Zabluda occhi di mare

di nafasa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Il discorso di Zabluda ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque: Gli eroi non esistono ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci: L'umano si da un po' da fare ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici: Un bel guaio ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


CAPITOLO UNO

Ci trasferimmo in periferia dopo che mio padre perse il lavoro. Sono tuttora convinto che non ci sia stato alcun taglio del personale. Semplicemente mio padre beveva, e qualche sera tornava a casa troppo ubriaco per andare al lavoro la mattina dopo. Qualche sera a casa non ci tornava affatto. Mia madre stava sveglia fino a tardi ad aspettarlo e la mattina dopo la trovavo addormentata sul tavolo della cucina, su una rivista di quelle che raccontano tutte le storie delle star. Chi va a letto con chi, chi si sposa con chi, chi si droga con chi, insomma le tipiche storie da divi. Era addormentata con gli occhiali storti e la faccia tutta schiacciata. All’inizio mi veniva da piangere a vederla così, poi mi ci sono abituato.

Per farla breve non riuscimmo più a pagare l’affitto e ci buttarono fuori. Così trovammo una sorta di topaia nella ex zona industriale che faceva al caso nostro. Non so se ci fosse un padrone, ma se c’era noi non l’abbiamo mai visto. Il nostro trasloco fu più simile a una fuga: una cosa molto silenziosa e rapida. Abbiamo preso le nostre cose e con l’aiuto di degli amici di mio fratello in poche ore era tutto finito. Gli amici di mio fratello erano delle specie di montagne umane. Mi ricordo che desideravo di avere quei muscoli un giorno. Ero un ragazzo molto magro, cosa che sembrava preoccupare mia madre in maniera che giudicavo eccessiva. Era una donna del popolo, per lei più i suoi figli erano grossi più erano belli. Io la deludevo, anche se mangiavo un sacco non mettevo su niente. Una disperazione. Per me e per lei. Mio fratello invece si divertiva un sacco a mostrarmi i suoi muscoli e sghignazzare, lo faceva sentire un vero uomo. Aveva diciannove anni, quattro più di me, e lavorava. Riparava macchinari, molto grossi e pesanti, intuivo.

Quando cambiammo casa ci lasciammo dietro mio padre. Credo che la silenziosa speranza di mia madre fosse che non ci cercasse, né lui né altre persone, gente a cui dovevamo soldi per lo più. Non credo si illudesse di scomparire nel nulla, solo di far smarrire le tracce per il tempo necessario per raggranellare un po’ di denaro o per far rimpiangere a mio padre la sua famiglia, o semplicemente di essere nato.

Durante la mia adolescenza mia madre faceva le pulizie in delle case, case di gente ricca. Portava sempre a casa una marea di avanzi di cibi raffinati che io e mio fratello divoravamo insieme alla poca spesa che facevamo noi stessi. Così sono cresciuto a caviale e patatine, popcorn e escargot. Potevo dedurre la situazione economica della famiglia dal contenuto delle vaschette che ci arrivavano. C’è stato un periodo in cui non arrivavano, e là è stata dura.

Io andavo a scuola, a casa volevano che studiassi, ma a me l’idea non piaceva per niente. Andavo male, anche se mi impegnavo, e non mi piaceva il posto. Mi sentivo a disagio. Nonostante fosse una scuola senza pretese tutti lì dentro facevano a gara per essere un po’ migliori degli altri. Il libro di matematica riparato con lo scotch, i vestiti con toppe colorate che tentavano di sembrare accessori di moda. Non li sopportavo. E non avevo voglia di incartare i miei libri solo per essere “in”. L’ho fatto per un periodo, ma ho capito che non bastava quello, bisognava essere sempre pronti a inventarsi qualcosa di nuovo, a gareggiare all’ultimo smagliante falso sorriso. E io non ne avevo voglia. Durante il mio periodo “libri incartati” ero convinto che avrei fatto colpo su qualche ragazza, attirata dai vivaci colori che uscivano dal mio zaino, ma non è stato così. Si vede che faceva un po’ contrasto con la faccia depressa e i vestiti quattro taglie troppo grandi.

Non ero eccessivamente triste comunque, semplicemente nell’incertezza tra che faccia indossare nei giorni normali sceglievo quella meno faticosa.

Ero un ragazzo solo, secondo mia madre, il che voleva dire che non portavo a casa nessun amico. In realtà un amico l’avevo avuto nella vecchia casa, ma poi non ci eravamo più visti. Ogni tanto stavo con mio fratello e i suoi di amici, ma lui non mi voleva, così con un ghigno mi diceva: “Ma tu non dovevi vederti con Julia/ Mara/Sofia/Celine?”. Ogni volta si inventava un nome di ragazza diversa, e tutti ridevano, perché sapevano che ero solo come un cane. Una ragazza. Era tutto quello che volevo. No, non è la verità. Detta così sembra quasi che volessi una relazione seria e duratura. Non era così. Io volevo solo farmi qualcuna. Non che disdegnassi le femmine e le considerassi solo oggetti, o cose simili. Mi sarebbe piaciuta una storia. Avrebbe voluto dire avere sempre una disponibile. Ma non puntavo così in alto. Non credevo che qualcuna mi volesse per più di una semplice scopata. Non avevo una grande autostima da ragazzo.

Un giorno avevo un compito per il quale non avevo aperto libro, così a scuola non ci andai affatto. Era la prima volta che marinavo e non avevo molte idee su come passare la mattinata. L’unica cosa che si poteva dire a mio vantaggio era che ero del tutto al sicuro. Mia madre era a lavoro fino a sera e avevo coperto tante di quelle volte mio fratello che non avevo di che preoccuparmi.

Ho girato per un po’ tra i capannoni, prendendo a calci qualche pietra, poi mi sono stufato e mi sono seduto per terra, con la schiena appoggiata a un muro, a disegnare nella terra battuta. C’era il sole ed era parecchio che non pioveva, così il bastoncino faceva fatica a tracciare dei segni sulla terra riarsa. Fino a pochi anni prima quella zona era abitata. Gente di tutti i tipi, che viveva nei capannoni. Ma un giorno erano spariti. Volatilizzati. La notizia era corsa fino alla città e a tutti i dintorni. Mia madre diceva che la Sparizione era stata la botta finale. Da quel momento in poi era andato tutto a farsi benedire. Il bastoncino incontrò un pietra e si spezzò tra le mie mani. Lo tirai lontano. Nel farlo alzai la testa e scorsi un movimento all’ombra di una lamiera. Mi bloccai. Poteva essere un cane randagio. Magari rabbioso. E se ce n’era uno potevano essercene altri intorno. Si muovevano spesso in tanti. Avevo sentito storie di branchi di cani famelici che erano regrediti allo stato selvaggio e cacciavano praticamente qualunque cosa si muovesse. Racconti terribili, che sembravano studiati a posta per non farci addentrare tra i capannoni, e probabilmente lo erano. Io li giudicavo storie senza senso, nate dalla fantasia malata dei miei coetanei, senza sapere che gliele avevano raccontate i genitori da piccoli. Ero un ragazzo di città, l’animale più aggressivo che avevo conosciuto in vita mia era un ratto. Non ci potevo credere. Ma in quel momento mi tornarono in mente quei racconti. Rimasi paralizzato. Ero in trappola. Tenni fissi gli occhi nel punto in cui avevo visto qualcosa, con la mente che valutava frenetica le possibilità di fuga e i muscoli rigidi, pronti a scattare. Ma feci un balzo in piedi, quando dall’ombra emerse la cosa più strana che avessi mai visto.

“Quo vadis, gnat?”

 

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


CAPITOLO DUE

Mi resi conto con tutta evidenza che non era un cane randagio. Parlava. In quel momento era indubbiamente un punto a suo favore. Era un essere umano, ne ero quasi sicuro. Fece ancora un passo in avanti e mi resi conto che era un essere umano di sesso femminile. Facevo progressi. Immediatamente la mia mente corse al sesso, ma poi si scontrò con l’immagine e cambiò idea. Era piccola e scheletrica. Se io ero magro questa era trasparente. Il colore della sua pelle tendeva al bianco cadaverico. Aveva capelli neri tagliati cortissimi e dei vestiti addirittura peggio dei miei. Sembrava fosse andata a cercare qualsiasi pezzo di stoffa nera e se lo fosse buttato addosso. Intravidi anche un pezzo di sacco di plastica. In complesso l’aspetto poteva essere quello di una bambina di strada malata con la particolare mania del nero. Ma non lo era. Lo capii subito. Erano gli occhi. Benché pesti e con delle notevoli occhiaie, mandavano bagliori. Erano blu mare, e diventavano viola se pioveva, ma questo lo avrei scoperto in seguito. Intanto ero fermo a fissarla e a chiedermi cosa avesse detto. Aveva un sorrisino di disprezzo stampato in viso.

“Quo vadis, gnat? Dove vai… cosetto?”

Cosetto? Cosetto io? E lei?

“Eh? Oh… buh.”

Scrollai le spalle e continuai a fissarla. Si sistemò la calza a rete che teneva sul braccio.

“Non hai il permesso di stare aqui. Non ti voglio.”

Per un attimo mi sembrò una bambina viziata che faceva i capricci.

“Chi sei?”

“Non importa chi sono. Vattene.”

Cominciava decisamente a infastidirmi.

“Perché dovrei andarmene?”

“Vuoi che ti do un po’ di buone ragioni?” Il suo tono era decisamente annoiato. “Ragione prima, ti sembra che io sia andata a casa tua senza permesso? Ragione seconda, non mi piace che ci siano estranei nel mio territorio. Ragione terza, ci sono un sacco di altri posti dove andare quando non vai a scuola che sono molto più interessanti di questo…”

“Ma…”

“E la ragione quarta è dietro di te.” Fece un elaborato gesto con la mano per farmi voltare. Mi trovai a tu per tu con un cane delle dimensioni di un vitello molto cresciuto disteso a terra languidamente. Non aveva l’aria minacciosa. Ma era spaventosamente grosso. E nero. Non mi ero accorto del suo arrivo. Mi scrutò da sotto una palpebra assonnata.

“Uh, ciaaaao…”

“Non ti ucciderà.”

Pausa.

“Se non glielo ordino.”

Il vitello sembrava più intenzionato a farsi grattare dietro le orecchie che non ad attaccare.

“Stai bluffando, non farebbe male a una mosca”

Per tutta risposta la bestia sbadigliò mostrandomi una dentatura affilatissima. Sembrava mi stesse prendendo in giro.

“Wyvern, come here.”

Il mastino si alzò e trotterellò a fianco della ragazza. Era grande quasi quanto lei. Gli lanciò un rametto. Wyvern, o come diavolo si chiamava, lo afferrò al volo e lo ridusse in frantumi. Poi andò a distendersi tranquillo nell’erba.

“Non sei qui per vedere i numeri del mio cane”

“Eh no”

“Cerchi qualcosa?”

“Non ho altri posti dove andare”

“Ce ne sono un sacco, ad esempio la scuola”

“Tu non ci sei”

“Se ci fossi io andresti a scuola? Che fai, cerchi di rimorchiarmi?”

Di nuovo le si disegnò un ghigno sul viso. Un bagliore negli occhi. Fissi nei miei. Avevo la vaga impressione che stesse cominciando a divertirsi, ma di un divertimento malsano. Come se io fossi stato la sua preda. E forse lo ero.

“Non era quello che intendevo dire. Neanche tu sei a scuola.”

“Dovrei?” sollevò un sopracciglio. Gli occhi non mi mollavano. Scossi la testa per cavarmeli di dosso.

“Oh, smettila di fare la superiore, avrai la mia età, anche meno! O hai bigiato o a scuola non ci sei mai andata”

“Spiacente nessuna delle due, you’re wrong.”

Si sedette per terra a gambe incrociate, lentamente.

“Ci sono andata, ma non ci vado più”

“Lavori?”

Quel discorso mi stava cominciando a piacere sempre meno. Era inquietante. Volevo farlo diventare una chiacchierata molto sul normale, ma sembrava impossibile. Soprattutto dopo che notai che i suoi stracci non erano disposti in maniera da nascondere i punti base delle ragazze. Se muoveva in una certa maniera la spalla le si scopriva un seno.

“Sto lavorando?”

“No”

“E allora non lavoro.”

“Ma cos’è un indovinello?”

“No, affatto. Siediti.”

Stava di nuovo facendo quel movimento con la spalla. Il mio cervello corse di nuovo al pensiero da cui era fuggito. Era una femmina in fondo. Il buon vecchio parametro del “Basta che respiri”. Mi sedetti docilmente.

“E tu come mai non sei andato a scuola?”

Il tono non era aggressivo, ma da conversazione.

“Compito.”

La guardai in faccia, scoprii che mi stava fissando. Occhi negli occhi. Un tuffo nel blu. Sostenni lo sguardo. Si muovevano. Diventavano sempre più grandi, enormi, e non erano più occhi, erano mari in tempesta con velieri di marinai terrorizzati da mostri marini che fuoriuscivano tra i flutti sopra ai quali danzavano sirene con gabbiani e fiumi mescolavano la loro vita perdendola in quella del mare e piangevano mentre un vecchio pescatore tirava su la rete in fretta spaventato e si metteva a remare e cominciava a piovere da grandi nubi nere e la pioggia veniva spazzata dal vento in vortici e tutto si muoveva e tra i flutti si vedevano affogare i marinai ma le sirene li salvavano e li portavano sui resti della nave galleggianti dove c’ero io e erano nude e mi baciavano e mi si strusciavano e mi mettevano le mani nei pantaloni e… Merda. Mi stavo eccitando. Mi succedeva spesso in quel periodo. Mi scossi e distolsi subito lo sguardo. Dovevo trovare il modo di andarmene. Dovevo scappare. Cos’era stato? Cosa era successo?

Mi stava fissando incuriosita.

“… Va bene, io vado. Tanto mi stavi cacciando. Ho delle cose da fare.”

E tentai di alzarmi in una maniera contorta, con le mani in tasca e facendo ricadere tutta la stoffa dei pantaloni sul davanti. Mi girava anche un po’ la testa.

“Tu non hai niente da fare.”

“Forse no, ma troverò qualcosa da fare che non sia stare qui con una ragazzina psicopatica!”

Non lo pensavo, ma lo dissi. Non capivo quello che era successo, ero stordito ma volevo andarmene. Volevo darle una botta. Volevo staccarmela.

“Cosa hai visto?”

La sua voce era bassa e sottile. Mi sorprese.

“Cosa ho visto dove?”

Alzò la testa e mi guardò.

“Quando ti ho guardato cosa hai visto?”

