.
Il mio respiro accelera, agitato e spezzato. Vorrei gridare, ma non ho il fiato necessario. Vorrei muovermi, toccarlo, ma sono paralizzata.
«Alex», sussurro.


Aprii gli occhi di scatto e mi ritrovai a fissare qualcosa di bianco. Un cuscino. Lentamente realizzai di essere a letto, un letto enorme e molto comodo che non era il mio, in una stanza che non era la mia. Tutt'intorno era in penombra e faceva un gran caldo, ma qualcosa di gelido scorreva piano su e giù lungo il mio braccio, per poi poggiarsi sulla mia fronte, togliendo qualche gocciolina di sudore.
«Va tutto bene. Sei sveglia, adesso», mormorò una voce delicata.
Papà. Mi girai lentamente sulla schiena e lo vidi seduto sul letto, accanto a me. Lo guardai in silenzio per qualche secondo.
«Era solo un sogno?», farfugliai, ancora disorientata. La mia voce era roca. Avevo bisogno di bere dell'acqua.
Mi sorrise e con un dito mi toccò di nuovo la fronte, spostando una ciocca di capelli in disordine. «Ma certo, piccola. Tu sei sull'Isola Esme, Alex è a Martha's Vineyard² con la sua famiglia e senz'altro sta bene. Non preoccuparti».
A mano a mano che riacquistavo la lucidità, mi rendevo conto che aveva ragione. Feci un bel respiro profondo e mi misi a sedere tra le lenzuola aggrovigliate, sistemandomi i capelli con le dita. L'incubo mi aveva lasciato una strana sensazione, un peso sullo stomaco. Lanciai un'occhiata intorno a me.
«Perchè sono in camera vostra?».
«Be', stanotte sono venuto a controllarti ed eri molto accaldata... come al solito», rispose lui, sorridendo. «Ti abbiamo messo in mezzo a noi per rinfrescarti un po'».
Annuii, imbarazzata. Ormai ero decisamente troppo grande per dormire nel letto dei miei, ma quando eravamo sull'Isola Esme si ripeteva ogni notte la stessa routine. Ero troppo abituata alle fredde notti di Forks per riuscire a dormire bene con quel clima così afoso e puntualmente mi svegliavo fradicia di sudore.
«Hai fame? La mamma ti sta preparando la colazione».
Papà si alzò e andò ad aprire le imposte della porta finestra che dava sulla spiaggia. Il sole inondò la camera, ma per la prima volta la vista di quel panorama mozzafiato, sfondo del mio orribile sogno, suscitava solo sensazioni sgradevoli.
«Che strano incubo, eh?», dissi.
Edward, che si stava dirigendo alla porta, si fermò e mi guardò con aria divertita. «Non direi, visto che ieri sera hai mangiato pesante: devi suggerire alla mamma di mettere meno peperoncino nella coxinha³ la prossima volta».
«Ehi, ho sentito!», gridò Bella dalla cucina. «Cos'ha la mia coxinha che non va?».
Papà si sforzò di trattenere le risate, un sorriso sghembo sul volto. «Niente, amore!», rispose uscendo dalla stanza.
Mi sfuggì un sorrisetto. Che matti, i miei genitori. Mi alzai e raggiunsi la finestra, stiracchiandomi. Il sole splendeva alto nel cielo, l'oceano luccicava come argento, le palme della spiaggia oscillavano pigramente. Quello strano senso di oppressione era svanito. All'improvviso mi parve di guardare tutto con occhi diversi. Non vedevo l'ora di fare un tuffo. Feci una doccia lampo, indossai bikini e copricostume e andai in cucina. Trovai papà intento a raccontare alla mamma del sogno, e per quanto fossi infastidita dal fatto di non riuscire a tenere mai niente per me, quando anche lei mi rassicurò, consigliandomi di non pensarci più, mi sentii molto più tranquilla.
«Stasera pensavo di cucinare le empanadas
», annunciò Bella mentre riempiva un bicchiere di succo di frutta e me lo porgeva.
«Ehm... non so se è una buona idea», sospirai, storcendo il naso.
Il suo entusiasmo si sgonfiò come un palloncino. «Perchè no?».
Papà aveva un sorriso che andava da orecchio a orecchio e taceva con aria furba.
«Mamma, tu non assaggi mai nulla mentre cucini e da quando siamo qui hai sviluppato un'insana passione per la cucina locale, che prevede un abbondante uso di spezie... Qual è il risultato, secondo te?».
«Non è possibile», sbottò. Sembrava scioccata.
«La coxinha di ieri sera conteneva più peperoncino che carne di pollo», aggiunsi, imperterrita. «La mia gola ha quasi preso fuoco».
Lei non sapeva come ribattere. Guardò papà, che tratteneva a stento una risata, poi di nuovo me, che avevo un'espressione eloquente, poi di nuovo lui. Infine si rassegnò con un sospiro. «E va bene. Basta spezie ed esperimenti culinari», grugnì. Prese una pila di piatti e stoviglie sporche e infilò tutto nella lavastoviglie con gesti bruschi.
Incrociai per un istante lo sguardo di papà e subito distolsi il mio; sapevo che se ci fossimo fissati per un secondo di troppo, sarei scoppiata a ridere.
«Allora, ehm... che facciamo di bello stasera?», chiesi, rompendo il silenzio.
«Io propongo una maratona di vecchi film per tutta la notte, fino all'alba», disse la mamma, tornando al tavolo.
«O meglio, fino a quando riuscirò a tenere gli occhi aperti», la corressi.
«Oppure potremmo fare un giro in città», propose Edward. Mi guardò. «Che ne dici, Raggio di sole? Non hai mai visto Rio di notte».
L'idea stuzzicò immediatamente la mia immaginazione. Durante il viaggio di andata eravamo atterrati in città di sera, ma io mi ero addormentata sul taxi che ci conduceva al porto e mi ero risvegliata a casa, nel mio letto: non avevo visto un bel niente. E sebbene fossimo in Brasile da più di una settimana, non avevamo ancora mai lasciato l'isola. Rio di notte... doveva essere fantastica. Sorrisi.
«Ci sto».



****



Quella sera, dopo cena, passai un bel po' di tempo nella mia stanza a prepararmi. Indossai un vestito corto di tulle color blu pervinca che mi aveva comprato Alice prima di partire e che io giudicavo fin troppo appariscente, ma quale occasione migliore per indossarlo di una sera a Rio de Janeiro? Lo abbinai a sandali argentati argentati e sistemai i capelli in una alta e vaporosa coda di cavallo. Poi mi toccò convincere la mamma a nom uscire di casa in jeans e t-shirt e a mettere un vestito e scarpe col tacco. Non fu semplice, ma a un certo punto, finalmente, fummo pronti ad andare.
Mentre viaggiavamo in barca verso la terraferma, l'eccitazione che mi aveva fatto compagnia fino ad allora crebbe fino a toccare il culmine. Troppo impaziente per chiacchierare con i miei, rimasi in silenzio per tutto il tempo, seduta sul bordo del motoscafo ad osservare l'oceano, un'immensa distesa liscia e scura come velluto nero, e la luna piena, una sfera perfetta color argento che si specchiava sulle onde. Era una vista talmente romantica da stringermi il cuore. Nel frattempo Edward e Bella chiacchieravano tranquillamente tra loro, le voci sovrastate dal rombo del motore e dallo scroscio delle onde contro i fianchi della barca.
Arrivammo a destinazione dopo poco più di mezz'ora e, lasciata la barca al molo del porto, ci immergemmo nelle strade affollate, caotiche e rumorose della città. Scattammo qualche foto vicino all'oceano dopo aver vinto le resistenze della mamma, patologicamente incapace di stare davanti all'obiettivo; Alice mi aveva ordinato chiaro e tondo di immortalare ogni momento della vacanza e non potevo tornare a Forks senza un centinaio di fotografie, non se ci tenevo a sopravvivere. Poi ci dirigemmo verso Lapa
, uno dei quartieri alla moda della città, pieno di locali, bar, negozi e bancarelle di souvenir e gruppi di musicisti di strada ad ogni angolo. Parecchie persone ballavano sui marciapiedi, così affollati che non era possibile fare tre passi senza rischiare di finire addosso a qualcuno.
Mentre camminavamo notai che parecchi ragazzi mi lanciavano occhiate interessate, ma poi incrociavano lo sguardo di papà e ci ripensavano.
«Quella gonna è troppo corta, Renesmee», disse a denti stretti, un'espressione profondamente infastidita sul viso, mentre passavamo accanto a un gruppetto di ragazzini chiassosi e ciarlieri. Chissà quali pensieri aveva ascoltato.
«Oh, andiamo!», esclamò la mamma, diveritita. «Lasciala stare, c'è già Emmett a darle il tormento con questa storia».
«Se è per questo, anche la tua gonna è troppo corta», aggiunse Edward con tono stizzito, lanciando un'occhiata verso destra.
Io e Bella seguimmo la direzione del suo sguardo e scorgemmo un ragazzo sui sedici anni che fissava la mamma con occhi e bocca spalancati, come se fosse stata una dea scesa direttamente dalle nuvole. Scoppiai a ridere di gusto mentre lei abbassava lo sguardo, lusingata e imbarazzata allo stesso tempo.
Dopo un po' ci fermammo in un piccolo locale e sedemmo ad uno dei tavolini all'aperto. Volevo bere qualcosa di fresco, ma non riuscivo a smettere di guardarmi intorno, stregata dal vortice di suoni, profumi e colori che danzava per le strade. I turisti e gli abitanti del luogo camminavano in gruppi o a coppie, sorseggiando cocktail dai colori brillanti, la musica che usciva dai locali si mescolava al suono dei tamburi dei musicisti di strada e a frammenti di chiacchiere e risate, e ovunque aleggiava un delizioso odore di spezie. In un angolo una banda di ragazze dalla pelle di varie tonalità di scuro e con abiti vivaci indosso ballavano tra loro, ridendo, sussurrandosi a vicenda chissà quali segreti e lanciando occhiate ai ragazzi di passaggio. Improvvisamente pensai a quanto sarebbe stato divertente essere lì con le mie amiche al gran completo. Immaginai Holly che ballava con tre ragazzi abbronzati contemporaneamente e Maggie che cercava di tirarla via, Jas che comprava souvenir ad ogni bancarella, Danielle che si fermavano ad ascoltare i musicisti agli angoli delle strade...
E se con me ci fosse stato Alex, invece? Istintivamente sorrisi, pensando alle cose fantastiche che avremmo fatto io e lui insieme, da soli, in un posto del genere: nuotate al chiaro di luna, lunghissime sedute di baci all'ombra delle palme sulla spiaggia, serate tra un locale e l'altro...
Alex.
Il ricordo dell'incubo mi invase all'improvviso, come una macchia di petrolio che si espande nella neve: la spiaggia, il sole, l'oceano, le sue braccia intorno a me, i suoi baci, e poi... Provai una sgradevole morsa alla stomaco. Temevo che quella notte l'incubo sarebbe tornato, come quando ero piccola e per settimane e settimane, dopo la venuta dei Volturi, avevo sognato una fila di mantelli neri che veniva verso di me in un paesaggio innevato. Provare di nuovo quella sensazione, la sensazione di qualcosa di orribile che ti aspetta nel buio quando chiudi gli occhi per addormentarti, mi faceva sentire di nuovo una bambina fragile e in pericolo. E non sopportavo di sentirmi così.

Papà mi disse qualcosa, interrompendo la sua discussione con la mamma, ma mi ci volle un po' per accorgermene.
«Uhm... ? Come?», borbottai, ancora distratta dalle mie cupe riflessioni.
Lui mi fissava con aria leggermente esasperata. «Non posso credere che tu ci stia ancora pensando».
Ovviamente parlava del sogno. Arrossii un poco. «Be', non è stata proprio una cosa da nulla», risposi con tono sostenuto.
«Ma era un sogno, Renesmee. Un sogno, tutto qui».
Sospirai. Ero decisa a lasciar cadere l'argomento e invece nemmeno due secondi dopo...
«Era molto... realistico. Mi sembrava di essere davvero lì. I sogni che faccio di solito non sono così e tu lo sai», proruppi.
«Questo non cambia il fatto che era un sogno. Tutta quest'attenzione è ingiustificata».
«Sai, vorrei che ogni tanto le mi riflessioni private rimanessero tali», risposi, infastidita dalle sue parole e dal suo atteggiamento. Si ostinava a minimizzare i miei timori. Perfetto.
Lui scossela testa. «No, tesoro, non è così...».
«Papà! Cosa ho appena detto?».
Si interruppe all'istante con aria colpevole. A volte rispondeva ai miei pensieri, anzichè alle mie parole, senza nemmeno accorgersene. «Mi spiace», si scusò a bassa voce.
Scese il silenzio mentre mi sentivo sempre più arrabbiata. Ero certa di sapere perchè la mia opinione fosse considerata così poco.
«Se vuoi posso...», cominciò la mamma.
«No, grazie, niente scudo», borbottai. «Non è necessario».
Tanto per fare qualcosa, afferrai il menù e scorsi velocemente la lista delle bevande. Tra i tanti nomi di cocktail stravaganti mi colpì uno in particolare; lo avevo già sentito da qualche parte, ma dove? Riflettei per un istante, e ricordai: me ne aveva parlato Jas quando le avevo raccontato delle vacanze in Brasile, poco prima che finisse la scuola. 
«Credo che assaggerò la Caipirinha6
», annunciai. Sapevo che Jas avrebbe voluto assaggiarlo, per curiosità, e immaginare la sua espressione quando le avrei raccontato del cocktail mi faceva sorridere.
«Tesoro, non mi sembra il caso», disse papà.
Il suo tono indulgente mi fece scattare subito sulla difensiva. «Perchè? Ne assaggio un sorso, non voglio berlo tutto».
Lui serrò appena le labbra. «Meglio di no. È un po' presto per gli alcolici, non trovi?».
«Lo sai che ho già bevuto alcolici», mi lasciai sfuggire, piccata, e un istante dopo avrei voluto rimangiarmi tutto.
La mamma sussultò. «Davvero? Quando?», esclamò.
Edward emise un leggero sospiro. Io esitavo, ma ormai il danno era fatto. «Ehm... Ecco... Alla festa di compleanno di Holly, la scorsa primavera... c'era del vino. Ma ne ho assaggiato solo un po' e non mi è piaciuto per niente», aggiunsi, sperando che non scoppiasse una bomba. «Tornando al nostro discorso, visto che ho già bevuto un sorso di vino posso avere anche un sorso di Caipirinha?».
«No», rispose la mamma con decisione. Alzai gli occhi al cielo, scocciata. Lei afferrò il menù e vi gettò un'occhiata. «Che ne diresti di un bel succo di frutta?».
«Tu sai che non ho davvero cinque anni, giusto?», ribattei, provocatoria.
Lei fece un sorriso furbo. «Certo che lo so. A settembre ne festeggi sedici, e a me non risulta che le sedicenni possano bere cocktail alcolici».
Rimasi zitta a fissarla con aria truce per un secondo, mentre la mamma reggeva il mio sguardo, e alla fine mi arresi. Dannati vampiri dispotici. «E va bene. Prenderò un tè ghiacciato». Incrociai le braccia, puntai gli occhi su un punto imprecisato della strada e non aggiunsi un'altra parola.
«Ottima scelta, tesoro», commentò Bella. Chiamò al volo un cameriere di passaggio e ordinò. Il ragazzo, sui venticinque anni e con un sacco di capelli ricci e scuri raccolti in una coda, le rivolse uno sguardo di deciso apprezzamento prima di allontanarsi. Edward si agitò sulla sedia, borbottando qualcosa sottovoce, ma lei fece finta di nulla. Era impegnata a studiare la mia espressione e mi parve di scorgere un po' di senso di colpa nel suo sguardo. «Non essere arrabbiata», aggiunse a bassa voce dopo qualche attimo di silenzio.
Sbuffai. «Non sono arrabbiata, io... non sopporto di essere trattata così».
«Così come?».
«Come una bambina!», sbottai, alzando la voce. «Non posso neanche scegliere che cosa bere!».
«Renesmee, non capisco», esclamò Bella, sconcertata. Mi fissava con gli occhi spalancati. «Tu non hai mai bevuto alcolici».
«Non è questo il punto! Io volevo assaggiarlo, ma voi non mi ritenete abbastanza grande da poterlo fare!».
«Ma è vero che non lo sei», intervenne papà, la voce dolce e pacata. Stava cercando di calmarmi, ma in quel momento la cosa mi irritava ancora di più. «Anche se avessi davvero sedici anni, comunque non lo saresti».
«Ecco. Vedete che ho ragione?», sibilai, incrociando le braccia con gesto stizzito.
«Si può sapere che ti prende?», esclamò la mamma, sempre più incredula.
«Niente! Se non sono d'accordo con voi devo avere per forza qualcosa che non va?».
Bella fece un sospiro pesante. «Renesmee, calmati, per favore», disse, e dal tono capii che si stava sforzando di essere paziente. «Capisco che il sogno di stanotte ti abbia sconvolta, ma...».
Sembrò pentirsi all'istante di ciò che aveva detto. Papà le lanciò un'occhiata di avvertimento, ma ormai era tardi.
«Certo», mormorai, piccata. «Sono una bambina che ha paura dei brutti sogni, giusto».
«Non ho detto questo!».
«Basta, vado a fare un giro per conto mio». Mi alzai di scatto, improvvisamente stufa ed esasperata. Il cambiamento di umore era stato così repentino da stupire anche me, ma non riuscivo più a starmene seduta lì. «E non mi seguite, per favore».
Edward e Bella mi fissavano con due identiche espressioni sgomente.
«E il tuo tè ghiacciato?», esclamò la mamma.
«Sicura che io sia abbastanza grande da poterlo bere?», chiesi per tutta risposta, sarcastica.
Mentre mi allontanavo dal tavolo la sentii rivolgersi a papà. «Tu hai capito cos'è successo?».



****



Per dieci minuti buoni camminai a passo di marcia, senza fermarmi un attimo e rimuginando sulla conversazione con i miei. Che nervi! Non li sopportavo quando facevano così. Ero talmente infuriata che non riuscivo più neanche a far caso all'atmosfera festosa e vivace che fino a poco prima mi aveva letteralmente catturata. Poi, lentamente, quella rabbia improvvisa e irragionevole iniziò a scemare, a dissolversi, rapida così com'era arrivata. E a mano a mano che tornavo lucida, ricominciavo a ragionare. Mi rendevo conto di non essermi comportata in modo molto maturo: avevo fatto una scenata senza nessun motivo reale. Mi dispiaceva di aver piantato i miei in quel modo, ma sembrava che si fossero messi d'impegno per irritarmi, prima ridendo del mio incubo, poi facendo tutte quelle storie per uno stupido cocktail che non avevo neanche voglia di assaggiare davvero...
Rallentai il passo per evitare di travolgere qualcuno tra la folla e mi lasciai sfuggire un sospiro. Camminavo quasi senza fare caso a ciò che mi circondava, persa nei miei pensieri, quando all'improvviso, in quel mare di persone in movimento, qualcosa catturò la mia attenzione. O meglio qualcuno: un ragazzo che camminava nella direzione opposta alla mia, insieme a due ragazze che lo tenevano abbracciato. Non poteva avere più di vent'anni, carnagione olivastra, lineamenti regolari, occhi color tek, labbra carnose, capelli scuri corti e un po' ricci. Lo conoscevo. Mi ci volle un secondo per recuperare quel volto dalla mia memoria e abbinarlo a un nome ben preciso, e di colpo mi bloccai in mezzo alla strada.
Anche lui mi aveva notata. I suoi occhi incrociarono i miei e, come me, subito si bloccò. Sembrava altrettanto stupito, e anche un po' incerto.
«Nahuel... ?», bisbigliai, incerta, temendo di sbagliarmi.
Sollevò le sopracciglia quando capì che lo avevo riconosciuto, sempre più sorpreso. «Renesmee Cullen?», chiese di rimando. E la sua voce calda, avvolgente, sembrò affiorare direttamente dai miei ricordi. Non mi ero sbagliata.








Note.
1. Link.
2. Isola degli Stati Uniti. Si trova nel Massachusetts ed è una famosa località di vacanza.
3. Piatto tipico della cucina brasiliana a base di pollo e spezie.
4. Altro piatto tipico del Brasile, è una sorta di fagottino ripieno di carne, spezie e altri ingredienti.
5. Quartiere di Rio, uno dei cuori della vita notturna della città. Forse qualcuna di voi ha riconosciuto il nome, perchè le scene della luna di miele di Edward e Bella 
prima di raggiungere l'Isola Esme, in Breaking dawn parte I, sono state girate proprio lì. Mi sembrava carina l'idea che Edward e Bella tornassero in quei luoghi insieme a Renesmee.
6. Bevanda alcolica tipica del Brasile.  







Spazio autrice.
Come avevo promesso, eccomi di ritorno con il tanto atteso (sì, come no...) sequel di Midnight star ^^. Siete strafelici, vero? Vero... ?
Prima di tutto, Buon Anno!
A chi avesse aperto questa storia per caso o per curiosità senza aver letto la prima parte, suggerirei di partire dal principio e leggere Midnight star. Non è strettamente indispensabile aver letto la prima parte per leggere questa, ma insomma... diciamo che sarebbe meglio averla letta, ecco, a scanso di equivoci
(sono ruffiana, eh? Va be', dai, solo un pochino xd).
Ringrazio in anticipo tutte le lettrici che hanno seguito MS con affetto e che mi accompagneranno anche in questa seconda parte ^^. Mi scuso per l'attesa che è stata un po' più lunga del previsto, colpa dell'università e di altri problemi. Meglio tardi che mai, comunque, e spero che varrà la pena di aver aspettato un pochino. Come sempre resto in attesa delle vostre opinioni, positive o negative che siano; in particolare, vi sarei grata per la segnalazione di eventuali errori e sviste, perchè purtroppo qualcosa mi sfugge sempre per quanto io controlli e ricontrolli :-).
Ultima nota (ultimissima, giuro xd). Aggiornerò sempre di mercoledì, come era per MS, ma una volta ogni due settimane, un mercoledì sì e uno no, per intenderci, salvo inconvenienti. Quindi l'appuntamento per il secondo capitolo è a mercoledì 15 gennaio. Grazie a tutte!

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Capitolo 2
*** Paradise ***


Capitolo 2
Paradise


When she was just a girl
She expected the world
But it flew away from her reach
So she run away in her sleep
And dreamed of para-para-paradise
Para-para-paradise
Para-para-paradise
Every time she closed her eyes.
Paradise, Coldplay¹



L'imprevisto, la sorpresa, lo stupore sono una parte essenziale e la caratteristica della bellezza.
C. Baudelaire




Non so per quanto tempo restammo lì, fermi, a fissarci a bocca aperta. Poi sparai la prima cosa che mi passò per la testa. «Che ci fai qui?».

La sua espressione passò dallo stupore al divertimento. «Io ci vivo», spiegò, un ampio sorriso sulle labbra.
«Ah», mormorai. Giusto. L'avevo dimenticato.
«Tu che ci fai qui, invece?», chiese a sua volta. Sembrava molto curioso.
Cercai di riordinare le idee. Mi sentivo vagamente confusa. «Io... sono in vacanza. Con i miei genitori».
Nahuel annuì. Trascorse ancora qualche secondo e noi continuavamo a fissarci con un'aria, ne ero sicura, non troppo intelligente. Poi lui parlò di nuovo.
«Sei... cambiata», disse, con un tono e un'espressione così sbalorditi che sembrava sul punto di ridere di se stesso.
«Sì, be'... non ci vediamo da cinque anni», commentai. Se Nahuel mi trovava cambiata, io non potevo dire altrettanto di lui: l'unico cambiamento dalla prima ed ultima volta che l'avevo visto consisteva nel taglio di capelli. Li ricordavo più lunghi e legati in una coda.
«Sei cresciuta», aggiunse.
«Tu invece sei identico a come ti ricordavo. A parte i capelli».
Ridacchiò, mentre d'istinto si sfiorava la testa con una mano. «Ah, già. Che ne pensi?».
Colta di sorpresa, esitai un po' prima di rispondere. «Stai... ehm... bene», mormorai, abbassando lo sguardo, e lo sentii ridere ancora, chissà come mai. Rideva di me? Fantastico.
In quel momento una delle due ragazze che erano con lui, alta, sottile e con una gran massa di capelli riccie biondi, lo tirò leggermente per un braccio. «Ehi, Nahuel... andiamo?», esclamò, annoiata.
«Andate voi», rispose Nahuel, girandosi a guardarle. «Io resto con lei».
Come?
«Ehm... No, non è necessario. Davvero», balbettai, un po' confusa. «Vai pure, non voglio interrompere la tua serata».
Lui mi lanciò un'occhiata eloquente. «Non ti lascio da sola per le strade di Rio».
Voleva farmi da cavaliere? Ero lusingata, ma anche piuttosto imbarazzata. In fondo non ci conoscevamo affatto. Cercai di replicare, ma l'altra ragazza parlò.
«Allora noi andiamo», disse, scuotendo la lunga coda in cui erano raccolti i suoi capelli scuri. Era leggermente più bassa e più in carne dell'altra.
Nahuel salutò le sue amiche con un bacio sulla guancia e qualche parole bisbigliata sottovoce, poi le ragazze scomparvero in fretta tra la folla.
«Mi spiace», dissi subito, lanciandogli un'occhiata ansiosa. «In realtà non sono da sola, ci sonoi miei, ma... ci siamo separati un attimo».
«Spero di incontrarli, allora».
«Certo. Ne sarebbero felici».
Seguì una breve pausa. «Nel frattempo potremmo fare un giro. Ti va?», propose, rivolgendomi un bellissimo sorriso, ampio e caldo.
Lo ricambiai, un po' timidamente. «Okay».
Ci avviammo lungo il marciapiedi. Camminavamo piuttosto lentamente, mantenendo una certa distanza tra noi. Sebbene fossimo circondati da persone, avevo la strana sensazione di trovarmi da sola con lui, come se ci muovessimo in una bolla di sapone. Ero un po' tesa e mi chiedevo se anche lui provasse la stessa cosa.
«Sai, mi ha sorpreso che tu ti ricordassi di me», disse all'improvviso.
Lo guardai: appariva tranquillo e sereno. A quanto pare, la timidezza toccava tutta a me. «Certo che mi ricordavo di te. Tu mi hai salvato la vita, cinque anni fa».
«Be', non è andata esattamente così», mormorò, tenendo gli occhi bassi.
«Sì, invece. Io non sarei qui, adesso, e forse neanche la mia famiglia, se tu non fossi venuto a Forks», ribattei.
Lui tentò ancora di schermirsi. «Ma con tutti quei testimoni a proteggerti...».
Scossi il capo. «Sarebbe stata solo una strage». Ripensare alla situazione in cui ci eravamo trovati, per causa mia, era ancora molto spiacevole. Repressi a stento un brivido che mi correva lungo la schiena.
Nahuel sembrò non trovare più nessun modo per contraddirmi e si limitò ad annuire con aria grave, lo sguardo ancora basso e pensieroso. «Non vi hanno più cercati, da allora? I Volturi, intendo».
«No, ma lo faranno, prima o poi. Stiamo solo aspettando».
Annuì di nuovo, poi tacque per alcuni istanti. «Strano modo di conoscersi, il nostro, eh?», aggiunse.
Il suo tono mi spinse a sollevare lo sguardo e vidi che aveva un vago sorriso sulle labbra. «Strano modo di incontrarsi di nuovo, dopo tutto questo tempo», dissi.
«Davvero. Anche se probabilmente sarei tornato a trovarvi, un giorno. Era solo questione di tempo».
«Ah, sì?», domandai, sorpresa.
In fondo, era normale che dopo quell'episodio tra le nostre famiglie fosse nato un legame, ma non mi sarei aspettata tanta ansia di rinnovare la nostra conoscenza, da parte sua: nel mondo dei vampiri si era diffusa la voce che stare troppo vicini ai Cullen portasse solo guai.
«Sì. Fin dall'inizio sono stato molto curioso di vedere... una famiglia come la vostra», spiegò, un po' precipitosamente, come se all'ultimo secondo avesse modificato la frase che stava per pronunciare. «Capace di resistere al sangue umano. È per questo che sono venuto a Forks, cinque anni fa. E poi...». Esitò un poco. «Un'altra mezza vampira non si incontra certo tutti i giorni».
«Senza dubbio», mormorai. Ancora una piccola pausa. Cercai qualcosa da dire, per evitare silenzi troppo lunghi. «E così, che ne pensi del nostro stile di vita? Anche tu credi, come tutti, che dovremmo essere rinchiusi in qualche manicomio per vampiri?».
Nahuel ridacchiò. «No, non lo credo. Certo, all'inizio ero piuttosto sopreso, ma a me piacciono le stranezze, le novità, le cose bizzarre...».
«Be', di stranezze e cose bizzarre puoi trovarne quante ne vuoi, a casa nostra, te l'assicuro».
«Me ne sono accorto. E per certi versi parlare con tuo nonno, Carlisle, capire il suo punto di vista, è stato... illuminante».
Era diventato molto serio e ne fui stupita. «Illuminante? In che senso?». Mi sforzai di recuperare qualche parola o qualche immagine di quel giorno, ma con scarsi risultati. La mia memoria non era infallibile come quella dei vampiri e i miei ricordi di bambina erano alquanto nebulosi.
Nahuel attese un po' prima di rispondere, riflettendo. Raggiunse una panchina dipinta di bianco, ma completamente ricoperta da graffiti, scritte e disegni, e sedette, invitandomi con un cenno ad accomodarmi al suo fianco. «Nel senso che il significato, le motivazioni, le conseguenze della sua scelta mi hanno colpito. Ho passato tutto il viaggio di ritorno verso il Brasile a pensarci e poi ho deciso di provare».
«Di provare che cosa?».
Mi guardò come se fosse ovvio. «A vivere senza sangue umano. Come voi».
Sgranai gli occhi, Quello proprio non me l'aspettavo. Rimasi zitta a fissarlo per un pezzo, assimilando l'informazione. «Sei vegetariano?».
Questa volta fu lui a guardarmi confuso. «Vegetariano?».
La sua espressione mi fece venire voglia di ridere. «È così che ci definiamo, perchè la nostra dieta è simile a quella degli umani vegetariani», spiegai, un po' imbarazzata.
Nahuel sorrise, divertito. «Ah. Allora sì, sono vegetariano».
«Da quando hai conosciuto la mia famiglia?».
«Diciamo che ci provo da allora. Ma non è facile abituarsi dopo più di un secolo di alimentazione tradizionale».
Non concluse la frase, ma non era necessario. Avevo capito perfettamente. «Non è facile per nessuno, Nahuel», mormorai a mezza voce. «Tra i vegetariani è un problema diffuso, credimi».
«Anche nella tua famiglia?», domandò, lanciandomi un'occhiata penetrante.
«Lo era soprattutto in passato. Con il tempo si diventa più bravi».
«Quanto tempo, esattamente?».
«Un po'».
Lui non rispose. Sospirò appena e annuì, come se avessi confermato qualcosa di spiacevole di cui probabilmente era già a conoscenza.
«Come mai hai deciso di cambiare?», aggiunsi. Nello stesso istante in cui formulavo la domanda, mi resi conto che forse stavo andando troppo sul personale, ma ero molto curiosa.
«Non sono sicuro di riuscire a spiegartelo», rispose a mezza voce. Era pensieroso, teso, e giocherellava nervosamente con un anello che portava all'anulare sinistro. «Ogni volta che uccidevo un essere umano per nutrirmi... era come se uccidessi anche una parte di me stesso. Quella parte che li rendeva così simili a me. E dopo centocinquant'anni... ne ero stanco».
Parlò con tanta intensità e una tale strana dolcezza da lasciarmi senza fiato. Aveva detto una cosa bellissima. «Posso immaginarlo», mormorai. «Non è una scelta facile, in nessun caso».
«No, non lo è».
Per un po' tacemmo entrambi. Ero sempre più ansiosa di saperne di più, su di lui, la sua vita, la sua storia. Il nostro incontro aveva spalancato di botto una porta rimasta chiusa per cinque anni ed ora la curiosità era divampata. Continuavo a sbirciare verso il suo viso cercando di non farmi notare, affascinata dall'idea che lui fosse come me. Eravamo identici, in tutto e per tutto. Finalmente qualcuno che non mi facesse sentire sempre diversa. Era una sensazione strana, ma piacevole. Chissà se anche Nahuel era curioso nei miei confronti. Mi schiarii la voce per porre un'altra domanda.
«E tua zia? Condivide questa scelta?».
Non afferrò subito la domanda. Sembrava ancora distratto, perso tra i suoi pensieri. «Quale scelta?».
«Quella di non bere sangue umano».
Fece un sorriso amaro. «Ah, quella. No, affatto. Lei crede che uccidere sia la nostra natura e che respingerla non abbia senso».
«Non è vero», protestai sottovoce. «Non è così. La natura conta fino a un certo punto, ciò che è davvero importante sono le nostre scelte. Anche un essere umano può uccidere, ma non tutti lo fanno».
«Lo so, ma Huilen non riesce a capirlo. O non vuole, credo». La sua voce suonava profondamente amara. «Ogni tanto ci prova... a seguirmi nella mia follia. Ma non ci crede davvero, non ci mette il cuore: lo fa solo per accontentare me. Dubito che possa riuscire a cambiare, ma io non smetterò di cercare di convincerla. E lei non smetterà di provarci. Almeno spero».
«Siete molto legati», aggiunsi, sorridendo. Non era una domanda, ma un'affermazione.
«Huilen è tutta la mia famiglia. È l'unico legame che ho con mia madre. Mi ha cresciuto e mi è stata sempre vicina. Siamo molto diversi e a volte non riusciamo proprio a capirci, ma non potrei mai lasciarla. Neanche se dovesse continuare ad uccidere innocenti per il resto dell'eternità».
L'ultima frase mi fece rabbrividire. «Non è una scelta facile», ripetei.
Nahuel alzò le spalle, come ad ammettere che era d'accordo con me. «Devo comprenderla. Per me è più semplice», confermò, ancora meditabondo. «Ho solo lasciato emergere quella parte di me che mettevo a tacere da centocinquant'anni. Io e te siamo avvantaggiati, sai».
Mi guardò e mi rivolse un sorrisetto che non seppi bene come interpretare. Ero troppo presa dalle sue parole. «Avvantaggiati? Rispetto ai vampiri?».
«Direi di sì. Per loro il sangue umano è vita. Quello e nient'altro. Ne sono talmente ossessionati che decidere di rinunciarvi per proteggere quelle che dovrebbero essere soltanto prede deve essere difficilissimo. Io e te potrebbero rinunciare completamente al sangue, anche quello animale, e vivere di cibo umano: non sarebbe un grosso sacrificio, anche se dopo un po' tempo inzieremmo ad indebolirci. E sappiamo controllarci. Ci viene spontaneo, perchè gli esseri umani sono parte di noi. Insomma, quello che intendo dire è che abbiamo un'alternativa: abbiamo la possibilità di scegliere da che parte stare, molto più di tutti loro. Così come possiamo scegliere in quale dei due mondi vivere e passare dall'uno all'altro senza troppe difficoltà».
Avevo ascoltato quel discorso incantata, a bocca aperta. Già sapevo quelle cose, ma era come se Nahuel le stesse mettendo in una nuova prospettiva. Il pensiero che io potessi avere dei vantaggi sui vampiri... be', era abbastanza sconvolgente.
«Immagino che tu abbia ragione», sussurrai, tanto per dire qualcosa.
Lui proseguì. «Credo che prima o poi ci sarei arrivato da solo. Anche se non avessi mai conosciuto i tuoi, forse un giorno avrei trovato una soluzione. Non ne potevo più di passare notti su notti insonne, tormentato dal ricordo delle persone che avevo ucciso, persone che non erano poi tanto diverse da me. Ho tante cose in comune con gli esseri umani quante ne ho con i vampiri, e forse anche di più. Come potevo considerarli soltanto prede? Avevo pensato di rinunciare per sempre al sangue, ma quello umano crea una dipendenza difficilissima da troncare. È più semplice liberarsene passando gradualmente al sangue animale». Tacque un istante. «Anche se a volte il desiderio si fa sentire ed è così potente che quasi mi sembra di perdere la ragione. E commetto qualche errore», aggiunse, le labbra serrate e lo sguardo fisso.
Rabbrividii. Le sue parole mi spaventavano, ma potevo capirlo. Mi sforzai di rimanere impassibile. «Non importa, Nahuel. Cioè, importa, ma... stai combattendo contro te stesso e stai facendo del tuo meglio. Anche questo ha importanza». D'istinto poggiai una mano sul suo braccio, sentendo il bisogno di avvicinarmi fisicamente a lui.
Sorpreso da quel contatto improvviso, Nahuel mi guardò con un sorriso grato sul volto. Sembrava sinceramente felice di avermi ritrovata, quanto io ero felice di aver ritrovato lui.
Un attimo dopo scattò in piedi. «Andiamo a ballare». Mi prese per mano e mi fece alzare.
«Cosa?» esclamai, stupefatta. «Ballare?».
«Certo», rispose, sicuro di sè, mentre mi trascinava attraverso la folla. «Ah, questa è perfetta».
Si fermò davanti ad un locale, sul marciapiedi invaso da tavolini per due. Accanto al muro dell'edificio c'erano quattro musicisti, come quasi ad ogni angolo di Rio, che producevano con i loro strumenti un ritmo veloce e coinvolgente. Lo riconobbi, ma questo non mi causò alcun sollievo, anzi.
«Nahuel, io non so ballare la samba», protestai, allarmata.
Lui mi aveva già circondato la vita con un braccio, continuando a tenermi la mano, premette l'altra alla base della mia schiena e mi tirò verso di sè con un delicato strattone che mi fece sussultare. In un attimo mi ritrovai spinta contro il suo corpo. La t-shirt grigia a maniche corte che indossava era così sottile che potevo sentire perfettamente i suoi muscoli guizzanti.
«Segui me», disse per tutta risposta, guardandomi dritto negli occhi.
Iniziò a ballare ed io mi lasciai trascinare senza opporre resistenza. Forse avrei dovuto ribellarmi, ma ero talmente in imbarazzo da non riuscire neanche a sollevare lo sguardo su di lui, figurarsi a dire qualcosa. Ero come paralizzata e probabilmente gli costò non poca fatica, all'inizio, costringermi a muovermi insieme a lui. A poco a poco, però, quasi senza accorgermene, cominciai a rilassarmi un po'. Il ritmo della musica era incredibilmente coinvolgente e sembrava sciogliere i miei muscoli contratti e tesi. Ed era divertente. Ben presto mi ritrovai a seguire i passi di Nahuel e a ballare davvero con lui, non a lasciarmi trascinare. Qualcosa si era sciolto dentro di me. Gli sorrisi, raggiante, e vidi il mio entusiasmo riflettersi sul suo bel volto: era felice di vedermi felice. La musica terminò troppo presto, o almeno così mi parve, e proprio sull'ultima nota Nahuel mi fece fare un'improvvisa e veloce giravolta, cogliendomi di sorpresa; quasi persi l'equilibrio e poco mancò che gli cadessi addosso, ma lui mi strinse saldamente tra le braccia ed entrambi scoppiammo a ridere di gusto. Mi sentivo serena e rilassata e non ricordavo di essermi divertita così tanto, di recente.
«È stato fantastico!», esclamai, un po' ansante. «Sei bravissimo, davvero!»
Lui aveva un gran sorriso sulle labbra. «Ah, sì? Spero che sia piaciuto anche al nostro pubblico».
Mi accorsi che fissava un punto alle mie spalle. Mi girai: in piedi sul ciglio della strada, a pochi metri da noi, c'erano Edward e Bella.
«Questa sì che è una sorpresa», disse papà a mo' di saluto.
Si scambiarono un'occhiata e ci vennero incontro.
«Edward, Bella... è un piacere rivedervi», disse Nahuel, stringendo la mano ad entrambi.
«È un piacere anche per noi. Come stai?», chiese papà.
«Me la cavo, grazie».
«E tua zia?».
«Anche lei».
«Vi siete incontrati adesso?», indagò la mamma. Era sinceramente stupita e potevo capirla.
«Poco fa. Stavamo camminando e ci siamo incrociati per caso», spiegai. Avevo ancora un po' di fiatone. «Com'era il tè freddo?», aggiunsi, ironica. Sapevo benissimo che la mamma non avrebbe mai assaggiato il mio tè.
Bella sospirò, esasperata. «Delizioso», borbottò.
«Abiti da queste parti?», intervenne Edward, deciso. Chiaramente voleva impedirci di ricominciare a litigare.
«Sì, più o meno: vivo a Sao Lucas».
Papà annuì. «Ah, sì, è un piccolo centro a sud della città». Mentre lo guardavo, mi accorsi che i suoi occhi erano puntati su qualcosa, in basso. Seguii la direzione del suo sguardo e scoprii con un sussulto interiore che oggetto del suo attento esame erano la mia mano e quella di Nahuel, ancora intrecciate l'una all'altra. Subito ritrassi la mia, piano, ma con decisione.
«Forse dovremmo andare, si è fatto tardi», disse la mamma.
«Sì», risposi, esitante. Non volevo lasciare Nahuel senza sapere quando ci saremmo rivisti. Ero stata davvero bene in sua compagnia ed ero certa che saremmo potuti diventare buoni amici. «Senti», aggiunsi un attimo dopo, «ti andrebbe di... cenare con noi, domani? A casa nostra?».
Capii immediatamente di averli colti di sorpresa tutti e tre. Perfino papà, dal momento che quell'idea mi era venuta in mente lì per lì.
Nahuel mi guardò. «Sul serio?». Si rivolse ai miei genitori, interrogandoli con gli occhi.
«Certo, perchè no?», disse papà. Gli sorrideva, ma io sapevo che era fin troppo bravo nell'occultare i propri sentimenti.
«Ne saremmo felici», aggiunse la mamma.
Nahuel sorrise a sua volta. «Okay, allora verrò. Grazie mille. E sei sei d'accordo, Renesmee, cucinerò io e ti preparerò una cena portoghese da fare girare la testa».
«Sai cucinare? Certo, va bene. Sono proprio curiosa di assaggiare la cucina locale», risposi con un sorrisetto, lanciando un'occhiata eloquente a Bella. Lei assunse un'espressione sostenuta e non disse nulla.
Papà diede a Nahuel le informazioni necessarie per raggiungere l'Isola Esme - avrebbe affittato una barca al porto - e al momento di separarci lui mi prese di nuovo per mano e ne baciò appena il dorso con scherzosa galanteria.
«A domani, signorina Cullen», esclamò, allegro. «Si prepari ad una serata indimenticabile».







Note.

1. Qui la canzone. Mi sono accorta che anche il capitolo due di Midnight star era accompagnato da una canzone dei miei preziosissimi Coldplay (Talk), che coincidenza. Evidentemente se non piazzo una canzone dei Coldplay all'inizio di una storia, mi si blocca la (scarsa) ispirazione, ah ah ah!









Spazio autrice.

Eccomi di ritorno con il secondo capitolo ^^. Spero che rispetto al primo sia già un po' più movimentato, ma prima che la storia entri nel vivo ci vorrà ancora... Uhm, un capitolo, credo. In fondo siamo agli inizi :-).
Non ho molto da dire, tranne forse qualche parola su Nahuel. Praticamente è quasi un personaggio originale, perchè in Breaking dawn appare pochissimo e di lui sappiamo solo lo stretto indispensabile, però alcuni aspetti della sua personalità mi sono sempre sembrati trasparenti... Ad esempio, il legame con Huilen o la curiosità nei confronti di Renesmee. Altri, invece, sono venuti da sè a mano a mano che riflettevo su di lui. I suoi problemi nel bere sangue umano e la scelta di rinunciarvi stimolato da ciò che ha visto nella famiglia Cullen mi sembrano conseguenze quasi "naturali" del suo essere un mezzo vampiro. Lui stesso dice che condividere in parte la natura degli umani gli fa sentire di essere vicino a loro, ed è difficile pensare che rimanga insensibile a questa situazione, a meno che non abbia un carattere particolarmente freddo ed egoista. Ma io lo immagino molto diverso, solare, gentile, affettuoso, e spero di essere riuscita a mostrarlo almeno un po' in questo capitolo.
Un'altra cosa, nel film Breaking dawn parte II Nahuel e Huilen sono stati resi in modo alquanto... "selvaggio" xd, vestiti di pelli, eccetera. Naturalmente, per collocare Nahuel nel mezzo di Rio l'ho immaginato molto più "civilizzato", o meglio, adeguato alle abitudini degli umani contemporanei anche in fatto di abbigliamento. D'altra parte, per lui e Huilen sarebbe difficile passare inosservati se andassero in giro ricoperti soltanto di pelli, e per Nahuel, che è mezzo umano, anche poco pratico, non essendo in grado di resistere agli agenti atmosferici come i vampiri. Infatti non ho apprezzato molto il modo in cui sono stati resi i due personaggi nel film. Per il resto... leggete e saprete!

Ecco, avevo detto che avrei scritto "qualche parola" e invece ho scritto il solito poema! Scusate! xd Scappo, alla prossima!









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Capitolo 3
*** You and me ***


C 3
Capitolo 3
You and me



Cause it's you and me and all of the people
With nothing to do
Nothing to prove
And it's you and me and all of the people
And I don't know why
I can't keep my eyes off of you.
You and me, Lifehouse¹


Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.
Alessandro Baricco




Ero davvero felice di aver ritrovato Nahuel. In quei cinque anni avevo pensato spesso a lui provando soprattutto una forte curiosità. Avevo sempre desiderato conoscerlo davvero, scoprire com'era, come viveva, qual era il suo passato... L'unico altro mezzo vampiro che avessi mai incontrato. Ed ora che mi si era presentata quella inaspettata occasione, non volevo lasciarmela sfuggire.
Edward continuava a sembrarmi un po' teso ogni volta che parlavo di lui e del nostro incontro, e non ne comprendevo la ragione. Per un attimo il suo viso si oscurava, come se qualcosa lo preoccupasse, e subito dopo tornava ad essere tranquillo e allegro come al solito. Era un cambiamento così repentino che poteva essere benissimo soltanto frutto della mia immaginazione. Sebbene avesse la possibilità di conoscere ogni mio pensiero, come sempre, papà non commentava in alcun modo, forse perchè non prestava attenzione a queste riflessioni, forse per lasciarmi un po' di privacy. Dopo la discussione della sera precedente avevo il sospetto che non si sarebbe azzardato tanto presto a commentare di nuovo a voce alta quello che mi passava per la testa.
La sera della cena tornai
dalla spiaggia prima del solito per prepararmi. Non intendevo essere elegante, ma mi vestii con cura particolare e mi truccai un poco. Non ci misi molto e appena pronta scesi in cucina, dove i miei stavano tirando fuori gran parte delle nostre provviste e alcune stoviglie, probabilmente per facilitare Nahuel, che si era assunto il compito di pensare al menù.
«Prepari qualcosa?», domandai alla mamma per stuzzicarla un po' mentre emergeva dal frigorifero con alcune confezioni di formaggio tra le mani.
Mi lanciò un'occhiataccia, ma capii che non era arrabbiata. «No, tranquilla. Stasera lascerò questo privilegio a Nahuel».
Papà sistemò sul tavolo una pila di pentole e tegami e mi fissò. «Sta arrivando», disse. «Allora, ehm... Io e la mamma... andiamo».
«Andate? Dove?», domandai, confusa.
Fu Bella a rispondere. «Be', abbiamo pensato che forse preferireste stare da soli, per conoscervi meglio». Alzò le spalle. «La nostra presenza potrebbe mettervi in imbarazzo».
Ero totalmente spiazzata e per un secondo la fissai senza capire. «Ma... perchè? Non è necessario, davvero», protestai.
«Certo che non è necessario, però... insomma, sappiamo che hai sempre desiderato conoscerlo meglio e ora che ne avete la possibilità vogliamo lasciarvi spazio», aggiunse la mamma accennando un sorriso. «Avremo sicuramente altri occasioni per stare tutti insieme, la vacanza è ancora lunga».
Annuii, pensierosa. «Di chi è stata l'idea?», chiesi dopo qualche secondo di silenzio.
«Mia», rispose Bella. Istintivamente guardai papà. Sembrava impassibile, eppure ero certa che ci fosse qualcosa che non andava. Ma cosa? Prima che potessi domandarlo a voce alta, la mamma parlò di nuovo. «Muoviamoci, Edward». Lo prese per mano. «Saremo alla baia dall'altra parte dell'isola. Potreste anche raggiungerci, dopo cena, se vi va. Divertitevi, ma non fate troppo tardi. Oh, e salutalo da parte nostra».
Mentre parlava, avevano già raggiunto la porta. Papà mi fissava con aria esitante, ma lasciava che la mamma lo tirasse via.
«Sì, va bene», mormorai, sconcertata da quel comportamento. «Ciao».
Un attimo dopo erano spariti. Rimasta sola nella cucina, incrociai le braccia, osservando il mucchio di stoviglie sul tavolo e mordicchiandomi un labbro. Appena me ne accorsi, smisi immediatamente. Lo facevo solo quando ero nervosa, ma sapevo benissimo di non avere motivi per esserlo. Avrei solo cenato con un nuovo amico, tutto qui.
«Ehi!».
Feci un salto di un metro per lo spavento. Mi guardai intorno, il cuore che batteva a mille, e scorsi Nahuel in piedi sulla porta della cucina, intento a fissarmi con un sopracciglio inarcato.
«Nahuel», boccheggiai. «Sei qui!».
«Sono troppo in anticipo?».
«No, assolutamente».
Ci guardammo in silenzio per qualche secondo.
«Scusa, non volevo spaventarti», mormorò all'improvviso.
Scossi la testa, cercando di darmi un contegno. «Nessun problema. Tranquillo». Gli sorrisi.
Lui fece qualche passo avanti, avvicinandosi con calma, quasi circospetto, come per farsi perdonare di essere piombato in casa in quel modo. «Ho pensato di venire presto. Abbiamo un bel po' da fare».
«Abbiamo?», ripetei, scettica. «Ti avverto che le mie capacità culinarie sono alquanto limitate: so fare solo toast, tè e caffè. E detesto lavare i piatti. Quindi non so che genere di collaborazione potrei offrire».
Lui ridacchiò mentre andava ad aprire il frigorifero. «Troverò qualcosa da farti fare».
«Mangiare, magari?».
«Ah, sicuro. Stasera assaggerai le migliori empanadas della tua vita».
«Be', difficilmente potranno essere peggiori di quelle della mamma».
«A proposito, dove sono i tuoi? Vorrei almeno salutarli prima di mettermi ai fornelli in casa loro», disse con espressione leggermente divertita.
«Ah, già, i miei. Ehm...». Esitai. E adesso cosa gli avrei raccontato? La verità, magari. «Sono andati ad una piccola baia dall'altra parte dell'isola per un... bagno notturno, immagino. È un posto bellissimo, ci andiamo spesso», spiegai.
Ero parecchio a disagio, sebbene mi sforzassi di apparire tranquilla; non volevo che a Nahuel la loro assenza sembrasse strana. Ma lui se ne accorse e lo capii subito, da come mi guardava, con aria seria e meditabonda. Per un istante temetti che fosse offeso o che volesse approfondire la questione, ma poi sorrise.
«Avremo le empanadas tutte per noi, allora», esclamò ed io intuii che voleva solo rompere quel silenzio e passare oltre.
«Credo che le avremmo avute comunque tutte per noi».
«Secondo me avrebbero trovato una scusa per assaggiarle. Non capisco come possano i vampiri rinunciare al cibo... Certi piatti sono meglio del sangue. Mi passi quella pentola, per favore?».
Nel giro di mezz'ora chiacchieravamo tranquilli e disinvolti come buoni amici, impegnati ai fornelli. Mentre preparava il coxinha ed io gli passavo qualche ingrediente, mi raccontò che cucinare era uno dei suoi passatempi preferiti: lo aiutava a rilassarsi quando era nervoso e a tenersi occupato quando si annoiava. E da un punto di vista strettamente pratico il fatto che sua zia non mettesse mai piede in cucina era stato determinante perchè imparasse a fare da sè. Attualmente vivevano in una casetta fuori mano, quasi immersa nella foresta, dove si erano trasferiti un anno prima. Proprio come la mia famiglia, erano costretti a spostamenti periodici da un luogo all'altro e di solito non si fermavano mai da qualche parte per più di quattro o cinque anni. Sebbene non fossero nomadi veri e propri, quindi, in centocinquant'anni di spostamenti avevano visitato tutta l'America Latina e anche qualche altra parte del mondo. Prima di trasferirsi a Sao Lucas, presso Rio, avevano vissuto in Argentina, a Bahia Blanca (dove li avevano trovati da Alice, Jasper e Kachiri cinque anni prima), prima ancora in Cile, nella Terra del Fuoco, e prima ancora di nuovo in Argentina, nei dintorni di Santa Fe. Per un po' di tempo avevano anche vissuto in Sud Africa, in un piccolo villaggio sul mare.
Ovunque andassero, disse Nahuel, Huilen non socializzava con nessuno, nè vampiri nè umani. Per carattere non era incline alla compagnia ed era sempre preoccupata che nuove conoscenze potessero mettere in pericolo lei e suo nipote. Nahuel, invece, riusciva sempre a fare amicizia con facilità, ma ad ogni trasferimento era costretto a troncare ogni rapporto e a ricominciare dal principio con altre persone. Non gli pesava: entrare in contatto con gli altri gli veniva spontaneo, a differenza di Huilen, ma ammise che a volte avrebbe voluto poter continuare a frequentare qualche vecchio amico.
Erano molto diversi, lui ed Huilen, come il giorno e la notte. Lei non amava viaggiare e accettava quei continui spostamenti solo perchè necessari. Nahuel, invece, adorava vedere posti nuovi e avrebbe desiderato visitare tutto il mondo. Durante la cena descrisse appassionatamente e con ricchezza di particolari i posti più belli dove era stato e mentre lo ascoltavo, curiosa e affascinata, mi sentivo sempre più una bambina che aveva visto solo una minuscola parte di mondo. Non conoscevo altro che Forks, Denali e l'Isola Esme. Anche le mie amiche avevano visto molte più cose di me.
Sarei rimasta zitta ad ascoltarlo per ore, ma ogni tanto si interrompeva e lasciava parlare me. Avevo ben cose da raccontare sulla mia vita, che ruotava semplicemente intorno alla mia famiglia, alla scuola, al mio gruppetto di amiche, ma Nahuel ascoltava con grande attenzione, curioso quanto lo ero io nei suoi confronti. Mi riempiva di domande, fin quasi a mettermi in imbarazzo e costringendomi a far emergere dettagli di cui forse non avrei parlato spontaneamente. Mi fissava con espressione rapita e affascinata, come se non ci fosse niente di più interessante che sentirmi descrivere le mie giornate tranquille e ripetitive.
Dopo cena lavammo i piatti insieme e poi ci sistemammo sulla terrazza sul retro della casa, da cui si ammirava una splendida vista sull'oceano, con una provvista di guaranà, una bibita alla frutta analcolica che aveva portato Nahuel. Continuammo a chiacchiere ininterrottamente, allungati sulle comode sdraio della terrazza, ed io cercai di indovinare tutti i posti in cui aveva vissuto, senza grandi risultati. Ridendo e scherzando, facevamo tanto chiasso che forse Edward e Bella riuscivano a sentirci anche dall'altra parte dell'isola.
«Ehi, sicuro che non sia alcolica, questa roba?», domandai all'improvviso, tra le risate. Forse mi stavo ubriacando senza neanche accorgermene. O ero un po' brilla, oppure ero semplicemente di ottimo umore.
Nahuel rise ancora più forte. «Certo. Cosa ti fa pensare che lo sia?».
«Be', forse non te ne sei accorto, ma ci stiamo un po' scatenando», risposi con tono serio. Poi gli lanciai un'occhiata e scoppiai di nuovo a ridere senza nessun motivo preciso. Era strano che fossi riuscita ad aprirmi e ad entrare in confidenza con qualcuno tanto in fretta e me ne chiesi distrattamente il motivo.
«E allora? Tutti hanno bisogno di scatenarsi, ogni tanto. Soprattutto tu».
«Ehm... Davvero?».
Lui alzò le spalle. «Sai, quando ci siamo incontrati, ieri... sembravi un po' preoccupata, ecco» spiegò.
«Be', avevo avuto una discussione con i miei. E poi... stavo pensando a un brutto sogno». Aggrottai la fronte, ripensando al mio incubo. Quella notte, per fortuna, non era tornato a visitarmi e potevo sperare che non sarebbe tornato mai più.
«Ah, sì», mormorò Nahuel, con voce appena udibile. Fissava intensamente il cielo stellato, le braccia incrociate sotto la nuca, perso nei suoi pensieri. «I brutti sogni possono essere un problema, a volte».
«Sto passando una bellissima serata, però. Ti ringrazio», aggiunsi, sorridendo.
Anche Nahuel sorrise. «Sono io che ringrazio te».
Tacemmo per un paio di minuti. Cominciavo ad essere stanca, ma non volevo che la serata finisse. Repressi a stento uno sbadiglio, stiracchiandomi sulla sdraio.
«Continuiamo a giocare?», proposi.
«È inutile. Non indovinerai mai tutti i posti che ho visto, fidati».
«Sono davvero così tanti?».
«Un bel po'».
«Eppure tu vorresti vederne altri, giusto?», esclamai. Mi girai su un fianco, sentendo la schiena indolenzita, appoggiata al gomito per guardarlo bene in viso Eravamo piuttosto vicini, entrambi allungati sulla stessa ampia sdraio a due posti dove Edward e Bella passavano intere giornate a sbaciucchiarsi. «Viaggiare ancora».
Fece un piccolo sorriso. «Sì, mi piacerebbe. È stato bello venire nella tua città. Ero molto curioso». Mentre parlava, mi lanciò una strana occhiata, così rapida che non riuscii a decifrarla.
«Certo», commentai. «Perchè non avevi mai visto il Nord America, dico bene?».
Il suo sorriso si allargò. «No, non c'ero mai stato. Ma ero soprattutto curioso di vedere te».
Aggrottai la fronte, un po' sorpresa, ma non commentai. Che voleva dire?
«Devi scusarmi se ti ho bersagliata di domande, stasera, ma non ho resistito. Credo che non sarei mai sazio di ascoltarti».
Come? Rimasi interdetta, a guardarlo in silenzio, senza avere idea di cosa rispondere. All'improvviso ero imbarazzata e mi sembrava che fossimo troppo vicini. Desiderai mettere un po' di spazio in più tra noi, ma mi trattenni: non volevo sembrare paranoica.
«Be', la mia vita è così banale rispetto alla tua», bofonchiai, tanto per dire qualcosa. «A parte andare a scuola e stare con i miei amici non faccio un granchè».
«Non è questo il punto», rispose, tranquillo. Fece una breve pausa. «Non ho mai conosciuto nessun altro come me, a parte le mie sorelle, ovviamente. Ma non ci vediamo spesso e con loro le cose sono... complicate. Jennifer, la più piccola, è l'unica con cui riesca ad avere un rapporto normale. Erano centocinquant'anni che desideravo incontrare un altro mezzo vampiro, qualcuno che non mi fosse legato dal sangue, e credevo di non avere nessuna speranza. Poi è arrivata quell'incredibile notizia, la notizia che esistevi tu, e l'opportunità di vederti, e non me la sarei persa per niente al mondo, neanche a prezzo di farmi staccare la testa da quei vampiri italiani».
Abbassai timidamente lo sguardo, accennando un sorriso lieve. Le sue parole mi lusingavano senza che avessi alcun merito particolare. «Be', non è stato un grande incontro, per la verità. Non ci siamo scambiati neanche una parola, se ricordo bene».
«Ricordi bene. Eri molto impegnata a dormire profondamente in braccio a tua madre».
«Però adesso stiamo recuperando».
«Stiamo recuperando alla grande, direi», commentò, il tono leggermente divertito. «Eppure... nonostante l'interrogatorio a cui ti ho sottoposta stasera... vorrei saperne ancora di più. Non ne ho abbastanza».
«Ma c'è ben poco da raccontare. Ti ho già detto tutto», ripetei, mentre mi sfuggiva una risata. Non capivo dove volesse arrivare.
Nahuel scosse il capo, l'aria seria. Teneva gli occhi bassi e tamburellava con le dita sul soffice cuscino bianco della sdraio. «Non ha importanza. Tu sei come me. Non ti rendi conto...», esitò, stringendo le labbra, come se non sapesse bene quali parole usare. Io aspettai in silenzio, osservandolo attentamente. Capivo che stava cercando di dirmi qualcosa di importante. «Credo che tu sia la persona alla quale mi sento più vicino, adesso. Ti sembrerà assurdo perchè ci conosciamo appena. Avverto la stessa cosa anche con Jennifer², la più piccola delle mie sorelle, ma la conosco da quando è nata. Ho la sensazione che tu possa capirmi, come lei. Che tu possa comprendere cosa provo quando uccido un essere umano, anche se non l'hai mai fatto». Il suo sguardo si indurì mentre pronunciava quella frase ed io cambiai posizione, a disagio. «Quando penso a mia madre. Quando mi chiedo quale diavolo sia il mio posto in questo folle mondo». Sospirò. «So che abbiamo avuto esperienze diverse e che conduciamo vite diverse, ma... mi illudo, forse, che tu possa capire ugualmente. Ho ragione?».
Riflettei per un po' prima di rispondere. Mi sembrava una faccenda complicata e cercai di scegliere le parole con cura. Lui mi osservava con espressione calma, pacata, ma allo stesso tempo sembrava che volesse mettermi alla prova.
«Penso di sì» mormorai. «Dopo tutto, siamo nella stessa barca, io e te. Guardiamo il mondo dalla stessa prospettiva. E solo altre tre persone a parte noi, nell'universo, hanno questa stessa prospettiva».
«La stessa prospettiva», ripetè Nahuel in un sussurro appena percettibile.
«È strano», aggiunsi, mentre mi sistemavo più comodamente sul cuscino, e la mia voce suonò assonnata. «Ed è un po' triste. Fa sentire soli».
Chiusi gli occhi. Sentivo che uno strano torpore si impadroniva di me a poco a poco. Ero davvero stanca, adesso. O forse ero solo troppo rilassata, talmente rilassata che avrei potuto addormentarmi da un momento all'altro. Il mio respiro divenne lento e regolare. Tutto era così silenzioso e pacifico. Lo sciabordio delle onde mi cullava simile ad una ninna nanna, come ogni notte sull'Isola Esme. Ero già scivolata nel dormiveglia, quando sentii qualcosa di morbido posarsi sulle mie labbra. Spalancai gli occhi, tornando bruscamente alla realtà, e saltai giù dalla sdraio così in fretta che quasi persi l'equilibrio.
«Nahuel!», esclamai, incredula, portandomi le mani alle bocca. «Che cosa... cChe cavolo hai fatto?».
Lui non rispose subito. Sembrava sorpreso dalla mia reazione e mi fissava con le sopracciglia inarcate. «Mi sembra evidente. Ti ho baciato».
Sussultai con violenza. «Cosa? Ma... Ma... Ma se non è durato neanche tre secondi! Non è un bacio, questo!», sbraitai, inviperita. La sorpresa stava lentamente scemando, sostituita da una certa dose di rabbia bruciante. Lo aveva fatto davvero? Non potevo crederci!
«Tre secondi possono essere più che sufficienti», proseguì, un vago sorrisino sulle labbra.
«No! No, no, no!».
«Perchè ti dà così fastidio?». esclamò Nahuel. Era talmente sconcertato che sembrava sul punto di ridermi in faccia da un momento all'altro.
«Perchè l'hai fatto?», rilanciai.
Il suo sorriso vacillò. «Io... non saprei. Non c'è un motivo preciso», ammise. «Eri così bella, sdraiata lì, con gli occhi chiusi... Desideravo baciarti e l'ho fatto». Tacque per un attimo. «È da quando ti ho incontrata, ieri, che mi chiedo quale sia il sapore delle tue labbra. Adesso lo so», aggiunse dolcemente.
Mi sentii arrossire e sbuffai, infastidita. «Questo non è un motivo valido per baciare qualcuno», protestai a denti stretti. «È ridicolo».
Nahuel rimase zitto per un lungo minuto, continuando a fissarmi. «La pensiamo diversamente, allora», disse infine.
«Sì, me ne sono accorta».
Cadde di nuovo il silenzio. Dio, che imbarazzo. Ero così a disagio. Perchè, perchè lo aveva fatto? Era tutto rovinato, adesso. Strinsi le braccia al petto, evitando di guardare nella sua direzione, ma lui sembrava distratto. Chissà a cosa pensava. All'improvviso parlò ancora.
«E comunque, per la cronaca, secondo me i baci più brevi sono i migliori. Li trovo più intensi», aggiunse con fare tranquillo e rilassato, come se stesse discutendo del tempo che avrebbe fatto il giorno successivo.
Chiusi gli occhi per un attimo. «Nahuel, ti prego. Sto cercando di rimuoverlo».
«Dai... Bacio così male?».
«Ti ho detto che quello non era un bacio!».
«Ma perchè ti dà così fastidio?» ripetè, lentamente e scandendo bene le parole. Quasi involontariamente, gli gettai un'occhiata nervosa e capii che era davvero confuso. «Era il primo?», aggiunse un attimo dopo.
Altra ondata di imbarazzo. Che sfacciato!
«No, non è stato il primo», risposi a denti stretti, infastidita. «Il fatto è che io non sono libera. Ho una specie di ragazzo, a Forks».
Fantastico! Sentito, Alex? Una specie di ragazzo! Avrei voluto prendermi a schiaffi da sola. Sentivo un gran caldo al viso ed ero certa di essere arrossita come un pomodoro.
«In che senso una specie di ragazzo?».
Alzai gli occhi al cielo. «Un ragazzo, Nahuel. Lo sai in che senso».
«È una cosa seria?».
«Che intendi per seria? Stiamo insieme da cinque mesi. E siamo molto felici».
Non mi staccava gli occhi di dosso, la testa un po' inclinata, un'aria divertita e indagratice che non mi piaceva affatto.
«Non è una cosa seria», disse, sorridendo.
Trasalii. «Invece sì. Scusa, ma tu che ne sai? Come ti permetti di giudicare? Certo che è una cosa seria. Io tengo molto a lui e non sono interessata a nessun altro», sbottai, inviperita. Sentii un leggero dolore al braccio sinistro e mi accorsi che stavo serrando le dita sulla pelle con tanta forza da lasciare dei segni rossi. Allentai subito la stretta, sorpresa.
La sua espressione divertita si addolcì appena. Annuì. «Okay, hai ragione. Non ne so niente e non posso giudicare», ammise, anche se dal tono che usò parve che volesse assecondarmi. «Dimmi qualcosa in più. Come si chiama?».
«Alexander. Alexander Hayden» mormorai. «Ma tutti lo chiamano Alex. È un mio compagno di scuola».
«Eravate amici prima di mettervi insieme?».
«No, lui... si è trasferito la scorsa primavera da New York. Praticamente ci siamo conosciuti per caso. Ha un anno più di me».
«E quel licantropo che ne pensa?».
Quel licantropo? Quale licantropo? Jacob? La domanda mi spiazzò completamente. Per un secondo lo fissai in silenzio, come imbambolata. «Vuoi dire Jacob? Be', è felice per me. È il mio migliore amico». Tacqui, esitante e incerta su come continuare. «Tu... sai dell'imprinting?», borbottai, cauta.
Nahuel sgranò gli occhi scuri, stupito. «Tu sì?», domandò a sua volta.
Annuii. «L'ho saputo di recente», risposi, per farla breve. Non mi andava di ripercorrere quella spiacevole vicenda. «E tu come lo sai?».
«Me ne ha parlato tuo nonno, Carlisle. Ero curioso riguardo al coinvolgimento dei licantropi nel vostro problema con i vampiri italiani e lui mi ha spiegato come stavano le cose». Fece una breve pausa. «Quindi Jacob è felice che tu stia con questo ragazzo?».
«Certo».
«Ah, Be', sai, io avevo avuto l'impressione che... ma forse mi sbaglio».
Non lo lasciai finire. «Sì, ti sbagli», sbottai, stizzita. «Non sempre si finisce all'altare. Non è detto». Pronunciare quelle parole mi costò un certo sforzo. Era dannatamente difficile e imbarazzante parlare di quello. Lui se ne accorse e accennò un sorrisetto.
«Capisco. Dunque voi due siete... Che cosa, esattamente?».
«Amici. È il mio migliore amico», ripetei, sicura. In verità la definizione amico mi sembrava riduttiva per esprimere il mio legame con Jake, ma era quella che più si avvicinava ad esprimere il senso del nostro rapporto.
«Capisco», rispose a bassa voce. Sembrava che rimuginasse su ogni parola che pronunciavo, valutandola attentamente. «Immagino che a lui tu possa raccontare tutto, di te», aggiunse, piano. «Anche cose che non potresti raccontare alle tue compagne di scuola».
«Questioni "sovrannaturali", intendi?», domandai con un lieve sorriso sulle labbra. La mia stessa definizione suonava un po' buffa. «Certo, ma non parliamo soltanto di queste cose. Non ho segreti per Jacob».
«Neanche per il tuo ragazzo?».
«Che cosa intendi?», mormorai, a disagio. Lui aveva gli occhi bassi e non riuscivo a scorgere la sua espressione. Non rispondeva alla mia domanda e mi toccò intuire dove volesse arrivare. «Sono sempre sincera con Alex... quando ne ho la possibilità». Tacqui per un attimo. «Ci sono cose che non posso raccontargli, naturalmente».
«Naturalmente», ripetè Nahuel con voce lieve. «E pensi che non gliele racconterai mai?».
Riflettei silenziosamente per un po', stupita dalla piega che aveva preso la nostra conversazione. Avevamo iniziato parlando del più e del meno, tra battute e risate, poi ci eravamo baciati e adesso parlavamo di Jacob ed Alex e del mio rapporto con loro. Come eravamo arrivati fino a lì?
«Be', dubito di poter dire tranquillamente al mio ragazzo che sono una mezza vampira, bevo sangue e vivrò per sempre senza causargli un attacco cardiaco», risposi in tono ironico, cercando di alleggerire un po' l'atmosfera. «E in fondo perchè dovrei dirgli tutto questo? Le cose vanno bene così, adesso».
Nahuel annuì, ancora con a testa china, senza guardarmi negli occhi. «Già, adesso. Ma prima o poi arriverà il giorno in cui non potrai più mentirgli, in cui dovrai scegliere. È difficile dire addio a una persona, lo so. Ho detto addio tante volte nella mia esistenza... Forse troppe. Ma non diventa mai un po' più facile. No, è sempre peggio».
Feci un sospiro lieve, con la sensazione di avere un peso opprimente sul petto. Non potevo non riconoscere l'incontestabile verità delle sue parole; davano voce a pensieri e preoccupazioni che mi accompagnavano spesso e che non riguardavano soltanto Alex, ma ogni essere umano che faceva parte della mia vita: Charlie, Jas, Danielle, Tom...
Improvvisamente realizzai che quegli stessi pensieri dovevano abitare la mente di Nahuel da molto più tempo. Potevo capire che iniziassero a pesare sul suo cuore e che avvertisse il bisogno di parlarne con qualcuno, qualcuno che lo comprendesse, come aveva detto lui stesso poco prima. Ma erano pensieri troppo pesanti da mandare giù in una serata come quella, calda, dolce, dal sapore di mare e spezie, fino a poco prima piena di chiacchiere spensierate e risate.
«Io... non lo so. Non ci ho ancora pensato, veramente», risposi, un po' irritata. 
Nahuel non aggiunse altro. Mi lanciò un'occhiata rapida e cambiò posizione sulla sdraio, l'aria concentrata, come se si stesse riordinando le idee. Dopo un attimo di silenzio, abbozzò un sorriso ed io lo fissai, meravigliata.
«Okay, senti», disse infine. «Non volevo metterti in difficoltà, nè con il bacio nè con... questi discorsi. Scusa». Mi guardò di nuovo con espressione intensa e un po' preoccupata. «Ho rovinato tutto?».
«In che senso?».
«Tra te e me. Per via del bacio. Tu mi piaci e voglio che restiamo amici».
«Oh», esclamai. «No, Nahuel, non hai rovinato niente. Nè con il bacio nè con... il resto. Fingeremo che non sia mai successo. Anche tu mi piaci e vorrei essere tua amica. E comunque quello non era un bacio, quindi non c'è nulla di cui preoccuparsi, in effetti».
«Sei ostinata, vedo», commentò, divertito.
«Anche tu».
«Il tuo Alex non lo saprà mai, che differenza fa?».
«Lo saprei io».
«Non si può mentire a se stessi, Renesmee», disse, scuotendo appena la testa. «Puoi mentire a lui, ma non a te stessa».
Strinsi i denti, seccata. Temevo che quella frase potesse riportarci al discorso appena concluso e non mi andava. Meglio tentare di salvare la serata.
«Non ho bisogno di mentire nè a me stessa nè a lui perchè non è successo niente».
Questa volta non rispose subito. Mi fissò in silenzio per un poco, le sopracciglia aggrottate, come se non riuscisse a credere a tanta ostinazione. Poi alzò le spalle. «D'accordo. Se lo dici tu».
Mi assecondava, adesso? Gli lanciai un'occhiataccia, ma non dissi nulla, cercando di lasciar cadere il discorso. Perchè attribuiva tanta importanza a una tale sciocchezza? Sfiorarsi le labbra per pochi secondi, senza nessun coinvolgimento emotivo, non significava niente. Ne ero convinta, ma sospettavo che insistere fosse inutile e che Nahuel credesse ciò che preferiva.
«Tornerai mai a sederti qui?», domandò all'improvviso, e il suo umore parve molto più allegro rispetto a prima. Si allungò più comodamente all'indietro, incrociando le braccia dietro la testa con ostentazione.
«Sto benissimo dove sto, grazie».
«Non pensi di esagerare un poco?».
«Nahuel», sbottai, esasperata, come se il suo nome fosse un'imprecazione. Sospirai. «Ti prego, basta. Dobbiamo fingere che non sia successo, dimenticare, giusto? Mi sembra difficile riuscirci se tu continui a parlarne».
«Forse è meglio che vada», esclamò, alzandosi in piedi alla velocità della luce.
Sorpresa, cercai di trattenerlo. Una parte di me temeva di aver esagerato, di averlo offeso in qualche modo. «Aspetta», mormorai, senza troppa convinzione. «Non è necessario. È stata una serata fantastica, non roviniamola».
Lui si avvicinò ed io dovetti reprimere l'impulso di indietreggiare. Nei suoi occhi scuri c'era un velo di malizia che non prometteva nulla di buono. «Non è per questo, davvero. Si è fatto tardi e tu sembri stanca. Tanto ci rivediamo». Sorrise, in modo aperto e tranquillo.
Se era così deciso, forse avrei fatto meglio ad assecondarlo. Decisi di cedere. «Certo
», concordai, alzando le spalle. «Torni a trovarci domani?».
«Con piacere. Se sta bene ai tuoi».
Mamma e papà. Accidenti, li avevo del tutto dimenticati. Chissà dov'erano finiti. Quando quei due si lasciavano prendere dalla passione tendevano a dimenticare il resto del mondo.
«Certo che gli sta bene, saranno felici di conoscerti meglio. Credo che domani li troverai a casa». Li avrebbe trovati eccome. A costo di costringerli, sarebbero stati lì a farci compagnia e a bloccare sul nascere altre follie come quella specie di bacio.
Nahuel sembrò intuire cosa stavo pensando perchè inspiegabilmente rise. «D'accordo, allora vado. Grazie per la cena, sono stato davvero bene. Buonanotte».
Si avvicinò con un movimento lento, quasi cauto, e mi baciò la guancia accanto all'orecchio. Sentii il suo fiato caldo sulla pelle e poi le sue labbra si mossero. «E comunque, per la cronaca... hai un buonissimo sapore. Anche meglio di quel che pensavo», bisbigliò, con voce bassissima.
Rimasi di stucco, ma un istante dopo si era voltato e camminava nel buio, allontanandosi. Poi sparì.
Quando Edward e Bella rientrarono, circa un quarto d'ora più tardi, ero ancora sulla terrazza ad aspettarli. A dispetto dell'orario e della stanchezza, ero ancora sveglia. Guardavo il cielo punteggiato di stelle e riflettevo. L'espressione di papà era piatta e incolore come un foglio di carta immacolato; ovviamente sapeva già tutto. La mamma sorrideva spensierata, il che mi fece capire che non sapeva un bel niente.
«Ehi, piccola! Com'è andata la serata?», domandò con tono allegro.
Invece di risponderle, guardai papà. «Tu sapevi che sarebbe successo, vero? Ecco perchè non volevi andartene, prima».
Lui esitò e si passò una mano tra i capelli scompigliati, forse un po' sorpreso da un attacco così diretto. «Avevo percepito nei suoi pensieri un certo... interesse... nei tuoi confronti. Sospettavo che prendesse un'iniziativa», rispose lentamente.
Lo sguardo di Bella si spostava da me a Edward, rapido e confuso. «Un'inziativa?», ripetè. «Chi ha preso un'iniziativa?».
«Avresti potuto avvertirmi», sbottai all'indirizzo di papà, irritata dalla sua calma.
«Mi dispiace, amore
», mormorò dolcemente, accennando un sorriso. «Ma a volte le cose devono seguire il loro corso. Temevo che tu annullassi la serata e rinunciassi a creare un rapporto con lui e non voglio interferire nella tua vita e nelle tue scelte». Non lo disse a voce alta, ma intuii cosa avrebbe voluto aggiungere: non più. Serrò le labbra per un istante. «Non è giusto. Spetta a te decidere quello che vuoi. Sei un'adulta, ormai, ed è così che noi ti consideriamo, anche se a volte...». Esitò ancora per un attimo. Ero certa che stesse pensando alla nostra discussione della sera precedente. Fece un sospiro lieve e proseguì. «Anche se a volte, forse, non siamo capaci di dimostrartelo. E Nahuel avrebbe potuto non fare niente. Davanti a noi c'è sempre un milione di possibilità, Alice dovrebbe avertelo insegnato, ormai».
«Qualcuno mi spiega che succede?», protestò la mamma, rivolgendo uno sguardo esasperato a mio padre. 
Edward la guardò, trattenendo a stento una risata. «Ehm... Aspetta dieci minuti e te lo raccontiamo».
Lei aggrottò la fronte. «Dieci minuti? Perchè?».
«Già, perché?», le feci eco, curiosa.
«Diamo a Nahuel un po' di vantaggio. Non credo che sia in grado di vedersela con una vampira giovane e infuriata».








