Rainbow

di ilovebooks3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cloudless blue sky ***
Capitolo 2: *** Green is the colour of hope ***
Capitolo 3: *** Golden ring ***
Capitolo 4: *** White as a paper frog ***
Capitolo 5: *** An empty brown couch ***
Capitolo 6: *** Pink roses in the garden ***
Capitolo 7: *** Red bikes and red passion ***
Capitolo 8: *** Sunshine in a grey morning ***
Capitolo 9: *** Green dollars ***
Capitolo 10: *** Silver star on top of the tree ***



Capitolo 1
*** Cloudless blue sky ***


CLOUDLESS BLUE SKY
 
E’ bello guardarsi da una distanza di pochi millimetri.
Jane osserva le incantevoli lentiggini che punteggiano il naso che sta sfiorando il suo. Ora le può finalmente contare, una ad una. E’ un’attività interessante.
Lisbon è assorta nella contemplazione di due iridi incredibilmente blu. Sembrano due pezzi di cielo, l’ha sempre pensato. Ora, però, in essi non c’è più alcuna traccia di nuvole.
Teresa non li ha mai visti così serenamente limpidi.
Forse perché lei e il proprietario di quel paio di occhi non sono mai stati così vicini come adesso.
O forse perché, finalmente, la tempesta è finita.
Le loro mani, ognuna sul viso dell’altro, quasi si toccano.
Le loro bocche sono ancora troppo vicine per non provare l’impellente desiderio di ricominciare a baciarsi.
Ma forse non è il caso. Dopotutto si trovano in una sala interrogatori del dipartimento della TSA di Islamorada. E l’agente dietro al vetro ha già dato alcuni segni di nervosismo.
Lisbon non riesce a smettere di sorridere: quello che ha desiderato per anni senza nemmeno accorgersene è appena accaduto, liberandola del gravoso fardello di un amore negato e nascosto anche a se stessa. Ha tutto il diritto di godersi appieno il momento, abbandonandosi, per una volta, soltanto alle sue sensazioni.
Eppure è la prima a rompere il silenzio, curiosa di ciò che dirà il suo mentalista preferito.
E’ consapevole che sarà qualcosa di irritante, ma è disposta a correre il rischio, pur di sentire la sua voce.
In cuor suo ammette di essere completamente rintronata. Sempre per colpa di una persona sola.
«Che ne hai fatto di Jane? Quello col gilé che non amava i contatti umani?», gli chiede alzando le sopracciglia, con una punta di dolce sarcasmo.
Il consulente, finora stranamente serio, viene subito contagiato e sorride di rimando.
«Se vuoi gli dico di farti una visita». Con le dita accarezza i capelli di lei, spostando una ciocca dietro al suo orecchio.
Poi riporta la mano nel comodo posto precedente, ovvero il viso della sua Lisbon.
«No, no, preferisco il folle con la camicia a fiori e la caviglia slogata», ribatte l’agente, sorridendo maliziosamente.
«In realtà lo so che avevi un debole anche per l’altro tizio».
«Devo ammettere di sì. Qualche volta. Quando non era troppo irritante».
A malincuore Jane sposta la sua mano desta dalla pelle morbida di Teresa alla superficie fredda del tavolo. «Oh, Lisbon, ammettilo: è in quei momenti che ti piaccio di più», ammicca, allontanandosi di qualche centimetro e facendole ironicamente l’occhiolino.
«Idiota».
Jane, per nulla turbato da quell’insulto che, detto da lei, gli è sempre sembrato perfino tenero, le si avvicina di nuovo pericolosamente, sfiorandole le labbra in un bacio veloce, ma passionale.
Si stacca troppo presto, però, lasciando una Teresa interdetta e sorpresa; la povera agente federale non ha nemmeno idea di dove mettere la sua mano destra che, fino a qualche secondo prima, era teneramente poggiata sulla guancia di quel mascalzone.
Incredibile: la donna non sapeva che i baci di Patrick Jane fossero una droga così potente.
«Appunto». Ecco il sorrido beffardo alla Jane.
«Appunto cosa?». Lisbon sa che dovrebbe non chiedere nulla per non dargli questa soddisfazione, ma, suo malgrado, è curiosa. Anche se è consapevole che, con la sua domanda, sta per cacciarsi nei guai.
«Mi sembra di intuire che non ti dispiaccio neanche quando faccio l’idiota».
Dopotutto gli è sempre piaciuto metterla in imbarazzo. Quale momento migliore, o peggiore, di questo per farlo?
Teresa arrossisce, come una bimba colta con le mani nella marmellata.
«Ma non ti montare la testa», gli intima frettolosamente, lanciandogli uno sguardo che vorrebbe essere minaccioso, senza esserlo neanche un po’.
«Oh oh, dunque avevo ragione. Grazie Lisbon per averlo ammesso così facilmente».
La donna arrossisce ancor di più. «Io non ho ammesso nulla», tenta di discolparsi, anche se sa già che è tutto inutile.
«Oh, non ne sarei tanto sicuro, dovresti vedere la tua espressione. Pupille dilatate, espressione delusa, bocca socchiusa e labbra protese. Bacio troppo breve, forse?», insinua Patrick. La prende bonariamente in giro perché è la cosa che sa fare meglio, ma, in cuor suo, è lusingato da tale reazione.
«Finiscila, altrimenti…», minaccia la manesca agente, guardandosi intorno per cercare qualche oggetto contundente. Colpire il suo irritante consulente, dopotutto, è sempre stato il suo passatempo preferito.
«Altrimenti cosa?», la provoca il mentalista, fissandola intensamente.
«Altrimenti ti tiro un pugno sul naso». Visto che intorno non ci sono martelli né oggetti di cancelleria adatti allo scopo, la mano nuda andrà benissimo.
«Su questo mio bel faccino?», chiede Jane, sfoderando il suo irresistibile sguardo da cucciolo.
«Certo», risponde Lisbon, senza riflettere sulle conseguenze di questa parola.
Conseguenze che non sfuggono al suo furbo interlocutore. «Quindi ammetti che ho un bel faccino». La sua non è una domanda, ma una constatazione.
«Non ho detto questo». Nella voce di Teresa è ben udibile una sfumatura di irritazione, che, aumenta in modo direttamente proporzionale al colorito rossastro delle sue guance.
«Lo sapevo. Sono irresistibile», dice Jane con tono vittorioso. Stuzzicare Lisbon è sempre stato il suo passatempo preferito.
In realtà, l’egocentrico biondo, osservandola mentre arrossisce e lancia lampi verdi con gli occhi, non può fare a meno di pensare che quella irresistibile sia lei.
«Jane!», sbuffa la rassegnata poliziotta, come è solita fare negli ultimi dodici anni.
«Teresa, puoi chiamarmi Patrick ora», azzarda il mentalista. Alla peggio ci rimetterà il naso.
«Eh no, te lo devi meritare. Per ora rimani Jane», dichiara lei, mettendo su uno dei suoi adorabili bronci.
«Cercherò di meritarmelo». C’è della sincerità nella sua voce. Anche Lisbon la coglie, ma decide di far finta di niente. Stuzzicarlo è eccitante quasi come baciarlo.
«Bugiardo, so già che farai di tutto per farmi arrabbiare».
«Non puoi sapere quello che farò».
«Sì invece».
«Sei diventata improvvisamente una mentalista?»
«Può darsi».
«Dai, forza Lisbon. Cosa sto pensando in questo momento?», la sfida.
E va bene. Se lui ha voglia di giocare, Teresa non si tirerà certo indietro. Riflette per qualche secondo, con aria accigliata. «Stai pensando…che vorresti un comodo divano», esclama poi con tono di trionfo.
«Sì, anche. Su un divano si possono fare molte cose», mormora il consulente più irritante del mondo con un sorriso malizioso. L’ironia è solo un modo alternativo di dire la verità, Jane l’ha sempre pensato.
Teresa arrossisce, senza neanche sapere perché.
«E poi a cos’altro sto pensando?», la esorta a continuare.
«A quanto vorresti una tazza di tè».
«Risposta sbagliata».
«Impossibile. Tu vuoi sempre un tè».
«Il tè è come un abbraccio in una tazza, ricordi? Ora, però, non mi servono tazze perché ho te da abbracciare. E stavo giusto pensando a questo», spiega Jane con semplicità.
Nessun trucchetto. Patrick si stupisce di se stesso e della sua acquisita capacità di esprimere le sue emozioni. Capacità che, evidentemente, presuppone l’esclusiva presenza di Lisbon.
Teresa non sa cosa dire. Nel dubbio, arrossisce. Più arrossisce e più non sa cosa dire. E viceversa.
«Ti ho stupita, vero Lisbon? Pensa a quanto ti saresti annoiata a Washington senza di me». Eccolo il vecchio Jane. Non sia mai che Teresa ne senta la mancanza.
«Sicuramente con te la noia non mi preoccupa», mormora lei con un tono sarcastico e amaro insieme. Che non sfugge a Jane, insieme a un sospiro preoccupato e a un piccolo tremito delle sua dita.
«E allora cosa ti preoccupa?», chiede. E’ serio, stavolta, e la fissa intensamente. Non vuole che nulla turbi la sua Teresa.
Lisbon abbassa lo sguardo, lo posa brevemente sulla mano sinistra di Jane, quella con la fede, poi lo rituffa nei suoi occhi blu. «Jane, forse non è il momento, ma promettimi che non vorrai mai più nasconderti da me. Che tutto quello che ti farà soffrire me lo dirai e lo affronteremo insieme. Che ti sentirai libero di parlarmi di loro. Dimmi che ti fiderai sempre di me. Ne ho bisogno». La sua voce esprime sicurezza, ma una lacrima traditrice fa capolino dal suo occhio destro.
«Oh». Patrick è sorpreso, ma, effettivamente, non ha motivo per esserlo. Questa donnina meravigliosa non smetterà mai di preoccuparsi per lui.
Dio solo, se esiste, sa cosa abbia fatto lui per meritarsela; ma, probabilmente, anche Dio ignora un mistero del genere.
Teresa ha appena messo in chiaro che non vuole sostituire nessuno. Che affronterà con lui il suo passato, tutte le volte che ce ne sarà bisogno. Ammesso che lui glielo lasci fare.
E lui, stavolta, ne ha tutta l’intenzione. «Lo sai che mi fido di te», la rassicura.
Nonostante le abbia sempre detto il 30% delle cose, si fida di Lisbon tanto quanto si fida della propria intelligenza, se non di più.
«Promettimelo». La donna ha bisogno di sentirglielo dire.
«Te lo prometto». La voce di Jane è ferma e calda. Sincera.
«Grazie».
«Ma sono sicuro che non me la passerò poi così male», dichiara Patrick, ammiccando e scrollando ironicamente le spalle. Poi torna serio e la guarda intensamente negli occhi. «Non hai idea di quello che significhi per me, Teresa».
Lisbon sorride e si fruga nelle tasche dei pantaloni. «Non mi hai rubato niente, stavolta».
«No. Sto perdendo il mio smalto».
«Non hai nemmeno intenzione di spararmi, vero?»
«Direi di no. Mi hanno perquisito, non ho un’arma», la tranquillizza lui, strabuzzando gli occhi.
«Quindi devo presumere che questo non sia uno dei soliti tuoi trucchetti?», lo stuzzica Lisbon.
«Sai che è la verità. Sai che anche le altre volte lo era». La voce gli trema, per una frazione di secondo.
«Sì. Lo so».
Silenzio. Uno di quei silenzi che valgono più di mille parole.
E’ Jane il primo a romperlo. «Anche tu devi promettermi una cosa».
«Spara. Metaforicamente, parlando».
«Che starai attenta», prosegue lui, ignorando la battuta. Segno che sta per fare un discorso molto serio.
«A cosa?», domanda Teresa, sorpresa. Si aspettava un altro genere di promesse. Qualcosa che riguardasse chiavi della macchina o pugni sul naso.
Ma lo sguardo di Jane si è rabbuiato. Ecco che in quel cielo ricompare qualche nuvola. Segno che qualcosa lo preoccupa sul serio. «Attenta a tutto. Alle sparatorie, agli assassini, agli incidenti. Attenta».
«Jane, sono un poliziotto», gli ricorda, con una nota di rimprovero nella voce.
«Appunto».
«Appunto cosa?»
«Appunto, ovvero per te i pericoli sono moltiplicati per 100. E non potrei sopportare che accada qualcosa. Di nuovo». Il mentalista abbassa lo sguardo per non farle scorgere il terrore folle e irrazionale che lo sta divorando. Non gli piace mostrarsi così debole, neanche a se stesso.
Ma lei l’ha già visto. Sta diventando brava a leggere le persone. O, semplicemente, a leggere il suo adorabile, complicato, affascinante e irritante Jane.
«Sono “armata fino ai denti”, ricordi?», risponde citando una frase che lui aveva detto molti anni fa.
«Non mi basta». Patrick mette in conto qualche altra battuta acidamente femminista, della serie “ho una pistola e so badare a me stessa”. Ama anche quella sua scorza da dura.
Ma, stavolta, Teresa non si arrabbia. Lo sguardo le si addolcisce. E’ commossa, ma non vuole darlo a vedere. Anche se sa che ogni sua espressione sta passando al microscopio.
Il farabutto tiene davvero a lei, ma questo Lisbon l’aveva già capito. Ora che ha permesso a qualcuno di avvicinarsi a lui, è terrorizzato dall’eventualità che possa accadere qualcosa di brutto. E’ comprensibile. Perché le persone che ama muoiono, come aveva ripetuto mille volte.
Sciocchezze. Non c’è più nulla di cui avere paura, ormai.
E poi lei è un poliziotto.
Eppure stavolta, ma solo per stavolta, dirà quello che Jane ha bisogno di sentirsi dire. «Non mi accadrà niente. Starò attenta, te lo prometto».
«Grazie», mormora lui a voce bassa, sincero. Poi i suoi occhi brillano di malizia. «Ora tocca a te. Dimmelo».
«Dire che cosa?». I cambi repentini di umore di Jane hanno sempre il potere di destabilizzarla.
«Lo sai», le suggerisce con aria furbetta.
«No, non direi». Voce stridula. Se Jane si sta riferendo a…beh, non gli darà certo quella soddisfazione. E’ già stata fin troppo sdolcinata e romantica, per oggi.
«Avanti Lisbon, non fare la finta tonta». Ecco il suo sorriso da mascalzone: non è buon segno.
«Ehm…Sentiamo, cosa dovrei dirti? Ah sì ecco, sei stato un idiota a farti male alla caviglia», butta lì, per sviare il discorso.
«E’ per quello che mi hai baciato?»
«Veramente mi hai baciato tu. Due volte». Lisbon ama mettere le cose in chiaro.
«Ma non mi è sembrato che ti dispiacesse. Tutte e due le volte», Patrick, fingendo stupore. Anche lui ama mettere le cose in chiaro.
«Impertinente».
«Dimmelo. Non la caviglia. L’altra cosa».
«Mi sembra di avertela già detta», mormora una Teresa ormai rossa come un peperone.
«Ah sì? E quando?»
«Prima».
«Di cosa?»
«Oh, insomma. Prima». Prima del bacio più sorprendente della sua vita, è ovvio. Ma non lo ammeterebbe neanche sotto tortura. E spera con tutto il cuore che Jane non riesca davvero a leggerle la mente. Altrimenti la prenderebbe in giro a vita.
«Ti sbagli. Non l’hai detto».
«Sì invece».
«Hai usato una perifrasi, ma non le parole esatte».
«Vale uguale».
Entrambi sorridono al ricordo di una frecciatina che aveva tirato Lisbon a Jane molto tempo prima. Vale uguale, aveva detto lei a proposito di un bacio sulla guancia. Che Jane non aveva dato a lei, ovviamente. Che già fosse gelosia, la sua? Sembra ieri, eppure è passato un secolo.
L’agente Ross fa segno da dietro il vetro che il tempo a disposizione per la visita è terminato. Lisbon vorrebbe urlargli che anche lei è un poliziotto, anzi, a parte il fatto che deve ancora abituarsi lei stessa all’idea, è nientepopodimeno che un agente federale, e, in quanto tale, avrebbe tutto il diritto di rimanere ancora; ma decide di lasciar perdere e di approfittarne per togliersi dall’imbarazzante situazione in cui Jane, come sempre, l’ha messa. «Ora, devo proprio andare, altrimenti quel tizio butterà giù il vetro». Accenna ad alzarsi, ma il braccio di Jane la blocca.
«No, Teresa, non andare». Nella sua voce è riconoscibile una punta di panico. Non è da lui e Lisbon sorride, stupita.
«Non credere di sbarazzarti di me. Quando uscirai mi troverai ad aspettarti. Non vado da nessuna parte», lo rassicura. Lei ci sarà, come sempre, del resto.
«Neanch’io», mormora Jane.
«Beh, ovvio, ti hanno arrestato», ironizza la poliziotta.
«Intendo dire che non me ne andrò mai più, Teresa».
Voce profonda più contatto visivo uguale sincerità. Questo assioma Teresa l’ha imparato, ormai. «Oh. Bene». Gli sfiora per un attimo il braccio, in una lieve e impacciata carezza, poi si alza, dirigendosi verso la porta. Un familiare e mozzafiato sguardo azzurro non la abbandona.
Arrivata sulla soglia si gira verso di lui e gli sorride. Un sorriso luminoso, privo di sarcasmo e autodifese.
«Ah, comunque, per la cronaca, ti amo Patrick».



**********



Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Spero che la prima one-shot vi piaccia. Aggiornerò tra circa una decina di giorni. Se vi va, aspetto le vostre graditissime recensioni! A presto :)

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Capitolo 2
*** Green is the colour of hope ***


GREEN IS THE COLOUR OF HOPE

 
Ormai Teresa ha perso la nozione del tempo. E’ seduta su questa dannatissima sedia in questa dannatissima sala d’attesa da minuti, ore o giorni, non saprebbe dirlo.
Ma, d’altronde, è sempre stata un tipo paziente.
Un vocione la risveglia bruscamente dalle sue riflessioni. Riflessioni che hanno come oggetto un paio di occhi blu e un sorriso mozzafiato quanto irritante.
E’ un vocione familiare.
Abbot.
«Lisbon. Non dovresti essere a Washington?» L’agente speciale dell’FBI, non che suo supervisore, è piuttosto sorpreso di vederla lì. Ma, sotto sotto, ci sperava.
«Sì. No. Dennis, dovremmo parlare», azzarda Teresa, mordendosi il labbro inferiore, decisamente imbarazzata.
«Non ce n’è bisogno», dichiara Abbot, con tono deciso.
Finalmente quei due idioti hanno capito quello che lui aveva intuito la prima volta che li aveva incontrati, due anni prima, in situazioni piuttosto critiche. Era ora.
«Penso di sì, invece», chiarisce Lisbon, con un sorriso incerto.
«Lo so. Vuoi riavere il tuo lavoro ad Austin», la anticipa lui, ghignando.
«Come fai a saperlo?», domanda la poliziotta, piuttosto confusa. Possibile che Abbot avesse già indovinato quello che lei stessa aveva finto per anni di non capire?
Evidentemente sì. Che vergogna.
«Intuito», risponde lui, alzando gli occhi al cielo.
Quindi c’è un altro mentalista in circolazione? Magnifico. Già uno bastava e avanzava.
«E la risposta è?»
«Certo, agente Lisbon. Annullerò il tuo trasferimento. Potrai ricominciare a lavorare col tuo fidanzato e impedirgli di fare troppi danni».
«Non è…», tenta di dire lei, per non perdere la sua credibilità da agente federale. Credibilità che sta già vacillando pericolosamente, tingendo il suo viso di una tonalità molto vicina al rosso fuoco.
«Smettila, non ci casca più nessuno stavolta», la interrompe l’uomo, stufo di inutili bugie e giustificazioni da bambini dell’asilo.
Teresa abbassa gli occhi. La sua credibilità è definitivamente distrutta. «Ok».
«D’altronde nessuna regola vieta relazioni tra un’agente dell’FBI e un consulente. Forse perché nessuna regola prevede la presenza di un consulente, tanto meno quella di Jane», spiega Abbot. «A proposito, andrò a cercare di tirarlo fuori dai guai», sospira, rassegnato.
«Grazie». Teresa, all’inizio, non sopportava quell’omaccione dai modi burberi che si atteggiava da super poliziotto. Non pensava che sarebbe mai riuscita a perdonargli il fatto di aver smantellato in quattro e quattr’otto il CBI, il “suo” adorato CBI.
Eppure, ormai l’ha capito da un po’, Dennis Abbot è un bravo agente, uno di quelli con cui è un piacere lavorare; in quel marasma di gente corrotta tra cui spiccava addirittura  il direttore Bertram, aveva fatto semplicemente il suo lavoro.
E poi, bisogna riconoscere, è lui che le ha riportato Jane dopo due anni di lontananza, o che ha riportato lei da lui, o forse entrambe le cose. Ha offerto a entrambi una seconda possibilità, come soltanto un amico, o qualcosa di simile, avrebbe fatto.
«Vedi di non farti rovinare la carriera da quel bugiardo piantagrane».
«Ci proverò», promette l’agente speciale Teresa Lisbon.
E’ vero, la sua carriera è sempre stata piuttosto a rischio da quando Jane ha fatto capolino nella sua vita, rendendola, anche se è dura ammetterlo, improvvisamente più piacevole; Lisbon ama incondizionatamente il suo lavoro, ma, in questi anni, ha imparato a non darlo mai per scontato, soprattutto se ci sono di mezzo le querele che si guadagna Jane con i suoi giochetti, e che, per la proprietà transitiva, colpiscono inevitabilmente anche lei.
Perché l’agente Lisbon è sempre disposta a coprire le malefatte del consulente più combina guai degli Stati Uniti d’America; e Abbot ne è fin troppo consapevole. E’ il suo punto debole, o, forse, il suo punto di forza, dipende dai punti di vista.
Lisbon sa che Jane non smetterebbe di essere la sua spina nel fianco neanche cascasse il mondo (in quel caso, probabilmente, sarebbe ancora più fastidioso), e la cosa non le dispiace neanche troppo. Nei due anni di lontananza i suoi metodi strampalati le sono mancati non poco, ma sarebbe più corretto dire che le è mancato tutto di lui.
E comunque sono quasi divertenti i suoi giochetti, a volte, e ammesso che la situazione non gli sfugga di mano. Cosa che accade piuttosto spesso, in effetti.
Ma questo evita di dirlo al suo supervisore.
Mentre sta per bussare alla porta dell’ufficio del capo della TSA, Abbot si gira ancora una volta verso di lei, abbandonando, per un secondo, la sua maschera di severità e sostituendola, sempre per un secondo, con un sorriso di approvazione. «Ah, Teresa? Hai fatto la scelta giusta». 


************


«Vedo che hai smesso di ignorare le cose che ti infastidiscono», constata Abbot.
Si trova nella stanza interrogatori, seduto a una scrivania davanti a Jane, che sta sfoggiando una gamba sollevata e un sorriso ironico.
«Ci ho rimesso una caviglia, però», risponde il mentalista, ammiccando verso il suo arto inferiore dolorante.
«Ci hai rimesso una caviglia, hai fermato un aereo di linea, e hai creato un falso allarme terrorismo in un aeroporto americano. Niente male».
«Direi che ne è valsa la pena», dichiara Patrick con una voce sincera che Abbot ha avuto l’onore di sentire poche volte.
«Forse. Ho parlato col capo della TSA. Gli ho detto che sei un valido collaboratore dell’FBI, omettendo tutti i guai in cui ci metti sempre. Faranno cadere tutte le accuse. Sei libero, dovrai solo pagare una multa». Non era stato semplice. Come aveva previsto, la sicurezza aeroportuale è severa con chi combina casini con i propri aerei.
«E’ una fortuna», ribatte Patrick. E’ il suo modo di ringraziare quel surrogato di amico che, volente o nolente, è sempre pronto ad aiutarlo. Non avrebbe ritrovato Teresa se non fosse stato per quell’omaccione che era andato a stanarlo in capo al mondo per riportarlo negli Stati Uniti a calci nel sedere.
«Oggi direi che è proprio la tua giornata fortunata».
«In effetti sì».
«Cerca di non rovinarle la vita o la carriera. E’ una brava persona, onesta e in gamba; e un buon agente», lo avvisa Abbot. Sì, Lisbon è un buon agente, almeno quando non fa tutto quello che vuole Jane. Ma, a modo loro, funzionano e chiudono i casi. E’ per quello che lavorano all’FBI. E a lui va bene così.
«Lo so», acconsente Jane, abbassando lo sguardo.
«E’ migliore di te».
«Lo so».                                                                                                                    
«Sono felice per voi», si arrende Abbot, cambiando tono e sorridendo suo malgrado.
«Lo so. Ti fingi burbero, ma, sotto sotto sei un tenerone», ammicca il consulente, strabuzzando gli occhi e disegnando in aria un cuore con le dita.
Eccolo l’irritante Jane. «Sta’ zitto, altrimenti ti faccio rimanere qua dentro a vita», minaccia il nero, prima di alzarsi e uscire dalla stanza.
Poco prima di vederlo scomparire dietro la porta, Patrick lo richiama, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi manipolatori. «Ah Abbot, la multa la paghi tu, vero?»
 

************


Dopo qualche ora Jane, Lisbon e Abbot si ritrovano, tutti insieme appassionatamente, a bordo di un aereo che li riporterà ad Austin.
I due uomini continuano a discutere riguardo quella famosa multa che pare nessuno dei due abbia intenzione di pagare.
Chissà perché Jane è convinto di spuntarla anche questa volta.
La stanchezza comincia a farsi sentire e Lisbon cede all’impulso di dormire. Solo un attimo, avrebbe chiuso gli occhi solo per un attimo.
Un attimo che, a quanto pare, dura tutto il volo.
A rimetterci, per così dire, è la spalla di Jane, sulla quale la testa della sua cara Lisbon poggia ben poco delicatamente.
In realtà Patrick, incurante dell’intorpidimento, è felice come una Pasqua: a quanto pare anche nel sonno Teresa lo cerca e ha bisogno di lui. Tra l’altro mentre dorme è terribilmente dolce, qualità che, da sveglia, non ama mostrare molto spesso. Avrebbe sostenuto il peso della sua testolina per tutta la vita, se necessario.
Abbot, seduto sulla stessa fila dall’altra parte del corridoio, ogni tanto si gira per osservare la scena. Finge un’aria rassegnata, ma è soddisfatto. Ha tifato per quella coppia fin dall’inizio, anche se non lo ammetterebbe mai.
La voce della hostess che annuncia l’atterraggio sveglia Lisbon. Quando si accorge del suo comodo cuscino, arrossisce. Il suo superiore li ha certamente visti. Motivo per arrossire ancora di più.
«Buongiorno Lisbon? Dormito bene?» chiede Jane con una voce squillante e la vitalità di un elfo. Dove trova tutto questo brio è un mistero.
«Sì, credo…», borbotta Teresa. Quel brillante sorriso che ha davanti forse appartiene al mondo dei sogni. Forse non si è ancora svegliata.
«In effetti, avevi un cuscino niente male…», ammicca l’irritante biondo, strizzandole l’occhio.
Ecco la dura realtà. Altro che mondo dei sogni. «Idiota», lo apostrofa lei.
«Bel ringraziamento», mormora Patrick fingendosi offeso. «So cosa ti stai domandando. E la risposta è sì: Abbot ha visto la romantica scenetta di te addormentata sulla mia spalla».
Wow. Fantastico, pensa ironicamente Lisbon, alzando gli occhi al cielo.
«Sì, è fantastico davvero», commenta il suo mentalista da strapazzo, analizzando le sue reazioni e prevedendo perfettamente i suoi pensieri.
Teresa odia quando le legge la mente. Non le piace affatto essere “traslucente”, come l’aveva definita una volta. Ma è meglio soprassedere. E’ un territorio pericoloso questo, se si ha a che fare con Jane. «Come va la caviglia?», gli chiede per cambiare discorso.
«Caviglia? Quale caviglia? Sto bene. Mai stato meglio».
«Quando dici “mai stato meglio” non è un buon segno», gli ricorda Teresa, rabbrividendo.
Ad esempio l’aveva detto poco prima di inscenare un piano che avrebbe portato alla morte del capo del CBI, all’esaurimento nervoso di un’ottima agente dell’FBI e alla sospensione della sua sezione.
Lo diceva tutte le volte in cui rischiava le penne, o, come minimo, un dito.
Lo diceva quando capiva da solo che i suoi folli piani non avrebbero funzionato.
Lo diceva quando John il rosso uccideva l’ennesima vittima, sfuggendogli l’ennesima volta.
Lo diceva il giorno dell’anniversario della morte della sua famiglia.
«Ora è vero. Non sono mai stato meglio, Teresa. Sul serio», assicura lui, fissandola intensamente negli occhi.
«Ok. Allora te la rompo io la caviglia se non smetti di guardarmi così».
«Così come?», chiede lui, spalancando gli occhi nell’espressione più innocente che gli riesce.
«Così», taglia corto lei, un po’ imbarazzata. Come se la volesse mangiare. O difendere contro un nemico immaginario. O entrambe le cose. Come se fosse la cosa più preziosa e bella che abbia mai visto.
«Rassegnati, perché è così che ho intenzione di guardarti d’ora in poi. E avrei dovuto farlo prima».
«Effettivamente sì». Teresa sorride. A pensarci bene, non le dispiace poi molto essere guardata in questo modo. Se ne farà una ragione, tutto sommato.
Subito dopo l’arrivo all’aeroporto di Austin, l’allegra combriccola si reca alla sede dell’FBI, per annullare il trasferimento di Lisbon con effetto immediato.
Abbot telefona personalmente all’amico federale che le aveva offerto un lavoro nella sede di Washington dell’FBI, e lei si scusa del suo cambiamento di rotta. “Cause di forza maggiore”, spiega laconicamente.
Tutto risolto. E’ tutto a posto. Tralasciando il fatto che ha fatto una figura molto poco professionale. Ma non le importa.
Ed ecco che arriva Cho, con dei fascicoli in mano e il suo consueto atteggiamento indifferente. Saluta tutti con un cenno del capo, come se nulla fosse e come se fosse scontato rivedere una Lisbon che, a quest’ora, sarebbe dovuta essere in un altro stato; si limita a esporre con professionalità e poche parole un problema burocratico riguardo le due killer che avevano arrestato il giorno prima.
In realtà il coreano, pur non mostrando il minimo segno di stupore, è ancora sotto choc per la recente rivelazione. Abbot gli aveva aperto gli occhi riguardo il rapporto tra Jane e Lisbon, e lui era caduto dalle nuvole. Incredibile. Altro che fratello e sorella.
Ma ovviamente non accenna a nulla di tutto ciò. Non sono affari suoi, del resto.
Lisbon, però, pensa che sia giusto spiegargli la situazione. Cho è stato per anni il suo miglior agente, ora è un suo collega e, soprattutto, un amico; glielo deve. Ma non ha assolutamente idea di come affrontare il discorso. Kimball non è una persona che mette molto a proprio agio gli altri. Nonostante lei lo conosca da quasi quattordici anni.
«Cho, volevo dirti che…ecco, non parto più». Inizia con la cosa più innocua e facile da dire. Decide, per il momento, di tralasciare la motivazione, anche se vorrebbe urlarla, saltare e abbracciare Cho. Ma lui non la prenderebbe bene, probabilmente.
Per fortuna interviene Jane ad aiutarla. Con le sue doti da brillante showman saprà sicuramente cosa dire.
Invece no.
«Non parte più perché, ecco, noi…» anche lui si ferma. Si limita a sorridere. Un sorriso malandrino, colmo di sottintesi. Non è da lui non sapere cosa dire. Eppure non lo sa.
Lisbon, dentro di se’, ride a crepapelle: vedere Patrick Jane in difficoltà e senza parole non ha prezzo.
Ma Cho non si smentisce mai, e, col suo proverbiale aplomb, guarda entrambi negli occhi e dichiara con aria annoiata: «Buon per voi».
Poi si allontana nascondendo un sorriso. Non può permettersi di perdere la nomea di uomo di ghiaccio. Ma, anche se non lo ammetterebbe mai, è davvero felice per quei due. Un po’ di sano sesso, sicuramente, farà loro bene. Entrambi si meritano un po’ di felicità e, se l’hanno trovata uno nell’altro, ben venga.
Abbot segue a ruota Cho, annunciando agli altri che, per quel giorno, sono liberi e salutandoli con un frettoloso e laconico “A domani”. Avranno un bel po’ di cose da dirsi quei due pasticcioni.
Jane e Lisbon escono lentamente dalla sede dell’FBI. Si sorridono, un po’ frastornati di essere tornati, dopo il vortice di avvenimenti delle ultime 48 ore, in un posto così familiare, e più uniti di come sono mai stati.
Passeggiano per qualche minuto in silenzio, fianco a fianco. Stanno bene anche così, anche senza dire nulla. A volte le parole sono sopravvalutate.
Lisbon a un certo punto si ferma. Semplicemente perché non sa dove andare.
«E ora?», chiede al suo mentalista preferito.
«Ora cosa?»
«Cosa facciamo?»
«Quello che abbiamo sempre fatto. E un milione di altre cose».
Lisbon sorride. «Buona idea. Ma nello specifico, ora dove vuoi andare?»
«A casa».
«Quale casa?»
«La tua. Avevi annullato l’affitto, ma, tecnicamente, per questo mese è ancora tua».
«Oh». In effetti lei è piuttosto stanca, e Jane se ne dev’essere accorto, ovviamente. Ma lui? Come si comporteranno tra loro d’ora in poi? Potranno davvero essere una coppia? Una coppia vera? Partner nel lavoro e nella vita, o qualcosa del genere?
«E tu?», gli chiede, abbassando lo sguardo per un attimo, tentando di nascondere la paura che le sta attanagliando lo stomaco.
Questa è la realtà. Non è un aeroporto fuori dal mondo. E’ il loro mondo. Un mondo in cui loro sono amici, e nient’altro. Jane sarà davvero pronto al cambiamento? Non gli sono mai piaciuti i cambiamenti.
«Verrò con te», dichiara lui con voce ferma.
«Non torni nel tuo appartamento? O nel camper? O ovunque tu viva?», gli chiede Teresa, un po’ bruscamente, per tentare di scacciare l’ottimismo che quelle tre parole stanno facendo crescere in lei. Non vuole illudersi, da troppo tempo è abituata a essere ferita.
Eppure, forse, stare insieme sarà più facile del previsto.
Jane le prende timidamente la mano e guarda quei meravigliosi occhi che gli stanno sorridendo. Verdi, come la speranza di quel futuro che lei gli ha regalato.
«No. Casa mia è dove sei tu».





