Così mi parli sotto le stelle

di Elle Sinclaire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte uno ***
Capitolo 2: *** Parte due ***



Capitolo 1
*** Parte uno ***


a

 

Ad Amanda,
con il solito
estremo ritardo.
Auguri da ogni cucciolo
esistente nell'intero
globo.
Loro due per primi. 

Parte 1 

Hanno detto che c'è un uomo sdraiato sul vialetto. Che deve farlo andare via o chiameranno la polizia, o che deve farlo entrare, ma è meglio di no, quello è un quartiere rispettabile, mica per tipi strafatti la domenica mattina sul ciottolato all'ingresso.
Adam ancora dormiva. Che sveglie di merda, queste.
Si alza pigramente dal letto, con le ossa che ballano sotto la maglietta dei Cherry Ghost e le gambe scheletriche che si dirigono in cucina, per mettere su il caffè.
Ha dovuto dipingere la cassetta della posta di giallo canarino per far sì che Luke la vedesse pure di notte e riconoscesse casa sua pure in quelle condizioni; sicuramente è stata una buona idea, perché almeno ha imboccato il vialetto giusto. Peccato che la cassetta delle lettere faccia schifo e che comunque Luke non riesca a superare l'albero subito dopo il cancelletto. Crolla sempre prima, con gli occhi mezzi aperti, tanto che una volta l'hanno chiamato per dirgli che c'era un cadavere davanti casa sua.
No, tranquilli, è solo quella testa di cazzo del mio ex.
Che va lì, a volte, dorme da qualche parte - l'amaca sul retro, il dondolo sotto il portico, la cuccia del cane - e poi la mattina non lo aspetta, neanche lo saluta.
Sgattaiola via, pensando che lui stia ancora a letto, perché probabilmente pensa sia ancora mattina presto, quando invece Adam ha già fatto colazione, la spesa, dato da mangiare al cane e telefonato a sua madre. Magari sta anche preparando il pranzo.
Per due, come ogni domenica mattina, che poi avanzerà e butterà nell’organico e puzzerà di merda fino alla domenica successiva. Lui spiluccherà qualche boccone seduto sul davanzale della finestra che dà sul cortile, con la tenda appena spostata e quel fottuto libro sui leoni sulle gambe, che tanto non leggerà. Luke si ferma sempre un attimo solo prima di uscire dal cancelletto, come se volesse tornare indietro, senza trovare un motivo giusto per farlo.
Quando si affaccia alla finestra, quella mattina, non sa se ridere o prenderlo a calci finché non si trova un fottuto ponte sotto cui collassare ogni fine settimana, perché lui non può sorbirsi le urla di quelle teste di cazzo dei vicini per colpa sua che si diverte a scambiare casa sua per la spiaggia nudista di Bermouth.
“Lucas Jonathan Ashley, brutto figlio di puttana…”
Sembra morto, ma la gamba ha uno scatto incondizionato quanto sente il suo nome. Adam quasi c’aveva sperato, che non dovesse essere lui ad ammazzarlo, ma forse è meglio così, non vuole essere quello che spiegherà ad April perché ha infierito con una mannaia sul corpo esanime del padre.
La testa di Luke si alza di scatto, quando gli da un calcio leggero sul fianco. Ha ancora gli occhi chiusi e le ciglia incrostate, un taglio sul labbro e la bruciatura di una sigaretta sulla spalla.
Adam gli sfiora i capelli con una mano, ma lui si ritrae e apre gli occhi. Si guardano un attimo e sembra voglia dire qualcosa, ma ha la bocca impastata e la testa pesante, quindi si alza, senza neanche coprirsi.
“Vieni a vestirti, Ashley, se t’arrestano di nuovo, tua madre t’ammazza.”