Note.
1. You and me. Stupenda!
2. Il nome della sorella di Nahuel è preso dalla Guida ufficiale della saga (un'autentica miniera d'oro di informazioni xd). Sappiamo che ha tre sorelle, Serena e Maysun, più grandi di lui, e Jennifer, appunto, nata solo nel 1991. Ricorderete senz'altro che Nahuel non è in buoni rapporti con suo padre, Joham, mentre incontra spesso le sue sorelle, e tra loro quella che incontra più spesso e più volentieri, e con la quale ha un legame più stretto, è proprio Jennifer, perchè è più simile a lui e il fatto di essere suo fratello maggiore lo fa sentire in dovere di vegliare su di lei e proteggerla. Serena e Maysun, invece, (soprattutto Serena) sono più simili al padre e condividono il suo modo di pensare. Ho trovato molto interessanti tutte queste notizie sulla famiglia di Nahuel e cercherò di inserire le sue sorelle e suo padre nella storia... Più avanti, però. Molto più avanti. Che nota lunghissima! xd









Spazio autrice.
Salve! Innanzitutto scusate per questo ritardo nella pubblicazione! Di solito pubblico in mattinata o al più tardi nel primo pomeriggio, ma questa mattina ero impegnata fuori casa e poi ho avuto qualche problema con la pubblicazione del capitolo.
Allora, veniamo subito a quello che penso sia il punto più "caldo" del capitolo, il bacio tra Nahuel e Renesmee. Forse qualcuna di voi se lo aspettava, o magari lo temeva xd, dal momento che tifate tutte per Alex o per Jacob, ah ah ah! Come al solito preferisco lasciarvi con qualche piccolo dubbio ora piuttosto che svelare troppo e rovinarvi la sorpresa, ma una cosa vorrei dirvela: questo episodio avrà un suo ruolo nella storia, e anche piuttosto rilevante, ma non attribuitegli più importanza di quante gliene abbiano attribuita gli stessi personaggi coinvolti. O meglio, attribuitegli la "giusta" importanza. Tutto è partito da Nahuel, che si è lasciato coinvolgere dall'atmosfera intima, di tenera complicità, creatasi con Renesmee, e ha assecondato il desiderio di un istante, quello di baciarla, appunto. E la stessa Renesmee dopo un primo momento di sconcerto e confusione capisce che si è trattato di una svista. Forse il discorso vi appare poco chiaro, ma più avanti lo diventerà. Non posso dire di più, scusate xd. Comunque, non preoccupatevi e per qualunque dubbio o domanda chiedete, come al solito ^^. Grazie, alla prossima!

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Capitolo 4
*** Get to you ***


C 4
Capitolo 4
Get to you

Coz I'm on my way
I'll chase the day
Yeah, I'll keep running all night
I just won't rest to catch my breath
I will run every red light
To get to you
No, I will get to you
No, I will get to you
I will
I'll get to you
Just hold on a little longer
I'll get to you.
Get to you
, James Morrison¹



Gelosia. L'altra faccia dell'amore.
Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo




Nahuel mantenne la sua promessa. Il giorno seguente tornò a trovarci, e poi il giorno successivo e quello ancora dopo, e continuò a farlo per tutta la durata della vacanza. Per la maggior parte del tempo stavamo da soli, io e lui, in casa o al mare, ma a volte Edward e Bella si univano a noi. Impararono presto ad apprezzarlo. Nahuel possedeva una cultura piuttosto vasta, un'intelligenza pronta e uno spirito acuto. Parlare con lui era divertente e appassionante. Aveva visto molte più cose di me e aveva molta più esperienza, ma per quanto io fossi curiosa, lui lo era altrettanto nei miei confronti e, come durante la nostra prima serata insieme, mi bersagliava di domande sulla mia vita quotidiana, la scuola, le amiche... Alex. Tenevamo fede alla decisione di non parlare del nostro bacio e anche i miei genitori ignoravano la cosa, su mia esplicita richiesta. Questa volta sembravano decisi a darmi tutta la libertà di azione che desideravo e mi dissi che forse il nostro rapporto si avviava davvero ad una svolta; forse avrebbero finalmente smesso di trattarmi sempre come una bambina che incapace di decidere per se stessa.
Una volta Huilen accompagnò il nipote a casa nostra su invito di Edward e Bella. Io parlai poco con lei, ma scoprii che il suo carattere era davvero schivo e cauto come era stato descritto da Nahuel.
Al termine della vacanza, mi accorsi che il dispiacere che provavo sempre nel lasciare l'Isola Esme era raddoppiato. C'era anche una persona, adesso, che non avrei voluto lasciare. In pochi giorni Nahuel ed io eravamo diventati buoni amici e per me, che con le nuove conoscenze ero sempre timida e imbranata, era una specie di miracolo. Ci avevo messo un po' perfino a socializzare con Jas, sebbene lei fosse tutt'altro che timida.
Mentre il giorno della mia partenza si avvicinava, parlammo qualche volta di scambiarci gli indirizzi e tenerci in contatto con delle lettere dal momento che Nahuel e sua zia non possedevano un telefono; entrambi erano piuttosto allergici alla tecnologia. Ma nessuno dei due era molto convinto, e a poco a poco lasciammo cadere l'argomento. Forse lui sentiva, come me, che tenerci in contatto assiduamente avrebbe potuto complicare le cose tra noi. La scintilla che Nahuel aveva acceso durante la nostra cena con quel bacio appena accennato sembrava destinata a morire senza lasciare tracce, ma temevo che se incoraggiata avrebbe potuto divampare facilmente, alimentata dall'intesa che c'era tra noi, dal misterioso e intenso legame che ci univa. E sentivo che sarebbe stato sbagliato, che la nostra strada non era quella e che se l'avessimo imboccata ce ne saremmo pentiti. E poi io avevo Alex ed ero assolutamente sicura di non desiderare nient'altro che lui. Di conseguenza, trascorrere un anno intero a scriverci lettere e a scambiarci pensieri, racconti e confidenze sarebbe stato troppo. Almeno per ora, almeno in quel momento, preferivo che mantenessimo un confine tra noi. Non sapevo fino a che punto Nahuel condividesse le mie riflessioni, ma forse le intuì e decise di rispettarle.
Disse che avrebbe convinto Huilen a tornare a Forks, ma non ci sperava molto. Sua zia lo riteneva un viaggio troppo lungo e se lei restava lì, Nahuel non l'avrebbe lasciata. Ci salutammo con un lungo abbraccio e per tutto il viaggio di ritorno il pensiero che quasi certamente non ci saremmo rivisti prima della prossima estate mi rese triste e apatica. Soltanto durante l'ultimo volo, mentre ci avvicinavamo a casa, il mio umore iniziò a lievitare: casa significava Alex, Jas e Jacob. Non vedevo l'ora di riabbracciarli, tutti e tre. Jacob lo avrei trovato lì ad aspettarmi, come al solito, mentre gli altri due sarebbero rientrati qualche giorno dopo di me: Alex era a Martha's Vineyard, nella casa al mare di famiglia, Jas in California a trovare dei parenti. E poi avrei rivisto Holly, Maggie, Danielle, Tom, Paul e Scott... mi erano mancati da morire tutti quanti.
All'aeroporto trovammo ad aspettarci Esme e Carlisle, che avevano trascorso un paio di settimane a Denali insieme ad Alice e Jasper, mentre Emmett e Rosalie erano partiti da soli per un viaggio nel Sud della Francia e sarebbero tornati a settembre. Quando atterrammo era notte. Appena salita in macchina, mi addormentai, esausta, e mi svegliai a casa, nel mio letto, la mattina dopo, come era accaduto durante il viaggio di andata verso Rio.
Feci una doccia e subito aprii le valigie e iniziai a sistemarne il contenuto. Mi muovevo più in fretta possibile perchè avevo promesso a Jacob che lo avrei raggiunto a La Push in mattinata e avrei pranzato a casa sua. Ci sarebbe stata anche Rebecca con suo marito, Solomon², venuti in visita per l'imminente matrimonio di Rachel e Paul, programmato a fine agosto. Rebecca ed io eravamo state scelte come damigelle della sposa ed era nostro compito dare una mano a Rachel con i preparativi.
Stavo tirando fuori dalla valigia un mucchio di magliette da lavare, quando la mamma si affacciò sulla porta.
«Ehi, tesoro. Serve aiuto?».
Le sorrisi, senza fermarmi. «No, grazie. Ho quasi finito».
Annuì. «Okay». Esitò un istante, poi entrò nella stanza camminando lentamente. Si guardava intorno con espressione concentrata, come se stesse cercando qualcosa, le braccia incrociate, le spalle contratte e rigide. «Questa camera è troppo ordinata», disse all'improvviso.
«Be', sono stata via più di un mese, è normale. Ma il caos tornerà a regnare molto presto, sta' tranquilla», esclamai, ridacchiando. Sapeva benissimo che io e l'ordine eravamo incompatibili come l'acqua e il fuoco. Buona parte delle nostre discussioni si incentrava proprio sulla mia incapacità di tenere i vestiti nell'armadio, i libri sugli scaffali della libreria e i trucchi sul tavolino da toeletta.
Lei accennò un mezzo sorriso, continuando a guardarsi intorno. Le lanciai un'occhiata curiosa, mentre estraevo dal trolley due paia di sandali e li lasciavo cadere sul pavimento. Poi parlò di nuovo.
«Era così anche quando... quando stavi da Charlie», mormorò.
Sollevai lo sguardo e la fissai. Sembrava tranquilla, ma i suoi occhi e la sua voce erano colmi di tristezza. Era come se il ricordo di quel periodo di lontananza le causasse ancora dolore, sebbene fosse trascorso un bel po' di tempo. Il senso di colpa mi artigliò le viscere, rapido e implacabile, una morsa d'acciaio. A mia volta percorsi la stanza con lo sguardo, esaminando i mobili spogli, il letto intatto, le tende chiuse, i pochi oggetti che non avevo portato con me ricoperti da un sottile strato di polvere. Meditai in silenzio per qualche secondo, poi presi dalla valigia una camicia da notte, una manciata di top, due jeans e una minigonna, li mescolai rapidamente tra loro creando un'unica massa informe, poi li lanciai in aria alla rinfusa, sparpagliandoli sul letto e sul pavimento.
«Va meglio, così?», domandai, guardando la mamma con un sorriso d'intesa.
Lei aveva seguito i miei gesti con aria sbalordita, ma in quel momento scoppiò a ridere. Aveva capito. «Sì, molto meglio. Vieni qui, tesoro».
Mi raggiunse e mi abbracciò, stringendomi forte, ed io ricambiai la stretta, sentendo un piccolo nodo in gola. Deglutii per scacciarlo.
«Piccola, il tuo cellulare sta squillando», disse la mamma. Il suo respiro freddo accanto all'orecchio mi fece rabbrividire.
«Ah, sì?». Sciolsi l'abbraccio, recuperai la borsa dal pavimento ed estrassi il cellulare da una tasca esterna. Stava vibrando. Guardai il display. «È Alex!», esclamai, felice. Premetti il tasto per accettare la chiamata. «Pronto?».
«Ehilà, Scheggia! Come andiamo? Sei a casa? Ti manco, vero? Stai morendo di nostalgia, eh?».
Che bello sentire la sua voce! La mamma mi fece un gesto da lontano ed io risposi al saluto mentre usciva dalla stanza, lasciandomi sola. «Possibile che appena apri bocca mi viene voglia di chiudere il telefono?», dissi, alzando gli occhi al cielo. «Sei insopportabile».
«Insopportabile io? Ma come, dopo più di un mese di separazione non dovresti sentire tremendamente la mancanza di tutti i miei numerosi pregi, che senz'altro non notavi quando ci vedevamo ogni giorno?».
«Li notavo eccome, credimi. A cominciare dal pregio di parlare sempre a vanvera».
«Lo so, bellezza, è il mio vanto più grande».
«Basta chiacchiere, dove sei?», intervenni, curiosa. In sottofondo sentivo il motore di un'auto.
«Sto facendo un giro. Senti, non cambiare discorso. Non c'è proprio niente che ti manchi, di me? Neanche i miei baci?».
Serrai le labbra, cercando di non fargli capire che stavo sorridendo. «No, per niente».
«Davvero?». La sua voce suonò del tutto indifferente. «Okay, vuol dire che quando ci rivedremo non te ne darò neanche uno».
Finsi di pensarci un po' su. «Mmm... E va bene, forse un pochino mi mancano».
«Ah, sì? Be', mi dispiace, Scheggia, ma non è così semplice. Adesso dovrai guadagnarteli».
«Ne riparleremo al tuo ritorno», risposi, ridendo sotto i baffi. Accidenti, quanto mi mancava. Sarei passata sopra perfino alle sue battute stupide pur di riabbracciarlo.
Lo sentii ghignare. «Già, al mio ritorno. Di' un po', che stai facendo?».
«Disfo le valigie».
«Ottimo. Non interromperò niente di importante, allora».
Eh? Aggrottai la fronte, perplessa. «In che senso?».
«Sto arrivando, Scheggia».
«Arrivando dove?».
«Lì da te».
Per poco non mollai il cellulare a terra dalla sorpresa. «Cosa? Ma... Alex, non fare scherzi idioti, dove sei?».
«In questo preciso momento? Fuori casa tua», rispose, gongolando.
«Non è possibile!», esclamai, ma in sottofondo non sentivo più il rombo del motore; si era fermato davvero. Poi sentii una portiera che si apriva. Incredula e felice, corsi nell'ingresso, spalancai la porta e lo vidi. Stava uscendo dalla sua Audi nera luccicante, in jeans dalla testa ai piedi, un giubbotto nuovo fiammante, un paio di Ray-Ban calati sugli occhi e i capelli un po' scompigliati. Fece un gran sorriso, sfilandosi gli occhiali da sole.
«Ta-dan!».
«Alex!».
Chiusi il telefono e mi precipitai ad abbracciarlo, traboccante di entusiasmo. Avevo preso un tale slancio che indietreggiò di qualche passo e quasi finimmo contro la macchina. Sentire la sua risata, il suo profumo, le sue braccia intorno a me, le sue labbra sulla guancia, mi provocò una scarica di autentica adrenalina.
«Che entusiasmo! Non avevi detto che non ti mancavo affatto?», scherzò.
«Non posso crederci! Che ci fai qui? Dovevi tornare tra due giorni!».
«Mi sono anticipato un po'. Sono arrivato ieri sera. Ho dato il tormento a Julie per due settimane e alla fine si è convinta a lasciarmi tornare da solo. Lei e Phoebe sono ancora a Martha's Vineyard».
Mentre parlava, mi fissava intensamente, i suoi occhi brillavano e andavano da un punto all'altro del mio viso, avidi, curiosi, come se non mi vedesse da un secolo. Era bello, proprio come l'avevo visto in sogno l'ultima volta, solo la notte precedente... Un altro incubo, quell'incubo che non era affatto sparito dopo la prima volta e tornava a farmi visita quasi ogni notte. Era sempre diverso, ma allo stesso tempo spaventosamente uguale: Alex moriva sotto i miei occhi senza che potessi fare niente per aiutarlo. E ogni volta mi risvegliavo in preda all'atroce certezza che fosse tutto vero.
La sua mano mi accarezzò il mento, dolce, delicata, preoccupata. «Cosa c'è, Scheggia?».
Mi sforzai di sorridergli di nuovo. «Niente, Alex. Sono così felice di rivederti», sussurrai. La sua espressione si rasserenò, come il cielo estivo che torna sereno quando un vento caldo spazza via le nuvole. Mi prese il volto tra le mani e fece per avvicinarsi, un'espressione all'improvviso famelica negli occhi, ma io opposi resistenza. «No, aspetta... I miei zii sono in casa», dissi, a disagio.
«Andiamo a fare un giro, allora», propose, prendendomi la mano. Sembrava euforico. «Ti va una passeggiata sulla spiaggia?».
«A La Push?».
«Sì. Non piove e bisogna approfittare di questo miracolo».
Ci pensai un secondo. «Be'... sì, mi va. In effetti, dopo devo andarci comunque, ho appuntamento con Jacob, il mio amico».
In quel momento Edward e Bella fecero capolino sulla soglia di casa, tenendosi abbracciati.
«Ciao, Alex!», esclamò la mamma.
Lui agitò la mano in risposta. «Salve!».
Mi girai verso di loro. «Andiamo a fare una passeggiata», annunciai.
Papà annuì. «Certo, andate pure. Divertitevi».
Alex aveva già aperto la portiera per farmi salire al posto del passeggero. «Okay, ci vediamo dopo». Li salutai da lontano con la mano mentre entravo nell'auto.
«Buona giornata!», esclamò Alex, sorridendo verso di loro, poi salì in macchina.
Era davvero fortunato ad avere a che fare con i miei genitori, pensai mentre guidava verso la riserva. Nonostante la loro consueta, eccessiva iperprotettività, dopo averlo conosciuto si erano tranquillizzati a sufficienza da lasciarci la massima libertà. E il fatto che papà non fosse mai riuscito a leggere neanche l'ombra dei pensieri del mio ragazzo non costituiva un grosso problema. Lui diceva sempre che a volte bastava guardare una persona negli occhi per riuscire a comprenderla e qualunque cosa avesse visto nello sguardo di Alex doveva essergli piaciuta.
Ma Alex non faceva eccezione soltanto alle capacità extra di mio padre: ogni membro della famiglia Cullen dotato di poteri soprannaturali aveva fallito, con lui. Alice non vedeva un bel niente del suo futuro, Jasper non aveva la minima influenza sulle sue emozioni e la mamma non riusciva ad estendere il suo scudo fino a lui... era come se qualcosa la bloccasse, diceva. Incredibile, ma vero. Io ero l'unica a non aver ancora sperimentato l'efficacia delle mie capacità su di lui, ma di certo non potevo proiettare i miei pensieri nella sua testa come niente fosse. Io probabilmente non avrei sperimentato mai. La mia famiglia aveva fatto svariate ipotesi e la più accreditata era che Alex fosse dotato di uno scudo simile a quello di Bella, ma forse ancora più potente, poichè non proteggeva solo la sua mente, ma anche il suo corpo. Sarebbe stato interessante vederlo alle prese con i poteri di altri vampiri per testare questa immunità, ma a me importava poco speculare ed ero sollevata dal fatto che la sua anomalia lo preservasse da alcuni pericoli. Ovviamente un vampiro non avrebbe avuto bisogno di poteri extra per fargli del male, ma quando pensavo a Jane, a Kate e ad altri vampiri con capacità analoghe, non potevo che essere felice di quella scoperta.
Tuttavia, la faccenda aveva anche i suoi lati negativi. Sospettavo che prima o poi avrebbe potuto farmi comodo sfruttare papà per conoscere i pensieri di Alex e scoprire, ad esempio, se mi raccontava qualche bugia. Quella mattina, in particolar modo, ne avrei avuto davvero bisogno. Mentre camminavamo sulla spiaggia tenendoci per mano, come una coppietta da telefilm, mi raccontava delle due settimane che aveva trascorso a New York, nella villa dei suoi genitori agli Hamptons, prima di partire per Martha's Vineyard. Lì aveva rivisto Madison. Lui sosteneva che rivedersi era stato semplice e piacevole, nonostante fosse trascorso un bel po' di tempo dal loro ultimo incontro: in fondo erano due vecchi amici, oltre che due ex fidanzati. Peccato che io riuscissi ad immaginarmeli solo come ex fidanzati.
«Quindi avete passato parecchio tempo insieme?», indagai, ostantando un atteggiamento sereno.
Lui mi guardò con aria furba. Come sempre, intuiva fin troppo bene quale fosse il mio stato d'animo. «Be', la sua casa agli Hamptons è praticamente attaccata alla mia, non possiamo neanche uscire in giardino senza vederci».
Annuii, seria, lo sguardo fisso sulla punta delle mie scarpe. Per un minuto scese il silenzio.
«Gelosa, eh?», mormorò all'improvviso, con tono carico di soddisfazione.
Lo fulminai con gli occhi. «Niente affatto. Mi sto informando sulle tue vacanze, tutto qui».
«Sai che le ho parlato di te?».
«Davvero?», mormorai, un po' stupita. «E cosa le hai detto?».
«Non ha importanza. Conta quello che mi ha detto lei».
«E lei cosa ti ha detto?».
Alex si girò a guardarmi mentre rispondeva. «Che mi trova così cambiato da essere a stento riconoscibile».
«A me non sembri tanto cambiato».
«Tu non mi hai visto lo scorso inverno».
A quelle parole sentii un brivido spiacevole. Sapevo che era stato male nei due anni precedenti, dopo la morte dei suoi genitori, eppure, quando provavo a pensarci, mi rendevo conto di avere solo una pallida idea di quello che doveva essere successo. Per lui non era semplice parlarne e in genere entrambi evitavamo l'argomento.
«Ti conosce davvero bene», ammisi a bassa voce.
«Siamo cresciuti insieme, Renesmee. Però...». Di colpo si fermò ed io, con una mano stretta nella sua, dovetti imitarlo. Mi fissò con aria seria. «Non hai nessun motivo di essere gelosa. Non provo più niente per Madison. Cioè, non provo più quello che provavo prima. Adesso è soltanto la mia più vecchia e cara amica. Te lo giuro».
Per un secondo rimasi in silenzio a fissarlo. «E una tua ex», aggiunsi, quasi senza volerlo. Era più forte di me.
Lui alzò gli occhi al cielo. «Testarda. Vieni qui». Mi tirò più vicino a sè, talmente vicino che riuscì ad appoggiare la fronte contro la mia. Mi immobilizzai all'istante, come una preda che viene catturata e sa di non avere scampo. «Io voglio soltanto te», sussurrò con voce morbida.
Sentii il suo fiato sul viso e tremai. Mi prese per le spalle e mi baciò con forza, spingendo le labbra contro le mie come se avesse voluto entrarmi dentro. Non mi aveva mai baciata in quel modo, prima, con tanta passione e desiderio che a un certo punto dovetti tirarmi indietro. Mi sentivo sopraffatta, in procinto di esplodere, completamente senza fiato, le guance bollenti e le idee confuse. Anche lui ansimava, ma non si spostò di un millimetro, limitandosi a lasciarmi un po' di spazio per respirare. Nei suoi occhi brillava una luce così intensa che mi parve di non riuscire a fissarla troppo a lungo. Spostai lo sguardo alle sue spalle, cercando di recuperare il controllo, e la vidi: una sagoma alta e robusta in lontananza che veniva verso di noi. Capii di chi si trattava in meno di un secondo.
«Jake», sussurrai, ancora senza fiato. «Jake... Jake!».
Superai Alex, lasciandogli le mani, e gli corsi incontro. Con pochi passi lo raggiunsi e mi lanciai tra le sue braccia. Jacob mi afferrò, mi sollevò e mi fece volteggiare nell'aria come se fossi stata una bambina piccola. Strillai per la gioia mentre lui affondava il viso tra i miei capelli per aspirarne il profumo e lo sentivo sussurrare il mio nome all'infinito.
«Mi sei mancato da morire», bofonchiai, le labbra premute contro il suo collo.
Jacob mi lasciò andare lentamente, guardandomi negli occhi con quella sua solita espressione, l'espressione di chi vede sorgere il sole dopo una lunga notte di buio. Mi lusingava e mi imbarazzava allo stesso tempo. Si chinò per baciarmi sulla fronte.
«Anche tu. Sei cresciuta. E sei ancora più bella di un mese fa», disse, sorridendo.
Arrossii un po' e abbassai lo sguardo. Quella era la giornata degli incontri. Incontri... Alex! L'avevo completamente dimenticato! Mi girai di scatto, il cuore in gola. Era ancora lì, fermo dove l'avevo lasciato, e mi fissava con una strana espressione. Non riuscii a decifrarla.
«Voi... voi non vi conoscete, giusto?», esclamai, esitante, come se stessi chiedendo una conferma quando sapevo benissimo che non si erano mai incontrati. Mi allontanai da Jacob di qualche passo, trovandomi esattamente in mezzo a loro. «Jake, ti presento Alex Hayden. Alex, lui è Jacob Black».
Per un lungo istante nessuno disse una parola e i due si limitarono a squadrarsi a vicenda. Jacob era impassibile, mentre Alex aveva ancora quella strana espressione; teneva gli occhi ben aperti, come se volesse osservare la situazione fin nei minimi dettagli. Poi avanzò per avvicinarci a Jake e gli tese la mano.
«Ah, sì. Jacob Black», disse, con un tono freddo che mi stupì. «Sei il suo vecchio amico».
Jacob ricambiò la stretta di mano. «Sì, sono il suo vecchio amico», rispose e anche la sua voce suonò in qualche modo strana. O forse ero io a vedere e a sentire tutto in modo distorto.
Scese un silenzio di tomba. Alex e Jacob non si toglievano gli occhi di dosso, mentre io guardavo fisso a terra con un crescente senso di panico. Accidenti, che succedeva? Cos'era tutto quell'imbarazzo? Mi scervellai per trovare qualcosa da dire e rompere quell'orrendo silenzio.
«Ehm... Noi... Io ed Alex... stavamo... facendo una passeggiata», balbettai. Okay, non era un granchè come argomento di conversazione, ma sempre meglio del nulla assoluto.
«Anch'io facevo un giro. Ti stavo aspettando», rispose Jacob.
«Ah, giusto», esclamai. Lanciai un'occhiata verso Alex. «Più tardi avevo appuntamento con lui per... parlare del matrimonio di sua sorella. Sono una delle damigelle».
«Davvero?», mormorò Alex, senza smettere di fissare Jake. «Congratulazioni», disse, ma la sua voce sembrò del tutto priva di benevolenza. O forse era solo la mia immaginazione.
Mi rivolsi a Jacob, sperando che fosse più collaborativo. «Rachel è a casa?».
Annuì. «Sì, l'ho lasciata che discuteva del menù con Rebecca».
«Allora c'è anche lei!».
«È arrivata ieri con Solomon».
«Fantastico!», esclamai, felice. «Non vedo l'ora di incontrarla».
Rebecca tornava sporadicamente a La Push e l'ultima volta che aveva fatto visita a Jacob e a suo padre, tre anni prima, non ci eravamo incontrate perchè la mia crescita era ancora troppo rapida per permettermi di mostrarmi tranquillamente agli esseri umani. Inoltre sarebbero state necessarie troppe spiegazioni e troppe bugie per giustificare la mia presenza accanto a Jacob senza parlare dell'imprinting, sebbene all'epoca io non sapessi neanche dell'esistenza di questo problema. Dunque non ci conoscevamo affatto ed ero impaziente di incontrarla.
Rachel, invece, trascorreva buona parte del suo tempo alla riserva, sebbene vivesse e lavorasse a Seattle, e con lui avevo da sempre un buon rapporto: l'imprinting di Paul l'aveva introdotta nel mondo sovrannaturale ancor prima della mia nascita, con lei non c'era bisogno di segreti.
A quel punto intervenne Alex. «Sembra che abbiate da fare, allora. Forse... è meglio che vada», disse, ma dal modo in cui mi guardò subito dopo capii che, se fosse stato per lui, non se ne sarebbe andato affatto. Ma perchè aveva un comportamento così bizzarro? Era la presenza di Jacob ad infastidirlo? E per quale motivo?
Ero sconcertata, ma cercai di mostrarmi tranquilla. Se loro due sembravano fuori di testa, quel giorno, almeno io dovevo mantenere la calma. «In effetti dovrei parlare con la sposa, però... Non devi andartene per forza. Possiamo continuare la passeggiata, oppure... potresti venire con noi». Esitai nel pronunciare l'ultima frase e lui se ne accorse. Non sapevo bene nemmeno io cosa stessi dicendo, ma portarlo a La Push... Alex tra i miei amici licantropi? L'idea mi inquietava un poco.
Mi fissò in silenzio per un secondo prima di rispondere. «No, nessun problema. Lo capisco, davvero. Avrete tante faccende da sbrigare...». Non concluse la frase e mi parve di cogliere una lievissima traccia di sarcasmo. Accidenti, se l'era presa? Era l'ultima cosa che volevo.
Stavo per intervenire, ma lui non me lo permise. Mi raggiunse con due passi e mi circondò le spalle con un braccio. Lo guardai negli occhi, il suo viso vicinissimo al mio, e mi resi conto con assoluta certezza che covava qualcosa. Il blu era in tempesta. Restai rigida e d'istinto feci mezzo passo indietro, preoccupata e a disagio. Jacob era accanto a noi, ci stava guardando, e la sua presenza mi frenava. Non avevo intenzione di baciare appassionatamente Alex davanti a lui. Alex percepì all'istante la mia tensione e si bloccò a pochi centimetri dal mio viso. Nei suoi occhi la tempesta fu sostituita da una rapida successione di emozioni: sorpresa, confusione, rabbia e timore. Esitò un istante, poi mi diede un fulmineo bacio sulla guancia.
«Ci vediamo, Renesmee», disse con tono formale. Lanciò un'occhiata alle mie spalle. «Jacob... è stato un piacere».
«Anche per me», rispose lui, tranquillamente.
Alex si voltò e si allontanò in fretta lungo la spiaggia. Lo seguii con lo sguardo, ansiosa, chiedendomi il motivo del suo strano atteggiamento. Possibile che incontrare Jacob gli avesse dato tanto fastidio? Possibile che io fossi così imbarazzata senza nessun motivo?
«Tutto bene?», chiese Jake. Mi accorsi che mi osservava con un mezzo sorriso sulle labbra. «Simpatico, il tuo ragazzo. È sempre così?».
Ricambiai il suo sorriso, un po' impacciata. «No, ti giuro che di solito non è affatto così. Era... nervoso per qualcosa».
«Non gli ha fatto piacere conoscermi», rispose, schietto come sempre.
«No, non dire questo. Perchè mai?». Tacqui di colpo. Probabilmente aveva ragione, ma perchè ad Alex non dpvesse far piacere incontrare il mio migliore amico restava un mistero. Adesso sì che mi avrebbe fatto comodo il potere di papà.
«Andiamo?», propose Jacob, la mano tesa verso di me.
Io la presi quasi senza accorgermene e iniziammo a camminare lentamente sul bagnasciuga.
«Allora», riprese lui, dopo un breve silenzio, «com'è andata la vacanza?».
«Bella domanda! Da dove comincio?», esclamai, divertita.
«Da dove vuoi». Sembrava stupito.
«Okay. Dunque... ho incontrato Nahuel».
«Nahuel? Quel Nahuel?».
La sua sorpresa mi fece ridacchiare. Non se l'aspettava, e come dargli torto. «Non credo che in giro ci siano molte persone con quel nome. Abbiamo fatto amicizia molto in fretta, sai? Stiamo molto bene, insieme. È come se fossimo sulla stessa lunghezza d'onda. E indovina che è successo? Ha cercato di baciarmi».
Parlai di getto, senza pensarci, e un attimo dopo ero già pentita. Jacob si fermò ed io con lui. «Cosa?», disse, con voce bassa e fredda.
Lo guardai, riluttante, e arrossii di botto. Dannazione, sembrava arrabbiato. Mi dissi che forse avevo appena commesso un errore. Non era il caso di parlare di quello, ma ero troppo abituata a raccontargli tutto... mi veniva spontaneo.
«Sì», borbottai, ma non aggiunsi altro, desiderando con tutte le mie forze di rimangiarmi quello che avevo detto. All'improvviso ero di nuovo a disagio, come poco prima, sotto gli sguardi gelidi del mio ragazzo e del mio migliore amico.
Jake non smetteva di fissarmi sconvolto. «E cos'è successo?», indagò, cauto.
«Niente. Cioè, io l'ho fermato prima che... succedesse... qualcosa di rilevante».
«Quindi non vi siete baciati?».
Ma cos'era, un'interrogatorio della CIA?
«No. Quasi», mi corressi subito dopo.
Non aggiunse altro. Rimase in silenzio per un po', poi riprese a camminare all'improvviso, tirandomi dietro di sè. Ogni tanto gli lanciavo un'occhiata furtiva, ma la sua espressione era piuttosto neutra. Sembrava solo molto impegnato con i propri pensieri. Per rompere il silenzio presi a parlare a raffica degli argomenti più svariati: le sperimentazioni culinarie in salsa brasiliana della mamma, il mucchio di cartoline che Emmett e Rose mi avevano spedito dalla Francia, le vacanze delle mie amiche, i preparativi per il matrimonio. Lui interveniva di tanto in tanto, ma rimase serio e pensieroso per il resto del tempo. Probabilmente la sua iperprotettività nei miei confronti gli stava suggerendo di prendere subito un aereo per il Brasile e dare una bella lezione al mio nuovo amico... Sì, doveva essere questa la spiegazione. Il fatto che Nahuel avesse provato a baciarmi non poteva che infastidirlo, perchè era il mio migliore amico, era il mio Jacob, e non tollerava che qualcuno facesse lo stupido con me. Be', se la sua reazione era quella, non avrei mai più fatto il nome di Nahuel davanti a lui.
Eppure... non riuscivo a non sentirmi sconcertata. Avevo sempre pensato di poter parlare di tutto, con Jake, senza alcun imbarazzo o difficoltà. Un tempo era stato così. Adesso, evidentemente, le cose erano cambiate.









Note.
1. Qui la canzone. Adoro questo ragazzo! Grazie di esistere! xd
2. Il nome del marito di Rebecca, Solomon, è preso dalla Guida ufficiale illustrata, come al solito. A me non piace affatto, lo ammetto, ma praticamente è canon... E il canon è canon.








Spazio autrice.
Salve, salve, salve ^^. Come andiamo? E allora, che ve ne pare? Cosa ne pensate del modo in cui "si chiude" la faccenda tra Nahuel e Renesmee? In realtà potrebbe non essere affatto chiusa. Potremmo ritrovare Nahuel in futuro, chissà :-P.
Forse questo vi sembrerà un capitolo un po' di passaggio perchè non succede un granchè, ma se fate attenzione vi accorgete che in realtà la storia prosegue eccome... Anzi, possiamo dire che ha fatto un piccolo passo avanti. Forse il testo della canzone, Get to you, potrebbe darvi un suggerimento. E un passo avanti ancora più lungo ci sarà nel prossimo capitolo. Quindi, mi raccomando, leggete, recensite e fatemi sapere! Grazie, un bacione! Alla prossima! <3

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Capitolo 5
*** Collide ***


C 5
Capitolo 5
Collide

I'm quite, you know
You make a first impression
I've found I'm scared to know
I'm always on your mind
Even the best fall down sometimes
Even the wrong words seem to rhyme
Out of the doubt that fills my mind
I somehow find you and I collide.
Collide, Howie Day¹



Certe cose hanno bisogno di tempo e di attesa; da certe cose non si può fuggire.
Kajsa Ingemarsson, Se potessi tornare indietro




Sto correndo.
La sensazione del vento e del sole caldo sul mio viso, tra i capelli, è meravigliosa. Inebriante.
Sempre più veloce, percorro un viale ricoperto di fresca erba verde e affiancato da due alte siepi che proseguono alla svolta del viale e sembrano continuare senza fine. Un labirinto. Siamo in un labirinto. Rido, felice, impaziente, eccitata dal gioco. Lui è subito dietro di me, posso sentire il tonfo leggero dei suoi passi e il respiro reso affannoso dalla corsa.
Volto appena la testa per guardarlo, i capelli che danzano sulle mie spalle, come per misurare la distanza che ci separa, divertendomi a stuzzicarlo. Alex accelera il passo, ma io sono più veloce. Svolto a destra, poi a sinistra, seguendo il misterioso percorso del labirinto. Non rallento neanche per un istante, decisa a fargli mangiare la polvere, e poi all'improvviso, dopo l'ultima svolta a destra, si apre davanti a me un piccolo spiazzo erboso circondato dalle stesse siepi alte e impenetrabili: il centro del labirinto. E nel centro dello spiazzo, di forma perfettamente circolare, una statua di pietra posta su un'alta base. Mi sembra che rappresenti una donna con un velo sottile che le ricopre il corpo, ma non ho il tempo di osservarla attentamente. Mi precipito dietro la base della statua, un blocco di pietra regolare alto quasi quanto me e largo il doppio, e mi nascondo, ridendo, nel timore che riesca a prendermi e che il divertimento finisca.
Ma lui sta al gioco. Arriva alla statua e si ferma di botto, poggia una mano sulla pietra liscia e levigata della statua, sbircia da un lato, cercandomi, ed io lo imito, sottraendomi al suo sguardo e alle sue mani. Lo sento ridere insieme a me e mi perdo in quel suono meraviglioso.
Poi, all'improvviso, mi viene un'idea. Il nostro gioco non deve finire. Non finirà. Dall'altra parte dello spiazzo rispetto al viale da cui siamo entrati il labirinto continua e altri sentieri affiancati da siepi imponenti si perdono in chissà quali direzioni, verso chissà quali angoli segreti... Voglio esplorarli tutti.
Scatto in quella direzione, sperando di coglierlo di sorpresa, ma Alex compare di colpo davanti a me, fulmineo, tende le braccia e mi afferra, impedendomi la fuga. Strillo tra le risate e cerco di divincolarmi, ma senza troppa convinzione. Quel nuovo gioco mi piace ancora di più. Alex mi stringe al suo corpo, guardandomi negli occhi, serio. Poggia un dito sulle mie labbra, spegnendo dolcemente la mia risata, poi si china a baciarmi.
È il paradiso. La sua bocca sulla mia scatena un piacere inimmaginabile. Ogni volta che le nostre labbra si toccano è come se fosse la prima.
Continuo ad avvertire quella stessa scarica elettrica che mi percorre le vene, come durante il nostro primo bacio, e che mi restituisce la vita. Ogni bacio è come una scoperta. Premo con forza la bocca sulla sua e mi sfugge una risata mentre mi abbandono contro il suo corpo caldo, appassionata, sicura, come mai prima d'ora. Mi sento così bene, leggera e appagata, che mi sembra di galleggiare su una nuvola.
E poi, all'improvviso, qualcosa cambia. Le sue braccia si irrigidiscono, le sue labbra diventano fredde. Spalanca gli occhi, fissi in un'espressione di terrore. Si stacca da me e il suo corpo, diventato assurdamente inerte, si accascia sull'erba verde brillante, il colore della primavera in trionfo. Cado insieme a lui, cercando di sorreggerlo, sconvolta. Vorrei chiamarlo, ma non riesco ad articolare le parole. Alex viene scosso da un sussulto mentre mi guarda con aria incredula, come se aspettasse da me una spiegazione su quello che gli sta succedendo. Stringo il suo viso gelido tra le mani, cercando disperatamente un modo per aiutarlo. Poi si immobilizza di colpo e si abbandona sulle mie ginocchia, gli occhi vitrei ancora fissi nei miei.
No. No, non è possibile. Scuoto quel corpo senza vita, balbettando il suo nome a fior di labbra. Non può essere. Non può essere.
Chiudo gli occhi e urlo.




L'urlo di terrore mi seguì dall'incubo alla realtà. Ma non riuscivo a distinguere l'uno dall'altra. Stavo ancora sognando? Ero sveglia? Era tutto vero? Aprii gli occhi, chiedendomi se avrei rivisto lo spiazzo erboso circondato dalle siepi, la statua di pietra, il cielo azzurro, il sole scintillante, Alex accasciato a terra, e mi accorsi di essere nel mio letto, in camera mia. Le tende tirate, la luce chiara del mattino, la pila di libri sul comodino, i vestiti sparpagliati in giro: tutto era familiare, tranquillo, sicuro. Scattai a sedere nel letto, sudata, tremante, e gettai via le coperte.
«Renesmee!
».
La mamma piombò di colpo nella stanza, agitata e spaventata, i capelli scompigliati; probabilmente aveva corso. Alle sue spalle comparve papà che subito cercò il mio viso, ansioso.
«Tesoro, cos'è successo? Un altro incubo?», indagò Bella mentre sedeva sul letto, accanto a me.
La guardai, sforzandomi di concentrarmi. «È sempre lo stesso», farfugliai. Avevo il fiatone e riuscivo appena a parlare. «Non è mai uguale, ma è sempre la stessa cosa».
«Cioè Alex...».
La mamma lasciò la frase in sospeso, come se non osasse dire quelle parole ad alta voce, ed io non risposi, limitandomi a fissarla con gli occhi sgranati. Restammo in silenzio tutti e tre, ma dopo qualche secondo non ressi più. Mi alzai in fretta, uscii dalla stanza e mi rifugiai in bagno, lasciandoli lì. L'acqua fresca sul viso mi calmò un poco, ma il mio riflesso allo specchio diceva tutto: avevo i capelli in disordine, due orrende occhiaie e il viso bianco come cera. Si vedeva lontano un chilometro che non avevo dormito affatto bene. Mi osservai a lungo, le mani poggiate sulle guance bollenti, ancora scombussolata. Poi mi diressi lentamente in cucina, dove i miei stavano preparando la colazione in un'atmosfera tesa e cupa. Quando entrai, si voltarono verso di me con due identiche espressioni preoccupate. Sedetti al bancone da lavoro e mi presi la testa fra le mani. Ero così stanca che temevo potesse cadermi sul tavolo da un momento all'altro. Sentii due mani fredde e delicate accarezzarmi piano i capelli.
«Non preoccuparti, Renesmee», mormorò una voca dolce. Era la mamma. «È soltanto un sogno».
Feci un profondo respiro, riflettendo sulle sue parole. «Non è soltanto un sogno», protestai con voce rauca.
Un attimo di silenzio. «In che senso?», chiese lei, esitante.
«Nel senso che è qualcosa di più. Un brutto sogno non torna due notti su quattro per cinque settimane consecutive», risposi a denti stretti.
«A volte succede», osservò papà, con voce calma.
«Non è solo questo. È diverso da altri sogni, è molto... realistico e dettagliato. Mi sembra di essere davvero lì. E poi fatico a svegliarmi... Non ho mai avuto incubi così». Mi tremava la voce e me la presi con me stessa per non riuscire a controllarla, ma non ne avevo la forza.
«Renesmee», cominciò papà lentamente, mettendomi davanti una tazza di latte e una confezione di cereali, «di solito i sogni rappresentano paure o desideri. Io credo che questo incubo concretizzi i tuoi timori che possa accadere qualcosa ad Alex». Strinse le labbra e tacque per un istante. Al mio fianco, Bella si mosse nervosamente. «Ma non c'è motivo di temere questo».
Sollevai gli occhi e lo fissai di sotto in su. «Tu dici?».
«Sì», rispose, deciso. «Rifletti: quali pericoli potrebbe correre? Ormai sappiamo controllarci perfettamente, tutti quanti, tu molto meglio di noi. E i Volturi non sanno della sua esistenza e non lo sapranno mai».
Ovviamente conosceva ogni pensiero che avessi mai formulato al riguardo. «E se invece lo scoprissero?», insistei, la voce che tremava sempre di più.
«Ma come potrebbero?», intervenne la mamma, allontanandosi un po' per guardarmi in viso. «Sono troppo lontani per...».
«Avete dimenticato come hanno saputo di me?», sbottai.
Papà scosse il capo. «È diverso. Tu eri una potenziale infrazione della legge. Frequentare gli umani, se si riesce a nascondergli la nostra vera natura, non è un crimine».
A mia volta scossi la testa, ostinata. Gli occhi vitrei di Alex, accasciato senza vita tra le mie braccia, erano ancora troppo vivi nella mia memoria. «La potenziale infrazione della legge era solo una scusa, papà. Non volevano distruggere me, volevano annientare l'intera famiglia Cullen. E non ci risulta che Aro abbia cambiato i suoi progetti. Quanto credete che ci metterà a trovare un'altra scusa e a riprovarci? E se Alex fosse coinvolto?», li incalzai, sempre più agitata.
La mamma sospirò, incrociando le braccia. «Se ragioniamo così, allora ogni essere umano con cui entriamo in contatto sarà sempre in pericolo mortale, anche Charlie... o Jas...».
«Mamma, io non sto avendo incubi su Charlie o Jas, ma su di lui!».
«Ma un sogno non significa niente, Renesmee! Non vuol dire che Alex sia davvero in pericolo!».
«Non è solo un sogno!», ripetei, con tono leggermente isterico.
Lei mi fissava confusa, senza riuscire a capirmi. No, non capiva. Ed io ero esasperata. «E cos'è allora?».
«È una specie di avvertimento, secondo me. È come se il mio inconscio volesse dirmi qualcosa. Alice non riesce a vedere il futuro di Alex, ma questi sogni vogliono mettermi in guardia. Io ho sempre saputo che per lui era un rischio stare con me... forse adesso è davvero in pericolo. Ed io... non posso fare finta di nulla».
«Cosa vuoi fare, allora?», chiese la mamma, piano, la voce carica di tensione.
Per un attimo la guardai in silenzio, senza sapere cosa rispondere. Mi strinsi di nuovo la testa tra le mani, sospirando. Ero così stanca, come se non avessi chiuso occhio per tutta la notte, e non riuscivo a pensare con lucidità.
«Non lo so», sussurrai. «Non lo so».

Nella cucina scese il silenzio. Ero certa che i miei si stessero scambiando occhiate preoccupate, ma riuscivo a pensare solo ad Alex. Le immagini dell'incubo mi scorrevano davanti agli occhi chiusi, sotto le palpebre, stampate a fuoco nel cervello. Non me ne sarei mai liberata, lo sapevo. Cosa dovevo fare?
Che cosa faccio?
«Be', comunque», disse la mamma all'improvviso, «non è il caso di pensarci oggi, tesoro. Sarà una giornata impegnativa, cerca di concentrarti su quello che devi fare. Per il resto c'è tempo».
Come? Sollevai gli occhi e la fissai, aggrottando la fronte. Lei mi sorrideva, incoraggiante, ma chissà perchè quel sorriso mi fece venire un nodo allo stomaco.
«Oggi? Che succede oggi?».

Silenzio. Il suo sorriso vacillò. «Ehm... Il matrimonio», rispose, esitante. Poi, vedendo che non reagivo, proseguì. «Il matrimonio di Rachel e Paul. Jacob viene a prenderti tra poco».
Rimasi zitta per un attimo, assimilando l'informazione. Poi il significato di quello che diceva mi piombò addosso tutto di un colpo. Saltai sulla sedia. «Il matrimonio! Merda, il matrimonio!».
Corsi a razzo fuori dalla cucina, tornai in camera mia e per qualche confuso secondo non feci che saltellare di qua e di là, nel panico più totale. Era tardi, dannazione! Tardi, tardi, tardi! Rischiavo di perdermi il matrimonio? Rachel mi avrebbe uccisa! Dove avrebbe rimediato un'altra damigella a poche ore dalle nozze?
Ci volle un po', ma poi iniziai a calmarmi, facendo respiri lenti e profondi. Dovevo mantenere il controllo. Prima cosa da fare: una doccia.
Mi tuffai in bagno e muovendomi più o meno alla velocità della luce riuscii a recuperare il tempo perduto. Ogni altro pensiero era stato immediatamente sostituito dal programma della giornata e ripetevo di continuo tra me e me la lista delle cose da fare. Il matrimonio era alle due, ma io dovevo essere a casa Black alle nove e trenta per aiutare la sposa a prepararsi. Dopo la doccia, tornai come una furia nella mia stanza e avevo appena iniziato a vestirmi quando sentii il cellulare vibrare sulla scrivania. Meglio rispondere, poteva essere Rachel. O Jacob. Allungai il braccio mentre mi infilavo il reggiseno e afferrai il telefono.
«Pronto?», esclamai, senza fiato.
«Renesmee? Oddio, finalmente! Sto provando a chiamarti da ben dieci minuti, sai?».
«Jas?».
«Sì, sono io. Perchè questo tono sorpreso?».
«Pensavo fosse qualcun altro, scusami».
«E invece è la tua migliore amica. In teoria avresti dovuto chiamarmi tu, ieri, ma non l'hai fatto», disse con tono accusatore.
Sbuffai mentre frugavo tra i vestiti sparpagliati nell'armadio in cerca di un paio di jeans. «Hai ragione, ma lo sai che ho avuto un sacco di cose da fare in questi giorni».
«Be', hai l'occasione di farti perdonare, tranquilla. Devi assolutamente venire a casa mia, ho bisogno di parlarti».
«Adesso?».
«Prima possibile. È urgente». Fece una breve pausa. «Ho litigato di nuovo con Tom. Quello stupido se l'è presa perchè ieri sera non sono andata al cinema con lui, ma avevo una cena di famiglia! Tu sai com'è mia madre e lo sa anche lui! Non sono riuscita ad evitarla, ma Tom non capisce, non vuole capire e avresti dovuto sentire con che tono mi ha parlato...».
«Senti, Jas, non potremmo discuterne in un altro momento? Ho un po' da fare, adesso», sbottai, saltellando su un piede solo per infilarmi i jeans che avevo finalmente acciuffato sul fondo dell'armadio.
«Renesmee, lasciati dire che come amica del cuore ultimamente lasci molto a desiderare», mi informò con tono secco e altezzoso.
«Jas, oggi c'è il matrimonio! Non posso venire da te, mi dispiace!».
«Non potresti saltarlo... ?».
«Sono una delle damigelle! Non credi che qualcuno noterebbe la mia assenza?».
La sentii sospirare pesantemente. «E io come faccio?».
«Verrò domani, te lo prometto», esclamai, senza fiato per la fretta e l'agitazione. Infilai le scarpe da ginnastica senza allacciarle e mi raddrizzai, cercando contemporaneamente di sistemarmi i capelli in disordine. Poi iniziai a raccogliere tra le braccia mucchi di oggetti sparsi in giro per lanciarli nella borsa. Spazzola, piastra per capelli, phon, due paia di calze, rossetto, profumo...
«Ma io voglio la mia migliore amica, adesso. Ho raccontato tutto a Gatto, ma non è la stessa cosa», protestò, imbronciata.
Jas aveva l'abitudine di intrattenere lunghe conversazioni con il suo Gatto, un grasso persiano rossiccio fuori di testa quanto la sua proprietaria e così chiamato in onore del gatto di Colazione da Tiffany, uno dei film preferiti di Jas. Gli confidava tutto, dal numero dei baci scambiati con Tom durante l'ultimo appuntamento al problema delle doppie punte.
«Okay, senti, visto che io non posso venire da te, che ne dici di venire tu da me?», chiesi, seguendo un pensiero nato in quel preciso istante.
«Perchè dovrei venire a casa tua se tu non ci sei?».
Alzai gli occhi al cielo. «No, vieni al matrimonio! Ti va?».
Tacque un istante. «Al matrimonio? Ma non conosco per niente gli sposi, non sono stata invitata... non voglio imbucarmi, non è di classe».
«Tranquilla, Rachel è praticamente una di famiglia, per me. Le chiederò se le va bene che tu venga, ma è scontato che dirà di sì. Allora?».
Jas rifletteva. «Uhm... Potrei mettermi quel vestito che ho appena comprato... E se dici che alla sposa non dispiacerà... Okay, vengo», esclamò, decisamente più allegra.
Le spiegai brevemente dove si sarebbe svolto il ricevimento, perchè era decisa a non venire in chiesa, e disse che l'avrebbe accompagnata l'autista di suo padre, che al momento non aveva nulla da fare; il signor Williams, infatti, era nel giardino di casa a provare le sue nuove mazze da golf e ci sarebbe rimasto per un bel po'. Riuscii a salutarla e a chiudere la telefonata appena un minuto prima che Jacob suonasse il clacson della sua auto, in strada. Bella piombò in camera mentre con una certa fatica chiudevo la cerniera della borsa piena da scoppiare.
«È arrivato», annunciò.
«Sì, me ne sono accorta», sbottai. Misi la borsa in spalla e marciai verso la porta.
«Non stai dimenticando qualcosa?».
Seguii con gli occhi la direzione indicata dal suo dito e vidi il copriabito bianco, appeso alla porta della cabina armadio, contenente il mio abito da damigella. Ops. Non avrei fatto granchè senza quello.
«Dannazione», protestai a mezza bocca.
Corsi a recuperarlo, ma prima che potessi schizzare fuori la mamma mi acciuffò per baciarmi sulla guancia. «Ciao, buona fortuna!», esclamò, allegra.
Nell'ingresso papà mi stava tenendo aperta la porta di casa. Mentre passavo, mi baciò sulla testa. «Divertiti, Raggio di sole. E non pensare a niente».
«Ci proverò», borbottai, non troppo convinta.
Due secondi dopo saltavo nella Golf rossa di Jacob, un po' trafelata, ma in perfetto orario. Lui mi guardò e il suo ampio sorriso, il sorriso jacobico, come lo chiamava la mamma, si congelò.
«Che cos'hai?».
«Niente. Ho dormito male, tutto qui».
Aggrottò la fronte. «Di nuovo quell'incubo?», indagò mentre metteva in moto.
Esitai un attimo, poi annuii. «Sì. Però... non voglio parlarne, non adesso. Ci sono cose più urgenti a cui pensare».
A casa Black, dove giungemmo dieci minuti dopo, la confusione regnava sovrana. Rachel era in piena crisi isterica perchè il cielo nuvoloso non prometteva niente di buono e si trovava in compagnia di uno strano gruppetto tutto al femminile che non poteva esserle di grande aiuto: Rebecca, che pur con tutta la sua buona volontà non sapeva nulla di preparativi per un matrimonio dal momento che il suo era stato una vera e propria fuga d'amore, come mi aveva raccontato; Leah, che ospitava a casa sua Rebecca e Solomon, era lì soltanto per riguardo a Jacob e perchè costretta da Seth e si era portata dietro il suo solito, immancabile buon umore; Summer, compagna di università e amica di Rachel, ancora in preda alla sbornia dell'addio al nubilato della sera prima. Avevamo organizzato solo una piccola riunione di ragazze a casa Clearwater, ma Summer era una festaiola scatenata e aveva trasformato la nostra serata tranquilla in un party a base di fiumi di alcol. Già da sobria si era dimostrata un tipetto piuttosto vivace, ma dopo la bevuta della sera prima era notevolmente peggiorata, e a giudicare dagli sguardi assassini che le lanciava Leah forse avrei dovuto preoccuparmi di tenerla al sicuro o saremmo rimasti senza una damigella.
Rebecca mi accolse con un grosso sospiro di sollievo. Fisicamente era quasi identica alla sorella, ma a differenza di Rachel portava i capelli corti, alle spalle, e aveva lineamenti un po' più spigolosi. Ancora non la conoscevo bene, ma sembrava più estroversa di Rachel. Mi informò che da oltre mezz'ora era alle prese con l'acconciatura della sposa, ma senza grandi risultati, così iniziai subito ad aiutarla.
Eravamo un po' in ritardo sulla tabella di marcia, ma se ci fossimo date una mossa potevamo farcela. Eravamo praticamente solo io e Rebecca ad aiutare la sposa a prepararsi, perchè le altre due non erano di alcun aiuto: Leah se ne stava seduta in poltrona con aria scocciata, limitandosi a passarci la spazzola o il phon di tanto in tanto, e Summer gironzolava per la stanza ballando, canticchiando e sorseggiando bicchieri di gin avanzato dalla festa. Rachel era così agitata e presa da mille preoccupazioni che quando le comunicai di aver invitato la mia amica Jas al ricevimento fece di sì con la testa senza neppure ascoltarmi.
Nel frattempo sentivamo la porta di casa aprirsi e chiudersi in continuazione e il telefono squillare ogni cinque minuti. Con noi c'era solo Jacob, che probabilmente era alle prese con un intenso via vai. Billy, molto saggiamente, si era defilato fin dalla prima mattina. Charlie era passato a prenderlo per portarlo a casa sua, da dove poi sarebbero andati tutti insieme alla cerimonia.
Verso mezzogiorno sentimmo bussare alla porta della stanza e Jacob infilò dentro la testa. «Ehilà, ragazze. Come andiamo?».
«Be'... Rachel ha ancora la testa attaccata al corpo, per cui direi bene», risposi con una scrollata di spalle. Le altre ridacchiarono.
«Ottimo», esclamò Jacob, sorridendo. «Immagino che abbiate fame, vi ho portato rifornimenti», disse e allungò un vassoio carico di tramezzini.

