The grandmother

di Luce_Della_Sera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: L'inizio ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Il latte ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Le prozie ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: il meteo ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Incidenti notturni ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: Scoperte ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: La cugina perfetta ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Cambiamenti ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: Problemi ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: Tranquillità ... relativa ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: l'intervento chirurgico ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: la situazione peggiora ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: il sondino ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: cambio di terapia ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: Sogni e realtà ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: il funerale ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: L'inizio ***


THE GRANDMOTHER

Capitolo 1: l’inizio

“Puoi ripetere, per favore?” chiesi, incredula.
Mia madre alzò gli occhi al cielo e sbuffò. Poi disse, scandendo le parole: “Nonna Giuseppina verrà a vivere da noi. Ti è chiaro, adesso?”.
“Cosa? Ma non può!”
“E perché no? Siamo la sua famiglia!”
“Anche zio Carlo è la sua famiglia … ha sempre portato la madre in palmo di mano, ma col cavolo che se la tiene in casa adesso, vero?”.
“Non fare la stupida … nonna starebbe meglio da noi. E’ mia madre, che potrei fare? Sbatterla in un ospizio? Non sta neanche bene, lo sai! Ha la …”
“Demenza senile, sì. Ma ha quasi ottant’anni, quindi è normale, non credi?”.
“Ha solo settantotto anni, in realtà: lo sai benissimo. E comunque, è sempre stata una tipa giovanile, ma adesso è cambiata: non è più lei, non può essere lasciata da sola! Tuo zio mi ha detto che qualche settimana fa, volendo cucinare, ha lasciato il gas aperto e per poco non ha fatto saltare tutta la palazzina”.
“E per evitare che il suo prezioso appartamento saltasse in aria, ha pensato bene di mollarla a noi … giusto?”
“Aurora, per favore, non mettermi in difficoltà più di quanto io non sia già. Hai diciannove anni, sei in grado di capire!”.
“QUELLO CHE CAPISCO E’ CHE MI STAI PER PORTARE IN CASA UN PERSONA PRATICAMENTE ESTRANEA!” esplosi. “Non si è mai interessata di me, si ricorda di avermi come nipote solo quando le fa comodo … non sa niente della mia vita, e le volte che sono andata a trovarla sembrava sempre ansiosa di mettermi alla porta. E quando abbiamo avuto bisogno di lei, dov’era? A ballare! Sempre! Sono stata in ospedale parecchie volte per svariati motivi e lei non solo non mi è mai venuta a trovare, ma neanche ha mai fatto una telefonata per sapere come stavo!!! La maggioranza dei miei coetanei ha avuto nonne premurose e meravigliose, io ne ho una sola ed è un’egoista di prim’ordine! Non la voglio qui!”.
“Tesoro, è sempre e comunque tua nonna, e ha bisogno d’aiuto!”.
“Se avesse bisogno d’aiuto come dici, non verrebbe qui con il treno, no? Se non si può lasciare da sola, perché tu o papà non la andate a prendere?”
“Non ha voluto … sai quant’è cocciuta … lei non si rende conto che sta cambiando, non possiamo tenerla sott’occhio fin da subito! Dev’essere una cosa graduale”.
“Se lo dici tu”, dissi, scettica. “E dove dormirà? Ci hai già pensato? Qui non c’è molto spazio!”.
“Che domande: dormirà in camera tua!”.
“CHE???”
“Non fare quella faccia! In camera tua ci sono due letti, no?”.
“Ma è la mia camera! Ho le mie cose, lì, le mie abitudini …”.
“E allora? Tanto ci deve solo dormire: lo sai che passa la maggior parte della giornata in salotto a guardare la tv, quando non esce!”.
“Ma …”
“Niente ma! Ricordati che io, alla tua età, non avevo neanche una camera tutta per me. Quindi, a te va di lusso!”.
Mi stava per salire alle labbra un invito poco gentile, ma lo repressi: mi accontentai di lanciarle soltanto un’occhiataccia, e filai nella stanza che presto non sarebbe stata più interamente mia.
 
 
“Ti rendi conto? Dovrò sopportarla per non so quanto tempo! E visto che mi sono presa un anno sabbatico per decidere se iscrivermi all’università o andare a lavorare, indovina chi starà con lei, a farle da serva? Io! Mia madre dice che si sente in difficoltà, ma intanto la maggior parte del lavoro l’ha lasciato a me, visto che non rientra mai prima delle cinque di pomeriggio! Quanto a mio padre, sono certa che da oggi in poi farà gli straordinari fino alle quattro, pur di non stare con la suocera qualche ora in più. Così, quella che ci ha rimesso di più sono io!”.
Hans, il mio fidanzato, mi strinse a sé.
“Ti capisco, amore … ma sei sicura che la situazione non sia più seria di quanto tua madre ti abbia fatto credere? In fondo, da quel che mi hai raccontato oltre a non essere stata una nonna ottimale, non è neanche stata una mamma eccellente! Forse c’è qualche altro motivo per cui verrà da voi!”.
“Se pensi che sia in punto di morte, ti sbagli: sta meglio di tutti noi messi assieme!”. Irritata, mi sciolsi dal suo abbraccio, e mi spostai verso l’estremità opposta della panchina del parco su cui ci eravamo seduti. Non mi sentivo compresa fino in fondo, neanche da lui!
“Non hai idea di cosa voglia dire vedere tutti gli altri con i loro nonni, mentre io la mia la conosco a malapena, e non certo per colpa mia … non sai cosa …”
“E tu non sai cosa vuol dire avere due nonni che hanno continui incubi notturni, solo perché in gioventù hanno conosciuto l’inferno sulla Terra! Non sai cosa darei, per poter cancellare il loro passato”.
Mi vergognai di me stessa. Effettivamente, da un certo punto di vista c’era chi stava peggio di me! Ripensai a tutte le immagini che vedevo il 27 gennaio di ogni anno in televisione: i treni, il filo spinato, le baracche, le docce, le persone scheletriche in pigiama, i forni crematori … rabbrividii.
“D’accordo, ho capito cosa intendi”, concessi. “Proverò ad essere gentile con lei. Ma mi renderà la vita impossibile, lo sento!”.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Il latte ***


Capitolo 2: Il latte

Come avevo previsto, i miei buoni propositi andarono presto perduti: la sera stessa, dopo essere tornata a casa, avevo trovato mia nonna che già si sentiva padrona di tutto e tutti: la gran parte dei miei vestiti era infatti stata spostata, per far posto ai suoi.
“Non lamentarti, per favore: me li ha fatti cambiare di posto non so quante volte!” mi disse mia madre, quando cercai di protestare.
“Te la sei voluta”, le risposi, inviperita.
“Aurora, non cominciare!!!” intervenne mio padre, che fino ad allora aveva finto di sfogliare il giornale ma non perdeva mai occasione per rimproverarmi per qualsiasi cosa. “La situazione è già complicata, senza che ti ci metti anche tu!”.
“Sì, ma chi è che d’ora in poi le farà praticamente da badante, tra noi?”. Senza attendere risposta, andai a chiudermi in bagno.
“Che cosa assurda”, pensai. “Tutte le mie coetanee dopo le liti coi genitori sbattono la porta della loro camera, mentre io da adesso in poi spesso dovrò accontentarmi della toilette!”.
 
 
La mattina dopo, mi alzai di buon’ora, piena di speranze e di pensieri positivi: da bambina non avevo forse desiderato avere mia nonna più vicina? Chissà, magari avrei imparato a conoscerla meglio! E poi, avevo notato che era molto più magra e grigia, rispetto all’ultima volta che l’avevo vista; inoltre, sembrava claudicante. Quindi, forse non era esattamente in forma come immaginavo!
Appena misi piede in salotto, però, fui costretta a ricredermi.
“Alla buon’ora, eh!”, mi disse la mia ospite. “Ti pare ora di alzarti? Sfaticata!”.
Guardai l’orologio che portavo sempre al polso, perplessa. “Ma che dici? Sono solo le otto!”.
“Appunto, è tardi! Sono due ore che ti aspetto per fare colazione!”.
Non volli darle la soddisfazione di vedermi irritata, e così passai in cucina, aprii il frigorifero e tirai fuori il latte.
“Come la vuoi la colazione?” urlai quasi, per sovrastare il volume della televisione.
“Voglio il latte caldo!”
“Senza nient’altro? Quanto zucchero?”.
Sospirai. Mi sembrava già di essere una dama di compagnia d’altri tempi, intenta a soddisfare i capricci della sua padrona! E di una padrona piuttosto esigente, tra l’altro: mi fece scaldare il latte una mezza dozzina di volte, prima di dichiararsi soddisfatta.
“Se dico che lo voglio caldo, lo voglio caldo, non tiepido. Capito? Quando diventerai una brava donna di casa, se non riesci a capire certe differenze? Quando lo trovi un fidanzato, se non sai fare neanche queste cose semplici?”.
Trattenni l’impulso di tirarle la sua amata bevanda in faccia, e replicai, tagliente. “Quello non è caldo, è bollente! E per tua informazione, io un fidanzato lo ho già. Te ne parlo spesso, le poche volte in cui ti degni di…” mi bloccai, e cambiai tattica. “Cioè, le volte in cui telefoni. Si chiama Hans”.
“E’ straniero?”, chiese, facendo una smorfia di disgusto.
“Tedesco, per parte di madre”.
“Meglio mi sento! Sono tanto belli gli italiani, proprio con un tedesco ti dovevi mettere?”.
“Per tua informazione, i suoi nonni erano tra gli ebrei deportati; poi sua madre da giovane si è trasferita qui e si è convertita dopo aver conosciuto il marito, di conseguenza il loro figlio vent’anni fa è stato battezzato come cristiano. Non è di certo un nazista, quindi! E comunque, non fa Hitler di cognome!”.
Potevo capire la disapprovazione di mia nonna verso gli abitanti della Germania, ma non era certo giusto prendersela con tutti loro, quando era stato soltanto un individuo, e tra l’altro austriaco, a scrivere una delle pagine più dolorose della storia!
“Se queste sono le prime ore della convivenza forzata”, mi dissi “non oso pensare a come sarà stasera, e nei giorni a venire!”.
 
 
All’ora di pranzo, le cose non migliorarono: le mie pietanze, secondo mia nonna, erano immangiabili. Ma quando le chiesi il motivo, mi rispose, dopo un prolungato silenzio: “Perché … sì!” e non volle più approfondire l’argomento!
In più, non mi lasciava mai tranquilla: mi chiamava ogni due secondi, per qualsiasi stupidaggine, compresa quella di cambiare canale; quando mio padre si decise a rientrare a casa, mi vestii in fretta e scappai via, ansiosa di prendermi qualche ora di libertà. Ero così nervosa che tremavo tutta, e mi ci volle parecchio prima di calmarmi: solo quando mi fui ripresa completamente mi decisi a inserire le chiavi nel quadro dell’accensione, e misi in moto la mia automobile.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: Le prozie ***


Capitolo 3: Le prozie

“AURORA!!! AURORA!!!”
Spensi l’aspirapolvere, e dalla camera da letto dei miei mi precipitai in salotto: ormai erano passate due settimane, fatte di giornate sempre uguali, e avevo imparato che, più tempo impiegavo a rispondere, più mia nonna sarebbe diventata insistente!
“AURORA!”
“Eccomi! Che c’è?”.
“Finalmente! Portami da mia sorella!”.
“Quale? Sai com’è, nei hai quattro!”.
“Maria”.
“Ah. Ma la vuoi chiamare prima? Te l’ho già detto tante volte, di solito si avverte prima di fare visita a qualcuno: non ci si fionda a casa degli altri senza motivo!”.
“Sì”.
“Ok, allora prendo la rubrica di mamma …”
“NO!”
La fissai, incredula. “No, cosa?”.
“Sì”.
“Eh? Non ti capisco! Vuoi o non vuoi che la chiamo?”
“No”.
“Sicura? Vuoi che ti porto da lei senza avvisarla?”.
“Sì”.
“Sicura sicura?”
“Sì! Ma per chi mi prendi, per una rimbambita? Su, andiamo, sbrigati, vai a cambiarti. E già che ci sei, portami le scarpe. Quelle nere!”.
“Capirai, che bell’aiuto: ne avrà tre o quattro paia diverse, di quel colore!”, pensai, prima di sparire in camera mia.
 