Sembrava triste, molto triste. La sua voce proveniva da lontano. Da altri mondi. Come un lamento profondo usciva dalla terra stessa. Ero terrorizzato. Se prima mi chiedevo come mi erano arrivate quelle immagini, ora mi chiedevo come non ero ancora fuggito. E di corsa. Ma lo sapevo. Dovevo finire qualcosa. Dovevo sapere di più di quello che avevo visto. Mi teneva ancorato. O forse ero io stesso. La mia curiosità. Mi salì un nodo alla gola. Non sapevo che fare.

“Dimmi solo cosa hai visto, poi vattene e non farti vedere più.”

Non ne sembrava molto convinta. Mi ricordo ancora la desolazione che emanava, come fosse un odore. Mi prese il cuore. La mia erezione scemò.

“Ho visto il mare”

Lei annuì. Non sembrava bastarle.

“Nel mare c’era un veliero. Con dei marinai.”

Feci una pausa. Aspettavo che dicesse qualcosa. Ma era profondamente concentrata su un lembo della sua stoffa.

“C’era un pescatore che tirava su la rete. In fretta. Il mare era in tempesta”

Si irrigidì. Non potevo dirle tutto. Era un sogno. Era una cosa mia. Anche se era stata lei a mostrarmelo. Mio Dio, ma cosa aveva fatto?

“Perché me lo chiedi?”

“Per saperlo.”

Quel pezzo di stoffa doveva essere molto interessante.

“Dovrei sapere io. Cosa mi hai fatto?”

Non rispose.

“Assomigliava a un film, ma anche no. Vedevo come tutto insieme, dall’alto, da dentro. Sentivo ogni cosa. Vedevo come ogni personaggio, ma anche come la pioggia.”

E mentre lo dicevo mi accorsi che era vero. Il lembo di stoffa perse ogni attrattiva.

“C’erano sirene?”

Beccato.

“Dimmi se c’erano, ti prego. È importante.”

“Solo se tu mi spieghi.”

“Prima raccontami.”

“E dopo mi spieghi. Giuralo. Sul cane.”

Non so come mi era venuto in mente, ma l’avevo incastrata. Ora ero io a capo.

“Su Wyvern?”

“Si, vabbe. Quella cosa là.”

“All right, lo giuro. Ora però devi raccontarmi. Tutto.”

Incastrato. Ma mi sedetti. Questa volta perché lo volevo io.

“Allora c’era questa tempesta, e c’era un veliero. Era in difficoltà. I marinai si davano un sacco da fare ma stavano per naufragare. E poi c’erano anche dei mostri.”

“Che genere di mostri?”

Era tesissima. Pendeva dalle mie labbra.

“Del mare… avevano tentacoli. Ma non sono usciti dall’acqua. Comunque distruggevano la nave.”

“Che nave era? Aveva qualche segno, qualcosa? Com’erano le vele?”

“Ma non lo so! Erano mezze strappate, non ho notato niente. Comunque era un veliero. A tre alberi.”
“Dove comparivano le sirene? Cosa facevano?”

Mi sentii sprofondare.

“Beh erano tra le onde e ballavano con i gabbiani.”

Che cosa stupida da dire, eppure la dissi proprio così. Come fosse la cosa più naturale del mondo.

“Poi ha cominciato a piovere e c’era questo pescatore che tirava su la rete. E c’era un fiume, che era triste. Perché perdeva la sua anima”

Lo dissi in maniera interrogativa. Non sapevo se potesse essere giusto o se le importasse. Fece un gesto con la mano. Non le importava.

“I fiumi sono sempre tristi quando sfociano. Non ti ha detto come si chiamava?”

“Come scusa? Il fiume?”

“Lascia perdere. Il pescatore moriva?”

“Ma non lo so! Poveretto, spero di no.”

“La sua barca non affondava? E quella dei marinai? Le sirene hanno salvato qualcuno?”

Sembrava essere proprio questo il punto che le interessava. Dannazione.

“Non lo so… Rimettevano sui resti del veliero dei marinai… comunque non ho visto se il pescatore affondava.”

“Non eras tutto? Non videas todo?”

Stava perdendo il controllo. Cominciava a parlare strano. Ma io non avevo fatto niente. Cercai di difendermi.

“Ma si, ma solo fino a un certo punto. Poi no.”
“Perché?”

Perché ero troppo occupato a farmi toccare da delle sirene nude! Cosa voleva che le dicessi? Poi capii.

“Perché ero io. Cioè sono diventato un marinaio.”

Respirò profondamente. Non le avevo detto bugie.

“Quindi hai smesso di vedere tutto e ti sei concentrato su te stesso? E’ così?”

“Si.”

“Le sirene hanno salvato i marinai hai detto? Hai visto se li hanno portati a terra?”

“No, non l’ho visto. Li mettevano sui pezzi di legno, ma non li portavano a terra.” In cambio però salivano sui pezzi di legno con me e mi slinguazzavano…

“Non c’era altro? Niente altro?”

“Si, ma solo quando ero già diventato io, no? Non ero più tutto.”

Si rilassò. “No, ma mi interessa sapere i desideri terreni di un ragazzo di questo mondo.” Sorrise, pericolo scampato. “Perché quando sei diventato tu hai visto i tuoi desideri, no?”

“Si.”

Mi fissava in silenzio. Sorrideva di nuovo. Aspettava che le dicessi qualcosa. Quando capì che non avrei aperto bocca sospirò e disse:

“Sono anche io una sirena.”

 

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Capitolo 3
*** Capitolo tre: Il discorso di Zabluda ***


CAPITOLO TRE: IL DISCORSO DI ZABLUDA

La prima stupida domanda che mi venne in mente riguardava come mai non avesse né coda né pinne e non fosse nel mare, ma la repressi all’istante. Non era possibile. Semplicemente non era possibile. Così glielo dissi. Ma ciò non la fermò. Aveva giurato.

“Mi hai fatta giurare su Wyvern. Ora non posso mentirti. Come facevi a saperlo?”

“E’ stata la prima cosa che mi è venuta in mente, non era niente di premeditato.”

Ed era la realtà.

“Da dove comincio?”

“Beh direi che un buon punto sarebbe dirmi come ti chiami.”

“Nella tua lingua, o in una delle tue il mio nome è Zabluda, radoznao. Sono una sirena, o meglio, lo ero. Aspetta. Vieni qui.”

“Perché?”

“Io ho giurato. Ora tocca a te. Quello che ti racconterò non lo devi dire a nessuno, fino a che non lo decido io. Ti metto un Vincolo di Silenzio.”

“Spara.” Dissi, e mi avvicinai. Non sapevo perché mi stavo facendo trascinare in quello strano e assurdo gioco. Le sirene non esistevano. Quella ragazza era pazza. Stava delirando. Doveva essersi fatta di qualcosa. E allora il sogno? La mia testa era una grande confusione, e penso questo sia stato uno dei motivi che mi portarono a credere a quella storia. L’altro era molto semplice. Era una novità. La ragazza, Zabluda, mi incuriosiva. Non poteva essere vero. Ma se lo fosse stato? Avevo un disperato bisogno di sognare, di credere in qualcosa, per folle che fosse. Così mi avvicinai. Puzzava.

“Accetti di non dire niente della mia storia a nessun essere senziente fino a quando lo vorrò io?”

Mi poggiò un dito sulla fronte.

“Che roba è?” non potei trattenere una risatina, ma lei rimase terribilmente seria.

“Lo giuri?”

“Va bene, lo giuro.”

Apparentemente non successe niente. Zabluda tolse il dito dalla mia fronte e fischiò, il cane ricomparve. Camminò lentamente fino alla sua padrona e si distese al suo fianco, enorme, appoggiando la testa su una gamba della ragazza. Io mi rimisi seduto.

“Ora dimmi come ti chiami.”

“Liron.”

“Liron, ho chiamato Wyvern perché siamo una cosa sola. Le sirene hanno una parte umana e una animale. Qui non potevo venire come sirena, quindi mi hanno dovuta cambiare. Hanno separato la mia parte umana da quella animale. È stato parecchio doloroso. Dovevano togliermi la mia parte da pesce, perché per quello che devo fare sarebbe stato troppo scomodo. Potevano trasformarmi in una centaura, ma qui non ce ne sono, e neanche fauni e simili. Così hanno optato per spezzarmi, così do meno nell’occhio.”

Stavo per dirle che un centauro forse avrebbe dato meno nell’occhio di lei con il suo cane, ma non lo feci.

“Sono stata sorteggiata per fare da Specula, da finestra. Quello che hai visto nei miei occhi è reale. È quello che sta accadendo nel mio mondo. O almeno in un pezzetto. Ma solo mentre eri Tutto. Quello che hai visto quando eri te stesso non è mai successo. Hai proiettato quello che ti passava per la testa in una visione. Avevo bisogno che tu mi dicessi quello che hai visto perché io non posso vedere quello che accade nel mio mondo. Sono stata pensata come oggetto. Ti ho fatto vedere Moore per sapere se funzionavo. Devo fare la mia funzione.” Il tono della sua voce era molto duro. Non le piaceva fare la sua funzione. “Sono stata mandata in questo mondo per il vostro capo. Sono una specie di messaggio per lui. Attraverso di me può vedere che succede a Moore, nel mio mondo, non so come lo chiamate voi, e se gli piace. Quindi portami da lui.”

Cosa voleva? Cos’era? Era convinta che io conoscessi questo capo? Ero esterrefatto. Il nostro capo? Cosa blaterava quella? Il capo di chi? Moore? Cos’era quel posto?

“Avevi detto che mi spiegavi tutto. Invece mi stai confondendo ancora di più! Non so di che capo parli, non ne ho la minima idea! E non ho mai sentito parlare del tuo mondo.”

“Smrt! Di che capo vuoi che parlo? Di quello del vostro popolo! Di quello che ha mandato un bel pezzo di voi nel nostro mondo! Di quello che tuba con la Regina! Di quel govno de peacock che…”

Non riuscivo a muovermi. Quella era una pazza scatenata. Anche Wyvern stava ringhiando. E poi in che lingua parlava? Io veramente quel capo non lo conoscevo. E non lo conoscevo perché non ne esistevano. Neanche uno. Non che io sapessi. Dalla Guerra non c’era più nessuna forma di governo. I capi si erano fatti tutti fuori tra loro. E poi la Guerra se la ricordavano a stento i vecchi! Come poteva pensare che ci fosse un capo?  A patto che nel suo mondo non si sapesse proprio niente di qui. Ma non mi sembrava. Pazzesco. Ero l’immagine stessa dell’incredulità. Zabluda aveva smesso di urlare e respirava profondamente. Poi parlò, con la voce calma e ragionevole di chi deve spiegare a un bambino piccolo perché non si può urlare in chiesa.

“Scusa se non riesco a rimanere fissa sulla tua lingua. Me le hanno insegnate tutte insieme. Non puoi non conoscere il capo del tuo popolo. Mi stai mentendo. Forse non lo conoscerai di persona, ma saprai dove si trova. Non occorre che cerchi di proteggerlo da me. Posso insultarlo. Ma non posso nuocergli. E una volta che sarò davanti a lui non potrò nemmeno parlare. È molto facile l’incantesimo per zittire, e uno come lui lo saprà fare di sicuro. Mi hanno lasciato la voce solo per poterlo trovare. E di certo non si arrabbierà con te, perché sono un dono che dovrebbe gradire molto. Anzi, sono sicura che ti ricompenserà se mi porti da lui. Non hai motivo di temere. Sono solo una Specula.”

E mi prese una mano tra le sue. La cosa mi faceva sentire molto stupido. Lei parlava e parlava di cose che non esistevano come fossero tra le più ovvie del mondo e io fossi un deficiente che non capiva. Così con lo stesso tono da persona molto paziente le risposi.

“Zabluda, dico sul serio, il mio popolo non ha un capo.”

Si scostò.

“Smrt. Posso provare se dici la verità?”

“Che mi devi fare?”

Non volevo essere la cavia di altri esperimenti balordi.

“Solo guardarti negli occhi. E tu resterai qui.”

“Va bene, fallo se non credi alla mia parola!”

Puntò gli occhi nei miei. Di nuovo. Ma questa volta non cominciarono a muoversi, rimasero solo degli occhi spettacolari. Ora potevo osservarli bene. Sembravano blu, ma erano fatti da un’infinità di pagliuzze di sfumature diverse.

“Liron, il tuo popolo ha un capo di cui tu sia a conoscenza?”

“No.”

Il blu mi entrò dentro. Era gelido, ma elettrizzante. Avere qualcosa di estraneo nel corpo non è una sensazione comune. Soprattutto non così in profondità. A scavare dentro. Come quando si beve dell’acqua troppo fredda e la si sente scendere giù fino allo stomaco. Poi Zabluda imprecò e tutto finì. Scattò in piedi e il mastino con lei. Parlottava e declamava in lingue che non conoscevo a Wyvern, che uggiolava camminando incerto e senza stare fermo. La ragazza era agitatissima e andava su e giù per lo spiazzo di terra arida dimenando le braccia.

Aveva scoperto che le dicevo la verità. Ben le stava. Ora era nei guai. Cercava un capo che non esisteva. Pensai a quando avrei raccontato quella storia incredibile a mio fratello. No, non avrei potuto. Il Vincolo. E poi credermi? Chi mi avrebbe mai creduto? Ero solo e intimidito con una ragazza esagitata e pazza che poteva far vedere altri mondi con gli occhi e un cane grande come un vitello che guaiva per calmarla. Incredibile. Paradossale. Surreale. Comico.

Bellissimo.

Zabluda si calmò e si sedette di nuovo.

“Tu sei un umano.”

Annuii divertito.

“Certo, sei uguale a quelli del mio mondo.”

“Ma non erano sirene?”

“Anche umani. Sono arrivati anche umani a Moore. Non sappiamo come. Non pensavamo che qualcuno in questo mondo avesse abbastanza magia da aprire un varco. Per tutte quelle persone poi.”

Tante persone… la Sparizione

La Regina stessa ha fatto fatica a farmi passare a me in tutte e due le parti. Ma tutti quelli. Bisogna essere molto potenti. Così l’umano che lo ha fatto si è dichiarato capo del suo popolo. Ha dei contatti con la Regina. E anche per quello ci vuole un bel po’ di magia. Dev’essere un uomo potente. Ed essendo tu un umano non ho sbagliato mondo.”

Ragionava ad alta voce, facendo dei gesti con le mani, tendeva ed intrecciava i fili immaginari del problema. E uno di questi fili la collegava con la Terra. Ed era un filo piuttosto grosso. La Sparizione.

“Queste persone che tu dici quanto tempo fa sono arrivate da voi?”