«Grazie, fratellino», disse Rachel, seduta davanti allo specchio.
Summer corse verso di lui e prese il vassoio. «Io sto morendo di fame», rispose con un sorriso smagliante. «Grazie mille, Jacob».
Lui la fissò per un attimo. «Di nulla. A dopo». Mi cercò con lo sguardo, mi fece l'occhiolino ed io ricambiai con una linguaccia, poi uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Stavo per tornare a concentrarmi sullo smalto di Rachel, quando mi accorsi che Summer mi fissava, ma prima che potessi intercettare il suo sguardo si era voltata. Poggiò il vassoio sul letto, sedette con eleganza, prese un sandwich e gli diede un morso.
«Allora, Rach», cominciò, «quanti anni ha esattamente tuo fratello?».
«Ventuno. Ne compie ventidue il prossimo quattordici gennaio».
Summer fece una risatina maliziosa. «Perfetto. Volevo solo accertarmi che fosse maggiorenne... Anche se dimostra ben più di ventun'anni».
«Come mai tutto questo interesse?», chiese Rebecca, impegnata a stendere lo smalto sulle unghie della mano sinistra di sua sorella, mentre io mi occupavo della destra.
«C'è bisogno di chiederlo? È un figo da paura!».
Cosa? Sollevai la testa di scatto e la guardai. Che cavolo stava dicendo? Un figo da paura? Jacob? Il mio Jacob?
«Sapete se è impegnato in qualche modo? Si vede con qualcuna?», proseguì Summer, ostentando la massima disinvoltura.
«E perchè la cosa dovrebbe interessarti?», sbottai.
Solo un attimo dopo mi resi conto di averlo detto davvero. Ma era troppo tardi. Lei mi fissò con aria divertita. «Hai ragione, piccola. Tanto non fa differenza, giusto?», e scoppiò a ridere.
Dio, la sua risata era insopportabile! Non ci avevo fatto caso, prima. Distolsi lo sguardo da lei, infastidita, e mi accorsi che le altre mi stavano osservando: Rebecca con aria perplessa, Rachel sembrava interessata e Leah... aveva uno strano sorrisino sardonico sulle labbra. Sentii le guance scaldarsi immediatamente.
«Attenta, Renesmee», disse Rebecca.
Abbassai gli occhi e vidi che tenevo sospeso in aria il pennellino dello smalto e il colore stava per sgocciolare sul pavimento. «Accidenti!», sbottai e subito infilai il pennellino nella boccetta. Appena in tempo.
Dopo pranzo tutto cominciò a succedere molto in fretta. Leah ci lasciò per andare a vestirsi a casa sua e restammo in quattro, anche se Summer non contava, non essendo di alcuna utilità. Sistemati i capelli e il trucco di Rachel, la aiutammo ad entrare nel vestito da sposa, ad infilarsi le scarpe e la giarrettiera azzurro chiaro per il lancio tradizionale, poi la lasciammo impalata al centro della stanza e andammo a vestirci.
Io, Rebecca e Summer avremmo indossato abiti dello stesso colore, grigio argento, ma dal taglio diverso. Il mio era corto, a vita alta, con sandali in tinta. Stirai un po' i capelli con la piastra per rendere i boccoli più morbidi e poi li legai dietro la testa in una semplice mezza coda. Non ebbi il tempo di osservarmi con attenzione, ma quando Rachel si mise davanti allo specchio a figura intera per controllare come Rebecca le appuntava il velo mentre io le stavo accanto reggendo la montagna di tulle bianco dello strascico, potei studiare a lungo il mio riflesso e ne rimasi stupita. Mi sembrò di cogliere dei cambiamenti: il mio corpo era più sottile in alcuni punti e più morbido in altri, dove erano apparse delle curve che ricordavo appena accennate all'inizio dell'estate e che ora sembravano ben più evidenti. I fianchi disegnavano due archi armoniosi, le gambe erano slanciate, molto più di quanto mi sembrasse sull'Isola Esme, il viso era leggermente dimagrito e gli zigomi sporgevano un po' di più. Soltanto gli occhi erano sempre gli stessi, troppo grandi per i miei gusti, come quando ero bambina. Chissà perchè quei cambiamenti mi colpivano tutto a un tratto? Forse perchè non erano stati rapidi come in passato, ma molto più graduali, e guardandomi ogni giorno allo specchio non li avevo colti.
Ma non ebbi molto tempo per pensarci. Appena il velo fu assicurato in cima all'acconciatura di Rachel, udimmo bussare alla porta di casa.
«Sono già arrivati!», squittì Rachel, un'espressione di autentico terrore sul bel viso delicatamente truccato.
«Vado a controllare», dissi.
Lasciai la stanza matrimoniale e avevo fatto solo qualche passo nel corridoio quando dall'ingresso spuntò Jacob. Indossava già il suo smoking e sembrava si fosse tirato a lucido dalla testa ai piedi. Era così diverso dal solito Jacob che restai a bocca aperta. Lui incrociò il mio sguardo e mi sorrise, un sorriso ampio, caldo, bellissimo. Poi abbassò gli occhi sul mio abito, o almeno così mi parve, e lentamente assunse un'aria molto seria.
«Renesmee», disse dopo un attimo di silenzio, «sei... fantastica». Mi guardò di nuovo dritto negli occhi e inspiegabilmente mi sembrò di vacillare, come se avessi le vertigini o qualcuno mi avesse fatto uno sgambetto.
«Anche tu», balbettai. «Cioè, voglio dire... sei davvero... elegante».
Non smetteva di fissarmi con quella strana espressione grave e intensa ed io mi sentivo sempre più a disagio. Provavo la fortissima tentazione di correre a nascondermi da qualche parte e sottrarmi ai suoi occhi scuri. Jacob venne lentamente verso di me, mi prese per mano ed io sentii un tuffo al cuore. Mi fece girare piano su me stessa, come su una pista da ballo, per osservarmi da ogni angolazione, poi sorrise, anche se la gravità non era sparita dal suo sguardo. Accennai appena un piccolo sorriso, ancora imbarazzata, e in quel momento si udì un click. Ci voltammo: Seth, fotografo ufficiale del matrimonio, era apparso sulla porta e aveva scattato una foto.
«E con questa si comincia», esclamò, allegro. «Siete pronti? Dov'è la sposa?».
Puntando il pollice dietro di me indicai la stanza di Billy e lui entrò, probabilmente per immortalare Rachel prima che uscissimo di casa. Rimasti soli, io e Jake ci fissammo in silenzio per un istante.
«Charlie, Sue e Billy sono arrivati», disse all'improvviso.
«Oh, bene. Vado a salutarli», mormorai.
Lasciai il corridoio, che a un tratto mi sembrava più stretto del solito, uscii sulla soglia di casa e vidi Jared, che avrebbe fatto da autista, spingere la sedia a rotelle di Billy verso casa insieme a Sue. Charlie era proprio dietro di loro.
«Ciao!».
«Ehi, Nessie!», esclamò Billy. «Stai benissimo, tesoro». Sembrava soddisfatto, chissà perchè.
«Grazie», bofonchiai, tenendo gli occhi ben fissi a terra.
Sue mi venne incontro e mi strinse in un breve, affettuoso abbraccio. «Questo vestito è incantevole, Renesmee. Ti sta una favola».
Alle sue spalle, Charlie mi guardava stravolto. «Chi sei tu e che ne hai fatto della mia bambina?», sbottò.
Sorrisi. «Tranquillo, è sempre qui. È solo vestita meglio del solito. Anche tu non sei niente male, sai?», dissi, scoccando un'occhiata maliziosa al suo bel completo grigio scuro che faceva pandant con l'abito di sua moglie.
Le sue guance si colorarono un po'. Ecco perchè ero così incapace di accettare i complimenti con nonchalance: DNA Swan.
«Ti ringrazio, tesoro, ma... sono solo una vecchia e sgangherata poltrona con una tappezzeria nuova».
Quel paragone mi fece ridere. «E allora? Le vecchie poltrone sono le più comode, lo sanno tutti».
Lui alzò le spalle. «Comunque è stata Sue a sceglierlo», precisò, mentre si stirava con la mano il bavero della giacca in un gesto imbarazzato, riuscendo soltanto a stropicciarlo ancora di più.
«Nessie! Ehi, Nessie!», chiamò Seth da dentro casa. «Vieni qui! È inutile che cerchi di nasconderti, sei una damigella e non puoi sfuggire al fotografo!».
Alzai gli occhi al cielo. «Devo andare».
«Sì, anch'io. È quasi ora», rispose Charlie controllando il suo orologio da polso. Sue sarebbe venuta in chiesa con noi e avrebbe aiutato Billy ad accompagnare Rachel all'altare spingendo la sua sedia a rotelle. Il nonno si chinò per baciarmi sulla guancia e fece un passo verso la macchina, ma poi ci ripensò e tornò indietro, osservandomi accigliato. «Questo vestito è troppo corto. E troppo scollato», brontolò. «Non sarebbe meglio coprirlo con un cappotto o qualcosa del genere?».
«Non credo che Rachel ne sarebbe molto felice», risposi, trattenendo a stento una risata. La faccia di Charlie era impagabile.
«Uhm, tu dici? Sì, forse hai ragione, però... Insomma, potresti prendere freddo e...».
«Renesmee Carlie Cullen! Vieni subito qui!», gridò ancora Seth e stavolta senza traccia di ironia.
«A dopo», bisbigliò Charlie e corse alla macchina.
Seth aveva preso molto sul serio il suo incarico, come appurai più tardi. Troppo sul serio. Ci costrinse a posare per una quantità spropositata di fotografie e l'unica entusiasta della cosa era Summer, che cercava sempre di mettersi davanti e accanto a Jacob, tra sciocche risatine e ammiccamenti. Capivo che fosse un po' sbronza, ma iniziava a stufarmi. A un certo punto perfino Rachel non ne poteva più e quando Jake dichiarò che era il momento di andare, perchè dieci minuti di ritardo potevano anche essere eleganti, ma quaranta diventavano insostenibili, ci seguì e continuò a scattare foto anche mentre aiutavamo la sposa a salire sull'auto guidata da Jared. Jacob salì accanto a lui, mentre io, Summer e Rebecca ci stringevamo sui sedili posteriori. Nell'auto di Sue, che ci avrebbe seguiti, montarono Seth e Billy e finalmente partimmo.
Il tragitto verso la piccola chiesa di La Push durava solo una decina di minuti e ben presto apparvero le prime auto parcheggiate ai lati della strada. Non erano molte, ma sapevo che la maggior parte degli invitati aveva raggiunto la chiesa a piedi. Iniziai a sentirmi un po' agitata. Chissà quanta gente c'era lì dentro... La famiglia di Jake era molto conosciuta e stimata a La Push... La chiesa doveva essere piena zeppa. L'unica più tesa di me era Rachel, che aveva gli occhi sbarrati come se si stesse dirigendo al patibolo e non all'altare.
«Oh, accidenti!», protestò mentre scendeva dalla macchina, trattenendo con una mano il velo gonfiato e scompigliato dal vento. «Datemi una sistemata prima di entrare o sembrerò una strega appena scesa dalla scopa!».
Seth rise così forte che dovette smettere di scattare foto per qualche secondo. Io e Rebecca giravamo intorno a Rachel per rassettare il vestito e il velo e nel frattempo Summer se ne stava appoggiata alla macchina in una posa sensuale e lanciava sguardi languidi all'indirizzo di Jacob.
«Lo smoking ti sta una favola, sai?», disse, sbattendo le ciglia senza dubbio ben più del necessario.
Lui rimase impassibile. «Ti ringrazio», rispose senza guardarla.
«Okay, possiamo andare. Siamo pronte», intervenne Rebecca.
Ci avviammo all'ingresso della chiesa.
«Nessie, tutto bene? Cos'è quella faccia? Non vorrai rovinarmi le foto», brontolò Seth osservandomi di sbieco.
«Tutto bene», tagliai corto.
Sentivo i muscoli facciali irriggiditi e cercai di distenderli in un sorriso smagliante, ma a giudicare dalla faccia di Seth, che scuoteva la testa con aria preoccupata, senza grandi risultati. Tutta colpa di Summer e dei suoi commenti fuori luogo. Mi dava sui nervi il modo in cui si disinteressava completamente di Rachel e del matrimonio perchè troppo impegnata a fare gli occhi dolci a Jake. Soltanto una persona buona e gentile come Rachel avrebbe potuto sopportare quel comportamento senza dare di matto.
Entrammo nella piccola anticamera della chiesa dove trovammo ad accoglierci la moglie del pastore, la signora Young, che si occupava di gestire gli aspetti pratici della cerimonia e subito iniziò a parlare con Rachel. Tutto ciò che ci separava dagli invitati era una grande porta bianca a due battenti, chiusa, con due composizioni di fiori ai lati. Si udiva un certo brusio e qualcuno che strimpellava al pianoforte per riscaldarsi le dita. Io sarei stata la prima ad entrare e guardando quella porta chiusa davanti a me ebbi la sensazione che potesse cadermi addosso da un momento all'altro.
Jacob, Seth e Jared ci lasciarono per andare ad occupare i loro posti all'interno, poi, a un segno della signora Young, il musicista iniziò a suonare una musica lenta e dolce che non conoscevo.  
«Sorridete!», suggerì la signora Young, poi spalancò la porta e si allontanò di un passo.
Davanti a me comparve la sala della cerimonia, decorata da composizioni di fiori bianchi e strapiena di gente. Sembrava che tutta La Push fosse stipata lì dentro. Un mare di teste si voltò verso di noi per vedere meglio. Strinsi con più forza il mio bouchet come se fosse stato un appiglio e presi un bel respiro profondo. Quando riconobbi la mia battuta d'entrata, feci un passo avanti, un gesto semplicissimo che mi costò un certo sforzo, e iniziai a camminare lentamente sulla passerella tra gli invitati.
Tenevo gli occhi bassi, un po' inquieta all'idea di guardarmi in giro e scorgere un migliaio di persone che mi fissavano, attenta a non andare nè troppo piano nè troppo veloce e a mantenere l'equilibrio sui tacchi. Solo di tanto in tanto azzardavo un'occhiata davanti a me, così rapida che tutto sembrava un alone confuso di facce, luce e colori. Gli ultimi metri furono i più facili da percorrere e quando raggiunsi il pastore, Paul e Sam, il testimone dello sposo, tirai un piccolo sospiro di sollievo.
Presi posto e mi voltai appena in tempo per vedere Summer che si avviava lungo la passatoia, incespicando un po'. Tutti trattennero rumorosamente il fiato, qualcuno ridacchiò, ma grazie al cielo Summer si riprese subito e proseguì con la disinvoltura di una stella del cinema.
«Mi sa che non era il giorno adatto per sbronzarsi», le bisbigliai sotto voce, seccata, appena mi ebbe raggiunta.
Lei fece spallucce, perfettamente tranquilla. Cercò Jacob tra quelli seduti in prima fila e gli sorrise, ammiccando. Lui non se ne accorse, o almeno così mi parve.
Era il turno di Rebecca, bellissima nel suo abito lungo e senza spalline, e constatai con stupore che era imbarazzata quasi quanto me. Raggiunse l'altare e mi rivolse un gran sorriso mentre prendeva posizione accanto a Summer. La musica si interruppe e ci fu qualche secondo di silenzio. Poi cominciò la tradizionale marcia nuziale, tutti si alzarono in piedi, rivolti verso la porta, e Rachel fece il suo ingresso trionfale. Avanzava con passo sicuro, saldamente ancorata al braccio di suo padre. Billy aveva gli occhi lucidi e Sue, alle loro spalle, minacciava di imitarlo da un momento all'altro. Ammirai incantata la bellezza della sposa, che sembrava splendere di luce propria. Tutta l'agitazione era sparita dal suo volto e guardava Paul dritto negli occhi, così tranquilla, felice e sicura da lasciare senza fiato. Per un attimo mi sembrò sbagliato osservarla, come se stessi spiando un momento privato.
Lasciai vagare lo sguardo sugli invitati, per distrarmi. Charlie mi guardava commosso dalla seconda fila, Seth immortalava ogni passo della sposa, al suo fianco Leah aveva l'espressione più dolce e serena che le avessi mai visto, Emily ricambiò il mio sguardo e accennò un saluto da lontano. Poi vidi Jacob e mi accorsi, sopresa, che in quel momento cruciale, mentre Rachel prendeva la mano di Paul ed entrambi si giravano verso l'altare, non stava guardando sua sorella. Guardava me, con un sorriso tenue sulle labbra. D'istinto gli sorrisi anch'io. Era incredibilmente affascinante, quel giorno. Be', Jake era sempre stato un bel ragazzo, ma adesso c'era qualcosa di speciale, in lui, qualcosa di diverso. Forse era lo smoking, o l'occasione particolare, o il fatto che si fosse dato finalmente una sistemata... Di solito non badava mai a quello che si metteva addosso...
«Dio, Rebecca, tuo fratello è uno schianto», sussurrò Summer a voce bassa, perchè solo noi due potessimo udirla.
Rebecca sbuffò. «Senti, potresti cercare di contenerti almeno in questo momento, per favore? Grazie», sibilò, sforzandosi a sua volta di non alzare la voce.
Lanciai a Summer un'occhiata assassina, sebbene lei facesse finta di nulla, e provai la fortissima tentazione di saltarle addosso e picchiarla ripetutamente sulla testa con il mio bouchet fino a farle chiudere quella boccaccia. La cosa mi stupì. Non ero mai stata una persona violenta, proprio no. Ma quella lì non la sopportavo, lei e i suoi apprezzamenti su Jacob, il mio Jacob!
Ma come si permette?, sbottai tra me e me, furibonda, mentre le ultime note della marcia nuziale si dissolvevano nell'aria e il pastore dava inizio alla cerimonia.
In quel preciso istante, davanti a un centinaio di persone e nel bel mezzo di un matrimonio, eccola lì. Una consapevolezza sconvolgente che mi investì con la violenza di un treno lanciato a tutta velocità. Mi lasciò a bocca aperta.
Ero gelosa. Ero gelosa di Jacob Black.







Note.
1. Qui la canzone.








Spazio autrice.
Eccomi qui! Innanzitutto vi chiedo scusa per il lieve slittamento della pubblicazione! Purtroppo ieri ho avuto qualche problema tecnico con Efp e poichè ero anche molto stanca a causa dello studio non sono riuscita a risolvere la cosa... A un certo punto mi sono arresa e ho pensato Va be', se ne parla domani. Ho scritto un post al riguardo su Facebook, spero che lo abbiate visto e non vi siate preoccupate xd.
Allora, la storia va avanti. Un passo alla volta si sta costruendo un nuovo scenario che vi apparirà pienamente comprensibile tra qualche altro capitolo. Ma sono sicura che abbiate già i vostri sospetti xd. Fatemi sapere quali sono!
Spero che il matrimonio di Rachel vi sia piaciuto ^^. Forse ricorderete che se ne parla per la prima volta nel capitolo sei di Midnight star, e devo dire che ero impaziente di pubblicare questo capitolo. Per quanto riguarda la cerimonia, ho deciso di ambientarla in una chiesa dopo essermi documentata un po' su Wikipedia. Ho scoperto che la maggior parte dei nativi d'America fanno parte della Chiesa nativa americana, che unisce elementi del cristianesimo con elementi propri della spiritualità dei nativi. Quindi immagino una cerimonia un po' "esotica", magari, rispetto a quelle cristiane tradizionali, ma una chiesa mi sembrava comunque il posto migliore dove ambientarla. Vi assicuro che è un aspetto sul quale ho riflettuto tantissimo, perchè ero molto incerta xd.
Spero anche che abbiate apprezzato il riferimento a Colazione da Tiffany! È uno dei miei film preferiti e non so come mai ma ho sempre immaginato la mia Jas come una grande fan di questo film, della splendida Audrey, dell'età d'oro di Hollywood... Ce la vedo, e voi?
Infine, qualche parola su Collide di Howie Day <3. Amo moltissimo questa canzone, soprattutto perchè viene considerata un po' la canzone "ufficiale" di una coppia appartenente ad un altro fandom, una coppia che io adoro. Dedicare questa canzone a Renesmee e a Jacob e a questo capitolo in particolare ha un significato molto profondo per me. Spero che approviate la mia scelta.
Okay, è tutto! Grazie di aver letto fin qui e mi raccomando, vorrei conoscere i vostri pareri. Al prossimo capitolo!
   

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Capitolo 6
*** Open arms ***


C 6 i
Capitolo 6
Open arms

Whatever happened to truth?
Lost without a trace
Whatever happened to the mirror?
That showed me a happy face
Whatever happened to sorry?
You know it's never too late
Whatever happened to good things coming?
Coming to those who wait
Whatevere happened to this city?
It's not like it used to be
Whatever happened to you?
Whatever happened to me?
Open arms
, Gary Go¹



La fissava come... come un cieco che vede il sole per la prima volta.

Stephenie Meyer, Breaking dawn



Il ricevimento di nozze si svolse in una zona isolata e tranquilla sulle scogliere di La Push, un promontorio di nome Cape Greenwood. Rachel e Paul avevano scoperto quel posto per caso, durante una passeggiata, e se ne erano innamorati. Organizzare una grande festa in mezzo al nulla non era una cosa da poco, ma Rachel aveva potuto contare sull'aiuto del suo datore di lavoro a Seattle, nonchè suo buon amico, che gestiva un servizio di catering e si era incaricato di occuparsi del ricevimento a un prezzo accessibile.
La festa si svolgeva all'interno di una grande tenda che da un lato fiancheggiava la rigorosa foresta della riserva, dall'altro affacciava sulla strada panoramica che da La Push si snodava lungo la costa. Fortunatamente il tempo era abbastanza mite da consentire agli ospiti di uscire a passeggiare lungo la costa, godendosi la meravigliosa vista sull'oceano.
I due novelli sposi giravano tra gli invitati tenendosi per mano, ridendo e scherzando, diffondendo un'aura di felicità ed entusiasmo dappertutto. La loro allegria era contagiosa.
«È stato davvero un bel matrimonio. Rachel e Paul saranno molto felici», commentò Kim, fidanzata ufficiale di Jared e oggetto del suo imprinting. Si tenevano abbracciati e lei si voltò a guardarlo con la chiara espressione di chi si aspetta qualcosa del genere anche per se stessa molto presto. Sapevo che avevano stabilito di sposarsi
da tempo, ma continuavano a rimandare per motivi economici. E comunque si consideravano già marito e moglie a tutti gli effetti dal momento che convivevano da tre anni. Il matrimonio sarebbe stata una pura formalità. Jared rispose allo sguardo della sua Kim scoccandole un bacio sulla fronte.
«Voi due sarete i prossimi, ci scommetto», esclamò Quil. «Mi sa che è il caso di conservare i vestiti eleganti, ragazzi, ci serviranno molto presto».
Il nostro gruppetto ridacchiò. Eravamo fermi sul bordo della pista da ballo e seguivamo con gli occhi gli sposi impegnati in un romantico lento.
«I prossimi, e decisamente non gli ultimi», aggiunse Embry mentre ancora rideva. «A chi toccherà dopo Jared e Kim? Si accettano scommesse!».
«Io azzardo una previsione e dico che Quil sarà proprio l'ultimo», fece Jared, lanciando un'occhiata divertita all'amico. Quil rispose con un'altra risatina e una spinta.
«Secondo me Jacob potrebbe battervi tutti se quella Summer continua ad impegnarsi con tanta determinazione», aggiunse Embry.
Gli altri risero di nuovo, io no. Accennai un sorriso stentato.
«Ah-ah, che divertimento», borbottai.
Guardai Jacob, che era accanto a me, sbirciando la sua reazione. Rideva insieme agli altri, spensierato. Sembrava che quell'allusione non gli avesse fatto nè caldo nè freddo. Mi circondò la vita con un braccio, un gesto spontaneo e inconsapevole, attirandomi verso di sè. I nostri corpi si sfiorarano e avvertii immediatamente un brivido corrermi lungo la schiena. Turbata, mi ritrassi di qualche centimentro, allontanandomi quel poco che bastava a tranquillizzarmi.
«No, non sono d'accordo. Sarà Leah a batterci tutti», esclamò Jared, e qua e là scoppiò qualche risatina sommessa e a stento trattenuta.
L'interpellata gli rivolse uno sguardo di ghiaccio. «Idiota», disse, tranquilla e senza alcuna inflessione, come se stesse semplicemente constatando un dato di fatto. Girò i tacchi e si allontanò, dirigendosi verso Charlie e Sue.
Mentre camminava la seguii con lo sguardo. Mi dispiaceva un po' per lei. Dopo i fatti della scorsa primavera il nostro rapporto era tornato freddo ed educato come sempre. Probabilmente non saremmo mai diventate amiche: eravamo troppo diverse ed erano accadute troppe cose, fra noi, per fingere che andasse tutto bene. Però mi sembrava di capirla meglio, adesso. Immaginavo che per lei dovesse essere dura assistere al trionfo dell'imprinting, il fenomeno che aveva sconvolto la sua vita.
«Jared», disse Jacob in tono di rimprovero, guardandolo male.
Prendeva le difese di Leah, come sempre in quelle situazioni. Anche il loro rapporto non sembrava cambiato dopo quello che era successo a marzo. Sapevo grazie a mio padre che quando Leah mi aveva spiattellato tutto, lei e Jake erano stati praticamente a ferro e fuoco per una settimana: lui era deciso a staccarle la testa non appena ne avesse avuto l'occasione, Leah aveva seriamente valutato la possibilità di lasciare il branco come unico rimendio a ciò che aveva fatto. Ma negli ultimi anni il loro legame era diventato sempre più stretto e Jacob sapeva
, come il resto del branco, che il gesto di Leah non era stato dettato dalla cattiveria o dalla semplice volontà di farmi del male. Era solo il frutto di un malessere che affondava le proprie radici in un profondo dolore. Jacob non avrebbe mai potuto ignorare quello che leggeva nella sua mente ogni volta che erano in forma di lupo. Aveva capito. E così, seppure con qualche difficoltà, erano tornati ad essere la strana coppia di un tempo.
«Potevi risparmiartela, questa», aggiunse Emily, seccata.
Jared alzò gli occhi al cielo. «Oh, andiamo! Era una battuta. Quella ragazza non ha il senso dell'umorismo, l'ho sempre detto, io».
«Forse, ma non penso che le occorra il senso dell'umorismo per darti una lezione», rispose Jake con un'occhiata eloquente.
Jared fece una smorfia, ma non aggiunse altro. Gli sposi si stavano avvicinando al nostro gruppetto, probabilmente per salutare e ringraziare, purtroppo accompagnati da Summer.
«Renesmee!», esclamò Rachel. Mi abbracciò con slancio carico di affetto e felicità. «Ti stavo cercando, volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto in questi giorni. Sei stata fantastica».
Felice, ricambiai la stretta solo con un braccio perchè con l'altro ero ancora agganciata a Jacob. «Non devi ringraziarmi. È stato divertente, sai? E comunque non ho fatto chissà cosa...».
Lei scosse la testa. «Sei stata di grande aiuto, invece. Ti ricordi quando il catering aveva confuso le ordinazioni? E quando non riuscivo a scegliere il bouchet? Ti devo un milione di favori. La festa sta andando bene? Vi divertite?», chiese, rivolgendosi anche agli altri.
«
È tutto perfetto», la rassicurò Emily, sorridendo. «E questo posto è così suggestivo...».
Nel frattempo mi accorsi che Summer si era strategicamente spostata in zona Jacob e adesso era al suo fianco, dal lato opposto rispetto a me.
«Allora, Jacob», iniziò con voce suadente, guardandolo dritto negli occhi, «tu vivi a La Push, giusto? Non ti sposti mai? Per esempio, hai mai fatto un giro a Seattle?».
«Sono stato in città, qualche volta, ma se non è necessario non mi sposto mai dalla riserva».
«Capisco. Be', sai che noia! Ogni tanto ti ci vorrà un po' di svago».
«Veramente ho parecchio da fare, qui».
«Rachel mi ha detto che lavori con le auto».
«Giusto».
«Che cosa affascinante! Io adoro le macchine, i motori e tutto il resto, ma non sono certo un'esperta. Mi piace un sacco la tua Golf, sai?».
«Sì, non è male».
Breve pausa.
«La prossima volta che vieni a Seattle devi promettermi di dare un'occhiata alla mia macchina. Credo che abbia qualche problema, ultimamente. E dopo potremmo fare un giro insieme... Ti mostro la città, che ne pensi?».
«Certo, certo».
Altra breve pausa, poi Summer tornò alla carica.
«Ehi, ti andrebbe di ballare?».
«Scusate», sbottai all'improvviso prima che Jacob potesse rispondere. «Vado un attimo a... prendere da bere», aggiunsi, sebbene non avessi davvero sete; avevo sparato la prima cosa che mi era venuta in mente.
«Vuoi che ti accompagni?», chiese lui, trattenendomi per il braccio. Aveva un'espressione seria e tranquilla, così serafica da mandarmi in bestia. Ma non si rendeva conto di quello che stava facendo Summer? Perchè non la mandava al diavolo invece di chiacchierare educatamente con lei?
«No, grazie».
Liberai il braccio con un gesto delicato ma deciso e marciai spedita verso il buffet senza voltarmi indietro. Mi versai un bicchiere di punch color rosa chiaro e lo sorseggiai lentamente, osservando le coppie di ballerini sulla pista. Claire e il piccolo Levi Uley saltellavano insieme, lei sforzandosi di seguire il ritmo e di imitare i grandi, lui sgambettando di qua e di là. Erano così carini che riuscirono a strapparmi un sorriso. Poco più in là, Charlie e Sue ballavano lentamente, stretti l'uno all'altra. Il nonno aveva l'aria di chi si sente un idiota, ma poi ridacchiò per qualcosa che sua moglie gli aveva bisbigliato. Si scambiarono un piccolo bacio a fior di labbra, sereni, felici e perfetti. Che bella coppia. Poi lo sguardo mi cadde sul gruppo di licantropi che avevo appena lasciato, dall'altra parte della pista, e il mio sorriso si dileguò all'istante: Summer era ancora lì, vicino a Jacob, e sembrava che insistesse per invitarlo a ballare. Fatica sprecata. Jake non ballava mai.
Click!
Mi girai di botto sentendo lo scatto di una macchina fotografica: Seth mi si era avvicinato di soppiatto per immortalarmi e adesso esaminava sul display la foto che aveva appena scattato.
«Uhm... Questa la intitolerei Damigella infuriata», disse.
«Non sono infuriata».
Lui fece un piccolo sorriso. «Cos'è che ti infastidisce tanto?». Seguì la direzione del mio sguardo e la sua espressione divenne consapevole. «Ah», mormorò. Tacque per un istante. «Be', quella Summer sta dando sui nervi un po' a tutti, oggi. Leah dice che se sente la sua risata da oca un'altra volta troverà il modo di tapparle la bocca per sempre».
«Summer non c'entra niente», protestai, stizzita.
Seth mi lanciò una rapida occhiata di sotto in su, poi riprese ad armeggiare con la macchina fotografica, le sopracciglia lievemente inarcate. «Okay».
Il suo tono condiscendente mi irritò ancora di più. «
È vero, Seth! Sono preoccupata perchè... la mia amica Jas dovrebbe già essere qui e invece non è ancora arrivata».
«Vedrai che arriverà».
Ero certa che non mi credesse, ma non potevo farci nulla. Non mi andava di provare a fargli cambiare idea. Poteva pensare quello che preferiva.
«Ma come fa Rachel ad essere amica di quella lì?», sbottai di colpo dopo un breve silenzio.
«Inspiegabile», commentò Seth, uno strano sorrisino sulle labbra.
«E come fa Jacob a sopportare di parlare con lei? Io l'avrei già strozzata».
L'espressione di Seth era sempre più divertita, ma ero troppo arrabbiata per sentirmi in imbarazzo. «Renesmee, io credo che Jake non la vedo nemmeno», rispose, tranquillo.
Sbuffai. «Come sarebbe a dire? Ha problemi di vista?».
«No, ma non la vede. Dammi retta».
Lo guardai, perplessa. Mi stava fissando con un'aria significativa che mi stupì. Sembrava che cercasse di farmi capire qualcosa in silenzio, solo con gli occhi, qualcosa che forse avrei già dovuto sapere.
«Posso darti un consiglio da amico? Non rovinarti la festa per questa cretinata e vieni a ballare con me».
Si infilò in tasca la macchina fotografica, mi tolse il bicchiere di mano e mi tirò in pista. Ballare mi piaceva e con Seth mi sentivo perfettamente a mio agio. Ballammo insieme un paio di canzoni veloci, poi, poco prima che la seconda terminasse, notai a bordo pista Jas e Jacob intenti a chiacchierare.
«Ehi, Jas è arrivata», esclamai.
Seth guardò in quella direzione. «Vuoi andare da lei?».
«Ti dispiace? Vorrei sapere come sta, quando l'ho sentita stamattina era piuttosto agitata. Dobbiamo parlare di una cosa seria».
«Certo, vai pure. Credo che inviterò Rach, non ho ancora ballato con la sposa».
Gli baciai velocemente la guancia. «Grazie per i balli. A dopo».
Sgusciando tra le coppie danzanti raggiunsi i miei due amici, al margine della pista da ballo, proprio mentre entrambi scoppiavano a ridere per chissà quale motivo.
«Jas, finalmente!».
Lei si girò verso di me con un gran sorriso. «Renesmee, ciao! Cavoli, sei stupenda!». Si sporse per abbracciarmi, ma si tirò indietro quasi subito. «Oh, scusa, scusa! Stavo per rovinarti i capelli!».
«Stai benissimo anche tu», dissi, ammirando il suo abito di un intenso rosa carico, corto e aderente, che le fasciava il corpo minuto e ben fatto senza essere volgare. «Adoro il tuo vestito».
Scrollò le spalle. «Questo?
È una cosina da nulla. Scusa il ritardo, ma il navigatore satellitare ha fatto confusione e l'autista di mio padre si è perso un paio di volte. Questo posto è fantastico, ma un tantino sperduto». Guardò Jacob e ammiccò, disinvolta.
Io gli lanciai uno sguardo freddo. «Che ci fai qui?», chiesi a denti stretti.
Lui parve sorpreso. «Non dovrei esserci? Sono venuto a salutare Jas».
«Credevo fossi impegnato».
«Impegnato a fare cosa?».
«Non saprei. A ballare, magari».
Jacob accennò un sorriso, come se  qualcosa lo divertisse. «Lo sai che io non ballo facilmente».
«Jas, hai fame?», esclamai, troncando di colpo la conversazione e smettendo di guardarlo.
La mia amica ci stava osservando con aria confusa, ma non fece commenti. «Sì, vorrei proprio mangiare qualcosa. Ma prima presentami agli sposi, per favore. Non sopporto di fare l'imbucata».
«Sì, certo. Vieni con noi?», chiesi a Jacob, sforzandomi di addolcire il tono. Mi sentivo in colpa per come ero stata acida, prima. Dopo tutto, non era colpa sua se quella stupida vacca gli si strusciava addosso. E poi, ero incapace di arrabbiarmi davvero con lui.
Jacob sorrise. «Meglio di no, vi lascio tranquille. Ci vediamo dopo».
Mi strinse un attimo la mano, un muto segnale di riappacificazione, e si allontanò. Presentai Jas a Rachel e Paul, e lei si congratulò e li ringraziò per averla lasciata venire, poi andammo al buffet, dove si riempì un piatto di tartine. Trovammo un tavolo vuoto e appartato, lontano dalla pista da ballo, e ci sedemmo per dedicarci a un quarto d'ora di confidenze.
«
È tutto a posto?», indagai, un po' preoccupata, mentre la guardavo buttare giù tartine al salmone e caviale come se fosse stato l'ultimo pasto della sua vita.
«Sì... Più o meno. Perchè?», fece lei, masticando, le parole appena comprensibili.
Alzai le spalle, titubante. «Niente, è solo che... quando mangi così in genere c'è qualcosa che non va», mormorai cautamente.
Subito scattò sulla difensiva. «Mi stai dicendo che sono grassa, per caso?», sibilò con aria indignata.
«Ma certo che no! Che cavolo c'entra, scusa?».
Jas sbuffò sonoramente e mise in bocca una tartina ai gamberetti. «Oggi mia madre mi ha fatto una predica di mezz'ora perchè sostiene che dovrei perdere due chili. Forse ha ragione, ma... diamine, la fa sempre tanto lunga! Mi ha stressato, e lo sai che quando sono stressata non faccio che mangiare».
Accidenti alla signora Williams e alle sue stupide idee. «Be', tua madre si sbaglia. Non hai bisogno di perdere neanche mezzo chilo, stai benissimo così». Jas inarcò le sopracciglia, dubbiosa. «Lo sai che se fosse vero te lo direi», aggiunsi con un sospiro.
Fece un debole sorriso che si spense rapidamente. «Lo so». Abbassò lo sguardo, all'improvviso seria e pensierosa. «Lei... ha detto che potrei non piacere più a Tom per questo motivo. Sai che me ne importa. Tanto ci lasceremo comunque».
«Lascia perdere quello che ha detto tua madre», sbottai, esasperata. «Mi spieghi che succede con Tom?».
«Oggi pomeriggio abbiamo discusso ancora», cominciò la mia amica dopo un attimo di silenzio. Sembrava stanca, come se avesse già discusso di quella storia altre mille volte. «Non voleva che venissi al matrimonio oppure pretendeva di accompagnarmi. Ho cercato di fargli capire che già io ero un'imbucata e che non potevo portarmi dietro un'altra persona. Alla fine si è rassegnato, ma l'ha presa malissimo. Ha detto che non tengo in nessun conto quello che vuole lui, ma non è affatto vero».
«Strano», mormorai, mentre lei si interrompeva per prendere fiato. Osservai la pista da ballo senza aggiungere altro per un minuto, riflettendo; da lontano luci, colori e suoni si fondevano in una sorta di surreale incantesimo. «Perchè fa così?
È già successo che tu andassi da qualche parte senza di lui. Ricordi la festa di compleanno di Sarah Jones, a maggio? Lui aveva la febbre e ci siamo andate da sole, ma non ha fatto storie. E poi avete appena trascorso più di un mese separati... fa problemi per una sola serata? Non capisco».
«
È geloso», spiegò Jas, guardandomi con l'aria di chi la sa lunga.
«Geloso? Di chi?».
«Nessuno in particolare. Ma è diventato insopportabile. Controlla sempre dove vado e con chi, se mi chiama al cellulare e trova occupato per più di cinque minuti va in paranoia e mi fa un processo per sapere con chi stavo parlando», esclamò, accalorata. Le sue parole straripavano come un fiume in piena, come qualcosa che tratteneva da tempo e che adesso finalmente esplodeva. «Si lamenta delle mie gonne, ti rendi conto? Sembra mio padre! Non che mio padre abbia mai fatto caso a quello che indosso, ma insomma, si comporta come immagino che mio padre dovrebbe comportarsi se non stesse sempre fuori casa. E poi mi accusa di essere distratta quando siamo insieme, di pensare ad altro, magari a qualcun altro...». A quel punto si interruppe di botto, trasalì e rimase zitta. Sembrava che avesse tirato d'un colpo il freno a mano.
«E... ha ragione?», domandai, sbirciando attenta la sua reazione. «
È vero che sei distratta e tutto il resto?».
Non rispose subito. Teneva gli occhi bassi, fissi sul piatto ormai vuoto. «Qualcosa è successo. Quest'estate», rispose lentamente, esitando. «E credo che Tom lo abbia capito... chissà come».
Quasi avevo paura di porre la domanda successiva. «Cos'è successo?».
Jas mi lanciò un'occhiata fugace, come se avesse voluto controllare la mia faccia prima di confessare. Poi sospirò. «Ho baciato un altro ragazzo», disse tutto d'un fiato.
«Ah», mormorai, colta completamente di sorpresa. La fissai in silenzio per un attimo, assimilando la notizia. «Chi...».
«Non lo conosci, è uno di Long Beach. L'ho incontrato quando sono stata lì per il matrimonio di mia cugina, a luglio. Si chiama Luke, ha diciotto anni e faceva il barista in un locale dove sono stata una sera con le mie cugine. Ho cercato di convincerlo a darmi un cocktail di nascosto e così abbiamo fatto conoscenza». Mentre parlava, passava lentamente il dito sul bordo del suo bicchiere di punch e aveva un sorriso tenue sulle labbra. «Quando ha finito il turno è rimasto con noi, mi ha invitato a ballare e... ci siamo baciati».
«Com'era?», domandai, curiosa, un sorrisino quasi inconsapevole sulle labbra. Per un attimo mi ero lasciata coinvolgere dalla sua aria sognante.
Jas ridacchiò. «Carino. Molto carino. Capelli biondo scuro... Occhi azzurri... Muscoloso... Abbronzato...».
«Wow. Povero Tom».
«Povera me», corresse lei in tono tragico. «Ti rendi conto di cosa significhi cercare di resistere a uno così?».
«E poi?».
«Io... pensavo che sarebbe finita lì. Ma poi l'ho rivisto al matrimonio di mia cugina».
Per poco non mi strozzai con il mio punch. «Cosa?».
Jas annuì. «Faceva il cameriere. All'inizio ci siamo ignorati a vicenda. Io ero imbarazzata, e anche lui, immagino. A un certo punto, però, ci siamo incrociati, perchè mi è quasi caduto addosso mentre portava le fette di torta ai tavoli e così... Accidenti, non so neanch'io com'è successo, ma poco dopo eravamo nelle cucine a baciarci».
«Di nuovo?».
«E il peggio deve ancora venire: mentre stavamo lì, ci ha sorpresi la sua ragazza».
Trattenni rumorosamente il fiato, sconvolta. «No!», esclamai. Sembrava una puntata di un telefilm per adolescenti. «Aveva una ragazza? E che ci faceva lei al matrimonio di tua cugina?».
«La cameriera! Pensa che poi è venuto fuori che era stata lei a procurargli quel lavoro».
«Non ci posso credere...».
«Già! Be', comunque, hanno cominciato a litigare furiosamente e io avevo paura che quella tizia mi saltasse al collo o qualcosa del genere. Era parecchio aggressiva, sai. Ma poi è arrivata la responsabile del catering e li ha buttati fuori tutti e due».
«Porca miseria! E tu?».
«Ma la sono filata sotto i tavoli mentre quei due venivano licenziati. Per fortuna nessuno ci ha fatto caso. Sai quante storie avrebbe fatto mia madre se questa storia fosse venute fuori?».
Era una domanda retorica, ovviamente. Annuii, comprensiva, perchè sapevo quanto la madre di Jas sapesse essere insopportabile quando c'era di mezzo la vita sociale della sua famiglia; dal suo punto di vista se Jas si fosse fatta soprendere nel mezzo di una situazione così incasinata sarebbe stata una tragedia.
«Che storia», mormorai, scuotendo il capo.
«Lo puoi ben dire.
È stato assurdo».
Per un po' tacemmo entrambe, mentre io rimuginavo sulla faccenda e trattenevo a stento le risate immaginando la mia amica che scappava sotto i tavoli, e Jas sorseggiava il suo punch. Poi cercai di tornare al problema principale.
«Quindi è per questo che sei distratta? Pensi a questo... Luke?».
Jas mi scoccò un'occhiata strana. «Luke? Certo che no. Insomma, è stato divertente, sì, almeno fino a quando è arrivata quella pazza isterica della sua fidanzata, ma è una cosa senza importanza. Il fatto è che...». Rimase zitta per qualche secondo, sospesa, forse cercando le parole giuste. «Le cose non vanno più, con Tom. Lui non mi capisce, non mi capisce mai, ed io... Senti, Renesmee, non pensi che a un certo punto una storia tra due persone debba fare un passo avanti?», aggiunse tutto d'un fiato.
Mi sentii colta alla sprovvista. Che intendeva dire?
«Suppongo di sì... prima o poi... In che senso un passo avanti?».
«Da quanto tempo stiamo insieme io e Tom?».
«Cinque mesi, più o meno».
«E prima di metterci insieme siamo usciti per due o tre settimane, quindi direi anche sei mesi. E poi ci conosciamo da due anni».
«Dove vuoi arrivare, Jas?».
«Ricordi che ho sempre definito la nostra storia "semiseria"?».
Mi chiesi se per caso avesse l'intenzione di rispondere sempre alle mie domande con un'altra domanda. «Sì, certo», dissi, paziente. «Perchè non è una cosa da nulla, ma non volete neanche stare insieme per sempre, giusto?».
Lei annuì, decisa. «Giusto. Però ultimamente mi sto chiedendo se dopo tutto questo tempo non dovrei provare qualcosa di più, per lui. Se non dovrei esserne innamorata», concluse, guardandomi dritto negli occhi senza traccia di disagio. A differenza di me, non era mai in imbarazzo quando si trattava di esternare i propri sentimenti.
«L'amore non è una scienza esatta, Jas. Non esiste nessuna regola che stabilisce che entro cinque mesi tu debba per forza innamorarti follemente della persona con cui stai».
«Non mi riferisco soltanto a quello. Non dico che dovrei esserne follemente innamorata, ma... ho la sensazione che quello che sento per Tom sia rimasto esattamente quello che sentivo all'inizio del nostro rapporto. Non è cambiato niente, capisci? Tom mi piace, e tanto.
È carino, divertente, ci sono un sacco di cose che adoro in lui. La sua risata mi fa impazzire, lo sai. E ha uno sguardo così dolce. Ma non c'è nient'altro. Quando mi bacia, non sento niente di particolarmente forte, nessuna emozione travolgente, e invece credo che dovrei sentirla. Non c'è passione tra noi due. Non pensi che dovrei... provare qualcosa di più intenso?».
Jas mi osservava, aspettando, ma io non avevo idea di cosa dire. Per qualche istante mi limitai a ricambiare lo sguardo con occhi spalancati, incerta. Mi sembrava una questione delicata e avevo timore di sbagliare. Cosa potevo risponderle?
«Anche Tom la pensa così?», domandai sotto voce, cercando di prendere tempo per pensarci.
Ma la sua risposta non fu di alcun aiuto. «Sinceramente non ne ho idea», mormorò, la fronte aggrottata, l'espressione dubbiosa. «Te l'ho detto che non ci capiamo più». Fece un piccolo sospiro e poi chinò il capo in un gesto triste.
«Non starai correndo un po' troppo?», dissi in fretta, preoccupata. Avrei voluto aiutarla con tutto il cuore, ma era un problema nuovo anche per me. «In questo momento litigate spesso, okay, ma forse... forse è soltanto una fase. Può essere che lui senta che ti è successo qualcosa, quest'estate, quindi è geloso e preoccupato e ti sta così addosso. Se dice che gli sembri distante, cerca di parlargli di più. Vedrai che gli passerà».
Lei rimase zitta a lungo, senza sollevare gli occhi. «E la totale mancanza di passione? Come la mettiamo?», aggiunse un attimo dopo, con il tono di chi vuole contraddire a tutti i costi.
«Jas, dai tempo al tempo. So che è una frase fatta, ma... avete sedici anni e ti assicuro che cinque mesi non sono poi così tanti. Forse alcune persone hanno bisogno di più tempo e voi siete tra queste», dissi, cercando di parlare con semplicità, di tirare fuori quello che sentivo; mi sembrava la cosa migliore.
Eppure lei non era convinta. Mi lanciò un'occhiata rapida, un po' titubante, come se volesse domandare qualcosa, ma dubitasse di ricevere una risposta.
«Tu sei innamorata di Alex?», chiese a bruciapelo, senza abbassare lo sguardo.
Restai spiazzata. Mi ci volle qualche secondo per realizzare il senso della domanda. «Io...», balbettai, confusa. Cercai in tutta fretta qualcosa per riempire il silenzio, ma mi sembrava che la mia mente si fosse svuotata. I pensieri mi sfuggivano, e più cercavo di inseguirli e raccoglierli, peggio era. «Non lo so. Non ci ho mai pensato
», dissi infine. «"Amore" è una parola grossa».
Jas annuì, meditabonda. «In effetti... sì, è bella grossa», mormorò, e abbassò di nuovo gli occhi per un attimo. Poi, dopo aver fissato il piatto per un minuto, all'improvviso sbuffò e sollevò la testa di scatto con un gesto deciso; scrollò i lunghi capelli biondi, lisci e leggeri, che le danzarono allegri sulle spalle lasciate scoperte dal vestito. «Forse hai ragione tu. 
È presto, sia per me e Tom che per te e Alex». Sorrise, più tranquilla, e mi parve che fosse tornata la solita Jas. Non era da lei passare tanto tempo a rimuginare su qualcosa; se si rendeva conto di non avere la soluzione di un problema a portata di mano, lo metteva da parte e non lasciava che la ossessionasse.
«Ovvio che ho ragione», esclamai, ostentando un'aria di divertita superiorità.
Lei mi guardò storto, ma senza smettere di sorridere. «La consulente di affari di cuore Renesmee Cullen», mi prese in giro.
Alzai le spalle. «Ho scoperto quale sarà il mio futuro».
Jas ridacchiò, ma poi di colpo tornò seria e mi scoccò un'occhiata indagatrice. «Pensi davvero che non dovrei perdere due chili?», domandò in tono sospettoso.
«Jas, se ne parli un'altra volta giuro che ti riempio di nuovo il piatto di tartine e ti costringo a mangiarle tutte», sbottai. Un giorno o l'altro avrei dovuto fare un discorsetto alla signora Williams sul giusto comportamento di una madre. Il mio tono severo cozzava a tal punto con la stupidità della minaccia che non riuscii a impedirmi di scoppiare a ridere e lei mi seguì a ruota. Stavamo ancora ridacchiando, quando Rebecca si avvicinò al nostro tavolo camminando a passo svelto.
«Scusate l'interruzione, ragazze, ma ci serve la damigella mancante» esclamò, allegra. «
È il momento della torta».
«Davvero? Di già?».
Mi guardai intorno e mi accorsi con stupore che il brusio era aumentato e che gli ospiti si stavano radunando al centro della pista da ballo, chiassosi ed eccitati. Saltai in piedi, tirandomi dietro Jas, e li raggiungemmo, ma quasi subito la persi di vista mentre aiutavo Rachel a sistemarsi il vestito e posavo accanto agli sposi per un milione di fotografie o giù di lì. La cosa andò avanti per un bel pezzo prima che fossi di nuovo libera, ma quando cercai la mia amica tra la folla, praticamente mezza accecata dai flash, non la vidi da nessuna parte. Volevo accertarmi che fosse davvero tranquilla e non le andasse di parlare ancora. Girai su me stessa, percorrendo la tenda con lo sguardo, e per poco non andai a sbattere contro Jacob, che era dietro di me.
«Ehi», esclamò.
«Ehi», balbettai, sussultando. Mi ero spaventata e il mio cuore batteva più velocemente del solito. Ci squadrammo in silenzio.
«Cerchi qualcuno?», domandò con voce gentile.
«Sì, ehm... Stavo cercando Jas. Non la vedo da un po' e sono preoccupata».
«Come mai?».
«
È giù di morale, tutto qui».
Annuì, serio. «Capisco. Ti andrebbe un ballo con me prima di cercarla?». Sorrideva, ma in fondo ai suoi occhi mi parve di scorgere un velo d'ansia. Strano. Forse temeva che lo maltrattassi di nuovo? Che gli facessi una scenata lì in mezzo, davanti a tutti, o che uccidessi Summer con le mie mani?
«Tu non balli», obiettai, stupita.
Lui rise mentre mi prendeva per mano. «Non è vero. Con la persona giusta potrei ballare per sempre».
Senza parole, lo seguii in pista proprio mentre iniziava un lento. Mi circondò la vita con le braccia, stringendomi a sè con dolcezza, ed io gli poggiai le mani sulle spalle, un po' a disagio. Quello sgradevole imbarazzo che aleggiava tra noi non accennava ad andarsene, sebbene lui sembrasse decisamente più tranquillo di me, ma non riuscivo a comprenderne la causa. E non aiutava il fatto che continuassi ad avvertire su di noi gli occhi curiosi di tutti gli invitati, come poco prima, durante il taglio della torta. Forse stavo diventando pazza, chissà. Mi guardai intorno furtivamente e scorsi Embry e Summer che uscivano dalla tenda tenendosi abbracciati, ridacchiando e bisbigliando tra loro. Sembravano tutti e due poco stabili sulle gambe, come se avessero bevuto troppo. Lanciai un'occhiata a Jacob, curiosa. Anche lui li aveva visti, ma appariva sereno e vagamente divertito. Spostò lo sguardo su di me ed io mi affrettai ad abbassare il mio, pregando di essere stata abbastanza veloce perchè non cogliesse la mia espressione indagatrice.
«Sta andando tutto bene, vero?», mormorai con tono casuale. «Rachel e Paul sembrano felici».
«Certo, certo.
È tutto perfetto», commentò Jake mentre mi faceva girare su me stessa.
Quando mi cinse di nuovo con le braccia, la folla di ballerini che ci attorniava si aprì improvvisamente, come ubbidendo ad un comando misterioso, e tra le coppie comparvero, a una certa distanza, Seth e Jas. Seth e Jas? Che ci facevano quei due insieme? Non ricordavo che si fossero mai incontrati prima. Aggrottai la fronte, perplessa.
«Jake, hai visto? Seth e Jas stanno ballando». Lui guardò solo per un istante in quella direzione e non rispose. «Non si conoscono neanche», aggiunsi, pensierosa.
«Credo che si siano appena presentati», disse Jacob dopo una breve pausa.
«Ah. Be', spero che lei si diverta un po'. Ne ha bisogno».
«Sono sicuro di sì».
Il suo tono era controllato, eppure qualcosa nella sua voce mi spinse a guardarlo: l'ansia che avevo già scorto in fondo ai suoi occhi neri si era fatta più intensa.
«Va tutto bene?».
«Certo».
Il suo sorriso si era spento. Mi strinse con più forza e ci allontanammo da Seth e Jas, continuando a ballare lentamente. Era come se Jacob mi stesse conducendo via di proposito, ma non riuscivo comunque a staccare gli occhi da loro. Avevo la sensazione che mi sfuggisse qualcosa, qualcosa che invece avrei dovuto sapere. E più li osservavo, più mi rendevo conto che forse qualcosa c'era. La mia amica sembrava stranamente imbarazzata e teneva gli occhi incollati a terra. Possibile? Jas non era mai timida, neanche con le nuove conoscenze, neanche un po'. Invece lui... la fissava ipnotizzato.
Di colpo, capii.
«No», rantolai, la voce bassa e quasi incomprensibile.
Jacob mi guardò e sul suo viso teso lessi la conferma di ciò che sospettavo. Per un tempo infinito restammo a fissarci in silenzio, immobili in mezzo alla pista. Avevamo smesso di ballare. Ero così incredula da non riuscire ad articolare un pensiero razionale.
«No», ripetei, più decisa, questa volta. Istintivamente, senza pensarci, cercai di andare verso di loro, ma qualcosa mi bloccò: Jacob mi teneva ancora stretta per la vita.
«Non farlo, Renesmee», disse con forza, l'espressione seria e intensa. «
È inutile».
Inutile? Mi sentii come se qualcuno mi avesse troncato di netto le gambe. Jacob mi strinse al suo petto, forse per continuare a ballare, ma io mi divincolai. Mi mancava l'aria e mi girava la testa.
«Jake, lasciami... Jacob... Lasciami!», sussurrai con voce debole e roca.
Finalmente la sua stretta si allentò, riuscii a sgusciare via e mi precipitai verso l'uscita con una mano premuta sulla bocca, senza badare agli sguardi perplessi degli ospiti. Dovevo apparire esattamente quello che ero: sconvolta. Abbandonai l'ambiente caldo, affollato e illuminato della tenda e arrancai nel buio lungo il sentiero che si snodava tra gli alberi alti e frondosi. No. Non poteva essere. Non poteva essere.
«Renesmee! Renesmee, fermati!», gridò una voce dietro di me. Jacob mi aveva seguita.
«Vattene!», ansimai.
«Non ti lascio sola in queste condizioni!».
«Io voglio stare sola, invece!».
«Dai, non è una tragedia!».
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi voltai con uno scatto rabbioso e incontrai il suo sguardo preoccupato. «Ah, non è una tragedia, dici? Non è una tragedia che Seth abbia avuto l'imprinting con la mia migliore amica?», strillai.
«Esatto, non è una tragedia. Non è colpa di Seth, lo sai che non è una cosa che si controlla».
«Non me ne frega un accidenti!
È ridicolo! È... sbagliato! Non deve continuare! Gli dirai di starle lontano!».
Mi guardò come se fossi pazza e avessi appena detto un'assurdità. «Cosa? E come?». Sembrava che stesse per scoppiare a ridermi in faccia e repressi a stento la tentazione di tirargli uno schiaffo. Osava anche prendermi in giro?
«Sei il suo alpha», sibilai.
«Sì, sono il suo alpha, non il suo padrone. Seth decide da solo della sua vita», rispose, il tono fermo e deciso.
«Ma non della vita di Jas!».
Lui fece un passo avanti verso di me. «Renesmee, sai che non costringerò mai Seth nè nessun altro ad ubbidirmi, se potrò evitarlo. E non servirebbe comunque. Un ordine alpha non è niente, niente in confronto a questo».
Per un attimo le sue parole mi colpirono e lo fissai in silenzio. Scossi lentamente il capo, ostinata. «No, non è possibile. Io... devo fare qualcosa», balbettai.
«Cosa vorresti fare?».
«Non lo so... Tenerli lontani. Troverò il modo».
«Ma perchè ti dà così fastidio?».
Mi sfuggì una smorfia amara. «Tu non capisci, vero? No che non capisci, perchè il tuo punto di vista è quello di un licantropo. Jas è la mia migliore amica. Le voglio bene», dissi piano, con forza, cercando di far passare il concetto.
«E allora dovresti essere felice per lei», osservò Jacob, tranquillo.
«Non potrò mai essere felice per qualcosa che la mette in pericolo!».
«Ma come puoi pensare che Seth la metterebbe in pericolo?», esclamò. Era incredulo davanti alla mia reazione, come io lo ero davanti all'imprinting di Seth. «Tu sai di che si tratta...».
«
È diverso!», esplosi, pestando un piede per terra per la rabbia. «Io sono una mezza vampira, ci sono già dentro fino al collo! Lei no, lei è umana... Lei ne era fuori, e adesso... finirà scaraventata in questo enorme casino! Ti rendi conto che verrà a sapere tutto quanto? Saprà dei licantropi, saprà dei vampiri... e saprà chi sono io». Mi si ruppe la voce e faticai ad andare avanti. «Scoprirà cosa sono veramente. Lo scoprirà e non vorrà vedermi mai più. Mi odierà per averle mentito tutto questo tempo e avrà paura di me... La perderò, Jacob». Tremavo a tal punto che pensai di non riuscire a stare in piedi. Mi coprii il viso con le mani e scoppiai in lacrime. Era un incubo. Soltanto un brutto incubo, come quei sogni su Alex, e mi sarei svegliata presto.
«Non succederà», ribattè Jacob, dolce e deciso al tempo stesso. Capii che mi si era avvicinato, perchè sentivo la sua voce e il suo respiro a un soffio da me. «Se la vostra amicizia è forte, sopravviverà».
Scossi di nuovo la testa, senza guardarlo, rifiutandomi di credergli. Le sue parole sembravano prive di significato contro la paura che mi serrava la gola.
«Non è giusto», farfugliai tra i singhiozzi. «Non è giusto... La vita di una persona non può essere sconvolta così. Io odio l'imprinting, lo odio...».
Jacob restò a lungo in silenzio, prima di rispondere. «Calmati, per favore. Stai facendo una scenata per niente».
«Non è niente!», sbottai, togliendomi di colpo le mani dal viso e guardandolo con rabbia. «So benissimo quello che dico. Non trattarmi come una bambina».
«E allora non comportarti come tale!».
«
È il tuo atteggiamento che mi dà sui nervi!».
All'improvviso Jacob scattò in avanti, avvicinandosi ancora di più per guardarmi in faccia, l'espressione determinata. «Sai una cosa? Penso che Seth e Jas in questa discussione c'entrino poco: tu sei arrabbiata con me», disse, calmissimo.
«Non è vero».
«E invece sì. Non stiamo parlando dell'imprinting di Seth, ma del mio».
«No», ribattei, alzando la voce. Stavamo facendo tanto di quel casino che era un miracolo che nessuno fosse ancora venuto a controllare. O forse tutti gli invitati erano appostati in massa dietro la sottile parete della tenda per ascoltare. «Adesso il tuo imprinting è l'ultima delle mie preoccupazioni, te l'assicuro».
Mi fissò per un attimo in silenzio, osservando il mio viso. Poi fece un piccolo sorriso amaro. «Riprovaci. Dillo di nuovo, magari sei più convincente».
«In questo momento avrei solo voglia di prenderti in schiaffi», sussurrai con la voce che tremava, ferita da quella che sembrava indifferenza alle mie preoccupazioni, totale incapacità di comprendermi. No, non riusciva a capirmi. Era impossibile, ma Jacob non riusciva a capirmi.
Lui allargò le braccia. «Fallo. Sono io che ti ho sconvolto la vita, giusto? Prenditela con me e lascia stare Seth».
«Chi sarebbe il bambino tra noi due? Io non ce l'ho con te, Jacob, ma questo non doveva succedere! Perchè ho lasciato che Jas venisse qui, stasera, perchè
È colpa mia... Se lei non fosse mia amica ora non si troverebbe in questo casino».
«Ehi!», esclamò Jacob con forza, prendendomi per le spalle e costringendomi a guardarlo dritto negli occhi. «Basta, Renesmee! Queste sono stronzate e lo sai benissimo! Ragiona, porca miseria. Tu sai cos'è l'imprinting, sai come funziona, sai che non si può fermare. Sarebbe successo comunque, anche se Jas non fosse venuta al matrimonio. Prima o poi sarebbe successo
», ripetè scandendo piano ogni parola. «Perchè non vuoi accettarlo?».
«Dovrei accettare che la mia migliore amica sia messa in pericolo e che possa odiarmi per il resto della vita?», sussurrai, incredula.
Jake mi fissava con aria triste. «Devi accettare quello che non è possibile cambiare», ribattè, calmo, gentile, ma con la stessa determinazione.
Per un lungo attimo restammo lì a guardarci, in silenzio, io scossa dai singhiozzi, lui senza battere ciglio, senza staccare gli occhi dai miei, come se soltanto attraverso il suo sguardo potesse trasmettermi qualcosa che non avevo, la forza di accettare l'inevitabile. Poi, con uno strattone mi liberai delle sue mani e indietreggiai, mettendo qualche passo tra me e lui.
«Vorrei stare un po' da sola».
«Renesme...».
«Jacob, ti prego», sussurrai, chiudendo un attimo gli occhi. «Per favore, lasciami sola».
Mi voltai senza esitare e mi incamminai verso la tenda, incrociando le braccia e stringendole contro il busto. Era una notte estiva, chiara e tiepida, eppure avvertivo un gran freddo. Un gelo interiore che mi serrava il cuore in una morsa di ghiaccio. E avevo l'orrenda sensazione che mi avrebbe fatto compagnia per un bel po'.