La casa è sempre uguale. Come quando ci portava April, i fine settimana che era con lui, e le stava sempre attaccato al culo per paura che rompesse qualcuna delle macchine fotografiche di Adam. Non ha tolto neanche la loro foto appesa in salotto, quella in cui stanno a letto e hanno le occhiaie fino ai piedi, ma in cui sorridono. Sorride pure Adam. Non ricorda cosa aveva detto per farlo ridere in quel modo, ma si era sentito orgoglioso per qualche motivo che non aveva capito. C’è anche April in una foto in bianco e nero, una foto di loro tre che sembrano quasi felici. April è aggrappata con una mano a una clavicola di Adam.
“Posso chiamare Maille?”
Il sibilo del gas quando accende il fornello è familiare, così come la puzza di uovo marcio. Adam armeggia con la caffettiera e annuisce.
“Quando te lo compri un cellulare?”
“Quando la smetterai di farmi usare il tuo…”
La flessione ironica nel tono di voce Adam l’ha sentita, ma fa finta di niente. Luke allora va a recuperare il cordless e lo guarda qualche minuto in silenzio, indeciso se farla, quella telefonata, o lasciar passare una domenica senza che il tono acuto della voce di Maille lo possa infastidire.
Una domenica come tante, prima di lei.
“Quando te ne torni a casa?”
Ci sono già, gli verrebbe da rispondere, perché Luke ha sempre odiato quella villa a nord di Croydon dove è stato costretto a trasferirsi. Casa sua è tra i buchi nell’asfalto di Cantelowes Garden e i disegni sui muri di Brick Lane, sotto un metro d’acqua nel laghetto di sinistra di Hampstead Heath ad aprile. April. April come sua figlia, come l’odore vischioso dell’acqua e i denti di Adam e le sue clavicole all’in fuori.
“Quando mi caccerai.”
E sa già che non lo farà, che gli offrirà un altro caffè, forse il pranzo, che gli chiuderà la porta in faccia solo quando sarà troppo tardi e Maille avrà chiamato a casa sua per la diciassettesima volta e Adam sarà troppo incazzato per risponderle ancora educatamente.
Come quando durante Masamoto 2010, lo aveva interrotto l’ennesima volta dalla lettura del suo stupidissimo libro sui leoni. I leoni. Se già il modo che aveva di muovere le mani non fosse stato abbastanza chiaro, l’avrebbe capito allora che era frocio. Ma frocio davvero, non come lui che va ai London Pride e bacia ragazzi a caso, fatto di metanfetamina fino al midollo e ogni tanto lo chiama ubriaco e gli dice che lo ama.
Che poi Luke Ashley non lo ama, perché ha una figlia e una moglie e Adam ha gli occhi troppo grandi perché se ne possa innamorare. Gli fanno troppo paura.
“Allora forse te ne dovresti andare.”
Non può reggere il suo sguardo. Sembra quasi vuoto, quando lo guardi troppo da vicino. E Luke non è più abituato a guardarlo fisso, a vedercisi dentro. Ma non lo ascolta, come sempre fa di testa sua. Si toglie le scarpe, lì, davanti a lui, e si abbassa di quei due centimetri che li riporta alla stessa altezza.
Non lo guarda mentre si allontana e si siede sul divano.
“Cosa c’è per pranzo?”

Adam vorrebbe prendere la scopa e colpirlo in testa. O dargli una dose letale di cocaina da sniffare sul tavolino in salotto. O costringere Maille a venirselo a prendere, tirandolo per un qualche piercing talmente forte da strappargli la pelle.
Ma non fa niente. Resta immobile e sconcertato dalla facilità con cui quella testa di cazzo di Luke Ashley si appropria del suo salotto la domenica mattina. Ogni domenica mattina di merda che Dio ha creato da quando è tornato con Maille.
Scusa, Adam, ma April…
April un cazzo, gli avrebbe voluto dire, perché April a casa sua si trova meglio che in quella gabbia di trash che è casa Ashley. Con il parco sotto casa, il lago e le papere e Hapstead Heath, che non è Shoreditch, ma a lui tutti quegli hipster sono sempre stati sul cazzo. Belli i murales e il mercato di Brick Lane e le macchinette fotografiche d’epoca a 30 pound, ma dove cazzo sono finiti i vecchi punk? Che poi lui lo sa di averne davanti uno, uno in ritardo di trent’anni, ma Ashley è sempre stato un po’ ritardatario e anche ritardato. Con quel deficit dell’attenzione che gli impedisce di concentrarsi sui suoi occhi per più di dieci secondi, mentre si racconta palle, i tuoi occhi mi spaventano e sono grandi e sono vuoti e perché cazzo le tue clavicole sono così ossute? Scuse, perché ad ammettere le debolezze, Luke non è mai stato bravo.
Con lui ogni tanto lo faceva, che si sdraiavano in giardino e April dormiva al piano di sopra, il suo respiro tranquillo che usciva dal walkie talkie. Gli hanno sempre fatto quell’effetto le notti in giardino, quello di parlare e non dire cazzate. E se faccio casini con April, e se Maille me la porta via, e se non mi vuoi più.
E poi un giorno era stato lui a non volerlo più e dimenticare quelle notti e April nel lettone tra di loro. Dimenticare le stelle e il lago con le papere e le domeniche senza droga in circolo a dormire con lui invece che sul vialetto, tra l’immondizia e la cassetta delle lettere.
E glielo direbbe quasi, adesso, sdraiato sul divano del suo salotto, telecomando in mano e occhi chiusi, torna, Luke, che le foto che faccio ora sono tutte in bianco e nero e forse ho ammazzato qualche papera tirando sassi nel lago invece che pane. Ma non lo fa, si siede su una poltrona lontano da lui. Non ha più importanza, e sembra quasi convinto mentre lo pensa, perché ad ammettere di sentire la sua mancanza, Adam non è per niente bravo.

