Cor Mortem Ducens di LaMicheCoria (/viewuser.php?uid=53190)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #00. Prologo ***
Capitolo 2: *** #01. Avrei Potuto Salvarti? ***
Capitolo 3: *** #02. Da Qualche Parte, nell’Amarezza ***
Capitolo 4: *** #03. Il Sakè del Tanuki ***
Capitolo 5: *** #04. Lo Zoppo Che Molto Si Volge ***
Capitolo 6: *** #05. Deus Ex Machina ***
Capitolo 7: *** #06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi Anni ***
Capitolo 8: *** #07. Pius Patiens ***
Capitolo 9: *** #8. Caninamente Latra ***
Capitolo 10: *** #09. Puoi Scegliere Ciò Che Resta E Ciò Che Svanisce ***
Capitolo 11: *** #10. American Beauty [ Epilogo ] ***
Capitolo 1 *** #00. Prologo ***
cmd
Disclaimer: I personaggi non
mi appartengono
Ma sono di proprietà della Marvel ©
.: Cor Mortem Ducens :.
Morte, inerzia di sonno.
Per
te, silenzio di memoria, sempre.
{ Saffo }
.
.
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.
Le Tre Sorelle, a testa china, tessevano.
-A cosa arriveremo mai, se un barbaro ora siede…-
-Taci, taci, sorella! Non una parola di più!-
-Muoia nel Silenzio questo tuo sciocco cianciare!
Torna al tuo stame e non t’impicciare oltre-
Cloto assottigliò le labbra, l’espressione
contrariata: la ragnatela di rughe che dagli occhi infossati arrivava fino al
mento si contrasse, le dita nodose giocherellarono col filo e lo alzarono e lo
abbassarono e lo alzarono e abbassarono ancora e di nuovo, fino a quando la
sorella di mezzo non si chinò a darle uno schiaffo sul dorso della mano. Cloto socchiuse
le palpebre violacee e drizzò la schiena.
-Non colpirmi ancora, Lachesi- l’avvertì -Non vorrei
mai che su quel tuo fuso s’arrotolasse un’altra guerra!
-Gli Dei non vogliano- gracchiò la voce della terza
-Queste vecchie forbici finirebbero per spezzarsi e non è mia intenzione
ricorrere ai denti, né potrei torcere quei vostri fili con la sola forza del
polso. Troppi calli e troppe vesciche, taglia Atropo, taglia ancora ché
Divinità vestite di cuoio tirato si divertono a gettare scompiglio nel già
fragile mondo dei mortali. Ach!- Atropo contrasse la bocca e sputò un bolo
nerastro di saliva accanto ai piedi di Cloto.
Questi le rivolse un’occhiata disgustata e sollevò
la bocca marcescente, mostrando gengive pallide, denti lucidi di bava
giallastra; arricciò il naso grifagno, si scostò di lato e pose il Filo della Vita
sulle ginocchia, cominciando a centellinarlo e tocchignarlo e aggiustarlo
sbavatura per sbavatura.
Lachesi tirò indietro il fuso che teneva alto in una
mano, facendole sfuggire il lavoro dal grembo; la prima sorella ringhiò, Atropo
si limitò a sogghignare dalla bocca sdentata, claudicare verso di loro e dare
un bel taglio netto.
-Ti credevi forse Penelope, Cloto, che con tanto
amore ti trastullavi col Filo? Cosa speravi di veder nascere, un sudario che
narrasse delle imprese di Ilio? O quel tuo Pindaro e i suoi chitoni dalle mille
pieghe?-
-Ridi, Atropo, ridi pure e insozza l’aria molesta
dell’Ade col fiato rancido! Ben so io quanto anche tu avresti volute essere
davvero ancella di nostra madre e cingerti la fronte con una ghirlandetta di
fiori odorosi..!-
Lachesi fece per intromettersi nella discussione, quando
una voce la interruppe a metà del suo intento.
-Cessate i vostri litigi degni d’Agamennone Signore
di Uomini e d’Achille Pié Veloce, Ineluttabili Parche, figlie di Giove!
Ci fu uno sfarfallare improvviso di luce, mille
bagliori si riflessero e si chiamarono l’un l’altro nel ventre della grotta, le
pareti sgrossate piansero lacrime di arcobaleno; la nebbia grigiastra che dalle
bocche dell’Ade serpeggiava ai piedi delle Sorelle tremolò tutta, s’arricciolò su
stessa, sibilò, si ritrasse; il buio si disfece in stracci imbevuti d’ombra,
vermi pallidi s’avvoltolarono nel terreno umido, legioni d’insetti zampettarono
fino alle vesti delle Parche e si nascosero tra le pieghe pesanti e sgualcite
del panneggio.
-Iride, figlia di Taumante. Cosa ti porta qui?
Il tono di Lachesi non era dei più cortesi, né Cloto
e Atropo sembravano propense ad accogliere con maggior gioia la Messaggera, ma
questa, se anche diede peso ai loro volti astiosi o al sibilare ferino tra i
denti ritorti, non ne fece mostra. Mosse un passo, piegando le belle ali d’oro
per un migliore ingresso nella dimora delle Sorelle; i capelli acconciati in
morbidi riccioli le solleticarono la nuca quando si girò a fissare gli occhi
celesti in quelli malati delle vecchie filatrici.
-Vi porto un messaggio da Giove, Padre degli Dei-
sorrise Iride e il chitone risplendette e tintinnò di mille goccioline
opalescenti -Dacché i Signori di Asgard sono intervenuti a progettare un nuovo
scorrere dei giorni della Terra, molte trame del Destino sono state scosse: chi
doveva morire ancora vive, chi aveva nell’animo un soffio di vita pari a quel
di Sofocle, giace preda di cani e uccelli, oppure contempla con sguardo vitreo
le paludi dello Stige.
Iride si portò una mano al cuore, il petto fremette
d’indaco e violetto. Le Parche non emisero suono, ma si parlarono con sguardi
eloquenti: Cloto schioccò la lingua contro il palato, Lachesi fece scorrere un’unghia
spezzata e nera sui giri del fuso e Atropo osservò la Messaggera con occhi
taglienti.
-Vostra Madre Temi, a consiglio con il Padre Giove e
Odino, Re di Asgard, ha infine deliberato, la decisione è stata presa: Odino di
Asgard è stato vittima di un grande e grave dolore, ha compiuto un lodevole
sacrificio per ristabilire l’equilibrio che i mortali hanno infranto, e Apollo
farà cantare anche l’Abisso perché il suo gesto non venga dimenticato. Ma è giusto
che anche gli Uomini, ora, paghino il fio.
La Divinità sollevò il braccio e l’himation le
scivolò fino alla spalla con un palpito di gemme rosse. Cloto emise un grido
rauco quando il filo le sfuggì dalle mani ancora intente all'opera, Lachesi oppose
resistenza al fuso fattosi d’improvviso bollente.
Atropo guardò la scena senza intervenire, né
commentare. S’ingobbì, divenne ancor più livida e rugosa di quanto già non
fosse, la bocca contratta quasi sparì tanto assottigliò le labbra.
-Questo è il filo che dovete tagliare perché l’Ordine
e l’Equilibrio si ristabiliscano, giacché da troppo tempo il mortale cui
appartiene deve un obolo a Caronte.
A librarsi sopra le sue mani, un unico filo, lungo
ben oltre ciò che il Destino degli umani avrebbe voluto. Un filo intrecciato di
cenere e ghiaccio.
Al Madison Square Garden le luci si spensero e la
folla rumoreggiò d’aspettativa.
Un rombo di motori nel buio, la tensione che cresce,
sorrisi di incoraggiamento dietro le quinte, espressioni ancora incredule.
Nessuno di loro credeva davvero che lui avrebbe partecipato alla
manifestazione, erano convinti fosse solo uno scherzo o un modo per avere più
pubblico.
E invece era lì. E si sarebbe esibito con loro.
Incredibile.
Dall’alto del suo
scranno d’ombra, il Dio sorrise.
Lo spettacolo stava per avere inizio.
Cor Mortem Ducens
#00. Prologo.
Note
di Fine Capitolo
Voi non avete idea di quanta gioia mi
ha provocato scoprire che nell’Universo Marvel esiste anche l’Olimpo, con i
suoi Dei e tutto. Oh meglio, forse lo sapete, per cui sapete già che follia ne
uscirà fuori.
Speriamo in bene, dai! E’ un progetto
folle, in effetti. Ma lo sapevo, lo sapevo
che non dovevo cercare troppo nei meandri del Comics, certe cose mi fanno male.
Tutte le conoscenze a riguardo,
comunque, vengono da una Wiki in inglese sulla Marvel, altri invenzioni o simil
tali verranno tutte dalla mia testolina bacata.
Ah, salvo l’evento al Madison Square
Garden. Ma di quello ve ne parlerò nel capitolo uno –Dove finalmente faranno la
loro piena comparsa i nostri Vendicatori preferiti.
Il titolo viene da un verso della
soundtrack “The Promise Land” (Final Fantasy VII Advent
Children). Altre note...Giusto! Il riferimento a Pindaro è
dovuto al fatto che, secondo l'interpretazione del poeta, erano le
ancelle di Temi.
Alla prossima!
|
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Capitolo 2 *** #01. Avrei Potuto Salvarti? ***
cmd1
.: *** :.
Cloto dilatò le narici, stizzita.
Prese un capo del filo con un polpastrello
rosicchiato e lo tese ben bene dinanzi agli occhi cisposi, attenta che
l’estremità fosse perfettamente tirata tra le dita dell’altra mano.
Un Mh roco
e prolungato le proruppe della labbra livide, provocando un gran sconquasso di
pelle cadente sotto il mento posticcio; socchiuse le palpebre, lo sguardo
grigiastro divenne poco meno che riflesso d’acqua stagnante.
-Ach!- berciò, infine -Crea Cloto! Tessi, Cloto!
Concedi nuovo respiro ai mortali, trame di vita per il loro fragile corpo! E
per cosa, poi? Che promessa di splendore avevo intrecciato per costui ed ora
debbo lasciarlo a te, fetida Atropo, perché tu possa reciderne lo stelo prima
del tempo!- storse la bocca e snudò i denti lucidi di saliva, come una belva
vecchia e ossuta -Che gli Dei facciano pure ciò che desiderano, s’affoghino
d’ambrosia per quel che m’importa! Il Padre degli Dei così ha deciso? E sia! Che
muoia pure costui, per un capriccio di Giove! Che le Arpie insozzino di lordume
il mio lavoro ancora una volta!- puntò il dito nodoso verso la bocca della
grotta, ora di nuovo tetra, scura, umida dopo che Iride le aveva lasciate in
uno svolazzo d’impalpabile arcobaleno -Ma Cloto non s’inchina, Giove! Cloto non
dimentica!-
-Basta ciance!- la rimproverò Lachesi, tendendo
sbrigativa la mano -A me quel filo, cosicché possa ammirarne un’ultima volta l’opera!
Quell’opera che, se Iride non ha appesantito di troppi, svenevoli vezzi le
proprie parole, tanto ha sdegnato gli Dei, i soli, fra tutti, a render facezia
il Destino dei mortali.
***
James “Honcho” MacDonald conosceva le moto fin da
bambino, fin da quando suo padre gli regalava modellini in scala da far correre
sul balcone del loro piccolo appartamento a Washington.
Una volta aveva chiesto a Reddy cosa fossero per lui
le moto e quello lo aveva guardato per un po’ prima di rispondere, ciancicando
il filtro della sigaretta smangiucchiata.
Le moto sono come
la musica aveva
detto, mentre annuiva e tossicchiava via un po’ di tabacco E la cassa toracica con quei suoi bum-bum l’amplificatore perfetto.
Stava indossando una maglietta scolorita dei Ruff
Stuff quando se n’era uscito con quella pillola di saggezza da strada, nata
durante i lunghi vagabondaggi attraverso gli orizzonti d’America, e la cosa
aveva assunto un che di incontrovertibile e inconfutabile, una mistica aura da
Vangelo. Wolf, con il volto bruno di cuoio tirato e la poca predisposizione
alla cortesia tipica dei Californiani del vecchio mondo, aveva grugnito e la
questione si era chiusa lì.
Erano i primi tempi del Team America, in fondo, non
si poteva pretendere più di qualche discussione a senso unico –Soprattutto se
ti chiami Honcho, hai un passato come Agente della C.I.A. e l’innata capacità
di leggere nella testa delle persone come se fossero un libro esposto in
vetrina.
Ma che fosse musica, un collegamento diretto tra
mente e motore, o Il sole che brucia
sull’infinita lingua d’asfalto californiana, secondo la borbottata risposta
di Wolf, Honcho avrebbe riconosciuto la loro voce.
Ovunque.
Sorrise nell’avvertire un rombo arrampicarsi sulle
pareti della galleria che li avrebbe condotti al centro del Madison Square;
piegò appena il capo, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Reddy già in sella
alla moto, le dita che tamburellavano senza requie sul casco rosso.
Quella era il suono inconfondibile di una Harley-Davidson
WLA Liberator, anno 1942. E a possederla era soltanto una persona.
-Capitano.
Capitan America sterzò e frenò, emergendo dal buio
dell’androne e ponendosi con la moto in laterale rispetto a loro; si portò una
mano alla fronte nel tipico saluto militare, quindi lanciò un sorriso e
assottigliò le palpebre con fare cordiale. L’Harley-Davidson si acquietò
dolcemente al suo tocco, come un cucciolo ben ammaestrato.
Wolf storse le labbra e Reddy –Reddy che aveva messo
su quella faccia segaligna l’espressione più palesemente stupita e idiota mai
vista- sollevò eloquente le sopracciglia. Per Wolf Capitan America poteva anche
essere un semplice e disgustoso gringo
bianco, la sua moto un rudere scatarrante, ma le ruote imponenti
raccontavano ben altra storia, il verde militare della carrozzeria e gli
impianti lucidi di metallo scaglionavano all’intorno ricordi di fango, di
guerra, di sangue. Non era una moto, non era una Harley-Davidson, era la moto, la Harley-Davidson e tutto quello stava facendo vibrare la schiena
di Honcho per l’eccitazione.
-Signori- il Capitano chinò il capo in un altro,
rapido saluto -E’ un onore conoscervi.
Un onore. Per Capitan America era un onore conoscere loro. A James stava girando la testa.
-Winthrop Roan Jr, signore.
Honcho e Wolf sussultarono all’unisono: che Reddy
palesasse il suo nome di battesimo era un evento da registrare negli annali.
Forse i Maya ci avevano azzeccato con la storiella della Fine del Mondo,
dopotutto.
-Ma tutti mi chiamano Reddy- concluse, stiracchiando
un sorriso imbarazzato.
-E’ un onore, giovanotto- il Capitano annuì e spostò
lo sguardo su James, che deglutì e si umettò le labbra.
-James MacDonald. Honcho- chiarì, dopo qualche istante
-E lui- indicò Wolf, che si sarebbe fatto amputare il braccio destro piuttosto
che salutare il gringo bianco -E’
Wolf. Solo Wolf.
Non c’era bisogno di rendere partecipe il Capitano
di El Barrio, né dei Diablos –Honcho e Reddy sapevano bene come Wolf avesse
taciuto anche a loro molte più cose di quanto fosse lecito. Ma non avevano mai
chiesto oltre e James si era rifiutato di accedere alla database della C.I.A.
per sanare la propria curiosità.
-Capitano, che scortesia. Sei così eccitato all’idea
di esibirti da esserti dimenticato le buone maniere? Non mi presenti ai tuoi
nuovi amici?
Honcho aveva visto Anthony Stark solo in
televisione, mai dal vivo, e doveva ammettere che lo schermo gli regalava
almeno due spanne in più d’altezza: smoking nero di manifattura italiana,
camicia bianca che a occhio e croce valeva quanto il reddito del Principato di
Monaco, scarpe scure e cravatta coordinata stretta con cerimoniosa perfezione,
James faticava davvero a collegare quella figura tirata a lucido ad Iron Man.
Si sarebbero dette due persone differenti.
Il Capitano accolse l’entrata in scena del magnate
con un rassegnato roteare d’occhi e Reddy reagì alla cosa soffocando tra le
labbra una risata nervosa. Wolf biascicò qualcosa, accompagnandolo ad un
sogghigno divertito –Honcho preferì non chiedergli di ripetere.
-Bene, adesso che siamo tutti qui come un’allegra
famigliola da pubblicità, direi che è ora di far iniziare lo spettacolo- Tony
Stark si sfregò i palmi delle mani e rivolse loro un sorriso saputo,
superandoli a grandi falcate -Mi raccomando, non fatemi fare brutte figure.
Janet Van Dyne ha richiesto personalmente la vostra presenza per l’esibizione e
spero non vi abbia scelto per puro canone estetico. Anche se ne dubito per due
motivi, ossia la mia mancata partecipazione alla cosa e..- inarcò malizioso un
sopracciglio, lo sguardo scivolato inequivocabilmente sulla figura di Wolf, che
digrignò i denti e serrò la mascella, la fronte aggrottata sotto la fascia
scarlatta –Comunque. La folla c’è, le ballerine pure, il Falco è appollaiato da
qualche parte col suo becchime..
Reddy lanciò a James un’occhiata interrogativa, cui
lui non seppe rispondere. Spostò invece l’attenzione su Capitan America: questi
aveva annuito alle ultime parole di Stark, gli occhi improvvisamente scuri,
seri, la tensione visibile nelle nocche strette
attorno al manubrio della moto.
-Signorine. Si va in scena.
E Honcho guardò Stark dar loro le spalle e allargare
le braccia: mosse un passo in avanti e il Madison Square Garden lo accolse con
un unico, roboante, scroscio di luci e applausi.
***
Lachesi mugolò una maledizione tra le labbra
seriche.
Faceva scorrere il Filo tra le dita rinsecchite,
giorni passati e presenti le graffiavano il palmo calloso in rigagnoli di
sangue nero e memorie. Srotolava il fuso e ringhiava, si succhiava la bocca
stretta tra moncherini di denti e gengive pallide, il polso scrocchiava di
nervi ritorti, di muscoli marci. Gli occhiacci incolori si strinsero, le
palpebre posticce tremolarono e da essere caddero ciglia e squame di pelle
morta.
-Ach!- berciò, osservando con cipiglio funesto gli
intrecci della propria opera -A che è servito, oh Lachesi, donare soli e lune a
questo mortale, se con tale diletto Atropo si divertirà a reciderli uno per
uno? Hai concesso a costui cieli azzurri, fango e dolore, ricchezza d’animo,
virtù per mille volte mille uomini, ed ora guarda, ora ammira il taglio netto
delle cesoie! Assisti in silenzio nel mentre che Atropo Maligna occhieggia con
sguardo grifagno un’opera tanto succulenta, taci e non parlare, non dire di
più, perché così il Padre degli Dei ha deciso, così ha deliberato! Lui ed il
Barbaro Signore dei Corvi, che già troppo ha interferito con gli affari
dell’Olimpo! Ach!-
Diede uno strattone ed il Filo che invano aveva
tentato di riavvolgere attorno al fuso le si afflosciò sul ventre incavato.
Ringhiò e latrò come una cagna, bestemmiò gli Dei e rivolse loro turpi parole:
le dita lavoravano febbrili, le unghie nerastre, fetide strappavano e laceravano
brano a brano ogni nodo si presentasse loro davanti.
-Vani sono stati i tramonti, vane le albe, vane
perfino il nuovo affetto che ho intessuto per te, mortale! Ai vermi il tuo
corpo, ai vermi le tue lagne! Lasciale per l’Ade, allo scroscio dello Stige e..-
-Che son queste ciance da vergini?- Atropo si drizzò
in piedi, giganteggiando ingobbita per la furia -Che mai strillate e vi
lamentate, come foste vecchie capre al pascolo? Vi devo forse percuotere con lo
scudiscio? Basta piagnistei, Sorelle, ché se per ogni mortale dovessimo
comporre un threnos, questa nostra
grotta sarebbe adorna di tanti canti e tante lire da provocare l’ira d’Apollo
Saettante! Soffocate il pianto, non vi s’addice! Frenate le lacrime od esse vi
solcheranno il volto avvizzito con nuove rughe! Tacete, ora, cessate ogni grido!
Silenzio, cosicché meglio si spanda il suono di queste mie cesoie fino al
ventre flaccido dell’Ade!
***
Le luci del Madison Square Garden si raggranellavano
quiete attorno al profilo di Tony, che arrivava agli occhi di Steve quasi del
tutto immerso nella penombra. Il figlio di Howard teneva le braccia alzate,
ogni tanto le abbassava e le tendeva al pubblico, un sorriso ghignante appeso
alle labbra: si godeva gli applausi della gente e la gente si pasceva della sua
presenza, poteva sentirne lo scalpitante brusio formicolare tutt’intorno alle
gradinate.
Il Capitano scosse il capo e sorrise.
Da qualche parte, in alto o nascosto nella folla,
tra i servizi di sicurezza o accanto alle ambulanza, l’Agente Barton
controllava ogni cosa e nulla sfuggiva al suo sguardo. Vedova Nera non doveva
essergli troppo distante, in contatto diretto con lo S.H.I.E.L.D. Non che si
aspettassero un attacco a sorpresa di qualche supercattivo in astinenza dalle
opinabili manie di protagonismo, ma..Anzi, più che non aspettarselo, speravano di poter avere pace anche il
tempo di una sera.
Solo qualche ora in cui poter distendere in pace i
nervi, senza dover pensare al Mandrillo, al Pensatore Pazzo –Che, a quanto
riportavano i rapporti del Baxter Building era stato acciuffato da un Johnny
Storm parecchio in forma, o ancora Testa d’Uovo oppure Wonder Man. Un anno
prima la minaccia di Loki era stata la nascita dei Vendicatori, ma parimenti
aveva dato l’avvio ad una più che cospicua ondata di criminali, uno sciamare di
illegalità che aveva fatto vacillare la fiducia che il Capitano aveva
cominciato a riporre giorno dopo giorno nella moralità del nuovo millennio.
A rendere meno semplice la questione, inoltre, c’erano
voci che Heil, Hydra inneggiavano
nell’ombra, ricordi nascosti dietro la tozza silhouette di un bidone dell’immondizia,
occhi socchiusi, il baluginio di un ghigno appena sussurrato in mezzo al rumore
assordante di locali di bassa lega.
Il passato pronto a balzargli addosso alla prima
occasione.
Steve deglutì, imponendosi di tornare alla realtà
presente. Tony doveva aver appena concluso il suo discorso di presentazione,
con le mani faceva segno al pubblico di tacere, ma annuiva invitandoli a
continuare; la signorina Van Dyne, vestita d’oro e di nero, applaudiva accanto
a lui e sorrideva e rideva con la bocca e con gli occhi. Aveva un fascino
particolare, una vitalità spontanea e contagiosa, qualità che Stark non aveva
mancato di sottolineare più volte –Salvandosi dalla meritata conseguenza solo
elencando difetti quali la smodata passione per l’impicciarsi negli affari
altrui o l’incapacità congenita di rimanere in silenzio per un tempo superiore
al secondo.
-Siete pronto, signore?
Il Capitano alzò gli occhi verso James MacDonald e
annuì, scambiando con lui un cenno d’intesa.
Pronto? Non aspettava altro.
Le luci si spensero con un guizzo, la folla
rumoreggiò d’aspettativa.
-Avanti, Team America!
La voce di MacDonald esplose nella galleria, seguito
a ruota dal ringhio delle moto da corsa. Bianchi fasci tubolari ruggirono dai
fanali, scrosciarono sulle pareti, troneggiarono nella bocca squadrata che si
apriva sulla sabbia del Madison Square Garden. Il palpitare delle divise
colpite dai riflettori, eccoli in pista, accolti dalle grida di incitamento del
pubblico.
Steve attese qualche secondo, chiuse gli occhi a saggiare
le reazioni silenziose dell’Harley-Davidson, ad ascoltare i battiti furiosi del
cuore.
Hai intenzione di
mettere dell’altra brillantina su quella chioma leggendaria o possiamo andare,
Capitan Easy Rider?
Non è il momento
adatto, Stark.
Lo è, invece. Sai
quanto adori essere in ritardo, ma non quando si tratta
di eventi della Van Dyne. Se solo oso farti arrivare in ritardo, la prossima cosa che quella ragazza
organizzerà sarà il mio funerale.
Un colpo di polso, il motore vibrò gorgogliando
sotto le dita.
Aspetta. Non mi
dirai che sei terrorizzato da una cosetta come esibirti davanti ad
un..Ventimila persone, senza contare gli imbucati, vero?
Non si tratta di
questo.
E di cosa, allora?
Il respiro sostò un istante sulla punta della
lingua, scivolò bollente lungo la gola, si ramificò nei bronchi, incendiò i
polmoni, gonfiò il petto.
La moto per me è come il laboratorio per te, Tony. In sella
ad una moto sono pienamente me stesso. Non Capitan America, non l'eroe della
leggenda, non il Capitano Rogers, non il super soldato senza tempo e senza età.
Sono Steven Rogers e basta. La moto è la mia libertà.
Allora si può parlare col vero Steve Rogers solo su una
moto?
Il
gorgoglio del motore s’intensificò, i brividi lungo la schiena affondarono con
forza nelle vertebre.
Io
sono sempre Steve Rogers. Ma quando sono in sella ad una moto, essere Steve
Rogers mi sembra più semplice. Tutto combacia, tutto ha un senso. Non mi sento diverso in sella ad un moto. Mi sento nel pieno
della mia persona, mi sento...Quando costruisci, quando lavori sui tuoi
progetti, quando siete solo tu, un cacciavite e il silenzio...Non provi mai un'inspiegabile
sensazione di interezza?
Un istante. Un istante ancora. Aspetta.
Attendi.
Fu il ricordo dell’espressione di
Tony, gli occhi socchiusi ed un sorriso se non sincero, meno costruito di
quelli che era solito addobbarsi la bocca, a dargli il segnale.
Devo
ammettere che hai ragione, Capitano.
Diede gas.
La partenza gli strappò il fiato dal torace, la voce
della gola. L’urlo dell’Harley-Davidson divenne il proprio grido di battaglia,
la zampata di polvere che si sollevò alla brusca frenata di traverso che gli
faceva da entrata coprì le gradinate e fu subito crivellata di applausi,
incoraggiamenti, il nome ripetuto, lanciato, chiamato da una parte all’altra,
esplodeva nelle luci, roboava nelle evoluzioni del Team America, si accordava
al canto delle loro moto.
Steve colse di striscio l’espressione trionfante di
Tony e l’occhiata estasiata della signorina Van Dyne, ma quando si lanciò verso
una delle impalcature al centro dello stadio, quando la fedele moto capovolse
il mondo, non gli sfuggì il cenno d’apprezzamento che Wolf gli rivolse dal capo
opposto della sabbia.
E tanto bastò.
Il sangue affluì al cervello, un fiotto d’eccitazione
si riversò nel petto e scrosciò tra le costole; il cuore balzò alla bocca,
battè contro le tempie, la realtà esplose in una girandola di colori, le gomme
trangugiavano metallo e polvere, Steve era la moto e la moto era Steve, una
sola forza trascinava entrambi verso nuove vette, un solo richiamo riverberava
tra loro e Honcho e Reddy e Wolf e li armonizzava, creava, costruiva nuove
coreografia, destra, sinistra, un salto sopra il pubblico impazzito, il vento
sotto i pneumatici, un’unica musica a suonare la marcia del trionfo: pistoni e
benzina, benzina e pistoni, gas, ringhi, sbuffi, ruggiti e urla, urla, urla,
urla.
Sentiva il sudore incollargli le tempie, rivoli
gelidi colare sotto la divisa e scendere come lacrime fino al mento. Il caldo salì
improvviso dal braccio sinistro al collo, crepitò nelle orbite e cozzò contro
le pareti del cranio.
-Ahn..
Steve ansimò a denti stretti, sterzò e si fermò al
centro dello stadio.
Mise un piede a terra, le dita della destra ancora
strette al manubrio e drizzò la schiena; fece per alzare il braccio sinistro come
a salutare la folla, a dire loro di non preoccuparsi, che andava tutto bene, perché
mi guardi, Tony, nulla di grave, lo spettacolo riprende, applaudite,
applaudite.
Con orrore, il Capitano si accorse di non riuscire a
sollevare il braccio sinistro oltre la spalla.
Fece per dire qualcosa, ma la lingua pesava gonfia
sui denti, stilettate bollenti mordevano ripetutamente i muscoli ed il petto.
Il battito cardiaco lo stava soffocando.
***
Le cesoie di Atropo scintillarono rugginose alla
luce claudicante della grotta.
-Di che vi lamentate? Di che vi lagnate? Cosa
piangete di questo mortale? Forse i bei occhi? Ditemi, allora, oh virginee
Sorelle dal cuore di cagna, ditemi a cosa mai gli servirà il ceruleo dell’iride
nel grigiore dell’Ade! A cosa i biondi capelli, filati dall’oro di Mida,
Signore della Frigia? Inutili vezzi per chi presto sarà solo un teschio tra
mille altri uguali, forse più bianco, forse più incrinato, ma con le medesime
orbite dimora di ragni, lui, anima errabonda tra raminghi spiriti?
Le Parche si guardarono l’un l’altra, si fissarono
negli occhi vuoti, nel volto magro, annuirono all’unisono.
Cloto tese il Filo da un capo, Lachesi ne prese la fine.
Atropo sollevò le cesoie.
-Per quanti anni la Vita s’è adornata di cotal
gioiello! È giunta l’ora, oh Morte, che anche tu ti cinga la fronte d’una tiara
marcescente! Vesti un chitone d’ossa, porta fiera ai polsi bracciali di
scheletri, orecchini di denti! A noi, a Te, anche gli Dei s’inchinano! Piega le
ginocchia, mortale, genuflettiti al nostro cospetto! Cloto ha deciso la tua
nascita, Lachesi ha intessuto trame di esistenza, ora Atropo ti taglierà il
respiro!
***
Il mondo si disfece in puntolini e bagliori. Il
respiro si sollevò, tacque. Mancò del tutto.
La realtà divenne un peso troppo grande da
sopportare. Le ginocchia cedettero. Gli occhi si impregnarono di nero, i
muscoli ed il cuore di freddo.
Non esisteva più il sopra, non c’era il più sotto.
Solo lacrime di esistenza che colavano ai lati del pensiero conscio,
cancellando nella propria scia ogni traccia di realtà, ogni forma di pensiero.
Il cuore batté stancamente un’ultima volta.
Atropo recise il
Filo.
***
Steve non fece in tempo a toccare il terreno, che
già Tony era balzato giù dalla piattaforma elevata.
Janet gli fu subito dietro, ma il figlio di Howard
non se ne accorse, non volle dargli peso. Il Team America fece ancora un giro
prima di accorgersi di Capitan America stramazzato al suolo e se si fermò fu
solo a causa dell’improvviso silenzio che era piombato, esploso, al Madison Square Garden.
-Barton!- latrò Stark, incurante della polvere che
si attaccava all’orlo dei pantaloni, che gli graffiava le scarpe, che gli si
aggrappava ai polmoni –Cosa è stato? Chi
è stato? Lo hai visto?
Un ronzio dalla trasmittente, poi la voce
accartocciata, distorta, asettica di
Occhio di Falco.
Nessuno.
-Ma deve essere stato qualcuno! Chiunque! Trovami
quel bastardo, Agente o io..
Non c’era nessuno,
Stark. Nessuno.
Ma già Tony non lo ascoltava più: aveva raggiunto il
corpo riverso di Steve, gli si era inginocchiato accanto, si era chinato a
sentirne il battito.
Mai come in quel momento il silenzio gli era parso
tanto assordante.
-No..- mormorò e Janet, di fianco a lui, si portò le
mani al volto con un lampo dei guanti dorati.
-Tony..
Stark non le rivolse nemmeno un cenno. Si avventò su
Rogers, lo prese per le spalle, gli assestò uno schiaffo sulla guancia.
Cristo.
-Andiamo! Andiamo, Capitano!- gli appoggiò le mani
sul torace, tese le braccia e scaricò il peso sui palmi una, due, tre volte. Svegliati, Rogers. È un ordine, soldato!
Nulla. Gli occhi ridotti ad un filamento bianco
dietro le palpebre socchiuse, la bocca semiaperta, il collo reclinato nella
polvere, la guancia abbandonata contro la sabbia. Incrostazioni di saliva
bianchiccia agli angoli delle labbra, il colorito sempre più livido, le guance
sempre più incavate.
-Andiamo!- ringhiò -Andiamo!-
-Tony..- Janet tentò ancora, ma Stark la scacciò, le
urlò qualcosa contro, cosa non aveva importanza, il pubblico, da muto che era
cominciò a borbottare, bisbigliare, il panico si insinuò tra le gradinate come
il più viscido serpente, qualcuno gridò, altri trattennero il respiro, c’era
chi stava già piangendo. Tony si vide circondato dal Team America, ma li tenne
lontani, che volevano? Che lo lasciassero in pace, che facessero qualcosa di
utile! Muovetevi, forza! Chiamate qualcuno, il massaggio cardiaco non funziona,
presto, perché siete ancora qui? Alzate i vostri maledetti culi da quelle cazzo
di moto e aiutatemi! Aiutatelo!
-Andiamo, ragazzone! Non ci puoi mica lasciare così,
eh! Guarda che è scortese, non te ne puoi andare. Non così..
Cristo. Cristo,
Steve, apri gli occhi. Per l’amor del Cielo, se questo era un tentativo di
scherzo, sappi che fai pena. Ottima recitazione, lo ammetto, ma pessimo tempismo: bocciato su tutta la linea. Allora, mi hai sentito?
Bocciato, devi rifare il corso, presentati domani mattina alla Stark Tower,
sette in punto.
Uno. Due. Tre.
Non arrivare in
ritardo e portati pure dietro il takeaway cinese, così ci risparmiamo il
pranzo, d’accordo? Ora però svegliati, amante del pilates, svegliati, apri gli
occhi, guardami. Guardami. Steve, guardami, cazzo!
-Chiamate l’ambulanza!- abbaiò –Chiamate l’ambulanza!
***
Sull’Helicar nessuno aveva ancora detto una parola.
Nick Fury guardava davanti a sé, ma non vedeva nulla.
L’Agente Hill aveva i pugni stretti sopra la propria postazione, la schiena
rigida e lo sguardo vitreo. Gli altri membri dello S.H.I.E.L.D. non avevano
nemmeno la forza di parlare, a stento si lanciavano qualche occhiata distrutta
gli uni con gli altri.
I pannelli digitali e i computer erano come tasselli
presi da un puzzle diverso, le immagini erano tutte in disaccordo tra loro,
ognuno di essi mostrava sempre qualcosa di diverso e sempre in continuo
movimento, statistiche, dati, Manhattan, il Baxter Building, un paesaggio di
montagna, persino le fogne.
Non uno di essi era collegato al notiziario, ma la
voce spezzata del presentatore riempiva comunque l’intera struttura, dal Ponte
di Comando fino ai livelli più bassi.
Interrompiamo i
programmi per una notizia di massima importanza.
È con la morte nel
cuore che annuncio agli Stati Uniti tutti la scomparsa di Capitan America,
avvenuta questa sera al Madison Square Garden durante l’esibizione di
beneficenza organizzata da Janet Van Dyne.
Il supereroe
nazionale è stato vittima di un malore improvviso, l’intervento dei paramedici
ed il trasporto in ambulanza sono stati inutili. Si presume che il decesso sia
avvenuto per circostante naturali, ma sono comunque previsti accertamenti.
Oggi non se ne è
andato solo un pezzo di storia, non solo uomo, non solo un eroe. Oggi è morta
la parte migliore dell’America, il suo simbolo, il suo cuore.
Il Presidente ha
annunciato tre giorni di lutto nazionale, cui seguirà la cerimonia funebre in
forma pubblica al cimitero di Arlington.
Grazie, Capitan
America. Che Dio ti benedica.
Riposa in pace.
Cor Mortem Ducens
#01. Avrei Potuto Salvarti?
Note
di Fine Capitolo
Ed ecco il primo capitolo vero e
proprio! Ne sono soddisfatta, strano, vero?
Allora, prima di tutto due note sull’evento
portante: l’esibizione di beneficenza al
Madison Square Garden. L’unica nota originale della mia testolina bacata è
che il tutto sia stato organizzato da Janet Van Dyne, alias Wasp –L’abito che indossa, inoltre,
come colori ricorda la divisa da lei portata in Avengers-I Più Potenti Eroi della Terra, per il resto l’occasione è
presa da “Capitan America – Una Mente
Perduta”, un numero del 1982 che ho avuto la fortuna di trovare in una
vecchia raccolta di Capitan
America&I Vendicatori. Dunque nemmeno Honcho, Reddy e Wolf sono
personaggi di mia invenzione, ma sono presenti all’interno della storia stessa
(e di una produzione a sé stante che si è però esaurita dopo dodici numeri).
Chi conosce il Team America saprà
che in realtà in membri sono più di questi tre, ma avendo a disposizione
unicamente il numero in cui compaiono Honcho&Co ho preferito non strafare e
limitarmi alla loro sola apparizione.
Poi. Vediamo. Citazioni varie..Bhè,
alcuni nemici della Marvel, il Baxter Building e I Fantastici Quattro e la
rinascita dell’HYDRA nel nuovo millennio.
Il discorso tra Tony Stark e Steve
Rogers sulla libertà e la moto proviene da una Role fatta col mio Tony Stark di
fiducia!
Il Threnos è un canto funebre. Arlington
è il cimitero dove viene sepolto Capitan America dopo la saga di Civil War –SE non dico un’idiozia dovrebbe essere dopo la saga di Civil War. Che
mi è arrivata giusto oggi. Ci piangerò sopra tutte le mie lacrime.
Il titolo del capitolo
è la traduzione di un verso della canzone “For
Blue Skies”
Per il resto, direi basta.
Ringrazio Alley (Vuoi tu prendermi come tua futura moglie?), _Kureiji e Essemcgregor per aver recensito
il prologo, _Kureiji_ per aver messo
la storia tra le preferite e alie13, Alley, Essemcgregor, Smith of Lies e
_Kureiji_ per averla inserita tra le
seguite!
Alla prossima!
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Capitolo 3 *** #02. Da Qualche Parte, nell’Amarezza ***
cmd2
.:
*** :.
-Lady Virginia..
Pepper smise di massaggiarsi la tempia a punta di
dita e rialzò gli occhi: le ci volle più di qualche secondo per mettere a fuoco
il volto di Thor. Forse aveva fatto un movimento troppo brusco con la testa,
forse era la stanchezza, ma il mondo le era traballato intorno in maniera
scomoda e nauseante, cosa che contribuì a peggiorare il pulsare continuo alla
fronte.
Si schiarì la voce e asciugò un’ombra di pianto proprio
sopra lo zigomo, assottigliando le la labbra e cercando di rivolgere
all’Asgardiano l’espressione più cordiale che le riuscisse; cosa in verità non
facile, visto e considerando che aveva passato le ultime tre ore e mezza a
discutere contrattare ufficializzare concordare proporre con una gamma di
persone tanto variegata da averne ormai sono qualche ricordo frammentario.
Aveva passato quaranta minuti buoni a discutere con l’ospedale sul perché e sul
per come il corpo di Steven Rogers fosse stato spostato dall’obitorio alla
Stark Tower, a decidere insieme alle autorità in che modo strutturare e rendere
accessibile a chiunque l’esposizione pubblica della salma, a prendere accordi e
stabilire che la Tower, tra tutti, fosse il luogo più adatto per allestire la
camera ardente.
Aveva speso troppe parole, così tante da non averne
più per sé, né per i Vendicatori, né per altri. Ad ogni telefonata, ad ogni
e-mail letta dal palmare mentre col cellulare prendeva e dava disposizioni
circa i fiori, la cerimonia, la stampa, la gente; ad ogni persona più o meno
importante, più o meno conosciuta che ancora la cercava nonostante fosse abbondantemente
passata la mezzanotte; ad ogni voce che chiedeva, sbraitava, ululava il nome di
Tony, No, il signor Stark non è
reperibile al momento; ad ogni minima
cosa a Pepper sembrava di perdere un frammento di se stessa e della realtà.
Voleva solo sedersi in un angolo, affondare la testa
fra le mani e piangere per Steve Rogers, per Tony, come ancora non era riuscita a fare. Concedersi anche solo un
minuto, anche solo un attimo per elaborare il lutto che tutti gli altri continuavano a ricordarle, ma senza darle il
permesso, né la possibilità di farvi realmente i conti.
Quando Thor era venuta a chiamarla, Virginia aveva
appena attaccato il telefono –Forse con
troppa irruenza, forse con troppa rabbia, forse con troppa frustrazione, in
faccia ad una giornalista che continuava a sciorinare domande e teorie e
ipotesi più o meno fantasiose, più o meno freudiane, più o meno scientifiche
sul perché il signor Stark avesse reagito così malamente alla dipartita della
leggenda d’America.
-Sì?- chiese, posando il cellulare sopra un tavolino
basso e rivolgendo all’Asgardiano quella poca attenzione che ancora le era
rimasta.
Thor diede qualche colpo di tosse, la guardò fisso e
fece per metterle una mano sulla spalla, rinunciando all’ultimo istante.
-Sono consapevole di quanto io possa risultarle
fastidioso, inopportuno, persino poco sensibile nei suoi confronti in questo
momento di profondo dolore e rammarico. Tuttavia..- una pausa -Vorrei
chiederle, a nome di tutti noi, se sarà possibile vedere Capitan America:
vorremmo dargli l’addio che merita. Come eroe, ma soprattutto come amico.
Virginia deglutì e serrò le labbra, le lacrime che
già pizzicavano le ciglia; inspirò a fondo e deglutì un singhiozzo prima di
rispondere.
-Andrò a parlare con il signor Stark. Lo convincerò
a..- la voce le mancò all’improvviso, un sussulto improvviso al petto le impedì
di continuare. Thor non disse nulla ed annuì, ringraziandola con un sorriso.
Pepper si scusò e superò a grandi passi sia la
divinità che il salone della Tower dove i Vendicatori si erano radunati dopo
gli eventi del Madison Square Garden. Lanciò un’occhiata veloce all’interno: il
dottor Banner si teneva la fronte con una mano, le spalle piegate ed il volto
pallido, l’Agente Barton era di spalle contro la grande vetrata che dava sui
tetti di Manhattan, Jane Foster, la nocca dell’indice stretta tra i denti e le guance
lucide di lacrime, e infine Natasha, seduta accanto a Bruce. L’Agente Romanoff
fu l’unica a sollevare gli occhi al suo passaggio, a darle una stilla di
coraggio con un cenno appena percettibile della testa.
Pepper le fu grata e la rivolse un piccolo sorriso
prima di continuare la propria strada verso il laboratorio.
Dacché Tony aveva portato Steve via dall’ospedale e
si era rifugiato nel laboratorio del novantatreesimo piano, nessuno di loro
l’aveva più visto. Non aveva permesso a nessuno di entrare, si era limitato a
trasportare il Capitano in laboratorio, serrare la porta e oscurare i pannelli
divisori.
A nulla erano serviti i tentativi della signorina
Van Dyne, che aveva insistito per venire alla Tower insieme al compagno, il
dottor Pym, e poi costretta a lasciarli in modo preparare una conferenza stampa
per l’indomani mattina. A nulla i richiami di Natasha, né le preghiere di Jane
o le richieste del Team America –Il signor MacDonald, alla fine, aveva convinto
i compagni ad andarsene e a commemorare Steve Rogers come ogni buon
motociclista avrebbe fatto, ossia trangugiando asfalto e conquistando orizzonti
in suo onore.
Imprigionato nel lutto e nel mutismo, Tony Stark
aveva rifiutato ogni mano, denigrato ogni aiuto.
Pepper sperava che almeno Rhodey riuscisse là dove
gli altri avevano fallito, ma nel vederlo davanti al laboratorio, il pugno
chiuso sopra il pannello elettronico e l’espressione truce, capì che riportare
Tony alla realtà sarebbe stato più complicato del previsto.
-Rhodey- lo chiamò, ferma sull’ultimo scalino.
Jim scosse il capo e serrò la mano destra, le nocche
contratte per la tensione.
-Ha cambiato il codice d’accesso- mormorò -Ho
chiesto a J.A.R.V.I.S. di farmi entrare comunque, ma quell’idiota gli ha dato
ordine tassativo di non aprire a nessuno. È talmente distrutto da essere più
lucido di quanto si potrebbe pensare.
Virginia strinse le dita attorno al corrimano: il
freddo del metallo irrorò una scossa gelida lungo i nervi, dandole uno scossone
alla schiena. Esattamente ciò di cui aveva bisogno per compiere l’ultimo passo
e avvicinarsi a Rhodes. Questi chiuse gli occhi e quando lei gli mise una mano
sulla spalla, si lasciò andare in un sospiro.
-Non sarebbe dovuta andare così, Pepper-
-Lo so-
-Non vuole uscire. Non ci permette di entrare. Non
so come aiutarlo, mi sento inutile. Non è come quando è mancato suo padre: è
diverso. È tutto diverso e non so cosa fare-
-Va’ a casa, Rhodey- Pepper gli sorrise con dolcezza,
la mano scivolò a sfiorare il braccio in una tenue carezza -Va’ a casa e
riposa. Ti farò sapere se ci sono novità.
Detto questo, si soffermò sul pannello elettronico.
Incerta se tentare o meno la sorte, digitò
lentamente le cifre del proprio codice d’accesso: temeva già di vedersi
rifiutare l’entrata, un sospiro affranto sulle labbra. Ma lo schermo
rettangolare lampeggiò un paio di volte, vibrò, un ronzio, Accesso garantito, benvenuta signorina Potts.
Rhodes sbuffò.
-Dovevo immaginarlo.
***
Ai topi lei non
piaceva.
Lei sapeva di incenso, di ori, di
polvere. Polvere brutta, polvere maligna, polvere grama, quella che sa di
petali pestati e pizzica e pullula di robacce anfibie, di umori, di liquidi, di
cantilene.
Lei non piaceva ai topi perché aveva
gli occhi verdi di un gatto, si muoveva come un gatto, soffiava come un gatto.
Scivolava sinuosa nel buio della fogna, i topi la sentivano arrivare e tic tic tic, zampettavano via, squit squit squit, urlacchiavano
terrorizzati, gnik gnik gnik si
rifugiavano nelle tubature, tra le pietre ed il lerciume.
Ai topi lei non
piaceva e nemmeno a lui piaceva, a dire il vero, perché quando era apparsa
aveva portato con sè l’altro. E l’altro puzzava di sangue, impregnato di
vino fin dentro le ossa, ondeggiava e traballava e aveva sempre quel ghignetto
subdolo, viscido e lo guardava senza dire una parola, ma lo derideva in
silenzio, si rincantucciava da qualche parte con una bottiglia tra le mani, le
ginocchia strette al petto smagrito, gli occhiacci neri, liquidi, e fissava lei, pendeva dalle sue labbra rosse, lei che non piaceva ai topi, lei che i topi odiavano detestavano fino
alla punta della coda.
Ma lei era
scesa fin nelle fogne per parlargli e quindi andava ascoltata, erano le buone
maniere e le buone maniere esistevano anche nelle viscere insozzate di lordume
di New York. Anzi, forse erano proprio le viscere insozzate di lordume di Nwe
York l’ultimo baluardo delle buone maniere.
Per cui, lei era
venuta, lui l’avrebbe ascoltata.
Certo, si era portato anche l’altro, ma finché l’altro
se ne rimaneva nel suo angolino puzzolente e non si intrometteva e continuava a
bere e pungersi il polpastrello con un ago tutto sporco di sangue marrone,
secco, orrido, allora andava bene. Che stesse zitto e canticchiasse idiozie, a
lui l’altro non interessava,
interessava lei e i suoi discorsi e
le sue parole e i gloriosi propositi di
cui era messaggera.
Lei gli parlò di riscatto e i topi si rizzarono,
interessanti, estasiati, i baffi sottili che vibravano per l’eccitazione.
***
-Tony..
Anthony Edward Stark, Iron Man, genio, miliardario,
playboy, filantropo e altri sinonimi più o meno desueti, alzò la testa, torse
il collo, la squadrò dalla testa ai piedi, si girò.
Restò in silenzio.
Pepper sospirò, chiudendosi la porta alle spalle con
un singulto di aria compressa. Il laboratorio piombò nella penombra, il buio
tagliato a metà unicamente dalla luce che dal centro della stanza bagnava di
baci azzurri il profilo cinereo del magnate: un lungo tavolo di linoleum rialzato,
asettico, quattro led agli angoli, e sopra di esso, Steve Rogers.
Così disteso con gli occhi chiusi e le mani fasciate
nei guanti e intrecciate in grembo, dava l’impressione di essere immerso nel
più profondo e pacifico dei sogni: non una ruga ad incrinare la fronte piana,
nessuna tensione raccolta a lato della palpebra, né un’emozione a tendere i
muscoli della bocca.
Le sopracciglia disegnavano una dolce linea sottile a
partire dalla radice del naso e la loro ombra si proiettava fino alle tempie;
la testa era reclinata sullo scudo –E la stella che gli sorreggeva la nuca
sembrava richiamare con un palpito grigio quella che riposava sul torace- solo
una debole, effimera piega incavata a mostrare la rigidità del collo. La curva
del petto si alzava a seguire i segni delle costole, le strisce bianche e
rosse, e poi ricadeva improvvisamente, pesantemente. senza respiro, e si
affossava nel ventre, contro la fibbia rettangolare del cinturone. Pieghe
macchiate di nero tappezzavano il kevlar là dove non arrivava il gelido tepore
dei led, una barbaglio di luce rosseggiava in cima stivali.
Non portava più la maschera, notò Pepper.
Si portò inconsciamente una mano alla gola, come a
convincersi a deglutire, a riprendere a respirare dentro quella bolla
soffocante, in quell’atmosfera sospesa. L’aveva Tony, vide, la teneva tra le
dita, la faceva scivolare avanti e indietro e indietro avanti sui polpastrelli,
la toccava, la piegava, la stringeva, unico movimento visibile in tutta la sua
persona.
Per il resto, era immobile. Come la salma che gli
stava davanti e da cui, Virginia ne era sicura -lo vedeva dalle occhiaie, dai rigagnoli sanguigni che graffiavano
arzigogolati la sclera, non aveva staccato gli occhi un solo momento.
-Tony- ripeté, sperando e pregando in una reazione
che non le riuscì di ottenere.
Dovette deglutire un paio di volte, farsi coraggio, costringersi
fisicamente ad andare avanti, ad
affiancarsi a Stark. Ancora una volta, la propria presenza accanto a lui non
sortì alcun effetto.
-Sono tutti preoccupati per te, Tony. Rhodey, Thor,
Jane, il dottor Banner, l’Agente Barton e Natasha. Io sono preoccupata per te- sistemò con mano tremante il polsino
destro del completo, assottigliò le labbra e le scoprì già bagnate di lacrime -Vogliono
vederlo. Vogliono dirgli addio. Per favore. Per
favore. Permetti loro di entrare..Esci
di qui, Tony. Esci e..-
-Domani.
La voce del magnate era un’eco arrochita, le parole sapevano
di metallo e come il metallo erano fredde ed impersonali.
-Domani ci sarà la camera ardente, no? Bene.
Domani..-
-Domani verranno a..- Virginia si bloccò di nuovo,
non per lasciare all’altro la possibilità di continuare, ma perché era lei a
non avere più la forza. Sistemare la
salma? A preparare il cadavere? Dio, Steve… -A prepararlo e..-
-E poi ci sarà l’esposizione pubblica e la camera
ardente. Come ho detto, no? Come ho detto. Lo so. Non l’ho dimenticato. Ci sarà
l’esposizione pubblica e tutti verranno a dirgli addio. E lo saluteranno e gli
diranno, Addio, Capitan America, eri il
mio idolo, la mia fonte di ispirazione, la mia fantasia preferita quando la
connessione internet saltava, il mio futuro marito anche se non lo sapevi, a
proposito, le hai mai ricevute le mie lettere? Ho contattato anche dei Wedding
Planners, dicono che un matrimonio a tema rosa pesca sarebbe fa-vo-lo-so!
Tony storse la bocca e alzò la mani, il disgusto a
contrargli i lineamenti del volto.
-Tutti lì ad adorarlo e idolatrarlo e a comportarsi
come se fossero stati da sempre compagnucci di scorribande solo perché adesso
è..- serrò le palpebre, strinse i pugni –Addio,
Capitan America, e nemmeno lo conoscevano per davvero, neanche sapevano chi
fosse in realtà, quanto gli piacesse mettere il miele nel caffè, per l’amor del Cielo era una cosa
abominevole, il miele nel caffè, Pepper, capisci? Nel caffè! Il come
sapesse a memoria le canzoni di Bing Crosby e le canticchiasse la mattina a
colazione, prima di andare in palestra.
“Chi di loro sapeva che Capitan Kirk Skywalker scambiava Star Trek per Star Wars? O che il Grande Gatsby era il suo libro
preferito? O che faceva letteralmente pena
a poker, ma nonostante tutto si ritrovava a giocarci ogni mercoledì sera
con Barton, Grimm e la sua fiammeggiante copia sputata, alias Johnny Storm?
Virginia si tese verso di lui, ma Stark si scostò
con violenza e si portò una mano alla fronte.
-Domani allestiranno la camera ardente e allora
potranno dirgli addio. Potranno dirgli addio tutte le volte che vorranno.
Fu allora che Pepper compì un gesto che per le
circostanze, per la separazione, per orgoglio,
non si concedeva da almeno sei mesi: si pose di fronte a Tony, piegò le
ginocchia per quanto le permettesse la gonna del tailleur crema, gli prese il
volto tra le mani e gli baciò piano, delicatamente la fronte. Chiuse gli occhi
nel farlo, una lacrima appesa alle ciglia e il cuore che palpitava contro le
labbra.
Stark non disse nulla, né si oppose. Aggrottò le
sopracciglia, però, e Virginia poté quasi vedere
la mascella di lui che si contraeva e i denti che si digrignavano, la perdita,
la comprensione di essa che si
raccoglieva in gola e poi scendeva a riempirgli il petto, i polmoni, il cuore.
-Sei tu a doverlo fare, Tony. Sei tu che devi dirgli
addio.
***
Un Erote le sciolse le lunghe trecce e Venere reclinò
il collo con un gemito.
Schiuse le labbra tumide, socchiuse gli occhi
cerulei e lasciò scorrere le dita sottili tra le ciocche finalmente libere; un
altro Erote, compagno del primo, le fece scivolare il pettinino d’oro tra la
chiome, un terzo Amorino le dispose di modo che le cadessero ordinatamente
sulle spalle candide.
Oh! A qual compito l’aveva chiamata Temi Sovrana,
Giustizia Divina arroccata su un trono d’Oblio e Rifiuto!
La Dea piegò la bella schiena all’indietro, tese le
braccia e subito gli Eroti le furono tutt’intorno: svolazzando e ridendo e
chiacchierando come colombelle dagli occhietti vispi le tolsero anelli e
bracciali, in un gran frullare d’ali e tintinnare di ninnoli.
Si mostravano l’un l’altro i gioielli chiusi nelle
mani paffute, si rincorrevano nella stanza per avere questa o quella gemma, per
cingersi la fronte con un tralcio di vite ad imitazione del rubicondo Bacco, o
per finger schermaglie e accendere incensieri.
-Via, via, miei bimbi, miei adorati! Via, con questo
baccano! Volete forse risvegliare quel burbero d’Efesto? Lasciatelo ai suoi
lavori, alle sue incombenze! Che non ci disturbi! Se ci ritrovasse intenti alle
nostre faccende, se ci vedesse mentre adempiamo all’opera che Temi ci ha
ordinato..! Oh che scompiglio! Che tragedia ne farebbe!
Come le sovvenne il pensiero, Venere si rizzò in
piedi: i capelli le scivolarono a coprire la curva dei seni e si arricciolarono
scherzosi e maliziosi alla base della schiena, giocherellando, nascondendo,
svelando l’incavatura dorata del pube. Con gesto imperioso, quasi stizzito, la
Dea indicò il talamo e tre Amorini risposero con un trillo, gettandosi tra le
coltri, saltellando e schiamazzando.
-Controllate bene, miei Eroti, canagliette dalle ali
piumate! Se Efesto ha di nuovo nascosto anelli e reti nella mia alcova d’amore,
ahimè! Il piano sarebbe disfatto e Temi contrariata! Giammai, giammai! Chissà
quella vecchiaccia a che supplizio mi condannerebbe!- si portò una mano alla bianca
fronte, finse un commosso mancare di sensi -E se rendesse Ares sgraziato?
Apollo muto! Oppure se gli donasse una voce di corvo, proprio come quel barbaro
guercio d’Odino, che ordina e sentenzia come se fosse Re, Sovrano di Giove? Ah,
Urano, mio spumeggiante Padre! Se tu vedessi a cosa s’è ridotto anche l’Ade!
Che disgrazia, che sfacelo!
Venere sorrise, sibillina e sensuale, a punta di
dita sfiorò la linea del collo, scese al seno, disegnò la linea rosata
dell’aureola, titillò il capezzolo bruno e gettò la testa all’indietro in un
ruggito di fiamma dorata.
Lascia che sia il Caso a portare equilibrio nel mondo dei mortali, figlia di Urano così
aveva ordinato Temi dall’alto dello scranno Trattieni
il tuo amante, da’ tempo alla Sorte di agire per il meglio o per il peggio,
com’Ella ritiene debba andare. Fa’ che scenda tra i mortali prima che il
caduceo indichi e tracci il funereo cammino.
-Ah! Lascia che sia il Caso, lascia che sia la Sorte!-
gorgheggiò e i polpastrelli scesero al ventre, all’incavo dei fianchi, un
brivido strappato alla schiena, un gemito alla gola –Ah, Temi! Ai soli Olimpici
ora tu ordini e comandi! I mortali ti sdegnano, per loro solo la Sorte esiste!
Sorte, figlia mia! Vola, versa, gira la tua ruota senza tempo! Tu, viziata
etera, gioiosa sgualdrina! Se solo più spesso mi fosse ordinato di aiutarti,
che vita meravigliosa vivrei fra i nembi e l’ambrosia!-
Gli Amorini risero con lei e la Dea allargò le
braccia, scoprendo il corpo in tutto il suo nudo splendore. Con mano leggera
accarezzò lo specchio di bronzo, con l’unghia grattò le incisioni del kouros, stuzzicò il disegno della fascia
stretta attorno al bacino. Se fossero stati veri nodi, si sarebbero arresi
senza protesta al suo tocco sapiente.
Si diresse al talamo tra i gridolini eccitati degli
Eroti, si umettò le labbra facendo scivolare la lingua lungo le forme turgide
della bocca, si distese lentamente, con un che di misurato, ricercato sulle
coltri, vi si immerse come al bagno e il corpo biancheggiò candido nelle curve
piene, nel ventre fecondo, nel seno florido; lampeggiarono gli occhi cerulei
come schegge di turchese tra le ciglia nere; la lunga chioma fu percorsa da una
scossa rossa e oro. Piegò le gambe, poggiò la splendida nuca su una mano, con
l’altra divise e allargò le ginocchia.
-Ermete..!- ansimò, reclinando la testa, gemendo,
ridendo, chiamando -Ermete, mio amato! Ermete, mio sposo! Ermete mio, mio
Ermete, ti chiamo, ti anelo! Non senti come mi struggo d’amore per te? Di
desiderio, di brama? Vieni a me, Ermete! Lascia i defunti, devia dal sentiero
dei morti! A me vieni, in me!
Socchiuse le palpebre, come gatta che soffia e
pretende carezze, come regina che attende solo d’essere obbedita.
E mentre ti
perderai nel calore del mio abbraccio, il Caso girerà la sua ruota, elargirà
doni dalla sua cornucopia rigonfia! Grida il mio nome, amato Ermete, e sarà
fatta la volontà di Temi!
***
-Detesto le fogne.
Lei gli rivolse a malapena un’occhiata e un
disinteressato arcuarsi del sopracciglio: che le importasse a malapena dei suoi
commenti riguardo i meandri meno piacenti di Manhattan era evidente, ma
nonostante questo continuò imperterrito a sbiascicare le proprie ragioni. Agitò
la bottiglia di vino, il liquido rossastro sbatacchiò oleoso contro il vetro.
-E quello? Dai, è uno schifoso, lurido…topo. Se non squittisce è perché a
quanto pare aveva dei cazzoni a lavorargli addosso, oppure degli intelligentoni
tanto intelligentoni che quando hanno visto la boiata che stavano facendo hanno
preso i soldi e se la sono svignata- ingollò un sorso e si asciugò le labbra
col dorso martoriato della mano -Sai, magari sono andati a baldracche, con quei
soldi. Anche perché se si sono messi a lavorare su una sottospecie di ratto
cencioso, di donne non ne hanno proprio viste. Nemmeno su un porno.
La sua, più che una risata, parve un latrato
scatarrante. Lei gli rivolse
un’espressione infastidita e lui rispose sogghignando.
-E non mi guardare così. Che c’è, non ti piace come
parlo? Deh, altolocata come sei..- e indicò con gesto da ubriaco la tiara che
le cingeva la fronte e la veste pregiata, il cui tessuto raccoglieva e
scaglionava all’intorno ogni sfumatura possibile o anche solo vagamente
contemplata di verde.
-Sta’ pronto e attendi la mia venuta, mortale.
Un altro ghigno, gli occhi malevoli.
-Bhè, donna mia, se è di venire che stiamo parlando..
Ma neanche un istante e lei era già sparita in vortice
di polvere luminescente. Sputò un grumo di saliva nel vicoletto buio,
bestemmiando.
Troia.
Non fosse stato praticamente immune agli effetti del
vino, avrebbe sin detto di essere così sbronzo da averla solo sognata.
***
Venere lo chiamava.
Venere distesa nuda sul talamo, gli occhi chiusi e
la bocca gemente, lo chiamava.
Ansimava il suo nome, ogni fiato interrotto era un
anello di più alla catena che Ermete sentiva stringere attorno alla gola e ai
lombi.
Le ali dei calzari fremettero, ma Ermete tenne i
piedi ben saldi a terra. Non si sarebbe avvicinato all’alcova di Venere, non
era così folle: aveva un compito da portare a termine, un’anima da condurre,
non si sarebbe fatto distrarre..Solo uno sguardo. Un’occhiata appena, giacché
Venere discinta non era certo fenomeno da destar meraviglia, ma Venere che lo
reclamava apertamente, senza terrore d’Efesto o dell’invidia d’Apollo Citaredo
era un evento al cui confronto la sobrietà di Bacco sarebbe parsa una
bazzecola, pura facezia.
Si avvicinò d’un passo, cauto. Tese l’orecchio,
poiché temeva d’ingannarsi: non gli erano mancati gli incontri proibiti con
Venere, ma ogni volta più che brama d’uomo gli era sembrata unicamente brama di
desiderio. Il richiamo sensuale della
carne da soddisfare con chiunque e in qualunque modo, un rimedio alla noia
moraleggiante che la tediava quando era costretta ad incontrarsi con Artemide,
conversare con Athena o intrattenersi con Vesta.
Soddisfare attraverso lui la sete del corpo,
piuttosto che il piacere d’amore –A tanto, Ermete non aspirava. Non sarebbe mai
stato Apollo, né poteva competere con Ares.
Tuttavia..tuttavia quel giorno la voce anelante di
Venere lo struggeva di desiderio, gli piegava le ginocchia, gli faceva mancare
il cuore. Si strinse al caduceo, lo usò come sostegno, le orecchie un ronzio,
la lingua come pietra nella bocca arida. Più verde dell’erba si dissetava
insaziabile dei gemiti di Venere.
Come avrebbe voluto avvicinarsi! Quanto, oh quanto
la desiderava..!
No. No, per Giove! Uno sguardo, ricorda. Uno sguardo
appena.
Ma poi Ermete vide il pube dorato scintillare e
sfavillare alla luce del sole e tutto fu vano.
Preso d’amore
per la bella Venere, ebbro di passione, dimentico d’ogni cosa, d’ogni compito,
d’ogni dove, lasciò cadere il caduceo, si tolse i calzari e fu subito tra le
sue braccia.
***
Pepper gli aveva consigliato di uscire dal
laboratorio.
Bhè, lui non aveva alcuna intenzione di farlo. Fuori
c’erano le rampe di scale, c’era Rhodey e i suoi occhi mesti, Jane e la sua
bocca stretta negli inutili, patetici tentativi di non piangere, c’era Thor con
le sue idiozie sulle Valchirie e il Valhalla e Brunilde, c’era Bruce che non
avrebbe detto niente, l’avrebbe guardato e basta, e, accidenti a lui, avrebbe capito non quanto Pepper, perché Pepper
aveva capito anche prima che ci
arrivasse lui stesso, c’era Il Falco e la sua occhiata che tutto voleva dire se
solo si aveva la capacità e la voglia di
decifrarla, c’era Natasha e se c’era Natasha era anche peggio. Poi c’era Pepper
e Pepper era l’unica cosa per cui sarebbe valsa la pena uscire dal laboratorio,
ma, davvero, in quel momento non ne aveva proprio l’intenzione.
Pepper forse pensava di prenderlo per la gola,
convinta che lì sotto non avesse alcolici cui ricorrere per colmare la
solitudine ed il silenzio. Ah, santa Pepper che pensi sempre bene delle
persone. C’era eccome una scorta di
alcolici, tenuta appositamente per i casi di emergenza: non l’aveva mai
sfruttata mentre lavorava, ma ogni tanto controllava che ci fosse ancora, che
Ferrovecchio non avesse fatto danni come suo solito. Se era di buon umore
poteva anche concedersi il lusso di alzare il bicchiere in onore alle cromature
o al nuovo modello o come aveva sistemato il parafanghi di una delle sue
adorate signore a quattro ruote.
Steve una volta l’aveva scoperta, aveva scovato la
scorta segreta, trovato il sentiero per Shangri-La, lui e quel suo dannato
fiuto figlio del Proibizionismo. Cosa non gli aveva urlato, cosa non aveva
minacciato di fare..! Ma poi avevano risolto. Risolvevano sempre.
Risolvevano tutto.
Era stata la consapevolezza che da lì in poi nulla si sarebbe più risolto a fargli
capire l’entità dell’emergenza. Un bicchiere dopo l’altro, un sorso, due sorsi,
tre sorsi, aveva brindato a così tanto e così a lungo che per non pensare a
come tutti quei brindisi erano ormai in
memoria di aveva brindato ancora. Ancora e di nuovo, diluendo il dolore,
centellinando i ricordi.
Aveva brindato a quando l’aveva visto per la prima
volta, a quando Fury l’aveva portato nella super stanza segreta inviolabile,
quella di cui aveva ricostruito perfettamente la planimetria in macchina,
mentre mangiava un doppio cheeseburger e Happy gli chiedeva informazioni in
merito a quella chiamata straordinaria dei Men
In Black.
Aveva gli occhi chiusi, proprio come allora. Disteso
su un tavolo anonimo, proprio come allora. Sembrava dormire, proprio come
allora.
Non si sarebbe mai risvegliato. Non come allora.
E così aveva cancellato il ricordo con del buon
whiskey e il liquore gli aveva bruciato la bocca ed il cuore. Memoria
accartocciate come un foglio bruciato, gemiti di sguardi, grida di mani,
cenere, cenere, solo cenere e whiskey, whiskey e cenere fino a che il whiskey
non era finito, ma la cenere aveva continuato ad ardere e allora aveva
afferrato lo scotch e aveva tentato anche con quello. E aveva
funzionato..almeno per un po’. I ricordi sembravano tutti più forti
dell’alcool, emergevano dall’intrico di fumi, si appostavano, lo fissavano, lo
ammonivano, Saremo qui per sempre, Stark,
gracchiavano, Non ce ne andremo,
maledetti, maledetti, Sarò qui. Non me ne
andrò.
Se solo avessi mentito, se solo avessi mentito..
Era già parecchio alticcio quando aveva cominciato a
sentire lo scricchiolio. Non vi aveva
dato peso, né vi aveva fatto troppo caso: forse quel cigolio altro non era che
la disperazione delle bottiglie vuote o le lacrime infrante dei bicchieri rotti
sul pavimento. Ma il rumore era continuato, si era fatto più forte, più
pressante e così, preda del mal di testa, le tempie che pulsavano e la bocca
che sapeva di alcool e nausea, Tony aveva alzato finalmente la testa.
E poco c’era mancato che gli venisse un colpo.
-Quanto sono ubriaco..?-
-In maniera soddisfacente, mortale, ma nulla che non abbia già veduto. Al confronto d’una
menade sei poco più d’una vergine al primo sorso d’Ismarico.
Una donna
emergeva bianca dalla luce dei led, sovrastando Steve –Il corpo, la salma di Steve, come una statua di marmo: la
veste alla greca ribolliva, tremolava di mille pieghe mutevoli, dalle spalle
fino alla cintola, ed una mantella pesante le tintinnava sopra i seni; volse il
capo con studiata eleganza e la corona di mura guizzò d’azzurro, il velo che le
copriva i capelli tirati sulle tempie sussultò. Teneva la mano destra su una ruota –Una ruota!, mentre sotto il braccio sinistro una cornucopia
rigonfia vomitava doni e ninnoli e monete, che si riversavano a terra senza
suono alcuno.
Tony deglutì e sgranò gli occhi; si alzò di scatto
dalla sedia, provocando l’ilarità di..di chiunque
fosse davanti a lui.