************


Angolo dell'autrice: Ciao a tutti, scusate per il ritardo! Spero che questa one-shot vi piaccia, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate. La prossima arriverà tra una decina di giorni. A presto :)











 

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Capitolo 3
*** Golden ring ***


GOLDEN RING

«Oh. E’ bello qui».
Jane era stato solo una volta nella casa di Lisbon ad Austin.
Anzi, non è esatto, visto che in quell’occasione si era limitato a fare capolino sulla soglia. Perché dentro c’era Pike.
«Più che altro è vuoto», sbuffa Lisbon, accendendo le luci.
I mobili ci sono tutti perché, quando Teresa si era trasferita nella capitale del Texas, aveva preferito prendere in affitto una casa già ammobiliata; era più comodo, lei non aveva certo il tempo di andare in giro a comprare pezzi di arredamento; e i pochi mobili che possedeva li aveva venduti con l’appartamento di Sacramento quando si era trasferita nello stato di Washington, dopo che il CBI era stato distrutto, insieme alla sua vita.
Quello che ora manca nella villetta in stile coloniale dove ha vissuto per alcuni mesi sono i soprammobili; molti oggetti a cui è affezionata; vestiti; borse; scarpe. Lisbon non possiede molti oggetti personali del genere in realtà, non ha mai amato particolarmente la moda. Però, nell’ultima settimana, aveva comunque pensato di alleggerire il suo trasloco mandandone un po’ per volta a Washington, da Marcus. Forse anche per convincere se stessa che la decisione ormai era stata presa.
«Alcune cose le avevo già spedite a Pike», spiega, mordendosi il labbro.
«Capisco», biascica Jane, mogio.
Poi si rianima improvvisamente, guardandosi intorno con curiosità.
Una casa dice molto della persona che vi abita. Non che lui abbia bisogno di scoprire i segreti di Lisbon, la conosce da molti anni e li sa già tutti, o almeno crede. In ogni caso sarà interessante.
«Gli chiederò di rispedirmele al più presto», mormora Teresa, quasi tra se’ e se’.
Peccato che in quella casa Pike abbia bazzicato un po’ troppo spesso. «Oppure compri tutto nuovo. Ti va? Potrebbe essere divertente», propone Patrick, senza guardarla in viso.
«Jane, non ho paura di affrontare Marcus. Sono una donna adulta», gli ricorda, con il tono di voce che userebbe una mamma per rassicurare il suo bambino di cinque anni riguardo la non pericolosità di un inesistente Uomo Nero. E’ ovvio che lei stessa non muore dalla voglia di risentire il suo ex futuro marito dopo la patetica telefonata con cui gli aveva annunciato che non lo avrebbe né raggiunto né, tanto meno, sposato. Ma è necessario e lo farà. Lei fa sempre quello che è necessario. O quasi sempre.
«Lo so. Sono io che ho paura», le rivela lui, continuando a tenere gli occhi bassi.
«Credi che risentire Marcus al telefono mi farà improvvisamente cambiare idea? Pensi che potrei raggiungerlo a Washington?», gli chiede Teresa, sbalordita.
«Non lo so».
L’insolita insicurezza dell’uomo più sicuro di se’ che lei abbia mai avuto l’onore di incontrare la colpisce; anzi, quasi la commuove. Con tre dita gli sfiora il mento, sollevandoglielo per fare in modo che i loro occhi si incontrino. «Non fare l’idiota, Jane. E’ qui che voglio stare. Con te. E nulla potrebbe farmi andare via. Nemmeno il casino più grande che tu potresti mai combinare». Teresa ha alzato leggermente la voce. Vuole che il concetto sia chiaro.
Una calda ondata di gratitudine invade il petto di Patrick. E’ raro che Lisbon sia così esplicita quando si tratta dei suoi sentimenti. E se lo fa, c’è da crederle.
«Oh. Ok». E, finalmente, sorride. Uno di quei sorrisi disarmanti che solo lui sa fare.
«Non stare lì impalato, Jane. Mettiti comodo, dai», lo esorta lei, interrompendo il contatto visivo e l’esponenziale arrossamento delle sue guance (tutta colpa di quell’irresistibile sorriso).
Poi la donna si accorge che il biondo consulente non ha nulla con se’. Ne’ valigia, né vestiti. Nulla. Lei, per lo meno, ha il borsone che si era portata a Islamorada. E, per fortuna, in casa sono rimasti ancora alcuni dei suoi vestiti.
Lo guarda con aria interrogativa, chiedendo, senza bisogno di parole, tanto a lui quanto a se stessa, cosa avrebbero fatto.
«Sì, hai ragione Lisbon. Prenderò le mie cose nell’airstream e le porterò qui. Ma non stasera. Ci penserò domani», dice pacatamente Jane, rispondendo all’ implicita domanda contenuta in quel paio di spettacolari occhi verdi.
«Ok. Ti mostro la casa», propone Teresa, non riuscendo a nascondere un sorriso a trentadue denti. Allora il mentalista ha sul serio intenzione di restare.
«Oh. La conosco già», esclama lui con tono saccente. Ed ecco che comincia il Jane show. «E’ una casa grande. E a te non piacciono le case grandi perché ti fanno sentire più sola. Ma questa ti piace. E’ luminosa e accogliente, ha un bel giardinetto sul retro (in cui speravi di trovare il tempo di piantare qualche fiore), è perfettamente ammobiliata, e l’affitto costa poco perché è in una zona non comodissima al centro. Ma è vicina alla sede dell’FBI, quindi per te è perfetta. Lì a destra c’è la cucina; scommetto che il frigo è vuoto e che non c’è neanche una bustina di tè o un bollitore. Ancora più a destra c’è la sala da pranzo; quando sei sola non la usi, preferisci mangiare in cucina. Invece a sinistra abbiamo il salotto, con due grandi divani e uno scaffale pieno di dvd, soprattutto vecchie commedie romantiche e western, che non hai ancora spedito a Washington. Forse perché una piccola parte di te sapeva che non ci saresti andata.  Di sopra c’è la tua camera. Letto grande, con un copriletto verde, probabilmente; e con molte coperte, di notte soffri il freddo e qui non siamo certo in California. Vicino si trova il bagno, che profuma del tuo bagnoschiuma preferito, rigorosamente alla fragola. E hai anche una stanza degli ospiti, con bagno annesso, perché speri sempre che qualcuno dei tuoi fratelli venga a trovarti. Ma finora non sono ancora venuti, ed è una cosa che ti rende triste».
Lo spettacolo è terminato e, come sempre, ha colto nel segno. E, come sempre, lascia Lisbon di stucco.
«Ok. Odio quando entri nella mia testa. Almeno, però, mi risparmi il fastidio di farti da guida turistica», borbotta, fingendo più irritazione di quella che prova in realtà. E’ vero, Jane è bravo a cogliere i dettagli più insignificanti, ma, più che altro, la conosce molto bene.
«Ho indovinato?»
«Sì. Eccetto una cosa».
«Quale?». La curiosità sta divorando Patrick. Sbagliare non è da lui.
«Ho un bollitore. E molte bustine di tè, rigorosamente Twinings», esclama lei con tono vittorioso.
«Perchè? Tu odi il tè». Jane è davvero sorpreso. Ma, del resto, Lisbon, nonostante la sua prevedibilità, riesce spesso a stupirlo. Non ha ancora deciso se questa cosa gli piaccia. Probabilmente sì.
Teresa arrossisce e non dice nulla.
«Ah capisco. Non sapevo che Pike amasse il tè», mormora Jane, con una sfumatura di irritazione nella voce, di cui non va fiero.
«No, no, a lui non piace».
«E quindi?»
«Ha cominciato a piacermi da quando te ne sei andato. Due anni fa. Lo bevevo e pensavo a te. A dove fossi finito. A cosa stavi facendo. Se ti avrei mai rivisto». La voce di Lisbon è poco più di un sussurro.
Patrick pensa che sia la cosa più romantica che qualcuno abbia mai fatto per lui. Ma sta in silenzio. Non saprebbe come dirlo. Proprio lui che è il mago delle parole. Allora si limita a sorridere.
«Mi andrebbe proprio una bella tazza di tè», propone poi, dirigendosi verso la cucina.
«Preparatelo da solo, Jane. Io vado a farmi una doccia».
«Ma hai appena detto che ti piace», le ricorda lui, confuso come un mentalista non dovrebbe mai essere.
«Sì, ho imparato ad apprezzarlo. Ma ora non mi serve più», mormora Teresa, guardandolo intensamente. Ora ha direttamente lui. Ed è molto meglio.
Poi scompare per le scale, sorridendo di nascosto. Non fa in tempo a notare che Patrick Jane, l’uomo che ha sempre tutto controllo e che si diverte a imbarazzare la gente, è arrossito.

**********

Jane resta in piedi, immobile, per alcuni interminabili minuti.
Quando si riscuote, sente l’acqua scorrere al piano di sopra; Lisbon dev’essere già sotto la doccia. Si guarda intorno. C’è un’atmosfera familiare, insolita per lui.
C’è un calore che, da dodici anni, aveva dimenticato potesse esistere.
C’è, semplicemente, aria di casa.
Nonostante lui, in questa casa, non possieda neanche un paio di pantaloni di ricambio; e nonostante il frigo sia vuoto.
Una famiglia. Ha sempre considerato il vecchio team qualcosa di molto simile a una famiglia.
Non è del tutto esatto. Vuole bene a ogni componente dell’ex squadra del CBI, ma quella è una cosa diversa.
E’ Lisbon la sua famiglia. E mai, prima d’ora, gli è apparso così chiaro questo concetto.
Fissa con insistenza la sua mano sinistra.
All’anulare porta ancora la fede. Aveva provato a toglierla sull’isola, per dimostrare a se stesso di essere in grado di ricominciare e di uscire con una donna. Non era andata bene. Solamente perché la donna in questione non era Lisbon.
Anche loro sono la sua famiglia. Lo saranno sempre. Ma loro non ci sono più.
Con l’indice della mano destra tocca l’anello. E quello che sente mentre lo fa lo sorprende.
Non è più quel gelido pezzo di metallo che l’ha tormentato per dodici lunghi, vuoti, crudeli, interminabili anni. E’ caldo. Forse perché, ora, il suo cuore lo è.
Che sciocchezze sentimentali, pensa Patrick.
Eppure è proprio così, deve riconoscere.
Sfiorarlo, percorrerlo col polpastrello in spessore e in lunghezza non gli provoca più quella mortale fitta al petto. Al contrario gli fa rivivere ricordi felici. Ricordi che custodisce con cura nel suo palazzo della memoria, vividi come se fossero accaduti solo ieri. Un’Angela bambina, al circo in cui anche lui viveva e lavorava. Un’Angela adolescente, bellissima. Il primo appuntamento. Il primo bacio. La prima notte. Il loro matrimonio. La nascita di Charlotte.
Si sfila l’anello dal dito, e lo poggia sul tavolo. Lo guarda. Lo riprende in mano, soppesandolo. Non è più un macigno, è leggero.
Ci gioca per qualche minuto. Lo nasconde in una mano, per poi farlo riapparire nell’altra. Come faceva per divertire sua figlia. E’ sempre stato bravo con i giochi di prestigio. Sorride. Poi ritorna serio.
Non può più indossare quell’anello. Non è giusto.
Non è giusto per Teresa.
Non è giusto nemmeno per sua moglie e sua figlia.
Non è giusto soprattutto per lui.
Perché lui non è più l’uomo che aveva fatto quella promessa. Il dolore l’ha trasformato in una persona molto diversa da quella che, una quindicina di anni fa, aveva infilato al dito di Angela un anello simile al proprio. Erano giovani. Si amavano. Si conoscevano da quando avevano imparato a camminare. Sposarsi era la cosa più naturale.
Probabilmente se sua moglie fosse qui, non le piacerebbe affatto la persona che è diventato.
Certo, se sua moglie fosse qui, lui non sarebbe diventato così. Perché il dolore non avrebbe distrutto la sua vita e la sua anima. Quindi il problema non si porrebbe.
O forse sì.
Forse sarebbe cambiato per qualche altro motivo.
Ma Lisbon, solo lei, lo ama per come è. Adesso.
Ama questo ex assassino ex truffatore.
Ama questo giullare che nasconde l’oscurità dietro a un sorriso.
Ama questa statua di ghiaccio che non sa comportarsi da normale essere umano.
Ama questo buffone di corte che combina milioni di guai solo per il gusto di combinarli.
E lui, questo fantasma che non riconosce neanche il suo riflesso nello specchio, ama Teresa con tutto quello che resta del suo cuore malconcio.
E’ egoismo il suo, lo sa benissimo. Ma questo è tutto quello che conta ora.
Prende in mano l’anello per un’ultima volta. Se lo porta alle labbra, sfiorandolo in un lieve bacio.
Con l’altra mano afferra il portafoglio che porta nella tasca destra della giacca.
Lo apre e infila la fede nella tasca degli spiccioli.
In questo modo sarà sempre con lui. Come ricordo, però.
Non come legame. Non come peso. Non come alibi.
Per un attimo una fitta di senso di colpa lo attraversa.
Lui è vivo. Loro no. Per colpa sua.
Ma lui ha scontato la sua pena. Non è innocente, certo, ma è un uomo libero da quando ha avuto quella vendetta che aveva promesso.
Anzi no.
E’ un uomo libero da quando si è accorto di essere in grado di amare, ed essere amato, di nuovo. Forse più intensamente di prima, o forse no; forse con più consapevolezza, questo non saprebbe dirlo, e non sarebbe neanche giusto.
In ogni caso portare al dito quell’anello non ha più senso.
Guarda la sua mano e gli sembra tristemente vuota. Una lacrima vorrebbe fare capolino, ma lui non glielo permette. Angela e Charlotte non vorrebbero vederlo piangere ancora, questo è sicuro. Gli sembra di sentirle mentre gli bisbigliano “Non è colpa tua”.
La colpa, ovviamente, è interamente sua. Ma non fa più così male.
Se non odia più se stesso, o, almeno, non come prima, il merito è tutto di una combattiva poliziotta dagli occhi verdi.
A questo pensiero un’inattesa serenità gli riempie il cuore.
Adesso, però, ha bisogno di un buon tè.
 
**********
 
Quando Lisbon riemerge dalla doccia e scende in cucina, indossando jeans e maglia puliti, trova un Jane pensieroso che si gusta la sua tazza di tè.
«A cosa stai pensando?»
«A cosa poterti preparare per cena. Non c’è molta scelta. Ci sono delle uova, però. E, come sai, io adoro le uova. Ti vanno?», propone il biondo, senza smettere di sorseggiare il suo corroborante liquido.
«Sì, grazie. Ma stai tranquillo, Jane. Posso prepararle io. Dopotutto hai passato una notte in prigione. Te la sei meritata eh… Ma sarai stanco. E hai male alla caviglia, lo so». Come sempre, Lisbon non può fare a meno di preoccuparsi per quell’adorabile quanto irritante pazzoide che si mette sempre nei guai.
In realtà, Patrick della sua caviglia si era proprio dimenticato.
«Tu non ami cucinare». Come sempre, la sua non è una domanda. Lui non ha bisogno di fare domande.
«No, non molto», ammette Teresa, che è molto più a suo agio in una sparatoria che tra i fornelli.
«Ti ricorda quando dovevi cucinare per tuo padre».
«Già».
«E’ per questo che ci sono io», esclama Patrick con tono trionfante. E’ entusiasta come un bambino a cui hanno appena regalato un giocattolo nuovo.
«A te piace cucinare?». Evidentemente ci sono dei lati del consulente che Teresa non ha mai avuto l’occasione di conoscere e apprezzare. Non vede l’ora di scoprirli tutti. Anche quelli più nascosti.
«Sì, molto. Sono bravo».
«E presuntuoso», controbatte lei, anche per mimetizzare il rossore che sta, ben poco garbatamente, invadendo il suo viso da quando il pensiero di un certo lato nascosto di Patrick Jane, a lei sconosciuto, ha cominciato a farsi strada nella sua mente; un genere di lato nascosto non molto casto.
«Quello l’hai sempre saputo».
«Già. Su, allora vediamo di cosa sei capace».
Lisbon incrocia le braccia sul petto, aspettando di vedere che razza di trucco escogiterà Jane.
«Madame, si accomodi pure sul divano, in attesa che la cena sia servita».
«Come preferisce, Monsieur».
Teresa si allontana dalla cucina, lasciando Patrick padrone indiscusso. Spera almeno che non le metta a fuoco la casa.
Jane la guarda con soddisfazione allontanarsi. D’ora in poi ha intenzione di viziarla.
Non molto, sa già che quella brontolona non glielo permetterebbe; solo un po’.
 
**********
 
Lisbon si sta quasi per addormentare. Accoccolata su quel divano così comodo; dopo una giornata pesante, e memorabile, come quella che ha trascorso; con il sottofondo di rassicuranti rumori che provengono dalla cucina; con Patrick Jane che pensa alla cena e si prende cura di lei.
Jane, dal canto suo, sta dando il meglio di se’ ai fornelli. Peccato che frigo e dispensa offrano solo una dozzina di uova, mezzo cartoccio di latte (si spera non andato a male), un po’ di zucchero, qualche misera fetta di prosciutto in vaschetta, un fondo di formaggio e residui di marmellata. E’ un po’ poco per dare libero sfogo al suo immenso estro culinario. Ma i grandi artisti si vedono nelle avversità.
Si rimbocca le maniche, tira fuori dagli sportelli padelle che, sicuramente, appartengono al proprietario della casa (Lisbon non si è mai presa la briga di usarle, figuriamoci di comprarle), e si destreggia abilmente come se fosse sempre vissuto in quella casa.
Quando è tutto pronto, va in salotto.
La sua Teresa si sta quasi per addormentare, lo intuisce chiaramente dagli occhi ridotti a due fessure e dalla testa ciondolante.
Quasi gli dispiace svegliarla e, per un attimo, è tentato di non farlo.
Ma poi pensa che, probabilmente, è a digiuno da molte ore. E una Lisbon con lo stomaco vuoto è qualcosa che è meglio non affrontare.
Si avvicina, scrollandole dolcemente il braccio.
«Pigrona, la cena è pronta».
«Oh. Arrivo Patrick, grazie. Ho proprio fame». Il fatto che lo chiami spontaneamente per nome vuol dire che è mezza rintronata dal sonno. O, appunto, dalla fame. In ogni caso, suona bene.
«Dopo di voi, principessa», scherza lui, facendole un profondo inchino e indicandole la sala da pranzo.
Lisbon sorride, un po’ imbarazzata. Non è mai stata oggetto di tante attenzioni. Ma, conoscendo quel farabutto, da qualche parte ci dev’essere un inghippo.
E invece no.
La tavola è apparecchiata come a lei non è mai venuto in mente di fare nemmeno il giorno del Ringraziamento.
Jane ha trovato una tovaglia che Teresa non ricordava nemmeno dove fosse. Di cotone pregiato, bianca a fiori blu. Era la tovaglia preferita di sua madre; Teresa l’aveva voluta con se’, ma, in ogni casa in cui si è trovata a vivere, l’ha sempre relegata in fondo a un cassetto. Guardarla le faceva male. Figuriamoci mangiarci sopra.
Ora pensa che sia semplicemente perfetta. E che Jane non potesse farle una sorpresa più gradita.
Ma, probabilmente, lui questo lo sa già.
Gli sorride, riconoscente, con gli occhi più lucidi di quanto vorrebbe.
«Era la tovaglia preferita di mia madre», spiega, anche se, conoscendo Jane, non c’è alcun bisogno di farlo.
«Immaginavo fosse un ricordo di famiglia. Era in fondo al cassetto più scomodo della credenza, piegata con cura e ricoperta di polvere. E’ di una stoffa pregiata e antica, sicuramente non l’hai comprata tu. E non l’hai mai nemmeno usata. Ho pensato che fosse venuto il momento di tirarla fuori».
«Già».
«Ho fatto male?», le domanda Patrick, dubbioso. Forse non è stata una grande idea. Forse rivedere quella tovaglia l’ha turbata. Eppure gli sembrava una cosa dolce e familiare.
«Non leggi nella mia mente che ne sono molto felice?», lo prende in giro la padrona di casa.
«Ovviamente sì, ma volevo esserne sicuro».
«Ora lo sei», assicura lei, sfoderando un sorriso.
E’ così bello rendere felice Lisbon. E così facile. A volte sembra una bimba. «Siediti, Teresa». Le sussurra dolcemente, prendendola per mano e conducendola al tavolo.
«La casa non è ancora andata  a fuoco. E’ già qualcosa», ironizza lei, sollevando le sopracciglia.
«Per ora», mette in chiaro lo chef, facendole l’occhiolino.
Jane scompare per un attimo in cucina, per poi tornare con un enorme vassoio che Lisbon ha sempre pensato potesse essere più utile a un reggimento di soldati che a lei. E invece, ora, è pieno zeppo di crèpes solo per loro due.
«Wow Jane. Le hai fatte tu?». Domanda idiota, se ne rende conto anche da sola.
«Beh sì, non erano nel congelatore. Dentro ho messo quello che ho trovato in dispensa. Spero ti piacciano».
In dispensa c’era poco, pochissimo. Eppure Jane è riuscito a trasformare le sue misere provviste in qualcosa di bello.
E buono. Molto.
«Mmmmm», mugola Teresa, dopo aver assaggiato il primo morso.
«Ti piacciono?», domanda Jane speranzoso.
«Non lo vedi dalle mie espressioni facciali?»
«Non valgono mentre mastichi».
«Maleducato. Vorresti dire che mangio in modo poco elegante?», chiede Lisbon, fingendosi offesa.
«Voglio dire che mangi in modo vorace. Come tutti dovrebbero fare. E’ molto sexy, tra l’altro».
L’ultima parte della frase non può non far arrossire l’affamata agente.
Meglio cambiare discorso. «Sono buonissime, Patrick. Sul serio».
«Bene. Mi fa piacere», sussurra Jane. Gli scalda il cuore il pensiero di aver fatto qualcosa per lei.
«Non abituarti a tutti questi complimenti, però», mette in chiaro la donna specializzata in docce fredde.
«E tu non abituarti ai manicaretti del più grande chef d’America».
Teresa alza gli occhi al cielo. «Il più grande presuntuoso d’America, vorrai dire. Anzi, probabilmente, del mondo».
«Suvvia Lisbon, è la prima cosa che ti ha colpito di me. E ti piace. Ammettilo».
«Sulla seconda frase avrei qualche dubbio».
«Non me la bevo. Non puoi mentirmi, lo sai», la minaccia, fissandola intensamente.
Ma Lisbon sta correndo dietro a un pensiero che ha appena fatto capolino nella sua mente. E ne approfitta anche per sviare il discorso. «E tu? Qual è la prima cosa che ti ha colpito di me?», gli chiede, un po’ con ironia e un po’ con genuina curiosità.
Jane riflette qualche secondo. Molte immagini gli scorrono davanti agli occhi. Una tra tutte, una mano che lo tira su da terra e lo sostiene. «Oh, molte cose. Per prima la tua umanità, credo; verso di me, un disperato pazzoide fuori controllo, verso i tuoi colleghi, verso le vittime del primo caso in cui mi sono trovato a seguirti. Poi i tuoi occhi» Un guizzo malandrino interrompe improvvisamente la serietà del suo discorso. «Ma, ancor prima, la tua statura tascabile. E, soprattutto, la tua pistola».
«Idiota». Aveva avuto comunque una risposta abbastanza soddisfacente.
«Oh Lisbon, lo sai che adoro farti arrabbiare».
Tra una crèpe e l’altra (Teresa non saprebbe dire se le piacciono di più quelle salate o quelle dolci), parlano di tutto e di niente. Di uova. Di arredamento. Di libri. Di film. Di Austin che, malgrado la prima impressione, non è un brutto posto in cui vivere. Di come Jane ha imparato a cucinare. Di quando Lisbon ha cominciato a odiare cucinare. Di Parigi, il luogo che ha dato i natali a quello che stanno divorando con voracità; entrambi ci sono stati, molti anni fa. Dei posti che hanno visitato e di quelli che non hanno mai visto. Della madre di Lisbon, che sapeva preparare una frittata strepitosa. Di Charlotte, che adorava le crepes con la marmellata. Di aneddoti divertenti avvenuti al CBI, molti anni fa. Di quanto è bello essere sotto lo stesso tetto, rilassati come non sono mai stati. Del passato e del presente.
Del futuro no, non ne hanno bisogno.
Passano le ore, anche se per Jane e Lisbon non sembrano che minuti.
Si sta bene così, insieme, a condividere cose semplici, come cibo e chiacchiere. Senza maschere. Senza giochetti. Senza difese. Solo loro due. Non ne hanno mai avuto il tempo. O la possibilità. O entrambe le cose.
Lisbon insiste per lavare i piatti, dopotutto il suo mentalista ha già lavorato abbastanza per stasera.
Jane, pur a malincuore, acconsente, perché sa che quando Lisbon è così determinata è più prudente assecondarla; dopotutto ha una pistola, anzi, più di una in effetti.
Eppure non si allontana, e comincia a osservare con insistenza le mosse dell’improvvisata casalinga, sapendo che questo l’avrebbe fatta uscire dai gangheri nel giro di cinque minuti.
E infatti Teresa, allo scadere del quinto minuto, pur di non sentirlo gironzolare per la cucina ciondolando e commentando il suo modo di lavare i piatti, acconsente a coinvolgerlo in quell’interessante operazione. Era proprio quello lo scopo di Patrick.
«Io lavo, tu asciughi. Almeno fai qualcosa di utile».
«Tesoro, io sono utile anche quando non faccio niente di utile».
La lavapiatti si blocca.
Tesoro. L’ha chiamata Tesoro. Non le sono mai piaciuti i nomignoli affettuosi, li ha sempre ritenuti stupidamente sdolcinati.
Ora Lisbon pensa che non esista al mondo una parola più bella di quella che Jane ha appena pronunciato, quasi con noncuranza, davanti a un lavabo ricolmo di piatti sporchi. Mentre entrambi indossano guanti di gomma e lanciano schizzi d’acqua ovunque. Eppure, ora lo sa, non esiste un luogo più romantico della sua cucina.
Jane vede Teresa immobilizzarsi. Riconosce chiaramente il fremito di tensione che la irrigidisce.
Tesoro. L’ha appena chiamata tesoro. E tecnicamente non stanno ancora insieme.
Non è esatto. In effetti stanno insieme da sempre. E in questa cucina, presi da un’attività così banale e, allo stesso tempo, importante, gli è venuto spontaneo chiamarla così.
Forse Lisbon non ha apprezzato. Che stupido. Forse ha corso troppo e l’ha spaventata.
La guarda, per qualche secondo. Non ha idea di cosa stia pensando. Da quando non è più un libro aperto per lui? Probabilmente sta scegliendo quale oggetto contundente lanciargli sul naso.
Poi la vede sorridere, come tra se’ e se’. Un sorriso sognante. Un po’ incredulo. Felice.
Dopodiché riprende a lavare i piatti, come se nulla fosse.
E Jane capisce di aver appena ricevuto il permesso di chiamarla così.
 
