L'Angelo

di Misaki Ayuzawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** XIX ***
Capitolo 20: *** XX ***
Capitolo 21: *** XXI ***



Capitolo 1
*** I ***


 

L’Angelo

Mia madre mi ha sempre detto di pregare, perché, finchè lo avessi fatto e mi fossi comportato bene, nulla di brutto mi sarebbe accaduto. Devo averlo fatto arrabbiare tanto Dio, allora. Mi chiedo perché … forse ha voluto punirmi per aver rotto la bambola di Cecily? O per aver mangiato l’ultimo pancake della mamma? O, ancora, forse non dovevo proprio giocare con Ella con i pugnali di papà.
Forse, semplicemente, sono stato punito per la curiosità: non avrei mai dovuto aprire quella scatola, quella pyxis. Curiosità. Anche Odisseo fu punito per la sua curiosità. Lui voleva arrivare ai confini del mondo, ma è morto. Io volevo sapere cosa mai si celasse nel passato di papà, ed è stata Ella a morire.
Ingiusta la vita, talvolta. Tu compi uno sbaglio e sei disposto a pagarne le conseguenze, eppure ci va di mezzo sempre un’altra persona.
Ad ogni modo, sono deciso nel fare quello che sto facendo: mai più amore nella mia vita, mai più … non so ancora, con precisione, come farò ma è l’unico modo per assicurarmi che la mia famiglia stia bene e poi, i Cacciatori sono gente cattiva, mamma non fa altro che ripetercelo, non si affezioneranno di certo ad un nuovo arrivato scontroso. Perché dovrò esserlo, scontroso, anzi, di più: insensibile.

Assurdo come sia facile da imparare, l’arte del fingere. Se non mi stessi allenando, ogni giorno, per diventare davvero bravo con i coltelli (la direttrice dell’Istituto mi dice che sapere utilizzare i coltelli non mi servirà più di tanto e che mi dovrei esercitare di più con l’arco o la balestra, ma io trovo così spettacolare i movimenti che non posso farne a meno) vorrei fare l’attore, mi sento molto portato.
Il segreto è leggere e osservare. Osservare le sfumature di comportamento e le azioni della fiumana di Cacciatori che ogni giorno è di passaggio nell’Istituto di Londra, per parlare di “politica” e azioni di attacco con Charlotte, e seguire, aiutati da una runa dell’invisibilità, i Mondani. I Cacciatori li reputano inferiori, non lo dicono mai apertamente perché credono di essere i loro protettori, ma se ce ne curassimo di più, saremmo più forti, più ingegnosi. Di sicuro io ho tratto insegnamenti preziosi dal caro popolo londinese.
Poi c’è la lettura: uniamo l’utile (come risultare così fastidioso e irritante da portare le persone a non rivolgerti nemmeno la parola? Chiedetelo a William Makepeace Thackeray) al dilettevole. I libri mi fanno credere che c’è chi sta peggio di me, anche se ammetto che consolarmi con le disavventure di personaggi immaginari non è esattamente una cosa da persone normali, non che io mi creda sano di mente, anzi sto valutando, ultimamente, la possibilità di farmi visitare da uno strizzacervelli mondano … Ad ogni modo, trovo che la lettura sia l’unica via per dimenticare, per ore e ore, tutto quello che mi assilla, per dimenticare gli incubi, per dimenticare le immagini nitide che hanno preso d’assedio la mia mente e che di andarsene non ne vogliono sapere nulla.

Qui all’Istituto sono, ahimè e contro ogni previsione e speranza, gentili con me. I coniugi Henry Branwell e Charlotte Fairchild fanno di tutto per farmi stare bene e a mio agio, anche se, sarò sincero, tutta la situazione è diventata imbarazzante da quando i miei genitori sono arrivati piangenti a Londra, implorando Charlotte di farmi andare da loro … è stato doloroso e difficile, ma sono riuscito a sfuggire alla tentazione di tornare a casa.
Comunque, Henry (sono persone davvero informali) se ne sta tutto il giorno nel suo laboratorio a costruire macchinari vari che, testuale, “un giorno saranno indispensabili per svolgere al meglio il nostro lavoro!”
Charlotte, invece, manda avanti la baracca. La ammiro molto, è una donna minuta ma ha una tale forza d’animo … tutti gli spocchiosi Cacciatori dell’Enclave la trattano come se non fosse degna di occupare la sua importante posizione, ma io credo che il lavoro che fa lei non lo saprebbero svolgere neanche in dieci.
Poi c’è una ragazzina, più o meno della mia età, si chiama Jessamine Lovelace. Mi assomiglia, credo, io però sono meno capriccioso. Ha una certa ritrosia nel relazionarsi con Charlotte e Henry e, inoltre, prende raramente parte all’addestramento o alle lezioni di lingue. Non la conosco bene, ma capisco questo suo antipatico comportamento: i suoi genitori, come i miei d’altra parte, avevano pessimi rapporti con l’Enclave, e alla loro morte, il Consiglio non ha esitato granchè a prendere quella dodicenne e a chiuderla, contro la sua volontà, in un mondo che odia, confiscandole i non pochi beni che possedeva.
I pomeriggi li passo, quando non mi alleno da solo o studio o leggo, con Thomas. E’ un Mondano con la Vista ed è simpatico. Non ho stretto con lui una forte amicizia ma è ovvio che è questo il mio obiettivo, sarebbe preoccupante il contrario. Poi, ci sono Sophie e Agatha. Sophie mi odia, si insomma: cosa può fare arrabbiare una cameriera se non una camera costantemente infangata e disordinata? Agatha mi adora (anche io la adoro … insomma, fa dei dolci al cioccolato così buoni che neanche il Diavolo riuscirebbero a provare sentimenti negativi!) ma non in modo pericoloso. Marbas ha detto: chiunque ti amerà, morirà. Non farò innamorare o provare sentimenti così forti per me alla cuoca.

Spazio autrice: 
Salve! Mi è venuta in testa questa idea di descrivere un pò la vita di William Herondale perchè, in quanto si tratta del mio personaggio preferito in assoluto, non solo nel mondo di Shadowhunters, trovo sempre che su di lui ci sia scritto molto poco. Per la qual cosa, ho deciso di buttare giù qualche capitolo in suo onore. Mi auguro che vi sia piaciuto, perchè, insomma, se non vi è piaciuto evito di pubblicare eventuali seguiti e me li tengo per me (dovrei prima scriverli ma ... dettagli!)
Se volete, fatevi sentire. Alla prossima, spero.

 

 

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Capitolo 2
*** II ***


L’Angelo

Apro gli occhi, costretto a svegliarmi dalla luce che penetra dalla finestra. Mi passo una mano sulla fronte: sono sudato. Ho sicuramente avuto un altro dei miei incubi, ma mi costringo a non pensarci troppo. Mentre mi alzo, lentamente, facendo leva con le braccia, sento un tonfo … ho fatto cadere il libro che stavo leggendo ieri sera, fino a quando non mi sono addormentato. Mi chino e raccolgo il volume; sulla copertina di pelle nera è impresso in caratteri d’oro il titolo: Racconto di due città. Estremamente melenso, pieno di così nobili sacrifici … Dickens è sopravvalutato, ma bisogna dire che a volte, nel descrivere le situazioni familiari ma, soprattutto, il sentimento, è bravo. Quelle che scrive sono fondamentalmente delle tragedie, ma alla fine di ogni suo romanzo intravedi uno sprazzo di luce. Per l’appunto, è un romanziere: deve per forza mostrare un po’ di speranza, tra le righe.

La colazione è servita e afferro un paio di fette di pane tostato, le affogo nel burro e, dimentico della malinconia del mio risveglio, mi preparo ad affrontare una nuova giornata, uguale a quelle precedenti … o forse no?
Charlotte fa irruzione nella sala da pranzo con una lettera in mano ed Henry alza lo sguardo verso di lei con aria interrogativa, improvvisamente strappato a qualsiasi idea gli stia frullando in testa e non prestando attenzione al posino sbottonato della camicia, quando un lembo del tessuto giallo si sporca d’olio.
“Ho ricevuto questa missiva proprio ora, è del Console Wayland.” Comincia lei e lancia un’occhiataccia a Jessamine, che continua imperterrita a bere il suo tè, apparentemente disinteressata. Charlotte prende un respiro, rassegnata, e continua a parlare: “Il Console ci informa che domani arriverà da Shanghai un nuovo Cacciatore. Ha dodici anni come te Will, potreste andare d’accordo, non credi?”
Storco la bocca in una smorfia. “Non ho bisogno di nessuno, sto bene così. E poi, perché questa persona dovrebbe venire a stare qui? Se ti preoccupi che io abbia un
compagno di giochi evita, grazie.”
Charlotte ignora la mia provocazione e torna a rivolgersi a Henry. “Il Console ha allegato una lettera di mio padre, in cui mi spiega la sua situazione. Un demone ha ucciso i suoi genitori, povero ragazzo … Lui stesso ha rischiato la morte, ma è riuscito a sopravvivere. Con l’aiuto di una sostanza,
yin fen, riesce a stare bene.”
“Ottimo; ti sono grato per essere stato informato ma non mi importa.” Continuo metodicamente a spalmare burro.

Scalpiccio di cavalli … il frastuono delle ruote della carrozza dei Fratelli Silenti contro l’acciottolato di Fleet Street arriva fino alla sala dell’addestramento, posta in uno dei piani più alti dell’Istituto. Presto questo James Carstairs entrerà a far parte di questa grande famiglia … diamo inizio ai festeggiamenti! Una nuova persona da umiliare. Mi sono in questi mesi, tuttavia, allenato a trattare con coetanei. Ci sono questi figli di Benedict Lightwood tanto insopportabili quanto pieni di sé. La più giovane, Tatiana, è assolutamente ridicola. Ad ogni benedettisima festa, riunione o, comunque, alla minima occasione di stare vicino me, con i cappelli adornati con fiocchetti rosa e fiorellini, mi si attacca come una piovra pregandomi di darle un bacio o di sposarla. Irritante. Poi, Gideon e Gabriel. Il primo è taciturno e i suoi tentativi di socializzazione nei miei confronti sono pari alle capacità intellettive di una mosca, il secondo è più vivace e, credendo di farmi un favore, insiste ad allenarsi con me … Diventerà uno snob, tendo semplicemente ad ignorarlo.

Sento la voce di Charlotte presentarsi e quella di Henry accogliere calorosamente il nuovo arrivato, la voce di quest’ultimo però non giunge alle mie orecchie. Mi concentro sul bersaglio: mi metto in posizione, afferro il coltello per la punta della lama, prendo la mira e lancio. Dannazione! L’arma si è andata a conficcare a svariati centimetri di distanza dal centro del bersaglio. Se mamma fosse qui mi riproverebbe per due ragioni: Punto primo: si va sempre incontro agli ospiti, volenti o nolenti; Punto secondo: una brava persona non impreca, mai e poi mai. Purtroppo, mamma, non sono più una brava persona da molto tempo, ormai.

Spazio autrice: Ecco il secondo capitolo di questa long ... non ho molto da dire, tranne che precisare una cosa; non ricordo (e non riesco a trovare la conferma) la risposta a questa domanda: "Charlotte era già direttrice dell'Istituto, all'arrivo di Will?" Io credo di sì e dunque mi sono presa la licenza di metterla in questi termini, se ho compiuto un errore, perdonatemi. Infine, non mi sembra che sia specificata la collocazione temporale dell'"incidente" con Tatiana, per cui la propondo in epoca dopo Jem. Che dire, spero vi sia piaciuto il capitolo.
Au revoir.

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Capitolo 3
*** III ***


L’Angelo

Bene, fino a poche settimane fa credevo che la mia vita sarebbe stata piatta, insignificante e senza valore in tutti i sensi che contano … e invece, mi è stato mandato un angelo. Non credo di meritarlo ma questo suo essere costantemente sul filo del rasoio mi aiuta a fare a meno di allontanarlo. James Carstairs, Jem, riesce a tirare fuori il candore che c’è in me, che risale a quando ero un bambino.
Ero prontissimo,quando Charlotte me lo ha presentato, a respingerlo, ferirlo. Non sarebbe stato difficile, con quei capelli striati di grigio e le ossa e gli zigomi sporgenti,trovare degli insulti pungenti, ma la sua schiettezza mi ha frenato. Semplicemente, ho capito che può essere la mia salvezza e sono consapevole dell’egoismo di questi pensieri ma … no, non posso farne a meno: lui sta morendo, lentamente, e io provoco la morte; la decisione è quasi spontanea.

“Che ne dici di farti battere ancora una volta, Jem?” Mi sto annoiando e questa è l’unica idea che mi viene in mente, mentre sbuccio oziosamente una mela.
“In quale arte, per l’esattezza?” Jem non alza nemmeno lo sguardo e si limita ad abbassare la tonalità del suono del violino, sfregando metodicamente e con calma l’archetto sulle corde dello strumento.
“Quella che vuoi, sono in ogni caso nettamente superiore.”
“Allora credo di aver sognato quando ti ho visto uscire dalla sala di addestramento tutto contrariato con un occhio pesto e il labbro spaccato.” Faccio un sorriso, anche se Jem non mi può vedere, dato che tiene gli occhi chiusi. Lo fa sempre quando suona, credo che lo aiuti a rilassarsi, ed è abbastanza bravo da non dover guardare le corde, le sue dita sanno esattamente come muoversi.
Io non parlo più e così anche lui … è stanco, non si sente bene. Dovevo capirlo.

Sto leggendo il Codice, seduto su una poltroncina in biblioteca. È praticamente la quinta volta che leggo questo volume ma mi sembra giusto dargli una sbirciatina una volta ogni tanto; dopotutto, si tratta del fondamento su cui si basa tutta la tradizione della nostra rinomata società; rinomata un corno, passiamo le giornate (in realtà io ancora non ho ricevuto nemmeno una missione, ma accadrà presto, spero) a combattere demoni e a salvare la pelle di Mondani più o meno meritevoli, chi sono io per giudicare?, eppure non riceviamo il minimo riconoscimento. A quanto ho capito, alla nostra morte veniamo cremati e posti in un ossario a Idris, la patria dei Cacciatori dove non sono mai andato, oppure diventiamo materiale da costruzioni per espandere la Città Silente, c’è un motivo se la chiamano Città di Ossa. Ma il punto è che non rimane traccia di noi, da nessuna parte: noi Nephilim siamo tutti valenti e dovremmo compiere, nelle nostre vite a servizio dell’Angelo Raziel, opere davvero sbalorditive, per rimanere nella memoria comune.
Preso come sono dalle mie considerazioni sulla vita di noi eroi, non ho sentito Sophie entrare.
“Signorino Herondale, Charlotte vi prego di prepararvi e di raggiungere gli ospiti alla festa.”
Alzo gli occhi al cielo e rispondo sgarbatamente con qualcosa simile ad un “Arrivo.”
Natale. Questo è il secondo Natale che passo senza la mia famiglia, non è che sia proprio in vena di festeggiare e, tra le altre cose, so che in sala, ad aspettarmi, c’è Tatiana Lightwood.