-Chi sei?-
-Io?- la bocca della donna si curvò in un sorriso -Io
sono il Caso, sono la Sorte. Tyche è
il nome che mi diedero i figli diletti di Deucalione e Pirra, ma osa anche solo
chiamarmi come gli sciocchi discendenti d’ Enea e avrai di che pentirtene! Fortuna, ah!- il volto si contrasse in
una smorfia irata -Mi avete trasformata in una porné dagli occhi bendati, io! Io, l’unica che ancora veglia su di
voi!
Tyche abbassò gli occhi, osservando il Capitano con
sguardo pietoso; alzò una mano come a volerlo appena sfiorare e il momentaneo
stupore di Stark si mutò in rabbia.
-Allontanati da lui. Ora- ringhiò, gelido.
-Quanta virtù in un sol corpo- mormorò l’altra,
ignorandolo -Che disgrazia. Che profonda disgrazia. Se il Destino fosse
colpevole della sua dipartita certo potrei avere l’ardire di maledirlo, ma per
tua fortuna così non è-
-Fortuna? Fortuna?
Dio, quella era la più strana e irritante
allucinazione con cui si fosse mai trovato a discutere da ubriaco. Fortuna, la chiamava lei! Capitan
America..fortuna! Oh, il non trovare
inutili vasetti di brillantina ad occupare spazio prezioso nel mobiletto del
bagno era un colpaccio, ma fortuna..!
-Esatto. Fortuna- replicò Tyche, la voce dura e le palpebre socchiuse
–Esattamente nel deprecabile significato che voi intendete. Fortuna- lasciò cadere la mano-La morte
di costui non è stata decisa volontariamente
dal Fato: le Parche hanno avuto l’ordine
di tagliare il Filo. Un falso messaggio, o una finta messaggera? Non è
importante, non più. Alla causa non c’è modo di rimediare, ma è stato ritenuto
lecito che si potesse porre un freno alle conseguenze.
Fato? Parche?
E adesso cosa sarebbe successo? Sarebbero saltellati fuori Pena e Panico a
chiedergli se aveva sete?
-Ascoltami- Tony alzò le braccia e scosse la testa, tentando
il tono più conciliante possibile –Tu sei ovviamente un’allucinazione. Devi
essere l’avvisaglia di un disturbo post-traumatico da stress oppure la prova
che o il Bourbon era scaduto, oppure mi hanno venduto della melassa invece di
whiskey. Per cui, seppelliamo l’ascia di guerra, firmiamo un trattato di non
belligeranza e torniamocene ognuno ai propri angolini solitari, d’accordo?
Tu..Sparisci, puff!, in una bolla
rosa come gli elefanti di Dumbo, d’accordo? Porta i miei saluti a Megafusto, però.
Io vedrò di rimediare alla cosa bagnandomi la lingua con—
-Taci!- il grido di Tyche rimbombò nel laboratorio
come l’eco di mille voci, le luci tremarono, si ingigantirono, tutto divenne
bianco e poi nero e lei dominava su ogni cosa, immensa, gli occhi di mille
fiamme e mille colori e mille sguardi e mille volte mille esistenze –Taci, non
osare una parola di più! Io sono Tyche, mortale! Le Parche tessono, filano,
recidono lo strame, io disfo i nodi di Cloto, creo nuovi intrecci coi fili di
Lachesi, se m’aggrada celo alla vista della sdentata Atropo le cesoie funeree!
E sempre voi, oh miei caduchi avversari, voi io vinco al gioco eterno degli
astragali, barattando la vostra vita con nuovi anni o nuove sofferenze o nuovi
amori o nuove perdite, secondo il mio diletto!
Col fiato appeso alla gola, Stark indietreggiò. Cozzò
contro la sedia e fu solo per miracolo che riuscì ad appoggiarsi allo schienale
e non crollare a terra. Tyche assottigliò le labbra: un respiro e fu di nuovo
alla sua forma originaria.
-Giove, Padre degli Dei, ha deliberato e deciso con
Odino di Asgard, ma una voce..una menzogna
è serpeggiata sibillina dal Concilio. Le Parche hanno ubbidito ad un ordine non
vero: la morte di costui è frutto di una conoscenza ottenuta..- un veloce
arcuarsi delle sopracciglia –Per caso.
-Per caso? Tu hai..
-Io- lo interruppe –Creo e disfo a mio disio, non mi
curo di ciò che le mie azioni potrebbero provocare. Almeno fino a quando non si
viene ad infrangere l’Ordine.
“Chi ha ingannato le Parche non ha interesse in tal
senso, quel che per noi Olimpici è legge, per lui non è più importante d’un
soffio di polvere. L’Equilibrio è
stato infranto e gli Dei non permetteranno che questa situazione permanga: e
come non succedeva dacché il Protettore di Uomini dominava la Terra, Temi, la
Giustizia Divina che ora siede, ordina e dispone per i soli figli di Giove e
Giove stesso e la sua consorte, Giunone dal bianco braccio, Temi, dicevo, mi ha
affidato un compito. E io, Tyche, ho giurato obbedienza.
Tony si umettò le labbra, la fronte che bruciava,
rivoli freddi a rabbrividire lungo le tempie. Era una follia. Un’allucinazione,
doveva essere ammattito, quale altra spiegazione? Dei? Giove? Parche? Da quale
angolo recondito della memoria erano usciti, perché si erano fatti vivi? E
soprattutto..Perchè stava discutendo con
un postumo da sbronza?
-Non ho idea di cosa tu stia parlando e..-
-Obbedirò una volta, mortale. Una volta sola mi
piegherò e poi tornerò alle mie faccende, non importa quanto a lungo mi chiamerai
o cercherai la mia presenza, anelerai al mio aiuto: non risponderò, a meno che
non abbia io stesso voglia di risponderti- lo ammonì, la mano alzata ed il
mento sollevato –Ti è stato concesso un privilegio. Pochi possono vantarsi
d’aver avuto il medesimo dono e sarà loro che tu dovrai cercare.
“Un’unica occasione per ripristinare l’equilibrio:
se fallirai, gli eventi prenderanno questo nuovo corso, seguiranno questo nuovo
alveo e non vi si sarà più rimedio. Questa è l’unica volta in cui mi piegherò,
la sola occasione che ti sarà data.
-Ma di che parli? Di che possibilità stai delirando?
Un sorriso baluginò negli occhi maliziosi della
donna.
-Della possibilità di strappare questo mortale alle
onde dello Stige. L’occasione riportarlo alla vita.
Cor Mortem Ducens
#02. Da Qualche Parte, nell’Amarezza
Note
“Se Efesto ha di
nuovo nascosto anelli e reti nella mia alcova d’amore, ahimè” : Odissea, VIII
266-366. Efesto, per scoprire e punire gli amori di illeciti di Afrodite,
nasconde nel talamo una rete d’anelli d’oro finissima: a venirne catturati
saranno proprio la bella Afrodite e Ares, dio della guerra.
“Urano, mio spumeggiante Padre”: una
versione del mito vede la nascita di Afrodite dalla spuma del mare mescolato allo
sperma di Urano, finito in mare dopo che Crono lo aveva evirato.
Ermete è detto anche psicopompo, ossia colui che guida le
anime nel cammino verso l’Ade.
Cito qui le abilità di Venere:
“Venus has the power to project
images or illusions of herself and to control the emotions of others, as well
as the ability to fly at high speeds, shield herself from mortal sight, and
shift her physical form into other beings. Before the retcon, she was
considered to be an Olympian goddess, and thought to possess the enhanced
physical characteristics typical of Olympian gods in the Marvel Universe,
including superhuman stamina, durability, agility, and reflexes, extraordinary
vitality, and virtual immortality.” (Wikipedia)
La Tyche (Caso/Sorte) è la “divinità laica” dell’Ellenismo, priva di
predestinazione, non è un Destino scritto come quella cui invece, in epoca
precedente, erano soggetti uomini e Dei. I Romani la chiamarono “Fortuna”, ma
questo termine non ha nulla a che vedere col significato che gli viene dato
oggi.
Porné: “Puttana” in greco
antico.
Il Protettori di Uomini altro non è che Alessandro Magno (Alexandròs
significa, letteralmente, proprio “Protettore di Uomini”) E’ con la sua morte
che si apre l’epoca dell’Ellenismo ed il “dominio” della Tyche a regolare la
vita degli uomini.
Note
di Fine Capitolo
Otto pagine di roba. Otto. Pagine. Di.
Roba. Potete ammazzarmi, davvero. Vi è lecito.
Che poi, penso abbiate notato tutti
come si cambi dalla denominazione romana delle divinità (Afrodite-Venere) a
quella puramente greca (Ares, Athena, etc): purtroppo è così che vengono
chiamati personaggi all’interno degli Olimpici Marvel e, salvo per Tyche (che
non esiste ed è dunque da considerarsi un mio OC), mi sono adeguata alla cosa Anche
se le concezioni delle divinità romane e greche differiscono profondamente e
non so davvero secondo quale delle due mi devo rapportare *La sedano*
Poi..La scena di Venere/Afrodite che
si pettina i capelli è una forse/quasi/pseudo citazione dal proemio del III
libro delle Argonautiche:
“Lasciando cadere da ambo le parti
i capelli sopra le candide spalle, li ravviava col pettine d’oro, e ne faceva
lunghissime trecce. Vedendole, smise e le chiamò dentro, e si levò dal suo
trono, le fece sedere e sedette di nuovo anche lei, raccogliendo con le
mani le chiome non curate dal pettine.”
La scena
del poker con Ben Grimm (La Cosa), Barton, Johnny Storm e Capitan America viene
dalla serie animata “Avengers – I più Potenti Eroi della Terra” (Dove però
comparivano anche Hulk e T’Challa)
E con
questo direi basta.
Tranne che
il miele nel caffè è buono, checché ne dica Stark OH
Ringrazio
la mia nuova mogliaH, Alley per la
splendida recensione lasciatami al
precedente capitolo! Grazie davvero, mogliaH mia, organizzerò un viaggio di
nozze senza precedenti! *A*
Ringrazio
poi: Eloise de Winter per aver messo
la storia tra le preferite e Hikari_ e F13 per averla aggiunta alle seguite!
Alla
prossima!
LEGGETE TUTTI IL GRANDE GATSBY
|
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Capitolo 4 *** #03. Il Sakè del Tanuki ***
cmd4
.: *** :.
Nick Fury poteva anche
non sopportare la boria di Stark, trovare irritante il suo comportamento,
considerare infantile il suo modus operandi, ma non aveva mai pensato veramente
che fosse pazzo.
Era giunto il momento di
ricredersi.
-Stark, ti assicuro che
se continuerai con queste idiozie sarò costretto a prendere provvedimenti in
merito. Provvedimenti immediati.
Dall’altra parte dello
schermo, un pallido Tony Stark contrasse il volto, esasperato; pressò le nocche
sulla fronte, strinse la radice del naso
fra le dita, scese a coprire la bocca e infine unì fra loro i palmi delle mani.
Il sopracciglio di Nick
Fury schizzò oltre la cinghia della benda.
Da dietro le spalle di
Iron Man l’Agente Romanoff rizzò gli occhi nella sua direzione ed egli capì
come sotto ci fosse molto di più di un semplice esaurimento nervoso.
-Molto bene, Harlock-
cominciò Stark e se il Direttore dello S.H.I.E.L.D. irrigidì la schiena per il
soprannome non richiesto, la parte più pragmatica della propria persona scattò
sul chi vive a quel tono conciliante -Prenotami pure un appuntamento dalla
signorina Leland, è da tempo che non ci vediamo e sono sicuro che senta la mia
mancanza, chi non la sentirebbe?, ma io troverò quelle persone, che ti
piaccia o meno.
Fury socchiuse l’occhio
buono, lo sguardo divenne tagliente.
Aveva discusso più volte
con Maria Hill circa la possibilità di costringere i Vendicatori e gli
altri Supereroi di New York a diventare parte integrante dello S.H.I.E.L.D.,
veri e propri Agenti stipendiati e tenuti sotto ferreo controllo, Per
evitare che facciano il bello ed il cattivo tempo, signore. Per evitare che la
loro totale mancanza di regole e discipline siano causa di mali ben peggiori di
Loki.
Non l’aveva mai
considerata una buona idea. Di nuovo, sembrava giunto il momento di tornare
sulle proprie decisioni e tutto perché Stark si era messo in testa di andare
nel Vecchio Continente a recuperare non si sa bene chi, non si sa bene come, non
si sa bene dove, solo perché la personificazione della Sorte gli era
apparsa e gli aveva ordinato di scendere nell’Ade, recuperare l’anima di Steve
Rogers e ripristinare l’Equilibrio del mondo -Nemmeno nelle peggiori visioni
mistiche succedevano cose del genere.
Il Capitano Rogers era
morto -Un infarto, secondo quanto riportavano i referti medici, e Tony Stark
aveva accusato il colpo nel peggiore dei modi: le assurdità su divinità
dell’Olimpo e viaggi nell’Ade erano un chiaro sintomo delle sue attuali
condizioni psichiche.
Dacché Thor era arrivato
in New Mexico, lo S.H.I.E.L.D. aveva fatto passi da gigante in materia di nuovi
mondi, complici anche gli appunti della dottoressa Foster riguardo al Ponte di
Einstein-Rosen; gli studi sui Nove Regni procedevano quanto più speditamente possibile,
sebbene limitati dalla materiale inattuabilità di un contatto più approfondito
con altri Asgardiani e popoli loro affini.
Per quelle rare volte che
si era prestato ad un informale interrogatorio, il Dio Norreno aveva
speso poche e incomprensibili parole sul il Bifrost, il Ponte dell’Arcobaleno, forse
il solo collegamento tra una dimensione e l’altra. Alla fine erano riusciti a
ricavare unicamente due verità ineluttabili: il Bifrost era caduto e Thor non
avrebbe mai portato nessun terrestre ad Asgard.
Nessuno tranne Jane
Foster, ma Fury dubitava che la donna si sarebbe detta disponibile a fare da
infiltrato. Nonostante alla conclusione della vicenda a Puerte Antiguo le
fossero state restituite tutte le attrezzature e gli appunti e gli studi e le
fosse stato offerto un tempestivo posto di lavoro all’Osservatorio per tenerla
in totale sicurezza durante l’emergenza “Loki”, la dottoressa aveva ancora il
dente avvelenato nei loro confronti.
Le condizioni per una
maggiore e più ampia conoscenza dei Mondi oltre la Terra erano sfavorevoli e
sebbene il Direttore non fosse tipo da escludere l’esistenza di qualcosa solo
perché non poteva vederla fisicamente, trovava quei discorsi privi di senso,
forse più per l’idea insita nei vagheggiamenti di Stark che per
l’ipotesi di un’ulteriore cultura extradimensionale.
-Non andrai da nessuna
parte, signorino.
La bocca di Tony fremette
di un ghigno storto.
-Non puoi impedirmelo, monocolo.
Fury torse il collo ad
incontrare lo sguardo dell’Agente Hill e da come lei assottigliò le labbra,
capì che l’argomento “Registrazione” sarebbe stato il punto successivo di una
giornata cominciata nel peggiore dei modi.
-Potrei sempre ordinare
un perimetro attorno alla Tower e circondarti di Agenti armati di taser. Mi
dicono che Supertata non sia ancora stato cancellato dal palinsesto-
-L’Agente Coulson sì,
però-
-Barton, sta’ al tuo
posto.
Tony, sorpreso dall’affermazione
all’apparenza priva di contesto, si voltò verso Clint; questi aveva sollevato
le spalle dal muro e stava fissando il figlio di Howard con espressione gelida,
un angolo della bocca sollevato a scoprire i denti digrignati. Gli ci vollero
alcuni secondi per recepire l’ordine e fu solo quando tornò ad appoggiarsi
contro la parete che Fury si concesse una minima distensione.
-Mi ascolti, Direttore,
so che le mie parole possono sembrare il delirio di un ubriaco e forse, forse
il tasso alcolico nel mio sangue è un tantino superiore al limite di lucidità
consentito, ma so cosa ho visto. So con chi ho parlato- Stark
aggrottò la fronte e fece spallucce -Bhè, più o meno, ma il punto è…che ho la
possibilità di andare a prendere Rogers e riportarlo qui. Posso farlo. E lo farò.
Con la coda dell’occhio,
il Direttore vide l’Agente Barton all’angolo dello schermo tentare di prendere
parola; sollevò allora una mano, ad impedirgli qualsiasi intromissione.
-Come?
Questa volta, le labbra
di Iron Man si arricciarono in un sorrisetto compiaciuto.
-Si dà il Caso- e
calcò il termine con irritante enfasi -Che la gentile…- tentennò –Divinità? Sì,
facciamole un favore, la gentile Divinità con cui ho avuto un colloquio pocanzi
mi abbia dato tutte le informazioni necessarie a…-
-Il Cantore, il Viaggiatore
ed il Pio?- Fury non poté negarsi un moto di sarcasmo -Stark, queste non
sono informazioni valide-
-Secondo l’Agente
Romanoff potrebbero esserlo, invece. Agente Romanoff, vorrebbe venire avanti e
rendersi palese all’occhio del suo superiore?
Vedova Nera avanzò senza
dire una parola, il volto teso e duro, lo sguardo che mandava lampi in
direzione di Stark; gli si affiancò, in modo da essere visibile davanti allo
schermo, le braccia lungo i fianchi e le labbra rigidamente pressate l’una
contro l’altra.
-Agente Romanoff. Parli
pure- il Direttore si appoggiò allo schienale, le dita della mano destra a
pizzicare la curva del mento.
-Orfeo, Odisseo ed Enea-
spiegò lei, impassibile -Secondo la mitologia occidentale, essi sarebbero scesi
fin dentro gli abissi dell’Inferno. Ognuno per scopi e motivazioni diverse, ma
comunque la tradizione è concorde nell’affermare il loro viaggio nella Terra
dei Morti-
Il Direttore scosse il
capo.
No. Si era sfociati nel ridicolo.
Aveva perso anche fin troppo tempo.
-E tu, Stark, vorresti
trovare degli eroi mitologici appartenenti ad un ciclo di storie vecchio
di duemila anni, solo perché un’allucinazione ti ha detto…-
-Anche Point Break fa parte di un ciclo di storie vecchio di
duemila anni, ma non mi sembra che la cosa ti stia dando problemi, non finchè
ti permette di prendere a calci qualche supercattivo dai capelli unti- ribatté
Tony, la voce più alta, irritata, furiosa -Puoi anche non crederci, ma
quello che ho detto è...-
-Vero-
Tutti, da una parte e
dall’altra dello schermo, trasalirono all’improvviso intervento di Thor: Vedova
Nera si fece da parte appena se lo vide accanto e il figlio di Howard arcuò le
sopracciglia.
-Sul serio?- il fatto che
fosse stupito quanto il resto delle persone presenti non fu una buona
impressione per Fury.
-L’Uomo di Ferro ha
ragione- continuò la divinità e per quanto fosse stretto in una camicia a
scacchi blu e rossi di una taglia più piccola, per quanto indossasse un paio di
jeans scoloriti all’altezza del ginocchio e tenesse i capelli trattenuti alla
base della nuca, lo sguardo cupo e il portamento fiero lo rendevano a tutti gli
effetti un Principe di Asgard. Nick Fury non era tipo da impressionarsi facilmente,
ma chiunque si sarebbe sentito a disagio al cospetto del Tonante Thor –Anche se
vestito da mandriano.
-Spiegati meglio-
-Spesso Padre Odino ha
avuto occasione di incontrare gli Dei dell’Olimpo: dovreste conoscerli bene,
sono le divinità dei vostri avi-
-I miei avi erano Indiani
Iowa, per cui me ne tiro fuori- Clint rivolse allo schermo un ghigno tagliente,
che il Direttore fu veloce a spegnere grazie ad un’occhiata ammonitrice.
Thor corrugò la fronte e
Jane, che si era avvicinata in silenzio, gli mise una mano sulla spalla per
invitarlo a continuare; il Dio le coprì dolcemente le dita con le proprie,
sorrise e tornò a guardare nello schermo.
-Giove, Giunone, Minerva,
i loro figli, le loro mogli, i mariti e gli amanti vegliavano sull’Occidente quando
il mondo era ancora giovane. Ma come il mio popolo, alla fine decisero di
ritirarsi e arroccarsi nell’eternità dell’Olimpo, loro casa e loro sede.
“A differenza di noi
Asgardiani, però, alcuni ancora amano scendere su Midgard e mescolarsi ai
mortali: Venere è fra questi e da quello che ho potuto apprendere da mio padre
molti secoli orsono, gli Dei che stanno sotto la terra mai hanno cessato il
loro compito.
“Fra coloro che si
fregiano del titolo di Divinità, gli Olimpici sono gli unici a non aver abbandonato,
come essi sostengono, Midgard a se stessa. Si proclamano ancora suoi custodi,
guardiani del suo Equilibrio, pur non intervenendo che in minima parte nel suo
Destino.
-Se Nietzsche fosse qui
gli prenderebbe una sincope-
Fury contrasse la
mascella al commento a sproposito di Stark e Maria gli si fece più vicino, le
spalle piegate in avanti. Entrambi sapevano che considerarsi l’unico popolo
senziente nella vastità dell’Universo era peccare d’ orgoglio e demenza: non
erano soli, esistevano degli altri e lo S.W.O.R.D. era stato creato proprio
per tenere sotto controllo le mosse e le interferenze di altri nella
vita terrestre.
Che altri camminassero
indisturbati per Manhattan, mangiassero croissant a Parigi o passeggiassero lungo
la Muraglia Cinese era un’ipotesi che non poteva rimanere senza dimostrazione. Non
si trattava della trama di un romanzo o la sceneggiatura per un film
fantascientifico: se questi altri erano fra loro e nessuno ancora ne
aveva avuto notizia, Abigail Brand doveva esserne informata e le falle del
sistema sanate.
-Molti degli Eroi- stava
dicendo Thor, nel frattempo -Hanno deciso di rimanere a Midgard: alcuni, come Ercole,
che sono fiero di aver conosciuto di persona, si sono allontanati dai loro
luoghi d’origine per stabilirsi al di là del mare. Altri ancora hanno scelto di
non abbandonare la propria casa, per quanto cambiata essa fosse. Anche se
distrutta, anche se modificata fin nel profondo della loro essenza, si ergono a
loro difesa contro lo sfacelo del tempo e della memoria. Ma sono rimasti in
pochi, ormai, e senza l’aiuto della Giustizia, che è loro Dea Suprema secondo
quanto mi è stato narrato, non possono nulla e le loro fila sono destinate ad
assottigliarsi ogni giorno che passa. Sono stanchi e anelano il riposo eterno
che solo la dimora di Giove è in grado di offrire-
-E le persone che ha
citato Vedova Nera?- chiese Fury -Odisseo, Enea ed Orfeo? Loro dove sono?
Il Dio Norreno scosse il
capo.
-Non so dirvi di Orfeo,
né di Enea, ma di Odisseo Ercole parlava spesso e so per certo che si trova ancora
ad Itaca-
-Bhè, è già qualcosa, no?
Significa che non sono pazzo. Forse un po’ su di giri per la Vodka, ma…-
-Taci, Stark, non ho
ancora deciso in merito alla tua sanità mentale. Thor, dobbiamo sapere il più
possibile riguardo a questi Dei. A quando risale l’ultimo contatto avuto con
loro?
Il Tonante, a quella
domanda, parve tentennare. Deglutì, a disagio, e rimase qualche minuto in
silenzio.
-Non molto dopo il mio
ritorno ad Asgard, con Loki- ammise -Padre si è ritirato a concilio con Giove,
ma non mi è stato permesso presiedere, né conoscere quanto è stato detto. So
solo che in seguito al loro deliberare...- abbassò il capo, gli occhi cupi -Di
mio fratello non si hanno avuto più notizie. Non è ad Asgard e Padre ha imposto
il divieto di partire alla sua ricerca, quale che sia l’effetto che mi lega a
lui. Era così stanco, così provato e addolorato da temere che il Sonno di Odino
lo cogliesse prima del tempo-
-Il Sonno di Odino?-
-Niente che abbia a che
vedere con questa storia.
E niente che abbia a che vedere
con noi, ma questo Fury si astenne dal dirlo. Intrecciò le
dita e posò il mento sulle nocche, sbiancate per la tensione.
-Stark, ora è il tuo
turno: raccontaci ancora una volta quanto è successo nel laboratorio, e senza
divagare, se ti riesce.
Il magnate roteò gli
occhi al cielo.
-Te l’ho già detto, Mace
Windu. Te l’ho detto e ripetuto. Mi è apparsa questa donna e ha detto di
essere Tyche, la Sorte che “governa” il destino dei mortali- mimò le virgolette
con le dita, a rendere chiaro a chiunque quanto trovasse ridicola quella parte
della storia -Ha detto che le Parche hanno tagliato il Filo della Vita del
Capitano, qualunque cosa sia, per un falso messaggio od una falsa messaggera,
nemmeno lei sapeva dirlo-
-Le Parche?- Thor rivolse
a Tony uno sguardo perplesso –Intendi le Norne?-
-Non lo so, non me ne
intendo di vecchiette rancide che si passano l’un l’altra l’occhio buono per
prevedere il futuro-
-Quelle sono le Graie-
intervenne l’Agente Romanoff, sedendosi accanto ad una ancora sconvolta
Virginia Potts e posando le mani in grembo.
-Sì, bhè, vedrò di
mandare una lettera di reclamo alla Disney, posso andare avanti?
Accanto al Direttore,
Maria Hill si schiarì la gola, ma Fury la ignorò: per quanto una dissertazione
sulle incongruenze nei film Disney fosse l’ultima cosa che volesse sentire in
quel momento, sperava ancora che il discorso di Stark portasse da qualche
parte.
-Parche, Norne, Nonne,
giovani o vecchie che siano, hanno tagliato questo filo perché
qualcuno ha ordinato loro di farlo. Qualcuno che a quanto sembra non dovrebbe
avere alcun potere decisionale a riguardo, qualcuno che per caso è
arrivato a sapere di questa piccola scappatoia nell’Ordine normale delle cose-
aggrottò la fronte, gli occhi scivolarono al Dio –Thor, voi Asgardiani ve ne
intendete di Ordine?
La domanda lo sorprese.
-Che intendi dire, Uomo
di Ferro?-
-Questo famigerato
Equilibrio, questo tanto decantato Ordine che fa molto videogioco anni novanta
o al limite sessione notturna di Dungeons&Dragons, e prima che lo
chiediate, sì, ho avuto l’occasione di partecipare ad alcune di esse e no, non
intendo parlarne, Pepper vedi di mantenere il segreto, insomma…E’ un
concetto che Asgardiani e Olimpici dividono con pane e companatico oppure
ognuno a casa propria?
Fury socchiuse la
palpebre e sciolse l’intreccio delle dita; appoggiò un gomito al ginocchio,
scambiandosi un’occhiata significativa con l’Agente Hill.
-Thor- prese la parola -Come
hanno reagito gli Olimpici all’attacco di Loki? Visto che, come hai detto, si
considerano i custodi della Terra, dubito abbiano apprezzato le azioni e le distruzioni
di tuo fratello.
***
-Padre non
sarebbe mai arrivato a compiere un’azione tanto deplorevole!
Clint fu l’unico, nella stanza, a non sobbalzare
allo scatto improvviso di Thor. Si sarebbe detto dotato di una tempra
invidiabile, ma la verità era un’altra.
-Mi spiace, Point
Break, ma voci di regia mi dicono che l’amore di un padre per i propri
figli sia imprevedibile: se veramente gli Olimpici hanno portato via Loki per
ristabilire quell’Ordine a voi tanto estraneo…
La verità è che tutta la situazione lo stava facendo
ribollire dalla rabbia. Sentiva il sangue ringhiare nelle vene, lo stomaco
torto da una furia gelida, era incapace di concentrarsi su qualsiasi cosa che
non fosse il bisogno di scaraventare Stark contro una parete, o conficcargli
una freccia nella giugulare.
-Padre non avrebbe mai ordito un piano tanto
meschino! Ordinare la morte del Capitano per…per cosa? Dimmelo, Uomo di Ferro!
Tu che sembri tanto saggio, dimmi per quale motivo lo avrebbe fatto!-
-Vendetta. Semplice, pura, paterna vendetta. Gli
Olimpici si sono immischiati negli affari di Asgard in nome dell’Equilibrio?
Quale presa di posizione migliore che interferire nell’Equilibrio stesso? Steve
doveva morire settant’anni fa, quando
l’aereo di Schmidt si è disintegrato a contatto con la calotta artica. Steve
era l’esempio vivente di un Ordine
che tornava bene solo quando lo volevano Giove e tutta la sua combriccola-
-Il Capitano era un mio un compagno…-
-Ma Loki era suo figlio, tuo fratello. Capisci la
logica dietro a tutto questo, fulminato amico
mio?
Barton roteò gli occhi al cielo e contrasse la
mascella, ignorando lo sguardo di Natasha. Lei sapeva, oh, sapeva ogni cosa,
sapeva come si sentiva e quanto quei discorsi, quella situazione, quella possibilità lo stessero facendo uscire
di testa.
-L’unica logica che capisco io- intervenne, allora,
prima che Vedova Nera o il buon senso –Che poi, a conti fatti, erano la stessa
cosa, potessero impedirglielo -E’ quella del “Le relazioni tra colleghi non possono e non devono essere in alcun modo
incoraggiate”.
Vide Stark irrigidirsi e
Fury aggrottare la fronte dall’altra parte dello schermo. Rivolse ad entrambi un
ghigno malevolo.
-Non ho nulla contro il
Capitano. Era una persona come ne ho incontrate poche nella mia vita e lo
stimavo. Lo stimavo davvero. Ma perché lui? Per quale motivo solo a
Rogers è stata data la possibilità di tornare in vita? Perché tanti altri meritevoli
quanto lui devono essere costretti a rimanere cibo per i vermi?
Le spalle di Tony
cascarono con un sospiro e Clint quasi temette di aver lasciato trasparire troppo
dal tono nervoso dell’arringa.
-Non lo so, Barton.
L’unica ipotesi che ho a riguardo è questa: occhio per occhio, dente per dente,
la sempre valida legge del taglione. Tu porti via mio figlio nel sacrosanto
nome di un Ordine che solo voi potete capire? Ottimo, in nome di quel
sacrosanto Ordine che solo voi potete capire vengo a mettervi un po’ i bastoni
tra le ruote per farvi vedere che, no, con gli Asgardiani non si scherza-
allargò le braccia -Dei, valli a capire.
Ma Thor non sembrava convinto.
Nessuna in quella stanza sembrava convinto e Clint, nell’alzare gli occhi al
volto del Direttore sullo schermo, capì che oltre a non esserne convinto
nemmeno lui, stava pensando ad un modo per ottenere un contatto e dei
collegamenti degni di questo nome con il nuovo popolo extradimensionale.
-Andrò ad Asgard- il Dio
Norreno annuì a se stesso e ai presenti –Parlerò con Padre e lo convincerò a
farmi avere un incontro anche con Giove-
-Ottimo!- Stark sfregò
fra loro i palmi delle mani –Bene, si comincia la quest allora! Banner
la voglio alla ricerca di Orfeo, non accetto un no come risposta-
Barton torse il collo, le
sopracciglia corrugate: il dottore aveva l’aria parecchio perplessa e non era
l’unico nella stanza. Pepper richiamò l’attenzione alzandosi in piedi e
ricordando a tutti una questione fondamentale.
-Dovremmo pensare anche…-
chiuse gli occhi un istante, ingoiando un singhiozzo silenzioso. Era pallida,
esausta, sull’orlo delle lacrime -Alla camera…A Steve-
Barton avvertì
distintamente l’occhio di Fury posarsi sulla propria persona. Dannazione,
sapeva, sapeva di dover accettare la missione suicida in Latveria.
-Saranno un manipolo di
Agenti, Barton e il mio Agente più fidato ad occuparsi di tutto.
Eccolo lì. Ottimo. Tanto
valeva fare buon viso a cattivo gioco: sperava almeno che da uno, il mese di
congedo si trasformasse magicamente in due.
-Sarà un piacere lavorare
con l’Agente Hill- commentò, un sorriso parecchio tirato e parecchio falso sul
volto livido.
-Non mi pare di aver
menzionato l’Agente Hill, Barton.
***
All’angolo tra la Quinta e la Sesta c’era un
ristorante giapponese, Il Sakè del Tanuki.
Un locale piccolo, intimo, nastro trasportatore per
il sushi, buona varietà nel menù, stampe di geishe e samurai appese alle
pareti. Il proprietario era un vecchio arzillo dagli occhietti infossati e
baffetti bianchi a manubrio: Aritomo Watanabe, età indefinita tra i
settant’anni e i centocinque anni, faccia da Shogun, lineamenti cinesi e
perfetta parlata coreana –Dialetto del Nord o del Sud non aveva importanza, la
voce era priva anche della più piccola contaminazione di Osaka. Era amato da
tutti e da tutti un po’ odiato a causa di quella mescolanza etnico-culturale
che rendeva tanto eclettica la sua persona.
Erano le sei del pomeriggio quando l’Agente scese
dalla macchina nera ed entrò al Sakè del
Tanuki: Aritomo lo vide, centellinò un saluto cortese tra le labbra seriche
e gli si avvicinò a passetti strascicati.
-Konnichiwa,
konnichiwa…!- esclamò, profondendosi in un inchino e lanciandogli
un’occhiata divertita da sotto la bandana che copriva il cranio calvo -Tavolo
per uno, sì?-
-Esatto. Non mi piace condividere il sashimi.
Il sorriso del vecchio Watanabe assunse una piega
ferina, lo sguardo scintillò come freddo metallo.
-Prego, mi segua.
L’Agente e Aritomo superarono l’interno del locale
in religioso silenzioso. Gli avventori erano pochi, per di più operai od
impiegati che si godevano un pasto prima del turno di notte, qualche gruppetto
di ragazzini, una signora distinta e solitaria che frugava a punta di bacchetta
nella zuppa di miso. Ai camerieri che alzavano gli occhi su di lui, Watanabe
annuiva con un gran rollio del collo tremolante e faceva cenno di tornare alle
loro occupazioni; in cucina nessuno prestò loro attenzione, almeno finché non
arrivarono alla cella frigorifera.
Lì il vecchino chiamò due ragazzi intenti a far
nulla dinanzi al tavolo per preparare il sushi ed essi -Cui l’Agente avrebbe
affibbiato qualsiasi occupazione, anche malavitosa, che contemplasse l’uso di
un’arma da fuoco o al limite un taser, si piazzarono ai lati della poderosa
porta in metallo, le braccia rigidamente incrociate al petto, gli occhi sottili
e lo sguardo attento. Watanabe sorrise, aprì il portellone e fece cenno
all’Agente di entrare.
E dentro la cella nessun tipo di pesce o carne
congelata, né prodotti alimentari di vario tipo, ma pesanti lastroni in metallo
a limitare e contenere quello che era a tutti gli effetti il vano di un
ascensore; Aritomo sorrise ancora una volta e digitò alcune cifre su un
pannello posto lateralmente rispetto al portellone d’entrata. Un bip d’accettazione, lo schermo
rettangolare che si illuminava e poi un lieve scossone, che l’Agente ammortizzò
dondolandosi appena sui talloni.
-Sono contento che sia tornato al lavoro, Agente.
Sentivamo la sua mancanza- Watanabe soffocò una risatina sotto i baffetti
curati, mostrando denti piccoli e anneriti.
-La missione a Wakanda è stata più dura del
previsto, ma ci sono buone possibilità di riprendere i contatti nonostante le
conseguenze dell’affare “Ulysses Klaw”. Il figlio di T’Chaka è tornato in
patria per riprendersi il titolo di sovrano, speriamo di poter aprire con lui
trattative in merito alle esportazioni di vibranio.
Se anche Aritomo era sul punto di chiedere altro, un
trillo dell’ascensore li avvertì che la corsa era giunta al termine: le porte scorrevoli
si aprirono e il riverbero dei neon contro le pareti intonacate di bianco li
accecò entrambi per un istante.
Ritta in piedi accanto al vano una donna sulla
trentina, capelli biondi e tailleur nero, li salutò con un cenno del capo.
Dietro di lei si apriva un lungo corridoio, dove cinque porte incastonate nel
cemento inghiottivano e sputavano a più riprese persone vestite in completi di
camicia e pantaloni scuri –O tailleur nel caso di esponenti del sesso
femminile. Alcuni, come la donna dai capelli biondi, tenevano in mano una
cartelletta di pelle o fascicoli vari, altri si scambiavano opinioni a voce più
o meno alta circa la possibilità di un’intelaiatura osseo-metallica più solida,
c’era chi si scambiava bozze e schizzi anatomici o lodava le prospettive
offerte dalle nuove tipologie di colorazione tirate fuori dai laboratori inferiori.
Watanabe azzardò un’occhiata curiosa a dei fogli che
si intravedevano tra le mani di alcuni Agente più avanti, ma quando si accorse
di avere la vista troppo indebolita dall’età vi rinunciò e si sciolse in un
ultimo sorriso.
-La lascio in buone mani, allora.
L’Agente annuì e mosse un passo fuori
dall’ascensore; si voltò a salutare con un cenno della testa il vecchio Aritomo
e non appena i portelloni si furono richiusi, tornò a rivolgere la propria
attenzione alla donna, che gli sorrise e tamburellò contro la cartelletta le
unghie laccate di rosso.
-E’ un onore averla qui, signore. Io sono l’Agente
Joan Lee, le do il benvenuto al Dipartimento L.M.D.
***
Tony chiuse la chiamata col Baxter Building,
appallottolò lo schermo digitale, lo soppesò per qualche secondo sulla mano e
poi lo gettò rabbioso in una configurazione a cestino che J.A.R.V.I.S. aveva
fatto apparire appositamente per l’occasione.
Aveva riattivato l’illuminazione totale del
laboratorio e la cosa, doveva ammetterlo, riusciva ancora ad infastidirlo
parecchio. Avrebbe preferito continuare ad osservare il mondo dal chiarore
soffuso e funereo dei led, i cui sbuffi bluastri riuscivano a dare l’illusione
di un respiro nel corpo di Steve.
Si stropicciò il volto con una mano, per poi passare
entrambe fra i capelli e risalire con un movimento circolare fino alla bocca;
la nascose dietro i palmi, come ad impedirsi un qualsiasi commento a quella
situazione assurda.
Perché era tutto assurdo, era il primo a pensarlo.
Inutile girarci intorno, stava cominciando a convincersi che quanto era successo
fosse stato solo frutto di un pesante postumo da sbornia. Certo, il fatto che
Thor avesse sostenuto la causa era un passo in avanti e magari la si poteva
considerare una prova, ma, ehi, Point
Break era quello che per ricaricare il telecomando era ricorso ad una
scarica di fulmini e l’aveva ridotto in poltiglia. Non faceva troppo
affidamento sulle sue capacità mentali, per quanto fosse l’unico abbastanza impregnato
di mitologia e altre stronzate simili
da essere un annegato che cammina. Anche Natasha aveva trovato un senso alle
parole sconclusionate che quella donnaccia con la cornucopia gli aveva lasciato
e com’è che gli aveva detto lei una volta? Fallaces
sunt rerum species o qualcosa del genere.
Accidenti al latino, Pepper aveva detto che era una
lingua morta, no? E se nessuno, Agente Romanoff a parte, non la parlava più, allora
perché non lo lasciava in pace? Latino, greco, divinità dell’Olimpo, gente pia
e altra robaccia della stessa risma, perché, maledizione, non lo lasciavano ad affrontare il lutto nell’unico
modo che conosceva? Aveva ancora del rhum nella riserva, doveva solo cercare
con attenzione…
Afferrò un cacciavite posato lasciato di traverso
sulla scrivania e cominciò a farlo roteare tra i palmi, a passarlo da una mano
all’altra, a punzecchiarsi il dorso mentre si umettava le labbra e sospirava e
respirava piano e cercava di allontanarsi da se stesso una volta per tutte.
-Sai, dovresti essere qui a dirmi che Per l’amor del cielo, Tony, l’alcool non è
la soluzione- scrollò le spalle –Dovresti essere qui a sequestrarmi ogni
bicchiere e ogni bottiglia. Dovresti essere qui a ricordarmi ancora una volta
perché non posso buttarmi via.
Chiuse gli occhi. Deglutì.
Sbatté le palpebre un paio di volte, prima
raggiungere il corpo di Rogers: lo sovrastò e tese una mano a sistemare i
capelli biondi, di modo che non gli coprissero la fronte.
-Ti riporterò indietro, Steve. Non so se è una
follia, se sia vero o solo immaginazione come pensa Capitan Harlock lassù, ma ti riporterò indietro. Ah, nota per il
futuro: non credo affatto alla formula Finché
morte non ci separi.
Un trillo ed un singulto d’aria compressa lo
avvertirono che qualcuno era appena entrato, ovviamente non invitato, nel
laboratorio. Stark si voltò, trovandosi faccia a faccia col grugno ben poco
promettente dell’Agente Barton.
Clint socchiuse gli occhi, ma non disse una parola.
Lo sguardo scivolò oltre, soffermandosi sulla salma del Capitano; un accenno di
pentimento, di commozione, di qualcosa
gli macchiò le iridi e gli contrasse la bocca.
-Tu va’ a fare quello che va fatto nell’Oltretomba,
della terra dei vivi se ne occuperà lo S.H.I.E.L.D.-
-Fantastico- commentò Tony, sarcastico -A proposito,
Barton- indurì la mascella e chiuse una mano a pugno -Cos’era quella battuta
sulle relazioni tra colleghi?
Barton sogghignò, ma non c’era divertimento, né cattiveria
ad avvelenargli la bocca: sembrava piuttosto un modo come un’altra per dare una
parvenza di vita ad un volto che non conosceva più espressioni da troppo tempo.
-Io vedo tutto, Stark, quello che è reale e quello che
non lo è. La cosa potrà anche risultarti parecchio indigesta, ma sei
prevedibile. Più prevedibile di quanto tu sia disposto ad ammettere.
***
Il Dipartimento L.M.D. era un ricettacolo di
stranezze e inusitato folklorismo, a partire da colei che lo dirigeva con pugno
ferro: l’Agente Salmace Attis -All’anagrafe di Cipro, Stéphanos Agdistis.
L’Agente non aveva mai compreso il perché del
soprannome “Gran Madre Cibele” che circolava all’interno dell’Helicar o del
Quartier Generale quando si toccava l’argomento Life Model Decoy, ma nel
vedersela arrivare davanti a grandi falcate, le labbra premute tra loro, la
mascella serrata e prominente, la carnagione olivastra illividita e le narici
dilatate per l’irritazione, allora…Bhè, allora capì esattamente perché gli Agenti che dovevano presentarsi al suo
cospetto senza preavviso temevano di finire sbranati da un leone.
-Agente Attis…-
-Vedo che il modello ha funzionato a dovere- tagliò
corto, squadrandolo accigliata da capo a piedi.
-Si può dire che mi abbia salvato la vita, sì-
-Cosa vuole Fury?-
A disagio, l’Agente si schiarì la voce.
L’atrio si era svuotato in men che non si dica ed era
ovvio che in caso di assalto nessuno gli sarebbe corso in aiuto. Poteva ricorrere
al taser, è vero, ma dubitava avrebbe funzionato: si vociferava che durante le
cure ormonali per la transizione, Gran Madre Cibele si fosse iniettata in vena anche
dei micro rinforzi cellulari al vibranio.
Cosa fossero i micro rinforzi cellulari al vibranio
non era dato saperlo, ma secondo le comari della mensa –Tutti diventavano delle comari alla mensa, forse era colpa della
zuppa di pomodoro, il nome era parecchio scientifico e quindi indiscutibilmente
plausibile.
-Abbiamo bisogno di un Life Model Decoy. Per domani
mattina.
Silenzio. Il mento di Attis tremolava e i denti, stretti
stretti tra loro, scricchiolavano in maniera poco piacevole. Quello poteva
essere classificato senza ombra di dubbio come pessimo segno di livello cinque.
Salmace Attis era a capo del Dipartimento L.M.D. per
un motivo ben preciso: i suoi Life Model Decoy erano i migliori sul mercato
Era ancora un ragazzetto che girava scalzo per le
vie di Cipro quando aveva scoperto l’amore per i modellini, o almeno così
mormoravano le leggende a riguardo: di Attis si sapeva solo quanto Attis voleva
si sapesse, e ciò includeva disastrosi tentativi da parte dei suoi genitori di
tenerlo sulla via degli aeroplanini e trenini,
salvo poi arrendersi alla creta, das, fimo, qualunque cosa gli permettesse di
creare riproduzione di corpi umani al limite della perfezione.
Ma erano immobili, inutili e nella sua testa
pesavano le ombre dei racconti di Asimov, i cervelli positronici e gli androidi
di Dick, che sognassero pecore e elettriche o meno.
Divorato dall’idea sempre più fissa e ossessiva di
dare vita al suo Moderno Prometeo, Stéphanos aveva fatto proprie più nozioni
scientifiche e fisiche possibili, raggiungendo risultati inaspettati e tanto
all’avanguardia da essere sottoposti immediatamente all’attenzione dello
S.H.I.E.L.D.
Entrata quindi a far parte dell’Organizzazione col
nome di Salmace Attis, dotata delle più avanzate tecnologie e affiancata dai
migliori scienziati allora in circolazione, non era passato molto tempo che già
i suoi modelli avevano cominciato ad essere parte integrante della vita di ogni
Agente.
A cinquant’anni, seppur supposti e mai verificati,
Attis dirigeva il distaccamento e gli uffici satellite, teneva sotto controllo
i laboratori, collaudava i nuovi sistemi di persona e sempre di persona studiava,
teorizzava, elaborava costantemente ulteriori migliorie.
Pur con tutto questo alle spalle, con tutta la
bravura e la tecnica e i mezzi a disposizione, però, l’Agente sapeva quanto
lungo fosse un processo completo di costruzione e quanto fosse impensabile
richiedere un L.M.D. per il giorno seguente. Ma gli ordini erano ordini e
persino una persona col caratteraccio di Salmace “Gran Madre Cibele” Attis
doveva chinare la testa.
-Agente, sa che è impossibile-
-Ne sono consapevole, ma il Direttore ha ordinato
priorità assoluta-
Attis incassò la testa tra le spalle ampie,
storcendo la bocca per il fastidio; scostò un ricciolo nero cascatole sulla
fronte e dall’espressione seria l’Agente potè constatare compiaciuto che si era
messa mentalmente al lavoro.
-Se può esserle di aiuto, si tratterà di lavorare
solo con un po’ di fimo, come ai vecchi tempi.
Un sorriso perplesso, ma pur sempre un sorriso, le
sorvolò le labbra; portò due dita alla trasmittente che teneva nell’orecchio e
premette i polpastrelli sul sensore per attivarla.
-Sono Attis. Voglio gli Agenti Simon, Kirby, Ryal e
Rough Stone nel Laboratorio T.C. in non più di tre minuti, strumenti alla mano
e bozza del L.M.D. Sentinel of Liberty pronto per essere messo in opera- lanciò
un’occhiata all’Agente e questi non si lasciò sfuggire l’occasione di chiedere
ancora una cosa.
-Il Life
Model Decoy di Tony Stark è compreso nell’offerta o è a parte?-
Nick Fury aveva preventivato molte cose: tra queste,
la sicurezza che la mancata presenza di Stark alla cerimonia funebre del
Capitano avrebbe sollevato più di una domanda, portato a più di un’inchiesta.
L’Agente non recriminava al Direttore la poca fiducia nei confronti della
missione. Aveva giocato con la morte una volta, in fondo, ma non si era
trattato di uno scontro ad armi pari.
Attis scosse il capo con finta rassegnazione e non
ci fu bisogno di altre risposte: aveva capito fin nel minimo dettaglio quale
fosse il compito richiestole.
-Agenti Lee, Lieber, Heck, Elric e Formigine al
Laboratorio M.C. Due minuti, niente pausa per il caffè, ci sarà da lavorare
parecchio: progetto L.M.D. Tales of Suspense.
Sebbene la situazione fosse tutt’altro che conclusa,
l’Agente si permise un sospiro di sollievo: Salmace Attis aveva formalmente
accettato l’incarico.
Restava solo un’ultima questione da affrontare.
***
Natasha si chinò sulla mappa digitale e le bastò
toccare un punto perché esso venisse evidenziato con un palpitare cremisi.
Raddrizzò la schiena, le braccia incrociate al seno e la testa piegata di lato;
la bocca si inclinò pericolosamente verso il basso mentre toccava la superficie
azzurra della cartina in corrispondenza di Dion-Olympos, nella pianura della
Pieria.
-Hai già trovato i luoghi che ci interessano?
Vedova Nera annuì, girandosi quel tanto che bastava
per mostrare il profilo al Dottor Banner; questi emerse cauto nella penombra
della stanza vuota e sistemò gli occhiali sul naso.
-Vathy, capoluogo dell’isola di Itaca- la donna
sfiorò uno dei segnacoli luminosi ed esso emerse direttamente dalla mappa, creando
in una visione tridimensionale della zona –Cuma, in Campania- altra
riproduzione in elevato –Dion, in Grecia. Rispettivamente i luoghi in cui dovremmo trovare Odisseo, Enea e Orfeo-
-Non ne sembri molto sicura.
Bruce la guardò con un quieto sorriso da dietro le
lenti rettangolari e Natasha preferì non ribattere: diede invece una lunga,
pensosa occhiata alla cartina, chiedendosi ancora una volta per quale assurdo
motivo avesse accondisceso alla follia di Stark e si fosse proposta volontaria
per la missione.
-Neanche io lo sono.
Alzò gli occhi su di lui e Banner si schiarì la
voce, togliendosi gli occhiali e facendoli oscillare tra il pollice e l’indice
della mano destra.
-Non staremo inseguendo una chimera?-
-Hai sentito anche tu le parole di Thor: gli Dei
dell’Olimpo sono veri come veri sono gli abitanti di Asgard- replicò lei
passando il palmo sulla mappa e appiattendo Vathy, Cuma e Dion –Forse dobbiamo
solo abituarci all’idea-
-O forse dovremmo lasciar perdere. Stiamo parlando
di scendere nell’Ade, Natasha, di riportare in vita i morti.
Ancora una volta, l’Agente Romanoff si rifugiò nel
silenzio.
Avevano avuto a che fare con divinità in grado di
controllare il cuore di un uomo col solo ausilio di uno scettro, con portali ed
eserciti di mostri, Ponti dell’Arcobaleno e Distruttori –Clint aveva passato
ore a narrarle quella storia al limite dell’incredibile, gli occhi sbarrati e
le fiamme ad avvolgergli le iridi congelate dal panico.
E Bruce, poi…L’immagine di lui che si portava una
pistola alla bocca e sputava la pallottola perché l’Altro non era dell’idea di porre fine alla vita di entrambi, certo
non l’avrebbe lasciata sola tanto presto. L’Altro
che la inseguiva lungo l’intrico di tubature dell’Helicar non interrompeva
la sua corsa nemmeno nel sonno.
-Stark andrà ad Itaca per cercare Odisseo. Io e lei
partiremo subito dopo alla volta di Dion-Olympos: in caso non Orfeo non sia
lì, Tony è convinto che sarà lo stesso
Odisseo a darci informazioni in merito e allora agiremo di conseguenza.
“Salvo inconvenienti, il punto di ritrovo è a Cuma. Dopodomani.
***
L’Agente uscì con in mano un cartone del ristorante
giapponese.
Il vecchio Watanabe non era solito confezionare cibo
da asporto, ma c’erano situazioni e situazioni: quella, in particolare, aveva
un grado di urgenza tale che un po’ di sashimi e dei gamberi in pastella erano
un strappo alla regola sopportabile.
La notizia della morte di Capitan America gli era
arrivata mentre cercava di passare incolume tra due guardie del sovrano di
Wakanda e così, quando Fury lo aveva chiamato, sapeva già quale sarebbe stato
il suo destino. In Africa lasciava i propri sottoposti nelle ottime mani
dell’Agente Carter, perciò non era per loro che si preoccupava: ritornare a
Manhattan dopo un anno che ne era mancato
era un evento che non si sentiva pronto ad affrontare. Oltretutto, sapeva che
il Direttore aveva taciuto ogni cosa riguardo la propria, connivente “scappatella”, il che rendeva le cose ancora più
difficili.
Se la tragedia al Madison Square Garden non fosse
mai avvenuta, forse ci sarebbe stata la possibilità di avvicinarsi pian piano
al momento della riconciliazione, forse si sarebbe potuto sperare ad un ritorno
in grande stile che non presupponesse una più che mai meritata freccia
conficcata nella giugulare. Ma i “forse” allo S.H.I.E.L.D. non esistevano,
esistevano le missioni e gli ordini e le motivazioni
e i facilmente sacrificabili L.M.D.
L’aggiunta di un finto apparato sanguigno, dotato
di arterie, vene e capillari era stato un accorgimento per cui l’Agente non
avrebbe mai ringraziato Attis abbastanza.
L’unica cosa, non
diciamo sciocchezze, una delle tante cose per cui provava rancore e rimorso
era sapere che a livello puramente economico, la collezione aveva subito un
calo incredibile –E sì che aveva fin chiesto a Fury di non esagerare, ma
tant’è. Se si doveva essere credibili, bisognava esserlo fino in fondo, valore
affettivo e valore vintage non erano variabili contemplate nell’equazione.
Una disdetta, davvero.
Un taxi lo superò scatarrando e l’Agente alzò la
testa al tramonto che bagnava Manhattan: da qualche parte, sopra i tetti,
l’Helicar ronzava silenzioso e i mille occhi dello S.H.I.E.L.D. erano puntati
ognuno su un punto diverso del globo. Ma c’era un unico sguardo che gli interessava
davvero, e l’Agente si chiese per quale motivo stesse tardando tanto a
palesarsi.
Molto probabilmente stava ancora cercando di
digerire la notizia, oppure di calmarsi e non ficcare una cuspide esplosiva
nell’occhio ancora buono di Fury. L’ipotesi che non volesse più avere alcun
contatto con lui l’aveva scartata a priori, non tanto per orgoglio o
supponenza, piuttosto perché conosceva bene il carattere dell’altro e ancora
meglio la sua testardaggine: in anni di missioni insieme aveva imparato su di
lui molto più della posizione preferita per riposare o il motivetto mormorato a
mezza bocca mentre puliva gli inserti dell’arco.
Il pigolio del telefono cellulare fu un’ulteriore
conferma e una sorta di piccola vittoria.
-Mi hanno detto che lavoreremo di nuovo insieme, signore- la voce dell’Agente Barton
fremeva di rabbia e più tentava di mantenerla sotto controllo, più l’ira
pizzicava ogni singola sillaba –Sarà l’occasione perfetta per parlare di alcune
questioni lasciate in sospeso un anno fa, non crede?
Phil Coulson sorrise.
Cor
Mortem Ducens
#03. Il Sakè del Tanuki
Note
-
Lo S.W.O.R.D. (Sentient World Observation and Response Department)
è l’agenzia di intelligence il cui scopo è affrontare le minacce
extraterrestri in funzione della sicurezza mondiale. A tenerne le fila è
l’Agente Abigail Brand.
-
Mace Windu: riferimento al
ruolo interpretato da Samuel L. Jackson nella trilogia recente di Star Wars.
-
Il fatto che il Dipartimento L.M.D. (Life
Model Decoy) si trovi nei sotterranei di un ristorante giapponese
è una doppia citazione: a Captain America – Il Primo Vendicatore (dove
il laboratorio in cui Steve si sottopone all’esperimento del Supersoldato si
trova in un negozio di antiquariato) e allo S.H.I.E.L.D. vero e proprio,
la cui entrata (nel Comicverse o comunque come si vede in The Avengers:
Earth’s Mightiest Heroes ) è camuffata
per sembrare la semplice bottega di un barbiere.
-
Il Tanuki sono creature della mitologia
giapponese, maestri del travestimento e mutaforma. Che simbolo migliore per il
Dipartimento L.M.D.? ;D (Ho creato lo Aritomo Watanabe, col suo crogiuolo
eclettico e indefinito, perché ricordasse in tutto e per tutto un Tanuki
E’
pazza. Spero di esserci riuscita!)
-
Ulysses Klaw – T’Chaka: riferimenti al personaggio di T’Challa, alias Pantera Nera.
Wakanda è l’immaginaria
regione dell’Africa Settentrionale in cui si estrae e si lavora il vibranio; Latveria è lo Stato su cui il Dottor Destino governa quale monarca.
- “Vedo quel che è reale e quello che non lo è”,
Clint Barton Ultimate.
-
L’Agente Leland è ormai comparsa in più
di una mia storia ed è l’Agente della sezione di Sostegno/Supporto dello
S.H.I.E.L.D. che si occupa del recupero psicologico di Steve Rogers. L’Agente Elric, l’Agente Rough Stone e l’Agente Formigine sono invece una
piccola citazione a delle splendide signorine con cui si ruola allegramente su
Faccialibro.
Joan
Lee,
invece, è il nome della moglie di Stan
Lee.
-
L’Agente Salmace Attis è un OC che è nato
da solo mentre stavo scrivendo questo capitolo
E io la amo profondamente.
MtF, il nome Stéphanos deriva dal sostantivo greco stéphanos, 'corona', che per la sua forma circolare aveva il
significato religioso di perfezione
della natura divina. Nell'antica Grecia lo stephanéforos, 'colui che porta la corona', era il sacerdote
intermediario tra gli uomini e gli dei, addetto al culto delle divinità e
'portatore di regalità'. (Da QUI), Agdistis è il nome di un ermafrodito
della mitologia greca.
Salmace
è
il nome della ninfa che rifiutò l’obbligo di verginità impostole da Diana per
unirsi al dio Ermafrodito (Da QUI), Attis
è il giovane che, preso dall’euforia, si evirò per partecipare al culto
della Gran Madre Cibele (Catullo,
Carme 63. Ad esso fa riferimento anche la figura del leone, che Cibele ha
mandato contro Attis quando questi, risvegliatosi dall’estasi, ha reso palese
il proprio pentimento per l’essersi evirato)
Note
di Fine Capitolo
E’ tornato, è tornato!! *La
sedano* Orbene, questo capitolo non riuscivo proprio a scriverlo. E infattiè
uscito fuori di nove pagine FUUUUUUUUUUUUUUUUUUU. D’AAAAACCCCOOOOOORDO.
Ormai non mi stupisco nemmeno più. Liberatevi di me, prima che sia troppo
tardi.
…
…
…
PERO’ E’ TORNATO, E’ TORNATO! E’
TORNATO! Va bene la smetto
L’ipotesi di Tony sarà giusta o c’è
qualcosa di ben più losco sotto? MUWAHAHAHAHAHA A voi l’ardua sentenza e
i lambiccamenti mentali! *Si sente una brutta persona*
Ho lasciato qua e là citazioni varie
e variegate perché sono una persona orribile, tipo a Civil War, vecchi
titoli, citazioni ad altri film di Iron Man (come la citazione di Natasha, a
sua volta da una sententia di
Seneca), etc etc.
Con questo capitolo si conclude la
parte introduttiva della storia: dal prossimo si viaggia, gente!
Ringrazio quella mia santa moglissima
(?) della Alley e Hikari_ (Grazie per avermi fatto notare
l’errore dei puntini! Maledetti stronzi affarini, spero che questa volta
non me ne sia sfuggito nessuno!) per aver recensito!
Ringrazio inoltre Shi_Tsu_Geass per averla inserita tra
le preferite e Black Air e Sharel per
averla messa tra le seguite!
Alla prossima!
|
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Capitolo 5 *** #04. Lo Zoppo Che Molto Si Volge ***
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.: *** :.
Fu allora che Steve aprì gli occhi.
Si rialzò di scatto e ricadde all’indietro,
scoprendo con sommo stupore di essere già in piedi. Gli occhi guizzarono da una
parte all’altra e l’istinto del soldato prese il sopravvento sui tentacoli di
panico che minacciavano di arroventargli lo stomaco. Per prima cosa, capire
dove fosse finito. Quindi elaborare una strategia basandosi sull’ambiente
circostante –Luoghi sopraelevati per una visione d’insieme, postazioni riparate
dove nascondersi in caso di pericolo, indizi che lo aiutassero a costruire una
mappa mentale, anche incompleta, anche grossolana, del posto.
Il fiato gli mancò nei polmoni.
Pur con l’esperienza accumulata durante la Guerra,
pur dopo essere rimasto intrappolato settant’anni dentro un blocco di ghiaccio,
pur avendo affrontato Loki e il suo esercito di Chitauri, il Capitano fu
costretto ad ammettere di non avere la benché minima idea di dove si trovasse,
né in che anno e soprattutto in che
mondo.
Davanti, attorno, sotto di lui un’uniformità tanto
grigia da sembrare solida: dava l’impressione di un cubo delimitato da spesse
pareti metalliche, ma appena Steve socchiudeva le palpebre alla ricerca di un
particolare in più, ecco che l’orizzonte si curvava
e il soffitto lo sormontava come una cupola o l’abside di una chiesa. Non
c’era nulla a sostenere la volta, non colonne o trabeazioni di alcun genere e
forse nemmeno si trattava di una vera e propria volta, forse neanche di un vero
e proprio soffitto. L’idea stessa di una delimitazione
era illogica, quando il pavimento, o il terreno o in qualunque modo lo si
volesse chiamare, si estendeva per miglia oltre lo sguardo e s’innalzava
improvvisamente, staccando dal grigiore opprimente una corona di merli e
cuspidi.
Un mondo di eterna fissità in continuo divenire.
Avanzare gli parve l’unica soluzione appetibile,
salvo poi accorgersi di come non fosse lui a muoversi, ma l’intorno a balzagli
addosso. D’un tratto non c’erano più né il sopra, né il sotto, nemmeno erano
mai esistiti se non come preconcetti della propria mente: destra, sinistra,
secondi e minuti, qualsiasi qualificazione e quantificazione si dimostrava vana
in un luogo che sembrava trascendere ogni tentativo di modellarla al volere
umano.
Camminò, camminò e camminò ancora. Grigio, sempre
grigio, solo grigio.
Steve aveva la nausea. O meglio, sapeva di dover provare un senso di
nausea. Anzi, sapeva di dover sentire e
basta.
Un tremito, una lieve vertigine, un cerchio alla
testa…Nulla. Cominciava persino a non avere più una percezione completa di sè,
doveva concentrarsi per ricordare di possedere muscoli, nervi,
ossa e sangue. Doveva accorgersi di
esistere, il che non era normale: si esisteva e basta, di solito.
Il malore al Madison Square Garden era stato più
forte del previsto se l’aveva condotto ad un simile stato confusionale –Perché
altro non poteva essere, giusto?
Non che ricordasse con esattezza cosa fosse successo:
le immagini si liquefacevano e scolorivano, diventavano grigie, piatte, si
confondevano l’un l’altra, perdevano la voce, non avevano odori, nessun confine
temporale. Per un attimo aveva sin pensato che a spedirlo in quel luogo fosse
stato Loki, ma la minaccia di Loki risaliva ad un anno prima ed era impossibile
che il Dio fosse presente allo spettacolo.
Confusione, spaesamento, probabili allucinazioni…Forse
era sotto anestesia o forse avevano dovuto riempirlo di una dose più che
massiccia di antidolorifici per scavalcare gli effetti del Siero. No, era un’opzione
da scartare a priori: antidolorifici e anestesia con lui non funzionavano, non
importavano i cc iniettati.
Una volta un membro dell’A.I.M. gli aveva piantato
una pallottola nello stomaco e Tony aveva dovuto operarlo da cosciente; i ferri
di J.A.R.V.I.S. dentro la carne non erano stati piacevoli e non si era morso la
lingua solo grazie al tubo che Stark gli aveva piazzato malamente tra le
mandibole.
Se era stato Tony ad operarlo,
adesso ne stava dubitando.
Forse si era sbagliato e il proiettile lo aveva
estratto un normale chirurgo. Però ricordava gli occhi del figlio di Howard: il
terrore, l’angoscia, il sollievo, ma aveva mai indossato un camicie verde? E un
membro dell’A.I.M. gli aveva mai davvero sparato o stava solo sovrapponendo
alla memoria un episodio di C.S.I.?
Si portò una mano alla fronte, o almeno ebbe
l’impressione di averlo fatto, perché sotto le dita non avvertì nulla, neanche
la consistenza delle dita, né delle falangi, delle nocche e del polso, non
avvertiva la consistenza di alcuna parte del corpo. Fu sul punto di trattenere
il fiato, ma si accorse con orrore di non saper più come fare.
«E’ destabilizzante la prima volta che si arriva, lo
so. Non ti preoccupare, ti ci abituerai presto»
La voce era rimbalzata da una parete all’altra,
tracciando unghiate fumose su quello che il Capitano aveva arbitrariamente
deciso di considerare “intonaco”; crepe e polvere insozzarono il terreno e s’accumularono
un po’ ovunque, agglomerati nerastri come orbite d’un teschio brillarono livide
un istante e l’attimo dopo erano già sparite, inghiottite da un borbottio
informe.
«Dove sono?» Steve la domanda l’aveva solo pensata,
ma le parole gli colarono lo stesso dalle labbra e da lì penzolarono indecise
prima di prendere una forma effettiva, pallide viscere tra sterpaglie
purulente. Si girò, ma si accorse che il Grigio aveva di nuovo voltato la
faccia per lui.
«Sei tornato a casa: sei mancato più a lungo di
quanto ti fosse lecito»
Il mantello svolazzò bianco sulle spalle e le ali
che cingevano le tempie ebbero un fremito, causando un bagliore biondo sui
capelli trattenuti dalla fascia scarlatta.
Il Capitano non aveva mai visto un Dio Greco, ma la
figura che gli stava davanti aveva troppe rassomiglianze con le statue dei volumi
d’arte della New York Public Library, perché le potesse ignorare
deliberatamente.
Non c’era luce in quel luogo, ma Steve colse
comunque il barbaglio bronzeo dei bracciali, la fibula rossa che tracciava
linee d’ombra sul torace scoperto, mentre il gonnellino purpureo si piegava
indolente contro le cosce, la cintura d’argento e l’orlo candido che
palpitavano ad ogni passo dei sandali alati.
Capitan America fece il gesto di prendere lo scudo
dalle cinghie che lo trattenevano alla schiena, ma non c’era più uno scudo cui
aggrapparsi e non c’era nemmeno una
schiena.
«Perdona il ritardo, mortale, ma nemmeno un Dio si
negherebbe al desiderio di Venere. Io sono Ermete il Messaggero, figlio di
Giove, Padre degli Olimpici»
Ermete tracciò una linea dritta con l’indice ed il
medio tesi, lasciando un solco nero nello spazio: dai bordi slabbrati si
srotolarono due serpenti che, sibilando, strisciarono e s’avvoltolarono attorno
a quello che era divenuto un bastone vero e proprio, cesellato come il guscio
di una tartaruga.
«Sono qui per te, Steven Rogers…» continuò,
afferrando il caduceo. Lo osservò per lunghi istanti, quindi drizzò gli occhi
verso di lui e Steve percepì chiaramente il poco sangue che ancora aveva nelle
vene mutarsi in fumo.
Ma non ebbe paura.
Ogni terrore, ogni diffidenza e ogni dubbio si erano
ritratti, rimpiccioliti fino a svanire: provava solo una gran spossatezza nel
corpo, una quieta leggerezza nell’animo. Non sapeva se fosse sogno o meno
l’uomo che aveva dinanzi, ma ne accettò la
venuta, come un amico perso da lungo tempo, da tarda memoria atteso.
In qualunque luogo si trovasse, in qualunque tempo,
sentiva che era giusto: doveva essere
lì e da nessun’altra parte.
Ermete annuì, quasi avesse scorto i suoi pensieri,
quindi girò il caduceo tra le dita e lo conficcò a terra con un lampo: s’udì
attraverso il grigiore dell’etere un canto come di gallo e l’ambiente tremolò e
si svegliò con esso. Un vibrare convulso di nebbia e poi lo scoppio.
Si dileguò il grigio in gemiti silenziosi, colò il
non-essere dalle pareti curve e dai merli e dalle cuspidi, si sbriciolò
l’abside, crollò la volta; spuntoni di roccia emersero affilati agli angoli
della vista, speroni e denti lividi squarciarono la terra, pigolii di pietrisco
tintinnarono l’un con l’altro nel depositarsi a disegnare uno stretto sentieri.
Un ventre cavo nella pietra, caverna colma solo del costante filare di fuso,
miasmi dall’imboccatura oltre le spalle di Ermete, un ingoiatoio ribollente che
scendeva ed affondava, là, ben oltre l’umano.
Steve chiuse gli occhi e quando li riaprì si vide
circondato di teschi candidi, tutti uguali, nessuno diverso: costeggiavano la
via, non avevano espressione, guardavano fissi e tacevano. In un lontano non
collocabile, il suono di uno scafo che fende l’acqua, spumeggiare di onde, le
nenia di un fiume.
Il Dio Messaggero si affiancò al Capitano e gli mise
una mano sulla spalla. Col caduceo indicò l’entrata nera e fuligginosa.
«…Sono qui, per condurti alla Dimora dell’Ade»
***
Jane avrebbe amato Asgard.
Le alte colonne del Palazzo, lame d’oro a sbalzo
contro l’azzurro del cielo infinito, il mare dalle onde di nembi candidi e
scintillanti tempeste di spuma, le rocche e le dimore dei guerrieri, gli archi
bronzei sotto cui sostavano giovani e fanciulle, le risa che s’innalzavano in
un tripudio di canti attraverso la maestosa Galleria delle Statue! I suoi dolci
occhi si sarebbero abbeverati allo splendore di sguardi antichi quanto il
mondo, l’udito colmo di voci di Dei e di Spiriti, di Vento e di Sole, la snella
figura vestita di tessuti mai visti, impalpabili al tatto come brezza.