La prima volta era stata a Londra e ad Adam fa strano pensare che fosse la loro prima volta in ogni cosa. Il loro primo incontro, il primo bacio, la prima scopata nella casa che aveva affittato, dopo la mostra di Cecilie. Era anche la prima volta che Cecilie presentava Adam come fotografo e non come modello. Era il 2009 e per la prima volta aveva distribuito biglietti da visita con il suo nome sopra e l’indirizzo internet di un sito ancora in costruzione.
Era stata anche la prima volta che fotografava Luke. In una stanza buia, con la luce che cadeva dritta sul collo da cigno. In bianco e nero, e i nei in contrasto sulla pelle chiara e il ciuffo davanti a un occhio e il fumo di sigaretta che si alzava davanti al suo viso. Luke Ashley, signori e signore, lo avrebbe urlato se ci fosse stato qualcun altro oltre a loro in quella stanza. Nudo, bello, spigoloso, tenero, animalesco, volgare, dolce. Le mille e più contraddizioni tra i nervi di Ashley, voleva pubblicare un libro così, di sue foto e basta, l’avrebbe fatto.  Ma avrebbe significato tempo e loro non ne avevano e ad Adam andava bene così. Una notte, una foto, i nei, il collo, i capelli, le mani, i tatuaggi, le ossa, i nervi, gli occhi, gli occhi, gli occhi.
Non l’aveva sentito raccogliere le sue cose e sparire attraverso la porta, ma non se n’era sorpreso. Aveva preso il suo libro, quello sui leoni, e l’aveva iniziato. Lo aveva comprato il giorno prima all’Oxfam all’incrocio con Spaniard’s Road. Non l’aveva mai letto.
Era la prima volta.

“Che cazzo di foto è quella, Ces?”
Lei non lo aveva neanche guardato, aveva continuato a bere il suo drink e ad aspettare che la gente iniziasse a entrare. Luke aveva fissato ancora il suo occhio pesto e il sopracciglio spaccato nella foto davanti a sé.
“Sembro un deficiente di merda!”
“Allora sono riuscita nell’intento di cogliere la tua essenza.”
L’aveva visto entrare mentre sbuffava, e si lamentava che in bianco e nero a lui le foto non piacciono. La prima cosa che aveva notato erano state le sue ossa, perché di Adam Ethan non puoi notare altro, se non loro e poi subito dopo gli occhi e ancora le labbra. Grandi. La sproporzione dei suoi lineamenti lo aveva spaventato, perché uno che pesa venti chili bagnato non può avere gli occhi più grandi della mano e la bocca più larga del buco del culo di Castenmiller. Stava sorridendo.
“Luke, ti presento Adam Ethan.”
Non era la prima volta che lo vedeva. C’era stata quella fashion week l’anno prima in cui l’aveva solo visto passare davanti a Galleria Napoleone a Milano e aveva gli occhiali neri sul naso e la bocca coperta da una sciarpa che quasi ora gli sembrava un’altra persona. Ma c’erano troppe ossa nell’equazione perché non fosse lui.
Stava ancora sorridendo quando gli aveva chiesto di bere qualcosa con lui, all’ennesimo biglietto da visita che Adam aveva dato a un vecchio pedofilo che lo guardava arrapato. Aveva sorriso e gli aveva detto ok, andiamo, casa mia è qua vicino. Non lo era, ma ad Luke quella sera andava di camminare, e anche ad Adam, e di parlare, perché a lui i cieli stellati fanno sempre venire voglia di dire qualcosa, qualcosa di bello, non cazzate, ma Hampstead non sembra quasi Londra, e le luci sono spente e le stelle si vedono.
Ci aveva messo più tempo del previsto a spogliarlo, perché non riusciva a non toccare ogni osso che scopriva e pungersi le dita e le labbra. Poi qualcosa gli aveva punto nello stomaco, quando Adam lo aveva toccato per la prima volta, con le dita lunghe e ossute e gli facevano paura anche loro, come i suoi occhi e le sue labbra e tutto di lui sembrava mangiarlo, ma quello a sentirsi pieno era Luke.
Poi era uscito dalla porta senza neanche svegliarlo. Aveva guardato la foto che gli aveva scattato la sera prima ed era tornato a casa. Il computer era rimasto acceso su un sito in costruzione, un sito ancora vuoto.
Adam quando aveva aperto gli occhi non l’aveva trovato, ma il biglietto sul cuscino diceva di usare la sua foto come prima del sito.
Luke non l’aveva più vista.