“Non so se calcoliamo il tempo alla stessa maniera… aspetta… il tempo che ci si mette a costruire navi come quella che hai visto. Il tempo che ci si mette a scoprire che si è in un altro mondo. Il tempo che ci si mette a trovare le sirene. Il tempo che ci si mette a trovare il modo di cacciarle, catturarle e ucciderle. Il tempo che ci si mette a scoprire che una sirena morta vale molto di meno di una viva. Il tempo ce ci si mette a costruire delle vasche piene di acqua sulle isole per tenere dentro chi si cattura. Il tempo perché chi tenta di fuggire da quelle vasche, luoghi di stupri, di torture, di spettacolo, di umiliazione, di morte, capisca che è inutile, che si morirebbe disidratati uscendo. Il tempo di capire che anche costituendo un esercito non si riuscirebbe a vincere gli uomini. Il tempo di scoprire che il loro tocco provoca terribili piaghe alle nostre squame. Il tempo che ci vuole per capire che ribaltare le navi fa morire quelli che ci provano. Il tempo che ci è voluto alla Regina per cercare un accordo. Il tempo che ci è voluto per trovare un accordo con questo capo che non esiste. Un accordo che prevede che non si catturino più selvaggiamente le sirene, ma ogni anno verranno fornite due coppie direttamente dalla Regina alle loro vasche. In cambio le sirene si impegnano a proteggere i marinai che vanno per mare a costo della loro vita! Il tempo che ci vuole perché una Regina delle sirene si umili a tal punto da mandare una sua stessa suddita trasformata come dono per suggellare il patto che tenta di fermare la carneficina del suo popolo a un capo che non esiste!”

Si bloccò. Piangeva. Mi guardava con quelle pozze di oceano che aveva nel viso e piangeva. Se avevo ancora qualche dubbio, questo svanì all’istante. In quel momento capii che era tutto vero.

Mi sollevai sulle ginocchia e lentamente, con un dito, le accarezzai una guancia pallida, tirandole su una lacrima. Abbassò gli occhi sul mio indice e si scostò. Si toccò gli occhi e mi guardò con aria interrogativa.

“Cos’è?”

“Cosa?”

“Quest’acqua.”

Non sapevo cosa risponderle. Avevo un groppo in gola.

“Sono lacrime. Stai piangendo.”

Sfiorò una ciglia, raccolse una lacrima e si guardò il dito. Poi lo leccò.

“Gli umani perdono mare dagli occhi? In voi c’è del mare?”

“Non è mare è solo… una cosa che c’è negli occhi.”

“Ma è salato come il mare. Come hai detto che si chiama?”

“P-piangere.”

Guardò di nuovo il suo dito. Poi il mio. Li intrecciò.

“Non avevo mai pianto prima.”

Ci guardammo ancora qualche attimo, mentre il sasso che sentivo nello stomaco cresceva a dismisura. Fu lei ad abbracciarmi. Si buttò su di me di getto, affondando la testa nell’incavo del mio collo. Sentivo le sue ultime lacrime sulla mia pelle. Il mare dei suoi occhi. Poi la abbracciai anche io. Forte. Molto forte. E il peso si sciolse.

Aveva un odore cattivo. Quasi fetido. Lo riconobbi. Era l’odore che aveva il pesce morto sulle spiagge che avevo visto da bambino. Lo respirai a fondo, nonostante mi facesse schifo. Finché non lo sentii più. Rimanemmo abbracciati molto a lungo, senza che mi eccitassi. Ad un certo punto Wyvern si distese vicino alle nostre ginocchia. Un alito di vento passò tra i nostri capelli. Un pezzo della stoffa di Zabluda si mosse lievemente. Forse era il sacco della spazzatura. Le sussurrai nell’orecchio.

“Io non ti mollo più.”

E rise.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


CAPITOLO QUATTRO

Dopo un po’ però la mollai. E me ne tornai a casa. Mi distesi sul letto e respirai a fondo, molte volte. Non avevo ancora accettato quello che mi era successo la mattina. Una sirena trasformata in ragazza con un enorme cane al seguito, mandata a un capo del nostro mondo come dono. Forse le vittime della Sparizione erano andate nel mondo delle sirene, a Moore, e lì le sfruttavano per il loro divertimento. Massacravano. Mi sorpresi a pensare alla razza umana. Avevano massacrato tutto il massacrabile sulla terra. Si erano uccisi pure tra loro. E quando qua non c’era più niente da rovinare, andavano a rovinare altri mondi. Un piccolo e maligno pensiero si insinuò in me. Avevamo massacrato. Ci eravamo uccisi tra noi. Anch’io ero un uomo. Per la prima volta in vita mia me ne vergognai. Dovevo sapere se erano gli Spariti quelli nel mondo delle sirene.

Andai in cucina e cercai qualcosa da mangiare, anche se non avevo fame. Non trovai niente, così uscii di nuovo. Andai in giro per qualche minuto. Potevo tornare da Zabluda, ma non ne avevo voglia. Tornai a casa. Misi a posto un po’ la casa. Feci i letti. Tentai di studiare. Non avevo voglia di fare niente eppure sentivo di dover fare qualcosa. Così passai il tempo facendo e disfando cose inutili, finché non arrivò mio fratello, sporco di olio, e gli quasi uscirono gli occhi dalla testa a vedere che avevo riordinato casa. Fece qualcuno dei suoi commenti sulla “donnina delle pulizie” e andò a lavarsi. Quando uscii ero sul letto con il libro di matematica. Lo stavo decisamente spaventando. Così si sedette vicino a me e mi chiese se stavo bene.

“Ho conosciuto una ragazza” gli risposi in un soffio.

“Conosciuto in senso biblico?”

“Eh?” Ogni tanto se ne usciva con frasi strane.

“Te la sei fatta?”

“Ma no!”

“Ehi, non essere scandalizzato donnina delle pulizie! Sarebbe anche ora no?”

“Beh, invece l’ho solo conosciuta, fine. Abbiamo parlato”

“E ti sei messo a fare le pulizie e a studiare solo perchè hai parlato con una ragazza? Quando te ne scoperai una cosa farai? Ti laureerai e costruirai un castello?”

Gli spiegai la storia. Non tutta. A dire il vero gli dissi solo che avevo conosciuto sta tipa coperta di stracci neri e con il cane in ex zona industriale mentre bigiavo e che avevamo parlato del più e del meno. Mi accorsi che se pensavo di dirgli della storia di Zabluda mi mettevo a balbettare e non riuscivo ad andare avanti. Gli descrissi anche gli occhi, non potei farne a meno.

“Ehi, moccioso! Tu alla ragazza le guardavi gli occhi? E il culo?”

“Era seduta. E poi dai, era tutta pelle e ossa, figurati se aveva culo!”

“E’ sempre meglio controllare” disse, e si accese una sigaretta già rollata.

“Cos’è? Hai trovato tabacco?”

“No, è solo un po’ di erba secca, ma consola.” Fissò la sigaretta storta e granulosa come se fosse un insetto zampettante. Era evidente che non gli piaceva, tanto che me la diede e si vestì. Tirai. Faceva proprio schifo.

“Allora che fai con questa tipa, come hai detto che si chiama?”

“Zabluda.”

“Ma che razza di nome è? Da dove viene?”

“Non so” Bugia.

“Ma insomma che hai intenzione di fare?”

“Niente, che dovrei fare?”

“Vuoi scopartela o no?”

“No!” Ed era pure vero. Quella ragazza mi sconvolgeva. Senza contare che non era una ragazza.

Uscii sbuffando e andò da qualche suo grosso amico. Ero una delusione di fratello. Sapevo che stava cominciando a preoccuparsi del mio orientamento, ma che ci potevo fare? Io ero sicuro di non essere gay, quindi avevo il cuore in pace.

Passarono i giorni e le settimane.  Cominciai a pensare sempre meno a quello strano incontro, anche se ero convinto che non sarei mai riuscito a dimenticarlo. Ma fui riassorbito dalla mia squallida esistenza, che sembrava ancora più squallida dopo aver saputo di altri mondi fantastici. Mondi tragici, pieni di dolore, ma almeno il dolore non era apatia. Era qualcosa. Faceva sentire vivi per lo meno. Cominciai a mordermi la lingua ogni tanto. Così, per sentirmi vivo. La scuola andava sempre peggio. Finiva l’anno. Sarei stato bocciato, era quasi sicuro. Non avevo il coraggio di dirlo a mia madre. Tornava a casa sempre più tardi e qualche volta anche senza scatolette per noi. Diceva di dimenticarsele nella casa. Scoprii che avevano licenziato la domestica a tempo pieno, per questo mia madre lavorava molto di più e tornava a casa sempre distrutta. Ma non le aumentavano la paga. La famiglia per la quale lavorava aveva problemi. Mio fratello perse il lavoro per un litigio e cominciò a cercarsene un altro. Non a trovarlo, a cercarlo. Intanto le vaschette diminuivano sempre più. Era una fortuna se arrivavano. Io proposi di mollare la scuola e mettermi a lavorare, ma mia madre non volle sentire ragioni. Io dovevo studiare. Continuai a non avere il coraggio di dirle che non avrei passato l’anno. Mi sentivo tremendamente in colpa. Una delusione di figlio e di fratello. Tanti sacrifici. Loro lavoravano perché io studiassi. Perché mi facessi una vita. Mi odiavo. E mi morsicavo la lingua. Quando proprio non ce la facevo più uscivo di casa e correvo. Correvo lontano, fino a quando non avevo più fiato nei polmoni e oltre, finché l’acido lattico non mi bloccava le gambe e gli occhi non mi schizzavano fuori dalla testa. Allora mi buttavo per terra e piangevo come uno scemo. 

Tornai una volta dove avevo visto Zabluda, ma non la trovai. Quindi archiviai la cosa definitivamente e mi concentrai nello sprofondare sempre più in basso. Volevo fare qualcosa, qualcosa per salvare la mia famiglia, ma non riuscivo a trovare cosa. Non potevo lavorare di nascosto, mi serviva il permesso di mia madre. E lei non me lo voleva fare. Potevo lavorare in nero, ma non ci pensai. Oltretutto non avevo idea di cosa avrei potuto fare o come. Mi venne l’idea di andare a cercare mio padre, magari si era rimesso in sesto e ora poteva aiutarci. O magari era morto. Non potevo saperlo e non avevo il coraggio di tentare, quindi restavo sul mio letto a deprimermi. E intanto i nostri pochi risparmi finirono. Mia madre continuava a dirci che era solo un periodo, che si sarebbe sistemato tutto, ma non ne era neanche lei molto convinta. Cominciammo a digiunare ogni tanto. Tentammo di vendere qualche mobile o oggetto, ma non raggranellammo molti soldi. Nessuno voleva la nostra roba. Si credeva che le cose di una famiglia che stava cadendo in disgrazia portassero disgrazia a chi le comprava. O era solo un modo di dire per non far capire che non si avevano soldi neanche a volerlo per comprare la nostra roba. E se li avevano non li sprecavano così. Non penso fosse una questione di superstizione o buon costume, perché quando qualche vecchio moriva nessuno si faceva troppi problemi a svuotargli la casa. E a mio parere quello portava molta più sfortuna.

Così un giorno mia madre mi guardò e disse:

“Liron, vai a prendere qualcosa da mangiare per te e tuo fratello. Oggi non avete messo niente in pancia.”

Tesi la mano, per avere dei soldi. Mia madre non si mosse, ma scosse la testa lentamente. Capii. Uscii di casa senza sapere come fare ma con l’intenzione di fare. Camminai a lungo, ma almeno ebbi fortuna. Arrivai in una zona che non conoscevo bene. E dove non mi conoscevano. Era sera e un commerciante stava scaricando le merci per il giorno dopo. Non ci pensai molto. Mentre entrava nel negozio con delle cassette di verdura tra le braccia presi un sacco di patate, me lo misi in spalla e me la diedi a gambe. Per fortuna ero allenato a correre a pancia vuota. Sentii le urla alle mie spalle, ma non mi fermai. Non mi presero. Tornai a casa e mio fratello stava urlando. Contro mia madre.

“Perché lo hai fatto? Troverò un lavoro! Non dovevi mandarlo a rubare! A cosa ci siamo ridotti? E se lo prendono? Non ci hai pensato?”

Mia madre gli urlava di rimando contro. Diceva che era lei a comandare, e che non si doveva permettere di parlarle così. Quando entrai col mio sacco ammutolirono. Lo posai lentamente sul tavolo e con gli occhi lucidi dissi a mia madre:

“Mi bocciano. Mamma, fammi il permesso, domani vado a cercare lavoro.”

Mangiammo le patate in silenzio quella sera.

 

 

 

 

Grazie ad anil13 che mi recensisce! =D

Non preoccuparti, non diventa melensa. Quello è uno dei momenti più mielosi. I personaggi non abbonderanno, perché comunque la storia è in gran parte già scritta, e poi non è lunghissima. Mi manca solo la parte finale. Anzi, ora mi metto sotto e vado avanti!

Oh che bello che è avere recensioni! =)

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque: Gli eroi non esistono ***


CAPITOLO CINQUE: GLI EROI NON ESISTONO

Cercai lavoro nei negozi vicino casa, bussai a tutte le porte, quasi nessuno aprì. Andai nei quartieri ricchi, mi offrii per fattorino. Non ne avevano bisogno. Girai posti della città che conoscevo e che ignoravo, setacciai tutti i quartieri e le viuzze, andai a cercarmi uno straccio di lavoro dovunque pensavo si potesse annidare. Ma non ebbi più fortuna di mio fratello. Nonostante ciò non andai più a rubare. Mi abituai alla costante sensazione di fame. Cercavo cibo tra l’erba. Scoprii che certi tipi d’erba erano buoni a mangiarsi. Mia madre non voleva che mangiassi quella roba, secondo lei il terreno lì era troppo inquinato per produrre qualcosa di commestibile. E aveva anche ragione. Ma pazienza. Dopo un po’ smise di ripeterlo e cominciammo a farci delle ricche insalate scondite, che erano come le sigarette di mio fratello. Cattive. Non ti lasciavano soddisfatto. Ma almeno consolavano.

Mia madre voleva che continuassi a frequentare la scuola. Così feci. Era un privilegio che non potevo buttare. La rata era già stata pagata in autunno, tanto valeva che ne approfittassi. E poi a scuola trovavo spesso qualcosa di utile. Ci sarei rimasto fino alla fine dell’anno.

Un giorno ero solo a casa e stavo pulendo l’erba che avevo raccolto, in gran parte rucoletta, quando bussarono alla porta. La aprii e mi ritrovai davanti Zabluda con Wyvern. Mi guardarono un attimo all’unisono e poi entrarono senza dire una parola. Ignorando la sedia lei si mise per terra, a gambe incrociate, il cane accoccolato vicino. Avevano tutti e due l’aria molto seria. Mi sedetti anche io. Per terra.

“Che c’è? Come hai saputo che abito qui? Ti ho cercata, dov’eri?”