Thor diede di speroni e il sauro piegò il collo
possente, la criniera un riflesso candido tra le dita.
L’avrebbe portata con sé, un giorno. Frigga avrebbe
sorriso e le avrebbe teso una mano prima di posarle sulla fronte una corona di
gemme e foglie d’argento; Lady Sif le avrebbe donato un cinturone da
allacciarsi alla vita durante le cavalcate lungo il filo scarlatto del tramonto,
una giubba di cuoio per stringersi al freddo della caccia, schinieri e
spallacci di metallo smaltato per difendersi in un assalto d’allenamento -Perché,
Thor ne era sicuro, Sif avrebbe amato Jane come una sorella, le avrebbe
insegnato l’arte della spada, la danza dell’affondo e la preghiera del metallo-;
Hogun le avrebbe concesso le sue poche, ma rare e preziose parole,
l’espressione cupa un lontano ricordo al bagliore stellato degli occhi di lei;
Fandral avrebbe zittito con la spada chiunque avesse insinuato qualcosa sul suo
sangue mortale, e Volstagg l’avrebbe fatta sedere accanto a sé alla mensa di
Odino, le avrebbe offerto idromele e cinghiale salato, onorato i suoi avi con
larghe sorsate da un boccale intarsiato.
E Jane sarebbe stata sua fino ai giorni del Ragnarök
ed anche oltre, perché senza di lei non avrebbe saputo immaginare nemmeno la
Fine di Tutto. Vita o morte, le sarebbe stato accanto, sotto le volte del
Palazzo o al riverbero degli scudi del Valhalla.
Ma i tempi non erano maturi, altre faccende
richiedevano di essere risolte.
Thor aumentò l’andatura, gli zoccoli del cavallo che
schioccavano veloci contro il sentiero opalescente che una volta era stato
l’unica via per il Bifrost: il ponte dell’Arcobaleno ancora non era stato
ricostruito, ma Heimdall continuava la sua veglia e certo aveva visto il suo
arrivo prima di chiunque altro. Il
figlio di Odino si ripromise di andare a porgergli il proprio saluto non appena
avesse discusso col Padre degli Dei e il Signore degli Olimpici.
Il corvo messaggero che lo aveva preceduto
attraverso l’etere era scomparso e Thor corrugò la fronte. La perplessità
divenne maggiore quando, arrivato alle scuderie antistanti il Palazzo, non
trovò nessuno ad accoglierlo: i giardini erano vuoti, le acque silenziose,
nessuna guardia od ancella alcuna. Il Dio smontò da cavallo e l’animale ebbe un
moto di spavento, nitrì e recalcitrò fino a che il figlio di Odino non riuscì a
calmarlo con una carezza e qualche sussurro; un brivido gli colò freddo per la
colonna vertebrale, un rivolo di vento sogghignò tra gli stendardi color
bronzo.
«Allora è vero…» sussurrò penosa una voce tra i rami
scheletrici «Sei tornato ad Asgard»
Thor si girò di scatto e per un unico, folle attimo
scambiò l’ombra sottile che scivolava verso di lui per la figura di Loki. Ma
non fu l’amato fratello ad avvicinarsi, bensì una donna dal volto addolorato, i
capelli biondi lasciati cadere sulle spalle, vestita di verde dal busto alla
gonna a lamelle, dai bracciali che la coprivano sino al gomito alla tiara a
guisa d’aquila che teneva alte le ciocche e le incorniciava le tempie.
«Incantatrice» esalò il figlio di Odino, stupito e
finanche confuso «Amora!»
Lei gli fu accanto con pochi, aggraziati passi e
solo allora Thor s’accorse del corvo stretto tra le unghie scarlatte. Il Dio
corrugò la fronte e schiuse le labbra a domandarle il perché di un tale gesto;
Amora serrò nervosamente la presa: l’uccello gracchiò tra le sue dita, tentò di
liberarsi, sbatté le ali, roteò singhiozzando gli occhi impazziti.
«Non saresti dovuto venire, Thor, figlio di Odino»
rispose l’Incantatrice, con voce rotta «Allora è vero, è vero! Non facezie di
ancelle e serve! Thor, mio amato, ti prego! Ascolta la mia preghiera, torna a
Midgard!»
Il Dio socchiuse gli occhi, diffidando del suo tono
tanto appassionato.
«Cosa è vero? Cosa sai? Perché dovrei tornare
indietro?»
«So tutto, figlio di Odino. So del guerriero tuo
amico, del suo coraggio e della lealtà nei tuoi confronti. So quanto tenevi a
lui e quanto la sua morte t’abbia arrecato dolore. So che sei venuto qui per
chiedere udienza al Padre degli Dei, ma so anche del tuo duplice scopo: il
guerriero e Loki, il fratello che ti
è ancora così caro»
«Le mie azioni sono dunque tanto prevedibili?» Thor
si permise di atteggiare il volto ad un sorriso sardonico e Amora scosse il
capo, un bagliore disperato a tingerle l’iride.
«Il tuo cuore
lo è, amore mio. Per questo ti dico: torna a Midgard. Ora, prima che sia troppo tardi»
«Troppo tardi per cosa…?»
La donna si umettò le belle labbra e alzò gli occhi
tristi.
«Dacché ad Asgard si è diffusa la notizia della tua
perdita, ho scrutato il cielo in attesa di questo messaggio» sollevò appena il
corvo e l’animale provò un ultimo, disperato tentativo di levarsi in volo
«Sapevo che saresti tornato, lo sapevamo tutti: così ho atteso. Per fermarti,
amore mio, per salvarti in nome dell’affetto che provo per te…»
«Amora…» Thor cercò di dire qualcosa, ma
l’Incantatrice lo fermò con un’occhiata gelida, d’improvviso furiosa.
«Lo so. La mortale»
sputò quel nome come fosse il più terribile dei veleni «La midgardiana che ti
ha rubato il cuore, come dimenticare? Ma come non si può impedire all’acqua di
scorrere, nemmeno Padre Odino potrebbe impedirmi di amarti. Dunque fa’ silenzio
e prendi di coscienza di quanto sia disperato il mio sentimento per te, se sono
giunta a contrastare persino il Signore di Asgard» assottigliò lo sguardo, la
voce ridotta ad un sussurro «La perdita di Loki lo ha sconvolto nel profondo,
la sua mente ne è stata intaccata e ora è cieco anche nell’animo: ha contato i
giorni della sua pena lacrima dopo lacrima, gemito dopo gemito, e a nulla è
valso l’amore di tua Madre Frigga, non è rinsavito. Bada bene, ciò che ti dico
si mormora appena nelle stanze del Palazzo, è proibito parlarne, e se io sono
qui a riferirtelo è grazie all’amicizia che ancora lega Lady Sif e i Tre
Guerrieri alla tua persona»
Thor era confuso.
Non aveva avuto sentore di tutto quello, il quadro
che Amora stava dipingendo per lui mai gli era apparso alla vista: non era così
stolto ed insensibile da pensare che Padre non avrebbe sofferto alla perdita di
Loki, ma un simile regime di silenzio e paura, di intrighi, sembravano voler
dire le parole non pronunciate, quando…? Quando Asgard era diventata un’alcova
di timore e terrore?
«Non capisco»
L’Incantatrice gli fece
cenno di avvicinarsi, quindi continuò.
«Mentre discorriamo, i
tuoi compagni stanno volgendo altrove l’attenzione di Odino. Tuo Padre sapeva
che saresti venuto qui non appena il soffio della vita avesse lasciato il petto
del guerriero, sapeva che avresti ricollegato a lui la morte del tuo…»
Il Dio levò un braccio, inorridito, il cuore fattosi
muto e il respiro marcio dentro i polmoni.
«No! E’ dunque vero? Padre ha…?»
«Ordinato la morte del tuo compagno?» concluse la
donna «Esattamente. Il Padre degli Olimpici ha interferito una volta di troppo
negli affari di Asgard e Odino, offuscato dalla rabbia e dalla perdita, ha
deciso di portar via loro quanto è di più caro a Giove, così come Giove gli ha
portato via il figlio ed il senno. Ma per impedire un tuo intervento che
ripristini l’Equilibrio che egli ha volutamente infranto quale sorta di
rappresaglia, Odino ha ordinato la tua cattura»
«Non mentire, Incantatrice!» tuonò Thor e Mjolnir
comparve con un crepitare di fulmini nella sua mano «Già una volta mi è fatto
stato credere il falso sulle decisioni del Padre degli Dei! Non accadrà ancora!»
Lo sguardo di Amora divenne affilato, le labbra si
sollevarono a snudare i denti, le nocche sbiancarono contro le piume nere del
corvo.
«Io non sono tuo fratello, Thor, non sono qui per ingannarti!
Sono qui per aiutarti!»
«E come mai potresti fare, strega?» ringhiò e il
Martello fremeva bollente tra le dita.
«Conducendoti dall’unica Divinità che potrebbe
davvero darti udienza e ascolto. Fidati di me, Thor, amore mio, giacché non
potrei in alcun modo ingannarti: non devi cercare l’aiuto del Padre, né quello
di Giove –A meno che non sia tuo desiderio una nuova guerra tra Regni a parole legati
da eterna alleanza»
Il figlio di Odino non rispose, il ricordo di
Jotunheim –E di ciò che ne era seguito- una ferita ancora fresca nonostante il
tempo e l’amore di Jane.
«E’ al cospetto del Signore degli Inferi che ti devi
genuflettere, l’Ade è la meta che cerchi, l’ombra il sentiero che ti condurrà
lì»
«Dimentichi che le porte del Regno Olimpico sono
sotto lo stretto controllo di mio Padre, Incantatrice: due sole le guardie,
mille occhi ed altrettante voci»
Un ghigno sibillino arcuò la bocca della donna e le
unghie affondarono con un lampo rosso nel cuore piumato e ancora palpitante del
corvo.
«E tu dimentichi, oh mio Principe, che molti sono i
sentieri che conducono fuori da Asgard. E chi meglio dell’allieva di Karnilla,
Regina delle Norne, potrebbe mai conoscere gli ingressi funebri celati finanche
al Padre degli Dei?»
***
La vecchia allargò la bocca, in modo dargli una
chiara visione delle tonsille oltre la fila di denti mancanti.
…Affascinante ribrezzo.
«No, signora, non ha capito» Tony fece per metterle
le mani sulle spalle, ma ci ripensò quando vide un batuffolo di polvere
salutarlo con un tentacolo unticcio «Le sono grato per avermi dato la
possibilità di osservare da vicino le condizioni in cui versa la sua gola dopo
svariati attacchi di reflusso laringo faringeo, ma non sono un dottore. Sono un
genio e conosco un dottore: non è un
medico a tutti gli effetti, ma se la cava piuttosto bene quando si tratta di
risistemarti le costole in un seguito all’abbraccio particolarmente affettuoso di un conglomerato rabbioso di raggi
gamma, ma---No, signora, molto gentile, non voglio il pesce, io vorrei---»
Nulla da fare. La vecchina col fazzoletto in testa
ciancicò qualche parola in greco tra i moncherini gengivali e gli piazzò una
cesta di vimini sotto il naso; Stark ritrasse la testa all’indietro, schifato
dal lezzo che mandava quel residuato branchiato del Mesozoico –Il pesce, eh,
non la vecchia.
«Lasci perdere, guardi. Molto gentile ancora»
Tony sventolò una mano nella direzione dell’affabile
anziana ed esalò un sospiro frustato. Scese per la viuzza lastricata che si
gettava a capofitto verso il porto, il sole pomeridiano che tagliava di
traverso i tetti rossi delle case.
A Vathy le persone erano gentili, non lo negava, peccato
che non capissero nulla di americano o, quando fingevano di capirlo, non gli davano alcuna informazione utile. Era
stato mandato, nell’ordine: in una libreria, in una biblioteca sgangherata, in
un negozio di tatuaggi e a…In un altro posto. Gli abitanti erano affabili, per
carità, ogni tanto gli offrivano anche della feta o del latte di capra, e il
posto di per sè era parecchio tranquillo, bello, decisamente non lo si poteva
escludere da un itinerario vacanziero. Ma era da quella mattina che girava in
lungo e in largo il paese senza trovare traccia alcuna della presenza di
Odisseo.
E Odisseo era
lì, Thor l’aveva giurato e spergiurato mille volte sulla memoria di qualche
avo defunto. E poi c’erano i resoconti congiunti di S.H.I.E.L.D. e S.W.O.R.D.:
basandosi su una traccia biologica non meglio definita -Ma su cui Tony avrebbe
speso ben più di una notte, conclusa la faccenda della Catabasi- emessa proprio
del Dio Norreno, le teste d’uovo delle due organizzazioni erano risaliti ad una
seconda traccia, accostabile alla sua
e del tutto differente da quella di un qualsiasi essere umano.
Il che era in qualche modo rassicurante.
Preparandosi psicologicamente ad un nuovo tour per i
vicoli, Tony sistemò gli occhiali da sole ed il cappellino con visiera –Odiava dover indossare abiti dismessi
per confondersi tra i turisti, ma in quel caso preferiva evitare di essere
fermato da qualcuno che voleva una foto con lui o proporgli il progetto per un
rivoluzionario tostapane a fissione nucleare.
Anche se forse un’eccezione per la biondina in
shorts alla bancarella dei souvenir poteva anche farla.
«Allora? Chi cerchi?»
Oh, dannazione. No. Non ancora lui.
Iron Man roteò gli occhi al cielo e fu solo grazie
alla propria coscienza –Che aveva l’inquietante tono di voce di J.A.R.V.I.S.-
che decise di non ricorrere all’armatura, trasformata per l’occasione in una
valigia rosso e oro, sul modello usato a Monaco.
Bei tempi, quelli.
Tranne per Vanko, ovvio. E il palladio, non
dimentichiamoci del palladio. Brutta questione. I cruciverba non gli erano mai
stati simpatici, i tatuaggi pure, figurarsi ritrovarsi entrambi a stampo sulla
pelle.
Una vera tragedia.
«Allora? Chi cerchi?»
Da quando era arrivato sull’isola quel mendicante
mezzo zoppo non aveva smesso un istante di dargli la caccia e la cosa iniziava
ad infastidirlo parecchio. Non lo aveva abbandonato un minuto, era come
un’ombra: lo aveva seguito al porto e tra le barche, alla biblioteca e alla
libreria, e ogni volta che Stark si fermava a riprendere fiato, ecco che lo
assillava con probabilmente l’unica frase che sapeva pronunciare in inglese.
«Allora? Chi cerchi?»
«Senti, non ho spiccioli con me, per cui…sciò. Via.
Va’ dove vuoi, tranne in un bar: conciato come sei protesti bere l’intera
cantina e io avrò bisogno di rimpinguare la mia scorta personale di alcool in
un lasso di tempo variabile dai cinque minuti alle sei ore e mezza»
Il mendico piegò la testa sulla spalla, il naso
adunco incrostato di salsedine.
Un istante di silenzio e poi…
«Allora? Chi cerchi?»
Sembrava un disco rotto e Tony provava un
particolare piacere nell’immaginare quella sua linguaccia pallida staccata di
netto dal fedele Ferrovecchio –Anche se Ferrovecchio era un pezzo di ferraglia
inutile, quindi sarebbe stata più plausibile una scena in cui il braccio
meccanico agitava un po’ ovunque un estintore debitamente carico. Se il suddetto estintore fosse finito
sulla testa del mendico, allora
poteva anche aggiungere una stellina d’oro sulla graduatoria dell’utilità di
Ferrovecchio. Graduatoria che versava ancora in uno stato imbarazzante e
desolato e soprattutto vuoto.
«Allora? Chi cerchi?»
«Odisseo, il leggendario Re di Itaca, va bene?»
Non era così folle da credere che il cencioso
stalker sapesse qualcosa a riguardo, ma a parte un raggio fotonico in pieno
petto non gli veniva in mente altra soluzione per toglierselo dai piedi.
«Mh» il mendicante prolungò il suono tra le labbra
pressate, le nocche nodose schiacciate sul cappellaccio conico. Strizzò le
palpebre rugose e l’Mh che ancora gli
risuonava dentro la gola prese a fargli tremolare le pieghe di carne molliccia
sotto il mento.
Uno spettacolo che aspettava solo di essere
cancellato con un sorso di buon whiskey.
«No! Odisseo, no!» saltò su, gli stracci che
sbuffavano sulle braccia magre e le spalle –Stranamente ampie per uno
scricciolo del genere- curve in avanti «Nessuno, sì! Nessuno»
Tony si massaggiò le tempie con le dita, quindi si
girò di nuovo verso la vecchietta.
«Signora, è ancora valida l’offerta del pesce?»
***
Un ruggito di fiamme ed un’altra anima tremula
osservò sparuta le grandi spalle d’Eaco.
Il Giudice guardò dapprima Minosse, quindi Radamanto
e insieme annuirono: un vento di cenere si levò dal nulla e mugghiò e nitrì e
l’anima, terrorizzata oltre ogni limite, cadde in ginocchio e pregò e gemette.
Radamanto non si fece intenerire e afferratolo per la collottola come si
farebbe con la più bieca delle bestie, lo trascinò con sé verso il gorgo
profondo del Tartaro. Urla di sadico giubilo dai Titani, gracchiare di catene,
sghignazzanti effluvi mefitici, e del defunto, poi, più nulla.
Il Dio storse la bocca dall’alto dello scranno nero,
il disgusto palese negli occhi e nel volto; la Regina Persefone pressò tra loro
le labbra truccate di carminio, gli occhi d’ossidiana sputarono lampi di
indignazione: scosse la testa con fare altero e a quel gesto le lunghe trecce
tintinnarono di mille ninnoli sulle spalle e contro il seno. Il gallo ai suoi
piedi le becchettò stizzito una cinghia dei sandali ed ella subito lo allontanò
con gesto deciso, il lembo della veste che frusciava sibillino sulla cista.
«Ancora mi chiedo per quale motivo mai Giove, Padre
degli Olimpici, abbia accettato un simile compromesso, per quale motivo mai
abbia arrecato al nostro popolo una tale vergogna» sibilò, stringendo con forza
le dita inanellate «Mio marito era il Signore dell’Ade, tu non sei altro che…»
«Taci!» l’ammonì il Dio, gli occhi socchiusi e la
mascella serrata. Le puntò un dito contro, il collare a mezzaluna sul torace
ebbe un guizzo «Tu non sai nulla, mia signora, del destino che mi era stato
riservato! Pensi che sia felice di trovarmi qui? Tra le cenere e le anime
perdute?»
Persefone dilatò le narici, irritata.
«Perché mai dovrei crederlo, giacché non passa un
solo istante senza che le tue azioni me lo ricordino?»
La divinità masticò un’invettiva diretta alla donna
e piegò il gomito sul bracciolo destro dello scranno. Le dita affusolate
corsero a torturare il labbro inferiore, mentre la mano sinistra stringeva e
torceva la presa attorno allo scettro. Era quello l’unico oggetto di Plutone
che aveva tenuto per sé, rifiutando la patera ed il groviglio di serpenti ai
piedi.
Tale scelta, la prima volta che s’era assiso sul
trono dei Morti, aveva provocato un tale sconvolgimento nella gemmea Persefone
che le spighe di grano intrecciate ai capelli erano appassite e torte, imbevute
di nero mortale; s’era levata in piedi e per l’ira furibonda che la pervadeva
aveva gettato nella pietraia il calato ed il grano, le unghie affondate con
tanta ferocia nel melograno, che il frutto s’era raggrinzito in un sibilo di
succo acidulo.
“Non puoi
rinunciare alle insegne del tuo potere!” aveva strillato, le guance
scarlatte e gonfie e gli occhi globosi che donavano al suo volto un tocco ben
poco divino e ben poco piacente “E’
grazie ad esse che i mortali ci riconoscono per chi siamo!”
Sciocchezze! Idiozie! Avrebbe voluto gridarle e
colpirla al viso e vederla in ginocchio a chiedere perdono, invocare querula la
grazia. E i mortali avrebbero dovuto riconoscerlo unicamente per via d’una
scodella od un intrico di serpi? Ah! Quale bestemmia in un luogo che Persefone
giudicava tanto sacro! I mortali dovevano riconoscerlo per il timore che egli
incuteva nei loro cuori, riconoscerlo come signore legittimo delle loro
miserevoli esistenze!
Patere e serpenti, ah!
Il Dio emise un verso derisorio e non si fece
scrupolo o remora ad indirizzare il proprio sguardo in quello di Persefone; la
Regina deglutì a fatica e a fatica parve ricordarsi di quale fosse il ruolo
impostole. Non disse più nulla e fissò gli occhi bagnati di rugiada e rabbia
dinanzi a sé, al rigurgito di fiamme che annunciava la venuta di un nuovo
defunto.
Per quanto gli costasse ammetterlo, però, la
presenza della sposa di Ade al proprio fianco era un passatempo forzato, ma
necessario: tre mesi era rimasta assente, perché scesa tra i mortali a donar
loro la vigoria della primavera, e in quel lasso di tempo, il Dio non aveva
avuto nessuno con cui conversare. Non coi tre Giudici, che poco avevano da dire
nella loro lingua rozza e gracchiante, troppo impegnati ad accogliere,
confabulare e decretare il Destino dei morti, troppo presi dal loro compito e dall’astio
che provavano nei suoi confronti per intrattenersi a discorrere. Con chi altri,
poi? I servi muti che preparavano un banchetto di leziose leccornie? Con lo
sbavante segugio a tre teste?
Silenzio e defunti, defunti e silenzio, punizione
peggiore non poteva esistere. Ma non aveva mai avuto in animo la
predisposizione al compatirsi: nell’assenza di qualunque verbo, era stata la
propria voce a riverberare senza freno e nell’intrico di pensieri aveva infine
scorto il lume della vendetta.
«Mio marito non avrebbe mai permesso che una barbara s’accostasse alla nostra mensa»
soffiò Persefone e il Dio sollevò il capo, un sorriso di perfida letizia ad
arcuare le labbra seriche: la donna venne avanti, vestita di verde, la fronte
cinta da una tiara di smeraldo, i capelli sciolti in morbide onde sulle spalle
scoperte.
«Mio signore» cominciò, un ghigno compiaciuto a
brillarle negli occhi ferini «E’ arrivato,
proprio come avevi previsto»
«Una notizia che riempie il mio cuore di gioia!»
esclamò lui, voltandosi in direzione della Regina; questa teneva la mascella
contratta, piccoli semi di grano le cadevano tra le pieghe della veste «Per
quale motivo mai questo livore nei miei confronti, Signora dei Defunti?»
un’espressione beffarda, le palpebre socchiuse «Siete forse restia all’inganno? Ma non è proprio per mezzo
di esso che vostro marito v’ha preso?» una risata gelida gli sgorgò dalle
labbra e Persefone s’irrigidì, lo sguardo colmo di disprezzo.
Il Dio mosse la mano in un gesto vago, come a
disfarsi di un insetto fastidioso; quando si concentrò di nuovo sulla donna,
ogni traccia di divertimento era sparita dal suo viso: i tratti erano duri, la
bocca una linea nera arroccata sulla mandibola illividita dalla tensione.
«Va’, ora: porta l’ordine ai tuoi servi mortali. In
fondo, il ruolo di Messaggera abbiamo scoperto esserti piuttosto confacente»
Il fuoco di Radamanto si riflesse funereo negli
occhi ferini.
***
«Salve, sono l’Agente Coulson. C’è qualche
problema?»
A detta del fioraio portoricano, sì, c’era qualche problema. In primis le
spese di trasporto, a seguire il ritorno in negozio, assolutamente impensabile, di corona e cuscinetto funebre, senza
tenere conto dello stress cui le piante sarebbero state sottoposte a causa di
un ulteriore e non pianificato viaggio, con conseguente impossibilità di riuso
in altre occasioni del genere.
«Non sia mai che io stia augurando ad un povero
diavolo di tirare le cuoia, s’intende, ma deve pensare al compenso, ai soldi,
mi era stato chiesto esplicitamente---»
Phil alzò la mano e sorrise, calmo e cordiale come
aveva imparato ad essere dopo anni di addestramento sul campo. Non si diventava
Agenti S.H.I.E.L.D. unicamente grazie a mira, capacità diplomatiche o amene velleità
quali lo spezzare il collo di un uomo con l’unico ausilio della mano sinistra -Difficile,
dite voi? L’Agente Romanoff avrebbe qualcosa da ridire in proposito.
Ma comunque.
Essere Agenti S.H.I.E.L.D. significava possedere
nervi in grado di sopportare carichi di pressione inimmaginabili ed un certo
scompenso mentale che, nell’ottica dell’organizzazione, diventava normale e
assolutamente indispensabile equilibrio psico-fisico. La pazienza non era una
virtù, non era un dovere, era una missione
e non c’era nessuno che sapesse portarla a termine meglio di Phil Coulson.
«Comprendo la questione» annuì, aprì un lembo dalla
giacca e ne estrasse un rettangolino bianco e professionale. Sul biglietto da
visita un semplice numero di telefono. Sul volto di Phil il più intransigente
dei sorrisi «Chiami e un Agente si occuperà dell’indennizzo. La ringrazio per
il lavoro svolto, sono sicuro che il Capitano avrebbe apprezzato le sue
composizioni. Buona giornata»
Altra contrazione a livello della mandibola e
Coulson fece segno ad alcuni sottoposti di accompagnare il gentile signore al
camioncino dalla marmitta singhiozzante. Il portoricano guardò stralunato
dapprima il biglietto da visita, poi Phil, ma non ebbe il tempo di replicare
che già due Agenti si erano avvicinati per scortarlo al furgone.
Coulson resistette all’impulso di massaggiarsi le
tempie: dacché erano iniziati i lavori di allestimento della camera ardente
avevano dovuto rimandare indietro l’impresa di pompe funebri, due tipi del
Bronx presentatisi come “Arredatori” -Al che Phil Coulson aveva inarcato un
sopracciglio e portato una mano al taser con fare eloquente, perché, Fury o non
Fury, non avrebbe mai lasciato la preparazione della stanza e l’esposizione del
corpo di Steve Rogers a qualcuno che non fosse stato opportunamente schedato e
controllato almeno tre volte dai suoi
colleghi più fidati- e infine quattro fiorai diversi. Niente che non fosse
stato prima approvato dallo S.H.I.E.L.D. poteva entrare: la corona con nastro
da parte del Presidente era stato un caso a parte, per ovvi motivi –Sebbene
fosse stata studiata e praticamente sezionata fino all’ultimo pistillo perché
le venisse concordato il via libera.
L’Agente Attis gli aveva sorriso con un che di beffardo
negli occhi scuri e Phil aveva risposto con un fulmineo sguardo omicida.
Dannazione a lui e a quando le aveva permesso di assistere.
«Signore, il ragazzo è ancora lì»
«Mh?» Coulson aggrottò la fronte, sollevando il
mento a cercare il giovane Parker: era lì da quella mattina, niente macchina
fotografica, niente fiori, niente se non l’espressione desolata nella più
completa solitudine. Non si era mosso, non si era allontanato, non si era
spostato: ritto accanto all’entrata della Tower, aspettava nel trambusto e nel
via vai degli Agenti S.H.I.E.L.D., ogni tanto telefonava, rassicurava la zia,
riattaccava e taceva.
Phil decise di portargli un caffè non appena avesse
avuto un minuto libero da dedicargli.
«Non si preoccupi, Agente Torelli. Il ragazzo può
restare, si assicuri solo che non faccia foto»
Francamente dubitava che Peter avesse con sè una
qualche digitale o si fosse messo in testa di usare un I-Phone di ultima
generazione per gabbarli tutti e scattare delle foto in anteprima.
“Tu sei il
fotografo di Jonah Jameson?”
“Ah…Sì, signore”
“Sei qui perché ti
ha mandato il tuo capo? Se è così, devo chiederti di andartene: la stampa non è
ammessa”
“N-No, signore. Io
non---Io Sono qui perché…Perché non me la sento di stare da nessun’altra parte”
Coulson lo capiva benissimo.
Prima che l’Agente Torelli continuasse l’opera di
consolidamento del perimetro, Phil gli mise una mano sul braccio.
«L’Agente Barton?» chiese.
Torelli si schiarì la gola, a disagio, e le
sopracciglia di Phil schizzarono subito verso l’alto.
«Accanto al feretro, signore. Parla meno del solito
oggi»
Coulson annuì e gli fece segno di andare,
concedendosi finalmente il lusso di stringere la radice del naso tra le dita.
L’Agente Barton che osserva la situazione dal piano terra e non dalle scale? Pessimo
segno. Pessimo com’era stato il comportamento integerrimo che aveva tenuto nei suoi confronti fino a quel
momento: chiariamo, il Falco era uno degli Agenti migliori dello S.H.I.E.L.D. e
quando si trattava di portare a termine una missione i risultati erano sempre e
comunque ottimali.
Operava spesso sopra le righe, però, e più di una
volta Phil aveva dovuto riprendere il suo comportamento, quel suo ricorrere a metodi
non proprio ortodossi e non del tutto approvati –Ma non aveva mai messo in
pericolo i suoi compagni, né compromesso l’obiettivo da raggiungere, e di
questo l’Agente ne era piuttosto fiero.
Clint solitamente rispondeva con un borbottio ai
rimbrotti che gli propinava, prendeva una birra da portare al Nido oppure -E
questo era il caso più frequente- si appollaiava sul divano di Coulson, decretandone
l’avvenuta conquista -O il passaggio di proprietà, a seconda dell’umore.
Dal debrief sull’Helicar, Occhio di Falco non gli
aveva rivolto una parola che non fosse una domanda o una precisazione o un
chiarimento circa l’incarico assegnato. Sguardo freddo, voce atona, non era
certo lo stesso Agente Barton che lo aveva iniziato ai misteri di Supertata al
termine di una missione particolarmente dura in Mississippi. Esausti, erano
crollati entrambi di traverso su un materasso bitorzoluto e con parecchie
contusioni in parti del corpo che la scienza medica non aveva ancora scoperto, avevano
finito con l’imbambolarsi davanti al canale della Fox, l’unico che la parabola
del Motel ricevesse senza interferenze. Phil ricordava ancora i commenti
dell’arciere, il modo in cui storceva l’angolo destro delle labbra quando stava
per scoppiare impietosamente a ridere, la sensazione della cravatta allentata,
la linea rilassata delle spalle di Clint e…
«Fa effetto vederlo così, vero?» Coulson intrecciò
le dita dietro la schiena e assunse un’espressione di assoluta neutralità e
compostezza.
Barton si decise ad alzare finalmente gli occhi su
di lui –Nemmeno quando era entrato e gli si era accostato aveva dato segno di
voler tenere in considerazione la sua presenza-, salvo poi riabbassarli sulla
salma di Capitan America.
Il feretro era in legno scuro e rialzato su una base
rettangolare di marmo; il coperchio della cassa, tenuto aperto, era una
riproduzione fedele e dipinta a mano della bandiera americana, dai colori tanto
lucidi e sgargianti che quando un gioco di sole li colpiva, ecco! Sembrava
davvero di vederla garrire al vento. Steve Rogers indossava la divisa completa,
la maschera a coprirgli il volto –Gli sarebbe poi stata tolta alla fine dei due
giorni di esposizione, prima che la bara venisse chiusa e sigillata
definitivamente; lo scudo era stato appoggiato contro la parte terminale del
feretro e riposava, ormai inutile ed inutilizzabile, tra i fiori che gli Agenti
S.H.I.E.L.D. avevano portato come un estremo saluto alla Sentinella della
Libertà.
Il volto del Capitano era sereno, abbandonato ad una
quiete più profonda del sonno, ed era su quell’accenno di sorriso che gli occhi
di Clint si erano aggrappati con violenza. Che stesse vedendo tutt’altra persona,
però, era oltre ogni dubbio.
«Quelli del L.M.D. hanno fatto un ottimo lavoro»
commentò Occhio di Falco, dal nulla, e Coulson trasalì per la secca
immediatezza della frase. Girò la testa per rispondere, ma l’arciere lo
interruppe senza degnarlo di uno sguardo «Il sangue è stato un vero colpo di
classe. Ha ingannato tutti sull’Helicar, signore»
Phil si ritenne fortunato che le parole non fossero
in grado uccidere, perché il tono di voce dell’arciere non era stato poi così
dissimile dalla scarica di un M-16. Tossicchiò prima che potesse anche solo ribattere,
Clint si premurò di precederlo.
«Da quando lo S.H.I.E.L.D. si occupa di fotografi
free-lance?» e fece un gesto in direzione dell’uscita: era chiaro come non gli
fosse sfuggito nulla, né la conversazione avuta con Peter, né il perché, a conti fatti, Coulson gli avesse
permesso di rimanere entro il perimetro della Tower.
«A dire il vero, lo S.H.I.E.L.D. è più interessato al
suo strabiliante tempismo. Ti è mai
capitato di vedere alcuni dei suoi scatti? Sembra essere sempre lì un momento
prima che Spiderman faccia la propria, folkloristica comparsa»
Barton incrociò le braccia al petto e gli lanciò
un’occhiata in tralice.
«Spiderman? Quanto avrà mai? Quindici? Sedici anni?»
«Non ne avevi molti di più quando sono stato mandato
a reclutarti»
Questa volta la bocca di Clint si arricciò in un ghigno
storto. Non un sorriso, ma un passo avanti rispetto all’espressione di gelido
omicidio premeditato con cui Coulson si era ritrovato a fare i conti.
«Quel giorno Fury mi ha consegnato un biglietto per
il Circo Tiboldt e io sono rimasto spiazzato. Pensavo fosse un modo carino di
licenziarmi o una sorta di ultimo desiderio, perché avevo sbagliato chissà che
cosa, forse le zollette di zucchero nel caffè» uno sbuffo divertito da parte di
entrambi «”Mi serve un suo parere, Agente Coulson” mi ha detto, “Si vantano di
avere il più grande tiratore scelto del mondo e l’Agente Houyi ne è giustamente
risentito. Si goda lo spettacolo e poi faccia rapporto”.
“Da allora mando un cesto regalo al Direttore ogni
Natale. Sai, per ringraziarlo. È stato il secondo ultimo desiderio migliore
della mia vita»
Clint sbatté le palpebre, girandosi finalmente verso
di lui e osservandolo con sguardo perplesso. Phil annuì, un po’ sorrise, un po’
gli brillò negli occhi una stilla di pentimento e di scuse.
«Il primo è stato di chiedergli di tornare, in un modo o nell’altro»
***
L’ultima volta che gli avevano dato una botta di Emo stava ancora a San Frediano, e al
Sighieri sapevano metterti la mousse al cioccolato sul cono senza che colasse tutta
da una parte. Ricordava Beatrice, un’ossuta cavalla la cui unica enfasi erotica
era la quarta di seno che la costringeva a deambulare con le spalle chine in
avanti.
La quarta di seno e l’assoluta mancanza di riflesso
faringeo, ovviamente, e da come quel
giorno stava leccando la cappella della cialda le sue intenzioni erano più che
palesi -Così come era palese l’intenzione di Bruno di tenerla in ginocchio più
tempo possibile e soffocare la sua cazzo
di lisca di merda con ben altro
impedimento fisico.
Ingoio-Beatrice succhiava chupa-chups che era una
meraviglia, ma non era certo ricordata per la parlantina: solo il sentirla
pronunciare la parola sesso avrebbe
fatto ammosciare la Torre di Pisa.
Faceva il gentile, però, perché prima di
accompagnarla dal Sighieri si era scolato una fiaschetta di rosso, e a Beatrice
piaceva cercare un Principe Azzurro che ansimasse il suo nome mentre lei incrinava
diligentemente le rotule. E allora aveva cominciato a dirle che era
particolarmente carina -Balle, che
era assolutamente deliziosa -Come no,
che quel completino vinaccia la rendeva tremendamente sexy -Per Dio, sembrava una prostituta rachitica.
Beatrice aveva quasi finito il cono gelato e lui
stava già pregustando un pompino al retrogusto di cannella, quando il fratello
Pietro aveva fatto l’entrata in grande stile, cavalier servente al servizio di
una virginea innocenza che puzzava più della merda in Arno.
Ehi tu, emo del
cazzo! Sta’ lontano da mia sorella!
Bruno aveva sorriso, le dita ancora tra i capelli
stopposi della ragazza, le cicatrici pallide un cordone bianco lungo
l’avambraccio. Pietro aveva risposto al ghigno derisorio con voce grossa ed una
risata imbecille: aveva continuato a ridere anche con la carotide recisa di
netto, il sangue che ribolliva schiumoso tra le labbra torte in un’espressione
stupida e sorpresa.
Da lì erano cominciati i guai, le fughe, l’Italia e
la Francia e l’America, il vino perennemente in gola, il sangue sulle dita e
cicatrici sempre diverse a ricamargli la pelle.
Bruno “Brunello” Chianti, quarantacinque anni
d’aspetto e ventitre suonati da occhio e croce cinque minuti, si accasciò
all’angolo di una viuzza coperta di piscio; si lasciò scivolare fino a terra,
le ginocchia piegate al petto e la testa reclinata contro la spalla.
«Il sogno del
Pisano è svegliarsi a mezzogiorno» gracchiò nel sollevare la bottiglia
mezza vuota, ingollando poi una generosa sorsata di schifezza liquorosa
«Americani del cazzo» sibilò, gli
occhi incavati nell’orbita stretti per il disgusto «Manco buoni a fare il vino»
Forse con i soldi che aveva appena incassato poteva andare in un negozio di
prodotti tipici italiani e arraffare del Monteregio come Dio comanda.
Singhiozzò un latrato, appoggiò la bottiglia tra le cicche di sigarette e un hot dog che aveva
visto tempi migliori, quindi estrasse dal pastrano lercio un rotolo di
banconote macchiate di rosso. Le contò tra un singulto ed una risata, le unghie
nere che insozzavano gli angoli di terra e polvere e grumi di sangue secco.
Per essere un bambinello di quindici anni, di soldi
ne aveva, il bastardo! Forse forse riusciva a mettere insieme abbastanza grana
per un Morellino di Scansano, gloria al finocchietto e alla sua linguaccia
lunga!
Affanculo, levati
dai coglioni, fottuto emo di merda
gli aveva ringhiato contro, mentre erano entrambi in fila per un po’ d’erba.
Bruno lo aveva giustamente guardato
come si guarderebbe un lombrico che si rotola nel lambrusco o un bulldog
francese che si masturba -Aveva rivisto da poco Due Date, problemi?-: un misto
di disgusto ed incredulità, finanche un pizzico di pena per l’umanità in
generale.
Il frocetto aveva scambiato un’occhiatina saputa con
la sua cricca di decerebrati, ritrovandosi pochi istanti dopo un sorrisone
scarlatto contro la gola e il portafogli alleggerito.
Il grande cerchio della vita, no?
«Guardare
verso il mare e non vedere più Livorno…!»
«Comincio a ricredermi sulla mia scelta, mortale. Dovrei cercare qualcuno che non
sia così dedito all’amor del vino, cosa ne pensi?»
Bruno drizzò lo sguardo verso l’alto, un’espressione
malevola a tirargli le labbra sporche; passò il dorso della mano sulla bocca,
ripulendo la barba rossiccia e grattandosi poi il mento bombato. Si issò
malamente in piedi, traballò e appoggiò la mano contro il muro lercio per non
cadere in avanti. Ridacchiò, quindi rassettò con due colpi la camicia a righe e
i pantaloni a coste sbiaditi e palesemente di proprietà di qualcun altro.
«In vino
veritas, mia bella schizzata, anche se non so cosa c’entri in questo
momento, ma so che il latino fa parecchio figo»
tossicchiò, assunse una posizione più composta, sistemò il colletto del
pastrano e rialzò gli occhialetti sul naso adunco. A quel gesto la manica
destra del giaccone gli scivolò lungo il polso, rivelando un taglio ancora
fresco sulla pelle, stille di sangue purpureo attaccate alla bell’e meglio ai
lembi della ferita.
La donna contrasse la bocca, gli occhi due specchi
vitrei e verdi.
«Non fare quella faccia, è il mio compleanno! Ce lo
facciamo un goccetto per festeggiare? Se non ti piace il vino, ho altre gocce da farti ingoiare»
Il ritrovarsi da un momento all’altro a mezzo metro
da terra, la schiena contro il muro e le unghie affilate conficcate nel collo,
fece sorgere in Bruno il dubbio che forse, forse,
la schizzata non aveva apprezzato la battuta.
«Rivolgiti a me con quel tono ancora una volta, abbi
l’ardire di usare con me quelle parole e sarà l’ultima cosa che farai, mortale. Uno schiocco di dita e ti
ritroveresti a strisciare a terra come il peggiore dei vermi»
«Mi è già successo, in realtà» esalò Bruno
«Breccanecca, due anni fa. Te lo sconsiglio caldament---»
Ed eccolo, di nuovo in ginocchio tra il marcio e la
muffa, il fiato conficcato a fatica nei polmoni. Lei era in piedi, gli stava di
fronte e lo fissava col sopracciglio inarcato in una deliziosa smorfia di
superiorità, la baldracca.
«Il momento è giunto. Tu e il ratto delle fogne
fareste meglio a mettervi in opera, o l’ira mia e del mio signore vi colpirà
con tale vigore da farvi desiderare d’esser morti ancor prima di nascere»
Fottuta troia,
sgualdrina, cagna, te lo fo vedere io, io, cosa vuol
dire desiderare di essere morti, puttana del cazzo. Bruno allargò le
braccia e sogghignò, chinando le spalle in avanti ad imitare un inchino falso
quanto grottesco.
«Come la mia dama desidera»
Sputò un bolo di saliva ai piedi della donna e la
lingua picchiettò maligna contro i canini neri.
***
“Il liquore più
forte che hai, voglio solo ubriacarmi e perdere conoscenza da qui fino a
dopodomani. Anzi, fammelo doppio, così tiro avanti a sbavare almeno per una
settimana”
“Dovresti provare
il vino d’Ismaro, mortale. Con Polifemo ha funzionato”
Tony uscì dal Karamela Cafè col fiato appeso alle
labbra e lo sguardo allucinato della barista conficcato tra le costole.
D’accordo, forse non aveva dato la migliore
impressione di sé alzandosi di scatto e correndo via come fosse stato appena
punto da una tarantola, ma…Dannazione, chiunque avesse parlato aveva tirato
fuori le parole magiche “mortale” e “Polifemo”. Non poteva lasciarsi sfuggire
una simile occasione, non dopo una giornata spesa dietro a fantasmi e leggende
e guide turistiche che lo guardavano come fosse sbronzo perso.
Il tizio, presumibilmente Odisseo, non poteva essere
andato lontano: Tony era schizzato via non appena la voce era sfumata nella
brezza salata che permeava il locale. Doveva essere ancora fuori, forse ad
attenderlo, forse a guardare il mare, forse a ridere della battuta –Indecente,
a dire il vero- che aveva fatto per attirare la sua attenzione.
Sul molo, però, non c’era nessuno.
I tavolini neri erano vuoti, non un turista sulle
seggiole ricurve o marinaio sulle barche a vela placidamente cullate dalla
corrente.
Col tramonto che lento bagnava la cresta delle onde
e piangeva lacrime rosse sulle cime degli alberi e sopra i comignoli, Tony
Stark si sentì improvvisamente solo.
Solo.
Inutile.
Idiota.
Si guardò attorno e Vathy gli sembrò d’un tratto
insignificante.
Cosa diavolo era venuto a fare in quel posto? Chi era venuto a cercare. Odisseo?
Davvero? Odisseo era un mito, era una leggenda. Una leggenda non-vivente, andava specificato, esisteva
soltanto tra le pagine di un poema o su qualche vaso o come personaggio di un
colossal italiano.
Aveva inseguito una chimera, o peggio: aveva inseguito il senso di colpa, un postumo da sbronza,
il frutto di una fantasticheria creatasi dalla mancata elaborazione del lutto.
Aveva condensato rifiuto-rabbia-patteggiamento-depressione
dentro un paio di bicchieri di Scotch, scartando a priori la possibilità di
accettare la…il fatto che Steve non
fosse più tra loro. Alla Tower. Con lui. A sradicargli dal soffitto il sacco di
sabbia un giorno sì e l’altro pure.
Con lui.
Il non riuscire a pronunciare la fatidica parola con
la “m” nemmeno in un dialogo unilaterale con se stesso era abbastanza per
capire e per comprendere. Era abbastanza per arrendersi. La cosa peggiore era l’essere stato tanto convincente
da trascinare tutti, Direttore
Bellosguardo compreso, nella propria crociata dei folli.
Prendere a calci il defunto fondoschiena di Rogers
per riportarlo in vita? Cliché abusato da anni, signor Stark, si trovi una
trama migliore da lanciare sul mercato e poi vediamo se vale la pena di
pubblicarla.
Tony si passò una mano sul volto e cominciò a
camminare sulla banchina, il sole che declinava all’orizzonte; alla fine del
molo si sedette, le gambe lasciate a penzolare oltre il cemento e gli occhiali
da sole calati sul naso.
La verità era che si era abituato a non essere più
solo, ad avere qualcuno che gli ricordasse come ci fosse un mondo oltre le
porte del laboratorio –Un mondo noioso, un mondo stupido, un mondo da salvare
al primo starnuto radioattivo, ma pur sempre un mondo al dì di un’equazione e
di una cromatura-, come ci fosse qualcuno in grado di vedere dentro e di vedere
oltre il magnate della Stark
Industries.
Prima Pepper e poi…
La baia sussurrava un canto di onde scarlatte e
avanti e indietro e avanti si trascinava stancamente la spuma; lampi verdi dove
il sole colpiva le imposte chiuse, tassello dopo tassello nel quieto mosaico di
Vathy, adagiata nel golfo, circondata dall’azzurra distesa del mare.
Steve ne avrebbe ricavato uno schizzo perfetto.
Tony poteva quasi sentire la mano che scivolava
sulla superficie ruvida del foglio, lo zampettare della grafite là dove passava
e passava più volte la matita per ricreare il gioco movimentato delle foglie.
Avrebbe aggiunto una barca, forse, una sola, con la vela bianca e lo scafo che
si rifletteva nello specchio distorto dell’acqua, e infine due figure, piccole,
indistinguibili, ma ferme, fisse,
eterne, ad osservare l’orizzonte dal pontile. Un unico tratto nero per le mani
di entrambi.
Rogers sapeva essere parecchio criptico quando
voleva –Anche se non abbastanza da evitare l’occhio lungo di Barton.
Doveva guardare in faccia alla realtà: la ricerca
era finita. Non gli restava che Manhattan e la camera ardente, il saluto, il
cimitero, e poi il laboratorio e la solitudine. Una volta rientrato avrebbe
potuto occuparsi degli ultimi dettagli riguardanti la veglia e il trasporto
fino ad Arlington…Oh, e anche del problema dei ratti. Clint, durante l’ultima
chiamata, gli aveva riferito la comparsa
di almeno tre esemplari, consigliandogli poi di procurarsi una domestica –E
ignorando volutamente l’affermazione di Tony circa la dieta a base di sorci di qualunque
rapaci che si rispetti.
«Molto bene, Stark» si grattò la nuca e storse la
bocca «Sarà meglio tornare a casa, che dici? Puoi sempre farti un goccetto
prima di andare, d’accordo, te lo sei meritato. Poi avvisiamo Pepper di mettere
su qualche gallone di caffè, tanto per andare sul sicuro. Avvisare anche il
Dottor Banner e l’Agente Romanoff di ammainare le vele e giare la prua?» arcuò
le sopracciglia «Sì, potrei. Oppure potrei lasciarli soli a sfogare…E tu che ci
fai qui?»
Il mendico-stalker, apparso chissà quando e chissà
da dove, gli riserbò un sorriso a tutto denti, quindi cominciò a grattarsi
insistentemente la coscia, un’espressione beata sul volto. Gli occhi di Tony
scivolarono alla cicatrice bianca che l’altro continuava a tormentare, ma nel
vedere la robaccia incrostata sotto le sue unghie decise che, no, aveva
assistito anche troppo e che, ancora una volta assolutamente no, non aveva intenzione di scoprire un microcosmo di
cheratina e divulgare tale notizia alla stampa nell’immediato futuro.
Affondò allora la mano nella tasca dei pantaloni e
si portò il cellulare all’orecchio, con gesti resi impacciati dalla fretta e
dalla spasmodica voglia di andarsene, pregando che Natasha rispondesse il più velocemente
possibile. Un clic dall’altra parte e
stava già levando un ringraziamento all’Alto dei Cieli, quando un ruggito,
qualcosa –Mio Dio, ossa?- che si frantumava, un urlo, un grido -Hulk?-
Stark balzò in piedi e diede le spalle al mendico, abbaiando
più volte il nome dell’Agente Romanoff, chiamando Banner, urlando e inveendo.
Nulla. Silenzio.
La linea era interrotta.
Dio.
«Natasha! Banner! Cristo…!»
Doveva avvertire Fury, indossare l’armatura e
partire alla volta di Dion-Olympos coi propulsori al massimo dell’energia.
Doveva intervenire, doveva---
«Allora? Chi cerchi?»
---E no, ora basta. L’Agente Romanoff e il Dottore
erano in pericolo per colpa sua, per l’idea del cazzo di girovacchiare per la Grecia come se di Dei e Divinità
varie e variegate non ne avessero abbastanza, non aveva anche la pazienza
adatta per sopportare la litania stridula del mendicante.
«Nessuno, ti
va bene come risposta?»
Buttò la valigia-armatura sul pontile ed era già sul
punto di avviare il meccanismo di vestizione con la sola pressione del piede
che…
«Perfetto» dietro
di sè una voce profonda, eco lontano di mare e salsedine.
Tony sentì distintamente i capelli drizzarsi sulla
nuca.
Cor
Mortem Ducens
#04. Lo Zoppo Che Molto Si Volge
Note
Finali
E dai che ve lo aspettavate che il mendico fosse
Odisseo. Lo so, perché siete personcine care e vi voglio bene e avete
riconosciuto il pilos e il fatto che si fosse presentato come mendicante mezzo matto e poi
c’era la cosa della cicatrice E sto divagando. E’ apparsa Amora. Io amo,
Amora.
E Thor la tratta a pesci in faccia, povera.
…Oddio, non che sia uno stinco di santa, ma, ehi. Ha
stile. Ciao Amora Ti lovvo.
Gallo, caduceo e tartaruga
sono gli elementi iconografici di Ermete (il cui aspetto, però, si rifà
a quello datoci dalla Marvel),
così come il gallo, la cista mistica, le spighe e il catalo
lo sono di Persefone. Eaco, Radamanto e Minosse sono i
Giudici dell’Oltretomba.
La storia di Clint e del circo Timboldt vengono
dalla biografia del canone principale e NON CREDO che sia lo stesso nell’Universo
Ultimate, giacché non l’ho MAI LETTO. Perdonate.
Poi. San Frediano è un piccolo Comune sopra Pisa
ed il Sighieri è una gelateria realmente esistente (Così come a Vathy
esiste veramente un Karamela Cafè). E fa di quei gelati che sono una
meraviglia! Se mai vi capita di passare a Cascina, ANDATE. ANDATE, MANGERETE
UNO DEI GELATI MIGLIORI DELLA VOSTRA VITA. Breccanecca è un posto fra i
monti dalle mie parti bel nome, vero?
Un appunto su Bruno “Brunello” Chianti. Prima ancora
di scrivere il prologo di questa fan fiction, lui era un personaggio positivo.
Poi è diventato…Bhè, quel che è diventato, ecco. Non è colpa mia E di chi,
allora? E la canzoncina che canta su Pisa e Livorno…Sì, esiste. Vedete cosa
si impara fuori sede? (?)
Il titolo del capitolo viene dal nome latino di “Ulisse”,
che significa appunto “Lo Zoppo”, e dall’epiteto “Polytropon”, “Colui che molto
si volge”.
E DAL PROSSIMO CAPITOLO BOTTE DA ORBI COME SE
PIOVESSE! Chissà
cosa mai sarà successo a Natasha e a Hulk. Mboh BOTTEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE
OOOOOkay. Prima di continuare questo delirio, direi
di ringraziare tutti voi che mi sopportate mi supportate non solo nella
stesura di questa storia, ma anche di tutte le altre. Sono un mostro, non
riesco a rispondere alle recensioni, ma vi giuro, vi giuro che leggo tutte,
dalla prima all’ultima parola, e mi fate commuovere. Siete splendidi/e e vi
ringrazio tutti, nessuno escluso. Vi voglio davvero bene.
Ringrazio Ghia9614, Shi_Tsu_Geass e Alley Vathy
ti va bene come meta per il viaggio di nozze per le loro splendide recensioni!
Spero che questo capitolo infinito non vi abbia pesato, ecco D:
Alla prossima!
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Capitolo 6 *** #05. Deus Ex Machina ***
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.: *** :.
L’Onomaklutòn era
universalmente riconosciuto dalla comunità LGBT quale vero e proprio Paradiso
in terra.
Era un piccolo locale alla periferia di Dion, una
sorta di disco-pub con pareti color carta da zucchero, pannelli a campitura
nera e rossa che riproducevano le maggiori meraviglie della pittura vascolare
greca, un juke-box dei bei tempi andati e un artista di punta che da solo
valeva l’intera storia della musica, da Omero fino ai giorni nostri.
Il complesso era circondato da un fitto bosco, e una
strada non asfaltata serpeggiava tra i tronchi e i cespugli spinosi,
attraversando la selva buia, per poi aprirsi a ventaglio dinanzi l’entrata:
colonnine doriche a venti scanalature, tre per lato, accompagnavano gli
avventori oltre l’architrave e gli occhi assenti di Apollo, Calliope ed Eagro, a
rilievo contro il timpano. Il tutto -Interno
ed esterno- contribuiva a dare l’idea di un sacro tempio dei bei tempi andati
–Sebbene un po’ kitsch e ampollosamente retrò.
A fare la fortuna dell’Onomaklutòn, però, era l’invulnerabilità
di cui il locale pareva essere avvolto.
Nessuno sarebbe mai stato in grado di dire con
esattezza quando avesse aperto, né chi fossero stati i primi proprietari: la
famosa sera del 28 Giugno 1969, Sylvia Rivera stava scagliando la bottiglia
contro uno dei poliziotti che avevano fatto irruzione allo Stonewall Inn, e il
cantore dell’Onomaklutòn sussurrava
parole d’amore col solo danzare dell’archetto. Nel 1940, quando i fascisti
sciamarono a frotte tra le rocce dell’aspra Grecia, la direzione del locale
venne ceduta proprio ad un soldato semplice del battaglione italiano. Sulla
parete di destra, appena entrati, ancora oggi era possibile notare la foto
incorniciata che ritraeva Gaetano Pasolini abbracciato al suo compagno di vita,
l’allora diciassettenne Filoandro di Olimpia.
E prima di allora a tenere l’Onomaklutòn era stata una giovane tedesca che da Berlino era
scappata a Dion per fuggire lo scandalo cui altrimenti avrebbe condannato la
sua famiglia, e poi uno svizzero, una francese, finanche un turco…! Non c’era
guerra, né movimento sociale o politico che fosse in grado di abbattere il
locale: era un rifugio sicuro per gay, lesbiche, bisessuali e transgender, e tutti
era pronti a scommettere che non avrebbe cessato di esserlo tanto presto.
Se non fosse stato impossibile si sarebbe detto nato
dalla stessa terra o da una delle tante fonti che chiacchieravano e
gorgogliavano in mille ruscelletti argentini.
«Forse il merito è anche dell’Artista, eh!» la
giovane rise, portandosi il dolcetto alle labbra. Afferrò il quadretto di
cioccolato bianco tra i denti e lo staccò di netto: alcune bricioline candide
le caddero sul ginocchio accavallato e lei le rimosse dalle balze cremisi della
gonna con gesto distratto.
Bruce osservò il movimento veloce delle dita, quindi
si schiarì la voce e decise di sorseggiare il caffè ormai freddo prima che
l’Altro prendesse il sopravvento perché Hulk
noia. Hulk spacca e no, non sarebbe stato molto educato far scoppiare un
pandemonio nel centro di Dion, tanto meno fracassare tavolini e seggiole del
bar, visto e considerando quanto erano stati gentili i proprietari. Natasha -O
sarebbe stato meglio parlare di Scarlett?-
annotò qualche parola sul taccuino posto con diligenza davanti a sé, tra una
brioche intoccata e dello yogurt greco lasciato a metà.
Stava interpretando il ruolo da giornalista a
meraviglia e Bruce si chiese perché fosse così sciocco da stupirsene. Era
probabile che a destabilizzarlo fosse la scioltezza e la disinvoltura con cui
l’Agente Romanoff passava da un’identità all’altra, scindendole con tale
perfezione da non correre mai il rischio di contaminarle: per uno come lui, che
a stento riusciva a mantenere la propria, la cosa era impensabile.
«Una volta, mi hanno raccontato al locale, erano
arrivati una decina di “attivisti”» la ragazza mimò le virgolette con le dita
«Contro i diritti delle persone omosessuali. Ecco. Tutti pensavano che sarebbe
successo il finimondo, e invece…!»
Lasciò la frase in sospeso e l’Agente Romanoff si
chinò di riflesso in avanti, una nota interessata a piegarle l’angolo destro
della labbra.
«E invece..?»
La giovane non si ritrasse, anzi, si piegò anche a
lei, gli occhi che roteavano in giro con una buffissima aria cospiratoria.
«Invece ha proposto loro di rimanere per lo
spettacolo del pomeriggio. Indovinate un po’? Ora sono clienti abituali dell’Onomaklutòn! Sembra quasi sia riuscito
ad ammansirli…»
Natasha lanciò un’occhiata cui Bruce rispose con un quieto
sollevarsi delle sopracciglia. Grazie ad una firma particolare riscontrata su
Thor e su un uomo di Los Angeles che, a quanto pareva, altri non era che
l’Ercole di cui aveva parlato il Dio, S.H.I.E.L.D. e S.W.O.R.D. erano stati
capaci di circoscrivere un’area d’azione relativamente piccola dove poter
cominciare le ricerche. Scoprire che Odisseo, Orfeo ed Enea potevano davvero
trovarsi nei luoghi da loro selezionati –Più per disperazione che per altre
motivazioni- era stata allo stesso tempo una sferza di ottimismo e una nota di
perplessità.
Come se ci stessero
aspettando aveva
mormorato il Dottor Banner, analizzando i dati che Nick Fury aveva passato sui
computer del Quinjet che stava portando lui e l’Agente Romanoff in Grecia.
Il problema fondamentale era trovare effettivamente il loro obiettivo, cosa
che non era per nulla facile e sulla cui riuscita Bruce aveva ancora parecchi
dubbi: Tony li aveva chiamati più volte per fare rapporto e tutte si erano
rivelate essere un vero e proprio buco nell’acqua. Se Odisseo era ad Itaca come
riportavano i controlli incrociati, non sembrava essere dell’idea di farsi
trovare; allo stesso modo, scovare Orfeo dalla sua tana si stava rivelando ben
più complicato di quanto il Dottore si era permesso di pensare appena sbarcato
a Dion.
Natasha, dopo i primi tentativi andati a vuoto,
aveva chiesto una ricerca attraverso parole chiave per restringere
ulteriormente il campo e l’unica traccia era stata quella relativa all’Onomaklutòn. Caso volle –E dopo quello
che Stark aveva raccontato loro, Bruce non sapeva se esserne felice o meno- che
a Dion-Olympos stesse soggiornando la giovane che in quel momento stava finendo
di sbocconcellare il quadratino di cioccolato.
Da quanto aveva capito dalle risposte monosillabiche
dell’Agente Romanoff, Alley -Così si faceva chiamare- era una conoscenza di
un’Agente di un non meglio specificato dipartimento dello S.H.I.E.L.D. ed era
stato proprio questa Agente a permettere loro l’incontro con la studentessa al
primo anno di Filosofia.
Natasha si era presentata come una giornalista
venuta a Dion per scrivere un articolo sui locali pro-LGBT; il Dottor Banner le
aveva stretto cortesemente la mano, smozzicando qualcosa riguardo un
supporter/fotografo/agente di Scarlett: aveva passato così tanto tempo a
nascondersi, isolarsi e abbandonare il proprio nome dietro le spalle, che
doversi inventare una nuova identità e professione di punto in bianco era stato
piuttosto complicato.
Un piccolo shock culturale ed emotivo, cui Hulk
aveva risposto con un torcersi bollente delle budella e infiammarsi di neuroni.
A Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere
dimenticato, a Hulk non piaceva, non piaceva e basta, non piaceva, non piaceva,
non piaceva…
Bruce deglutì e serrò la mano destra a pugno, le
unghie conficcate nella carne. Il gesto non sfuggì all’Agente Romanoff, che
subito roteò lo sguardo su di lui, riducendo la bocca ad un cordoncino nero e
scarlatto. I muscoli agli angoli delle labbra ebbero uno spasmo impercettibile,
ma come ogni volta che Hulk gli ringhiava nella testa, i sensi del Dottor
Banner risposero agli stimoli più attivi che mai: poteva vedere un filo di
sudore freddo brillare lungo la linea della tempia, colorando d’una tonalità
sanguigna l’attaccatura rossa dei capelli, appena sopra l’orecchio. Vide il
respiro scivolarle limaccioso lungo la gola e poi espandersi nei polmoni,
sollevandole il petto oltre la scollatura circolare della maglietta. Le nocche
appuntite erano livide attorno alla penna e una piccola crepa biancheggiava,
traslucida, contro il tubicino pallidiccio contenente l’inchiostro.
L’odore della paura e della tensione era più acuto
del profumo acidulo dello yogurt greco, più dolciastro del cioccolato bianco,
più forte del sole battente sugli ombrelloni a fasce arancioni e gialle fuori
dal bar, più denso del liquore che stava bevendo un anziano dietro loro, più
acre del sudore che gli disegnava chiazze mollicce sotto le ascelle, più
impertinente delle scarpette di vernice di una bambina contro il selciato che
divideva i tavolinetti dalla strada e da un negozietto di casalinghi.
«Oh, dannazione! La lezione di maieutica!» l’urlo di
Alley fu tanto improvviso che persino l’Altro grugnì, sorpreso e stupito, dando
il tempo a Bruce di riprendere il controllo; Natasha si rilassò immediatamente
e rivolse alla ragazza un sorriso impalpabile, mentre questa si alzava veloce e
lasciava accanto al caffè due biglietti colorati.
«Ascoltate, questi sono per lo spettacolo delle quattro»
spiegò, battendo con un’unghia smaltata di rosa pallido sul cartoncino «Il
problema dell’Onomaklutòn è che ci
puoi entrare se qualcuno ti invita. E’ inquietante, ti sembra di essere in un
circolo privato o di partecipare a qualche culto misterico o che so io…» una
risatina non troppo convinta, quindi si umettò il labbro superiore «Conosco il
barista, con questi avete un lasciapassare sicuro. Per gli amici di Salmace
questo ed altro! Non vi preoccupate per il conto, offro io, signorina Rushman,
signor…?» la frase sfumò in un’evidente domanda.
«Ruffalo. Edward Ruffalo.» rispose Bruce, mettendosi
in piedi e porgendole la mano. Alley ricambiò la stretta e modellò il nome
sulla lingua, forse non troppo convinta del modo in cui i due nomi suonavano
insieme. Bruce si chiese se la risata che sentiva vibrare sottopelle era
l’ilarità non detta di Natasha oppure l’Altro che si prendeva una sana
rivincita.
«Arrivederci e godetevi lo spettacolo!» li salutò la
ragazza, sventolando allegra la mano e correndo via sulla stradicciola
acciottolata bagnata di sole.
«Edward Ruffalo?»
s’informò l’Agente Romanoff e inarcò il sopracciglio con palese divertimento.
Il Dottor Banner si risedette, tossicchiando e allungò le dita a prendere i
biglietti. Spese alcuni istanti a rigirargli con attenzione tra i polpastrelli,
senza dire una parola di più.
«Avevo pensato anche a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di
chiamarsi come un antivirus.» le rivolse un’occhiata spruzzata di lieve riso,
la bocca che si sollevava a sottolineare la strana tranquillità che lo pervadeva
nel vedere Natasha scuotere la testa, i riccioli che palpitavano contro le
orecchie e le tempie, irrorati di cremisi e di sole, le palpebre socchiuse a
lasciar intravedere una falce brillante d’iride.
Lei era l’unica che riuscisse a rilassarlo davvero,
in quel luogo: a Dion si respiravano ovunque effluvi di calma, pizzicori di
pace che risalivano inesorabilmente, inevitabilmente la carne, distendevano i
nervi, pesavano sul respiro e illanguidivano il cuore. Come una musica che
riverberasse ad infrasuoni e si diffondesse in creste e spuma di serenità
sibillina, rigagnoli iridescenti di quiete a scorrere densi, caldi nelle vene
al posto del sangue.
L’Agente Romanoff subiva a tratti l’effetto
dell’atmosfera infida, Bruce lo vedeva da come ogni tanto abbandonava lo
sguardo ad un orizzonte indefinito, l’espressione liquida e nebbiosa, la bocca
schiusa, pesante, le dita che premevano per pura inerzia contro la
ricetrasmittente all’orecchio. Ascoltava i resoconti di Tony in virtù di un
senso del dovere radicato in lei più a fondo dell’atto stesso di respirare, ma
dallo sguardo assente si capiva che del rapporto non le era rimasta alcuna
traccia.
Su di lui quel ristagno dei sensi non aveva altra
conseguenza che tendere i nervi tanto a lungo da strapparli, altro rischio che
spingerlo al punto di non ritorno: Hulk avvertiva il tentativo di Dion di
acquietarlo, di ammansirlo come una bieca bestia, e ciò lo infastidiva, lo
rendeva furioso, lo faceva ringhiare e sbraitare, colpire le costole con
poderosi pugni, mordere lo spirito, lacerare la coscienza brano dopo brano.
Osservare l’Agente Romanoff, la linea della nuca che
scivolava a formare la curva delle spalle e della schiena, la clavicola che
sporgeva dallo scollo, il profilo aguzzo delle scapole e i movimenti sicuri del
polso, la danza delle dita, il canto delle nocche, tutto di lei riusciva a
rilassarlo senza che l’Altro protestasse con la selvaggia veemenza che gli era
propria –E questo, oltre a confonderlo, riusciva a renderlo paradossalmente
inquieto.
«Natasha, non ha anche lei l’impressione che la
ricerca si stia rivelando troppo…Facile?»
le chiese, gli occhi fissi sulla lira e sul serpente intrecciati, stagliati
contro il cartoncino azzurro.
Lei rimase in silenzio per alcuni istanti, l’unghia
che percorreva a filo la trama a tralci di vite della tovaglia in plastica.
«Le è familiare il concetto di Deus Ex Machina, Dottore?» rispose con un’ulteriore domanda, ma
senza dargli il tempo di parlare «Era un espediente usato dai tragediografi
greci: quando la situazione si era fatta troppo intricata perché fosse
possibile una via di uscita, arrivava la divinità a risolvere ogni cosa.»
Bruce aggrottò la fronte e Natasha continuò.
«Quale che sia il nostro Deus Ex Machina, sta operando in ogni modo per condurci
all’Ade. Lui vuole farci arrivare lì,
sempre che tutto questo non sia solo una fortunata serie di coincidenze al
limite dell’insensato e della follia. Cosa di cui, lo ammetto, sto cominciando
a dubitare seriamente.»
Il Dottor Banner annuì, per poi girare la testa a
contemplare la placida Dion distesa sotto di loro, un labirinto di terrazze e
cupole bianche cinto dalla lingua grigio-perla del litorale, il mare una
fantasmagoria di sole e scaglie d’azzurro.
«Noi siamo attori, Agente Romanoff?»
«No, dottore. Noi siamo pedine.»
***
Thor si strinse nel mantello e il respiro si condensò
in piccole nuvole ghiacciate.
Roteò gli occhi verso l’alto, a contemplare le insignificanti,
fastidiose gocce marrognole che da
uno spunzone della roccia s’infrangevano a terra. Plic plic plic, un ritmato conteggio di secondi che il figlio di
Odino da un tempo non più quantificabile aveva smesso di trasformare in minuti
e poi in ore.
La via che l’aveva condotto lì era deserta,
sconosciuta ai più, un acciottolato di nebbia e miasmi nel ventre stesso di
Asgard. A Thor venne spontaneo chiedersi se Padre sospettasse dell’esistenza di
quel luogo o se la memoria fosse divenuta nebbia con lo scorrere dei secoli:
nulla poteva sottrarsi alla vista di Odino, o così il Dio del Tuono aveva
sempre creduto –Poi erano arrivati gli Jotunheim e tutto ciò in cui aveva
creduto fino a quel momento era stato fatto a pezzi.
Loki…Forse, forse Loki conosceva quel luogo, forse aveva
già attraversato la via impervia di liquami e mormorii durante i lunghi vagabondaggi
negli anni dell’adolescenza. Forse era proprio per quella via che aveva trovato
la salvezza dopo il colloquio tra Odino e il Signore dell’Olimpo, forse
attendeva ancora dietro una lugubre ansa l’occasione per tornare, la
possibilità di redimersi. Forse…Forse Thor si stava solo illudendo.
Ovunque suo fratello fosse andato, ovunque
l’avessero esiliato, trovarlo non sarebbe stata un’impresa semplice, neppure
fattibile. Loki era disperso.