Come volevasi dimostrare, con un vestito rosso che la fa sembrare un panettone candito, la graziosa figura della Lightwood procede a passi soavi nella mia direzione. Porta sotto braccio un quadernetto rilegato con una copertina raffigurante fiori primaverili di ogni genere e nell’altra mano ha una busta, che mi porge; infine, ridacchiando civettuola e arrossendo in viso, si allontana e raggiunge le suo amiche. Mi sento osservato, molto osservato. Solitamente non presto molta attenzione alla mia immagine ma evidentemente le “signore” notano e provano piacere nel contemplare i miei lineamenti, sento anche i commenti degli adulti molto spesso che sono più o meno questi: “Oh, un ragazzino così diventerà di certo un bell’uomo, peccato per la sua famiglia … Davvero uno sfortunato evento. Edmund Herondale è stato una vera e propria delusione … E poi ho sentito che questo William ha un caratteraccio. Ma si, ma si, lo so per certo: Benedict Lightwood mi racconta delle risposte agghiaccianti che riceve, quando tenta di scambiare due parole con lui …”
Apro la lettera e tiro fuori il foglio. Le frasi sono scritte con questa grafia tipicamente femminile ricca di ghirigori.
Mio caro William, in questa notte di Natale non potresti essere più splendente e affascinante” eccetera eccetera eccetera. Salto tutto il corpo della lettera e passo alla fine. “Vediamoci a fine serata sotto il vischio. Tatiana Lightwood,
“Chi è che ti manda gli auguri di Natale per posta?” Jem si avvicina, sorseggiando il suo tè. Beve davvero troppo tè questo ragazzo, non capisco come possa essere sempre talmente calmo, con tutta quella teina che gli circola in corpo.
“Tatiana Lightwood spera che la magia del vischio mi faccia innamorare perdutamente di lei.”
Jem solleva le sopracciglia. Non ci vede nulla di male, lui. Io, invece, non voglio provocare morti indesiderate.
“Beh, se non ti piace diglielo chiaramente e falla finita.” Jem non ama le cose cruente, per lui tutto si può risolvere con un bel discorso ma, purtroppo, non sono mai stato un diplomatico e la mia mente è diventata ingegnosa. Fa quasi impressione quanto una personalità possa modificarsi in così poco tempo e odio come sono diventato, ma mi ci devo abituare.
“Hai proprio ragione, James.” Povero Jem, so già che, domani mattina, mi farà una bella strigliata, così come Charlotte.
Mi allontano dal mio amico e mi avvicino al covo di galline tra le quali c’è anche Tatiana. La ragazzina si è dimenticata il suo quadernetto su una sedia lì vicino. Sperando che nessuno mi veda, lo afferro e lo nascondo, con la massima calma e lo sguardo rilassato, nella tasca interna della giacca. Non appena raggiungo un angolo appartato lo apro e inizio a leggere, credendo di trovare qualcosa che mi possa interessare e, infatti … ci sono intere poesie su di me, in questo diario, dove lei si firma Tatian Herondale (storco il naso: non ci sarà mai una signora Herondale, per me, ma ormai la cosa l’ho accettata da molto tempo e il fatto di non essere un gran romantico mi aiuta.)

Scocca la Mezzanotte: è l’ora stabilita da Tatiana. Mi reco sotto il vischio, proprio al centro della sala, e prendo a sfogliare il quadernetto, deciso a leggere a voce alta e squillante la poesia più imbarazzante dell’intera raccolta. Pochi secondi dopo arriva anche Tatiana, sotto lo sguardo vigile dei suoi due mastini, ops … rettifico, fratelli.
Già la ragazza dai capelli color sabbia si sta protendendo verso di me, le labbra sporgenti ma, non appena io do qualche colpo di tosse per attirare l’attenzione di più persone possibili e le sventolo sotto il naso il quadernetto, lei diventa paonazza.
Io, invece, comincio a declamare: “Occhi blu come il mare/ una marea che mi assale;/la tempesta, in confronto/non può farmi alcun torto./E’ un principe,/no! Di più,/è un re che vien da lassù./Corvini capelli,/sono i più belli./ Un giorno mi amerà/ e allora mi sposerà!/ Scritta e composta da Tatiana Herondale.” Calco volutamente queste ultime parole.
Il tutto, allora, diventa agghiacciante. Consegno il quaderno a Tatiana, che nel frattempo, umiliata, è scoppiata in lacrime e, fatto ciò, reagendo da persona matura, come un treno in corsa si catapulta fuori dalla sala. Gli adulti mi fissano come se fossi il Diavolo sceso in terra pronto ad aprire i cancelli per l’Inferno in quel preciso momento, Gideon Lightwood mi guarda dall’alto in basso e poi, lentamente e con nonchalance, se ne va. Da lui non ricevo neanche una parola di biasimo, dal fratello, invece, vengo attaccato alle spalle. Per fortuna, sento i suoi passi risuonare pesanti dietro di me e mi giro all’ultimo secondo, giusto in tempo per afferrare le braccia del mio aggressore e scaraventarlo a terra. Si sente una sorta di “crack” e il suo volto si contorce in una smorfia di dolore, mentre si alza stringendosi il braccio. Io me ne vado, sotto gli occhi di tutti i presenti. Nessuno cerca di fermarmi o di punirmi.
Poco dopo, scopro che il braccio di Gabriel è rotto. Tanto meglio, è un idiota.

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Capitolo 4
*** IV ***


L’Angelo

Le strade di Londra, ricoperte di neve candida, sono deserte. Non c’è traccia persino dei questuanti, ma io, per evitare seccature, prima di uscire mi sono imposto sulla parte interna del polso la runa dell’invisibilità. E’ per questo che mi irrigidisco quando una voce profonda, quasi irreale, prorompe, nella nebbia: “Non ci sono demoni da queste parti, giovane Cacciatore.”
Direi che è solo frutto della mia immaginazione, ma sono sicuro che qualcuno mi ha parlato, che qualcuno mi ha visto, e che non si è trattato del semplice soffio del vento. Eppure, intorno a me, non vedo nessuno.
“Sono qui, giovane Cacciatore, proprio di fronte a te.”
Osservo meglio e inizio a distinguere la sagoma evanescente di un uomo: porta una papalina e un pigiama a righe svolazza intorno al corpo ossuto e raggrinzito, ma non riesco a distinguere i colori, anche se sono abbastanza sicuro che i pochi capelli che escono fuori dal cappellino siano bianchi.
Non sono spaventato, non più. So esattamente chi è, o meglio, cos’è quell’uomo: un fantasma. E’, tuttavia, estremamente raro che si mostrino …
“Non essere così stranito, Cacciatore. Sono sicuro di non essere il primo fantasma che vedi.” Il vecchio agita una mano, ma non capisco la sua espressione, dato che dove un tempo c’erano gli occhi, ora ci sono solo due orbite vuote.
“Qui ti sbagli, non ho mai avuto un onore del genere.” Non ho intenzione di stare qui ancora a lungo ad intrattenere una conversazione con un morto, tuttavia non voglio destare nuovi rancori.
Il fantasma mi ignora e, dopo avermi fissato, almeno, credo che mi abbia fissato, per qualche momento, dice, quasi pensieroso: “Sei la prima persona a cui riesco a mostrarmi. Devo chiedere un favore a qualcuno e tu mi sembri un tipo sveglio.”
Lo guardo storto ma lui non pare accorgersene, preso com’è dalle sue spiegazioni.
“Vedi, sono morto da tre settimane e voglio davvero raggiungere mia moglie. Mi sono rivolto ad altri fantasmi e questi mi hanno detto che devo trovare il mio talismano … sai, la cosa che mi tiene legato a questa terra, per potermene definitivamente andare. Tu devi trovarlo per me.”
“Perché dovrei farlo?”
“Beh, sei un Cacciatore no? Non dovresti aiutare le persone? Io ero una persona come tante , prima di questo. Nel caso non lo facessi, ho imparato un paio di trucchetti abbastanza fastidiosi per i vivi.” Fa un sorriso sdentato tutt’altro che amichevole. Detto francamente, non ci tengo ad essere perseguitato fino alla fine dei miei giorni da un vecchietto.
“Io cosa ci guadagno?” Incrocio le braccia, giusto per riscaldarmi un po’: cosa inutile dato che i fantasmi per mantenere la forma “visibile” prosciugano qualsiasi tipo di calore nel raggio di metri.
“Tu cosa vorresti? Quando sei morto puoi fare molte cose.”
“Puoi andare dove vuoi?” chiedo a mezza voce.
“Cacciatore, non sono più giovane come una volta: puoi parlare a voce più alta?” e porta le mani intorno all’orecchio.
Ottimo, mi sono imbattuto in un fantasma sordo.
“Ho detto: puoi andare ovunque tu voglia?”
“Non c’è bisogno di urlare! Un po’ di rispetto! Comunque, no, mi spiace. Ogni volta mi blocco a Piccadilly, è questo il problema più grande che non mi permette di andare a prendere il talismano.”
“Allora oggi è il tuo giorno fortunato: svolgerò il lavoretto senza scopo di lucro; dimmi solo cosa devo cercare.”
Una fiammella scintilla in fondo alle orbite del fantasma. “Ecco, senti qui …”

Scosso da brividi, mi lascio cadere davanti al camino del salotto dell’Istituto, cercando di far asciugare alla meglio i vestiti e i capelli zuppi. Quel fantasma, Herbert, mi ha dato una serie di indicazioni che mi hanno condotto alle fogne. Per trovare quella stupida pipa di ciliegio ho dovuto stanare un branco di pantegane intente a divorare il cadavere di un gatto: uno spettacolo e un odore rivoltante,e  tra le altre cose, giusto in quel momento e in quel canale di scolo, qualche buono e onesto cittadino che non si accontentava delle strade, ha deciso di svuotare il vaso da notte del giorno precedente addosso a me. Alla fine, però, Herbert è stato molto contento e, prima di prendere in mano la pipa, quando sono tornato da lui che era rimasto ad aspettarmi in Tudor Street, mi ha regalato un libro che aveva rubato appositamente per me in quelle due ore di attesa: Il Castello di Otranto. L’ultima cosa che mi ha detto è stata: “Fatti un bagno.” Poi è scomparso.
“Ma cos’è questa puzza?” La voce di Jessamine giunge alle mie orecchie prima che la mia disgustosa figura appaia ai suoi occhi.
“Will, ma cosa hai fatto! CHARLOTTE! JEM! Will sta sporcando tutto il salotto!”
Pochi secondi dopo entra nella stanza Charlotte, ma io sto già uscendo.
“Will, perché sei ridotto così?”
Non mi perdo in spiegazioni e comunque non verrei creduto, così annuncio: “Sono sempre stato curioso di visitare la Londra sotterranea. Ora che mi sono tolto questo sfizio, vado a lavarmi.”

 



 

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Capitolo 5
*** V ***


 
L’Angelo

“Diventa il mio parabatai.” Le parole mi escono spontaneamente dalla bocca, incontrollate. Ci ho pensato spesso, in questi giorni. E’ da un anno e mezzo che Jem è venuto a stare qui a Londra e io non posso fare a meno di constatare che lui è la mia roccia, l’unica ragione per cui ho deciso di non buttarmi dal London Bridge. Conoscendo la sua situazione non posso disprezzare la vita, sarebbe un insulto alla sua e dunque, poiché lui mi ha salvato e mi fa sentire normale, mi è sembrata una decisione giusta, questa di diventare parabatai. Mi rendo conto che non si tratta di un gioco, ma di una cosa piuttosto seria: vincolare la tua anima ad un’altra, diventare la forza dell’altro, combattere insieme e supportarsi reciprocamente. Jem non ha nulla da guadagnare, da questo, ne sono ben consapevole, ma spero nel suo assenso.
Jem abbassa lo spadone con cui ci stavamo allenando fino ad un secondo prima e mi guarda con i suoi occhi neri striati d’argento, anche i suoi capelli sono diventati completamente argentei … l’effetto collaterale dello yin fen.
“No.” Il suo è un no lapidario, che non ammette repliche, ma lo avevo previsto. Jem sa bene quanto me che non si può avere un secondo parabatai, quando il primo muore, e lui non accetterebbe mai di “bloccarmi”, vista la sua malattia che quasi sicuramente lo strapperà via da questa vita e da me. Quello che non sa è che io passo giorni interi in biblioteca in cerca di qualcosa che possa aiutarlo e che sono deciso a non fermarmi. Ho cominciato le ricerche quando l’ho visto per la prima volta assalito da uno dei suoi attacchi, mentre tossiva sangue e sveniva: non potevo sopportare di stare semplicemente a guardare.
“Facciamo così: se ti batto in un duello con gli spadoni, tu accetti. Se invece perdo,non se ne fa niente.”
Jem si rilassa e si mette in posizione. E’ convinto che vincerà. E’ vero, quando è arrivato, il suo livello di addestramento era superiore al mio, ma in previsione di qualcosa del genere io mi sono allenato con Thomas per ore e ore.
Mi metto in posizione anche io e attacco per primo. Il combattimento è breve: non gli do nemmeno per un momento la possibilità di attaccare. In nove secondi l’ho fatto indietreggiare di qualche metro e l’ho inchiodato al muro. Con un ultimo fendente lo disarmo. Lui si porta le mani sopra la testa, in segno di resa, sorridendo impercettibilmente mentre gli punto la lama alla gola con lo sguardo più determinato che sia mai riuscito fare.
“Touchè.”
Finalmente metto giù l’arma.

Sono io a dare la notizia, quella sera stessa, durante la cena.
Jessamine ci lancia un’occhiata stupita, ma maschera  quell’emozione in poco tempo con la solita indifferenza; Charlotte e Henry ci sorridono e si congratulano. Non erano preparati minimamente a qualcosa del genere ma subito dono il pasto Charlotte si chiude nel suo studio a scrivere una lettera al Console Wayland a proposito della cerimonia che dovrà essere celebrata per unire le nostre anime.

Ecco qui, il grande giorno. L’Enclave ha aspettato che entrambi compissimo quattordici anni, prima di degnarsi a darci il consenso a diventare parabatai.
 Indosso una divisa disegnata per l’occasione, fatta con la solita pelle nera e i polsini e il colletto ricamati con rune rosse.
E’ la carrozza ufficiale dell’Enclave a portarci fino a Westmister, lì infatti si trova la sala del Consiglio che ospiterà la nostra cerimonia. Prima di scendere stringo forte lo stilo che ho in tasca, per farmi coraggio. Non ho paura né ripensamenti, è solo che tutto questo è estremamente importante.
La sala, circondata da gradini che poi sarebbero i posti a sedere, è gremita e colma di sussurri. So cosa molte persone stanno pensando: l’insensibile William Herondale con un parabatai! Roba da non credere. Il problema è che in tanti sono convinti che sia stato Jem a chiedermelo, perché mai nessuno se lo aspetterebbe da me e questo mi fa innervosire: come se Jem fosse debole e io fossi preso da spirito di carità. No, io sono una persona molto egoista.
Charlotte e Henry accompagnano me e Jem al centro dell’ambiente per poi ritirarsi anche loro sui gradini. Pochi minuti e cala il silenzio. Jem annuisce come a rassicurarmi mentre ci disponiamo ai lati opposti di un cerchio di fuoco sospeso all’altezza delle nostre spalle e il Console si pone di fianco a noi.
I Cacciatori sono persone molto spartane, per questo non mi sorprendo quando Wayland ci invita a procedere immediatamente con le azioni che sappiamo di dover compiere.
Per tutto il tempo in cui io e Jem facciamo passare le mani attraverso il cerchio di fuoco e ci afferriamo reciprocamente gli avambracci, i nostri occhi rimangono fissati in quelli dell’altro.
Sento il Console parlare e dire i nostri nomi, ma io sono tutto concentrato a sentire l’energia di Jem fluire in me e la mia in lui. Sento concretamente un legame che viene forgiato, destinato a non rompersi.
All’unisono pronunciamo le parole del giuramento:

“Dove andrai tu andrò anche io;
Dove morirai tu, morirò anch’io, e vi sarò sepolto:
L’Angelo faccia a me questo e anche di peggio
Se altra cosa che la morte mi separerà da te.”

Il fuoco si consuma,lasciando come unica traccia della sua esistenza un lieve fumo.
Prendo lo stilo dalla tasca e mi avvicino a Jem, che intanto ha sbottonato i primi bottoni della camicia e ha allargato il colletto, per permettermi di imporgli la runa parabatai proprio sul cuore. Mentre dallo stilo vengono incisi ghirigori neri sulla pelle pallida di Jem, questo freme.
Capisco il perché pochi secondi dopo, quando è lui a disegnare il marchio sul mio petto: brucia come mai nessuna runa fino ad ora, neanche la prima.
La cerimonia è conclusa e i Cacciatori, fino ad un momento fa silenziosi, si alzano in piedi e applaudono. Io, in questo momento, ho soltanto un pensiero che mi occupa la mente: non sono più solo.

Spazio autrice: Sto scrivendo con una frequenza quasi imbarazzante, ma non riesco a fermarmi. Ringrazio i lettori, per lo più silenziosi, ma ahimè, non si può avere tutto dalla vita u.u Se però avete voglia di recensire, fatelo pure! Senza problemi, fa piacere e non mi offendo, accetto le critiche in quanto sono consapevole di non essere una grande scrittrice.