 
In macchina, lo sapevo, bisognava stare rilassati il più possibile, per guidare con coscienza. Peccato che per me, in quel momento, restare calma era parecchio difficile!
“Ti vuoi sbrigare??? Arriveremo in ritardo!”
“Guarda che siamo in un centro abitato, non posso correre. E comunque, zia non scappa, sai?”.
“Se non la troviamo, sarà colpa tua!”.
“No, se non la troviamo è colpa tua che non hai voluto avvertirla del tuo arrivo. Sarà pure tua sorella, ma non sta ai tuoi comodi!”.
“Accelera, ti dico!”.
Io continuai ad andare al mio ritmo, fregandomene delle sue imposizioni. La cocciutaggine, in fondo, mi derivava proprio da lei!
 
 
Dopo svariati minuti di ricerca del parcheggio, con mia nonna che sbraitava contro la mia incapacità di trovarne uno immediatamente, finalmente mi fermai, e la feci scendere: con la scusa che non era capace ad aprire le portiere, cosa comunque semplicissima, aspettava che fossi io a muovermi per condurla fuori dall’abitacolo.
“Tra qualche giorno mi ordinerà di portarla in braccio!”, pensai, furiosa, mentre le davo la mano.
Arrivate davanti al portone di casa della mia prozia, mi sentii sollevata. La sfacchinata era finita!
“Senti, ti accompagno fino su e poi vado via, d’accordo? Così faccio la spesa. Poi quando vuoi andartene, mi chiami e io arrivo, ok? E con il tempo che ci vuole!”.
Mi aspettavo che mi dicesse di sì: di solito, era ansiosa di liberarsi di me e di trattarmi come il suo chauffeur, quando usciva! Perciò, restai parecchio stupita sentendola mettermi un braccio intorno alla vita.
“No”.
“Non vuoi che vada? Vuoi che resti con te?”
“Sì”.
Mi sentii riempire di tenerezza. Allora, forse dopotutto mi voleva bene sul serio! Forse l’avevo giudicata male …
“Allora? Che aspetti a suonare? Vuoi che restiamo qui tutto il giorno?”.
“Mi correggo”, pensai, mentre allungavo la mano verso il citofono. “Non mi vuole bene per niente. Mi vuole solo dare ordini, per il puro gusto di farlo!”.
 
 
La mia prozia Maria ci accolse con un bel sorriso.
“Pina! Che piacere! E c’è anche Aurora! Bella di zia, come stai?”.
“Bene, grazie”, dissi. “E tu?”.
“Benissimo. Accomodatevi in cucina, intanto io vado a svegliare Michele!”.
Il prozio Michele era sordo come una campana, oltre ad essere ovviamente anziano: quindi, non solo urlava, ma neanche si tratteneva nelle cose che diceva. Prima che venisse a salutarci, infatti, lo sentii gridare alla moglie: “GIUSEPPINA, QUI? DI NUOVO? MA NON CE L’HA UNA CASA SUA???”.
“Non ha tutti i torti”, riflettei.
“Visto? Che ti avevo detto?” domandai poi, rivolta a mia nonna.
“Eh?”
“Lascia stare”, dissi, spazientita, vedendo arrivare i padroni di casa e preparandomi a fare la nipotina modello.
 
 
Com’era prevedibile, il mio prozio finse di avere qualcosa di importantissimo da guardare in tv, e così noi tre donne rimanemmo quasi subito da sole; chiacchierammo del più e del meno, finché mia nonna non chiese del bagno, e si avviò nella direzione indicatale dalla sorella.
Appena si fu chiusa la porta alle spalle, l’altra mia parente si chinò verso di me, e in un bisbiglio mi disse: “Mi sbaglio, o non sta affatto bene?”.
“Non saprei …” mi schernii. Non potevo certo dirle quel che pensavo davvero, ossia che più che malata, la nostra consanguinea mi sembrava soltanto una grande egoista!
“In effetti, anche io quando è arrivata l’ho vista un po’ diversa dal solito”, dissi, tanto per dire qualcosa.
“Tua madre che ne pensa?”
“Anche lei è un po’ preoccupata”, confermai, stavolta dicendo il vero. Ma mi accorsi troppo tardi di aver sbagliato termini …
Un po’ preoccupata. Solo un po’. Bella ingrata tua madre, non trovi?”.
“Come, scusa?”
“Dopo tutto quello che tua nonna ha fatto per lei, specie dopo la morte di tuo nonno! Dovrebbe servirla, riverirla e starle vicina, invece di preoccuparsi soltanto un po’ per la sua salute! Pensa, zia Maddalena proprio l’altro ieri mi stava dicendo che, secondo lei, tua madre dovrebbe lasciare il lavoro, per occuparsi di tua nonna! E anche zia Enrica e zia Teresa sono dello stesso avviso”.
Aprii la bocca per ribattere, ma ci ripensai, e tenni la mia indignazione per me. Come si permettevano, quelle quattro vecchie linguacciute? Come osavano dire che mia madre avrebbe dovuto rinunciare alla sua carriera per star dietro ad una persona che non l’aveva mai aiutata quando ne aveva avuto bisogno? Era facile per loro giudicare! Mia nonna aveva sempre recitato egregiamente la parte della mamma e della nonna premurosa, affettuosa e amorevole davanti a tutti i parenti, e in special modo con le sue sorelle: loro le avevano sempre creduto ciecamente, ma questo comunque non le autorizzava a mettere bocca nelle dinamiche interne alla mia famiglia!
Alla fine però, dovendo per forza dare una risposta, optai per un:
“Mamma vorrebbe, ma non può! C’è la crisi, lo sai: e per noi non sarebbe possibile andare avanti contando solo su uno stipendio, specie ora che c’è anche nonna in casa. Perché non la venite a trovare voi, però, ogni tanto? Sarebbe carino, no?”.
“Io non posso. Sono diventata di nuovo nonna, come sicuramente saprai, e di due gemelli, per giunta. Mia figlia ha bisogno di me! E lo stesso vale per Teresa, che ha una nipotina piccola”.
“Zia Enrica e zia Maddalena, invece, pensi che potrebbero?”.
“Proprio non lo so, Aurora. Dovresti chiederlo a loro!”.
“Come pensavo: tutti bravi a parlare, ma quando si tratta di dare una mano e di rimboccarsi le maniche spariscono alla velocità della luce!”, esclamai tra me e me.
Proprio in quel momento, si udì lo scarico del wc, e la porta si aprì. Mia nonna era evidentemente pronta a ricominciare la chiacchierata, ma io non volevo più stare lì: avevo sentito abbastanza, ero furiosa e se fossi rimasta ancora per qualche minuto avrei di sicuro rischiato di dire cose di cui poi mi sarei pentita.
“Vado in bagno anche io, poi torno!” avvertii, e mi affrettai a chiudermi la porta della stanza alle spalle.
“Bene. E ora, che mi invento?” mi domandai.
Fortunatamente, fu madre natura a venirmi in aiuto, qualche istante più tardi: e per la prima volta in otto anni, fui contenta di vedere il mio sangue mestruale!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: il meteo ***


Capitolo 4: Il meteo

 
“AURORA!”
Alzai lo sguardo dal romanzo giallo che stavo leggendo, seccata. Detestavo essere interrotta nella lettura, specie quando ero sul più bello!
Nonostante tutto, ovviamente mi alzai.
“Sì?”.
“Cambia canale!”
“Un ‘per favore’, no, eh? Comunque, dove vorresti che mettessi?”.
“Sul canale quello della cosa delle previsioni”.
“Come???”.
“Dove sta la cosa delle previsioni, metti!”.
“La cosa delle … aspetta, vuoi dire il meteo?”.
“Sì, quello!”.
Eseguii l’ordine, poi mi ritirai, irritata. Ormai, erano passati due mesi da quando era arrivata, e ogni giorno era uguale al precedente: mi chiamava ogni due secondi per le cose più banali, pretendeva che la portassi dalle sorelle o al parco del paese quando più le garbava, e criticava il mio modo di svolgere le faccende domestiche e la mia cucina (ma nonostante questo mangiava per due)! In più, faceva telefonate interminabili, e la televisione era accesa a ciclo continuo e a volume abbastanza alto: guai a toccargliela, perché si metteva ad urlare come se fosse di sua esclusiva proprietà!
Quando mi lamentavo con i miei del fatto che prima o poi la mia sanità mentale sarebbe venuta meno, loro mi rispondevano che, visto che non studiavo e non avevo amici, il minimo che potevo fare era aiutarli con mia nonna. Avevo iniziato a sospettare che, più che una richiesta d’aiuto, la loro fosse una sorta di punizione per il fatto che non avevo deciso di iscrivermi subito all’università, ma avevo sempre evitato di esternare questo mio pensiero e di ribattere alle loro pretese: quel pomeriggio stesso invece, appena mia madre rientrò in casa, la seguii in camera sua e mi girai per affrontarla.
“Senti, quanto dovrà durare ancora questa storia? Io non ce la faccio più! Non hai idea di come mi tratta, non mi lascia mai in pace!”.
“Aurora, ti prego … lo sai che rompe anche a me, no? Mi chiama tutti i giorni a orari imprecisati, al lavoro!”.
“Capirai, che sacrificio! Però è me che tratta come una schiava!”.
“Non mi pare che tu sia tanto sacrificata, sai? Tante ragazze della tua età fanno anche più cose di te! Sei libera di uscire quando ti pare il pomeriggio, o sbaglio?”
“Beh, ci mancherebbe altro! E sappi che le mie coetanee, visto che sei stata tu a tirarle in ballo, quando non studiano o non lavorano per qualche motivo, fanno un sacco di cose interessanti: nessuna di loro fa da badante alla nonna a tempo pieno! Meno male che ho Hans, altrimenti vivrei praticamente solo per servire lei”.
“Sei peggio di tuo padre: invece di aiutarmi, mi metti in difficoltà! Possibile che non capiate quanto è difficile per me? Lui non fa che dirmi che mia madre rovina la serenità della nostra famiglia: so che ha ragione, perché non sono cieca, ma che dovrei fare? Sbatterla in un ospizio?”.
Mi guardò, stremata, e la risposta tagliente che stavo per rifilarle mi morì sulle labbra. Mi faceva troppa pena!
“Ehm … sai cos’ha fatto, oggi? Mi ha ordinato di metterle la ‘cosa’ delle previsioni. Intendeva il meteo, ma non voleva proprio dirlo!”, esclamai, non sapendo bene cos’altro aggiungere.
“Sei sicura che non volesse?”.
“A quanto ho potuto vedere, riesce a dire tutto quello che vuole, quindi non preoccuparti, non ha alcun problema! Sapessi quante me ne dice …”
“Ah”. Mia madre non sembrava affatto convinta.
Aspettai che aggiungesse altro, ma fissava il vuoto come se stesse pensando alacremente; quindi, aprii la porta della camera e la lasciai sola.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5: Incidenti notturni ***


Capitolo 5: Incidenti notturni

Passò così un altro mese,e io mi ero ormai rassegnata al fatto che mia nonna sarebbe rimasta con noi molto a lungo, se non addirittura per sempre. Questo mi dava fastidio, e più provavo fastidio, più avevo sensi di colpa: non era forse una prerogativa di quasi tutti gli anziani, quella di essere egoisti? Mia nonna poi viveva da sola da parecchio tempo: non era forse logico quindi che fosse portata a pensare solo a se stessa?
Nonostante questo, però, il peso degli anni passati senza la sua figura e tutte le mancanze di tatto che aveva mostrato nel corso dei mesi mi impedivano ancora di volerle bene come sarebbe stato naturale; quando mi chiamava rispondevo, le stavo sempre dietro, ma lo facevo più per dovere che per affetto, e lo stesso discorso, a quanto pareva, valeva per i miei genitori quando erano a casa. Però, ad onor del vero, loro in linea generale erano molto più generosi di me, verso di lei: e questo lo capii ancora meglio una notte, in cui si sentirono urla raccapriccianti provenire dal bagno.
“SONO CADUTA!”.
“E rialzati, cretina!” borbottai io, tra le coperte.
“SONO CADUTA!”
“E chissene frega?” dissi a mezza voce, girandomi dalla parte opposta a quella in cui ero.
“SONO CA…”
“Uffa, smettila, adesso arrivo!” pensai, alzandomi. Quando arrivai lì, però, c’erano già mia madre e mio padre che la stavano aiutando.
“Allora è tutto a posto, vero?” chiesi, senza guardare nessuno di loro negli occhi. “Io me ne torno a letto!”.
 