Per quel che ne sapeva, Loki poteva anche essere morto.
«Quali funerei pensieri occupano la tua mente ed il
tuo cuore, amore mio?»
Il figlio di Odino sollevò il capo e Amora si
palesò, calando il cappuccio della mantella. I capelli ebbero un barbaglio d’oro
nel posarlesi sulle spalle e la bocca scarlatta si piegò in un bieco sorriso,
piena d’amore e d’orgoglio, enfia di un sentimento che Thor non riuscì a
definire.
«Hai fatto attenzione che nessuno ti seguisse,
Incantatrice?» l’apostrofò il Dio, le braccia incrociate al petto e la voce
diffidente. Lo sguardo della donna s’irrigidì a quelle parole, ma si trattenne
dal rispondere e lo precedette per la stretta gola che conduceva ancora più a
fondo nei meandri di Asgard.
Uno strapiombo gorgogliante di buio si gettava
suicida nel nulla ai loro piedi, grossi denti rocciosi saettavano
all’improvviso fuori dalla nebbia che ribolliva asmatica entro fenditure e
graffi litici; il loro sentiero s’incuneò più volte in spazi angusti e
strettoie al limite della claustrofobia, dove traballare anche un istante col
peso squilibrato verso destra –O sinistra, a seconda delle curve- significava
una caduta senza ritorno dentro l’abisso. Non c’erano sterpi, né segno di
vegetazione o corsi d’acqua, neanche la più labile traccia di vita. Ovunque
respiri e sussurri di granito, alcuna luce se non la sfera violacea che
gravitava sul palmo di Amora, nient’altro che i loro passi scricchiolanti lungo
la via sempre più fredda.
Scendevano e scendevano e scendevano, tanto che Thor
si chiese quanto avrebbero impiegato a risalire e se mai l’avrebbero fatto: si
fidava e allo stesso tempo non si fidava dell’Incantatrice, sia per la passione
incontrastabile che ella provava nei suoi confronti, sia perché nessuno che
possedesse il più miserevole granello di saggezza si sarebbe mai affidato
completamente ad una strega allieva delle Norne. Conosceva quella strada
unicamente grazie al retaggio funereo sulla quali aveva costruito le arti
magiche che padroneggiava con deplorevole maestria: il nero strisciante che si
appollaiava gracchiando di massi caduti accanto e sopra e sotto di loro era per
lei un animale da compagnia, da nutrire ed allevare con cure premurose, da
tenere al seno e allattare con formule e rituali oscuri quanto gli occhi di
Hela.
Amora era l’unica speranza che al figlio di Odino
era rimasta per accedere all’Ade senza che il Padre di Tutto venisse a saperlo,
ma non ne era felice. Da ciò che gli aveva detto Amora, poi, Sif e i Tre
Guerrieri stavano sviando le loro tracce, conducendo le guardie e i corvi di
Odino per ben altre strade, più accessibili e meno dimenticate, dominio del Re
e sottostanti le sue leggi. Tornare indietro avrebbe significato vanificare
ogni sforzo e condurli più inesorabilmente –O forse sarebbe stato meglio dire più velocemente ?- alla condanna e,
forse, all’esilio.
Quanto e in che modo il dolore avesse piegato Padre,
Thor non sapeva dirlo, ma una volta tornato dagli Inferi Olimpici avrebbe dato
se stesso pur di fargli tornare il senno.
Era ancora immerso in riflessioni di tal genere,
quando s’accorse che la via, ora, procedeva retta e senza più ostacoli, una
lingua grigia e nera che si stendeva dritta fino all’orizzonte; ai lati del
sentiero si ergevano fianchi di terra lucida, bagnati, tanto alti e livellati
da dare l’impressione di essere rinchiusi tra le pareti di un enorme pozzo.
Un’eco d’acqua frullava tra le pieghe dell’etere, unito ad un soffocato
zampettare e sdrucciolare di sassi, scrosciare di onde e battere d’ali. Un
riverbero perlato baluginava alla fine della strada, come pagliuzze di luna
adagiate sulle creste del mare; da terra si levava un odore indefinito di latte
cagliato, sangue e viscere di animali, e Thor poté sentire il robusto sapore
del vino macchiargli distintamente la bocca.
«Amora…» tentò di domandare, ma l’Incantatrice torse
il collo verso di lui, fece segno di tacere e continuò imperterrita a
camminare.
Più si avvicinavano all’inconsueto bagliore, più
l’olezzo aumentava e intorno si rincorreva un salmodiare lamentoso quanto
antico: nenie di donne, lacrime di fanciulli, grida di guerrieri tuonavano
contro la roccia e la roccia ripeteva i loro nomi, le loro preghiere, i loro
pianti all’infinito, perché la terra ne avesse costante memoria. Cominciarono a
profilarsi rami di piante rachitiche, bassi contorcimenti di radici grossolane
e occhi smeraldini di belva dietro il soffio gelido di guaiti infantili.
Amora s’arrestò, la sfera di luce che gettava
riflessi lividi sulla corona smaltata; alzò il braccio e indicò solenne davanti
a sé.
«Ecco il tuo passaggio per il mondo dei morti,
figlio di Odino.»
Thor la superò e fu lui, questa volta, a non
rispondere. Stracci di vento e bave di refoli gli si appiccicarono alle
caviglie, ma il Dio del Tuono non si diede per vinto e non si fermò fino a che
non fu davanti ad una porta.
Non aveva serrature, non aveva cardini né infissi:
era un semplice, seppur perfetto nella sua geometria, ritaglio della roccia. La
fascia scarlatta spessa più di cinque dita, intramezzata da due cornici dorate
più sottili, era sormontata ed affiancata, sul lato superiore e sui due
laterali, da triangoli a campitura azzurra, gialla e rossa; a destra e a
sinistra due pannelli ciascuno, uno sull’altro, con figure umane in alto e
scene di animali e belve feroci sui due più in basso. Un uomo a cavallo con un
palafreniere ad aprire la via ed un cucciolo maculato sul dorso del baio, si
dirigeva verso il lato destro della porta e sul pannello opposto un secondo
cavaliere attendeva il suo arrivo con le briglie ben strette in una mano.
Oltre la porta doveva esserci un altro luogo, ma era
indistinto, indefinito, una girandola grottesca di fumi e odore di fango. Ogni
tanto si avvertiva un rumore come uno starnazzo e un battito d’ali
sull’increspatura dell’acqua, ma oltre a quello ed il profumo umido d’un rivo,
non esisteva altro.
Il figlio di Odino sfiorò a punta di dita il profilo
della creatura alata dal volto umano che veniva aggredita da un leone con
criniera gialla e puntinata, il pelo viola e il ventre cremisi.
«Le Norne mi spiegarono…» e Thor trasalì alla voce
improvvisamente vicina dell’Incantatrice, di nuovo al proprio fianco «Che il Padre
degli Olimpici possedeva più nomi tra i mortali, sebbene per loro fosse stato
designato solamente un destino ultimo. Questa…» e passò un palmo nello spazio
etereo e vuoto della porta, che al suo tocco s’animò di mille cerchi
concentrici «E’ la via di Tinia dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»
***
«Quelle persone sembrano sotto l’effetto di
stupefacenti: guarda la dilatazione della pupilla.»
Natasha non commentò la diagnosi del Dottor Banner:
che qualcosa non andasse nel locale e in coloro che lo frequentavano le era
stato chiaro non appena superata la soglia d’ingresso.
Un’atmosfera strana ristagnava all’interno della
stanza, un’attesa languente, una calma fangosa intessuta d’invisibili fumi
d’oppiacei, una pace artificiosa dell’animo che a Vedova Nera sembrava la
conseguenza dell’hashish descritta da Baudelaire che qualche bicchiere di
troppo. Gli avventori stavano in silenzio con le teste reclinate su una spalla,
lo sguardo perso in lontananza ed un respiro sempre appeso alle labbra.
Sospiravano in continuazione, non per noia, non per dolore, non era un gemito
di dolore, né frustrazione. Semplicemente…sospiravano. Estatici. Osservavano un mondo oltre l’umano, si sarebbe detto,
immersi fin dentro le ossa in una realtà sconosciuta e impenetrabile per
chiunque non avesse ricevuto l’invito a penetrare i loro segreti più reconditi.
Una sospensione, un’attesa misterica che a Natasha
faceva salire i brividi lungo la schiena.
Lei e Bruce scelsero un tavolino in ombra, sotto la
stampa che riproduceva una pittura vascolare a figure rosse; un cono di luce
soffusa si adagiava pigramente sulla curva delle sedie metalliche e una piccola
candela ardeva entro una sfera di plastica verde tagliata sulla sommità.
Nessuno venne a chiedere loro l’ordinazione, per quanto il barista sembrasse il
più ricettivo tra i presenti.
Il Dottor Banner le rivolse un’occhiata
interrogativa, cui la Romanoff rispose con un sollevarsi perplesso del
sopracciglio. Non avevano molte scelte, l’unica cosa che potevano fare era
aspettare.
E così fecero, ascoltando i sospiri degli uomini, i
fruscii delle gonne, il singhiozzare palpitante delle candele. Non c’erano
orologi, sicché l’aria era ancora più pesante, opprimente e non esisteva modo
di dire quanti minuti fossero passati, né se all’Onomaklutòn esistesse una effettiva quantificazione temporale. Era
un mondo a parte, un microcosmo di bottiglie lucide e bicchieri colmi di un
liquore che nessuno beveva, di dita intrecciate senza convinzione, mani strette
palmo contro palmo, ma prive di un vero contatto umano.
Il liquame si smosse quando quello che Alley aveva
chiamato l’Artista salì sul minuscolo
palco addossato alla parete di fondo. Natasha e Bruce trasalirono
all’apparizione improvvisa, perché non un rumore, non una voce o un balbettare
di passi avevano annunciato l’arrivo dell’uomo. Nessuno lo aveva presentato e
lui si fermò con tranquilla noncuranza al centro della scena, fasci tubolari di
luci che chiazzavano di bianco le spalle appuntite del soprabito nero.
Dinoccolato, col viso rettangolare e dai tratti
lunghi, rigidi, decisi, l’Artista appoggiò una custodia di pelle scura sullo
sgabello al suo fianco; i led affondarono negli zigomi alti e affilati, che
sporgevano da sotto gli occhi come perfette cuspidi triangolari. Le iridi
grigio-verdi, sovrastate da spesse sopracciglia brune, quasi rosse,
scandagliarono con freddezza l’intorno, le labbra piene incurvate in
un’inflessibile espressione di superiorità. I capelli scendevano in un ruggito
di riccioli neri dietro alle orecchie e s’arrestavano appena sopra la nuca,
mentre sulla fronte curvavano a formare un’onda che andava a solleticare, in
parte, la terminazione dell’occhio destro.
La sciarpa antracite gli cingeva ferrea la gola,
scomparendo all’altezza del petto nel colletto triangolare tenuto alzato sulle
spalle. La camicia bianca s’intravide appena nel momento in cui sollevò il
violino e lo pose elegantemente sulla clavicola, l’archetto alto sopra la
testa, le dita affusolate ne trattenevano con dolce costrizione crine e corpo
ligneo.
Sorrise con un ghigno di vuoto divertimento e un
riverbero d’eccitazione vibrò crocchiolando per tutta la sala.
L’Artista accarezzò le corde e Natasha tornò Natalia
in un singhiozzo bianco di neve.
C’era la penombra della platea, una lunga mano nera
stretta al velluto dei sedili; una donna in prima fila, una folta pelliccia
nera attorno al collo bianco da cigno, bocca carminia stretta a delineare la
forma di un cuore trasudante sensualità e bellezza; i capelli erano tirati in
una crocchia ramata di diamanti, alta sulla testa. Come tanti lumini, come
tante stelle, la tiara le ricadeva sulle tempie e sulla fronte in tante gocce
dalle cento e mille sfaccettature. Ogni angolo del gioiello catturava il
luminoso brulichio delle lampade a gas, il canto arancio della fiammella, e
sfarfallava all’intorno meravigliosi giochi rubicondi, colando con un che di
misterioso e attraente negli occhi scuri, concedendo un malizioso buffetto di
colore alle gote appena spruzzate di belletto.
Natalia si nascose ancora e di nuovo, il tremito del
sipario arabescato a ridacchiarle dietro le spalle. Sentiva il cuore in gola,
le ginocchia come fango: era sgraziata, era priva di talento, perché, oh,
perché il Bol'šoj aveva voluto farla prima ballerina? Ah! Mamma, povera mamma,
guarda con che scherno la Russia ancora si prende gioco di noi, della nostra
famiglia decaduta! Dell’ultima figlia degli Zar hanno fatto una bambola vestita
di puntolini luminescenti, l’hanno imbellettata come una di quelle poco di
buono che agli angoli delle strade si svendono alle pance della Nomenklatura,
oh, mamma, povera mamma! Sangue di regina muffito di trecento anni, ecco cos’è
Natalia Alianovna Romanova! Credevo fosse un sogno e invece…! Il sangue che
macchia la Mano asperge ghignando le mie dita e forse questo non è che un
ricordo, forse non è che illusione, e la donna dalla tiara paradisiaca è solo
un ultimo, mero disgregarsi dei sensi.
Però com’è bella, mamma. Mi ricorda te, la stessa
alterigia, la stessa bellezza della più splendida delle donne russe, tu, Sovrana
del vento, Duchessa della steppa. Vorrei che fossi qui a vedermi ballare, che
sia sogno o realtà non importa, perché la tua mancanza trascende finanche il
disfarsi del vero.
Quando il sipario rivelò la sua schiena bianca, Natalia
aveva ancora le mani giunte al petto e l’espressione persa agli attrezzi di
scena sopra la testa, quel labirinto di ruggenti mostri metallici. Il violino
le urlò nelle orecchie e le scorse nelle vene, nuovo sangue e nuovo spirito:
spiegò le braccia e sulle ali della melodia girò il viso ai mali del mondo. Con
gli occhi socchiusi e ottenebrati di bellezza, non c’erano né incendi né
fiamme, non calci di pistole e tanto meno addestramenti tanto duri da
desiderare la morte, cadere e non più svegliarsi, dormire un sonno infinito
senza colori e senza suoni.
Esisteva solo la musica e le scarpette che
sfioravano in un turbine impercettibile di gesso le assi del palco e le dita di
Natalia che disegnavano l’amore del Cigno, i polsi che con un schioccante
roteare dei legamenti ne preannunciavano l’ultimo canto, la dolce, serena
disperazione, mille occhi di vecchi passati, vestigia antiche, bicchieri di
cristallo che brindavano alla Russia, alla Guerra più fredda del ghiaccio, e
no, non pensare, Natalia, lascia che il violino parli per te e per te canti e
urli e gridi e immagini altri mondi e altri universi e altri amori e altre
vite! Un passo ancora nel boato della musica, le unghie artigliate al tessuto
dell’esistenza, a strappare e squarciare i toni cupi del mondo, a sostituirli
con armonie di albe e sussurri di tramonti e bisbigli sorridenti di stelle e
baci caldi di luna, le carezze del sole al ventre e sopra il seno. Una
piroetta, il torace spinto in avanti, il palco che si allarga, la luce che
esplode e deflagra nel salto finale in tanti rigagnoli palpitanti.
La Regina in prima fila si alza e, oh, meraviglia
delle meraviglie! Natalia-ballerina osserva e anela con sguardo estatico gli
occhi amorevoli di Natalia-Sovrana e nessuno più comanda, nessuno più ordina,
le catene dei capi si sciolgono con un clangore di libertà e la pace si
diffonde e ramifica nel petto. Natalia si fonde a se stessa, chiude gli occhi,
s’abbandona.
La musica scema, il violino permane e crea per lei
una culla di pentagrammi, un cuscino di note. Il mondo, ah, che importa del
mondo? Si spengono le luci del Bol'šoj, cala lento il sipario, si allontanano
gli attori e l’orchestra depone gli strumenti. Resta solo il violinista dagli
occhi grigio-verdi, ritto e splendido nello sfolgorio di un lampo misterico.
Non parla, ma le rivela ogni cosa ed ogni parola, e ogni amplesso tra archetto
e violino è una nuova onda di pace che le monta nel cuore e le scivola via
dalle labbra aperte in un guaito di piacevole sconfitta.
Continua a suonare, Artista, suona ancora, suona per
sempre, cancella il dolore e la rabbia, suona e sgretola la nota rossa, il
sangue purpureo, l’obbligazione e l’amore, cancella anche me e suona, suona per
sempre, suona ancora, suona e annullami, annullami e rendimi musica, rendimi musica
e…
«Natasha…»
Vedova Nera sussultò e riemerse in un rombare di
brividi. La carne fremette, i nervi s’accartocciarono e s’avvoltolarono attorno
alle ossa piegate, gemendo e piangendo una litania disperata di rimpianto e
costernazione. L’Artista stava ancora suonando, ma la sua melodia era divenuta
meno di un sussurro alle orecchie di Natasha, ora pieni del battito frenetico
del proprio cuore.
Sbatté le palpebre più volte, per schiarirsi la
vista e la mente, quindi si girò ad osservare il volto esangue del Dottor
Banner: era provato da una strenua resistenza, lo vedeva dal colorito livido
delle guance e dell’orbita, dalla linea dura della mascella, da come il respiro
claudicava nella gola a causa della deglutizione forzata. Dietro le lenti
rettangolari, gli occhi erano tinti d’un verde intenso, segno che una parte di
lui –Hulk, la bestia, il mostro- lottava senza requie contro l’annullamento e
l’incanto.
A cosa si fosse appigliato per evitare la
trasformazione, Natasha non seppe dirlo fino a che non si accorse delle dita di
Banner strette con violenza alle proprie.
***
Clint sollevò la freccia, rigirando l’asta metallica
tra le dita e sollevando il mento per meglio controllare la cosa da ogni
angolazione possibile. Il ratto conficcato nella cuspide ebbe un ultimo spasmo
e infine si rilassò con un unico, rigido distendersi delle zampette pallide. Le
vibrisse si afflosciarono sul muso triangolare, gli occhi liquidi scolorirono,
virando da un nero intenso a un insignificante grigio slavato.
L’Agente pressò le labbra fino a ridurle ad una
linea tagliente sul volto cupo, quindi esalò un respiro, tolse l’animale dalla
punta della freccia e lo lanciò di malagrazia nel mucchietto di roditori poco
distante; si piegò sulle ginocchia e col braccio teso dietro alla schiena
rimise il dardo nella faretra. Sotto di lui, la camera ardente era solo un
ritaglio obliquo dalla penombra delle scale, un frammento poligonale di teste e
occhi, mani tremule di donne strette al fazzoletto, dita sicure di Agenti a
sfiorare prudentemente il calcio della pistola.
Aveva già riferito a Stark dell’allegra brigata
squittente –Sorvolando sul fatto che l’arciere migliore dello S.H.I.E.L.D.
fosse stato costretto ad improvvisarsi Pifferaio di Hamelin-, ma quello che
all’inizio era passato per una semplice necessità di derattizzazione, da alcune
ore aveva cominciato ad assumere tratti appena appena inquietanti: vero che
voci non confermate –Pepper- avevano
più volte raccontato di Sandwich redivivi che sgambettavano felici e gioiosi
nel laboratorio di Stark, ma a tutto c’era un limite. Soprattutto se il “tutto”
ed il “limite” erano la stessa cosa, ossia la stanza dove Capitan America dormiva
il suo ultimo sonno.
Due topi erano una facile battuta, cinque una
raccomandata espressa al servizio di igiene statale, dieci qualcosa che non quadrava né nel cerchio, né oltre.
Undici si corresse Barton, voltandosi
di scatto, la freccia già incoccata. Un istante, clock, il sibilo, uno squittio sommesso e un grumo d’ombra dove
l’animale si era appena accasciato.
«Signore» Clint portò due dita a premere la
ricetrasmittente che teneva nell’orecchio «Venga, abbiamo un problema»
Coulson impiegò esattamente tre minuti e
cinquantotto secondi ad arrivare e in quell’impercettibile lasso, l’arciere
aveva fatto in tempo a colpire un altro ratto.
Dodici pensò, lanciando la bestiola
verso il mucchietto peloso che già aveva cominciato a sollevare un odore
parecchio fastidioso. Che l’odore
fosse vero e proprio tanfo, Occhio di
Falco lo sospettò da come Phil si fermò sull’ultimo scalino, sbatté le palpebre
e deglutì con esasperata lentezza quel poco di ossigeno depurato proveniente
dalla camera sottostante.
«Cosa succede?» chiese poi, la voce arrochita e gli
occhi lucidi per lo sgradevole olezzo.
«Mi spiace averla distolta dal suo animato dialogo
con la signorina Danvers» a quelle parole, Coulson rispose col più eloquente
inarcamento sopraccigliare del repertorio «Ma temo che loro non siano sulla
lista degli invitati» e indicò col pollice la grottesca piramide.
Clint se ne stette in un angolo mentre il superiore
procedeva all’ispezione: questi, per prima cosa, afferrò i pantaloni a livello
delle ginocchia e ne alzò l’orlo, quindi piegò la gamba destra e sottili grinze
si crearono sul dorso della scarpa quando la fece scivolare piano dietro di sé.
Con un ginocchio a terra e l’altro poggiato contro l’addome, Coulson chinò la
schiena in avanti: rigature profonde incidevano la fronte altrimenti piana, le
labbra erano appena schiuse nell’atto di concentrare ogni sforzo a capire come
tanti, ma pur sempre topi, potessero costituire un problema, il pelo irto degli
animaletti che si genufletteva al tocco metodico dei polpastrelli.
«Cos’hai in mente, Barton?» domandò, alla fine
l’avambraccio abbandonato sul ginocchio. Il Falco passò una nocca sulla punta
del naso, per poi puntare l’indice contro l’ammasso di ratti.
«Vermin.» rispose e annuì a se stesso con un
movimento convinto del capo.
Phil, sbalordito, lo guardò e tornò ad osservare il
mucchio ispido di cadaveri. Scrollò il capo e tolse un po’ di polvere dalla
spalla, ma Barton conosceva l’uomo abbastanza bene per capire come quel gesto
servisse solo a dargli la possibilità di connettere quanti più particolari possibili,
il tutto ad una velocità disarmante.
Stark era bravo, dannatamente bravo, a sciorinare
ipotesi e proporre teorie che nemmeno Sherlock Holmes della BBC, ma Phil era…strabiliante, non esisteva maniera
diversa per definirlo. Tony Stark
poteva anche essere il Robert Downey Jr. della situazione, ma Coulson era
uscito direttamente dall’inchiostro di Sir Arthur Conan Doyle –E per il
comportamento, la lealtà, il coraggio, per il suo essere così dannatamente Phil
Coulson, Barton lo accostava senza problemi a Watson, o, ancora meglio, lo
considerava la perfetta, esplosiva miscela tra i due. Sebbene Phil non avesse
nulla di Jude Law e nemmeno di Martin Freeman.
Se solo non avesse avuto quell’aria paciosa di
perenne buontempone, forse la gente -Villains o meno che fossero- avrebbe
cominciato a prenderlo più sul serio e meno per i fondelli. Sebbene, a onor del
vero, l’essere minacciati da quel suo sorrisetto mefistofelico era parecchio
terrorizzante.
Oh, non che Clint avesse pensato chissà quale
meraviglia nell’incontrarlo la prima volta. Chi avrebbe mai preso sul serio un
tizio qualunque del pubblico che dal niente lanciava una monetina in aria,
sfidandolo in maniera plateale a colpirla e a dimostrare di essere davvero Il più grande tiratore scelto del mondo.
“Sono l’Agente
Coulson, signor Barton. Dallo S.H.I.E.L.D. E lei mi deve un nichelino”
«Vermin è un caso archiviato anni fa, Agente, e si
trattava di pedinamento, nulla di più. Non avrebbe motivo di appostare i suoi
amichetti qui.»
Occhio di Falco non disse nulla.
Si alzò. Sganciò l’arco dalle spalle. Sfiorò a punta
di dita l’impennaggio ferreo della freccia mentre la sfilava dalla faretra.
Incoccò.
Un singulto d’aria.
Phil non si mosse, nemmeno quando la cuspide del
dardo gli passò tanto vicino da disegnare un’ombra scura sulla tempia.
«Allora consiglierei di portare qui qualche gatto, signore.»
L’ennesimo topo scricchiolò gemendo contro il
pavimento.
Tredici.
Il prossimo che si alza sarà il primo a morire.
Coulson gettò
un’occhiata veloce al minuscolo cadavere. Quindi si rimise in piedi.
Il cuore di
Barton perse istantaneamente un battito.
***
L’Artista chiuse la porticina dietro le spalle e
rimase per qualche secondo con le dita attorno al pomello. Sollevò le
sopracciglia rosso-bruno, sospirò e quindi, inarcando un poco le spalle
all’indietro, girò il volto a fissare un punto preciso tra le ombre chiazzate
di rosso che dominavano il retro dell’ Onomaklutòn.
«E’ probabile che non sappia bene come rapportarmi
con i miei…come li chiamate, oggi? Fans…?
Ma non vedo alcun bisogno di nascondersi. Prego, venite avanti.»
Bruce stette a fissare la schiena di Natasha che si
allontanava dal loro nascondiglio, salvo poi seguirla con una certa e quanto
mai palpabile riluttanza. Affondò i pugni nelle tasche del giaccone, la testa
incassata tra le spalle, ben sapendo di assomigliare così ad una sottospecie di
bozzolo bitorzoluto e infagottato dentro una sgualcita camicia a quadri.
L’Agente Romanoff fece qualche passo in avanti e
Hulk si agitò in un angolo recondito del suo animo: dacché lo spettacolo si era
concluso, Natasha non pareva essersi ripresa del tutto dagli effetti del
violino. Traballava incerta sulle gambe, ogni tanto, e perdeva il filo dei
discorsi e dei propri pensieri; lui, invece, era riuscito a mantenere la presa
su di sé grazie al moto di ribellione dell’Altro, per nulla disposto a
lasciarsi domare come un leone da circo.
L’Artista pressò le labbra e pose la custodia sul
gradino che scendeva dall’uscita di servizio, sedendosi poi accanto ad essa.
Appoggiò i palmi delle mani uno contro l’altro, la bocca schiusa a mostrare la
fila di denti superiori e i lati degli indici che sfioravano la punta del naso.
«Dunque, donna?»
L’appellativo fece scattare qualcosa dentro Natasha,
che si fermò proprio davanti all’Artista e mise le braccia conserte al petto. A
prima vista sembrava aver assunto la stessa aria con cui gli si era presentata
in India, pensò Bruce, eppure c’era una nota profondamente diversa: nella
catapecchia l’atteggiamento denotava comunque una lieve apertura, una pacifica
prospettiva di dialogo. In quel momento a regnare era solo il gelo.
«Tale astio da parte sua non è necessario» mormorò,
piegando appena la testa sulla spalla «Non sono una Menade, non è mia
intenzione farla a pezzi.»
Banner notò la pupilla dell’Artista dilatarsi per la
sorpresa e per una sorta di piacere inaspettato, quasi quella notizia fosse per
lui un delizioso passatempo.
«Dunque è così!» esclamò, abbassando le braccia e
posizionando la custodia sulle ginocchia «Le voci dell’etere non erano
menzogne! L’Ade si concede ad un mortale, come la peggiore delle puttane!»
L’Agente Romanoff arcuò un sopracciglio mentre Orfeo
continuava nel suo soliloquio e giocherellava con la doppia chiusura della
custodia. Hulk ringhiò un avvertimento sordo nel cervello di Bruce, che dovette
portarsi una mano alla tempia per attutire il dolore e la confusione
improvvisa.
«Ma i ruscelli parlavano di un uomo vestito di
ferro, un morto che cammina fra di noi. Cosa mi mandano gli Dei, invece? Una donna e tu» Banner alzò la testa, chiamato
in causa senza che riuscisse a comprenderne il motivo «Un uomo i cui occhi non
sono quelli di chi ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha
appena ritrovato un barlume di speranza!» Orfeo ghignò, malevolo, e prese il
violino fra le mani, la custodia di nuovo a terra «Ma chiunque voi siate,
qualunque sia la vostra missione, non potete concluderla da soli: avete bisogno
di un segugio a tre teste che vi conduca ai Templi Acherontei» pose lo
strumento sulla spalla, l’archetto già pronto sulle corde «E venite qui, alla
mia Dimora, venite a disturbare i miei Riti Misterici, gli ultimi, forse, che
ancora si celebrano in questo luogo di vestigia polverose!» rise di una risata
fredda, tanto vuota e impersonale da pizzicare la colonna vertebrale con
brividi irosi «Venite qui e pensate che io vi accordi il mio aiuto senza
questione alcuna, piegando il capo e Sì,
dicendo, sì, verrò! Vi guiderò alle ombre
che hanno preso la mia sposa! Alla morte che ha trasformato il suo bel volto in
un teschio, in una casa di vermi e di fango! Sì, sì, verrò!» si levò in
piedi, gli occhi socchiusi, le iridi frammenti di specchio, vitrei e scuri.
Il ringhio di Hulk nel torace si fece più forte,
tanto da coprire ogni altro rumore.
«Troppe
preoccupazioni nel vostro cuore, mortali. Lasciate che Orfeo ponga loro fine…»
E Bruce avrebbe voluto gridare a Natasha di stare
attenta, Natasha che già guardava un mondo che non apparteneva ad altri che a
lei, Natasha che aveva lasciato cadere le spalle non appena la prima nota aveva
piroettato sulle corde del violino, Natasha che era la persona per cui non
ficcarsi un’altra volta la canna della pistola tra i denti.
Avrebbe voluto gridare, ma ciò che gli proruppe
dalla gola fu un ruggito di rabbia, un convulso vomitare di ira e furia cieca.
Il fuoco divampò nei polmoni, l’Altro gli afferrò le costole e le aprì come
avrebbe fatto con le sbarre di una gabbia, gli ruppe il petto, fuoriuscì con un
ennesimo urlo, Hulk spacca! Hulk vendica!
perchè a Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere addomesticato,
a Hulk non piaceva essere domato, a Hulk non piaceva che Natasha fissasse il
vuoto, a Hulk piaceva Natasha viva, a Hulk non piaceva un involucro vuoto di
carne e respiro.
Hulk si abbatté su di Orfeo e lo scaraventò con un
pugno oltre il retro del locale. Snudò i denti lucidi di saliva e si batté il
petto, strappandosi di dosso gli ultimi resti della camicia; si piegò sulle
ginocchia, saltò in avanti, ruggì e latrò, mentre il piccolo uomo col violino
rotolava tra il fogliame e tentava malamente di rimettersi in piedi. Lo
raggiunse con un balzo, lo colpì al viso con le nocche e lo mandò contro un
albero: la corteccia scricchiolò e s’infranse in un tripudio di schegge, il
tronco gemette, si sfaldò, il piccolo uomo col violino si aggrappò al ceppo
dentellato, rialzò gli occhi sgranati e Hulk gli fu addosso, di nuovo e ancora,
lo afferrò per il colletto e lo lanciò lontano, quasi fosse una marionetta o
meno di un giocattolo, lo lanciò contro i rami e le sterpaglie e sterpaglie e
rami gli lacerarono il soprabito e gli graffiarono il volto e quando atterrò
sul piazzale, Hulk era già pronto ad assalirlo un’altra volta.
Il violino del piccolo uomo era ancora integro e
questo fece ribollire Hulk di rabbia: la voce fastidiosa e ronzante di Banner
gli disse all’orecchio che era il violino a rendere Natasha non più Natasha, a
farlo innervosire, perché il violino poteva ammansire le belve, placare gli
animali, ma lui non era un animale, non era una belva, era Hulk e Hulk era
meglio di una bestia, era più di un essere umano e sapeva, sapeva bene che il
violino era da distruggere e spaccare e fare a pezzi e lo avrebbe fatto a
pezzi, spaccato, distrutto, doveva solo mettergli le mani addosso.
Ruggì, le vene del collo sul limite di scoppiare, i
denti che stridevano e strillavano l’uno contro l’altro, e Natasha era dietro
di lui e lo chiamava, Bruce! Bruce!
Diceva e pregava, ma Hulk non sarebbe tornato Banner, perché Banner era debole
e si sarebbe ammansito, ma Hulk no e se Hulk non si ammansiva poteva difendere
Natasha, poteva proteggerla dal piccolo uomo col violino, poteva difenderla dal
suono di zanzara che le appiattiva gli occhi e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge!
Il piccolo uomo col violino gattonò in avanti, ma Hulk
non gli permise di allontanarsi oltre: lo sollevò, gli strappò il soprabito
sporco e lercio e lurido, lo scosse più e più volte, con molta, tanta forza
fino a che il violino del piccolo uomo non cadde a terra e tintinnò e
l’archetto lo raggiunse, e allora Hulk ragliò soddisfatto e abbaiò divertito e
la faccia del piccolo uomo era pallida e viola e lo guardava ed era
terrorizzato e aveva paura di Hulk e Hulk sentiva ancora Natasha che lo
chiamava e gli diceva di farlo scendere, perché l’avrebbe ucciso e a loro
serviva, ma Hulk non voleva ucciderlo, voleva solo giocare col piccolo uomo,
fargli vedere e capire che non poteva ammansire e addestrare nessuno e che lui,
Hulk, non glielo avrebbe permesso, perché il suo violino era fastidioso, era
una zanzara, era un insetto e gli insetti si schiacciano e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge! e non lo avrebbe fatto
suonare di nuovo, a Hulk non piaceva, come non gli piaceva quel posto, non gli
piaceva quel bosco, quell’aria di pace che lo imprigionava e tentava di rimpicciolirlo
e ridimensionarlo e Hulk non ci stava, Hulk non sarebbe stato zitto, Hulk
avrebbe urlato e gridato e gridato e urlato perché lui c’era, lui esisteva e
Banner voleva solo rinchiuderlo e lui non voleva e Banner non l’avrebbe mai
fatto, mai, neanche in quel posto, neanche in quel bosco, neanche con quel
violino che tutto placava.
«Hulk! Hulk, lascialo! Hulk, lo stai uccidendo!»
Hulk. Lascialo.
Senti Natasha, non è vero? Lo stai uccidendo. Non possiamo ucciderlo. Non
possiamo.
Hulk roteò il piccolo uomo sopra la testa, ignorandone
il gemito strozzato.
Banner sta zitto, Banner non dice nulla, Banner
vuole solo prendere il posto di Hulk, Hulk
no, lascialo, ora. Lascia spazio a me, Hulk, Hulk non vuole essere
dimenticato, Banner dimentica e frena Hulk e lo soffoca e lo tiene nascosto e Hulk, per favore, per favore fammi tornare.
Lo stai uccidendo. Natasha non vuole che lo uccidiamo. Fammi tornare, Hulk, per
favore, perché Banner dimentica Hulk e lo crede un mostro e una belva, per favore, Hulk!
«Hulk!»
Hulk grugnì e lanciò il piccolo uomo contro un
albero. Vide la testa del piccolo uomo rimbalzare, blop blop, sul petto, e sangue sulla fronte e sulla faccia
bianchiccia e cadere come un bambolotto senza fili ai piedi del tronco. Rimase
lì e non si mosse, ma Hulk poteva sentire ancora il suo fiato, lo sentiva,
puzzava di sudore e di paura e di cosa viva morta già da un po’ di tempo, non
era cadavere, ma in qualche era morto, ma ad Hulk non importava, non l’aveva
ucciso perché Natasha aveva detto di non farlo e Natasha ora aveva la mano sul
suo braccio e il tocco era leggero, le dita erano sottili e belle, i
polpastrelli carezzavano con dolcezza la pelle nuda. La voce era gentile, un
sussurro appena, un quieto sussurro di vento e di brezza, una nenia
rassicurante, il nome modellato avanti e indietro, indietro e avanti, piano,
con calma, con calma, piano…
Bruce perse l’equilibrio, il cervello una pasta
filamentosa di pensieri contorti, lontano il riverbero e l’eco dell’ultimo
ruggito di Hulk.
Sarebbe caduto in avanti se non ci fossero state le
braccia dell’Agente Romanoff a sostenerlo.
***
«S.H.I.E.L.D.» Bruno sputò fuori quel nome con
rabbia, accompagnandolo ad un bolo di saliva e ad un rigurgito di vino acido.
Si passò il dorso della mano sulle labbra, per poi lanciare un’occhiata
sprezzante al sudicio compagno accoccolato poco più avanti: avvolto in stracci
che puzzavano peggio dei liquami dell’Arno, la sottospecie di pantegana umana
rantolava piagnistei soffocati e si torceva le dita luride e biascicava qualche
porcheria tra i denti gialli ed innaturalmente appuntiti.
«Erano ratti, per Dio! Ratti. Chissenefrega se sono crepati»
L’abitante delle fogne scattò in piedi e gli fu
addosso in un balzo, le unghie artigliate al pastrano e il naso gocciolante a
pochi centimetri dal suo; l’italiano storse le labbra, piantandogli una mano in
mezzo alla faccia rognosa e rispendendolo indietro. Vermin zampettò e
s’accucciò in un angolo, masticando poltiglia non meglio identificata tra le
guance pelose.
«Ratti? Tu dici, ratti?»
sibilò «Senza quei ratti, tu non
avresti mai scoperto di…» un gesto vago con il braccio avvizzito «Loro!»
Bruno sollevò le sopracciglia. E che cazzo, ma certa
gente viveva sulla Terra unicamente per rubare ossigeno?
«S.H.I.E.L.D. » spiegò, rimettendosi in piedi e
togliendosi con fare schifato un rimasuglio di tampax dalla manica destra
«Strategic Homeland Intervention, Enforcement and Logistic Division. Cristo, ma era ancora zeppo di sangue!»
Vermin rivolse su di lui gli occhietti acquosi, le
narici dilatate e, Bruno ne era praticamente certo, le orecchie triangolari ben
ritte contro le tempie.
«Tu non hai mai avuto problemi con la Cura, vero,
sorcio amico mio?» un sorriso storto mentre si accovaccia a raccogliere la
fedele bottiglia di vino e se la portava alle labbra «Buon per te»
Lui, oh,
lui sì che aveva avuto la sfortuna di incappare nelle conseguenze che quegli
idioti della Worthington avevano tirato su con la loro idea geniale di
sopprimere il gene mutante. Magneto aveva fatto i suoi bei casini con la storia
della rivolta, l’italiano non diceva di no, ma almeno aveva avuto il buon gusto
di sparire dagli schermi per, uhm, facevano sette anni ormai, giusto? e non
lasciare nulla dietro di sé.
La casa farmaceutica, invece, non aveva cancellato proprio
tutti tutti i file relativi alla Cura –Che fossero stati tanti idioti da
tenerla in serbo per quando i tempi fossero stati maturi e la gente ancora più
cretina?- e lo S.H.I.E.L.D. non si era fatto certo scappare la possibilità di
metterci le mani sopra.
Figurarsi.
A quei capoccioni non governativi avere dei mutanti
dalla propria parte poteva ancora far comodo, ma gli schizzoidi fuori legge e
potenzialmente pericolosi dovevano essere eliminati prima che fosse troppo
tardi. E Bruno era un mutante schizzoide, che giocherellava col sangue in
maniera non potenzialmente, ma decisamente
pericolosa: ritrovarsi con un mandato di cattura tra capo e collo era stato
più logico di quando avevano cercato di portarlo in gattabuia, dopo aver sgozzato
il docente di Letteratura Latina.
Se non fosse stato per il senatore McCoy
–Dannazione, quella Bestia aveva un fiuto niente male- e la sua ferrea
opposizione all’uso della Cura come inibitore criminale, lui sarebbe stato
ancora costretto a correre da una parte all’altra di Manhattan per sfuggire
agli Agenti, ad accartocciarsi in qualche lurido pisciatoio, a non mangiare per
giorni e a farsi venire il torcicollo a suon di guardare il cielo o a tendersi
alla ricerca di un suono, uno scalpiccio di piede, il singulto di una
pallottola.
Una vita ancora più di Inferno di quanto già non
fosse e tutta per colpa loro, di quei bastardi vestiti di kevlar o simil pelle
o che cazzo era. Tutta colpa loro. Di uno in particolare, quello che lo stanava
dodici volte su dieci, che l’aveva trascinato in un bugigattolo rancido, che
era arrivato ad un passo dal piantargli un ago in vena e che si era fermato
giusto giusto perché dai piani alti era giunta la novella del Senatore Blu.
Bruno sorrise, un ghigno grottesco a tagliargli
obliquamente la bocca.
Quella baldracca. Gli aveva parlato di vendetta,
quando era venuta a reclutarlo.
Mannaggia a lei. Ne sapeva una più del demonio.
«Brindo a te, Phil Coulson» ridacchiò, stringendo le
labbra della bottiglia tra i denti storti «E a quando ti taglierò di netto
lingua e gola, figlio di puttana che non sei altro»
***
Orfeo tamponò la ferita alla bocca con un angolo del
fazzoletto.
Una macchia rossa dai bordi slabbrati sbocciò
liquida sulla stoffa, colando con un che di appiccicoso contro le dita serrate
e pallide dell’Artista. Bruce corse con lo sguardo sui rimasugli di sangue che
ancora gli incrostavano il volto all’altezza dello zigomo destro, un bozzo
livido alla tempia e l’occhio sinistro cerchiato di nero-violaceo. Orfeo stirò
le labbra sottili in un sorrisetto derisorio e la minuscola ferita all’angolo
della bocca si riaprì, stillando una gocciolina gonfia di riflessi lividi.
«Contempli la tua opera, Uomo-Belva?»
Banner non raccolse la provocazione e si strinse negli
abiti dannatamente larghi che l’altro si era fatto procurare dal barista dell’Onomaklutòn, quasi accucciandosi e
rintanandosi dentro le falde del maglione più grande di due taglie. I muscoli
urlavano e le ossa gemevano, il sangue sgomitava contro le pareti delle arterie
spossate per farsi un po’ di strada nel di nuovo ristretto apparato
circolatorio.
Aveva smesso di tremare, il che era un bene, ma le
ginocchia si rifiutavano ostinatamente di reggere il suo peso, disfatte come un
gomitolo di lana: oltre che debole, si sentiva inutile, e la cosa non
migliorava certo il proprio umore –Già storto di per sé a causa della
trasformazione inversa da Hulk a Banner. L’Altro non era mai felice di tornare
alle dimensioni di essere umano e glielo faceva presente, glielo faceva pesare
ogni volta lasciandosi dietro nausea, giramenti di testa, problemi alla vista,
e soprattutto un palpabile senso di rabbia vertiginosa, di impotenza, di
umiliazione.
In simili condizioni non era la compagnia più
adatta, neanche dopo lo scontro che aveva convinto
Orfeo ad unirsi, seppur con qualche palese ritrosia, alla loro causa: aveva
quindi suggerito a Natasha ad allontanarsi per informare Tony sul risultato
della missione, mentre lui rimaneva di guardia, il violino ben lontano dal suo
proprietario.
Bruce tamburellò con le dita sulla custodia di
pelle, il tump tump tump cadenzato
dei polpastrelli che cominciava ad accordarsi al battito più regolare del
cuore; l’Artista, seduto su un ceppo sbranato dalla furia di Hulk, contorse la
bocca a formare una smorfia sogghignante e saputa, cui il Dottore, ancora
volta, evitò accuratamente di rispondere. Torse invece il collo ad osservare
l’Agente Romanoff, in piedi nella piazzola antistante l’entrata dell’Onomaklutòn.
La circondava la luce soffusa delle torce fuori dal
locale, accesesi non appena il sole aveva levato un ultimo braccio rossastro
contro l’orizzonte. Il tramonto si era spento con un guizzo e sul bosco gran
parte distrutto giganteggiava il cielo scuro, velato a metà tra notte e
crepuscolo; i capelli di Natasha erano una calotta di fiamme tremule sotto quei
bagliori soffocati, gli occhi s’intravedevano appena all’ombra delle
sopracciglia aggrottate. Il braccio destro era piegato, la linea polso-gomito
un segmento nero praticamente rettilineo all’orecchio; la curva del seno e del
petto s’affossava rigida nell’incavatura del ventre, aprendosi infine nelle
gambe divaricate, l’ombra un proseguo indistinto della sua figura ancora
all’erta.
Ancora una volta, Bruce si chiese se non fosse
controproducente, se non fosse morboso e a tratti persino perverso aggrapparsi
a lei, al profilo delle ciglia, del naso e delle labbra quale fonte di quiete
in una realtà che sembrava solo volerlo trasformato in una bestia verde e
urlante. Provò a porre il quesito persino ad Hulk, ma questi non gli diede
risposta, segno che la tempesta era ormai passata e lui si stava preparando per
l’agguato e l’assalto successivi.
«Come già ti dissi, non hai gli occhi di un uomo che
ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha appena ritrovato
un barlume di speranza. Ahimè, quale disdetta. Somigli tanto al cuore mio, al
mio dolce Calais, possa Eracle ancora soffrire per ciò che gli ha fatto.»
La voce canzonatoria di Orfeo ebbe l’effetto di
scuotere l’Altro dai ben poco pacifici piani di conquista della coscienza,
oppure, considerò Banner, era lui a trovarlo insopportabile e fastidioso senza
che l’Altro ci mettesse del proprio per fargli saltare i nervi.
«Non capisco di cosa lei stia parlando.»
L’Artista ghignò di nuovo, posando il braccio sul
ginocchio piegato.
«Dovresti interrogare la Belva, Uomo. Pare abbia compreso molto più di te.»
Bruce fu sul punto di ribattere, ma Natasha li
raggiunse e la sua presenza distolse entrambi dall’inscenare un nuovo, inutile
e disfattivo. Dalle mani strette ai fianchi e la piega dura della bocca, il
Dottor Banner capì che qualcosa, durante la conversazione con Tony, aveva preso
una brutta piega. Brutta, se non addirittura pessima.
«L’incontro è sempre per domani, a Cuma.» esordì,
scoccando ad Orfeo un’occhiata che prometteva le più terribili torture, forse
peggiori di quelle inflittegli dalle Menadi, se avesse anche osato pensare di fuggire o compromettere
il loro viaggio «La notizia buona è che ha trovato Odisseo. Quella cattiva è
che al momento si trova a Termini Imerese. In Sicilia.»
«Come…?» Banner corrugò la fronte. Di tutti i
momenti che Tony poteva scegliere per andare in vacanza al mare, quello era
sicuramente meno adatto. «Cosa ci fa a…?»
«Ah…» esalò Orfeo, reclinando deliziato il capo
all’indietro.
Sia Bruce che Natasha si voltarono nella sua
direzione: l’Artista risollevò la testa, il volto contratto nel sorriso di chi
tutto si aspettava dalle circostanze, tranne quanto era appena successo.
«Avrei dovuto immaginarlo, sapete? Ah, Laerziade,
Odisseo Che Molto Si Volge, perché ancora mi sorprendo? Perché ancora mi
stupisco?» il sorriso trasmutò in un ghigno sardonico «L’Erebo gli aprirà le porte
e i morti parleranno a lui con voce di sangue.»
Cor Mortem
Ducens
#05. Deus Ex
Machina
Note :
·
Moti di Stonewall
·
«Avevo pensato anche
a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di chiamarsi come
un antivirus.»
: Dovete sapere che quelli della Marvel sono dei trolloni assurdi. Soprattutto
nelle ultime testate (Ultimates comprese) ci cacciano riferimenti agli attori
che hanno interpretato i nostri eroi preferiti al cinema (Lo stesso Robert
Downey Jr. cita se stesso in Iron Man 3!).
Dunque troviamo
Natasha con falso nome di “Scarlett” riferimento alla Johansson e un giochetto stupido
sui due interpreti di Bruce Banner: Mark Ruffalo e Edward Norton.
Allo stesso modo,
quel trollone del Falco cita Robert Downey Jr. in rapporto al suo ruolo come
Sherlock Holmes nella saga di Ritchie.
·
«E’ la via di Tinia
dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»: quando dico che studiare troppo mi fa male.
Andavo giusto preparandomi per l’esame di Etruscologia quando, oh meraviglia,
oh portento! mi è venuto in mente questa cazzata idea. Visto e
considerando che Amora sta conducendo Thor per una via traversa perché non
scomodare gli Etruschi? La loro religione, infatti, ha subito una forte
contaminazione dai contatti coi Greci e visto che ho inserito anche il
personaggio di Enea nella storia nell’accezione del suo personaggio
dell’Eneide, perché escludere la stirpe di Tarconte?
Tinia altro non è che il nome etrusco di Zeus, Rasna il nome con cui gli Etruschi
chiamavano se stessi, Tyrsenoi il
nome dato loro dai Greci.
La porta descritta
esiste veramente e si trova nella Tomba Campana a Veio: è la prima in cui si
trova la porta quale elemento centrale, fulcro attorno al quale ruota la
decorazione, discrime tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
·
La
nostra Natasha ha la bellezza di settant’anni ed è l’ultima discendente della
famiglia Romanov, nonché prima ballerina del Bol’soj Mica pizza e
fichi.
·
Carol
Danvers è la nostra cara Mrs. Marvel.
·
Vermin
·
Quel coglione Quel bezugo Bruno, parlando
della Cura e della soppressione del Gene Mutante, fa riferimento agli eventi
del film X-Men: Conflitto Finale (2006). L’acronimo S.H.I.E.L.D. in realtà sta
per Strategic Hazard Intervention, Espionage
and Logistics Directorate, ma ho qui riportato la versione che ne dà Phil Coulson nel primo Iron
Man.
·
Orfeo ha la nota più lunga, ecco perché l’ho
lasciato per ultimo. Non perché mi stia sulle balle Un po’ sì, però, dai
Dunque, per prima
cosa vi rimando alla pagina di Wikipedia
a lui dedicata,
ché è sempre una cosa molto utile (?) Onomaklutòn è il termine con cui Ibico si
riferisce a lui in un frammento del VI secolo, mentre Apollo, Calliope ed Eagro
sono tre personaggi legati alla sua nascita. Calais è il giovane che egli amò
dopo la morte di Euridice (Orfeo è, infatti, colui che lasciò da parte i riti
di Bacco e promosse l’amore omosessuale, venendo poi fatto a pezzi dalle
Menadi, per questo). Tutto, anche i particolari delle lira e del serpente sul
biglietto, rimandano a lui e alla sua storia.
Poi…Cosa che credo
di non aver mai fatto in altre storie, ma qui ha un prestavolto preciso. Spero
solo si sia capito, ecco. Spero di averlo descritto in maniera decente.
Per chi se lo
chiedesse, ho impunemente usato Benedict Cumberbatch nella sua veste di
Sherlock Holmes, nella famosa serie della BBC.
Non so per quale
motivo, ma pensando ad Orfeo mi è venuto in mente lui Altra prova che non
sono normale, alèèèè
Note
di Fine Capitolo
AVVISO!
DAL 1 LUGLIO AL 16 AGOSTO SONO VIA PER UNO SCAVO E NONOSTANTE IL WEEK-END IO
SIA A CASA, DUBITO DI RIUSCIRE A POSTARE UN NUOVO CAPITOLO. CERCHERO’ DI
METTERLO PRIMA DELLA PARTENZA, MA NON VI ASSICURO NULLA.
Boia c’è Hulk. Io non ho mai
descritto Hulk. Non mi sono mai infilata nella sua testa. Che dite? Plausibile
o bocciata su tutta la linea?
Via, stavolta non mi dilungo, ché sto
capitolo mi ha spossata del tutto XD
Ringrazio mia mogliaH Alley e Shi_Tsu_Geass per aver recensito! E poi bunnybenny per aver messo la storia tra le seguite!
Alla prossima!
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Capitolo 7 *** #06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi Anni ***
cmd6
.: *** :.
Il montone dondolò il muso, recalcitrò e gemette un
belato sdegnoso, o forse solo debitamente terrorizzato; Tony arrotolò la
cavezza attorno alle nocche, sacramentando tra i denti gli insulti più terribili
contro quell’insulsa bestiaccia appestata
di pulci e puzzo. L’animale arretrò e roteò gli occhi sanguigni verso
l’alto, verso il basso, verso destra, verso sinistra, grattò il terreno molle
con lo zoccolo, ma affondò con un singulto strozzato di fango ed erba, quasi
fossero tutti intrappolati nelle sabbie mobili, trattenuti da nebbiose catene
d’argilla.
«Sta’ buono, Obadiah!»
lo richiamò il magnate e gli sovvenne il pensiero che, più della paura –Paura
di cosa, poi? Cosa avvertiva che a lui era sconosciuto?- fosse il nome a
mandarlo su di giri. E non in senso buono, ovviamente. Nessuno avrebbe voluto
chiamarsi Obadiah, forse nemmeno lo
stesso Obadiah avrebbe voluto continuare a chiamarsi così dopo quello che aveva
fatto.
O magari sì, chi lo sapeva. Tony aveva rinunciato a
capire Obadiah nel momento stesso in cui quello aveva cercato di arrostirlo in
maniera tanto efficiente quanto maleducata. Parecchio maleducata.
Il carrettino che Odisseo aveva trascinato lungo il
declivio scricchiolò e canticchiò una lugubre nenia di legno rachitico: Stark
deglutì, serrando le labbra e cominciando a capire, almeno in parte, a cosa si
dovesse l’agitazione del montone.
Fino al casolare la notte era stata limpida e
quieta, il cielo terso, le stelle visibili. Poi dal fogliame improvvisamente
irrancidito era spuntata quell’orrida struttura, quel bubbone di cemento a
parallelepipedo, un’escrescenza grigia, sporca, malarica in mezzo all’erba rattrappita, che sapeva di marcio e
muffa. Tony aveva creduto di trovarsi davanti ad una vecchia colonia fascista,
ma qualcosa, nelle viscere della catapecchia incrostata di lerciume,
l’aveva convinto del contrario.
Le voci, in primo luogo. Striscianti sussurri
smoccolati, serpi sibilline come suoni sbocconcellati, subdoli sentieri
strascicati, srotolatisi sulle piastrelle sbeccate, sulle finestre spaccate, su
stradicciole smarrite di sassolini e singulti d’ovatta. Non avevano forma, non
erano parole precise. Si rincorrevano l’una l’altra tra i lividi batuffoli di
polvere, i sacchi accartocciati della spazzatura, cicche di sigaretta,
scontrini mangiucchiati dai ratti, tappeti smembrati, giornali ammonticchiati,
tende sbranate, siringhe, cartucce, stoffe, ceramiche, tumescenze di cera,
candele di sego. Non si fermavano, non avevano calma, né requie, sghignazzavano
nell’ombra, si torcevano alla luce pallida e unticcia del fiammifero che
Odisseo tratteneva paziente tra i polpastrelli imbiancati dalla tensione.
Tony le aveva sentite infilarsi, ridacchiando, nelle
orecchie, scivolare lungo la gola, impiastrargli le narici; avevano creato un
ingorgo litanieggiante all’altezza delle corde vocali –Corde vocali che avevano
preso a liquefare, sciogliere, imbastire, annodare a loro piacimento, fino a
sminuzzarle, fino a renderle mute; si erano accovacciate nei polmoni e lì erano
rimaste, gnaulando e miagolando un lugubre coro di pianti.
Perché cantavano,
sì, su questo Stark non aveva dubbio alcuno: cantavano di nuvole e nebbia, di
vino e di miele, di acqua che scorre e tempo che sgretola, di amore che nasce e
dolore che prolifera, una montante marea di cupa oggettività che il magnate
sentiva appiccicarsi alle ossa come tante goccioline di rugiada acida e
corrosiva.
Cosa dicono? Aveva domandato ad Odisseo,
mentre entrambi stavano passando sotto un architrave dentellato.
Sono gli spiriti
dei Cimmeri(1), non dar loro ascolto. Volgi la tua mente a
ben altri pensieri, che il tuo cuore si colmi di vita e non di morte. L’eroe
gli aveva quindi voltato le spalle, cominciando a rovistare con le dita lunghe
e nodose –Così simili al legno di un albero maestro- tra le pieghe di una tenda
polverosa e bitorzoluta, tinta d’una cupa tonalità vinaccia.
Accompagnato dal dleng
dleng delle nocche di Odisseo che andavano a sbattere contro corpi ceramici
non meglio identificati, Tony aveva seriamente tentato di concentrarsi su
qualcosa che non fossero i rimbrotti purulenti di qualche anima spersa nella
polvere. Non gli era sembrato un compito tanto difficile, giacché avrebbe dato
l’anima pur di trovarsi in un altro posto, dentro un’altra casa, sopra un’altra
terra.
Immaginò il cielo, un’estensione azzurra a picco sul
mare –Dacché si erano lasciati il tramonto alle spalle, non un rigagnolo di
luce era colato a bagnare il sentiero ai loro piedi: quel luogo tetro pareva
immerso in un fetore costante di ombre. Ma nella sua testa, ecco…! Un nuovo orizzonte,
un sole brumoso a sfumare con le dita i primi vagiti dell’alba.
Sognò di un pavimento splendente, le cui piastrelle,
sospirando, variavano languide dal grigio ferro al blu metallizzato; le pareti,
alte, sfiorate appena dal tocco incolore del neon, si incontravano ai quattro
angoli del soffitto a lastroni pallidi. Lo specchio a muro raccoglieva
l’immagine rialzata del letto, i vestiti acciambellati a terra, e rifletteva
ancora anse e movimenti, i giochi di bagliori addosso alle spalle, nell’incavo
delle gambe, sul retro delle ginocchia, lungo la curva della schiena
inarcata.
Inspirò a pieni polmoni l’odore pungente della santa
trinità a tre esse –Sesso, sudore e sale- che inumidivano la bocca ed il ventre, la punta delle dita e il
profilo aguzzo delle ultime vertebre, ogni piega rigonfia delle lenzuola
incredibilmente bianche, deliziosamente sfatte.
Si crogiolò nel tepore di una vetrata aperta
sull’estate, si nutrì il cuore dell’invitante tremolio del caffè che
gorgheggiava a un corridoio di distanza, ritrovò coi polpastrelli l’incavarsi
del materasso nel punto preciso dove un altro corpo era rimasto disteso fino a
pochi attimi prima.
S’umettò le labbra col sapore dolce-amaro di una
pelle calda, tesa con uno spasmo sotto la lingua; la bocca arsa della carne che
riempie palpitando le mani, del respiro che si mozza nell’armonia gutturale
d’un roco ansimare.
Ma nulla era più vero, di quell’immagine. Nulla più
esisteva –Era bastato un filo reciso, era stato sufficiente un arresto a
cardiaco.
Bave di ragnatele caddero suicide dal soffitto, ruggì
la polvere a ricoprire il mobilio, ad insozzare le lenzuola, a graffiare
maligna la superficie dello specchio; la mente protestò e si ribellò e crollò
il cielo, il sole, l’estate, si disfece il pavimento e la realtà all’intorno: non
più il bubbolio ridacchiante del caffè, ma soffi, sibili, litanie, ingiurie,
preghiere, lacrime e canti e tutto fu nebbia e tutto fu grigio e la perdita ghignò,
sorrise, latrò, divenne mefitica e Tony non riusciva più a trovare la vita,
vedeva solo la morte e la toccava la mano e la rifuggiva e la riabbracciava, la
accompagnava in un giro di valzer e poi l’abbandonava sul ciglio dell’esistenza
e subito pentito era in ginocchio da lei e le baciava le ossa imputridite e la
pregava, la implorava di sostituire
al teschio deforme un volto ben modellato, alle orbite vuote cortesi iridi
azzurre, alla non-vita la più importante delle esistenze. Soffocava per lacrime
che non credeva di avere, urlava grida che credeva di possedere, sprofondava in
un’agonia che non credeva di provare.
Avrebbe continuato a vagabondare nel delirio dei
Cimmeri, non fosse stato per la presa salda di Odisseo sulla spalla destra.
Ricordi, Uomo di
Ferro? Vita, t’ho detto! I Cimmeri, custodi dell’Erebo, si nutrono della morte,
giacché non altro gli è rimasto: non vino, non latte, non datteri od offerte le sopracciglia cespugliose si
erano arcuate fino ad agganciarsi all’attaccatura dei capelli Guarda! Osserva come la nebbia ci si è
gonfiata all’intorno e come brulicano i loro occhi attraverso i tralci della
tua disperazione. Non pensare a chi stai andando a salvare, Uomo di Ferro, ma
chi è rimasto ad aspettarti, a salvarti, oltre il popolo e la città, di nebbia
e nubi avvolte(2).
Stark aveva annuito, forse deglutito –Aveva faticato
anche solo per ricordare dove si trovasse e in qualche condizione e perché
fosse lì, intirizzito dal terrore e dalla nebbia.
Erano usciti nel giardino incolto da una porta
scrostata e dai cardini in parte divelti, Tony che si guardava circospetto alle
spalle, la camicia incollata alla schiena per colpa d’un gelido reticolo di
sudore freddo; Odisseo che avanzava lesto tra l’erba alta, le sterpaglie e la
gramigna.
Se i ricordi alla Tower erano più un intralcio che
un sollievo, Stark decise di aggrapparsi all’unica persona ancora in grado di
tenerlo vivo: Pepper gli arrivò accanto, un’eco di dolce pazienza, addosso il
profumo tiepido di quell’intruglio alla cannella che si ostinava a bere prima
di iniziare a lavorare; un leggero retrogusto di Vodka Martini a donare una
stilla divertita agli occhi gentili, i capelli che cadevano dalla spalla destra
in un singhiozzo rosso-biondo e si arricciolavano come un sorriso appena sotto
la curva del seno.
Gli aveva dato un bacio sulla fronte, prima che
partisse per Vathy, e lo aveva abbracciato. Gli aveva chiesto scusa, lo aveva
stretto più forte.
Tony aveva riconsiderato le proprie storielle e
scappatelle varie da parecchi punti di vista, ma con Pepper la situazione era
diversa. Pepper non era stata una storia, non era stata un’esperienza…Era stata
una vita e per questo Stark ancora la
ringraziava –Arrivando persino a scegliere di
persona il suo regalo di compleanno. Di persona con Steve, ma era pur sempre un dettaglio tranquillamente
trascurabile.
Fuori dal casolare fatiscente lui ed Odisseo avevano
seguito una staccionata smangiucchiata dalle intemperie, fino a raggiungere un
recinto squadrato e in buona parte ricoperto da fogliame incolto; al centro un
montone nero e una pecora dagli occhi acquosi, immobili, come in attesa. Senza
dire una parola, l’eroe omerico aveva tratto via un carrettino cigolante
dall’ingorgo di sterpaglie che gli era accanto, vi aveva depositato il sacco di
juta in cui aveva messo…il qualunque cosa
avesse tratto dalla tenda bitorzoluta, tre anfore ancora piene –Aveva
sentito del liquido scrosciare rumoreggiando in ognuna di esse - ed una più
piccola, che sapeva di miele odoroso –Ma com’era possibile che fossero lì? Che
fossero ancora pieni? Perché erano
lì? Perché erano ancora pieni? Perché
non erano marciti e, dannazione, perché tutto, tutto sembrava predisposto da tempo immemore per la loro venuta?
Odisseo aveva poi legato i due animali e cominciato
a salire lungo il profilo della collina, attraverso sentieri che non esistevano
e deviazioni coperte di spine e rami cenciosi. Si muoveva con la sicurezza di
chi avesse il percorso tracciato non nella mente, ma nel sangue.
Quante volte sei
già stato qui?
Una sola, Uomo di
Ferro. Ma una visita a questi luoghi è bastevole per una vita intera.
Più si addentravano nel ventre guasto di quel luogo
dimenticato da Dio –Da qualunque pantheon provenisse-, più il miasma
pallidiccio s’infittiva e le nenie crocchiolanti s’alzavano di volume e
malinconia; Tony aveva spesso torto il collo a cercare la ghirlanda luminosa
che era Termini Imerese, addormentata nella conca dei declivi, ma della
cittadina italiana non era rimasto che un pigolio vacuo oltre la nebbia
melmosa.
«Di’, ma cosa ne dobbiamo fare di Obadiah e della
tua pecorella?»
Odisseo sulle prime non rispose, intento com’era a
sfilare dal sacco alcune coppe piuttosto profonde, dotate di due anse
orizzontali all’altezza dell’orlo e sulla pancia una decorazione tanto
affastellata di elementi che Stark non sapeva dove porre lo sguardo.
«Di cosa credi si nutrano le divinità ctonie, Uomo
di Ferro?» lo rimbeccò, aprendo le anfore a svelare il loro contenuto di latte
cagliato, acqua e vino dolce.
«Take Away cinese?»
L’eroe lo fissò per alcuni istanti, prima di
scoppiare a ridere e rivelare la chiostra bianca dei denti.
Non era più il pazzo arzillo che aveva incontrato a
Vathy: aveva abbandonato le spoglie da mendico per spalle larghe, torace ampio,
pelle cotta dal sole e ingemmata di cristalli di salsedine; i capelli
rosso-bruni gli arrivavano fino alle orecchie e coprivano il mento volitivo con
una sottile peluria della tonalità del bronzo, più folta sotto il naso adunco e
rada all’altezza degli zigomi, due spessi triangoli come d’argilla che
sporgevano a sostenere gli occhi obliqui e verdi, colmi di mare e sapienza.
Delle vesti con cui gli si era presentato aveva mantenuto unicamente il
cappellaccio conico, mentre la corta veste blu scuro, trattenuta in vita da una
cucitura rosso squillante, aveva ben altro aspetto ora che non recava più
traccia di polvere e sporco.
«Ehi, non giudicarlo prima di---»
«Scava una fossa cubitale, Uomo di Ferro. Mantieni
nel tuo cuore, però, ancora il soffio di allegria di questa tua facezia,
giacché ciò che vedrai ha sfiancato spiriti più audaci del tuo»
Odisseo parlava poco, ma le sue frasi erano una meno
comprensibile della precedente. La cosa peggiore, però, era la traccia di
inquietudine che esse lasciavano addosso, un sentore inevitabile e terrore,
brividi sotto pelle, fiato bollente ad attanagliare la gola.
Tony fece quel che l’eroe gli aveva detto, spiando
le sue mosse con la coda dell’occhio: lo video estrarre da una piega della
veste un coltellaccio a costola curva; il montone e la pecora scalpitarono e
belarono, qualcosa tremò, vibrò sotto la terra.
Stark scattò in piedi e s’allontanò con un salto nel
vedere un dito ricurvo spuntare dall’ultima zolla smossa, artigliare l’aria,
torcersi e quindi svanire come fiammella spenta da un soffio di fiato; si voltò
a cercare Odisseo con sguardo allucinato e le tempie sbiancate dal terrore;
l’eroe sorrise d’un ghigno superiore e lontano, slegò la cavezza, avvicinò il
carrettino e strattonò gli animali in avanti, per poi consegnare corde e
coltellaccio nelle mani del magnate. S’inginocchiò nel fango a saggiarne la
profondità con le unghie incrostate di rimasugli violacei, quindi si rialzò e
prese la prima delle anfore, versò il contenuto nelle basse coppe e lo gettò dentro
la fossa.
Il latte si frantumò ruggendo contro le pareti
bombate, l’odore si mescolò nauseabondo al lezzo crescente di putrefazione e
ossa divelte; ad esso seguì una lacrima di miele ambrato, dolce come l’ultimo
abbraccio dei cari, e poi vino profumato di zucchero e spezie, asprigno,
stucchevole, calice alzato alla memoria del defunto. Infine l’acqua, a
cancellare e mescere, a comporre e distruggere, e la terra assorbì le libagioni
con un risucchio di gengive insalivate e bocca di vecchio, l’erba ebbe un
guizzo di fuoco e smeraldo, il freddo irrigidì finanche le stelle.
«Divinità dell’Ade
e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò in
quest’impresa da infiniti tramonti non più tentata, io prometto di immolarvi la
più grassa delle vacche sterili e di colmare il rogo di ricche offerte.»
Obadiah gettò un urlo d’orrore, la pecorella
scalpitò, ma Tony era troppo paralizzato per accorgersi di qualcosa che non
fosse il fluire delle offerte in rigagnoli pestilenziali o la voce di Odisseo,
profondo rombare d’Oltretomba.
« E per…» l’eroe
sollevò gli occhi di baratro nero ad incontrare gli occhi di Stark e questi
avvertì la risposta uscire di propria sponte dalla bocca contratta.
«Steven Grant Rogers» mormorò, con un sussurro intorpidito
che non gli apparteneva.
«…Steven Gran
Rogers a parte sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei
nostri greggi.(3)»
E prima che potesse protestare, prima che potesse capire, Odisseo artigliò con dita ferine
le corde che trattenevano gli animali e il montone fu il primo a cadere. Un
lampo del coltello, il filo della lama pianse gocce vischiose di sangue fumoso
e cedettero le ginocchia coperte di vello e svennero gli occhi marroni
nell’orbita infossata del muso triangolare. Un urlo di sordo giubilo squarciò
il ventre del mondo, la nebbia fremette, s’arricciolò, cantò entusiasta e volti
senza viso di uomini antichi si acquattarono attorno al perimetro della fossa,
esseri fatti di goccioline e ragnatele, esseri che non conoscevano il sole,
esseri avvolti dai nembi eterni e senza fine –I Cimmeri.
La pecorella tentò di saltare oltre il bordo, ma
Odisseo fu veloce e l’agguantò e le disegnò un sorriso purpureo sul collo
lanoso. Sprizzarono ovunque filamenti rossi e trine vermiglie, pioggia carminia
e ululati gorgoglianti, strascicare di vesti, tendersi di nervi, strascinarsi
di piedi, versi arrochiti di stomaci contratti dalla fame di vita, dalla sete di
sangue.