**********
 
«Direi che abbiamo finito».
«Visto? In due si fa prima. Ed è più divertente», puntualizza il biondo.
«Già. In due è più divertente». Cioè, non semplicemente in due. Con Patrick Jane. E tutto, con lui, è più divertente, non solo lavare i piatti.
«Sei stanca. Andiamo a dormire».
Come sempre Jane capisce quello di cui Teresa ha bisogno, ancor prima che lei stessa se ne renda conto. Comodo, amare un mentalista. «Buona idea», accetta Lisbon, sbadigliando rumorosamente.
Ma, quando si rende conto di quello che il consulente ha appena detto, arrossisce.
Andiamo a dormire. Insieme.
«Dormire, Lisbon. Nel vero senso della parola», la avverte il consulente in questione, divertito dall’espressione della donna. «Per oggi, almeno», aggiunge con un tono di voce più profondo e fissandole maliziosamente le labbra.
Il colorito di Teresa diventa ancora più acceso.
«Certo, certo. Dormire. Stavo pensando a quello. Cos’hai capito?»
«Mmm…credo proprio che, invece, stessi pensando ad attività più gioiose e piacevoli».
«Non è vero. Jane esci dalla mia testa!», gli intima con una voce più acuta di un centinaio di decibel.
Ecco, gli mancava quella frase. Patrick intuisce che non è il caso di tirare troppo la corda, potrebbe ritrovarsi con un proiettile conficcato da qualche parte. Però è un peccato non poter continuare il suo giochetto, la reazione di Teresa è davvero spassosa. E tenera. Ed eccitante.
Anche Lisbon decide di lasciar cadere il discorso, intanto non riuscirebbe mai a spuntarla. Faticoso amare un mentalista.
Si avvia per le scale, col viso in fiamme e il cuore gonfio di emozioni, seguita a ruota da Jane.
Dunque non ha intenzione di dormire sul divano, pensa Teresa.
«No, Lisbon. Niente divano. Preferirei il tuo comodo letto, ammesso che tu sia d’accordo».
Incredibile. Ma, ormai da molti anni, la donna ha smesso di chiedersi come ci riesca. «E va bene, se insisti», scherza Teresa, fingendo rassegnazione per nascondere quanto poco, in realtà, le dispiaccia la proposta.
Quando arrivano in camera da letto, entrambi si guardano per un attimo e, non possono fare a meno di sorridersi. E’ una cosa che fanno piuttosto spesso, più o meno da dodici anni. Guardarsi, e poi sorridersi nel giro di una frazione di secondo. Istinto omicida permettendo.
Ma stavolta c’è qualcosa in più. Entrambi stanno pensando a quanto è cambiato il loro rapporto in sole 24 ore. E’ tutto troppo insolito per rimanere indifferenti; ma è anche stranamente naturale. Gesti che ieri sarebbero stati impensabili, ora sono la cosa più semplice del mondo. E’ un peccato essersi complicati così tanto la vita e aver perso tutto quel tempo.
Sono eccitati come due bambini che stanno per iniziare una nuova avventura; ma si sentono a proprio agio come se condividessero la stessa stanza da sempre.
Jane si appropria del lato destro del letto, probabilmente sapendo già che Lisbon è abituata a dormire nel lato sinistro. Teresa si siede vicino a lui.
«Ehi già invadi il mio lato?», la prende in giro il mentalista.
«E’ strano», afferma Lisbon ignorando la battuta.
«Cosa?». Jane sa perfettamente di cosa stia parlando, ma vuole sentirlo dalla voce di lei.
«Noi due. Qui. Insieme».
«Già».
«Ma è anche così…»
«…Normale?»
«Già. Mi hai letto nella mente o lo pensi anche tu?»
«Entrambe le cose».
«Bene. E’ una fortuna», afferma Lisbon, ripetendo di proposito la frase che Jane le aveva detto nella sala interrogatori della TSA.
«Già», risponde Patrick, cogliendo la citazione. Le accarezza lievemente una ciocca di capelli, poi si ferma. «Lisbon, starei tutta la notte a guardarti negli occhi, e probabilmente non solo questo, ma forse è meglio che mi faccia una doccia».
«Lo penso anch’io», controbatte lei con una delle sue occhiate sarcastiche. «Nel cassetto del bagno dovrebbe esserci un accappatoio pulito. E da qualche parte dovrei avere una tuta di Tommy, l’aveva lasciata una volta che era passato a salutarmi a Washington. Non gliel’ho più restituita, perché poi non è più venuto a trovarmi», continua, frugando in fondo all’armadio con ben poca delicatezza.
«Te la porti dietro ad ogni trasloco, ti piace avere in casa qualcosa di suo. Vedrai che verrà presto a trovarti». Lettura a caldo improvvisata.
«Eccola», esclama trionfante Teresa dopo alcuni minuti di impegnativa ricerca, porgendogli un’ informe pallottola di stoffa; ovvero l’indumento che l’elegantissimo Patrick Jane dovrebbe indossare.
Evidentemente Lisbon, tanto precisina sul lavoro, in casa è tutt’altro che ordinata. E quella tuta sembra davvero inquietante. Ma non importa, non è il momento di fare una sfilata di moda. «Grazie», si limita a dire l’ex mister Eleganza.
Mentre si avvia verso la porta del bagno, la voce sarcastica di Lisbon lo fa voltare. «Ah Jane, metti in lavatrice quelle calze!»
 
**********
 
La doccia l’ha rigenerato. E’ piacevole immergersi nel profumo alla fragola del bagnoschiuma di Lisbon.
Quando torna in camera, stretto in una tuta di una taglia più piccola della sua, e di un improponibile color giallo limone, si sente leggermente ridicolo. Non gli sono mai piaciute le tute.
Nello sguardo di Lisbon riconosce una scintilla di ironia, che non ha nessuna intenzione di risparmiargli.
«Il giallo non si addice ai tuoi capelli», lo prende in giro. Che poi lei pensi che Jane sia straordinariamente bello lo stesso (anzi, ancora di più, perché è in una versione familiare e casalinga riservata a lei), è un dettaglio. Che, stranamente, sfugge al mentalista, tutto preso ad autocommiserarsi.
«Non mettere il dito nella piaga, Lisbon».
Teresa, dal canto suo, indossa la sua maglia lunga di Lisbona. E’ vecchia e malandata, ma ci è affezionata perché gliela aveva portata suo fratello Tommy da un viaggio. E’ anche piuttosto sformata, ma non era certo il caso di indossare qualcosa di sexy solo perché avrebbe condiviso il letto con Patrick Jane. O no? Lui l’avrebbe presa in giro a vita. E poi la maggior parte della sua biancheria l’ha già spedita a Washington.
E, a dire il vero, non possiede nulla di sexy. Non le è mai piaciuta quella stupida lingerie in pizzo che pare tutte le donne, tranne lei, adorino indossare. Meglio qualcosa di comodo e sportivo, in cui sentirsi a proprio agio.
Jane la fissa. Probabilmente sta per indirizzare qualche battuta sarcastica al suo abbigliamento.
«Tu, invece, sei bellissima», le sussurra, squadrandola e stravolgendo le previsioni dell’improvvisata mentalista in erba.
A quell’inaspettato complimento, e sotto il suo sguardo scrutatore, Lisbon si sente avvampare.
In realtà non si è mai sentita meno bella come in questo momento, seduta nella sua metà di letto a gambe incrociate, con una vecchia maglia per pigiama e senza un filo di trucco.
Ignora che il suo neo coinquilino la stia ritenendo semplicemente meravigliosa. E tremendamente sexy. Ancora di più proprio perché è inconsapevole di esserlo.
Jane stacca con difficoltà lo sguardo da lei e si tuffa a capofitto nella sua metà di letto, apprezzandone la morbidezza. «Aaaahhh. Niente male il tuo letto, Lisbon. Se lo avessi saputo, ci avrei provato prima con te».
«Idiota», lo rimprovera lei, lanciandogli addosso il cuscino, fingendo di volerlo soffocare.
«E così stai cercando di farmi fuori già la prima sera di convivenza?», scherza Patrick, facendo l’offeso.
«Esattamente. Mi porto avanti».
«Dovrai metterci un po’ più di impegno, però».
«E’ proprio quello che ho intenzione di fare».
Dopo un’improvvisata, e sfiancante, battaglia di cuscini e attacchi di solletico a tradimento, è Lisbon ad avere la meglio.
Il mentalista si è appena arreso, sdraiandosi sul letto in posa drammatica, come se fosse stato colpito a morte.
La vincitrice rimane seduta accanto a lui, sovrastandolo, con ancora in mano la sua arma del delitto, ovvero il cuscino. Siccome non è giusto infierire sugli sconfitti, lo riappoggia magnanimamente sul letto, ridendo di gusto.
E’ bella la risata di Lisbon, pensa Jane. E’ calda e squillante, un po’ buffa. E’ musica per le sue orecchie. In uno slancio di tenerezza le prende la mano, ormai disarmata e inoffensiva.
Con il pollice disegna dei piccoli cerchi sul dorso. Quando è soddisfatto passa al palmo. E’ un contatto dolce e sensuale allo stesso tempo che sorprende entrambi.
Poi lascia una scia di piccoli baci sui polpastrelli, e sente che le pulsazioni di Lisbon aumentano. La cosa non può fargli che piacere.
Terminata questa meticolosa e interessante operazione, Jane alza il viso, puntando gli occhi in quelli della proprietaria di tale meravigliosa mano. Poi intreccia le sue dita in quelle di Teresa. Stanno così, a guardarsi mano nella mano per degli attimi infiniti. Si sentirebbero ridicoli se non fossero così presi l’uno dall’altro.
Quando, improvvisamente, Lisbon riattacca il cervello, ancora piuttosto intorpidito per colpa di un paio di intriganti labbra sulla sua pelle, realizza che manca qualcosa nella mano di Jane. Qualcosa di liscio, lucente e dorato.
«Dov’è la tua fede?», gli domanda, confusa.
«Nel mio portafoglio», risponde Patrick con tranquillità.
«Perché non la indossi?»
«Perché non ho bisogno di lei».
«Perché?», insiste la donna, incredula.
«Loro sono qui, nel mio cuore. Non ho bisogno di un anello per ricordarmene. L’anello mi serviva per allontanare le persone. Per simboleggiare il mio desiderio di vendetta. Per tenere vivo un legame morto. Per ricordarmi che non avrei potuto mai più legarmi a qualcuno». La voce gli trema leggermente, ma il suo viso è sereno.
«E ora?»
«Ora non ne ho più bisogno».
«Perché?»
«Sei poco perspicace, te l’hanno mai detto Lisbon? E’ ovvio. Perché ci sei tu», risponde come se fosse la cosa più scontata del mondo.
Teresa non riesce ad articolare una risposta coerente. E’ sorpresa. E’ terrorizzata. E’ triste. E’ felice.
E’ triste perché non riesce a non essere felice di una cosa triste.
Jane poggia ancora un tenero bacio sulla piccola mano di lei, prima di lasciarla libera. In una frazione di secondo ha compreso i sentimenti che stanno lottando nel cuore di Teresa. E quello è il suo modo di dirle che va tutto bene. Non hanno bisogno di parole, loro.
Lisbon arrossisce lievemente e si sdraia al suo fianco. Mentre lo fa un’involontaria lacrima, non saprebbe dire se di gioia, di tristezza o di entrambe le cose, le scivola via. Poi accoccola la testa nell’incavo della spalla di Jane.
Quella notte non avranno bisogno di altro. Solo di sentirsi vicini.
«Buona notte, Patrick».
«Buona notte, Teresa».
«Non russare, altrimenti…»
«Altrimenti mi tiri un pugno sul naso, lo so».
 
 
 





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Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Spero che questa one-shot piuttosto prolissa vi piaccia ;) Se avete voglia di lasciare le vostre opinioni, come sempre sono curiosissima. Il prossimo capitolo arriverà tra una decina di giorni. A presto :)
 

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Capitolo 4
*** White as a paper frog ***


WHITE AS A PAPER FROG
 

Non ha idea di che ore siano (avvenimento piuttosto insolito per un maniaco del controllo come lui), e non ha nemmeno alcun interesse a saperlo (avvenimento ancora più insolito).
Qualcosa gli dice che è mattina, ma, d’altronde, il tempo è soltanto una convenzione creata dall’uomo.
E’ un giorno speciale, però, questo è sicuro; ed è decisamente più importante delle insignificanti nozioni del tempo e dello spazio.
Jane sta osservando da qualche minuto il corpo esile vicinissimo al suo.
Hanno passato la notte abbracciati.
Lei ha la sua mano poggiata sul petto di Jane e la mano di Jane intorno alla sua vita.
E lui non si ricorda di aver dormito così bene negli ultimi dodici anni.
Evidentemente Teresa Lisbon è il suo sonnifero preferito. Buono a sapersi.
All’improvviso la sua benzodiazepina a forma di poliziotta si muove. Lui la ammira mentre si stiracchia, tendendo i muscoli intorpiditi ed emettendo qualche verso incomprensibile, come fosse una gattina assonnata. Tiene gli occhi chiusi, ma fa una smorfia particolare, arricciando contemporaneamente sopracciglia e naso.
E’ molto buffa quando si sveglia. E’ molto bella, anche.
No, Lisbon non è affatto il suo sonnifero. E’ il suo multivitaminico. Il suo energizzante. La sua pillolina eccitante.
«Buongiorno», mormora Patrick, con voce impastata e labbra a pochi millimetri dall’orecchio della sua nuova compagna di letto.
Teresa rabbrividisce e, per un attimo, crede di essere ancora immersa nel mondo dei sogni. E, per un attimo, prega Dio di non svegliarla.
Poi, improvvisamente, si rende conto che è sveglia. Sveglissima. E che ha dormito abbracciata a Patrick Jane tutta la notte.
Non avrebbe mai pensato di riuscire ad addormentarsi abbarbicata a lui, come se il sexy consulente si fosse trasformato nel suo orsacchiotto di peluche preferito.
Invece non si ricorda neanche l’ultima volta che ha dormito così profondamente. Evidentemente Jane ha il potere di farla stare bene perfino nel sonno.
«Buongiorno», risponde, sorridendo. E chi conosce bene Teresa sa che è raro vederla sorridere di prima mattina, appena svegliata e, soprattutto, ancora senza tracce di caffeina in corpo.
«Parli nel sonno», le rivela Jane. Anche se vorrebbe semplicemente dirle che è bellissima. E che svegliarsi abbracciato a lei è decisamente piacevole.
Anzi no. E’ meraviglioso.
Ma non gli sono mai piaciuti gli aggettivi così banali.
Per questo evita di rivelare tutto ciò.
«Lo so, me l’hai già detto una volta», mormora lei.
«Presti molta attenzione a quello che dico», commenta lui, piacevolmente sorpreso da quell’inaspettato tuffo del passato. Lui, ovviamente, ricorda ogni conversazione avuta con Lisbon, ogni parola e ogni sorriso. Compresa quella volta in cui, nascosti al buio in una cucina per cogliere i sospettati di un omicidio con le mani nel sacco, l’instancabile agente si era addormentata per terra, e lui l’aveva presa in giro riguardo i discorsi senza senso che fa quando è tra le braccia di Morfeo.
Però lui è lui, e il suo palazzo della memoria è in grado di contenere miliardi di dettagli, aneddoti e dialoghi. In particolare se riguardano Lisbon. Ignorava che anche lei ricordasse cose apparentemente così insignificanti. Forse perché, nemmeno per lei, i momenti trascorsi insieme possono essere definiti insignificanti.
«In effetti troppa, considerato che il più delle volte dici idiozie». Ecco la doccia fredda.
«Vuoi dire quando non risolvo crimini che voi comuni poliziotti non riuscireste a risolvere neanche in cento anni?».
«Noi li risolveremmo benissimo da soli, solo che tu, con i tuoi metodi strampalati, velocizzi un po’ le cose. Tutto qui», gli concede Lisbon, tra uno sbadiglio e l’altro. Ed è già un complimento compromettente, considerato l’ego spropositato del mentalista, sempre pronto a gonfiarsi ulteriormente.
«E va bene. Mettiamola così, se ti fa piacere», mormora Patrick con tono accondiscendente e roteando gli occhi.
«Non è che fa piacere a me, è la verità».
«Ok, ok. Allora non vuoi sapere quello che hai detto?», riparte alla carica l’uomo che non si arrende mai.
«No».
«In realtà muori dalla voglia di saperlo, ma non vuoi darmi questa soddisfazione».
«Sei tu che muori dalla voglia di dirmelo. E va bene, Jane. Sputa il rospo, e poi lasciami in pace», lo esorta Teresa, conscia che, quando Jane vuole dire qualcosa, non c’è modo di evitare che la dica. E, di solito, ciò che dice, o fa, ha delle conseguenze imbarazzanti o catastrofiche. O entrambe.
«Che sono bellissimo e affascinante».
«Idiota». Teresa arrossisce violentemente. Doveva aspettarselo. Ormai li conosce i giochetti di Jane. Forse, nel sonno e senza freni inibitori, ha mormorato davvero apprezzamenti del genere sul suo conto.
O forse no, e lui si diverte a stuzzicarla.
Il dramma è che lei pensa davvero qualcosa del genere. E molto di più. Per il mentalista oggetto di tali riflessioni sarà una sciocchezza scoprirlo.
«Oh», mormora Patrick, spalancando la bocca dalla sorpresa. Rossore di Lisbon più labbra mordicchiate più sguardo sfuggente più tono di voce acido danno un solo risultato: ciò che voleva essere uno scherzo non si allontana poi molto dalla verità.
Negli occhi gli passa un lampo malandrino. «Io scherzavo, ma tu lo pensi sul serio». Usa un tono beffardo, ma ne è lusingato. Molto lusingato.
Teresa sospira. Ecco appunto. Ormai anche Jane è piuttosto prevedibile.
«Non ti devi vergognare, Lisbon. Anch’io penso qualcosa di simile di te».
Il biondo si avvicina pericolosamente al viso di lei, sfiorando quelle sue labbra imbronciate in un bacio veloce e mordicchiandole come ha fatto lei qualche secondo prima.
Ma è estremamente più piacevole se compie lui tale attività; questo è un fondamentale concetto che Lisbon ha appena imparato.
«Suvvia dormigliona. Devi andare al lavoro», mormora a malincuore Jane, con una voce più bassa e intrigante di quella che Lisbon considera legale.
Silenzio.
«Lavoro?», chiede Teresa, incredula come se non avesse mai sentito quella parola.
«Sì. Sai l’FBI, quel posto pieno di poliziotti tontoloni?», la prende in giro lui. E’ davvero divertente questa Lisbon in versione mattutina.
«Più o meno». E’ leggermente stordita dagli occhi di Jane così vicini ai suoi, così grandi e profondi, e dal suo timbro di voce ipnotico.
Poi si gira di colpo verso il suo comodino, staccando mal volentieri lo sguardo dallo sbarazzino ricciolo biondo che incornicia la fronte di Patrick, ed è in quel momento che accade il disastro.
Un urlo squarcia l’ovattato silenzio della camera da letto.
«Janeee!! Sono le 9. E’ tardissimo. Perché diamine non mi hai svegliato?»
Teresa si catapulta giù dal letto, cercando a tastoni le ciabatte e saltando in piedi un secondo dopo, come se le ciabatte in questione si fossero trasformate in molle.
«Suvvia, Lisbon. Rilassati. Nessuno se la prenderà a male se, per una volta, arrivi tardi al lavoro», la rassicura il mentalista, che non appare affatto preoccupato dall’uragano Lisbon e non ha modificato di un millimetro la sua posizione.
«No. No. No! Non oggi».
«E perché?»
«Perché se Abbot si mette in testa che sono affidabile da quando noi…ecco, da quando noi due…sì insomma…». Possibile che Jane non capisca? Come fa a stare così tranquillo?
«Da quando noi due stiamo insieme», completa tranquillamente la frase lui.
Stiamo. Insieme. Noi. Due.
Noi due stiamo insieme. Teresa si beerebbe del melodioso suono di questa frase, se non fosse così tardi e se non fosse profondamente irritata dalla consueta, quanto inappropriata, indolenza di Jane.
«Sì, ecco…quello», mormora lei, con più imbarazzo di quello che vorrebbe.
Jane si mette a sedere sul letto, per poterla guardare negli occhi e assicurarle che va tutto bene. «Teresa, tranquilla. Abbot è contento e noi saremo efficienti come sempre», sussurra con voce ipnotica quanto convincente. Voce che, come sempre, ottiene l’effetto desiderato. Lisbon non è più in iperventilazione né il suo cuore corre il rischio di andare in fibrillazione ventricolare.
«Non oggi, però», aggiunge poi Patrick col sorriso di un bambino di cinque a anni che ha appena combinato una marachella.
Ecco, è finito l’effetto calmante. «Perché non oggi?», chiede una Teresa ancora più agitata di prima.
«Perché io non verrò. Sempre che tu possa sopravvivere un’intera giornata all’FBI senza di me».
«Come scusa? Sei impazzito? Perché non dovresti venire?»
«Perché ho di meglio da fare».
«Meglio da fare di rassicurare il proprio capo che sul lavoro non cambierà niente anche se noi viviamo insieme? Meglio da fare di prendere assassini?», gli urla la voce di Teresa. “Meglio da fare di stare con me?”, gli urla la sua mente.
«Per quanto riguarda quello che hai detto, sì Lisbon, ho di meglio da fare. Per quanto riguarda la cosa che hai pensato, ovviamente no, non c’è nulla di meglio di stare con te. Ma è proprio per questo che oggi non verrò. Devo prendere le mie cose all’airstream e portarle qui. Quindi è chiaro che le due cose, non venire al lavoro oggi e stare con te, sono strettamente connesse».
Un po’ stordita dal lungo monologo sillogistico di colui che della parola ha fatto per anni il proprio mestiere, a Lisbon non torna ancora una cosa. «Potrai venire all’FBI quando hai finito il trasloco», butta lì lei con più indifferenza di quella che prova.
In realtà vorrebbe mettersi a ballare e cantare a squarciagola, magari una canzone delle sue amate Spice Girls.
Trasloco. Wow. Jane ha sul serio intenzione di trasferirsi da lei.
«Quando avrò finito sarò stanco e avrò bisogno di un sonnellino».
«Idiota. Fa’ quello che vuoi. Non sentirò certo la tua mancanza. Già averti per casa è abbastanza stancante».
La sincera risata fanciullesca di Jane le scalda il cuore. Ma, improvvisamente, Teresa si ricorda di essere arrabbiata con lui. O, per lo meno, di dover fingere di essere arrabbiata con lui.
«Almeno cerca di non farmi arrivare ancora più in ritardo».
Poi si accorge che le labbra di Patrick si sono avvicinate pericolosamente alle sue, per poi deviare verso l’orecchio destro. «Per quello avrei un paio di idee, ma sono magnanimo e non le metterò in pratica. Per ora».
 
**********
 
Dopo una doccia portata a termine alla velocità della luce, un caffè trangugiato in una manciata  di secondi (almeno Jane si è reso utile a prepararlo), e un bacio mozzafiato che le toglie definitivamente la voglia di andare al lavoro (anche in questo caso Jane si è reso piuttosto utile), Lisbon si catapulta fuori di casa.
«Cerca di non combinare guai», gli urla.
«Ci proverò», risponde Patrick.
E’ una bugia. Dove c’è Jane ci sono guai, e viceversa. Teresa spera almeno che non le distrugga la casa, che non cada dalle scale maciullandosi definitivamente la caviglia, e che non spaventi tutto il vicinato mettendo in pratica qualche giochetto dei suoi.
Ma, a pensarci bene, i guai che il pazzoide può combinare in casa sono di gran lunga minori rispetto a quelli che potrebbe combinare all’FBI, in particolare oggi. La saggia poliziotta dovrebbe rallegrarsi della sua decisione di tenersi alla larga, eppure non ci riesce. Chissà perché.
Poter ammirare l’affascinante consulente in tuta, con i capelli scarmigliati, i segni del cuscino sulla faccia e, soprattutto, in piedi sulla soglia di casa sua, fa perdere un battito al povero cuore di Lisbon, costretto a un superlavoro piuttosto destabilizzante nelle ultime 48 ore.
Decide di non fare troppo caso a quanto Jane sia sexy appena svegliato, sale sulla sua macchina, e, in una decina di minuti, arriva alla sede dell’FBI.
Sarà sicuramente meglio affrontare da sola il primo giorno di lavoro della sua nuova vita. Sarà più concentrata. Più efficiente. Meno distratta. Fingerà che sia tutto come prima, anche se, in realtà, nulla è più come prima.
Probabilmente Jane si sarebbe divertito a fare l’idiota e a metterla in imbarazzo davanti a dozzine di agenti federali curiosi.
Teresa, però, smettila di pensare a quanto i suoi occhi ti manchino già.
Le sue battute cretine non ti mancheranno affatto.
Quando arriva al secondo piano, ad aspettarla nell’open space, insieme alla sua scrivania vuota, c’è Abbot, piuttosto imbronciato.
«Ben svegliata Teresa», ironizza.
«Scusa il ritardo Dennis. Non succederà più».
«Dov’è il tuo fidanzato?»
«Oggi il signorino ha deciso che non verrà», risponde lei, per una volta rifiutandosi di coprire il delinquentello.
«Cominciamo bene. Spero si degni di raggiungerci. Abbiamo un caso. Uomo, 42 anni. Ucciso tre giorni fa in una stanza d’albergo a Dallas. La polizia locale ci ha chiesto aiuto perché non riesce a venirne a capo. Ti ho lasciato i fascicoli sulla scrivania. Leggili. Ci vediamo tutti in sala riunione tra un’ora per fare il punto della situazione e dare avvio alle indagini sul campo».
«Sono molti fascicoli, non penso che in un’ora sarò riuscita a farmi un’idea».
«Se fossi arrivata prima saresti già a buon punto», le sputa addosso con irritazione il suo supervisore, prima di uscire dalla stanza e sospirare con rassegnazione.
E’ vero. Lisbon intuisce che non è il caso di controbattere. E’ lei dalla parte del torto, stavolta. Per colpa di chi ovviamente?
Sempre di un’unica persona.
Che, per fortuna, ora non è qui. Ci mancherebbe pure lui.
Da diligente poliziotta si sta accingendo a leggere con attenzione tutta quella mole di carta, quando l’agente Fisher la interrompe, avvicinandosi a lei.
«Ehi».
«Ehi».
Entrambe non sanno come iniziare il discorso.
Entrambe, però, sanno che il discorso va iniziato.
«Stai lavorando sul caso dell’uomo ucciso in quella stanza d’albergo?», chiede Kim, con un sorriso incerto.
«Sì, devo ancora leggere tutti i fascicoli. Tu?» chiede Teresa con un tono che vorrebbe essere indifferente, ma riesce a essere soltanto imbarazzato.
«Ci sto lavorando anch’io. Jane dov’è?»
«A casa», mormora Lisbon prima di rendersi conto delle implicazioni compromettenti di quella parola. Ma ormai è troppo tardi. Arrossisce violentemente e si zittisce, consapevole che qualunque cosa aggiunga complicherebbe ancora di più la situazione.
«Ah. Capisco. Allora finalmente abbiamo capito come dev’essere il suo tipo», scherza la Fisher, facendo riferimento a un dialogo surreale che le due avevano avuto un po’ di tempo fa.
«Beh, ecco…», tenta di giustificarsi Lisbon, non sapendo neanche bene che cosa debba giustificare.
«Sono contenta per voi Teresa, sul serio», la interrompe l’altra. «Ho sempre sospettato che sarebbe finita così», mormora sorridendo.
«A quanto pare io e Jane eravamo gli unici a non sospettarlo».
«Evidentemente sì. Va tutto bene. Volevo solo dirti questo. So quello che pensi. E’ vero, all’inizio Jane mi aveva colpito, per un attimo avevo immaginato qualcosa. Ma è andata diversamente, ed è meglio così. Per me va tutto bene». Non è facile rivelare queste cose per una donna abituata, per mestiere e per carattere, a non rivelare nulla di se’.
«Grazie Kim. Sul serio». Teresa aveva sospettato in più di un’occasione che la collega fosse, in qualche modo, affascinata da Jane.
Ma, in effetti, quale donna non è affascinata da Jane?
A parte Lisbon stessa, ovviamente, che è qualcosa di molto peggio che affascinata.
Le due poliziotte si sorridono, augurandosi buon lavoro. Ora che le cose sono state chiarite, entrambe sanno che sarà davvero un buon lavoro.
Lisbon butta di nuovo lo sguardo sui fogli, pronta a svolgere il suo dovere; ma ecco che fa capolino Wylie, con l’espressione di chi muore dalla voglia di dire qualcosa. La poliziotta sbuffa, in realtà più divertita che infastidita. Evidentemente nessuno ha intenzione di lasciarla lavorare in pace stamattina.
«Sono felice che sei rimasta», mormora lui, con la sua vocetta acuta e gli occhi spalancati.
«Grazie, Wylie». Il buffo agente sa essere davvero molto dolce e, in pochi mesi, le si è sinceramente affezionato.
«Sono felice che sei rimasta per Jane», rincara la dose l’analista informatico.
«A quanto pare le voci corrono», commenta Teresa, alzando scherzosamente un sopracciglio.
Ma un atroce dubbio esistenziale tormenta l’animo candido del giovane esperto di computer. «Lisbon, ma se ora tu e Jane state insieme, non litigherete più? Erano divertenti i vostri battibecchi».
Già. Ma, a tal proposito, non c’è nessun problema.
«Oh, tranquillo Wylie. Io e Jane litigheremo ancora più di prima».
 
