Zabluda occhi di mare di nafasa (/viewuser.php?uid=42247)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Il discorso di Zabluda ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque: Gli eroi non esistono ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci: L'umano si da un po' da fare ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici: Un bel guaio ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
CAPITOLO UNO
Ci
trasferimmo in periferia dopo che mio padre perse il lavoro. Sono
tuttora
convinto che non ci sia stato alcun taglio del personale. Semplicemente
mio
padre beveva, e qualche sera tornava a casa troppo ubriaco per andare
al lavoro
la mattina dopo. Qualche sera a casa non ci tornava affatto. Mia madre
stava
sveglia fino a tardi ad aspettarlo e la mattina dopo la trovavo
addormentata
sul tavolo della cucina, su una rivista di quelle che raccontano tutte
le
storie delle star. Chi va a letto con chi, chi si sposa con chi, chi si
droga
con chi, insomma le tipiche storie da divi. Era addormentata con gli
occhiali
storti e la faccia tutta schiacciata. All’inizio mi veniva da
piangere a
vederla così, poi mi ci sono abituato.
Per farla
breve non riuscimmo più a pagare l’affitto e ci
buttarono fuori. Così trovammo
una sorta di topaia nella ex zona industriale che faceva al caso
nostro. Non so
se ci fosse un padrone, ma se c’era noi non
l’abbiamo mai visto. Il nostro
trasloco fu più simile a una fuga: una cosa molto silenziosa
e rapida. Abbiamo
preso le nostre cose e con l’aiuto di degli amici di mio
fratello in poche ore
era tutto finito. Gli amici di mio fratello erano delle specie di
montagne
umane. Mi ricordo che desideravo di avere quei muscoli un giorno. Ero
un
ragazzo molto magro, cosa che sembrava preoccupare mia madre in maniera
che
giudicavo eccessiva. Era una donna del popolo, per lei più i
suoi figli erano
grossi più erano belli. Io la deludevo, anche se mangiavo un
sacco non mettevo
su niente. Una disperazione. Per me e per lei. Mio fratello invece si
divertiva
un sacco a mostrarmi i suoi muscoli e sghignazzare, lo faceva sentire
un vero
uomo. Aveva diciannove anni, quattro più di me, e lavorava.
Riparava
macchinari, molto grossi e pesanti, intuivo.
Quando
cambiammo casa ci lasciammo dietro mio padre. Credo che la silenziosa
speranza
di mia madre fosse che non ci cercasse, né lui né
altre persone, gente a cui
dovevamo soldi per lo più. Non credo si illudesse di
scomparire nel nulla, solo
di far smarrire le tracce per il tempo necessario per raggranellare un
po’ di
denaro o per far rimpiangere a mio padre la sua famiglia, o
semplicemente di
essere nato.
Durante la
mia adolescenza mia madre faceva le pulizie in delle case, case di
gente ricca.
Portava sempre a casa una marea di avanzi di cibi raffinati che io e
mio
fratello divoravamo insieme alla poca spesa che facevamo noi stessi.
Così sono
cresciuto a caviale e patatine, popcorn e escargot. Potevo dedurre la
situazione economica della famiglia dal contenuto delle vaschette che
ci
arrivavano. C’è stato un periodo in cui non
arrivavano, e là è stata dura.
Io andavo a
scuola, a casa volevano che studiassi, ma a me l’idea non
piaceva per niente.
Andavo male, anche se mi impegnavo, e non mi piaceva il posto. Mi
sentivo a
disagio. Nonostante fosse una scuola senza pretese tutti lì
dentro facevano a
gara per essere un po’ migliori degli altri. Il libro di
matematica riparato
con lo scotch, i vestiti con toppe colorate che tentavano di sembrare
accessori
di moda. Non li sopportavo. E non avevo voglia di incartare i miei
libri solo
per essere “in”. L’ho fatto per un
periodo, ma ho capito che non bastava
quello, bisognava essere sempre pronti a inventarsi qualcosa di nuovo,
a
gareggiare all’ultimo smagliante falso sorriso. E io non ne
avevo voglia.
Durante il mio periodo “libri incartati” ero
convinto che avrei fatto colpo su
qualche ragazza, attirata dai vivaci colori che uscivano dal mio zaino,
ma non
è stato così. Si vede che faceva un po’
contrasto con la faccia depressa e i
vestiti quattro taglie troppo grandi.
Non ero
eccessivamente triste comunque, semplicemente nell’incertezza
tra che faccia
indossare nei giorni normali sceglievo quella meno faticosa.
Ero un
ragazzo solo, secondo mia madre, il che voleva dire che non portavo a
casa
nessun amico. In realtà un amico l’avevo avuto
nella vecchia casa, ma poi non
ci eravamo più visti. Ogni tanto stavo con mio fratello e i
suoi di amici, ma
lui non mi voleva, così con un ghigno mi diceva:
“Ma tu non dovevi vederti con
Julia/ Mara/Sofia/Celine?”. Ogni volta si inventava un nome
di ragazza diversa,
e tutti ridevano, perché sapevano che ero solo come un cane.
Una ragazza. Era
tutto quello che volevo. No, non è la verità.
Detta così sembra quasi che
volessi una relazione seria e duratura. Non era così. Io
volevo solo farmi
qualcuna. Non che disdegnassi le femmine e le considerassi solo
oggetti, o cose
simili. Mi sarebbe piaciuta una storia. Avrebbe voluto dire avere
sempre una
disponibile. Ma non puntavo così in alto. Non credevo che
qualcuna mi volesse
per più di una semplice scopata. Non avevo una grande
autostima da ragazzo.
Un giorno
avevo un compito per il quale non avevo aperto libro, così a
scuola non ci
andai affatto. Era la prima volta che marinavo e non avevo molte idee
su come
passare la mattinata. L’unica cosa che si poteva dire a mio
vantaggio era che
ero del tutto al sicuro. Mia madre era a lavoro fino a sera e avevo
coperto
tante di quelle volte mio fratello che non avevo di che preoccuparmi.
Ho girato
per un po’ tra i capannoni, prendendo a calci qualche pietra,
poi mi sono
stufato e mi sono seduto per terra, con la schiena appoggiata a un
muro, a
disegnare nella terra battuta. C’era il sole ed era parecchio
che non pioveva,
così il bastoncino faceva fatica a tracciare dei segni sulla
terra riarsa. Fino
a pochi anni prima quella zona era abitata. Gente di tutti i tipi, che
viveva
nei capannoni. Ma un giorno erano spariti. Volatilizzati. La notizia
era corsa
fino alla città e a tutti i dintorni. Mia madre diceva che la Sparizione
era stata la
botta finale. Da quel momento in poi era andato tutto a farsi benedire.
Il
bastoncino incontrò un pietra e si spezzò tra le
mie mani. Lo tirai lontano.
Nel farlo alzai la testa e scorsi un movimento all’ombra di
una lamiera. Mi
bloccai. Poteva essere un cane randagio. Magari rabbioso. E se ce
n’era uno
potevano essercene altri intorno. Si muovevano spesso in tanti. Avevo
sentito
storie di branchi di cani famelici che erano regrediti allo stato
selvaggio e
cacciavano praticamente qualunque cosa si muovesse. Racconti terribili,
che
sembravano studiati a posta per non farci addentrare tra i capannoni, e
probabilmente lo erano. Io li giudicavo storie senza senso, nate dalla
fantasia
malata dei miei coetanei, senza sapere che gliele avevano raccontate i
genitori
da piccoli. Ero un ragazzo di città, l’animale
più aggressivo che avevo
conosciuto in vita mia era un ratto. Non ci potevo credere. Ma in quel
momento
mi tornarono in mente quei racconti. Rimasi paralizzato. Ero in
trappola. Tenni
fissi gli occhi nel punto in cui avevo visto qualcosa, con la mente che
valutava frenetica le possibilità di fuga e i muscoli
rigidi, pronti a
scattare. Ma feci un balzo in piedi, quando dall’ombra emerse
la cosa più
strana che avessi mai visto.
“Quo
vadis,
gnat?”
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
CAPITOLO DUE
Mi resi
conto con tutta evidenza che non era un cane randagio. Parlava. In quel
momento
era indubbiamente un punto a suo favore. Era un essere umano, ne ero
quasi
sicuro. Fece ancora un passo in avanti e mi resi conto che era un
essere umano
di sesso femminile. Facevo progressi. Immediatamente la mia mente corse
al
sesso, ma poi si scontrò con l’immagine e
cambiò idea. Era piccola e
scheletrica. Se io ero magro questa era trasparente. Il colore della
sua pelle
tendeva al bianco cadaverico. Aveva capelli neri tagliati cortissimi e
dei
vestiti addirittura peggio dei miei. Sembrava fosse andata a cercare
qualsiasi
pezzo di stoffa nera e se lo fosse buttato addosso. Intravidi anche un
pezzo di
sacco di plastica. In complesso l’aspetto poteva essere
quello di una bambina
di strada malata con la particolare mania del nero. Ma non lo era. Lo
capii
subito. Erano gli occhi. Benché pesti e con delle notevoli
occhiaie, mandavano
bagliori. Erano blu mare, e diventavano viola se pioveva, ma questo lo
avrei
scoperto in seguito. Intanto ero fermo a fissarla e a chiedermi cosa
avesse
detto. Aveva un sorrisino di disprezzo stampato in viso.
“Quo
vadis,
gnat? Dove vai… cosetto?”
Cosetto?
Cosetto io? E lei?
“Eh?
Oh…
buh.”
Scrollai le
spalle e continuai a fissarla. Si sistemò la calza a rete
che teneva sul
braccio.
“Non
hai il
permesso di stare aqui. Non ti voglio.”
Per un
attimo mi sembrò una bambina viziata che faceva i capricci.
“Chi
sei?”
“Non
importa chi sono. Vattene.”
Cominciava
decisamente a infastidirmi.
“Perché
dovrei andarmene?”
“Vuoi
che
ti do un po’ di buone ragioni?” Il suo tono era
decisamente annoiato. “Ragione
prima, ti sembra che io sia andata a casa tua senza permesso? Ragione
seconda,
non mi piace che ci siano estranei nel mio territorio. Ragione terza,
ci sono
un sacco di altri posti dove andare quando non vai a scuola che sono
molto più
interessanti di questo…”
“Ma…”
“E la
ragione quarta è dietro di te.” Fece un elaborato
gesto con la mano per farmi
voltare. Mi trovai a tu per tu con un cane delle dimensioni di un
vitello molto
cresciuto disteso a terra languidamente. Non aveva l’aria
minacciosa. Ma era
spaventosamente grosso. E nero. Non mi ero accorto del suo arrivo. Mi
scrutò da
sotto una palpebra assonnata.
“Uh,
ciaaaao…”
“Non
ti
ucciderà.”
Pausa.
“Se
non
glielo ordino.”
Il vitello
sembrava più intenzionato a farsi grattare dietro le
orecchie che non ad attaccare.
“Stai
bluffando, non farebbe male a una mosca”
Per tutta
risposta la bestia sbadigliò mostrandomi una dentatura
affilatissima. Sembrava
mi stesse prendendo in giro.
“Wyvern,
come here.”
Il mastino
si alzò e trotterellò a fianco della ragazza. Era
grande quasi quanto lei. Gli
lanciò un rametto. Wyvern, o come diavolo si chiamava, lo
afferrò al volo e lo
ridusse in frantumi. Poi andò a distendersi tranquillo
nell’erba.
“Non
sei
qui per vedere i numeri del mio cane”
“Eh
no”
“Cerchi
qualcosa?”
“Non
ho
altri posti dove andare”
“Ce
ne sono
un sacco, ad esempio la scuola”
“Tu
non ci
sei”
“Se
ci
fossi io andresti a scuola? Che fai, cerchi di rimorchiarmi?”
Di nuovo le
si disegnò un ghigno sul viso. Un bagliore negli occhi.
Fissi nei miei. Avevo
la vaga impressione che stesse cominciando a divertirsi, ma di un
divertimento
malsano. Come se io fossi stato la sua preda. E forse lo ero.
“Non
era
quello che intendevo dire. Neanche tu sei a scuola.”
“Dovrei?”
sollevò un sopracciglio. Gli occhi non mi mollavano. Scossi
la testa per
cavarmeli di dosso.
“Oh,
smettila di fare la superiore, avrai la mia età, anche meno!
O hai bigiato o a
scuola non ci sei mai andata”
“Spiacente
nessuna delle due, you’re wrong.”
Si sedette
per terra a gambe incrociate, lentamente.
“Ci
sono
andata, ma non ci vado più”
“Lavori?”
Quel
discorso mi stava cominciando a piacere sempre meno. Era inquietante.
Volevo
farlo diventare una chiacchierata molto sul normale, ma sembrava
impossibile.
Soprattutto dopo che notai che i suoi stracci non erano disposti in
maniera da
nascondere i punti base delle ragazze. Se muoveva in una certa maniera
la spalla
le si scopriva un seno.
“Sto
lavorando?”
“No”
“E
allora
non lavoro.”
“Ma
cos’è
un indovinello?”
“No,
affatto. Siediti.”
Stava di
nuovo facendo quel movimento con la spalla. Il mio cervello corse di
nuovo al
pensiero da cui era fuggito. Era una femmina in fondo. Il buon vecchio
parametro del “Basta che respiri”. Mi sedetti
docilmente.
“E tu
come
mai non sei andato a scuola?”
Il tono non
era aggressivo, ma da conversazione.
“Compito.”
La guardai
in faccia, scoprii che mi stava fissando. Occhi negli occhi. Un tuffo
nel blu.
Sostenni lo sguardo. Si muovevano. Diventavano sempre più
grandi, enormi, e non
erano più occhi, erano mari in tempesta con velieri di
marinai terrorizzati da
mostri marini che fuoriuscivano tra i flutti sopra ai quali danzavano
sirene
con gabbiani e fiumi mescolavano la loro vita perdendola in quella del
mare e
piangevano mentre un vecchio pescatore tirava su la rete in fretta
spaventato e
si metteva a remare e cominciava a piovere da grandi nubi nere e la
pioggia
veniva spazzata dal vento in vortici e tutto si muoveva e tra i flutti
si
vedevano affogare i marinai ma le sirene li salvavano e li portavano
sui resti
della nave galleggianti dove c’ero io e erano nude e mi
baciavano e mi si
strusciavano e mi mettevano le mani nei pantaloni e… Merda.
Mi stavo eccitando.
Mi succedeva spesso in quel periodo. Mi scossi e distolsi subito lo
sguardo. Dovevo
trovare il modo di andarmene. Dovevo scappare. Cos’era stato?
Cosa era
successo?
Mi stava
fissando incuriosita.
“…
Va bene,
io vado. Tanto mi stavi cacciando. Ho delle cose da fare.”
E tentai di
alzarmi in una maniera contorta, con le mani in tasca e facendo
ricadere tutta
la stoffa dei pantaloni sul davanti. Mi girava anche un po’
la testa.
“Tu
non hai
niente da fare.”
“Forse
no,
ma troverò qualcosa da fare che non sia stare qui con una
ragazzina
psicopatica!”
Non lo
pensavo, ma lo dissi. Non capivo quello che era successo, ero stordito
ma
volevo andarmene. Volevo darle una botta. Volevo staccarmela.
“Cosa
hai
visto?”
La sua voce
era bassa e sottile. Mi sorprese.
“Cosa
ho
visto dove?”
Alzò
la
testa e mi guardò.
“Quando
ti
ho guardato cosa hai visto?”
Sembrava
triste, molto triste. La sua voce proveniva da lontano. Da altri mondi.