Odisseo si levò, Tony arretrò, i Cimmeri esultarono.
I morti apparvero.
***
Nel muovere un passo in avanti, la pietruzza si
staccò da sotto la suola del calzare e rotolò tintinnando in acqua. Il
trampoliere(4) sollevò il collo flessuoso e girò verso di lui il
becco appuntito; rimase ad osservarlo per alcuni istanti, gli occhietti neri
socchiusi –Sospettosi, persino-, quindi battè le ali e s’involò con uno scatto
liquido, la punta candida delle piume che gettava all’intorno schizzi e gocce
grigiastre.
Gli uccelli erano ovunque, tanti puntini bianchi tra
i canneti incolori e il rimestare limaccioso dei fiumi: Thor ne vide uno
percorso da venuzze rigide, come cristalli o graffiti di ghiaccio, un secondo
limpido, a specchio, che lasciava intravedere il fondo di ciottoli sgrossati e
appiccicosi di melma verdastra; ve n’era anche un terzo, un tripudio di fiamme,
cenere e lapilli, il cui convulso scorrere lavico era accompagnato da un
singhiozzare continuo, costante(5).
Il Dio tese il collo in avanti, non osando
avvicinarsi di più, né cercare una facile discesa alle rive bollenti.
«Per Odino…!» esclamò, ritraendosi «Sono uomini,
quelli immersi!»
Ed era vero, lo sguardo non l’aveva ingannato: tra i
flutti di fuoco emerse un cranio ustionato, la pelle una crosta nera e
ributtante sulle ossa roventi; dei bulbi oculari non era rimasta che una
poltiglia di lacrime e muco, della bocca carne untuosa, pustole e bubboni
cancerosi –Eppure possedevano ancora la forza, o la maledizione?, di poter piangere, di poter urlare, di poter
implorare la salvezza.
«Non ti curar di loro, amore mio» l’Incantatrice gli
mise una mano sulla spalla «Parricidi e matricidi, poco più che bestie.»
Thor era sul punto di ribattere, quando un suono, un
belato, risuonò in invisibili cerchi
sopra le loro teste e tutta l’aria –Fino a quel momento intrisa del sapore di
vino, miele e latte cagliato- s’impregnò di metallo e sangue; il Dio alzò la
testa e corrugò la fronte quando vide i trampolieri levarsi in un sol gesto nel
medesimo istante, un unico corpo di penne e guaiti stridenti.
Nell’avvoltolarsi stagnante dell’acqua sollevata
dalle loro zampe, presero forma figure oblunghe con teste ovali, arti allungati
e corpi molli, stracci penduli dalle braccia gommose e attorcigliate attorno a
caviglie tremolanti. Claudicavano ondeggiando verso il punto in cui il fiume di
fiamme e il rivo striato di gelo si univano a formare una lingua d’acque
fumose: era sorto una specie di rigonfiamento, in quella zona, formatosi
dall’accumulo di sostanze vischiose, bianche, rosse e ambrate, dal lezzo
maleodorante, infetto. Le anime immerse nella lava tentarono di uscire,
aggrappandosi agli orli appiccicosi degli altri spiriti, ma appena uno riusciva
nell’impresa ecco…! Uno dei trampolieri gli volava affianco e gli strappava le
dita con una beccata; le creature lattee, in qualche modo richiamate dal gesto
dei parricidi, facevano ricadere il cranio sul petto bombato e piegavano le
gambe esili, come ad inginocchiarsi. Di nuovo, l’uccello interveniva ad
impedire ogni contatto, afferrando tra gli artigli la veste pallida dello
spirito e traendolo via, riconducendolo alla lunga, lenta processione.
Il Dio del Tuono sarebbe rimasto ancora per molto
tempo ad osservare la litania di anime mugolanti procedere senza scopo comprensibile,
soprattutto perché esse, una volta arrivate sull’escrescenza rialzata,
tendevano le falangi tubolari alle pareti coniche del pozzo roccioso e poi
svanivano, in un soffio di polvere e cristalli. Avrebbe voluto, questa volta,
scendere per osservare più da vicino, ma Amora doveva avere per lui altri
progetti: lo afferrò per un lembo del mantello e lo costrinse a scendere per
una viuzza screpolata, a stento bastevole per far passare entrambi in fila
indiana.
Si tennero lontani dalle rive dei tre fiumi, ma Thor
poteva comunque sentire ragnatele di zolfo e carne bruciata incrostargli le
narici e il fiato gelido degli spiriti colare denso sul retro del collo;
l’Incantatrice quasi correva, i capelli biondi ridotti a filamenti grigiastri
per la luce non-luce di quel posto infame.
«Amora» la chiamò il figlio di Odino «Amora, dove
stiamo…?»
La donna si girò veloce, lo sguardo che ostentava
una sicurezza inesistente, la bocca che cercava di nascondere il tremore
impaurito della mascella; le spalle candide erano scosse dai brividi, il petto
florido s’alzava e s’abbassava non per la corsa, ma per il panico del cervo che
si sa braccato dal cacciatore, pur non vedendolo negli angoli che svolta e
snida. Torse il collo a cercare dietro di sé, strinse le labbra truccate di
carminio e fece scivolare le dita sinuose tra quelle di Thor; questi arretrò,
ma in cuor proprio non poteva negare come, in assenza di Lady Jane, avrebbe
trattenuto con gioia la mano dell’Incantatrice contro il palmo.
«Dobbiamo sbrigarci, amore mio.» lo avvertì e portò
una nocca al labbro inferiore «Siamo stranieri in questo luogo, non scordarlo.
Se ci trovassero…» s’interruppe di colpo e gli occhi sgranarono; il Dio stava
per chiederle di continuare, quando una voce alle spalle palesò il motivo di
tanto terrore.
«Se vi trovassimo, prima vi interrogheremmo. In
seguito vi conficcheremmo la nostra picca nel costato»
Thor si girò, cauto, il braccio destro già teso
lungo il fianco, pronto a richiamare Mjolnir; appena ebbe posato lo sguardo su
chi aveva parlato, poi, il figlio di Odino capì di essere al cospetto di propri
pari.
Erano due ed erano a cavallo: nudi entrambi tranne
che per un mantello tinto di porpora ed un copricapo a guisa di guscio calato
tra i riccioli neri, acconciati ai lati delle tempie in trecce sottili, lucide
d’olio. Un balteo di cuoio abbellito di borchie in argento attraversava loro il
torace, a sostenere sulla schiena una picca di frassino, e sulla fronte algida
fiammeggiava una stella iridescente. Guardandoli nella fretta e nell’apprensione,
a Thor i due gemelli -Perché altro non avrebbero potuto essere- erano sembrati
identici in ogni dettaglio, ma osservandoli meglio notò che gli occhi di uno
avevano il colore della terra bagnata, del limo fecondo, del fango che straripa
fertile dalle bocche del fiume; le iridi dell’altro, invece, avevano la
splendida, meravigliosa lucentezza del cielo terso che circondava anche Asgard,
l’azzurro divino dell’orizzonte più terso, della più pura volta celeste. La pelle
di quest’ultimo, inoltre, era come intessuta d’oro e le carni del secondo
fratello, a confronto, ne uscivano smorte, pallidicce, malate. I muscoli non
erano così scattanti, né delineati, la bocca non così rossa, le gambe non così
forti –Se qualcuno glielo avesse chiesto, il figlio di Odino avrebbe detto che
ad uno era stato concesso al dono dell’immortalità, all’altro negato per natura
di sangue.
«Attento, cuore mio» bisbigliò Amora al suo orecchio
«Costoro sono custodi dell’Oltretomba. Essi sono gemelli, nati da un uovo di
cigno. Ma ricorda, uno solo di essi…»
«Taci!» gridò il fratello dagli occhi di terra,
tirando le briglie tintinnanti «Polluce(6), anche tu lo senti?
L’odore che li appesta, il lezzo che mi attanaglia lo stomaco» socchiuse le
palpebre, storcendo la bocca in un’espressione di sommo disgusto «Paglia
impregnata di barbarico piscio, barbaro idromele e sangue barbaro. Dite,
stranieri, riuscireste a pronunciare i nostri nomi senza arrotolare balbettando
le vostre lingue balbuzienti(7)?»
Thor ringhiò, la faccia stravolta dall’ira e dalla
vergogna; le vene del collo pulsarono, i denti scricchiolarono tanto prese a
digrignarli.
«Via, Castore, non intrattenerti oltre con loro» lo
riprese Polluce, ma sul suo viso non c’era alcuna intenzione di porre fine alla
tensione «Di certo, avranno una spiegazione per questo comportamento, vero? Del
perché si sono introdotti come i peggiori dei ladri nella Dimora dell’Ade, del
perché Cerbero non ringhia e non latra più dall’oscuro ventre del suo antro. Oppure…Oppure,
proprio come quel cane d’Odino, Signore della Fetenza, venite qui pensando di
poter disporre dell’Ade, solo perché ora---»
Non gli riuscì di concludere la frase, che già il
Principe di Asgard lo aveva colpito allo zigomo col potente Mjolnir: un gran
scoppiettare di tuoni e scricchiolare di lampi accompagnò la caduta di Polluce,
tra gli schizzi di fango e rametti bavosi incastrati tra i ricci ben modellati.
Il cavallo, privo di cavaliere, nitrì, s’imbizzarrì, mosse impazzito gli
zoccoli al vento; Castore gli fu incontro, spingendogli davanti la propria
cavalcatura con una ginocchiata nei reni.
Infuriato oltre ogni limite, girò la testa e tese la
picca.
«Pagherai col sangue quest’affronto, cane barbaro.»
***
Steve smise di parlare e gli venne il dubbio di non
aver nemmeno mai iniziato.
Ricordava l’ingresso nel gorgo nero, affiancato da
Ermete, il cicaleccio cigolante del fuso e le dita che strimpellavano rancide
nenie su un filo ben teso e il morso rugginoso d’un paio di cesoie farsi
lontano e confuso; ricordava la strada in discesa e il buio sempre più fitto,
ma che per gli occhi non era causa di fastidio alcuno: il Capitano vedeva bene
come fosse stato giorno, per quanto, a onor del vero, da osservare e rimirare
ci fosse ben poco.
Ermete era l’unica fonte di luce nel grigiame della
galleria, il bagliore delle vesti e della fascia alata che gli cingeva la
fronte creava ai suoi piedi un alone d’oro bianco capace di allontanare
qualsiasi ombra avesse cercato di sopraffarlo. E di ombre, in quel luogo, ce
n’erano in abbondanza: ombre negli angoli della roccia, nei tumori tufacei
della pietra, tra le noci di ghiaino e le erbacce scheletriche, ombre nel
reflusso sonoro di acque lontane, ombre ad infiacchire la voce, a sbriciolare i
ricordi.
Steve non le temeva, il che lo inquietava parecchio.
Più avanzava attraverso il rigurgito stagnante, più cominciava a sentirsi a
proprio agio in mezzo a quei nugoli mormoranti e un senso di pace lo
ineluttabile lo invadeva dalla cima della testa alle punte dei piedi.
E lentamente, inesorabilmente, iniziava a dimenticare.
Schiacciato dalla pesantezza dei miasmi e dal
silenzio corroborante, Steve aveva deciso di raccontare qualunque cosa gli
fosse venuta in mente, con la sensazione, così, di non perdere se stesso: aveva
detto ad Ermete del Madison Square Garden, della folla e delle luci, del
ringhio del motore sotto le dita; gli aveva presentato James “Honcho”
MacDonald, Reddy e Wolf, descrivendo la vivacità del primo, l’emozione del
secondo e la sospettosa serietà dell’ultimo, di tipico stampo californiano;
aveva taciuto del pre-spettacolo,
però, degli occhi di Stark riflessi nello specchio del bagno della Tower, il
suo completo lucido –Armani, naturalmente-, la cravatta ancora allentata, la
testa piegata appena sulla spalla destra e le braccia incrociate sotto il petto.
Come avesse appoggiato la schiena allo stipite della porta e l’avesse osservato
mentre si sistemava i capelli con la brillantina che il magnate tanto
detestava. Come gli avesse sorriso di quel suo sorriso particolare, che a
malapena la gente avrebbe catalogato sotto la voce Ghigno non troppo derisorio.
Avrebbe volentieri taciuto altro, ma ad ogni parola
che pronunciava un filo di memoria veniva reciso con un singulto strozzato e
allora Steve parlava, parlava, parlava ancora e di nuovo, e raccontava e
narrava in uno scrosciare di memorie impastate l’una con l’altra, una
fanghiglia di immagini dove il prima ed il dopo non avevano significato, e il
vero si mescolava al falso, il giorno al sogno.
Tornava indietro, sempre più indietro, tornava a
Peggy e al calore del suo sguardo, al vestito scarlatto nel baluginio polveroso
del locale, al suo sapore che sapeva di lacrime e gioia e buona fortuna sulla
bocca, e poi Bucky, come scordare Bucky?
Bucky, l’amico, il fratello, il compagno, e la sua mano tesa e il suo sguardo
rassicurante e la sua caduta nel vuoto e nella neve, l’ultimo urlo svanito
nella tormenta e il volto contratto nel laboratorio di Zola e la sua risata
sminuzzata dai lumini singhiozzanti di ConeyIsland.
Col fiato corto e il respiro inacidito in gola, il
Capitano aveva continuato a correre sul sentiero dell’esistenza passata, fino a
quando le storie erano finite e la voce si era spenta.
Allora era arrivato il languore e l’inerzia, una
forza-non forza a sospingerlo in avanti con molle fermezza, il passo
zoppicante, la testa a ciondoloni, le palpebre cadenti. Non gli importava più
di parlare, giacché non avrebbe più saputo cosa dire. Non gli importava più di
ricordare, giacché anche la memoria lo aveva abbandonato.
Non viveva più, ormai, a che serviva rivangare ciò
che era stato? Aveva abbandonato il passato e perso il futuro, tra le mani di
biacca bluastra gli rimaneva il viscido presente dell’Ade e avrebbe fatto bene
a tenerselo stretto, prima che la follia gli tarlasse brano a brano quel poco di
pace che era riuscito a conquistare –Sebbene a costo di un’esistenza che, ora,
era meno d’un vago miraggio.
Era vecchio. Vecchio e stanco.
Ora poteva smettere di affaccendarsi. Ora poteva
riposare.
«Presto arriveremo alle rive dello Stige» lo avvertì
Ermete, degnandolo di un’occhiata impersonale, di chi aveva ripetuto la
medesima frase per mille volte mille secoli «Lì ti consegnerò un obolo: quando
richiesto, lo darai a Caronte, affinché…» il volto etero del Dio s’accartocciò,
un reticolo di rughe comparve a raggrinzirgli la fronte piana.
Con un flaccido movimento del collo, il Capitano
reclinò la nuca all’indietro: latte cagliato e vino, sapor d’acqua e di miele
giallognolo gli intorpidirono la lingua, appallottolandosi entro la cavità
delle guance e scavando, scavando a fondo, a ritrovare la carne e i nervi, le
vene, lo spirito. Esplosero con un boato dentro il torace, lo stomaco si torse
e reclamò qualcosa di più del cibo, stremato da qualcosa di ben più forte della
sete.
Le pareti del ventre arsero, furibonde e roventi,
ogni fibra del corpo di Steve urlò a gran voce la vita perduta, la mente tuonò uno
schiocco di vita nel cranio altrimenti vibrante di silenzio; la voce sgorgò a
fiotti liquidi dalla bocca pervasa dall’indolenza, il respiro grattò i polmoni
muffiti e il fiato era caldo ed era buono, il richiamo tanto forte da piegare
le ginocchia.
Rogers non colse l’espressione stupita del Dio, né
si curò di come l’Ade, all’improvviso, si fosse animato di mille e più
fiammelle lattee: il corpo rispose al suo bisogno, le gambe si mossero da sole
e si lanciarono in avanti, i piedi nudi cozzarono a contatto col pietrisco,
scivolarono e sdrucciolarono, ma il Capitano non perse l’equilibrio, non perse
la presa –Non perse la speranza.
Corse lungo la riva di un fiume turbinoso d’onde
schiumanti, guidato dalla fame che lo divorava dall’interno. Vide spiriti e
foschia e lamelle di ghiaccio ed un rialzo grottesco di libagioni; non si fermò
quando un trampoliere gli tagliò la strada in un gran frullare d’ali, né quando
un ruggito di zoccoli rovinò fragoroso all’intorno e un grido e un urlo
risposero loro con barbaro rimbombo di lampi.
Ermete lo seguiva in volo, perplesso e confuso, ne
avvertiva la presenza alle spalle mentre si librava di una spanna almeno sopra
il pietrisco della sponda; Steve s’arrampicò sull’ammasso globulare e stette in
piedi a rimirare verso l’alto, ebbro di un’attesa che credeva non poter provare
mai –Che credeva non avrebbe più provato: sopra di lui le pareti ben delineate
del pozzo scintillavano per le gocce bianche del latte e sanguinavano lacrime
di dolce vino rosso; blasoni di miele colavano accanto ad un pigro ruscellare
d’acqua e su, ancora più su, dove prima il soffitto era un’unica volta di
pietra impenetrabile, un ritaglio squadrato franava luce grigia e palpabile
nebbia grigio-perla.
Il profumo metallico del sangue gli bruciava le
viscere, le rigirava sulla punta di un coltellaccio bollente, e mordeva e
bestemmiava –Aveva sete, una sete insopportabile. Sete di vita, sete di sangue,
sete di parole.
Sentiva una voce, il Capitano, qualcuno che lo
chiamava, qualcuno che lo pregava di tornare e di mostrarsi, di farsi vedere,
di dimostrare come fosse ancora presente e non divorato dall’annullamento
dell’Ade.
Steve chiuse gli occhi ed inspirò piano, inspirò a
fondo.
Quando sollevò di nuovo le palpebre ed espirò un
lungo, pesante sospiro, Tony era davanti a lui.
***
«Quindi ora lo prendo e lo porto a casa, giusto? Una
sorta di pacco espresso per le Stark Industries?»
Odisseo, ombroso e cupo in volto, scosse la testa.
Aveva le mani ancora lucide di sangue e un’immane stanchezza negli occhi
antichi; Tony, immobile sul ciglio della fossa, lo sguardo che ne rincorreva di
quando in quando il perimetro per cogliere un’avvisaglia dell’arrivo di Steve,
si girò a fissarlo con la mandibola contratta.
«Ma allora…» soffiò, le palpebre strette, le dita
chiuse a pugno «A cosa è servito venire---»
«Non puoi portare via i morti dall’Erebo, Uomo di
Ferro –Esso, infatti, ancora mi deve tre abbracci alla cara e defunta madre»
l’eroe omerico si rimise in piedi «Ti è concesso, però, dialogare con loro. In
questo caso, di avvertire colui che tanto scompiglio ha creato nell’Olimpo e
persino ad Asgard»
Stark si massaggiò le tempie con le dita, pregando a
denti stretti che qualcuno –Possibilmente vivo- gli portasse qualcosa da bere.
Qualcosa di molto, molto forte e di molto, molto adatto a sedare l’istinto
omicida che gli stava montando in corpo.
«Di cosa dovrei avvertirlo? Non lo so, magari di
fare attenzione all’umidità? Oh, ti capisco, la sua chioma è l’invidia dei Nove
Regni, come direbbe Point Break, ma sei giustamente preoccupato che sottoterra
qualche ricciolo ribelle possa sfuggire alla patriottica impalcatura di
brillantina con cui li doma ogni giorno. Molto carino da parte, davvero» annuì,
sarcastico, e batté le mani «Ora, se la finissi con i consigli da Hairstylist e ti decidessi ad essere più
chiaro e meno--»
«Avvertilo di non bere le acque del Lete o
dimenticherà tutto.»
«---Ascolta, riguardo questa tua mania di
interrompermi. Dovremmo lavorarci sopra, che ne dici?
“…Il Lete?»
«Le acque dell’oblio, che confluiscono
nell’Acheronte insieme al Cocito e al Piriflegetonte. Se Steven Grant Rogers ne
berrà anche un solo sorso, dimenticherà ogni cosa di questa terra e sarà
incatenato eternamente all’Ade.»
Tony serrò le labbra e deglutì, indeciso se trovare
la cosa di pessimo gusto, poco credibile oppure entrambe.
«Okay, d’accordo. Niente shot di questo…Fiume o
qualunque cosa sia. Dio, lo sapevo
che Rogers doveva avere più contatto fisico con la Vodka e meno col sacco di
sabbia.»
«Inoltre» continuò l’eroe, del tutto incurante dei
commenti del magnate «Ordinagli di parlare, sempre e comunque. Di parlare e di
ricordare, le situazioni minime e insignificanti, un suono, un colore, un
brivido. Digli di ricordare per se stesso e non per gli Dei o per lo psicopompo
che lo accompagnerà oltre lo Stige: i primi perché con un sol gesto li mutano
in polvere, per impedire il rimpianto dei morti e la loro pazzia. I secondi
perché assorbono tali ricordi, alla disperata ricerca dei propri, abbandonati
troppi anni addietro per poterli riavere. »
«Lasciatelo dire, tutto questo è inquietante» messo
in allerta da un rumore come di stoffa impigliata in arbusti, Tony si girò
verso la fossa.
E sbiancò.
«Rettifico. Questo
è inquietante»
Una colonna di spettri pallidi e impaludati di
foschia lattea erano comparsi dal nulla, stretti e ondeggianti nel perimetro
cubitale dove Odisseo aveva gettato le libagioni e fatto scorrere il sangue dei
due animali. Oscillavano a destra, dondolavano a sinistra, barcollavano
indietro, ciondolavano in avanti, agitavano le lunghe braccia a forma di tubo,
annuivano con le grandi teste bitorzolute e prive di qualsiasi tratto somatico.
L’eroe scattò in avanti e saltò dentro la fossa, il
braccio destro a tenere lontane le anime con la punta del coltello, l’altro ad
accennare a Stark perché lo seguisse.
«Non lasciarli avvicinare, Uomo di Ferro. Essi
vogliono parlare, vogliono essere ricordati e respirare di nuovo l’aria del
mondo, ma non c’è abbastanza sangue per tutti loro: fa’ che venga a te solo
Steven Grant Rogers, e nessun altro.»
Il figlio di Howard annuì, convinto di poter
riconoscere lo spirito di Steve da qualunque altro gli si fosse presentato
davanti. Fu con sommo orrore che scoprì come ogni anima fosse identica a quella accanto, a quella
davanti, a quella dietro ad un grado di perfezione tale da farlo uscire matto.
Erano disgraziate tutte allo stesso modo, bianche allo stesso modo, gnaulanti
allo stesso modo: nessuno presentava un dettaglio diverso che gli permettesse
di ricollegarlo al Capitano.
Andiamo pensò, nella più totale
disperazione Andiamo, Steve. Vedi di
arrivare, di tornare, di farti vedere. Dimostrami che non sei ancora stato
inghiottito da questo marasma teologico in cui hai deciso di ficcarti solo perché,
bhé, non so, c’è già stato il finale di stagione di Grey’s Anatomy? Sia chiaro,
non è un buon motivo comunque, eh, ma ti giuro, ti giuro, è da due giorni che continuo a dirmi che deve
esistere una spiegazione logica a quanto è accaduto, perché non te ne puoi
essere andato così, dal nulla, senza avvertirmi, senza darmi il tempo di
prepararmi alla cosa, senza… prese un
respiro profondo, deglutendo il vomito logorroico che gli aveva appena gonfiato
la bocca Fatti vedere, Steve. Ti prego.
Smetterò anche di bere, intesi? Ti va bene come accordo? Tu…Tu esci fuori da
quella tana per ratti e io disdico tutti gli appuntamenti in agenda con madama
Vodka e mister Rhum. Anche quelli non agenda. Anche quelli su Twitter o i Poke
su Facebook. Dico davvero stavolta. Ma tu…tu devi tornare, però. Torna. Ti
prego…”
«…Torna»
La voce gli morì sulle labbra.
«Steve» riuscì solo a pronunciare quando vide il
corpo del Capitano emergere dall’ammasso scomposto di spiriti.
Rogers avanzò piano, l’espressione vacua sul viso
innaturalmente pallido. Il corpo era nudo, ma sembrava avvolto nella stessa
guaina scivolosa delle seppie, appiccicosa come quella dei calamari; pareva che
avessero costretto le sue carni in guanto di lattice tanto era bianchiccia e
trasparente la pelle, tanto erano slavati gli occhi impolverati. Le dita erano
bitorzolute, sgraziate, le unghie bluastre; i capelli erano paglia e il biondo
era marcito fino a prendere un nauseabondo colorito verdognolo, le sopracciglia
si erano assottigliate all’inverosimile, sparendo nell’ampia fronte, colante
sudore e biacca.
«Tony» disse Steve e il tono era incolore, come
incolore erano la bocca e le vene, striature d’un rosa malato a tessere
ragnatele appena visibili sui polsi sgrossati ed il collo enfio «Cosa ci fai
qui?»
Sulle prime, Tony nemmeno capì. Storse la bocca,
scosse la testa, uno scintillio furioso gli bruciò lo sguardo.
«Che ci faccio qui? Che ci faccio qui? Non so come funzioni il sistema di notizie
nell’Ade, Capitano, ma si dà il caso che io mi sia spezzato la schiena pur di
venire a tirarti fuori da questo piattume greco e tu…»
«Io sono morto, Tony. I morti devono rimanere coi
morti. Noi non apparteniamo alla vita. Noi apparteniamo all’Ade. Non abbiamo
più passato, non c’è concesso futuro. Possediamo solo il presente. E il
presente è nell’Ade. Insieme ai morti. Noi non apparteniamo alla vita. I morti
devono rimanere coi morti. Io sono morto, Tony.»
«E considerati fortunato ad esserlo, altrimenti ti
avrei---» Stark non ebbe il tempo di concludere la propria ingiuria, che
Odisseo aveva steso un braccio ad impedire una probabile ritorsione fisica nei
confronti di Rogers –Perché ci sarebbe stata, sì, Tony lo avrebbe volentieri
preso a pugni fino ad ucciderlo di persona, lui e quei suoi dannati discorsi
sui morti che dovevano rimanere tali. Idiozie! Balle! Gli avrebbe ficcato in
testa a suon di destri e ganci che Anthony Edward Stark non si era arreso alla
morte una volta, né avrebbe scelto proprio quel momento per cominciare.
«Il sangue curerà il suo intelletto, Uomo di Ferro»
lo rassicurò l’eroe omerico, il volto sereno, placido «Guarda»
Il figlio di Howard deglutì a forza, ma si impose di
non intervenire fino a quando Steve non avesse recuperato il senno di sua
volontà –In caso contrario, ci avrebbe pensato lui a riportarlo in carreggiata.
Il Capitano sgranò gli occhi, d’improvviso famelici,
e ignorò entrambi per inginocchiarsi sul rigagnolo purpureo che ancora fumava
attorno alla gola del montone: schiuse le labbra e affondò le dita nel sangue,
lo sollevò tra le mani chiuse a coppa, ansimò come un animale e bevve. Bevve,
succhiò, sospirò estatico, si mise in piedi.
Un rivolo caldo ruscellò vermiglio dalla bocca lungo
tutto l’esofago, ramificandosi all’altezza del torace, ricostruendo vie,
sentieri e vita. Il colore sbocciò
sulle guance terree, deflagrò negli occhi di nuovo azzurri e barbagliò d’oro
tra i capelli; le labbra si tinsero d’un violento carminio, le carni
s’animarono e scintillarono e le dita erano di nuovo forti e s’aprivano e si
chiudevano a pugno e il petto si sollevava, s’abbassava, e Stark credette di
morire dinanzi a quello spettacolo. Il sangue arterioso sprizzò dai polsi e
dalle caviglie, le avviluppò e ricadde, si mescolò e modellò a ricreare il
morbido tessuto dei guanti e degli stivali, mentre il sangue venoso pompava
lento a stendere sulla sua pelle il caldo blu scuro della divisa in spandex.
Steve rimase alcuni secondi ad inspirare aria a
pieni polmoni, quindi sorrise e aprì lentamente le palpebre.
«Tony» mormorò e c’era tanto tepore in quell’unica
parola, che il magnate temette di poter andare a fuoco da un momento all’altro.
«Ehi, ragazzone» lo salutò allora, quasi si fossero
lasciati non più di cinque minuti al tavolo del bar «Bentornato»
Rogers sorrise ancora, sorrise più ampio e dolce e
quieto, si avvicinò e tese la mano verso di lui.
Tony sapeva cosa sarebbe successo, sapeva perfettamente cosa significava quel
gesto: un battito appena di cuore e avrebbe avvertito le nocche di Steve
sfiorargli delicate –Ma non più incerte, non più titubanti- il volto, dallo
zigomo fino alla bocca; lì, poi, si sarebbero aperte e avrebbero accarezzato,
disegnato il profilo delle labbra con la punta dei polpastrelli.
Perché Steve lo toccava, lo sfiorava, lo accarezzava
spesso e sempre e tutte le volte che ne aveva l’occasione: non gli aveva mai
chiesto il motivo di tanta attenzione per il contatto fisico, ma Stark era convinto
che lo facesse per meglio imprimersi nella memoria e nel sangue ogni piega,
ansa, sfumatura del suo corpo, per riportarla su un foglio di carta bianca o
anche solo per trattenerla dentro di sé quando una missione li costringeva a stare
separati per parecchio tempo –Gli ordini erano ordini, dopotutto.
Anche la prima volta che aveva condiviso il letto,
che lo avevano condiviso davvero e
non si erano limitati a dormire l’uno accanto all’altro, le dita intrecciate, i
respiri incatenati, raggomitolati insieme sotto le lenzuola azzurro pastello
del letto di Tony –Per arrivare al punto di dormire insieme, comunque, erano
stati necessari due passi avanti ed uno indietro e non solo da parte di Rogers,
che, a conti fatti, era più spaventato dall’idea di abituarsi alle usanze del
nuovo millennio che da quella di avere una relazione, seppur segreta, con un
uomo-, la prima volta, il figlio di Howard lo ricordava bene, a farla da
padrone erano state le mani di Steve, i palmi di Steve, le dita di Steve, i
polpastrelli di Steve.
Non gli era possibile scordare come il compagno gli
avesse racchiuso il volto tra le mani, come si fosse chinato sulle sue labbra a
raggiungere bocca e respiro, come si fosse spinto contro il suo torace, in
pieno contatto con il Reattore Arc. Tony aveva chiuso gli occhi quando le dita
di Rogers erano salite al collo, oltre le spalle, a delineare le fasce
muscolari delle braccia fino a colmarsi i palmi coi suoi fianchi; le mani,
ricordava Stark, erano scivolate veloci sotto la maglietta nera che stava
indossando a mo’ di pigiama e subito si erano ritratte, quasi un simile gesto
avesse avuto il potere di bruciargli la pelle.
Il figlio di Howard, alla fine, non aveva capito più
nulla –E con una certa soddisfazione poteva ben dire che anche per il Capitano
la situazione era stata la stessa: le dita aggrappate alle gambe, le mani che
scivolavano sulla schiena, passavano sotto le braccia, i baci mormorati
all’orecchio, sussurrati al collo, bisbigliati al basso ventre, il battito
cardiaco che scalpitava, ansimava, correva, galoppava, il sudore sul torace, i
polpastrelli che cercavano le costole e le vertebre, la bocca che richiamava sé
fiato e respiro, denti che siglavano possessione e sottomissione sullo sterno,
sulla clavicola, nell’incavo dei gomiti, sui polsi, la lingua che saettava a
cingere umida la dolce profondità dell’ombelico, sangue che pulsava nelle gambe
e nella colonna vertebrale, girandole di colori e dolore e carne tesa e pelle
arrossata e piacere, piacere, piacere, piacere, piacere, piacere…
Ma per quanto potesse essere stato intimo e profondo
quel loro primo, forse anche goffo, forse anche inesperto cercarsi -Tony Stark
conosceva perfettamente il corpo
delle donne, le rotondità dei fianchi, la curva dei seni, la linea dolce e
sensuale del collo e delle spalle, l’incunearsi del ventre sotto il minuscolo
cerchio dell’ombelico. Non c’erano segreti nel modo in cui inarcavano la
schiena e piegavano la testa all’indietro,nel mento che si sporgeva verso
l’alto e le labbra che si schiudevano in un battere scarlatto di rossetto, il
guizzo della lingua, il barbaglio bianco dei denti che si sgretolava e si
scioglieva in un gemito liquido. Il corpo di Steve tra le dita, al contrario, era
stata la sorpresa, l’ignoranza, la scoperta-,
per quanto potesse essere stato così vicino a quanto aveva sperimentato e
provato con Pepper –Sebbene ciò che era stato con Pepper era stato solo e
soltanto con Pepper e nulla, nulla mai sarebbe potuto rassomigliargli od eguagliarlo,
nel bene e nel male-, per quanto, si diceva, potesse essere stato così…tanto, era nulla rispetto a quando Steve
era arrivato a baciare con cauta, rispettosa lentezza il Reattore impiantato
nelle costole.
Niente avrebbe potuto far presagire un simile gesto,
perché Tony gli si era presentato, divertito e gongolante, ammanettato alla
testiera del letto –Avevano guardato da poco Sherlock Holmes, a sua discolpa, e
Stark si era autonomamente imposto come istitutore sessuale dell’obsoleto
Capitano, di cui era probabile che la fantasia erotica più vertiginosa
coinvolgesse Betty Boop in giarrettiera e reggicalze- e Rogers aveva cominciato
a mostrare deliziosi progressi e unghie ben affilate.
Poi c’era stato quell’attimo di sospensione e il
lento bacio e gli occhi chiusi e le dita della mano destra ferme contro il
costato, quelle della sinistra sospese sul fianco.
Tony si era chiesto per un istante e forse anche per
due, come fosse possibile costringere un uomo –Un ragazzo di neanche
trent’anni- come Steven Rogers alla guerra,
lui con quel suo sguardo azzurro e il bel sorriso e i modi gentili –Poi
erano arrivati i graffi e i morsi, e allora aveva dovuto ricredersi.
Forse, forse
aveva sublimato l’idea di un Capitan America terrorizzato dal sesso ai livelli
di una pudica fanciullina del Trecento fino a farlo diventare un vero e proprio
kink. D’accordo. Era plausibile.
Quando la mattina dopo si era ritrovato con la
schiena rigata di graffi rossi e gonfi, l’adorabile e quanto mai eccitante
fantasia era andata in pezzi –Sulle sue ceneri, però, ne erano sorte molte e di
ben altro genere, in cui manette e giochi di ruolo erano sempre accetti.
Rogers era stato nell’esercito, in fondo. Stark
aveva dovuto seriamente ricredersi sulla sua ormai confutabile negazione
sessuale –Non che la cosa gli fosse dispiaciuta o ancora lo dispiacesse,
naturalmente. Anzi, aveva dato alla loro relazione quel pizzico in più che…
A ricordare le proprie speculazioni psico-sessuali
su Steve, Tony sorrise, ma fu un’espressione che durò assai poco. Corrugò la
fronte, aggrottando le sopracciglia: non aveva sentito alcun tocco sulla
guancia e per un folle momento ebbe il sospetto l’altro fosse scomparso.
Riaprì allora gli occhi e lo vide contemplarsi le
mani con sguardo confuso, rimirare e rigirare le dita da una parte e dall’altra,
salvo poi serrarle fino far sbiancare le nocche. Nello sguardo guizzarono
frustrazione e rabbia, la stessa che gli era costata un rapporto in piena
regola segnato in nero su bianco nei file dello S.H.I.E.L.D. –Dovrebbe imparare a controllare la rabbia(8),
scriveva di lui Nick Fury e anche se Tony non avrebbe dovuto leggerlo, perché,
ehi, erano dati segreti o altra robaccia del genere, lo aveva letto comunque,
perché i sistemi di difesa dei computer dello S.H.I.E.L.D. erano penosi e lui faceva solo che un favore a
Mace Widu, se le incursioni non
richieste nel database servivano a migliorare un po’ le cose.
Però si era detto d’accordo con quell’affermazione.
Steve aveva così rabbia dentro, che un congegno
dell’HYDRA non avrebbe potuto provocare scoppio peggiore o più rumoroso. Il
Capitano tendeva a non mostrare quella rabbia, se era in compagnia –In sua
compagnia, in particolar modo- ma c’era, esisteva e premeva, e Stark la vedeva
negli occhi e nel cuore, nel modo in cui contraeva la mascella e guardava il
mondo quasi fosse troppo nuovo per un vecchio come lui e il proprio riflesso
quasi fosse troppo vecchio per un mondo nuovo come quello all’intorno.
Tony conosceva quel tipo di rabbia, perché ne era
oppresso alla stessa maniera: lui cercava rifugio nell’alcool, Steve in un
sacco di sabbia. Entrambi si erano votati all’autodistruzione e ne recavano i
segni, chi per il colorito giallastro del viso, chi per le nocche costantemente
sbucciate e cosparse di ecchimosi –Per entrambi cercare rifugio l’uno
nell’altro era un effetto placebo parecchio rassicurante.
«Perché? Perché non posso toccarlo?» soffiò il
Capitano, serrando le palpebre.
«Ai vivi non è concesso toccare i morti e ai morti
non è concesso toccare i vivi. Lo hai detto tu stesso, no? I morti devono rimanere coi morti»
«Oh, perfetto, ci mancava un altro Village People»
Stark alzò gli occhi al cielo, ma il Dio che era appena apparso sembrò non aver
udito –Oppure, al contrario, lo aveva deliberatamente ignorato.
«Laerziade…Chi altri avrebbe potuto portar qui il
mortale?»
«Ermete, mio signore» Odisseo chinò la testa e una
ciocca di capelli si curvò a coprire un ghigno astuto «Faccio solo ciò che mi è
stato ordinato»
«L’Ade è sguarnito, Laerziade. Nelle profondità
della sua tana, Cerbero più non latra e i Dioscuri sono inquieti.»
«Così si dice»
«Sì, bene, molto carino ed edificante, ora possiamo
tornare al problema principale?» Tony si frappose fra Ermete e l’eroe omerico,
le braccia alzate a chiedere una sorta di time out –Steve, dietro di lui, si
lasciò sfuggire una risata breve, ma ben udibile «Ovvero, portarvi via il qui
presente Capitano e reintegrarlo nel mondo dei vivi»
Ermete sollevò l’angolo destro delle labbra e le ali
che gli cingevano la fronte ebbero un battito bianco.
«E cosa ti fa credere di poter riuscire
nell’impresa, mortale?» lo dileggiò, lo sguardo macchiato di derisione.
Stark rispose alla frecciatina con un’occhiata
ironica e sollevò tranquillo le spalle.
«Perché mi chiamo Anthony Edward Stark, sono un
genio, miliardario, playboy, filantropo, occasionalmente salvo anche il mondo…»
strinse le palpebre «E l’ho già salvato dall’eternità una volta. Non vedo
perché un paio di leggende incartapecorite come voi dovrebbero impedirmelo una
seconda»
Il Dio emise uno sbuffo contrariato, scuotendo il
capo.
«Sei colmo di hybris,
mortale. Trasudi tracotanza da ogni
parola che pronunci da quella bocca empia. Ma permettimi di ricordarti le sagge
parole di Dario: la hybris, fiorendo, suole dare un frutto di ate, da cui si raccoglie una messe di pianto(9)»
«Bella, d’impatto. Dove l’hai letta? Su un biscotto
della fortuna?»
«Tony…» provò a richiamarlo il Capitano, ma il
figlio di Howard gli si rivoltò contro come una serpe, la frustrazione e
l’impotenza chiaramente leggibili sul volto affaticato.
«No! No, Steve! Lo sai, ho sempre avuto un rapporto
poco convenzionale con la religione, adesso io e lei siamo arrivati ai ferri
corti. Mi sono stancato e sono deciso
più di prima a riportarti indietro. Non ho mai creduto a un Dio, o forse sì,
quand’ero ragazzo, quand’ero bambino, e anche allora portava alternativamente
il nome tuo o di mio padre, a seconda di come mi alzavo la mattina.
“La maggior parte delle volte era il tuo, giusto per
informarti»
Steve tentò di bloccarlo, ma Tony continuò
nell’arringa. Ci teneva a dimostrare quanto poco avesse cura di quei fantomatici
Dei che giocavano con loro come bambini annoiati, che gioiscono del nuovo
balocco e tempo un giorno e già lo hanno abbandonato per qualcosa di meglio e
meno noioso.
«Di solito sei tu quello dedito alla preghiera, fra
noi due. E no, non fare quella faccia, Rogie.
Ti ho visto e ti ho sentito mentre mugugnavi qualche salmo alla luce
dell’abat-jour, cosa credi?»
Che il Capitano avesse una concezione religiosa
molto diversa dalla propria, Stark lo sapeva senza dover per forza seguirlo
ogni domenica per vedere dove andasse, se alla palestra del vecchio Stan o alla
chiesetta a tre isolati di distanza dalla Tower. Un’anonima e minuscola
accozzaglia di mattoncini rossi, un rosone di dimensioni discutibili,
sgangherate panche di legno e una croce di metallo bubbonico piantato tra le
tegole brune; l’altare era carino, però, il pulpito si reggeva bene in piedi e
l’ostensorio era l’unico, pregiato oggetto coperto in foglia d’oro di tutto il
ciarpame della navata e della sagrestia.
…Sì, va bene, una
volta Tony l’aveva seguito per vedere dove andasse, e si era nascosto
all’ombra di una colonna, dietro le spalle l’incombente presenza di San
Sebastiano; aveva pensato che il profilo di Steve, attorniato dal bagliore
delle candele, fosse particolarmente bello, ma aveva subito fatto marcia
indietro quando gli era sembrato di avvertire su di sé gli occhi un
poco…canzonatori del Cristo in Croce.
Suggestione, probabilmente
–Insomma, un Cristo in Croce che ti squadra divertito mentre imbastisci
pensieri poco casti riguardo al tuo compagno, il tutto tra le pareti della
Santa Madre Chiesa? Solo in Doctor Who.
E forse neanche in quello.
Mio
padre era irlandese(10) gli aveva raccontato Steve, una
sera soffusa e lontana, in cui tra loro c’era solo una vaschetta di gelato alla
fragola, parecchi non-detti e alla televisione passavano l’inguardabile What’s Your Number?(11) –Una settimana dopo nella vecchia
palestra di Stan a provare qualche passo di danza e le labbra del Capitano posate
sulle proprie con una naturalezza disarmante, Tony aveva compreso che il gelato
alla fragola e l’orrido film erano solo un inconscio pretesto alla reciproca
compagnia Mi ha passato un po’ della sua
Fede cattolica.
Non aveva mai dato peso alla
cosa, almeno fino a quando non si era ritrovato in un letto d’ospedale a
combattere tra la vita e la morte, e tutto perché un membro dell’A.I.M. aveva
avuto la malsana idea di tirargli una granata tra capo e collo. Nel delirio
della febbre, Tony aveva aperto gli occhi nella pastosa realtà di una notte
indefinita e aveva avvertito la presenza di Steve accanto a sé: non avendo
forze per girare la testa, si era limitato a lasciarsi cullare dalla litania
rassicurante della sua voce –Arrivando poi a comprendere il significato delle
sue parole nei giorni successivi.
Signore,
lo so, lo so che non dovrei avere nemmeno l’ardire di pregarti, non dopo quanto
è successo tra me e lui –Dicono che è sbagliato, Signore, che ai Tuoi occhi
questa relazione è peccato, questo sentimento è male, ma per una volta, una volta soltanto voglio essere
così superbo da ritenere che nulla di amore, ai Tuoi occhi, possa essere
abominio.
Perché
io lo amo, Signore.
Mi
è caro. Caro più della vita. E se è sbagliato non importa, non m’importa
nemmeno se è peccato, se è male o abominio: Tu lo hai portato a me e Tu hai
portato me a lui, ci hai messo a confronto, ci hai messo a disposizione l’uno
dell’altro e non mi sento sbagliato, peccaminoso, malefico, né abominevole
quando sono con lui, Signore. E forse in questo sta il mio peccato maggiore:
non accorgermi, forse, di quanto sia orribile questo mio amore. Forse il vero
peccato è la mia mancanza di coraggio, la mia impossibilità di dirglielo
apertamente, così irretito come sono da paura e incertezze.
Ma
non credo che il sentimento che provo sia orribile. Di nuovo, sono convinto che
se Tu hai predisposto ogni cosa perché ci incontrassimo, allora nulla di
cattivo può nascere dalla nostra relazione. Perché, ne sono sicuro ogni volta
che lo guardo, ogni volta che lo respiro, Tu già sapevi cosa sarebbe successo.
Per
cui, ti prego. Ti prego, Signore. Salvalo. Salvagli la vita.
Ti
prego. Fa’ che si risvegli. Ti prego.
Ho
bisogno di lui.
Mi
è caro, Signore.
Ti
prego.
Salvalo.
Tony non ne aveva mai fatto parola con nessuno,
soprattutto con Steve. Anche quando, alla Tower, si era svegliato di
soprassalto da un sogno che non ricordava, che non aveva importanza, e nel
riflesso dello specchio aveva visto il compagno inginocchiato sulla sponda del
letto, i gomiti affondati nel materasso, le dita chiuse e appoggiate sulla
fronte.
Recitava il Padre Nostro e lo recitava in latino.
Perché proprio in
latino? Non
aveva potuto non chiedere, la mattina dopo.
Rogers era sobbalzato sulla seggiola di cucina,
macchiando la tovaglia col caffè; le orecchie erano divenute tizzoni ardenti,
come ogni volta che si imbarazzava o era colto in flagrante nel mezzo di
qualche attività che nessuno avrebbe ritenuta degna di Steven Capitan America
Rogers.
In Italia…Durante
la guerra, sai? Capitava che finissimo in qualche paesino sperduto tra le
colline e i parroci non ci hanno mai negato una Messa o anche solo una
preghiera. Le dicevano in latino e mi sono rimaste nel cuore.(12)
Avrebbe voluto chiedere di più, tornare alla
preghiera di tanti mesi prima, domandargli di…Di quello, delle paure e dell’incertezza, ma si era accorto di come
gli bastasse così. La cucina immacolata, la colazione, Steve che sorrideva ad
un piccolo ricordo –Non gli interessava sapere se avesse avuto qualche
“passionale trasporto” per altri uomini o unicamente per le donne, né se lui,
Tony Stark, fosse l’unico uomo per cui avesse mai provato quel sentimento, o
che altro. Per il figlio di Howard era più facile: sfidare le convenzioni della
società era parte intrinseca del suo essere, anche se fino a quel momento non
aveva mai pensato che il contatto con un uomo sarebbe mai effettivamente andato
oltre una stretta di mano o una pacca sulla spalla.
Gli bastava sapere che, quella particolare mattina,
oltre a lui, Tony Stark, non esisteva nessun altro e l’unico su cui Steve si
fosse mai permesso un commento era Robert Downey Jr. E’ che ti somiglia davvero tanto si era giustificato, sfuggendo i
suoi occhi divertiti.
Nient’altro. Non importava. Non importava davvero.
«Hai presente il Salmo, no? Quello famoso, dai, che
recitano sempre nei telefilm. Ecco. Non mi interessano i pastori, né essere una
pecora –Guarda, poi, la considerazione che hanno gli Dei di quei poveri
animali» Stark indicò il montone rattrappito ai loro piedi «Per quel che mi
riguarda, è grazie a te se non manco
di nulla. Pascoli erbosi, acque tranquille…Ti sembro forse un texano? Mi basta
sapere di tornare alla Tower vivo, con te
al mio fianco, stravaccarmi sul divano a guardare qualsiasi baggianata
passino in televisione solo per poterti osservare mentre leggi un libro –Cristo Santo, Steve, i kindle li hanno inventati per un motivo!-, con
la testa appoggiata sulle mie ginocchia. Sarò fazioso e di parte, lo ammetto,
ma ad avermi tirato fuori dalla “valle oscura”» mimò le virgolette con le dita «Dell’alcool
sei stato di nuovo tu. Sei sempre tu.
Ad apparecchiare la mia mensa, a cospargermi d’olio –E qui ci fermiamo per amor della tua pudicizia- sei sempre tu. E’ nella tua casa che voglio abitare per lunghissimi anni…» riprese fiato e
alzò gli occhi ad incontrare gli occhi di Steve «Che ne dici? Secondo me
farebbe un figurone come promessa»
E da come l’altro lo guardò esterrefatto, Tony capì
di essersi fatto sfuggire troppo
nell’enfasi del momento. Si morse la lingua e si schiarì la voce, ma era già
troppo tardi.
«Tony. La tua era una pro---»
«---vocazione.
Ti sfido a restare rintracciabile fintantoché…» corrugò la fronte «Steve»
Il Capitano dovette cogliere la preoccupazione della
sua voce, perché abbassò gli occhi e subito arretrò, un’esclamazione sorpresa
appesa alla bocca: gli stivali si stavano liquefacendo e così i guanti e la
divisa, macchie incolori s’allargavano a dismisura sul petto, sulle gambe, le
vene si ritraevano con un sibilo guizzante e al loro posto serpeggiavano di
nuovo le liane rosate e malaticce.
«Cosa…» Rogers diede due poderose manate alle
chiazze oleose che andavano impadronendosi del suo corpo, della sua volontà, ma
invece di rallentare il processo, finì col peggiorarlo «No! No! No!»
«Il tuo tempo è finito, Steven.» Ermete gli fu
accanto, con velocità pigra ed indolente –Di chi sa, di chi può ogni cosa solo schioccando le dita.
«Hai ingannato l’Ade troppo a lungo, Caronte attende il suo obolo»
È troppo presto! Avrebbe voluto replicare Stark,
ma il vuoto gli aveva attanagliato il cuore e distrutto lo spirito e la voce
non usciva Non mi avete fatto parlare con
lui non un attimo, non un minuto, non un istante! Non portatelo via! Non ancora!
«Non bere!» urlò, invece, per sovrastare il roboante
silenzio dentro al petto «Se berrai la loro acqua dimenticherai ogni cosa e
allora, a quanto pare, non potrò più salvarti –Bello sapere le cose in tempo
utile, no?» un sogghigno nervoso «E continua a parlare. Non smettere. Parla a
te stesso, parla con me, ma con nessun
altro. Rimani attaccato a questa vita o non sarò più capace di ritrovarti.
“Te lo prometto, Steve. Ti porterò via da qui.»
Un quieto sorriso sollevò la bocca del Capitano, di
cui non erano rimasti che gli occhi cerulei e labbra –Tutto il resto era
pallore e morte.
«Qui? Dov’è qui? E’ un sogno, vero? Dimmi che lo è, Tony, dimmi che puoi svegliarmi. Dimmi
che non morirò nel sonno. Non permettere a questo vecchio soldato di svanire
così…(13)»
Steve allungò la mano e Tony quasi cadde nel
tentativo di stringerla, di trarla a sé un’ultima volta: crollò carponi nel
fango con le dita che annaspavano e artigliavano e s’aggrappavano al vuoto, all’aria
e all’assenza. Si chiuse nelle spalle con un sospiro e se ne stette in quella
posizione per attimi che gli parvero giorni e mesi e anni. Nemmeno Odisseo osò turbare
il dolore di cui era preda e per questo Stark gliene fu grato.
Se sollevò la testa, fu solo per una voce flautata e
rosa dal rimpianto allo stesso tempo, una voce che il magnate non udiva da
troppo tempo.
«Tony? Oh, bambino mio…!»
«…Mamma.»
***
Castore lo aveva colpito al petto, affondato la
picca proprio come aveva detto.
O forse era stato Polluce? Ah, non ricordava. Tutto
era vago, tutto era confuso tranne il dolore che montava all’altezza del cuore,
un cerchio di fiamme ad arrostire, incenerire lo sterno e i bronchi.
Se non fosse stato per quella voce sconosciuta, tonante
nel ventre della terra, forse lo avrebbero ucciso. Era così debole, in quel
luogo. Non se n’era accorto fin quando il braccio che teneva Mjolnir non s’era
irrigidito e le dita non s’erano piagate, ogni falange coperta da un’escrescenza
di liquido pus biancastro. Era crollato in ginocchio e la vergogna era stata
più forte del ferro che uno dei gemelli gli aveva conficcato nella profondità
delle carni.
Sarebbe morto, sarebbe morto davvero se i due non
fossero stati richiamati da un comando più grande del loro volere –Non ne erano
stati contenti, comunque. L’odio e la rabbia trasparivano come veleno dai volti
altrimenti belli e giovanili.
Anche gli Incantesimi di Amora non erano serviti e…Amora!
Amora? Dov’era, Amora? L’aveva trascinato lei, lei da sola, fino alla sponda
del fiume, al riparo dai trampolieri e dagli spettri lattei, dall’odore
pungente del vino e del sangue. Lei sola, fragile fanciulla, sposa di Incanti,
s’era sobbarcata il suo peso di guerriero e l’infamia di non aver saputo
difendere con onore il nome di Odino e di Asgard.
«Amora…!» la chiamò, ma la voce tonante era più
debole d’un ridicolo pigolio di pulcini. Le parole erano ingarbugliate col
sangue, i suoni con saliva e ristagno fetido di polmoni. Le gambe erano
immobili, le braccia prive di ogni forza. Il mondo non era più grigio, ma
verteva ad ogni istante ad un nero cupo, fumoso, che partiva dall’angolo dell’occhio
e s’allungava su tutta la cornea.
«Amora…!»
«Sono qui. Sono qui, amore mio. Shh…Fa’ silenzio,
mio cuore.» c’era forse qualcosa di più bello, in Asgard, a Midgard, nei Nove
Regni, del suo sorriso incorniciato dall’oro fiammeggiante dei capelli?
…Il sorriso di Jane, sì. Il sorriso di Jane era più
bello del sole, più splendido del cielo e delle cupole a specchio del Palazzo.
Il suo volto di bambina, la sua voglia di sapere, il suo amore per le stelle,
tutto in lei aveva la bellezza divina della mortalità.
Ma non erano di Jane le mani che gli sfioravano le
guance, non di Jane le dita che gli sollevavano la testa per fargli appoggiare
le labbra sull’orlo di una coppa gelida e sbeccata.
«Bevi, bevi, Thor, Figlio di Odino» lo invitò
sibillina l’Incantatrice, ogni sorsata dell’acqua limpida un cerchio alla
fronte e un dolore in meno al cuore «Bevi e scorda ogni vergogna. Bevi e
dimentica ogni affanno…»
Cor Mortem
Ducens
#06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi
Anni
Note
di Fine Capitolo
(1) Per Omero i Cimmeri
sono gli abitanti di una mitica terra oltre l'Oceano - collocata forse
nell'estremo settentrione - perennemente avvolta dalle nebbie, dove non arriva
mai il sole. Su indicazione di Circe, Ulisse nel suo peregrinare per mare, vi
si reca con i suoi compagni, per la nékyia (= l'evocazione dei morti).
Infatti, giunto in quella terra inospitale e tetra, dopo aver celebrato un
sacrificio in loro onore, Ulisse incontra le anime dei morti risalite
dall'Erebo attirate dal sangue dei sacrifici eseguiti e interrogherà lo spettro
dell'antico indovino Tiresia che gli rivelerà il suo futuro. (Wikipedia)
(2)”oltre il popolo e la città, di nebbia e nubi
avvolte” (Omero)
(3)La frase è ripresa
dal Kolossal di Franco Rossi: “Divinità
dell’Ade e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò
a ritornare ad Itaca, io prometto di immolarvi la più grassa delle vacche
sterili e di colmare il rogo di ricche offerte. E per Tiresia a parte
sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei nostri greggi.”,
a sua volta facente capo ai versi dell’XI Libro dell’Odissea:
Addotto
in su l’arena il buon naviglio,
E il montone, e la pecora sbarcati,25
Alla corrente dell’Oceano in riva
Camminavam, finchè venimmo ai lochi,
Che la Dea c’insegnò. Quivi per mano
Euriloco teneano e Perimede
Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,30
Scavai la fossa cubitale, e mele
Con vino, indi vin puro, e lucid’onda
Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste35
Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,40
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.
(4)Secondo la credenza
etrusca, i trampolieri sono animali psicopompi.
(5) I fiumi Cocito, Lete
e Piriflegetonte, confluenti dell’Acheronte, un ramo dello Stige. Nel
Piriflegetonte, secondo quando ci racconta Platone, erano immersi i parricidi e
i matricidi.
Circe, nell’Odissea, ordina all’eroe
di compiere il sacrificio ai defunti nei punto in cui si uniscono Cocito e
Piriflegetonte.
(6) Castore e Polluce
sono i fratelli di Elena, figli di Zeus e Leda –O, secondo un’altra versione
del mito, anche di Tindaro. Per questo, solo Polluce ed Elena sarebbero veri
immortali, Castore, invece, sarebbe no.
Sono rappresentati come giovani nudi,
tranne che per il pilos sul capo, a cavallo, con una stella sulla fronte e
dotati di lancia.
Che siano custodi dell’Oltretomba è
un espediente ripreso dalla cultura etrusca.
(7) Il termine
“barbaros” …Bhè, si rifà effettivamente all’atto di “balbettare”, ossia
l’incapacità degli stranieri di pronunciare a dovere le parole in lingua greca!
(8) Secret War
(9) I Persiani, Eschilo.
III Episodio.
La Hybris è la tracotanza, l’Ate la
disgrazia.
(10) Marvel Now!Capitan America #1
(11) Da noi in Italia “Sex
List”. Film inguardabile…Tranne per Chris Evans!
(12) La Messa in latino
è stata tolta solo nel 1969.
(13) Where is
here? Is this /a dream/? Tell me it /is/, Tony. Tell
me you can /wake me/. Tell me I'm not /going/ to
die in my sleep.
Don't let this old soldier just /fade away/...
(Captain America v1, #437)
[ https://www.facebook.com/photo.php?fbid=198418630282598&set=pb.188901724567622.-2207520000.1377550334.&type=3&src=https%3A%2F%2Ffbcdn-sphotos-d-a.akamaihd.net%2Fhphotos-ak-prn1%2F68530_198418630282598_1619872740_n.jpg&size=538%2C800
]
Note
Finali
YEEEEH! Sono tornata! Vi sono
mancata, vero?
Oddio, sono così stravolta dalla
stesura di questo capitolo da essermi dimenticata quello che vi volevo dire, a
parte che le due scene R-18 narrate vengono da due role con la mia Tony Stark
di fiducia e che non intendo mancare di rispetto a credenti o meno, intesi?
E’ un’opera di fantasia, cosa e chi rappresenti il mio pensiero religioso è un
segreto di Stato che non deve andare a lederà la storia, ma soprattutto la
vostra sensibilità : )
Ringrazio Alley e Shi_Tsu_Geass per
aver recensito!
Alla prossima!
(Che sarà fra un po’ visto che a
Settembre parto per altre due settimane di scavo.
OOOOOPS.)
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Capitolo 8 *** #07. Pius Patiens ***
cmd7
Manhattan cantò un rintocco di mezzanotte e Clint
sollevò gli occhi dalla freccia che teneva tra le mani.
Aveva disposto le cocche ordinatamente davanti a sé,
tutte le cuspidi perfettamente allineate, tutti gli impennaggi rigidamente
affiancati, due linee simmetricamente parallele a racchiudere i fusti in un
rettangolo preciso. Non aveva fatto altro dacché la camera ardente era stata
chiusa al pubblico, a fine giornata.
Lo S.H.I.E.L.D. aveva messo a disposizione degli
Agenti di guardia una brandina, lenzuola, cuscini e viveri, perfino un thermos
di caffè e uno di acqua calda, accompagnato da bustine di thé o integratori di
vitamine. Barton, però, non aveva toccato nulla: aveva rifiutato cena e bevande
e materasso, aveva afferrato in silenzio alcune coperte ed era tornato nel
proprio rifugio sulle scale. Aveva poi accartocciato le lenzuola e le aveva
pigiate fino a ridurle in cerchi concentrici, bitorzoluti, con una zona concava
e morbida proprio nel centro, dove potersi comodamente accovacciare col petto
appoggiato sulle ginocchia, la schiena curva in avanti, la testa incassata
nelle spalle. A fargli compagnia, quel lavoro tanto meticoloso quanto monotono
per occupare le ore che lo separavano dall’alba e dall’ultimo giorno di veglia.
Ormai il tempo era scaduto.
Ancora ventiquattro ore e il corpo di Steve Rogers
avrebbe lasciato la Stark Tower per un eterno, onorato riposo nel cimitero di
Arlington. Un sonno senza sogni cinto di corone funebri e cuscini di velluto e
lettere di bronzo e una lapide di marmo. Stark sarebbe tornato senza nulla tra
le mani se non il rimpianto ed il fallimento e con dita tremanti da vecchio
avrebbe afferrato i fianchi del pulpito, vi si sarebbe aggrappato come ad
un’ancora di salvezza e Il Signore è il
mio Pastore avrebbe biascicato, ubriaco fino al midollo di dolore, perdita,
lacrime Non manco di nulla e Amazing Grace avrebbe cantato la folla How sweet the sound ed ogni voce sarebbe
sfumata nel sospiro affranto del giorno, nella pioggia incolore, l’orizzonte
bagnato d’una soffocata tonalità tra il bronzo ed il seppia. Un’ultima eco di
gospel in mille occhi e in mille bocche aperte nella sofferenza d’un solo
canto, forte, potente, disperato, picchi di meravigliosa angoscia in un
frammento d’America alla forsennata ricerca dell’alba.
Tutto si sarebbe spento e la luce sarebbe scomparsa
con un guizzo nero.
Tutto sarebbe tornato buio come quando era
cominciato e i fari del Madison Square Garden s’erano abbassati a bruciare il
corpo scomposto del Capitano, parzialmente celato dalla schiena curva di Tony
Stark, dalle sue mani strette alla divisa gelida.
Clint scosse la testa, passando i polpastrelli a
sfiorare uno per uno gli impennaggi metallici delle frecce.
Che quella sottospecie di missione non avrebbe
portato a niente, lo sapeva chiunque. Avevano cercato di ingannarsi, ognuno a
proprio modo, ma alla fine il fallimento li avevi colti proprio all’apice della
menzogna. Non ci sarebbe stata nessuna divinità, nessun risveglio miracolato, e
Barton sollevò l’ultima freccia, storse la bocca, serrò le palpebre e la
scagliò con un rude movimento del braccio. Si prese la testa tra le mani, le
dita premute tanto violentemente sul cranio da vedere scoppi cremisi dietro gli
occhi chiusi.
La fronte doleva, le tempie pulsavano e avrebbe
volentieri vomitato l’anima se allo S.H.I.E.L.D. non avesse imparato a
sopportare la tensione senza fare mostra di succhi gastrici e compagnia bella.
La nausea gli montò serpentina lungo la mandibola, s’avvoltolò alla mascella,
macchiò la punta della lingua, s’incastrò fra i denti e lì rimase,
acciambellata come un gatto pasciuto e sornione.
Dannazione pensò, chiudendosi ancora di più
nelle spalle –Un gesto che non compiva più dai tempi del Circo, quando fuori
ruggivano i tuoni e sbattevano i tendoni e l’intorno era paura, l’intorno era
terrore Dannazione.
«Faresti meglio a mangiare
qualcosa.»
Barton alzò la testa di scatto e il mondo gli
rimbalzò dentro la cassa cranica un paio di volte prima di risistemarsi,
equilibrarsi negli occhi gentili di Coulson, inginocchiato accanto a lui. Clint
sbatté le palpebre, confuso, allibito, perché se davvero non l’aveva sentito
arrivare, allora era davvero, ma davvero messo male.
«Ecco» continuò Phil nel porgergli un pacchettino di
plastica tubolare «Prendile.»
Occhio di Falco non potè nascondere un accenno di
divertimento una volta che ebbe i dolcetti in mano.
«Frosted
Donuts» recitò, il sopracciglio destro inarcato «Settantacinque centesimi.»
schioccò la lingua contro il palato e si voltò verso il proprio superiore. Lo
fissò in silenzio, tamburellando le dita sulle ciambelline al cioccolato e non
smise fino a quando Coulson, ridendo, non affondò la mano nella tasca del
completo, rivelando l’esistenza di una seconda confezioncina di dolciumi.
«Powdered Donuts!» esultò Clint «Unwarp a smile in the morning!»
«Non sono riuscito a decidere(1)» commentò
Phil a mo’ di scusa –Barton, però, era già troppo occupato a scartare le
ciambelle zuccherate per prestargli attenzione.
«Notizie dalla mandria di topi?»
«Nessuna, signore. Spariti come sono comparsi.»
Prese un soffice morso, masticò a lungo la
consistenza appiccicaticcia e decisamente poco salutare dello snack, ingoiò con
un tremito contento dello stomaco ed emise un verso soddisfatto, la tensione
meno visibile a livello delle spalle, meno tangibile nella piega dura della
bocca. Il problema, considerò Occhio
di Falco mentre afferrava un altro dolcetto, E’ che sa esattamente come
prendermi.
Destabilizzante, per molti versi. Un sicuro punto
debole per chiunque l’avesse scoperto, senza ombra dubbio.
Forse non lo faceva neanche apposta, Coulson, di
conoscere ogni piega del suo carattere e del suo essere, da come passasse le
notti in un bozzolo di coltri più simili ad un nido che ad un letto, a come
avesse chiamato Belthronding(2) il primo arco mai tenuto in mano,
quando era ancora giovane, dormiva con una copia de Il Signore Degli Anelli
sotto il cuscino della cuccetta e Portland era un orizzonte inghirlandato di
gloria e promesse.
Riusciva a comprenderlo, lo capiva dai silenzi e dai
gesti, e lo guardava con l’espressione di chi sa tutto, ma vorrebbe scavare a
fondo, sempre più a fondo, per non avere più segreti ed essere una cosa sola,
un unico pensiero con l’altra persona.
Perché questo, soprattutto, aveva distinto Coulson
da qualsiasi altro Ufficiale Sovrintendente Clint avesse mai avuto a che fare. Phil
lo considerava una persona, un essere
umano e non un fenomeno da baraccone.
L’Agente Mariner aveva tentato l’approccio
simpatico, convinto che l’atteggiamento da clown buontempone lo avrebbe aiutato
ad inserirsi in maniera meno traumatica nel mondo di Nick Fury. Una settimana
dopo Barton gli aveva fatto gentilmente trovare una parrucca arcobaleno ed un naso
rosso sulla scrivania, invitandolo ad indossarli per la lezione di autodifesa
del pomeriggio, così da risultare molto più credibile.
L’Agente
Ti-Farò-Una-Offerta-Che-Non-Potrai-Rifiutare Everett aveva deciso di essere la
brutta copia del Padrino e come tale si era comportato nei cinque giorni
seguenti all’allontanamento di Mariner. Alla mattina del sesto giorno, i suoi
colleghi l’avevano visto correre via dalla propria stanza urlando, dopo essersi
ritrovato una testa di cavallo nel letto. Clint aveva avuto un bel daffare per
spiegare che trafugata da una giostra in disuso a Coney Island, ma ogni
giustificazione era stata inutile con quella testa rognosa di Sitwell…Fino a
che non era venuto Coulson a dargli il cambio.
Coulson che aveva scartabellato svogliatamente il
dossier ed era scoppiato a ridere e aveva riso, riso così tanto e così a lungo
da doversi asciugare le lacrime, assicurandogli che in tanti anni di onorato
servizio non aveva mai assistito ad una scena più splendida dell’urlante Agente
Everett in boxer giallo canarino e paraocchi di satin nero e che per questo gli
avrebbe volentieri offerto una cena, tempo di avvertire Fury e gli avrebbe
fatto assaggiare la miglior aragosta della Costa, perché gli piaceva
l’aragosta, no? No? Allora una Caesar Salad sarebbe andata benissimo comunque.
Coulson che gli incerottava le dita dopo dieci ore
consecutive al poligono di tiro, Coulson che gli stava accanto la sera della
notizia della morte dei genitori di Dick Grayson, Coulson che gli aveva fatto
capire come in quel mondo di spie ci fosse posto anche per lui, Coulson che
solo per lui e lui soltanto aveva varcato in nudità eroica il sacrosanto
Rubicone del Le relazioni tra colleghi
non possono e non devono essere in alcun modo incoraggiate, sciogliendo le
cinghie del parabraccio, sfiorando con labbra ingemmate di sangue rappreso
lividi e bubboni violacei, sostenendogli la nuca e la schiena mentre
scivolavano entrambi sul materasso bitorzoluto di un dimenticato Motel nel
Mississippi.
Coulson che continuava a fissarlo e aveva il braccio
vicino, oh così vicino al proprio, che Clint poteva avvertirne il tessuto
ridacchiargli ruvido contro la pelle: la bocca era schiusa, in procinto di dire
qualcosa, ma senza il coraggio di dar voce alle domande, né alle possibili risposte;
tra le sopracciglia era andata formandosi una ruga arzigogolata, profonda, un
tocco d’età sulla fronte altrimenti piana e tranquilla, le dita aggrappate ai
cordoni stropicciati delle lenzuola affastellate.
«Non so nemmeno se sei tu.» esalò Barton, girando di
scatto la testa per non doverlo più guardare in faccia.