“Oh boy, è un sacco facile sapere dove abiti. Basta pedinarti. Ed è facile anche quello.”

“Mi hai pedinato?” Non mi ero accorto di niente.

“Ti ha pedinato Wyvern.” Guardai il mastino, che ammiccò.

“Perché?”

“Perché ho cercato tutto questo tempo, ma non ho trovato niente di utile. E sono inciampata in un paio di intoppi perché non conosco il tuo mondo. Mettiamola così. Ho bisogno di una guida. E tu sai già la storia. Non voglio espormi troppo. Accompagnami.”

“Dove?”

“E’ quello che sto tentando di scoprire. Ho fatto delle ipotesi. Devo trovare questo capo. O chiunque dica di esserlo.”

“E io dovrei aiutarti?”

No.

“Sì.”

Ci pensai, ma solo per un secondo. Sapevo già cosa le avrei detto. Non potevo. Anche se avrei voluto un sacco prendermi e scappare. Un’avventura. Ma avevo una famiglia.

“Hai la più pallida idea di dove cercare?”

“No, ma non qui di sicuro.” Oh, bene. “Non c’è un briciolo di magia in questo posto.”

Stetti zitto, cercando il modo di dirle che non potevo. Giocherellai con una foglia di rucola e la masticai piano. Dopo un po’ alzai gli occhi e incontrai i suoi.

“Liron, come with me.”

Che diceva? Lei non sapeva niente di quello che mi era successo! Lei non sapeva niente della mia famiglia! Senza di me… senza di me? Senza di me avrebbero avuto una bocca in meno da sfamare. Ero solo un peso. Ero convinto di poterli aiutare, ma in realtà non facevo che peggiorare le cose. Cosa facevo in realtà io? Raccoglievo insalata! Gran bel aiuto! Ero totalmente inutile. Quel pensiero mi raggelò. Soprattutto perché era vero. Ma mantenevo ancora un briciolo di orgoglio, o meglio, oggi so che probabilmente volevo solo essere pregato.

“La mia famiglia si sta sfasciando. Mia madre e mio fratello si danno contro ogni giorno. Probabilmente licenzieranno mia madre tra breve e allora saremo veramente male. Devo aiutarli, non posso venire.”

Il suo sguardo era gelido, di ghiaccio. Si alzò. Mi alzai. Ci guardammo. Le iridi le scoppiettavano come fuoco. Avrei potuto giurarci. Non voleva un rifiuto.

“Non mi puoi costringere.” Bluffavo. Coda di paglia. Magari poteva. Che ne sapevo io?

“No, non posso” Sibilò lentamente. Tirai il fiato. “Ma possiamo trovare un accordo.”

Ohoh! Un accordo!

“Che genere di accordo?”

“Che se vieni con me avrai qualcosa in cambio. Da mangiare ad esempio.” E guardò l’insalata malaticcia con una smorfia. “O quello che vuoi.”

Ci pensai. In fondo non ne potevo più di stare lì, a sgobbare ogni giorno e a sentire scenate. Non sapevo neanche se avrei potuto trovare un lavoro. Potevo andarmene. Avevo questa occasione. Ma mia madre non sarebbe stata contenta. Per niente. Non avrei potuto chiederle il permesso di partire o cose simili. E l’orgoglio di famiglia? Bah! Al diavolo! Abbandonare lei e mio fratello per andarmene. Verso dove? Non lo sapevo. Verso qualche posto lontano dove poter farmi una vita mia. Verso la mia vita. Fregandomene di loro. Era brutto da dire così. Un sacco brutto. Ma anche un sacco eccitante.

“Posso chiederti di fare qualcosa per la mia famiglia se vengo?”
“Cosa?”

“Non lo so… qualcosa. Hai una magia per far trovare un lavoro a mio fratello?”

“No. Posso solo fare magie sulle parole. Giuramenti, Vincoli di Silenzio, quelle cose lì. Ma posso aiutarti in altri modi.”

“Che modi?”

“Tu chiedi e ti sarà dato.”

Rimasi un attimo perplesso. La bibbia o il vangelo? Come faceva a conoscerli? Evidentemente sapeva molto di più di quanto immaginassi.

“Cosa sai della mia famiglia?”

“Quello che mi hai detto tu e quello che ho sentito Wyvern. Ha buone orecchie.”

Il mastino si fece grattare dietro gli strumenti di spionaggio.

Non ero per niente sicuro che lei stessa non si fosse appostata sotto la finestra della nostra cucina, ma in quel momento non indagai oltre.

“Possiamo fare un patto che dica che ti accompagno per una settimana, e poi basta.”

Sorrise. “Può andare.”

Giurammo. Andai in stanza. Presi lo zaino di scuola, ci misi una coperta, qualche vestito e mi infilai le scarpe. Strappai un pezzo di carta. “Non cercatemi, sto bene, torno tra una settimana.” Ma sentivo che non sarebbe stato così. In cucina mangiai un po’ di rucola, presi un coltello e infilai subito la porta, non potevo voltarmi indietro. Zabluda era vistosamente soddisfatta della sua riuscita, ma non parlò. Mentre camminavamo mi sentivo totalmente euforico. Sarei dovuto restare a casa? Forse. Ma la sapete una cosa? Sarebbe stato un gesto nobile, ma inutile. Se la sarebbero cavata da soli. Io non potevo fare niente. Non ero un eroe. Gli eroi non esistono.

 

 

 

 

 

 

 

X anil13: non preoccuparti. Fidati. Ci son capitoli di passaggio, che mi servono per uno scopo preciso. Spero di riuscire a scriverli senza far chiudere la pagina. Ma ci sono e servono.  Tu fidati che la storia viene bene… almeno credo.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


CAPITOLO SEI

La prima giornata con la ragazza sirena fu abbastanza deludente. Io ero davvero contento. Me ne stavo andando, scappavo dalle difficoltà verso qualcosa di più facile, lasciando indietro la mia famiglia, la mia vita. Ma questi pensieri da senso di colpa non mi passavano per la mente quel pomeriggio di inizio estate, fantasticavo sulle peripezie che avrei vissuto, come quelle descritte nei libri di mio fratello. Cinque per l’esattezza. Due di Salgari e tre di Verne. Erano gli unici libri che avevo mai letto e li sapevo quasi a memoria. Pensavo di andare verso una di quelle magnifiche avventure mentre camminavo sul marciapiede sconnesso con passo saltellante, ma ben presto mi accorsi che non sarebbe stato così. Come non esistevano gli eroi non esistevano neanche le loro gesta.

Dopo la prima soddisfazione il sorriso di Zabluda era scemato e camminava in posa terribilmente seria, a testa alta e in silenzio.

“Posso chiederti dove stiamo andando adesso?”

“Puoi chiedermelo.”

Aspettai un istante ma era evidente che dovevo proprio chiederglielo per esplicito. Chissà se lo faceva apposta o semplicemente non capiva le sottigliezze della mia lingua.

“Dove stiamo andando?”

“Di là.”

“Grazie! Ma abbiamo una meta?”

Mi guardò un po’ storto.

“Ti ho già detto che qui non c’è magia, dobbiamo trovare un posto dove ce ne sia, e per farlo bisogna uscire da questa città. Andando sempre dritti prima o poi dovremmo farcela.”

Mi dava sui nervi se faceva così. E non era un buon inizio. Così provai a cambiare argomento. Aveva detto che poteva procurare da mangiare per tutti e due, le chiesi come.

“Hai fame?”

Ovvio avevo sempre fame, ma non mi pareva una cosa da dire.

“Un po’”

“Ok, ora ti mostro. Vedi quella panetteria? Slijedi me, seguimi.”

E così feci. Cominciavo a sospettare che il suo metodo non fosse proprio ortodosso. Non volevo rubare ancora. Ma la seguivo. Nella mia stupidità pensavo che volesse semplicemente comprare. Si chiama non voler vedere ciò che sta sotto i nostri occhi.

Entrammo nella panetteria, lasciando Wyvern fuori, lei piccola sicura e coperta di stracci davanti, io alto e a disagio dietro. Tentavo di farmi piccino piccino. Dietro il bancone c’era un uomo sulla cinquantina con dei grandi baffi che ci squadrava dall’alto della sapienza del suo mestiere millenario.

“Chevvolete? Ahò, ma te sei vista come sei conciata? Me spaventi la…”

La voce gli si abbassò e io alzai lo sguardo per vedere cosa stava succedendo. Vidi che era come attonito a fissare Zabluda, ma non capì cosa stesse accadendo fino a quando lei non mi sussurrò: “Prendi un bel po’ di pagnotte e mettile in un sacchetto, non so per quanto riesco a tenerlo così!”

“Ma cosa…”

“Adelante!”

Ubbidii, mi resi conto che stava facendo vedere al panettiere il suo mondo, come aveva fatto con me. Mi sentii in qualche modo tradito, su tutti i fronti, ma presi in fretta il pane finché non mi sentì tirare la manica. Zabluda stava sfoggiando il suo miglior sorriso e si dirigeva verso la porta, tirandomi con lei.

“Grazie a lei e arrivederci!”

Quando ci trovammo fuori continuò a tirarmi per farmi andare più in fretta. Wyvern ci seguiva, i muscoli tesi, come se stesse aspettando qualcosa.

“Ora se ne accorge, ora se ne accorge…”

Un gridò provenne da dietro le nostre spalle.

“Se n’è accorto, corri!”

E io corsi, corsi più forte che potevo, e presto la superai. Accelerai tra una via e l’altra, scartando i pochi passanti, mentre sentivo le voci dietro di me farsi sempre più lontane, fino a che non sparirono del tutto. Alla fine mi fermai in un vicolo che non conoscevo, ansimante. Mi veniva da ridere e non sapevo perché, ero felice, avevo voglia di urlare. Come ci si sente dopo una bella corsa insomma, non tanto lunga da sfiancarti ma abbastanza da darti un po’ di brio, ero gasato. Nonostante ciò comunque mi preoccupavo per Zabluda, avevo paura di averla persa. Ma dopo poco risbucò ansante, col mastino al seguito e sputò “Nuotare è molto più comodo! Qui avete una gamba di troppo!”

A me venne in mente qualche battutaccia degna di mio fratello del tipo “Io ne ho due di troppo.” E così mi misi a ridere come uno scemo, mentre lei non capiva la mia follia e mi guardava incuriosita, sbocconcellando un pezzo di pane. Decidemmo di continuare a camminare poiché era più prudente allontanarsi ancora un po’. Per farvela breve camminammo fino a sera e parlammo delle nostre vite precedenti. Al tramonto intorno a noi cominciarono ad esserci degli spazi aperti, con qualche albero rachitico; le case si facevano più rade e non incontravamo quasi nessuno, così decidemmo di aver camminato a sufficienza e cominciammo a cercare un posto per la notte. 

Eravamo distrutti per esser stati tutto il giorno sotto il sole, soprattutto lei che aveva delle inquietanti occhiaie che si allargavano sempre più. Beveva in continuazione e si bagnava il viso, maledicendo la secchezza della terra. Il sole era già sotto la linea dell’orizzonte quando trovammo ciò che faceva al caso nostro: era un vecchio rudere per metà invaso dai rovi e per metà coperto da un tetto pericolante. Pregammo che non decidesse che quella era la notte buona per staccarsi e ammassammo in un angolo delle erbacce secche, a mo di giaciglio. 

Stava cominciando a fare freddo senza sole e non capivo come avesse fatto senza la mia coperta ma lei sosteneva che il suo cane bastava e avanzava. Oltretutto nel suo mondo non le conoscevano. Vivendo loro in fondo al mare e non in superficie la temperatura dell’acqua era costante, così erano entrati in simbiosi con alcune alghe che li proteggevano sempre, crescendo sulle loro squame. 

Da come lei descriveva le sirene non dovevano essere proprio delle bellezze, intese nel senso umano del termine. Erano squamose, grassocce e avevano delle membrane tra le braccia e il corpo. Io pensavo di aver visto ragazze bellissime ma sembrava che il suo sguardo non trasmettesse immagini reali, ma idee. I suoi occhi mi avevano detto “sirene” e io le avevo immaginate come volevo. O questa era per lo meno la conclusione a cui eravamo giunti. Il che significava che anche se vi fossero stati stendardi sulla nave avrebbero potuto essere frutto della mia immaginazione e così via. Insomma per vedere quello che succedeva davvero, con tutti i suoi dettagli, bisognava conoscere Moore almeno un minimo. Era una sorta di sigillo di sicurezza. Il che significava che sapendo l’aspetto delle sirene non avrei mai più potuto vedere in lei delle ragazze nude e prosperose, nonché molto disponibili.

Feci un minuto di silenzio, come un lutto per le mie bellezze perdute, poi mi tolsi le scarpe e mi distesi nella paglia, tirandomi addosso la coperta. Zabluda si accoccolò abbracciata alla sua macchina da guerra poco distante. Potevo sentire il suo respiro sottile comparato a quello pesante di Wyvern.

“ Ti manca tanto Moore eh?”

“ Si… qui è troppo… secco. Non so come farò quando troverò il Capo, vorrà dire che dovrò restare qui per sempre, non rivedrò più casa mia…”

Non emise suoni tangibili, ma avevo la brutta sensazione che stesse piangendo. Allungai una mano verso di lei alla cieca, dato il buio che ormai ci circondava. Sussultò ma non disse niente. Avevo la mano su un tessuto che assomigliava a lana molto grossa. Sorrisi, non l’avevo mai visto quel lembo. Cominciai ad accarezzarla piano, come fosse un gatto, istintivamente.

“Che fai?”

Ritirai subito la mano.

“Non lo so, ti consolavo… ‘notte”

E mi girai dall’altra parte, come per chiudere lì quello spiacevole inconveniente. Che cosa imbranata. Mi si chiudevano gli occhi.

“Liron? Thank you di avermi accompagnata. Non avevo bisogno di una guida.”

Mi sorpresi lievemente, ma non ci pensai perché ero a pezzi e mi addormentai subito.

 

 

 

 

 

 

 

Beh? Chi dice qualcosina alla povera nafasa che brama commenti? =D

 

 

Per la mia fida recensionista anil13:

le mie storie sono sempre un po’ scure e malinconiche, mi affascina di più immaginare le cose cupe che non quelle allegre. Liron non è depresso. È il suo stato d’animo medio. Semplicemente tra le facce da indossare la mattina sceglie quella meno faticosa. Si crogiola nella sua apatia e ci gode.

Comunque io non lo so bene il croato, mia madre lo sa, io prendo solo qualche parola dal dizionario sulla mensola del salotto. ^_^’

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


CAPITOLO SETTE

Mi svegliai con le leccate di Wyvern. Scattai a sedere schifato e il mastino trotterellò dalla legittima padrona.