Come un
lamento profondo usciva dalla terra stessa. Ero terrorizzato. Se prima
mi
chiedevo come mi erano arrivate quelle immagini, ora mi chiedevo come
non ero
ancora fuggito. E di corsa. Ma lo sapevo. Dovevo finire qualcosa.
Dovevo sapere
di più di quello che avevo visto. Mi teneva ancorato. O
forse ero io stesso. La
mia curiosità. Mi salì un nodo alla gola. Non
sapevo che fare.
“Dimmi
solo
cosa hai visto, poi vattene e non farti vedere
più.”
Non ne
sembrava molto convinta. Mi ricordo ancora la desolazione che emanava,
come
fosse un odore. Mi prese il cuore. La mia erezione scemò.
“Ho
visto
il mare”
Lei
annuì.
Non sembrava bastarle.
“Nel
mare
c’era un veliero. Con dei marinai.”
Feci una
pausa. Aspettavo che dicesse qualcosa. Ma era profondamente concentrata
su un
lembo della sua stoffa.
“C’era
un
pescatore che tirava su la rete. In fretta. Il mare era in
tempesta”
Si
irrigidì. Non potevo dirle tutto. Era un sogno. Era una cosa
mia. Anche se era
stata lei a mostrarmelo. Mio Dio, ma cosa aveva fatto?
“Perché
me
lo chiedi?”
“Per
saperlo.”
Quel pezzo
di stoffa doveva essere molto interessante.
“Dovrei
sapere io. Cosa mi hai fatto?”
Non
rispose.
“Assomigliava
a un film, ma anche no. Vedevo come tutto insieme, dall’alto,
da dentro.
Sentivo ogni cosa. Vedevo come ogni personaggio, ma anche come la
pioggia.”
E mentre lo
dicevo mi accorsi che era vero. Il lembo di stoffa perse ogni
attrattiva.
“C’erano
sirene?”
Beccato.
“Dimmi
se
c’erano, ti prego. È importante.”
“Solo
se tu
mi spieghi.”
“Prima
raccontami.”
“E
dopo mi
spieghi. Giuralo. Sul cane.”
Non so come
mi era venuto in mente, ma l’avevo incastrata. Ora ero io a
capo.
“Su
Wyvern?”
“Si,
vabbe.
Quella cosa là.”
“All
right,
lo giuro. Ora però devi raccontarmi. Tutto.”
Incastrato.
Ma mi sedetti. Questa volta perché lo volevo io.
“Allora
c’era questa tempesta, e c’era un veliero. Era in
difficoltà. I marinai si
davano un sacco da fare ma stavano per naufragare. E poi
c’erano anche dei
mostri.”
“Che
genere
di mostri?”
Era
tesissima. Pendeva dalle mie labbra.
“Del
mare…
avevano tentacoli. Ma non sono usciti dall’acqua. Comunque
distruggevano la
nave.”
“Che
nave
era? Aveva qualche segno, qualcosa? Com’erano le
vele?”
“Ma
non lo
so! Erano mezze strappate, non ho notato niente. Comunque era un
veliero. A tre
alberi.”
“Dove comparivano le sirene? Cosa facevano?”
Mi sentii
sprofondare.
“Beh
erano
tra le onde e ballavano con i gabbiani.”
Che cosa
stupida da dire, eppure la dissi proprio così. Come fosse la
cosa più naturale
del mondo.
“Poi
ha
cominciato a piovere e c’era questo pescatore che tirava su
la rete. E c’era un
fiume, che era triste. Perché perdeva la sua anima”
Lo dissi in
maniera interrogativa. Non sapevo se potesse essere giusto o se le
importasse.
Fece un gesto con la mano. Non le importava.
“I
fiumi
sono sempre tristi quando sfociano. Non ti ha detto come si
chiamava?”
“Come
scusa? Il fiume?”
“Lascia
perdere. Il pescatore moriva?”
“Ma
non lo
so! Poveretto, spero di no.”
“La
sua
barca non affondava? E quella dei marinai? Le sirene hanno salvato
qualcuno?”
Sembrava
essere proprio questo il punto che le interessava. Dannazione.
“Non
lo so…
Rimettevano sui resti del veliero dei marinai… comunque non
ho visto se il
pescatore affondava.”
“Non
eras
tutto? Non videas todo?”
Stava
perdendo il controllo. Cominciava a parlare strano. Ma io non avevo
fatto
niente. Cercai di difendermi.
“Ma
si, ma
solo fino a un certo punto. Poi no.”
“Perché?”
Perché
ero
troppo occupato a farmi toccare da delle sirene nude! Cosa voleva che
le
dicessi? Poi capii.
“Perché
ero
io. Cioè sono diventato un marinaio.”
Respirò
profondamente. Non le avevo detto bugie.
“Quindi
hai
smesso di vedere tutto e ti sei concentrato su te stesso? E’
così?”
“Si.”
“Le
sirene
hanno salvato i marinai hai detto? Hai visto se li hanno portati a
terra?”
“No,
non l’ho visto. Li mettevano sui pezzi di legno, ma non
li portavano a terra.” In cambio però salivano sui
pezzi di legno con me e mi
slinguazzavano…
“Non
c’era altro? Niente altro?”
“Si,
ma solo quando ero già diventato io, no? Non ero
più
tutto.”
Si
rilassò. “No, ma mi interessa sapere i desideri
terreni
di un ragazzo di questo mondo.” Sorrise, pericolo scampato.
“Perché quando sei
diventato tu hai visto i tuoi desideri, no?”
“Si.”
Mi fissava in
silenzio. Sorrideva di nuovo. Aspettava che le
dicessi qualcosa. Quando capì che non avrei aperto bocca
sospirò e disse:
“Sono
anche io una sirena.”
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Capitolo 3 *** Capitolo tre: Il discorso di Zabluda ***
CAPITOLO TRE:
IL
DISCORSO DI ZABLUDA
La prima
stupida domanda che mi venne in mente riguardava
come mai non avesse né coda né pinne e non fosse
nel mare, ma la repressi
all’istante. Non era possibile. Semplicemente non era
possibile. Così glielo
dissi. Ma ciò non la fermò. Aveva giurato.
“Mi
hai fatta giurare su Wyvern. Ora non posso mentirti.
Come facevi a saperlo?”
“E’
stata la prima cosa che mi è venuta in mente, non era
niente di premeditato.”
Ed era la
realtà.
“Da
dove comincio?”
“Beh
direi che un buon punto sarebbe dirmi come ti chiami.”
“Nella
tua lingua, o in una delle tue il mio nome è Zabluda,
radoznao. Sono una sirena, o meglio, lo ero. Aspetta. Vieni
qui.”
“Perché?”
“Io
ho giurato. Ora tocca a te. Quello che ti racconterò non
lo devi dire a nessuno, fino a che non lo decido io. Ti metto un
Vincolo di
Silenzio.”
“Spara.”
Dissi, e mi avvicinai. Non sapevo perché mi stavo
facendo trascinare in quello strano e assurdo gioco. Le sirene non
esistevano.
Quella ragazza era pazza. Stava delirando. Doveva essersi fatta di
qualcosa. E
allora il sogno? La mia testa era una grande confusione, e penso questo
sia
stato uno dei motivi che mi portarono a credere a quella storia.
L’altro era
molto semplice. Era una novità. La ragazza, Zabluda, mi
incuriosiva. Non poteva
essere vero. Ma se lo fosse stato? Avevo un disperato bisogno di
sognare, di
credere in qualcosa, per folle che fosse. Così mi avvicinai.
Puzzava.
“Accetti
di non dire niente della mia storia a nessun essere
senziente fino a quando lo vorrò io?”
Mi
poggiò un dito sulla fronte.
“Che
roba è?” non
potei trattenere una risatina, ma lei rimase terribilmente seria.
“Lo
giuri?”
“Va
bene, lo giuro.”
Apparentemente
non
successe niente. Zabluda tolse il dito dalla mia fronte e
fischiò, il cane
ricomparve. Camminò lentamente fino alla sua padrona e si
distese al suo
fianco, enorme, appoggiando la testa su una gamba della ragazza. Io mi
rimisi
seduto.
“Ora
dimmi come ti
chiami.”
“Liron.”
“Liron,
ho chiamato
Wyvern perché siamo una cosa sola. Le sirene hanno una parte
umana e una
animale. Qui non potevo venire come sirena, quindi mi hanno dovuta
cambiare.
Hanno separato la mia parte umana da quella animale. È stato
parecchio
doloroso. Dovevano togliermi la mia parte da pesce, perché
per quello che devo
fare sarebbe stato troppo scomodo. Potevano trasformarmi in una
centaura, ma
qui non ce ne sono, e neanche fauni e simili. Così hanno
optato per spezzarmi,
così do meno nell’occhio.”
Stavo per dirle
che
un centauro forse avrebbe dato meno nell’occhio di lei con il
suo cane, ma non
lo feci.
“Sono
stata
sorteggiata per fare da Specula, da finestra. Quello che hai visto nei
miei
occhi è reale. È quello che sta accadendo nel mio
mondo. O almeno in un
pezzetto. Ma solo mentre eri Tutto. Quello che hai visto quando eri te
stesso
non è mai successo. Hai proiettato quello che ti passava per
la testa in una
visione. Avevo bisogno che tu mi dicessi quello che hai visto
perché io non
posso vedere quello che accade nel mio mondo. Sono stata pensata come
oggetto. Ti
ho fatto vedere Moore per sapere se funzionavo. Devo fare la mia
funzione.” Il
tono della sua voce era molto duro. Non le piaceva fare la sua
funzione. “Sono
stata mandata in questo mondo per il vostro capo. Sono una specie di
messaggio
per lui. Attraverso di me può vedere che succede a Moore,
nel mio mondo, non so
come lo chiamate voi, e se gli piace. Quindi portami da lui.”
Cosa voleva?
Cos’era?
Era convinta che io conoscessi questo capo? Ero esterrefatto. Il nostro
capo?
Cosa blaterava quella? Il capo di chi? Moore? Cos’era quel
posto?
“Avevi
detto che mi
spiegavi tutto. Invece mi stai confondendo ancora di più!
Non so di che capo
parli, non ne ho la minima idea! E non ho mai sentito parlare del tuo
mondo.”
“Smrt!
Di che capo
vuoi che parlo? Di quello del vostro popolo! Di quello che ha mandato
un bel
pezzo di voi nel nostro mondo! Di quello che tuba con la Regina!
Di quel govno de
peacock che…”
Non riuscivo a
muovermi. Quella era una pazza scatenata. Anche Wyvern stava
ringhiando. E poi
in che lingua parlava? Io veramente quel capo non lo conoscevo. E non
lo
conoscevo perché non ne esistevano. Neanche uno. Non che io
sapessi. Dalla
Guerra non c’era più nessuna forma di governo. I
capi si erano fatti tutti
fuori tra loro. E poi la Guerra
se la ricordavano a stento i vecchi! Come poteva pensare che ci fosse
un
capo? A patto che
nel suo mondo non si
sapesse proprio niente di qui. Ma non mi sembrava. Pazzesco. Ero
l’immagine
stessa dell’incredulità. Zabluda aveva smesso di
urlare e respirava
profondamente. Poi parlò, con la voce calma e ragionevole di
chi deve spiegare
a un bambino piccolo perché non si può urlare in
chiesa.
“Scusa
se non riesco
a rimanere fissa sulla tua lingua. Me le hanno insegnate tutte insieme.
Non
puoi non conoscere il capo del tuo popolo. Mi stai mentendo. Forse non
lo
conoscerai di persona, ma saprai dove si trova. Non occorre che cerchi
di
proteggerlo da me. Posso insultarlo. Ma non posso nuocergli. E una
volta che
sarò davanti a lui non potrò nemmeno parlare.
È molto facile l’incantesimo per
zittire, e uno come lui lo saprà fare di sicuro. Mi hanno
lasciato la voce solo
per poterlo trovare. E di certo non si arrabbierà con te,
perché sono un dono
che dovrebbe gradire molto. Anzi, sono sicura che ti
ricompenserà se mi porti
da lui. Non hai motivo di temere. Sono solo una Specula.”
E mi prese una
mano
tra le sue. La cosa mi faceva sentire molto stupido. Lei parlava e
parlava di
cose che non esistevano come fossero tra le più ovvie del
mondo e io fossi un
deficiente che non capiva. Così con lo stesso tono da
persona molto paziente le
risposi.
“Zabluda,
dico sul
serio, il mio popolo non ha un capo.”
Si
scostò.
“Smrt.
Posso provare
se dici la verità?”
“Che
mi devi fare?”
Non volevo
essere la
cavia di altri esperimenti balordi.
“Solo
guardarti negli
occhi. E tu resterai qui.”
“Va
bene, fallo se
non credi alla mia parola!”
Puntò
gli occhi nei
miei. Di nuovo. Ma questa volta non cominciarono a muoversi, rimasero
solo degli
occhi spettacolari. Ora potevo osservarli bene. Sembravano blu, ma
erano fatti
da un’infinità di pagliuzze di sfumature diverse.
“Liron,
il tuo popolo
ha un capo di cui tu sia a conoscenza?”
“No.”
Il blu mi
entrò
dentro. Era gelido, ma elettrizzante. Avere qualcosa di estraneo nel
corpo non
è una sensazione comune. Soprattutto non così in
profondità. A scavare dentro. Come
quando si beve dell’acqua troppo fredda e la si sente
scendere giù fino allo
stomaco. Poi Zabluda imprecò e tutto finì.
Scattò in piedi e il mastino con
lei. Parlottava e declamava in lingue che non conoscevo a Wyvern, che
uggiolava
camminando incerto e senza stare fermo. La ragazza era agitatissima e
andava su
e giù per lo spiazzo di terra arida dimenando le braccia.
Aveva scoperto
che le
dicevo la verità. Ben le stava. Ora era nei guai. Cercava un
capo che non
esisteva. Pensai a quando avrei raccontato quella storia incredibile a
mio
fratello. No, non avrei potuto. Il Vincolo. E poi credermi? Chi mi
avrebbe mai
creduto? Ero solo e intimidito con una ragazza esagitata e pazza che
poteva far
vedere altri mondi con gli occhi e un cane grande come un vitello che
guaiva
per calmarla. Incredibile. Paradossale. Surreale. Comico.
Bellissimo.
Zabluda si
calmò e si
sedette di nuovo.
“Tu
sei un umano.”
Annuii
divertito.
“Certo,
sei uguale a
quelli del mio mondo.”
“Ma
non erano
sirene?”
“Anche
umani. Sono
arrivati anche umani a Moore. Non sappiamo come. Non pensavamo che
qualcuno in
questo mondo avesse abbastanza magia da aprire un varco. Per tutte
quelle
persone poi.”
Tante
persone… la Sparizione…
“La Regina
stessa ha fatto fatica
a farmi passare a me in tutte e due le parti. Ma tutti quelli. Bisogna
essere
molto potenti. Così l’umano che lo ha fatto si
è dichiarato capo del suo
popolo. Ha dei contatti con la Regina. E
anche per quello ci vuole un bel po’ di magia.
Dev’essere un uomo potente. Ed
essendo tu un umano non ho sbagliato mondo.”
Ragionava ad
alta
voce, facendo dei gesti con le mani, tendeva ed intrecciava i fili
immaginari
del problema. E uno di questi fili la collegava con la Terra. Ed
era un filo
piuttosto grosso. La Sparizione.
“Queste
persone che
tu dici quanto tempo fa sono arrivate da voi?”