Sotto di lui Steve Rogers dormiva il suo sonno senza
battiti, circondato da un profusione mai vista di fiori e coccarde e biglietti
e action figures e disegni e sciarpe e non li avrebbe mai visti, mai, non li
avrebbe mai toccati, sfiorati, sorriso dei tratti deliziosamente rozzi che la
mano amorevole di un bambino aveva usato per colorargli la divisa, teso le dita
a stringere la spalla d’un vecchio amico di guerra dagli occhi cisposi bagnati
di lacrime grigie di polvere da sparo e cenere. Non si sarebbe alzato, non
l’avrebbe fatto mai, perché il terzo giorno era iniziato e Tony sarebbe caduto,
affogato in un lutto di petrolio, parimenti nero, parimenti vischioso,
parimenti velenoso: gli sarebbe penetrato nelle vene, a fondo, ancora più a
fondo, sempre più a fondo, e in una mano avrebbe tenuto un file che mai avrebbe
avuto la forza di chiudere e nell’altra una bottiglia di liquore che mai
sarebbe stato in grado di aprire. Perso a dibattersi in un limbo di vuoto e
solitudine e l’unica persona che avrebbe potuto salvarlo sarebbe stata metri e
metri sottoterra, gli occhi divenuti erba, il cuore radici.
«Fury ha fatto entrare solo me, all’obitorio»
continuò Clint, consapevole di come quelle sensazioni che presagiva per Stark
le avesse provate tutte sulla propria pelle «Nessun altro.» uno sbuffo «Ti ho
preso a pugni. Ti ho preso a pugni, poi è arrivata Natasha. E mi ha tirato uno
schiaffo.» si massaggiò istintivamente la guancia destra, un finto sorriso ad
arricciare l’angolo destro della bocca «Poi non ricordo. Non ricordo nemmeno il
funerale. C’erano delle persone e c’ero io. Ero in mezzo a loro e Nat mi teneva
la mano. Non ricordo neanche che tempo fosse, né se le sue dita fossero calde o
fredde, se stesse piovendo o se ci fosse tanto sole da abbacinarmi...»
«Clint, ascolta…»
«Su chi ho pianto, signore?» sibilò Occhio di Falco, rivoltandosi contro di lui «Per
chi ho affrontato le missioni più suicide?» digrignò i denti, inspirò forte
«Per chi ho smesso di pensare? Per un Life Model Decoy? È per questo che Fury
ha voluto che vedessi il suo cadavere? Per sapere se l’Agente Attis aveva fatto
un buon lavoro? Ingannare me era la
prova più sicura.» si coprì gli occhi con la mano «Se invece quello non era un
Life Model Decoy…Allora con chi sto parlando, adesso?» lo osservò di sbieco,
tra le dita appena aperte «Lei chi è? Una motivazione? Al caro Nick non va più
bene che il suo pupillo pennuto continui sulla via dell’autodistruzione e ha pensato
bene di dargli una ragione per uscire dal tunnel? Un bel robottino fedele,
perfetto in ogni dettaglio? Se volevo un action figures, sarei andato in un
Comic Store…!»
«Non posso convincerti che non sono un Life Model
Decoy, lo so.» c’era freddezza, nelle parole di Coulson, nei tratti del volto
improvvisamente rigidi, nello sguardo completamente incolore «I modelli di
Attis sono…Perfetti. La scansione del cervello non ha falla alcuna. Io so di essere l’originale…»
«…Ma lo direbbe qualsiasi Life Model Decoy di nuova
generazione.» continuò Clint, per lui.
Phil annuì. Stette in silenzio.
Lo fissò.
«Tu vedi tutto, Barton. Quel che è reale e quel che
non lo è. Cosa vedi, quando guardi me?»
L’arciere si ritrasse, allibito, a quella domanda.
Sbarrò gli occhi e rimase alcuni secondi a fissare il proprio superiore come se
fosse impazzito da un secondo all’altro.
Cosa vedeva? Cosa
vedeva?
«Vedo…» tentennò «Che non ha dormito almeno tre
giorni e ha cercato di coprire le occhiaie con del correttore. Ma si fidi,
quello non è il suo colore: fa a pugni con la carnagione.» smozzicò un sorriso
incerto «Vedo che, ovunque sia stato per tutto quest’anno, ha preso un bel po’
di sole: le è rimasto il segno delle lenti.» segnò sul proprio volto una linea
immaginaria che dall’arcata sopraccigliare tondeggiava attorno agli occhi per
chiudersi alla radice del naso.
«Wakanda» specificò Phil con una risata soffocata,
divertita e Clint gli fu quasi grato per essere avvicinato un poco di più, per
poterlo osservare meglio, per poterlo di nuovo guardare e constatare che era
sempre lui, solo più vecchio di un anno, solo addolorato di una morte di più.
«Wakanda? Bel posto dove passare le vacanze. Le
fabbricano ancora le palline di neve o i portachiavi a forma di pantere?»
«Non credo abbiano mai iniziato.»
«Ecco perché le Agenzie Di Viaggio non lo
consigliano mai come meta turistica…»
Coulson sorrise e Barton sfiorò a punta di dita la
fossetta incuneata sulla guancia sinistra.
«Vedo che ha appena deglutito per il nervosismo.»
Scese lentamente a disegnare la linea della
clavicola, il profilo del colletto bianco, soffermandosi sul nodo scuro della
cravatta.
«Vedo che le si sono dilatate le pupille»
Scivolò ancora di più verso il basso e segnò uno per
uno i bottoni della giacca, appoggiò il palmo aperto all’altezza del cuore.
«Vedo che le si sono dilatati anche i vasi
sanguigni.»
Un’inequivocabile striatura rossastra era andata ad
incidere gli zigomi di Coulson che, cosa piuttosto ridicola, stava ancora
cercando di mantenere un certo contegno. Ma l’iride era stata completamente
inghiottita dal nero ingigantirsi della pupilla, il respiro era accelerato, il
fiato fischiava tra i denti contratti, il battito cardiaco rimbombava d’eco e
scalpiccii galoppanti dentro la cassa toracica.
Clint fece leva sulla mano premuta sul petto di Phil
per spingersi verso e su di lui. Soffiò piano sulla sua bocca, cinse di respiro
la bocca resa arida dalla vicinanza, perché, Dio, Attis poteva fare tutto,
anche l’impossibile, ma non avrebbe mai e poi mai potuto sapere di certe
reazioni a stimoli tanto collaudati da loro due. Non poteva saperlo.
«Vedo…Che ha le labbra piuttosto secche, signore.»
Non poteva, vero?
***
Nel Lago d’Averno(3) si specchiavano il
sole e l’incontrastata bellezza circostante: filari di tralci e foglie verdi,
campi arati, un sentiero di ghiaino che ne percorreva ad anello l’intero
perimetro ed infine il profilo declinante dei bassi colli. Pareva difficile
pensare a quel luogo come l’entrata dell’Ade, a quel verde smeraldo come il
preludio a viali di lava fumante, a quel cielo come principio di cenere e
lapilli. Odisseo così aveva detto e Tony non aveva più motivo di credere il
contrario.
Il magnate scostò una fronda dal proprio cammino e
rimase fermo sul ciglio dell’altura sporgente, una mano a stringere il ramo, l’altro
braccio abbandonato lungo il fianco. Si chiese quanti, tra gli abitanti,
conoscessero i segreti dell’Ade, chi, fra loro, ne fosse custode, se ai bambini
che si rincorrevano nei giardini venisse insegnato a tenersi lontano dal boschetto
incappucciato di foglie nerastre, via dalla fenditura purulenta della roccia
immensa, selvaggia, che dominava vista e non vista all’insieme la distesa
d’acqua.
L’aria sapeva di leggende dimenticate, un retrogusto
rancido nel vento, terra brulla sotto le suole bagnate di fertile fango.
«Sono quasi arrivati» Odisseo gli si affiancò,
antico e millenario alla luce radente del sole «Ascolta il battito d’ali degli
uccelli. E’ la presenza di Orfeo che lo rende tanto armonico da far piangere il
cuore.»
Tony annuì, ma non disse nulla.
Non c’era nessuno oltre a loro, solo un carretto di
panini sgangherato sulla stradicciola sottostante, uno sconquassato aggeggio di
lamiere imbastite un po’ alla buona e che spandeva all’intorno una musichetta
allegra e sciocca, da come Stark poteva capire seguendo il testo italiano.
Ho settant’anni, mi
chiamo Pio e oggi vado al mare
gracchiava l’autoradio ed era tutto così ridicolo, tutto così in contrasto con
quanto il magnate avvertiva rodergli il cuore che urlare sarebbe stato il
minimo.
«Stai ancora pensando a quanto detto dallo spirito
di tua madre, Uomo di Ferro?» lo interrogò l’eroe omerico, la testa piegata
nella sua direzione.
«Le profezie dei morti sono davvero infallibili?»
«Lo sono.»
«Allora sì.»
Non parlò oltre, Tony, e lasciò ricadere il ramo in
un gran frusciare di foglie.
Scese dal punto d’osservazione per un sentiero
smangiato dal sottobosco, non curandosi della presenza o meno di Odisseo al
proprio fianco. Se anche l’eroe aveva deciso di non seguirlo fino al pianoro
antistante al lago –Lì, dove c’era uno slargo abbastanza ampio per far
atterrare il Quinjet in tutta sicurezza-, sapeva che sarebbe riapparso
dall’etere non appena Natasha e Bruce li avessero raggiunti col loro prezioso
carico.
Oltre la curva udiva ancora la stonata canzonetta Ho settant’anni, mi chiamo Pio, c’è mi chi
mi chiama vecchio e Stark superò lo scassato furgoncino senza degnarlo di
uno sguardo, l’asfalto bollente sotto le scarpe, lo scafandro in formato
valigetta che batteva inquieto contro la coscia Sarà forse un regalo di Dio non vedersi gli anni nello specchio.
Non dovette aspettare molto prima che il Quinjet
desse mostra di sé, brontolando e sbuffando astioso nell’aria vulcanica
risalente dal Lago. I pannelli retroriflettori, considerò il magnate ammiccando
soddisfatto ad un’ape di passaggio, funzionavano a dovere: persino il Blackbird
di Xavier, che pure era un upgrade del Blackbird RS-150 dello S.H.I.E.L.D.,
avrebbe sfigurato al confronto, come un carretto bestiame accanto ad una
Maserati.
L’erba sfoggiò contorcimenti del verde più brillante
nel mentre che il jet scendeva invisibilmente di quota, lo sfiatatoio che
rovesciava sul terreno vomiti di vento e rigurgiti di terra divelta. Tony si
staccò dalla staccionata su cui s’era appoggiato nell’attesa e allargò le
braccia quando il ponte s’aprì in uno stappo d’aria compressa, coricandosi
piano al suolo. Nessuno dei tre occupanti corse a salutare come il gesto
avrebbe voluto intendere e Stark roteò infastidito gli occhi al cielo, prima di
puntarli contro l’allampanato individuo che procedeva, impettito e borioso,
dietro Bruce e Natasha.
«Vi avevo chiesto di portarmi Orfeo, non Sherlock
Holmes.» li salutò, dando una pacca amichevole sulla spalla di Banner.
Questi aggiustò le lenti cascate sul naso e aggrottò
la fronte.
«Come?»
«Colpa di Clint e della sua mania per i programmi
della BBC, Dottore(4).» intervenne Vedova Nera.
Al che, Tony sorrise, deliziato e malizioso, salvo
poi passare indice e pollice premuti tra loro lungo la linea delle labbra, a
mo’ di chiudere una zip –L’occhiata di Natasha avrebbe gelato l’Antartico.
Orfeo sollevò il mento e inarcò il sopracciglio;
l’espressione si sciolse quando Odisseo gli si palesò davanti, il capo chino,
il pugno chiuso contro il cuore.
«Onomaklutòn.»
«Figlio di Laerte…! Polytropon!» esclamò il Cantore,
la voce colma di rispetto e finanche un accenno di gioia «I gabbiani d’Itaca
piangono la tua prigionia, perché più non viaggi? Perché più non prosegui il
cammino, amico mio?»
L’eroe omerico raddrizzò le spalle, sul volto un’espressione
di serena amarezza.
«Ho visto ogni cosa, mi sono inoltrato in ogni bosco
e sentiero che Gea ha creato per saziare la mia eterna curiosità. Ora l’unica
strada che potrei mai seguire è quella che mi porterebbe nella casa degli
astri.»
«E mescolarti così ai mortali che hanno insozzato
con sudicio piè il bel volto di Selene?»
«Per tua informazione si chiama allunaggio» s’intromise il magnate, infastidito «Ed eviterei di
toccare l’argomento con una conterranea di Gagarin.» indicò Natasha col
pollice, beccandosi un altro sguardo omicida e una promessa non poi così velata
di futuri scorticamenti senza anestesia. «Ora, per cortesia, potremmo
proseguire? È già il terzo giorno, non abbiamo più tempo.»
«L’Uomo di Ferro ha ragione.» annuì Odisseo «Venite,
Enea attende. E… Cantore, mi è lecito chiedere per quale motivo non hai con te
il tuo strumento, struggimento ligneo di belve e mortali?»
Orfeo strinse stizzito la sciarpa attorno alla gola,
torcendo il collo a squadrare eloquente la figura improvvisamente cupa di
Bruce. Le labbra seriche disegnarono un ghigno mellifluo sulla bocca sottile,
gli occhi lampeggiarono di liquida irriverenza.
«Il caro Dottore ha così deciso, per il meglio di sé
e della sua…» irrigidirsi schifato della mascella «Impudica compagna.»
«Uh. Caro
Dottore» commentò Tony «Qualcuno qui si è preso una cotta per te, Banner.»
Il Dottore incassò la testa nelle spalle, un
riflesso verdastro dietro gli occhiali squadrati; la custodia in pelle nera che
portava sulla schiena ebbe un sobbalzo.
«E pensa che prima si rivolgeva a me come “Uomo
Belva”.»
«Già ai nomignoli? Che romanticheria, così d’un
tratto…!»
«Stark, io non metterei troppo il dito nella piaga»
lo avvertì Natasha, superandolo ad ampie, decise, decisamente furiose falcate «L’Altro è molto suscettibile.»
Il magnate era convinto che Orfeo e Odisseo li
avrebbero condotti dentro una grotta, su
per una rupe scoscesa, in mezzo alle sabbie mobili, a dondolare dalle liane,
persino. Lo stupore fu quindi giustificato quando li vide dirigersi verso il cigolante
chiosco a quattro ruote.
«D’accordo, forse ho un certo languorino e non
disdegnerei un doppio cheeseburger, però…»
«Oh, ma non tace mai?» sbottò il Cantore «Laerziade,
non un mortale stiamo conducendo alla dimora dell’Ade, ma il figlio illegittimo
d’Eco!»
«Giuro su Dio, una volta finita la quest gli spacco il naso con un pugno.»
rimbrottò Tony, ignorando il ghigno divertito di Natasha e i fallimentari
tentativi di Bruce per trattenere una risata ben poco compassionevole.
Ricordo del tempo
che è passato
cianciava l’autoradio, scatarrando smoccoli e versi tranciati a metà da
disturbi intermittenti Solo guardando gli
altri. Il proprietario del catorcio era chino a prendere qualcosa da sotto
il bancone e di lui si vedeva soltanto qualche sparuto ciuffo di capelli neri,
una giacca marrone sporco e una sciarpa verde polvere ammonticchiata,
raggrumata tra le scapole; l’odore delle cipolle era tanto forte da dare la
nausea e quello della porchetta non era da meno; l’olio friggeva e rimbalzava,
il pane caldo sfrigolava contento dietro i vetri protettivi, appannati di
condensa. “Pius Patiens” recitava il
nome sulla parte superiore del camioncino, aperto in obliquo in modo da fungere
anche da parasole, e le due parole erano inscritte su di una striscia di pergamena
retta da una coppia di colombe.
«Cosa volete ordinare?» giunse loro la domanda del
proprietario, ancora nascosto dietro le piastre.
«Io dello Shawar---» esordì Stark, ma Orfeo, più
veloce e sdegnoso, lo precedette.
«Una focaccia di miele ed erbe.»
L’assurda canzonetta si zittì.
La zazzera nera s’alzò, comparve la fronte
prominente, due sopracciglia folte a sormontare occhi sottili, allungati, un
naso aquilino ad ombreggiare la curva del labbro inferiore, aperto per modulare
una sorpresa palesemente fasulla.
«Onomaklutòn» quindi spostò lo sguardo sulla figura
di Odisseo e a Tony non sfuggì il lampo di disprezzo «Polymetis.(5)»
«Dunque giammai mi salverò dal tuo odio?» un sorriso
scaltro si cicatrizzò sulla bocca inclinata dell’eroe omerico.
«Se non fosse stato per te, polymèkanos(5), Ilio dalle bianche mura sarebbe ancora
in piedi e la dolce Creusa, sposa adorata del mio cuore stanco, ancora in
vita.»
«Se non fosse stato per te, Elissa non avrebbe il
petto trafitto del tuo amorevole dono, Pius
Aeneas.»
«Cosa?!» domandò Stark, sgomento «Il nostro terzo
eroe è un paninaro?»
«Io ho solo fatto ciò che gli Dei chiedevano da me,
sozzo cane di Itaca!» sibilò Enea, curvandosi al di sopra delle pietanze ormai
bruciate.
«Parli sicuro, giacché senza ordini come mai potresti
muoverti, lurido troiano, anima invereconda?» replicò Odisseo, l’indice teso al
volto contratto dell’avversario.
«Ora basta!» Orfeo si mise in mezzo «Tacete! Il
figlio di Calliope lo ordina!»
Occorse ben più di un’ora prima che gli spiriti
s’acquietassero ed erano già sul sentiero che costeggiava il Lago, quando
finalmente Enea si decise ad interrompere l’ostinato mutismo.
«Mia Madre, Venere Citerèa, mandò a me due colombe
ed un messaggio: elle avrebbe trattenuto Mercurio, affinché il mortale di Ferro
potesse incontrare il soldato defunto e dargli avvertimenti.» scostò un ramo,
procedendo spedito verso la roccia che s’impennava feroce davanti ai loro occhi
«Nulla che sia amore sfugge mia Madre, né lei fugge Amore.»
«Meno chiacchiere e più scarpinate.» lo spronò Tony,
che aveva già indossato l’armatura e velocizzato il passo, onde eviyare gli
occhi di Natasha piantati tra le scapole o il convulso cercare di Bruce di
guardare da un’altra parte.
Orfeo e Odisseo chiudevano la fila, il primo che
dall’aggraziato incedere sembrava intento ad una soave, tranquilla passeggiata,
il secondo che lo affiancava, molto più attento, molto più all’erta, già pronto
all’attacco se il caso l’avesse richiesto.
Enea s’issò sul fianco del sentiero e stette ritto a
rimirare la fenditura della parete che li affiancava, sdrucciolosa, malamente
intagliata, con costoloni frananti e mille volte mille bocche aperte ad
emettere un rumore senza suono e mai richiuse. Brancicava un bosco, accanto
all’entrata maggiore, e si estendeva cupo senza che se ne riuscisse a vedere la
fine, selva sconfinata a chiudere in claustrofobiche ombre tutte le convalli.
Il suolo esalava soffioni rancidi e sbuffi velenosi.
«A voi presento la soglia, l’antica dimora della
Sibilla» il figlio di Venere accennò col mento ai filari scuri incappucciati di
nebbia gorgogliante «Là, tra cortecce e spine, si nasconde un ramo d’oro, dono
bramato da Proserpina. Privi di esso, l’accesso all’Averno ci è negato, non ne
si può trovare la strada.(7)»
Ma il magnate l’ascoltava a metà. Gli tremavano le
ginocchia, la fatica della camminata e delle notti insonni, del dolore, della
perdita, del lutto e della speranza squilibrata gli pesavano sulla schiena,
obbligandolo a sbilanciarsi in avanti, senza più presa, senza più coscienza.
I vapori sulfurei gli facevano girare la testa,
annebbiando la vista e il buon senso.
Ringhiava il sole tra le fronde, gli saettava un
ruggito di dolore tre le tempie, scoppiava il cuore tra le costole; un lampo
bianco-oro più forte degli altri costrinse Tony ad appoggiare una mano sul
tronco d’albero più vicino. Gonfiò il petto, riempì i polmoni d’un respiro
ristoratore, ma nella gola passarono solo effluvi sibillini e s’incrostarono ai
bronchi mille voci di rocce e antri dimenticati.
Stark chinò la fronte e s’accorse di non indossare
più l’armatura: era a piedi nudi, immerso fino alle caviglie da foglie, un
mare, un oceano, una vastità di foglie dai molteplici, innumerevoli colori, un
caleidoscopio di forme e dimensioni, fin dove l’occhio poteva arrivare. La
superficie di esse, poi, non portava segni del tempo, né morsi di bruchi o
altri insetti. Vi era stato scritto qualcosa, sopra, frasi, parole, numeri e
l’inchiostro non era inchiostro, pareva più sangue o l’essenza stessa della
terra.
«Cosa diavolo…?» il magnate si piegò a raccogliere
una foglia, su cui il suo sguardo era caduto con una casualità che definire
predestinata sarebbe stato concedersi un ingiustificabile eufemismo.
La strinse fra le dita –Anch’esse prive della
protezione data dalle manopole- e corrugò la fronte.
Stamford recitava la grafia infiocchettata
di volute e linee e curve.
Tony ne afferrò un’altra, più lontana almeno di
quattro passi dalla prima.
Legge.
Quarantadue, una terza.
Registrazione. La quarta.
Nova. La quinta.
«Odisseo» lo chiamò, l’ultima foglia ancora
appoggiata sul palmo «Che sta…?»
Alzò gli occhi e il fogliame gli si riverserò
addosso, turbinò di una danza senza freni, estatica, orgiastica, frantumò il
tessuto della realtà e a nulla servì il tentativo di ripararsi con le mani
alzate. Il mondo si disfece nel ciclone di lettere e scritte e ammonimenti,
scomparvero i colori, franò l’orizzonte, si rovesciò l’umana concezione del
tempo. A palpebre socchiuse Tony cercò di intravedere qualcosa oltre l’infrangersi
di fronde, ma non scorgeva altro che vento e foglie, foglie e vento, ovunque,
dappertutto, sopra e sotto, dentro la bocca, tra le mani, infilate a forza nei
polmoni.
Tossì e dalla bocca uscirono densi fumi odorosi,
riccioli, anelli, condense, esalazioni d’incenso. Lo stomaco si torse, si
contrasse, vomitò saliva, parole, urla, preghiera, si rivoltarono gli occhi
nelle orbite, cadde carponi, crollò a terra, le foglie gli invasero le narici,
gli tapparono la gola, pianse lacrime nere di sangue ed eventi futuri scioltisi
nell’incomprensione presente.
Poi, come tutto era cominciato, finì.
O meglio, si sospese.
Un respiro di quiete e il fogliame ricadde, s’adagiò
sul sentiero e lì rimase. Muto e immobile.
Sputando fango e bestemmie, Stark arrancò, sfiatò
fino a mettersi a quattro zampe, serrò le palpebre. Riuscì a fatica a
rimettersi in piedi e quando ebbe abbastanza fortuna da mantenersi in
equilibrio, lo colse un capogiro e dovette di nuovo appoggiarsi sulle ginocchia
per non cadere.
L’albero su cui si era sostenuto prima era
scomparso, così come erano scomparsi Natasha, Bruce, Odisseo, Orfeo ed Enea: era
solo, nel centro esatto di una navata infinita, affiancata da pilastri
d’appoggio per volte e vele e croci. Panche di legno sfilavano sul pavimento in
marmo bianco e nero e ognuna di esse era decorata con un mazzo d’organza
trapuntata d’argento, impalpabile come bruma; dal soffitto a botte pendevano
candelabri a foggia di steli, tralci d’oro ad abbracciare il busto levigato
delle candele, lo stoppino un coito bruciante, l’atmosfera un ansimo corale di
fiammelle vermiglie. Dall’abside un Cristo in mandorla lo guardava fisso, gli
occhi pacificatori, eterni, le dita benedicenti, un sorriso di pacata gioia sul
volto barbato; illuminato dal fulgore divino della corona a raggiera, l’altare
splendeva bianco, arabescato di fiori, le cui composizioni tenui, così
deliziose e semplici, richiamavano il cuscinetto matrimoniale brulicante di
luci accanto alla Bibbia già aperta. Le fedi matrimoniali, appoggiate sulla
stoffa morbida, intessuta di perle e ricami a chiacchierino, erano teneramente
unite da un piccolo fiocco candido.
Il matrimonio di
Capitan America
chiocciò una vocetta femminile, fuori campo, Dicono che la sposa sarà
bellissima.
Il cuore bombardò aritmico il costato e Tony deglutì,
un passo all’indietro, lo sguardo del Cristo conficcato nell’orbita,
l’incredulità che ingoiava respiro, fiato e polmoni, costringendo il petto al
vuoto più assoluto. Biglietti ed inviti nuziali cinguettarono e svolazzarono,
gettandosi dai fusti scanalati delle colonne e spettegolando di torte e
cerimonie e abiti e persone importanti e chi avrebbe preso il bouquet e Stark
si vide circondato, premuto, graffiato, trafitto da quegli odiosi cartoncini
color panna, stretto alla gola dai cascanti motivi del Monotype Corsiva. Artigliò il collare di vezzi e rampicanti che gli
aveva cinto improvvisamente la carotide, si divincolò, lo strappò con violenza,
diede le spalle alla navata centrale e corse, crollò sugli ampi battenti,
spinse.
Uscì.
Il sole lo abbagliò, la nenia delle onde lo cullò,
la sabbia mormorava bollente tra le dita dei piedi nudi. Il magnate abbassò il
braccio con cui si era protetto gli occhi e s’accorse di essere sulla spiaggia
privata che aveva comprato qualche anno prima, non ricordava neanche bene per
quale motivo –Non sapeva perché fosse così sicuro
di trovarsi sulla propria spiaggia privata: non esisteva nulla che lo provasse.
Solo l’orizzonte ingioiellato di spuma e il distendersi sospirante dei flutti
sulla battigia crocchiolante di sassolini.
Si girò, convinto di trovarsi alle spalle l’entrata
della chiesa, ma dietro esisteva solo altra sabbia, altro bianco, altro sole e
altre cielo. Non case, non persone, non montagne o colline di sorta. Non
c’erano nemmeno le nuvole.
Voltò la testa, allora, e lo stupore lo colse nel
trovarsi di fronte ad un’arcata straripante petali porpora e oro, intervallati
bocciolo dopo bocciolo da coccarde bianche, rosse e blu, le due code
rettangolari a motivi alternati di stelle e strisce. Una stuoia a listelli
cremisi era stata srotolata sulla spiaggia soffice e sedie dallo schienale
tondeggiante, più o meno una ventina, erano state disposte carinamente
all’intorno.
Spirava una brezza ridente e Pepper mosse passi sussurranti
sulla schiuma biancastra: la mano destra sollevava la gonna turchese
all’altezza dei fianchi, perché l’acqua non vi giocherellasse troppo, né le
rovinasse l’orlo con uno spruzzo irriverente. I capelli erano raccolti in una treccia,
chiusa alla nuca in uno chignon; gli spilloni balbettavano bisbigli tintinnanti
di gocce opalescenti, ciocche biondo-rosso sfuggivano volutamente dall’acconciatura
per accarezzarle il collo flessuoso e le spalle nude. L’abito, di ricercata
sartoria, non aveva spalline, ma un rettangolo di stoffa alta quattro dita a
sostenere il corpetto, passante poco sotto la clavicola. Le scarpe col tacco
era abbandonate poco distante, sandali raffinati adagiati in mezzo a
insignificanti dune di sabbia: Tony vide se stesso, sorridente, inguainato in
uno smoking nero, raccoglierle e porgerle alla loro legittima proprietaria,
dopo averla raggiunta al limitare ridacchiante delle onde.
E’ triste,
signorina Potts?
Lei sporse appena le labbra, quindi sorrise.
No. Sono solo
molto, molto contenta per voi due.
Disse altro, ma le sue parole vennero ridotte a
brandelli da un bubbolio irato di tuono. Stark gettò lo sguardo oltre le due
figure sulla battigia, ora immobili come statue di sale, e il panico lo
travolse allo stessa maniera della saetta che si piantò ed esplose in acqua,
scarnificando creste e flutti, giganteggiando sul mare, innalzando onde
mastodontiche. Il volto di Thor tracimò distorto nel ventre convesso del
cavallone, Goliath(8) barrì un lamento funebre, ricadde
all’indietro, si disintegrarono i marosi contro la sabbia, un fascio di fulmini
lampeggiò roboante e il risucchio d’aria della denotazione lo investì e il
magnate si tappò le orecchie con le mani, premette tanto forte da sentir
scricchiolare le tempie, il cranio comprimersi, il cervello strizzarsi,
rinsecchirsi mentre perdeva umori e ricordi. Serrò le palpebre, s’accucciò al
riparo dell’arcata, in posizione fetale, aprì la bocca ed urlò e il vento gli
rubò anche la voce, lo travolse e ripeté il grido dieci cento mille volte e
quando piombò di nuovo il silenzio, si ritrovò in uno spiazzo circolare,
illuminato da un barlume effimero, tremulo, proveniente da chissà dove;
l’ambiente non aveva confini di sorta, né punti da usare per orientarsi.
Unico oggetto era un tripode di bronzo, sormontato
da una lastra circolare. Su di essa un ramo d’alloro, a raccogliere i richiami
della luce e frangerli all’intorno in una nenia continua di bisbigli e
barbagli.
In assenza di idee buone o anche passabili, Tony s’avvicinò
al tripode e afferrò il rametto tra due dita. Una stilla rosso-arancio comparve
allora sulla cima dell’alloro: filamenti di luci s’allungarono dal centro
pulsante e la loro intensità aumentava e diminuiva, preda d’inspiegabili cali
di tensione, come un programma che cercasse di sintonizzarsi sulla giusta
frequenza.
Stark era sul punto di rimettere il ramo al suo
posto, quando notò un particolare decisamente strano ed inquietante:
accompagnata da un tintinnare di voci e brusii d’attesa, una curva scarlatta e
blu si staccò dalla stilla, rimbalzò al suolo, assunse forma umana, s’ingrandì,
avanzò oltre il tripode e si piazzò al centro dello slargo, elevato a palco
immaginario; la piccola sfera si sollevò dall’alloro, mutandosi in riflettore. A
Tony non ci volle molto per riconoscere nella visione ora più definita il
costume di Spiderman, l’aracnide stilizzato al centro del petto, la ragnatela
che da esso si stendeva sulle spalle e lungo lo sterno.
«Spiderman…?» tentò il magnate, confuso e anche
vagamente terrorizzato dallo spettacolo cui stava assistendo.
L’eroe non parve averlo sentito e si portò le mani
guantate al retro della testa, nel punto della nuca dove la maschera si univa
al resto del costume; fece passare le dita oltre l’orlo divisorio e si tolse il
cappuccio di spandex colorato, mostrandosi al mondo per quel che era davvero:
un ragazzo di poco più di vent’anni, coi capelli castani mossi e un viso
giovane dagli occhi tristi. Disse qualcosa ad una folla inesistente e pur non
sentendolo, perché privo di voce, Stark ne colse l’atteggiamento ostinato,
tenace, a tratti persino provocatorio.
L’immagine si contrasse ed implose, frantumandosi in
brandelli e cristalli e perle e Tony, col cuore ancora gonfio, retrocedette
d’un passo per poterle vedere tutte, osservarne ogni piega, ascoltare ogni
sussurro. Vide un boato di fiamme ed una statua commemorativa, vide volti
alieni, squadrati, verdastri, rugosi, e poi il Tesseract, Teschio Rosso e liste
di supereroi e mani tese e un electron-scambler e Devil e trenta denari
d’argento.
«Cos’era? Cosa ho visto?»
«Il futuro» mormorò una voce fumosa «Foglie.»
«Perché?»
«Il futuro è scritto nelle foglie.»
Dita e tentacoli di nebbia spuntarono da sotto il
tripode, s’attorcigliarono e s’avvoltolarono tra loro, crebbero, allampanate,
si riversarono sulla piattaforma dove prima riposava il ramo d’alloro,
sollevando schizzi pallidi e soffi di polvere cinerea. Comparve quindi una
donna, una ragazzina dal volto di pietra e lo sguardo languido, le pupille
dilatate da mistici effluvi; i capelli rosso-bruni, raccolti sulla nuca in
morbide onde, le ricadevano in una melodia di ninnoli e fermagli sulle spalle, la
sinistra nuda, la destra coperta da un panneggio zafferano che le cingeva
trasversalmente il petto florido, abbellito da un fiocco a tre lobi e sopra
l’incavo dei seni da una rosa di granato; la vita era stretta da un fazzoletto
porpora, così come sopra al gomito era chiusa una mantella blu scuro,
intiepidita di riflessi viola. Si sedette sulla piattaforma con movimento
aggraziato e la veste nascose in un rigonfio luminescente di pieghe le gambe
snelle, le caviglie ben modellate, i piedi calzati in sandali di preziosi.
«Chi sei?» chiese Stark ed ella rise e divenne più
vecchia d’un anno.
«Deifobe di Glauco» rispose e unghiate rugose le
comparvero ai lati delle palpebre «Amphrysia mi chiamò il Mantovano» il collo
tremolò di pelle cadente «Sacerdotessa d’Apollo, Sibilla di Cuma.»
«Sono ubriaco, vero?»
«Chiedilo alle foglie.» mormorò lei e le dita torte
di corteccia sollevarono con un sol gesto, con un sol ordine stracci di
fogliame e verdeggiare di fronde.
Tony le scacciò con un gesto irato.
«Ascoltami, signorina---»
«Il futuro è scritto nelle foglie.» ripetè Deifobe,
gracchiante «Perché non vuoi leggerlo?»
Inspirando con violenza, il magnate afferrò stizzito
una manciata di foglie e s’accontentò di gettare l’occhio sull’unica rimasta.
«Non ne vale
la pena» mormorò, quindi alzò la testa e scosse il capo «Non vuol dire
nulla.»
«E’ una conseguenza.» lo corresse la Sibilla, più
gobba e rachitica.
«Di cosa?»
«Di una scelta.»
«Di una---» il magnate impietrì, gelando al ricordo
di quanto gli aveva detto sua madre sul ciglio dell’Erebo.
Non dovevi venire
figlio mio. Oh! Una decisione ti ha portato qui…
«Non ha senso» ripetè «Non ha proprio senso.»
Intanto, di Deifobe non era rimasta che una megera
dal volto grifagno, col naso adunco e palpebre cispose. Modulò una risata
garrula, da vecchio avvoltoio, la voce lasciva e sbavante tra le gengive prive
di denti: la bellezza che aveva visto la sua nascita aveva lasciato il posto ad
una bruttezza imponente, il possente orrore di una cuffietta di stracci lerci
sul cranio calvo, seni enfi, cadenti, acciambellati in una veste blu,
impolverata, ridicola nel patetico impreziosirsi con un filare d’oro lungo il
petto. I piedi grossi, artritici, dalle unghie larghe e coperte di fango,
spuntavano da sotto un manto grossolano, giallo con riflessi arancio, e le
braccia erano nude, un reticolato ripugnante di vene, inguardabili e turgide.
«Il futuro ha senso solo nel presente.»
«Ora è il
presente!» protestò Tony.
«No.» replicò la Sibilla, ghignando «Ora è passato.»
Singhiozzò un singulto divertito e le vestiti si
sollevarono e le si rovesciarono addosso e la coprirono e scomparvero. Sottili
sbarre antracite si chiusero, clang,
all’apice di una gabbia: dentro di essa pigolò una cicala cigolante. Stark si
chinò fino ad avere gli occhi all’altezza dell’insettino e questi saltellò via
contento, fuggendo a grandi balzi.
Siete guerrieri,
con armi e ideali e cose per cui combattere rimbalzò la voce effimera di Deifobe, persa nel
disfarsi del carapace in mille frammenti di bronzo Cose per cui morire.(9)
Tony la rincorse, seguì l’eco fino a che un cono di
luce gli esplose davanti ed egli avvertì il cuore bloccarsi in gola.
Appoggiato mollemente al tronco di un albero, un
giovinetto lo squadrava divertito. Era nudo, dalle membra ancora acerbe, i
riccioli biondi tenuti alti sulla fronte da una fascia candida; la linea del
corpo fanciullesco era morbida, flessuosa, il piede alzato ad incontrare il
tallone destro in una soave armonia di forma e proporzioni, la gamba sinistra
deliziosamente rilassata, abbandonata ad un aggraziato languore. Tra le dita
della mano destra teneva un lungo stilo, sottile, e vi giocherellava nel
tentativo di trafiggere una lucertola verde smeraldo.
«La vostra è presunzione» lo canzonò il ragazzino,
conficcando la cuspide nella carne dell’animale «La presunzione che vi fa
credere di essere sempre i buoni e di lottare contro i cattivi.» la lucertola
ebbe un spasmo, tremò tutta e rimase inerte, appesa alla corteccia come una
farfalla inquadrata nel vetro.
Il giovinetto abbandonò la freccia con indolenza e
mosse un passo in avanti –Per contro, Tony ne fece uno indietro. Il cono di
luce divenne liquido e s’arrotolò attorno alla gola dell’altro, divenne un
mantello, rovesciato sul braccio teso in avanti in un gesto imperioso. Il corpo
esplose in uno sfolgorare di splendore inaudito, i muscoli divennero pieni,
perfetti, la fascia si slegò e i riccioli palpitarono liberi attorno al collo.
Boccoli biondo-oro s’avvoltolarono a crocchia, alti sulla nuca, trattenuti e
raccolti da un nastro dai riflessi brucianti come il sole.(1)
«In una guerra non ci sono i buoni e i cattivi.»
gridò e nella mano destra gli apparve un arco, già la sinistra stava tirando la
corda e la freccia incoccata «Ci sono soltanto forze nemiche.»
Scagliò il dardo e Tony lo sentì distintamente
trapassargli il Reattore Arc, infilarsi nei tessuti, uscire schioccando dalla
schiena, disintegrando midollo e vertebre. La nuca si ribaltò all’indietro, il
mondo ebbe uno scossone in avanti, deflagrò la nausea e la pioggia gli bagnò il
viso Raccontate le storie delle sue
imprese pregava una voce Ai vostri
figli esplosero mattoni e crani e bambini Ai vostri nipoti macerie e fumo E
Steve Rogers saliva, sputo, rancore della madre come fiele per l’assassino Capitan America, non morirà mai.
Tony Non sai
come gestirli, vero? Tony L’angoscia,
il dolore. La perdita…Tony, mi senti? Quindi
hai cercato di fare la cosa che ti riesce meglio…Un affare. Tony, per
l’amor di Dio! Hai cercato di fare uno
scambio che facesse sparire tutto Tony! Svegliati! Ma non puoi Tony!
«Io verrò a prendervi…!» gridò e il volto di Natasha
s’allontanò bruscamente dal proprio campo visivo.
Tony esalò un respiro gonfio, un singhiozzo rotto, e
si portò una mano al volto. Gli girava ancora la testa, aveva nausea, voleva
solo vomitare. Sentiva la bocca asciutta, una debolezza mai provata in tutto il
corpo, brividi a mordergli le ossa ed i muscoli, gli occhi mettevano a fuoco un
istante e già quello dopo ogni cosa era
coperta da una patina molliccia, di bitume biancastro. Tremava e non riusciva a
smettere, aveva freddo eppure era di nuovo coperto, indossava di nuovo
l’armatura, nessuna freccia l’aveva colpito.
Era nel bosco, sì, ma non era solo, c’era Natasha
sopra di lui e Bruce che gli abbassava professionalmente la palpebra inferiore.
«Che…Che è successo?» domandò, roco, scostandosi dal
tocco di Banner e storcendo la bocca per il fastidio.
«Sei svenuto» rispose Vedova Nera, pragmatica «Sei
crollato a peso morto sull’erba e hai cominciato ad agitarti e a tenderti.»
«Come un attacco epilettico» spiegò Bruce, levandosi
in piedi e dandosi alcune pacche sulle ginocchia per
togliere ogni residuo di terra. «Ma parlavi.»
Stark corrugò la fronte.
«E cosa dicevo?»
Il dottore fece spallucce.
«Qualcosa a proposito di una guerra. Di Giuda e dei
Trenta Denari. Chiedevi una soluzione, sciorinavi una sequela di nomi, parti e
motivazioni. Hai parlato di Steve…Hai parlato con Steve» si corresse «Una cosa che avresti dovuto dirgli, ma
ormai non potevi più.»
«Io---»
«Hai vaticinato.»
Il magnate inarcò un sopracciglio e fissò Odisseo di
sbieco, gli occhi assottigliati.
«Non ho vaticinato.» replicò «Sono una persona
educata, non faccio queste cose.»
Orfeo, rimasto fino a quel momento a fissarlo seduto
su un sasso, allargò le braccia e sputò un insulto esasperato in madrelingua.
Enea, al suo fianco, sistemò la sciarpa sulle spalle e assunse un’espressione
schifata, di palese disgusto.
«Hai vaticinato. Significa che hai predetto il
futuro» chiarì Odisseo, paziente «Questa era la sede di Deifobe, la---»
«---La Sibilla Cumana.» completò Tony, ingegnandosi
per stare alzato senza dare di stomaco.
«L’hai incontrata?» Enea si tese verso di lui,
ansante, impaziente «L’hai vista?»
«Non intendo parlarne, paninaro.»
«Non immaginavo tu ne fossi in grado.» al suo
sguardo perplesso, il sovrano di Itaca roteò il polso «Predire il futuro,
intendo.»
«Sono un inventore.» il magnate si chinò a
riprendere il casco dell’armatura, che gli altri dovevano avergli levato perché
non andasse a comprimere la gola «Posso vedere come sarà il mondo e posso
vedere di cosa il mondo avrà bisogno perché quel futuro meriti di essere vissuto.
Vedo quello di cui avremo bisogno e invento quello che ci porterà là.»(11)
«E cosa hai visto, Uomo di Ferro?»
Tony ficcò gli occhi nel proprio riflesso e questi
gli restituì un’immagine affranta, un uomo dai capelli lunghi, incolti,
sporchi, borse livide e cadenti giù, lunghe, pesanti, fino agli zigomi, sclera
arrossata di pianto, mascella serrata e denti digrignati, arrabbiati,
distrutti; la pelle era esangue, chiazzata sulle guance e attorno alla bocca da
macchie violacee, le tempie bianche di freddo, rigagnolate di sudore, le labbra
spruzzate di blu cianotico tanto erano feroci i singhiozzi, violente le lacrime
che scorrevano agli angoli delle palpebre serrate. Modulava urla angosciose di
scuse, grida inudibili e il sangue scrosciava attorno a lui, sipario ormai
chiuso di tragedia. Il livello della marea scarlatta salì e salì, cancellò ogni
cosa, disfece ogni membra, divenne condensa, si solidificò, tornò ad essere
semplice lega di titanio e oro cromati.
«Non ho visto nulla.» tagliò corto.
La guerra cantò metallica la profezia di
un cicala La guerra s’unirono al coro
il cigno dagli acuti gorgheggi e l’ululato indistinto del lupo La guerra gracchiò il corvo, mentre il
falco, sopra di lui, scendeva elegante e La
guerra strideva ad ogni cerchio La
guerra sibilò infine un serpente verde e marrone, scivolando via in un
singulto di squame luminescenti.
«Andiamo.» Stark re-indossò il casco e il clangore
rassicurante della chiusura ermetica coprì amorevole il sospiro che gli era
sfuggito dalle labbra «J.A.R.V.I.S., sei attivo?»
«Per lei
sempre, signore.»
«Molto bene. Allora diamoci al giardinaggio.»
La guerra ammise a se stesso e non seppe
dire se la voce fosse la propria, o quella della Sibilla o del Dio che l’aveva
trafitto So che ci saremo. So cosa vuol
dire. So cosa succederà. So esattamente chi sarà da una parte e chi dall’altra.
So come la penserò io. I dati s’affaccendarono dentro lo schermo della
calotta, ma Tony non li vedeva, o meglio, vedeva oltre, vedeva un volto, vedeva
sangue So come la penserai tu. Vedeva
un foro all’addome. So che ci saremo.
Sentiva distintamente il morso della proiettile
bruciargli la carne.
***
“Ora sei convinto
del fatto che non sono un Life Model Decoy?”
«Signore, non che io mi stia permettendo di farle la
ramanzina, ma non le sembra…Inappropriato sorridere a quella maniera? È pur
sempre la camera ardente di Capitan America.»
“Non lo so,
signore. Forse ho bisogno di qualche prova in più. Giusto per essere sicuro e
non lasciare nulla al caso”
«Ha ragione, Woo. Non si scusi.»
«Ha ricevuto belle notizie stanotte, signore? Mentre
noi dormivano saporitamente?»
«Sitwell(12), una parola di più e non
esiterò a farle rapporto per oltraggio ad un suo superiore.»
Invece di appuntarsi sulla faccia l’espressione più
contrita del repertorio, Jasper gli rivolse un ghignetto sornione, cui Coulson
rispose con un eloquente inarcarsi delle sopracciglia.
Sitwell si sistemò allora gli occhiali sul naso, si
schiarì la gola e tornò ad irrigidire compitamente la schiena. Phil annuì,
soddisfatto, e osservò il via vai di gente venuta a dare l’estremo saluto alla
Sentinella della Libertà –Non prima, però, di aver lanciato un’occhiata veloce
alle scale, lì dove sapeva essere l’Agente Barton. Accucciato e vigile, la
testa incassata nelle spalle, l’arco accanto, gli avambracci posati sulle
ginocchia, Coulson avrebbe potuto descrivere senza fatica od errore alcuno
finanche il modo in cui la luce azzurra dei neon s’appoggiava alla piega del
naso o gli baciava la curva ferrea della bocca, lasciando in ombra il collo e
parte del petto.
Al solo ricordare la pelle calda di Clint contro la
propria, represse un brivido. S’umettò veloce le labbra, ben sapendo che Barton
stava sicuramente sorridendo, mefistofelico.
Santa pace, alle volte gli sembrava di avere a che
fare con un bambino, non con un Agente fatto e finito di Livello 7.
Professionalità o meno, Occhio di Falco non avrebbe mai e poi mai mancato
un’occasione di metterlo in delizioso
imbarazzo, come era solito dire, soprattutto quando si trovavano in
un’intimità sospesa e tranquilla, e ogniqualvolta, poi, dovevano abbandonarla
per tornare ai rispettivi ruoli.
Una delle sicurezze
della mia esistenza considerò
Phil, scostandosi appena per controllare una figura curva, gobba, tanto
intabarrata in scialli e pastrani da zingara da far scorgere a stento un volto
appuntito, ingrigito Come il non essere
un L.M.D.
Perché Coulson ne era sicuro, sicuro come mai: lui
era l’originale. Non era un Life Model Decoy. I ricordi, i pensieri gli
appartenevano, non erano memorie digitalizzate, né comportamenti pre impostati.
Attis non avrebbe mai potuto progettare il gesto lieve con cui aveva disegnato
le fasce muscolari di Barton, dal polso fino alla spalla, lungo l’avambraccio,
nell’incavo del gomito; non il calore che gli era montato nello stomaco nel
mordergli la clavicola, nel baciargli lo sterno, nel perdersi a contare,
contemplare le vecchie ferite e le nuove cicatrici, disegnandone il contorno, avvertendone
il bianco gonfiore contro la lingua.
Non avrebbe mai potuto arrivare a tanto. E lui lo
sapeva. Lo sapeva anche Clint. E tanto bastava. Non era un Life Model Decoy.
Era l’originale Phil Coulson. Nulla gli era stato impiantato. La propria era
vera carne, veri nervi. Vero sangue, non olio di motore. Vera pelle, non
rivestimento di lamiera.
Era l’originale.
Non sarebbe mai stato altro.
«Signore…?»
«Mh?»
Peter Parker gli era appena comparso al fianco, il
volto terreo e gli occhi che guizzavano da una parte all’altra della stanza, in
allerta; Phil divenne vigile all’istante, uno sguardo d’intesa con Sitwell e
Woo ed entrambi erano sull’attenti, Occhio di Falco, contro ogni lecito dubbio,
con un braccio piegato e le dita a sfiorare attente l’impennaggio delle frecce.
Il ragazzo succhiò le labbra, a disagio.
«Ho come un presentimento…»
confessò, il respiro veloce e un rivolo di sudore freddo a scurire
l’attaccatura alle tempie.
“Siete ancora
convinti che il free-lance di Jameson sia Spiderman?” gli aveva chiesto Clint,
bocconi su di lui, le dita intrecciate sotto il mento, il corpo nudo che
s’intravede a sprazzi di linee e curve nel buio ovattato.
“Hai mai notato che
quando lui non è intorno, Spiderman è lì a fare la propria, buffonesca
entrata?”
“Signore, secondo
questa logica io potrei benissimo essere Batman. Ci ha mai visti insieme della
stessa stanza?”
“Mi spiace per te,
Barton, ma sappiamo esattamente chi si nasconde dietro la maschera del
Pipistrello.”
“E Robin era(13)
un mio collega. Non giochiamo a chi conosce gente più in alto di chi, signore.
Posso stracciarla in due mosse.”
Checché ne dicesse Clint, Coulson aveva fiducia
nella teoria che legava Parker a Spiderman. Il presentimento come il giovane aveva chiamato l’agitazione di cui
era preda, era la medesima percezione extrasensoriale che, secondo Fury,
possedevano i ragni per non essere schiacciati sulle piastrelle del bagno.(14)
«Che tipo di presentimento?»
«Ecco, io…»
Uno strillo isterico lacerò l’aria.
Phil si voltò appena in tempo per vedere una figura
allampanata e sporca crollare miserevole ai piedi del feretro, prendendo a
pugni il pavimento più e più volte, smoccolando bestemmie e pianti liquidi,
scivolosi di moccio e lacrime appiccicose.
«Perché?!»
ululò, bestiale «Perché?! Oh! Un così brav’uomo! Un così brav’uomo!»
«Sta’ indietro, Peter»
Le persone, invece che stringersi attorno a tanta,
folle disperazione, invece di unirsi al cordoglio di quel miserando palesemente
ubriaco e fuori di sé, si erano ritratte, si guardavano, si portavano la mano
alla bocca, si sussurravano stupore, meraviglia, Che spettacolo increscioso! Esclamavano alcuni Oh, poverino! Gemevano i più caritatevoli, pur non osando
avvicinarsi, rimirando da lontano i piagnistei e gli strilli e i colpi. L’unica
ad essere rimasta al limitare del capannello, la più vicina fra tutti i
presenti, era l’anziana intabarrata e grigia, tremebonda sotto i lunghissimi
scialli impolverati, il fiato un fischio, un sibilo –Un ringhio, quasi?
«Adesso calmati, ragazzo» Phil s’avvicinò cauto,
lento, le mani alzate, un’espressione cordiale e accondiscendente sul viso.
S’inginocchiò piano accanto al ragazzo, che intanto s’era curvato su se stesso,
la testa incassata nel colletto del trench grigio; a fare capolino era solo una
zazzera disordinata di cappelli rossicci «So che sei sconvolto, ma…»
«No! No, lei non capisce…!» fu il latrato di
risposta, strappato a forza dalla gola, un boato d’inglese marcato da un
accento…Un accento che Coulson non sentiva per la prima volta, no. Ma
dove…Dove…? «Senza di lui, senza Capitan America, non vale nemmeno più la pena
di vivere…!» e detto questo, in un gesto teatrale al limite del grottesco, Phil
si vide scacciato via in malo modo con una manata poderosa e improvvisa.
Meno di un istante per riprendersi dalla sorpresa e
già l’altro s’era alzato in piedi, poco stabile sulle gambe: il braccio destro
era alto sopra la testa, a sollevare un trofeo invisibile; le dita della mano
sinistra, piegate come artigli ritorti, s’aggrapparono alla manica della
camicia, troppa larga per un polso tanto sottile, smagrito, pallido e malarico.
Era di spalle e Coulson non aveva modo di vederlo in faccia o riconoscerlo.
Quando, però, il folle squarciò il tessuto a righe lungo l’avambraccio fino al
gomito, rivelando un’amorfa cicatrice spessa quanto un cordone per tutto il
tratto di pelle, Phil gelò.
Aprì la bocca per urlare un avvertimento, ma a
soffocare il proprio grido ci pensò un sibilo, Hiiiiisssss---!, prolungato e poi squittii e zampetti e schioccare
di piccole mandibole e tremare di vibrisse: la vecchia avvolta di scialli si
strappò gli indumenti di dosso ed era Vermin, Vermin dalla schiena gobba, il
volto triangolare e il cranio bombato, Vermin con la testa coperta d’ispida
peluria grigia, gli occhietti rossi e cattivi, di brace fumante, i denti
allungati, ingialliti di saliva e spazzatura, il fiato mefitico, Vermin che era
saltato in mezza alla folla, richiamando a sé un esercito di roditori e la gente
urlava e scappava e Vermin gettava il mondo nel caos, nel panico, saltava,
ringhiava, soffiava, il tuono della pallottola, Sitwell aveva estratto la
pistola, Woo strillava ordini, Fuoco di
copertura Jasper, fuoco di copertura! e metteva i presenti in salvo, li
costringeva fuori dall’edificio e la Stark Tower vomitava topi e ratti e
roditori e fischiavano le frecce e gioiva d’ebbra vittoria il mutante ubriaco.
Coulson scacciò di dosso le bestiacce arrampicatesi
sui pantaloni e sulla giacca del completo, si girò, Vermin gli balzò contro,
una cocca esplosiva gli deflagrò davanti al muso e lo costrinse a retrocedere
con un guaito, a grattare via la cenere dagli occhi, dal naso appuntito. Phil
mise mano alla fondina, un pugno fratturò lo zigomo, le ossa s’incrinarono e
gemettero, lasciandolo spaesato e tramortito.
«Ah-ah-ah!» lo redarguì una voce sarcastica «Molto male!» esclamò in italiano e Coulson serrò il pugno.
«Bruno Chianti.» sibilò e il mutante rise, gettando
indietro la testa.
La manica destra era ancora alzata a mostrare la
cicatrice bianca che dal polso seguiva l’andamento sinuoso della vena fino al
gomito, lì dove camicia e trench erano stati arrotolati per scoprire la pelle;
l’aspetto era malandato, trasandato, la bocca uno squarcio folle in mezzo alla
barba rossiccia, così lunga da coprire la carne rinsecchita delle guance
incavate, il mento bombato e parte del collo sottile. C’erano macchie di vino,
sulla camicia come sui pantaloni, e una bottiglia verde scura, riempita quasi
all’orlo gli spuntava direttamente dal tascone sfondato del pastrano.
«Felice che si ricordi del vecchio Lambrusco, capo.» sogghignò e scostò un
lembo del pastrano. I topi vi lanciarono attraverso e Phil scartò di lato,
imprecò, venne preso d’assalto, s’agitò e la risata di Bruno sovrastava
famelica il suono sudicio dei ratti, lo strisciare delle code, le mandibole in
costante movimento. Coulson s’abbassò ad evitare un’ulteriore ondata di quegli
odiosi animali, si coprì la testa col braccio: al di là del mutante, Woo cercava
invano di avvicinarsi al feretro di Capitan America, Sitwell di farsi
strada a suon di colpi, e Clint doveva
molto probabilmente essere occupato a liberare il campo dalla quantità indegna
di topi che si stava riversando sulle scale, in uno sciamare di pelame grigio,
squittii ed artigli. Vermin era davanti alla bara, le braccia spigolose a
dirigere l’attacco come un bestiale direttore d’orchestra, le vertebre che
spuntavano aguzze dalla schiena curva, le orecchie appiattite sul cranio, grumi
di bava borbottante e rabbiosa ai lati delle gengive bianchicce, snudate, gli
occhi folli, iniettati di sangue.
«Abbiamo un conto in sospeso, io e te» Bruno lo
richiamò alla realtà «Una siringa, io
ricordo.»
«E io un atto che mi ha impedito di renderti
innocuo.» Phil afferrò la pistola, mirò, fece fuoco.
Ma nel tempo che gli occorse per quel gesto, il
mutante aveva già affondato due dita nel braccio scoperto, squarciato la pelle,
scavato nella carne; un movimento preciso, collaudato, e passò la mano davanti
al volto: un fiotto di sangue schizzò dalla vena recisa, palpitò qualche
istante, in piena sospensione dinanzi gli occhi di Lambrusco, quindi si gelò,
concretizzò a formare uno scudo vermiglio su cui la pallottola finì la sua
corsa, andando in frantumi.
Il fischio d’una freccia e Bruno appoggiò le mani
sul vetro smerigliato di porpora: un risucchio come di ventosa ed ecco! l’aveva
sposato alla propria sinistra, riparandosi dal dardo scagliato da
Barton–Coulson aveva colto uno scuotersi d’ombra sopra le scale, il barbaglio
della cuspide e poi la figura di Occhio di Falco di nuovo sommersa dall’orda di
Vermin.
«Che dice, capo? Me la cavo ancora come una volta?»
abbaiò Bruno e incassò il polso in uno stonare liquido d’ossa e legamenti: la
vena cefalica partorì faticosamente, claudicando e gemendo, un coltellaccio
dalla lama sgrossata, un bubbone marcescente di robaccia vischiosa, lucida,
nera e marrone. L’arma scivolò fedele e ubbidiente fino al palmo del mutante,
che strinse le nocche pallide attorno all’elsa scura. Chiuse a pugno la mano
destra, riducendo il vetro a brandelli. Piccole particelle di sangue rotearono
leziose davanti a lui, condensandosi, contraendosi, mutandosi in sferette
lisce, lustre, dalla superficie perfettamente curva.
Phil s’aggrappò al calcio della pistola.
«Bona cisi~»(15)
cinguettò Lambrusco e distese le dita, sparandogli contro i proiettili
scarlatti.
Cor Mortem
Ducens
#07 Pius Patiens
Note
(1) Sia la marca
delle ciambelline che il commento di Coulson vengono da : « A Funny Thing Happened on the Way to Thor's Hammer » (http://www.youtube.com/watch?v=QAMgkpQYOSQ )
(2)« Belthronding was an
enchanted bow of black yew wood. This bow belonged to Beleg Cuthalion. Beleg
might have gotten the name "Strongbow" from Belthronding. It was
buried with him by Túrin and Gwindor after the accidental slaying of Beleg at
the hands of Túrin, his friend.» (The
Lord of The Rings Wiki)
(3) «Il lago d'Averno è un lago vulcanico che si trova nel comune di
Pozzuoli e precisamente tra la frazione Lucrino e Cuma, in Campania. Il lago
prende nome da una oscura e profonda voragine (attualmente non identificata)
presente nelle sue vicinanze ed emanante vapori sulfurei, la quale, secondo la
religione greca e poi romana, era un accesso all'Oltretomba, regno del dio
Plutone. Per tal motivo gli inferi romani (l'Ade greco) si chiamano
anche Averno. Infatti anche il poeta Virgilio nel sesto libro dell'Eneide
colloca vicino a tale lago l'ingresso mistico agli Inferi, dove l'eroe Enea
deve recarsi (scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris VI, 238). Il
nome Avernus deriva dal greco άορνος ('senza uccelli') poiché gli
uccelli che volavano sopra tale voragine morivano a causa delle sue esalazioni
sulfuree.» (Wikipedia)
(4) L’aspetto di Orfeo è modellato su Sherlock Holmes,
della serie della BBC “Sherlock”, dove il personaggio è interpretato da
Benedict Cumberbatch.
(5)-(6) Altri epiteti di Odisseo, rispettivamente “Dal
Molto Ingengno/Astuzia” e “Dalle Molte Menzogne/Molte Arti”
(7) Eneide, Libro VI
(8) «William Barrett Foster, più noto come Bill Foster, è un personaggio dei fumetti creato da Stan Lee
(testi) e Don Heck (disegni) nel 1966, pubblicato dalla Marvel Comics. La sua
prima apparizione è in The Avengers (prima serie) n. 32 (settembre
1966).» (Wikipedia)
(9) «Il titolo di Sibilla
Cumana era detenuto dalla somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo (divinità
solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), oracolo situato
nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei
pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come l'"Antro della
Sibilla" dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in
esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della
predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture,
rendendo i vaticini "sibillini”.
Nel libro
VI dell'Eneide, Virgilio, che la rappresenta "vegliarda", la
chiama «Deifobe di Glauco» e «Amphrysia», appellativo originato dal fiume
tessalo Amfriso, presso il quale Apollo custodì il gregge di Admeto. Lla sua
figura è anche legata una leggenda: “Apollo innamorato di lei le offrì
qualsiasi cosa purché ella diventasse la sua sacerdotessa, ed essa gli chiese
l'immortalità. Ma si dimenticò di chiedere la giovinezza e, quindi, invecchiò
sempre più finché, addirittura, il corpo divenne piccolo e consumato come
quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di
Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce. Apollo comunque le
diede una possibilità: se lei fosse diventata completamente sua, egli le avrebbe
dato la giovinezza. Però ella, per non rinunciare alla sua castità, decise di
rifiutare”»
Le immagini
di riferimento sono:
Apollo e la Sibilla Cumana, del Cerrini per Deifobe giovinetta.
La Sibilla Cumana di Michelangelo, nella Cappella
Sistina, per Deifobe anziana.
(10) I modelli di riferimento per la figura d’Apollo
sono:
Apollo
Sauroctono di (si presume) Prassitele;
Apollo
del Belvedere, di Canova.
(11) Tratto da La Confessione.
(12) Jasper Sitwell e
James Woo sono due agenti dello S.H.I.E.L.D. rispettivamente di Livello 5 e
Livello 8.
(13) http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2032661&i=1
(14) «Parker sviluppò un
“sesto senso”, che lo avvertiva dei potenziali pericoli, un “senso di ragno”,
se preferite. Si può solo ipotizzare che Stan Lee, frustrato dai tentativi non
riusciti di uccidere dei ragni veri in bagno, avesse dedotto che gli aracnidi
usino la percezione extrasensoriale per non essere schiacciati.» (La Fisica dei Supereroi, James Kakalios)
(15) Formula dialettale,
credo traducibile con un “Ciao, ci vediamo!”
Le
ciance senza senso della Neme Note
Di Fine Capitolo
E sono tornata! Sì lo so, potevo
anche restare nel mio piccolo antro a coltivare bruschette, ma ehi, il richiamo
della foresta della tastiera!
Ordunque! Il Blackbird è il jet degli X-Men, la canzone che ascolta Orfeo è Pio di Marcello Pieri, l’aggettivo “Patiens”
riferito ad Enea lo indica come eroe sottomesso al fato e al volere degli Dei,
al contrario di Odisseo che è eroe agens,
il lupo, la cicala, il falco, il serpente e gli animaletti che parlano
della guerra sono i simboli di Apollo, e vorrei
tanto tanto tanto dirvi da dove sono prese le citazioni della Sibilla,
di
Apollo e dei pensieri finali di Tony Stark, così come vorrei
dirvi che c'entrano la Chiesa e Bill Foster, ma ehm, sarebbe spoiler,
ahimè.
Anche se sono sicura che molti di voi le hanno riconosciute E già vogliono
farmi la pelle
Detto questo…Io non devo più scrivere
quando ho l’influenza.
Ringrazio la mia Pellissima mogliaH Alley e tutti coloro che hanno aggiunto
la mia storia alle seguite/preferite/ricordate! Vi slinguazzerei tutti, dal
primo all’ultimo!
Se volete, qui c’è una
fantapignoserrimo trailer della fan fiction, ad opera della mia Tony di
fiducia!
http://www.youtube.com/watch?v=P5trewzsL9g
BONA CISI----!
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Capitolo 9 *** #8. Caninamente Latra ***
cmd8
.: *** :.
Steve si guardò le mani e le dita riflessero come specchi
l’immoto grigiore circostante.
Immaginò, allora, che le pietre si mutassero in
rigagnoli di roccia fusa, che il rivoletto s’avvoltolasse ubbidiente
all’anulare e si solidificasse a formare una fasciolina non più spessa di
qualche millimetro.
Osservò quel nastrino con l’occhio della mente,
quasi si trovasse davvero al proprio dito e non racchiuso nel bandolo intricato
della fantasia: era un pensiero rincuorante, una speranza fondamentale per
quanto improvvisa, e il Capitano vi si aggrappò quale ultimo appiglio a quella
realtà, a quel vero, a quel mondo ora
così lontano, ora così simile ad un mero soffio di menzogna.
Anche davvero, davvero,
gli risultava ancora difficile credere a quanto era appena successo. A quanto
il compagno gli aveva appena chiesto. Proposto.
Forse era stato solo frutto del momento. Della
situazione in generale. Enfasi, costrizione, ansia, paura…Eppure…
Il volto di Tony, in un prima che poteva essere secondi ed ere all’insieme, gli era
sembrato tanto tangibile, la sua voce tanto ferma da fargli male al cuore. Le
parole che il compagno gli aveva urlato mentre veniva inghiottito in un murmure
nero di ombre gli avevano restituito un fiato di vita ancora palpabile, una
scheggia di calore ben impressa nel sangue: non era veloce, era fangoso,
sdrucciolante, goffo, ma un po’ scorreva ancora, sciacquettava borbottando
entro le vene, scavava di volta in volta più a fondo a rannicchiarsi e
ricordargli che ancora viveva e avrebbe potuto vivere di nuovo se solo avesse
avuto la forza di aspettare e non perdersi.
E continua a
parlare. Non smettere. gli ricordò Stark, il suo
volto contratto, i suoi occhi spalancati Parla
a te stesso, parla a me, ma con nessun altro. Rimani attaccato a questa vita o non sarò più capace di ritrovarti, ma
Steve era sicuro, oh, così sicuro che non ci sarebbe stato tempo né luogo in
grado di fermare la testardaggine incontrastata dell’uomo, che avrebbe
prosciugato mari e disciolto la calotta artica pur di trovare quel maledetto filo spinato e di tagliarlo una volta
per tutte Te lo prometto, Steve. Ti
porterò via di qui.
«E lo farai.» si era ripetuto il Capitano «So che lo
farai.» gli aveva sussurrato nell’antro ogivale degli Inferi, con la voce che
si rincorreva da una pietra all’altra e faceva aggrottare la fronte di Ermete,
portava le altre anime a volgere la testa bombata nella loro direzione -Avessero
avuto ancora occhi per palesare la perplessità e bocche per esprimerla, Steve
non dubitava sarebbe stato travolto nell’immediato da domande e dubbi e
chiarificazioni e preghiere, Insegnaci di
nuovo a parlare! Avrebbero piagnucolato Insegnaci
di nuovo a sperare!
«Non servirà a nulla.» era la costante protesta del
Dio, due passi davanti a lui, una figura altera e irraggiungibile, contrita e
furiosa «Molti hanno tentato di aggirare il fato comune dell’uomo, nessuno ci è
mai riuscito. Il prezzo, se qualcuno portasse mai a termine l’impresa, sarebbe
insostenibile.»
Ma Rogers non lo ascoltava e mentre oltrepassavano
archi di ragnatele e colonne di teschi tutti uguali nella correttezza della
Morte, si diceva di continuare a camminare, di continuare a ricordare, di
continuare a parlare, di non cercare altro interlocutore se non se stesso.
Pareva funzionare, comunque, giacchè l’oscurità gli
arrivava alle narici in zaffate insopportabili di marciume sudicio,
decomposizione malarica, viscere ed intestini crogiolatisi marcescenti al più
tremendo dei solleoni. Gli risultava impossibile sopportare la polvere e la
ghiaia incolore, e la compagnia d’Ermete lo irritava, le pareti infinite ai
lati dello sguardo lo schiacciavano di inspiegabile angoscia. Se prima
dell’incontro con Tony quel luogo aveva cominciato a far germogliare dentro di
lui la convinzione di appartenere ai ciuffi d’erba pallida, allo zolfo appena
percettibile dallo scroscio di fiamme lontane, al dolciastro profumo di loto
che si sprigionava da un fiume piatto poco distante, dopo il loro breve dialogo
aveva più che mai capito come l’unico posto cui appartenesse davvero era un
grosso, orribile edificio al centro di New York.
Le rocce non gli restituivano la voce e Steve ne era
sollevato: l’eco avrebbe significato la perdita delle parole, dei ricordi. Il
silenzio dell’Ade era la prova inconfutabile che non si stava più perdendo, che
aveva finalmente trovato un appiglio e un luogo sicuro per mantenere se stesso.
Non gli importava di Ermete, né del percorso che
ormai li aveva condotti alle sponde d’un fiume ributtante di fango e grumi di cenere
pastosa. Filari di anime dondolavano sul posto e il Capitano non poté fare a
meno di chiedersi se il lamento che sentiva vibrare fin dentro lo stomaco
appartenesse a loro o a lui, in risposta a quello spettacolo penoso.
Il Dio lo squadrò con sufficienza da sopra la spalla
cinta di polvere d’oro, si voltò e gli prese il polso con un movimento talmente
veloce che Steve si ritrovò sul palmo una moneta senza essersi accorto di
nulla.
«L’obolo.» spiegò Ermete, chiudendogli le dita sopra
il dischetto metallico –Inaspettatamente, quel gesto fu colmo di una gentilezza
quasi paterna «Consegnalo al nocchiero ed egli ti traghetterà alla seconda riva
dell’Acheronte, ultimo fiume che mai varcherai. Il mio viaggio al tuo fianco si
conclude qui, Steven Rogers, ma nel proseguo del tuo cammino non sarai solo:
un’altra anima, leale compagno di esistenza e di vita, sarà con te fino al
Giudizio di Radamanto, Eaco e Minosse.»
Steve schiuse le labbra e non fece in tempo a
chiedere di più, dimentico dell’avviso di Stark -Leale compagno di esistenza?