 
“Certo che sei stata davvero poco gentile, stanotte!” mi fece notare mia madre qualche ora più tardi, mentre la aiutavo con il pranzo della domenica.
“Cioè? Che avrei dovuto fare, secondo te?”.
“Aiutarci, o almeno mostrare un minimo di preoccupazione!”.
“Mamma, io tratto le persone in base a come loro trattano me: dov’era nonna, quando io avevo bisogno di lei? E quando ne avevi bisogno tu? Tutte le giovani mamme hanno le madri che le aiutano con i figli, e tu hai dovuto crescermi da sola con papà; e con tutti i problemi di salute che ho avuto da piccolina, non dev’essere stato facile. Ti è mai arrivata una parola di conforto, da lei? Ti ricordo che quando ti sei sposata non ha voluto darti la sua seconda casa, e quando sei rimasta incinta di me l’unica cosa che ti ha detto era che eri stata stupida perché così non avresti mai più trovato lavoro!”.
“In effetti, non è mai stata molto presente. Ma è anche vero che ai suoi tempi nessuna madre stava tanto dietro ai figli! E perciò, quando è diventata nonna ha continuato ad agire in quel modo, perché forse è l’unico che conosce!”.
“Beh, le nonne dei miei coetanei in teoria avrebbero dovuto ricevere la sua stessa educazione, ma solo lei pare anaffettiva: come la mettiamo?”
“Anaffettiva? Che esagerazione!”.
“D’accordo, forse hai ragione. Allora mi correggo: ci vuole bene, ma nello stesso modo in cui potrebbe voler bene un freezer!”.
Mia madre scosse la testa. “Ah, la gioventù … è tanto bella, ma a volte è un vero e proprio limite! Quando arriverai alla mia età, vedrai le cose sotto un altro punto di vista”.
“Se lo dici tu”, dissi, con un’alzata di spalle.
 “Mi spiace, ma io non cambio idea: e non la cambierò neanche tra trent’anni” pensai tra me e me qualche minuto dopo, mentre mi trovavo nella mia camera.
“Quella donna non mi ha mai voluta, mi ha sempre ignorata e criticata e io non la perdono. Non lo farò, né ora né mai!”.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6: Scoperte ***


Capitolo 6: Scoperte

Fare i lavori di casa non mi era mai piaciuto particolarmente: e meno che mai mi piaceva in quell’ultimo periodo, con mia nonna che mi chiamava ogni due secondi quasi come se fosse sempre una questione di vita o di morte.
“Devo ammettere però che da qualche giorno strilla di meno: si sarà resa finalmente conto che non è la Principessa sul Pisello, e questa non è casa sua?” mi chiesi, mentre spolveravo un mobile in camera dei miei.
“Non vorrei essere troppo ottimis…” le mie riflessioni vennero bruscamente interrotte dalla caduta di una cartellina che fino a qualche istante prima era posata sul mobile che ero intenta a pulire.
“Cosa è?” mi chiesi. Sapevo che non avrei dovuto guardare, ma la curiosità ebbe la meglio.
“Ospedale San … ” lessi, velocemente. “Signora Giuseppina Lalli …”
Scorsi ancora, fino a trovarmi di fronte a due parole: “ischemia cerebrale”.
“Cosa? Ma è grave!” pensai, sconvolta.”Quando l’ha avuta?”
Dopo aver dato un’occhiata alla diretta interessata, che era davanti alla televisione come sempre, presi il foglio e mi trasferii in mansarda, luogo in cui era stato posizionato il mio pc dopo l’arrivo dell’ospite: mi era stato fatto chiaramente capire che la mia scrivania doveva diventare la sua, quindi lo spostamento si era reso necessario. A mio avviso, dovevo quasi ritenermi fortunata se non ero stata spedita io stessa in mansarda!
Una volta giunta a destinazione, accesi il monitor, andai su google e lessi quel che si diceva sulla malattia:
 
“Tra i sintomi più diffusi si ricordano:
  1. Debolezza muscolare o intorpidimento di una parte del viso o del corpo;
  2. Disturbi visivi;
  3. Difficoltà di linguaggio, come l’impossibilità di articolare correttamente, impossibilità di parlare, cattiva espressione o comprensione delle parole;
  4. Perdita della sensibilità (tatto, colore e dolore non percepiti);
  5. Mal di testa violenti, accompagnati da nausee;
  6. Perdita di equilibrio, cadute, vertigini;
  7. Disturbi della coscienza, che possono andare dalla violenza al coma.
 
Inutile dire che la lettura mi spaventò. Dall’incidente in bagno, mia nonna aveva dimostrato un netto peggioramento dell’equilibrio, tanto che spesso ondeggiava pericolosamente mentre era in piedi e io ero costretta a sorreggerla; e inoltre aveva iniziato a lamentarsi spesso per il mal di testa, anche se io non ci avevo fatto caso e avevo pensato solo che lo dicesse apposta per rompermi le scatole. Finalmente, avevo anche trovato la spiegazione relativa al perché ogni tanto diceva il contrario di quel che invece voleva dire!
Cercai la data in cui era stato redatto il referto medico, e vidi che risaliva a qualche tempo prima, nel breve periodo in cui mia nonna aveva vissuto con mio zio e la sua famiglia: evidentemente, gli zii le avevano fatto fare una visita, e questo era il risultato. Perché i miei non me l’avevano detto subito, e mi avevano parlato solo di demenza senile? Temevano forse che mi sarei preoccupata troppo, o che non sarei stata in grado di capire tutto appieno? Riguardo a mia nonna, poi, che dovevo pensare? Mi ero sempre sbagliata sul suo conto? L’avevo giudicata troppo in fretta? Dovevo essere più comprensiva con lei?
Mi affrettai a scendere, e a rimettere ogni cosa nel preciso punto in cui l’avevo trovata; poi, raggiunsi mia nonna e mi sedetti sul divano, per farle compagnia.
Volevo parlarle, ma non sapevo cosa dire: diciannove anni di contatti sporadici non mi avevano permesso di conoscerla a fondo, quindi non conoscevo argomenti che potessero attirare la sua attenzione!
Mi schiarii la gola, pensando che, magari, se avessi cominciato con un’osservazione banale l’effetto sarebbe stato lo stesso … ma mia nonna si girò proprio in quel momento, e, con un’espressione tra il furioso e il disgustato, mi chiese: “Aurora, cosa ci fai qui?”.
“Volevo solo starti vicina!” gli risposi, tranquilla. ”Ogni tanto mi chiedi di vedere la televisione con te e parlare un po’, no?”.
“Beh, adesso non voglio. Vattene!”.
Tutta la comprensione e la compassione di qualche attimo prima svanirono dal mio cuore, e tornò la rabbia. Una rabbia sorda, cieca, accompagnata dai soliti ricordi dolorosi, in cui la sua assenza dalla mia vita la faceva da padrona. Reprimendo l’impulso di schiaffeggiarla, mi alzai in piedi, e le dissi:
“Io me ne vado, ma solo perché mi va, non perché me l’hai detto tu. Questa è casa MIA, ricordi? Tra le due, chi comanda qui sono io! Hai capito?”.
Dopodiché, mi diressi verso la mia camera e sbattei violentemente la porta: questo non mi impedì, comunque, di sentire la mia ava sollevare la cornetta e parlare con mia madre, esagerando e distorcendo quello che le avevo detto: parlava di minacce, di poco rispetto, di pigrizia e di sfacciataggine.
“Che faccia tosta!” pensai. “Se anche questo è un effetto della malattia, beh, mi spiace ma non mi importa: quella donna è odiosa ed egoista, io non la capirò mai e neanche le vorrò mai bene!”.



 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7: La cugina perfetta ***


Capitolo 7: la cugina perfetta

“Aurora, ti sbrighi o no? Muoviti!”.
Soffocando l’impulso di strozzarla, le risposi.
“Eccomi, arrivo! Ma mi spieghi perché ti sei fissata con l’andare in chiesa? Non è domenica, oggi … è venerdì!”.
“Ma certo che sei proprio una screanzata! Io ti voglio bene, mi fa piacere passeggiare con te; che ti costa accompagnarmi? E poi, pregare ti farebbe bene, sai? Il Signore …”
“Il Signore mi ama, lo so”, conclusi io per lei, rassegnata. Continuare a discutere sarebbe stato inutile … perciò, le porsi il braccio, in modo che vi si potesse appoggiare, e cominciai a scendere le scale.
“Spero solo che si stufi presto!”, pensai.
Scendemmo tutte le rampe, e alla fine arrivammo davanti al portone: lo aprii, e uscimmo finalmente fuori.
Iniziammo quindi ad affrontare una piccola discesa che portava alla fine dell’area condominiale: dopo aver fatto pochi passi, però, ci bloccammo, perché due cani, entrambi incroci tra labrador e pastore maremmano, ci vennero incontro.
“Stella, Leo!” dissi. “Cosa ci fate qui?” Nonostante la loro mole, sapevo che non avevano cattive intenzioni: avevo avuto modo di conoscerli, perché erano i cani di una coppia che abitava nella villetta indipendente poco distante dal mio palazzo. Peccato che invece mia nonna non lo sapeva!
“Vai avanti tu, vai avanti tu! Io vengo dopo, piano piano” mi disse visibilmente terrorizzata, spingendomi davanti a lei.
“Alla faccia dell’affetto che lei dice di provare per me!” mi dissi. “Per fortuna che sono buoni, perché se erano belve feroci mi avrebbe fatta divorare pur di salvarsi!”.
Mi mossi in avanti, obbediente, anche perché non avevo altra scelta: prima che potessi fare un altro passo, però, Leo mi saltò addosso, in un modo che a lui sembrava senz’altro amichevole; io ondeggiai sotto il suo peso, ma riuscii a restare in piedi. Mentre cercavo un modo per scrollarmelo di dosso, però, mi arrivò un urlo: “STATEMI LONTANO, BESTIACCE!”.
Preoccupata, mi girai verso mia nonna, temendo che Stella le avesse riservato le stesse attenzioni che suo fratello stava riservando alla mia persona; invece, notai che la cagnetta era a pochi passi da me, e sembrava come se stesse aspettando il suo turno per farmi le feste!
“Non ti fanno niente!” le dissi. “Vogliono solo giocare!”.
Pensavo che in questo modo l’avrei incoraggiata a proseguire, ma mi sbagliavo: me ne resi conto quando la vidi iniziare a correre, a dispetto della sua gamba malandata, e quando sentii il portone chiudersi violentemente.
“Mi ha lasciata qui! Incredibile!”, esclamai ad alta voce. Leo, forse capendo che non ero in vena di giocare come al solito, mi lasciò andare, e io mi diressi verso casa, ancora sbigottita.
Arrivata davanti al portone, cercai freneticamente il mio mazzo di chiavi, trovai quella giusta e la infilai nella serratura: volevo fare in fretta, perché non avevo affatto dimenticato che uno dei sintomi dell’ischemia, malattia che mia nonna aveva avuto prima di trasferirsi da me, era la perdita di equilibrio! E se nella fuga si fosse fatta male seriamente? Nessuno dei miei familiari me lo avrebbe mai perdonato! Inoltre, sapevo che in ogni caso senza di me non poteva rientrare, e che se la avessi fatta aspettare troppo sul pianerottolo mi avrebbe rimproverata per tutta la giornata.
Il portone finalmente scattò; tolsi la chiave, la riposi in borsa e spinsi per entrare, ma proprio quel momento sentii un lieve colpetto poco sotto il ginocchio destro … abbassai lo sguardo e vidi Stella, che mi guardava con i suoi bellissimi occhi castani. “Non ci riaccompagni a casa?” sembrava chiedermi. Leo era a poca distanza da noi, seduto, con la bocca aperta e la lingua di fuori…
Guardai i cani, poi il portone. Cosa dovevo fare? Correre da mia nonna, che mi trattava come una serva e la cui capacità di amore si limitava solo a se stessa, oppure aiutare prima quei due animali, che a modo loro mi dimostravano affetto ogni volta che mi capitava di incrociarli, con o senza padroni?
“Lei cos’avrebbe fatto, al mio posto?” riflettei. La risposta mi fu subito chiara, e così presi la mia decisione.
“Andiamo, belli. Vi riporto a casa”.
 
 
Inutile dire che mia nonna, quando tornai da lei, mi riversò addosso una quantità incredibile di improperi e mi subissò di domande: perché l’avevo lasciata da sola? Non avevo notato la sua paura? E se quei cani l’avessero sbranata? Perché non li avevo cacciati via subito? Non disse mai di essersi preoccupata per me, di aver temuto che quei due grossi canidi mi avessero fatto del male: parlò solo di se stessa, ininterrottamente e ripetendosi spesso.
“Se hai finito di fare l’egoista, tu che dici tanto di volermi bene, magari puoi dirmi quali sono le tue intenzioni: ci vuoi andare in chiesa, sì o no?”.
“No: grazie a te, mi è passata la voglia!”.
Colta da un improvviso accesso di rabbia, infilai la chiave nella toppa e, girando con più forza del necessario, aprii la porta dell’appartamento.
“Non le rivolgerò la parola per tutto il giorno”, decisi. “Così, vedremo se avrà ancora voglia di darmi la colpa per qualsiasi idiozia!”.
 