“Non
so se calcoliamo
il tempo alla stessa maniera… aspetta… il tempo
che ci si mette a costruire
navi come quella che hai visto. Il tempo che ci si mette a scoprire che
si è in
un altro mondo. Il tempo che ci si mette a trovare le sirene. Il tempo
che ci
si mette a trovare il modo di cacciarle, catturarle e ucciderle. Il
tempo che
ci si mette a scoprire che una sirena morta vale molto di meno di una
viva. Il
tempo ce ci si mette a costruire delle vasche piene di acqua sulle
isole per
tenere dentro chi si cattura. Il tempo perché chi tenta di
fuggire da quelle
vasche, luoghi di stupri, di torture, di spettacolo, di umiliazione, di
morte,
capisca che è inutile, che si morirebbe disidratati uscendo.
Il tempo di capire
che anche costituendo un esercito non si riuscirebbe a vincere gli
uomini. Il
tempo di scoprire che il loro tocco provoca terribili piaghe alle
nostre
squame. Il tempo che ci vuole per capire che ribaltare le navi fa
morire quelli
che ci provano. Il tempo che ci è voluto alla Regina per
cercare un accordo. Il
tempo che ci è voluto per trovare un accordo con questo capo
che non esiste. Un
accordo che prevede che non si catturino più selvaggiamente
le sirene, ma ogni
anno verranno fornite due coppie direttamente dalla Regina alle loro
vasche. In
cambio le sirene si impegnano a proteggere i marinai che vanno per mare
a costo
della loro vita! Il tempo che ci vuole perché una Regina
delle sirene si umili
a tal punto da mandare una sua stessa suddita trasformata come dono per
suggellare il patto che tenta di fermare la carneficina del suo popolo
a un
capo che non esiste!”
Si
bloccò. Piangeva.
Mi guardava con quelle pozze di oceano che aveva nel viso e piangeva.
Se avevo
ancora qualche dubbio, questo svanì all’istante.
In quel momento capii che era
tutto vero.
Mi sollevai
sulle
ginocchia e lentamente, con un dito, le accarezzai una guancia pallida,
tirandole su una lacrima. Abbassò gli occhi sul mio indice e
si scostò. Si
toccò gli occhi e mi guardò con aria
interrogativa.
“Cos’è?”
“Cosa?”
“Quest’acqua.”
Non sapevo cosa
risponderle. Avevo un groppo in gola.
“Sono
lacrime. Stai
piangendo.”
Sfiorò
una ciglia,
raccolse una lacrima e si guardò il dito. Poi lo
leccò.
“Gli
umani perdono
mare dagli occhi? In voi c’è del mare?”
“Non
è mare è solo…
una cosa che c’è negli occhi.”
“Ma
è salato come il
mare. Come hai detto che si chiama?”
“P-piangere.”
Guardò
di nuovo il
suo dito. Poi il mio. Li intrecciò.
“Non
avevo mai pianto
prima.”
Ci guardammo
ancora
qualche attimo, mentre il sasso che sentivo nello stomaco cresceva a
dismisura.
Fu lei ad abbracciarmi. Si buttò su di me di getto,
affondando la testa
nell’incavo del mio collo. Sentivo le sue ultime lacrime
sulla mia pelle. Il mare
dei suoi occhi. Poi la abbracciai anche io. Forte. Molto forte. E il
peso si
sciolse.
Aveva un odore
cattivo. Quasi fetido. Lo riconobbi. Era l’odore che aveva il
pesce morto sulle
spiagge che avevo visto da bambino. Lo respirai a fondo, nonostante mi
facesse
schifo. Finché non lo sentii più. Rimanemmo
abbracciati molto a lungo, senza
che mi eccitassi. Ad un certo punto Wyvern si distese vicino alle
nostre ginocchia.
Un alito di vento passò tra i nostri capelli. Un pezzo della
stoffa di Zabluda
si mosse lievemente. Forse era il sacco della spazzatura. Le sussurrai
nell’orecchio.
“Io
non ti mollo
più.”
E rise.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
CAPITOLO QUATTRO
Dopo un
po’ però la
mollai. E me ne tornai a casa. Mi distesi sul letto e respirai a fondo,
molte
volte. Non avevo ancora accettato quello che mi era successo la
mattina. Una
sirena trasformata in ragazza con un enorme cane al seguito, mandata a
un capo
del nostro mondo come dono. Forse le vittime della Sparizione erano
andate nel
mondo delle sirene, a Moore, e lì le sfruttavano per il loro
divertimento.
Massacravano. Mi sorpresi a pensare alla razza umana. Avevano
massacrato tutto
il massacrabile sulla terra. Si erano uccisi pure tra loro. E quando
qua non
c’era più niente da rovinare, andavano a rovinare
altri mondi. Un piccolo e
maligno pensiero si insinuò in me. Avevamo massacrato. Ci
eravamo uccisi tra
noi. Anch’io ero un uomo. Per la prima volta in vita mia me
ne vergognai. Dovevo
sapere se erano gli Spariti quelli nel mondo delle sirene.
Andai in cucina
e
cercai qualcosa da mangiare, anche se non avevo fame. Non trovai
niente, così
uscii di nuovo. Andai in giro per qualche minuto. Potevo tornare da
Zabluda, ma
non ne avevo voglia. Tornai a casa. Misi a posto un po’ la
casa. Feci i letti.
Tentai di studiare. Non avevo voglia di fare niente eppure sentivo di
dover
fare qualcosa. Così passai il tempo facendo e disfando cose
inutili, finché non
arrivò mio fratello, sporco di olio, e gli quasi uscirono
gli occhi dalla testa
a vedere che avevo riordinato casa. Fece qualcuno dei suoi commenti
sulla
“donnina delle pulizie” e andò a
lavarsi. Quando uscii ero sul letto con il
libro di matematica. Lo stavo decisamente spaventando. Così
si sedette vicino a
me e mi chiese se stavo bene.
“Ho
conosciuto una ragazza”
gli risposi in un soffio.
“Conosciuto
in senso
biblico?”
“Eh?”
Ogni tanto se
ne usciva con frasi strane.
“Te
la sei fatta?”
“Ma
no!”
“Ehi,
non essere
scandalizzato donnina delle pulizie! Sarebbe anche ora no?”
“Beh,
invece l’ho
solo conosciuta, fine. Abbiamo parlato”
“E ti
sei messo a
fare le pulizie e a studiare solo perchè hai parlato con una
ragazza? Quando te
ne scoperai una cosa farai? Ti laureerai e costruirai un
castello?”
Gli spiegai la
storia. Non tutta. A dire il vero gli dissi solo che avevo conosciuto
sta tipa
coperta di stracci neri e con il cane in ex zona industriale mentre
bigiavo e
che avevamo parlato del più e del meno. Mi accorsi che se
pensavo di dirgli
della storia di Zabluda mi mettevo a balbettare e non riuscivo ad
andare avanti.
Gli descrissi anche gli occhi, non potei farne a meno.
“Ehi,
moccioso! Tu
alla ragazza le guardavi gli occhi? E il culo?”
“Era
seduta. E poi
dai, era tutta pelle e ossa, figurati se aveva culo!”
“E’
sempre meglio
controllare” disse, e si accese una sigaretta già
rollata.
“Cos’è?
Hai trovato
tabacco?”
“No,
è solo un po’ di
erba secca, ma consola.” Fissò la sigaretta storta
e granulosa come se fosse un
insetto zampettante. Era evidente che non gli piaceva, tanto che me la
diede e
si vestì. Tirai. Faceva proprio schifo.
“Allora
che fai con
questa tipa, come hai detto che si chiama?”
“Zabluda.”
“Ma
che razza di nome
è? Da dove viene?”
“Non
so” Bugia.
“Ma
insomma che hai
intenzione di fare?”
“Niente,
che dovrei
fare?”
“Vuoi
scopartela o no?”
“No!”
Ed era pure
vero. Quella ragazza mi sconvolgeva. Senza contare che non era una
ragazza.
Uscii sbuffando
e
andò da qualche suo grosso amico. Ero una delusione di
fratello. Sapevo che
stava cominciando a preoccuparsi del mio orientamento, ma che ci potevo
fare?
Io ero sicuro di non essere gay, quindi avevo il cuore in pace.
Passarono i
giorni e
le settimane. Cominciai
a pensare sempre
meno a quello strano incontro, anche se ero convinto che non sarei mai
riuscito
a dimenticarlo. Ma fui riassorbito dalla mia squallida esistenza, che
sembrava
ancora più squallida dopo aver saputo di altri mondi
fantastici. Mondi tragici,
pieni di dolore, ma almeno il dolore non era apatia. Era qualcosa.
Faceva
sentire vivi per lo meno. Cominciai a mordermi la lingua ogni tanto.
Così, per
sentirmi vivo. La scuola andava sempre peggio. Finiva l’anno.
Sarei stato
bocciato, era quasi sicuro. Non avevo il coraggio di dirlo a mia madre.
Tornava
a casa sempre più tardi e qualche volta anche senza
scatolette per noi. Diceva
di dimenticarsele nella casa. Scoprii che avevano licenziato la
domestica a
tempo pieno, per questo mia madre lavorava molto di più e
tornava a casa sempre
distrutta. Ma non le aumentavano la paga. La famiglia per la quale
lavorava
aveva problemi. Mio fratello perse il lavoro per un litigio e
cominciò a
cercarsene un altro. Non a trovarlo, a cercarlo. Intanto le vaschette
diminuivano sempre più. Era una fortuna se arrivavano. Io
proposi di mollare la
scuola e mettermi a lavorare, ma mia madre non volle sentire ragioni.
Io dovevo
studiare. Continuai a non avere il coraggio di dirle che non avrei
passato
l’anno. Mi sentivo tremendamente in colpa. Una delusione di
figlio e di
fratello. Tanti sacrifici. Loro lavoravano perché io
studiassi. Perché mi
facessi una vita. Mi odiavo. E mi morsicavo la lingua. Quando proprio
non ce la
facevo più uscivo di casa e correvo. Correvo lontano, fino a
quando non avevo
più fiato nei polmoni e oltre, finché
l’acido lattico non mi bloccava le gambe
e gli occhi non mi schizzavano fuori dalla testa. Allora mi buttavo per
terra e
piangevo come uno scemo.
Tornai una
volta dove avevo visto Zabluda, ma non la
trovai. Quindi archiviai la cosa definitivamente e mi concentrai nello
sprofondare sempre più in basso. Volevo fare qualcosa,
qualcosa per salvare la
mia famiglia, ma non riuscivo a trovare cosa. Non potevo lavorare di
nascosto,
mi serviva il permesso di mia madre. E lei non me lo voleva fare.
Potevo
lavorare in nero, ma non ci pensai. Oltretutto non avevo idea di cosa
avrei
potuto fare o come. Mi venne l’idea di andare a cercare mio
padre, magari si
era rimesso in sesto e ora poteva aiutarci. O magari era morto. Non
potevo
saperlo e non avevo il coraggio di tentare, quindi restavo sul mio
letto a
deprimermi. E intanto i nostri pochi risparmi finirono. Mia madre
continuava a
dirci che era solo un periodo, che si sarebbe sistemato tutto, ma non
ne era
neanche lei molto convinta. Cominciammo a digiunare ogni tanto.
Tentammo di
vendere qualche mobile o oggetto, ma non raggranellammo molti soldi.
Nessuno voleva
la nostra roba. Si credeva che le cose di una famiglia che stava
cadendo in
disgrazia portassero disgrazia a chi le comprava. O era solo un modo di
dire
per non far capire che non si avevano soldi neanche a volerlo per
comprare la
nostra roba. E se li avevano non li sprecavano così. Non
penso fosse una
questione di superstizione o buon costume, perché quando
qualche vecchio moriva
nessuno si faceva troppi problemi a svuotargli la casa. E a mio parere
quello
portava molta più sfortuna.
Così
un giorno mia
madre mi guardò e disse:
“Liron,
vai a
prendere qualcosa da mangiare per te e tuo fratello. Oggi non avete
messo
niente in pancia.”
Tesi la mano,
per
avere dei soldi. Mia madre non si mosse, ma scosse la testa lentamente.
Capii.
Uscii di casa senza sapere come fare ma con l’intenzione di
fare. Camminai a
lungo, ma almeno ebbi fortuna. Arrivai in una zona che non conoscevo
bene. E
dove non mi conoscevano. Era sera e un commerciante stava scaricando le
merci
per il giorno dopo. Non ci pensai molto. Mentre entrava nel negozio con
delle
cassette di verdura tra le braccia presi un sacco di patate, me lo misi
in
spalla e me la diedi a gambe. Per fortuna ero allenato a correre a
pancia
vuota. Sentii le urla alle mie spalle, ma non mi fermai. Non mi
presero. Tornai
a casa e mio fratello stava urlando. Contro mia madre.
“Perché
lo hai fatto?
Troverò un lavoro! Non dovevi mandarlo a rubare! A cosa ci
siamo ridotti? E se
lo prendono? Non ci hai pensato?”
Mia madre gli
urlava
di rimando contro. Diceva che era lei a comandare, e che non si doveva
permettere di parlarle così. Quando entrai col mio sacco
ammutolirono. Lo posai
lentamente sul tavolo e con gli occhi lucidi dissi a mia madre:
“Mi
bocciano. Mamma,
fammi il permesso, domani vado a cercare lavoro.”
Mangiammo le
patate
in silenzio quella sera.
Grazie ad
anil13 che
mi recensisce! =D
Non
preoccuparti, non
diventa melensa. Quello è uno dei momenti più
mielosi. I personaggi non
abbonderanno, perché comunque la storia è in gran
parte già scritta, e poi non è lunghissima. Mi
manca
solo la parte finale. Anzi, ora mi metto sotto e vado avanti!
Oh che bello
che è
avere recensioni! =)
|
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque: Gli eroi non esistono ***
CAPITOLO
CINQUE: GLI EROI NON ESISTONO
Cercai lavoro
nei
negozi vicino casa, bussai a tutte le porte, quasi nessuno
aprì. Andai nei
quartieri ricchi, mi offrii per fattorino. Non ne avevano bisogno.
Girai posti
della città che conoscevo e che ignoravo, setacciai tutti i
quartieri e le
viuzze, andai a cercarmi uno straccio di lavoro dovunque pensavo si
potesse
annidare. Ma non ebbi più fortuna di mio fratello.
Nonostante ciò non andai più
a rubare. Mi abituai alla costante sensazione di fame. Cercavo cibo tra
l’erba.
Scoprii che certi tipi d’erba erano buoni a mangiarsi. Mia
madre non voleva che
mangiassi quella roba, secondo lei il terreno lì era troppo
inquinato per
produrre qualcosa di commestibile. E aveva anche ragione. Ma pazienza.
Dopo un
po’ smise di ripeterlo e cominciammo a farci delle ricche
insalate scondite,
che erano come le sigarette di mio fratello. Cattive. Non ti lasciavano
soddisfatto. Ma almeno consolavano.
Mia madre
voleva che
continuassi a frequentare la scuola. Così feci. Era un
privilegio che non
potevo buttare. La rata era già stata pagata in autunno,
tanto valeva che ne
approfittassi. E poi a scuola trovavo spesso qualcosa di utile. Ci
sarei
rimasto fino alla fine dell’anno.
Un giorno ero
solo a
casa e stavo pulendo l’erba che avevo raccolto, in gran parte
rucoletta, quando
bussarono alla porta. La aprii e mi ritrovai davanti Zabluda con
Wyvern. Mi
guardarono un attimo all’unisono e poi entrarono senza dire
una parola.
Ignorando la sedia lei si mise per terra, a gambe incrociate, il cane
accoccolato vicino. Avevano tutti e due l’aria molto seria.
Mi sedetti anche
io. Per terra.
“Che
c’è? Come hai
saputo che abito qui? Ti ho cercata, dov’eri?”