Masamoto era stata a luglio dello stesso anno, e avevano dormito in un parco tutta la notte, mezzi nudi. Luke aveva ancora le narici sporche di bianco, ma Adam gli aveva baciato la punta del naso e avevano scopato ai piedi di una quercia. Il mese dopo Luke avrebbe compiuto diciott’anni e a lui sembrava ancora di giocare con un bambino ubriaco, sull’erba, a ridere come coglioni.
Poi c’era stata Parigi, Tokio e casa di Adam a New York, fatta di vetro e foto in bianco e nero alle pareti e nessuna traccia della sua, i mobili scuri, il divano di pelle, la collezione di film. Casa di Adam, il suo letto, i suoi occhi riflessi su ogni finestra, una matrioska visiva che a lui spaventava e c’era stato dell’alcol, quella sera, e Luke lo aveva visto ubriaco per la prima volta, che si grattava il naso e le sue labbra si allargavano a dismisura a ogni risata, acuta, alta, alta, e a lui quasi faceva male la testa, se Adam non fosse stato così bello, cazzo.
Parlava di più, da ubriaco. Adam parlava poco, e poi all’improvviso bastava un bicchiere, due, tre birre e vomitava sillabe zoppicanti e racconti di cui rideva da solo, mentre Luke lo guardava a occhi socchiusi, mezzo nudo, con qualche graffio tra i tatuaggi. Gli sfiorava le clavicole e Adam rideva, si pungeva delle sue ossa, e Adam rideva, mordeva via quelle risate e Adam rideva ancora e poi parlava, e raccontava di sua madre, delle sue improbabili mescolanze genetiche, della nonna che aveva gli occhi grandi quanto i suoi, quei cazzo di occhi, e Luke pensava che non sarebbe mai potuto andare a conoscere la famiglia di Adam, perché due James e due sguardi così, Luke non li avrebbe retti. Sarebbe crollato, forse avrebbe pianto, avrebbe gridato, avrebbe detto che voleva mollare tutto, che non voleva neanche farlo, lui, il modello, che voleva vivere a Camden e fumarsi tre canne al giorno con un coinquilino preciso come Adam che l’avrebbe fatto impazzire. E poi l’avrebbe scopato.
Ma Luke non voleva davvero crollare e allora a East Hills, Michigan, non era mai andato, neanche per vedere un concerto dei Red Hot Chili Peppers fumando hashish nel backstage, mentre Adam imprimeva sulla sua pellicola chiunque pesasse meno di cinquanta chili e avesse gli occhi tristi. Si chiedeva se pure lui sembrava così depresso, e non trovava altre risposte considerando l’ossessione che Adam aveva per scattargli foto nei momenti di pausa tra una scopata e l’altra, come se preferisse addirittura quello al sesso.
E forse era vero, perché Adam non era mai stato uno da fottere nei cessi dei night club londinesi, ma uno con cui svegliarsi la domenica mattina con il profumo di pancakes nell’aria e un libro sul comodino. Magari uno sul punk, magari uno su deplorevoli esseri umani che vivono su barconi della Liffey, perché lui di leggere del fottuto leone della savana non ha proprio fantasia.
Ma lo spogliava come se girasse pagine, con la voracità di chi vuole sapere come va a finire un libro, ma senza che finisca. Lo spogliava prima rude, poi veloce, poi dolce e a volte sembrava quasi devoto, e tornava rude, e una volta, a Tokio, Adam gli aveva detto che Grand Rapids, Michigan, non è un buco di culo nel nulla del Kent, ma era una città e c’era un fiume e sua nonna e i suoi occhi grandi, la sua bocca larga e le stelle, così mi parli sotto le stelle.
Luke aveva detto no e poi era rimasto in silenzio fino al suo aereo. Adam non aveva insistito, lo aveva solo guardato con gli occhi che sembravano le fottute paludi e baciato prima che uscisse di casa.
Poi era nata April.