Bucky? Stava forse parlando di lui? L’avrebbe dunque rivisto? Avrebbe potuto
scusarsi, crollare in ginocchio e chiedergli perdono per non averlo salvato,
per non essere stato abbastanza?- che, ecco, vi fu un rudere stridere di remi e
onde ciangottanti.
Un grido feroce cavalcò il corso dell’Acheronte e le
anime si ritirarono, in un gesto di stizza e preoccupazione genuinamente umano:
l’acqua putrida era schizzata fuori dall’alveo ed essi erano indietreggiati,
una mano filamentosa lì dove una volta c’era il petto, dove una volta si
nascondeva il cuore, avevano reclinato la schiena e la veste per timore di
vederla insozzarsi di schiuma grigia.
Una simile preoccupazione scatenò nell’immediato
l’ilarità del nocchiero, piegato da risa e latrati su un legno assai piccolo di
primo acchito, eppure sorprendentemente vasto se si guardavano lunghe panche al
centro e ai fianchi della bagnarola, umida e fetida. Il nocchiero berciò
insulti in lingua aspra, sporcandosi di saliva la lunga barba già incrostata di
sale nero e polvere; curvo sul bastone immerso nell’Acheronte, li fissava uno
dopo l’altro coi grandi occhi di fiamma rubizza, strascinava i denti,
strascicava nuove bestemmie ed insulti; apertosi la via fino alla sponda
sabbiosa, raddrizzò infine le spalle e quello che al Capitano non era parso più
d’un vecchio ubriacone coperto di panni logori, si rivelò un marinaio dalle
ampie spalle, con le guance infuocate e i segni del mare sulle nocche e sulle
braccia cosparse di vene rigonfie. Il mantello annodato al collo scivolò di
lato, a dar mostra dei muscoli ben delineati, incontrastabili a vedersi.
«Venite! Venite, dunque!» li richiamò e le anime si
strinsero, minuscoli, tra loro, e insieme si avvicinarono alla barca con passo
da gregge tremante.
Steve contrasse la mascella, il cuore –Che non
sperava più di poter sentir battere contro le costole- ebbe uno sgroppo inquieto.
«Io non appartengo a questo luogo.» disse, girandosi
a guardare Ermete negli occhi azzurri.
La Divinità sollevò orgoglioso il mento e inarcò il
sopracciglio, un barbaglio di luce gli scivolò tra i capelli.
«Tutti i mortali appartengono a questo luogo.» lo
corresse «Anelate l’immortalità. E non
v’è immortalità più eterna dell’Ade
che
tutti v’accoglie.»
Il Capitano tornò a fissare la propria attenzione su
Caronte e il gruppo di spiriti che ormai s’erano seduti e acquietati nei posti
loro assegnati da un Destino più alto della volontà: rimaneva, ora, una sola
panca vuota, che spiccava nera nel biancore palpitante delle anime. Il
nocchiero ghignò, in segno di sfida, accennando al posto con un pacato alzarsi
della testa.
***
Lunghe ombre si tendevano al diramarsi dei sentieri.
Natasha piegò la testa e torse il collo a guardarsi
indietro: nessuno che la seguisse, nessuno che ripetesse i suoi passi dacché
s’erano divisi per cercare il ramo d’oro. Non che si sentisse sola, ma non
poteva negare che il buio intessuto tra i tronchi degli alberi e sopra il
proprio capo le stesse gettando addosso un fastidioso senso di claustrofobia.
L’Antro della Sibilla era sempre al loro fianco, che
lo aggirassero o meno. Sembrava seguirli, osservarli ghignando dal mezzo delle
fronde, divertendosi alle loro spalle e godendo del patetico susseguirsi di
gesti e ordini. Cammina, cerca, trova. Ma più camminavano e cercavano, meno
trovavano.
Ad essere sinceri, l’idea di prendere ognuno una
strada a sè era stata di Stark: Vendicatori,
divisi aveva sibilato, la voce resa tagliente dal sintetizzatore. Odisseo
aveva cercato di blandirlo e di convincerlo ad aspettare, nel mentre che Enea
rimaneva ritto al centro dello spiazzo dinanzi le porte dell’Averno. Con gli
occhi chiusi e il volto al cielo, il figlio di Priamo mormorava e sussurrava in
latino in un salmodiare tanto basso e concitato che non le era riuscito di
carpirne il senso. Orfeo, sdegnoso e sdegnato dalla loro presenza, non aveva
detto una parola di più: s’era seduto su di un cuscinetto di d’erba morbida
proprio accanto ad Enea e lo sguardo s’era cristallizzato sulla sua figura, non
l’aveva abbandonata un solo istante.
L’aria aveva cominciato a vibrare e Tony, ancora
teso e nervoso, aveva imposto loro di eseguire l’ordine senza controbattere. Ne
aveva abbastanza di Dei e litanie, aveva sbottato, dando le spalle al
capannello e scomparendo accompagnato dal trambusto dei fusti schiacciati sotto
gli stivali dello scafandro.
Lei aveva guardato Bruce e Bruce aveva scosso la
testa. Natasha aveva annuito, prendendo la propria via e sperando nella buona
stella che sapeva non possedere.
La ricerca, fino a quel momento, era stata
infruttuosa, non un barlume d’oro aveva sghignazzato ai lati degli occhi. Le
foglie si chiudevano a cupola nera sopra di lei, i rami rachitici la
stringevano in un abbraccio soffocante, gli arbusti ai lati del sentiero le
afferravano le caviglie, s’avvoltolavano ai polpacci e le spezzavano le
ginocchia. La voce della Sibilla cantava una melodia funerea, di fumi sulfurei
da far girare la testa, e il sopra era sotto e il passato presente, il futuro
un groviglio maleodorante di scelte sbagliate e sangue rappreso.
Perché la sensazione di vuoto e il cerchio alla
fronte s’attutissero, Natasha dovette portarsi i palmi delle mani alle tempie,
le dita artigliate ai capelli, i polpastrelli premuti contro la sommità del
cranio. Respirò forte e le foglie, ghignanti, le gettarono in faccia la neve di
Mosca, la steppa le urlò nelle orecchie, il vento le fece sbattere le
articolazioni contro la carne, in un gran clamore e clang clang di ossa e vertebre scompaginate. Guardò ai propri piedi
e una macchia di luce oleosa, verdastra, le bagnò la punta delle scarpe,
trasudò marcescente dalla terra; al centro si palesò un’ombra liquida, sospesa
in vitro e cristalli di ghiaccio. Era l’Inverno,
ecco cos’era, il rintocco d’uno sparo, il riflesso d’un arto meccanico, un
bacio che sapeva di ferro e di America lontana, ma mai dimenticata. Ricordi di
ieri che prendevano piede, si ramificavano nell’oggi, tagliavano uno squarcio
di traverso nel volto del domani. L’Inverno
sarebbe tornato, Vedova Nera non sapeva come, eppure era sicura che sarebbe
successo e stella bianca e stella rossa, l’una contro l’altra, in uno sprizzare
di scintille e di lacrime, asfalto divelto, fumo, occhi azzurri e occhi grigi,
pienezza e vuoto, lealtà e tradimento, amicizia e disperazione, e poi morte,
morte, morte, morte, morte, morte, morte, morte.
«Natasha!»
Vedova Nera si riscosse nel sentirsi chiamare e si
levò in piedi, sorpresa di essere caduta in ginocchio.
Bruce le era accanto, arrivato da chissà dove e da
chissà quanto, e lei nemmeno ne aveva avuto sentore, non se n’era accorta.
Tutto il proprio essere era stato riempito dei più terribili presagi, aveva
perso la presa e adesso neppure riusciva a ricordare cosa avesse visto, non era
in grado di rimettere insieme i frammenti di quelle visioni prima tanto
violente da far male.
La donna si ricompose con un veloce schiarirsi di
gola e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio; inspirò forte,
chiuse gli occhi e, una volta pronta ad affrontare di nuovo la realtà presente,
si voltò verso il dottore con un quieto sorriso sulle labbra.
«Non è nulla, Bruce. Grazie per l’interessamento.»
Dal modo professionale ed emotivamente coinvolto in
cui la stava guardando, Natasha capì che l’altro non aveva creduto ad una sola
parola –Se non al Grazie finale, ma
non se ne diede pena. Cosa le fosse accaduto non era di competenza del dottore,
quindi spendere tempo a cercare una giustificazione plausibile era inutile,
oltre che dannoso.
Banner contrasse la mascella e pressò le labbra, gli
occhi abbassatisi un istante e quello subito dopo già alti ad incontrare i
propri.
«Io ho…Visto il mio esilio.» le rivelò, la bocca
sollevata in un sorriso impacciato, traballante. L’espressione che aveva
indosso pareva quasi una scusa per l’attimo di debolezza che l’aveva portato a
parlare «Questa foresta ci farà impazzire. Torniamo indietro.»
Vedova Nera si limitò ad annuire e stettero entrambi
in silenzio fino a che non raggiunsero di nuovo lo spiazzo dove avevano
lasciato le tre guide. Non si dissero nulla, ma procedettero vicini, le nocche
di Natasha che sfioravano il dorso della mano di Bruce, il polso di lui ad
accarezzare piano quello di lei, le spalle che si toccavano, gli sguardi che si
cercavano facendo finta di trovare il giusto sentiero.
Camminarono insieme nella compagnia reciproca della
propria solitudine.
Tony fu il primo ad accorgersi del loro arrivo, pur
non dicendo nulla, né commentando qualcosa a proposito. Era discostato dagli
altri, la calotta dell’armatura stretta sotto il braccio e il volto
corrucciato, quasi rabbioso. Se fosse stato per l’inutilità della sua ricerca o
per le visioni che dovevano averlo colto all’improvviso nella prigione di
alberi e fumi, Natasha non avrebbe saputo dirlo -Da come, però, Odisseo lo
guardava con sincera apprensione e Orfeo con delizioso interesse, era più che
mai propensa a vertere sulla seconda ipotesi.
«Attendevamo con ansia la vostra venuta.» il Cantore
sollevò le sopracciglia e indossò una sottile espressione derisoria «Ero
sicuro, oh mio caro dottore, del mio canto: m’è bastato pronunciare il tuo nome
sul dorso d’una foglia e la sua infinita eco ti ha riportata a me.»
Bruce tossicchiò e Natasha lodò mentalmente la sua
forza d’animo nel passare la frase sotto silenzio; un sorriso le nacque
spontaneo all’angolo della bocca, ma s’affrettò a nasconderlo nell’inflessione
rigida della voce quando si rivolse direttamente ad Enea, ancora fermo nella
posizione in cui l’avevano lasciato almeno una trentina di minuti prima.
«Non abbiamo trovato alcun ramo d’oro, in questa
foresta.»
«E’ perché non siete in grado di vedere» replicò il
prode guerriero d’Ilio, uno scintillio ghignante dei denti bianchi.
«Abbiamo battuto la zona qui intorno fino ad ora.»
rimbeccò Vedova Nera, tagliente.
«E’ perché non siete in grado di aspettare.»
Stark emise un verso stizzito, Natasha stava già per
replicare e un doppio frullo d’ali li colse entrambi impreparati. Da una
breccia delle fronde discesero due colombe bianche, con gli occhi di lucido
nero e i becchi di bronzo; cinguettando e urlettando il loro tubare pigolante,
s’appollaiarono ognuna su una spalla di Enea e strofinarono le testoline
candide nell’incavo asciutto delle sue guance.
«Novelle mi giungono dal ventre dell’Ade» annunciò
il figlio di Priamo «Lo spirito che cercate ha pagato l’obolo a Caronte e ha
già messo piede sulla riva opposta dell’Acheronte.»
A quelle parole, Tony drizzò il capo e spalancò gli
occhi, la schiena tesa in avanti, il respiro ratto in gola e sulla lingua.
Odisseo gli fece cenno di non muoversi, né dire di più, così che Enea potè
proseguire e, invitate le colombe a levarsi in volo, far risuonare la foresta
della sua limpida voce.
«Siate le mie
guide, se c'è un qualche sentiero e per l'aria dirigete il volo nei boschi,
dove l'aureo ramo ombreggia la pingue terra! E tu, o madre divina, non
abbandonarmi in questa incerta impresa!(1)»
Un battito d’ali appena e gli uccelli erano già un
lampo nel ventre della selva. Ignorando le proteste di Stark circa
l’insensatezza di seguire un paio di
piccioni candeggiati allevati da un paninaro, il gruppo andò loro dietro e
la via, che prima era parsa ostile e piena di tranelli, si snodò facile al
cammino e non rocce, né buche li trassero un inganno, ma sentieri sicuri e
calde coperte d’erba, cuscini di foglie e fiori odorosi.
Natasha non si concesse nemmeno l’idea di
abbandonarsi ad un tale senso di pace, le bastava vedere gli occhi di Bruce e i
barbagli verdi scaglionati dall’agitarsi della Bestia dentro di lui per
infonderle sospetto e attenzione; Tony aveva indossato nuovamente il casco e li
precedeva, subito alle spalle di Odisseo, mentre Orfeo ed Enea aprivano la
fila.
Presto, l’aria pura diede spazio a reflussi
nauseabondi, lezzo di decomposizione e misture deplorevoli di zolfo e carne
irrancidita; l’ingresso dell’Averno era maleodorante, oscuro come fauci di
belva. Le colombe si librarono dinanzi alla bocca sdentata degli Inferi e
l’affiancarono per condurli attraverso una viuzza infinitesimale, una lingua di
sassolini che s’inerpicava stretta stretta proprio accanto l’apertura
principale.
Oltre uno sperone appuntito e bassi rovi, un arco
roccioso s’inarcava sopra una curva ridotta, tanto sottile da essere costretti
a procedere con la schiena e i palmi appoggiati alla parete dell’Antro.
«Vi dirò» Bruce girò il viso verso Natasha e le
rivolse un’occhiata ironica «Questo non mi aiuta a mantenere i nervi saldi.»
«Andrà tutto bene, dottore.» Vedova Nera annui e i
capelli rossi caddero a coprire una striatura di terra sulla guancia sinistra
«Abbiamo affrontato di peggio.»
«Loki?» l’uomo proruppe in un guaito amaro «Almeno
lui potevo farlo schiantare contro il pavimento.»
Le colombe raccolsero il bisbiglio della risata di
Natasha e li sparsero all’intorno, agitando l’aria a punta d’ali; ferme a
mezz’aria, attesero che ognuno di loro avesse passato indenne il sentiero, e
sfrecciarono tubando allegre oltre la piega della via.
Lì svettava maestoso l’albero aureo.
Le radici nodose, larghe quanto un uomo, si
piegavano, curvavano, inarcavano sopra la terra, si conficcavano poderose in
essa e vi s’aggrappavano come artigli; il fusto rigagnolava di bave di linfa e
strisce aguzze di corteccia dorata, i rami, protesi verso il cielo, erano
immersi nel tripudio canterino delle foglie lucide, tempestate di gocce
luminose e bacche di preziosi.
Enea raggiunse il tronco, mise il piede in un incavo
fatto su misura per lui e vi si issò, il braccio disteso in avanti. S’udì uno
schiocco melodico e il ramo d’oro fu finalmente nelle loro mani.
***
«Non mi hanno permesso di portarti il liquore. Mi
dispiace, Steven.»
«Professor Erskine…?»
Il medico di Augsburg arricciò divertito le labbra e
annuì. Gli occhialetti tondi mandarono un riflesso ridente mentre intrecciava
le dita dietro la schiena e raddrizzava le spalle, coperte dal sempiterno
camice bianco. Era proprio come lo ricordava Steve, posato e paterno, la
zazzera brizzolata scomposta e più scura sulla nuca, la barba lunga di qualche
giorno e l’onnipresente gilet borgogna sulla camicia candida e la cravatta
beige.
«Credo ti abbiano detto di me, dall’altra riva» tese
un braccio ad indicare la sponda opposta dell’Acheronte, nascosta da un soffuso
banco di nebbia «Sono qui per condurti al cospetto dei tre Giudici.»
Il Capitano torse il collo a guardarsi le spalle,
puntò lo sguardo all’intorno e setacciò ogni zona d’ombra fin dove l’occhio
poteva arrivare: sperava nella comparsa di un secondo volto, di un ghigno
sicuro e sorvolato di strafottenza, sopracciglia sempre pronte ad inarcarsi in
un’espressione saputa, una mano a stringere la spalla in segno di vicinanza e
conforto.
«Cerchi forse qualcuno in particolare, Steven?»
«Io…» Steve aprì la bocca, la richiuse, scosse il
capo «Un vecchio amico.»
«La via è ancora lunga, ragazzo mio, non sei ancora
arrivato. Sono qui per condurti al cospetto dei tre Giudici» ripetè, pacato
«Chissà che una volta attraversata la Prateria Degli Asfodeli tu non finisca
per ritrovarlo mentre danza nelle eterne musiche degli Elisi. Andiamo, mh?»
Con un sospiro stanco sulle labbra, il Capitano
gettò un ultimo sguardo dietro di sé e si apprestò a seguire il medico lungo la
strada che si srotolava incolore ai loro piedi.
«Sapevo saresti arrivato» gli confidò Erskine,
appoggiandogli una mano sulla schiena «L’ho visto due volte. Per i defunti il futuro dei vivi è di immediata
conoscenza, a dispetto del loro presente.»
Il viale proseguiva per alcune miglia, brevi come
pochi passi: un boschetto di pioppi e salici li accolse con applausi e scrosci
di foglie, i tronchi che si susseguivano a lato del sentiero come tante
sentinelle sull’attenti. Non c’erano suoni, persino il loro fiato era
silenzioso: il medico parlava, ma la sua voce non produceva eco alcuna, piombava
a terra non appena cadeva dalla bocca gentile e abbandonava la memoria. Avesse
dovuto raccontare a qualcuno il monologo di Erskine –Giacché, fedele al monito
di Tony, non dava all’altro spunto per cominciare un dialogo-, Steve non
sarebbe stato capace di trovare un inizio o una fine, tantomeno il punto focale
del discorso. Era come se non esistesse, come se non avesse avuto un punto di
partenza e neanche uno di arrivo.
Appena fuori dal bosco, giganteggiò davanti a loro
un’immensa porta dai cardini possenti, di legno spesso e nero, senza intarsi o
chiavistello; sulla sinistra uno slargo tenebroso, dove le pareti aggettanti
dell’Ade si piegavano a creare una semi abside di roccia grigia. Sparsi a terra
chiazze di sangue nero, pozze di bava secca, stracci penduli e resti
arrugginiti d’ armature, spade spezzate e scudi fracassati. Sul metallo erano
visibili depressioni affilate, causate dal morso feroce di alcune zanne.
«La dimora di Cerbero.» spiegò Erskine «Solitamente
il suo latrato si sente fino all’Erebo. Da tre giorni almeno, però, si ode solo
lo schiamazzo delle Erinni. Le tre teste hanno lasciato l’Ade e nessuno sa
quando faranno ritorno.»
Steve promise a se stesso che, una volta tornato
sulla Terra -Perché sarebbe tornato sulla
Terra, non c’era ragione di credere il contrario. O meglio, ragioni per
credere il contrario ve n’erano in sovrannumero a cominciare da Erskine che lo
precedeva e appoggiava la mano destra sulla porta, aprendovi una breccia
abbastanza larga per far passare entrambi. Era un’esagerazione di ragioni per
credere il contrario, una lista infinita che s’aggiornava passo dopo passo e
non aveva alcuna intenzione di smettere di raccogliere ulteriori motivazioni.
Ciò lo avrebbe comunque fermato dallo sperare di aprire gli occhi e ritrovarsi nel
proprio letto, alla Tower, un mattino come tanti? No. Sarebbe stata perfetta finanche
una mattina uggiosa e carica di pioggia unticcia, pur di svegliarsi e
accorgersi con un sospiro di sollievo che aveva ceduto ai mormorii sibillini
dell’incubo, che s’era fatto giocare da un sogno di troppo, da un presentimento
ingiustificato. Qualsiasi tempo atmosferico, qualsiasi giorno della settimana,
qualsiasi mese. Non aveva importanza. Doveva soltanto svegliarsi. Solo quello.
Non soffiava un alito di vento, eppure Steve si
convinse che gli asfodeli intorno a lui si stesse muovendo come accarezzati da
una brezza leggera, i pistilli arancioni che tremolavano e fiammeggiavano
baluginando al tocco d’un respiro. Aguzzò la vista, nel procedere al seguito
del medico di Augsburg, e nel biancheggiare luminoso dei petali ebbe la fugace
impressione di un guerriero dal volto spigoloso, il cimiero rosso-brunito e
l’armatura lamellare, mentre portava alla bocca grigia una coppa priva di decori:
il pomo d’Adamo s’alzò e ricadde, due rivoli cremisi, unica nota di colore,
scivolarono a segnare la linea degli zigomi e la piega del collo.
«Antichi eroi» lo prevenne Erskine, annuendo «Bevono
il sangue delle offerte.»
Il Capitano deglutì a vuoto, avvertendo sulla pelle
il gelido ridacchiare di brividi e tremori. Ai lati degli occhi, ora, si
susseguivano, si inseguivano spiriti
a guisa di pipistrelli, dai volti umani e le ali di bestia, parole di uomo e
squittii di ratto. Si gettavano rumoreggiando tra gli asfodeli, si dibattevano
tra le radici, sollevavano spruzzi di polline e ghirlande di terriccio.
«Non qui, non ancora, Steven!» lo richiamò l’altro e
gli fece cenno di proseguire «Là, vedi, mh? E’ la che dobbiamo andare.»
Indicò la facciata di un castello privo d’età o di
tempo, una struttura che raccoglieva in sé tutte le epoche del mondo, tutti i
modi che l’uomo aveva imparato per erigere la grandezza della propria civiltà.
I bastioni erano protetti da alte mura e sulla cima di esse strillavano tre
figure alate di donna, dai corpi ingobbiti, enfi di crudeltà; la loro testa un
nido di serpi, la bocca un’alcova di urla disumane e sangue marcescente.
Agitavano torce e fruste, squassavano con tizzoni ardenti corpi ormai logori,
scuoiati, orrendamente gettati tra gli interstizi dei merli. Ai lati del grande
mastio centrale erano cresciuti due cipressi dalle foglie bianche e il tronco
niveo, di splendore sopraffino: dalle loro radici prendevano vita due fonti,
una dall’odore aromatico, quasi stucchevole, del loto, capace di avvolgere
mente e cuore, lenire gli affanni e acquietare l’animo nel cullante oblio dei
sensi; l’altra riportava alla memoria del Capitano i ricordi più belli, i
profumi più amati.
E quando, evitando per mera fortuna la caduta
accidentale di viscere e altri liquami stomachevoli, Steve era certo di aver
ormai visto tutto e di essere preparato al peggio, ecco che gli si palesarono
di fronte tre forme abbruttite di giganti, ritti a bloccare il passo per i tre
sentieri alle loro spalle. Uno aveva un’alta corona a torrioni e un’urna al
fianco; il secondo, con grosse chiavi tra le dita sgraziate, lo fissò in
silenzio con gli occhi di giaietto; l’ultimo, seduto su uno scranno di pietra e
con uno scettro rozzo, bronzeo nella sinistra, distolse noncurante lo sguardo.
Il Capitano si schiarì la gola e guardò Erskine, in
cerca di aiuto su come procedere; il medico lo osservò di rimando, guardò i tre
Giudici, tornò a fissare Steve, quindi sbocconcellò qualche parola in tedesco, lo
prese per le spalle e lo spintonò in avanti.
«Su, su, andiamo Steven. Presentati. Le buone
maniere. Ricordi ancora come si fa, mh?»
«Certo. Certo, ahm.» il Capitano si portò le dita
alla fronte, la schiena dritta e lo sguardo il più fermo possibile «Capitan
Steven Grant Rogers.»
«Ah! Il soldato!»
Una voce leziosa deflagrò nel ventre dell’Ade, zittì
il gracchiare sanguinolento delle Erinni e costrinse i tre giganti ad incassare
le teste tra le spalle bombate. Erskine arretrò, il colore risucchiato dal
volto allibito, gli occhi stravolti dietro le lenti ora di traverso sul naso;
l’orrore si fece strada sul viso altrimenti pacifico, lo sguardo s’appigliò,
vitreo di terrore e incomprensione agli occhi di Steve. Questi boccheggiò, il
fiato frantumato, disintegrato nei polmoni contratti; ansimò e sputò
imprecazioni e veleno nell’inalare viticci di nebbia verdastra, serpenti
sibilanti che s’appiccicavano ai denti, incollavano la lingua al palato e
oscuravano la vista.
Il Capitano cadde in ginocchio con l’urlo di Erskine
a rombare nelle orecchie trafitte dalla voce melliflua; afferrò il cordone di
fumo strettosi alla carotide, cercò di tirarlo via prima che lo soffocasse,
prima che lo uccidesse per la seconda volta. Nel momento esatto in cui esso gli
si sciolse tra le dita, Steve capì che non era stato per mano propria: non si
trovava più al cospetto dei Giudici, bensì in un ampio salone colmo del
riverbero di danzati bracieri; tavolate di biondo grano e succosi melograni
erano disposti contro le pareti laterali, chiusa a ferro di cavallo su quella
di fondo. Brocche di vino denso come liquore cantavano litanie di miele ed erbe
tra orci straripanti datteri e olive; un cospicuo numero di fette di pane
occhieggiavano spugnose, immerse fin nella crosta dentro gli intingoli più
disparati; coppe d’uva e altra frutta zuccherina sbiadivano per colore e
lucentezza al confronto della cacciagione e dei dolci spruzzati di sesamo.
«…L’uomo senza tempo.»
Steve voltò il capo alla propria sinistra e negli
induriti dall’odio guizzarono lingue di fuoco e fiamme.
***
Tony poteva ancora sentire su di sé lo sguardo
assente della Malattia.
Il volto emaciato, tirato sugli zigomi sporgenti,
gli era rimasto nella memoria come riflesso di sé in uno specchio: si era
osservato, si era visto in quel corpo
smagrito, imbevuto d’alcool fin negli stracci logori, penduli sulle spalle
aguzze e sulle braccia scheletriche; la Malattia aveva modellato il suo nome
con le labbra seriche, inspirato dalle narici del naso adunco l’odore della sua
paura e ne avevo riso, i denti snudati e scivolosi di bava, unti di liquore. Il
Lutto aveva allungato il collo d’avvoltoio, svegliato dal latrato della compagna,
e s’era fatto avanti vestito d’un completo nero ingrigito di polvere, la
cravatta allentata e le palpebre cispose di pianto, sali di lacrime a
balbettare sulle ciglia, la barba sfatta, lunga e annodata, le mani tremule di
mille tormenti.
«Non sono molto lusinghiere.» aveva commentato
Stark, rivolto ad Odisseo «Non mi fanno il naso giusto.»
L’eroe omerico non aveva riso e al posto suo era
stato Enea a parlare.
«Questo è il primo ingresso dell’Orco.» e la voce
era serpeggiata nelle tane, gli spiriti si erano ritirati, l’avevano fissato
con odio e sibilato nella sua direzione «Lutto ed Affanni, Malattia, Vecchiaia»
e il fatto che Tony non avesse notato alcun se stesso coi capelli canuti e la
schiena gobba lo aveva messo abbastanza sul chi vive, come un cattivo presagio
«La Paura, la Fame, la Miseria, la Morte» qui il guerriero si era inchinato ad
un’ombra passata loro davanti in un tintinnio di monete e chiodi, una visione
fuggevole avvolta in un sudario di porpora «E il Dolore.(2)»
Stark dovette compiere un immenso sforzo per
distogliere la propria attenzione dall’immagine del Capitano, di traverso in un
angolo, il collo innaturalmente reclinato all’indietro, la mascella dislocata e
le orbite un nido di vermi e carne necrotica.
Si sentiva nervoso, messo alle strette:
quell’accozzaglia infinita di spiriti ed esseri lo infastidiva, così come i
brividi che non era in grado di soffocare od il morso gelido allo stomaco che
non pareva intenzionato ad allentare la presa. Erano nell’Ade, nell’Oltretomba,
nel Regno dei Morti, Cristo Santo! Se non ci fosse stato il visore
dell’armatura a scandagliare ogni elemento circostante, ad analizzarlo e
sezionarlo sottoforma di codici e nastri numerici, avrebbe dato sicuramente di
matto.
Era palese che l’Ade non li volesse, che l’atmosfera
soffocante, il terrore sordo alle ginocchia e alle vene intirizzite di freddo
cadaverico fosse una reazione istintiva del luogo, un monito ringhiante a chi
non aveva alcun diritto di essere lì, non con il respiro ancora sulle labbra e
il canto del cuore entro la gabbia toracica. Era autoinvitarsi ad una bisca
clandestina di mafiosi russi: Tony si sentiva un agente sottocopertura e, non
fosse stato per il collega invischiato a suo malgrado nella questione e con in
mano una coppia di due, non ci avrebbe pensato due volte a girare le spalle e
andarsene il più velocemente possibile.
Enea indicò loro il Sonno languidamente adagiato in
un sarcofago imbottito di velluto, i Piaceri dell’Animo -«Di questi sono un
esperto» aveva ghignato Tony, rivolgendo al baccanale di spiriti il miglior
sorriso complice del repertorio-, quindi la Guerra che batteva la lancia sullo
scudo, letti di ferro e una vecchia folle con vipere che le sibilavano sul
cranio coperto di chiazze marroni, le iridi opache e gli occhi pazzi,
lampeggianti sotto le bande insanguinate che le fasciavano la fronte –La
Discordia.
Giunti ai piedi di un olmo malarico, cinto d’una corona
di foglie smunte, Enea disse loro di sporgersi un poco oltre lo spiazzo elevato
dove si trovavano e non prestare attenzione agli schiamazzi e ai ruggiti e agli
urli e agli strepiti –Il che, considerò Tony, era parecchio difficile e parecchio
stupido. Anche senza girare la testa, le orrende creatura che dimoravano l’Ade
si affollavano e affannavano attorno a loro, li scrollavano, li scuotevano,
strillavano nelle orecchie, mordevano le carni, tiravano i capelli, riempivano
la testa di versi lugubri, parole astiose dal significato incomprensibile,
nenie di morte e litanie funebri.
Ancora una volta, il magnate ringraziò la visuale
periferica di J.A.R.V.I.S. e la professionalità con cui l’AI catalogava ogni
essere, presentava per ognuno una breve descrizione e poi lo costringeva nella
banca dati perché la smettesse di fare i capricci.
Un santo, J.A.R.V.I.S. era un santo.
«Quel palazzo che vedete alla fine del vostro
sguardo» cominciò Enea, indicando l’orizzonte nero davanti a loro «E’ la meta
del vostro viaggio.»
«J.A.R.V.I.S., uno zoom per favore?»
Subito, signore.
«Mh.» Tony annuì, mentre l’interno della calotta gli
restituiva l’immagine tridimensionale di una struttura composta da un corpo
centrale a piante rettangolare, elegante susseguirsi di colonne da un lato e un
cortile in posizione occidentale. Il tutto, orientato a nord-sud, era
circondato da alte mura decisamente poco propense ad essere espugnate «Non
male. Un po’ vintage, se volete la mia opinione. Consiglierei al padrone di
casa un giro veloce sul sito dell’Ikea.»
Odisseo lo redarguì con uno sguardo silenzioso,
Orfeo lo fissò truce e contrasse la mascella, la bocca storta in una smorfia
irata.
«Non oltrepasseremo l’Acheronte sulla barca di
Caronte, fedele nocchiero.» continuò il Guerriero «Io e i miei compagni vi
condurremo su ben altro sentiero, per passi nascosti e ascosi alla conoscenza
dei defunti.»
«Quando torniamo, ricordami di dire a Fury che
voglio un aumento.» Tony s’accostò a Natasha e lei gli rivolse un’occhiata in
tralice.
«Il Direttore non ti paga alcuno stipendio, Stark.»
«Per questo è meglio iniziare a trattare fin da
subito.»
Scesero per una via laterale, lasciandosi alle
spalle l’olmo ed il vestibolo, coi suoi spiriti e le sue minacce; l’Ade si
fece, se possibile, ancor più silenzioso, nonostante il ciangottare delle acque
negli alvei antichi e il battere d’ali dei trampolieri. Gocce di pallido latte
cadevano dall’invisibile soffitto sopra le loro teste e s’infrangevano a terra
in un mulinare frammentario di sangue e miele; le sterpaglie rabbrividivano al
loro passaggio, ma non emettevano alcun suono.
«Come va il tuo Senso Verde, dottor Banner?» lo
canzonò Tony, al solo fine di smuovere l’aria pesante che infiacchiva piedi e
spirito.
«Ahm, non sono l’Uomo Ragno» scherzò Bruce, con un
sorriso di scuse sul volto sudato «Ma Hulk non è tranquillo.» da dietro le
lenti calate sul naso, i suoi occhi si posarono diffidenti sul terzetto che li
precedeva –S’erano fatti silenziosi, schivi, si guardavano intorno come se
stessero drizzando le orecchie a suoni inudibili, le narici allargate ad
ingoiare odori indistinguibili «C’è del pericolo. Qualcosa di brutto sta per
accadere.»
«Dimmi qualcosa che non so.» commentò il magnate,
permettendo sia a lui che a Vedova Nera di aggrapparglisi alle spalle per
superare indenni –E asciutti- il corso fangoso dell’Acheronte.
Da sotto il casco, la fronte di Tony s’aggrottò:
Enea, Orfeo ed Odisseo non avevano saltato, né trovato una secca grazie cui
attraversare il fiume infernale, eppure erano già sulla riva opposta ancor
prima che egli formulasse l’ipotesi di raggiungerli in volo.
«I pantaloni dell’Altro non sono stati modificati
con le particelle Pym.»
«Dannazione. Dovrò pagare a Richards quella
maledetta cena al Ritz.»
«Potreste per cortesia smetterla di comportarvi da
bambini?» lo rimproverò Natasha, stizzita «Qualcosa non va.»
La via s’era improvvisamente aperta su di uno slargo
immenso, circolare, sulla sinistra di una porta immane, priva di cardini e
serrature.
Le loro guide erano ferme al centro esatto dell’area
e l’aria era elettrica.
Un ringhio raggiunse le labbra di Bruce, la cui
pelle già aveva assunto una sfumatura verdastra sulle guance e alla base del
collo; Natasha sistemò il ramo d’oro alla cintura e Tony fece un passo in
avanti.
«J.A.R.V.I.S. Assetto da battaglia.»
Il ronzio dell’energia che s’accumulava nei repulsi
e nel Reattore impiantato al centro del petto gli scagliarono una scarica
d’adrenalina direttamente in vena e lungo la spina dorsale; l’oppressione che
fino a quel momento lo aveva imprigionato nel corpo tremante d’un bambino
spaventanto, svanì nel calore combattivo dell’armatura.
«L’Antro di Cerbero.» osservò Orfeo, girandosi
lentamente verso di loro. Un ghigno famelico gli attraversava di sbieco la
bocca ora priva di labbra, le gengive scoperte e i denti aguzzi.
«Figlio di Tifone e di Echidna, custode
dell’Averno.» Odisseo, sulla destra di Enea ancora di spalle, piegò orrendo la
testa e si voltò per guardarli in viso: la cornea era completamente tinta di
nero, le dita ingrossate ricoperte di pelame scuro, ispido.
«Canis praegrandis,
teriugo et satis amplo capite praeditus, immanis et formidabilis, tonantibus
oblatrans faucibus mortuos» per ultimo, il figlio di Priamo latrò e
sghignazzò, mostrando loro il collo rubizzo, il petto ansante «Ante ipsum
limen et atra atria Proserpinae semper excubans servat vacuam Ditis domum.(3)»
Le ultime parole si
spensero in un ruggito tale da far sanguinare le orecchie: i sensori
dell’armatura fischiarono e lo schermo del visore traballò, sputò insensatezze
intramezzate da interferenze sconosciute. Il terreno si scosse, vibrò, la
roccia restituì cento e mille volte l’abbaiare poderoso.
I corpi dei tre si fusero
in uno solo, spalle gigantesche s’innestarono su quattro zampe vigorose, di
lucido pelo nero e dotate di artigli ricurvi, affilati e letali; la coda immensa
spazzò l’intorno con un fragore d’aria divelta e pietra sconquassata; dal
principio della schiena si flessero tre colli massicci, fauci possenti e
allungate, con zanne delle dimensioni d’un braccio e l’alito fetido. I nasi
umidi, palpitanti, soffiavano e sbuffavano come froge d’un cavallo in corsa,
gli occhi di tizzoni ardenti avevano il dominio su ogni cosa si muovesse al
loro cospetto, alle orecchie triangolari, ritte sul muso sbavante, non sfuggiva
alcun rumore.
«...D’accordo» fu il
commento di Tony «Questa non me l’aspettavo.»
Cerbero piegò le zampe
anteriori e saltò in avanti.
Stark aveva già le
braccia sollevate e i palmi aperti per scaricargli addosso una buone dose di
riflesso pavloviano al retrogusto di repulsori, che una sottospecie di bomba
verde si schiantò contro il fianco della creatura; il cane a tre teste guaì
molto probabilmente più per la sorpresa che per il dolore, e venne sbalzato di
lato.
Hulk atterrò in piedi e
non gli diede il tempo di rialzarsi, gli fu addosso in un grido brutale; Iron
Man stava per far partire un colpo in aiuto, quando all’improvviso Vedova Nera
–Spuntata dal nulla come suo solito- gli piazzò in mano il ramo d’oro.
«Corri al Palazzo di Persefone.»
gli ordinò, le sopracciglia sollevate «Ci pensiamo noi a lui.»
«Ma…!» fece per
protestare il magnate, mentre già Natasha era scattata in avanti «Aspetta!»
«Mi ringrazierai servendo
gli alcolici gratis al rinfresco!»
Senza avere la benché
minima idea di come l’altra avesse avuto anche solo il sentore di quella
questione, Tony fece rientrare i razzi innestati sulle spalle e si lanciò
in volo.
«Vedete di tornare sani e
salvi.» pur avendo davanti soltanto l’icona di Vedova Nera collegata alla
trasmittente, Stark poté giurare che la donna stesse sorridendo –Era l’unica in
grado di ridere come una bambina sulle montagne russe quando si lanciava in
caduta libera da un aereo, in fondo(4).
«Nel caso, porteremo la
festa da te, Stark.»
Un ghigno ben visibile
all’angolo della bocca, il magnate si gettò a capofitto oltre l’immensa porta,
sulla cui superficie era comparso un rettangolo abbastanza grande da
permettergli di passare in tutta comodità. Sorvolò una vasta prateria
d’asfodeli, punteggiata d’ombre e pipistrelli rivoltanti, e superò senza fatica
le teste mastodontiche di tre giganti; ormai convinto di poter entrare nel
palazzo senza fatica, una fiammata scaturita alla propria destra lo rese poco
educatamente edotto del contrario.
Fece appena in tempo a
girarsi e una donna alata, rachitica, lo agguantò per le spalle, agitando una
frusta al cui confronto quella di Indiana Jones sarebbe sembrata un elastico un
giocattolino da Sexy-Shop.
«Mi dispiace, signora,
quest’oggi Iron Man non effettua servizio viaggiatori» così dicendo le appoggiò
una mano sul ventre e lasciò partire un raggio repulsore: la creatura gemette
ed ululò, la frusta schioccò inutile mentre crollava sibilando al suolo. Prima che le sorelle di Miss Simpatia
giungessero a darle man forte, Tony aveva fatto saltare i merli su cui erano
appollaiate: le mura si disintegrarono
in un tripudio di mattoni divelti e corpi smembrati, dondolio cigolante di
catene e schizzare pastoso di carne e sangue.
Stark s’immise nella
breccia così aperta e, grazie alla planimetria che J.A.R.V.I.S. era stato in
grado di elaborare tramite modelli e fonti letterarie e archeologiche(5)
-Non fosse stato troppo scontato, il magnate avrebbe detto qualcosa riguardo il
Wi-Fi negli Inferi- riuscì a trovare uno degli ingressi laterali del palazzo;
non attese l’arrivo di guardie o di chissà che altro aveva la casa delle
vacanze nelle vicinanze, e si lanciò attraverso il corridoio.
«Trova il Capitano,
J.A.R.V.I.S.! Trovalo!» gridò, accanto a lui una sfilata infinita vani e
porte e magazzini. Lo schermo del casco gli mostrò mappature e sovrapposizioni
di firme, calcolò e calibrò gli elementi dell’ambienti connettendoli a quella
che era la traccia fisica di Steve, cancellò e ridisegnò, aggiornò la
planimetria, ma ogni tentativo –Come, del resto, Tony avrebbe dovuto supporre,
si rivelò inutile.
«Dannazione! Dannazione!»
Signore?
La voce dell’AI aveva
avuto un tentennamento sostanziale per una coscienza elettronica, cosa che era
sempre foriera di notizie pessime e guai non da poco.
Ho rilevato una firma specifica,
già presente negli archivi. Ma non è quella del signor Rogers.
Quando il risultato
dell’AI comparve sullo schermo, Tony fu indeciso se scoppiare a ridere o
schiantarsi direttamente contro il muro laterale; visto e considerando che non
aveva del liquore in giro con cui giustificare l’istinto suicida, optò per la
terza opzione, ossia seguire quella…Assurdità per vedere dove l’avrebbe
condotto.
Dovette salire al primo
piano per avere una risposta degna di questo nome, sul lato settentrionale
della corte centrale: una sala per i banchetti, abbastanza ampia da farci
entrare lo staff delle Stark Industries al completo per la canonica cena di
Natale. Le fiamme dei bracieri, dimentiche delle fondamentali leggi della
rifrazione, gettavano la loro luce a cuneo nel centro esatto della stanza, a
fargli capire che era lì, in quel punto preciso che era necessario si
concentrasse la propria attenzione.
Non che avrebbe potuto
rivolgerla ad altro, comunque.
In ginocchio a terra, i
polsi e le caviglie trattenuti da viticci verde smeraldo, il capo chino e il
petto ansante per rabbia a stento trattenuta, stava il Capitano, nella posa d’un
agnello pronto ad essere sacrificato.
«Steve!» lo chiamò Tony,
atterrando davanti a lui in un barbaglio di cromature rosso e oro.
Questi sollevò la testa e
negli occhi slavati, ma vivi, il riconoscimento fu così forte, feroce
nella sua intensità, che Stark avvertì distintamente il respiro spezzarsi per
una sì, no, forse commozione che non avrebbe mai ammesso.
«Tony!» e la voce del
compagno era distorta, la carne traslucida e non più livida, tinta appena d’un
pallore rosato attorno alle palpebre, la bocca spruzzata di rosso diluito.
«Va tutto bene» lo
rassicurò il magnate «Va tutto bene, d’accordo? Sono qui. Ci sono io. Adesso ti
porto fuori, andrà tutto bene. Sei salvo.»
«C’è lui dietro a tutto
questo, Tony!» esclamò Steve, cercando di sollevare le spalle e digrignando i
denti per lo sforzo «E’ tutta opera sua!»
«Dai ascolto al soldato,
Uomo di Ferro.»
Forse ricordandosi
dell’esistenza della fisica, la sala deflagrò di luce per il fuoco
improvvisamente alto, improvvisamente violento.
Dietro la schiena ingobbita
del Capitano, si palesarono due troni affiancati, i cui occupanti, però, non
potevano essere più distanti e diversi: assisa su quello di destra una donna
dal seno prosperoso, gli occhi d’ossidiana e le mille trecce sonanti di ninnoli
e spighe di grano, una cista ai piedi, un gallo in grembo –Persefone, considerò
Tony, chi altri poteva essere?
La figura alla sua
sinistra allargò le braccia, si levò in piedi con la mezzaluna sul petto che
spandeva bagliori e lo stesso fece Stark, serrando i pugni e facendo stridere
le giunture di metallo.
«Ti va un drink?»
propose, divertito e crudele, il nuovo Signore dell’Ade.
«Tu…» fu l’unica cosa che
Iron Man si concesse di sibilare.
Dall’alto del suo
scranno, Loki sorrise.
Cor Mortem Ducens
#08 Caninamente Latra
Note:
(1) Eneide, Libro VI,
vv. 190-211
(2) Eneide, Libro VI,
vv. 268-294
(3) Canis praegrandis,
teriugo et satis amplo capite praeditus, immanis et formidabilis, tonantibus
oblatrans faucibus mortuos, quibus iam nil mali potest facere, frustra
territando ante ipsum limen et atra atria Proserpinae semper excubans servat
vacuam Ditis domum
("un cane enorme, con una triplice testa in proporzione, gigantesco e
terribile, che con fauci tonanti latra contro i morti, cui peraltro, non può
fare alcun male; cercando di terrorizzarli senza motivo, e standosene sempre
tra la soglia e le oscure stanze di Proserpina, custodisce la vuota dimora di
Dite"), da “La Favola Di Amore e Psiche” in “L’Asino d’Oro”, Apuleio.
(4) Capitan America
presenta: Il Soldato d’Inverno, #2
(5) L’architettura del
palazzo dell’Ade è ripresa dal Palazzo di Cnosso.
Per maggiori informazioni sulla
struttura dell’Ade, vi rimando a questo sito: http://www.saint-seiya.it/sito1/mitologia/grecoromana/strutturaade.html
Note
finali:
E’ da Ottobre che non posto un nuovo capitolo e quando mi ripresento lo
faccio con uno schifoso e noioso capitolo di passaggio. Potete uccidermi, ne
avete facoltà.
Prometto che il prossimo sarà degno
(?) delle vostre aspettative e mi farò perdonare.
Ringrazio Alley per aver recensito con santa ed immane pazienza, e tutti
coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate!
Spero non vi pentiate, dopo questo ;A;
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Capitolo 10 *** #09. Puoi Scegliere Ciò Che Resta E Ciò Che Svanisce ***
cmd9
Una volta zia May aveva lanciato la pantofola
sinistra contro un ragno.
La cosa più strana non era tanto il fatto che zia
May avesse lanciato una pantofola –Quando si trattava di artropodi e/o insetti,
zia May poteva usare a proprio vantaggio qualsiasi oggetto utile presente nelle
vicinanze, dalla pirofila ancora insaponata allo spillone da maglia- quanto la
rapidità con cui l’esserino ad otto zampe era sgambettato via, ciondolando il
didietro bulboso e squadrando la donna con aria di palese rimprovero negli
occhietti striminziti.
Tralasciando il genuino moto d’affetto che Peter
aveva provato per l’eroico arrampica-muri –E Il netto disagio misto a terrore
al pensiero che uno degli schizzati con cui era solito avere a che fare, un
giorno o l’altro gli avrebbe scagliato contro una pantofola gigante per mettere
fine alla sua carriera di vigilante mascherato-, zia May aveva dato prova, di
nuovo e come solo lei sapeva fare, di una profonda saggezza: aveva infatti
supposto che il ragnetto, in barba a qualunque legge fisica e paranormale di
sorta, possedesse una percezione extrasensoriale che gli aveva appena impedito
di diventare un esponente di spicco dei Macchiaioli –Nozione che, a parare del
giovane Parker, avevano un po’ troppi, al mondo.(1)
Dopo aver debitamente ringraziato il Signore Iddio
per avergli concesso il Senso di Ragno e non la Ragnatela Rettale, Peter
approfittò del pizzicorico dono per scagliare lontano da sé la saccoccia di
fibra collante in cui aveva appena rinchiuso le pallottole dirette a Phil
Coulson.
Non era stato facile, a seguito della rivelazione di
Vermin e dell’assalto dei ratti alla camera ardente, svicolare via dalla folla
in un punto abbastanza nascosto –Soprattutto ad Occhio Di Falco, della cui
vista potenzialmente letale aveva sentito parlare diffusamente- per levarsi di
dosso gli abiti civili e fare un’entrata degna di Superman…Ops, Spiderman.
Neanche il tempo di gettare via il pacco espresso e
sanguinolento, che il Mutante aveva serrato la mano a pugno, ringhiato e poi
emesso un latrato abbastanza forte che dovevano averlo sentito anche ad Hell’s
Kitchen –E un po’ Peter ci sperava: l’aiuto di Devil o Luke Cage non sarebbe
stato da snobbare, in quel momento. Gli sarebbe andato bene anche Gordon
Ramsay, tanto era disperato.
La sacca aveva tremolato, percorsa di venatura
purpuree e poi era esplosa in un fragore di minuscole scagliette e pagliuzze
rosse.
L’arrampica-muri s’appese a testa in giù, la nuca
appena curva alle spalle per avere una migliore prospettiva della situazione:
Vermin continuava a dirigere l’esercito squittente, i due colleghi di Coulson
erano sommersi dai topi e intanto cercavano di proteggere le ultime persone
rimaste imprigionate a causa dell’assalto, Agente aveva appena lanciato la
corona commemorativa del sindaco contro un gruppo di ratti, e il Mutante,
appena compiuto un passo verso il feretro di Capitan America, era stato
rispedito indietro da una freccia a carica esplosiva. Dalla traiettoria, però,
Peter non faticò ad immaginare la difficoltà che doveva aver avuto Occhio Di
Falco nel scoccarla.
Assediato com’era da quegli esserini squittenti e
fastidiosi, Barton non era in grado di dare la copertura necessaria a mantenere
lo scontro in equilibrio stabile. Necessitava di qualcosa che fungesse da
barriera, da torrione in cui rifugiarsi e mirare e scagliare con chiarezza e
assoluta distanza dal resto del mondo, una bolla, una feritoia sopraelevata
come quelle degli antichi castelli.
Peter, sei un genio!
si lodò
Spiderman.
Fatto partire un getto di ragnatele e poi un altro
ed un altro ancora, sospeso a mezz’aria nell’ultimo salto che lo separava dal
pianerottolo dove era accucciato Occhio di Falco, l’arrampica-muri cominciò a
bombardare le orde di topi con boli di fibre compatte, in modo da tenerli a
distanza. S’affiancò all’Agente e, intanto che questi cercava di allontanare
Vermin dalla bara -Perché, poi, tanto interesse per la salma di Capitan
America? Collezionismo? Feticismo?, e
il Mutante da Phil Coulson, cominciò a costruire per lui due pareti a doppio,
triplo, quadruplo strato di ragnatela.
«Con questi dovresti essere okay per un po’» lo
avvisò Spiderman, levando il pollice.
Occhio Di Falco gli indirizzò uno sguardo di sbieco
e un sorriso pericoloso a fior di labbra -–Peter s’appuntò mentalmente di non
farlo mai infuriare, o comunque, nel caso, di togliergli dalle mani qualsiasi
utensile avrebbe potuto usare come sostituto di arco e frecce.
«Vai, amichevole Renzo Piano di quartiere.» lo
canzonò, un guizzo metallico negli occhi chiari «Mickey Mouse è tutto tuo.»
E il ragazzo, che non aspettava altro, si buttò
oltre il nido improvvisato per il compagno di squadra.
«Metterai una buona parola coi Vendicatori?»
strillò, allungando un braccio e schiacciando coi polpastrelli il meccanismo
per far partire le ragnatele.
«Contaci!»
Considerando, però, che le Leggi di Murphy
regolavano il suo mondo più che quella di Gravitazione Universale, Spiderman
annoverò lo sparo e il grido sotto di lui nell’elenco di conseguenze a sfavore
in vista dell’arruolamento nel corpo scelto di tutine in spandex e giocattolini
in vibranio.
La visione dell’italiano che teneva Phil Coulson in
ostaggio fu un non richiesto dissiparsi di ogni lecito dubbio sull’andamento
dei propri buoni propositi.
***
Loki si levò in piedi dallo scranno e il collare a
mezza luna si tinse d’oro e di fiamma. La presa sul lungo scettro si strinse
possessiva, un sorriso appena accennato s’adagiò soddisfatto contro le labbra
seriche: gli occhi, da verde intenso, parvero scurirsi, tingersi d’ombra al
punto tale da mutarsi in amigdale di giaietto; scostò piano la lunga mantella
che, nell’alzarsi, s’era avvoltolata al ginocchio sinistro, e le dita
affusolate brillarono bianche alla luce calda dei bracieri. Gli spallacci e i
bracciali si venarono di mille sfumature cremisi, le fasce di pelle nera al
torace si piegarono al lungo, affilato respiro, e barbagliarono di bisbigli
traslucidi; i tasselli bronzei al fianco sinistro risero, eloquenti, di quella
risata beffarda che vibrava palesemente
in tutto il corpo di Loki, ma questi non si faceva in alcun modo sfuggire.
Preferiva, al contrario, dimostrare il beffardo e
l’irridente sottoforma di canzonante cortesia, di inchini annunciati dall’arco
garbato della bocca e da inviti ospitali sprizzanti ironia e sarcasmo nella
pupilla dilatata per il crescente diletto.
Iron Man chiuse la manopola destra a pugno -Non
fossero state progettate e curate fino al minimo dettaglio, le giunture avrebbero
cominciato a scricchiolare per la rabbia con cui si ritrovarono accartocciate
su stesse. Il ramo d’oro baluginò, guaendo, senza tuttavia piegarsi o
deformarsi. Il magnate poteva avvertire lo sguardo furente di Steve addosso,
l’ira e l’impotenza di essere meno che uno spirito, intangibile, intoccabile e
per questo fondamentalmente inutile.
«Prego, prego» sogghignò il fratellastro di Thor,
allargando le braccia ad accoglierlo in un benvenuto che grondava del più
pesante scherno «Non sia mai che uno dei miei ospiti più attesi rimanga in
piedi, alla mia corte e al mio cospetto. Seggiole o banchine, scegli pure, Uomo
Di Ferro» socchiuse le palpebre, i denti brillarono affilati, conficcati nelle
gengive pallide «Serviti pure di ogni leccornia, non tralasciare alcun
intingolo: la mia mensa, oggi, è a tua disposizione. Basta anche solo un morso
di quella succulenta cacciagione, perché la tua anima rimanga imprigionata
nell’Ade, al fianco di colui che tanto ami.» una breve risata, udibile un
istante e quello dopo già perso nel roco ansimare del fuoco «Non è così, oh
Persefone? Dimmi, forse sbaglio sulla tua triste sorte, sul tuo infernale
destino?»
Sul trono accanto a quello di Loki, la Dea pressò le
labbra e le guance si contrassero: la forma ovale del viso, accentuata dalla
complicata capigliatura a quattro filari di chiocciole e perle, risultò gonfia,
grottesca, nella rabbia incontenibile che giganteggiava nei tratti imperiosi.
Gli orecchini a cerchio balbettarono di luce contro il collo teso, dall’aspetto
innaturalmente lungo e, a confronto della figura meschina e flessuosa di Loki,
persino sgraziato. I seni tondi, di sotto le pieghe dell’ampia veste e della
mantellina sottile, intessuta di nebbia e filamenti di rugiada, tuonarono nel
prendere una furiosa boccata d’ossigeno, gli occhi già enfi spalancati, le
narici del naso schiacciato dilatate per l’ira crescente.
Ai suoi piedi, il gallo arruffò le penne e i semi e
le granaglie che le caddero dalle trecce non fecero in tempo terra che già
erano irranciditi.
Pur avendo ogni perso ogni mastodontica e regale
bellezza, Tony non potè fare a meno di sentirsi schiacciato dalla rabbia e
dall’indignazione della Dea -Sensazione che, solitamente, provava soltanto al
cospetto di Pepper quando ce l’aveva a morte con lui e quando Natura Matrigna
ci metteva mensilmente lo zampino.
Il figlio di Howard si piazzò dinanzi a Steve, in un
moto spontaneo di difesa. Una volta tornati sulla Terra -Perché sarebbero tornati sulla Terra, nessuna obiezione- il
Capitano non avrebbe fatto altro che ricordarglielo fino alla fine dei suoi
giorni o fino a che lo stesso Stark non lo avesse piacevolmente zittito, intimandogli di smetterla di dar aria alla
bocca senza che ci fosse lui a concedergli l’apporto di fiato necessario.
«Cosa ci fai qui, Amleto?» lo apostrofò -E anche non
avesse avuto in sintetizzatore vocale, la voce non sarebbe potuta uscirgli più
metallica, fredda e tagliente di così.
«Oh, un’idea del Padre Odino» rispose tranquillo
Loki, un sorriso ferino e l’aria di chi stesse parlando delle nuove offerte al
supermercato «Per evitare che facessi ancora del male agli Uomini che suo figlio» il tono si mutò in veleno,
gli occhi assunsero il colore polveroso del serpentino «Tanto ama, ecco, ha
deciso di farmi Re: Signore Dei Morti, Sovrano dell’Ade.»
«La Regina Persefone non sembra essere molto dell’idea»
intervenne il Capitano, sprezzante e finanche derisorio -Tony si sentì un
maestro piuttosto orgoglioso «Né pare d’accordo con te»
Il Dio Norreno sollevò l’angolo sinistro della bocca,
in una smorfia contrariata, di disgusto.
«Cielo, Soldato, non ti hanno mai insegnato la
disciplina?»
Loki sollevò elegantemente la mano e schioccò le
dita: un borbottio e strisciare di legacci verdastri, un gemito di protesta da
parte Steve ed Iron Man non ebbe neanche il tempo di elaborare l’azione, che un
cordone spesso due dita, compatto, s’era accresciuto tra il palato e la lingua
del Capitano, chiuso al retro della nuca per impedirgli di parlare.
«Ora va meglio.» commentò il Dio, alzando il mento
con evidente soddisfazione.
Il figlio di Howard, gettato uno sguardo celato e
coperto dalla maschera dell’armatura al morso conficcato con violenza entro la
bocca di Steve, tese le braccia verso Loki e aprì i palmi: s’accordarono immediatamente
il ronzio di energia in carica ai repulsori, lo schermo entro la calotta andato
a posizionare uno sfolgorante mirino bluastro dritto dritto sulla faccia
dell’avversario.
«Ora ascoltami, Diva Repressa(2): non mi
interessa se qualcuno ti ha spento i capelli, se i tuoi leccapiedi indossano
articoli firmati o se le Parche ti hanno
parlato in rima(3)» sibilò «Fa’ il bravo e rendimi l’anima del
Capitano.»
«Non c’è fretta, Uomo Di Ferro, non c’è fretta» Loki
sventolò noncurante la mano «Non c’è fretta, né possibilità che tu esca da qui.»
Esistevano parecchie, parecchie cose che
infastidivano Anthony Edward Stark abbastanza da farlo uscire completamente
matto: i cibi ipocalorici, ad esempio, la dieta salutista, Justin e Justine
Hammer, suo padre, essere scambiato per suo padre, Hugh Jackman e ogni tanto
Wolverine, quando ne riscontrava la somiglianza col suddetto Huch Jackman(4).
Però nulla, nulla riusciva a torcergli,
arroventargli i nervi quanto l’espressione di assoluto compiacimento sul volto
del Dio, la sua insopportabile strafottenza e aria di superiorità che lo
rendevano più altezzoso, tronfio di un imperator
romano o di un gatto che avesse appena sottomesso il genero umano al proprio
volere.
«Sono stanco dei tuoi giochetti, Loki. Rendimi
l’anima del Capitano, ora.»
In tutta risposta, il Dio appoggiò il piede destro
sul primo gradino della scalinata che permetteva la discesa dal podio al
pavimento a lastroni; il taglio degli occhi divenne affilato, la voce gelida.
«Come osi anche solo pensare di potermi dare ordini, Stark?» sputò «L’unico che può
dare ordini, qui, sono io e le anime dei morti eseguono ogni mio comando!»
«Mi dispiace, Coriolano, Arthas ha molto più stile
come Signore dei Lych.(5)»
Lo sguardo dell’avversario divenne un pozzo di
cocente odio.
«Ridi, scherza, motteggia pure con me, Uomo Di
Ferro» la mascella si contrasse, illividì «Sei esattamente dove volevo che
fossi.»
La perplessità, se non direttamente lo stupore ed anche un gelido morso alla
bocca dello stomaco, ebbero il potere di zittire Stark per un paio di secondi:
non aveva nemmeno considerato l’idea che la sua discesa all’Ade fosse in realtà
una trappola atta e costruita da un Dio Norreno soggetto a frequenti sbalzi
d’umore e disturbi dissociativi. In effetti, il fatto che suddetto Dio Norreno
soggetto a frequenti sbalzi d’umore e disturbi dissociativi, stando a quanto
riportato dall’Armadio Dell’Ikea che gli era più o meno fratello, era rinchiuso
da qualche parte, non si sa bene dove, non si sa bene per quanto a lungo, in
una cella di Asgard aveva contribuito all’assoluta certezza che non ci fosse
alcun piano contorto dietro la morte di Steve. Più o meno, visto e considerando
lo sproloquio di Tyche. Ma comunque.
Se Thor non era in grado di accendere il microonde
senza far partire un complicato sistema di autodistruzione di cui nemmeno Pepper era a conoscenza, allora
Tony aveva decretato unilateralmente con se stesso che non c’era da
preoccuparsi: il loro compagno Tonante non avrebbe mai potuto mentire su una
cosa del genere come la prigionia di Loki.
Forse, doveva riconsiderare il significato di rapporto fraterno oppure ventilare
l’ipotesi che Odino avesse più segreti di Nick Fury.
Ora, un brivido poco da Stark alla colonna
vertebrale stava suggerendogli poco gentilmente di essere cascato nel tranello
con tutte le scarpe, scafandro compreso.
«La mia rivelazione pare sorprenderti, Uomo di
Ferro.»
E Iron Man, che ormai, in quanto a nervi, poteva
fare invidia Ms. Bennet di Orgoglio E
Pregiudizio –Pepper sia sempre dannata, lei e la sua passione per Laurence
Olivier- concordò con se stesso che il Cervo A Primavera aveva parlato anche
troppo. Ignorando il mugolio di protesta –Avvertimento?
da parte di Steve, caricò al massimo i repulsi e lanciò il primo colpo.
Loki non fece altro che passare lo scettro davanti a
sé per innalzare uno scudo protettivo, ma Tony non aspettava che quella mossa:
scattò e si proiettò in avanti.
Non arrivò mai a prendere il Dio dritto nel grugno:
un ruggito di fulmini, un rombare di tuoni, un cozzare di metallo contro
metallo, il fianco destro della scafandro che azzannava il bacino e parte del
torace nel suo appallottolarsi improvviso e la netta, netta constatazione che
le cose non stessero affatto andando
per il verso giusto.
***
Natasha rotolò di lato, ma il riverbero della
zampata sul terreno le urlò comunque lungo le terminazioni nervose, schizzando
da muscolo a muscolo e risuonandole bollente nelle ossa. Lo spostamento d’aria
causato da Hulk le diede il tempo di levarsi di nuovo in piedi, afferrare uno
degli scudi spezzati poco distante e lanciarlo dietro di sé con una feroce rotazione
del polso: Cerbero, uggiolando per la mole di Banner proiettata contro lo
stomaco, subì il colpo al muso centrale, che serrò di riflesso le palpebre unte
mentre le restanti teste ringhiavano e sbavavano.
Hulk, battendo le nocche poderose, si gettò contro
il Cane col pugno verde ben alto al cielo -Prima, però, le aveva scoccato
un’occhiata tanto complice che per Vedova Nera non era stato difficile cogliere
l’animo del dottore in quel breve lasso d’umanità. Steve non sarà contento di essere stato imitato le era sembrato
scorgere, in un lampo divertito. Natasha non aveva potuto esimersi
dall’arricciare le labbra in un sorriso. Lottare al fianco di Hulk contro il
mitologico Cerbero non era come lanciarsi da un aereo senza paracadute, ma
andava bene lo stesso. Avrebbe avuto comunque qualcosa con cui spaventare le
matricole alla mensa dello S.H.I.E.L.D.
Prendendo la rincorsa, la spia russa corse in
allungo verso il Cane A Tre Teste. Agguantò rapida una spada rugginosa, con
nervatura centrale e spezzata poco al di sotto della lama -Lo slabbro
metallico, ad un esame veloce, presentava un’affilatura abbastanza appuntita
per recare ancora qualche danno-, e, mentre Hulk teneva a bada i musi della
bestia, saltò sulla zampa posteriore di Cerbero e da lì, al momento adatto, il
secondo perfetto, s’appese alla coda e la usò come un trapezio per atterrare,
con grazia da vera prima ballerina del Bol’šoj, sulla leggera incavatura delle
vertebre toraciche.
Un ginocchio piegato tra i pelo lercio di sangue e
polvere, Vedova Nera si prese meno di un istante per recuperare fiato e
sollevare la fronte, la mano libera aggrappata ad alcuni ciuffi nerastri per non
essere sbalzata via.
Il muso di destra, avvertita l’estranea presenza, si
era girato per azzannarla: i denti schioccarono inutili e bavosi e un guaito
proruppe dalle zanne giallastre. Soddisfatta, Natasha si servì dell’attenzione
di Cerbero rivolta ad Hulk per salire fino al collo e, con le braccia a cingere
il collo della testa centrale, assicurarsi poco al disotto della sommità del
cranio.
Mantenere l’equilibrio non era per nulla semplice:
Hulk manteneva l’attenzione del Cane su di sé con calci e pugni e ruggiti,
sottoponendo così la spia a più di una capriola e torcimenti dorsali per
rimanere in piedi. Cerbero arretrava, scuoteva le enormi teste e le spalle, sia
per le ferite che andavano via via aprendosi sui nasi palpitanti e tra gli
occhi infuocati, sia per levarsi lei di dosso.
Ogni volta che il Cane rispondeva agli attacchi di
Banner, poi, i muscoli colossali si tendevano, si gonfiavano e rilasciavano
immediatamente il morso o la zampata con un mastodontico contraccolpo
dell’intera struttura ossea. Il che costringeva Natasha ad evoluzioni degne di
un arrampicatore di roccia.
Hulk tirò le braccia gigantesche all’indietro e
allungò il collo rigonfio di vene verso Cerbero. Vedova Nera, dalla posizione
in cui si trovava, lo vide aprire la bocca grottesca in un grido di guerra e
rabbia, selvaggio, di belva. Piegandosi e flettendo le ginocchia, Hulk si diede
la spinta e spiccò un balzo contro il Cane a Tre Teste: questi, di conseguenza,
ritrasse i musi e reclinò le nuche all’indietro.
Come ad un segnale che nessuno dei due aveva
convenuto, appena dottor Banner avvolse la gola di destra in una stretta
soffocante, Vedova Nera alzò la spada e la conficcò tra le vertebre della testa
centrale. Spinse con violenza la lama entro la carne molle, nel mezzo delle
fasce muscolari, il sistema circolatorio, i processi articolari, giù, sempre
più giù, fino a raggiungere e tranciare di netto il midollo spinale.
Cerbero ululò un lungo, strascicato uggiolio: il
corpo imponente ebbe un tremito e perse forza, le zampe non ressero più alcun
peso, la coda ricadde tuonando a terra, le spalle si sbilanciarono verso
sinistra. Hulk seguì lo squilibrio del Cane e vi accordò una pressione in
direzione dell’unica testa ancora funzionante; questa, incapace di sostenere da
sola l’intero assetto della creatura, torse il collo e guaì rantolando tutta la
sua pena. Natasha abbandonò l’arma ancora piantata nella colonna vertebrale di
Cerbero e scattò, le scapole dell’animale come trampolino di lancio.
L’onda d’urto che seguì il crollo del Cane fu tale
che rimase in piedi per puro miracolo. Col fiato ratto in gola e il sudore che
le incollava i capelli alla base della nuca, si voltò a controllare che la
situazione fosse stabile –Sperò anche totalmente sicura: la massa inerte di
Cerbero giaceva distesa su un fianco, riversa tra rimasugli materiali di anime
e pozze di sangue secco; Hulk stava abbandonando proprio in quel momento la
presa attorno al collo della terza testa. A giudicare da come gli occhi
spiccavano, prominenti e spalancati, dall’orbita e da come la lingua penzolava enfia dalla
mandibola mollemente aperta, Natasha intuì che doveva essere già morta soffocata
prima di toccare terra.
Vedova Nera si passò il dorso della mano sulla
fronte e si concesse un sospiro. Hulk le si affiancò, girandosi poi verso di
lei e rimanendo in silenzio.
Un lieve guizzo agli angoli della bocca: la spia si
ritrovò ad indirizzargli un sorriso di ringraziamento, un sorriso incoraggiante
e caldo senza essere riuscita a bloccarlo, a congelarlo in un’espressione meno
ferrea del volto o in un tono più scuro degli occhi seri. Lentamente, gli
sfiorò il braccio e annuì.
«Andiamo.» disse soltanto.
E Hulk la seguì.
***
Clint Barton possedeva alcune convinzioni che erano
il ciclopico fondamento della propria esistenza: la storiella della memoria
degli elefanti era una emerita cazzata,
dato che Boris si scordava ogni santo giorno di defecare nella zona specifica
che Occhio Di Falco gli aveva costruito con tanto amore -E per evitare di
dover, ogni volta, giocare ad una maleodorante caccia al tesoro; Christopher
Eccleston era un Dottore fantastico e
lo sarebbe sempre stato; Natasha era la progenie del diavolo, ma si sarebbe
evirato di propria sponte piuttosto che dirglielo in faccia…E Phil Coulson non
era un Life Model Decoy.
Anche gettando da parte qualsiasi ciancia
strabordante romanticume, l’uomo con cui aveva passato la notte, con cui aveva
fatto sesso, l’uomo che s’era nutrito di ogni suo gemito quale ossigeno per un
nuovo respiro, l’uomo che l’aveva stretto, amato e venerato, quell’uomo non poteva essere una fredda macchina carica
di upgrade e dati e memoria digitale. Non poteva esserlo, Clint ne era sicuro.