 

 



 

 

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Capitolo 6
*** VI ***


L’Angelo

“Jem, questo è il momento in cui mi aiuti e non lasci che il demone mi sbrani!”  Urlo a pieni polmoni, mettendo da parte la stanchezza, dimenticandola. Devrak, oltre ad essere un demone ributtante, per la vista e per l’odore, è anche potenzialmente pericoloso e tenace, nonostante la scarsa intelligenza. Scatto indietro, in modo tale da avere un raggio d’azione maggiore (se si può parlare di raggio d’azione, quando ti trovi in un vicolo largo un metro e mezzo) e ritorno in posizione, pronto a difendermi, con la spada angelica perfettamente in equilibrio nella mia mano. Il vermiciattolo, o meglio … il grande verme, allarga oltre i limiti dell’immaginabile la fessura, che dovrebbe essere la bocca, suppongo, ricca di denti aguzzi e putridi, e libera un verso acuto e stridulo, avventandosi su di me. Paro il primo attacco a destra, poi a sinistra. Per poco non mi lascio ferire al braccio da una delle sue rivoltanti zampe ma riesco ad afferrare in tempo il pugnale, quello che mi ha regalato Jem dopo la cerimonia parabatai, dallo stivale e glielo pianto dritto sulla nuca, o testa … Devrak si allontana di scatto, sorpreso, e mi concede l’occasione perfetta per piantargli la mia spada angelica nel petto. Il sangue demoniaco mi schizza in faccia e mi brucia, ma la sue carcassa scompare. Mi passo velocemente la manica della tenuta sul volto, pulendolo dal sangue, e asciugo il pugnale sui pantaloni, per evitare che la lama si corroda.
“Jem, grazie mille per l’aiuto! Si può sapere dove sei?”
Nessuna risposta. Questo è strano.
Tendo le orecchie e finalmente sento il mulinare di armi. Esco dal vicolo, assaporando finalmente l’aria fresca priva del tanfo di Devrak, e corro nella direzione da cui provengono i rumori, lungo una deserta Regent Street. Solo in un secondo momento vedo quello che ha fatto in modo che Jem, con la chioma ormai completamente argentea splendente sotto luce della luna e armato della sua spada dal pomo di giada, che all’apparenza potrebbe sembrare un semplice bastone, non venisse ad aiutarmi: è circondato da una decina di figure nere, fumose, Iblis. Sono consapevole che sono troppi, e che il mio parabatai non potrà resistere ancora a lungo, da solo, così lo affianco e, senza nemmeno consultarci prima, riusciamo, metodicamente e come dei ballerini, a muoverci con armonia, senza mai metterci l’uno sulla strada dell’altro o rallentarci, e a rimandarli nella loro inquietante (non che io ci sia mai stato, ma i libri servono pure a qualcosa) e maleodorante città demoniaca di Pandemonium.
Ci appoggiamo al muro di un vecchio edificio e tiriamo un sospiro di sollievo. Scambiata un’occhiata, io mi metto a ridere quasi istericamente, l’adrenalina che scorre nelle mie vene al posto del sangue. 

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Capitolo 7
*** VII ***


L’Angelo

“They dined on mince, and slices of quince 
Which they ate with a runcible spoon; 
And hand in hand, on the edge of the sand, 
They danced by the light of the moon, 
The moon, 
The moon, 
They danced by the light of the moon.”

La voce mi esce roca, merito dell’alcol. Faccio per prendere un’altra grande sorsata dal boccale ma, evidentemente, non ho stretto bene la mano intorno all’oggetto cilindrico, perché questo mi cade addosso e io mi impregno ulteriormente dell’odore del whiskey. Ingoio il nulla, e credo di avere uno sguardo alquanto assente quando una “gentil donna” si sporge verso di me e mi chiede se voglio usufruire del suo servizio. Scuoto la testa e guardo da un’altra parte, cercando spaesato la porta della Devil Tavern. Devo uscire, sono troppo ubriaco. Sto per alzarmi ma la donna, che sta ancora tentando di convincermi a passare la notte con lei, mi ributta sulla panca. Scoppio a ridere, senza motivo e prendo a cantare, stonatamente.
“Have you heard of the blind harper,
Now he lived in Hogmaven town,
He went down to fair England,
To steal King Henry's wanton Brown.

First he went unto his wife,
With all the haste as go could he,
This work he said will never go well,
Without the help of our good grey mare.

Said she, you take the good grey mare,
She'll run o'er hills both low and high,
Go take the halter in your hose,
And leave the foal at home with me.

He's up and went to England gone,
He went as fast as go could he,
And when he got to Carlisle gates,
Who should be there but King Henry.

Come in, come in you blind harper,
And of your music let me hear,
But up and said the blind harper,
I'd rather have a stable for my mare.

The king looked over his left shoulder,
And he said unto his stable groom,
Go take the poor blind harper's mare,
And put her beside my wanton brown.

Then he's harped and then he sang,
Til he played them all so sound asleep,
And quietly he took off his shoes,
And down the stairs he did creep.

Straight to the stable door he's gone,
With a tread so light as light could be,
When he opened and went in,
He found thirty steeds and three.

He took the halter from his horse,
And from his purse he did not fail,
He slipped it over the wanton's nose,
And tied it to the grey mare's tail.

Then he let her loose at the castle gates,
She didn't fail to find her way,
She went back to her own colt foal,
Three long hours before the day.

Then in the morning, at fair daylight,
When they had ended all their cheer,
Behold the wantong brown had gone,
So had the poor blind harper's mare.

Oh, Alas, said the blind harper,
Ever als that I came here,
In Scotland I've got a little colt foal,
In England they stole my good grey mare.

Hold your tongue said King Henry,
And all your mournings let them be,
You shall get a far better mare,
And well paid shall our colt foal be.

Again he harped and again he sang,
The sweetest music he let them hear,
He was paid for a foal that he never lost,
And three times worth the good grey mare.

He was paid for a foal that he never lost,
And three times worth the good grey mare.”

“Oh, ma sei gallese, per caso?” Urla la donna sguaiatamente. “Ho sempre avuto un debole per gli stranieri.” Aggiunge, maliziosa, passandosi la lingua sulle labbra bagnate di birra e poggiandomi una mano sul petto.
“Ho ancora un vasto repertorio!” Mi alzo di scatto, portando in alto il boccale, come se stessi brindando. Bevo ancora.

“Fuori di qui, siamo chiusi!” Mi urla contro l’oste e, strattonandomi, mi butta fuori dalla taverna, nell’aria calda di agosto, mitigata dal consueto venticello notturno.
“Non è necessario …” barcollo. “Non è necessario essere scorrrtesci.” Strascico le parole, gesticolando di fronte alla porta ormai chiusa del locale.
Prendo un bel respiro e, non del tutto certo del perché io stia tenendo i pantaloni in mano e non li porti addosso, mi avvio lungo Fleet Street dove, tra parentesi, una decina di fantasmi mi guardano divertiti. Ho scoperto di riuscire a vederli senza alcuno sforzo, né da parte mia né da parte loro. Strano, ma la cosa ha i suoi vantaggi.

Sento dei colpetti fastidiosi al fianco.
Ahia! Sento dei colpi decisi, al fianco. Ruoto la testa, poggiata su qualcosa di duro, e apro un occhio, infastidito dalla luminescenza di una stregaluce. Oh, ecco perché sto tanto scomodo: sono disteso sul pavimento del corridoio dell’Istituto. Ad ogni modo, alzo lo sguardo e vedo una Jessamine sconcertata che mi da dolorosi calci.
“Ti. Vuoi. Alzare? Non è il mio risveglio preferito, quando trovo uomini seminudi lungo il tragitto verso la sala da pranzo.”
“Oh, davvero? E io che pensavo che non aspettassi altro!”
Ricevo un altro calcio, dritto al costato, mentre mi rimetto in piedi.
“Il buongiorno si vede dal mattino, cara Jessie.” Soffoco un conato mentre Jessamine, lisciandosi le gonne, mi supera.
Tra le mani stringo ancora i pantaloni e ora capisco il motivo per cui non li indosso: alla Devil Tavern qualche bastardo, mentre sonnecchiavo, mi ha tatuato un dragone gallese sulla parte interna della coscia, tuttavia non posso vedere l’intera figura, in quanto parte è nascosta dalle mutande che, sì, fortunatamente, indosso.

 


Spazio autrice:Ora qualcuno mi insulterà per aver reso Will un vero e proprio ubriacone, ma scrivere di questo è stato divertente. E poi, Will stesso confessa a Tessa di essersi ubriacato sul serio, a volte, per imparare a fingere in maniera credibile. La poesia iniziale è una nonsense di Edward Lear. Invece, la canzone che Will canta si chiama "The blind Harpre" e vi consiglio di ascoltare, perchè è molto bella! Qui il link: Kate Rusby - The Blind Harper - YouTube Beh, arrividerci e alla prossima :)

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Capitolo 8
*** VIII ***


L’Angelo

Jem mi afferra il braccio, costringendomi a voltarmi verso di lui.
“Non sei costretto a farlo, William. Posso andare io.”
Non esito neanche per un secondo. Jem ha già abbastanza grane a cui pensare, se posso alleviare il fardello che porta sulle spalle, di certo non mi tirerò indietro.
Stringo forte il sacchetto con le moneto che Jem mi ha consegnato poco fa, consapevole che non saranno abbastanza per lo yin fen e pensando alla somma aggiuntiva che porto in tasca, a sua insaputa. E’ il mio parabatai, faccio qualunque cosa sia necessaria per il suo bene.
“E io ti ripeto che andrò io, James.” Ogni volta che ci chiamiamo con il nome completo, entrambi capiamo che siamo seri o, al contrario, che ci stiamo prendendo in giro bonariamente. Jem sa che io non potrei mai trattarlo come gli altri. Jem sa che, nonostante il mio atteggiamento, io non gli riserverei altro che rispetto.

Arrivo al covo degli ifrit, stregoni senza poteri, e mi rivolgo alle conoscenze che mi sono procurato in questi anni, durante i quali non ho mai permesso che Jem si avvicinasse a Whitechapel a meno che non si trattasse di cacciare i demoni. James Carstairs è una persona forte, e lo dimostra quotidianamente, ma non posso sopportare che il suo essere, tutto il buono che fa parte della mia vita, venga contaminato dal degrado dei Nascosti in cerca di piaceri passeggeri e corrodenti.
E’ un essere umanoide, con le mani palmate, le branchie e il colorito grigiastro, a porgermi il sacchetto di yin fen e ad attendere il pagamento. Una sensazione spiacevole e irritante, ma che devo sopportare per tenere in vita il mio amico quanto più possibile.

Ho mandato via Thomas, prima di entrare nella fumeria, così sono costretto a coprire la non breve distanza tra Whitechapel e Fleet Street a piedi, ma mi piace perdere tempo, di notte, e gironzolare, per poi tornare verso l’alba all’Istituto. Ho sempre il tempo di inventare una storiella nuova che mi faccia apparire ogni giorno più corrotto; tuttavia, ultimamente, mi sto rendendo conto che Charlotte fa sempre meno attenzione a ciò che dico, ignorando le provocazioni o il linguaggio scurrile. E’ lei a cui, più di tutti, temo di far del male … temo di condurla verso un danno irreversibile, per il quale alcuna runa ha effetto.
Si comporta come una madre, o una sorella maggiore, nei confronti miei, di Jem e di Jessamine … sono andato via per proteggere la mia famiglia: non ne voglio una nuova.

Nulla. Nulla. Nessuna informazione utile. Neanche una maledetta riga su come rendere reversibile l’effetto dello yin fen. Scaglio lontano l’ennesimo volume di medicine e cure per i veleni demoniaci. Mi sento un bambino: sconsolato e impotente, così come lo sono stato subito dopo che Marbas era uscito dalla Pyxis, o che Ella era morta.
Ella.
Lei al mio posto saprebbe cosa fare. Lei sapeva sempre tutto, e il sangue Nephilim scorreva in abbondanza nelle sue vene: era nata per la missione dei Cacciatori, non come me, che ho imparato ma mai accettato del tutto questa vita, anche se, pensandoci bene, non riesco ad immaginare chi sarei senza le rune, senza le armi e senza un parabatai.
Ovviamente, non mi sono limitato alle risorse della biblioteca. Mi sono anche guardato intorno, chiesto in giro … ho visitato decine e decine di negozi gestiti da creature del Popolo Fatato. Ovviamente, in ognuno di questi, il mercante ha cercato di convincermi a comprare, per cifre esorbitanti, rimedi garantiti. Persino io, che di magie e pozioni capisco ben poco, mi sono reso conto delle truffe e che quelle boccette contenevano nulla più che acqua colorata.
Non so più dove sbattere la testa, ma non posso fermarmi.

“Perché Jem non è sceso per la colazione?” Giocherello un po’ con il coltello da burro, dopo aver spalmato un paio di fette di pane ed essermi versato il tè. Io AMO il burro, ma non credo che Charlotte approvi questo mio sentimento, a giudicare dallo sguardo di rimprovero che mi lancia, quando si accorge che il piattino, che un tempo conteneva il burro, è ormai vuoto.
“Sta troppo male.” Risponde a mezza voce la direttrice, preoccupata. “Ad ogni modo, mi piacerebbe che tu svolgessi un paio di commissioni lo stesso, stamattina.”
“Qualsiasi cosa, purché mi faccia uscire da questo covo di folli.” Indico con un cenno del capo Henry, tutto assorto a mangiare uova e a borbottare calcoli.
“E io invece cosa devo fare?” La voce annoiata di Jessamine, seduta all’altro capo del lungo tavolo, giunge inaspettata alle nostre orecchie. E’ una strana ragazza, Jessamine: a volte si estranea completamente dalla situazione, altre, invece, presa da chissà quale voglia, si intromette nei discorsi. Suppongo sia un modo per combattere la noia.
“Sarebbe gradito se ti chiudessi in biblioteca a studiare un po’ di sanscrito. Ho dato un’occhiata alla tua scorsa traduzione: non hai capito il senso nemmeno di una riga.” Charlotte parla pacatamente, ma il suo è un ordine.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** IX ***


L’Angelo

Mi guardo intorno spaesato, non riconoscendo nulla di familiare negli edifici che mi circondano o nelle strade che vi corrono attraverso. La calura innaturale, naturalmente, non fa che peggiorare le cose.
“William, sei sicuro di sapere che il covo dei cani infernali sia da queste parti?”
Con la coda dell’occhio vedo James roteare agilmente il bastone in aria, creando rumorosi mulinelli. Questa è la volta buona che mi ammazza: è già la terza volta che ci perdiamo sotto le mie direttive; ma, dannazione, io non sono londinese! Non è colpa mia se non conosco ogni buco di questo “umano orribile prodigio di Dio”, per dirla con Blake.
Fingo una sicurezza che non ho e mi stampo un sorriso degno del migliore dei truffatori sul volto.
“Certo, James. Conosco Londra come le mie tasche! Sai, quando passi le notti in compagnia di certe-”
Sbuffa. “Mi racconterai questi interessanti … ehm … aneddoti una volta a casa. Ora voglio solo trovare quei demoni.”
Ficco le mani in tasca muovendo il corpo di trecentosessanta gradi, facendo perno sul piede destro. Scorgo un luccichio di un rosso innaturale in un vicoletto buio che sfocia nella piazzetta in cui io e il mio parabatai ci troviamo e do un colpetto alla spalla di Jem, facendogli notare quello che ho visto.
“Ciao tesorini, venite da papà …” sussurro.