****


Quando il ricevimento ebbe termine, Jacob mi accompagnò a casa con la sua auto. Per tutto il tragitto non scambiammo neanche una parola. Non sapevo a cosa stesse pensando lui, ma io non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di Seth e Jas insieme. Avevano ballato tantissimo, poi avevano parlato per il resto del tempo e al momento di andarsene Jas sfoggiava un'espressione radiosa che decisamente non prometteva nulla di buono. Seth si era tenuto alla larga da me per tutta la sera, forse perchè immaginava quale potesse essere la mia opinione su quella faccenda, e anch'io avevo evitato di incrociarlo; era probabile che se lo avessi ucciso, poi, a mente fredda, me ne sarei pentita.
Jacob fermò la Golf davanti al cottege, sempre silenzioso. Allungai stancamente una mano per afferrare la borsa con tutte le mie cose, ma poi, invece di scendere subito, come avevo pensato di fare, rimasi seduta lì. Sbirciai nella sua direzione. Lui sembrava in attesa che io parlassi per prima, ma non ne potevo davvero più. Ero esausta. Avevo solo voglia di fare una lunga dormita e magari il giorno dopo le cose sarebbero sembrate meno brutte e difficili. Con un piccolo sospiro, mi sporsi e gli posai le labbra sulla guancia.
«Ciao, Jake. Ti chiamo domani».
Feci per scendere, ma lui mi afferrò il braccio.
«Aspetta un secondo. Devo dirti una cosa».
Sorpresa, mi voltai di nuovo a guardarlo. Aveva un'espressione seria, dolce e intensa. Sentii qualcosa di strano alla bocca dello stomaco, come una stretta. Una sensazione potente, ma difficile da definire, e istantanea; scivolò via quasi nello stesso momento in cui la percepii.
«Non so come andrà questa faccenda», disse lentamente, «ma ti giuro che qualunque cosa accada, io sarò al tuo fianco. Non sarai mai sola, Renesmee. Mai».
Ero commossa dalle sue parole. Sapevo che lui ci sarebbe sempre stato per me; anche tra mille problemi, discussioni e incomprensioni, ci sarebbe sempre stato. Ma era bello sentirselo dire, soprattutto in quel momento di tristezza.
«Lo so, Jake. Scusa per prima. Non pensavo le cose che ho detto... Non le penso davvero.
È solo che... ho paura», balbettai, combattendo un grosso nodo in gola che minacciava di sciogliersi. Ma non volevo piangere ancora; non sarebbe servito a niente.
«Lo capisco. Però ce la faremo, Renesmee. Io e te, insieme, ne usciremo. Te lo prometto».
Non sapevo cosa rispondere. Temevo che se avessi aperto bocca non sarei riuscita a trattenermi. Gli accarezzai piano la guancia, sfiorandola appena, cercando di mettere in quel gesto tutta la tenerezza che provavo per lui. Le sue labbra si curvarono in un sorriso dalla piega malinconica, mentre ci guardavamo negli occhi, e chinò leggermente la testa verso la mia mano, come per venirmi incontro. Quando lasciai ricadere la mano, mi parve di spezzare un incantesimo.
Scesi dall'auto e arrancai lungo il vialetto lastricato fino alla porta di casa. I miei genitori erano in salotto, allungati sul divano e probabilmente impegnati a coccolarsi, come al solito, ma quando entrai si alzarono entrambi, i volti seri con l'ombra di sorrisi complici spenti da poco.
«Ciao, tesoro. Ehi, sei bellissima», disse la mamma. «Allora, com'è andata?».
La guardai in silenzio, senza rispondere. Pensare a cosa avrei potuto dirle mi diede la nausea. Forse il mio viso era verde come immaginavo, perchè lei cambiò espressione rapidamente.
«Che è successo?», mormorò con un filo di voce, senza più traccia di entusiasmo.
Non ci provai nemmeno a mettere insieme una spiegazione. Sospirai pesantemente e guardai papà. «Racconta tu. Io vado a dormire».
E mi trascinai in camera mia.





Note.
1. Link.






Spazio autrice.
Ed eccoci qui! Non posso credere di aver appena pubblicato il capitolo sei, in un attimo mi ritroverò alla fine di questa seconda parte della storia di Renesmee & co. e a stento me ne sarò accorta xd. Anche a voi sembra che il tempo passi troppo in fretta?
Va be', poche chiacchiere. Altro capitolo abbastanza cruciale, come il precedente, credo che ve ne siate accorte. Lo scenario a cui accennavo al termine dello scorso capitolo continua a muoversi e a cambiare. Jacob e Renesmee sono alle prese con qualcosa di strano che sta accadendo tra loro e nel frattempo abbiamo una new entry tra le coppie o potenzialmente tali! Cosa pensate dell'imprinting di Seth? Credete che in qualche modo possa cambiare le carte in tavola o influenzare il comportamento di Renesmee? C'è stato un punto del capitolo in cui avete iniziato a sospettare o è stata una sorpresa totale? E adesso che succede? Bella domanda xd, appuntamento al prossimo capitolo per scoprirlo!
Qualche curiosità sparsa qua e là... Cape Greenwood non esiste, l'ho inventato di sana pianta. Long Beach invece esiste eccome, è una città della California.
Okay, la chiudo qui. Spero che il capitolo vi piaccia e fatemi sapere cosa ne pensate, sono curiosissima! Ciao ciao!

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Capitolo 7
*** Chasing cars ***


C 7
Capitolo 7
Chasing cars

If I lay here
If I just lay here
Would you lie with me and just forget the world?
I don't quite now
How to say
How I feel
Those three words
Are said so much
They're not enough
[...]
And all that I am
All that I ever was
Is here in your perfect eyes, they're all I can see.
Chasing cars, Snow Patrol¹



Tutto è cambiato, cambiato totalmente:
una tremenda bellezza è nata.
William Butler Yeats, Pasqua 1916



Mi svegliai all'improvviso. Aprii gli occhi per un istante, poi li richiusi subito. C'era un silenzio assoluto, a parte il cinguettio degli uccellini nel piccolo giardino del cottege; doveva essere troppo presto per alzarsi. Mi voltai sull'altro fianco, sperando di riaddormentarmi subito, ma c'era qualcosa di strano. Sentivo una presenza accanto a me. Spaventata, scattai a sedere nel letto e spalancai gli occhi. Due figure incombevano sul mio letto e per poco non cacciai un urlo da spaccare i timpani: erano i miei genitori.
«Buon compleanno!», esclamarono contemporaneamente.
Rimasi paralizzata dalla sorpresa e dal leggero spavento mentre mi avvolgevano con entusiasmo in una specie di abbraccio a tre. Ero ancora mezza addormentata e restai impalata per un attimo prima di ricambiare cautamente l'abbraccio.
«Grazie... Wow, mi avete colta di sorpresa», balbettai.
La mamma mi stampò un bacio sui capelli arruffati prima di tirarsi indietro, guardandomi con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. Sembrava soddisfatta, come se stesse ammirando il capolavoro della sua esistenza.
«Ah, sì, scusa se ti abbiamo spaventata. Veniamo sempre a svegliarti il giorno del tuo compleanno e le tradizioni vanno rispettate».
«Da quanto tempo siete qui?», chiesi a mezza voce, ancora un po' confusa. Passai cautamente una mano tra i capelli, sistemando alcune ciocche in disordine dietro le orecchie. 
Bella accennò un sorriso. «Circa mezz'ora, più o meno. Non volevamo svegliarti troppo presto».
«Non avete proprio niente di meglio da fare per passare il tempo?», li stuzzicai, scoccandogli un'occhiata ironica.
«Ti prendi gioco dei tuoi genitori?», esclamò papà, ostentando un'aria incredula. «Molto bene, allora questi li porto via». Fece per alzarsi, tenendo sotto il braccio due pacchetti che non avevo notato. Regali!
«Aspetta! Ritiro tutto quello che ho detto!», esclamai precipitosamente.
Lui si fermò e mi lanciò uno sguardo indagatore, come per accertarsi che fossi seria. «Sicura?».
Annuii, sforzandomi di non ridere. «Promesso».
«Be', in questo caso...». Tornò a sedersi sul letto e mi porse un pacchetto rettangolare. «Prima quello della mamma».
Curiosa, lo presi e strappai la carta di un bel rosa antico con una stampa di fiori dai colori pastello. Scoprii una scatola di cuio blu contenente tre libri. A giudicare dall'aspetto s
embravano antichi. Quando ne estrassi uno e lessi il titolo e l'anno di pubblicazione, sgranai gli occhi.
«Una prima edizione di Cime tempestose! Non posso crederci, è fantastica!». Guardai la mamma, che continuava ad avere quel sorriso gongolante. «Avrai speso un occhio della testa!»
«Non pensarci, amore, è un'occasione speciale. Ti piace?».
Per tutta risposta la abbracciai con slancio, stringendo al massimo delle mie forze. Lei rise mentre mi accarezzava i capelli con le mani fredde, marmoree, eppure assurdamente dolci e premurose.
«Direi che è un sì», commentò a bassa voce.
«Okay, uno è andato», dissi quando ci separammo. Ero su di giri. Il clima festoso e frizzante mi aveva contagiata, e poi adoravo ricevere regali; era la parte migliore del mio compleanno. «Il prossimo».
«Questo è da parte mia», disse papà, porgendomi una scatolina di velluto chiusa da un nastro. «Buon compleanno, Raggio di sole».
Quando la presi tra le dita, mi stupì l'incredibile morbidezza del velluto, come la pelle di un neonato. Sciolsi il nastro con cautela, sollevai il coperchio e comparve un piccolo cristallo a forma di goccia. Aveva mille sfaccettature e brillava con un'intensità impressionante alla luce chiara del mattino. Toccai con un dito la superficie dura e incredibilmente liscia e ne osservai i riflessi sulla mia pelle, incantata.
«Che cos'è?», sussurrai.
«Un diamante. Apparteneva ad Elizabeth, mia madre».
Guardai istintivamente il polso della mamma, dove attaccati ad un braccialetto d'argento dondolavano un piccolo lupo intagliato nel legno e un ciondolo simile al mio, ma a forma di cuore.
«Sì, anche quello era di tua nonna», rispose papà, anticipando la mia domanda. Mi sorrise. «
È già da un po' che volevo regalarti uno di questi ciondoli e adesso sei abbastanza grande per portare un gioiello».
Lo guardai e l'affetto puro, caldo, intenso che lessi nei suoi occhi ambrati mentre studiava il mio viso mi scaldò il cuore. Ma come avevo potuto dubitare di lui, anche solo per un istante?
«Grazie», sussurrai, felice. Avrei voluto dire qualcos'altro, affinchè capisse, ma naturalmente non ce n'era bisogno; conosceva i miei pensieri più profondamente di quanto li conoscessi io stessa e annuì appena, per rispondere silenziosamente alle mie parole inespresse.
La mamma ci osservava, curiosa. Forse aveva intuito che tra me e lui era avvenuta una delle nostre consuete comunicazioni silenziose, ma non commentò e non fece domande. «Allora, contenta?», esclamò con tono allegro.
Le sorrisi. «Tantissimo. E immagino che se avete rispettato le tradizioni fino in fondo, di là deve esserci una colazione speciale per me. Ho ragione?».
Lei alzò le spalle. «Uhm, chissà. Forse sì, forse no. Su, vestiti. Ti aspettiamo in cucina».
Uscirono dalla stanza tenendosi per mano. Feci un profondo respiro. Mi sarebbe piaciuto starmene a letto ancora un po', ma dovevo andare a scuola e Jacob sarebbe passato a prendermi in moto di lì a poco. Per fortuna, quella notte non avevo avuto incubi e il mio riposo era stato profondo e tranquillo. Scrollandomi di dosso le ultime tracce di sonnolenza, feci la doccia e quando tornai in camera per vestirmi sentii provenire dalla cucina chiacchiere e risate: Jake doveva essere arrivato. Mi preparai più rapidamente possibile, ansiosa di vederlo, e mi catapultai fuori dalla stanza come una palla di cannone.
In cucina, Edward parlava con Jacob, che era in piedi appoggiato al bancone, mentre Bella preparava una spremuta d'arancia che presumevo fosse destinata a me. Appena mi vide, Jake si illuminò.
«Ecco la signorina che compie gli anni», disse in tono canzonatorio e affettuoso. Aprì le braccia ed io corsi da lui, felice. «Buon compleanno, piccola», mi sussurrò nell'orecchio.
Mi strinsi a lui, sentendomi una bambina piccola che abbraccia un adulto. Ero così bassa e minuta rispetto al suo fisico imponente da licantropo.
«Grazie, Jake. Allora, ti sembro più grande?».
Si scostò appena, fingendo di esaminarmi, ma senza sciogliere l'abbraccio. «Eh, sì. Hai proprio l'aspetto di una che deve iniziare a preoccuparsi per la pensione».
Ridacchiai. «Vuoi smetterla di fare lo scemo? Ormai ho sedici anni e voglio essere trattata come un'adulta».
«Be', ufficialmente hai sedici anni, ma noi sappiamo benissimo che in realtà ne compi sei...».
«Ti odio, Jacob Black».
Lui alzò le spalle sorridendo con aria divertita, come per rassegnarsi all'inevitabile. «Mi farò perdonare con il mio regalo».
«Dipende dal regalo. Potrebbe non essere sufficiente, sai».
Sbuffai, facendo l'altezzosa, ma Jake mi attirò di nuovo a sè e fui costretta a cedere. La sua vicinanza fisica era una specie di droga: non era mai abbastanza, e più ne avevo, più la desideravo. Mentre mi aggrappavo alle sue spalle immense e forti, con la coda dell'occhio colsi un movimento nella stanza e di colpo rammentai che i miei genitori erano lì con noi e non lontani chilometri come mi era sembrato fino a un istante prima. All'improvviso essere stretta così a Jacob mi parve... fuori luogo. Mi allontanai piano da lui, avvertendo uno strano ma insopprimibile disagio, e sedetti a tavola, ansiosa di far scivolare via quel momento imbarazzante. Tenni lo sguardo basso per non incontrare gli occhi degli altri e a quel punto notai la torta: piccola, perfettamente rotonda, ricoperta di glassa rosa e con una scritta bianca nel centro che augurava "Buon compleanno".
«E questa?», esclamai, sorpresa.
La mamma mi sorrise, in piedi davanti a me. «Finalmente te ne sei accorta! L'abbiamo fatta io e papà».
«È bellissima. Ma non dormite proprio mai?». Le lanciai un'occhiata maliziosa, per prenderla in giro.
Edward si strinse nelle spalle. «Sai che ho un problema di insonnia da centoundici anni».
Jacob ed io scoppiammo in una sonora risata scambiandoci uno sguardo d'intesa.
«Be', ora ci sono io a farti compagnia», commentò la mamma.
«Siete una famiglia di svitati, Bells, lasciatelo dire», intervenne Jacob continuando a fissarmi con aria molto divertita ed io non riuscii a frenare un'altra risatina.
Lei rispose con un'occhiataccia mentre armeggiava con un coltello per tagliare la torta. «Tu bada a come parli o non avrai la tua parte», minacciò in tono di rimprovero.
Jake chiuse la bocca immediatamente. Mangiammo un paio di fette di torta a testa mentre Edward e Bella ci facevano compagnia chiacchierando del più e del meno. Ero rilassata e tranquilla, sparita ogni traccia di disagio, e mi godevo al massimo l'atmosfera festosa. Più tardi Jacob mi consegnò il suo regalo, un paio di orecchini d'argento a forma di cuore, decorati su un lato da una fila di minuscoli brillantini. Disse di averli visti nella vetrina di un gioielliere a Portland, dove era andato per comprare certi attrezzi da lavoro, e gli erano sembrati perfetti. Naturalmente aveva indovinato. Lo ringraziai con entusiasmo e gli mandai un bacio da lontano; meglio stargli alla larga per evitare altri momenti di imbarazzo.
«Allora... come hai dormito stanotte?», domandò lui all'improvviso, dopo un breve silenzio.
Mi colse di sorpresa, ma intuii dove voleva arrivare. «Niente incubi, se è questo che vuoi sapere», risposi con un sospiro. «Finalmente una notte di tregua», aggiunsi a voce più bassa. Nella settimana precedente i soliti brutti sogni su Alex mi avevano letteralmente perseguitata, togliendomi il sonno. Avevo il terrore di chiudere gli occhi, addormentarmi e rivivere quei momenti, e a volte trascorrevo intere notti in bianco, sforzandomi di restare sveglia. Non c'era da stupirsi se spesso sembravo uno zombie ubriaco e a scuola rischiavo di addormentarmi sul banco.
Jacob mi osservava attentamente, le braccia incrociate, l'aria seria. «Continui ad averli spesso?».
«Piuttosto spesso, sì».
Con la coda dell'occhio vidi i miei genitori guardarsi per un attimo, senza dire nulla.
Lui annuì. «Tu sai qual è il mio parere. Smetti di pensarci e vedrai che se ne andranno».
Il suo sorriso riusciva sempre a rassicurarmi, ma in quel momento era come se avesse effetto solo a metà. Quando ripensavo a quella storia, un blocco di gelida paura mi invadeva lo stomaco, la paura che un giorno i miei incubi potessero diventare realtà. Scioglierlo non era affatto semplice. Abbassai lo sguardo sulla confezione del suo regalo, ancora aperta e poggiata sul tavolo, e osservai il luccichio allegro degli orecchini senza parlare.
«Sono assolutamente d'accordo», disse la mamma.
«Anche io», aggiunse papà in un cauto mormorio.
Alzai le spalle. «Tutti d'accordo, perfetto.
È inutile parlarne, siete la maggioranza», borbottai.
Edward si mosse leggermente, l'espressione preoccupata. «Tesoro, possiamo parlarne ancora, se vuoi. Ma crediamo che tu abbia soltanto bisogno di rilassarti un po' e smettere di pensare alle cose che potrebbero o non potrebbero succedere».
Quasi mi venne da ridere. «Rilassarmi», ripetei sottovoce, sospirando. Mi sembrava impossibile. Gli incubi su Alex non erano il mio unico problema, in quel momento. «
È strano che non abbia ancora iniziato a fare sogni spaventosi su Jas», aggiunsi, amaramente ironica.
«Non ti sembra di esagerare un po' con questa faccenda?», chiese Jacob, tranquillo.
«
È meglio che non ricominciamo a discuterne, io e te», borbottai, irritata, lanciandogli un'occhiata eloquente. In quei giorni ne avevamo parlato così tanto, spesso in toni accesi e litigiosi, che ormai l'argomento nauseava entrambi.
«Ma tu hai detto che Jas non ha capito nulla», disse la mamma.
«Certo che no, cosa vuoi che capisca? Forse pensa soltanto che Seth le stia dietro».
«Cosa dice di lui?».
«Oh, un sacco di cose. Dovresti sentirla», risposi in tono acido come limonata senza zucchero. «Ha fatto colpo, su questo non c'è dubbio».
Lei fece un sorrisino. «Davvero?».
«Eccome. Pare che Seth possieda tutte le qualità più migliori dell'universo e fin'ora non ce ne eravamo accorti: è carino, dolce, divertente, interessante... E chi più ne ha, più ne metta. Nomina un pregio qualunque: lui ce l'ha».
La sua espressione era sempre più divertita e tesa in un sorriso trattenuto, non avrei saputo dire se per la situazione in sè o per il mio atteggiamento; in effetti, il tono funereo con cui parlavo non avrebbe potuto essere più eloquente di così.
«Hanno parlato una sera ed è già cotta di lui? Caspita. So che Jas non è la persona più profonda del mondo, ma...».
«Cotta di lui?», sibilai, indignata. «Che cosa? Jas sta con Tom!».
Bella tornò seria di botto, così rapidamente che fu quasi comico. «Era una battuta, Renesmee», mormorò.
«Be', rivedi un po' il tuo senso dell'umorismo».
Scrollai la testa, profondamente infastidita, e lo sguardo mi cadde su mio padre. Mi stava fissando con una strana espressione, seria, concentrata, come se si sforzasse di capire qualcosa che gli sfuggiva.
«
È tardi. Dobbiamo andare», dissi all'improvviso. Scattai in piedi, ansiosa di sottrarmi al suo sguardo indagatore.
«Prendi le tue cose, ti aspetto fuori», rispose Jacob, e bevve l'ultimo sorso del suo caffè. Sembrava che non avesse notato nulla.
Mi diressi alla porta, ma prima di uscire mi voltai appena, spinta dall'impulso di osservare cosa succedeva alle mie spalle. I miei genitori si stavano scambiando un'occhiata che non riuscii a decifrare, ma mi sembrò che non promettesse nulla di buono.


****


«Finalmente un po' di sole, grazie al cielo! Non ne posso più di questa dannatissima pioggia. Darei la vita per tornare in California», esclamò Jas in tono appassionato e nostalgico.
Insieme a Danielle, stavamo trascorrendo l'intervallo all'aperto, sdraiate sui prati accanto alla mensa, approfittando del tempo caldo e soleggiato. Quasi tutti gli studenti della Forks High avevano avuto la stessa idea e intorno a noi c'era una gran calca di chiacchiere, risate, strilli, ragazzi che giocavano a fresbee e ragazze che prendevano il sole con le t-shirt e le camicette sollevate sulla pancia.
«Chissà com'è un posto dove non piove mai», mormorò Danielle, curiosa. Distesa sulla schiena, guardava il cielo azzurro chiaro con una mano sulla fronte per proteggere gli occhi dal sole. Accanto a lei giaceva, abbandonato, il libro di letteratura inglese, che aveva sfogliato con blando interesse fino a un attimo prima.
«Fantastico», rispose Jas con un sospiro. Tacque un secondo, poi girò appena la testa verso di me. «Ehi, la festa è all'aperto, vero? Sei certa che stasera non pioverà?».
Annuii distrattamente, guardando gli studenti che ciondolavano sull'erba sparsi qua e là, in coppie o a gruppetti. Mi chiedevo dove fosse Alex, quella mattina non ci eravamo ancora incontrati.
«Sì, tranquilla. Zia Alice me l'ha assicurato».
«E lei che ne sa?», indagò la mia amica, perplessa.
Accidenti. Sentii una piccola ondata di panico e cercai alla svelta un modo per rimediare. «Oh, be'... Lei... tutte le mattine controlla il meteo su Internet», buttai lì con fare tranquillo, augurandomi che ci cascasse.
Ci cascò. «Capisco», mormorò in risposta, evidentemente poco interessata. Raddrizzò la testa ed io tirai un sospiro di sollievo. «Siamo fortunate, allora. Staremo tranquillamente in giardino e la pettinatura che vorrei farmi reggerà. Questo clima schifoso è troppo stressante per i miei capelli», borbottò, seccata. Tese una mano all'indietro e si toccò la capigliatura bionda accuratamente stesa sull'erba, come per accertarsi che fosse ancora lì.
«Non sono mai stata ad una festa in giardino. Deve essere bellissimo», esclamò Danielle con aria sognante. La sua ingenua allegria mi faceva sempre sorridere.
«Certo. Gli adulti staranno in casa, tra il salotto e la biblioteca».
«Ci saranno molti adulti?».
«No, non molti. Mio nonno Charlie, qualche amico di famiglia... tutto qui».
Per un po' restammo in silenzio. Strizzai gli occhi al sole per guardare Caroline Johnson, a pochi metri di distanza da noi, che faceva la stupida con Toby Moore, la sua nuova fiamma. Lui era seduto sull'erba e Caroline fingeva di buttarglisi addosso, ridendo, finchè non caddero entrambi, l'una sull'altro. Caroline si avvinghiò a lui e iniziò a baciarlo con passione. Grazie al cielo Alex le era quasi uscito di mente. A volte ancora si divertiva a stuzzicarlo, come una cacciatrice che si rifiuta di mollare la preda di cui non riesce a trovare il punto debole, ma sapevo che non avrebbe mai rinunciato completamente a lui... Non mi avrebbe mai dato questa soddisfazione. La voce di Jas interruppe le mie riflessioni.
«Ci sarà anche Seth?».
Dubitai di aver sentito bene. «Come?».
«Seth. Verrà anche lui alla festa?».
La fissai senza rispondere, sgomenta. Potevo osservare bene il suo viso perchè lei era distesa sull'erba, mentre io ero seduta con le ginocchia piegate davanti a me e le braccia tese all'indietro, ed ero più in alto rispetto a lei. La sua espressione era incolore, come se stessimo parlando ancora del tempo. Chissà se fingeva o se in fondo davvero non le importava così tanto. Ma allora perchè chiedere?
«Vuoi dire Seth Clearwater?», balbettai. «Il mio amico?».
«Quanti altri Seth conosciamo, Renesmee?».
Deglutii e distolsi lo sguardo da lei, tornando a fissare Caroline e Toby e pensando che se quei due avessero continuato a strofinarsi l'uno sull'altra in quel modo, tra poco gli avrei suggerito di prendere una stanza da qualche parte.
«Sì, ci sarà», risposi in tono secco.
Temevo che continuasse a parlarne, ma proprio in quel momento un'ombra in movimento sull'erba si avvicinò al nostro gruppo. Era Tom, che ci raggiunse camminando a grandi falcate.
«Ehi, ragazze!», esclamò. «Buon compleanno, Renesmee!».
Si chinò per stringermi in un abbraccio affettuoso.
«Grazie, Tom».
«Allora, stasera ci sarà baldoria a casa tua, giusto?».
«Una baldoria mai vista prima», confermai, sorridendo.
«Ottimo. Sgancerò qualcosa a Matt per avere rifornimenti».
Matt era suo cugino e aveva appena compiuto ventun'anni; Tom lo sfruttava come gancio per avere un po' di alcolici da portare alle feste.
Scossi la testa. «Spiacente, Tommy: tutta la mia famiglia sarà in casa».
La sua faccia delusa fu così divertente che mi scappò da ridere. «Dannazione», borbottò, accigliato. Si buttò a terra accanto a Jas e le scoccò un bacio sulle labbra, così rapido da coglierla di sorpresa.
«Tom, sta' attento ai capelli!», protestò lei, divincolandosi un poco, ma poi sorrise, lo abbracciò e ricambiò il bacio.
Distratta da quella scena, non mi accorsi che qualcun altro si avvicinava; una folata di vento improvvisa mi portò il suo odore di lavanda, dolce e familiare, e capii all'istante che era lui. Prima che potessi voltarmi Alex si inginocchiò sull'erba, alle mie spalle, e mi circondò piano con le braccia.
«Buon compleanno, Scheggia», mi sussurrò all'orecchio, la voce roca e seducente. Con le labbra mi sfiorò l'attaccatura del collo, una piccola porzione di pelle lasciata scoperta dal maglioncino d'angora bianco a maniche corte che indossavo. Rabbrividii come se avessi freddo e sollevai la mano per accarezzargli il viso, avvicinandolo al mio.
«Grazie», risposi, sorridendo. I suoi occhi erano incantevoli osservati così da vicino. «Finalmente ti sei deciso a fare il tuo dovere di fidanzato. Ti aspetto da ore».
«Andiamo, Scheggia... È risaputo che l'attesa del piacere è essa stessa il piacere²», protestò, ammiccando con aria furba.
«Sempre così modesto! Non esagerare, mi raccomando, non vorrei mai che ti sottovalutassi troppo».
Rise mentre mi sfiorava la punta del naso con una mano. «Fortuna che ci sei tu a tenermi con i piedi per terra».
«Già, meno male».
«Ehi, ragazzi», disse Tom all'improvviso, interrompendoci, «noi andiamo: devo parlare con la professoressa Hughes e Jas viene con me».
Entrambi si stavano alzando e Jas era impegnata a spazzolare via dal jeans qualche filo d'erba.
«Perchè devi parlare con la Hughes?» indagò Danielle.
Tom fece una smorfia. «Ho preso una D al test di trigonometria della settimana scorsa, voglio capire come posso corromperla per non essere bocciato, quest'anno».
«Vengo con voi», disse Danielle. Si alzò a sua volta, sbadigliando, e raccolse le sue cose.
«Posso suggerirti di assoldare un gigolò e mandarglielo a casa in regalo?», intervenne Alex, rivolto a Tom. «Ho la netta impressione che le farebbe piacere».
Jas scoppiò a ridere di gusto, seguita da Danielle. Tom rispose con un'imprecazione, presumibilmente indirizzata proprio alla Hughes.
«Se avessi i soldi lo farei», brontolò. Afferrò la mano di Jas. «Andiamo».
Si allontanarono camminando vicini, tutti e tre, lentamente. Sentii Jas mormorare qualcosa e colsi la parola "gigolò"; lei e Danielle ridacchiarono di nuovo mentre Tom scuoteva la testa.
«Le tue battute sono cattivissime, lo sai, vero?», dissi ad Alex. «Povera professoressa Hughes, non è colpa sua se in giovane età si è lasciata conquistare dalla matematica al punto da non prestare più attenzione al resto del genere umano. E ai propri vestiti. E ai propri capelli».
Mi voltai verso di lui con un sorriso ironico sulle labbra e mi accorsi che aveva messa qualcosa sulle mie ginocchia: un pacco di forma rettangolare, avvolto in una semplice carta bianca.
«E questo?».
Alex ghignò. «
È per farmi perdonare l'attesa. Ti assicuro che ne valeva la pena».
Un altro regalo! Sentii un impeto di entusiasmo. «Be', verificheremo subito».
Tolsi in fretta la carta, curiosa ed impaziente come una bambina, e scoprii una cartellina trasparente che racchiudeva qualcosa di bianco. Un cartoncino? No, era un foglio da disegno. Un foglio su cui era raffigurato un volto di profilo. Il volto di una ragazza leggermente chino in avanti. Aveva tratti delicati e armoniosi, il naso appena all'insù, le labbra lievemente dischiuse, e un'espressione strana: il suo sguardo era lì, fissato sulla carta, eppure sembrava che stesse viaggiando chissà dove, perso in un altro mondo o in molti altri mondi. Il disegno era realizzato a carboncino,
tracciato da una mano leggera, ricco di ombre e sfumature, e sembrava quasi vivo, come se stesse pulsando. Mi ci volle un minuto per capire.
«Questa sono io», dissi con un filo di voce, senza staccare gli occhi dal disegno.
«Però, che intuito», commentò Alex, come al solito patologicamente incapace di restare serio troppo a lungo. «Qualche giorno fa sei venuta a casa mia e abbiamo il pomeriggio insieme. Tu eri distesa sul mio letto a leggere, mentre io ero alla scrivania e teoricamente avrei dovuto studiare... Ma gli occhi continuavano a cadermi su di te. E avevi un'espressione così affascinante... Ce l'hai sempre quando leggi. Avevo una matita e un foglio bianco e prima che me ne rendessi conto ti stavo disegnando. Poi sei andata via, ma ho continuato a lavorarci su e sono passato al carboncino. Alla fine è uscito fuori un piccolo capolavoro, come vedi, così ho pensato che sarebbe stato uno spreco lasciarlo chiuso in un cassetto».
Lo ascoltavo in silenzio. Avrei voluto dire qualcosa, ringraziarlo, ma non ci riuscivo. Continuavo a percorrere con lo sguardo le linee che disegnavano il mio volto, immaginando Alex con la matita in mano e quell'espressione concentrata che aveva sempre quando disegnava, intento a lanciare un'occhiata furtiva verso di me e a far scorrere piano la matita sul foglio, perchè io non me ne accorgessi. C'era qualcosa di così incredibilmente bello nel ritratto, nella curva delicata del collo, nelle piccole pieghe delle labbra, nelle morbide onde dei capelli che mi incorniciavano il viso, da lasciarmi senza fiato. Era così che lui mi vedeva?
Probabilmente rimasi in silenziosa contemplazione per un bel pezzo, ma la pazienza non era certo il pregio più grande del mio ragazzo.
«Allora? Che ne pensi?», mi incalzò.
Lo guardai e la sua espressione traboccante di curiosità mi fece sorridere. «
È perfetto», mormorai. «Perfetto. Grazie».
I suoi occhi blu lampeggiarono di entusiasmo. «Doti eccezionali per una bellezza eccezionale», commentò scrollando le spalle con aria trionfante.
Tolse di mezzo il disegno per poggiarlo sull'erba con attenzione, poi si sedette e si allungò in modo da sistemare la testa sul mio grembo. Gli accarezzai piano i capelli, pensierosa. Restammo in silenzio tanto a lungo, occhi negli occhi, che a un certo punto mi sembrò di perdermi in quell'azzurro luminoso e sconfinato, ma era infinitamente bello perdersi così. Il suo sguardo era stata la prima cosa che mi aveva colpita, di lui, in quel giorno lontano durante la lezione di geografia del signor Redmont. Lo stesso sguardo che era il particolare più orrendamente realistico nei miei incubi. Lo stesso sguardo che mi aveva osservata con tanta attenzione per catturare quello che c'era in me di più profondo mentre mi disegnava. Nessuno mi aveva mai guardata così. In quel disegno c'era qualcosa di bellissimo, potente e tremendo al tempo stesso. Qualcosa di ineluttabile, che ormai non poteva essere fermato.
Una morsa di paura mi strinse lo stomaco come una mano d'acciaio e le mie dita si bloccarono tra i capelli di Alex. Distolsi gli occhi dai suoi e guardai lontano, osservando la vegetazione fitta che circondava la scuola, gli studenti allungati sul prato a godersi il sole, Toby Moore che cercava di insinuare le mani sotto la maglietta di Caroline mentre lei strillava e si tirava indietro con ostentata, falsa ritrosia. Mi parve che il sole fosse meno caldo sulla pelle, al punto che avvertii un brivido freddo lungo la schiena e le braccia.
«Alex, io ti proteggerò sempre. Sempre, a qualunque prezzo. Te lo prometto», bisbigliai all'improvviso, con voce appena udibile.
Alex percepì che qualcosa era cambiato. Sentii il suo corpo irrigidirsi mentre mi fissava con la fronte aggrottata. Un angolo della sua bocca si sollevò leggermente, come se volesse sforzarsi di sorridere.
«E così ci scambiamo i ruoli? Tu sei il cavaliere e io la damigella?», scherzò.
Non riuscii a rispondere. Mi resi conto all'improvviso di quanto profondamente credessi in ciò che avevo appena detto. Avrei voluto gridarlo al mondo intero. Mai, mai avrei lasciato che gli accadesse qualcosa.
«Sei seria», osservò dopo un lungo silenzio.
Abbassai lo sguardo. «Tu sei una cosa seria», risposi senza un briciolo di ironia.
Lui mi fissava intensamente, l'espressione concentrata. Rifletteva su qualcosa.
«Renesmee?», disse all'improvviso, rompendo il silenzio.
«Sì?».
Altra pausa. Corrugò la fronte, un gesto che faceva sempre quando qualcosa occupava con prepotenza i suoi pensieri. Lo conoscevo così bene che sarei stata capace di tracciare una mappa delle sue espressioni ad occhi chiusi. Era sul punto di dire qualcosa di importante, lo sentivo. Ma dopo avermi guardato con quell'aria concentrata ancora per un attimo, fece un sospiro lieve, come se avesse lasciato volare
via in quel sospiro le parole che avrebbe voluto dirmi.
«Niente».






Note.
1. Link.
2. Citazione di 
Gotthold Lessing.








Spazio autrice.

Salve! Innanzitutto vi chiedo scusa per aver saltato l'aggiornamento della settimana scorsa, ma ero troppo impegnata con lo studio e varie faccende universitarie per dedicare il tempo necessario alla rilettura e alla correzione del capitolo. Spero che tutte abbiate letto gli avvisi, tra facebook e la mia pagina qui su Efp.
Stavolta nessun papiro xd, non c'è moltissimo da dire su questo capitolo. Più che la trama, sono i sentimenti e i pensieri dei personaggi che subiscono un'evoluzione. Forse vi sarà chiaro cosa succede, forse ancora no, ma preferisco non dire troppo qui nello spazio autrice, perchè magari c'è qualcuna che non vuole anticipazioni nè chiarimenti e vuole aspettare di leggere per scoprire cosa succede. Quindi se avete domande, dubbi, perplessità etc., o se volete semplicemente approfondire alcune cose, aspetto le vostre recensioni ^^.
Un abbraccio e un bacione! 

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Capitolo 8
*** Madness ***


C 8
Capitolo 8
Madness

I, I can't get these memories out of my mind
It's some kind of madness, it started to evolve
I, I tried so hard to let you go
But some kind of madness is swallowing me
Whole
I have finally seen the light
And I have finally realized
What you mean
And now I need to know
Is this real love
Or is it just madness keeping us afloat.
Madness, Muse¹



Noi crediamo di condurre il destino, ma è sempre lui a condurre noi.
Denis Diderot, Jacques il fatalista e il suo padrone



«Ragazze, non ne posso più», annunciò Jas con tono drammatico. «Ho assolutamente bisogno di sedermi oppure ucciderò chi ha inventato questi strumenti di tortura».
Barcollando, si attaccò al braccio di Maggie e sollevò un po' la gamba sinistra per sistemare il cinturino del sandalo intorno alla caviglia, restando in precario equilibrio sull'altro piede.
«Sono d'accordo!», convenne Danielle, costretta ad urlare per sovrastare il ritmo martellante della musica sparata a tutto volume. Aveva una ciocca di capelli in disordine e l'aria accaldata, sebbene fossimo all'aperto, nel giardino sul retro della grande casa di Esme e Carlisle.
Maggie sospirò mentre aiutava Jas a mantenersi in piedi e ad evitare un capitombolo nel mezzo della pista da ballo. «Te l'avevo detto di non mettere queste scarpe, Jas».
Jas la guardò storto. «Ma se le ho comprate appositamente per la festa perchè erano intonate al vestito!», sbottò, indignata.
Maggie la guardò di sbieco, sospirò di nuovo e non rispose.
«Anche a me serve una pausa. Andiamo a bere qualcosa», intervenni.
«Cosa? Andate via?», strillò Holly, apparendo di colpo dal nulla al mio fianco. «Ma se avete ballato appena tre canzoni!».
Maggie fece per parlare, ma Jas la anticipò. «Io sto per stramazzare. Addio». Sgusciò tra la folla danzante alla massima velocità consentita dai tacchi e si allontanò. Maggie le andò dietro con aria sollevata.
«Vieni con noi?», chiesi ad Holly, avvicinandomi a lei e sperando che mi sentisse.
«No! Dai, ragazze, questa è proprio bella!», esclamò mentre iniziava una nuova canzone. «Paul! Balliamo!». Il suo ragazzo, che ballava poco distante da noi, emerse lentamente dalla folla muovendosi a ritmo sostenuto e le cinse i fianchi senza fermarsi. Holly gli gettò le braccia al collo con entusiasmo, puntando verso le sue labbra. Danielle ed io ci scambiammo un'occhiata eloquente e ci allontanammo per lasciarli soli; Holly avrebbe dimenticato in fretta la nostra assenza. Tenendoci per mano per non essere separate, attraversammo il giardino e raggiungemmo Jas e Maggie. Erano sedute ad uno degli alti tavolini rotondi con sgabelli che zia Alice aveva sistemato qua e là per dare l'idea di un romantico bar all'aperto, insieme alle lucine nascoste tra il fogliame e ai morbidi, rigogliosi festoni di tulle bianco sparsi in apparente disordine. Maggie sorseggiava una Coca, Jas si massaggiava una caviglia con aria sofferente.
«Perchè i ragazzi possono andare alle feste con le scarpe da ginnastica?», ci aggredì appena fummo abbastanza vicine.
Danielle fece un sorrisino. «Perchè non lo fai anche tu?», disse in tono divertito mentre estraeva un piccolo specchio dalla borsa e si ritoccava il rossetto. «Sarebbe una cosa che non si vede tutti i giorni».
Jas non era dell'umore adatto per fare dell'ironia e le lanciò un'occhiata gelida. «Stai scherzando, per caso? Dovrà congelarsi l'inferno prima che io faccia una cosa del genere».
Scoppiamo tutte a ridere, compresa Danielle, che fu costretta a smettere di passarsi il rossetto sulle labbra. Non avevamo ancora smesso quando sentii una mano poggiarsi delicata sulla schiena. Mi voltai e vidi zio Jasper dietro di me,
bellissimo come un fotomodello nel suo completo grigio scuro di Armani.
«Scusate l'interruzione, ragazze», disse, sfoggiando un sorriso affascinante che, ne ero sicura, fece perdere un paio di battiti alle mie amiche. «Renesmee, ti dispiace entrare un momento? È arrivato Charlie».
«Oh, certo». Smontai dallo sgabello stringendo la mano che Jazz mi offriva per mantenere l'equilibrio. Stavo cominciando a detestare le mie scarpe almeno quanto Jas detestava le sue. «Torno subito».
Entrammo insieme in biblioteca, dove c'era il buffet. Passando accanto al tavolo, presi al volo un minuscolo sandweech al salmone e lo mandai giù.
«Com'è?», chiese lo zio mentre salivamo le scale per raggiungere il soggiorno. 
«Ottimo», esclamai, allegra.
Lui sorrise. «Dovrò crederti sulla parola».
Sbucammo nel soggiorno, che era già piuttosto affollato. Faceva un gran caldo e la musica spaccatimpani giungeva attutita. Jasper mi guidò con destrezza tra gli ospiti, superando qualche Cullen sparso qua e là, e raggiungemmo Charlie e Sue intenti a chiacchierare con i miei genitori e Jacob.
«Eccola qui», annunciò zio Jazz. Mi fece l'occhiolino mentre lasciava la mia mano e sparì tra la folla, probabilmente in cerca di Alice.
«La nostra festeggiata! Tanti auguri, tesoro», disse Sue con gioia sincera. In una mano stringeva una flȗte di champagne e con l'altro braccio mi cinse le spalle.
«Grazie! Sono contenta che siate venuti».
«Non ce la saremmo persa per niente al mondo, piccola», disse Charlie, avanzando per stringermi in un goffo abbraccio. «Da non credere quanto sei cresciuta», aggiunse a mezza voce. Mi osservò con un'espressione strana. Il suo tono era burbero, ma velato di commozione. «Mi sembra che sia passato così poco tempo da quando ti tenevo in braccio.
È... sconvolgente».
«Eh, già, il tempo passa», commentò la mamma ostentando un fare disinvolto, ed io mi trattenni a stento dallo scoppiare a ridere. 
In quel momento arrivò Seth, sorridente e tirato a lucido con una camicia azzurra e una giacca elegante. Brandiva un bicchiere di birra e sembrava più carino del solito. Diede a Charlie una pacca sulla spalla.
«Ehi, di cosa parlate?», esclamò in tono allegro per inserirsi nella conversazione. Sembrava che fosse passato di lì casualmente, ma ebbi la sensazione che avesse ascoltato tutto e fosse intervenuto in un lampo.
«Siamo un po' nostalgici, questa sera», rispose Sue, mentre prendeva affettuosamente suo marito sotto braccio. Charlie si sforzava di mantenere un'espressione impassibile nonostante avesse gli occhi lucidi. 
Seth diede un'altra pacca comprensiva sulla spalla di Charlie. «È normale, la tua nipotina sta crescendo, vecchio mio».
«Certo.
È il trionfo della normalità, da queste parti», commentò Jacob, e rispose con uno sguardo divertito alla gomitata che gli rifilai.
Charlie sembrò non farci caso. «Hai ragione, Seth», sospirò. «Quando si invecchia si diventa sentimentali».
La mamma rise. «Dai, papà, non esagerare. Non hai novant'anni».
Lui inarcò le sopracciglia. «Uhm, no. Ma ormai sono un matusa, è inutile negarlo».
Sue disse qualcosa che fece ridere tutti, ma io non sentii; Seth mi aveva appena stretta in un abbraccio mozzafiato, quasi sollevandomi da terra.
«Buon compleanno, Nessie!», esclamò, la voce carica di sincero affetto.
«Grazie», borbottai, sul punto di soffocare. Cercai di prendere aria. Faceva già abbastanza caldo lì dentro senza che un licantropo mi si appiccicasse addosso. «Ehi, vacci piano».
«Ops, scusa».
Mi lasciò andare subito ed io ricominciai a respirare. Accidenti, quanto era forte. Avrebbe potuto stritolarmi con un braccio solo.
«Quando sei arrivato?», chiesi, mentre gli altri continuavano a parlare tra loro.
«Praticamente ora. Sono venuto con la mamma e Charlie. C'è anche Leah... credo sia qui, da qualche parte».
«Allora tu... non hai ancora visto nessuno?».
Seth mi sorrise, rilassato. «Chi avrei dovuto vedere?».
«Lo sai benissimo», risposi, lanciandogli un'occhiataccia eloquente.
«No, non l'ho vista», disse. Divenne serio di colpo. «Probabilmente in questo casino
non ci incontreremo, quindi sta' tranquilla».
Okay, perfetto. Adesso mi sentivo anche in colpa. Avrei voluto spiegargli che non ce l'avevo con lui, ma con l'imprinting; peccato a che a volte non fosse affatto semplice tracciare confini netti, pensai con un'occhiata malinconica verso Jacob. Poi Seth parlò di nuovo dopo un breve silenzio ed io cambiai subito idea.
«Quindi è già arrivata?», aggiunse, come niente fosse.
«Se è arrivata o no a te non deve interessare!», sbottai, irritata. «Senti, devi promettermi che non creerai problemi a Jas, stasera. Promettilo», dissi, guardandolo dritto negli occhi con determinazione.
«Renesmee, crearle problemi è l'ultima cosa che vorrei, te l'assicuro».
Non mi sentii più tranquilla, neanche un po'. Forse era sincero, ma se non fosse riuscito a controllarsi? Se fosse successo qualcosa di strano in presenza di Tom?
«Cerca di starle alla larga, allora», aggiunsi in tono significativo. Accanto a me Jacob si mosse appena, forse una reazione a qualcosa che avevo detto. Lui e Seth si scambiarono un'occhiata che non capii.
«Farò del mio meglio», rispose Seth, lentamente.
Rimasi lì a scrutarlo ancora per un attimo, cercando di capire cosa significasse quella risposta. Ma la sua espressione era neutra.
«Devo tornare giù», dissi, distogliendo lo sguardo. «Accompagnami, Jake, per favore».
Lui mi prese per mano senza dire nulla e ci allontanammo attraverso il soggiorno, verso le scale.
«Che intenzioni ha?», indagai a bassa voce, accostandomi a lui.
Jacob mi lanciò un'occhiata. «Non è ovvio? Vuole saltarle addosso e chiederle di sposarlo per mettere al mondo dieci marmocchi».
Sebbene fossi sinceramente preoccupata, mi sfuggì un sorriso. «Jake, è una cosa seria».
Lui mi tirò per il braccio, costringendomi a fermarmi. Eravamo in cima alle scale, in un angolino tranquillo e isolato dal gruppo di ospiti cha gironzolava per il salotto chiacchierando e ridendo.
«Lo so, ma è il tuo compleanno. Perchè non cerchi di goderti la festa?».
Be', non aveva torto. Anzi, forse aveva pienamente ragione e stavo esagerando. Forse ero paranoica. No, non ero paranoica. Jas era la mia migliore amica e si era inconsapevolmente cacciata in una situazione complicata. Molto complicata. Era naturale che mi preoccupassi per lei. Ma se volevo aiutarla davvero dovevo restare lucida. Abbassai per un momento lo sguardo sulle scale, poi lo sollevai nuovamente su Jacob, che era lì in piedi e mi guardava con affetto.
«Mi prendi?».
Capì al volo e mi rivolse un sorriso splendente di affetto e complicità che mi scaldò il cuore. «Certo».
Scese rapidamente i gradini e si fermò ai piedi della scala. Scesi un paio di gradini anch'io e mi gettai un'occhiata veloce alle spalle per controllare che nessuno stesse guardando, poi, f
acendo leva sul corrimano, spiccai un salto decisamente poco umano e con un strillo di felicità mi tuffai tra le sue braccia tese e pronte ad accogliermi. Da bambina adoravo quel gioco e lo avevamo fatto così tante volte da essere ormai perfettamente sincronizzati. Mi fece girare un paio di volte, tenendomi sollevata, e strillai ancora, scossa da brividi di entusiasmo. Quando mi mise a terra, invece di lasciarmi andare mi strinse a sè ancora più forte, annullando la poca distanza che ci separava, e mi baciò la fronte.
«Wow, Renesmee! Deve essere divertentissimo!».
Mi voltai di scatto con un sussulto. Sulla porta che conduceva alla biblioteca erano apparse due persone: Danielle, che sembrava divertita dal nostro gioco, e Alex, alle sue spalle, muto e immobile.
«Sì. Ed è anche molto infantile», risposi, ridacchiando nervosamente. Guardai Alex. Ci fissava con un'espressione fredda che congelò all'istante il mio sorriso. Qualcosa non andava. Automaticamente mi allontanai da Jacob.
«Ti stavamo cercando, dov'eri finita?», chiese Danielle.
«Ero di sopra per salutare Charlie. Scusate se sono sparita. Vengo con voi».
E Jake? Mi girai verso di lui, incerta sul da farsi. Ero terribilmente imbarazzata. E infastidita, anche. Perchè mi sentivo così?
«Vai pure», disse lui, tranquillo. Mi strinse con forza la mano per un attimo, poi mi lasciò, salì le scale ed io lo seguii con gli occhi mentre si allontanava.
«Sai, Renesmee, il buffet è fantastico. Voglio assaggiare tutto. Scott ha detto che le tartine sono buonissime», stava dicendo Danielle con entusiasmo. «Venite, ragazzi?».
Pensierosa, stavo per seguirla varcando la soglia della biblioteca, quando Alex tese un braccio e mi bloccò.
«Balliamo?», propose. Aveva un tono freddo come il suo sguardo e per un attimo restai a fissarlo, paralizzata.
«Certo, se ti va», mormorai, preoccupata. Chissà che diavolo gli prendeva.
Accennò un sorriso brusco. «Sì, mi va. Questa canzone è perfetta... il testo è una vera ispirazione. Voglio baciarti ogni volta che me lo suggerisce²».
Lasciammo Danielle al buffet, intenta a chiacchierare con alcune amiche del corso di francese, e Alex mi trascinò in pista, ma non mantenne la sua parola, perchè invece di seguire il testo della canzone mi baciò praticamente senza interruzioni. Non ballammo quasi per niente. La canzone successiva era un lento. Alex mi abbracciò con dolcezza mentre ci muovevamo piano in tondo ed io misi la testa sulla sua spalla.
«Ti stai divertendo?», mi chiese in un sussurro, all'improvviso. Mi sfiorò la fronte con il mento e sentii il suo respiro sulla pelle.
Annuii. «Sì. È tutto perfetto».
Tutto tranne l'imprinting di Seth.
No, Renesmee, non pensarci. Non adesso.

«Ti ho già detto che stasera sei più bella del solito?».
«Soltanto una decina di volte», risposi, un sorriso divertito sulle labbra. «Ma anche l'undicesima sarebbe apprezzata».
Avvicinò di nuovo la bocca al mio orecchio. «Sei stupenda, Scheggia. Ogni tuo desiderio è un ordine».
«Davvero? Allora posso chiedere anche di non essere chiamata "Scheggia" almeno per stasera?».
«No, questo no».
Il suo tono serio mi fece ridere. Mossi leggermente la testa e qualcosa catturò l'attenzione di Alex. Aggrottò la fronte.
«Belli questi orecchini. Regalo dei tuoi?».
Con un dito disegnò il profilo di uno dei due cuori d'argento che portavo alle orecchie. Colta alla sprovvista, esitai un istante prima di parlare.
«No, veramente... me li ha regalati Jacob», mormorai e sollevai lo sguardo d'istinto per osservare la sua reazione.
Il dito di Alex si fermò. Il volto rimase impassibile, ma negli occhi colsi un guizzo di qualcosa che mi lasciò a bocca aperta. Rabbia. Allo stato puro. Abbassò la mano di scatto.
«Però. Questo sì che è un regalo degno del tuo migliore amico», commentò freddamente.
Era tornato gelido e distaccato, come prima, quando mi aveva vista sulle scale con Jake. Eravamo ancora stretti l'uno all'altra, girando lentamente in tondo, eppure mi parve che in un attimo tra noi si fosse eretto un muro. E nello stesso momento capii. Gelosia: ecco la spiegazione di tutti quegli strani comportamenti e di tutto quell'imbarazzo ogni volta che io, Alex e Jacob ci trovavamo insieme. Alex era geloso di Jake. Mi sembrò una verità così spaventosamente chiara che mi sentii un'autentica idiota per non esserci arrivata prima. Era geloso dei nostri abbracci, della nostra sintonia, del nostro legame forte e indissolubile come la pietra. Sapeva benissimo che Jacob era il mio amico più caro, eppure sembrava che ai suoi occhi non fosse tutto lì. Ma una cosa del genere era impossibile, naturalmente. Alex si sbagliava.
E Jacob? Era a sua volta geloso di Alex? Ripensai al tono formale con cui gli rivolgeva la parola, alla freddezza nei suoi confronti, e mi sentii cadere la mascella per la seconda volta nel giro di un minuto. Allora la follia che mi aveva colta al matrimonio di Rachel, l'improvviso, assurdo desiderio di prendere a schiaffi Summer ogni volta che si avvicinava a Jake, non apparteneva soltanto a me. Jacob provava la stessa cosa?
Ma che accidenti stava succedendo?
Confusa e un po' agitata, lasciavo vagare lo sguardo qua e là sul giardino senza vedere niente, presa dai miei pensieri e cercando soltanto di non guardare in faccia Alex; mi sembrava di sentirlo sempre più lontano, come un sogno evanescente che si dissolve nella luce del mattino lasciando solo una vaga sensazione in ricordo di sè. Poi, all'improvviso, qualcosa suscitò la mia attenzione: seduti da soli a un tavolino, intenti a chiacchierare vivacemente, c'erano Seth e Jas. Seth e Jas. «Maledizione», sbottai senza rendermene conto. Li avevo completamente dimenticati.
«Cosa?», domandò Alex.
Lo guardai; nei suoi occhi c'era un'espressione circospetta. Sbattei le palpebre, cercando di pensare in fretta a qualcosa.
«Ehm... No, niente... Scusami», farfugliai.
Non aggiunse altro. Sembrava ancora arrabbiato. Continuammo a ballare, anche se io non badavo più a dove mettevo i piedi e cercavo solo di allungare il collo per sbirciare verso Seth e Jas, ma ben presto ci allontanammo troppo e la folla di persone in movimento li nascose al mio sguardo. Fantastico. Decisi che al termine della canzone li avrei raggiunti e sarei rimasta con loro, a costo di fare il terzo incomodo per tutta la sera. Ma il mio brillante piano fallì. Poco dopo fummo raggiunti da alcuni compagni di classe di Alex che erano appena arrivati alla festa e volevano salutarci, farmi gli auguri e consegnarmi il loro regalo.
Alex appariva disinvolto e spiritoso come al solito, ma dal suo sguardo e dalla piega della bocca capivo che non gli era passata; era solo un maestro nell'arte di far finta di nulla. Riuscii ad intravedere nuovamente la mia amica che ballava con Seth una canzone veloce. Lui le diceva chissà cosa e lei rideva. Sembrava che si divertissero parecchio. Ero così preoccupata che prestavo scarsissima attenzione agli amici di Alex, sentivo un gran caldo al viso e uno strano ronzio nelle orecchie. Non potevo credere che Seth ignorasse in quel modo le promesse che mi aveva fatto soltanto mezz'ora prima. Ogni tanto notavo che Alex mi osservava, ma non riuscivo a concentrarmi neanche su di lui. L'unica cosa che desideravo era cercare quei due e impedire che succedesse un disastro.
A un tratto non ce la feci più. Inventai una scusa qualunque e scappai via senza osare guardare Alex. Percorsi in tutta fretta il perimetro del giardino, ma non li scorsi da nessuna parte. Avevano smesso di ballare? Passai accanto ai tavolini, dove c'erano solo Holly e Paul molto impegnati a baciarsi appassionatamente, ed entrai in biblioteca. Era affollata, soprattutto nei pressi del buffet, ma non troppo; decisamente Seth e Jas non erano lì. Mentre mi guardavo intorno, sentii il panico invadermi lo stomaco come un fiotto acido e poi salire su per la gola. Una piccolissima parte di me era consapevole del fatto che stavo esagerando, ma non riuscivo a ragionare. Dove erano finiti? Dove?
Passando accanto al buffet incrociai Maggie mentre si versava un bicchiere di punch. La afferrai per un braccio, lei si voltò e strabuzzò gli occhi.
«Renesmee, tutto bene?».
«Hai visto Jas?», chiesi per tutta risposta.
«No. Poco fa era insieme al tuo amico della riserva, mi pare. Come si chiama? Seth, giusto?».
Non dissi nulla. Mi diressi rapidamente verso la porta, mentre Maggie mi chiamava. «Renesmee, che cos'hai? Renesmee!».
Mi fiondai nell'ingresso, dove il fracasso della musica giugeva appena, i sensi tesi al massimo, e finalmente colsi qualcosa che mi spinse a fermarmi. Qualcuno gridava oltre la porta di ingresso. Guardai attraverso i vetri e nel buio riconobbi due sagome. Ascoltai attentamente, avvicinandomi di qualche passo alla porta chiusa.
«Non posso credere che tu abbia fatto una cosa del genere!».
«Non è stato niente, te l'ho già detto!».
«Baciare un altro per te è niente?».
«Lo conoscevo a malapena!».
«Questa sì che è una consolazione! E perchè mai hai deciso di dirmelo proprio adesso?».
«Volevo solo essere sincera!».
«
È successo due mesi fa e a te viene in mente ora di essere sincera?».

«Non trovavo mai il momento giusto!».
«E ti sembra questo il momento giusto, dannazione? Stai rovinando la festa di Renesmee!».
«Non è vero!».
Agii d'istinto. Senza riflettere, spalancai la porta ed uscii. Tom e Jas erano in piedi sui gradini, uno di fronte all'altra; si girarono contemporaneamente a guardarmi ed io rimasi lì impalata per un secondo, titubante.
«Oh, scusate», mormorai, sfoderando una faccia da poker. «Non volevo disturbarvi, ma ho sentito gridare e...». Non terminai la frase e li osservai con ansia, aspettando le loro reazioni.
Jas incrociò le braccia bruscamente. «È tutto a posto, Renesmee», rispose, sebbene la sua voce incrinata e risentita suggerisse l'esatto contrario.
Tom non disse una parola. Conoscendolo, sapevo che con ogni probabilità farsi beccare a litigare con la sua ragazza nel mezzo della mia festa di compleanno doveva infastidirlo parecchio. A quel punto non potevo fare altro che andarmene e sperare che il mio breve intervento avesse raffreddato un po' gli animi. Annuii.
«Okay. Allora io... vado. Scusatemi ancora».
Guardai Jas con espressione significativa, cercando di intuire cosa stesse accadendo, ma lei tenne gli occhi puntati a terra con decisione. Tornai dentro e mi chiusi la porta alle spalle. Un attimo dopo avevano già ricominciato.
«Hai visto?», sbottò Tom. «Sapevo che avresti rovinato la festa!».
«Non ho rovinato un bel niente!», strillò la mia amica di rimando, e dalla voce capii che stava piangendo.
«Davvero? Ne sei sicura? Chissà che diamine sarebbe successo tra te e quella specie di energumeno pellerossa se fossi arrivato cinque minuti dopo!».
«Stavamo solo parlando, te l'ho detto mille volte!».
«Anche con il barista di Long Beach stavi solo parlando prima di baciarlo, immagino!».
Okay, avevo ascoltato abbastanza. Con una specie di fredda determinazione, sebbene fossi piuttosto arrabbiata, marciai su per le scale e piombai in salotto, evitando per un pelo di finire addosso a Charlie e a Billy che chiacchieravano tra loro bevendo birra. Individuai Seth tra la folla e puntai dritta verso di lui. Stava parlando con Jacob e la mamma, ma notai a malapena la loro presenza.
«Che cavolo hai combinato?», lo aggredii con una certa veemenza.
Lui sgranò gli occhi, stupefatto. «Come?».
«Non fare il finto tonto, hai capito benissimo! Che cavolo hai combinato?».
Prima che Seth potesse rispondere, papà apparve al mio fianco come se si fosse materializzato dal nulla e mi circondò la vita con un braccio.
«Tesoro, per favore. Sta' calma», sussurrò, la voce bassa e controllata. «Non è come pensi...».
Mi divincolai per sottrarmi alla sua stretta. «E com'è, allora?», sibilai, fissando Seth con un'espressione che parve spaventarlo un poco.
«Non so di cosa stai parlando, Nessie».
«Tom e Jas! Stanno litigando furiosamente, di sotto!
È colpa tua, lo so! Che cosa hai fatto?».

Seth assunse lentamente un'aria grave a mano a mano che afferrava la situazione. «Niente, te lo giuro. Stavamo chiacchierando... Poi abbiamo ballato...».
«Ma Tom se l'è presa e adesso le sta urlando contro!».
«Mi dispiace, ma non è successo niente...».
«Ti avevo detto di starle lontano! Perchè eravate insieme?».
Seth alzò la voce per sovrastare la mia, senza smettere di guardarmi dritto negli occhi con espressione seria, tranquilla, vagamente dispiaciuta. «
È stata lei a cercarmi, Renesmee», esclamò. Restai talmente basita che ammutolii di colpo. Lui ne approfittò per proseguire. «Mi ha visto da lontano ed è venuta da me. Che cosa avrei dovuto fare? Mandarla via? Rifiutarmi di parlarle? Lo sai che non posso». Pronunciò l'ultima frase con voce più bassa e intensa, quasi tormentata. Il suo sguardo era limpido e sincero come sempre.
Ed io ero confusa. Restai in silenzio, fissandolo ad occhi spalancati. Jas aveva cercato lui? In quel momento scorsi con la coda dell'occhio un lampo di lunghi, lisci capelli biondi che si fiondava su per le scale. Era lei. Mollai tutti lì senza fornire nessuna spiegazione e le corsi dietro, ignorando le occhiate perplesse e curiose della gente intorno a me. Ero piuttosto sicura che gli ospiti si stessero ponendo qualche domanda osservando tutto quell'ansioso via vai.
Al secondo piano sentii una porta che sbatteva e, seguendo il rumore di singhiozzi soffocati, percorsi il corridoio fino alla camera di Alice. Mi guardai intorno; non c'era nessuno, ma la porta del bagno era chiusa. Con un piccolo sospiro, mi avvicinai camminando lentamente e bussai dopo una breve esitazione. Nessuna risposta. Bussai di nuovo.
«Vattene, Renesmee! Lo so che sei tu!».
Stava piangendo davvero. Maledizione. «J, ti prego, fammi entrare. Voglio aiutarti. Per favore», mormorai, preoccupata. Trattenni a stento un sorriso un po' triste; avevo usato inconsciamente il suo vecchio nomignolo, forse nella speranza che stuzzicasse qualcosa dentro di lei e la spingesse a darmi ascolto.
Ci fu una lunga pausa. Poi sentii dei passi dall'altra parte e la chiave girò nella toppa. Abbassai piano la maniglia, con l'assurda sensazione che fosse meglio non fare rumore, ed entrai. Jas era seduta sul bordo della vasca da bagno, una gamba elegantemente accavallata, un b
raccio stretto intorno alla vita e l'altra mano sulla bocca, come per nascondere il viso. Mi gettò una rapida occhiata, poi girò la testa dall'altro lato e scoppiò in lacrime. Mi chiusi la porta alle spalle, sperando che nessuno udisse quel baccano e pensasse di venire a controllare.
«Che succede?», domandai con cautela, avvicinandomi di qualche passo.
«Ho litigato con Tom», balbettò lei tra i singhiozzi, senza scoprire il viso.
Avrei dovuto soprannominarla "Miss Ovvio" invece di "J". «Sì, questo l'ho capito. Ma perchè stavate litigando?».
Jas fece un respiro profondo, mentre il flusso di lacrime sembrava diminuire appena, e si passò il dorso della mano su una guancia bagnata, rivelando il volto congestionato. «Mi ha... mi ha vista... con Seth... E si è arrabbiato. Che razza di idiota!». La sua voce si ruppe in uno nuovo scoppio di pianto e per un paio di minuti non riuscì a dire altro. Io la guardavo in silenzio, immobile, tesa. «Stavamo soltanto ballando», aggiunse all'improvviso in tono quasi isterico.
Proprio quello che avevo sospettato. E probabilmente non era colpa di Seth. «Tutto qui? A giudicare da quello che ho sentito c'è qualcos'altro», mormorai. Non volevo forzarla a confidarsi con me, ma dovevo capire cosa stava succedendo e soprattutto capire il ruolo di Seth in quella faccenda.
Lei scrollò la testa, il volto ancora girato verso la parete per non guardare verso di me. «Hai ragione», sussurrò. Per un lungo istante mi sentii quasi sospesa nell'aria mentre aspettavo l'inevitabile. Lentamente, Jas mi fissò con aria tragica. «Gli ho detto di Luke. Il ragazzo di Long Beach».
Repressi a stento la voglia di mettermi a strillare agitando le braccia al cielo; non sarebbe servito a nulla, se non a far accorrere gente. Mi lasciai sfuggire un gemito basso, quasi un lamento.
«Oh, Jas... Non posso crederci. Perchè l'hai fatto?».
Le lacrime aumentarono di intensità mentre parlava. «Perchè lui continuava a ripetermi che non poteva fidarsi di me, che ero strana, che gli nascondevo qualcosa... La stessa roba che mi ripete da un mese e a un certo punto non ce l'ho fatta più e gli ho raccontato tutto! So di aver sempre detto che tutti i normali rapporti di coppia si basano su sfiducia e bugie, ma non resistevo più a mentirgli, mi sentivo in colpa... Io gli voglio bene».
Jas tacque, asciugandosi le guance, e per un minuto restammo in silenzio. La musica e l'allegro vociare della festa giungevano fino a noi, anche se attutiti, e sembravano fuori luogo in quel momento. Camminando a passi lenti, sedetti al suo fianco con un sospiro.
«Questo ti fa onore, Jas», risposi a bassa voce, passandole un braccio intorno alle spalle scosse dai singhiozzi.
Fissai il pavimento, pensierosa, e mi presi una pausa prima di continuare. Le parole della mia amica mi spingevano a riflettere su tutto ciò che nascondevo ad Alex. Il bacio di Nahuel era solo la punta dell'iceberg. Una parte di me si sentiva tremendamente in colpa, come Jas, ma ero anche consapevole del fatto che confessargli del bacio e continuare a mentire su mille altre cose non avrebbe avuto molto senso. Per lei era diverso: non aveva segreti da nascondere, era giusto che fosse sincera fino in fondo.
«Però... forse hai scelto il momento peggiore, lascia che te lo dica».
Jas tirò su col naso. «Mi dispiace di averti rovinato la festa».
«Cosa? Ma no, non intendevo questo. Voi due eravate già in crisi, non credo che la tua... confessione vi aiuterà, ecco», borbottai, a disagio. Non volevo fare l'uccello del malaugurio, ma non potevo neanche mentirle e fingere che andasse tutto bene.
Jas annuì lentamente. «Lo so. Sono una stupida, vero? Ho rovinato tutto».
La sua voce incrinata dal pianto mi serrava il cuore in una morsa di tristezza e sembrava risvegliare le mie paure. Le strinsi le spalle con più forza.
«No, non è vero. Vedrai che le cose si aggiusteranno», risposi, cercando di apparire tranquilla e sicura e di infonderle un minimo di fiducia. Lei non aggiunse altro, occupata a tamponarsi gli occhi con un fazzoletto, e di nuovo scese il silenzio. Poi, all'improvviso, mi ritrovai a parlare ancora quasi senza accorgermene. «Credo che Alex e Jacob siano gelosi l'uno dell'altro», dissi tutto d'un fiato.
Jas mi lanciò un'occhiata strana, forse stupita da quel repentino cambio di argomento. La sua risposta, però, mi spiazzò completamente.
«Davvero? Be', un po' me l'aspettavo. Se io avessi per amico un gran figo di ventidue anni, come credi che reagirebbe Tom?».
«Jacob è un fratello per me!», obiettai, incredula.
«Forse sì, ma... direi che siete anche più di questo. Tra voi c'è qualcosa di speciale, si vede benissimo. È normale che Alex sia geloso. E Jacob probabilmente si preoccupa per te, da bravo fratello maggiore».
Non sapevo cosa rispondere. Continuai a fissarla sbalordita per un po', poi abbassai gli occhi sul pavimento. Avevo pensato che Jas avrebbe riso delle mie supposizioni e invece era d'accordo con me. Non avrei saputo dire come mi sentivo in quel momento, se più sorpresa o più in imbarazzo.
«In ogni caso, non ci voleva proprio», sbottai con tono stanco. Quella faccenda rischiava di crearmi un bel po' di problemi e al momento ne avevo più che a sufficienza.