“Buen trabajo, Wyvy”

Si stava mettendo a posto il vestito. Mi chiesi se stesse facendo quel movimento con la spalla. Si. Rimasi ancora un po’ a guardarla pulendomi il viso con la maglietta, poi andai a prendere un pezzo di pane dalla borsa. Stava finendo.

“Adesso che siamo fuori città come faremo a procurarci da mangiare? Mi aspetto un’idea brillante.”

Mi guardò divertita. “Non ne ho.”

Avevo sonno. Non avevo mai dormito fuori. Mi faceva male tutto. Nonostante ciò mia alzai e mi stiracchiai. Tutte le giunture della schiena mi schioccarono. Volevo un letto. Probabilmente cominciai a lamentarmi e non finii fino a quando non fummo pronti a partire, ma Zabluda non mi badò.

Mentre camminavamo nella luce pallida della mattina mi disse che sentiva la magia. E non le piaceva. Era una magia corrotta. Un potere piccolo e malato che si annidava nel sottosuolo e nell’essenza delle piante.

Camminammo tutto il giorno sotto il sole cocente. Scoprii che era la figlia di una donna di servizio del castello. Una vita sacrificabile.

Passammo dozzine di campi abbandonati. Trovammo qualche mora rinsecchita e qualche fico. Wyvern sparì una mezzoretta e tornò con il muso insanguinato. Non volli indagare.

Parlammo un sacco. Io volevo scoprire se era stata la Sparizione a portare gli umani a Moore, poteva essere ma poteva anche non essere. Secondo i miei calcoli erano arrivati due o tre anni prima, non di più. Ed era in quel periodo che si era svuotato di colpo, dalla sera alla mattina, il quartiere industriale dove vivevo. Ma c’era il problema che né io né lei avevamo la minima idea se lo scorrere del tempo fosse uguale nei due mondi. Certo era che come coincidenza era troppo forte. Essendo tra l’altro una magia di quella portata quasi impossibile da attuare a grandi distanze la nostra spedizione rischiava di essere solo un’allegra gita in campagna. In città però ciò che cercavamo, la magia che avrebbe dovuto sprigionare un grande mago, non c’era, quindi nell’indecisione continuavamo ad andare. O meglio, lei voleva continuare ad andare. E io la seguivo per cause di forza maggiore come un certo patto…

Stavamo appunto camminando sul tracciato di una strada di campagna, passando da una lastra di cemento all’altra, quando vedemmo che il nostro cammino sarebbe dovuto passare tra un boschetto molto fitto e una piccola collina.

Per Zabluda non ci sarebbero stati problemi, ma io feci valere le mie ragioni in quanto guida e conoscente del territorio, anche se lì non ci ero mai arrivato. Le mie ragioni si riducevano a un semplice concetto di sopravvivenza: mai andare dove non hai vie di fuga. Piuttosto avrei fatto il giro largo, tanto non avevamo una meta precisa, giusto? Seguivamo la via tracciata solo per non perderci, dato che quella gran brava sirena e il suo mastino da combattimento si davano tante arie ma non avevano la più pallida idea di dove stavamo andando.

Mi spiegarono a sputi e ringhi che sapevano benissimo dove andare, erano guidati dal destino nel loro percorso e Parino ( che a quanto capii era una specie di dio protettore del loro popolo che assomigliava molto a Poseidone, con tanto di forcone e coroncina ) era dalla loro parte, anche se non certamente dalla mia, dato che ero un miscredente e anche vantavo un intelletto notevolmente inferiore a quello di un uovo di squalo.

Stavo giusto facendo notare che magari il loro amato Parino, oltre che essere un po’ tocco e incapace, e forse anche sadico, date le tragedie che stavano avvenendo a Moore, magari non aveva poteri al di fuori del proprio mondo, quando ci accorgemmo che eravamo ormai arrivati all’imboccatura del bosco.

A me non piaceva per niente e glielo dissi. Non solo per gli animali che ci potevano essere all’interno, sicuramente terrificanti, (avevo, e ho tutt’ora, una paura matta di qualsiasi cosa vivente dotata di moto proprio, se non lo avevate ancora capito), ma soprattutto per la possibilità di incontrare banditi.

Ovviamente non sapevo niente dei banditi che infestavano le campagne intorno alla mia città vivendo beatamente rapinando, stuprando e uccidendo più della metà degli incauti che si mettevano in viaggio. Avevo solo una paura bestiale di quella cosa cupa che ci attendeva, piena di robe viscide e vive, e senza vie di fuga.

Nonostante ciò persi un buoni dieci minuti della mia vita a inventarmi storie raccapriccianti di briganti con lunghe barbe nere e denti d’oro.

L’unica reazione di Zabluda fu alzare un sopracciglio. Poi mi spinse dentro il passaggio. Ebbi appena il tempo di scorgere qualcosa che si muoveva sulla cima della collinetta che gli alberi mi soffocarono.

 

 

 

 

Questo è un capitolo un po’ moscio, ne son cosciente. Scusate se ho aggiornato in ritardo. Oh, in genere aspetto che almeno una decina di persone legga l’ultimo capitolo prima di postarne uno nuovo. Tranne nel caso mi arrivi una recensione, che vale di più di qualsiasi numero nel mio personale metro di paragone. XD
Quindi il concetto è che se volete leggere la prossima parte, che è parecchio più emozionante (e non è che ci voglia molto) commentate!!! =D

 

Per Prue: c’è un accenno di magia hai visto? ^_^ La magia risiede dovunque ci sia vita che non sia stata contaminata dal pensiero umano, perché gli uomini non ci credono, quindi le piante e la terra che crescono a stretto contatto con loro non la sviluppano. Ovviamente queste sono le forme naturali, minori e intrinseche di magia. Poi ci sono quelle cosiddette artificiali, come il potere dei maghi, che comunque deriva dalla vita spontanea ma riesce a sfruttarla ed amplificarla. Questa è una piccola chiave di lettura del mondo che ho creato, così magari capisci meglio i prossimi capitoli, anche se ci vuole ancora un po’ prima che entri in gioco gente potente…

 

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


CAPITOLO OTTO

L’ombra mi accolse prima che i miei occhi si fossero abituati al buio e cominciai a procedere lentamente per non inciampare. La strada era molto più sconnessa di com’era fuori, piena di piante e sassi sui quali rischiavo di capitombolarmi. Avanzai pian pianino fino a quando non mi accorsi che quella sottospecie di sirena era molto più avanti e mi stava abbandonando ridendo felice. E non avevo la minima intenzione di ritrovarmi solo in un bosco buio e minaccioso, quindi le urlai di aspettarmi e accelerai il passo. Misi il piede storto e finii a faccia in giù nelle foglie cadute. Qualcosa di umido e viscido si mosse contro la mia guancia. Balzai in piedi urlando e dimenandomi e tentando di pulirmi alla meglio il viso. Zabluda mi fissava divertita.

“È umido! Oh Liron! Si sta così bene qui! Non senti che fresco? Oh ma how smijesan are you! Ah ah! Ma smettila dai! Non hai niente in faccia! Certo che devi essere caduto nel fango proprio eh… Ah ah! Che buffo che sei non hai idea!”

“Smettila di ridere! Avevo qualcosa sulla guancia, qui, guarda!”

“Io non vedo niente, sarà stata una sanguisuga.”

La fissai allibito. In un attimo era diventata l’immagine stessa della serietà.

“Una cosa?”

I suoi occhi avevano un colore più scuro o sembrava a me? Una rughetta al lato della palpebra sinistra tremolò. Zabluda mi sputacchiò in faccia piegandosi in due dal ridere. Mi venne il sospetto che mi stesse prendendo in giro. Certo che l’umidità di quel boschetto la rendeva veramente euforica. Lanciai un’occhiata a Wyvern con aria interrogativa, lui aveva la bocca lievemente aperta e scodinzolava come un matto. Se avesse potuto avrebbe riso anche lui, me lo sentivo. Mi sedetti su una pietra e aspettai che la smettessero e ritornassero persone serie. O almeno cani seri.

Intanto cominciavo a vedere le cose intorno a me e, nonostante i rumori fatti da quei due esseri sentivo che tutto fremeva. Mi spiego meglio. Non è che proprio proprio tutto il bosco ridesse del sottoscritto, anche se in quel momento mi sarebbe sembrato normale. Solo che era tutto pieno di fruscii. Le foglie tremavano e si muovevano scosse da una brezza inesistente, i rami degli alberi idem. Insomma tutto sembrava vivo. E la cosa mi terrorizzava. Mi sentivo circondato da esseri minacciosi che mi spiavano, tutto intorno a me strisciavano nel buio, ero assediato, eravamo assediati! Mi feci prendere dal panico e cominciai a guardarmi intorno. Zabluda si stava ricomponendo. Mille occhi ci spiavano da dovunque, mille belve attendavano un nostro passo falso per sbranarci.

Un ramoscello scricchiolò e si ruppe. Vidi l’ammasso di stracci neri scattare immobile a terra con le orecchie tese. Ci trasformammo entrambi in animali. Fiutavamo il pericolo. Wyvern ringhiava. Udimmo uno scoppio. Il gigantesco mastino lanciò un guaito e si accasciò al suolo.

“Smrt!”

Dai cespugli comparvero lentamente una, due, tre, quattro figure. Erano esattamente intorno a noi, tranne che in un punto: dietro di me. Forse non mi avevano visto… Cominciai ad arretrare lentamente, ma fui fermato da qualcosa di freddo e tondo contro la schiena.

“Eh no no bello! Non si fa così! Che cercavi di fare?”

La canna di una pistola. Pensai. Merda. Pensai. Non avevo mai visto una pistola, ma ne sapevo abbastanza da non volermene trovare una puntata alla schiena. Erano cinque. Troppi, troppi. Erano vestiti di stoffe pesanti e tre di quelli che potevo vedere portavano delle lunghe barbe. Niente volto coperto. Non avevano bisogno di nascondersi. Forse non avremmo avuto l’occasione di descrivere le loro facce. Rabbrividii al pensiero. No, ero troppo giovane. Almeno non erano belve, erano persone. Si poteva trattare.

Sentii provenire una zaffata fetida da dietro di me.

“Con che viaggi ragazzo? Con quel mucchio di stracci? O è una bambina? Tiratela su!”

Mi resi conto solo alle sue parole che Zabluda era ancora accucciata a terra in posa da agguato. In quel mentre sollevò il viso. Ringhiava.

“Non toccatemi! Che volete? Non abbiamo niente noi!”

“Uh uh! La bestiolina parla! Capo secondo te anche balla?” disse un uomo molto alto ma dalla testa straordinariamente piccola. E sparò a terra a un metro dalla bestiolina, che scattò in piedi all’istante.

“Non è il momento Gorg!” abbaiò da dietro la mia schiena. “Decido io quando ci si diverte e quando si lavora! Ora si lavora! Allora giovani, dove sono le vostre sacche?”

La mia, e anche l’unica, era vicino alla roccia dove mi ero seduto, così fui spinto brutalmente, rotolai verso Zabluda e il mio assalitore raccolse lo zaino da terra. Sentii una voce provenire dall’alto, da un punto imprecisato sopra la mia testa.

“Non provare ad aprirla.”

“Uh uh! Fa le condizioni questa capo!”

“Zitto Gorg! E tu pure tu bambina! Che ti prende? Non ti sei resa conto della situazione? Posso ucciderti quando voglio, quindi ti conviene star zitta e pregare il tuo tempio!”

“Non sono una bambina! E non aprite quella borsa vi ho detto! Non abbiamo niente! Siamo solo viaggiatori!”

“Beh se non c’è niente non vedo perché non possiamo prenderla! Che c’è? Qualche cosuccia vostra? Le foto di mamma e papà quando erano ancora vivi? Oh poveri piccoli! Ah ah ah!”

E l’uomo senza barba si mise a ridere sguaiatamente, facendo tremare una specie di grosso fucile che teneva puntato contro di noi. Non capivo perché non potevano prendere la nostra borsa. Tanto il cibo era quasi finito e la coperta... Beh saremmo potuti vivere anche senza se ci lasciavano vivere! E mi sembrava molto ma molto più probabile che ci lasciassero andare se quella stupida non avesse cominciato ad attaccar briga!

“Si, ecco! Per me portano qualcosa di bello! Forse oro! Possiamo anche ucciderli no, capo? Come il cane!”

“Ma stai zitto Gorg? Potremmo uccidere il ragazzo, ma perché uccidere la femmina?”

Quello che doveva essere il capo, lo stesso che mi aveva assalito, sorrise. Ma fu un sorriso terribilmente viscido. Gli mancavano alcuni denti.

“Se non sei una bambina, dì un po’, quanti anni hai?”

Il cerchio intorno a noi si strinse. Sembravano lupi. Forse sarebbe stato meglio se fossero stati lupi.

“Non vedo a cosa vi dovrebbe interessare.”

“Ha ragione! Cosa ci interessa? Non passa una donna da anni per questo bosco!”

“Muto Gorg! Hai capito? Muto! Dobbiamo o no mantenere un minimo di integrità morale?!?”

L’uomo senza barba rise sonoramente, ma si zittì dopo poco per una gomitata di Gorg. Non conveniva ridere. Non era una battuta. Il capo non stava ridendo.

D’un tratto sentii la mia mente espandersi fino a sfiorare l’infinito e una voce sibilarmi dentro la testa: “Tappati le orecchie!”

Capii che era Zabluda, ancora in posa da difesa sopra di me, ma non mi rendevo conto del come, del perché, cosa fosse che avevo sentito e senza pensarci chiesi ad alta voce

“Come, scusa?”

“Avete sentito! Il verme in terra ha parlato!”

E finalmente si misero a ridere tutti insieme appianando i malumori interni alla banda. Non si accorsero che la ragazzina si era eretta in tutta la sua altezza e aveva aperto la bocca. All’inizio non sentii niente, ma dopo qualche secondo un urlo eruppe dalle sue labbra, lungo, forte, terribile, acutissimo. Non avevo udito mai niente di simile prima, non sapevo cosa fosse, eppure un istinto primordiale prese il controllo delle mie azioni: mi venne da correre, da buttarmi da qualche parte, giù da un dirupo o meglio in mare!

Ecco cosa potevo fare! Buttarmi in mare! Sarebbe stato il massimo! Mi alzai con le migliori intenzioni di cercare la mia morte in capo al mondo ma ricevetti subito un forte colpo in testa. E svenni.

 

 

 

 

 

Qua succede qualcosa… contenti miei assidui et immaginari lettori? ^_^

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


CAPITOLO NOVE

Tutto si muoveva lentamente, a ondate. La testa mi pulsava come fosse stata grande tre volte il normale. Sentivo una voce bassissima che rimbombava lontano lontano. Poi la pelle del mio viso esplose in tanti frammenti gelati e mi svegliai. Avevo la faccia sott’acqua. Mi dimenai da qualcosa che mi teneva sotto e riuscii a prendere aria annaspando.