“Non dovevi prenderli in giro, William.” Tra un colpo di tosse e l’altro, Jem mi dice questa frase, e io mi sento un idiota per avere sottovalutato quei pulciosi segugi.
Stringo forte la mano di Jem, sperando in un miracolo che so non potrà mai avvenire. La sua pelle è bollente di febbre. Si tratta di un attacco molto forte, a giudicare dalla quantità di sangue che copre a chiazze la camicia candida e le lenzuola.
“Posso strapparti una promessa, Will?” Mi chino ulteriormente su di lui, per asciugargli con un panno umido gli angoli della bocca.
“Dipende dalla promessa, suppongo.”  Faccio un sorriso sghembo. “Non credo di poterti promettere di non cantare più le mie poesie, ad esempio.”
Jem ricambia il sorriso. “E’ qualcosa che non ti chiederei mai, un dispiacere a cui non rinuncerei.”
“Ad ogni modo, che cosa vuoi che ti prometta?” Sono curioso. Jem mi chiede così raramente qualcosa … in effetti, nessuno dei due chiede mai qualcosa all’altro … sappiamo sempre esattamente cosa fare e cosa dirci, reciprocamente. Non so dove finisce l’amicizia e dove inizia il rapporto parabatai.
“Devi smettere di” Tossisce di nuovo, e questa volta il suo sangue schizza anche sulle mie mani.
“Scusa.” Sussurra, e io scuto la testa. Come se mi importasse di più essere pulito che quello che lui ha da dirmi.
“Devi smettere di fare ricerche. Sulla malattia, intendo.”
Sgrano gli occhi. NO. Non lo posso fare. Confusione e stordimento si appropriano del mio cervello. E poi, come fa Jem a sapere che io sto cercando qualcosa, a tal proposito?
“Sarà più facile” continua, mentre io scuoto la testa, inebetito “per entrambi. Io ho accettato la cosa da tempo. Devi farlo anche tu.”
“Jem” la voce mi esce strozzata, acuta “Tu non puoi credere seriamente che io lo farò.”
“Se sono io a chiedertelo, sono certo che farai esattamente ciò che ti dico.”
Ha ragione. Sembrerebbe una frase carica di presunzione, ad occhi esterni, questa, ma per me è la voce della verità. Jem è una luce potente e costante nella mia vita, che mi indica ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Annuisco e lo osservo, troppo terrificato per andarmene, mentre si addormenta e i respiri, accelerati, si fanno più regolari.
Tendo a non pensare a quel periodo, inevitabile, della mia vita durante la quale non Jem ci sarà più, ma mi rendo conto che, più i giorni passano, più Jem si avvicina alla Ruota, come dice lui, che crede nella reincarnazione; io, invece, mi limito a pensare ad un fiume che delimiti la terra dei vivi da quella dei morti. Fino a pochi secondi fa, potevo contare su una speranza, seppur flebile e fragile quanto la fiamma di un fiammifero, ora quella fiamma si è spenta, ed è come se stessi, coscientemente e volutamente, camminando verso uno strapiombo. Sarò incapace di fermarmi anche quando la terra scomparirà da sotto i miei piedi.

Spazio autrice: Salve a tutti! Questo spazio solo per rettificare alcune informazioni sbagliate dei capitoli precedenti. Ho rilletto diverse parti de Il Principe, oggi, in cerca di un pò di ispirazione (ecco, la drammaticità di questo capitolo dipende da quel maledetto libro ... ) e ho notato di aver compiuto un errore un pò grossolano nella storia di Tatiana.
Era il primo Natale di Will all'Istituto, non il secondo, e dunque Jem non c'era ... mi perdonerete, vero? Poi ho notato un errore riguardo il vestito di Tatiana: era argentato, non rosso ... Fa niente, spero. u.u
Poi, sempre rileggendo quello sciagurato volume, mi sono rifrescata la memoria per quanto riguarda la cerimonia parabatai. Non è esattamente come l'ho descritta, però tuttora ho le idee un pò confuse sul corretto andamento della cerimonia. Beh, questo è quanto. Al prossimo capitolo che, purtroppo, non so quando arriverà in quanto domani parto (vado a vedere il Blackfriars Bridge, tra le altre cose, non so se vorrò più andarmene da lì xD)

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Capitolo 10
*** X ***


L’Angelo

E’ la prima giornata di sole, questa, la prima dopo un lungo, buio e piovoso inverno, e finalmente la primavera si sta facendo strada, pian piano, tra le palazzine vittoriane, i viali alberati e i chiassosi mercati. Hyde Park è davvero splendido: le foglie, imperlate da minuscole goccioline di rugiada, brillano sotto i timidi raggi del sole, i quali, tuttavia, portano luce ma non calore. In effetti, qui fuori si gela e, ogni volta che apro la bocca per parlare, sembra che io stia fumando un sigaro, cosa che ho fatto una volta ma che mi ha talmente disgustato da giurare a me stesso che non avrei mai più ripetuto l’esperienza. Faccio notare la cosa a Jem, che passeggia accanto a me. Non ci sono demoni, al momento … o almeno, non ne avvertiamo la presenza.
“Evita semplicemente di farlo, allora.”
Jem, con quella sua aria calma e gli occhi ricolmi di affetto, un affetto che spero di meritare, un giorno, nonostante il mio stratagemma - perché nessuno può vivere senza niente, e a me è concesso Jem - è capace di insultarti e fare in modo che tu non te la prenda. Qualunque cosa egli dica ha ragione di essere detta, non si spreca in conversazioni inutili, Jem; dice tutto con i gesti, le azioni, gli occhi e la musica.

Il ciottolo rimbalza tre volte sulla superficie liscia della Serpentine, il lago centrale di Hyde Park, prima di affondare definitivamente, in mezzo ad uno stormo di anatre che, placidamente, nuotano e si puliscono le piume. Storco il naso. Non mi sono mai piaciute le anatre, fin da quando ero bambino e vivevo nella tenuta in Galles, con la mia famiglia … fin da quando uno stormo di quelle bestie mi è venuta addosso provocandomi non poche ferite.
Do una gomitata a Jem, per attirare la sua attenzione, e continuo a fissare le anatre, seguendo ogni loro movimento, un’idea che mi frulla in testa, pazza e grandiosa allo stesso tempo.
“Jem, secondo te le anatre mangiano i pasticci di anatra?”
Lo sento voltarsi verso di me e squadrarmi dall’alto in basso, cercando di capire se sono serio. Capisce che sono serio.
Scuote la testa. “Non lo so, Will, ma non credo … le anatre mangiano vermi, pesce, erba, di certo non carne.”
Non gli do il tempo di finire la frase e schizzo via, correndo verso la bancarella di un ambulante che ogni giorno si piazza al margine del vialetto che costeggia il lago.
Compro un paio di pasticci di carne di anatra e ritorno al punto in cui ho mollato Jem, che mi fissa incredulo, scuotendo la testa.
Prendo un pezzettino di pasticcio e lo agito davanti al becco della prima anatra che mi passa davanti.
“Will, non farlo.” Mi avverte Jem.
L’anatra afferra dalla mano il pezzo di pasticcio e lo mastica … cioè, non lo mastica ma lo tritura, suppongo. Ad ogni modo, lo ingoia dopo poco.
Stacco un altro pezzo e lo offro ad una seconda anatra che, guardinga e con cautela, si è avvicinata. Vuole anche lei un pezzo di una sua vecchia pennuta amica.
“Le anatre sono cannibali, Jem. Me lo sentivo! Sono così orribili che non si fanno scrupoli a nutrirsi della loro stessa specie.”
Jem scuote la testa, e ripete, semplicemente: “Will, stai attento.”
Do un altro pezzo di pasticcio ad una terza anatra. Lo mangia e sembra gradire.
Faccio per voltarmi, pronto a tornare all’Istituto. Insomma, ho pagato io i pasticci, gradirei mangiarmene qualcuno!
“Will, attento!”
La voce di Jem, e la sua successiva risata, giunge tardi alle mie orecchie. Vengo attaccato in massa da cinque anatre. Sento i loro becchi contro il viso, le braccia, le gambe. Mi hanno rovinato il completo nuovo …
“Figlie di buona anatra!” Urlo e, con un movimento del braccio, e tirando lontano i pasticci, riesco a scacciarle.
Mi tocco il viso, contrariato, e fisso il mio sguardo in quello di Jem.
“Questo” e faccio un ampio movimento con il braccio “non deve saperlo nessuno.”
Le persone che stanno passeggiando nel parco hanno preso guardarmi, mentre a grandi falcate mi dirigo verso l’Istituto. Quelle anatre me la pagheranno …

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Capitolo 11
*** XI ***


L’Angelo

Pantaloni: messi; Camicia: stretta alla vita con cintura di cuoio; Imbracatura con spade angeliche, coltelli e pugnali: fissata al petto e sulle spalle; coltello dal manico d’argento regalatomi da Jem: al sicuro, nello stivale destro.
Guardo il mio riflesso nello specchio semicoperto da pile e pile di libri: ormai non vedo più il timoroso ragazzino scontroso, magrolino, con i capelli perennemente spettinati e gli occhi blu spauriti e offuscati dal dolore … no, l’immagine che mi si presenta davanti agli occhi è totalmente diversa. Vedo un giovane uomo alto ed impostato che ha costruito una corazza intorno a sé, non per tenere fuori gli altri, bensì per imprigionare i sentimenti dentro, che non hanno modo di esprimersi, farsi sentire, urlare, neanche attraverso gli occhi.
Vedo un ragazzo affascinante, non faccio finta di essere modesto perché non lo sono. Sono perfettamente consapevole dei miei tratti e del mio fisico, soprattutto da quando, durante le mie passeggiate per le vie di Londra senza la runa dell’invisibilità, noto lo sguardo delle donne (bambine, ragazze, di mezz’età) posarsi su di me e non staccarsi se non quando sfiorano il limite della decenza, per questa nostra epoca.
Vedo il nuovo William Herondale che non potrebbe odiarsi di più, che ha pensato al suicidio una decina di volte ma che è troppo codardo e attaccato alla vita (la quale non gli riserva nulla di buono, di duraturo) per andarsene definitivamente. Il nuovo William Herondale è sarcastico e cattivo. La cosa peggiore è che gli viene naturale esserlo, e questo gli fa paura.
Poso sul comodino il volume di Coleridge che tenevo fino a poco fa in mano ed esco dalla mia disordinatissima e indecente camera.

“Ricorda, niente azioni avventate, Will. Henry ti aspetterà fuori dall’edificio, ti avvertirà in caso di pericolo e, se ce ne fosse bisogno, entrerà nella casa a darti manforte. Tu dovrai solo gridare.”
Charlotte è di fronte a me, a ripetermi per l’ennesima volta il piano.
“Ho capito, ho capito. Sarò un angioletto. Entro, do un’occhiata in giro e me ne vado. Sarò così silenzioso che le vecchie megere crederanno che si tratta della loro ombra, a girare per conto proprio nell’antro. Anche se io sono indiscutibilmente più attraente di loro, o delle loro ombre. Voglio dire, potrebbero anche essere attraenti, ma spero proprio di no, non desidero affatto cedere alla tentazione e prendermi la sifilide demoniaca!”
Charlotte alza le mani al cielo. “Will! Quante volte ti ho ripetuto che la sifilide demoniaca non esiste?!”
Corrugo la fronte, fintamente desolato. “Charlotte, non distruggere i sogni di un bambino.”
Rotea gli occhi e, senza dire più nulla, mi accompagna fuori dall’Istituto, dove Henry mi aspetta dentro la carrozza, armato e vestito di tutto punto con la tenuta, e Thomas sta seduto a cassetta.

La casa di queste “Sorelle Oscure” è un bordello, a quanto ho sentito in giro, durante le mie ricerche su una serie di omicidi nei quali, in qualche modo, questi due demoni superiori chiamati Signora Black e Signora Dark sono invischiati. L’edificio non è molto bello da vedere e di certo non invoglia possibili visitatori a d entrare, anche se chi è disposto a giacere con esseri ripugnati come i demoni non deve avere un gran gusto, in generale.
La carrozza accosta sul retro del palazzo, che tra l’altro sembra abbandonato, e io scendo. Per entrare dentro sono costretto ad arrampicarmi, aggrappandomi ai mattoni sporgenti e ai pochi appigli che riesco a trovare: una grondaia cadente, un traliccio di pianta rampicante, il davanzale di una delle finestre. Alla fine, riesco a trovare una finestra aperta al secondo piano. Non sono capace di disegnare rune decenti, quando sono in posizioni precarie.
Il corridoio in cui mi ritrovo è buio, e puzza di chiuso, come se non ci venisse nessuno da parecchio. Non ci metto molto a capire che tutte le stanze che si affacciano sul corridoio sono vuote, e nessuno si è degnato di chiuderle a chiave. All’interno sono tutte uguali: un letto, una finestra, un tavolino.
Tendo l’orecchio, sperando che un suono qualsiasi mi guidi. Per l’appunto, sento provenire dei passi dal piano superiore. Mi dirigo verso le scale scricchiolanti, preoccupandomi di fare il minimo rumore possibile.
Sono nel corridoio del terzo piano, che non è per nulla diverso rispetto a quello del secondo, i passi si sono fatti più lievi, ma riesco ancora a sentirli. Seguo il suono. Dietro quest’unica porta chiusa a chiave ci deve essere qualcuno. Estraggo lo stilo dallo stivale sinistro e inizio a tracciare la runa di apertura. La serratura scatta e la porta si apre. La stanza è immersa nell’oscurità. Faccio per prendere la stregaluce dalla tasca, ma non ne ho il tempo.

 


Spazio Autrice: Questo spazio è per ringraziare tutte le persone che seguono, mettono tra le preferite e ricordano la storia, e, ovviamente, per le gentili recensioni! Grazie mille e spero recensirete anche questo nuovo capitolo :)

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Capitolo 12
*** XII ***


L’Angelo

“Ahhh!” Il grido –è più un ringhio- esce dalle mie labbra involontariamente mentre, di riflesso, chiudo d’istinto la porta, provocando una sorta di boato. Mi allontano il più velocemente possibile da colui che mi ha colpito con qualcosa che è andato in frantumi contro il mio braccio.
“Maledizione. Ecche*****. Dannazione. Chi è il bastardo? Maledetto.” Credo che proseguo un po’ in questo modo, prima di decidere di tappare la bocca e prendere in mano la stregaluce. Sono abbastanza pronto ad assalire chiunque abbia osato manomettermi il braccio, ma subito mi blocco. Dall’altra parte della stanza c’è una donna, una ragazza, più che altro.
E’ alta, per la media femminile, ma sembra tremendamente piccola e indifesa, nonostante mi abbia appena colpito in maniera tutt’altro che femminili e aggraziata. Noto che mi sta fissando e no, non perché sono appena piombato nella sua camera, perché quando una persona fa irruzione in camera tua non ti metti a fissare gli occhi, le labbra, le ciglia, gli zigomi …
Scaccio via la tensione e sposto il peso del corpo su entrambi i piedi. Alzo il braccio e lo sventolo un po’ in aria, facendo distogliere l’attenzione della donzella dai miei capelli.
Faccio un commento sulla mia ferita, così, tanto per dire qualcosa, mentre penso seriamente sul da farsi e mi concentro, con la stessa serietà, sulla pila di libri disposta su un tavolino accanto al muro.
La ragazza dai capelli castani e con gli occhi di un’interessante sfumatura di grigio, però, non sembra in vena di chiacchiere e, con una voce lievemente roca, come se non bevesse da un po’, continua a chiedermi se sono il Magister.
“Significa “maestro” in latino, non è vero?” La ragazza ha un’espressione piuttosto confusa stampata sul grazioso volto e- Grazioso? D’accordo, l’aria di questo posto mi sta facendo male. E’ una ragazza, punto. Comunque, la ragazza il cui nome mi è ignoto certifica la mia precedente affermazione, titubante, e io parto in quarta nello stilare una lista dei miei maggiori meriti, alla quale lei, giustamente, reagisce con un: “Siete per caso ubriaco fradicio?” Non posso fare a meno di notare un forte accento americano e, d’altronde, solo un’americana potrebbe essere tanto sfacciata da parlare in questa maniera.
“Molto diretta, ma suppongo che tutti voi americani lo siate, non è vero? Sì, il vostro accento vi tradisce. Allora, come vi chiamate?”
Per lo meno potrò dare un nome a questa lettrice di Dickens, a giudicare dai titoli dei romanzi sul tavolino.
In un leggero fruscio di gonne la ragazza si agita e sgrana gli occhi. Allo stesso tempo, però, sembra aver ritrovato il controllo di sé: “Voi … voi siete piombato nella mia stanza, mi avete fatto quasi morire di paura, e ora volete sapere come mi chiamo? Come vi chiamate voi, piuttosto? E chi siete?”
Cerco di ignorare il fatto che sia così testarda e, in tono leggero, mi presento. Bisogna comunque rispondere al fuoco col fuoco, così le faccio notare come sia strano che una ragazza, nella propria stanza, dorma legata al letto. Ci sono infatti delle corde allentate, attaccate alla testiera. Lei arrossisce.
Analizzo la situazione. E’ ovvio che questa poveretta è prigioniera da un bel po’, qui dentro. Ha il volto scavato e porta dei vestiti vecchi e logori, che male si accordano alle espressioni e alle emozioni che si possono leggere, come parole, nei suoi occhi.
Vado verso la porta e disegno una seconda runa di apertura, dopo aver citato Sir Galahad di Tennyson, pensando di essere capito da questa ragazza alla quale piace chiaramente leggere. Mi sbagliavo, non l’ha capita.
Un momento prima di uscire dalla camera, vengo finalmente a conoscere il suo nome: Theresa Gray e, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, vengo stupito da questa Theresa Gray, che si preoccupa di dover lasciare qui i suoi libri.
“Ve ne procurerò degli altri.” Anche se ho fretta di uscire da questo posto, ho il tempo di concentrarmi su una strana sensazione al petto: una sorta di apprezzamento nei confronti di questa persona che tiene in questo modo ai libri …
La prendo per il polso e cominciamo a correre, giù giù, fino ai sotterranei.
Le Sorelle Oscure ci hanno beccato e, nonostante il momento non esattamente opportuno, Theresa Gray ha la lucidità di correggere il mio errore riguardante la temperatura dell’Inferno.
Non so se, in questo momento, dentro di me, prevalga la stima o il fastidio.
“Signorina Gray, lasciate che vi dia un consiglio: il bel giovanotto che sta cercando di salvarvi da un destino spaventoso non sbaglia mai. Nemmeno se dice che il cielo è viola e fatto di porcospini.”
E con questo, la signorina Gray, mi guarda non più come se fossi ubriaco fradicio, bensì come se avessi bisogno di un urgente intervento psichiatrico.