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Capitolo 2
*** Parte due ***


A chi ha tolto colore
alle mie foto,
dandolo a tutto il resto.
Alla faccia di chi dice
che Londra è grigia.
A chi vive nel disagio
e non sa neanche dove girarsi,
ma poi lo fa
e si trova le spalle coperte.

 

a

Ad amanda,
e il nostro primo anno.
Ai bambini tutti.
Che questo sia meglio
di limone e zenzero.

Parte 2

Hanno detto che era programmata. Che Maille voleva un bambino prima dei venticinque anni e poi forse un altro prima dei trenta, o dei trentacinque, non lo sapeva, ma aveva sempre desiderato essere madre.
Adam sapeva che non era vero.
Luke era volato da lui a New York ed Adam l’aveva trovato sulla porta di casa sua accucciato contro il muro e le pupille ridotte a due spilli dalla droga e aveva pensato che fosse morto qualcuno. Aveva scoperto solo il giorno dopo che Maille voleva abortire e Luke non si sentiva pronto a essere padre, ma voleva esserlo. Adam si era morso l’interno della guancia e aveva ascoltato. Rispetta la sua decisione, diceva, ma Luke urlava e finivano per litigare e alla fine Adam per poco non aveva pianto davanti a lui. Ma si era trattenuto finché Luke non era ripartito, il giorno seguente, ed era tornato a Croydon, in quella villa dove Adam sperava di andare a vivere con lui, in cui ora stava Maille che aveva cambiato idea e avrebbe partorito in primavera, la stagione preferita di Luke.
Se la immaginava con il pancione e i tatuaggi sformati dalla gravidanza e pensava che forse i suoi lineamenti si sarebbero addolciti e magari sarebbe stata anche una buona madre e Luke avrebbe amato quel bambino più di ogni altra cosa nel mondo, anche più di quanto avrebbe mai potuto amare lui. Ed era stato geloso, e poi orgoglioso, e poi arrabbiato, e aveva capito di averlo perso e niente più stelle da guardare in giardino o foto da scattare sul letto.
Che Luke sarebbe cresciuto senza di lui e lui sarebbe dovuto restare un po’ bambino lontano da Luke e non era possibile, pensava, perché lui bambino non lo era mai stato. Aveva smesso di ridere e le clavicole avevano perso spessore e gli occhi sembravano più grandi, e sembrava si cibasse solo di quello che loro vedevano. Solo le foto che scattavano avevano preso colore.
Ma a lui non piacevano più e l’anno dopo, a Londra per la fashion week, non ci era voluto tornare. Aveva aperto una galleria, aveva cominciato a esporre. I vecchi amici modelli lo avevano aiutato, chi posando per lui, chi pubblicizzando i suoi eventi e le esibizioni. Al centro di Manhattan, tra i grattacieli di acciaio, davanti al via vai impazzito di persone dell’ora di punta, la galleria campava di sovvenzioni statali e dei primi riconoscimenti. Qualche foto pubblicata su qualche giornale, qualche evento importante.
Adam sembrava aver riacquisito serenità, proprio lì, dove era impossibile anche solo scorgerle, le stelle. Aveva smesso di pensare ad Luke, se lo era imposto. Aveva sbirciato le foto di April, una volta, su internet, ma poi aveva chiuso tutto, incazzato, e aveva fatto di lui e di quella meravigliosa bambina un tabù.
Ad agosto, però, era stato Luke a tornare.