“Oh. Sei vivo.”

Mi girai e vidi una ragazzina distrutta inginocchiata vicino a me. Pallida come un morto e che respirava a fatica. Solo dopo qualche secondo mi ricordai chi fosse e ciò che avevamo appena rischiato.

“Cos’è successo?”

“Mai sentito parlare del canto delle sirene?”

“Ma… era quella cosa là? Ma era terrificante!”

“Nessuno ha mai detto che sia particolarmente melodioso.” Disse alzando un sopracciglio “Ma è un peccato gravissimo e si può attuare solo in casi particolari.” Fece una pausa. “In genere porta alla morte.”

Sotto qualche ciuffo di capelli scomposto Zabluda sogghignò.

“Come alla morte! Tu sei viva!”

“Sono in un altro mondo, Liron. Le leggi di Moore non valgono qui, almeno in parte.”

“Aspetta, ma tu lo sapevi già, vero?”

“No.”

Di nuovo ghignò. Sollevò la testa e sotto le palpebre pesanti incontrai le pozze di mare. Avevano una sfumatura di distruzione che mi fece correre un brivido gelido lungo la schiena.

“Si Liron, si whoreson, potevo morire. Ma non sono morta. Non avevo scelta, volevano aprire la sacca. Ora smettila di fare le tue stupide domande e di tentare di risolvere i tuoi irrisolvibili e blesavi problemi mentali e aiutami, smrt!”

E così scoprii che le sirene hanno un fortissimo senso del territorio e di ciò che è loro. Che cosa stupida. Ci si mette in un sacco di guai.

Però il problema al momento era che lei non riusciva più a parlare in una sola lingua. Male. Male. Oh, molto male. 

Deglutì e chiuse gli occhi.

“Bueno, adesso che ti sei finalmente svegliato e che that farabutti se ne sono andati io devo dormire. Sto male. Ma Wyvern sta ancora peggio. È qui dietro. Puliscigli la herida, la ferita, toglili il proiettile e occupati di lui. Io ho salvato te. Ora tu salvi noi.”

Aprì gli occhi un secondo per vedere se avevo capito. Annuii perché non sarei mai riuscito a parlare. Lei crollò come un peso morto a terra e si racchiuse su se stessa con la forma di una chiocciolina, tremando.

Mi alzai e trovai nell’erba una massa nera che respirava con suono raspante. Wyvern era disteso su un fianco con gli occhi chiusi, la bocca semiaperta e una profonda ferita sulla zampa posteriore. Non mi piaceva. Non mi piaceva neanche un poco. Era… grande e… cattivo! Ok, va bene, stava male e aveva bisogno del mio aiuto e me lo aveva chiesto Zabluda che mi aveva salvato la vita, ma si sa che gli animali feriti sono ancora più aggressivi, no? 

Insomma, fu solo con un’immensa dose del mio noto coraggio che riuscii ad inginocchiarmi vicino al mastino. Non sapendo bene che fare e rischiando un bel morso, gli misi una mano sul collo e lo accarezzai. In quel momento, non so come, seppi che non mi avrebbe aggredito. Penso me lo stesse tentando di comunicare lui stesso in qualche maniera. E seppi anche che non era solo un cane. Nella stessa maniera in cui la sua padrona non era solo un’umana. Sapeva anche ciò che gli stavo per fare e, in un certo senso se lo aspettava, era pronto. Lui aveva zoppicato fino a quella radura con enorme sforzo, mentre Zabluda mi portava in spalla. Rimasi esterefatto.

Ora sono quasi sicuro che me lo disse lui stesso, solo che mi diede queste informazioni tutte insieme, in un unico istante, come un sospiro, un ultimo gesto disperato. Poi tacque. Mi lavai le mani nel ruscello che scorreva vicino alla sirena dormiente con molto sospetto. Mi leccai un dito. Sembrava buona. Ed era dannatamente fredda. Quando ebbi strofinato via tutto lo sporco possibile dalle mie dita guardai Zabuda e gliele appoggiai sul viso. Aveva bisogno di acqua quella ragazza. Emise un piccolo verso e si racchiuse ancora di più nella sua posizione a riccio.

Tornai da Wyvern e mi resi conto che dovevo decisamente lavarlo prima di tentare di toglierli la pallottola, era tutto pieno di terra e foglie. Regole elementari di igiene che ci avevano insegnato a scuola. No, non ci avevano insegnato come tirare una pallottola fuori dalla zampa di un immenso cane-tritone, però qualche regola di primo soccorso si. C’erano dei programmi di insegnamento molto pratici, nessuno si perdeva troppo in matematica ad alto livello o lingue morte, dovevano insegnarci a vivere.

Prendendolo da sotto le zampe anteriori lo trascinai più vicino al rivo e poi, con la maggiore delicatezza possibile, immersi la zampa ferita in acqua. Il guaio era che lo sparo non era nella parte bassa della zampa, ma abbastanza in alto, verso il fianco, per cui in pratica dovetti immergerlo quasi a metà nell’acqua gelida sorreggendolo perché non ci cadesse tutto. Guaì. Quando non ce la feci più lo tirai su e lo appoggiai a terra. Ripresi fiato. Era veramente un’enorme e pesantissima dannata massa di muscoli. Andai nella borsa salvata e tirai fuori un coltellino. Lo sciacquai e mi misi all’opera. 

Non vi descrivo ciò che feci per non sembrare truculento, ma anche perché non avevo la più pallida idea di ciò che stavo facendo. Tentavo di cavare quel dannatissimo pallino senza sapere quanto in fondo fosse, se ci sarei riuscito o se Wyvern sarebbe sopravvissuto. Ogni volta che affondavo lui emetteva un suono misto tra un ululato, un ringhio e un guaito, ma non si voltò mai verso di me. Nel frattempo io gli parlavo in una maniera che se mi fossi sentito mi sarei fatto fuori a morsi da solo, anche senza contare il dolore dell’intervento barbaro alla zampa.

Dicevo cose molto ma molto stupide, del tipo:

“Su Wyvy, su bello, dai che tra poco ho finito, lo faccio per te sai? Dopo starai molto meglio, oh ma quanto sangue! Dio che schifo! Non potresti sanguinare un po’ di meno ragazzo?”

In corrispondenza con i versi di Wyvern sentivo Zabluda che si muoveva dietro di me, ma non osai guardare. Sospettavo che nel sonno soffrisse anche lei, come la sua parte animale.

Ad un certo punto esclamai:

“Wow! Vecchio mio c’è una resistenza! L’ho trovato! Fa che non sia già l’osso!”

E dall’emozione mi tremò la mano, diedi un piccolo affondo involontario, il mastino contrasse il muscolo e una cosetta insanguinata schizzò fuori dalla ferita. Dietro le mie spalle la sirena, ormai totalmente srotolata, inarcò la schiena per qualche secondo.

Ce l’avevo fatta. Mi concessi un sorriso e poi mi misi a trascinare nuovamente il cane per sciacquarlo.

 

 

 

 

 

Ho risentito di un blocco artistico, chiamato anche “fine quadrimestre”, ma ora ho ricominciato a scrivere! Yee! Siete contenti miei adorati lettori?

Che triste che è parlar da soli però… =(   (si tra un po mi metto a delirare)

Oh! Annuncio ufficiale! Grazie a sara chan che mi ha messa nei preferiti! (oh, il mio primo preferitiiiii! *autrice va in delirio di onnipotenza*)

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci: L'umano si da un po' da fare ***


CAPITOLO DIECI: L’UMANO SI DA’ UN PO’ DA FARE

Probabilmente se Wyvern fosse stato un semplice botolo terrestre non ce l’avrebbe fatta. Dallo scempio che gli avevo fatto nel fianco sarebbe nata una signora infezione oppure sarebbe morto semplicemente di emorragia. Confidavo molto nella sua natura Mooriana, o come cavolo si dice non lo so ancora.

Dopo che ebbi finito di scavargli dentro con un coltellino svizzero come avrei fatto per intagliare un pezzo di legno e lo ebbi pulito, mi alzai e cominciai a camminare inquieto. Avevo un po’ paura che i banditi sbucassero di nuovo dai cespugli, ma se avevano provato quel desiderio irrefrenabile, che avevo provato anch’io prima che Zabluda mi tramortisse, di buttarsi in mare, probabilmente erano ancora che correvano come pazzi cercando un mare dove buttarsi.

Ce l’eravamo vista brutta. E pensare alle scene che aveva fatto per quella stupida borsa! Dio che cosa idiota! Tutti provano degli istinti di difesa del territorio, ma si tratta di vedere la priorità! E in quel momento la cosa più importante era salvarci la pelle! Ma dico io! Rischiava di farci impallinare tutti e tre!

Feci qualche respiro profondo pensando che in fondo ci aveva salvati. E dovevo esserle grato. Ma grato le sarà stato mio zio! Chi lo aveva detto di fare il giro largo, eh? Chi era che sentiva qualcosa e non voleva entrare nel bosco? E ora mi trovavo con questi due malati terminali da curare. E se ne fosse morto uno sarebbe morto anche l’altro? Non ci volevo pensare. Avrei saputo come ritornare da solo a casa da lì? Speravo profondamente di si.

Giocai per un po’ a schizzare gocce d’acqua su Zabluda, tentando di centrarle il naso, ma mi stufai dopo poco così li lasciai ad agonizzare vicino al torrente e mi misi ad esplorare la vegetazione circostante. Se dovevo badare a quei due dovevo sapere che mi offriva il territorio. E soprattutto quanto distanti erano i campi. Il senso di responsabilità mi dava qualcosa da fare. Non avrei passato la notte lì. Dovevamo uscirne. Il cielo si stava annuvolando ed era sempre più scuro. Fortunatamente dopo una decina di minuti che camminavo tentando di non cadere, non pensare agli animali che potevano esserci intorno a me, e possibilmente anche mantenere una linea retta, gli alberi cominciarono a diventare meno fitti e sbucai su un campo coltivato.

Coltivato? Ebbene si. Ma non ci feci molto caso. Piuttosto notai con piacere sul bordo ciuffi di rucola.

Oh. Cibo. Bello cibo.

Tornai sui miei passi. Il difficile sarebbe stato convincere Zabluda a seguirmi. Povera, era distrutta. Ma bisognava uscire di lì prima che arrivasse buio. Neanche Sandokan si accampava sotto una fitta vegetazione brulicante insomma!

Con mia sorpresa non la ritrovai raggomitolata ma seduta vicino alla sua metà. Lo fissava senza toccarlo. Mi misi vicino a lei.

“Stai meglio?”

Non emise suono ma scostò un pezzo di cotone bucherellato della veste e mi mostrò il fianco. Aveva una cicatrice corrispondente alla ferita di Wyvern. Doveva aver fatto qualcosa per trasferire su di se parte del dolore. Ignorai l’operazione truculenta e passai ai fatti concreti.

“Dobbiamo uscire dal boschetto. Non molto distante da qui finisce e c’è anche un po’ di rucola da mangiare.”

“Tu proprio sei fissato con questa rucola, eh?”

Tirò un sorriso. Meglio di quanto immaginassi.

“Ho riempito la borraccia. Dovrei riuscire a camminare per un po’. Ma non so lui.”

In effetti il mastino aveva aperto un occhio, ma non sembrava molto in forma. E non c’era da biasimarlo.

“Ho tirato fuori il proiettile, sai?”

Mi scoccò uno sguardo misto tra il fulminante e il divertito.

“Vuoi un applauso?”

“No grazie, so di esser stato bravo.”

Era dubbiosa.

“Ti ringrazierò quando saremo in un posto sicuro dove dormire e Wyvern sarà fuori pericolo.”

Mi sembrava equo come accordo. Mi girai verso Colui Che Era Stato Salvato. Da me! Oh com’ero bravo. Mi tirai uno schiaffo mentale per smetterla di gioire e chiesi:

“Ce la fai a camminare?”

Non so che risposta mi aspettassi in quel momento. Magari credevo che zompasse su scodinzolando e facendomi le feste.

“Non ce la fa eh?”

“No, caricatelo in spalla e andiamo. Forse riesco a portare io la sacca. Sbrighiamoci.”

Al solo pensiero di risollevare quella cosa mi sentii svenire. Per di più attraverso il bosco! Ma dovevo comportarmi da uomo della situazione quel giorno, avevo un orgoglio da difendere!

Smettetela di ridere, prego.

Barcollando in maniera preoccupante la sirena prese la borsa e si avviò chissà come nella direzione giusta.

“Come fai a sapere che è di là? Guarda che è dall’altra parte!”

Scherzavo. Che scherzo stupido. Per buttare giù un po’ il mio ego gonfiato mi rispose con due sole parole:

“Semini distruzione.”

Ebbi un repentino crollo facciale e abbassai la cresta.

Dovevo trovare la maniera di issarmi in spalla Wyvern, contando che trascinarlo per mezzo bosco era fuori discussione. Lui con il suo unico occhio aperto attendeva che mi venisse un’idea. Quando capì che ero un caso perso fece un debole tentativo di alzarsi, stava quasi per cadere che io avevo già la testa sotto il suo ventre con la geniale trovata di portarmelo in spalla come un agnellino. Con la sottile differenza che lui pesava come una mezza dozzina di agnellini. Capitombolammo a terra entrambi e non mi ruppi l’osso del collo per miracolo. Dagli alberi arrivò un debole richiamo.

“Tutto bene?”

“Si, si, tranquilla, ce la sto facendo.”

In quel momento venni folgorato dalla soluzione. Io non potevo portarmelo in spalla per tutto quel tratto; anche se fossi riuscito a caricarmelo mi sarei spezzato la spina dorsale, o sarei caduto, che era la cosa più probabile. Corsi da Zabluda, le sfilai velocemente lo zaino estraendo la coperta e ritornai dal mastino. Piegato il mio bottino glielo passai con grande sforzo sotto il torace, come un’imbragatura, e tirai.

Contro ogni mia aspettativa funzionò, si rimise in piedi e mosse qualche timido passo solo con le zampe anteriori, poi mi guardò dubbioso. Era questo che volevo?

“Si bello, su, andiamo avanti così.”

Sbruffò ma si mise a camminare, e io dietro di lui sorreggendolo. Entrammo nel bosco senza cadere ed andammo avanti così, coma facendo la carriola, fermandoci ogni tanto ansimanti, mentre il buio si impossessava della foresta. Sbucammo fuori da quel tugurio che era ormai il crepuscolo inoltrato e stramazzammo al suolo esausti. Zabluda ci venne vicino incuriosita.

“Toh! L’umano si dà finalmente un po’ da fare!”