«Che casino», commentò Jas all'improvviso, scocciata. Non piangeva più, ma la sua voce era ancora debole e roca. «Come  siamo riuscite a cacciarci tutte e due in una situazione da soap opera? È un talento naturale, forse?».
«
Siamo tutti pazzi» risposi di getto, buscamente. «È l'unica spiegazione, punto».
Mi tornò in mente l'espressione fredda e dura di Alex quando aveva visto Jacob prendermi tra le braccia e quel guizzo di rabbia nei suoi occhi scoprendo che i miei orecchini erano un regalo di Jake. E ricordai il modo in cui l'avevo lasciato, pochi minuti prima, senza neanche guardarlo, senza una spiegazione. Una fitta di senso di colpa mi strinse lo stomaco. Chissà cosa stava facendo adesso. Chissà se mi stava cercando. Chissà se era arrabbiato.
Fui distratta dal suono di una sorta di singhiozzo sommesso accanto a me. Stupita, mi voltai verso Jas, pensando che avesse ripreso a piangere, e scorsi le sue spalle minute sussultare mentre ridacchiava con una mano a coppa sul viso, come nel tentativo di trattanersi.
«Be'? Cosa c'è?», indagai, fissandola con le sopracciglia inarcate. Faceva venire voglia di ridere anche a me, sebbene non ne conoscessi il motivo, e sentii nascere un sorriso spontaneo sul mio volto.
Scosse la testa, asciugandosi gli occhi con le dita delicatamente per non spargere ombretto e mascara ovunque, e per un attimo pensai che stesse ridendo di se stessa. O di tutti noi.
«Niente, è solo che... siamo davvero tutti pazzi quando si parla di amore». Fece un sospiro pesante e si passò le mani sulle guance, sotto gli occhi, con più decisione, come se fosse intenzionata ad arginare le lacrime - e le risatine isteriche - una volta per tutte. «Spero proprio che Tom ne valga la pena», aggiunse dopo un secondo di silenzio, un lieve scetticismo nella voce.
«Certo che ne vale la pena», esclamai, convinta. «State attraversando un brutto momento, ma passerà».
Lei mi fissò di sotto in su, leggermente dubbiosa. «Tu dici?».
Annuii con forza. «Io dico».
Non rispose, ma non smise di guardarmi negli occhi, attenta, come se cercasse di leggervi cosa pensavo veramente. Mi allungai per afferrare la scatola di Kleenex dal mobiletto del bagno e gliela passai.
«Devo tornare giù, non posso sparire così», dissi, i pensieri fissi su Alex. «Vieni con me?».
Jas si soffiò rumorosamente il naso. «Resto qui ancora un po'. Devo darmi una sistemata e rifarmi il trucco».
Per fortuna aveva messo l'eyeliner resistente all'acqua, come al solito, ma un po' di ombretto era sbavato insieme al mascara, disegnandole ombre nere intorno agli occhi.
Sorrisi. «Va bene. Ci vediamo più tardi». Mi sporsi verso di lei e ci stringemmo in un breve abbraccio. Le accarezzai i capelli, lisci e soffici come seta, sperando di averla tranquillizzata un poco. «Coraggio, J», sussurrai.
Lei non disse nulla, ma quando ci separammo e mi alzai, mi rivolse un piccolo sorriso. Uscii, chiudendo accuratamente la porta del bagno, e tornai di sotto con passo pesante come i miei pensieri. Il solotto mi parve all'improvviso troppo affollato, rumoroso e caotico; avrei desiderato che la festa terminasse e che sparissero tutti, per restare sola, in silenzio, a riflettere. Seth mi scorse da un angolo della stanza e cambiò espressione, passando quasi istantaneamente da una faccia preoccupata ad una molto preoccupata. Mi raggiunse con tre passi delle sue lunghissime gambe.
«Che succede?», indagò, la voce carica di sincera premura. Fu proprio la preoccupazione che traspariva dai suoi occhi a stuzzicare i miei nervi, già tesi al massimo, più di qualunque altra cosa accaduta quella sera. Che diritto aveva di essere preoccupato per la mia migliore amica? Non era niente, niente, per lei. Come osava? Era tutta colpa sua se Jas era in lacrime, chiusa in un bagno.
«Quello che succede a Jas non ti riguarda», risposi, sforzandomi con tutta me stessa di non alzare la voce e di controllarmi. Poco più in là, Alice e Rosalie ci stavano fissando con attenzione e sembravano allarmate.
La sicurezza di Seth non vacillò, ma non gli permisi di ribattere. Mi allontanai in fretta e imboccai le scale, desiderosa soltanto di allontanarmi, da lui, da tutto e tutti, di mettere più spazio possibile tra me e quella situazione così complicata, perchè nessuno si accorgesse del bruciore sempre più intenso alla gola che mi impediva di spiccicare parola, e del velo di lacrime che mi offuscava la vista. Farmi un bel pianto e poi dormire per una settimana senza incubi. Non avrei desiderato nient'altro.
Nell'ingresso un'ombra mi si parò improvvisamente davanti. Sussultai, spaventata, prima di rendermi conto che era Alex, ma l'ondata di aggressività che mi rovesciò addosso non mi fece sentire affatto più sollevata. Neanche un po'.
«Renesmee!», sbottò in tono arrabbiato; sembrava sul punto di esplodere in mille pezzi e che si contenesse a stento, mentre si fermava a un centimetro da me. «Finalmente! Ti sto cercando da mezz'ora. Dov'eri finita? Si può sapere che succede?».
Mi sforzai di rispondere, ma le parole mi morirono in gola, strozzate da quella insopprimibile voglia di piangere. Lo guardai in silenzio, mordendomi un labbro, indecisa, preoccupata dalla sua reazione. Poi con due passi colmai la piccola distanza che ci separava e gli gettai le braccia al collo. Alex rimase perfettamente immobile per un tempo che mi parve infinito. Lo sentivo respirare a malapena, le spalle rigide sotto le mie mani che si aggrappavano al tessuto fine della sua giacca.
«Ti prego, stringimi», sussurrai con un filo di voce. «Per favore».
Doveva essere spiazzato. Molto lentamente, sollevò le braccia e le passò intorno alle mie, in un gesto dapprima meccanico, freddo, poi più morbido e spontaneo. Mi accarezzò piano la schiena e strinse con più forza quando mi sfuggì un singhiozzo contro il suo collo. Pensai alla mia migliore amica, la cui esistenza era destinata a cambiare nel folle, complicato mondo con il quale era entrata in contatto per causa mia. Pensai ai sogni in cui il corpo caldo, vivo e meraviglioso che adesso stringevo contro il mio si spegneva lentamente, come la fiammella di una candela nel vento.
Forse non avevo alcun potere sull'imprinting di Seth e sul futuro di Jas, ma Alex era mio. Proteggerlo o condannarlo dipendeva esclusivamente da me. Se esisteva un modo perchè fosse al sicuro, almeno lui, l'avrei trovato.








Note.
1. Link. Meravigliosa, vero?
2. Qui la canzone che Alex è tanto ansioso di ballare con Renesmee. Ecco perchè si sentiva ispirato xd.









Spazio autrice.
Salve a tutti!
E allora, eccoci qui con un nuovo capitolo! Cavoli, mi sembra che il tempo stia passando in un attimo, tra poco avrò pubblicato tutta la fanfiction e neanche me ne sarò resa conto xd. Incredibile.
La storia prosegue e ci avviciniamo ad una svolta, come sicuramente avrete intuito. Renesmee si trova a un bivio e deve decidere cosa fare. A mano a mano che si va avanti, alcune domande che forse vi siete poste nei capitoli precedenti stanno trovando risposta (o almeno spero xd), ma allo stesso tempo ne sorgono di nuove e una piccola parte di me sarebbe quasi tentata dall'idea di dirvi tutto, davvero, perchè non resisto, ah ah ah! Ma ovviamente sarebbe come darsi la zappa sui piedi! xd Quindi come al solito, per qualunque dubbio, chiarimento o semplice chiacchierata aspetto le vostre recensioni. Ultimamente sto riflettendo molto su quello che scrivo e su come scrivo, e mi rendo conto sempre più di quanto io debba ancora migliorare... E affinchè ciò avvenga i vostri pareri e i vostri suggerimenti sono fondamentali. Perciò fatevi sentire, se vi va ;-).
Spero che il capitolo vi sia piaciuto comunque, anche con i suoi difetti ^^. Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 9
*** Into the fire ***


C 9
Capitolo 9
Into the fire

Come on, come on
Put your hands into the fire
Explain, explain
As I turn and meet the power
Turning white and senses dire
Pull up, pull up
From one extreme to another.
Into the fire, Thirteen senses¹


Dopo tutto, una bugia cos'è? Nient'altro che la verità in maschera.
George Gordon Byron, Don Giovanni



«... Quindi il funzionamento più elementare è il motore a due tempi, perchè ha soltanto due fasi: compressione-aspirazione ed espansione-scarico. Nel motore a quattro tempi i passaggi sono quattro: aspirazione, compressione, scoppio e scarico. La differenza fondamentale è questa, capito?».
Abbassai lo sguardo su Jacob, le sopracciglia inarcate, cercando di non sembrare troppo confusa. «Sì, certo. Ho capito».
Ovviamente non se la bevve. «Davvero? Ti va di ripetere tutto?», propose, un sorrisino sghembo sul viso.
Merda. Fissai la parete di mattoni del suo vecchio garage e mi sforzai di ricordare qualcosa di sensato.
«Ehm... Allora, motore a due tempi, due fasi, motore a quattro tempi, quattro fasi. Fin qui ci arrivo. E poi... com'era quella cosa dei giri e dell'albero?».
Jacob, in ginocchio sul pavimento, occupato ad armeggiare con un attrezzo dall'aria misteriosa nel motore della sua Harley Sprint, scoppiò a ridere.
«Lascia perdere, è meglio. Mi sa che questa roba non fa per te».
Sbuffai e scossi la testa, risentita. Mi sistemai meglio sul cofano della Golf, dove ero appollaiata. Non era il massimo della comodità, ma era quella la mia postazione quando passavo ore ed ore con Jake a guardarlo lavorare.
«Non mi sto concentrando, tutto qui».
«Certo, certo. Se ti concentrassi, saresti un'esperta di motociclette».
«La pianti, per favore? Ora ti faccio un bel test sull'uso dell'ombretto e vediamo come te la cavi, ti va?».
Mi lanciò un'occhiata rapida e sorrise. «Touchè», mormorò.
Per un po' restammo in silenzio, ascoltando il rumore del vento tra le fronde degli alberi. Era così tranquillo, lì. A casa di Jacob mi sembrava di essere in una bolla di sapone
e non soltanto per via della sua presenza. La casetta rossa tra i boschi della riserva era il mio rifugio sicuro dal resto del mondo, e lo sarebbe sempre stata, che Jake fosse presente o meno. Una delle poche cose immutabili dell'esistenza.
«La verità è che ho troppe cose per la testa. Non posso pensare a... fasi e motori», confessai all'improvviso, di getto.
«Mi dispiace se ti ho annoiato».
«No, non è colpa tua. Sono stata io a farti delle domande». Mi sfuggì un sospiro e increspai la fronte. Quando il mio umore era così strano, anche la compagnia che gradivo maggiormente diventava difficile e pesante. «Credevo che fosse una faccenda abbastanza complicata da riuscire a distrarmi, ma forse è troppo complicata».
Jacob rimase zitto per un secondo, occupato a svitare qualcosa con un cacciavite. Per quanto osservassi quegli stessi gesti da quando ero bambina, per me restavano un autentico mistero: non avevo la minima idea di cosa facesse quando infilava le mani nel motore di una macchina o di una motocicletta.
«Se vuoi possiamo passare a qualcosa di più semplice. Potrei spiegarti come funziona un triciclo, magari».
Lo guardai e non appena i nostri occhi si incontrano scoppiai a ridere, mio malgrado.
«Passo, grazie», risposi con una scrollata di spalle. «Mi tengo le mie preoccupazioni. Non se ne vanno in ogni caso».
«Pensi a Jas, immagino», buttò lì a bassa voce, quasi in tono casuale.
Esitai un po' prima di rispondere. «Tra le altre cose», mormorai, esitante.
«Credevo che avesse fatto pace con Tom».
«Sei tu che vuoi saperlo o è Seth?», indagai, evitando con cura di guardare verso di lui.
«Renesmee...».
«Tanto lo so che stai dalla sua parte», mugugnai, e tirai su col naso, stizzita.
«Non è vero», ribattè Jacob con forza. Mi accorsi che mi stava guardando, ma io continuai a fissare la parete senza battere ciglio. «Io non voglio che Jas stia male o abbia dei problemi con il suo ragazzo, però capisco Seth. E proprio perchè lo capisco, non posso fargli una colpa di quello che è successo».
«Lo so», tagliai corto, e un attimo dopo mi resi conto di quanto era stato acido il mio tono.
Gli lanciai un'occhiata titubante e una parola di scuse era già sul punto di scivolarmi fuori dalle labbra, ma poi, un istante prima di pronunciarla ad alta voce, cambiai idea di colpo e tacqui. Lui non aggiunse altro. Aveva ricominciato a lavorare, la testa bruna china sulla moto, e per un po' restammo in silenzio.
«Be', comunque sì, hanno fatto pace», ripresi all'improvviso. In fondo, nasconderglielo non sarebbe servito a nulla. «Tom è stato sulle sue per qualche giorno, poi hanno parlato e credo che le cose siano a posto... Almeno per ora».
«Bene», commentò Jake tra i rumori metallici che produceva muovendo in fretta le mani grandi e sorprendentemente abili e delicate. «Purchè non Jas non baci qualcun altro nel frattempo».
Gli lanciai uno sguardo assassino. «Se vuoi la mia opinione, la storia del bacio con il tizio di Long Beach è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Direi che è stato il comportamento di Seth, assolutamente scorretto e fuori luogo, ad infastidire Tom», ribattei, piccata.
Jake mi fissava divertito, con l'aria di chi la sa lunga. «Non pensi che forse Tom non avrebbe reagito in quel modo senza nessun fatto concreto che confermasse le sue paure?».
Rimasi impassibile. «No, non lo penso. Per niente». Dopo un attimo Jacob abbassò lo sguardo, senza smettere di sorridere, ed io repressi a stento il desiderio di lanciargli qualcosa. «Comunque, ormai sono passate due settimane e sembra che la situazione sia tornata tranquilla». Sospirai di nuovo. «Adesso dobbiamo soltanto tenere duro fino alla prossima bufera».
Lo sentii ridacchiare, anche se non potevo vederlo bene, mezzo nascosto dalla macchina. «Cos'è tutto questo ottimismo?».
«Meglio essere preparati al peggio che illudersi». Lui non rispose ed io riflettei in silenzio per un minuto. Quando parlai di nuovo, lo feci quasi senza accorgermene. «Ho un brutto presentimento».
I rumori metallici cessarono e con un po' di ritardo notai che Jake mi fissava con aria seria. «Riguardo a cosa?».
«Niente in particolare. Semplicemente... credo che presto succederà qualcosa. Qualcosa di importante. Tom e Jas sono in bilico in questo momento. Io li conosco bene e lo sento quando non sono tranquilli, quando c'è qualcosa che li preoccupa. E una situazione così non può durare a lungo. Prima o poi si cade, da una parte o dall'altra».
All'improvviso mi chiesi se stessi davvero parlando dei miei amici o di qualcun altro, di me stessa, forse. Per un istante temetti che Jacob volesse pormi la stessa domanda e sentii una fitta di paura allo stomaco; non avrei saputo cosa rispondere.
«Speriamo che cadano dalla parte giusta, allora», disse invece.
Sollevata, pensai in fretta a qualcosa da dire per cambiare argomento, quando mi accorsi che il mio cellulare vibrava nella tasca dei jeans. Probabilmente era arrivato un messaggio. Lo estrassi dala tasca, guardai il display e sussultai: tre telefonate perse di Alex.
«Oh», esclamai. «Alex ha provato a chiamarmi. Scusami, Jake».
Saltai giù dal cofano e uscii dal garage senza guardarlo. Mi allontanai un poco, sperando che fosse sufficiente perchè Jacob non sentisse. Non avevo nulla da nascondere, ma per una volta mi sarebbe piaciuto tenere per me una conversazione telefonica con il mio ragazzo. Tirai un respiro profondo mentre premevo il tasto di chiamata e ascoltai gli squilli uno dopo l'altro, tesa. Poi sentii un click dall'altra parte.
«Scheggia! Finalmente! Stavo per chiamare la polizia».
Sorrisi, il cuore che batteva più in fretta del consueto. Ascoltare la sua voce mi causava sempre un'emozione intensa, anche se ci eravamo parlati l'ultima volta poche ore prima, a scuola.
«Ah, sì? Scommetto che Charlie sarebbe felice di aiutarti a trovarmi».
«Non sottovalutare il potere del mio fascino. Lo sai che tuo nonno non può resistermi», ribattè. Invidiavo il modo in cui riusciva a mantenersi perfettamente serio e sicuro di sè anche quando ci prendevamo in giro a vicenda. «Sto provando a chiamarti da un po'», aggiunse un attimo dopo, e subito registrai un cambiamento nel suo tono. Lievissimo, ma c'era.
«Sì, ho visto. Mi dispiace».
«Nessun problema, tranquilla. Dove sei?».
I miei occhi saettarono istintivamente verso il garage, a pochi metri da me. Gli voltai le spalle. «A casa di... ehm, Danielle. Stiamo facendo qualche esperimento con il trucco».
Alex si prese una lunga pausa prima di rispondere. Io attesi, il respiro un po' affannato. «Interessante», disse infine, il tono accuratemente neutro. «Ti stai divertendo?».
«Abbastanza».
Altra pausa. «Senti, hai da fare stasera?», chiese all'improvviso.
«No, sono libera. Perchè?».
«Julie e Phoebe sono partite oggi per Vancouver: è il compleanno di Andrew, il fidanzato di mia zia, e passeranno il week end con lui, perciò... Che ne dici di venire da me? Ordino una cena italiana, giochiamo a backgammon...».
«Wow, che prospettiva eccitante», commentai, ironica, sorridendo.
«Stare con me è già abbastanza eccitante, Scheggia. Cosa vuoi di più?».
«Ah, lo so! Okay, va bene. Ci sarò».
«Ottimo», esclamò. Sembrava davvero felice. «Passo a prenderti alle otto».
«Okay».
«In teoria, ormai hai preso la patente e hai anche una macchina fantastica, quindi forse sarebbe il caso di utilizzare entrambe», aggiunse con voce insinuante.
«Perchè dovrei se ci sei tu che mi scarrozzi in giro?».
«Scarrozzarti in giro va bene, purchè il pagamento sia in natura».
Risi, scuotendo il capo. «Piantala, stupido. Ci vediamo stasera».
«Sì, a stasera», rispose, poi tacque. Stavo per chiudere la comunicazione, quando sentii di nuovo la sua voce. «Senti, Renesmee...». Aveva uno strano tono, come se la sua impassibile ironia fosse sparita completamente. Era serio, grave.
«Sì?», lo incitai, dopo una breve esitazione. Non ero certa di voler sentire davvero cosa stava per dirmi. Avevo la sensazione che fosse una cosa seria e avvertivo un groppo d'ansia alla bocca dello stomaco.
«È tutto a posto?».
Deglutii con forza. «Certo. Perchè? In che senso?», domandai, cauta, temendo la risposta con tutta me stessa.
Dall'altro lato ci fu un lungo silenzio, di nuovo. Non era da lui restare a corto di parole. Cosa stava succedendo? Cosa ci stava succedendo? Era davvero tutto a posto? Quanto avrei desiderato esserne sicura.
«Non importa», disse all'improvviso, troppo bruscamente perchè potessi indovinare il suo stato d'animo. «Ciao, Scheggia».
«Ciao», mormorai, sconcertata, e un attimo dopo aveva riagganciato.
Lentamente, infilai il cellulare nella tasca e tornai verso il garage, rimuginando. Alex era così strano in quei giorni. Probabilmente percepiva la mia tensione, dovuta a tutte le cose che avevo per la testa, e questo lo preoccupava. Stare insieme era diventato complicato, al punto che talvolta il pensiero di incontrarlo era fonte di un'ansia difficile da arginare. E avevo paura che pensasse di essere lui la causa del mio strano umore.
Trovai Jacob ancora sul pavimento, chino sulla sua moto. Quando entrai, sollevò gli occhi.
«Alex mi ha invitato a cena da lui, stasera», dissi, sforzandomi di apparire tranquilla e di accennare un sorriso. «Julie e Phoebe sono a Vancouver dal fidanzato di Julie... ti ho detto che lavora lì, vero?
È un giornalista. Staranno via tutto il week end».
Lui annuì senza lasciar trapelare nessuna emozione particolare. «Bella idea».
Mi strinsi nelle spalle. «Sì», mormorai. Un attimo dopo mi accorsi che mi stavo dondolando avanti e indietro sui talloni, impaziente. Smisi subito. «Allora, ehm... io andrei. Si è fatto tardi e devo prepararmi».
«Certo, certo. Ti accompagno».
Si mosse verso la Golf, pulendosi al contempo le mani sui jeans, e a me sfuggì un mezzo sorriso. Lo faceva sempre, mentre lavorava, senza accorgersene, sporcando inevitabilmente tutti i suoi jeans. E se qualcuno glielo faceva notare, lui per tutta risposta alzava le spalle, tanto poco si curava dei propri vestiti e del loro aspetto.
«No, non preoccuparti», esclamai di getto. «Non serve che mi accompagni, faccio due passi».
Jacob si fermò e mi guardò con le sopracciglia leggermente inarcate. «Ah. D'accordo». Aveva un'aria interrogativa, come se fosse sul punto di chiedermi qualcosa. E infatti subito dopo aprì bocca. «Renesmee», riprese con tono incerto. Fece una breve pausa. «Va tutto bene con Alex?».
Per un po' ricambiai il suo sguardo preoccupato e affettuoso in silenzio. Avevo immaginato che volesse chiedermi qualcosa del genere. Chissà come avrebbe reagito se avessi risposto che il mio ragazzo era tremendamente geloso di lui e che la nostra amicizia metteva a rischio il mio rapporto con Alex. E se gli avessi detto che la sua vicinanza mi causava strane sensazioni? E se gli avessi detto che al matrimonio di Paul e Rachel ero stata seriamente tentata di uccidere quella Summer solo perchè non la smetteva di provarci con lui?
Meglio di no. Deglutii.
«Sì, tutto bene. Grazie per... l'interessamento». Accennai un sorriso forzato. «Ci vediamo, Jake».
«Ciao. Buona serata», disse, la voce appena più alta di un sussurro.
Mi voltai e uscii rapidamente, desiderosa di allontanarmi il più possibile da lì, da lui. Per qualche crudele scherzo del destino, sembrava che tutti i legami a cui tenevo di più stessero cambiando drasticamente oppure dissolvendosi all'improvviso, senza darmi il tempo di capire. Ed io non potevo fare altro che starmene lì a guardare.



****



«Vuoi tirare di nuovo i dadi?», ripetei, sorpresa, osservando Alex di sotto in su con aria scettica.
«Certo», rispose lui, disinvolto, agitando appena la mano destra chiusa a coppa e facendo tintinnare i dadi racchiusi al suo interno.
«E perchè mai?».
«Perchè mi è uscito un due e fa schifo. Non mi serve a niente un due», disse, come se fosse stato lampante.
«Be', mi dispiace, ma non puoi farlo».
Mi squadrò con aria incredula. «Sì che posso».
«No, tesoro. È esplicitamente vietato dalle regole del backgammon²».
Alex fu sul punto di scoppiare in una sonora risata sotto il mio naso arricciato. «Okay, primo: da quando mi chiami tesoro? Secondo: ti sbagli, si può fare benissimo».
Era sul punto di rilanciare i dadi, ma io non mollai. «Ti dico di no!».
«E io ti dico di sì!».
«Alex!», sbottai, sbalordita da tanta testardaggine. Non si comportava mai docilmente, ma sapevo che quando si impuntava in quel modo su una sciocchezza lo faceva per il puro gusto di provocarmi, di vedermi sbuffare e arrossire per la stizza e darmi da fare per contraddirlo. Aveva uno strano senso dell'umorismo.
«Scheggia!», ribattè, velocissimo e impassibile.
Per un attimo lo fissai con aria truce, reprimendo a stento l'irresistibile impulso di schiaffeggiarlo. Poi allungai una mano verso la scatola del gioco, abbandonata sul tappeto del salotto.
«Okay, basta. Guardiamo il regolamento».
Alex era sdraiato di fronte a me, appoggiato a un gomito. Il fuoco acceso nel camino illuminava la sua sagoma rilassata in quella posa di distratta eleganza. Fece un sorriso diabolico e incantevole mentre alzava le spalle.
«Fai pure. Ma se ho ragione io, paghi pegno».
«E cioè?», sbuffai, rovistando nella scatola del backgammon.
Breve pausa. «Dovrai farmi uno spogliarello. E che sia molto, molto sexy».
Mi bloccai con il libretto del regolamento tra le dita. Sollevai lo sguardo lentamente e lo fissai, aspettandomi di vederlo ridere con gli occhi, senza muovere le labbra, come solo lui sapeva fare, e invece, mentre la sua bocca sensuale si curvava in un sorriso furbo, l'espressione era incredibilmente seria. Sospirai per prendere fiato, fingendo di essere solo profondamente esasperata, e scorsi in fretta il regolamento. Quando trovai quello che cercavo, mi sfuggì un sorrisetto compiaciuto.
«Niente spogliarello, ho ragione io. Ecco qua».
Gli porsi il libretto, soddisfatta. Alex lo prese e lo gettò via, lasciandolo cadere sul tappeto, senza dargli neanche un'occhiata.
«Lo sapevo. Ma valeva la pena di provarci soltanto per vedere la tua faccia quando ho nominato lo spogliarello».
Scoppiai a ridere, scuotendo la testa. Si comportava come un bambino cresciuto troppo in fretta, come se sapesse di doversi comportare come un adulto e si sforzasse di farlo, lasciando trapelare di continuo il vero se stesso, immaturo ed esasperante.
«Sai che ti dico? Hai sbagliato tu, quindi sarai tu a pagare pegno».
«Ah», fece lui con aria grave. «Okay. Però decido io qual è il pegno».
Alzai gli occhi al cielo. In un modo o nell'altro doveva sempre avere l'ultima parola. «E cosa proponi? Sentiamo».
«Lo vedrai». Mentre parlava, si mise a sedere, spinse di lato la tavola del backgammon, mi prese per la vita e mi attirò a sè. «Nei prossimi minuti sarò... completamente al tuo servizio per fare di te la ragazza più felice del mondo», sussurrò, la voce bassa e suadente.
Stavo per rispondere con una battuta scherzosa, sperando di alleggerire l'atmosfera che iniziava a scaldarsi un po' troppo, ma lui mi chiuse la bocca con un bacio. Le sue labbra calde, soffici e abili mi fecero scordare tutto e ricambiai il bacio, sporgendomi verso di lui. Continuava a stringermi la vita con un braccio, mentre con l'altra mano mi sosteneva il collo, sotto i capelli. A un tratto si scostò appena, ma le nostre labbra erano ancora in contatto, sfiorandosi leggermente. Sentivo il suo respiro caldo e accelerato su di me e rabbrividii. Alex poggiò i denti sul mio labbro inferiore, esercitando una lievissima pressione che aumentò gradualmente di intensità, fin quasi a morderlo. Una minuscola punta di dolore, quasi impercettibile, si mescolò ad una sensazione incredibilmente piacevole. Mi concentrai con tutta me stessa su quella piccola porzione di pelle che bruciava come se andasse a fuoco e seguii il calore elettrizzante che da quel punto si propogava in ogni parte del mio corpo, ipnotizzata, stregata, incapace di muovermi e di pensare. Mi sfuggì un gemito.
Alex rafforzò la presa sulla mia vita e mi trascinò sul tappeto. Il suo peso mi tolse il fiato per un istante prima che lui facesse leva sui gomiti, sollevandosi un po'. Non ci eravamo mai baciati in quel modo, prima: sdraiati l'uno l'altra, così vicini da sottrarci il respiro a vicenda, completamente soli, liberi e fuori da ogni controllo. A disagio, mi mossi di scatto e urtai la tavola del backgammon con un gran tintinnio di pedine che si mescolavano disordinatamente. Mi scappò una risatina soffocata dal tono un po' isterico.
«Ehm... Alex... temo che la nostra partita sia andata a farsi friggere».
«Chi se ne frega della partita», sbottò, quasi infastidito.
Si tuffò sulla mia bocca e riprese a baciarmi con impeto, lasciandomi stupita. Era sempre molto passionale, ma quella sera sembrava che dentro di lui divampasse un incendio interminabile. Riuscii a respirare di nuovo solo quando spostò la bocca sul mio collo, percorrendone la curva con micidiale lentezza, poi sulla spalla, continuando a scendere. Le sue mani mi accarezzavano e mi stringevano ovunque, strappandomi sussulti violenti: il seno, i fianchi, le gambe, e dal suo tocco trapelava un desiderio così intenso e potente da trascinarmi a bruciare con lui. Una piccolissima parte della mia mentre mi urlava di non perdere del tutto il controllo, ma non riuscivo a prestarle attenzione, troppo presa dal piacere che sentivo irradiarsi in tutto il corpo come lava bollente e distruttrice. Impossibile resistere.
La mano di Alex si strinse all'improvviso, accarezzandomi una coscia, le unghie grattarono la calza e strapparono il tessuto sottile, graffiandomi la pelle. Mi fece male e quella sensazione di dolore all'improvviso mi riscosse, come la lama di un coltello che squarcia un velo. Di colpo mi resi conto di quello che stavamo facendo. Di quello che poteva succedere se avessimo continuato. Dovevamo... Cosa dovevamo fare? Fermarci e ragionare, sì, pensai, sforzandomi con difficoltà di scacciare la nebbia che mi avvolgeva il cervello. Alex sussultò.
«Ops. Scusa, non volevo», disse in un sussurro, la bocca premuta contro la mia scollatura. Ma non ritrasse la mano, e anzi riprese ad accarezzarmi la coscia, salendo verso l'alto fino alla curva del fondoschiena. Non mi aveva toccato così, prima. Era bellissimo e spaventoso al tempo stesso. Gli afferrai il braccio, bloccandolo.
«No, aspetta», ansimai.
Lui esitò, perplesso dal cambiamento che iniziava a percepire. Adesso ero rigida, tesa, le dita strette intorno al suo polso. Mi guardò attentamente, sebbene il suo sguardo fosse velato dal desiderio, cercando di capire.
«Rilassati, Renesmee. Va tutto bene», mormorò con voce roca, poggiando la bocca sul mio viso, di lato, e baciandomi la tempia. Con un mano mi tirò giù la spallina del vestito e del reggiseno.
Un altro brivido mi attraversò da cima a fondo, scuotendomi fin dentro le ossa. Alex se ne accorse e forse lo interpretò come un incoraggiamento a proseguire. Si sollevò per sfilarsi velocemente il golf grigio chiaro e lo gettò a terra, restando con la camicia bianca, gli occhi accesi e scintillanti che non si staccavano dai miei neanche per un istante, ed io ricambiai lo sguardo, inchiodata a terra e imbavagliata dalle due spinte contrastanti che mi immobilizzavano, paura e desiderio, impegnate in una lotta furibonda dentro di me. Era come se il mio corpo e la mia mente fossero del tutto scollegati e il primo bramasse sensazioni che la seconda si sforzava di arginare perchè tornasse la lucidità.
Alex si chinò di nuovo di me, senza permettermi di pensare, le sue mani dolci e frenetiche che cercavano di sollevarmi la gonna aderente, a tubino, facendola scorrere lungo le cosce. Ero sul punto di lasciarmi andare, quando un'ondata di panico montò di colpo dentro di me, un brivido gelido che spense il calore delle sue mani sul mio corpo. Mi divincolai per sottrarmi alle sue labbra.
«Alex, basta... Fermati... Fermati!».
A quel punto sembrò che qualcosa scattasse anche dentro di lui. Si bloccò all'improvviso e rimase immobile per alcuni istanti, ancora sdraiato su di me, le mani serrate sulle mie gambe, la fronte contro la mia. Eravamo troppo vicini perchè riuscissi a guardarlo bene in viso. Poi scivolò di lato e ricadde sul tappeto, accanto a me. Il silenzio divenne assordante, rotto soltanto dai respiri accelerati di entrambi. Cercai disperatamente di tornare lucida, mentre mi tiravo giù la gonna con mani tremanti.
«Alex», lo chiamai con voce tesa, preoccupata, quando non riuscii più a sopportarlo. «Alex, non te le prendere, io...».
Lui si sollevò e si mise in ginocchio con uno scatto così rapido da fare invidia ad un vampiro. Senza guardarmi, si passò più volte le mani tra i capelli in disordine, come per sistemarli, ma a me parve solo un gesto nervoso e inconsapevole.
«Non me la sono presa», rispose, con calma. «Se non ti va, non ti va».
Se l'era presa eccome, invece. Accidenti. «No, è solo che... non mi hai dato il tempo di rifletterci...».
«Su certe cose non c'è bisogno di riflettere», disse, la voce bassa e incolore. «Renesmee», mi chiamò un attimo dopo, e mi accorsi che si era girato verso di me. «Renesmee, guardami».
Controvoglia, ubbidii. Sembrava spaventosamente calmo e capii che stava per arrivare qualcosa di grosso. Qualcosa che non forse non avrei voluto ascoltare. Era esattamente la stessa sensazione che avevo avvertito nel pomeriggio, quando avevamo parlato al telefono.
«Io ti amo», disse infine, con semplicità. La quieta determinazione che colsi nella sua voce fu come uno sgambetto improvviso, se solo non fossi stata ancora distesa sul tappeto.
Niente. Non provai niente. Soltanto paura. Un'ondata di paura gelida, bianca, inarrestabile, che mi sommerse di colpo. Per non so quanto tempo mi sentii sospesa, bloccata, incapace di parlare, pensare o fare qualsiasi cosa. Una drastica consapevolezza si faceva strada lentamente in quel mare di bianco, l'unica cosa alla quale sentivo di potermi aggrappare. L'unica cosa giusta da fare. Lo era sempre stata, in fondo. Me ne resi conto in quel momento e fece male.
Lentamente, mi tirai su con un respiro profondo. Ero stupita dalla mia stessa calma, ma era una calma spaventosa, inquietante. Mi scostai i capelli dal viso con un gesto automatico e rimisi a posto la spallina dell'abito. Dopo un paio di tentativi a vuoto, riuscii a tirare fuori la voce.
«Dobbiamo parlare», dissi in tono fermo, serio.
Lui non mi aveva tolto gli occhi di dosso neanche per un attimo. La sua espressione era intensa, concentrata.
«Di cosa?». 
«Non... non posso fare l'amore con te», cominciai, balbettando, lo sguardo fisso a terra. Così era più facile.
Ci fu una breve pausa. «Perchè no?», domandò ancora, perfettamente calmo e padrone di sè, la voce bassa e attenta. Chissà cosa pensava.
Chiusi gli occhi per un attimo, raccogliendo le idee. Cosa gli avrei detto, adesso?
Il mio cervello lavorava, febbrile, in cerca delle parole giuste. Se mai fossero esistite, dovevo trovarle. Non avevo avuto la possibilità di rifletterci con calma e ora annaspavo, nel panico, temendo che una parola sbagliata potesse mettermi definitivamente nei guai. Dovevo essere attenta, molto attenta, eppure sapevo che non avrei avuto una seconda occasione di risolvere il problema.
Ora o mai più.
Pensa. Pensa. Pensa...
«Io... credo che... stiamo correndo troppo, Alex. Voglio fare le cose con calma. Forse dovremmo... prenderci una pausa», dissi infine, tutto d'un fiato, seguendo l'ispirazione del momento, gli occhi ancora puntati sul tappeto e ben lontani dal rischio di incrociare i suoi e cedere immediatamente.
«Una pausa?», ripetè, e la sua voce suonò carica di pura, autentica incredulità, come se di colpo fosse caduto da una nuvola a seguito di una spinta decisa. Lo capivo e forse era proprio ciò su cui contavo in quel momento, che lo stupore prima e la rabbia poi lo accecassero almeno per un po', distogliendolo dall'indagare troppo a fondo e lasciandomi così un po' di tempo per pensare. «Ehi, aspetta. Frena», esclamò bruscamente dopo un secondo di silenzio attonito. «Che stai dicendo, che succede? Mi sono perso qualcosa?».
«Ascoltami, ti prego. È la cosa giusta da fare», mormorai a denti stretti. 
«Ma che diavolo... Renesmee?», sbottò con uno scatto istintivo in avanti, come se volesse raggiungermi senza riuscirci. «Io ti dico che ti amo e tu mi rispondi che vuoi una pausa?», disse, e il gelido risentimento che si percepiva nella sua voce fu uno schiaffo bruciante in pieno viso.
«Sì, è quello che voglio», ripetei, concentrandomi per manterne il tono fermo e sicuro. «Ci sto pensando già da un po' e stasera... quello che stava per succedere... mi ha convinta ancora di più».
Cadde di nuovo il silenzio. Lui non smetteva di fissarmi e anche se non potevo guardare il suo volto riuscivo ad immaginarlo perfettamente: la fronte contratta, come sempre quando non riusciva ad afferrare un problema, gli occhi azzurri sgranati, le labbra appena dischiuse, come sul punto di dire qualcosa, ma senza trovare le parole.
«Non riesco a capire», riprese, la voce bassa. «È solo perchè ci siamo lasciati andare per un attimo...».
«No, non è solo per questo. Ci pensavo da tempo, te l'ho detto».
«E da quanto? Da quanto tempo stai pensando che vuoi una pausa? Perchè non me ne hai parlato prima?».
Ecco che la sorpresa iniziava a lasciare il passo alla rabbia, pensai. 
«Perchè sono confusa, Alex!», esclamai di getto, esasperata. Finalmente lo guardai e forse la mia espressione fu abbastanza convincente, perchè qualcosa sul volto di Alex all'improvviso cambiò e lui ammutolì. 
«Sì, lo vedo», rispose piano, con calma, dopo un istante di sconcerto davanti alla mia esplosione improvvisa. «Lo vedo che sei confusa e strana dalla fine dell'estate. Io... a volte non ti riconosco più, non capisco a cosa pensi, che cosa vuoi... Non sei più la stessa. È successo qualcosa, vero?».
Ero sul punto di dirgli di no, ma le sue parole fecero scattare qualcosa dentro di me, cogliendomi di sorpresa. Rimasi in silenzio per un minuto, pensando. La fine dell'estate... Sì, era da lì che tutto aveva cominciato a cambiare, dalla prima notte in cui avevo fatto quel sogno, sull'Isola Esme. E gli incubi su Alex non erano stati gli unici eventi che mi avevano scombussolata durante la vacanza in Brasile.
Di colpo sapevo che cosa dire.
Feci un respiro profondo, recuperando la calma, prendendo tempo. Dovevo solo trovare il modo giusto, adesso.
«Sì... qualcosa è successo. C'è un'altra persona», risposi lentamente, la voce sorprendentemente ferma e decisa.
Nuova pausa, più lunga, questa volta, quasi interminabile. Alex mi fissava senza battere ciglio, sembrava pietrificato. «Non ho capito bene», mormorò.
«È una persona che ho incontrato quest'estate, in Brasile. In realtà ci conoscevamo già...
È una specie di vecchio amico. Ma non ci vedevamo da parecchio tempo e una volta io... l'ho baciato». Cercai di allontanare dalla mia mente il ricordo di quella sera, delle labbra di Nahuel che a malapena sfioravano le mie prima che mi ritraessi. Temevo di non riuscire a mentire se avessi pensato a quello che era realmente accaduto. «Credevo che fosse una cosa senza importanza, ma forse mi sbagliavo perchè non riesco a smettere di pensare a lui». All'improvviso mi si ruppe la voce e dovetti fermarmi. Alex taceva, immobile e silenzioso, simile ad una statua di cera. «Mi dispiace di non avertelo detto prima, io... speravo di riuscire a dimenticarlo. Scusami».
Scese un silenzio assoluto e pesante come piombo. Mi costrinsi a sostenere il suo sguardo duro, freddo, impenetrabile, acqua color zaffiro che vorticava come il mare squassato da una tempesta. Abbassare il mio in quel momento avrebbe significato ammettere che non riuscivo a tollerare il suo esame, perchè forse avevo qualcosa da nascondere. Passavano i secondi, poi i minuti, lenti come i granellini di sabbia che scivolano in una clessidra uno dopo l'altro. Lo scoppiettare della legna nel camino mi rimbombava nelle orecchie, mentre l'atmosfera diventava sempre più insostenibile.
«Alex», proruppi quando non riuscii più a sopportarlo. «Ti prego, di' qualcosa».
Le sue labbra si schiusero lentamente. «Cosa vuoi che ti dica?».
Il suo tono era gelido come i suoi occhi e mi colpì dritto al cuore. Non mi aveva mai parlato in quel modo. Mai.
«Non lo so. Qualunque cosa. Quello che vuoi».
Per un tempo infinito rimase di nuovo in silenzio, perfettamente immobile. Se non fosse stato per il sollevarsi ritmico delle spalle, avrei detto che avesse smesso perfino di respirare.
«Ti accompagno a casa», disse all'improvviso.
Con uno scatto fluido si alzò in piedi senza degnarmi di un altro sguardo.



****



Durante il tragitto in macchina non fece che premere sull'acceleratore. All'esterno poteva anche apparire controllato, ma a giudicare da come sfrecciavamo per le strade buie e deserte della città e da come stringeva le mani sul volante, dentro doveva avere una tempesta. Per fortuna erano le undici passate e in giro non c'era anima viva. Dopo le otto di sera a Forks calava il sipario sulla vita cittadina.
Ogni tanto aprivo la bocca per scongiurarlo di calmarsi e rallentare, perchè se ci fossimo schiantati contro un albero non avremmo risolto un bel niente ed era lui quello che ne sarebbe uscito peggio, ma non riuscivo ad emettere alcun suono. Le parole mi morivano in gola. Lo avevo ferito e adesso non avevo il diritto di chiedergli nulla.
Arrivammo a casa mia in pochi minuti. Alex frenò di botto, inchiodando la macchina a terra con una frenata stridente, ed io rimbalzai contro il sedile del passeggero. Spense il motore e rimase zitto, gli occhi tempestosi fissi davanti a sè. Le mani mi tremavano e ci misi più tempo del normale a slacciarmi la cintura di sicurezza, ma nel frattempo pensavo e raccoglievo tutto il coraggio in mio possesso per parlare. Non potevo lasciare che ci separassimo così, senza nemmeno provare a dargli una spiegazione.
«Alex, io...», cominciai, esitante.
«Scendi, per favore», mi interruppe in tono risoluto, a denti stretti.
Sentii una fitta di dolore al petto. Era orribile ascoltarlo rivolgersi a me con quel tono di ghiaccio appena velato di cortesia e quelle parole formali. Avrei preferito mille volte che mi urlasse contro. Quel nulla era molto più duro da mandare giù.
«Dobbiamo parlare», azzardai ancora.
Alex non rispose subito ed ebbi l'impressione che stesse cercando di mantenere il controllo di sè. Ma quando lo fece, era di nuovo spaventosamente calmo.
«In questo momento non riesco neanche a guardarti, come pretendi che possa parlare con te?».
Lui sì che sapeva come colpire e affondare. Cosa avrei potuto replicare ad una frase del genere? Deglutii più volte, convulsamente, quasi facendo violenza a me stessa per restare impassibile e non lasciar scorrere le lacrime che mi gonfiavano gli occhi. Non dovevo piangere. Non dovevo piangere. Scesi dalla macchina con gesti impacciati e prima di chiudere la portiera lo osservai per un attimo, imprimendo nella mia mente il ricordo del suo profilo armonioso che si stagliava nel buio.
«Mi dispiace», sussurrai.
Quando lasciai andare la portiera, aveva già rimesso in moto. Partì con un rombo aggressivo e poco dopo era scomparso.








Note.
1. Link.
2. Se siete curiosi di scoprire cos'è il backgammon e qual è il senso del battibecco tra Alex e Renesmee, leggete qui. È il gioco che Alex preferisce, ricordate? ^^








Spazio autrice.
Salve! Innanzitutto mi dispiace di non essere riuscita ad aggiornare mercoledì, spero che tutte abbiate letto gli avvisi su Facebook e nella mia pagina Efp. Scusate :(.
Veniamo subito al capitolo! Come avevo anticipato, siamo arrivati ad una svolta. Questo è un momento cruciale per la storia e i capitoli successivi saranno altrettanto importanti. Confesso che scrivere questa parte è stato tutt'altro che semplice e spero che il risultato finale sia apprezzabile, anche se sicuramente imperfetto.
Qualcuna di voi sarà già in lutto per quello che succede tra Alex e Renesmee, qualcun'altra forse farà i salti di gioia, aspettandosi che da un momento all'altro lei si butti tra le braccia di un certo licantropo (ogni riferimento è puramente casuale xd), ma in ogni caso mi auguro di lasciarvi con questo capitolo molto curiose di scoprire cosa succederà e soprattutto con un pizzico di incertezza... La mia paura più grande è sempre quella di essere prevedibile e noiosa, ma ce la metto davvero tutta perchè non accada.
Be', per ora è tutto. Ci diamo appuntamento tra due settimane e fatemi conoscere i vostri pareri, mi raccomando! Un abbraccio!

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Capitolo 10
*** Trouble ***


C 10
Capitolo 10
Trouble

Oh no, I see
A spiderweb is tangled up with me
And I lost my head
And thought of all the stupid things I'd said
Oh no, what's this?
A spiderweb and I'm caught in the middle
So I turned to run
And thought of all the stupid things I'd done
And I never meant to cause your trouble
And I never meant to do you wrong
Ah, well if I ever caused you trouble
Oh no, I never meant to do you harm.
Trouble, Coldplay¹



Non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai.
Chuck Palanhiuk


Chissà come, riuscii a resistere alla tentazione di chiamare Alex. Se una parte di me era preoccupata e addolorata e fremeva dal bisogno di accertarsi che stesse bene, l'altra si vergognava troppo per pensare di affrontarlo. Inutile dire che aveva vinto la seconda, almeno per il momento. Forse aveva bisogno di stare un po' da solo per digerire la cosa a modo suo. Dopotutto, gli avevo gettato addosso una bella rivelazione e quando era toccata a me una cosa del genere, la scorsa primavera, di certo non avevo bramato la compagnia delle persone coinvolte nella vicenda. Anzi, ero scappata il più lontano possibile. E comunque era venerdì e ci saremmo visti a scuola entro poche ore.
Quando entrai in cucina per fare colazione trovai i miei genitori ai fornelli. Colsi immediatamente le loro espressioni preoccupate ed ebbi la netta sensazione che avessero discusso di me fino ad un attimo prima.
«Buongiorno», esclamò la mamma.
«Ehi, piccola», disse papà quasi contemporaneamente.
«Giorno», borbottai, mentre lasciavo la borsa e la giacca su una sedia e mi versavo una tazza di caffè con i miei soliti due cucchiaini di zucchero; detestavo il caffè amaro.
Per un po' restammo in silenzio. Forse aspettavano che parlassi io per prima, ma quando fu chiaro che non avrei detto un bel niente la mamma si decise a prendere l'iniziativa.
«Renesmee», cominciò, sforzandosi di apparire tranquilla come per una normale chiacchierata tra madre e figlia, «che ne diresti se... Ti andrebbe di parlare di quello che è successo ieri sera?».
Sembrava che volesse blandire una bambina piccola per convincerla a prendere lo sciroppo per la tosse.
«No», risposi. Semplice e diretta. «Non mi va. E comunque sapete già tutto». Afferrai una fetta di pane tostato e le diedi svogliatamente un morso. Non avevo molta fame, ma era meglio mandare giù qualcosa.
La mamma si avvicinò a passi lenti, le braccia incrociate, la fronte corrugata. «Sì, lo sappiamo, però preferiremmo parlarne con te. Insomma, tu ed Alex avete...».
Istintivamente sussultai. «Mamma, non... non è successo niente», mi affrettai a specificare, arrossendo un po'. Mi girai verso la finestra per evitare il suo sguardo. Fuori cadeva una pioggerillina fitta e sottile e il cielo era color grigio chiaro con qualche striatura di bianco qua e là. La giornata standard di Forks.
«Lo so, ma...».
Sbuffai, poggiando la tazza vuota nel lavandino. «Sentite, possiamo rimandare a un altro momento, per favore? Faccio tardi a scuola».
Bella scosse leggermente la testa, con le labbra serrate e gli occhi socchiusi. Era meglio svignarsela il prima possibile, così afferrai in fretta la giacca e la borsa.
«A volte è assolutamente impossibile dialogare con te, lo sai, vero? Devo travestirmi da Jacob Black perchè tu mi stia a sentire?».
Mio malgrado scoppiai a ridere. «So cosa vorresti dirmi: sono un'adolescente insopportabile che non ascolta mai i suoi genitori e passa troppo tempo con quel licantropo... Lo so. Anche di questo possiamo parlare un'altra volta».
Le scoccai un bacio sulla guancia, incurante della sua espressione di rimprovero, superai papà che ridacchiava sotto i baffi e uscii velocemente di casa. Fu un sollievo entrare in macchina, la mia macchina. Era un regalo dei miei, una Mercedes Guardian che in passato era appartenuta alla mamma per un po' di tempo, prima della trasformazione in vampira. Era praticamente la macchina più sicura del mondo e dunque perfetta per la mamma quando era ancora umana. Ora che lei non aveva più bisogno di vetri antiproiettili, un sistema antincendio e una scorta di ossigeno in caso di attacco con i gas, la macchina a prova di bomba spettava al nuovo componente più fragile della famiglia e cioè a me. Non che mi dispiacesse, anzi. Tralasciando la soffocante iperprotettività della mia famiglia, era una gran bella macchina. Jas era quasi impazzita la prima volta che avevamo fatto un giro insieme e aveva riso da morire nel sentirmi elencare tutti i dispositivi di sicurezza installati sulla vettura. Il pensiero che io me ne andassi in giro in un'auto blindata per le strade di Forks, dove non si verificava una rapina da vent'anni o giù di lì, la divertiva immensamente.
Entrata nel parcheggio della scuola, dovetti ignorare gli sguardi di tutti puntati sulla mia macchina mentre cercavo un posto, fingendo di non accorgermene. Sembrava che ci fossero più auto del solito, quella mattina, e ci misi un bel po' di tempo. Quando riuscii a parcheggiare, con una certa cautela dal momento che il parcheggio non era il mio forte, tirai un sospiro di sollievo. Poi scesi dalla macchina per mescolarmi alla folla che si aggirava nel parcheggio in attesa dell'inizio delle lezioni e dimenticai tutto il resto, concentrata unicamente su Alex. Non sapevo se augurarmi di incontrarlo oppure no.
Tra una lezione e l'altra trascorse l'intera mattina senza che lo vedessi da nessuna parte. In una scuola così piccola come la Forks High non era raro che ci incontrassimo casualmente nei corridoi, ma quel giorno non accadde neanche una volta ed io non sapevo se considerarlo un caso o il frutto di accurate manovre da parte di Alex. Forse mi evitava.
Più il tempo passava, più diventavo ansiosa e inquieta; temevo la sua reazione, ma non sapere nulla di come stava affrontando la cosa era molto peggio.
Continuavo a sentire le sue parole nella testa, come una registrazione incisa a fuoco nella mia memoria.
Cosa vuoi che ti dica? 
In questo momento non riesco neanche a guardarti, come pretendi che possa parlare con te?

Ripensare alla sua espressione gelida mi feriva come se lui fosse sempre davanti a me. Forse avevo sbagliato tutto. Se questa decisione mi faceva stare così male, come poteva essere quella giusta? Ero riuscita a mentire abbastanza bene da ingannarlo e adesso probabilmente mi detestava. Lo conoscevo abbastanza da immaginare senza difficoltà quali potessero essere i suoi sentimenti nei miei confronti, al momento. Non era una persona che perdonava con facilità, era stato lui stesso a dirmelo, una volta. Sapevo quanto odiasse gli inganni e le bugie, lui che fin dal nostro primo incontro mi aveva sempre detto tutto, di se stesso, della sua storia. Lui che era sempre stato schietto e sincero, dicendomi quello che pensava di me, di noi, del nostro rapporto, senza maschere nè finzioni. Ricordavo le poche volte in cui avevo osato accennargli qualcosa dei miei problemi, la primavera precedente, e ricordavo come mi avesse sempre parlato con franchezza, senza indorare mai la pillola, nemmeno quando pensava che stessi sbagliando tutto.
Mi aveva confessato di essersi aperto con me come non faceva con nessun altro da tanto tempo e io lo avevo ferito senza esitare. Solo a pensarci mi si rivoltava lo stomaco per la nausea. Eppure, era accaduto proprio quello che avevo desiderato, forse inconsciamente: che ci allontanassimo
. Perchè non vedevo altro modo per proteggerlo. I miei incubi e la situazione di Jas mi avevano fatto pensare a quanto fosse pericoloso per lui stare con me e a volte mi sembrava di non poter più convivere con questa paura. A volte mi sembrava di impazzire. Forse per Jas era troppo tardi. Un giorno avrebbe scoperto tutto e sarebbe entrata nel mio folle mondo. Io avrei lottato fino all'ultimo secondo per impedire che accadesse, ma dentro di me sapevo di essere già stata sconfitta. Nessuno avrebbe mai potuto vincere con l'imprinting.
Ma Alex... Lui poteva ancora uscirne. Poteva ancora allontanarsi da me e vivere una vita normale, al sicuro, ed io sentivo di doverci provare. Non gli avrei voluto bene davvero se non avessi fatto un tentativo, anche se questo significava farlo soffrire un po'.
Quando suonò la campanella del pranzo ero piuttosto tesa. Il giorno prima avevamo stabilito di mangiare insieme e anche se forse lui non aveva voglia di sedere allo stesso tavolo con me, adesso, doveva pur pranzare. Fui molto sorpresa quando percorsi la mensa con lo sguardo, cercandolo al solito tavolo che occupava con i suoi amici, senza riuscire a individuarlo. Non c'era.
«Torno subito», dissi a Jas, che era seduta accanto a me, e mi diressi con passo veloce in direzione del suo gruppo di compagni di classe.
«Ehi, Renesmee», mi salutò Robbie Cavanough quando fui abbastanza vicina. «Come va?».
«Ciao», esclamai, cercando di apparire tranquilla. «Tutto bene. Ehm... Sapete dov'è Alex?».
Robbie aggrottò leggermente la fronte pallida. Era carino, con i capelli neri che ricadevano in ciuffi ordinati e gli occhi verdi, ed era un bravo ragazzo.
«No, non è venuto a scuola, credo. Avevamo insieme matematica e geografia, oggi, ma non l'ho visto».
Restai spiazzata, anche se un secondo dopo mi stavo dicendo che avrei dovuto pensarci. Che stupida.
«Ah. Ne sei... sicuro?».
«Credo di sì. Aspetta un attimo... Josh? Ehi, Josh!».
Josh Hamilton, seduto poco più in là, distolse la sua attenzione dal pranzo con scarso entusiasmo e si voltò. «Che c'è?».
«Hai visto Alex, oggi?».
A quel punto ci stavano ascoltando tutti, compresa Karen Wilson, una delle tante ragazze (troppe, secondo me) che guardavano Alex e si interessavano a lui ben più di quanto fosse lecito. Fantastico.
Josh scosse la testa. «No. Non è venuto».
Robbie si girò di nuovo verso di me. Mi lasciai sfuggire un sospiro lieve.
«Okay, grazie, ragazzi. Ci vediamo».
Robbie sorrise gentilmente. «Ciao».
Invece di tornare al mio tavolo, attraversai la mensa camminando a passo sostenuto e uscii sotto il portico. Faceva freddo e dovetti infilarmi il giubbotto mentre prendevo il cellulare dalla tasca. Cercai il nome di Alex nella rubrica e premetti il tasto di chiamata. Non potevo più rimandare, dovevo almeno accertarmi che fosse tutto okay. La sera prima, dopo la mia geniale rivelazione, mi era sembrato sconvolto e sapevo che quando Alex era sconvolto tendeva a perdere il controllo di sè. Dopo il settimo squillo la comunicazione cadde. Sbuffando, riprovai subito e ancora ascoltai a lungo il suo cellulare squillare a vuoto.
Be', non era il caso di preoccuparsi troppo, pensai, infilando di nuovo il cellulare in tasca e rientrando nella mensa. Forse stava poco bene. O forse era troppo arrabbiato per correre il rischio di incontrarmi a scuola. Potevo capirlo. Probabilmente se ne stava a casa, nella sua stanza, e passava il tempo usando una mia foto come bersaglio per le freccette. Meglio lasciargli un po' di tempo per sbollire, e dopo, forse... forse avrei trovato una soluzione.
«Tutto bene, Renesmee?», domandò Jas, interrompendo di colpo la sua converdazione con Tom, quando raggiunsi il tavolo e mi sedetti.
Le rivolsi un piccolo sorriso. «Sì... tutto bene».
Lei annuì, sebbene sembrasse un po' incerta, ma non aggiunse altro. Si girò di nuovo verso Tom. «Scusami, cosa stavi dicendo?».
Lui si mosse sulla sedia con aria irritata, poi afferrò di scatto la sua lattina di Coca e la aprì fin troppo energicamente. «Niente. Niente di importante», borbottò in tono risentito.
Jas parve un po' spiazzata da quella reazione. Abbassò lo sguardo sul piatto, in silenzio, un'espressione tirata in viso. Non si rivolsero la parola per il resto del pranzo.



****



Quella settimana la solita cena dai nonni era stata spostata alla domenica perchè Charlie e Sue erano a letto con una brutta influenza. Dopo la scuola non tornai subito a casa e insieme ad Holly accompagnai Jas a Port Angeles per fare shopping. Jas comprò due paia di scarpe nuove e una borsetta, mentre Holly provò mucchi di vestiti e solo a prezzo di grandi sforzi riuscimmo a convincerla a non acquistarli tutti o quella sera ci sarebbe stata una bufera in casa Matthews.
Passeggiamo sul lungomare e ci fermammo in un grazioso ristorantino per mangiare qualcosa. Fu un bel pomeriggio e ogni tanto mi distraevo a sufficienza da non pensare ad Alex; per un paio di minuti, mentre ero presa dalle chiacchiere con le mie amiche, quasi dimenticavo del tutto i miei problemi, ma poi mi tornavano in mente di colpo, all'improvviso, accompagnati da una sgradevole sensazione simile ad un pugno nello stomaco, e subito afferravo il cellulare.
Lui non provò a chiamarmi neanche una volta.
Mi sforzai così tanto di fingermi allegra e spensierata con Holly e Jas che quando arrivai a casa, a sera inoltrata, ero esausta. Lasciai la macchina in garage e mi diressi a piedi verso il cottage, stringendo il telefono in una mano. Aprii la porta di casa e scorsi papà seduto sul divano intento a leggere un libro. Appena mi vide, lo chiuse e lo mise sul tavolo. La mamma apparve sulla soglia della cucina, un sorriso cauto sul volto perfetto.
«Ciao», esclamò. «Com'è andata? Ti sei divertita?».
«Sì», risposi, sbrigativa. «Per caso ha...».
Papà parlò prima che terminassi la frase. «Non ha chiamato nessuno», disse a mezza voce. Abbassai lo sguardo senza riuscire a nascondere la delusione. «Renesmee... non preoccuparti», aggiunse dopo una pausa. «Vedrai che ti chiamerà. Prima o poi la rabbia iniziale gli passerà e avrà voglia di parlarti. Dagli tempo».
La sua voce era dolce e carezzevole, ma non aveva il potere di consolarmi, questa volta. Impaziente di restare sola, feci per uscire dalla stanza.
«Aspetta», intervenne la mamma, avanzando verso di me. Mi osservava ansiosamente e non potei fare a meno di sentirmi un po' in colpa per come mi stavo comportando. «Avevi promesso che stasera avremmo parlato».
Accidenti. Perchè cavolo l'avevo detto?
«C'è una sola persona con cui voglio parlare, adesso».
Mi affrettai ad uscire prima che potesse dire altro e mi chiusi in camera mia. Mi liberai della giacca, lasciai cadere la borsa sul pavimento di legno chiaro e composi il numero di Alex. Ancora una volta non ricevetti nessuna risposta. Chiusi la telefonata e provai con il numero di casa sua. Mentre ascoltavo gli squilli uno dopo l'altro, fissavo il buio oltre i vetri della finestra avvertendo un senso crescente di oppressione al petto. Chiusi la comunicazione, avvilita. Alex non mi avrebbe risposto. Crollai a sedere sul letto e incrociai le braccia, stringendo con forza, come per mantenermi tutta intera. Avevo ottenuto esattamente ciò che desideravo: Alex mi odiava.