 
Poco dopo l’ora di pranzo, però, dovetti venir meno alla mia decisione: non per colpa di mia nonna, però, ma per colpa di mia cugina Siria, che venne a trovarci. O meglio, venne a trovare la nostra antenata comune: Siria era infatti la figlia maggiore di mio zio Carlo, fratello di mia madre.
Capelli impeccabili, trucco appariscente e vestiti firmati, si presentò con l’aria schifata di chi considera la visita ai parenti plebei un fastidio purtroppo inevitabile … avrei voluto tanto chiuderle la porta in faccia, ma per non passare da maleducata non lo feci e la invitai ad entrare, esibendo un grosso sorriso falso.
“Siria, che bella sorpresa! Come stai? Che si dice in città? Sei arrivata da molto?”.
“Solo da qualche ora … passerò il weekend con nonna Francesca, e già che c’ero ho pensato di fare un salto anche qui, con il motorino. Non disturbo, vero?”.
“Ma certo che …” iniziai, ma mia nonna mi precedette e disse:
“Ma certo che no: puoi venire quando vuoi!”.
“Ehi!” non potei fare a meno di risentirmi. “Guarda che dirglielo non spettava a …”.
“Ti ringrazio, nonna cara”, rispose l’altra, come se io non avessi parlato affatto.
“Senti, Siriuccia, li vuoi un po’ di soldi? Cinquanta euro ti vanno bene?”.
Gli occhi di mia cugina si accesero di avidità, ma nonostante questo si affrettò a fare la modesta.
“Così tanto? Ma no, non devi! Sei troppo gentile, io non merito tutta questa generosità … in fondo, ho così poco tempo per venirti a trovare! Io sì che faccio tante cose, mica come qualcun altro!” concluse, lanciandomi un’occhiata di scherno che mi fece fremere d’indignazione.
“Insisto, prendili! La mia borsa è sul tavolo: aprila pure, prendi il portafoglio e togli quel che ti serve!”.
“Va bene”, fece prontamente l’adolescente: ormai aveva raggiunto il suo scopo, fingere non serviva più! Si alzò quindi con agilità, e si accinse a fare quanto le era stato detto: agguantò una banconota arancione, e poi allungò le dita per prenderne un’altra, di colore blu.
“Aspetta, Siria, questi non sono cinquanta euro …” le dissi, bloccandola appena in tempo. “Sono venti. Di sicuro, ti sei confusa con i colori, vero? E poi, sbaglio o hai già prelevato quanto dovevi?”.
“Ehm … già. Sì. Hai ragione”. Rossa di collera com’era, si vedeva proprio che in quel momento mi stava odiando profondamente; ma non poteva importarmene di meno. Nostra nonna era una stronza di prim’ordine, non c’erano dubbi, ma non potevo permettere che venisse derubata, e che a derubarla fosse proprio lei!
“Allora, vuoi che ti offro qualcos’altro? Ho ancora dei biscotti, se li vuoi!”, la informai, guidandola di nuovo verso il divano e mordendomi le labbra per non scoppiare a ridere.
 
 
Qualche minuto più tardi, Siria mi chiese di poter fumare.
“Cosa? Qui? Te lo scordi!” mi imposi.
“Uffa, che noiosa che sei! E sul balcone?”.
“No”.
“Ma starei praticamente all’aria aperta!”.
“Sì, però io l’odore lo sentirei lo stesso, e mi da fastidio: quindi, ti ripeto che no, non puoi”.
“Ma io ne ho bisogno!”.
“Beh, trattieniti! Hai diciassette anni, non tre: ce la puoi fare benissimo”.
“Perché, tu quando fumavi ti trattenevi?”.
“Guarda che ti sbagli: non ho mai fumato!”.
“Davvero? O.o Ma fai sul serio?”
Il suo tono sinceramente stupito mi colpì.
“Certo che sì: perché mai dovrei prenderti in giro?”.
“Che cosa strana!”
“Perché?”
“Come sarebbe a dire, perché? Lo fanno tutti! Ormai sono pochi gli sfigati che non lo fanno”.
“Non ho capito bene: com’è che mi avresti chiamata, scusa?”.
“Ehm … ho solo detto che … ormai è raro vedere gente che non fuma!”.
“Ah, ecco. Capisco che debba essere difficile per te stare in casa di qualcuno come me: confrontarsi con chi non segue il gregge in effetti è complicato. Pertanto, perché non torni da tua nonna Francesca, o non raggiungi la tua comitiva di amici? Sono sicura che loro ti sapranno capire più di questa tua noiosissima cugina, che non solo tiene alla sua salute, ma passa le sue giornate a far da badante invece di viaggiare, fare spese folli e uscire la sera fino a tardi come sai fare solo tu …. nei periodi in cui non sei impegnata con la scuola come ora, ovviamente!”.
Per mia fortuna, Siria colse al volo l’antifona e se ne andò, avendo cura di salutare solo la sua benefattrice. A me il mancato saluto non dispiacque affatto: ero troppo soddisfatta per essere riuscita a metterla alla porta!
Non avevo però fatto i conti con l’altra mia parente.
“Perché Siria è già andata via?” mi chiese infatti, con l’aria di chi conosce già la risposta.
“Non so, avrà avuto da fare!” risposi, con tono astioso.
“Non è vero: l’hai mandata via tu!”.
“Io? E perché avrei dovuto?”
“Non fare la finta tonta: l’hai guardata con odio tutto il tempo!”.
“E ci credo: mi ha trattata da scarafaggio! Sai a chi somiglia?”.
“No: a chi?”
“A … ma no, lascia stare. Comunque, per la cronaca, sappi che la primogenita del tuo figlio prediletto stava per prendere altri venti euro, oltre i cinquanta che le avevi promesso! Regalo generoso da parte tua, a proposito: mi chiedo come mai a me invece dai solo una moneta da due euro, e soltanto quando sei di buon umore. Il che ad onor del vero accade piuttosto di rado, ultimamente!”.
“Vuoi dire che Siria ruba? Non penso proprio: sei una bugiarda, non lo farebbe mai! E anche se fosse, dov’era il problema? Poteva prendersi anche quelli se voleva: è mia nipote!”.
“Anche io lo sono, sai?” stavo per risponderle; in quel momento, però, la porta si aprì ed entrò mio padre…. quindi, veloce come un fulmine, scappai in camera mia senza neanche salutarlo, per cercare di avere qualche attimo di respiro.
Sia lui che mia madre mi ripetevano spesso di avere pazienza, perché mia nonna era anziana; e io, avendo anche da poco scoperto della sua ischemia, non potevo negare che avevano ragione! Ma ogni volta che mi proponevo di sopportarla ed essere gentile, lei ne combinava una delle sue, e io puntualmente mi arrabbiavo.
Non ero in grado di capire se era davvero la malattia a farla parlare, o se era il suo egoismo: quindi, non sapevo se passarci su o meno, e neanche in che misura dovessi eventualmente farlo!

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8: Cambiamenti ***


Capitolo 8: cambiamenti

Mia cugina Siria capì talmente bene di non essere gradita, che non fece più ritorno a casa mia; così, le mie giornate ripresero a susseguirsi, sempre uguali. Preparavo pasti che non erano graditi, facevo faccende domestiche che non erano apprezzate, ricevevo commenti non richiesti e rimproveri sprezzanti … le uniche cose che diminuivano sempre di più erano gli ordini: spesso sembrava quasi che mia nonna non fosse in grado di darmeli. Le mancavano le parole, faceva dei giri immensi per descrivere anche i concetti più semplici; e mia madre per questo un giorno la portò dal neurologo.
Il responso del dottore non fu buono, ma i miei genitori, che tra l’altro ricevevano da mia nonna lo stesso mio trattamento, seppure naturalmente in modo meno marcato, si rifiutarono di dirmi quale fosse davvero il problema: l’unica cosa che seppero dirmi era che la mia anziana parente era apparentemente affetta da una malattia rara e degenerativa, simile al Parkinson ma più terribile ancora.
“Sii paziente con lei”, mi ripetevano “Non ti ci mettere a discutere e fai quello che dice, nei limiti del possibile”. Volevano anche che la controllassi più strettamente, in modo da non farle correre pericoli: ma non era facile, dato che lei odiava essere controllata e seguita passo passo, e non si rendeva conto di quanto fosse grave quello che aveva! E poi, c’erano anche i miei sentimenti contrastanti verso di lei che mi impedivano di affrontare tutto con animo sereno…
“Avrà mai fine, questa storia?” mi chiesi, dopo l’ennesima, stancante e ripetitiva giornata. Non lo sapevo ancora, ma quello era solo l’inizio!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9: Problemi ***


Capitolo 9: Problemi 

“Guarda quanti bambini sono accompagnati dai nonni e/o dalle nonne, in questo parco: sembra quasi che solo io non abbia avuto questa possibilità!”.
“E chi te l’ha detto? C’è gente che i propri nonni non li ha nemmeno conosciuti, in fondo, no?”.
“Sì, hai ragione, ma quelli che li hanno conosciuti si lamentano sempre di quanto li viziano: mai di quanto vengono ignorati, maltrattati o sfruttati!”.
“Beh, consolati: i nostri genitori di sicuro non saranno così, quando noi due avremo figli!”.
Mi girai verso il mio fidanzato, rossa come un peperone. “Ma dai!”.
“Perché, non li vorresti figli da me, in futuro?”.
“Certo che sì, che razza di domande!”
“E allora …”
“Aspetta” lo interruppi io, sentendo uno strano suono. Mi ci volle un po’ prima di capire che era semplicemente il mio cellulare che vibrava!
Lo presi e lessi il numero. Era mio padre.
“Pronto?”.
“Aurora? Dove sei?”.
“Al parco, con Hans. Perché?”.
“Dovresti venire giù il prima possibile: tua nonna è caduta e probabilmente s’è rotta il femore”.
“Cosa? Sul serio? Com’è successo?”
“Se vieni a casa, te lo spiego mentre andiamo in ospedale: mamma è già lì”.
“Ok, farò più in fretta che posso!”. Chiusi la comunicazione, e in un attimo venni assalita da emozioni contrastanti: la coscienza e l’istinto mi dicevano che dovevo correre, perché la cosa sembrava proprio grave, mentre lo spirito di ribellione e di rivalsa mi diceva di lasciarla al suo destino. Quante volte in fondo, potendolo fare, mia nonna aveva scelto di fare i suoi comodi invece di correre da me?
“Tesoro, chi era al telefono?” Hans mi stava fissando, preoccupato.
“Mio padre. Dice che dovrei tornare subito a casa, perché mia nonna è caduta e forse s’è fratturata il femore”.
“Davvero? Allora dovresti andare: la rottura di quell’osso non è mai una cosa semplice, specie per chi è anziano!”.
“Mah, non so. Visto che per me non c’è mai stata, sarei fortemente tentata di restare qui!”.
“Ti capisco, ma così in pratica ti comporteresti come lei. E’ questo che vuoi? Essere come lei?”.
“Assolutamente no!” esclamai indignata, alzandomi in piedi.
“E allora, vai! Ti accompagno a casa, dai: poi fammi sapere com’è la situazione, ok?”
 
 
“Alla buon’ora!” mi fece mio padre qualche minuto dopo. “Ma quanto ci hai messo?”.
“Ho avuto dei tentennamenti”.
“Cioè?”
“Senti, andiamo, te lo dico strada facendo!”. Non mi andava di discutere: volevo togliermi il pensiero della visita il prima possibile.
Scendemmo in garage e ci dirigemmo verso la macchina: mio padre salì al posto di guida, mentre io mi occupai di aprire, e successivamente di chiudere, la porta dello stanzone. Dopodiché, mi infilai accanto a lui e partimmo …
“Allora? Cos’è questa storia? Cosa è successo esattamente?”.
“L’abbiamo accompagnata da zia Teresa; ad un certo punto, lei è caduta, e da lì non s’è rialzata più. Tutto qui: che vuoi che sia successo?”.
“E che ne so? Dal tono che avevi quando mi hai chiamata, sembrava una questione di vita o di morte!”.
“Nel caso di tua nonna, in realtà, potrebbe esserlo”.
Capivo bene cosa intendeva dire: se quel che sospettavamo era vero, a breve ci sarebbe stato un intervento chirurgico, e visto che mia nonna era anziana e malata, avrebbe potuto non superarlo!
“Mamma come sta?”
“Come vuoi che stia? E’ sua figlia!”.
Stavo per ribattere, ma poi ci rinunciai: cos’altro c’era ancora da aggiungere, dopotutto? Quindi, mi girai verso il finestrino e osservai la strada come se la vedessi per la prima volta, anche se purtroppo per me la conoscevo fin troppo bene.
 