“Ma insomma, la mia cazzo di foto dov’è?”
Lo aveva visto da fuori, magro, troppo magro, forse più magro di prima. Gli occhi enormi, le clavicole sporgenti sotto la maglietta, le braccia ciondolanti e la macchina fotografica in mano. Quel fottuto anoressico, aveva pensato ed era entrato.
Adam aveva sgranato gli occhi – enormi, inquietanti, vitrei – ed era rimasto fermo. Ma non guardava lui, guardava April e forse non era stata una grande idea portarla da Adam, aveva pensato in quel momento, ma voleva che si conoscessero. Lo voleva davvero.
Sua figlia aveva biascicato qualcosa di incomprensibile, probabilmente un abbozzo di bestemmia, e Luke aveva pensato che avesse paura di lui; poi però aveva sorriso e si era sporta verso di lui per toccare quelle labbra giganti.
“Quale foto?”
Lo aveva quasi sputato, mentre toccava la mano di April. Faceva il vago come sempre, Adam cazzo di James, ma Luke sapeva che poi piangeva quando non c’era, ma davanti a lui non si era fatto vedere preoccupato neanche una volta. Lo guardava sempre con gli occhi sbarrati e liquidi e Luke ogni volta glieli avrebbe strappati, quegli occhi, e ci avrebbe giocato a bocce in giardino, ma poi il suo piglio da stronzo cadeva sempre.
“Ciao April…”
Aveva sentito gli occhi bruciare un po’, quando aveva pronunciato il nome di sua figlia, perché significava che non aveva dimenticato chi fossero. Che da qualche parte nella vita di Adam, c’era stato spazio per entrambi.
Era uscito poco dopo dalla galleria e non sapeva se lo avrebbe rivisto. Poi il giorno seguente era tornato da solo e quello dopo ancora di nuovo con April.
Non parlavano di Maille, non parlavano di loro, passavano solo del tempo insieme. A volte Luke neanche parlava, perché a New York le stelle non si vedono, e lui avrebbe voluto prendere Adam e portarlo a Heast Hills, conoscere sua nonna, piangere davanti a quegli occhi, perché lui non era pronto a Maille e a April e a smetterla con le cazzate, perché lui viveva di quelle e delle ossa di Adam che pungevano ovunque e le sue costole dure contro la pancia quando facevano sesso.
Alla fine era tornato a Londra ed Adam era rimasto lì, e non era riuscito neanche a dirgli che – cazzo ­– gli mancava da morire.

Nella sua casa di Hampstead, Adam era tornato poche settimane dopo. Aveva bisogno dell’aria umida di Londra e delle papere fuori dal giardino di casa, del charity shop all’angolo che da anni aveva in vetrina la stessa maglietta dei Doncaster Rovers, delle foto in bianco e nero appese alle pareti e la cassetta delle lettere giallo canarino. Aveva bisogno di Luke.
Lo aveva chiamato subito, appena atterrato, e lui si era fatto trovare sul vialetto, April nel passeggino e una busta piena di vestiti.
Avevano guardato le stelle e parlato di Maille e di April e del fatto che le cose non andavano bene, che Maille voleva la custodia della bambina e che forse era ora di smetterla di fare il cazzone e provarci veramente. Luke non voleva provarci più, voleva prendere sua figlia e vivere davanti al laghetto con le papere, andiamo, Adam, io, te, April e comprare il cazzo di pane a tre sterline solo per dar da mangiare a quei pennuti di merda, anzi meglio andiamo a vivere a Dalston o Bethnal Green, lì si che si vive bene, tra la gente vera. Adam voleva, voleva davvero, anche comprare un lettino e metterlo negli spazi risicati di un monolocale che puzza di curry e gli omogenizzati e i pannolini e fare piano durante il sesso per non svegliare April. A lui andava bene pure raccogliere il vomito di Luke una sera sì e l’altra pure, fotografarli la mattina insieme nel lettone, dormire scomodi, i cartoni animati e le litigate furiose tra le mura colorate di verde acido da Luke.
Erano rimasti lì due settimane, prima che Maille tornasse dalla sua vacanza. Aveva guardato Luke uscire di casa e aveva pianto, alla fine. Davanti a lui, per la prima volta e lo aveva inseguito, baciandolo lì, davanti alla cassetta giallo canarino, con April tra di loro che si aggrappava alla sua maglietta e aveva pensato che neanche lei volesse andarsene. Che erano giusti lì, loro tre, ma che avevano sbagliato qualcosa durante il tragitto, forse tra una stella e l’altra, mentre parlavano di ogni cosa, ma non di loro due, si erano persi la strada verso l’isola che non c’è.