****



Quando suonò la sveglia, il mattino dopo, me ne stavo giù da un po' sdraiata tra le coperte ad occhi spalancati, perfettamente cosciente. Bloccai la sveglia con un gesto automatico, sebbene non ci fosse affatto il pericolo di buttare i miei genitori giù dal letto, afferrai il cellulare dal comodino e riprovai a chiamare Alex.
Non ero troppo preoccupata dal pensiero di svegliarlo. Alzarsi presto non gli dispiaceva, al contrario di me. A volte si svegliava apposta quando era ancora quasi buio per godersi il sorgere del sole. Era il momento che preferiva di tutta la giornata. Diceva che ogni cosa sembrava diversa, più bella, più luminosa. E anche lui si sentiva diverso. Una volta mi sarebbe piaciuto svegliarmi all'alba insieme a lui, osservare il mondo tornare lentamente alla vita e leggere sul suo volto il cambiamento di cui parlava. Probabilmente non sarebbe mai accaduto.
Dopo il decimo squillo a vuoto, chiusi la chiamata, gettai con rabbia il cellulare sul letto e mi alzai. In teoria avevo un mucchio di compiti da fare, nella pratica non combinai quasi nulla. Passai la giornata gironzolando per casa, evitando i miei genitori e i loro sguardi preoccupati. Non facevano più domande, ma la loro presenza, sapere che pensavano a me e forse ne parlavano bisbigliando tra loro, bastava a mettermi a disagio. Dopo pranzo uscirono per andare a caccia e finalmente mi sentii più sollevata. Avevo soltanto voglia di starmene da sola e rimuginare tranquillamente, sebbene fossi consapevole che non sarebbe servito a nulla.
I miei erano usciti da poco quando telefonò Jacob per fare due chiacchiere e quasi rischiai un infarto, credendo che si trattasse di Alex. Rimasi al telefono pochi minuti, parlando del più e del meno, non accennai alle ultime novità e respinsi la sua proposta di incontrarci nel pomeriggio con la scusa dei compiti. Ero decisa a non fare mai più il nome di Alex con Jacob e viceversa, se fosse stato possibile. Ero stufa marcia di tutte quelle complicazioni, non ne volevo altre. Se davvero Jake era geloso del mio ragazzo, raccontargli che Alex aveva provato a fare sesso con me e mi aveva detto di amarmi, mentre io lo avevo allontanato con una bugia colossale, sarebbe stato orrendamente difficile e imbarazzante e non sarebbe servito a risolvere le cose. In passato confidarmi con Jacob mi aveva sempre fatto sentire meglio, ma negli ultimi tempi la situazione era cambiata. Avevo scoperto che non potevo parlargli di tutto, non più, e quel pensiero faceva male al cuore come una coltellata.
Che cosa significa? Cosa stava succedendo? Rischiavo di perderlo? Era come se in un quadro che osservavo da tutta la vita, le linee, le forme, i colori avessero iniziato a muoversi e a mutare sotto i miei occhi, trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. Qualcosa di sconosciuto. Il mio Jacob stava cambiando? Oppure stavo cambiando io? Che confusione.
Dopo averlo salutato, per un po' camminai per le stanze, senza meta, agitata e nervosa, sentendo ancora nella testa la voce di Jake che mi parlava al telefono. Entrai nella camera di Edward e Bella, silenziosa, ordinata e fredda. Sul comodino della mamma, accanto al letto, c'era la sua copia un po' sgualcita di Anna Karenina, su quello di papà un libro di poesie in spagnolo di un autore che non conoscevo con un segnalibro tra le pagine. Mio padre era sempre in cerca di qualcosa di nuovo da leggere e non era affatto semplice: in più di cento anni probabilmente aveva letto gran parte della letteratura mondiale; per giunta, la sua memoria perfetta rendeva inutile una rilettura, anche a distanza di molti anni. Spesso finiva con il buttarsi su libri e autori a me completamente sconosciuti. Sapevo che tra qualche decennio, forse, mi sarei trovata nella sua stessa sensazione, ma stranamente quel pensiero mi metteva tristezza e lo allontanai in fretta.
Mi lasciai cadere sul letto freddo con un sospiro e affondai il viso nella morbida trapunta bianca, come se avessi potuto sprofondarci dentro.
Da qualche tempo avevo iniziato a chiedermi se a un certo punto l'imprinting potesse smettere di funzionare a dovere. Incepparsi. Che diavolo stava succedendo tra me e Jacob? E se l'avessi perso davvero? E se ci fossimo allontanati? Poteva accadere? Afferrai un lembo del copriletto e senza farci caso lo strinsi forte tra le dita. No, non era possibile. Stavo già perdendo Alex, forse un giorno anche Jas si sarebbe allontanata da me, non potevo perdere perdere anche il mio Jacob.
Alex
, pensai con un sussulto. Per qualche minuto avevo smesso di pensare a lui, ma non appena mi tornò in mente tutta la mia preoccupazione riemerse di botto. Automaticamente presi di nuovo il cellulare dalla tasca, sebbene con scarse speranze, e provai ancora una volta. Volevo solo accertarmi che stesse bene e non facesse stupidaggini. Ma dopo il decimo squillo a vuoto, all'improvviso mi sentii invadere da un'ondata di rabbia calda e bruciante. Niente, di nuovo. L'ennesimo tentativo a vuoto. Ma perchè faceva così? Stupido ragazzino viziato ed egoista.
Chiusi la comunicazione e scattai in piedi così velocemente che per poco non persi l'equilibrio. Era il momento di fare qualcosa. Presi la giacca e le chiavi della macchina e uscii dal cottage. Camminando a passo di marcia raggiunsi la casa dei nonni. Mi infilai nel garage facendo meno rumore possibile e montai sulla mia Mercedes. Non avevo alcuna possibilità di passare inosservata, anche il mio respiro e il mio passo leggero erano perfettamente udibili, ma speravo che i miei familiari mi lasciassero in pace. Per fortuna riuscii a sgusciare via prima che un paio di occhi color ambra spuntasse da qualche parte, sentendomi una specie di fuggitiva, come quella volta che io ed Alex avevamo saltato la scuola insieme.
Per un po' lottai con me stessa, cercando di soffocare i ricordi di quella giornata così bella e così lontana che affioravano in superficie. Ricordare faceva male, ma era uno strano tipo di dolore. Era quasi piacevole. In fondo, niente che fosse legato ad Alex e alla nostra storia avrebbe mai potuto causarmi una vera sofferenza, mai. La spiaggia di La Push, il profumo dell'oceano, il suono della sua risata, i suoi capelli scompigliati dal vento, l'intensità del suo sguardo su di me, il nostro primo bacio... il mio primo bacio... Deglutii più volte, con decisione, per ricacciare indietro le lacrime e premetti sull'acceleratore, senza esagerare, ma volevo arrivare presto e farla finita. Volevo che Alex mi guardasse in faccia e mi dicesse che non poteva più stare con me, così mi sarei messa l'anima in pace. Mi sarei rassegnata. Lui sarebbe stato finalmente al sicuro, e io... io?
Ero arrivata. Frenai di botto e parcheggiai alla meglio sul ciglio della strada, gettando di continuo occhiate ansiose alla villetta bianca. Saltai giù e ricordai appena in tempo di chiudere la macchina. Il cancello era chiuso. Andai al citofono con passo deciso e suonai. Una volta. Due volte. Tre volte. Niente, nessuna risposta. Digrignai i denti e quasi pestai i piedi, furibonda. Ma che razza di idiota! Pensava forse che quel silenzio ostinato fosse la soluzione, davvero? Be', io no.
Mi guardai intorno: la strada era deserta, neanche un'auto di passaggio o l'ombra di un vicino di casa. Fu un attimo: mi attaccai saldamente alle sbarre del cancello, eleganti ghirigori di ferro battuto che potevo attribuire con certezza al buon gusto della zia di Alex, e scavalcai senza difficoltà. A mali estremi, estremi rimedi, pensai mentre atterravo sul viale, dall'altra parte del cancello, silenziosa come un gatto. Notai subito che l'Audi nera di Alex non era parcheggiata davanti alla casa, ma forse era in garage. Era come se avessi inserito il pilota automatico e senza esitare raggiunsi la porta e bussai con forza.
«Alex!», sbottai, esasperata. «Alex, maledizione, apri! Devo parlarti! Non puoi fare così, non puoi chiudermi fuori dalla tua vita da un giorno all'altro come se tra noi non ci fosse stato niente, non è giusto! Apri questa dannata porta e dimmi che non vuoi più vedermi, ma almeno guardami in faccia mentre lo fai!».
Dovetti interrompere la mia tirata per prendere fiato e attesi, certa di vedere la porta aprirsi da un momento all'altro e di incontrare i suoi occhi azzurro scuro, carichi di rabbia, sconcerto o indignazione. Non accadde nulla. Dall'interno non proveniva alcun rumore, come se la casa fosse vuota.
«Alex?», chiamai ancora una volta, in tono dubbioso.
Augurandomi di non spaventare nessuno nel caso fossi stata vista aggirarmi in giardino con aria furtiva, feci lentamente il giro della casa e andai sul retro. Le porte-finestre del salotto erano chiuse, le tende tirate; anche la finestra della stanza di Alex e quella della stanza di Phoebe, che affacciavano sul retro, sembravano chiuse. Forse davvero non c'era nessuno. Sapevo che Julie e Phoebe erano a Vancouver, ma Alex? Dove accidenti era finito?
A testa china, divorata dall'ansia e immersa in cupe riflessioni, riattraversai il giardino, scavalcai il cancello e tornai alla macchina. Per tutto il tragitto guidai automaticamente, senza fare caso alla strada che conoscevo a memoria. Ero troppo distratta e preoccupata. Forse era il caso di parlare con qualcuno. Dovevo chiamare Julie e avvertirla che Alex non era venuto a scuola e sembrava introvabile? Sapevo che si sarebbe preoccupata a morte, visto il passato turbolento di Alex, ma forse lei sarebbe riuscita a rintracciarlo e almeno mi sarei tranquillizzata un po'. Però... lui se la sarebbe presa da morire se avessi fatto una cosa del genere e già mi odiava abbastanza. Avere il fiato di Julie sul collo lo faceva impazzire.
Chissà se i miei erano già tornati dalla caccia. Prima di fare qualunque cosa, volevo parlarne con loro.
Quando arrivai a casa stava facendo buio. L'intera giornata era trascorsa quasi senza che me ne accorgessi. Parcheggiai la Mercedes in garage in tutta fretta, entrai in casa e salii di sopra a rotta di collo. Emmett e Jasper erano seduti davanti alla tv, impegnati a seguire una partita di baseball. In cucina, Carlisle, Esme e Rosalie chiacchieravano con voci allegre, ma quando entrai mi guardarono in viso e smisero subito.
«Ciao», salutai frettolosamente, il fiato corto e il viso accaldato. «Mamma e papà sono qui?».
«No, tesoro», rispose Carlisle, affabile. «Ho appena parlato con tuo padre al cellulare, stanno rientrando ma ci vorrà un po' prima che arrivino. Oggi si sono spinti più lontano del solito».
«Ah», mormorai, abbassando lo sguardo.
Accidenti. Niente andava per il verso giusto, quel giorno. La delusione mi si leggeva in faccia, probabilmente, perchè zia Rosalie intervenne con tono preoccupato.
«Se vuoi parlargli possiamo richiamarlo».
Scossi il capo, senza guardarla. Non volevo che notasse i miei occhi umidi. Avrei voluto allontanarmi, ma stranamente non ci riuscivo; era come se qualcosa mi paralizzasse, bloccandomi lì dove mi trovavo. Emmett e Jasper avevano abbassato il volume della tv e ci stavano fissando.
«Va tutto bene, Renesmee?», indagò il nonno. La sua voce era gentile e affettuosa, ma invece di consolarmi sembrò accentuare il nodo che mi chiudeva la gola e quasi mi soffocava. «È successo qualcosa?».
Presi fiato per parlare. «No», sussurrai, e un attimo dopo scoppiai in lacrime.
Incapace di trattenermi o frenare il pianto, mi coprii il viso in fiamme con le mani e corsi di sopra, rifugiandomi nella vecchia stanza di papà e chiudendomi la porta alle spalle con un tonfo. Mi lasciai cadere sul letto, mi rannicchiai tra i cuscini grandi, morbidi e confortevoli, e singhiozzai disperatamente, incurante del fatto che gli altri erano al piano di sotto e stavano sentendo tutto. Avrei preferito essere al cottage, da sola, per sfogarmi in pace e in solitudine, ma quella stanza era il posto più vicino dove potermi rifugiare al momento.
Ero lì da dieci minuti circa e avevo iniziato a calmarmi un po', quando sentii bussare delicatamente. Prima che io dicessi qualcosa, la porta si era già aperta. Sapevo benissimo chi fosse senza il bisogno di guardare, così non sollevai neanche la testa. Ci fu un rumore di passi leggeri sul pavimento, un lieve ticchettio di scarpe alte ed eleganti.
«Renesmee? Tesoro, che cos'hai?», domandò zia Rose, la voce bassa e ansiosa. «Cos'è successo?».
Per un attimo rimasi ferma con il volto seppellito tra i cuscini. Poi, con un sospiro pesante, mi tirai su e mi misi a sedere, asciugandomi le guance bagnate con la mano e cercando di ricompormi. Basta piangere, pensai, decisa. Era una reazione infantile e umiliante; quando ero arrabbiata non riuscivo a trattenere le lacrime e in quel momento non avrei saputo dire se ce l'avessi più con Alex, con Jacob, con Seth e il suo dannato imprinting o con il mondo intero... o con me stessa, forse.
«Di tutto», sbottai con voce tremante, e il racconto degli ultimi eventi sgorgò tra le mie labbra veloce e inarrestabile come un fiume in piena che finalmente straripava. Cominciai dal bacio con Nahuel e finii con la casa vuota degli Hayden.
Rosalie, seduta sul letto davanti a me, mi ascoltava attentamente, un'espressione neutra e impassibile sul volto, ma ogni tanto inarcava appena le sopracciglia sottili ed io intuivo che si stava chiedendo come diavolo avesse fatto la sua nipotina timida, tranquilla e imbranata con i ragazzi a cacciarsi in un simile guaio. Giunta al termine della storia, ero senza fiato per l'agitazione.
«E così Alex è praticamente scomparso! Non lo vedo e non lo sento da due giorni e non voglio che faccia qualche sciocchezza! Lui... non riesce a ragionare quando è arrabbiato, perde il controllo... ho paura», esclamai di getto, affannata.
Lei mi fissò in silenzio ancora per un attimo, poi mi afferrò le mani e le strinse; la sua presa salda e fredda ebbe l'impensabile effetto di schiarirmi un po' la mente. Quando parlò, lo fece con calma e padronanza di sè.
«Capisco che tu sia preoccupata, ma era prevedibile che reagisse così, non trovi? Gli hai detto di aver baciato un altro ragazzo e di pensare a lui: cosa ti aspettavi che facesse?».
«Io... non lo so! Voglio dire, sapevo che se la sarebbe presa ed era quello che volevo, ma non immaginavo che facesse questo. Vorrei soltanto sapere se sta bene, nient'altro», mormorai, angosciata, chiudendo gli occhi per un secondo.
«Ma tu davvero pensi ancora a Nahuel?», domandò la zia all'improvviso.
Sorpresa, scossi la testa. «No. Non nel senso che ho fatto credere ad Alex. Ammetto che lui mi aveva colpita e che desideravo conoscerlo meglio, ma credo sia accaduto per lo stesso motivo per cui anche Nahuel è rimasto colpito da me e ha provato a... insomma, ha fatto quello che ha fatto», conclusi, imbarazzata, abbassando lo sguardo.
«Perchè voi due siete simili», rispose Rose dolcemente.
Dentro di me, sorrisi. Aveva capito.
«Esatto. Noi... ci siamo riconosciuti per caso nel mezzo della folla ed è stato incredibile... Penso che ci saremmo riconosciuti ovunque.
È stato bello parlare con qualcuno che capisse certe cose, che capisse la sensazione di trovarsi sempre a metà strada tra le due estremità di una linea e non avvicinarsi mai davvero a nessuna delle due». Ripensare alle nostre chiacchierate mi fece affiorare un piccolo sorriso spontaneo sul volto congestionato. «Ma non c'è stato nient'altro. Quello che ho detto ad Alex era una bugia. Ho dovuto mentirgli».
«Perchè? Forse perchè lui voleva... andare troppo in fretta?».
«No, non è per questo». Scossi la testa con vigore, cercando di mettere in ordine le idee e parlare con chiarezza. Avvertivo una tale confusione dentro di me che dubitavo di riuscire a spiegarmi. «Ormai sono settimane che mi chiedo se non dovrei lasciarlo o trovare il modo di allontanarlo per il suo bene. Poi, l'altra sera, è stato come se le cose facessero all'improvviso un balzo in avanti». Abbassai lo sguardo sul copriletto per non doverla fissare; quel discorso era un po' imbarazzante, ma cercai di scacciare quella sensazione infantile. «Quando lui ha provato a... fare l'amore con me, ha detto di amarmi ed io... mi sono resa conto che sarebbe stato incredibilmente semplice dirgli di sì e andare fino in fondo». Tacqui per un attimo, serrando le labbra, riflettendo. «Io volevo farlo. O almeno credo. Quello che provo per Alex... non so se sia amore, non lo so, ma so che in quel momento stavo bene, lì con lui».
«Allora perchè ti sei fermata?». Zia Rose non mi staccava gli occhi penetranti di dosso nè batteva ciglio.
«È successo tutto molto in fretta», proseguii, piano, lo sguardo sempre basso. «Ho avuto paura. Mi serviva un po' di tempo per pensare prima di... Così l'ho fermato. Poi Alex ha detto di amarmi e io ho capito che era sincero. Diceva sul serio. Facevamo sul serio tutti e due. E ho capito anche che non potevamo continuare». La voce mi si ruppe all'improvviso e mi morsi il labbro, prendendomi una pausa per recuperare il controllo. «Non posso permettergli di amarmi. Non posso lasciare che la nostra storia diventi così importante o non riuscirò più ad allontanarlo, capisci? Più andiamo avanti, più tempo passiamo insieme, più diventa difficile. E lasciarlo andare è l'unica cosa che posso fare per proteggerlo dai pericoli del mio mondo. Forse... forse ho sbagliato tutto fin dall'inizio. Non avrei mai dovuto permettere che si avvicinasse tanto a me, che si innamorasse di me. Una storia con un umano... ma che cosa credevo?». Abbassai le palpebre sugli occhi nuovamente gonfi di lacrime e le sentii scivolare lungo le guance. Faceva male, accidenti, un male dannato. Ora sapevo cosa significasse avere il cuore spezzato. «Di ripetere la storia dei miei genitori? Il loro sarà anche stato un grande amore, ma mia madre è morta ed è diventata un vampiro... Una cosa simile non dovrebbe mai accadere. Non esiste nessun amore che valga tante sofferenze. Alex è vivo e sta bene e niente, niente conta più di questo. Forse oggi sta male, ma domani mi avrà dimenticata e sarà andato avanti. E avrà un futuro, quello che non esiste per noi due. Non sa neanche che cosa sono veramente, non ho fatto altro che raccontargli bugie da quando ci conosciamo.
Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che lui si renda conto che in me c'è qualcosa che non va, che un giorno non invecchierò più, tanto per cominciare? Quanto può durare questa farsa? Prima o poi dovremo separarci comunque e se aspetto che il nostro legame diventi sempre più forte sarà soltanto peggio, soffrirà molto più di quanto possa soffrire adesso.
È per questo che devo lasciarlo andare, zia Rose». Non riuscivo più a parlare. Scossi il capo quasi senza accorgermene, come se avessi desiderato allontanare così quei pensieri, e mi coprii il viso con una mano, sforzandomi di frenare il pianto. Era dura pronunciare quelle parole a voce alta e sentire quanto fossero vere. «Se tengo davvero a lui, devo lasciarlo andare prima che sia tardi», sussurrai con voce rotta.
Mi sentivo soffocare e non riuscii a pronunciare un'altra parola. Rosalie tese le braccia ed io mi strinsi a lei, disperatamente triste e al tempo stesso grata di averla con me in quel momento.



****



Fui svegliata da un brontolio basso e insistente, qualcosa che sentivo muoversi a intervalli regolari sul letto, accanto a me. Ancora ad occhi chiusi, mi ci volle qualche secondo per rendermi conto che era giorno e che dovevo essermi addormentata lì, nella vecchia stanza di papà, avvolta nella coperta color oro intenso. Avevo un gran mal di testa e un dolore sordo allo stomaco che non riceveva cibo dal giorno precedente.
Il brontolio continuava. Cos'era? Ah, sì, il cellulare, nella tasca dei jeans. Probabilmente i miei genitori sapevano che mi ero addormentata lì, quindi doveva essere Jacob che si chiedeva dove fossi finita. Senza grande entusiasmo, mi girai sulla schiena mentre tiravo fuori il cellulare e risposi senza neanche guardare il display.
«Pronto?».
«Renesmee, sono io».
Mi catapultai letteralmente giù dal letto, ad una velocità tale che mi girò la testa. Per un attimo pensai che fosse un sogno.
«Alex», sussurrai, incredula.
«
È presto, lo so. Ti ho svegliata?», aggiunse. Sembrava calmo, controllato e freddo. Non gelido come l'ultima volta che ci eravamo parlati, ma ancora freddo e distante.
«N-no», balbettai, cercando di schiarirmi le idee. Sembrava proprio che fosse tutto vero. «Non ha importanza. Dove sei? Stai bene? Sono due giorni che ti cerco».
Dall'altra parte ci fu silenzio per un istante. «Lo so. Ho visto le tue telefonate. Scusa se non ho risposto, io... avevo bisogno di pensare. E poi... si è scaricato il cellulare, credevo di aver lasciato il carica batteria a casa e invece era nel cruscotto della macchina».
Dovetti concentrarmi per cogliere il senso delle sue parole. Il mal di testa non smetteva di pulsare.
«Si può sapere dove eri finito?», sibilai, senza riuscire ad avere un tono meno arrabbiato.
«A James Bay, vicino Victoria».
Per poco non mi cadde il cellulare di mano. «Victoria? In Canada?». Per un attimo pensai che scherzasse, come al solito. «Ma... Cosa... Come... Perchè? Cosa sei andato a fare in Canada?».
«Non è il caso di parlarne adesso», rispose in tono secco. «Sono al volante, sto tornando a Forks. Potremmo vederci domani a scuola. Ti va?».
«A scuola? Perchè, ci vieni?».
«Sì, verrò».
Stavo per chiedergli come pensasse di riuscirci dal momento che stava tornando dal Canada e che ci avrebbe messo quasi tutta la giornata, poi mi tornò in mente la sua guida da pazzo e cambiai idea.
«D'accordo».
«Dopo pranzo? Nel laboratorio di chimica?».
«Okay», risposi con un sospiro. Voleva parlarmi, voleva parlarmi davvero. Una parte di me era sollevata, l'altra spaventata a morte. Quale era il suo umore? Cosa stava pensando? Non era sereno, ma non sembrava più arrabbiato come giovedì sera. «Allora...», aggiunsi, senza sapere esattamente cosa stessi per dire, ma Alex mi risparmiò la fatica di pensarci.
«Ciao, Renesmee», mi salutò sempre con quel tono sostenuto, e chiuse la telefonata senza aspettare che gli rispondessi.







Note.
1. Link.


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Capitolo 11
*** Stay ***


C 11
Capitolo 11
Stay

Alright, everything is alright
Since you came along
And before you
I had nowhere to run to
Nothing to hold on to
I came so close to giving it up
And I wonder if you know
How it feels to let you go
You say goodbye in the pouring rain
And I break down as you walk away
Stay, stay
'Cause all my life I felt this way
But I could never find the words to say
Stay, stay.
Stay, Hurts¹




La verità, come la luce, acceca. La menzogna invece è un bel crepuscolo, che mette in risalto tutti gli oggetti.
Albert Camus, La caduta



La prospettiva di parlare con Alex mi faceva sentire come se avessi dovuto sostenere un esame. Mi chiedevo se ce l'avrei fatta. Se sarei riuscita a guardarlo dritto negli occhi, ripetere le atroci bugie che gli avevo detto quella sera e ad aggiungere dell'altro, qualcosa di peggiore. Sapevo di doverlo fare, ma questa consapevolezza non rendeva le cose più facili.
Quando suonò la campanella del pranzo raggiunsi la mensa insieme alle mie amiche, ma arrivata davanti alla porta non provai il minimo desiderio di entrare e pranzare come ogni giorno; mi si era chiuso lo stomaco per il nervosismo e non mi andava di stare in mezzo alla folla e al chiasso. Avevo bisogno di un po' di calma e di silenzio per pensare. Le ragazze sapevano che dovevo parlare con Alex e non fecero commenti quando le informai che avrei saltato il pranzo, ma mentre mi allontanavo colsi uno strano scambio di sguardi tra Holly e Jas; n
on avevo confidato a nessuna di loro di ciò che stava accadendo tra noi, perchè prima di rispondere alle loro domande e assistere al loro dispiacere volevo chiudere definitivamente con Alex... Meglio affrontare una cosa alla volta.
Il laboratorio di chimica, dove io ed Alex avevamo deciso di incontrarci, era un'ampia aula rettangolare con una fila di finestre che correva lungo un'intera parete inondando la stanza di luce. Con passo pesante, la mente annebbiata da pensieri, dubbi e paure, spalancai la porta e mi accorsi che l'aula non era vuota.
Seduto su uno dei bassi armadietti che rivestivano la parete sotto le finestre, le spalle appoggiate al vetro dietro di lui, una sigaretta accesa in mano, c'era Alex.
Quasi sobbalzai per la sorpresa, mentre lui mi fissava con aria inespressiva.
«Ehi», balbettai. Lasciai la presa sulla porta, che si chiuse con un tonfo. «Sei già qui? Credevo... Dovevamo vederci più tardi, dopo pranzo».
Continuava ad osservarmi senza battere ciglio. Poi si portò la sigaretta alle labbra e abbassò gli occhi.
«Lo so, ma non ho fame», rispose semplicemente, in tono piatto.
Fantastico. Non ero la sola ad avere i nervi a fior di pelle. «Siamo in tue, allora», mormorai. Forse Alex non sentì. «Non dovresti fumare qui dentro», aggiunsi, a volume normale. «Se ti scoprono...».
«Ho aperto la finestra», disse con tono brusco. Allungò il braccio e picchiettò con un dito la sigaretta sottile per far cadere la cenere fuori. Lo avevo osservato così tante volte mentre compiva qui gesti, sempre eleganti e controllati, che avrei potuto chiudere gli occhi e continuare a vederlo davanti a me. All'improvviso accennò l'ombra di un sorriso. «Okay, Miss Perfettina... la spengo», disse, con l'aria di chi sta facendo un grosso favore a qualcuno. E lo fece davvero: spense accuratamente la sigaretta sul davanzale esterno della finestra, poi saltò giù dall'armadietto e andò a gettare il mozzicone nel cestino, in un angolo della stanza. «Ecco fatto. Parliamo».
Il brusco cambio di argomento mi lasciò sconcertata per un attimo. Mi guardò in silenzio e capii che dovevo essere io ad iniziare. Facile a dirsi. Feci un profondo respiro e poggiai la borsa su un banco lì accanto.
«Allora...».
«Allora...», mi fece eco lui quasi nello stesso istante.
I nostri sguardi si incrociarono, esitanti. Ero ancora piuttosto tesa, ma più tranquilla e padrona di me rispetto a quando ero entrata nel laboratorio; quasi ero impaziente che si arrivasse al dunque, per liberarmi di quel peso e superare il momento.
«Com'era James Bay?», buttai lì, tanto per dire qualcosa.
Alex inarcò un sopracciglio, ma non commentò la mia strana domanda. Ci pensò su. «Piccola. Tranquilla. Veramente non ne ho visto un granchè. Ho preso una camera in un motel e sono stato lì quasi tutto il tempo».
«Ma... come sei arrivato fin lì?».
«Ho guidato fino a Port Angeles, lì ho preso un traghetto, portandomi dietro la macchina, sono arrivato a Victoria e...».
«No, non intendevo questo. Voglio dire, perchè l'hai fatto?», esclamai con forza. «Perchè sei sparito così all'improvviso, senza avvisare nessuno? Hai idea di cosa ho passato...». Mi fermai appena in tempo e mi morsi il labbro. Non volevo esagerare e riportargli alla mente brutti ricordi o accusarlo di chissà cosa. Lui sollevò la testa di scatto, un istintivo gesto di sfida, ma non parlò. «Stavo per chiamare Julie», aggiunsi, bruscamente.
«Ah, questo sì che sarebbe stato grandioso», rispose in tono scocciato, alzando gli occhi al cielo.
«Mi sono spaventata a morte, Alex», ribattei, fregandomene, questa volta, che potesse restare turbato dagli accenni al suo passato turbolento. Forse il suo problema era proprio non riuscire a comprendere il male che faceva agli altri, non solo a se stesso.
«Rilassati, adesso lo sa. Si è accorta che non ero a casa e ho dovuto dirle che ero andato via per un paio di giorni».
«Come l'ha presa?».
Alex alzò le spalle. «Non bene. Ma non fa niente, me l'aspettavo. Le ho spiegato che avevo bisogno di staccare un po'».
La voce sommessa con cui pronunciò le ultime parole suonò alle mie orecchie come un rimprovero. «Mi dispiace tanto, Alex. Non volevo che succedesse questo...».
Non sapevo esattamente cosa stessi farfugliando, ma lui mi interruppe. «No, aspetta». Alzò le mani come per fermarmi ed io lo guardai, titubante; aveva un'espressione seria che mi spinse a chiudere la bocca. «Ero arrabbiato. Ero furioso, così tanto che l'unica cosa che ho potuto fare per calmarmi, appena sei scesa dalla macchina, è stata andarmene, allontanarmi il più possibile da te. Ho guidato fino a Port Angeles e poi ho continuato ad andare, senza neanche sapere esattamente dove fossi diretto, perchè avevo il terrore di cosa poteva succedere se fossi tornato indietro. Credevo di averti perso».
Fece una breve pausa, ma io non fiatai. Rimasi a fissarlo, zitta e immobile, ipnotizzata dalle sue parole.
«Ce l'avevo con te, sì, ma anche con me stesso. Ho pensato di aver rovinato tutto. Poi... la rabbia è sbollita e mi sono reso conto... che le cose erano rimaste uguali, per me, esattamente le stesse di prima». Espirò profondamente, di colpo, come se stesse lasciando andare qualcosa che aveva trattenuto troppo a lungo dentro di sè, e fece un passo avanti. «Quello che ti ho detto l'altra sera era vero e non è cambiato. Io ti amo», disse, la voce salda e forte. «Ti amo e non me ne frega niente di cosa è successo quest'estate. Voglio dimenticarlo. Andiamo avanti».
Per un pezzo rimasi senza parole, lì impalata, a fissare la determinazione nel suo sguardo e a chiedermi dove accidenti avessi sbagliato. Lui avrebbe dovuto odiarmi e invece mi ripeteva quanto mi amasse. Una parte di me era commossa e avrebbe desiderato accogliere e ricambiare quel sentimento con tutto il cuore, ma allo stesso tempo sentivo dilagare nello stomaco un incredulo terrore.
«N-no, Alex», balbettai, scuotendo la testa. «No».
«Che significa no?», mi incalzò, senza mostrare un briciolo di incertezza. All'esterno appariva calmo, ma i suoi occhi erano fiammeggianti.
«Io... io ho baciato un altro ragazzo...».
«Ti ho detto che non mi importa! Sai quante ragazze ho baciato io? No, aspetta, non so dirtelo con precisione. Non ricordo buona parte delle cose che ho fatto negli ultimi due anni, ero quasi sempre completamente sbronzo. Non fa niente, è stato solo un bacio, un momento di debolezza».
«Non è stato un momento di debolezza, è successo perchè lo volevo. Insomma, voglio dire... Non è come pensi... Oh, accidenti!», sbottai, esasperata, disperata. Mi stavo letteralmente arrampicando sugli specchi ed Alex mi guardava con espressione stupita. Okay, forse era meglio smettere di pensare e provare ad improvvisare. «Quel ragazzo... mi piaceva davvero, Alex. Quello che è successo con lui mi ha fatto capire che abbiamo corso troppo, io e te», ripresi, con più calma, seguendo l'ispirazione del momento.
Coraggio, Renesmee. Ce la puoi fare.
«Ho capito che per quanto la nostra storia fosse bellissima... non è una cosa seria. Non è così importante come pensavo. E poi, dopo che l'altra sera hai detto di amarmi... mi sono resa conto che è meglio chiudere prima di farci del male. Mi dispiace, ma non me la sento più di andare avanti. Vuoi qualcosa che non posso darti», conclusi con un filo di voce. In quel momento mi detestavo con tutta me stessa, ma mi costrinsi a tenere duro, a non abbassare lo sguardo e a non mostrare segni di cedimento. Dovevo farlo per lui. Per lui
«Forse è stata colpa mia», mormorò Alex, pallido in volto. «Non è vero? Stai reagendo così perchè sono andato troppo in fretta». Dopo un attimo di confusione, capii di cosa parlava e mi sentii arrossire. Colta di sorpresa, non riuscii a ribattere subito e lui proseguì. «Senti, Renesmee, l'ultima cosa che volevo era farti pressioni, te lo giuro. Mi sono lasciato andare e non ho riflettuto... Non ho pensato che forse tu non eri pronta, che prima avremmo dovuto parlarne. Ho sbagliato, okay, ma possiamo rallentare. So che tu non hai mai...».
Lasciò la frase in sospeso. Non avevamo mai affrontato l'argomento, tra noi, ma non era difficile intuirlo. Gli lanciai un'occhiata fugace.
«Tu invece sì?», domandai in un sussurro. Sospettavo di conoscere già la risposta, ma volevo esserne certa. «Con Madison?».
Alex mi guardò in silenzio per un lungo attimo, poi annuì. «Sì. Con Madison».
Forse in un altro momento quella conferma avrebbe scatenato gelosia, timori e chissà quante emozioni, ma per lì per lì, con altri pensieri ben più gravi per la testa, la accolsi con assoluta calma e compostezza. In fondo era la risposta che mi aspettavo. Mi dissi che era il caso di cogliere la palla al balzo e sfruttare l'occasione.
«Forse... forse c'entra un po' anche questo», aggiunsi, esitante. «Non potevo dirti di sì, l'altra sera, perchè non ero sicura che fosse la cosa giusta. E non ero sicura che lo fosse perchè non sono sicura di provare per te un sentimento abbastanza forte da fare... un passo così importante». Tenevo gli occhi ben fissi a terra e parlavo lentamente, cercando di apparire serena e sincera. Sapevo di non essere brava nel raccontare bugie, ma ce la stavo mettendo tutta. «Io ti voglio bene, Alex, te ne voglio un sacco. Sei molto importante nella mia vita, ma... il bene non è amore. E credo che dovresti pensarci anche tu prima di dire o fare qualcosa di cui potresti pentirti».
«Che razza di cretinate!», sbottò per tutta risposta. «So benissimo quello che dico e te lo ripeterò». Mi raggiunse con due passi veloci e mi afferrò le spalle con forza, quasi scrollandomi, obbligandomi a guardarlo in viso. «Io ti amo», scandì. «Ti amo, ti amo, ti amo e voglio che resti con me».
«Ma io no, io no!», esclamai, alzando la voce e divincolandomi per sfuggire alla sua presa. Avevo gli occhi umidi e la gola gonfia e trattenevo a stento le lacrime. Non avevo immaginato che sarebbe stato così difficile. «Io non voglio più stare con te!».
Lui non si mosse di un millimetro e continuò a fissarmi, intrappolandomi con l'intensità del suo sguardo. «Non vuoi più stare con me perchè hai baciato un tizio quest'estate?», domandò, con calma forzata. Sembrava che ai suoi occhi la situazione apparisse assurda e non potevo certo dargli torto, ma era l'unica possibilità alla quale aggrapparmi.
«Te l'ho spiegato il perchè!».
Per un lunghissimo istante non parlò. Quando aprì bocca, sussultai.
«Non ti credo».
«Che cosa?».
«Te lo leggo in faccia che non è così. Se vuoi lasciarmi va bene, ma almeno non prendermi in giro», disse a denti stretti, la voca carica di rabbia.
«Pensa quello che ti pare», sussurrai. Ero stanca, che credesse pure ciò che preferiva. Mi voltai per andarmene, ma Alex mi afferrò per un braccio, trattenendomi, e dovetti girarmi di nuovo.
«È per lui, vero?», disse, aggressivo, una smorfia sul volto.
Lo fissai senza capire. «Lui chi?».
«Il tuo amico. Jacob Black», rispose, come se pronunciare quel nome gli desse il voltastomaco.
Jacob? Jacob? Investita dallo shock, lo fissai in silenzio, a bocca aperta, per un'eternità, e forse ad Alex quella reazione parve una conferma; il suo viso si pietrificò.
«Ho visto come lo guardi, ho visto come ti guarda. Se c'è qualcuno a cui pensi è lui».
Scossi la testa automaticamente. Che stava dicendo? Avevo capito che provava gelosia per il mio migliore amico, ma addirittura pensare che lo stessi lasciando per fidanzarmi con Jacob... ? Era...
«... ridicolo», farfugliai. «
È semplicemente ridicolo. Jacob è il mio migliore amico!».
La smorfia sul volto di Alex si deformò in un sorriso amaro. «Dovresti vederti adesso, Renesmee. Vedere quello che vedo io. Ti conosco e lo so quando dici una bugia».
«E invece ti stai sbagliando», ribattei, decisa. «Jacob non c'entra niente, niente, con me e te», aggiunsi, ed era la pura verità. A volte i miei sentimenti per Jake mi confondevano, sì, ma avevo ancora ben chiaro chi fosse: il ragazzo che mi aveva vista nascere, il ragazzo con il quale ero cresciuta. Era il mio migliore amico. L'idea che potesse esserci qualcosa di più tra noi era folle. «Ci siamo soltanto noi due e quello che proviamo l'una per l'altro. Tu dici di amarmi e non ti rendi conto che questo è un motivo in più per farla finita adesso. Non voglio farti soffrire», conclusi, la voce tremante. Ecco le uniche due verità uscite dalle mie labbra quel giorno.
Alex mi strinse di nuovo e mi avvicinò di più a sè, al punto che sentii il suo fiato caldo sul viso. «Allora non lasciarmi!», esclamò e la forza che traboccò dalle sue parole fu impressionante. Tutto il suo corpo sembrava sprigionare un'energia disperata che mi investiva a ondate. Cercai ancora di liberarmi, ma lui mi teneva ben stretta come se avesse paura che  volassi via da un momento all'altro. «Resta con me! Tu non hai idea di come hai cambiato la mia vita. Quando ho lasciato New York, la mia casa, i miei amici, la mia famiglia, non ero più il pazzo furioso che fumava erba fino a non ricordare più neanche il proprio nome o... distruggeva la macchina di sua zia, ma non ero felice. Non ero felice. Sentivo sempre che mi mancava qualcosa, di aver perso qualcosa e credevo che non l'avrei mai più ritrovata, qualunque cosa fosse.
Poi ti ho conosciuta ed è stato come se tu mi restituissi tutto quello che avevo perso. Ho ricominciato a sognare, a desiderare, a sorridere davvero, non per finta... A svegliarmi la mattina pensando che la mia vita avesse un senso. Stavo bene», disse con semplicità disarmante. Sentii una fitta al cuore e distolsi gli occhi dai suoi, sbattendo le palpebre, per non cedere. Supplicando me stessa di non cedere. «Tutto questo sparirà se te ne vai», continuò, a voce bassissima, intensa. «Resta. Per favore, resta con me».
Era insopportabile. Atroce. Bruciavo dal desiderio di abbracciarlo, rassicurarlo, dirgli solo la verità... che avrei tanto voluto restare con lui e che abbandonarmi ai nostri sentimenti sarebbe stato infinitamente facile. Dirgli che sapevo benissimo cosa aveva passato perchè gli ero stata accanto ogni giorno per sette mesi. E proprio perchè lo sapevo, avevo il dovere di proteggerlo e tirarlo fuori dal tunnel senza uscita che era la nostra storia.
«Non posso», bisbigliai con un filo di voce, scuotendo il capo. Mi sottrassi alle sue mani, che finalmente mi lasciarono andare, inerti e abbandonate come prive di vita. «Non posso, mi dispiace. Lasciami stare».
Afferrai la borsa alla cieca e corsi fuori prima che potesse fermarmi ancora.







Note.
1. Link.








Spazio autrice.
Salve! Eccomi qui, puntualissima (più o meno), a rompervi le scatole! Allora, sul capitolo non farò commenti, aspetto che siate voi a dire la vostra... Sono molto curiosa di scoprire cosa ne pensate ;-). Vorrei ringraziare le persone che seguono la storia e in particolare chi mi recensisce :-) non ho avuto il tempo di rispondere per bene alle recensioni, ma le leggo sempre con il massimo interesse e nei prossimi giorni risponderò a tutti i commenti.
Infine, un avviso di carattere pratico. Il mese di giugno sarà piuttosto impegnativo perchè dovrei dare tre esami all'università, dei quali due un po' difficili, quindi dubito fortemente che riuscirò ad aggiornare mercoledì 11 giugno, secondo il programma. Nel caso in cui l'11 salti, aggiornerò il mercoledì successivo, il 18. Può anche darsi che l'11 riesca ad aggiornare senza problemi e che magari sia la data successiva a slittare, tutto dipende dalle date degli esami. Mi spiace non poter essere precisa come vorrei, ma lo studio ha la precedenza, purtroppo. Comunque sia, mercoledì 11 giugno fate un salto su Efp e date un'occhiata a Black moon, magari troverete il prossimo capitolo ;-). Se non lo trovate, l'aggiornamento è rimandato al 18. Se invece lo trovate... allora ci vediamo al prossimo Spazio autrice per le nuove informazioni sull'aggiornamento.
Scusate ancora, cercherò di essere il più precisa possibile e di rispettare la scadenza di due settimane o al massimo tre. Grazie mille, un bacio e alla prossima!

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Capitolo 12
*** Echo ***


C 12
Capitolo 12
Echo




I'm out on the edge and I'm screaming my name

Like a fool at the top of my lugs
Sometimes when I close my eyes I pretend I'm
Alright
But it's never enough
Cause my echo, echo
Is the only voice coming back
My shadow, shadow
Is the only friend that I have
I don't wanna be down and
I just wanna feel alive and
Get to see your face again, once again
Just my echo, my shadow
You're my only friends.
Echo, Jason Walker¹



Che sia l'amore tutto ciò che esiste
è ciò che noi sappiamo dell'amore;
e può bastare che il suo peso sia
uguale al solco che lascia nel cuore.
Emily Dickinson



«
Signorina Cullen? Signorina Cullen!».
Con un sussulto mi resi conto che qualcuno mi stava chiamando. Sbattei le palpebre, come se mi stessi risvegliando da un sonno profondo e misi a fuoco il professor Berty che mi fissava con aria interrogativa. Ops.
«S-sì?», balbettai, presagendo un'imminente catastrofe.
«Ha sentito la domanda che le ho fatto?», proseguì Berty. Sembrava seccato. Molto seccato. E anche piuttosto stupito.
«No», ammisi, sospirando. «Mi spiace».
«In quale periodo Shakespeare ha composto Romeo e Giulietta?».
«Tra il 1594 e il 1596», risposi, senza pensarci. Grazie al cielo lo sapevo.
Lui inarcò un sopracciglio grigio e cespuglioso mentre mi fissava. 
«Ben preparata come sempre, signorina Cullen. Ma questo non la autorizza a pensare a chissà cosa durante le mie lezioni».
Sentii le guance andare a fuoco per l'umiliazione sotto gli occhi di ventiquattro persone incuriosite dal diversivo. In due anni e due mesi di scuola superiore, le occasioni in cui ero stata richiamata da un insegnante si contavano sulle dita di una mano e l'avevo sempre detestato. Abbassai lo sguardo sul banco, ingoiando il boccone amaro.
«Lo so. Mi scusi», mormorai. I fitti capelli ramati piovvero intorno al mio viso, sottraendolo alla vista degli altri.
«Bene, continuiamo», disse Berty, tagliando corto, ma in quel momento suonò la campanella. Nell'aula divampò un chiacchiericcio dapprima cauto e sommesso, poi sempre più eccitato, mentre tutti si alzavano e raccoglievano le proprie cose per scappare via. Era l'ultima ora e credo che nessuno avesse voglia di passare tra quelle mura neanche un minuto di più.
«Ehi, ehi, non così in fretta!», esclamò il professore, alzando la voce. «Non dimenticate la relazione sulle tragedie shakesperiane per lunedì. E mercoledì prossimo faremo un test per verificare le vostre conoscenze sul teatro in età elisabettiana». Dagli studenti si levò un cupo brusìo di protesta e Berty fece un sorrisino, squadrandoci al di sopra degli occhiali dalle lenti spesse. «Sì, sì, lo so che non aspettavate altro. A lunedì».
Imprecai a mezza voce mentre raccoglievo i libri e li infilavo nella borsa con gesti rapidi e nervosi. Per scrivere quella relazione ci avrei messo tutto il week end, e un test così vicino proprio non ci voleva. Ultimamente trovavo molto faticoso stare dietro a tutto, compiti in classe, interrogazioni... Avevo sentito dire che il terzo anno era più difficile, ma sapevo che il vero problema ero io. Io e la mia scarsa capacità di concentrazione in quel periodo.
«Ehi, tutto bene?», disse una voce alle mie spalle. Era Paul, che si stava alzando dal banco dietro al mio, un sorriso gentile sul volto.
Mi sforzai di ricambiare l'espressione gentile. «Sì, certo. Sai quanto me ne importa di lui e delle sue stupidaggini», risposi, indicando Berty con un cenno del capo.
Paul rise. «Sai, una cosa del genere uscita dalla tua bocca di secchiona suona molto più divertente».
Stava ancora parlando quando ci raggiunsero Holly e Jas, che erano sedute qualche banco più in là.
«Non sembra per niente che vada tutto bene», intervenne Jas. Doveva aver ascoltato la conversazione. Mi lanciò una delle sue migliori occhiate indagatrici ed io finsi di non accorgermene.
«Dai, lasciala in pace», disse Holly, scrollando i lunghissimi e lisci capelli color mogano che erano il suo orgoglio. «Come vuoi che stia dopo aver passato un'ora ad ascoltare Berty e i suoi racconti deprimenti? Ma com'è possibile che la storia di Romeo e Giulietta sia considerata romantica? Secondo me è terrificante». Guardò Paul, gli sorrise e lo baciò a timbro sulle labbra.
«Dipende dalla tua idea di romanticismo», osservai, mentre uscivamo dall'aula camminando vicini.
«Be', la mia di sicuro non comprende il suicidio», rispose lei in tono allegro. «Praticamente... è il loro amore che li uccide. Cosa c'è di più triste di questo?».
«Eh, già», mormorai, pensierosa, fissandomi la punta degli stivali. Stavo chiedendomi come spostare la conversazione su un argomento che non mi facesse sentire ancora più abbattuta di prima, quando Holly parlò ancora.
«Paul, devo restituire un libro in biblioteca, vieni con me».
Lui fece una faccia da martire che strappò una risatina a Jas. «E io che c'entro, scusa?».
«Come che c'entri? Accompagnami!».
«Perchè? Non sai arrivarci da sola?».
«Ah-ah, che divertente! Sei il mio ragazzo, non hai la possibilità di protestare». Lo afferrò per un braccio e se lo tirò dietro come se fosse stato un rimorchio. «Ciao, ragazze! A domani!».
«Com'era quella storia dell'amore che uccide?», chiese Paul in tono retorico, ma nessuno ebbe il tempo di rispondergli; un attimo dopo Holly lo aveva già trascinato oltre l'angolo del corridoio.
«A volte mi domando seriamente per quanto resisteranno quei due», mormorai, pensierosa. Lanciai un'occhiata a Jas: mi stava fissando, di nuovo, con quell'espressione che la faceva somigliare ad un poliziotto al lavoro su un caso particolarmente difficile. Sospirai. «Per favore, potresti smettere di guardarmi come se fossi una bomba a orologeria?».
Lei distolse subito lo sguardo, ma solo perchè stavamo attraversando un corridoio affollato e non voleva finire addosso a qualcuno.
«Okay, scusa», borbottò, stizzita. Rimase zitta per cinque secondi, poi non riuscì più a trattenersi e ricominciò. «Il fatto è che sono preoccupata!», esclamò, la voce carica di angoscia.
«Lo so, Jas. Ma non devi. In questo periodo... ho tante cose per la testa, tutto qui».
«Secondo me ne hai una sola, invece», ribattè, sicura del fatto suo. «Hai più parlato con Alex?».
«Ehm... No, non proprio». Lui che coglieva ogni occasione per avvicinarmi e riprendere il discorso da dove lo avevo bruscamente interrotto l'ultima volta ed io che scappavo blaterando scuse di ogni tipo non poteva certo definirsi "parlare".
«Non voglio impicciarmi», continuò Jas, mentre camminavamo piano, «so che è presto per essere allegra e spensierata, non pretendo questo da te. L'hai lasciato dieci giorni fa. Ma devo ammettere che continua a sfuggirmi il perchè tu l'abbia lasciato».
Ovvio che le sfuggisse. Ero stata molto vaga con lei e le altre. Non avrei mai potuto raccontargli che avevo lasciato Alex per salvaguardare la sua incolumità fisica ed evitargli di soffrire molto di più tra qualche anno, quando sarei stata comunque costretta a separarmi da lui.
«Anche Seth pensa che tu non l'abbia presa affatto bene», aggiunse lei dopo un attimo di silenzio, e dal suo tono capii che si era distratta e che quella frase le era sfuggita.
Mi fermai di botto e la guardai, sconvolta. «Seth? Seth Clerawater?».
Jas sembrò rendersi conto solo allora di aver parlato troppo e la sua espressione si congelò. «Sì».
Sbattei più volte le palpebre, incredula, cercando di connettere il cervello con la bocca. «Ma... Come... Vi siete visti?», boccheggiai.
«Non ci vediamo dal tuo compleanno. Ci sentiamo qualche volta, tutto qui». Jas guardava dritto davanti a sè con ostentata tranquillità, ma si era irrigidita, forse per riflesso alla mia reazione.
«Vuoi dire per telefono? Ti ha cercata lui? Perchè non me l'hai detto?».
Scrollò le spalle. «È una cosa recente, non ne ho avuto il tempo.
È una sciocchezza».
Certo, come no. Per un attimo fui tentata di dirle che il ragazzo del quale era così palesemente invaghita si trasformava in un lupo gigante e che l'attrazione verso di lui non era altro che il frutto di una specie di magia misteriosa... Giusto per vedere quale sarebbe stata la sua espressione. Ma naturalmente non potevo. L'istante di follia passò e recuperai la ragione.
«E comunque l'ho cercato io», aggiunse dopo una pausa. «Ho preso il numero sull'elenco e l'ho chiamato».
Restai a bocca aperta per la seconda volta nel giro di tre minuti. «E perchè lo avresti fatto?», chiesi, pur non essendo affatto sicura di voler ascoltare la risposta.
Jas sbuffò e accelerò un po' il passo; non vedeva l'ora di liberarsi di me e di quell'imbarazzante conversazione, ci avrei scommesso. «Non c'è un motivo in particolare. Avevo voglia di parlare con lui, punto.
È stato felice di sentirmi».
Poco, ma sicuro, pensai, acida.
«
È simpatico e divertente e ascolta sempre tutto quello che dico».
«Anche io ti ascolto!», esclamai senza alcuna logica.
«Sì, ma è diverso. Tu sei la mia migliore amica».
Non capii esattamente cosa intendesse, ma sulle mie labbra premeva una questione più urgente. «E Tom?».
Il suo sguardo si indurì. «Tom non mi ascolta davvero da un sacco di tempo, Renesmee».
«No, volevo dire... Sa che tu e Seth vi sentite per telefono?».
Prima di rispondere riflettè in silenzio per un bel po'. Pessimo segno, pensai, ansiosa. Pessimo segno. «No», disse infine. «Non... non ho avuto l'occasione di farlo».
«Dovresti dirglielo», suggerii, sforzandomi di mantenermi tranquilla. Ero consapevole che a Jas dovesse sembrare decisamente strana tutta quell'agitazione, ma non era facile controllarmi sapendo che i miei incubi peggiori stavano diventando realtà.
Subito la mia amica scattò sulla difensiva. «Tom non deve sapere per forza tutto quello che faccio.
È il mio ragazzo, non il mio carceriere», sbottò in tono arrabbiato e lanciando un'occhiata di fuoco al mio indirizzo.
«Se è una sciocchezza come sostieni perchè nascondergliela?».
Jas sbuffò sonoramente. «Non gli ho detto nulla perchè non c'è niente da dire. Io e Seth siamo amici, tutto qui.
È come con Paul o Scott».
«Però Paul o Scott non li senti di nascosto, giusto?», continuai, imperterrita.
A quel punto si fermò di scatto e mi guardò. La sua espressione ferita mi colpì come uno schiaffo. Ero stata io a provocarla? Ma se stavo soltanto cercando di impedire che si rovinasse la vita!
«Tu non hai il diritto di dirmi quello che devo o non devo fare, Renesmee», rispose, la voce improvvisamente dura e fredda.
Fu il mio turno di sentirmi ferita. Sussultai senza rendermene conto e la fissai in silenzio per un attimo, ammutolita e sbalordita.
«No, hai ragione», mormorai, piano. «Ma non posso lasciarti commettere un errore senza fare niente. Parla con Tom, ti prego. Se davvero non ha importanza, capirà e andrà tutto bene. Ma non mentirgli. Non se lo merita, e potresti perderlo».
Curioso come fossi proprio io, quella che aveva riempito il suo ragazzo di bugie, a suggerire a Jas di essere sincera. Forse proprio perchè la mia storia con Alex era naufragata volevo cercare di salvare la sua, finchè era possibile.
Jas aveva le braccia incrociate e il cipiglio altezzoso di quando era costretta a prendere parte ad una discussione che dal suo punto di vista era inutile. Fece un respiro profondo, come se avesse discusso silenziosamente con se stessa e infine avesse preso una decisione.
«No. Non glielo dico. Non voglio».
Mi sentii sconfitta. Per un secondo provai un tale senso di sconforto che desiderai abbandonarmi per terra con la testa sulle ginocchia e disperarmi in silenzio. E poi arrivò la rabbia. Perchè doveva essere tutto così difficile? Perchè?
«Fai come ti pare», sbottai, irritata.
Le voltai le spalle e mi allontanai, lasciandola lì, senza fretta, ma con passo deciso.
Perchè sembrava che Jas fosse determinata a rovinarsi l'esistenza e a complicare la mia? Era sempre stata testarda, sì, ma questa volta proprio non trovavo le parole per arrivare a lei e farle capire ciò che non potevo dire a voce alta. Eppure eravamo sempre riuscite a comunicare, noi due, in un modo o in un altro. Era come se qualcosa, nel nostro rapporto, si stesse inceppando. Forse era colpa dell'indispensabile barriera di bugie che mi proteggeva, ma allo stesso tempo mi isolava senza scampo, dal resto del mondo. La mia migliore amica percepiva quanto io e lei fossimo distanti in realtà? Sentiva che c'era qualcosa, tante cose, che non le raccontavo? Era questo che ci stava allontanando? Rischiavo di perderla? E se fosse successo anche con le altre?
Uscii nel cortile, camminando velocemente, la testa china e la mente distratta da quelle riflessioni, e di colpo mi trovai davanti un altro dei miei problemi: Alex, in piedi davanti all'ingresso dell'edificio, che mi aspettava. Quando mi vide, scattò in avanti. Ci fissammo da lontano per un attimo, immobili. Mi sfuggì un gemito tra le labbra.
«Oh, no», mugugnai sottovoce. Non era proprio la giornata adatta per affrontare anche lui.
Decisi di far finta di nulla. Ripresi a camminare e attraversai il parcheggio, diretta verso la mia Mercedes. Pregavo in silenzio che cogliesse il messaggio e mi lasciasse in pace, ma subito me lo ritrovai alle spalle, impegnato a tallonarmi con determinazione.
«Renesmee, fermati. Dobbiamo parlare», disse in tono fermo.
Ascoltare la sua voce, saperlo così vicino, a pochi passi da me, faceva male al cuore, un male tremendo. Inghiottii la fitta di dolore ed evitai di rispondere direttamente.
«Da quanto tempo eri lì ad aspettarmi? Hai saltato l'ultima ora?».
Evitò a sua volta la domanda e a quel punto non dubitai più che avesse davvero perso l'ultima lezione. Fantastico.
«Ti vuoi fermare?», esclamò, esasperato. Aveva un passo piuttosto veloce, ma faticava a starmi dietro adesso che cercavo di liberarmene. Alzò le spalle con uno sbuffo. «Okay, d'accordo, se preferisci parlaremo camminando».
«Non posso, mi dispiace».
«Be', io non me ne vado», ribattè, il tono quasi aggressivo.
«Non posso, vado di fretta. Ho un impegno».
Tenevo lo sguardo ben fisso sulla mia macchina che si avvicinava, evitando accuratamente di incrociare il suo; se avessi scorto le fiamme di rabbia che immaginavo scintillare nei suoi occhi, avrei ceduto.
«Certo, come no. Posso suggerirti almeno di cambiare scusa? Questa sta diventando ripetitiva».
«Smettila, Alex», sbottai tra i denti, stringendo forte nel pugno serrato le chiavi dell'auto. Mancavano pochi metri, pochissimi. Potevo farcela.
«Voglio soltanto parlare! Soltanto questo! Non pensi di dovermelo?».
Esitai per un istante e trattenni il fiato. Sapevo che aveva ragione, ma... Non potevo correre il rischio.
«Abbiamo già parlato, Alex».
«No, tu mi hai raccontato un bel po' di balle: questo non è parlare», disse, arrabbiato. Per fortuna eravamo arrivati alla macchina. Aprii in tutta fretta la portiera. «Solo dieci minuti!», aggiunse, e la disperazione nella sua voce mi inchiodò sul posto. Dovetti costringermi a muovere le gambe e a salire in auto.
«Mi dispiace», sussurrai, chiudendo la portiera con un tonfo che sentii risuonare in fondo al cuore. «Lascia perdere».
Misi in moto con qualche difficoltà, perchè mi tremavano le mani, e feci manovra più lentamente del solito. Guardavo dritto davanti a me e non vidi la sua faccia neanche una volta, ma un secondo prima che accelerassi per allontanarmi, mi gridò qualcosa.
«Non mi arrendo! Hai sentito, Renesmee? Non mi arrendo!».
Mentre guidavo lungo Main Street le mani non accennavano a tornare salde e stringevo il volante con più forza del necessario, temendo che mi sfuggisse tra le dita stranemente fredde e deboli. La sua voce carica di rabbia e sofferenza mi risuonava nelle orecchie. Non si sarebbe arreso... Naturalmente. Lo conoscevo bene e sapevo che non avrebbe mollato subito, senza insistere, senza lottare. Ma ormai ci eravamo lasciati da giorni e mi auguravo che di lì a poco si sarebbe stufato di corrermi dietro. La Forks High era piena di ragazze pronte a dare battaglia per il bell'Alexander Hayden. E ormai frequentava l'ultimo anno: a giugno, dopo gli esami, lo aspettavano le solite vacanze e poi il college. Probabilmente sarebbe tornato in città solo di tanto in tanto per vedere Phoebe e Julie. Io avrei fatto in modo di evitarlo il più possibile e allora sì che mi avrebbe dimenticata davvero.
Deglutii più volte per mandare giù il nodo che mi stringeva la gola. Nel tentativo di distrarmi, ripensai alla conversazione con Jas. Mi dispiaceva averle detto quelle cose e che lei se la fosse presa. Decisi che quella sera l'avrei chiamata per chiederle scusa, ma non ero pentita: l'avrei rifatto perchè credevo sinceramente che stesse commettendo un errore. Tom era un bravo ragazzo, ma non era un santo. Era già passato sopra all'avventura estiva di Jas, sopportava sempre di buon grado le sue scenate e i suoi capricci, e negli ultimi tempi era così strano e taciturno. Se la loro storia fosse finita, non soltanto Jas avrebbe perso un fidanzato fantastico, ma Seth avrebbe avuto campo libero, pensai, stizzita, cambiando le marce con gesti bruschi. E questo non doveva succedere. A costo di rapire Jas e tenerla chiusa da qualche parte, non avrei permesso che Seth si inserisse nella sua vita, la trascinasse in un mondo pieno di pericoli, le raccontasse tutto di me e mi privasse per sempre della mia migliore amica.
Alex, ormai, lo avevo perso... Dovevo perderlo, perchè fosse al sicuro, perchè vivesse un'esistenza tranquilla e normale con una ragazza adatta a lui. Una ragazza umana, tanto per cominciare. Non potevo perdere anche Jas o sarei impazzita. Dovevo restare al suo fianco e arginare il pericolo, che al momento si presentava sotto le spoglie delle telefonate di Seth.
Chissà da quanto andava avanti questa faccenda? Sicuramente Jacob sapeva tutto e pensai che forse me ne avrebbe parlato quel pomeriggio. Non avevo mentito dicendo ad Alex che ero impegnata: avevamo un appuntamento a casa sua; era stato lui a chiedermi di vederci, perchè ultimamente passavamo poco tempo insieme e perchè doveva parlarmi di qualcosa. Forse si trattava proprio delle telefonate tra Seth e Jas.
Prima di andare da Jake, feci un salto a casa. Un bigliettino di papà attaccato al frigorifero mi informava che lui e la mamma erano insieme ai nonni e agli zii. Dopo una rapida doccia, mi rivestii, mandai giù una tazza di delizioso sangue di cervo e mezz'ora più tardi ero pronta per uscire di nuovo e raggiungere la riserva.
Avevo appena imboccato La Push Road quando la vidi. Una macchina ferma sul ciglio della strada. La riconobbi all'istante e mi sentii investire da un'ondata di orrore. Con una brusca sterzata accostai anch'io, togliendomi dalla strada, scesi con tale rapidità che quasi inciampai nei miei stessi piedi e mi precipitai a passo di marcia verso l'Audi Coupè di un nero scintillante. Alex aveva il finestrino abbassato e finalmente lo guardai dritto in faccia: aveva un'espressione di calma, fredda, granitica determinazione. Merda.
«Che cavolo ci fai qui?», sbraitai, un tantino aggressiva.
Non si scompose minimamente. «Ti stavo aspettando».
«Questo lo vedo! Che cosa vuoi? E non dirmi parlare altrimenti giuro che ti vengo addosso con la macchina!».
Alex alzò le spalle, disinvolto. «Okay, non lo dico. Sono qui per raccogliere funghi nei boschi: è il mio nuovo hobby. Va bene così?».
Dovetti trattenermi con tutte le mie forze per non mollargli una sberla. Quando faceva così era insopportabile.
«Sei un idiota, Alex».
«Stai andando da lui, vero?», chiese per tutta risposta.
Sentii un tuffo al cuore, ma all'esterno rimasi impassibile. «Come facevi a sapere dov'ero?».
«Me l'ha detto Jas. L'ho chiamata per sapere se oggi saresti stata a casa o se... avevi altri progetti», concluse, alzando le sopracciglia con aria significativa.
Jas? Jas?
«E perchè avrebbe fatto una cosa del genere? Stavolta mi sente», sibilai a denti stretti, furiosa.
«Non prendertela con lei.
È stata sincera, a differenza di te», rispose, tranquillo, guardandomi negli occhi senza alcuna traccia di imbarazzo o esitazione. Un comportamento così sfrontato, eccessivo anche per Alex, poteva nascere solo dalla consapevolezza di essere nel giusto. Non stava tirando a indovinare con la storia delle bugie: lo sentiva davvero. Sentiva che non ero sincera. E questo complicava notevolmente le cose.
«Bene. Se pensi che io ti abbia mentito, perchè non mi lasci perdere?».
«Perchè prima di chiudere voglio che tu mi dica come stanno veramente le cose».
«Sono stufa. Se vuoi continuare questo stupido gioco, allora gioca da solo».
Me ne andai senza aggiungere altro. Montai di nuovo in macchina, superai Alex e continuai a guidare, faticando a mantenere la concentrazione, in preda ad un profluvio di sentimenti amari. Ero arrabbiata, addolorata, preoccupata, ferita... Mi sembrava di aver esaurito lo spazio disponibile per provare qualcosa.
Un secondo più tardi scoprii che per un po' di rabbia extra c'era sempre spazio. Con un'occhiata nello specchietto retrovisore mi accorsi che Alex mi stava seguendo. Mi stava seguendo! Per un bel pezzo mi limitai a boccheggiare come un pesce fuor d'acqua, senza fiato per l'incredulità, fissando la sua macchina invece di guardare la strada e rischiando di finire contro un albero da un momento all'altro. E adesso cosa dovevo fare?
Pensai di ignorarlo. Alex era troppo abituato ad essere al centro dell'attenzione, più davo importanza a quello che faceva, più lui avrebbe continuato. Non avrebbe potuto starmi dietro per sempre, giusto? Però... se mi avesse seguita alla riserva avrebbe incontrato Jacob e non potevo lasciare che accadesse. Avevo il presentimento che Jacob avrebbe preso piuttosto male il comportamento di Alex nei miei confronti.
Sbuffando, frenai di colpo, fermando la macchina nel mezzo della strada. Alex, che stava guidando piuttosto veloce per non perdermi, frenò a sua volta a pochissima distanza da me con un forte stridìo di gomme sull'asfalto. Scesi dall'auto e lui mi imitò. Mi venne incontro con quell'aria tempestosa che avevo scorto sul suo viso poco prima, nel parcheggio della scuola. Camminavamo l'uno verso l'altra così rapidamente che per poco non ci fu uno scontro frontale.
«Ma sei completamente impazzito?Vuoi andartene?».
«No!», gridò Alex di rimando a un centimetro dalla mia faccia, fuori di sè quanto lo ero io. Forse avremmo dovuto provare a calmarci, ma non riuscivo a pensare a nulla in quel momento. Riuscivo a malapena a respirare. «No! Non me ne vado finchè non mi dirai che non mi ami! Dimmi che non provi niente per me!». Con un movimento così repentino che non riuscii quasi a vederlo mi afferrò con forza per le spalle mentre scandiva lentamente l'ultima frase, fissandomi dritto negli occhi con una determinazione d'acciaio.
Ricambiai il suo sguardo in silenzio, paralizzata tra le sue mani. L'azzurro intenso che amavo tanto si era fatto cupo, minaccioso, vorticante, come se qualcosa dentro di lui, nel profondo, stesse cambiando. Faceva male vederlo così diverso, un male dannato, al punto che lottai per racimolare la forza di aprire bocca.
«Io non ti amo», risposi, la voce bassa e tremante. Cercai di liberarmi dalla sua stretta, ma invano. Avrei dovuto usare tutta la mia forza e non potevo, non davanti a lui. Quella sensazione di prigionia scatenò in me un'ondata di rabbia così violenta che quasi senza rendermene conto diedi un forte strattone e per poco non gli sfuggii. Lo vidi aggrottare la fronte, sorpreso. «Io non ti amo! Non ti amo!», continuai, alzando la voce fin quasi ad urlare di nuovo.
Le sue dita si strinsero ancora di più sulle mie braccia, facendomi male. «Non ti credo! So cosa provi per me, te l'ho letto negli occhi un milione di volte!».
«Ma perchè devi rendere tutto così complicato? Perchè?», proruppi con voce rotta, esausta e senza fiato. «È finita, non lo capisci? Era finita ancora prima che cominciasse! Non posso stare con te, non posso! Devi dimenticarmi! Ti prego, ti scongiuro, Alex, dimenticami!».
Lui scuoteva la testa fissandomi con un'espressione così ferita che mi odiai per il male che gli stavo facendo.
«No, non può finire così. Io non ti lascio andare... Non ti lascio andare...».
Senza ascoltarlo, cercai nuovamente di sgusciare tra le sue mani. Basta, non ne potevo più. Dovevo andarmene da lì, allontanarmi da lui. Mi sentivo come se qualcuno mi stesse strappando il cuore dal petto.
«Lasciami, mi stai facendo male! Alex, lasciami!».
Con un ultimo strattone mi sottrassi alla sua presa e barcollai all'indietro. Nello stesso istante udii una voce gridare il mio nome, poi una grossa figura piombò su di noi e si frappose tra me e Alex. Indietreggiai istintivamente, disorientata, e misi a fuoco la persona che ci aveva interrotti: Jacob. Era lì, in piedi davanti a me, per proteggermi. Da dove cavolo spuntava fuori? Ma sì, certo... mi aveva detto che prima di incontrarsi con me sarebbe stato di ronda nei boschi. Probabilmente si trovava lì intorno e aveva sentito le nostre voci. Non potevo guardarlo in viso, perchè mi dava le spalle, ma quando parlò sentii un brivido lungo la schiena.
«Lasciala stare», ringhiò. Era teso in avanti, pronto in qualunque momento a... Corsi da lui e mi aggrappai al suo braccio muscoloso.
«Jacob, no...».
«E tu da dove sei spuntato?», sbottò Alex per tutta risposta. Fissava Jake negli occhi e non mostrava traccia di paura, ma non era pienamente in sè, in quel momento; forse non avrebbe giudicato pericoloso neanche lanciarsi da un ponte, figurarsi far arrabbiare uno che era due volte più robusto di lui. «Levati di mezzo».
Jacob non si mosse di un millimetro. «Qual è il tuo problema?», sibilò.
«Sei tu il mio problema. Sparisci», ribattè Alex, il tono freddo e un'aperta aria di sfida in volto.
«Datti una calmata».
Alex fece un passo avanti con fare aggressivo. «Perchè non ce la vediamo qui, adesso? Non dirmi che non ci hai pensato anche tu».
Sussultai. Non ero sicura che Jacob avesse capito di cosa parlava Alex e invece, con mio profondo stupore, non manifestò la minima sorpresa. Si limitò ad un mezzo sorriso dall'aria letale.
«Se fossi in te ci penserei bene, ragazzino».
«Chi credi di essere? Stupido pallone gonfiato...», ringhiò Alex, e fece per lanciarsi contro Jacob. Rapidissima, mi infilai tra loro con un balzo e tesi le braccia per fermarlo.
«No!», gridai, spaventata. «No, no, no! Basta, smettetela!».
Sentii due braccia possenti che mi circondavano da dietro e mi spostavano di peso come se fossi stata una piuma. Jacob, ovviamente.
«Renesmee, stanne fuori», disse.
«Sì, stanne fuori. 
È ora che risolviamo questa faccenda», concordò Alex senza smettere di fissare Jake come se avesse voluto farlo a pezzi.
«Non c'è niente da risolvere! Io non sono più la tua ragazza, cosa faccio e con chi sto non ti riguarda!», esplosi, sporgendomi per cercare di recuperare il mio posto in mezzo a loro anche se Jacob continuava a tenermi saldamente tra le braccia, facendomi scudo con il suo corpo.
Di colpò Alex sembrò dimenticare Jacob. Mi guardò come se tutto il suo mondo si riducesse a me. Contrasse la fronte in un'espressione di dolore quasi fisico, gli occhi velati, il respiro affannoso. Sembrava che avesse la febbre. Poi mi prese per un braccio, un gesto delicato, ma fermo, e sentii Jacob irrigidirsi; pregai silenziosamente che non cercasse di staccarglielo.
«Andiamo via», mormorò, la voce bassa e senza traccia di insicurezza. Cercò di tirarmi verso di sè.
«No...», protestai, ma Jacob si intromise di nuovo. Bloccò Alex con una mano sul suo braccio e contemporaneamente rafforzò la stretta intorno alla mia vita, quasi togliendomi il respiro. Mi ritrovai letteralmente intrappolata tra i due.
«Ho detto lasciala stare», ripetè in tono duro.
«E io ho detto levati di mezzo!».
Alex si liberò della mano di Jacob con uno scrollone. Jake ebbe uno scatto istintivo ed io mi sentii travolgere dal terrore al pensiero che potesse trasformarsi da un momento all'altro. Mi infilai di nuovo tra loro e spinsi via Alex, che sembrava sul punto di indirizzare il pugno serrato verso la mascella di Jacob. Lui indietreggiò, sorpreso.
«Basta!», esclamai, disperata. Dovevo fermarli, subito, a qualunque costo. Anche a costo di ferire profondamente Alex. «
È finita!», ripetei ancora. «È finita e tu devi riuscire ad accettarlo!».
Mi fissò senza dire nulla per un minuto che mi parve interminabile. L'atmosfera era sospesa, Alex immobile con gli occhi fissi nei miei, Jake dietro di me che fremeva nel tentativo di trattenersi, io nel mezzo, ansimante per l'agitazione, tremante, ogni singolo nervo teso al massimo. Alex alzò lentamente una mano e la tese verso di me. Un invito, questa volta.
«Vieni con me», disse con voce spaventosamente calma.
Scossi piano la testa. «No, Alex».
Ma lui non si mosse. Il suo torace si alzava e si abbassava velocemente, i lineamenti del suo viso sembravano distorti, ma non mostrava un briciolo di esitazione. Non abbassò la mano. «Vieni con me adesso o tra noi è finita davvero. Per sempre», insistè, scandendo bene le parole come se dubitasse della mia capacità di comprensione.
«No», ripetei stancamente.
Misi in quell'unica parola tutta la forza che mi restava e pregai che quella fosse l'ultima volta. L'ultima volta che ero costretta a rifiutarlo.
Il dolore che lessi nei suoi occhi mi disse che avevo finalmente raggiunto il mio scopo. Lo avevo perso. Avevo sempre saputo che prima o poi avrebbe ceduto e il momento era arrivato. Quello che non avevo previsto era quanto sarebbe stato difficile sopportarlo, quel momento.
Alex lasciò ricadere la mano, impassibile. Sollevò il mento, come per sfidarmi. «Te ne pentirai, Renesmee. Giuro che te ne pentirai».
Si allontanò in fretta, salì in macchina senza degnarmi di un altro sguardo, e con una sgommata e una pericolsa inversione tornò indietro, verso Forks.
Non mi accorsi che stavo tremando come una foglia finchè la stretta di Jacob intorno al mio corpo, fino a un istante prima decisa e protettiva, non divenne inaspettatamente dolce e accogliente. Mi abbandonai contro di lui, la testa sul suo petto, cercando di arginare il dolore e la sensazione di perdita. Per un attimo mi sentii strappata in un milione di frammenti come un foglio di carta. Ma non ero sola. Non ero sola. Stringendomi a Jacob, respirai profondamente il suo odore, un buon odore di legno, muschio e alberi, il profumo della foresta, della riserva, della mia infanzia, della mia intera esistenza, e all'improvviso non mi sembrò più di andare in mille pezzi: lui mi teneva tutta intera. No, non ero sola. C'era il mio Jacob con me.