 
Quando arrivammo, i nostri sospetti vennero confermati: frattura del femore, e scomposta, per di più. Mia madre, inutile dirlo, era molto preoccupata!
“Il medico mi ha detto che, anche qualora superasse l’operazione, non si alzerà più in piedi!” mi disse infatti, trattenendo a stento le lacrime.
“Vuoi dire che dovrà stare a letto per tutta la vita?”.
“Praticamente, sì, salvo miracoli! E in più, a breve non sarà più in grado di parlare…”.
“Dovremo assumere qualche infermiera che badi a lei, allora?”, domandai ancora, sperando ardentemente che non chiedesse a me di farlo: accudire un’inferma era una cosa fuori dalla mia portata, perché non avevo né la capacità né le competenze necessarie!
“Sì … l’alternativa, altrimenti, sarebbe quella di cercare una struttura a lunga degenza”.
“Vuoi che ti dia una mano con la ricerca?”.
“No, tranquilla … ci penso io. Anche perché, non ho ancora deciso cosa fare! In entrambi i casi, mi sento come se la stessi abbandonando. Che diranno i parenti, quando sapranno che la mandiamo via di casa?”.
Mi sentii ribollire d’indignazione. Che ne potevano sapere, i parenti, di quello che stavamo passando?
“Ma lasciali stare, quelli! Sono buoni solo a parlare: non sanno nulla dei problemi che abbiamo! Sanno solo giudicare, ma quando chiedi loro un aiuto spariscono: vorrei vederli al nostro posto! Non resisterebbero neanche un minuto!”.
Volevo domandarle ancora se era stata l’ischemia ad originare tutti quei problemi, ma non lo feci: mia madre non era al corrente del fatto che avevo visto la cartella clinica, e non volevo che lo venisse a sapere! Non avendo idea di cos'altro aggiungere, chiesi la prima cosa che mi veniva in mente:
“Ma lei … sente il dolore?”.
“No: è un altro effetto della malattia, insieme alla perdita graduale della parola. Una frattura scomposta non è una bazzecola, eppure lei non ha emesso un lamento!”.
La situazione, a quanto pareva, era più grave di quanto mi aspettassi: per la prima volta, ebbi paura. Per mia nonna, e anche per mia madre … entrambe, che nonostante il legame di sangue si erano viste pochissime volte e sapevano quindi pochissimo l’una dell’altra, avrebbero di sicuro dovuto affrontare un calvario non indifferente; e io, dal canto mio, mi sentivo piccola e insignificante!
Nonostante ciò, ancora non mi sentivo totalmente pronta a perdonare mia nonna: diciannove anni di indifferenza quasi totale, uniti a mesi di maltrattamenti e pretese, non erano cosa facile da dimenticare. La comprendevo, la compativo … ma il perdono, non ero disposta a darglielo; o per lo meno, non ancora.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10: Tranquillità ... relativa ***


Capitolo 10: Tranquillità … relativa

Il giorno dopo, fu alquanto strano per me alzarmi e non trovare nessuno a rimproverarmi: per la prima volta dopo mesi, ero tornata alla mia vecchia routine! Da una parte ero felice per questo cambiamento, dall’altra invece mi sentivo in colpa per questa felicità; inoltre, non potevo fare a meno di essere in ansia: la mia preoccupazione non era neanche lontanamente intensa come avrebbe dovuto essere quella che prova qualsiasi nipote quando la nonna sta molto male, ma comunque c’era.
Pensai a mia madre: anche se cercava in tutti i modi di essere forte, si vedeva benissimo che la prospettiva di poter perdere mia nonna la atterriva.
“Vedrai che supererà l’intervento senza problemi!” le avevo ripetuto spesso in quelle ore; ma niente sembrava convincerla fino in fondo … in lei, oltre alla naturale paura, c’era anche il senso di colpa di una figlia che accudisce la mamma per dovere, più che per affetto.
“Ma cosa le costava essere una madre e una nonna affettuosa?” pensai, mentre rifacevo il mio letto. “Cos’ha ottenuto di positivo con questo suo atteggiamento? Ben poco, se non addirittura nulla! Chi non dà amore non lo riceve mai; o meglio ancora, per dirla con un vecchio detto, chi semina vento raccoglie tempesta! Se adesso nemmeno i parenti più stretti riescono a darle amore come dovrebbe essere, è solo colpa sua”.
Appena terminai con il letto, passai a rifare quello dei miei, e poi sistemai un po’ le varie stanze: non potendo più essere interrotta di continuo, tutto mi risultò più facile e veloce. Poi, poco dopo essermi fatta il pranzo e aver goduto della libertà di cucinare quel che volevo e come lo volevo senza lamentele e recriminazioni, mi collegai su internet (il mio computer era tornato al suo posto, sul tavolino della mia camera) e per distrarmi dai cattivi pensieri feci due ricerche: una sui vari lavori che potevo svolgere pur avendo solo il diploma, e una sulle università che ospitavano la facoltà di scienze della comunicazione, che era l’indirizzo che avrei preso qualora avessi deciso di iscrivermi ad un ateneo.
Rimasi davanti allo schermo per un bel po’ di ore, appuntandomi per iscritto le cose che ritenevo utili e/o interessanti: alla fine, rilessi tutto e, dopo aver valutato attentamente i pro e i contro, presi la mia decisione.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11: l'intervento chirurgico ***


Capitolo 11: L’intervento chirurgico

I miei genitori accolsero con favore la mia decisione di iscrivermi all’università: questo non mi sorprese particolarmente, però, perché mi avevano sempre incoraggiata in tal senso, essendo da sempre fermamente convinti che solo la laurea poteva aprirmi decentemente la strada al mondo del lavoro.
Ovviamente, nessuno di noi tre poteva godersi questa gioia appieno, per via dell’imminente operazione al femore che mia nonna doveva subire; ma in ogni caso, io cercavo di vivere la mia vita come potevo, e il più tranquillamente possibile ... ero preoccupata, sì, ma come avevo già avuto modo di notare, la mia ansia non era neanche lontanamente intensa come immaginavo avrebbe dovuto essere. Più il tempo passava, più mi rendevo conto che in realtà, ero più tesa per mia madre, che per tutto il resto: in quel periodo la vedevo particolarmente fragile, e non osavo nemmeno pensare a quanto dolore avrebbe provato se le nostre paure si fossero concretizzate! Fu per questo motivo che il pomeriggio del giorno stabilito, sentendo squillare il mio cellulare schizzai quasi fino al soffitto …
“Pronto?”
“Aurora, sono io”.
“Ciao mamma … com’è andata?”.
“Bene. L’intervento è riuscito!”.
Sospirai, sollevata. Certo, la parola “bene” era riduttiva, perché sapevamo tutti che mia nonna non si sarebbe mai ripresa del tutto per via della sua malattia, che aveva un carattere spaventosamente degenerativo oltre ad essere rara; ma era viva, e questo era già qualcosa!
“Il peggio è passato, per ora”, mi dissi, dopo aver chiuso la comunicazione. “Ma è chiaro come il sole che non è finita qui, purtroppo. Cos’altro ci aspetterà, tra qualche mese?”.
La risposta alla mia domanda sarebbe arrivata fin troppo presto.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12: la situazione peggiora ***


Capitolo 12: la situazione peggiora

Passarono i mesi, e per me arrivò il momento di fare i test di ingresso per l’università; avevo deciso di farne più d’uno, in modo da avere più possibilità di riuscita.
Intanto, in famiglia le cose erano peggiorate: gli zii, i prozii e i cugini, che non si erano mai fatti sentire prima di allora se non ogni tanto, criticavano spesso mia madre per aver deciso di portare mia nonna in una clinica a lunga degenza … ogni volta che manifestavo l’intenzione di difenderla, però, lei mi bloccava.
“Se parli, farai più male che bene: penseranno che ti ho influenzata io!”, mi diceva.
“Ah, sì? Ma con chi credono di avere a che fare, con una bambina? Sono una adulta e ho una testa che funziona!”, mi indignavo. Ma nonostante l’irritazione, seguivo le sue direttive e stavo zitta.
Mia nonna, dal canto suo, come già previsto dal medico non si era alzata più in piedi; era ancora in grado di mangiare normalmente, ma era magrissima e parlava con un filo di voce. Nonostante ciò, riusciva comunque a lanciare a mia madre occhiate a dir poco furiose, e lei ci stava molto male!
Tutto questo lo sapevo per interposta persona, perché ancora non ero andata a trovarla; ai miei genitori e agli altri parenti dicevo che non andavo perché mi avrebbe fatto troppo male vederla in quello stato, ma la verità era un’altra: il risentimento era tornato a farsi vivo, anche se era meno forte di prima. Davvero dovevo andarla a trovare, quando lei invece con me non lo aveva fatto? Negli anni avevo subito interventi alla testa, agli occhi, alla mandibola, ai denti … alcuni erano stati piuttosto seri e rischiosi, ma lei aveva sempre evitato di vedermi, preferendo ballare con i suoi coetanei nel centro anziani poco distante da casa sua. Le sue sorelle mi avevano detto, ovviamente senza che io le avessi sollecitate, che faceva così per allontanare la sofferenza e per cercare di non soccombere troppo alla paura che aveva per me, ma io non ci credevo: a mio parere, semplicemente non le andava di vedermi e basta, perché teneva più alla sua routine quotidiana che alla mia vita e alla mia salute.
“Non mi vedrà mai. Così forse magari capirà cosa vuol dire essere lasciati soli! E’ fortunata ad avere mamma, che dopo il lavoro passa da lei tutti i giorni e ci resta il più possibile; invece di guardarla male, dovrebbe esserle grata! Ci fossi stata io al suo posto, avrei lasciato che fossero gli infermieri a pensare a lei; e se ai parenti non fosse stato bene, li avrei mandati direttamente a quel paese”, pensavo.
Ero sicura di ben poche cose, ma su quella non avevo dubbi: avrei resistito, non avrei ceduto, non mi sarei recata in clinica per vedere la mia anziana parente; quella, per me, era vera giustizia!

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13: il sondino ***


Capitolo 13: il sondino

Poco tempo dopo, iniziai a frequentare l’università: dei tre test d’ingresso che avevo fatto, ne avevo superati due, e così avevo scelto l’ateneo che mi sembrava più adatto a me. Speravo tanto di aver fatto la scelta giusta!
I miei genitori si aspettavano che con il cambio di ambiente io trovassi gli amici che fino ad allora non avevo avuto, e più i giorni passavano, più si mostravano delusi vedendo che non accadeva: non avendovi mai messo piede in vita loro, non riuscivano proprio a capire che non era facile fare amicizia in quel luogo. I compagni di corso non erano sempre gli stessi, ma spesso cambiavano in base alla materia affrontata, e per di più erano davvero poche le occasioni in cui si poteva scambiare qualche parola!
Oltretutto, per natura non ero una tipa estroversa, e questo complicava le cose; preferivo starmene da sola, non ero mai io a fare il primo passo per conoscere qualcuno … Hans continuava ad essere la mia unica e sola compagnia, e mi andava benissimo così.
“Non puoi vivere solo d’amore”, mi diceva mia madre. “Devi avere anche qualcun altro intorno a te! Cosa succederebbe se vi lasciaste?”.
Queste sue parole, ripetute fin troppo di frequente, non mi facevano affatto piacere, e così finivamo per litigare spesso: un giorno, però, l’attenzione di mia madre dovette spostarsi su un problema ben più grave, e così stabilimmo una tregua.
“COSA? Le devono mettere un sondino???” strillai infatti un triste giorno di novembre, mentre uscivo dal cancello dell’università e mi dirigevo verso il posto in cui avevo parcheggiato la mia auto.
“Esatto” mi fece mia madre. “Ormai, non è più in grado di alimentarsi da sola, perché non è più capace di deglutire: bisogna procedere con l’alimentazione forzata, altrimenti morirà di fame!”.
“Andiamo bene!”.
“Già … non credi che sia il caso di andarla a trovare, tesoro? Potrebbe essere anche l’ultima volta che la vedi: lo sai che ormai può succedere da un momento all’altro, no? Te l’ho già spiegato!”.
Tolsi il cellulare dall’orecchio e schiacciai il tastino corrispondente all’interruzione di chiamata, prima di spegnere definitivamente l’apparecchio: quel discorso l’avevo già sentito innumerevoli volte, e non mi andava di sentirlo di nuovo.
Perché lei e mio padre insistevano tanto nel dirmi che dovevo decidermi ad andare a trovare mia nonna, specie dopo che avevo spiegato loro chiaramente il motivo per cui non avevo intenzione di farlo? Non facevano che dirmi che era la mia gioventù a farmi parlare, ma che se non avessi concesso a mia nonna un’altra possibilità poi me ne sarei pentita amaramente.
Mia madre aveva litigato con un suo zio paterno poco prima della mia nascita, e ora che avevo quasi vent’anni ancora non ci parlava, nonostante lui fosse un ultranovantenne; mio padre invece aveva una forte avversione per una delle sorelle di sua mamma, anziana e completamente cieca, solo perché aveva sempre avuto l’abitudine di pensare a se stessa. Loro potevano ignorare tranquillamente i loro parenti anziani ed egoisti, io invece dovevo perdonare!
“Il perdono non compete a me”, pensai, mentre mi mettevo al volante e allacciavo la cintura di sicurezza. “Io sono solo un essere umano, e in quanto tale mi comporto. Non voglio vederla, punto e basta!”.
 