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Capitolo 13
*** XIII ***


L’Angelo

Non so esattamente cosa io stia aspettando, mentre mi rigiro la stregaluce tra le mani, ma trovo uno scopo non appena la figura della signorina Gray, titubante, si guarda intorno, probabilmente in cerca del corridoio giusto da percorrere.
“Vi siete persa? Dovreste permettermi di farvi fare un giro dell’Istituto, signorina Gray.” Non si tratta tanto di gentilezza, quanto più di curiosità verso questa nostra ospite provvisoria. “In modo che non vi perdiate di nuovo.” Aggiungo.
Lei mi fissa con gli occhi leggermente socchiusi, non so se per il sospetto o perché la luminescenza della stregaluce le infastidisce gli occhi. Continua a non rispondermi e a fissarmi.
“Certo, se proprio lo volete, potete semplicemente continuare a girare per conto vostro. Però devo avvertirvi che nell’Istituto ci sono almeno tre o quattro porte che conducono in stanze in cui teniamo prigionieri alcuni demoni; possono diventare alquanto pericolosi. Poi c’è l’armeria; alcune armi sono dotate di una mente propria, e sono davvero affilate. Infine ci sono le stanze che danno sul vuoto; sono destinate a confondere gli intrusi, ma quando si è sulla sommità di una chiesa non c’è da augurarsi di scivolare accidentalmente e …”
Vengo alquanto brutalmente interrotto dalla fanciulla che cerca di mascherare l’espressione di paura che le si è dipinta sul volto e della quale, sospetto, è totalmente inconsapevole.
“Non vi credo. Siete un pessimo bugiardo, signor Herondale.” Quanto si sbaglia … io sono seriamente un “magister” nel fingere, almeno quanto lo è lei nel mordere; basta guardare la povera mano di Henry, che ancora non si è liberata dei segni dei denti della ragazza. “Comunque … Non mi piace gironzolare. Potete farmi fare un giro, se promettete di non combinare scherzi.”
“Prometto solennemente.” E mentre lo dico mi porto la mano destra sul cuore, un sorriso che minaccia di incresparmi le labbra.
Durante la nostra passeggiata serale ho modo di conoscere più di quanto avrei mai sperato la signorina Gray. Non mangia il cioccolato (mi chiedo come sia possibile!); fa un sacco di domande (con quale velocità le arrivino in testa e quanto ci metta a porle, non so dirlo); le piacciono i libri più di quanto credessi; non riesce a staccarmi gli occhi di dosso, ci prova ma non ce la fa. Incredibilmente, la cosa non mi infastidisce come quando accadeva con Tatiana. Al contrario, mi piace. Cerco di scacciare il pensiero lanciandole il Codice dalla scaletta, sulla quale mi sono arrampicato per prenderlo. Non sento il tonfo, quindi deve averlo preso al volo.
Torno a rivolgermi a Theresa, che mi chiede che genere di libro sia quel tomo dalla copertina blu consumata e dall’aspetto antico.
“Visto che attualmente alloggiate nel nostro sancta sanctorum, per così dire, ho supposto che aveste delle domande sui Cacciatori. Quel libro dovrebbe dirvi tutto ciò che volete sapere su di noi e sulla nostra storia, e anche sui Nascosti come voi. Ma maneggiatelo con cura. Ha dei secoli di vita ed è l’unica copia sopravvissuta. La Legge punisce con la morte chiunque la perda o la danneggi.”
Fatico a trattenermi dal ridere, ancora abbarbicato sulla scala a pioli, quando lei fa per gettare lontano il libro, terrorizzata anche solo di toccarlo, ma si ricompone in fretta.
“Non potete dire sul serio.”
Salto e,agilmente, atterro di fianco a lei, la sento nervosa ma non è davvero spaventata. L’ho visto, nella Casa Oscura, quando l’ho portata via, si fida di me, sebbene l’istinto le dica di non farlo. Questa ragazza è un libro aperto.
 “Avete ragione. Non dico sul serio. Ma voi credete a tutto ciò che dico, non è vero? Vi sembro degno della massima fiducia, o siete semplicemente un’ingenua?”
Stringe al petto il Codice e si va a sedere su una panca, di fronte al tavolo. Comincia a leggere.
Questo mi manda un po’ in confusione … non so come agire; così, per una volta, faccio ciò che voglio: mi lascio cadere sulla panca accanto a lei e la osservo. Al collo sfoggia il ciondolo di un angelo che brandisce una spada, la lama rivolta verso il basso, è pallida e il naso dritto ha un che di aristocratico. Le sopracciglia sono perennemente corrugate, curiose. Tutto di questa ragazza sembra essere pronto ad imparare, a conoscere.
Il discorso che, sì, sono riuscito a non far cadere in un silenzio imbarazzato, si è spostato sulla “sete di sangue” delle donne.
“Ti ho visto impugnare quel seghetto contro le Sorelle Oscure. E se ricordo bene, in effetti il segreto di Lady Audley era che si trattava di un’assassina.”
Tessa, mi ha chiesto di chiamarla così, si infiamma.
“Allora lo hai letto!”
Io non posso fare a meno di sorridere sinceramente. Non ho mai incontrato nessuno così … che al sentire pronunciare in nome di Wilkie Collins è pronta a innalzare un canto in suo nome o che, per un buon romanzo, sarebbe disposta a vendere la propria casa. Sia chiaro, lo farei anche io.
“Stai ridendo di me?”
Scuoto la testa. “Non di te. Non avevo mai visto nessuno eccitarsi tanto per i libri, prima d’ora. Quasi fossero diamanti.”
“Be’, lo sono, no? Non c’è niente che tu ami altrettanto? E non dire “le ghette” o “il tennis” o qualche altra sciocchezza.
Mi porto la mano alla bocca. “Santo cielo, è come se mi conoscessi già!”
“Tutti hanno una cosa senza la quale non possono vivere. Scoprirò qual è la tua, non temere.”
A questo punto, mi accorgo che non sono l’unico che ha studiato la propria preda, perché lei ha fatto lo stesso.
La magia si è rotta, e la sua mi sembra una minaccia, anche se le parole le sono uscite innocenti. Mi sento vulnerabile, ho abbassato la guardia.
“E’ tardi, sarà meglio che ti riaccompagni nella tua stanza.”

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Capitolo 14
*** XIV ***


L’Angelo

William Herondale, tu sei un idiota. Sei il più grande idiota che abbia mai calpestato suolo londinese, questo è certo.
Stai tanto attento a farti odiare dal mondo intero, soffri e ti ci metti d’impegno, perché questa è la cosa migliore per tutti e poi … e poi ti innamori (no, non “innamori”, come dire,come esprimere?)  della prima ragazza che trovi, sperduta e impaurita, prigioniera di due demoni?!
Il fatto che la ragazza in questione sia totalmente diversa da qualsiasi altra tu abbia mai conosciuto è assolutamente irrilevante. Il fatto che gli occhi le brillano al solo sfogliare le pagine di un libro, che la sua voce decisa pronunci parole irriverenti e che contraddicono ogni tua sentenza, è irrilevante. Anche solo il fatto che la trovi molto più che adorabile, è irrilevante. Schiaccia il sentimento, accantonalo, chiudilo nel cassetto più profondo della tua mente e sigillalo, in modo tale che non possa più uscire e torturarti in questo modo.
Tessa. Tessa.
“Tess.” Per l’Angelo, di dormire già non c’era la voglia, ma ora che mi metto a pronunciare il suo nome … è come se qualcuno mi avesse gettato in faccia un secchio d’acqua gelida. Il suo nome, Tessa, è qualcosa che non perde di significato, anche se lo pronunci tante volte (parlo per esperienza, non credo di aver fatto altro nelle ultime notti). Questa parola di cinque lettere va ad associarsi regolarmente all’immagine della giovane donna dai capelli castani e gli occhi grigi, come il cielo in tempesta.
Mi passo le mani tra i capelli e, con un calcio, getto le coperte da un lato.
Mi alzo e mi avvicino alla pila di libri accanto alla scrivania, deciso a leggere, per quella che sarà più o meno la decima volta, una delle lettere che io e Jem abbiamo trovato nella prigione di Tessa, quando siamo andati a fare un sopralluogo. Charlotte mi aveva chiesto di leggerle, per capire se fosse un pericolo per l’Istituto. L’ho rassicurata che non lo era affatto e mi sono tenuto le lettere, rivolte tutte a questo “famoso” e alquanto ricorrente fratello, Nate. 
Provo una grande affinità e un sentimento che non riesco ad esprimere mi opprime il petto. Guardarla dritto negli occhi è come comunicarle tutto quello che sento, e non posso farle correre questo pericolo ... perchè è tutto così difficile?

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Capitolo 15
*** XV ***


L’Angelo

Scacciando il pensiero di Tessa che cita in un sussurro il Racconto di due Città, scendo dalla carrozza e la aiuto a scendere a sua volta. Ha preso l’aspetto di Camille, per intrufolarsi alla festa di de Quincey. Spero che il rischio che stiamo, che sta, correndo serva allo scopo. Durante il tragitto in carrozza le ho tenuto stretta la mano tra le mie e non ho potuto fare a meno di immaginare quale sensazione avrei potuto provare, se, di fronte a me, Tessa avesse avuto il suo regolare aspetto. Non è stato difficile, comunque. Sotto la chioma bionda e gli occhi freddi di Camille posso percepire la vera essenza di Tessa Gray, che mi tiene soggiogato (molto più di un qualsiasi succubo) inevitabilmente a lei.
Entriamo nel salone, e ci ritroviamo immersi in un caos tremendo. Quasi non riesco a respirare. La tensione che mi provoca sapere che qui dentro sono poco più di un cocktail al sangue non mi aiuta.
“Dobbiamo cercare Magnus Bane.” Le dico sottovoce, cercando di non farmi notare dai vampiri che ci ronzano intorno; un succubo non si rivolge mai alla propria padrona senza essere prima interrogato, e Camille di certo non passa inosservata, essendo lei una delle personalità più influenti nella società dei succhiasangue.
Mi allontano di qualche passo da Tessa, liberando il campo visivo che fino a poco fa era oscurato dal suo piumato e osceno cappello, per cercare questo stregone amico di Camille, il quale è a conoscenza della nostra missione.
“Su, non andartene in giro, William” mi rimprovera Tessa, e noto un lampo di divertimento nei suoi occhi. Tipico di lei: si diverte a prendersi gioco di me.
“Non voglio che ti perda nella folla.”
Si avvicina a noi de Quincey, il capo del clan di vampiri, e io mi devo trattenere dal tagliargli la testa con la spada angelica, ben nascosta all’interno della giacca, e dar fuoco alla carcassa: c’è un’alta possibilità che sia lui il Magister, nonché colui che sta a capo di una serie di illecite azioni ributtanti.
Tessa va alla grande e il succhiasangue non sembra sospettare nulla. Poco dopo abbiamo il grande onore di fare la conoscenza del famoso Magnus Bane, che si rivela essere l’amante di Camille; ad ogni modo, il suo aspetto mi risulta nuovo e noto un non so che di eccentrico. Probabilmente si tratta del suo modo di fare spiccio e carico di ironia, oppure degli abiti un po’ datati che si adattano stranamente bene ai lineamenti orientali e alla carnagione scura, nonché a un paio di occhi gialli con pupille da gatto.

“Henry, sei un idiota.”
Il poveretto non riesce quasi a spiccicare parola, mentre guarda, a bocca aperta, quella che era stata la residenza di de Quincey andare a  fuoco insieme all’intero clan, in seguito al mal funzionamento di uno dei suoi soliti aggeggi.
“Will, falla finita. Può capitare.” Charlotte mi riprende, ma persino dalle sue parole si capisce che è giusto un po’ arrabbiata con il marito. La serata non doveva andare a finire così, non dovevamo mandare al rogo una centinaia di vampiri. L’unica nota positiva è che Tessa ha trovato suo fratello, legato come un salame e sul punto di essere sacrificato da de Quincey stesso.
Charlotte si riscuote. “Will! Non c’è tempo da perdere, devi tornare all’Istituto prima che il sangue del vampiro faccia effetto!”
Sì signori, per l’ennesima volta ho fatto l’unica cosa da non fare con i vampiri: morderli. Ma è la mia strategia, quando non so più che pesci prendere: loro non se lo aspettano.

Ansimo, e lievi gemiti mi escono dalle labbra. Sophie entra nella soffitta, dove mi sono barricato, con l’ennesimo secchio di acqua benedetta, che, in circolo nel mio corpo, sta già facendo effetto, e sono frequenti i rigurgiti di sangue misto ad acqua santa.
“Sophie, ti ho detto basta! E’ abbastanza, non portarmi più secchi!” Il veleno mi brucia il torace, il che mi scatena un gran fastidio. Credo che anche Sophie sia infastidita, quando gliene tiro addosso uno. Se ne esce impettita, senza proferire parola, anche se vorrebbe e potrebbe farlo. Ogni tanto mi risponde, ma ha capito le mie regole: meno mi sta intorno e meglio è per tutti.
Sophie è una di quelle creature tenere che la vita ha piegato e indurito. Il suo marchio è qualcosa di più di un paio di rune sulle braccia. No, è ben peggiore: una cicatrice che le sfigura il lato sinistro del volto. E’ per questo che, alla fin fine, i tormenti che le infliggo si limitano alla perenne sporcizia in camera mia e a qualche commento poco elegante sul suo volto, ma solo quando sono costretto o le situazioni sono così favorevoli che non parlare a sproposito, al mio solito, farebbe saltare l’intera copertura, o, almeno, sorgere dei sospetti.
Mi butto di schiena sulle assi dure del pavimento, la fronte che scotta, circondato da una soluzione acquosa rossastra. Poco dopo, mentre il mio corpo viene scosso da brividi e torsioni, sento dei passi leggeri salire le scale di pietra. I miei sensi sono attutiti, la mente offuscata da un ricordo lontano: l’immagine di una bambina dai capelli neri e gli blu come il mare.
Cecily.
Scusami. Chissà perché mi scuso. Chissà perché sto pensando a Cecily. Mi sento così confuso; all’improvviso non so più dove sono, chi sono. Ho la percezione di forti battiti, tachicardici. Fatico a respirare. Soffoco. La bambina fa per avvicinarsi a me, ma la sua immagine svanisce, allontanata da una voce che non mi sembra nemmeno reale.
“Sei di nuovo tu, Sophie? Ti avevo detto che se mi avessi portato un altro di quei secchi ti avrei …”
“Non sono Sophie. Sono Tessa.”
Certo, è Tess. Chissà come non ho fatto a capirlo. Un impulso violento fa per prendere possesso di me, ma io riesco a domarlo. Il sudore caldo va a mescolarsi all’acqua ghiacciata di cui i miei vestiti sono zuppi. Credo che a questo punto la camicia sia praticamente trasparente.
“Hanno mandato te?” Chiedo. Non sono lucido, e questa è l’unica cosa civile che mi viene in mente da dire.
“Sì.”
“Benissimo, allora.” Non va bene affatto, in realtà. Non voglio vedere Tessa, non ora che la mia mente riesce a malapena ad essere padrona del corpo; ma non voglio nemmeno che lei mi veda in questo stato.