********** 
 
Nel frattempo, Jane, dopo un tè e una doccia, ha appena deciso di essersela presa abbastanza comoda. Prende il cellulare e telefona al primo nome sulla sua rubrica. Dopotutto gli deve una spiegazione.
«Ciao Abbot».
«Jane. Ben svegliato. Hai dormito bene?»
«Sì, grazie, non c’è male…»
«Non me ne frega un cazzo di come hai dormito!!», lo interrompe l’agente, alzando il tono di voce di circa un centinaio di decibel. «Perché non sei qui? La tua fidanzata arriva in ritardo per la prima volta in vita sua e tu non ti presenti? Non fatemi già pentire della mia magnanimità».
«Suvvia, Dennis, non pensavo che ti sarei mancato così tanto. E poi oggi devo fare trasloco».
«Ti trasferisci da Teresa? Vedi di non farla arrivare in ritardo tutte le mattine, altrimenti licenzio tutti e due in un secondo».
«Oh, qualcuno è di cattivo umore stamattina».
«Tu invece sei fastidiosamente di buon umore».
«Già. Ma per continuare a esserlo c’è una cosa che devo chiederti, Dennis. Un giorno libero. Me lo merito, dopotutto».
«Tu non ti meriti niente. Sono già stato fin troppo generoso. Abbiamo un caso e devi venire a fare il tuo lavoro».
«Vorrei fare una sorpresa a Lisbon».
Questo cambia tutto. Ma come concedere senza perdere la faccia? «Non me ne frega niente di quello che vuoi fare. Beh, a pensarci bene, con la questione della lettera finta e del falso allarme terrorismo su quell’aereo, ti meriti come minimo un giorno di sospensione», brontola il supervisore.
«Sapevo che avresti capito, romanticone», lo saluta Patrick prima di buttare giù.
Maledetto Jane. Alla fine si fa sempre quello che vuole lui. Perché Abbot, in realtà, è davvero un romanticone. L’importante è che non si sappia in giro.
Ora il consulente ha tutto il tempo di cui ha bisogno.
Si veste, abbandonando l’orribile tuta e rimettendosi gli abiti del giorno prima (i calzini che gli ha regalato Lisbon no, sono in lavatrice per volere altrui), e si avvia a piedi al suo airstream, posteggiato poco lontano da lì.
Da quando entrambi si erano trasferiti ad Austin, ufficialmente Patrick aveva voluto parcheggiare la sua casa mobile (che faceva parte delle sue richieste, insieme al divano e a Lisbon stessa) vicino alla sede dell’FBI; in realtà aveva scelto, inconsapevolmente ma neanche troppo, un luogo abbastanza vicino anche alla casa di Teresa.
Il veicolo è piuttosto mal combinato, e avrebbe bisogno di una bella ripulita.
Ma non importa; ora che ha una casa, una casa vera con tanto di tutte quelle cose che pensava gli fossero ormai precluse per sempre, come l’amore, quell’imponente, e, a suo modo, affascinante ferraglia non serve più.
Anzi no, non è del tutto vero. Potrebbe ancora essere utile come mezzo di trasporto in caso di indagini itineranti. E’ solido, affidabile e veloce, anche se non sembra.
O, ancora meglio, potrebbe servirgli per un lungo, e romantico, viaggio on the road con la sua Lisbon; già se la immagina con la testa languidamente appoggiata alla sua spalla, mentre lui sfreccia per le autostrade degli Stati Uniti, facendo rombare il motore con sfrontatezza.
Peccato che, conoscendola, lei insisterebbe per guidare, e di romantico ci sarebbe ben poco.
O forse lo sarebbe ancora di più.
Patrick interrompe le sue fantasticherie e raccoglie la sua roba. Si tratta di un’attività piuttosto rapida, dal momento che i suoi effetti personali sono davvero pochi: qualche giacca, dei pantaloni, tutti rigorosamente grigi o blu, alcune camicie che si era fatto cucire su misura sull’isola, la biancheria, i libri, le riviste di sudoku. Tazze, bollitore e bustine di thè Twinings le lascia; Lisbon, fortunatamente, ne è già provvista. E poi potrebbero averne bisogno in quel viaggio on the road che, prima o poi, spera si regaleranno.
Tutto qui.
Le sue cose sono tutte qui.
Ma la sua vita non è in questi miseri oggetti.
Patrick non ha mai attribuito molta importanza alle cose materiali.
E’ vero, nella sua vecchia esistenza da truffatore e finto sensitivo era piuttosto affezionato ai soldi, i suoi e quelli altrui.
Ma da quando John il rosso gli ha portato via le uniche due cose che davvero contavano, tutto il resto è diventato improvvisamente superfluo. Certo, i soldi consentono di togliersi qualche sfizio, per esempio acquistare un’ormai introvabile macchina d’epoca; permettono di fare regali costosi agli amici (che Lisbon immancabilmente ha rifiutato), e di comprarsi perfino la libertà; ma Patrick Jane non è mai stato il tipo d’uomo che ambisce ad accumulare soldi per il gusto di farlo, oppure a collezionare  orologi di lusso e supertecnologici attrezzi che non saprebbe neanche usare. Il denaro, per lui, è sempre stato un mezzo, non un fine.
Poi, i due anni trascorsi a girovagare in luoghi ai confini della civiltà, e, in particolare, i dodici mesi passati su quella paradisiaca isola messicana, lontana anni luce da tutto ciò che è consumismo, gli hanno fatto perdere definitivamente interesse verso denaro, potere e proprietà. Il damerino col gilè si è trasformato in una specie di hippy nullatenente, con tanto di pareo, camicia a fiori e piedi nudi.
Stava bene laggiù; è grazie a cose semplici e scontate, come il mare e il sole, che ha ritrovato la voglia di ricominciare. E se non fosse stato per l’assenza della persona più importante della sua vita e di fortunate circostanze che gli hanno reso possibile rivederla, probabilmente sarebbe ancora là, a mangiare tacos sulla spiaggia e a fare gare di surf con i delfini.
Quando è tornato alla civiltà, è stato inevitabile portare un po’ di isola con se’; salutato definitivamente il gilè, Patrick ormai indossa solo informali camicie a fiori o con piccoli decori; ovviamente sotto a una giacca politically correct, perché siamo pur sempre all’FBI.
Ma si aggirerebbe in Texas a piedi nudi, se non fosse per le adorabili calze che gli ha regalato Lisbon.
Nel camper non ci sono foto, nemmeno una. Le foto che possedeva sono rimaste nella villa di Malibu; non le ha mai volute rivedere e non ne ha mai sentito la mancanza.
Lui odia le foto.
Odia le foto perché gli ricordano persone che non esistono più: nessuno dei volti ritratti, né quello del vecchio Patrick Jane né quelli di Angela e di Charlotte esistono più. Le foto sono per i morti.
Ma lui è vivo, ora.
Riempie alla bella e meglio una valigia, poi torna a tutta velocità in quella che, da qualche ora, è diventata la sua casa.
Trasporta tutto nella camera di Lisbon, anzi nella loro camera (anche se questo aggettivo possessivo riferito a una stanza da letto e a lui e Lisbon gli suona ancora un po’ strano) sistemando accuratamente ogni articolo di abbigliamento nell’armadio. Armadio piuttosto vuoto, in realtà. Meglio per lui.
Anzi no, qualcosa c’è. E il mentalista più curioso del mondo non si lascerà sfuggire la preziosa occasione di frugare tra gli effetti personali di Lisbon. Gli è sempre piaciuto ficcanasare in giro.
Nell’armadio sfiora i jeans preferiti di Teresa. Riconosce la camicetta bianca che la rende così sexy e la maglia verde che si intona perfettamente ai suoi occhi. Non c’è rimasto molto altro, ha spedito un bel po’ di cose a Washington, ma questo non gli rovinerà il divertimento. Anche se sa che la grintosa poliziotta andrebbe su tutte le furie se lo vedesse in questo momento, e non gli risparmierebbe un vigoroso pugno sul naso, non può fare a meno di aprire i suoi cassetti e frugarci dentro. Gli piace trovare qualche cianfrusaglia che sa di Lisbon e lo fa sorridere: un blocchetto per appunti da vera secchiona; un libro su come diventare campioni di poker in poche mosse; un vecchio mazzo di carte; una scatola, mezza vuota, dei suoi cioccolatini preferiti; la sua pistola di riserva, anzi, una delle sue innumerevoli pistole di riserva; un orsacchiotto di peluche che, probabilmente, le ha regalato sua nipote Annie; e altre cosucce interessanti del genere.
Decide di lasciare perdere l’intimo; non che la cosa non lo intrighi, ma è pur sempre un gentiluomo. E avrà tempo per scoprire anche quello. Con Lisbon, però.
Poi apre il primo cassetto del suo comodino. Probabilmente contiene gli oggetti che Teresa usa più spesso, o quelli che le piace avere sotto mano; magari il libro giallo che sta leggendo, o l’ipod pieno zeppo delle sue canzoni preferite, o forse una fotografia di sua madre.
Invece è vuoto.
Anzi no, c’è della carta.
Ma non è carta qualunque.
Incredibile.
E’ l’origami a forma di rana con cui, molti anni fa, un Patrick Jane più giovane ed egoista le aveva chiesto scusa per l’ennesimo casino che aveva combinato.
Il mentalista se lo ricorda come se fosse accaduto solo ieri.
Le aveva lasciato con noncuranza quella ranocchia bianca e un po’ bruttina sulla sua scrivania al CBI. Lisbon l’aveva guardata con diffidenza, chiedendosi come il farabutto potesse pensare di cavarsela con così poco; poi la rana aveva saltato all’improvviso, cogliendola di sorpresa, lei aveva sorriso e l’aveva perdonato. Come sempre.
Lui aveva fatto quel piccolo scherzo solo per il suo sorriso.
Teresa ha conservato l’origami con cura per tutti questi anni, se l’è portato dietro ad ogni trasloco e l’ha collocato nel cassetto più importante della casa: quello più vicino a lei.
Improvvisamente, e con un certo ritardo (dicono che è il mentalista più bravo in circolazione, ma in queste cose è inspiegabilmente ottuso), Patrick capisce che Teresa tiene a lui esattamente quanto lui tiene a lei. E, forse, da molto più tempo.
Improvvisamente ha una voglia matta di vedere quel sorriso.
Ma ha già un piano per fare in modo di rivederlo al più presto.
Farà una sorpresa a Lisbon.
Lei non ama le sorprese, o meglio, dice di non amarle perché nessuno gliene ha mai fatte, ma in realtà le adora.
E, comunque, lui adora le sorprese.
Non è del tutto esatto.
Lui adora fare sorprese a Lisbon.
In una frazione di secondo un Jane iperattivo, che sprizza allegria da tutti i pori, ha già deciso cosa deve fare.
Ha solo bisogno di:
  1. Qualche ora di tempo.
  2. Carta.
  3. Penna.
  4. Telefono.
  5. Una mappa di Austin.
  6. Un supermercato.
  7. Un fiorista.
  8. Due biciclette.
  9. Due giacche a vento.
  10. Uno stereo.
  11. Quel cd.
  12. Teresa Lisbon.
 










**********

Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Spero che questo piccolo tuffo nel passato vi abbia fatto sorridere ;) Prossimo capitolo tra una settimana o poco più!
A presto

 
 

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Capitolo 5
*** An empty brown couch ***


AN EMPTY BROWN COUCH
 

Dopo aver perso alcune diottrie a causa di quegli interminabili  fascicoli, e dopo essersi annoiata a morte alla riunione del team, Lisbon capisce che nessuno lì dentro ha idea di come risolvere il caso.
Perfetto.
Se solo…
…no, se anche ci fosse Jane non è detto che risolverebbe tutto. Non ha mica la bacchetta magica.
O forse sì, ma Teresa non è disposta ad ammetterlo.
E, comunque, lei non sente certo la sua mancanza solo perché non lo vede da tre ore.
Tre ore e sedici minuti, a voler essere precisa.
Assolutamente no.
Decide di telefonargli, ma solo per sapere se la sua casa è ancora tutta intera.
Solo per quello, sia chiaro.
«Lisbon, lo sapevo che avresti sentito la mia mancanza».
«Non sento affatto la tua mancanza».
«E vorresti dire che non ti annoi senza di me?»
«No, anzi mi godo una rilassante tranquillità».
«Ecco, quindi ti annoi».
L’agente si arrende. Intanto quel finto sensitivo da strapazzo avrà già capito tutto dal suo tono di voce. «Forse, un pochino. Ma non ti ho chiamato per questo. Dove sei?»
«Perché vuoi sapere dove sono?»
«Perché quando non so dove sei divento nervosa».
«Me l’hai già detto una volta, questo».
«Quindi anche tu ricordi dettagliatamente le nostre conversazioni».
«Touchè. Lisbon, mi piacerebbe continuare a stare al telefono con te ma purtroppo devo andare».
«Si può sapere cosa stai facendo?»
«No. Fidati di me».
«E’ dura fidarsi di te, lo sai. Anzi, quando mi chiedi di farlo non è mai un buon segno».
«Però ci riesci sempre molto bene. E di questo ti sono grato».
«Peccato che ogni volta me ne pento».
«Suvvia, Lisbon, ti piace il rischio, ammettilo. Come va col caso?».
«Alla grande».
«Stai mentendo».
Teresa sospira. E’ inutile negare l’evidenza. Soprattutto se l’interlocutore si chiama Patrick Jane. «E va bene. Ci siamo arenati».
«Chissà perché…».
«Non certo perché non ci sei tu!»
«E invece è proprio per quello».
«E va bene, Jane. Ok, è vero»; Lisbon sbuffa, innervosita da quello che sta per fare. «Abbiamo bisogno di te. Tanto lo so che è quello che vuoi sentirti dire».
«Non esattamente».
La donna sbuffa ancora, questa volta increspando le labbra in una smorfia maliziosa. «E va bene. Io ho bisogno di te».
«Molto meglio», risponde Patrick con un sorriso da diecimila watt che Lisbon non può vedere ma può intuire. «Chi è la vittima?», si informa con diligenza e sincera curiosità. I rompicapi gli sono sempre piaciuti. Anche se ora, in realtà, è piuttosto indaffarato a scegliere fiori, districarsi tra le strade di Austin e noleggiare biciclette.
«Un uomo di 42 anni. In una camera d’albergo a Dallas. Uno spettacolo orribile», spiega con voce incolore Teresa, sfogliando le pagine del dossier e soffermandosi dolorosamente sulle foto. E’ una poliziotta, una brava poliziotta, ma a certe cose non potrà mai abituarsi; forse, è proprio questo a renderla una brava poliziotta. «L’assassino gli ha bruciato mani e piedi, l’ha picchiato e gli ha cavato tutti i denti. Secondo il medico legale di Dallas la vittima era appena morta quando ha subito le mutilazioni. Quindi non è stata torturata o seviziata, ma si tratta forse di un marchio post-mortem che potrebbe avere un significato particolare per l’assassino. Sono state trovate nel sangue alte concentrazioni di propofol, un potente anestetico che, iniettato a quelle dosi, è letale. La vittima non aveva documenti con se’, ma il nome con cui si è registrato in albergo è James McDonald. L’ora del decesso è stimata intorno alle ore 22 di sabato scorso, tre giorni fa; la causa della morte è arresto cardiocircolatorio provocato dal propofol, iniettato nel braccio destro, su cui è stato trovato il piccolo foro dell’ago di una siringa. Il corpo è stato scoperto dalla donna delle pulizie la mattina dopo. Sono state rinvenuti sia l’accendino sia la pinza con cui l’assassino ha mutilato il corpo, mentre non c’è traccia della siringa con cui è stato avvelenato; la cosa insolita è che sopra ai due oggetti sono state trovate solo le impronte digitali della vittima. Forse l’assassino si è voluto prendere gioco della polizia lasciando le impronte del cadavere prima di bruciargli le dita. Le stanze vicine a quella della vittima erano libere, quindi non abbiamo dei possibili testimoni. Il portiere dell’albergo non ha notato nulla di anomalo quella sera, nessuna visita, nessun rumore, nessun personaggio insolito, nessun movimento sospetto. Ed è strano, visto che l’assassino avrà fatto un bel po’ di rumore».
«Continua, Lisbon».
«La polizia locale ha controllato la vita privata di James McDonald. E’ sposato con Sandra Moss, infermiera ferrista di sala operatoria. La moglie dice che avevano litigato e che quella notte James avrebbe dormito in albergo. Dai tabulati telefonici sembra, comunque, che nessuno dei due coniugi avesse un amante. Sandra, che avrebbe potuto procurarsi il propofol con facilità, ha, però, un alibi di ferro, confermato da dozzine di persone. Dalle 20 alle 6 si trovava al Dallas Medical Center, l’ospedale in cui lavora, per il turno di notte. La vittima lavorava alla Federal Reserve Bank of Dallas. Il fatto che ha dato una svolta alle indagini è che, la stessa sera in cui McDonald è morto, è sparito anche un suo collega, Thomas Randall, 45 anni; è stata sua moglie a denunciarne la scomparsa. Dice di essersi allarmata subito perché non era mai successo che il marito trascorresse fuori la notte, tanto meno senza avvertirla. La polizia, dopo il ritrovamento del corpo di McDonald, inizialmente ha pensato che fosse stata presa di mira la banca, forse una vendetta, o forse con lo scopo di carpire informazioni per un’eventuale rapina;  ma poi, siccome il corpo di Randall non è stato trovato né la moglie ha ricevuto richieste di riscatto né in banca è accaduto qualcosa di anomalo, la polizia locale ha chiesto aiuto all’FBI. Noi pensiamo che l’assassino di James McDonald sia Thomas Randall, ora in fuga».
«Possibile».
«Ma non pensi sia la verità, giusto?»
«Penso tante cose Lisbon, non avrebbe senso dirtele tutte ora. Che rapporti avevano i due?».
«I colleghi dicono che i rapporti tra loro sono sempre stati buoni, ma pare che negli ultimi tempi girasse la voce che McDonald corteggiasse la moglie di Randall. Potrebbe essere il movente».
«Interessante. Qualcuno della banca ha mai visto insieme i due presunti amanti in atteggiamenti equivoci?»
«No, era stato James a confidarsi con uno dei colleghi, affermando che Thomas si era messo in testa che lui e sua moglie avessero una relazione. Pare che gli ultimi giorni avesse fatto alcune violente scene di gelosia».
«I colleghi hanno assistito?»
«No. E’ stato McDonald a raccontarlo. E i colleghi hanno commentato dicendo che, evidentemente, alla moglie di Randall piaceva sempre lo stesso tipo d’uomo, biondo, alto, occhi azzurri».
«Interessante».
«Almeno dimmi le tue impressioni, Jane!».
«Chi ha identificato il corpo?»
«La moglie, con assoluta certezza, nonostante le molte ecchimosi sul volto».
«Perfetto. Hanno trovato delle scarpe in stanza?»
«Scarpe? No, non direi. Nel dossier non parlano di scarpe tra gli oggetti rinvenuti sulla scena del crimine».
«E quali sono gli oggetti rinvenuti?»
«Nessun abito, d’altronde McDonald avrebbe dovuto passare in albergo soltanto una notte. Solo un giornale, il portafoglio e il suo cellulare».
«Portafoglio senza documenti».
«Già».
«Perfetto. Che giornale era?».
«Un giornale di sport, mi sembra. La vittima, probabilmente, l’ha preso nella hall dell’albergo, dove è disponibile per i clienti un assortimento di quotidiani. Dunque, Jane?»
«Dunque nulla, Lisbon, il caso è più semplice di quello che sembrava, quindi non mi interessa e voi non dovreste avere bisogno di me. E poi oggi sono in vacanza, ricordi?»
«Idiota. Mi hai fatto perdere tutto questo tempo inutilmente?
«Sei stata tu a chiamarmi, ricordi?»
«Giusto, hai ragione: sono io la stupida. Qui ce la caviamo alla grande anche senza di te».
 
*********
 
 
In realtà il caso è interessante; semplice, certo, ma divertente.
Mai divertente quanto far arrabbiare Lisbon, questo è sicuro.
Però è un rompicapo stuzzicante. Ed è negli interessi di Patrick Jane che l’FBI lo risolva in giornata. Stasera il furbo biondino vuole Teresa tutta per lui, e questo non sarà possibile se in giro c’è un assassino a piede libero.
Lui, ovviamente, ha già un’idea che gli frulla per la testa, ha solo bisogno di qualche conferma. Da chi se non da Cho?
«Ciao Cho».
«Cosa c’è Jane?»
«Ho sei cose da chiederti. La prima: nella hall dell’albergo c’è una televisione, e il portiere di notte è molto giovane, diciamo circa 20 anni?»
«Sì. Questa valeva per due, però. Poi?». L’efficienza è una delle doti del coreano.
«McDonald possedeva una cassetta di sicurezza a suo nome nella banca in cui lavorava?».
«Controllo. No, ma ce n’è una a nome della moglie. Poi? ».
«I colleghi di Sandra Moss hanno notato qualcosa di diverso in lei negli ultimi mesi?»
«Domanda interessante. Pare che da un po’ di tempo a questa parte Sandra si desse parecchie arie, frequentasse ristoranti di lusso e sfoggiasse alcuni gioielli piuttosto costosi».
«Perfetto. Poi dovresti telefonare alla moglie di Thomas Randall e chiedergli se il marito è un appassionato di sport».
«Ok. Poi?»
«Puoi controllare con i potenti mezzi dell’FBI se nella notte dell’omicidio nel reparto dell’ospedale dove lavora Sandra Moss è stato ricoverato un paziente nuovo?»
«Controllerò, poi ti dico. La sesta cosa?»
«Sempre con i vostri potenti mezzi, dovresti scoprire che numero di scarpe portano i nostri due uomini, McDonald e Randall»
«Ok». E’ questo il bello di Cho. Non si stupisce mai di nulla. O quasi. In realtà si era meravigliato una sola volta nella vita, di qualcosa che riguardava certi due piccioncini che tutto erano tranne che fratello e sorella.
«Chiamami quando hai le informazioni».
«Ok. Mi avevano detto che tu non lavori a questo caso».
«Non è da te ascoltare i pettegolezzi, Cho. E, comunque, è vero. Non lavoro a questo caso, diciamo che è solo un passatempo».
«Ok». Come Kimball aveva già detto una volta, è difficile entrare nella testa di Jane, ed è più salutare non farlo.
Dopo circa mezz’ora Patrick, tutto preso in occupazioni segrete e piacevoli che stanno mettendo alla prova le sue capacità manuali, riceve l’attesa telefonata.
«Randall porta il 41 di piede. McDonald il 45. Thomas Randall odia lo sport; secondo la moglie non ha mai guardato una partita di baseball, non ha idea di cosa sia il fuorigioco e ignora che lo scopo del basket sia fare canestro. Nella notte dell’omicidio, alle 23, è stato ricoverato al Dallas Medical Center un solo paziente. E’ stato registrato come sconosciuto di circa 40 anni, probabilmente è un senza tetto. Il motivo del ricovero è “ipotermia e ubriachezza”. Pare che non sia ancora stato dimesso».
«Cho sei stato molto utile. Tra un’ora ti scriverò per sms il nome dell’assassino, con tanto di spiegazione».
«Io e Lisbon stiamo per andare a Dallas a indagare».
«Non c’è alcun bisogno di andare fin là. Di’ ad Abbot che devi solo controllare una pista e che tra un’ora saprai chi è l’assassino».
«Ok».
Che Lisbon parta per una gitarella fuori porta è l’ultima cosa che Patrick potrebbe mai desiderare. Presupporrebbe un’indagine infinita, e il pover’uomo rivedrebbe la sua poliziotta preferita non prima di 48 ore.
Ma Jane, ovviamente, chi sia l’assassino lo sa già.
Non ha intenzione di rivelarlo subito all’FBI, però.
Non gli importa se ciò potrebbe causare un ritardo nelle indagini, pregiudicando l’arresto di un delinquente; non si è mai fatto troppi scrupoli a riguardo.
Comunque è piuttosto sicuro che tutto andrà per il meglio.
D’altronde, senza di lui, le indagini sarebbero ancora in alto mare. E il mentalista ha bisogno ancora di un po’ di tempo per mettere in pratica il suo piano top secret, che con l’omicidio non c’entra niente. Ma l’omicidio terrà alla larga Lisbon ancora per qualche oretta, ed è questo ciò di cui il suo genio creativo ha bisogno.
Sarà divertente.
 
*******
 
Dopo un’ora Cho riceve il famoso sms.
Ok. Come sempre Jane non sbaglia un colpo.
Da diligente agente federale tutto d’un pezzo verifica un paio di cose tra prove, foto e deposizioni.
Sì. Ora tutto ha un senso.
Kimball comunica ad Abbot che deve parlare col team per una svolta delle indagini, e, nel giro di un quarto d’ora, ecco tutti i federali riuniti in sala conferenze per una riunione straordinaria.
«Abbiamo sempre pensato che la vittima fosse James McDonald e l’assassino fosse Thomas Randall. Invece è il contrario. McDonald è l’assassino, e la vittima è Randall», spiega Kimball, come sempre dimenticandosi di avere a disposizione una mimica facciale.
«Come sarebbe?», tuona Abbot.
«James McDonald negli ultimi tempi rubava soldi in banca; cose piccole che passavano inosservate a tutti. Ma il suo collega Thomas Randall, qualche giorno prima di morire, scopre tutto. Minaccia di denunciarlo, ma l’altro promette che avrebbe messo tutto a posto. In realtà McDonald, sfruttando una vaga somiglianza con Randall, organizza il suo piano nei dettagli: zittire per sempre il collega curioso e far credere di essere lui stesso la vittima, per essere poi libero di sparire e rifarsi una vita. Per costruire un falso movente mette in giro la voce che Thomas sia geloso di lui per una sua inesistente tresca con la signora Randall, poi prende una camera in albergo. Quella sera chiama Randall dandogli appuntamento in quella stanza per chiarire la faccenda; giura che avrebbe restituito i soldi, vuole solo parlare in un ambiente neutro e al riparo da orecchie indiscrete. Thomas si fida e si reca all’appuntamento. McDonald lo uccide, iniettandogli di sorpresa il propofol a dose letale e con effetto immediato. Poi si occupa del corpo in modo da evitare il riconoscimento attraverso eventuali impronte. Dopodiché fugge, sostituendo fede al dito, cellulare e portafoglio della vittima con i suoi, senza però inserire i propri documenti; se la polizia avesse trovato la carta d’identità avrebbe mostrato subito la foto al portiere dell’albergo che, probabilmente, non avrebbe riconosciuto quell’uomo come il cliente di quella notte. Invece, senza una foto disponibile nell’immediato, con una somiglianza che avrebbe fatto coincidere le descrizioni (alto, biondo, occhi azzurri), e con una moglie complice che avrebbe riconosciuto con assoluta certezza il corpo come quello di suo marito, senza dare luogo ad ulteriori indagini identificative, era probabile che tutti ci sarebbero cascati».
«Ma il portiere di notte dell’albergo non ha visto o sentito nulla?», domanda l’agente Fisher, interrompendo la spiegazione.
«Il portiere, 20 anni, non si accorge di niente perché quella sera in televisione c’era il concerto di Miley Cyrus, la beniamina dei ragazzini in età post adolescenziale; nella hall c’è un televisore, e, per vederlo, il ragazzo abbandona la sua postazione alla reception, ed è troppo preso dal rumoroso spettacolo per accorgersi di qualcosa».
«Ma McDonald dove è andato dopo aver commesso l’omicidio?», si intromette Lisbon.
«Il nostro uomo, libero di scappare indisturbato, si reca all’ospedale dove la moglie, sta svolgendo il suo turno di notte; Sandra si occupa di nascondere lì il marito, facendolo ricoverare come senzatetto. Infine, quando la polizia la chiama, finge di riconoscere con assoluta certezza il corpo come quello del coniuge».
«Dunque marito e moglie sono complici?», chiede Wylie, che, nonostante la sua straordinaria abilità informatica, a volte si dimostra incredibilmente lento.
«Sì. Entrambi pensavano che il caso sarebbe stato chiuso, incolpando della morte di McDonald il collega sparito, Randall, ovvero la vera vittima. In questo modo, senza più la minaccia dell’uomo che voleva denunciarli, i due coniugi avrebbero potuto scappare indisturbati e ricostruirsi una nuova vita grazie ai soldi rubati, non appena la situazione si fosse calmata».
«E’ tutto molto interessante. Ma le prove?», chiede Abbot, un po’ stordito, non saprebbe dire se più dall’improvvisa svolta del caso o dalla insolita loquacità del suo agente.
«Le colleghe di Sandra Moss, negli ultimi tempi, si erano accorte di un improvviso cambio del suo tenore di vita, che può spiegarsi solo con una maggiore disponibilità di denaro; probabilmente illegale, visto che non aveva parlato con nessuno di eredità inattese o lavori extra. Sandra, in qualità d’infermiera ferrista in sala operatoria, avrebbe poi potuto procurarsi con molta facilità il propofol. Chi ha commesso l’omicidio ha mutilato il corpo della vittima per impedire il riconoscimento del corpo attraverso impronte digitali, impronte dentarie, e numero di scarpe. Avrebbe potuto bruciare anche il volto, ma ha preferito solo colpirlo, per renderlo difficilmente riconoscibile in caso di confronti con vecchie foto, ma non completamente irriconoscibile; Sandra ha potuto affermare di riconoscere il marito, senza mostrare, tra l’altro, alcun segno di tentennamento, che sarebbe stato naturale considerate le condizioni del cadavere. Sulla pinza e sull’accendino sono state trovate le impronte digitali di McDonald; evidentemente non si è preoccupato di pulirle perché ha pensato che, se la polizia le avesse confrontate col database della banca, le avrebbero identificate come quelle della vittima, cioè McDonald stesso, senza considerare l’ipotesi più ovvia; ovvero che fossero quelle dell’assassino. Inoltre nella stanza è stato trovato un giornale di sport, scelto dal cliente tra molti altri giornali disponibili nella hall dell’albergo; peccato che sappiamo da sua moglie che Thomas Randall odiava lo sport. E’ molto improbabile che abbia scelto quel giornale, e questo fatto si spiega soltanto ammettendo che non era lui il cliente dell’albergo. Infine, la notte dell’omicidio è stato ricoverato al Dallas Medical Center un uomo non identificato, registrato come senzatetto. La firma dell’infermiera che si è occupata dell’accettazione è, guarda caso, Sandra Moss. E di solito non è lei ad effettuare i ricoveri, lavorando, più che altro, in sala operatoria. L’uomo ha 40 anni e probabilmente è il marito in fuga. Risulta ancora ricoverato. Probabilmente in attesa del momento giusto per scappare con lei e i soldi. Nei fondi dell’ospedale, o nei frigoriferi, probabilmente ci sono ancora i denti di Randall. Sandra aspetta il momento giusto per farli sparire».
Probabilmente questo è il discorso più prolisso che Kimball Cho abbia fatto in tutta la sua vita.
«E i soldi?», domanda Abbot.
«I soldi si trovano in una cassetta di sicurezza in banca, a nome della signora Moss. E’ una beffa a cui McDonald avrebbe difficilmente resistito: nascondere i soldi nella banca stessa a cui li aveva rubati».
«Verificheremo tutto. Nel frattempo io e Fisher andiamo in ospedale ad arrestare i coniugi McDonald. Complimenti Cho».
«Non è merito mio. E’ stato Jane».
«Ma Jane non è qui», osserva Abbot, piuttosto confuso dal coinvolgimento dell’irritante consulente, che, per una volta, non sembrerebbe avere nessun merito.
«Ha risolto il caso per telefono», spiega Kimball, con voce incolore. Se gli dispiace un po’ non poter fare lui la bella figura, ovviamente, non lo dà a vedere.
«Incredibile», commenta l’agente supervisore. Jane c’entra sempre, ormai avrebbe dovuto impararlo.
Già incredibile, pensa Lisbon, con un fremito di orgoglio. Il farabutto non si smentisce mai.
Guarda il divano in pelle. Vuoto. E triste.
Come lei.
Sì, è vero. Le manca.
Le è mancato terribilmente per tutto il giorno, non c’è niente da farci.
Perfetto. Quell’uomo l’ha stregata. Anzi, forse l’ha ipnotizzata, e, conoscendolo, non è una possibilità poi così remota.
Tra poche ore Teresa uscirà dall’ufficio,  tornerà a casa e lo rivedrà; o almeno spera. A meno che il pazzoide non stia facendo qualche giochetto assurdo dei suoi. A meno che non abbia già deciso di andarsene. In questo caso non gliela farebbe passare liscia; lo inseguirebbe per tutti gli Stati Uniti e gli pianterebbe una pallottola in testa.
Ma, tralasciando scenari apocalittici di pistole e pugni sul naso, Lisbon vorrebbe solo che quell’idiota fosse qui.
Ora.
E’ imbarazzante. Lei, l’agente federale abituata a contare solo su se stessa, non riesce più a fare a meno di Patrick Jane.
Anzi, a pensarci bene, non ci è mai riuscita.
Ma, forse, neanche a lui piace starle distante.
Altrimenti non si sarebbe disturbato tanto a risolvere un caso che lo annoiava e a cui non era obbligato a partecipare. E il furbetto non fa mai ciò che non ha voglia di fare.
Anche se lui non lo ammetterebbe neanche sotto tortura, Lisbon sa che ha voluto semplicemente aiutarla. Questo dolce pensiero non può che farla gongolare.
Il divano marrone è vuoto, ma Patrick, in un modo o nell’altro, è sempre vicino a lei.