 
Purtroppo, non erano solo i miei genitori a non approvare la mia decisione: anche il mio fidanzato, quel pomeriggio, mi giudicò severamente.
“Sei proprio sicura di non voler andare?” mi chiese infatti. “Secondo me stai un po’ esagerando! E’ vero, tua nonna ha sbagliato nei tuoi confronti: ma, come ti ho già detto altre volte, se la ripaghi con la stessa moneta finirai per essere né più né meno come lei. Credo che tu voglia tutto tranne che questo, no?”.
Sospirai, passandomi una mano nei capelli.
“E’ più facile a dirsi che a farsi: mi ha trattata con indifferenza per quasi un ventennio, e nei mesi di convivenza invece non ha fatto altro che rendermi la vita impossibile in ogni singolo istante! In più, per via del fatto che non è mai venuta a trovarmi se non quando mia madre glielo imponeva o quando non aveva di meglio da fare, praticamente non la conosco: condivido una parte del patrimonio genetico con lei, ma è un’estranea, in tutti i sensi! Tu aiuteresti uno sconosciuto, al quale tra l’altro molto probabilmente dai pure fastidio, almeno finché non gli fai comodo? Vedessi come si ricordava che sono la nipote, quando dovevo servirle i pasti o quando la dovevo portare da una delle sue sorelle! Per il resto, potevo anche non esserci: l’importante era che i suoi desideri venissero esauditi in tutto e per tutto, il resto non contava”.
“Ma non s’è comportata così solo con te, no? Anche con tua madre non è stata molto presente, e ha anteposto i suoi interessi a quelli della figlia: sei stata proprio tu a dirmelo!”.
“Oh, sì, è vero: mia madre è stata sempre la sua spina nel fianco, forse perché, come me, non s’è mai fatta mettere i piedi in testa da nessuno. L’altro suo figlio, invece, vale a dire mio zio Carlo, è sempre stato il suo prediletto, sia perché era il primogenito sia perché come carattere si somigliano parecchio! Ma comunque, cosa vorresti dire? Il fatto che non sia stata presente neanche con mamma giustifica tutto? Mal comune, mezzo gaudio?”.
“No, non intendevo affatto dire questo: intendevo dire che, se non è stata una madre esemplare con sua figlia, era logico che si sarebbe comportata così anche con sua nipote; e che forse, il suo comportamento freddo è dovuto all’educazione che ha ricevuto, o ai rapporti che aveva con i suoi genitori ed i suoi nonni, e che ha quindi interiorizzato con il tempo. In fondo, sai bene quanto me che qualche decennio fa con i bambini non si mostrava tenerezza, figurarsi quindi con gli adulti!”.
“Sarà … ma io ragiono come una donna del ventunesimo secolo, pertanto non ci vedo niente di male nel mostrare i sentimenti, specie verso i propri familiari. Non pretendo i baci e gli abbracci, perché io per prima non ne do spesso, ma una dimostrazione sincera di affetto invece dei rarissimi e interessati ‘ti voglio bene’ e ‘sei tutto il cuore mio’, che mia nonna mi ha rifilato negli anni, sarebbe stata gradita, almeno finché non s’è ricoverata!”.
“Ma magari voleva farlo e non sapeva come, ci hai pensato?”.
“Guarda che è adulta da un bel pezzo, non è un’infante! Dato che ora è letteralmente paralizzata, non parla proprio più ed emette solo qualche gridolino sporadico, è chiaro che anche volendo non potrebbe farlo, ma prima poteva eccome”.
Hans alzò le mani, in segno di resa. “Va bene, amore, ho capito … ma io resto sempre dell’idea che dovresti andare. Se non vuoi farlo per lei, almeno fallo per me!”.
“Cosa?” domandai, stupita.
“Fallo per me”, ripeté, con maggiore convinzione.
Lo fissai in quei suoi meravigliosi occhi azzurri per qualche attimo, incerta: poi, alla fine, cedetti.
“D’accordo, ci andrò domani”.
 
 
La clinica a lunga degenza in cui mia nonna era ricoverata ospitava per la maggior parte pazienti affetti dal morbo di Alzheimer: alcuni di loro sarebbero stati persino comici, se non avessero avuto quella tremenda malattia.
La stanza della mia anziana e malata parente si trovava al secondo piano dell’edificio, e per raggiungerla dovetti salire due rampe di scale piuttosto consunte; mio padre, che s’era offerto di accompagnarmi, mi sorvegliava come se potessi inciampare da un momento all’altro.
“Sei pronta?”, mi disse, quando arrivammo davanti ad una grande porta bianca.
“Certo!” risposi.
“Vedi di dirle qualcosa, quando entriamo, ok? Anche la più stupida”.
“Posso dirle che mamma oggi non è venuta perché le è presa la febbre all’improvviso? Tanto è la verità, no?”.
“Certo, devi dirglielo! Altrimenti magari si preoccuperà”.
“Sì, certo, come no: al massimo, dentro di sé la giudicherà male perché non è venuta a farle da schiava e a beccarsi le sue occhiatacce!”.
La mia osservazione, fatta apposta per provocare, cadde nel vuoto, e mio padre aprì la porta senza pronunciare verbo.
La stanza che mi si presentò davanti era di medie dimensioni ed aveva anche un piccolo bagno, ma era fatta per ospitare due soli pazienti: quel giorno, però, c’era solo mia nonna.
“Com’è cambiata!” pensai. I suoi capelli, a cui lei aveva sempre tenuto in modo quasi maniacale, erano corti come erano sempre stati, ma completamente bianchi e dritti: e aveva già il sondino.
Un brivido mi corse lungo la schiena: sembrava un guscio vuoto! Se le era rimasta un po’ di lucidità, cosa di cui non potevo essere certa al cento per cento dato che non poteva né parlare né muoversi, era praticamente prigioniera del suo stesso corpo; era una prospettiva davvero orribile, e non potei fare a meno di provare pena per lei.
Mi avvicinai al letto, incerta, quasi sperando che dormisse: invece, vidi che aveva gli occhi aperti.
“Ciao, nonna”.
Mi aspettavo che lanciasse occhiate furibonde anche verso di me, ma non lo fece: articolò a fatica il mio nome, con il labiale, e poi sgranò gli occhi di qualche millimetro, perché di più probabilmente non le riusciva.
“Ehm…” feci, non sapendo cosa aggiungere.
“Complimenti per l’eloquio!” mi fece mio padre, che s’era ovviamente ben guardato dallo scambiare due parole con la suocera e non l’aveva nemmeno salutata, trincerandosi dietro alla scusa di dover sistemare i vestiti di ricambio della malata nel suo cassetto personale.
“Beh, vieni tu qui, no? Ai vestiti ci penso io!” esclamai, punta sul vivo.
“Non penso proprio: tu sei disordinata, li metteresti di sicuro male!”.
Non risposi, e mi concentrai. Cosa potevo dire a qualcuno che per me era quasi un estraneo? Da dove cominciavo, di solito, quando mi trovavo davanti a chi non conoscevo bene? Mi sentivo tremendamente a disagio, sia per la situazione e il luogo in cui ero, sia per l’identità e la situazione della persona che avevo davanti; ma mi rendevo anche perfettamente conto che dovevo agire, non potevo fare la bella statuina per tutto il tempo: così, parlai.
Dissi di mia madre che non si era sentita bene, specificando che comunque si sarebbe ripresa di sicuro presto, e raccontai della mia nuova vita universitaria e delle speranze che avevo al riguardo; poi riferii di cose sentite in tv, e alla fine accesi l’apparecchio in questione, tanto per non far vedere che avevo esaurito gli argomenti di conversazione e che quindi non sapevo più che pesci pigliare. Evitai il tg e scelsi un film che non sembrava essere, almeno a primo acchito,  né troppo allegro né esageratamente tragico; dopo cinque minuti, però, girandomi verso mia nonna vidi che si era addormentata, e perciò spensi tutto.
 
 
“Avresti potuto parlarle di più, no?”, mio padre, al volante, non si fece scappare l’occasione per criticarmi.
“Te l’ho già detto, potevamo fare cambio: magari, così, mi avresti mostrato come comportarmi correttamente!”.
“Tra qualche mese avrai vent’anni, non dovrei essere io ad insegnarti i comportamenti giusti da tenere: dovresti sapere da sola quali sono!”.
“Beh, non si finisce mai di imparare nella vita! Almeno non le ho detto di zia Maddalena, no?”.
La mia prozia Maddalena era morta una settimana prima, all’età di ottantadue anni, per un infarto improvviso: personalmente l’avevo pianta poco, perché non avevo mai avuto molti contatti con lei e perché era stata la prima a criticare mia madre per la sua decisione di portare mia nonna in una clinica a lunga degenza dopo il ricovero in ospedale, ma non ero così stupida da capire che una persona  debole e malata quale mia nonna era non poteva venire informata della morte della sorella, neanche in un modo delicato!
“Beh, ci mancherebbe. Abbiamo deciso insieme a tutti i parenti che era meglio lasciarla all’oscuro, per il suo bene, e se tu gliel’avessi spifferato saresti stata davvero crudele, oltre che una grandissima stronza”.
“Grazie, ma che gentile! Non sono così cattiva, però, visto?”.
“Come ti è sembrata?”.
Volevo dirgli che mi era sembrata un guscio vuoto, e che mi ero sentita molto a disagio nel parlarle perché avevo praticamente avuto l’impressione di parlare con un muro di cemento, ma dubitavo che mi avrebbe capita, pertanto optai per un:“Non la vedo molto bene”.
“Solo questo sai dire?”
“Perché, non è vero?”.
Mio padre aprì la bocca, senza dubbio per dirmi che non si doveva mai rispondere ad una domanda con un’altra domanda, ma ormai eravamo quasi arrivati a casa, quindi ci ripensò e tenne per sé le sue considerazioni.
 
 
Pochi istanti più tardi, raggiunsi mia madre sul divano del salotto.
“Come stai?”.
“Ho trentotto”.
“Ah, mi spiace. Ma la tachipirina l’hai presa?”.
“Sì, e sono certa che tra poco farà effetto. Com’è andata la visita? Nonna ti ha riconosciuta?”.
“Sì: ha detto il mio nome. O meglio, lo ha mimato con le labbra…le ho parlato un po’, e poi s’è addormentata. Papà mi ha rimproverata dicendo che dovevo parlarle di più, ma io non sapevo cos’altro fare!”.
“Papà spesso parla tanto per parlare … lascialo perdere. Certe cose proprio non vuole capirle! Io invece so quant’è stato difficile, per te, oggi. Non ti ha fatto un bell’effetto, vero?”.
“Ovviamente no. Ma non so ancora se riesco a perdonarla del tutto, anche se è inchiodata a letto!”.
Quando andai a dormire, però, non ero più tanto sicura di quel che avevo detto a mia madre: non riuscivo ad ammetterlo completamente neanche con me stessa, ma, pur non considerandomi incline al perdono, mi era bastato guardare mia nonna negli occhi per concederglielo.
In fondo, come potevo continuare a portare rancore ad una persona sofferente e affetta da una malattia tanto rara e tremenda? Come potevo restare tanto a lungo arrabbiata con un essere umano che non si poteva più difendere, e che a modo suo lottava ogni giorno contro l’angelo della morte restando caparbiamente attaccato ad una vita che di tale aveva solo il nome? Quella di mia nonna era solo una esistenza, e negli ultimi mesi aveva pagato abbastanza il suo egoismo e la sua mancanza di affetto e di interesse nei miei confronti, pertanto non serviva che io la punissi ulteriormente; sapevo che quasi certamente non sarei mai stata la nipote affettuosa, dolce e sollecita che i miei parenti si erano convinti che io fossi, perché non avendola mai conosciuta davvero non potevo volerle bene come avrei dovuto, ma sapevo anche che avrei fatto ugualmente del mio meglio per starle vicina.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14: cambio di terapia ***