Cosa ti importa di quel che lei pensa di te? Fa una vocina dentro la mia testa.
Assolutamente nulla. Io sono Sidney Carton. Io sono Heathcliff. Cosa si potrebbe mai pensare di te, se non quello che tu vuoi che gli altri pensino? Mi rispondo.
“Lascia l’acqua e vattene.” Bravo Will, stai andando bene.
Nonostante il mio invito a lasciarmi, Tess si ferma a fare le sue solite domande e, con il fiato corto e il petto che si alza e abbassa irregolarmente, le spiego dell’acqua santa e del fatto che se non dovessi espellere tutto il sangue vampiresco dal corpo mi trasformerei in un vampiro anche io.
Mi porge il secchio e io mi getto il contenuto addosso.
“Ti aiuta?” Alla domanda, tento una risata che, ovvio, esce strozzata.
“Che domande fai?” Scuoto la testa, tra il sorpreso e il rassegnato. Lei non spiccica più parola, così sono io a parlare.
“Il sangue mi rende febbricitante, non riesco a rinfrescarmi. Ma l’acqua aiuta.”
“Will.” Il modo in cui pronuncia il mio nome mi ricorda Jem. Mi chiedo come stia. Ma stanotte non ha avuto attacchi, quindi probabilmente adesso è in camera sua, a rilassarsi suonando il violino.
“Will, vorrei chiederti …”
Certo che vuoi chiedere, cara piccola Tessa. Non sembri fare altro da quando ti ho conosciuta. Seppur di questa idea, dico: “Che c’è?” Informazione più, informazione meno … non c’è molta differenza.
“Ti comporti come se non t’importasse di nulla. Ma … a tutti importa di qualcosa, no?”
Annuisco. Ecco qui, dalle domande sul nostro mondo, alle osservazioni intelligenti.
Ormai questa “detective” sta finendo per indagare su di me. Mi sento lusingato? Sì, molto … vorrei parlare, buttare fuori tutto ma … non mi è possibile. Le parole mancano, così come il coraggio. La paura è la mia sovrana.
“Davvero?”
Su mia richiesta mi siede accanto. Un pesante strato di gonne la circonda. Porta ancora le cose di Camille, che le stanno un po’ corte. Tessa è alta per la media femminile, ma per me rimane piccola … non indifesa, solo … piccola. Se fosse un libro farei preparare per lei la più pregiata delle rilegature e la porrei sul ripiano più alto della mia libreria, in bella mostra … perché qualcosa del genere non si può contenere né può rimanere nascosto. Infine, una volta al mese verrebbe portata dal miglior librai,o per la manutenzione. Non si ci può permettere di rovinare la perfezione.
“Tu non ridi mai. Ti comporti come se trovassi tutto buffo, ma non ridi mai. A volte sorridi, quando pensi che nessuno ci faccia caso.”
La ragione mi saluta definitivamente e mi lascio guidare dalla febbre.
“Tu mi fai ridere. Dal momento in cui mi hai colpito con quella bottiglia.”
“Era una brocca.”
Sorrido, spontaneamente. Senza pose.
“Per non parlare di come stai sempre a correggermi. Con quell’espressione buffa sul viso. E di come hai gridato contro Gabriel Lightwood. E persino del modo in cui hai risposto a de Quincey. Tu mi fai …” Stavo per dire: sentire come se avessi trovato la fonte di tutta la felicità del mondo, una sorgente di acqua fresca, l’aria più pulita. Ma prima di terminare la frase, noto il sangue sui suoi guanti.
Glielo faccio notare e le sfilo quello destro. Il contatto della mia pelle contro la sua  fa rabbrividire me e lei.
“Tess … che cosa vuoi da me?” Chiedo alla fine, stancamente. Le mie dita continuano imperterrite a carezzarle il polso.
“Io … io voglio capirti.”
La guardo, una muta disperazione negli occhi. La imploro. “E’ davvero necessario?”
Lei pensa che solo Jem mi capisca, ma ha torto. Jem ne sa tanto quanto lei. Mi sta a fianco da più tempo, mi ama più di un fratello, così come io amo lui, ma non mi capisce. Nessuno può, finchè non sarò io a permetterglielo.
Tessa rabbrividisce.
“Hai freddo?” Mi porto la sua mano destra alla guancia, godendo ancora una volta del contatto. Piccoli gesti, innocui, che mi procurano una gioia immensa, che mi fanno sentire vivo.
“Tess …”
Avvicino il mio capo al suo. I nasi si sfiorano. I miei capelli le carezzano la fronte, le mie ciglia le suo palpebre. Le mie labbra premono su quelle di lei. Sento il mento, coperto da un filo di barba, contro il suo volto e le labbra schiudersi, così come quelle timide di lei. Sento le mani di Tessa tra i capelli, scompigliandoli, le sue dita sulla mia nuca, sulle spalle, sul collo.
Le sciolgo i capelli, gettando da una parte il fermaglio, e mi blocco. Mi allontano dal suo viso. La fisso, stralunato. Lei è stupita, le graziose labbra schiuse arrossate dai miei baci.
“Dio del Cielo.” sussurro “Cos’è stato?”
Le chiedo di andarsene, ma lei protesta. Io a malapena riesco a parlare. Sono troppo scosso. La mia voce giunge estranea alle mie stesse orecchie, incrinata com’è.
“Ti supplico. Capisci? Ti supplico. Per favore, per favore vattene.”

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Capitolo 16
*** XVI ***


L’Angelo

Ho perso tutto. Ho perso tutto.
Tutto.
Sta succedendo di nuovo. Prima, Ella. Ora, Tessa.
Sollevo la lama angelica e la punto contro quell’orribile Mondano che ha osato fare .. che ha osato … Mi rifiuto di pensare che sia morta. Non può finire in questa maniera.
“Sapete cosa succede quando conficco una di queste nella carne umana?” La mia voce giunge estranea alle mie stesse orecchie. Rispecchia esattamente il mio stravolgimento, pian piano sostituito dalla rabbia.
Le mie minacce contro Mortmain durano ancora per poco: mi getto in avanti, in un grottesco affondo, pronto a sentire, e a gioire, della reazione che la mia spada avrà su di lui … ma non accade nulla. Il Magister è sparito e di lui non c’è più traccia, se non di uno dei bottoni della sua giacca.
Digrigno i denti, ma la mia attenzione si rivolge subito a Tessa, ancora accasciata, esamine, pallida e circondata di sangue, accanto alla fontana che continua, incurante della catastrofe che sta avvenendo, a gorgogliare timidamente.
Mi inginocchio accanto a Tessa e la prendo tra le braccia. Il sangue comincia ad invadere le mie mani, le mie braccia e anche la camicia. Dondolo un po’ con il capo di Tess adagiato al mio petto e mi ripiego su di lei. Il mio volto che sfiora il suo, la pelle di entrambi appiccicaticcia di sangue, ma non mi importa nulla.
Sento una ferita riaprirsi, all’altezza del cuore. Una ferita che non mi aveva dato problemi, negli ultimi quattro anni.
Sto liberando il volto di Tessa dalle ciocche di capelli incrostate di sangue, quando poggio la mano nell’incavo del suo collo.
E’ caldo, e un battito, seppure debole, si percepisce distintamente.
Sgrano gli occhi, ormai lucidi (da quanto tempo non verso una lacrima? Credo, a questo punto, che non sia oggi il giorno in cui riscoprirò come ci si sente, a piangere).
“Will. Sei proprio tu, Will?” Niente più di un sussurro, ma è la voce di Tessa. E’ viva.
Mi agito. Devo portarla in infermeria, bisogna fermare la fuoriuscita di sangue. Nel frattempo, lei continua a biascicare qualcosa a proposito del Magister. Ma cosa mi può importare del Magister, adesso? Quello è secondario. Ma, in fondo, se non si comportasse così, Tess non sarebbe Tess. E’ per questo che la amo … Ed è inutile negarlo, o comunque, è inutile negarlo a me stesso.
“Will, non è sangue mio.”
“Cosa?” E di chi dovrebbe essere? Mortmain non era ferito.
C’è un che di orgoglio e soddisfatto, negli occhi socchiusi della ragazza.
“Sono stata io. Mi sono trasformata.” Mi spiega il trucco: il suo potere si è nuovamente dimostrato utile, se non indispensabile.
“Ho ingannato il Magister, Will.” Continua lei. “Non lo avrei ritenuto possibile. Era così sicuro della sua superiorità. Ma ho ricordato cosa avevi detto di Boadicea. Se non fosse stato per le tue parole …” Sorride. E quel sorriso mi disarma. La stringo a me, sempre più forte. Ho bisogno di sapere che lei è lì.
Non mi interessa sapere che cos’è. Non mi interessa sapere perché il Magister la vuole. Non mi interessa. La stringo e basta, la mente sgombra.
Ci allontaniamo un po’ e lei mi scruta, con quei suoi occhi grigi.
Si aspetta che io dica qualcosa, e vorrei tanto farlo, ma improvvisamente il raziocinio si rimpossessa di me e, come un muro, mi separa dolorosamente da lei.
Le labbra rimangono sigillate, non ne escono né parole né baci.

Non c’è futuro per un Cacciatore che si trastulli con una strega.
Continuo a ripetermi che l’ho fatto per il suo bene, per il bene di Tessa. Ed è la verità. E’ solo che è stato così difficile pronunciare quelle parole. Prima ha dovuto subire il tradimento del fratello, e ora ha dovuto sopportare anche le mie parole disgustose. Almeno adesso sono certo che, se mai è esistito, nel suo cuore, il germoglio di sentimento per me, ormai l’ho sradicato, estirpato, polverizzato.
Rigiro freneticamente l’anello degli Herondale che porto all’anulare destro, mentre aspetto, sotto la pioggia scrosciante, che qualcuno mi venga ad aprire la porta.
Sono andato nell’unico posto in cui spero di trovare aiuto, e non mi interessa quanti soldi dovrò sborsare, per avere quello che voglio.
Una sorta di appendiabiti ambulante, che riconosco essere un succubo, mi viene ad aprire.
“Desidera?” Mi guarda senza vedermi realmente, gli occhi vacui.
“Voglio parlare con Magnus Bane. E’ qui?” Chiedo, brusco.
“Si, entrate, vi prego.”
Non rispondo, ma non me lo faccio ripetere due volte. Sto congelando e ho fradice persino le ossa. Il succubo mi scorta fino ad un elegante salotto, pieno di mobili massicci, sculture e pervaso da un quasi soffocante odore di pelle.
“Si scaldi, signore. Vado a chiamare il signor Bane.”
Annuisco, tremante. La porta si chiude alle spalle dell’uomo e io getto su una poltrona lì vicino il soprabito. Prendo a passeggiare nervosamente avanti e indietro, di fronte al fuoco, pensando alle esatte parole da pronunciare, al modo in cui porgermi, senza rischiare di essere trasformato in un topo o qualcosa del genere.
Sento la porta aprirsi e mi passo una mano sul volto. Giochiamoci quest’ultima carta.
“William, che cosa diavolo ci fai qui?” Magnus Bane è sorpreso di vedermi, non si aspettava proprio una mia visita. E perché avrebbe dovuto? Di certo non sono famoso per i miei servizi a domicilio a casa degli stregoni. Anche se, tecnicamente, questa villa è di Camille Belcourt.
 “E’ successo qualcosa all’Istituto?”
“No.” Boccheggio. Mi schiarisco voce. “Sono qui di mia iniziativa. Ho bisogno del tuo aiuto. Non c’è … non c’è assolutamente nessun altro a cui potrei rivolgermi.”
“Davvero?” Lo stregone mi si avvicina a grandi passi. Porta una veste da camera, pantaloni di flanella neri e una camicia mezza sbottonata bianca, sotto una vestaglia ricamata dall’aria costosa. Di certo i soldi non gli mancano, mi sembra giusto che si tratti bene. Se non fosse per il colorito scuro e gli occhi da gatto apparirebbe come il più nobile tra gli aristocratici inglesi.
Magnus Bane ritorna sui propri passi e chiude la porta a chiave.
“Perché non mi dici qual’e il problema?”
C’è un che di affabile nelle sue parole. Rimango sul vago, e gli chiedo semplicemente se è nelle sue possibilità trovare quel demone blu, non accennando minimamente al motivo. Purtroppo, oltre per le informazioni sull’aspetto, non gli sono molto utile. So che è una pazzia, me ne rendo conto nel momento stesso in cui parlo, e mi aspetto che lo stregone si metta a ridermi in faccia o che mi cacci via da casa sua. Nulla di tutto questo avviene.
“Cacciatore” sospira, dopo aver meditato per qualche minuto, il silenzio rotto solamente dal crepitio del fuoco nel camino. “Ti aiuterò.”
La mia sorpresa è tale che non riesco neanche a dire ‘grazie’.

Spazio autrice: Salve a tutti! Mi dispiace di averci messo così tanto ad aggiornare ma la scuola è agli sgoccioli e le verifiche e le interrogazioni non solo non accennano a smettere di perseguitarmi, ma, al contrario, si sono moltiplicate in frequanza. Ma a voi queste cose non interessano, quindi parliamo del capitolo! Volevo solotanto dire che non ho intenzione di soffermarmi troppo sui libri che già conosciamo, appunto perchè già sappiamo cosa succede e non potrei mai reggere il confronto con le meravigliose parole della Clare. Dunque, così come è accaduto per L'Angelo, anche per Il Principe e La Principessa i capitoli saranno contati, anche se conto di soffermarmi, come è ovvio che sia, un pò di più sulla Principessa, a rischio di perdermi tra le sue meravigliose pagine per la trecentesima volta. Au revoir! 
P.S. Fra due giorni esce CoHF. Io non posso. Io non posso aspettare che lo traducano ... come farò ad evitare gli spoiler?? 