Note.
1. Qui la canzone.








Spazio autrice.
Salve! Sono tornata ^^. Scusate l'assenza, che è stata un po' più lunga del previsto. Purtroppo uno dei miei esami è stato rimandato di una settimana e quindi mercoledì scorso non ho avuto neanche il tempo di pensare di aggiornare xd. Adesso per fortuna ho un po' di tempo per tirare il fiato, quindi credo che i prossimi aggiornamenti saranno regolari.
Veniamo al capitolo! Non c'è tantissimo da dire, in realtà. Alex ha serie difficoltà ad accettare la fine della sua storia con Renesmee, soprattutto perchè si è trattato di una fine brusca, improvvisa, e non sufficientemente motivata. Le risposte che Renesmee gli fornisce gli sembrano vuote, ma lui è testardo, ostinato, non si arrende facilmente, ormai lo conoscete. E la ragione più valida che riesce a trovare per il comportamento di Renesmee è che lei si stia innamorando di Jacob, dal quale Alex si è sentito minacciato nel periodo precedente. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità, come sappiamo le motivazioni di Renesmee sono ben altre, ma Alex ha visto abbastanza del rapporto che c'è tra loro due per temere Jacob e si aggrappa a questa risposta perchè è l'unica che riesca a fornirsi da sè. So che i vostri sentimenti sono molto diversi per quanto riguarda questa rottura, c'è chi ne è felice e chi vorrebbe assolutamente che tornassero insieme, ma spero che tutto vi sembri chiaro in ogni caso; e se così non fosse, chiedete pure nelle recensioni ;-).
Vi anticipo che il prossimo capitolo sarà più leggero... Ci voleva, forse, dopo tutti questi capitoli densi di lacrime e tristezza xd. Sarà incentrato su Seth e Jas e Renesmee si troverà in una situazione dai risvolti tragicomici, diciamo. In genere non scrivo anticipazioni sul capitolo successivo nello spazio autrice, ma questa volta mi va, e così...
Ok, è tutto. Grazie mille alle persone che recensiscono sempre e a quelle che recensiscono solo qualche volta, appena avrò tempo risponderò ai vostri commenti. Ciao!

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Capitolo 13
*** Love illumination ***


C 13
Capitolo 13
Love illumination

Sweet love illumination
Sweet, sweet love elevation
Outside, fresh other side
But inside love
You will be alright
Sweet love illumination
Sweet, sweet love celebration
Got covered, reason term
But it'll bring you up
You'll be alright.
Love illumination, Franz Ferdinand¹



Di rado va come ci aspettiamo che vada. Per la precisione, mai.

Le bugie hanno le gambe corte, Charles Bukowski




Bloccai le dita per un istante, sospese sui tasti bianchi e neri, e interruppi a metà il Notturno di Chopin che stavo suonando. Qualcuno mi stava chiamando. Sollevai lo sguardo dal pianoforte e incrociai quello di zio Emmett fisso su di me.
«Renesmee?».
«Uhm?», bofonchiai per tutta risposta.
Non avevo idea da quanto tempo fossi seduta lì, nel salotto di casa, a suonare. Ero stata così concentrata sulle note e sul filo dei miei pensieri da perdere il senso del tempo, e ora mi sembrava di aver appena aperto gli occhi dopo un lungo sonno. Sentivo la mente annebbiata e distante anni luce dal salotto silenzioso e ordinato di nonna Esme.
«Piccola, capisco la fine del primo amore, la perdita delle illusioni giovanili, il tormento dei ricordi e compagnia bella, ma non trovi che questa roba sia un po' troppo strappalacrime?», disse lo zio, osservandomi con le sopracciglia inarcate e la fronte contratta. Era seduto sul divano di fronte al pianoforte con un giornale di auto e motociclette tra le mani. Accanto a lui, zia Rose sfogliava una rivista di moda.
«Questa roba sarebbe il Notturno² di Chopin che stavo suonando?», domandai invece di rispondere, gelida.
Lui rimase impassibile. «Precisamente».
Lo guardai in silenzio per un attimo, cercando di decidere tra me e me quale risposta sarebbe stata più acida e antipatica. «Tappati le orecchie», dissi infine.
Posai di nuovo le dita sui tasti e ripresi a suonare da dove mi ero fermata, senza degnarlo di altra considerazione. Non mi chiesi neanche per un istante se avesse ragione oppure no. Ovvio che non ce l'ha, pensai con rabbia silenziosa.
«Tesoro, se posso essere sincera», cominciò zia Rosalie poco dopo, mentre io continuavo, imperterrita, «anche io penso che sarebbe meglio suonare qualcosa...». Esitò e quello che era sul punto di dire rimase sospeso sulle sue labbra dischiuse. «Qualcosa di più allegro», aggiunse dopo una brevissima pausa, facendo finta di nulla.
Interruppi bruscamente
l'esecuzione per la seconda volta, causando un inciampo di note le une sulle altre, e  misi le mani in grembo con un sospiro scocciato, forte e breve. Stavo suonando così male che fu un sollievo anche per le mie orecchie. Avevo capito benissimo ciò che la zia era stata sul punto di dire, che non avrei dovuto suonare qualcosa che mi ricordava tanto Alex; perchè quella musica mi faceva pensare a lui, e al giorno in cui avevamo parlato di Chopin e Beethoven e del jazz, chiusi nella sua macchina in una fredda mattina di inizio primavera. Alex si sarebbe fatto una bella risata se avesse saputo che lo ricordavo proprio in quel modo.
«Non è che non mi piaccia Chopin. È tutta la musica classica che non mi fa impazzire».
Queste erano state le sue parole. Sì, lui non amava quel genere di musica nè tantomeno amava Chopin. Ma in quei giorni qualunque cosa era in grado di farmi pensare ad Alex. Da quando lo avevo lasciato mi sembrava di ritrovarlo ovunque, nel rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia della riserva come il giorno del nostro primo bacio, nell'odore della pioggia, nel sapore del mio rossetto che lui si toglieva dalle labbra, ridendo, dopo ogni bacio. Come se non volesse lasciarmi, o come se io non volessi lasciarlo andare.
«D'accordo», mormorai tranquillamente, gli occhi bassi e le mani abbandonate sulle ginocchia. Rimasi ferma per un minuto, poi feci un respiro profondo e posai di nuovo le dita sui tasti, pronte per gli accordi iniziali dell'Adagio in E Maggiore di Schubert³, qualcosa di completamente diverso. E soprattutto privo di qualsiasi legame con Alex. Avevo appena iniziato, quando Emmett fece di nuovo sentire la sua voce.
«Eh, no, questo è ancora peggio!», esclamò, la voce per metà indignata e per metà divertita.
Okay, forse la mia precedente risposta era stata fin troppo gentile. Smisi di botto di suonare per la terza volta ed ero sul punto di mandarlo a quel paese, ma la mamma scelse il momento perfetto per intervenire.
«Renesmee, che ne diresti di uscire un po'? Io e papà pensavamo di andare a caccia, dopo la partita», esclamò in tono tranquillo e controllato, come se fosse ben decisa a impedire che scoppiasse una rissa. Lei ed Edward sedevano a un tavolino, impegnati in una partita a scacchi.
Le lanciai un'occhiata fugace per poi tornare a fissare lo spartito sul leggìo. «No, non mi va», risposi a bassa voce. Era vero, non ne avevo voglia; mi sentivo stranamente stanca e spenta, come se qualcosa mi avesse risucchiato tutte le energie. Affrontare mezz'ora di caccia mi sembrava troppo impegnativo anche solo a pensarci.
«Ah», commentò la mamma. Tacque per alcuni secondi e pensai che ci fosse rimasta male. Ma presto tornò all'attacco. «Perchè non chiami Jacob e non vi incontrate? Che cosa fa, oggi?».
«Non ne ho idea», risposi in tono piatto. Quasi senza accorgermene, avevo iniziato a premere più volte il dito su un tasto, producendo suoni brevi, identici e rapidi. Tutti mi fissarono come se avessi appena detto un'assurdità ed io ricambiai i loro sguardi, confusa. Emmett non si decideva ad abbassare quel sopracciglio e Rose sembrava impassibile, ma la sua espressione riusciva a mettermi a disagio comunque. «Be', che c'è?», sbottai, seccata. «Non sono l'agenda vivente degli impegni quotidiani di Jacob».
«Ah, no?», chiese zio Emmett, ironico, l'ombra di un sorriso sghembo sul volto.
«Sai cosa farei in questo preciso istante se avessi un'accetta e una scatola di fiammiferi?», rilanciai, sempre più infastidita, fissandolo con gli occhi ridotti a fessure.
«E Jas?», intervenne di nuovo la mamma, sventando un'altra crisi nel giro di una manciata di minuti.
«Jas cosa?», domandai, riluttante a distogliere l'attenzione da Emmett che mi sorrideva indulgente e dalle piacevoli riflessioni su come sarebbe stato interessante far sparire quel sorrisino. Nessuna minaccia uscita dalle mie labbra avrebbe mai avuto il minimo effetto su di lui o su un qualunque altro vampiro, ovviamente.
«Lei che cosa fa questo pomeriggio?».
Alzai appena le spalle. «Non lo so. Credo che sia a casa. Sua madre andava alla SPA e in genere Jas ne approfitta per... rilassare la mente».
La mamma annuì con aria comprensiva. La pensavamo allo stesso modo sulla signora Williams e la sua stramba concenzione del ruolo materno.
«Be', potresti chiamarla», disse papà, guardandomi con espressione affettuosa. «Fate qualcosa insieme».
Ci pensai su un momento, senza smettere di premere sul tasto del pianoforte, anche se un po' più leggermente rispetto a prima. «Veramente... dovrei fare i compiti. Grammatica francese», mormorai con scarso entusiasmo.
«Credevo che li avessi finiti», obiettò Bella.
«I compiti non finiscono mai al terzo anno delle superiori, soprattutto quelli di francese», risposi con un'occhiata eloquente nella sua direzione. «La professoressa Holland pensa che la sua materia sia la più imporante per superare il SAT
. Come tutti i professori, del resto».
Papà rise sommessamente. Seduta davanti a lui, la mamma spostava alternativamente lo sguardo da uno dei suoi pedoni alla regina con espressione seria, mordendosi un labbro, forse cercando di decidere la sua prossima mossa; ma io ero certa che ascoltasse con attenzione e che non si perdesse neanche una parola.
«A maggior ragione sarebbe meglio che ti distraessi un po'. Non ti fa bene preoccuparti tanto».
«Non sono preoccupata per il SAT», risposi senza pensarci, e poi tacqui di colpo; non avevo voglia di continuare e confessare a voce alta a cosa stessi pensando davvero.
I miei genitori non avevano mai condiviso la decisione di lasciare Alex. Sembravano sinceramente convinti che le mie paure fossero immotivate, sebbene ritenessero che alcune delle motivazioni che mi avevano spinta a tanto non fossero del tutto insensate, come il fatto che prima o poi avrei dovuto lasciarlo comunque o rivelargli la verità sulla mia natura e trascinarlo nel mio mondo complicato. Sostenevano che niente di tutto ciò rendesse del tutto impossibile la continuazione della mia storia con Alex e che avrei almeno potuto vivere il nostro rapporto con spensieratezza ancora per un po', ma avevano deciso di non interferire. Se questa era la decisione che reputavo migliore per entrambi, per me e per Alex, allora dovevo prenderla.
E per quanto non fossi affatto convinta di aver preso la decisione giusta, per quanto trascorressi minuti su minuti e ore su ore a ripensare al problema, vagliandone ogni aspetto e ogni possibile soluzione, senza mai giungere ad una conclusione diversa da quella che mi aveva indotto a lasciare Alex, apprezzavo la loro discrezione. Sembrava proprio che avessero deciso di smettere di trattarmi come una bambina, che volessero lasciarmi spazio e piena facoltà di decidere per me stessa, e non potevo che apprezzare il cambiamento.
Mi alzai di scatto dallo sgabello del pianoforte, così repentinamente che se nella stanza fosse stato presente un umano mi avrebbe senz'altro lanciato un'occhiata confusa.
«Credo che proverò a chiamare Jas. Magari le va di fare un po' di shopping», dissi.
La mamma si illuminò mentre mi guardava e fece un gran sorriso. «Ottima idea», esclamò con voce frizzante. «Salutala da parte mia».
«Ti presto la mia carta di credito», aggiunse Rosalie, sfoggiando un sorriso che poteva rivaleggiare con quello della mamma. «È un po' che non ti faccio un regalo».
«Ottima idea», ripetè Bella, sempre più entusiasta.
Ero incredula. Lei detestava lo shopping e la mia passione per l'abbigliamento alla moda era causa di parecchie discussioni tra noi due, soprattutto se spendevo troppo o se la mia stanza minacciava di esplodere per la quantità di abiti e scarpe che conteneva. Alice e Rosalie mi avevano influenzata irrimediabilmente e alla mamma era toccato rassegnarsi all'inevitabile con qualche sfuriata occasionale. E adesso addirittura mi incoraggiava a fare spese con una delle carte di credito senza fondo delle zie, purchè uscissi di casa e la piantassi di rimuginare pensieri tristi strimpellando musiche deprimenti al pianoforte.
«Non ne potevate proprio più di ascoltare Chopin, eh», commentai a mezza voce, un sorrisino colpevole sulle labbra, mentre lasciavo la stanza. Sapevo che agivano e parlavano sempre e solo per il mio bene e sperai con tutte le mie forze di superare il più in fretta possibile quel momento di tristezza. Prima o poi i dubbi e la paura sarebbero svaniti. Prima o poi sarei stata certa di aver fatto la cosa giusta per Alex. E se lui stava bene, me la sarei cavata anch'io.
Entrata nella vecchia stanza di papà, che ormai utilizzavo come camera personale quando ero a casa dei nonni, afferrai il telefono, mi lasciai cadere sul letto a gambe incrociate e composi il numero di Jas. Il telefono squillò a lungo mentre fissavo gli alberi frondosi fuori dalle finestre; le loro chiome erano così rigogliose che sembravano piegarsi verso gli ampi vetri fin quasi a toccarli. Poi, finalmente, qualcuno sollevò la cornetta dall'altra parte.
«Renesmee?».
Era Jas e sembrava sconcertata. Oltre che un tantino seccata. Doveva aver letto il numero sul display del cordless.
«Ciao», mormorai, esitante. «Ehm... Che hai? Tutto bene?».
«Sì, tutto bene», esclamò, sbrigativa. Fece una lunga pausa. «Cercavi me?».
Aggrottai la fronte. «Be', sì. Di certo non ho chiamato per parlare con Gatto».
«Oh, capisco», rispose in fretta, senza cogliere la battuta. Rimase di nuovo in silenzio e dopo qualche secondo intervenni.
«Jas, sicura che sia tutto okay? Se hai da fare posso richiamare più tardi».
Prima che riuscissi a terminare la frase stava già parlando.
«Hai proprio ragione, sono molto... occupata... in questo momento. Sarebbe meglio se ci sentissimo stasera, magari».
«D'accordo», risposi, lentamente. «Allora...».
In quell'istante udii una voca dall'altra parte. Qualcuno parlava con Jas e riconobbi immediatamente Louise, la domestica dei Williams.
«Signorina Jas, il suo ospite sta arrivando. Ha una Ford, giusto?».
«Sì, grazie, Louise!», saltò su la mia amica, a voce così alta da farmi sussultare. Si rivolse nuovamente a me, molto più allarmata di prima. «Renesmee, scusa, devo proprio andare...».
«Ferma lì!», sbottai, colpita da un pensiero improvviso. «Chi sta arrivando a casa tua?».
«
Nessuno! Non sta arrivando nessuno, Louise si è sbagliata...».
Fu interrotta dal suono del campanello; qualcuno bussava alla porta di casa.
«Come nessuno? E nessuno ha appena bussato alla porta?».
«Ma come diavolo hai fatto a sentirlo? Hai una specie di super udito?».
«Non cambiare argomento! È Seth, non è vero? Nessun altro ha una Ford tra quelli che conosciamo», esclamai, balzando in piedi di scatto come una molla.
«Non posso parlarne adesso, devo andare», fece lei per tutta risposta. Qualcuno suonò ancora il campanello. «Poi ti chiamo e ti racconto tutto, giuro. Baci!».
«Che cosa? No, Jas, aspetta! Jas!».
Troppo tardi, aveva già riagganciato. Mi parve di vederla davanti agli occhi mentre correva al piano di sotto di casa sua, si controllava i capelli nello specchio dell'ingresso, spalancava la porta con un sorriso accattivante sul volto truccato. E poi... Accidenti!
Lanciai il telefono sul letto e mi precipitai giù per le scale con un tale fracasso che sentii appena la voce di Emmett dal salotto. «Ehi, che succede? Una mandria di bufali sta invadendo la casa?».
«Seth è andato da Jas!», esclamai, piombando senza fiato nella stanza.
Emmett, Rose e Bella mi fissarono con aria sconcertata, fermi nelle stesse posizioni in cui li avevo lasciati cinque minuti prima. Solo papà si alzò in piedi come per fronteggiarmi. Lui sapeva già, naturalmente.
«E... e allora?», chiese la mamma, piano, con cautela. Aveva gli occhi sgranati come se avesse davanti una bomba a orologeria invece di sua figlia.
«Seth è a casa di Jas! In questo preciso istante! Sono lì insieme, da soli!».
Silenzio. Zia Rose e la mamma si scambiarono uno sguardo perplesso.
«E allora?», ripetè Bella.
«E allora? Come sarebbe a dire e allora? Ti rendi conto che quello che potrebbe succedere?», sbottai, alzando la voce. Sentivo un nodo di ansia all'altezza dello stomaco che si faceva sempre più stretto, come un cappio. Provai a respirare profondamente, con calma.
«Che cosa potrebbe succedere?», domandò papà, tranquillo. Sulle labbra aveva un sorriso leggero e nel suo sguardo leggevo una certa dose di esasperazione.
«Ah! Di tutto!».
La mamma fece un sospiro pesante e abbassò di nuovo gli occhi sulla scacchiera, scuotendo il capo. «Renesmee, stai esagerando. Si conoscono appena, Jas ha un ragazzo che adora... E sai come è fatto Seth, dubito che abbia intenzione di saltarle addosso».
«Non è questo il problema principale», intervenni in tono brusco e alzai una mano per interromperla. «Potrebbe dirle qualcosa!».
Lei scosse di nuovo la testa con decisione. «Non lo farebbe mai senza prima averne parlato con te. Sa benissimo che è una situazione delicata, che Jas è la tua migliore amica e che vuoi proteggerla. Devi fidarti di Seth, come hai sempre fatto».
«Ma questa non è una circostanza normale! C'è di mezzo...».
Mi interruppi di botto, incapace di terminare la frase. Non potevo pronunciare quella parola. Non veniva prounciata
tra noi a voce alta da mesi, da quando ero tornata a casa dopo il periodo trascorso da Charlie. Non in mia presenza, almeno. Ma questa volta la mamma ruppe il patto che avevamo silenziosamente stipulato al mio ritorno a casa.
«L'imprinting?», esclamò guardandomi dritto negli occhi. «Sì, e allora? Anche tra te e Jacob c'è di mezzo l'imprinting. Insomma, non capisco quale sia il problema. Perchè Seth e Jas non possono avere quello che avete voi due?».
Ricambiai il suo sguardo in silenzio, le labbra serrate per non lasciar sfuggire i pensieri che mi assillavano da settimane e settimane e che mai sarei riuscita a confessare a voce alta, non davanti a lei e al resto della famiglia. Era così atrocemente imbarazzante. Quello che avevamo io e Jacob? Compresa la gelosia, l'attrazione fisica e l'incapacità di gestire una sola conversazione senza metterci in imbarazzo a vicenda? Raccontargli la fine della mia storia con Alex, il giorno in cui loro due avevano quasi fatto a botte nella riserva, era stato così strano e difficile che lo stesso Jake aveva cambiato argomento il prima possibile. Incrociai lo sguardo di papà: appariva preoccupato.
«Io vado lì», sussurrai, e marciai fuori dalla stanza prima che qualcuno potesse dire altro.
Nella mia stanza afferrai il cellulare, la giacca e le chiavi della macchina e tornai di sotto. Edward e Bella mi aspettavano nell'ingresso e mentre scendevo le scale di corsa intravidi con la coda dell'occhio Rosalie ed Emmett fermi sulla porta del salotto; mi seguirono con gli occhi, immobili come statue di cera, senza dire una parola. I miei genitori, invece, avevano intenzioni ben diverse.
«Renesmee», proruppe la mamma in tono severo non appena fui apparsa in cima alle scale, «cosa vuoi fare esattamente?».
«Devo tenerli d'occhio!», sbottai, esasperata almeno quanto lei. Forse pensava che io non capissi, ma dal mio punto di vista era mia madre che non capiva. Nessuno poteva capire, me ne resi conto all'improvviso e fu come uno schiaffo secco sul volto. Nessuno che non avesse provato l'imprinting sulla propria pelle avrebbe potuto capire cosa significava quella corda di acciaio che incantenava il tuo cuore a quello dell'altro; un laccio che rischiava di rovinare la vita di Jas.
«Tesoro, per favore, pensaci bene», intervenne papà, la voce bassa e melodiosa; sapevo che stava cercando di calmarmi, ma questa volta non gliel'avrei permesso. «So che adesso ti senti confusa e spaventata, ma non è detto che... Non tutti provano le stesse cose...».
Arrossii furiosamente. «Io non sono confusa», saltai su, piccata, e vidi la sua espressione cambiare di colpo, come se fosse pentito di aver sfiorato un argomento proibito. «Per niente. So benissimo quello che faccio. Lo so benissimo».
«Non puoi immischiarti in questo modo nella vita di Jas! Non farlo, Renesmee, o potresti perderla», ribattè la mamma con forza, afferrandomi per un braccio delicatamente ma senza traccia di esitazione.
Scossi il capo, senza fiato, gli occhi bassi per non incontrare i suoi colmi di ansia e di rimprovero. «La sto già perdendo, mamma. La sto già perdendo. E quando scoprirà cosa sono davvero, quando scoprirà che le ho sempre mentito sulla mia vita, la perderò definitivamente, per sempre», sussurrai con voce rotta. Era un pensiero così spaventoso da non riuscire neanche ad immaginare che accadesse realmente. Dovevo fare qualcosa, qualunque cosa, per impedirlo. Dovevo tentare.
In silenzio, lottando per ingoiare le lacrime che minacciavano di sgorgare, sottrassi piano il braccio alle dita forti e fredde della mamma e uscii velocemente chiudendomi la porta alle spalle.


****


Arrivai a casa Williams nel giro di una manciata di minuti, infrangendo un bel po' di regole del codice stradale. Se Charlie mi avesse vista, gli sarebbe venuto un colpo. Davanti al cancello era parcheggiata la vecchia Ford blu scuro che Seth divideva con sua sorella Leah. Con un tuffo al cuore, parcheggiai lì accanto e mi fiondai alla porta, determinata e perfettamente convinta di essere nel giusto.

Dopo la nostra ultima discussione a proposito di Seth avevo chiesto scusa a Jas per il mio comportamento, sinceramente dispiaciuta di essere costretta ad intromettermi nella sua vita privata, e avevo cercato di spiegarle che ero soltanto preoccupata e desiderosa che facesse la scelta giusta. Jas aveva fatto la sostenuta per un po', ma ben presto aveva ceduto e mi aveva abbracciata senza dire nulla, ponendo fine in quel modo al litigio. Ero stata molto sollevata nello scoprire che tutto sommato non se l'era presa, e adesso mi chiedevo, non senza una certa ansia, come avrebbe presto questa irruzione.

In un'altra situazione non mi sarei mai sognata di precipitarmi in quel modo a casa di una mia amica, senza essere stata invitata e con il preciso scopo di metterle i bastoni tra le ruote con un ragazzo, ma si trattava di proteggere l'esistenza di Jas dal mondo soprannaturale. E se Seth avesse deciso, in qualche folle impulso dettato dall'imprinting, di raccontarle tutto? Tremavo solo a pensarci.
La porta si aprì e apparve Louise, un sorriso ampio e sereno sul volto. Era una signora minuta sulla quarantina, di aspetto gradevole, con lunghi capelli scuri sempre legati in cima alla testa e l'uniforma bianca e nera impeccabile. Sfoggiava il solito atteggiamento pacato e serafico che, ormai lo sapevo bene, era la sua tecnica di sopravvivenza in casa Williams. Sembrava che niente avesse il potere di turbarla, nè le scenate della signora Williams, nè l'assenza quasi costante del signor Williams, nè i capricci della loro figlia.
«Signorina Renesmee, che sorpresa. Non la aspettavamo», disse, facendosi da parte con un gesto di invito.
Entrai e lei chiuse la porta alle mie spalle. «Eh, già», bofonchiai.
Jas spuntò da una porta sulla sinistra che conduceva alla cucina, l'aria perplessa e Seth alle calcagna. Quando mi vide, al di là di Louise, spalancò gli occhi azzurro chiaro.
«Sorpresa!», esclamai con un sorrisone.
«Che ci fai tu qui?», boccheggiò la mia amica. Mi guardava come se fossi un mostro orrendo piombato dritto in casa sua dallo spazio profondo.
«Sono venuta a trovarti. Sei contenta?», risposi, non senza un tocco di acidità nella voce.
«No, per niente», sbottò, secca. Come al solito, Jas non aveva peli sulla lingua.
«Ci credo», borbottai. Lei sembrò indignata, ma non ebbe tempo per dire altro. «Ho interrotto qualcosa?», aggiunsi. Lanciai un rapido sguardo a Seth, sorridente al fianco di Jas; quando lo guardai dritto negli occhi, il suo sorriso luminoso e caldo si spense immediatamente.
«No, tranquilla. Mi fa piacere vederti», rispose lui a mezza voce.
«Ah, bene! Allora credo che mi fermerò un po'».
Mi sfilai la giacca e la porsi a Louise che aspettava con la mano tesa.
«Stavo per servire uno spuntino, spero che abbia fame», disse.
«Tantissima fame», esclamai, evitando accuratamente lo sguardo assassino di Jas.
«Su, andiamo», fece lei, scocciata. «Louise, aspettiamo il the in salotto».
«Subito, signorina Jas».
Alzando gli occhi al cielo, la mia amica varcò una grande porta sulla destra e Seth la seguì dopo avermi lanciato un'occhiata esitante. Io e Louise restammo da sole. Lei continuava a sorridere, io valutavo rapidamente la situazione.
«Dimmi, Louise, come ti ha corotto la signorina Jas perchè tu non riferissi a sua madre che oggi sarebbe venuto a casa un ragazzo a lei completamente sconosciuto?», domandai, retorica.
In realtà la signora Williams non si curava quasi per niente delle frequentazioni di sua figlia, purchè fossero "del suo stesso ceto sociale", come diceva lei. Però teneva moltissimo alle apparenze e alle convenienze e di tanto in tanto faceva una predica di dieci minuti a Jas sul comportamento da assumere con i ragazzi, per poi dimenticare completamente l'argomento.
Louise non si scompose affatto. «Non capisco, signorina. Non so di cosa stia parlando».
La guardai male
per un minuto, le braccia incrociate e il mento sollevato. Annusai l'aria. «È Chanel quello che sento?».
«Si accomodi in salotto, prego. Il the arriva subito».
Sbuffai e marciai nella stanza accanto. Aggiungere altro sarebbe stato inutile, ormai. Il salotto era una stanza enorme riccamente arredata con pezzi di antiquariato e opere d'arte contemporanea che si mescolavano armonicamente. Ogni oggetto, dai divani rivestiti di tessuti preziosi alle delicate sculture di cristallo che si ergevano sul pavimento di marmo, dai quadri ricoperti da schizzi di pittura appesi alle pareti color crema ai grandi lampadari importati dall'Italia, sembrava appena uscito da una cassa da imballaggio. Quando ero a casa di Jas avevo sempre la sensazione di trovarmi in un museo ed esitavo perfino a sedermi su una sedia. Probabilmente Seth, abituato ai divani sgangherati e al minuscolo salotto di casa sua, si sarebbe sentito come un pesce fuor d'acqua. E invece era seduto accanto a Jas su uno degli ampi divani, impegnato a chiacchierare e del tutto indifferente a ciò che lo circondava. Grandioso.
«Tieniti lontana da Gatto, Renesmee», disse Jas mentre sedevo di fronte a loro sull'altro divano.
«Come mai?».
«
È di cattivo umore».
«E quando non è di cattivo umore?».
«Sì, ma oggi è particolarmente nervoso. Quando è arrivato Seth ha cominciato a soffiargli contro, a tirare fuori gli artigli e a miagolare come un pazzo», spiegò con un'aria seria che era quasi comica. «Ho dovuto chiuderlo in lavanderia prima che gli saltasse addosso. Proprio non capisco che cos'abbia. In genere reagisce così soltanto quando incontra il barboncino dei vicini».
Mi trattenni a fatica dallo scoppiare a ridere. «Be', si sa che i gatti non amano i cani e viceversa», mormorai, mordendomi il labbro inferiore per frenare un sorriso.
Jas mi fulminò con lo sguardo. «E questo che c'entra?» chiese a denti stretti.
«Hai una casa incredibile, Jas», intervenne subito Seth, deciso. «
È fantastica, davvero».
Lei gli rivolse un sorriso radioso. «Grazie!». Poi mi guardò con aria malevola. «Prima che tu arrivassi stavo per fargli fare un giro».
«Davvero? E perchè mai?
Mi sembra così noioso», esclamai con una scrollata di spalle. «A che ti serve conoscere tutte le stanze della casa, Seth? A meno che tu non pensi di trascorrere molto tempo qui, e questo mi sembra abbastanza improbabile... È improbabile, vero?». Lo fissai con un sopracciglio inarcato e un amabile sorriso, augurandomi che recepisse il messaggio. Lui sembrava sul punto di dire qualcosa, ma poi esitò e abbassò gli occhi sul tappeto.
«Si può sapere che cos'hai, Renesmee?», sbottò Jas. «Ti comporti in modo così strano».
Era infastidita e non riuscii a non provare un po' di dispiacere per lei. Fortunatamente Louise scelse proprio quel momento per entrare in salone portando un vassoio con the al limone, fumante e profumato, e tramezzini di vari gusti. Con un sorriso professionale sistemò il vassoio sul tavolino tra i due divani e se ne andò senza smettere di sorridere, incurante delle mie occhiate truci. Ci fu qualche attimo di silenzio mentre Jas versava il tè nelle tazze, divertendosi un mondo nel suo ruolo di padrona di casa.
«Spero che ti piaccia, Seth», disse, la voce bassa e stranamente dolce. Di solito parlava in quel mondo soltanto al vecchio professor Redmont nella speranza di stordirlo e convincerlo ad alzare i suoi voti in geografia.
«Veramente non bevo spesso il the, ma mi piace». Seth abbassò lo sguardo su di lei, mentre parlava, e sorrise. Un sorriso tenero, carico di affetto. Per me fu un colpo allo stomaco e quasi mi strozzai con un sorso di the.
«Ah, sì? Non ne avevo idea», osservai, stizzita. Jas mi lanciò un'occhiata furiosa e disorientata al tempo stesso, ma io finsi di non accorgermene. «
È una passione recente o sbaglio? Non ricordo di averti mai visto con una tazza di the in mano».
Seth mi fissava tranquillo, senza ombra di disagio o senso di colpa sul volto. Nei suoi occhi scuri, grandi e gentili, leggevo comprensione, un po' di dispiacere e un pizzico di preoccupazione. Preoccupazione per me, non per se stesso, ne ero sicura. Come se vedesse qualcosa di triste che a me sfuggiva. Stava per rispondere, ma la mia amica intervenne.
«Louise ha dimenticato lo zucchero», annunciò, guardandomi dritto negli occhi. «Puoi andare a prenderlo, per favore?».
Conoscevo quel tono perentorio. Era il tono che usava quando non era intenzionata ad ammettere repliche. Ma ero riluttante a lasciarli soli, seppure per un minuto. Esitai.
«
È proprio necessario?».
I suoi occhi si strinsero mentre mi fissava e in quel momento pensai che se avesse potuto mi sarebbe saltata al collo per strangolarmi.
«Lo sai che non bevo il the senza latte e due cucchiaini di zucchero», rispose con voce soave. Qualcun altro avrebbe potuto trovarla tranquillizzante, ma io sapevo che l'estrema dolcezza era l'ultimo stadio prima di una furia omicida che non avrebbe lasciato scampo a nessuno. «Per favore», aggiunse, sorridendo.
Alzai gli occhi al cielo. «D'accordo. Vado».
Attraversai la stanza con passo pesante e uscii. Lì per lì pensai di nascondermi dietro la porta del salone per origliare, ma decisi immediatamente che non era il caso. Mi sembrava troppo scorretto nei confronti di Jas. In cucina, Louise stava riordinando il frigorifero e intanto canticchiava tra sè. Quando entrai, naturalmente mi sorrise.
«Tutto bene, signorina Renesmee?».
Le risposi con un sospiro mentre prendevo la zuccheriera di porcellana dal tavolo. «Spero almeno che Jas le abbia regalato il flacone più grande, così ne sarà valsa la pena.».
Stavo attraversando il corridoio per tornare in salotto quando qualcuno suonò il campanello. Senza riflettere, andai ad aprire e mi trovai davanti Tom. Stringeva tra le mani un piccolo mazzo di delicati fiorellini gialli e aveva un'aria soddisfatta.
«Ciao, Renesmee», mi salutò. Era evidentemente un po' sorpreso di trovarmi lì, ma non tanto. «Non sapevo che fossi qui. Tutto okay?».
Non risposi. Lo fissavo a bocca spalancata, incredula. Era veramente Tom? Sbattei più volte le palpebre, ma senza successo. Non era un'illusione: lui era ancora lì. Lui era lì e Seth e Jas erano in salotto a bere il the. Lentamente iniziò a montare il panico. Tom, stupito dal mio silenzio di tomba e forse dalla mia espressione sconvolta, si schiarì la voce, a disagio.
«Ho pensato di fare un salto a trovare Jas.
È in casa, vero?».
«Ehm...».
Prima che potessi farfugliare una risposta, sebbene non avessi la minima idea di cosa farfugliare, Jas arrivò dal salone a passo svelto.
«Allora, questo zucchero...».
Vide Tom sulla porta e si bloccò con un sussulto. Sul suo volto si dipinse rapidamente un'espressione di autentico orrore. Lui, invece, si illuminò come se non la vedesse da settimane; e invece si erano incontrati quella mattina a scuola, come ogni giorno.
«Ciao!», esclamò, allegro, avanzando nell'ingresso. Io mi feci da parte, gli occhi bassi sul pavimento, pregando in silenzio che un miracolo giungesse a salvarci. «Sorpresa!». Tom sollevò il mazzolino di fiori con aria raggiante.
Mi chiesi se a Jas non sembrasse sgradevolmente ironico ascoltare quella stessa parola ripetuta per due volte di seguito, nello spazio di dieci minuti, da due persone che in quel momento, poco ma sicuro, non avrebbe mai desiderato vedere. Se ne stava lì impalata a fissarlo, come se non avesse idea di cosa fare, e a poco a poco Tom iniziò a capire che qualcosa non andava, lo sguardo confuso che andava da me a Jas.
«Ragazze, tutto bene?».
«S-sì», balbettò lei. «
È solo che... Non ti aspettavo... Io... Ma non dovevi fare una ricerca di storia? Mi hai detto che avresti studiato tutto il pomeriggio», disse, una punta di disperazione nella voce.
Tom sorrise di nuovo. «Ho finito presto. Così possiamo stare un po' insieme». Sicuramente non era quella la reazione che si aspettava. Davanti alla faccia sconvolta di Jas il suo entusiasmo finalmente si sgonfiò come un soufflè venuto male. «Che c'è che non va?».
«Niente. Mi hai presa alla sprovvista, tutto qui», rispose Jas. Scosse appena la testa, cercando di ricomporsi. Mi sembrava quasi di sentire il rumore degli ingranaggi del suo cervello che lavoravano per risolvere la situazione.
Tom sgranò gli occhi. «Alla sprovvista? Perchè, cosa stavate facendo?». Silenzio. Jas mi guardò come se si aspettasse che io inventassi chissà cosa, ma mi sembrava di avere la testa piena di ovatta. Non riuscivo a pensare. Ricambiai il suo sguardo allarmato e Tom, che pur non essendo particolarmente sveglio, non era un idiota, si insospettì. «Di chi è la Ford parcheggiata qui fuori?», aggiunse, sfoderando un cipiglio da interrogatorio della polizia. Charlie glielo avrebbe invidiato di sicuro. «Chi c'è con voi?».
I suoi occhi socchiusi guizzarono verso la porta del salotto, da dove giungeva un lieve acciottolio di tazze. Fece un passo in quella direzione ed io già mi auguravo che il nostro ospite fosse uscito dalla finestra, quando sulla porta comparve proprio lui, Seth. Tom non ebbe alcuna reazione immediata; si limitò a sbiancare leggermente e ad osservare Seth con espressione indecifrabile.
«Ciao, Tom», disse Seth, tranquillo, ma serio in volto. Accidenti a lui, perchè doveva comportarsi da uomo e affrontare il ragazzo di Jas invece di filarsela come avrebbe fatto chiunque altro? Lo guardai male, ma lui fece finta di nulla. «Come va?».
Per diversi secondi ci fu un silenzio così profondo che potei ascoltare perfettamente i battiti del cuore di tutti noi. Tre veloci e agitati, uno calmo e lento. Poi Tom scattò in avanti. «Che sta succedendo qui?», domandò.
«Non è come sembra!», strillò Jas.
«Sembra che stiate bevendo il the», osservò Tom, sbirciando oltre le spalle di Seth.
Lei annuì precipitosamente. «Sì, esatto! È solo un the!».
«Ma lui che c'entra? Da quando prende il the a casa tua?». 
Ero sul punto di intervenire e dire qualcosa, qualunque cosa, per salvare la mia amica, ma non ne ebbi il tempo. In quel preciso istante la porta della cucina si spalancò e apparve Louise con un cesto di panni puliti tra le braccia; quando ci vide, afferrò la situazione in un lampo, fece dietro front e sparì di nuovo nella cucina. Beata lei che poteva scappare, pensai, sconsolata.
«Da oggi!», rispose Jas, sempre più allarmata. «Stavamo solo facendo due chiacchiere, e non era mai venuto a casa mia prima d'ora!».
«Come no! Due chiacchiere di nascosto».
«Ma non è così! Non te l'ho detto perchè... perchè non è capitato... Non ne ho avuto l'occasione...».
«Tom, davvero, non c'è niente di cui...», iniziò Seth, ma non riuscì a dire nient'altro.
«Tu non parlare!», sbottò Tom, lanciandogli un'occhiata velenosa che avrebbe fatto indietreggiare di corsa anche me. Aveva il viso arrossato, agitava il mazzolino di fiori che aveva portato a Jas come se fosse stato un'arma e sembrava davvero furioso. «Come osi venire a casa della mia ragazza a provarci con lei...».
Seth e Jas aprirono bocca contemporaneamente per ribattere, ma questa volta riuscii a precederli. «No, ti stai sbagliando», esclamai, decisa, e questa era la pura, semplice verità; era Jas a provarci con lui, non il contrario. «Sono stata qui con loro per tutto il tempo, non è successo niente. Niente».
Mentre Tom mi fissava, scorsi un piccolo dubbio iniziare a farsi strada nei suoi occhi. Sentiva che ero sincera, ma era comunque troppo arrabbiato per accettarlo.
«Questo non ha importanza. Non ha importanza perchè lei non me l'ha detto», continuò, e si voltò verso Jas. «Perchè l'hai fatto se non c'era niente da nascondere? Perchè?».
A quel punto Jas esplose. «Oh, insomma!», strillò, alzando le voce e le braccia come per levare una protesta verso il cielo. Tom sobbalzò e mi parve di sentire chiaramente i delicati soprammobili di cristallo del salotto tremare nelle loro consolle. «Non sono tenuta a dirti tutto quello che faccio!».
Tom strabuzzò gli occhi. «Non sei tenuta a dirmi che ti vedi con un altro ragazzo? Uno che conosci appena e che ti viene dietro?».
«Io non mi vedo con un altro, abbiamo solo bevuto un the, maledizione!».
«Ma certo! Quindi non si siete guardati nè sfiorati, forse non avere nemmeno parlato, giusto? È ridicolo!».
«No, tu sei ridicolo! Piantala!».
Jas non potè aggiungere altro. Dalla cucina giunse un grido che la ammutolì.
«Signorina Jas! Signorina Jas, il gatto!».
Poi dalla porta della piccola lavanderia accanto alla cucina schizzò fuori qualcosa di simile a una grossa palla di pelo lanciata a tutta velocità. Era Gatto, che soffiando, miagolando e graffiando si gettò contro Seth. Jas cacciò un urlo di spavento e per i successivi due minuti ci fu solo una gran confusione. Jas strappò dalle mani di Tom il mazzolino di fiori e iniziò a colpire il gatto ripetutamente per fargli mollare la presa mentre Seth si divincolava per liberarsi, più stupito che spaventato dagli artigli che si agitavano a un centimetro dalla sua faccia. Di istinto mi lanciai verso la mia amica per cercare di fermarla e come unico risultato mi ritrovai a barcollare all'indietro, mezza accecata da un pugno di margherite ormai distrutte che avevano centrato quasi perfettamente la mia faccia.
Forse per sfuggire a Jas e al suo mazzo di fiori, improvvisamente il gatto balzò di nuovo sul pavimento e si fiondò nel salone come una palla da baseball emettendo una serie di acuti e insopportabili miagolii. Era davvero fuori di testa. Jas, consapevole del fatto che l'animale aveva l'assoluto divieto di entrare in quella stanza, gli corse dietro urlando qualcosa di incomprensibile e Tom, almeno in apparenza dimenticando di essere arrabbiato con lei, la seguì a ruota. Un attimo dopo anche la porta della cucina si spalancò con un gran fracasso e ne uscì Louise con una scopa tra le mani, i capelli scarmigliati e l'aria determinata di un soldato che intraprende una missione di vita o di morte. Seth fece un salto all'indietro e si tolse dalla sua traiettoria appena un secondo prima che la donna si precipitasse nel salone come una furia.
Rimasti soli, ansimanti e sconvolti, ci guardammo per un attimo. Poi lo afferrai per un braccio e lo spinsi verso la porta d'ingresso, che era rimasta aperta. Mi augurai che almeno qualche vicino ficcanaso si fosse goduto lo spettacolo che avevamo offerto.
«Ehi, ma cosa...».
«Vattene subito, Seth! Sparisci!», sbraitai, trascinandolo con tutte le mie forze e riuscendo soltanto a farlo scivolare lentamente sul tappeto. Nella stanza accanto si udì un tonfo, il rumore di una tazza che si infrangeva sul pavimento, uno strillo di Jas e una sonora imprecazione di Tom. Seth guardò verso il salone con aria sinceramente preoccupata.
«Ma... sei sicura... Jas... il gatto...».
«Qui ci penso io, tu vattene!», sibilai, affannata, scostandomi una ciocca di capelli arruffati dalla fronte. «E comunque sappi che Gatto ha tutta la mia approvazione!».
Chiusi con forza la porta sulla sua faccia sconcertata.


****


Mezz'ora più tardi ero ancora a casa Williams, seduta sul divano del salotto ad osservare i resti della battaglia condotta per acciuffare Gatto e ascoltando Tom e Jas che litigavano furiosamente davanti a me. Louise era riuscita a bloccare il gatto lanciandosi sul felino con tutto il suo peso e a chiuderlo di nuovo in lavanderia, dalla quale si udivano ancora miagolii furibondi e un forte rumore di unghie contro la porta; risolta l'emergenza, avevo cercato di andarmene per tre volte, ma Tom e Jas me l'avevano impedito. Louise aveva pensato bene di dileguarsi in cucina, probabilmente perchè non voleva essere incolpata del disastro nel salotto all'arrivo della signora Williams, e a me era toccato ascoltarli. Non facevano che chiamarmi in causa nella discussione e sebbene mi rifiutassi di rispondere e di prendere le parti di uno dei due, non ero comunque riuscita ad allontanarmi. Fissavo in silenzio il pavimento ricoperto di schegge di vetro e porcellana, i cuscini lanciati in aria e una sedia rovesciata su un fianco (Tom ci era caduto sopra inseguendo il gatto), e ascoltavo, le braccia incrociate e l'aria assente.
«Come diavolo ti è venuto in mente di invitarlo a casa tua?».
«Se voglio invitare qualcuno a casa mia lo faccio e basta!».
«La senti, Renesmee? La senti? E poi dice che io sono paranoico! Ma se lo conosci a stento da cinque minuti!».
«Non è vero, lo conosco eccome!».
«Immagino che in che modo abbiate fatto conoscenza!».
«Non dire stupidaggini! Abbiamo parlato qualche volta, tutto qui!».
«Che cosa? Che cosa? Lo vedi che ho ragione? Quante volte vi siete incontrati alle mie spalle? Dove? Quando?».
«Per telefono, soltanto per telefono! Sono io che ho ragione, sei un paranoico e un ficcanaso, non è vero, Renesmee? Sei d'accordo con me, non è così?».
«Ma come ti è venuto in mente di chiamarlo?».
«Se mi va di chiamare una persona la chiamo!».
Sospirando, lasciai andare la testa dolorante all'indietro, contro la morbida spalliera del divano, rassegnata ad affrontare un lungo, lunghissimo pomeriggio. Chiusi gli occhi e mi dissi che se mai Seth si fosse ripresentato a casa di Jas, avrebbe dovuto fare i conti con Gatto e le sue crisi isteriche, e tutto sommato il pensiero era consolante: forse nella mia piccola battaglia personale avevo finalmente trovato un alleato.







Note.
1. Qui la canzone. Mi piace moltissimo e trovo che il testo sia un po' ironico se messo in relazione con il contenuto del capitolo... Spero che la troviate adatta.
2. Probabilmente non lo ricorderete, così ecco il link.
3. Terzo e ultimo link "musicale" per questo capitolo, giuro xd.
4. Il SAT è una sorta di test attitudinale che negli Stati Uniti viene richiesto per l'ammissione al college. Qui se siete curiosi di saperne di più.






Spazio autrice.
Salve a tutti! Sono contenta di essere riuscita a rispettare i tempi di aggiornamento senza nessun problema, per una volta... olè!
Allora, come vi avevo anticipato, finalmente un capitolo più leggero dopo un bel po' di capitoli incentrati sulla tragedia xd. Mi sono divertita scrivendo queste scene e spero di essere riuscita a strapparvi un sorriso; desideravo proprio alleggerire un po' l'atmosfera, anche se i problemi di Renesmee sono sempre lì e non sono affatto scomparsi, e mi auguro di essere riuscita nell'intento. In fondo, trovo che Jas sia un personaggio spontaneamente "comico" in quasi tutto ciò che fa, spesso quando scrivo le sue battute mi ritrovo a ridacchiare da sola, così ho pensato che anche il suo primo appuntamento con Seth (perchè in fondo di una specie di primo appuntamento si tratta) non poteva essere troppo serio.
Spero che non siate troppo arrabbiate con Renesmee dopo questa ennesima interferenza nella vita privata della sua migliore amica xd. Capisco che possa sembrare esagerata, ma spero di riuscire sempre ad esprimere cosa pensa e cosa prova nel modo più chiaro possibile. E soprattutto, più avanti Renesmee farà chiarezza dentro di sè e i suoi sentimenti nei confronti dell'imprinting di Seth diventeranno più comprensibili. Grazie e alla prossima!

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Capitolo 14
*** Glitter in the air ***


C 14
Capitolo 14
Glitter in the air



It's only half past the point of no return
The tip of the ice burg
The sun before the burn
The thunder before lightning
The breathe before the freeze
Have you ever felt this way?
[...]
It's only half past the point of oblivion
The hourglass on the table
The walk before the run
The breathe before the kiss
And the fear before the flames
Have you ever felt this way?
Glitter in the air, Pink¹



Non bisogna adirarsi contro i fatti. Le nostre collere non li toccano.
Plutarco



Charlie si lasciò andare contro lo schienale della sedia con un sospiro di soddisfazione e lanciò uno sguardo adorante verso sua moglie.
«Il miglior roast-beef che abbia mai mangiato, tesoro».
Sue, seduta dall'altro lato del tavolo, sorrise. «Lo sospettavo, visto che ne hai spazzolato la metà praticamente da solo... Forse sarebbe il caso di mettersi un po' a dieta, che ne pensi, tesoro?».
«Dieta... Tsè», borbottò il nonno per tutta risposta. Lanciò a Sue uno sguardo di soppiatto, incontrò la sua espressione di divertito rimprovero e subito abbassò gli occhi. «Be', sì, forse stasera ho esagerato un po', ma non è colpa mia se il tuo roast-beef batte di gran lunga qualunque altro abbia mai assaggiato. E comunque non voglio sentir parlare di diete fino a quando non sarò chiuso in una bara».
«A quel punto potrebbe essere un po' tardi per iniziarne una», ribattè lei con tono ironico, ed io non riuscii a trattenere una risatina.
Charlie scrollò le spalle. «Meglio così», rispose. Istintivamente guardai sua moglie e la sua aria di disapprovazione era così comica da strapparmi un altro piccolo scoppio di risate.
Era venerdì sera e come ogni settimana stavo cenando con Charlie e Sue. Questa volta, però, ero da sola: i miei genitori erano partiti il giorno prima per trascorrere il week-end a Jacksonville, in Florida, da Renee e Phil. Dopo mesi di discussioni, ripensamenti e contrattazioni con la nonna, Bella aveva finalmente acconsentito ad una visita, seppure breve, mentre io ero stata lasciata a Forks, in consegna al resto della famiglia. Sapevo che tenermi alla larga da Renee, dal suo intuito e dalla sua curiosità era la cosa migliore per tutti, compresa me, ma essere lasciata a casa come una bambina che non è abbastanza grande per seguire i suoi genitori non mi faceva piacere. Neanche un po'.
«E allora, stavi dicendo di aver parlato con i tuoi stamattina?», riprese Charlie dopo un minuto di silenzio durante il quale aveva osservato i resti dell'ottima cena di Sue con aria assente e una mano sullo stomaco, forse impegnato a meditare sugli orrori di dover seguire una dieta.
«Sì, la mamma ha chiamato prima che andassi a scuola. Sono atterrati ieri sera, ma non hanno telefonato perchè avevano paura di svegliarmi».
Il nonno assentì. «Cosa ti ha raccontato? Se la stanno spassando tra sole e mare?». Mentre parlava fece inconsciamente una smorfia. L'idea di un viaggio in Florida non lo attraeva minimamente, anzi, il caldo opprimente e la luce troppo forte lo inquietavano quasi quanto un enorme negozio di abbigliamento inquietava la mamma. «Sembra che in Florida la gente faccia il bagno anche a Natale».
«Probabilmente sì, ma la mamma ha detto che piove e il cielo è coperto. A quanto sembra hanno scelto l'unico week-end piovoso dell'anno», scherzai.
Ovviamente Edward e Bella avevano prenotato il volo soltanto dopo uno scrupoloso esame del bollettino metereologico e la consulenza di zia Alice; potevano arrischiarsi ad andare in giro per Jacksonville solo se c'era brutto tempo.
«Ah, davvero? Peccato», commentò Charlie, rilassato e beatamente ignaro della verità.
«Renee sarà stata molto felice di rivedere Bella», intervenne Sue.
«Lo spero proprio», rispose il nonno al posto mio. «Negli ultimi mesi non faceva che chiamarmi alla centrale per parlare di lei».
«E tu, Renesmee?», aggiunse subito Sue, ansiosa di allontanare la conversazione da argomenti scomodi. «Non ti andava di vedere la Florida?».
Serrai le labbra per un istante, pensierosa. «Be', sì, ehm... Ma... non potevo proprio partire... con la scuola e tutto il resto... Il terzo anno delle superiori è piuttosto impegnativo», accennai un mezzo sorriso.
Il nonno sollevò un attimo lo sguardo dal piatto vuoto per lanciarmi un'occhiata veloce, la fronte corrugata, come riflettendo su qualcosa, poi lo riabbassò.
«Peccato, tesoro. Non vedi Renee da tantissimo tempo ed è pur sempre tua nonna».
Ahi. Altro argomento spinoso. «Lo so. Magari la prossima volta», risposi con tono tranquillo.
Sue si alzò in piedi, troncando la discussione. «Allora, siete pronti per il dolce?».
Servì una delle sue specialità, crostata di lamponi con panna montata, e quando Charlie ebbe la sua fetta nel piatto dimenticò Renee, Bella e i nostri misteri nel giro di un minuto. Quando terminammo anche il dolce, lanciai uno sguardo all'orologio.
«Meglio che vada», dissi, posando la forchetta. «Scusate se scappo via, ma è già tardi e ho... ehm... un po' da fare, stasera», spiegai a mezza voce.
Sue mi rivolse un'occhiata curiosa, ma non fece domande, discreta come sempre, neppure quando mi alzai per aiutarla con i piatti sporchi.
«Senti, Ness», cominciò Charlie al nostro ritorno al tavolo, «perchè non ti fermi a dormire qui? Sarai troppo stanca per guidare fino a casa. La tua camera è sempre pronta, lo sai». La mia camera? Ah, sì. Dalla scorsa primavera la vecchia stanza della mamma era diventata la mia stanza. «Ad Esme e Carlisle non dispiacerà, in fondo hai passato la notte scorsa a casa loro».
«Sei gentile, ma non voglio darvi fastidio».
«Fastidio?». Il nonno mi fissò sbalordito. «Sciocchezze! È sempre un piacere averti con noi, vero, Sue?».
Lei annuì con un sorriso. «Ma certo, puoi fermarti quando vuoi, cara».
E adesso? Mi morsi un labbro, indecisa. Accidenti, possibile che non fossi capace di mantenere un briciolo di privacy neanche con papà dall'altra parte del paese?
«Lo so, è solo che... non dormo a casa, stasera».
«Ah, davvero? Ti ospita Jas?», chiese con blando interesse, probabilmente troppo sicuro della risposta che avrebbe ricevuto per preoccuparsi.
Da quando io ed Alex ci eravamo lasciati niente di ciò che facevo era più in grado di destare la sua ansia, come se credesse che tutti i possibili pericoli che avrei potuto incontrare fossero spariti insieme al mio ragazzo. Sembrava ben più interessato al resto della crostata, che stava adocchiando con aria ghiotta già da cinque minuti.
Sospirai. «No. Dormo da Jacob».
Charlie dimenticò di colpo la crostata e mi fissò con gli occhi sgranati, allarmato.
«Che significa che dormi da Jacob?», domandò dopo un attimo di silenzio di tomba.
«Significa che dormo da Jacob», mormorai, sconcertata. Non avrei saputo in quale altro modo rispondere tanto la domanda mi sembrava assurda. «Quello che ho già fatto altre mille volte in passato, hai presente?».
«Sì», balbettò il nonno. Stava diventando rosso, chissà per quale motivo. «Sì, ma non lo fai da tanto tempo. Da quando eri bambina».
Sue gli stava lanciando una delle sue occhiate ammonitrici, ma lui non sembrava in condizioni di accorgersene.
«Be', che importanza ha?», dissi mentre mi alzavo da tavola. «È una nostra vecchia tradizione, ultimamente ci siamo visti poco e così... abbiamo pensato di rispolverarla».
«Quando eri piccola adoravi i vostri pigiama-party», osservò Sue con un sorriso nostalgico. «Penso che sia un'ottima idea».
«Io no. Per niente», ribattè il nonno, e si alzò per seguirmi nell'ingresso dove avevo lasciato borsa e giubbotto. Aveva un'aria così allarmata che era quasi divertente e faticai a trattenere una risata.
Sue smise di armeggiare con la lavastoviglie e si affacciò alla porta asciugandosi le mani con uno strofinaccio, pronta ad arginare una crisi.  
Raccolsi la giacca, la infilai e automaticamente raccolsi con le mani i capelli che erano rimasti tra il golf e il collo del giubbotto, ma all'improvviso mi bloccai. Di colpo mi erano tornate alla mente tutte le volte, splendide, infinite volte in cui Alex aveva compiuto quello stesso gesto al mio posto, liberandomi delicatamente i boccoli ramati dalla trappola di giacche e cappotti e lasciandoli ricadere sulle mie spalle, le dita che indugiavano
per un istante, leggere, accarezzandomi le ciocche di capelli come se fossero un tessuto prezioso, sfiorando la pelle sulla nuca, per poi scivolare via.
Respirai profondamente, cercando di arginare la fitta di dolore che avvertivo nel petto e sperando di apparire normale agli occhi di Charlie. Succedeva all'improvviso, cogliendomi ogni volta alla sprovvista. Bastava un gesto, un gesto qualunque, un'immagine, una canzone, un colore, un sapore, ed ecco che mi piombava addosso un ricordo, un dolce, straziante ricordo di lui. E ogni volta contrastare il senso di perdita e il desiderio di riaverlo con me era come una battaglia. Una battaglia persa in partenza.
«È tardi», balbettò il nonno, del tutto ignaro di ciò che si agitava nell'animo della sua nipotina, «sarai stanca, non puoi guidare fino a La Push».
Scrollai la testa con un gesto energico e tornai alla realtà, al piccolo ingresso lustro e ordinato e allo sguardo spaventato di Charlie che sembrava implorarmi di restare dov'ero.
«Non ci metterò neanche dieci minuti. Ho una Mercedes, non una bicicletta», risposi, un sorriso un po' indisponente sul volto.
Sue scoppiò a ridere e si allontanò nuovamente con passo sicuro, forse pensando che sarei stata in grado di cavarmela da sola.
«
È tardi comunque. Hai visto che ore sono?».
Lanciai un'occhiata esasperata al vecchio orologio anni Sessanta appeso alla parete. «Le nove e mezza. Non sarebbe tardi neanche se avessi sette anni, nonno».
Lui continuava a fissarmi con aria disperata e a me scappava sempre più da ridere. Per metà ero divertira e per metà assolutamente perplessa. Tutta quell'agitazione era troppo anche per gli standard della mia famiglia di pazzi. Cosa c'era sotto?
«Adesso basta». Sue tornò a grandi passi nell'ingresso e squadrò il nonno con sguardo deciso. «Vai, tesoro, o comincerà davvero a farsi tardi. Non preoccuparti e passa una bella serata. E tu», aggiunse all'indirizzo di Charlie, che sussultò come se avesse sentito uno schiocco di frusta, «sta' tranquillo, Renesmee sa cavarsela benissimo. Sarà a La Push in pochi minuti».
Le sorrisi, sollevata. Tutto sommato sarei riuscita a gestire il nonno anche da sola, ma la presenza di Sue aveva sempre un effetto calmante su di lui quando si trattava di affrontare qualcosa di strano, come i nostri segreti o una notte a casa di Jacob... Evidentemente per Charlie fare i conti con le mie stranezze e accettare il modo in cui avrei passato la serata erano più o meno sullo stesso piano.
«Bene! Allora vado», esclamai, afferrando al volo la borsa. «Buona serata anche a voi. E grazie per la cena. Ciao!».
Corsi verso Charlie, che sembrava pietrificato, gli stampai in tutta fretta un bacio sulla guancia, mi precipitai fuori prima che potesse dire altro e saltai in macchina. Mentre guidavo cercai di riflettere sul suo comportamento, ma ero distratta, altri pensieri reclamavano con prepotenza la mia attenzione e nel giro di un minuto mi ero lasciata catturare.
In passato ero stata abituata a trascorrere più tempo con Jacob che con i miei genitori, ma le cose erano cambiate. Nelle ultime settimane ci eravamo visti molto meno del solito e la colpa era mia. Lo evitavo.
Sembrava che tutto intorno a me fosse in costante cambiamento: Alex, Jas, Seth, perfino la mia famiglia, che non riusciva a capire interamente le mie scelte, come se quel filo di intesa e comprensione reciproca che ci aveva sempre unito iniziasse a lacerarsi e a diventare più sottile. Questa volta li avevo chiusi fuori dalla mia vita e avevo preso da sola le mie decisioni, senza ascoltare il parere di nessuno, fidandomi soltanto di me stessa e delle mie sensazioni. Forse era un modo per rivendicare autonomia e libertà di scelta dopo anni e anni trascorsi a seguire inconsapevolmente la strada che loro avevano tracciato per me. A poco a poco, però, mi stavo rendendo conto che prendere le mie decisioni senza condizionamenti
non significava necessariamente escluderli. Avrei dovuto sforzarmi di trovare un equilibrio.
E poi Jacob. Anche lui mi sembrava cambiato. Quando gli avevo raccontato della rottura con Alex era stato dolce e comprensivo come sempre. Mi aveva ascoltato in silenzio, fino all'ultima parola prima che il pianto mi chiudesse la gola, poi mi aveva abbracciata stringendomi forte, ma per la prima volta, da quel che potevo ricordare, un abbraccio del mio Jacob non era riuscito a scacciare le nuvole e a far tornare il sereno.
Era stato silenzioso, grave, pensieroso, come se il mio racconto gli avesse dato qualche seria preoccupazione. Davanti a me aveva cercato di mostrarsi tranquillo, ma avevo avvertito qualcosa di stonato nella sua voce e il suo sorriso mi era sembrato smorzato. E quella strana alternanza di ostentata serenità e cupe meditazioni era continuata nei giorni successivi. In alcuni momenti appariva distante, freddo e pensieroso, come se qualcosa lo frenasse e bloccasse il suo modo naturale di comportarsi. In altri momenti, invece, avevo la sensazione di sentirlo troppo vicino: il modo in cui mi guardava quando credeva che non me ne accorgessi, la tenerezza con cui mi accarezzava il polso quando mi teneva la mano, scatenavano una piccola tempesta di confusione e imbarazzo dentro di me. E quando i nostri sguardi si incontravano per un istante, esitanti e un po' spaventati, mi sembrava di leggere lo stesso miscuglio di sentimenti nei suoi occhi. Una parte di me avrebbe desiderato capire cosa ci stava succedendo. L'altra sospettava di averlo già capito ed era per questo che avevo iniziato ad evitare Jacob. Avevamo preso l'abitudine di parlare al telefono, un modo di comunicare molto più sicuro per entrambi, e per lo più chiacchieravamo di cose poco importanti, la scuola, il suo lavoro, la mia famiglia.
Forse il pigiama party in nome dei vecchi tempi non era stata una grande idea, ma Jacob ed io eravamo finiti a parlarne per caso qualche giorno prima: chiacchierando al telefono ci eravamo lasciati prendere dalla nostalgia e prima che potessimo rendercene conto davvero già avevamo organizzato la serata.
Tutta presa a rimuginare, mi accorsi di essere giunta a destinazione solo quando il piede calò automaticamente sul freno. Parcheggiai con una certa cautela, ancora un po' incerta quando si trattava di fare manovre, e vidi una sagoma sbucare da sotto il portico della piccola casa di mattoni immersa nell'oscurità. Jacob mi venne incontro e prima ancora che mettessi piede fuori dall'auto mi aveva tolto di mano la borsa con tutte le mie cose per la notte.
«Jake!». D'istinto lo abbracciai con un piccolo sospiro di felicità. Nonostante tutto, ogni volta che sentivo la sua voce o incrociavo i suoi occhi il mio cuore faceva un balzo nel petto ed ero semplicemente felice di averlo accanto a me. «Mi sei mancato», sussurrai.
Era così alto che per raggiungerlo dovevo sollevarmi sulle punte dei piedi, come una bambina. Lui mi circondò la schiena con un braccio e lo sentii affondare il viso nei miei capelli sciolti sulle spalle.
«Anche tu, piccola». Quando ci allontanammo, per un attimo mi osservò in silenzio con un'espressione seria che quasi subito si distese in un sorriso. «Come va? La cena è andata bene? È successo qualcosa?».
«Perchè me lo chiedi?», domandai, stupita.
«Charlie ha chiamato qui poco fa, voleva parlare con Billy. Non credo che fosse importante, hanno fatto solo due chiacchiere, ma mi è sembrato un po'... strano».
Abbassò la voce quando aprì la porta di casa e si spostò di lato per lasciarmi passare.
«Davvero?». Lanciai un'occhiata alla porta della stanza di Billy, in fondo al breve e stretto corridoio che portava alle camere da letto. Era chiusa. «Sta dormendo?».
Jacob annuì, senza parlare. Nella sua camera lasciò cadere la borsa sul letto, poi accese il lume sulla piccola scrivania. Come sempre quando passavo la notte lì, io avrei dormito nella sua stanza e lui sul divano del salotto.
«È appena andato di là. Allora, secondo te perchè Charlie ha chiamato proprio adesso?».
Lo fissai, riflettendo. All'improvviso mi era passata per la mente un'idea folle: forse il nonno aveva voluto controllare che Billy fosse in casa e magari avvisarlo di qualcosa... del mio arrivo, forse. Ma Billy senz'altro sapeva che quella notte avrei dormito a casa sua. 
Perchè mai Charlie avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Non aveva senso. Ripensai alla nostra conversazione poco prima che uscissi, alle mie parole, alle sue, al rossore che aveva dipinto le sue guance rugose.
«... dormo da Jacob. Quello che ho già fatto altre mille volte in passato, hai presente?».
«Sì, ma non lo fai da tanto tempo. Da quando eri bambina».