*************

Angolo dell'autrice
Questo è il mio primo tentativo in assoluto di scrivere qualcosa di vagamente crime, quindi perdonate eventuali, e probabili, errori o incongruenze ;)
Ciao a tutti e alla prossima one-shot

 

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Capitolo 6
*** Pink roses in the garden ***


PINK ROSES IN THE GARDEN

 
I coniugi McDonald sono stati trovati, prelevati, interrogati e arrestati.
Sono le 5 del pomeriggio ormai, e l’agente speciale Lisbon è diligentemente seduta alla sua scrivania a compilare le ultime scartoffie sul caso.
Ma la verità è che si sta annoiando a morte.
Non è più abituata a lavorare in un ambiente così banalmente tranquillo, senza i fastidiosi scherzetti di un certo consulente biondo, e senza la sua figura familiare accoccolata sul divano di pelle dell’open space.
Sembra incredibile ma, nonostante quello che lei ha sempre affermato per salvare la faccia, il ritmo del respiro del bell’addormentato sul sofà ha il potere di farla concentrare e di renderla più efficiente. Non glielo confesserà mai.
A proposito, nessuna traccia o notizia di Jane da parecchie ore. E’ decisamente strano.
Lo chiama a casa e non risponde nessuno. Non è un buon segno.
Lo chiama sul cellulare e scatta la segreteria. Non è decisamente un buon segno.
Jane, dove diavolo ti sei cacciato?
Teresa non può sapere, malgrado il sesto senso da sbirro, che Patrick sta trascorrendo la sua interminabile giornata in giro per la città, stranamente senza fare danni, e con l’orecchio destro ormai incollato al telefono.
Non può nemmeno immaginare che tutto questo faccia parte di un suo ingegnoso, e soprattutto innocuo, piano; e, tanto meno, che lo scopo del piano in questione sia solo farla sorridere.
Quello che però la donna sa è che, tutto sommato, neanche questa volta le risulterà troppo difficile concedergli la propria fiducia. Dal lontano giorno di quella stupida prova della fiducia,  buttarsi nel vuoto all’indietro sperando di non cadere è diventata un’abitudine per lei, quando di tratta di Patrick Jane. E si tratta sempre di Patrick Jane.
Lisbon increspa le labbra involontariamente e ordina a se stessa di non immaginare scenari apocalittici di fughe rocambolesche, case andate a fuoco e vicini imbufaliti; ha detto che sarebbe rimasto, che stamattina avrebbe addirittura fatto una specie di trasloco, quindi è piuttosto improbabile che si sia già dileguato. Anche se con Jane, i suoi demoni e le sue bizzarrie, è meglio non affidarsi al calcolo delle probabilità e non dare mai nulla per scontato; dopotutto è un cane sciolto, e sempre lo sarà. Lisbon non saprebbe dire se questo lato di lui la faccia più sorridere o più innervosire. Molte caratteristiche del consulente le fanno questo effetto. Decisamente troppe.
Quando finisce di controllare i fascicoli per l’ennesima volta (vuole fare bella figura con Abbot, dopotutto è sempre la solita, pignolissima, agente speciale Lisbon), le viene in mente all’improvviso che la sua casa, Jane o non Jane, è comunque mezza vuota; casa che, probabilmente, mister Ficcanaso avrà già messo a soqquadro, dispiacendosi del fatto che ci siano pochi oggetti tra cui frugare. Ecco l’unico lato positivo di averne già spediti molti a Washington.
La donna alza gli occhi al cielo e decide di fare l’ultima cosa che avrebbe voglia di fare. Ha bisogno di quella roba. Non può certo permettersi di ricomprarla, come quell’incosciente megalomane biondo aveva suggerito. E poi Teresa rivuole la sua.
Potrebbe cavarsela con una mail o un sms, ma ha la sensazione che non sarebbe un comportamento alla Lisbon; è già stata vigliacca troppo a lungo, per essere quella che ha fatto della correttezza il proprio regime di vita. Un confronto diretto, possibilmente civile, è inevitabile, tanto più dopo quella rapida e incoerente telefonata in aeroporto di cui ha vaghi ricordi (al momento le sue facoltà cerebrali erano piuttosto intorpidite). Glielo deve, dopotutto. E lo deve anche a se stessa.
Approfittando dell’insolito fatto che nell’open space non ci sia nessuno dei suoi colleghi, compone quel numero che, negli ultimi mesi, aveva imparato a memoria.
Una voce che non riconosce, perché forse non l’ha mai ascoltata sul serio, le risponde. Ora tocca a lei.
«Marcus. Ciao. Sono Teresa».
Silenzio.
«Marcus, ci sei?»
«Non è il tuo numero».
«Cosa?»
«Non mi stai chiamando dal tuo cellulare, altrimenti non avrei risposto», chiarisce Pike con astio.
Cominciamo bene. «No, ti chiamo dall’FBI. Come stai?»
«Come vuoi che stia? E comunque non ti riguarda».
«Non serve a niente dire che mi dispiace, però mi dispiace sul serio». Lisbon tenta di usare l’approccio della brava agente che conforta il parente della vittima di un omicidio. Empatia e distacco insieme. Mai immedesimarsi troppo. Mai essere troppo coinvolta.
«Mi hai chiamato per dirmi questo? Perché, se è così, potevi risparmiartelo. Immagino che all’FBI non ti paghino per fare la telefonista».
«No, in effetti no. Ti ho chiamato per chiederti se puoi rispedirmi la mia roba». A pensarci bene, non è che poi le dispiaccia molto per Pike. Dopotutto aveva capito la verità molto prima di lei, ma, nonostante questo, aveva deciso di fare finta di niente e di ingozzarla di pancake. Era stato vigliacco anche lui, a quanto pare.
«Ah. Vedo che non perdi tempo». La voce dell’uomo che avrebbe dovuto sposare è secca e non promette niente di buono.
«Ho bisogno delle mie cose, Marcus».
Silenzio.
«Sei ancora lì?», chiede Teresa, già rassegnata all’eventualità, neanche troppo remota, che lui abbia già buttato giù la cornetta e nel cassonetto le sue cose. Ecco, dovrà dire addio definitivamente alla sua valigia preferita, quella che le aveva regalato suo fratello Tommy, e al vecchio sassofono che suonava al liceo.
Ma, forse, c’è ancora una speranza. «Sì», risponde brevemente il suo interlocutore.
«Hai sentito quello che ti ho chiesto, Marcus?», insiste lei. Le sembra di aver a che fare con un cerebroleso. Peggio del pestifero bimbo di cinque anni travestito da affascinante quarantacinquenne riccioluto che deve sopportare tutti i giorni; e che, comunque, ha un’intelligenza pari a quella del suo ex fidanzato moltiplicata per cento.
«Perché non le lasci qui, Teresa? Sei in tempo per cambiare idea. Se mi raggiungi, faremo finta che non sia successo niente», mormora in fretta l’uomo, trattenendo il fiato.
Incredibile. Tutto Lisbon si poteva aspettare tranne questo repentino cambio di atteggiamento. Evidentemente Pike è bipolare. Oppure non si rassegna all’idea di perderla. Ma non si può perdere qualcosa che non si ha mai avuto.
«Marcus…io non cambierò idea», chiarisce Lisbon con dolcezza e determinazione, le due cose che mette in tutto quello che fa.
«Non la penserai così quando Jane ti farà uscire di testa».
«Oh, se è per quello lo sta già facendo».
«Ma tu lo ami».
«Sì», risponde lei con franchezza, senza alcuna esitazione.
«Capisco. Non hai mai usato quel tono quando ti ho chiesto se mi amavi».
E’ vero. «Non ho mai voluto ingannarti, né farti soffrire, questo lo sai».
«Voglio sperarlo. L’hai fatto, però».
«L’ho fatto anche a me stessa».
«Va bene, se è questo che vuoi, ti spedirò le tue cose. Addio Teresa».
Lisbon non fa in tempo a ringraziare il suo ex futuro marito, che un colpo sordo e l’inconfondibile bip bip le annunciano che la telefonata si è appena interrotta.
Non è stato semplice. Pike è una brav’uomo, e Lisbon tutto avrebbe voluto tranne che far soffrire un brav’uomo. Ma di una cosa è certa: malgrado quello che lui possa credere ora, la verità è che gli ha fatto soltanto un favore. Marcus non è affatto innamorato di lei: non può esserlo semplicemente perché Teresa, solo ora se ne rende conto, in compagnia del bell’agente dei crimini d’arte non è mai stata se stessa. L’ex futura signora Pike, accondiscendente e tutta moine, non è mai esistita; esisteva solo nella mente di Marcus, e, in effetti, anche tra le sue braccia, ma solo perché sperare in un futuro con quel mentalista da strapazzo, che ha sempre avuto un posto speciale nel suo cuore, le sembrava fantascienza.
Non è fiera del suo comportamento, ma è andata così, e tutti, perfino la granitica agente Lisbon, possono sbagliare. Decidere di trasferirsi da Marcus, e di sposarlo, era stato soltanto un goffo e contorto tentativo di negare a se stessa quell’inconfessabile verità.
E’ tutto molto semplice, adesso.
Adesso Teresa è completamente libera.
E, avendo quasi terminato di svolgere il suo lavoro da scribacchina, tra poco sarà anche libera di uscire dall’FBI, tornare a casa e baciare il suo nuovo coinquilino.
Ma non ancora.
Qualcuno bussa attraverso il vetro dell’openspace. Sembra trattarsi di un pacco in grado di camminare da solo, ma, guardando con più attenzione, la donna capisce che è soltanto un ragazzo che trasporta un pacchetto più grosso di lui: probabilmente un fattorino. Gli fa cenno di entrare.
«Ho da fare una consegna alla signorina Teresa Lisbon».
«Agente», chiarisce Teresa, indicando il tesserino col solito gesto della poliziotta abituata da anni a farsi rispettare, a suon di gomitate e dolcezza, in un mondo governato da uomini. «Sì, sono io».
«Prego, firmi qui».
Possibile che la sua roba sia già arrivata da Washington?
Beh, ovviamente no. A meno che non abbia viaggiato alla velocità della luce e Pike non abbia doti aliene.
Una volta congedato il ragazzo, Lisbon apre il pacco con diffidente curiosità. Dentro trova nientepopodimeno che due dei tre elegantissimi vestiti che Jane le aveva regalato a Islamorada. Quelli che, per un attimo, l’avevano fatta sentire una principessa. Il bianco e il verde. Li aveva lasciati all’hotel quando era scappata; non senza rammarico, a dir la verità.
Ma cosa significano?
Apre la busta allegata al pacco. Dentro c’è un biglietto. Riconosce la scrittura curata e un po’ infantile : il suo mentalista preferito riesce sempre a sorprenderla.
 
Mia cara Lisbon, penso che avrai riconosciuto i vestiti che avevo scelto per te. Indossane uno, quello che preferisci, e torna a casa.
Ps: ho escluso quello lungo, perché ho pensato che fosse un po’ troppo scomodo per quello che ho in mente.
Pps: se ti chiedi come ho fatto a farteli consegnare in ufficio direttamente da Islamorada, posso solo dirti che il telefono è un potente mezzo e che io, evidentemente, non ho perso le mie capacità persuasive.
 
Oh mio Dio, pensa Teresa. Ma sta scherzando? Non solo quel pazzoide le sta chiedendo di indossare in città (e non in un lussuoso hotel dove non la conosce nessuno e ti vietano di cenare in jeans) un vestito del genere (bellissimo, per carità, solo un po’ troppo corto per i suoi standard), ma dovrebbe pure metterselo in ufficio e sfilare tra le scrivanie dell’FBI? Che vergogna. Non se ne parla.
Ma, soprattutto, il lato più inquietante di tutto questo è: cos’ha in mente Jane?
A parte metterla in imbarazzo, quello è scontato.
Lo scansafatiche più indolente del mondo ha proprio del tempo da perdere se ha voglia di fare questi giochetti da idiota.
Suo malgrado, però, è curiosa. E più elettrizzata di quello che dovrebbe.
In un attimo Lisbon capisce che farà esattamente quello che lui le ha chiesto. Come sempre, del resto.
 
**********
 
Ha finito le sue noiose incombenze da agente federale, ha salutato i colleghi e si è nascosta in bagno a indossare l’abito di pizzo verde. E’ stupendo, pensa Lisbon, ma lei, con capelli arruffati, trucco inesistente e stivaletti sportivi, non lo è affatto. Poco male. Tutta colpa di Jane, ovviamente.
Spera di uscire di soppiatto dall’edificio, con i suoi vestiti da lavoro e il secondo abito chic appallottolati impietosamente nella sua enorme borsa da Mary Poppins, insieme alla sua pistola che non sa più dove mettere; ma la privacy è un lusso all’FBI.
Nel corridoio si imbatte in Cho ed Abbot, proprio ad un passo dalla salvezza. Dannazione.
Il coreano si limita a salutarla con noncuranza, indifferente al fatto che dieci minuti prima la poliziotta indossasse i jeans e ora sfoggi un vestito da sera. L’abbigliamento di Lisbon non è affar suo. Ad Abbot, invece, il particolare non sfugge, e nemmeno le sue indirette implicazioni. Sorride con aria sorniona e le augura buona serata.
Teresa ringrazia, arrossendo e maledicendo tra se’ sia l’abito sia Jane; si precipita all’uscita, sale in  macchina, e in meno di una decina di minuti arriva a casa. Per fortuna. Non è piacevole guidare con quell’affare che le lascia scoperta metà coscia.
Dopo aver posteggiato davanti alla graziosa villetta, resta qualche minuto nell’abitacolo.
Respira, Teresa, respira. Improvvisamente le fa uno strano effetto pensare che in casa ad aspettarla, per la prima volta, ci sia Jane. Patrick. Il suo Patrick. Ora ha tutto il diritto di chiamarlo così, anche se non pensa che potrà abituarcisi tanto facilmente.
Quello su cui non ha dubbi è che è impaziente di vederlo. Anche se l’ha costretta ad indossare un vestito in cui si sente leggermente ridicola.
Esce dalla macchina a tutta velocità, sbattendo la portiera. La voglia di abbracciare il suo mentalista è un ottimo incentivo.
Ma sulla porta di casa trova un altro biglietto. La donna sospira e alza gli occhi al cielo con rassegnazione; è stanca e non ha affatto voglia di giocare a caccia al tesoro. E’ un passatempo che non le è mai nemmeno piaciuto, come nascondino e campana, ma, d’altronde, da bambina non ha avuto molto tempo per i giochi.
 
Bentornata a casa, Lisbon! Vai in camera. E non dire che non ti piacciono le sorprese. Questa ti piacerà.
 
Teresa arrossisce violentemente. Che razza di sorpresa le ha preparato Jane? Una sorpresa che riguarda la camera da letto, per giunta.
Suvvia, non essere sciocca, Teresa, e non pensare a quello che stai maliziosamente pensando, dice tra se’ e se’.
Da brava ragazza cattolica scaccia dalla sua mente immagini impure (per quelle ci sarà tempo, tutto il tempo del mondo), entra e si avvia per le scale, verso la stanza in cui, le sembra ancora incredibile, la notte scorsa ha dormito con Jane.
Sul copriletto verde avvista immediatamente tre piccole macchie bianche: avvicinandosi, riconosce due rane di carta, di cui una vecchia e malandata (evidentemente il ficcanaso l’ha trovata senza sforzo) e una nuova di zecca (evidentemente appena costruita dalla stessa inconfondibile mano). Vicino ai due graziosi animaletti, è appoggiato un biglietto.
 
Ho portato qui le mie cose. Come vedi, da oggi la tua rana non sarà più sola.
 
Gli occhi di Teresa diventano lucidi, suo malgrado. Quella ranocchia è il personalissimo modo di Jane per comunicarle le sue intenzioni. Anzi è molto di più; rappresenta la sua promessa di non fuggire mai più da lei.
La donna osserva da vicino i due piccoli origami, sfiorandoli con i polpastrelli. Si sono trovati. Proprio come lei e Patrick.
Il freddo mentalista, se vuole, sa essere davvero molto romantico e Teresa lo aveva già sospettato in più di un’occasione. Una volta le aveva detto, scherzando ma neanche troppo ( è complicato capire le battute di Jane), che il romanticismo è il motore del mondo. Lisbon aveva glissato, dando l’impressione di non essere d’accordo. Lo era, ma ammetterlo sarebbe stato doloroso, o forse sarebbe sembrato un segno di debolezza. Ma ora che il romanticismo del consulente è tutto per lei, anche la poliziotta, cinica per dovere e necessità, può dare sfogo al proprio. Forse.
Improvvisamente le due ranocchie saltano verso di lei, la quale, colta di sorpresa, fa un istintivo balzo all’indietro. Poi si mette a ridere sonoramente, dandosi della sciocca. Certo, lo sapeva che sono due rane salterine. Eppure lo scherzo è riuscito perfettamente, anche questa volta.
Poi Teresa apre l’armadio e vi trova alcune interessanti novità: camicie hawaiane, pantaloni con la piega e giacche grigie tutte uguali. L’ha fatto sul serio. Si è trasferito da lei.
Tocca delicatamente gli abiti e una sensazione di calore la invade, insieme a una nuova, e inattesa, consapevolezza. Ora casa è davvero casa.
Quando riesce a distogliere lo sguardo da tali affascinanti capi di abbigliamento maschile, trova, già sistemato su una gruccia, con precisione quasi maniacale, il vestito rosa che aveva indossato all’hotel Blue Bird. Ne sono successe di cose dall’ultima (e unica) volta che lo aveva messo e visto.
Afferra dalla borsa quella pallottola che un tempo era stato un abito da sera bianco, lo accarezza con cura, cercando di togliere quelle antiestetiche pieghe, e poi lo colloca al suo posto nell’armadio. Lisbon non ha mai posseduto degli abiti così. Non sono il suo genere, ma deve ammettere che non le dispiacciono affatto. Anche se la sua personale preferenza continua ad andare a pratici jeans e grintosi giubbotti di pelle.
Nello svolgere questa importantissima operazione, Teresa scopre nel fondo dell’armadio una scatola da scarpe, sovrastata da un enorme fiocco e da un altro biglietto. Sorride, impaziente di sapere cosa contenga.
Non l’avrebbe mai detto, ma tutto questo sta cominciando a essere divertente. E Patrick aveva sicuramente previsto che, malgrado un iniziale disappunto, la dinamitica agente avrebbe finito per divertirsi un mondo.
 
Indossa queste, Lisbon, e vai in giardino. Tranquilla, non è andato a fuoco.
 
Teresa ride. E’ esattamente quello che lei stava pensando. Ok, Jane ha sempre detto di non essere un sensitivo, asserendo con sprezzo che tali personaggi non esistano; ma la poliziotta, in casi come questo, arriva perfino a dubitarne.
Forse la spiegazione più ovvia è che lei sia davvero traslucente, come le è stato spesso detto dal grande conoscitore dell’animo umano. Oppure, semplicemente, che lui la conosca troppo bene. Non sa se questo sia un bene o un male. Probabilmente entrambe le cose.
Ma ora c’è da risolvere il mistero del contenitore. Forse Jane ha capito la necessità di un paio di scarpe eleganti da abbinare al vestito e ha provveduto. Lui è il tipo d’uomo che presta attenzione a dettagli come questo. A tutti i dettagli in generale, in effetti.
Nella scatola, probabilmente, ci sarà un paio di sandali con tacco vertiginoso, e Lisbon non sa se esserne più spaventata o divertita. Tutto sommato non le dispiace questo intrigante gioco in cui lui la veste. Abituata ad avere il controllo della situazione (come lui, del resto), è disposta, per questa volta, a lasciarglielo quasi volentieri. La trova una cosa molto sexy e dolce. Che il farabutto non ci si abitui, però.
Ma Jane riesce a sorprenderla ancora: nella scatola non c’è traccia di tacchi e lustrini, bensì un paio di banalissime, e comodissime, scarpe da ginnastica.
Sorride, incredula, e anche un po’ sollevata. La corsa sui trampoli non le è mai piaciuta. Non ha idea di cosa c’entrino quelle scarpe con il vestito extralusso, ma benedice in cuor suo l’ imprevedibilità del mentalista.
Si toglie velocemente gli scarponcini, indossa alla bella e meglio le sneakers, poi si precipita giù per le scale con l’entusiasmo di una bambina la mattina di Natale: quella bambina che lei aveva smesso di essere troppo presto.
Apre la porta che dà sul giardinetto sul retro e rimane a bocca aperta per lo stupore. Probabilmente questa è la stessa espressione d’incredulità con cui spesso accoglie i fantasiosi trucchi di Jane. Ma, stavolta, nessun implicito rimprovero, né minaccia di uso legittimo di armi: solo un’autentica, e inattesa, gioia.
Il piccolo e squallido pezzetto di terra si è trasformato in una tavolozza dai mille colori.
Ortensie. Girasoli. Margherite. Rose.
Un vero e proprio tripudio di fiori e di allegria. Come facesse Jane a sapere, nonostante non abbiano mai affrontato l’argomento, che per Lisbon le due cose sono strettamente collegate è un mistero. Anzi no: sarà anche un idiota, ma come mentalista è il migliore in circolazione.
Un biglietto sovrasta l’aiuola più vicina, quella popolata da rigogliose ortensie azzurre.
 
Lo so che hai sempre sognato un giardino pieno di fiori. Ora è tuo. Ho le mani piene di calli, ma ne è valsa la pena, credo.
 
E’ vero. Quando Teresa era molto piccola e non conosceva ancora il male del mondo, la sua famiglia abitava in una graziosa villetta. Ogni giorno sua madre la portava in giardino a mostrarle i fiori che coltivava con passione, permettendole di sfiorare i petali e raccontandole storie meravigliose. Era stato un periodo felice, quello.
Poi erano nati i suoi fratelli e non c’era più tempo per quel genere di cose, poi sua madre era morta, e, infine, suo padre si era attaccato alla bottiglia; la bambina che sussurrava ai fiori era stata costretta a diventare adulta da un giorno all’altro e ad abbandonare quel colorato mondo fatto di sogni. Si erano trasferiti in un appartamento economico, nella zona più grigia e inquinata di Chicago, dove perfino un filo d’erba era considerato una rarità. E lei aveva fatto da madre ai suoi fratelli quando aveva ancora l’età in cui una madre avrebbe dovuto coccolarla.
Poi Lisbon era diventata poliziotta, forse per combattere quella violenza che le aveva portato via la madre e reso folle il padre, forse per aiutare il prossimo, forse per dimostrare a se stessa che era forte, indipendente e in grado di badare a se stessa.
E lo è.
Ma ancora adesso, a quarant’anni suonati, abituata a convivere col lato peggiore dell’animo umano, l’immagine di quel giardino fiorito è rimasto per lei un miraggio di serenità, che pensava le fosse ormai precluso. Insieme a mille altre cose.
Invece, a quanto pare, si sbagliava. Patrick le ha regalato proprio quel giardino fiorito. E anche le mille altre cose.
La donna sfiora i petali dell’ortensia, con interesse e stupore, come faceva da bimba. Poi asciuga col dorso della mano una lacrima malinconica.
Infine sorride, immaginandosi l’esilarante scena di un Jane in versione giardiniere. Avrebbe pagato l’ultima somma che aveva vinto a poker per vederlo lavorare la terra con i guanti e il grembiule, schizzinoso com’è.
Peccato che tra poche settimane dovranno lasciare quella casa: lei aveva disdetto l’affitto e la proprietaria aveva già trovato dei nuovi affittuari. Fatica inutile. Quel meraviglioso piccolo giardino se lo godrà altra gente. A pensarci le si stringe il cuore. Vabbè, amen.
A quel bambinone di Jane non sarà venuto neanche in mente. O forse non gli importa. Ora che, finalmente ne hanno uno da condividere, conta solo il presente. Anche per lei è così. Però le dispiace che dovranno lasciare così presto quel pezzettino di terra, la prima cosa davvero loro.
Poi Lisbon si avvicina alla seconda aiuola, quella dei girasoli e apre il secondo biglietto.
 
Anche la casa. L’ho comprata. Non potevamo lasciare un giardino così bello, giusto?
 
Come?
COME??
Teresa, per un attimo, perde quasi l’equilibrio.
No, non può credere che l’abbia fatto sul serio. E senza dirglielo.  Brutto farabutto!
Forse è uno scherzo, ma sa per esperienza che ciò che sembra uno scherzo, se viene pronunciato dalla bocca di Patrick Jane, non lo è.
Lo deve aver fatto sul serio. Una violenta ondata di rabbia invade ogni cellula del corpicino di Lisbon. E’ una decisione troppo importante questa, e riguarda entrambi. Certo, lei non se la sarebbe mai potuta permettere questa casa, ma non è questo il punto e i soldi non risolvono tutto. Come ha potuto non consultarla? Teresa poteva benissimo non essere d’accordo. Poteva sognare un loft nel grattacielo più alto di Austin; poteva voler affittare un bungalow in campagna o aver deciso di vivere sotto un ponte.
Beh, che lei ami, anzi adori, questa villetta è un irrilevante dettaglio.
O forse no.
E, comunque, quel consulente da strapazzo non può sempre fare come se lei non contasse nulla. Come se non esistesse. Teresa non è il suo burattino. Jane non solo ha preteso che lei rinunciasse a un fidanzato e a una nuova vita in due minuti, ma, poche ore dopo, ha già deciso dove vivranno per i prossimi anni. Comprare una casa non è come comprare un vestito, qualcuno dovrebbe spiegarglielo al megalomane. Stavolta un bel pugno sul naso non glielo toglie nessuno.
Apre il terzo biglietto, appeso sull’aiuola delle margherite.
 
Niente pugni sul naso, piccola principessa arrabbiata. Non ti ho consultata perché sapevo che ne saresti stata felice e volevo farti una sorpresa. Sì, lo so che non ami le sorprese, ma spero mi perdonerai.
 
Piccola principessa arrabbiata. L’aveva chiamata così la prima volta che l’aveva vista indossare un elegante vestito che lei odiava perché la rendeva una stucchevole meringa. Lui l’aveva guardata quasi con ammirazione, e lei si era sentita ancora più stupida e imbarazzata.
A Lisbon non sfugge il dettaglio che il biglietto di scuse sia proprio posto sull’aiuola delle margherite, fiori simbolo di perdono e innocenza. Jane non ha lasciato nulla al caso.
Improvvisamente la donna non si ricorda più il motivo della sua recente collera. Dentro di se’ non ne trova più neanche una microscopica traccia. Sorride.
Come sempre quell’egocentrico di Jane ha deciso per lei.
Come sempre quell’egoista ha plasmato la vita di Lisbon a suo piacimento, dando per scontate troppe cose.
Come sempre Teresa è felice che l’abbia fatto.
Ok, non l’ha consultata e ha fatto tutto da solo. Dicesi “sorpresa”, parola verso la quale la poliziotta è abituata ad essere diffidente. Ma non solo. E’ un gesto bellissimo con cui Patrick le promette stabilità a lungo termine. Deve essere stato uno sforzo per il consulente, animo nomade per natura e contingenza. Eppure l’ha fatto. Solo per lei.
E’ strano pensarlo (e farlo le procura qualche piacevole brivido lungo la spina dorsale), ma ora loro due sono davvero una coppia. Ora questa non è più un posto come un altro dove vivere, ma è davvero la loro casa. Suona bene.
Lisbon volge lo sguardo verso la quarta aiuola. Vi sono piantate delle rose bellissime, di una tonalità particolare, tra il rosa acceso e il rosso. Lì vicino, appoggiata quasi per caso a un alberello che esisteva già quando lei aveva preso in affitto la villetta, c’è una bicicletta. La poliziotta la scruta con espressione interrogativa, cogliendone i dettagli come se si trovasse su una scena del crimine. E’ rossa, di buona fattura, con un cestello sul davanti e le gomme adatte a una strada sterrata. Nel cestello troneggia una mappa di Austin, con un post-it appiccicato sopra:
 
Segui il percorso segnato in rosso. Vai piano, Lisbon.
 
Se lo può scordare. Teresa non ha nessuna intenzione di andare da nessuna parte, tanto meno in bicicletta, e conciata in questo modo.
Apre per curiosità la cartina e trova una linea tracciata con uno spesso pennarello rosso. Non riesce a capire dove porti il percorso perché non conosce ancora molto bene Austin; inoltre sulla piantina sono segnate solo le vie grezze, senza edifici, ristoranti o attrazioni turistiche che Teresa non ha avuto ancora il tempo di visitare, ma che potrebbero fare da punto di riferimento.
Jane ha pensato proprio a tutto. E’ stato dolce, e ha fatto tutto questo per lei. E, apparentemente, senza fare danni. Incredibile, pensa Teresa.
Ma una poliziotta che sale su una bicicletta in vestito di pizzo è ancora più incredibile. Benedette scarpe da ginnastica.
 