Per quanto sofisticato, un androide, o qualunque
fosse il giusto aggettivo da affibbiare alle action figure semoventi dello
S.H.I.E.L.D., non sarebbe mai stato in grado di simulare il lucore liquido
degli occhi di Coulson nel momento in cui, carezza dopo sfiorarsi, lo aveva
lasciato a torace nudo, le cicatrici come gemme bianche contro la pelle. Le
aveva toccate, baciate una per una, pregato, mormorato e pianto su e per ognuna
di esse, con una disperazione, con una desolazione di anima e corpo che non si
sarebbe potuta replicare in alcun modo.
C’era tanto, troppo, era tutto Phil, in una maniera così totalizzante da non poter essere,
per nessuna ragione, in un nessun Universo, un semplice impianto di personalità
digitalizzata.
Il problema, era che ora Clint Barton avrebbe dato
la zampa anteriore sinistra ed entrambi i reni per avere davanti un Life Model
Decoy: il Mutante teneva Coulson dinanzi a sé, alla stregua di uno scudo umano,
il braccio sinistro saldamente stretto alla sua gola, la mano destra -Quella
che impugnava il coltellaccio- con la punta perfettamente appoggiata allo
stomaco dell’Agente.
Spiderman aveva creato per lui due paramenti di
ragnatele perché fosse protetto da entrambi i lati, e Clint si trovava con la
corda già tesa e la freccia incoccata, al sicuro nello spazio triangolare tra
gradini e piano superiore, gli occhi fissi in quelli sgranati, eppure
straordinariamente calmi di Phil.
Il Mutante sapeva, maledetto lui e tutta la sua
stirpe, che essere centrato significava che Coulson avrebbe condiviso la sua
sorte, di qualunque sorte si fosse trattata. Colpire lui voleva dire colpire
Phil e questo era una possibilità che Occhio Di Falco non avrebbe mai messo in
conto, neanche sotto tortura –Una fitta alle tempie, un lampo verde-azzurro, il
ricordo bruciante della voce di Loki che suadente sussurrava bisbigli
all’orecchio e al cervello, l’obbedienza come il veleno più dolce, zuccherino e
letale che all’arciere fosse capitato di ingerire.
Scosse con violenza il capo e ringhiò, rigettando
nel fondo della memoria la vergogna, l’ira e la frustrazione che ancora portava
sulle spalle e nel cuore. Ingoiò un profondo respiro, ossigenò mente e sangue,
le nocche sbiancarono sul riser dell’arma.
Il fatto che il tempo si fosse fermato, attorno a
lui, nei ruscelli bianchi del nido intessuto di luce liquida, non era che
un’illusione repentina dei sensi: la sospensione era un accorgimento effimero
del cervello, stremato e affaccendato alla ricerca di una soluzione, di un
compromesso che gli permettesse di salvare Coulson e catturare il Mutante -Ma
il cervello sbatteva senza sosta contro il cranio, impattava e cozzava contro
le pareti ossee, non trovava via di scampo, non trovava via di uscita.
Spiderman dondolava sul soffitto, saltava e balzava,
sparava ragnatele ad intrappolare quanti più topi possibile, si scuoteva i
ratti di dosso, cercava di assalire Vermin da ogni angolo, da ogni parte, si
frapponeva tra le orde di pelo ispido e le persone che non era riuscite a
fuggire dalla Camera Ardente, affiancava Woo, salvava le chiappe a Sitwell, ruotava
la schiena ed era di nuovo attaccato alle pareti e poi in volo sospeso sopra
tutti loro, il costume uno scaglionare convulso, ritmico di blu e rosso, il
ragno al petto che pareva vivo tanto erano veloci i suoi movimenti.
Ai piedi del Mutante, il feretro aperto di Steve
Rogers, il volto pacifico nel riverbero plastico della morte.
In una preghiera al limite della follia, Clint
chiese a chiunque ci fosse più in alto di loro, più dell’Helicarrier e di Fury,
di ridare vita a quella salma immota perché imbracciasse lo scudo e tagliasse a
metà il ventre di quello stronzo italiano.
E mettere lui, Occhio Di Falco, in una spiacevole
situazione di stallo.
Le relazioni tra
colleghi non possono e non devono essere in alcun modo incoraggiate, Agente
Barton e quasi
gli venne da ridere ricordando il momento esatto in cui Phil glielo aveva
detto, sotto di lui, il viso congestionato e il collo rubizzo, in una notte
lontana in Mississippi, un attimo prima di sgretolare languido il suo nome nel
cocente liquefarsi dell’orgasmo.
Non poteva, dannazione, non poteva scagliare la
freccia esplosiva, non poteva, sarebbe scoppiata a pochi centimetri dal volto
di Coulson…
«Barton!» il grido di Phil ebbe il potere di fargli
drizzare il collo, le dita alla cocca del dardo livide per lo sforzo di
mantenerle in tensione.
L’Agente si agitò nella stretta del Mutante che, da
parte sua, gli circondò con ancor più forza e violenza la trachea: il colore
sulle guance di Phil esalò in un sussulto livido, l’uomo rantolò e boccheggiò,
deglutì –E nonostante tutto, non perse il contegno e l’aria di chi aveva
comunque ogni cosa sotto controllo, inconfutabile marchio di fabbrica della sua
persona.
«Colpisci, Barton!» ansimò, la voce roca e spezzata
dalla mancanza di fiato «Sono un Life Model Decoy! Non sono il vero Coulson!
Sono un Life Model Decoy! Fury ti ha mentito! Ha mentito a tutti voi!» la
disperazione trasfigurò il volto gemente dell’uomo, le narici si dilatarono e
la mandibola si contrasse a deglutire un singhiozzo agonizzante «Colpisci,
Barton! Colpisci!»
Il cuore di Clint raggrinzì cigolando nel petto.
«Colpisci, Barton! E’ un ordine!»
E, proprio malgrado, Occhio Di Falco obbedì.
***
«Sei impazzito, Point
Break?» inveì Tony, un pugno a terra per darsi almeno un punto d’appoggio
da cui partire e suonarle di santa ragione James Hunt(6) in mantella
e martello.
Cristo Dio, non gli aveva più visto addosso un’espressione
tanto furibonda dal giorno in cui aveva iniziato la sua santa crociata a Candy Crush.
Thor gli puntò contro Mjolnir e, da come socchiuse
le palpebre e lo sovrastò con astio innaturale, Iron Man capì che la situazione
non stava volgendo a proprio favore.
«Sta’ lontano da mio fratello, mortale.»
D’accordo, se si tralasciava il Sta’ lontano ed il Mortale
ancora ancora lo si riusciva ad accostare al biondone che cucinava uova
strapazzate la mattina insieme a Steve. Peccato che due parole non facessero una
frase, ergo quello che aveva dinanzi a sé o non era Thor oppure era un Thor con
qualche valvola in sovraccarico –Ecco cosa succede a giocare troppo con l’elettricità.
«Raperonzolo, non so se ti hanno avvertito, ma tuo
fratello è quello che in gergo comune si chiama Caotico Malvagio.»
A conti fatti, il ritrovarsi d’improvviso con la
schiena pressata contro le pareti in stucco e la mano poco gentile del norreno
arpionata alla giugulare era il chiaro segnale che Caotico Malvagio non era stata la scelta di termini più felice. Per
la violenza del gesto, inoltre, il ramo d’oro gli cadde di mano, rilucendo e
cantando.
Attraverso le interferenze singhiozzanti dello
schermo, Tony vide il Capitano tentare di divincolarsi dai legacci che lo
costringevano in ginocchio: muoveva e tendeva le spalle, gli occhi spalancati
per l’ira e per lo sforzo, la voce e gli ansimi che si spezzavano,
sfracellandosi, disintegrandosi a contatto col cordone che Loki aveva fatto
comparire per zittirlo.
Il Grande Principe Della Foresta, sommamente
deliziato da come si stavano svolgendo gli eventi, scese i gradini del podio e
s’avvicinò al fratello con movenze leziose da serpente a sonagli; dietro di lui
–E Iron Man corrugò la fronte da sotto la calotta dell’armatura- Persefone lo
fissava con occhi di brace. La Dea non s’era alzata dallo scranno, colossale e
plastica nella sua posa regale, eppure qualcosa in lei stava cominciando a
muoversi: chicchi di grano e sementi le cadevano sempre più copiosi dai seni,
rimbalzavano scampanellando sulla cista e il gallo che le era compagno,
singultando e ruzzolando, li raccoglieva uno per uno per ammonticchiarli con
ordine sui lastroni della pavimentazione.
Tony sarebbe rimasto a guardare ancora per un bel
pezzo quello spettacolo per carpirne le dinamiche, ma la voce di Loki lo
costrinse a rivolgere l’attenzione su di lui –E sul di lui fratello.
«Temo che il mio povero fratello abbia sofferto di
qualche problema di memoria, negli ultimi tempi» soffiò, appoggiando le dita
sottili sullo spallaccio di Thor «Aveva la gola secca, oh, così secca, e non vi
è nulla di più dissetante delle acque del Fiume Lete.»
Il Reattore Arc ebbe un sobbalzo e Stark avvertì
distintamente il fiato attraversargli gelido i polmoni contratti.
«Avvertilo di non
bere le acque del Lete o dimenticherà tutto.»
«--- …Il Lete?»
«Le acque dell’oblio, che confluiscono nell’Acheronte insieme al
Cocito e al Piriflegetonte. Se Steven Grant Rogers ne berrà anche un solo
sorso, dimenticherà ogni cosa di questa terra e sarà incatenato eternamente
all’Ade.»
«Complimenti, Francis-Scott
Fitzgerald(7)» sputò Iron Man –E, oh diavolo, le nocche di Thor
attorno alla gola della scafandro s’erano strette con un gran stridere e
ribellare delle giunture, oh, diavolo «Sei ancora più schizzato di quel che
ricordassi.»
«E tu mi hai deluso, Uomo Di Ferro» Loki corrucciò
le labbra, nella grottesca pantomima di un bimbo arrabbiato «L’unico mortale
per cui provassi un minimo di rispetto…»
«Sì, molto probabilmente lo stesso che avresti per
un pesce rosso o un altro animaletto domestico.»
Loki non perse il sorriso mefistofelico e alzò
innocente le spalle.
«Sempre di rispetto si tratta» mostrò quindi i
denti, in un sogghigno malevolo «E invece. E’ bastata un’esca, una semplice,
patetica esca per farvi accorrere tutti qui come un gregge ignorante. E come un
gregge ignorante, eccovi pronti a farvi sgozzare sull’altare della mia gloria.»
sollevò le sopracciglia, la bocca storta in una smorfia cinica, amareggiata «E’
forse amore, Stark?»
«No. Del gran, buon sesso.»
Venire sballottato da un Dio Nordico del peso
complessivo di centoventi kili –Mjolnir escluso- fu annoverato immediatamente nella lista di esperienze
da provare una volta sola nella vita e poi cancellarle per evitare traumi sicuri
e futuri.
Tony si ritrovò steso ai piedi di Steve senza avere
la benché minima idea di come ci fosse arrivato. Poi Thor lo afferrò malamente
per il collo, lo scagliò più o meno come una marionetta disarticolata verso il
podio rialzato e allora capì.
I sistemi dell’armatura stridettero e si diedero
alla pazza gioia, J.A.R.V.I.S. lo riprese, lo ammonì, gli disse qualcosa, ma
Iron Man era troppo occupato a scatenare un lampo di repulsori in direzione del
Dio del Tuono per stare ad ascoltare i consigli della balia di turno.
Thor non sembrò così disturbato dal colpo ricevuto, anzi.
Piegatosi appena su stesso per un breve interludio e riflesso automatico, roteò
il Martello, accompagnato da un gran frastuono di saette e fischiare di
fulmini; un vento rauco di polvere e cenere s’avvoltolò attorno alla testa di
Mjolnir, ma –E Tony si chiese per quale accidente di motivo si fosse appena
concentrato su un particolare tanto stupido- il gallo di Persefone non interruppe
il proprio lavoro. Né e granaglie si spostarono d’un soffio, a quel turbine in
vitro: al contrario, le vide in qualche modo…Sparire, come risucchiate da un
foro della pavimentazione. O forse era soltanto una propria impressione.
Impressione o gioco di luci che fosse, perse ogni
attrattiva nel momento stesso in cui Thor si lanciò a volo d’angelo verso di
lui.
«Fatti avanti, cocco bello.» lo sfidò Tony,
ignorando ogni buonsenso.
Prima della palla da biliardo verde alta due metri
che ebbe la meravigliosa idea di scaraventare Thor oltre le banchine, addosso a
cacciagione grondanti miele e innaffiate di vino odoroso, prima, dunque, di
quello spettacolo al limite della risata isterica, Iron Man colse il volto di
Loki irrigidirsi e farsi livido. Poi la stanza rimbombò del grido famelico di
Hulk e un’ondata di giusta soddisfazione karmica scorse nelle vene del magnate
come nuovo sangue.
«Ce ne avete messo di tempo» Tony si voltò a
guardare Natasha con un sorriso di sbieco che lei sicuramente non poteva vedere,
aa di cui era certo ne avesse intuito l’esistenza dal tono.
La spia socchiuse le palpebre con finta aria
stizzita, un ghigno a brillare cremisi sull’angolo destro delle labbra.
«Chiedo scusa, siamo stati ingaggiati per fare i
dog-sitter.»
Il figlio di Howard si concesse una breve risata, i
palmi già rivolti a Loki –Hulk, intanto, aveva preso Thor per i capelli e lo
aveva colpito allo stomaco con un diretto tale che Iron Man si stupì di non
vedere le divine interiora del norreno schizzare via dalla schiena insieme ai
reni.
«Allora, Profondo
Mare Azzurro(8)» altro inveire mentale, questa volta contro
Steve e la sua mania di vedere ogni creazione video ludica riguardante Seconda
Guerra Mondiale e affini «Questa è l’ultima volta che te lo ripeto. Consegnami
l’anima del Capitano e forse passerò sopra il fatto che lo hai brutalmente
ammazzato per costringerci a venire tutti per il tuo infernale, in tutti i
sensi, thé delle cinque.»
«Ammazzato?»
ripeté il Norreno, per nulla interessato che Hulk avesse appena costretto Thor
in ginocchio, Mjolnir lontano da sé e la grossa mano sulla sua testa per
tenerlo fermo «Che termine orribile. Io non l’ho ammazzato. Le Parche hanno
tagliato il filo.»
«Su tuo ordine,
presumo.»
«Ordine?»
il tono adirato di Persefone sovrastò qualunque altro rumore, qualunque altro
sussurro «Le Parche non agiscono per
ordine di nessuno!» proseguì, collerica «Se non di loro stesse!»
«Oh.» Loki si portò una mano al cuore e si girò
verso di lei, inscenando un profondo, confutabile rammarico «Temo che alcune
cose siano cambiate nei tre mesi in cui sei stata lontana, mia signora. Iride
ha fatto loro una visita, di recente.»
«Iride? E da quando Iride serve ed obbedisce ai
comandi d’un sozzo barbaro usurpatore?»
«Da quando il suo sangue divino nutre fiori
rigogliosi sulle rive dell’Acheronte.»
Tony Stark non aveva scordato la magnifica,
irraggiungibile bellezza di Tyche, ma essa era nulla al confronto dei bagliori
di baleno che sgorgavano a fiotti celesti dallo sguardo della divinità comparsa
accanto a Steve, in uno sfolgorante tripudio di fumo verde.
Quell’accorgimento stilistico da ghiaccio secco,
considerò Iron Man, non doveva essere stato particolarmente apprezzato da
Persefone che, al contrario loro, era gelata sul trono come una statua di sale,
il corpo un’unica vibrazione d’orrore inesprimibile.
Le ali d’oro d’Iride sorvolarono con grazia i
capelli di Steve e gli sfiorarono a punta di piuma la spalla ed il braccio:
ogni bellezza, ogni meraviglia e splendore scomparvero dall’idea che Tony s’era
fatto di lei nel momento preciso in cui il Capitano si tese e si incurvò con
uno spasmo, vomitando un urlo di dolore soffocato dal cordone morso con
violenza dai denti tremanti.
Iride gettò la testa all’indietro ed un lampo bianco
cancellò dalla sua figura qualsiasi traccia della veste impalpabile, dello
scialle azzurro tintinnante di rugiada, dei calzari di vento. Al suo posto,
ora, l’algida forma di una donna dai lunghi capelli biondi, il seno florido ed
il ventre piatto fasciati da un busto a scaglie verdi, terminante in sottili
frange ridacchianti; bracciali di metallo smaltato le arrivavano a coprire
parte del dorso della mano con una punta a becco. La fantasia di cerchi
continui e verticali sulle calze nere sfrigolava di serpentino alla luce venerante
dei bracieri, le cui fiamme scintillavano languide sull’alta tiara malachite
che ella portava alla fronte.
«Amora…!» esalò Thor, con tono appassionato e la
donna piegò compiaciuta le labbra scarlatte.
Steve ansimò, boccheggiò, un’ustione butterata e
purulenta a gemere liquida lungo l’avambraccio. Iron Man alzò la fronte e non
dovette nemmeno chiedere, Loki rispose con gaudio alla domanda inespressa.
«La prima discepola di Karnilla, Signora delle
Norne.» stese la bocca in un sorriso tagliente «Fa’ dei morti ciò che lei più
desidera.»
«E di Thor il più devoto degli amanti» Amora sollevò
aggraziata la mano sinistra, le dita avvolte da una poco promettente
opalescenza giallastra «E del vostro mostro, il più fedele dei servi.»
Filamenti dorati scoppiettarono e palpitarono dall’improvviso
negli occhi di Hulk, che alzò il capo ciondolante e squadrò gli astanti con
sguardo appannato.
«Attacca»
fu l’unico ordine e se Tony non venne travolto da quel voltagabbana di Banner
fu perché Natasha lo superò con un salto e piantò nella faccia dell’omone verde
il tacco dieci. Grugnendo, Hulk si ritrasse, l’afferrò per la caviglia e la lasciò
andare e cozzare contro il filare processionale dipinto a stucco sulle pareti.
Se Iron Man non intervenne in aiuto della spia, fu perché troppo preso dal non
farsi sfarinare le costole dopo che Mjolnir, richiamato da Thor nel momento di
stasi seguita alla ribellione repentina di Hulk, lo aveva preso con perfezione
millimetrica al centro del Reattore.
Una ghironda di amici contro nemici, di confusione,
di caos, di cui Loki si pasceva con un gran sorriso sulla bocca trionfante. E
loro, come stupidi, come idioti, non avevano fatto caso a nulla, non aveva
pensato a niente. Avevano, anzi, contribuito a nutrire il suo ego ipertrofico,
a scatenare un’entropia senza precedenti.
Sbalzato all’indietro, il magnate cercò di rialzarsi
più in fretta che poté. A gettarlo di nuovo schiena a terra, però, fu il grido
e l’onda d’urto propagatasi da Persefone in piedi dinanzi al trono, il braccio
levato in gesto di comando.
Davanti al podio il pavimento crollò, a rivelare una
scala ad angolo retto infossata direttamente al di sotto dei lastroni(9).
Un frastuono d’acqua che risaliva e ribolliva, poi l’emergere serpentesco di
due essersi dal volto barbato e un’immensa coda a pesce: tenevano le braccia
allungate dinanzi a sé e sulle mani, forti e venose, solcate da rughe e intagli
salmastri, nacquero ciascuna un uovo alto quanto un essere umano.
Il gallo di Persefone svolazzò e frullò le ali
rosso-brunite sulla schiena squamosa dei tritoni, da lì al capo coperto di
ciocche lanose e infine beccò una volta, una volta sola, entrambe le uova sulla
sommità.
Rigature arzigogolate comparvero a segnare e
incidere la loro superficie liscia, abbagliante. Un tumultuare di galoppo
palpitò entro il guscio e, quando questi esplosero con un fragore di battaglia,
i tritoni drizzarono la testa, aprirono maggiormente i palmi e innalzarono a
curva la parte centrale del dorso. Le squame e le scaglie ondeggiarono d’azzurro
e turchese, di bianco e di spuma; le vesti, dalle spalle e sotto le ascelle,
gorgheggiarono e s’agitarono come le creste roboanti del maelstrom.
Incredibile a dirsi, allucinante a vedersi, le
creature marine sostenevano ora due giovani a cavallo, con una stella in
fronte, i capelli acconciati in trecce sottili e un balteo di cuoio di traverso
sul torace.
«Voi!» esclamò Thor, girandosi nella loro direzione
e distogliendo l’attenzione da Tony –Che ringraziò qualsiasi divinità
occidentale di avergli appena salvato la vita.
Il giovane con gli occhi celesti, con le carni
intessute d’oro, fece impennare il cavallo e saltò via dalle mani del tritone.
Impugnata la picca, il volto contratto dall’ira, alzò l’arma e si diresse
gridando verso il Dio Norreno.
«La vendetta di Polluce ti colpirà, ora, cane di
Asgard!» e nel mentre che prorompeva in quell’urlo, Tony notò il guizzo
rossastro, livido all’altezza dello zigomo.
Con la coda dell’occhio, ad Iron Man parve cogliere
un movimento da parte di Loki, un piegarsi veloce delle ginocchia come se
stesse per correre in avanti lui stesso. Che fosse realtà o meno, tuttavia,
quell’immagine fugace perse qualsivoglia importanza: Amora, all’ultimo istante,
s’era frapposta rapida tra la divinità chiamata da Persefone e il Principe di
Asgard.
Col petto fieramente sporto alla mercé della lama,
non un grido le sfuggì dalla bocca, nemmeno nell’attimo in cui il metallo le
trapassò le carni ed il cuore.
L’unico verso straziante e straziato che s’udì fu l’urlo
di Thor mentre la prendeva, cadente, tra le braccia –E anche il suo lamento
venne coperto dal sonagliare delle briglie dell’altro giovane che, smontato da
cavallo, aveva raggiunto il silenzioso Loki e lo aveva colpito al volto con l’asta
lignea della picca.
***
Phil Coulson avvertì la punta del coltello farsi
strada nelle viscere, prima della ventata ardente che gli azzannò il volto e
gli incendiò cornea, palpebre e ciglia.
Esalò un conato di vomito e dolore, due lingue vischiose a rigagnolare
appiccicose dagli angoli della bocca; le ginocchia gemettero, scricchiolarono,
ma non toccarono subito terra: ci pensò Bruno, con uno spintone, a gettarlo
contro il pavimento.
Con la testa roboante di silenzio ovattato, Phil
attorcigliò le labbra in un sorriso compiaciuto, orgoglioso: una freccia
esplosiva. Ottimo lavoro, Agente Barton.
Non seppe per quale grazia divina, ma Coulson
raccolse abbastanza coscienza da portarsi le mani al ventre e premere contro il
borbottio sanguinolento dello stomaco. Oh,
dannazione, pensò con una punta di autoironia che in quel momento
diagnosticava una lucidità mentale non proprio ai massimi livelli, Dovrei chiedere un aumento al Direttore.
Sentiva davvero il bisogno di un’altra cicatrice.
Come se il cordoncino a punto catenella che Loki gli aveva cortesemente
lasciato al petto non fosse già abbastanza riempitivo: cominciava a credere che
i supercriminali fossero degli esagitati maniaci dell’horror vacui.
Dio, pensò di nuovo, Sto sragionando.
E il fatto che ne fosse consapevole, che si fosse
accorto delle strane deviazioni, delle svolte improvvise del cervello era molto
probabilmente il primo segnale di un nefasto disturbo dissociativo. O, forse, stava
andando incontro alla morte molto più velocemente di quanto avesse preventivato
quando aveva ordinato a Clint di scagliare la freccia.
L’importante, però, era che Chianti era stato
colpito ed che stesse collassando a non troppa distanza da lui. Pur con la
vista appannata dal dolore e dai residui di fumo, Coulson poteva vederne il
volto ustionato, un crogiuolo ributtante di pus e carne scarlatta, paonazza,
costellata di vesciche ciangottanti liquido biancastro. I vestiti cadenti
fumavano di cenere, ridotti a pezzi, brandelli di tessuto puntolate di sghignazzanti
occhietti rossi.
La propria, di situazione, non doveva essere
migliore, ma era una cosa su cui Phil Coulson si sentiva in grado di passare
sopra.
Non che si sentisse in grado di fare molto altro, in
verità, se non scuotere il capo dolorante e gemere per gli artigli di fiamma
che a quel gesto avevano scavato unghiate bollenti nella guancia, scuoiando e
spolpando la carne a mani nude. I nervi palpitavano e s’attorcigliavano, abbrustoliti,
vibranti, il sangue colava a fiotti a macchiare camicia e falangi -Oh,
dannazione, ci teneva a quella camicia. E il completo era nuovo, preso
appositamente per l’occasione. Un po’ spiegazzato dopo che Clint l’aveva tirato
contro il muro, la notte prima, però non importava. Gli accartocciamenti si
vedevano appena ed era quasi felice della loro esistenza. L’aveva ripreso,
ovviamente, rimbrottato e brontolato, ma poiché erano opera di Clint, delle sue
mani, delle sue dita, allora andavano bene. Erano perfetti. Erano meravigliosi,
regalavano ai vestiti uno splendore che freschi di lavanderia non avrebbero mai
avuto.
Una consistenza gommosa, morbida -Una mano? Un guanto?, scivolarono a
sostenergli la nuca e a sollevargli piano la testa.
«Tranquillo, P.C.» gli arrivò la voce fosca di
Spiderman, da qualche parte sopra la fronte «Adesso arriva la cavalleria, veda
di tener duro.»
Coulson gli indirizzò un sorriso non troppo
convinto, le dita affondate nel ventre flaccido, unto e umido di umore e consistenze
gonfie, bavose che una parte atrofizzata della propria mente riconobbe fin
troppo facilmente quali boli oleosi di intestini e secrezioni acide da parte
dello stomaco forato.
«Vermin…?» s’informò, biascicando mozziconi
incomprensibili di suoni e fonemi.
«Non ha apprezzato troppo l’esplosione» rispose
l’arrampica-muri e mentre parlava, Phil avvertì una mucosa compatta, fredda
appoggiarsi e incollarsi all’altezza del ventre. Ramificazioni piacevoli, come
tanti sussurri di ghiaccio, si acquattarono e acciambellarono sulle
palpitazioni febbricitanti della carne lesa, lenendo in parte la sofferenza e
lo strazio. «Se ne sta occupando il suo Dinamico Duo.»
Coulson portò le mani alla pancia e i polpastrelli
entrarono a contatto con un rigonfio fibroso, in alcuni punti ancora un poco umido,
bagnato.
«L’ho imparato dagli scout.»
Phil fece anche un tentativo di reagire allo
scherzo, magari con una risata a fior di labbra che non sembrasse uno sbuffo
morente o un colpo di tosse mal riuscito, tuttavia quello che ottenne fu
soltanto un verso imprecisato, a metà tra la
preghiera e l’imprecazione.
Seguì un suono inarticolato, un rumore di risucchio
e un rigetto: la bocca si macchiò di nauseante metallo, si riempì di grumi
soffocanti, impossibili da inghiottire, che saldarono fra loro le arcate
dentarie come mastice. Girandosi di scatto sul fianco opposto a dove,
presupponeva, si trovava Spiderman, Coulson ansimò un conato di vomito ed ebbe
la netta sensazione –Anche dallo scroscio che udì esplodere contro il pavimento-
che le viscere bloccate dalla ragnatela dell’eroe avessero deciso di uscire
attraverso la gola. Nel fischio che precedette il mutismo assoluto dell’interno
e la nebbia più nera che l’Agente avesse mai visto, lo raggiunse l’affilata
bestemmia di Clint, lontana, soffocata, l’urlo di Spiderman, lo starnazzo
agonizzante di Bruno e il frastuono di tessuto lacerato.
Poi tra le mani e nella testa non gli restò che buio
e silenzio.
***
«Ho comunque vinto.»
«Che vuoi
dire?»
Tony mosse un passo per affiancarsi a Steve, che nel
frattempo aveva sollevato di scatto la testa e stava fissando con orrore il
ghigno malevolo di Loki. Non appena questi era stato messo con le spalle al
muro, l’incanto che aveva gettato sul Capitano era svanito.
Sentirlo parlare, sentirsi riprendere perché Mio Dio, Tony, sei un irresponsabile,
era più di quanto il magnate si era permesso di sperare.
Il fratello di Thor raddrizzò le spalle e assunse un
atteggiamento regale –A nulla valse la pressione che esercitarono Castore e
Polluce per farlo di nuovo inginocchiare a terra: in quel momento il Dio aveva
l’espressione esultante di chi avesse appena gettato il proprio dominio
sull’intero Creato. Non sembrava sconfitto. Al contrario, sebbene non avesse
raggiunto lo scopo di eliminarli uno dopo l’altro, conservava una spregevole
aria di deliziata vittoria.
«Prenditi pure la sua anima, Uomo Di Ferro» sorrise,
mellifluo «Non farai in tempo a tornare sulla Terra, che il Soldato non avrà
più un corpo cui appartenere.»
***
Fu con uno sforzo che nessuno avrebbe creduto
possibile che Bruno Chianti agguantò il bordo del feretro e vi si trascinò
sopra, ubriaco ed esangue. Gli doleva la testa, le tempie tremavano ed era
consapevole che sarebbe morto di lì a poco.
Che vita di merda, rigagnolò un ruscelletto di
pensiero nel soffuso soccombere della coscienza, Tante vale concludere in bellezza.
In fondo, era riuscito a conficcare il coltellaccio
nello stomaco di Coulson, era già di per sé una conquista. Però, perché
fermarsi? Sarebbe crepato comunque, perché non finire il lavoro affidatogli da
Amora?
Voleva prendersi una rivincita, su di lei e sul
mondo.
Quella baldracca svervegese lo aveva raccattato per
la strada come farebbe un barbone tra la spazzatura, non si era mai fidato di
lui e gli aveva dato quel compito semplicemente perché era un signor Nessuno
abbastanza disperato da accettare qualsiasi incarico gli procurasse moneta e
vino.
Anche il mondo pensava che Bruno Lambrusco Chianti fosse un buono a
nulla, no? Un essere disprezzato e disprezzabile capace solo di ingurgitare
cospicue sorsate di rosso per mantenere il sangue sempre attivo e utile.
Bhè, era arrivato il momento che Babbo Natale si
segnasse definitivamente il suo nome nella lista dei cattivi e all’Inferno
Lucifero gli preparasse una tavola come si deve tra gli Omicidi e i Predoni del
Primo Girone. Certo, avrebbe passato l’eternità a crogiolarsi nel sangue
bollente, ma persino le frecce dei Minotauri erano meglio delle saccognate
della polizia o di qualche Agentucolo in giacca e cravatta intenzionato ad
infilzarlo come un punta spilli per togliergli i poteri Mutanti.
Questione di punti di vista, d’accordo, però
chissene. Alla fin fine, stava per lasciarci le penne.
Facendo leva sulle ginocchia lorde di rosso,
bestemmiando per ogni guizzo della faccia stravolta dal fuoco, Bruno Chianti alzò
il coltellaccio sopra la testa -Stava morendo, stava perdendo il controllo ed
anche il manico andava liquefacendosi ogni istante di più, la lama una pasta
filamentosa tra le dita insensibili.
Ruggì un ultimo monito a se stesso e al mondo,
quindi diede il primo affondo.
Quando la pallottola lo raggiunse, Bruno Chianti
aveva squarciato il petto di Steve Rogers fino all’ombelico.
Cor Mortem Ducens
#09 Puoi Scegliere Ciò Che Resta E Ciò Che
Svanisce
Note
Finali
(1) http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2223167&i=1
(2) https://www.facebook.com/pages/Gli-attacchi-isterici-repressi-da-diva-incompresa-di-Loki-Laufeyson/500768069964422?fref=ts
(3) Citazioni da Hercules
(4) https://www.youtube.com/watch?v=YSVpfkBDOfU
(5) World of Warcraft
(6) Ruolo interpretato
da Hermswoth in “Rush”
(7) Ruolo interpretato
da Hiddleston in “Midnight In Paris”
(8) Film in cui recita
Tom Hiddleston
(9) Ispirazione molto
vaga dei bacini lustrali dei palazzi minoici
Note
Di Fine Capitolo
Il titolo viene dalla canzone “No light,
No light” dei Florence and The Machine. L'apparizione dei Dioscuri riprende gli acroteri del Tempio Ionico di Locri.
Alla Anthony Edward e alla Cap, che
sono finalmente tornate! *A*
Signore.
Signori.
Il prossimo è l’ultimo capitolo.
|
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Capitolo 11 *** #10. American Beauty [ Epilogo ] ***
cmdep.
Un tremito lo colse e il freddo delle lastre sotto i
piedi nudi dissipò ogni mormorio nella testa e tra le tempie.
Bruce scosse il capo, si piantò i palmi sopra le orecchie,
li pressò al punto di avvertire il battito iroso del cuore contro lo zigomo, la
mascella, le orbite, la fronte.
Digrignò i denti, macchiò gengive e lingua e palato
di sangue metallico, allargò le narici, ingoiò una poderosa sorsata d’ossigeno
e contò i rigagnoli lividi e i ritorcimenti rossastri che s’agitavano dietro le
palpebre serrate.
Le vertigini bubbolarono alla bocca dello stomaco,
l’Altro gli afferrò con presa bestiale le viscere, gli intestini, ne fece un
nodo, batté un pugno sullo sterno, frantumò le costole tra le nocche, si spinse
sulle vertebre e si lanciò di petto fino alla gola.
Banner, facendo appello alla nausea e al gelo
infernale che gli mordeva ogni tratto di pelle nuda, deglutì Hulk e le sue
proteste, i suoi ringhi e latrati; si sostenne il volto con una mano, le
ginocchia si piegarono fino a toccare terra e le rotule gemettero per il
dolore. I nervi emisero un versetto indignato, il dolore ruscellò nelle vene e
contrasse i muscoli in uno spasimo rantolante.
La voce che aveva udito, il canto nebbioso di sirena
che aveva trasformato i compagni in un nugolo grottesco di animali e nemici e
avversarie Hulk, spacca! non era più
d’un ricordo blasfemo, un’impronta di peccato che i secondi e gli istanti e i
minuti contribuivano a cancellare, onda dopo onda, respiro dopo respiro.
Riprendendo di nuovo una boccata d’aria, Bruce si
permise d’aprire gli occhi e il lucore fiammeggiante dei bracieri lo accecò.
Conficcò le dita nelle orbite, si chiuse nelle
spalle e incurvò la schiena, un rivolo di sudore appiccicò catrame e lerciume
sul cranio palpitante. Annaspò in cerca di nuovo fiato, scrollò la testa come
mulo recalcitrante, quindi sollevò mollemente il collo, osservando, frugando
l’intorno tra gli spazi tremuli delle falangi.
C’era Thor, poco più avanti, col corpo di una donna
stretto tra le braccia: non poteva vedere completamente il viso del Dio,
giacché lo teneva nascosto nell’incavo della spalla di lei, lo celava dietro la
sua guancia bella e cadaverica, oltre il viso abbandonato ad un sopore più
tremendo del sonno.
Loki guardava la scena con alterigia al limite dello
sprezzante –Forse troppo, troppo sprezzante, una caricatura per deviare gli
occhi e i sospetti altrui-, mentre i due efebi col balteo gli serravano uno la
spalla sinistra, l’altro il braccio destro. Tony aveva gli occhi puntati nella
figura mastodontica di Persefone e Steve aveva abbassato il capo, l’aveva
spostato appena di lato e chiuso le palpebre.
E Natasha…Natasha?
Il cuore affondò nel petto.
Vedova Nera giaceva distesa tra frammenti di
intonaco, i capelli scarlatti insozzati da polveri e lacrime di affresco; un
braccio allungato in maniera innaturale dinanzi al volto, il bacino ruotato e
sollevato, una gamba ripiegata sotto il ventre, se respirasse o meno il dottore
non avrebbe saputo dirlo.
Banner si levò faticosamente in piedi, traballò e
quasi cadde, ma una forza innominata –Insapettata-
gli rese le gambe più salde, innalzò la colonna, gli fece bruciare nuova vita
nel petto. E mentre procedeva a passi incerti verso la donna, capì che era
Hulk, che era l’Altro, a sospingerlo verso di lei: il mostro non avrebbe mai
chiesto aiuto, non lo avrebbe mai fatto, soprattutto a lui, eppure in quel
momento gli stava consegnando le ultime briciole di potere e vigore che ancora
possedeva e avrebbe potuto usare per riprendere il controllo. Gliele passava,
sì, gliele donava per raggiungere ed
arrivare indenne a Natasha, per salvare l’unica persona, l’unico essere umano
per cui valesse la pena vivere, anche se rinchiuso nel corpo rachitico, debole
e patetico dell’omuncolo di Dayton.
«Natasha…» mormorò Bruce, crollandole accanto, le
braccia allungate, tese a sfiorare a punta di dita la curva inerte della
schiena. «Natasha, ti prego…»
Un tremito percorse la spina dorsale della donna.
Vedova Nera spalancò gli occhi pallidi di terrore e
si ritrasse, vomitò un gemito dalla bocca macchiata di sangue.
«Natasha» ripetè «Natasha, sono io.»
Lei socchiuse gli occhi, il seno che s’alzava e
s’abbassava al tamburellare aritmico della sorpresa e dell’allerta. Lo
squadrava guardingo, cercava in lui in segni del Mostro, della follia; le
pupille si dilatavano e si restringevano, mettevano a fuoco un particolare, si
perdevano a sondare angoli e recessi –A ritrovare un briciolo anche minuscolo
di fiducia.
Banner sfiatò un sospiro esausto, una mano a
coprirsi gli occhi.
«Bruce…»
Poi furono solo le braccia di Natasha ed il profumo
rassicurante dei suoi capelli.
***
«Tu! Tu! L’hai uccisa! È morta per colpa tua!»
Loki reclinò sfrontato la testa, un ghigno metallico
gli tagliò di traverso la bocca. Arrogante, conscio di sé e del potere di cui
era Maestro.
«Oh, no, fratello.» sussurrò «E’ tua strabiliante
prerogativa perdere le persone che ami.»
Steve avrebbe voluto intervenire, magari mettendo
una mano sulla spalla di Thor –Magari tirando un pugno a Loki-, tuttavia si
trattenne. Il fatto che non fosse più di uno spirito incapace di toccare ed
essere toccato era una ragione da non sottovalutare.
«Non ti preoccupare.» la voce di Tony, ora accanto a
lui, lo fece trasalire «Lo rimetteremo in sesto» il figlio di Howard accennò
col mento alla figura desolante di Thor, al suo volto contratto e alla
disperazione che deflagrava dal respiro ansante.
Stark atteggiò le labbra in una smorfia.
«E se non ci riusciremo noi, lo farà la sua sventola
con un ceffone ben piazzato.»
Il Capitano annuì ed il sorriso scivolò via dai suoi
occhi, risucchiato dentro di lui dall’atmosfera di addio che gli infiacchiva le
ossa e gli indolenziva i muscoli. Il cuore era intirizzito ed era consapevole
che quel poco di sangue della libagione stava ormai finendo il suo effetto:
dalla punta delle dita il gelo ramificava nelle braccia e qualsiasi parvenza di
fiato diveniva pallida, ogni volta più distante dalla precedente, ogni volta
più rarefatta, ogni volta più fasulla.
Presto, lo sapeva, avrebbe guardato Tony e non lo
avrebbe visto. Avrebbe sentito le sue parole, ma non le avrebbe ascoltate.
Avrebbe avvertito il suo amore, ma esso non lo avrebbe raggiunto.
«E’ un po’ uno smacco, eh?» riprese Stark,
socchiudendo le palpebre «Insomma, niente Cancelli Dorati, niente Angeli con le
Arpe o tizi barbuti che ti sventolano un paio di chiavi davanti al naso» alzata
di spalle «Mi rassicura sapere che non mi ritroverò davanti un tizio con la
testa di sciacallo o un bellimbusto fasciato e con la faccia verde, questo sì.»
Steve rise e quel suono riverberò nel Salone con una
luminescenza argentina. I bracieri si scossero, muovendo frementi le lingue
aranciate.
«Non importa, Tony.» il Capitano si voltò –A stento ingoiò
l’istinto di alzare il braccio e passare le dita fra i capelli che erano caduti
a coprirgli la fronte «Io continuo ad avere Fede. Non mi ha mai tradito.»
Stark abbassò gli occhi, sviò il suo sguardo.
«Hai Fede in me?»
«Sempre.»
Un refolo di vento costrinse entrambi ad alzare la
testa: era giunto a loro un sottile canto di primavera, che a Steve aveva
ricordato il rumoreggiare dell’erba di Central Park, il sapore amarognolo della
pioggia sulla pelle e lo schiudersi silenzioso di una corolla.
Persefone li aveva raggiunti e sua era la tenerezza
della Madre, nell’aspetto e nell’aura che emanava. Aveva abbandonato il peplo e
i ninnoli tra i capelli e l’alto polos: i riccioli castano scuro erano divisi alla sommità della fronte da una
scriminatura centrale, stretti alla nuca da un laccio nero. La veste era un
tramestio di pieghe, un alternarsi fumoso di sbalzi di luce, di grigio ferro e
baleni di tormalina.1
Nella semplicità degli occhi liquidi, neri come
terra bagnata, e nella piega carnosa delle labbra scarlatte, era una Fanciulla
più bella di qualunque Dea.
«Non temere» bisbigliò, rivolta a Stark «Egli è
destinato ai Campi Elisi.»
«No» replicò il figlio di Howard «Il Capitano verrà
con me.»
La moglie di Plutone spalancò le palpebre.
«Che dici?»
«Rendimi la sua anima.»
«Tony» intervenne Steve, avvertendo l’incredulità e
l’incomprensione singultargli in gola «A cosa servirebbe? Hai sentito Loki, non
ho più un…»
Stark lo ignorò, lo sguardo conficcato in quello di
Persefone.
«Rendimi la sua anima.» scandì.
La Dea, accigliata, corrucciò le labbra e la
mandibola si contrasse. Emanava una potenza ed una regalità talmente forti che
le ginocchia del Capitano tremarono; pur mantenendo l’illusione di essere alta al
pari di un essere umano, Steve la vedeva giganteggiare sopra le loro teste e
ciò che ordinava così sarebbe stato.
«In virtù di cosa?»
«Della nostra impresa.»
Natasha claudicò in avanti, un braccio attorno alle
spalle nude di Banner ed una mano del dottore a sorreggerle la vita. Un rivolo
di sangue le colava sopra l’occhio destro, i capelli, scarmigliati ed unti,
erano coperti di polvere e terra; la divisa nera era stracciata sotto il seno
ed un graffio rossastro si intravedeva già paonazzo sulla pelle bianca. Bruce
la teneva in piedi e la guardava con preoccupazione e profondo affetto.
«Siamo scesi…Fino alle tue porte per portare via il
Capitano» proseguì la russa, il tono debole e affaticato «Lascia tentare anche
noi, esattamente come fece Orfeo.»
E così dicendo, scostandosi di un poco da Banner,
Vedova Nera incespicò fino alla Dea e le porse il ramo d’oro, stretto tra le
dita spellate.
Persefone non rispose, ma con una lacrima a
scintillare tra le ciglia fini, prese il dono e sorrise.
Il Capitano non seppe spiegarselo, eppure le tenebre
dell’Ade furono strappate e stracciate: i capelli della Dea erano biondi di
grano e lei era bella come l’estate, meravigliosa e viva come la primavera.
Scintillava la rugiada sulle sue guance truccate di porpora ed il ventre era
cinto da fiori candidi, gli occhi avevano assunto il colore del miele.
Attoniti e strabiliati, stavano assistendo al
miracolo della Rinascita e lei era Persefone prima che l’Ade la ghermisse e l’Inverno
innevasse il suo cuore traboccante di linfa.
«E sia» accordò, sorridendo teneramente.
Una luce fioca segnò il cammino di un sentiero
scosceso, di arduo cammino ed immane fatica.
«Proseguite avanti e non vi fermate. Non guardatevi
indietro, mai, fino a quando non sarete usciti al sole ed al mondo dei mortali:
se verrete meno a questo, la sua anima sarà persa per sempre.»
***
Clint non era famoso per la propria pazienza e
quella volta era sicuro che un richiamo non glielo avrebbe tolto nessuno. Come
se avesse importanza, come se una nota di demerito o una tirata d’orecchi
potesse cambiare la situazione o anche solo avere un peso su quanto sentiva
gridare e urlare e sbraitare dentro la cassa toracica e nel fondo dello
stomaco.
Sbraitare contro Streiten chiamandolo “Vecchiaccio
della malora”, inveire perché facesse presto, maledirlo, bestemmiare in ogni
lingua padroneggiata -Ed erano tante, sebbene non paragonabili alla lista
praticamente infinita di Natasha-, farsi perforare l’orecchio dall’ordine della
Hill aggiuntasi non richiesta alla conversazione…
In poche parole, la situazione non volgeva a favore
di un rientro pacifico all’Hub.
Il problema non si poneva, comunque, giacché Clint
aveva deciso a priori che non si
sarebbe fatto vedere all’Hub, a meno di non avere un vivo e vegeto Phil Coulson
accanto. Qualsiasi rapporto, qualsiasi scempiaggine burocratica poteva e doveva aspettare quando in bilico c’era
la vita dell’Agente. Lo aveva lasciato morire una volta, non sarebbe successo
di nuovo.
Scansando i malconci Sitwell e Woo, ignorando le
proteste degli infermieri e gettando un’occhiata assassina ai poliziotti che
avevano tentato di fermarlo, rispondendo a male parole persino alla squadra di
recupero venuta per scortare Vermin a Ryker’s Island in pompa magna e il
Mutante direttamente all’obitorio, Occhio Di Falco montò sull’ambulanza e
s’appollaiò sulla panca laterale.
Gli pareva tutto così goffo l’affaccendarsi del
personale medico attorno alla barella di Coulson, tutto così approssimativo e
poco professionale.
Poteva scorgere il sudore intingere di rigagnoli
umidi del colletto e delle maniche della donna -Come sarebbe riuscita a
salvarlo, se non era nemmeno in grado di mantenere la calma?, e il ragazzo che
si stava occupando della ferita al ventre di Phil era troppo, troppo giovane,
sicuramente inesperto e aveva il polso che tremava e aveva gli occhi appannati
dalla tensione ed era bianco sulle tempie e rosso sulle mani, lì dove la pelle
veniva a contatto col sangue copioso, bollente.
Il colore fluiva dal volto di Phil allo squarcio
irregolare allo stomaco e in un attimo di sbandamento, di follia, Clint si
chiese se non sarebbe bastato mettere le dita a coppa sulla ferita perché non
fuoriuscisse, si fermasse, perché il fiato, il respiro non abbandonassero i
polmoni e il bronchi si dilatassero a far passare boccate d’ossigeno una più
profonda della precedente. Scacciò quel pensiero con uno scossone stizzito
della testa, la nausea che incollava i denti come mastice.
Occhio di Falco si portò le mani alla testa e
conficcò i polsi nelle tempie, strizzò le palpebre, contrasse la mandibola. Se
prima i rumori gli erano arrivati alle orecchie ovattati e privi di contesto,
se prima il tremolio dell’asfalto sotto le ruote era stato meno di un rollio
costante, se le mosse dei due davanti a sé possedevano la gommosa ottusità del
sogno, ora il reale stava prendendo di nuovo piede e il tempo aveva cominciato
a scorrere di nuovo e in fretta, troppo in fretta.
Boccheggiando, Barton ingoiò un ansimo e poi un
altro ancora e ancora e di nuovo fino a quando la fronte non ondeggiò e
l’intontimento gli permise di approcciarsi con maggior lucidità, per quanto
fosse un controsenso evidente, a ciò che succedeva.
Il pigolio ripetuto e affilato delle macchine gli
affondò nel cervello, la goccia pallida della flebo singhiozzò un singulto
bianco mentre scorreva fangoso dalla saccoccia fino al polso di Coulson.
L’arciere reclinò appena la testa sulla spalla, giacchè
non si ricordava proprio che le vene dell’uomo fossero tanto striminzite, come
graffi appena accennati, incisioni timide, un poco abbozzate sulla carne. Le
aveva baciate un numero infinito di volte, era stato in grado di sentire il
palpito del sangue sulle labbra e sulle lingue, eppure era certo, dolorosamente
certo, che se vi avesse appoggiato l’orecchio a malapena avrebbe colto l’armonia
cadenzata del battito cardiaco.
«Signore…» mormorò Clint, scendendo dalla propria
postazione e avvicinandosi al capezzale traballante di Phil «Andiamo.» torse
appena il collo ed ebbe coscienza dello stato pietoso in cui doveva versare
soltanto dalla maniera in cui la donna, sul punto di intimargli di stare
indietro, aveva contratto le labbra e s’era fatta da parte, perché potesse
sistemarsi meglio senza disturbare nessuno «Andiamo, non mi lasci così.»
«Barton» esalò Coulson, in un sussulto roco, e tale
fu lo stupore di Occhio di Falco che quasi si dimenticò di respirare
–Rispondere era una reazione troppo al di là delle poche facoltà mentale di cui
si trovava in possesso. «Barton, parlami.»
«Signore! Phil!» esclamò «Dio sia ringraziato!»
«Credevo…» continuò l’Agente, socchiudendo le
palpebre e lasciando intravedere un frammento unto di iride «Credevo che non
credessi in Dio.»
«Credo nel Dottore, che è un po’ la stessa cosa.»
Phil arricciò la bocca in quello che doveva essere
un sorriso, ma l’attimo dopo s’era già trasfigurato in un gemito di dolore:
sollevò i fianchi, lo stomaco eruttò un conato sanguinolento, costringendo il
paramedico ad intervenire e Clint a retrocedere.
Dai piedi della barella, ora, Barton intravedeva le
labbra pendule, macchiate di salive giallastra, dell’altro, il mento incurvato
grottesco contro lo sterno nel tentativo di assumere una posizione che gli
permettesse di guardarlo negli occhi senza ricadere con la nuca all’indietro.
Operazione non facile, però, considerando l’impedimento costituito dal collare
cervicale e da…Clint si impose di non far scorrere lo sguardo più in basso del
petto dell’uomo, si costrinse a mantenerlo dritto nelle sue pupille offuscate
–Ma Occhio Di Falco vede tutto, vede ogni cosa, e per quanto cercasse di
mantenere la concentrazione sulle rughe affaticate che accartocciavano la
fronte di Coulson, per quanto si fosse messo d’impegno a contare gli slabbri
già rimarginati alle guance e sotto gli zigomi, il segno indelebile della
coltellata dell’italiano era qualcosa che non poteva in alcun modo cancellare. Esisteva,
dannazione, e il bubbolio del sangue a contatto con le fasciature non smetteva
di ricordarglielo.
«Dovresti essere all’Hub.»
«Non la lascio solo un’altra volta, signore.»
Phil sbuffò una risata frammista a colpi di tosse.
«Non sei stato tu, Clint. Non sei mai stato tu.»
smozzicò, le parole rese scivolose e claudicanti dai farmaci e dalla coscienza
palesemente sempre più labile.
«Allora mi permetta di esserle accanto adesso.»
Coulson s’arrischiò a lanciargli un veloce
sorrisetto, poco convinto e poco vitale. Le cicatrici purulente che gli
insozzavano il volto si contrassero e uggiolarono, scricchiolanti, creando un
accartocciamento grottesco e nauseante.
«L’Agente Attis diventerà una furia» ridacchiò e
tossì «Il suo LMD si è rotto in mille pezzi.»
Clint avvertì distintamente un moto di rabbia bruciargli
la bocca dello stomaco: inveire contro Phil era l’ultima cosa da farsi, in una
situazione come quella, pur tuttavia non riuscì a trattenersi e il ringhio, il
grido, gli uscirono dalla bocca come vomito e come bile.
«La smetta di dire cazzate!» abbaiò «Lei non è un LMD! È per questo che mi sono
fidato!» la donna gli lanciò un’occhiata di fuoco, cui Barton reagì snudando i
denti e soffiando iroso «Nessun LMD avrebbe mai confessato di esserlo! Lei è
vero, Phil! Lei non è un LMD!»
«…Oh.» sussurrò l’altro, abbandonando la nuca
all’indietro, l’iride che scompariva, opaca e vitrea, dietro le palpebre sempre
più basse «Ma io non stavo parlando di me…»
***
«Sai, Reed stava quasi per farsela nelle mutande.»
«Johnny.»
«E’ vero! Sue ha pensato gli sarebbe venuto un colpo
apoplettico, io e Ben abbiamo scommesso si sarebbe bagnato i pantaloni prima di
svenire.»
«Johnny, ricordami un po’ perché sei salito con noi,
per cortesia?»
La Torcia Umana fece spallucce e appoggiò la schiena
alla parete dell’ascensore, passandosi la punta della lingua sulla piega
irridente della bocca. Richards lo fulminò con lo sguardo e Tony, dal canto
proprio, non ebbe il cuore di trattenersi da una breve, liberatoria risata.
Sapeva che Reed era in ebollizione e probabilmente
non aveva neanche dormito, ma la cosa, invece di fargli pietà, contribuiva ad
aumentare quel senso di euforia e gioia indomabile che esplodeva nel petto ad
ogni battito del cuore. Non erano passati nemmeno cinque minuti dacché l’anima
di Steve era deflagrata in una luminescenza accecante e lui era ripartito in
volo alla volta di Manhattan, che J.A.R.V.I.S. lo aveva avvertito di una
chiamata del Baxter Bulding. Era stato quasi di tentato di non rispondere, in
verità, poi un pizzico di egocentrica filantropia e il tono costernato, affrettato,
incredulo di Richards era rimbalzata da una curva all’altra del casco.
Abbassa la voce,
Reed! Lo aveva
ripreso Tony, ridendo ed esultando, ogni parvenza di serietà scomparsa dal
volto affaticato e incredibilmente eccitato Così
divento sordo!
Richards aveva preteso venisse subito al Baxter
Building, ma il magnate aveva rifiutato l’invito: aveva una cosa da fare,
prima. Aveva chiuso la comunicazione prima che lo scienziato potesse sciorinare
repliche e spiegazioni e balbettii e mani nei capelli e Tutto questo non ha senso, Tony! e, quando finalmente aveva
appoggiato il piede sulla piattaforma d’atterraggio della Tower, si era
disfatto in fretta dell’armatura, correndo fino al salone dell’attico.
Pepper, seduta sui cuscini del divano con una tazza
di the fumante in mano e gli occhi ancora rossi, aveva alzato di scatto la
testa e si era levata immediatamente in piedi. Tony era rimasto fermo, sulla
soglia, ad osservarla per lunghi minuti, senza il coraggio né la forza di dire
nulla, di interrompere quell’attimo di eterna sospensione che poteva e avrebbe
significato ogni cosa.
Non sapendo neanche come, si era ritrovato stretto
nell’abbraccio di Virginia. Il suo profumo nelle narici, sottopelle, i suoi
singhiozzi e la sua presenza erano stati una rassicurazione più calda del
sangue.
Avevano trascorso la serata e la notte così, in
silenzio, Stark allungato e protetto contro e da Pepper, le dita di lei che
scivolavano piano tra i suoi capelli.
Neil film fanno sempre vedere quei flash-forward al limite
dell’ansiogeno, con le nuvole che si rincorrono e sdrucciolano e si sfilacciano
e si rompono contro un cielo azzurro arancione rosso grigio blu, tutto
conficcato di stelle, tutto punteggiato, smerigliato e ingentilito appena da
qualche goccia di pioggia e dal mosaico luminoso delle finestre e dei palazzi.
E la gente parla e parla e parla, vomita eterni discorsi di incredibili,
pindarici confessioni e l’Universo potrebbe anche mettersi il cuore in pace,
l’ONU dichiarare la cessazione di ogni conflitto se solo simili discorsi
potessero farsi davvero, se solo simili discorsi davvero esistessero.
Niente di questo accadde, insieme a Pepper.
Il minuti si trascinarono lenti, il mattino si fece
attendere come una diva non ancora pronta a mostrarsi sul filo sospeso
dell’orizzonte. Non si erano detti nulla, se non un Ora devi andare mormorato, bisbigliato nel dormiveglia degli occhi
spalancati sui primi balbettii dell’alba.
E adesso che Tony era stato lasciato solo e Johnny
aveva convinto Reed a concedergli un po’ di privacy –A volte quel ragazzo lo
stupiva: dietro la dabbenaggine perfettamente inscenata nascondeva una profonda
umanità di pensieri che al confronto persino Steve avrebbe sfigurato-, il
magnate ringraziò mentalmente Pepper per il caldo tepore della presenza che
ancora aleggiava attorno a lui.
Con le proprie, uniche forze, altrimenti, non
sarebbe mai stato in grado di affrontare il passo oltre la soglia, il lampo
luminoso dei macchinari contro il viso nell’istante in cui le porte scorrevoli
gli avevano accordato l’accesso.
La stanza era bianca. Immota.
Pannelli bianchi alle pareti. Lastroni bianchi del
pavimento. Rettangoli bianchi incassati al soffitto. Finestre sottilissime e
oblunghe, incorniciate di bianco. Macchinari pigolanti e bianchi.
Un letto, bianco, nel centro –Un corpo disteso,
vestito d’un camicie azzurro tenue.
Lenzuola ruvide. Bianche –Due mani, appoggiate su di
esse, spolverate di pallido rosa.
Cuscino bianco –Capelli biondo cenere, ciglia finissime,
spruzzate di pulviscolo dorato, labbra soffuse di rosso.
Susan aveva posizionato una seggiola blu proprio
accanto al materasso, sotto i computer. Il loro pigolio era così intenso che
Tony sentì il cuore comprimersi nel petto. Sugli schermi neri passavano e
sfilavano nastri di dati, segmenti di battiti, pulsazioni e respiri;
srotolavano incessanti il cammino della vita, mettevano prepotentemente in
mostra l’esplodere inconfutabile dell’esistenza.
Stark avanzò di un passo e poi un altro, un altro
ancora, punta di dita sfiorò il dorso di quella mano adagiata sulla coperta: il
calore che emanava la pelle era appena percettibile, ma per il figlio di Howard
era come se andasse a fuoco.
La sentì arroventargli la carne attraverso lo spazio
e l’aria e l’ossigeno, quel barlume di calore scoccò simile a fiamma lungo le
vene e si sostituì al sangue, gli diede nuova forza.
Si accomodò sulla sedia, accavallò le gambe.
Un singulto dei macchinari ed un tremito delle
palpebre chiuse. Un suono roco dalle profondità della gola, di chi è sul punto
di svegliarsi da un sonno pesante, di chi si sta liberando faticosamente dalle
catene del sogno. Sulla bocca di Tony affiorò un sorriso.
Alle labbra di Steve arrivò un respiro talmente
profondo che l’altro lo avvertì fin dentro le ossa.
«Buongiorno, Capitano.» lo salutò Stark,
innegabilmente divertito.
E fiero, anche. E soddisfatto. Usare un Life Model
Decoy per la camera ardente e tenere Steve in refrigerazione forzata al Baxter Building per evitare qualsiasi processo
di decomposizione -Nonché il controllo medico costante di Reeds, che nonostante
la somma genialità di cui era in possesso faticava a coordinare pensieri logici
complessi- era stata un’idea al limite del patetico. E, visti i risultati,
piuttosto azzeccata.
Il primo che gli ricordava di avere una lieve tendenza al sovra-reagire sarebbe
stato mandato al diavolo senza possibilità di appello e calciato via in un
punto imprecisato del globo terracqueo.
Possibilmente Timbuctù.
Steve emise un gemito disfatto, aggrottando la
fronte. Deglutì un paio di volte prima di riuscire a prendere parola, le nocche
che si flettevano per far ripartire la circolazione. Piegò la testa sul
guanciale, inspirò a fondo. Una contrazione agli angoli delle palpebre, il
tremolio delle ciglia e finalmente, Dio,
finalmente il Capitano riaprì gli occhi sul mondo.
Il fiato di Tony s’incrinò.
Come diceva il ragazzo schizzato di American Beauty?
A volte c’è così
tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla…Il mio cuore sta per
franare.
Un sorriso stanco si profilò nello sguardo e
nell’espressione serena, esausta, tranquilla e scanzonata di Steve.
«Per favore.» mormorò «Dimmi che nessuno mi ha
baciato.»
«Bhè. A questo, Capitano, possiamo sempre porre
rimedio.»
Cor Mortem Ducens
#10 American Beauty
1 Persefone, di Rossetti.
Inizio
processo cancellazione dati.
«Sto parlando da solo.
Volevo dettare una volontà o qualcosa
del genere, ma sono molto lontano dall’essere in grado di intendere e di
volere. Anzi…Nella mia testa non è rimasto molto.*»
Processo
cancellazione dati.
Avvio.
«Sembra ci siamo solo io e te, amico.
Tu ed io contro il mondo.*»
Avvio
registrazione.
[ Crepitio. ]
[ Interferenze. ]
[ Compare un volto. Stanco. Emaciato.
Sudato. Barba incolta. Occhi folli. Sguardo spaesato. È Tony Stark o una
parvenza di ciò che Tony Stark è stato e forse non sarà più. Tiene un microfono
in mano. Cavi ovunque. ]
«Sono convinto che…Sia cominciato
tutto con la morte di Clint. Non chiedermi da dove mi venga questa certezza.
Non lo so. Non so più niente.
L’ho dimenticato.
Qualcosa mi dice che è così e io non
posso negarlo.
Lo ricordo, sai? Il viso di Coulson.
Se avesse pianto sarebbe stato meglio. Se avesse gridato avrebbe esorcizzato l’orrore
e reso i nostri cuori meno pesanti.
Ma credo non ci fosse più voce in
lui. Solo silenzio.
Ha lasciato i ranghi. Ha dato il benservito
a Fury.
Il dolore lo ha fatto uscire pazzo.
Vaneggiava della Casata Maximoff, dei
Mutanti, di Clint. Diceva che era vivo, che l’aveva visto, che abitavano
insieme in una casa a Long Island. Parole senza senso.
A che pro ascoltarlo? Delirava.»
[ Tony Stark si stringe la radice del
naso tra le dita. Ha le nocche sbucciate. I polsi tremano. ]
«Non mi andava di ricordarlo così,
però. Preferisco pensare ad Agente mentre alza il bicchiere di Pepsi e annuncia
l’imminente matrimonio con Barton.
Quando è stato, Steve?
Eravamo in qualche locale bislacco,
sì, dopo una missione contro Viper e i suoi sgherri.
Due giorni dopo mi sono cimentato in
un comizio logorroico e magniloquente davanti alle Nazioni Unite.
E Agente tirava indietro la sedia,
Barton roteava gli occhi pesti a guardarlo da sottinsù.
Due giorni dopo, ubriaco come una
spugna senza aver bevuto un goccio di alcool, ho minacciato l’insigne delegato di Latveria.
“Ci sposiamo.”
Due giorno dopo, Clint mi ha voltato
le spalle, tu sei stato l’unico a credermi.
“Tu e chi?”
Due giorni dopo, la Tower è esplosa.
“Io e Clint.”
Due giorni dopo, Barton è morto.»
[ La voce si interrompe. Tony Stark
contrae la mandibola. ]
«Non volevo ricordarlo così.
Non volevo.
Dio, quanto erano stupide e felici le
loro facce.»
[ Sta piangendo. Non se ne accorge. ]
«Non importa. Tanto non lo ricorderò.
Clint è morto.
Quando è stato, Steve? Anni? Ore?
Minuti? Settimane?
L’ho dimenticato.
L’ho dimenticato, tuttavia è stato il
mio campanello d’allarme.
Perché no. Non è iniziato tutto con
la morte di Clint. È iniziato prima e dalla morte di Clint il tempo è franato e
non riuscivo a raggiungerlo, lo rincorrevo senza posa, ma era sempre davanti a
me, mai dietro.
Ricordo lo spirito di mia madre, sul
ciglio dell’Ade.
Impalpabile come nella mia memoria.
Intangibile come lo è stata nella mia vita.»
[ Gli occhi si perdono appena, lo
sguardo si offusca. Un ronzio del microfono, scintille dai cavi. Il nastro non
fa rumore. ]
«Ti ho sposato con la sua maledetta
profezia nel petto. Ce l’hai fatta, hai visto, a farti mettere un anello al
dito? Eravamo sulla spiaggia e Pepper camminava sulla battigia, si teneva il
vestito per timore di bagnarlo. Come nella mia visione.
Il cielo era sgombro, non c’era
tempesta, ma quell’azzurro era solo illusione.»
[ Qualcosa si incrina e la figura di
Tony Stark si accartoccia, come quella di un bambino che cerca protezione in se
stesso e difesa contro il mondo nelle spalle chiuse. ]
«La morte di Clint è stato il primo
boato.
Quando Nitro è esploso, la pioggia
stava cadendo su di noi già da tempo.
Guardo il servizio al televisore,
quando tu arrivi. Non hai vestiti addosso, il bagliore dello schermo ti si
rifrange sulla pelle. Abbiamo fatto l’amore, hai ancora il mio odore addosso –Putrefazione,
lo sento. Colpa, lo ammetto.
Hai graffi sulla schiena, io un
livido sul collo.
Sono nervoso. I battibecchi sono più
pesanti.
Sta arrivando, Steve. Cosa? Non lo
so. E intanto Stamford brucia.
Non aveva nome, lo avvertivo. Sapevo
cosa sarebbe successo, non avevo previsto in che modo. Non ho voluto affrontare
le conseguenze. Non le ho messe in conto Ho peccato.
Perdonami, Capitano, perché ho
peccato e ora sbriciolo tra le dita una messe di pianto, di ricordi che perdo e
dimentico di possedere.»
[ Tony Stark sospira. Un gemito di
dolore gli accartoccia il viso. Una goccia di sudore gli scivola alla tempia
sinistra. ]
«”Cosa succede?”, mi chiedi.
Nulla. Prendi la mia mano. Andiamo a
letto. Narcotizziamoci di baci e di ansimi. Addormentiamoci.
Stretti sotto una coltre cieca, il
mondo non ci vedrà.
“E’ cominciata” dico.
E’ finita, concludo.
È finita e non mi ricordo quando è
iniziata.
Ricordo solo il tuo volto, Steve, ed
è bello. Troppa bellezza nei tuoi occhi, fammi morire, fammi morire, Steve,
fammi morire, perché io possa assaporare in eterno la bellezza della tua vita
che ora mi è preclusa.»
[ Tony Stark si passa il pugno sugli
occhi chiusi. Quando lo sposta, la sclera è rossa, un intrico di arzigogoli
scarlatti. ]
«Registro un messaggio, nessuno lo
ascolterà.
Incido una preghiera sulla mia pelle,
leggila nel mio sangue.
Apri le braccia, quando arriverò.
Fammi appoggiare la testa sul tuo cuore. Sarò stanco. Riposerò di una morte più
dolce della vita intera.
Con la tua voce cancella le oscure
parole di mia madre. Strappa i cavi che ho sulla nuca. Affonda le dita nella mia
mente vuota. Illumina col tuo affetto i miei occhi grigi.
Guarda il mio corpo privo di
significato. Guarda le mie labbra bianche, le mie palpebre chiuse.
Chiedimi: “Ne è valsa la pena?”
Me lo hai già chiesto. Quando ti ho
risposto, non potevi più sentirmi. Troppo tardi.
Il tempo era davanti a me. Non ero
stato capace di fermarlo.
Ma presto non lo ricorderò.
Non lo ricordo più.
Ci sono cose nella mente di cui i
cattivi vogliono impossessarsi. Quindi più tempo passo attaccato ai generatori
a repulsori…E più tempo durerà il processo di cancellazione della memoria…Significa
che non sto solo perdendo le mie conoscenze. Ma anche i miei ricordi*.
Cancello ogni cosa, sono l’orma che
il mare trascina con sé.
Non ci sono passi, dietro di me.
Sono stanco, ma per quello che
ricordo, ossia sempre meno, ormai nulla, sono sempre stato fermo.
Immobile.»
[ Un singhiozzo gli sale alla gola,
ma Tony Stark lo reprime. Poi non lo nasconde e lo lascia libero. Trema. ]
«Eri bello, Steve, quando ti ho
sposato. Vorrei sposarti dieci, cento, mille volte. Solo per dire Sì. E sentirti rispondere.
Ricordo il tuo viso.
Sta svanendo.
Nebbia.
Impalpabile.
Intangibile.
…Quegli occhi---»
Registrazione interrotta.
Attenzione: dati corrotti.
Impossibile salvare.
Non
dovevi venire, figlio mio.
Oh!
Una decisione ti ha portato qui…
Una
decisione lo farà tornare nell'Ade.
Note Finali
(Questa volta per davvero)
(*)
Iron Man Requiem, Gennaio 2010
E quindi.
Cor Mortem Ducens si è conclusa.
Ringrazio Alley dal profondo del cuore, perché è una mogliaH bellissima e
adesso mi vorrà uccidere.
Ringrazio Ino Chan, bunnybenny, cory94, Crissoluv, Iceathena, Irina_Yermolayeva, Iron_Lady,
Kighto, Lakky, s t r e g a t t o, The_Lazy_Fangirl, Lady White Witch, Alpha
Hydrae, Bee S, Black Air, dandelionandburdock, Endimione, F 13, GretaJackson16,
ipp0po, Julia 98_8, LightCross, Lori Liesmith, Misako 90, Nanna 12345,
Nemenorse, Runarvisa, Saeros25, Selvy, Shannara_Sharel e Zia Enne.
Grazie a tutti voi.
Fin.
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