Jacob aspettava una risposta, in piedi di fronte a me, un sopracciglio appena inarcato. Scossi la testa, cercando di scacciare quell'idea assurda.
«Uhm... Non saprei, Jake. Probabilmente hai ragione tu, voleva solo fare due chiacchiere», risposi a mezza voce, passandomi una mano sulla fronte come per schiarirmi le idee.
Lui non disse nulla e rimase fermo, in silenzio, nella penombra, a guardarmi. Mi avvicinai alla borsa e aprii la cerniera. Poi, accorgendomi che Jacob non si muoveva, sollevai lo sguardo su di lui.
«Vorrei cambiarmi», mormorai, quasi in tono interrogativo.
«Certo, fai pure. Ti aspetto di là».
Mi sorrise e lasciò la camera, chiudendosi accuratamente la porta alle spalle. Indossai i pantaloni morbidi e il top leggero del pigiama, lavai i denti, spazzolai i capelli, continuando a rimuginare sul comportamento di Charlie, ma quando tornai in salotto ero decisa a non parlarne più. Mi sembrava soltanto una colossale sciocchezza.
Jacob era  sul divano, appoggiato a un cuscino, una t-shirt a maniche corte e dei pantaloni neri da ginnastica; non aveva bisogno di coperte nè di abiti pesanti, sebbene fossimo ormai alle soglie dell'inverno. Mi accolse con un cenno del capo.
«Ehi», disse.
Sedetti sul divano con le ginocchia piegate davanti a me, dal lato opposto rispetto al suo, anche se lui era così ingombrante che eravamo comunque appiccicati l'uno all'altra.
«Ehi», risposi con un sorrisino. Mi accorsi che ero sinceramente felice di trovarmi lì con lui e che dubbi e paure sembrano lontanissimi. Era sempre così, con Jake. Era sempre stato così e questo non sarebbe cambiato mai. Eppure, quanto avrei desiderato poter tornare indietro nel tempo, a quando tutto era meravigliosamente semplice.
«Sembri stanca», osservò dopo un minuto di silenzio.
Scrollai le spalle. «Un po', ma è presto per andare a letto».
«Vuoi guardare la tv?».
Ci pensai su un secondo. «Uhm... No, non mi va. Veramente vorrei parlare un po', se va anche a te. È tanto che non lo facciamo».
Capì al volo cosa intendevo. Annuì appena mentre si sistemava più comodamente contro il bracciolo del divano.
«Hai ragione. Allora, come vanno le cose? La scuola?».
«Piuttosto bene. I professori si agitano un sacco perchè quest'anno c'è il test di ammissione all'università, ma in genere cerco di ascoltarli il meno possibile».
«Ben detto», rispose con un sorrisino. «E le ragazze?».
Naturalmente si riferiva alle mie amiche. «Tutto ok... Sabato sera Danielle uscirà con un ragazzo, sai? Si chiama Nick, frequenta il nostro corso di informatica e le viene dietro dall'inizio dell'anno. A lei piace, ma si è decisa a parlargli solo qualche giorno fa», raccontai, un'espressione intenerita sul volto. Danielle era sempre stata la più timida di tutte noi con l'altro sesso, ma sospettavamo che stesse iniziando a sciogliersi un po'. Era stato incredibilmente dolce assistere alla nascita di quella nuova intesa. Mi aveva fatto tornare indietro nel tempo, ai primi giorni con Alex, quando ci stavamo ancora conoscendo: l'imbarazzo, le paure, l'insicurezza, l'indecisione, ma anche l'entusiasmo, l'emozione e il batticuore. Mi scappò un sospiro lieve e Jake aggrottò le sopracciglia, mentre mi fissava, forse stupito dalla direzione un po' malinconica che aveva preso il mio umore. Mi affrettai a cercare qualcos'altro da dire per evitare domande scomode, ancora fermamente decisa a non parlare di Alex con lui. «Oh, lunedì prossimo, dopo la scuola, probabilmente andremo tutte insieme a Port Angeles per fare shopping. Jas ha detto che vuole fare spese pazze. Ha visto in una vetrina un vestito di 300 dollari e sostiene che deve averlo assolutamente», scossi il capo, divertita. «Io e le altre cercheremo di fermarla, naturalmente, altrimenti suo padre le toglierà la carta di credito, ma sai com'è fatta Jas... Non ascolta mai se non vuole ascoltare. Sarà una bella lotta cercare di farle cambiare idea».
«Be', mi sembra complicato», commentò Jacob, ridendo. «Cosa potreste fare, legarla, imbavagliarla e portarla via?». Scoppiai a ridere anch'io. «E comunque, cosa ci fa con un vestito da 300 dollari? Non sapevo che a Forks organizzassero serate di gala».
«Ha detto che ha bisogno di consolarsi e distrarsi», risposi con un'occhiata eloquente. «In questo è troppo simile a sua madre, che dà fondo alle carte di credito del marito ogni volta che si annoia. Il suo prossimo passo sarà ritirarsi per una settimana in qualche costosissimo centro benessere, proprio come la signora Williams».
«Consolarsi e distrarsi?», ripetè Jacob. «Come mai?».
Esitai per un attimo. Avrei preferito evitare che finissimo a parlare proprio di quello: non serviva a nulla e ogni volta rischiavamo di litigare.
«Be'... Le cose non le vanno molto bene in questo periodo. Lei e Tom non fanno che discutere da... lo sai da quando», borbottai, lanciandogli un'occhiata di traverso. Ovviamente lui sapeva tutto del tè pomeridiano finito in tragedia circa una settimana prima. La consapevolezza balenò sul suo viso e annuì con aria seria. «Non penso che resisteranno ancora per molto», aggiunsi a mezza voce dopo qualche attimo di silenzio. Avevo gli occhi bassi e la malinconia che impregnava la mia voce mi stupì. «Jas è molto determinata se qualcosa le interessa davvero, ma a volte... a volte guarda Tom come se fosse un estraneo. Come se dentro di sè si chiedesse che cavolo ci fa insieme a lui, capisci? E Tom... Lui non è una persona molto combattiva, invece». Sospirai. «Spero quasi che anche loro si rendano contro prima possibile che è finita. So che sembra brutto da dire, so che mi sono impegnata al massimo per evitare che accadesse questo, ma vedo che non sono più felici insieme. Stanno male ed io non voglio che stiano male. Forse devo semplicemente lasciare... che vada come vada, tra loro. E magari riuscirò comunque a proteggere Jas».
Le mie ultime parole sfumarono in un borbottio appena percettibile, ma Jacob aveva udito e compreso benissimo. Mi guardò in silenzio per un po' con una strana espressione.
«Proteggerla da Seth?», domandò all'improvviso, il tono accuratamente neutro.
«Non da Seth», lo corressi, irrigidita. «Da un mondo molto pericoloso».
«Non mi sembra che Emily, Kim o Rachel rischino la vita quotidianamente, eppure sono tutte vittime dell'imprinting», continuò, e mi parve che calcasse un po' la voce sulle ultime tre parole.
Mi chiesi se avesse volutamente escluso me dall'elenco.
«Devo ricordarti cos'è successo ad Emily?».
Per un momento esitò, ma poi rispose con decisione. «Quello è stato un incidente. Sam si era trasformato da poco e non riusciva a controllarsi, ma Seth è perfettamente in grado di evitare una cosa del genere, ormai».
«Non è detto. Gli incidenti possono sempre capitare», ribattei, ostinata.
Jacob fece un sorriso esasperato. «Certo, e può capitare che domani mattina un meteorite precipiti sulla casa di Jas e la incenerisca».
«Ah-ah! Che ridere», commentai in tono acido, lanciandogli uno sguardo profondamente irritato.
«Dai, Renesmee! Gli incidenti capitano, hai ragione, e non soltanto alle persone che frequentano i licantropi. Stare lontano da Seth non la terrà al sicuro da tutte le cose brutte e pericolose che ci sono nel mondo. E non sto parlando del mondo soprannaturale, ma del mondo umano». Fece una pausa durante la quale ci guardammo in silenzio, lui tranquillo e sicuro, io preoccupata e infastidita. «Sai chi mi ricordi da quando hai iniziato ad agitarti in modo così irrazionale per questa storia? I tuoi genitori. E il modo in cui si sono comportati con te, continuando a trattarti come una bambina che doveva essere protetta anche quando non lo eri più da un bel pezzo».
Sussultai, colpita dal paragone, e sentii un'ondata di sorpresa mista a un pizzico di fastidio che mi invadeva di colpo. Presi fiato, pronta a urlargli contro, ma quel brevissimo istante di istante di riflessione mi suggerì che forse non aveva tutti i torti. Provai a pensarci, invece di prendermela e basta. Stavo commettendo il loro stesso errore?
«Anche tu mi hai mentito, Jacob», sbottai, senza riuscire a contenere del tutto la rabbia. E forse a suscitarla era proprio la consapevolezza che aveva ragione.
«Giusto», ammise, tranquillo, con un cenno della testa verso di me. «Ti ho mentito e ho sbagliato. Vuoi sbagliare anche tu? 
È normale voler proteggere le persone che si amano, ma a un certo bisogna lasciarle libere di scegliere anche  se sbaglieranno e soffriranno e noi soffriremo con loro. È questo l'amore. Le cose vanno come devono andare, Renesmee, l'hai appena detto tu stessa, e non sempre abbiamo il potere di cambiarle».
«Lo so», mormorai a labbra serrate. «Io non voglio decidere per lei. Ma Jas è come una sorella per me. Le voglio davvero bene e voglio che sia felice, è tanto sbagliato?».
«E pensi che se Seth entrerà nella sua vita non potrà più esserlo?».
«Non è per Seth!», ripetei, esasperata. «
È solo che...». Sbuffai nervosamente, incapace di trovare le parole giuste. Restai per un minuto zitta a fissare il buio. La verità era che sapevo benissimo quali fossero le parole giuste, ma non avevo il coraggio di usarle. Presi nuovamente un respiro lento e profondo, per controllarmi e allo stesso tempo per trovare la forza di tirare fuori quello che avevo sulla punta della lingua. Incrociai le braccia e guardai Jake con aria di sfida. «Non voglio che succeda a loro quello che succede a noi», aggiunsi con un filo di voce.
Lui rimase impassibile, ma mi sembrò che i suoi lineamenti, appena visibili nella penombra della stanza, la curva delle labbra e le rughe espressive intorno agli occhi, si curvassero appena verso il basso, e il suo viso si velasse di malinconia. O forse fu soltanto un gioco di ombre.
«Cosa succede tra noi?», domandò con tono tranquillo.
Avrei voluto maledirmi da sola per essere stata così stupida da parlare senza pensare alle conseguenze. Era sempre così con lui. Riusciva a tirarmi fuori tutto, perfino cose di cui ignoravo l'esistenza. A volte era bello, altre volte, come quella notte, era insopportabile. Ed eccoci lì, seduti uno di fronte all'altra, a parlare di argomenti che avevo giurato a me stessa di non nominare mai con lui. Come diavolo era potuto accadere? Come?
«Io... ho paura che... che Jas si senta in trappola», risposi a fatica, con voce rotta. Lasciavo vagare lo sguardo qua e là per la stanza, troppo inquieta per sostenere il suo in quel momento.
«Davvero?», chiese ancora, malinconico. Ebbi l'impressione che in realtà mi stesso chiedendo 
È così che ti senti tu? Avevo il terrore di rispondere a una domanda del genere e  aprii la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, e impedirgli di continuare, ma quando parlò non fu per pormi un'altra domanda. «Jas non è in trappola, Renesmee. Lei può scegliere, è libera di dimenticare che Seth sia mai esistito e se questo è ciò che vuole davvero, Seth la lascerà andare».
«E lui, invece? Passerà il resto della vita pensando a Jas ma senza poterla avere?».
Jake scuoteva piano la testa, un sorriso enigmatico sul volto. «Dal giorno in cui l'ha conosciuta, i desideri di Jas sono i suoi, lui sente quello che sente lei e vuole quello che lei vuole. Nessuna decisione che Jas prenderà per se stessa potrà mai renderlo infelice. Se lei starà bene, starà bene anche Seth».
«E credi che questo mi faccia sentire meglio?», sussurrai, la voce rotta. Sentivo un dolore al cuore che si inerpicava su per la gola e strozzava le parole. «Credi che non mi importi di Seth, che non gli voglia bene come se fosse un fratello? Credi che sia questo ciò che avrei voluto per lui, una vita vissuta soltanto a metà? È in trappola anche lui, come Jas».
«Renesmee...», mi chiamò, meravigliato.
«No, basta!», esclamai di getto, alzando la voce ben più di quanto volessi. Balzai in piedi. «Non avrei mai dovuto parlare di queste cose, ho sbagliato io. Buonanotte».
Uscii dal salotto camminando a grandi passi, entrai nella stanza di Jacob, ma quando feci per spegnere il piccolo lume che rischiarava un angolo dell'ambiente, scorsi un'ombra sul muro e mi voltai. Mi aveva seguita.
«Pensi di poter troncare una discussione così?», sbottò. Era palesemente irritato, per quanto si sforzasse di tenere bassa la voce, al contrario di me.
«Sì! Ne ho abbastanza! Vai via, per favore».
«No», rispose con forza, senza muoversi di un centimetro.
Mi fissava dritto negli occhi, ma io non riuscivo a ricambiare; sostenere il suo sguardo intenso e determinato non era mai stato tanto difficile. Ero imbarazzata per essermi aperta in quel modo su argomenti tanto delicati, arrabbiata con lui, con me stessa e con l'imprinting per la situazione in cui ci trovavamo. Ed ero spaventata, tremendamente spaventata. Avevo perso Alex e sembravo destinata a perdere anche Jas, il prossimo sarebbe stato Jacob?
«Quello che hai detto non è vero!».
«Non è vero?», ripetei, incredula e stizzita in ugual misura. Davvero pensava che fossi così stupida, o immatura, o cieca, o tutte e tre le cose. «Jacob, tu hai rinunciato alla tua vita!». Mentre pronunciavo quella frase mi parve di esplodere. Fu come se qualcosa che trattenevo da tempo si riversasse di colpo al di fuori di me, come se avessi infranto una diga o una barriera. Era da un pezzo, ormai, che non stavamo più parlando di Seth e Jas, ma di noi due, ed ero sicura che lui lo avesse già capito da un bel po'. «Credi che non me ne sia accorta? Credi che non ci abbia pensato in questi mesi, da quando... da quando ho saputo come stanno le cose? Non sei andato al college, lavori a La Push, non ti allontani mai, vivi fianco a fianco con un mucchio di succhiasangue che dovresti odiare e uccidere e invece passi insieme a loro il tuo tempo libero, settimane fa stavi per fare a botte con un adolescente fuori di testa... E tutto questo è colpa mia! Hai paralizzato la tua esistenza per me. 
È vero, io mi sono sentita in trappola quando ho saputo dell'imprinting, ma sei tu quello che è stato incastrato ed io ne sono responsabile!».
Ero rimasta senza fiato e dovetti interrompere quella tirata. Lui, che fino ad allora mi aveva fissata a bocca aperta, colse al volo l'occasione per parlare.
«Eri una bambina, Renesmee, non l'hai voluto tu!».
«Non ha importanza, è comunque colpa mia! Sono stata io che... l'ho fatto scattare», conclusi dopo un attimo di incertezza nel cercare le parole giuste.
«Sì, l'hai fatto scattare», ripetè Jacob, impassibile. «Ed è la cosa migliore che mi sia mai capitata. Credi che ora io sia infelice perchè non vado al college? Stronzate», sentenziò, tranquillo e sicuro di sè. «Quella è una mia scelta e mi sta bene. Sono felice, Renesmee. Non voglio negare di esserlo stato anche prima di te, a volte. Ma questo è diverso, completamente diverso. L'imprinting non ha bloccato la mia vita, l'ha cambiata. Ero un ragazzino distrutto dal dolore, convinto che la sua delusione d'amore lo avesse segnato per sempre. Poi sei arrivata tu ed è bastato uno sguardo: io ero una persona nuova, la persona che sono oggi, e non lo sarei senza di te. Io sono felice», ripetè, più lentamente, come per assicurarsi che afferrassi il concetto. Lo guardavo in silenzio, le braccia abbandonate lungo i fianchi, catturata. «Non hai paralizzato niente, hai dato un senso ad una vita che in quel momento non ne aveva più. Forse ne sarei uscito anche da solo, dopo molto tempo... Allora come adesso, io avevo una famiglia, degli amici, e chissà quante altre persone ancora avrei incontrato, e tutti loro avrebbero potuto darmi amore, amicizia, comprensione o qualunque altro sentimento che un essere umano è in grado di provare, ma tu... tu mi hai dato molto di più: la possibilità di avere accanto una persona nella quale rispecchiarmi, e che io potessi rispecchiare; che mi faccia sentire completo, e che io riesco a completare; che mi capisca sempre e comunque, anche quando nemmeno io riesco a capire me stesso, e che io riesco a comprendere sempre... anche quando lei non sa capire se stessa
», aggiunse in un sussurro leggero, a volte talmente bassa che quasi dubitai di aver sentito bene. Arrossii e fui felice che la luce non fosse sufficiente a mostrare il mio stupido, inutile imbarazzo. «Questo non è qualcosa che può essere spiegato facilmente. Chiamala amicizia, se vuoi... ma non so se le regole e le definizioni di questo mondo possano davvero racchiudere quello che sento per te. E vorresti scusarti per questo? No, Renesmee...». Sorrise, scuotendo piano la testa, come se avesse appena detto qualche assurdità. «Non posso lasciartelo fare».
Scese un silenzio vibrante e carico di significanti che lasciai durare a lungo, ancora presa dalle sue parole dolci, delicate, ma intense, pronunciate con voce sommessa, sicura, che mi sembrava di ascoltare e riascoltare all'infinito nella mia mente. Le accolsi lentamente e sentii nel profondo quanto fossero autentiche e sincere. Mi sentii invadere da una strana, piacevole, sensazione di quiete, e al tempo stesso da un'incredibile stanchezza; all'improvviso ero esausta. Mi lasciai cadere sul letto con un sospiro lento, portai le mani sul viso, chiusi gli occhi per un attimo, li riaprii.
«Oddio, Jake, mi dispiace. Scusami», sussurrai, scuotendo la testa. «Ti ho fatto una scenata... un'altra», aggiunsi in tono amaro. «Ma non è colpa tua. Niente di tutto questo è colpa tua. Scusami, ti prego».
Sollevai gli occhi per guardarlo e la sua espressione dolce mi rasserenò. Gli sorrisi istintivamente e gli porsi una mano. Jacob si avvicinò, la strinse con delicata fermezza. Restammo fermi per un po', uno accanto all'altra; io riflettevo sulla frequenza con la quale mi comportavo in modo infantile e stupido con lui e sulla sua pazienza, che sembrava infinita, ma ero così spossata che ben presto mi lasciai scivolare all'indietro e mi allungai sulla coperta con un sospiro.
«E comunque, per la cronaca... non ho rinunciato al college», riprese Jake dopo qualche minuto di silenzio profondo. Aprii gli occhi, sorpresa. A giudicare dal tono della sua voce, sembrava che sorridesse. Capii che qualunque cosa fosse sul punto di dire non avrei dovuto prenderla sul serio. «Quando andrai ad Harvard o in un'altra grande università, io ti seguirò, se vorrai».
«Harvard? Però... puntiamo in alto, eh», osservai, ironica.
«Be', è ad Harvard che vorresti andare da quando eri bambina, perchè tuo padre e Carlisle hanno studiato lì. E ci andrai».
Mentre parlava, si allungò sul letto, al mio fianco, e pensai che probabilmente doveva essere stanco quanto me.
«Ma non sono affatto sicura che ci riuscirò. E poi non credo che tu sia abbastanza bravo per Harvard», aggiunsi in tono scherzoso.
Jacob afferrò al volo. «Poco male. Mentre tu studi per diventare un genio, io posso sempre guidare un taxi o vendere gelati per le strade del campus».
Scoppiai a ridere d'istinto, sarebbe stato impossibile trattenersi. E lasciarsi andare a una risata liberatoria mi fece sentire improvvisamente molto più leggera, come se tutta la tensione si fosse sgonfiata.
«Billy ne sarà entusiasta! Avvertimi quando glielo dirai, voglio esserci».
«Contaci».
Scese di nuovo il silenzio. Mi stiracchiai piano e mi girai sul fianco, verso Jacob, sempre più rilassata. Il sonno si avvicinava inesorabilmente e dubitavo di riuscire a tenerlo a bada ancora per molto. Anzi, forse neanche per poco, pochissimo tempo. Soffocai un piccolo sbadiglio, iniziavo a sentire le palpebre pesanti.
«Senti davvero tutto quello che hai detto?», chiesi in un sussurro quasi inconsapevole. Ormai ero nel dormiveglia e quella strana domanda era sgorgata fuori da chissà dove, chissà per quale motivo, eppure mi parve che Jacob non fosse molto sorpreso.
«Tu lo sai. Non hai bisogno di chiedermelo», rispose in un sussurro.
Subito prima di assecondare l'impulso irresistibile che mi invitava a chiudere gli occhi, ebbi l'impressione che lui avesse girato la testa verso di me e mi guardasse con una tenerezza tale che scivolai nell'incoscienza con una incredibile sensazione di benessere e serenità. Sì, sarei stata al sicuro, con il mio licantropo.
«Sono felice anch'io, Jake».



****



Fui svegliata da un acciottolìo di tazze in cucina e un profumo intenso e familiare. Caffè. Aprii gli occhi lentamente. Era giorno, ma le imposte abbassate filtravano i raggi del sole lasciando la camera nella penombra. Voltai la testa e scoprii che Jacob non era più al mio fianco. Intuii dalle lenzuola e dalle coperte aggrovigliate che la sera prima doveva essersi addormentato lì. Probabilmente era lui che preparava il caffè.
Restai immobile per qualche istante, riflettendo, chiedendomi se il fatto che avessimo dormito insieme per una notte intera, nello stesso letto, dopo tutto l'imbarazzo, le incomprensioni e gli strani eventi che c'erano stati tra noi fosse un problema. Ma non riuscii a trovare alcun motivo perchè dovesse essere considerato tale. Eravamo soltanto due vecchi amici che avevano fatto le ore piccole ed erano crollati prima di rendersene conto. Lui ed io lo sapevamo benissimo e non era necessario che qualcun altro fosse informato di questo episodio. A parte papà, ma ormai ero rassegnata, con lui.
Mi stiracchiai con un respiro profondo. Mi sentivo incredibilmente bene, fresca e riposata, come se avessi dormito per una settimana intera. Da quanto tempo non mi svegliavo al mattino dopo un incubo tra urla e lenzuola gettate in aria, con le occhiaie, i capelli arruffati e il viso cadaverico?
Stavo per alzarmi, un sorriso soddisfatto che andava da orecchio a orecchio, quando sentii il cigolìo della sedia a rotelle di Billy che avanzava lungo il corridoio. La porta della stanza era accostata, quindi non poteva vedermi, e forse credette che stessi ancora dormendo. Proseguì ed entrò nella cucina.
«Buongiorno, figliolo», disse, con la sua solita voce tranquilla e profonda.
«Giorno», rispose Jacob, impegnato ad armeggiare con qualcosa.
«Come va?».
Ero sul punto di scendere dal letto, ma mi bloccai immediatamente. Conoscevo quel tono. Era il tono perfettamente normale che Billy usava quando stava covando qualcosa. Senza muovermi di un centimetro per non fare rumore, restai in ascolto.
Non sapevo se anche Jake avesse colto il sottinteso nella domanda del padre, perchè rispose come se non ci fosse nulla di strano. O forse fece finta di nulla. «Bene. Una tazza di caffè?».
«Sì, grazie».
Per un po' nessuno dei due disse una parola. Riuscivo ad immaginare senza difficoltà Billy seduto con la sua tazza in mano e gli occhi fissi sul figlio, ma Jacob? Che espressione aveva Jacob?
Poi Billy parlò di nuovo, sempre con quello stesso tono apparentemente sereno. «Ieri sera Renesmee è arrivata piuttosto tardi, vero?».
«Sì, ha cenato da Charlie».
«Lo so. Mi ha telefonato prima che andassi a letto, voleva... fare due chiacchiere. Mi ha detto che Renesmee stava arrivando, ma io già lo sapevo, naturalmente».
Jacob non disse nulla. Ero perplessa, confusa e vagamente agitata, sebbene non sapessi dire per quale motivo. Cosa aveva Billy? Parlava come se alludesse a qualcos'altro.
«Che avete fatto?».
«Il solito. Abbiamo parlato un po'».
«È stata una bella serata?».
«Sì, ma Renesmee era stanca, è andata a letto quasi subito».
Ci fu una pausa. Io aspettavo, ansiosa, sospesa, il cuore che batteva con forza, pregando che Jake non se ne accorgesse o facesse finta di non sentirlo.
«Dorme ancora?», aggiunse Billy.
«Sì».
La risposta del mio amico suonò secca come uno schiaffo. Ebbi la sensazione che qualcosa lo infastidisse e che fosse sulla difensiva. Ma cosa? Quanto avrei voluto poterli osservare senza essere vista a mia volta, senza dover essere presente.
«Jacob», continuò suo padre dopo un lungo silenzio.
«Che c'è?».
«Stamattina mi sono alzato presto, prima del solito. Vi ho visti».
Trattenni a stento un sussulto e un sospiro di meraviglia. Accidenti.
«E allora? Abbiamo dormito, tutto qui. Non è la prima volta che succede».
«Però le cose sono cambiate, adesso. Renesmee è una ragazza. Praticamente è un'adulta, ormai».
Non potevo credere a quello che sentivo. Pensai di pizzicarmi da sola per essere certa che non stessi sognando quell'assurda conversazione. Ma cosa credeva Billy? Che io e Jacob... Era impazzito, forse? Come poteva pensare una cosa del genere? Come?
«Davvero? Non l'avevo notato», fu l'ironico commento di Jacob.
Suo padre sembrò non farci caso. «Non è più una bambina, ma è ancora... molto giovane. E ingenua», continuò, la voce lenta e grave. «Se lei non si rende conto del significato che possono avere certe cose... non soltanto per voi due, ma anche agli occhi degli altri... se non è in grado di tracciare un confine... dovrai farlo tu».
Cadde di nuovo un lungo silenzio e Jake aspettò a lungo prima di romperlo.
«Sì, lo so», mormorò, a voce così bassa che riuscii ad udirlo a stento. «Ci sto provando. Ma... non so che cosa sia giusto fare».
Anche Billy riflettè per un po' prima di rispondere. Quando parlò, il suo tono era cambiato, improvvisamente più dolce e carico di affettuosa preoccupazione, e mi domandai con ansia cosa avesse letto, nella voce o nello sguardo di suo figlio, capace di generare quel cambiamento.
«Lo capisco, figliolo, credimi. Troverete la strada giusta, un giorno. E se tu hai questa sensazione, pensa cosa deve provare lei. Ma state attenti, d'accordo?».
Jacob non rispose e nella casa tornò il silenzio. Rimasi sdraiata a letto ancora per un bel po', gli occhi spalancati fissi sul soffitto, a riflettere.






Note.
1. Qui la canzone. La adoro, quando la ascolto mi commuovo sempre... vai a capire perchè xd.









Spazio autrice.
Salve, lettori e lettrici! Forse avrete notato che oggi è giovedì... infatti ho dovuto far slittare l'aggiornamento di un giorno perchè ieri avevo un esame all'università. Scusate, ma sembra che di tanto in tanto debba verificarsi un imprevisto del genere xd.
Ok, veniamo al capitolo. Trovo che qui, con la
chiacchierata tra Jacob e Renesmee a proposito dell'imprinting, i suoi significati e le sue conseguenze, si arrivi ad una svolta per la storia. Finalmente Renesmee inizia a riconciliarsi davvero con l'idea dell'imprinting, non si limita a tollerarlo e far finta che non ci sia, che esista soltanto la sua amicizia con Jacob, come alla fine di Midnight star, ma guardandolo attraverso gli occhi di Jacob si avvia ad accettarlo sul serio e a considerarlo non più un problema da gestire, o addirittura qualcosa che intrappola lei e il suo migliore amico, bensì ciò a cui deve il rapporto più importante della sua vita. Quindi, qualcosa di decisamente positivo. In secondo luogo, riusciamo a capire meglio i suoi sentimenti nei confronti della situazione di Seth e Jas: gran parte della rabbia e delle paure legate alla sua amica, infatti, sono dovute al fatto che Renesmee vede se stessa e la situazione un po' complicata che vive con Jacob riflesse in Jas e nel suo rapporto con Seth. Renesmee sente di essere prigioniera dell'imprinting insieme a Jacob, teme che le loro vite non abbiano un andamento "normale" a causa della forza che li tiene uniti, non sa come gestire l'attrazione che ha iniziato a provare per lui, ha paura di perderlo e di alterare la loro amicizia se non riuscirà a controllare queste nuove sensazioni, ed è il timore che un giorno la sua amica possa trovarsi a sua volta intrappolata in una situazione del genere, insieme ai rischi concreti derivanti da un coinvolgimento di Jas nel mondo sovrannaturale, che l'ha resa così ostile verso l'imprinting di Seth. Ma come sempre parlare con Jacob le chiarisce le idee e forse da questo momento in poi riuscirà a vedere la propria situazione e quella di Jas in modo diverso.
Spero che tutto quello che ho cercato di trasmettere e di spiegare sia emerso dal capitolo con sufficiente chiarezza e che ora il comportamento e i pensieri di Renesmee vi sembrino giustificati. Molte di voi hanno espresso dubbi in passato, ma naturalmente non potevo spiegare tutto questo senza spoilerare un intero tassello della storia; Renesmee doveva avere il tempo di arrivarci da sola, e voi insieme a lei. Comunque sia, per qualunque domanda o chiarimento chiedete pure.
Ok, è tutto. Appuntamento al 14 agosto con il prossimo capitolo, salvo imprevisti causati dalle vacanze xd. Nel caso fossi via e non riuscissi ad aggiornare il 14, come sempre l'aggiornamento è rimandato al mercoledì successivo, ma spero di non avere problemi. Buone vacanze!

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Capitolo 15
*** Hurricane ***


C 15
Capitolo 15
Hurricane



Welcome to the inner workings of my mind

So dark and foul I can't disguise
Can't disguise
Nights like this
I become afraid
Of the darkness in my heart
Hurricane.
Hurricane, Ms. Mr.¹



Il destino mescola le carte e noi giochiamo.
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena



Una mattina, qualche giorno dopo la notte trascorsa a casa di Jacob, ero a scuola e stavo andando verso la mensa in compagnia di Holly e Scott. La campanella dell'intervallo era suonata da poco, ma noi tre avevamo lasciato di corsa il laboratorio di chimica per evitare che il professore ci assoldasse per pulire le provette e mettere tutto in ordine. Camminavamo lentamente lungo il corridoio affollato e nel frattempo Holly raccontava le ultime follie della Campbell, la professoressa fuori di testa che insegnava teatro e tormentava i poveri studenti della Forks High con le sue stupide iniziative, per le quali nessuno a parte lei provava il benchè minimo interesse, e i suoi orrendi caftani dai mille colori.
«Sapete cosa ho appena sentito? Che sta mettendo su un laboratorio di ceramica e che stamattina è andata in giro per tutta la scuola in cerca di partecipanti», raccontava Holly con un'espressione eloquentissima sul viso. «Mentre andavo a matematica l'ho vista venire verso di me e ho avuto il terrore che mi incastrasse! Per fortuna mi sono nascosta all'ultimo secondo nel bagno delle ragazze e credo che non mi abbia vista». Proruppe in un gran sospiro teatrale e scosse la testa con aria esasperata. «Un laboratorio di ceramica, ma vi rendete conto? Ceramica! È la cosa più barbosa che abbia mai sentito. Una simile attività può interessare soltanto a un dinosauro».
«Be', questo spiega perchè interessa a lei», osservò Scott ed io e Holly ridacchiamo.
«L'hai scampata bella», concordai, prendendo Holly sotto braccio e lanciandole uno sguardo di intesa. «La Campbell ci dà il tormento, due volte su tre siamo noi quelle che finiscono intrappolate in uno dei suoi stupidi progetti...».
«Già! E sai una cosa? Penso che sia tutta colpa tua».
«Mia?».
Lei annuì, seria e compunta. «Sì, perchè è la tua aura di secchiona senza speranza che attira i professori e dal momento che io e le altre siamo tue amiche circonda anche noi, capisci? Ecco perchè la Campbell ci perseguita».
Annuii  a mia volta, ostentando la massima serietà. «Ah, sì, certo. Questo spiega tutto».
«Non siete le uniche, ragazze», intervenne Scott. Guardava davanti a sè con aria pensierosa, seguendo il filo dei propri pensieri. «Ho sentito dire che la Campbell ha provato ad incastrare anche altra gente. Pare che sia andata a cercare adesioni in un paio di classi dell'ultimo anno, dicendo che il laboratorio avrebbe dato punti per il college», si interruppe un istante per lanciarci un'occhiata significativa, e noi ricambiammo con espressione sprezzante, «ma le è andata male perchè... be', ho sentito che qualcuno... non so cosa le abbia risposto esattamente, ma la Campbell è quasi svenuta». Non aggiunse altro, all'improvviso sembrava in imbarazzo e fissava il pavimento con aria seria, sebbene si sforzasse di trattenere una risata.
Holly era deliziata. «Davvero? Cosa le hanno risposto? Voglio saperlo!».
«Niente di piacevole, penso», disse Scott con gli occhi che gli brillavano. «Ma non lo so esattamente».
«Uffa! Almeno sai chi è stato?».
«Già, chi è stato?», domandai a mia volta, incuriosita. Perchè di colpo sembrava che Scott non volesse più parlare dell'argomento?
«Non lo so, ragazze».
«Non è vero, lo sai», ribattè Holly. Lo guardava dritto in faccia con aria determinata. Scott non sarebbe riuscito a fargliela. «Perchè non vuoi dirlo? Ok, d'accordo», sbottò, irritata, voltando la testa di scatto. «Lo chiederò a Jas. Lei sa sempre tutto».
Annuii. «Sì, Jas lo saprà senz'altro. Ma come fa? 
È impossibile starle dietro», mormorai, meditabonda.
Scott sbuffò e scosse la testa come se disapprovasse la nostra curiosità. «E va bene, se volete saperlo ve lo dico». Tacque per un attimo, mi lanciò uno sguardo rapido e alla fine parlò. «
È stato Alex».
L'espressione curiosa si congelò sul mio viso nel giro di un secondo. Lo guardai in silenzio, a lungo incapace di spiccicare una parola.
«Sul serio? Sul serio Alex ha fatto questo?», mormorai. Istintivamente guardai Holly: aveva un'espressione per metà stupita e per metà di sincero rammarico. Se avesse anche solo sospettato di chi stava parlando Scott, non lo avrebbe costretto a tirare fuori quel nome per niente al mondo, ne ero certa.
«Sì», rispose Scott. Era visibilmente a disagio e adesso cercava di evitare il mio sguardo. «Cioè, l'ho sentito dire, ma... non so se è vero. Potrebbe essere una balla».
«Certo», confermò Holly, annuendo con aria decisa. Scrollò i lunghi capelli color mogano che portava sempre sciolti sulle spalle e li gettò all'indietro. La sua mano strinse affettuosamente il mio braccio. «Ha ragione, Renesmee, magari non è vero. Sai quante sciocchezze circolano negli spogliatoi dei ragazzi».
Sentivo che nessuno dei due credeva davvero che fosse una balla, ma apprezzai silenziosamente il loro tentativo di tirarmi su e mi sforzai di avere un'aria tranquilla. Qualunque cosa Alex avesse combinato sarebbe stata in linea con il suo comportamento degli ultimi tempi. Dal giorno in cui avevamo chiuso in modo definitivo, alla riserva, quando lui e Jacob erano stati a un passo dall'uccidersi a vicenda, non aveva più tentato di avvicinarsi a me o di parlarmi. Se per caso ci incrociavamo nei corridoi o in mensa, non mi rivolgeva la parola, non mi guardava e tirava dritto con fare spavaldo come se fossi parte del muro. Sembrava che volesse cancellarmi dalla sua esistenza. E anche se all'inizio la ferita causata da questo comportamento era stata profonda, con il tempo avevo capito che era la cosa migliore. In fondo, avevo desiderato proprio questo, che mi dimenticasse. Eppure non mi sentivo sollevata
, perchè Alex non stava bene, per niente.
Da alcune settimane aveva seri problemi a scuola: mi giungevano continuamente voci di lezioni saltate, infrazioni alle regole e relative punizioni; una volta aveva preso parte a una rissa nel cortile della scuola e un'altra volta si era fatto beccare dal preside mentre usciva da scuola prima dell'orario con una birra in una mano e una sigaretta nell'altra. Non potevo sapere esattamente come andassero le cose in famiglia, ma non era tanto difficile immaginare le reazioni di Julie davanti a un evidente recupero delle sue pessime abitudini del passato.
Alex stava dando un esempio concreto di quel comportamento instabile e pericoloso per se stesso e per gli altri che due anni prima gli aveva creato tanti problemi. Sembrava che non fosse in grado di affrontare una perdita senza reagire in quel modo:
ostentare la più totale noncuranza verso il proprio stesso dolore, voltare le spalle al mondo e mandare al diavolo tutto e tutti. E non potevo fare a meno di pensare a quanta fragilità si celasse dietro il solito atteggiamento spavaldo e sicuro di cui adesso vedevo le estreme conseguenze. Fingeva che niente potesse toccarlo e non si rendeva conto di quanto profondamente mostrasse le proprie ferite, in quel modo, invece di nasconderle.
All'inizio Holly e Jas mi avevano tenuta aggiornata su Alex e tutto quello che combinava con il loro telegiornale quotidiano di pettegolezzi, poi avevano capito quanto mi faceva male ascoltarle e avevano smesso. Ma la nostra scuola era troppo piccola e troppo tranquilla perchè storie così gustose potessero passare inosservate e prima o poi, in un modo o in un altro, venivo a sapere sempre tutto, che lo volessi o meno. E ogni volta provavo una fitta al cuore.
Ero continuamente assillata dal dubbio di aver commesso un errore, l'ennesimo, troncando la nostra relazione. Quando lo vedevo nei corridoi, di tanto in tanto, e cercavo di incrociare il suo sguardo per stabilire un contatto, mentre lui guardava con ostinazione ovunque tranne che verso di me, provavo l'impulso fortissimo di tornare da lui, chiedergli scusa, baciarlo e ricominciare da capo. Sarebbe stato così semplice porre fine a tutto questo. Semplice, eppure dannatamente inutile. La nostra felicità avrebbe sempre avuto i giorni contati: gli stessi problemi che mi avevano indotta a lasciarlo adesso si sarebbero ripresentati, identici, tra un anno, o due, o cinque, sempre che la sua vicinanza al mondo sovrannaturale non lo uccidesse prima, e avrei dovuto lasciarlo comunque. Per di più, i miei incubi su di lui non erano affatto cessati e ripensare a quelle immagini orribili costituiva un ottimo incentivo a non cedere ai desideri e a tenermi lontana da lui. Mi aggrappavo alla speranza che quelle settimane turbolente fossero soltanto una fase, che Alex smaltisse il dolore come preferiva e andasse avanti.
«Sì», mormorai, pensierosa, in risposta alle parole di Holly. Mi riscossi, sforzandomi di non apparire troppo turbata. «Sì, probabilmente non è vero».
«Certo, e probabilmente Babbo Natale si sta preparando a consegnare i regali con la slitta e le renne! Andiamo, Renesmee, credi proprio a qualunque cosa?», esclamò una voce divertita alle nostre spalle.
Caroline Johnson ci superò camminando a passo svelto, un sorriso odioso sul volto ben truccato e la solita banda di cheerleader ridacchianti e starnazzanti alle calcagna. Chissà da quanto camminavano dietro di noi per ascoltare.
Holly le rivolse un'occhiata così gelida che avrebbe tramortito anche un sasso. «Come, prego? Hai detto qualcosa? Mi sembra di averti sentito parlare, ma non capisco la lingua delle oche, scusami».
«Cerchi di fare la spiritosa per compensare la tua mancanza di attrazioni fisiche, Holly Matthews?», rispose Susan, una delle migliori amiche di Caroline, una ragazza minuta e diafana con una gran massa di capelli rossi e ricci, il viso lentigginoso e un nasino all'insù che le dava sempre un'aria da aristocratica offesa.
La mia amica stava per ribattere a tono, infuriata, ma a quel punto intervenni. Sapevo che l'autocontrollo non era uno dei suoi pregi maggiori, ma più se la prendeva, più quelle lì avrebbero avuto soddisfazione.
«Lascia perdere, Holly», dissi con tono tranquillo, continuando a tenerla saldamente sottobraccio, «non vale la pena di rispondere».
«Quello che non capisco io, invece», riprese Caroline, guardandomi con occhi scintillanti, «è come hai potuto lasciarti sfuggire Alex Hayden! Cosa è successo esattamente è un mistero, vero, ragazze?», chiese, rivolta alle sue amiche. «Ma io mi sono fatta la mia idea e sai che ti dico? Che non devi prendertela troppo». Scrollò le spalle minute fasciate da una golf verde chiaro, il suo colore preferito. «Dopotutto, chissà quante esperienze avrà avuto prima di te... Non è colpa tua se non eri abbastanza per lui».
Avevamo smesso di camminare, ormai, ed io la fissavo con astio profondo mentre intorno a noi divampavano le risatine del suo gruppetto.
«Credo che tu abbia perso il cervello da qualche parte», risposi, la voce fredda e a stento controllata. «O forse non ne hai mai avuto uno? Chissà». Alzai le spalle con fare casuale, come se mi stessi davvero ponendo quella domanda. Accanto a me sentii Scott scoppiare a ridere di gusto e Holly strinse appena la mia mano nella sua per farmi capire che approvava. «Andiamo», aggiunsi a bassa voce, senza smettere di fissare Caroline con aria di sfida.
Mi allontanai di qualche passo, tirandomi dietro Holly e con Scott alle nostre spalle, quando sentii ancora la sua voce.
«Non preoccuparti per Alex, Renesmee... Ti assicuro che sarà consolato al più presto. Quando me lo porterò a letto prometto di chiamarti e raccontarti tutto, d'accordo?».
E rise allegramente, entusiasta della propria sagacia, circondata dai risolini e dai commenti soddisfatti delle amiche. Poi non riuscii a capire esattamente cosa stava succedendo per qualche secondo. Sentii il braccio di Holly sfilarsi da sotto il mio e la sua voce che gridava: «Brutta stronza!». Un attimo dopo non era più al mio fianco, ma si era lanciata contro Caroline, sbraitando insulti e agitando le braccia per colpirla, i lunghi capelli scuri che le saettavano intorno come una frusta.
Esplose una gran confusione. Caroline strillava e si dibatteva per sfuggire alla furia di Holly, che le aveva afferrato una ciocca di capelli biondi, mentre le sue amiche indietreggiavano tra urla ed esclamazioni di orrore. La folla che occupava il corridoio sembrò ritrarsi con un boato di sorpresa creando uno spazio vuoto intorno alle due ragazze, come per godersi meglio lo spettacolo. Caroline inciampò e cadde sul pavimento con uno strillo acuto, trascinandosi dietro Susan, ed Holly le franò addosso senza smettere di tirarle i capelli, poi Scott fece un balzo in avanti comparendo dal nulla, la prese per la vita e dopo una breve lotta riuscì a strapparla via, urlando qualcosa impossibile da sentire al di sopra del frastuono della folla e delle grida isteriche di Caroline.
Mi precipitai ad aiutare Scott e insieme trascinammo Holly il più lontano possibile da Caroline, mentre lei si agitava per cercare di liberarsi e raggiungerla di nuovo, completamente fuori di sè, e Caroline strillava a pieni polmoni.
«Pazza! Pazza! Sei una pazza da legare!».
Mi resi conto con orrore che Holly stringeva in mano una manciata di capelli biondi strappati, e per quanto la situazione fosse drammatica, mi venne improvvisamente da ridere e faticai a trattenermi.
«Lasciatemi! Lasciatemi! Scott, mollami!», sbraitava la mia amica, dibattendosi con determinazione. «Le faccio vedere io a quella grandissima... sgualdrina... Ti pentirai di aver aperto bocca! Lasciatemi!».
«Ma insomma, che sta succedendo qui?».
Per completare il quadro, il preside Green era appena piombato su di noi come un falco pronto a beccare a sangue qualcuno. Aveva gli occhi strabuzzati e le narici così dilatate per la rabbia e lo sconcerto che non mi sarei stupita affatto se avesse cominciato a sbuffare fumo; sembrava un toro scalpitante nell'arena. Spostò gli occhi da Caroline, ancora sul pavimento, piangente e con le mani tra i capelli come per verificare i danni, a Susan che cercava di rialzarsi, barcollando, con seria difficoltà, perchè tutti i capelli le erano finiti sul viso, ad Holly, agitata e scarmigliata, a me e a Scott, che avevamo praticamente ingaggiato un corpo a corpo con lei per trattenerla. Lentamente capì. Si gonfiò come un palloncino e di colpo esplose.
«Una rissa! Nel corridoio! Signorina Matthews! Signorina Johnson! Vergognoso! Inammissibile! Inaudito!».
Era talmente furioso, con il viso rosso e congestionato, che gli mancava il fiato e gridava a scatti come un robot mal funzionante.
«E anche lei, signorina Cullen! E lei, signor Green! Ma come osate? Come osate? Inammissibile!».
«Lei mi ha aggredito senza nessun motivo! Io non ho fatto nulla!», strillò Caroline, sfoggiando la sua migliore espressione da vittima innocente e puntando un dito accusatore contro Holly.
Lei, che alla comparsa del preside aveva smesso di agitarsi, trattenne rumorosamente il fiato, indignata, e si sarebbe scagliata di nuovo contro la sua avversaria se Scott, che la teneva saldamente per la vita, non l'avesse trattenuta.
«Sta' zitta! Sta' zitta, lurida bugiarda! Ti strappo tutti i capelli!».
«Basta! Basta!», ruggì il preside, ormai paonazzo. «Non intendo tollerare simili comportamenti nella mia scuola! Punizione! Tutti e quattro!».
Scott imprecò a bassa voce.
«No, signore, la prego... Loro non c'entrano», ansimò Holly, angosciata. «È colpa mia...».
«Non mi interessa! Non voglio sentire altro! Non ho mai visto nulla del genere! Filate a pranzo! Tutti quanti!».
Il preside continuò a sbraitare a scatti agitando il pugno chiuso finchè io e Scott non riuscimmo ad entrare nella mensa, che era proprio davanti a noi, attraversando la folla che iniziava a diradarsi rapidamente e tirandoci dietro Holly. Mi sembrava di essere circondata da mormorii eccitati e risatine e di avere gli sguardi di tutti puntati addosso; perciò tenni gli occhi ben fissi a terra, una mano stretta saldamente intorno al braccio di Holly, fino al nostro solito tavolo, dove sedemmo tutti e tre vicini. Dovevamo avere un'aria strana, perchè gli altri ci fissavano a bocca aperta come se avessero visto un fantasma.
«Che vi succede?», esclamò Maggie, scandagliandoci uno dopo l'altro con un cipiglio da poliziotto. «Abbiamo sentito un gran casino».
«Be'...». Cercai di spiegarle l'accaduto, ma non riuscii a tirare fuori una parola. Ero ancora sotto shock, probabilmente.
«Holly, che hai fatto ai capelli?», indagò Jas, lanciandole un'occhiata strana.
Holly sussultò e si toccò i capelli arruffati e in disordine; era la prima volta, da quando la conoscevo, che la vedevo in quelle condizioni. «Perchè? Cos'hanno che non va?». Si sporse per afferrare un coltello dal vassoio di Jas, seduta di fronte a lei, e si specchiò nella lama. «Oddio!», sbottò con voce soffocata. «Sono un disastro! Paul, non mi guardare!». Subito prese a sistemarli con gesti frenetici.
«Si può sapere che è successo?», intervenne Paul, ignorando la richiesta della sua ragazza.
Finalmente ci pensò Scott a rispondere. «Holly ha fatto a botte con Caroline», disse in tono piatto e incolore.
Tutti trattennero il fiato contemporaneamente, come se si fossero messi d'accordo.
«Che cosa?», esalò Jas, stupefatta.
«E le ha strappato un bel po' di capelli», aggiunse Scott, sempre con lo stesso tono.
«Che cosa?».
«Oh, insomma! Non sono capelli suoi, ha le extensions!», esclamò Holly, ancora impegnata a rimettersi in sesto.
Maggie rise, con grande sorpresa di tutti. «Davvero? Be', hai fatto bene. Era ora che qualcuno le desse una lezione».
Holly lanciò un'occhiata esitante tutt'intorno, a disagio, forse per saggiare le reazioni di ciascuno di noi. Arrossì un poco. «Io... non volevo, ma lei... mi ha provocata...».
«Quando mai Caroline non provoca qualcuno», commentò Tom, sotto voce. Era seduto accanto a Jas e stranamente aveva un'aria molto seria, come se quella faccenda lo preoccupasse davvero.
Sbuffai pesantemente. «No, non ha provocato te, ha provocato me e tu hai fatto questo per difendermi», intervenni, rivolta a Holly. «Non avresti dovuto. Ti ringrazio di avermi difesa, ma non avresti dovuto».
Lei scrollò la testa, ancora imbarazzata. «Non è stato solo per questo. Sai che non la sopporto, lei e le sue amiche cerebrolese».
«Non dovevi farlo comunque. Renesmee ha ragione», osservò Danielle, con calma. Lei e Tom erano gli unici, al tavolo, che non sembravano minimamente divertiti da quella storia. Erano soltanto preoccupati. «Potevi finire nei guai». Inaspettatamente, guardò Jas con aria colpevole e non aggiunse altro.
«Siamo già finiti nei guai. Tutti e tre», la informò Scott. «Il preside ci ha visto e ci ha messo tutti in punizione, compresa Caroline».
«Maledizione», commentò Paul, alzando le sopracciglia.
Holly sospirò. «Mi dispiace che siate stati coinvolti anche voi due. Dovevate lasciarmi stare come vi avevo detto».
«Certo, così l'avresti uccisa e poi ti sarebbe toccato ben altro che il doposcuola», ribattei. «Non dire sciocchezze... Tanto, prima o poi avrei dovuto sperimentare una punizione», aggiunsi con un piccolo sorriso di intesa verso di lei.
«Ah, giusto! 
È la tua prima volta», esclamò Paul. Mi guardò con aria furba e un sorriso sghembo che gli tagliava il viso. «Allora, com'è passare da studentessa modello a pericolosa delinquente?», domandò con tono inquisitorio adatto ad un reporter che conduceva un'intervista.
«Chiudi il becco, Scott», borbottai, scrollando il capo.
Per un po' restammo in silenzio. I vassoi erano quasi intatti e nessuno mangiava, eravamo tutti troppo presi a rimuginare sull'accaduto. Poi, all'improvviso, Jas incrociò le braccia con un sospiro e parlò.
«Be', oggi è davvero una pessima giornata. Credo che io e Tom vi faremo compagnia in punizione».
Sollevai la testa e la fissai, sorpresa. «Cosa? E perchè?».
Lei lanciò un'occhiata di traverso a Tom prima di rispondere, esitando leggermente. «Una sciocchezza. Abbiamo... avuto una piccola discussione mentre facevamo la fila, la Campbell passava di qui, ci ha sentiti e se l'è presa», raccontò con fare disinvolto, come se non desse tanto peso alla faccenda. «Vecchia rompiscatole. Se avesse una vita sua non penserebbe così tanto a quello che fanno gli altri», aggiunse, mugugnando, dopo un attimo di pausa.
L'atmosfera sembrò raffreddarsi lentamente e mi accorsi che gli altri si erano irrigiditi, come se qualcosa, nelle parole di Jas, non tornasse. Ero confusa, ma poi scorsi Tom lanciarle uno sguardo talmente gelido che ne rimasi stupita. E all'improvviso capii che la loro non era stata una piccola discussione.



****



L'ultima ora, io, Tom, Jas, Danielle e Paul avevamo letteratura francese insieme. Quando la lezione terminò, mi avviai con Tom e Jas verso l'aula delle punizioni nel silenzio più assoluto. Per la verità non ci aspettava niente di terribile, soltanto tre ora di noia mortale seduti in un'aula senza nulla da fare mentre tutti gli altri tornavamo allegramente a casa, ma a giudicare dalle facce depresse di Tom e Jas sembrava che fossimo diretti nel braccio della morte. Ancora non sapevo cosa li aveva fatti litigare, a pranzo, Jas non ne aveva fatto parola e io non avevo chiesto nulla, ma negli ultimi tempi le loro discussioni si incentravano sempre su vere e proprie sciocchezze: se Jas chiamava Tom al telefono con dieci minuti di ritardo o se Tom perdeva una penna che Jas gli aveva prestato, erano capaci di strillarsi contro fino a spaccare i propri timpani e quelli di chiunque capitasse nelle vicinanze, come se fosse accaduto qualcosa di irreparabile ogni volta. A me sembrava che l'unica cosa irreparabile fosse la loro relazione.
Tom spalancò la porta dell'aula dove si tenevano i doposcuola punitivi e fece entrare me e Jas. Caroline, Scott e un ragazzo dell'ultimo anno che mi pareva si chiamasse John, il classico bulletto muscoloso dall'aria molto poco intelligente, erano seduti nei banchi, sparpagliati qua e là e ben lontani l'uno dall'altro. Solo Scott ci rivolse un mesto cenno di saluto. Il bulletto ci lanciò uno sguardo annoiato e nient'altro, tutto preso dalla musica che ascoltava con le cuffiette, mentre Caroline guardò ostinatamente davanti a sè con il naso all'aria e un'espressione di profondo disprezzo.
Jas fece un sospiro pesante, sedette accanto a Scott ed io e Tom la seguimmo con aria svogliata. Tom aspettò che io occupassi il banco vicino a quello della mia amica prima di sedersi, in modo da trovarsi accanto a me e non a lei. Sospirai a mia volta e risposi con un'alzata di spalle all'occhiata interrogativa di Jas. Ormai ero così stanca di quella situazione da non avere più l'energia di mettermi in mezzo e darmi da fare per aiutarli. Che facessero come volevano, pensai, fissando torva la superficie del banco, ricoperta di scritte e disegni volgari.
Un paio di minuti più tardi la porta si aprì ed entrò Holly. Subito intercettò Caroline e la guardò con aria così minacciosa, mentre l'altra ricambiava con uno sguardo truce, che quando sedette a un banco vuoto e decisamente troppo vicino a Caroline, Scott si alzò, allarmato, e si spostò ad un altro banco che si trovava esattamente tra loro due, come per fare da isolante. Jas scosse appena la testa, abbattuta, mentre Tom inarcò un sopracciglio ed ero certa che pensasse che Scott aveva del fegato a piazzarsi tra quelle due, rischiando che ci andassero di mezzo i suoi, di capelli.
Trascorsero altri cinque minuti di silenzio di tomba. Il bulletto ascoltava la sua musica con la testa che andava su e giù, Caroline aveva tirato fuori il rimmel e uno specchietto, Tom scarabocchiava sul banco, Jas guardava fuori dalla finestra con aria assente, Holly continuava a sprecare energie lanciando occhiate astiose in direzione di Caroline e nel frattempo si passava una mano tra i capelli con movimenti lenti e regolari, come per controllare che fossero a posto, e Scott giocherellava con le fibbie della sua cartella e di tanto in tanto guardava Holly con espressione preoccupata. Io avevo tirato fuori il libro di francese e cercavo di leggere, ma non riuscivo assolutamente a concentrarmi, nonostante tutto quel silenzio. Stavo giusto pensando di fare un sonnellino, quando la porta fu spalancata di nuovo e con una certa veemenza. Voltai la testa e il cuore mi balzò in gola per la sopresa. Era Alex, la cartella a tracolla su una spalla e il giubbotto sull'altra, i capelli un po' scompigliati, come se si fosse appena alzato dal letto, e l'aria annoiata. Il suo sguardo percorse l'aula lentamente, esaminando i presenti con blando interesse, e infine si soffermò su di me. 
«Wow», commentò a bassa voce, senza la minima traccia di una qualunque emozione nel tono o sul viso, «questo sì che è interessante».







Note.
1. Link.







Spazio autrice.
Ciao a tutti, sono tornata! Allora, per prima cosa mi dispiace di non aver aggiornato mercoledì, ma purtroppo non ho avuto Internet per qualche giorno e il problema si è risolto solo stamattina. Ultimamente sono proprio perseguitata da una specie di maledizione degli aggiornamenti xd, ma per il prossimo prometto massima puntualità, se Internet non mi fa scherzi.
Veniamo al capitolo! Come avrete notato, gli eventi non fanno grandi passi avanti, è un capitolo di passaggio, ma in realtà qualcosina succede. Innanzitutto veniamo a sapere qualcosa di interessante su quello che sta combinando Alex ultimamente, come ha preso la rottura con Renesmee e qual è la sua situazione emotiva. Scopriamo anche quali sono i sentimenti di Renesmee al riguardo: non è affatto sicura che averlo lasciato sia stata la scelta giusta e l'unico motivo per cui non torna sui suoi passi è che l'alternativa, cioè tornare con Alex, rischia di essere soltanto più problematica della situazione in cui si trovano adesso. Tra le due opzioni continua a scegliere quella che le sembra più giusta per il futuro di Alex, ma naturalmente ci sta male. E non è detto che riesca a resistere! xd
In effetti questo capitolo è una sorta di premessa del capitolo seguente, che invece sarà ricco di avvenimenti. In particolare, succederà qualcosa che imprimerà una vera svolta alla storia. Dopo, nulla sarà più come prima. Spero che siate pronti... aspetto le vostre recensioni per sapere cosa ne pensate ;-). A proposito, come al solito ringrazio per tutti i commenti che ricevo, appena avrò tempo risponderò. Alla prossima!

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