Capitolo 14: Cambio di terapia

Il Natale era ormai alle porte: di solito, quello era un periodo abbastanza sereno, ma quell’anno ovviamente non lo fu.
Mia nonna ormai era ridotta ad un vegetale: per comunicare emetteva suoni brevi e lamentosi, veniva nutrita tramite il sondino, era spesso in preda a febbri alte e un paio di volte ebbe crisi respiratorie molto violente, per scongiurare le quali si dovette ricorrere alla bombola dell’ossigeno.
Mia madre, pur soffrendo per questa situazione, aveva addobbato la camera della clinica dove mia nonna era ricoverata con oggetti natalizi, tra cui anche un piccolo alberello, per farle sentire un po’ l’atmosfera: se la percepisse davvero e in che misura, ovviamente, non era dato sapere.
Le cure che venivano somministrate, purtroppo, erano soltanto palliative, perché la patologia che affliggeva la mia parente più anziana era rara e quindi non esistevano farmaci specifici; in pratica, non servivano a farla stare meglio, ma solo a prolungare la sua vita il più possibile. Eravamo tutti consapevoli di questo fatto, ma preferivamo non pensarci!
Io non ero più tornata in quella struttura sanitaria dopo la prima volta che ci ero stata, poche settimane prima, e non mi sentivo di tornarci: una parte di me sapeva che avrei dovuto, ma l’altra si rifiutava categoricamente. Non provavo più rancore verso di lei, questo era vero, ma sapevo che non sarei stata in grado di dirle nulla e mi sarei sentita in imbarazzo, come d’altronde era già capitato … oltretutto, la percepivo ancora come un’estranea, non come una persona cara che poteva andarsene da un momento all’altro, e questo era il problema più grande; ma come potevo imporre a me stessa di provare la giusta dose di affetto? I sentimenti dopotutto non possono venire a comando, e non si può nemmeno deciderne la quantità!
In ogni caso, mi spaventai parecchio quando un giorno mia madre mi chiamò per dirmi che mia nonna stava migliorando, a causa di un cambio di terapia.
“Davvero sta meglio?” chiesi infatti.
“Certo! Non sei contenta?”.
Lei sprizzava gioia da tutti i pori, io invece avevo un brutto presentimento: ma come spiegarglielo? Sapevo che, se gliene avessi parlato, mi avrebbe accusata di essere un uccello del malaugurio, quindi scelsi di evitare.
“Ah, beh, certo che mi fa piacere, che discorsi!”.
Continuammo a discorrere del più e del meno per qualche altro istante, e poi alla fine ci salutammo: io, che prima che il mio cellulare iniziasse a squillare mi trovavo sul balcone per stendere i panni, invece di riprendere la mia occupazione rimasi impalata dov’ero.
“E’ finita”, non potei fare a meno di pensare. “Capisco mamma, che osanna i medici e pare essersi già dimenticata che uno di loro appena cinque giorni fa le ha detto che, se voleva, potevano staccare il sondino e far morire mia nonna di fame, così si sarebbe liberato un posto letto … è sua figlia, ed è normale che speri in un miracolo. Ma io ai miracoli non ci ho mai creduto, e so bene che è proprio quando il malato grave inizia a mostrare improvvisi e apparentemente inspiegabili segni di miglioramento che bisogna temere il peggio: il momento è vicino!”.
Ovviamente, tenni per me questi pensieri cupi, e per il resto della giornata mi comportai normalmente; esternamente ero calma, tranquilla e fiduciosa, ma dentro ero guardinga ed all’erta: la batosta sarebbe arrivata molto presto, ne ero sicura.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15: Sogni e realtà ***


Capitolo 15: Sogni e realtà

“Pronto? Parlo con la figlia della signora Giuseppina Lalli? Chiamo da…”
Non ascoltai il resto della frase: potevo ben immaginare da dove chiamasse la donna che era all’altro capo del filo.
“Sono la nipote della vostra paziente: mia madre è in casa, vuole che gliela chiami?”
“Sì, grazie”.
Tolsi il telefono dall’orecchio, lentamente, in preda alla paura. Poi, contai fino a tre e strillai:
“MAMMAAA, E’ LA CLINICA!”
Quando mia madre mi raggiunse, le misi velocemente l’apparecchio in mano e mi rintanai in camera mia, prendendo il primo libro che mi capitò a tiro e iniziando a leggiucchiare qualche frase qua e là per placare l’ansia.
Alla fine, la porta della mia stanza si aprì.
“Aurora, devo andare via: nonna non s’è sentita bene, sembra sia grave. Papà verrà con me; dovremmo riuscire a tornare per l’ora di pranzo, quindi tu aspettaci prima di mangiare, ok?”.
Annuii e la seguii fino in corridoio: quando lei e mio padre si furono chiusi la porta alle spalle, andai in cucina per controllare cosa ci fosse nel frigorifero: avevo la sgradevole sensazione che quel giorno avrei pranzato da sola …
 
 
Mi svegliai di soprassalto, terrorizzata: mi ci volle un bel po’ prima di capire che avevo solo sognato.
“Che incubo tremendo!” pensai. “Sembrava così reale!”. Era domenica, e i miei dormivano beatamente nella stanza accanto alla mia: provai a tornare anche io nel mondo dei sogni, ma dopo un’ora di tentativi infruttuosi mi arresi e decisi di alzarmi: mi lavai come ogni mattina, e poi mi diressi in cucina, con l’intenzione di prepararmi la colazione; durante il tragitto, però, il telefono iniziò a squillare.
Mi bloccai, terrorizzata.
“Non voglio rispondere!” mi dissi, e guardai in direzione della camera dei miei, dalla quale però non proveniva alcun suono.
Il telefono squillò di nuovo, ma io non mi mossi, sperando ancora che i miei potessero svegliarsi e rispondere al mio posto.
Al terzo squillo, mi decisi. “Meglio che rispondi, tanto quei pigroni non hanno proprio intenzione di alzarsi … e poi andiamo, sei ridicola! Solo perché hai fatto un brutto sogno, ti fai condizionare in questo modo: vergognati!” mi rimproverai mentalmente. Presi un bel respiro e, pochissimi istanti dopo il quarto squillo, sollevai la cornetta …
“Pronto, chi parla?”.
“Pronto? Parlo con la figlia della signora Giuseppina Lalli? Chiamo da…”
Il mio cuore mancò un battito, e la testa iniziò a girarmi vorticosamente: non potevo crederci! Chiamavano dalla clinica in cui era ricoverata mia nonna, come nel mio sogno: speravo solo che non fosse grave come invece il mio incubo aveva lasciato intendere.
“Sono la nipote della vostra paziente: mia madre è in casa, vuole che gliela chiami?”
“Sì, grazie”.
Chiamai mia madre a gran voce, e poi andai a rifugiarmi in camera mia: invece di prendere un libro a caso per leggerlo distrattamente, come ero solita fare quando ero agitata, presi a rifare il mio letto.
Quando però mia madre venne a dirmi che lei e mio padre dovevano correre da mia nonna per una emergenza, usando tra l’altro le stesse identiche parole che aveva pronunciato nel mio sogno, lasciai perdere tutto: li seguii in corridoio, li guardai andare via e infine ripresi a fare quel che avevo interrotto. Come la mia alter ego onirica, ero sicurissima che a pranzo sarei stata sola …
 
 
Verso mezzogiorno, il telefono squillò di nuovo, e io, che dopo aver ascoltato qualche canzone su youtube mi ero messa davanti alla televisione e avevo cambiato canale più volte captando sì e no solo qualche parola di ciascun programma, schizzai in piedi.
“Forse sono mamma e papà: magari la crisi è passata, e mi chiamano per dire che stanno tornando a casa!”, pensai. Ma, chissà perché, la cosa non mi convinceva affatto …
“Pronto?”
“Pronto? Aurora, sei tu? Sono zia Nora”.
Mi spremetti le meningi, e poi, improvvisamente, ricordai: zia Nora era in realtà una cugina di mia madre, che viveva a Milano: non la sentivamo quasi mai.
“Ciao, zia”.
“Ho saputo ora di tua nonna, tesoro: condoglianze! Tua mamma è a casa?”.
“No, è in clinica”, dissi, deglutendo. Poi improvvisai, tanto per essere sicura di aver capito bene: “Sai, dopo quel che è successo …”.
“Già … so che per te dev’essere molto doloroso, ma devi pensare che almeno adesso ha smesso di soffrire, e che è in pace. Ora devi pregare per lei, e non scoraggiarti troppo: la morte in fondo è nostra sorella in un certo senso, sai? San Francesco, nel suo Cantico di Frate Sole, diceva che …”.
Mia zia continuò a parlare, ma io non l’ascoltavo più: nella mia mente erano rimaste stampate le parole condoglianze e so che per te dev’essere molto doloroso. Allora era vero! Le mie sensazioni erano giuste! I miei timori si erano purtroppo tramutati in certezza.
“Aurora? Ci sei?”.
“Eh? Scusa, zia, mi sono persa un attimo”.
“Ti capisco … comunque, dicevo: sai per caso quando ci saranno i funerali?”
“Ecco la prova del nove”, pensai. Raccogliendo tutto il mio coraggio, risposi: “No, non saprei. Ma appena lo so, o ti avverto io o ti faccio chiamare da mamma, ok?”.
Pochi minuti dopo, ci salutammo: mia zia aveva fatto il suo dovere, io invece ancora no. Dovetti infatti rispondere ad una decina di chiamate, tutte di parenti che mi facevano le condoglianze e mi chiedevano quando e dove si sarebbe tenuta la cerimonia funebre, ed ogni volta dovetti fingere di essere terribilmente addolorata: ovvio, la cosa non mi lasciava indifferente, ero triste…ma non lo ero come avrei dovuto, ossia come avrebbe dovuto esserlo una nipote affezionata alla nonna. Per me, era come se fosse venuta a mancare una lontana conoscente, non una parente stretta. Questo mi faceva male, perché mi sentivo una truffatrice, ma non potevo certo cambiare le cose!
Alle 13:30, fu mia madre a chiamarmi, ma al cellulare: dalla voce, si sentiva chiaramente che aveva pianto a lungo.
“Aurora, finalmente! Come mai non rispondevi?”.
“Scusa, mamma: ero al telefono con Hans, e ho finito di parlargli poco fa. So già tutto, comunque: me l’hanno detto i parenti”.
Nella mia voce c’era una lieve sfumatura di rimprovero, ma mia madre non la colse.
“Fatti coraggio, dai”, mi disse infatti. “Pensa che nonna ha smesso di soffrire!”.
“Eh già”, dissi. In effetti, non si poteva negare che fosse vero!
“Ma adesso, cosa succederà?” continuai poi.
“Beh, ho ancora delle cose da sbrigare qui in clinica … poi devo passare alle pompe funebri, per scegliere la bara e dare disposizioni per il necrologio. Papà resta con me, quindi ti conviene prepararti il pranzo e mangiare perché non so quanto impiegheremo; dobbiamo pure passare in chiesa, per vedere quando fare i funerali!”.
“Ho capito … ci vediamo quando hai finito, allora. Oppure vuoi che venga anche io?”.
“No, tu rimani qui, è meglio: penserò io a tutto, non preoccuparti!”.
“Ok, d’accordo allora: se ci ripensi, però, ti basterà chiamarmi e io verrò!”.
Mia madre mi ringraziò, ribadendo che dovevo restare dov’ero, e poi chiuse la comunicazione; io, inebetita, mi lasciai cadere di nuovo sul divano, davanti alla televisione che era ancora accesa.
Era il primo vero lutto che vivevo, e mi sentivo confusa, strana, distaccata dal resto del mondo: mi preparai da mangiare come un automa, senza fare davvero attenzione a quel che facevo, e infatti rischiai di bruciare la maggior parte delle cose che avevo scelto per nutrirmi.
Dopo aver pranzato, feci appena in tempo a lavare i piatti e poi venni di nuovo sommersa da telefonate di cordoglio: e di nuovo, recitai la mia parte.
Vidi mia madre solo per cinque minuti, perché salì a prendere un tailleur con cui avrebbe poi vestito mia nonna in occasione dell’apertura della camera mortuaria; dopodiché, la rividi poco prima di cena.
“Allora … che ti ha detto il prete?”
“Che va bene per domani pomeriggio alle 15”.
“Vuoi che chiami i parenti?”.
“No, ci penso io dopo cena … ne chiamerò alcuni, e dirò loro di passare la voce”.
“D’accordo, come vuoi”.
Nonostante mi sentissi in dovere di propormi, intimamente ero felice che mia madre non accettasse il mio aiuto, e che mio padre non si mettesse in mezzo contestandole questa decisione: forse, in qualche modo capivano il mio smarrimento!
“In ogni caso, ora è finita”, pensai mentre osservavo la mia camera, che per qualche tempo non era stata soltanto mia. “E’ finita davvero, non si torna indietro. Spero solo che, se adesso si trova davvero lassù da qualche parte, si renda conto che è a causa di quello che ha seminato quando era in vita che io ora non riesco a piangerla fino in fondo come dovrei. E spero capisca quanto ha sbagliato, anche se ora è decisamente troppo tardi per rimediare!”.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16: il funerale ***