 
 
***********
 
Ha attraversato vie sconosciute di mezza città. Jane, evidentemente, ha scelto per lei strade poco trafficate dalle auto. Austin non è affatto male, se la si guarda da vicino: non è fatta solo del grande edificio sede dell’FBI e dei banali ristoranti che aveva frequentato con Marcus.
Per fortuna Teresa, dopo un iniziale barcollamento, si ricorda ancora come si va in bicicletta. Ed è anche piuttosto brava, in realtà.
L’ultima volta che ne aveva usata una, sua madre era ancora viva. Poi non aveva avuto più il tempo per svaghi all’aria aperta. E da quando è diventata poliziotta il suo mezzo di trasporto preferito è senza dubbio il suv.
Si era dimenticata quanto è piacevole avere i capelli scompigliati dal vento, e sentire le ruote che rispondono direttamente alla forza delle sue gambe. E’ una bella sensazione e deve solo ringraziare quel pazzoide che ha il merito di fargliela rivivere. Nonostante l’imbarazzante indumento che indossa. Ma, in realtà, tutta presa a seguire le indicazioni della cartina e a godersi il piacevole esercizio fisico, la sua tenuta tutt’altro che sportiva è passata ormai in secondo piano.
Frena di colpo in prossimità di un cartello che avverte l’inizio di un sentiero ciclabile, ma Lisbon non fa in tempo a vederlo.
La sua attenzione è catturata da un affascinante biondo su una bicicletta simile alla sua, fermo proprio sotto il cartello. Indossa una giacca grigia che poco si intona all’occasione sportiva e ha un’inconfondibile espressione divertita sul volto: Jane.
«Ehi», lo saluta Teresa, alzando le sopracciglia con aria sarcastica.
«Ehi. Ti dona molto il vestito, specialmente su un tale mezzo di trasporto», accenna Patrick continuando a sorridere e soffermando lo sguardo sulle gambe mezze nude di Lisbon. Non ha mai visto qualcosa di più bello, ma sa che se glielo dicesse lei non ci crederebbe. E nulla è più affascinante di una donna che non sa di esserlo. Col tempo, però, provvederà lui stesso a farglielo sapere.
«Dove siamo?», domanda la poliziotta, guardandosi intorno con curiosità, anche per cercare di nascondere il rossore che le sta dipingendo le guance.
«Qui inizia il sentiero ciclabile che circonda il Lady Bird Lake, la cosiddetta Hike-and-Bike Trail. E’ lunga 16.3 km. Il lago prima si chiamava Town Lake, ma nel 2007 ha cambiato nome ed è stato dedicato alla moglie di Johnson, il 39° presidente degli Stati Uniti», spiega Patrick, assumendo un ironico tono saccente.
«E sentiamo, tu come facevi a conoscere questo posto?», chiede Lisbon, stuzzicandolo. Farlo la diverte sempre.
«E’ un’attrazione molto famosa, ma immaginavo che tu non avessi ancora avuto tempo di fare la turista».
«In effetti no», ammette lei.
«Siamo qui per rimediare, Lisbon. Seguimi».
Jane inizia a pedalare, girandosi di tanto in tanto per vedere se lei lo sta seguendo. Rallenta quando il ritmo della pedalata di lei è più lento del suo, accelera quando si fa più veloce.
Teresa, in uno slancio di sentimentalismo (complice l’atmosfera romantica e bucolica del luogo) e dando per scontato che lui non possa sentirla, sussurra fra se’ e se’: «Mi sei mancato».
Ma deve fare i conti con lo straordinario udito di Jane. Il quale, un po’ sorpreso, si volta verso di lei, pur continuando a pedalare, e ribatte con una voce sincera e profonda (che procura un bel po’ di brividi alla spina dorsale di Lisbon): «Anche tu».
 
********
 
Teresa si sente rilassata, tutte le tensioni accumulate al lavoro sono improvvisamente svanite e lei non sa se è più per la presenza del mentalista o per la rigenerante passeggiata. E’ più propensa a dare tutto il merito alla prima, ma non vorrebbe mai dare questa soddisfazione a Mister Presuntuoso.
Patrick, dal canto suo, è elettrizzato. Si sta divertendo un mondo, come un bambino al parco giochi. Una nuova energia lo nutre, e il merito è tutto di Lisbon; lui ne è consapevole e non farebbe neanche troppa fatica ad ammetterlo a voce alta.
Quando il sentiero si allarga i due ciclisti improvvisati pedalano vicini. Del resto, la strada che hanno metaforicamente fatto fino a questo punto, l’hanno quasi sempre percorsa così, uno accanto all’altro. Entrambi non hanno fretta, come del resto non ne hanno mai avuta in questi anni, e si godono la quiete, il silenzio e la reciproca compagnia. A volte basta poco per sentirsi bene.
Ad un certo punto la strada giunge sulle sponde del lago, e prosegue costeggiandolo. La luce del tramonto regala un’atmosfera quasi magica. I grattacieli in lontananza brillano, e creano un suggestivo contrasto con la natura selvatica del parco.
Jane, con la coda dell’occhio, vede la ciclista Lisbon sorridere tra se’ e se’; evidentemente, anche lui è ancora in grado di fare qualcosa di buono.
Dopo aver continuato a pedalare per qualche centinaia di metri, Jane si ferma improvvisamente. Scende dalla bicicletta e la posteggia appoggiandola a un albero.
Teresa, un po’ stordita dall’atmosfera surreale intorno a lei, lo imita.
«Vieni con me», le dice Patrick, prendendola per mano.
Lei lo segue, docilmente. E’ bello camminare mano nella mano con Jane. E’ un peccato non averlo potuto fare prima. Ricorda ancora perfettamente quando lui aveva preso la sua mano nel deserto, quella volta in cui era l’aveva quasi dovuta uccidere, era quasi morto e aveva quasi acciuffato John il Rosso. Era stata una sensazione strana e piacevole, ma anche dolorosa, perché era ovvio che sarebbe finita troppo presto e, forse, non si sarebbe mai più ripetuta. Ora è tutto diverso.
Anche Patrick sta pensando allo stesso episodio. Quella volta afferrare la mano di Lisbon gli era sembrata la sola cosa sensata da fare, l’unico appiglio a cui aggrapparsi per non precipitare nel baratro. Anche adesso. La mano di Teresa è piccola, morbida e forte, e lui la terrebbe stretta nella sua all’infinito, non sa se più per proteggerla o per essere protetto; ma, probabilmente, se facesse o dicesse ad alta voce qualcosa del genere, un pugno sul naso non glielo toglierebbe nessuno. E lui ama Teresa per quella che è, con le sue inaspettate dolcezze e con tutti i suoi spigoli.
Dopo qualche minuto giungono in un particolare punto della costa da cui si può ammirare lo spettacolo di un sole infuocato che si tuffa nell’acqua del lago, donando una luce particolare a tutta la città. Un tramonto così simile, eppure così diverso, a quello a cui avevano assistito insieme poco prima che Jane mollasse Lisbon in mezzo a una strada, per impedirle di partecipare al fatidico incontro con i papabili John il Rosso. Una vita fa. Eppure entrambi se lo ricordano come se fosse ieri.
«Eccoci arrivati», annuncia Jane.
Siccome Teresa non dice nulla, ed è un fatto molto insolito, il mentalista, un po’ imbarazzato, si gioca la carta dell’ironia. «Sei stata puntuale, Lisbon. Meno male, sarebbe stato un po’ complicato chiedere al sole di ritardare a tramontare».
«Avevi dubbi sulle mie doti atletiche?», scherza lei, un po’ distrattamente.
«Ammetto di sì», la prende in giro Patrick, facendo il verso alla sua statura tascabile.
«Idiota».
Jane sorrise nervosamente. Ok, è un mentalista, ma non è un sensitivo e forse Teresa trova stupido tutto questo piano messo in atto solo per portarla a vedere un tramonto. Dopotutto è una donna pratica, forse è stanca e in questo momento vorrebbe solo essere a casa sul divano a guardare la televisione.
Eppure avrebbe giurato che è proprio il genere di cose che le piace.
«E’ bellissimo», sussurra finalmente Teresa, emozionata.
Jane fa un sospiro di sollievo. Anche lui pensa la stessa cosa, ma di lei. Mentre Lisbon osserva il meraviglioso quadro che aveva davanti, lui non smette di guardare la sua partner. La luce calda del sole che sta per tramontare regala al suo viso un colorito acceso, e l’entusiasmo le fa brillare gli occhi rendendoli ancora più smeraldini.
«Sai perché ho scelto quei fiori?», domanda Jane all’improvviso.
Teresa è abituata al fatto che spesso i discorsi di Jane non seguano un filo logico e saltino di palo in frasca, quindi non si stupisce più di tanto. Si limita a voltarsi verso di lui, e, quando lo fa, si accorge che i suoi capelli d’oro sono più luminosi del sole che sta ammirando e i suoi occhi più azzurri del lago che ha di fronte.
«No», risponde, sorridendo maliziosamente.
«Le ortensie perché sono il primo, e unico fiore, che ti ho donato, molto tempo fa», confessa Jane.
«Me lo ricordo. Avevo paura che nascondesse un gioco d’acqua. E ce l’avevo anche stavolta», scherza lei, in realtà colpita che anche lui ricordasse quel lontano aneddoto.
«Donna di poca fede».
«Colpa tua se sei poco credibile».
«Touché. I girasoli li ho scelti perché mi hanno sempre messo allegria, e ora vorrei solo allegria nella tua vita».
«Nella nostra», lo corregge lei con un sorriso, dopo una piccola pausa silenziosa.
Il viso di Jane si accende. Ancora deve abituarsi all’idea. Ancora si chiede cosa abbia fatto per meritarsi quella meravigliosa donnina. Dopo tutto il male che ha fatto. «Già. Nella nostra».
«Continuo io. Le margherite le hai scelte perché sono il simbolo dell’innocenza e del perdono. Volevi rabbonirmi e chiedermi scusa per non avermi consultato sull’acquisto della casa».
«Ti hanno mai insegnato il significato del termine “sorpresa”, Lisbon? E non dire che non ti piacciono, perché stavolta non me la bevo».
«Diciamo che quella sorpresa in specifico non mi è dispiaciuta», concede la donna. Intanto negare non serve a niente con quel furbastro.
«Bene». Jane ci mette due secondi a capire dalla mimica facciale della sua Teresa che l’acquisto della casa l’ha resa felice. «E comunque sono fiero di te, Lisbon. Ci hai azzeccato in pieno con la questione delle margherite. Stai diventando una mentalista niente male. Ma d’altronde, hai il migliore maestro sulla piazza».
«Presuntuoso!»
«Ho raggiunto lo scopo di farmi perdonare?»
«Forse», butta lì con noncuranza, per tenerlo un po’ sulla corda.
Ma resistere all’aria da cucciolo triste di Jane è impossibile. «Per una volta non c’era nulla da perdonarti», chiarisce Teresa con voce ferma e cristallina. «E le rose?», chiede per riprendere il discorso.
«Ti piace il loro colore?». Tipico di Jane rispondere a una domanda con un’altra domanda.
«Sì molto. Non sono né rosse né rosa. Particolari».
«Mi fa piacere che lo pensi. Le ho scelte proprio di quel colore perché mi ricordano te».
«Ah sì? Come mai?». Chiede Lisbon, interdetta e curiosa di sapere dove l’imprevedibile mentalista voglia andare a parare.
«La passionalità del rosso e la dolcezza del rosa», sentenzia lui, tenendo gli occhi bassi, emozionato più di quello che vorrebbe. Non è ancora abituato a dare libero sfogo ai suoi pensieri più segreti.
Wow. Lisbon è colpita. Patrick le ha appena detto una cosa bellissima. E lei non sa cosa dire. Come sempre, quando è commossa, fa fatica a ritrovare il dono della parola. Appoggia la testa sulla sua spalla e lui le cinge la vita col braccio. E’ più che sufficiente.
Rimangono così per interminabili minuti, o forse ore, in silenzio, a pensare che questo mondo tutto sommato è un gran bel posto dove vivere. Ammesso che lo si faccia insieme.
Ad un certo punto l’attenzione di Lisbon è catturata da una barca attraccata a una piccola insenatura della costa poco distante dal punto in cui si trovano loro. Non è molto grande, ma sembra curata nei minimi dettagli e molto elegante.
«Che bella quella barca», commenta, ammirata.
«Mi fa piacere sentirtelo dire, perché è proprio lì che ho intenzione di portarti», la spiazza Patrick.
Lisbon si stacca leggermente dalla spalla di Jane, per potergli indirizzare uno sguardo sarcastico e sorpreso. Lui, stranamente, non ha l’espressione del bambino che l’ha appena sparata grossa.
Ma Teresa non se la beve. Probabilmente le sta proponendo qualcosa di illegale. Non cambierà mai.
Per fortuna.
















**************

Angolo dell'autrice: Ciao a tutti e scusate il ritardo!
Due ottime notizie per noi fan di The Mentalist: la premiere date annunciata per il 30 novembre (!!!) e le nomination ai People's Choice Awards 2015 nelle categorie  "Favorite TV Crime Drama", "Favorite Crime Drama TV Actor" e "Favorite Crime Drama TV Actress". Nell'attesa di goderci la nuova stagione, possiamo continuare a votare tutte le volte che vogliamo per il nostro telefilm preferito e i nostri beniamini sul sito internet dei People's Choice Awards.
A presto con la prossima one-shot :)



 

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Capitolo 7
*** Red bikes and red passion ***


RED BIKES AND RED PASSION
 

Teresa aveva torto.
Non le piace avere torto, come non le piace tutto ciò che rischia di minare la sua autorità di agente federale.
Ma, per una volta, è ben felice di riconoscere di essersi sbagliata.
La proposta di Jane, stranamente, non ha nulla di illegale. Sembra incredibile ma, a quanto pare, non presuppone né violazioni di proprietà privata né abuso di potere né lettere minatorie né seppellimento di uomo vivo.
Il mentalista ha davvero noleggiato il bel battello attraccato alla riva del lago, e l’ha fatto (udite, udite!) senza trucchetti al limite della legalità e del buon senso. Ha semplicemente telefonato alla piccola compagnia navale che si occupa delle escursioni in barca e ne ha prenotato una.
Sembra perfino troppo semplice per uno come Jane.
E, infatti, non è stato poi così semplice, perché, in realtà, la richiesta del consulente non era del tutto standard.
Ma si sa: Jane di standard non ha proprio nulla.
Non solo ha chiesto una barca a disposizione in un orario serale in cui, normalmente, non sono previste escursioni, ma ha prenotato un intero battello adatto a cinquanta persone soltanto per due; pretendendo pure di organizzarci una cena sopra.
Tipico di Jane chiedere cose impossibili.
Tipico di Jane riuscire sempre ad ottenerle.
E non ha nemmeno dovuto ipnotizzare il responsabile della compagnia navale, si è limitato a parlargli col cuore in mano (materia in cui, ultimamente, sta diventando piuttosto esperto), rivelando che desiderava soltanto fare una sorpresa alla sua fidanzata.
La sua fidanzata.
Gli era venuto più che naturale usare quelle tre parole, ma, appena pronunciate, una fitta di senso di colpa lo aveva colpito a tradimento.
Eppure gli era sembrato così giusto chiamare Teresa in quel modo. Sarebbe stato troppo lungo e complicato definirla come la sua partner nel lavoro e nella vita, la donna che ha reso accettabile la sua misera esistenza, la meravigliosa creatura che non sente di meritare, la sua dinamitica e bellissima poliziotta in formato tascabile, la donna più buona e onesta del mondo, così pazza da essersi innamorata di un bastardo come lui.
Siccome non gli era sembrato il caso di raccontare tutto questo al suo interlocutore telefonico, il suo inconscio aveva scelto l’opzione più semplice, o più complicata, dipende dai punti di vista.
La sua fidanzata.
Poi la fitta era scomparsa, velocemente come era venuta, lasciando al suo posto una calda sensazione di serenità.
Era bello, e giusto, usare quella parola, ammesso che fosse riferita a Teresa Lisbon.
E ammesso che lei non sentisse (e, soprattutto, non avesse una pistola a disposizione): considerato com’era finito il suo ultimo fidanzamento, quel termine potrebbe non risultarle troppo gradito; e l’agente Lisbon sa essere molto pericolosa quando si innervosisce.
La sua fidanzata. Non lo è. Non ancora. O forse sì. E comunque Teresa, per lui, è molto più di questo.
Non c’è stato ancora tempo per quel genere di cose ufficiali, ma Jane non dubita che ci sarà.
Per ora desidera semplicemente passare una serata con lei. E anche l’intera giornata di domani. E quella dopo. Insomma, ogni giorno della sua vita.
Aveva preparato tutto nei minimi dettagli. Non gli piace lasciare nulla al caso in nessuna occasione, figuriamoci per una serata speciale con la sua Lisbon: un vero appuntamento, o comunque qualcosa che ci va molto vicino, qualcosa che sogna inconsciamente da un tempo indefinito, in ogni caso troppo lungo.
Si è dato parecchio da fare quel pomeriggio, tra telefonate, giardinaggio e cucina. È stato divertente. Ora spera solo che il risultato dei suoi sforzi sia all’altezza delle sue previsioni. Teresa si merita il meglio.
Ok, lui non è il meglio, ma è ciò che lei ha scelto. E Patrick non può che esserne felice e tentare di assomigliare a quel meglio.
È egoismo il suo, se lo riconosce, anzi forse è semplicemente amore, che poi è qualcosa di molto simile all’egoismo.
Il momento tanto atteso è arrivato, la sua piccola ciclista verdevestita pure, il sole è tramontato e Patrick è eccitato come un bambino. Anche questa volta è riuscito a sorprendere la sua partner, e la gioia che il mentalista prova (e che non pensava potesse mai più provare) sorprende perfino lui.
Aiuta Teresa a salire sulla barca (non che abbia bisogno di aiuto, è una poliziotta che sa badare a se stessa, ma a lui piace fare queste piccoli gesti di galanteria e, dal momento che non si è lamentata, evidentemente a lei piace riceverli); poi si guarda intorno, controllando che sia tutto perfetto.
Lo è. O, almeno, è quello che sta pensando Lisbon.
Tra i sedili della veranda galleggiante domina un piccolo tavolo apparecchiato con cura e con piatti colmi di cibo.
Siccome il buio sta prendendo piano piano il posto della rossastra luce del tramonto, ci pensano una dozzina di candele a illuminare la sala da pranzo improvvisata, regalando un’atmosfera ancora più suggestiva.
«Bellissimo», commenta Teresa con la bocca semiaperta dalla stupore e gli occhi luccicanti.
«Anche tu», risponde Patrick, non riuscendo a smettere di guardarla.
Lisbon abbassa lo sguardo, arrossendo. Anche se ultimamente ne riceve spesso, si deve ancora abituare agli inattesi complimenti del mentalista. Poi li rialza su di lui e, come sempre, le farfalle cominciano a svolazzare furiosamente nel suo stomaco. «Io mi riferivo al battello. Ma, pensandoci bene, anche tu non sei affatto male», ironizza lei.
Jane sorride maliziosamente. Da perfetto gentiluomo d’altri tempi le inclina la sedia, permettendole di sedere. «Ti piace la cucina messicana?», le chiede poi, sedendosi a sua volta al tavolo.
«Patrick Jane mi sta facendo una domanda sui miei gusti? Incredibile! Non sa già tutto su di me?»
«Oh, certamente, ma desidererei comunque la tua risposta».
«Come tu ben sai, non mi dispiace, anche se non ci vado matta».
«Lo so, preferisci il tailandese e la cucina italiana. Ma sono convinto che questa cucina messicana ti piacerà».
«Perché ne sei così sicuro?»
«Intanto perché lo chef sono io».
«Presuntuoso!»
«E poi perché non ti aspettano i tacos unti del chiosco sotto l’ufficio, ma i veri piatti della tradizione messicana», spiega con tono scherzosamente saccente.
«E da quando saresti diventato un esperto delle cucine tradizionali?»
«Da quando sono stato in esilio per quasi due anni su un’isola messicana. Ho mangiato questi piatti una sera in un umile ristorantino sulla spiaggia e poi la proprietaria mi ha insegnato a prepararli».
«Davvero?»
«Sì. Mi annoiavo e quella vecchietta mi aveva preso in simpatia».
«L’avevi ipnotizzata, forse?»
«No. Le ero simpatico davvero. D’altronde alle donne faccio un certo effetto, dovresti saperlo».
«Idiota. Comunque ho una gran fame e sono curiosa di assaggiare tutto».
«Merito della pedalata».
«Ok, va bene», concede Lisbon alzando gli occhi al cielo e trattenendo un sorriso. «Merito tuo».
«Come sempre, del resto», commenta lui, strizzandole l’occhio.
«Ora non ti allargare. E ringrazia che non ho la pistola», lo prende in giro Lisbon, prima di addentare voracemente un taco.
 
**********
 
«Hai davvero preparato tutto tu?», chiede Teresa, dopo il guacamole, le tortillas e il picadillo.
«Sì. Non dovresti essere così sorpresa. Non ricordi già più le crepes più buone che tu abbia mai mangiato?»
«Me le ricordo. Signor Jane, non è che sta cercando di sedurmi col cibo?», scherza la poliziotta. L’ironia è una di quelle cose che ha imparato da quando il mentalista è entrato nella sua vita, una dozzina d’anni fa.
«Come già le dissi una volta, agente Lisbon, trovo che tentare di sedurre una donna col cibo sia un gesto da studentelli. E io ho altri metodi», le sussurra lui, fissandole le labbra.
Teresa arrossisce, come in quel giorno lontano, in cui il consulente le aveva detto qualcosa di simile. Scherzando, ovviamente. Il suo rossore, invece, non era stato affatto uno scherzo.
«Vedremo», accenna lei con fare misterioso.
«Stavolta, però, non hai negato l’ipotesi che volessi cercare di sedurti. Hai fatto un passo avanti».
«Già».
«È il fatto che tu non lo neghi che mi intriga».
Teresa ride, un lampo di malizia le fa scintillare gli occhi.
Molti anni fa lui le aveva detto l’esatto contrario, ovvero che lo intrigava il fatto che lei negasse di aver pensato che lui tentasse di sedurla. Lei lo aveva pensato, eccome se l’aveva pensato, ma aveva rifiutato quell’assurda idea appena le aveva pericolosamente attraversato la mente; come i bambini ad un certo punto negano di credere a Babbo Natale o alla magia.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel giorno.
Per qualche minuto si perdono uno nello sguardo dell’altro, complici come non mai.
Poi l’appetito di Lisbon ha la meglio sul suo romanticismo: la poliziotta si lancia nell’assaggio delle fajitas. Davvero squisite. Non sarà male vivere con Patrick Jane, se le preparerà cene del genere.
«Ti piacciono?», chiede il consulente, speranzoso.
«Molto».
«Mi fa piacere. È stato complicato trovare tutti gli ingredienti».
«Quindi è questo che hai fatto tutto il giorno?»
«Sì. Insieme a un trasloco, al giardinaggio, all’organizzazione di una caccia al tesoro e all’acquisto di una casa».
Teresa sorride. È strano vedere un Jane così attivo. Di solito preferisce dormicchiare sul divano che rendersi utile. L’agente potrebbe anche abituarcisi, ma sa fin troppo bene che l’indolenza del biondo ricomparirà molto presto. E lei, dopotutto, ama anche quella. «E perché hai fatto tutto questo?», domanda, sinceramente curiosa.
Jane la guarda come se la risposta fosse la più ovvia del mondo. «Volevo vedere quel sorriso».
 
*******
 
Parlano di tutto e di nulla. Mangiano. Scherzano. Sorridono. Ogni scusa è buona per sfiorarsi. Si guardano, soprattutto.
Dopo le empanadas dolci, innaffiate da un buon bicchiere di champurrado, lo stomaco di Teresa può considerarsi soddisfatto.
«Ho scelto piatti della cucina messicana perché volevo farti conoscere il mondo in cui ho vissuto per due anni. Un mondo piacevole, se non fosse stato per la tua assenza», le rivela timidamente Jane, con gli occhi bassi.
«E’ una cosa bellissima. Davvero. Voglio dire, è bello immaginarti in pareo a mangiare tacos sulla spiaggia», scherza l’agente. Poi torna improvvisamente seria. «In realtà tutto quello che hai fatto per me è bellissimo. Ma non ti montare la testa».
«Con te non corro questo pericolo, la doccia fredda è sempre in agguato».
«Meglio così».
«E, comunque, non abbiamo ancora finito».
«Su questo non ci piove», gli sussurra lei, avvicinandosi pericolosamente.
Jane deglutisce. Non è facile resistere allo sguardo ammaliatore di Teresa Lisbon.
Quando riesce a ritrovare le sue facoltà mentali, l’uomo sorride e si alza, dirigendosi verso uno stereo, senza mai perdere il contatto visivo con la sua partner.
Accende l’apparecchio e una musica dolcissima comincia a diffondersi nell’aria.
More than words.
«Balla con me, Teresa», le sussurra, riavvicinandosi a lei e tendendole la mano.
Lisbon gliela prende, con sguardo sognante. Era la sua canzone preferita al liceo, gli aveva detto, ma in realtà non ha mai smesso di essere la sua canzone preferita. Soprattutto dopo quella volta in cui si sono trovati, quasi per caso e quasi riluttanti, a ballarla insieme.
Jane la fa alzare dolcemente e la conduce al centro del battello.
Le circonda le spalle con un braccio, piano come per non romperla. L’altra mano è sempre intrecciata a quella di lei.

Saying I love you 
Is not the words I want to hear from you 
It's not that I want you 
Not to say, but if you only knew
 
How easy it would be to show me how you feel  ¹

Come suggeriva proprio questa canzone, alla fine, accantonando orgoglio e paure, ce l’avevano fatta entrambi a esprimere i loro sentimenti. Era ora. Quel sospiratissimo “Ti amo” se l’erano guadagnato a suon di attese, incomprensioni e trucchi mentali. Ancora qualche minuto di ritardo e si sarebbero persi per sempre.
I loro corpi colmano la breve distanza che li teneva separati. Teresa poi si abbandona a quelle note che ama così tanto, abbracciando il suo ballerino e appoggiando la testa sulla sua spalla. Chiude gli occhi, come quella sera lontana, in quel liceo in cui si erano trovati dopo aver risolto un caso di omicidio.

More than words is all you have to do to make it real 
Then you wouldn't have to say that you love me 
Cos I'd already know
 ²

Forse, anche all’epoca, una piccolissima parte di loro sapeva già tutto. Quello che mancava a entrambi era il coraggio di affrontare la realtà. E la realtà era che Lisbon non aveva dovuto affatto immaginare di ballare col ragazzo che le piaceva al liceo. L'irritante biondo che la teneva tra le braccia era molto meglio. Ma guai ad ammettere, anche a se stessa, una follia del genere!

Now I've tried to talk to you and make you understand 
All you have to do is close your eyes 
And just reach out your hands and touch me 
Hold me close don't ever let me go 
More than words is all I ever needed you to show 
Then you wouldn't have to say that you love me 
Cos I'd already know ³


I loro visi sono vicinissimi e ognuno sente il respiro, leggermente accelerato, dell’altro. La mano di Patrick scende lungo la schiena di Teresa, con gesto sicuro, diverso da quello impacciato della prima volta, quando sensazioni simili a quelle che sta provando ora gli erano vietate.
Poi, con l’altra mano, scioglie la stretta con quella di Teresa per stringerle la vita, con dolcezza e passione insieme. È piccola la sua Lisbon, sembra così fragile; è un mistero dove trovi tutta la sua immensa forza.
Le braccia della donna circondano con tenerezza il collo di Patrick.
I due ballerini improvvisati ondeggiano delicatamente, seguendo il ritmo della musica e quello dei loro cuori.

More than words to show you feel 
That your love for me is real ⁴


Non hanno bisogno di parole per esprimere quello che sentono. Basta stare così, abbracciati e sereni come non sono mai stati.
Anche quando la musica finisce, loro continuano a ballare sulle note che solo loro sentono.
È Jane il primo a rompere quel dolce silenzio.« Non stai immaginando che al posto mio ci sia il ragazzo carino del liceo, vero?»,
«No. Direi che il presente non è poi così male», sussurra Teresa, strofinando il viso contro la spalla del mentalista. Poi alza la testa, per guardarlo dritto negli occhi. «Non esiste un altro posto dove vorrei stare, Patrick».

 
**********
 
 
Dopo il ballo, Jane propone di fare il giro del lago, già che hanno un battello a disposizione. È entusiasta come un bambino. Lisbon, invece, un po’ meno: è piuttosto preoccupata e pessimista riguardo le abilità da comandante del mentalista; Patrick aveva preso per corrispondenza la licenza per celebrare matrimoni, forse aveva conseguito allo stesso modo anche la patente nautica, e questa non è un’ipotesi molto rassicurante. Inoltre la poliziotta non può neanche insistere per guidare, come normalmente fa con i mezzi a quattro ruote, perché non ha proprio idea di come manovrare un timone. Spera che almeno Jane ce l’abbia.
Dopo curve maldestre, scatti improvvisi e inquietanti schizzi d’acqua, la poliziotta, in piedi a prua e mezza bagnata, viene però ripagata dal meraviglioso spettacolo della luna che si specchia nelle acque del lago; e, soprattutto, dal bacio del capitano Patrick sotto la suddetta luna.
Tutto sommato ne è valsa la pena di mettere a rischio la propria incolumità.
 