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Capitolo 17
*** XVII ***


L’Angelo

“Cacciatore, sei ancora tu?” Gracchia la vecchia Mol con il suo insopportabile accento strascicato.
“Sì, Mol.” Sbuffo. “Mi serve il solito.” Ci sono volute molte rassicurazioni da parte mia e giuramenti sull’Angelo, per convincerla che non sono una spia dell’Enclave. Ora, finalmente, riesco a farmi servire senza sottolineare ogni volta quanto il suo aspetto sia folgorante e traslucido.
Il fantasma della donna anziana si allontana un po’, non posso dire di qualche passo per il semplice fatto che fluttua, quasi trasportata dal vento, e recupera un sacco di tela con gli ingredienti che Magnus mi ha chiesto.
Magnus. Mentre faccio scivolare nelle mani del fantasma una collana di fedi nuziali penso all’atteggiamento da prima donna dello stregone.
Ogni volta che mi mostra un demone che ha appena evocato, fa un buco nell’acqua. Non riesce a trovare quello giusto e, giorno dopo giorno, diventa sempre più irritato; addirittura, ieri notte, nemmeno mi ha rivolto la parola, quando gli ho comunicato che quella sorta di verme blu munito di una ventina di zampe e fauci affilate non era il demone giusto. Mi ha semplicemente spedito a fare rifornimenti.
Mi avvio verso casa di Camille e lascio ad Archer gli ingredienti, affinchè li consegni a Magnus.
La notte è calda, ma non è strano per essere metà Luglio. Il silenzio che mi circonda, rotto dai borbottii e qualche urlo stridulo degli spiriti ai quali ormai mi sono abituato da un po’, mi porta, come sempre, a pensare. E dove potrebbero andare i miei pensieri, ora come ora, se non a Tessa? Tutto quello che sto facendo, lo sto facendo per lei. Ci incontriamo nei corridoi e lei fa finta di non vedermi; io, d’altra parte, non do segni di voler comunicare; durante i pasti, invece, ci rivolgiamo la parola nei limiti dettati dall’etichetta. Bisogna dire, però, che ultimamente Tessa non sta molto all’Istituto (Jem ogni giorno la porta a visitare  Londra, i palazzi e i monumenti) e, quando è tra le mura della Cattedrale, se ne sta chiusa in biblioteca, il naso immerso tra le pagine di un libro, e io ho modo di guardarla con calma, perché non sa di essere osservata né, tantomeno, sospetta la mia presenza.
Questo periodo rischia di annoiarmi terribilmente: Charlotte è impegnatissima con l’Enclave, deciso a toglierle la carica di direttrice dell’Istituto; Henry sta lavorando sugli automi di Mortmain, per capire come distruggerli; Jessamine accusa dei frequentissimi mal di testa che la portano a starsene chiusa in camera sua per la maggioranza del tempo. Insomma, l’unico svago è osservare Magnus che, come un gatto che non riesce ad acchiappare la farfalla, rispedisce nella dimensione infernale i demoni sbagliati.

“Credo che ti divertirai un mondo nelle prossime settimane, Will.” Jem, come sempre, ha un’espressione calma dipinta sul volto, nonostante la sua irritazione risalente a qualche momento fa. Siamo appena usciti dalla sala del Consiglio, dove il Console ha dato a Charlotte un ultimatum di tre settimane, al fine di trovare il Magister.
“Lo credo anche io.” Ribatto. “Sarò
radioso, nel prendere ripetutamente a pugni il volto di Gabriel.”
“Potrebbe non occorrere il tuo intervento.” Aggiunge Tessa, la quale sta guardando distrattamente fuori dal finestrino della carrozza che ci riporta all’Istituto. “Temo che finirà con un coltello conficcato in un piede in meno di dieci minuti, se questa storia dell’addestramento è vera.”
Non ha preso bene questa cosa dell’allenamento di base per lei e Sophie; io, dal canto mio, sono contrario a prescindere: non mi piace che Gideon e Gabriel Lightwood vengano a frugare nell’Istituto. Ho paura che qualcosa possa andare storto, a parte la brutta faccia di Gabriel, ovviamente.

Tessa se ne sta lì, ritta davanti alla libreria, a controllare Christabel di Coleridge. Accanto a lei, su un leggio, un Church dormiente, il pelo voluminoso e blu.
Vorrei potermene semplicemente andare, ma non riesco a stramene zitto, come al solito.
“Controlli che la mia citazione sia esatta?” Tessa lascia cadere la copia del libro. Un tonfo che rimbomba sulle pareti di pietra. “Ti assicuro che ho una memoria di ferro.”  Mi chino per raccogliere Coleridge e le porgo il volume. Nell’incontrare il suo sguardo scorgo un misto di disgusto e diffidenza.
“Hai intenzione di riprenderti Coleridge, o devo rimanere per sempre in questa situazione piuttosto stupida?”
Tessa si riprende il libro e mi scruta freddamente. Questo gelo nel suo comportamento mi fa rabbrividire, ma le sue parole sono ancora peggio.
“Se vuoi usare la biblioteca, puoi farlo senza problema. Ho trovato quello che cercavo, e siccome si sta facendo tardi …”
“Tessa …” La interrompo. Dopo qualche esitazione, ricomincio a parlare: “La prima volta che ti ho mostrato la biblioteca, tu mi hai detto che il tuo libro preferito era Il vasto, vasto mondo. Pensavo che magari ti avrebbe fatto piacere sapere che l’ho letto.”
Mi sento come un bambino che tenta disperatamente di ricevere un complimento, un elogio, dalla mamma. Il bambino rimane disperatamente deluso.
“E l’hai trovato di tuo gradimento?”
Se Tessa è veramente la ragazza che penso che sia, mi risponderà. Ribatterà. “Per niente. Penso che sia melenso e sentimentale.”
Ancora nessuna reazione da parte sua.
“Hai qualche altra segnalazione di autori americani?”
“A che scopo, se disprezzi i miei gusti? Penso che dovreste riconoscere che siamo piuttosto lontani in fatto di letture, e non solo, e cercare altrove delle segnalazioni, signor Herondale.” Ho la bocca asciutta. Che significa: signor Herondale? Passiamo da Will a “Signor Henrodale”?! Sono irragionevolmente arrabbiato con lei. Perché non può capire? Io pensavo …
Senza accorgermene ho parlato ad alta voce.
“Cosa pensavi?” Nessun sentimento nella sua voce. E’ così … vuota.
“Che potessimo almeno parlare di libri.” Dico, quasi giustificandomi. La mia vita sta andando a rotoli, inutile negarlo. Nessuna magia di Magnus regge, qui.

Domani io, Jem e Tessa andremo a York. Jem ha scoperto che le ragioni del comportamento di Mortmain, del suo odio nei confronti di noi Nephilim, possa esserci spiegato da Aloysius Starkweather, il direttore dell’Istituto locale.
Stamattina sono andato in una piccola libreria a Piccadilly Circus e ho comprato una copia di Vathek, di William Beckford. L’ho consigliato a Tessa l’altro giorno in biblioteca, durante quel nostro “diverbio letterario”. Ho scritto cinque terribili versi in rima sul frontespizio della prima pagina. Mi è sembrato un buon inizio per seppellire l’ascia di guerra. Forse non potrà mai amarmi perché l’ho ferita troppo, o forse sarò io a scansarmi, la maledizione che mi impedisce di fare tutto come vorrei, ma non voglio il suo odio, o peggio: la sua indifferenza.
Poggio il volume a terra, davanti alla sua porta; se sono fortunato non sta ancora dormendo. Mi preoccupo di fare quanto più rumore possibile, senza però bussare.
Mi allontano velocemente, silenzioso, nascondendomi nel buio pesto del lato opposto del corridoio.
Passi leggeri, la porta che si apre. Una mano, illuminata dalla candela dentro la stanza, che prende il libro. Un momento di esitazione. La porta che si chiude.
Ritorno sui miei passi e appoggio delicatamente l’orecchio alla porta. Una risata cristallina bruscamente interrotta. Sorrido nel buio.
Non sono nessuno per affermare o smentire l’esistenza di un dio, ma in questo momento sono sicuro di aver sentito il suono degli angeli.

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Capitolo 18
*** XVIII ***


L’Angelo

King’s Cross è gremita: bambini che si rincorrono accanto ai binari inseguiti dalle madri che, giustamente, temono che possano cadere ed essere travolti dai treni in arrivo(non sono affatto rari gli incidenti di questo genere); giovani coppie che partono per la luna di miele; gentiluomini in abiti comodi, la valigetta sotto braccio, pronti ad una giornata di lavoro.

Nell’aria, l’odore è un misto di tabacco, profumo femminile e sudore. Più in là, scorgo Jem, che sta velocemente scortando Tessa dentro il treno, proteggendola da spintoni e colpi poco piacevoli di carrello.

Con un’espressione disgustata, e le narici invase dal puzzo del fattorino evidentemente ubriaco, consegno al suddetto i bagagli.
E’ a King’s Cross che sono arrivato a Londra, dopo aver preso il treno in Galles, circa cinque anni fa. E’ un viaggio che non potrò mai dimenticare: le montagne verdi che piano piano lasciavano spazio a colline più dolci, gli alberi quasi spogli, in vista dell’inverno, e qualche tenuta nobiliare, in lontananza. All’epoca, avevo portato con me soltanto una sacca di cuoio con dentro qualche libro, una borraccia piena d’acqua, uno spuntino e qualche sterlina, per pagare il viaggio.
Londra mi aveva fin da subito intimorito. Tutto era, tutto
è, così confusionario, frenetico. La gente passava senza neanche notarmi, senza chiedersi perché un ragazzino di dodici anni, da solo, fosse in lacrime e girovagasse per la stazione, e poi per le strade, tentando disperatamente di orientarsi con una vecchia mappa rubata dallo studio del padre. Solo una persona mi aveva fermato, durante il tragitto: un vecchio sporco in faccia con un berretto calcato sugli occhi. Con voce tremolante, mi chiedeva l’elemosina. Inutile nascondere che sono scappato, terrorizzata dall’idea che potesse trattarsi di un demone camuffato.
Chiudo dietro di noi lo sportello del treno che, meno di due secondi dopo, parte. E’ difficile trovare uno scomparto vuoto ma, dopo aver girato a vuoto per due vagoni, ne troviamo uno libero, e io e Jem ci sediamo accanto, mentre Tessa ha già il naso incollato al finestrino, sul sedile opposto. E’ fradicia di pioggia e il cappellino (che potrà anche abbinarsi splendidamente con la carnagione di Jessie, ma che su Tessa non sta affatto e continuo a non capire perché voglia rovinare la sua immagine con simili cappellini) non le è servito a ripararsi.
“Ti sei portata qualcosa da leggere in viaggio?” Domando con finta non curanza. E’ da ieri notte che non penso ad altro che a lei immersa in Vathek, ma lei risponde: “No. Ultimamente non mi è capitato nulla che mi ispirasse in modo particolare.” Contraggo la mascella. Eppure l’ho sentita ridere! Cosa devo fare, esattamente, per farmi perdonare? Ballare il tango con un’anatra? Baciare un’anatra? Farmi mordere da un’anatra nel-
Va bene, basta con le anatre. Con un brivido che mi attraversa la schiena, mi concentro sulla conversazione tra Jem e Tessa. Stanno parlando di campagne.
“Lo Yorkshire non ha niente di eccezionale.” Mi intrometto. “Colline e vallate, nessuna vera montagna come da noi in Galles.”
“Ti manca il Galles?” Mi chiede lei.
Ogni giorno.
“E cosa dovrebbe mancarmi? Le pecore e le canzoni? O quella ridicola lingua? Fe hoffwn i fod mor feddw, fyddai ddim yn cofio fy enw.” Il mio gallese è un po’ arrugginito, non parlandolo da molti anni, ma quella frase mi è rimasta impressa, da quando quel vecchio pastore l’aveva urlata per la casa, correndo come un pazzo. Era entrato nella nostra tenuta, prendendo la piccola Cecily, che allora aveva cinque anni, in braccio e sollevandola in aria, quasi fosse un aquilone. Papà aveva dovuto tramortire l’uomo con una bottiglia di brandy, prima di riuscire a liberarsene. Tuttora non capisco come abbia fatto un capraio ad entrare nella nostra tenuta …
“Che significa?” La voce di Tessa mi riscuote.
“Voglio ubriacarmi tanto da non ricordare più il mio nome.” Il capraio era stato accontentato. Qualche giorno dopo l’avevamo ritrovato in paese che girovagava senza meta, chiedendo a chiunque passasse se sapesse chi fosse.
“Non mi sembri molto patriottico. Non stavi ricordando le montagne?”
“Patriottico?” Sollevo il labbro in un ghigno. “Te lo dico io che cos’è patriottico. In onore del mio luogo di nascita, ho il drago gallese tatuato sul …”
Jem mi interrompe, un po’ turbato dalla mia voglia di
mostrarmi. “Sei di un umore incantevole, William.”

“Allora, James? Che ne pensi?”
Me ne sto accucciato sul letto di Jem, le gambe al petto e il mento sulle ginocchia, mentre lui si sta sciacquando nella penombra della stanza dell’Istituto di York (algida e monacale) prima di mettersi addosso gli indumenti per andare a dormire. Ha profonde occhiaie intorno agli occhi e, nonostante non ne faccia parola, è ovvio che il viaggio lo ha stremato.
“Penso che Starkweather abbia terrorizzato Tessa, con tutte quelle spoglie.” Strabuzzo gli occhi.
“Sì, su questo non c’è dubbio –era meno spaventata, quando l’ho trovata nella Casa Oscura, in effetti- ma non stavo parlando di Tessa. Mi riferivo a Mortmain.”
Jem si passa una mano bagnata sul volto. Decine di goccioline gli imperlano ciglia e sopracciglia, fino a colare lungo le guance, come lacrime,
“Direi che, talvolta, l’Enclave se le cerca. E che è una fortuna che oggi esistano gli Accordi, per quanto fragili.” Termina la frase sottovoce.
“L’Enclave si crede indistruttibile. E al di sopra di tutto.” Assento. “Persino al di sopra dei suoi stessi membri.” Penso al modo orribile in cui il Consiglio ha trattato Charlotte.
Cala il silenzio mentre, con metodici gesti, Jem prende una stecchetta di legno e, dopo averla immersa nella scatola dello yin fen, inala la polvere argentata che si è depositata sulla superficie.
Nei primi tempi, Jem voleva rimanere da solo, mentre assumeva la droga. Si sentiva ripugnante, niente meno di un oppiomane; ma già dal primo giorno in cui siamo stati uniti dalla cerimonia parabatai, gli ho imposto la mia presenza. “Dove andrai tu, andrò anche io.” Gli avevo ricordato, e lui mi aveva invitato a non prendere il giuramento così alla lettera.
“William, mi piacerebbe continuare a parlare, ma domani dobbiamo andare a Ravenscar Manor e io …” io suoi occhi terminano la frase per lui: non mi sento affatto bene. Mi alzo in piedi e gli stringo una spalla.
“Non fare brutti sogni, o sarò costretto a cantarti una ninna nanna.” Ghigno, in una rozza imitazione del già abbastanza rozzo Starkweather.
“Dormi, bambino
al demone rompo il canino.
Squartiamo e sbudelliamo
finchè non torna il mattino-”
“Buonanotte, William.”
Mi chiudo la porta alle spalle.

L’aria notturna di York è fresca. Dietro di me, la semplice chiesa che ospita l’Istituto appare come un rudere.
Sono venuto a York, una volta, con la mia famiglia. E’ stato molto tempo fa e non ricordo bene l’intere gita, ricordo però la felicità di quei momenti. Mamma e papà, ancora abbastanza giovani da non curarsi della gente che li guardava, mentre si baciavano teneramente per le strade acciottolate. Cecily che per fare qualche passo ci metteva tutta l’attenzione possibile e che, quando falliva miseramente, non piangeva mai, e di questo bisognava dargliene atto. Infine, Ella. Ella, la versione femminile di papà, badava a Cecily e cercava di tenermi sotto controllo, nonostante scorrazzassi di qua e di là, alla ricerca del luogo dove si sarebbe dovuta tenere la conferenza di Lewis Carroll, di cui avevo letto sulle pagine di un giornale.
“Sei morto per caso?”
Una vocina esile interrompe il flusso di ricordi. Abbasso lo sguardo, perché intorno a me non c’è nessuno, ma, seduta ai miei piedi, c’è la figura di una bambina. La manina aggrappata al mio soprabito e i contorni traslucidi.
“No. Ancora no.”
“Stai morendo?”
“Non che io sappia.”
“Peccato.” Borbotta.
Tento di ignorarla e faccio per andarmene, ma il mio senso civico mi impedisce di piantare in asso un fantasma in difficoltà.
“Hai bisogno di aiuto?” Mi inginocchio di fronte a lei, tentando di apparire affidabile. Non capisco come possa una bambina di sei, sette anni ad essere diventata un fantasma. Insomma, come fai ad avere questioni in sospeso, a sei, sette anni?”
“Sono sola. Non trova papà.” Piagnucola e gli occhi completamenti bianchi vengono parzialmente coperti dalla palpebre socchiuse, il viso improvvisamente impaurito.
“E’ morto anche lui?” L’espressione della bambina si tramuta nuovamente. Un ghigno, e la figura prende un aspetto completamente diverso: il mio.
Mi alzo di scatto, scansando un pugno.
“E io che pensavo di poter trascorrere una serata tranquilla!” Sbotto.
“E io che pensavo di poter trascorre una serata tranquilla!” Mi imita il demone.
Corro veloce dietro un carretto e recupero una spada angelica dalla tasca. Per fortuna ne tengo una in ogni capo di vestiario.
Rinforzando la stretta, corro fuori dal nascondiglio, ma la strada e vuota. Un sibilo.
“Aihel!” Evoco. Prendo l’Eidolon di sorpresa e, sempre con il mio aspetto (quanto mi ripugna, questa cosa), si accascia a terra, la lama angelica affondata nello stomaco fino all’elsa. Infine sparisce, rimandato nell’inferno da cui proviene.
Mi sembra ovvio che Starkweather non stia facendo un buon lavoro, come direttore dell’Istituto, ed è altrettanto evidente che l’Enclave stia aspettando che tiri le cuoia, per sostituirlo.