Capitolo 16: il funerale

Il citofono suonò, ed io corsi a rispondere.
“Sì?”.
“Aurora, scendi!” fece mio padre.
“Ok!”.
Presi la borsa, controllai velocemente se avevo con me soldi, documenti e cellulare e poi presi le chiavi, inserii l’allarme e uscii, chiudendo la porta a tripla mandata; dopodiché, mi fiondai giù per le scale e dopo aver aperto il portone, mi infilai nella macchina dei miei, che era ferma lì davanti.
“Sono stata brava?” dissi, con il fiatone. A mio padre non piaceva aspettare, ed ero fiera di me stessa per aver fatto tutto in modo così veloce!
Lui però non rispose, e preferì parlarmi d’altro mentre partivamo.
“Allora, adesso ti porto nella camera mortuaria. Prima di entrare, ricordati il segno della croce … lì troverai mamma e le sorelle di tua nonna. Non devi restarci per forza tutto il tempo, puoi uscire dopo un po’! Se vuoi restare nelle vicinanze, accanto alla camera dove si trova tua nonna c’è un’altra sala: puoi metterti lì”.
Sapevo a quale sala si riferiva: su internet avevo letto che spesso, adiacenti alle stanze adibite per i morti, c’erano le cosiddette “sale dei dolenti”: i dolenti erano i parenti dei defunti.
“D’accordo, è tutto chiaro. E poi?”
“E poi, ti riporto a casa, tu pranzi e poi ci rivediamo in chiesa per il funerale. Va bene?”.
“D’accordo”.
Il resto del viaggio lo compimmo nel silenzio più assoluto.
 
 
Arrivati nel cortile della clinica, fui sorpresa di trovare moltissimi parenti ad aspettarci: dopo un giro di condoglianze, imboccai il corridoio che conduceva alla camera mortuaria e vi entrai, segnandomi come mi era stato detto di fare: nell’aria c’era profumo di incenso, mia madre accarezzava il corpo senza vita di mia nonna e le mie quattro prozie piangevano come disperate.
“Ti vuoi avvicinare di più, o preferisci restare dove sei?” mi fece mia madre, accorgendosi della mia presenza.
“No, no, arrivo”, bisbigliai. Con circospezione, mi avvicinai al feretro, e per poco non mi prese un colpo.
“Ora capisco il significato dell’espressione ‘bianco come un cadavere’! ”, pensai.
Mia nonna infatti era completamente bianca: il suo pallore era tale che si sarebbe potuta tranquillamente mimetizzare con la porta di casa mia, che era di quel colore! Le sue unghie sembravano più lunghe del solito, probabilmente per effetto della decomposizione che era già in atto: volevo toccarla, ma non osai.
Restai invece lì ancora un po’, poi andai via: misi la testa nella sala dei dolenti, vidi che era vuota e così uscii all’aria aperta.
Nessuno dei miei cugini era venuto, ma era prevedibile: molto probabilmente, li avrei rivisti quel pomeriggio. Perciò, mi rassegnai a parlare con i parenti più anziani, rievocando quei pochi ricordi positivi che avevo di mia nonna e risaltandoli il più possibile; per l’ennesima volta in meno di ventiquattr’ore, dovetti indossare la maschera della nipote afflitta. Recitai così bene che qualcuno lodò persino il mio coraggio, vedendo che non piangevo! Altri, invece, pensando che io non li udissi si dicevano l’un l’altro: “Visto quanto è addolorata, poverina? E’ così affranta che non riesce neanche a versare le lacrime!”. Mi guardai bene dal dire che se le lacrime non c’erano i motivi erano ben altri, ovviamente, e continuai a fingere: per fortuna, non dovetti farlo a lungo, perché due ore e mezza dopo ero a casa.
 
 
“Sei stato molto carino a venire qui”, dissi ad Hans, mentre scolavo la pasta.
“Beh, che altro avrei dovuto fare? Non potevo certo lasciarti sola in questo momento così difficile!”.
“Non posso dire che sia davvero un momento difficile … o meglio, lo è, ma non nel modo in cui credono i miei parenti!” esclamai, mettendo la pasta in una ciotola piena di pesto alla genovese e mescolando il tutto con un cucchiaio di legno.
“Sì, lo so, me l’hai già detto. Eppure, sono sicuro che a te in fondo dispiaccia davvero molto … era pur sempre tua nonna, dopotutto”.
“Ti sbagli. Non è mai stata mia nonna, o meglio, lo è stata soltanto dal punto di vista biologico! Comunque, non capirò mai perché una persona quando muore diventa automaticamente una santa, sai? Mia madre non è mai andata d’accordo con lei, ci ha sempre discusso, e spesso mi ha confidato che a volte stentava persino a credere di essere sua figlia … eppure, se la senti parlare ora, sembra che abbia avuto la madre più fantastica, dolce e affettuosa del mondo. Quando provo a riportarla coi piedi per terra, mi dice che quello era il suo carattere, che non voleva essere cattiva con noi e che io sono troppo giovane per capire! Ma tra poco compio 20 anni, non sono più una poppante!”.
“Forse il santificare i defunti è un modo per elaborare il lutto, per lenire il dolore: in fondo, se lo fanno in molti evidentemente un motivo ci sarà!” rispose il mio fidanzato, per nulla impressionato dalle mie proteste.
“Non saprei: sei tu il futuro psicologo, non io!”.
Dopo questa mia battuta, prendemmo ciascuno il proprio piatto e ci sedemmo in salotto per mangiare.
 
 
La messa da requiem durò poco più di un’ora, e io per tutto il mi sentii come chiusa in una bolla impenetrabile: le parole del parroco mi sembravano lontane anni luce, tanto che mi sembrava quasi di trovarmi in un’altra dimensione. I miei occhi si posavano sul feretro, sui banchi di legno, sulle colonne di marmo dell’edificio di culto, sui miei genitori, su mia cugina Siria e i suoi fratellini più piccoli, su zii e altri parenti di ogni grado … ma non osservavo niente per davvero, non ponevo attenzione ai dettagli: ero come in trance.
“E’ questo il dolore?” pensai. “Fa questo strano effetto?” mi chiesi, iniziando a pensare che forse Hans, che era seduto al banco dietro a quello su cui ero seduta io, non avesse tutti i torti: magari, sotto sotto, fino a quel momento avevo provato affetto sincero per mia nonna, ma me ne stavo accorgendo solo in quel momento. In fondo, è risaputo che solo quando si perde qualcosa si capisce fino in fondo quanto era importante, e lo stesso può valere anche per le persone! Stava succedendo così anche a me? Oppure, semplicemente, ero addolorata soltanto perché era il primo funerale a cui partecipavo da adulta e perché tutti gli altri?
Tutte le donne presenti piangevano: gli uomini invece erano quasi tutti impassibili. L’unica parente stretta che non era in lacrime ero io: non mi veniva proprio di piangere! Non credevo che mia nonna fosse in Paradiso, non avevo alcun motivo per impedire alle lacrime di uscire, eppure non ne versai neanche una … forse fu anche per questo motivo che, mentre ci recavamo al cimitero, tanti mi raccomandavano: “Stai vicina a tua madre: piange molto, soffre ed ha bisogno di te!”. Io, ancora un po’ intontita, a malapena li sentivo, e rimasi nel mio stordimento anche quando venne il momento della sepoltura.
“Quanto ci vorrà affinché tutto torni normale, ora? Sentirò la sua mancanza ogni tanto?” mi domandai ancora, mentre le prime zolle di terra coprivano la bara.
Sapevo già che solo il tempo poteva fornirmi delle risposte: l’unica cosa che potevo fare era aspettare e vedere.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17: epilogo ***


Capitolo 17: epilogo 

Spengo il motore della macchina, poi prendo il mazzo di fiori ed esco dall’abitacolo.
“Cavoli, che nuvoloni!” penso, mentre scruto il cielo. “Spero che non inizi a piovere, perché ho dimenticato l’ombrello! Le piogge estive saranno anche brevi, ma bagnarmi come un pulcino è proprio l’ultima cosa che vorrei!”.
Incrociando le dita mi incammino verso una stradina sterrata, e dopo pochi passi giro a destra, fermandomi davanti al cancello del cimitero.
Pochi istanti prima di varcarlo, però, mi blocco e mi guardo attorno; non so bene perché, ma non voglio che qualcuno che conosco mi veda, anche se alla fine non sto facendo niente di male.
“Ok, via libera”, mi dico, e avanzo lungo il viale alberato: decine e decine di lapidi mi sfilano davanti, e io le fisso. Visi più o meno conosciuti, vecchi, giovani e giovanissimi, sembrano restituirmi lo sguardo dalle foto incastonate nel marmo; istintivamente, abbasso la testa in una sorta di segno di rispetto verso di loro, anche se so che non possono vedermi, e continuo a camminare … alla fine della stradina, mi fermo: la tomba di mia nonna è lì, davanti a me.
Sono passati quasi cinque mesi dal suo funerale, che è avvenuto alla fine di febbraio; ma questa è la prima volta che vado a trovarla.
Durante il primo mese infatti ho utilizzato la scusa del “non me la sento, mi fa ancora troppo male”, poi è venuto il mio ventesimo compleanno e infine sono arrivati gli esami universitari, con il conseguente carico di studio; ho sperato che il tempo facesse dimenticare ai miei parenti quel che avevo evitato di fare, ma così non è stato e quindi, per evitare giudizi negativi non richiesti di zii, prozii e cugini di ogni grado e per non dare un dispiacere a mia madre, ho scelto questa giornata di inizio luglio per fare il mio dovere.
“Chissà se queste orchidee le piacerebbero, qui?” penso, mentre le sistemo nel vaso posato sopra la piccola lastra bianca posata sulla terra e le annaffio. “Erano i suoi fiori preferiti … se mi vedesse ora, cosa penserebbe? Apprezzerebbe il mio gesto, o avrebbe da ridire per come sistemo tutto, come ha sempre fatto quando era in salute?”
Alla fine mi alzo, e ammiro la mia opera: non so cosa può pensarne lei, sempre ammesso che mi stia osservando in qualche modo, ma a me pare tutto molto ben fatto!
Resto lì impalata ancora un po’, finché un tuono improvviso mi fa capire che, se non mi sbrigo, rischio di inzupparmi a breve.
 
 
Ho detto ai miei genitori e ad Hans della mia visita al cimitero, e tutti e tre sono convinti che ormai io mi sia in un certo senso riappacificata con mia nonna; ma non so se sia davvero così. Certo, non sono più in collera con lei, non la considero più una stronza egoista e  a volte sento persino la sua mancanza, ma non posso ancora dire di provare quel dolore che si dovrebbe provare a sei mesi dalla scomparsa di una parente stretta, e questo mi fa sentire molto a disagio. Chissà, magari mi occorre altro tempo …
“Basta con questi brutti pensieri!” mi dico seccamente. “Sarà quel che sarà: non ti ci puoi scervellare ora. Se un giorno i tuoi sentimenti cambieranno, bene, altrimenti bene lo stesso: non sono cose che si possono programmare!”.
Mi alzo dal mio letto e mi dirigo verso la libreria: è lo scaffale più alto quello che mi interessa, contrariamente al solito, perché non ospita libri ma bensì il mio stereo, che non uso molto spesso.
“Ascoltare qualche canzone mi aiuterà, dato che lo faccio di rado” dico ad alta voce, quasi senza accorgermene.
Premo il bottone, giro le stazioni radio e alla fine mi fermo su una frequenza a caso: immediatamente, una melodia, accompagnata da parole che mi suonano familiari, si propaga per la stanza.

 
I pray you’ll be my eyes
And watch her where she goes;
And help her to be wise
Help me to let go …
Lead her to the place,
Guide her with your grace
To a place where she’ll be safe.

 
“E’ una delle canzoni che ho ascoltato su youtube il giorno in cui mia nonna è morta!” realizzo, dopo qualche minuto di ascolto. E, senza alcun preavviso, scoppio in un pianto liberatorio!

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