**********
 
Riattraccato a riva il battello, non senza ovvie difficoltà (e al suono di rassicuranti incoraggiamenti del tipo “Stai tranquilla, Lisbon, non l’ho mai fatto ma dovrebbe essere facile”), i due navigatori provetti tornano a casa sulle loro biciclette rosse. Indossano entrambi le giacche a vento, perché l’aria di Austin a mezzanotte è piuttosto fresca.
È piacevole pedalare nell’oscurità, uno accanto all’altro, dopo una serata meravigliosa, che, in realtà, non è ancora finita.
Chissà perché, tutti e due non vedono l’ora di arrivare a casa. Non hanno fretta, però; d’altronde non l’hanno mai avuta.
Mentre pedalano e chiacchierano, ogni tanto staccano lo sguardo dalla strada per sorridersi come due idioti. Per fortuna, nonostante questa pericolosa attività, non si schiantano contro un palo e arrivano sani e salvi alla loro villetta.
Appoggiano al muro le due biciclette, rosso su bianco. Rosso come quel colore che ormai non fa più paura; rosso come la passione che sta bruciando lentamente ogni cellula dei loro corpi.
Patrick apre la porta, facendo passare per prima la sua partner, come, da perfetto gentiluomo, è abituato a fare.
Sulla soglia, lui le toglie la giacca a vento con gesti lenti e misurati, facendola scivolare a terra. Lei lo imita, facendo la stessa cosa col giubbotto di Jane. Le loro mani si sfiorano. Si guardano intensamente negli occhi e riconoscono lo stesso desiderio.
Patrick avvicina le sue labbra a quelle di Teresa. È un bacio dolce, che diventa via via sempre più vorace. Lisbon lo interrompe solo per un attimo, il tempo di richiudere la porta di casa con un calcio. Poi ricomincia a nutrirsi della bocca di Jane.
Salgono le scale, ma scoprono che è piuttosto complicato mantenere l’equilibrio stando abbracciati.
Finalmente arrivano (interi) in camera da letto.
Si fermano, come per chiedersi reciprocamente un silenzioso permesso; poi si sorridono. Nessuna paura. Soltanto la voglia di appartenersi completamente.
Ricominciano a baciarsi e, nel farlo, si spintonano a vicenda, ridendo e cadendo abbracciati sul letto. Giocano, divertendosi a stuzzicarsi, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Finché i baci non bastano più a nessuno dei due.
 
 
 
 
 
 
¹   “Ti amo” non sono le parole che vorrei sentire da te / non è che non voglio che le dici , ma se tu solo sapessi quanto sarebbe facile mostrarmi quello che senti…
 
² Tutto ciò che devi fare per renderlo reale è più delle parole / poi non dovrai dirmi che mi ami / perché io lo saprei già.
 
³ Ora che ho provato a parlarti e a farti capire / tutto quello che devi fare è chiudere gli occhi / tendere le mani e toccarmi / tenermi stretto (-a) e non lasciarmi andare / tutto ciò che io ho avuto bisogno di mostrarti è più delle parole / poi tu non dovrai dirmi che mi ami / perché lo saprei già.
 
⁴ Più delle parole per mostrare che senti / che il tuo amore per me è reale.










************



Angolo dell'autrice: Il prossimo capitolo arriverà tra 8-10 giorni, in ogni caso prima del 30 novembre ;)
Grazie per le vostre recensioni, mi hanno fatto un enorme piacere!
A presto :)
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Sunshine in a grey morning ***


SUNSHINE IN A GREY MORNING
 

Si sa: Teresa Lisbon non è mai stata particolarmente mattiniera.
Il fatto che, da molti anni, sia purtroppo costretta a fingersi tale è un altro discorso che non cambia lo stato delle cose. Alzarsi quasi all’alba e non mandare al diavolo la sveglia ogni mattina rientra nei suoi doveri di poliziotto. Ci si è quasi abituata, tutto sommato. Perché lei è un tipo piuttosto adattabile, anche questo si sa.
Ma non si può certo affermare che le levatacce le piacciano. Infatti, per sconfiggere il sonno e il malumore (e per non commettere lei stessa un omicidio), ha quotidianamente bisogno di una massiccia dose di caffè, buono, forte e bollente.
Questa volta, però, la situazione è molto diversa: sono quasi le 6 del mattino e Teresa è sveglissima. Addirittura di buon umore. Senza tracce di caffeina in corpo.
Evento eccezionale.
Il merito è tutto della testa bionda che spunta da sotto il lenzuolo, poco distante da lei.
Evento eccezionale anche questo.
Sembra un angelo, pensa la poliziotta in un eccesso di sentimentalismo.
Beh, Teresa non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe attribuito di sua spontanea volontà quella parola all’irritante consulente.
Eppure, tutto sommato, lo è davvero. Uno strano e adorabile angelo. O almeno per lei.
Ok, in realtà Patrick Jane non è solo quello.
La poliziotta arrossisce ripensando a ciò che è accaduto stanotte, poche ore fa. A tutta la dolcezza e a tutta la passione che si sono scambiati. Sembra incredibile che sia successo davvero, eppure era anche qualcosa di inevitabile. Di buono e giusto.
Ha sempre pensato che questa fosse solo una di quelle frasi fatte da romanzetto rosa, ma non si è mai sentita così completa. E protetta. E felice. Come se la sua anima (ok, in effetti anche il suo corpo) avesse ritrovato la sua metà perfetta.
Teresa solleva la testa, puntellandosi sui gomiti e sporgendosi verso il suo affascinante compagno di letto.
Osserva i riccioli scompigliati (da lei), gli occhi chiusi e il viso mal (o ben, dipende dai punti di vista e a Lisbon piace il nuovo look di Jane) rasato. Segue con lo sguardo le sue piccole rughe ad una ad una, quelle intorno agli angoli degli occhi e quelle sulle guance: sembrano rassicuranti strade disegnate su una mappa. Vorrebbe percorrerle con le dita, per capire se tutto questo è reale, ma non ha alcuna intenzione di svegliare il bell’addormentato. Quando dorme sembra così innocuo. Vorrebbe perdersi per sempre tra quei sentieri, e forse lo farà davvero. In effetti l’ha già fatto. Sono strade tortuose simili a quelle che li hanno condotti uno tra le braccia dell’altro. Finalmente.
Patrick Jane è bellissimo. Beh, questa non è certo una novità, e Lisbon ha sempre pensato qualcosa del genere. In effetti bisognerebbe essere cieche per non farlo.
Però non lo ha mai visto così bello come in questo momento. Forse perché ha un’espressione estremamente rilassata, rara per lui. O forse perché ora è davvero suo.
È un pensiero egoistico questo, Santa Teresa se ne rende conto e se ne vergogna immediatamente. Se potesse si prenderebbe a ceffoni, o si arresterebbe. Non è abituata a pensare a se stessa e non le piace, non le sembra un atteggiamento corretto.
Però è umana. E gli umani sono egoisti per definizione. Istinto di autoconservazione. Come può una piccola donna insignificante come lei essere così presuntuosa da pretendere di essere diversa? E poi non sarà pure un suo diritto godersi, finalmente, un po’ di felicità?
Poi si dà della stupida. Forse sta correndo troppo. Ieri sera Patrick è stato suo, è vero, e stanotte lo è stato più che mai, ma stamattina? E domani? E dopodomani?
Jane, da un certo punto di vista, è sempre stato suo, eppure non lo sarà mai davvero. Non appartiene solo a lei, Teresa lo sa e lo accetta. È giusto. Ma è doloroso.
Dopo una manciata di secondi riesce a scacciare questo pensiero fastidioso e inopportuno. Lui è qui ora, con lei, nel suo letto.
Ha voluto lei quando è tornato negli Stati Uniti.
Ha voluto lei quando è salito su quell’aereo.
Ha voluto lei stanotte.
Vorrà lei anche domani, semplicemente perché la ama: questo ormai la poliziotta crede di saperlo, nonostante la proverbiale imprevedibilità del consulente.
E a Lisbon questo basta, e basterà sempre.
Non può, però, non avere paura di ciò che proverà Patrick quando si sveglierà. Di ciò che sentirà nella parte più intima del suo cuore. Di ciò che le dirà. Del sorriso che le rivolgerà. Teresa in un attimo capirà tutto: ok, non sarà una mentalista, ma conosce Jane come le sue tasche ormai. E forse addirittura meglio.
Dopotutto è la prima volta che fa davvero l’amore con una donna, dopo sua moglie. È stato proprio lui a dirglielo, stanotte, prima di crollare tra le braccia di Morfeo ( e quelle di Lisbon). La relazione con Lorelei era stata un’altra cosa, indefinita forse, ma ben lontana dall’amore. Teresa Lisbon doveva essere, e infatti è stata, la prima.
Ma, proprio per questo, il senso di colpa potrebbe divorarlo. La sensazione di aver tradito sua moglie, tradito davvero, spiritualmente e fisicamente, potrebbe riaffiorare da un momento all’altro, e Teresa non lo potrebbe biasimare per questo; anzi, lo comprenderebbe, e vorrebbe tanto che lui si sentisse libero di dirglielo con sincerità. Le si spezzerebbe il cuore, forse, ma questo è un altro discorso e riguarda lei: qui è di Jane che si parla, del suo ritrovato equilibrio mentale, e il resto non è poi così importante. Chi è lei per distruggere la fragile tranquillità che il mentalista si era appena ricostruito con fatica?
Eppure Jane sembrava sereno e appagato tra le sue braccia. Felice, quasi. Poi si era addormentato. E sembra aver passato una notte tranquilla. Strano, visto che non dorme mai.
Teresa, invece, non ha chiuso occhio, tutta presa a controllare il sonno di Patrick e i battiti impazziti del proprio cuore.
Ma, nonostante la privazione di riposo, ora è attiva come se avesse dormito dodici ore di seguito. O come se avesse trangugiato un litro di caffè. Sarà l’effetto dell’amore.
Amore. Già. Quella parola che, ormai, non le fa più paura. Quella parola che spera con tutto il cuore non faccia più paura neanche a Patrick.
Come è abituata a fare quando le cose vanno molto bene o molto male, Teresa Lisbon si rivolge a Dio.
Lo ringrazia per averle fatto incontrare Patrick Jane; per averle dato la forza di amarlo, giorno dopo giorno; per averle donato la giusta dose di follia per aspettarlo; per aver donato a lui la forza di superare il suo dolore; per aver risparmiato la vita di Jane, in più di un’occasione; per avergli permesso di uccidere colui che gliel’aveva distrutta (è vero, è quasi una bestemmia ringraziare Dio per un omicidio, ma, per quello che riguarda John il Rosso, l’etica di Lisbon nell’arco degli ultimi dodici anni ha subito un lento e invincibile sconvolgimento); per averla fatta scendere da quell’aereo; per averle regalato questa notte e, spera, molte altre notti come questa.
Dell’ultimo pensiero si vergogna subito: non sta bene, forse, includere in una preghiera qualcosa di così carnale. Ma poi ammette che ciò che è successo non si può definire esclusivamente fisico: è l’unione intima tra due persone che si vogliono bene, e il corpo non è altro che un (piacevole) dettaglio. In questa prospettiva anche questa notte è stata una dimostrazione dell’amore di Dio. Quindi ha tutto il diritto di rientrare nei suoi ringraziamenti.
Fuori diluvia. Lisbon riconosce chiaramente il ticchettio della pioggia e il rombo di un tuono lontano. Non filtra luce dalla tapparella, solo un grigiore plumbeo ben poco allegro.
Ma d’altronde, pensa Teresa, il suo sole personale lei ce l’ha proprio accanto.
 
********
 
Nel frattempo, il sole in questione sta facendo la cosa che gli viene meglio: fingere di dormire.
In questo modo può ammirare a suo piacimento il viso della donna meravigliosa che sta guardando lui.
Ci casca sempre, povera Lisbon. Non ha ancora capito che quello è il suo trucchetto preferito, quello a cui mai rinuncerà, nonostante i buoni propositi di essere una persona migliore.
Teresa è bellissima, e anche emozionata, lo capisce dagli occhi lucidi e dal piccolo tremito delle labbra. Eppure è tranquilla, lo intuisce dalla fronte spianata e dal respiro rilassato. Sembra felice, serena. Possibile che sia per merito suo? Per merito di un truffatore egoista che (grazie al cielo, o quello che si dice in questi casi) non ha saputo lasciarla andare?
E come si sente ora il truffatore?
Patrick riflette, soppesando le proprie sensazioni.
Sta bene. Benissimo. Perfettamente.
Questa notte ci sono stati solo lui e Teresa: nessun fantasma del passato, nessun dolore, nessun rimorso, nessun rimpianto.
Forse non dovrebbe sentirsi così in pace, con se stesso, col suo vissuto, e col mondo. Forse dovrebbe essere divorato dal senso di colpa. Come è stato in questi dodici anni, anzi, ancora di più, visto che ha violato il suo patto di castità, fisico, mentale e sentimentale.
Eppure non può. È successo ciò che era giusto succedesse. Con la donna che ama follemente e che gli ha restituito la vita. Non ci può essere colpa in questo.
Riconosce il velo di preoccupazione negli smeraldi che gli stanno trafiggendo l’anima credendolo ancora addormentato. Jane lo sa, Lisbon teme la sua reazione e le sue emozioni; per lui, non per lei. Forse pensa che si sia pentito di questa notte. Che sciocchezza! È la cosa più bella che gli sia successa negli ultimi dodici anni. Seconda solo all’averla baciata per la prima volta, in quella cella di detenzione all’aeroporto.
Ora vuole solo rassicurarla. E guardarla apertamente. E baciarla di nuovo.
Apre gli occhi, all’improvviso, cogliendo Teresa di sorpresa.
«Buongiorno», le mormora con voce impastata.
«Non stavi dormendo?», chiede la donna indietreggiando, leggermente infastidita da questa inattesa svolta.
«Dovresti aver imparato che non dormo mai», le spiega, strizzandole l’occhio.
«Non è del tutto vero. Stanotte hai dormito», commenta lei, inarcando le sopracciglia nella più classica espressione alla Lisbon.
«Sì, stanotte ho dormito come un sasso e il merito è tuo».
Teresa arrossisce e sorride dolcemente. «Da quanto sei sveglio?»
«Da abbastanza tempo per vederti mentre ammiravi la mia affascinante faccia».
«Non stavo ammirando proprio niente».
«Io invece sì, ammetto che lo stavo facendo». E il suo sguardo corre alle labbra di Teresa, e poi di nuovo ai suoi occhi.
Tentando di nascondere l’imbarazzo di essere stata colta in fallo (che sta chiazzando di rosso il suo viso), Lisbon va dritta al punto. «Come stai?», gli chiede, titubante ma decisa ad affrontare la realtà. Qualunque cosa succeda.
«Bene», risponde Jane, con sicurezza.
«Davvero?»
«Mai stato meglio. Questa volta sul serio».
Teresa, per un attimo, non dice nulla. Si gode il silenzio pieno che segue l’eco di quelle parole che l’hanno appena resa felice. «Mi fa piacere», commenta dopo un po’.
«E tu?», chiede lui, con una punta di apprensione nella voce.
«Mai stata meglio», risponde con piglio dolce e deciso insieme.
«Bene. È una fortuna».
Si sorridono, incapaci di discorsi di senso compiuto. Intanto quel sorriso dice già tutto quello che vogliono dirsi.
Poi un’ombra attraversa il viso di Teresa. «Temevo che tu…insomma…fossi pentito…»
«Pentito? Oh no, niente affatto, Lisbon».
«Pensavo che…ecco…è normale se hai rivissuto il passato…». Non sa trovare le parole più adatte, ma vuole fargli capire che lei è lì, per lui, sempre; anche nel caso le stia per dire qualcosa di spiacevole.
«Oh, ti assicuro che ero troppo impegnato».
«Insomma, Jane, voglio dire che ti capisco se stanotte ti ho fatto riaffiorare dei ricordi. E va tutto bene. Per me, intendo. E spero anche per te».
«Va tutto molto bene. Grazie».
«Quindi non sei pentito», ripete Lisbon, quasi tra se’ e se’, come per autoconvincersi di quella risposta inattesa e sperata.
«Ci si può pentire di respirare? No. Allo stesso modo non posso pentirmi di amarti, Teresa. Il resto c’è, ovviamente, ma in un modo diverso. E non ora. Quando sono con te va tutto bene». È raro sentire dalla bocca di Patrick Jane una frase così diretta, pronunciata con voce profonda e rotta per l’emozione.
La donna abbassa lo sguardo, beandosi della dolce sensazione di non essere stata respinta per l’ennesima volta dal muro di difesa costruito dal mentalista; ripetendosi che è tutto perfetto, e che potrebbe perfino morire di felicità, in questo momento. Pensieri poco razionali e poco da agente federale, eppure suoi. Perché Lisbon è, prima di tutto, una donna che desidera essere amata dall’uomo che adora (a propria insaputa) da dieci anni.
«E tu? Sei pentita?», chiede Patrick, lievemente preoccupato dal mutismo di lei.
«Oh, direi proprio di no», risponde Teresa, sorridendogli con intensità.
«Certo, forse ero un po’ fuori allenamento», commenta il consulente con malizia, allo scopo di provocarla.
«Oh, direi che non te la sei cavata affatto male», ribatte lei con lo stesso tono.
«E d’ora in poi avremo molto tempo per allenarci».
«Idiota».
«Ecco, riesci a insultarmi perfino in questa situazione. Sei crudele Lisbon», cerca di impietosirla lui, sfoderando l’espressione da cucciolo ferito.
«Lo so che ti piace farmi arrabbiare. E tu sai che ti insulto perché sono pazza di te. È strano che non me l’abbia ancora rinfacciato negli ultimi cinque minuti», dice Lisbon, alzando gli occhi al cielo. È bello essere finalmente onesta, con se stessa e con il diretto interessato, su ciò che prova.
Patrick è stupito dell’inattesa franchezza di Lisbon riguardo i suoi sentimenti. «Sono un gentiluomo, lo sai», risponde meccanicamente, in realtà molto lusingato da ciò che Teresa le ha appena rivelato. Lo sapeva, naturalmente. Ma sentirselo dire fa tutto un altro effetto.
Lei si avvicina al viso di Patrick e gli accarezza le labbra con le sue. «Lo so».
Jane non perde l’occasione di approfondire quel bacio inatteso. «Un gentiluomo innamorato di te».
«So anche questo».
Patrick cinge la vita di Lisbon e l’attira a se’. Lei appoggia la testa sul suo petto, rendendosi conto che il proprio cuore non è l’unico a battere furiosamente. Stanno così per un tempo indefinito.
Fino all’odioso suono della sveglia che rompe il romantico idillio.
«No!», borbottano all’unisono.
«Maledetta sveglia!», rincara Lisbon, incavolata nera. Avesse la sua pistola a disposizione  trasformerebbe quell’importuno aggeggio in un colabrodo.
«Il lavoro ci chiama», commenta Jane, rassegnato.
«Ne sembri quasi contento», sottolinea la poliziotta, un po’ dispiaciuta di quella reazione ragionevole.
«Non potrei esserlo meno di così, ti assicuro», mette in chiaro lui, accarezzando i buffi (e tenerissimi) capelli scompigliati di Teresa.
Lavoro. Ovvero la dura realtà. Qualcosa che non deve avere nulla a che fare con carezze del genere, e, tanto meno, baci. Teresa assume un cipiglio ironicamente (ma neanche troppo) autoritario. «Jane, a proposito, niente di tutto questo sul lavoro, oppure giuro che…»
«Sì, ho capito, come minimo mi spetterebbe un bel pugno sul naso».
«Esatto. Come minimo. Ho anche una pistola. Anzi più di una».
«Tesoro mio, ora ti preparo un buon caffè, altrimenti non so se arriverò vivo all’FBI: potresti uccidermi molto prima».
Tesoro mio. Lisbon non sa se potrà mai abituarsi a quelle due parole, se pronunciate dal signor Jane. Il suo cuore, decisamente, non può, considerata la capriola con doppio salto mortale che ha appena fatto. «Deduco che stamattina ti degnerai di venire con me», butta lì.
«Certo. Siamo partner, ricordi?», risponde lui, citando ciò che nel passato si sono detti spesso, a volte come minaccia, a volte come rassicurazione.
«Già. Una bella squadra, il più delle volte», ribatte lei, ricordandosi quella frase che lui le aveva detto quando aveva saputo del suo trasferimento. Non rompere la squadra, le aveva chiesto. E lei non lo aveva fatto. Non poteva.
«Direi sempre. E per sempre», aggiunge Jane, guardandola intensamente negli occhi, per convincerla dell’assoluta veridicità delle sue parole.
«Oggi potrei perfino non avere bisogno del caffè. Per mettermi di buon umore potrebbe bastare quello che hai appena detto. Per ora», dichiara l’ex caffeinomane, mentre si alza a malincuore da letto. È dura lasciare quel caldo giaciglio in cui è ancora coricato il suo mentalista preferito.
«Meglio non rischiare. Te lo preparo io», propone Jane, alzandosi a sua volta. Il letto non è più un bel posto se Lisbon è assente.
«Grazie. E io, intanto, ti preparo il tè», promette Teresa.
Patrick è colpito da tale inattesa gentilezza da parte di una donna che, normalmente, prima delle 9 del mattino brontola e rifugge ogni dialogo civile. «Oh. Grazie».
È bello prendersi cura l’uno dell’altro.
Si coprono alla bella e meglio con i primi indumenti che trovano e si catapultano giù per le scale, verso la cucina, dove cominciano ad armeggiare tra tazzine, caffettiera, bollitore e sbadigli.
Alla fine la missione è compiuta: in tavola troneggiano due fumanti tazze.
«Siamo una bella squadra tra i fornelli», ammette Lisbon.
«Meh, direi anche in altri vani della casa più interessanti», accenna l’altro, maliziosamente.
Un biscotto volante colpisce il naso di Jane.
 
**********
 
È bello fare colazione insieme. Allo stesso tavolo. Chiacchierando e stando in silenzio; sorridendo e stuzzicandosi. Dopo aver dormito (e aver fatto altre piacevoli attività) insieme. Prima di andare al lavoro. Insieme, anche quello.
Sorseggiano tè e caffè il più lentamente possibile, vogliono godersi al massimo questo magico momento, sorprendendosi di quanta magia possa essere contenuta in una banalissima tazza.
Poi litigano per il bagno («Prima io, sono un’agente federale», «No prima io, e guarda che non sei più il mio capo»), perché in una ventina di minuti devono essere pronti per affrontare una giornata all’FBI. Insieme, tanto per cambiare.
Patrick sa perfettamente che Lisbon è rapidissima a prepararsi, che si tratti di andare in ufficio o a un appuntamento romantico; a parte, nel secondo caso, un filo in più di mascara e di lucidalabbra. Ma lei è perfetta così, al naturale, anche dopo un’intera giornata di interrogatori o al mattino appena sveglia (come ha potuto constatare il mentalista di persona negli ultimi due giorni).
In realtà Teresa non pensa affatto di essere perfetta, solo non ha tempo da perdere in futili, ed evitabili, attività. Certo, le piace prendersi cura di se stessa, ad esempio con un lungo bagno caldo o con una crema nutriente profumata, le piacciono le camicette verdi perché le valorizzano gli occhi, e adora quello shampoo alla fragola che le rende così morbidi i capelli; di solito, per mancanza di tempo, il suo rituale di bellezza si ferma a questo, spingendosi a comprendere, ma solo in casi selezionati, un trucco naturale e delicato. Come lei. Che odia tutto ciò che è artificio, tanto più sul proprio viso. A volte si sente diversa dalle altre donne, tutte innamorate del fondotinta abbronzante, del parrucchiere e del tacco 12. Ma ignora ( errore ovviamente non commesso da Patrick) che la maggior parte delle altre donne impiega ore per essere belle neanche la metà di quello che è Lisbon.
Dal canto suo, in tempi non sospetti, Teresa aveva immaginato che il damerino Jane passasse ore davanti allo specchio a sbarbarsi, a pettinarsi i riccioli e ad aggiustarsi il completo a tre pezzi.
Forse, un tempo lo faceva davvero. Ora sarà l’influenza hippy dell’isola messicana, ma il biondissimo consulente non sembra badare più di tanto al proprio aspetto. Anche perché non ne ha bisogno.
È bello anche appena sceso dal letto, con quell’aria stropicciata e distratta, o forse perfino di più.
E in bagno è rapidissimo. La cosa irritante, invece, è quello che fa al dentifricio. Schiaccia il tubetto senza pietà, spalmando la maggior parte del contenuto sul lavandino; e l’altra parte sulla mano. Senza poi rimettere il tappino al suo posto.
Teresa lo coglie proprio in flagranza di reato, spalancando la porta del bagno in cerca della spazzola per cercare di domare i suoi capelli indisciplinati.
«Jane! Cosa stai facendo a quel povero dentifricio??»
«Non ti preoccupare, ora sistemo tutto», la rassicura, cercando di pulire le chiazze bianche, ottenendo solo di allargarle, e chiudendo il tubetto ormai distrutto.
Entrambi scoppiano a ridere nello stesso momento. Sono davvero una coppia se litigano sul tappo del dentifricio. Una piacevole e ovattata sensazione di complicità li avvolge.
Subito rotta impietosamente dal solito Jane. Che molla l’arma del delitto, precipitandosi giù per le scale al grido di «Guido io».
«Non ci provare!», lo rincorre Teresa, raggiungendolo nell’entrata.
«Troppo tardi», sussurra Patrick con l’aria da mascalzone che l’ha appena combinata grossa.
«Non credo proprio», sussurra lei, tirando fuori le chiavi dalla tasca dei propri jeans.
«Come hai fatto? Te le avevo prese prima». Il mentalista, incredulo, fruga nella tasca della giacca e la trova vuota. I suoi trucchetti non falliscono mai. Tanto meno con Lisbon.
«Ti ho fregato», rincara la dose lei, tutta esaltata. È la stessa eccitazione che aveva provato quando aveva decifrato quel codice, sulla spiaggia di Miami, prima di Jane. Cioè, quando aveva creduto di decifrare quel codice prima di lui. Semplicemente perché Jane l’aveva direttamente inventato. Per ingannarla.
Questa volta, però, la sua soddisfazione è autentica. A meno che non sia tutto un piano di Patrick per farle piacere, cosa di cui dubita fortemente. Ha l’autentica aria da bambino deluso.
«Devo ammetterlo. Sto perdendo il mio smalto», ammette il mentalista con un’aria mogia, in contrasto col sorriso che gli sta illuminando il volto (e l’intera stanza).
«Forse sono una buona allieva», lo prende in giro la poliziotta, stupendosi della propria furbizia.
«Sono colpito, Lisbon, davvero». Molto di più: è fiero di lei.
«Andiamo, altrimenti se arriviamo in ritardo poi chi lo sente Abbot?»
«Oh, Abbot ha sempre tifato per noi». L’inquietante immagine di una fata madrina vestita d’azzurro col faccione di Dennis prende forma nella mente di entrambi. Meglio pensare ad altro per evitare di scoppiargli a ridere in faccia appena lo vedranno.
«Sì, ma può anche licenziarci».
«Touché».
Escono di casa, chiudono la porta, e solo allora si ricordano che sta diluviando.
«Non ho preso l’ombrello», dice Teresa, facendo il gesto di tornare dentro a prenderlo.
Patrick la trattiene, prendendola per mano. «Oh, non importa. È divertente correre sotto l’acqua. Ricordi?», sussurra con dolcezza, strizzandole l’occhio.
«Certo», assicura lei, mentre un sorriso ebete prende forma sul suo viso.
«Pronta?»
«Via».
Non lasciandosi la mano si lanciano impavidi nel diluvio, verso la macchina. Ridono di cuore, sereni e allegri. Insieme è bello anche correre sotto la pioggia.
Poi si separano a malincuore. Teresa apre la portiera e si siede al posto del guidatore. Patrick sta aspettando ancora sotto la pioggia, bussando sulla carrozzeria per sollecitare Lisbon. Solleva il viso e spalanca la bocca, come per bere la pioggia che lo sta bagnando. È un gesto che gli trasmette una gradevole sensazione di libertà. È un deja vu. Una volta era avvenuta la stessa scena. E si erano presi incredibilmente per mano, senza neanche capire perché per entrambi era stato così spontaneo farlo. Sembra un secolo fa e, in effetti, è così.
Teresa, un po’ tentata di aspettare ancora qualche secondo ad aprire la portiera per fare un bello scherzetto al suo partner e farlo infradiciare definitivamente, in realtà lo fa entrare quasi subito. Non vuole certo che Patrick si prenda un raffreddore!
Il mentalista sale in macchina, gocciolando.
«Poveri noi, che giornata», commenta Lisbon.
«Oh. Perché?», chiede ingenuamente Jane.
«Piove, te ne sei accorto?», gli chiede, un po’ sarcastica.
«Veramente no», risponde lui come se fosse la cosa più scontata del mondo.
«Sei impazzito?». Forse tutta quell’acqua ha annegato il cervello di Jane.
«No», risponde Patrick con semplicità. Poi fissa intensamente Teresa per qualche istante, sfoderando un enorme sorriso, dedicato solo a lei. «Io, a dir la verità, il sole lo vedo».