Il pendolo del corridoio segna la Mezzanotte. Mi avvio verso la camera assegnatami ma la mia attenzione viene rivolta verso un’altra stanza, dalla quale provengono delle deboli grida.
Lì dentro c’è Tessa, e non ci penso due volte, il cuore in gola che galoppa forsennato, prima di spalancare la porta e apprestarmi accanto al letto. Si gira e rigira sotto le coperte, come se fosse posseduta, e il sudore le imperla la fronte.
“Tess. Tess, stai sognando. Sveglati, svegliati …” Le sussurro, il battito più regolare, ora che ho la certezza che non c’è nulla che la minacci.
Si mette piano a sedere, gli occhi spalancati. Credo che in un primo momento non si renda veramente conto della mia presenza. Mi guarda, ma non mi vede. Poi, finalmente, sussurra: “Will …”
“Che cosa hai sognato?” Domando, mantenendo un tono di voce basso.
“Ho sognato che venivo smontata.” Indugia, come per riprendere fiato. “Che i miei pezzi venivano esposti alle risa dei Cacciatori.”
“Tess … Dio maledica quel demonio di Starkweather per averti mostrato quella roba, ma sappi che non è più così. Gli Accordi hanno vietato la memoria delle spoglie. E’ stato solo un sogno.” Le sistemo le ciocche sfuggite dalla treccia dietro un orecchio.
Tessa mi guarda meglio, esaminandomi con la lucidità che si può avere solo dopo che ti sei svegliato velocemente. “Dove sei stato?”
Penso all’Eidolon che ha preso il mio aspetto … alla bambina in cui si era trasformato … Sono stato proprio uno stupido a non accorgermi del pericolo.
“A fare il ragazzaccio. Come sempre.”
La invito a tornare a dormire, ma lei è ancora scossa. Non le posso dare torto, questo posto mette i brividi.
“Non lascerei che ti toccassero un solo capello. Lo sai, non è vero?”
Avvicino il volto al suo. Non stiamo così vicino da settimane, settimane in cui ho rischiato di diventare più matto di Starkweather. Sto per baciarla, ma lei si scosta e il mio sembra il bacio sulla guancia di un bambino imbranato. Perché quando Tessa è nelle vicinanze, improvvisamente io divento incapace di comportarmi normalmente? Qual è il mio problema?
“No … Non lo so, Will … Hai chiarito molto bene cosa sarei per te. Mi consideri un giocattolo con cui divertirti. Non saresti dovuto venire qui, non sta bene.”
Rimango a corto di parole. “Hai gridato …” biascico. Lo stomaco stretto in una morsa.
“Ti penti di quanto hai detto quella notte sul tetto? Puoi sostenere che non intendevi quanto hai detto?”
Distolgo lo sguardo dai suoi occhi. Rischierei di vuotare il sacco, se non lo facessi.
“No, l’Angelo mi perdoni, non posso.”
“Ti prego vattene.” Le trema la voce.
“Tessa …”
“Ti prego.”
Questa, decisamente, non è la mia giornata.

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Capitolo 19
*** XIX ***


L’Angelo

Cecily. Cecily. Cecily.
Ormai è una donna.
Diverse immagini si sovrappongono nella mia testa.
Cecily che corre intorno alla nostra tenuta. Cecily per la prima volta su un cavallo. E poi questa sconosciuta. Questa donna che, inconsapevole della mia presenza, della presenza di suo fratello, entra in quella che dovrebbe essere stata casa di Mortmain, una volta. Che ci fa lei qui? E se c’è lei, lì dentro, ci sono anche i miei genitori?
Corro verso di lei, poche colline ci separano ma, ad un tratto, qualcuno mi afferra da dietro e mi blocca.
Metto insieme poche frasi. Perché Jem, il mio Jem, il mio parabatai, non capisce quanto sia importante avvertirla?! Perché non mi permette di metterla al sicuro?
Rotoliamo per qualche metro in mezzo all’erba e al fango. Jem non ha intenzione di lasciarmi andare, ma sono io stesso a bloccarmi, nel momento in cui mi fa notare un automa. E’ una trappola? Non lo so, il mio cervello non è in grado di pensare razionalmente. Tutti questi anni a pensare alla mia famiglia, a mia sorella, e ora rivedere quest’ultima … E’ una pugnalata dritta al cuore.
Jem mi lascia andare, e io riprendo a correre, ma dalla parte opposta, in modo da allontanare quell’automa, insieme ad altri, probabilmente, dalla mia famiglia.
Quasi non mi accorgo che Jem mi sta alle calcagna. Per una volta, dopo tanto tempo, non mi sto preoccupando di Jem, non gli do ascolto … ma lui capirebbe, se glielo spiegassi, o forse no? Forse mi sono solo illuso di disporre di una persona tanto buona e tanto salda. Quel demone, tanti anni fa, mi ha privato anche di questo.

Tutto il viaggio di ritorno a Londra è un rimuginare sugli ultimi tempi, e sulla nostalgia di quelli più antichi.
Nel momento stesso in cui il portellone del treno si apre, io sguscio fuori.
C’è solo un posto in cui ho bisogno di andare.
Una sola persona che ho bisogno di vedere.
Magnus Bane.

“Voglio che tu mi mandi laggiù. Nel regno dei demoni. Puoi farlo, no?”
Le mie parole suonano folli alle mie stesse orecchie.
“E’ magia nera. Non proprio negromanzia, ma …”
“Nessuno dovrà saperlo.”
“Certo, come no … Certe cose vengono sempre a galla. E se l’Enclave scoprisse che ho mandato uno dei suoi più promettenti Cacciatori a farsi fare a pezzi dai demoni in un’altra dimensione …”
“L’Enclave non mi ritiene promettente. Non sono promettente. Non sono niente, né lo sarò mai. Non senza il tuo aiuto.” Non voglio commiserazione, non cerco complimenti né rassicurazioni. E’ per questo che mi piace così tanto Magnus, credo. Mi tratta come merito di essere trattato. Le cose me le dice in faccia; la nuda e cruda verità me la sbatte davanti agli occhi. Infondo, a lui che cosa importa di me? E’ un immortale. Ai suoi occhi noi uomini, Cacciatori e Mondani, dobbiamo apparire come formiche, o poco più. Io, più di tutti, gli devo sembrare patetico.
Sono un ammasso di esperienze negative contornate dall’alcol, agli occhi degli altro, e io stesso comincio a credere alle mie stesse bugie. Mi sono perso. A volte, con Jem, mi ritrovo, ma non è abbastanza per vivere. A questo punto, senza Tessa, senza la mia famiglia, senza me stesso … a cosa servo? L’Enclave mi ha fatto ben capire, in svariate occasioni, quello che pensa di me: sangue cattivo. Edmund Herondale è stata una vergogna, e io non sono da meno, anche se per motivi diversi.
Perché Magnus è così riluttante? Perché non mi spedisce direttamente in mezzo ai demoni? Se non altro, si risparmierebbe altre sgradite visite da parte mia. E invece, al posto di iniziare a pronunciare incantesimi, mi pone domande.
Cosa gli importa se amo una donna che non potrò avere, perché mi odia e perché io sono veleno; che gli importa se Jem mi ama, così come io amo lui? Come faccio a spiegargli che mi sono concesso Jem solo … solo perché è in punto di morte? Che razza di mostro penserebbe che sono, se gli confessassi tutto questo?
Non so come, però, mi ritrovo a raccontare tutta la verità a Magnus. Gli racconto di quel giorno in biblioteca, della pyxis, del demone, della maledizione, di Ella, di come sia morta, durante la morte, di come fosse diventato il suo corpo privo di vita, quasi marcio.
Magnus mi congeda con gentilezza. Non mi manderà nella dimensione demoniaca.
Sono così arrabbiato. Perché tutti mi devono dire cosa fare e cosa non fare? Che ne sanno gli altri di me? Diamine, io sono il padrone della mia vita, eppure ho perso anche questo diritto.
La mia mente è confusa. Mi guardo intorno spaesato. Dove devo andare?
Non credo di avere la forza di affrontare tutti … Ovviamente loro non hanno la minima idea di dove io sia stato, ma sono così stanco che mi sarebbe impossibile persino inventare una menzogna.
Devo liberarmi dai pensieri, e così faccio.
Il covo degli ifrit appare davanti ai miei occhi come l’acqua ad un esploratore del deserto: una magnifica promessa di felicità.

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Capitolo 20
*** XX ***


L’Angelo

Questa è bella. Seriamente, mi sto trattenendo dal ridere. Marbas mi ha mentito. Marbas mi ha ingannato. E’ stata tutta una bugia, una messinscena. Non sono maledetto. Non lo sono più. Non lo sono mai stato. Mi ha fatto uno scherzetto. Che ridere. E’ come se avessi vissuto per anni con del piombo nel petto, ad appesantirmi sempre più fino ad esserne quasi schiacciato e poi mi fossi reso conto che quello non è piombo, che si tratta solo di ossa. E che quello è il normale peso del corpo, e che è troppo per me. Io non ho mai avuto nulla che non andasse. L’amore di Ella per me non è stata la causa della sua morte. Io non ho mai avuto bisogno di farmi odiare. Non ho mai avuto bisogno di andare nelle taverne, o meglio, di andare in giro senza meta di notte, da solo, per ritornare all’Istituto la mattina con mille e uno storie sulle mie scorribande. Magnus dice che ho ancora tanto tempo davanti e che cinque anni non sono niente però … ho perso tutto, in questi cinque anni. In realtà, non ho mai avuto nulla. Ora, è venuto il momento di conquistare ciò che mi è stato sempre precluso. Tessa.
Potrò parlarle, baciarla. Tutto senza quel terrore che mi assilla da così tanto. Mi sento strano. Mi sento bene. Non mi sentivo così da anni. Nonostante percepisca il tempo perduto come irrecuperabile, sono pieno di possibilità. Voglio dire tutta la verità a Tessa. E anche a Jem. Con lui sarà difficile, perché dovrò ammettere il mio peggiore peccato, però non ho intenzione di essere un codardo. Lui non merita un codardo come parabatai.
E’ buio, ma sono solo le sei. Un’idea mi balena in mente e non ho intenzione di starci a pensare troppo. Basta pensare. Non voglio più calcolare nulla; non voglio più dirigere uno spettacolo di burattini in cui io sono anche spettatore e strumento.
Corro verso Piccadilly Circus. La libreria è aperta. Con la sicurezza dettata da anni di incursioni in questo luogo meraviglioso mi avvicino allo scaffale dei romanzi degli autori più in voga. Le copie di Dickens, ovviamente, svettano dove qualsiasi occhio può cadere. Trovo una bella edizione di “Racconto di due città”, nuova con un’elegante rilegatura. Sfoglio qualche pagina per assicurarmi che sia in buone condizioni e vado a pagare. Ringraziando l’Angelo, ho sempre dei soldi in tasca.
Nonostante l’oscurità della sera, rischiarata da qualche lampione, la strada verso l’Istituto non mi è mai parsa tanto luminosa.
Le massicce porte si aprono sotto il mio tocco e corro in camera mia. Come uno scrittore totalmente dominato dalla sua arte, afferro la stilografica e inizio a tracciare parole che, senza attraversare la mente, dal cuore si riversano sulla pagina, riempiendola di ghirigori neri. Tutto ciò che ho provato fin da quando l’ho conosciuta, si riversa nel nostro linguaggio comune: pura e semplice parola scritta. E’ la seconda dedica che le scrivo. Se in quella su Vathek ero in cerca di perdono e tentavo di strapparle un sorriso che mi avrebbe scaldato il cuore per i giorni successivi, in questa ho riversato sentimenti che ho dovuto chiudere in gabbia per troppo tempo. Anche se, pensandoci bene, su quel balcone il sentimento c’era e come, con o senza bibite fatate. Sorrido e arrossisco a quel ricordo. La schiena contro la sedia, lo sguardo posato sul soffitto, un sorriso da idiota stampato sul volto. Potrebbero anche passare i demoni a distruggere ogni cosa. Sorriderò per sempre.

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Capitolo 21
*** XXI ***


L’Angelo

“Jem ha chiesto la mia mano, ed io ho accettato.”
Fino a dieci minuti fa era l’uomo più felice del mondo, non solo perché ero libero da qualsiasi maledizione- compresa quella della mia mente- ma anche perché la sifilide demoniaca è stata, finalmente, riconosciuta come reale. Ho sempre avuto ragione, per l’Angelo! Tuttora, devo ammetterlo, sono piuttosto esaltato, ma parte di questa gioia si è dispersa, scomparsa. Puff …
Jem, il mio parabatai. Jem, il mio migliore amico. Jem, il mio Jem.
Jem è fidanzato. E con chi? Con Tessa!
Ma come è stato possibile? Non sapevo neanche che gli piacesse.
Tutto ciò mi fa solo sentire più in colpa. Non scarico il mio risentimento su Jem, o su Tessa. Jem non poteva sapere, e Tessa non era costretta ad aspettarmi. In effetti, posso anche capire che mi odi un po’, dopo tutte le cose orribile che le ho detto, e che ho fatto.

Sono appena tornato dalla camera di Jem, che mi ha annunciato il fidanzamento. Aveva un’espressione così felice, così … rilassata.
Io non sono mai stato capace di dargli questa tranquillità. Non mi chiamo Tessa e non sono solito vestire crinolina e merletti, in effetti.
Avevo pensato … ho creduto di poter rompere questo fidanzamento, ma non posso. Se il mio parabatai ha trovato la felicità, chi sono io per mettermi sulla sua strada e bloccarlo?
Il mio sguardo si posa sul regalo che avevo preparato per Tessa. Non posso certo darglielo, a questo punto. Non potrò darglielo mai, neanche una volta che Jem …
Non riesco nemmeno a pensarci. No, quei due devono stare insieme. Me ne prendo la responsabilità.
Pensa alla sifilide demoniaca, Will. Pensa a quella. Dimentica. Dimentica. Dimentica.

Siamo a cena. Non ho dimenticato. Jem sta annunciando a tutti il fidanzamento. Leggo la sorpresa sui volti di Charlotte ed Henry. Cala il silenzio. Mi sento imbarazzatissimo -perché leggo la delusione sul volto di Jem – e ho una nausea fortissima, ma porto in alto il calice di vino, tirando fuori un sorriso. Non mi viene poi tanto difficile, perché sono davvero felice per Jem. Posso farcela, fino a quando non penso che la donna che sta per sposare è la mia Tessa.
“Possano le vostre vite essere lunghe e felici. Congratulazione, fratello.” Sento il cuore che implode. Sento un cristallo che si frantuma in mille pezzi. Ma me ne sono preso la responsabilità.

Stiamo ancora cenando. Charlotte ha dichiarato di essere in cinta ed io non ho mai visto Henry e Charlotte guardarsi in questo modo. Perché sono tutti così maledettamente felici?! Perché, invece, devo essere sempre io quello solitario e deprimente?
Ma non ho ancora toccato il fondo. Ho un presentimento. Qualcos’altro sta per accadere.
E la vedo. Una ragazzina, non può avere più di quindici anni, sulla soglia della porta. Capelli neri e occhi blu. Cecily.
Ecco, ora ho toccato il fondo.

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