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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


CAPITOLO UNDICI

Giunti fuori dal bosco eravamo così stanchi e stupidamente felici che per un po’ non facemmo altro che guardare comparire le prime stelle distesi sull’erba. Per fortuna un brulichio del mio stomaco mi ridestò e mi resi conto che se non mi sbrigavo a raccogliere la rucola finché la vedevo quella sera avremmo digiunato. Così fui in piedi con un balzo e stringendo gli occhi mi misi a raccogliere quel che trovavo, che per mia grande fortuna comprendeva anche alcune bacche dall’aspetto poco feroce. Mentre ero impegnato in questa operazione Zabluda cominciò un intricato interrogatorio, china sul torrente che sbucava poco distante dal folto.

“Sai, pensavo, voi umani quanto bevete?”

“Non lo so… un po’…”

“E vi immergete mai in acqua?”

“Si, per lavarci. Mia madre mi faceva il bagno quando ero piccolo, però ultimamente l’acqua non è un gran che, rischi di bruciarti la pelle.”

“Con l’acqua di questo torrente tu hai lavato Wyvern però, che non si è bruciato, e l’hai anche bevuta.”

“Si, questa è buona.”

“Ma se un umano si immerge in acqua che conseguenze ci sono per il suo corpo?”

“Nessuna, cioè, puoi avere un po’ di freddo quando esci se non ti asciughi bene. O se ci stai tanto dentro ti vengono le grinzette sulle dita, ma niente di tale”

“Allora perché gli umani affogano? Troppa acqua non li fa male? Perché strepitano quando ci cadono?”

“Oh, beh, presumo strepitino perché hanno paura, ma non perché ci faccia male. Si affoga quando si respira l’acqua. E se uno è tanto tempo in mare capita… cioè… Non lo so… Penso… Non sono mai affogato… Perché tutte queste domande?”

“No, niente.” Concluse in fretta.

C’era qualcosa sotto ma non avevo molta voglia di indagare tra i suoi dubbi sulla differenza fra le nostre specie, anche perché pure io ne avevo avuti moltissimi che lei mi aveva risolto solo in parte, e sapevo che in quel momento stava mettendo insieme i pezzi. Ma con mia sorpresa la sirena continuò.

“Se io volessi farmi un bagno in questo torrente, mettiamo. Che dovrei fare?”

Strabuzzai gli occhi, un piccolo brivido freddo mi corse lungo la schiena.

“Dovresti spogliarti.”

“Perché?”

“Perché se no quando esci con i vestiti bagnati non hai niente altro da metterti, patisci il freddo e ti ammali… e muori.”

“E muoio?”

“Beh, non necessariamente, ma potrebbe essere, ecco.”

Che brava mamma che ero. Sembrò pensarci, ma solo un momento.

“Sai è strano l’effetto che mi fa l’acqua qui, quando la sento vicina. È come un bisogno di entrarci, o che lei entri dentro di me, penso potrebbe rigenerarmi, ma sento che c’è qualcosa che non mi torna.”

“Del tipo che sei in viaggio con un uomo?”

Lei non afferrò il concetto primario e cominciò a spogliarsi.

“Già, forse non riesci a spiegarmi queste cose, ci vorrebbe qualcuno che si è già trasformato…”

Mi girai di scatto e concentrai profondamente tutto me stesso sulla rucola. Non esisteva niente al di fuori della rucola al mondo. Non c’era una ragazza mezza nuda alle mie spalle. Non eravamo soli. Non era l’occasione della mia vita. Non avevo la minima intenzione di saltarle addosso. No, no, no.

L’istinto però fu più forte di me e le lanciai una timida occhiata oltre la spalla. Vidi degli squarci di pelle lattea nel buio che avanzava, sembrava che risplendessero. Poi si tolse l’ultimo straccio e si alzò in piedi con grazia, dandomi le spalle. Era veramente piccola vista così, nuda sotto la luna opaca. Sembrava un cucciolo malnutrito, con le gambe sottili e la zazzera scompigliata. E poi, insomma, aveva proprio un bel sedere. Ormai ero totalmente ipnotizzato. Avrei voluto tanto che si girasse per vedere quel seno così spesso sbirciato e sapere se veramente le ragazze Lì erano fatte come mi aveva detto mio fratello. Sentendomi tanto un guardone la vidi saltellare nel torrente, ridendo con suono querulo. Chissà se sapeva che la stavo guardando, probabilmente si. Sedendosi in acqua mi informò con un urletto che era gelida e si girò di profilo, la mia reazione fu istantanea: non avevo mai visto niente di più interessante del cespo di rucola che avevo tra le mani, e che, inoltre, neanche vedevo più. Ne azzannai ferocemente una foglia per allentare la tensione.

Perché ogni singola parte del mio corpo, e vi risparmio quale in particolare, moriva della voglia di voltarsi, spogliarsi e saltarle addosso. Ma non potevo, non dovevo. Voi vi chiederete il perché… Beh, diciamo che la cosa avrebbe compromesso non poco la mia fuga da casa. Già mi vedevo la scena. Io che zompo nel torrente, lei afferra le mie attenzioni (che per quanto sia stupida non ci vuole un genio), e mi tira una sberla. O la violento o sparisco con la coda tra le gambe. La seconda, considerando che ci tenevo alla pelle. Continuare un viaggio assieme? Escluso. Sarei dovuto tornare a casa da solo, senza cibo, senza un’idea di dove fosse casa mia. E tanti cari saluti all’avventura.

Si, dovevo concentrarmi su questo. Era una cosa sbagliata, sbagliatissima.

Però c’era sempre la possibilità che lei fosse d’accordo, e al solo pensiero la mia mente si diede alla pazza gioia, mostrandomi immagini che non volevo vedere. Va bene, le volevo vedere, ma non in quel momento. Non potevo rischiare tanto. Escluso.

Passai così una buona mezz’ora a mangiarmi i visceri e ripetermi a mezza voce “Escluso!”, tentando di imitare il più possibile la voce e il tono di mia madre, seduto immobile in mezzo al prato. Ogni tanto sbranavo una foglia di rucola, più o meno in corrispondenza con le sue risatine di gioia. Mi venne anche in mente di andare a prendermi il pane e mangiare per bene, ma mi sarei dovuto girare. Forse sarei dovuto andare anch’io a farmi un bagno gelato per calmare i bollenti spiriti.

Si, con lei.

Saltuariamente mi tiravo una piccola sberla.

Ok, lo ammetto, dovevo sembrare molto stupido a parlare e pestarmi da solo visto di spalle. E lo ero. Ma che potevo farci? Anche lei non scherzava in quanto a scarsità di capacità mentali. Non ci si spoglia davanti ad un uomo, a patto che non si abbiano precise intenzioni, no?

Finalmente, dopo che non sentivo più risatine da qualche minuto, mi stufai e le rivolsi un urlo.

“Beh? Hai finito? Vorrei bere!”

Tanto per dare un po’ di enfasi alla frase e farmi rispettare saltai in piedi tipo molla, e dopo un profondo respiro mi voltai di scatto.

Per poco non mi prese un colpo.

Era a un metro da me, in piedi. Nuda come mamma l’aveva fatta, bianca e gocciolante. Un sorriso da un’orecchia all’altra e uno sguardo da squalo.

Deglutire mi sembrò la cosa più difficile che avessi fatto da quando ero nato. 

 

 

 

 

Mi sono un po’ arenata con la storia e i capitoli già scritti stanno pure finendo. E poi solo tre persone avevano letto l’ultimo capitolo, cosa che non mi ha proprio messo di ottimo umore per scrivere. Ma la smetto di lagnarmi, anche perché non sopporto gli scrittori che si lagnano della loro stessa desolazione. Puah. Ok, ora chiudo. Mi impegnerò e la finirò. (anche perché mancano ancora un cinque-sei–sette capitoli ecco. Circa.) Fine della lagna dell’autrice incompresa.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


CAPITOLO DODICI

Vi giuro che quella notte ebbi il più esotico incontro con una donna nuda della che si possa immaginare. Il più assurdo e strano in assoluto. Zabluda era sardonica e determinata come il predatore degli abissi con la lucina sulla testa e un sacco di denti affilati. Io ero il povero ed incauto pesciolino: immobile perché terrorizzato ed estasiato al tempo stesso. Durò solo un attimo però, non aveva intenzione di farmi diventare la cena.

 “Co- co- cosa… Ch- che c’è?”

Si, questo ero io. L’unica reazione che ebbi da lei alla mia esplicita e precisa domanda fu un battito di ciglia, molto lento. Per una manciata di secondi. Poi sibilò.

“Lo sento, Liron, lo sento.”

No, eravamo troppo distanti, non poteva sentirlo, magari se veniva un po’ più vicina però… Ma non era quello che intendeva lei.

“E’ qui da qualche parte, è vicino… Il mago! Sento la sua potenza!”

“Ah.” …

“Non so come mai prima non lo percepivo, è come se fosse comparso tutto d’un tratto, mentre ero in acqua, forse mi serviva il mio elemento per trovarlo, ma ora lo sento, ed è potente, molto. Sono sicura che sia lui, chi altro potrebbe essere? Non riesco a individuare con precisione la direzione, ma dovrebbe essere oltre i campi, sai, ha una forza quasi palpabile, mi sorprendo che tu non riesca a sentirla, è come un tremolio nell’aria. Ora non so che fare, cioè non è che posso presentarmi lì e dire “Buongiorno, sono la sua Specula, mi aspettava giusto?” o forse si? E poi sento che devo andarci, devo proprio, ma non so se voglio perché quando sarò là la mia vita sarà nelle sue mani, ma non posso fermarmi adesso, ho una missione, se no il patto non verrà rispettato e altri della mia gente verranno uccisi inutilmente per colpa mia, ma non voglio diventare una schiava ora che il momento è così vicino eppure non posso evitarlo e…”

“Respira!”

Inspirò profondamente e tenne chiusi gli occhi per qualche istante. Non l’avevo mai sentita parlare così tanto, tranne quando mi aveva raccontato la tragedia del suo popolo, e poi si era messa a piangere. Chissà se cominciava anche adesso. Mi sarebbe toccato abbracciarla, per consolarla…

Mi stavo di nuovo perdendo in pensieri non adatti alla situazione, senza riuscire a concentrarmi minimamente sul problema mago, mentre lei si calmava un poco. Stavo appunto tentando di far cadere casualmente lo sguardo Lì, per puro interesse scientifico si intende, quando lei cacciò un urlo terribile.

“Lull! Non c’è più!”

“Cosa?”

“Il mago!”

“Ma come! Ma non c’era?”

“Appunto!”

Restammo un attimo in silenzio.

“Non è che i tuoi sensi sono un po’ stanchi? Magari hai preso un abbaglio, devi riposare, sei stata ferita…”

“Zadrt! Crni smrt! Is dead!”

Stava andando fuori di testa, ma proprio tanto. Mi prese per le spalle e cominciò a scuotermi gridando cose senza senso. Urlava e mi strattonava. Non ce la feci più. Veramente. Non la sopportavo se andava in crisi isterica. Senza pensarci due volte le tirai uno schiaffo, così, istintivamente.

Ma me ne pentii all’istante. Spalancò le pozze blu con aria sconvolta e le sue mani bianche e fredde si staccarono di scatto dalle mie spalle. Restò a fissarmi immobile, ferita nel profondo e senza sapere più niente.

La mia mano dopo l’impatto con la sua guancia era arrivata chissà come sulla mia bocca. Mi bruciava. Caspita, faceva male tirare sberle.

Oddio cosa avevo fatto.

Zabluda abbassò lo sguardo e fece per girarsi e andarsene. Dentro il mio petto una vocina in preda al panico gridava che ero uno stupido e dovevo fare qualcosa per rimediare, subito!

“Scusa!”

Scosse la testa, ma si bloccò.

“Scusa, mi dispiace, ho reagito d’istinto ma mi scuoti e urli in dieci lingue e ti agiti e senti cose e vedi mondi e ti spogli e immagini e te la prendi con me come se potessi risolvere tutto ma non posso! Se solo tu mi spiegassi con calma io forse capirei, ma così…” 

Sbuffai. Mi dava tremendamente fastidio che nonostante passassero i giorni le cose da spiegare non finissero mai. Le presi il mento in mano facendola girare e la guardai negli occhi, non c’era odio dentro, per qualche strano motivo non era arrabbiata, solo tremendamente sconvolta. Fu un attimo.

Poi un fremito.

Le mie mani. Tra i suoi capelli. Impigliate. Il suo corpo freddo. Bagnato. Contro la mia maglietta lisa. Le labbra. Mie. Sulle sue.

Come. Non lo so.

Esplosi in un turbinio di scintille e tutto quello che avevo cercato di tenere dentro si ribellò. Non pensai come si fa di solito, ma in quella maniera pratica e chiara delle situazioni di emergenza, quando non c’è niente da congetturare ma solo da eseguire. Quando sai che ogni istante te lo ricorderai per tutta la vita.

Gesti tremanti. Per me per la tensione e l’eccitazione. Per lei per il freddo. Credo. Era umida, ghiacciata e così assurdamente piccola contro il mio corpo. Dischiuse le  labbra famelica e presto ci trovammo sull’erba. Con le mani scorrevo tutto il suo latteo corpo. Ci stavamo letteralmente succhiando l’anima quando si staccò con quel tipico rumore da sturalavandini.

“Come si fa?”

“Cosa?”

Si strusciò contro di me, che ero ormai bollente.

“Questo.”

“Non lo sai?”

Scosse la testa.

“Fecondazione esterna.”

“Oddio!”

Mi misi a ridere come un idiota. Fecondazione esterna! Erano proprio pesci! Mi fece smettere istantaneamente quando mise la mano sull’apertura dei miei jeans.

“Che è?”

“Shhh, ora ti insegno io piccola!”

Non avrei mai pensato di dover fare il maestro d’amore, eppure… Poche settimane prima avrei giurato che la mia prima volta sarebbe stata con qualcuna già navigata che voleva togliersi uno sfizio, invece ero io che dovevo condurre il gioco. Per una volta lei non sapeva, eppure voleva. Il suo corpo umano doveva dirle qualcosa ma non riusciva a decodificare gli impulsi. Insomma, era tutta, totalmente, mia.

…e siamo onesti insomma, non è che ne fossi molto dispiaciuto!

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici: Un bel guaio ***


CAPITOLO TREDICI - Un bel guaio

I neonati delle sirene sanno già nuotare o cascano sul fondo come pesci lessi? Ahah, che bella battuta! Pesci lessi!

Era così, tanto per gradire, tanto per iniziare con una cavolata. Sparo sempre un sacco di cavolate quando sono felice, e ricordando quella notte una sorta di contentezza si impossessa del mio corpo. Mi viene questo stupido e placido sorriso in faccia che mi fa assomigliare un po’ ad un grosso e panciuto gatto sul sofà.