Maille puzzava sempre di stucchevole Chanel n. 5 e shampoo al cocco. Anche quando era nuda, dopo la doccia o dopo il sesso, non c’era nessuna traccia di sudore o assenza di profumi artificiali. Puzzava di poveraccia arricchita ogni secondo del giorno e Luke combatteva ogni fottuto momento contro la sua voglia di cospargere di odori nauseabondi anche loro figlia.
Una volta era uscito di casa senza dirle niente ed era tornato ubriaco a notte fonda, vomitando sul divano di pelle. Un’altra volta non era rientrato fino a mattina, quando aveva portato April a scuola e poi era sparito per ore. Maille non sapeva dove fosse e si incazzava e Luke si incazzava e April piangeva.
Aveva cominciato a bere di più e a risvegliarsi le domeniche mattina sul vialetto di casa di Adam, senza dirgli niente, mezzo nudo sotto la cassetta delle lettere giallo canarino. Nessun buongiorno, nessun saluto, si alzava e recuperava qualche vestito che se era fortunato si era trascinato fino a lì, poi tornava a casa.
A volte neanche si incrociavano e Adam aveva smesso di mandarlo a fanculo, dopo un po’, lo osservava solo con un caffè in mano, un vinile nel giradischi, e la voglia di ridere fino a sentirsi male, se non gli fosse che gli mancava così tanto da pungersi sempre con le proprie lacrime.
Alla fine una volta l’aveva fatto entrare, perché la vicina aveva veramente chiamato la polizia. Gli aveva posato una coperta sul culo e lo aveva preso a calci finché non si era svegliato, bestemmiando. Poi si era zittito di colpo vedendolo e lo aveva seguito in casa. Aveva occupato il divano per ore senza dormire né parlare, guardando sopra il camino le foto di lui e Maille, il bianco che rincorre il nero tra le ombre delle sue clavicole e negli spazi tra i suoi tatuaggi. Dopo qualche ora si era alzato ed era uscito senza dire niente, senza ringraziare, senza salutare. Completamente nudo.
Alla fine Adam aveva deciso di ridere a vederlo così. E un po’ quel fastidio pruriginoso tra gli occhi era passato. Aveva comprato una birra, delle uova e il caffè italiano. La domenica mattina successiva aveva versato tutto nel frullatore e lo aveva lasciato sul tavolo della cucina, così, quando era andato a dargli un calcio sullo stinco, Luke aveva ripreso colorito.
Hanno detto che c'è un uomo sdraiato sul vialetto. Lo hanno detto una volta, poi due, tre, che quello è un quartiere rispettabile; che non vogliono drogati davanti alla cassetta delle lettere giallo canarino, che i loro bambini non devono vedere il pene tatuato di quella mangusta sformata dalla testa ai piedi. Adam ha riso a lungo, perché in quel quartiere nessuno dice mai una parolaccia e pene è ciò che di più trasgressivo abbia mai sentito; nessuna lite a notte fonda, nessun pianto, nessuna puzza di vomito e alcol ed erba.
Forse ha ragione Luke, dovrebbero prendere una casa nell’East London e svegliarsi con l’odore di cibo indiano e addormentarsi con la musica per la preghiera; alzarsi la domenica mattina in un letto che puzza di coriandolo e cannella, April nella stanza accanto che gioca con i lego, Maille che chiama per assicurarsi che non abbiano dato fuoco alla casa e la bambina stia bene. Magari non in quest’ordine, magari dimenticandosi che Maille esista, ogni tanto, perché April sta bene anche solo con loro a disegnare sui muri e sulla moquet, per ridare colore a tutto quanto, e toglierne un po’ alle sue foto.
Anche oggi ad Adam hanno detto che c’è un uomo nudo sul vialetto di casa. Che deve farlo entrare
Adesso la signora Rundle lo chiama anche per nome: c’è Luke, e nella sua voce Adam la sente quella nota di tenerezza. Vienilo a prendere che tra un po’ passa il camion della spazzatura. Non se lo spiega come a un certo punto tutti provino affetto per quella testa di cazzo oblunga. Più volte ha pensato che semplicemente, quando la gente ci parla cinque minuti, lo pensa ritardato, e non è bene parlar male degli ritardato. O forse è solo che a un certo punto della propria vita tutti amano Luke Stymest.
Lui, per esempio, a volte lo ama ancora.

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