“Oh
boy, è un sacco
facile sapere dove abiti. Basta pedinarti. Ed è facile anche
quello.”
“Mi
hai pedinato?”
Non mi ero accorto di niente.
“Ti
ha pedinato
Wyvern.” Guardai il mastino, che ammiccò.
“Perché?”
“Perché
ho cercato
tutto questo tempo, ma non ho trovato niente di utile. E sono
inciampata in un
paio di intoppi perché non conosco il tuo mondo. Mettiamola
così. Ho bisogno di
una guida. E tu sai già la storia. Non voglio espormi
troppo. Accompagnami.”
“Dove?”
“E’
quello che sto
tentando di scoprire. Ho fatto delle ipotesi. Devo trovare questo capo.
O
chiunque dica di esserlo.”
“E io
dovrei aiutarti?”
No.
“Sì.”
Ci pensai, ma
solo
per un secondo. Sapevo già cosa le avrei detto. Non potevo.
Anche se avrei
voluto un sacco prendermi e scappare. Un’avventura. Ma avevo
una famiglia.
“Hai
la più pallida
idea di dove cercare?”
“No,
ma non qui di sicuro.”
Oh, bene. “Non c’è un briciolo di magia
in questo posto.”
Stetti zitto,
cercando il modo di dirle che non potevo. Giocherellai con una foglia
di rucola
e la masticai piano. Dopo un po’ alzai gli occhi e incontrai
i suoi.
“Liron,
come with
me.”
Che diceva? Lei
non
sapeva niente di quello che mi era successo! Lei non sapeva niente
della mia
famiglia! Senza di me… senza di me? Senza di me avrebbero
avuto una bocca in
meno da sfamare. Ero solo un peso. Ero convinto di poterli aiutare, ma
in
realtà non facevo che peggiorare le cose. Cosa facevo in
realtà io? Raccoglievo
insalata! Gran bel aiuto! Ero totalmente inutile. Quel pensiero mi
raggelò.
Soprattutto perché era vero. Ma mantenevo ancora un briciolo
di orgoglio, o
meglio, oggi so che probabilmente volevo solo essere pregato.
“La
mia famiglia si
sta sfasciando. Mia madre e mio fratello si danno contro ogni giorno.
Probabilmente licenzieranno mia madre tra breve e allora saremo
veramente male.
Devo aiutarli, non posso venire.”
Il suo sguardo
era
gelido, di ghiaccio. Si alzò. Mi alzai. Ci guardammo. Le
iridi le
scoppiettavano come fuoco. Avrei potuto giurarci. Non voleva un
rifiuto.
“Non
mi puoi
costringere.” Bluffavo. Coda di paglia. Magari poteva. Che ne
sapevo io?
“No,
non posso”
Sibilò lentamente. Tirai il fiato. “Ma possiamo
trovare un accordo.”
Ohoh! Un
accordo!
“Che
genere di
accordo?”
“Che
se vieni con me
avrai qualcosa in cambio. Da mangiare ad esempio.” E
guardò l’insalata
malaticcia con una smorfia. “O quello che vuoi.”
Ci pensai. In
fondo non
ne potevo più di stare lì, a sgobbare ogni giorno
e a sentire scenate. Non
sapevo neanche se avrei potuto trovare un lavoro. Potevo andarmene.
Avevo
questa occasione. Ma mia madre non sarebbe stata contenta. Per niente.
Non
avrei potuto chiederle il permesso di partire o cose simili. E
l’orgoglio di
famiglia? Bah! Al diavolo! Abbandonare lei e mio fratello per
andarmene. Verso
dove? Non lo sapevo. Verso qualche posto lontano dove poter farmi una
vita mia.
Verso la mia vita. Fregandomene di loro. Era brutto da dire
così. Un sacco
brutto. Ma anche un sacco eccitante.
“Posso
chiederti di
fare qualcosa per la mia famiglia se vengo?”
“Cosa?”
“Non
lo so… qualcosa.
Hai una magia per far trovare un lavoro a mio fratello?”
“No.
Posso solo fare
magie sulle parole. Giuramenti, Vincoli di Silenzio, quelle cose
lì. Ma posso
aiutarti in altri modi.”
“Che
modi?”
“Tu
chiedi e ti sarà
dato.”
Rimasi un
attimo
perplesso. La bibbia o il vangelo? Come faceva a conoscerli?
Evidentemente
sapeva molto di più di quanto immaginassi.
“Cosa
sai della mia
famiglia?”
“Quello
che mi hai
detto tu e quello che ho sentito Wyvern. Ha buone orecchie.”
Il mastino si
fece
grattare dietro gli strumenti di spionaggio.
Non ero per
niente
sicuro che lei stessa non si fosse appostata sotto la finestra della
nostra
cucina, ma in quel momento non indagai oltre.
“Possiamo
fare un
patto che dica che ti accompagno per una settimana, e poi
basta.”
Sorrise.
“Può
andare.”
Giurammo. Andai
in
stanza. Presi lo zaino di scuola, ci misi una coperta, qualche vestito
e mi
infilai le scarpe. Strappai un pezzo di carta. “Non
cercatemi, sto bene, torno
tra una settimana.” Ma sentivo che non sarebbe stato
così. In cucina mangiai un
po’ di rucola, presi un coltello e infilai subito la porta,
non potevo voltarmi
indietro. Zabluda era vistosamente soddisfatta della sua riuscita, ma
non
parlò. Mentre camminavamo mi sentivo totalmente euforico.
Sarei dovuto restare
a casa? Forse. Ma la sapete una cosa? Sarebbe stato un gesto nobile, ma
inutile. Se la sarebbero cavata da soli. Io non potevo fare niente. Non
ero un
eroe. Gli eroi non esistono.
X anil13: non
preoccuparti. Fidati. Ci son capitoli di passaggio, che mi servono per
uno
scopo preciso. Spero di riuscire a scriverli senza far chiudere la
pagina. Ma ci
sono e servono. Tu
fidati che la storia
viene bene… almeno credo.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
CAPITOLO SEI
La prima
giornata con
la ragazza sirena fu abbastanza deludente. Io ero davvero contento. Me
ne stavo
andando, scappavo dalle difficoltà verso qualcosa di
più facile, lasciando
indietro la mia famiglia, la mia vita. Ma questi pensieri da senso di
colpa non
mi passavano per la mente quel pomeriggio di inizio estate,
fantasticavo sulle
peripezie che avrei vissuto, come quelle descritte nei libri di mio
fratello.
Cinque per l’esattezza. Due di Salgari e tre di Verne. Erano
gli unici libri
che avevo mai letto e li sapevo quasi a memoria. Pensavo di andare
verso una di
quelle magnifiche avventure mentre camminavo sul marciapiede sconnesso
con
passo saltellante, ma ben presto mi accorsi che non sarebbe stato
così. Come
non esistevano gli eroi non esistevano neanche le loro gesta.
Dopo la prima
soddisfazione il sorriso di Zabluda era scemato e camminava in posa
terribilmente seria, a testa alta e in silenzio.
“Posso
chiederti dove
stiamo andando adesso?”
“Puoi
chiedermelo.”
Aspettai un
istante
ma era evidente che dovevo proprio chiederglielo per esplicito.
Chissà se lo
faceva apposta o semplicemente non capiva le sottigliezze della mia
lingua.
“Dove
stiamo
andando?”
“Di
là.”
“Grazie!
Ma abbiamo
una meta?”
Mi
guardò un po’
storto.
“Ti
ho già detto che
qui non c’è magia, dobbiamo trovare un posto dove
ce ne sia, e per farlo
bisogna uscire da questa città. Andando sempre dritti prima
o poi dovremmo
farcela.”
Mi dava sui
nervi se
faceva così. E non era un buon inizio. Così
provai a cambiare argomento. Aveva
detto che poteva procurare da mangiare per tutti e due, le chiesi come.
“Hai
fame?”
Ovvio avevo
sempre
fame, ma non mi pareva una cosa da dire.
“Un
po’”
“Ok,
ora ti mostro.
Vedi quella panetteria? Slijedi me, seguimi.”
E
così feci.
Cominciavo a sospettare che il suo metodo non fosse proprio ortodosso.
Non
volevo rubare ancora. Ma la seguivo. Nella mia stupidità
pensavo che volesse
semplicemente comprare. Si chiama non voler vedere ciò che
sta sotto i nostri
occhi.
Entrammo nella
panetteria, lasciando Wyvern fuori, lei piccola sicura e coperta di
stracci
davanti, io alto e a disagio dietro. Tentavo di farmi piccino piccino.
Dietro
il bancone c’era un uomo sulla cinquantina con dei grandi
baffi che ci
squadrava dall’alto della sapienza del suo mestiere
millenario.
“Chevvolete?
Ahò, ma
te sei vista come sei conciata? Me spaventi la…”
La voce gli si
abbassò e io alzai lo sguardo per vedere cosa stava
succedendo. Vidi che era
come attonito a fissare Zabluda, ma non capì cosa stesse
accadendo fino a quando
lei non mi sussurrò: “Prendi un bel po’
di pagnotte e mettile in un sacchetto,
non so per quanto riesco a tenerlo così!”
“Ma
cosa…”
“Adelante!”
Ubbidii, mi
resi
conto che stava facendo vedere al panettiere il suo mondo, come aveva
fatto con
me. Mi sentii in qualche modo tradito, su tutti i fronti, ma presi in
fretta il
pane finché non mi sentì tirare la manica.
Zabluda stava sfoggiando il suo
miglior sorriso e si dirigeva verso la porta, tirandomi con lei.
“Grazie
a lei e
arrivederci!”
Quando ci
trovammo
fuori continuò a tirarmi per farmi andare più in
fretta. Wyvern ci seguiva, i
muscoli tesi, come se stesse aspettando qualcosa.
“Ora
se ne accorge,
ora se ne accorge…”
Un
gridò provenne da
dietro le nostre spalle.
“Se
n’è accorto,
corri!”
E io corsi,
corsi più
forte che potevo, e presto la superai. Accelerai tra una via e
l’altra,
scartando i pochi passanti, mentre sentivo le voci dietro di me farsi
sempre
più lontane, fino a che non sparirono del tutto. Alla fine
mi fermai in un
vicolo che non conoscevo, ansimante. Mi veniva da ridere e non sapevo
perché,
ero felice, avevo voglia di urlare. Come ci si sente dopo una bella
corsa
insomma, non tanto lunga da sfiancarti ma abbastanza da darti un
po’ di brio,
ero gasato. Nonostante ciò comunque mi preoccupavo per
Zabluda, avevo paura di
averla persa. Ma dopo poco risbucò ansante, col mastino al
seguito e sputò
“Nuotare è molto più comodo! Qui avete
una gamba di troppo!”
A me venne in
mente
qualche battutaccia degna di mio fratello del tipo “Io ne ho
due di troppo.” E
così mi misi a ridere come uno scemo, mentre lei non capiva
la mia follia e mi
guardava incuriosita, sbocconcellando un pezzo di pane. Decidemmo di
continuare
a camminare poiché era più prudente allontanarsi
ancora un po’. Per farvela
breve camminammo fino a sera e parlammo delle nostre vite precedenti.
Al
tramonto intorno a noi cominciarono ad esserci degli spazi aperti, con
qualche
albero rachitico; le case si facevano più rade e non
incontravamo quasi
nessuno, così decidemmo di aver camminato a sufficienza e
cominciammo a cercare
un posto per la notte.
Eravamo
distrutti per esser stati tutto il giorno sotto
il sole, soprattutto lei che aveva delle inquietanti occhiaie che si
allargavano sempre più. Beveva in continuazione e si bagnava
il viso, maledicendo
la secchezza della terra. Il sole era già sotto la linea
dell’orizzonte quando
trovammo ciò che faceva al caso nostro: era un vecchio
rudere per metà invaso
dai rovi e per metà coperto da un tetto pericolante.
Pregammo che non decidesse
che quella era la notte buona per staccarsi e ammassammo in un angolo
delle
erbacce secche, a mo di giaciglio.
Stava
cominciando a fare freddo senza sole e
non capivo come avesse fatto senza la mia coperta ma lei sosteneva che
il suo
cane bastava e avanzava. Oltretutto nel suo mondo non le conoscevano.
Vivendo
loro in fondo al mare e non in superficie la temperatura
dell’acqua era
costante, così erano entrati in simbiosi con alcune alghe
che li proteggevano
sempre, crescendo sulle loro squame.
Da come lei
descriveva le sirene non
dovevano essere proprio delle bellezze, intese nel senso umano del
termine.
Erano squamose, grassocce e avevano delle membrane tra le braccia e il
corpo.
Io pensavo di aver visto ragazze bellissime ma sembrava che il suo
sguardo non
trasmettesse immagini reali, ma idee. I suoi occhi mi avevano detto
“sirene” e
io le avevo immaginate come volevo. O questa era per lo meno la
conclusione a
cui eravamo giunti. Il che significava che anche se vi fossero stati
stendardi
sulla nave avrebbero potuto essere frutto della mia immaginazione e
così via.
Insomma per vedere quello che succedeva davvero, con tutti i suoi
dettagli,
bisognava conoscere Moore almeno un minimo. Era una sorta di sigillo di
sicurezza. Il che significava che sapendo l’aspetto delle
sirene non avrei mai
più potuto vedere in lei delle ragazze nude e prosperose,
nonché molto
disponibili.
Feci un minuto
di
silenzio, come un lutto per le mie bellezze perdute, poi mi tolsi le
scarpe e
mi distesi nella paglia, tirandomi addosso la coperta. Zabluda si
accoccolò
abbracciata alla sua macchina da guerra poco distante. Potevo sentire
il suo
respiro sottile comparato a quello pesante di Wyvern.
“ Ti
manca tanto
Moore eh?”
“
Si… qui è troppo…
secco. Non so come farò quando troverò il Capo,
vorrà dire che dovrò restare
qui per sempre, non rivedrò più casa
mia…”
Non emise suoni
tangibili, ma avevo la brutta sensazione che stesse piangendo. Allungai
una
mano verso di lei alla cieca, dato il buio che ormai ci circondava.
Sussultò ma
non disse niente. Avevo la mano su un tessuto che assomigliava a lana
molto
grossa. Sorrisi, non l’avevo mai visto quel lembo. Cominciai
ad accarezzarla
piano, come fosse un gatto, istintivamente.
“Che
fai?”
Ritirai subito
la
mano.
“Non
lo so, ti
consolavo… ‘notte”
E mi girai
dall’altra
parte, come per chiudere lì quello spiacevole inconveniente.
Che cosa
imbranata. Mi si chiudevano gli occhi.
“Liron?
Thank you di
avermi accompagnata. Non avevo bisogno di una guida.”
Mi sorpresi
lievemente, ma non ci pensai perché ero a pezzi e mi
addormentai subito.
Beh? Chi dice
qualcosina
alla povera nafasa che brama commenti? =D
Per la mia fida
recensionista
anil13:
le mie storie
sono
sempre un po’ scure e malinconiche, mi affascina di
più immaginare le cose cupe
che non quelle allegre. Liron non è depresso. È
il suo stato d’animo medio. Semplicemente
tra le facce da indossare la mattina sceglie quella meno faticosa. Si
crogiola
nella sua apatia e ci gode.
Comunque io non
lo so
bene il croato, mia madre lo sa, io prendo solo qualche parola dal
dizionario
sulla mensola del salotto. ^_^’
|
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
CAPITOLO SETTE
Mi svegliai con
le
leccate di Wyvern. Scattai a sedere schifato e il mastino
trotterellò dalla
legittima padrona.
“Buen
trabajo, Wyvy”
Si stava
mettendo a
posto il vestito. Mi chiesi se stesse facendo quel movimento con la
spalla. Si.