 

 

***************** 
 



 



Angolo dell'autrice:  Ciao!!! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Ho un po’ di idee sulle prossime one-shots, ma temo non riuscirò a dedicarmici come vorrei, con la mente tutta presa da quello che vedremo nella settima stagione. *_* Ci proverò, e spero di pubblicare presto. In ogni caso la storia continuerà di sicuro, solo non so quando e con quali scadenze, dal momento che finora la mia sola esperienza è stata scrivere a stagione conclusa.
Grazie a chi finora ha letto/seguito/ricordato/preferito/recensito! Mi avete dato un grandissimo incoraggiamento: spero di non deludervi con il prosieguo della storia e che scuserete eventuali ritardi indesiderati! Buona settima stagione a tutti e a presto :)

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Capitolo 9
*** Green dollars ***


GREEN DOLLARS

 
Sono le 8.05 e all’FBI è tutto tranquillo. Troppo tranquillo.
Cho legge un libro, ma vorrebbe andare a sgominare una gang.
Fisher compila chili di scartoffie e sbuffa di tanto in tanto.
Wylie, com’ è sua abitudine, parla con l’adorato computer.
Abbot è rintanato nel suo ufficio a giocare con il robot che gli ha regalato il suo geniale consulente.
Ma un evento straordinario sta per abbattersi su tutti loro.
Jane e Lisbon arrivano insieme. Per la prima volta.
Entrano nell’open space con naturalezza, battibeccandosi. Ok, il battibecco non è una novità.
«Buongiorno a tutti! Scusate, lo so, è tardi», saluta educatamente Teresa, un po’ mortificata. 
«5 minuti di ritardo non vuol dire tardi», puntualizza il mentalista, che ama la precisione semantica più della puntualità.
«Per me sì», ribatte l’agente, mettendo su il suo famoso broncio.
«E, comunque, siamo arrivati tardi perché hai guidato tu», la provoca lui. Adora quel broncio.
«Se avessi guidato tu, ci saremmo sfracellati da qualche parte e non saremmo arrivati proprio».
«Se non mi avessi rubato le chiavi, avremmo potuto scoprirlo».
«Veramente le chiavi le hai rubate tu a me».
«E tu sei il ladro che ha derubato il ladro».
Attenzione.
Se Jane e Lisbon discutono sulla guida, vuol dire che sono venuti sulla stessa macchina. Questa sì che è una novità.
I colleghi tossicchiano, per ricordare ai due incuranti piccioncini (no, forse non è il termine più appropriato, evoca ricordi importuni) la loro ingombrante presenza.
Ognuno di loro non può fare a meno di notare che entrambi sorridono. Sembrano estremamente felici. Nonostante sia mattina presto, Lisbon non si sia ancora attaccata alla macchinetta del caffè e Jane non si sia ancora accoccolato sul suo divano. Questa è un’altra sconvolgente novità. Che significa una sola cosa.
Cho non modifica di un millimetro la sua posizione sulla sedia, e nemmeno la sua espressione facciale.
Fisher, curiosissima, osserva la scena strabuzzando gli occhi già originariamente fuori dalle orbite.
Wylie non capisce cosa stia succedendo, ma è convinto che, di qualunque cosa si tratti, sia meno  interessante dello schermo del pc.
Abbot riemerge dall’ufficio per gongolare in silenzio, nascondendo la sua soddisfazione dietro la consueta aria burbera.
Ma, suo malgrado, è costretto ad interrompere l’idilliaca scenetta.
«Abbiamo un nuovo caso. Cho, Lisbon e Jane andate sulla scena del crimine», annuncia, riferendone l’indirizzo.
«Ok capo», annuiscono due interessati su tre.
Il terzo, ovvero quello senza pistola, non dice nulla ma, improvvisamente, abbraccia Abbot, lasciando tutti perplessi. Sembra impazzito, ma purtroppo non lo è. Il mondo non si è ancora abituato alle sue stranezze.
In realtà, Patrick è soltanto grato al nero per averlo appena assegnato al caso. Anche se, probabilmente, avrebbe trovato il modo per seguire Lisbon in capo al mondo, a prescindere dagli ordini del suo capo.
Non avrebbe avuto nessuna voglia di separarsi da lei. Non stamattina. Non dopo questa notte.
Fisher, nel frattempo, allunga di soppiatto una banconota a Cho. Ma non è abbastanza veloce da evitare di essere notata.
Dennis, stupito da questa mossa ancor più che dall’inconsueto abbraccio di poco fa, chiede spiegazioni.
È Jane a dargliele, con la sua più tipica aria saccente: «Avevano scommesso 20 dollari. Cho diceva che stamattina io e Lisbon saremmo arrivati insieme, Kim sosteneva di no. Per mia fortuna ha vinto Cho», sottolinea, sfoderando un sorriso smagliante quanto sghembo.
Teresa assume un colore indefinito tendente al rosso fuoco. Ucciderebbe quell’importuno  fanfarone di un mentalista con le sue stesse mani.
«Non siamo qui per fare pettegolezzi, andate! Adesso», tuona l’agente supervisore.
Il trio entra in ascensore: la poliziotta sfoggia un imbarazzato paio di occhi bassi, Cho la sua solita imperturbabile flemma, e Jane un’espressione trionfante.
«Giuro che ho appena intravisto un sorriso sulla faccia di Cho», dichiara il consulente con tono teatrale, poco prima che le porte si chiudano.
Teresa soffoca una risata, facendo fatica a ricordarsi del perché, un minuto fa, fosse così arrabbiata con lui.
Jane pensa che il suono di quella piccola risata muta sia la musica più bella che abbia mai sentito.
Si guardano, complici, con la consapevolezza che una nuova avventura è appena incominciata. Le loro mani si sfiorano per un attimo, nella tacita promessa di non lasciarsi più.
Kimball, stavolta, sorride davvero.
«E pensare che Cho credeva fossero come fratello e sorella», commenta, nel frattempo, Abbot, rimasto nell’open space a sogghignare.
Poi si ricorda di non essere solo e di essere il capo. «Niente scommesse sul lavoro, Fisher!», rimprovera la venale agente, più per non perdere credibilità davanti ai suoi sottoposti che per reale convinzione.
«Certo signore», si scusa Kim. Che, mentre si allontana, giurerebbe di sentire Dennis borbottare tra se’ e se’, con una nota di rimpianto nella voce: «Se avessi scommesso anch’io su quei due fin dall’inizio, sarei diventato miliardario».







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Angolo dell'autrice: Eccomi di nuovo qui! Mi scuso per il rallentamento e spero che questa piccolissima one-shot vi abbia fatto sorridere.
A presto
:)

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Capitolo 10
*** Silver star on top of the tree ***


SILVER STAR ON TOP OF THE TREE
 


È la vigilia di Natale.
In una graziosa villetta bianca appena fuori dal centro di Austin fervono i preparativi.
Una testa bionda sbuca tra i rami dell’invadente abete che giganteggia in salotto, mentre un paio di occhi verdi sta osservando attentamente la scena dal basso.
«Un po’ più a destra…no, un po’ più a sinistra», incita Lisbon, come un esigente regista che dirige con severità maniacale i suoi attori.
«Non sono molto chiare le tue spiegazioni», si lamenta Jane, in bilico su una sedia, mentre appoggia sulla cima dell’albero un puntale argentato a forma di stella, anch’esso pericolosamente in bilico.
«È storto», dichiara lei, trattenendo a stento una risata.
«Non è vero», insiste il mentalista, sia per reale convinzione sia per partito preso.
«Sì, invece», insiste la poliziotta, più per partito preso che per reale convinzione.
«Allora sali e mettilo tu».
«Non ci penso neanche. Io ho già sistemato le palline e le luci».
«Eh già, in effetti decorare l’albero non è proprio la tua specialità», butta lì Patrick, indirizzando uno sguardo rassegnato al groviglio di lucine e alla disposizione ben poco armoniosa delle decorazioni.
«Come osi? Vorresti dire che l’esperto in materia sei tu?», lo prende in giro Teresa, con una punta del suo irresistibile sarcasmo. È  consapevole di non essere dotata di un particolare estro artistico, ma, occupandosene lei, ha salvato quelle povere palline da sicura distruzione e l’intera casa da un probabile cortocircuito.
«In effetti, non arriveresti fino alla cima dell’albero», la provoca lui, sorridendo e squadrandola dall’alto in basso.
«Maleducato. Se cadi e ti sfracelli non ti soccorrerò».
«Suvvia, non puoi negare la palese realtà, ovvero che io sono più alto di te, quindi più adatto a questa delicata incombenza».
«Alto…non esagerare, Jane!». Lisbon increspa le labbra in un sorriso provocatorio.
«Invidiosa!», ironizza lui, mentre scende a terra con un buffo balzo:« Sei la mia poliziotta preferita in formato tascabile», continua, dandole un tenero e rapido bacio sulla fronte.
«E tu il mio rompiscatole preferito», ribatte lei, tutta soddisfatta di questa perfetta, e sincera, definizione.
«Modestamente lo so», ammette Patrick, mentre la stringe in un abbraccio che, per colpa degli appiccicosi brillantini che ricoprono il puntale e, dunque, le sue mani, si colora di argento.
«Come ti sembra?», chiede poi l’orgoglioso arredatore, accennando alla sua creazione.
Ma Teresa non sembra affatto intenerita dalle precedenti effusioni, per quanto gradite. La sua risposta è crudele e inequivocabile: «Storto».

 
*********
 

Dopo molti tentativi la stella è ancora più storta di prima, ma, in compenso, i brillantini iridescenti si sono depositati ovunque, compresi il viso di Lisbon e i capelli di Jane.
«Ti dona il trucco glitterato».
«E a te la parrucca argentata».
Il mentalista le sfiora la guancia, fingendo di pulirgliela, ma la sua è più che altro una scusa per farle una carezza.
Si guardano intensamente, sorridendosi con tenerezza, perdendosi uno negli occhi dell’altro…fino a quando uno strano odore di bruciato giunge alle loro narici.
«Il tacchino!» gridano all’unisono, ricordandosi improvvisamente del povero pennuto da poco infornato.
«Tutta colpa tua, Jane!»
«Lisbon, ti ricordo che avevi detto che al tacchino ci pensavi tu».
«Allora è colpa tua che mi hai distratto».
«….col mio immenso fascino, lo so».
Ma Teresa non fa in tempo a sentire questa impertinente frase (il naso di Patrick è salvo, per ora), perché ha la testa presa in altre faccende, anzi, ha la testa letteralmente dentro il forno.
Il tacchino, per fortuna, è recuperabile. Le responsabili del preoccupante odore sono solo due misere presine carbonizzate.
La fiducia di Lisbon nelle proprie capacità culinarie, però, è in rapido crollo.
«Forse avremmo dovuto prendere qualcosa in rosticceria», si rammarica.
«Ma no, Lisbon. So quanto ti piace l’idea di un tradizionale cenone di Natale cucinato in casa», la incoraggia Patrick, anche lui incuriosito da questa novità; non tanto dal Natale o dal cenone, quanto dal fatto che lo trascorrerà con Teresa.
«È da quando è morta mia madre che il mio Natale non è tradizionale», ammette lei.
«Lo so. Ora però ci sono qui io per rimediare», mormora Jane con una voce profonda, colma di significati e promesse.
Teresa vorrebbe ringraziarlo, ma non trova le parole adatte, quindi si limita a sfiorargli la mano con la propria e a indirizzargli un sincero sorriso. Poi torna seria e pensierosa.
«Mio padre si ubriacava più del solito la sera del 24. Io e i ragazzi cercavamo di festeggiare tra noi come potevamo, ma non era facile», ricorda.
È strano, ma parlarne non le fa più male, a patto che Patrick sia al suo fianco.
«Scommetto che compravi i regali dei tuoi fratelli, mentre tu non ricevevi nulla», butta lì Jane con voce incolore. Quanto vorrebbe viaggiare indietro nel tempo, modificare i  Natali della piccola Teresa e regalarle un’adolescenza spensierata.
«Più o meno. Poi, quando sono cresciuti e io ho iniziato a lavorare, ho sempre badato ad essere di turno il 24 e il 25», ammette lei. Non era stakanovismo il suo, soltanto autodifesa. I colleghi non l’avevano mai capito. Jane sì.
«Quest’anno non ci sei riuscita», commenta il mentalista con un sorriso birichino.
«Quest’anno sono molto felice di non esserci riuscita. Anzi devo ringraziare Abbot», concede Lisbon, in un eccesso di espansività.
«A proposito, Abbot è stato carino a dare ferie a tutti e due, non credi?», domanda Patrick, stupito e lieto della generosità di quel burbero, ma a suo modo adorabile, capo.
«L’aggettivo “carino” non si confà molto a Dennis. L’hai ricattato per caso?», insinua la poliziotta.
Sarebbe un tipico comportamento alla Jane.
«No, donna di poca fede! Meh, Abbot non sarà carino, ma è stato il primo a tifare per noi».
«Ricordami di ringraziarlo anche per questo», si raccomanda Lisbon, in un secondo eccesso di espansività.
«Dovremo farlo davvero, un giorno o l’altro». Jane è serio, stavolta. Forse, senza le insistenze di quello scorbutico omone, lui sarebbe ancora in Messico, lontano dalla donna che non aveva il coraggio di amare.
Forse, senza la sua macchina, quella sera non sarebbe arrivato in tempo in aeroporto e lei, a quest’ora, sarebbe già sposata con l’uomo dei pancakes. Rabbrividisce al pensiero.
Sì, ha deciso: Abbot santo subito!
Teresa, intanto, non può fare a meno di ripensare a quando assisteva, da impotente spettatrice, ai Natali solitari di un Jane spezzato e determinato a fingere che fossero giorni come tutti gli altri.
Per lui, in effetti, lo erano. Anzi, erano molto peggio.
«Anche tu è tanto che non passi un Natale come si deve».
La donna si pente subito di questa stupida e inopportuna frase. Ora Patrick ripenserà ai pochi bellissimi Natali trascorsi con Angela e la piccola Charlotte, e si rattristerà. Poi ricorderà quelli miserabili passati a sonnecchiare sul divano del CBI, ad autocommiserarsi e a meditare vendetta.
Brava Teresa, si complimenta con se stessa, altro che rendere speciale il suo Natale: ecco il modo perfetto per renderlo soltanto più malinconico.
«Già», acconsente lui con tranquillità dopo una breve pausa silenziosa; è serio, ma apparentemente sereno.
«Scusami, non volevo farti tornare in mente…tutto…», sussurra Lisbon, sentendosi la peggiore delle criminali. Quanto vorrebbe entrare nella mente di Patrick, cancellare i suoi orribili Natali e regalargli solo bei ricordi.
«Tranquilla, non c’è niente di cui scusarti, hai detto la verità. No, non ricordo di aver passato un Natale felice negli ultimi dodici anni», ammette, calmo.
«Ma ora ci sono qui io per rimediare», azzarda lei, accennando un sorriso esitante.
«Lo so. Grazie, Teresa», dice Jane, intrecciando le sue dita con quelle della poliziotta. Con a fianco questa piccola donna meravigliosa perfino il Natale, ovvero un giorno che aveva deciso di odiare o ignorare, sarà speciale.
«Siamo una bella coppia di disadattati», ironizza lei, per alleggerire l’atmosfera.
«Sì, lo siamo». Il viso di Patrick si illumina; «Una bella coppia, intendo».
«Già».
«E anche disadattati».
«Parla per te».

 
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Dopo alcune ore, Jane e Lisbon, fieri delle loro imprese culinarie, abbandonano il luogo di battaglia, ovvero i fornelli, per un po’ di meritato riposo sul divano.
Ma in salotto li attende una spiacevole e sconvolgente sorpresa: la stella argentata in cima all’albero è sparita.
Per un attimo ognuno pensa che si tratti di uno scherzo dell’altro.
Ma basta guardarsi negli occhi per capire che entrambi sono all’oscuro di questa strana faccenda.
In effetti Jane non comprometterebbe ma la sua faticosa operazione, e Lisbon, beh…semplicemente non arriverebbe alla cima neanche sporgendosi in punta di piedi sulla sedia.
Ai due non resta che analizzare rapidamente la scena del crimine. Almeno la vigilia di Natale pensavano di essere esonerati da questa abituale incombenza. Invece no.
La finestra aperta rappresenta l’unica via di entrata e di uscita che il ladro aveva a disposizione. Non manca nient’altro. La sedia è stata riaccostata all’abete per arrivare ad afferrare l’ambitissimo oggetto.
«Chi mai può rubare un puntale comprato dai cinesi per due dollari?», chiede Patrick, alla sua partner quanto a se stesso.
«E che perde pure chili di brillantini», aggiunge Lisbon.
«A meno che non sia in realtà un preziosissimo monile di cui ignoravamo il valore».
«A meno che il ladro non sia rimasto inorridito da come l’avevi sistemato e abbia deciso di porre fine allo scempio».
Le due povere vittime di furto non hanno perso la voglia di punzecchiarsi a vicenda, ridendo dell’assurdità della situazione.
Poi si sporgono alla finestra e in un attimo capiscono.
Un gruppetto di ragazzini, cinque maschi e due femmine, all’incirca sui dodici o tredici anni, stanno giocando a palla in strada.
«È stato uno di loro», esclamano all’unisono il mentalista e la poliziotta, sorprendendosi della loro geniale intuizione simultanea.
«Scommetti che in tre minuti trovo la refurtiva?», propone Lisbon, avvicinandosi pericolosamente a Jane con un intrigante sguardo di sfida.
«E scommetti che in tre minuti scopro chi è stato?», ribatte Jane, piuttosto divertito e affascinato (ma per nulla intimorito) dall’espressione determinata che rende ancora più brillanti i meravigliosi occhi verdi di Teresa.
I due investigatori si precipitano fuori: Lisbon osserva attentamente la scena e il terreno, torna un attimo dentro casa, poi, dopo aver dato una carezza di incoraggiamento alla giacca del suo partner, sparisce dietro un albero; Jane, invece, attacca subito bottone con i ragazzini.
«Ciao», saluta, piuttosto ottimista. Di solito ci sa fare con i mocciosi.
«Che vuoi?», chiede il più alto del gruppo, probabilmente il leader. Forse Patrick ha perso il suo appeal tra i giovanissimi. Forse è semplicemente invecchiato.
«Niente».
«Ok».
Il gruppetto decide di ignorare Jane e di ricominciare a giocare.
Il più grassoccio del gruppo sbaglia tutti i passaggi, e viene preso in giro soprattutto da una ragazzina bionda, tanto antipatica quanto carina. Tutti gli altri ridono alle sue battute tranne un ragazzino magro e occhialuto, e una bimbetta bruna, la più giovane del gruppo, che passa sempre il pallone all’imbranato giocatore.
Al re degli osservatori non sfugge nulla di tutto ciò, insieme a molti altri dettagli apparentemente insignificanti.
«Si può sapere che vuoi?», riattacca dopo qualche minuto il capo, sentendosi minacciato dalle insistenti e irritanti occhiate di Jane.
«Sapere chi ha rubato la stella argentata del mio albero di Natale», butta lì Patrick, sfoderando il più ingenuo dei sorrisi.
«Non siamo stati noi».
«Mi permetto di insistere».
«Se lo pensi è un problema tuo. Lasciaci in pace».
«So esattamente chi è stato di voi», annuncia l’ex sensitivo con tono profetico, allontanandosi leggermente, pur continuando ad osservare le reazioni di ognuno di loro.
«E chissenefrega», dichiara il capo, subito imitato dalla ragazzina bionda.
Nel frattempo riappare Lisbon: dietro la schiena nasconde qualcosa, mentre le sue labbra increspate tentano di nascondere un sorriso vittorioso. Arrivata a un passo da Patrick sfodera il puntale scomparso con gesto teatrale.
«L’hai trovato! Sono colpito Lisbon. Come hai fatto?», chiede il mentalista, sinceramente stupito.
«Non ho intenzione di rivelarti i miei segreti», dichiara la poliziotta, mettendo su il suo irresistibile broncio.
«Tu non hai segreti per me».
«Invece sì».
«Ne dubito. Io ovviamente ho già scoperto chi è stato».
«Ovviamente».
«È stato il ragazzino sovrappeso, quello che non azzecca un passaggio, insieme al suo amichetto occhialuto», rivela mister So-tutto-io.
«Ok», si limita ad annuire Teresa.
«Non mi chiedi come ho fatto?».
«Fai pure, visto che muori dalla voglia di dirmelo».
«È palese dalle loro reazioni: sono gli unici che mi guardano di sottecchi e si irrigidiscono tutte le volte che mi avvicino. L’idea deve essere stata del cicciotto, probabilmente voleva regalarla alla biondina carina e senza cuore che non se lo fila; ma da solo in piedi sulla sedia non sarebbe arrivato alla cima dell’albero, quindi doveva avere un complice, abbastanza suo amico da volerlo aiutare e abbastanza magro da potergli salire in spalla. Chi se non il piccoletto occhialuto, anche lui emarginato dal gruppo? E poi entrambi hanno le mani coperte di brillantini».
«Ok».
«È tutto quello che sai dire, Lisbon?»
«Guarda nella tua tasca».
Patrick si fruga nelle tasche della giacca e in una trova un foglietto di cui non conosce la provenienza.
«Leggilo».
È la scrittura piccola e frettolosa di Lisbon: “I colpevoli sono il ragazzino biondo che non ha un futuro da pallavolista e il suo amico occhialuto”.
Jane deglutisce e fatica a ritrovare il dono della parola. Poi sorride. «Oh. Mi hai sorpreso, Lisbon».
«Lo sapevo che un giorno o l’altro l’avrei fatto».
In realtà Teresa riesce a sorprenderlo molto più spesso di quello che lei stessa crede.
Ogni giorno il mentalista è sorpreso dalla sua bellezza, dalla sua generosità, dalla sua onestà, dalla sua sarcastica ironia. E dai meravigliosi sorrisi che ultimamente sembra riservare solo a lui.
Ma non le dice nulla di tutto ciò. «Come l’hai capito?», si limita a chiedere.
«Solo dai brillantini. È bastato un minuto», spiega lei. Da lontano aveva notato subito che solo le mani dei due ragazzini avevano riflessi argentati; poi una debole, ma provvidenziale, scia sul terreno l’ha condotta dritta al nascondiglio della refurtiva.
«Touchè. I cari, vecchi indizi che piacciono tanto a voi poliziotti».
«Esatto. Altro che le tue osservazioni da mentalista».
«Le mie osservazioni da mentalista mi hanno portato anche al movente».
«Al movente ci sarei arrivata tra cinque minuti, cioè dopo aver interrogato i sospettati».
«Agli ordini, agente Lisbon, andiamo a interrogarli».
I due colpevoli, Tom e Alan, non provano nemmeno a negare. Sono mortificati e si scusano decine di volte, mentre la vergogna tinge di rosso le loro guance.
«Direi che questa volta possiamo lasciare ai ladri la refurtiva, se promettete di non rubare mai più in tutta la vostra vita», dichiara solennemente Lisbon dopo una severa lavata di capo.
In effetti a Natale si è tutti più buoni. Vale anche  per gli agenti federali.
Tom, la mente del crimine, è felicissimo e, incredulo, ringrazia la strana coppia di generosi investigatori.
«È raro che l’agente Lisbon rinneghi i suoi principi morali, ritieniti molto fortunato», spiega Jane al ragazzino, lanciando uno sguardo di approvazione alla sua magnanima partner.
«Di solito lo faccio solo in casi molto speciali», dichiara la donna, increspando le labbra in un sussurro pieno di significato, tutto dedicato al suo partner.
Patrick sorride. La mente di entrambi corre a tutte le volte in cui la poliziotta ha trasgredito la legge per assecondare il consulente o salvargli il fondoschiena. Succederà ancora, questo è certo.
«Io ho una seconda condizione, però», aggiunge Patrick, rivolgendosi di nuovo a Tom e strizzandogli l’occhio. «Lascia perdere la bionda antipatica: regala la stella alla tua amica magrolina che mi sembra cotta di te».
 

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Il crimine è risolto, gli investigatori sono corsi a comprare un secondo puntale per rimpiazzare quello ormai perduto, la casa non è andata a fuoco a causa degli arditi esperimenti culinari, la tavola è apparecchiata di tutto punto e il cibo sembra perfino commestibile.
Patrick e Teresa possono finalmente godersi il tanto sospirato cenone natalizio.
Gli stuzzichini preparati dal cuoco mentalista sono buoni e sofisticati, il brodo è saporito, il tacchino che Lisbon ha rischiato di carbonizzare non è affatto male, e la frutta secca, di cui entrambi sono ghiotti, abbonda.
L’atmosfera è rilassata e calda. Merito dell’ottimo vino, delle candele o degli enormi sorrisi che i due commensali si scambiano? Forse di tutte e tre le cose.
Parlano di tutto e di niente, riempendosi l’uno della presenza dell’altro.
I loro occhi sono più luminosi della stella argentata che brilla sulla cima dell’albero.
«È mezzanotte, Jane», sussurra Teresa a un certo punto, un po’ emozionata. Tra una chiacchiera e una fetta di panettone, non aveva più guardato l’orologio. Quando è con Patrick ha spesso la sensazione che il tempo si fermi.
«Già». Il mentalista non ha alcun bisogno di sapere che ore siano: quando è con Teresa ha spesso la sensazione che il tempo non esista.
Guidato da un istinto irrefrenabile afferra la mano della sua partner e la tiene per qualche istante tra le sue. Poi se la porta alle lebbra, lasciandovi un bacio leggerissimo.
«Non sei curioso del tuo regalo?», lo stuzzica lei, cambiando discorso per cercare di distrarlo dal suo improvviso (e giustificato) rossore. La vicinanza di Patrick, e in particolare i suoi baci, continuano a farle questo effetto.
«No», risponde lui con prontezza, serio.
«Perché sai già che cos’è?». Dalla voce di Lisbon traspare una punta di delusione. D’altronde se lo aspettava: fare una sorpresa a Patrick Jane è una missione impossibile.
Ma il mentalista scuote la testa, sorridendo. Poi la guarda intensamente. «No. Perché il mio regalo è già qui, davanti a me».
 
 
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Malgrado la sua dichiarazione di poco fa, Jane è piuttosto curioso dell’oggetto incartato che ha adocchiato sotto l’abete.
È cubico, né grande né piccolo, fasciato di argento.
No, il re dei mentalisti non ha indovinato cosa possa contenere. E non ha la minima intenzione di farlo.
Vuole lasciarsi sorprendere. Per una volta non ha tutto sotto controllo, e non se ne rammarica.
Teresa, dal canto suo, dimostra un vivacissimo interesse nei confronti del pacchetto di cui non conosce il contenuto. È rossa in viso e impaziente come una bambina di cinque anni.
Altro che razionale agente federale quarantenne!
In effetti, l’ultimo regalo che ricorda di aver trovato sotto un albero di Natale era stato un maglione verde che le aveva comprato sua madre.
«Prima tu», incita lei.
«No prima tu», insiste lui.
«E va bene».
Teresa è ben felice di aprire il suo.
È piatto. Sembra carta. È piuttosto strano, ma in effetti da Jane non ci si può  aspettare qualcosa di normale.
Le tremano le mani per l’emozione. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno si sarebbe accoccolata sotto un sempreverde per sfasciare i regali con Patrick Jane?
Dentro c’è davvero della carta: anzi no, ci sono delle foto.
La prima è quella di un grande maneggio. Sembra bellissimo, confortevole e immerso nel verde. Dall’insegna in bella vista sembra si trovi appena fuori Austin.
La seconda…no, non può essere.
Sembra la foto del suo pony, quello che le aveva regalato Patrick tanti anni fa.
Era stato un gesto folle e dolcissimo.
Teresa l’aveva venduto a malincuore, quando si era trasferita nello stato di Washington un paio di anni fa; l’aveva fatto perché non poteva permettersi di pagare il trasferimento in un maneggio più vicino, ma anche perché sarebbe stato un ulteriore modo per allontanarsi da un Patrick Jane già troppo lontano da lei.
È incredibile ma è proprio lui, il suo piccolo pony marrone pezzato di bianco: lo riconoscerebbe tra mille.
L’ormai esperto commerciante di cavalli sta osservando ogni minima reazione della sua partner.
«L’ho ritrovato, ma non è stato facile riaverlo. Il nuovo proprietario è un osso duro. Alla fine ha ceduto e me l’ha venduto. Ora è in un maneggio in periferia di Austin», spiega.
Sa quanto a Lisbon piacciano i cavalli, e quanto, da bimba, sognava di possederne uno. Era quello il motivo per cui gliel’aveva regalato la prima volta, molti anni fa.
Questo Natale vuole che sia speciale per lei, vuole che Teresa torni un po’ bambina. È questo il motivo per cui le ha regalato il pony per la seconda volta. Sperava di renderla felice.
Ma da Lisbon nessuna risposta.
«Non sei contenta?». A volte non riesce proprio a capire cosa stia pensando la sua non-sempre-traslucente partner, e questa è una di quelle volte.
«Sono senza parole».
«Ma sei contenta?»
«Secondo te?»
«Non saprei».
«Strano che tu non lo sappia già. Perché sono molto, molto contenta. Grazie Patrick», sussurra Lisbon con voce malferma, stringendogli dolcemente il braccio.
«E io sono contento che sei contenta, Teresa», rispondendo alla stretta.
«Quando possiamo andarci?». Adesso sì che sembra proprio una bambina.
«Anche domani mattina, se vuoi».
L’impetuoso bacio che la poliziotta gli scocca sulle labbra gli suggerisce che è d’accordo; e che no, Teresa non è affatto una bambina.
«Ok, ci andiamo domani. Ammesso che tu mi dica come l’avevi chiamato».
Lisbon vorrebbe rifiutarsi, ma si rende conto che non può. Prende fiato e si prepara alla rivelazione: «Gilé».
 

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Ora è il turno di Patrick.
Apre lentamente il pacchetto, scartandolo con cura quasi maniacale, sorridendo, e gustandosi il momento.
Dalla scatola di cartone estrae due tazze azzurre. Molto simili alla sua storica tazza, quella che era andata in frantumi quando erano andati in frantumi il CBI e quella vita che si era faticosamente ricostruito.
«Ho cercato dappertutto per trovarne una simile. E ho pensato che ce ne volessero due», spiega Lisbon, un po’ imbarazzata.
«Sì. Perché ora siamo in due», sottolinea Jane, quasi incredulo.
«Già».
«Grazie. È un regalo bellissimo». Quelle due tazze significano molto. Significano tutto.
Le accarezza i capelli, commosso. Poi le accarezza le labbra con le proprie, e intanto sorride.
Non pensava che si potesse baciare e sorridere contemporaneamente.
Rimangono a guardarsi per un tempo indefinito, ancora accovacciati sotto l’albero di Natale.
Finchè l’attenzione di Patrick è attirata da un lieve movimento. Si alza con lentezza e si sporge dalla finestra.
«Tesoro, vieni a vedere», esclama dopo qualche minuto.
Teresa si precipita, mentre il suo cuore perde un battito. Non saprebbe dire se per il “tesoro” con cui l’ha chiamata Jane o se per il meraviglioso spettacolo a cui stanno assistendo: la neve.
Soffici candidi fiocchi danzano nell’aria, impazziti.
L’atmosfera è ovattata, quasi surreale: il silenzio diventa ancora più silenzioso e il bianco si fa argento.
Teresa adora il Natale sotto la neve, e Patrick lo sa. La stringe per la vita, facendola accoccolare contro il suo corpo. Si sta comodi così, stretti stretti.
Già, adesso anche lui pensa che la neve sia meravigliosa.
 

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«Signore, non so cosa ho fatto per meritarmi tutto questo. Abbiamo sofferto tutti e due, ma ora siamo qui, insieme. E io sono felice come non sono mai stata. Ti ringrazio e ti prego con tutto il cuore di proteggere Patrick dal mondo e da se stesso. Ti prego di farci trascorrere molti altri Natali come questo. Ma, se anche questo dovesse essere l’ultimo, ti ringrazio lo stesso. Sia fatta la tua volontà. Affido Patrick a te, Gesù Bambino che nasci oggi. Amen».
«Buonasera Dio, o qualunque sia il tuo nome. Io non ho mai creduto in te, lo sai. Ma Teresa sì. E se lei crede in te, io voglio credere che tu da qualche parte esista e la protegga. Ti chiedo solo questo. Proteggila quando io non sarò in grado di farlo».
Queste due mute preghiere, così diverse eppure così simili, prendono forma all’unisono nelle menti di Teresa e Patrick, mentre una coltre candida sta ricoprendo la città.
«A cosa stai pensando?», chiede lui, prendendola per mano senza sciogliere l'abbraccio.
«Sto pensando che Natale è stare con la persona che più ami al mondo», risponde lei, sorridendo.
«Allora siamo molto fortunati».
«Già, lo credo anch’io.
«Buon Natale, Teresa».
«Buon Natale, Patrick».
Sì. Natale è stare con la persona che più ami al mondo. Mano nella mano. A guardare la neve.
 
 
 
 
 
 
 
 
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Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Spero che mi scuserete per questa one-shot natalizia ritardataria.
Ho preferito di gran lunga la scena della tazza in versione telefilm (*_*) , ma l’avevo pensata così da molto tempo quindi l’ho inserita lo stesso.
A presto
 
 
 
 

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