Questo non solo perché ero appena stato con Zabluda, esperienza assai esaltante nonostante lei mi chiedesse abbastanza di frequente cosa diamine stessi facendo. Al che io non perdevo tempo e la baciavo per farla stare un po’ zitta. La mia facciata da grande amatore crollò parzialmente quando non beccai il buco giusto. Per due volte di seguito. E quando lo beccai ci misi troppa foga e lei cacciò un urlo di dolore. Ma questi sono imbranati particolari che non vi interessano, e poi la prima volta succede a tutti, no?

Insomma, finita la grande esibizione ginnica avevamo tutti e due una fame mostruosa, ma non vedevamo quasi niente. Per fortuna io mi ricordavo all’incirca dove avevo messo la rucola e le bacche e la sacca si distingueva nell’erba abbastanza facilmente. La verdura era piena di terra, tanto che mi sentivo un lombrico, e il pane era così duro che per poco non mi saltò un dente. Nonostante ciò era il cibo migliore di tutti i mondi.

“Com’è quell’erba che hai raccolto?”

“Uh? Ah, buonissima! Solo che è un po’ piccante, non so se ti piace.”

“Non ho mai assaggiato il piccante, com’è?”

La baciai.

“Mmm... Buono…”

“Ne vuoi un altro?”
“No, voglio la rucola.”

Non si era rivestita nel frattempo. Aveva tentato di infilarsi qualcuno dei suoi brandelli di stoffa ma non li riconosceva per l’oscurità e non riusciva a ricostruire bene tutta l’architettura. Quindi era semplicemente avvolta con me nella coperta per stare al caldo. Quando finimmo tutto il cibo che possedevamo ci mettemmo più comodi per dormire, ma non dormimmo molto. Parlavamo di ciò che ci veniva in mente, senza paura di dire qualcosa di scontato, perché il divario era talmente grande che solo raccontare come si condisce l’insalata sembrava più emozionante delle avventure di Simbad. Così parlavamo, distesi sull’erba nella coperta, con i nasi all’aria ad osservare la via lattea.

“Sai, a Moore spesso sgattaiolavo via dalla mia stanza senza far rumore, di notte, e salivo fino in superficie per vedere le stelle. Erano diverse da queste. Ce ne sono quattro grandi grandi che illuminano la notte come fa la vostra luna. Si chiamano Rosint, Ferol, Urgo e Astona e si dice siano i figli di Parino, nati da suoi tentacoli tranciati nella lotta contro la terra che voleva avanzare. Astona è l’unica femmina, ma è anche la più brillante, e tutti coloro che avranno dei figli portano le uova fuori dall’acqua a prendere la sua luce. Vedendoli la stella dovrebbe decidere quelli che nasceranno e la fortuna che gli spetta. Forse sono solo leggende ma mia nonna ci crede ancora e, dato che da quando sono arrivati gli Umani c’è il divieto di uscire dall’acqua, di notte raccoglieva le uova a pagamento e le portava di nascosto in superficie per farle vedere ad Astona. Ogni tanto la aiutavo, perché c’erano tante uova da portare e non ce la faceva da sola. Un giorno però una guardia ci ha viste. Siamo scappate, ma da quella notte non siamo più tornate su e tre giorni dopo sono stata convocata dalla Regina. Non rivedrò più Astona e non l’ho nemmeno salutata. Sono stata un’ingrata, è lei che mi ha dato la vita.”

Istintivamente sarei sbottato a dire che, insomma, era solo una stella, ma sentivo che non era il caso. Quel tipo di religiosità era diversa da tutte quelle che avevo conosciuto, era un rapporto personale, come se fosse stata una benevola amica di famiglia. Mi venne in mente una risposta che ritenni subito geniale:

“Non è arrabbiata con te. Sei sopravvissuta, sei guarita sorprendentemente. Chi ti può aver dato tutta questa energia? Fino a poche ore fa eri a pezzi… Ti vuole ancora bene, e ti protegge da lassù, magari attraverso una qualche sua amica di questo cielo qui.”

Sembrò soppesare la mia teoria.

“Non lo so… Per mandarmi nel tuo mondo mi hanno dotata di forze e poteri che nemmeno conosco, non so se provengano dalla Regina o da Astona, ma agiscono separatamente dalla mia volontà. La guarigione potrebbe essere uno di questi. Ogni volta che li uso però prendono energia da qualche parte, forse dal legame tra me e Wyvern. Non vedi che è molto più distante? Non riesco più a vedere ciò che sogna. Cose noiose in genere, quasi sempre di nuotare, ma ci tenevo. O forse è caduto in una sorta di trance… Non lo so… Ma sta diventando sempre più animale e io, che schifo, sempre più umana.”

“Però se ci pensi, se non vi foste separati almeno un po’ non avremmo potuto… beh… niente lascia stare.”

“Ho capito. No, non penso avremmo potuto senza di lui.”

Mi irrigidii un attimo al pensiero di fare una cosa a tre con quel mastino. Oddio che orrore. Mamma mia che schifo. Porca miseria che ribrezzo.

“Sopravvivrà?”

“Spero di sì.”

Ascoltammo il cullante suono dell’acqua del torrente sulle rocce, oltre al quale si intuiva il silenzio rotto solo dall’occasionale rumore di qualche ramoscello mosso nel bosco o dal richiamo di un uccello notturno. Con gli occhi chiusi pensai a quanto sarebbe stato bello morire in quel momento, quando tutto era calmo, le stelle sopra le nostre teste, il calore del suo corpo vicino al mio, la pancia piena, la stanchezza che ci rimboccava le coperte e dava il bacio della buona notte, senza un problema al mondo. Respirai il suo odore e non era più così forte come prima del bagno. Le misi il naso sul collo e inspirai a fondo, ma niente. Si era proprio lavata.

“Che fai?”

“Ti annusavo.”

“Che ne sarà di noi?”

“Cosa, scusa?”

Quella domanda così improvvisa mi lasciò spiazzato. Noi? Da quando c’era un noi? C’era solo un io e te che per caso si era fuso, non un noi!

“Non c’è più il mago. Ha cessato di emettere potere, così, tutto d’un tratto, non può che essere morto. E ora che facciamo?”

“Beh, non potrebbe aver smesso per qualche motivo?”

“Un mago emette potere costantemente. Perché vive nella sua aura di magia e niente gliela può togliere tranne la morte.”

“Però è anche comparso di botto, cioè, quando siamo arrivati qui non l’hai sentito.”

“E’ vero, ho cominciato a sentire qualcosa solo mentre ero nel torrente, ma credevo fossero le energie che mi tornavano. Poi ho capito. Diventava sempre più forte, come se si stesse avvicinando velocissimo… e poi è morto.”

Potevo quasi vedere questo vecchio mago che correva trafelato verso di noi, con il barbone bianco svolazzante al vento, tenendosi con una mano la veste e con l’altra il capello a stelline. Poi, vecchio e sotto sforzo, cacciava un urlo e moriva d’infarto.

Mah.

Plausibile?

“E se fosse veramente morto? Che si fa?”

“Lo stavo chiedendo io a te.”

“Beh, è di te che si parla. Io ho una casa dove tornare.”

Si, va bene, lo so, era una cosa un po’ meschina da dire così, ma diamine! Era la realtà!

“Eh. Io no. E che ci faccio qui? Sono bloccata, senza una missione. Non posso tornare indietro! Vivere qui? Fare cosa? Come serva è facile, fai ciò che ti dicono, ma senza un padrone? Sono sola, senza nessuno che mi dica niente. Che bisogna fare ora di questa sirena?”

“Zabluda” sussurrai piano, senza fiato per il peso di quelle parole “la vuoi sapere la verità?”

Ci pensò qualche secondo. “Solo se è bella.”

“Beh, penso di si… O almeno per molti lo sarebbe… Sei arrivata senza volerlo ad avere qualcosa che si cerca per tutta la vita. La libertà assoluta. Sei libera, porca miseria!”

Inspirò profondamente, poi si mise a ridacchiare in maniera isterica, tanto che si scuoteva tutta contro il mio corpo. Stava andando un po’ fuori di testa poverina.

“Ma io non so che farmene della libertà! Non ne ho mai avuta!”

“Allora direi che siamo proprio in un bel guaio.”

“Siamo?”

“Si, noi.”

“Ma non c’è un noi! Tu non c’entri proprio niente!”

E sbuffando si girò dall’altra parte, dandomi la schiena. Bah, donne.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


CAPITOLO QUATTORDICI

Ci svegliammo di nuovo abbracciati, con la coperta scivolata di lato. Nel dormiveglia sentii subito una presenza estranea. Wyvern! Dormiva beato incollato alla mia schiena, facendomi sudare come un ossesso con il suo pelo e russava. Russava, dico! Chi ha mai sentito un cane russare? Vabbè, non ho mai avuto l’abitudine di dormire con un mastino, quindi può anche essere che russino, ma quel suono mi ricordò dannatamente mio padre, per cui gli tirai un calcio per farlo smettere e mi alzai. Zabluda era ancora nuda, così la coprii con la coperta e andai a bere un sorso d’acqua. Mentre facevo così colazione mi resi conto che eravamo totalmente senza cibo e lontano da qualunque città. Poteva essere un problema.

Wyvern si stiracchiò e zoppicando venne a sedersi vicino a me. Eravamo lì seduti a guardare l’acqua del torrente che correva e io svuotavo la mente in attesa che qualche Dio di qualche mondo me la riempisse con un’idea geniale quando Zabluda si svegliò. Si svegliò è riduttivo. Diciamo piuttosto che cacciò uno di quegli urli che tanto odiavo, giusto per sconvolgere l’atmosfera di pace e serenità.

“Wivern! Liron! Crni smrt!”

Alzai gli occhi al cielo.

“Che succede?”

“E’ risorto!”

“Risorto? Come risorto?”

“E’ tornato, c’è di nuovo, emana di nuovo potere!”

“Beh, evidentemente non era morto.”

“Si che lo era!”

“Ma non si risorge così a caso! Non può essere risorto! Non so nel tuo, ma in questo mondo nessuno è mai risorto!”

Beh, quasi. Ma non andavo a spiegarle le sottigliezze. E poi era successo solo una volta e un sacco di tempo prima. Per più di due millenni non era risorto nessuno quindi la cosa direi che poteva essere messa ufficialmente nel dimenticatoio in quel momento. A patto che non ci trovassimo in presenza di un nuovo profeta, oppure che non stessimo per scoprire il segreto della resurrezione oppure… Ma no, non emozionatevi, non eravamo sul punto di risolvere niente di così teologicamente importante. A volte le cose sono più banali di come si immagina. E le mie digressioni cominciano a infastidire pure me.

“Ma neanche da noi si risorge, ma non mi sto inventando niente, è solo ciò che sento Liron!”

Ci guardammo qualche secondo, poi, senza una parola, iniziammo a tirare su le nostre cose di fretta.

“In che direzione è?”

E piegavamo la coperta.

“Di là, riesco a sentirlo, oltre a questo campo, dopo quella collinetta credo”

E cercavamo le borse.

“Sei sicura? E’ ancora in salute o sta per avere un altro collasso?”

E si rivestiva. Peccato.

“Idiota.”

E partivamo. Un po’ di corsa, un po’ incespicando nel grano verde, un po’ occhieggiando Wyvern che ci seguiva zoppicante e ballonzolante. Neanche a dirvelo, ci stancammo presto. Il sole era sempre più caldo e noi eravamo affamati e assetati. Mangiammo un po’ di more da un rovo, poi ripartimmo sempre più infiacchiti. Ogni tanto Zabluda si fermava, chiudeva un secondo gli occhi e aggiustava la rotta. Dopo un tempo incalcolabile arrivammo ad una collina e la risalimmo chini. In cima ci sdraiammo pancia a terra. Dietro uno spinoso cespuglio di mirto, mentre io mi tentavo di pulire alla meglio le mani ferite, lei sbirciò dall’altro lato. Sentii distintamente il rumore del suo sorriso.

“Una capanna.”

“Con un vecchio stregone malvagio dentro?”

Due pozze d’oceano gelarono all’istante il mio sarcasmo.

“Sì.”

Ci fissammo. Poi lei sospirò e tornò a sbirciare tra le spine.

“Dovremo tentare di arrivare giù il più in fretta possibile, oppure rischiamo di essere visti.”

“Beh, perché non dovremmo essere visti? Non devi andargli in dono? Deve vederti!”

“Si ma… Non lo so. Magari arriviamo là, diamo un occhiata da quella finestra e vediamo com’è. Se è il caso di bussare e presentarci o se magari…”

“Magari cosa? Dobbiamo entrare!”

Si girò verso Wyvern e gli fece un grattino tra le orecchie.

“Smrt, Liron! Con calma! Prima vediamo. Magari sta dormendo…Magari lo disturbiamo…”

Esibii la migliore delle mie occhiate scettiche.

“Oh stupid guy! Non fare quella faccia! Ho paura, va bene? HO PAURA!”

Restammo un po’ in silenzio, e il mio cervello cercava qualcosa di furbo da dire, ma come al solito in questi casi non mi veniva in mente niente. Fu lei a sussurrare.

“Guardami.”

Alzai il viso e immediatamente il suo sguardo si incatenò al mio e le pagliuzze più chiare dei suoi occhi iniziarono a vorticare intorno alla mia pelle fredda e bagnata, perché erano un branco di sardine ed io ero in mezzo a loro e nuotavo e gioivo tra le correnti rincorrendo i pesci più piccoli mentre ero quegli stessi pesci più piccoli e le mie onde si infrangevano su una scogliera trasportando nella risacca migliaia di miliardi di particelle di plancton in tutto il pianeta, mentre nel cielo il sole splendeva e faceva brillare le alghe sulle squame di una sirena morta sul pelo dell’acqua e altre venivano rovesciate da una vasca a bordo d’un vascello e una lacrima salata d’un marinaio troppo tenero cadeva con loro fondendosi nell’immensità di lacrime che era il mare e una medusa…

“Si è mosso qualcosa nella capanna.”

La mia visione si interruppe istantaneamente come Zabluda volse lo sguardo. Meglio così. Ma la pace durò poco.

“Cosa hai visto?”

Un po’ balbettando e un po’ borbottando, a testa china le raccontai tutto. Restò impassibile. Immobile. Più rigida e morta delle sue simili. Capivo il suo stato d’animo solo da un ringhio sommesso che proveniva dalla gola di Wyvern.

“Andiamo dal vecchio.”

E andammo…











Torno dopo un po'. Ho deciso che devo assolutamente finire questa storia. Ci  saranno ancora uno o due capitoli più un epilogo, se ho voglia. Forse. Se qualcuno legge. (Si, ho la sindrome da lagna vivente) baibai

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