Rimasi ancora un po’ a guardarla pulendomi il viso con la
maglietta, poi andai
a prendere un pezzo di pane dalla borsa. Stava finendo.
“Adesso
che siamo
fuori città come faremo a procurarci da mangiare? Mi aspetto
un’idea
brillante.”
Mi
guardò divertita.
“Non ne ho.”
Avevo sonno.
Non
avevo mai dormito fuori. Mi faceva male tutto. Nonostante
ciò mia alzai e mi
stiracchiai. Tutte le giunture della schiena mi schioccarono. Volevo un
letto.
Probabilmente cominciai a lamentarmi e non finii fino a quando non
fummo pronti
a partire, ma Zabluda non mi badò.
Mentre
camminavamo
nella luce pallida della mattina mi disse che sentiva la magia. E non
le
piaceva. Era una magia corrotta. Un potere piccolo e malato che si
annidava nel
sottosuolo e nell’essenza delle piante.
Camminammo
tutto il
giorno sotto il sole cocente. Scoprii che era la figlia di una donna di
servizio del castello. Una vita sacrificabile.
Passammo
dozzine di
campi abbandonati. Trovammo qualche mora rinsecchita e qualche fico.
Wyvern sparì
una mezzoretta e tornò con il muso insanguinato. Non volli
indagare.
Parlammo un
sacco. Io
volevo scoprire se era stata la Sparizione
a portare gli umani a Moore, poteva essere ma
poteva anche non essere. Secondo i miei calcoli erano arrivati due o
tre anni
prima, non di più. Ed era in quel periodo che si era
svuotato di colpo, dalla
sera alla mattina, il quartiere industriale dove vivevo. Ma
c’era il problema
che né io né lei avevamo la minima idea se lo
scorrere del tempo fosse uguale
nei due mondi. Certo era che come coincidenza era troppo forte. Essendo
tra
l’altro una magia di quella portata quasi impossibile da
attuare a grandi
distanze la nostra spedizione rischiava di essere solo
un’allegra gita in
campagna. In città però ciò che
cercavamo, la magia che avrebbe dovuto
sprigionare un grande mago, non c’era, quindi
nell’indecisione continuavamo ad
andare. O meglio, lei voleva continuare ad andare. E io la seguivo per
cause di
forza maggiore come un certo patto…
Stavamo appunto
camminando
sul tracciato di una strada di campagna, passando da una lastra di
cemento
all’altra, quando vedemmo che il nostro cammino sarebbe
dovuto passare tra un boschetto
molto fitto e una piccola collina.
Per Zabluda non
ci
sarebbero stati problemi, ma io feci valere le mie ragioni in quanto
guida e
conoscente del territorio, anche se lì non ci ero mai
arrivato. Le mie ragioni
si riducevano a un semplice concetto di sopravvivenza: mai andare dove
non hai
vie di fuga. Piuttosto avrei fatto il giro largo, tanto non avevamo una
meta
precisa, giusto? Seguivamo la via tracciata solo per non perderci, dato
che
quella gran brava sirena e il suo mastino da combattimento si davano
tante arie
ma non avevano la più pallida idea di dove stavamo andando.
Mi spiegarono a
sputi
e ringhi che sapevano benissimo dove andare, erano guidati dal destino
nel loro
percorso e Parino ( che a quanto capii era una specie di dio protettore
del
loro popolo che assomigliava molto a Poseidone, con tanto di forcone e
coroncina ) era dalla loro parte, anche se non certamente dalla mia,
dato che
ero un miscredente e anche vantavo un intelletto notevolmente inferiore
a
quello di un uovo di squalo.
Stavo giusto
facendo
notare che magari il loro amato Parino, oltre che essere un
po’ tocco e
incapace, e forse anche sadico, date le tragedie che stavano avvenendo
a Moore,
magari non aveva poteri al di fuori del proprio mondo, quando ci
accorgemmo che
eravamo ormai arrivati all’imboccatura del bosco.
A me non
piaceva per
niente e glielo dissi. Non solo per gli animali che ci potevano essere
all’interno, sicuramente terrificanti, (avevo, e ho
tutt’ora, una paura matta
di qualsiasi cosa vivente dotata di moto proprio, se non lo avevate
ancora
capito), ma soprattutto per la possibilità di incontrare
banditi.
Ovviamente non
sapevo
niente dei banditi che infestavano le campagne intorno alla mia
città vivendo
beatamente rapinando, stuprando e uccidendo più della
metà degli incauti che si
mettevano in viaggio. Avevo solo una paura bestiale di quella cosa cupa
che ci
attendeva, piena di robe viscide e vive, e senza vie di fuga.
Nonostante
ciò persi
un buoni dieci minuti della mia vita a inventarmi storie
raccapriccianti di
briganti con lunghe barbe nere e denti d’oro.
L’unica
reazione di Zabluda
fu alzare un sopracciglio. Poi mi spinse dentro il passaggio. Ebbi
appena il
tempo di scorgere qualcosa che si muoveva sulla cima della collinetta
che gli
alberi mi soffocarono.
Questo
è un capitolo
un po’ moscio, ne son cosciente. Scusate se ho aggiornato in
ritardo. Oh, in
genere aspetto che almeno una decina di persone legga
l’ultimo capitolo prima
di postarne uno nuovo. Tranne nel caso mi arrivi una recensione, che
vale di
più di qualsiasi numero nel mio personale metro di paragone.
XD
Quindi il concetto è che se volete
leggere la prossima parte, che è parecchio più
emozionante (e non è che ci
voglia molto) commentate!!! =D
Per Prue:
c’è un
accenno di magia hai visto? ^_^ La magia risiede dovunque ci sia vita
che non
sia stata contaminata dal pensiero umano, perché gli uomini
non ci credono,
quindi le piante e la terra che crescono a stretto contatto con loro
non la
sviluppano. Ovviamente queste sono le forme naturali, minori e
intrinseche di
magia. Poi ci sono quelle cosiddette artificiali, come il potere dei
maghi, che
comunque deriva dalla vita spontanea ma riesce a sfruttarla ed
amplificarla. Questa
è una piccola chiave di lettura del mondo che ho creato,
così magari capisci
meglio i prossimi capitoli, anche se ci vuole ancora un po’
prima che entri in
gioco gente potente…
|
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
CAPITOLO OTTO
L’ombra
mi accolse
prima che i miei occhi si fossero abituati al buio e cominciai a
procedere
lentamente per non inciampare. La strada era molto più
sconnessa di com’era
fuori, piena di piante e sassi sui quali rischiavo di capitombolarmi.
Avanzai
pian pianino fino a quando non mi accorsi che quella sottospecie di
sirena era
molto più avanti e mi stava abbandonando ridendo felice. E
non avevo la minima
intenzione di ritrovarmi solo in un bosco buio e minaccioso, quindi le
urlai di
aspettarmi e accelerai il passo. Misi il piede storto e finii a faccia
in giù
nelle foglie cadute. Qualcosa di umido e viscido si mosse contro la mia
guancia. Balzai in piedi urlando e dimenandomi e tentando di pulirmi
alla
meglio il viso. Zabluda mi fissava divertita.
“È
umido! Oh Liron!
Si sta così bene qui! Non senti che fresco? Oh
ma how smijesan are you! Ah ah! Ma
smettila dai! Non hai niente in faccia! Certo che
devi essere caduto nel fango proprio eh… Ah ah! Che buffo
che sei non hai
idea!”
“Smettila
di ridere!
Avevo qualcosa sulla guancia, qui, guarda!”
“Io
non vedo niente,
sarà stata una sanguisuga.”
La fissai
allibito.
In un attimo era diventata l’immagine stessa della
serietà.
“Una
cosa?”
I suoi occhi
avevano
un colore più scuro o sembrava a me? Una rughetta al lato
della palpebra
sinistra tremolò. Zabluda mi sputacchiò in faccia
piegandosi in due dal ridere.
Mi venne il sospetto che mi stesse prendendo in giro. Certo che
l’umidità di
quel boschetto la rendeva veramente euforica. Lanciai
un’occhiata a Wyvern con
aria interrogativa, lui aveva la bocca lievemente aperta e scodinzolava
come un
matto. Se avesse potuto avrebbe riso anche lui, me lo sentivo. Mi
sedetti su
una pietra e aspettai che la smettessero e ritornassero persone serie.
O almeno
cani seri.
Intanto
cominciavo a
vedere le cose intorno a me e, nonostante i rumori fatti da quei due
esseri
sentivo che tutto fremeva. Mi spiego meglio. Non è che
proprio proprio tutto il
bosco ridesse del sottoscritto, anche se in quel momento mi sarebbe
sembrato normale.
Solo che era tutto pieno di fruscii. Le foglie tremavano e si muovevano
scosse
da una brezza inesistente, i rami degli alberi idem. Insomma tutto
sembrava
vivo. E la cosa mi terrorizzava. Mi sentivo circondato da esseri
minacciosi che
mi spiavano, tutto intorno a me strisciavano nel buio, ero assediato,
eravamo
assediati! Mi feci prendere dal panico e cominciai a guardarmi intorno.
Zabluda
si stava ricomponendo. Mille occhi ci spiavano da dovunque, mille belve
attendavano un nostro passo falso per sbranarci.
Un ramoscello
scricchiolò e si ruppe. Vidi l’ammasso di stracci
neri scattare immobile a
terra con le orecchie tese. Ci trasformammo entrambi in animali.
Fiutavamo il
pericolo. Wyvern ringhiava. Udimmo uno scoppio. Il gigantesco mastino
lanciò un
guaito e si accasciò al suolo.
“Smrt!”
Dai cespugli
comparvero lentamente una, due, tre, quattro figure. Erano esattamente
intorno
a noi, tranne che in un punto: dietro di me. Forse non mi avevano
visto…
Cominciai ad arretrare lentamente, ma fui fermato da qualcosa di freddo
e tondo
contro la schiena.
“Eh
no no bello! Non
si fa così! Che cercavi di fare?”
La canna di una
pistola. Pensai. Merda. Pensai. Non avevo mai visto una pistola, ma ne
sapevo
abbastanza da non volermene trovare una puntata alla schiena. Erano
cinque.
Troppi, troppi. Erano vestiti di stoffe pesanti e tre di quelli che
potevo
vedere portavano delle lunghe barbe. Niente volto coperto. Non avevano
bisogno
di nascondersi. Forse non avremmo avuto l’occasione di
descrivere le loro
facce. Rabbrividii al pensiero. No, ero troppo giovane. Almeno non
erano belve,
erano persone. Si poteva trattare.
Sentii
provenire una
zaffata fetida da dietro di me.
“Con
che viaggi
ragazzo? Con quel mucchio di stracci? O è una bambina?
Tiratela su!”
Mi resi conto
solo
alle sue parole che Zabluda era ancora accucciata a terra in posa da
agguato.
In quel mentre sollevò il viso. Ringhiava.
“Non
toccatemi! Che
volete? Non abbiamo niente noi!”
“Uh
uh! La bestiolina
parla! Capo secondo te anche balla?” disse un uomo molto alto
ma dalla testa
straordinariamente piccola. E sparò a terra a un metro dalla
bestiolina, che
scattò in piedi all’istante.
“Non
è il momento
Gorg!” abbaiò da dietro la mia schiena.
“Decido io quando ci si diverte e
quando si lavora! Ora si lavora! Allora giovani, dove sono le vostre
sacche?”
La mia, e anche
l’unica, era vicino alla roccia dove mi ero seduto,
così fui spinto
brutalmente, rotolai verso Zabluda e il mio assalitore raccolse lo
zaino da
terra. Sentii una voce provenire dall’alto, da un punto
imprecisato sopra la
mia testa.
“Non
provare ad
aprirla.”
“Uh
uh! Fa le
condizioni questa capo!”
“Zitto
Gorg! E tu
pure tu bambina! Che ti prende? Non ti sei resa conto della situazione?
Posso
ucciderti quando voglio, quindi ti conviene star zitta e pregare il tuo
tempio!”
“Non
sono una
bambina! E non aprite quella borsa vi ho detto! Non abbiamo niente!
Siamo solo
viaggiatori!”
“Beh
se non c’è
niente non vedo perché non possiamo prenderla! Che
c’è? Qualche cosuccia
vostra? Le foto di mamma e papà quando erano ancora vivi? Oh
poveri piccoli! Ah
ah ah!”
E
l’uomo senza barba
si mise a ridere sguaiatamente, facendo tremare una specie di grosso
fucile che
teneva puntato contro di noi. Non capivo perché non potevano
prendere la nostra
borsa. Tanto il cibo era quasi finito e la coperta... Beh saremmo
potuti vivere
anche senza se ci lasciavano vivere! E mi sembrava molto ma molto
più probabile
che ci lasciassero andare se quella stupida non avesse cominciato ad
attaccar
briga!
“Si,
ecco! Per me
portano qualcosa di bello! Forse oro! Possiamo anche ucciderli no,
capo? Come
il cane!”
“Ma
stai zitto Gorg?
Potremmo uccidere il ragazzo, ma perché uccidere la
femmina?”
Quello che
doveva
essere il capo, lo stesso che mi aveva assalito, sorrise. Ma fu un
sorriso
terribilmente viscido. Gli mancavano alcuni denti.
“Se
non sei una
bambina, dì un po’, quanti anni hai?”
Il cerchio
intorno a
noi si strinse. Sembravano lupi. Forse sarebbe stato meglio se fossero
stati
lupi.
“Non
vedo a cosa vi
dovrebbe interessare.”
“Ha
ragione! Cosa ci
interessa? Non passa una donna da anni per questo bosco!”
“Muto
Gorg! Hai
capito? Muto! Dobbiamo o no mantenere un minimo di integrità
morale?!?”
L’uomo
senza barba
rise sonoramente, ma si zittì dopo poco per una gomitata di
Gorg. Non conveniva
ridere. Non era una battuta. Il capo non stava ridendo.
D’un
tratto sentii la
mia mente espandersi fino a sfiorare l’infinito e una voce
sibilarmi dentro la
testa: “Tappati le orecchie!”
Capii che era
Zabluda, ancora in posa da difesa sopra di me, ma non mi rendevo conto
del
come, del perché, cosa fosse che avevo sentito e senza
pensarci chiesi ad alta
voce
“Come,
scusa?”
“Avete
sentito! Il
verme in terra ha parlato!”
E finalmente si
misero a ridere tutti insieme appianando i malumori interni alla banda.
Non si
accorsero che la ragazzina si era eretta in tutta la sua altezza e
aveva aperto
la bocca. All’inizio non sentii niente, ma dopo qualche
secondo un urlo eruppe
dalle sue labbra, lungo, forte, terribile, acutissimo. Non avevo udito
mai
niente di simile prima, non sapevo cosa fosse, eppure un istinto
primordiale
prese il controllo delle mie azioni: mi venne da correre, da buttarmi
da
qualche parte, giù da un dirupo o meglio in mare!
Ecco cosa
potevo
fare! Buttarmi in mare! Sarebbe stato il massimo! Mi alzai con le
migliori
intenzioni di cercare la mia morte in capo al mondo ma ricevetti subito
un
forte colpo in testa. E svenni.
Qua succede
qualcosa…
contenti miei assidui et immaginari lettori? ^_^
|
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
CAPITOLO NOVE
Tutto si
muoveva
lentamente, a ondate. La testa mi pulsava come fosse stata grande tre
volte il
normale. Sentivo una voce bassissima che rimbombava lontano lontano.
Poi la
pelle del mio viso esplose in tanti frammenti gelati e mi svegliai.
Avevo la
faccia sott’acqua. Mi dimenai da qualcosa che mi teneva sotto
e riuscii a
prendere aria annaspando.
“Oh.
Sei vivo.”
Mi girai e vidi
una
ragazzina distrutta inginocchiata vicino a me. Pallida come un morto e
che
respirava a fatica. Solo dopo qualche secondo mi ricordai chi fosse e
ciò che
avevamo appena rischiato.
“Cos’è
successo?”
“Mai
sentito parlare
del canto delle sirene?”
“Ma…
era quella cosa
là? Ma era terrificante!”
“Nessuno
ha mai detto
che sia particolarmente melodioso.” Disse alzando un
sopracciglio “Ma è un
peccato gravissimo e si può attuare solo in casi
particolari.” Fece una pausa. “In
genere porta alla morte.”
Sotto qualche
ciuffo
di capelli scomposto Zabluda sogghignò.
“Come
alla morte! Tu
sei viva!”
“Sono
in un altro
mondo, Liron. Le leggi di Moore non valgono qui, almeno in
parte.”
“Aspetta,
ma tu lo sapevi
già, vero?”
“No.”
Di nuovo
ghignò. Sollevò
la testa e sotto le palpebre pesanti incontrai le pozze di mare.
Avevano una
sfumatura di distruzione che mi fece correre un brivido gelido lungo la
schiena.
“Si
Liron, si
whoreson, potevo morire. Ma non sono morta. Non avevo scelta, volevano
aprire
la sacca. Ora smettila di fare le tue stupide domande e di tentare di
risolvere
i tuoi irrisolvibili e blesavi problemi mentali e aiutami,
smrt!”
E
così scoprii che le
sirene hanno un fortissimo senso del territorio e di ciò che
è loro. Che cosa
stupida. Ci si mette in un sacco di guai.
Però
il problema al
momento era che lei non riusciva più a parlare in una sola
lingua. Male. Male.
Oh, molto male.
Deglutì
e chiuse gli
occhi.
“Bueno,
adesso che ti
sei finalmente svegliato e che that farabutti se ne sono andati io devo
dormire.
Sto male. Ma Wyvern sta ancora peggio. È qui dietro.
Puliscigli la herida, la
ferita, toglili il proiettile e occupati di lui. Io ho salvato te. Ora
tu salvi
noi.”
Aprì
gli occhi un
secondo per vedere se avevo capito. Annuii perché non sarei
mai riuscito a
parlare. Lei crollò come un peso morto a terra e si
racchiuse su se stessa con
la forma di una chiocciolina, tremando.
Mi alzai e
trovai
nell’erba una massa nera che respirava con suono raspante.
Wyvern era disteso
su un fianco con gli occhi chiusi, la bocca semiaperta e una profonda
ferita
sulla zampa posteriore. Non mi piaceva. Non mi piaceva neanche un poco.
Era…
grande e… cattivo! Ok, va bene, stava male e aveva bisogno
del mio aiuto e me
lo aveva chiesto Zabluda che mi aveva salvato la vita, ma si sa che gli
animali
feriti sono ancora più aggressivi, no?
Insomma, fu
solo con un’immensa dose del
mio noto coraggio che riuscii ad inginocchiarmi vicino al mastino. Non
sapendo
bene che fare e rischiando un bel morso, gli misi una mano sul collo e
lo
accarezzai. In quel momento, non so come, seppi che non mi avrebbe
aggredito.
Penso me lo stesse tentando di comunicare lui stesso in qualche
maniera. E
seppi anche che non era solo un cane. Nella stessa maniera in cui la
sua
padrona non era solo un’umana. Sapeva anche ciò
che gli stavo per fare e, in un
certo senso se lo aspettava, era pronto. Lui aveva zoppicato fino a
quella
radura con enorme sforzo, mentre Zabluda mi portava in spalla. Rimasi
esterefatto.
Ora sono quasi
sicuro
che me lo disse lui stesso, solo che mi diede queste informazioni tutte
insieme, in un unico istante, come un sospiro, un ultimo gesto
disperato. Poi
tacque. Mi lavai le mani nel ruscello che scorreva vicino alla sirena
dormiente
con molto sospetto. Mi leccai un dito. Sembrava buona. Ed era
dannatamente
fredda. Quando ebbi strofinato via tutto lo sporco possibile dalle mie
dita guardai
Zabuda e gliele appoggiai sul viso. Aveva bisogno di acqua quella
ragazza.
Emise un piccolo verso e si racchiuse ancora di più nella
sua posizione a
riccio.
Tornai da
Wyvern e mi
resi conto che dovevo decisamente lavarlo prima di tentare di toglierli
la
pallottola, era tutto pieno di terra e foglie. Regole elementari di
igiene che
ci avevano insegnato a scuola. No, non ci avevano insegnato come tirare
una
pallottola fuori dalla zampa di un immenso cane-tritone,
però qualche regola di
primo soccorso si. C’erano dei programmi di insegnamento
molto pratici, nessuno
si perdeva troppo in matematica ad alto livello o lingue morte,
dovevano insegnarci
a vivere.
Prendendolo da
sotto
le zampe anteriori lo trascinai più vicino al rivo e poi,
con la maggiore
delicatezza possibile, immersi la zampa ferita in acqua. Il guaio era
che lo
sparo non era nella parte bassa della zampa, ma abbastanza in alto,
verso il
fianco, per cui in pratica dovetti immergerlo quasi a metà
nell’acqua gelida
sorreggendolo perché non ci cadesse tutto. Guaì.
Quando non ce la feci più lo
tirai su e lo appoggiai a terra. Ripresi fiato. Era veramente
un’enorme e
pesantissima dannata massa di muscoli. Andai nella borsa salvata e
tirai fuori
un coltellino. Lo sciacquai e mi misi all’opera.
Non vi descrivo
ciò che feci
per non sembrare truculento, ma anche perché non avevo la
più pallida idea di
ciò che stavo facendo. Tentavo di cavare quel dannatissimo
pallino senza sapere
quanto in fondo fosse, se ci sarei riuscito o se Wyvern sarebbe
sopravvissuto.
Ogni volta che affondavo lui emetteva un suono misto tra un ululato, un
ringhio
e un guaito, ma non si voltò mai verso di me. Nel frattempo
io gli parlavo in
una maniera che se mi fossi sentito mi sarei fatto fuori a morsi da
solo, anche
senza contare il dolore dell’intervento barbaro alla zampa.
Dicevo cose
molto ma
molto stupide, del tipo:
“Su
Wyvy, su bello,
dai che tra poco ho finito, lo faccio per te sai? Dopo starai molto
meglio, oh
ma quanto sangue! Dio che schifo! Non potresti sanguinare un
po’ di meno
ragazzo?”
In
corrispondenza con
i versi di Wyvern sentivo Zabluda che si muoveva dietro di me, ma non
osai
guardare. Sospettavo che nel sonno soffrisse anche lei, come la sua
parte
animale.
Ad un certo
punto
esclamai:
“Wow!
Vecchio mio c’è
una resistenza! L’ho trovato! Fa che non sia già
l’osso!”
E
dall’emozione mi
tremò la mano, diedi un piccolo affondo involontario, il
mastino contrasse il
muscolo e una cosetta insanguinata schizzò fuori dalla
ferita. Dietro le mie
spalle la sirena, ormai totalmente srotolata, inarcò la
schiena per qualche
secondo.
Ce
l’avevo fatta. Mi
concessi un sorriso e poi mi misi a trascinare nuovamente il cane per
sciacquarlo.
Ho risentito di
un
blocco artistico, chiamato anche “fine
quadrimestre”, ma ora ho ricominciato a
scrivere! Yee! Siete contenti miei adorati lettori?
Che triste che
è
parlar da soli però… =(
(si tra un po
mi metto a delirare)
Oh! Annuncio
ufficiale!
Grazie a sara chan che mi ha messa nei preferiti! (oh, il mio primo
preferitiiiii! *autrice va in delirio di onnipotenza*)
|
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci: L'umano si da un po' da fare ***
CAPITOLO DIECI:
L’UMANO SI DA’ UN PO’ DA FARE
Probabilmente
se
Wyvern fosse stato un semplice botolo terrestre non ce
l’avrebbe fatta. Dallo
scempio che gli avevo fatto nel fianco sarebbe nata una signora
infezione
oppure sarebbe morto semplicemente di emorragia. Confidavo molto nella
sua
natura Mooriana, o come cavolo si dice non lo so ancora.
Dopo che ebbi
finito
di scavargli dentro con un coltellino svizzero come avrei fatto per
intagliare
un pezzo di legno e lo ebbi pulito, mi alzai e cominciai a camminare
inquieto.
Avevo un po’ paura che i banditi sbucassero di nuovo dai
cespugli, ma se
avevano provato quel desiderio irrefrenabile, che avevo provato
anch’io prima
che Zabluda mi tramortisse, di buttarsi in mare, probabilmente erano
ancora che
correvano come pazzi cercando un mare dove buttarsi.
Ce
l’eravamo vista
brutta. E pensare alle scene che aveva fatto per quella stupida borsa!
Dio che
cosa idiota! Tutti provano degli istinti di difesa del territorio, ma
si tratta
di vedere la priorità! E in quel momento la cosa
più importante era salvarci la
pelle! Ma dico io! Rischiava di farci impallinare tutti e tre!
Feci qualche
respiro
profondo pensando che in fondo ci aveva salvati. E dovevo esserle
grato. Ma
grato le sarà stato mio zio! Chi lo aveva detto di fare il
giro largo, eh? Chi
era che sentiva qualcosa e non voleva entrare nel bosco? E ora mi
trovavo con
questi due malati terminali da curare. E se ne fosse morto uno sarebbe
morto
anche l’altro? Non ci volevo pensare. Avrei saputo come
ritornare da solo a
casa da lì? Speravo profondamente di si.
Giocai per un
po’ a
schizzare gocce d’acqua su Zabluda, tentando di centrarle il
naso, ma mi stufai
dopo poco così li lasciai ad agonizzare vicino al torrente e
mi misi ad
esplorare la vegetazione circostante. Se dovevo badare a quei due
dovevo sapere
che mi offriva il territorio. E soprattutto quanto distanti erano i
campi. Il
senso di responsabilità mi dava qualcosa da fare. Non avrei
passato la notte
lì. Dovevamo uscirne. Il cielo si stava annuvolando ed era
sempre più scuro.
Fortunatamente dopo una decina di minuti che camminavo tentando di non
cadere,
non pensare agli animali che potevano esserci intorno a me, e
possibilmente
anche mantenere una linea retta, gli alberi cominciarono a diventare
meno fitti
e sbucai su un campo coltivato.
Coltivato?
Ebbene si.
Ma non ci feci molto caso. Piuttosto notai con piacere sul bordo ciuffi
di
rucola.
Oh. Cibo. Bello
cibo.
Tornai sui miei
passi. Il difficile sarebbe stato convincere Zabluda a seguirmi.
Povera, era
distrutta. Ma bisognava uscire di lì prima che arrivasse
buio. Neanche Sandokan
si accampava sotto una fitta vegetazione brulicante insomma!
Con mia
sorpresa non
la ritrovai raggomitolata ma seduta vicino alla sua metà. Lo
fissava senza
toccarlo. Mi misi vicino a lei.
“Stai
meglio?”
Non emise suono
ma
scostò un pezzo di cotone bucherellato della veste e mi
mostrò il fianco. Aveva
una cicatrice corrispondente alla ferita di Wyvern. Doveva aver fatto
qualcosa
per trasferire su di se parte del dolore. Ignorai
l’operazione truculenta e
passai ai fatti concreti.
“Dobbiamo
uscire dal
boschetto. Non molto distante da qui finisce e c’è
anche un po’ di rucola da
mangiare.”
“Tu
proprio sei
fissato con questa rucola, eh?”
Tirò
un sorriso. Meglio
di quanto immaginassi.
“Ho
riempito la
borraccia. Dovrei riuscire a camminare per un po’. Ma non so
lui.”
In effetti il
mastino
aveva aperto un occhio, ma non sembrava molto in forma. E non
c’era da
biasimarlo.
“Ho
tirato fuori il
proiettile, sai?”
Mi
scoccò uno sguardo
misto tra il fulminante e il divertito.
“Vuoi
un applauso?”
“No
grazie, so di
esser stato bravo.”
Era dubbiosa.
“Ti
ringrazierò
quando saremo in un posto sicuro dove dormire e Wyvern sarà
fuori pericolo.”
Mi sembrava
equo come
accordo. Mi girai verso Colui Che Era Stato Salvato. Da me! Oh
com’ero bravo.
Mi tirai uno schiaffo mentale per smetterla di gioire e chiesi:
“Ce
la fai a
camminare?”
Non so che
risposta
mi aspettassi in quel momento. Magari credevo che zompasse su
scodinzolando e facendomi
le feste.
“Non
ce la fa eh?”
“No,
caricatelo in
spalla e andiamo. Forse riesco a portare io la sacca.
Sbrighiamoci.”
Al solo
pensiero di
risollevare quella cosa mi sentii svenire. Per di più
attraverso il bosco! Ma
dovevo comportarmi da uomo della situazione quel giorno, avevo un
orgoglio da
difendere!
Smettetela di
ridere,
prego.
Barcollando in
maniera preoccupante la sirena prese la borsa e si avviò
chissà come nella
direzione giusta.
“Come
fai a sapere
che è di là? Guarda che è
dall’altra parte!”
Scherzavo. Che
scherzo stupido. Per buttare giù un po’ il mio ego
gonfiato mi rispose con due
sole parole:
“Semini
distruzione.”
Ebbi un
repentino
crollo facciale e abbassai la cresta.
Dovevo trovare
la
maniera di issarmi in spalla Wyvern, contando che trascinarlo per mezzo
bosco
era fuori discussione. Lui con il suo unico occhio aperto attendeva che
mi
venisse un’idea. Quando capì che ero un caso perso
fece un debole tentativo di
alzarsi, stava quasi per cadere che io avevo già la testa
sotto il suo ventre
con la geniale trovata di portarmelo in spalla come un agnellino. Con
la
sottile differenza che lui pesava come una mezza dozzina di agnellini.
Capitombolammo a terra entrambi e non mi ruppi l’osso del
collo per miracolo.
Dagli alberi arrivò un debole richiamo.
“Tutto
bene?”
“Si,
si, tranquilla,
ce la sto facendo.”
In quel momento
venni
folgorato dalla soluzione. Io non potevo portarmelo in spalla per tutto
quel
tratto; anche se fossi riuscito a caricarmelo mi sarei spezzato la
spina
dorsale, o sarei caduto, che era la cosa più probabile.
Corsi da Zabluda, le
sfilai velocemente lo zaino estraendo la coperta e ritornai dal
mastino.
Piegato il mio bottino glielo passai con grande sforzo sotto il torace,
come
un’imbragatura, e tirai.
Contro ogni mia
aspettativa
funzionò, si rimise in piedi e mosse qualche timido passo
solo con le zampe
anteriori, poi mi guardò dubbioso. Era questo che volevo?
“Si
bello, su,
andiamo avanti così.”
Sbruffò
ma si mise a
camminare, e io dietro di lui sorreggendolo. Entrammo nel bosco senza
cadere ed
andammo avanti così, coma facendo la carriola, fermandoci
ogni tanto ansimanti,
mentre il buio si impossessava della foresta. Sbucammo fuori da quel
tugurio
che era ormai il crepuscolo inoltrato e stramazzammo al suolo esausti.
Zabluda
ci venne vicino incuriosita.
“Toh!
L’umano si dà
finalmente un po’ da fare!”
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
CAPITOLO UNDICI
Giunti fuori
dal
bosco eravamo così stanchi e stupidamente felici che per un
po’ non facemmo
altro che guardare comparire le prime stelle distesi
sull’erba. Per fortuna un
brulichio del mio stomaco mi ridestò e mi resi conto che se
non mi sbrigavo a
raccogliere la rucola finché la vedevo quella sera avremmo
digiunato. Così fui
in piedi con un balzo e stringendo gli occhi mi misi a raccogliere quel
che
trovavo, che per mia grande fortuna comprendeva anche alcune bacche
dall’aspetto poco feroce. Mentre ero impegnato in questa
operazione Zabluda
cominciò un intricato interrogatorio, china sul torrente che
sbucava poco
distante dal folto.
“Sai,
pensavo, voi
umani quanto bevete?”
“Non
lo so… un po’…”
“E vi
immergete mai
in acqua?”
“Si,
per lavarci. Mia
madre mi faceva il bagno quando ero piccolo, però
ultimamente l’acqua non è un
gran che, rischi di bruciarti la pelle.”
“Con
l’acqua di
questo torrente tu hai lavato Wyvern però, che non si
è bruciato, e l’hai anche
bevuta.”
“Si,
questa è buona.”
“Ma
se un umano si
immerge in acqua che conseguenze ci sono per il suo corpo?”
“Nessuna,
cioè, puoi
avere un po’ di freddo quando esci se non ti asciughi bene. O
se ci stai tanto
dentro ti vengono le grinzette sulle dita, ma niente di tale”
“Allora
perché gli
umani affogano? Troppa acqua non li fa male? Perché
strepitano quando ci
cadono?”
“Oh,
beh, presumo
strepitino perché hanno paura, ma non perché ci
faccia male. Si affoga quando
si respira l’acqua. E se uno è tanto tempo in mare
capita… cioè… Non lo so…
Penso…
Non sono mai affogato… Perché tutte queste
domande?”
“No,
niente.”
Concluse in fretta.
C’era
qualcosa sotto
ma non avevo molta voglia di indagare tra i suoi dubbi sulla differenza
fra le
nostre specie, anche perché pure io ne avevo avuti
moltissimi che lei mi aveva
risolto solo in parte, e sapevo che in quel momento stava mettendo
insieme i
pezzi. Ma con mia sorpresa la sirena continuò.
“Se
io volessi farmi
un bagno in questo torrente, mettiamo. Che dovrei fare?”
Strabuzzai gli
occhi,
un piccolo brivido freddo mi corse lungo la schiena.
“Dovresti
spogliarti.”
“Perché?”
“Perché
se no quando
esci con i vestiti bagnati non hai niente altro da metterti, patisci il
freddo
e ti ammali… e muori.”
“E
muoio?”
“Beh,
non
necessariamente, ma potrebbe essere, ecco.”
Che brava mamma
che
ero. Sembrò pensarci, ma solo un momento.
“Sai
è strano
l’effetto che mi fa l’acqua qui, quando la sento
vicina. È come un bisogno di
entrarci, o che lei entri dentro di me, penso potrebbe rigenerarmi, ma
sento
che c’è qualcosa che non mi torna.”
“Del
tipo che sei in
viaggio con un uomo?”
Lei non
afferrò il
concetto primario e cominciò a spogliarsi.
“Già,
forse non
riesci a spiegarmi queste cose, ci vorrebbe qualcuno che si
è già trasformato…”
Mi girai di
scatto e
concentrai profondamente tutto me stesso sulla rucola. Non esisteva
niente al
di fuori della rucola al mondo. Non c’era una ragazza mezza
nuda alle mie
spalle. Non eravamo soli. Non era l’occasione della mia vita.
Non avevo la
minima intenzione di saltarle addosso. No, no, no.
L’istinto
però fu più
forte di me e le lanciai una timida occhiata oltre la spalla. Vidi
degli
squarci di pelle lattea nel buio che avanzava, sembrava che
risplendessero. Poi
si tolse l’ultimo straccio e si alzò in piedi con
grazia, dandomi le spalle.
Era veramente piccola vista così, nuda sotto la luna opaca.
Sembrava un
cucciolo malnutrito, con le gambe sottili e la zazzera scompigliata. E
poi,
insomma, aveva proprio un bel sedere. Ormai ero totalmente ipnotizzato.
Avrei
voluto tanto che si girasse per vedere quel seno così spesso
sbirciato e sapere
se veramente le ragazze Lì erano fatte come mi aveva detto
mio fratello.
Sentendomi tanto un guardone la vidi saltellare nel torrente, ridendo
con suono
querulo. Chissà se sapeva che la stavo guardando,
probabilmente si. Sedendosi
in acqua mi informò con un urletto che era gelida e si
girò di profilo, la mia
reazione fu istantanea: non avevo mai visto niente di più
interessante del
cespo di rucola che avevo tra le mani, e che, inoltre, neanche vedevo
più. Ne
azzannai ferocemente una foglia per allentare la tensione.
Perché
ogni singola
parte del mio corpo, e vi risparmio quale in particolare, moriva della
voglia
di voltarsi, spogliarsi e saltarle addosso. Ma non potevo, non dovevo.
Voi vi
chiederete il perché… Beh, diciamo che la cosa
avrebbe compromesso non poco la
mia fuga da casa. Già mi vedevo la scena. Io che zompo nel
torrente, lei
afferra le mie attenzioni (che per quanto sia stupida non ci vuole un
genio), e
mi tira una sberla. O la violento o sparisco con la coda tra le gambe.
La
seconda, considerando che ci tenevo alla pelle. Continuare un viaggio
assieme?
Escluso. Sarei dovuto tornare a casa da solo, senza cibo, senza
un’idea di dove
fosse casa mia. E tanti cari saluti all’avventura.
Si, dovevo
concentrarmi su questo. Era una cosa sbagliata, sbagliatissima.
Però
c’era sempre la
possibilità che lei fosse d’accordo, e al solo
pensiero la mia mente si diede
alla pazza gioia, mostrandomi immagini che non volevo vedere. Va bene,
le
volevo vedere, ma non in quel momento. Non potevo rischiare tanto.
Escluso.
Passai
così una buona
mezz’ora a mangiarmi i visceri e ripetermi a mezza voce
“Escluso!”, tentando di
imitare il più possibile la voce e il tono di mia madre,
seduto immobile in
mezzo al prato. Ogni tanto sbranavo una foglia di rucola,
più o meno in
corrispondenza con le sue risatine di gioia. Mi venne anche in mente di
andare
a prendermi il pane e mangiare per bene, ma mi sarei dovuto girare.
Forse sarei
dovuto andare anch’io a farmi un bagno gelato per calmare i
bollenti spiriti.
Si, con lei.
Saltuariamente
mi
tiravo una piccola sberla.
Ok, lo ammetto,
dovevo sembrare molto stupido a parlare e pestarmi da solo visto di
spalle. E
lo ero. Ma che potevo farci? Anche lei non scherzava in quanto a
scarsità di
capacità mentali. Non ci si spoglia davanti ad un uomo, a
patto che non si
abbiano precise intenzioni, no?
Finalmente,
dopo che
non sentivo più risatine da qualche minuto, mi stufai e le
rivolsi un urlo.
“Beh?
Hai finito?
Vorrei bere!”
Tanto per dare
un po’
di enfasi alla frase e farmi rispettare saltai in piedi tipo molla, e
dopo un
profondo respiro mi voltai di scatto.
Per poco non mi
prese
un colpo.
Era a un metro
da me,
in piedi. Nuda come mamma l’aveva fatta, bianca e
gocciolante. Un sorriso da
un’orecchia all’altra e uno sguardo da squalo.
Deglutire mi
sembrò
la cosa più difficile che avessi fatto da quando ero nato.
Mi sono un
po’ arenata
con la storia e i capitoli già scritti stanno pure finendo.
E poi solo tre
persone avevano letto l’ultimo capitolo, cosa che non mi ha
proprio messo di
ottimo umore per scrivere. Ma la smetto di lagnarmi, anche
perché non sopporto
gli scrittori che si lagnano della loro stessa desolazione. Puah. Ok,
ora
chiudo. Mi impegnerò e la finirò. (anche
perché mancano ancora un cinque-sei–sette
capitoli ecco. Circa.) Fine della lagna dell’autrice
incompresa.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
CAPITOLO DODICI
Vi giuro che
quella
notte ebbi il più esotico incontro con una donna nuda della
che si possa
immaginare. Il più assurdo e strano in assoluto. Zabluda era
sardonica e
determinata come il predatore degli abissi con la lucina sulla testa e
un sacco
di denti affilati. Io ero il povero ed incauto pesciolino: immobile
perché
terrorizzato ed estasiato al tempo stesso. Durò solo un
attimo però, non aveva
intenzione di farmi diventare la cena.
“Co- co-
cosa… Ch- che c’è?”
Si, questo ero
io.
L’unica reazione che ebbi da lei alla mia esplicita e precisa
domanda fu un
battito di ciglia, molto lento. Per una manciata di secondi. Poi
sibilò.
“Lo
sento, Liron, lo
sento.”
No, eravamo
troppo
distanti, non poteva sentirlo, magari se veniva un po’
più vicina però… Ma non
era quello che intendeva lei.
“E’
qui da qualche
parte, è vicino… Il mago! Sento la sua
potenza!”
“Ah.”
…
“Non
so come mai
prima non lo percepivo, è come se fosse comparso tutto
d’un tratto, mentre ero
in acqua, forse mi serviva il mio elemento per trovarlo, ma ora lo
sento, ed è
potente, molto. Sono sicura che sia lui, chi altro potrebbe essere? Non
riesco
a individuare con precisione la direzione, ma dovrebbe essere oltre i
campi,
sai, ha una forza quasi palpabile, mi sorprendo che tu non riesca a
sentirla, è
come un tremolio nell’aria. Ora non so che fare,
cioè non è che posso
presentarmi lì e dire “Buongiorno, sono la sua
Specula, mi aspettava giusto?” o
forse si? E poi sento che devo andarci, devo proprio, ma non so se
voglio
perché quando sarò là la mia vita
sarà nelle sue mani, ma non posso fermarmi
adesso, ho una missione, se no il patto non verrà rispettato
e altri della mia
gente verranno uccisi inutilmente per colpa mia, ma non voglio
diventare una
schiava ora che il momento è così vicino eppure
non posso evitarlo e…”
“Respira!”
Inspirò
profondamente
e tenne chiusi gli occhi per qualche istante. Non l’avevo mai
sentita parlare
così tanto, tranne quando mi aveva raccontato la tragedia
del suo popolo, e poi
si era messa a piangere. Chissà se cominciava anche adesso.
Mi sarebbe toccato
abbracciarla, per consolarla…
Mi stavo di
nuovo
perdendo in pensieri non adatti alla situazione, senza riuscire a
concentrarmi
minimamente sul problema mago, mentre lei si calmava un poco. Stavo
appunto tentando
di far cadere casualmente lo sguardo Lì, per puro interesse
scientifico si
intende, quando lei cacciò un urlo terribile.
“Lull!
Non c’è più!”
“Cosa?”
“Il
mago!”
“Ma
come! Ma non
c’era?”
“Appunto!”
Restammo un
attimo in
silenzio.
“Non
è che i tuoi
sensi sono un po’ stanchi? Magari hai preso un abbaglio, devi
riposare, sei
stata ferita…”
“Zadrt!
Crni smrt! Is
dead!”
Stava andando
fuori
di testa, ma proprio tanto. Mi prese per le spalle e
cominciò a scuotermi
gridando cose senza senso. Urlava e mi strattonava. Non ce la feci
più.
Veramente. Non la sopportavo se andava in crisi isterica. Senza
pensarci due
volte le tirai uno schiaffo, così, istintivamente.
Ma me ne pentii
all’istante. Spalancò le pozze blu con aria
sconvolta e le sue mani bianche e
fredde si staccarono di scatto dalle mie spalle. Restò a
fissarmi immobile, ferita
nel profondo e senza sapere più niente.
La mia mano
dopo
l’impatto con la sua guancia era arrivata chissà
come sulla mia bocca. Mi
bruciava. Caspita, faceva male tirare sberle.
Oddio cosa
avevo
fatto.
Zabluda
abbassò lo
sguardo e fece per girarsi e andarsene. Dentro il mio petto una vocina
in preda
al panico gridava che ero uno stupido e dovevo fare qualcosa per
rimediare,
subito!
“Scusa!”
Scosse la
testa, ma
si bloccò.
“Scusa,
mi dispiace,
ho reagito d’istinto ma mi scuoti e urli in dieci lingue e ti
agiti e senti
cose e vedi mondi e ti spogli e immagini e te la prendi con me come se
potessi
risolvere tutto ma non posso! Se solo tu mi spiegassi con calma io
forse
capirei, ma così…”
Sbuffai. Mi
dava tremendamente fastidio che nonostante passassero
i giorni le cose da spiegare non finissero mai. Le presi il mento in
mano facendola
girare e la guardai negli occhi, non c’era odio dentro, per
qualche strano
motivo non era arrabbiata, solo tremendamente sconvolta. Fu un attimo.
Poi un fremito.
Le mie mani.
Tra i
suoi capelli. Impigliate. Il suo corpo freddo. Bagnato. Contro la mia
maglietta
lisa. Le labbra. Mie. Sulle sue.
Come. Non lo
so.
Esplosi in un
turbinio di scintille e tutto quello che avevo cercato di tenere dentro
si
ribellò. Non pensai come si fa di solito, ma in quella
maniera pratica e chiara
delle situazioni di emergenza, quando non c’è
niente da congetturare ma solo da
eseguire. Quando sai che ogni istante te lo ricorderai per tutta la
vita.
Gesti tremanti.
Per
me per la tensione e l’eccitazione. Per lei per il freddo.
Credo. Era umida,
ghiacciata e così assurdamente piccola contro il mio corpo.
Dischiuse le labbra
famelica e presto ci trovammo
sull’erba. Con le mani scorrevo tutto il suo latteo corpo. Ci
stavamo
letteralmente succhiando l’anima quando si staccò
con quel tipico rumore da sturalavandini.
“Come
si fa?”
“Cosa?”
Si
strusciò contro di
me, che ero ormai bollente.
“Questo.”
“Non
lo sai?”
Scosse la testa.
“Fecondazione
esterna.”
“Oddio!”
Mi misi a
ridere come
un idiota. Fecondazione esterna! Erano proprio pesci! Mi fece smettere
istantaneamente
quando mise la mano sull’apertura dei miei jeans.
“Che
è?”
“Shhh,
ora ti insegno
io piccola!”
Non avrei mai
pensato
di dover fare il maestro d’amore, eppure… Poche
settimane prima avrei giurato
che la mia prima volta sarebbe stata con qualcuna già
navigata che voleva
togliersi uno sfizio, invece ero io che dovevo condurre il gioco. Per
una volta
lei non sapeva, eppure voleva. Il suo corpo umano doveva dirle qualcosa
ma non
riusciva a decodificare gli impulsi. Insomma, era tutta, totalmente,
mia.
…e
siamo onesti
insomma, non è che ne fossi molto dispiaciuto!
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici: Un bel guaio ***
CAPITOLO
TREDICI - Un bel guaio
I neonati delle
sirene sanno già nuotare o cascano sul fondo come pesci
lessi? Ahah, che bella
battuta! Pesci lessi!
Era
così, tanto per
gradire, tanto per iniziare con una cavolata. Sparo sempre un sacco di
cavolate
quando sono felice, e ricordando quella notte una sorta di contentezza
si
impossessa del mio corpo. Mi viene questo stupido e placido sorriso in
faccia
che mi fa assomigliare un po’ ad un grosso e panciuto gatto
sul sofà.
Questo non solo
perché ero appena stato con Zabluda, esperienza assai
esaltante nonostante lei
mi chiedesse abbastanza di frequente cosa diamine stessi facendo. Al
che io non
perdevo tempo e la baciavo per farla stare un po’ zitta. La
mia facciata da
grande amatore crollò parzialmente quando non beccai il buco
giusto. Per due
volte di seguito. E quando lo beccai ci misi troppa foga e lei
cacciò un urlo
di dolore. Ma questi sono imbranati particolari che non vi interessano,
e poi
la prima volta succede a tutti, no?
Insomma, finita
la
grande esibizione ginnica avevamo tutti e due una fame mostruosa, ma
non
vedevamo quasi niente. Per fortuna io mi ricordavo
all’incirca dove avevo messo
la rucola e le bacche e la sacca si distingueva nell’erba
abbastanza
facilmente. La verdura era piena di terra, tanto che mi sentivo un
lombrico, e
il pane era così duro che per poco non mi saltò
un dente. Nonostante ciò era il
cibo migliore di tutti i mondi.
“Com’è
quell’erba che
hai raccolto?”
“Uh?
Ah, buonissima!
Solo che è un po’ piccante, non so se ti
piace.”
“Non
ho mai
assaggiato il piccante, com’è?”
La baciai.
“Mmm...
Buono…”
“Ne
vuoi un altro?”
“No, voglio la rucola.”
Non si era
rivestita
nel frattempo. Aveva tentato di infilarsi qualcuno dei suoi brandelli
di stoffa
ma non li riconosceva per l’oscurità e non
riusciva a ricostruire bene tutta
l’architettura. Quindi era semplicemente avvolta con me nella
coperta per stare
al caldo. Quando finimmo tutto il cibo che possedevamo ci mettemmo
più comodi
per dormire, ma non dormimmo molto. Parlavamo di ciò che ci
veniva in mente,
senza paura di dire qualcosa di scontato, perché il divario
era talmente grande
che solo raccontare come si condisce l’insalata sembrava
più emozionante delle
avventure di Simbad. Così parlavamo, distesi
sull’erba nella coperta, con i
nasi all’aria ad osservare la via lattea.
“Sai,
a Moore spesso
sgattaiolavo via dalla mia stanza senza far rumore, di notte, e salivo
fino in
superficie per vedere le stelle. Erano diverse da queste. Ce ne sono
quattro
grandi grandi che illuminano la notte come fa la vostra luna. Si
chiamano
Rosint, Ferol, Urgo e Astona e si dice siano i figli di Parino, nati da
suoi
tentacoli tranciati nella lotta contro la terra che voleva avanzare.
Astona è
l’unica femmina, ma è anche la più
brillante, e tutti coloro che avranno dei
figli portano le uova fuori dall’acqua a prendere la sua
luce. Vedendoli la
stella dovrebbe decidere quelli che nasceranno e la fortuna che gli
spetta.
Forse sono solo leggende ma mia nonna ci crede ancora e, dato che da
quando
sono arrivati gli Umani c’è il divieto di uscire
dall’acqua, di notte
raccoglieva le uova a pagamento e le portava di nascosto in superficie
per farle
vedere ad Astona. Ogni tanto la aiutavo, perché
c’erano tante uova da portare e
non ce la faceva da sola. Un giorno però una guardia ci ha
viste. Siamo
scappate, ma da quella notte non siamo più tornate su e tre
giorni dopo sono
stata convocata dalla Regina. Non rivedrò più
Astona e non l’ho nemmeno
salutata. Sono stata un’ingrata, è lei che mi ha
dato la vita.”
Istintivamente
sarei
sbottato a dire che, insomma, era solo una stella, ma sentivo che non
era il
caso. Quel tipo di religiosità era diversa da tutte quelle
che avevo
conosciuto, era un rapporto personale, come se fosse stata una benevola
amica
di famiglia. Mi venne in mente una risposta che ritenni subito geniale:
“Non
è arrabbiata con
te. Sei sopravvissuta, sei guarita sorprendentemente. Chi ti
può aver dato
tutta questa energia? Fino a poche ore fa eri a pezzi… Ti
vuole ancora bene, e
ti protegge da lassù, magari attraverso una qualche sua
amica di questo cielo
qui.”
Sembrò
soppesare la
mia teoria.
“Non
lo so… Per
mandarmi nel tuo mondo mi hanno dotata di forze e poteri che nemmeno
conosco, non
so se provengano dalla Regina o da Astona, ma agiscono separatamente
dalla mia
volontà. La guarigione potrebbe essere uno di questi. Ogni
volta che li uso
però prendono energia da qualche parte, forse dal legame tra
me e Wyvern. Non
vedi che è molto più distante? Non riesco
più a vedere ciò che sogna. Cose
noiose in genere, quasi sempre di nuotare, ma ci tenevo. O forse
è caduto in
una sorta di trance… Non lo so… Ma sta diventando
sempre più animale e io, che
schifo, sempre più umana.”
“Però
se ci pensi, se
non vi foste separati almeno un po’ non avremmo
potuto… beh… niente lascia
stare.”
“Ho
capito. No, non
penso avremmo potuto senza di lui.”
Mi irrigidii un
attimo al pensiero di fare una cosa a tre con quel mastino. Oddio che
orrore.
Mamma mia che schifo. Porca miseria che ribrezzo.
“Sopravvivrà?”
“Spero
di sì.”
Ascoltammo il
cullante suono dell’acqua del torrente sulle rocce, oltre al
quale si intuiva
il silenzio rotto solo dall’occasionale rumore di qualche
ramoscello mosso nel
bosco o dal richiamo di un uccello notturno. Con gli occhi chiusi
pensai a
quanto sarebbe stato bello morire in quel momento, quando tutto era
calmo, le
stelle sopra le nostre teste, il calore del suo corpo vicino al mio, la
pancia
piena, la stanchezza che ci rimboccava le coperte e dava il bacio della
buona
notte, senza un problema al mondo. Respirai il suo odore e non era
più così
forte come prima del bagno. Le misi il naso sul collo e inspirai a
fondo, ma
niente. Si era proprio lavata.
“Che
fai?”
“Ti
annusavo.”
“Che
ne sarà di noi?”
“Cosa,
scusa?”
Quella domanda
così
improvvisa mi lasciò spiazzato. Noi? Da quando
c’era un noi? C’era solo un io e
te che per caso si era fuso, non un noi!
“Non
c’è più il mago.
Ha cessato di emettere potere, così, tutto d’un
tratto, non può che essere
morto. E ora che facciamo?”
“Beh,
non potrebbe
aver smesso per qualche motivo?”
“Un
mago emette
potere costantemente. Perché vive nella sua aura di magia e
niente gliela può
togliere tranne la morte.”
“Però
è anche
comparso di botto, cioè, quando siamo arrivati qui non
l’hai sentito.”
“E’
vero, ho
cominciato a sentire qualcosa solo mentre ero nel torrente, ma credevo
fossero le
energie che mi tornavano. Poi ho capito. Diventava sempre
più forte, come se si
stesse avvicinando velocissimo… e poi è
morto.”
Potevo quasi
vedere
questo vecchio mago che correva trafelato verso di noi, con il barbone
bianco svolazzante
al vento, tenendosi con una mano la veste e con l’altra il
capello a stelline.
Poi, vecchio e sotto sforzo, cacciava un urlo e moriva
d’infarto.
Mah.
Plausibile?
“E se
fosse veramente
morto? Che si fa?”
“Lo
stavo chiedendo
io a te.”
“Beh,
è di te che si
parla. Io ho una casa dove tornare.”
Si, va bene, lo
so,
era una cosa un po’ meschina da dire così, ma
diamine! Era la realtà!
“Eh.
Io no. E che ci
faccio qui? Sono bloccata, senza una missione. Non posso tornare
indietro! Vivere
qui? Fare cosa? Come serva è facile, fai ciò che
ti dicono, ma senza un
padrone? Sono sola, senza nessuno che mi dica niente. Che bisogna fare
ora di
questa sirena?”
“Zabluda”
sussurrai
piano, senza fiato per il peso di quelle parole “la vuoi
sapere la verità?”
Ci
pensò qualche
secondo. “Solo se è bella.”
“Beh,
penso di si… O
almeno per molti lo sarebbe… Sei arrivata senza volerlo ad
avere qualcosa che
si cerca per tutta la vita. La libertà assoluta. Sei libera,
porca miseria!”
Inspirò
profondamente, poi si mise a ridacchiare in maniera isterica, tanto che
si
scuoteva tutta contro il mio corpo. Stava andando un po’
fuori di testa
poverina.
“Ma
io non so che
farmene della libertà! Non ne ho mai avuta!”
“Allora
direi che
siamo proprio in un bel guaio.”
“Siamo?”
“Si,
noi.”
“Ma
non c’è un noi! Tu
non c’entri proprio niente!”
E sbuffando si
girò
dall’altra parte, dandomi la schiena. Bah, donne.
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
CAPITOLO
QUATTORDICI
Ci svegliammo
di
nuovo abbracciati, con la coperta scivolata di lato. Nel dormiveglia
sentii
subito una presenza estranea. Wyvern! Dormiva beato incollato alla mia
schiena,
facendomi sudare come un ossesso con il suo pelo e russava. Russava,
dico! Chi
ha mai sentito un cane russare? Vabbè, non ho mai avuto
l’abitudine di dormire
con un mastino, quindi può anche essere che russino, ma quel
suono mi ricordò
dannatamente mio padre, per cui gli tirai un calcio per farlo smettere
e mi
alzai. Zabluda era ancora nuda, così la coprii con la
coperta e andai a bere un
sorso d’acqua. Mentre facevo così colazione mi
resi conto che eravamo
totalmente senza cibo e lontano da qualunque città. Poteva
essere un problema.
Wyvern si
stiracchiò
e zoppicando venne a sedersi vicino a me. Eravamo lì seduti
a guardare l’acqua
del torrente che correva e io svuotavo la mente in attesa che qualche
Dio di
qualche mondo me la riempisse con un’idea geniale quando
Zabluda si svegliò. Si
svegliò è riduttivo. Diciamo piuttosto che
cacciò uno di quegli urli che tanto
odiavo, giusto per sconvolgere l’atmosfera di pace e
serenità.
“Wivern!
Liron! Crni
smrt!”
Alzai gli occhi
al
cielo.
“Che
succede?”
“E’
risorto!”
“Risorto?
Come
risorto?”
“E’
tornato, c’è di
nuovo, emana di nuovo potere!”
“Beh,
evidentemente
non era morto.”
“Si
che lo era!”
“Ma
non si risorge
così a caso! Non può essere risorto! Non so nel
tuo, ma in questo mondo nessuno
è mai risorto!”
Beh, quasi. Ma
non
andavo a spiegarle le sottigliezze. E poi era successo solo una volta e
un
sacco di tempo prima. Per più di due millenni non era
risorto nessuno quindi la
cosa direi che poteva essere messa ufficialmente nel dimenticatoio in
quel
momento. A patto che non ci trovassimo in presenza di un nuovo profeta,
oppure
che non stessimo per scoprire il segreto della resurrezione
oppure… Ma no, non
emozionatevi, non eravamo sul punto di risolvere niente di
così teologicamente
importante. A volte le cose sono più banali di come si
immagina. E le mie
digressioni cominciano a infastidire pure me.
“Ma
neanche da noi si
risorge, ma non mi sto inventando niente, è solo
ciò che sento Liron!”
Ci guardammo
qualche
secondo, poi, senza una parola, iniziammo a tirare su le nostre cose di
fretta.
“In
che direzione è?”
E piegavamo la
coperta.
“Di
là, riesco a
sentirlo, oltre a questo campo, dopo quella collinetta credo”
E cercavamo le
borse.
“Sei
sicura? E’
ancora in salute o sta per avere un altro collasso?”
E si rivestiva.
Peccato.
“Idiota.”
E partivamo. Un
po’
di corsa, un po’ incespicando nel grano verde, un
po’ occhieggiando Wyvern che
ci seguiva zoppicante e ballonzolante. Neanche a dirvelo, ci stancammo
presto.
Il sole era sempre più caldo e noi eravamo affamati e
assetati. Mangiammo un po’
di more da un rovo, poi ripartimmo sempre più infiacchiti.
Ogni tanto Zabluda
si fermava, chiudeva un secondo gli occhi e aggiustava la rotta. Dopo
un tempo
incalcolabile arrivammo ad una collina e la risalimmo chini. In cima ci
sdraiammo pancia a terra. Dietro uno spinoso cespuglio di mirto, mentre
io mi tentavo
di pulire alla meglio le mani ferite, lei sbirciò
dall’altro lato. Sentii
distintamente il rumore del suo sorriso.
“Una
capanna.”
“Con
un vecchio
stregone malvagio dentro?”
Due pozze
d’oceano
gelarono all’istante il mio sarcasmo.
“Sì.”
Ci fissammo.
Poi lei
sospirò e tornò a sbirciare tra le spine.
“Dovremo
tentare di
arrivare giù il più in fretta possibile, oppure
rischiamo di essere visti.”
“Beh,
perché non
dovremmo essere visti? Non devi andargli in dono? Deve
vederti!”
“Si
ma… Non lo so. Magari
arriviamo là, diamo un occhiata da quella finestra e vediamo
com’è. Se è il
caso di bussare e presentarci o se magari…”
“Magari
cosa? Dobbiamo
entrare!”
Si
girò verso Wyvern
e gli fece un grattino tra le orecchie.
“Smrt,
Liron! Con
calma! Prima vediamo. Magari sta dormendo…Magari lo
disturbiamo…”
Esibii la
migliore
delle mie occhiate scettiche.
“Oh
stupid guy! Non
fare quella faccia! Ho paura, va bene? HO PAURA!”
Restammo un
po’ in
silenzio, e il mio cervello cercava qualcosa di furbo da dire, ma come
al
solito in questi casi non mi veniva in mente niente. Fu lei a
sussurrare.
“Guardami.”
Alzai il viso e
immediatamente il suo sguardo si incatenò al mio e le
pagliuzze più chiare dei
suoi occhi iniziarono a vorticare intorno alla mia pelle fredda e
bagnata, perché
erano un branco di sardine ed io ero in mezzo a loro e nuotavo e gioivo
tra le
correnti rincorrendo i pesci più piccoli mentre ero quegli
stessi pesci più
piccoli e le mie onde si infrangevano su una scogliera trasportando
nella
risacca migliaia di miliardi di particelle di plancton in tutto il
pianeta,
mentre nel cielo il sole splendeva e faceva brillare le alghe sulle
squame di
una sirena morta sul pelo dell’acqua e altre venivano
rovesciate da una vasca a
bordo d’un vascello e una lacrima salata d’un
marinaio troppo tenero cadeva con
loro fondendosi nell’immensità di lacrime che era
il mare e una medusa…
“Si
è mosso qualcosa
nella capanna.”
La mia visione
si
interruppe istantaneamente come Zabluda volse lo sguardo. Meglio
così. Ma la
pace durò poco.
“Cosa
hai visto?”
Un
po’ balbettando e
un po’ borbottando, a testa china le raccontai tutto.
Restò impassibile.
Immobile. Più rigida e morta delle sue simili. Capivo il suo
stato d’animo solo
da un ringhio sommesso che proveniva dalla gola di Wyvern.
“Andiamo
dal vecchio.”
E
andammo…
Torno dopo un po'. Ho deciso che devo assolutamente finire questa
storia. Ci saranno ancora uno o due capitoli più
un epilogo, se ho voglia. Forse. Se qualcuno legge. (Si, ho la sindrome
da lagna vivente) baibai
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